Ricordi di scuola di eos75 (/viewuser.php?uid=15191)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** epilogo ***
Capitolo 1 *** 1 ***
Prima
di cominciare, una piccola premessa: questa ff è dedicata ad Ada, che in periodo
piuttosto nero, mi ha spinta e convinta a continuare a scrivere, dandomi le
sacrosante botte in testa che mi meritavo... Ed essendo dedicata a lei, fan di
CT e del Signore degli Anelli, vi troverete degli accenni ed un passaggio tratto
da quel lavoro assolutamente fantastico di J.R.R. Tolkjen. Grazie ^^. Ma
devo ringraziare anche Chiara, Miki e Domenico, che ci sono sempre quando c'è
bisogno. E' anche grazie a loro se sono qui a pubblicare. Buona
lettura! Eos
Era sdraiato sull’erba, nel prato antistante i campi
da calcio della scuola, i libri abbandonati accanto a se ed il fedele cappellino
rosso abbassato sul viso. Ripensava a Parigi, alla vittoria, a quello che
avrebbe significato per quel che riguardava il suo futuro in squadra ad
Amburgo. Tutto ad un tratto il filo dei suoi pensieri venne interrotto.
Qualcosa aveva coperto i raggi del sole, facendogli ombra. “Ciao.” Sollevò la
tesa del cappello con un dito. Davanti a lui una ragazzina dai capelli lunghi,
castani, raccolti in una treccia, il viso seminascosto dall’enorme
montatura degli occhiali. “Ciao.” le rispose. Un sorriso
timido le illuminò il viso. “Tieni.” disse, porgendogli un quaderno
giallo. Il ragazzo si tirò a sedere appoggiandosi su un gomito ed allungò una
mano per prenderlo, con espressione interrogativa. “Appunti di storia e letteratura…
I temi che ci hanno assegnato per quest’estate sono impossibili da
svolgere senza le spiegazioni del prof. Dovresti leggerti daccapo tutti i testi
non obbligatori… E dopo il Torneo di Parigi e con gli allenamenti che ti
aspettano non credo ce la faresti…” Effettivamente era vero… Venendo dalle
scuole giapponesi, tutta la parte di storia e letteratura europee gli
mancavano. Nelle altre materie non aveva avuto alcun problema ma le umanistiche
lo avevano costretto a perdere un anno… “Beh… grazie.” “Figurati…” ancora
quel sorriso, mentre ritraeva velocemente la mano –“Sono io che ti devo ancora ringraziare…
se non fosse stato per te i miei libri sarebbero finiti nel
canale!” Il giovane fece spallucce “Michael e Lukas avevano bisogno che
qualcuno desse loro una lezione di educazione...” “Comunque, grazie
ancora!” In quell’istante l’orologio della scuola suonò le
quattro. “Accidenti! Farò tardi agli allenamenti! Ciao!” e così dicendo gli
voltò le spalle, correndo via con la treccia che le batteva sulla
schiena. “Te li restituisco al più presto!” le gridò dietro.
Lei si voltò, continuando a camminare veloce all’indietro “Non importa!
Quelli sono per te! Io ne ho una copia! Ciao!” e così dicendo lo salutò alzando una
mano, per poi voltarsi e ricominciare a correre. “Ciao…” la tesa del
cappello tornò a coprire gli occhi, solo un lieve sorriso piegò le labbra del
ragazzo, che si sdraiò nuovamente sul prato, riprendendo il filo dei propri
pensieri.
Odiava le conferenze stampa.
La partita era finita, avevano vinto, non c’era bisogno di dire altro, no?
Vero che
il campionato era praticamente terminato e che loro avevano già la vittoria in
tasca, vero che i Mondiali di Germania erano alle porte, ma non riteneva
necessario tutto quel can can. Si ritrovò accanto il biondo capitano, che gli
rivolse un sorriso di comprensione mentre un lampo divertito passava negli occhi
di ghiaccio. “Ok” pensò sospirando tra sè “Prepariamoci alla
battaglia…” Cominciarono: le solite domande al Kaiser e all’allenatore, le solite
battute sul fatto che era incredibile che un giocatore come lui provenisse
da un Paese che, notoriamente, non aveva storia nel calcio… Tutte le
volte la stessa solfa! Ad un tratto, una voce femminile si fece sentire sopra
le altre. Una bella donna, chiaramente orientale, mora, i capelli appena sopra
le spalle, lo sguardo castano vivace e brillante.
“Signor Wakabayashi, quali sono le intenzioni della Nazionale giapponese
riguardo ai prossimi Mondiali?” Un sorrisetto divertito si disegnò sulle
labbra di colui il quale veniva soprannominato SGGK... Conosceva molto bene
quella giornalista! “Sa benissimo cosa ne pensiamo, signora Nakazawa… Abbiamo
tutta l’intenzione di farci onore!” “Cosa pensa dei suoi compagni che
non giocano in Europa? Crede che il dislivello tra i giocatori, dal punto di vista
tecnico, vi metterà in difficoltà?” “Ritengo che la preparazione dei miei
colleghi che giocano in Asia non abbia nulla da invidiare alla nostra.
Semplicemente, non giocando spesso insieme, la Federazione Giapponese, come lei
ben sa, ha deciso di anticipare il più possibile il ritiro della squadra, in
modo da creare un’intesa perfetta tra gli atleti….” “Lei cosa
ne dice, Schneider?” chiese un altro. La giovane giapponese non distolse lo sguardo
da quello del portiere, il quale lo sostenne con espressione sprezzante. Al
termine della conferenza… “Nakazawa! Ti diverte tanto provocarmi?!” stava
guardando la giornalista a braccia conserte, il solito sorrisetto
ironico. “Piantala, Wakabayashi! Ammettilo che sono stata l’unica là dentro
a farti una domanda intelligente!” –gli era di fronte, le mani piantate ai
fianchi, lo sguardo diretto in quello di lui. Sul viso dell’SGGK si
dipinse un’espressione divertita “Come diavolo fa Tsubasa a sopportarti?” “Perché
non mi chiedi, piuttosto, come faccio io a sopportarlo?!” “Sempre la solita
Anego…” Negli occhi di lei un lampo divertito “Non cambi mai,
Wakabayashi!” “Anego?” Schneider era apparso alle spalle del
portiere. “Capo…” tradusse questi, sorridendo. “Azzeccato, direi!” convenne il
capitano, appoggiandosi con una mano alla spalla del compagno. Insieme fissarono la
giovane con sguardo divertito. “Ma sentili! Che razza di cavalieri,
siete! Non dimostrate minimamente di essere felici di vedere una vecchia amica!” li
scrutò ad occhi stretti, le braccia conserte ed un piede che batteva nervoso sul
pavimento. “Ma dai, Nakazawa, scherziamo! Certo che siamo contenti di
vederti! Anzi, stavo giusto per proporti una cena tra amici!” “Posso unirmi a voi?” chiese una voce morbida alle loro spalle. I due campioni si voltarono, trovandosi di
fronte ad una bellezza statuaria. Alta, corpo a dir poco perfetto fasciato squisitamente
da un elegante tailleur verde scuro. Il viso leggermente ovale, abbronzato
ma non troppo, sul quale spiccavano labbra carnose ed occhi azzurri
truccati con sapienza, era incorniciato da lunghi capelli rosso fuoco raccolti in una
semplice coda bassa. La gonna sopra il ginocchio lasciava scoperte un paio di
gambe davvero mozzafiato. “Wakabayashi, Schneider, vi presento il mio capo:
Angela Weiss,nuova direttrice responsabile di Sport & Sport qui in
Germania.” “E’ un onore conoscere finalmente di persona il
capitano della nostra Nazionale!” disse la donna tendendo la mano al Kaiser, il quale
fu sorpreso della stretta decisa. “Il piacere è solo mio, freuilain. Le
presento il miglior portiere della Bundesliga…” “Genzo Wakabayashi! Il
grande SGGK! Molto onorata!” e così dicendo tese la mano al portiere. Il quale la
strinse con espressione alquanto dubbiosa. Una donna direttrice di una
rivista sportiva così importante? Di donne che ne capivano veramente di sport ne
conosceva pochissime, anzi, forse una soltanto: Sanae Nakazawa!
La giornalista afferrò al volo il significato dell’espressione del vecchio amico
“Sai, Wakabayashi, Angela è stata due volte campionessa nazionale di
pattinaggio, ed ha sempre adorato anche il calcio! Direi che se ne intende
quanto e più di me!” “Allora, saremo ben lieti di avere freuliain Weiss
a tavola con noi stasera!” sorrise acido, mentre un lampo divertito passava
negli occhi neri. Per conquistare la sua fiducia, la bella direttrice avrebbe
dovuto faticare non poco! Si dovette presto ricredere: Angela Weiss era
davvero un’esperta di calcio. Conosceva atleti, allenatori, risultati, squadre.
Commentava con cognizione di causa partite ed azioni, ascoltando con interesse
le dissertazioni dei due campioni. La serata scorse piacevole. L’SGGK si
offrì di riportare in albergo l’amica, mentre il suo capitano e l’affascinante
direttrice tornavano alle rispettive dimore. “Non male, Angela, vero?” lo
stava guardando di sottecchi, per vedere la sua reazione. “Non male.”
nessuna emozione scompose il volto del giovane. “Wakabayashi, piantala!
Angela è stupenda! Non solo è una gran bella donna, è anche un’esperta di calcio
e sport in generale e…” “E?” La morettina sospirò “E’ tua ammiratrice da
sempre!” “E allora?” “Accidenti! Sei insopportabile!” e così dicendo
incrociò le braccia, rintanandosi nel sedile. Un sospiro uscì dalle labbra
del portiere “Ok, Nakazawa, ok! E’ una bella donna e ama il calcio. E allora? E’
una mia ammiratrice… onorato! E poi?” “Pensavo potesse interessarti! Visto
che sei solo già da tempo…” Era vero. In realtà il bel portiere aveva una
fila lunghissima di ammiratrici, che avrebbero dato l’anima anche solo per
un’ora con lui. Egli, da canto suo, non che le disprezzasse (certo, qualche
storia c’era stata, ma nulla di importante) semplicemente nessuna l’aveva mai
coinvolto in maniera seria. In fondo, non gli interessava. La sua vita era il
calcio, la sua famiglia, i compagni di squadra, aveva altro a cui pensare.
L’amore non era una delle sue priorità. Lasciò la ragazza
davanti all’albergo. Appena prima di scendere, lei si voltò, guardandolo negli occhi
con aria preoccupata “Non puoi passare tutta la vita così…” Le sorrise. Non
sarcastico né ironico come al solito. Riconoscente. “Non ti preoccupare,
Nakazawa, me la so cavare…” Per tutta risposta ricevette un bacio sulla
guancia. Tornò nella sua grande villa appena fuori Monaco. Nakazawa, in
fondo, non aveva tutti i torti. Era solo da parecchio tempo. Non che la cosa gli
pesasse, ma cominciava a sentire il bisogno di una presenza che riempisse quella
grande casa. Sospirò tra se mentre scorreva mentalmente i volti delle poche
donne con le quali poteva dire di aver avuto un rapporto serio. Alla fine
nessuna era risultata la donna della sua vita, nessuna aveva lasciato tracce
importanti nella sua esistenza. Nessuna gli aveva mai fatto battere realmente il
cuore. Si ritrovò ad invidiare un poco Tsubasa e Sanae… La loro storia aveva
avuto un inizio tormentato, ma si era risolta nel migliore dei modi. Erano
felicemente sposati, avevano un figlio stupendo e, tra un ritiro ed un altro,
stavano pensando di metterne in cantiere un altro… Richiuse la pesante porta
alle sue spalle. L’atrio era buio, filtrava solo la luce dalle grandi finestre
della sala. Avrebbe desiderato, si, una donna che l’accogliesse a casa, con la
quale condividere gioie e sconfitte. Una donna da amare. Chiuse gli occhi e,
sospirando, scosse il capo. Aveva altro a cui pensare! I Mondiali si
avvicinavano e Karl sarebbe stato il suo avversario più temibile. Si riscosse e la solita espressione imperscrutabile ricoprì
il volto mentre saliva agilmente le scale.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** 2 ***
rds02
“Ehi, Hermann! Quanta fretta!” Il giovane
difensore tedesco aveva sistemato alla rinfusa la roba nel suo borsone,
chiudendolo in qualche modo, tanto che parte di un calzettone spuntava dalla
cerniera. “Sono in ritardo! Oggi devo recuperare Mel agli allenamenti! Se non
arrivo puntuale a prenderla mia madre mi scuoia!” Il biondino corse via,
sempre rischiando di perdersi parte della divisa per strada. “Forza
Hermann, sali!” Karlz si allungò ad afferrare la mano che il portiere nipponico gli
tendeva dall’autobus. “Grazie Wakabayashi!” disse affannato “Mi hai
salvato le piume! Se perdevo l’autobus, ero un uomo morto!” “Non ti pare di
esagerare? Al massimo saresti arrivato a casa con un quarto d’ora di
ritardo!” “Non è per quello!” rispose l’altro “Oggi
devo recuperare la mia sorellina agli allenamenti di pattinaggio. Se arrivo tardi, chi
la sente mia madre!” una strizzata d’occhio e il solito sorriso bonario “Visto che sei
di strada, ti va di accompagnarmi? Ci sono un sacco di belle ragazze!” disse con
uno sguardo d’intesa. Dal canto suo il giapponese scosse lievemente il capo,
calcandosi il cappello sugli occhi e lasciandosi cadere sul seggiolino dietro di
se, senza rispondere. “Allora? Scendi o no?” Hermann era sulla porta.
Quella successiva era la sua fermata. Il portiere non rispose, aveva le braccia
conserte ed il capo appena reclinato all’indietro, il viso coperto dalla
tesa del cappello. Quando le porte si aprirono, il tedesco scese,
scollando le spalle. In un attimo, si trovò accanto il giapponese, il quale con
uno scatto felino era sceso al volo dall’autobus ed ora gli camminava
accanto. “Cambiato idea?” Solo un sorrisetto accennato in
risposta. “Fratellone! Sei arrivato! Ciao, Wakabayashi!” Una ragazzina
biondissima, gli occhi azzurri enormi, più piccola del difensore di un paio
d’anni, gli si fece in contro attraversando il ghiaccio in un baleno. “Ciao
piccola! Visto che sono venuto a prenderti! Dai, vatti a cambiare che
andiamo!” “No, ti prego! Due minuti ancora! LEI sta per provare il libero!
rispose al fratello mentre si metteva il copri lame. “Beh… allora aspetto
volentieri!” “Mhmmm?” “Ah, già! Scusa Wakabayashi, dimenticavo! Aspettiamo
un attimo! Tra poco ci godremo un bello spettacolo!” “Sarebbe?” “Lena
Miller… E’ la stella della nostra squadra! Ti assicuro che vale la pena perdere
il pullman per lei…” In quell’istante una ragazza, che fino a quel
momento aveva fatto solo qualche esercizietto di riscaldamento, si portò al centro
della pista. Era vestita con una semplice tuta da allenamento nera, aderente,
decorata solo da un pattino luccicante di brillantini ricamato sulla schiena. I
lunghi capelli castani legati in una semplice coda bassa. Dava loro le spalle,
mentre si apprestava ad iniziare il suo esercizio. Le altre atlete le aveva
lasciato campo libero. La musica iniziò scoppiettante. I movimenti della giovane
ne seguivano il ritmo con raffinata eleganza. Volteggiava sul ghiaccio
con leggerezza, sul viso mille espressioni interpretavano quell’armonia.
Negli occhi… passione. Pura e semplice. Il mondo non esisteva. Si muoveva leggera
come l’aria, quasi una siloutte in controluce sul bianco abbagliante del ghiaccio.
Un salto. Perfetto. Sul suo viso un sorriso sicuro. Poi una trottola,
veloce, sempre più veloce! L’elastico che le teneva i capelli volò via. La
massa morbida color dell’autunno l’avvolse ribelle ma lei non si fermò.
Ricominciò a volteggiare sulla pista gelata come nulla fosse. L’attraversò compiendo
una serpentina su un appoggio solo, ad angelo. Gli passò davanti. I loro sguardi
si incrociarono. Un sorriso sulle labbra di lei. Poi nuovamente un salto, poi
subito un altro! Gridolini estasiati provenivano dalle ragazze che assistevano
all’esercizio. Quando si ricevette dal secondo Axel, di nuovo incontrò il suo
sguardo. Di nuovo gli sorrise. Era rimasto incantato a guardarla. Era lei…
Eppure pareva impossibile! Era così elegante, così agile, così sinuosa. Non
riusciva a staccarle gli occhi di dosso, attratto irrestibilmente da quell’armonia
che lei sprigionava. Poi, quel sorriso. No, non era rivolto a lui. Era
troppo intenta nel suo esercizio per averlo notato... Invece… no, di nuovo!
Questa volta gli occhi di lei lo avevano cercato, e quando avevano incrociato il
suo sguardo, un dolce sorriso le aveva illuminato il viso. Una strana sensazione
di calore gli pervase il petto, sentì il cuore battere un poco più accelerato.
Abbassò la visiera del cappellino, a nascondere il rossore che gli aveva
imporporato il volto. Sbirciò a controllare che il compagno di squadra non
avesse notato nulla. No, Hermann era tutto intento a seguire la ragazza che
continuava a disegnare ricami sul ghiaccio. La musica si spense. Le
ragazzine acclamarono la compagna, urlando e battendo le mani. Rivolse loro due
profondi inchini, per poi dirigere verso l’istruttrice timidamente, a occhi
bassi. “Non male, eh? Cosa ti avevo detto? Chi penserebbe che un tale topo di
biblioteca possa fare certe cose! Che ne dici?” Il portiere, per tutta
risposta, calcò ancora di più il cappello sugli occhi, facendo
spallucce. “Brava…
Molto, molto brava…” sussurrò, voltandosi appena ad
osservare la ragazza, mentre usciva dal palazzetto seguendo l’amico.
