L'altra faccia della notte

di AnnabelleTheGhost
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Entrate, ignari visitatori, ma a vostro rischio e pericolo ***
Capitolo 2: *** Addii e bentrovati ***
Capitolo 3: *** Pipistrelli senza ali ***
Capitolo 4: *** Un passeggero inaspettato ***
Capitolo 5: *** Ladri di sogni ***
Capitolo 6: *** Interminabili viaggi ***
Capitolo 7: *** Vento gelido ***



Capitolo 1
*** Entrate, ignari visitatori, ma a vostro rischio e pericolo ***


1. Entrate, ignari visitatori, ma a vostro rischio e pericolo
 

Le due altissime porte in legno all’entrata del collegio della Luna Nuova si aprirono. Erano intarsiate dall’edera spontanea che era cresciuta nel corso del tempo e la loro forma ricordava un seme spaccato a metà.
I ragazzi entrarono, stretti ai loro genitori, che osservavano minuziosamente l’ambiente, visto solo in depliant o del quale si erano ascoltate le storie dai propri genitori. I tacchi delle donne emettevano un rumore continuo come ticchettii di orologio mentre camminavano sul lastricato di ciottoli che portava all’androne. Il prato, che si trovava tra le alte mura circostanti e quell’edificio chiamato scuola, ma dall’aspetto più di un castello-cattedrale gotica, era di un blu violetto grazie ai raggi della luna.
Quando tutti si furono riuniti nell’enorme sala, una donna comparve da una lunga scala in granito nero. Portava enormi occhiali scuri e i capelli neri erano raccolti in una treccia lunga fino alle ginocchia. Battè le mani e il brusio proveniente da genitori dubbiosi si spense all’istante.
«Benvenuti». Fece un piccolo cenno del capo per guardarsi in giro, come per controllare che tutti fossero presenti all’appello. «State calpestando il suolo del prestigioso e rinomato collegio della Luna Nuova. Se vi trovate qui saprete per certo che da secoli questa scuola è stata la migliore di sempre per noi figli della terra rossa. I corsi per istruire i giovani ad ambientarsi al mondo degli umani sono sempre stati più che eccellenti e mai nessuno se n’è potuto lamentare. I metodi sono stati a volte severi ma i risultati sono sempre venuti». Schioccò le dita e un ragazzo scese dalle scale. Aveva la pelle candida, capelli perfettamente pettinati e lisciati e un’aria tanto tranquilla che pareva irreale. Molti occhi guizzarono sul giovane, ci furono passi in avanti per avvicinarsi e esclamazioni sommesse o urlate a gran voce.
«Potete vedere voi stessi che la Luna Nuova porrà sempre a disposizione degli studenti carne di prima scelta. Odorate l’aria, entrate nei suoi pensieri…» Delle mani si allungarono verso il gilet del ragazzo ma subito arretrarono a causa di uno scatto fulmineo del capo della Preside. «Lui è solo un esempio e non vi è concesso toccarlo, ma immaginate duecento come lui, che saranno sempre sotto gli occhi dei vostri figli».
Dei ragazzi sorrisero, pregustando il momento.
«E ora, se volete seguirmi, vi mostrerò il resto della scuola». Si avvicinò a una porta dai cardini pregiati sulla destra e la aprì, invitando i presenti ad entrare. L’umano inchinò il busto mentre i demoni passavano nell’altra stanza.
«In questa stanza si terranno la maggior parte delle lezioni» iniziò la Preside, facendo un passo avanti nella camera, che aveva ben poco l’aspetto di una classe. Non c’erano né cattedra né lavagna, solo una tavola color carbone a rilievo sul muro di mattoni. Al posto dei banchi, vi era un largo tavolo di legno al centro della stanza, dall’aria moderna (al contrario di tutto ciò che si trovava in quell’edificio) e resistente, a giudicare dai graffi e dalle ammaccature di cui era pieno. Le finestre erano state murate da mattoni che dovevano risalire a un’età più prossima rispetto alla costruzione del collegio. Le luci erano generate da torce sulle pareti.
«Qui gli studenti impareranno le regole base del nostro mondo e si susseguiranno lezioni come comportamenti e vizi degli uomini, evocare gli spiriti o Distogliere un umano. Per l’illuminazione, come nel resto della scuola, siamo passati alle lanterne ad olio, abbandonando il fuoco diretto, per non creare problemi ai Succubi». Attraversò l’aula e arrivò a una porticina dello stesso colore dei mattoni scuri. «Quest’aula, invece, è di Libri e Attrezzature».
La stanza era vastissima, pareva infinita. La prima parte era adibita a libreria: scaffali altissimi accavallati l’uno all’altro per formare corridoi labirintici racchiudevano qualsiasi tema possibile e inimmaginabile. Con maestria, la Preside superò le librerie e proseguì, girando in tondo a un tavolo dal diametro di sei metri, a una zona più disordinata. Ammassi di oggetti di ogni tipo erano presenti nella seconda parte dell’aula. Non avevano niente in comune tra di loro e parevano fuori posto. C’erano asce, zaini, quadri, strani oggetti metallici dalle forme più svariate, animali impagliati, recipienti che, con un velo di pizzo, nascondevano il proprio contenuto e si poteva essere sicuri che, se si era alla ricerca di un oggetto, lì ci sarebbe stato.
La Preside non fece entrare il gruppo in quel caos, che però a una seconda occhiata racchiudeva un ordine preciso, e virò a sinistra verso un’altra porta. Si apriva un lungo corridoio con quadri dall’aspetto spaventoso il cui colore predominante era il rosso. I visitatori guardarono con ammirazione i dipinti e li commentarono tra di loro a bassa voce. Alla fine del corridoio c’era uno spazio rettangolare che portava a tre strade. Sulla sinistra c’era un arco in pietra che conduceva a delle scale in pietra rossa; frontalmente si trovava una porta e la targhetta dorata sul suo stipite indicava chiaramente che quello era l’Ufficio Direttive e a destra vi era l’uscio più malconcio mai visto. Le assi della porta erano unte, sudicie, rotte e piene di piante rampicanti. Era stata sbarrata con chiodi e tavole in ferro per impedirne l’entrata.
La Preside indicò dritto davanti a sé. «Questo è il mio ufficio. Per qualsiasi informazioni potrete chiedere lì. Non sempre sarò presente poiché passo molto del mio tempo per i corridoi della scuola, ma troverete sempre il mio staff». La mano, dall’Ufficio Direttive, passò ai gradoni. «Per accedere ai piani superiori e dunque alle aule di formazione e ai dormitori si possono usare queste scale, quelle nell’androne o altre due situate in altri punti del plesso che vi indicherò in seguito. La via più diretta verso i dormitori è dal cortile esterno mentre quella per le aule è dall’ingresso principale».
Salì le scale e tutto il gruppo le fu dietro. Un ragazzo inciampò e si beccò molti sguardi austeri, sbeffeggianti o irati.
Passarono in un lungo corridoio con aperture ad arco nei muri, che davano su aule dall’aspetto normale: c’erano banchi ancora con il buco per l’inchiostro, torce e una cattedra. Le classi erano quattro, distribuite in modo tale che nessuna di queste si trovasse esattamente di fronte l’una all’altra. Alla fine del corridoio presero la rampa di scale che portava verso l’alto, ignorando quella che scendeva, e i genitori furono accolti in un vasto ambiente dall’aria tetra e lugubre ma, ai loro occhi, accogliente. C’erano due tavoli rotondi rivestiti da tovaglie nere. Torce a forma di teschio illuminavano l’ambiente e pareva che delle braci consumassero le orbite degli occhi intagliate nei crani. Le pareti erano nere, esattamente come il pavimento, rivestito da un tappetto pregiato rosso con disegni molto cupi. Calici intarsiati con motivi floreali erano riposti su scaffali e ai muri erano appesi tre quadri. Sulla sinistra era rappresentato uno squarcio sul terreno dal quale uscivano magma incandescente e zampilli infuocati; nel quadro centrale, che dominava sugli altri, c’era una donna dalle fattezze incredibili: sguardo ammaliatore, posa composta delle mani, un vestito lungo e con strascico risalente al Seicento, e labbra violette. Sulla destra, un uomo dalla capigliatura rossiccia tendeva la mano verso una giovane donna dal volto innocente e ubbidiente.
La Preside indicò il quadro sulla parete sinistra. «Come saprete, questo celebre quadro rappresenta le nostre origini e raffigura la leggenda che ci portò ad essere chiamati figli della terra rossa. La donna che potete osservare di fronte a voi è la nostra fondatrice Milla Violet, chiamata così per il colore che le sue labbra assumevano, lo stesso delle bacche di Nesta, considerate velenose dai mortali. Questo, invece, è Jacob l’Illuminato» aggiunse, girandosi verso l’ultimo quadro. «Fu lui a dividere la scuola in due parti e a permettere agli umani di farne parte, mettendo fine alle uccisioni degli studenti da parte di questi stessi o altre creature, alla loro uscita da scuola. Per questo adesso è severamente vietato solcare i confini del collegio».

 
Nota dell’autrice: salve a tutti! Ho ricominciato a postare i miei racconti su efp dopo un lungo periodo di assenza, semplicemente dovuto al fatto che non avevo niente di pronto da pubblicare! So che questo primo capitolo non dice ancora niente e per molti aspetti non è per nulla interessante ma è molto importante per la storia! Dato che questo “collegio” sarà molto labirintico, ho cercato di guidarvi inizialmente verso i luoghi più importanti della scuola, che poi verranno esplorati con maggiore attenzione, ma per ora metto solo le basi per non farvi perdere. In più, credo proprio che disegnerò una specie di cartina e la pubblicherò, così che potrete orientarvi.
Un’importante premessa che voglio fare, prima di ricevere inadeguati commenti, è che lungi da me questa storia ha scopi religiosi: non vi è alcuna morale o insegnamento nascosto. Scrivo soltanto perché mi piace questo mondo, fatto di creature della notte cattive e senza scrupoli. Le ho denominate “figli della terra rossa” perché il generico “demoni” non sarebbe stato adeguato. Molte creature saranno di mia invenzione (e siete perciò pregati di non copiare se non volete incorrere a segnalazioni) ma ancora devo deciderle tutte (anche di queste pubblicherò disegni, che spero saranno comprensibili). Solo in questo capitolo potrete leggere la denominazione “demoni” per i personaggi, giusto per farvi capire, ma quando si tornerà a parlare di queste creature verranno chiamate in maniera diversa, un derivato del termine “figli della terra rossa”. Non vi preoccupate perché ci saranno tutte le dovute spiegazioni.
In questo capitolo molte cose sono sospese e potreste esservi posti molte domande, per esempio le cose non dette sui quadri, ciò che nasconde la sala di Libri e Attrezzatureo perché i personaggi sono chiamati figli della terra rossama tutto verrà a suo tempo!
E per chi non l’avesse capito, il titolo del capitolo non è riferito ai neostudenti che entrano nella scuola ma a voi, che procedete nella lettura.
Un’altra importante premessa che voglio fare è la seguente: questo capitolo è un “assaggio” per farvi rendere conto del toposdella storia. Se avete capito che non vi piace, chiudete la pagina e cercate un’altra storia perché non ho intenzione di aggiungere qualche fatina dei boschi che saltella tra gli arcobaleni. Voglio, però, rassicurarvi che non scenderò in dettagli scabrosi, anche se qualche accenno potrebbe esservi (infatti non c’è l’avvertimento “Non per stomaci delicati” ma già ho messo un rating arancione per far rendere conto).
Questo commento post-capitolo sta diventando più lungo del capitolo stesso, quindi mi fermo qua e auguro buona lettura a tutti!
L’altro capitolo verrà pubblicato a breve, credo in serata stessa.

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Capitolo 2
*** Addii e bentrovati ***


1. Addii e bentrovati                                     

 

