Liszt&Chopin

di Medea00
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***



 Liszt&Chopin





Capitolo 1


 

 

Quando sei un musicista sei abituato a prestare attenzione a tutti i suoni.

Come quello di una dissonanza, di una corda danneggiata, di un respiro preso male o di un colpo di tosse timido e spossato; e poi ci sono tutti quei suoni che non desideri davvero sentire, ma che ti arrivano comunque e tu non puoi fare altro che assimilarli. Come la sveglia alle sei del mattino, che ti assorda e innervosisce con il suo do diesis computerizzato, o come quello della voce di tua moglie che si sveglia strillando: nessuno sa esattamente come succede, si sa solo che il fracasso dell’aspirapolvere a confronto sembra la carezza delicata di un’arpa.

E poi si aggiungono all’orchestra nipoti che piangono, cani che abbaiano, tè che fischia, porte che sbattono ed ecco che ti ritrovi a sognare di essere Beethoven. No, non un genio: sordo.

Questo è quello che pensava Robert Cage ogni mattina, dall’angolino del suo letto a due piazze; questo è quello che gli accadeva, fondamentalmente nello stesso ordine; ma lui, in realtà, non se ne lamentava più di tanto: era fatto così, era una di quelle persone che assimilava in silenzio, per poi sfogarsi contro qualche malcapitato studente. Sì, perchè Robert era un professore: era il professore, in verità, quello amato e odiato, dal talento strabiliante e purtroppo mai sfruttato a causa della guerra. Si divertiva sempre a raccontare aneddoti di lui che rimorchiava qualche straniera con il solo uso delle note di un violino. Così, dopo anni e anni di studio, musica e fatiche, gli fu offerto un posto di lavoro al conservatorio “Franz Liszt” di New York, uno dei più rinomati del paese.

Erano ormai trentacinque anni che lui viveva lì, tra ragazzi, spartiti, rimproveri e odio, ma di quello vero: non c’è astio più vivo di quello musicale. Si può percepire con gli occhi, si aggrappa ai muri insonorizzati delle sale prove. E quello sarebbe stato un giorno pieno di competizione, lo sapeva bene: i test di ammissione per il diploma di specialistica, dopo aver conseguito quello per la triennale, erano senza dubbio i più difficili e tormentati di tutti e cinque gli anni. Delle trecento persone diplomate all’anno, meno della metà sarebbero riusciti ad entrare nel corso, per ricevere insegnamenti da alcuni degli insegnanti più qualificati d’America. E per avere una minima possibilità di successo, bisognava essere letali; al Franz Liszt non c’erano amicizie, ma coalizioni. Era sempre stato così, perchè certe cose non cambiano mai. Non potevano cambiare, ed il motivo, poi, era ovvio: chiunque facesse parte di quella scuola aveva un sogno ben preciso: la carriera.

Chiunque uscisse da quella scuola, aveva il cinquanta per cento di possibilità di essere preso in qualche famosa orchestra: esatto, solo il cinquanta. E’ un mondo duro, quello della musica, c’è una bella differenza tra il vivere grazie ad essa e il sopravvivere. Dopotutto, già la preparazione didattica era sin troppo cara: la retta dei migliori conservatori era al pari di università come Harward, Yale o Princeton. Quindi, ovviamente, era molto frustrante studiare per tre anni una materia per poi venire scartati proprio nel momento della resa dei conti, dell’applicazione pratica, ad un passo dal grande lancio.

In realtà, il conservatorio era strutturato in modo più che efficiente: nessun professore di strumento doveva avere più di dodici studenti per corso, e a questi veniva garantito il massimo della professionalità. Le lezioni di teoria, invece, venivano svolte nell’aula magna e frequentate da tutti gli allievi. Era un sistema molto rigido, veniva richiesta la frequenza obbligatoria e concesse soltanto due assenze ingiustificate a semestre, ma alla fine di due faticosi anni di studio nascevano artisti di fama mondiale, e con tecnica impeccabile.

Dopotutto, il conservatorio portava il nome di Franz Liszt: come diceva sempre lui, la pena e la grandezza sono il destino dell'artista. Ogni ragazzo che varcava le soglie di quell’edificio grande ed intimidatorio poteva leggere quella frase, marcata su uno stemma all’entrata; le prime volte si soffermavano, leggevano con una certa emozione sognando in un destino glorioso quanto il suo. Poi, con il passare del tempo, quell’insegna diventava quasi un’utopia che li salutava ad ogni nuovo fallimento, che fosse tecnico, psicologico o morale.

Adesso, il professor Cage osservò quell’insegna con una smorfia, preparandosi mentalmente alla lunga giornata che gli si prospettava davanti: non solo era uno dei giudici incaricati di valutare gli esami di ammissione, ma gli era stato affidato anche un compito molto difficile e, francamente, estenuante. Certo, era meravigliosa l’iniziativa offertagli dalla scuola, ma lui cominciava ad avere una certa età e la fiducia nella volontà e nel talento dei ragazzi diventava sempre meno. Adesso erano semplici, frettolosi: volevano tutto e subito e non si preoccupavano del modo con cui sarebbero arrivati in cima alla vetta; non si preoccupavano di ammirare il suono di un pianoforte, bastava che suonasse quelle note senza troppe stonature. Era colpa della televisione, diceva sempre lui: ai suoi tempi si viveva con la radio, e la radio era molto più libera per l’immaginazione.

Portandosi avanti il suo vecchio bastone di faggio, salutò la gentile ragazza della portineria, ricevette il caffè offertogli dal suo collega di storia della musica e si diresse verso l’aula delle prove, l’ultima in fondo al corriodio: qualche giovane era già lì, che lo aspettava passeggiando avanti e indietro. Continuavano a sfregarsi le mani e saltellare come se stessero per correre una maratona.

“Troppo impazienti”, mormorò con la sua tipica voce ferma e ovattata allo stesso tempo. I ragazzi lo salutarono con riverenza, attraverso dei cenni del capo: senza attendere un secondo di più, Robert aprì la porta e li dispose su delle sedie aderenti al muro, in modo da lasciare il resto della stanza libero, con tutti i suoi strumenti. Il fatto che dovessero essere tutti  spettatori era una sua prerogativa, voleva ricreare una tensione simile a quella di un concerto, con la piccola aggiunta che in quel momento, oltre a dover fare un’ottima esibizione, si valutasse anche il futuro della propria carriera. Niente di più semplice.

Mancavano venti minuti all’ora stabilita per cominciare l’esame, così si sistemò meglio la giacca, sedendosi su uno sgabello del pianoforte a muro e cominciando a stilare tutti i nomi presenti nella lista: centoventi ragazzi. Quindi, aveva da scartarne solo settantadue, perchè ragionava così, lui: bocciava più ragazzi possibili, e sperava che ne restassero almeno dodici per materia. Se avesse effettuato il procedimento contrario, probabilmente, non si sarebbe fermato più.

Era uno dei pochi insegnanti ad essere un polifonista, perchè diceva sempre che, ai suoi tempi, non si poteva campare con un’arte sola; era esperto in violino, pianoforte, violoncello e oboe, senza contare la sua eccellente cattedra di armonia e composizione. Per quel motivo spettava sempre a lui il compito più difficile, quello di esaminare gli ex-studenti del terzo anno interessati alle sue materie.

Erano ormai arrivati tutti, o meglio, tutti quelli con il coraggio di tentare l’esame; stava quasi per chiudere le porte e cominciare a parlare quando una voce da in fondo al corridodio lo pregò di aspettare, facendolo sussultare un attimo.

“Blaine Anderson”, mormorò, squadrando il ragazzo dall’alto verso il basso rivolgendogli un’occhiata accigliata.

“Mi scusi professor Cage, le chiedo profondamente scusa.”

Il ragazzo di fronte a sè ansimava, fu costretto ad appoggiarsi alle sue stesse ginocchia pur di riprendere fiato: aveva i capelli scompigliati, probabilmente perchè schiacciati dal casco che stava stringendo in una mano; i suoi occhi nocciola saettavano da una parte all’altra cercando di controllare che camicia, pantaloni e cintura fossero sempre al solito posto.

“Arriva sempre per il rotto della cuffia, signor Anderson”, gli fece notare il professore con un tono divertito. Conosceva quel ragazzo; lo conosceva bene, per questo non riuscì a trattenere quel suo piccolo sorriso nato sulla punta delle labbra. Ma sparì presto, nel momento in cui il mormorio alle sue spalle diventò quasi inascoltabile e tutto formato dalle stesse parole: Blaine Anderson, il borsista, il lecchino, il fantomatico genio.

Ed era vero: Blaine Anderson era uno dei pochissimi studenti in quella scuola ad aver ottenuto una borsa di studio per merito; lo aveva esaminato proprio lui, il professor Cage, appena tre anni fa. Ma in quella scuola il merito non era visto di buon occhio, significava corruzione, invidia, e anche pietà per uno che non poteva permettersi di pagare la retta intera.

Ma Blaine non era arrivato fino a quel punto per chissà quale favore sessuale, come spesso gli veniva insinuato dal momento che era gay e che il professore sembrava di mentalità piuttosto aperta agli occhi di tutti: lui, quel posto, se lo era meritato. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscerlo, forse, perchè nessuno lo aveva mai sentito suonare: ci fu una sorta di apprensione nel momento in cui entrò nella stanza, il silenzio calò su tutti i presenti e lui si sentì improvvisamente osservato da un migliaio di occhi famelici.

Si sedette in un angolo appartato, lisciandosi i pantaloni e controllandosi timidamente la condizione del suo cravattino: forse non era stata una buona idea quella di andare in moto, soprattutto senza giubbotto e spartiti. Ma no, sarebbe andato tutto bene: lui era pronto e avrebbe superato quel test di ammissione, anche a costo di inventarsi delle note di sana pianta perchè non si sarebbe ricordato il brano a memoria.

Seguì il professor Cage con la coda dell’occhio, lo vide chiudere le porte con cura e richiamare l’attenzione degli studenti; socchiuse gli occhi, emettendo un piccolo sospiro: chissà, magari sarebbe riuscito a tornare a casa per ora di pranzo.

“Allora – esordì Robert maneggiando la penna con cura, che scivolava morbida in mezzo alle sue dita lunghe ed allenate – sapete tutti cosa dovete fare no? Vi chiamerò uno alla volta, vi presenterete qui davanti a me e annuncerete il brano da fare. Se non avete rispettato le regole del bando, ossia, un pezzo di musica classica dalla durata minima di sette minuti, potete anche lasciare questa stanza nell’immediato.”

Nessuno dei presenti si mosse.

“...Bene.”

Almeno i ragazzi di quell’anno sembravano essere relativamente svegli; forse i suoi colleghi del triennio avevano fatto un buon lavoro, quella volta.

Senza ulteriori indugi, chiamò il primo studente, e l’esame cominciò.

Si chiamava Dean, aveva ventitrè anni e suonava il violoncello: il suo secondo movimento di Brahms apparve sconnesso, poco trasportato, c’era troppa emozione in quei respiri e ciò non fece che danneggiare la sua esibizione; nonostante il pianoforte di accompagnamento risultò eccellente, si ritrovò costretto a bocciare il ragazzo, barrando una piccola casella accanto al suo nome. Tuttavia gli sorrise e lo invitò a sedersi: era pur sempre un buon uomo, Robert, e quel giovane avrebbe avuto tutto il tempo di abbandonarsi alla disperazione una volta visti i risultati affissi in bacheca.

Il secondo ragazzo, invece, si occupò del pianoforte: aveva un tocco legnoso, rigido e sin troppo calcolato. Il suono uscì meccanico come se fosse scandito da un metronomo presente solo nella sua testa, e per diversi minuti la stanza si riempì di una strana atmosfera gelida. No, non andava bene: nemmeno lui, in realtà, lo aveva convinto pienamente.

Un altro pianoforte, e poi un violino; un violoncello per niente male – si riserbò il diritto di rivalutare la sua casella sbarrata, al fine della valutazione – e poi un flauto, tutti privi di consistenza, tutti sin troppo inesperti. Quello era il Franz Liszt di New York, e da qualunque triennale venissero, che fosse una statale, o quella stessa scuola, loro dovevano risultare all’altezza; non si pentì di aver barrato la casella di un’ottantina di studenti, tutti quanti con le stesse imperfezioni.

La steccata di un ragazzo al pianoforte gli fece quasi perdere la pazienza, alzandosi dallo sgabello di scatto. “Ti sembra questo il modo di suonare Grieg!?” gli voleva dire. Invece, si limitò a congedarlo, consigliandogli di andarsi a bere uno o due litri di camomilla.

E no, non ce l’avrebbe fatta: era quasi tentato di mandare tutti i ragazzi a casa così da finire una volta per tutte quell’interminabile supplizio.

Incredibilmente, la trentesima ragazza non fu affatto male: era un pianoforte dolce, vivace; il suo tocco era delicato e forse troppo leggero, ma interpretò Mozart con garbo e una certa dolcezza che la resero ancora più affascinante.

“Bene”, le aveva detto una volta terminata l’esibizione, guadagnandosi una piccola riverenza e un grazie sussurrato tra molti sospiri. Quello gli diede la forza di andare avanti a bocciare altre venti persone, senza sentirsi troppo in colpa.

Dopo circa un’ora di diverse esibizioni, si passò una mano trai capelli brizzolati, scorrendo l’indice lungo il prossimo nome della lista.

Ah, bene. Era dunque arrivato quel momento.

“Sebastian Smythe.”

Continuò a fissare il foglio, per una dozzina di secondi affilati come lame: alla fine, il professore alzò lo sguardo, verso la stanza silenziosa.

“Sebastian Smythe?”

Di nuovo, nessuna risposta.

E forse, almeno un poco, se lo aspettava.

 

 

“Insomma suoni il flauto.”

Sebastian stava fissando quella matricola da quasi cinque minuti, prima di uscirsene con quella frase. Il ragazzo apparve timido, esitante, deglutì diverse volte non essendo in grado di sostenere lo sguardo malizioso e penetrante dell’interlocutore; c’era qualcosa, negli occhi di Sebastian, in grado di tenerti incatenato alla sedia. In realtà, forse, faceva tutto parte di quel piano diabolico che erano le sue labbra sottili, i lineamenti affilati del viso, il fisico alto e il portamento elegante. Era come un’arma potente ma pericolosa, che nessuno era in grado di maneggiare.

“I-In realtà suono l’oboe”, cercò di ribattere lui. L’espressione divertita e nemmeno troppo sorpresa dell’altro lo fecero arrossire: “Oboe, flauto, che importanza ha. E’ sempre con la bocca che si lavora, non è vero?”

Non sapeva esattamente cosa dire, quindi sviò lo sguardo verso il tavolino di fronte a sè, sul quale erano posate le mani lunghe e delicate di Sebastian.

“Posso darti una mano, se vuoi”. Il tono con cui disse quella frase non prometteva niente di casto, entrambi lo sapevano bene. Tuttavia, il ragazzo non lo trovò fastidioso: non era certo di riuscire a dire di no alle avance di Sebastian Smythe, il sex symbol del conservatorio, l’uomo che ogni musicista prima o poi si ritrova ad ammirare, anche se non è sessualmente attratto: il motivo, in realtà, è molto semplice.

“Sebastian!”

Una ragazza dalla voce un po’ stridula corse verso i due, con il fiato corto e le gambe tremanti per la lunga corsa; lo avvisò delle audizioni, gli consigliò di recarsi dal professore il più in fretta possibile, e lui in tutto quello si limitò a sospirare; non era minimamente toccato dalla cosa, anzi, sembrava più scocciato per essere stato interrotto da un tentativo già compiuto di rimorchiare qualcuno.

Quando la porta della sala prove si aprì, il professor Cage si aggiustò con cura gli occhialini sulla punta del naso, scrutando dalla testa ai piedi il ragazzo che era entrato dopo la sua studentessa.

C’era sempre stato un rapporto strano tra Robert e Sebastian Smythe: si rispettavano, ma certe volte il ragazzo mostrava una maleducazione senza pari che faceva perdere tutta la stima del professore verso di lui; Sebastian era scaltro, altezzoso e arrogante, tutto ciò che Robert cercava sempre di eliminare in suo allievo, specie se promettente come lui. Tuttavia, la sua fama di abilissimo musicista e playboy lo precedeva: poteva vederlo da come le ragazze avevano cominciato a guardarsi civettuole, e da come alcuni ragazzi sembravano intimoriti o estasiati da lui, a seconda delle proprie preferenze. C’erano diversi omosessuali o bisessuali in quella scuola, non che a lui interessasse: spesso lo capiva dagli atteggiamenti, piuttosto che dalle parole. Si capisce molto di una persona dal modo con cui suona.

“Smythe, quale onore averla tra noi”.

Il saluto del professore fece sogghignare parte dei presenti, mentre il ragazzo scrollava le spalle e scuoteva la testa trattenendo un sospiro: “Una cosa di giorno, d’accordo? Ma non può ammettermi subito così la chiudiamo qui?”

Era quell’arroganza a renderlo così odioso a molti ma affascinante ad altri: Robert lo fissò imperterrito, come se volesse dirgli mentalmente di farla finita e cominciare a darsi da fare.

Blaine Anderson, seduto composto e silenzioso, continuava ad osservare tutta la scena: aveva sentito tanto parlare di Sebastian, e vedere con quanta libertà rivolgeva parola al professore non fece altro che confermare molte dicerie su di lui. Tuttavia non gli era mai piaciuto fidarsi delle apparenze, così cercò di carpire qualche informazione dal suo corpo: indossava una giacca di felpa, che arrivava morbidamente fino ai fianchi, e dei jeans scuri accompagnati con delle scarpe di cuoio piuttosto anonime. Avrebbe detto che un ragazzo così vanitoso indossasse solo camicie e cravatte, invece sembrava quasi più sportivo di lui, così si spostò sul viso, ma trapelava soltanto freddezza e tutta la noia di trovarsi lì.

“Andiamo prof – lo esortò un’altra volta, e Blaine potè sentire il suono melodioso della sua voce insinsuarsi nella sua mente – tanto lo sappiamo tutti quanti che sono il migliore qui, non ho certo bisogno di dimostrarlo.”

“Sì invece. E, di grazia, hai trovato un nuovo accompagnatore?”

Dopo un minuscolo attimo di esitazione, fece segno di no; era strano, giudicò Blaine, perchè per un momento sembrò quasi interdetto. Ma no, probabilmente era solo alla ricerca di qualche frase puntigliosa da tirare fuori.

Sebastian era famoso anche per il suo carattere intrattabile, che lo aveva spinto a litigare con sei o sette pianisti soliti ad accompagnarlo nelle esibizioni: a livello pratico, c’erano ben pochi spartiti che regalavano un efficiente assolo. Questo aumentò ancora di più la curiosità di tutti gli spettatori, che adesso pendevano dalle labbra del ragazzo, mentre si apprestava a preparare il suo strumento.

Nel momento in cui lo vide, Blaine pensò che fosse ovvio: un violino. Che altro poteva suonare, un tipo come Sebastian Smythe? Pensò immediatamente che fosse lo strumento adatto per lui; per un attimo si sentì quasi invidioso, perchè non era sicuro di poter dire la stessa cosa di se stesso.

“Bene Sebastian – proferì il professore - puoi cominciare.”

Sebastian non annunciò il suo pezzo, come invece spettava fare; nel momento in cui il professore glielo fece notare, ne approfittò per ricordargli che il brano doveva essere più lungo di sette minuti, dal momento che, una parte di sè, sapeva già cosa avrebbe suonato.

“Non ho bisogno di cinque minuti – ribattè infatti Sebastian – me ne bastano due.”

Si aggiustò il violino sul mento, maneggiandolo con precisione e cura. Le sue dita accarezzarono dolcemente il legno di mogano, piuttosto pregiato. Il rosso dell’abete rosso di cui era formato l’archetto scintillava sotto alle luci della stanza in netto contrasto con il pallore delle sue dita: erano lunghe, affusolate. Blaine cominciò a desiderare con impazienza il momento in cui avrebbero cominciato a creare il suono, domandandosi di che natura fosse: elegante, gentile?

Sebastian adesso aveva gli occhi socchiusi, il respiro divenuto perfettamente regolare mentre il suo corpo si irrigidiva con la schiena dritta che conferiva al ragazzo un’aria ancora più sicura; chiunque, in quella stanza, avrebbe potuto definirlo soltanto come affascinante.

E quando cominciò a suonare, l’unica parola che scivolò tra le labbra di qualche ragazza fu: bellissimo.

Era quello il motivo per cui chiunque, prima o poi, rimaneva attratto da Sebastian Smythe: se non era per la sua bellezza, era per il suo carisma; se non era per il suo carisma, era per il suo innato talento, che si trasmetteva in esecuzioni assolutamente perfette. Qualcuno dovette chiedersi se a suonare fosse un solo violino; perchè aveva un suono deciso, sicuro; non c’era la minima esitazione, la sua mano era ferma, il suo volto calmo e rilassato mentre ondeggiava come per continuare il movimento della spalla; non sembrava teso, ma non c’era nemmeno l’ombra di un sorriso. Era incolore, proprio come qualche minuto prima: Blaine credeva che vedendolo suonare avrebbe potuto capirlo un po’ di più, invece un’altra volta si ritrovò con un pugno di mosche.

Poi, quasi cogliendolo di sorpresa, quasi facendolo sussultare, Sebastian lo guardò. Nessuno dei due capì come avvenne; forse era stato frutto di un caso, o forse Sebastian si era sentito più osservato del solito. Fatto sta che quando i loro sguardi si incrociarono restarono incatenati per una manciata di secondi, prima che ognuno riprendesse il proprio posto: quelli di Sebastian, sul violino; quelli di Blaine verso un punto inesistente, cercando di decifrare il perchè si sentisse così tanto strano. Era misterioso. In realtà, a lui sembrava soltanto un ottimo violinista, ma niente di più; questo, forse, fu lo stesso pensiero del professore: si scambiarono un’occhiata, che non sfuggì a Sebastian nel momento in cui concluse la sua splendida esibizione ricevendo una valanga di calorosi applausi. Come previsto.

Eppure, il professore non sembrava entusiasta, non gli rivolse un sorriso o un cenno del capo o qualsiasi altro gesto di approvazione; continuava a guardare quel ragazzo pieno di gel, in un dialogo che conoscevano solo loro due. E lo innervosiva: tutte quelle attenzioni mancate, il fatto di non essere stato minimamente considerato dopo una splendida esecuzione, quel ragazzo che non sembrava minimamente toccato o sorpreso.

“Hai qualcosa da ridire?”

Quando Blaine alzò lo sguardo fu molto sorpreso nel vedersi Sebastian a mezzo metro da lui, con il violino ancora in mano e l’archetto nell’altra. Non sembrava nervoso, ma nemmeno tranquillo come prima: Blaine impiegò diversi secondi prima di dire qualcosa per rispondere alla sua domanda.

“No, niente – commentò con tono calmo e sorridente – sei stato bravo.”

“Bravo?” Sebastian lo scrutò, come perforandolo con i suoi occhi chiari. Si poteva percepire il veleno nella sua voce a metri di distanza. “Bravo?” Ripetè un’altra volta, quasi allibito.

“Sì, bravo.”

“Tutto qui.”

“Sebastian”, cercò di richiamare il professore, ma lui non si mosse di un millimetro.

“No no, parliamone.” Si avvicinò ancora di più a Blaine e questo, in risposta, si sentì quasi obbligato ad alzarsi in piedi; si sentiva un po’ in imbarazzo, il verde intenso degli occhi di Sebastian lo disorientava. Aveva fatto qualcosa di sbagliato?

Non riusciva a capire gli atteggiamenti di quel ragazzo; non riusciva a capire niente di lui, a partire da come pronunciò le parole: “Coraggio allora, fammi vedere tu.”

Di fronte a quel silenzio pieno di incomprensione, Sebastian gli indicò il pianoforte: “Coraggio, borsista. Sono proprio curioso di sentire quello che hai da dirmi.”

Blaine stava quasi per dirgli che non avesse niente da dire, soprattutto ad un tipo come lui; tuttavia il nervosismo che gli era scaturito non appena aveva sentito la parola borsista fu più forte.

Era così, allora, pensò tra sè e sè mentre si dirigeva con passo risoluto verso il pianoforte: Sebastian si era sentito offeso solo perchè lui, il borsista, aveva osato guardarlo. Strinse forte i pugni, cercando di scacciare via ogni rigidità nelle dita: dovevano essere sciolte e fluenti, per una buona esibizione.

Era sempre una sorta di calvario ogni volta che doveva suonare qualcosa di fronte ad altri: era tutto troppo teso, troppo importante. Gli piaceva essere al centro dell’attenzione, in un certo senso, era come se si fosse allenato tutta la vita per quello; eppure, in quel momento, voleva soltanto andarsene via. Ignorare gli sguardi di tutti quei ragazzi che dicevano su di lui le cose peggiori, ignorare Sebastian, che era ancora in piedi in un angolo della stanza a braccia conserte facendo roteare appena l’archetto del suo violino.

Nel momento in cui incrociò gli occhi del professore, questo sorrise: era come se volesse incoraggiarlo, dirgli che il resto del mondo adesso non importava.

“Cosa suonerai?”

Blaine non ebbe esitazione nel rispondere: “La ballata numero uno di Chopin”, facendo scaturire un sorriso ancora più ampio nel professore; sapeva bene che era il suo compositore preferito.

C’erano solo lui e il pianoforte, adesso. Scivolò con grazia sullo sgabello, regolandolo appena e sorridendo a se stesso perchè era costretto a farlo tutte le volte, vista la sua altezza; controllò con un’occhiata la distanza dai pedali, giudicando che andasse bene. Posizionò con cura le mani sulla tastiera una prima volta, per poi ritrarle sulle ginocchia: quel gesto confuse un po’ tutti.

Dopodichè, prendendo un bel respiro, cominciò a suonare. Ma no, Blaine Anderson non suonava: scivolava. Si adagiava perfettamente sulle note come se fosse lui a dar fastidio a loro, e non il contrario; la prima nota fu dura e spietata, tolse il fiato a molti dei ragazzi. Poi, il suono divenne più dolce, anzi, opaco: è difficile descrivere le sensazioni scaturite dalla musica, ma quelle di Blaine si potevano toccare con il palmo della mano. Era come vedere un quadro prendere forma, cambiando dall’essere trasparente; man mano che la musica continuava, si aggiungevano dettagli. Dettagli guidati dalle sue pause, dai suoi respiri: quello era un brano di Chopin, ma in un certo senso, era anche un po’ di Blaine. Era esattamente questo che faceva di lui un talento naturale, era questo ciò che il professore amava fino a perdere completamente la cognizione del tempo: guardava il ragazzo con un’espressione di gioia mista a commozione, qualunque amante della musica avrebbe provato le stesse cose.

Blaine non era preciso, non era metodico: era istintivo, sentimentale; prendeva respiri dove non c’erano e accelerava scale che dovevano essere più concise. In questo, probabilmente, si poteva giudicare imperfetto: ma nessuno ebbe il coraggio di fiatare, nel momento in cui, dopo una scala finale, una pausa trattenuta, le ottave suonate con veemenza e passione, pose fine alla melodia.

Non applaudì nessuno: nessuno, forse, voleva rovinare quella sottospecie di atmosfera che si era creata.

Il primo a parlare fu Robert; lasciò a Blaine il tempo di ricomporsi, si alzò in piedi, si passò una mano sui riccioli folti e scuri.

“Ottimo lavoro, Blaine.”

E fu quello, il momento in cui Sebastian si sentì come risvegliato. Perchè Blaine era stato impreciso in molti, moltissimi punti; e allora era quella la sua concezione di bravura? L’eseguire brani in un livello che raschiava a malapena il professionale?

“Sei andato fuori tempo molte volte”, proferì allora. Aveva il suo immancabile ghigno e l’aria saccente. Blaine lo guardò di rimando, apparentemente calmo nel dire: “Sì, lo so.”

Oh, lo sapeva? Sebastian si sentiva sempre più irritato, preso in giro.

“E pensi che questa sia una valida giustificazione per la tua esecuzione mediocre?”

“Beh scusami tanto – replicò allora Blaine, stizzito – se non sono un automa macina note come te.”

“Ma sentiti. Automa macina note. Te li prepari la notte questi insulti?”

Una ragazza – quella che era andata a chiamare Sebastian – ebbe il coraggio di mettersi in mezzo, cercando di farli tacere, ma fu del tutto inutile. Blaine e Sebastian erano completamente uno opposto all’altro in tutto: il primo era calmo, dolce, gentile e romantico; il secondo era impulsivo, freddo, arrogante e virtuoso.

Fu proprio in quel momento che il volto di Robert si illuminò, raggiante: provò quella tipica soddisfazione di aver appena avuto un’idea meravigliosamente geniale.

“Sì, è perfetto!” Esultò battendo le mani, guadagnandosi l’attenzione dei presenti e in particolar modo dei due ragazzi, che per un attimo avevano smesso di litigare. Forse, perchè erano troppo intenti a cercare di decifrare la sua espressione trionfante.

“...Professore?”

“Vecchio?” Fece eco Sebastian, ignorando prontamente l’occhiata di Blaine. “Sembra che stai per avere un infarto. O un orgasmo; non riesco mai a distinguerli quando si tratta di anziani.”

Blaine si mise una mano sulla fronte: era esasperato. Quel ragazzo era incredibilmente seccante, maleducato e-

“E’ perfetto, siete perfetti.”

Un momento: spalancarono gli occhi, convinti di non aver sentito bene. Loro, perfetti?

“E per cosa?” Sbottò Sebastian, ma un attimo dopo si pentì automaticamente di averlo domandato.

Il professore li guardò sogghignante, dando voce all’unica risposta che nessuno dei due ragazzi si sarebbe mai aspettato di sentire.

“Per duettare insieme, ovviamente.”




***




Angolo di Fra: Visto che mi è stato chiesto di mettere anche la Seblaine su EFP, ecco qui.
Penso che il secondo capitolo lo pubblicherò domani, così martedì/mercoledì posso pubblicare il terzo e riprendere con la pubblicazione settimanale. Comunque vi rimando alla mia pagina per ulteriori informazioni.



La targhettina che potete vedere in cima ad ogni capitolo l'ha fatta quello schianto di Ilarina , alla quale devo tutto il mio amore. Grazie donna! Grazie a chi (ri)leggerà :)
Fra

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***








Capitolo 2



 

 

Dieci minuti; Blaine e Sebastian stavano andando avanti per dieci minuti con le loro lamentele, sbuffando, alzando la voce per sovrastare quella dell’altra, gesticolando davanti al professore che era con il fianco appoggiato alla scrivania del suo ufficio, a braccia conserte e occhi socchiusi.

“E’ assurdo.” Borbottò Sebastian, dopo qualche secondo di pausa.

“Altro che assurdo –replicò l’altro - è impossibile!”

“Impossibile per me, vorrai dire. Anzi, inammissibile.”

Ignorandolo, si voltò verso Robert: “La prego professore, non mi faccia questo, non me lo merito! Non riuscirei mai a suonare con uno come lui.”

“Ma sentitelo, il borsista che fa la vittima.”

Blaine gli lanciò uno sguardo agghiacciante, fulminandolo: “Se non sbaglio sei tu quello che sta continuando a borbottare da mezz’ora.”

“IO? Dico, ma ti sei sentito? Eppure l’orecchio dovresti avercelo, o forse ti fai pagare anche quello?”

Blaine stava quasi per avventarsi contro di lui. Magari lo avrebbe fatto schiantare contro gli scaffali dell’armadio, o gli avrebbe dato un pugno; per fortuna, comunque, Robert intervenne in tempo richiamando l’attenzione di entrambi con un sonoro colpo di tosse, abbastanza stizzito. Si rigirò il manico del bastone tra le mani per un paio di volte, prima di parlare: “Avete mai sentito parlare di Joseph Kuznets?”

Il primo rispose “Sì”, in modo molto diligente, nello stesso momento in cui Sebastian inclinò leggermente il viso esclamando: “Ovviamente. Solo un idiota potrebbe non sapere chi sia.”

Al professore scappò un sorriso che fece rimanere un po’ allibito Blaine: come poteva trovare divertenti quelle frasi arroganti e inopportune?

“L’anno scorso – continuò a spiegare lui – dirigeva la sua orchestra, la Polifonica di New York. Dovete sapere che il primo violino ha avuto un diverbio molto pesante con lui, non riusciva più a sincronizzarsi con il pianoforte e il direttore d’orchestra ed è stato costretto a lasciare il gruppo-“

“Sicuramente era colpa del violinista”, bofonchiò Blaine: chissà come mai, non riusciva più ad immaginarsene uno calmo e gentile. Erano sempre piuttosto sicuri di sé, loro, e adesso che aveva conosciuto Sebastian…

“E’ probabile – commentò il professore, con tono vago – ad ogni modo, Kuznets sta riformando l’orchestra ed è in cerca di nuovi musicisti. Musicisti di talento, che non abbiano problemi a relazionarsi con i propri colleghi.”

“E’ ancora sicuro che Smythe vada bene?” Domandò allora Blaine, inarcando le sopracciglia; Sebastian lo ignorò prontamente, facendo un passo in avanti e dichiarando: “Se si tratta di suonare con Kuznets, io ci sto.”

“Frena i bollenti spiriti, ragazzo. E poi, Blaine, questa cosa riguarda anche te.” Il professore sembrava felice, ma anche piuttosto cauto: “E’ un concorso. In quanto tale, ci saranno tre fasi: una selezione iniziale, poi le semifinali e quella conclusiva. Verranno candidati da tutta l’America e, basandomi su quel poco che mi hanno detto fin'ora, so che la prova consisterà in un’esibizione singola e in una corale, entrambe ugualmente importanti. Inoltre, è altamente probabile che Kuznets voglia lasciarsi influenzare dal tipo di vincitori del concorso per basare la sua futura sinfonia da eseguire, una volta ricompattata tutta l’Orchestra. Se vince un flautista, farà una sinfonia per flauto e orchestra; se vince un pianista, un concerto per pianoforte.Vuole essere certo di trovare persone di talento, ma anche che siano in grado di armonizzarsi con altri, per questo la parte corale: l’iscrizione non riguarderà solo una persona, ma anche il partner oppure il gruppo con cui suonerà. Quindi, ognuno dei partecipanti dovrà esibirsi in un assolo e poi, mostrare le proprie doti assieme agli altri.”

“Mi faccia capire bene.” Blaine fissò il professore, non sicuro di aver capito bene: nemmeno Sebastian, in realtà, ne era molto convinto. Troppe informazioni in una volta sola, troppe bellissime aspettative, troppe prospettive di un sogno che potrebbe realizzarsi.

“In pratica… vuole iscriverci a questo concorso?”

“Esattamente.”

“E quindi, se vinciamo – specificò lui, scandendo bene l’ultima parola – saremo ingaggiati da Kuznets? Suoneremo nella polifonica di New York, senza nemmeno bisogno del diploma di specialistica del conservatorio?”

Robert esitò soltanto un paio di secondi, squadrandoli attraverso i suoi occhialini: “L’idea è proprio questa, sì. Credo che entrambi abbiate i requisiti adatti per farcela.”

I due ragazzi fecero appello a tutte le loro forze per non cominciare ad abbracciarsi e saltare per tutta la stanza; o meglio, lo avrebbero fatto, fino a quando non si fossero ricordati di odiarsi reciprocamente, in una maniera che era anche sin troppo intensa per due persone che si conoscevano personalmente da così poco tempo. Per l’appunto, questo portò Blaine a formulare la domanda più importante: “Ma quindi… noi due – si azzardò a dire, con molta, molta cautela – dovremmo suonare insieme?”

“Insieme insieme?” Ripeté Sebastian, ancora più confuso di lui. In risposta, facendoli allibire ancora di più, il professore non sembrava per niente colpito dalla gravità della faccenda.

“Sì, ragazzi. Voi due suonerete insieme.”

Lo disse così, come se fosse una delle sue lezioni di armonia e composizione: un teorema semplice ed elementare. Blaine Anderson e Sebastian Smythe, che suonavano un duetto.

Il primo a sollevare qualche obiezione, e in modo non del tutto garbato, fu Sebastian.

“Ma ha bevuto per caso?”

“Professore – intervenne Blaine - lo so che probabilmente mi pentirò di ciò che sto per dire, ma stavolta mi trovo d’accordo con lui, non è affatto una buona idea.”

“Lo sei?”

“Sì certo”, rispose, lanciando un’occhiata fugace al ragazzo che aveva appena parlato, con quel tono che stava cominciando a detestare. Dopodiché, tornò a concentrarsi su Robert: “Voglio dire, io non potrei mai suonare con Sebastian Smythe.”

“E io non potrei mai sopravvivere a ore, giorni interi di lapidamento mentale e uditivo, chiuso nella stessa stanza con Blaine Anderson!”

Nessuno dei due si sentì offeso dalle accuse dell’altro: erano sinceramente intenzionati a convincere il professore dell’assurdità di quella idea, dal momento che non ci tenevano per niente a morire prematuramente; era stato chiaro, sin da subito, che fossero due tipi completamente agli antipodi, in tutti i modi possibili. E allora, perché forzare la mano? Perché ostinarsi a rovinare giornate a tutti, a loro, al professore, e perfino agli altri studenti, che dai corridoi si sarebbero sorbiti le loro lamentele?

“Perché non la facciamo finita qui?” Propose allora Sebastian, nel modo più calmo possibile. “Insomma, è stata una bella favoletta, ma io avrei delle cose da fare.”

“O qualcuno da fare”, biascicò Blaine annoiato, ben consapevole della sua fama di latin lover del conservatorio; Sebastian non riuscì a nascondere un sorrisetto compiaciuto perché, in fondo, non aveva tutti i torti.

“Invidia, Anderson?”

“Neanche un poco. Professore, andiamo – esortò allora Blaine - lui è insopportabile.”

“Questo qui non sa suonare.”

“Ha quell’aria da strafottente che mi fa saltare i nervi-“

“E poi è un bamboccio, voglio dire, lo guardi, probabilmente dorme ancora con la copertina!”

“Per non parlare del fatto che siamo entrambi estremamente competitivi, e collaborare insieme sarebbe-“

“Assolutamente snervante. Finirei per offenderlo ogni secondo, ricordandogli che la tecnica non è una sorpresina che si trova nelle scatole dei cereali.”

“Vuoi smetterla di interrompermi!?” Sbottò Blaine, voltandosi di scatto verso di lui, la voce alzata di un semitono e gli occhi spalancati; Sebastian finse di osservare l’arredamento della stanza, fino a quando il suo sguardo non si posò accidentalmente su di lui.

“Cosa? Oh scusa, è che non mi accorgo della tua esistenza: sei troppo basso, non rientri nel mio campo visivo.”

Ma più andavano avanti così, più Robert sembrava compiaciuto e, sì, anche un poco divertito.

“Io credo che siate partiti con il piede sbagliato”, affermò con una certa sicurezza. “Probabilmente se smetteste di considerare il musicista e cominciaste a vedere la persona, vi guardereste in modo diverso.”

I due non risposero, forse, perché erano troppo educati per dire ad alta voce che quella fosse una grandissima cazzata, ma il professore capì lo stesso: sospirando, si strinse nelle spalle, e giocò l’ultima carta che poteva estrarre.

“Io dico che potreste fare uno sforzo. Insomma, per Kuznets.”

Kuznets. Era il sogno di qualsiasi musicista vivente in quel periodo; era la Polifonica di New York, un lavoro, il coronamento del sogno di una vita.

Senza nemmeno dedicarsi un’ultima occhiata, Sebastian e Blaine annuirono, uno serrando la mascella e l’altro stringendo i pugni; all’unisono, come se fossero un accordo, affermarono: “Va bene.”

“Vedete? – Li rabbonì il professore, con un piccolo sorriso – Vi state già sincronizzando. Ottimo lavoro, ragazzi.”

Certo, pensarono, perché basta quello per suonare bene: una coincidenza. Forse, perché nessuno dei due credeva nel destino; forse, perché erano ancora troppo incauti per farlo, per rendersi conto che, quel giorno, avevano appena sancito il contratto verbale che avrebbe rivoluzionato le loro vite.

“Potete andare, per il momento.”

Senza aggiungere o fare altro, Blaine e Sebastian si voltarono dandosi reciprocamente le spalle; il primo fece un cenno con la testa al professore in segno di saluto mentre il secondo era già uscito, lasciando svogliatamente la porta aperta.

Blaine lo seguì con passo piuttosto svelto: in parte voleva dirgli quanto fosse stato incredibilmente scortese con il professore e, in parte, sperava di avere un minuto da solo con lui per parlare meglio di quella cosa. Il concorso, suonare insieme: non erano cose facili da affrontare, non lo sarebbero state nemmeno in condizioni normali. Lì, invece, c’erano due ragazzi che si conosevano a malapena e si sopportavano ancora meno, ed un’occasione che, se colta al balzo, sarebbe stata decisiva per la loro carriera.

Sebastian però era già metri lontano da lui, intento ad osservare un altro ragazzo che stava camminando nella direzione opposta. Era abbastanza alto, dei capelli biondi e corti incorniciavano un viso dai lineamenti sottili; uno sguardo a metà tra il divertito e il malizioso, piuttosto simile a quello che di solito aveva Sebastian, incrociò quello di Blaine, che si sentì subito sin troppo osservato.

Si aspettava quasi che lo salutasse in qualche modo, magari, spiegandogli perchè lo stesse fissando. In realtà si limitò a sogghignare, sfiorando appena la spalla di Blaine nel momento in cui aprì la porta dell’ufficio di Robert. Niente di più: un gesto semplice, ma che lasciò a Blaine una sorta di apprensione.

Quando riuscì a rialzare lo sguardo riuscì ad intravedere la schiena di Sebastian, che si voltava di scatto verso l’uscita; era come se lo avesse osservato fino a quel momento. Come se fosse rimasto ad osservare lui, e quelle strane attenzioni ricevute dal ragazzo misterioso.

 



 

Blaine aprì la porta di casa, richiudendola con un tonfo secco e deciso prima di scaraventare la tracolla a terra e le chiavi sul tavolino accanto.

Si concesse di prendere un lungo e profondo respiro, cercando di eliminare tutta la tensione e la rabbia accumulata durante la giornata; si recò in cucina, bevve un bicchiere d’acqua e si appoggiò contro il fianco del frigorifero, restando per qualche secondo ad osservare l’arredamento di quella stanza: le mensole erano perfettamente pulite, ma gli oggetti su di esse erano disposti in modo caotico e confusionale. La credenza era praticamente vuota, segno che anche quelle piccole scorte racimolate durante le vacanze di Natale stavano per finire, quindi gli sarebbe spettato il noiosisismo compito di fare la spesa; il resto sembrava a posto, ma dopotutto era difficile creare disordine in un appartamento di appena sessanta metri quadri, usata unicamente per mangiare, dormire ed esercitarsi. Il suo pianoforte a muro si trovava in soggiorno, perfettamente incastrato tra la libreria ed un mobile su cui era poggiata una piccola televisione via cavo. Si avvicinò, sfiorò con delicatezza il sottile strato di tessuto che ricopriva i tasti, preso dall’irrefrenabile impulso di sedersi sullo sgabello e suonare fino a tarda sera; tuttavia, ci fu un piccolo imprevisto che andò contro i suoi piani, un imprevisto fatto di peli e grasso che zampettò allegramente sopra la tastiera.

“No.”, sentenziò con forza, cominciando a sentire il panico che prendeva sopravvento sul suo corpo.

“No ti prego, non lo fare.” Tentò di nuovo.

E poi, avvenne: quel gatto più grosso che lungo si lanciò contro il copritastiera, iniziando a graffiarlo e tirarlo nella direzione opposta di dove si trovava Blaine.

“Maledetto gatto” bofonchiò, allontanandolo dal pianoforte con un gesto brusco; nello stesso momento in cui lo fece, una voce alta e allarmata pronunciò il suo nome con una calma...inquietante..

“Blaine Anderson.”

Si voltò: per un attimo aveva sperato di aver avuto una sorta di allucinazione; invece, quei capelli biondi e quel viso contrariato erano proprio lì, a pochi metri da lui.

“...Ciao, Brittany.”

Doveva escogitare un piano: un piano che fosse infallibile, non come quello dell’ultima volta che per poco non gli causò la perdita della vista. La sua coinquilina lo stava ancora fissando con un’aria per niente amichevole.

“Che state facendo tu e Lord Tumbington?”

Odiava quel gatto. Non andavano proprio d’accordo: lui continuava a dimenticarsi di nutrirlo e quello continuava a rovinargli il pianoforte e, per di più, lo faceva quando tornava a casa, così da rendere il tutto ancora più subdolo e irritante. Eppure, quello era il gatto preferito di Brittany, e Brittany era una delle sue più care amiche: si conoscevano praticamente da quando erano nati, i genitori erano amici di famiglia. Blaine si ricordava benissimo delle lunghe giornate al parco passate a catturare lucciole e scoprire le pentole d’oro alla fine degli arcobaleni. Poi, lei aveva ottenuto una borsa di studio per la danza alla Juliard, lui al Franz Liszt, e così si erano ritrovati a vivere insieme. Erano passati più di tre anni, ormai, e avevano ancora quel rapporto fatto di sincerità e frasi prive di ogni senso logico, che potevano capire solo loro due.

“...Non stavamo facendo niente”, mormorò. Ovviamente, la ragazza non ci credette: afferrò la palla di pelo e gli lanciò un’occhiata fulminea, in attesa di altre spiegazioni.

“Stavamo giocando.”

“Giocando?”

“Certo – ribattè lui – giocavamo a...alla lotta.”

Si pentì per aver detto una scusa così ridicola; abbassò lo sguardo, sentendosi quasi colpevole, fino a quando la voce di Brittany giunse alle sue orecchie: “Devi stare molto attento allora. Lord Tumbigton è campione di lotta greco romana.”

Ovviamente, pensò lui tra sè e sè, non riuscendo a trattenere un sorriso. Ma era fatta così, la sua amica, e lui la adorava anche per quelle piccole cose.

Una volta risolto il sottilissimo litigio con il gatto, i due ragazzi si sedettero sul divanetto davanti alla televisione, cominciando a raccontarsi la giornata e mangiando la cena a base di pane e maionese. Nessuno dei due aveva nè la voglia di uscire e comprare qualcos’altro, nè quella di ammettere che quel pasto sarebbe stato un incubo per le loro povere diete.

“Sono stato iscritto ad un concorso, oggi.”

Blaine stava giocando con i pulsanti del telecomando formando sequenze di numeri immaginarie, tipo la sua data di nascita, o quella dell’amica. Brittany scosse la testa spostando un ciuffo di capelli dalla fronte: “Che concorso?”

“E’...complicato. Ci sono tre fasi, parteciperà mezza America...dovrò esercitarmi giorno e notte. Dovrò esercitarmi con Sebastian”, ricordò un attimo dopo, la sua voce si spense col finire della frase. La ragazza non capì il motivo della sua delusione, oppure, semplicemente, non le interessava. In effetti, la sua unica domanda a riguardo fu: “E’ carino?”

“No. Cioè, sì.” Ammise, non solo a Brittany, ma anche a se stesso. Che senso aveva mentire? Non aveva nulla da nascondere. Poteva benissimo riconoscere la bellezza di Sebastian e, allo stesso tempo, la sua insopportabile arroganza.

“Ma non è il mio tipo.” Ci tenne a precisare; per aiutarsi, raccontò la conversazione avuta quella mattina di fronte al professore e il suo atteggiamento durante l’audizione nella sala prove.

“Quindi non ti piace”, concluse lei per lui, quando era troppo agitato perfino per parlare e continuava a sbuffare, gesticolare, ricordandosi i suoi sorrisetti e commentini e occhiatine che-

“No che non mi piace, è proprio l’incarnazione di tutto ciò che non sopporto in un uomo!”

“Non sopporti nemmeno Lord Tumbington – commentò lei – però ci vivi insieme.”

“...Non è la stessa cosa.”

O forse sì? Dopotutto, avrebbe passato con lui la maggior parte delle sue giornate. Per quanto avrebbe resistito? Avrebbero finito per farsi dispetti a vicenda, come lui e il gatto?

“Penserò solo a suonare.” Sancì infine, con un piccolo schiocco delle labbra. “Voglio dare il massimo per il concorso. Se non lo vinco, quanto meno avrò imparato tantissime cose utili.”

“Io voglio solo ballare.” Rispose Brittany, tenendo lo sguardo fisso verso un punto inesistente. Chiunque avrebbe detto che non avesse sentito nemmeno una parola del discorso di Blaine; invece, lui la conosceva sin troppo bene per capire che quello era il suo modo per dire “va bene, ne prendo atto, ti auguro buona fortuna.”

L’ultima parte, in realtà, era una sorta di rielaborazione personale. Perchè, nel giorno successivo, ci sarebbero state le loro prime prove.





***



Angolo di Fra:
Volevo ringraziarvi per le recensioni e le letture dello scorso capitolo. Sapere i vostri pareri su questa storia è bellissimo ^__^ grazie!
Aggiornerò presto, tipo giovedì.
Fra

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***






Capitolo 3
 
 
 
 
La sveglia di Blaine suonò alle sette in punto, con il suo classico tono squillante e robotizzato che assomigliava tanto ad un Si bemolle. Assomigliava, certo, perchè un Si aveva un suono decisamente più piacevole: scaraventò l’oggetto a terra, cacciando un sospiro seccato quando si accorse che non solo la sveglia non si era ammutolita, ma adesso vibrava incessantemente contro il parquet creando anche un ronzio snervante. Così, a malincuore, si tolse di dosso le coperte e si strofinò gli occhi, spegnendo quella tortura elettronica e riponendola con freddezza sul comodino.
Non era mai stato un tipo molto mattiniero: ai tempi del liceo ci volevano sempre le urla di sua madre per svegliarlo, e adesso non poteva contare solo su Brittany che, sfortunatamente, era perfino peggiore di lui; infatti, non si stupì di trovarla ancora infagottata tra le lenzuola, con una gamba fuori e il braccio sotto al cuscino, i capelli sparsi in tutte le direzioni che le coprivano il viso rilassato. Per lo meno, le sue lezioni iniziavano verso le nove, così non era costretta a fare le corse tutte le mattine; tutto l’opposto di Blaine che, dopo aver preso un caffè dal gusto discutibile e rischiando di bruciarsi la lingua due o tre volte, si infilò sotto la doccia senza nemmeno avere il tempo di canticchiare qualcosa. Spesso fischiettava il brano che stava studiando in quel periodo, semplicemente perchè quando preparava qualcosa ci pensava giorno e notte, immaginandosi seduto nel bel mezzo di un palco pieno di persone ed un pubblico che pendeva dalle sue labbra, pronto ad applaudirlo.
Era questo che voleva Blaine, e adesso intravedeva una sorta di porticina che lo conduceva lungo una via, una via lunga e tortuosa magari, ma che se attraversata tutta raggiungeva esattamente il suo sogno.
In quel momento, mentre si frizionava i capelli con un asciugamano e scorgeva spartiti di Mozart appoggiati sulla scrivania di camera sua, Blaine decise che avrebbe vinto quel concorso.
Sperò solo che Sebastian fosse dello stesso parere.
 


 
Una volta arrivato davanti al conservatorio parcheggiò il motorino alla meno peggio, premurandosi quella volta di mettere a posto il casco e controllare i suoi capelli perfettamente curati con il gel: il giorno prima non aveva fatto in tempo a metterselo e praticamente si era sentito morire; quel giorno, invece, aveva bisogno di essere perfetto, di sentirsi perfetto, per ottenere la massima autostima possibile. Salutò con un caldo sorriso un paio di ragazze più piccole di un anno, che aveva conosciuto grazie a qualche corso in comune: Amanda e Sarah, così si chiamavano. Erano delle pianiste per niente male, ma Blaine aveva smesso di parlare di pianoforte con loro, dal momento che non rinunciavano mai a riempirlo di lodi e complimenti che gli sembravano inutili e inopportuni: lui non era un genio. Non era il figlio illegittimo di Chopin, come adoravano dire; si esercitava molto, ecco tutto.
Le vide ricambiare il saluto sventolando in aria le loro mani e cominciando a blaterare di qualche matricola carina che avevano intravisto: erano sempre molto agitate di prima mattina. Forse, perchè erano le ragazze più pettegole della scuola e sapevano ogni cosa succedesse dentro a quelle mura; non aveva mai saputo come facessero e, in parte, aveva anche paura a chiederlo, così preferiva sorvolare.
“Complimenti per i risultati, Maestro!”
Blaine per un momento non capì, e si limitò a inclinare la testa sforzando un sorriso gentile.
“I risultati, no? Quelli per l’iscrizione alla biennale!”
Oh, giusto. Era stato così preso dal concorso che non aveva minimamente pensato alle audizioni; sentì il cuore mancare un battito, mentre il suo respiro si fermò di colpo: Amanda e Sarah risero della sua ansia improvvisa, dandogli un paio di pacche affettuose sulle spalle.
“Perchè fai quella faccia? – Lo canzonò una, facendogli l’occhiolino – Sei arrivato primo.”
“Primo.”
Le fissò per diversi secondi senza battere ciglio: aveva bisogno di rielaborare mentalmente tutto il dialogo, per poter veramente capire cosa fosse appena successo, e una volta fatto balbettò timidamente: “P-primo?”, guadagnandosi un’altra risata da parte di entrambe.
“Certo! Primo della sezione pianoforte, s’intende. – Esitò un momento, prendendosi tutto il tempo per arrossire – Anche... anche il tuo amico è arrivato primo.”
“Il mio amico?” Domandò, confuso; Amanda in quello stesso momento diede una spallata a Sarah, come se avesse detto qualcosa di proibito.
“Oh, scusa, non volevo insinuare che voi due – cioè, io e Amanda ci speriamo da tipo una vita, ma ecco...”
“Ma di che state parlando?”
“Di te e Sebastian.” Ammisero alla fine, con un sorrisetto imbarazzato. “Siete... insomma. Siete due dei ragazzi più fighi di questa scuola.”
“Vedervi nella stessa stanza è un colpo agli occhi”, aggiunse Sarah cinguettando come una ragazzina. Blaine non fece in tempo nemmeno a fare una smorfia - perchè era ovvio che sapessero del loro concorso - che le due si avvicinarono a lui aumentando l’entusiasmo: “Abbiamo saputo del concorso. E’ fantastico! Il professor Cage è un genio, e poi è da una vita che metà dei suoi studenti sperano in un duetto Anderson-Smythe. Certo, molti pensavano che ti saresti messo con Wyatt, ma lui si è già iscritto con una, quindi...”
“Aspetta, aspetta un attimo.” Blaine si massaggiò la tempia visibilmente esasperato: “Chi è questo Wyatt?”
“Ma come, non lo conosci? Pensavo vi conosceste tutti, ai piani alti. E’ un altro musicista di questa scuola, bravissimo ovviamente. Si è iscritto anche lui al concorso, assieme ad una certa... Jodie, mi pare.”
“Lei non la conosciamo”, commentò l’altra, sembrando quasi una giornalista nel pieno delle attività.
Un altro iscritto, metabolizzò, con un nodo alla gola: dunque, Robert non aveva parlato del concorso solo a lui e Sebastian. Che stupido: il professore non gli aveva mai detto che fossero gli unici candidati.
Quindi... avevano dei rivali?
“E perchè mai gli altri studenti parlano di noi?” Chiese con voce flebile, ancora troppo focalizzato sulla nuova scoperta.
“Certo che parlano di voi, siete due dei musicisti più brillanti! E poi siete innegabilmente sexy.”
Tentò di non arrossire per quell’apprezzamento, così ancora un po’ allibito disse: “Sì beh, non mi sembra un motivo adatto per-“
“E così mi credi sexy?”
Sperò con tutto il cuore che non fosse successo; perchè non era possibile trovarsi Sebastian alle spalle, con il suo solito aspetto perfetto e un ghigno che gli modellava le labbra. Non era possibile.
Le ragazze ebbero un sussulto, sfoggiando un sorriso raggiante e salutandolo con tutta l’euforia che possedevano. In risposta, Blaine lo sentì salutare assumendo un tono basso e, a giudicare da come le due ragazze sembravano essersi sciolte sul pavimento, doveva aver sfoggiato anche un’occhiata piuttosto suadente. Deglutì, non avendo ancora la forza di voltarsi; eppure, sentiva distintamente un paio di occhi verde smeraldo puntati su di sè, come il giorno prima durante l’esibizione. Sembrava volessero perforarlo.
Amanda e Sarah si rivolsero un’occhiata molto eloquente, e in una frazione di minuto si erano già volatilizzate mormorando un “Ci vediamo ragazzi” e lasciandoli finalmente da soli, di fronte all’entrata del Franz Liszt.
Non che a Blaine cambiasse qualcosa: lui voleva soltanto provare e tornarsene a casa, senza troppi problemi; tuttavia, sapeva benissimo che prima o poi avrebbe dovuto rivolgere parola a Sebastian.
Infatti, dopo poco Sebastian commentò: “Hai intenzione di startene in quel modo per il resto della giornata?” Blaine riusciva ad immaginarsi perfettamente la sua espressione arrogante, mentre continuò dicendo: “Non mi sei molto utile, se mi volti la schiena. Certo, da qui ho un’ottima visuale del tuo culo, ma a meno che tu non voglia-“
“Buongiorno anche a te, Smythe.”
Sebastian fu quasi sorpreso quando lui si voltò di scatto, con le guance rosse e le labbra serrate in una smorfia. Inarcò le sopracciglia, con il suo sorriso che si fece leggermente più sghembo, forse, perchè non si aspettava che lo chiamasse per cognome: “Buongiorno, Anderson.”
Si guardarono per un tempo incalcolabile, con due espressioni completamente diverse: Sebastian era calmo, divertito; Blaine, invece, era teso e nervoso, come se quel ragazzo riuscisse a fargli cambiare umore in un attimo.
“Complimenti per il primo posto.”
Sebastian si strinse nelle spalle mormorando: “Era scontato.”
Cominciò seriamente a domandarsi se il suo secondo nome non fosse modestia.
“Certo”, sussurrò trai denti, voltando lo sguardo a terra: ovviamente, da parte sua, non arrivò nessun tipo di complimento.
Fortuna volle che il loro dialogo terminò in quel momento, quando il professor Cage aprì la porta dell’entrata principale e rivolse a entrambi un’occhiata scettica e irritata.
“Non so, volete anche un tè, magari? Muovetevi. Siete in ritardo di dieci minuti.”
I due s’incamminarono con calma verso l’entrata, forse, perchè erano ancora troppo intenti a metabolizzare diverse sensazioni.
 

 
 
“Allora.”
Robert si sedette meglio sulla sedia, aggiustandosi il nodo della cravatta come per allentarlo: cavoli, nemmeno aveva iniziato e già quella lezione si preannunciava estenuante. Blaine sembrava teso come una corda di violino e Sebastian sembrava in un mondo a parte, continuando a guardare tutti gli strumenti presenti nella sala prove con un certo occhio critico.
“Vi siete preparati qualche pezzo, avete provato insieme?”
Entrambi fecero di no con la testa; ovviamente, pensò il professore, ma almeno ci aveva provato.
“Perfetto, allora.”
Blaine e Sebastian preferirono sorvolare sul tono sarcastico nella sua voce, ma si sentirono entrambi un po’ offesi: se non fosse stato per lui, non avrebbero nemmeno saputo di questo concorso, quindi, se si trovavano in quella situazione non era di certo per colpa loro.
“Perchè non... non vi scaldate un po’? Niente di articolato, giusto per sciogliere i muscoli.”
E la tensione, concluse una parte della sua testa. Blaine si passò le mani sulle cosce, quasi come se volesse prepararle; cominciò ad eseguire qualche arpeggio e ottava, dapprima piano, poi con crescente velocità. Sebastian passò tutto il tempo a fissarlo in silenzio, senza accennare ad un sorriso nè battere ciglio; dopodichè, senza nemmeno attendere che avesse finito, sistemò in un attimo il violino sulla sua spalla e cominciò ad eseguire una serie di scale con una tecnica impeccabile, il ritmo veloce e perfetto mentre l’archetto sembrava quasi scomparire, tanta era la velocità con cui veniva mosso. Tutto, di Sebastian, trapelava fierezza. Quando finì di suonare lanciò un’occhiata a Blaine. Quest’ultimo non disse niente, si limitò a fissarlo sprezzante, con il professor Cage che, intanto, si passava una mano sul volto perchè non sapeva proprio come fare.
Di fronte al silenzio di Blaine, Sebastian decise di stuzzicarlo un po’: “Questo, Anderson, si chiama suonare.”
“Ma non mi dire.”
“Credi di poter fare di meglio?”
“Non credo Smythe, lo so.”
E per un attimo Sebastian sembrò sorpreso, ma divertito allo stesso tempo: fece un piccolo e teatrale inchino verso di lui, come incitandolo a suonare. E poi, Blaine si voltò di scatto sulla tastiera, cominciando a suonare una ballata di Chopin.
“Dio, ma non sai fare altro?” Sbottò dopo nemmeno dieci secondi, roteando gli occhi al cielo. Robert sembrò allibito quanto Blaine, che smise immediatamente di suonare, ma affermando: “Posso suonare quello che voglio.”
“Certo, ma in due volte che ti sento hai suonato due volte lo stesso compositore. Che palle.”
Per un momento Robert impallidì: non sarebbero usciti vivi da quella cosa. Non con Blaine che sembrava essere un assassino pronto a colpire.
Che palle? E’ questo che dici di Chopin? Che palle?”
“E sono stato anche troppo gentile. Andiamo, Chopin era il classico ragazzino che non scopava abbastanza e riversava tutta la frustrazione sul pianoforte.”
“Chopin – ribattè Blaine, scandendo bene ogni sillaba – è il più grande musicista di tutti i tempi. E tu sei un ignorante.”
“Liszt è il più grande musicista di tutti i tempi.”
“Ma se era un borioso montato che suonava soltanto per farsi vedere!”
“Era un virtuoso.” Commentò convinto, come se avesse appena tradotto tutta la definizione di Blaine. Come se, ai suoi occhi, tutto quello non fosse un’offesa: Blaine stava quasi per alzarsi in piedi quando la voce del professore giunse alle loro orecchie.
“Bene, ragazzi. Sono davvero contento del vostro scambio di opinioni. Sul serio, è emozionante. Però prima che qualcuno si faccia male, possiamo cominciare a suonare? Direi di provare con questo”. Porse ai due ragazzi una serie di fogli, divisi per strumento e giusta tonalità: “Cominciamo con qualcosa di semplice, giusto per armonizzarvi un po’.”
Armonizzarsi: nessuno dei due aveva bisogno di quello, loro dovevano provare, e provare in modo da riuscire a passare la prima fase. Con un sospiro si sistemarono uno davanti al pianoforte e l’altro accanto ad esso, cominciando a leggere le note senza nemmeno degnarsi di uno sguardo.
Era un Allegretto di Giuseppe Martucci, semplice, piuttosto vivace.
Blaine cominciò a scivolare lungo la tastiera con leggerezza, rilassando le spalle e lasciandosi cullare dal suono melodioso di quelle note Non era di certo il suo compositore preferito, ma quel pezzo gli piaceva molto; anche se la voce del violino era forte e potente, il pianoforte donava all’insieme un contesto più coinvolto, come di un tavolo smussato agli angoli che tuttavia restava rigido nella sua interezza.
Fu solo quando avvertì il violino di Sebastian che si destò da una sorta di lungo sogno.
Intervenne con decisione e fermezza; perchè lui pensava solo al suo pezzo, e a quello che doveva suonare.; nemmeno Blaine si sforzò di accompagnarsi a lui cercando di seguire la sua interpretazione: era come se entrambi suonassero diversi pezzi della stessa opera, in modo del tutto sconnesso e asociale.
Dopo nemmeno un minuto di esibizione, il professor Cage li fermò.
“Non va bene – continuava a mormorare, passandosi una mano trai capelli brizzolati e serrando la mascella squadrata – non va bene ragazzi, non va bene.”
Sebastian sbuffò, adagiando il violino lungo una coscia e commentando un po’ seccato: “Ma che c’è che non va? Io ero stato perfetto.”
“Veramente, nemmeno io dovrei aver commesso errori.” Aggiunse Blaine dopo aver rivolto all’altro ragazzo un’occhiata gelida. Se pensava di poter accollare su di lui tutta la colpa si sbagliava di grosso; Sebastian ricambiò con un ghigno divertito, fino a quando Robert, se possibile, si innervosì ancora di più aggiustandosi gli occhiali sottili e socchiudendo gli occhi come per calmarsi.
“Lasciate che vi spieghi una cosa sul suonare insieme.” Esordì a denti stretti, facendosi più vicino con la sedia e prendendo delle lunghe pause come per cercare le giuste parole.
Blaine si voltò completamente su di lui, mettendosi a cavalcioni sullo sgabello, e Sebastian si appoggiò con il gomito al ripiano del pianoforte a mezza coda, appoggiandoci sopra il violino. Accavallò le gambe, e restò a fissare il professore preparandosi già all’ennesima cazzata che aveva da dire.
“Suonare un duetto è come fare sesso.”
“Pu-può ripetere?” Balbettò Blaine conscio di essere diventato completamente viola, mentre l’aria intorno a lui cominciava a farsi bollente. Dio, nemmeno suo padre era riuscito a fargli avere un discorso sul sesso, non avrebbe mai pensato di doverlo subire a ventidue anni e in una lezione di musica.
“Hai capito benissimo, Blaine, è come fare sesso. Bisogna essere in connessione con l’altro partner, sentire quello che sente lui; avere la gentilezza di ascoltare ogni suo respiro e assecondare tutti i suoi movimenti.”
“Tutto ad un tratto mi piace questa lezione.”
“Smythe, smettila” lo rimproverò il professore, sebbene con un mezzo sorriso. “E’ una cosa che dovete sentire da soli - riprese poi – è un lavoro di coppia, come tutte le altre cose. E sono cose che capirete soltanto quando vi sarete aperti l’uno con l’altro. Se preferite, anche letteralmente.”
Oh, Dio. Non lo aveva appena detto.
Blaine immaginò di trovarsi in un’isola deserta cullato dalla brezza marina e dal caldo tropicale. Pace interiore; non aveva nessun rimorso o vergogna: pace interior-
“Vecchietto, da grande voglio essere proprio come te. Ti davi da fare con le violiniste eh!?”
“Coraggio Smythe, non fare sempre il ragazzino” sghignazzarono i due uomini guardandosi con una certa intesa. E no, davvero, Blaine non aveva nessuna voglia di sentire vecchie storie di come lui si era “connesso” con i suoi “partner” musicali. Dio, quella frase aveva un orribile doppiosenso perfino nella sua mente.
“Io-io credo di dover andare.”
“Ma dove vai, Anderson? Abbiamo appena iniziato!”
“Sì, Anderson”, lo rincalzò Sebastian facendolo pietrificare nella sua posizione – un po’ in piedi, un po’ chinata, rivolto verso il muro e la porta della stanza-.
“Perchè non resti un po’ con noi a parlare di come possiamo accordarci meglio?”
Robert, quasi incredulo, scoppiò a ridere. Ma Blaine era già uscito dalla stanza mormorando qualche cosa circa la pausa caffè, visibilmente imbarazzato e anche un po’ allibito.
 
 
Ci vollero diversi minuti di calma e silenzio perchè il suo respiro tornasse ad essere regolare: prima le ragazze, adesso il professore. Era come se ai suoi occhi si fosse aperto un mondo nel quale tutti quanti cercavano di metterlo in imbarazzo il più possibile, e lui non sapeva proprio come uscirne.
Certo, non aveva ancora fatto i conti con l’unica persona che sarebbe stato in grado di annientarlo del tutto.
Quando credeva di poter essere al sicuro da tutto, sorretto solo dall’amaro e delizioso sapore del caffè, ecco che Sebastian comparve alla sua vista, spavaldo come non mai. Si prese tutto il tempo per lanciargli una lunga occhiata, squadrando i lineamenti morbidi del suo viso e la sua t-shirt con un leggero scollo a v; dopodichè si sedette sulla sedia davanti alla sua e appoggiò le mani sul tavolino, fissando Blaine come un leone di fronte alla sua preda e, allo stesso tempo, con una certa vena di curiosità nel suo sguardo.
Ignorarlo. Quella era la tattica migliore, ignorare Sebastian Smythe. Ignorare i suoi occhi chiari che lo stavano fissando intensamente e le sue labbra rosee che adesso erano incurvate all’insù, con una certa malizia; perchè non sarebbe riuscito in nessun modo a rispondere alle sue battute provocatorie; perchè non aveva proprio nessun tempo da perdere con lui, e non poteva davvero-
“Tu fai sesso?”
Quella domanda era uscita con la stessa semplicità con cui Blaine rischiò di strozzarsi nel caffè, costringendo a darsi pesanti pacche sul torace.
“Andiamo Anderson, vista la tua uscita da scolaretta in calore mi hai un po’ incuriosito.”
“Non credo di aver afferrato bene il concetto”, sibilò Blaine con voce roca e danneggiata, continuando a darsi dei colpi sul petto. Cavolo, quel caffè era davvero bollente.
“Non è un concetto, è una domanda. Tu fai sesso?”
Ignorarlo. Doveva solo ignorarlo.
“Andare a letto, scopare. Ti stai facendo qualcuno in questo periodo?"
“Ma che diavolo stai dicendo!?” Sbottò cercando di riacquistare un minimo di compostezza mentre frugava nella sua tracolla alla ricerca di un fazzolettino. Ma Sebastian non sembrava allibito, anzi: aveva la tipica espressione di chi stava parlando di un argomento del tutto ordinario.
“Ma per favore – incalzò lui senza la minima traccia di divertimento – ti devo ricordare che suoniamo insieme? Posso capire come fai una sega dal modo con cui tocchi i tasti del pianoforte."
Il pacchetto di fazzoletti gli cadde di mano.
Una volta subito in pieno lo sguardo divertito e malizioso di Sebastian, si rimise composto sulla sedia, schiarendosi appena la voce e stringendo con fermezza la tazza ormai vuota del suo caffè.
"Io...io al momento non ho...sto aspettando la persona giusta, ecco."
Qualcosa nell’espressione di Sebastian cambiò, ma non in meglio: sembrava quasi... sconcertato.
“Questa frase la dicevano le verginelle delle elementari. Sei vergine?”
“Cosa!? No!”
"Ah ok. Allora ti sei impelagato con un etero, non è così?"
“No che non è così, ho solo detto che ultimamente non ho pensato molto al...sesso." Mormorò, sbuffando: quel ragazzo sapeva essere davvero snervante. E la sua espressione sempre più scandalizzata non migliorava molto le cose.
"Ma quanti anni hai tu?"
Per un attimo, preferì non rispondere: sviò lo sguardo verso il suo caffè, prendendosi tutto il tempo per calmarsi ed assumere un atteggiamento rilassato e superiore. Sebastian riusciva a farlo imbarazzare? Bene. Avrebbe dimostrato che anche lui sapeva il fatto suo, in quanto sfacciataggine.
“E sentiamo – canzonò, con un gesto convesso della mano prima di posizionarla sotto al mento in modo del tutto naturale – che mi dici tu?”
Con una nonchalance disarmante, Sebastian si strinse appena nelle spalle affermando: "Pratico sesso regolarmente."
“Certo – commentò, atono – come no.”
“Non ci credi?”
“La mia idea è che ti sopravvaluti un po’ troppo spesso. In tutte le materie.”
Sebastian inarcò vistosamente le sopracciglia, esitante, e Blaine stava quasi per dichiarare vittoria e complimentarsi con se stesso, saltellare per tutta la stanza e prendere in giro Sebastian fino a quando avrebbe avuto fiato nei polmoni.
Ad un tratto, però, vide il suo sguardo vagare da lui al tavolino sotto di loro, fino a puntare quel bicchiere di caffè che adesso era ad un palmo dalle sue mani, per poi tornare sui suoi occhi.
A Blaine mancò il fiato, solo per come lo stava fissando.
Con lentezza, Sebastian portò il bicchiere verso di sè, le lunghe dita affusolate che scivolarono lungo il freddo ripiano di plastica, avvolgendo il cucchiaino posto dentro alla tazzina un po’ imbrattato di zucchero e ancora sporco di caffè.
Senza distogliere mai lo sguardo da quello di Blaine, lo portò lentamente alla bocca, passandoselo delicatamente sulle labbra e indugiando per qualche secondo, per assaporare bene quel sapore amaro reso ancora più invitante da quel contrasto dolce. Alla fine ne succhiò un piccolo pezzo, giusto la punta, con una tranquillità disarmante, tipica di chi è consapevole di non stare facendo niente di male.
Così, dopo un tempo che a Blaine sembrò interminabile, si alzò in piedi, sistemandosi i capelli e le maniche della camicia; andò a buttare il bicchiere di caffè, e prima che Blaine potesse fare niente per impedirlo sentì il respiro caldo di Sebastian lambirgli un orecchio, facendolo congelare.
“Quando vuoi cambiare idea sai dove trovarmi.”
 

E alla fine Blaine fu lasciato da solo, cosa che gli permise di tornare finalmente a respirare.
Adesso, doveva soltanto cercare un modo per risolvere un certo problema con i pantaloni.





***

Angolo di Fra

Non mi ricordo bene: che rating ho dato alla storia? ahahahah!
Volevo solo ringraziare tutte le splendide persone che mi leggono e che mi hanno recensita, o aggiunta alle seguite. Sono felicissima che vi piaccia questa storia!

Per i credits e copyright, ecco i link youtube ai brani che ho messo nella storia fino ad ora :

 
http://www.youtube.com/watch?v=xi_dGIg2FRQ
http://www.youtube.com/watch?v=aRLrqIjy9qA
http://www.youtube.com/watch?v=RR7eUSFsn28


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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***






Capitolo 4



 
La sveglia suonò troppo presto, e lui era andato a dormire troppo tardi.
Robert si mise a sedere stancamente, passandosi una mano sul volto e rivolgendo un sorriso verso quello di sua moglie, una donna che era stata sin troppo paziente per aver passato quarant’anni della sua vita con lui.
Si diresse in cucina, dove ricordava ancora i suoi nipotini che scorrazzavano in giro distruggendo qualsiasi cosa: gli mancavano quei ragazzini. Sua figlia, comunque, lavorava sempre fino a tardi, e in generale non avevano mai avuto un ottimo rapporto; era per la musica: c’entrava sempre la musica, perchè lui l’aveva messa sempre al primo posto.
Dopo una doccia refrigerante e un caffè risolutivo, afferrò tutto l’occorrente – cappello, bastone e valigetta – per dirigersi verso le scale, che lo avrebbero condotto all’entrata e, con un po’ di fortuna, anche ad un comodo taxi.
“Ancora quei due ragazzi?”
Sua moglie lo chiamò sulla soglia, indossava ancora la vestaglia che gli aveva regalato quindici anni fa. I capelli, privi di qualsiasi colore, erano corti e tuttavia piuttosto sistemati; sotto a quelle profonde rughe e smagliature, si poteva ancora intravedere la bellissima donna di un tempo.
“Sì, Kayla. Ma non ti preoccupare, faccio un paio di ore di prove e poi torno.”
“Vorrei ben sperare – lo ammonì lei, a braccia conserte e con una smorfia ben evidente – è da più di una settimana che passi tutto il giorno dietro a quei ragazzi, e loro nemmeno ti ascoltano.”
Non poteva darle torto, su quell’argomento: dalla loro prima lezione avevano fatto progressi zero, a parte il fatto che adesso non si limitavano più a battibeccare, ma a scambiarsi sguardi pieni di astio o indifferenza e gongolare quando uno dei due sbagliava una nota. Erano come due bambini prima di una rissa: sul punto di esplodere, ma nessuno voleva dare il pugno per primo perchè ci teneva a fingersi quello più maturo.
In realtà, era come se qualcosa di più profondo stesse nascendo, rinchiuso in quelle quattro mura della sala prove. O almeno, così gli piaceva credere. Doveva pur trovarsi un motivo valido, per convincerlo a fare lezione anche di Domenica mattina: l’idea di allenare due ragazzi cocciuti non era abbastanza allettante.
 
 

L’aula prove era, fortunatamente, silenziosa. Le altre volte Robert la prenotava appositamente per loro due così da non avere nessun altro ragazzino in giro pronto a disturbarli, ma quella volta non ce n’era stato bisogno: chi aveva la voglia di chiudersi in conservatorio di Domenica Mattina?
Blaine e Sebastian arrivarono praticamente insieme, il primo rivolgendo un saluto affettuoso al professore e il secondo con il cellulare attaccato all’orecchio, parlando con chissà chi e fregandosene di tutti i presenti di quella stanza: perchè aveva da fare, o, forse, perchè non erano degni della sua attenzione.
“Buongiorno anche a te Sebastian” commentò il professore una volta che il ragazzo ripose l’Iphone in tasca, sviando lo sguardo e apprestandosi ad aprire la valigetta contenente il suo violino. Una volta sentita quella frase, si limitò ad un semplice “’giorno”, mormorato e con poca voglia. Blaine non disse nulla, fece proprio finta di ignorarlo: non avrebbe sopportato il principino in una delle sue giornate no, quindi, era meglio che entrambi restassero ai propri posti senza fare rumore.
“Vi faccio le solite due domande e spero di non sentire le stesse risposte.”
I due ragazzi fissarono Robert: si sentirono quasi in colpa nel momento in cui le due domande che il professore faceva loro ogni bendetta volta erano le uniche a cui non avrebbero mai detto di sì.
Perchè no, non si sarebbero mai decisi a incontrarsi fuori dal conservatorio per suonare insieme, e no, non avevano intenzione di cambiare idea. Almeno su quello, erano entrambi d’accordo.
“Molto bene”, mormorò Robert, accarezzando gentilmente il manico del suo bastone. Blaine si guardò intorno quasi intimorito, perchè il conservatorio quel giorno era davvero deserto e non ci sarebbe stato nessuno a evitare che il professore gli desse quel bastone dritto in testa.
Era fortunato che riversasse tutta la sua collera nella musica: ricevette in mano uno spartito senza mezzi termini, sentendolo pronunciare “suonatelo” con un tono così tagliente da congelargli le vene. Incredibilmente, mosso da chissà quale curiosità – o sadismo -, si voltò verso Sebastian, e quasi scoppiò a ridere di fronte alla sua faccia corrucciata e un po’ offesa, ma non disse niente.
Il chè fu abbastanza sorprendente, di per sè, ma mai quanto il modo con cui afferrò il violino senza fiatare e cominciò a leggere le note, pizzicando le corde con lentezza e precisione.
Blaine inarcò le sopracciglia e decise di canzonarlo giusto un pochino: “Passato una bella mattinata, Smythe?”
Sebastian non guardò Blaine nemmeno con la coda dell’occhio, troppo preso dallo spartito.
“In realtà, ho passato una bella notte. Una splendida notte, Anderson. Una di quelle che non avresti nemmeno nei tuoi sogni più eccitanti.”
“Certo, ovviamente. Stupido io che non ci sono arrivato.” Blaine non era nemmeno più offeso da tutte quelle provocazioni: aveva deciso di fregarsene, così come Sebastian se ne fregava della sua completa mancanza di tatto o altruismo.
“Cosa, vorresti provare?”
Robert sospirò senza nemmeno badarci più di tanto, continuando a scribacchiare su un foglio pentagrammato, e Blaine si limitò a guardarlo: i suoi occhi verdi adesso erano dipinti con una punta di malizia, ma non abbastanza da renderlo vagamente credibile o preoccupante.
“Sì Smythe, voglio provare.”
E fu in quel momento, di fronte alla sua espressione vagamente confusa, che rischiò seriamente di perdere la pazienza.
“Voglio provare il pezzo.”
“Ma certo, lo sapevo.”
Forse, pensò Blaine, lo sapeva sul serio. Anzi, sicuramente: si era divertito a prenderlo in giro con la farsa da ragazzo stupito, niente di più.
Così, dopo qualche altro secondo, cominciarono a suonare una Sonata di Mozart.
Mozart era la via di mezzo per congiungere i gusti di entrambi: c’era abbastanza tecnica per compiacere Sebastian ma non era completamente meccanico, come invece piaceva a Blaine. Robert aveva sempre più difficoltà nel trovare brani adatti a loro due, tanto che ultimamente si ritrovava a pensare se quella di metterli insieme fosse stata una buona idea. Perchè se n’era quasi dimenticato: dopo più di una settimana passata a sentirli suonare, in un modo che rasentava il ridicolo, non ricordava più quale fosse quella scintilla che lo aveva sorpreso.
L’esecuzione finì, senza dolo nè onore; Robert li reputò come i tredici minuti più lunghi della sua vita, e grazie al cielo qualcosa dentro di lui lo spinse a interromperli. I due ragazzi apparvero indispettiti, all’inizio: guardarono il professore come se avesse interrotto un loro monologo fantastico, senza nemmeno ricordarsi che, in teoria, dovesse trattarsi di un dialogo.
“Fantastico, davvero. Farete un figurone alla prima selezione.”
Inutile dire che il sarcasmo nella sua voce fu così pungente da avvelenare l’aria.
Raccolse tutte le sue cose, scuotendo la testa e borbottando qualcosa circa “l’orgoglio”, e “la pazienza”, e “questi giovani d’oggi”. Non sapeva nemmeno bene perchè, ma era una frase che adorava dire, perchè era in un’età avanzata, conosceva il mondo e ogni tanto voleva farsi vanto della sua esperienza.
Li lasciò da soli, in quell’aula troppo grande e troppo piena di strumenti.
Blaine si guardò i lacci delle scarpe, mordendosi il labbro inferiore, per un momento, come se tutto quello in realtà gli avesse arrecato solo tanto rammarico: non gli piaceva essere trattato così. Non gli piacevano le espressioni del professore ad ogni loro nuova esibizione, e non gli piaceva il modo con cui andava via senza nemmeno degnarli di una critica, o una lode. Guardò Sebastian, il suo volto impassibile e il suo sguardo imperscrutabile.
“Secondo me non siamo andati troppo male.”
Ricevette un’occhiata a dir poco denigratoria, e con tono melenso lo sentì dire: “Ma se hai fatto schifo.”
Fantastico. E lui che aveva provato perfino a essere gentile.
“Beh nemmeno tu sei andato molto bene. Non seguivi il mio tempo, per questo abbiamo sbagliato.”
“Abbiamo? Il tuo tempo!? Non avevi un tempo, andavi a caso.”
“Si chiama interpretazione.”
“Si chiama essere scarso. E poi semmai sei tu che devi seguire me, visto che sono il violinista.”
Blaine aggrottò le sopracciglia, spostandosi sullo sgabello e incrociando le braccia al petto: “E allora?”
“E' ovvio che sia io il protagonista della scena.” Sebastian raddrizzò la schiena e si passò una mano trai capelli, emettendo una smorfia seccata non appena Blaine riprese a parlare.
“Ma che dici? E' un duetto. Un brano per violino e pianoforte, non per violino e accompagnamento.”
“C'è differenza?”
Incrociò il suo sguardo, e tutto ciò che gli trasmisero quegli occhi dorati fu rancore e risentimento.
“Adesso capisco perchè tutti gli altri pianisti ti hanno mollato.”
Non voleva dirlo sul serio, specialmente usando quel tono: in realtà non sapeva bene com’erano andate le cose, era il primo a non voler dar retta alle dicerie che circolavano per la scuola. Ma gli era molto difficile non crederci, specialmente ora che era a contatto con Sebastian ogni giorno.
“Non mi hanno mollato loro – lo corresse lui - li ho scaricati io.”
Non riuscì a trattenersi dal fissarlo e domandarne il motivo.
“Troppo polemici. Troppo sprecisi. Troppo noiosi e troppo piagnucoloni. Insomma, troppo come te.”
Sorrise. Certo, quella era una risposta proprio da lui.
Stava quasi per aprire bocca e parlare di nuovo, magari, insultandolo in tutti i modi possibili, quando la porta alle loro spalle si aprì di scatto e loro si voltarono quasi contemporaneamente.
All’entrata, si presentò il ragazzo che Blaine aveva incrociato il giorno dell’audizione, con i capelli chiari, i lineamenti sottili e gli occhi puntati su di lui. Era alto quasi quanto Sebastian ma decisamente più muscoloso.
“Oh, scusate. Ho interrotto qualcosa?”
Non era possibile che ci fosse un altro studente in quella scuola: era Domenica mattina dopotutto, e non sapeva di nessun corso speciale in programma per quel periodo; quindi, quel ragazzo si trovava lì per un motivo ben preciso.
Sebastian non aveva ancora detto nulla, limitandosi a sistemare il violino nella custodia rivolgendo allo sconosciuto un’occhiata piuttosto indifferente: Blaine ipotizzò che per lui quel ragazzo non era meno importante di qualsiasi altro essere umano presente sulla faccia della terra. Probabilmente, doveva essere così anche per lui, ma qualcosa, nella sua mente, lo stava mettendo in allerta.
“Scusate, pensavo aveste finito. Mi servirebbe l’aula.”
La sua voce era sottile, ma allo stesso tempo, vellutata: era come se fosse perennemente impostata, come se camuffasse il suo vero tono, o la sua vera indole.
“No, non abbiamo finito”, rispose Sebastian, ma Blaine lo seguì domandando: “Devi provare per qualche evento?”
“Sì, Blaine.”
Il modo con cui pronunciò il suo nome lo fece sussultare, e piano piano tutti i tasselli nella sua testa si stavano mettendo al posto giusto. Quel ragazzo che aveva incontrato poco dopo l’audizione, verso l’ufficio di Robert, che era lì di Domenica mattina e che sembrava conoscerlo: ci doveva essere una sola spiegazoine. Una spiegazione che poteva riguardare soltanto due cose: loro, o il concorso. Magari, entrambe.
“Tu sei Wyatt.”
Lo vide fare un piccolo inchino, in un gesto molto teatrale.
“Lieto di fare la tua conoscenza. Ufficialmente, s’intende.”
“Tu... mi conosci?”
Sebastian continuava a tenere lo sguardo incollato allo spartito, con la matita appoggiata su un orecchio e l’archetto stretto tra le dita. Wyatt lo osservò con attenzione, mentre rispose a Blaine dicendo: “Ti conosco di fama, ovviamente. Mi hanno detto che fossi bello quanto bravo, evidentemente non si sbagliavano.”
Lui avrebbe voluto evitare il rossore che tinse immediatamente le sue guance, ma di fatto non ci riuscì: non era ancora abituato ai complimenti, soprattutto se alludevano anche a qualcosa che non riguardasse soltanto la sua musica. Ancora troppo preso a contenere l’imbarazzo, non si era accorto di Sebastian che, nel frattempo, si era fermato davanti al ragazzo, rivolgendogli un’espressione che Blaine, dalla sua posizione, non riuscì a vedere: tutto ciò che notò fu come il sorriso di Wyatt sparì di colpo e, subito dopo, il tono sussurrato con cui disse: “Sebastian Smythe, dunque. La fama precede anche te.”
“Quale fama?”
Ma lui non rispose, assottigliando lo sguardo e abbozzando un ghigno misterioso. Sebastian voleva passare, ma lui non sembrava intenzionato a muoversi, e continuava a fissarlo.
“Che fai, aspetti l’inverno?”
Wyatt scoppiò in una leggera risata, che riecheggiò per tutta la stanza facendone cogliere ogni sfumatura: e Blaine, disorientato, avrebbe pagato per sapere cosa ne pensasse Sebastian di quel ragazzo. Era indubbiamente affascinante: tuttavia, c’era qualcosa, in lui, che non riusciva a decifrare.
“Sempre con la battuta pronta.” Rincalzò il ragazzo.
“Sì, certo. Parlando di battute, perchè non vai a battere qualcuno e non ci lasci suonare?”
L’espressione che comparve sul volto di Wyatt era smielata quanto irritante.
“Per tua informazione, a me non importa che sia qualcuno o qualcuna. Io non mi limito alla forma superficiale, a me piace l’essere umano in sè, come la musica: non c’è nessun bisogno di fermarsi alla forma esteriore, proprio come fai tu.”
E Blaine, per un momento, pensò quasi che fosse un bel discorso.
A Sebastian invece sembrò un discorso del cazzo. Anzi, fatto con il cazzo.
“E comunque – continuò il ragazzo – fatemi solo sapere quando avete finito di strimpellare quello... qualsiasi cosa voi stavate suonando. Era difficile da riconoscere, con tutta quella sprecisione.”
“Ehi.”
Non si sarebbero aspettati di sentire quella parola. In realtà, non se lo aspettava nemmeno Blaine: gli era uscita così, senza pensarci. Gli era sembrato semplicemente una cosa da gran maleducati, presentarsi lì sembrando il dio del mondo e permettendosi di giudicare l’operato di altri; dopotutto, lui non era proprio nessuno per criticare il modo di suonare suo, o di Sebastian. Robert poteva farlo; forse, loro stessi. Ma nessun altro.
Con quel pensiero, lo guardò dritto negli occhi: “Noi non abbiamo ancora finito. Quindi, ti conviene aspettare fuori.”
Wyatt non disse una parola, e rivolse a entrambi un sorriso come un arrivederci.
Fu solo quando furono di nuovo soli che Sebastian si voltò di scatto, con l’archetto ancora in mano e puntato verso la porta: “Chi diavolo era quell’idiota?”
Blaine esitò a lungo, prendendo un bel respiro.
“Tutto ciò che so è che si chiama Wyatt, e...”
“E?” Lo incalzò lui, con una sorta di nervosismo crescente, che si fermò non appena sentì delle parole che lo immobilizzarono.
“E si è iscritto anche lui al concorso per Kuznets, assieme ad un’altra ragazza.”
 