Calda luce soffusa, un pianoforte che intonava un lento
blues in sottofondo, ottimo vino rosso, italiano, accompagnato ad una cena
assolutamente squisita. Quell’atmosfera raffinata abbinata ad una sensazione
come di tempo sospeso. Amava concedersi quei piccoli lussi, staccando in qualche
occasione dal mondo cameratesco del calcio e della squadra. Se poi la serata
era allietata dalla piacevole presenza di una bella donna, meglio
ancora. Alla fine Nakazawa aveva vinto. Sorrise tra se, pensando alla giovane moglie
del suo migliore amico: dolce, gentile e… tirannica! Lo era sempre stata.
Tranne che con lui. “Anego” non si era mai scontrata con l’SGGK. Si erano sempre
rispettati e guardati da lontano, come cane e gatto. Ma quando Nakazawa partiva,
nulla la poteva fermare! E quella volta, l’onda aveva travolto pure lui. In
fondo, le doveva un favore. Lasciò scorrere lo sguardo sull’elegante
figura che gli stava di fronte: la mano sottile e perfettamente curata sosteneva
il calice appena scostato dalle labbra carnose, truccate di rosso scuro. L’ovale
delicato del viso era incorniciato da lunghi capelli color della brace,
sapientemente raccolti in un’acconciatura semplice che lasciava libera qualche
ciocca di posarsi sulle spalle nude. Occhi di un azzurro profondo, intenso,
magnetico. Spesso si era trovato in compagnia di donne altrettanto belle, era
vero, ma Angela Weiss aveva qualcosa di speciale. Nakazawa aveva ragione, il suo
capo non era solo una splendida donna, era dotata di un’intelligenza vivace, di
quell’ umorismo sottile che sconcerta e seduce gli uomini che lo sanno cogliere
e, soprattutto, amava e parlava con cognizione di causa di quello sport che da
tempo aveva preso il posto della sua famiglia. A conti fatti, era soddisfatto
di aver ceduto alle continue pressioni della sua vecchia amica. Alla fine aveva
dovuto arrendersi, incastrato anche dal manager della squadra che lo aveva
obbligato a quell’intervista con la direttrice della più famosa rivista di sport
venduta in Germania. E l’intervista si era magicamente trasformata in un invito
a cena… Angela si era presentata avvolta in un abito in seta nero che le
lasciava scoperte le spalle e metteva in risalto con sapienza le curve di quel
corpo che pareva modellato da un artista. Ne era rimasto piacevolmente colpito,
certo, ma aveva temuto che quella serata avrebbe preso la solita piega… La
giornalista lo aveva invece sorpreso nuovamente e, dopo i convenevoli di rito,
era passata immediatamente al motivo di quell’incontro: l’intervista al miglior
portiere dei Mondiali di Germania. Aveva silenziosamente tirato un sospiro
di sollievo. Non era assolutamente sua intenzione passare la serata con
l’ennesima cacciatrice di uomini e soldi. “Non le sembra fuori
luogo essere considerato il miglior portiere dei Mondiali, dato che la vostra
squadra è arrivata solo fino ai quarti?” una domanda del genere, normalmente, avrebbe
ottenuto una replica sprezzante e tagliente. Posta da lei, in maniera così
semplice, diretta, senza alcun tipo di doppio senso, accusa o giudizio, lo aveva
portato a riflettere e rispondere in maniera serena e sincera. “No,
non mi pare poi tanto strano. Ho comunque subito una sola rete, a differenza
dei miei colleghi che pur portando le loro squadre in semifinale e
finale, hanno incassato molti più goal.” era la pura e semplice verità. Anche se quel solo,
maledettissimo goal era costato caro alla sua Nazionale… Per un istante fu
fuori da quella sala, catapultato dai ricordi tra i pali dello stadio di Monaco.
Quello stadio che lui, ormai, considerava quasi come casa sua. Udì il boato del
pubblico, le voci dei compagni in campo, rivide quell’ultima, dannatissima
azione. La sfortuna che li aveva perseguitati per tutta la partita nuovamente
aveva beffato il loro capitano. Il suo tiro era stato deviato in extremis da
Kalz, andando ad infrangersi sulla traversa ma la palla era tornata in gioco, in
mano avversaria. L’armata teutonica si era riversata nella loro metà campo,
travolgendo la difesa. Aveva respinto Schneider. Aveva respinto Margas.
Ma la fortuna non era dalla loro quella sera. Karl si trovava in una
posizione assolutamente improbabile per tirare. Si svolse tutto in una
frazione di secondo. Era ancora a terra dopo l’intervento sul tiro di
Manfred. Incrociò lo sguardo con quello gelido del Kaiser e vi lesse
determinazione. E una disperata voglia di vincere. Karl agganciò la palla e
tirò al volo. Sapeva di non poterci arrivare, ma saltò ugualmente, con
tutta la sua forza e sfruttando tutta la sua agilità. Mancò la sfera di un soffio
e pregò che non entrasse in rete, angolata com’era… Ma il fischio
dell’arbitro infranse le sue speranze mentre si rialzava da terra. Tre colpi di
fischietto ed il sogno nipponico di vincere i Mondiali fu definitivamente
spezzato. “Certo, quella rete vi costò molto cara. A distanza di quasi
tre mesi, a mente fredda, ha dei rammarichi riguardo quella partita?” la domanda lo
riportò alla realtà. Avvertì gli occhi azzurri della donna fissi su di lui, e si
chiese come lei avesse potuto leggergli dentro a quel modo. No, non provava rammarichi
per quella partita. Avevano giocato splendidamente, erano stati assolutamente
all’altezza dei loro avversari, se non, addirittura, in molte occasioni
del tutto superiori. Ma nel calcio conta molto anche la fortuna. E loro,
lui, non ne avevano avuta. No, l’unico rammarico stava in quella promessa non
mantenuta... In fondo però, chi gliel’aveva fatta, non aveva
colpe. Accostò l’ampio calice alle labbra, lasciando che l’aroma caldo del
vino gli stordisse i sensi per un secondo, per poi far sì che il gusto deciso ed
un poco violento dell’alcol lo riscotesse. Puntò il suo sguardo scuro e
penetrante in quello di lei, quasi trafiggendola. Si accorse del suo trasalire.
E si accorse pure di quella sottile crepa che aveva visto fendere la maschera di
fredda professionalità indossata dalla donna. Sorrise, implicitamente
soddisfatto, scostando il bicchiere dalla bocca e preparando una risposta
calibrata. Aveva ripreso il controllo della situazione. Non amava sentirsi in
scacco, e per quanto Angela l’avesse piacevolmente sorpreso, preferiva comunque
essere lui nella parte del gatto… “Nessun rammarico. Giocammo dando il meglio
di noi stessi e non abbiamo nulla da rimproverarci. Tornammo a casa a testa
alta.” “Certo…” dovette riprendere fiato e distogliere lo sguardo. Non le era mai
capitato prima. Normalmente erano gli uomini a non reggere il suo, azzurro ma
non trasparente, profondo, indagatore. Aveva creduto sarebbe stato così anche
in quella occasione. Invece aveva dovuto cedere. Non aveva creduto a quello
che le avevano raccontato di lui, dell’ascendente che aveva sul gentil sesso, del
magnetismo e del carisma che lo caratterizzava in campo e fuori. Lo aveva
incontrato una sola volta, prima dei Mondiali. Gran bell’uomo, sicuramente. Affascinante, intelligente,
di piacevole compagnia. Effettivamente in pochi le
avevano lasciato un’impressione tanto positiva. Quella sera, poi, si era dimostrato un
perfetto cavaliere, anche se piuttosto distaccato, ragion per cui aveva deciso
di girare subito la discussione sul piano professionale. Le dispiaceva un poco,
in fondo Sanae aveva spinto parecchio per l’organizzazione di quella cena, ma
all’inizio non aveva trovato gran chè interessante il suo intervistato. La sua
curiosità era stata stuzzicata da quello spiraglio che aveva notato aprirsi nella
barriera di ghiaccio di cui si faceva scudo, dopo che aveva accennato a parlare
dei compagni di squadra sparsi a giocare per il mondo. Aveva indagato,
sbirciato, dietro quella porta che, lo si capiva bene, era di solito serrata a
doppia mandata. Si stava gongolando, fiera di sé stessa. Con poche e mirate
domande era riuscita a carpire a quell’uomo, bestia nera dei suoi colleghi,
tante piccole informazioni che mai si sarebbe sognata di raccogliere. E
adesso? All’improvviso la porta le era stata chiusa di scatto sul viso. Si era
trovato scoperta come una bimbetta con le mani nella marmellata. Quello sguardo
di lucido alabastro nero l’aveva improvvisamente inchiodata. Il gatto col topo…
“Potrei dirle che gran dispiacere mi ha dato il fatto che non sia stata la
Gemania a vincere il Mondiale…” La voce profonda la risvegliò dalla marea di
considerazioni che l’avevano travolta. Risollevò gli occhi, trovandosi avvolta,
incatenata, in quelli profondi del giovane campione. Il calice era stato posato
e sulle labbra un sorriso accennato, lievemente ironico, diceva che l’uomo era
ben conscio di aver ripreso in mano le redini della situazione. Fu quel
sorriso a strapparla dal dolce oblio nel quale il fascino del portiere l’aveva
fatta cadere. Il suo orgoglio si riscosse, la maschera si ricompose e la
giornalista tornò all’attacco, decisa a giocare quella partita ad armi pari e
senza esclusione di colpi. Avrebbe portato a casa quell’intervista, facendo
schiumare di rabbia i colleghi uomini che non la ritenevano degna del ruolo che
ricopriva. “Ricordo una stretta di mano al termine di quella partita… Una
promessa, forse?” Il lampo che percorse la notte negli occhi dell’uomo le disse
che aveva fatto centro. Un punto a suo favore. “Una promessa… sì.
Una promessa non mantenuta. Ma non glie ne faccio certo una colpa.” era
compiaciuto. Non amava farsi intervistare, e le poche volte che aveva dovuto
acconsentire, le domande erano sempre state le stesse, insulse e banali. Quella
donna, invece, aveva centrato il punto. Non la solita storia del Giappone
rivelazione, del portiere rivelazione (quale rivelazione, poi? Lui era
considerato già da anni uno dei migliori estremi difensori della Bundesliga!).
Poche, chiare domande su quella squadra nata anni addietro, cresciuta grazie
alla caparbietà dei suoi componenti, che pur di migliorasi per realizzare il
loro sogno avevano abbandonato la madrepatria, spargendosi ai quattro capi del
mondo. Corrette erano state le sue osservazioni su quella partita, e su
quella stretta di mano… Karl, amico, compagno, capitano, gli aveva giurato
che avrebbe vinto quel Mondiale anche per lui, anche per loro. Per quegli amici
venuti da lontano a realizzare il sogno di una vita. Ma non era andata così.
L’unica, magra consolazione, consisteva nel fatto che quell’Italia che li aveva
travolti aveva poi sconfitto la Francia conquistando l’agognato
titolo. “Dunque… a tra quattro anni!” le dita sottili sollevarono il calice
in segno augurale, mentre l’azzurro degli occhi era percorso da un lampo di
soddisfazione. Aveva ottenuto quello che voleva. “Ai prossimi Mondiali…” un
cenno del capo e nuovamente un sorriso accennato, gli occhi neri che non si staccavano
da quelli zaffiro della donna. Provava gusto ad avere di fronte avversari
di quel calibro. Avversario… si, tale la riteneva! Angela Weiss aveva
fatto di tutto per scavare nel suo io. Non si era limitata ad intervistare il
portiere. Lei voleva conoscere e far conoscere l’uomo. Non amava quel genere
di interviste, di solito, ma… Angela era riuscita a toccare le corde giuste
senza risultare morbosamente curiosa come erano invece i suoi colleghi o peggio,
le sue colleghe. Forse per quello le aveva concesso più di ciò che non
avrebbe mai pensato di raccontare ad un giornalista. E, tutto sommato, la cosa
non gli dispiaceva. “E un punto a Sanae…” le labbra rosse piegate in un
sorriso divertito, accompagnato da uno sguardo di sensuale
complicità. “Già...” sorrise tra sé. Alla fine era lì anche per
quello… “Penso che domani le farò avere un mazzo di fiori e un biglietto
di ringraziamento.” non le sfuggì la sottile ironia e neppure l’implicito invito
a continuare la conversazione andando a trattare di tutt’altri argomenti.
Ringraziò mentalmente l’amica e si preparò per la nuova battaglia. Sarebbe stato
uno scontro piacevole, non ne aveva dubbi, con quell’uomo dal fascino magnetico
ma dall’animo riservato. Lei non si sarebbe accontentata di una conoscenza
superficiale, no. Vino dolce, greco, color dell’ambra accompagnò
l’ultima e più interessante parte della serata. Ricordi di quand’erano
ragazzini, l’amore per lo sport. La storia di una carriera in continua
evoluzione, costellata di vittorie e riconoscimenti, e quella di una carriera
interrotta. Dallo studio, dalle responsabilità e dagli incidenti. Si scoprirono
più simili di quanto pensavano. Un’ultima, maliziosa domanda. “Nessuna donna, in tutti questi anni,
che sia riuscita a far batter seppur per un secondo, il freddo cuore dell’SGGK?”
un sorriso seducente che intendeva chiaramente un doppio
fine. Soppesò con cura quelle parole. Soppesò la persona che aveva
davanti.
Ripercorse quella serata e le sottili emozioni che aveva provato ad
avere di fronte finalmente una donna che gli sapeva tener testa, come desiderava
da tempo. Ma… Si dovette arrendere all’evidenza. Scosse leggermente
il capo, socchiudendo gli occhi, la solita maschera sprezzante sul volto “No,
nessuna. Mai.” La verità. Pura e semplice. Non amava mentire e comunque non
ce ne sarebbe stata ragione. Eppure, il riconfermarsi di quella
consapevolezza era stata una stilettata fredda nel petto. “Peccato…” negli
occhi azzurri sincero dispiacere. “Vorrei farle leggere l’articolo prima di
pubblicarlo…” quell’affermazione improvvisa lo sorprese non poco. “Desidero solo avere la certezza di
mandare in stampa un articolo che faccia piacere non solo ai lettori, ma
soprattutto all’intervistato…”
L’ampio atrio vuoto e luminoso l’accolse silenzioso
ancora una volta. Chiuse il portone alle sue spalle e fece scorrere lo sguardo
lungo le pareti e sui mobili eleganti ma severi che arredavano quell’enorme
sala vuota… come il suo cuore. Quella similitudine lo colpì
all’improvviso. Qualcuno sarebbe mai stato in grado di riempire quel
vuoto? Ripensò alle parole della giornalista. Serrò gli
occhi, appoggiandosi pesantemente con le spalle al portone, il capo
reclinato all’indietro. Ora non c’era nessuno che poteva vederlo, nessuno rischiava
di carpire quel piccolo segreto. Si rilassò, sospirando, lasciando che l'inespressiva maschera
di ghiaccio che sempre nascondeva i sentimenti più intimi scivolasse
via. Cercò nei meandri di quel suo cuore solitario una minuscola scatolina
chiusa a chiave, uno di quei tesori che si mettono da parte quando si è giovani
e si conservano per tutta la vita. L’aprì, lasciando che il ricordo
s’insinuasse piano nella sua mente. Quegli occhi. Quel sorriso. Quel
calore che gli riscaldava il petto mentre il cuore cominciava a battere
veloce. Un’espressione dolce, serena, sciolse finalmente i lineamenti severi
del suo viso. Riaprì gli occhi, guardandosi nuovamente attorno. Il buio
non era più tanto opprimente, la luce della luna lo scostava con soffice
delicatezza. Sorrise. Sì, c’era ancora speranza che qualcuno riuscisse a
riempire quel vuoto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** 3 ***
rds03
Aveva preso l’autobus per un soffio, salendo al volo
mentre le porte si stavano chiudendo. Appena a bordo, i risolini di alcune
ragazze avevano invaso l’aria. Lo fissavano, arrossendo ma al contempo cercando
di attirare la sua attenzione. Sospirò spazientito e diede loro le spalle,
calcandosi la visiera sugli occhi. Si diresse in fondo al pulmann. Nell’ultima
fila, in un angolino, raggomitolata come un gatto, c’era lei. La gamba destra
raccolta sotto di sé, una spalla ed il capo appoggiati al finestrino, gli
occhiali abbassati sulla punta del naso,tutta intenta nella lettura di un libro
che, a giudicare dalla copertina, doveva essere un
fantasy… “Ciao.” Sollevò il capo dalla lettura, rimettendo gli
occhiali al loro posto con un dito “Ciao!” un sorriso semplice le illuminò il
viso. “Quando non pattini, studi.Quando non studi, leggi…” “Già… Ma questo
ne vale la pena! E’ almeno la quarta volta che lo rileggo!” rispose allegra. Si
vedeva che era una ragazza semplice… da come lo guardava, da come sorrideva,
da come affrontava il mondo… “Ed esiste un libro che valga la pena
leggere così tante volte?” la sua solita espressione sprezzante. “Questo
decisamente si! E anche altre ancora, direi!” “Addirittura?” un sorrisetto
sbieco gli piegò le labbra. Forse aveva ragione Hermann, forse era veramente
solo un topino da biblioteca… “Mai sentito parlare del Signore degli Anelli?
J.R.R. Tolkien?” “Beh… si certo!” “Appunto!” e
sollevò il tomo, mostrandogli la copertina “Tieni!” chiuse il volume e glielo mise in
mano, lasciandolo di stucco. “Dagli un’occhiata! Se ti non ti piace, me lo
restituisci. Se ti piace, finisci di leggerlo!” “Ma se così fosse, non ce
la farei mai prima della fine dell’anno scolastico!” le rispose sorpreso da
quella singolare proposta e lanciando un’occhiata preoccupata alla quantità di
pagine che, ad occhio e croce, dovevano abbondantemente superare le
migliaia. “Non importa! Vorrà dire che lo terrai tu! Tanto ne
ho altre due edizioni! Accidenti! La mia fermata!” così dicendo schizzò
giù dal seggiolino e si fiondò fuori dall’autobus “Ciao!” gli gridò. “Ciao…”
disse osservando la treccia che batteva sulla schiena della ragazza. Scosse il
capo, sorridendo. Diede un’ ultimo sguardo al libro, prima di infilarlo nello
zaino.