Albert guardò nuovamente la pila di vestiti ordinati nella grande valigia, e sospirò. Lui non voleva proprio andare via. Amava la sua stanza con i poster di Bob Marley; le peonie che coltivava in giardino da quando sua zia era morta; Argo, che ogni giorno gli veniva incontro leccandogli la faccia e, anche se doveva ammetterlo con malincuore, anche quella peste di sua sorella più piccola. E cosa avrebbe fatto senza i suoi amici, che conosceva da una vita, e con i quali non si era mai separato? Ma sua madre era stata irremovibile: se ne sarebbe andato in California, avrebbe respirato aria nuova, diversa e più sana; ciò che non aveva aggiunto, però, era stato “rimarrai rinchiuso tutto l’anno ventiquattro ore su ventiquattro in uno sperduto collegio in campagna”. Questo era il modo più rapido per sbarazzarsi di lui e il più economico per farlo maturare e cambiare la sua visione del mondo. Sua madre non poteva permettersi di mandarlo da uno psicologo o in qualche strano centro, perciò il collegio della Luna Nuova avrebbe cambiato suo figlio e l’avrebbe reso come voleva lei.
Albert attraversava periodi di depressione, follie e ribellioni, per poi tornare mansueto come una pecora. Era instabile e anche molto inaffidabile – mai rispettava un impegno. E fumava, da anni, e non era normale per un sedicenne, agli occhi dei suoi genitori.
Albert si guardò in giro, alla ricerca di qualche oggetto dimenticato. C’era l’ultimo modello di PSP ma era certo che sua mamma non gli avrebbe consentito di portarla. E tutti i suoi videogiochi, i suoi CD… Sarebbero rimasti alla polvere per chissà quanto tempo!
Tastò gli indumenti e fece scorrere le dita tra le fibre dei pullover e delle magliette sintetiche. C’era ancora un po’ di spazio e i suoi non si sarebbero accorti di una piccola aggiunta…
Prese un quaderno da uno scaffale e frugò nei cassetti per trovare il modello di Play Station Portable più vecchio, la cui assenza non sarebbe stata notata da nessuno. Infilò entrambi nel fondo della valigia, stropicciando una maglietta, ma rendendoli così impossibili da vedere.
In quel quaderno, Albert aveva annotato tutti i progressi nella sua vita, i problemi, i momenti di felicità e, con nastro adesivo, erano state aggiunte foto di luoghi o persone importanti, del quale non poteva fare a meno. Quel quaderno era un pezzo di lui, qualcosa che non gli avrebbe fatto dimenticare le sue origini.
Mise le mani sui fianchi e, con quel gesto, si accorse che c’era qualcosa che ingrossava la tasca dei pantaloni. Vi infilò la mano e trovò una foto stropicciata, che raffigurava lui e Ketty. La dispiegò sul palmo con cura, cercando di togliere le pieghe più profonde. Se l’erano scattata qualche giorno prima, quando si dissero addio.
«Allora non tornerai più?»
La sua gonna leggera vorticava seguendo la direzione del vento e si scontrava contro le gambe nude. Le dita dei piedi si strinsero sotto la sabbia e lui le afferrò le mani.
«Tornerò tra un anno. Non significa mai più».
Col calar della sera gli occhi di Ketty parevano più azzurri del cielo stesso mentre lo osservava con tristezza. Abbassò lo sguardo e tolse una mano dalla stretta per aggiustare i capelli, che le erano finiti sul viso, ma anche per nascondere le lacrime.
«È troppo per me. Da quando avevamo otto anni non ci siamo mai separati!» sussurrò.
Lui le afferrò la mano e vide le lacrime che sgorgavano dagli occhi.
«Non piangere. Sei la mia migliore amica e siamo come due gemelli. Anche se saremo uno lontano dall’altra non cambierà niente nella nostra amicizia!»
Lei si morse il labbro e usò entrambe le mani per pulirsi gli occhi e sbavare un po’ l’ombretto.
«Le cose cambieranno. È ovvio. Incontrerai belle ragazze, ti divertirai… Ti dimenticherai di me!» Le mani, chiazzate di azzurro a causa del trucco sbavato, si strinsero sui fianchi e si mossero su e giù per riscaldare il corpo infreddolito.
«Come potrò dimenticarmi di te? Ti conosco da quando portavi quell’orribile apparecchio e le codine da Pippi Calzelunghe!»
Le sfuggì un sorriso. «Non era poi tanto orribile quell’apparecchio. È grazie a quello che ora ho i denti dritti!»
«Ciò non ti toglieva il soprannome di denti di ferro!» scherzò lui.
Il malumore tornò nel viso di Ketty. «Stai cambiando discorso. Ti conosco. Vuoi che pensi ad altro così che non torneremo a parlare della tua partenza, vero? E invece no! Io non posso sopportare il pensiero che non ti vedrò per trecentosessantacinque giorni. Tu devi rimanere qui. Manda al diavolo i tuoi e continua a frequentare la tua scuola!»
Albert deglutì. Il nervosismo e la stessa paura che attanagliava lei lo colpirono. Il suo modo di distrarsi e combatterli era prendere una sigaretta dalla tasca e inspirare quel fumo tanto dannoso per i suoi polmoni. Non appena la sua mano afferrò il pacchetto nella tasca a marsupio della felpa, Ketty sollevò il capo e lo trafisse con lo sguardo.
«Puoi non fumare, per favore? Non è il momento». Allungò un braccio e gli tolse dalle mani le sigarette. «Dovresti smetterla con questa roba, lo sai. Ti fa male».
«Tutti fumano e stanno ancora in piedi» replicò in tono acido.
«Non è solo questo il punto, sapientone. Credi che in quel college d’élite ti lasceranno fumare questa spazzatura? Entrerai in crisi d’astinenza: è meglio che inizi fin da subito a ridurre le sigarette o a fare scorta di quei cerotti alla nicotina» disse, indietreggiando di un passo e tenendo strette le sigarette tra le dita.
Albert la guardò con una smorfia contrariata e riuscì a strapparle dalle mani il pacchetto.
«Sei un idiota!» strillò lei, riprendendo possesso delle sigarette e stritolandole tra le mani. Le gettò a terra, pestò lo scatolo con i piedi nudi e gli gettò sopra della sabbia.
Crollò a terra e si portò le mani al viso mentre singhiozzava. «Ti odio. Sei così stupido!»
Albert sospirò: si era comportato da stronzo, lo sapeva, ed era prevedibile che lei avrebbe avuto una delle sue crisi e sarebbe scoppiata a piangere. Si chinò accanto a lei e le passò il braccio sopra le spalle. Ketty si accoccolò sul fianco di lui e riprese a piagnucolare contro la sua felpa.
«Su, su, non sarà una tragedia» la consolò, accarezzandole i capelli.
«Sì che lo sarà. Tu te ne andrai e non saprai niente. E…» Ma la frase seguente venne interrotta da un singhiozzo e tante lacrime.
«Non è importante. Qualsiasi cosa dovrò sapere, la imparerò dopo. Rimarremo sempre in contatto, te lo prometto. Riuscirò a scriverti di tanto in tanto, mandarti messaggi, gufi…»
Ketty rise. Albert le sollevò la testa: aveva gli occhi rossi, il viso umido e uno sguardo sorpreso.
«Ti preferisco quando ridi che quando piangi. Ti si illumina il viso».
Lei sorrise e si passò le mani sulle guance per togliere le lacrime. «Mi giuri che non ti scorderai mai di me, della tua migliore amica di sempre?»
«Mai».
Il suo sorriso divenne più ampio. Portò le mani accanto ai fianchi e si sollevò. Albert la guardò dal basso verso l’alto mentre lei camminava in direzione del suo zainetto. Si accovaccio, lasciando che l’azzurro del suo costume fosse intravedibile sopra la gonna, e mise le mani nel suo Eastpack. Si rialzò e tornò accanto ad Albert con una Polaroid.
«Questa dove l’hai presa?»
«Era di mio padre. Ci tiene come a una figlia, ma io gliel’ho presa di nascosto. Questa era un’occasione speciale!» spiegò lei.
«Sai come si utilizza?» la prese in giro amichevolmente.
Lei gli fece una linguaccia e accese la macchina fotografica. Era così strana, quasi un aggeggio che proveniva dal futuro, piuttosto che dal passato.
«Sii pronto a sorridere, se ti riesce con quel muso lungo che ti ritrovi, brontolone!»
Estese il braccio, per comprendere entrambi i visi nella foto.
«Brontolone a chi?» Finse un cipiglio offeso, ma subito dopo prese a farle il solletico sulla pancia, il suo unico punto debole.
«No, lasciami! Devo scattare…» Si rotolò dalle risate e cercò di allontanare il ventre dalle mani di lui. «ALBERT!»
Per sbaglio il suo indice andò sul tasto per scattare la foto e il flash li abbagliò. Una carta sottile uscì dalla macchina fotografica. Era una foto buffa: l’inquadratura era storta, non messa a fuoco del tutto e il viso di lei riempiva buona parte dell’immagine con la sua risata, mentre il volto di Albert appariva dietro la sua spalla e le sue mani erano sul bacino di lei.
«Per colpa tua ho rovinato l’unica foto che potevamo farci insieme!» brontolò.
Albert gliela tolse di mano. «Non è vero: è fantastica!»
Gli occhi di Ketty brillarono, e sorrise. «Bene, allora tienila tu. Voglio che ce l’abbia sempre con te, così mi vedrai sempre!»
Lo baciò sulla guancia e si strinsero stretti stretti per riscaldarsi l’un l’altro in quella fresca sera estiva.
Era passato del tempo da quel giorno e il momento della partenza era giunto. Albert non credeva possibile che sarebbe partito, era questione di poche ore! Guardò nell’altra tasca dei pantaloni e trovò delle sigarette. Decise di nascondere anche quelle nella valigia, nei momenti in cui l’astinenza l’avrebbe fatto impazzire. Non aveva preso alcun cerotto alla nicotina perché non era intenzionato a smettere. Quelli che li comprano vogliono lottare per non toccare mai più una sigaretta in vita loro ma lui non aveva questi pensieri: era deciso a proseguire quel meccanismo interno di autodistruzione che gli portava, però, un minimo di sollievo.
«Allora? Sei pronto?» urlò sua madre dal piano di sotto. «Tuo padre è fuori con la macchina che ti aspetta!»
Albert chiuse gli occhi e strinse i denti. Ce l’avrebbe fatta! Quella fottuta scuola non avrebbe fatto un sol boccone di lui, perché sarebbe stato forte e avrebbe affrontato tutto a testa alta!
«Arrivo!» urlò in risposta.
Chiuse la valigia, facendo scorrere la zip fino a incastrarla nel lucchetto, e se la trascinò per le scale. Sua madre era al centro del salone, in vestaglia e con i bigodini nei capelli. Aveva le lacrime agli occhi. Albert pensò che fosse molto ipocrita da parte sua.
«Andrà tutto bene. Vedrai che te la caverai!»
Se non avesse pensato che suo figlio fosse tornato incolume, non l’avrebbe di certo mandato dall’altra parte degli Stati Uniti in una scuola sperduta!, si ritrovò a pensare Albert, che non sapeva se lasciare a sua madre un’ultima immagine di sé arrabbiata e disprezzante, o una affettuosa, mentre l’abbracciava.
«Sopravviverò» si limitò a dire.
Non ci furono abbracci e Albert non la guardò con odio. Si era mantenuto nel centro esatto: senza andare dalla parte dell’affetto incondizionato né al disprezzo più puro. Prese la valigia dal manico e la trasportò oltre la porta, ove una enorme jeep lo aspettava messa in moto.
Lui e sua madre si scambiarono un ultimo cenno di saluto con la mano, poi lui saltò in macchina.
Il padre lo guardò e si toccò i baffi, attorcigliando dei peli tra loro. «Sei cresciuto dall’ultima volta. È incredibile quanto voi ragazzi riuscite a crescere».
«Ho ancora sedici anni. È normale che cresca» ribattè, sistemando la valigia in modo tale che non gli urtasse il ginocchio.
«Credo tu abbia ragione…» Tolse le mani dai baffi per metterle sul volante e schiacciare il pedale dell’accelerazione.
Colonna sonora di quel lungo viaggio fino all’aeroporto fu American Pie e, mentre Don McLean intonava Drove my chevy to the levee but the levee was dry,Albert chiuse gli occhi e entrò nel mondo dei sogni, dove crostate al lampone ballavano in cerchio a Kairi, personaggio del suo videogioco preferito, che, stranamente, gli ricordava tantissimo Ketty e i suoi dolci occhi innocenti.


Nota dell’autrice: ma ciao, cari lettori! Ho notato con piacere due recensioni e che la storia è stata inserita tra le preferite e le seguite. Sono davvero contenta; non credo di aver mai avuto così rapidamente tanto seguito. Okay, “tanto” è una parola grossa, ma in un solo giorno, per me, è un gran risultato! *Sorrisetto soddisfatto*
Allora, lo stile in questo capitolo è leggermente diverso: sono passata da uno abbastanza oggettivo e descrittivo (vedi il primo capitolo), a uno più personale, entrando nella sfera emotiva del nostro nuovo protagonista, Albert! So di non averlo ancora descritto, ma immaginatevelo carino, ecco. Non faccio anticipazioni, altrimenti nei prossimi capitoli perderò tempo a disseminarvi indizi qua e là per farvi capire il suo aspetto. Almeno, però, caratterialmente, le cose sono un tantino più chiare: i suoi problemi in famiglia, personali… (Spero).
Ho preso una piccola “pausa” dal mondo sovrannaturale; credo che in questa storia alternerò il punto di vista umano a quello demoniaco. Questa è la mia intenzione, poi, però, dipenderà tutto da come si evolverà la trama!
Aggiungo due cose che alcuni di voi potrebbero non sapere: la canzone citata è questa ( http://www.youtube.com/watch?v=Lu7hxguhFfI
) e Kairi è il personaggio femminile di Kingdom Hearts, la ragione per cui il protagonista, Sora, viaggia da un mondo all’altro. Io adooooro KH; se avete una Play Station, giocateci – non ve ne pentirete!
Riguardo il prossimo capitolo, verrà introdotto un nuovo personaggio un po’ particolare… Non so quando lo posterò perché ne ho scritto solo una pagina finora. Se riesco a terminarlo entro oggi, lunedì verrà aggiunto, altrimenti lo inserisco martedì. Be’ si vedrà...


ATG 

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Capitolo 3
*** Pipistrelli senza ali ***


3. Pipistrelli senza ali

 

A Haruki Mitsuwa piace questo elemento.
Haruki schiacciò il polpastrello dell’indice sulla manina con il pollice in su e il suo iPhone vibrò in risposta. Premette il tasto centrale, notò che era un banale messaggio della sua compagnia telefonica e tornò su Facebook. Fece scorrere il dito sullo schermo per dare  un’occhiata generale alla home. Solo link su cantanti o barzellette, tipo Qual è il colmo per uno scheletro? 
Ma andiamo! Sanno tutti che è non avere fegato. Che battuta scontata!, pensò Haruki e sbuffò per aver perso secondi del suo tempo per quella stupida battuta.
Si dondolò un po’ per la noia e andò sulla pagina del suo profilo. Notò che la foto non era stata aggiornata da dieci giorni. Uscì da Facebook e aprì la fotocamera. Sorrise compiaciuta, pensando che nessuno dei suoi amici avrebbe avuto una foto fantastica come la sua e in una posizione così bizzarra.
Infatti, Haruki era appesa al soffito.
Le gambe erano incrociate su una trave molto spessa e lei ciondolava, i capelli attratti dalla forza di gravità e un iPhone in mano. Per lei non era affatto complicato o faticoso rimanere in quella posizione. Il sangue le andava al cervello e la faceva sentire meglio e più concentrata. Riusciva a trovare una sorta di pace in quella buffa posizione, che si era abituata a mantenere fin da quando era una bambina.
«Bella foto!» si disse compiaciuta e rimirandosi sullo schermo. «La posto subito. Chissà l’effetto che farà!»
«HARUKI!»
Era l’inconfondibile urlo di sua madre, che entrò nella stanza. Sbattè la porta talmente forte contro il muro, che ciò provocò una vibrazione, ed essa si propagò fino alla trave sulla quale era appesa Haruki. Un piede si spostò di poco, ma abbastanza da perdere la presa e cadere sul pavimento con un tonfo.
«Quante volte ti avrò detto che devi smetterla di appollaiarti in quel modo?»
«Mmm… Un milione o giù di lì?» sbuffò Haruki, esaminando il suo costoso telefono per controllare che non avesse subito danni.
«È una posizione ridicola e umiliante, perciò, piantala!»
«Non faccio niente di male!» bofonchiò dopo essersi accertata che era tutto okay. Per l’iPhone, non per la sua colonna vertebrale.
«Sì, se credi che il tuo gesto sia in qualche modo spiritoso».
«Andiamo! Non dire che non mi trovi divertente quando faccio il pipistrello!» disse, estendendo il lato sinistro delle labbra in un sorriso e indicando con gli occhi il suo “trespolo”.
«Per niente» replicò secca la madre, incrociando le braccia.
«Dài! Vampiri… pipistrelli…» la aiutò Haruki, aiutandosi con le mani e indicando a sinistra per “vampiri” e a destra per “pipistrelli”.
«Sì, avevo capito, Haruki. E non siamo pipistrelli!» Fulminò l’iPhone con lo sguardo. «E i vampiri non vanno su Facelook tutto il tempo!» sbottò e le prese il telefono dalle mani.
«Mammamammamamma! Non puoi togliermi l’iPhone!» si lamentò, tendendo le mani per riavere il suo gioiellino. «Facebook mi serve!»
«Perché dovrebbe servirti Facelook se non per farti andare in pappa il cervello?»
«È Facebook, mamma. Non Facelook». Iniziò a tirare la gonna del genitore. «Anche Mark lo utilizza, mio cugino! E suo fratello! E suo zio! E suo nipote!»
«Per te è una droga. Devi smetterla!»
«Non è vero!» Alzò le mani per continuare a tirare la gonna.
«Ah sì?» La donna rigirò il telefono tra le mani, toccò lo schermo e apparve la foto di sua figlia a testa in giù. «E questa foto cos’è?»
«Una cosa simpatica?» tentò con un sorrisetto.
«Sai, la gente non si appende normalmente al soffitto. Non credi che per questo tuo stupido capriccio ci faresti esporre troppo?»
«Ma che dici? Chi vuoi che veda questa foto?»
Sua madre fece scorrere orizzontalmente il dito sullo schermo e ricomparve la finestra di Facebook. Alzò un sopracciglio. «Settecentoventotto persone, forse?» Girò il telefono verso la figlia, per mostrarle il numero accanto al nome di “amici”.
Haruki ci rimase di sasso. E la sorpresa si aggiunse allo shock. «Da quando sai utilizzare un touch?»
«Papà mi ha dato qualche lezione, così so come poterti punire».
La ragazza sbarrò gli occhi, fece scorrere la gamba destra dietro il bacino e si alzò in piedi. «Punire? Di che? Non ho fatto niente!» si lamentò con occhi imploranti.
«Sembri in tutto e per tutto un’umana». Storse la bocca in segno di disapprovazione.
«Non è vero. E tu lo sai!»
«Dici sul serio? So che un mese fa hai tentato di addentrati in un campo di gigli da sola con un umano. Sai quanto poteva essere pericoloso per te?»
«Avevo fame!» biascicò e, chinando la testa, distratta, si tastò con l’indice i canini.
«Gigli, Haruki, gigli! Come hai fatto a non pensarci?» sbraitò, mentre una ciocca di capelli neri si allontanava dal ciuffo sull’occhio sinistro. Il ciuffo non aveva ragioni estetiche, bensì doveva nascondere la cicatrice che le attraversava la fronte. Era enorme e frastagliata, ma i capelli la coprivano sempre e quando la figlia riusciva a intravedere quell’occhio le venivano i brividi. La palpebra mobile aveva solchi profondi come se la pelle fosse stata ustionata dal fuoco e la pupilla era completamente bianca. Sua madre non le aveva mai voluto dire cosa le era capitato.
«Me… me ne ero dimenticata» farfugliò Haruki, ancora un po’ inquieta per essere riuscita a vedere cosa c’era sotto il ciuffo.
«Dimenticato? Un vampiro non dimentica mai di stare lontano dai gigli!» La presa sull’iPhone divenne più forte.
Haruki tese le mani, implorante. «Perfavoreperfavore, sta’ attenta al telefono!»
«MA HAI SENTITO QUELLO CHE HO DETTO, O NO?» gridò la madre. «Non devi dipendere da quello stupido mondo umano!»
«Mi serve» piagnucolò e strizzò gli occhi per non cedere alle lacrime come una scema.
«Per renderti più chiaro il concetto puoi dire addio a questo telefono!» Prima che la figlia riuscisse a toglierle di mano il cellulare, sua madre rafforzò la stretta. E non ebbe intenzione di smettere.
Il rumore di metallo piegato, vetri infranti e chip fracassati riempì la stanza, mentre Haruki osservava attonita la scena. L’iPhone, ridotto come una lattina di Coca cola ammaccata, giaceva nella mano di sua madre, che lo lasciò cadere a terra.