 

Sebastian camminava lungo le strade di New York, con nient’altro che una birra in mano e mille pensieri nella mente. Un ragazzo di fronte a un bar gli fece l’occhiolino, gesto del tutto inutile dal momento che lui continuò a camminare dritto senza nemmeno scrutarlo; non aveva tempo da perdere con ragazzini in calore, nè, tantomeno, in musicisti incompetenti come quel Wyatt. Lui aveva un obiettivo, e voleva raggiungerlo il più presto possibile: ottenere quel posto nella polifonica di Kuznets e andarsene via da quella scuola, lasciandosi dietro tutti i professori e i ricordi.
Non aveva nemmeno tempo, voglia, pazienza a sufficienza per stare dietro a quel Blaine Anderson. Perchè era fastidioso: lui, con i suoi riccioli maldestramente aggiustati da sempre troppo gel e i suoi occhi chiari che si incantavano sui tasti del pianoforte, come se tutto il resto del mondo non contasse. Per un attimo, gli venne quasi da ridere: che razza di amore poteva nutrire verso quello strumento? Era un oggetto. Un oggetto nemmeno tanto bello, esteticamente: un violino era sinuoso. Un’arpa, graziosa. Ma un pianoforte sembrava quasi la bara di un cadavere, e il suo suono poteva anche assumere sfumature del tutto orribili.
In realtà, c’era una cosa, in particolare, che non riusciva proprio a capire: la sua devozione. Quella sorta di amore platonico verso la musica, che lo portava a estraniarsi completamente; perché Blaine suonava, e ogni volta sembrava come se stesse vivendo una storia tutta sua.
Perchè Sebastian si ritrovò a sorridere all’immagine che comparve trai suoi pensieri, e quello non era assolutamente concepibile.
Si voltò indietro, il ragazzo accanto all’entrata del bar era ancora lì, l’aria trasandata e il volto di chi avesse bevuto un cocktail di troppo; non era nemmeno troppo carino, era il classico ragazzo gay sulla ventina, poca barba, occhi spenti e famelici. Sebastian stava quasi per andarsene, quando qualcosa catturò la sua attenzione convincendolo a dirigersi verso quel ragazzo: aveva dei riccioli biondi che ricadevano lungo la fronte, in modo sciolto e naturale.
Forse, chiudendo bene gli occhi, sarebbe riuscito perfino a sostituirne il colore.






***

Angolo di Fra

Sì, è un po' inutile questo capitolo, nel senso che non succede niente di chè: ho presentato Wyatt, perchè dovevo farlo, si è capito che odia già Sebastian e si è capito che Sebastian e Blaine a suonare non stanno andando da nessuna parte.
Insomma, è un po' palloso stò capitolo xD però mi è piaciuto per qualche frase che mi è uscita bene.
Mi farò perdonare col prossimo: ci sarà una grande new entry ;)
Volevo ringraziare Marti che ha tipo la pazienza di un Koala (perchè i koala sono molto pazienti) che mi legge sempre i capitoli in anteprima, e Ilaria che mi ha fatto una grafica a dir poco DFGHJKL.
Volevo ringraziare pubblicamente sia Ilaria per le sue fan-art (tra cui la targhettina che vedete a inizio capitolo) sia Sara, perchè anche lei mi ha fatta un po' morire oggi. La fan-art di Sara la trovate qui mentre i lavori bellissimi di Ilaria nella sua pagina.
Grazie anche a chi ha la pazienza di leggermi, e GRAZIE per le recensioni dello scorso capitolo. Davvero, vi adoro.

Fra

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***






Capitolo 5



                                                       
 
 
 
“Mi spiega esattamente cos’è questa storia?”
Il professor Cage guardò Sebastian da sopra i suoi occhialini sottili, l’espressione non mutata di una virgola e il classico tono formale.
“Buongiono anche a te Sebastian.”
“Buongiorno un cazzo.”
Blaine era un paio di metri dietro di lui, con la schiena appoggiata alla porta chiusa e intento a fissare quella rigida di Sebastian, mentre le sue braccia stavano stritolando gli angoli della scrivania. A giudicare da come lo aveva preso per una manica giusto cinque minuti prima e trascinato con la forza nell’ufficio del professore, Blaine dedusse che non aveva passato poi una così bella nottata; da quel poco che era riuscito a intravedere, Sebastian quella mattina aveva i capelli scompigliati, delle profonde occhiaie, il volto teso e costantemente contratto da una smorfia. Non che gli dispiacesse, in fondo: chissà come mai, l’idea di lui che faceva cilecca con qualcuno lo divertiva.
“Che è questa cosa di un altro candidato al concorso per Kuznets? Chi è questo Wyatt?”
Robert emise un piccolo sospiro, appoggiandosi allo schienale della sedia e intrecciando le dita lunghe e allenate.
“Wyatt Gosling è un allievo dell’ultimo anno. Si è presentato da me il giorno stesso delle audizioni chiedendomi di essere iscritto al concorso, come autodidatta.”
E Sebastian stava già per controbattere con veemeza dicendo quanto tutto quello fosse stato meschino e spregevole, ma poi la sua bocca rimase aperta senza che proferisse alcuna parola; anche Blaine fece un passo in avanti, sembrando leggermente confuso.
“Wyatt si è iscritto... da autodidatta?”
“Più precisamente, si è fatto iscrivere”, mormorò il professore.
Sebastian e Blaine si lanciarono un’occhiata, come se fosse bastato quel piccolo particolare a cambiare completamente le carte in tavola. C’erano solo due probabili motivi per spiegare con efficienza l’iscrizione di quel ragazzo al concorso: poteva essere un montato, uno di quei ragazzi che credeva di avere già la carriera in pugno e che si giudicava sprecato per quella scuola; oppure, era semplicemente un fenomeno musicale, prossimo al diploma di specialistica, che si era trovato al posto giusto nel momento giusto con il bando immesso da Kuznets.
“...E che strumento suonerebbe?” Domandò Blaine, con una certa incertezza nel tono di voce perchè, in fondo, sia lui che Sebastian sapevano benissimo quanto quella domanda avesse un’importanza fatale. Se era un violinista, erano ufficialmente nei casini; un violoncellista, magari, sarebbe stato più semplice da gestire, ma mai quanto un altro pianista, dotato di più anni di allenamento e una tecnica formidabile.
Quelle erano le tre possibili varianti che comparvero nella loro mente, sempre più sottili, sempre più pericolose, mentre il professor Cage davanti a loro si puliva lentamente gli occhiali da vista come per dare il tempo di impazzire del tutto; Sebastian continuava a tenere lo sguardo fisso sul professore, fino a quando quest’ultimo non parlò.
“E’ un ottimo flautista.”
Sebastian si bloccò di colpo, con la bocca semi aperta.
“Oh Dio sul serio? Un pifferaio!”
“Beh? Che ti è preso tutto d’un tratto?” Domandò il professore di fronte alla sua risata sguaiata, osservandolo accigliato; perfino Blaine sembrava più rilassato, emise inconsciamente un piccolo sorriso come sentendosi molto più sollevato.
“Ma andiamo prof – esultò Sebastian – quello suona il piffero!”
“Si chiama flauto traverso.”
“E’ un fottutissimo piffero. Adesso cosa farà, comincerà a manovrare i topi?”
“Non sei divertente.”
Ma Blaine stava cercando con tutte le sue forze di trattenere una risata, mostrandosi composto e leggermente seccato da quella sua superficialità: in realtà, era un luogo comune che i flautisti fossero discriminati dal resto degli studenti. Semplicemente, non vedevano motivo per prenderli sul serio.
“Va bene insomma, il nostro Tamino può continuare a vivere i suoi giorni di gloria, mentre gli adulti pensano a fare della vera musica.”
Robert afferrò con poca grazia il bastone, sollevandosi in piedi senza troppe cerimonie: “Non ti conviene sottovalutare quel ragazzo. Lui e sua cugina Jodie sono piuttosto famosi per essere un duo senza pari.”
“La conosce?” Intervenne Blaine, come illuminatosi: non sapevano nulla sull’altra ragazza.
“Non molto. E’ giovane, una pianista discreta.”
Discreta, metabolizzò il ragazzo assimilando e traducendo quella parola. Robert era solito pesare ogni parola, dandole la giusta consistenza: non rappresentava una minaccia, quindi?
“Sì beh non è il nostro genere” mormorò Sebastian avviandosi verso la porta dell’ufficio, con ancora quel ghigno di pura soddisfazione dovuto interamente a Wyatt: lo avrebbe schiacciato come una formica; la prossima volta non sarebbe stato così restìo, gli avrebbe fatto capire la netta differenza tra dare aria ai polmoni a caso e il suo violino.
Adesso aveva un valido motivo per impegnarsi a fondo in quelle prove, così da annientare totalmente Wyatt alla prima selezione del concorso.
Una volta arrivati in aula prove, si sistemarono ai rispettivi posti e Blaine passò una mano sui tasti del pianoforte, restando in attesa di qualche ordine dal professore o qualche battuta cinica del ragazzo.
“Voglio ricordarvi che avete soltanto due settimane per provare il brano e effettuare un’esibizione soddisfacente. Non avrete una seconda chance, alla selezione.”
“Non ne avremo bisogno”, commentò Sebastian guardando il professore con aria di sfida. L’uomo, però, sembrava mancare completamente della sua stessa tenacia: abbassò lo sguardo, porgendo a entrambi un nuovo spartito e sorridendo debolmente.
Perchè se non si mettevano in testa di allenarsi, ma allenarsi davvero, non sarebbero mai riusciti a superare la prima fase.
 

 
Dopo un’ora e mezza di prove ininterrotte i tre si trovavano al punto di partenza: era un susseguirsi di interruzioni, pause, commenti schietti, critiche. Sebastian adesso aveva l’archetto in mano e fissava Blaine come se stesse per ucciderlo da un momento a quell’altro: non erano riusciti ad andare a tempo nemmeno una volta, perchè il pianista si perdeva in qualche suo gorgheggio tecnico rallentando un trillo di troppo o accelerando una scala. Eppure, Blaine lo fissava come convinto di aver ragione, ed era quella, la cosa che più lo faceva arrabbiare.
“Ti assicuro.” Sentenziò a voce bassa, come un sibilo, che assomgliava molto ad una minaccia. “Ti garantisco che prima o poi quel metronomo te lo faccio ingoiare.”
“Di certo sapresti come, visto che tu sembri averlo digerito da un bel po’. Non ti scomponi proprio mai?”
Sebastian si soffermò a fissare il suo volto rilassato e incolore, assottigliando lo sguardo e avvicinandosi di più verso il pianoforte. Aveva anche il coraggio di rispondergli?
“Che intendi dire?”
“Non ti fermi – constatò Blaine - non ascolti. Tu suoni e basta, non è così? Esegui il pezzo senza indugi e vai avanti per la tua strada.”
“Certo. Ma sai, non vorrei troppo sconvolgerti le idee, questo si chiama suonare.”
“Oh andiamo, e io cosa starei facendo?”
“Finalmente una domanda lecita – commentò lui – però mettiti in fila che a volerlo capire c’ero prima io.”
“Ragazzi.”
Robert attirò l’attenzione su di sè specialmente per il modo estenuante con cui aveva pronunciato quella semplice parola.
“Ma lo volete capire che così non andate da nessuna parte? Non riuscite nemmeno a finire il brano senza che vi attacchiate a vicenda. Dovete decidervi. Altrimenti, in questo modo non vincerete mai il concorso.”
E fu un po’ meschino da parte sua aggiungere un’altra frase al suo discorso di incoraggiamento, una frase piuttosto maligna, ma che sapeva avrebbe reso perfettamente lo scopo.
“Wyatt e sua cugina suonano molto meglio di voi.”
Sebastian e Blaine adesso erano voltati completamente verso di lui, con delle espressioni sorprese e impareggiabili.
“Oh sì, li ho sentiti. Sono davvero bravi, sapete? Penso che a quest’ora avranno già terminato il loro duetto; fanno le cose con molto anticipo, così da avere abbastanza tempo per migliorare.”
Senza nemmeno indugiare sui loro volti aveva già afferrato bastone e valigetta, indossando il suo fidato cappello di feltro e sistemandosi un po’ goffamente i risvolti della sua giacca.
“E’ un vero peccato che vi facciate battere da loro due. Immagino che non dev’essere molto divertente essere battuti da un flautista, e da una pianista femmina.”
Li aveva presi in pieno. Beccati come una freccia e il centro del bersaglio.
Sebastian e Blaine non si mossero di un passo; Robert li salutò cordialmente, e disse loro che li avrebbe visti la prossima settimana a causa di una serie di impegni irremovibili. Li aveva lasciati completamente in balìa di loro stessi con nient’altro che un brano, un metronomo e i loro strumenti.
Non avrebbe più dato una mano, non a quelle condizioni.
Blaine e Sebastian si guardarono, ed entrambi pensarono immediatamente alla stessa cosa: non volevano perdere. Anzi: non potevano perdere. Non contro quel ragazzo che in appena un quarto d’ora si era dimostrato essere arrogante, odioso e inutile.
E non avevano più tempo per farsi la guerra, non ora che un’altra battaglia si era presentata alle loro spalle.
“E quindi...”
Blaine si morse il labbro inferiore con lo sguardo rivolto verso il pianoforte, lo spartito ancora posizionato sul leggio e le mani che stringevano la matita che usava di solito per le correzioni.
“E quindi.”
Sebastian si appoggiò ad un lato del piano, incrociando le braccia al petto e ripensando all’intera esecuzione.
E così, si decisero a parlare sinceramente: dovevano pur trovare un punto d’incontro, no?
“Il tuo primo tempo era troppo lento.”
“E tu sei andato troppo veloce.”
“Sono disposto a regolare la mia ritmica, se tu ammetti di essere scoordinato e mi porgi delle scuse.”
“Che cosa? Ma io non ho nessuna intenzione di scusarmi, non sono io che sbaglio.”
“Figurati io.”
“Bene allora.”
“Già, bene.”
A quanto pareva, il loro tentativo di riappacificazione si era concluso lì.
“Dobbiamo suonare.”
Per una volta, Sebastian si trovò d’accordo con Blaine, e annuì impercettibilmente.
“E non possiamo occupare sempre l’aula prove – aggiunse il violinista – dobbiamo vederci... fuori dall’orario di lezione.”
E Blaine, in quel momento, alzò la testa verso di lui: perchè non era ben sicuro di aver capito bene. Non era ben sicuro di voler vedere Sebastian di sera, nè tantomeno di invitarlo a casa sua.
“Io... casa mia non è disponibile. Ho una coinquilina e... beh, devo avvisarla con qualche giorno di preavviso, non so nemmeno se è d’accordo, lei ha delle prove e-“
“Non ti scaldare troppo Anderson, ti sta uscendo del fumo dai riccioli.”
Blaine lo gelò con un’occhiata, mentre Sebastian sembrava stranamente risoluto e tranquillo. Quando lo vide avvicinarsi trattenne a stento il respiro, le sue guance si infiammarono di colpo, e il suo cuore prese a battere freneticamente senza nemmeno una motivazione plausibile. Era solo Sebastian, era che quegli occhi verdi lo disorientavano, il suo profumo era strano ma intenso e non riusciva assolutamente a capire cosa avesse intenzione di fare.
E poi, il lapis gli scivolò via tra le dita, per essere accolto tra quelle di Sebastian e usato per scrivere un indirizzo su un angolo dello spartito.
“Ci vediamo alle sette. Puntuale. E non portare biscotti o piantine o qualsiasi altra cazzata da ragazzina.”
Così, in modo talmente rapido da sembrargli inverosimile, si rese conto di aver fissato un incontro per suonare con Sebastian a casa sua.
 

 
“Stai uscendo?”
Blaine si fermò a un passo dalla porta, con la giacca in una mano e il casco del motorino nell’altra. Vide la testa di Brittany sbucare da dietro il divano, con un vestitino corto e leggero, i capelli legati da strane code e Lord Tumbington che se ne stava comodamente appollaiato sul suo grembo. La televisione era accesa su un canale di cucina, ma Blaine era quasi convinto che lei lo stesse guardando più che altro per ascoltare la canzoncina allegra e ridondante che veniva ripetuta in sottofondo.
Ignorando completamente il soffiare del felino, inclinò la testa da un lato passandosi una mano trai capelli: “Sì Brit, devo andare a suonare.”
“Oh peccato – mormorò lei - volevo provare a costruire un castello di carta con i bastoncini di shangai.”
Se non l’avesse conosciuta bene, probabilmente sarebbe scoppiato a ridere.
“Possiamo farlo dopo, quando torno. Non dovrei metterci tanto.”
In realtà, era quasi certo che quella lezione extra sarebbe terminata in un disastro. Aveva una strana sensazione: come se entrare nel territorio di Sebastian fosse ingiusto, e anche un po’ pericoloso. Come se loro due non avessero mai dovuto prendere la decisione di suonare insieme, sin dal principio. Forse, per un momento, si rese perfino conto che la presenza di Sebastian lo confondeva. Non in modo negativo, o allarmante: semplicemente, lo disorientava. Non riusciva più capire i suoi pensieri.
“Mi aspetti in piedi?” Domandò, scuotendo la testa come per scacciare via quelle paranoie. Brittany lanciò un’occhiata languida all’orologio gigante appeso sul muro e fece un piccolo sbadiglio.
“Ma sono già le tre e quaranta, tra poco viene la fatina dei sogni e non posso farmi trovare impreparata.”
“Ma la fatina dei sogni non avrà problemi se ti addormenti- aspetta un momento, che cos’hai detto?”
Brittany guardò di nuovo l’orologio, un po’ titubante.
“Oh, aspetta, forse sono le sette e un quarto. La lancetta delle ore è quella più cicciotta o quella più magrolina?”
“Scusami Brit, devo scappare!”
E in meno di un secondo Blaine aveva letteralmente volato le scale del condominio, per saltare sul motorino e mettere in moto con ancora il casco che andava allacciato. Non che fosse conosciuto per la sua puntualità, ma non riusciva a credere di averci messo mezz’ora a sistemarsi i capelli, com’era possibile? Il tempo forse lo stava prendendo in giro?
E poi gli attraversò la mente un pensiero che lo fece quasi sospirare: Sebastian lo avrebbe infamato per delle ore.
 


“Si può sapere che problema hai!?”
Blaine abbassò la testa lentamente, senza avere il coraggio di guardare il ragazzo negli occhi, con le mani strette intorno al casco e le labbra serrate in una smorfia; Sebastian era davanti a lui, con nient’altro che dei jeans e una camicia sbottonata sul collo e i suoi occhi smeraldini carichi di odio, e lui non aveva la più pallida idea di cosa dirgli: non poteva certo ammettere di aver fatto venticinque minuti di ritardo e rischiato due incidenti mortali solo per colpa del gel. Tuttavia, una parte di sè era quasi convinta che lo sapesse comunque.
“Ah no aspetta – seguitò Sebastian addolcendo il tono di voce, ma continuando a guardarlo torvo – hai ragione, la colpa è la mia. Dovevo sapere che le ragazzine in calore ci mettono sempre una vita a prepararsi perchè non sanno mai cosa mettersi. La prossima volta ti dico le sei e mezza.”
“Non sono una ragazzina, e soprattutto non sono in calore. Ho avuto un contrattempo, tutto qui.”
“Un contrattempo che prevedeva un ricciolo che non si decideva ad appiattirsi?”
Blaine arrossì leggermente e si sentì sprofondare dentro al parquet pregiato di quella casa. Ma poi Sebastian sbuffò, facendosi da parte, permettendogli di entrare dopo avergli intimato di togliersi le scarpe; per un momento pensava che scherzasse, ma poi notò che Sebastian se ne stava tranquillamente a piedi nudi, così mise le converse da parte e rimase con dei ridicolissimi calzini millerighe nere, blu, porpora e viola.
Sebastian li guardò per un attimo non trattenendo minimamente una smorfia: “Ma che carini.”
“Sei qui per prendermi per il culo o suonare? – Sbottò - Muoviamoci.”
“In effetti, il gioco di parole che hai usato è molto interessante.”
Blaine si voltò di scatto verso di lui, gli occhi sgranati; Sebastian era a pochi metri e continuava a fissarlo fiero e sorridente.
“Io... io non volevo dire-“
“Rilassati. Stavo scherzando. Dio, sei palloso proprio come il tuo musicista.”
L’allusione a Chopin, se possibile, rese il tutto ancora più snervante.
“Non ho degli standard così bassi da provarci con te. A proposito: non sperare che ti prenda per mano e ti faccia fare il giro della casa saltellando. Non entrare in nessuna stanza, se ti serve il bagno devi chiedermelo. Il frigo è off-limits e Dio mi fulmini se mai ti sorprenderò ad ammirare imbambolato qualche mia foto.”
“Perchè?” Stavolta fu Blaine a parlare in modo cinico, e un po’ canzonatorio. “Sei uno di quei ragazzini con nostalgia di casa che tiene le foto dell’annuario rinchiuse in un cassetto?”
Il sorriso di Sebastian si incurvò appena; diede le spalle al ragazzo, dirigendosi verso una stanza e esclamando, poco prima di entrare: “Nel mio cassetto ci sono solo lubrificante e preservativi, Anderson, dovresti saperlo!”
“Ma certo.”
Chissà come mai, invece di sentirsi offeso e anche un po’ scocciato, Blaine si ritrovò a sorridere.
Approfittò del piccolo momento di tregua e solitudine per poter finalmente guardarsi intorno, analizzando la casa e ammirandone tutti i particolari: l’appartamento, l’ultimo di un grandissimo palazzo, era grande ed elegante. L’arredamento era moderno e di alta moda, il pavimento caldo e perfettamente pulito coperto da qualche raffinato tappeto persiano; a un lato della sala – dotata di televisore al plasma, divani e un grande tavolo da pranzo – c’era una porta, forse quella della cucina, e un corridoio, dove fino a poco fa c’era Sebastian.
A rigor di logica, quel corridoio doveva condurre alla camera da letto e al bagno, e per un secondo Blaine si sentì quasi inappropriato nel starsene in piedi nel bel mezzo di casa sua con la sua mente che traeva tutte quelle invadenti supposizioni: dopotutto, lui non conosceva Sebastian. E si sentiva un po’ emozionato a poter osservare parte del suo mondo, quello che lui pensava fosse il più intimo e escluso a molti. Tuttavia, più andava alla ricerca di oggetti, indizi che potessero fornirgli un quadro più completo sul ragazzo, più si accorgeva di come quella casa fosse neutra: non c’era nessuna foto, in giro, nè qualche quadro caratteristico; era tutto molto in ordine e perfetto, come se fosse una di quelle case che venivano messe in mostra nei cataloghi delle agenzie immobiliari.
Ancora una volta, il mondo di Sebastian gli apparve confuso: era come se ci fosse un grande muro, tra lui e il resto del mondo, che nessuno aveva il diritto di scavalcare.
Il suo sguardo cadde inevitabilmente sul pianoforte a muro situato in un angolo della stanza, accanto alla finestra, con un panno marrone scuro che copriva i tasti perfettamente bianchi; non era stupito del fatto che Sebastian ne avesse uno: vista la composizione della casa, un pianoforte a muro sarebbe stato quasi un capriccio. Rimase allibito quando si avvicinò per contemplarne le fattezze, quando lesse, un po’ ammaliato, il nome Steinway & Sons: era la marca più pregiata e costosa di pianoforti esistente sulla piazza. Nemmeno il Franz Liszt ne aveva uno, semplicemente perchè sarebbe stato uno spreco se adibito a un uso didattico, toccato da migliaia di mani diverse. Deglutì, respirando a pieni polmoni, non riuscendo nemmeno a distogliere lo sguardo dallo strumento: era il suo sogno proibito da quando aveva grosso modo cinque anni, da quando il suo piccolo Petrof si scordava ogni giorno e lui era costretto a passare ore intere a aggiustarlo.  
Nella sua testa non riusciva nemmeno a immaginare che suono potesse avere, e la sola idea che lo avrebbe scoperto a minuti lo fece quasi emozionare; si chiese anche che razza di famiglia avesse Sebastian, dal momento che soltanto quel pianoforte doveva costare il doppio di tutta la sua casa.
Si sedette con molta cautela sullo sgabello, che ovviamente era molto diverso dal suo, più morbido, più flessibile nel momento in cui lo regolò per la sua altezza, ridacchiando quando constatò che non avesse cigolato nemmeno una volta.
Con una sorta di bagliore negli occhi, si apprestò a togliere il panno dai tasti, e a sospirare: gli sembrava un sogno. Doveva essere un sogno, tutto quello non era reale.
Infine, quando iniziò a suonare un qualche motivetto inventato sul momento, un brivido gli attraversò tutta la schiena, e lui smise di respirare: era un suono netto, pulito, limpido e perfetto, adatto sia a brani di classica che a pezzi più movimentati, come il jazz. I tasti erano rigidi al punto giusto e i pedali si abbassavano facilmente.
Ed era così preso dalla sua totale ammirazione verso il piano, che per poco non si accorse di una figura che gli passò vicino, entrando di poco nel suo raggio visivo, in un modo così sinuoso ma bizzarro che lo fece voltare.
C’era una ragazza, lì. Camminò verso il frigorifero e prese una bottiglietta d’acqua; bevve qualche sorso, prima di rivolgere a Blaine uno sguardo totalmente inespressivo prima di tornarsene nel corridoio ed entrare nella prima stanza sulla destra.
E c’era anche un altro, piccolo dettaglio: quella ragazza era nuda. Completamente, incondizionatamente nuda.
“...Sebastian?” Mormorò Blaine con la gola secca, gli occhi ancora sgranati verso un punto inesistente, le mani pietrificate sul pianoforte.
Il ragazzo arrivò qualche secondo dopo, con il violino in braccio e un metronomo in mano. E Blaine aveva un’espressione talmente attonita, che non riuscì a trovare nessun’altra frase da dire tranne un semplice: “Cos’hai?”
“C’era una ragazza nuda che camminava per il tuo salotto.”
Sebastian lo guardò per una manciata di secondi senza mutare d’espressione: “...Era ubriaca?”
“...No, io... io credo di no.”
“Ah. Allora va bene.”
Ok, pensò Blaine.Ok, decisamente, tutto quello doveva essere un sogno.
Sebastian roteò gli occhi al cielo, spostandosi verso la stanza e bussando con forza: “Santana? Santana!”
Un secondo dopo, apparve la stessa ragazza di prima, i lineamenti esotici e sensuali, le curve perfette del suo corpo fasciate da un vestito nero e attillato.
“Hai spaventato la scolaretta.” Accusò Sebastian. Ma lei, con i suoi occhi scuri e il suo sorriso malizioso, si strinse nelle spalle: “Non pensavo che fosse così sensibile. Di solito non li scegli molto sensibili. Oppure è bisessuale?”
“Non è qui per scopare. Lui è Anderson, quello del pianoforte.”
Quella descrizione, a giudicare dalla reazione di lei, fece effetto. Blaine intanto si era alzato, spostava il peso da un piede a quell’altro, meditando seriamente se uscire dalla porta o svignarsela direttamente dalla finestra: peccato che fossero al quarantesimo piano.
La ragazza di nome Santana si presentò davanti a lui, tendendogli la mano con un bel sorriso: “Scusami cucciolo, non volevo spaventarti. Io sono Santana, la coinquilina di quella fedifraga dietro di noi.”
“Ehi!”
“Blaine, e... Non mi hai spaventato.” Afferrò la sua mano con gentilezza, ma convinzione. Santana evidentemente aveva trovato in lui qualcosa di molto divertente, perchè tutto ad un tratto si voltò verso Sebastian domandando: “Ma dove lo hai pescato questo cagnolino? E’ adorabile.”
“Sì certo, perchè ti sembra una nuova cavia da laboratorio.”
“Non sono tanto interessata alle cavie maschili, sai”, tagliò corto per voltarsi di nuovo verso Blaine, le quali guance erano tornate di un colore pressochè normale.
“Così sei Blaine.”
“...Sì, sono Blaine.” Rispose, un po’ colpito: cosa aveva voluto dire con quella frase? Sebastian le aveva parlato di lui?
Ma il minuscolo moto di felicità che era nato dentro di sè fu brutalmente bruciato non appena Santana disse: “Sebastian mi ha detto che gli fai da accompagnamento per il concorso di quel tizio col nome impronunciabile.”
“No.” Sentenziò lui, la voce gelida come il ghiaccio. “Non gli faccio da accompagnamento. Suoniamo insieme.”
“E che differenza fa?”
Sebastian sfoggiò un ghigno che urlava vittoria da ogni sfaccettatura.
“Comunque, vi lascio suonare. Io esco per qualche Night sperando di trovare una ragazza che sappia resistere più di sei minuti.”
“Da qualche parte nel mondo deve pur esserci – la consolò Sebastian – com’era quella storia dell’anima gemella?”
“Se ci sei tu, ci sarà anche una perfetta per te.” Recitò svogliatamente. Sebastian si avvicinò a lei facendole l’occhiolino: “A letto, ovviamente.”
I due coinquilini scoppiarono a ridere, dandosi il cinque e continuando per qualche minuto con quei commentini cinici. Blaine li fissava un po’ imbarazzato, un po’ scettico e, sì, perfino un po’ divertito: era interessante vedere quanta affinità ci fosse tra Santana e Sebastian, sembrava come se si conoscessero da una vita.
Per un attimo, gli ricordarono lui e Brittany. Si ripromise di fare quel castello di carta con i pezzi di Shangai, una volta tornato a casa.
“Bene ragazze, io devo andare” annunciò dopo un po’ Santana rivolgendo un sorriso a entrambi. Blaine non era nemmeno così confuso per essere stato chiamato ragazza, forse, perchè si era un po’ abituato a Sebastian, e ad ogni modo il tono con cui lo aveva detto non sembrava affatto un’offesa.
“Ah, Blaine?”
Santana richiamò il ragazzo giusto un attimo prima di scomparire dietro la porta.
“Devo farti le mie congratulazioni: sei il primo gay che entra in questa casa e non viene scopato.”      
 
Sebastian restò a fissare la porta ormai chiusa per qualche secondo, prima di voltarsi incuriosito e osservare la reazione di Blaine. Non aveva la più pallida idea di come l’avrebbe presa, era un ragazzo piuttosto strano: c’erano delle volte sembrava timido e insicuro, tuttavia...
Con sua grande sorpresa, incrociò il suo sguardo senza nessuna difficoltà, ed era fermo.
Pensò che Blaine avesse proprio dei begli occhi.
“...Chissà, magari mi fa da curriculum.”
E anche una bellissima risata.






 
***

Angolo di Fra

Adoro Santana.
Grazie ancora per tutto il supporto che mi state dando, siete gentilissimi. Un bacione e buona Domenica!
Fra

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***






Capitolo 6







L’Irish Pub era sempre piuttosto affollato, quando c’era Santana al bancone dei cocktail e la serata ricca di aspettative; aspettative che venivano prontamente smontate quando la ragazza rifiutava qualsiasi tipo di corteggiamento maschile, dicendo che gli uomini la eccitavano come i calzini messi insieme a dei sandali. Non aveva mai avuto molto tatto, in effetti, ma passando la vita tra Lima Heights e un liceo pubblico aveva imparato che conveniva essere  scortesi, per la maggior parte delle volte. E poi, in un certo senso, si sentiva intoccabile: il pub in cui lavorava era pieno di gente, la musica orecchiabile, la paga buona  e New York a portata di mano, pronta per essere vissuta con tutte le sue eccitanti avventure.
Stava preparando un mojto ad un trentenne che non smetteva mai di farle stupide allusioni, quando tutto d’un tratto la porta del pub si aprì e invece di un cordiale “buonasera” si ritrovò a fissare il nuovo cliente con un’espressione accigliata.
“Stambecco, che ci fai qui?”
Sebastian si passò una mano trai capelli, prendendo lunghi respiri come per controllare la rabbia; teneva i pugni stretti, la mascella serrata e i suoi occhi verdi erano accesi da un bagliore piuttosto strano, che non aveva mai notato prima.
“Sono io che ti faccio questa domanda – sentenziò lui – non dovevi essere a scopare con qualche donna?”
Il trentenne appoggiato al bancone si svegliò di scatto sentendo quella domanda pronunciata con un tono sin troppo deciso, per essere fraintendibile, e si allontanò con la coda tra le gambe; Santana controllò l’orologio al led appeso alla parete dietro di lei, facendo una smorfia.
“Sono passata a salutare dei miei amici e poi mi hanno incastrata a fare i cocktail. Però mi pagano a ore.”
“Perfetto allora dammi una birra e che sia fresca.”
Santana lo squadrò da capo a piedi, innervosita dal suo tono brusco e maleducato: “Che hai, ti si è storto il pisello?”
Nonostante lo sbuffo proveniente dal ragazzo, si assentò per qualche secondo tornando con una birra fresca e un paio di bicchieri; Sebastian ne versò un po’ su entrambi i bicchieri, non chiedendosi nemmeno perchè a Santana fosse concesso bere in orario di lavoro. In effetti, era molto probabile di no, ma a nessuno dei due importava granchè. Santana sapeva che non si sarebbero lamentati e Sebastian era troppo preso dai suoi pensieri oscuri per poterle dire qualcosa: continuava a tenere lo sguardo fisso davanti a sè, l’espressione seria e assorta mentre le canzoni di sottofondo si susseguivano in un ritmo sempre più movimentato.
Esordì soltanto diversi minuti dopo, con la voce di uno che non dormiva da giorni.
“Odio questa musica.”
Santana stava asciugando qualche bicchiere bagnato d’acqua quando si voltò lentamente verso di lui: “Intendi Nicki Minaj o l’house in generale?”
“Questa non può essere definita musica. E’ rumore. E’ un insieme di strofe computerizzate che sono un vero affronto per le nostre orecchie. Le persone di oggi hanno il cervello talmente ristretto che non riescono ad immagazzinare un suono che non siano le solite tre note messe in fila ripetute per tre minuti e mezzo, e poi si addormentano ai concerti di musica classica.”
“Non ci vanno proprio ai concerti di musica classica” gli fece notare lei, abbozzando un piccolo sorriso. “Come mai così polemico? Hai il ciclo?”
L’occhiata torva di Sebastian le fece capire definitivamente che qualcosa non andava, visto che di solito a quel punto si sarebbe messo a sghignazzare e fare qualche battuta su quanto orrendo fosse il corpo di una donna che sputava sangue. Tuttavia, non pensava nemmeno che Sebastian cominciasse a parlare del suo problema: lo vide sistemarsi meglio sullo sgabello, stringendo la bottiglia di birra vuota con entrambe le sue mani lunghe ed eleganti.
“Abbiamo deciso di non vederci più fino al giorno del concorso.”
Non era sicura di aver afferrato bene il soggetto della frase, quindi fu costretta a chiederglielo un po’ attonita: “...Parli di quel Blaine?”
“Abbiamo passato due ore in completo silenzio, senza guardarci nemmeno una volta. Poi, quando siamo finalmente riusciti a suonare il brano per intero, ci siamo sentiti soddisfatti così e lui se n’è andato.”
Aveva lo sguardo perso, Sebastian; era come se ci fosse un pensiero che non avesse il coraggio di uscire fuori dalla sua mente, come se quelle parole pesanti e misurate celassero altro. Ma Santana lo conosceva da troppo tempo e troppo bene, per non notare le sue dita che accarezzavano la bottiglia di vetro con dolcezza e tensione allo stesso tempo: un po’ come faceva con il suo violino, quando era sicuro di non essere visto.
“Ma non ha senso – ribattè Santana – voglio dire, questo è il momento in cui dovreste suonare insieme ogni giorno, no?”
“Sì, in teoria. Ma visto che perderemo tempo inutile, preferiamo concentrarci sui nostri brani individuali.”
Non sembrava una gran bella idea; non suonava bene nemmeno nella testa di Santana, che di musica ci aveva sempre capito poco o niente. Guardò il suo coinquilino con la coda dell’occhio non riuscendo a ignorare la sua smorfia puramente scocciata: “...Non sei soddisfatto così, vero?”
Sebastian fece di no con la testa, prima di spiegare ad alta voce: “Non andiamo bene. Non funziona. Lui continua a suonare in quel suo modo irritante, e... Dio, quanto mi dà sui nervi. Se solo si decidesse ad ascoltarmi per una volta-“
“Sei sicuro che sia lui il problema?” Lo interruppe, con una certa nota ironica nella voce. “Sai, non mi sembri un tipo molto facile da prendere.”
“Non mi interessa qual è il problema”, soffiò, a denti stretti, come se stesse sputando veleno; stava stringendo il duro legno del tavolo così tanto che le sue nocche erano impallidite. “Voglio solo vincere.”
Su questo, pensò Santana, non c’erano dubbi. Eppure, una domanda le sorse spontanea ancora prima che potesse essere analizzata: “E allora perchè non cambi partner?”
Vide gli occhi di Sebastian saettare dal tavolo a lei, in una frazione di secondo; sembrava confuso. No, non confuso: sembrava... arrabbiato?
“No.”
Nonostante la forza di quella parola secca e concisa, in realtà quella risposta uscì appena come un sussurro.
E Santana cercò per diversi secondi di darsi una vera risposta da sola, perchè insomma, qual era il problema? Il professore si sarebbe arrabbiato? Ormai era troppo tardi? Il brano era troppo difficile per essere suonato da qualcun altro pianista?
Ma poi, Sebastian sviò lo sguardo a terra, e lei capì: lui non voleva cambiare partner.
Ed era qualcosa che nessuno dei due aveva in nessun modo calcolato.

 
 
Fu strano non vedersi per più di una settimana; fu molto strano anche fare lezioni individuali con il professor Cage, per occuparsi dei loro pezzi in singolo. Ma certamente, niente avrebbe preparato Blaine per il National Music Hall di New York, in cui si teneva la prima fase del concorso Kuznets.
Continuò a fissare l’entrata principale mentre tutti gli altri passanti camminavano non preoccupandosi di lanciargli qualche occhiata indispettita: insomma, un ragazzo vestito di tutto punto, in giacca e cravatta, che se ne stava fermo da più di mezz’ora era di certo strano. Ma era lui a sentirsi strano: il vestito, la giornata; perfino il fatto di essere arrivato in largo anticipo, non era in sè. E in quel momento prese la solenne decisione di arrivare sempre spaccando l’orologio oppure leggermente in ritardo, perchè mezz’ora di attesa davanti la porta d’ingresso non era certo rassicurante, la prossima volta avrebbe fatto tutto di corsa così da non permettersi nemmeno un secondo di riflessione. Riflessione su lui, il concorso, la sua carriera.
Sebastian.
Si incamminò verso il salone, dove una gentile signorina gli avrebbe riferito la stanza in cui si teneva il concerto.
 
“Ah, sei qui.”
Il fatto che Robert fosse vestito con i suoi soliti abiti di tutti i giorni – una giacca non troppo elegante, una camicia, e dei pantaloni fuori moda – se possibile lo allarmarono ancora di più: si sistemò il nodo del cravattino intorno al collo, come per guadagnare un po’ di aria; ma alla vista di Sebastian, già seduto su una sedia appartata in fondo alla stanza, rischiò seriamente il soffocamento. Chissà a cosa pensava; chissà come stava. Chissà se era teso proprio come lui.
“Rilassati”, ordinò Robert, e lui eseguì senza troppe storie sedendosi sulla prima sedia e con gli spartiti stretti tra le mani; l’uomo lo imitò, mettendosi comodo su una sedia poco vicino cominciando ad aggiornarlo sullo stato di quella prima selezione.
“Sarà una cosa molto veloce. I giudici saluteranno tutti quanti gli spettatori dando inizio alle qualificazioni per la seconda fase, possiamo chiamarla, una semi-finale. Uno di loro chiamerà i candidati per nome annunciando i brani che eseguiranno; tu vai lì, suoni, ti inchini e vai via. Sarai a casa per ora di cena, assicurato.”
Ora di cena?
“Ma professore, sono le due del pomeriggio. Non saranno più di 10 minuti a persona, com’è possibile che finisca così tardi?”
Robert tossicchiò un paio di volte dandogli qualche piccola e compassionevole pacca sulla spalla.
“Non te l’avevo detto? Siete trentamila iscritti. Vi fanno a giornate, oggi tocca ai primi trecento; so che non dovrei dirtelo, ma... passeranno solo in dieci.”
L’unico fattore che impedì a Blaine di svenire fu sentire la risata nervosa di Sebastian riecheggiare per tutta la stanza; a Robert sfuggì un piccolo sorriso, che sapeva molto di compassione; diede un’ultima pacca sulla spalla di Blaine e poi lasciò i due ragazzi da soli, per rilassarsi e concentrarsi. Come se fosse possibile, dopotutto.
Blaine avrebbe voluto dire qualcosa a Sebastian, qualsiasi cosa. Eppure, ogni volta che apriva bocca, qualcosa dentro di sè lo faceva stare zitto, come un genitore arrabbiato che voleva metterlo in punizione; era una sorta di coscienza: era la consapevolezza di non aver preso quel concorso con la giusta serietà. Di aver giocato, bisticciato, agito da stupidi e da bambini, per tutto quel tempo. Adesso gli spartiti sotto di lui sembravano fissarlo minacciosi e terrificanti, e le sue mani sudavano, pervase da brividi di sudore; trentamila candidati puntavano alla loro stessa vittoria, e loro si erano bellamente ignorati per un’intera settimana. Chissà come mai, non appena Sebastian parlò, Blaine intuì che avesse fatto il suo stesso tipo di ragionamento, perchè con voce ferma e arrogante gli disse: “Andiamo a vedere le trecento persone che dobbiamo battere.”
E, nonostante tutto, Blaine si ritrovò a sorridere.
 
La sala concerti era piuttosto grande, adatta ad ospitare quattrocento, cinquecento persone. Mentre i giudici salutavano freddamente e presentavano le prime esibizioni, Blaine e Sebastian si erano seduti in fondo alla sala, come se entrambi si fossero messi mentalmente d’accordo sull’intenzione di osservare tutti gli altri partecipanti: i veri spettatori erano molto pochi e i sedili erano occupati da musicisti in attesa del loro turno o familiari trascinati lì per fare il tifo; c’erano ragazzi e ragazze di ogni età, chi ripassava il proprio spartito picchiettando velocemente contro la carta, chi invece appariva lucido e si godeva l’esibizione degli altri candidati. Cercò Robert con lo sguardo, certo che sarebbe stato presente per loro due, ma non lo trovò da nessuna parte; stava già meditando di uscire dalla scala antiincendio e darsela a gambe, quando sentì una piccola gomitata provenire da parte di Sebastian: “Guarda. C’è il pifferaio.”
Wyatt si presentò sul palco, assieme ad una ragazza dai lineamenti gentili e l’aspetto grazioso. Teneva in mano il suo flauto traverso come se fosse sicuro di avere già la vittoria in pugno; chissà, forse, aveva fatto qualche ricerca sugli altri ragazzi e non li riteneva alla loro altezza. In un certo senso, Blaine sperò che fosse così: sperava di riuscire a superare gli altri pianisti, almeno a livello individuale.
Quindi, paradossalmente, non era Wyatt il fulcro delle sue attenzioni, ma Jodie: quella ragazza misteriosa e apparentemente ingenua che si sedette sul pianoforte e suonò con il ragazzo L’ Ultima Primavera di Grieg. Era un brano corto, ma la dolcezza dei due strumenti fusi insieme e la tecnica impeccabile assicurò un’esecuzione limpida ed efficace. Blaine storse il naso, stritolandosi le mani strette in una morsa: forse avrebbero dovuto portare anche loro un brano di tre minuti, semplice e tranquillo. Oppure, non dovevano partecipare affatto.
“Che stronzo.”
Si stupì di quel commento di Sebastian, pronunciato in modo freddo e letale.
“Ci prende per il culo. Ha portato una canzonetta perchè pensa che non servono grandi cose per superarci, così da concentrarsi meglio sull’esecuzione individuale.”
“...Oh”, mormorò Blaine, spalancando gli occhi. Non ci aveva pensato.
Nel frattempo, i due musicisti si erano presi i loro meritati applausi, e Jodie si era sistemata meglio sullo sgabello preparandosi alla sua esecuzione.
Blaine non si era mai sentito così preoccupato in tutta la sua vita: non era solo il fatto di fare parte di un concorso, o di esibirsi di fronte ad un pubblico; Jodie faceva parte della sua scuola, era la partner di Wyatt, era molto stimata dal professor Cage e lui non avrebbe sopportato di suonare peggio di lei. Non era tollerabile.
Quando le piccole mani della ragazza cominciarono a suonare il Valzer dei fiori di Tchaikovskij, e gli altri ragazzi davanti a lui si stavano sciogliendo come assorbiti da quell’atmosfera surreale, una parte del suo cuore si era quasi arrestato terribilmente. Quasi. Perchè dopo nemmeno trenta secondi, Sebastian aveva cominciato a sibilare tutti i difetti di quella ragazza circa la fluidità, la tempistica, la mancata interpretazione dei tempi e perfino la sua postura scorretta.
E Blaine lo fissò stupito, cercando una risposta a tutto quello nei suoi occhi smeraldini, ma non la trovò: come sempre, Sebastian era incolore. Non era qualcosa che avesse bisogno di spiegazioni, però. Semplicemente, stava criticando una sua rivale, come probabilmente faceva tutte le volte.
Non lo stava facendo solo per rassicurarlo, giusto?
Gli applausi arrivarono a sovrastare qualsiasi suo pensiero, e poi Wyatt si posizionò al centro del palcoscenico portando alle labbra il suo elegante e cristallino flauto traverso. I due ragazzi restarono con il fiato sospeso, perchè non riuscivano a immaginare quale brano avesse portato, quale avesse ritenuto alla sua altezza; in realtà, Blaine temeva sinceramente l’abilità di Wyatt mentre Sebastian pensava che fosse soltanto un megalomane pagliaccio.
O almeno, lo pensava, fino a quando non lo sentì esibirsi in un assolo per flauto che non aveva nessun nome.
“E’ un'improvvisazione.”
Blaine si tappò la bocca subito dopo averlo detto perchè era ovvio, lo avevano notato tutti, lo aveva notato sicuramente Sebastian che non si sarebbe risparmiato di evidenziare sarcasticamente il suo incredibile intuito; eppure, i secondi passarono, e lui non disse niente. Era troppo intento ad osservare quel ragazzo, come tutto il resto della sala.
Non avevano mai pensato di improvvisare, loro; si erano sempre astenuti a dei testi ben precisi eseguendoli nel modo più impeccabile possibile: non avevano mai rischiato di rovinare la loro occasione in un’improvvisazione che poteva essere noiosa o priva di forma.
Eppure, Wyatt ci riuscì; fece il suo inchino trionfale con un sorriso talmente ampio da far impallidire sia Blaine che Sebastian.
E poi, quasi come se fossero stati bruscamente svegliati da un sonno, o da uno stato catatonico, sentirono i loro nomi dagli microfoni dei giudici.
 
Beethoven: Sonata per violino e pianoforte."
Bene. Adesso che i giudici avevano annunciato il loro brano e loro si trovavano alle rispettive posizioni, Blaine pensò che potesse benissimo andarsene; fare un bel saluto e lasciare lì Sebastian a fare il lavoro anche per lui, perchè in un certo senso sapeva che l’avrebbe fatto bene; quanto meno, avrebbe fatto un lavoro migliore del suo, e quel pensiero lo trafisse come una lama non appena Sebastian levò il violino verso il suo mento.
Non ce l’avrebbe fatta. Non erano abbastanza pronti, non erano allenati; ma poi, gli occhi di Sebastian trovarono i suoi che erano spauriti e allarmati, e gli rivolse un piccolo cenno del capo; un gesto semplice, innocente. Un qualcosa di incoraggiamento che, forse, non si era nemmeno reso conto di aver fatto. Eppure, bastò: Blaine avvicinò le mani sulla tastiera, e cominciarono ad eseguire il brano, senza ulteriori esitazioni.
E poi, il tempo passò, la sua mente si svuotò completamente, e arrivarono alla fine senza essere riuscito a formulare un pensiero tecnico o quanto meno coerente. Il lato positivo, fu che erano arrivati fino in fondo: i giudici stavano scrivendo qualcosa sui loro fogli; chissà, magari, stavano facendo un disegnino e volevano dare soltanto l’idea che li avessero veramente ascoltati. Però, in effetti, non era molto plausibile.
Il lato negativo, purtroppo, fu l’esibizione. Senza mezzi termini, era stata un vero disastro; esecuzione meccanica e singhiozzata, tempistica sbagliata e disarmante. Non ci fu un solo ascoltatore che applaudì al termine del brano, c’erano tanti difetti che degnavano di essere corretti, tante minuziosità che avevano giocato a loro sfavore in quel concorso, e che sia Blaine che Sebastian avevano notato sin troppo bene.
Perchè una sola consapevolezza attraversò la loro mente, come un fulmine in tempesta: non sarebbero mai riusciti a qualificarsi per via di quel loro duetto. Non restava altro che dare il massimo nelle esecuzioni individuali.
Blaine rilassò i muscoli della schiena preparandosi a suonare, perchè era sicuro che secondo la scaletta il primo sarebbe stato lui: prese un bel respiro cercando di rimanere concentrato, e ignorò l’occhiata di Sebastian che adesso si trovava a qualche metro da lui e il pianoforte, nascosto dietro il sipario delle quinte. Certo, si sarebbe preso un bel colpo una volta scoperto l’autore della sua esecuzione, ma non era quello il tempo per esultare: doveva sforzarsi di non guardarlo, nè lui, nè nessun altro: non esistevano più. C’erano solo lui e la sua musica, proprio come quel giorno nell’aula prove di Cage.
Annunciata la Rapsodia ungherese di Liszt, cominciò a suonare.
 
Blaine Anderson era in grado di fornire emozioni perfettamente contrastanti: prima, fu impetuoso. Si muoveva con forza sulla tastiera marcando ogni singola nota; poi, divenne elegante. Giocava con i tasti, come un bambino di fronte alle sue prime note. Sorrideva, accompagnava le mani con la testa, ondeggiava ogni tanto e poi si chinava sul pianoforte quando le sue dita scivolano libere, come se non ci fosse nessun attrito.
Infine, la danza.
Era come se volesse trasportarti sul palco e cominciare a ballare e esultare, prendere a braccetto la tua amata e scoppiare a ridere quando questa faceva un volteggio particolarmente goffo. Era un insieme di immagini, colori accesi, rosso, giallo e verde, quelli della natura, della primavera. E vedevi il sorriso spuntare sugli spettatori, ancora prima che se ne accorgessero. Molto simile a quello di Blaine, che si divertiva in ogni singola, limpida, frizzante nota. Le scale finali ricordavano esattamente quelle colonne sonore dei cartoni animati a cui si è abituati da piccoli; quando la mano sinistra si leva in aria, per lasciare spazio a un trillo della destra, la videro fermarsi a mezz'aria come quelle buffe pose dei looney tunes mentre si incantavano per delle ore. Poi si mosse agile, scattante, mentre la sua mano si spostava sempre di più verso la parte sinistra della tastiera aprendo il sipario ad un'altra scena tutta da raccontare: dalla danza, al cartone, e poi, l'uomo. Il suo svegliarsi freneticamente, come se si fosse appena destato da un sogno; lo stesso sogno che si era trasformato in incubo, che lo inseguiva, e che non accennava a fermarsi.
E come un treno in procinto di partire, Blaine prese il primo binario, di corsa, come quei cartoni animati che tanto lo divertivano. Lo raggiunse, e lì terminò il suo brano. Si alzò in piedi con uno scatto del busto trascinando con sè le mani ancora intente a suonare l'ultimo accordo.
E la folla applaudì, tra fischi e grida che lo incoraggiavano e gli urlavano un "bravo" piuttosto biascicato; fece un elegante inchino, e senza indugiare un secondo di più uscì di scena, andando a finire nella quinta opposta da dove stava per entrare Sebastian. Si voltò appena, cercando i suoi occhi verdi, chiedendosi quale fosse il suo responso, se fosse stupito, invidioso, o divertito, magari.
Tuttavia, quando vide il suo viso, capì di non trovarsi davanti a nessuna di quelle sensazioni: stava sorridendo. In modo semplice, e fatale.
La stessa semplicità con cui raggiunse il centro del palco, sistemandosi con il suo violino. La sua posizione eretta, salda, e impeccabile, fece mancare qualche battito a Blaine, che ancora doveva riprendersi dal contatto di prima. Era così confuso che la voce dei giudici gli arrivò opaca e sbiadita, e così fu un bel colpo notare le mani di Sebastian che riproducevano Il Valzer di Mefisto. Un brano di Liszt e Milstein.
Blaine spalancò gli occhi, non essendo molto sicuro di come reagire: avevano portato lo stesso compositore.
Un milione di dubbi cominciarono ad affollare la sua mente, che si accavallarono tra di loro senza ordine e logica; era un bene? Era un male? Era stato compromettente per qualcuno, aveva forse penalizzato le loro esecuzioni?
E poi, tutto ad un tratto, si ricordò che era stato proprio Robert a scegliere il suo brano, quindi, doveva aver fatto la stessa cosa con Sebastian. Lo aveva deciso lui.
Con quella consapevolezza nella mente e una certa leggerezza nel cuore per aver finito, si godette la splendida esecuzione del suo partner; perchè era splendida: non c’era nessun altro modo per descrivere la perfezione, i rintocchi, il vibrato provocato da quelle corde mentre tutto il resto del mondo ascoltava come in attesa. Di cosa, non si può sapere: è il fulcro del tema, l’attesa. Come la morte che appare lenta e inesorabile, come un ricordo di cui tu sai l’esistenza, ma che non ha forma. Sebastian, nella sua fermezza, riuscì a creare una sorta di inquietudine interiore nei cuori dei suoi ascoltatori, che non applaudivano, non parlavano, si vergognavano perfino a tossire.
Blaine restò con gli occhi lucidi per tutto il tempo, e si sentì anche molto stupido per questo, ma era tutto lì. Il suo periodo con Sebastian, i loro diverbi, il suo incredibile talento che non aveva paragoni: a modo suo, si sentiva un po’ felice, e orgoglioso. Perchè quando Sebastian rialzò lo sguardo, decidendo finalmente di riaprire gli occhi, misteriosamente li puntò su di lui, come dieci minuti prima, quando era avvenuto il contrario; la maschera sul volto del violinista apparve per un secondo inclinata, e Blaine non si preoccupò di nascondere la sua, applaudendo per primo quando la sua mano con l’archetto scivolò via dal violino.
Potevano anche non essere stati i migliori, e potevano anche non essere stati qualificati, ma quello, fu un grandissimo momento di gloria per entrambi.
Per questo non si stupirono più di tanto quando, una volta usciti dalle quinte e tornati nel piccolo corridoio che portava al salone, furono fermati da vari ragazzi che volevano complimentarsi e stringere loro la mano; alcuni erano semplici spettatori, un po’ emozionati e felici; altri, colleghi che avevano ammirato sinceramente il loro lavoro, e quella era una cosa bella quanto rara. Stavano quasi per complimentarsi a vicenda, perchè insomma, non smettevano di guardarsi da più di dieci minuti e in tutto quello non erano ancora riusciti a proferire parola, ma tutto ad un tratto un paio di mani li afferrarono per le braccia trascinandoli nel loro precedente camerino, ancora disabitato.
Blaine alzò lo sguardo confuso, Sebastian borbottò qualcosa circa la scarsa educazione, e poi si immobilizzarono: perchè, per un solo, piccolo istante, si erano completamente dimenticati del loro mentore.
 
 
“Sono molto deluso da voi.”
Blaine teneva gli occhi inchiodati al terreno, mentre Sebastian se ne stava appoggiato su una parete con una smorfia annoiata e a braccia conserte. Nessuno dei due aveva voglia di stare lì; nessuno aveva voglia di sentire come non fossero passati a quel concorso, anche se, in realtà, i risultati sarebbero usciti soltanto tre giorni dopo e fino ad allora sarebbe stato meglio continuare a sperare. Ma non Robert: per lui, non erano degni di passare. Per lui, erano due ragazzi che lo avevano fatto commuovere nelle esecuzioni in singolo, e ridere a crepapelle in quella in coppia: non aveva cambiato umore così velocemente da quando, durante la guerra, si prendeva gli antidepressivi per dormire.
“Dico sul serio, voi due, guardatemi.”
Con un po’ di resistenza, lo fecero. Si aspettavano già la ramanzina di due ore, la lista di errori fatti, il discorso da vecchietto che ha vissuto la guerra; Robert era famoso per tutte quelle cose, e non ci era mai andato leggero con loro. Infatti, nemmeno pochi secondi dopo, aveva cominciato a roteare il dito a mezz’aria, soffermandosi solo per sistemare gli occhialini che rischiavano di cadergli dal viso per la troppa agitazione.
“Sapete a quanti ragazzini come voi ho insegnato? Sapete quanti ce ne sono come voi, giovani, pieni di sicurezze, con molto carisma e voglia di vincere? Milioni. Siete in miloni, tutti quanti uguali, tutti quanti bravi, e ardenti di vittoria. Ma mai, mai e poi mai, in tutta la mia lunghissima carriera, ho incontrato due allievi più idioti, cocciuti, snervanti e orgogliosi di voi.”
I due si lanciarono una rapidissima occhiata, per poi guardare un po’ ammutoliti il loro mentore. Tuttavia, sul suo volto era comparsa un’espressione tenue, indecifrabile.
“Voi... sareste perfetti. Perchè non lo capite? Avete talento, e quello vero. Potreste fare cose meravigliose, se solo smetteste di farvi la guerra. Passate più tempo a odiarvi l’uno con l’altro che a suonare, vi rendete conto?”
Presi in contropiede, non dissero niente. Robert sospirò, le spalle che si rilassarono una volta che tutta l’adrenalina della ramanzina era scivolata via dal corpo.
“E’ un peccato, ragazzi. E’ proprio un vero peccato”, borbottò dandogli le spalle, per poi andarsene da quella stanza lasciando i due concorrenti da soli. Blaine fissò l'uscio della porta per qualche secondo, prima di voltarsi di scatto verso Sebastian accanto a lui. Alla fine, gli tese la mano.
"Piacere, Blaine Anderson."
Sebastian lo fissò: non era molto sicuro di aver capito.
"Che cavolo stai facendo?"
"Mi sto presentando."
"Che cosa!?"
Blaine si schiarì la voce, un po' interdetto dal tono di voce fermo e anche un po’ scettico. Aspettò un altro paio di secondi, e poi roteò gli occhi al cielo sussurrando: "Certo che, se non mi stringi la mano, lo fai sembrare un po' stupido..."
"Solo un po'?  - Sbottò Sebastian – Anderson, sul serio, ti sei bevuto l’olio per pianoforti?”
"Piacere, Blaine Anderson."
"E' inutile che lo ripeti, non ti stringerò la mano. Io ti conosco già."
"No. Noi non ci conosciamo, veramente. Stare fisicamente insieme in una stanza non vuol dire conoscersi. Abbiamo pensato solo a noi stessi, e questo è stato il risultato. Ma se io devo suonare con te, devo conoscerti. Quindi lo dirò un'altra volta. Piacere, mi chiamo Blaine Anderson. Ho 22 anni e suono pianoforte da non so più nemmeno quanto tempo e ho un gatto di venti chili e mezzo che durante la notte pianifica attentati omicidi."
Sebastian restò ancora qualche secondo a fissarlo, indeciso se guardarlo male o scoppiare a ridere. Ma di fronte allo sguardo di Blaine, che lo incitava ad aiutarlo, sorrise, avvicinandosi a lui per stringergli la mano.
Era calda; la sua pelle soffice si adagiò dolcemente sulla sua, le loro dita si strinsero come se avessero paura di non poterlo fare.
Osservò divertito come il ragazzo di fronte a sè sembrasse quasi agitato, perchè si aspettava che a quel punto Sebastian dicesse qualcosa, e lui era quasi tenero con i suoi occhi chiari che saettavano timidi verso terra. Voleva toglierlo dall’imbarazzo, ma non sapeva che cosa dire.
“Io...io sono Sebastian.” Mormorò. Blaine sembrò confuso almeno quanto lui.
“Sono...beh, sono come mi vedi.”
 
Ma come mi vedi, Blaine Anderson?
 
Quella era la domanda che tutto ad un tratto riempì la sua mente, con un’intensità disarmante. Perchè, tutto ad un tratto, voleva saperlo. Forse era perchè Blaine lo stava fissando intensamente, e il sorriso che gli rivolse un attimo dopo lo fece quasi trasalire.
Oppure, forse, perchè era solo un po’ paranoico.
 
 
 
 
***
Angolo di Fra
 
Ok, capitolo lunghetto, e pieno di cose. Ma non mi preoccupo perchè dovrà farvi compagnia per mooolti giorni, visto che questa Domenica sono al mare e non potrò scrivere. Spero di non avervi rotto le scatole con tutti i brani musicali, ma non siete obbligati ad ascoltarli: è solo che a me piacerebbe sapere che brano eseguono i ragazzi, quindi, per coerenza ho messo i link.
E finalmente i nostri eroi si danno una smossa. Posso avere un “AMEN”?
Io francamente non vedevo l’ora. Poi vabè, non è che adesso saranno pane e olio, però diciamo che magari smettono di parlarsi a offese...
Insomma, staremo a vedere. Grazie mille per la pazienza e l’affetto che mi regalate! Un bacione e buon tutto!
Fra

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***






Capitolo 7



 
 
Era molto strano.
C’era qualcosa che non andava, quella mattina. Forse, era la sveglia che non accennava al minimo rumore; forse, era un intenso odore di qualcosa di affumicato che riempiva la stanza, accompagnato da una sensazione strana, calda, quasi opprimente.
Blaine tentò di girarsi di fianco trascinando con sè più coperta possibile, non preoccupandosi di disfare completamente il letto o far cadere quel peso dal suo stomaco.
E poi metabolizzò: una sensazione opprimente, un peso sullo stomaco.
“Gatto.”
In risposta, Lord Tumbington soffiò meschinamente contro di lui cercando di strappargli via le coperte. Blaine stava quasi per alzarsi in piedi, dargli un calcio e urlare a Brittany di riprendersi quell’inutile essere, quando il suo cervello meccanicamente collegò i due elementi mancanti facendolo sbiancare tutto d’un tratto: Brittany. L’affumicato. La colazione.
Ignorando completamente i tentati omicidi del gatto arrampicato contro la sua gamba, tentò di raggiungere la cucina, ma appena aperta la porta una nube nera e soffocante lo inondò completamente costringendolo a coprirsi la bocca e tossire ininterrottamente.
Chiamò il nome della sua coinquilina a gran voce, mentre con le poche forze rimaste in corpo si apprestò ad aprire la finestra della sala regalando finalmente un momento di sollievo.
La ragazza comparve dalla porta della cucina con una padella in mano e la faccia completamente sporca di farina.
“Ho fatto le fritelle a forma di granchio!”
“Tu...cosa?” Esclamò mentre era già corso in ripostiglio, con ventiratore sotto mano e ventagli appesi lungo tutto il suo braccio. Lo azionò immediatamente, facendo uscire parte del fumo che aleggiava per la casa. Brittany intanto stava portando sul tavolo della sala un paio di piatti contenenti delle macchie bruciacchiate di cibo apparentemente insapore, che avevano delle forme piuttosto bizzarre e delle diramazioni lungo i bordi dovute a qualche errore durante la preparazione dell’impasto.
Ecco perchè i granchi.
“Britt, ma non ti eri accorta che la casa si stava riempiendo di fumo?” Chiese con un certo allarmismo, cercando però di risultare piuttosto calmo perchè, in tutto quello, doveva ancora capire quale malsana idea le fosse venuta in mente per costringerla a cucinare alle sette di mattina.
“Oh, quello.” Si strinse nelle spalle. “Pensavo che fosse normale.”
“No, non lo è.” Mormorò con un sospiro stanco, passandosi una mano sul volto ormai del tutto sveglio. Perfino Lord Tumbington non aveva il coraggio di avvicinarsi, rimanendo sul ciglio della camera aperta di Blaine con un’espressione attonita. Ma Brittany, evidentemente, notò sia lui che il suo coinquilino: abbassò la testa verso il proprio piatto, parlando un po’ intimidita e dispiaciuta.
“Ho sbagliato. Scusa. Volevo farti le frittelle post cotta.”
E Blaine, a quel punto, riuscì finalmente a capire le intenzioni della sua migliore amica e si sciolse immediatamente in un sorriso: quando erano piccoli e lui riceveva l’ennesima delusione d’amore da qualche ragazzo orribile, o qualcuno che poi si rivelava essere maledettamente etero, lui e Brittany andavano sempre ad un chiostro di frittura che faceva tutti i tipi di pasti. Le frittelle post cotta erano il loro modo per stare insieme, quando Blaine non aveva voglia nemmeno di sfogarsi e Brittany invece osserva attentamente ogni sfumatura d’espressione del suo amico; era un rituale, ma non avrebbe mai pensato di trovarlo anche a New York. Senza contare, che in quel momento lui non fosse vittima di nessun tipo di delusione amorosa, anche se, paradossalmente, un ragazzo c’era. Preferì sorvolare su quel minuscolo e trepidante pensiero. Quando lo disse alla sua amica, la vide strabuzzare gli occhi confusa, con un ciuffo biondo che si posizionò maldestramente sul suo viso.
“Allora non è per un ragazzo?”
“No.” Non era depresso per via di Sebastian; certo, forse una parte di sè era un po’ arrabbiata con lui. Ma non ne aveva il diritto: in quella faccenda avevano le stesse colpe, così come avevano avuto le stesse responsabilità.
Si domandò cosa stesse facendo; si domandò se fosse andato a lezione, o se, come lui, si fosse rinchiuso in camera con nient’altro che i suoi rimpianti. Sicuramente in quel preciso momento lo stava riempiendo di insulti di fronte a Santana che annuiva acuta e comprensiva. Se fosse stato meno orgoglioso e testardo, forse sarebbero riusciti a passare la selezione; se si fosse accordato al tempo di Sebastian, si sarebbero risparmiati quella terribile figuraccia.
E per un attimo, l’immagine del loro fedele professore balzò davanti ai suoi occhi, e lui non riuscì a trattenere una smorfia: aveva fatto di tutto per aiutarli. Aveva perfino scelto due brani di Liszt, come per armonizzare le loro stesse composizioni. E loro, in tutta risposta, avevano miseramente fallito; si sentiva sempre più in colpa.
“Ma sei triste.” Mormorò Brittany, come dando voce ai suoi pensieri. Stavolta fu Blaine ad abbassare leggermente lo sguardo, perchè aveva perfettamente ragione.
“Sono solo giù per il concorso”, ammise, cominciando a mangiare quei pochi pezzi di fritella considerati commestibili.
In realtà, dire di essere “giù” non rendeva nemmeno l’idea di quanto si sentisse inutile, vuoto, e incredibilmente frustrato dal suo terribile comportamento, dall’aver bruciato l’occasione più grande della sua vita. I risultati della prima selezione per Kuznets non erano ancora usciti, ma a lui non importava: non serviva uno stupido numero schiaffato su uno schermo di computer per ricordargli di aver perso. In modo imbarazzante, e anche piuttosto orribile.
“E’ da due giorni che suoni quella tua melodia triste”, gli fece notare Brittany. “Quella che sembrano tante piccole gocce d’acqua.”
Blaine sfoggiò un sorriso timido, perchè certe volte adorava proprio quella ragazza: a modo suo, gli faceva sempre capire che lo ascoltava.
“Vuoi un altro po’ di frittelle a forma di granchio?”
“No, grazie Britt”, sussurrò con un sorriso sghembo perchè non aveva assolutamente il coraggio di dirle che quella sottospecie di pastella aveva un sapore orribile. Tuttavia, quel piccolo gesto lo aveva risollevato, ricordandogli di non essere solo; si alzò dalla sedia andando a sbattere contro il ventilatore posizionato dietro di lui, ma dopo una piccola imprecazione andò a vestirsi nella sua camera.
Tra i jeans abbandonati sulla sedia e le magliette stropicciate, Lord Tumbington giaceva comodamente sul suo letto, rivolgendogli uno sguardo annoiato e accomodante. Si avvicinò verso di lui, cauto, ma con l’intenzione di dargli una piccola carezza sul collo; chissà, pensò, in un pieno momento di felicità interiore: forse anche quel gatto, con quella sveglia piuttosto atipica, aveva voluto mostrargli il suo affetto.
Una volta ricevuto un enorme graffio lungo il dorso della mano si rimangiò ogni singola parola.
 
 
Blaine decise che non poteva saltare lezione per sempre. Così, quel giorno, si recò al conservatorio.
Sperò che un’anonima felpa con cappuccio lo facesse camuffare tra la folla così da evitare occhiate gelide e commentini stizziti; invece, non fece nemmeno in tempo a salire il primo gradino della scalinata di fronte all’entrata che fu afferrato bruscamente da Amanda e Sarah, costringendolo a rintanarsi in un angolo appartato appena svoltato l’angolo.
Si aspettava una delle loro tipiche reazioni esagerate; un “OH MIO DIO” strillato che gli avrebbe chiaramente perforato i timpani. Invece, tutto ciò che riuscì a captare fu i loro sguardi cupi e a malapena riuscì a sentire le loro parole.
“Ci dispiace tanto, Blaine.”
“Non dev’essere stato un bel momento per te e Sebastian.”
Oh, perfetto. Quindi tutta la scuola sapeva della loro pessima figura? Si chiese cosa pensasse Sebastian a riguardo, o se lo sapesse già.
“Grazie, ragazze, ma non vi preoccupate”, mormorò non molto convinto, cercando in tutti i modi di defilarsi da quella conversazione. In realtà, meno pensava a quel concorso e meglio era per tutti quanti; voleva soltanto fare le sue noiosissime lezioni giornaliere per ritornare a chiudersi in camera con la scusa dello studio. Tuttavia, Amanda e Sarah sembravano avere altre intenzioni, dal momento che cominciarono a raccontare tutte le mille versioni del loro concorso, compresi dettagli irrilevanti e alcuni totalmente fantasiosi, perchè no, il pianoforte non era andato a fuoco dopo la sua prova in singolo e no, lui e Sebastian non avevano fatto sesso nel camerino. Deglutì di fronte a quell’ultima fantasia.
Con la scusa del ritardo sgusciò dalla loro morsa per filare dritto a lezione, andando a sedersi in uno dei banchi nell’ultima fila e cercando in tutti i modi di non attirare l’attenzione: poteva già percepire gli sguardi invidiosi o divertiti degli altri colleghi seguiti da qualche risatina nemmeno ben camuffata. Stava già per alzarsi di scatto, afferrare tracolla e casco e tornare a casa, quando il professor Cage entrò nell’aula facendo zittire tutti i presenti; camminava nel suo solito modo lento e rilassato, portandosi avanti quel bastone che aveva cominciato a conoscere a memoria.
“Siamo un numero sostanzioso oggi.”
Blaine si guardò intorno, aggrottando lievemente le sopracciglia: ai suoi occhi, in realtà, sembrava che ci fosse il solito numero di sempre. Certo, non era un corso molto frequentato, ma poteva vantare di un centinaio di ragazzi; poi, in modo quasi istintivo, cominciò a cercare Sebastian tra i gruppi di ragazzi. Dopo aver setacciato con lo sguardo ogni angolo di quella stanza, constatando che non fosse da nessuna parte, capì immediatamente che la battuta di Robert era riferita a lui. Eppure, nel momento in cui tornò a voltarsi verso il professore, incrociò immediatamente il suo sguardo freddo, e si chiese se la frase riguardasse tutti e due.
Non ebbe il coraggio di sostenere la sua lunga occhiata, costringendosi a guardare in modo piuttosto attento i suoi lacci delle scarpe: sapeva di meritare il suo rimprovero, o disprezzo, o qualsiasi cosa fosse. Perfino lui era arrabbiato con se stesso, quindi, non osava immaginare cosa pensasse di lui il professore, ma l’idea di aver perso la sua fiducia era destabilizzante.
La lezione fu piuttosto lenta e noiosa, forse, perchè Blaine non riusciva a prestare molta attenzione: non riusciva a togliersi dalla testa scenari di lui che si scontrava con Sebastian lungo i corridoi e borbottavano qualcosa di soffuso e impreciso. Oppure Sebastian lo avrebbe preso in giro come al solito, ricordandogli quanto fosse un pianista pessimo e scoordinato? Chissà, magari era stato proprio lui a raccontare la loro esibizione agli altri colleghi: l’idea di lui seduto al tavolo con altri ragazzi a bere caffè e ridere alle sue spalle lo distruggeva. Ma era uno scenario possibile? Sbuffò, tormentato dai suoi stessi pensieri, e si passò nervosamente una mano contro i capelli ingellati. Era quello il problema con Sebastian: non riusciva a capirlo. Era totalmente imprevedibile.
Sì, decisamente, Brittany gli aveva fatto vedere troppi telefilm adolescenziali.
Una volta finita la lezione lasciò scorrere la massa di ragazzi trepidanti per la pausa caffè, aspettando di trovarsi praticamente da solo; si prese tutto il tempo per racimolare il foglio completamente intatto che aveva sistemato per prendere appunti e rimetterlo dentro ad un quaderno altrettanto pulito. Avrebbe dovuto cominciare seriamente a riprendere gli studi, dal momento che, ormai, era diventata la sua unica opportunità.
“E’ un vero peccato.”
Blaine non riconobbe immediatamente quella voce, ma gli suonò come familiare. Si voltò appena in tempo per vedere il ghigno di Wyatt tramutarsi in una smorfia, come se fosse seriamente intristito per lui; e, davvero, per un momento detestò se stesso e quella giornata che stava diventando sempre più odiosa. Di tutte le persone presenti in quella scuola, Wyatt era davvero l’ultima che avrebbe desiderato vedere. In quel momento, capì anche che fosse stato lui a raccontare a tutti del concorso, il chè era anche piuttosto ovvio; si sentì un vero stupido per aver dubitato di Sebastian, anche solo per un secondo.
Nel frattempo Wyatt si era seduto sul banco di fronte al suo, intrecciando le braccia allo schienale della sedia e fissandolo con i suoi occhi vitrei. Non disse niente per lungo tempo, e Blaine stava quasi per arrossire, sotto a quello sguardo lungo e intenso interamente rivolto verso di lui.
“Come va, Blaine? Era da un po’ che non ti vedevo, anzi, sentivo. Saprei riconoscere il suono del tuo pianoforte a metri di distanza.”
Oh, certo. Si metteva pure ad adularlo. Immaginò che fosse una cosa del tutto lecita, per uno sicuro al cento per cento di aver passato la prima selezione.
“Non mi lamento.” Rispose, più per cortesia che per vero interesse; il viso di Wyatt assunse un’espressione del tutto nuova, e Blaine per un momento lo fissò confuso. Nel momento in cui si avvicinò a lui, così tanto che il suo respiro gli lambiva la pelle come un soffio, fu quasi tentato di spintonarlo via, ma qualcosa, nascosta dalla sua voce, e dal suo sorriso, gli fece gelare il sangue nelle vene.
“Meritavi di vincere Blaine. Sei meglio di tutti i candidati di quel concorso.”
Senza nemmeno accorgersene, si ritrovò a balbettare un timido “grazie.”
"Non ringraziare chi è sincero. Ti ammiro dal primo momento che ti ho visto.”
Quella discussione stava prendendo una piega decisamente troppo strana. E non gli piaceva: in un certo senso, si sentiva come la preda un attimo prima di essere sbranata, e impercettibilmente arretrò con la schiena, guadagnando qualche centimetro di distanza in più.
Ma poi, tutto quello sbigottimento svanì, nel momento in cui sentì la sua voce gelida sentenziare: “E' colpa di quel professore, che idiota. Chissà cosa si era fumato quando ha deciso di metterti con Smythe."
Scosso da un fascio di nervi, s’irrigidì all’istante, serrando la mascella. Calibrò ogni parola come se dovesse rimanere marchiata sulla sua pelle.
"Penso che Sebastian abbia fatto una splendida esecuzione. Sono stato fortunato a suonare con lui. E non ti conviene cantare vittoria così presto, perchè i risultati non sono ancora usciti.”
Sentì le sue guance arrossirsi tremendamente a seguito di quelle parole, ma continuò a sostenere il suo sguardo fermo: non lo stava dicendo soltanto per ripicca alle provocazioni di Wyatt.
A giudicare dall’espressione di pura sorpresa dipinta sul suo viso, Blaine aveva colto nel segno. Lo vide alzarsi lentamente, emettendo una risata puramente sarcastica.
"Beh, la speranza è l’ultima a morire, non è così?”
“Se proprio vogliamo andare per frasi fatte, allora posso benissimo dirti ride bene chi ride ultimo.”
Non aveva nessuna intenzione di farsi suggestionare da quell’uomo, anche se non aveva ancora capito che atteggiamento assumere con lui. In quel momento, comunque, aveva parlato il suo orgoglio, e a quanto pare aveva vinto.
“Alla prossima Blaine. Spero di rivederti presto." Wyatt lo salutò con un tono mellifluo, andandosene via così com’era arrivato; Blaine provò dei brividi spiacevoli lungo tutto il corpo, prima di scuotere la testa e afferrare la sua tracolla e alzarsi in piedi. Si diresse velocemente fuori dall’aula, in cerca di un po’ di solitudine e, anche, di un posto in cui potesse riflettere.
In realtà, nel momento in cui realizzò le sue necessità, non ebbe più dubbi su dove andare.
 

Non c’era un vero motivo per cui suonasse sempre Chopin; semplicemente, lo amava. E non si può spiegare l’amore, nemmeno quello provato per delle melodie. Forse, in parte, era per via degli anni del liceo: Blaine era cresciuto molto da allora, ma quella specie di malinconia accompagnava sempre i suoi pensieri. La goccia d’acqua, così veniva chiamato il preludio numero quindici. Una nota semplice che si ripeteva per tutta la durata del brano; e per un attimo non ti accorgi nemmeno della sua presenza, perchè sei catturato dalla melodia di primo piano, da quella musica dolce e leggera che, per un attimo, lo fa sembrare quasi spensierato e dolce. Ma poi c’era quella nota. Era più una presenza, in realtà: con il tocco delicato di Blaine, assomigliava ad un’ombra che seguiva silenziosamente ogni tuo passo. Aumentava quando il passo era più pesante e diminuiva, quando invece si trasformava in qualcosa di leggero.
Proprio come delle gocce d’acqua, formatesi dopo una tempesta.
Blaine, quelle cose, le avvertì suonando quella musica. L’aula prove era deserta, rendendo l’atmosfera ancora più surreale, come se perfino il silenzio fosse rimasto incantato dal suo tocco; suonava senza nemmeno averne la consapevolezza.
E poi, tutto ad un tratto, le sue mani si bloccarono sulla tastiera, e lui fu costretto a fermarsi: non si ricordava le note.
Ed era una cosa incredibile, perchè lui suonava quel brano almeno due volte al giorno, da anni. Ormai ce l’aveva in testa come la preghiera che ti insegnano dalle elementari, o le tabelline. Restò a guardare il leggio vuoto, con i suoi grandi occhi ambrati che vacillarono nella confusione.
Fino a quando una voce reale, ma ovattata, intervenne riportando tutto nella realtà.
“Continua.”
Sebastian se ne stava dietro di lui, appoggiato allo stipite della porta socchiusa, con gli occhi socchiusi e un’espressione assorta.
Si chiese da quanto tempo fosse stato lì. Si chiese se si rendesse conto che il brano suonato era di Chopin; per un attimo, si chiese perfino a che cosa si riferisse con quel piccolo “continua”, perchè non era più sicuro nemmeno di quello.
Ma poi finalmente incrociò i suoi occhi, ed erano intensi: semplicemente, gli stavano chiedendo di suonare. E così fece, senza nessuna esitazione; una volta tolte le mani dalla tastiera si voltò verso di lui, preparandosi mentalmente ad una lista infinita di critiche e lamentele sulla sua inettitudine o, ancora meglio, ad una dimostrazione pratica di una vera esecuzione afferrando orgogliosamente il suo violino. Con una certa amarezza si rese conto che, molto probabilmente, sarebbe stata la loro ultima discussione.
Non avvenne niente di tutto ciò: Sebastian aprì gli occhi, mostrandosi completamente rilassato.
E non capiva: c’era qualcosa che non andava. Si era perso un passaggio importante, oppure stava ancora dormendo.
“Il tuo ribattuto era debole.”
Ah. Ecco. Adesso lo riconosceva.
Stava quasi per alzarsi in piedi e dirgli un miliardo di cose tutte insieme, tipo che non era affare suo, che il suo ribattuto era perfetto, che era stato lui a dirgli di continuare a suonare quindi poteva anche starsene comodamente zitto. Però, una parte di sè assimilò quell’informazione con una certa calma.
“Dici sul serio?”
Guardò attentamente ogni cambio di espressione nel volto del ragazzo, per cercare qualche segno che lo stesse prendendo in giro. Il ragazzo apparve confuso quanto lui quando rispose: “Sì. Certo. Pensi che spari frasi a zero?”
“Beh a volte sì.”
Sebastian scoppiò in una risata leggera, quasi indispettito.
“Dico sul serio – confermò, mantenendo la voce ferma – il punto focale di questo brano è il ribattuto e delle volte non si sentiva nemmeno.”
“...Oh. Ok.”
Non riusciva più a rispondergli per le rime, magari, evidenziando qualche suo difetto tecnico; era per via della delusione del concorso ancora cocente, e anche perchè, dentro di sè, iniziava a credere alle sue parole.
Sentì lo sguardo di Sebastian fisso si di lui, e con la coda dell’occhio lo vide abbassare lo sguardo ravvivandosi i capelli con una mano.
“...Comunque tutto sommato non era male.”
“C-Come?”
Stava dicendo sul serio? Sebastian Smythe gli aveva appena fatto un complimento?
“Non tu.” Si corresse un attimo dopo, quasi preso contropiede, “Parlavo del pezzo.”
“Ah. Giusto.”
Sebastian Smythe che aveva appena fatto un complimento a Chopin. Ancora più allucinante.
Nel frattempo era entrato nella stanza e si era seduto poco distante da lui, guardandosi intorno in cerca di qualcosa da fare; alla fine, prese in mano un violoncello di proprietà della scuola e cominciò a strimpellare qualche nota con fare vago e distratto. Assomigliava molto ad un motivo blues, lento, dall’aspetto fugace.
Blaine roteò gli occhi al cielo trattenendo a stento un sospiro, perchè, ovviamente, era bravo anche con il violoncello. Non era possibile.
Ma poi, più passò il tempo, più l’atmosfera intorno a loro si addolcì assoggettata da quelle note, e lui si ritrovò ad osservarlo per minuti interi, senza nemmeno rendersene conto: Sebastian socchiuse gli occhi rivolgendo le sue lunghe ciglia verso l’archetto, e le sue labbra si incurvarono leggermente in una sorta di sorriso, quando le note cominciarono a prendere una piega strana e lui si divertì ad assecondarle seguendole con istinto.
E non fu una sorta di pensiero, o di idea sfocata che gli aveva attraversato la mente: Sebastian era bellissimo.
Ma Blaine non avrebbe mai avuto il coraggio di dirlo ad alta voce.
“Quanto sei incazzato da uno a dieci?”
 
