P A R A L L E L S

di DonatellaR
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** Scena I, Atto I. ***



Capitolo 1
*** Premessa ***


Salve a tutti i lettori, gli appassionati, i neofiti e non di questa storia! Vi avviso che ho pubblicato Parallels come libro cartaceo su un altro sito e per questo sono stata costretta a ritirare la versione intera. Ho lasciato le prime pagine a ricordo e a testimonianza del suo passaggio su EFP ;). Il gruppo su Facebook ora è aperto e chiunque può andare a sbirciare curiosità su personaggi, luoghi e ispirazioni: www.facebook.com/groups/parallelsbydona86/
Alla prossima! :D



 

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P A R A L L E L S










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Last night I dreamed about you. What happened in detail I can hardly remember, all I know is that we kept merging into one another. I was you, you were me.
Frank Kafka


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P R E M E S S A



 
Ritengo doveroso fare degli appunti di livello tecnico.
Non sono mai stata all’interno dello Shakespeare Globe Theatre e mi scuso per l’inaccurata descrizione degli interni. Mi sono aiutata con foto e con molta immaginazione. Lo stesso vale per la fantomatica accademia teatrale che appare nel corso della storia. Non ne ho mai frequentata una e mi sono documentata per quanto possibile sulle modalità di insegnamento, cercando di farle sembrare credibili.
Per quanto riguarda i testi, mi sono basata sull’edizione di Re Lear della Garzanti, ristampa del 2010 e su quella della Bur Rizzoli de Le Baccanti a cura di Vincenzo di Benedetto, ristampa del 2000.
Il resto delle citazioni ha come fonti Wikipedia inglese e italiana.






















CORO


Le nostre sono vite in parallelo.

Viviamo nello stesso lasso di secolo, trascorriamo la nostra esistenza nello stesso stato, ci alziamo ogni mattina nella stessa opalescente città.
Incrociamo, sfioriamo, interagiamo e respiriamo condividendo, inconsci, le nostre esistenze con milioni di noi.
Ci crediamo diversi, ci ergiamo al di sopra degli altri, ci abbassiamo al di sotto di loro a seconda dei nostri grandi e piccoli problemi. Siamo identici nella nostra ignoranza del prossimo. Nel pensiero ossessivo e costante che la nostra condizione sia migliore o peggiore dell’altro. Ci paragoniamo e apportiamo ai nostri simili in maniera paranoico-compulsiva.
Non ci vediamo sul serio.
In metropolitana, in autobus, in taxi non osserviamo chi ci sia veramente di fronte. Proiezioni dei giudizi della nostra mente. Gli occhi sbarrati nel vuoto delle luci al neon, siamo già catapultati negli obiettivi del nostro futuro imminente quasi presente.
Siamo più vicini di quanto crediamo e più lontani di quanto pensiamo.
Corpo, testa, cuore, lombi.
Questa è una storia di medesime passioni e aspirazioni.
Di un uomo e una donna.
Di due giovani adulti.
Di due vite parallele.
E della medesima città.

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Capitolo 2
*** Scena I, Atto I. ***