«Forse così la smetterai…» disse, e si voltò verso la porta.
La tristezza in Haruki si trasformò in disperazione e uno strano meccanismo si mise in moto dentro di lei. I muscoli le bruciavano, il cuore pompava più forte e i denti le dolevano, mentre un’inconscia rabbia si impadroniva di lei. I suoi istinti da vampira si risvegliarono e balzò verso sua madre. Ma lei non si fece sorprendere.
Girò di novanta gradi e afferrò il polso di Haruki con entrambe le mani, interrompendo quello scatto fulmineo, e la scagliò contro la parete. La ragazza si afflosciò a terra, la faccia le faceva malissimo – forse il naso si era perfino rotto, e respirava a fatica.
«Se ti comportassi così di tanto in tanto, mi renderesti fiera. Sarebbe un peccato sprecare le tue potenzialità». E, rimuginando, la madre uscì dalla stanza, accostando la porta.
Haruki si portò le mani sul viso e si tastò il naso: non c’erano danni o, se ci fossero stati, erano già guariti. Quella nuova e strana sensazione scemò in lei, facendola tornare come prima.
Si alzò in piedi e guardò con tristezza quello che in passato era il suo telefono, il suo gioiello… Forse era la cosa a cui teneva di più.
Si avvicinò lentamente alla scrivania, vi salì sopra e con dei balzi ben calcolati da anni, ritornò sulla trave. Ma non aveva voglia di appendersi a pipistrello dopo quello che era accaduto, perciò si rintanò nel punto in cui la trave si collega alla parete, al buio. Con le gambe incrociate, cercò di aderire il più possibile alla parete; era quasi impossibile vederla. Chiuse gli occhi e rimase lì per un bel po’ per sbollire e stemperare tutti i sentimenti negativi che provava.
Quando riaprì gli occhi, a mezzanotte passata, si sentiva meglio, come se avesse bevuto un influsso di camomilla. Scese dalla trave ed uscì dalla stanza. Prese le scale e andò al piano di sotto, fino alla cucina. Lì c’era sua madre, della quale poteva solo vedere i capelli sulle spalle; il padre, che si rigirava una tazza tra le mani, e il suo fratellino, che si divertiva a mordicchiare delle vecchie bambole che appartenevano ad Haruki. Erano tutti seduti intorno al tavolo, tranne sua madre, che era seduta dall’altro capo, nel senso contrario.
I normali vampiri non avevano una cucina: possedevano diverse stanze per poter accogliere gli ospiti e una moltitudine di camere da letto, con bare, se gli ospiti si fossero fermati. La loro, però, non era una famiglia normale. La bisnonna paterna di Haruki si era innamorata di un umano e il figlio che nacque era un vampiro, ma con caratteristiche umane: non bruciava al sole, poteva avere una vita diurna, si nutriva ed aveva un arco di vita più limitato. Il patrimonio genetico umano di generazione all’altra era andato diluendosi ma Haruki aveva alcuni tratti che non la rendevano un vampiro al cento per cento. Doveva consumare almeno un pasto umano al giorno, era tollerante al sole ma in via piuttosto limitata, e preferiva dormire su un letto morbido piuttosto che nel legno di una bara.
Erano state queste piccole cose ad averla fatta integrare nel mondo umano. In genere i vampiri stanno nella loro comunità e interagiscono con gli umani solo per nutrirsi, ma ciò comporta anche diverse difficoltà a mescolarsi nel mondo degli uomini e sono costretti a isolarsi.
Haruki possedeva capacità particolari che le permettevano di mimetizzarsi tra i ragazzi del mondo esterno. Non andava a scuola – i suoi genitori gliel’avevano proibito – ma frequentava corsi pomeridiani che le permettevano di conoscere gente non appartenente al suo mondo.
Haruki era molto simile a suo padre, non solo per questa influenza “umana” ma per i vizi, i capelli castani, e le espressioni del viso. Ryuu, invece, era identico a sua madre: più vampiresco della sorella, capelli neri come la notte e bellissimi lineamenti facciali.
La madre si girò e notò la presenza di Haruki in cucina. «Ce ne hai messo di tempo!»
Haruki non rispose. Prese un respiro profondo e si sedette al capotavola opposto alla madre. Sentì l’odore di ciambelle dalla credenza, la salsa che bolliva sul fuoco, l’odore di borotalco di cui erano impregnate le sue bambole, gelsomino sulla camicia di suo padre e una fragranza allettante dalla tazza di lui. Non riuscì a trattenere lo sguardo che scoccò a suo padre e lui, capendo, le cedette la tazza. La spostò col dorso della mano verso sua figlia e lei, quando se la vide davanti, la portò alle labbra, così che la sete le passò del tutto.
«Papà ed io abbiamo parlato di quello che è successo…» iniziò la madre.
Haruki terminò di bere e posò il bicchiere. Aveva tentato di dimenticare ciò che era successo poche ore prima e lei glielo rispiattellava davanti, come per esserne fiera… La fulminò con lo sguardo.
«Mi dispiace, tesoro, ma siamo giunti a una conclusione…» disse suo padre, posando la mano sinistra su quella della figlia. Le loro temperature erano identiche ma comunque Haruki sentì come se la stesse riscaldando.
«Averti fatto integrare nel mondo degli umani è stata una scelta sbagliata fin dall’inizio».
Haruki non le fece neanche terminare la frase. «Non è vero. Mi trovo bene e così ho imparato a mischiarmi tra di loro e cacciarli senza problemi. Non è sempre stato questo che mi dicevi?»
«Sì, era una buona idea, ma dopo che avevi imparato, dovevamo darci un taglio, farti tornare nel nostro mondo, farti conoscere altri vampiri non appartenenti alla nostra famiglia. Saresti già in età da marito, sai?»
Haruki finse una risata sarcastica. «Età da marito? Sveglia, siamo nel ventunesimo secolo e la gente non si sposa più a diciassette anni!»
«Nella società umana forse sì, ma non c’è alcuna regola da noi che impone un limite d’età per il matrimonio». Sua madre girò la sedia per poter parlare faccia a faccia con la figlia. Le sopracciglia si piegarono verso il basso. «Visto? Sei così… così abituata al mondo umano che non riesci neanche a distinguerlo dalla nostra realtà!» Pronunciò con disprezzo la parola “abituata”.
«La mamma vuole prendere una decisione drastica…» aggiunse il padre a malincuore.
«Ti manderemo al collegio della Luna Nuova. Lì imparerai tutto ciò che c’è da sapere».
La mano sotto quella del padre si immobilizzò, insieme all’altra, e i muscoli del volto di Haruki non riuscirono a muoversi. L’udito era l’unico senso funzionante al cento per cento, perché ricordò alla perfezione la risata di Ryuu e la sua cantilena: «Haruki è fregata! Haruki va al collegio!», e la bambola che teneva tra le mani si spezzò in due, come lei.

Nota dell'autrice: ecco il terzo capitolo! Era pronto già da un po' ma non ho avuto modo di postarlo. Ieri sera, quando mi ero decisa ad aggiungere questo capitolo, il mio computer se ne è andato all'altro mondo! Mio padre, però, è riuscito a farlo tornare in vita stamattina, ma ha cambiato sistema operativo e per ora sto impazzendo per capirci qualcosa. Non so se con FreeFileViewer posso scrivere. Sono comunque certa che posso visualizzare i documenti perciò le cose già scritte sono salve...
Tornando al capitolo, sono passata dal punto di vista dei "figli della terra rossa" alias "demoni". Dato che sto ancora introducendo questo mondo sto andando sul leggero e mi è piaciuto iniziare con un po' d'umorismo. Insomma, una vampira Facebook-dipendente, che si appende al soffitto, l'avete mai vista? Come avrete intuito dai nomi, la famiglia Mitsuwa ha origini orientali. Tutti i membri di questa sono ben definiti nella mia fantasia, ma per farveli vedere dovrei postare un disegno perché non hanno il volto di attori o cose del genere... Tranne per Haruki, che ha il prestavolto di una ragazza nipponica molto bella. Clicca qui se vuoi vederne una foto.
Se qualcosa di questo capitolo non vi è chiara, potete dirmelo nella recensione perché può darsi che alcuni punti non siano stati trattati sufficientemente bene...
Nel quarto capitolo torneremo al punto di vista umano e ritroveremo una nostra "vecchia conoscienza". Ne ho scritto una sola pagina finora. Se riesco a continuarlo, per domani sera sarà già pubblicato su EFP, se no proverò ad arrangiarmi in altri modi...

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Capitolo 4
*** Un passeggero inaspettato ***