Fu costretto a chiudere gli occhi e riaprirli un paio di volte, perchè quella domanda a bruciapelo lo aveva lasciato del tutto interdetto; Sebastian adesso lo stava fissando, e l’intensità del suo sguardo lo fece quasi trasalire.
“...Non lo so.” Mormorò. Sapeva benissimo che si riferisse al concorso, non c’era bisogno di sottolinearlo.
“Forse dieci. Ma più che altro sono arrabbiato con me stesso.”
“Anche io”, ammise l’altro ragazzo, dopo una breve pausa. Si lanciarono un’occhiata comprensiva, per poi sviare lo sguardo a terra, ricordando la loro esibizione.
“...Credi che... credi il professore avesse ragione?” Domandò Blaine, cauto. Il violinista emise un piccolo sospiro, ma non sembrava seccato dalla domanda, quanto dalla risposta che fu costretto a dare: “Purtroppo direi di sì. Ma non dirgli che te l’ho detto o comincerebbe a saltare per tutti i banchi sventolando quel suo cavolo di bastone come se fosse lo scettro del potere.”
La cosa più divertente di tutte era che, in effetti, si trattasse di uno scenario assolutamente verosimile; ma Blaine non fece nemmeno in tempo a finire di ridere, dal momento che fu pietrificato non appena si rese conto di una cosa.
“...Wow.” Commentò, un attimo dopo. Sebastian lo guardò confuso.
“La prima cosa su cui siamo veramente d’accordo, ed è che siamo stati due coglioni.”
E poi, tutto d’un tratto, scoppiarono a ridere. Una risata piccola e leggera, che fece vacillare il cuore di entrambi.
“Mi sembra un buon passo avanti.” Sebastian intrecciò le mani sulle sue ginocchia continuando a scuotere la testa divertito. “Il prossimo sarà ammettere che sei maledettamente testardo.”
“E che tu sei un narcisista.”
“Oh, andiamo. Tra tutti i difetti che potevi tirare fuori, narcisista? Vanitoso, sì. Arrogante, parliamone. Bellissimo sicuramente.”
“Mi pare che stessimo parlando di difetti”, commentò Blaine. L’altro alzò la testa verso di lui, affilando il suo sorriso: “Ma bene, quindi non solo mi trovi bellissimo, lo ritieni perfino un pregio.”
Maledizione. Odiava quel suo maledetto ingegno.
“E modesto, anche.” Affermò cercando di sviare discorso ed evitare che le sue guance diventassero velocemente color porpora; lo vide accarezzarsi il mento con fare pensieroso, aggrottando le sopracciglia e mormorando: “Sì, direi che modesto è il mio pregio numero uno.”
E scoppiò di nuovo a ridere di gusto, perchè con quella frase si era appena contraddetto da solo e Sebastian lo sapeva bene: era come se non avesse nessuna intenzione di prendersi sul serio, e nemmeno di dare tanto peso alle scherzose offese dette da lui.
Passarono diverso tempo così, continuando ad elencare tutti i loro difetti e ridendo ai propri; era tutto molto più semplice, con il peso del concorso scivolato via dalle loro spalle e la consapevolezza di non dover più passare del tempo insieme perchè forzati a farlo. Passarono un paio d’ore senza che nessuno se ne preoccupasse e alla fine comnciarono a raccontarsi dettagli della scuola, aneddoti sui loro compagni di corso, situazioni del tutto casuali. E avrebbero continuato a parlare fino a notte inoltrata, se non fosse stato per un inserviente dell’ultimo piano che gridò di uscire fuori per fargli fare il suo lavoro; Sebastian cominciò a esclamare qualcosa del tipo “Josè, non ti arrabbiare dai, prendi la vita con meno detersivo per i pavimenti!”, e subito dopo tutti e due furono costretti a scappare nel corridoio, perchè Juan non aveva molto gradito quella sua battuta. A sua discolpa, il ragazzo disse a Blaine che i nomi con la J aspirata gli sembravano tutti uguali e non riusciva a distinguerli, e lui fece finta di scusarlo, solo perchè la sua faccia impallidita quando l’uomo aveva aizzato in aria lo spazzole era stata oro colato.
Una volta trovatosi all’uscita dal Franz Liszt, lanciò un’occhiata al motorino parcheggiato a pochi metri da loro, illuminato unicamente dalla luce di un lampione; Sebastian si stava sfregando le mani soffiandoci sopra,  borbottando qualcosa circa il suo odio verso il freddo autunnale.
Per un po’, non dissero più niente: nessuno dei due sapeva bene come salutarsi dopo quel pomeriggio piuttosto particolare; in ogni caso si sarebbero rivisti l’indomani, se non per le lezioni, quanto meno per sapere ufficialmente i risultati del concorso.
E in quel momento un brivido attraversò completamente la schiena di Blaine, ma non a causa del freddo: semplicemente, si era accorto che gli sarebbe mancato suonare con Sebastian. Era una cosa assurda, a pensarci. Però era così: gli sarebbe mancato discutere con lui delle cose più stupide. Gli sarebbe mancato il suono del suo violino, talmente perfetto da risultare perfino un po’ odioso.Gli sarebbe mancato il suo sorrisetto compiaciuto quando riusciva a zittirlo con qualche frase maliziosa. Si sarebbero sempre rivisti, ma sarebbe stato tutto diverso. Semplicemente, gli sarebbe mancato.
E non era giusto che fosse già tutto finito, così presto, in modo così crudele.
“Beh, io vado.”
Lo vide incamminarsi lungo il lungo viale affollato, le mani in tasca, le lunghe gambe dritte che si muovevano con tranquillità e anche un po’ di spensieratezza. Così Blaine mormorò uno “ciao” voltandosi di rimando, infilandosi il casco e dirigendosi verso il suo motorino.
E attutito da quel casco, dal traffico newyorkese, dal vento che soffiava imperterrito e dal trambusto del motorino messo in moto, per poco non si perse quella piccola frase proveniente da dietro di lui, esclamata con tono divertito.
“E comunque, anche io penso di aver fatto una splendida esecuzione!”
Quella frase.
Il discorso con Wyatt.
Sono stato fortunato a suonare con lui.
Si allontanò dal Franz Liszt come se stesse scappando da una valanga.
 
 
 
 
 
 
 *** 

Angolo di Fra

Sono un po' arrugginita visto che non scrivo da 3 settimane e questo capitolo è stato un mezzo parto. Quindi, mi scuso se la qualità non è delle migliori. Visto il supporto che mi state gentilmente dando ho tentato di fare del mio meglio.
Volevo ringraziare tutte le splendide persone che mi riempiono di fan art e addirittura un piccolo trailer, che potete trovare nella mia pagina facebook.
Per il resto, grazie per le letture, le recensioni e tutti i tweet. Siete fantastici.

Fra

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***






Capitolo 8


 
 

 
“Sebastian, che cazzo, apri subito questa porta oppure giuro che prendo i miei smalti e ci faccio un murales di Rocco Siffredi.”
Sebastian mugugnò qualcosa innervosito, passandosi una mano sul volto stanco e ancora assonnato, scostando le coperte insolitamente ordinate e pulite. Si guardò intorno con fare confuso, rantolando nel buio alla ricerca del suo cellulare; il flash che lo colpì dritto negli occhi lo fece imprecare sottovoce, ma mai quanto l’ora schiaffata sul display e l’annuncio digitale che recitava: “Non hai spento la sveglia.”
Certo, quei dettagli ancora non spiegavano perchè Santana stesse distruggendo la sua porta a suon di pugni con una voce talmente squillante da ricordargli Maria Callas. Nelle sue esibizioni peggiori.
“Un attimo, Cristo...” borbottò trascinandosi fino alla maniglia, girando la chiave ancora incastrata nella toppa per affrontare finalmente il volto scocciato e furibondo della coinquilina.
“Buongiorno mio caro principesso sul pisello, e sì, il doppiosenso è voluto.”
Sebastian la guardò confuso, sbadigliando senza ritegno e sfoggiando una smorfia annoiata: “Ti consiglio di sbrigarti perchè tra due minuti dovrei essere a lezione.”
“Allora sarò molto chiara. Quando ti mando un messaggio con scritto “Casa Occupata”, vuol dire che la casa è occupata.”
“Oh mio Dio non mi dire!” Esclamò Sebastian alzando la voce di un’ottava, imitando quelle oche che saltellano sul posto tutte emozionate.
“Sì, esatto, Sherlock. Quindi, se io mi voglio portare qualcuna a letto, quanto meno mi aspetto che il mio coinquilino non si metta a suonare il violino per tutta la notte.”
“...Ah.”
Era quello il problema: preso un po’ contropiede, si passò una mano trai capelli, sviando lo sguardo di lato.
“Già. Ah.” Fece eco lei, per niente addolcita: “Se hai problemi d’insonnia, o d’impotenza, o entrambi, non prendertela con me e tantomeno con quell’affare. Anzi, perchè non cambi strumento di tanto in tanto e ti dai piacere con qualcos’altro!?”
Non fece in tempo a trovare la risposta pungente da darle, perchè, in effetti, perfino lui si sentiva un po’ stupido riguardo al suo comportamento in quell’ultimo periodo: era vero che non dormiva, ed era già due settimane che non faceva sesso con nessun ragazzo. Due settimane, metabolizzò tra sè e sè sempre più allibito; non aveva avuto una pausa così lunga da quando si era beccato la mononucleosi in terza liceo.
“La prossima volta che dico casa occupata”, scandì lentamente Santana, puntandogli un dito contro il petto nudo, “sarà meglio che tu non mi venga a disturbare, o il tuo amato violino farà una brutta fine.”
E visto che l’ultima volta lo aveva quasi gettato dalla finestra, Sebastian borbottò un “va bene” con fare scocciato, non facendo storie. In realtà doveva ancora prendere il caffè e non aveva voglia di litigare con la sua coinquilina senza carburante in corpo: aveva altre cose, altri problemi, altri pensieri e, soprattutto, altre persone, che lo tenevano molto occupato. Più che occupato, in realtà: cominciava a diventare un problema. E cominciava a perdere di vista la soluzione.
Prima di farsi una doccia e vestirsi decise di nascondere il suo violino dentro l’armadio, giusto per precauzione. C’era una scatola delle scarpe piuttosto grande in cui metteva tutte le cose che nessuno doveva vedere: documenti importanti, foto, cartoline. Perlopiù ricordi. Il suo violino entrò alla perfezione adagiato su un panno dall’aspetto indecifrabile, ma che catturò gli occhi di Sebastian provocandogli una leggera fitta nel petto. Durò solo un momento: l’attimo dopo, l’armadio era chiuso, e lui si era già diretto verso la doccia.
Senza nemmeno preoccuparsi di asciugarsi i capelli come si deve s’infilò soltanto l’intimo e i jeans, lasciando che il corpo perdesse tutto il calore dovuto all’acqua bollente e camminando verso la cucina per un caffè e un biscotto alle mandorle; quando vide la figura di una donna mai vista prima, appoggiata con la testa sul tavolo e l’aria piuttosto stanca, quel minimo di buon umore racimolato grazie alla doccia svanì del tutto.
Ecco una cosa che detestava di Santana: faceva sempre dormire le donne a casa loro. Lui non riusciva assolutamente a concepirlo, perchè diavolo, cosa le costava mandarle via dopo aver scopato così da lasciare la casa libera il giorno dopo? Odiava svegliarsi incontrando qualche nuova sconosciuta con pochi vestiti e ancora meno cervello. Odiava svegliarsi accanto a qualcuno in generale: con Santana non aveva grossi problemi perchè, avendo orari diversi, si incrociavano a malapena, e ad ogni modo avevano imprarato a ignorarsi. Ma se fosse stato un uomo con cui era stato a letto il giorno prima probabilmente gli sarebbe venuta la bile: svegliarsi accollato a qualcuno stile stufa elettrica, mormorarsi qualcosa di banale e inutile alla società e, soprattutto, le coccole. Era una cosa che non riusciva proprio a capire: perchè degli uomini vorrebbero mai delle coccole? Va bene che erano gay, ma che diavolo, lui non aveva mai provato l’impulso non sessuale di strusciarsi contro qualcuno, nel senso di fare grattini, moine e chi più ne ha più ne metta. E la cosa acquistava ancora meno senso se avveniva dopo averlo fatto: insomma, perchè? Non avevano già ottenuto ciò che volevano?  Per non parlare poi di fare finta di essere felici e innamorati, fino a quando Sebastian non avrebbe cacciato il tizio fuori di casa. Era ridicolo e, a confronto, la gentilezza di Santana che offriva sempre alle sue donne una colazione decente sembrava quasi crudele.
“Buongiorno”, gli aveva detto quest’ultima, con la  sua voce stridula e per niente musicale; Sebastian deglutì, perchè non riusciva a capire come diavolo facesse Santana a scoparsi una donna simile. Va bene, era bella come tutte le altre prima di lei, un corpo allenato – ipotizzò ginnastica artistica, o qualcosa di simile – e dei lunghi capelli biondi che le scendevano morbidamente sulle spalline del reggiseno, insomma, il modello di donna standard di Santana. E poteva perfino essere simpatica, ma con quella voce Sebastian non riusciva nemmeno a guardarla: in quanto musicista, era abbastanza fissato con timbri e tonalità, e il suo poteva definirsi decisamente stonato.
“Buongiorno... Sheila?” Ipotizzò controvoglia, afferrando la tazza di caffè fumante e appoggiandosi al piano cottura con l’altra mano.
“In realtà è Shannon”, balbettò stizzita, alzando il mento all’insù. “Potresti almeno ricordarti il nome, ci siamo presentati solo ieri sera.”
“E ci saluteremo questa mattina per non rivederci mai più, quindi, a che scopo?”
La ragazza, di fronte a quelle parole dette in modo così freddo e arrogante, sbiancò di colpo e per un attimo la vide esitare come indecisa se alzarsi e picchiarlo o prendere tutte le sue cose e andarsene via.
“Cosa, ti aspettavi una relazione stile Cenerentola in versione lesbo?” incalzò lui, perchè adorava quelle che facevano le scenate da telefilm di serie B, o meglio, adorava farle incazzare. La vide aprire e chiudere la bocca più volte senza riuscire a parlare, e a quel punto non riuscì a trattenersi dal dire: “Non ti sforzare troppo, la tua bocca deve ancora riprendersi dalla scorsa serata.”
“Hai finito?”
Santana si trovò esattamente davanti a lui, le mani appoggiate sui fianchi e un’espressione per niente divertita. E, in quel momento, anche a Sebastian passò la voglia di giocare.
“Oppure vuoi continuare a fare il cazzone quale sei?”
“Risparmia il tuo nervosismo da ciclo per chi è interessato alla tua vagina, io vado a lezione. E’ stato un piacere Sabrina.”
“Shannon”, ribattè lei, ma lui era già uscito di casa senza nemmeno premurarsi di chiudere la porta con leggerezza.
 
 
Il viaggio fino al conservatorio avveniva sempre nello stesso modo: camminava fino alla metro, incrociando il suo negozio di croissant preferiti dove si fermava per salutare il proprietario – Louis, un pasticcere francese trasferitosi cinque anni prima – e prendere il suo solito cornetto alla marmellata, già pronto e scaldato appositamente per il suo arrivo. Poi si metteva le cuffie e trascorreva i minuti dentro la metro ad ascoltare musica classica e finire la sua colazione, osservando svogliato ragazzini che si lamentavano della scuola e coppiette che pomiciavano senza ritegno di fronte agli altri: non che lo ritenesse qualcosa di sbagliato, ma vedere degli etero pomiciare di prima mattina gli chiudeva sempre lo stomaco.
Poi, puntuale come un orologio, raggiungeva la strada che portava al Franz Liszt prendendo un altra tazza di caffè dal bar all’angolo, per essere sicuro di avere tutte le energie necessarie; quel giorno, poi, chiese una dose extra di zucchero. Aveva come l’impressione che sarebbe stata una giornata particolarmente stancante.
Il motivo?
Beh, il motivo era totalmente concentrato in un paio di occhi color ambra e una massa di riccioli neri che, in quel momento, piombarono inavvertitamente sotto al suo sguardo, assieme ad un casco, un motorino e un paio di spartiti che rischiavano di volare per aria. Eccolo lì, Blaine Anderson. Sebastian si sforzò di avere nessun tipo di reazione, di qualsiasi natura fosse, arrabbiata, annoiata, divertita o rallegrata. Non doveva interessargli.
Per sua fortuna era assolutamente certo di avere almeno un’altra mezz’ora di pace prima di dover intaccare una qualsiasi conversazione con lui, perchè tutti quanti nel conservatorio sapevano del suo pessimo umore al mattino e di come non fosse saggio parlargli se non per questioni veramente importanti.
Ovviamente, però, Blaine Anderson non era “tutti quanti”.
“Buongiorno Sebastian.”
Per un momento, un breve, brevissimo momento, il suo cuore perse un minuscolo battito. Perchè era stato molto strano: si sentì accaponare la pelle, i suoi occhi si mossero inconsciamente incrociando quel misto di oro e nocciola che ogni volta lo faceva trasalire. Perchè era la prima volta che sentiva Blaine pronunciare il suo nome, e lo aveva detto con modo particolare, come biascicato, e la sua voce era bassa e ferma e rilassata e, diavolo, sexy.
Lo guardò per un lungo istante, prima di ricordarsi che fosse meglio dire qualcosa: “Ciao Blaine.”
Vide il ragazzo abbozzare un minuscolo sorriso, in un modo del tutto naturale: evidentemente, sentire il suo nome non aveva sortito lo stesso effetto in lui.
“Buongiorno Blaine!”
I due ragazzi si voltarono di scatto verso quel richiamo un po’ agitato, riuscendo a vedere Amanda e Sarah a un paio di metri da loro che sventolavano entusiaste le loro mani.
“Buongiorno ragazze.”
“Chi sono quelle California Girls?”
La risata eccentrica delle due gli fece passare la voglia di saperlo.
“Oh, ti presento Amanda e Sarah, due mie... amiche. Ragazze, lui è-“
“Sebastian Smythe.” Intervenne la prima.
“Sappiamo chi è.” Aggiunse la seconda. Sebastian inarcò le sopracciglia, un po’ stupito. Per quale dei mille motivi possibili lo conoscevano? Per il suo talento? Per la sua fama che circolava nella scuola? Oppure era un altro, ipotizzò una minuscola vocina dentro di sè, e al solo pensiero si irrigidì; ma prima ancora che potesse allarmarsi del tutto le due ragazze gli avevano già rivolto un’occhiata maliziosa.
“E’ il tuo compagno.”
Dal come avevano evidenziato l’ultima parola sembrava che si riferissero a tutto, tranne che alla musica. Sebastian colse al volo l’occasione per osservare la reazione di Blaine che, come immaginato, era arrossito vistosamente cominciando anche a balbettare un po’.
“S-sì, giusto. Voglio dire, suoniamo insieme.”
“Lo sappiamo che suonate insieme”, cinguettarono le due, come per dire “non darcela a bere sappiamo benissimo che fate anche altro”. Sebastian si mise le mani in tasca abbozzando un ghigno divertito, perchè oh, in fondo non erano poi così male quelle California Girls; stava quasi per dirglielo quando si sentì afferrato maldestramente per un braccio e trascinato dentro alla scuola.
“Ci fa molto piacere adesso scusate dobbiamo andare ciao.”
“Puoi anche respirare, sai”, lo ammonì non prima di aver fatto l’occhiolino alle due colleghe facendole squittire per l’emozione. Blaine si rilassò immediatamente accanto a lui, ma continuò a fissarsi i lacci delle scarpe.
“Bene, quindi, ecco, io non ci sono proprio amico con loro, cioè lo sono, ma a volte dicono delle cose stupide e non le condivido e insomma non vorrei che tu pensassi-“
“Blaine. Rilassati. Non me la sono presa o chissà cos’altro.”
Finalmente alzò la testa, e per poco a Sebastian non scappò un sorriso. Ma uno di quelli veri, senza malvagità o presunzione, perchè con quelle labbra serrate in una smorfia e quegli occhioni imbarazzati la sua mente formulò un solo concetto: era adorabile. E no, termini simili non andavano affatto usati, quindi scosse la testa, tornando in sè.
“Beh, io vado.”
Blaine non colse immediatamente quella frase, dal momento che si limitò a fissarlo perplesso: “Ma dici a lezione?”
“No, non ci vengo. Vado a cercarmi qualcuno con cui passare il tempo per un paio d’ore.”
“Scherzi?” Stavolta non c’era traccia di confusione, Blaine era palesemente incredulo e anche un po’ deluso: “Vuoi saltare la lezione del professor Cage? Non sei venuto nemmeno ieri.”
“Appunto.”
Aspettò pazientemente che facesse due più due, con una certa voglia di dirgli “ehi, genio, ci arrivi da solo o devo farti un disegnino?”, ma una parte di sè non era molto sicura di voler parlare di quell’argomento con Blaine. In effetti, nel momento in cui lo vide fare una smorfia e scuotere la testa sbuffando capì subito di aver commesso un errore.
“Non puoi evitarlo per sempre, lo sai.”
Non è per sempre, pensò lui, solo fino a quando non sono usciti i risultati.
“Non lo sto evitando.”
“Ah no?” Chiese, con uno sguardo di sfida: “E io che pensavo ti sentissi mortificato per il concorso e non avessi il coraggio di guardarlo in faccia e chiedergli scusa per come ti sei comportato.”
“No. Cosa? No, certo che no.” Sbottò lui. Però si tradì con il linguaggio del corpo, perchè fece automaticamente un passo indietro, mise una mano dentro la tasca e sviò lo sguardo da Blaine, come se non sapesse esattamente che espressione assumere. E, purtroppo per lui, il suo partner musicale non era affatto uno stupido.
“Benissimo”, lo sentì sussurrare, con una certa sfumatura divertita nella voce, “Allora non ti dispiacerebbe accompagnarmi da lui, no? Tanto verrebbe a chiamarti, volevo parlargli del concorso.”
Maledetto. Maledetto lui e i suoi riccioli sconclusionati e il suo sorrisetto beffardo.
“E che senso ha? I risultati non sono ancora usciti”, gli ricordò, mantenendo un temperamento calmo e superiore di chi non fosse minimamente toccato dalla cosa. Blaine continuava a tenere lo sguardo fisso su di lui senza la minima esitazione, e rendeva il tutto ancora più assurdo perchè, insomma, Sebastian non riusciva davvero a capirlo: certe volte era timido, impacciato, e altre invece lo sorpendeva completamente con frasi o cose che non si sarebbe mai aspettato. Tipo in quel momento, quando sentì le sue dita lunghe e morbide circondarsi intorno al suo polso, facendolo rabbrividire al contatto: aveva le mani fredde.
“Ci metteremo solo cinque minuti.”
Sebastian poteva benissimo dirgli di farsi i fatti suoi, voltarsi dall’altra parte e cercare qualche matricola che gli facesse un lavoretto di mano in bagno, così da dimenticare tutto il nervosismo accumulato quella mattina. La presa di sul suo polso era salda, ma non opprimente, non avrebbe avuto nessuna difficoltà a liberarsene con un gesto brusco. Ma poi si rese conto che essere trascinato lungo i corridoi, osservarlo camminare di fronte a lui, aveva i suoi vantaggi. E che vantaggi.
Blaine aveva il culo più perfetto della storia.
 
 
“Magari gli è passata e non è più tanto arrabbiato con noi.”
Sebastian guardò Blaine con la coda dell’occhio, stupendosi di quanto sembrasse agitato e confuso; era stata sua l’idea di voler andare dal professore, quindi, che senso aveva?
“Ma guardati”, canzonò, voltandosi di nuovo per trovarsi esattamente di fronte alla porta del suo ufficio. “Sembri uno scolaretto che ha paura di affrontare il preside.”
“Non ho paura”, lo sentì borbottare, ma la sua voce era così piccola e spezzata che Sebastian in tutta risposta scoppiò in una debole risata sarcastica. “E’ solo che... non so come reagirà.”
“Beh scopriamolo subito.”
Blaine stava per bloccargli le mani e impedirgli di bussare alla porta, ma quando un paio di “toc toc” riecheggiarono per tutto il corridoio, i due ragazzi si scambiarono un’occhiata fugace, come rendendosi conto di aver appena oltrepassato una linea molto pericolosa. Ci fu del silenzio, che durò per una manciata di secondi, dentro al quale entrambi sperarono segretamente che perdurasse come a confermare una sua miracolosa assenza; dopotutto Robert aveva una lezione tra pochi minuti, e tante cose da fare, c’erano molte probabilità che fosse già fuori dalla stanza e-
“Avanti.”
Blaine respirò profondamente, aprendo la maniglia e facendo cenno a Sebastian di seguirlo.
Robert Cage era esattamente come la prima volta che lo avevano visto: un uomo di mezza età, ma con gli occhi ancora di un bambino; milioni e miliardi di spartiti sparsi per tutto il suo ufficio messo completamente a soqquadro, con qualche strumento quà e là appoggiato su cassettiere e scrivanie. La finestra dietro di lui non veniva pulita da anni, ma a lui nemmeno importava: se ne stava chino sui libri, il lapis stretto tra le dita e un’espressione concentrata, come se in quel momento stesse suonando la musica che stava leggendo.
Blaine fece un piccolo colpo di tosse, giusto per attirare la sua attenzione; erano quasi assoggettati da quell’immagine di uomo di cultura, che ha dedicato la sua vita alla musica, tanto da rimanerne affascinati: in un certo senso, si chiesero se non fosse proprio quello il suo futuro, circondato da musica, e da studenti a cui dedicare il suo tempo.
“Fuori.”
O forse no.
Blaine e Sebastian si guardarono di scatto, completamente interdetti.
“Ho detto fuori.” Il professore marcò ogni sillaba come se volesse che perforassero le loro orecchie, e Blaine provò perfino a balbettare qualcosa come “ma professore, ma noi”, eccetera eccetera, ma il professore ribadì l’ordine alzando anche il tono di voce, e questo a Sebastian non piacque per niente: Blaine aveva gli occhi spalancati e le mani che gesticolavano tra di loro, come se non sapesse esattamente cosa fare.
“Oh, al diavolo”, mormorò. Afferrò Blaine per un braccio e gli fece fare due passi avanti, per poi richiudere da solo la porta dell’ufficio.
“Hai il cervello al contrario Smythe?” La voce gelida del professore non lo scalfì minimamente, anzi: per rendersi ancora più odioso ai suoi occhi si sedette sulla sedia di fronte a lui sfoggiando un sorrisetto compiaciuto. Blaine era in piedi poco lontano, teneva lo sguardo fisso a terra, ma stringeva i pugni, e teneva la mascella serrata: più che mortificato, si sentiva quasi offeso, o innervosito, dall’atteggiamento del suo professore. Poteva essere arrabbiato con loro e deluso e tutto quello che voleva, ma non meritavano delle parole così fredde.
“Va bene.” Robert posò la matita sul foglio di fronte a sè, gettandola come se fosse stufo di lei, della musica e di tutto il resto del mondo. “Va bene, sedetevi.”
“Io sono già comodo.”
“Infatti non mi riferivo a te.”
Blaine annuì, andando a sedersi accanto a Sebastian; decisamente, aveva perso tutta la voglia di parlargli. Il professore si portò le mani sotto al mento, riguadagnando il suo classico contegno austero e commentando cinico: “Ma guarda un po’ chi si rivede.”
Non prometteva bene.
“Allora avete da dirmi qualcosa? Avrei una lezione io. Sapete, insegnare a chi mi ascolta, e cose così. Questa strana cosa che non vi è entrata bene in mente.”
“Non è così”, protestò Blaine, e in quel momento si pentì immediatamente di averlo fatto perchè l’occhiata omicida ricevuta da Robert valeva più di mille scuse.
“Ah no, Anderson? Bene, dimmi com’è allora. Sono proprio curioso di ascoltarti.”
Raccolse tutte le forze, fece un profondo respiro e socchiuse gli occhi per un secondo, leccandosi le labbra prima di iniziare a spiegare: “Ho sbagliato. Ho agito di testa mia e sono stato troppo orgoglioso per ammettere le mie debolezze di fronte a Sebastian, e di questo m-mi dispiace. Però so bene di aver commesso tanti errori, lo so, e mi sento in colpa per l’esibizione del concorso, e per tutti i problemi che le ho arrecato. Ma non è giusto che lei ci reputi una perdita di tempo: io ho imparato molto, in queste settimane. E ecco, insomma, le sono grato, per avermi dato così tanta fiducia.”
Sebastian sbattè più volte le palpebre incredulo perchè quello che era un monologo di scuse; si chiese se lo avesse preparato a casa prima di venire qui, ma il rossore sulle guance di Blaine parlava da solo, e non aveva bisogno di altre preparazioni. Robert lo fissò per dieci lunghi secondi, prima di scuotere la testa con un sospiro.
"Non c'è bisogno di scusarti. So bene quanto ti senti mortificato. La tua faccia da cucciolo bastonato parla da sola."
Sebastian sfoggiò un ghigno divertito da quella descrizione. Ghigno che sparì subito nel momento in cui ricevette in pieno lo sguardo di Robert.
"Tu, invece. Sono tutt'orecchie. Anzi no, aspetta.” Si sistemò meglio sulla sedia, in posizione recumbente e prendendosi tutto il tempo del mondo per assaporare il momento. “Bene, sono pronto.”
Strinse i pugni, sentendo un brivido di nervosismo lungo tutto il corpo. Doveva farlo per forza? Sul serio? Con lui che stava gongolando in quel modo?
"E va bene. Forse ho un po' esagerato."
"Forse?"
"Ho un po' esagerato."
"Un po'?"
"Ho esagerato va bene!?”
Il sorriso languido di Robert gli fece venire voglia di alzarsi da quella sedia, lasciarsi l’ufficio alle spalle e non farsi rivedere mai più. E per un attimo temette che quel professore gli avesse letto la mente, dal momento che si alzò in piedi e sentenziò letale un "seguitemi”, lasciandoli alla mercè delle loro emozioni contrastanti.
Sebastian e Blaine si guardarono, e quest’ultimo si strinse nelle spalle: chissà, magari li stava portando in un vicolo per fucilarli senza essere interrotto. Ma quando lo vide aprire l’aula prove con la punta del suo bastone, i due ragazzi provarono immediatamente uno stranissimo moto di sollievo; forse, era perchè non sarebbero stati uccisi. Forse, era perchè quella stanza era l’unico posto dove potessero veramente sfogarsi, lasciarsi alle spalle tutto, rinchiudersi nei loro mondi.
"Suonate."
Si guardarono un po' confusi: quell’ordine di Robert sembrò quasi una minaccia.
"...Senza spartito?" Ribattè Sebastian, incrociando le braccia, anche se con la coda dell’occhio osservò quell’invitante violino posato sopra al pianoforte.
"Sì. Suonate quel pezzo."
Non c’era bisogno di ulteriori spiegazioni: parlava del pezzo del concorso.
Titubante, Blaine si posizionò di fronte al pianoforte, e Sebastian cominciò a far scivolare le dita lungo il fresco legno del suo strumento: sarebbe stata una buona idea? Sarebbe stata la riprova che loro due non erano fatti per suonare insieme, e che era meglio concluderla lì?
Dopotutto, il dialogo del giorno prima non significava un bel niente: anche se adesso non si odiavano, come colleghi, non provavano nemmeno quell’affetto naturale dovuto allo stare insieme. Blaine e Sebastian si guardarono, leggendo il dubbio sul volto dell’altro. Robert sorrise, appoggiandosi contro una sedia: erano proprio due scemi. Una settimana prima non si sarebbero rivolti nemmeno un’occhiata, e adesso erano lì a leggersi nella mente.
“Va bene. Cominciate.”
Sebastian fece un lungo respiro, e funzionò da segnale: Blaine partì nel momento in cui vide il suo busto rilassarsi, e la musica cominciò lenta, ma con una punta di incertezza.
Blaine era troppo impegnato a guardarsi le mani tentanto di ricordare tutte le note per riuscire a vedere gli occhi smeraldini di Sebastian che, di tanto in tanto, si posavano su di lui, senza un motivo apparente: agli occhi di Robert, sembrò che volesse controllarlo, come per paura che facesse chissà quale improvvisazione delle sue.
E sicuramente non erano perfetti, ma decisamente era orecchiabile. Non ci furono grosse sbaffature e incrinazioni nella tempistica. Blaine sembrava molto più limitato con la sua interpretazione e allo stesso tempo Sebastian era più fluido.
Non applaudì nessuno una volta finita la loro esecuzione, perchè non c’era proprio nessuno a cui applaudire: non era stata una grande esibizione, e non pretendevano chissà quale complimento. Certo, non si aspettavano nemmeno di vedere il loro professore così scandalizzato, le mani ferme a mezz’aria, bloccate prima di fare chissà quale movimento: un rimprovero? Una lode?
Blaine si sporse con il busto verso di lui, inclinando la testa da un lato: “Professore... si sente bene?”
“Ho bisogno di un momento.”
Restarono zitti. In ansia. Poi, l’uomo mormorò con la voce spezzata: "E'... è incredibile.”
“Cosa?”
“E’ la prima volta che non provo l'istinto irrefrenabile di strangolarvi.”
E mentre Blaine fece una smorfia, per niente divertito, Sebastian emise una piccola risata, portandosi l’archetto sulla spalla: “Non ti ci abituare vecchio.”
Fu come se la tensione fosse sparita tutto d’un tratto, perchè si sentivano così leggeri... non potevano ancora sapere che era stato merito della musica, della loro musica.
“Potremmo... non so , so di chiedere tanto, ma sarebbe così bello se...”
Blaine e Sebastian aprirono bene le orecchie, come in trepidazione di sentire la proposta del loro professore: sul suo viso non c'era più traccia di tutta quella collera, ma solo sincerità e, sì, anche un pizzico di felicità. Nessuno dei tre avrebbe mai ammesso quella cosa, ma starsene lì in quella stanza, con musica, battute e spartiti, era davvero bello.
Che razza di esercizio stava per proporre? Era così difficile? Era così entusiasmante?
“Magari... potremmo provare, anche solo un poco, a fare delle prove decenti? Vi prego?”
 



***

Angolo di Fra
 
Volevo dedicare questo capitolo a Dalila, e a tutte le Klainer a cui ho fatto vacillare la fede grazie a questa storia.
I ain’t even sorry. Ahahah!
Per il resto... grazie. Davvero. Grazie per le recensioni, per i tweet, per i messaggi su facebook, per le BELLISSIME fan-art che mi dedicate. Mi fanno venire voglia di scrivere sempre di più. Un bacione :)
Fra




 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***






Capitolo 9

 
 
 
 
Paganini era sempre stato molto apprezzato da tutti gli studenti; era molto elegante, ma allo stesso tempo possedeva un qualcosa di spensierato che rallegrava sempre tutti. Quello, in particolare, era un brano molto concentrato sul violino, e il pianoforte doveva essere, paradossalmente, silenzioso, ma non era un grande problema per Blaine: adorava Paganini, e poi il volto soddisfatto di Sebastian mentre si sbizzarriva con arpeggi e vibrati gli faceva passare qualsiasi altro pensiero negativo.
“La rifacciamo?” Domandò Blaine, voltandosi verso di lui e ci mancava poco che saltellasse sullo sgabello tanta era l’euforia. Sebastian lo fissò per qualche secondo, per poi scrollare la testa e ridacchiare tra sè e sè.
“No Blaine, non lo sapevi? Smythe non ripete.”
“Uhm”, commentò l’altro, trattenendo a stento un sorriso: “Chissà come mai questa frase mi sembra familiare.”
“E’ solo perchè non ti sei ancora abituato alla mia indiscussa popolarità.”
Non ci fu nemmeno bisogno di guardare le reciproche espressioni: scoppiarono a ridere, mentre sistemavano con calma strumenti e spartiti.
 
 
Era davvero piacevole ritrovarsi nell’aula prove dopo le lezioni e suonare qualcosa insieme. Non lo facevano per il concorso, non lo facevano per il professore, e nemmeno per dare chissà quale spettacolo a chissà quale pubblico: era una cosa per loro due. Per rilassarsi, passare il tempo; forse, un po’, era anche per stare insieme.
In verità il più delle volte una folla di studenti si metteva comoda nella stanza e si divertiva ad ascoltarli, chi ammirato, chi un po’ invidioso, chi desideroso di infilarsi nei pantaloni di uno dei due. Spesso era Sebastian a interrompere lo spettacolino, dicendo qualcosa di divertente e facendo ridere tutti quanti; poi adocchiava un ragazzo particolarmente affascinante, gli faceva l’occhiolino e puntualmente Blaine lo vedeva sciogliersi come un ghiacciolo al sole, con uno sguardo languido che voleva dire “oh Dio sì ti prego fammi tuo”. Tutte le volte si ritrovava a sorridere in un misto tra divertimento e stupore, perchè ancora non riusciva a credere all’effetto di Sebastian sui ragazzi; anche se, almeno un poco, lo trovava comprensibile.
I giorni passavano, e loro sperimentavano sempre più brani, chiacchierando tra una pausa e l’altra; si criticavano, certo, a dire il vero si insultavano proprio. Però stavano bene. Suonavano bene, e nessuno dei due lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma ritrovarsi tutti i pomeriggi in quell’aula prove era diventata un’abitudine a cui non volevano rinunciare.
Per questo a Blaine sembrò molto strano non trovare Sebastian nell’aula prove, quando le lezioni erano ormai finite da una buona mezz’oretta e il conservatorio si era praticamente svuotato: c’erano un po’ di ragazzi sparsi per la stanza, seduti a conversare, oppure trepidanti di sentire la loro nuova esecuzione. Eppure, pensò Blaine con un certo imbarazzo, mancava uno degli artisti principali. Dove diavolo era finito Sebastian?
Si pentì di non aver mai chiesto il suo numero di telefono, perchè avrebbe fatto davvero comodo in un caso simile. Così cominciò a cercarlo per tutta la scuola, entrò nelle aule in cui si erano tenute le lezioni mattutine, andò dal professor Cage, setacciò la saletta del caffè senza ottenere nessun risultato; stava quasi per gettare la spugna, quando un’immagine piuttosto nitida comparve nella sua mente, e improvvisamente con il cuore pesante seppe esattamente dove andare.
 
 
“Oh sì, ti prego.” Mugugnò un ragazzo biondo, ricciolo, che si trovava in ginocchio tra le gambe di Sebastian. Quest’ultimo faceva ondeggiare la sua testa avanti e indietro, mettendo una mano trai suoi capelli, chiudendo gli occhi e beandosi di quel piacere indescrivibile che stava crescendo sempre di più. Dio, come aveva fatto a far passare quasi tre settimane da tutto quello? Si era quasi dimenticato della fantastica sensazione di ricevere un pompino nel bagno del Franz Liszt. Con l’altra mano si aggrappò al ripiano del lavandino, stringendolo così forte da farsi venire le nocche bianche e abbandonando la testa all’indietro perchè, cavolo, quel Michael – o era Mitchell? – ci sapeva proprio fare.
Ed era tutto così caldo, così intenso, così eccitante, che Sebastian non si preoccupò di voltarsi per vedere chi fosse entrato, pensò semplicemente che lui o lei sarebbe scappato dal bagno scandalizzato senza avere il coraggio di dire niente.
Per poco non sentì il suo cuore implodere, non appena avvertì una voce bassa, sensuale, molto conosciuta e, soprattutto, fredda.
“Quando hai finito verresti in sala prove? Dei ragazzi ci stanno aspettando. Ah e comunque, buon divertimento.”
Quando Sebastian voltò lo sguardo verso Blaine, tutto ciò che riuscì a vedere furono le sue spalle tese che si allontanavano velocemente, e la porta del bagno lasciata semi-aperta.
 
 
Quel giorno suonarono in modo talmente distaccato che perfino le note sembrarono fredde. Ricevettero il loro classico applauso, ma nessuno dei due si premurò di ringraziare o fingere di essere lusingato, perchè Blaine non lo aveva degnato di uno sguardo per tutta l’esecuzione, e ricordava molto i primi tempi in cui suonavano insieme.
Era arrabbiato. Poteva leggerlo nel suo broncio mal camuffato, nei suoi occhi infuocati, nelle sue guance che arrossivano a tradimento al ricordo di lui e Mitchell – o era Mike? – in bagno. Era arrabbiato, e questo a Sebastian non piaceva: non aveva nessun diritto di giudicarlo. Non aveva nessun diritto su niente, in realtà.
Lo vide alzarsi in piedi di scatto, raccattare quei pochi spartiti che aveva – Blaine non usava mai lo spartito, era incredibile – e fece per uscire dalla stanza, ma fu bruscamente afferrato per un braccio.
“Dove vai?”
Non voleva guardare Sebastian negli occhi; il solo sentire la sua mano su di sè lo fece rabbrividire dalla rabbia, ed era una rabbia illogica, ingiusta, questo lo sapeva bene. Però non aveva intenzione di stare ad analizzare tutti i suoi pensieri, ma soltanto andarsene a casa da Brittany e mettersi a guardare qualche reality assurdo assieme a lei.
“Ci vediamo Sebastian.”
“Ci vediamo un accidente. Muoviti, andiamo fuori.”
Provò l’impulso irrefrenabile di urlargli contro. Di dargli un pugno alle costole e intimargli di non toccarlo più, di non trascinarlo lungo i corridoi, di non farsi più vedere; ma quella parte di sè incredibilmente curiosa di sentire quello che voleva dirgli ebbe il sopravvento, e così Blaine si ritrovò fuori dal Franz Liszt a braccia conserte, di fronte ad un Sebastian che sembrava furioso almeno quanto lui.
“Dì un po’, nano.” Sbottò parlando a denti stretti, stringendo i pugni dentro alla sua felpa. “Ti sei svegliato con il cazzo storto per caso? Che ti prende?”
“Niente.”
Non gli avrebbe detto che la visione di lui con un altro lo aveva innervosito così tanto: era ridicolo, loro non erano nemmeno dei veri e propri amici. Non gli avrebbe dato quella soddisfazione.
“Ah ecco capisco.”
Aspettò con molta pazienza qualche altro secondo, giusto per vedere se Blaine volesse aggiungere qualcosa. Poi, di fronte al suo silenzio persistente, fece un lungo e sonoro sospiro, voltando lo sguardo lontano dai suoi occhi ambrati.
“Sapevo che eri un sempliciotto ma non ti facevo così puritano. Andiamo Blaine, ti ha dato fastidio vedere uomini nudi che facevano sesso orale in luogo pubblico? E poi dici di essere gay. No sul serio, fatti delle domande. E datti anche  delle risposte magar-“
“Non è quello!” Esclamò Blaine, interrompendolo in preda ad un moto di rabbia e attirando l’attenzione di una ventina di passanti; arrossì violentemente, afferrando con forza il polso di Sebastian e portandolo lontano dalla folla, sotto ad un albero vicino alla scuola. C’era una comodissima panchina a mezzo metro da loro, ma la ignorarono, perchè volevano stare in piedi, fissarsi negli occhi.
“E allora, cos’è?” Sussurrò Sebastian, stando bene attento ad affilare ogni sillaba. “No spiegami Blaine, perchè non ti ho proprio capito.”
“Non mi pare che sia una novità.”
“E’ vero, non ti capisco quasi mai. Forse perchè sei un po’ bipolare.”
“Ah adesso sarei bipolare?”
“Sì, e sei anche frustrato. Altrimenti non ti saresti incazzato tanto per un po’ di sesso in bagno.”
“Non mi sono affatto incazzato.”
Sebastian spalancò gli occhi per la sorpresa, non riusciva a credere alle sue orecchie.
“Ah no?” Il sarcasmo nella sua voce si poteva avvertire da metri di distanza, ma Blaine in risposta si limitò a serrare le labbra in una smorfia, non distogliendo lo sguardo: “No. Mi ha dato fastidio perchè eri in ritardo, tutto qui.”
“In ritardo? Da quando noi due avevamo un appuntamento?”
“Sai bene di cosa parlo”, ribattè Blaine, con una convinzione che non aveva da mesi. Ma non aveva intenzione di perdere in quella discussione, era arrabbiato, Sebastian era un idiota e lui aveva ragione.
“Sì beh, non sapevo di avere gli arresti domiciliari”, commentò l’altro ragazzo. “E non sapevo di avere una moglie al posto di un partner.”
“Credi che fossi geloso?”
Continuarono a guardarsi negli occhi, mentre il vento scompigliava i loro capelli e le macchine sfrecciavano tra clacson e brusii da carburante.
“Sì Blaine. Io credo proprio che tu fossi geloso.”
E il cuore di entrambi accelerò all’improvviso dopo quella frase, ma per fortuna, o sfortuna, nessuno dei due poteva constatarlo.
“Ti sbagli.”
“Mi sbaglio?”
“Certo. Non m’interessa niente di quello che fai. Non stiamo mica insieme.”
“Oh Dio, certo che no.” Sussurrò Sebastian, con un tono sin troppo sollevato perchè sembrasse vero. Ma Blaine era un ragazzo che si stancava facilmente dei litigi, e non ce la faceva più a discutere con Sebastian per ogni singola cosa; le sue spalle si abbassarono come sconfitte, i suoi occhi vagarono lungo tutto il pavimento asfaltato, prima di riuscire a raccogliere le idee su cosa dire.
“Senti, Sebastian. Io mi trovo bene con te. Suoniamo bene. E pensavo che fosse lo stesso per te, visto che da una settimana a questa parte abbiamo suonato tutti i pomeriggi. Quindi mi è sembrato strano non vederti oggi, e mi ha dato fastidio perchè sapevi che ti stavo aspettando, e con quel tizio potevi farci sesso quando ti pareva. Tutto qui. Ora, dimmi se devo aspettarti anche domani pomeriggio, o se devo aspettare i risultati ufficiali del concorso per dire che non suoniamo più insieme.”
Sebastian restò in silenzio per tutto il tempo come se non avesse avuto modo di interrompere il suo discorso. Si passò una mano sui capelli completamente disordinati, il suo volto apparve stanco, e anche un po’ imbarazzato: ci mise un po’ per ammettere che gli stava bene, che voleva continuare a suonare perchè Blaine tra tutti i pianisti era il meno peggio, e sì, magari avrebbe potuto avvertirlo che andava a fare un servizietto a Marshall. O era Mason?
“Si chiama Matthew”, commentò Blaine, non riuscendo a trattenere una risata di fronte all’espressione attonita di Sebastian.
“Ma dici sul serio? Io l’ho chiamato Mitchell per tutto il tempo. O era Michael?”
“Matthew! Si chiama Matthew! Fa solfeggio con noi, ma non te lo ricordi?”
“No. E perchè tu sì? Vuoi che te lo presenti così ti libera un po’ di ormoni?”
Blaine arrossì di colpo e gli diede una spallata, ovviamente con scarsi risultati, ma servì a far ridere anche Sebastian e porre fine a tutta la questione definitivamente. Così, ormai, visto che erano fuori dal Franz Liszt e visto che non faceva particolarmente freddo, passarono un’oretta seduti su quella panchina accanto a loro. All’inizio tentarono di limitarsi ad argomenti puramente formali, quali la scuola, gli esami, i brani che volevano suonare o Robert; poi in qualche modo, non capirono bene come, uno iniziò a parlare di Lord Tumbington e dei suoi tentati omicidi, e l’altro raccontava aneddoti assurdi di ragazzi che miagolavano e facevano versi strani, e inevitabilmente scoppiavano tutti e due a ridere fino alle lacrime.
Prima di salutarsi, quel giorno, si scambiarono i numeri di telefono.
 
 
Robert entrò nell’aula canto senza nemmeno fare troppa attenzione ai due ragazzi che stavano parlando, o meglio, litigando, come al solito per una cosa riguardante la musica; però sembravano più rilassati rispetto a quando litigavano le prime volte, più divertiti, cercavano il confronto l’uno nell’altro e invece di un paio di smorfie seccate, spesso comparivano dei piccoli sorrisetti.
“Stai scherzando spero.”
“Ma assolutamente no.”
“Ma come diavolo fai a-“
“Buongiorno ragazzi.”
Un “Salve” e un “’giorno vecchio” si affiancarono all’unisono, provocando nell’uomo un attimo di esitazione: era sempre disarmante vedere i diversi tipi di atteggiamenti nei suoi confronti.
“No ma prego, fate come se non ci fossi.” Borbottò sperando di porre fine alla questione ma, con suo grande rammarico, i due ragazzi evidentemente lo presero in parola, ricominciando a battibeccarsi come due studenti del liceo, e continuando a portare avanti quella discussione che, lo sapeva bene, non avrebbe mai avuto fine.
“Te lo assicuro Sebastian, prima o poi riuscirò a farti suonare Chopin, fosse l’ultima cosa che faccio.”
Il diretto interessato guardò Blaine in modo scettico, inarcando un sopracciglio e scrollando appena le spalle: “Continua a sognare. Conosco metodi più veloci per addormentarmi.”
“Ma come fai a dire una cosa simile!? Voglio dire, te ne intendi di musica quanto e forse anche più di me. Non ci credo che lo pensi veramente.”
Robert ammirò con un certo divertimento quell’espressione sconcertata di Sebastian, come se non si aspettasse minimamente un complimento simile; ma Blaine si stava aprendo molto con lui, e stava mettendo da parte quella loro ridicola ostilità e competizione in favore di una piacevole collaborazione; non era affatto un problema, per lui, dedicargli un complimento o una frase priva di offese.
“Beh, i gusti son gusti”, cercò di discolparsi l’altro, ma aveva sottovalutato di nuovo la testardaggine di Blaine, dal momento che continuava a fissarlo come sfidandolo con lo sguardo: i suoi occhi nocciola erano particolarmente vivaci, quel pomeriggio, una vera gioia per la vista. Evidentamente, a giudicare dal modo con cui lo guardava, lo stava pensando anche Sebastian.
“Blaine, arrenditi. Non mi piace il romanticismo, in nessun modo esistente.”
“E’ solo perchè non hai ancora avuto modo di apprezzarlo.”
“No. E’ perchè mi sembra una cosa inutile, falsa e ipocrita, una cosa da cartolina e film francesi degli anni quaranta.”
“Ma non è vero!” Protestò Blaine. Quella sua insistenza a lungo andare stava cominciando a stancare Robert, ma Sebastian, invece, sembrava che lo stesse ascoltando un certo interesse, anche se la sua attenzione superficiale era tutta rivolta verso un quadro affisso alla parete.
“L’amore esiste, Sebastian. Lo so che tu pensi che conti solo il sesso, ma prima o poi troverai qualcuno che ti sembrerà bello dentro, e non solo fuori.”
“Oh ma io trovo molte persone belle dentro. O meglio, è molto bello essere dentro di loro.”
Robert fece una smorfia facendo finta di non aver sentito, ma Blaine era inerme, come incredulo di fronte a quelle parole perchè per lui non era assolutamente concepibile un mondo senza sentimenti, amore, qualcosa di più intimo e dolce del semplice atto sessuale. Stava quasi per arrendersi all’idea che Sebastian fosse un automa senza cuore, quando tutto ad un tratto si ricordò di una cosa: “Hai detto che ti piace Liszt, non è vero?”
Non riuscendo bene a seguire il filo del suo discorso, il ragazzo si voltò, e annuì.
“Beh, lui ha fatto delle cose piuttosto romantiche sai.”
“Non c’entra”, ribattè convinto, “Anche quando è romantico riesce sempre a avere un aspetto dignitoso. Non compone canzonette sdolcinate e strappalacrime, nella sua musica c’è sempre passione, e verità."
Robert alzò lo sguardo verso di lui, molto colpito da quella frase detta in modo così disinvolto: era un’ottima analisi. Più che ottima, in realtà, e per un attimo si chiese se Sebastian se ne fosse accorto, ma a quanto pareva era troppo impegnato ad affrontare Blaine, che trasalì come illuminatosi e si girò verso la tastiera dicendo: “Oh aspetta ho capito. Forse parli di...?”
Una musica molto dolce e familiare cominciò a riempire l’aria di quella stanza, rendendola triste, forte, magica, speciale. Sebastian trattenne il respiro nel sentire quelle note, perchè le conosceva bene, troppo bene, e non riusciva a credere che Blaine stesse davvero suonando quel pezzo, non con quella fermezza, con quella passione. Come diavolo faceva a conoscere a memoria tutti i brani del mondo? Non era normale, era ingiusto, era meschino e oh, Blaine in quel momento era così bello: teneva gli occhi socchiusi, sorrideva, le sue spalle completamente rilassate accompagnavano le mani. Semplicemente, sognava.
Sebastian voleva sapere; voleva sapere quale fosse il volto che si stava immaginando in quel momento, o se avesse un desiderio, un’ambizione. Voleva sapere come faceva esattamente a sognare l’amore; era un po’ come aspettare Babbo Natale? Era un po’ come credere in Dio, un’entità che non si sarebbe mai manifestata?
Ad ogni modo non avrebbe mai avuto quelle risposte, e quindi, semplicemente, si limitò ad ascoltare. Liszt era indubbiamente sensazionale ed un compositore incredibile, ma Blaine, lui lo animava: regalava al brano qualcosa di particolare. Non importava che accelerasse qualche scala, o allungasse qualche pausa: il brano prese vita così com’era, senza nessun altro tipo di pretese.
Robert si godette tutto quello da spettatore e, a dire il vero, era un po’ indeciso: non sapeva se ammirare Blaine, che era sempre fantastico con la sua musica, o Sebastian, che sembrava completamente incantato; quell’ultima cosa non era poi così comune, quindi non voleva perdersela.
“Allora?”
Blaine fece cambiare bruscamente tutta l’atmosfera incrociando le braccia al petto e rivolgendo un’occhiata al suo partner, che era già tornato alla sua classica espressione un po’ cinica, un po’ arrogante, un po’ indecifrabile come sempre.
“Allora niente. E’ come dico io.”
Sbuffò sonoramente per quelle parole, non avendo più nessun altro termine per controbattere e limitandosi ad accarezzare i tasti del pianoforte come sconfitto. Robert li guardò, trattenendo a stento un sorriso: “Me li ricordate un po’, sapete. Liszt e Chopin.”
“Amici suoi?” Domandò Sebastian. Il professore ridacchiò, ma alla fine sentendosi anche un po’ orgoglioso gli rispose: “Beh, ho passato più anni in loro compagnia che con mia moglie.”
Fu contento di aver fatto sorridere Sebastian: un po’ si capivano, quei due. Blaine invece era ancora arrabbiato per la discussione di prima e approfittò l’occasione per commentare: “Però ha ragione. infatti Liszt e Chopin erano agli antipodi.”
Robert lo guardò attraverso i suoi occhiali sottili, i suoi occhi: “...Ne sei proprio sicuro?”
Lasciare di stucco quei due ragazzi era sempre un gran divertimento per lui.
“Sedetevi.”
“Oh no, ecco che comincia con una lezione di storia della musica.”
“Più precisamente, Smythe, è psicologia della musica. Che cosa sapete di Liszt e Chopin?”
Sebastian e Blaine si guardarono abbattuti, si misero a sedere su un paio di sedie di fronte a quella del professore e raccolsero velocemente le idee, per cercare di rispondere in modo da farla finita subito.
“Sono quasi coetanei”, esordì Blaine, “Chopin è nato nel 1810 in Polonia e Liszt l'anno dopo in Ungheria.”
“Informazione utile, Anderson, se ti serve per riempire una definizione ne la settimana enigmistica.”
Sebastian sfoggiò un sorrisetto irritante, ricevendo in pieno una gomitata dall’altro ragazzo. Il professore si sistemò meglio sulla sedia, portando di fronte a sè il suo caro bastone: lo accarezzò con cura, mentre continuava a parlare con il suo tipico tono profondo e rilassato che usava durante le lezioni.
“Per certi aspetti erano molto diversi: Chopin era riservato, Liszt estroverso. Erano molto diversi anche in amore: Chopin ha avuto un solo amore in tutta la sua vita, ed è stata George Sand. Era pazzo di lei. Liszt invece, diciamo, non si faceva troppi problemi tra ragazze di paese o principesse. Era un po' come Sebastian, ecco.”
Non era un gran bel complimento. Chissà come mai, Sebastian lo prese come tale: borbottò compiaciuto qualcosa come "era un grande" e Blaine lo guardò veramente male.
Robert era incantato dalle loro espressioni. Quei ragazzi sembravano tipo un duo comico di qualche talk-show dei suoi tempi; sospirò intrecciando le mani al bastone, e continuò dicendo: "Tuttavia.. nella loro diversità, c'era qualcosa che li univa. Tutti e due volevano esprimere qualcosa che avevano dentro, qualcosa di oscuro, che non avevano mai avuto il coraggio di dire a nessuno altro."
E, all’improvviso, i volti dei due ragazzi divennero più seri. Il sorriso di Sebastian svanì, la smorfia di Blaine si fece più rigida; sembrava che si fossero appena ricordati di qualcosa. Ovviamente erano ricordi diversi, unici, irripetibili. Ma erano entrambi piuttosto tristi: non c’era niente, nelle loro espressioni, che facesse intendere il contrario.
Forse perchè avevano entrambi un’ombra oscura che li avvolgeva; forse perchè avevano appena iniziato a metabolizzare le parole del professore, sentendo i loro cuori battere freneticamente.
E di tutto questo, Robert, non se ne accorse; fissò il pavimento sotto ai loro piedi, oppure, fece finta di niente.
"Per questo Liszt ammirava molto Chopin. Per questo Liszt era l'unico in grado di suonare i brani di Chopin, come diceva lui stesso. Si capivano. Forse erano gli unici in grado di farlo.”
Per tutto il resto del tempo, ci fu soltanto silenzio.







***

Angolo di Fra


Non abituatevi troppo a questi aggiornamenti lampo, eh. Comunque stranamente questo capitolo non mi dispiace. Mah. Sarà il caldo che mi dà alla testa.
Ah e se c'è qualche Klainer qui dentro: vi consiglio di controllare la mia pagina o il mio profilo EFP domani ;)
Grazie ancora a tutti!

Fra

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***






Capitolo 10






 
 
Santana aprì la porta di casa senza nemmeno chiedere chi fosse: avrebbe riconosciuto quella massa di riccioli scuri dovunque, visto che la vedeva da una settimana a quella parte praticamente tutti i giorni.
“Ciao San”, Blaine sfoggiò un piccolo sorriso, di quelli dolci e ingenui che le facevano venire voglia di picchiarlo. Borbottò un “ohi”, prima di andare a sedersi sul divano e finire la sua manicure. Blaine entrò con cautela, togliendosi la sciarpa pesante e il giubbotto di pelle, e con lo sguardo andò subito a cercare Sebastian: gli aveva detto di presentarsi alle sei, e quella volta si era impegnato per essere puntuale. Anche se, dopo sei giorni di ritardi, forse non aveva molta importanza. Santana all’inizio era sembrata molto arrabbiata dalla sua presenza, ma con il passare del tempo non riuscì a odiare Blaine quanto avesse desiderato: era per via del suo faccino dolce, o dei suoi occhioni dorati, o dei suoi capelli che ondeggiavano a suon di musica. Così, invece di rispedirlo a calci fuori dalla porta, aveva cominciato a prenderlo in giro, un modo carino per dire “mi stai simpatico ma non lo ammetterò mai a nessun essere vivente”.
Avevano cominciato a vedersi a casa dopo che il preside del Franz Liszt li aveva rimproverati per aver abusato dell’aula prove; in effetti, si erano un po’ dimenticati che quella fosse una stanza pubblica, e che ci fossero altri studenti e professori desiderosi di suonare. Così, ponendo fine a quello spettacolino durato una settimana, si erano trasferiti in sede privata, e si incontravano da sei giorni ormai, passando insieme ore intere. Una piccola parte di sè metabolizzò solo in quel momento che fossero passate già due settimane dalla prima fase del concorso. Possibile che i risultati non fossero ancora usciti? Eppure, vedevano Robert tutti i giorni, e ogni volta non faceva cenno del concorso. Forse erano stati tagliati fuori, e lui non aveva il coraggio di dirglielo.
“Sebastian non c’è.”
Blaine inclinò la testa di lato, come confuso.
“Ma mi aveva detto che-“
“Ha detto che torna subito”, lo interruppe Santana, con poca voglia di spiegarsi e ancora meno di ascoltarlo. “Quindi fai come ti pare, vatti a prendere un caffè o strimpella le tue solite canzonette sdolcinate.”
Sorrise, perchè nonostante le parole scortesi aveva capito da tempo che a Santana non dispiacessero le sue canzonette sdolcinate, anzi, le ascoltava sempre con un certo interesse. Ormai era diventata una sorta di gioco, quello di scegliere sempre brani che attirassero la sua attenzione e suonarli con la massima cura possibile; quella volta scelse Arabesque di Debussy.
In realtà, la passione per quel compositore nacque per merito di Brittany: i suoi esercizi avevano quasi sempre come sfondo qualche sua musica, così Blaine si ritrovò più volte ad ammirarlo. Riusciva a capire perchè scegliesse Debussy per ballare: le note avevano un qualcosa di leggiadro e armonioso insieme che rasentava la perfezione. Quando Brittany alzava le braccia al cielo, per poi scendere e stendere la gamba, era come se fosse la musica a ordinarglielo, e non il contrario: non usava quasi mai coreografie dei suoi insegnanti, e per questo era amata e odiata. Blaine pensava sempre che avrebbe potuto osservarla per ore, e che un giorno, durante uno dei suoi spettacoli più famosi, sarebbe stato lui ad accompagnarla con il pianoforte: ci sarebbe riuscito.
“Che cos’è?”
La voce di Santana lo riportò con i piedi per terra, proprio nel momento in cui stava per terminare le ultime note.
“Debussy”, spiegò lui, con una voce ovattata, ancora immerso nei suoi pensieri, “Che dici ti piace?”
La ragazza si strinse nelle spalle e con un gesto brusco si alzò in piedi, dandogli le spalle: “Ah non chiedere a me, lo sai che non ci capisco niente di queste cose.”
E vedendola in quel modo, con quella schiena tesa, con quel tono di voce incerto, di chi fosse rimasto emozionato ma allo stesso tempo intimorito, Blaine si sentì ancora più felice e lusingato di aver provocato quelle sensazioni. Accarezzò quel bellissimo pianoforte di Sebastian, ringraziandolo mentalmente per l’ottimo lavoro.
“Ma la musica non va capita”, sussurrò, ed era quasi sicuro di avere gli occhi limpidi, “Va solo ascoltata.”
Sperò che Santana potesse capirlo, invece di prenderlo in giro come al solito e buttare la conversazione su un altro livello.
"Sì ok prendimi pure in giro perchè sono un idiota e dico frasi da bambini."
Ci fu una piccola pausa, ma poi Santana si voltò di nuovo verso di lui, commentando cinica: "Infatti è così."
Blaine sospirò, ma non disse niente mentre le passava accanto per poi andare a chiudersi in camera. Voleva chiederle se volesse sentire qualcos’altro, o magari, di nuovo quel brano, quando la porta si aprì di scatto con un gesto secco del chiavistello.
Sebastian entrò in casa, passandosi una mano sul volto e appoggiando le chiavi su un mobile lì vicino. Blaine si voltò di scatto verso il pianoforte e gli rivolse un piccolo “ciao”, che fu ricambiato con un mormorìo sconnesso e assente; fu quello il segnale che lo fece incuriosire, portando tutta la sua attenzione sul violinista.
“...Dove sei stato?” Domandò, un po’ scettico dal momento che la camicia sgualcita, i capelli arruffati, l’andatura fiera e, soprattutto, quel sorrisetto soddisfatto, parlavano da soli.
"Scusa, sveltina con uno."
Annuì, e non disse niente. Era ormai da una settimana che Sebastian andava e veniva dall’aula canto, ogni volta con un ragazzo diverso.
“Non mi voleva lasciar andare.” La sua voce ferma e un po’ roca lo portò di nuovo alla realtà: “Dovevi vederlo Blaine, sembrava una specie di sanguisuga.”
Non ci fu bisogno di specificare perchè lo avesse definito proprio sanguisuga: immaginava benissimo il tipo di rapporto che avevano avuto in quel bagno. Ma dopo quella discussione avuta fuori dal Franz Liszt se n’era fatto una ragione. Si lasciò sfuggire un piccolo sorriso dovuto all’abitudine di sentirlo parlare in quel modo, e ne approfittò per chiedere: “E’ stato bello almeno?”
Sebastian lo guardò torvo: "Per favore. Con me è miracoloso."
"Sì, va bene..."
Lo vide prendere una sedia e posizionarla accanto al pianoforte, sistemandosi con calma, squadrando lui e il suo strumento con i suoi occhi verdi che, in quel momento, avevano un bagliore insolito, come divertito. Si ricordò soltanto un momento più tardi che Santana era sparita dalla circolazione e non aveva nemmeno salutato il suo coinqulino: lo fece notare a Sebastian, ma lui in risposta si strinse nelle spalle dicendo che non dovevano per forza salutarsi ogni volta.
“In teoria sì, sai. Si chiama educazione.”
“Io e Santana abbiamo superato questi inutili formalismi.”
Spalancò gli occhi, incredulo, e la sua espressione fece sogghignare Sebastian che si appoggiò meglio sulla sedia roteando gli occhi al cielo. Restarono così, in uno di quei silenzi confortanti, privi di imbarazzo: era come se si fossero abituati perfettamente l’uno alla presenza dell’altro, e anche il solo fatto di trovarsi nella stessa stanza li rilassava.
“Come vi siete conosciuti?”
Sebastian non si aspettava quella domanda, così, non riuscì a trattenere uno sguardo stupito, così raro, in lui.
“Siete amici d’infanzia?” Continuò Blaine, ignorando il suo evidente imbarazzo; sapeva bene che Sebastian non parlava mai di sè. Sapeva bene che stava rischiando di essere buttato fuori di casa, o peggio, di rovinare quel sottilissimo equilibrio che si era creato trai due da un po’ di tempo a quella parte. Però voleva sapere: voleva conoscerlo, in un modo più intimo del normale, e voleva che lui gli dicesse qualsiasi cosa gli passasse per la mente senza bisogno di pensarci.
Sebastian esitò, era palese: incurvò la schiena, abbassò lo sguardo verso le sue mani intrecciate, e i suoi occhi verdi si fecero per un momento più intensi, come se stessero lottando internamente contro qualcosa di molto forte. Blaine on pensava che fosse una domanda così privata; non voleva metterlo a disagio, così gli appoggiò una mano sulla spalla in un gesto amichevole e disse: “Non devi dirmelo per forza. Non volevo-“
Ma quando i loro occhi si incatenarono, e Sebastian si trovò di fronte al suo piccolo sorriso, il mondo per un attimo perse di atmosfera, e loro due restarono a fissarsi per una manciata di secondi; secondi nei quali il cuore di Blaine battè frenetico e il suo stomaco si contorse in una fitta dolorosa quanto piacevole. Secondi nei quali pensò a quanto fosse bello Sebastian in quel momento, con quell’espressione assorta, indecifabile, indugiò particolarmente sulle sue labbra, chiedendosi se fossero così morbide come sembravano.
Ma durò troppo poco: fu costretto a ritrarre la mano, per istinto, paura, o chissà cos’altro, e il mondo tornò alla normalità.
Forse doveva andarsene; forse stava impazzendo; forse avrebbe dovuto chiedergli scusa e-
“Santana lavorava in un pub, non quello in cui lavora adesso.”
Non riuscì a guardare in faccia Sebastian, ma la sua voce ferma, rilassata e rassicurante furono tutto ciò di cui aveva bisogno; continuò a fissare la targa del pianoforte, prestando attenzione ad ogni suo respiro.
“Io ci andavo spesso e... beh, si può dire che eravamo amici. Ogni tanto la coprivo nei turni quando voleva andare con una donna, e lei mi offriva da bere quando avevo avuto una sveltina particolarmente brutta. Stava con una ragazza, credo. Lei non me lo ha mai spiegato e io non ho voluto chiedere. Comunque, un giorno arriva al bar in ritardo, ed era davvero uno straccio. Da quanto ho capito la ragazza l’aveva cacciata fuori di casa e aveva bisogno di un posto dove dormire. Io avevo una casa grande e libera, quindi, eccoci qui.”
Blaine ascoltò tutto il racconto con molta attenzione. Riusciva a immaginarsi la scena come se l’avesse vissuta lui: Santana che sbatteva contro qualche sgabello e poi lo calciava via, Sebastian che la fissava in silenzio. Poi, lui che le diceva di venire nel suo appartamento e lei che cedeva dopo essersi riempiti di insulti per qualche minuto; aveva pianto? Non era una domanda carina da fare, ma per un momento credette di sì. Ed era strano, perchè Santana non sembrava proprio una di quelle ragazze che piangono, che soffrono e che vengono ferite dalla prima che capitava; ma c’era qualcosa di sensibile, in lei. Lo aveva percepito grazie alla musica. Così come lo aveva percepito in Sebastian, più di una volta.
Si chiese per quanto tempo fosse rimasto zitto, senza aver detto niente o commentato il racconto di Sebastian; sicuramente era passato per un idiota, o per un insensibile, visto che era stato lui a chiederglielo. Ma poi, quando si voltò verso il ragazzo, forse, per chiedergli scusa, i suoi occhi verdi brillavano di una luce particolare, come affascinati, riconoscenti: era felice che non avesse proferito parola, forse, perchè qualsiasi frase fatta avrebbe rovinato tutto.
“...Non vuoi suonare?” Blaine fu costretto a sviare di nuovo lo sguardo, sentendosi le guance avvampare: non era abituato a essere fissato, non in quel modo, non da lui.
“Non mi va.”
Era quasi certo che la sua mascella fosse scesa di due piani, ma prima che potesse chiedere spiegazioni Sebastian si appoggiò di nuovo alla sedia e disse: “Una volta ho scambiato un violino per un ukulele.”
Blaine per poco fu costretto a darsi un pizzicotto sul braccio, perchè la frase che aveva appena sentito non aveva senso, soprattutto dal momento che l’aveva pronunciata a bassa voce e con un piccolo sorriso; non si era nemmeno accorto che le sue mani fossero scivolate via dal pianoforte.
“Ero alla festa di chiusura dell’anno scolastico e c’era tipo una serata hawaiana al pub di Santana. Io mi sono presentato con una camicia a fiori e un margarita. Poi la serata è andata avanti, e insomma, ero talmente ubriaco che ho visto questa specie di violino e ho cominciato a suonarlo usando una cannuccia come archetto.”
Scoppiarono a ridere. Così, senza nessun preavviso; come se lo facessero da una vita.
"Dev'essere sempre tutto incentrato su di te vero?"
Una volta appurato che Sebastian non era rimasto sorpreso da quella domanda ma, piuttosto, incuriosito, Blaine fece un piccolo sospiro prima di continuare: "Non so, mi sembri il classico tipo che ha sempre l'aneddoto pronto e vuole essere al centro della scena, che non ascolta mai gli altri."
"Non è colpa mia se la mia vita è interessante e quella degli altri estremamente noiosa."
“Certo.” Roteò gli occhi al cielo, cercando in tutti i modi di fermare quel sorriso che stava spuntando sulle sue labbra.
Parlarono ancora e ancora, Sebastian gli raccontò altre imprese assurde ma che facevano ridere Blaine, e Blaine ascoltò con attenzione, facendo qualche domanda di tanto in tanto e ottenendo risposte ancora più esilaranti. Adorava il suo senso dell’umorismo; il chè era abbastanza sconcertante, visto che all’inizio aveva creduto che non ne avesse per niente.
Quella fu la prima sera in cui non suonarono; la prima sera in cui si parlarono apertamente, in cui Sebastian raccontò qualche altro dettaglio di Santana, e Blaine gli parlò di Brittany. Semplicemente, si lasciarono trasportare dalla loro familiarità, fino a quando un rumore freddo, metallico, fatale, catturò completamente ogni fibra della loro spensieratezza.
“E’ il tuo”, commentò Sebastian, e Blaine si tastò immediatamente la tasca anteriore dei jeans per estrarre in modo affrettato e piuttosto goffo il suo vecchio cellulare. Balbettò un “pronto?” senza nemmeno aver avuto il tempo di guardare chi fosse, con il violinista di fronte a sè che ridacchiava divertito.
“Mamma, sì, dimmi.”
Sebastian, a quelle parole, drizzò la schiena come un leone che si desta per affrontare la sua preda. Blaine gli rivolse un’occhiata scettica, perplessa, ma capì troppo tardi le sue vere intenzioni: vide il ragazzo avvicinarsi a lui e lambirgli il collo con le labbra, il suo respiro caldo che accarezzava la pelle d’oca, la sua voce bassa e sensuale mentre bisbigliava: “Oh sì Blaine, sì, ti prego, ancora, ancora.”
Stronzo. Era proprio uno stronzo e un bambino e un demente e-
“No mamma, non mi hai disturbato, no! Mamma, non sono io, è un mio amico che-“
“Oh sì Blaine, sì!”
“Mamma, no”, sentenziò, scandendo ogni singola lettera mentre le sue guance erano diventate praticamente viola.
“Wow Blaine, quanto ce l’hai grosso! fammelo prendere tutto in bocca ti-“
Blaine tappò la bocca di Sebastian con una mano e nello stesso momento riattaccò al telefono, con il cuore che rischiava seriamente di staccarsi dal petto e prendere il volo.
“Quanto sei idiota!?” Esclamò, ma Sebastian era già scoppiato a ridere così tanto da doversi tenere la pancia con entrambe le mani.
“Dovevi vederti B, eri troppo divertente, la tua faccia poi...!”
Ah ah ah, sì, davvero, molto simpatico. Non avrò più il coraggio di parlare con mia madre lo sai?”
Quella domanda sortì un’altra valanga di risate.
“Divertente. Davvero, divertente.”
Eppure, nonostante lo scherzo davvero cretino, nonostante stesse letteralmente ridendogli in faccia, nonostante i suoi continui sussurri che riepilogavano la telefonata, Blaine si ritrovò a sorridere. Perchè il suono della risata di Sebastian era qualcosa di unico.
In mezzo a tutto quel trambusto, a malapena si accorsero del suono di un altro cellulare, quello di Sebastian, che squillò ininterrottamente come pretendendo di essere considerato. Blaine in quel momento ringraziò il destino o qualsiasi Dio che gli concesse quella rivincita: sfoggiando un ghigno più divertito che malizioso, si avvicinò a Sebastian gattonando lungo lo sgabello del pianoforte, ma l’altro, visibilmente sbiancato, fece per allontanarlo trattenendo a stento un ghigno.
“Blaine andiamo, non fare il bambino ora, i grandi devono parlare.”
“Col cavolo. Rispondi a quella telefonata.”
“Non sai nemmeno chi è.”
“Non importa.”
Il cellulare continuava a squillare, loro continuavano a fissarsi, Sebastian sembrava seriamente indeciso se lasciarlo stare o tappargli la bocca in qualche modo quando, all’improvviso,  i suoi occhi ricaddero sul display, leggendo un numero sconosciuto.
“Chi è?” Chiese allora Blaine, tornando serio e incuriosito, una volta notata la sua espressione.
Non sapendo se potevano continuare quel gioco, restarono entrambi in una posizione piuttosto scomoda e innaturale: Blaine era a gattoni sullo sgabello, rischiando di perdere l’equilibrio, e Sebastian era sulla sedia accanto a lui, un po’ seduto, un po’ in piedi, con una mano sul braccio dell’altro ragazzo e a metà di un’azione. Si rivolsero una lunga occhiata, prima che il violinista premette il tasto verde e si portò il telefono all’orecchio.
“Pronto?”
Blaine lo fissò per lungo tempo, e qualcosa dentro di sè stava morendo per la curiosità. Magari non era nemmeno affar suo, magari doveva perfino andarsene per lasciargli un po’ di privacy; ma poi, ad un tratto, sentì la mano di Sebastian ancora ancorata al suo braccio farsi più rigida. La presa si fece più salda e forte, fino a quasi fargli male.
“Sì. Sì, è con me.”
Non riusciva a capire con chi stava parlando. Era qualcuno che conoscevano? E perchè aveva chiesto di tutti e due?
Ma il suo cervello completò ogni sua domanda attraverso l’immagine di una singola persona: Robert.
“Sì, va bene. Ne parliamo meglio domani. Buonanotte.”
Quando Sebastian ebbe riattaccato, restò a fissare il telefono per lungo tempo, con uno sguardo assorto, le labbra serrate in una smorfia indecifrabile.
Riguardava il concorso. Doveva per forza riguardare il concorso, glie lo poteva leggere nei suoi occhi fermi su un punto inesistente. Sentì ogni muscolo del suo corpo irrigidirsi ancora di più perchè, cavolo, voleva sapere, doveva sapere però, allo stesso tempo, aveva paura: e se non fossero passati? Avrebbero potuto continuare a fingere di suonare con la scusa del concorso? E se fossero passati? Avrebbero dovuto suonare, però, impegnandosi seriamente? E ci sarebbero riusciti?
E in quel momento detestò Sebastian, perchè continuava a non dire nulla, continuava a non avere espressioni se non quella smorfia impossibile, che voleva dire tutto o niente: forse erano passati, e lui se lo era aspettato. Forse non erano passati, e lui stava valutando tutte le complicate e difficili implicazioni.
Ma poi, disse l’unica cosa che non si sarebbe mai immaginato di sentire.
"Siamo stati ripescati."







***


Angolo di Fra


Dite la verità: non vi aspettavate PER NIENTE questo aggiornamento, vero? Beh nemmeno io! Ahahahah! Ero lì dopo pranzo che dicevo "Vabè dai iniziamo a scrivere il capitolo 10" e in un'ora l'ho finito.
Forse non vi eravate nemmeno aspettati i risultati del concorso. Molti di voi hanno giustamente detto: ma ancora non sono usciti?? E quindi adesso si spiega tutto: erano usciti, ma Robert non gliel'aveva detto.
Molti di voi erano anche convinti che sarebbero passati... beh questo no. Non potevano passare dopo quel duetto. Però grazie al cielo esistono i ripescaggi!

Comunque mentre scrivevo mi è squillato veramente il telefono. Ho fissato la cornetta ed ero del tipo: "ROBERT!? O.o" ahahah!
Vabè, vado. Un bacione e grazie ancora per tutto l'affetto che mi date!

Fra

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***




Capitolo 11







Blaine fissò Sebastian per così tanto tempo che alla fine fu costretto a sviare lo sguardo, sentendosi un po’ in imbarazzo per il suo comportamento: non poteva certo continuare a guardarlo e stare zitto. Sebastian gli aveva riferito, sebbene con una sola frase, il fulcro della sua conversazione con Robert, e quindi doveva pur dire qualcosa.
“...Ah.” Commentò, con voce aspra e secca. “Ho capito.”
Ho capito!? Strillò una vocina dentro la sua testa, intenta a prenderlo a pugni. Tutto quello che ti viene da dire è “Ho capito”!?
A quanto pareva, però, Sebastian colse esattamente il suo stato d’animo grazie a quelle parole, visto che annuì impercettibilmente e si alzò in cerca di un bicchiere d’acqua. Blaine lo seguì con lo sguardo per tutto il tempo, osservò le sue spalle rigide, la sua mascella contratta in una smorfia, e capì che anche lui non sapeva bene come reagire: dovevano essere felici, forse, perchè erano ancora in gara e il loro sogno non era finito: eppure, se Robert aveva detto ripescati, allora voleva dire che in precedenza erano stati scartati.
E sapevano bene che la causa era stata il loro duetto, così come sapevano che l’unico fattore che li aveva fatti andare avanti erano stati i loro pezzi in singolo.
Improvvisamente Blaine fu pervaso da tutti quei pensieri che si era sforzato assolutamente di non fare, ma che adesso non riusciva più a ignorare: fino ad allora lui e Sebastian avevano suonato in modo decente, ma perchè non avevano avuto complicazioni da fattori esterni. E se adesso fosse di nuovo cambiato tutto? E se adesso non fossero più riusciti a coordinarsi, e avessero fatto un’altra figuraccia? Con che faccia si sarebbero presentati a Robert? Con che faccia si sarebbero presentati a loro stessi?
“Blaine.”
Nemmeno si accorse che Sebastian si era seduto sullo sgabello a pochi centimetri da lui, porgendogli un bicchiere di vino. Si voltò verso di lui, perchè in quel momento aveva bisogno di quel Sebastian, quello che faceva sempre battute ciniche, che era sicuro di sè e che all’inizio aveva odiato, forse, più per invidia che per altro. I suoi occhi verdi erano così caldi, in quel momento, che quasi si sentì sciogliere qualcosa dentro.
“Bevi.”
Afferrò il bicchiere che gli stava porgendo, prendendone un lungo sorso; il vino era molto forte e pungente, e lui fu costretto a strizzare gli occhi a causa del denso odore dell’alcool. Si preparava già a qualche frecciatina antipatica da parte di Sebastian, ma invece, quando riaprì gli occhi il ragazzo di fronte a sè stava quasi... sorridendo. Lo vide tenere in mano un altro bicchiere, forse voleva fare un brindisi?
“Oh.” E lui aveva cominciato a bere senza nemmeno pensarci. “No-non avevo capito che... sono un idiota, va bene. Volevi brindare al nostro ripescaggio vero?”
“In realtà volevo dirti che sembri un bambino che assaggia per la prima volta dell’alcool. Ma anche brindare mi sta bene.”
Blaine arrossì solo un altro po’ di più, rischiando di camuffarsi con il rosso scuro dentro al suo bicchiere: avvicinò il braccio a lui, senza troppi fronzoli, ma proprio quando stava per far scontrare i bicchieri Sebastian prese il suo mento tra le dita, costringendolo ad alzare la testa verso di lui.
“Ci si guarda sempre negli occhi quando si fanno i brindisi.”
Ma Blaine era quasi certo che guardare gli occhi verdi di Sebastian gli avrebbe provocato una sorta di colpo al cuore. Quando il bicchiere fu svuotato, decisero di parlare del concorso con il professor Cage, così da organizzare un piano per agire.
Blaine quella notte andò a letto con troppi pensieri nella mente, ma si addormentò cullato da solo uno di quelli.
 
Il mattino dopo arrivò veloce e, con grande sollievo di Blaine, senza troppi sogni strani impressi nella memoria. Il cielo era leggermente coperto da delle nuvole scure e il freddo autunnale stava lentamente lasciando spazio al gelo dell’inverno. Era già arrivato davanti al Franz Liszt, quando incrociò Sebastian scendere furiosamente le scale, le mani in tasca e un’espressione scocciata; tuttavia, c’era qualcosa, nei suoi modi di fare, e nel suo sguardo acceso, che facevano trapelare una certa arroganza e tenacia. Non era più un ragazzo demoralizzato da una figuraccia che poteva evitare e umiliato da un professore che aveva fatto affidamento su di lui; era un candidato per uno dei concorsi più prestigiosi del paese, aveva tutte le carte in regola per vincerlo e, stavolta, aveva tutta l’aria di voler vincere veramente.
Sebastian era tornato.
E per un attimo, Blaine temette che fossero tornate anche le occhiate fredde, i loro silenzi, il loro suonare scoordinato e il loro odio infondato. Eppure, quel minuscolo moto di preoccupazione non fece nemmeno in tempo a nascere, perchè Sebastian si fermò proprio di fronte a lui e-oh. Gli stava dicendo qualcosa. Peccato che lui non avesse minimamente prestato ascolto.
“P-puoi ripetere per favore?”
Sebastian strabuzzò gli occhi per quella frase, perchè lui non ripete. Dopo un sospiro di esasperazione, voltò la testa di lato: “Stavo dicendo, che quel vecchiaccio oggi ha giornata libera. Non è possibile che sia così deficiente.”
“E perchè te la prendi tanto? Contando che praticamente vive qui, direi che un giorno se lo merita.”
“Non capisci”, Sebastian si avviò lungo il viale davanti al conservatorio, chiamando un taxi con la mano. “Ieri sera al telefono mi aveva detto di incontrarlo nel suo ufficio. Ora, capisco che sia un vecchio e che abbia vuoti di memoria, ma non può lasciarci proprio quando abbiamo bisogno di un piano d’azione. Che razza di condottiero è!?”
Infatti non è un condottiero, è un insegnante, rispose mentalmente Blaine.
“Direi che possiamo parlarci domani”, cercò di calmarlo con il suo tono gentile, “Non abbiamo fretta.”
“Sì che ce l’abbiamo. Non sappiamo nemmeno quando sarà la prossima fase. Dobbiamo iniziare a lavorare sin da ora, e senza sosta.”
“Dobbiamo?”
Sebastian si interruppe nel bel mezzo di un’azione, a metà tra l’aprire la porta del taxi che si era fermato davanti a lui e voltarsi verso Blaine, allibito.
Era quello, allora. Era il piccolo momento in cui stavano decidendo se continuare a suonare insieme oppure no; scommettere su loro due in quanto coppia di artisti, che avrebbero lavorato sodo, e con costanza, senza litigi o bisticci inutili. Blaine voleva mettere subito le cose in chiaro, perchè se a Sebastian non stava bene, allora poteva benissimo trovarsi un altro pianista.
Ma non ottenne nessun tipo di risposta verbale; in realtà, Sebastian si comportò come se fosse una domanda del tutto stupida. In meno di un attimo, Blaine fu preso per un polso e trascinato dentro a un taxi.
“Dove stiamo andando?”
L’altro ragazzo gli rivolse uno sguardo quasi annoiato. “Blaine, mi sono rotto di doverti spiegare tutto. Capisco che non sei il solo ad essere in ritardo, visto che spesso lo è anche il tuo cervello, ma reagisci.”
L’autista ridacchiò disinvolto, sotto all’evidente broncio di Blaine.
“Dove vi porto signori?”
“No aspetti un momento”, fermò la sua spalla con un braccio, sporgendosi verso di lui, “Noi abbiamo lezione, non possiamo andare da nessuna parte.”
“Sulla dodicesima, appartamento 107.”
Blaine lo guardò assolutamente confuso, ma chissà come mai aveva una strana sensazione di sapere a chi appartenesse quell’indirizzo.
 
 
Robert fu svegliato da un suono quasi metallico del campanello, ed era una cosa che non aveva in nessun modo calcolato, perchè era mattina, perchè non aveva lezione e perchè erano le undici e mezza. Va bene, forse lui dormiva un po’ troppo ma insomma, alla sua età e dopo tutto quello che aveva passato, se lo poteva sicuramente permettere.
Non si aspettava di certo di trovarsi davanti Sebastian Smythe e Blaine Anderson seguiti a ruota da sua moglie Kayla che sorrideva divertita.
“Amore.” Cinguettò lei, perfettamente vestita e pettinata nel suo abito blu. Tutto il contrario di lui, insomma.
“Ci sono i tuoi allievi.” Aveva il tipico tono da ‘Mi sto divertendo allegramente alle tue spalle come faccio da trentasette anni a questa parte’.
“Studenti, prego.”
“Diciamo, collaboratori.” La corressero Blaine e Sebastian, scambiandosi un’occhiata complice e facendo sorridere la signora.
“Che diavolo volete? Non avete una vita propria?”
“No, visto che siamo stati ripescati per il concorso.”
Robert avrebbe voluto mandarli a quel paese e continuare a dormire, davvero. Però, non appena sentì quella frase il suo corpo fu assalito da un fremito di eccitazione: aveva sognato così tanto sentire quelle parole; certo, la parte in cui si svegliava in pijama con i suoi due studenti davanti al letto sembrava più un incubo, ma non era mai andato pazzo per i dettagli.
“Datemi cinque minuti”, borbottò lui, “Fatemi vestire e poi parliamo.”
 