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ATTO I

Scena I



Abigail
Moorgate


Quando arriva alla sua fermata è sempre sull’orlo di perderla.
La mattina presto alle sette si impone di non addormentarsi ma è un’impresa impossibile su una linea così lenta. Si incanta sul palo limone davanti a lei, il capo ciondolante su un braccio, i capelli color filigrana sparsi a raggiera sul sedile.
In una Londra dove tutti corrono affannandosi agli sportelli d’uscita della metro, Abigail va lenta. Verso un lavoro nel quale non prova alcun entusiasmo e che deve mantenere per pagarsi gli studi all’accademia teatrale, unica fonte di energia in grado di porle le ali ai piedi. Scalpita, si dimena, percorre le scale mobili a due a due, leggera come se fosse la scalinata di un palazzo e dovesse andare ad un ballo. Appena irrompe nell’atrio c’è Mrs Jones ad accoglierla con un “sei quasi in ritardo” letto sul fondo degli occhi, gli occhiali da lettura che scivolano sulla punta del naso. Abigail sbuffa e corre a spalancare la porta dell’aula di prova grande come una palestra , gli sguardi dei suoi compagni che si voltano all’unisono e lei che diventa rossa per la vergogna di aver fatto i soliti cinque minuti di ritardo, dato che la Circle non fa sconti a nessuno. Il suo insegnante le lancia uno sguardo indifferente, di uomo abituato ai ritardatari cronici e la fa filare a cambiarsi con un cenno.
Di frequente si scontra con gli alunni dell’ultimo anno.
“Scontrarsi” è mero eufemismo. Ode i passi nel corridoio, si arresta in all’erta e nell’istante in cui appaiono all’orizzonte si appiattisce contro il muro trattenendo il respiro, chiudendo gli occhi, guardando altrove. Lo sa che è da scemi, però alcuni di loro li ha visti recitare nello spettacolo di fine corsi e sono dei mostri. Lei se la cava ma di quel passo non si trasformerà mai in una di loro. La sua vita è troppo pragmatica. Ha fatto tre anni di infermieristica a Plymouth non ricorda manco per quale motivo quando avrebbe voluto studiare classici in una di quelle scuole altolocate a cui erano andate quelle giovani promesse che le stavano sfilando sopra al naso. Un folletto di un metro e settanta tra quegli elfi dinoccolati.
Moorgate, please mind the gap.
Costa Coffee arrivo.


Jamie
Bank 


Entra, il tramezzino enorme ficcato in bocca, il cellulare che squilla insistente. Nel caos della folla che si riversa sulla piattaforma per scendere pensa perché proprio il suo sia l’unico telefono mobile che prenda là sotto. Impreca strozzato mentre poggia il suo borsone accanto ad una fila di sedili e armeggia per rispondere, ingurgitare e ingoiare per cercare di articolare dei suoni comprensibili. Non fa in tempo. Chiunque sia, ha riattaccato.
- F…- la parolaccia si arresta a mezz’aria. Una vecchietta lo fissa assassina in trasversale. Sembra essere pronta a saltargli addosso per bastonarlo con la sua copia stropicciata dell’Evening Standard.
Si gratta la nuca imbarazzato inarcando le sopracciglia in giù in segno di scusa. Ripone la restante metà del tramezzino nel contenitore di plastica, il retrogusto di mostarda fredda che si stacca a fatica dal palato. Si china sul borsone a gambe divaricate per mantenere un equilibrio sul treno in corsa, si scansa dei riccioli biondo cupo soffiando e apre la chiusura lampo. Accantona il cibo, afferra la bottiglia dell’acqua tirandosi su. Beve avido e guarda il display. Il numero ha il prefisso londinese però non gli ricorda nulla.
Dovrebbe richiamarlo.
Uno scossone del mezzo per poco non lo fa ruzzolare a cavalcioni per terra. Si raddrizza, impacciato nel suo metro e ottantatre. Può scorgere gli strati di polvere tra gli interstizi dei passamanico in alto di fronte a lui.
Sospira. Quel treno gli sembra così piccolo e la sua città natale comincia a stargli stretta.
Infila il telefonino nella tasca posteriore dei jeans.
Ad un tratto la stanchezza gli è crollata sulle spalle, le scapole tirano sotto la maglietta come se gli volessero spuntare dei prolungamenti scheletrici da un momento all’altro. L’insegnante del quinto anno di accademia ha spinto allo stremo il metodo Stanislavskij e calarsi in un personaggio è come una debilitante seduta psicanalitica. Persino ora, tra le persone e le luci, è difficile staccarsi l’ultima maschera dalla carne. Il pensare a cose pratiche lo aiuta a far sgattaiolare il personaggio nella penombra. A casa se lo laverà di dosso con una doccia rilassante ma le sensazioni rimarranno e gli faranno visita quando meno se lo aspetta. Capita quando ci si infila in una pelle aliena dalla propria forma mentis. E’ disposto ad accettarlo per sentirsi vivo, in contatto con la gente, andare incontro alla sua natura esploratrice e curiosa.
Guarda la scritta arancione sulla tabella nera di scorrimento.
Mancano due fermate a Richmond.

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