4. Un passeggero inaspettato
 
È impossibile riuscire a dimenticare da dove provieni e la meta dove sei diretto, ma spesso la vita ti pone davanti a bivi e l’indecisione sbiadisce le certezze che possedevi. Tutto si confonde, e desideresti scordare perfino il tuo nome.
Questo stato di limbo tra realtà e sogni era dove era bloccato Albert in quel momento sul posto F20 per il volo diretto all’aeroporto di Charles M. Schulz, California. Aveva passato metà del volo con gli occhi chiusi, entrando nell’incoscienza, e credendo che quella che stava vivendo non fosse la realtà, bensì un sogno malefico. Quando, però, la sua mente si schiarì, era su un aereo e questa era un’innegabile verità.
Il fatto positivo era che i due posti accanto a lui erano vuoti, perciò poteva rimuginare quanto voleva e guardare i paesaggi che si succedevano per il finestrino con nostalgia. La sua casa natale accogliente era troppo lontana e si avvicinava ogni minuto sempre di più a quel luogo sconosciuto che nel suo immaginario era il luogo più inospitale della Terra.
Prese una matita colorata dal sedile di fianco, dimenticata dal bambino che si era seduto in quel posto nel volo precedente al suo. Dispiegò il tovagliolo che gli avevano dato delle hostess, insieme a un pacco di biscotti intoccati, e iniziò a scarabocchiare. Non era mai stato bravo a disegnare e, anche se lo desiderava, non si era mai sforzato di imparare, perché sapeva che sarebbe stato tutto inutile. Tracciò un cerchio, poi un filo verticale e quattro diagonali: un omino stilizzato perfetto. Intorno al capo disegnò delle linee disparate da una parte e dall’altra per formare una chioma stravagante. Non era in grado di disegnare occhi manga, perciò fece pressione sul tovagliolo così da formare due piccoli cerchi.
Faceva schifo. Confermava soltanto la sua ovvia incapacità.
Sbuffò e lasciò stare.
«Ehi, scusa, questo posto è libero?»
Albert voltò pigramente la testa e osservò la ragazza che gli aveva posto la domanda. Capelli corti, biondi e tendenti al riccio. Viso rotondo e allegro. Un lungo collo coperto da un pullover extralarge e pantaloni a zampa d’elefante.
«Sì, non c’è nessuno» rispose controvoglia. Ecco che la sua quiete sarebbe stata rovinata!
«Grazie al cielo! Ho fatto il giro dell’aereo e non c’erano posti liberi! Ti dispiace se mi siedo qua? Il posto che mi era stato assegnato era vicino al finestrino e mi viene la nausea a sedermi lì. E alla partenza ho mangiato un tacos abbondante – pessima scelta – e non è proprio il caso che lo vomiti, non credi?»
Il fiume di parole di quella ragazza aveva travolto Albert. Aveva solo capito che c’era un tacos che poteva essere potenzialmente rigettato. Bastarono, però, pochi secondi perché il suo cervello rielaborasse il tutto e comprendesse quel discorso.
«Non c’è problema: siediti».
Con un sorriso enorme stampato sulle labbra, la ragazza si appiattì e, dopo aver superato il posto più esterno, si accasciò con troppa foga in quello centrale, non prima di aver gettato un enorme borsone nero nel posto accanto.
«Graziegraziegrazie! Avevo ormai perso ogni speranza e temevo che avrei dovuto sedermi accanto al ciccione del posto A14 e c’era un motivo per cui non c’era nessuno vicino a lui!»
«Sono contento per te» ribattè in modo atono Albert.
«Eh, già, infatti». La ragazza era rimasta con lo sguardo fisso verso l’alto, come per studiare i pulsanti e l’aria condizionata. Allungò un braccio per sfiorarli, poi l’abbassò. Sospirò e portò la testa in posizione normale. Il suo sguardo venne catturato dallo scarabocchio di Albert. «Tu disegni, eh?»
«Non disegno. Passavo solo il tempo» disse e accartocciò il tovagliolo.
«Che peccato. Era così carino!» replicò con fare distratto.
«Dici? Chiunque avrebbe saputo fare di meglio!»
«Da’ qua!» lo spronò lei, tendendo il palmo aperto verso di lui. Albert posò la pallina di carta sulla mano e lei lo aprì. «Ecco, che ti dicevo? Non è poi tanto male! I disegni più belli iniziano da manichini semplici come questi e poi ci aggiungi la carne. È come se fossero degli scheltri. Capito, no?»
Albert annuì.
«Mi puoi dare la matita, per favore?» Lui gliela cedette e lei abbassò il tavolinetto del suo sedile e vi poggiò il pezzo di carta. «Vedi, se aggiungi questa linea qua, modifichi quest’altra, allunghi qualcos’altro… TA-DAN! Che te ne pare?» urlò dopo aver lavorato freneticamente.
«Sei molto brava a disegnare…»
«E te ne accorgi solo adesso? Credevo fosse chiaro dal primo momento» commentò, imbronciata.
«Non lo potevo sapere. Scusami».
Ora, il Sora che teneva tra le mani aveva molto più senso e assomigliava in modo maggiore a ciò che voleva disegnare in realtà.
«Vuoi che ti aiuti a finirlo?»
E perché no?, pensò Albert. Quando mai gli sarebbe capitata nuovamente un’occasione del genere?
La ragazza guidò la sua mano nel tracciare gli abiti, gli accessori e lo aiutò nei diversi particolari dopo che lui le ebbe descritto cos’aveva in mente. Era evidente che lei non avesse mai giocato a Kingdom Hearts.
A disegno ultimato, lei sorrise da una parte all'altra. «Visto? Ora è decisamente migliore!» Gli diede una seconda occhiata. «Dovresti essere tu vestito da Carnevale?»
Albert non seppe se ridere o sentirsi offeso. «No. È il personaggio di un videogioco».
«Ah, un videogioco! Sembra figo...» disse, inclinando leggermente la testa di lato.
Albert annuì. «È il migliore che abbia mai provato!» Voleva mostrarglielo e si inclinò per prendere lo zaino sotto il sedile. Quando però la sua mano toccò il tessuto si ricordò di aver messo la PSP nella valigia. «Mi dispiace, ma non ho la Play Station con me...»
Lo sguardo di lei divenne interrogativo. «E a che serve?»
«Non sai cos'è una Play Station?» Era sorpreso e incerto: esisteva davvero qualcuno che non conosceva quella piattaforma di gioco in tutto il mondo?
Lei scosse la testa. «Mio cugino ne capisce di queste cose, ma io mi sono rifiutata di farmele spiegare: non ci capisco niente e toglie spazio nel mio cervello a cose più importanti!»
«Tipo?» Cosa c'era di più importante della Play Station?
«Be', tutte le nuove tecniche di disegno che ho imparato, i libri che ho letto... Se poi finisco la memoria con quelle sciocchezze, dove metto le cose che mi interessano di più?»
Albert chinò la testa, cercando di mettere sui due piatti della bilancia le questioni da lei avanzate. «Non hai poi tutti i torti...»
«Visto?» Il sorriso di lei era ampissimo e radioso.
«Ma se tu mi insegnassi come si disegna, sarei io a non aver spazio per i nuovi giochi della Square Enix o della EA» le fece notare lui.
«Hai ragione!» rimuginò lei, grattandosi il mento. Poi alzò gli occhi e lo studiò con attenzione. «Naah, tu non avresti di questi problemi. Sembri troppo intelligente!»
Albert rise e scosse la testa. «Come fai a dirlo?»
«Non lo so. Ma sono certa che tu avresti tutto lo spazio che vuoi lì dentro!»
«Grazie» disse, e lei riprese a sorridergli per tutta risposta.
«Non c'è di che. È solo quello che penso ed io non ho peli sulla lingua!» Il busto della ragazza tornò sullo schienale e il suo sguardo vagava tra i pulsanti per chiamare assistenza e quello per accendere la luce.
Albert si trattenne dal dire che questa sua caratteristica l'aveva notata fin dal primo momento: non c'era cosa che lei non dicesse, frenata dalla buona educazione. Ma quella buffa ragazza, intenta a togliere la polvere da una bocchetta per l'aria, non gli pareva antipatica, solo un tantino troppo estroversa...
«Allora, tu dove sei diretta?» le chiese per rompere il silenzio che si era creato.
Smise di interessarsi all'aria condizionata e fece andare lo sguardo su di lui. «Molto molto lontano da qui. Troppo...»
Dal tono con cui aveva pronunciato queste parole, Albert si rese conto di non essere l'unico a viaggiare controvoglia su quell'aereo.
«Vai in un altro Paese?» Al di là della California non gli venivano in mente altri Stati americani più lontani, procedendo in linea d'aria. Ma se poi avesse fatto scalo e fosse andata in Canada o... in Brasile?
«No, ma sarò molto lontana da casa...» Non trattenne quel senso di nostalgia tra le sue parole e le ciglia divennero umide.
Albert si sentì a disagio: con Ketty bastava abbracciarla e dirle una battuta per farla sentire meglio, ma lui era un perfetto sconosciuto per quella ragazza e non poteva toccarla a suo piacimento. Fece ciò che gli venne più naturale: porgerle il primo pezzo di carta che trovò in giro.
Lei lo guardò sbattendo gli occhi. «Che fai? Questo è il tuo disegno!»
Solo in quel momento lui si rese conto che il tovagliolo in questione era quello dove si trovava la sua presunta opera d'arte, ma era l'unica carta utilizzabile in quel momento.
«Fa niente». Si strinse nelle spalle.
«Fa niente un corno». L'espressione triste divenne imbronciata, e molto seccata. «Questo è tuo e te lo tieni. Non essere scemo!» Gli mise il disegno sulle ginocchie con un colpo secco, che arrossò la carne sotto i pantaloni.
Fu Albert stavolta a sbattere gli occhi, ma per lo shock. Lui si era comportato nel modo più distaccato possibile, dato che i due non si conoscevano, e già lei lo insultava.
«Hai... hai ragione» si ricompose per non rimanere imbambolato come un cretino.
«Ecco. Bravo». Si passò le maniche del pullover sugli occhi. Il tessuto rimase pulito perché non c'era alcun trucco da poter essere sbavato.
Albert capì che era meglio cambiare discorso. «È un peccato che tu non possa vedere il panorama. È davvero stupendo!»
Lei inclinò leggermente il busto in avanti per sbirciare dal finestrino. «Bah, credo che il cielo sia uguale ovunque!»
«Non è vero, e se anche fosse, rimane pur sempre spettacolare! Sembra quasi uscito da un quadro. Non sai che ti perdi!»
Lei storse la bocca e scosse la testa. «So già quello che mi perdo e mi sono convinta che non c’è niente di spettacolare da vedere che mi costi una nausea con la n maiuscola!»
Albert alzò le mani, in segno di resa. «Okay. Come vuoi!»
Qualsiasi tentativo di un pacifico discorso era inutile con lei, dato che aveva sempre da contestare, così si lasciò andare sul sedile e pensò ad altro. Mancava come minimo un’ora all’atterraggio e l’unica cosa di cui aveva più voglia in quel momento era posare di nuovo i piedi sulla terra solida, senza essere tormentato da quel senso di perdita. Quando sarebbe atterrato avrebbe saputo la sua esatta collocazione sul globo terrestre... ma adesso? Viaggiava sul nulla; le terre che passavano sotto di lui potevano essere qualsiasi luogo: Colorado, Arizona...
Scivolò sul sedile e mise le mani sullo stomaco. I pollici andavano su e giù, come se avesse avuto in mano della carta d’imballaggio da scoppiettare, ma era in realtà un comportamento che non riusciva a togliersi neanche quando non aveva la PSP tra le mani. Se almeno avesse potuto distrarsi con un videogioco, avrebbe smesso di piangersi addosso e quel volo interminabile sarebbe stato decisamente più piacevole.
Si rese conto di essere rimasto incosciente per un po’ di tempo quando si ritrovò al buio completo, con gli occhi serrati. A riportarlo su quell’aereo era stato uno sgranocchiare fastidioso accanto al suo orecchio. Socchiuse gli occhi e girò la testa verso il passeggero seduto accanto a sè.
«Ehi, bentornato nel mondo dei mortali!» esclamò la ragazza tra un morso e l’altro.
Albert si stropicciò il viso e si rimise seduto dritto. «Quanto ho dormito?»
Lei alzò un attimo gli occhi, assumendo un atteggiamento pensieroso, poi rispose: «Credo un quarto d’ora... o forse era una mezz’ora?»
«Così tanto?» domandò, stiracchiando per bene ogni muscolo.
Annuì. «Non sai quaaaanto mi sono annoiata. Non c’è un tubo da fare su questo aereo!»
«Non lo dire a me...» sospirò a voce bassa.
La ragazza mise un biscotto in bocca, masticandolo rumorosamente. Albert abbassò lo sguardo sulla bustina che teneva in mano. Lei se ne rese conto e quasi si ingozzò con quello che aveva in bocca.
«Scusami tanto! Non avevo pensato che erano i tuoi! Cioè, mi immaginavo che lo erano, ma li avevi lasciati là e credevo non li volessi; e ho pensato “che spreco!” e me li sono mangiati. Mi era venuta una fame... e io adoro questi biscottini!»
«No, tranquilla. Puoi mangiarteli tutti» la rassicurò, e rifiutando la bustina che lei gli aveva messo praticamente in faccia, nel tentativo di riparare al suo errore. Ripensandoci, Albert aggiunse: «Ma non avevi detto di aver mangiato così tanto che ti veniva da vomitare?»
La ragazza arrossì e sorrise con imbarazzo. «Sì, lo so. Ma questi biscottini al limone sono il mio debole e, dato che li danno gratis, perché non approfittare?»
Albert non ebbe neanche il tempo di pensare a una risposta sensata che lei continuò a sbafarsi il contenuto della bustina.
«Se ti piacciono tanto posso chiedere all’hostess di portarcene un altro pacchetto».
Lei sembrava smaniosa di urlargli di sì, ma si diede un contegno, e scosse la testa con tanta forza che i capelli andarono da una parte all’altra, sbattendo contro il sedile davanti, di dietro e il naso di Albert.
«Nononono! Non posso mangiare tanto!»
Albert si strinse nelle spalle. «Come vuoi».
Le donne erano troppo complicate per lui, soprattutto quella...
Lei parve esaminarlo con attenzione, il che lo mise a disagio, poi girò la testa e si sbracciò verso uno stewart. «Ehi, mi scusi!»
«Che stai facendo?» le bisbigliò.
Lei lo ignorò e, non appena arrivò l’assistente di volo, gli chiese: «Ci sono altri biscotti? Il mio amico non mangia da stamattina!»
Lo stewart guardo l’altro passeggero e rispose garbatamente: «Vedo cosa posso fare».
Non appena questi si allontanò, Albert la sgridò: «Ma cosa dici? Io non ho fame!»
«Shhh!» disse lei, mettendosi un dito sulle labbra. «Questi serviranno per dopo. Me li metto nello zaino, altrimenti poi morirò di fame. E non ho intenzione di sprecare i miei soldi agli autogrill se posso non spendere un centesimo!»
Albert rinunciò a trovare una logica nelle sue parole: era un’impresa impossibile!
Lo stewart tornò con due pacchetti in mano. «Ho un salatino e un dolce, va bene comunque?»
Lei annuì con forza e per poco non gli strappò di mano i pacchetti dall’impazienza. «Hai visto che carino? Ha portato qualcosa pure per me!» trillò dopo che lo stewart fu richiamato da un passeggero tra le prime file.
«Bene. Così hai due spuntini...» commentò lui di malavoglia.
«Oh, non fare il musone! Ce n’è uno anche per te!» esclamò con allegria e sventolandogli il pacchetto dei salatini in faccia.
«Ti dico che non ne voglio!»
«Cambierai idea prima o poi. Ne sono convinta!» ribatté, posando i sacchetti nel suo borsone extra large nel sedile accanto.
La ragazza si poggiò sul fianco per dedicarsi completamente ad Albert. «Perché sei su un aereo se non ne hai completamente voglia?»
«Non mi sembra che la mia situazione sia diversa dalla tua...»
Sbuffò. «Okay, hai ragione. Non dovrei essere io a parlare. Non sarò di certo il toro che dà del cornuto all’asino ma, insomma... ti hanno costretto i tuoi?»
Albert annuì.
Lei ne sembrò felicissima. «Oh, anche i miei! Abbiamo un’altra cosa in comune!»
Un’altra?, pensò Albert. E qual era la prima, che evidentemente si era perso?
«Ma io non sono diretto dove sei tu, molto probabilmente. Devo allontanarmi molto dall’aeroporto» le fece notare.
«Guarda che coincidenza! Anch’io! Mi sa che entrambi i nostri genitori ci hanno voluto spedire dall’altra parte del mondo!» Stavolta affrontava l’argomento con un sorriso. Doveva essere successo qualcosa mentre lui dormiva per averle fatto cambiare idea...
«Mi sa di sì...»
«Tu di dove sei?» riprese l’interrogatorio. Questo gioco le piaceva molto.
«Illinois».
«Non sono mai stata nell’Illinois. Ho sentito che è molto bello!»
Albert si strinse nelle spalle. «Non saprei. È un posto come un altro...»
«Io sono del Maine e per prendere questo stupido aereo ne ho dovuti prendere prima altri due. Non ne posso più!» Strinse le braccia e il frequente broncio tornò sulle sue labbra.
Questo discorso, stranamente, aveva preso una piega più interessante. «E perché lo stai facendo, allora? Non è uno stress inutile».
«Credevo te l’avessi detto cinque secondi fa. I – MIEI – MI – HANNO – COSTRETTA» sillabò ogni parola come se stesse parlando con uno tardo di comprendomio.
«Ah, giusto».
Il discorso venne interrotto da una voce uscente dagli altoparlanti. «SIGNORE E SIGNORI PASSEGGERI, STIAMO PER EFFETTUARE LA MANOVRA DI ATTERRAGGIO. SI PREGA DI ALLACCIARE LE CINTURE E RICHIUDERE I TAVOLINI. I DISPOSITIVI ELETTRONICI DEVONO ESSERE SPENTI. GRAZIE».
La ragazza emise un grosso sbuffo e chiuse il tavolinetto davanti a sè. Si sedette per bene e allacciò la cintura. «Che palle, odio l’atterraggio!»
«Guarda il lato positivo: stiamo per arrivare, no?»
«Sì, va be’, col cavolo! La “manovra d’atterraggio”», mimò le virgolette con le dita e lo disse con voce cantilenante, con un tono da presa in giro, «durerà secoli. E mi si tapperanno le orecchie. E mi risalirà tutto dallo stomaco!»
Albert rabbrividì dentro di sè all’idea di essere cosparso da una poltiglia puzzolente fatta da biscottini al limone e tacos piccanti. «Non farla tanto tragica. Pensa ad altro!»
L’atterraggio non durò poi così tanto e Albert riuscì a parlarle d’altro per far passare il tempo più rapidamente. Il velivolo venne collegato all’aeroporto abbastanza in fretta, considerando i tempi standard, e i passeggeri poterono uscire con i propri bagagli.
«Allora, mi sa che le nostre strade si separano, eh?» disse lei, trasportando il borsone a tracolla.
Albert si infilò lo zaino sulle spalle. «Non è detto. Può darsi che ci incontreremo nel viaggio di ritorno».
Lei rise. «Ritorno? Temo che non tornerò mai a casa!»
Ad Albert sembrò una visione della realtà troppo tragica ma, ripensandoci, neanche lui conosceva la data del suo ritorno  nell’Illinois. «Ci troviamo sulla stessa barca...»
Lei sorrise. «Be’ possiamo farci compagnia finché non ritiriamo le valigie, no?»
Lui annuì. Anche se la ragazza in questione era ben più che strana, la presenza di un conoscente in quel momento gli avrebbe reso solo tutto più facile.
Arrivati al rullo trasportatore, la ragazza si sedette su una panchina lì a fianco. «Con la solita fortuna che ho, la mia valigia arriverà stanotte».
Ad Albert venne da ridere. «È il destino di tutti i viaggiatori. Che ci vuoi fare?»
Contro ogni previsione, però, la valigia di lei fu una delle prime mentre quella di Albert fra le ultime. Lei non sembrò aver alcuna fretta di andarsene e gli fece comunque compagnia nell’attesa.
Considerando la grandezza del borsone, Albert si sarebbe aspettato di vedere una valigia più minuta per lei, ma anche quella non scherzava in dimensioni.
«Come mai viaggi così pesante?» non riuscì a trattenersi dal domandare.
«Non si sa mai...» rispose. «E poi, anche se non sembra, non c’è così tanto nella tracolla. Ti ricordo che non può superare un certo peso!»
«Hai ragione...»
Lei sorrise da una parte all’altre. «Mi piace quando dici che ho ragione!»
«Dove devi andare?» le domandò. «Ti posso accompagnare al terminal, così non ti perdi».
La ragazza scosse la testa. «No, devo uscire dall’aeroporto...»
«Chi ti aspetta? Zii, cugini... nonni?»
«Nessuno che conosco abita in California. Viaggio da sola...»
Almeno avevano ancora un po’ del tragitto insieme, ma Albert non voleva separarsi da lei, perché sapeva che, non appena lei se ne fosse andata, la realtà sarebbe tornata al suo posto e quell’orribile collegio sarebbe stato più vicino di quanto potesse sopportare.
L’aria all’estreno dell’aeroporto era gelida e Albert rimpianse di essersi messo i jeans leggeri. Le nuvole facevano passare il sole a sprazzi, dando solo l’illusione di calore.
Lei si guardava intorno con la bocca aperta e analizzando tutto ciò che la circondava.
«Ehi, senti!» le disse. Lei si girò, parendo di tornare alla realtà. «Hai un’e-mail?»
Lei lo guardò storcendo le labbra. «Dammi il tuo numero di telefono».
«Cosa?» chiese Albert, decisamente stranito. Quello aveva tutta l’aria di un ordine.
«Per tenerci in contatto, no? Le e-mail non servono a niente».
«Ehm... okay». Come poteva dirle di no? Non osava pensare alla sua reazione nel sentire una risposta negativa. Lei prese il cellulare e digitò il numero che le venne dettato.
«Okay, con che nome lo devo salvare?»
Che stupidi. Si conoscevano già da diverse ore e non si erano nemmeno presentati!
«Albert».
«No, sul serio. Come ti chiami?» domandò sollevando gli occhi dallo schermo, con aria scettica.
«Il mio nome è Albert» ripetè, leggermente infastidito.
«Che nome da idiota» borbottò scrivendolo nella rubrica.
«Ehi! Non mi sembra che io abbia criticato il tuo nome...» Mise una pausa alla fine della frase per farle rivelare il suo nome.
«Claire».
«Ecco, Claire. Io non insulto il tuo nome. E tu non lo fai col mio. Grazie».
«Come sei permaloso... Ci credo che non hai la ragazza!»
«Ma chi ti ha detto che non ho la ragazza?» Si sentì punto nel vivo.
«Perché, ce l’hai?» Alzò un sopracciglio.
«No, ma questo non significa che...»
«Sei permaloso. Punto».
«E tu sei infantile e logorroica!» Oddio, si stava comportando come un bambino. Si stava abbassando al suo livello! Ma Albert non era proprio riuscito a trattenersi. Gli aveva davvero fatto perdere le staffe.
Claire alzò gli occhi con aria da cucciolo. «Non me l’aveva mai detto nessuno!»
Albert guardò da un’altra parte. Perché aveva dato il suo numero a una perfetta sconosciuta, dato che ora avrebbero troncato subito i loro rapporti?
Ma, stranamente, l’espressione di stupore di lei si trasformò in un sorriso. «Grazie. Adoro la sincerità».
Albert venne colto in contropiede. «Pr... prego».
Un autobus si fermò davanti a loro. Sul davanti passava la scritta recante il nome di una località del Nord della California.
«Questo è il mio autobus» sospirò Albert. Ecco che il suo interminabile viaggio sarebbe iniziato. Avrebbe dovuto prendere un pullman, e un altro, e un altro ancora, avrebbe dovuto fare una lunga strada a piedi... L’inferno ormai era dietro l’angolo.
Claire saltellò come un coniglio pasquale. «Guarda che coincidenza: è anche il mio!»