Kayla condusse i due ragazzi nel salone, una grande stanza dalle pareti bianche e i mobili antichi.
“Sono tutti cimeli di guerra”, ammise lei, sfiorando con le dita una cassettiera in legno, “Robert li ha portati quando si è trasferito qui.”
“Oh, certo”, commentò Blaine, e dentro di sè pensò che, evidentemente, l’argomento guerra fosse una sorta di jolly per i coniugi Cage.
“Sedetevi.”
Sebastian si adagiò immediatamente sul divano, allungando un braccio verso il bracciolo e accavallando una gamba, tamburellando le dita sulla sua coscia; Blaine si sedette poco lontano, un po’ più composto, ancora catturato da tutti quegli oggetti di valore che dovevano valere quanto la sua casa. E, ovviamente, c’era un pianoforte; Blaine sorrise leggendo una marca conosciuta, ma non così importante come la Steinway&Sons: a giudicare dal tappeto leggermente raggrinzito e dai tasti ingialliti, doveva essere uno strumento molto vecchio.
Poi, la voce della donna attirò la sua attenzione e così si ritrovò ad osservare con cura la signora Kayla Cage: doveva avere grossomodo l’età del professore, e nonostante l’età e la guerra l’avessero molto provata, era chiaro che sotto a quei capelli bianchi e sottili si nascondeva una bellissima donna. Aveva le labbra ben delineate, gli occhi grandi ed espressivi, il fisico non più snello e agile, ma ben formoso e proporzionato.
“Robert mi parla molto di voi”, esordì lei, dopo un po’ di tempo. Il suo viso segnato da qualche ruga d’espressione fu dipinto da un candido sorriso che, in un certo senso, fece rilassare Blaine: “Sul serio?”
“Certo. Avevo cominciato ad essere gelosa di questi giovanotti che passavano diciassette ore al giorno con mio marito.”
Oh. Non ci aveva minimamente pensato: Kayla probabilmente si sarà sentita molto sola, a causa loro e delle prove.
“Signora Cage, ci dispiace molto aver sottratto tempo a suo marito.”
“Ci dispiace?” Fece eco Sebastian, come se non ne fosse del tutto convinto, ma l’occhiata acida di Blaine bastò a farlo voltare di scatto e aggiungere: “Oh sì certo! Ci dispiace molto.”
“Siete una strana coppia”, ridacchiò la signora, “Adesso capisco cosa ha visto Robert in voi.”
I due ragazzi si guardarono di nuovo, e stavolta erano entrambi confusi.
“Perchè non mi fate sentire qualcosa mentre aspettiamo mio marito?”
“Qualcosa?”
“Qualcosa tipo cosa?” Sbottarono entrambi quasi nello stesso tempo, Sebastian più entusisasta di Blaine che, invece, sembrava del tutto spaventato; sentiva come una certa pressione all’idea di dover suonare davanti alla moglie del suo professore. Già il fatto di trovarsi a casa sua, a conversare amabilmente in salotto, era alquanto imbarazzante. E se avesse steccato di fronte a lei?
Kayla nel frattempo si era alzata, frugando trai cassetti di quel mobile antico ed estraendone un paio di spartiti con una piccola esclamazione di vittoria.
“Vi prego?” Supplicò con un tono di voce alzato di un’ottava e gli occhi imploranti, “Mi piacerebbe così tanto sentirvi.”
“Ma io non ho con me il violino.”
Blaine stava quasi per abbracciare Sebastian e ringraziarlo per aver salvato entrambi da una situazione molto difficile, quando la donna si diresse verso una stanza del corridoio tornando un attimo dopo con un violino in perfette condizioni.
“Tieni. Puoi usare il mio.”
Fu in quel momento che i due ragazzi restarono assolutamente esterrefatti.
“Lei... lei suona?”
La donna sorrise di fronte all’espressione dipinta sui loro volti, ma subito dopo sviò lo sguardo verso il suo amato strumento: “Suonavo. Quando i miei tendini reggevano.”
Ne accarezzava le corde facendo trapelare un suono dolce e sinuoso, molto raffinato. Aveva un’aria molto triste.
“Per favore?” Incitò ancora i due ragazzi, e in quel momento capirono: era il suo modo per rivivere il passato; per essere di nuovo la violinista di un tempo, che suonava accanto all’uomo che amava.
Blaine andò a sedersi sul pianoforte dopo aver fatto un piccolo cenno a Sebastian. Entrambi furono un attimo titubanti nell’approccio al loro strumento: il primo suonò un paio di tasti constatandone l’estrema flessibilità dovuta al troppo esercizio, il secondo pizzicò le corde con un archetto antico, stupendosi delle sue buone condizioni nonostante l’età.
Sebastian si avvicinò al pianoforte di Blaine, perchè non aveva un leggìo su cui seguire le note e così si limitò a seguire quelle sullo spartito dell’alto ragazzo; lessero il titolo del brano provando la stessa sensazione strana, indecifrabile, di emozione e aspettativa fuse insieme.
Non era affatto facile suonare una Romanza. Quella di Rachmaninoff, poi, era famosa per le sue battute controverse e intrecciate. Suonarono piano, con calma, con un ritmo più lento del normale, ma adatto ad una perfetta lettura senza sbaffature: Blaine sembrava molto più a suo agio di Sebastian che, invece, teneva lo sguardo fisso sullo spartito, concentrandosi su ogni singola nota. Quando Blaine lo notò, stette bene attento a non rendergli le cose ancora più difficile sbagliando i tempi, e così si accordò alla sua velocità attenuando il suo tocco per far spiccare quello dell’altro, in modo semplice, ma che garantì un’esecuzione più spiccata e intensa.
 
Non si erano accorti delle piccole lacrime che stavano scendendo dagli occhi della signora Cage, così come del marito che le afferrò dolcemente le spalle dandole un piccolo bacio sulla guancia.
“Sono bravi”, commentò lei. “Mi ricordano me e te alla loro età.”
“Mia cara, noi suonavamo per strada in cerca di qualche soldo per mangiare.”
I due coniugi si sorrisero, quei tempi sembravano così lontani, che adesso facevano scaturire in loro solo una vaga nostalgia.
“Se volete vi lasciamo da soli.”
Alzarono lo sguardo verso Blaine e Sebastian; i sorrisi compiaciuti comparsi sui loro volti erano sia divertiti che dolci.
“In realtà”, ribattè il professore, “Vorrei stare da solo con voi due.”
“Uh, non mi sento ancora pronto per una cosa a tre.”
“Sebastian, piantala”, commentò Blaine, ma si vedeva da lontano un chilometro che non era per niente offeso o scandalizzato: ormai aveva capito che era il tipico ragazzo che abbaiava e non mordeva. L’aveva capito anche Robert, per quel motivo si sedette sul divanetto facendo ai due ragazzi di imitarlo, e chiese alla moglie di preparare del tè.
Sebastian non gli diede nemmeno il tempo di cominciare il suo lungo e bel discorso su come dovessero prepararsi alle regionali e su quanto fossero stati fortunati: “Da quanto lo sapeva?”
“... Che eravate bocciati o che siete stati ripescati?”
Blaine provò un brivido freddo alla parola “bocciati”, ma rispose chiedendogli la prima delle due.
“Da una settimana, forse anche di più.”
Adesso, almeno, si era spiegato il perchè del suo comportamento ostile.
“E non ha mai pensato di dircelo!?” Sebastian sembrava veramente offeso da quella notizia, avevano aspettato per giorni senza nessuna risposta in mano, che fosse un sì, un no, un può darsi.
“Ho voluto aspettare la conferma”, rispose Robert, calmo, “E infatti, ho fatto bene. Adesso siete più motivati, ma sapere allo stesso tempo che non eravate passati vi demoralizza, non è così?”
Entrambi non risposero. Tutto ciò che voleva sentire il professore.
“La seconda fase è tra un mese e mezzo.” Annunciò. “Vi conviene prepararvi.”
 
 

Quella sera, Blaine era insieme a Brittany intento a guardare quell’assurdo programma televisivo di gente chiusa in una casa che combinava i peggio disastri, commentando insieme alla sua amica e sorseggiando di tanto in tanto il mega frullato che gli aveva preparato; Brittany era sdraiata sul divano, le gambe sopra quelle di Blaine stese sul tavolino. Erano entrambi perfettamente accasati e a loro agio, quando il telefono del ragazzo squillò facendoli sobbalzare.
“Chi è alle dieci di sera?”
“Spero non mia madre”, mormorò lui, e vide di sottecchi la coinquilina trattenere a stento una risata perchè ovviamente sapeva dello scherzetto di Sebastian, e ovviamente lo aveva trovato divertentissimo. Forse avrebbe fatto meglio a non dirglielo, ma dopotutto, loro si dicevano di tutto.
Non appena lesse il nome sul display, restando anche piuttosto allibito, mormorò un “pronto” alla cornetta che fu subito sovrastato dalla voce ferma di Sebastian, una di quelle che non ammetteva repliche.
“Usciamo.”
“...Come scusa?”
“Usciamo, andiamo fuori, festeggiamo, facciamo qualcosa. E’ la nostra ultima serata prima di un mese e mezzo di lavori forzati, passiamola bene.”
Blaine deglutì all’idea di uscire da solo con il suo... il suo? Amico. Sì, suonava bene.
“Ma io in realtà sarei tipo in tuta e dovrei prepararmi e-“
“Ci vediamo tra mezz’ora sotto casa mia, e Blaine: azzardati a fare ritardo e mi presento con un secchio d’acqua pronto a distruggerti i capelli.”
Si fiondò in bagno lasciando perfino il cellulare acceso sul divano, e non fece nemmeno in tempo a sentire la risata di Sebastian e la voce squillante di Brittany che diceva: “Lo sapevi che ai tempi dei Dinosauri il gel era bandito da tutte le tribù?”
 
 

“Complimenti.”
Blaine aveva il fiato corto e stava rischiando dieci collassi tutti insieme, ma almeno era vestito, messo a punto e nemmeno troppo male: dei semplici jeans e una polo andavano più che bene in quelle occasioni, soprattutto se poi aveva il suo immancabile giubbotto di pelle che usava per andare in moto.
Non arrossì di fronte al complimento di Sebastian: sapeva bene che si stesse riferendo alla tempistica, e non a lui.
“Sei soddisfatto, adesso? Hai saziato la tua sete da maniaco del controllo?”
“Non ancora. Devo ancora farti bere dieci o undici birre. Quanti caschi hai in quella moto?”
Blaine inclinò la testa da un lato, non era molto sicuro di aver afferrato bene.
“Beh ne tengo sempre uno nel bagagliaio per Brittany, ma...”
“Perfetto.” Si avvicinò e senza troppe cerimonie aprì il baule, dal quale estrasse il casco e se lo ficcò maldestramente in testa, senza nemmeno allacciarselo. “Ti dico io le indicazioni passo passo, non ti preoccupare.”
“Davvero vuoi venire in moto con me? Davvero? Non hai paura che la mia imbranataggine possa ucciderti da qualche parte?” Chiese sempre più incredulo Blaine, ed era quasi sicuro che il suo cuore stesse perdendo otto milioni di battiti consecutivamente; non solo perchè Sebastian illuminato dai lampioni della sera era incredibilmente più bello, ma perchè quei pantaloni sottili e quella giacca sportiva lo rendevano assolutamente attraente. Non osava immaginare la sensazione di avere quelle braccia premute contro il suo petto mentre sfrecciavano tra il traffico di New York.
“Sicuramente è meglio che pagare un taxi. Ci muoviamo?”
Risalì sulla moto, aspettando pazientemente che Sebastian si fosse messo comodo prima di accendere il motore. Quando partì, però, metabolizzò in meno di un secondo che la sua piccola fantasia non si sarebbe avverata: Sebastian si stava tenendo sui lati e sul retro del suo sedile, e sembrava completamente in equilibrio mentre gli urlava all’orecchio tutte le direzioni da prendere.
Fortunatamente, il casco pesante attutì la sua voce un po’ delusa e tremante.
Il bar in cui parcheggiarono era relativamente affollato e, soprattutto, ben conosciuto da entrambi: era un luogo di ritrovo per molti studenti del Franz Liszt e altre persone che lavoravano in quel settore, un posto tranquillo, senza musica troppo assordante in favore di sane e lunghe chiacchierate. L’umore di Blaine ritornò immediatamente alle stelle, perchè adorava con tutto se stesso quel posto.
Sebastian si appoggiò al bancone del bar, salutando un loro collega diplomato da un paio di anni: “Una birra per il signorino e una vodka liscia per me, grazie.”
“Hai intenzione di ubriacarti?” Blaine inarcò un sopracciglio con fare scettico, predendo posto su uno sgabello accanto a lui e godendosi l’atmosfera.
“Per favore, non vado di fuori con solo un cocktail. Non mi chiamo mica Blaine Anderson.”
“Tutta invidia”, mormorò in risposta facendogli una smorfia, e Sebastian allora fece un “oooh” acuto ed estremamente teatrale.
“Ma certo, Vostra Altezza. Oh, aspetta, forse ho sbagliato termine.”
Blaine lo colpì alla spalla sperando di fargli male almeno un po’, ma tutto ciò che ottenne fu un’occhiata di Sebastian che aveva tutta l’aria di dire ‘Ritenta, sarai più fortunato’.
 
 
“Mi piace la moglie di Robert.”
Erano arrivati alla quinta birra e al quarto cocktail, ed entrambi cominciavano un po’ a perdere quella sana percezione di cosa fosse sobrio e cosa no: così, Blaine tirò fuori il primo argomento che gli venne in mente su cui potevano facilmente straparlare, visto che avevano superato quello del Franz Liszt, dei brani da suonare, del più e del meno e perfino del tempo.
Sebastian sghignazzò a quel commento e finì di bere il suo drink: “Non è molto il mio genere.”
“Ma non mi dire.”
“Va bene va bene. E’ simpatica. Francamente non so come abbia fatto il prof a trovarne una così.”
“Che intendi dire?”
“Beh, lui è strano”, mormorò strasciando un po’ le ultime parole, come per paura che potesse sentirlo da qualche angolo di quel locale: “Insomma, capisco che anche lei è una musicista, ma mi sembra che abbia la testa molto più apposto di lui. E poi è cinico, antipatico, prepotente e crede sempre di sapere tutto, secondo me a quella donna tra poco spunta l’aureola.”
Il sorriso di Blaine diventò più ampio ad ogni parola, e per poco non scoppiò a ridere.
“Cosa?” Sebastian si sporse di più verso di lui, guardandolo con fare minaccioso, “Blaine Anderson, non ti azzardare a pensare a quello che stai pensando.”
“E invece lo sto proprio pensando.”
“Non pensarlo.”
“Ma Sebastian-“
“Non ‘Ma Sebastian-armi’! Tu non puoi veramente pensare che assomiglio a quel vecchio!”
“Invece è così.”
Blaine guardò gli occhi verdi di Sebastian fulminarlo per dieci lunghi secondi, e poi, inavvertitamente, lo vide farsi sempre più vicino.
“Ma guarda chi si vede!”
Si voltarono di scatto verso la fonte di quel saluto sprezzante e alquanto stizzito, trovando così Wyatt e un altro gruppo di musicisti, tutti un po’ alticci e un po’ odiosi.
“Il magnifico duo.”
Blaine e Sebastian si erano come immobilizzati sul posto; il primo non sapeva veramente come reagire di fronte a quel ragazzo, e il secondo, in realtà, era solo visibilmente infastidito dalla sua presenza.
“Ciao Blaine, è sempre un piacere rivederti.”
“Sì beh, non vale il contrario”, si intromise Sebastian, accarezzando il cocktail vuoto con più freddezza: “Stavamo parlando, quindi.”
“Ti pare che stavo parlando con te, Smythe?”
Blaine potè vedere nei lineamenti del suo amico tutto ciò che poteva essere espresso con: odio. Odio puro, rivolto verso quell’uomo.
“Non ti ho visto stamani a lezione.”
“Ero... fuori.” Mormorò Blaine. “Avevo delle cose da fare.”
“Non ne dubito”, il suo sguardo passò velocemente verso la sua maglietta e poi i suoi jeans scuri, e con un piccolo sorriso disse: “Stai molto bene. Perchè non ti vesti sempre così?”
“Perchè non mi va?” Rispose nel modo più semplice e ingenuo possibile, ma qualcosa fece ridacchiare Sebastian compiaciuto.
“Ti fa ridere, Smythe?”
“Oh, sì.” Lentamente, si alzò in piedi, lasciando la presa sul cocktail e guardando Blaine solo per un istante: “Più che altro, mi fa ridere il tuo metodo per provarci con gli uomini. Dì un po’, non è che sei diventato bisessuale perchè non ti ci stava proprio nessuna?”
Wyatt si fermò sul posto, aspettando l’avanzare dell’altro, con i muscoli improvvisamente tesi: “Mi sono quasi offeso. Ma immagino che non hai talento nemmeno per le offese.”
“Non prendertela con me, sei tu che oramai sarai abituato agli insulti. O voi pifferai escogitate un modo per ignorare tutti?”
Ci fu una piccola risata generale da parte del pubblico improvvisato che stava crescendo sempre di più, ma Blaine, in realtà, si sentiva sempre più preoccupato: non si fidava di Wyatt. Non era uno sprovveduto, e non credeva che stesse provocando Sebastian solo per dargli fastidio.
“Fai tanto il gradasso”, stavolta, il tono di Wyatt fu basso, gutturale, “Ma dovresti soltanto inchinarti a chi ha passato la prima fase senza misteriose botte di culo. Ti pare?”
Ecco, il nocciolo della questione. E fu come se sulla stanza fosse calato il silenzio assoluto.
Blaine potè vedere Sebastian avvicinarsi sempre di più a Wyatt con i nervi che rischiavano di mangiarlo vivo, le mani strette a pugno lungo i fianchi, il tono divenuto un sibilo, mentre disse: “Ripeti un po’.”
Ma Wyatt non si fece minimamente intimidire.
“Smythe, sei passato solo per il tuo cognome.”
Sebastian si avventò su di loro, e in meno di un secondo nel locale scoppiò il caos.
Ragazzi che incitavano alla rissa, altri che cercavano di fermarli, baristi che chiamavano il direttore e altra gente che aveva urlato senza motivo. Blaine si ritrovò in piedi senza nemmeno ricordarsi quando lo avesse fatto, ma era incredulo, osservava la folla di persone che gli faceva soltanto intravedere le due figure intente a picchiarsi, e fu come se tutti i suoi ricordi da tempo nascosti riaffiorarono terribilmente.
Faceva troppo caldo; c’era troppa gente, e troppo rumore. Il cuore cominciò a battere frenetico mentre sentiva la testa girare, le immagini riaffiorare nella sua mente, il rumore di qualcosa che si infrangeva a terra, e poi...
“Sebastian!”
 
Lo fermò, ma non con dei gesti. Non lo afferrò per le spalle o le braccia. Non lo tirò indietro. Semplicemente, pronunciò il suo nome. Ma Sebastian si immobilizzò di colpo.
Blaine era terrorizzato.
Senza nemmeno pensarci si voltò completamente verso di lui, lo prese per le spalle. Voleva riuscire a calmare quello che a tutti gli effetti sembrava un attacco di panico.
Quel minuscolo momento di calma garantì a tutti di raccogliere le loro cose e scappare via da un padrone del locale pronto a chiamare la polizia. Blaine e Sebastian scapparono, e corrrendo a grandi passi il viale raggiunsero la moto parcheggiata dietro l’angolo.
Sebastian fece sedere Blaine scostando qualche ricciolo posato sulla sua fronte sudata, sperando che quel vento lo refrigerasse almeno un poco, facendolo calmare. Non aveva la più pallida idea di cosa gli fosse preso, ma lui non sembrava intenzionato a spiegarglielo. Agli occhi di Sebastian, Blaine sembrava totalmente disturbato. Disperato, quasi.
"Dimmi che stai bene."
Non voleva essere una domanda. Blaine doveva stare bene. Perchè qualsiasi immagine opposta a quella gli provocava una fitta all’altezza dello stomaco.
"...Sì.” Sussurrò, piano, ma nitido. “Ora sto meglio. E' solo che..."
"Cosa?"
"...Ho avuto una sorta di dejà-vù. Tutto qui."
Sebastian memorizzò quelle parole, e si limitò a dargli le spalle calciando un idrante rosso scuro e sfogandosi di tutti i suoi sentimenti: la preoccupazione per Blaine, quando lo aveva visto così pallido; la rabbia per Wyatt, per quello che aveva osato dirgli.
"Secondo te è vero?"
Blaine rimase sorpreso da quella domanda. Sebastian non faceva domande. Era più il tipo che aveva sempre la risposta pronta.
“Quello che ha detto Wyatt”, aggiunse. “Siamo passati solo per fortuna?”
Solo per il mio nome?
"...Non meritavamo di passare."
Questo disse, una volta che il silenzio di Blaine bastò a demoralizzarlo del tutto. Non lo meritavano, eppure, era successo. E adesso si era sentito incredibilmente stupido per quel brindisi così spontaneo e bello.
Blaine continuò a stare in silenzio, ma si alzò verso Sebastian, mettendosi di fronte a lui e afferrando delicatamente un suo braccio. Stava cercando di sorridere, nonostante non si fosse ancora ripreso del tutto; stava cercando di infondere coraggio nel suo compagno, perchè, da quel momento in poi, avrebbero dovuto contare l’uno sulle forze dell’altro.






***

Angolo di Fra


Buona Seblaine week!
Spero che vi sia piaciuto questo capitolo e scusate per il ritardo! Ricordate il loro lato oscuro misterioso? Ecco, alla fine di questo capitolo ho accennato quello di entrambi. Se non ci siete arrivati, non vi preoccupate, quello di Blaine si scoprirà presto.
Se volete leggere le OS che sto scrivendo per la Seblaine Week le trovate qui.
Grazie ancora :)
Fra

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***




Capitolo 12



 

"L'immaginazione di Chopin era ardente e i suoi sentimenti arrivavano sino alla violenza. La sua struttura fisica era debole e malaticcia. Chi può misurare le sofferenze scaturite da queste cose opposte? Devono esser state tremende, ma non ne diede mai spettacolo. Ne conservò il segreto, lo nascose a tutti gli sguardi sotto l'impenetrabile serenità di una fiera rassegnazione. [...]
Mai il carattere di Chopin ha nascosto un solo movimento, un solo impulso dettato dal più delicato sentimento d'onore e dalla più nobile intesa degli effetti. Eppure, mai natura fu più atta a giustificare degli scatti, dei difetti, dei capricci e delle singolarità brusche. [...]
Racchiudendosi nell'ambito esclusivo del pianoforte, Chopin diede prova di una delle qualità più preziose in un grande scrittore e senza dubbio delle più rare in uno scrittore comune: la giusta valutazione della forma nella quale gli è dato di eccellere."

--Franz Liszt, ne "Vita di Chopin".


 


 
Non è molto facile spiegare qualcosa a uno studente. In generale, si tende a pensare che basti lo stesso metodo tutte le volte, che spetta all’allievo concentrarsi per capire, e se vuole studiare, sicuramente troverà dei validi modi per farlo.
Ma poi, ogni volta che ricevi come risposta un fallimento, o un errore davvero troppo stupido, per essere preso seriamente, tu cominci a sentirti un po’ più insicuro; deluso da te stesso, forse, perchè ti chiedi com’è possibile che il tuo impegno, il tuo insegnamento, sia stato tutto vano.
Certo, c’è anche a chi non importa: c’è chi non considera l’insegnamento come un dovere o come una responsabilità, ma come un guadagno sicuro con un paio di mesi di ferie assicurate.
Per Robert non era così; non era mai stata così, e l’unica cosa a cui pensava quando vide Blaine Anderson balbettare qualcosa circa la guancia gonfia di Sebastian Smythe e la sua mano sinistra leggermente arrossata, era convincersi di far bene il suo lavoro. E non era facile, lo sapeva bene, soprattutto visti i due soggetti che adesso si stavano guardando come speranzosi, chiedendosi se fossero riusciti a farla franca.
Robert aveva già capito da tempo che un metodo di insegnamento tradizionale non fuzionava, con loro: era la bellezza di fare l’insegnante. Riuscire a sorprendere i propri allievi una volta ancora, in modo da far recepire bene il messaggio.
“Sedetevi. E parlate. Voglio la verità.”
Blaine lanciò un’occhiata intimidita a Sebastian che, in tutta risposta, gli rispose stringendosi nelle spalle, come se stessero avendo una conversazione tutta loro, fatta da gesti e microespressioni facciali; buffo come poche settimane di tregua li avessero resi così in sintonia.
Così cominciarono a raccontare della sera prima, di come avevano preso qualche drink al bar, di come Wyatt si era presentato dal niente e non interpellato portando poi a quella terribile conseguenza. Sebastian sembrava meno risentito di Blaine: continuava a ripetere che Wyatt era un demente, che se l’era cercata, che se ci fosse stato lei, professore, avrebbe fatto la stessa identica cosa. Robert rispose con il suo tipico tono pacato, dicendogli che vista la sua mano malferma e debole era un’ipotesi alquanto impossibile, ma che effettivamente si era avverata ai tempi in cui era più giovane.
“Ecco, vede? Vedi?” Fece poi rivolto a Blaine, come riacquistando il suo entusiasmo: “Son cose che capitano. Non può cacciarci per questo!”
Robert inarcò un sopracciglio, mormorando un placido: “Prego?”
“Professore”, esordì Blaine, e Robert quasi scoppiò a ridere perchè aveva un atteggiamento diametralmente opposto a quello del suo partner: gli sembrava come un bambino di fronte al preside, tutto composto ed educato solo perchè sapeva di aver fatto un gran casino.
“Noi... sappiamo bene che il Franz Liszt ha una dura politica contro la competitività tra allievi, e contro la violenza. E sappiamo come tutta questa faccenda può apparire ai suoi occhi.”
“Cioè come un atto vandalico di due ragazzini che non sanno trattenersi di fronte a delle provocazioni di un galletto?”
Blaine si zittì immediatamente, tirando indietro la testa e sviando lo sguardo a terra; sapeva bene che aveva  pienamente ragione.
“La regola numero uno di un musicista è di salvaguardare le proprie mani”, proferì Robert, “E voi gareggiate per un concorso che deciderà la vostra carriera, chi mai farebbe affidamento su due teste calde?”
Ma poi la voce di Sebastian arrivò come un sussurro alle orecchie di Blaine e del professore, eppure, con una fermezza tale da far rimanere entrambi un po’ spiazzati.
“Senta, se la prenda con me, okay? Sono stato io a lanciarmi su Wyatt. Sono stato io a scatenare la rissa, quindi, se proprio deve fare reclamo al rettore, faccia solo il mio nome. Blaine non c’entra nulla.”
E qualcosa, dentro Blaine, si mosse con la stessa velocità con cui Robert chiuse e aprì gli occhi, mostrandosi a dir poco incredulo.
“Sebastian Smythe... che copre le spalle a qualcuno che non sia il suo ego?”
“Non sto coprendo proprio nessuno, dico solo quello che è successo.” Borbottò lui. Aveva un’espressione concentrata, ma teneva lo sguardo ben lontano dal suo partner; fissava il legno della scrivania, la targhetta placcata in argento. Era seduto su quella sedia come se volesse sprofondarci dentro.
Così Robert si ritrovò ad osservare l’espressione di Sebastian, e quello che vide fu abbastanza per sfoggiare un sorriso divertito e chiedere loro di mettersi comodi nelle loro sedie.
“Faremo un po’ di lezione”. La sua voce calma e sicura di sè fece, se possibile, confodere ancora di più i due ragazzi.
“Lezione?” Sbottò Sebastian, seguito a ruota da Blaine che mormorò incerto: “Ma qui, nel suo ufficio?”
“Preferite il bagno? O lo stanzino delle scope, magari. Però non sono sicuro che sia libero, sapete, con tutti questi ragazzi e questi ormoni...”
Sebastian strabuzzò gli occhi completamente preso contropiede, e Blaine spalancò leggermente la bocca, non sapendo se essere più allibito per la frase degli ormoni o per il fatto che stessero davvero facendo una lezione privata, solo loro tre, in quel posto, con libri e spartiti ammucchiati uno sull’altro e nemmeno l’ombra di uno strumento. Che razza di lezione potevano fare? Sperò seriamente che non fosse un’altra cosa su storia o psicologia della musica, perchè l’ultima volta sia lui che Sebastian erano rimasti piuttosto scandalizzati; e poi, era anche un po’ stufo di essere perennemente paragonato a Chopin, e Sebastian a Liszt. Loro non erano Chopin e Liszt, non ci assomigliavano nemmeno di sfuggita; casomai, lui era un po’ come Mendelsshon.
“Vi sto per insegnare una lezione molto importante, che voi crediate o no.”
Il professore riuscì a scorgere una sorta di smorfia indispettita comparire sulle labbra di Sebastian, ma svanì subito, mascherata da un’espressione neutra; tuttavia, nemmeno Blaine sembrava molto convinto.
“Voglio che restiate concentrati.”
Quello fu il primo ordine di Robert, che rivolse ai due studenti che sembravano un po’ svogliati, un po’ indecisi e un po’ esitanti. “Non funzionerà, se non vi concentrate.”
“Concentrate a fare che?” Sebastian gli rivolse in pieno i suoi occhi smeraldini, adesso, attraversati da un leggero bagliore di collera, “Non ci vuole granchè ad ascoltare lei che fa qualche sproloquio su qualche mummia defunta da secoli.”
“No,” asserì il professore, ma non sembrò essere minimamente offeso o risentito, “Infatti non è me che dovete ascoltare.”
Estrasse un piccolo metronomo dal cassetto, grande quando il palmo di una mano, piuttosto vecchio, a giudicare dalle ammaccature e dal vetro graffiato, ma ancora funzionante; lo posizionò sul tavolo esattamente al centro tra lui e i ragazzi, e aspettò di premere il pulsante che avrebbe avviato lo strumento.
Sebastian, con un ghigno convinto, si passò una mano trai capelli guardando Blaine con un sorriso quasi seccato: “Vuole forse che facciamo qualche giro di campo intorno alla scrivania?”
“Non lo so”, rispose l’altro, come se il professore non potesse sentirli. “Di solito sei tu quello che lo capisce, quindi...”
“Cosa, ancora con questa storia che ci assomigliamo? Blaine guarda che ti prendo per quell’ammasso di riccioli e ti lancio fuori dalla finestra.”
“Ho solo detto-“
“Ragazzi?”
I due si voltarono di scatto al richiamo di Robert, che li guardava compiaciuto, strinse il cronometro tra una mano e poi si abbandonò completamente contro lo schienale della sua sedia.
“Oggi imparerete ad ascoltare.”
Per quattro minuti e trentatrè secondi esatti, Blaine e Sebastian restarono in silenzio.
All’inizio immaginarono che fosse una di quelle lezioni semi-psicologiche che piacevano tanto al professore, come una riunione di alcolisti anonimi, in cui ognuno diceva i suoi difetti e poi il tutor chiedeva “vuoi condividere?”, piangevano, si abbracciavano e finivano tutti a nascondere le bottiglie di tequila sotto al materasso. Così, lipperlì, la trovarono una cosa stupida, e anche piuttosto inutile; non avevano bisogno di restare in silenzio per una manciata di minuti per imparare a usare le loro orecchie.
Quando il secondo minuto fu raggiunto, e Sebastian si era un po’ stancato di starsene lì a fare nulla, provò a chiudere gli occhi, rilassandosi nella sedia di quell’ufficio e immaginando di non trovarsi più lì; Blaine lo imitò qualche secondo dopo, non tanto perchè voleva copiarlo, ma perchè in quel momento gli era sembrata una buona idea.
E fu così strano, starsene in quel modo per un altro minuto intero: scorreva così piano, che dava l’idea di essere fatto da ore, e non da secondi. Alle loro orecchie, giunse il ticchettio del cronometro stretto tra le mani di Robert, il traffico newyorkese che proveniva dalla finestra chiusa, ma non insonorizzata.
E poi, Sebastian si ritrovò ad ascoltare con attenzione il respiro di Blaine, e Blaine si ritrovò ad attutire il suo cercando di sincronizzarlo.
Non fecero nessun’altra prova, in quella mattina di Autunno; avevano imparato a duettare in silenzio, e quello andava oltre ogni loro aspettativa.
 
 
“Ah, ragazzi?”
Blaine e Sebastian stavano giusto per uscire dall’ufficio, dopo qualche minuto fatto di poche parole e strani, lunghi silenzi, quando Robert richiamò di nuovo la loro attenzione facendoli avvicinare con un gesto della mano.
“Passate a casa mia questa sera alle sei. Ho del materiale che potrebbe interessarvi.”
 
 
Sebastian spostò il peso da un piede all’altro, sospirando sommessamente e suonando per la terza volta il campanello di casa Cage. Non gli piaceva aspettare alla porta, non gli piaceva stare fuori con quel freddo che perforava le ossa, e dove diavolo era finito Blaine!? Come minimo, rispose immediatamente una parte della sua mente, sarebbe arrivato con venti minuti di ritardo, l’aspetto trasandato e qualche scusa mal posta su come il suo motorino fosse vecchio e le strade di New York fossero un disastro.
Kayla lo accolse spalancando la porta e rivolgendogli un’occhiata quasi allibita: “E tu che ci fai qui?”
Sebastian di certo non si aspettava un saluto simile, soprattutto da Kayla. La guardò confuso; magari c’era qualcosa che non andava nei suoi vestiti – dei semplici jeans e maglietta – o nei suoi capelli – laccati con il ciuffo leggermente all’insù -, ma poi ripensò a quella mattina.
“Come-cosa... come sarebbe a dire? Il prof ha detto di passare alle sei, non le ha detto niente?”
“Robert.”
A giudicare dal suo tono gelido e tagliente, dedusse di no.
“Oh Dio, non ci posso credere che lo abbia fatto veramente. Non posso crederlo.”
La donna stringeva il pomello della porta come se fosse la gola di suo marito; aveva il fiato corto, le narici dilatate e, ad essere un po’ sinceri, stava spaventando un po’ il povero Sebastian.
“Se vuole, voglio dire, non è un problema per me, posso tornare a-“
“Ma no caro, entra pure, se mio marito è un completo idiota da dimenticarsi del compleanno di sua nipote non è colpa tua. E poi Blaine si è già accomodato, quindi-“
“Un momento.” Il ragazzo si fermò a metà di un’azione, ma già un passo dentro la casa; immediatamente, fu invaso dal suono di un numero indefinito di risate infantili e di un piccolo pianoforte che strimpellava le note più bizzarre e stonate.
“Blaine è qui?”
“Già. Sapevo che stava organizzando qualcosa. Purtroppo per me ad aprirgli la porta è stato Robert e, evidentemente, Blaine non è venuto solo per fare gli auguri alla piccola Molly. Non avevo dubbi comunque, quel ragazzo non sa proprio mentire.”
“Già, è vero,” commentò l’altro con un piccolo ghigno, giusto in tempo per intravedere Robert che correva verso di lui a braccia aperte esclamando: “Sebastian, ma che sorpresa trovarti qui! Non pensavo che anche tu venissi a festeggiare la piccola M-“
“Ringrazia che ti amo.” Minacciò Kayla puntando un dito contro il petto del marito. “Anzi no, ringrazia che stiamo insieme per così tanto tempo che ad averti ucciso il primo anno di matrimonio sarei già uscita dall’ergastolo.”
Robert mise le mani a mezz’aria come per arrendersi, i suoi piccoli occhiali che gli scivolavano dal naso e gli occhi quasi paralizzati. Kayla lo squadrò per qualche altro secondo, prima di sospirare e spingerlo leggermente verso Sebastian, mormorando a voce bassa: “Vai. Andate a fare le vostre cose da grandi musicisti, ma quanto meno dovranno suonare per i bambini.”
“Come?”
E con grande sorpresa della donna, non fu solo Robert a parlare.
“No mi scusi signora Cage, questo è proprio fuori questione.”
In risposta, la donna si voltò verso di lui calma, con lentezza; sembrava quasi un vampiro che stava chiedendo alla sua vittima se preferisse cominciare dall’arteria o dalla vena.
“Non ti piacciono i bambini, Sebastian? Non ti piacciono i miei nipoti?”
Arteria o vena. Arteria o vena.
“Oh no, sono adorabili.” Rispose, con un sorriso tirato e gli occhi divenuti fessure.
Che differenza faceva, tanto sarebbe morto comunque.
 
Blaine, quasi come un meschino scherzo del destino, sembrava come un Peter Pan che aveva appena ritrovato la sua gioventù: era di fronte al pianoforte, con il suo solito portamento dolce e affascinante. La camicia bianca e i pantaloni scuri gli donavano un’aria quasi paterna, mentre teneva in braccio una bambina con dei lunghi boccoli biondi, e un bambino con una massa di capelli riccioli e castani si stava facendo strada sullo sgabello, accanto a lui. Altre due bambine erano sedute sul tappeto intente a giocare con le bambole, apparentemente disinteressate; incredibilmente, si assomigliavano un po’ tutti, in quel piccolo esercito di pannolini urlanti.
“Piano, piano!” Esclamò Blaine, trattenendo a stento un sorriso sornione, aiutando il bambino a mettersi composto e facendo sedere l’altra sulle sue ginocchia. “Ci sono abbastanza tasti per tutti, vedete?”
“Ma voglio suonare io adesso!” Protestò la bambina, che Sebastian dedusse trattarsi di Molly. “E’ il mio compleanno e si fa quello che voglio io!”
“E va bene, però perchè non suoni insieme a tuo fratello Erik?”
“Ma lui è troppo piccolo!” Protestò la bambina, con grande convinzione, “Non arriva ai pedali, è troppo basso!”
“Mi ricorda qualcuno.”
Fu in quel momento che Blaine si accorse della presenza di Sebastian, voltandosi di scatto non appena sentì quella frase e quella voce così familiare; il ragazzo si trovava accanto alla porta della sala, con le braccia conserte, un sorrisetto indecifrabile sul volto e, ovviamente, bellissimo, come sempre.
“Oh.” Accennò ad un cenno con la testa, a cui Sebastian rispose con un: “Ohi. Da quando fai il baby sitter?”
“Il professor Cage mi ha incastrato qui.”
“Già”, commentò l’altro, squadrando lui e i bambini che lo stavano circondando, “Sembri proprio dispiaciuto in effetti.”
Blaine arrossì appena già in procinto di controbattere, ma poi quella piccola bambina che prima stava seduta sul tappeto si avvinghiò alla gamba di Sebastian e non sembrava avere nessuna intenzione di lasciarla andare.
“Giochi anche tu con noi? Giochi con noi?”
Sebastian all’inizio cercò di liberarsi dalla bambina muovendo la gamba nemmeno troppo delicatamente, ma poi lei continuava a gridare, a chiedergli di giocare, e Blaine non smetteva più di ridere, perchè sicuramente quella immagine lo divertiva un bel po’, e allora, alla fine, fu costretto a cedere.
“Mettiamo in chiaro una cosa. Io non gioco, va bene? Al massimo ti sorveglio.”
“Mi sorvegli? E che vuol dire?”
“Vuol dire che ti impedirò di uccidere una tua sorellina con la gamba appuntita di qualche Barbie. Ma dove diavolo è finito il professore?”
I bambini restarono in silenzio di fronte a quell’improvviso cambiamento nel tono di voce, ma Blaine si occupò subito di non farli spaventare iniziando a suonare una melodia dolce e semplice con il piano.
“Sapete che Sebastian suona proprio come me? Volete sentire qualche bella canzoncina?”
Ci fu un coro di “sìììì”, e Sebastian roteò gli occhi al cielo perchè no, per nessuna ragione al mondo, non avrebbe mai suonato per dei bambini, nemmeno se erano i nipoti del suo insegnante.
“Andiamo Blaine.” Sbottò un po’ innervosito, una volta che gli fu abbastanza vicino da poter sussurrare: “Non dirmi che hai veramente intenzione di continuare questa storia del Carosello. Noi due abbiamo un bel po’ di lavoro da fare.”
“Dammi solo dieci minuti”, ribattè lui, “E tanto il prof adesso è troppo impegnato a farsi perdonare da sua moglie. Rilassati.”
E ormai aveva imparato a sue spese che quando Blaine lo guardava con quegli occhi e parlava con quella decisione, non c’era nessun modo per fermarlo. Così, si mise in piedi accanto al pianoforte, a braccia conserte e visibilmente scocciato.
“Allora, suoniamo un bel Buon Compleanno a Molly?”
 
Passarono i minuti, che si trasformarono velocemente in tanti minuti, fatti di musiche più o meno famose, canti più o meno intonati e Sebastian non riusciva proprio a capire come fosse finito in quella situazione. Doveva soltanto prendere degli spartiti e ricevere qualche suggerimento dal suo professore di strumento, ma poi Robert era subentrato nella stanza e aveva detto loro di continuare così che andavano molto forti e che sarebbe tornato a momenti con gli spartiti per loro; Kayla aveva portato tè, torta e pasticcini per tutti, e adesso si ritrovava seduto su un tappeto con Molly mentre lei gli faceva un ritratto con i pennarelli colorati.
“Blaine, Blaine!” Urlò Jenny, la terza nipotina, arrampicandosi sullo sgabello del ragazzo. “Mi suoni la Bella Addormentata nel Bosco?”
“Ehm, non so bene quale sia...”
“Te la faccio sentire dal mio cd! Eddai, eddai, ti prego, ci tengo tanto!”
Sebastian emise un piccolo sospiro scuotendo la testa, perchè avrebbe voluto tanto dire a quella bambina che le musiche non si possono suonare dal niente, o meglio, non si possono riprodurre fedelmente soltanto dandogli un ascolto veloce; perfino una canzone semplice come quella della Disney aveva bisogno di accordi, tonalità, armonie e della giusta preparazione tecnica, che di certo non competevano a un ragazzo del terzo anno di conservatorio.
Insomma, quelle erano qualità dettate da una lunghissima e intensa esperienza, oppure da...
“Wow Blaine, ma sei bravissimo!”
E Molly forse non aveva usato le parole che avrebbe usato lui, ma nel momento in cui il ragazzo eseguì esattamente una melodia ricca di tutte quelle note che potevano essere inventate sul momento, o riprodotte quasi alla perfezione, Sebastian restò esattamente attonito come tutti gli altri presenti in quella stanza.
Non poteva essere. Era una coincidenza, forse aveva suonato quel brano altre volte.
“Blaine, ora mi suoni questo?”
“No aspetta suonami questo!”
“Blaine ti prego suonami quest’altra musica ancora!”
Adesso capiva perchè per la maggior parte delle volte non aveva bisogno di uno spartito; adesso capiva perchè spesso la sua tempistica era imprecisa, e la sua interpretazione pressoché dominante. Adesso capiva la sua borsa di studio, e si sentì anche abbastanza stupido ad aver pensato che l’avesse ottenuta con chissà quale raccomandazione.
Senza nemmeno pensarci, si ritrovò in piedi e afferrò il polso di Blaine costringendolo a uscire in giardino, mentre gli altri bambini presero il sopravvento del pianoforte torturandolo con suoni sgraziati e disconnessi. A Sebastian, però, non importava: semmai quel suono avrebbe attutito quello della loro voce, e così, lontani da qualsiasi altra persona, fermò Blaine nel bel mezzo del prato, giusto sotto ad un albero che faceva un po’ di ombra.
“Esattamente, quando avevi intenzione di dirmi che hai l’orecchio assoluto?”
 
 
Era una domanda semplice, a cui aveva risposto mille volte. Spesso era stato costretto a spiegare anche cosa fosse esattamente l’orecchio assoluto, ma sapeva bene che con Sebastian non c’era bisogno di spiegazioni, dettagli, motivazioni del perchè lo avesse avuto: non ce n’erano. L’orecchio assoluto, la capacità di identificare perfettamente una nota musicale al primo ascolto, era qualcosa dettato dalla nascita: o ce l’hai, o non ce l’hai. Poteva ascoltare qualsiasi melodia e riprodurla immediatamente come un registratore. Blaine non è mai riuscito a capire quale forza del destino gli avesse concesso quel talento, dono, o qualsiasi sia il suo nome; in realtà, per un periodo lo aveva considerato come una condanna. Una punizione per ciò che era.
Ma più quei pensieri si fecero nitidi nella sua mente, e più Sebastian lo guardava con impaziente attesa, incitandolo con i suoi occhi verdi a dire qualcosa e dargli qualche spiegazione esauriente.
“Non... io pensavo che lo capissi da solo.” Mormorò alla fine Blaine, sviando lo sguardo a terra, un po’ intimidito. Sentì il respiro dell’altro ragazzo appesantirsi in uno sbuffo, e poi, il rumore di foglie schiacciate sotto ai piedi.
“L’ho capito da solo, infatti. Ma sai, credo sia una di quelle cose che si devono dire, quando si decide di suonare insieme.”
“E quando avrei dovuto dirtelo!?” Blaine alzò gli occhi per incrociare direttamente i suoi, provando un brivido lungo tutta la schiena nel notare quanto fossero intensi; si era quasi stufato di sentirsi in quel modo ogni volta che stava intorno a Sebastian.
“Non c’è mai stata occasione di dirtelo.”
“Ah no? Perchè te ne potrei elencare tipo una trentina. Ad esempio, quando ti sei presentato dopo le provinciali. O quando abbiamo passato ore da soli in aula prove. O quando eri a casa mia a parlare di ukulele, potevi anche interrompermi e dirmi ‘Ehi, lo sai? Ho l’orecchio assoluto. Mi passi il vino?’.”
“Non capisco perchè tu sia così arrabbiato.”
Perchè se la stava prendendo tanto? Blaine aveva l’orecchio assoluto; avevano un vantaggio netto rispetto a tutti gli altri, avrebbe dovuto essere felice.
“Il vecchio lo sa?” Domandò, guardando con la coda dell’occhio le mura della casa, ma poi si corresse subito, commentando: “Oh, ma certo che lo sa. E’ così che hai ottenuto la borsa di studio, vero?”
Blaine annuì, non sapendo bene cosa dire. Sembrava quasi un’inquisizione, e lui non si sentiva affatto a suo agio.
“Avevo... durante il mio test d’ingresso, il professor Cage mi ha suonato un’improvvisazione jazz e mi ha chiesto di ripeterla. Io volevo passare a tutti i costi, quindi, la suonai a impronta. Non so come abbia fatto a capire che avessi l’orecchio assoluto.”
Ma forse, un poco, lo immaginava: Robert, semplicemente, era un ottimo musicista, e sapeva riconoscere una cosa più unica che rara quando la sentiva.
Sebastian si voltò da un lato, prendendo un paio di respiri lunghi, mentre la sua mente elaborava qualcosa di intricato. Blaine si sedette sulla panchina di legno poco distante da loro, posando le mani sulle ginocchia. Non era spaventato: si fidava di Sebastian. Tuttavia, dopo un momento di esitazione non riuscì a trattenersi dal chiedere: “Ti prego, potresti non dirlo a nessuno?”
Il ragazzo lo guardò perplesso; si avvicinò dopo qualche secondo, posizionandosi di fronte a lui e con un braccio posato sul fianco.
“Vuoi dire che non lo sa nessuno?”
Blaine, impercettibilmente, scosse la testa: “Solo tu e qualche professore.”
“Stai scherzando, vero? Lo sai che quasi tutti gli studenti credono che tu sia un borsista solo perchè hai corrotto qualcuno? Dovresti sbandierarlo ai quattro venti, cavolo, sei forse l’unico studente che ha l’orecchio assoluto!”
“Proprio per questo, non voglio che lo sappiano.” Lo interruppe bruscamente; troppo bruscamente. Sebastian inclinò leggermente la testa, prima di andare a sedersi proprio accanto a lui e cercare i suoi occhi ambrati.
“Blaine. Andiamo. Mi dici che ti prende? Fossi in te starei stappando bottiglie di champagne vantandomi con il mondo intero.”
Nemmeno quella sottospecie di battuta lo fece sorridere, e fu allora che Sebastian capì quanto fosse seria la situazione; perchè c’era qualcos’altro che non gli aveva detto, qualcosa circa i suoi ricordi, il suo passato. Restò in silenzio tutto il tempo necessario affinchè Blaine si decidesse a sfogarsi; le sue mani sembravano strette tra di loro in una morsa, i suoi occhi chiusi, come per attutire qualche dolore celato.
“Quando ero al liceo, facevo parte del gruppo di musica della scuola. Mi piaceva. Il resto del mondo mi maltrattava o ignorava perchè avevo fatto coming out da poco, ma lì eravamo tutti ragazzi a cui piaceva suonare, e nient’altro. E poi c’era Josh. Suonava il piano, come me.”
Dal modo con cui pronunciò il suo nome, si intuì perfettamente che quel ragazzo fosse stato più di un semplice amico.
“Io... stavo bene. Stavamo bene. Tutti sapevano che avevo l’orecchio assoluto, si divertivano molto a farmi suonare le cose più assurde.”
Con la coda dell’occhio, vide Sebastian sorridere, in modo quasi spontaneo; forse ce lo vedeva proprio un Blaine più giovane di qualche anno, sottomesso alle volontà di qualche studentessa più grande. Ma il suo sorriso svanì di colpo, non appena notò una piccola lacrima rigare la guancia di Blaine.
“C’era una specie di evento scolastico... dovevano suonare dei ragazzi della squadra di football, con la loro band hard rock, ma poi il professore che gestiva l’evento ha saputo del mio talento e li ha scaricati per far suonare me.”
E poi restò in silenzio, per molto tempo. Immaginò che Sebastian non riuscisse a capire bene, gli mancava qualche tassello, stava cercando di ricollegare immagini e ipotesi nella sua mente, ma gli sfuggiva qualcosa: “E’ stato tanto orribile?”
Perchè Blaine sembrava distrutto nel ricordare qualcosa, e la sua voce apparì come un sussurro quando rispose: “Non sono riuscito nemmeno a entrare nell’aula magna. Quei ragazzi hanno bloccato me e Josh e ci hanno picchiato fino a quando non siamo svenuti.”
Non disse più niente. Non c’era molto da dire, di fronte ad una cosa simile.
“Sono degli idioti.” Riuscì a commentare Sebastian dopo lungo tempo, le sue mani si aggrappavano alle ginocchia come se si trattenesse dal metterle addosso a qualcun altro; addosso all’immagine fittizia di un paio di ragazzi sicuramente più robusti di Blaine, che sghignazzavano contro di lui nel bel mezzo di un parcheggio vuoto. Adesso riuscì anche a capire il suo comportamento avuto durante la rissa, il suo volto terrorizzato, il modo con cui lo aveva supplicato di fermarsi.
“Dopo di quello Io e Josh ci siamo lasciati.” Continuò Blaine, piano, come pesando bene ogni parola. “Lui... non voleva più vedermi. Diceva che il mio dono gli faceva male.”
Non riuscì a vedere la smorfia di Sebastian, nè le sue mani che adesso si erano strette a pugno.
“E da allora mi sono chiuso in me stesso. Ho passato la mia vita a nascondermi da tutti cercando di suonare male, per non attirare troppo l’attenzione, sai. E ci sono riuscito per un po’.”
“...Per un po’?”
Blaine si voltò piano verso di lui, ed ecco: i suoi occhi smeraldini adesso erano limpidi, dolci.
“Sì.” Sussurrò. Il suo cuore batteva così forte da attutire qualsiasi altro suono, ma Blaine non voleva fermarlo; non voleva fermarsi.
“...Fino a quando non ho suonato insieme a te.”
In realtà, voleva soltanto immergersi dentro gli occhi di Sebastian, sprofondarci, avvicinarsi ancora di più a lui, osservare una ad una le sfumature di quel verde, perdersi nelle sue ciglia lunghe, nella sua pelle chiara.
Non si era nemmeno accorto di essersi avvicinato, fino a quando non avvertì il respiro caldo mischiarsi insieme al suo.
Non si era accorto di quanto provasse l’irrefrenabile istinto di baciarlo, fino a quando le sue labbra non sfiorarono le sue con delicatezza, per poi adagiarsi piano, caute, ma con una sicurezza mai provata prima.
Perchè stava baciando Sebastian, nel bel mezzo di quel giardino, riparati solo da un albero e dal lieve vento serale che cominciava a farsi sentire.
E poi, tutto si fermò.
Sebastian si allontanò da lui quasi confuso, gli occhi adesso divenuti grandi, espressivi.
“No Blaine, non lo possiamo fare.”
Se ne andò via quasi in un attimo, lasciando solo Blaine con tutte le sue emozioni irrefrenabili, a cui si era aggiunta quella amara di un bacio mancato.





***

Angolo di Fra




Ok forse state tutti sclerando, ma lasciatemi fare un po' la Robert della situazione.
I quattro minuti e trentatrè di silenzio esistono davvero, è un'opera di John Cage. Come come? Il cognome vi sembra familiare? ;)
La citazione che ho messo a inizio capitolo è davvero una cosa scritta da Liszt su Chopin. Ho trovato delle cose meravigliose tra libri e internet, e credo che d'ora in poi vi farò leggere altre tante belle cose.
Nel capitolo, Blaine dice di assomigliare a Mendelsshon, perchè anche Mendelsshon aveva l'orecchio assoluto. (Chopin no. Ma Liszt sì!)
E credo che sia tutto per il momento.
Adesso sclerate pure.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***




Capitolo 13



 


 
 
Non cercare di sapere: il tuo destino è l'incertezza. Non cercare di potere: il tuo destino è la debolezza. Non cercare di godere: il tuo destino è la rinuncia.  ---Franz Listz
 
 


Blaine aprì la porta di casa, abbandonando le chiavi sulla cassettiera accanto all’entrata; si sfilò velocemente il casco e la giacca, per poi lasciarli sull’appendiabiti senza nemmeno scomodarsi a raccoglierli, quando scivolarono a terra con un tonfo sordo. Nemmeno quel pestifero gatto di Lord Tumbington riuscì a interrompere i suoi movimenti meccanici e anonimi, venne completamente ignorato e guardò inerme il suo odiatissimo padrone mentre si accasciava sul divano; Blaine si passò una mano sul viso, chiuse gli occhi e fece un grande respiro: chissà, forse, sarebbe riuscito a dimenticare le ultime ore della sua vita.
Cosa diavolo gli era passato in mente? Anzi, no: sapeva perfettamente cosa gli fosse passato in mente. Perchè ormai non riusciva più a negare a se stesso quanto si sentisse fortemente legato e attratto da Sebastian, ma era proprio questo il punto: avrebbe dovuto stare fermo. Avrebbe dovuto nasconderlo, tenerlo per sè, farselo passare in qualsiasi modo.
Adesso aveva rovinato tutto, lo sapeva, e solo perchè era stato trasportato dai sentimenti e non era riuscito in nessun modo a trattenersi. Era uno stupido.
“Blaine?”
Brittany aveva una vestaglia corta e aderente, gli occhi assonnati, i capelli tutti arruffati e stringeva al petto il pupazzo di un delfino.
“Che succede?”
Per un attimo, pensò anche di mentirgli e lasciare che la notte scorresse lenta e inesorabile; non sarebbe riuscito a dormire, forse, al massimo sarebbe riuscito a rilassarsi sul letto fissando un punto inesistente sul soffitto. Ma poi, Brittany si avvicinò a lui con dolcezza, come una sorella più piccola che aveva paura di disturbare il fratellone tutto serio; gattonò sul divano fino ad arrivare a lui e, inclinando leggermente la testa come un gattino, lo incitò con i suoi grandi occhi chiari a dirle il suo problema.
Per un momento, un momento solo, una parte di Blaine desiderò avere quella stessa intimità con Sebastian. Ma poi si ricordò che era impossibile, così si ritrovò ad abbracciarla, ad affondare la testa trai capelli biondi dell’amica, sussurrandole, con voce un po’ spezzata dall’emozione: “Andiamo, ti racconto tutto mentre prepariamo le frittelle post cotta.”
 

 
Robert quella mattina era di buon umore; i suoi nipoti erano splendidi, sua moglie non lo aveva fatto dormire sul divano e i suoi allievi- un momento, dov’erano i suoi allievi?
Blaine e Sebastian non si trovavano nell’aula prove come stabilito, e per quanto un ipotetico ritardo del primo fosse molto probabile, non lo era di certo quello del secondo: si recò velocemente in portineria, chiedendo se avessero visto i due studenti che stava cercando, quando un paio di voci squillanti e concitate attirarono la sua attenzione.
“Noi li abbiamo visti!”
Non fece in tempo a voltarsi che un paio di ragazze molto carine e molto strane si erano presentate davanti a lui: “Lei è Amanda, io Sarah. Blaine è arrivato questa mattina presto e penso che sia a dormire da qualche parte, crollava dal sonno.”
“Sebastian è arrivato poco fa”, intervenne l’altra, “Si è guardato intorno come un ninja e poi è andato chissà dove.”
Robert ricevette quella valanga di parole – davvero, quelle due sembravano un vulcano in eruzione – senza battere ciglio, con il suo bastone di legno che picchiettava placidamente le mattonelle del terreno.
“Quindi, in pratica, non sapete dirmi dove sono.”
Le due ragazze si guardarono incerte, per poi fare di no con la testa. Bene, pensò Robert piuttosto seccato, aveva già perso del tutto il suo precedente buon umore; non aveva nessuna voglia di setacciare tutto il conservatorio per andarli a cercare. Ma poi, il suo sguardo ricadde di nuovo sulle due ragazze, e si illuminò con una strana luce diabolica.
“Amanda e Sarah, giusto?”
Come richiamate all’attenzione, si misero composte con la schiena dritta, aspettando un qualche suo ordine; ormai conoscevano Robert, e conoscevano il suo tono misterioso e per niente promettente.
“Mi fareste il grande favore di trovarli per me? Entro... dieci minuti, magari? Vi prometto che ricambierò il favore.”
Le vide strabuzzare gli occhi a dir poco incredule; sicuramente si stavano chiedendo cosa volesse intendere con ricambiare il favore, ma non avevano molto tempo per pensare. E poi, chi mai rifiuterebbe un ordine del professor Cage?
Quando le vide sgattaiolare via lungo i corridoi, il professore fece l’occhiolino all’uomo della portineria, che ricambiò con una risata divertita e una piccola pacca sulla spalla: forse quello poteva chiamarsi abuso di potere. Lui preferiva definirlo come ‘avere una certa influenza sui propri studenti’.
 
 
Le prove furono più silenziose del solito. Forse perchè Sebastian era troppo concentrato ad ammirare il suo strumento, o forse, perchè Blaine sembrava come svuotato di ogni commento cinico da riferirgli. Robert continuava a dare ordini ai due ragazzi, sospirando, facendoli provare per delle ore, senza nemmeno l’ombra di una pausa: non capitava spesso di trovarli così silenziosi, quindi, li spremette più che potè nella speranza di far uscire qualcosa di decente.
Tuttavia, capì subito che qualcosa non andava: Blaine evitava di guardare Sebastian, Sebastian sembrava come catturato dal suo violino. E c’era una tensione, nell’aria, che rendeva l’acustica pesante e oppressiva: perfino le note, quel giorno, sembravano non andare bene, eppure non c’era dubbio che i loro strumenti fossero accordati.
“Ragazzi?”
Quando vide i due alzare la testa lentamente, come intimoriti da qualcosa, Robert ebbe ancora più riguardi nel fare quella domanda, e la sua voce uscì debole come un sussurro.
“Ma... va tutto bene? E’ successo qualcosa? Avete... litigato?”
No. Qualcosa, a metà tra il rossore delle guance di Blaine e l’espressione pietrificata di Sebastian, gli suggerì che quella non fosse la risposta esatta. Così, con un sorrisetto un po’ sghembo, non disse niente: non era professionale, alla sua età, fare il tifo per due suoi allievi.
“Potete andare, per il momento. Se avete qualche dubbio non esitate a chiamarmi.”
Li vide annuire, con una diligenza che poteva anche essere solita in Blaine, ma di certo non lo era in Sebastian: chissà come mai, era quasi convinto che fosse lui l’artefice del loro “problema”.
“Dovreste dialogare di più, comunque.” Commentò con fare vago sistemando nella custodia i suoi occhialini sottili: “Esporre i vostri problemi, confrontarvi l’un l’altro. Sicuramente decidere insieme l’interpretazione da dare è sempre una buona mossa.”
Era ben consapevole di star facendo aumentare l’aritmia del cuore in entrambi, sia per averli indotti al dialogo, sia per le parole usate nel farlo, estremamente ambigue e ai loro occhi e sicuramente di cattivo gusto; ma dopotutto, certi divertimenti alla sua età erano così rari, e quei due erano sin troppo divertenti.
“Avete capito?”
“Sì”, riuscì a rispondere Sebastian, come se si fosse rifiutato di mantenere un comportamento intimidito per il resto della giornata; Blaine sembrò apprezzare quel fatto, tanto che per la prima volta in due ore si girò a guardarlo. I loro occhi si trasmisero diverse frasi, che il professore non riuscì a cogliere: non aveva ancora ben capito se si erano baciati, o se uno aveva provato a uccidere l’altro.
Nel dubbio, decise di andare a prendersi un caffè, lasciando finalmente i due musicisti da soli.
 
 
“Allora?” Esordì Blaine. Teneva le braccia serrate al petto, le labbra chiuse in una smorfia: “Hai qualcosa da dire?”
Non riusciva ancora a credere di quello che stava succedendo: non riusciva a credere a quello che aveva fatto la sera prima; era sicuramente colpa del punch, quei bambini lo avevano avvelenato. Non riusciva a credere di aver baciato Sebastian, nè tantomeno di stare per affrontare proprio quell’argomento, e tutto per colpa del loro professore: fosse stato per lui avrebbe preso la sua tracolla e sarebbe fuggito a casa, lontano da tutto il resto del mondo. Forse, avrebbe dovuto ascoltare Brittany e starsene a casa a suonare tutto il giorno la Goccia d’Acqua di Chopin, e non venire a lezione con l’alto rischio di essere costretto a parlare con Sebastian. In realtà, il suo piano era stato perfetto, fino a quando non si era intromesso Cage con il suo ordine sottinteso di dialogare; da un lato detestava quell’uomo, che li faceva finire sempre nelle situazioni più assurde, dall’altro, però, era tutta la notte che non faceva altro che sognare le sue labbra morbide e a domandarsi che cosa pensasse lui. Perchè si fosse comportato così; insomma, Blaine era tante cose, ma non era di certo uno stupido: Sebastian provava qualcosa per lui; non aveva ancora capito cosa, però.
E poi il violinista lo fissò, come se non volesse dargli la soddisfazione di una risposta;iI suoi occhi verdi erano come imperscrutabili, ancora più freddi della prima volta che li aveva visti.
“Credo che nel secondo movimento tu fossi un po’ lento.”
Oh. Dunque, di quello si trattava: solo musica. Allora, era quella la strada che avevano deciso di intraprendere? Dimenticare tutto, ignorare quello che era successo?
“Bene”, commentò Blaine. Esitò per qualche secondo, secondi nei quali Sebastian si limitò a fissarlo, piuttosto confuso: da quando Blaine aveva perso l’uso della parola?
Così, perchè non sapeva bene cosa dire, rispose a sua volta: “Bene.”
Per Blaine non era bene. Lui non stava bene, non potevano continuare in quel modo.
Senza aggiungere altro se ne andò, senza curarsi di dare la schiena a Sebastian o salutarlo fino al loro prossimo incontro.
 
 

Non gli era mai piaciuto quell’ambiente; l’odore denso e forte di alcool mischiato a quello di canna e sigarette scadenti; il rumore assordante della musica alta, che gli faceva perdere quel poco di lucidità rimasta. Sebastian era quasi convinto che ormai, trascinarsi in quelle discoteche era diventato una sorta di dovere, e non tanto di bisogno: perchè non c’era niente che gli piacesse in quel ragazzo che adesso era intento a baciargli il collo, niente che lo entusiasmasse, che gli facesse battere il cuore.
“Come hai detto che ti chiami?” Lo sentì mormorare un po’ troppo ansimante, mentre con le mani vagava lungo la sua camicia sbottonata fino ad arrivare alla cintura dei jeans; Sebastian socchiuse gli occhi a quella domanda, cercando di non pensare, non rispondere, non fare qualsiasi cosa che lo portasse a spingere via quello sconosciuto e andarsene a casa.
“Che ti frega?” Sbottò allora con una voce resa roca dall’ultimo cocktail al rhum, e il ragazzo in risposta lo sentì ridacchiare, era divertito, era chiaramente divertito perchè non gli capitava certo tutti i giorni di scopare nel bagno della discoteca con un ragazzo bellissimo e senza pretese.
E mentre Sebastian sentiva il suo corpo strusciarsi contro il suo, mentre dei caldi gemiti accompagnavano i suoi movimenti facendogli annebbiare la vista, una parte di sè si sentì risollevata, e molto. Era questo che voleva; piacere svincolato dal sentimento, qualcosa di unicamente fisico e carnale.
Ma poi la sua mente gli giocò un terribile tiro mancino, e lui si trovò a emettere gemiti più profondi; perchè davanti ai suoi occhi chiusi non c’era l’immagine di quello sconosciuto che adesso lo stava lentamente baciando, ma una massa di riccioli scuri, che avrebbe voluto afferrare, stringere, accarezzare.
Un sorriso dolce e spontaneo, che era consapevole di aver strappato via in un solo istante.
Era il ricordo di aver provato, non la sensazione; per questo Sebastian ogni volta cercava una persona diversa: voleva ricordare. E ogni volta diceva ecco, era proprio questo; ma appena finito scompariva di nuovo. Era frustrante. Non si ricordava il sapore delle labbra di quei ragazzi. Lipperlì sapeva che gli piaceva, che lo eccitava, magari. Nulla di più.
Invece, gli era bastato un piccolissimo contatto con quelle di Blaine, per far imprimere il suo sapore nella memoria.
Mordendosi un labbro, cominciò ad abbandonarsi allo sconosciuto con ancora più passione, sperando di riuscire a cancellare via quei pensieri.
 
 
“Che ti prende?”
Quella fu la frase che Santana gli rivolse con nemmeno tanta compassione, dal suo tavolo di marmo perfettamente lucido su cui sopra stavano dei grissini e un barattolo di burro d’arachidi. Sebastian aveva l’aspetto trasandato, gli occhi stanchi, la schiena curva e tutto ciò che voleva era soltanto farsi una doccia e mettere a dormire i suoi nervi, il suo cervello, qualsiasi cosa.
“Da come sei sconsolato, sembra quasi che tu ti sia fatto una donna.” Commentò Santana con un ghigno; Sebastian mormorò qualcosa poco convinto, e si chiuse in bagno senza fare altre storie.
Il getto d’acqua calda gli garantì quel poco di sollievo che gli serviva per andare avanti; si vestì velocemente, frizionandosi i capelli con un asciugamano, non preoccupandosi nemmeno di asciugarli come si deve: in realtà, non aveva nessuna voglia di prendere il phone e mettersi allo specchio. Non voleva guardarsi. Avrebbe dovuto sentirsi bene, come ogni volta che tornava da una serata con qualcuno; non era così. Non era affatto così, e non aveva il coraggio di vedere quale espressione avesse in quel momento.
“Dì un po’.”
Santana si presentò senza troppi fronzoli alla sua porta, ignorando il fatto che volesse stare un po’ da solo, ignorando la privacy e qualsiasi cavolata che con lei non funzionava. Purtroppo per Sebastian, non c’era niente da fare quando la sua coinquilina iniziava con quel tono. La vide avvicinarsi a lui, a braccia conserte, un’espressione tesa sul volto: “Hai il ciclo, per caso?”
Sebastian fece un sospiro che assomigliò quasi ad una risata, ma con scarsi risultati.
“No perchè mi devi spiegare come mai sembri una di quelle ragazzine in piena depressione ormonale.”
“Non sono depresso.”
“Sebastian.”
Sapeva anche, con suo grande dispiace, che quando Santana lo chiamava per nome e non con qualche nomignolo assurdo, non aveva proprio vie di fuga.
“Non è niente, ti dico.” Cercò di mugugnare alzandosi in piedi e dirigendosi in cucina, seguito insistentemente da Santana a nemmeno due passi dietro di lui; non appena fu in prossimità del tavolo, sentì le sue mani ferme e decise contro le spalle e fu costretto a sedersi, proprio di fronte ai grissini e al burro d’arachidi.
Santana aspettò pazientemente seduta sulla sedia di fronte a lui; lo guardò per qualche secondo, si prese un altro grissino, ne mangiò almeno la metà e alla fine battè una mano contro il tavolo sospirando un: “Muoviti.”
“Muoviti cosa?”
“Muoviti a raccontare. Non abbiamo tutta la notte. O meglio, sì, ma io voglio anche dormire.”
Sebastian si strinse nelle spalle, afferrando il cucchiaino appoggiato accanto alla mano di Santana e prendendo una piccola quantità di burro d’Arachidi, fissandolo incolore.
“Quello era mio.” Gli fece notare l’amica.
“E al popolo?”
“Non ti lamentare se poi ti viene la mononucleosi.”
“Già avuta.”
“Il colera?”
“Estinto.”
“Il raffreddore.”
“Ma se sei più sana di un pesce.”
Si portò il cucchiaino alla bocca, assaporando il dolce sapore del burro mischiato al freddo del cucchiaino di ferro; era piacevole. Paradossalmente, era molto più piacevole del sapore di quello sconosciuto di qualche ora prima, e a quel pensiero si ritrovò a sbuffare.
“Oh, non me lo dire.” Santana roteò gli occhi al cielo, gesticolando con il grissino che teneva stretto tra le dita, e Sebastian davvero la detestava quando faceva così: perchè non se ne stava zitta? Perchè non si faceva i fatti suoi? Perchè, per una buona volta, non poteva andare tutto come voleva lui?
“Dobbiamo fare come al solito? Cioè che io ti tartasso di domande fino a che non ti decidi a sputare il rospo?”
“Ieri Blaine mi ha baciato.”
Beh, almeno era riuscito ad ammutolirla.
“...Blaine, quel Blaine?” Domandò incredula dopo aver passato un minuto a fissarlo con la bocca semi aperta e il grissino che rischiava di scivolarle dalle mani. Sebastian sviò lo sguardo di lato, borbottando innervosito: “Quanti Blaine conosci?”
“Beh, c’è il Blaine del bar,il Blaine della caffetteria, quello con cui sono uscita quando mi fingevo ancora etero, e-“
“Sì Santana, quel Blaine.” Tagliò corto lui, non aveva voglia del suo cinismo, in quel momento.
“Oh. Beh allora congratulazioni.”
Fu allora che si decise a guardarla, perchè si aspettava di tutto, tranne che una frase del genere; Santana intuì i suoi pensieri, e in risposta si accomodò meglio sulla sedia commentando: “Che c’è? Si vede lontano un chilometro che sbavi per lui. Non sei contento che finalmente puoi invitarlo a casa senza quello stupido motivo di suonare?”
“Non era uno stupido motivo, era l’unico motivo.”
“Sì certo, e io sono Crudelia Demon”, rispose mangiando un altro pezzo del grissino, ma prima che Sebastian potesse aprire bocca per parlare aggiunse velocemente, “Non ti azzardare.”
E a Sebastian scappò un piccolo sorrisetto, perchè era vero che lei assomigliasse a Crudelia Demon, ma forse era meglio non sottolinearlo.
“Quindi?” Incalzò lei, guardandolo più decisa, come se pretendesse una risposta seria, quella volta, “Mi vuoi dire qual è il problema?”
Ci fu un lungo silenzio; Santana fissò Sebastian con insistenza, e quest’ultimo fissò le sue mani intrecciate sulla tavola, come per raccogliere le idee, o le frasi da dire. C’erano troppi pensieri nella sua mente, era difficile ordinarli tutti, ma forse, la cosa migliore da fare era parlare con franchezza.
"Io mi trovo bene con Blaine."
Santana non fece ricorso a qualche suo commento acido: era così raro vedere Sebastian aprirsi in quel modo, che non poteva rovinare tutto.
"E allora?" Chiese, ma non con quella freddezza che la caratterizzava.
"E allora per questo non ci voglio andare a letto. Si rovinerebbe tutto. Con lui... con lui posso parlare di tutto, posso raccontare qualsiasi aneddoto stupido senza sentirmi giudicato. Possiamo passare ore insieme senza annoiarci per un minuto."
E i suoi occhi sorrisero un po’ mentre diceva quelle frasi, perchè erano delle belle parole; era una bella verità, a cui non voleva in nessun modo rinunciare.
"Siete in confidenza.” Constatò Santana, “Sai di solito è così che funziona con un amico."
"Appunto. E' un... è un amico.” Ammise infine, cominciando a rigirare il cucchiaino perfettamente pulito tra le dita. Nonostante l’esitazione, parlò in modo chiaro e nitido: “Se ci andassi a letto cambierebbe tutto."
"E perchè non potete essere scopamici?"
Perchè Blaine era dolce, sensibile e importante; perchè aveva una considerazione troppo alta di lui per scendere a quel livello. Perchè Sebastian non lo voleva; però, d’altro canto, l’idea di una relazione seria era totalmente fuori dalla sua portata. Non credeva nelle relazioni serie, non ci aveva mai creduto; non duravano mai, erano piene di promesse infrante, di speranze illuse. Non poteva permettersi di perdere Blaine: doveva suonare con lui. E poi, era un suo amico. Forse, l’unico amico che poteva chiamare tale.
"...Blaine non è quel tipo di persona."
Santana lo guardò a lungo, per poi alzarsi in piedi e dirigersi in camera, non prima di avergli dato una piccola pacca sulla spalla.
"Non sta a te dirlo."
No, certo che no: Blaine era abbastanza grande e maturo da saper scegliere le proprie strade. Ma Sebastian sapeva che quella fosse la strada sbagliata, se lo sentiva.
Eppure, all’idea di poter baciare Blaine come si deve, di poterlo stringere a sè, sentirlo, in un modo che fino ad ora si era solo immaginato, il suo corpo ricevette un brivido caldo, che gli fece venire la pelle d’oca.
La parte razionale di lui sapeva di non potere; era solo questione di farlo capire anche a quella istintiva, quella che desiderava Blaine in ogni momento, che dopo l’accenno di quel bacio non riusciva più a contenere come voleva.
Sperò solo che riuscisse a farla tacere, prima di commettere un errore madornale.
 








Angolo di Fra:


Scusate, questo capitolo non è il massimo. E' proprio brutto in realtà. Prometto che il prossimo andrà meglio.
E grazie a chi mi legge e recensisce, mi illuminate la giornata.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***




Capitolo 14






 

Ogni difficoltà su cui si sorvola diventa un fantasma che turberà i nostri sonni.
-- Fryderyk Chopin
 



 
“Buongiorno Sebastian.”
Il ragazzo si fermò giusto in tempo per vedere Santana rivolgergli un ghigno quasi divertito, nascosto dalla tazza di caffè che stava sorseggiando: “Ho sentito che hai passato una bella nottata. Come si chiamava il nostro ospite che è sgattaiolato fuori dalla tua porta alle...” Fece un momento di pausa, giusto per controllare il suo orologio invisibile al polso, “Tre di notte?”
Come se non sapesse esattamente l’ora in cui avevano finito di fare quello che dovevano fare: era stato talmente rumoroso che perfino Sebastian era rimasto un po’ sconcertato.
“Samuel. O Simon, mi pare.”
“Bei nomi.”
L’occhiata gelida ricevuta da Santana non sortirono in lui nessun effetto.
Se ne fregava di quello che pensava lei; se ne fregava se lei non portava in casa una donna da giorni, e lui invece aveva l’agenda piena. Se ne fregava del fatto che lo stesse giudicando perchè da una settimana a quella parte aveva rimpiazzato ogni suo sentimento con il sesso e, no, non aveva ancora parlato con Blaine. E allora? Si incontravano ogni mattina, suonavano. A lui stava più che bene.
Tranne quando non riuscivano a suonare perchè Blaine, di scatto, si alzava in piedi con la scusa di prendersi un caffè e andava via, lasciando completamente esterrefatti sia lui che Robert.
Tranne quando un giorno lo aveva visto seduto al pianoforte, con la schiena curva e gli occhi concentrati sul foglio, il lapis stretto tra le labbra.
Tranne quando provava l’impulso irrefrenabile di baciarlo e chiedergli di cancellare quello che si erano scambiati a casa di Robert.  Un po’ contraddittorio, in effetti.
Per il resto, andava tutto bene.
“Lo sai.” Santana parlò con tono vago, tracciando dei cerchi immaginari sul tavolo di fronte a lei, “Se non ti muovi a parlare con Blaine, lo farò io al posto tuo.”
“E perchè mai? Non ci guadagneresti nulla.”
Ovviamente, a giudicare dal modo con cui lo guardò compiaciuta intuì di aver sbagliato completamente nella scelta delle parole.
“E tu sì?”
Maledizione.
“Non vedo l’ora che quella testa di riccioli ti dia un bel pugno in faccia anche da parte mia.”
“Non potrebbe mai succedere.”
No, perchè Blaine, in sette giorni, non lo aveva degnato neanche di uno sguardo. Sicuramente non si sarebbe scomodato a rivolgergli la parola.
 
 
 
“Buongiorno Blaine.”
Altro che buongiorno.
Camera sua era completamente invasa da qualsiasi forma vestiaria vivente. Dai calzini sparsi per tutta la camera, ovviamente, nessuno di quelli accoppiati con un altro uguale, alle felpe larghe e casalinghe che lo facevano sentire ancora più depresso di quant’era. Come se alzarsi tutte le mattine, vestirsi, pettinarsi e vedere Sebastian non fossero già abbastanza.
Come se a illuderlo completamente che, quella volta, sarebbe stato veramente un buon giorno, non bastasse quella parte della sua mente che desiderava ogni volta baciare Sebastian per costringerlo a ricambiare. Ancora non riusciva a capire perchè lo avesse respinto; non era abbastanza bello? Non era abbastanza simpatico, o affascinante, o vagamente interessante?
Forse, semplicemente, non rispondeva alle sue aspettative.
Brittany fece capolino dalla porta con i capelli raccolti in una lunga coda e un vassoio di frittelle con la forma di uno smile.
“Oh Brit, davvero, non dovevi... però devo dire che ho una certa fame!”
“Oggi le ho fatte con i croccantini di Lord Tumbington.”
Blaine sbattè le palpebre un paio di volte, i suoi grandi occhi ambrati semplicemente allibiti. Certo che ci voleva anche un certo impegno per inventarsi quelle ricette.
“...In effetti devo scappare a lezione, farò colazione fuori.”
 
 
 
C’erano soltanto due cose positive nel trascorrere la mattinata chiuso dentro al Franz Liszt. La prima, sicuramente, era suonare: non riusciva a immaginare come sarebbe stata la sua vita senza il pianoforte. Si sfogava senza nemmeno bisogno di parole, lasciava che tutta la tensione e le emozioni scivolassero contro la tastiera, sentendosi automaticamente meglio.
La seconda cosa, un po’ meno importante, era assistere a siparietti quasi comici dei suoi colleghi più strampalati.
“Non è stata colpa nostra!”
Blaine si fermò con un sospiro nel bel mezzo del corridoio, prima di voltarsi e affacciarsi esattamente dove Amanda e Sarah stavano discutendo con Robert.
“Quella stampante si è rotta da sola, davvero!” Sbottò la bionda quando l’uomo davanti a lei storse il naso.
“E’ una cospirazione contro le menti dell’arte.” Continuò Amanda. “E’ l’arte contro la scienza. Non riusciremo mai a incontrarci.”
“Forse se facciamo un corso preparatorio di stampantologia potremo migliorare?”
Stampant... ascoltatemi bene.” Robert sembrava sull’orlo di una crisi di nervi; Blaine sorrise tra sè e sè, un po’ malinconico: Quasi non riusciva a credere che, nemmeno una settimana prima, lui e Sebastian esasperavano il professore con i loro discorsi impossibili.
Sembrava passato così tanto tempo.
“Devo complimentarvi con voi per la vostra innata capacità di risultare irritanti e misteriosamente divertenti allo stesso tempo.” Commentò il professore, mantenendo comunque un tono austero. “Ma quando torno, voglio che quella stampante e tutti gli spartiti siano perfetti e funzionanti.”
“Come fa a funzionare uno spartito?”
Amanda e Sarah si guardarono pensierose, fino a quando la seconda non parlò quasi sottovoce: “Non so, magari dobbiamo solo trovare la chiave giusta.”
“Ma da dove ti escono? E’ geniale!”
“Fatevi delle domande.” Dichiarò il professore. “Fatevi delle serie domande, e datevi anche delle risposte.”
Blaine dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non scoppiare a ridere e farsi beccare a origliare nel bel mezzo del corridoio; ma poi, quando il professore si girò di scatto come percependo la sua presenza, si tappò la bocca uscendo il più in fretta possibile dal suo campo visivo, andando a spalmarsi contro il muro accanto alla porta.
E fu semplicemente assurdo che una parte di sè stesse ancora cercando di bloccare le risate; così come fu assurdo che, senza nemmeno farci troppo caso, si guardò intorno in cerca di Sebastian, come se volesse renderlo partecipe della scena.
Ma poi, l’euforia del momento svanì e tutti i ricordi tornarono di nuovo a galla. Almeno, adesso non gli veniva più da ridere.
“Dovresti controllare il tuo cellulare.”
Robert lo colse letteralmente alle spalle, facendolo sobbalzare enormemente e rischiando uno o due attacchi cardiaci di fila.
“Dico sul serio Blaine.” L’uomo indicò la tasca dei suoi jeans con il bastone sembrando alquanto serio, come se volesse dargli un consiglio fondamentale: “Quando si spia qualcuno ricordati sempre di togliere la vibrazione. Sai, per un professore di musica è un po’ difficile non sentire quel fastidioso brusio.”
Vibrazione?
Salutando di sfuggita il suo professore, lesse con fare confuso il numero sconosciuto impresso sul display, chiedendosi chi fosse, e come avesse ottenuto il suo.
Parte dei suoi dubbi fu chiarita quasi subito, una volta letta la prima riga del messaggio.
 

 
Sebastian lo sapeva; lo aveva sempre saputo, sin dal primo momento, che non doveva fidarsi di quella maledetta, acida, diabolica macchinatrice nominata Santana. Non avrebbe mai dovuto confidarsi con lei sperando in una sorta di segreto confessionale, o un patto di alleanza tra coinquilini; non esistevano più quelle cose, nel ventunesimo secolo?
Nel momento in cui la vide al bancone del bar, con uno dei suoi soliti top attillati e il suo immancabile ghigno da strega, resistette all’impulso di ordinare qualcosa di forte solo per rovesciarglielo addosso tutto in una volta.
“Dimmi che non l’hai fatto.”
In risposta, lei lo fissò con un sopracciglio inarcato, mentre il resto della sua faccia gridava vittoria.
“Fatto cosa?”
Oh, quanto adorava far impazzire Sebastian; almeno quanto adorava le ballerine che si presentavano puntualmente nel suo locale, ma quella era un’altra storia. Lo vide estrarre un post-it dalla tasca, visibilmente accartocciato e riaperto un indeterminato numero di volte.
Caro Sebastian” recitò, imitando la sua voce ma denigrandola, usando il falsetto, “Questa sera grande serata al pub, sei ufficialmente invitato. Ah, mi sono presa la libertà di mandare un messaggio a Blaine, ho preso il numero dal tuo inutilissimo cellulare, visto che lo lasci sempre abbandonato su questo tavolo. La mamma non ti ha insegnato che non si lasciano le cose in giro? Con amore, Santana. Dimmi che stai scherzando.”
“L’ultima frase non c’era nel biglietto.”
“Santana.”
“Stavo solo cercando di aumentare la clientela”, rispose con nonchalance.
“E tra tutti dovevi proprio invitare Blaine Anderson, stasera?”
“Non pensavo che fosse un problema per te.” Assottigliò lo sguardo, squadrandolo dal basso verso l’alto continuando ad asciugare il suo bicchiere da cocktail. “Lo è?”
“No – borbottò – certo che no. Che vuoi che me ne freghi di lui. Tanto non verrà.”
“Perchè, tu resti?”
A volte odiava l’acume assolutamente diabolico della sua coinquilina.
“Mi faccio una birra, non si può?”
“Come ti pare”, rispose lei con una scrollata di spalle, cominciando ad armeggiare con il cavatappi.
Si arrotolò le maniche della camicia, passandosi una mano sui jeans a sigaretta e l’altra trai capelli perfettamente sistemati, godendosi per un attimo la musica non ancora alta del locale. Erano le undici passate, la folla di gente pronta a bere e festeggiare sarebbe arrivata un’ora più tardi, e lui aveva tutto il tempo per bere qualcosa e rimorchiare qualche nuovo ragazzo del pub. In realtà passò il tempo a parlare con Santana prendendola in giro sulla sua scarsa abilità nel fare Long Island; non che lui fosse un maestro, ogni volta che lo sfidava a farne uno si rifiutava sempre con la scusa di non poter rischiare di danneggiare le sue mani.
 

 
“Blaine, mi dici dove stiamo andando?”
Ma Blaine in quel momento era troppo sbronzo e depresso per rispondere in modo sensato: trascinò controvoglia Brittany dentro al taxi, solo perchè non aveva ceduto e si era auto-invitata a uscire con lui. In effetti, la serata “sangria fatta in casa” non era stata proprio una buona idea. L’idiota che aveva detto “bere per dimenticare” era davvero un idiota, metabolizzò la sua mente, sbuffando per la ripetizione ma troppo stanca per trovare un altro sinonimo. E poi era proprio buffo: erano giorni che continuava a non avere idee buone, anzi, erano davvero tremende.
Non voleva andare veramente da Santana, o forse sì? Per un momento, tutto ciò che aveva pensato era che volesse uscire e divertirsi, sapendo che Sebastian non sarebbe mai venuto: odiava la musica moderna, aveva perso il conto di tutte le volte che lo aveva sentito inveire contro la radio o la classifica di Billiboard. Ad ogni modo, un brivido gli corse lungo tutta la schiena al pensiero del ragazzo perchè voleva chiarire con lui, dirgli che si era sbagliato, supplicarlo di dimenticarsi tutto e sperare che tutto sarebbe tornato come prima; ma non quella sera. Quella sera era dedicata a lui e la sua migliore amica.
“Blaine”, Brittany miagolò contro la sua spalla strusciandosi come un velo felino, “Ho tanta voglia di ballare.”
“Balleremo presto Brit, poco ma sicuro.”
“E ho voglia di baciare qualcuno.”
Quella frase fu un poco destabilizzante.
“...Okay”, mormorò, non troppo convinto. Non era riuscito ancora a capire bene se la sua coinquilina fosse più interessata agli uomini, alle donne o ai gatti: a volte sembrava avere degli atteggiamenti del tutto incomprensibili, e lui in quei casi non sapeva mai cosa fare. Decise che non sarebbe stato affare suo e che se qualcuno – o qualcuna – dall’aspetto affidabile avesse trascinato Brittany fuori dal locale, non si sarebbe opposto. Non aveva le forze per fare il genitore protettivo, nè fisiche, nè psicologiche.
Il vetro appannato della macchina rendeva il mondo ancora più offuscato di quanto gli sembrava, facendogli girare ancora di più la testa: bere. Qualcuno aveva da bere?
Tutto ad un tratto, anche lui aveva voglia di ballare.
 
