Fire and Ice

di Angy_Valentine
(/viewuser.php?uid=54031)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Troublesome Morning ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Meetings and Greetings ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Not a pleasure to meet you ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Famiglia ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Inquietudini ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Collaborazioni ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Nothing special but our Company ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Ombre ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Nessuno per me ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Distanze ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Preludio ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Troublesome Morning ***


Prima di cominciare la storia, vorrei fare una piccola premessa "esplicativa". In questa AU gli "evil sides" dei protagonisti hanno un corpo proprio, nel senso che non coesistono all'interno del personaggio, ma sono persone a sé stanti. Per fare un esempio, Ichigo e Hollow Ichigo sono due persone differenti, non un'unica cosa, così come Deak e Lavi... giusto per evitare che qualcuno faccia confusione, ecco xD Non mordo se lasciate qualche commento, eh xD Anzi, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate. Detto questo, vi lascio alla storia =v=


Capitolo 1 - Troublesome Morning


Era in ritardo. Era in ritardo, spaventosamente in ritardo, in ritardissimo. Correva più veloce che poteva, cercando di guadagnare quei minuti persi per colpa dell’autobus che era arrivato con più di mezz’ora di ritardo. La borsa nera che teneva a tracolla, piena di libri, le sbatacchiava violentemente contro il fianco a ritmo con la sua corsa, il fiato le si condensava davanti al viso nonostante il filtro della pesante sciarpa che la copriva fino al naso. Gli occhi lavanda le lacrimavano per il freddo, le gambe le facevano malissimo, l’angolo del libro di neuroscienze le stava ammaccando l’anca, ma poco importava: non poteva permettersi di arrivare in ritardo a lezione, a costo di travolgere innocenti vecchiette che passeggiavano avvolte in pesanti pellicce e passanti che si erano fermati a chiacchierare in mezzo al suo percorso, costringendola a snocciolare “scusate” e “permesso” come pioggia in aprile.
Il ghiaccio per terra di certo non aiutava: era stata costretta a rallentare più volte per evitare di finire col sedere all’aria, cosa che la portava a perdere ulteriormente tempo prezioso. Il cielo era grigio e minacciava altra neve in giornata, come del resto accadeva da una settimana a quella parte. Non fosse stato che non voleva prendersi indietro con le prove di metà trimestre, se ne sarebbe stata volentieri a casa al calduccio, sotto le coperte. Ma dato che per le vacanze aveva ben altri progetti, che stare a ripassare su quei tomi enormi in vista degli esami, si rassegnava ogni mattina ad uscire dall’appartamento che condivideva con la sorella gemella ed un fratello più grande. Ed infatti eccola lì, ad inveire contro il freddo e l’inverno, in quella sua disperata corsa contro il tempo.
Di quando in quando controllava l’ora, sollevando la manica del giubbotto a fatica per colpa del guanto e, soffocando un ringhio frustrato e qualche imprecazione, cercava di andare più veloce. Esultò tra sé quando vide la struttura bianca che costituiva la facoltà, quegli altissimi cinque piani puntellati dalle tapparelle nere delle finestre, ed esultò maggiormente nel notare che, per fortuna, non era poi così in ritardo. Nel cortile c’erano poche anime in tutto, chi fumava gli ultimi aliti di nicotina prima delle ore di lezione, chi invece finiva di trascrivere appunti al portatile.
Rallentò per riprendere fiato, ma la sua epopea non era di certo finita: aveva lezione al quarto piano, e le alternative che le si presentavano davanti non erano molte. O saliva a rotta di collo le scale, arrivando definitivamente senza fiato in classe, oppure prendeva l’ascensore che, però, le avrebbe portato via minuti preziosi per quanto era lento. Ormai che c’era, decise di farsi le quattro rampe di scale con quel poco tempo e fiato che le restavano, così si sistemò meglio la borsa sulla spalla e si avviò verso l’ingresso. Schivò studenti ed insegnanti, elargendo altre scuse mentre tentava di stare in equilibrio e non perdersi la borsa per strada quando, poco prima di svoltare l’angolo, finì addosso a qualcuno, rovinando a terra con un tonfo.
«Ahi… scusa, non t’avevo visto.»  disse, mettendosi in ginocchio per raccogliere i libri e quaderni che, uscendo dalla borsa, si erano sparpagliati sul pavimento.
«Senti, scusa… sapresti dirmi dove posso trovare…».
Non lo lasciò finire, abbracciando la cartella e tirandosi su, stroncando sul nascere ogni tentativo del giovane di chiederle qualcosa.
«Scusami, ma sono in ritardassimo e se non mi sbrigo mi chiudono fuori! Scusami ancora!» fuggì su per le scale senza voltarsi indietro, il rumore dei suoi passi sui gradini di marmo coprì quel “Ehi” stupito del ragazzo contro cui si era schiantata.
Non l’aveva nemmeno guardato in faccia, presa com’era dalla frenesia di arrivare in classe. Altrimenti, se si fosse soffermata solo un istante, si sarebbe accorta che l’agenda che il ragazzo stringeva in mano era proprio la sua.