Nota dell’autrice:ecco un nuovo capitolo fresco fresco! È un tantino più lungo degli altri: prima di tutto perché avevo più ispirazione (e avevo anche qualche idea per renderlo più lungo, ma probabilmente l’altra parte sarà nel sesto capitolo...) e poi perché ci stiamo addentrando di più nella storia! A parte pochi altri capitoli “iniziali” e “soft”, sto finendo di presentare alcuni dei protagonisti di questa storia e si procederà al cuore di essa! Qualche piccola anticipazione che posso darvi fin da adesso è che nel sesto si inizierà a parlare della scuola dal punto di vista degli umani, mentre nel settimo vi farò conoscere molto dei cosiddetti “figli della terra rossa”.
Tornando a questo capitolo, mi scuso per aver di nuovo accennato a Kingdom Hearts ma è stato più forte di me!
Claire doveva essere un personaggio abbastanza marginale, ma mi è diventata così simpatica che non credo che la abbandonerò facilmente. È il personaggio più originale che abbia mai creato, dato che è l’esatto opposto di me (in genere i miei personaggi – credo proprio sia un vizio degli scrittori – assumono qualche mia caratteristica...). E poi che dirvi? Ho cercato di documentarmi per rendere i luoghi più realistici ma c’è sempre qualche dettaglio illogico, ovviamente... La scuola è localizzata in un certo punto e spero che, col passare della storia, guardando
Google Maps, capirete anche voi, all’incirca, la sua posizione. (No, non ve lo dirà come risposta alle recensioni).
Vedo tanti lettori che hanno messo la storia tra seguite/preferite/ricordate. Ne sono contenta, ma lo sarei ancora di più se potessi leggere qualche vostra recensione. Non sapete quanto fate felice uno scrittore quando ne riceve una! Aggiungo che non pubblicherò il prossimo capitolo se questo non avrà almeno due recensioni (se no, sapete, passa la voglia...)
Alla prossima!
 
ATG

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Capitolo 5
*** Ladri di sogni ***


5. Ladri di sogni
 
La notte era più scura dell’inchiostro stesso. La luce proiettata dalle stelle era una mera illusione. Gli astri erano come schizzi di colore su una tela e rimanevano immobili nel cielo, inflessibili spettatori delle disgrazie terrene.
L’ombra celava segreti e storie che non sarebbero mai state udite; predatori astuti e inappagati; malintenzionati dal passo svelto e la perfidia negli occhi.
Battiti di ali riempirono il silenzio della notte e, oscurando la luna pallida e silenziosa, discesero sul terreno. Da lontano parevano pipistrelli o, tanto erano ineffabili, che potevano essere scambiati per transitorie ombre che spegnevano le stelle, come semplici scherzi dell’occhio umano. Ma quelle creature c’erano e non erano di certo un sogno le loro ali cornute e gli occhi rossi come il fuoco con pupille sottili come gatti.
Gli esseri erano in realtà due, con la medesima corporatura e lo stesso sguardo vispo sui lineamenti decisi. La ragazza aveva lunghi capelli di platino, che scendevano dritti come fusi lungo le curve del corpo. Lui si trovava pochi passi più indietro, col petto nudo, e indosso solo un paio di gauchos.
Le unghie laccate di nero di lei fecero un cenno sbrigativo, che indusse l’altro a seguirla lungo le vie acciottolate. I loro passi non producevano rumore; la loro presenza non sarebbe mai stata notata nè da orecchi nè da occhi: la loro stessa ombra si mischiava con l’oscurità.
Lei indicò una casa coloniale con le persiane serrate e gli infissi gialli. Si ergeva su tre piani, decorati con ringhiere arzigogolate sui balconi, circondati da piante che si schiudevan la notte. La casa era immersa in un silenzio assoluto: solo i deboli respiri del sonno e lenti battiti cardiaci turbavano la quiete.
Lui annuì e, con un sol balzo, si aggrapparono al balcone del primo piano. Le dita erano serrate sull’acciaio ed era impossibile che potessero perdere la presa.
Lei chiuse gli occhi e inspirò a fondo. I lunghi capelli turbinavano sulla sua schiena, irritando i muscoli contratti delle ali semirichiuse. Il vento la accarezzò anche sul resto del corpo e le fece provare un brivido quando passò sui seni scoperti dal gilet.
Anche lui la imitò e la gelida aria della sera gli pervase le narici. Le ali erano arcuate, in modo tale da proteggere il corpo nudo dai capricci della brezza.
I due non ebbero bisogno di scambiarsi uno sguardo per agire. Lei lasciò la presa e, con un salto aggraziato, scivolò attraverso la fessura di una finestra lasciata aperta al piano di sotto. Lui fece lo stesso, e, come un danzatore di limbo, passò attraverso lo spiraglio con agilità.
L’interno della casa era ancora più accogliente dell’esterno. Tappeti persiani, lampadari cristallini, strumenti musicali ingombranti, soprammobili risalenti al diciannovesimo secolo... Il soggiorno pareva una reggia abbandonata da qualche re di Versailles in America.
Per un ladro quello sarebbe stato il paradiso. Anche un solo oggetto avrebbe potuto sistemarlo a vita e la più minuscola cosa poteva valere qualche milione.
I due intrusi, però, erano ciechi a tanto sfarzo e si diressero con eccezionale rapidità al piano di sopra. Le ali erano contratte per non urtare nessun oggetto rumoroso. I loro respiri erano regolari, in sincrono. Parevano una sola persona.
E l’obiettivo di quella incursione si presentò dietro una porticina semplice, che non poteva reggere il confronto con l’ambiente circostante. Era seminascosta, perché non vi si potesse gettare l’occhio con troppa facilità. Le scanalature su di essa facevano presagire che si trovava in quella posizione da molti anni.
L’interno della stanza era piccolo e opprimente. Solo pochi soprammobili rendevano l’ambiente meno angusto. Erano più che altro ricordi del passato, incorniciati con affetto o adagiati su superfici curate. Una finestra dava sul cortile, ma era coperta da pesanti tende rosa pastello, che ne impedivano la visione.
Su un letto modesto era adagiata una ragazza. Aveva lunghissimi capelli castani, che giocavano a rincorrersi tra la federa del cuscino e le coperte. Una vestaglia trasparente e con pizzi sul decolleté e all’altezza dei polsi la vestiva. Le labbra carnose si dischiudevano appena quando sospirava, nel sonno.
Le ali di lei ebbero un fremito, mentre si avvicinava al letto e allungava le dita verso quel viso da bambina. Lui si trovava dall’altro lato e, uno di fronte all’altro, si chinarono sulla ragazza dormiente.
Le ali si aprirono e unirono l’uno quelle dell’altra, per formare uno spazio chiuso e solamente loro. Le mani si trovavano all’altezza del viso della giovane e sospiravano di goduria mentre le aspiravano le speranze e i desideri nascosti nei sogni.
Era così che sopravvivevano i Succubi: attraverso i sogni. Il mondo reale era per loro una sofferenza mentre il mondo della mente era il loro territorio, dove riuscivano a sentirsi a proprio agio e appagati.
I sogni più belli, puri e innocenti erano per loro come una rara bottiglia di vino lasciato invecchiare da secoli. Quella ragazza era semplice e pia; pensieri corrotti non le avevano mai sfiorato la mente.
Dopo aver recitato le preghiere della sera, era andata a letto e sognava con tanta intensità ciò che desiderava.
Nei sogni, mani callose ma forti e salde afferravano le sue, e lei si sentiva protetta. Tutta la cattiveria del mondo rimaneva fuori quando lui era al suo fianco e lei non poteva far altro che adagiarsi al suo petto e respirare piano.
I sogni di amore erano stupendi per i Succubi: erano quelli più nutriti di speranza e di affetto incondizionato.
Tutte le parole dolci sussurrate tra i due amanti nutrirono le creature demoniache finché non decisero di fermarsi e lasciarla alle sue favole. La ragazza non sarebbe stata la stessa nei giorni a seguire, privata dei suoi sogni, ma in poco tempo sarebbe tornata la stessa, e facile preda di altrettanti Succubi.
Le due creature si sollevarono dalla ragazza e ripiegarono le ali mentre aprivano la finestra della stanza. Si strinsero le mani a vicenda e saltarono giù. I piedi assorbirono l’impatto e, agilmente, tornarono alla posizione eretta.
Si librarono in volo, dietro le nuvole e sotto le stelle, abbastanza in alto da non essere visti dai mortali. Il vento che sollevavano le ali in movimento turbinava intorno ai loro corpi, sollevando i vestiti come bandiere su un’asta.
«Allora, per oggi abbiamo finito?» domandò lui, raggiungendo la compagna con un battito d’ali.
Lei annuì. «Dobbiamo affrontare un lungo viaggio e non abbiamo tempo da perdere».
«Quale viaggio? Non mi hai informato!»
Lei girò la testa verso l’altro e gli scoccò uno sguardo seccato. «Dobbiamo andare a casa».
«A casa? È da quindici anni che non ci mettiamo piede. Perchè questa decisione?»
Si udì vagamente un clacson strombazzare, ruote che traballavano sui ciottoli e la voce di una vecchia che chiamava la sua infermiera.
«Mamma ci ha chiamati» si limitò a rispondere e riprese a guardare dritto davanti a sè.
«Non ti è mai importato di lei. La odi!» urlò e inavvertitamente mosse le ali più forte.
«È vero».
«E allora? Dimmi davvero il motivo per cui vuoi tornare a casa!»
«Mi ha chiesto di tornare e ha giurato che non si sarebbe fatta più viva se avessimo esaudito il suo desiderio».
«Ma chi se ne frega! Torniamo alla nostra casa, ignorando l’esistenza dei nostri genitori nei secoli a venire come abbiamo fatto fino adesso!»
Lei interruppe il volo, ponendosi eretta; lui fece dietrofront per raggiungerla. «Che ti prende?»
«Ho detto che torneremo a casa e lo faremo!» gridò mettendosi le mani sui fianchi e incenerendolo con lo sguardo.
«Non essere stupida e ragiona! Sicuramente la mamma vorrà qualcosa da noi. Non crederai certo in una riunione di famiglia, vero?» Si avvicinò e la scrollò per le spalle. L’unico risultato che ottenne fu scompigliarle i capelli e renderla più furiosa. Gli diede uno spintone e riprese a volare molto rapidamente.
Lui rimase interdetto per un attimo poi riprese velocità per starle accanto.
«Non c’è bisogno che voli come un siluro. Non c’è fretta!» la rimproverò.
«Prima arrivo prima la finiamo».
«Talia, abbi un po’ di buonsenso...»
Prima che potesse concludere la frase, lei gli ringhiò un infuriato «NO!» e accelerò.
Lui non potè che arrendersi al volere della sorella, sempre stata una testa calda, e si unì al viaggio che gli si prospettava davanti.
Il tempo era ottimo per volare: il vento non era eccessivo e le nuvole non parevano trasportatrici d pioggia. Il sole era ben lontano e andando in senso antiorario guadagnarono ancora un’ora di buio spesa, però, in volo tra i cieli dell’Arizona.
Quando arrivarono a destinazione erano esausti ma nessuno dei due lo diede a vedere. Atterrarono davanti a una casa in campagna, appena restaurata per nascondere gli anni che in realtà possedeva.
Era cambiata dall’ultima volta che l’avevano vista: il grigio spento che colorava le pareti era stato cambiato in un bianco panna e le ante delle finestre erano dorate.
Talia, con il disappunto e il fastidio dipinti in faccia, tirò un cordoncino all’ingresso e il suono del campanello si diffuse per tutta la casa. Pochi secondi dopo un uomo imponente aprì loro la porta. La sua chioma folta era nera, insieme a barba e baffi. Indossava una vestaglia rossa con ricami rappresentanti dragoni orientali e sul volto si aprì un sorriso da una parte all’altra.
«Finalmente siete venuti». Era contento di ciò che diceva ma l’affetto che cercava di trasmettere ai ragazzi non era evidentemente ricambiato.
«Dov’è la mamma? Che cosa volete da noi?» chiese brusca la ragazza.
«Accomodatevi» fu la risposta e i due, sulla porta, ripiegarono le ali sulla schiena per poter attraversare il vano d’ingresso.
L’interno era esattamente come si ricordavano ma non si fecero travolgere dalla nostalgia e rimasero impassibili mentre il padre li guidava in soggiorno. Era molto ampio: ci sarebbero potuti stare comodamente dieci Succubi con le ali spiegate.
«Vogliamo andarcene il prima possibile da qui, quindi muoviti!» gli intimò il ragazzo con le braccia incrociate e le labbra serrate.
Il padre ignorò il commento e li guardò con un sorriso ironico. «In tutti questi anni non avete ancora imparato come nascondere le ali?»
Era ovvio che volesse prenderli in qualche modo in giro, ma la figlia sollevò le labbra per emettere un basso ringhio. «Datti una mossa, vecchio. Sarebbe uno scherzo farti fuori: sai che siamo molto più giovani di te».
Il genitore rise e scosse la testa. «Cara Talia, quando imparerai? Anche se mi vedi vestito così, non significa che non possa battere due inesperti come voi in un colpo solo».
Talia serrò le braccia come il fratello e sbuffò platealmente.
«Sappiate che non sono stato io a chiedervi di tornare, ma vostra madre; anche se mi fa comunque piacere vedervi...» Dedicò loro una seconda occhiata e commentò: «Non siete cambiati di una virgola. Speravo che in questi quindici anni foste maturati un pochino!»
«Vuoi farci la paternale o arriviamo al dunque?» lo interruppe il ragazzo.
«Dopo tutto questo viaggio sarete stanchi: sedetevi. Vi porterò qualcosa da bere...»
I due ragazzi, nonostante non volessero trascorrere un minuto di più nella loro casa natale, erano davvero stanchi e sarebbe stato meglio litigare da seduti con le piene energie piuttosto che in quello stato.
Si sedettero in due sedie vicine nel lungo tavolo, che avrebbe potuto ospitare un esercito, e aspettarono che il genitore tornasse dalla cucina.
«Quando ce ne andremo, Talia? È evidente che ci ha portati qui per vantarsi e prendersi gioco di noi. Sei stata una stupida a crederci!» bisbigliò.
«No. Anche lui l’ha detto: è stata la mamma a chiamarci. Sta solo approfittando della situazione. Sa che non ci rivedrà presto e sta rispolverando il suo lato di padre odioso che ha tenuto a bada per questi quindici anni».
Il fratello ci pensò su per pochi secondi. Guardò sua sorella negli occhi, trasmettendole il dolore e l’incertezza. Cercò la sua mano sotto il tavolo e la strinse forte. «Penso tu abbia ragione. Ma in caso le cose prendessero una brutta piega ce ne andiamo subito. Me lo prometti?»
Talia annuì e rafforzò la stretta delle dita come ulteriore conferma.
Il genitore arrivò, portando un vassoio con degli infusi alle erbe. Si sedette di fronte a loro e posò il vassoio al centro del tavolo.
I ragazzi, senza lasciarsi la mano, presero la propria tazzina. Quella di lei aveva dei fiori blu dipinti su tutta la superficie; l’altra era decorata con primule lungo tutto il manico. Erano le loro tazze di quando erano bambini.
L’infuso aveva proprietà ristoratrici e la fatica dei loro muscoli scemò pian piano. Si sentirono più rilassati e meno stanchi: i bollenti spiriti si erano placati e pareva proprio questo l’obiettivo del genitore quando aveva preparato quella bevanda. Ora poteva parlare con tutta tranquillità senza che i figli gli inveissero contro. «Allora, dove abitate adesso?»
«Abbiamo una casa a Salina, ma ci stiamo solo di giorno» rispose il maschio.
«Lontano da qui...» riflettè il padre.
«Non proprio: casa vostra dista solo un’oretta di volo, più o meno» aggiunse Talia, bevendo un altro sorso.
«Ah, bene. Perciò potreste farci visita più spesso!»
La ragazza scosse la testa ma con una calma innaturale per lei. «Non se ne parla. Abbiamo preso la nostra decisione tre lustri fa e non torneremo indietro».
«D’accordo, come vuoi... E tu, Talete, che mi dici? Come vanno le cose? Tu vorresti tornare di tanto in tanto? Non devi per forza seguire ogni decisione di tua sorella, sai!»
Scosse la testa e posò la tazzina vuota sul tavolo di legno antico. «Dovunque vada lei, io la seguirò».
«Già. Mi ero dimenticato quanto voi due gemelli foste così uniti...» borbottò, girando il cucchiaino nella sua tazzina ancora piena e fumante.
«E sai che è stato questo a farci prendere quella decisione» riprese Talia.
«Sì, ma potevate rimanere sotto il nostro tetto fino al momento giusto. Nessuno vi ha mai chiesto di andarvene...» Il padre si portò i capelli all’indietro e mise da parte la tazzina. Sollevò lo sguardo verso i figli, come se implorasse loro di tornare a casa.
Talete scosse nuovamente la testa. «Non avremmo potuto. Tu e la mamma non ve ne andaste di casa, lasciando i vostri genitori?»
«Hai ragione, ma le circostanze erano diverse...»
Talia smise di bere, lasciò la presa dal fratello e si alzò di scatto. Le ali fremevano sulla schiena. «Non potrai corromperci con nessuno dei tuoi infusi. Ora facci vedere la mamma così potremo andare via!»
Il padre sospirò – quelle bevande non avevano mai avuto un effetto duraturo sulla figlia – e si alzò. «D’accordo. Ho provato a convincervi prima che vi vedesse vostra madre. Non potrò dire di non averci provato. Ora, seguitemi al piano di sopra, così potrete smettere di fare gli indisponenti!»
Uscirono dal soggiorno e imboccarono delle scale a chiocciola. Oltre il pianerottolo si affacciava la camera da letto dei genitori, al buio. Accanto a quella porta spalancata ce n’era un’altra, serrata, con due T incise sul legno.
«Volete prima tornare in camera vostra per un’ultima volta?» domandò il padre, davanti alla porta della stanza in ombra.
Talete anticipò la sorella: «Facciamola finita una volta per tutte!»
Il genitore non riuscì più a prendere tempo e li condusse nella stanza da letto. L’oscurità era totale: un leggero chiarore filtrava attraverso le tende e gli occhi dei due giovani Succubi emanavano luce come lanterne rosse appese a un filo. Tutto era immobile tranne il piccolo fagotto nel letto, che si alzava e abbassava a ritmi regolari. Una mano uscì dalle lenzuola e accese un lumino situato sul comodino basso e praticamente invisibile dalla posizione delle persone entrate nella stanza.
La donna, rischiarata dalla tenue luce, sorrise ai figli. «Alla fine vi siete fatti vivi, eh?»
Talia annuì. «Non avevamo altra scelta».
«Sapevo che se l’avessi chiesto a te sareste venuti. Tu avresti capito» mormorò.
«In realtà non ho capito niente. Sono venuta solamente perché hai promesso che, dopo questa volta, saresti sparita dalle nostre vite!» Talia incrociò le braccia al petto e rammentò la scenata del fratello: sua madre aveva ragione, se avesse chiesto a Talete di certo non si sarebbero smossi. Ma non era stata la compassione o l’affetto a farla ubbidire e ciò voleva che fosse chiaro.
La risata della donna le illuminò il viso e arrivò fino agli occhi castani mentre osservava Talia. «Hai ragione: dopo stasera io scomparirò... Avevo sempre sostenuto che tu fossi intelligente».
Talete mosse un passo in avanti, coprendo la sorella e avvicinandosi al capezzale della madre. «Che cosa vuoi insinuare? E cosa significa che scomparirai
«Vuole dire che domani non ci sarà più» gli spiegò Talia con indifferenza.
La madre annuì a uno scioccato Talete. «Corretto di nuovo. Vi ho chiamati perché io sto per morire».
«Non c’è bisogno di fare la melodrammatica. Arriva per tutti il momento di andarsene da questo mondo. Non credere che ci farai sentire in colpa o cose del genere. Sei già stata abbastanza al centro dell’attenzione in vita» replicò Talia, acida in ogni parola pronunciata.
La donna sollevò il capo e scostò di poco le coperte perché il suo corpo fosse visibile. Indossava una tunica bianca spessa, che pareva garza. All’altezza del ventre il tessuto era bruciato e la carne in vista era insanguinata e maciullata in punti diversi.
«Che ti è successo? Non mi dire che te la sei di nuovo cercata con i lupi mannari...»
Il padre si intromise nella conversazione. «Non dovresti fare domande del genere a tua madre in queste condizioni!»
La donna morente chiuse gli occhi come in segno di assenso, poi li riaprì per osservare i figli. «Vi ho convocati per chiedervi un favore. O meglio, sono io a farlo a voi. È il mio ultimo desiderio e spero che possiate esaudirlo».
Era evidente che Talia era contraria a concedere qualsiasi favore, perciò suo padre la fulminò con lo sguardo, chiedendole di prestare attenzione alla richiesta.
«Da come posso notare adesso, in questi quindici anni siete rimasti allo stesso livello nel quale eravate quando siete partiti...» iniziò.
Talia sbuffò inviperita e le diede le spalle, dirigendosi verso l’uscita. «Questo è troppo! Sono qui da soli dieci minuti e vi divertite a prenderci per i fondelli. Ora basta! Vi ho concesso perfino più tempo del necessario! Spero che tu crepi rapidamente».
Era già arrivata alla porta quando Talete la afferrò da dietro per i polsi. Fu costretta a fermarsi. Girò la testa e strepitò: «Che stai facendo? Mi tradisci anche tu? Non eri tu il primo a non voler venire?»
Le ali di lei si mossero avanti e indietro, sollevando un gran polverone che fece tossire gli uomini nella stanza; alcuni oggetti caddero a terra e le tende si mossero appena, permettendo alla pallida luce della notte di entrare nella stanza. Talia cercava di liberarsi e incosciamente aveva mosso le ali per dimenarsi e cercare la libertà.
«Resta. Non hai niente da perdere e solo da guadagnare. Non fare la bambina e ascolta le ultime parole di mamma».
«Ma ti sei rincitrullito? Sei uno schifoso voltagabbana, ecco cosa sei! Pensavo stessi dalla mia parte! Che non volevi mai più mettere piede qui dentro e vivere a Salina per sempre!»
Talete passò la presa dei polsi in una mano e strinse più forte. Talia gemette di dolore. Lui, con la mano libera, spostò l’ala destra di lei per avvicinarsi al suo capo e sussurrarle ad un orecchio: «Dài, fa’ la buona. Ti prometto che a casa mi farò perdonare!»
Il suono vellutato e suadente della voce di Talete provocò il sorriso della sorella e l’arresa da parte sua di qualsiasi forma di resistenza. «Va bene. Ma mi devi molto».
I due fratelli si girarono e tornarono vicino al letto della madre.
«Grazie Talete» mormorò la donna. «Avete mai sentito parlare del collegio della Luna Nuova?»
I due assentirono e per Talia fu come se le si fosse accesa una lampadina nel cervello. «Ah, adesso ho capito! Ci hai riuniti qui in modo tale da costringerci ad andare in una stupida scuola, vero? Vuoi di nuovo limitare la nostra libertà e farci comportare come schiavetti alle vostre dipendenze. Ve lo potete scordare!»
«Non è questa la questione: va tutto a vostro vantaggio!» la smentì il padre. «Imparete a mescolarvi davvero tra gli uomini – che è evidente che non avete ancora appreso; a conoscere i vostri simili e a cacciare con maestria. Avrete a vostra disposizione quanti umani vorrete. Non vi stiamo costringendo, ma offrendo un’opportunità!»
La spiegazione fece riconsiderare l’idea ai Succubi e, sotto lo sguardo implorante della madre, Talete si fece avanti. «Per me va bene». Girò lo sguardo per incontrare quello della sorella. Anche lei annuì, a malincuore, e affermò: «Non sembra poi tanto una cattiva idea...»
La donna sorrise e strinse una mano, gelida al tocco, ai suoi figli. «Grazie». E spirò.
Talia non aveva alcuna intenzione di rimanere in quella stanza, in imbarazzo col padre che aveva realmente amato quella donna. Con un balzo andò verso la finestra e, sempre in aria, la spalancò. Riuscì finalmente a liberare le ali, che erano state costrette a rimanere piegate per tutto quel tempo, e fece assaporare ad esse il vento fresco della notte.
Talete fece un cenno di saluto al padre e si gettò nella notte dietro le orme della sorella. La voce di lei, che urlava, impregnava l’aria e non era certo se nelle sue parole ci fosse divertimento o rimprovero.
«Mi devi molto, fratellino!»