 
Era quasi mezzanotte, la musica ormai era così assordante che Sebastian e Santana per comunicare si limitavano a scambiarsi occhiate e gesti inconsueti con le braccia; Sebastian stava cercando di combattere il suo io interiore che stava per esplodere a causa di quella musica orribile e continuava a guardarsi intorno, alla ricerca di qualche bel ragazzo. O almeno, questo era quello che diceva tra sè e sè: in realtà quella sera sembravano tutti troppo poco interessanti, per essere degni della sua attenzione. Forse, perchè il pensiero di una persona in particolare annullava automaticamente ogni confronto con le altre; cercò di convincersi del contrario, cominciando a flitrare con uno studente di Yale in vacanza per il week-end. Un turista, dunque: erano i suoi preferiti, scopavano presi dall’euforia del viaggio e se ne andavano senza lasciare traccia. Inoltre, faceva sempre piacere ricevere complimenti particolari sulla sua bellezza, o sul suo look semplice ma efficace: a lui, per fare colpo, bastavano un paio di jeans, una camicia fatta bene ed un ghigno al momento giusto.
“Suono il violino.”
Ogni volta, quella frase riscuoteva un gran successo: probabilmente perchè l’immagine di lui che accarezzava ed ondeggiava assieme allo strumento era una sorta di afrodisiaco.
“Ma non mi dire”, gridò il ragazzo accanto, troppo anonimo perchè lui si ricordasse il nome.
Stava già per proporgli “quattro o cinque solfeggi” da effettuare in bagno, quando due tocchi decisi alla spalla provenienti da dietro di lui lo fecero voltare: “Eccolo lì, il ragazzo degli accordi.”
Non sopportava che Santana gli affibbiasse quei nomignoli ridicoli, che non avevano senso dal momento che lei non capiva un’acca di musica classica: tuttavia, nel momento in cui i suoi occhi incrociarono una figura non troppo alta, con i capelli sistemati dal gel, dei jeans stretti e una maglietta scura, semplice, piuttosto aderente, per un attimo si dimenticò cosa dire.
Blaine si guardava intorno come incuriosito, i suoi occhi ambrati vagavano per tutta la stanza contemplando design e poster di famosi dj attaccati alle pareti colorate dalle luci al neon. Eppure, il suo sguardo era un po’ troppo strabiliato, ed i suoi movimenti troppo insicuri: a Sebastian bastò un’occhiata per capire che fosse totalmente ubriaco.
Riuscì ad intravedere un suo sorriso, che diventò ancora più raggiante quando si voltò verso una ragazza dietro di lui, evidentemente, una sua amica: indossava un vestito che lasciava davvero poco all’immaginazione e i capelli biondi cadevano morbidamente sulla sua schiena scoperta.
“Oh merda.”
Qualcuno doveva aver interpretato i suoi pensieri? No, era semplicemente Santana, che adesso si trovava esattamente accanto a lui.
“E quello schianto accanto al tuo amico chi è? La conosci? Ma soprattutto, la conosce?”
“Evidentemente sì”, mormorò continuando a tenere gli occhi fissi su di Blaine: non sembrava interessato a cercarlo, nè ad accorgersi della sua presenza. Dopo la discussione – o meglio, sfuriata – avuta con Santana aveva capito che lei gli avesse assicurato una serata piuttosto divertente, nel suo locale, e che magari gli avrebbe anche offerto una bevuta gratis. Era praticamente certo che Blaine non sapesse di lui; altrimenti, non si sarebbe mai fatto vivo, no?
Un signore sulla quarantina arrivò da loro, ordinando una birra fresca per Santana che fu costretta a tornare dall’altra parte del bancone. Intanto, il ragazzo anonimo di prima sembrava completamente offeso dall’improvvisa mancanza di interesse di Sebastian, adesso nemmeno lo guardava mentre lui stava facendo di tutto per rimorchiarlo.
“Insomma questi solfeggi?” Soffiò con voce serafica ad un suo orecchio ma, in risposta, ottenne solo uno sguardo truce dal ragazzo.
“Eh? Ah sì avviati, magari ti raggiungo dopo.”
Magari no, pensò un angolo della sua mente, quello che non era troppo impegnato a immaginarsi i fianchi di Blaine premuti contro i suoi. Non era normale che quel ragazzo ballasse in quel modo in mezzo a tutti, con la sua amica davanti; lo aveva sempre creduto uno casa e chiesa, che non si sarebbe mai buttato nella mischia di una pista da ballo seguendo il ritmo di qualche hit del momento.
Beh, a guardarlo adesso, doveva ricredersi. Sorprendentemente e piacevolmente ricredersi.
“Sebastian sul serio, dobbiamo fare qualcosa.”
Santana sembrava quasi più incredula di lui, con gli occhi sgranati che puntavano nella stessa direzione.
“E cosa vuoi fare?”, mormorò stizzito, come se tutta la sua forza di volontà si stava lentamente piegando ai suoi desideri. Non poteva fare quei pensieri su Blaine; non esisteva proprio, per nessuna ragione al mondo.
Santana, però, sembrava di tutt’altra intenzione: “E’ sexy.”
Sebastian guardò di traverso la sua coinquilina, come intimandola di tenere a freno quella sua lingua sin troppo libertina.
“Che c’è? E’ una delle persone più sexy che abbia mai visto, non posso negarlo.”
“Smettila, adesso.”
L’ultima cosa che voleva sentire era Santana che cominciava a fare apprezzamenti sull’amica di Blaine, proprio quando questa stava ballando con lui.
L’uomo accanto ai due li guardava, come divertito da quella sit-com che aveva visto già tante volte: lui che fissava le gambe da ballerina di quella bionda, e lei che sbavava dietro al culo del ragazzino. Solita storia vista e rivista.
Santana, però, sembrava di tutt’altra intenzione: “Ma dai, voglio dire, hai visto che culo?”
“Sì. Ho visto.” Anche se lui ne stava fissando un altro.
E passarono un po’ di tempo in quel modo, con loro due che non riuscivano a togliere gli occhi di dosso ai due ragazzi e l’uomo che, divertito, si godeva la scena.
Ad un certo punto, Santana posò sul bancone un bicchiere vuoto e guardò negli occhi il suo amico: “Io vado.”
“Ma che cazzo stai dicendo, dove vuoi andare?!”
“Da lei.”
Il sorriso dell’uomo svanì di colpo.
“Me la devo fare – continuò la ragazza – me la devo fare a tutti i costi. Non ce la faccio più a stare qui. Coprimi tu con il turno va bene?”
“Ch-che cosa!? Non fare cazzate Santana, non è che puoi afferrare una tizia qualsiasi e portarla a scopare in un –“
Non fece nemmeno in tempo a finire la frase che la vide dirigersi verso la pista da ballo, con i suoi tacchi a spillo e i suoi jeans estremamente aderenti. Nel momento in cui arrivò davanti alla ragazza, le fece un piccolo sorriso, le sussurrò qualcosa all’orecchio, lei annuì e mano nella mano si diressero fuori dal locale, diretti chissà dove.
Sebastian non riusciva a credere a quello che aveva appena visto, se non fosse che Blaine, ancora in mezzo alla pista, avesse la sua stessa espressione. E qualcosa dentro di sè maledì di colpo la sua coinqulina, quando lo vide voltarsi verso la direzione da cui era arrivata; passò in rassegna velocemente tutte le persone del bar, fino ad incrociare i suoi occhi.
E i suoi maledetti, splendidi occhi color miele adesso sembravano completamente pietrificati.
“Blaine”, mormorò Sebastian alzandosi subito in piedi, ma ovviamente tra la distanza e il trambusto non c’era nessuna speranza di farsi sentire.
L’altro ragazzo era ancora lì, in piedi, immobile in mezzo alla pista; sembrava troppo ubriaco per riuscire a prendere una decisione razionale, oppure, non era in grado di camminare e stava semplicemente aspettando che lo raggiungesse.
Quindi, ricapitolando: Blaine ubriaco, in mezzo a un disco pub, con la musica assordante e tantissime cose da dire. Un cocktail davvero entusiasmante.
“Sebastian?”
Sembrò accorgersi veramente della sua presenza solo quando il violinista si trovò a pochi centimetri da lui, quanto bastava per mantenere un’adeguata distanza di sicurezza.
“Blaine, che ci fai qui?”
“Che ci fai tu qui.” Sbottò lui, e la sua voce roca ed impastata non lasciavano dubbi sul suo stato di ebbrezza. “Io voglio ballare. Dov’è Brittany? Non voglio parlare. Non con te.”
“Blaine, ascoltami.”
“No!” Esclamò lui allontanandosi di un passo, quando aveva visto Sebastian cercare di prenderlo per un braccio. “No Sebastian, lasciami stare.”
E c’era qualcosa, nella sua voce. Forse tremava per via dell’alcool, ma comunque fece trasalire inevitabilmente Sebastian.
“Andiamo, vieni con me. Ti porto a casa.”
“Fatti i cavoli tuoi.”
“E che hai intenzione di fare?”
Era davvero stufo di essere rimproverato da tutti; era stufo di essere trattato così da Blaine, come se avesse sbagliato qualcosa. Non era lui ad aver avuto la geniale idea del bacio. Non era lui che aveva creato un casino tra di loro. Però, ovviamente, non avrebbe mai potuto lasciare Blaine da solo in quel posto; dopotutto, la sua amica era sparita per colpa di Santana, ed era quasi sicuro che lui adesso sapesse a malapena dove si trovasse.
“Voglio ballare.” Lo sentì mormorare. La musica era talmente alta, da confondere persino i suoi stessi pensieri.
“Bene. Balla una canzone e poi andiamocene via.”
Gli sarebbe bastato chiamare Santana, ordinarle di riportare qui la biondina e affibbiarlo a lei, con la coscienza più che pulita. Ma, evidentemente, Blaine aveva tutta un’altra intenzione.
“Sebastian.”
I suoi occhi, illuminati dalle mille luci della sala, erano scuri e intensi.
“Voglio ballare con te.”
No. Oh no. Non sarebbe stata una buona idea.
“Non è vero, non vuoi ballare con me”, cercò di replicare con tutta la decisione possibile; ma come diavolo faceva a rimanere concentrato quando Blaine lo guardava in quel modo, e quando le sue mani si erano avvinghiate saldamente al suo collo?
“Perchè devi sempre sapere cosa voglio e cosa penso?” Si avvicinò ancora di più, annullando quell’effimera distanza tra di loro. “Mi tratti sempre come un cretino.”
“Non è vero. Beh, forse sì”, aggiunse un attimo dopo, “Ma non è colpa mia se ti comporti come un cretino!”
“Che diavolo dici?” Adesso, il suo viso era attraversato da una smorfia di rabbia, ma con grande rammarico di Sebastian non lo convinse ad allontanarsi.
“Guardati”, continuò, con voce gelida, “Ti stai comportando così anche adesso. Un attimo prima dicevi di non volermi vedere, e ora-“
“E ora cosa?”
Niente da fare. Non appena incrociò i suoi occhi, Sebastian capì subito di aver fallito nel suo misero tentativo.
“Stiamo solo ballando.” Commentò Blaine. “Non c’è niente di male. Non è che sto facendo questo –“ I suoi fianchi rotearono inavvertitamente contro quelli di Sebastian, e quest’ultimo fu costretto a chiudere gli occhi e respirare.
Faceva troppo caldo. C’era troppa gente. La musica era troppo forte e cazzo, Blaine era troppo sexy.
“Oppure.”
Sperò con tutto il cuore di aver sentito male.
“Questo.”
Le labbra di Blaine andarono a posarsi esattamente sulle sue. E prima ancora che potesse racimolare la forza di volontà necessaria ad allontanarlo, sentì la lingua di Blaine tracciare sommessamente il contorno di tutta la sua bocca; diavolo. Lui era solo un misero uomo.
Ci vollero esattamente dieci secondi per terminare quel bacio intenso, languido, caldo e terribilmente eccitante. Sebastian rispose lento e quasi titubante, ma una parte di sè contava sul fatto che Blaine fosse troppo ubriaco per ricordarsi di qualsiasi cosa.
Ma doveva fermarsi. Era tutto sbagliato. Blaine non voleva questo, sapeva che non lo voleva.
O forse, anche se lo voleva, di certo meritava di meglio.
Il bacio terminò con un sonoro schiocco e un respiro pesante da parte di entrambi. La musica cambiò, il dj annunciò una nuova hit entrata in voga l’estate precedente; Sebastian ne approfittò per prendere per un polso Blaine e trascinarlo via dalla calca.
 

 
“Santana”, continuava a ripetere tra sè e sè, aspettando con impazienza che gli rispondesse al quarto tentativo di chiamata, mentre Blaine era sdraiato sulle scalinate del disco pub apparentemente addormentato.
“Santana, cazzo, ti decidi a rispondere?”
“Sebastian.”
“Finalmente”, sospirò, ma quel momento di gioia durò molto, molto poco.
“Casa occupata."
No.
"No, ti prego."
“Casa. Occupata.”
“Non capisci. Non puoi abbandonarmi proprio stasera.”
“E tu non puoi rompere il cazzo proprio stasera. Ti ho lasciato stare per mesi, adesso, lasciami la casa per una notte.”
“Che cosa?!” Pretendeva davvero che lui dormisse fuori, per la strada, solo perchè lei avesse una sana e tranquilla scopata?
“E io dove cazzo vado a dormire, me lo spieghi!?”
“Da Blaine.”
Forse la musica assordante lo aveva reso temporaneamente sordo. Perchè non poteva aver sentito bene.
“... Puoi ripetere?”
“Brittany è la coinquilina di Blaine. Sono solo loro due e lei ora è da me, quindi...”
No davvero, fantastico.
“E poi ho detto a Britt che lo accompagnavi tu a casa. Non ti dispiace, vero?”
“Sarai morta. Morta. Lascerò dei fiori sulla tua tomba.”
“Spengo il cellulare.”
“Non ti azzardare. Ehi mi hai sentito razza di-“
Ma la chiamata fu bruscamente interrotta, e lui strinse talmente forte il cellulare da aver voglia di frantumarlo con le sue stesse mani.
“Seb...”
Si voltò di scatto verso quella specie di lamento, di canto funebre, che poteva essere ricollegato soltanto a Blaine; ad un Blaine che aveva bevuto troppo e che, ovviamente, adesso ne stava per pagare le conseguenze.
 
 
Una macchia di vomito, un taxi e tante, tante ore più tardi, Sebastian aprì di scatto la porta dell’appartamento di Blaine, trascinandolo di peso verso il divano poco distante dall’entrata.
“Ce la faccio”, disse il pianista e, a giudicare da quanto avesse rimesso e dal tono di voce, poteva essere piuttosto vero. Infatti, Blaine camminò con le sue sole forze senza avere il coraggio di alzare la testa per incontrare lo sguardo di Sebastian. Senza aggiungere altro, si diresse in bagno e chiuse la porta, con l’intenzione di lavarsi i denti per almeno mezz’ora. Guardò allo specchio il riflesso di quello che, a tutti gli effetti, si sarebbe rivelato un ottimo volto da dopo sbronza, e con ancora la netta certezza che quella attuale non gli fosse ancora passata. Certo, il vomito aveva aiutato, ma la sua testa girava freneticamente e le sue orecchie fischiassero senza interruzione: doveva prepararsi psicologicamente ad una lunga nottata.
Con Sebastian.
Oh Dio. Sebastian era in casa sua.
In meno di un secondo aveva aperto la porta quasi di scatto, scorgendo il ragazzo mentre appoggiava la giacca sul divano, osservandone con un’espressione tesa le dimensioni sin troppo esigue.
“... Che stai facendo?”
“Questo coso è minuscolo.”
Blaine continuò a fissarlo, con ancora lo spazzolino stretto in mano.
“E’ un divano per due.”
“Non osare chiamarlo divano. E’ una poltrona allargata. Senti Blaine, facciamo una cosa, tu dormi sul divano e io sul tuo letto ok?"
Rischiò seriamente di cadergli lo spazzolino di mano mentre esclamò: “Che cosa?!”
“Eddai, tu sei pocket, ci entri! E poi non sei quello che deve passare ore e ore a suonare in piedi, la schiena mi serve!”
“Oh, davvero vuoi tirare fuori la musica? Con me?”
Fu in quel momento che Sebastian lo guardò di rimando incrociando le braccia al petto. Aveva un aspetto distrutto, stanco, seccato e probabilmente anche un po’ imbarazzato, ma ben mascherato da una smorfia cinica.
E Blaine era pur sempre Blaine. Era buono, e quello, dopotutto, era pur sempre Sebastian; un Sebastian che gli aveva tenuto la testa – anche se con milioni di imprecazioni e offendendolo un centinaio di volte almeno – mentre rimetteva e che adesso era stato... sbattuto di casa, forse? Non aveva capito bene tutta la faccenda di Santana e Brittany, ma adesso voleva affrontare un problema assurdo alla volta.
“...Va bene.”
Gli occhi verdi del ragazzo si fecero come più luminosi.
“Va bene? Dici sul serio?”
“Sì.” Prese un lungo respiro, prima di dire: “Va bene, puoi dormire con me.”
Per i restanti venti secondi regnò il più completo silenzio. Quanto meno, pensò una parte nella mente di Blaine – l’unica ancora sobria -, aveva evitato battutine inutili.
“... Ok.” Lo sentì mormorare, dopo una breve esitazione.
“Ok.”
Non ci fu il classico momento imbarazzante del doversi togliere i vestiti e mettere un pigiama: Blaine si accasciò sul materasso con ancora gel e cardigan, così Sebastian fece lo stesso. Erano entrambi troppo stanchi perfino per rendersi realmente conto dell’assurda situazione in cui si erano ritrovati: loro due, nel letto di Blaine, vestiti e che si davano le spalle.
Blaine lo realizzò lentamente, man mano che la sua sbronza svaniva. Sentiva il respiro regolare dell’altro ragazzo e approfittò dell’ultimo slancio di audacia per chiamare il suo nome.
“Seb... sei sveglio?”
Dopo pochi secondi, arrivò un suo sonoro: “No.”
“...Ma mi hai risposto.”
“Che vuoi, Blaine.”
Chiuse gli occhi cercando di parlare con il tono più calmo possibile; come se stesse analizzando ad alta voce una cosa del tutto ordinaria, e volesse renderlo partecipe dei suoi pensieri.
“...Stavo pensando ad una cosa.”
“Non farlo, ti fa male pensare. Non  hai ascoltato il dottore l'altro giorno?”
“Perchè ci odiamo?”
Improvvisamente, su tutta la stanza regnò il silenzio. Un silenzio strano, che durò per quasi due minuti; Blaine stava quasi per gettare la spugna quando sentì: “Io non ti odio.”
Dovette maledire la discoteca e la sua musica assordante, perchè provava in lui quel maledetto ronzio nelle orecchie che sarebbe durato per giorni, che non gli permetteva di sentire bene: Sebastian aveva appena detto che non lo odiava?
“Ah... no?”
“No.”
Francamente, era un po’ sorpreso. Pensava che in quel modo si sarebbe risolto tutto. Pensava che, una volta accettata quell’eventualità, dimenticarsi di lui fosse stato più facile.
Ma Sebastian non lo odiava. Non lo aveva respinto perchè non gli piaceva. Non lo aveva respinto perchè lo trovava insopportabile.
“...Okay.”
Era quasi convinto di dover dire qualcosa; magari, sarebbe bastato anche solo voltarsi e osservare la schiena di Sebastian ondeggiare mossa da dei respiri lunghi e pacati.
Invece, restarono lì. Sullo stesso letto, a distanza di pochi centimetri. E Sebastian, dopo un tempo che gli sembrò infinito, gli augurò la buona notte, e non disse più niente.
Buonanotte, Sebastian.
Blaine pensò quelle parole dicendole con un tono molto dolce; invece, stravolto dall’alcool e dalla lunga, imprevedibile giornata, le sognò soltanto.
 
 
 
 
 




Angolo di Fra

Sono l’una e mezza di notte e io domani devo svegliarmi alle sette, quindi sarò molto breve.
Che dire sul capitolo? Nello scorso non è successo niente. In questo è successo di tutto. Eeee sì. Li ho fatti baciare. Mi piace farli baciare. Immagino già la voi dire “anche a noi piace, vai così Fra”. Ahah! Vorrei poter fare descrizioni più lunghe, ma per ora ho avuto solo baci frettolosi e strani. E Blaine non si ricorderà niente e questo ultimo bacio sarà come scomparso. Per lui. Non di certo per Sebastian. Eheh. Ho già detto di essere una donna crudele?
Ma permettetemi di spammare un po’ di cosette da Seblainer a Seblainer (in preda a una crisi di nervi per via del suo lato Klainer sin troppo fragile).
Io e Ilarina (la ragazza che ha fatto questa targhetta e che fa tantissime altre arts semplicemente stupende) abbiamo iniziato a tradurre Wolf Like Me, una fanfiction Seblaine AU. Ecco a noi ci piace da matti (altrimenti non l’avremmo tradotta) e vi consiglio di leggerla, se non vi piace la traduzione, leggetela almeno in inglese. Però mi piacerebbe sapere un vostro parere sul nostro operato ecco!
Quindi niente, ci sentiamo la prossima settimana, sempre se sarò viva. Sapete, per via della Klaine, e di quella... ehm... quel... quella cosa che non può essere nominata.
E come sempre GRAZIE. Vi adoro. Mi fate venire voglia di scrivere e pubblicare ogni giorno. Grazie!
Meno male che dovevo essere breve.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***




Capitolo 15


 

Il sacramento più desiderabile da ricevere mi sembra quello dell'Estrema Unzione.
-- Franz Liszt



Meglio è una piccola verità che una grande bugia.
-- Fryderyk Chopin


 
 


 
Il sonno è un’arma a doppio taglio.
Da un lato ti rilassa, svegliandoti la mattina dopo più calmo e sereno, pronto ad affrontare un’altra lunga giornata con lo spirito giusto. E’ fondamentale: non si può vivere senza, e spesso lo si desidera più di ogni altra cosa.
Ma ha dei lati negativi; delle conseguenze che sono in grado di creare molti, pericolosi problemi. Perchè Sebastian non si era mai dimenticato di nessun sogno fatto durante la notte. Era una cosa indipendente dalla sua volontà: si risvegliava la mattina ricordandosi esattamente tutto ciò che era successo nel suo mondo immaginario, con chi era, cosa aveva fatto. Qualche flash di brevi secondi, e poi, tutto diventava più offuscato e lui poteva tornare a respirare.
Ma ultimamente i suoi sogni si erano fatti più specifici, e le sue fantasie più dettagliate. E così era diventato estremamente difficile ignorare tutti i sogni continui su Blaine Anderson, perchè no, non era assolutamente una buona idea, e la sua mente doveva piantarla.
Erano mesi che andava avanti così; di solito, non ci badava. Ogni tanto, quando il sogno era stato particolarmente eccitante e vivido, si chiudeva in doccia, cercando di sfogarsi come meglio poteva. In generale, aveva imparato ad accettare quella sottospecie di routine notturna sperando che, prima o poi, sarebbe scomparsa.
Ma più passava il tempo, e più quelle notti diventavano complicate da gestire. Così come il suo autocontrollo, la sua voce interiore, il suo istinto, o qualsiasi maledetta cosa lo spingesse emotivamente verso di Blaine ogni volta. E per un periodo ce l’aveva quasi fatta: aveva ricominciato a uscire con uomini, con altri uomini, e sostituiva la loro immagine a quella del pianista soltanto quando era troppo stanco per restare concentrato; in quanto al distacco personale, beh, si era sempre scusato con se stesso dicendo che dovevano suonare insieme, era praticamente impossibile non vederlo. O non parlargli. O non andare a prendere un caffè insieme. O non raccontargli tutte le cose più stupide della sua vita creando un affiatamento e un’intimità piuttosto confortanti.
Ma no, erano tutti dettagli di poco conto, lui poteva essere amico di Blaine senza avere il pensiero fisso di portarselo a letto; davvero.
O meglio, avrebbe potuto. Fino a quando quell’idiota non aveva avuto la brillante idea di baciarlo. Due volte. E se con la prima si era aggrappato all’effetto sorpresa, un piccolo contatto di labbra quasi trascurabile, adesso il suo corpo era una specie di trincea in cui stavano combattendo idee contrastanti.
Quando Sebastian aprì gli occhi di scatto, trattenendo il respiro pesante e affannoso, gli bastarono soltanto pochi secondi per rendersi conto di cosa fosse successo, e per accorgersi di aver sognato. Di nuovo.
Chiuse gli occhi lentamente, cercando di regolare il suo fiato e stringendo inconsapevolmente le lenzuola calde sotto di lui. Non c’era nessun motivo di andare nel panico, doveva rimanere calmo, aspettare pazientemente che il suo corpo si riprendesse, e poi quelle immagini di mani, labbra, lingue che si intrecciavano e gemiti sconnessi sarebbero sparite; ne era certo. Succedeva sempre così.
Aspettò secondi. Minuti. E dopo quella che gli sembrò un’ora abbondante, Sebastian emise un sospiro affranto, perchè continuava a ricordare. In modo breve, e offuscato, magari, ma erano come dei veri e propri flashback; era un problema da non sottovalutare, perchè se non sarebbe riuscito a togliersi Blaine dalla testa, tutti gli sforzi fatti fino ad allora sarebbero andati in fumo.
Era solo un sogno, maledizione. Lui era più forte. Più tenace. E non avrebbe lasciato che una stupida funzione cerebrale-
 

“Sebastian.”
Blaine si accasciò su di lui completamente alla sua mercè, bisbigliando piano all’orecchio, facendo strusciare i fianchi contro i suoi.
“Sebastian, prendimi, prendimi adesso.”

 
 
Riaprì gli occhi di scatto, deglutendo a vuoto.
Odiava i sogni.
“Okay”, sussurrò a se stesso, restando focalizzato sul far scivolare via quelle immagini, fissando il soffitto.
Davanti a lui si presentarono dialoghi confusi e mischiati della sera precedente, ma bastarono a fargli capire esattamente dove fosse, e cosa stesse facendo. In effetti, bastò voltare la testa di lato e incontrare il volto sereno e dormiente di Blaine, a pochi centimetri dal suo.
Immediatamente fu colto dall’impulso di alzarsi di scatto, raccogliere le scarpe ai piedi del letto e fuggire via da quella casa, prima che Blaine potesse minimamente rendersi conto dell’assurda situazione in cui si erano cacciati. Poi, però, la parte lucida e razionale di sè gli ricordò che era inutile fuggire, che Blaine non era uno dei ragazzi occasionali con cui passava la notte, che loro grazie al cielo non avevano fatto sesso e, ah, giusto, tanto prima o poi lo avrebbe dovuto incontrare al conservatorio, quindi tanto valeva parlargli chiaramente sin da subito.
Oppure, poteva aggrapparsi al suo dopo-sbronza, dirgli che non era successo assolutamente niente e andare a casa tranquillo. Poteva farlo? Poteva davvero mentire a Blaine?
Il suono di una testa sbattuta contro la testata del letto fece svegliare completamente Blaine, che si limitò a sollevarsi appena con il busto e guardare Sebastian aggrottando le sopracciglia: “Sebastian... che diavolo stai facendo?”
“Niente.”
Il ragazzo si mise subito a sedere, un po’ troppo velocemente per poter sembrare un movimento naturale, ma Blaine era troppo preso dal suo mal di testa per notarlo: in meno di un secondo era già sprofondato contro il cuscino, emettendo una serie di mormorii sconnessi e per niente promettenti.
“Blaine.” Lo ammnonì Sebastian, e lui in risposta emise un altro gemito, scacciandolo via con il dorso della mano.
“Blaine, non ti azzardare a vomitare accanto a me. Io non ti tengo la testa. Aspetta che me ne vada e poi farai tutto quello che ti pare.”
“Non sto così male”, sbottò, passandosi una mano sulla fronte e voltandosi da un lato per incontrare gli occhi incerti e smeraldini del violinista; la sua espressione, in quel momento, cambiò di colpo. Era come attonita, perplessa, e Sebastian stava già racimolando le parole giuste da usare per dargli la sua versione dei fatti quando lo sentì dire: “Ma tu... che ci fai qui?”
“... Non ti ricordi niente?” Domandò, con un tono un po’ troppo sollevato per le orecchie di Blaine, che infatti lo fissò mettendosi composto a sedere. Impiegò diversi secondi a riconnettere il cervello e rispondere alle tipiche domande post-trauma – chi sono, cosa faccio nella vita, perchè c’è Sebastian nel mio letto -, ma era tutto molto confuso.
“Devo fare mente locale.”
“Sì, devi”, confermò Sebastian, e in quel momento decise di prendere la situazione in mano, afferrando la bottiglietta d’acqua posta sul comodino e passandogliela con fare comprensivo.
“Grazie.” Dopo qualche secondo, Blaine allontanò la bottiglia, con un’espressione strana, indecifrabile. Non prometteva niente di buono.
“Cosa? Che c’è?”
Ma lui continuava ad avere quello sguardo da madre che scopre il proprio figlio con le mani dentro al barattolo di Nutella, e Sebastian cominciava a sentirsi molto, molto stupido.
“... Sebastian.”
“... Sì?”
“Mi hai passato dell’acqua.”
“... Sì.”
“Dell’acqua potabile e non intossicata.”
“Ah.”
"Hai fatto qualcosa di gentile, verso di me. Di tua spontanea volontà."
Maledizione.
“Mi hai fatto pena”, rispose lui stringendosi nelle spalle, sviando lo sguardo verso le coperte rosso scuro “Insomma, hai sempre quella faccia lì, e sembri tipo... tipo un cucciolo bastonato.”
Che diavolo aveva appena detto?
“Ok. Che sta succedendo?”
Strinse le mani a pugno, mordendosi il labbro inferiore: sotto sotto, cominciava a chiedersi se fosse lui, quello ubriaco.
A Blaine non servì molto altro per capire esattamente la gravità della situazione: Sebastian era docile, calmo, quasi, imbarazzato. Non era certo una cosa che vedeva tutti i giorni, e ripensando all’alcool ingerito la sera prima, fu come fare due più due.
"Va bene.” Mormorò, facendosi più vicino a Sebastian e guardandolo di sottecchi, “Dimmi solo quanto ero sbronzo."
Il ragazzo restò in silenzio per una manciata di secondi, prima di dire: "In scala da uno a dieci o da diatonica a bachiana?"
"Anche in una scala a pioli Sebastian, basta che parli."
"...Allora eri uno Skrjabin."
"Oh Dio." Gli occhi di Blaine si spalancarono di colpo. "Ti ho baciato, non è vero?"
“... Non... non la metterei proprio così.”
“E allora come?” Blaine inclinò la testa di lato per niente divertito; non gli piaceva la piega che stava prendendo quella conversazione. In realtà, sapeva bene che lo stesse pensando anche Sebastian, ma per dei motivi diversi: lui voleva evitarlo. Non voleva parlarne, affrontare l’argomento una volta per tutte, cercare di trovare una soluzione a quella attrazione tra di loro che, ormai, era diventata insostenibile.
Perchè Blaine la sera prima lo aveva baciato per la seconda volta, e non aveva nessuna intenzione di metterci una pietra sopra come prima. Sebastian doveva essere chiaro.
“Blaine, tu eri completamente ubriaco.”
Lo disse come se fosse una scusa, un fattore che giustificava perfettamente quel piccolo errore.
“Non ragionavi, e- diciamo che è stato un incidente.”
“Un incidente.” Ripetè lui, come assimilando con calma quelle parole. Un incidente è qualcosa di brutto; di accidentale. Ma Blaine, anche se non perfettamente sobrio, sapeva benissimo quello che stava facendo in quel momento: sapeva che il ragazzo con cui stava ballando fosse Sebastian, sapeva di volerlo baciare, stringerlo, lasciarsi andare una volta per tutte e, soprattutto, aveva sperato che facesse lo stesso anche lui.
Ma no: Sebastian è troppo razionale, non lascia spazio ai sentimenti. Come nella musica, così nella vita.
“Quindi non ha contato niente per te?”
Non sapeva esattamente cosa aspettarsi nella sua risposta. Forse, sperava che lui parlasse una buona volta e gli dicesse esattamente la fonte del problema: gli piaceva un altro? Non gli piaceva lui, forse?
“Io non ti odio.”
Blaine trasalì per un istante, immerso nei suoi pensieri: giusto, gli aveva detto anche quello. Ma allora, forse, Sebastian provava veramente qualcosa per lui. Con quel dubbio in mezzo al cuore lo guardò a lungo, aspettando una sua risposta; osservò i suoi capelli scompigliati, le sue occhiaie leggermente marcate, la sua mascella coperta da un sottile strato di barba, la sua bocca attraversata da un’espressione incolore.
“Non posso dar peso a un bacio da ubriachi, Blaine.” Proferì con voce gelida.
Fu difficile contenere tutta la rabbia, delusione, amarezza e, sì, anche sconforto, che presero il sopravvento in Blaine.
“Capisco.”
Si alzò in piedi, barcollando appena una volta messi i piedi a terra, ma non aveva nessuna intenzione di farsi aiutare da Sebastian, non aveva nessuna intenzione di stare a sentire le sue parole, qualsiasi cosa volessero dire. Ormai, aveva detto tutto; non c’era molto altro da aggiungere.
“Blaine-“
“No.” Interruppe subito quella specie di appello, con la schiena rigida, i muscoli tesi. “Ho capito. Non ti disturberò più.”
“No Blaine, non volevo dire, io-“
“Ho capito benissimo cosa volevi dire. Non mi odi, ma mi trovi repellente a livello fisico. Lo capisco.”
E con quelle ultime parole, Blaine si diresse verso il bagno rischiando seriamente di rompere la maniglia, e dicendo a Sebastian di lasciare il suo appartamento entro i prossimi cinque minuti.
 
 
 
“Che palle.”
“Ma bene, Smythe. E’ sempre bello quando uno studente apprezza le mie lezioni.”
“Non parlavo della lezione, vecchio.”
Sebastian guardò di traverso il professor Cage, intento a sistemare qualche foglio sulla scrivania della lezione ormai terminata. Ignorando completamente il suo sarcasmo antiquato e ormai prevedibile, si mise le mani in tasca, guardandosi intorno: “Ha visto Blaine per caso?”
Robert lo squadrò da sopra i suoi occhiali sottili, prima di dire: “Sì, certo.”
“Era in sala prove a suonare.”
E Sebastian spalancò gli occhi, sorpreso; non fu per la risposta, quanto per la persona che l’aveva data.
Wyatt era a pochi metri da lui, con un immancabile sorrisetto convinto, i suoi capelli perfettamente ordinati che gli conferivano un’aria ancora più strafottente. Accanto a lui, però, c’era una ragazza; impiegò soltanto pochi secondi per ricordare la donna che aveva visto quel giorno al concorso.
“Conosci già la mia partner Jodie?”
Introdotta dal flautista, salutò lui e Sebastian con un piccolo sorriso; adesso che poteva vederla da più vicino, riuscì a osservare con più attenzione la sua carnagione pallida, che risaltava i capelli biondi e gli occhi chiari. Era piuttosto bassa, non aveva un corpo particolarmente attraente e ostentava un atteggiamento timido, ma molto aggraziato; a giudicare da come teneva gli occhi fissi sui suoi piedi leggermente inclinati, e dalla schiena perfettamente dritta, ipotizzò fosse stata una specie di ballerina. Magari era per quello che aveva intrapreso l’ambito musicale: si era innamorata della musica dalla danza classica?
“Piacere.”
“Piacere mio,” rispose Jodie, con fare gentile, “Speravo di potervi vedere prima della seconda fase. Siete stati davvero bravissimi al concorso, e volevo farvi i miei complimenti.”
Non si aspettava una cosa del genere, non dalla partner dell’uomo più viscido della terra; per questo esitò per un momento, cercando di capire se si trattasse di una farsa. Ma no, i suoi occhi sorridevano in modo spontaneo, e le sue labbra erano incurvate in un sorriso sincero, tanto da disorientarlo.
“… Grazie. Credo.” Mormorò, poco convinto, mentre Robert salutò i suoi due allievi chiedendo loro come stessero andando le prove.
“Molto bene.” Rispose Wyatt, con un tono molto sottile, “Jodie sta avendo qualche problema con la scelta del brano, ma io non ho problemi.”
Il professore li guardò per due, brevi, secondi.  Sebastian sapeva che stava provando lo stesso suo desiderio di prenderlo a calci; dopotutto, come si era permesso di denigrare così la sua partner? Non aveva un briciolo di solidarietà?
Ma poi capì: a Wyatt non interessava di quella ragazza, a lui importava solo vincere; e per vincere, aveva bisogno del pianista migliore, e lei non era la migliore. In quel momento, lo stava ostacolando, quindi gli era solo d’intralcio. Strinse le mani dentro alle tasche dei suoi jeans, sperando con tutto il cuore di riuscire a trattenersi dal mettergliele addosso.
Le guance di Jodie si tinsero di un rosa pallido, visibilmente imbarazzata per il commento maleducato del suo compagno. Iniziò a parlare bisbigliando ogni sillaba, come se non sapesse bene cosa dire: “Io… so di non essere alla vostra altezza, né a quella di Anderson… ma sto cercando di fare del mio meglio. La musica è ciò che amo di più al mondo, questo concorso significa molto per me.”
Fu in quel momento che Sebastian prese una decisione: quella ragazza era una povera martire, e Wyatt era ancora più idiota di quanto immaginato.
“Sì, vabé, andiamo a provare.” Wyatt liquidò quel discorso con quelle parole, con il professore che era già in procinto di risponderle. “Arrivederci professore. Ci vediamo in giro, Sebastian.”
Ma lui ignorò completamente il suo saluto, e non si degnò di guardarlo nemmeno quando entrambi si allontanarono dall’aula.
Emise un piccolo sospiro, dandogli la schiena e prendendosi tutto il tempo per offendersi mentalmente: era venuto a lezione solo perché sicuro di trovarci Blaine, così da parlargli con calma, e invece aveva incontrato l’ultima persona che non avrebbe mai voluto rivedere.
“E’ veramente in sala prove, sai.” La voce calma e pacata del professore lo riportò alla realtà, catturando completamente la sua attenzione. “Mi aveva chiesto le chiavi della stanza.”
“E a lei sta bene che abbia saltato la sua lezione?” Sbottò, allibito.
“Blaine non è come te,” rispose calmo il professore, “Lui segue sempre i corsi. Se una volta ha bisogno dell’aula prove per stare un po’ da solo, non boccerà per questo.”
“Stare un po’ da solo? Le ha detto così?”
Ma quel giorno il professore non sembrava intenzionato ad aiutarlo; a dire il vero, aveva un atteggiamento leggermente distaccato, come se stesse cercando di rimanere professionale e imparziale. Ma Sebastian lo conosceva troppo bene per capire che lo stava giudicando; per capire che Blaine doveva essersi presentato da lui distrutto, e lui era un uomo troppo intelligente per non vedere la verità. O troppo simile a lui.
“Va’ da lui, Sebastian.” Fu l’unico consiglio che si sentì in grado di dare, forse, perché un’altra parte di sé era sicura di conoscere bene quel ragazzo, tanto da riuscire a intravedere quel lato nascosto a molti, e che cercava di non mostrare al suo compagno di strumento.
Lui in risposta annuì, mormorando qualcosa di indefinito; era il suo modo per dire “grazie”, e Robert sghignazzò per quello.
Attraversò il lungo corridoio con un passo troppo svelto, per sembrare rilassato. Voleva soltanto ritrovarsi in quella maledetta stanza che aveva condiviso la maggior parte dei loro ricordi insieme, e lamentarsi con Blaine per quanto fosse maledettamente idiota. O ottuso. O irresistibile, a seconda di quale parte del suo cervello avrebbe agito per prima.
No, si corresse mentalmente, scrollando la testa; lui non doveva pensare a quelle cose. Non doveva pensare al sogno che-
 

“Blaine.”
Faceva troppo caldo. Il corpo di Blaine, finalmente unito al suo, gli provocava degli spasmi di calore, che si ripercuotevano per tutte le sue membra. Sebastian gli baciò dolcemente la schiena, continuando a muoversi dentro di lui, sempre di più, ed era sempre meglio, sempre più eccitante, sempre più meraviglioso e-

 
Maledetto sogno.
Si permise di riacquistare lucidità per qualche momento, regolarizzando il respiro e rilassando i muscoli, prima di aprire la porta della sala prove senza nemmeno preoccuparsi di bussare.
Blaine era lì, proprio come gli aveva detto il professore; aveva la testa appoggiata al pianoforte, proprio sopra la tastiera. Con la mano destra, emetteva dei piccoli suoni che ricordavano tanto dei frammenti di memoria che sfumavano nell’aria; la sinistra, invece, era adagiata lungo il corpo, inespressiva, così come la sua espressione, vuota, assente.
Fu solo quando si accorse della presenza di Sebastian che i suoi occhi si animarono, sebbene, solo per qualche secondo.
“Vattene via.”
“No Blaine, ascoltami.”
“Vattene via Sebastian.” La sua voce era spezzata; come se avesse pianto da poco, oppure, stava per farlo. Il cuore del violinista soffrì solo un po’ di più, mentre lui si avvicinava al pianoforte, costringendo Blaine ad allontanarsi.
“Blaine, non fare così”, tentò di dire, ma l’altro ragazzo non lo degnò di uno sguardo e fece un altro passo indietro.
“Devi lasciarmi spiegare.”
“Non c’è niente da spiegare.” Detto quello, afferrò la tracolla abbandonata a terra e si diresse verso il corridoio. Sperava soltanto che Sebastian avesse il buon senso di lasciarlo stare, di non inseguirlo, di dimenticarsi di tutto quanto e poi, magari, sarebbe andato con qualche altro collega in un bagno del conservatorio, come tutte le volte.
Il suo stomaco si strinse in una morsa dolorosa, ma Blaine subì un vero e proprio tracollo quando fu afferrato per un braccio da Sebastian, che lo costrinse a voltarsi completamente verso di lui.
“Blaine.”
Pronunciò il suo nome in modo così deciso e intenso che lo fece paralizzare lì, a pochi centimetri da lui, proprio di fronte alla porta semichiusa, con i loro sguardi incatenati che trasmettevano emozioni differenti di secondo in secondo.
“Vuoi fermarti per un attimo, e starmi a sentire?”
Blaine deglutì a vuoto, non sapeva assolutamente come fare, Sebastian sembrava teso, arrabbiato, ma non con lui; piuttosto, sembrava combattere una sorta di istinto interiore, come se fosse indeciso su qualcosa.
“Quando ho detto che non posso dar peso a un bacio da ubriachi-“
“Volevi dire che non è significato niente, lo so”. Tagliò corto lui, freddo. Ma c’era qualcosa, negli occhi di Sebastian, improvvisamente scuri, che gli fece mancare il fiato.
“Possibile che non te ne renda conto?”
E il cuore di Blaine aveva cominciato a battere forte, mentre tutto il resto del mondo, lentamente, stava scomparendo.
“Di… di che cosa?” Balbettò, perché adesso che una sorta di idea frullava nella sua testa, non era più in grado di pensare razionalmente, o di parlare in modo fluido: bastava così poco, per farlo andare completamente in corto circuito. Bastava che Sebastian gli rivolgesse quell’occhiata intensa, che si avvicinasse giusto un altro poco, che parlasse con un tono volutamente basso per dire: “Dio, Blaine, io sto impazzendo qui. Non lo capisci? Non riesco più a toglierti dalla testa.” Ammise, mangiandosi tutte le parole per la fretta e l’imbarazzo.
Sarebbe bastato così poco. Erano a distanza di un bacio. Blaine voleva farlo, e quelle di Sebastian erano tutte belle parole, ma tali restavano, e non cambiano il fatto che lo avesse rifiutato due volte. L’orgoglio ebbe la meglio sull’istinto, e così si limitò a fissarlo sprezzante, con la rabbia annidata dentro di lui che scoppiò tutta insieme.
“Non puoi fare così!” Esclamò. Probabilmente, vista la porta socchiusa, le urla sarebbero arrivate alle orecchie di tutti gli altri studenti, ma a lui non interessava.
“Prima ti allontani, poi ti comporti come il ragazzo migliore del mondo, poi mi ignori per settimane, e alla fine passi ogni sera nelle mutande di un altro. Sei tu che devi renderti conto, Sebastian! Perché io sono sempre stato molto chiaro con te, e fino a oggi pensavo di non piacerti, e-e ok, posso accettarlo, non ho mai detto niente, perché se non ti fossi piaciuto allora tutto questo avrebbe avuto senso. Avrei capito. E adesso, adesso tu vieni qui, e mi dici queste cose, e- e come diavolo dovrei sentirmi, io?! Non riesco a capire cosa pensi veramente, Sebastian. Non riesco a capirlo nemmeno quando suoniamo! E allora mi spieghi come faccio a crederti, adesso che mi hai già fatto soffrire due volte? Mi spieghi che diavolo vuoi da me?!”
“Tu.”
La sua risposta fu chiara, semplice.
“Ti voglio, Blaine.”
In quel momento, fu quasi certo che il suo cuore avesse smesso di battere.
Restarono in silenzio per tutto il tempo necessario, fino a quando sentirono delle voci di ragazzi che si stavano avvicinando all’aula prove. Blaine lo guardò per un ultimo secondo, prima di abbassare lo sguardo e scappare via.
 
 


 

“Aspetta Sebastian, sì, così…”
“Ti voglio Blaine.”
“Anche io ti voglio.”
“Shh, non parlare.”
E poi continuarono a baciarsi, un bacio che sapeva di passione, di attesa, di trepidazione, un bacio che era tutto.

 
 
Era quello il problema con i sogni. Ogni tanto, si provava il desiderio che diventassero realtà.
E Sebastian non riusciva a credere di averlo detto sul serio; non nella realtà, non di fronte a Blaine.
Circondò il viso con le braccia e si accasciò sul tavolo della sua cucina, con Santana che si limitava a fissarlo inespressiva, intenta a mettere su l’acqua per un tè caldo. Prima che potesse fare qualsiasi uscita infelice, il coinquilino la fermò con un gesto secco della mano, mormorando: “Non parlare.”
“Va bene.”
“Non ti azzardare a dire una parola.”
“Okay.”
“Lo stai facendo.”
“Solo per risponderti, Sebastian. Non ho tempo da perdere con te, devo vedermi con Brittany tra mezz’ora.”
A quella risposta, il violinista alzò la testa di scatto, non riuscendo a credere alle sue orecchie: “Tu… cosa?”
“L’accompagno a prendere un nuovo cinturino per il suo gatto”, spiegò lei, con una naturalezza disarmante. Come se fosse normale uscire con la ragazza con cui era andata a letto due giorni prima, invece di liquidarla con il suo classico “Non siamo fatte per stare insieme”.
Sebastian in quel momento pensò che il mondo stesse davvero finendo; gli ricordò quasi la predizione dei Maya del duemiladodici, che non si era mai avverata. Chissà, magari, avevano sbagliato solo di qualche anno.
Santana lesse la sua espressione sbigottita come se gli avesse appena spiattellato tutto ciò che non voleva sentire, e così mise le mani sui fianchi, voltandosi completamente verso di lui e sentenziando: “Ascoltami bene. Io non commento quello che sta succedendo tra te e il pianista e tu non proferisci parola su di me e Brittany. Intesi?”
“… Intesi.”
La ragazza gli lanciò un’ultima occhiata minacciosa, e poi si ritirò in camera sua, con la sua tazza di tè alle erbe.
Sarebbe stato un week-end molto lungo.
 

 
Il tempo si diverte un po’ a prendere in giro.
Quando si desidera che non finisca mai, ecco che i secondi scorrono veloci come un lampo, e ti ritrovi amareggiato alla fine della giornata; quando, invece, vuoi solo che trascorrano il prima possibile, ti ritrovi a osservare quell’orologio appeso al muro della sala, ma quelle lancette sembrano destinate a non proseguire.
Blaine contò il tempo, secondo dopo secondo, ma quel sabato pomeriggio sembrava completamente statica e con pochissime cose da offrirgli.
Avrebbe potuto guardate la televisione; ma non era mai stato un amante del via cavo, e senza Brittany che commentava ogni programma rendendolo incredibilmente interessante non aveva molto senso. Purtroppo per lui, la sua coinquilina era uscita di buon’ora per prendere un caffè con Santana, e lui ancora doveva assimilare bene la notizia. Lei e Santana. Roba da non credere.
Così come non riusciva ancora a credere a quella conversazione avuta con Sebastian, giusto il giorno prima.
Bastò tornare per un attimo con la mente a quel ricordo, e il suo cuore già aveva preso a battere freneticamente come se stesse correndo una complicatissima salita; non c’era molto da fare, non poteva certo ordinargli di stare calmo. Era stata una cosa troppo inaspettata. Troppo forte.
E il pensiero che, superato quel week-end, si sarebbero rivisti proprio in quella sala prove, era davvero insostenibile.
Afferrò i vari fogli di spartiti sparsi per tutto il divano, decidendo di alzarsi e fare qualcosa di produttivo; se non riusciva a smettere di pensare a Sebastian, allora, avrebbe incanalato tutte le sue emozioni suonando. In fondo, lo faceva da sempre. Solo che quella volta non c’era modo di riuscire a formulare un pensiero concreto; era più una matassa aggrovigliata di sensazioni, cose che aveva sentito, cose che avrebbe voluto sentire.
Non riusciva a pensare a quello che sarebbe potuto succedere lunedì; non voleva.
Sarebbe entrato in quella stanza, come tutte le altre volte, e poi gli avrebbe detto qualcosa. Sì, sicuramente, sarebbe andata così.
 
 

Sebastian di solito passava la domenica dormendo, oppure ascoltando di fila tutti i suoi compositori preferiti, assaporandone con piacere ogni nota. Tuttavia, essendo vicino al concorso, si costrinse a prendere in  mano il violino cercando di migliorare la sua tecnica già pressoché perfetta, ma mai sufficiente.
Non se ne sarebbe stato con le mani in mano. Non avrebbe aspettato inesorabile l’arrivo della nuova settimana; dopotutto, non c’era proprio niente da aspettare, no?
Ma mentre cominciava a far scivolare l’archetto lungo le corde sottili, dentro di sé sentiva che il giorno dopo sarebbe successo qualcosa: solo, non sapeva che cosa.
 
 

 
Paradossalmente, quel lunedì mattina era iniziato in modo calmo e rilassato.
Quando Blaine entrò nell’aula prove, trovò il professor Cage e Sebastian già pronti a suonare, il primo con il suo immancabile bastone e un’aria serena, il secondo, invece, stranamente silenzioso, ma apparentemente calmo.
Si guardarono per un attimo; Sebastian osservò i suoi jeans aderenti, i suoi occhi color miele, le sue labbra carnose; Blaine, invece, i capelli setosi e la sua maglietta, che evidenziava i muscoli allenati delle braccia e del petto. Si salutarono educatamente. Poi, proiettarono tutta la loro attenzione su di Robert, e per molto tempo non dissero altro.
Il professore diede loro degli spartiti su cui lavorare, niente di troppo complicato, aveva detto, giusto qualcosa con cui sgranchirsi le articolazioni dopo la pausa dettata dal week-end. Raccontò qualche aneddoto sulle piccole pause che aveva durante la guerra, spese a festeggiare con gli amici o in compagnia di qualche bella ragazza; portò i saluti di sua moglie, disse per l’ennesima volta quanto fosse stata contenta di conoscerli, ed erano fortunati ad avere l’apprezzamento di una donna come lei, perché era più unica che rara, ma loro erano troppo giovani per capirlo. Soltanto mezz’ora dopo cominciò a spiegare attentamente il brano da suonare, soffermandosi sui punti tecnici e evidenziando la parte interpretativa. Blaine e Sebastian annuivano, ogni tanto commentavano in modo piuttosto pacato, si rivolgevano qualche domanda: sul testo c’è scritto piano, io lo farei pianissimo, potresti respirare in questo punto qui, su questa scala voglio che tu sia più veloce.
Conversarono come due colleghi farebbero, e Robert ascoltò convinto la loro esecuzione interrompendoli poche volte per dar loro maggiori consigli. Quel giorno aveva scelto per loro una Sonata di Franck, dal carattere brusco e tempestivo, come di un fiume in piena. Era un potenziale spartito per il concorso, e i due musicisti lo suonarono con la dovuta attenzione; l’inizio fu piuttosto scollegato, il violino di Sebastian sovrastava il suono del pianoforte, che invece doveva essere dirompente, dovevano sfidarsi, come in una lotta continua.
Non c’erano pause, in quell’esibizione. Doveva essere un movimento continuo dei due musicisti, dovevano equipararsi, soprattutto nella fase iniziale, e poi sciogliersi lentamente in un periodo malinconico e di esitazione. Il violino, in teoria, doveva dare l’idea di riflessione; il pianoforte, doveva essere un segreto compagno, come un amante che ascolta silenziosamente i respiri dell’altro, durante la notte.
Dopotutto, Robert lo aveva detto chiaramente, sin dall’inizio: duettare era come fare sesso.
Blaine e Sebastian finirono quel brano, ma contrariamente a quanto immaginato, erano incredibilmente tranquilli.
“Siete andati molto bene”, commentò il professore. Stava per aggiungere qualcosa, ma poi il suo cellulare squillò insistentemente, e lui fu costretto a uscire dall’aula, premurandosi di chiudere la porta in modo che i due ragazzi potessero continuare a suonare senza essere disturbati.
Approfittarono di quella piccola pausa per riesaminare il brano e fare i dovuti commenti, parlando anche dell’eventualità di portarlo al concorso, ma non raggiungendo una vera e propria decisione: poteva andare bene, ma uno non era particolarmente attratto dalla tecnica di quel compositore, l’altro, invece, voleva qualcosa di più impegnativo.
Continuarono a parlare di musica per diverso tempo; Sebastian posò il suo violino con cautela, sapeva bene, ormai, che le telefonate di Robert duravano sempre delle ore. Una volta avevano perso un’intera lezione, ma lui e Blaine ne avevano approfittato per parlare e rilassarsi un po’.
Convinto da quella idea, andò a sedersi proprio accanto a lui, come faceva sempre da un po’ di tempo a quella parte.
“Com’è andato il week-end?”
“Bene. E il tuo?”
“Normale. Niente di emozionante.”
“Mhm, già.”
Dopo un po’ di tempo, Sebastian cominciò a premere qualche tasto del pianoforte, come se volesse interrompere quel silenzio sin troppo strano.
“Non sapevo suonassi”, commentò Blaine, osservando affascinato le sue dita affusolate intente a eseguire una scala.
“Ho fatto un anno di pianoforte complementare.”
“Oh. Giusto.”
Era una parte del programma, e Blaine si chiese come avesse fatto a non pensarci. Forse, perché in quel momento ogni sua facoltà intellettiva era completamente offuscata da qualcosa.
“Non è niente di ché,” Ammise il violinista, cominciando a usare entrambe le mani, “Voglio dire, non sono bravo quanto te, ma so fare un paio di cose.”
Blaine non seppe esattamente come rispondere a quel complimento. Era il primo che Sebastian gli avesse mai fatto. Lo ascoltò in perfetto silenzio, ma se gli avesse chiesto di ripetere quanto suonato, probabilmente avrebbe fatto scena muta: nemmeno il suo orecchio assoluto, in quel momento, lo poteva aiutare. Perché Sebastian stava suonando il suo strumento, e aveva un’espressione assorta, gli occhi chiari, e lui parlò prima ancora che potesse veramente rendersi conto di quello che aveva chiesto: “Insegnami a suonare il violino.”
Sicuramente, lo aveva preso in contropiede, a giudicare dalla sua espressione stupita.
“Non è così facile”, mormorò, un paio di secondi dopo, “Ci vogliono giorni per imparare la postura corretta e effettuare un suono limpido.”
“Fammi provare.”
Non era niente di strano. Blaine voleva ricambiare Sebastian di quello che gli aveva suonato, e per farlo avrebbe dovuto imparare un po’ della sua tecnica.
Non c’era nessuna intenzione nascosta sotto a quella richiesta. Eppure, nel momento in cui entrambi si alzarono in piedi, e lui si ritrovò a stringere il suo violino, un brivido caldo corse lungo tutta la sua schiena, facendogli venire la pelle d’oca.
“Stai dritto.” La voce di Sebastian era ferma, ma attraversata da un velo di esitazione. Lo guidò passo dopo passo in tutte le cose; come impugnare il violino, come tenere l’archetto. Gli fece alzare il mento per farlo appoggiare sullo strumento, ma quando Blaine provò a suonare, dalle sue mani uscì soltanto un fastidioso stridio.
“Non così.” L’altro ragazzo si posizionò esattamente di fronte a lui, e poi, lo fece provare di nuovo.
C’era qualcosa di terribilmente sensuale, nel modo con cui Sebastian correggeva la sua postura, o gli faceva impugnare l’archetto. Non aveva mai visto il violino sotto quell’aspetto, ma era completamente diverso da come poteva risultare un pianoforte, o qualsiasi altro strumento. Era elegante; metteva in risalto il fisico, le mani, le spalle. Era davvero difficile ignorare il corpo di Sebastian dietro il suo, intento a dargli la giusta postura da seguire; Blaine fu costretto a muoversi con molta calma, facendo attenzione ad ogni minuscolo movimento.
“Blaine”, mormorò, afferrandolo delicatamente per le braccia. “Devi essere rilassato.”
“Non riesco a essere rilassato.” Ammise, abbassando lo strumento lungo i fianchi.
“Perché?” Chiese lui.
Si guardarono dritto negli occhi. E poi, si fermarono.
Perché avevano aspettato per troppo tempo. Perché Robert non accennava a tornare. Perché Sebastian non lo aveva mai guardato in quel modo, non apertamente, e Blaine cominciava già a sentire le sue gambe cedere.
"Adesso basta.”
Avvenne in un attimo.
Sebastian spinse Blaine contro di sé, e poi le loro labbra si scontrarono in un bacio famelico, facendo dimenticare loro tutto il resto.
Blaine provò a cingergli il collo con le mani, dimenticandosi, per un momento, di avere ancora il violino in mano, e facendolo urtare contro la sua spalla. In poco tempo gli fu sottratto dalle mani e fu abbandonato con nessuna delicatezza a terra, e il resto fu un groviglio di respiri, lingue e gemiti, sparsi per tutta la stanza. Non si era nemmeno accorto che Sebastian, nel frattempo, lo aveva spinto contro il pianoforte, fino a quando non sentì il legno freddo contro la schiena; invece di fermarsi, venne afferrato per le gambe, trovandosi sollevato da terra con la sua lingua che accarezzava languidamente quella di Sebastian. Si aggrappò a lui, non aveva nessuna intenzione di cadere, o di interrompere quel contatto, perché adesso Sebastian aveva cominciato a succhiargli avidamente il labbro inferiore e, sinceramente, non si era mai sentito meglio in tutta la sua vita. Cominciando a sentire le gambe del violinista cedere per il troppo peso, si strinse ancora di più a lui, e lo sentì soffocare un gemito tra le sue labbra, al contatto delle loro eccitazioni da sopra i jeans.
Quel contatto fece mancare l’aria a entrambi, e furono costretti a staccarsi un minimo per poter respirare. Blaine rabbrividì, quando Sebastian fece scorrere una mano lungo tutta la schiena, fino a sotto i suoi jeans, mentre con l’altra lo afferrò possessivamente per i capelli; con un’angolazione più favorevole, le loro labbra si incontrarono di nuovo, stavolta, in modo più languido e sensuale. Era quasi convinto che sarebbe potuto venire solo per quello, perché non era mai stato baciato così, perché Sebastian era irresistibile e forse tutto quello faceva parte di un sogno meschino. Ma poi, arrivò il momento in cui si ritrovò sdraiato sulla cassa del pianoforte e, subito dopo, Sebastian fu su di lui. Solo allora capì di trovarsi nella realtà: nessuna sua fantasia sarebbe stata all’altezza di loro due su un pianoforte a coda.
Il suo corpo rispose automaticamente a quel contatto, inarcandosi senza vergogna e guadagnando una piacevole frizione.
“Cazzo Blaine”, gemette Sebastian, cominciando a succhiare e mordicchiare avidamente una parte del suo collo.
In risposta, lui aprì le gambe per lasciare più libertà di movimento ai loro bacini, e poi sentì la sua mano intrecciarsi a un’altra, premuta saldamente contro il legno del pianoforte; e poco importava che fosse di proprietà del Franz Liszt. Per un momento, Blaine considerò perfino l’idea di fare piano, ma poi Sebastian si spinse contro di lui spostando perfino i loro corpi, e i gemiti che susseguirono non riuscirono più a essere camuffati.
“Sì, forse dovrei avere quelle carte in ufficio, puoi rimanere un momento in linea?”
Dovettero ringraziare il loro udito allenato per poter riuscire a captare quella voce, perché Robert era lì, a pochi metri dalla porta, e la sua voce si faceva sempre più vicina. Si allontanarono l’uno dall’altro con uno scatto, guardando verso direzioni opposte, pallidi in volto.
 


Quando il professore entrò di nuovo nella sala prove, il pianoforte era leggermente spostato verso destra, ma Blaine e Sebastian erano molto lontani.
“… Che succede qui?”
“Niente.” Dissero in coro. Giusto per aumentare ancora di più i dubbi. Fece per parlare, ma la voce al telefono chiamò di nuovo il suo nome, e allora tornò ad occuparsi della chiamata facendo un gesto convesso con la mano, come per indicare che avrebbero continuato più tardi.
Ma ormai non potevano più continuare. E non c’era più modo di tornare indietro.
La porta si chiuse di nuovo, con un tonfo secco, quasi, solenne.
Blaine guardò Sebastian solo per un istante, quello in cui i suoi occhi smeraldini erano ancora attraversati da un bagliore scuro di lussuria; ma quando la  fibrillazione lasciò spazio alla mente, e ai ragionamenti, tutto apparve terribilmente affrettato e impulsivo. Non era così che dovevano andare le cose. Non era così che doveva finire. Prese fiato un paio di volte, prima di riuscire a trovare le forze per pronunciare il suo nome.
Uscì piano, dolce. Quel suono spaventò Sebastian, che indietreggiò di un passo, cominciando a scuotere la testa. Non c'era nemmeno bisogno di aggiungere altro: si capirono, si capivano sempre, anche senza bisogno delle parole.
"Che cosa stiamo facendo", dicevano gli occhi di Blaine, caldi, confusi.
Quelli di Sebastian, invece, erano più fermi. Risposero con un debole, "Non lo so. Ma ora ho capito."
"Capito cosa?" Chiese silenziosamente, inclinando la testa da un lato, completamente catturato da quel dialogo di sguardi.
L'ultimo fu quello che fece gli fece battere il cuore, ma non nel modo in cui sperava.
"Non vogliamo le stesse cose."
Probabilmente no. Sebastian voleva passione, sesso, era stato molto chiaro a riguardo. E Blaine? Lui non aveva mai pensato esattamente a cosa volesse; forse, perchè non ce n'era mai stato bisogno: non riusciva a mettere da parte i sentimenti come faceva lui. Non riusciva a vedere quello che avevano appena avuto come vuoto e superficiale.
Sebastian sì?
“Tu non vuoi questo, Blaine.”
Aveva ragione. Forse, per un attimo, aveva creduto che avrebbe potuto funzionare. Ma lui non voleva il suo partner soltanto a livello fisico. Lui lo voleva in tutti i modi possibili.
Per quello il battito del suo cuore gli faceva male; perché, tutto d'un tratto si rese conto di provare una cosa completamente diversa da lui, che considerava quasi, sbagliata.
"Non possiamo stare insieme, lo capisci, vero?”
“… Sì.”
“Finiresti per odiarmi.”
Blaine in quel momento lo guardò con un moto di disperazione dentro di sé, perchè voleva dirgli che non era assolutamente vero, che non avrebbe mai potuto odiarlo; ma non ci riuscì. Dopotutto, ci era andato molto vicino dall’odiare Sebastian Smythe, all’inizio della loro conoscenza. Potevano rischiare tutto, la loro carriera, il concorso, solo per un’attrazione reciproca?
La risposta la lesse negli occhi del suo partner. Erano di un verde limpido, come, trasparenti: era un no.
“Io non voglio ferirti."
Blaine ricacciò indietro a fatica delle lacrime, sviando la testa di un lato, facendo per andarsene.
“Lo so.” Sussurrò, con le mani strette a pugno e un'intensa fitta allo stomaco.
“Mi dispiace.”
“Anche a me”, bisbigliò.

Perchè ormai lo aveva già fatto. Era troppo tardi.












***
Angolo di Fra


... Potete respirare ora.

Volevo ringraziare Carlotta e Martina che mi hanno dato l'ispirazione per Franck. Ho ascoltato quella Sonata e ho detto "è lei". Grazie mille.
E poi permettetemi di fare la Robert della situazione: Skrjabin ha inventato quella scala perchè cercava qualcosa di "mistico". Spero si capisca la metafora!
E poi boh, spero vi piaccia. Chiedo scusa in anticipo per eventuali errori.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***




Capitolo 16





 

Chopin è così debole e timido da poter venir ferito persino dalla piega di una foglia di rosa.
-- George Sand


 

Sarebbe un'illusione credere che si possa fissare sulla carta ciò che determina la bellezza e il carattere dell'esecuzione.  -- Franz Liszt



 
 

 
 
 
“Come stanno andando quei due ragazzi del concorso?”
Robert si voltò verso sua moglie, porgendole una tazza di tè fumante e accennando a un sorriso: “A dire il vero molto bene.” Si sedette davanti a lei, ripiegando con cura il giornale e servendosi il caffè appena uscito dalla macchinetta. Erano le sette di mattina, in casa c’era un profondo silenzio, i raggi di sole cominciavano a filtrare dalle serrande della sala e loro due amavano quella parte della giornata: non che rimpiangessero il caos creato dagli adorati nipoti; è solo che, a quell’età, si amano quei piccoli ritagli di tempo in cui si può stare da soli con il proprio compagno, in tutta libertà.
“Sono soddisfatto.” Robert parlò con tono franco, sistemandosi un’asta degli occhiali con l’indice, “Stanno lavorando seriamente e finalmente hanno messo da parte quell’inutile rancore che serbavano l’uno per l’altro.”
“Rancore?”
Kayla scoppiò a ridere da dietro la sua tazza bianca; le dolci rughe di espressione si accentuarono ancora di più, mentre con una mano afferrava un tovaglilolo tentando di riprendersi.
“Cosa”, sbottò lui, “Che ho detto di così divertente?”
“Oh, Robert. Non sei proprio portato per le questioni cuore.”
 
Era vero. Era sempre stato così tra loro due: Robert aveva una mente brillante, era un ottimo musicista e un professore eccellente; sarebbe riuscito a intavolare una conversazione sulla storia della musica con un bambino, e quest’ultimo ne sarebbe rimasto folgorato pur non sapendo nemmeno di cosa stesse parlando. Aveva un intelletto di pochi e, allo stesso tempo, una chiarezza di ragionamento invidiabile; ma era nelle cose più iccole che si bloccava. Nel programmare la lavatrice, nell’aggiustare un microonde. Più in generale, non era mai stato un asso nelle questioni d’amore. Fino ai suoi venti anni aveva pensato solo a suonare e guadagnare qualche soldo per sua madre e per i suoi cinque fratelli, approfittando di tanto in tanto della gentilezza di qualche ragazzina che era rimasta affascinata dal suo portamento, dai suoi occhi chiari, dai lineamenti mascolini.
Non gli era mai interessato impegnarsi seriamente con qualcuna: in realtà, fino ad allora, non aveva mai tenuto grande considerazione della donna, come molte persone tipiche di quell’epoca.
Ma poi conobbe Kayla. O meglio, la musica di Kayla.
Aveva sette anni quando sentì per la prima volta il suono di uno strumento; era dolce, appena udibile da quella finestra piccola e malridotta del quartiere di Brooklyn. Iniziava tutti i giorni alle cinque del pomeriggio e terminava due ore dopo; ormai il piccolo Robert aveva preso l’abitudine di sedersi vicino alla finestra, su una panchina dei giardinetti; solo lui, con il suo piccolo cappellino infeltrito stretto tra le mani, intento ad ascoltare.
Si era immaginato tante volte il volto da accompagnare a quelle esecuzioni soavi e, tuttavia, decise. Si era immaginato il volto di un uomo maturo e affascinante, perchè a quei tempi le donne suonavano ben poco, e di certo un’abilità simile non era attribuibile a delle esili mani di donna.
La prima volta che si incontrarono fu un caso.
Era al mercato, aveva compiuto da poco otto anni; sua madre stava discutendo con il mercante per ottenere un chilo di mandarini in più ed Elliot, il suo fratellino più piccolo, continuava a piangere per via di una sbucciatura al ginocchio. Lui era stanco, aveva fame, voleva solo tornarsene a casa, quando improvvisamente sentì il suono di quel violino.
Non c’era bisogno di una conferma ufficiale: sapeva che fosse lui. Avrebbe riconosciuto quel suono tra mille altri accostati insieme. Per questo si voltò di scatto, trattenendo a stento l’entusiasmo e la trepidazione; solo, non si sarebbe mai aspettato che appartenesse a una femmina.
Non aveva più di dieci anni. Suonava con ardore, sorrideva ai passanti che la salutavano e lasciavano dentro la custodia del suo strumento una manciata di monete; i capelli biondi si muovevano assieme alla musica, e agli occhi del piccolo Robert sembrarono come dei fili di seta appesi a un meccanismo invisibile. Tuttavia, nonostante l’aspetto grazioso e piuttosto femminile, i suoi movimenti erano bruschi e le espressioni molto rigide. Aveva le parvenze di un ragazzo: di una persona forte, che non si faceva intimidire da nulla. Nel frattempo Elliot, catturato anche lui da quell’atmosfera che, tutto ad un tratto, era diventata completamente surreale, aveva improvvisamente smesso di piangere, completamente incantato; avrebbero continuato a fissarla con occhi sognanti e bocche aperte se non fosse stato per la loro madre che li spinse via senza troppe cerimonie.
“Aspetta”, intervenne Robert, e subito dopo corse verso quella misteriosa persona che corrispondeva a milioni di pomeriggi di pace e solitudine. Il suo cuore batteva già all’impazzata, ma era ancora troppo piccolo per capirlo, non è facile distinguere sentimenti così complicati a un età in cui tutto è così semplice.
Lasciò una moneta cercando di imitare al meglio le movenze degli altri passanti; era tutto ciò che restava della sua paghetta, ma in quel momento decise che la scorta extra di caramelle dal fornaio avrebbe potuto aspettare. La ragazzina gli rivolse un tenero sorriso; prima ancora che potesse ringraziarlo, Robert si fece più vicino a lei, esclamando: “Insegnami come fai!”
Lei non rispose. Lo fissò a lungo, come cercando il tranello a quella domanda uscita in modo piuttosto prepotente. Dopo qualche secondo, sviò leggermente lo sguardo, rispondendo con sarcasmo: “Con due mani e un archetto.”
Ma no, non era così: Robert voleva sapere come faceva a sembrare così bella, così brava, come potesse una donna rappresentare tutto ciò che lui aveva sempre sognato.
Fu allora che la piccola Kayla gli mostrò la mano, mostrando le sue mani allenate, nient’affatto delicate. Si presentarono; Robert disse il suo nome con orgoglio e possenza, come se appartenesse a qualche famoso nobile. In qualche modo, la cosa divertì la ragazzina, visto che scoppiò in una risata leggera affermando: “Sei un tipo strano.”
“E tu ti comporti come un uomo.”
“Dovresti farlo anche tu, se hai voglia di sopravvivere”, lo ammonì lei con tono brusco, come offesa dalle sue parole.
“Insegnamelo.”
Kayla si fermò di scatto, con l’archetto ancora a mezz’aria e gli occhi che erano diventati due palle da tennis. Fu solo in quel momento che i due si mostrarono esattamente per com’erano: dei bambini. Dei bambini che vivevano in un periodo duro e difficile, ma desiderosi di crescere e fare nuove esperienze.
“Non sarà troppo squallido farsi insegnare da una femmina?”
“Tu non sei una femmina come tutte le altre.”
Detto quello, si strinsero la mano.
Robert dubitava che sarebbe mai riuscito ad apparire come lei, ma da quel giorno in poi non si limitò ad ascoltare musica fuori dalla finestra.
Con il passare degli anni acquisirono una certa fama per le strade di Brooklyn, e di certo il guadagno netto a fine giornata superava largamente i piccoli spiccioli che avrebbero guadagnato da manovali. Affrontavano le giornate insieme, erano felici. Non si erano nemmeno accorti di come si stessero affezionando l’uno all’altra, fino a quando la guerra non arrivò a dividerli.
Accadde in Ottobre. Faceva piuttosto freddo, quel pomeriggio, e centinaia di mezzi erano sparsi per la città pronti a raccogliere più gente possibile. Kayla aveva ventidue anni e Robert venti. Quest’ultimo era stato chiamato alle armi, come tributo per il Paese: doveva partire per il Vietnam il prima possibile.
“Non ci andare.”
Il resto del mondo era troppo impegnato a badare a se stesso per notare due ragazzi che si stavano abbracciando sul ciglio della strada, proprio dietro a un camion militare.
“Non andare Robert, ti prego.”
Non erano mai stati dei veri e propri patrioti; ma Robert era un uomo d’onore, suo padre aveva combattuto per il Paese prima di lui, e sentiva di dover fare altrettanto. Furono del tutto inutili le lacrime di Kayla che sembravano intente a non finire; furono del tutto inutili i sentimenti che provava per lei. In quel momento, guardando quella che era stata da sempre la donna della sua vita, Robert prese la sua decisione.
“Aspettami.”
I loro sguardi si incontrarono, e lui afferrò il suo viso con entrambe le mani.
“Aspettami qui Kayla. Quando tornerò da questa guerra chiederò la tua mano.”
 
Robert passò otto anni in trincea: tornò a casa quando ormai era un uomo maturo, privo del tutto di quello spirito ribelle e giovanile che lo aveva caratterizzato. Molti gli dissero che avesse perso gli anni più belli della sua vita.
Ma lui non la vedeva così.
Quando rivide finalmente il volto di Kayla sorretto da un sorriso, capì che la vera vita iniziava da quel momento in avanti.
 
 
“A cosa pensi, Robert?”
Si destò da quel groviglio di ricordi come se una ventata d’aria fresca lo avesse colpito in pieno petto. Kayla lo guardava curiosa, esitante; lui si sporse un po’ di più per darle una piccola carezza su una guancia, e con quei sentimenti ancora impressi dentro di sè, lei capì esattamente tutto quello che voleva dire.
“Su, romanticone.” Sistemò meglio il colletto della sua giacca, e poi fece un piccolo sorriso: “Ti conviene sbrigarti, i tuoi studenti ti stanno aspettando. Non hanno certo la stessa pazienza che abbiamo avuto noi.”
“Già”, ridacchiò, prendendo in mano il bastone appoggiato contro il tavolo; accarezzò dolcemente una guancia di sua moglie, prima di indossare il cappotto e andare via.
Sotto sotto, era contento che quei ragazzi avessero molto più tempo a disposizione di quanto ne avessero mai avuto loro.
 
 
 


“Oh ma insomma, dove caspita è il professore? Io non ho certo tutto il giorno!”
Amanda sprofondò sul banco di fronte a lei, mentre Sarah masticava non troppo graziosamente una gomma trovata dentro al pacchetto delle patatine, i gomiti appoggiati alla sedia e l’aria piuttosto avvilita.
“Potrebbe anche mettere il turbo a quel suo bastone, ecco.”
“Capisco che è anziano e vuole prendersela con comodo – continuò l’altra – ma insomma, noi non abbiamo tempo da perdere, la nostra vita è già abbastanza incasinata!”
“Parlando di casini, guarda un po’ chi c’è.”
Immediatamente, le due ragazze si voltarono all’unisono, giusto in tempo per vedere Sebastian Smythe entrare in aula in giacca, occhiali da sole e tutta la sua bellezza.
“Ma ti rendi conto.”
“Lo so”, intervenne Sarah, “Non aggiungere altro Amanda, è destino che gli uomini più fighi del pianeta debbano essere fidanzati o gay. O entrambe le cose, magari.”
“Già, beato Blaine. Chissà cosa gli avrà fatto dopo quelle fantomatiche prove per il conc-“
“Che avrei fatto io?”
Ovviamente, Blaine spuntò in quell’istante alle loro spalle, fissando prima l’una e poi l’altra a metà tra il dubbioso e il divertito; non aveva capito molto il contenuto del loro discorso, aveva sentito sussurrare il suo nome e, lo sapeva, il suo nome pronunciato dalle bocche di quelle due ragazze non prometteva mai niente di ordinario. Magari si sarebbe fatto due risate; a giudicare dai volti pietrificati delle sue amiche, comunque, dedusse di no.
“B-Blaine!”
“Ma che sorpresa trovarti qui! Che combini di bello?”
“Ehm, seguo la lezione, come voi e tutti gli altri studenti di questa scuola?”
Amanda resistette all’impulso di dare uno schiaffo a Sarah perchè, insomma, dovevano quanto meno fare finta di mantenere una certa dignità mentale. Così non aiutava la loro posizione già molto compromessa.
“Ah, sì, giusto! Siediti accanto a noi.” La castana fece cenno a Blaine con la mano, e dopo qualche secondo di saluti e convenevoli intavolarono una normale conversazione, parlando degli esami, dei professori, del nuovo sito di segreteria online e del ritardo del professore.
“Ormai sono venti passati venti minuti!” Sbottò Amanda, incrociando le braccia al petto e facendo una smorfia. “Blaine, hai idea di dove sia il professor Cage?”
Inarcando un sopracciglio, le chiese, un po’ accigliato: “Perchè dovrei?”
“Ma come perchè? Tu e Sebastian non provate con lui tutti i giorni?”
Ah, giusto. Loro erano ancora iscritti a un concorso. Loro erano ancora il magico duo che era stato ripescato per il rotto della cuffia e per cui metà scuola faceva il tifo. Non c’era motivo di dire che non provavano da due giorni e che le prove del giorno prima erano state... come dire. Sospese.
“No, non so dove sia.”
Cercò in tutti i modi di contenere il rossore delle sue guance, ma con scarsi risultati. Non riuscì nemmeno ad impedirsi di guardarsi intorno per capire dove fosse Sebastian, e per poco il suo cuore non perse qualche battito quando, voltandosi con la schiena, lo vide lì, esattamente dalla parte opposta dell’aula e in una delle ultime file, con le cuffie alle orecchie e un’espressione concentrata su un foglio. Magari stava ascoltando il brano da eseguire alla seconda fase: lo aveva già trovato? Se sì, il professore lo aveva approvato? E quando? Non ricordava affatto di un loro dialogo circa una partitura per solo violino.
Questo voleva dire che si erano parlati in privato? Sebastian per caso aveva deciso di fare delle lezioni da solo con il professore?
Non era una cattiva idea. A pensarci bene, era davvero ottima: nemmeno Blaine aveva voglia di trovarsi nella stessa stanza insieme a lui. In quel momento esatto, a dire il vero, stava provando un irrefrenabile morsa all’altezza dello stomaco.
Perchè il suo cuore giocava ancora brutti scherzi quando i suoi occhi incrociavano quelli di Sebastian, e il suo cervello faceva una fatica immane nel ricordargli che, in realtà, era stato ferito giusto il giorno prima.
Non voleva più sentire parlare di Sebastian; nè da Robert, nè da Amanda e Sarah, nè da chiunque altro. E per il concorso, ci avrebbero pensato prossimamente.
 
 


Per Sebastian quelle due ore di lezione furono le più lunghe della sua vita.
Essenzialmente, trovarsi nella stessa stanza, a pochi metri da Blaine, e con la più totale incapacità di parlargli, era fisicamente demotivante. Si sentiva stretto: legato braccia e piedi contro un palo, senza nessuna possibilità di andare da Blaine e parlargli, spiegargli qualcosa.
Tipo che quello del giorno prima era stato un grandissimo errore, ma Blaine, sicuramente, aveva dedotto le cose sbagliate.
Per Sebastian non era stato un problema baciarlo; il vero problema era stato il dopo, quegli sguardi confusi, quelle labbra arrossate, che non avrebbe mai voluto lasciar andare. Era proprio quello il punto: Sebastian non credeva nell’amore. Gliel’aveva spiegato molto bene quando si erano appena conosciuti: era un sentimento adatto alle poesie e alle musiche sdolcinate, come quelle di Chopin che lui amava tanto. Erano cose che non potevano realmente accadere, erano impossibili: l’amore, dopo un po’, finisce. Il sentimento, in generale, è qualcosa che è destinato a scomparire. E allora, perchè rovinare quel rapporto che avevano creato insieme, dopo tanta e agognata fatica, solo per godersi qualche notte insieme?
Perchè rischiare di perdere Blaine, solo per la voglia di averlo?
Non lo avrebbe fatto.
Non aveva nemmeno senso quello che stava succedendo, però: Blaine non gli parlava, anzi, in quelle due ore di lezione sembrava che stesse facendo di tutto per evitarlo.
Con sua grande fortuna, però, poteva vantare della sua ottima visuale da in fondo all’aula, e così era riuscito a contare tutte le volte in cui Blaine faceva finta di stiracchiarsi o guardare un punto inesistente solo per trovarlo con la coda dell’occhio. Essendo lontano da lui e, soprattutto, qualche fila avanti, era sempre costretto a voltare la testa o parte del bacino, e quello di certo non giocava a suo favore.
Era come se una parte di sè volesse ignorarlo, ma un’altra molto più forte non ci riuscisse. Sebastian era divertito e allo stesso tempo elettrizzato da quella notizia: forse non era troppo tardi per cercare di sistemare le cose. Dopotutto il giorno prima, sebbene in modo piuttosto turbolento, si erano parlati: Blaine forse aveva capito le sue ragioni, che non aveva intenzione di ferirlo.
Oppure, forse, stava solo cercando un motivo per non odiarlo, perchè per via del concorso erano destinati a passare altro tempo insieme.
Quando Robert terminò la sua lezione, con i suoi venti minuti di ritardo, Sebastian si alzò in piedi di scatto, tenendo gli occhi fissi sulla schiena di Blaine, le mani strette a pugno: decise di parlargli. Non potevano certo comportarsi così, tra sguardi e silenzi tesi: erano adulti, per la miseria, potevano riuscire a sistemare quella cosa senza rancori eccessivi.
Oltrepassò i gradoni dell’aula uno ad uno, doveva riuscire a fermarlo prima che sgusciasse via dall’aula; per fortuna sembrava preso da un discorso con Amanda e Sarah, forse, aveva ancora una possibilità.
Doveva averla. Non poteva finire tutto così; non poteva sopportare di aver mandato tutto all’aria, solo per via di una stupida tentazione.
“Blaine.”
Quando quest’ultimo si voltò verso di lui, cauto, scorse sul suo viso una marea di emozioni diverse e contrastanti, come se non sapesse bene quale di quelle manifestare, quale far prevalere. Rabbia, sorpresa, delusione, aspettativa.
Forse, anche un pizzico di trepidazione.
“Blaine...” ripetè di nuovo, perchè non sapeva da che parte cominciare, c’erano così tante cose da dire, e quelle due ragazze continuavano a fissare sia lui che il suo partner come delle spettatrici di una telenovela. No, non era il posto adatto per dirsi certe cose. Stava per proporgli di andare a prendere una boccata d’aria, di stare da soli per poter parlare in piena libertà, quando vide Wyatt affiancare Blaine con un solo movimento fluido e cingergli le spalle con un braccio, sfoggiando un sorriso disarmante.
“Ciao splendore. Quanto tempo.”
“Wyatt.” Il tono di lui uscì come un saluto, ma si poteva percepire a distanza di chilometri che fosse visibilmente imbarazzato: non era abituato a quel genere di attenzioni, non era abituato a quei complimenti affatto velati, e nemmeno a un così stretto contatto fisico. Sebastian cominciò a mordersi l’incavo della guancia pur di evitare di dire qualcosa di molto sconveniente, specie di fronte ad altre persone.
Ma non si doveva permettere di parlare in quel modo a Blaine. Non si doveva permettere di toccarlo. E poi lui non aveva mai ricambiato, quindi, chi diavolo si credeva di essere?
Il biondino emise poi un verso di disattenzione, facendo roteare i suoi occhi chiari dal ragazzo accanto a sè fino a lui, per poi coprirsi la bocca con una mano in segno di dispiacere: “Oh, spero di non aver interrotto qualcosa.”
Solo la tua testa, formulò mentalmente Sebastian. La tua testa che io interromperò dal tuo collo.
Ma la risposta di Blaine lasciò entrambi sopraffatti, perchè il ragazzo si scostò leggermente da lui ma non degnò Sebastian nemmeno di uno sguardo, mormorando piano: “No, tranquillo. Non hai interrotto niente. Me ne stavo andando.”
Fu in quel momento che Sebastian capì quanto fosse grave il danno causato il giorno prima. Fu quello il momento in cui si pentì con tutto il cuore di averlo fatto: non era più abituato a essere completamente ignorato in quel modo, non da Blaine. Faceva male.
Tuttavia, non fece male quanto vederlo borbottare qualcosa con il professor Cage, per poi scoprire che aveva deciso di continuare le prove per il concorso separatamente.
 


 
Dopo la pausa pranzo Sebastian si recò in aula prove, come concordato. Robert era già seduto su un banco non molto distante dal pianoforte, con la sola eccezione che, quella volta, era vuoto. L’espressione del ragazzo rimase immutata mentre si avvicinava al professore tenendo tra le braccia la custodia contenente il suo violino.
In quel momento la sua priorità era vincere quel concorso; il resto poteva aspettare.
“Oh, sei qui.”
Robert si sfilò gli occhiali con una mano, mentre con l’altra era intento a sfogliare una serie di spartiti vecchi e piuttosto consumati. “Stavo pensando al brano da portare in seconda fase. Avevi già un’idea?”
Sebastian fece per rispondere, ma un secondo dopo richiuse la bocca, come se qualche pensiero improvviso lo avesse privato dell’uso della parola. Non era ancora arrivato il momento per quel brano.
“Non ho preferenze”, disse allora, “Scelga lei.”
Robert sfoggiò un sorriso convinto; ci impiegò soltanto un paio di secondi prima di sfilare un paio di fogli da un plico piuttosto voluminoso, per poi passarli al violinista senza la minima esitazione. Il ragazzo diede un’occhiata veloce, era un brano di Bach, Partita in re minore: adorava quel compositore. Era metodico, razionale. Lo rispecchiava pienamente, e si sentiva finalmente soddisfatto di avere un brano alla sua portata.
“Conosci questo pezzo?”
“Vagamente.” Sebastian estrasse il violino dalla sua custodia pulita e lucida, accarezzandone per un momento le rifiniture prima di posizionarlo in modo perfetto sotto alla mascella. In meno di un secondo aveva già assunto la posa adatta, con la schiena dritta e le braccia rigide; ripensò al giorno prima, a come avesse faticato per impartire quei movimenti a Blaine, al suo sguardo intenso e vivo mentre lo fissava colmo di trepidazione.
Scacciò quelle immagini con un brivido freddo e, subito dopo, prese possesso del suo strumento.
La prima lettura fu lenta, esitante. Ma con calma e attenzione Sebastian riuscì a effettuare tutte le note nel modo giusto, soffermandosi sulle vibrazioni, evidenziando le legature di valore. Era un gioco da ragazzi, faceva esercizi per affinare la tecnica ogni sera prima di addormentarsi e, qualche volta, perfino di notte fonda: la riprova era una Santana incavolata nera che gli bussava alla porta minacciandolo di morte. Tuttavia, si sentì incredibilmente fiero di se stesso quando riuscì a eseguire tutto il brano alla velocità giusta e senza troppe sbaffature; era semplice. Era quello che gli piaceva della musica, non c’erano troppe complicazioni nel suonare, si eseguiva e basta: la mente poteva andarsene altrove.
Robert, però, non si trovò d’accordo con la sua visuale delle cose.
“Sì, bene.” Lo interruppe in un modo così brusco che Sebastian per poco non si offese: non era certo quello il modo di fermare un’esecuzione.
“Qualcosa non va?” Parlò con un tono talmente freddo che sembrò tagliare l’aria a metà. Il professore lo squadrò da sopra i suoi occhialetti sottili: non disse niente, per diverso tempo si limitò a segnare qualcosa nel suo taccuino, atteggiandosi come uno di quei giudici del concorso che lo facevano assolutamente innervosire.
“Mi scusi”, esordì Sebastian, piano, calibrando ogni sillaba, “Posso sapere, di grazia, perchè mi ha interrotto?”
“Perchè per oggi può andare.”
No che non poteva andare. Robert non era convinto; non aveva fatto il suo solito sorrisetto compiaciuto, o qualche battuta sarcastica e amichevole. Lo aveva trattato come uno di quei ragazzini che suonavano ignari degli errori che stavano commettendo, e non era possibile: lui era stato tecnicamente perfetto. Non aveva commesso errori, era sicuro di se stesso.
Per quel motivo l’atteggiamento di Robert, messo a confronto del suo, risultò ancora più snervante.
“Sebastian, non startene lì impalato a fissarmi, la lezione è finita.”
“No che non è finita.”
Robert, allora, alzò leggermente lo sguardo, e ascoltò.
“Non è finita finchè lo decido io. Non è finita finchè lei mi dice cosa diavolo non va nella mia esecuzione perchè, sinceramente, l’ho trovata perfetta.”
“Addirittura perfetta?” Canzonò lui, sprezzante.
“Sono riuscito a prepare un brano con soltanto mezza giornata di esecuzione. Sono riuscito a suonarlo alla velocità giusta e senza steccare una volta, e mi dica, quanti ragazzi del terzo anno possono riuscirci? Io credo nessuno.”
“Su questo mi trovo d’accordo con te”, commentò Robert, “Sei stato bravo e sei indubbiamente dotato.”
Lo prendeva in giro?
“Mi dica cosa vuole.”
Appoggiò entrambe le mani contro il banco, in modo brusco, impulsivo.
“Vuole che lo suoni più veloce? Più lento? Più articolato? Più forte? Basta che mi dica qualcosa. Parli. Perchè con Blaine non si fa mai riserve nel dire qualsiasi cosa che non le va a genio, e a me non dice mai niente?”
“E’ questo il punto, Sebastian?”
Robert appariva tanto calmo quanto lui si stava lentamente infuriando.
“Francamente, questa scelta di fare un paio di prove da soli mi ha un po’ preoccupato. Avete litigato di nuovo, non è così?”
“Non sono affari suoi.”
Il professore esitò qualche secondo, sviando appena lo sguardo e facendo una piccola risata: “Giusto, hai ragione. A volte tendo a essere un po’ invadente.”
E allora una parte di lui cominciò immediatamente a sentirsi in colpa: non voleva dire quelle cose. Non voleva trattare il professore in quel modo, ma era arrabbiato. Furioso, a dire il vero. Non riusciva a capire perchè il resto del mondo sembrasse più interessato a Blaine che a lui; prima Wyatt, ora quello.
“Perchè non ammette che non è rimasto soddisfatto dalle mie prove così possiamo finirla?”
Ci fu una pausa lunga diversi secondi; dopodichè, Robert sospirò,prima di parlare: “Hai ragione. Non sono rimasto soddisfatto.”
Lo sapeva.
“E’ dal primo giorno che mi conosce che continua a rimanere insoddisfatto.”
“E’ vero.”
Sebastian inarcò un sopracciglio, preso completamente in contropiede: aveva anche il coraggio di ammetterlo?
“Prima mi dice che sono dotato, e poi mi dice che non sono capace. Francamente, mi sembra un po’ bipolare.”
“Oh no Sebastian, la mia capacità di ragionamento è fluida e unilaterale, grazie per l’interessamento.” Con i suoi modi di fare pacati e assolutamente rilassati, Sebastian si sentì ribollire il sangue nelle vene giusto un po’ di più, mentre a dentri stretti lo ascoltava: “Come hai non troppo modestamente detto tu, la tua tecnica è notevole. Di questo devo farti i complimenti, perchè alla tua età non riuscivo a padroneggiare il violino come fai tu. Ma non perdiamo altro tempo e parliamo del brano nello specifico: è troppo veloce.”
“Sta scherzando?” Esclamò lui, allibito.
“No, dico sul serio. E’ troppo veloce. Sembri che suoni perchè devi farlo. Devi... devi essere più dentro la musica Sebastian. E’ come uno strato d’acqua che scivola sulla tua pelle; deve lasciarti qualcosa, trasformarti.”
Ecco che di nuovo partiva per i suoi discorsi filosofici, di quelli che non sopportava nessuno. Di certo non li aveva mai sopportati Sebastian, non in un momento simile, tanto che senza troppe cerimonie si scostò dal banco sentenziando: “Con tutto il rispetto, mi sembra una stronzata.”
Ma anche la pazienza del professore aveva un limite. Si alzò in piedi di scatto, trattenendosi dall’alzare la voce verso il suo studente; gli prese il violino dalle mani, lo guardò con una vampata di orgoglio nello sguardo. Non aveva più intenzione di ripetere lo stesso discorso mille volte: Sebastian non sembrava voler capire. Così, semplicemente, decise che fosse ora di dimostrarglielo.
“E’ una stronzata che ti farà vincere.”
Non aspettò nemmeno dieci secondi prima di assumere la posizione corretta e cominciare a suonare.