“Sono spiacente, Herr Wakabayashi, Freuilain Weiss è
stata trattenuta da una riunione improvvisa!” Serrò la maniglia della porta
ed espirò spazientito, cercando di controllarsi. Era riuscito a non sobbalzare.
Ormai aveva fatto l’abitudine a che quella donna gli apparisse alle spalle
silenziosa come un fantasma. Si voltò trovandosi di fronte la segretaria tutto
fare di Angela Weiss, praticamente un robot in carne ed ossa: minuta, di età
indefinita tra i venti e i quarant’anni, occhi castani nascosti da spesse lenti
d’occhiale, i capelli raccolti in una severa crocchia ed il viso perennemente
atteggiato in un’espressione imperscrutabile e severa.In quell’anno e più che
frequentava la redazione di Sport & Sport, constatò automaticamente,
non l’aveva mai vista sorridere. Efficiente, preparata, impeccabile. Più
di una volta Angela gli aveva detto che se non fosse stato per lei quell’ufficio
sarebbe stata una baraonda infernale. Braccio destro, ed a volte anche sinistro,
della direttrice, freuilain Schumacher gestiva non solo gli impegni di lavoro
della sua superiore ma anche i suoi appuntamenti privati. La squadrò
dall’alto in basso, incrociandone lo sguardo inespressivo. ”Se giocasse
a calcio sarebbe un portiere eccezionale!” sorrise a quel pensiero, ironizzando
sulla situazione. “Dunque Angela è nuovamente uccel di bosco?!” fissò la
donna negli occhi, sovrastandola con la sua mole. Nessuna reazione da parte
di lei, mentre lui ribolliva d’ira a dover trattare con quell’automa che per
l’ennesima volta era a comunicargli che la sua fidanzata non era in ufficio.
Cominciava ad essere stufo di essere trattato a quella stregua! La
segretaria parve leggergli nella mente, e la cosa lo fece imbestialire ancor di
più. “L’abbiamo cercata dopo la partita, ma il suo cellulare
era irraggiungibile, Herr Wakabayashi.” quel tono piatto aveva il dono di
innervosirlo, ma fece forza su se stesso e si trattenne dal desiderio di
strozzarla. “E’ probabile...” rispose a denti stretti “ ma…” non terminò la frase.
La donna aveva estratto due biglietti per uno spettacolo teatrale “Freuilain Angela la
prega di perdonarla. E’ stato prenotato un tavolo per il “Wagner”. Freuilain Weiss
ha pensato che lo spettacolo che si terrà durante l’arco della serata
possa essere di suo gradimento…” così dicendo gli porse i due biglietti. Un americano
a Parigi, il suo musical preferito. Al Wagner spesso parte della sala
diveniva palco per rappresentazioni musicali di vario genere… Angela
aveva fatto centro, come sempre del resto. “La riunione dovrebbe aver
termine entro le diciannove e trenta…” “Bene..” rispose senza guardarla
“Le dica che sarò da lei per le venti. Buona giornata.” Se ne andò senza
aspettare risposta. Un freddo “Buona serata, Her Wakabayashi.” lo
raggiunse che era già alla porta. Quella donna aveva davvero il dono di
mandarlo in bestia. Non vide il lampo addolorato passare negli occhi
nocciola, né lo sguardo triste che scompose la fredda maschera che copriva il
viso sottile. Saltò in macchina, indeciso sul daffarsi. Aveva sperato di
poter passare il pomeriggio dopo la partita con la sua fidanzata, ma in quel
periodo Angela era quasi introvabile. “E io che ho sempre pensato che per
una donna avere un calciatore come compagno fosse un disastro! Almeno i ritiri
sono programmati! Le sue riunioni,invece, sono un tormento!” sorrise, scuotendo il
capo e guidando lentamente alla volta di casa. Era ottobre e Monaco era
vestita di un variopinto mantello autunnale. L’aria era già piuttosto fredda, il
cielo limpido e azzurro, di quell’azzurro intenso che rende un contrasto
piacevole ma violento con i gialli luminosi e gli arancioni carichi delle
foglie. Un azzurro pieno… “Come i suoi occhi…” sorrise tra se, quasi non
credendo di aver pronunciato a fior di labbra quelle parole. Si stava forse
innamorando? Tornò con la mente al loro primo incontro da soli,
a quell’intervista particolare, durante la quale le parole che lei gli aveva
detto avevano rimbombato nel suo animo, frammentandosi come i pezzi di
un caleidoscopio, andando a conficcarsi negli strati più profondi del suo io
e trasformandosi in quesiti che l’avevano scosso. Domande che non si era mai
voluto porre… Il giorno seguente l’aveva chiamata. Erano usciti
nuovamente. Poi il giorno seguente di nuovo e poi ancora quello dopo. Aveva
lasciato che fosse lei ad esplorare il suo animo, ed era stata
un’esperienza indimenticabile per lui, che mai a nessuno aveva aperto le
porte del cuore. Sapeva come sarebbe andata a finire, anzi, ci
sperava! Era Dicembre, faceva freddo. Si era fatto trascinare sulla pista
gelata allestita in piazza centrale. Risero, giocarono. Lo sconcertò con la
sua bravura, con l’eleganza con la quale volteggiava sul ghiaccio. E se la
ritrovò tra le braccia… Un sorriso piegò le labbra a quel ricordo, e al
ricordo della notte che ne era seguita… Allora ebbe inizio il suo rapporto
con quella donna eccezionale. Decisa, caparbia, efficiente. Dolce,
sensuale, coinvolgente. Coinvolgente… Si, quello era il termine più adatto a
definire Angela. Nessuna donna l’aveva mai coinvolto tanto, né fisicamente né,
tanto meno, emotivamente. Sospirò pensando alle parole che gli aveva detto la
prima volta che si erano incontrati a tu per tu. Quelle parole che lo avevano
convinto ad abbassare le barriere di cui si circondava, inserendosi come una
chiave magica nella serratura di quello scrigno che era il suo animo chiuso da
anni. Il suono del cellulare lo riscosse. “Pronto?”
“Ciao, Wakabayashi!” lo raggiunse la voce allegra del suo ex compagno di
squadra. “Hermann! Che piacere sentirti! Come va ad Amburgo?” “Ad Amburgo
bene, direi! Aspettiamo con ansia di battervi!” Un sorriso divertito ed una scossa
leggera di capo: no, Hermann non sarebbe mai cambiato! “Però ho una
sorpresa da farti, SGGK!” “Sarebbe?” già che Kaltz lo avesse chiamato era
una sorpresa, si disse… “Sono a Monaco!” “Una bella notizia in
un pomeriggio quasi rovinato!” pensò tra se. “E cosa ci fai qui?”
chiese. “La mia dolce sorellina si è finalmente degnata di tornare in
Germania dal Canada dove ormai ha messo radici! E siccome è qui per una gara,
sono venuto a trovarla! Che ne dici se facessimo una rimpatriata?” No, la
cosa non gli dispiaceva affatto, anzi! Rivedere Melody ed Hermann dopo tutto
quel tempo sarebbe stato piacevole. “E così la cara Angela ha fatto
centro!” gli occhi da gatta di Melody lo osservarono mentre la giovane finiva di
sorbire la cioccolata calda che aveva in mano. “Direi che ha fatto centro.”
rispose, ricambiando lo sguardo. La domanda di Mel era mirata… “E
così qualcuno ti ha finalmente fatto gol, eh, Wakabayashi!” Kaltz accompagnò la
risata allegra ad una sonora pacca sulla spalla che per poco non fece rovesciare
il bicchiere all’estremo difensore del Bayern. “Così pare...” sorrise e
finì la birra nel boccale. “Che ne dite se andassimo a pattinare?” esordì
la bionda campionessa. “Ma tu non sei capace di stare mezza giornata
lontana dal ghiaccio?” la rimbrottò il fratello. Li squadrò seria, scuotendo
la testa “Perché? Voi due siete capaci di stare mezza giornata senza toccare
pallone?” I due si guardarono e scoppiarono a ridere. Mel aveva assolutamente
ragione. C’era poco fuori il centro una piccola pista, una volta famosa per
la sua squadra di artistico, dove la ragazza volle assolutamente
andare. “Ricordi, fratellone? E’ qui che vinsi la mia prima gara!” Melody
sorrideva felice, immersa nel suo ambiente naturale. Portiere e difensore la
stavano a guardare, pattinando piano lungo il bordo e chiacchierando dei
vecchi tempi. “Accidenti! Quanti anni che non mettevo i
pattini! Quando cominciò mia sorella, smisi io!” disse “Il lavoratore” cercando di
recuperare quell’equilibrio che anni addietro gli era familiare. L’SGGK
dimostrava di trovarsi perfettamente a suo agio e scivolava piano a fianco
dell’amico. La pista era ancora vuota e nessun fan era ancora arrivato ad
importunarli, solo un paio di ragazzine parevano più interessate alla presenza
di Melody che non alla loro. D’altro canto la giovane sorella di Kaltz era da
due anni campionessa indiscussa del pattinaggio tedesco. “Tu non mi
sembri tanto arrugginito, però…” osservò il biondo, guardando di sottecchi il
portiere. Non potè udire la risposta. Melody si era fatta loro incontro e,
guardando storto il fratello, aveva scosso il capo ed afferrato il giapponese
per un braccio. “Insomma, fratellino! Non è possibile che per
divertirmi debba rivolgermi a Wakabayashi! Tu ci sei quasi nato sui pattini!” non ascoltò
la replica piccata del fratello, trascinando via il nipponico a centro
pista. “Accidenti! Hermann è giù di forma, ma tu te la cavi benissimo!”
osservò la giovane mentre il portiere pattinava con lei. “Diciamo
che ultimamente mi stò allenando…” e le sorrise malizioso, accennando una
strizzata d’occhio e facendola volteggiare. “Allora ho visto giusto! E’
una cosa seria!” e ricambiò l’occhiolino, accennando piano una trottola per poi
fermarsi e guardarlo negli occhi. Attese un secondo la risposta. Poi
lo sguardo scuro lampeggiò mentre un sorriso distendeva i tratti severi “Si,
direi di si.” Sospirò e strinse le labbra “Allora…buona fortuna alla
nuova coppia!” si profuse in un inchino, che si concluse con uno splendido
sorriso, e poi volò via leggiadra, ricamando complesse figure sulla superficie
candida. Lui rimase lì, fermo al centro, soppesando nuovamente le
parole appena pronunciate. Lo riscosse il sopraggiungere di Hermann “Ehi! Pare che la
presenza di Mel non sia passata inosservata!” Effettivamente una torma di
ragazzine aveva inghiottito la campionessa, che tra sorrisi e risate aveva
iniziato a firmare autografi su autografi. Poco più di un’ora dopo erano
fuori dalla pista, Mel attorniata dalle ultime bimbe, quando un movimento alle
loro spalle attrasse la sua attenzione. Il palazzetto stava per chiudere,
eppure ancora qualcuno scendeva sul ghiaccio. Una ragazza bionda, i capelli a
caschetto, completamente vestita di nero e con le braccia cariche di
braccialetti d’argento era entrata, per poi fermarsi immediatamente al
bordo a chiacchierare col gestore della struttura. Fu l’altra figura ad
attrarlo. Minuta, un semplice maglioncino bianco a collo alto,
pantaloni neri ampi, lunghi capelli mogano sciolti sulle spalle, nessuna traccia
di trucco a sottolineare gli occhi castani da cerbiatto. Leggera, agile,
pareva galleggiare sulla superficie candida tanto lievi erano i suoi movimenti
sul ghiaccio…. Non poteva essere lei! Il cuore ebbe un sussulto, gli parve
di essere catapultato in dietro nel tempo, millenni prima… “Ehi,
SGGK, dobbiamo andare, altrimenti farai tardi alla tua cena!” Hermann lo
riportò alla realtà, trascinandolo fuori dal palazzetto e lontano dai
ricordi. “Mel…” “Dimmi, Wakabayashi..” “Che fine ha fatto quella ragazza…
quella che era la stella della vostra squadra ai tempi delle
medie?” La giovane era sorpresa da quella domanda improvvisa “Chi? Lena,
intendi?” Il portiere annuì e la ragazza rispose, un velo triste nello
sguardo “Dopo quella finale… quella a cui venisti pure tu… beh…
se ricordi dovette lasciare sia la scuola che la città, sparendo nel nulla. Non so
che fine abbia fatto, so solo che per anni ho sperato di rincontrarla in gara!
Se lei avesse continuato…” fece una pausa e guardò in alto il cielo quasi buio
per poi sospirare e rivolgere la sua attenzione nuovamente al portiere “Non credo
sarei io la campionessa di Germania, sai?” Il giapponese fece per replicare
ma il suono del cellulare glielo impedì. “Angela!” “Perdonami! Questo è
davvero un periodo d’inferno! Ho finito or ora! Spero avrai accettato il mio
invito!” Salutò gli amici e saltò in auto. Non si accorse delle due figure
che uscivano correndo dal palazzetto. La cena fu piacevole, lo spettacolo altrettanto.
Angela… fantastica. Semplicemente. Si fece perdonare, senza
essere melensa, senza scadere in quell’eccesso di romanticismo che spesso lo
urtava nelle donne. La riportò a casa. Fecero l’amore. Con
ardore. Con passione. Con entusiasmo. Con… amore? Si soffermò a
guardarla, splendida avvolta nella luce morbida dei lampioncini filtrata dal
leggero tendaggio della camera. Riconsiderò la sua vita, il suo passato, il
suo presente. Sfiorò la pelle serica con un dito. Gli occhi azzurri si
socchiusero, le labbra morbide si piegarono in un sorriso malizioso che riaccese
il suo desiderio. La baciò, piano, delicatamente ma con passione. Si
staccarono. Lo guardò da vicino, carezzando con lo sguardo le linee
severe del viso, il taglio morbido degli occhi. Posò lieve un dito sulle
labbra carnose, chiedendo “Allora, il SGGK ha finalmente trovato una donna che
gli faccia battere il cuore?”
Era a casa da solo, la grande sala illuminata solo
dai lampioni del giardino e da una piccola abatjour stile Liberty, abbandonato
su una comoda poltrona, il capo reclinato all’indietro, gli occhi chiusi. Il
presente… Quelle parole… Avvertiva ancora il suo profumo sulla sua
pelle. Il passato… Quegli occhi… “..sparendo nel nulla…” aveva detto
Mel. Un’allucinazione… o solo un desiderio… Un fantasma del passato che tornava…
o forse un segno del destino in quel momento in cui aveva deciso di dare
una svolta alla sua vita. Aprì gli occhi, guardando la grande libreria che
gli stava di fronte. Sorrise appena, alzandosi. Un viaggio alla scoperta
di se stesso… Quel viaggio che non aveva mai voluto compiere. Scorse con
un dito la costa dei libri che riempivano gli scaffali, fermandosi su quella
consunta di un vecchio, altissimo tomo. Lo sfilò con decisione dal suo posto
e ristette un attimo, fissando la copertina ormai logorata dagli anni con
un sorriso indecifrabile. Quel libro l’aveva seguito ovunque. Tornò a
sedersi, aprì la prima pagina e ne sfuggì una cartina… “Come tutte le
volte…” pensò sorridendo ed accingendosi a raccoglierla. Mise il foglio piegato
in quattro nell’ultima pagina. Di nuovo aprì il volume, e, senza neppure
leggerle, declamò a fior di labbra quelle parole che erano impresse come un
marchio a fuoco appena sotto il titolo.
“Un Anello per domarli, Un Anello per
trovarli, Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli, Nella Terra di
Mordor, dove l’Ombra cupa scende.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** 4 ***
rds04
Il sole stava tramontando tingendo di rosso l’erba dei
campi dell’Amburgo. Due figure solitarie continuavano ad allenarsi,
imperterrite, nonostante tutti gli altri fossero già a casa da un pezzo. Lei
era lì, li osservava da lontano, le dita di una mano intrecciate nella
rete che faceva da recinzione, lo sguardo fisso su quel ragazzo caparbio al
centro della porta… “BUH!” una voce squillante alle sue spalle, un
pizzicotto sul fianco che la fece sobbalzare. “Reb! Accidenti! Per poco
non mi facevi morire!” guardò l’amica con aria di rimprovero, cercando di calmare
i battiti del cuore. Sul viso dell’altra un’espressione di
malizioso divertimento “Già… perché tu non stavi già morendo! Dietro a qualcuno!” la
schernì, scuotendo il caschetto biondo in direzione del campo con fare
saputo. Il viso sotto gli occhiali s’imporporò e gli occhi timidi da
cerbiatto si puntarono al suolo. Rebecca si pentì un poco vedendo la reazione
dell’amica. “Ok, ok, scusa!” disse abbracciandole le spalle e
voltandola nuovamente verso i due giocatori, i quali avevano finalmente deciso di
smettere “Cosa credi?Lo sai che anche io ho il mio motivo d’esser qui!” Si
guardarono, sorridendo complici per poi tornare ad osservare gli oggetti del
loro desiderio. Un sospiro sfuggì ad entrambe, simultaneamente, ed entrambe
scoppiarono a ridere, tenendo una mano sulla bocca onde evitare che i ragazzi le
potessero sentire. “Tu almeno ci parli…” riuscì a dire la morettina
all’amica, che la guardò con disappunto. “Accidenti, Lena! Ci sei in
classe insieme da un secolo e lui manco sa come ti chiami! Quello che comincia
è l’ultimo anno, vuoi darti una svegliata si o si?!” nel parlare aveva puntato
le mani ai fianchi con fare militaresco, i piedi ben piantati atterra e gli
occhi verdi socchiusi con fare minaccioso. La guardò con un sorriso dolce e
riconoscente. In quell’istante udirono dei gridolini provenire dall’altra parte
del campo. Si voltarono. Due ragazze della loro età, bionde, perfettamente
truccate e vestite alla moda erano evidentemente arrivate a recuperare i loro
fidanzatini. Un bacio fugace, un braccio stretto attorno ai fianchi sottili. Le
due coppie che si allontanavano. Un sospiro di rassegnazione. Le due
amiche si squadrarono. L’una coi capelli corti che lasciavano scoperti i lobi
delle orecchie strapieni di anellini d’argento, maglia e pantaloni neri, ai
polsi decine di bracciali e le dita ricoperte di anelli. Unghie rigorosamente
laccate di nero, occhi verdissimi da gatta sottolineati da pesante eye liner
scuro e labbra truccate di viola. L’altra… l’opposto. Semplice. Fin troppo.