 
 
Nota dell’autrice: vorrei prima di tutto scusarmi per aver pubblicato solo adesso il nuovo capitolo ma non ero riuscita a terminarlo in tempo. Avevo solo scritto l’inizio ma non venivano idee...
Sono contenta di essere riuscita a introdurre un nuovo tipo di creatura! È bene che si conoscano in generale alcuni dei personaggi prima che vi “faccia entrare” al collegio della Luna Nuova, altrimenti sareste completamente spaesati. Come sarà per Albert, rivedere una figura familiare vi farà sentire più a vostro agio! (Puro parere dell’autrice – potete anche smentirmi!)
Per i nomi dei due Succubi ci ho lavorato un po’. Per lei è stato facile: l’idea iniziale era Lalia o Lelia, ma c’erano troppe L, che danno un suono dolce e lei non lo è per niente... La T era la lettera giusta e l’idea mi è venuta studiando la Divina Commedia. Se non sbaglio, una delle Muse ispiratrici (quelle che invocavano i poeti prima di iniziare un componimento) era Talia, ma potrei benissimo essermi immaginata le cose e il mio subconscio ha elaborato il tutto...
Per lui è stato più difficile: ho passato in rassegna nomi comuni (che non potevano andare bene, poichè, come vedrete, le creature demoniache non avranno mai nomi tipo “John” o cose umanoidi di questo genere) e nomi di vari filosofi. C’è stato un momento in cui volevo chiamarlo Melisso! Ma Talete assomigliava molto a Talia e dato che i due sono gemelli, nomi simili sarebbero stati il top!
Nessuno dei due ha un prestavolto preciso, anche se Talete assomiglia abbastanza ad Alex Pettyfer (non è lui, semplicemente traetene spunto per creare questo personaggio di fantasia). Fisicamente si assomigliano, quindi mi è sembrato superfluo dire che anche lui aveva i capelli biondi, ma corti e scompigliati... e molto sexy! *Sbava*
La madre non è stata descritta, ma dato che il padre non assomiglia per niente ai figli, è facile dedurre che i capelli biondi li abbiano presi dalla madre. Io me la immagino un po’ come Shizuka di Vampire Knight...
Ho altro da dire?Ben poco, direi. Soltanto che dovrete abituarvi a questa lunghezza dei capitoli. Inizialmente erano corti giusto perché erano “introduttivi” ma più si andrà avanti con la storia, più aumenterà la narrazione (Capitanessa Ovvio all’attacco!). Già al prossimo capitolo, entreremo nel collegio delle Luna Nuova, ma dal punto di vista di un nostro vecchio amico umano...
E un’ultima cosa: manterrò fissa la “regola” che, senza almeno due recensioni per capitolo, non pubblicherò l’altro. Questo perché so, per esperienza personale, che potrebbero venir fuori capitoli senza recensioni e l’interesse per la storia calerebbe...