Era difficile descrivere quello che stava sentendo.
Sebastian per tutto il tempo restò fermo, immobile, completamente attento ad ogni singola nota che usciva da quel violino perchè, se ne rendeva conto solo adesso, era la prima volta che sentiva il professore suonare.
E quello era il brano che aveva suonato lui giusto qualche minuto prima, era quello, lo sapeva bene: le note c’erano tutte, le tonalità, le alterazioni in chiave.
Ma era tutta un’altra cosa.
Era qualcosa di concreto, di vivo e di delineato; era un tema che si presentava senza bisogno di immagini e, sinceramente, non aveva mai sentito niente del genere prima di allora. Era completamente diverso dal modo di suonare a cui era ormai vincolato: le mani di Robert potevano essere invecchiate dall’età ma, in quel momento, si muovevano come quelle di un ragazzino. Erano briose, eleganti, si prendevano tutto il tempo necessario a contemplare ogni attimo e l’espressione dell’uomo, mentre lo faceva, era semplicemente rilassata.
Robert sembrava giocare con le note che suonava.
E Sebastian capì che era stato uno stupido a comportarsi in quel modo. E che di fronte a lui si presentava l’unica persona che poteva davvero farlo migliorare.
“Le porgo le mie scuse.”
Robert non si aspettava una reazione del genere; certo, sperava di riuscire a impressionarlo, ma delle scuse sincere da parte di Sebastian Smythe erano una cosa fuori dal comune.
Ma il ragazzo adesso aveva l’aria di essere uno di quegli adolescenti che si era appena reso conto di aver volato troppo in alto, e sembrava finalmente disposto a imparare.
“E di cosa?” Lo schernì, massaggiandosi una spalla indolenzita perchè, ahimè, l’età aveva i suoi grandi difetti: non riusciva più a tenere in mano un violino per troppo tempo.
“Per... mi sono comportato da immaturo.” Ammise.
“E’ vero.”
Beh, certo, l’arroganza del ragazzo poteva essere paragonata solo alla sua.
“Ma è giusto che sia stato così.” Robert si fece in avanti e, nonostante la titubanza di Sebastian, gli diede una pacca affettuosa sulla spalla, sorridendo gentilmente: “Voglio che tu sia sempre sincero con me.”
“Sinceramente?”
Mi sento un idiota.
“Non credo di riuscire a suonare quel brano come lei.”
“Oh ma lo spero figliolo. Se tu riuscissi a emulare anni e anni della mia carriera in un attimo sarebbe un po’ umiliante per me.”
Entrambi sorrisero, molto più rilassati, e allora l’allievo lasciò che il professore gli passasse in mano archetto e violino, stringendoli come se fossero qualcosa di molto bello.
“Ma ci arriveremo.” Disse il professore.
Sebastian annuì in modo impercettibile a quelle parole, ma dentro di sè sapeva che la realtà sarebbe stata molto meno ottimista.
 


 
Ce la poteva fare.
Lo aveva deciso lui in fondo, no? Si trattava solo di suonare un brano. Un semplicissimo brano al pianoforte, con il professor Cage, e poi sarebbe tornato a casa. Brittany avrebbe combinato l’ennesimo disastro culiniare e Lord Tumbington si sarebbe rivoltato nella sua cuccia di cuscini di seta, non perdendo nessun secondo per ricordargli quanto lo odiasse e quanto, con i suoi croccantini scontati e insapori, fosse una brutta persona.
Non avrebbe visto Sebastian per il resto della giornata e andava bene così. Più che bene.
“Blaine? Sei tra di noi?”
Robert gli sventolò una mano davanti al viso, facendolo completamente sussultare.
“Ci sono”, rispose subito, leggermente allarmato, “Mi scusi, ero... ero sovrappensiero.”
“Ho notato.” Fece per aggiungere qualcosa, ma poi, come ripensandoci, disse: “Ad ogni modo, è tardi, direi di scegliere il brano e provarlo domani.”
Incuriosito, Blaine sollevò la testa per leggere l’ora sull’orologio appeso al muro, che segnava le sette e dieci di sera: non riusciva a crederci. Aveva passato tutto il giorno chiuso dentro al conservatorio? E a fare che, poi? Ricordava di aver parlato con un paio di persone, di aver studiato un po’ nella sala letture... e che altro?
Era come se fosse in uno stato catatonico da quasi ventiquattro ore: il tempo gli scivolava addosso, come pioggia. Non pensava nè al passato nè al futuro, ma solo ad affrontare la giornata minuto per minuto.
“C’è qualcosa che ti piacerebbe suonare?” Domandò Robert con fare gentile, come se, sotto sotto, avesse intuito perfettamente la natura dei suoi pensieri. E Blaine riflettè a lungo: gli era stata offerta la possibilità di scegliere un brano che conoscesse bene, di cui si poteva fidare.
Si era fidato anche di Sebastian.
Scosse la testa con veemenza,mentre si mordeva un labbro cercando di concentrarsi solo sulla musica: suonare. Dunque, che brano gli sarebbe piaciuto suonare, in quel preciso momento?
Qualcosa di forte. Qualcosa che lo scaricasse lasciandolo completamente senza forze; qualcosa che lo stancasse così tanto da riuscire a svuotarlo del tutto, così da guadagnare un altro po’ di apatia per qualche ora in più. Voleva sfogarsi attraverso la musica: voleva gridare.
Toccata di Khachaturian”, dichiarò, con una sola mandata di fiato.
Robert, un po’ sorpreso da quella scelta inaspettata, lo guardò ammirato, e poi disse: “Mi sembra perfetto. Aspettami qui, vado in ufficio a fotocopiarti lo spartito.”
E così, la sala prove cadde di nuovo nel silenzio, intervallato soltanto dal rumore di passi fuori dalla stanza, o dai lampioni che si accendevano e spegnevano a intermittenza oltre la finestra. Blaine si avvicinò al pianoforte memorizzando ogni singolo brivido guadagnato dallo sfiorare dei tasti freddi; non aveva nessuna intenzione di ricordare le vicende del giorno prima.
Non aveva intenzione di ricordare quanto fosse stato bello baciare Sebastian proprio in quel punto esatto, o quanto le sue labbra gli erano sembrate perfettamente morbide e la sua lingua calda, con quei movimenti passionali, bacini che si scontravano, mani che si cercavano stringendosi saldamente.
Aveva ancora il sapore di Sebastian impresso nella mente; sperava solo di riuscire a dimenticarlo il prima possibile.
“Disturbo?”
Nonostante il suo cuore gli giocò il brutto scherzo di confondere quella voce con l’origine dei suoi pensieri, appoggiato allo stipite della porta c’era Wyatt, con un’espressione assorta, indecifrabile.
“Oh, no, figurati. Stavo aspettando il professore”, balbettò Blaine, chiudendo la tastiera del pianoforte e voltandosi completamente verso di lui.
“Ah, se devi suonare torno domani. Volevo provare un po’ prima di andare a casa.”
“Fai pure, io stavo per andare via.”
Detto quello, afferrò la tracolla precedentemente appoggiata contro lo sgabello e fece per andarsene il più in fretta possibile; provava ancora un certo imbarazzo nel trovarsi da solo con quel ragazzo. Ma poi, perchè?
Quando si sentì afferrare per il polso, costringendosi a guardare il volto di Wyatt e i suoi occhi azzurri, restò a fissarlo in silenzio per qualche secondo, mentre lo sentiva dire: “Puoi restare se vuoi. Anzi, mi farebbe piacere.”
Dopo tutto, da cosa era nato tutto quel risentimento?
La prima volta che si erano parlati era stata una conversazione piacevole; Wyatt aveva mostrato da subito grande stima per lui, e quei suoi apprezzamenti, tavolta impliciti, talvolta espliciti, Blaine li vedeva solo come un complimento un po’ scherzoso. La sua partner Jodie, poi, si era rivelata una ragazza cordiale e disponibile, e se aveva deciso di fare coppia con quel ragazzo, allora quest’ultimo doveva pur avere qualche lato positivo.
In realtà, in quel momento, ricordava poco i motivi che lo avevano spinto a tenere le distanze, mettendo da parte quella scontata ostilità per il concorso: chi l’aveva detto che due rivali non potessero fare il tifo l’uno per l’altro? In fondo, rappresentavano la stessa scuola.
E poi, Wyatt era un grandissimo flautista che gli aveva appena chiesto di ascoltarlo. Blaine pensò che non ci fossse nessuna ragione per rifiutare il suo invito. Così, rivolgendo al flautista un piccolo sorriso, si mise a sedere sullo sgabello del pianoforte, intrecciando le mani sulle ginocchia e prestando attenzione.
Blaine cercò di individuare il brano, ma lipperlì non gli venne in mente; non era un grande conoscitore del repertorio di flauto traverso, e quasi si sentì in colpa per quello: Wyatt fino ad allora aveva azzeccato alla prima nota ogni brano da lui suonato. Gli dispiacque un po’ non ricambiare il favore, ma questo gli concesse di ascoltare con particolare attenzione: era qualcosa di incredibilmente dolce e malinconico. E Wyatt suonava con una delicatezza e un’eleganza senza pari, ma c’erano dei momenti in cui sembrava intercedere su qualcosa, come se non riuscisse a mantenere la stessa interpretazione.
C’era qualcosa di insolito, nel modo con cui suonava. Tuttavia, si adattava perfettamente al brano, e così Blaine lo attribuì soltanto ad un effetto dell’interpretazione.
Lo lasciò terminare con molta educazione, concedendogli anche un piccolo applauso alla fine a cui il flautista ringraziò con un lieve inchino.
“Complimenti. Che cos’era?”
Adagio di Albinoni”. Rispose con il suo tipico tono fermo ed educato. “Sono contento che ti sia piaciuto. Tengo molto al tuo giudizio.”
Di nuovo, Blaine si ritrovò ad arrossire; succedeva spesso, quando si trattava di Wyatt. Anche se, a essere sinceri, non poteva definirsi completamente ripugnante a tutte quelle attenzioni: erano come una ventata d’aria fresca, paragonata con tutte le turbolenze che aveva vissuto.
Che Sebastian gli aveva portato.
Si morse leggermente il labbro inferiore; gesto che non sfuggì a Wyatt, dal momento che si avvicinò un po’ di più a lui stringendo il flauto con una mano sul fianco, lasciando libera l’altra.
“Blaine.”
Alzò lo sguardo e – oh. Wyatt lo stava guardando come rapito.
“Io... non sai quanto sono dispiaciuto che questo concorso ci abbia resi rivali. Ho sempre sperato che potesse essere un modo per diventare amici.”
Restò in silenzio per qualche secondo; Blaine intuì che stesse aspettando un suo commento, una sua reazione, insomma, qualcosa. In risposta, si strinse nelle spalle, limitandosi a dire: “Beh... alla seconda fase potrà passare soltanto una coppia.”
“Lo so”, mormorò l’altro, rammaricato. Dopodichè, cordialmente, gli tese la mano: “Che vinca il migliore, no?”
Blaine non esitò a stringerla, cercando di mostrarsi altrettanto sorridente e amichevole: “Certo. Sarà una bella sfida.”
E c’era qualcosa che non tornava: Blaine lo aveva pensato per tutto il tempo, ma adesso era diventato sin troppo palese per non farlo notare anche a Wyatt.
“Come mai tutto ad un tratto sei così gentile con me?”
Il ragazzo scoppiò a ridere giusto a pochi centimetri da lui, passandosi una mano trai capelli biondi e fluenti: “Oh Blaine, io sono sempre stato gentile con te. E’ con il tuo partner che non riesco proprio a ragionare.”
Oh, giusto. Sebastian.
“... E’ una persona difficile.” Ammise. Lui gli lanciò una lunga occhiata: “Diciamo più che difficile.”
E sarebbe stato così facile, paradossalmente, cominciare a raccontargli tutte le cose che erano successe tra loro due per dargli conferma che sì, Sebastian era davvero più che difficile, e forse Blaine era stato cieco a non capirlo prima.
Ma non poteva.
Invece, si limitò a stringere le labbra, formando un sorriso sghembo. Non aggiunse altro.
Ci pensò Wyatt, però, a colmare quel silenzio carico di frasi non dette.
“Perchè non usciamo stasera? Una cosa innocente, io, Jodie e voi due. Brindiamo a questo concorso e ci auguriamo in bocca al lupo.”
Gli sembrava una pessima idea.
Ma, forse, la vedeva così solo perchè si era lasciato influenzare dal giudizio che aveva Sebastian su di Wyatt; dopotutto era piuttosto palese che non si sopportassero. Ma ciò non significava che non poteva farsi una idea tutta sua, o che non potesse uscire per una sera. E poi, Wyatt era stato davvero, davvero gentile, lui aveva bisogno di svagarsi... e confidava sul fatto che Sebastian non si sarebbe mai presentato ad un invito da parte del flautista.
“Contaci. Ci sarò.”
“Perfetto!” L’altro ragazzo sembrò un po’ troppo entusiasta per risultare sincero, ma non ci fece molto caso; Robert tornò praticamente in quel momento, con una serie di spartiti in mano e alcuni libri di vecchia annata.
“Vi lascio continuare la lezione”, proferì Wyatt. Dopodichè, si sporse un po’ di più verso di Blaine, arrivando a pochi centimetri dal suo viso e sussurrandogli: “Grazie per avermi ascoltato.”
Non c’è di che.
Voleva dirlo, ma chissà come mai quella vicinanza lo aveva lasciato senza parole. Non sarebbe mai riuscito a capire le vere intenzioni di quel ragazzo.
 
 





 
***
 
Angolo di Fra
 
Questi capitoli vengono sempre più lunghi. Lo faccio perchè aggiornando piuttosto lentamente preferisco accorpare più cose. Scommetto comunque che non vi dispiace. La prossima settimana ho gli esami, quindi non aggiornerò prima di venerdì prossimo.

Innanzi tutto volevo segnalarvi la OS che IrishMarti ha fatto basandosi su questa storia... che è veramente bellissima. E io la amo. La riassumo così: se Robert non fosse arrivato interrompendo la make-out session di Blaine e Seb cosa sarebbe successo? LOL buono smut a tutti
Volevo solo dire una piccola cosa tecnica: se avete ascoltato i brani che ho messo in questo capitolo, avrete notato che ci sono due versioni della Partita in re minore di Bach. L’ho fatto proprio per sottolineare ciò che potrebbe essere la differenza di esecuzione tra un musicista e un altro. In realtà, il primo mi è sembrato molto più “meccanico” del secondo. Sempre se possiamo dire queste cose di musicisti eccelsi, ovviamente. Diciamo che è solo un mio piccolo taglio personale sull’interpretazione. Il mio maestro diceva sempre: un ottimo brano lo può suonare chiunque. Un’ottima musica no.
Ecco, spero di aver reso l’idea.
Spero anche che vi piaccia questo capitolo! A proposito, molti di voi volevano dare un volto a Wyatt, sappiate che è questo.
Sì lo so me lo sono scelto brutto (sarcasmo mode on) ahahah. E poi voi mi odiate... ma io quell'Adagio di Albinoni lo amo. Ok potete mandarmi a cagare.
Buon Glee!

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***




Capitolo 17



 


Quando le sue sofferenze erano ancora tollerabili, Chopin si mostrava di una bonomia maliziosa che dava un irresistibile fascino ai suoi rapporti con gli amici. Nella conversazione portava quell'humour che fu la grazia principale e il carattere essenziale del suo raro talento. ---Hector Berlioz


 

 
 
 
Quando Blaine trovò finalmente parcheggio per il suo motorino, potendo così spegnerlo e sfilarsi il casco diventato opprimente, si voltò soltanto una volta verso la strada affollata di New York per rielaborare tutto ciò che era successo; e che stava per succedere, soprattutto.
Wyatt – dopo aver ottenuto il suo numero – gli aveva scritto di incontrarsi alle nove e mezza davanti al pub dei musicisti, e non c’era alcun dubbio che lui avesse mal interpretato quell’informazione: il pub frequentato dagli studenti del Franz Liszt era quello. L’ultima volta che ci era andato, Wyatt e Sebastian avevano scatenato una rissa rischiando perfino l’espulsione; si chiese con che faccia potessero ripresentarsi lì, ma dopotutto non era un suo problema.
Assicurò il casco al motorino mettendo in tasca le chiavi, e si guardò per un’ultima volta dallo specchietto per controllare lo stato dei suoi capelli: forse aveva messo troppo gel, o forse la camicia non andava bene, forse quei jeans gli stavano larghi, fatto sta che si sentiva terribilmente a disagio. Nemmeno fosse un appuntamento.
Con quella consapevolezza entrò dentro e salutò le poche persone che conosceva, dal momento che non molti uscivano di mercoledì sera, specialmente quelli del terzo anno. Erano troppo presi con gli esami o le lezioni per potersi permettere una vera e propria vita sociale; quel discorso valeva anche per Blaine, e sperò soltanto di poter passare una bella serata nella sua unica giornata libera senza incappare in nessun tipo di complicazioni.
Dopo aver passato in rassegna le pareti bordeaux del pub, ascoltando la musica orecchiabile appena udibile in sottofondo, si accorse della presenza di Wyatt solo quando era a pochi metri dal bancone. Si salutarono senza troppi convenevoli, sedendosi l’uno accanto a l’altro e appoggiando le mani sul ripiano di legno.
Il ragazzo indossava una giacca scura, aveva i capelli perfettamente sistemati e, semplicemente, sembrava in ottima forma. Blaine ne sarebbe rimasto affascinato, se solo la sua mente non fosse stata troppo concentrata su un altro.
“Wow, Blaine.” Il biondo spalancò gli occhi ammirato: “Stai benissimo.”
Beh, forse, le paranoie di poco prima erano inutili.
“Grazie”, mormorò, e le sue guance avevano già assunto un colore rosastro, che tentò di camuffare chiedendo a che ora sarebbero arrivati gli altri. Il cuore battè un po’ più forte realizzando il significato di altri, ma fu fermato subito, come un ostacolo lungo una corsa.
“Oh.”Wyatt sfoggiò una smorfia amareggiata, passandosi una mano sulla fronte. “Mi sono completamente dimenticato di avvisarti. Non vengono.”
“Non vengono?”
La domanda uscì più sbalordita di quanto non volesse. Non avrebbe dovuto mostrarsi così sorpreso, interdetto e, sì, anche un po’ deluso.
“Jodie è completamente immersa nelle prove, e non poteva proprio staccare.”
“Oh. Sì beh, la capisco”, aggiunse, sviando lo sguardo verso le sue mani; il barista, intanto, aveva portato a entrambi una birra, volatilizzandosi subito dopo.
“E... Sebastian?” Chiese, sperando di risultare il più naturale possibile. Non era veramente interessato a sapere dove fosse; però non poteva impedire alla sua mente di viaggiare immaginandosi vari scenari, e chissà, magari era rimasto imbottigliato nel traffico, magari Santana lo aveva chiuso in camera sequestrandogli il violino.
“... Francamente gli ho scritto un messaggio stamani, ma lui mi ha risposto soltanto no, lasciami stare. Immagino dovessi aspettarmelo. Che peccato.”
Già. Che peccato.
Perchè, ovviamente, Sebastian non si era fatto vivo perchè non voleva vederlo. E faceva bene: non si erano più rivolti parola da quella volta, e instaurare una sorta di conversazione, adesso, sarebbe stato davvero imbarazzante. Cosa avrebbero potuto dirsi? Ma, soprattutto, cosa si era immaginato Blaine?
Una parte di lui si era immaginata la sua entrata nel bar con un mazzo di rose, un sorriso sincero e una richiesta di scuse. Oppure ancora, si era immaginato essere trascinato via da quel posto quasi con la forza, per poi rimanere da soli loro due e riprendere da dove erano stati interrotti.
Ma ancora una volta, aveva avuto ciò che si meritava. E si ritrovò a sorridere a se stesso, perchè quella cosa aveva dell’incredibile: nonostante tutto quello che era successo lui era ancora preso da lui. Era cotto marcio, a un livello che rasentava l’inverosimile.
Doveva finirla. Doveva smettere di pensarci, in tutto e per tutto. Era stato chiaro: non potevano stare insieme. Era giunta l’ora di andare avanti.
“Oh, al diavolo.” Wyatt, di fronte al suo silenzio, gli chiese se andasse tutto bene e inarcò un sopracciglio.
“Sì, alla grande.” Si voltò verso di lui con uno scatto e fece per porgergli la birra per fare un brindisi. “Non importa, godiamoci il resto della serata.”
Fece appena in tempo a bere un sorso della bottiglia, prima di sentire la voce melliflua di Wyatt domandargli: “Come procedono le prove per il concorso?”
Non avrebbe potuto fargli domanda peggiore.
“Bene”, mentì, tenendo gli occhi incollati al vetro, non in grado di guardare oltre. “Sto preparando la toccata di Katchaturian, sotto consiglio del professore.”
“Non mi dire.” Il sorriso del ragazzo si fece più ampio. “E’ un brano particolare, Blaine. Non pensavo fosse da te.”
Blaine avrebbe tanto voluto chiedergli: e da quando conosci i miei gusti musicali?
Invece, si strinse nelle spalle, per poi dire: “Beh, non è Chopin ovviamente, ma direi che per la seconda fase mi serviva qualcosa di più... forte.”
“Assolutamente”, affermò Wyatt, e poi si perse in lunghi discorsi sul suo brano e sulla sua scelta interpretativa.
 
 
Blaine non era mai stato un grande bevitore; questo era un fatto universalmente riconosciuto.
Ma arrivare due ore dopo ad aver bevuto uno shortino, mezzo cocktail e due birre aveva battuto decisamente ogni suo record; adesso era appoggiato al bancone quasi rassegnato, mentre Wyatt terminava la sua terza birra in un sorso solo, scoppiando in una risata.
“Non ti facevo così rammollito Blaine.”
“Non sono rammollito”, biascicò lui, alzando il volto quanto bastava per guardare quello dell’altro, “Sei tu che sei troppo una spugna.”
Il flautista ridacchiò, e poi andò a cingergli le spalle con un braccio, appoggiandosi con la fronte al suo corpo e respirando il profumo della sua colonia.
Avevano passato le ultime ore a parlare tranquillamente e senza problemi, rimanendo sempre in ambiti musicali o quanto meno superficiali; Wyatt si era rivelato essere un ragazzo brillante e acuto, che sapeva esattamente quali risposte dare o cosa dire per metterlo in imbarazzo e, allo stesso tempo, farlo sentire lusingato. Con lui riusciva ad andare facilmente d’accordo; forse, perchè in realtà si limitava a dargli ragione su ogni cosa, ma Blaine era troppo ingenuo per capirlo.
Con un mal di testa pulsante e un sonno che continuava ad aumentare, Blaine verso le due e mezza decise di porre fine a quella serata. L’indomani avrebbe dovuto alzarsi presto, e a casa lo aspettava sicuramente Lord Tumbington per uno dei suoi agguati.
“Alla fine abbiamo passato tutto il tempo qui seduti a chiacchierare.” Mormorò Wyatt, piuttosto estasiato. Blaine non riuscì a cogliere il vero significato di quella frase; si limitò ad annuire, ringraziando il barista che nel frattempo aveva chiamato un taxi, dal momento che lui non era in grado di guidare.
“Sono stato bene.”
Wyatt si alzò in piedi come se volesse accompagnarlo alla porta, ma a quella frase si fermò sul posto, fissandolo a metà tra il divertito e l’incerto, come se non sapesse bene cosa fare.
“Io... mi serviva un po’ di distrazione. Grazie Wyatt.”
“E’ stato un onore e un piacere”, rispose allora il flautista, e dopo essere arrossito un poco Blaine gli rivolse un sorriso timido, facendo per andarsene.
“Aspetta.”
Fu afferrato per un polso e costretto a voltarsi, così da incontrare a pochi centimetri di distanza i suoi occhi.
Ed era così simile a quando lo aveva fatto Sebastian, che Blaine al solo ricordo si sentì mancare il fiato; ma gli occhi che adesso aveva di fronte non erano verdi e splendenti. Non gli provocavano le farfalle nello stomaco. Aspettò pazientemente spiegazioni per quel gesto, fino a quando il ragazzo non si avvicinò a lui per lasciargli un piccolo bacio sulla guancia.
“Adesso ti permetto di andare. Buonanotte Blaine.”
Per Blaine quel contatto non significò niente. Lo guardò per qualche secondo, dicendogli con tono sommesso buonanotte, per poi andarsene via con il giubbotto non ancora indossato.
 
 
Sebastian quella mattina si svegliò stanco, come se non avesse dormito affatto.
Il violino appoggiato contro una parete della sua stanza era esattamente come lo aveva lasciato; lo fissava sprezzante, gli ricordava di avere del lavoro da fare. Si alzò in piedi con i muscoli deboli e doloranti, il riposo che sembrava essergli stato completamente negato mentre osservò annoiato le profonde occhiaie sotto gli occhi e il volto pallido. Gli capitava spesso, in quei giorni. Ma, soprattutto, gli capitava di svegliarsi sentendo un paio di risatine isteriche seguite da silenzi imbarazzanti.
Ottimo: gli serviva proprio un po’ di amore femminile di prima mattina, giusto per metterlo ancora di più di buon umore.
“Ciao Brittany”, salutò molto cordialmente la ragazza bionda che in quel momento si presentò alla sua vista, con i capelli legati in un elastico multicolor e accappatoio. Non era raro trovare una donna a fare colazione insieme a loro; di certo, lo era trovare la stessa praticamente ogni mattina. All’inizio aveva pensato a Brittany come a una specie di creatura magica spuntata da qualche favola per bambini; riusciva sempre a trovare qualcosa di incrediblimente assurdo da dire, e lui restava dieci secondi attonito non sapendo bene se fosse tutto uno scherzo o la realtà.
Con il passare del tempo, capì che si trattasse della seconda: ormai si era abituato a essere chiamato delfino e a trovare le sorprese delle scatole dei cereali al posto del dentifricio del bagno.
In fondo, per qualche bizzarro scherzo del destino, era quasi sicuro di trovarla quasi piacevole. Forse aiutava il fatto che fosse l’amica di infanzia di Blaine, nonchè coinquilina, o forse era per la sua ingenuità quasi disarmante, ma aveva terminato le battute ciniche da tempo, per sostituirle soltanto a della sana conversazione.
Certo, se parlare dell’estinzione dei dinosauri per via del pirata delle Superchicche si potesse definire tale.
“Hai la faccia di un gatto triste.”
Sebastian la guardò perplesso: forse aveva perso il libretto d’istruzioni da qualche parte, oppure era stata fabbricata in Cina e non la capiva per quel motivo.
“Sembri Lord Tumbington quando mangia la gomma al posto dell’erba gatta”, continuò Brittany, parlando con il suo immancabile tono dolce: “Se vuoi posso farti stendere sulla schiena e massaggiarti la pancia. Di solito a lui passa.”
“... Credo che opterò per un caffè.”, mormorò, e notando la sua espressione delusa stava quasi per sbottare e aggiungere altro, ma Santana arrivò praticamente un attimo dopo, afferrando la ragazza per un polso e rivolgendole un sorriso.
“Vieni Brit, andiamo a fare colazione fuori.”
“E perchè?”
“Perchè al bar dell’angolo fanno i nuovi cornetti con la marmellata e devi assolutamente provarli.”
La ragazza fece per pensarci su, e poi si strinse nelle spalle, convinta: “Spero che non facciano la marmellata con la polvere di Trilli. L’ultima volta non sono riuscita a poggiare i piedi per terra per una settimana.”
“Giusto. Certo”, commentò l’altra, e poi con lo sguardo fece capire a Sebastian che avrebbe potuto prendersi un po’ di tempo per se stesso. Quest’ultimo ricambiò con un cenno della testa perchè, almeno in quello, i due coinquilini si trovavano sulla stessa lunghezza d’onda; una volta che la porta di casa si richiuse con un tonfo secco e la voce di Brittany in lontananza, si concesse una manciata di minuti per rilassarsi: bevve un buon caffè, si fece una doccia, tornò perfino a sdraiarsi sul letto, rigirandosi l’archetto del violino tra le mani.
Dentro di sè, lo attanagliava il pensiero di dover tornare di nuovo al conservatorio e affrontare un’altra, lunghissima giornata.
E se non fosse riuscito a parlare con Blaine?
Ma no, riflettè un attimo dopo, con gli occhi verdi diventati improvvisamente più grandi e un brivido che gli corse lungo la schiena. Sarebbe stato impossibile ignorarsi, perchè quel pomeriggio avevano le prove con il professore.
 
 
Arrivare a lezione con quei cinque minuti accademici di anticipo gli consentiva di scegliere un posto piuttosto favorevole per evitare dialoghi con gente che non gli interessava e, allo stesso tempo, una visuale di tutta l’aula. Ormai il posto in fondo a sinistra era diventato quasi canonico, nessuno osava mettersi lì, soprattutto perchè, le rare volte in cui era successo, alla fine lui lo conquistava comunque, con le buone o le cattive maniere.
Si sedette appoggiando la borsa di lato, con ancora il lettore mp3 che riproduceva una sinfonia di Beethoven che aveva ascoltato per tutto il viaggio fino a lì: cambiò velocemente traccia e poi sistemò alcuni spartiti sul tavolo, cominciando a leggerli attentamente. Con il passare dei minuti, la sua postura divenne sempre più curva e le maniche della maglietta erano ormai arrotolate fino ai gomiti, mentre con una mano tracciava alcuni segni sui fogli e li leggeva nota dopo nota.
Non si sarebbe mai stancato di studiare quel brano; non sapeva dire, però, se fosse per principio, o perchè fosse diventato una sorta di ossessione.
Quando alzò di nuovo la testa, tornando, come dire, nel mondo reale, l’aula era gremita di studenti e molti di loro chiacchieravano con toni più o meno rumorosi racchiusi in più gruppetti. Intravide Blaine in uno di quelli, era con le sue due amiche, chiacchieravano senza troppo impegno, fino a quando Wyatt non si avvicinò a loro salutandoli e sfoggiando un sorriso smagliante.
Vide Blaine annuire, mormorare qualcosa dopo aver ascoltato una sua eventuale domanda, arrossire un poco e, alla fine, andando a sedersi in un banco a metà fila, con Wyatt che lo accompagnò mettendosi accanto.
Amanda e Sarah avevano guardato prima loro, poi lui; notando di non essere le sole a osservare la scena, le due sembrarono voler dire qualcosa a Sebastian con un’espressione di puro disappunto, ma che lui non seppe cogliere bene.
Un attimo dopo, le due avevano attraversato le scalinate dell’aula due gradini alla volta, per andare a sedersi in dei posti poco distanti dal suo, gli ultimi liberi della fila.
Ma Sebastian era ancora troppo intento a guardare Blaine per accorgersi minimamente della presenza di qualsiasi altro essere vivente; perchè adesso lo vedeva sorridere, parlare, e sembrava così a suo agio con quel flautista da quattro soldi, che tutto ad un tratto fu colto da una fitta lancinante allo stomaco. Avrebbe voluto alzarsi, andare lì e umiliare quel biondo rifatto solo per il modo con cui lo stava fissando.
Il suo cruento scenario immaginario fu interrotto da una voce squillante e preoccupata, che gli arrivò dalla destra.
“Amanda, ma da quando Blaine e Wyatt sono così intimi?”
Con la coda dell’occhio, riuscì a scorgere Sarah bisbigliare con l’amica, e in quel momento ringraziò madre natura per avergli dato un orecchio così sviluppato. Non che volesse proprio origliare i loro discorsi; preferiva chiamarlo diritto all’informazione.
“Io ne so quanto te!” Ribattè incredula l’amica. “Insomma, fossi in Sebastian mi sarei incavolato e non poco. Quello lì mi sa di viscido, guarda come lo sta scopando con lo sguardo.”
Cosa?
Sebastian si voltò di scatto verso i due, e sì, cavolo, avevano proprio ragione. Ok, forse no, erano un po’ esagerate, ma che diavolo, certo che era incavolato. Era furioso.
“Ma ti ricordi ieri? Sebastian si era avvicinato per dirgli qualcosa, ma alla fine non si sono parlati. Dicono che siano ai ferri corti, questa volta.”
Non aveva la più pallida idea di chi mettesse in giro certe voci: come prima cosa, non erano affatto vere. Non erano ai ferri corti. Non lo erano?
“Magari si sono parlati dopo, che ne sai?” Fece notare l’altra.
“Oh, no. Non te l’hanno detto? Mitt e gli altri ieri sera erano al bar, e hanno visto anche Blaine e Wyatt.”
“NO.”
“Ti dico di sì invece! Sembrava proprio un’uscita seria.”
“Stai mentendo. Mi rifiuto di crederci.”
“Fai profondi respiri Amanda, lo so che la realtà fa male, ma non ti devi abbattere.”
“Che peccato...”
Dopo qualche secondo Sarah sbuffò sonoramente, scostandosi un ciuffo di capelli dal viso, “Stanno così bene insieme. Già mi ero immaginata Blaine che ci prendeva dei biglietti super speciali per il loro primo concerto.”
“Ammettilo, tu lo fai solo per ascoltare musica gratis.”
“Non è vero! O meglio, non lo faccio solo per quel motivo, ecco!”
Ridacchiarono sommessamente, e poi il loro chiacchierare fu interrotto dall’arrivo del professore di Lettura della partitura. Era una delle materie che odiavano di più al mondo e, di certo, quell’uomo rachitico e con poca voglia di insegnare non aiutava.
Quanto meno, però, riuscì a distrarle da quei pettegolezzi per concentrarsi unicamente sulla lezione.
Non si poteva dire la stessa cosa di Sebastian.
 
 
Ci provò seriamente a fare delle prove per bene.
Ascoltò tutti i consigli del professore, eseguì dapprima il brano da solo, per verificarne l’effettiva difficoltà: grazie alle prove che aveva fatto a casa, non lo trovò particolarmente difficile.
Blaine si sciolse i muscoli delle dita attraverso un paio di esercizi di Hanon, che riguardavano principalmente il terzo e il quarto dito, nonchè l’intera articolazione.
“Bene”, disse allora il professore, con un sorriso che aveva fatto davvero poche volte durante quelle giornate. Soddisfatto di come fossero partiti così seriamente, decise di dar loro un po’ di autonomia e libertà, e lasciò la stanza per partecipare alle ore di ricevimento accumulate.
Confidava che in un paio d’ore di assenza non sarebbe successo niente di irreparabile.
 
 
Per Blaine fu più difficile.
Non aveva mai avuto l’autocontrollo di Sebastian; lui agiva d’impulso, seguiva le emozioni, spesso non ragionava in base a ciò che vedeva ma a ciò che sentiva.
Per quel motivo constatò con nervosismo sempre più crescente quanto quelle prove stessero andando male. All’inizio, non seppe dire esattamente a cosa fosse dovuto: alla rabbia. Alla pessima coordinazione. Ai pensieri mal riposti che continuavano ad affiorare tramite le loro mani, o a chissà cos’altro ma, lo poteva giurare, non aveva mai sentito niente di peggio in vita sua.
Era umiliante. Lo detestava, e pensare che la settimana dopo ci sarebbe stata la seconda fase lo faceva ancora più impazzire: gli sembrava un dejà-vù, dopotutto, gli elementi c’erano tutti.
C’era lui. C’era Sebastian. C’era quell’astio che si poteva percepire attraverso le note, e così non riusciva proprio a continuare.
Si fermò nel bel mezzo delle prove, con le mani che si staccarono dalla tastiera andando a posarsi pesantemente sulle gambe. Sebastian lo guardò stranito, non era nemmeno da mezz’ora che stavano provando, e in quel tempo erano riusciti a suonare a malapena la metà.
Ma forse lui poteva fare finta che andasse tutto bene, o a illudersi che stessero realmente suonando; lui no.
“Sebastian.”
Nonostante avesse pronunciato il suo nome in modo cupo e forte, il diretto interpellato non sembrava aver nessuna intenzione di volerlo guardare; semplicemente, si era seduto, intuendo che si fossero presi una pausa con durata ancora da stabilire. Continuava ad accordare il suo violino noncurante di quanto Blaine si stesse velocemente avvicinando con passo pesante, o di quanto la sua voce si facesse sempre più alta.
Si degnò di parlargli solo quando la sua ombra lo oscurò dalla luce del sole che filtrava dalle finestre.
“Cosa, vuoi accordarmi il violino? Oh, in effetti, a te non serve nemmeno il diapason, vero?”
“Ti rendi conto che abbiamo fatto la peggiore prova della nostra vita?”
Detto quello strinse i pugni lungo i fianchi, perchè, ne era certo, non avrebbe tollerato il suo comportamento un secondo di più. Non solo avevano suonato malissimo, lui faceva perfino l’offeso e osava prenderlo in giro.
Aspettò pazientemente l’arrivo di una risposta, ma non ricevendo altro che un indifferente silenzio non riuscì più a contenersi.
“Questo brano lo suoniamo insieme.”
Gli lanciò contro i fogli del suo spartito, ma Sebastian, restò immobile, freddo come una statua.
“Ci sono io e ci sei tu e cazzo, se credi ancora che tutto questo sia unicamente per colpa mia allora puoi andartene a quel paese.”
Ecco, pensò, quando finalmente incrociò il suo sguardo gelido. Almeno aveva ottenuto la sua attenzione.
“So benissimo che abbiamo suonato male tutti e due, Blaine.”
Pronunciò il suo nome come se fosse qualcosa di scomodo e volgare. E si rifiutò di mostrarsi ferito per quel motivo; se possibile, la sua voce diventò ancora più decisa, il suo tono, più impostato.
“E allora dimmi. Dimmi cosa c’è che non va. Insultami, sbefeggiami o che diavolo ne so, basta che parli.”
“Oh no, non ne ho nessuna voglia”, commentò, con un sottile velo di ironia, “Mi pare che tu abbia parlato abbastanza oggi.”
Cosa stava dicendo?
“Pensi che non ti ho visto a lezione mentre facevi la scolaretta in calore con il pifferaio?”
Blaine spalancò gli occhi, e tutta la rabbia accumulata sparì in un battito di ciglia.
Era chiaro.
“Sei... Sebastian, sei geloso?”
La sua unica risposta fu un sospiro e un’occhiata torva e, sì, maledizione, Sebastian era terribilmente geloso. E sapeva benissimo che avrebbe dovuto offendersi o, quanto meno, fingersi superiore a quella cosa, ma sinceramente in quel momento voleva soltanto improvvisare una danza per tutta la sala prove intonando l’Inno alla Gioia.
“E’ per questo che ti sei comportato da stronzo per tutta la durata delle prove?” Chiese con tono che rasentava il ridicolo, perchè era assurdo, Sebastian non poteva essere geloso di Wyatt, Sebastian non poteva essere geloso in generale e- oh, questo voleva dire che allora almeno un poco gli importava.
Ma, per sua grande sfortuna, Blaine non era mai stato molto bravo a camuffare le sue vere emozioni. Il violinista capì subito a cosa stesse pensando, e così si alzò in piedi di scatto, guardandolo dall’alto verso il basso.
“Ti fa così ridere?”
“No, assolutamente no.”
“Guarda che non me ne frega un cazzo se ti scopi il pifferaio di Bianca e Bernie.” Esitò per un attimo, come se gli fosse appena venuta un’idea. “Dì un po’: lo fai per darmi fastidio?”
“C-Che cosa?!”
“Ci vai a letto perchè non lo sopporto.”
Oh. Quella sì che era bella. Se Blaine non fosse stato troppo impegnato a fissarlo allibito, probabilmente gli avrebbe fatto i complimenti per la fervida immaginazione.
“Stai delirando. E devi smetterla di avere questi pregiudizi su di lui.”
Lo sentì emettere una risata sommessa, roteando gli occhi verso il soffitto: “Sei tu che sei ovviamente cieco e idiota. Ti sei fatto rivoltare da lui come un calzino.”
Basta. La pazienza aveva un limite.
“Ma la vuoi piantare?!”
Il suo urlo riecheggiò per tutta la stanza; fu talmente forte da far esitare perfino Sebastian, che adesso lo fissava quasi interdetto: Blaine non alzava mai la voce. Blaine era sempre calmo, dolce e docile.
“Wyatt è una brava persona. E oggi abbiamo solo parlato, non ha fatto niente di male.”
Con voce cinica, smorzata soltanto dal nervosismo, l’altro ragazzo sibilò: “Stai scherzando, spero.”
“Sei tu che stai sbagliando”, ribattè lui, “Non lo conosci, non puoi giudicarlo.”
“Perchè, tu sì? Dopo solo un appuntamento del cazzo?”
Ecco. Di nuovo, Blaine si ritrovò a fissarlo attonito, perdendo il filo del discorso e restando senza parole; si riferiva alla serata precedente? A quella serata a cui lui personalmente aveva dato buca, lasciandolo solo con Wyatt?
“Non era un appuntamento.”
“Ah no? Ma tu guarda. Siete andati subito al sodo dunque? Una sveltina in bagno e buonanotte?”
Avrebbe voluto dargli un pugno. A lui, ai suoi occhi smeraldini che adesso sprizzavano rabbia da tutti i pori e alle sue labbra serrate in una smorfia.
“Non è successo niente. E comunque non devo certo giustificarmi con te.”
Quella frase ebbe il suo effetto: Sebastian cambiò immediatamente espressione, anche se Blaine non riuscì bene a decifrarla.
“E poi non devo ricordarti che ieri sera avresti dovuto esserci anche tu, ma ci hai dato buca. Quindi mi spieghi qual è il tuo problema?!”
“Io- aspetta un attimo, che stai dicendo?” Sbottò, “Ieri sera ero a casa a sorbirmi Brittany e Santana che amnoreggiavano sul divano. Non sapevo niente.”
E la sua reazione era stata troppo spontanea per essere fraintesa. Blaine fece una pausa incredibilmente lunga, e poi parlò in modo lento, a bassa voce: “Wyatt mi ha detto di averti scritto un messaggio. Tu hai dato buca...”
“Un messaggio? E con quale numero di telefono, me lo spieghi?”
Giusto. Come aveva fatto a non pensarci? Wyatt non aveva il numero di Sebastian.
E fu in quel momento che tutta la scena della sera prima ripiombò nella sua mente: il suo tono falso, le sue parole vaghe. Non era mai esistita una uscita di gruppo. Wyatt aveva fatto in modo di restare da solo con lui.
“Sebastian...”
“Non ci posso credere.” Lo interruppe, “Tu non ci avevi nemmeno pensato, non è così? Perchè Wyatt ti piace e ti sei lasciato abbindolare come un idiota.”
“Non è vero, non è andata così. E' solo che...”
“Ma Blaine, cazzo, apri gli occhi una buona volta. Ti sta solo usando. Vuole dividerci, o portarti a letto o non lo so, forse entrambe. Ma a lui non gliene frega niente di te. Niente. Dio, possibile che tu sia così ottuso?" Esclamò, alzando le braccia a mezz’aria, e Blaine si limitò a stare in silenzio, assaporando il suono di quelle parole amare.
Tutto ciò che aveva detto era stato come una pugnalata al petto ripetuta più volte. E la delusione e l’amarezza provati in quel momento erano così forti che gli permisero di dare voce ai suoi pensieri più nascosti.
I suoi occhi ambrati incontrarono quelli verdi; entrambi trasalirono per un attimo.
Ma un attimo dura troppo poco.
"Non è stato Wyatt a dividerci, Sebastian.”
Dopo aver esitato per qualche secondo, Sebastian scosse la testa, come rassegnato. Guardò soltanto una volta quegli occhi bellissimi, che ricordavano tanto il miele, prima di andarsene combattendo contro la voglia di abbandonare a terra il violino. In realtà, contro la voglia di abbandonare ogni cosa.









***


Angolo di Fra



...Non odiatemi.
Sono carina e coccolosa.


 


 


 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


 



Capitolo 18

 


"Due sole persone al mondo sono capaci di eseguire Chopin: Chopin e Liszt."
---Jòzef Brzowski


 

 




Blaine non si era mai interessato alle parole.
Sembrava un discorso stupido da dire, ma ne era assolutamente convinto: era sempre stato più interessat alla vera forma delle parole, all’involucro che le contiene, al suono che compare quando vengono riprodotte. Non si era mai soffermato a interiorizzare qualcosa di così effimero e superficiale quanto una frase, un commento, una esclamazione.
In quanto musicista aveva un modo tutto suo di capire le parole, perchè sicuramente la sua prima immagine di tempo, chiave, tonalità o interpretazione non assomigliava affatto a quella di una qualsiasi altra persona comune. Era come un codice tutto suo, che apparteneva ad un mondo per pochi.
Tuttavia, se qualcuno gli avesse chiesto di dire una frase formata da tre parole, soltanto tre parole. A una prima riflessione, allora, avrebbe risposto proprio come chiunque altro: avrebbe detto io ti amo.
E’ naturale, no? Sono parole importanti, quelle. Sono importanti in qualsiasi dimensione.
Blaine non sarebbe riuscito a immaginarsi nessun’altra frase capace di scuoterlo quanto quella.
Nessun’altra, soprattutto, se formata da tre semplici parole.
 


 
C’erano ben poche cose che attiravano l’attenzione di Sebastian, di solito.
A volte era trovare il suo violino spostato dalla posizione iniziale, probabilmente per colpa di Santana che lo aveva trovato per terra impedendole il passaggio: quando era particolarmente stanco diventava disordinato, fino ad essere trasandato.
Per fortuna la sua coinquilina aveva la pazienza necessaria a non buttare giù dal balcone della sala le cose di valore – come il suo strumento, qualche orologio, a volte dei cd -; certo, ancora ricordava bene quella volta in cui, scendendo dalla rampa di scale secondaria, aveva trovato in fondo ai gradini un suo paio di scarpe.
In generale, dettagli della vita sua, o di altre persone, gli scorrevano davanti in modo del tutto indifferente. Semplicemente, perchè c’erano alcune cose che dava per scontato, come la metropolitana che prendeva ogni mattina. Oppure come il bar dove faceva sempre colazione. Se gli avessero chiesto di descriverli, probabilmente non avrebbe saputo dire una parola.
“Buongiorno Bastien.”
Louis”, fece lui, salutandolo con un cenno della testa e aspettando pazientemente che la poca fila si esaurisse. Ormai era diventato una sorta di gioco: Louis si ostentava a chiamarlo con un accento francese, e Sebastian allora si comportava di rimando.
Louis era un uomo alto, sulla cinquantina, dai folti baffi scuri e la carnagione rosea; lui e Sebastian avevano imparato a conoscersi con il tempo, cornetto dopo cornetto, aiutati dal fatto di avere entrambi delle discendenze parigine e un amore spassionato per la marmellata di mele.
Quel giorno il violinista si fermò a osservare il bancone vuoto con fare confuso, i suoi occhi smeraldini vagavano da un angolo all’altro, attirando l’attenzione del barista.
“Ehi, sto parlando con te, giovanotto!”
“Eh?”
Non si era nemmeno accorto che gli aveva rivolto parola, fino a quando i suoi lineamenti marcati del viso, dalle fattezze europee, erano a pochi centimetri dal suo.
“... Tutto bene, figliolo?”
Ecco, era una cosa che non sopportava, nella gente adulta: avevano questa brutta abitudine di ribattezzare tutti; giovanotto, figliolo, caro, e vattelapesca. Ma lui non era il caro proprio di nessuno, nè il figlio, precisò una parte della sua mente, che fece trapelare quel pensiero attraverso una smorfia.
“Sto benissimo”, Tagliò corto, risultando perfino un po’ scorbutico. Fece per estrarre il portafogli dalla tasca e pagare il cornetto che gli preparava ogni giorno, quando fu afferrato per un polso un attimo prima di estrarre la banconota.
Louis gli rivolse un sorriso sincero, di quelli che riceveveva troppo poco spesso, ultimamente.
“Oh, non ti preoccupare. Oggi offre la casa. E’ marmellata fatta in casa, confezionata l’altro giorno. Ti piacerà.”
“... Oh”, disse allora, perchè non era abituato a certi gesti di amicizia, e non sapeva bene come rispondere. Esitò per tutto il tempo necessario a prendere il cornetto che gli era stato offerto, tenendolo ben saldo tra le dita, attento a non far scivolare via nemmeno un granello di zucchero a velo adagiato sopra. Dall’odore sembrava davvero delizioso. Così si limitò a mormorare un “grazie”, anche se dal tono apparve strano e imbarazzato, non era certo da lui usare una parola simile.
Ma Louis, che ormai conosceva quel giovane artista sin troppo chiuso in se stesso, gli diede una pacca sulla spalla sporgendosi appena oltre il bancone, e gli fece l’occhiolino: “Mia madre mi diceva sempre che il cibo gratis riuscirebbe a illuminare anche le giornate più buie.”
Sebastian sorrise a quel commento. Avrebbe voluto dirgli che cornetto non rientrasse proprio nel concetto di cibo, ma era rimasto talmente sorpreso da quel gesto che si limitò a uscire dal bar con ancora gli occhi fissi su quella pasta. Dopotutto, ognuno interpreta gli insegnamenti dei genitori come meglio vuole.

 
Era ormai giunto l’Inverno per le strade di New York, e Sebastian si strinse nel suo cappotto lungo fino a metà coscia, avvolgendo la sciarpa sotto al mento come se fosse un turbante. Non sopportava il freddo, lui era uno di quelli che stava bene d’Estate, con il sole alto e nessuna nuvola a minacciare la giornata.
Invece, in quel momento non erano nemmeno le dieci di mattina e faceva già buio: sbuffò contro il cotone della sciarpa, provocandosi un brivido per il suo respiro caldo, e con le mani ben strette in tasca si avviò verso il Franz Liszt senza ulteriori indugi, ignorando studenti, bambini, taxi e il resto del mondo intorno a lui.

 
Le lezioni trascorsero lente, quasi inesorabili. Prese appunti solo se necessario e passò la pausa pranzo in compagnia del suo lettore mp3 e delle cuffie, ascoltando brani di ogni genere, dalla musica classica, a quelle canzoni che ormai aveva imparato a memoria per via dello stereo di Santana.
Voleva soltanto rilassarsi, non pensare a niente e continuare a vivere isolato.
Verso le quattro del pomeriggio, dopo aver passato un paio d’ore a ricopiare un esercizio di armonia e composizione che avrebbe dovuto consegnare una settimana prima, ricevette un messaggio dal professor Cage che gli chiedeva di passare nel suo ufficio: e Sebastian lo trovò assurdo, non solo perchè quell’uomo non era in grado di usare il cellulare nel ventunesimo secolo, a giudicare dalla montagna di errori di battitura, ma anche perchè non avevano proprio niente da dirsi: lui si stava esercitando pazientemente e senza preoccupazioni. Il brano era pronto, a livello tecnico non c’era molto altro su cui lavorare.
Trovò il professore chino su un plico di scartoffie, con una penna incastrata contro l’orecchio e l’aria concentrata mentre li sfogliava uno ad uno alla ricerca di qualcosa.
“Professore?” Domandò, bussando appena contro la porta aperta, e l’uomo si alzò di scatto dicendogli di entrare e di non badare alla confusione, come sempre del resto. Indicò la massa di fogli e con tono rassegnato dichiarò: “L’unica cosa che detesto dell’insegnamento: le scartoffie.”
Sebastian non disse niente, se non stringersi nelle spalle ed emettere un verso indecifrabile. Robert inarcò le sopracciglia palesemente perplesso, si era aspettato una massa di commenti cinici o di battutine sconce sui privilegi di farlo su una cattedra, non di certo un diligente silenzio.
“Va tutto bene Sebastian?”
“Sì”, sbottò lui.
“... Sei sicuro? Hai dei dubbi sul brano? Sul brano in duetto, forse?”
“Cosa voleva professore?”
Robert si immobilizzò a quella frase, perchè era la prima volta che Sebastian non lo chiamava vecchio, o prof, ma solo con un appellativo freddo e formale che indicava distacco e amarezza. E lui era professore da una vita: sapeva riconoscere quando un suo allievo non stava affatto bene.
“... Volevo sapere se avevate bisogno di me per delle prove. Devo saperlo in anticipo, perchè due dei miei nipotini si sono presi la febbre e devo stare dietro a loro.”
Perchè non lo aveva chiesto a Blaine, allora?
“Io e Blaine siamo apposto”, rispose allora Sebastian, e cercò in tutti i modi di pronunciare il nome di quel ragazzo come se fosse una persona a lui del tutto indifferente. Come se non gli provocasse una fitta allo stomaco.
“State provando, allora?” Robert gli diede le spalle per un breve periodo, intento a sistemare i fogli e rilegarli con un mucchio di mollette, “Come procede il pezzo in duo? L’ultima volta che vi ho sentiti andava piuttosto bene. Eravate un po’ insicuri sul finale, ma insomma, direi che ci siamo. No?”
“Perchè fa tutto questo?”
Sebastian non riuscì proprio a contenersi. Non riusciva a capire perchè gli stessero facendo questo. Prima Louis, ora lui: si dimostravano tutti esageratamente gentili nei suoi confronti.
Non voleva la loro gentilezza. Non voleva essere trattato bene. Era ingiusto, perchè non poteva nemmeno odiare il mondo come voleva lui. Non poteva farlo, visto che sembrava intenzionato a ricordargli quanto non fosse una cattiva persona, ma soltanto una che ha fatto delle scelte sbagliate.
“Non capisco”, commentò Robert. Lo guardò attraverso i suoi occhiali sottili, e c’era qualcosa di incredibilmente paterno nel suo sguardo.
“Sono io che non capisco”, ribattè Sebastian, “Perchè ci sta aiutando nel concorso? Perchè si interessa a tutto quello che facciamo io e Blaine? Lei non ci guadagna niente. Potrebbe benissimo lasciarci suonare come pare a noi, esattamente come fa Wyatt.”
Al solo pensiero di quell’uomo dovette trattenersi dal serrare la mascella e respirare.
“Credi che Wyatt e Jodie stiano facendo la cosa giusta?”
Robert non voleva sembrare provocatorio, era sinceramente interessato alla sua opinione. Sebastian questo lo sapeva, ma era proprio per quello che si stava innervosendo; quel professore era sempre calmo, pacato, paziente e, diavolo, non si scomponeva mai. Perchè non dava modo di odiarlo? Perchè non poteva farsi odiare da tutti? Sarebbe stato più semplice.
“Non lo so”, ammise, “Sto solo dicendo che io non so proprio come diavolo può dimostrarsi così disponibile verso due ragazzi che nemmeno la pagano per le lezioni private.”
“Pagare?”
La risata di Robert riecheggiò in tutta la stanza, tanto da farlo sentire ancora più vuoto, inconsapevole.
“Sebastian, se volevo fare soldi non andavo di certo a fare il professore. Mi piace aiutare i giovani con il loro futuro, fa parte del lavoro che mi sono scelto.”
“Che razza di lavoro”, commentò allora con una voce agitata, smussata da malinconia e repulsione: “Invece di pensare a realizzare i suoi sogni pensa a quelli degli altri. E’ davvero ridicolo.”
“Non è questo”, spiegò l’uomo, facendo un passo verso di lui.
“E’ proprio perchè ho realizzato tutti i miei sogni che voglio aiutare a realizzare quelli degli altri. Io sono soddisfatto della mia vita. Ma queste sono cose che ho imparato quando ero in trincea, solo e con la paura di morire in qualsiasi momento. Non mi aspetto che tu lo capisca, Sebastian, ma non credere che gli altri abbiano sempre un secondo fine. C’è chi è disposto ad aiutare solo perchè è già stato aiutato.”
Ma Sebastian non voleva essere aiutato.
Il fatto, è che credeva di non meritarsi l’aiuto di nessuno.
“Non sei obbligato, sai.”
La voce di Robert giunse alle sue orecchie prima che lui riuscisse a lasciare la stanza.
“Questo non è l’unico concorso che si presenterà nella tua vita. Ci saranno altre occasioni. Non devi suonare con lui perchè lo consideri un obbligo, Sebastian. Deve essere sincero.”
Lo sentì fare una piccola pausa; Sebastian stava stringendo la maniglia con tutte le sue forze, quando lo sentì dire: “Da quanto tempo è che non sorridi mentre suoni?”
Non se lo ricordava.
Con quella consapevolezza, lasciò l’ufficio, addentrandosi nei lunghi corridoi del conservatorio.
 
Non perdeva tempo a illudersi che non stesse pensando a Blaine. A cosa facesse, a come si sentisse, dopo che le loro strade si erano divise per l’ennesima volta, e in modo così tremendo.
Non aveva neanche la presunzione di credere che stesse male esattamente quanto lui, perchè era stata tutta sua la colpa di quello che era successo: era stato lui a fare le scelte sbagliate, ad allontanarlo ogni volta che si stavano avvicinando, a comportarsi freddamente quasi come reazione involontaria.
Erano due giorni che non si vedevano. Evitavano tutti i luoghi che sapevano essere frequentati dall’altro; non si presentavano a lezione, con la scusa di essere troppo presi dalle prove.
Di fatto, però, non avevano provato insieme da quell’ultima volta in cui si erano urlati in faccia.
Sebastian non faceva altro che ripensare alle parole del professore, chiedendosi se fossero vere.
Forse, doveva davvero finire tutto lì.
Era così immerso nei suoi pensieri che non fece caso a una figura alta e slanciata che si avvicinò sempre di più a lui, incrociandosi lungo il corridoio. Tuttavia, lo stupore di trovarsi di fronte a uno sprezzante Wyatt non fu abbastanza da scomporlo del tutto, e ciò gli permise di mantenere il suo tipico atteggiamento freddo e razionale.
“Sebastian, non saluti nemmeno?”
E lui non seppe bene se innervosirsi di più per il suo tono di voce o per il fatto che lo avesse chiamato per nome. Gli passò avanti dandogli perfino una leggera spallata, cercando di accelerare il passo e andarsene il prima possibile da quella scuola.
“Ho da fare.”
“E con chi, esattamente? No sai, te lo chiedo perchè io stavo andando da Blaine.”
Quella frase sortì l’effetto sperato: Sebastian si bloccò, proprio al centro del corridoio. Riusciva a percepire le sue spalle rigide e i muscoli tesi del collo.
“Suoniamo insieme una cosa, sai.” Seguitò il flautista, “Puoi venire se vuoi. Sarà davvero emozionante.”
“Perchè non la smetti di dire cazzate?”
Quando si voltò, i suoi occhi verdi erano vitrei. Freddi. Nascondevano tutto ciò che stava pensando di lui, e tutte le angoscie provocate da quella frase.
“Stai cercando di intimidirmi, per caso?  Forse mi hai scambiato per uno dei pifferai con cui ti diverti a cantare le canzoncine di Natale ai senzatetto. Mi faresti più paura se ti vedessi nudo.”
Il sorriso cinico di Wyatt vacillò per un momento, prima di ricomporsi come una stoffa ben cucita.
"Sai perchè non passerete la seconda fase?"
Sebastian lo guardò accigliato, le sue labbra erano serrate in una smorfia e non aveva nessuna voglia di starlo a sentire. Aveva capito il suo gioco, ormai.
“Cosa fai, predici il futuro? Ti devo chiamare Houdini? Da pifferaio a illusionista, certo che ti sei evoluto. Pikachu sarebbe orgoglioso.”
Wyatt si premurò soltanto un secondo di raccogliere le idee: chiuse gli occhi come per rilassarsi, il suo corpo appariva visibilmente teso, ma tutto questo fino a quando non aprì di nuovo bocca per dare spazio alle parole.
"Perchè sei tu il fattore che vi farà perdere. Tecnicamente non ti batte nessuno, Smythe, e questo te lo riconosco. Ma sei freddo, vuoto. Non provi emozioni. E sei troppo stupido per capire quelle di qualsiasi altro essere umano, ed è per questo che continui a ferire Blaine. Quindi, rinunciaci. Fai un favore a tutti quanti."
Non aveva nessuna intenzione di cedere alle sue parole. Erano frasi buttate al vento, voleva soltanto intimorirlo.
Ma quando Wyatt andò nella direzione della sala prove, lasciandolo con nient’altro che l’eco di quelle sentenze e il pensiero di lui e Blaine, insieme, Sebastian fu pervaso da un brivido che scosse tutto il suo corpo, sussultando visibilmente.
Sapeva bene che non dovesse seguirlo. Ma aveva bisogno di vedere. Di vedere lui, con i suoi stessi occhi.
 
 
“Ehi Blaine, disturbo?”
Blaine era accanto al pianoforte con i fogli stretti tra le mani e la cartella piena di spartiti sulle ginocchia. Lanciò un’occhiata a Wyatt, sembrava così agitato quella mattina: attirò completamente la sua attenzione e si ritrovò a fissarlo con gli occhi spalancati e la testa leggermente inclinata da un lato.
“No, io stavo... mi stavo esercitando. Dimmi.”
“Devo provare per il concorso, ma Jodie è andata via prima e mi ha lasciato qui come un idiota... sono davvero in ansia, non riesco mai a fare bene la parte a tempo libero. E se sbagliassi di fronte a tutti? E se facessi schifo?”
“Fermati”, lo interruppe Blaine, “Fai respiri profondi. Ci sono ancora un po’ di giorni prima del concorso.”
“Lo so”, balbettò l’altro, con le guance arrossate per l’ansia, “Lo so, e-e hai ragione, è solo che... oh Dio, sono un idiota non è così? Non dovevo nemmeno venire. Mi-mi dispiace Blaine, adesso me ne vado subito.”
“Che cos-ma che stai dicendo? Wyatt, aspetta.” Lo chiamò Blaine alzandosi in piedi e fermandolo a un metro dalla porta semichiusa: “Non ho capito niente. Che cosa c’è?”
Wyatt si voltò piano, esitante. Gli rivolse un sorriso timido mentre andava a stringere il flauto traverso racchiuso nella sua custodia.
“Ho bisogno che tu suoni con me.”
Oh.
Beh, quello era un po’ inaspettato.
“Ah. Wyatt, vedi, io-“
“Sei l’unico pianista di cui mi fidi”, rantolò, “E poi sei così bravo e, insomma, mi faresti questo favore Blaine? Ti prego? Un solo brano, te lo giuro. Poi ti lascio suonare in santa pace.”
Blaine si guardò intorno come imbarazzato, come se sperasse che qualcuno sbucasse da sotto il pianoforte o dalla finestra per impedirgli di fare qualcosa di incredibilmente stupido. Ma, ragionando a mente fredda, pensò che non ci fosse niente di male: lo aveva detto lui che le ostilità in una competizione erano inutili, no? Era solo un singolo brano. E poi, era quasi certo che Wyatt avrebbe insistito fino a fargli dire di sì con la forza.
“... Va bene.”
Gli occhi del flautista si illuminarono, diventando quasi splendenti.
“Sul serio? Oh, fantastico! Vedrai, sarà fantastico.”
Blaine andò a sedersi al pianoforte, mentre il ragazzo appoggiò delicatamente lo spartito sul suo leggio. E, inconsciamente, si ritrovò a sorridere: gli piaceva quel pezzo.
 


 
Erano perfetti.
Questo pensò Sebastian, mentre con la schiena appoggiata al muro fuori dalla stanza ascoltava attentamente ogni singola nota. A causa della sua esitazione e della paura di essere scoperto, era arrivato in ritardo, perdendosi parte dell’inizio; ma non importava. Anche un sordo sarebbe riuscito a sentire la bellezza, la sensibilità, la complicità che quei due musicisti.
Wyatt stava assecondando ogni piccola cosa di Blaine, da quando si soffermava su un trillo prolungandolo più del dovuto, a quando faceva pause d’interpretazione sfalzando il tempo. Su quello, inevitabilmente, era molto bravo.
Ma non fu l’atteggiamento di Wyatt a lasciarlo senza difese. Perchè lui era quello che era, puntava a conquistare Blaine in tutti i modi, e forse sapeva perfino che lui si trovasse proprio dietro la porta intento ad ascoltarli.
No, la vera sorpresa, fu sentire quanta libertà, quanta felicità avesse nascoasto Blaine durante tutte le volte che avevano suonato insieme. Non lo aveva mai sentito suonare così; non in un duetto, almeno. Non riusciva a vedere il dolce sorriso dipinto sul suo volto ma, ne era certo, Blaine si sentiva completamente appagato. Stava assaporando la gioia del suonare in modo del tutto spontaneo e disinteressato; non c’era un Sebastian pronto a giudicarlo per ogni minima cosa. Non c’era nemmeno quella strana tensione presente a ogni loro esecuzione.
E Sebastian pensò che sì, forse riusciva davvero a far uscire il lato più competitivo di Blaine, quello che lo incitava a suonare meglio, con un ritmo più preciso e una tecnica più raffinata; lo aveva detto lui stesso, quella volta, giusto un attimo prima di baciarlo. Ma Wyatt aveva ragione: lui lo peggiorava.
Blaine meritava di vincere il concorso. Lo meritava perchè aveva un dono, e quel concorso gli avrebbe dato la forza necessaria a mostrarlo al mondo intero; perchè Blaine era dolce, sensibile, e quando era particolarmente concentrato al pianoforte si mordeva leggermente il labbro, con i suoi riccioli che ondeggiavano liberi, e le sue dita lunghe, affusolate, che scorrevano veloci.
Perchè quando sorrideva, ma di quei sorrisi pieni, radiosi, si formavano delle piccole rughe intorno agli occhi che lo rendevano ancora più adorabile; perchè quando i suoi occhi venivano investiti da tanta luce, sembravano prendere il colore del sole.
E perchè Sebastian si era appena accorto di sapere tutte quelle cose, e molte altre ancora, che al solo pensiero gli fecero battere il cuore.
Blaine meritava di vincere; e lui lo stava ostacolando in tutti i modi.
Non si stupì del suo battito accelerato nel momento in cui si trovò di fronte a Blaine. La musica era finita e, adesso, c’era soltanto un profondo silenzio. Non si stupì nemmeno del sorriso compiaciuto di Wyatt, mentre se ne andava con un ghigno, quasi come se volesse intenzionalmente lasciarli da soli: sarebbe rimasto, solo che Blaine aveva visto chissà cosa nello sguardo del violinista, tale da chiedergli un secondo.
“Sebastian?”
Sì, doveva avere davvero un’espressione strana, pensò, a giudicare da come i suoi occhi ambrati sembrassero colpiti e preoccupati.
“Sebastian... stai bene?”
“No.”
Riuscì quasi a vedere l’esatto momento in cui fece fermare il cuore del ragazzo. Era ancora perso di lui. Quella consapevolezza, sebbene rendesse il tutto ancora più doloroso e difficile, gli fece scaturire un piccolo sorriso.
“Mi dispiace per averti fatto soffrire così tanto.”
Il tono di voce usato fu dolce, comprensivo. Suonò strano perfino alle sue orecchie.
“Beh, comunque, adesso non hai più motivo di preoccuparti.”

Blaine lo guardò a lungo. Sembrava ripetere dentro di sè quelle parole più e più volte. E più lo guardava, più si sentiva perso. Confuso. E stava provando un insieme così variegato di sentimenti, che riuscì soltanto a chiamare il suo nome. Deglutì, gli mancava l’aria, il cuore non accennava a placarsi, la testa pulsava nervosamente e l’unico pensiero razionale che riuscì a definire fu quanto fosse bello Sebastian illuminato dalle luci della finestra.
“Sebastian... che stai dicendo?”
Perchè aveva intuito sin troppo bene la natura delle sue parole. Solo, non pensava che potesse finire tutto lì. Non dopo quello che avevano passato; non dopo tutti i passi avanti che avevano fatto insieme. Perchè era di quello che si trattava, ormai non erano più degli sconosciuti che si limitavano a suonare insieme: erano Blaine e Sebastian.
Erano due persone che non avrebbero dovuto affezionarsi l’uno all’altro. E ci avevano provato, si erano davvero odiati. Ma era stato del tutto inutile.
Erano due persone che avevano consolidato i loro sentimenti dopo tanto tempo, e con tempistiche diverse; era un po’ buffo a pensarci, ma era stato proprio come in una melodia: c’era stato l’andante. Il conoscersi, lo stare insieme. Poi il piano. Quel sottile momento in cui le giornate sembravano non trascorrere mai, e loro due si ritrovavano a pregare ogni cosa affinchè potessero andare a casa e non rivedersi per le prossime dodici ore. Poi il presto, fu quando il concorso provocò a entrambi uno shock troppo grande da gestire da soli. Così si erano incontrati di nuovo.
Alla fine, però, c’è un solo momento che definisce e valorizza interamente la singola esecuzione: il finale.
“No, Sebastian, no”, continuava a balbettare Blaine, perchè non era possibile, non stava succedendo davvero, e gli occhi di Sebastian erano così limpidi: sembrava come se fosse sull’orlo di un tracollo emotivo. Come se potesse leggere attraverso di lui.
“A-aspetta”, sussurrò, con la gola secca, “Non puoi abbandonare ora, i-io non suono senza di te, i-io...”
“Mi occuperò di farmi registare assente per malattia, così da poter essere rimpiazzato con qualcuno.”
No. Non poteva farlo. O meglio, poteva farlo, ma non doveva, non doveva assolutamente.
Avrebbe voluto dirgli tante cose. Ma non ci riuscì.
Non era mai stato bravo con le parole; non era mai riuscito ad esprimersi come voleva. Di solito finiva sempre per fare azioni avventate, come quando lo aveva baciato nel giardino di casa Cage. Era stato un grosso errore, anche se lo avrebbe ricommesso per tutta la vita.
Ad ogni modo quello non era mai stato un grande problema, perchè era sempre riuscito ad esprimersi tramite la musica.
Ma Sebastian non era come lui. Era diverso. Lui, le cose, se le teneva dentro. E continuavano a crescere in un vortice vigoroso e travolgente, fino ad esplodere in piccoli gesti, semplici frasi.
Blaine ormai lo sapeva. Sapeva tutto di lui. Sapeva che quando era leggermente imbarazzato, il suo sguardo vacillava andando a finire verso un punto imprecisato del pavimento; sapeva che quando il suo tono di voce non era caldo, e sensuale, allora stava dicendo qualcosa di sincero.
Sapeva che quando le sue labbra così invitanti non erano attraversate da il suo tipico sorriso sghembo, allora, qualcosa non andava.
Blaine sentì ogni fibra del suo corpo tremare, e non sapeva bene se attribuirlo allo stupore, o a qualcosa di molto più profondo che cominciava sempre di più a risalire la superficie.
“Sebastian.”
Chiamò di nuovo il suo nome, come sperando che potesse sentire tutto il bisogno che c’era in lui.
Ma Sebastian, semplicemente, lo fissò, e un piccolo sorriso sciolse il suo cuore scosso dai battiti. Con una mano gli accarezzò la guancia; piano, dolce. Sembrava intento a memorizzare ogni sfumatura del suo viso. Come se fosse l’ultima volta in cui potesse farlo.
“Spero davvero che tu riesca a vincere quel concorso.”
No.
No.
“N-“
“Blaine, mi dispiace.”
Lo disse piano, e il tono incrinato nella sua voce lo fece sussultare, ma non permise al suo cuore di perdersi in futili spasmi; non stava dicendo sul serio. Non poteva fare sul serio. Non poteva farlo.
Ma poi, ogni certezza nel mondo di Blaine svanì, al contatto di tre semplici parole.
Tre parole. Chi avrebbe mai detto che il mondo di una persona potesse crollare con così poco?

“Lascio il concorso.”









***


Angolo di Fra

Lo so.
Molti di voi probabilmente hanno pensato "OH MIO DIO GLI DICE IO TI AMO" e invece le tre paroline famose erano tutt'altre.
Riconosco la mia enorme baldraccaggine.
E lo so. Questo capitolo è straziante. Stavo male io mentre lo scrivevo, figuriamoci. M'è presa una depressione tremenda e continuavo a dire PERCHE' TUTTO QUESTO ANGST?! MA A COSA PENSAVO QUANDO PROGETTAVO QUESTA STORIA?
...
Ok, potete infamarmi, lo accetto.
Però fatevelo dire Sentimentale di Claude Bolling e Jean Pierre Rampal è bellissimo.
...
Vado a nascondermi in un bunker.






 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


 



Capitolo 19






 

Santana ultimamente stava passando delle belle giornate. Non che le cose odiate da sempre fossero terminate o cambiate improvvisamente: continuava a essere svegliata nel bel mezzo della notte dal suono grezzo e acuto del violino di Sebastian, per poi ricevere una misera scrollata di spalle quando se ne lamentavfa; inoltre, lavorare al pub era sempre sfiancante e i maniaci che la importunavano, se possibile, perfino aumentati.
Per questo non aveva senso dire che la sua vita fossse cambiata, perchè, di fatto, continuava a fare le cose di sempre, senza nemmeno un briciolo di entusiasmo in più. Ma adesso si era aggiunto un fattorefondamentale: si era aggiunta Brittany; lei, con i suoi capelli biondi che sapevano di zucchero filato – le aveva detto di avere un set di prodotti per il bagno specifici per ogni stagione, e adesso era in quella dei dolci-, con la sua innocenza e ingenuità disarmante, riusciva sempre a trovare qualcosa di carino da dire. A farla sorridere.
A pensarci bene, Santana non ricordava di aver mai sorriso così tanto come in quell’ultimo periodo. Si sentiva bene: sapeva che non fossero esattamente il tipo di coppia ideale ma, in un modo piuttosto bizzarro, sconosciuto perfino a lei stessa, funzionavano.
Nemmeno il classico dolore da primo giorno di ciclo riusciva a metterla di cattivo umore, perchè Brittany le aveva scritto che la prossima volta avrebbe mangiato lievito di birra in modo da sincronizzarsi con lei. Non era molto sicura che fosse un metodo realmente efficace, ma preferì concedersi il beneficio del dubbio e risponderle leggermente entusiasta. Adesso era sdraiata sul divano del salotto, facendo zapping tra quegli orrendi canali della tv via cavo che non facevano altro che trasmettere pubblicità di cibi spazzatura, peggiorando così il suo mal di pancia. La giornata sarebbe trascorsa lenta e noiosa senza la sua ragazza pronta a consolarla o Sebastian: di solito, quest’ultimo la prendeva in giro proponendole uno scambio di corpi così da provare quello che lui definiva essere il vero dolore. Una pallonata dritta sull’inguine. Lei allora ribatteva tirando fuori l’argomento parto, e poi puntualmente cominciava uno sproloquio di ringraziamento a qualche dio immaginario per averli resi omosessuali e, quindi, estranei a quell’orribile rito biologico.
Si sistemò meglio la coperta di pile sulle gambe e appoggiò il barattolo di biscotti preferiti sul tavolino; era completamente avvolta stile fagotto da asporto, quando sentì un rumore di chiavi inserite nella toppa della serratura e, subito dopo, quello della porta che si apriva. Si stava già preparando a udire una qualche tipica frase sarcastica e denigratoria del coinquilino, ma, invece, non sentì nulla.
Qualcosa non andava.
Lo capì subito, non appena vide Sebastian varcare la soglia di casa abbandonando maldestramente il cappotto sul tavolo della cucina: era un maniaco dell’ordine, lui. Una volta Santana aveva seriamente rischiato di essere cacciata via di casa per aver commesso il gravissimo errore di non aver usato i sottobicchieri.
“Sebastian?”
Cercò la sua attenzione, dal momento che era fermo da quasi mezzo minuto, pensando a chissà cosa; a giudicare dalla sua espressione assota e dal velo di tristezza dei suoi occhi verde scuro, la ragazza fece una smorfia, immaginando potesse trattarsi soltanto di due cose: la musica o la famiglia. Magari entrambe, date le circostanze.
Chiamato per la seconda volta, il violinista alzò la testa sorpreso, come se si fosse accorto solo allora della sua presenza. In silenzio, come involontariamente, gettò un’occhiata sul pianoforte posto a un angolo del salotto, e senza aggiungere altro andò a sedersi accanto a lei, prendendole il telecomando di mano, innaturalmente calmo.
La musica, dunque. O meglio: Blaine.
Dopo aver osservato per cinque minuti il susseguirsi di immagini e musiche più o meno assordanti, Sebastian sospirò da solo e spense la televisione senza nemmeno chiedere il permesso. Santana lo guardò per un breve attimo, scandendo bene ogni sillaba e cercando di apparire più vaga del normale: “Allora?”
“Allora cosa?” Fece lui, atono.
“Oh, ma allora sai parlare.”
“Certo che so parlare.”
Ma non c’era una briciola di cinismo nella sua voce. Era come se il suo cervello fosse intenzionato a comportarsi in un modo, ma il suo corpo non riuscisse a seguirlo a dovere.
Rimasero in silenzio per qualche secondo, durante i quali Sebastian squadrò l’abbigliamento della coinquilina riconoscendo immediatamente i classici elementi da primo giorno di ciclo. La sua espressione mutò appena, diventando leggermente cinica, nel dire: “Sei molto sexi.”
“Vai al diavolo.”
Accennò ad un sorrisetto, ma che in realtà assomigliò più a una strana smorfia inespressiva. Senza aggiungere altro, prese uno dei biscotti alla vaniglia dalle mani di Santana e lo mangiò senza nemmeno fingersi delliziato dal suo sapore, o mortificato per il furto appena commeso: odiava quei biscotti, ma tutte le volte si divertiva a sgraffignarli solo per far saltare i nervi all’amica.
Infatti, non fece nemmeno in tempo a deglutire che lei aveva già cominciato a divincolarsi dal suo fagotto di pile, cercando di togliere a Sebastian il barattolo di biscotti dalle mani urlando una serie di insulti e minacce in portoghese. Il ragazzo non capì assolutamente nulla, nemmeno il suo nome. Non sapeva bene se gli avesse appena dato dell’idiota o del calzino.
Una volta stanchi, con il divano e metà salotto cosparso di briciole e biscotti frantumati durante la lotta, i due ragazzi si accasciarono l’uno sull’altro, esausti, recuperando il fiato perduto e fissando il televisore spento davanti a loro. Si concessero un momento per calmarsi, permettendo alla mente di liberare ogni pensiero così da focalizzarsi unicamente su delle piccole cose.
“Ho lasciato il concorso.”
Santana si voltò completamente verso Sebastian, con le sopracciglia inarcate e la bocca semi aperta dallo stupore. Lui, però, sembrava di nuovo assente. Forse si stava chiedendo se avesse fatto la scelta giusta; oppure, forse, stava ricordando i motivi che lo avevano spinto a prenderla.
Ad ogni modo, sembrava come arreso. Fermo. Rassegnato. Triste.
“Sarà per la prossima volta”, suggerì lei. La risposta arrivò nitida, ben udibile: “Non so. Non so quando troverò di nuovo qualcuno come Blaine.”
“Ma ci sono milioni di pianisti alla tua scuola.”
“Non intendevo quello.”
Rimasero in silenzio per molto tempo.
Poi, continuando a fissare il nero della televisione, Santana passò a Sebastian uno dei pochissimi biscotti rimasti dentro al barattolo, e lui sollevò il braccio libero, non incastrato trai loro due corpi, per sfiorare le dita della coinquilina e accettare l’offerta. Le loro teste si avvicinarono con delicatezza. Restarono così, senza aggiungere altro.
 

 
Il giorno dopo, Sebastian non sentì la sveglia.
Avrebbe potuto accorgersene nel momento in cui Santana aveva bussato alla porta urlandogli qualcosa circa le lezioni il lavoro e il resto della vita, ma notando il suo silenzio, la ragazza era uscita di casa lasciandolo solo con il suo cazzeggiare, dal momento che lei invece doveva fare mille commissioni e andare al lavoro per finire tutto l’inventario del pub.
Sebastian si alzò solo qualche ora dopo. Fece una doccia calda, asciugandosi i capelli con il phone portatile usato sin troppo poco, e poi si preparò caffè e crepes per colazione. Indossò la su afelpa preferita e per la prima volta, dopo quelli che gli sembrarono secoli, accese il computer cominciando a navigare tra social networks e stupidi video musicali.
Il violino era ancora accanto al letto, appoggiato al muro, e non venne considerato per tutto il resto del tempo.
Preferiva che andasse in quel modo. Preferiva prendersi una pausa dalla musica, una di quelle lunghe, da riflessione. Sperava che qualche giorno di meditazione e ritorno a orari normali non concentrati unicamente sul pensiero fisso di dover suonare. Così, semplicemente, si comportò come una persona ordinaria: fece una passeggiata; lesse il giornale. Conversò con i vicini, anche se in realtà si dimostrarono dei ragazzini spocchiosi e detestabili.
Quando sentì suonare il campanello di casa era sera inoltrata. La città, fuori dalla grande finestra della sala, era illuminata da lunghi lampioni, evidenziando le insegne di qualche pub o ragazzo in procinto di passare una serata immerso nell’alcool e avvolto dall’erotismo. Insomma, uno stile di vita perfetto per Sebastian, che lo aveva accompagnato per molto tempo. Ma adesso fissava quel mondo fuori dalla sua portata e gli sembrò così lontano, così distante da lui, da spiare il tutto provando solo una vaga sensazione di apatia e disinteresse.
“Arrivo, che palle”, bofonchiò contro l’ennesimo squillo di quel visitatore insistente. Non poteva essere Santana, dal momento che si protava sempre dietro le chiavi e, di solito, quando non succedeva si limitava a bussare o chiamarlo al telefono imponendogli di aprire. Ipotizzò fosse qualche ragazzo del pomeriggio passato per fargli provare un po’ di quel fantomatico David Guetta che, secondo il loro umile parere, era più conosciuto dei Queen. Sebastian aveva provato a controbattere dicendo che, in ogni caso, non sarebbe mai stato famoso quanto Bach, ma nel momento in cui uno di quelli gli aveva chiesto se fosse il tizio della sigla di Superquark, si era arreso di fronte alla consapevolezza che loro erano tanti, e lui uno solo: anche volendo, un omicidio di massa non sarebbe stato abbastanza soddisfacente.
Sicuramente non era preparato a un altro scontro di ignoranza pura, da affrontare con la giusta calma e, magari, qualche sana dose di calmante per cavalli. D’altra parte, però, non era preparato nemmeno a Blaine.
Blaine, con i suoi riccioli scompigliati e il casco scuro stretto tra le mani.
“Non sei venuto a lezione oggi.”
Fu costretto a fissarlo, restando immobile per un po’ di tempo, perchè non riusciva a capire cosa diavolo stesse succdendo. Si era perso qualche puntata? Perchè, secondo i suoi calcoli, Blaine a quell’ora doveva trovarsi a casa suonando qualche lagna delle sue e rimpiangendo le cotte adolescenziali. Blaine doveva odiarlo. Doveva essersi già dimenticato di lui. E la nitidissima sensazione al petto che provò alla sua vista, qualcosa di molto simile alla felicità, non aiutava i suoi nervi a rimanere saldi e concentrati; non aveva preso quella decisione per niente. Blaine, semplicemente, non doveva trovarsi lì, visto che non era venuto certo per rinfacciargli l’assenza scolastica.
“Che vuoi.”
Il pianista sembrò trasalire, sotto quelle parole dure e inespressive.
“Io... volevo vedere come stavi, ecco.”
E quel tono così timido, misto a degli occhi caldi, più dolci del miele, gli fecero venire voglia di fare esattamente quanto avesse appena immaginato. Ma poi dovette ricordare a se stesso che quella fosse la vita vera, e che era stato lui stesso a terminare... quella cosa. Il rapporto che avevano avuto. Qualsiasi cosa fosse stata.
“Come vedi, sto bene.” Gesticolò verso di sè e il suo corpo. “Puoi anche andartene ora.”
“Hai suonato almeno un po’ oggi?”
Sebastian sviò lo sguardo, stringendosi leggermente nelle spalle. Fu una risposta sufficiente.
“Sebastian ti prego, guardami.”
“No.”
Faceva già abbastanza male sentire la sua voce. Trovarsi di fronte ai suoi occhi, al suo viso, alle sue labbra, sarebbe stato insostenibile. Perchè la realtà era tutto il contrario: era Sebastian ad avere ancora bisogno di lui.
“Perchè sei qui.”
Si voltò completamente dall’altra parte, lasciando Blaine con nient’altro che le sue spalle tese e la sua testa inclinata verso il basso.
“Sei davvero cocciuto”, aggiunse: “Io ti ho ferito. Ti ho illuso più e più volte. Ho perfino abbandonato il concorso.”
“E’ vero”, commentò calmo Blaine. Una pugnalata al petto sarebbe stata meno dolorosa.
“E allora spiegami”, mormorò. “Devi dirmi il perchè.”
“Perchè cosa?”
“Perchè sei qui. Dovresti starmi lontano.”
Blaine esitò; dal tono di voce, sembrava stesse trattenendo a stento un sorriso: “Mi sembra ovvio. Perchè sei un idiota.”
“Come scusa?”
Fu allora che, senza nemmeno pensarci, si voltò di nuovo verso di lui; incrociare quegli occhi ambrati, così divertiti, fu più di quanto potesse sostenere.
“Oh, era ora. Sai che parlare alle tue spalle non è molto bello? Sei troppo alto. Mi stava venendo il torcicollo.”
“Ripeti quello che hai detto.”
“Sei un idiota”, disse, senza mezzi termini: “Sei un idiota quando fai finta di non tenere a me, e sei un idiota perchè hai lasciato il concorso senza neanche provare a parlarne.”
“Parlare di cosa, Blaine? Non c’è niente da-“
“Di noi.” Lo interruppe. “Di quello che provo per te. Di quello che, chiaramente provi per me.”
Ah.
“Non so di che parli.”
“Ah sì?” Il sorriso di Blaine si allungando solo un po’ di più: “E allora spiegami perchè hai lasciato il concorso. Io mi sono fatto tante domande, te lo assicuro. Ma ho trovato soltanto una risposta che mi convincesse completamente.”
Sebastian cominciava a sentirsi con le spalle al muro. Come in pericolo, di fronte a una situazione che gli stava sempre più velocemente sfuggendo di mano. Non gli avrebbe chiesto ulteriori spiegazioni: non voleva sapere. Blaine non poteva aver capito, non poteva conoscerlo così bene. Non poteva e basta ma, ancora una volta, parlò senza essere interpellato e lo prese contropiede: “Tu sei geloso di Wyatt.”
“No.”
“Sei geloso di lui e del duetto che abbiamo suonato insieme. E hai ragione, non avrei dovuto suonare con lui. Ma credo che un giorno sia sufficiente, no? Oppure non ho ancora scontato la punizione?”
Punizione? Di cosa stava parlando?
“Ti sei arrabbiato, va bene. Ma adesso possiamo ricominciare a suonare?”
Ma allora Blaine non sapeva nulla. Non aveva capito i suoi veri pensieri, durante quel duetto. Non aveva capito che lui si era ritirato non per ripicca, ma perchè non credeva di essere in grado di farcela.
“Non posso.”
Lo vide immobilizzarsi di colpo. Evidentemente, credeva che quella sorta di capriccio terminasse con una battuta e un sorriso; era qualcosa di molto più serio.
“Io... non posso farlo. Mi dispiace.”
Il modo sincero con cui espose quelle scuse fu sufficiente a Blaine per fare un timido passo in avanti, confuso, come se adesso avesse veramente capito la presenza di qualche rivelazione nascosta e mal celata.
“Sebastian... non so a cosa stai pensando. Non lo so davvero. Non so perchè ti sono venuti questi dubbi a una settimana dal concorso, visto che di solito prendono a me.”
“Blaine, non puoi capir-“
“Invece sì. Potrei, se tu ti decidessi a parlare.” Lo interruppe brusco, stringendo  le cinghie del suo casco come se volesse sfogarsi su qualcosa. Rimasero entrambi interdetti per una breve pausa, fino a quando Blaine, mosso da qualcosa dentro di lui, rialzò la testa di scatto e disse tutto il necessario attraverso una singola mandata di fiato.
“Io voglio suonare solo con te, Sebastian. Quindi sbrigati a capire quello che vuoi tu, perchè vorrei provare almeno il giorno prima del concorso.”
Sebastian non riusciva a capire cosa avesse fatto di male. Perchè il destino fosse così crudele con lui: aveva trattato Blaine nel peggiore dei modi possibili. Aveva sperato che con la decisione di abbandonare il concorso, finalmente capisse quanto fosse sbagliato affezionarsi a lui. Perchè finiva sempre allo stesso modo: deludeva tutti, era quella la verità. Avrebbe finito per perdere il concorso e deludere anche Blaine e no, aveva ingoiato tanti rospi nella sua vita, ma quello non era assolutamente accettabile.
“Perchè proprio io?”
Non riuscì a trattenersi dal fare quella domanda.
“Perchè me, e non qualcun altro?”
Blaine lo fissò a lungo. Sul suo viso, ci lesse tutta l’incredulità di uno che non riusciva a credere a tutta quella insicurezza; tuttavia, non sembrava molto stupito, nè particolarmente dispiaciuto. Semplicemente, era un lato che lui voleva conoscere a fondo, assieme a tutti gli altri.
“Perchè sei tu. Non potrebbe essere nessun altro.”
Perchè non si trattava solo di suonare. Lo sapevano. Era inutile continuare a negarlo.
“Può darsi che non sia il mio ragionamento più logico, o il più coscenzioso. Ma nemmeno la musica lo è.” Ipotizzò Blaine.
“Pensa in fretta, Sebastian. Non posso aspettarti per sempre.”
Sebastian si ritrovò a sorridere di fronte ad una porta chiusa.
Oltre ad avergli rubato il cuore, adesso, gli aveva rubato anche le uscite di scena melodrammatiche.
 