Il lunghi capelli mogano raccolti in una coda tenuta da un elastico nero,
assolutamente non truccata, i grandi occhi nocciola seminascosti dalla pesantissima
montatura degli occhiali. L’abbigliamento, poi… Camicetta bianca,
anonima e gonna scozzese sul verde, lunga sotto il ginocchio. In terra, accanto
a lei, un libro fantasy. Sulle labbra della bionda un sorriso “Chi
ci ama ci segua!” urlò, raccogliendo il libro da terra e trascinando via l’amica,
che rispose mesta “E fu così che restammo sole…” Rebecca si fermò di botto, prendendo l’altra per le spalle
e guardandola seria “No, Lena. Finchè saremo insieme, non saremo mai
sole!”
La schiuma morbida riempì il boccale, per poi
debordare ed andare a colare sul bancone. I braccialetti della ragazza
tintinnarono quando pulì il bicchiere per poi posarlo sul vassoio, pronto ad
essere servito. La porta della brauhaus si aprì, lasciando entrare una
figurina che in quel posto pareva del tutto fuori luogo. La donna si avvicinò
al bancone, salendo agilmente su uno degli alti sgabelli.
La bionda dietro il banco le si avvicinò, porgendole una birra “Hai finito,
finalmente! E’ tardi anche stasera!” le labbra truccate di viola si piegarono in una
smorfia di disappunto mentre gli occhi verdi erano velati da un’ombra
triste. L’altra non rispose. Sciolse la crocchia che tratteneva i
lunghi capelli, lasciandoli cadere disordinatamente sulle spalle, afferrò il boccale
e bevve un lungo sorso. Posò il grande bicchiere dinnanzi a se, continuando
a fissarlo. Le sfuggì un sospiro, un’espressione amara si dipinse sulle labbra
a cuore. Serrò gli occhi “E’ stato lì di nuovo…” I bracciali
tintinnarono sul bancone mentre la bionda vi si appoggiava a braccia
conserte “E?...” Rispose senza guardare “E nulla! Gli ho dovuto raccontare una
delle solite storie!” aveva quasi gridato. L’amica allungò una mano, scoprendo
il tatuaggio che le ricopriva il braccio, e le carezzò il viso con fare
affettuoso “Non puoi continuare così! Questo lavoro ti stà uccidendo! Non puoi continuare
a lavorare per due ed in più occuparti anche della vita privata di quella
carogna del tuo capo! Le fai da segretaria in tutto e per tutto! Il tuo telefono
squilla ad ogni ora del giorno e della notte, da Natale a Pasqua a Capodanno!
Non hai ferie, non hai riposi. E, in più, ti devi occupare anche di pararle quel
bel sederino quando pianta le corna al suo fidanzato!” “Reb!” gli occhi da
cerbiatto scattarono, furiosi, ma l’altra non si fece intimidire.
“Piantala, Lena! Lo sai benissimo! Quanti anni sono che va avanti questa storia?
Quattro? Cinque? E’ sempre così! Lei si trova un giocattolo nuovo, fa di tutto,
ma proprio di tutto per averlo, e poi torna diretta tra le braccia di quel
maiale del suo ex! Perché, poi, lo sa soltanto lei! E il bello è che per conquistare
le sue nuove prede e tenersele finche non si stufa la sua carta segreta sei tu!
Tu cerchi ogni informazione possibile ed immaginabile, tu prenoti ristoranti
ed alberghi, tu compri i regali! Tu racconti le palle al posto suo…” le ultime
parole le si spensero quasi in gola, vedendo le lacrime che affioravano nei
grandi occhi dell’amica. “Reb… lo sai! Questo dannato lavoro mi serve! Non
sarei pagata così tanto se non lavorassi ventiquattr’ore su ventiquattro! E se
non facessi tutto quello che vuole lei! Mi sento un verme… soprattutto
quando devo mentire a lui… Ma non posso rischiare di perdere questo lavoro! Lo
sai quanto costano le cure!” la voce tremava, ma le lacrime erano state ricacciate
indietro con determinazione. Un sorriso triste sul viso della bionda, poi
un lampo d’improvvisa allegria “Dai dai! Smettiamola di parlare di cose tristi!
Ho chiesto ad Erik di tenerci aperta la pista un po’ di più, stasera! Finisco di
riordinare e andiamo!” “Ma non posso! Mamma mi aspetta e…” “Tua madre la
avviso io! E non ti preoccupare per lei! Le cure vanno bene, mi pare, no? Due
ore in più da sola non saranno un problema! Anzi, lo sai che le si apre il cuore
quando sente che vai a pattinare!” Cedette sospirando. Rebecca aveva ragione,
sua madre era sempre felice quando la sapeva sul ghiaccio. Lasciarono il
locale e corsero al palazzetto. L’orario di apertura al pubblico era quasi
terminato, la gente stava sfollando, ma loro entrarono ugualmente. Erik Koning,
il gestore, era loro amico da secoli. Spesso erano andate a pattinare fuori
orario con lui come unico spettatore. Quella sera c’era più ressa del solito,
notarono mentre si avviavano verso la pista. Dall’altra parte, oltre il bordo,
una torma di ragazzine accerchiava tre persone, due bionde ed una mora,
quest’ultima di struttura particolarmente imponente. Non le riusciva di
distinguere altro. Aveva tolto gli occhiali e, non avendo avuto in programma di
andare a pattinare, non si era portata le lenti. In fondo, comunque, non ne
aveva poi bisogno. Senza nessun altro in pista, ad esclusione di Reb (che, come
sempre, si era fermata a chiacchierare con Erik) si muoveva sul ghiaccio senza
problemi pur vedendoci ben poco. Aprì lo sportello e s’immerse nel suo
ambiente naturale. Respirò l’aria gelida e lasciò che il freddo le aggredisse le
membra non ancora riscaldate del movimento, assaporando il suono graffiante
delle lame sul ghiaccio. Il mondo non esisteva più. I suoi problemi non
esistevano più. Si mosse agile e sicura sulla gelida superficie bianca, senza più curarsi
del baccano che pia piano si allontanava dalla pista. Un poco di riscaldamento, una
trottola, un piccolo salto. Poi figure sempre più complesse, man mano
che il corpo si scaldava e rispondeva sempre meglio. Un angelo, un’altra trottola
e poi… un salto… e subito un altro! L’applauso di Reb che le
veniva in contro tagliando la pista e sorridendo. L’abbraccio dell’amica. Si
misero a pattinare insieme, giocando sul ghiaccio e scambiando battute con
Erik. Non si accorse di quello sguardo, di quegli occhi neri che l’avevano
fissata per lunghi attimi, sconcertati. Forse era meglio così… Poi il suo
cellulare che squillava, il suono insistente nel suo auricolare… Un
sospiro. Il biondo caschetto di Rebecca scosso da un “no” sconsolato. Un
sorriso triste e un poco rassegnato. “Freuilain Angela…” “Eleonor ! Ho
bisogno di lei qui, immediatamente! Melody Kaltz è a Monaco e dobbiamo ottenere
subito un’intervista!” L’enorme montatura degli occhiali tornò a mascherare
il viso, nascondendo gli occhi nocciola mentre la massa ribelle dei lunghi
capelli veniva ordinatamente ricomposta in una severa crocchia.
Rebecca guardò l’amica, espirando furiosa “Non può! Non può farti questo! Non sei al
suo servizio come nel Medioevo!” Nessuna risposta, solo labbra serrate
e movimenti lenti per rivestirsi… “Reb ha ragione, Lena… Non puoi
continuare a farti trattare a quel modo!” Un sospiro. Un
sorriso triste “Avete ragione….” si voltò, facendo scorrere lo sguardo su gli unici due
amici che aveva in quella grande città “ma sapete perché lo faccio, no?
Quindi….” I due sospirarono, scambiandosi uno sconsolato sguardo d’intesa.
Certo, sapevano perché quella donna, dall’apparenza fragile, banale, il classico
topo da biblioteca, lavorasse ventiquattrore al giorno e trecentosessantacinque
giorni l’anno per quell’arpia del suo capo. Perché lei, una volta stella del
ghiaccio, aveva abbandonato tutto, diventando un’ombra al servizio di colei la
quale una volta era stata la sua più acerrima rivale. “Cosa vuole
stavolta?” chiese, arrendendosi, Erik. “Un’intervista con Melody Kaltz…” Il
viso dell’omone s’illuminò “Corri!” Le due donne lo fissarono come fosse
impazzito. “Erik, che cavolo farnetichi?” Rebecca l’apostrofò stizzita, ma
lui non le diede retta. “La Kaltz era qui fino a dieci minuti
fa! Probabilmente è ancora là fuori! Muoviti!” dicendo così, spinse le ragazze
verso l’uscita. Afferrato il senso delle parole dell’amico, le due
iniziarono a correre, sperando di trovare ancora la star del pattinaggio
nei pressi del palazzetto. Quando fu fuori, non fece caso al rombo dell’auto
sportiva che si allontanava a gran velocità, la sua attenzione era catalizzata
da due figure che si apprestavano a salire su una grossa Mercedes bianca.
“Melody!” le venne istintivo gridare. Le parve di fare un tuffo nel
passato, a quando la stella del ghiaccio era lei, e Melody una delle tante
ragazzine che desideravano emularla. Ma ora…. Grandi occhi azzurri si voltarono
verso la figura che correva verso di loro. Sul momento non la riconobbe,
pensò ad un’altra delle sue fan… Poi… “Oddio… Lena!” corse via
sbattendo lo sportello dell’auto e lasciando il fratello di stucco. Non le
pareva vero! Abbracciò quell’amica che non vedeva ormai da anni. “Oddio…” ripetè, squadrandola da capo a piedi “Non sei cambiata di una virgola! E dove ti
potevo trovare, se non vicino ad un palazzo del ghiaccio!” “Tu, direi,
sei cambiata non poco, invece!” rispose sorridendo. “Già…” un sorriso
sicuro. Ora era lei la star del pattinaggio tedesco… Un pensiero improvviso la
colpì, sconcertandola “Certo che Wakabayashi dev’essere
telepatico!” “Scusa?” la donna era sorpresa nel sentire l’amica nominare il
portiere. “Era qui con noi un istante fa… E mi ha chiesto che fine avessi
fatto! E’ pazzesco!” “Già…” non comprese il perché, ma una stretta dolorosa le
serrò lo stomaco… Ricordi di un amore adolescente… “Ma, dì un po’..”
il filo dei pensieri venne interrotto dalla giovane campionessa “Cosa fai qui a
Monaco?” “Lavora per Angela Weiss…”
Melody si accorse solo allora dell’altra figura alle spalle dell’amica. Un sorriso
le illuminò il volto “Reb!” esclamò, correndole incontro. “Ciao, campionessa!” disse stringendo la
ragazza. “Reb….” Gli occhi verdi si sollevarono, incrociando lo sguardo
inebetito del centrocampista dell’Amburgo, che fino a quel momento si era tenuto
in disparte. “Hermann…” rimase un attimo imbambolata, il cuore che prima
perdeva un battito per poi accelerare all’impazzata. Melody colse
il disagio e fu lesta ad interrompere quella situazione d’imbarazzo “Lavori per
Angela?” chiese rivolta a colei che era stata il suo idolo da ragazzina. Un
sorriso rassegnato sulle labbra della donna “Già…” “Ma… scusa… se lavori per lei,
com’è possibile che Wakabayashi non sappia che sei qui?” Rebecca rispose per
l’amica “Credo che semplicemente non l’abbia riconosciuta… Visto e considerato
che praticamente Wakabayashi, ultimamente, vede più Lena che Angela!” Lena
fulminò la bionda con lo sguardo. Il tono tagliente che aveva usato era fin
troppo esplicito… Melody scosse il capo socchiudendo gli occhi. “Lo
sapevo…” Si guardarono tutte e tre, consapevoli di quello che stava
accadendo. “Si può sapere che avete! Sembrate ad un funerale!” Hermann si
era appoggiato coi gomiti su tetto dell’auto, masticando il suo eterno stecchino
mentre le squadrava con disappunto. Le tre sospirarono, ricambiando lo
sguardo del calciatore con compassione: lui era un uomo, non poteva
capire… “Quando mio fratello mi ha detto che si erano messi insieme ho
sperato che non fosse una cosa seria… Ma stasera Wakabayashi mi ha confermato
che non è così, purtroppo…” si erano portate nella stanza d’albergo di Melody,
dopo che Lena aveva avvisato la redazione di esser riuscita ad ottenere
un’intervista con la pattinatrice per il giorno seguente. “Ma si può
sapere cos’avete da ridire? Wakabayashi è al settimo cielo, una volta ogni tanto
lo vedo soddisfatto della donna con cui stà, e voi lì a tramare!” dovette
smettere di parlare, inchiodato dallo sguardo delle tre. La sorella sospirò,
paziente “Hermann… Sono felice per lui, ma Angela non è mai stata una santa con
gli uomini!” “Wakabayashi se l’è sempre cavata con le donne!” replicò
portando le braccia al petto con fare risoluto. Lui ed il portiere erano da
sempre grandi amici. Aveva per il giapponese un’ammirazione reverenziale fin
anche superiore a quella che portava al capitano della nazionale,
Schneider... “Comunque, Wakabayashi sembra piuttosto preso da questa storia… Ma
non è tipo tale da farsi mettere i piedi in testa! Vero, Lena?” chiese la
bionda principessa del ghiaccio.La domanda aveva un sottinteso… Avvertì gli
occhi verdi dell’amica su di sé, si maledisse, e mentì… “Certo!
Quei due fanno davvero una splendida coppia! Sembra che Angela abbia
finalmente trovato chi è in grado di tenerle testa!” lo sguardo di Rebecca era una lama
tagliente… Quando furono fuori dall’albergo, lontane dalla vista dei
due fratelli, la bionda l’afferrò, facendola voltare di scatto e guardandola
dritta in faccia “Perché?! Perché hai mentito pure a loro!?” era un urlo disperato:
non avrebbe mai creduto che l’amica potesse fare una cosa del genere,
non la riconosceva più! Lacrime scorsero al di sotto delle spesse lenti, la voce rotta
“Se lei… se loro avessero saputo… gliel’avrebbero detto… e…” “E
cosa?! Ma ti rendi conto?! Avevi l’occasione di fargli un favore! E’ tra le mani
del diavolo, potevi salvarlo e invece ce l’hai lasciato!” “Reb…” La furia
si sciolse vedendo il pianto dell’amica. L’abbracciò, tenendola
stretta. “Perché, piccola?” L’altra rispose tenendo il viso premuto
sulla sua spalla “Lo sai…o lui…o mia madre…non ho molta scelta…Quel maledetto posto
MI SERVE! “ La strinse di più. Lo sapeva. E sapeva cosa doveva provare
l’amica, lei che era sempre stata trasparente e sincera. “Mi
odio…” “Piantala, Lena…” “Ho paura, Reb… Lo so che mi detesti pure tu ora…
non voglio restare sola, non ce la farei…” L’allontanò un poco,
asciugandole le lacrime con un dito “Smettila, scema! Non ti detesto… e non ti
mollo… Come dice Hermann, Wakabayashi se la sa cavare con le donne!” così
dicendo le strizzò un occhio. Sorrise, asciugando il volto “Speriamo…” e le vennero
in mente i suoi occhi: neri, profondi, magnetici… Quegli occhi, l’unica
cosa che l’aveva tenuta in piedi, che le aveva dato la forza quel giorno di
tanti anni prima… Una lama sottile le trafisse il cuore. Gli doveva molto…
anche se lui neppure lo sapeva. In quel momento prese la sua
decisione. Sarebbe costata cara, ma non ne poteva più di sentirsi a quel
modo. Neppure la sua migliore amica la riconosceva più! Lei stessa stentava a
riconoscersi… Aveva combattuto per tutta la vita, non sarebbe stato un
problema ricominciare! D’altro canto di denaro ne aveva messo da parte a
sufficienza, in previsione dei periodi bui… Guardò Rebecca e le sorrise,
ricambiata. No, non era sola. Potevano sempre contare l’una
sull’altra. Quella certezza scacciò ogni dubbio. Avrebbe agito, anche a
costo di perdere quel lavoro che era per lei di vitale importanza.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** 5 ***
rds05
Era la finale del Campionato Nazionale di pattinaggio
artistico. “Quanta gente! Quasi come a vedere una partita!” “Sorpreso,
Wakabayashi?” “Beh, si, abbastanza!” il giovane portiere si guardava
intorno sorpreso. Effettivamente il palazzetto del ghiaccio era stracolmo di
gente! “Sai, questa finale è piuttosto importante! Ci sono i
selezionatori della squadra nazionale e, inoltre, quest’anno c’è pure in palio una borsa
di studio!” la piccola Melody aveva parlato con gli occhi che luccicavano. Lei
non poteva ancora gareggiare in gare di quel livello, qualcun’altra
sì! “Tanto sono sicura che vincerà Lena! Quella smorfiosa di Monaco non
vale neppure la metà di lei!” e così dicendo, intrecciò le braccia, portando in
fuori il mento. “Certo, certo, sorellina!” La gara ebbe finalmente inizio.
Erano iscritte trentasei concorrenti. Lena era la penultima, dopo di lei,
la sua diretta rivale, la stella del Monaco Ice Skate… Vestiva un abito nero,
a tuta, decorato con una fascia larga di brillantini che ne sottolineavano i
lineamenti del corpo acerbo da ragazzina, ma elegante e sinuoso. Non era
altissima, ma prometteva di diventare una splendida donna. Si concentrò ad
osservarla. L’esercizio era lo stesso che le aveva visto provare qualche mese
prima… Uno cosa lo turbò: il viso pallido, le occhiaie nascoste dal trucco e
gli occhi un poco lucidi. La vide mettersi in posizione, e subito il viso di
lei mutò: se prima v’era incertezza, ora in quegli occhi nocciola si leggeva una
fortissima determinazione. Era fantastica: leggiadra, elegante, armoniosa. Da
lei sprigionava una sensazione di benessere e levità che non aveva mai provato.