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Capitolo 6
*** Interminabili viaggi ***


6. Interminabili viaggi
 
Per il primo tratto del viaggio Claire russò come un orso in letargo. Lei ed Albert si erano seduti vicini in uno degli ultimi posti perciò quei pochi passeggeri seduti vicino al conducente non potevano sentire Claire dormire.
Quando l’autobus si fermò, Albert scrollò Claire con gentilezza per dirle che dovevano scendere. La bionda si strofinò gli occhi dopo averli battuti per una decina di volte. Con gesti da automa prese il suo borsone e la valigia e seguì Albert verso le porte scorrevoli.
Si ritrovarono davanti alla fermata dove tra un’ora sarebbe passato un altro autobus che li avrebbe portati più vicino alla meta. Dall’altra parte della strada c’era un imponente Autogrill con le pareti rosse e bianche.
Il clima all’esterno era di diversi gradi più basso rispetto al teporino nel mezzo di trasporto. Claire starnutì e si mise le mani nei pantaloni.
«Hai fame?» le chiese Albert.
Lei si strinse nelle spalle. «Soprattutto freddo...»
«Sediamoci lì dentro. Al massimo prenderemo qualcosa da bere» suggerì Albert, indicando con un cenno l’Autogrill alle loro spalle.
Claire fece una smorfia di indifferenza e si diresse verso il locale. I due ragazzi non erano stati gli unici ad avere quella idea: frotte di turisti, escursionisti o viaggiatori in panne si erano riuniti lì per non gelare all’esterno. Dietro le vetrinette con il cibo esposto era accalcata un bel po’ di gente, tra cui motociclisti più che obesi, bambini urlanti e ragazze che davano spallate per arrivare prima.
Claire ignorò la zona cibo e si infilò in uno spazietto dedicato a libri, riviste, DVD o giochi per bambini. Albert si stava ancora guardando intorno per raccapezzarsi e non si accorse della scomparsa di Claire.
«Se vuoi qualcosa dovremmo deciderlo subito: anche la fila dietro la cassa è numerosa...» Si girò per ottenere una risposta ma non vide nessuno. Sperò che nessuno l’avesse sentito, credendolo pazzo, e cercò la compagna con lo sguardo. Era ben riconoscibile perfino da lontano la chioma biondo slavato che si aggirava tra i libri horror.
Albert trascinò la valigia fino al punto dove si trovava Claire. «Potresti avvisare quando te ne vai...»
Claire non lo degnò neanche di un’occhiata. Prese un libro tra le mani e iniziò a sfogliarlo. «Scusa» borbottò ma senza intenderlo davvero.
Albert sbuffò e osservò il volume che aveva incuriosito Claire. Si piegò un po’ per intravedere la copertina. Era tutta rosso sangue e al centro vi era la figura di un uomo in penombra con i pettorali scoperti e una donna alle sue spalle. Dal titolo del libro Albert potè evincere che non era di certo un testo adatto da leggere prima di dormire...
«Non pensavo ti piacesse questo genere...»
Claire alzò una spalla. I suoi occhi scorrevano da sinistra verso destra, un rigo dopo l’altro. «Infatti non mi piace. L’ho preso perché il tipo in copertina ha un gran bel fisico».
Albert fu tentato dal scrollare la testa e riferirle che un libro non si giudica dalla copertina ma decise che con lei sarebbe stato tutto fiato sprecato.
«Io vado a dare un’occhiata alle riviste. Il viaggio sarà ancora lungo: è meglio se ci compriamo qualcosa col quale passare il tempo!»
Claire assentì distrattamente, girando una pagina del libro.
Albert diede un’occhiata ai film sigillati, senza prenderli in considerazione, e passò avanti fino a ritrovarsi nel reparto dei giornali. C’era di tutto e di più: dai fumetti ai cruciverba, riviste di cucina o scientifiche. Allungò una mano verso un volumetto sepolto da molti giornali e snobbato da tutti. La copertina era rovinata, con molti orecchioni, e diverse etichette l’una sull’altra applicavano sconti sempre maggiori a quel testo. Era palese che era rimasto invenduto da tanto tempo.
“Guida al mondo che gli occhi non vedono” era il titolo di quel libro. Albert lesse la descrizione sul retro:
Niente è mai come appare. Nulla è determinabile. Solo una mente allenata e uno sguardo volenteroso porteranno alla reale conoscenza.
 
Albert guardò il libro con diffidenza. Era ovvio che nessuno l’avesse comprato con una trama del genere! Aveva tutta l’aria di uno di quei libri inutili che occupano solo spazio nella libreria e il loro unico compito è prendere polvere.
«Ehi, ragazzo!»
Albert si girò verso un uomo barbuto e molto grasso dietro la cassa. I suoi occhi infossati da cespugliose sopracciglie erano puntati verso di lui, ignorando il cliente davanti a lui con una banconota da venti dollari in mano.
«Se prendi qualcos’altro, oltre a quel libro, te lo do gratis!» gli urlò.
Albert scosse la testa. «No, grazie. Non sono interessato».
«Io sì invece!» irruppe Claire dal nulla.
Albert sobbalzò. «Cosa ci fai qui? Non eri a leggere a scrocco quel libro?»
La ragazza scosse la testa. «Naah. Il figo muore già alla decima pagina. Non mi interessa!» Si rivolse al cassiere. «Lo prendo!»
Il tipo annuì e si intravide un sorriso dietro la barba folta. «Bene. Scegli un’altra cosa e poi vieni qui».
«Prendi un’altra cosa, Albert» gli bisbigliò Claire.
«Ma perché devo scegliere io? Comprati tu un altro libro!» ribattè.
Claire gli tolse dalle mani la Guida e la sostituì con un libro sottile e in rosa, denominato 101 modi per conquistare una ragazza.
Albert guardò prima il libro, poi lei con una smorfia interdetta. «E questo cosa sarebbe?»
«Non lo vedi da solo? Sei così scorbutico che non troverai mai una fidanzata! Il libro garantisce al cento per cento che, dopo averlo letto, diventerai un rubacuori!»
Dimmi che stai scherzando, ti prego!, la supplicò mentalmente ma la sua espressione era così decisa che non sembrava un tiro mancino. Claire aveva improvvisamente riacquistato la sua energia dopo aver “guadagnato” un libro in omaggio.
Albert gettò il libro tra le riviste di gossip – anche se non era il suo posto – e fulminò la ragazza con lo sguardo. Lei gli rispose con aria offesa. «Che hai fatto?»
«Non lo voglio. Vado a prendermi qualcos’altro!» rispose e si allontanò. Scorse un cubo metallico con i libri al cinquanta per cento e si avvicinò per darvi un’occhiata. Tra le sue mani prese spazio un giallo con un titolo davvero accattivante. Ad Albert non piacevano i misteri, gli davano solo ansia, ma decise che, visto il prezzo irrisorio, poteva fare un’eccezione.
Fatta contenta Claire, comprarono un mega trancio di pizza da dividersi e lo divorarono in pochi minuti. In sottofondo un giornalista in TV che descriveva la cronaca del giorno e la parlantina incessante di Claire.
Albert sospirò e si alzò dal tavolinetto. La temperatura esterna era scesa ulteriormente e dovette cercare un giubbotto nella valigia per non tremare dal freddo. Si mise in un angolo e posizionò la valigia orizzontalmente. Sollevò diversi capi d’abbigliamento finché non trovò il cappotto. Smuovendo i vestiti era saltato al largo il pacchetto di sigarette che aveva nascosto. Il suo sguardo rimase immobile per un secondo nel fissare quella sua ancora di salvataggio. Prese una sigaretta, richiuse la valigia e indossò la giacca. Si rese, però, conto di non avere con sè l’accendino. Che idiota che era stato!
«Hai bisogno di questo?» gli domandò un marocchino che si era avvicinato. Nel palmo bianco aveva un accendino nero col disegno di una donna in bikini. «Io faccio te ottimo prezzo. Solo otto dollari».
«Otto dollari? Ma è un furto!» sbottò inviperito.
«A me sembra che a te serve con urgenza, o sbaglio?» insistette il venditore ambulante.
«Quattro dollari e non se ne parla» mercanteggiò Albert.
Il marocchino scosse la testa. «Posso scendere solo a sei. No di meno. Sai da dove viene questo accendino?»
«Dalla spazzatura?» lo provocò Albert, di pessimo umore a causa dell’astinenza.
«No scherzare, ragazzo». Il tipo assunse un tono offeso. «Sei dollari. Mia ultima offerta. Altrimenti puoi scordarti tua sigaretta».
Albert sbuffò e trasse dalla tasca i soldi richiesti dal marocchino. «Tieni e non tentare di rifilarmi nient’altro» lo ammonì, togliendogli di mano l’accendino e utilizzandolo alla svelta sulla sua sigaretta.
Il venditore ambulante sparì come era apparso e Albert potè chiudere gli occhi per un istante e godersi il momento.
Il fumo grigio saliva a volute verso il cielo dalla lunga stecca tra le labbra di Albert. Mise indice e medio in modo da formare una “V” e allontanò la sigaretta dalla bocca espirando piano piano.
In quel momento la solitudine funzionò da medicina per il dolore che provava dentro. Si ricordò i suo trauma infantile, quando aveva dovuto affidare al vicino il suo cane – il suo migliore amico –perché suo padre aveva scoperto di essere allergico. Albert odiava ogni tipo di cambiamenti che lo induceva a separarsi da ciò che amava. Il suo desiderio più grande era che il mondo non cambiasse mai, come rinchiuso sotto una campana di vetro e immune dai mutamenti.
Ma tutto cambiava col passare del tempo, persino lui. A dieci anni odiava i suoi zii quando gli sventolavano in faccia la pipa o parlavano, mettendo in mostra i denti gialli di tabacco. E adesso era diventato lui stesso un fumatore accanito. Chi l’avrebbe mai detto?
Sua madre, quando lo teneva sulle ginocchia, gli raccontava della sua adolescenza e il momento favoloso in cui aveva conosciuto suo padre. Cinque anni dopo si erano lasciati perché avevano scoperto di non sopportarsi più a vicenda.
Tutto nella sua vita era cambiato, capovolto irreversibilmente. Niente era stato prima approvato da Albert: al destino non era mai importata la sua opinione. Aveva sempre cercato di stare in piedi in qualsiasi situazione ma poi era crollato e non era più riuscito ad alzarsi. Albert aveva perso la speranza.
E come se tutto questo non bastasse, sua madre l’aveva mandato in quella stupida scuola. Perché l’aveva deciso? Come aveva potuto fargli qualcosa di così meschino e vigliacco? Non lo voleva più in casa e perciò lo mandava da tutt’altra parte per dimenticare di avere un figlio problematico? Era stata tutta una scusa quella di mandarlo al collegio della Luna Nuova perché potesse guarire; era impossibile. Sua madre voleva illudersi che la sua vita fosse perfetta e aveva ancora qualche speranza con la seconda figlia. Forse con lei le cose sarebbero andate diversamente.
Albert fissò distrattamente il fumo che si levava verso il cielo e, nel fare ciò, notò una figura bionda appostata come un ninja a pochi passi da lui.
«Claire?» domandò.
Lei si avvicinò. «Mi hai abbandonata lì dentro. Lo sai? Te ne sei andato: credevo avessi detto qualcosa che non andava! Ma avevi lasciato il tuo pezzo di pizza e mi sarebbe dispiaciuto avanzarla perciò l’ho terminata io. Quando sono uscita a cercarti non ti trovavo più, poi ho visto qualcuno e sono venuta».
«Mi dispiace» fu l’unica cosa che disse in risposta.
«Non devi dispiacerti. È normale che volevi andartene da me. Tutti vogliono andarsene da me».
Albert si girò e notò nei lineamenti della ragazza che la consueta allegria aveva lasciato il posto alla tristezza. «Su, non dire così. Avrai tanti amici a casa, no?»
Claire fissò ostinatamente una mattonella che traballava e la fece muovere con la punta del piede destro. «Più o meno. Parlo troppo e hai ragione. Tu sei stato l’unico a dirmelo in faccia. La gente me lo dice alle spalle».
Albert sospirò. Nel suo umore attuale non aveva alcuna voglia di fare lo psicologo ad un’altra depressa. Inspirò altro fumo dalla sigaretta e lo espirò con lentezza in modo tale da avere la scusa per non parlare.
Claire sollevò lo sguardo. Stavolta era interdetta e sorpresa. «Non hai proprio la faccia di uno che fuma».
«Perché? Devi avercelo stampato in viso che sei un fumatore?» commentò.
«A volte sì. Per esempio tu hai una faccia da bravo ragazzo» tentò lei con un debole sorriso.
Albert alzò la testa al cielo e chiuse la mano sinistra a pugno, ferendo il palmo con le unghie. Detestava quando la gente lo etichettava come un bravo ragazzo perché poi, quando faceva qualcosa di sbagliato lo guardavano delusi e con un’aria da Da te non me lo sarei aspettato, Albert. Voleva essere come i suoi compagni dal quale ci si aspettava sempre qualcosa che non andava e nessuno faceva commenti. Ma non c’era neanche una persona che potesse leggerlo dentro e comprenderlo.
«... Ma a volte mi sbaglio» aggiunse Claire sovrappensiero.
Albert abbassò lo sguardo. «Da quando ammetti di avere torto?»
Claire sgranò gli occhi e, involontariamente, spalancò la bocca. Non ci aveva fatto caso. «Be’ io... io non...» Guardò da un’altra parte, arrossendo. «Errare è umano, non è vero?»
Albert le sorrise. «Sono contento di sapere che non sei un’aliena».
Un autobus interruppe il silenzio, strombazzando contro un camion che aveva bloccato l’uscita dalla fermata.
«Buffo, eh?» sorrise Claire.
«Cosa?» domandò Albert guardandosi intorno.
«Quell’autobus assomiglia proprio al nostro, non trovi?» trillò.
Albert strinse la sigaretta tra le dita, sbriciolando leggermente l’estremità. «Porca puttana. Quello è il nostro autobus!» Gettò la sigaretta a terra, ancora fumante e con un luccicore rosso che non si spegneva. «Muoviamoci! Se perdiamo questo siamo fregati!»
Claire recuperò zaino e valigia, che aveva lasciato appoggiati a un muro, e lo seguì di corsa, stando attenta a pestare ben bene il mozzicone lasciato acceso.
«Lo sapevi che potevi far saltare in aria il benzinaio qui vicino se io non avessi spento la sigaretta?» gli urlò dietro.
«Al diavolo la sigaretta. Muoviti o lo perdiamo!»
Riuscirono a salire appena in tempo e a trovare un posto tra le prime file. Claire dovette essere aiutata per trasportare le valigie su per i gradini del mezzo.
Il viaggio fino al collegio delle Luna Nuova fu il più estenuante nella vita di Albert.
Dopo essere sceso a diversi chilometri più a nord dovette percorrere una lunga strada a piedi fino al piazzale indicato agli studenti che non erano del luogo. Chiunque proveniva da fuori sarebbe stato accompagnato con il pullman della scuola fino all’edificio. E si poteva dire che tutti provenivano da fuori perché era evidente che la scuola era nel mezzo del nulla più totale.
Il luogo dove era previsto la riunione era già affollato. I tipi riuniti lì non avevano niente in comune l’uno con l’altro. C’erano quei tipici ragazzini d’élite con la puzza sotto il naso, altri che sembravano appena usciti da una lite nel Bronx, sfigati secchioni, ragazzine impegnate a incipriarsi il naso e sparlare degli altri.
Albert era confuso. Una donna con la coda di cavallo bionda e due seni enormi che sporgevano dalla camicetta semitrasparente degnò di un’occhiata altezzosa i neoarrivati.
«Eccovi qui. Manca solo Riley e saremo al completo». Albert si mise in disparte, vicino all’unica adulta nei dintorni ma abbastanza lontano dai suoi coetanei. Claire gli venne dietro come un cagnolino fedele.
«Non mi piacciono queste persone» gli bisbigliò.
Albert assentì in totale accordo con lei. Nessuna di quelle persone sarebbe potuta essere un suo amico.
Un ragazzo di colore dai capelli fino alle spalle entrò nel piazzale con un Eastpack sulle spalle. Fece un segno di saluto con indice e medio ai presenti e guardò la donna.
«Ecco Riley» disse lei. «Possiamo partire». Fece una “V” sul suo taccuino e fece salire quella cinquantina di ragazzi sul pullman.
«Ma non dovremmo essere di più?» chiese Riley.
La donna lo guardò infastidita. «Questo è l’ultimo turno. Gli altri studenti vi aspettano già a scuola».
Si mise alla guida del mezzo e partì in quarta, inoltrandosi nella fitta boscaglia, tra luoghi bui e altri assolati. Nonostante la musichetta che usciva dagli altoparlanti degna di una sala d’attesa, il viaggio fu un incubo e Albert non fece che desiderare per tutto il tempo che quello fosse solo un incubo.
«Siamo arrivati!» tuonò l’autista dopo due ore interminabili. «La sottoscritta Katherine Foster vi dà il benvenuto al collegio della Luna Nuova!»


Nota dell'autrice: ecco il sesto capitolo! Avrei voluto introdurre di già il collegio e approfondire i ragazzi nel piazzale ma se l'avessi fatto ne sarebbe uscito fuori un papiro lunghissimo che non avrebbe letto nessuno perciò mi limito qui. Potete consolarvi pensando che nel prossimo capitolo è sicuro al 100% che si parlerà della scuola, ma dal punto di vista dei demoni!
Dalla parte del secondo viaggio in autobus ero stanchissima e perciò mi è venuto un obbrobrio indegno di me ma volevo sbirgarmi a postare questo capitolo dato che è da un po' che non aggiorno. Perdonatemi per questa schifezza, se non lo farete Claire verrà a casa vostra e vi stenderà con le sue lunghiiiiiiiiiiissime parlantine.
Adoro la parte in cui Claire sembra una stupida quando parla dell'autobus. Mi sa che adoro la piccola e incompresa Clairuccia.