 
 
Avrebbe aspettato.
Era un ragazzo paziente.
Sebastian sarebbe arrivato da lui a momenti e gli avrebbe detto di essere stato un idiota; si sarebbero baciati e poi tutto sarebbe tornato alla normalità. Va bene, magari non si sarebbero baciati; magari gli diceva che sarebbero rimasti grandi amici, in onore di una sana e rispettosa professionalità.
Al diavolo la professionalità.
Blaine si alzò di scatto da quello sgabello usurato dal tempo e per poco non si passò le mani trai capelli; si ricordò soltanto un attimo prima di farlo che quella mattina aveva messo una quantità industriale di gel, giusto per aiutare a calmare i suoi nervi a fior di pelle.
Chi aveva detto che l’attesa fosse la cosa più bella di tutte? Cialtrone. Non aveva mai amato aspettare nemmeno la mattina del venticinque di Dicembre per aprire i regali di Natale: dopo anni di piagnistei e furti, avevano tutti deciso di scartarli la sera prima.
Non era affatto un ragazzo paziente.
Voleva sapere.
Voleva rivedere Sebastian perchè, diavolo, mancavano tre singoli giorni al concerto. Tre. Non tre settimane, e nemmeno tre mesi. Settantadue fottutissime ore. Quindi col cavolo che era calmo: Sebastian doveva assolutamente varcare la soglia di quella maledetta sala prove ed era meglio che lo facesse con il violino già alla mano, altrimenti non sarebbe uscito da lì tutto intero.
Quasi per ironia della sorte, o per inquietante scherzo del destino, un attimo dopo Blaine sentì un familiare cigolìo e la porta si aprì, costringendolo a voltarsi di scatto, con il cuore che batteva all’impazzata e il respiro trattenuto.
Era Wyatt.
Non era mai stato meno contento di vederlo.
“... Serve qualcosa? Starei... stavo... sto provando e-e poi starei aspettando qualcuno.” Cercò di dire nel modo più naturale possibile, anche se cambiò a metà della frase la sua scusa per mandarlo via visto che era in piedi di fronte al pianoforte e, chiaramente, non poteva stare suonando.
Wyatt lo squadrò da capo a piedi sfoggiando uno sguardo piuttosto impressionato: “Sei molto teso. Per il concorso?”
“No. Cioè, sì. Forse. Non proprio.”
La risata gutturale del flautista gli fece venire voglia di ficcare la testa nel cestino e non risbucare mai più.
“Devi rilassarti.” Disse il ragazzo con tono mellifluo, avvicinandosi a lui e afferrandolo velocemente per le braccia: “Fai respiri profondi. Così.”
Blaine si lasciò convincere da quei piccoli suggerimenti, e così si ritrovò a chiudere gli occhi e serrare la bocca per inspirare bene; niente panico. Sebastian sarebbe tornato. Avrebbero vinto la seconda fase con successo e Robert avrebbe dato i loro nomi ai nipotini. Magari no.
Tuttavia, ogni suo pensiero più o meno fantasioso si interruppe brutalmente nell’attimo in cui percepì un respiro caldo lambirgli la pelle e, subito dopo, delle labbra morbide e insolite tentare di baciarlo. Prima che potesse accorgersene, Wyatt era già a un paio di metri da lui, con gli occhi sgranati e un’espressione offesa.
“Perchè diavolo mi hai spinto?”
“Perchè diavolo mi volevi baciare?” Ribattè allora Blaine, allibito. Non sapeva nemmeno quello che stava provando, voleva soltanto dare un pugno a quell’idiota perchè non aveva assolutamente senso, che stava facendo? Che voleva fare?
“Oh no.”
Fu come un macigno che si posizionò sullo stomaco.
“Tu volevi fare coppia con me, non è così? Volevi scaricare la tua partner e presentarti con me al concorso.”
Wyatt fece un gesto convesso con la mano verso un punto ignoto, come a voler dire che fosse tutto molto ovvio, e lui molto ingenuo.
“Ma mi sembra chiaro, Blaine. L’ho desiderato dal primo momento che ho sentito come suoni. E quella palla al piede sa benissimo cosa voglio fare, quindi l’unico scandalizzato qui sei tu.”
“Che... che cosa?”
Come poteva scaricare così Jodie e farlo sembrare del tutto normale? Come poteva pensare che lui avrebbe anche soltanto considerato l’idea di fare la stessa cosa con Sebastian?!
Adesso riusciva veramente a vedere il vero Wyatt. Ed era un uomo ignobile. Qualcuno da cui era bene non fidarsi. Sebastian aveva ragione. Aveva sempre avuto ragione, e lui era stato davvero uno stupido.
“Ho sempre pensato che io e te fossimo sulla stessa lunghezza d'onda”, tentò di convincerlo il flautista.
“Vattene via Wyatt.”
La sua voce non ammetteva repliche.
“Sparisci. Non ti voglio più vedere.”
Chiaramente, il ragazzo si era immaginato una reazione del genere; non la prese così male, non apertamente, per lo meno. Si strinse nelle spalle. Gli rivolse un sorriso molto freddo. Lo salutò disinteressatamente con la mano e poi, mentre andava via, con tono canzonatorio e altalenante gli disse che se ne sarebbe pentito amaramente, perchè lui era la migliore scelta che potesse avere.
“Non è vero”, sussurrò Blaine, ad una stanza vuota.
Lui e Sebastian lo avrebbero distrutto.
 
 


 
Sebastian voleva andare da Blaine. Davvero, lo desiderava più di ogni altra cosa: voleva dirgli che sarebbero stati sensazionali e che la vittoria era nelle loro mani. Voleva dirgli che era il miglior violinista del mondo, e che anche con una settimana di pausa avrebbero sconfitto tutti. Ma come faceva a convincerlo, dato che non ne era convinto nemmeno lui? Senza contare che la seconda fase era l’indomani. Gli venne da ridere.
Il suono fastidioso e metallizzato del cellulare non riuscì a catturare tutta la sua attenzione, tanto da fargli rispondere in modo breve e scostante: “Chi è?”
“... Pronto? Sebastian?”
A chi apparteneva quella voce? Non poteva essere Santana; di certo, non era sua madre.
“Sono... uhm, come dire. Sono Jodie. Non riattaccare!”
“Jodie?” Sbottò: “Ma vaf-“
“Aspetta!” Esclamò lei, gettandogli contro una raffica di parole a malapena comprensibili: “Ti prego non riattaccare. Ho chiesto il tuo numero al professore perchè so cosa vuole fare Wyatt e so quello che pensa Blaine e così ho pensato di dovervi aiutare perchè non è giusto e-“
“Un momento. Calma. Fermati. Silenziati.”
Approfittando di quella pausa, si accarezzò una tempia, come sconfitto. Quella ragazza poteva essere una spina nel fianco, ma sentir pronunciare i nomi Wyatt e Blaine nella stessa frase fu sufficiente per darle una possibilità.
“Cerca di comportarti come un essere umano ed esprimi i tuoi concetti in quanto tale. Oppure devo prendere un metronomo così vai a tempo con le sillabe?”
“E’ tutta colpa di Wyatt”, disse lei, ignorandolo completamente. La sua voce era leggermente spezzata, debole. “Io... non avevo capito fino a che punto potesse spingersi. Ieri ne ho avuto la prova.”
“Cosa? Che avrebbe fatto?”
Ma Jodie, forse per agitazione, per paura, o chissà cos’altro, continuò a balbettare sul concorso, su quanto fosse stupida, su come si sentisse in colpa e su tutta una serie di scuse inutili.
“Non so nemmeno se presentarmi domani. Oh ma certo che mi presenterò, devo farlo. Però non voglio suonare, ma non voglio nemmeno fare una brutta figura. Allora suonerò e sarà orribile. Sono una persona orribile.”
Sebastian emise un lungo e sonoro sospiro massaggiandosi la fronte, improvvisamente esausto: ecco perchè gli piacevano gli uomini.
“Senti, davvero, ho tante cose da fare. Quindi se hai chiuso con le tue lagne ti saluto e tornerei a-“
“Ma come fai a essere così calmo? Insomma non sei... come dire... nervoso?”
Fu in quel momento che, finalmente, avvertì quella strana sensazione di pericolo e tensione proprio all’altezza dello stomaco. La sua mente rielaborò il tutto a velocità di un battito: Jodie aveva chiesto il numero al professore; il professore, evidentemente, l’aveva ritenuta una cosa molto importante. E lei avrebbe potuto telefonargli per un solo motivo.
“... Dimmi cos’ha fatto Wyatt a Blaine.”
 
 

Il viaggio fino al conservatorio fu rapido e confuso. Sebastian non ricordava esattamente quale metro avesse preso, nè come fosse riuscito a raggiungere quell’ormai sin troppo familiare scalinata senza urtare o uccidere nessuno. La rabbia gioca davvero brutti scherzi, delle volte. E lui era furioso. Fuori di sè. Non aveva mai provato tutta quell’agitazione, quella voglia di distruggere qualcosa, quell’impulso irrefrenabile di trovarsi di fronte a Wyatt e prenderlo a pugni.
Per questo, fu molto difficile contenersi, quando lo trovò abbandonato a una sedia della caffetteria. Impeccabile e preciso, come sempre. Con la sua espressione assorta e completamente indifferente, se possibile, lo fece imbestialire giusto un po’ di più.
"Smythe.” Pronunciò, gelido. “Chi non muore si rivede."
"Dov'è Blaine."
Non aveva tempo da perdere con gli idioti. Non voleva dargli nemmeno la soddisfazione di sentirsi tanto importante da meritarsi un pugno.
"Non ne ho idea”, rispose lui, alzandosi lentamente in piedi: “Perchè dovrei saperlo?"
"Perchè sei un pezzente pifferaio del cazzo, ecco perchè."
Fu a quel punto che Wyatt cambiò completamente espressione; perfino la sua postura assunse una sfumatura leggermente più spavalda, con le mani in tasca, la schiena curva e gli occhi divenuti fessure.
"Ah. Capisco. Jodie ti ha detto di quel piccolo incidente."
Sebastian inarcò un sopracciglio, allibito. Incidente? Voleva strappargli quell’insulsa faccia che si ritrovava.
"Non azzardare ad avvicinarti di nuovo a Blaine."
Fu quella l’unica avvertenza che la sua pochissima calma gli conferì di dare. Perchè stava letteralmente implodendo; perchè non voleva perdere un attimo di più a parlare con uno come lui, ma quando Wyatt lo fissò sprezzante, chiendogli il motivo, non riuscì assolutamente a contenere l’esclamazione che uscì dalla sua bocca nel rispondere: "Perchè lui è il mio... accompagnatore."
Gli venne rivolto un sorrisetto meschino, insopportabile.
“Non sembrava tanto tuo ieri sera.”
Come? No. Non era possibile. Stava mentendo. Sapeva che stesse mentendo. Eppure, le sue mani cominciarono a prudere terribilmente, il suo cuore a battere, e il respiro divenne pesante e irregolare.
“Mi ero sempre chiesto se fosse passionale anche a letto, oltre che al piano..."
Non riuscì a resistere un secondo di più.
Il pugno che scagliò improvvisamente verso di lui fu liberatorio, ma a causa dalla furia e dalla velocità lo piazzò male, centrandogli la bocca al posto della mascella o della guancia; l’urto con i denti gli provocò dei tagli più o meno profondi sulle nocche, ma Sebastian non si preoccupava nemmeno di massaggiarsi la mano o controllare le ferite: era riuscito a togliergli quel ghigno del cazzo.
“Finalmente”, sospirò.
Senza aggiungere altro, corse verso l’aula di musica. Aveva perso sin troppo tempo.
 
 
Blaine era lì, seduto di fronte al pianoforte, come sempre. Con le mani che reggevano i fogli e il lapis trai denti: era bellissimo.
Senza nemmeno preoccuparsi di giustificare la sua presenza di fronte ai suoi occhi spalancati, o alla sua bocca a metà tra un sorriso e lo stupore, lo prese di peso costringendolo ad alzarsi. Blaine era completamente confuso e attonito, stava accadendo tutto troppo in fretta: balbettò qualcosa e così facendo gli cadde il lapis di bocca. Sebastian resistette all'impeto di coprirla con le sue labbra.
"Sebastian, ma che- che hai fatto alla mano?! Come pensi di suonare co-"
"Dimmi che non ci sei andato a letto."
Blaine rimase zitto, immobile, come metabolizzando quelle parole strane e ridicole. Di fronte al suo sguardo perso, Sebastian fece una smorfia, costretto a specificare: "Dimmi che non sei andato con quel cazzo di flautista Blaine, ti prego."
E fu a quel punto che lo sentì ridacchiare, abbassando leggermente la testa e facendolo morire d'ansia ancora di più.
Ti prego. Ti prego.
"Ma no che non ci sono andato, perchè diavolo credevi che-"
Lo baciò.
In modo lento, passionale. Avvertì Blaine, tra le sue braccia, come se stesse perdendo l’equilibrio, e senza ulteriori indugi portò le sue mani ad aggrapparsi a lui, mentre le sue gli cingevano i fianchi.
Si chiedette perchè avesse aspettato tutto quel tempo. Si chiedette se Blaine stesse provando la stessa sensazione di vertigine, paura e felicità. A giudicare dal modo con cui si stringeva a lui, e da come stesse ricambiando sempre più entusiasta, sperò di sì.
Dovettero staccarsi dopo diversi secondi, costretti dal fiato che cominciava a scarseggiare, dalle parole ch adesso erano invogliate a uscire. Sebastian si assaporò le labbra, quasi compiaciuto di sentire lo stesso sapore di sempre e non uno mischiato a qualcos'altro.


“Sono un idiota.”
Blaine si scostò da lui giusto un poco, appoggiando la fronte alla sua e cercando di rielaborare le parole appena sentite. Era ancora preso da tutte le emozioni provate da quel bacio per riuscire a connettere bene il cervello. Era tutto troppo perfetto, che quasi non sembrava possibile.
“Co-Come hai detto scusa?” Balbettò, con la gola diventata improvvisamente secca e difficile.
"Sono un idiota Blaine." Ripetè allora lui, più lentamente.
"Uhm,” roteò gli occhi verso il soffitto, “Dimmi qualcosa che non so già."
Sebastian sembrò sconvolto e offeso, allontanandosi di un centimetro dall’altro ragazzo; un centimetro. Era quella la distanza massima che riusciva a tollerare? Si ritrovò a fissarlo esasperato, e poi tutto passò in secondo piano, quando i suoi occhi ambrati si sciolsero in un sorriso.
“Perchè sorridi?” Gli domandò Sebastian.
Blaine fece sfiorare delicatamente i loro nasi, dandogli un minuscolo bacio a fior di labbra.
“Perchè per la prima volta sei stato tu a baciarmi.”
Sebastian si mostrò stupito; evidentemente, non ci aveva fatto caso. “Posso farlo ancora.”
E sarebbe stato incredibilmente facile terminare lì ogni discorso, perchè lui sentì le sue guance infiammarsi mentre diceva: "Vorrei che tu lo facessi."
“Dici sul serio?” Gli chiese, con quella punta di insicurezza che Blaine non aveva ancora imparato a conoscere bene; sapeva solo che Sebastian fosse bellissimo così: aperto, vulnerabile, attento a ogni sua singola reazione. Avrebbe potuto fissare i suoi occhi grandi ed espressivi per sempre.
Così, piano, rispose: "Sì."
"...Ma?" Continuò l'altro, perchè lo aveva capito, perchè si erano letti nel pensiero ancora una volta.
"Ma non credo che riuscirei a sopportare un altro casino. Non questa volta."
Non ora che tutto il mondo sembrava perfetto.
"Non lo voglio nemmeno io." Mormorò Sebastian, con una nota di incertezza nella sua voce. "Sono un idiota Blaine."
"L'hai già detto questo."
"Lo dirò tutte le volte che servono per farti capire."
Esitò, ma solo il tempo necessario per racimolare le idee.
"Io... io non credo nelle relazioni a lunga durata. Non credo nell'amore eterno, nell'essere felici e contenti e cose così. Fino a poco tempo fa, non credevo nemmeno di poter diventare il ragazzo di qualcuno."
"Sebastian.”
Blaine si era scordato completamente di respirare.
“Stai forse dicendo che... che vorresti stare con me?"
Nel rispondere, Sebastian lo guardò intensamente, dicendo quelle parole come se ne andasse della sua stessa vita.
"Sì. Dammi una possibilità."
E prima che potesse riprendere a baciarlo, interrompendo così ogni sua buona volontà, venne bloccato sul posto con le braccia, e lo sentì sospirare: "Ma ti sto dicendo anche che molto probabilmente tra qualche anno ci lasceremo in lacrime, e tu mi odierai, e io avrò perso una delle persone entrate a far parte della mia vita."
Sentì il suo sorriso spegnersi in un attimo.
"Non troppo ottimismo tutto insieme, per carità."
"Sono sincero." Rispose, stringendosi un po' di più a lui: "Fa schifo, ma finisce sempre così."
“Beh...” ammise, non troppo convinto: “Magari... magari ci lasceremo.”
"Chi è l'ottimista, adesso?"
E scoppiarono a ridere in quella sala prove, perchè era un po' ridicolo parlare di lasciarsi quando nemmeno stavano insieme, ma loro erano Sebastian e Blaine: non erano una coppia normale, e mai lo sarebbero stati.
Blaine alzò di nuovo lo sguardo verso di lui, e adesso si trovavano a distanza di un bacio: "Io dico che dovremmo approfittare di quello che stiamo provando ora, qui, in questo istante. E per il futuro, si vedrà."
Non voleva rinunciare alla possibilità di stare con lui solo a causa di una sfumatura ipotetica, dell'idea di soffrire in un futuro prossimo. Non lo voleva nemmeno Sebastian. Per questo posò delicatamente le labbra sulle sue, e a quel punto l’altro ragazzo commentò: "Mi piace questa idea."
Blaine fece in tempo a bisbigliare un: "Allora siamo d'accordo?", timido, fugace, prima che si perdessero in innumerevoli baci languidi sin troppo celati fino ad allora.
 
Sì, pensò Sebastian, mentre lo avvolgeva tra le braccia facendo completamente aderire i loro corpi. Si sentiva finalmente felice, completo.
Sì, erano d'accordo.
Dopo quella che sembrò un’eternità, ma comunque un tempo troppo breve, Blaine si staccò con un sonoro schiocco, rivolgendogli un occhiolino divertito.
"E adesso muoviti."
“Eh?” Fece confuso, “Dove andiamo?"
Si ritrovò con spartiti e borsa a tracolla in mano, con Blaine che si avviava verso la porta, voltandosi giusto il tempo necessario per affermare: "Abbiamo dodici ore per vincere la seconda fase."
 










***


Angolo di Fra



Un parto.
Diciannove. Lunghissimi. Capitoli.
E nemmeno è venuto come vorrei.
Un. Parto.
Ci ho messo due settimane. L'ho scritto. Riscritto. Cancellato. Scritto ancora una volta. Questo è stato il risultato finale, che è il meno-peggio di tutti i precedenti. Non so che dirvi. Ah sì una cosa ce l'ho: Ginny ha scritto una bellissima OS dedicata a questa storia, e penso che affogherò nei miei feelings perchè non so proprio come faccia a piacervi così tanto da scriverci fanfiction.
Vabè. Pensiamola così: Seb e B FINALMENTE si sono dati una smossa. E aggiorno domenica o lunedì. Quindi yay.
Grazie a tutti voi Santi che leggete. O addirittura recensite. Grazie.

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***





Capitolo 20




 

 
"Non sono fatto per i concerti. La folla mi fa paura, mi sento paralizzato da quegli sguardi curiosi, ammutolito da quei visi estranei. Dare concerti invece è affare vostro poiché se non vincete il vostro pubblico avete tanta forza d'accopparlo."
Chopin in una lettera a Liszt

 


 

Caffè.
Tanto caffè.
Caffè espresso, corto, macchiato, lungo, al latte, con la panna, senza, con o senza zucchero. Caffè in tutti i modi possibili e in quantità che potrebbero essere definite sicuramente industriali.
Blaine si sentiva una caffettiera ambulante.
Parcheggiò il motorino accanto al grandissimo edificio moderno e dall’aspetto austero, anche se, a dirla tutta, parcheggiato era un eufemismo: in pratica lo aveva abbandonato accanto a un palo della luce sistemandolo esattamente sopra a una delle due strisce e rischiando sbadatamente di perdere l’equilibrio, nel momento in cui fece per spegnerlo.
Si sfilò il casco dalla testa, passandosi una mano sul viso stanco e sugli occhi marchiati da delle profonde occhiaie.
“Tu sei pazzo. Tu sei un criminale. Un pericolo pubblico. Ma chi cavolo ti ha dato la patente?!”
Si voltò giusto in tempo per vedere il volto pallido e sconcertato di Sebastian, esausto quanto lui e, osservando i suoi occhi ancora sgranati per la corsa, non riuscì proprio a trattenersi dal prenderlo un po’ in giro: “Puoi anche staccarti adesso, sai. Siamo arrivati.”
“Quanto sei simpatico.” Bofonchiò lui, sciogliendo finalmente la presa delle sue braccia avvolte al suo torace. Blaine ripensò alla prima volta che erano usciti, a come Sebastian era rimasto distaccato mentre viaggiavano lungo le strade di New York. Il cuore accelerò un poco constatando la lunga, lenta e splendida evoluzione del loro rapporto, ma rischiò di fermarsi quando il ragazzo si sfilò il casco e si passò una mano trai capelli per ravvivarli. Il tutto accompagnato da un completo scuro, elegante e giovanile allo stesso tempo, con un cravattino chiaro che faceva risaltare la camicia nascosta dalla giacca.
Ancora non riusciva a crederci che quello schianto di uomo fosse il suo ragazzo. Perchè non se lo era sognato, vero?
“Che hai da fissare?” Chiese Sebastian con un ghigno, perchè sapeva esattamente cosa stesse guardando, e adesso Blaine aveva le guance in fiamme mentre mormoava “Niente”, scendendo dalla moto per assicurarla e controllare il suo aspetto allo specchietto sinistro.
Un disastro.
I capelli, per via del gel quasi del tutto scomparso e del casco, erano un ammasso informe dalla quale spuntava, di tanto in tanto, qualche ricciolo, che ricadeva sul collo o sulla fronte. La giacca era stropicciata in diversi punti, mentre le scarpe praticamente nuove avevano preso il segno del pedale con qualche striatura ai lati.
Sebastian intanto aveva già fatto un paio di passi verso la scala, guardando il sole alto in cielo e cercando di ripararsi dal gelido vento mattutino.
“Chissà che fine ha fatto il professore”, mormorò, con una mano in tasca e la custodia del violino nell’altra. “Dovrebbe già essere qui... ad ogni modo non abbiamo tempo per aspettarlo, ci conviene entrare e- Blaine, si può sapere che stai facendo?”
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata fugace; uno era chinato verso lo specchietto, con le mani paralizzate a un centimetro dai capelli, e l’altro adesso lo stava fissando torvo non sapendo se trascinarlo di peso o abbandonarlo lì.
“Vuoi anche una tazza di tè, per caso?”
“Mi sono bastati i venti caffè”, mugugnò Blaine, tornando a concentrarsi sullo specchietto. “Ho quasi finito, devo soltanto trovare un modo per sistemare questo ciuffo e-“
“Quanto sei gay.” Detto quello, lo afferrò per un polso facendogli fare gli scalini a due a due, in modo da entrare velocemente dentro al Music Hall.
Il palazzo era lo stesso della prima fase, tuttavia, era pervaso da un’atmosfera del tutto diversa: ragazzi e ragazze camminavano avanti e indietro, chi con spartiti in mano intenti a rileggere e gesticolare imitando i movimenti da eseguire con lo strumento, chi, invece, emetteva lunghi sospiri e cercava di placare qualche eventuale attacco di panico.
Blaine assimilò tutta quella tensione e, in risposta, cominciò a sudare freddo anche lui; non aveva mai visto quelle persone. Non sapeva nemmeno cosa ci facessero lui e Sebastian lì, di fronte ad artisti più grandi e esperti, o a persone visibilmente più sicure e rilassate.
“Non credo di sentirmi molto bene”, ammise a bassa voce. Prima che Sebastian si voltasse completamente verso di lui, accigliato, Blaine gli afferrò un braccio e cominciò a bisbigliare: “Ma che cosa stiamo facendo?”
“Dunque”, rispose lui, calmo, “Stiamo respirando, pensando, parlando e, in questo preciso momento, ci stiamo anche toccando. Non nel modo che vorrei io, ma comunque...”
Per un attimo riuscì quasi a zittirlo, visto lo sbigottimento creato da quell’ultima parte della frase, ma l’ansia era più forte e così si ritrovò a scuotere la testa impaziente mentre continuava a mormorare quanto fossero stati pretenziosi, quanto fosse assurdo tutto quanto, quanto fossero dei miseri ragazzini con sogni troppo grandi. Sebastian lo ascoltò pazientemente per una quindicina di secondi, la sua espressione non mutò di una virgola; alla fine, però, si lasciò scappare un sospiro ed estrasse dalla tasca il cellulare, intento a chiamare l’unica persona in grado di risolvere quella crisi di panico.
“Professore? Sì, sono io. Come scusi?” Aggiunse, esitando, “Devo... devo mettere il vivavoce?”
Un attimo dopo, fece quanto richiesto, e così sia lui che Blaine si trovarono chinati verso l’apparecchio cercando di decifrare quegli strani rumori di sottofondo; erano scatoloni, passi, piagnistei e televisione accesa tutti messi insieme.
“Ragazzi”, proferì Robert sovrastando tutto il trambusto, “Non so esattamente come dirvelo, ma non ce la faccio a venire.”
“Che cosa?" Blaine sentì il cuore sprofondargli nel petto, pesante come un macigno.
“Molly –vi ricordate di Molly? Ecco, si è presa la varicella, e l’ha attaccata a tutti. Devo uscire a comprare del talco, delle medicine e qualcosa per Kayla, ha la febbre un po’ alta...”
E sapeva benissimo che non fosse colpa sua, che quelle cose potevano succedere e che, in fondo, erano abbastanza grandi per cavarsela anche senza il supporto del loro insegnante. Però Blaine si ritrovò a roteare gli occhi al cielo imprecando contro qualche entità invisibile, perchè, ovviamente, di tutti i trecentosessantacinque esistenti all’anno doveva accadere un’emergenza familiare precisamente nel giorno del concorso. Non era mai stato un asso in quanto a fortuna: chissà, forse avevano divorziato ancora prima di nascere.
“Non può metterli tutti a letto e venire qui?” Tentò Sebastian; nonostante tutto, anche lui preferiva ricevere qualche ultima dritta dal professore prima di entrare in scena. Sentì Robert fermarsi di scatto, dopo qualche rumore di sottofondo che non prometteva nulla di buono, come se gli fosse scivolato qualcosa dalle mani, oppure, che avesse distrutto una libreria.
“Non capisci”, sbuffò il professore, “Kayla sta male. Non posso andare a passeggio sapendo che ha bisogno di me. Dovrete cavarvela da soli.”
Per quanto potesse sembrare smielato, o ossessivo, o negativamente romantico, Blaine e Sebastian si lanciarono una lunga occhiata, arrivando alla stessa conclusione e sentendosi anche un po’ infantili per come si erano comportati. Sebastian si avvicinò il telefono alla bocca per parlare con più chiarezza: “Nessun problema, vecchio. Siamo carichi e convinti.”
“Lo siamo?”
“Lo siamo.” Guardò torvo Blaine. Dall’altro capo del telefono, il professore sembrò sorridere: “Ricordatevi solo di stare rilassati. I giudici non ci interessano. Ah, ragazzi?” Fece un attimo prima che la conversazione terminasse, chiamando repentinamente l’attenzione di Sebastian e Blaine. Ci fu una breve pausa, i due ragazzi si chiesero cos’altro avesse da dirgli.
“Vi sento più affiatati. Avete risolto le vostre... divergenze?”
Dopo aver esitato, i due ragazzi furono colti da un paio di sorrisi aperti e leggermente imbarazzati.
“Direi di sì.” Ammise Blaine. Sentì la sua mano sfiorare quella di Sebastian e, in un attimo, le loro dita erano intrecciate. I suoi tagli della mano erano ben visibili ma, a distanza di un giorno, quasi del tutto rimarginati; Blaine gli aveva proposto di mettere un cerotto o una garza, ma Sebastian si era opposto con tutto se stesso, perchè voleva mostare a tutti i segni di quel pugno dato a Wyatt. Non era una cosa molto matura, ma comunque, Blaine non se la sentì di insistere.
La chiamata si concluse un attimo dopo, quando i loro occhi si incontrarono, per poi scivolare lentamente verso quella stretta così insolita e, allo stesso tempo, incredibilmente piacevole. Si staccarono dopo qualche secondo, senza un vero motivo particolare: semplicemente, dovevano ancora abituarsi all’idea che gesti simili, adesso, fossero completamente permessi, per non dire consigliati.
“Andiamo, avranno già cominciato.” La voce di Sebastian uscì leggermente più morbida del solito.
Blaine non sapeva bene come sarebbe andata a finire, ma stava cominciando ad adorare quel concorso.
 
 
Sarebbe andato tutto bene. Magari non avrebbero vinto, ma confidava in una esecuzione decente; i giudici li avrebbero valutati per quello che valevano, e poi sarebbero tornati a casa con il cuore un po’ più leggero, come ogni volta che si dà un esame. La bocciatura non preme poi così tanto, quando sai che hai dato il massimo, soprattutto viste le circostanze: centinaia di ragazzi adesso erano seduti tra gli spalti di quell’auditorium, intenti ad ascoltare i loro rivali e ghignare verso i più mediocri. C’era un clima così teso e ostico che Blaine rischiava seriamente di soffocare; stava vivendo appieno un dejà-vù della prima volta, ma adesso, se possibile, l’agitazione era aumentata ancora di più: sapeva bene che non ci sarebbe stata un’altra occasione. Non esisteva il ripescaggio. O dentro, o fuori. O la terza fase, composta soltanto da venti canditati, o il capolinea.
Sebastian continuava a fissarlo senza dire una parola. Ma lui era così: era silenzioso, quando doveva essere concentrato.
I giudici erano presenti in sala, seduti comodamente in disparte, con soltanto delle piccole abat-jour a illuminare i loro fogli bianchi. Uno di loro chiamò il nome di una ragazza, e questa salì sul piccolo palco con il volto pallido e teso. Blaine controllò il foglio ricevuto all’accettazione, leggendo la lista di candidati e il loro turno: Wyatt aveva già suonato. Poco male. Adesso c’erano le esecuzioni in singolo, poi sarebbero passati ai duetti. Si aiutò con l’indice per trovare il proprio nome contrassegnato da un numero a tre cifre, impaziente di sapere se avrebbe dovuto suonare prima o dopo Sebastian; non sapeva bene quale delle due preferisse. Una parte di sè voleva togliersi subito il dente, ma l’altra provava una certa instabilità all’idea, ma il foglio fu molto chiaro.
“Sebastian Smythe?”
Il ragazzo si alzò dal pubblico sistemandosi un bottone della giacca con un gesto repentino. Blaine a mala pena se ne accorse: stava quasi per perdere i sensi, vista la palpitazione e il sudore freddo che gli stava torturando le mani.
Sebastian, invece, annuì verso i giudici e afferrò la custodia del violino; prima di dirigersi verso le scalette e salire sul palco, si voltò per un momento verso di Blaine, e gli fece l’occhiolino.
L’occhiolino.
Sebastian Smythe riusciva a flirtare con lui anche un momento prima di suonare per un concorso.
Con quel sorriso che alleggerì gran parte del peso annidato dentro di sè, Blaine congiunse le mani portandole sotto al mento, socchiudendo gli occhi con un’espressione rilassata. Era consapevole che, come sempre, avrebbe ascoltato un’esecuzione impeccabile.
Ma non fu solo quello.
A metà del brano, mosso da stupore, felicità, ammirazione e chissà cos’altro, Blaine si ritrovò a fissare quel ragazzo che adesso era illuminato da un fascio di luce chiara, che gli metteva in risalto gli zigomi, le ciglia chiare, le dita affusolate e il portamento raffinato.
Sebastian non stava suonando come al suo solito. Lui lo aveva sentito tante volte suonare la Partita in re minore di Bach, e quella, beh, sembrava un’altra cosa. Era annidata tra le corde. Scivolava via dai suoi occhi verdi, espressivi.
Sebastian stava pensando. Si stava immaginando qualcosa; forse, qualcuno. Ad ogni modo, quello che sentiva lo trasmetteva leggermente dentro la musica, e anche se mantenesse un po’ di meccanicità, donava al tutto un’espressione più intensa, reale.
Era un violinista veramente bravo. Blaine in quel momento ne fu convinto più che mai.
Quando discostò il mento dal violino, alzando la testa verso il pubblico e contenendo a stento un sorriso soddisfatto, i suoi occhi smeraldini vagarono da una parte all’altra della sala vuota, perchè non si poteva vedere il volto di nessuno dall’alto di quel palcoscenico, la luce era completamente proiettata verso di lui.
Tuttavia, Blaine sapeva che lo stesse cercando. Così come sapeva che i giudici fossero rimasti totalmente affascinati dal suo talento.
Quando tornò a sedersi, camminando con passo un po’ troppo veloce e il violino non ancora sistemato dentro la custodia, Blaine non riuscì a trattenersi dal sporgersi verso di lui cominciando a bisbigliare quanto fosse stato maledettamente bravo.
“Era fantastico!” Esclamò, sempre sottovoce, per non farsi notare dagli altri. Ma era completamente buio, ed erano tutti troppo concentrati ad ascoltare il prossimo concorrente. Sebastian fissò gli occhi caldi di Blaine immergendosi in quel sorriso entusiasta e, interrompendo quello che sicuramente era uno sproloquio pieno di tecnicismi e letture interpretative, si lasciò scappare una piccola risata. Era liberatoria, nata senza una vera e propria motivazione, ma Blaine era così adorabile, da non riuscire a fare altro. Gli lasciò un piccolo bacio a fior di labbra prima di rispondergli con tono sicuro e congeniale: “Un gioco da ragazzi.”
Blaine sorrise, assolutamente incredulo; ma no, avrebbe dovuto aspettarselo. Adesso, non restava altro che aspettare il suo turno e sperare di essere all’altezza del suo partner.
Sprofondò contro lo schienale della sedia, stringendo il foglio tra le mani e mordendosi nervosamente un labbro. C’era tempo. Doveva seguire i consigli del professore: stare calmo e concentrato.
 
Probabilmente, se le cose fossero andate tutte come da programma, Blaine sarebbe riuscito a calmarsi e a suonare il brano prestabilito in modo pressochè perfetto: lo conosceva bene, si era esercitato tanto. Era pronto.
Ma tutto crollò inesorabilmente, nel momento in cui uno dei giudici annunciò il nome di Jodie. La ragazza si avvicinò al pianoforte, seria e composta.
A Blaine bastò una nota, la prima nota, per andare completamente nel panico.
“E’ la Toccata di Katchaturian.”
“Come?” Chiese disattento Sebastian, non voltandosi nemmeno.
“Sta suonando il mio brano.”
 
 
“Com’è possibile?”
Blaine continuava a camminare lungo il corridoio adiacente all’auditorium; faceva avanti e indietro, su e giù, nel tentativo di riuscire a decifrare quello strano scherzo del destino, sperando che si trattasse soltanto di un orribile incubo.
“Tra tutti i brani esistenti al mondo. Tutti”, enfatizzò, mettendosi le mani nei capelli, “Come diavolo è possibile scegliere lo stesso?”
“Jodie non è una ladra”, commentò Sebastian. “Non credo che l’abbia fatto consapevolmente.”
Quello, purtroppo, lo sapeva anche lui. Era ingiusto. Gli veniva voglia di prendere a pugni il muro, o di piangere per il nervosismo. C’era un limite anche alle coincidenze e alla sfortuna, che diavolo.
Ma poi si fermò a riflettere.
C’era un limite anche alle coicidenze e alla sfortuna.
“E’ stato Wyatt.”
“Come?” esordì Sebastian. Era in piedi a pochi passi da lui e fissava la sua sottospecie di maratona con un’espressione vagamente preoccupata.
“Gliel’ho detto. Gli ho detto il brano che stavo preparando, la sera in cui siamo usciti.”
“Ah. Beh, complimenti, genio.”
Udendo quel commento così cinico, Blaine cercò lo sguardo dell’altro ragazzo, ma adesso sembrava come concentrato su un quadro appeso alla parete. Era seccato. Era visibilmente seccato, aveva tutte le ragioni per esserlo.
“Lo so che sono un idiota. Sebastian, picchiami.”
Adesso lo fissò sconcertato. Beh, quanto meno, aveva riacquistato la sua attenzione.
“Dammi un pugno”, continuò, “Uno bello forte, all’altezza dello stomaco.”
“Blaine, piantala.”
“No che non la pianto. Sei arrabbiato.”
“Sì che sono arrabbiato, perchè quel cretino non lo sopporto. Avrei dovuto dargli un altro pugno.”
Oh. Allora non ce l’aveva con lui. Quella notizia bastò a farlo sospirare sollevato, sentendo le spalle rigide ammorbidirsi leggermente.
“Come... cosa faccio adesso? I giudici non hanno controllato i brani prima dell’accettazione?”
Sebastian si strinse nelle spalle, pensieroso: “Magari non è contro il regolamento.”
“Dovrebbe esserlo!” Esclamò. Stava perdendo lentamente il controllo dei suoi nervi e della situazione. “Non posso suonare qualcosa che ha già fatto lei. Il confronto sarebbe immediato.”
“Ma tu sei più bravo.”
“Anche se fosse”, sbottò, fermandosi di scatto per guardarlo dritto negli occhi, “Lo sai anche tu che comprometterà la mia esecuzione.”
“Beh... questo è vero.”
Gli occhi di Blaine si spalancarono allibiti. Sebastian si rese conto di aver appena commesso un gravissimo errore; un po’ come dire ai bambini che Babbo Natale non esiste. Adesso, doveva rimediare a quello che sarebbe stato un sicuro attacco di panico: per farlo, si avvicinò cercando di fermare quella sottospecie di trottola umana che stava creando e lo tenne fermo per le spalle.
“Ehi ehi, calmati.” Mormorò. Blaine sembrò rilassarsi appena, ma continuava visibilmente a tremare.
“Tu sei l'accompagnatore del violinista più bravo del mondo. Non ti è concesso fare questi isterismi da Xfactor.”
Quanto meno, quel commento lo fece sorridere un po’.
“Ma come faccio?” Bisbigliò, e adesso il suo tono non era più fremente o agitato, ma soltanto flebile, come arreso. “Non posso portare il suo stesso brano.”
Sebastian non disse niente, o meglio, non a parole: ma come al solito Blaine intuì esattamente quello a cui stava pensando. Il suo sguardo leggermente incerto non lasciava spazio a fraintendimenti.
“No. No no no no no. Non esiste. Non esiste proprio.”
“Si tratta solo di suonare qualcosa che hai suonato milioni di volte, e poi andare lì e rifarlo.” Suggerí lui.
“No, non posso farlo.”
“Sì invece.”
“Non posso farcela.” Si corresse allora.
Il cuore di Sebastian perse qualche battito nel vedere Blaine così insicuro e vulnerabile. Lo abbracciò. Lo strinse forte, fino a quando non lo sentì aggrapparsi completamente a lui con tutto se stesso. Restarono per un tempo indefinito in quella posizione, rilassandosi l'uno con l'altro.
“Sei l’unico che potrebbe”, sussurrò contro il suo orecchio, abbozzando un sorriso. “Ti sei forse dimenticato di avere un talento naturale? Tu hai l’orecchio assoluto: il tuo corpo è come un computer, Blaine. Devi soltanto scegliere il file che vuoi, e questo si leggerà da solo.”
Quando si staccarono, Blaine guardò dritto negli occhi di Sebastian, e ostentavano così tanta sicurezza, così tanta fiducia in lui, che si sentì quasi sopraffatto.
Non poteva abbandonare ora. Doveva andare avanti.
“Sebastian?”
Il ragazzo, incuriosito dal suo tono di voce, inclinò appena la testa.
“Mi...” Si sentiva tanto stupido. “Mi daresti il bacio della buona fortuna?”
Ma poi, sul volto del suo ragazzo comparve un sorriso, e con uno molto simile impresso sulle sue labbra venne baciato con passione.
Ogni volta che baciava Sebastian si sentiva come sollevare da terra. Era troppo intenso. Troppo eccitante. Dopo qualche secondo, furono costretti a staccarsi, assaporando l’uno il sapore dell’altro e continuando a guardarsi con la testa che ancora non aveva smesso di girare.
Sebastian era semplicemente troppo.
“Fagli vedere chi sei, B.”
 
 
Mi, mi, mi, mi, fa, mi, do, mi.

Otto note.
La calma. Il silenzio interposto tra di esse. Il volto di Blaine scuro e fisso sui tasti del pianoforte, la schiena leggermente curva, le labbra ferme, inespressive. Eppure, una leggera inquietudine.
E poi di nuovo le stesse note, ribattute con degli accordi. La mano sinistra che si posa sulla tastiera con delicatezza, elegantemente. Una leggera pressione sul finale: la domanda. Quelle tre note lasciate completamente in sospeso. Sembravano dire: cosa vuoi dirmi, adesso? Cosa sta per succedere?
Un silenzio, prolungato di un paio di secondi.
Infine, la tempesta. Perchè era tagliente come aria gelida. Quella che ti coglie all’improvviso, lambendo la pelle, facendoti sussultare e rabbrividire; era quella consapevolezza di trovarsi completamente inerme mentre una tormenta avanza, cercando di fare del tuo meglio per coprirti, per non rimanere travolti.
Blaine aveva imparato quel brano per l’ammissione al terzo anno; i professori, a quell’epoca, gli avevano detto di essere troppo tenue; i movimenti dovevano essere più bruschi, la mano sinistra più inquietante.
Fu esattamente quello che fece. Era sorpreso di vedere le sue mani quasi sfiorare la tastiera, come se conoscessero quel pezzo a memoria; non lo risuonava da giorni, forse, settimane. Lasciò che il corpo guidasse ogni singola decisione danzando assieme alla musica come una foglia mossa da quel vento, mentre il resto del mondo, semplicemente, gelava.
Wyatt era gelato nell’ascoltare quell’esecuzione. Jodie era pietrificata.
Sebastian fissò entrambi con un enorme sorriso dipinto sul volto, mettendo le mani in tasca e allontanandosi dalle quinte per aspettare Blaine lungo il corridoio, senza nessuna ombra di preoccupazione.
Quando lo vide attraversare l’ala e corregli incontro per abbracciarlo, lo strinse forte a sè accarezzandogli languidamente la schiena, il respiro caldo che lambiva la curva del collo e la sua voce sicura mentre gli diceva che era stato bravissimo, così diversa da quella di Blaine, rotta dall’emozione.
“Grazie”, disse soltanto, e Sebastian ispirò completamente il suo profumo con una strana euforia in corpo. Era sapere di aver fatto qualcosa di buono, di averlo fatto per Blaine.
Forse, teneva a lui più di quanto avesse mai ammesso a se stesso.
Forse, erano più legati di quanto si fossero resi conto.
Per quel motivo non si accorsero dell’andamento della loro esecuzione in coppia, mentre uno accarezzava le corde del violino e l’altro scivolava abilmente sul pianoforte. Dopotutto, avevano passato dodici ore a suonare quel pezzo con pochissime pause ricavate da qualche bacio rubato al volo, o da qualche commento per smorzare la stanchezza e la tensione.
Adesso, Sebastian aveva la fronte leggermente corrucciata; seguiva il suo violino come se dipendesse da lui, e non il contrario. Blaine, invece, giocava con le note accucciandosi nei momenti di piano e sorridendo durante il presto; si guardavano, di tanto in tanto, scambiandosi delle informazioni note a loro due soltanto e regalando a tutti gli spettatori un duetto unico.
Era difficile non notare la chimica che li avvolgeva. Così come era difficile non riconoscere l’immensa bravura, nel momento in cui uno dei giudici si avvicinò all’altro, per dire: “Scommetto che Mozart sta sorridendo da lassù.”
Sicuramente sorrisero Sebastian e Blaine, quando il pubblico – gli altri musicisti - si alzò in piedi non riuscendo a trattenere l’applauso.
 
Tutto ciò che volevano fare, adesso, era uscire da quel posto, trovare finalmente un po’ di solitudine e passare il resto delle ore a festeggiare silenziosamente la loro giornata; silenziosamente, perchè non portava bene esultare prima dell’uscita dei risultati. Tuttavia, nessuno dei due riusciva a trattenere quegli enormi sorrisi mentre si avviavano verso l’uscita con passo sempre più veloce.
Erano quasi arrivati alla porta elettrica quando, giusto qualche metro sulla destra, intravidero una figura leggermente in penombra, ma sicuramente inconfondibile.
Accanto a Wyatt, Jodie era silenziosa e timida, le labbra contratte in una smorfia mentre il ragazzo fece qualche passo verso di loro, incolore.
Il primo pensiero che attraversò la mente di Blaine fu di prendere la mano di Sebastian e impedire che se la rovinasse del tutto con qualche scatto d’ira avventato. Il ragazzo reagì quasi immediatamente: cercò il suo viso come per chiedergli di lasciarlo andare, ma fu del tutto inutile.
“Ma bene.” Wyatt squadrò entrambi con le braccia incrociate al petto. “Vedo che l’eroe ha trovato l’eroina. Lascio scegliere chi dei due è la femmina.”
“Oh no, non potrei mai rubarti la parte”, rispose arcigno Sebastian.
“Sebastian.” Blaine tirò il violinista per un braccio, accompagnandosi con un cenno della testa. “Andiamo via. Non abbiamo niente da dire a queste persone.”
Quella cosa risultò piuttosto inaspettata: i due ragazzi avrebbero continuato volentieri a infamarsi per delle ore. Jodie lo guardò confusa, balbettando con voce flebile: “Ma- ma io...”
“Cosa?” Sebastian strinse ancora di più la mano di Blaine, più per rabbia che per reale bisogno. “Vuoi continuare con la farsa della ragazzina ingenua? Non ti crede più nessuno.”
“Di cosa stai parlando?”
“Di te.” Proferì lui. “Del fatto che hai usato un trucchetto da quattro soldi per cercare di vincere. Ma non potrai mai battere Blaine. Non ne hai le facoltà.”
Però, mentre diceva quelle parole così dure, vide gli occhi della ragazza diventare sempre più grandi. Non sapeva di cosa stesse parlando. Non ne aveva idea.
“Wyatt ti ha dato il mio brano.”
Fu Blaine a dirlo. Il flautista sbuffò sonoramente, come scocciato da quella situazione troppo noiosa per i suoi gusti. Ricevette l’occhiata della sua compagna come se non fosse niente di eclatante.
“Tu... è vero?”
“Certo che è vero.” Rispose Sebastian. “Non hai ancora capito che quell’uomo è soltanto un verme?”
“Smythe, sei-“
“No.” Stavolta fu Jodie a intervenire. Era pallida. “Non dire altro. Io... non posso crederci. Blaine, mi dispiace così tanto... Non sapevo che Wyatt mi avesse dato il tuo brano. Non lo avrei mai suonato, altrimenti."
L’altro pianista, però, fu impassibile. “Non ti devi scusare.” Disse, in un tono che non uscì tanto freddo quanto avesse voluto. “L'ha saputo quando siamo usciti. Gliel'ho detto io, molto ingenuamente.”
“Eri incredibilmente sexy quella sera.”
Sebastian si era già esposto verso di Wyatt con fare alquanto minaccioso, ma in quel preciso momento un membro dello staff subentrò nel loro campo visivo, e in un attimo tutto tornò alla normalità. Non potevano rischiare di venire squalificati per quello; Wyatt fece un inchino esibizionista e teatrale, rivolgendo un ghigno a tutti i presenti, e poi fece la sua uscita in scena con nessun’altra cosa da dire. E con molto piacere di Blaine.
“Spero davvero che non passi alla terza fase.”
“Anche io”, mormorò Sebastian. Ma nel momento in cui avvertì lo sguardo di Jodie fisso su di loro, sviarono lo sguardo sentendosi improvvisamente degli insensibili. Dopotutto, lei non aveva fatto nulla di male.
“Non era rivolto a te”, cercò di discolparsi Blaine, ma la ragazza scosse la testa con un sorriso molto triste.
“No. Avete ragione. Non voglio più suonare con lui. La concertistica non fa per me, adesso l’ho capito fin troppo bene.”
“E cosa pensi di fare?”
Di fronte a quella domanda, Jodie rimase in silenzio per molto tempo, come se sapesse esattamente la risposta da dare, ma non fosse sicura nel dirla.
“Credo che non farò niente.”
“Non puoi non fare niente”, ribattè Sebastian.
“Invece sì. Credo che tornerò a casa. Andrò dai miei. Dimenticherò la musica, almeno per un po’.”
Voleva lasciare il Franz Liszt.
Non si lascia il Franz Liszt. E’ una cosa assolutamente inconcepibile. Una volta intrapresa la strada da musicista, non si può tornare indietro: hai deciso di dedicare la tua vita all’arte, e l’arte ha una sola via d’uscita. Non poteva lasciare tutto, solo per colpa di un incidente di percorso. Lei restava comunque un’allieva del conservatorio.
Avrebbero dovuto dirle tutte quelle cose. Invece, si trovarono di fronte alle scalinate dell’edificio, proprio accanto al motorino, con uno strano peso nel cuore; il sole era coperto da qualche nuvola, e il vento freddo che attraversava le strade scuoteva i pochi alberi e faceva dondolare i fili dei tram e della corrente.
“Mi dispiace per Jodie.”
Blaine fu il primo ad esternare i suoi pensieri. Cercò la mano di Sebastian quasi automaticamente, trovandola nascosta dentro alla tasca del suo giubbotto, per ripararsi dal freddo. Non credeva certo che gli avrebbe risposto: sapeva com’era fatto, non era dotato di molta compassione, soprattutto se la persona in questione fosse la partner di Wyatt.
Ma poi Sebastian fissò le porte vetri del Concert Hall, dalla quale erano usciti, giusto qualche secondo dopo di lei.
“Sai, alla fine è merito suo se ieri sono venuto da te.”
Il cuore di Blaine accelerò di colpo di fronte a quell’affermazione. Ad un tratto, pensò a come sarebbe stato suonare con una persona di cui non riuscisse a fidarsi, che pensava solo a se stessa, che si rivelava essere meschina e falsa.
Non era una bella immagine.
“Non aveva nessun guadagno a chiamarmi e spiegarmi la situazione. Ma l’ha fatto.”
Si sentì ancora più amareggiato. Abbracciò la schiena calda di Sebastian, lasciandogli un piccolo bacio alla base dei capelli e beandosi di quel piccolo contatto per tutto il tempo necessario.
“Dobbiamo fare qualcosa.”
Lo disse con uno slancio di emotività, ma in realtà non ne aveva la più pallida idea.
“Sì. Troveremo un modo.” Sebastian si voltò appena per rivolgergli un piccolo sorriso, e in quel momento Blaine ne approfittò per dargli un bacio sulla guancia, che però non risultò abbastanza: dopo un secondo, si trovò stretto tra le sue braccia, mentre lui era intento a contemplare ogni singolo centimetro del suo volto, passando dalle labbra, alla mascella, al collo, e poi tornando su verso le palpebre.
Era così strano: era come se non fosse cambiato nulla, nel loro rapporto: continuavano a prendersi in giro, a sostenersi a vicenda, a pensare alle stesse cose nello stesso preciso momento. Ma poi, c’erano quei momenti in cui i baci sembravano non finire più, e nessuno aveva voglia o intenzione di staccarsi dall’altro.
Era come aver scoperto qualcosa di incredibilmente semplice e speciale. Erano stati così stupidi, ad aver aspettato tutto quel tempo.
 
 
 
Quando Robert arrivò nel suo ufficio, il giorno dopo, aspettava la coppia di musicisti trionfanti che lo avrebbero dell’assenza e, allo stesso tempo, vantando le loro lodi senza nemmeno un pizzico di modestia. Sebastian, sicuramente, lo avrebbe fatto; di Blaine non era molto sicuro. A giudicare dalla telefonata della sera prima, comunque, erano stati molto bravi. Non aveva fatto altro che pensare a loro, al loro duetto, al fatto che Blaine avesse cambiato brano all’improvviso. Avrebbe voluto trovarsi lì e aiutarlo a ragionare, perchè sicuramente suonare un brano non praticato da giorni era mille volte peggio che suonare lo stesso brano di una collega. Sospirò contro la porta ormai aperta, perchè Sebastian e Blaine, a volte, erano davvero avventati. Ma era anche una delle cose di loro che apprezzava di più.
Tuttavia, prima di concentrarsi sulle cose positive, aveva una piccola questione in sospeso da sistemare.
Jodie Cartwright si presentò alla sua porta esattamente qualche minuto dopo. Aveva i capelli raccolti da una coda, reggeva uno scatolone pieno di scartoffie e spartiti. Il professore sperava in una sua visita: era un’allieva preziosa dei suoi corsi, di cui nutriva profonda stima. Dopo quello che aveva saputo dai ragazzi, non vedeva l’ora di prenderla in disparte e fare una bella chiacchierata.
“Professore, mi cercava?”, Sussurrò lei. Aveva sempre questa delicatezza quasi innaturale, che le conferiva un’aria dolce e sensibile; in quel momento, però, era abbattuta. Sembrava non avesse chiuso minimamente occhio.
“In realtà, mi è stato riferito che vuoi lasciare il conservatorio."
“Io... sí, ho deciso di abbandonare gli studi. A proposito... volevo ringraziarla, ecco. Per... per l’insegnamento.”
Anche quello, riusciva a immaginarselo. Wyatt si era dimostrata essere la persona meno adatta per accompagnarla nella musica; un errore al quale avrebbe potuto riparare, se solo si fossero decisi a provare insieme a lui. Ad ogni modo, era troppo tardi, e adesso doveva gestire un palese calo di autostima e autoaffermazione.
“Chiudi la porta. Sei all’ultimo anno, vero? Quanti esami ti mancano?”
“...Tre”, rispose, facendo quanto ordinato e spostandosi di un solo passo dall’architrave massiccia.
“Oh mia cara, sarebbe un vero peccato abbandonare a questo punto.”
“Ma io non posso restare.”
Lo disse con talmente tanta convinzione che il professore si sentì fiero del suo orgoglio; era una vera musicista, una di quelle che non accettava la slealtà e le ingiustizie.
“Un incidente di percorso non fa di te una pessima studentessa. Anzi. Ti reputo una delle migliori.”
Jodie sorrise, un po' lusingata, anche se è del tutto inutile. Fino a quando non lo sentì dire: “Per questo ti offro di diventare mia assistente, dopo il diploma.”
Rimase assolutamente esterrefatta.
“I-io? Ma-ma perchè?! N-non sono la migliore del corso, non sono nemmeno così eccezionalmente dotata...”
“Lo so.”
“...Ah.” Quel professore non aveva davvero mezze misure.
“Ma sei leale.”, aggiunse, con un sorriso paterno. “Sei gentile. Ami quello che fai, e lo fai solo per te stessa. Ami la mia materia: lo vedo chiaramente, ogni volta che spiego, o ogni volta che sostieni un esame. Tra qualche anno io andrò in pensione, e avevo proprio paura che la mia cattedra passasse in mano di qualche raccomandato opportunista. Se tu decidessi di continuare il tuo percorso in questa facoltà, sappi che ti accoglierei volentieri.”
Era più di quanto avesse sperato. Era più di quanto meritasse, sicuramente. Jodie scoppiò a piangere senza nemmeno rendersene conto, e il professore si lasciò andare a una piccola risata mentre le dava un paio di pacche sulla spalla.
“Su su. Se mia moglie sapesse che ho fatto piangere una signorina, non mi parlerebbe per una settimana.”
“Io-io la ringrazio...” bisbigliò lei, contenendo le lacrime, “Ma... non me la sento di stare qui. Sono stata una vigliacca e mi odieranno tutti e-“
“Quasi tutti.”
Jodie, allora, lo fissò ancora più confusa, mentre lui afferrava dalla tracolla un piccolo plico, perfettamente sigillato. Aveva l’aria di essere un documento molto importante.
“Non ero venuto qui solo per parlarti. Mi è stato dato questa mattina da un ragazzo. Diciamo, un ammiratore piuttosto facoltoso. E' destinato a te.”
“A me?”  Lo afferrò non riuscendo a contenere il tremore delle sue mani.
Uno spartito. Uno spartito autentico. Riusciva a leggere la calligrafia del compositore, scritta a chiare lettere in un angolo del foglio: Edvard Grieg.
Uno spartito autentico di Edvard Grieg.
“Oh Dio.”
Robert, completamente compiaciuto, le porse il piccolo bigliettino che era allegato alla busta:
 
Nessuno recita un ruolo, qui. Si crea dell'arte, e se ne gode.
Franz Liszt
 
La frase del compositore a cui era dedicata il conservatorio era più di quanto potesse psicologicamente sostenere. Dopo aver esaurito tutte le sue lacrime e aver ricevuto un abbraccio di conforto dal professore, continuò a ringraziare, a dire di essere rimasta senza parole, a non riuscire ancora a crederci.
 
 
Da dietro la porta, Sebastian e Blaine si allontanarono il necessario per scambiarsi un sorriso divertito e, allo stesso tempo, risollevato. Sarebbero passati più tardi dal professore.
“Sono felice per lei.”
“Anche io. Non era colpa sua se stava con un cazzone.”
Blaine camminò a fianco di Sebastian, con le mani che stringevano la tracolla e gli occhi raggianti di buon umore.
“Già.” Continuò lui, “Certo che il professor Cage è stato proprio gentile. Prima la cattedra, poi quello spartito...”
“Spartito?”
“Certo.” Portò una mano a mezz’aria, facendole fare un giro convesso e lascivo: “Credi davvero che lo abbia ricevuto da qualche studente come voleva farci credere lui? Quello è uno spartito autentico. E' introvabile. E costerà milioni di dollari! Chissà cosa gli è saltato in mente, regalarlo così. Deve averne tantissimi.”
“... Giusto. Certamente”, sentì rispondere dal suo ragazzo, dopo aver fatto una breve pausa. Blaine si avvicinò ancora di più a lui e lasciò che gli cingesse la vita con un braccio.
“Beata lei.” Sospirò, sognante. “Anche io vorrei un ammiratore piuttosto facoltoso. Senza offesa, Sebastian.”
“Oh, no, nessuna offesa.”
Continuando a camminare lungo il corridoio, Sebastian si abbassò un poco per lasciargli un tenero bacio sui capelli fortunatamente liberi dal gel. L’aveva fatto un po’ per voglia, un po’ per nascondere quel piccolo sorriso nato tra le sue labbra.








***


Angolo di Fra


Buona Seblaine Sunday!
Se volete ascoltare i brani, vi ho lasciato i link. Sono davvero molto belli. Poi vabè, nel senso, non è che ho linkato esecuzioni di tizi a caso, la Hahn e Pollini... ahah! Blaine e Sebastian sono due fenomeni. A proposito: ci tengo a ricordare che questa è una storia romanzata... ovviamente non è possibile preparare brani simili in un mese, o cambiarlo all'improvviso. Ma in realtà credo che questo genere di concorso sia impossibile nella realtà xD
Ma non pensiamo ai tecnicismi, godiamoci un po' di Seblaine che Grant e suo padre la shippano pure.
Un bacione e grazie a tutti per la lettura e le recensioni :)

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***





Capitolo 21


 


"Vi scrivo senza sapere quello che la mia penna farfuglia perchè Liszt suona in questo momento i miei studi e mi trasporta fuori dalle mie oneste idee. Vorrei rubargli la sua maniera di rendere propri i miei studi".
Chopin in una lettera a Ferdinand Hiller.



 

 
Il Franz Liszt quella mattina era stranamente silenzioso.
La maggior parte degli studenti, per via del week-end lungo, erano tornati a casa, concedendosi una piccola pausa da quella vita stressante e completamente dedita alla musica; era il periodo in cui si studiava di meno, si tornava a lezione con la pancia più piena e le mani meno allenate, rischiando anche di prendersi una bella tendinite se uno riprendeva a suonare subito.
Per molti, insomma, erano delle amate e meritate vacanze. Ma per alcuni non era così.
“Spiegami esattamente perchè siamo le uniche sfigate a dover andare a lezione per il week-end.”
Amanda sbuffò al commento dell’amica, spostandosi svogliatamente un ciuffo dagli occhi e incrociando le gambe di scatto, seduta sulla scalinata del conservatorio.
“Perchè siamo delle schiappe e dobbiamo assolutamente studiare per passare l’appello intermedio”, le ricordò lei.
“Oh.” Sarah arricciò le labbra, seduta proprio accanto a lei; portò una mano sotto al mento e piagnucolò: “Che noia. Dovevamo studiare di più.”
“Intendevi dire: dovevamo uscire di meno.”
“E guardare meno telefilm.”
“E mangiare meno Nutella.”
“Che c’entra la Nutella adesso?”
Si rivolsero uno sguardo complice, abbattuto ma fiducioso allo stesso tempo, perchè erano amiche, erano insieme anche in quella battaglia, e non avrebbero ceduto di fronte a niente o nessuno.
“C’entra sempre la Nutella.”
“Oh, giusto.” Commentò l’altra, e dopo essere scoppiate entrambe a ridere, si diedero il cinque facendo aderire perfettamente le loro dita lunghe e allenate, da pianiste, con smalto trasparente e unghie inesistenti.
Dopo una breve pausa Sarah si rivolse di nuovo all’amica con un tono di voce leggermente malinconico: “Certo che ne è passato di tempo, eh?”
“Eh sì”, mormorò, osservando una New York paradossalmente calma, rispetto ai soliti standard. “Siamo diventate più mature, non credi?”
“Assolutamente sì. Se ripenso al primo giorno di lezione, eravamo due ragazzine con gli ormoni a mille e una cultura musicale che si limitava a Elton John e Lady Gaga!”
“Meglio non dirlo al professor Cage. Potrebbe bocciarci per questo.”
“Tanto ci boccierà comunque, perchè faremo schifo con il pianoforte.”
All’unisono, si lasciarono andare a un triste sospiro.
“Sai”, esordì Amanda, “Vorrei essere come Blaine.”
“Intendi bello, dolce, affascinante e sexy?”
“... Anche quello”, commentò, “Però soprattutto bravo.”
“Ah. Giusto.”
Quel ragazzo era stato il loro idolo dal primo giorno che si erano conosciuti; loro erano alle prese con la traduzione degli appunti scritti a mano di un professore, rischiando seriamente di perderci la testa, e lui si era gentilmente offerto di darle i suoi, già trascritti e perfettamente ordinati. I suoi occhi simili al caramello, il suo sorriso gentile, avevano fatto colpo sin da subito.
Ad una seconda occhiata, fu inevitabile accorgersi che non avrebbero mai avuto una chance: il suo farfallino millerighe e la sua polo aderente parlavano da sole.
Però, da quel giorno, non avevano mai smesso di essere amici, e loro due non avevano mai smesso segretamente di adorarlo.
“Chissà com’è andato il concorso”, pensò ad alta voce Amanda, dopo quella breve riflessione che le fece spuntare anche un sorriso. “Sono passati due giorni, e i risultati non sono ancora usciti...”
“Saranno andati sicuramente bene. Insomma, sono Sebastian e Blaine.”
“Lo so!” Si voltò verso di lei quasi esagitata: “Ma ultimamente non andavano molto d’accordo, l’hai visto anche tu. Chissà se hanno fatto pace...”
“Chissà...” le fece eco l’altra ragazza, con una smorfia triste e gli occhi rivolti al terreno. “Comunque, sarebbero stati proprio una bella coppia.”
“Smettila di sognare Sarah. Lo sai che non si metteranno mai insieme.”
“Che peccato.”
“Un vero peccato.”
"Ma ti immagini dei figli fatti da loro? Sarebbero da decretare patrimonio nazionale. Come le foreste, e le calotte polari."
“Mi offrirei come madre surrogata.” Mormorò sognante, seguita a ruota da Amanda che disse: “Io voglio fare la madrina!”
“Madrina? Chi si sposa?”
Sebastian era esattamente a un metro da loro, con le mani dentro le tasche del suo giubbotto chiaro e i capelli scompigliati dal vento, un’espressione ancora assonnata e scura. Non riuscivano proprio a capire come diavolo facesse a essere così stupendo anche di prima mattina, con dei semplici jeans e delle enormi borse sotto i suoi occhi verdi; forse, era la prova vivente che chi è bello, lo è sempre. E loro che passavano tre ore a prepararsi davanti allo specchio, solo per risultare quanto meno guardabili e non far provocare conati di vomito a tutti i loro colleghi.
Sussultaorno contemporaneamente, avvampando come se fossero state colte in flagrante a parlare di qualche argomento osè, e si strinsero l’una all’altra come una spontanea reazione involontaria.
“S-Sebastian! Ci... ci hai sorprese.”
“Ho notato”, commentò lui, con un sorrisetto. Sorrisetto assolutamente illegale. Non erano pronte a delle fucilate simili, non avevano ancora preso il secondo caffè: era proprio difficile frequentare quella scuola. E Sebastian, ovviamente, era perfettamente consapevole dell’effetto che provocava sulle due ragazze, e così decise di punzecchiarle giusto un altro po’; dopotutto, aveva appuntamento con Blaine alle scale e, conoscendolo, sarebbe arrivato tardi.
Così, si mise a chiacchierare del più e del meno con quelle California Girls non tralasciando nessuna occasione per lanciare uno sguardo particolarmente pungente, o una frase che le facesse accaponare la pelle. E se loro, da un lato, erano abituate a conversare con Blaine, non erano assolutamente preparate alle risposte ciniche di Sebatian, nè ai suoi sorrisi smaliziati.
Erano passati dai tipici commenti sui professori e le lezioni al concorso.
“Tu e Blaine siete così bravi!”
“Grazie biondina”, Sebastian le fece un piccolo cenno con la testa, in segno di ringraziamento.
“Davvero”, intervenne Amanda, “Era bellissimo quando facevate le prove aperte. Venivamo sempre a sentirvi.”
“Ah, sì, ricordo.” Il ragazzo si passò una mano trai capelli, come immergendosi in ricordi che solo lui poteva conoscere, dall’aspetto complicato, ma piacevole. Con l’altra mano, controllò l’ora con il suo orologio da polso. Sarah osservò la scena non riuscendo a trattenere la curiosità: “Aspetti qualcuno?”
“Starei aspettando Blaine, in realtà.” Nel momento in cui pronunciò quel nome, il cuore delle due ragazze cominciò a battere all’impazzata, come dei cannoni sparati a volontà. Il modo con cui l’aveva pronunciato era stato così affabile, così intimo, che le due si trovarono a sospirare provocando delle piccole nuvolette di aria condensata.
E fu allora che avvenne: Amanda si lasciò scappare quella frase prima ancora che le sue mani potessero raggiungere la bocca per tapparla.
“Siete così carini insieme...”
“Amanda, l’hai detto ad alta voce!”
“Oh no!”
“Invece sì!”
Sarah si coprì il volto con le mani perchè non riusciva a guardare la reazione del violinista, sicuramente sconvolta, avvilita, arrabbiata e, magari, anche un po’ delusa: adesso sì che erano sembrate delle sottospecie di stalker con fantasie assurde e inaccettabili.
Passarono cinque secondi. Poi dieci. Alla fine, entrambe riaprirono gli occhi nello stesso momento, e Sebastian stava... sorridendo. Non era un ghigno. E nemmeno una mezza smorfia.
Stava per dire qualcosa, ma venne chiamato a gran voce da una persona dietro di lui, che correva con un casco in una mano e un pacchetto di pretzel nell’altra.
“Lo so, Sebastian.” Blaine si fermò a mezzo metro da lui, con il respiro pesante e un’espressione leggermente imbarazzata: “Che palle Blaine ma perchè non bruci quel gel e impari ad arrivare puntuale”, bofonchiò con una pessima imitazione della voce di Sebastian, che, però, riuscì quanto meno a farlo divertire.
“Ma vicino a casa mia ha aperto un nuovo forno e Brittany voleva andarci... ok, in realtà io volevo andarci, e convincere Brittany è stato un gioco da ragazzi, le ho detto che la polvere che mettevano sui pretzel era magica. Non è magica.”
Sebastian inarcò un sopracciglio: “Ma non mi dire.”
“Già.” Blaine ne mangiò uno, dopo averlo afferrato dal pacchetto senza troppe cerimonie: “In realtà è sale grosso. Ma non glielo dire.”
“Oh, Blaine. Quando lo verrà a sapere le si spezzerà il cuore.”
“Non glielo dire!” Ribattè lui, peggio di un bambino, e in quel momento l’altro ragazzo annullò completamente la distanza che li divideva, cingendogli la vita con le braccia e attirandolo a sè.
Amanda e Sarah erano incredule. Fissavano la scena inermi, come spettatori innocenti.
Non riuscivano a crederci.
“Comunque questi sono i pretzel più buoni che abbia mai mangiato.” Bofonchiò Blaine, addentandone un altro nel momento esatto in cui Sebastian domandò: “Ah sì? Fai assaggiare.”
Fece per porgergli la busta, ma Sebastian, invece, optò per quello che teneva tra le labbra, staccandone un pezzo coi denti e indugiando per qualche secondo a un centimetro da lui, facendo sfiorare le loro bocche. Dopo aver ingoiato in un sol boccone, si passò la lingua sulle labbra leggermente salate, di fronte a un Blaine che adesso lo stava osservando a metà tra l’imbarazzato e il su di giri.
"... Potevi anche prendere quelli nella busta, eh."
“Mhm...” Esitò attraverso un breve mormorìo, prima di rispondere “No, mi piacciono di più quando hanno il sapore delle tue labbra.”
 
“Amanda.”
“Sarah.”
Si presero per mano.
“Il Natale è arrivato in anticipo quest’anno.”
 
 
Fare l’insegnante è un lavoro molto duro.
Non solo si passa la maggior parte della vita a condividere i propri anni di fatica e studio con ragazzi che, invece, sono tutto fuorchè studiosi, ma spesso non si riceve nemmeno quella briciola di soddisfazione che ti porta ad andare avanti.
Robert lo sapeva bene, visti i suoi anni da professore e, ancora prima, quelli da studente; l’ambito musicale, inoltre, era particolarmente competitivo, ed erano tutti troppo presi dalla propria ispirazione o dai propri sogni irrealizzabili per ricordarsi di quel povero uomo che aveva reso possibile tutto ciò.
In realtà non se ne dispiaceva più di tanto: solo, era sempre una grande sorpresa quando avveniva il contrario.
Si stava dirigendo al suo amato ufficio, quando venne afferrato da entrambi gli avambracci trovandosi affiancato improvvisamente a Blaine e Sebastian.
“Vi serve qualcosa? I risultati non sono ancora usciti, lo sapete.” Li fissò sprezzante, passando da uno all’altro, non molto convinto dai loro sorrisetti nè, tantomeno, da quella sorta di pressione che stavano esercitando sul suo corpo per spingerlo ad andare dove volessero loro.
“In realtà sì.” Rispose Sebastian, facendogli un occhiolino e bloccandolo prima che riuscisse a svoltare l’angolo del corridoio: “Stavamo giusto cercando lei.”
Il professore era ancora più insicuro: “Spero che non sia uno di quelle cose che ti ritrovi in una stanza chiusa a chiave, assieme a una tigre e a una telecamera che manda il video su... come si chiama quel sito dell’idraulica, Blaine?”
“... Youtube?”
“Sì, ecco. Non vi azzardate.”
E Blaine considerò l’idea di spiegargli che Youtube non fosse esattamente un sito di idraulica fai-da-te, ma in fondo, chi era lui per smontare le idee di un ingenuo signore?
“E vi ricordo”, bofonchiò ancora Robert, con tono austero, “Che ho combattuto una guerra. Riesco ancora a maneggiare un M16 come se fossero le corde di un’arpa.”
Blaine e Sebsatian si scambiarono un’occhiata da sopra le sue spalle, con dei sorrisi che arrivavano fino alle guance. Decisamente, adoravano quel professore.
“Dovremmo preoccuparci?”
“Oh, io sono terrorizzato.”
“Irrispettosi.” Robert scosse la testa, mentre venne –nemmeno troppo gentilmente- condotto fino alla sala prove. La stanza piena di strumenti e spartiti sembrava un po’ più luminosa, come se si fosse completamente liberata di un velo scuro e opprimente.
“Siete proprio degli irrispettosi. Ai miei tempi si tendeva a rispettare le persone più grandi!”
“Ma così si sta dando del vecchio da solo”, gli fece notare Sebastian, e dopo essersi guadagnato un mormorio di disapprovazione chiuse la porta dietro di loro, mentre Blaine faceva sedere l’uomo su una sedia esattamente a metà tra il pianoforte e un leggio.
Era una scena che avevano ripetuto milioni di volte. Eppure, era tutto un po’ diverso: Robert si guardò intorno, un po’ confuso, con gli occhiali sottili che rischiarono di scivolargli via dal naso mentre la testa si muoveva a destra e a manca.
“Che succede?”
“Prof, si rilassi.” Sebastian li raggiunse con due ampie falcate, le mani in tasca e un’espressione sprezzante.
“Ma io sono rilassato, è solo che non capisco cos-“
“Volevamo solo dedicarle un’esecuzione.”
La frase detta da Blaine, così spontanea, così entusiasta, bastò a farlo trasalire. Si limitò a fissare quei due ragazzi che, adesso, sembravano pienamente soddisfatti della loro idea.
“Sono stati dei mesi difficili”, continuò il pianista, ammorbidendo il tono di voce nel momento in cui i suoi occhi ambrati incrociarono quelli vivaci di Sebastian. “Ci rendiamo conto che noi le abbiamo causato molti problemi...”
“Non mettermi in mezzo, sei tu quello che non riusciva mai ad andare a temp-“ Si interruppe di colpo; un’occhiata omicida fu sufficiente a farlo ammutolire.
“Quello che Sebastian voleva dire...” Mormorò Blaine, voltandosi di nuovo verso il professore: “E’ che non ce l’avremmo mai fatta senza di lei. Quindi, ecco, grazie.”
A volte, è la sorpresa di ricevere qualcosa di completamente inaspettato, che ti fa ricordare esattamente il motivo per cui hai intrapreso quella vita.
E se il professore cominciava già a sentirsi un po’ a disagio, per quelle frasi dolci e un po’ imbarazzate, il suo contenimento cedette del tutto quando gli giunse il suono di una musica dal sapore dolceamaro, malinconico, eppure, con un pizzico di serenità. Dava l’idea di calore, di unione, di famiglia e completezza. Di un uomo che era arrivato alla fine del suo viaggio, ma era stato un viaggio ricco di tappe, buche, salite, discese e scossoni.
Il passato accettato con la saggezza che soltanto l’esperienza può dare.
Una gratitudine, che soltanto un maestro può ricevere.
Quando quei pochi minuti di musica terminarono, Blaine e Sebastian restarono piuttosto sorpresi dalla reazione del professore, visto che si aspettavano una cosa piuttosto composta, trattenuta, qualche colpo di tosse, magari, e poi dei commenti volti alla parte tecnica del brano.
Invece, un po’ sbadato, e un po’ timido, il professore si stava asciugando gli occhialini con un lembo della giacca, cercando in tutti i modi di non far vedere i suoi occhi lucidi e arrossati, nè di far sentire quanto spezzata fosse la sua voce.
“Siete. Uhm. Siete migliorati molto.”
E l’emozione del arrivò così inaspettata, così intensa, che colpì anche Blaine, come una ventata in pieno giorno: vedere il professore così felice, così fiero di se stesso, fece vacillare anche il suo stato d’animo, cominciando a fare profondi respiri per trattenere quelle lacrime nate all’angolo degli occhi. Gli aveva insegnato così tanto, e non soltanto dal punto di vista pratico.
“Aha. Certo. Vi scoccia se prendo un caffè intanto finite di piangere?”
“Ma piantala tu.” Protestò, con una smorfia scettica: sapeva bene che fosse contento quanto loro di quella cosa. Dopotutto era stata proprio lui a proporla, durante il viaggio di ritorno a casa.
“No davvero, non voglio disturbare.”
Blaine si alzò dal pianoforte con l’intenzione di punzecchiare Sebastian con una gomitata, o un pugno sullo stomaco, ma quando si avvicinò a lui venne bloccato saldamente per i polsi, e finì esattamente tra le sue braccia senza ulteriore preavviso. Fece per divincolarsi, per staccarsi da lui così da poter riprendere il loro battibecco un po’ scherzoso, ma Sebastian era di un’altra idea: lo strinse ancora di più, come immergendosi in quell’abbraccio, affondando il viso trai suoi riccioli e respirando piano, per non fare rumore. Sentì le sue dita affusolate scivolare lungo la schiena, e poi, restarono in silenzio. Perchè nessuno dei due sapeva esprimere bene quello che stavano provando.
Si staccarono con un piccolo sorriso dipinto sul volto, e con la consapevolezza che avrebbero rimandato quelle effusioni a più tardi perchè, dopo ore di insistenza e minacce, Blaine aveva convinto Sebastian a fare un’uscita a quattro con Brittany e Santana, a patto di passare prima qualche ora da soli.
 
 
 
Sebastian si presentò a casa di Blaine alle cinque in punto; era un uomo di parola, lui, se diceva un’ora doveva essere quella e non ammetteva giustificazioni. Si era preparato con molta calma, passando anche da Louis per assaggiare quei cornetti nuovi di cui gli aveva parlato, e adesso tamburellava le dita contro un braccio aspettando pazientemente che qualcuno gli aprisse la porta.
Aspettare. Che brutta parola.
E dal momento che Brittany era fuori con Santana – la sua coinquilina era uscita all’ora di pranzo e non si era più fatta vedere -, attese Blaine.
“Sebastian!” Esclamò, con il fiato corto per la probabile corsa. I suoi pantaloni scuri e aderenti erano ancora sbottonati, così come la camicia e il farfallino che stava reggendo con una mano. Sebastian detestava i ritardi, detestò vedere Blaine ben lungi dall’essere pronto per uscire. Tuttavia, un piccolo pensiero gli offuscò per un attimo la mente, facendolo deglutire piano.
Blaine era sexy. Ma davvero, davvero sexy. E, forse, la cosa più sexy di lui era che nemmeno se ne rendesse contno.
“Sei...” Si fermò un momento per osservare l’orologio da polso, “Sei in anticipo.”
“Sono puntuale.” Precisò lui, e senza aspettare un invito ufficiale entrò in casa guardandolo male e cominciando a sfilarsi la sciarpa. Tanto lo sapeva che avrebbero passato quanto meno un’altra mezz’ora in casa, perchè Blaine doveva finire di prepararsi.
“Avevamo detto le cinque?” Balbettò Blaine, un po’ confuso, ma non aveva per niente l’aria di sentirsi in colpa: “Non le cinque e mezza?”
“No. Ma forse il tuo cervello aveva già messo in conto la tua tipica mezz’ora di ritardo.”
Blaine ci pensò un attimo, mentre chiudeva la porta con delicatezza. “Uhm. Può darsi.”
Nemmeno si vergognava ad ammetterlo. Era impossibile.
“Insomma stavolta che scusa hai? Sentiamo.”
Il ragazzo fece una piccola smorfia di fronte al tono accusatorio di Sebastian, ma senza battere ciglio lo prese per mano conducendolo fino in camera da letto, ignorando il fatto che dovesse ancora togliersi il cappotto o che la sciarpa fosse rimasta abbandonata maldestramente sull’attaccapanni.
La mente di Sebastian viaggiò a ottomila giri: Blaine in disordine. Camera da letto. Evidente impazienza. Dopotutto non era una cattiva idea fare un po’ di ritardo.
Avevano raggiunto l’ingresso della camera da nemmeno un secondo: Sebastian lo bloccò contro lo stipite della porta cominciando a baciarlo languido e sensuale, facendo rabbrividire Blaine sotto di lui, mentre tentava di recuperare fiato e dire qualcosa.
“Sebastian...” sussurrò, e il modo con cui pronunciò il suo nome fu davvero deleterio per la concentrazione dell’altro. Blaine era così: riusciva a essere irresistibile con niente. Riusciva a fargli perdere il controllo di se stesso e dimenticarsi di tutto il resto del mondo.
“A-aspetta.”
Lo sentì allontanarsi, provocandogli un groppo all’altezza dello stomaco e sentendolo sfuggire dalla sua presa. Quando riaprì gli occhi, come tornando con i piedi per terra, Blaine era a mezzo metro da lui che gli indicava qualcosa di batuffoloso e a chiazze appollaiato in cima all’armadio.
“Ecco il motivo per cui sono in ritardo.”
“... Il gatto?” Dedusse lui.
“Non riesco a tirarlo giù. Se Brittany lo scopre si ammazza. E’ fissata che Lord Tumbington abbia dei seri problemi di vertigini che lo rendono paralitico dalla coda alla pancia.”
Sebastian metabolizzò quelle parole con molta attenzione. Per poi poterlo finalmente fissare allibito.
“Ci metto solo un secondo.” Detto quello, Blaine gli diede completamente le spalle, focalizzandosi su Lord Tumbington e cominciando a chiamaro con un tono di voce morbido e caritatevole.
Ma il gatto non voleva sentire ragioni.
E Sebastian stava per perdere la pazienza, mollare lui e quello stupido padrone e andare a farsi una passeggiata per contro proprio, ma poi si accorse di una cosa. I suoi occhi si spalancarono, mentre la smorfia dipinta sul viso si tramutava sempre più velocemente in un sorriso e la sua mente viaggiava verso scenari sempre più variegati.
Bisognava sempre vedere il lato positivo delle cose, no?
Ecco, parlando di lati: Blaine aveva un lato B davvero eccezionale. E in quel momento Sebastian aveva modo di ammirarlo completamente.
“Non è possibile”, borbottò Blaine trai denti, in un ultimo tentativo di mettersi sulle punte per raggiungere il felino con una mano, “Accidenti a questi armadi, li fanno sempre troppo alti. E Sebastian, ti giuro che se ti azzardi a dire qualcosa tipo ‘ma guarda che sei tu quello basso’ ti prendo a calci fino alla porta di casa.”
“Eh? Sì, ok, bene.”
Ovviamente non aveva ascoltato nemmeno una parola di quello che stava dicendo. E di solito era piuttosto attento quando parlava Blaine, ma insomma, adesso aveva cose più importanti da fare. Tipo immaginare tutte le cose che poteva finalmente fare a lui e a quello splendido corpo che si ritrovava. Adesso poteva pensarlo senza sentirsi in colpa o stupido: perchè poteva. Un brivido di eccitazione gli corse lungo tutta la schiena, nel ricordare che Blaine fosse finalmente suo.
Dopo un tempo incalcolabile in cui continuò a parlare e a lamentarsi contro quel gatto, che in risposta sembrava completamente appisolato ignorando tutto l’universo circostante, Blaine si voltò.
E arrossì di colpo nel vedere come Sebastian lo stesse letteralmente spogliando con gli occhi.
“I-io... no-non è che mi daresti una mano?”
“Sì.”
“Dovresti... ehm... vedi se riesci a prendere il gatto e...”
“Sì.” Disse di nuovo, e ogni singola parte di lui gridava lussuria; ma mise da parte quei piccoli sentimenti, per avvicinarsi a Blaine in modo lento e vagamente sensuale. Gli rivolse un’ultima occhiata intensa, con i suoi occhi che adesso erano scuri dal piacere, e poi allungò le braccia per afferrare quel gatto grasso e strano, il quale lo seguì senza opporre la minima resistenza. Addirittura, si accoccolò contro il suo petto, cominciando a strusciarsi e a fare le fusa.
“Non ci posso credere.” Blaine fissò la scena come se stesse assistendo a uno spettacolo di magia, anche se non molto gradito.
“Cosa?”
“Ovviamente”, commentò cinico, “La palla di pelo ti ama. Mi sembra giusto."
"Arrenditi Blaine, il mio fascino è irresistibile perfino ai felini."
Ma Blaine sembrava troppo immerso nei suoi pensieri per badare alla inesistente modestia di Sebastian: abbandonò le mani lungo i fianchi, emettendo un sospiro esasperato: “Brittany ha ragione.”
“Brittany?” Lord Tumbington passò tutta la sua coda lungo il suo collo, facendogli il solletico e provocando una piccola risata.
“Quel gatto mi odia”, puntualizzò Blaine, “E invece guarda come ci sta provando con te. Brittany lo aveva detto.”
“Blaine, non ti sto seguendo.”
“Vuole farmi ingelosire.”
Sebastian rischiò seriamente di perdere un arto. O una mascella. O un’altra parte del corpo. Dal momento che non poteva scoppiare a ridere in faccia al suo ragazzo, si limitò a serrare le labbra restando in silenzio.
“Non attacca, palla di pelo”, sentenziò Blaine contro il muso di quel gatto che, in risposta, tentò di dargli una zampata per scacciarlo via. Sgusciò via dalle braccia di Sebastian con portamento nobile e coda all’insù, dirigendosi verso la sua culla e giocare con qualche topo di pezza.
Finalmente soli, si guardarono. Ma avevano perso gran parte della tensione accumulata prima.
“Tu passi troppo tempo con Brittany.”
Blaine gli lasciò un piccolo bacio a fior di labbra, e poi si diresse in bagno con un sorrisetto divertito.
 