La seconda parte dell’esercizio era la più difficile. Una sequenza di salti
interrotta dalla serpentina ad angelo. I pattini graffiarono il ghiaccio,
l’esecuzione pareva perfetta, invece… Si rialzò subito, solo per un
attimo la disperazione passò in quegli occhi. Un angelo perfetto, poi l’Axel.
E di nuovo una caduta. Il pubblico era esterrefatto. La musica si spense, e
così la luce nei suoi occhi. Raccolse velocemente e con un sorriso triste
i pupazzi che le amiche le lanciavano, poi si diresse mestamente verso
l’istruttrice, che l’accolse con un abbraccio. Dopo di lei, una ragazza rossa
dagli occhi freddi come il ghiaccio che calcava. La sua esibizione,
perfetta. Sul podio, sul gradino più alto, la rossa di Monaco. Appena sotto,
la ragazzina di Amburgo. Teneva stretta la coppa, lo sguardo perso davanti a se,
il sorriso triste, assente. Non aveva pianto.
Il monitor lampeggiò e si spense. Tutt’intorno il
buio dell’enorme ufficio era rotto solo dalla fioca luce di una piccola lampada
da studio. Si lasciò andare pesantemente sulla sedia, per poi appoggiarsi coi
gomiti alla scrivania, il capo reclinato in avanti, gli occhi chiusi dietro le
spesse lenti. Con un gesto morbido sfilò lo spillone che tratteneva i lunghi
capelli che si posarono morbidi e disordinati sulle spalle. Tolse gli occhiali,
rialzando la testa e massaggiando le palpebre affaticate. Dalle labbra sfuggì un
sospiro triste mentre lo sguardo nocciola si soffermava sulla cartelletta rossa
posata sul tavolo dinnanzi a lei. Ne sfiorò la copertina, e per la millesima
volta in quel giorno, l’aprì. Un’espressione quasi disperata, la mano destra tra
i capelli, la bocca serrata a trattenere il pianto. Quella mattina il mondo le
era crollato addosso, tutti i piani progettati la notte precedente, spazzati via
da quella notizia. “Fiori, ristorante, lista degli invitati, sartoria…”
scorse meccanicamente quella lista di cose da fare col cuore che le rimbombava
nelle orecchie. “Ma perché?...” si chiese. Poco più di dodici ore prima,
Angela Weiss era entrata in quell’ufficio spumeggiante di gioia e l’aveva
chiamata intimandole di lasciar perdere qualsiasi altra cosa stesse
facendo. Aveva sospirato, rimettendo a posto gli occhiali con due dita e
serrando la cartelletta degli appuntamenti fra le braccia, pronta a soddisfare
l’ennesimo capriccio del suo capo. Ma tutto si sarebbe aspettato, tranne
quello… Angela le dava le spalle mentre osservava Monaco dalla grande vetrata
del suo ufficio. Quando si era voltata, un sorriso radioso aveva illuminato gli
splendidi occhi azzurri ma le parole che erano fuoriuscite dalle labbra
perfettamente truccate le avevano gelato il sangue, mentre il cuore smetteva per
un attimo di battere. Aveva trattenuto le lacrime, continuando a recitare il
ruolo della segretaria perfetta, fingendosi felice per quella notizia. Si
sposavano… Tutta la sua giornata era stata spesa nella compilazione di quella
lista di impegni e compiti da svolgere per i preparativi del grande evento.
Aveva svolto il suo lavoro meccanicamente ma con la solita precisione e
professionalità, senza farsi sfuggire nulla. Nessuno si era accorto del dolore
che le straziava il cuore, non aveva lasciato trasparire nulla. Pochi in
redazione erano a conoscenza degli altarini del loro capo, e chi sapeva evitava
di fare qualsiasi battuta di qualsiasi genere. In ogni modo, anche il ben chè
minimo accenno veniva prontamente stroncato da un’occhiata severa
dell’impeccabile segretaria privata. Già… Si sentiva un cane da
guardia… Era un cane da guardia. Rabbia le montò dentro e lacrime amare
riempirono gli occhi da cerbiatto, ma di nuovo vennero ricacciate indietro,
appena in tempo… Aprì silenziosamente la porta e si trovò immerso in un buio
profondo, rotto solo dalla luce fioca di una lampada da tavolo
seminascosta dal monitor di un pc. Si soffermò un istante ad osservare la
piccola figura seduta alla scrivania e per un istante il ricordo di una
ragazzina dal sorriso dolce gli riempì il cuore e la mente. I lunghi capelli
castani erano finalmente liberi dalla rigida acconciatura che li costringeva
durante il giorno e sfioravano i fogli sparsi sul tavolo mentre una mano
sorreggeva delicatamente il mento. Lo sguardo nocciola era concentrato nella
lettura, gli occhiali posati accanto al computer. “Buona sera!” esordì,
facendo sobbalzare la ragazza. Una piccola rivincita, in un certo senso. Gli
occhi castani si spalancarono sorpresi per poi socchiudersi nel tentativo di
metterlo a fuoco, la mano corse automaticamente agli occhiali e li posò al loro
posto. Il cuore perse un battito, forse anche due… Cosa ci faceva lui lì,
a quell’ora!? Un sorriso divertito piegò le labbra del portiere “ Lena
Miller… Quando Melody me l’ha detto quasi non ci potevo credere…” la guardò,
squadrandola ed appoggiandosi allo stipite a braccia conserte. Lei sostenne lo
sguardo, sorridendo appena, le braccia incrociate sulla scrivania. “Già...”
le uscì in un sospiro. Gli occhi neri si socchiusero mentre
scuoteva lentamente il capo allontanandosi dalla porta per andarsi ad
appoggiare con entrambe le mani pesantemente sul tavolo “Perché?…” Si
strinse nelle spalle, sorridendo appena “Perché non ti ho detto chi sono?
Francamente dubitavo perfino ti ricordassi di me...” una strana emozione l’assalì,
partendo dallo stomaco e la rese come molle, incapace di muoversi, stroncandole
il respiro, anche se il suo ormai collaudatissimo autocontrollo le impedì di
farsi scoprire. Lui era lì, davanti a lei, il suo sogno di ragazzina. La luce
morbida della lampada disegnava i tratti decisi di quel viso addolcito da un
leggero sorriso che piegava appena le labbra carnose. Gli occhi scuri, profondi,
lampeggiavano nella semioscurità. E lui si ricordava ancora di lei, dopo tutti
quegli anni... Lasciò che il profumo del suo dopobarba le riempisse le narici, che
quella sensazione di tempo sospeso la coccolasse ancora un poco, mentre si
godeva quei pochi, brevi attimi di solitudine con il suo sogno
impossibile. “Si, mi ricordavo di te… ma non mi aspettavo di trovarti
tanto lontana da Amburgo e dopo tanto tempo! E con un altro cognome…” un sospetto,
un’occhiata fugace alla mano sinistra di lei che non le sfuggì. “No… è
il cognome di mia madre…” rispose al sottinteso alzandosi ed afferrando la borsa
lì accanto, senza terminare la frase. “Suppongo avessi bisogno di me,
visto che sei in redazione ad un orario improbabile ed Angela non è qui…” già, non
era lì, pensò con una stretta al petto. Era da Lukas… forse per dirgli del
matrimonio, o forse per fare di nuovo l’amore con lui… Non ascoltò la
risposta che il portiere le stava dando, travolta da mille pensieri, dal
desiderio di rivelargli tutto ma anche attanagliata dal dubbio che, se Angela
aveva accettato di sposare lui dopo che altri sei uomini le avevano fatto la
stessa richiesta e si erano visti rifiutare, forse, dopo tutto, ne era
davvero innamorata. “Lena, tutto bene?” la voce profonda del giovane la
risvegliò. Le aveva posato delicatamente una mano sulla spalla, avvolgendola con
un caldo sguardo preoccupato nel quale si perse per una frazione di secondo,
riprendendosi quasi subito e rendendosi conto di essere avvampata. “Scusa… è che oggi è stata una giornata particolarmente pesante!” rispose, massaggiando le palpebre al di sotto
degli occhiali, sperando di dissimulare il rossore. “Immagino… e credo sia anche un poco
colpa mia.” e sorrise, spezzandole definitivamente il cuore. “Già...” seppe
solo replicare. “Angela mi ha detto che ti avrei trovata ancora qui.
Dovevo farle avere alcuni documenti e la lista dei miei invitati. Domani,
dopo l’allenamento, partirò per il Giappone e mancherò almeno una settimana…” disse
porgendole dei fogli che la ragazza scorse velocemente per poi riporli
ordinatamente nella cartelletta. “Grazie. Con questi domattina potrò
cominciare le pratiche burocratiche…” “Ma c’è qualcosa qui dentro di cui
non ti occupi tu?” le chiese con un sorriso divertito. “Mmmm… No, direi di
no!” rispose, sorridendo a sua volta e scuotendo il capo. Per un istante gli
apparve dinnanzi il viso di una ragazzina timida e gentile, i capelli raccolti
in una lunga treccia ed un sorriso dolce ad illuminare il viso. “Ti spiace
se andiamo?” lo riscosse dai ricordi, facendo il gesto di spegnere la
lampada. “Certo…” Uscirono dall’enorme palazzo a vetri e l’aria gelida e
tagliente di fine ottobre li investì, costringendo la ragazza ad alzare il
bavero del cappotto. “E ora, a casa?” era un invito? O una semplice domanda?
La stava fissando con curiosità, le mani in tasca del giaccone di pelle,
i capelli neri, un poco lunghi, mossi leggermente dal vento freddo, aspettando
una risposta. “No” scosse il capo “oggi il palazzetto chiude alle
undici…” “Ti accompagno” le parole gli sfuggirono prima ancora che potesse
accorgersene, e lasciarono interdetti entrambi. Ma ormai erano state pronunciate
e non poteva più tirarsi indietro… La pista non era molto affollata e vi
s’immerse con piacere, lasciandosi il portiere alle spalle. Avevano
chiacchierato del più e del meno, senza parlare del suo passato e di questo
gliene era grata. Volteggiò, libera come ogni volta che indossava i pattini, leggera,
senza pensieri… no, non senza pensieri, non quella sera. Sentiva lo
sguardo profondo di lui puntato addosso e il suo cuore batteva
accelerato. “Sei sempre molto brava…” “Grazie” rispose con un
sorriso “In realtà non ho mai smesso di pattinare…” non ebbe la forza di
sostenere ancora il suo sguardo, il suo sorriso. Scivolò via, eseguì una esse
perfetta sulla pista, caricò il salto e si librò con potenza e leggerezza in
aria, ricadendo con precisione ed eleganza sul ghiaccio. Le sorrise,
scuotendo divertito il capo. Accelerò, caricò il salto e… Se
la trovò accanto, una risata trattenuta e la sottile mano tesa verso di lui
“Il ghiaccio non è esattamente morbido come l’erba dei campi da calcio!” un
luccichio divertito negli occhi nocciola. “Ho notato…” rispose ridendo
ed afferrando la mano che gli veniva tesa “Credo, tutto sommato, di essere un
po’ arrugginito. Tu sei davvero brava come una volta.” la fissò, rimettendosi in
piedi. “No... Il tempo passa e non ho certo più l’agilità di una ragazzina.
Ma i salti sono sempre stati la mia specialità!” sorrise, reclinando il capo da
una parte e pattinando a ritroso. “Lena Miller… Eleonor Schumacher… continuo
a non credere che siate la stessa persona…” si fermò alla balaustra, fissandola
intensamente. Voleva sapere. Si strinse nelle
spalle, accennando un sorriso “A scuola nessuno, neppure i professori mi chiamavano col mio
nome, eravate tutti abituati a chiamarmi Lena.” ricambiò lo sguardo, e lui vi trovò
qualcosa di profondamente diverso da allora. Non era più la ragazzina timida e
semplice di quando avevano quattordici anni. In fondo a quegli occhi nocciola si
leggevano una determinazione ed una forza che mettevano quasi soggezione. Era
cambiata, era molto cambiata. “Mio padre se ne andò che avevo tredici
anni. Mia madre fece di tutto per farmi continuare a studiare e pattinare, ma
l’anno seguente le diagnosticarono una malattia che la rese inabile al lavoro e per
la quale sono necessarie cure costosissime…” sospirò, stingendo le labbra. “Se non vuoi parlarne...” lo interruppe, facendo segno di diniego e zittendolo con gesto
secco della mano. “Sai come finì la finale del Campionato… Quella era la
mia ultima speranza di continuare a pattinare a livello agonistico senza pesare
su mia madre. Ci trasferimmo qui a Monaco, da mio nonno, che venne a mancare
due anni dopo. Studiavo, lavoravo, e nel tempo che mi rimaneva venivo qui
a pattinare.” c’era tristezza in quello sguardo, ma anche un coraggio
invidiabile. “E il cognome?” Sospirò, appoggiandosi pesantemente al bordo
pista con le braccia conserte, senza più guardarlo “A diciott’anni rinnegai il nome
di mio padre e presi quello di mia madre… Ci aveva lasciate sole, e non era
tornato sui suoi passi neppure quando aveva saputo della malattia di
lei.” “Mi spiace…” “Non importa, acqua passata…” Le si
affiancò, sfiorandole la spalla con la sua, osservandone il profilo delicato del viso
“Come sei finita a lavorare per Angela?” Un sorriso amaro piegò le labbra
morbide dalle quali uscì un sospiro rassegnato. Avrebbe voluto dirgli tutto.
Tutto... Ma… “Prima di finire l’Università spedii dei curriculum.
Angela era già lanciata nel mondo del giornalismo, ed in più gestiva l’ingente
patrimonio dei genitori che, come saprai, sono molto anziani. Lei aveva bisogno
di una segretaria tutto fare, io di un lavoro ben remunerato… E così,
eccomi qui.” si voltò a guardarlo, il viso più sereno, come si fosse tolta un peso.
“Mi ero sempre chiesto che fine
avessi fatto…”
Rientrò in casa cercando di fare meno rumore possibile.
Qualcosa di morbido le sfiorò le gambe e fù lesta ad acchiappare il gatto
prima che fuggisse giù per le scale. “Ehi, tu! Dove credi di andartene,
Matisse?!” Il batuffolo peloso le si sistemò istantaneamente in braccio,
cominciando a fare le fusa allegramente. Chiuse piano la porta dietro di sé
ed avvicinò il viso alla testolina morbida, parlando adagio. Si sentiva
leggera come non le capitava da tempo immemorabile. Eppure un peso enorme le
gravava in fondo al cuore. “Oh, Matisse! E’ stata la serata più bella
della mia vita!” la passeggiata sul ghiaccio, la cena veloce in un piccolo kebab lì
vicino. Chiacchiere, ricordi… Non si capacitava ancora di quello che era
successo. Ai tempi delle medie non aveva mai avuto né l’occasione né tanto meno
il coraggio di parlargli, mentre quella sera…. “Ben tornata!” la
voce gentile della madre la fece sobbalzare, riportandola alla realtà “Hai
mangiato?” “S-si…” rispose trasognata. “Lena, cos'è successo? Hai la febbre?
Sei così strana…” “No… no mamma, non è niente!” rispose con
un sorriso, cercando di non far preoccupare la madre “Tu, piuttosto, cosa ci fai ancora
in piedi? A letto, su!” liberò il micio dall’abbraccio e costrinse la donna a
tornare a riposare. Era felice. Sapeva di stare godendo di una felicità
effimera e transitoria, sapeva che l’indomani la vita sarebbe ricominciata come
sempre, anzi, forse peggio, ma voleva godere di quei pochi attimi fino in fondo.
Si addormentò ripensando ad un paio d’occhi scuri che la osservavano mentre si
accingeva ad incominciare il suo esercizio in mezzo alla pista
gelata.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 6 ***
rds06
Aveva freddo, tanto freddo ma faceva di tutto per
non darlo a vedere. Cercava disperatamente di non tremare, anche se il gelo, più
che provenire dalla pista candida, l’attanagliava da dentro. Sentiva il sangue
pulsarle nelle tempie, gli occhi bruciare. Era arrivata al palazzetto già
truccata, più pesantemente del solito. Non voleva che l’istruttrice si
accorgesse che aveva la febbre. Reb era al suo fianco, lo smeraldo degli
occhi offuscato da una profonda preoccupazione. Lei sapeva ma non era riuscita
ad impedirle di presentarsi comunque a quella gara. La sua ultima speranza di
continuare a pattinare. Se avesse vinto, la borsa di studio sarebbe stata sua
e avrebbe potuto continuare a praticare quello sport che era la sua passione
senza pesare su sua madre. Istintivamente la cercò tra il pubblico, pur
sapendo che non l’avrebbe vista al suo solito posto in prima fila, non quella
volta… Sospirò, stringendo i denti. Mai gara era stata tanto importante
per lei, che aveva sempre calcato il ghiaccio solo per passione e
divertimento. Deglutì, ricacciando le lacrime e stringendo i pugni. La
voce dell’insegnante la riportò alla realtà. “Sei minuti di riscaldamento!”
decretò lo speaker “In pista: Kristine Lehemann, Julia Schwarz, Maria Strauss,
Erika Moss, Lena Miller, Angela Weiss.” Incrociò lo sguardo con quello della
sua diretta rivale. Gli occhi azzurri lampeggiarono mentre un’espressione sicura
si dipingeva sul bel viso della ragazza di Monaco. Non si fece intimidire, c’era
davvero troppo in gioco. S’immerse nel candore del ghiaccio, eseguendo
qualche semplice figura ma… Si sentiva stanca, le gambe non rispondevano a
dovere, il fiato era corto, l’equilibrio instabile. Il viso e gli occhi
scottavano terribilmente, ogni respiro era un sacrificio. Una trottola
velocissima ed uno stop improvviso con una mano al fianco e l’altra puntata
verso il pubblico, come la parte finale del suo esercizio. E lui era là,
esattamente di fronte a lei. Rimase incatenata per un istante a quello sguardo
nero e profondo che pareva avvolgerla e sostenerla. Si era accorto che qualcosa
non andava e quegli occhi non la lasciavano un istante, come a volerle dare la
forza di andare avanti. Tirò un sospiro e si sentì più leggera. Quattro
atlete prima di lei. Quattro buone prestazioni che però non potevano aspirare al
podio. Di nuovo freddo, di nuovo quella maledetta spossatezza negli
arti, la gola secca e dolorante, gli occhi che non sopportavano più lenti.