ATG

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Capitolo 7
*** Vento gelido ***


7. Vento gelido
 
La gelida sera si abbatté sulla terra brulla intorno la scuola, invadente, penetrando fin nelle ossa dei presenti. Al contrario, però, degli umani che sarebbero giunti poche ore dopo, quegli esseri non ebbero l’istinto di coprirsi con le loro costose pellicce o di stringere le braccia al petto in un vano tentativo di riscaldarsi. Non erano in ciò che si definisce a proprio agio ma erano in trepidante attesa che i cancelli venissero aperti e scoprire il luogo dove avrebbero trascorso il resto dell’anno.
Quell’insieme di persone era una diversa dall’altra ed erano tutto fuorché umani. Occhi rossi illuminavano la notte come braci ardenti; delle ali scure come pece fremevano, sollevando le foglie degli alberi vicini; unghie lunghissime spezzavano l’aere con violenza; denti più bianchi dell’avorio rilucevano indirettamente a causa della luna.
Tra quell’accozzaglia di gente c’era però una minoranza di individui dall’apparenza normale. Tuttavia i presenti non riconoscevano alcun odore umano che li pervadeva; non era avanzato nella mente di nessuno che quelli fossero intrusi. Una di queste persone era Haruki e si guardava intorno con disagio. Lei non riusciva a mostrare in quel modo tanto normale i suoi poteri, le costava uno sforzo, doveva persino arrabbiarsi per rivelare la propria forza. Ed era questo il motivo per cui lei era là: diventare come gli altri.
Una formosa donna bionda li teneva tutti sott’occhio: l’unico movimento accettato era l’estensione del torace per respirare l’aria frizzante che ghiacciava i muscoli del naso.
Finalmente l’accesso venne consentito; i cancelli si aprirono lentamente e la folla di ragazzi si riversò dentro. L’interno della scuola era come un mondo a parte: comparato al terreno esterno, che presentava rade chiazze d’erba, quella si poteva definire una serra. Il prato era folto ma ben tenuto e piante strane e esotiche decoravano il parco esterno.
Appena gli studenti solcarono il confine una strana sensazione indefinibile si abbattè su di loro. Non era l’aria più fredda poiché, anzi, essa era più calda e pareva accogliesse i nuovi arrivati. Era altro, invece, che solo alcuni avevano notato. Era la sensazione che l’etere fosse più pesante e che schiacciase i corpi verso terra.
Haruki e gli altri che non si erano mostrati, come lei, affannarono per un acuto senso di dolore. Haruki chinò la testa e lacrime rosse le rigarono il volto mentre le mandibole urlavano di dolore e venivano squarciate da denti affilati come pugnali, che fuoriscivano dalle labbra. Gli occhi ardevano come se fosse divampato un incendio dentro essi impossibile da spegnere. Le mani tremavano; pareva che le ossa si rinsaldassero l’un l’altra, fortificandosi.
Quando i presenti straziati dal dolore rialzarono la testa si sentirono invasi da un nuovo potere; una nuova forza si era scatenata dentro di loro: era come se un macigno depositato sul torace si fosse finalmente dissolto, lasciandoli liberi di respirare.
Haruki non si era mai sentita così: era una sensazione ignota, dalle sfaccettature oscure, ma liberatoria. La notte pareva più luminosa e viva; come un miope che indossa le lenti, la loro vista era più definita.
Solo in quel momento Haruki si rese conto delle aure emanate dai suoi futuri compagni e gli odori che contraddistinguevano ogni creatura, ma ognuno le era sconosciuto. Era tutto nuovo per lei e, nel profondo, si pentì di aver fatto tante storie con sua madre. Forse ne valeva la pena... Sarebbe stato un sacrificio che avrebbe portato dei frutti, anche se non credeva fosse così semplice e immediato.
Alcuni odori erano sgradevoli mentre altri erano come un balsamo per i nasi intirizziti dal freddo; essi, però, si compensavano in modo tale che nessuno provasse fastidio.
Il parco dell’entrata era piccolo, come un ingresso in una casa, che deve accogliere gli ospiti ed essere una via di passaggio per accedere alla dimora.
Una donna uscì dall’oscurità e si avvicinò ai presenti. Indossava una mantella rossa e la lunga treccia scura che fuorisciva da essa contribuiva a farla sembrare uscita da un libro di fiabe. Il suo volto era in ombra; gli unici contorni riconoscibili erano quelli di un paio di discreti occhiali da sole, superflui in una nottata così buia.
«Benvenuti» annunciò, attirando la completa attenzione di tutti i giovani. I loro sguardi si posarono su di lei, come attratti da una potente calamita. «Non ho intenzione di farvi rimanere molto qui fuori perciò sarò breve. Le regole in questa scuola sono poche ma chiunque le violasse dovrà incorrere a pesanti conseguenze. Prima di tutto, è vietato uscire dalla scuola per qualsiasi ragione. Potete considerare la vostra casa il lato Ovest ma tenete presente che il lato Est è destinato agli umani. Non ci sono orari per i pasti e siete completamente liberi di fare ciò che volete ma non dovrete lasciare tracce della vostra presenza. Nei primi due mesi non è permesso uccidere gli umani; vi saranno comunicati i momenti opportuni appena sarà il momento».
Si levarono dei brusii interdetti e una creatura che, dall’aspetto, pareva una ragazza di colore con curve da ventenne incrociò le braccia e borbottò un commento malevolo alla sua vicina.
«È proibito attaccare con lo scopo di uccidere i compagni. Questo è tutto, per ora. Le lezioni cominceranno domani alle venti e quarantacinque nel Parco Sud». Detto ciò la Preside si dileguò in un batter di ciglia e nessuno avrebbe saputo dire se fosse svanita o più semplicemente sgusciata dentro.
I ragazzi misero in spalla i propri bagagli, avviandosi all’entrata.
Haruki chinò la testa e prese la valigia che aveva lasciato sul prato. Era molto più leggera di quando era partita e si stupì maggiormente degli effetti di quella scuola. Già la metà degli studenti si era fatta strada verso l’interno mentre altri si trovavano in fila o erano rimasti fuori a guardarsi intorno.
Haruki non aveva intenzione di mischiarsi a quella calca perciò aspettò accanto alla scura muraglia che circondavava la scuola, distante dalla porta d’entrata.
Un bizzarro ragazzo con un bagaglio, che consisteva unicamente in un logoro zaino scolastico, girava intorno, guardando le ombre che si allungavano dalle mura e dagli steli delle piante. Aveva capelli castani foltissimi che si elevavano dal capo di diversi centimetri e nascondevano del tutto le orecchie. C’era qualcosa che si muoveva tra i capelli, facendoli ondeggiare a tratti.
Il ragazzo notò Haruki, si mise le mani nelle tasche dei jeans e si avvicinò con passo volutamente lento e strascicato. Il suo abbigliamento era assurdo, considerando che indossava solo una canottiera rossa, che non riusciva a nascondere gli svilupatissimi pettorali.
Ciò che Haruki pensò di primo acchito era che quel tipo era davvero peloso. Le sopracciglia erano dei cespugli incolti, come i peli sotto le ascelle e quelli sul busto. Gli zigomi erano punteggiati da una nascente peluria. Ma, nell’insieme, si poteva definire un bel tipo. Poteva sembrare un ragazzo normale se non fosse stato per quegli occhi rossi che tendevano al giallo e una pupilla sottile che scindeva l’iride a metà.
«Ciao, bella» si approcciò lui con un sorriso ostentato.
Haruki lo fissò con insistenza ma senza rispondere. Lui era sempre più vicino e una parte di lei era in panico per il diminuimento della sua area di privacy.
«Che ci fai qui? Non dovresti entrare?» le domandò.
Lei dimostrò le emozioni di una statua di marmo, continuando a rimanere impassibile e tenendo sott’occhio la fila che andava a diminuire davanti all’ingresso.
«Vuoi che ti aiuti a orientarti? Questa scuola è un vero labirinto, fidati. Mio fratello studiò qui e il suo primo ricordo della scuola è di una mazza chiodata in testa. Si era totalmente perso e dovette rimanere due giorni in infermeria».
La prima cosa che venne in mente ad Haruki fu Abbiamo un’infermeria? Come può qualcosa di così normaleesistere in un luogo così assurdo? Questa sensazione di normalità le diede sollievo solo per un attimo finché non si ricordò di avere un ragazzo invadente di fronte a sè. Una cosa, però, lui l’aveva azzeccata: era lampante che la scuola fosse gigantesca e c’erano buone probabilità che Haruki si sarebbe persa. Sarebbe stato meglio non accettare il suo aiuto ma non aveva altre alternative.
«Okay. Portami ai dormitori» si limitò a rispondergli.
Lui sorrise, come se fosse riuscito a vincere una partita a baseball, e si presentò, mentre percorrevano lo spazio verso l’androne. «Io sono Freak. Tu?»
«Haruki» borbottò lei in risposta, sperando che le sillabe appena pronunciate non gli fossero chiare.
«Bene, Haruki. Ti divertirai in questa scuola. La cosa migliore è la caccia: gli umani che arrivano qui sono uno migliore dell’altro!»
Il fastidio per la comprensione del nome venne messo in secondo piano dalla questione di “uccidere gli umani” trattata con tanta nonchalance. Per Haruki era stato interpretato sin dall’infanzia quasi come un gioco; era come un’acchiaparella dalla quale doveva uscire sempre vincente, ma si doveva dare l’opportunità all’avversario di una rivincita perciò l’umano in questione veniva sempre lasciato in vita e spesso gli venivano sottratti i ricordi incriminanti.
Con quella frase, era evidente che Freak godesse dal fare una carneficina e non mostrare pietà a nessuno di loro. Che razza di mostro poteva essere per mostrare tanta spietatezza? Di certo non era un vampiro. Il suo odore non contribuiva a identificarlo ma Haruki era certa che non era gradevole.
Avrebbe voluto scoprire chi era davvero il suo interlocutore per sapere come comportarsi. Lui aveva questo vantaggio su di lei: era ovvio che lei fosse un vampiro, le zanne erano inequivocabilmente vampiresche.
Nell’androne Haruki si rese conto che non tutti gli studenti si stavano dirigendo ai dormitori ma si erano sparpagliati. Era davvero notevole la libertà che veniva concessa, visto che si poteva andare dove si voleva quando si voleva!
Freak le tese la mano ma Haruki ignorò il gesto. Salirono le scale. Le valigie superavano i gradini di pietra con fatica, emettendo un fastidioso tonfo ogni volta. Mentre alcuni studenti proseguirono a salire, Freak prese un corridoio dal quale si aprivano diversi archi nel muro.
Haruki fu sollevata di vedere finalmente una strada dritta dove il suo trolley non avrebbe creato problemi. Il ragazzo si fermò davanti a lei e, con un sorriso sghembo in viso, si girò per guardarla in viso. «Dammi la valigia».
Haruki lo ignorò e proseguì. Lui non si spostò e, appena lei fu abbastanza vicina, le strappò la valigia di mano.
Lo guardò con gli occhi sgranati, interdetta da quella reazione improvvisa, che la lasciò impietrita per pochi istanti, sufficienti perché lui ne approfittasse. Gettò la valigia a terra e afferrò Haruki. Fu questione di un attimo, neanche il tempo di rendersi conto della situazione, che si ritrovò a terra in un’aula all’interno del corridoio. Nessuno avrebbe potuto vederli, a meno che non attraversassero il corridoio.
Freak era a ginocchioni sopra il corpo disteso di Haruki e le mani si mossero verso la canottiera sotto il maglioncino lilla. Era ovvio ciò che sarebbe successo dopo e la reazione di Haruki: lo shock e il panico l’avrebbero inchiodata a terra, incapace di agire.
Ma la ragazza che era entrata al collegio della Luna Nuova si era lasciata la vecchia sè umana alle spalle – scelta compiuta senza neanche il suo consenso – e non aveva intenzione di lasciarsi violentare dal primo depravato di turno.
Gli occhi rossi sfavillarono e la bocca si spalancò mettendo in mostra gli affilati canini. Riuscì a utilizzare le mani libere per premere all’altezza del torace di lui e scaraventarlo da un’altra parte. La nuova forza che possedeva le consentì di farlo scontrare con la dura parete della stanza.
L’urto di Freak lasciò una crepa sulla parete e lo fece crollare a terra, probabilmente con qualche vertebra incrinata, che si sarebbe presto sistemata. Haruki si risollevò in piedi in un balzo e riuscì a notare lo sguardo di Freak. Le palpebre erano assottigliate mentre il fiato usciva in sospiri dalle labbra sottili. Solo in quel momento Haruki si rese conto che gli occhi di Freak non erano rossi con sfumature gialle. Erano gialli con riflessi color vermiglio.
Di nuovo la misteriosa cosa tra i capelli li fece muovere. Si poteva intravedere solo la punta di un qualcosa dalla forma di un triangolo peloso dell’identico colore dei capelli.
Haruki, nonostante non capisse cosa fosse il suo aggressore, lo guardò con aria di sfida e sufficienza.
«Non sai cosa ti sei persa» commentò lui, rimettendosi in piedi.
Haruki sollevò un sopracciglio e lo guardò con incredulità. Persa? Stava scherzando, vero? Come avrebbe potuto rimpiangere di non essere stata stuprata?
«Vai a trovarti qualche troietta per i tuoi bisogni sessuali» commentò, acida. Si sentiva maledettamente strana quel giorno. Non era da lei commentare così. Non era da lei tutto ciò che aveva compiuto quella giornata.
Una ragazza si sporse dall’apertura nel muro e analizzò la situazione. I tre si scambiarono degli sguardi di intesa, stupore o fastidio. Haruki uscì dalla stanza a larghi passi mentre l’intrusa entrò nella stanza. Era la ragazza dalla pelle color moca che aveva commentato malevolmente le parole della Direttrice.
I due si avvicinarono, lui ruggendo, emettendo un suono gutturale. Lei mettendo in mostra le unghie impossibilmente lunghe, che le sfioravano le gambe nude.
 
Esse lasceranno solchi profondi sulla pelle di lui, come farà lui con lei.
 
Haruki rettificò il suo pensiero precedente: c’era troppa libertà in quella scuola... Sarebbe riuscita, con le sue sole forze a sopravvivere?

 
 
 
Nota dell’autrice: ehm... ecco finalmente il nuovo capitolo! Alla fine non sapevo come concludere in maniera “pulita” senza entrare nel sadomaso, ma vi lascio immaginare! Scusate se pubblico solo adesso; l’unico lavoro che ho fatto oggi è stato aggiungere cinque righe – è un gran problema decidere come far finire un capitolo! Il problema è che su EFP non posso scrivere capitoli eccessivamente lunghi altrimenti nessuno avrebbe voglia di leggerli... Il prossimo capitolo sarà sempre dal punto di vista demoniaco, dato che non ho ancora finito di raccontare il clima della scuola! Non so quanto presto rivedremo Albert e co. Vi lascio con un po’ di suspense!
Tengo a precisare tre cose, di cui forse non vi sarete resi conto: la bionda che sorveglia i ragazzi all'entrata è la stessa che fa da autista ai ragazzi nello scorso capitolo; nonostante la Direttrice sembri saper dire solo "benvenuti" non vi preoccupate, non sarà una tipa da sottovalutare! Freak, anche se non ha senso come nome, esiste: l'ho trovato su Internet!

Ah, un’altra cosa: se non si fosse capito, questo è una sorta di flash-back, cronologicamente parlando ci troviamo prima della situazione del capitolo precedente! Infatti, prima vanno i demoni nella scuola, poi i ragazzi umani.
Non credo che prima del 25 pubblicherò un nuovo capitolo, perciò vi auguro tanti “mostruosi” auguri!

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