Sebastian sprofondò sul letto, fissando il soffitto bianco e cercando di rassegnarsi all’idea di dover aspettare delle ore, prima di riuscire a rivedere il proprio ragazzo spuntare fuori da quella porta. Chissà, forse, sarebbero riusciti ad arrivare in orario per l’appuntamento con Santana e Brittany.
Con sua grande sorpresa, invece, ricomparve solo qualche minuto dopo, intento a stringersi al polso i lacci di un braccialetto di cuoio, e lo vide sdraiarsi di schiena sul letto, cominciando ad armeggiare con i pantaloni.
Sebastian non sapeva davvero a cosa pensare. Perchè la sua mente gli stava suggerendo una cosa, ma no, Blaine sembrava troppo rilassato, calmo e, soprattutto, disattento, affinchè fosse la risposta giusta. Così, un po’ impaurito di voler sapere davvero cosa stesse facendo, si sollevò con un gomito e glielo chiese.
Blaine si voltò di scatto con le guance scarlatte dall’imbarazzo e la voce leggermente stridula: “Che c’è? Questi pantaloni sono troppo stretti e con troppi bottoni. Devo sempre sdraiarmi per allacciarmeli.”
No. Davvero.
Sebastian si spalmò una mano sulla fronte. Non solo aveva un ragazzo idiota, ma aveva un ragazzo idiota che non si rendeva minimamente conto dell’effetto che poteva fare alle persone. Soprattutto a lui.
Ma in quel momento, decise che non avrebbe più sopportato oltre.
“Lascia che ti dia una mano”, sussurrò lascivo, mentre si sporgeva verso di lui cercando le sue labbra per un bacio, e le sue mani che vagarono dal petto lungo i fianchi.
Blaine stava per ringraziarlo, ma qualsiasi tipo di parola gli morì in gola nel momento in cui il bacio diventò molto più profondo e passionale, con Sebastian che adesso era completamente sopra di lui, intento a sbottonare quel paio di bottoni che era riuscito ad allacciare con fatica.
Devi allacciare i pantaloni, non sfilarmeli, pensò Blaine. Ma la sua mente, ormai, era in corto circuito.
Sarebbe stato molto, molto facile lasciarsi andare a quelle carezze e abbandonarsi del tutto al corpo di Sebastian premuto contro il suo. Era tutto ciò che voleva e anche lui, a giudicare da come lo stava baciando, succhiando un punto particolare del suo collo e alternandosi con dei piccoli morsi.
Ma non era quello, l’obiettivo che si era prefissato.
“Sebastian, aspetta...”
“Non dirmi che hai un altro gatto perchè stavolta lo volo dalla finestra.”
“Non è questo”, ridacchiò lui dopo un gemito particolarmente intenso, che portò Sebastian a mormorare compiaciuto e, finalmente, infilare una mano dentro ai pantaloni.
“Non farlo, aspetta.”
Si bloccò tutto, come in un fotogramma.
Sebastian adesso era a pochi centimetri da lui, i suoi occhi scuri attraversati da un bagliore di disagio e stupore, le labbra arrossate e morbide contratte in una smorfia.
“... Puoi ripetere?”
E anche se tentò di mantenere un tono cordiale e non offensivo, si percepiva a metri di distanza quanto fosse confuso, e anche un po’ seccato.
Adesso sì che era difficile. Cosa voleva dirgli? Blaine roteò gli occhi al soffitto, prendendo dei profondi respiri e focalizzandosi soltanto sul discorso che si era preparato da qualche giorno.
“Io... voglio farlo. Con te.”
“Anche io.” Tagliò corto lui, “Procediamo?”
“E’ solo che non voglio farlo adesso. Aspettiamo. Saprai resistere per un po’ di tempo, no?”
Blaine era quasi sicuro di aver sentito, nettamente, il suono dell’entusiasmo mozzato a metà di Sebastian.
“... Come sarebbe a dire?”
“Ne abbiamo passate tante”, cercò di farlo ragionare, “Troppe. Stiamo insieme da nemmeno una settimana e tu sai bene quanto ci è voluto per arrivare fin qui. Quello che voglio dire è... aspettiamo.”
“Aspettiamo?”
No. Decisamente, aspettare non rientrava nella lista di parole amate. Ma Blaine sembrò così dolce, adesso che lo baciava sommessamente come per chiedergli scusa, e così insicuro, di non voler perdere quello che avevano, di non voler rovinare tutto con qualcosa di sconnesso e affretatto. Sebastian si ritrovò ad accarezzargli una guancia con un sorriso che, di sicuro, non rispecchiava neanche la metà di cosa provasse in quel momento.
Per lui il sesso era una cosa da niente. Fine a se stessa, fatta solo per gioco, ma Blaine voleva che fosse speciale. Voleva che fosse qualcosa dettato dalla necessità di sentirsi emotivamente più vicini, e non da un bisogno primario che si sarebbe spento con il passare del tempo.
In qualche modo, estraneo perfino ai suoi stessi pensieri, Sebastian si ritrovò a sorridere all’idea.
“Va bene.”
“Sul serio?” Chiese con i suoi occhioni chiari e, sì, in quel momento capì che qualsiasi minuto o secondo di attesa sarebbero stati fondamentali.
“Esattamente... definisci questo un po’ di tempo?”
Blaine sorrise, gli lasciò un ultimo bacio e poi si alzò in piedi, afferrando un paio di farfallini abbandonati sulla scrivania. “Prendila come una penitenza per tutto quello che mi hai fatto passare.”
“Ma pensavo mi avessi perdonato!”
“E’ così, infatti.”
Sebastian fissò la porta del bagno ormai chiusa, e poi sprofondò ancora una volta sul letto esalando un sospiro decisamente affranto.
Dopotutto, aveva aspettato Blaine così a lungo. Poteva aspettare ancora un po’.
 
 
Quando sentì un qualcosa di caldo avvolgergli la pancia, assieme a un respiro dolce che arrivava a un lato del viso, Sebastian aprì gli occhi, trovandosi di fronte a un Blaine semplicemente stupendo e a una New York notturna. Infatti, la luce del sole che qualche ora prima filtrava dalle finestre era completamente scomparsa, lasciando spazio a dei lampioni e alle insegne luminose.
“Che... Che ore sono?”
Si massaggiò gli angoli degli occhi con l’indice e il pollice, mentre Blaine si accoccolava un po’ di più a lui affondando il viso nell’incavo del suo collo.
“Le sette e mezza.”
“Le sette e mezza?! Ma dovevamo uscire con-“
“Già chiamate. Già avvisate. Ti sei addormentato.”
“Ho notato”, mormorò, ascoltando la camera silenziosa e i respiri sconnessi di Blaine: c’era qualcosa di strano.
“Come mai... che è successo? Perchè hai disdetto l’uscita?”
I loro sguardi si intrecciarono, così come le loro mani premute sul suo petto. Blaine disse quelle parole con una delicatezza che lo fece trasalire.
“Siamo passati.”
Non era possibile fraintendere.
Non era possibile ignorare a cosa si stesse riferendo.
“Mi ha chiamato il professore giusto un minuto fa. Siamo ammessi alla terza fase.”
E così, ce l’avevano fatta anche quella volta.
Avrebbero affrontato un altro lungo mese di prove senza sosta, comprese di stanchezza, litigi e discussioni, con la voglia di abbandonare contrastata da quella di raggiungere la tanto agognata fine.
Però, questa volta, il percorso sembrava più semplice, perchè lo avrebbero attraversato insieme.
“Dobbiamo festeggiare.”
“Dobbiamo.” Confermò Blaine, con un sorriso che arrivava fino alla punta delle orecchie, per quanto era bello. Era incredibile quanto fossero calmi. Forse, non avevano ancora realizzato il tutto; forse, erano semplicemente cullati da quell’atmosfera dolce e confortante. Blaine, decisamente il più sveglio dei due, cominciò a metabolizzare velocemente una serie di dati e informazioni, che uscirono fuori attraverso una singola domanda: “E poi, cosa faremo?”
“Shhh.”
“Ma Sebast-“
“Shhh.”
Non era quello il momento per pensarci.
Adesso, voleva soltanto stringere a sè il suo ragazzo, e addormentarsi cullato dal suo respiro.
 













***

Angolo di Fra


Ho da dire due piccole cose.

Namber uan: ci sarà un salto temporale. Lo so, tutti quanti vorrebbero dei capitoli così in cui Seb e B sono felici e si baciano e siamo tutti contenti. Ma secondo me, parlare un'altra volta di prove, musica e quant'altro è ridondante. E, d'altro canto, scrivere dei capitoli interamente Seblaine, ma privi di musica, non si addice al tipo di storia che ho costruito. Ci possono essere delle scene, delle cose che magari scriverò sotto forma di spin-off, ma proprio in quanto tali, sarebbero solo un "filler" e, insomma, non mi piaceva l'idea di "allungare la ff" così. Quindi, semplicemente, ci sarà un salto temporale.

Namber tu: Detto questo, non vi risulterà difficile immaginare che mancano solo tre capitoli alla fine. Eggià. Questo vuol dire che nel prossimo capitolo saremo a pochi giorni dalla terza fase, e farò un piccolo riassuntino di come si è evoluto il loro rapporto o di come sono andate le prove. Però, dopo questi due capitoli che sono stati piuttosto "tranquilli", vi annuncio che ci sarà un'altra cosa importante, se non fondamentale, per la storyline e per il personaggio di Sebastian.

Credo di riuscire ad aggiornare presto - il capitolo è già quasi del tutto scritto- e spero che non vi dispiaccia molto questa scelta. E' una scelta che non faccio mai, anzi, è la prima volta che faccio un salto temporale del genere, ma se non vi ho convinta con le mie motivazioni, beh, siete liberi di infamarmi tramite mp o recensioni. Lol.

Detto questo grazie a tutti per le letture e le recensioni, siete tantissimi e gentilissimi. Buon weekend a tutti!

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***




Capitolo 22


 

 

Soffre più moralmente che fisicamente. Gli rimane il suo eroismo che lo renderà vittorioso, spero, del duplice male che l'opprime.
--- Hans von Bülow su Liszt
 

 


Passarono i giorni. E i giorni diventarono settimane. E quelle settimane furono, per Blaine e Sebastian, le più veloci e piacevoli della loro vita.
Gli studenti del conservatorio li fermavano per augurare buona fortuna, oppure, per chiedere i brani eseguiti e l’impegno che avevano portato con sè. Se prima erano relativamente conosciuti per la loro bravura lodata o invidiata in ogni dove, adesso erano Blaine e Sebastian, la coppia prodigio. L’astio e la competitività tra colleghi era stata messa da parte per un sano tifo cameratesco: avevano preso informazioni di tutti gli altri candidati, gente che veniva da Los Angeles, Washington o posti più insoliti, ma a parte qualche rara eccezione permessa da Youtube, le ricerche furono vane. Sebastian e Blaine apprezzavano il supporto degli studenti, ma in realtà erano piuttosto sicuri del loro metodo di lavoro, dal momento che li aveva portati fino a lì. Con non poca fortuna, aggiungevano sempre. Il professor Robert Cage era diventata una leggenda anche trai professori, e probabilmente sarebbe stato il nome più quotato tra quelli del futuro preside del conservatorio, se non fosse stato per il suo continuo continuo parlare della pensione e di sua moglie che l’attendeva per prenotare quella crociera nelle capitali europee. Vienna, in quanto capitale della musica classica, era una tappa sognata da tanto tempo, per poter contraddirlo in qualche modo: Blaine e Sebastian, semplicemente, ogni volta che sfioravano quell’argomento tergiversavano in maniera più o meno spudorata, soltanto perchè non avevano ancora voglia di parlare del loro futuro in assenza di quel vecchio che, nel bene o nel male, riempiva le giornate.
Di sicuro, però, la persona che avrebbe sentito più la mancanza sarebbe stata Jodie: in quel periodo era stata l’ombra del professore; lo aveva seguito come un’ombra, lo aveva aiutato con le lezioni, aveva risolto il problema dell’aula musica creando un sito online in cui era presente la richiesta di prenotazione e la lista delle date e orari; il professore lo aveva trovato geniale, anche se, un attimo dopo, aveva cominciato a parlare del Commodo 64 e della sua utilità durante la guerra.
Wyatt non si era più visto. Qualcuno diceva che avesse abbandonato la musica, ma chi lo conosceva sapeva che fosse impossibile. Invece, era più probabile che avesse deciso di continuare gli studi in qualche università più prestigiosa, oppure, visti i precedenti, da autodidatta. Ad ogni modo, Blaine e Sebastian non si erano mai informati su di lui, e nemmeno volevano farlo: avevano troppe cose da fare, e troppo poco tempo per gestirle. Provavano dieci ore al giorno, pause escluse, e la sera erano così stanchi che passavano le notti stravaccati sul divano, a guardare qualche film degli anni sessanta o a piangere rivedendo per l’ennesima volta il Pianista sull’oceano. Altre volte, invece, si sdraiavano sul letto di uno o dell’altro, mettevano qualche discografia completa e parlavano per tutto il tempo che la musica gli concedeva, come se si sentissero al sicuro, protetti da quei suoni; come se potessero essere liberi per la prima volta, e così facendo diventarono intimi e affiatati sempre più in fretta.
 
In questo modo arrivarono a una settimana dal concorso, e con delle occhiaie più scure del pianoforte su cui stava suonando Blaine. I brani erano difficili, sempre più stressanti, ma la tensione veniva divisa in due e alleggerita da qualche battuta, o da dei momenti in cui Sebastian cercava di distrarre Blaine nei modi più impensabili, piccanti o non. Anche se, a dire il vero, Blaine continuava a interromperlo nel momento clu con la scusa delle prove. Sebastian cominciava seriamente a perderci il senno, ma per la maggior parte del tempo non ci pensava: era così semplice, stare insieme a Blaine.
Fu anche incredibilmente semplice ritrovarsi a suonare un brano di Chopin, con lui che lo guardava soddisfatto e sognante.
“Te l’avevo detto che prima o poi ci sarei riuscito.”
“Blaine, mi hai praticamente implorato di farlo”, ribattè lui, guardandolo cinico e appoggiando il suo violino sul pianoforte di Blaine, ormai perennemente scoperchiato: sembravano aver acquisito cinque anni di usura in un solo mese.
“Non ti ho implorato.” Blaine nel frattempo si era alzato in piedi, rassettandosi i jeans e aggiustando le maniche della maglietta precedentemente arrotolate. “E’ solo che non è possibile che tu non voglia suonare Chopin, contando che...”
“Contando che tu praticamente lo ami e se fosse vivo a questi tempi mi avresti già tradito con lui?”
“... Non puoi biasimarmi.”
Sebastian cercò di assumere un’espressione offesa, ma in realtà si ritrovarono a sorridersi in modo complice, ognuno preso con i loro piccoli gesti di routine.
“Ti piace Mahler?”
Blaine non si aspettava quella domanda. Certo, passavano ore a parlare dei loro gusti musicali – per la maggior parte delle volte discordanti -, ma rimaneva comunque una domanda strana, se fatta a bruciapelo.
“Ma certo, è uno dei miei compositori preferiti.”
Cercò di decifrare lo sguardo entusiasta di Sebastian, che stava cercando di nascondere inutilmente, ma in realtà non riuscì a capirlo veramente fino a quando non lo sentì dire: “Finalmente un punto in comune.”
“E perchè me l’avresti chiesto?”
“Beh”, fece lui, esitando, “Perchè stasera andiamo a teatro a sentire la prima sinfonia.”
Ecco, quello fu ancora più inaspettato.
“Davvero?” Blaine parlò con un tono di voce a metà tra il confuso e il completamente estasiato.
“Sì”, ridacchiò Sebastian, evidentemente divertito dai suoi occhioni da bambino incantato: “Prendila come una lezione sul campo.”
“E a cosa ci servirebbe una lezione sulla musica d’orchestra?”
Touchè.
“Ho preso due biglietti in tribuna”, ammise infine, “Posti centrali. Ma se non ti va possiamo sempre stare a casa a guardare un film.”
“Cosa? No, non se ne parla, adesso io e te usciamo!” Sbottò dandogli un piccolo colpetto sulla spalla, subito dopo il quale Sebastian si lamentò bofonchiando: “Quella spalla mi serve per il violino!”
Non riusciva ancora a credere a quello che stava succedendo: lui amava Mahler. Erano mesi che non vedeva un teatro nemmeno in cartolina. Aveva proprio voglia di uscire e –oh. In quel momento, si rese conto che sarebbe stata la prima grande serata insieme a Sebastian. Una sorta di uscita da fidanzati. Una di quelle in cui ci si veste bene, si sfiorano i piedi sotto al tavolo, si passeggia per New York mano nella mano e la terra diventa immediatamente un posto bellissimo su cui vivere.
“Insomma, ci stai?” Gli chiese il violinista guardandolo con i suoi intensi occhi verdi, che riuscivano ancora a scioglierlo come ghiaccio al sole.
Sì. . Mille volte sì.
Ma invece di rispondere in modo verbale, preferì buttarsi tra le sue braccia abbandonandosi a un bacio lascivo e pieno di affetto, che il ragazzo ricambiò con altrettanta passione.
 
 
Constatando che fossero ufficialmente fidanzati da quasi un mese, e che passassero insieme praticamente tutte le giornate, era un po’ ridicolo sentirsi su di giri per una misera uscita per la città con annesso concerto. Blaine lo sapeva, ma non riusciva comunque a contenere tutta l’euforia che lo stava assalendo mentre camminava su e giù per la casa, controllandosi su ogni superficie riflettente e facendo mente locale sulle cose giuste da fare.
“Brit, come sto?” Chiese infine alla coinquilina intenta a giocare con il gatto, che lo guardò impassibile, senza battere ciglio: “Sembri uno di quei camerieri che cerca di provarci con Santana quando andiamo a cena fuori.”
Quindi sembrava un gigolò?
Sospirò, osservando il suo riflesso allo specchio: uno smoking nero, semplice, con una cravatta grigio perla che risaltava la carnagione olivastra e gli occhi chiari. Eppure non credeva di stare così male.
“Blaine?” Lo chiamò la ragazza, “Ma non vai ad aprire? Lord Tumbington è sensibile agli ultrasuoni, lo sai. Dopo si crede un delfino e inizia a camminare scivolando sul pavimento della sala.”
“Ma quelli non sono ultr-“ Un momento: avevano suonato?
Corse al campanello come se ci si stesse lanciando, lasciando stare per un momento tutte le sue paranoie e i suoi riccioli indomabili. Era troppo curioso di vedere Sebastian in un vestito da sera; a dire il vero, aveva fatto diverse fantasie più o meno innocenti a riguardo, e adesso si sentiva come uno scolaretto al suo primo ballo scolastico mentre la porta, lentamente, si aprì davanti a lui. E nessuna fantasia avrebbe saputo rendere giustizia alla realtà. Sebastian era un modello. Le lunghe gambe erano fasciate perfettamente dal pantalone nero, accompagnato da una scarpa in mocassino e una giacca che risaltava le spalle e il fisico slanciato. I capelli non erano molto diversi dal solito, soltanto più sistemati e fissati con della lacca. Blaine stava quasi per toccarsi le labbra per capire se stesse sbavando veramente o solo nella sua testa.
Quest’ultimo nel frattempo lo aveva salutato con disinvoltura: un sorriso e poi, come sempre, aspettava il bacio a fior di labbra che gli dava Blaine. Ma lui era troppo immerso nei suoi pensieri per accorgersene, diviso tra l’invidiare da morire il suo ragazzo o maledire i completi casual, che non gli rendevano giustizia in nessun modo.
Sebastian varcò appena la soglia di casa per fare l’occhiolino a Brittany, che aveva alzato la zampina di Lord Tumbington come per salutarlo. “Vuoi vedere Lord Tumbington che fa il delfino?”
“Magari un’altra volta”, declinò cortesemente, e Brittany si strinse nelle spalle tornando a dialogare con il suo felino nella loro lingua segreta. “Blaine, che fai lì impalato?” Sebastian gli sventolò una mano di fronte agli occhi, e così fu costretto a ridestarsi dai suoi pensieri. Salutarono Brittany – a dire il vero, Sebastian si prese un momento per salutare anche il gatto, che provava per lui un amore viscerale – e uscirono di casa, scendendo lentamente le scale del condominio e ritrovandosi nella giungla newyorkese.
“Dove andiamo?”
Blaine si ritrovò a stringere la mano di Sebastian quasi inconsciamente, mentre lui gli dava un piccolo bacio sulla tempia. Non optarono per il loro fidato motorino: preferirono fare le cose per bene, chiamare un taxi e godersi New York dalla quiete rassicurante di un finestrino. C’era ancora tempo prima di andare a teatro, e Blaine stava per chiedergli se volesse andare a mangiare qualcosa nell’attesa. Ma Sebastian aveva già un piano in mente, a giudicare dalle indicazioni che stava dando al tassista e da come le sue dita scivolavano dolcemente sul dorso della mano di Blaine, come accarezzandola.
Quando si trovò di fronte ad un semplicissimo bar, rimase un po’ confuso: si aspettava uno di quei locali galanti, in cui i buttafuori ti chiedevano i cappotti e i camerieri ti servivano i drink su un vassoio di design. Invece, quel posto era tutto fuorchè elegante, decisamente inappropriato per come erano vestiti, e frequentato da signori che guardavano la partita insieme ad amici godendosi della miracolosa assenza delle mogli.
Perchè si trovavano lì? Forse Sebastian non voleva portarlo in qualche posto galante? E perchè mai?
“Aspettami qui”, sussurrò all’orecchio di Blaine, prima che lo vedesse scomparire tra la folla. Aveva da incontrare qualcuno? Si era ricordato di dover fare una cosa?
Aspettò per qualche minuto, sentendosi sempre più in imbarazzo: lo stavano fissando tutti, anche se il cappotto nascondeva gran parte del vestito. Resistette all’impulso di specchiarsi al vetro del bancone del bar e rimase immobile, con le mani nervosamente intrecciate tra di loro, mentre tutta l’euforia che lo aveva accompagnato fino ad allora scemava in qualcosa di più teso.
E se Sebastian si fosse vergognato a portarlo in qualche posto galante? E se assomigliasse davvero a un gigolò?
“Blaine.”
Alzò immediatamente lo sguardo verso quella voce, che ormai conosceva a memoria. Assieme a Sebastian c’era un signore che non aveva mai visto, sulla cinquantina, dall’aria affabile e l’aspetto europeo. “Blaine, ti volevo presentare-“
“Oh mon Dieu finalmente conosco il famoso Blainè!”
“Sarebbe Blaine”, mormorò lui. Era quasi certo che le sue guance si stessero infiammando velocemente.
“E’ un piacere conoscerti, Bastien mi parla sempre di te”, l’uomo lo raggiunse in un attimo e gli stritolò la mano con sin troppo entusiasmo, mentre Sebastian dietro di lui sghignazzava divertito e si godeva tutti i cambiamenti di colore del viso del suo ragazzo.
“O-oh, ehm, grazie...”
“Ma Bastien non ti rende affatto giustizia.” Lo interruppe lui con tono burbero. “Mi ha detto che sei bellissimo, ma secondo me oltre che sexy sei anche très charmeaux!”
“Louis, grazie, ma adesso dobbiamo proprio andare”, Sebastian afferrò Blaine per un polso scambiando qualche ultima parola con il suo barista, che lo ringraziava per essere passati e continuava a dirgli: “Grazie per essere passati, ero proprio curioso! Passate a trovarmi!”
“Chi era?” Sussurrò Blaine mentre si dirigevano lungo la strada, in cerca di un altro taxi. Sebastian non rispose subito, come se dovesse trovare le parole da dire, oppure, contenere parte di quell’imbarazzo che trapelava attraverso le sue guance rosee.
“Un amico. Faccio colazione da lui ogni mattina.”
“Oh.”
Sebastian lo aveva appena presentato a un amico. Sebastian lo aveva introdotto in una delle sue abitudini.
Con il cuore più leggero, Blaine si bloccò in mezzo al marciapiede attirando l’attenzione di Sebastian.
“Che c’è? Perchè ti sei fermato?”
Si alzò leggermente sulle punte e lo baciò dolcemente sulle labbra, appoggiando le mani sulle spalle e godendosi la stretta di quelle di Sebastian contro la sua vita. Non si baciavano mai in quel modo, in mezzo alla folla, sotto le luci dei lampioni e avvolti dal caos della sera. Quando Sebastian si staccò da lui, sbattendo più e più volte le palpebre, arricciò le labbra in un mezzo sorriso.
“E questo cos’era?”
Non poteva certo dirgli che era il suo modo di ringraziarlo per essere diventato così aperto, onesto, partecipe, semplicemente perfetto. Non poteva dirgli che era il suo modo per dirgli...
“Niente”, Blaine, in risposta, si strinse un po’ nelle spalle. “E’ solo che oggi ancora non ti avevo salutato.”
E, almeno in parte, era vero.
 
 
Blaine non era mai stato in quel teatro. Ce n’erano così tanti, a New York, e così diversi: questo aveva un aspetto vagamente rinascimentale, con delle lunghe colonne color avorio, e degli spalti raffinati e decorati con intarsi in oro. Il soffitto era pieno di affreschi e in generale si respirava un’aria compita.
Il palcoscenico era grande, immenso. Doveva esserlo, per contenere più di duecento musicisti. Blaine provò a immaginarsi al centro di quella scena, ma al solo pensiero il suo cuore perse qualche battito e decise che non fosse ancora giunta l’ora. Quella sera era solo per lui e Sebastian: non due musicisti, ma due ragazzi.
Tristemente, constatarono che, a parte qualche rara eccezione, la sala non fosse completamente piena, e l’età media degli spettatori non sfiorava i quaranta. Era una cosa triste, a vedersi, perchè dimostrava ancora una volta quanto la musica di qualità fosse passata di moda, in favore di robe più rumorose e commerciali.
Un concerto simile meritava la sala piena, ragazzi sognanti e una standing ovation finale. Blaine e Sebastian in quel momento decisero che l’avrebbero fatta comunque, anche se fossero stati gli unici.
Quando le luci si abbassarono, segno che il concerto era prossimo a cominciare, le loro mani si intrecciarono quasi automaticamente nel buio della scena, e anche così Blaine poteva ritenersi una persona completamente fortunata; i musicisti si posizionarono ai loro posti, il direttore d’orchestra si fece avanti cominciando a sfogliare dei fogli sul leggio. Blaine si rese conto solo allora di non aver ancora chiesto la cosa più importante.
“Come si chiama il direttore?”
“Maurice Diderot.”
“Oh mio Dio.”
Quell’esclamazione incuriosì Sebastian. Certo, era un direttore famoso, ma ce n’erano tanti: “Ti piace?”
“Se mi piace?” La sua voce era diventata leggermente euforica e stridula: “E’ il mio direttore preferito! Ho sentito il concerto per pianoforte e orchestra di Chopin eseguito da lui e alla fine ho letteralmente pianto!”
“Chissà come mai non mi stupisce.”
“Oh mio Dio, Sebastian tienimi per mano”, lo ignorò completamente. Sebastian, a quel punto, un po’ divertito bisbigliò: “Credevo lo stessimo già facendo. A meno che tu non sia un polipo con otto mani, in tal caso non posso aiutarti.”
“Credo di stare per svenire.”
“Rilassati.” Fece scorrere il pollice in modo conciliante: “Però, se devo dirla tutta, mi fa piacere che ti stia divertendo.”
Oh.
In quel momento, Blaine capì quanto Sebastian ci tenesse a quella serata.
Prima i biglietti in posti d’eccezione, sicuramente costosissimi e difficili da trovare; poi, l’incontro con il suo amico Louis. E adesso riusciva a scorgere il suo sorriso in penombra, e pensò che quella serata non potesse essere più bella. C’erano loro due e la musica classica. Esattamente come tutto era cominciato.
 
Il concerto, inutile a dirlo, fu bellissimo.
E Blaine, con grande dispetto di Sebastian, pianse anche un po’. Si stava soffiando il naso con un fazzolettino chiesto alla signora dietro di loro, mentre la sala si svuotava e il direttore d’orchestra si dirigeva dietro le quinte.
“Sebastian, non offenderti, ma credo di avere una cotta per quell’uomo.”
“Diderot?” A Sebastian scappò un sorrisetto, per niente geloso o offeso. Era stato davvero bravissimo, quindi, un po’ lo capiva. “Non sapevo ti piacessero i francesi.”
“Non so un’acca di francese”, rispose, “Ma lui riesce a suonare così... e la sua musica è così...”
Sapeva di essere un tantino ridicolo. Insomma, lui stava per partecipare a un concorso che lo avrebbe reso parte di tutto ciò: doveva essere professionale, e invece adesso sembrava un ragazzino di fronte al suo attore preferito.
"Se vuoi te lo presento."
“Cosa?”
Uscì come un sussurro. Perchè tutto ad un tratto si sentì totalmente privo di fiato. Stava scherzando? No, non stava scherzando. Lo prese delicatamente per mano facendosi spazio tra la folla e i corridoi, arrivando così a una serie di stanze e camerini pieni di musicisti entusiasti.
Come cavolo faceva a conoscerlo?
Come cavolo faceva a conoscere un direttore d’orchestra di fama mondiale?
E lo shock diventava sempre più grande, man mano che si dirigevano dietro le quinte: Sebastian salutava tutti, stringeva mani, lo presentava a musicisti con cui non avrebbe mai sognato poter parlare.
Il tempo passato fino ad allora fu nebbia. Blaine forse aveva anche parlato, ma non si ricordava assolutamente nulla. Si svegliò nel momento esatto in cui vide gli occhi di quell’uomo, leggermente più basso di lui, i capelli mossi e chiari, in contrasto con gli occhi neri. Sebastian e Diderot si parlarono un po’ in francese, e Blaine in quel momento cominciò seriamente a chiedersi se fosse tutto un sogno. Da quando Sebastian sapeva il francese?
“Quindi sei Blaine”, disse infine l’uomo, con un accento marcato ma il tono gentile. Quando si strinsero la mano rischiò l’infarto.
“Lei... lei è bravissimo. Io l’adoro. Il concerto, il finale, e poi l’inizio con quel pianissimo e-“
“Piano, piano”, lo incalzò bonariamente il direttore, scambiandosi un’occhiata divertita con Sebastian e facendo arrossire Blaine giusto un po’ di più. Doveva stare calmo. E, soprattutto, non svenire.
“Adesso scusate, ma devo andare. Buona fortuna per il concorso.”
Eh?
“Ah, sì, certo, grazie, cioè scusi, ma grazie, io ci tenevo tanto e, va bene, sto zitto.”
Quando si ritrovarono da soli, per poco desiderò non voltarsi per vedere l’espressione sicuramente sarcastica di Sebastian. Ma il suo commento lo precedette: “Non mentivi affatto sulla cotta, eh?”
Blaine gli diede una piccola gomitata, facendo una smorfia. Oh, poteva prenderlo in giro finchè voleva, lui stava vivendo il giorno più bello della sua vita.
“Ma Sebastian”, si ricordò un attimo dopo, in quel brevissimo momento di lucidità che gli permise di fare un ragionamento razionale: “Come facevi a conoscerlo? Ti rendi conto che quell’uomo è uno dei direttori più famosi del mondo?”
E, per un attimo, Sebastian s’incupì di colpo, facendosi improvvisamente serio. Come se ci fosse una verità molto più profonda di una semplice storiella da raccontare con ironia. Ma Blaine non fece in tempo a chiedere ulteriori spiegazioni, dal momento che la risposta si presentò davanti ai suoi occhi, in un elegante abito blu, dei capelli chiari raccolti in uno chignon che evidenziavano i suoi lineamenti sottili e i suoi occhi verdi, inespressivi.
"Oh mio Dio."
Strinse la manica del suo ragazzo. Aveva bisogno di essere sorretto, perchè in quel momento stava letteralmente implodendo. Quella donna che adesso si stava dirigendo verso di loro era una leggenda.
"Eliane Deneuve si sta avvicinando a noi Sebastian. A noi due, non a qualcun altro, proprio a noi."
Ed era troppo preso dal comportarsi come un fanboy per notare come i lineamenti di Sebastian fossero diventati più rigidi, così come la sua mascella, o il suo sguardo puntato verso la donna.
"Sebastian quella donna è un mito, è la più brava violinista a livello mondiale, oh mio Dio io ho una raccolta piena di cd suoi a casa sua, oh Sebastian come sto? Si è tolto il gel? Il vestito? IO?"
"Sei bellissimo", riuscì a sussurrargli all'orecchio, affabile ma con una voce leggermente spezzata, giusto un secondo prima che la donna si posizionasse davanti a loro con un sorriso sottile, di circostanza.
Disse soltanto un semplice: "Buonasera."
Blaine fece un piccolo passo indietro: si sentiva come un bambino di fronte al suo Dio.
“B-buonaser-“
“Che ci fai qui?”
Sebastian lo interruppe parlando con un tono brusco, freddo, assolutamente privo di cordialità o circostanza. Come se non ci fosse bisogno di formalità simili.
“Splendida serata, non trovi, Sebastian?”
“Lo era.” Disse alla donna, che sembrò leggermente accigliata da quella risposta a bruciapelo.
E poi, restarono in silenzio per lungo tempo. Fino a quando lo sguardo glaciale della donna non si posò su di Blaine.
“Non mi presenti al tuo amico?”
“Devo proprio?” Disse allora Sebastian, stringendo un po’ di più la mano di Blaine. Lui e la signora si scambiarono un’occhiata breve, quasi impercettibile, e Blaine stava quasi per dargli un’altra gomitata; che razza di modi erano, quelli?
E poi si trovò a essere fissato per lungo tempo. Senza battere una parola. Era terrificante, come trovarsi nel bel mezzo di un palcoscenico con nessun repertorio da fare. Perchè lo fissava? Sembrava accigliata. Era decisamente accigliata. Aveva forse i capelli in disordine? Oh, ma certo. Avrebbe voluto darsi uno schiaffo: in mezzo minuto non si era nemmeno presentato.
"S-Salve, signora Deneuve, i-io sono Blaine Anderson, è un grande piacere incontarla." Disse tutto d'un fiato con le guance in fiamme, stringendo forte la mano di Sebastian che, in quel momento, ricambiò la presa con una insicurezza che non era da lui.
Ma quello non sfuggì a Blaine.
Non sfuggì nemmeno il modo con cui lo stava fissando la donna, come se non fosse soltanto uno degli ennesimi musicisti che conosceva.
E fu in quel momento che, finalmente, capì tutto.
“Ripeto la domanda: che ci fai qui?”
“Ho saputo di un certo concorso, e così mi sono incuriosita. Parlando di curiosità: che fine ha fatto uno degli spartiti autentici di Grieg, che conservavamo nella riserva estiva?”
E così, mano a mano, tutti i tasselli del puzzle cominciarono a combaciare. Blaine si era immaginato tanti scenari, a riguardo, sin da quando Wyatt aveva fatto quella strana supposizione sul suo cognome. Ma si era sbagliato su tutta la linea: non era Smythe, il fulcro. Era Deneuve.
Eliane Deneuve.
Sua madre.




 

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***






Capitolo 23

 


 

"Nessuno può essere paragonato a lui. Risplende unico e solitario nei paradisi dell'arte."
--Liszt su Chopin, in una lettera alla principessa Wittgenstein







Sebastian era l’ultimo di quattro fratelli.
Suo padre, George Smythe, era un grande imprenditore nel ramo bio-medico, possessore di case farmaceutiche e azionista di ospedali. La sua ricchezza era tale da spianare facilmente la strada ai figli, che diventarono persone importanti: medici, capi reparto, ricercatori. Erano la punta di diamante della famiglia. Odiati e lodati da tutto il resto del mondo, per il loro intelletto fine e una bellezza invidiabile.
Nelle poche volte in cui tutta la famiglia si riuniva, una buona parte del tempo veniva spesa in favore del quartetto Smythe, di cui se ne vantavano le lodi con la speranza di riuscire a ottenere qualche favore dai genitori; negli ultimi anni, però, le cose erano cambiate.
Sebastian non era più il giovane violinista con il sogno di inseguire le orme di sua madre: era diventato un ragazzo svogliato, disattento, sempre meno partecipe alle riunioni e, soprattutto, mancante di quel tatto e garbo che lo aveva contraddistinto da quando era nato. Aveva perso la voglia di fingersi interessato al resto della sua famiglia, dal momento che loro non si erano mai interessati a lui; non era un dottore, non era un ragazzo prodigio e, quindi, se ne stava in disparte a contemplare il quadro che i suoi genitori gli avevano scelto. Il suo compito era soltanto quello di tracciare le linee, riempire gli spazi vuoti, ma senza mai uscire dai bordi.
Ultimamente, però, era diventato un pittore molto distratto.
“A che stai pensando?”
La voce calda e rassicurante di Blaine, come tante altre volte, lo fece trasalire. Si voltò appena per scorgere un paio di occhi chiari che lo studiavano con discrezione, mentre le labbra leggermente incurvate all’insù tentavano di infondergli una briciola di coraggio. Erano seduti a quella caffetteria da più di mezz’ora, dovevano incontrarsi con Eliane Deneuve, come stabilito al concerto la sera prima; eppure, più la lancetta dei minuti scorreva inesorabile, e più il caffè diventava freddo, ospitando un posto vuoto.
“Niente”, mentì lui, perchè non voleva ancora dar voce ai suoi pensieri troppo complicati. Però, alla fine, non riuscì a trattenersi e aggiunse: “Se non arriva entro cinque minuti ce ne andiamo.”
“Avrà trovato traffico”, sussurrò lui, “Non biasimarla.”
E Sebastian per un momento pensò che sarebbe scoppiato a ridere, perchè lo sapeva. Ci avrebbe scommesso.
“Blaine, non hai la più pallida idea di che tipo sia mia madre.”
“E’ tua madre?” Tentò di indovinare lui, un po’ confuso. “Sarà venuta per augurarci in bocca al lupo per il concorso e passare un po’ di tempo con suo figlio... magari potremmo farle vedere il conservatorio, presentarla al professore e-“
Ma la risata nervosa di Sebastian lo fece ammutolire. Non aveva la più pallida idea di cosa volesse dire essere figlio di Eliane Deneuve.
“Magari tua madre sarebbe così.” Cercò di non sembrare più teso di quanto fosse in realtà: “Magari se ci fosse lei potremmo passare una giornata rilassante per le vie di New York, con una passeggiata a Central Park mentre racconta tutti gli aneddoti imbarazzanti su te e i tuoi fratelli.”
“Ne ho solo uno”, sussurrò sempre più cauto Blaine, riuscendo a intuire il fulcro del suo discorso.
“E’ la stessa cosa. Quello che voglio dirti, è che con me sarebbe un po’ difficile farlo, dal momento che ho passato l’infanzia in compagnia dei miei fratelli e delle tate, mentre la grande violinista era in giro per l’Europa a fare concerti.”
Ma quel dialogo passò in secondo piano, quando la porta-vetri del piccolo locale si aprì introducendo una signora vestita con un tailleur chiaro e i capelli perfettamente raccolti. L’età le era scivolata addosso come pioggia, ma si riuscivano a scorgere i segni di chirurgia estetica e tintura di capelli.
Si sedette senza dire una parola, i suoi occhi freddi vagarono lungo il menù mentre una giovane ragazzina con le lentiggini chiedeva se desiderasse qualcosa. Sebastian riuscì a scorgere per un attimo la sua smorfia di disappunto, e poi, la vide richiudere il foglio plastificato.
“Un tè, grazie. E porti via questa miscela da camionisti.”
Blaine impallidì un poco, a quella frase. La ragazza balbettò qualcosa, intimidita, e portò via il caffè freddo e scuro.
“Potevi anche fingerti gentile.”
“Queste ragazzine vengono a New York con grandi sogni e con il vizio di poterli esaudire”, commentò incolore. “Sto solo facendo capire loro che non diventeranno mai delle stelle e passeranno la vita esattamente in questo modo, con un bar e gente più importante a darle ordini.”
Fu solo in quel momento che, evidentemente, si accorse della presenza di Blaine.
“Ah. Ci sei anche tu.”
“Suoniamo insieme”, specificò Sebastian, scandendo ogni sillaba con forza: “Mi sembrava giusto che venisse.”
“Sebastian, ti sei portato la scorta perchè hai paura di tua madre?” Sibilò con un impercettibile ghigno; dovette resistere all’impulso di alzarsi e andarsene via. Oppure, gettarle in faccia quel poco di caffè che le era rimasto, e poi alzarsi e andarsene via, trascinando Blaine con sè e facendogli dimenticare tutto quello. Non avrebbe mai voluto che assistesse a una scena del genere; non avrebbe mai voluto che vedesse il modo con cui era cresciuto.
“Io... forse sono di troppo”, lo sentì bisbigliare, con le guance arrossate e gli occhi diretti verso il pavimento. “Posso-dovrei lasciarvi soli...”
“Dovresti”, rimarcò la madre. Ma Sebastian lo prese per una mano costringendolo a restare seduto.
“Lui non va da nessuna parte. Se hai qualcosa da dire riguardo al concorso, allora parla. Altrimenti possiamo andarcene entrambi.”
La madre restò in silenzio per lungo tempo; chissà, forse, non si aspettava da uno Smythe così tanta schiettezza, che rasentava la maleducazione. Ma, d’altronde, era pur sempre suo figlio.
“Molto bene.” Si sistemò meglio sulla sedia, costringendo Blaine a fare altrettanto mentre, inconsciamente, lanciò un’occhiata perplessa a Sebastian che ricambiò in modo deciso. Voleva dirgli di stare calmo; voleva dirgli che, nonostante fosse una persona famosa e brava nel suo lavoro, il suo giudizio non contasse niente.
Ma sapevano entrambi che non fosse così.
“Dovrete lasciare il concorso.”
E se Blaine spalancò gli occhi, preso completamente alla sprovvista e trattenendo il fiato, Sebastian restò del tutto impassibile a quella frase, perchè aveva intuito che fosse venuta fino a New York per un motivo tanto futile. Era da lei.
“Fiato sprecato”, disse allora, “Il concorso si tiene tra qualche giorno e noi ci andremo.”
“Non lo farei.”
Era ancora più testarda di quanto ricordasse. Ma Blaine in quel momento prese la parola, interrompendo quel mini dialogo che si era formato e mormorando, con voce leggermente titubante: “Posso chiedere il motivo?”
“E’ molto semplice, ragazzo. Non vincerete mai”, lo fulminò lei, guadagnandosi il nervosismo di Sebastian: nemmeno si era scomodata a ricordarsi il suo nome.
“Con tutto il rispetto...” Blaine aveva alzato leggermente le spalle, ricambiando lo sguardo penetrante e rendendo il tono di voce un po’ più sicuro: “Non lo può sapere questo. Io e Sebastian ci siamo esercitati tanto e lei non ci ha mai sentito suonare.”
Parole gettate al vento, voleva dirgli Sebastian; apprezzava quello che stava facendo ma, allo stesso tempo, voleva soltanto che la piantasse e ignorasse tutto ciò che uscisse dalla bocca di quella donna. Quest’ultima, visibilmente infastidita dalla presunzione di quel ragazzino, aspettò pazientemente che la ragazza le consegnasse la tazza di tè e lo zucchero, per poi riparlare quando era certa che nessun altro potesse sentirli.
“Tutti uguali, voi pianisti.”
Blaine fece un’espressione accigliata: “Prego?”
“Avete l’illusione di sapere più cose degli altri.”
“Adesso smettila.”
Sebastian strinse la mano di Blaine quasi fino a farsi male.
“Potrai anche offendere me, ma non ti permetto di insultare Blaine. Noi suoneremo a quel concorso, che ti piaccia o no. Se sei venuta soltanto per farci cambiare idea puoi tornare a casa.”
Blaine si morse un labbro, resistendo all’impulso di far notare a Sebastian le sue nocche bianche o, peggio ancora, di dire qualcosa di inappropriato rivolto a sua madre. Ma quella situazione stava diventando sempre più tesa, e nemmeno nelle sue fantasie più terribili si era immaginato un incontro del genere; lei era Eliane Deneuve: si era immaginato una donna compita, elegante, dal sorriso facile e molto saggia. Una specie di Robert al femminile, con il vantaggio della fama e l’amore verso un figlio pieno di talento.
Non vedeva niente di tutto ciò nella donna che gli era seduta davanti.
“Io lo dico per voi. Voglio risparmiarvi una figuraccia.”
Figuraccia? Ma di che stava parlando?
“Potremmo anche non vincere”, si permise di dire Blaine, “Insomma, sappiamo benissimo che è molto difficile. Ma anche se fosse, questo concorso ci ha insegnato tante cose. Siamo migliorati molto.”
“Immagino”, sentenziò lei, “Ma a conti fatti sul curriculum vanno le vittorie, non le sconfitte. E mio figlio non è pronto.”
“Non lo può sapere.”
“Sono sua madre.”
“E io sono il suo ragazzo.”
Blaine ed Eliane si fissarono per una manciata di secondi, senza mai distogliere lo sguardo; forse lei si era immaginata una cosa simile, ma sentirla ad alta voce toglieva anche quell’inesistente margine di errore. Si tolse il fazzoletto dalle gambe, appoggiando il cucchiaino accanto al bicchiere.
“Sebastian, posso parlarti in privato?”
Oh. Ecco. Era il suo modo carino per lasciar intendere che Blaine dovesse togliersi dai piedi. Senza indugiare oltre, accartocciò un paio di dollari sul tavolo e fece per alzarsi, trattenuto soltanto dallo sguardo di Sebastian e dal modo con cui aveva chiamato il suo nome. Serio, freddo; eppure, con una punta celata di scuse, come se volesse dire ‘mi dispiace per tutto questo, ma non sei tu quello che deve andarsene’.
E gran parte della rabbia di Blaine svanì in quel secondo.
“Passi da me dopo?” Gli lasciò un bacio a fior di labbra, gustandosi quel retrogusto amaro del caffè di poco prima, beandosi della morbidezza delle sue labbra che si erano leggermente increspate in un sorriso.
“Come sempre.”
Le loro mani s’intrecciarono ancora una volta.
E poi, a malincuore, Blaine si allontanò dal tavolo, uscendo dal locale.
 
 
 
Quando Sebastian bussò era ormai notte fonda. Blaine stava quasi per crollare sul divano, con la tv praticamente priva di audio da quanto lo tenesse basso: aveva paura di perdersi il rumore del campanello, così, quasi sobbalzando, accorse ad aprire, riuscendo a scorgere il volto del suo ragazzo nascosto dalla sciarpa, i suoi occhi verdi, adesso, incredibilmente spenti.
“Ciao.”
Quella parola, anzi, quel tono di voce, bastò a spiegare tutto.
“Ne vuoi parlare?” Propose Blaine mentre lo trascinava delicatamente sul divano, facendolo sedere accanto a lui, non smettendo nemmeno per un secondo di lasciargli le mani e guardarlo preoccupato.
“No.”
Si era immaginato una reazione del genere, certo. Ma non la rendeva meno dolorosa; cercando un qualche gesto di conforto, gli passò un bicchiere d’acqua precedentemente preparato sul tavolino e, fortunatamente, non lo rifiutò.
“Sebastian, dovresti...”
“Sto bene.”
Senza neanche degnarlo di un’occhiata, si alzò e bevve tutto d’un sorso come se fosse alcool, camminando con passo lento e calibrato. Blaine lo seguì con lo sguardo per tutto il tempo: osservò come le sue mani tremassero leggermente, mentre si stringevano intorno al bicchiere di vetro; riuscì a scorgere un respiro particolarmente intenso attraverso l’ondeggiare del cappotto.
Non ce la faceva a vedere Sebastian così, e allora decise che avrebbe fatto qualcosa.
All’inizio aspettò. Attese che finisse di bere, che sistemasse il cappotto sull’attaccapanni, che restasse qualche secondo intento a contemplare il vuoto, come ricordandosi dei momenti avuti con sua madre.
Poi, semplicemente, chiamò di nuovo il suo nome, e gli fece cenno di venire a sedersi di nuovo. Con sua grande sorpresa, lo vide muoversi qualche secondo dopo, sempre con un’espressione assorta, concentrata a ricordare cose note soltanto a lui. Ma, nonostante tutto, era rimasto. Non aveva chiesto a Blaine di lasciarlo da solo; non aveva respinto la sua mano che lo cercò con impazienza.
“Parlami.” Fu come una supplica.
“Dì qualcosa, insultami, o-o insulta lei, se ti fa stare meglio. Ma ti prego Sebastian, ti prego.”
“Blaine, hai mai sbagliato un esercizio di solfeggio?”
Colto completamente alla sprovvista, spalancò gli occhi, esitando per tutto il tempo necessario a formulare: “Sì, certo che sì. Soprattutto quand’ero piccolo.”
“Ecco. Ipotizziamo allora che tu hai grosso modo cinque, sei anni, e che ti sei fissato di voler diventare un musicista.”
“Non è un’ipotesi.” L’espressione di Blaine si addolcì un poco: “Stai descrivendo la realtà. Ero veramente così.”
E forse Sebastian lo sapeva, a giudicare da come la sua mascella si serrò in una smorfia agrodolce, come malinconica.
“Volevo soltanto fare bella figura con mia madre.”
“Come?”
Blaine non riusciva a seguire il filo dei suoi pensieri, perchè Sebastian era troppo vago, troppo confusionario. Era come se, piuttosto che parlare a lui, stesse dicendo quelle cose a se stesso, in uno sfogo che, però, non sembrava affatto liberatorio.
“Ero un bambino. Sapevo ben poco di cosa volesse dire fare il musicista. Ma i miei fratelli si occupavano già dell’azienda di mio padre, e così, mia madre scelse per me la musica. Decise che avrei fatto il musicista.”
Blaine avrebbe voluto chiedergli tante cose. Ma si può scegliere di essere un musicista? Si può scegliere di amare un particolare genere musicale? E, soprattutto, cominciava a chiedersi quale razza di madre creava un futuro prestabilito per suo figlio, fatto a sua immagine e somiglianza. Se prima aveva pensato a lei come a una donna elegante, con un certo portamento ma probabilmente intelligente, beh, adesso altre idee si facevano largo tra le sue considerazioni.
“A cinque anni sapevo già suonare il pianoforte con entrambe le mani”, Continuò incolore Sebastian: “Il maestro di musica della mia scuola privata era fiero di me, mi vantava sempre davanti a tutti.”
“... E poi?” Lo incitò, dopo un silenzio particolarmente lungo. Stava iniziando a capire dove volesse arrivare a parare.
“E poi è arrivata lei. Era la giornata genitori figli, sai, una di quelle cose così, per far vedere quanto fossero tutti belli e bravi. E io volevo fare bella figura con lei. Mi ero esercitato per giorni. E ho fatto tutto benissimo, ma all’esercizio di solfeggio, invece di leggere un mi lessi un la.”
“Non mi sembra niente di traumatico”, mormorò Blaine, sentendosi quasi in colpa per quel commento, tanto da aggiungere con tono dolce: “Eri piccolo, Sebastian, questi errori capitano a tutti.”
“No Blaine.” Disse quelle parole come se volesse tagliare il suono che avevano prodotto.
“Io non posso sbagliare. Non posso. Sono il figlio della grande Eliane Deneuve, e sai cosa mi disse lei, quella volta? Disse che non dovevo essere un musicista. Dovevo essere il migliore. Migliore perfino di lei.”
E lui prendeva sempre molto seriamente il peso delle parole; era una caratteristica che aveva ereditato da lei.
“Va bene, è un po’ severa”, mormorò Blaine, “Ma non ha senso fare dei paragoni. Siete entrambi degli ottimi musicisti.”
"Tu non capisci."
E dal tono di voce, Sebastian apparve così tormentato, così fragile, che l'unica cosa che fece Blaine fu stringere la sua mano ancora di più, aspettando tutto il tempo necessario. Perchè aveva capito che doveva fare così con Sebastian, aspettare con calma che parlasse, senza forzarlo.
"Ogni volta che suono, lei è lì. E' lì con il suo violino e il suo talento di fama mondiale che mi dice dove sbaglio, dove faccio schifo, dove non potrei mai migliorare neanche con anni e anni di allenamento. E poi mi guarda e mi dice che è contenta che io non abbia il suo cognome perchè si vergognerebbe a passare per mia madre."
"Che cosa?" Non riuscì proprio a trattenersi. Sperò che Sebastian stesse solo esagerando; ma a giudicare dai suoi occhi arrossati che desideravano così tanto poter piangere, dedusse che non era così.
"Per questo sei così fissato con la tecnica?" Sussurrò Blaine. Il violino con cui si esercitavano ogni giorno era ancora lì, appoggiato accanto al pianoforte: lo aveva lasciato dalla volta scorsa consapevole che, prima o poi sarebbe dovuto tornare a riprenderlo per provare.
"Per questo sei sempre teso quando suoni, perchè pensi a lei?"
Sebastian non disse niente. E fu allora che Blaine lo baciò dolce, con passione.
"Ehi. Ehi, guardami.” Afferrò delicatamente il suo viso tra le mani, facendo combaciare le loro fronti: “Tu... non ti rendi conto del tuo talento."
"Disse quello con l'orecchio assoluto", sbuffò.
"No, stammi bene a sentire: il tuo, è qualcosa che ti sei guadagnato. Non è un dono piombato dal cielo, non è qualcosa che deriva da tua madre. L'hai costruito con le tue mani Sebastian, con impegno e con passione. Riesci a fare dei veri e propri miracoli con quel violino, cose che dei musicisti per farle ci mettono anni."
"Non è niente di chè", lo interruppe brusco, distogliendo per un attimo lo sguardo: "Si tratta solo di allenamento. E non sono così bravo."
"Ma cosa stai dicendo?"
"Non riesco a suonarlo, Blaine. Quel pezzo."
Oh.
Il pezzo per cui sua madre era diventata così famosa.
Il pezzo per cui Sebastian si esercitava ogni giorno, ogni qual volta gli fosse possibile. Lo ascoltava prima di una lezione. Lo suonava prima di andare a dormire. Paganini era il cavallo di battaglia di Eliane Deneuve e, in quel momento, Blaine capì che fosse diventato l’ostacolo da superare di Sebastian.
"Beh... magari devi solo provare e riprovar-"
"Lo provo ogni giorno Blaine. Da anni.” Si prese la testa tra le mani. “Non mi riesce. Continuo a farlo male. Non sono in grado."
"No. Continui a farlo male perchè quando lo suoni non sei libero."
Ma quelle parole arrivarono alle orecchie di Sebastian come una piccola folata di vento. Era stanco di sentire quei discorsi, era stanco del bonario ottimismo di Blaine. Lui sapeva bene quale fosse la verità, ed era ben altra cosa.
"... Forse dovrei soltanto smetterla di illudermi."
Arrendersi, di fronte all’eventualità che lui non sarebbe mai riuscito a soddisfare sua madre; che durante il giorno del concorso, lei sarebbe stata lì, impassibile, mentre il pubblico lo applaudiva per educazione. Era una cosa troppo dolorosa da immaginare.
“Sebastian Smythe.”
Un po’ interdetto, spostò di nuovo lo sguardo su di Blaine, che era teso, quasi infuriato. Prima che potesse chiedergli cosa volesse, lo sentì di nuovo parlare.
“Tu dici che suoni perchè ti ha obbligato lei. Ma veramente riusciresti a dedicare ore intere, la tua intera vita, solo per qualcosa che non ti piace?"
Sebastian lo fissò un po' stupito.
"Potrai anche essere stato indirizzato da tua madre, ma tu ami quel violino. Ami suonare. Ami il palcoscenico, la musica, le persone che ti acclamano e non perchè sei figlio di Eliane Deneuve, ma perchè sei Sebastian Smythe. Perchè sei un grande, un grandissimo musicista. E quando guardano, loro ti invidiano, perchè alla tua età riuscivano a malapena a tenere in mano l'archetto mentre tu... tu fai sembrare tutto così semplice, hai una tecnica che è inimitabile.
Quando sei su quel palco, non è lei che suona. Non è lei che applaudono. Sei tu. Perchè fai qualcosa di unico."
Con calma, attenzione, Blaine si sporse leggermente verso di lui, per lasciargli un piccolo bacio sulle labbra.
“Non devi pensare a come suonerebbe lei. Non devi chiederti se le piacerebbe o no. Sebastian, tu devi suonare nel modo che più ti piace. Devi... devi farlo per te stesso.”
Fece una piccola pausa, durante la quale fu certo di essere inevitabilmente arrossito.
“E... e se non riesci a suonare per te stesso, se proprio non ce la fai... allora suona per me. Suona come se dovessi ascoltare solo io. Come se volessi dirmi qualcosa.”
Non era sicuro che quei discorsi avrebbero sortito l’effetto desiderato. Sebastian era così misterioso, e così imprevedibile nelle sue reazioni. Eppure, intuì di aver centrato le corde giuste della sua armonia personale, nel momento in cui lo vide sorridere; chinarsi, baciarlo, ricambiando tutte le attenzioni ricevute fino ad allora, e ringraziarlo, e sussurrare qualcosa di indefinito che assomigliava vagamente a una melodia.
In breve tempo si ritrovarono entrambi sdraiati su quel divano troppo piccolo per contenere entrambi, ma non importava: Blaine era sdraiato sotto Sebastian, mentre le sue mani scorrevano lungo la camicia chiara, sollevandola appena per sentire il calore invitante della pelle. I baci che si stavano scambiando, adesso, avevano perso gran parte di quella dolcezza per lasciar spazio a un bisogno più impellente.
“Blaine”, sussurrò Sebastian, in un modo che gli fece accaponare la pelle. In risposta, si avvicinarono ancora di più fino a far scontrare i loro bacini.
Era come vivere un dejà-vù: non era la prima volta che si baciavano con trasporto. Non era nemmeno la prima volta che si sentisse così eccitato, così desideroso di sentire Sebastian in ogni modo possibile; eppure, era diverso. Gli ricordò la prima volta che si erano baciati in quel giardino. Gli ricordò i minuti passati nella sala prove, nascosti dal resto del mondo, su quel pianoforte terribilmente traballante e il suono dei loro gemiti a riempire l’aria.
Semplicemente, era qualcosa che volevano entrambi. Di cui avevano bisogno. Che non era più possibile trattenere.
Sebastian fece per alzarsi e far sedere Blaine sulle sue gambe, ma le misere dimensioni del divano fecero sì che scivolasse a terra trascinando il ragazzo con sè e ritrovandosi a rotolare sul tappeto nero e grigio. In altre occasioni, probabilmente, avrebbero riso di quella situazione un po’ ridicola e si sarebbero sistemati con tutta calma, ma erano troppo concentrati per farlo. Erano troppo intenti ad assaggiare l’uno la pelle dell’altro, succhiandola avidamente, lasciando dei segni più o meno scuri che sarebbero svaniti soltanto dopo giorni. Blaine si aggrappò alle spalle di Sebastian quando lui approfondì i baci, facendo scorrere le mani lungo i fianchi, fino alle cosce ancora coperte dai jeans.
E in quel momento decisero che i vestiti erano diventati assolutamente un problema.
Non si preoccuparono di recarsi in camera da letto; non si preoccuparono di camuffare i gemiti, il modo con cui chiamavano il nome dell’altro, i respiri spezzati e lo schioccare delle labbra a ogni nuovo bacio. E nonostante l’impellenza, nonostante quel desiderio trattenuto da troppo tempo che fece rabbrividire entrambi con caldi e intensi spasmi, dietro, c’era un qualcosa che esprimeva dolcezza. C’era una sorta di attenzione. C’era il modo con cui aprirono gli occhi quasi insieme, le fronti imperlate di sudore appoggiate l’una contro l’altra, i sorrisi a distanza di un bacio appena socchiusi per gli ansiti.
Sebastian sembrò perdersi negli occhi di Blaine, e in tutti quei dettagli che soltanto lui poteva conoscere, e Blaine si sentì completo come mai era stato nella sua vita.
E fu allora che capì.
Il professor Cage era stato davvero un grande insegnante. Raramente commetteva errori, e le sue parole avevano sempre un significato veritiero e profondo, ma su una cosa si sbagliava: un duetto non era come fare sesso.
Un duetto era fare l’amore.
 
 
Le luci che filtravano dalle tapparelle della finestra investirono il viso e il corpo ancora nudo di Blaine, abbandonato su quel tappeto che adesso sembrava incredibilmente scomodo.
Quando riuscì a connettere il cervello, aprendo gli occhi e richiudendoli più volte prima di riuscire ad abituarsi al sole, cercò con un braccio la presenza di Sebastian da qualche parte, magari accanto a lui, oppure appoggiato contro il divano.
Non c’era.
Al posto suo, però, c’era una coperta che non ricordava nemmeno di avere, raccolta chissà dove nell’armadio, per evidente mano di Sebastian. Lo copriva fino al petto e, alla vista di quei segni, prova della notte passata, fece un piccolo sorriso.
Sorriso che si incuriosì di colpo, non appena udì un suono insolito e, allo stesso tempo, piuttosto familiare. Sul balcone, a qualche metro distante dal lui, c’era Sebastian; si affacciava verso New York, con nient’altro che i vestiti del giorno prima, i capelli scompigliati e il volto rilassato. Un attimo dopo, riuscì a scorgere il corpo del violino che portò sotto al mento, assieme all’archetto sollevato con delicatezza, sfiorando le corde.
Blaine voleva chiedergli cosa stesse facendo, perchè quel brano, perchè lì, proprio in quel momento. Voleva chiedergli se lo stesse suonando per lui.
Si accorse solo allora di essere stato svegliato con il suono dell’Ave Maria di Shubert.
Si accorse solo allora di stare piangendo per l’emozione.






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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***




Capitolo 24

 

 

Tu sei per me la porta del Paradiso. Per te rinuncerei alla fama, al genio, ad ogni cosa.
--Fryderyk Chopin



 



Ognuno di noi porta una musica nel cuore.
Può essere qualcosa di semplice, come il suono della porta che si chiude quando torni a casa da tua moglie, la musica che trasmettono tutte le volte durante quei pomeriggi estivi, passati in un lampo, tra cotte, amici e divertimenti.
Può essere una canzone. Può essere una musica scelta, oppure, una inventata.
Ad ogni modo capita a tutti di fermarsi nel bel mezzo di un’azione: rimanere un po’ incantato, contemplare il vuoto ascoltando quella melodia che si estende tra le vibrazioni del tuo cuore, le amplifica, in modo più o meno giusto; perchè non si possono cambiare i ricordi, e se una volta ti è capitato di associare una musica ad una scena, una immagine, un pensiero, allora questa non cambierà.
Per Blaine e Sebastian era la musica classica, inutile a dirlo; se ne erano innamorati, in un modo travolgente ed inevitabile. Non lo avevano scelto: uno non sceglie quale musica amare, piuttosto avviene il contrario.
Ma allora perchè classica, e non pop, jazz, o qualunque altro genere?
Perchè la musica può esprimere emozioni. Ma la classica, lei le risveglia.
 
 
 
“Secondo te sono pronti?”
Kayla si era voltata facendo cenno a suo marito di sistemarle la lampo del vestito, cercando di ignorare le strilla dei nipoti che saltellavano intorno a loro ammirandoli estasiati: erano vestiti a modo per la serata e, assieme alla loro eleganza nel portamento, assomigliavano a entità di un’altra epoca. Robert, in risposta alla moglie, borbottò qualcosa restando sul vago, tipiche frasi fatte di chi non sa cosa dire.
Era il giorno del concorso e, a dire il vero, non si era mai sentito così agitato in vita sua, neanche dovesse suonare lui. Continuava a guardare l’orologio, sistemarsi la cravatta, aggiustarsi gli occhiali sul naso e ignorare qualsiasi domanda inopportuna della moglie.
“Beh, in ogni caso, sarà una bella serata, no?” La sentì esclamare con un sorriso un po’ forzato mentre si avvicinava per sistemare la cravatta al marito. Era un modo per ricordargli tutti i passi avanti che avevano fatto, sia lui, come insegnante, che loro, come studenti. Aveva riscoperto l’amore per la sua professione e la fiducia nelle nuove generazioni.
Non importa come sarebbe andata a finire. Lui era fiero di quei ragazzi.
 
 
 
Mancavano cinque minuti.
Cinque minuti, e si sarebbe deciso tutto.
Cinque minuti nei quali Sebastian Smythe avrebbe deciso le sorti della sua carriera, del suo futuro, della sua vita. Cinque minuti, raccolti tutti in un’unica esibizione.
E lui se ne stava lì, seduto su uno sgabello di una stanza vuota, con i gomiti sulle ginocchia e le mani tese, che stringevano saldamente l’archetto del suo violino; teneva gli occhi fissi davanti a sè, contemplando un punto vuoto ed inesistente. Continuava a sospirare, tramite respiri che si facevano sempre più affannati, gli occhi che avevano cominciato a pungere terribilmente senza che lui potesse fare nulla per impedirlo.
Aveva paura. Dio, Sebastian Smythe aveva paura. Perchè sua madre era lì; perchè quella era l’esibizione più difficile della sua vita. Perchè, in quel momento più che mai, sentì le sue parole che gli sibilavano di non farcela, e tremò.
Ce l’avrebbe fatta.
Ce l’avrebbe fatta?
Ogni suo pensiero fu interrotto bruscamente dal rumore di una porta che si aprì di scatto, mostrando un Blaine alquanto scombussolato dal trambusto del concorso e dall’agitazione per prima. Aveva appena finito il suo brano, era stato splendido; come sempre, del resto.
“Sebastian, eccoti”, soffiò con una sola mandata di fiato mentre cercava di riprendere aria e farsi più vicino a lui. Ma Sebastian non lo considerò, continuava a fissare quel punto del muro e il suo corpo non accennava a volersi calmare.
“Ti ho cercato dappertutto”, sussurrò, “Tra poco tocca a te, si può sapere che ci fai in questo stanzino di strumenti dimenticati?”
“Buffo.”
Blaine lo guardò confuso, fermandosi di scatto a pochi centimetri da lui: “Che cosa è buffo?”
“Strumenti dimenticati. Suona bene. E’ il posto esatto per me, un posto dimenticato da Dio che nessuno ha più voglia di cercare.”
“Io l’ho cercato. Io ti ho cercato, Sebastian”, mormorò dopo un breve silenzio, accovacciandosi di fronte a lui e perdendosi nei suoi occhi chiari, adesso, così spaventati. E fu per colpa di quella dolcezza; per colpa del suo tono soffuso, del suo tocco delicato, delle parole così dolci, che Sebastian abbandonò a terra l’archetto per afferrare di scatto la sua mano e stringerla con forza.
“Non ce la farò.”
Blaine non credeva di aver sentito veramente quelle parole e, per un attimo, restò immobile.
“Non ce la farò, Blaine. E’ tutto sbagliato. Io non posso vincere questo concorso, non posso suonare quel pezzo, non sono in grado.”
“Va bene, va bene, adesso guardami. Sebastian, guardami.”
Lo fece. I suoi occhi ambrati gli ricordarono miele caldo, spalmato con attenzione e delicatezza; gli ricordarono quella sfumatura di oro nel suo violino, misto tra un marrone e un rosso cremisi.
“Ricordi dopo la prima fase del concorso, quando ci siamo ri-presentati?”
Come dimenticarla. La prima volta che si erano parlati, senza odio o rancore. La prima volta che si erano visti davvero.
“Tu mi hai detto che eri così, come ti vedevo io. Vuoi sapere cosa ho visto, quella volta?”
Annuì. In un certo senso, era una cosa che desiderava conoscere da tempo.
“Ho visto un ragazzo, che era tutto ciò che avrei voluto essere. Ho visto una persona forte, tenace, che non aveva paura ad affrontare tutti i problemi del mondo, perchè per lui erano soltanto dei piccoli fastidi. Ho visto colui che sarebbe diventato il primo violino della polifonica di New York, perchè aveva un talento naturale. Ho visto l’uomo di cui mi sarei innamorato intensamente, con tutto il mio cuore.”
Con un piccolo gesto, gli occhi di Sebastian si spalancarono, il suo cuore che ormai stava rischiando di esplodere per quanto battesse forte.
“Sebastian, tu vincerai quel concorso. Perchè tu sai di poter vincere. Nessuno può privarti della tua bravura.”
Dopo un momento di silenzio, Sebastian si alzò. Trascinò Blaine verso di sè, facendolo aderire completamente al suo corpo e stringendolo in un abbraccio che sapeva di emozione, passione, riconoscenza. Lo baciò, per molti secondi: aveva bisogno si sentire che quelle parole fossero vere, perchè credeva in lui. Si fidava ciecamente, in realtà: non aveva mai fatto così tanto affidamento su qualcuno.
Così, quando si scostarono con un certo malincuore, Blaine che teneva ancora gli occhi socchiusi per assimilare il sapore delle sue labbra, lui gli diede un ultimo piccolo bacio a bruciapelo, sussurrandogli “grazie”, con dolcezza.
“Aspettami qui – bisbigliò – vado a vincere il concorso e torno.”
Lo vide annuire, con ancora gli occhi chiusi, e si prese del tempo per accarezzargli la schiena e contemplare quell’espressione sicura e rilassata. Andò via a sua insaputa, raccogliendo violino e archetto e uscendo frettolosamente dalla stanza.
 
Blaine ci mise un po’ di tempo prima di riuscire a ricomporsi e assumere un atteggiamento normale: Sebastian riusciva ancora a provocargli quei brividi che lo assalivano fin dentro al cuore e gli impedivano di respirare. Ma no, non sarebbe rimasto chiuso dentro quello stanzino per tutto il tempo senza vedere il suo ragazzo conquistare milioni di persone con il solo potere di un violino: si diresse verso l’atrio, attraversò il lungo corridoio pieno di studenti e maestri intenzionati a fargli i migliori complimenti, perchè in quel momento, non gli importava.
Però non riuscì a ignorare la presenza di Eliane Deneuve proprio accanto alla porta che conduceva all’atrio, in un impeccabile abito da sera che le risaltava la carnagione pallida e gli occhi chiari. Si fermò con calma, rallentando il passo pian piano fino a fronteggiarla con la sua stessa freddezza e austerità; aveva capito, ormai, che con quella donna non sarebbe mai riuscito ad andare d’accordo.
“Buona fortuna.” Commentò lei. Lo disse più per formalità che per vera convinzione: a Blaine non sfuggì l’espressione finta e costruita ad arte per far bella figura con gli altri presenti, quindi, educatamente, si limitò a rispondere: “Grazie, ma non ne abbiamo bisogno.”
Eliane gli rivolse un’occhiata piuttosto accigliata. “Non è mai prudente essere troppo sicuri di sè.”
“No, infatti, ha ragione. Ma si dovrebbe essere sicuri del proprio figlio.”
Non aggiunse altro. Con quella frase, si erano detti tutto.
Superò la piccola folla creatasi nel corridoio per poi arrivare dentro alla stanza dei concerti, e Sebastian era già sul palco, un solo riflettore puntato su di lui, l’espressione assorta e seria mentre si metteva in posa e sistemava il suo violino.
Poi, una voce forte e appena robotizzata annunciò il suo debutto: Paganini, Capriccio numero 24.
Vide la gente intorno a lui guardarsi confusa, come se non fosse possibile che un simile pezzo fosse suonato da un ragazzo così giovane. Blaine si fece da parte, appoggiando la schiena contro la parete in cartongesso e limitandosi a sorridere: sapeva che Sebastian avrebbe suonato pensando a lui.
Per questo, sarebbe andato sicuramente bene.
 
 






 
 
Cinque anni dopo

 
 
“Blaine. Blaine!”
Non era possibile che finisse così tutte le Sante volte. Per quanto ancora avrebbero continuato in quel modo? Sebastian era stufo. Era letteralmente stufo; adesso avrebbe messo la parola fine a quella stupidissima storia che andava avanti da anni.
Nel momento esatto in cui aprì la porta del camerino, scovò Blaine con ancora la cravatta abbandonata sulle spalle e le mani nel sacco; o meglio, dentro a un tubetto di gel. Quanto meno si era degnato di farsi la barba.
“No Sebastian, ti prego lasciami spiegare, non lo facevo da mesi, per favor-“ Ma nessuna supplica bastò a calmarlo: fu raggiunto in due ampie falcate e gli sfuggì il tubetto dalle mani, che finì contro il muro e, tramite un rimbalzo, dritto nel cestino. Blaine guardò quello che ai suoi occhi fu un omicidio con la bocca spalancata e gli occhi pieni di terrore.
“Ti rendi conto di quello che hai fatto?”
“Blaine, cazzo, manca un quarto d’ora al concerto e tu ancora non sei pronto?”
“Sono pronto. Prontissimo.” Detto quello, fece il nodo alla cravatta come meglio potè e si lisciò i pantaloni neri ed eleganti. “Come sto?”
“Come un disperato.”
Ah ah, certo, prendi in giro il povero pianista.” Roteando gli occhi al cielo, lasciò che il suo ragazzo gli aggiustasse il nodo alla cravatta, facendosi lentamente più vicino. Cercavano di essere rilassati, ma in realtà la tensione era papabile da parte di entrambi: non avevano mai suonato in un’orchestra così grande, con un direttore così importante e di fronte a mezza New York venuta solo per sentire loro due, il pianoforte e il primo violino. Non riuscivano ancora a crederci che stesse succedendo veramente.
“Hai preso i biglietti per Amanda e Sarah?”
Sebastian fece una piccola smorfia nel sentire quelle parole: Blaine glielo aveva ripetuto almeno cento volte.
“Per l’ennesima volta, sì. Ci sono tutti, Brittany e Santana sono già ai loro posti.”
“Ultima fila come sempre, per nascondere le lacrime che verseranno?”
“Probabilmente”, sghignazzò lui. “Jodie è con Kayla e il professore. Credo che si siano portati i ragazzini al completo.”
“Spero solo che Molly non scoppi a piangere come l’altra volta.”
“Io spero solo che smetta di chiamarci zio Seb e zio Blaine.”
Blaine fece una smorfia, giusto un attimo prima di ricevere un piccolo colpetto sulla spalla, come per incitamento; adesso, vestiti di tutto punto, le spalle tese e gli sguardi persi a ripassare le loro battiture, sembravano davvero due musicisti pronti per il loro grande debutto. Sebastian fece una piccola pausa prima di mormorare: “Mi dispiace che non siano potuti venire i tuoi.”
“Non sono riusciti a trovare un volo economico, ma hanno detto che non si perderanno la prossima volta.” Si voltò di nuovo verso lo specchio con l’intenzione di ricontrollarsi per l’ultima volta. Cercò di non gioire troppo all’idea che il suo ragazzo fosse dispiaciuto per l’assenza dei suoceri, non era ancora il momento: dopotutto, sua madre continuava ancora a tirare fuori quella storia di lui che sussurrava cosacce al telefono solo per fare uno stupido scherzo da bambini.
“Sempre se ci sarà una prossima volta.”
Il tono pragmatico e serio di Sebastian lo fece rabbrividire: “Non tutto ottimismo insieme, per carità.”
E poi, dopo essersi scambiati un sorriso divertito, il suo diventò leggermente più serio, mentre sviava lo sguardo a terra e chiedeva di Eliane; a giudicare da come il ragazzo scosse la testa, e da come mormorò qualcosa simile a un “Non lo so”, capì che non fosse ancora giunto il momento della riappacificazione. Dopo il concorso Kuznets, i loro rapporti si erano incrinati pericolosamente, senza mai riallacciarsi del tutto.
“Spero che venga.”
“Anche io”, rispose Sebastian, ed era sincero; tuttavia, non era ancora riuscito a perdonare il modo con cui si era comportata al suo primo incontro con Blaine.
Avevano ancora qualche minuto prima di uscire dalla stanza che, per la loro tempra, assomigliava molto ad una sorta di camera iperbarica. Sebastian si avvicinò a Blaine rubandogli un bacio sulla bocca, per poi godersi la sua espressione imbambolata, per niente mutata nel tempo. Forse potevano esserci qualche accenno di barba in più e lineamenti più marcati, ma era sempre lui, il pianista che continuava a farlo impazzire in tutti i modi possibili.
“Hai mai pensato a cosa faremo?” Lo sentì dire, e quella domanda lo prese un po’ in contropiede.
“Quando?”
“Quando tutto questo sarà finito”, precisò Blaine. “Quando saremo troppo vecchi anche solo per tenere in mano uno strumento.”
“Un po' tipo il professore?”
Si abbandonarono a una piccola risata, eliminando un po’ dell’ansia accumulata. Era presto per pensarci, ma loro erano fatti così: nel giorno del loro primo concerto ufficiale stavano già pensando a quando avrebbero smesso di suonare. Un po’ come quando avevano pensato al giorno in cui si sarebbero lasciati mentre discutevano sullo stare insieme; Sebastian provò una fitta piacevole all’altezza del petto, ricordando come le sue previsioni di uno, due anni al massimo, si fossero rivelate completamente sbagliate. Così, ancora una volta, si ritrovò a riflettere su un futuro incerto, ma allettante.
“... Non saprei.” Ammise infine. Quella risposta non piacque a Blaine, che lo fissò deluso chiedendo: “Non hai nemmeno un desiderio?”
Ne aveva tanti. Troppi, per essere elencati. Voleva finire quel concerto il prima possibile così da poter tornare a respirare con regolarità; voleva che continuasse a essere felice con Blaine come succedeva ogni giorno da quasi sei anni. Voleva vedere Santana e Brittany impazzire con i preparativi per il loro matrimonio; voleva sapere da Molly quale strumento avrebbe scelto di suonare, perchè lui, a riguardo, era stato chiaro: tutto, tranne il flauto traverso.
“... Forse...” mormorò infine, sentendosi anche un po’ stupido per quello cui stava pensando. Ma a Blaine poteva dirlo, lui lo ascoltava sempre.
“Forse sarei davvero come il professore.”
... Anche se non sempre lo prendeva sul serio.
“Sebastian, non scherzare.”
“Non sto scherzando.”
Aspettò pazientemente che sparisse dal suo viso quell’espressione da bambino confuso e allibito, leggermente irritante, così da poter aggiungere: “Sì, insomma... insegnare.”
Fare il professore. Essere da guida per altri ragazzi. Il sorriso sornione che, finalmente, gli rivolse Blaine gli fece capire che, magari, non era una così cattiva idea.
“Sarebbe perfetto!” Lo sentì esclamare, non riuscendo a trattenersi dal dargli un altro bacio. “Tu saresti perfetto.”
“Insomma, non lo so. Di certo finirei per far piangere un sacco di ragazzini.”
“Sicuramente”, asserì Blaine, “E poi ameresti alla follia i piccoli spacconi che ricordano tanto te.”
Oh, sì, era molto probabile.
“All'inizio forse sì”, mormorò Sebastian, con un sorriso sghembo: “Ma poi farei capire chi comanda.”
Blaine ridacchiò a quell’affermazione, perchè ce lo vedeva proprio un Sebastian di qualche anno più grande dare filo da torcere alle sue versioni in miniatura.
“E poi ci sarebbe il ragazzo carino e un po' impacciato, che ti incanterà al pianoforte con i suoi riccioli”, commentò con un tono vago e provocatorio, guadagnandosi una lunga occhiata del violinista. “E a quel punto io sarò cornuto.”
“Idiota. Lo sai bene che non potrebbe mai succedere.” Lo attirò a sè in un abbraccio, avvicinando le labbra sottili al suo orecchio sinistro; esitò, facendo scorrere una mano lungo la schiena, beandosi del profumo del balasmo di Blaine. E poi, tutto d’un fiato, lo disse.
“Innamorarmi di te è stato un evento del tutto eccezionale.”
Blaine fece finta di niente; in modo del tutto naturale, sciolse l’abbraccio, sfoggiò un tenero sorriso e riprese ad osservarsi attentamente allo specchio. Un atteggiamento piuttosto insolito, visto quello che aveva appena detto.
“Blaine? Mi hai sentito?” Nervosamente, portò il peso da un piede all’altro, con le mani in tasca, le guance che diventarono un po’ più rosse per l’imbarazzo. Odiava quando il suo ragazzo si divertiva a prenderlo in giro in quel modo, perchè era ovvio che avesse sentito, era ovvio che stesse facendo tutto quello solo per fargli perdere il senno, e così, mosso dall’agitazione, aggiunse: “No perchè, giusto per la cronaca, ho appena detto che...”
Si fermò.
“Che?” Lo incitò Blaine con un sorriso diabolico, dedicandogli la sua completa attenzione. Oh, va bene, doveva proprio dirlo?
“Che sono innamorato di te.”
Che strano. Fu come se il suo cuore si fosse riempito di qualcosa di nuovo, forse, la certezza; forse, la sensazione di aver fatto la cosa giusta, o la consapevolezza di essere inevitabilmente legato a qualcun altro. E quando Blaine si gettò tra le sue braccia, non servì nessun’altra conferma, per capire quanto fosse vero quello che provava.
Una prima risposta avvenne tramite un bacio. Uno di quelli che si scambiavano giornalmente, appena svegli, o prima di andare a dormire.
“Lo so”, disse infine Blaine.
“Lo sai?” Lo prese per le braccia, cercando qualsiasi traccia di menzogna nei suoi occhi ambrati. “Ma come... non te l’ho mai detto.”
“Ma me lo fai capire.” Sussurrò lui. “Sempre. Anche quando non te ne accorgi.”
Allora era vero. Allora c’erano delle coppie destinate a non finire.
Allora lui e Blaine sarebbero andati avanti, proprio come avevano fatto in quegli anni. Prendendosi in giro, criticandosi, litigando per chi avesse suonato meglio, ma sostenendosi l’un l’altro. Sempre.
“Quindi ho fatto una cosa del tutto inutile nel dirlo, e per di più facendo la figura del cretino.” Disse allora Sebastian. Blaine intrecciò una mano alla sua completamente estasiato e divertito, facendogli anche l’occhiolino: “Oh, niente affatto. Perchè adesso che l'hai detto ad alta voce ti costringerlò a dirmelo ogni giorno. Siamo d’accordo?”
Esitando giusto un momento, con il cuore più leggero disse: “Siamo d’accordo.”
Proprio come cinque anni prima, quando erano soltanto due ragazzi che sognavano di vincere un concorso.
Non avevano vinto.
Ma quel concorso li aveva riempiti di entusiasmo; li aveva avvicinati a Robert, a Kayla, a Jodie e a moltre altre persone. Li aveva dato la spinta necessaria per andare avanti per arrivare fino a lì.
Appeso alla porta socchiusa, oltre la quale i due ragazzi si stavano dando il bacio della buona fortuna, c’era un manifesto:

 

Chopin, concerto numero uno per pianoforte e orchestra.
Direttore d’orchestra: Maurice Diderot
Pianoforte: Blaine Anderson
Primo violino: Sebastian Smythe











***
 

Angolo di Fra

 
 
Si penserebbe che dopo due capitoli in cui non ho scritto nessun commento, abbia tantissime cose da dire.
Invece no. A parte che terminare con il capitolo 24 e usare il Capriccio numero 24 di Paganini è davvero una finezza.
Questa storia è stata, dal punto di vista di scrittura, la più facile e piacevole da scrivere. E’ stato semplicemente bello. Mi ha divertito, mi ha emozionato, mi ha fatto riscoprire il mio amore per la musica classica, che avevo messo anche io un po’ da parte. Eggià.
E poi vorrei ringraziarvi, come sempre.
Voglio ringraziare SeleneLightwood perchè questa storia ha preso forma nel momento in cui l’ho raccontata a lei, in quella piccola piazza di Macerata mentre si esaltava quasi più di me. Ti voglio tantissimissimo bene. Sallo.
Voglio ringraziare Ilarina per la grafica e il supporto morale e Irishmarti per essere stata la mia ancora di salvezza in diverse occasioni. Voglio ringraziare tutte le persone che hanno letto la storia e tutte le fan art che mi avete regalato. Ogni tanto vado nella mia pagina e me le guardo una ad una. Sì lo so, sono patetica.
Voglio ringraziare tutte le klainer che mi hanno dato una possibilità, anche se non era la loro ship, anche se odiavano la seblaine e, invece, hanno voluto fidarsi di me, accompagnandomi ancora una volta in questa storia. Non so come ringraziarvi, davvero.
Ma soprattutto, ringrazio chi l’ha commentata passo passo: Mimi311, Astrid 002, Carly 90, Lucy Liu, alessandra_carparelli80, Aires89, somochu, Elbereth_, ZukunftSehnsucht, viviola, nem, Chuzzah, _zia cla_, hiccup, Chartraux.
E adesso, la vostra Medea farina (zero zero) se ne va in ferie! Eggià. I telefilm vanno in pausa invernale, e così anche io. No a parte scherzi, ho bisogno di un po’ di pausa da word per studiare e dedicarmi ad alcune cose personali. Non vi sto abbandonando, tranquilli. Però non so dirvi quanto durerà la pausa. Non lo so.
Spero di ritrovarvi qui il prossimo anno (lol che cosa bella da dire).
Medea, Sebastian, Blaine, Robert e tutti gli altri vi augurano buon Natale e vi ringraziano!
 

 
 

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