“Reb,vieni un secondo…” si trovò la bionda amica al fianco in un
baleno “ Gettale, per favore…” e così dicendo tolse rapidamente le lenti a contatto
dagli occhi arrossati. “Ma, Lena! Come?...” “Non
preoccuparti” le sorrise “è meglio così, mi danno fastidio. Poi lo sai che non
ne ho bisogno in pista!” e le fece l’occhiolino. “Sei incredibile!”
disse l’altra, scuotendo il caschetto biondo “Dovrei essere io a sostenerti, invece
è il contrario!” Vennero interrotte dalla chiamata in pista. Un
sospiro. Un sorriso. Le dita che s’intrecciavano in un silenzioso augurio
di buona fortuna. Di nuovo il ghiaccio l’accolse. Il gelo della pista si
andò a sommare a quello provocatole dalla febbre, ma cercò di non farci
caso. Si mise in posizione, di profilo alla giuria, le mani intrecciate
dietro la schiena, il viso rivolto al pubblico di fronte a lei. Senza lenti non
riusciva a vederlo, ma sentiva quello sguardo nero e profondo seguirla ad ogni
passo, e vi si aggrappò come ad un’ancora di salvezza. Le prime note della
melodia che accompagnava il suo programma, la mente che si svuotava, il puro
piacere di danzare sul ghiaccio. Passi, trottole, la prima parte
dell’esercizio eseguita perfettamente. La fatica che cominciava a farsi
sentire, il fiato che iniziava a mancare. Due salti in sequenza. Il primo
quasi perfetto, il secondo… Si rialzò subito, rabbia e dolore che sfiorarono
appena il suo viso. Attraversò leggera la lastra gelata con un angelo
perfetto, poi di nuovo un salto…e di nuovo lo sgomento del pubblico. Una
trottola bassa, il cambio di filo per poi sollevarsi roteando sempre più veloce
e poi immobilizzarsi esattamente sull’ultima nota, una mano al fianco, l’altra
puntata innanzi a se, aggrappata a quegli occhi scuri che non l’avevano
abbandonata mai. Non potè che applaudire l’esecuzione perfetta della rivale
ed andare sportivamente a stingerle la mano poco prima di ricevere il premio per
il secondo posto. Strinse con dolore quella coppa di cristallo trasparente,
ma le lacrime non rigarono il viso smunto. Doveva andare avanti, ora
più che mai… Rebecca l’accolse fuori dalla pista, le rimise in spalla una
felpa, abbracciandola stretta. Si lasciò coccolare e girò intorno lo sguardo. Lo
vide. Le dava le spalle, chiacchierando con Hermann. Sospirò, lasciandosi
trascinare negli spogliatoi. Non si avvide di quegli occhi scuri che di nuovo
l’avevano cercata. “Lena? Tutto bene?...” L’ultima cosa che ricordò di
quel giorno fu il rumore della coppa che cadeva, infrangendosi al suolo mentre
le braccia dell’amica l’afferravano premurose, appena prima che il buio
l’avvolgesse.
Fotografie, biglietti aerei, prenotazioni d’albergo, una
grande busta marrone senza mittente, stracciata e gettata negligentemente in
terra. Gli occhi erano serrati, il capo stretto tra le braccia, le mani
intrecciate dietro la nuca, il respiro corto ed un dolore attanagliava il
petto mentre lo stomaco era chiuso dagli spasmi. Non ci credeva. Non
voleva crederci! Quando poche ore prima aveva aperto quella busta, in
principio aveva pensato ad uno scherzo di cattivo gusto. Ma sfogliando le
fotografie che accompagnavano le lettere, le registrazioni delle conversazioni,
le copie delle prenotazioni di camere d’albergo e ristoranti, si era dovuto
ricredere. Ed il dolore, la rabbia, la delusione l’avevano travolto. Lui
che non aveva mai concesso il suo cuore a nessuna prima d’allora, che non si era
mai sbilanciato, nascondendosi dietro una sprezzante maschera di ghiaccio e
ironia, era stato beffato dalla sorte. O forse che la Dea dell’amore,
scocciata dal suo atteggiamento, l’avesse voluto punire a quel modo per i
continui dinieghi alle molte opportunità che gli erano state offerte? L’unica
cosa che sapeva, era che lì, su quel tavolo, c’erano le prove che Angela l’aveva
tradito, e non una volta… Era deluso, amareggiato, ferito nel più profondo
dell’animo. Riaprì gli occhi e fissò nuovamente i fogli sparsi sul tavolo.
Freddezza e lucida determinazione in quello sguardo che più volte aveva
incrinato le certezze degli avversari in campo. Si levò in piedi con
risolutezza, afferrando alcune fotografie e si diresse verso la porta a grandi
passi. Nel prendere le chiavi dell’auto da un tavolino, sfiorò un’elegante
scatola rossa posata lì accanto. Un lampo d’ira negli occhi scuri ed un gesto
violento che scagliò l’oggetto sul pavimento, facendolo aprire e svelandone il
contenuto: un filo delicato di perle ed un paio di orecchini di perla ed oro
bianco. In redazione era una giornata come un’altra, seppure un’atmosfera
quasi di festa aleggiasse tra le scrivanie. Mancava pochissimo al fatidico
giorno ed un’allegra frenesia aveva contagiato un po’ tutti. Tutti, tranne
lei. Fredda, impassibile, controllatissima come sempre, la professionalità in
carne ed ossa. Non fece una piega quando lo vide entrare. Rispose
meccanicamente con tono assolutamente piatto quando le chiese se Angela fosse in
ufficio, mentre lo sguardo d’alabastro nero, gelido, la trapassava da parte a
parte. Se l’aspettava… Quando lui scomparve dietro la pesante porta di
legno massiccio che la separava dall’ufficio del suo capo, facendola sbattere
con violenza, fulminò ad uno ad uno gli occupanti di quell’angolo di redazione,
invitandoli a trovarsi qualcos’altro da fare lontano da lì. Lei stessa si
allontanò, dando un’ultima occhiata a quella porta, le labbra strette ed il
cuore che batteva veloce. Rientrò un’ora dopo. Le due ragazze che erano
dovute tornare al loro posto per forza maggiore accennarono domande ma vennero
subito zittite. La porta si aprì e si richiuse alle sue spalle. Il viso
atteggiato in una maschera gelida ed impenetrabile nella quale brillavano
come tizzoni ardenti quegli occhi colmi di furore. Le si fermò davanti, di
nuovo trapassandola con quello sguardo che lei sostenne impassibile, senza
batter ciglio. Dopo alcuni secondi le parole uscirono come un sibilo dalle sue
labbra “Tu… sapevi, non è vero?” “Si.” il cuore si era fermato. Aveva
visto il pugno serrarsi, per l’ira, per il dolore, perché si sentiva tradito
anche da lei. Se ne andò, voltandole le spalle, senza proferire altra parola.
Sentì su di se gli sguardi delle persone intorno, ma non vi fece
caso. Lui, ora, la detestava. No, forse addirittura la odiava, e lei si
sentiva morire per questo. “Eleonor!” la voce di Angela tuonava
dall’ufficio. Un sospiro, una mano che correva a sistemare meglio gli occhiali
sul viso. Un sorriso leggero, freddo e determinato le piegò appena le
labbra. Fissò per un istante quella porta dalla quale era appena uscito l’uomo
che era stato il suo sogno di ragazzina, e ripensò alle parole di sua madre,
qualche settimana prima… Era mezzanotte e lei era ancora in
piedi. Matisse girellava curioso sul mucchio di carte sparse sul
tavolo. “Non dormi?” la voce della madre l’aveva fatta sobbalzare
“Ma tesoro! Piangi!” L’aveva abbracciata ed aveva consolato quella figlia
che pur di starle accanto e non farle mancare nulla, aveva rinunciato ai suoi
sogni ed alla sua adolescenza, diventando prima del tempo una donna responsabile
ma sola… “Genzo Wakabayashi…” sorrise pronunciando quel nome “Mi
ricordo di lui! Me ne parlavi tanto spesso quand’eri ragazzina! Tanto che ho
sempre creduto che ne fossi innamorata, non era così?” un sorriso complice ed una
carezza sulle gote bagnate di pianto. Non aveva risposto, era solo arrossita,
distogliendo gli occhi. “Qualcosa mi dice che tu lo sia ancora, che tu lo sia
sempre stata…” “Mamma!” “Digli la verità su Angela, tutta la verità! O
non ti perdonerai mai di avergli mentito.” mentre diceva così, carezzava piano i
morbidi capelli castani della sua bambina. “Sai cosa succederà, vero? Perderò
il lavoro e…” “E sarai finalmente in pace con te stessa!” le strinse le
mani tra le sue, piccole e delicate “Ce la caveremo… ma tu DEVI dirgli la
verità! Non puoi continuare a questo modo…” Le parole della madre le
risuonavano ancora nelle orecchie mentre varcava la soglia dell’ufficio di
Angela. “Tu!” un sibilo furioso era fuoriuscito dalle labbra rosso fuoco,
mentre l’azzurro degli occhi era d’acciaio e brillava di lampi d’ira.
Sostenne tutto ciò con calma ed impassibilità. “Si, io.” le rispose
semplicemente, spiazzandola. L’altra non si sarebbe mai aspettata una tale
ammissione di colpa. “Come hai POTUTO!” era furibonda, aveva perso
totalmente il controllo davanti alla freddezza glaciale di quella piccola strega
che le aveva fatto sfuggire l’occasione della vita. “Io, come ho potuto?
Tu l’hai tradito.” il tono era severo, piatto, non consentiva repliche. La
direttrice rimase senza parole, attonita, lo sguardo fisso su quella donna che
per anni era stata al suo totale e completo servizio. Perché aveva bisogno di
lei, perché aveva bisogno quel dannato stipendio… Una smorfia cattiva si disegnò
sulla sua bocca, mentre un lampo maligno passava negli occhi socchiusi “E così
la piccola Lena è innamorata… E pensi che uno come lui ti
calcolerà mai?!” Era andata a segno. Avvertì una stretta al cuore. Ma tanto,
ormai, dopo tutti quegli anni passati a sognare, aveva fatto l’abitudine a
quel sottile dolore. Non rispose, restando impassibilmente immobile di fronte
all’altra, gli occhi negli occhi. “Vattene, e non farti più vedere. Sei
licenziata!” Un’espressione compiaciuta apparve sul viso della segretaria
“Mi spiace, Angela, troppo tardi…” I grandi occhi azzurri erano sgranati
dalla sorpresa mentre osservavano la lettera che veniva posata sulla scrivania,
già firmata… “Ho rassegnato le dimissioni tre settimane fa e tu,
come sempre, hai firmato tutto quello che ti ho passato senza degnarlo di
uno sguardo.” soddisfazione e rivincita si leggevano sul viso della ragazza “Oggi è
ufficialmente il mio ultimo giorno di lavoro, Freuilain Weiss!” Così dicendo
si voltò, lasciando la sua ormai ex principale stordita, senza fiato per
quella sonora sconfitta. Uscì dall’enorme palazzo a vetri, si guardò intorno
e poi volse lo sguardo verso l’alto, alla finestra di quello che per sei lunghi
anni era stato il suo ufficio, la sua prigione. Sorrise, liberando i lunghi
capelli dallo spillone ed aspirando la gelida aria di fine gennaio. Era
libera.
La porta del brauhaus si spalancò con violenza e si richiuse con
altrettanto rumore. I lunghi orecchini sbatterono contro il viso della
ragazza che si era voltata di scatto, sorpresa da quell’ingresso. Tirò un
sospiro e le decine di braccialetti d’argento tintinnarono quando incrociò le
braccia al petto con fare risoluto, prontissima ad affrontare il panzer che le
si stava facendo incontro. Hermann Kalz non proferì parola. Si sedette con
movimenti lenti e misurati di fronte alla bionda, senza staccare gli occhi
azzurri da quelli smeraldo di lei. Dopo alcuni minuti si decise a
parlare. “Tu… voi… sapevate! E non avete detto nulla! Avete
lasciato che venisse trattato a quel modo, che lo rendesse ridicolo, che lo
utilizzasse come un burattino! L’ha preso in giro, dal primo all’ultimo giorno, e
voi lo sapevate! Non siete meno colpevoli di quell’arpia!” aveva urlato le
ultime parole, facendo sì che gli astanti si zittissero, voltandosi verso di lui.
Si alzò, facendo cadere l’alto sgabello su cui era seduto e le diede le spalle
per andarsene ma le parole di lei lo raggiunsero, immobilizzandolo “E secondo te,
brutto idiota, chi gli ha mandato tutta quella roba su Angela?” Si
girò piano a guardala. Un sopracciglio biondo scattò verso l’alto con
fare spazientito mentre la donna lo raggiungeva aggirando il bancone e
piazzandoglisi di fronte “Klaus Reiner, ex fidanzato di Angela, secondo te, da chi ha avuto
tutte quelle informazioni che poi ha dato a Wakabayashi, eh?” Il
centrocampista deglutì, spiazzato. Sovrastava Rebecca di tutta la testa, eppure
in quel momento si sentiva piccolo piccolo. “Tu…
Voi…” “No” il
biondo caschetto scosso in segno di diniego “Non io. Lena.” “Lena? Lei
sapeva tutto! Ha continuato ad uscirci facendo l’amica innocente e non gli ha mai
detto nulla! Lei…” non riuscì a terminare la frase, fulminato dallo sguardo della
ragazza. “Io e te dobbiamo fare un discorsetto…” così dicendo afferrò il
giovane e lo trascinò al bancone, obbligandolo a sedersi. Spillò due birre,
gliene porse una e gli si mise davanti, le braccia appoggiate al banco e lo
sguardo dritto nel suo. Sospirò, cominciando a parlare piano
“Se Lena viene a sapere quello che stò per dirti mi ammazza…” zittì l’altro prima
che potesse interromperla “ Quando eravamo alle medie lei era innamorata persa
di Wakabayashi. Credo che in quattro anni in cui sono stati in classe assieme
gli abbia rivolto si e no tre volte la parola… E’ sempre stata timida ed
introversa e la sua situazione famigliare non l’ha certo aiutata ad aprirsi… Quel
porco di suo padre prima ha cornificato la madre e poi l’ha piantata in asso
con una figlia a carico, senza farsi vedere neppure quando alla madre
di Lena diagnosticarono una malattia che la rese inabile al lavoro e che
necessita di cure costose. La finale del Campionato era la sua ultima speranza
di poter continuare a pattinare. Se ricordi era in palio una borsa di studio…” un
cenno del capo in risposta “Ma cosa c’entra…” di nuovo venne fulminato e si
zittì. “Il giorno prima della finale erano arrivate diverse ragazze della
squadra di Monaco. Erano nel parco fuori dalla scuola, vicino al laghetto. Non
era gelato, ma faceva freddo. Lena stava andando a prendere l’autobus. Non mi
disse mai di chi si trattava, ma quattro ragazze di Monaco iniziarono a
prenderla in giro per il suo abbigliamento, la strattonarono ed alla fine tanto
fecero che arrivarono a farla cadere nel laghetto. Come ti ricorderai non era
profondo e lei ne venne fuori da sola. Purtroppo l’autobus era in ritardo a
causa della neve. Il giorno della gara aveva quasi quaranta di
febbre.” “Oddio… ricordo che sbagliò quei salti… Mel ci rimase malissimo! Lena
per lei era un idolo da imitare…” “Hermann, Lena mi disse che ero maligna, ma
sono sicura che Angela sapesse quello che era successo…”
Il centrocampista dell’Amburgo era esterrefatto “Ma…” un dito dall’unghia laccata di
viola si posò sulle sue labbra. “Lei non ci ha mai voluto credere… Di
quel giorno mi ha raccontato però una cosa: ricorda che Wakabayashi non ha
mai smesso di guardarla, che il suo sguardo l’ha sostenuta dall’inizio alla fine
di quel dannato esercizio…Tu non lo sai, ma Lena è svenuta negli spogliatoi.”
sorrise triste. “Perché si è messa a lavorare per lei?” chiese il ragazzo,
sconcertato da quello che aveva appena ascoltato. Reb si levò in piedi, sospirando “Te
l’ho detto… Le cure di sua madre sono piuttosto costose… Sei anni fa
Angela era alla ricerca di una supersegretaria che le gestisse sia gli affari privati
che il lavoro. Puntava già alla direzione di Sport & Sport ma doveva anche
amministrare il patrimonio di famiglia e… gestire una vita privata
piuttosto complessa, diciamo così. Non mi chiedere perché, ma Angela ha
rifiutato ben sei proposte di matrimonio, prima di quella del tuo amico. E tutti
i sui fidanzati sono stati puntualmente traditi... con Lukas Bauer, il suo primo
fidanzato, l’unico che non le abbia mai chiesto di sposarla ma che l’ha sempre
tenuta in pugno.” “Accidenti…” Hermann si lasciò andare sul bancone, scuotendo
il capo. Sollevò lo sguardo e fissò la ragazza che aveva di fronte. Improvvisamente
la mente venne travolta dai ricordi di quand’erano ragazzini ad Amburgo,
secoli prima. Rebecca gli era sempre piaciuta, ma quella ragazza aveva un
carattere dannatamente aggressivo, difficile, scostante. Faceva la dura, il maschiaccio
e spesso e volentieri si cacciava nei guai. Lui poi non ci sapeva
fare con le ragazze come il suo amico… E così si erano semplicemente persi
di vista, e a lui era rimasto il rimpianto di non averci mai provato. “Ehi, Kalz, ci sei?” la voce della bionda lo riportò alla realtà e si sorprese ad
arrossire mentre si perdeva per un attimo negli occhi verdi di lei. “E…
e così è stata Lena…” disse, ancora frastornato. Rebecca storse le
labbra, spazientita e lo osservò socchiudendo gli occhi “Già… ovvio che è stata
lei! Lei aveva in mano l’agenda di Angela, lei le faceva le prenotazioni,
lei raccontava le balle al posto suo, lei comprava i regali ed organizzava le
serate con il “fidanzato ufficiale”, parando il sedere a quella strega!” pronunciò
tutto quanto d’un fiato, in un sibilo d’ira. Il giovane ci mise un attimo a
mettere a fuoco il significato di quelle parole. “Regali? Aspetta
un attimo! Vuoi dire che era Lena ad occuparsi di tutto? Regali, appuntamenti, le
serate al Wagner?” lo sguardo di Reb fu una risposta sufficiente ed il ragazzo
si sentì travolgere dall’ira “Quella… !” e battè un pugno su bancone, facendo
oscillare il boccale semivuoto di fronte a lui. Rebecca riprese a
parlare, appoggiando la schiena al retrobanco “ Quando Angela accettò la proposta di
matrimonio di Wakabayashi, Lena credette che, alla fine, si fosse innamorata di
lui. Ma circa due mesi fa le capitò, per puro caso e fortuna, di ascoltare una
conversazione tra lei e Lukas. Angela ha accettato solo perché in questi anni è
riuscita a dilapidare i soldi dei genitori. Peggio! Lena crede che la stupida se
li sia fatti fregare sotto al naso da quel bell’imbusto che se la rigira come
vuole! Wakabayashi è un ottimo partito: oltre ad essere un calciatore di
fama internazionale è pure ricco di famiglia, e ad Angela i suoi soldi
facevano comodo! Negli ultimi tempi aveva fatto la fidanzatina fedele per non
destare sospetti, ma appena sposati il tuo amico sarebbe stato fregato del tutto!
Quando Lena si rese conto della gravità della situazione, recuperò tutto il
materiale che aveva a disposizione e contattò Reiner, il quale, tra l’altro, aveva
già sguinzagliato un fotografo alle calcagna della ex perchè sospettava
qualcosa.” Ad Hermann parve come se un peso gli si fosse levato dallo stomaco…
Lena aveva salvato il suo migliore amico da una brutta storia. Un
dubbio assalì all’improvviso il giovane ad udire quelle parole “Reb… Lena
è ancora innamorata di Wakabayashi?” Si guardarono. Non gli
rispose, semplicemente gli tolse il boccale da davanti e glielo riempì
nuovamente, posandolo con un sospiro ed un sorriso mesto “Tu cosa ne
dici?”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** 7 ***
rds07
Eccomi qui^^. Perdonate se aggiorno così in
ritardo questa storia, ma è un periodaccio ed avevo altro per la testa
^^. Colgo l'occasione per ringraziare tutte e tutti coloro i quali mi stanno
seguendo in questo piccolo lavoro, sono davvero molto molto felice che vi
piaccia e spero che gli ultimi due capitoli saranno di vostro
gradimento. Grazie a tutti! Ad Euridice, Sanae, Ansy, Minigo, Evy78,
Lazzarus34 e a tutti coloro che leggono seppur senza recensire^^. Buona
lettura! Eos75
Era il primo giorno di scuola dopo le vacanze di Natale. Vacanze… non
che per lui fossero state molto riposanti! E neppure per Hermann. Militare nelle
giovanili dell’Amburgo era un impegno serio, richiedeva un livello altissimo di
gioco e lui non amava perdere tempo in vacanze. Quando varcò la soglia
dell’aula udì i soliti gridolini provenire dalle ragazzine raccolte in
gruppetto in fondo all’aula. Sospirò, scrollando il capo ed andandosi a sedere
pesantemente al suo posto, dando loro le spalle. Due banchi avanti a lui, la
ragazza bionda che piaceva a Kalz era come sempre isolata dal mondo: walkman
nelle orecchie e un qualche assurdo libro di filosofia aperto su banco. Non
sembrava molto concentrata nella lettura, in realtà. Al suo fianco, una sedia
vuota. “Strano” notò automaticamente “di solito quelle due arrivano
insieme…” Allungò una mano verso lo zaino, aprendolo e dando
all’interno un’occhiata veloce. Il libro era lì, campeggiava in mezzo ai
testi scolastici. L’aveva letto quasi d’un fiato durante quei giorni in cui non
c’erano state lezioni. L’ingresso della professoressa interruppe il filo dei
suoi
pensieri. “Messner…” “Presente!” “Metzger…” “Presente!” “Muller…” “Presente!” Il
cuore ebbe un sobbalzo il suo sguardo si puntò su quel banco vuoto. La
professoressa non l’aveva chiamata
all’appello! “Wakabayashi…” Silenzio. “Wakabayashi!” “Presente!”
si riscosse all’improvviso, sussultando. Se n’era andata ... Le ore
volarono e le aule si svuotarono in un baleno al suono della campanella che
annunciava la pausa per il pranzo. Mangiò in fretta, soprappensiero, ed uscì
a passo svelto dalla mensa dirigendosi al campo della scuola. Aveva bisogno
d’aria, di distrarsi, magari di giocare un po’ a calcio… Delle grida
attrassero la sua attenzione: nel mezzo del prato antistante la scuola, quattro
ragazze stavano litigando. “Ma fatevi gli affari vostri! Voi non capite un
accidente, razza di deficienti! E non valete neppure un decimo di quello che
vale lei!” la bionda vestita di nero era una furia. Non udì la
risposta delle altre tre, ma da come la ragazza reagì, immaginò che non fossero
certo complimenti. La vide scattare ed iniziare a spingerle e quelle non si
tirarono indietro. “Tre contro uno non è leale…” pensò calando la
visiera del cappellino ed allungando il passo. “Piantala, tu!” intimò
alla ragazza, bloccandola da dietro “E piantatela pure voi!” le
ammonì, fulminandole con lo sguardo “Avete proprio voglia di farvi
sbattere fuori dalla scuola!” “E lasciami!” Rebecca si scosse dalla
presa del portiere, che la liberò con un sorrisetto ironico. “Non è una buona
idea battersi una contro tre, non ti pare?” “Grazie, ma la prossima volta
fatti gli affari tuoi, eh, Wakabayashi?” gli occhi smeraldo lampeggiarono
furibondi mentre la bionda si massaggiava le braccia dove il ragazzo l’aveva
stretta. Lui scrollò le spalle e face per andarsene,ma si immobilizzò un
istante, voltandosi a guardarla serio. “Ma la tua amica? Che fine ha
fatto?” Lo fissò, colta di sorpresa, poi rispose con tono duro “E a te che te
ne frega, si può sapere?” Sospirò spazientito e mentalmente cercò una scusa
per giustificare quella domanda. Neppure lui sapeva esattamente perché l’aveva
posta…o si? “Devo restituirle un libro…” Lo sguardo smeraldino si addolcì
un attimo, mentre le labbra si serravano a trattenere il pianto che l’aveva
evidentemente assalita. “Il Signore degli Anelli, vero?” “Si, ma…”
non terminò la frase. “Tienilo!” “Ma…se hai il suo indirizzo puoi
rimandarglielo! Io l’ho letto…” Il caschetto biondo dondolò
leggermente al cenno di diniego della ragazza, mentre un sorriso triste e
dolce appariva sulle labbra tinte di viola “Tienilo… e rileggilo.
Sono sicura che le farà piacere. Lei ne ha altre edizioni, non ti preoccupare!
Accidenti! La campana! Sarà il caso di tornare in aula!” e così dicendo
corse via, senza dargli il tempo di replicare. A casa, nella sua stanza,
svuotò lo zaino e ne estrasse l’altissimo tomo. Lo tenne per un poco tra le
mani, fissando la copertina sulla quale campeggiava la raffigurazione della
dimora incantata degli elfi… Chiuse gli occhi e tornò a quel giorno,
sull’autobus. Rivide il suo sorriso e scosse il capo. L’aveva letto d’un
fiato ed aveva aspettato il rientro dalle vacanze contando i giorni solo per
poterglielo restituire, per ricevere di nuovo in dono quel sorriso
gentile. Riaprì gli occhi e con un sospiro rimise il volume al suo posto
sulla libreria. “Un
giorno te lo restituirò…” promise sottovoce.
Era uscito facendo sbattere dietro di se la pesante porta in rovere scuro,
aveva incrociato il suo sguardo, ascoltato la sua risposta. Le aveva voltato le
spalle e se n’era andato, livido d’ira, furioso come non era mai stato in vita
sua. Non riusciva a pensare ad altro. L’aveva tradito. Gli aveva
mentito. Lei… Angela aveva opposto una strenua resistenza alle sue accuse,
ma era dovuta capitolare per forza di cose quando l’aveva messa di fronte alle
prove schiaccianti che dimostravano le sue colpe. Una profonda amarezza gli
aveva bloccato lo stomaco: il suo giudizio su quella donna si era rivelato
completamente sbagliato, si era fatto prendere in giro come un ragazzino, era
stato usato e se quelle foto non fossero arrivate in tempo, sarebbe stato un
giocattolo in mano a lei per tutta la vita. Era rimasto impassibile,
glaciale, la sua voce profonda aveva risuonato bassa ed implacabile nel grande,
modernissimo studio della bella direttrice. Era crollata, aveva ammesso, aveva
addirittura pianto, ma quelle lacrime lo avevano lasciato del tutto
indifferente. Era ferito nell’orgoglio, e deluso. Deluso di se stesso.
Profondamente. Si era lasciato ingannare, aveva frettolosamente preso una
decisione che avrebbe influenzato il resto della sua esistenza, per cosa? Perché
si sentiva solo? Per quel poco di invidia che provava nei confronti dei suoi
amici che vedeva felicemente sposati e con figli? Per quel senso di vuoto
che l’attanagliava ogni qual volta rientrava nella sua enorme
villa? “Idiota” continuava a ripetere dentro di se mentre il suo
sguardo scuro inchiodava impietoso l’ormai ex fidanzata all’elegante poltrona
sulla quale si era lasciata andare, pallida e senza fiato, le carte ormai
scoperte. L’aveva lasciata lì, con una foto che la ritraeva nuda col suo
amante gettata sulla scrivania, ammutolita dalla disfatta. Ad aspettarlo, là
fuori, lei… Impeccabile, controllatissima come sempre, aveva incrociato il
suo sguardo e l’aveva retto senza batter ciglio. Se fino a pochi istanti
prima la sua furia era ghiaccio, quel ghiaccio aveva preso fuoco e lo stava
letteralmente divorando. Aveva stretto i pugni nel tentativo di contenere il
desiderio di prenderla per le spalle e scrollarla, di urlarle addosso tutta la
sua frustrazione, di chiederle perché… Perché lei, pur sapendo, non gli aveva
detto nulla… Perché lei lo aveva tradito… “Si” aveva risposto
semplicemente alla sua domanda, alla sua accusa... La voce pacata e
ferma, quella stupida sillaba pronunciata con freddezza, continuavano a
martellargli il cervello, colmandolo d’ira, dolore, delusione. Aveva guidato
a velocità sostenuta, incurante del traffico, immerso in un marasma di pensieri,
considerazioni, concentrato nel disperato tentativo di cancellare il maledetto
ricordo di quel sorriso che non faceva altro che trafiggergli il cuore,
torturandolo dal primo momento nel quale aveva compreso l’accaduto. Perché
lei sapeva. E non gli aveva detto nulla… Le gomme slittarono sulla ghiaia
del vialetto quando arrestò violentemente il coupet nero davanti a casa. Si
lasciò andare un istante sul sedile, deglutendo e serrando gli occhi. Si passò
un mano sul viso e solo allora si accorse che le lacrime lo avevano
bagnato. Sospirò, asciugando il volto ed uscendo piano dall’auto. Aprì il
portone e rimase un istante immobile al centro del grande atrio illuminato ormai
dalla calda luce del tramonto, vuoto. Come il suo cuore. Si avviò con
passo stanco verso la sala, notando automaticamente che il maggiordomo aveva
ordinatamente riposto i gioielli che lui aveva gettato a terra sul tavolinetto
d’onice dov’erano prima. Ristette ad osservare l’elegante confezione rossa
con sorriso ironico stampato sulle labbra. “Idiota…” ripetè ancora una
volta in un sussurro. Sul modernissimo tavolo in cristallo erano ancora
sparpagliate carte e foto. Scosse il capo, sospirando e serrando la
mascella. Stava per abbandonarsi pesantemente sulla grande poltrona accanto
alla libreria, che la sua attenzione venne attratta dal grosso tomo posato lì
accanto. Furia. Dolore. Frustrazione. E lacrime. Lo afferrò,
scagliandolo lontano con veemenza, una sola parola gridata nel silenzio della
grande casa “Perché?” mentre l’oggetto rovinava contro un muro, finendo in
terra, scompostamente aperto, la solita cartina sfuggita dalle ultime pagine e
semipiegata lì vicino. Si lasciò andare sul soffice alcantara blu,
tenendosi la testa fra le mani, le dita che artigliavano i corti capelli
neri nello sciocco desiderio che quel poco dolore fisico l’aiutasse a
distoglierlo da quello lancinante che provava nell’animo. Vuoto. Un
grande, immenso, desolatissimo vuoto. Questo era quello che vedeva
guardandosi dentro. Il piccolo scrigno malamente scassinato, gettato in un
angolo e svuotato di tutti i suoi tesori. Così si sentiva. Derubato. Di
quell’unico, preziosissimo tesoro tenuto in serbo per tanto tempo, di quel
piccolo segreto che per anni gli aveva dato la certezza che se una volta il suo
cuore aveva battuto, incantato da quel sorriso dolce, forse un giorno l’amore
vero sarebbe arrivato anche per lui. Un suono fastidioso lo raggiunse nel
profondo del pozzo scuro dove si era calato a crogiolarsi nel languore della
disperazione, quello del telefono che squillava insistentemente. Si levò in
piedi come un automa e sollevò svogliatamente la cornetta
“Pronto…” “Herr Wakabayashi?” chiese una voce maschile sconosciuta
dall’altro capo. “Sono io…” rispose sospirando e storcendo la bocca, mentre
con due dita massaggiava gli occhi. La testa gli doleva maledettamente e non
aveva alcuna intenzione di sottoporsi all’ennesima intervista, ma la buona
educazione gli impediva di chiudere il telefono in faccia all’altro prima di
sapere cosa diamine volesse. “Mi chiamo Klaus Reiner. Forse il mio nome non
le dirà gran chè…” no, effettivamente non gli diceva nulla “Sono l’ex
fidanzato di Angela Weiss..” Un sorriso ironico gli piegò le labbra mentre
rispondeva sarcastico “Beh, abbiamo una cosa in comune, direi!” “Lo so. Parte
del materiale che ha ricevuto oggi è opera mia…” “Parte?” per un istante non
respirò, mentre un dubbio si insinuava nella sua mente. “Angela è sempre
stata molto furba, come avrà potuto notare, ed è sempre stata efficientemente
coperta dalla sua segretaria, come lei saprà…” “Già…” pensò, sentendo amaro
in bocca. “Ed è proprio grazie a freuilain Schumacher che sono riuscito a
raccogliere tutto quel materiale. Anche se la mia storia con Angela era finita
da un pezzo… diciamo che non amo farmi prendere in giro…” Non stava più
ascoltando ciò che l’uomo gli stava dicendo, la rabbia lo aveva abbandonato di
colpo, lasciandolo tramortito, incredulo. Si appoggiò alla parete con la schiena,il capo reclinato
all’indietro mentre un “grazie” sospirato a fior di labbra sfuggiva, trascinando
con se dolore ed amarezza.
Chiuse adagio il libro, posandolo sulle ginocchia, ed abbandonò il capo
all’indietro, socchiudendo gli occhi. Il viso era finalmente disteso dopo
quei giorni di fuoco che avevano seguito l’annuncio dell’annullamento del
matrimonio. Addirittura un accenno di sorriso vi aleggiava, mentre un sospiro
sfuggiva dalle labbra ed un braccio scivolava mollemente rilassato dal bracciolo
della poltrona a sfiorare il morbido tappeto. Era finita,
finalmente… Riaprì gli occhi e si voltò pigramente a guardare fuori dalla
finestra. Era buio, il giardino era solo fiocamente illuminato dalla luce della
luna, filtrata da sottili nubi che solcavano il cielo sopra Monaco. Si levò
piano in piedi, abbandonando il tomo sui cuscini, osservando il riflesso
del proprio viso nel vetro. Sì, era finita, tutto era come prima. O
quasi. Si avvicinò alla finestra e vi posò la fronte, lasciando che il gelo
proveniente da fuori gli causasse una scossa piacevole in tutto il
corpo. Riaprì gli occhi e guardò un istante l’alone che il fiato caldo
lasciava sul vetro. Uno sciocco gioco da bambini… Sorrise. No, non era vero,
non era tutto come prima. All’apparenza poteva esserlo, ma dentro di lui
qualcosa era cambiato. Quella storia aveva lasciato il segno, e che segno.
Non sarebbe stato facile per una donna conquistare la sua fiducia, per non
parlare del suo amore. Amore. Si scostò dalla finestra, guardando il buio
fuori senza in realtà vedere realmente nulla. “Eppure non penso a lei…”
Non era l’immagine della bella, coinvolgente, sensuale e bugiarda ex
fidanzata a tormentarlo quando pensava a quella parola... Era il ricordo
lontano di un sorriso che l’aveva sconvolto secoli prima. Quel ricordo del quale
si era sentito defraudato poche settimane prima nel sentirsi rispondere quel
“si” che non avrebbe mai voluto udire, davanti al quale era fuggito senza
chiedere spiegazioni, furioso. Non l’aveva più rivista da allora, sapeva solo
che si era licenziata. “Non ti ho neppure detto grazie…” sussurrò,
sospirando, e di nuovo un buffo alone ricamò il vetro, ricordandogli il bianco
gelido della pista di pattinaggio. Respirò piano il freddo proveniente dalla
superficie liscia e si lasciò trasportare da quel desiderio improvviso che
l’aveva colto. “Ma si… tanto che mi costa?” si disse attraversando la
stanza a grandi passi mentre infilava il giubbotto al volo.
Il locale era quasi deserto, la musica ormai spenta, il silenzio rotto
solo dal tintinnio dei boccali vuoti che la ragazza stava riponendo
ordinatamente sul bancone. Quando la porta si spalancò, non guardò neppure
chi fosse il nuovo avventore e l’aggredì col suo solito “Siamo in
chiusura, non si serve più birra!” “Dov’è?” Spalancò gli occhi verdissimi
e si voltò di scatto, riconoscendo la voce profonda che aveva posto quella
domanda. “Wakabayashi, cosa?...” non terminò la frase, inchiodata dallo
sguardo duro d’alabastro che la stava letteralmente trafiggendo. Si sentì
ripetere la domanda piano, quasi sottovoce, ma con un tono che pretendeva una
risposta. “Rebecca, dov’è lei? Tu lo sai e questa volta devi dirmelo!” La
ragazza abbassò lo sguardo, incapace di reggere quello magnetico del portiere, e
rispose “Dove sia stasera, non lo so… So di certo che domani se ne andrà
da Monaco. Ha trovato lavoro in Svizzera e si trasferisce là con la
madre…” Gli parve che il mondo gli stesse crollando addosso. Serrò le
mascelle, deglutendo a vuoto e stringendo i pugni, furioso e… impotente. Non
voleva perderla di nuovo… Perderla? Non era mai stata sua, non ci aveva
mai minimamente pensato… o si? Era sempre e solo stata un ricordo da
ragazzino adolescente, eppure l’idea che sparisse nuovamente dalla sua esistenza
gli era insopportabile. “Davvero non sai dove sia?” chiese, quasi
sottovoce. Il caschetto biondo dondolò triste in segno di diniego.
Il palazzetto era deserto, l’orario di apertura al pubblico terminato da un
pezzo, eppure la pista era ancora illuminata e il ghiaccio, ripristinato da
poco, pareva un’enorme specchio candido. Tirò un lungo respiro, lasciando che
l’aria fredda le aggredisse la gola ed i polmoni, dandole quel brivido secco
alla spina dorsale che l’elettrizzava. Si tuffò nel suo regno, leggera,
abituando con gradualità gli arti alla fatica ed al movimento. Scambiò un
sorriso con l’omone seduto dietro la consolle della musica. Provò un salto,
una trottola, un angelo. Quella sera le veniva tutto così facile… Amava
quel posto, lì aveva gareggiato la prima volta. Non aveva vinto, no. I suoi
successi avevano avuto il loro principio e la loro fine nel grande palazzo del
ghiaccio ad Amburgo. Ma per lei quel piccolo palazzetto aveva un chè di
speciale: era il luogo dove per anni aveva continuato ad esercitare quella sua
passione, dove aveva sognato, sperato, pianto. Dove aveva visto realizzarsi,
se pur per pochi, brevissimi istanti, il suo desiderio di ragazzina.. Era
forse l’ultima volta che calcava quel ghiaccio. Voleva dargli un addio
speciale. Si posizionò in mezzo alla pista e fece segno ad Erik. Volse lo
sguardo ad un pubblico invisibile, fissando il vuoto buio che avvolgeva gli
spalti. Chiuse gli occhi e sospirò sorridendo, sognando ancora una
volta… Quante volte aveva fantasticato che lui fosse lì, come a quella finale
tanti anni prima, quante volte l’aveva sognato, quante volte aveva desiderato
tornare indietro nel tempo… Il fruscio del cd… La musica che si insinuava
nella mente, nelle membra, a farla muovere come se lei fosse la padrona del suo
corpo… First, when ther’s nothingh But a slow glory dream…
Chiuse l’auto e si voltò a guardare la struttura in cemento e vetro che gli
stava di fronte. Il parcheggio era deserto e tutt’intorno buio e
silenzio. Una folata di vento freddo gli sferzò il viso ma non vi fece
caso. Affondò le mani in tasca e si avviò piano in direzione dell’ingresso
che era illuminato solo dalle luci di emergenza. Non sapeva esattamente
perché si trovasse in quel luogo… Dopo essere uscito dal locale di Reb era
rimasto seduto in macchina almeno venti minuti ad occhi chiusi, la testa
reclinata all’indietro, la mente vuota. Poi, all’improvviso, aveva messo in
moto ed era arrivato lì… Si accostò alla porta e con sorpresa la trovò
aperta. Un tuffo al cuore ed un filo di speranza… Abbassò la maniglia ed
entrò. La musica lo investì catapultandolo nel passato. Rimase nell’ombra
degli spalti a fissare la sottile figura vestita di nero che ricamava complicate
figure sulla superficie gelida, senza esitazioni e senza errori, con quella
leggiadra naturalezza che l’avevano incantato tanto tempo addietro. Ricordava
perfettamente l’esercizio, l’aveva stampato nella memoria. Smise di respirare
un istante quando le vide caricare i salti ed il fiato formò una nuvoletta
quando sospirò sollevato, vedendola riceversi in maniera impeccabile ed
elegante. L’ultimo salto. L’ultima sequenza di trottole. Lo stop
improvviso, la mano destra tesa nella sua direzione, nello sguardo la
consapevolezza di non aver sbagliato nulla. La vide spiccare un salto di
felicità, ruotare rapida su se stessa, abbracciandosi stretta per poi restare al
centro della pista. Le braccia intorno al corpo, il capo chino e calde lacrime
di soddisfazione che rigavano in viso per poi cadere lente, attraversando l’aria
gelida, andando infine a fondersi col candore del ghiaccio. Aggirò lentamente
la pista, passando accanto ad Erik che sul momento fece per fermarlo e poi,
riconoscendolo, lo lasciò fare, sorridendo silenziosamente prima
andarsene. Aprì lo sportello ed azzardò qualche passo cauto sulla superficie
scivolosa. Non si era accorta di essere osservata, completamente presa dal
suo mondo, dalla sua passione. Era felice, come poche volte lo era stata
negli ultimi anni. Tutto le era risultato semplice, spontaneo. Si sentiva
leggera, soprattutto nell’animo: finalmente era in pace con se stessa. Rimase
un poco al centro della pista, piangendo una volta tanto di felicità,
rilassandosi mentre la piacevole sensazione di torpore che seguiva la fine
dell’esercizio si fondeva con il freddo dell’aria a contatto col corpo. Si
voltò e, sempre a capo chino, scivolò piano verso l’uscita, la vista ancora
annebbiata dal pianto. Non se l’aspettava. Trattenne a stento un grido,
che le morì soffocato in gola quando incrociò il suo sguardo,venendo avvolta da
quel profumo leggermente amaro che la rese incapace di qualsiasi reazione mentre
un paio di braccia forti l’afferravano con delicatezza. “Avrei dovuto
immaginare che ti avrei trovata qui…” Un sorriso dolce, dolcissimo ed il nero
profondo di quegli occhi in cui immergersi per non uscirne più. Il calore del
suo corpo, del suo abbraccio, contrastavano col gelo che li circondava. Era
morbido, accogliente, rassicurante. Lasciò che quelle sensazioni che
l’avevano travolta la stordissero, mentre l’emozione profonda di trovarsi a
stretto contatto con lui la sconvolgeva piacevolmente. Affondò tra quelle
braccia che la stringevano con delicata fermezza, appoggiò la fronte al suo
petto, ascoltando il battito un poco accelerato del cuore. Non seppero mai
per quanto tempo fossero rimasti così, immobili ed in silenzio, immersi nel
candore gelido del ghiaccio, respirando piano, quasi temendo il più piccolo
rumore potesse infrangere quell’atmosfera incantata. Avvertì la stretta farsi
più forte,dolcemente possessiva, mentre il suo respiro tiepido sul collo
provocava un brivido di piacere mai provato. Sollevò piano il viso, ancora
trasognata, desiderando che il tempo si fosse fermato per l’eternità. Una
mano salì ad accarezzarle le gote, asciugando piano le lacrime che ancora le
bagnavano. “Perché sei qui?” seppe solo chiedergli in un soffio. La guardò
con dolcezza, silenziosamente. Posò piano la bocca sulla sua ed un’antica
emozione, fatta di calore che bruciava nel petto e travolgeva l’anima,
s’impadronì finalmente di lui. Si
scostò appena, lasciando che le labbra sfiorassero ancora quelle di lei
“Devo restituirti qualcosa che ti appartiene…”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** epilogo ***
epilogo
La luce abbagliante del sole inondava la pista candida,
entrando a fiotti dalle grandi vetrate dalle quali si ammirava l’azzurro
brillante del cielo autunnale sopra Monaco. Piccole schegge schizzarono dal
ghiaccio quando le lame lo percossero dopo il salto e una cicatrice sottile lo
segnò quando il giovane atleta tagliò la pista, eseguendo un angelo
perfetto. Occhi castani seguivano l’esercizio, attenti, severi ed anche, in
fondo, un po’ preoccupati. Un sospiro spazientito sfuggì dalle labbra quando la
ricezione da un salto non fu perfetta, l’equilibrio ristabilito a fatica, ed una
piccola smorfia scompose il volto bambino. Un’ultima sequenza di passi
ed un’ultima trottola, velocissima. I capelli quasi neri, un po’ lunghi, si
appiccicarono al viso ed un sorriso soddisfatto siglò la fine dell’esercizio.
Negli occhi scuri, dal taglio morbido orientale, un lampo furbo. “Hiroshi!
Vorresti fare un po’ più di attenzione quando sei in aria e concentrarti di più
sul salto? Dove eri con la testa, si può sapere?” Il ragazzino si mise una
mano tra i capelli, dietro la nuca, e strizzando gli occhi fece una boccaccia,
ridendo “Scusa, mamma, hai ragione!” Un sospiro spazientito ed una
scollata di capo nascosero il sorriso compiaciuto della donna. La disciplina
prima di tutto. “Riprova la parte tra le trottole basse, e questa volta
concentrati!” “Sissignora!” rispose, mimando uno scherzoso salto
militare, guardato con occhio di finto rimprovero. Una trottola bassa. Un
salto. L’angelo. Un altro salto. Si sentì cingere da dietro, un bacio
caldo le sfiorò il collo e le diede un brivido nella schiena. “Con l’agilità
e la potenza che ha nei salti, sarebbe stato un ottimo portiere… Penso che
potrei chiedere il divorzio, per questo!” Si voltò di scatto, cercando di
divincolarsi, indispettita da quell’affermazione, ma la stretta si fece più
salda e non potè altro che farsi avvolgere dal profumo caldo e dallo sguardo
scuro dell’uomo, che la osservava maliziosamente con un sorrisetto ironico
stampato sulle labbra. “Mi sembra ci sia in circolazione un altro
piccolo Wakabayashi che potrebbe diventare un ottimo portiere, magari superando
il padre…” replicò tagliente, gli occhi da cerbiatto stretti a fessura ed
un’espressione furba sul viso. Non terminò la frase, zittita da un morbido
bacio che, ancora una volta, le tolse il respiro. No, non ci si sarebbe mai
abituata… Quando la liberò, rimase un istante a guardarla da vicino,
lasciando che si riprendesse un attimo e poi di nuovo riattaccò quel gioco
cominciato poco più di otto anni prima “Anche il secondo piccolo
Wakabayashi, ti ricordo, è stato messo sui pattini non meno di sei mesi
fa…” insistè, scherzoso. Per tutta risposta ricevette un bacio sulla
guancia ed un sorriso dolce “Ed ha anche ricevuto un pallone appena nato,
se ti ricordi…” L’SGGK sospirò vinto, scuotendo il capo con gli
occhi rivolti al cielo. Fece per controbattere ma un tonfo sulla pista
catalizzò la loro attenzione, facendoli voltare di scatto. “Hiroshi! Pensa a
quello che fai!” non era facile essere l’istruttrice di suo figlio,
pensò… Il ragazzino, seduto su ghiaccio, fece spallucce, sconsolato e ripetè
uno “Scusa mamma” sospirante, cercando sostegno nel padre, che per tutta
risposta gli fece cenno col capo di ricominciare l’esercizio. I due
sorrisero, vedendo il giovane atleta ripetere daccapo le figure eseguendole
perfettamente, ed in fine fermarsi al centro della pista, rivolgendo loro una
strizzata d’occhio sbarazzina. Si sentì stringere di nuovo mentre un bacio
le veniva posato sui capelli “Sei un’ottima maestra…” le disse, carezzando il
collo con il fiato e dandole di nuovo un brivido. Era orgoglioso di lei. E di
quel ragazzino che ora correva allegro sul ghiaccio rincorrendo e facendosi
rincorrere dagli amici. Lei si lasciò affondare tra le sue braccia,
carezzandole piano con amore, reclinando il capo all’indietro, appoggiandolo al
suo torace e respirando ancora il suo profumo. Avrebbe potuto rimanere in
quella posizione per ore, ma la voce squillante del figlio la riportò alla
realtà. “Mamma! C’è una signora che ha bisogno di parlarti!” gridò
trafelato e sorridente, quasi sbattendo contro la balaustra, ed indicando una
donna dall’altra parte del palazzetto. Fece per
sciogliersi svogliatamente dal caldo abbraccio del portiere, che le diede un
ultimo bacio leggero sul
capo prima di lasciarla andare, e cercò con lo sguardo la persona a cui
si riferiva il piccolo atleta, già peraltro tornato a giocare in mezzo al
ghiaccio. Rimase senza fiato, e per un istante si aggrappò al bordo
pista. “Vado io…” la voce baritonale dell’uomo risuonò fredda e
micidiale. “No.” si voltò di scatto, posandogli un rapido bacio sulle
labbra e richiamando l’attenzione degli occhi scuri su di se, sorridendo
tranquillizzante “Ci penso io.” Tirò un sospiro e si diresse con passo
deciso all’ingresso della struttura. Era sempre bellissima, eppure, man mano
che le si avvicinava, potè notare che era visibilmente invecchiata. Al suo
fianco, una bimbetta di circa cinque anni, biondissima e con profondi occhi
azzurri. “Lena…” “Angela…” Rimasero un attimo a guardarsi, in
silenzio, poi una vocina dal basso le riportò al presente. “Mamma…” La
donna si riscosse, si chinò accanto alla figlia, rivolgendole un sorriso
dolcissimo. “Com’è cambiata…” pensò Lena in un lampo. “Greta, questa
signora sarà la tua maestra…” Al momento non comprese, soprappensiero
com’era, ma non appena afferrò il significato di quelle parole, sgranò gli
occhi, restando di stucco. “Ma?... Io? Tu sei benissimo in grado…” L’altra
scosse il capo, rialzandosi “Ho saputo che sei diventata un’ottima
istruttrice. E voglio il meglio per mia figlia.” Senza volere, a quelle
parole fece correre lo sguardo alla mano sinistra dell’ antica rivale, che
se ne accorse e sorrise triste “No, Lukas non mi ha sposata, alla fine… Ho
tentato di tenerlo legato a me, in qualunque modo… Greta è l’unica cosa che mi
rimane di lui…” stava evidentemente trattenendo le lacrime. Nakazawa le
aveva accennato qualcosa, ma lei non aveva voluto sapere nulla. Erano cose che
riguardavano un passato col quale aveva chiuso per sempre. Angela rialzò lo
sguardo, sorridendo sincera “Sei stata fortunata… Hai colto ciò che avevo
gettato ai rovi e il vostro è un matrimonio bellissimo, ho
saputo.” Rivolsero entrambe lo sguardo alla pista: il giovane pattinatore
aveva costretto padre e fratello minore a scendere sul ghiaccio ed i tre
scivolavano piano vicini al bordo. “Portiamo in pista la nostra piccola
allieva?” Lena sorrise, allungando una mano allegramente verso la
piccola. Angela non gli si avvicinò. Seguì la lezione della figlia, evitando
accuratamente lo sguardo del portiere, che rimase dalla parte opposta del
palazzetto. Dopo circa un’ora, Lena le riportò la bimba, stanchissima ma
entusiasta, le gote candide arrossate e gli occhi luccicanti “Mamma,
dobbiamo proprio andare?” supplicò. Le due donne si guardarono
sorridendo, poi la madre rispose “La lezione è finita, Greta. Torneremo
dopodomani…” Negli occhi della piccola, una tenera disperazione, e Lena venne in
soccorso “Beh... visto che Erik non ha ancora aperto al pubblico e che
Hiroshi sembra non voler uscire di qui, ti va di giocare un po’ con lui?” disse,
facendole l’occhiolino. Il ragazzino accolse volentieri la nuova “allieva”,
mentre il fratellino tirava un sospiro di sollievo uscendo dalla pista per
andare a saltare al collo del padre. “Lena…” “Si?” si volse,
sorridendole. “Vorrei chiedergli scusa… davvero…” negli occhi azzurri lesse
un sincero dispiacere e la lasciò fare. Non volle sapere cosa si
dissero. Vide solo l’espressione serena sul volto del suo
ex capo mentre recuperava finalmente la figlioletta dal ghiaccio uscendo dal palazzetto ed
i tratti del viso dell’adorato marito che si distendevano. “Hiroshi! Ce ne
andiamo?!” “Si mamma! Ancora un attimo…” e schizzò via. Passò un
braccio attorno alla vita del suo uomo, scuotendo il capo “Mi ricorda
qualcuno... ai tempi delle medie… Qualcuno che non usciva mai dal campo da
calcio se non a tarda sera…” Lo sentì sorridere e stringerla con
delicatezza. “Papà...” un vocina annoiata lo richiamò all’ordine
“Quando mio fratello si decide ad uscire di qui, andiamo a fare una
partita?” “Certo, Shiro, anche prima, direi!” rispose, rivolgendo un
sorrisetto malizioso alla consorte, la quale aveva affondato il viso nella sua
spalla, soffocando una risata. “Ok” disse, sfiorandogli le labbra con
un bacio “Con questa siamo pari!”.
This Web Page Created with PageBreeze Free HTML
Editor
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=133496
|