«Ohilà, Darkie, alla buonora!».
«Zitto, sai. Oggi ho fatto i salti mortali per arrivare puntuale.».
Il giovane albino che l’aveva salutata scoppiò in una fragorosa risata, di fronte alla sua aria scocciata e alla voce ringhiante con cui gli aveva risposto. Levò la giacca e la borsa che aveva appoggiato sulla sedia per tenerle il posto e le gettò con noncuranza sul posto accanto, stravaccandosi ed incrociando le braccia dietro la testa.
«Oggi hai meno voglia del solito, eh, Hichi.».
«Ogni tanto capita anche ai migliori, lo sai.».
Era un tipo fatto un po’ a modo suo, Hichigo Shirosaki, il cui vero cognome sarebbe stato “Kurosaki”. Ma proprio per celebrare il proprio candore aveva preteso quella piccola modifica, e così si faceva chiamare anche dai professori. Al di là dell’aspetto veramente particolare – l’incarnato cadaverico e i capelli bianchissimi gli attiravano sguardi come calamite –, nessuno l’avrebbe mai definito tipo da tenere la testa china sui libri per studiare. Infatti Hichigo era tutto fuorché voglioso d’imparare e laurearsi. Cosa ci facesse in una facoltà come quella restava ancora un mistero senza risposta ma, nonostante la palese inclinazione alla nullafacenza cronica, c’era da dire che riusciva a portarsi a casa dei voti veramente notevoli. Almeno, le tante, troppe volte in cui la scongiurava di fargli copiare le risposte durante i test. Infatti era rarissimo vederlo con il naso in mezzo alle pagine di un libro, il più delle volte lo si poteva trovare ad attaccar briga con quelli più vecchi, scaramucce che talvolta sfociavano in vere e proprie risse da manuale. La maggior parte degli studenti lo evitava come la peste, tutti convinti che fosse una sorta di psicopatico erroneamente lasciato in libertà non vigilata o fuggito da qualche riformatorio.
Che effettivamente avesse un carattere parecchio turbolento era innegabile, però aveva anche quello che amava definire “il suo codice d’onore”. Portava rispetto a chi lo rispettava a propria volta, e il tradimento non rientrava affatto nelle sue inclinazioni morali. Fissato com’era alla morale, lui per primo non perdonava i tradimenti.
L’aveva incontrato poco prima dell’esame di ammissione, e il loro primo approccio non era stato esattamente dei migliori: Hichigo l’aveva derisa per il suo essere così minuta e dall’aspetto adolescenziale, esordendo con un “Ehi, mocciosa, guarda che le medie stanno da un’altra parte!” e lei sarebbe pure potuta passar sopra le sue frecciatine, non fosse stato che poi se lo sarebbe ritrovato accanto anche durante il test. Sperava la smettesse almeno lì di punzecchiarla, e invece no. Se possibile le battutine erano aumentate, finché non l’aveva visto posare la penna concludendo il compito con mezz’ora d’anticipo rispetto alla scadenza, lasciandola a bocca aperta. Erano andati avanti per metà anno a suon di battutine e risposte velenose, rendendosi conto solo in seguito di esser diventati ormai inseparabili.
«Il professor Wenhamm non è ancora arrivato?» chiese, sedendosi accanto all’albino e sospirando per riprendere fiato. Tirò fuori dalla borsa il volume di biologia e il quaderno degli appunti, relegandoli in un angolo del banco.
«Chi, il biondo? Ovvio che no.» rispose lui, sbadigliando con aria svogliata «Con ‘sto tempo del cazzo arriverà in ritardissimo, vedrai. Giusto in tempo per il cambio dell’or-…».
«Scusate il ritardo, ragazzi!» lo interruppe il docente, facendo morire ogni sua speranza di un’ora buca.
«Poteva far con comodo, prof. Sia mai che per la fretta di arrivare a far lezione si schianti da qualche parte!».
«Non menar sfortuna, Shirosaki.» replicò l’altro, con un sorriso ed una sana dose di ironia «Son prudente proprio perché non voglio farti sentire in colpa in caso mi succedesse qualcosa. Ma sai che ci tengo a vederti negli orari di lezione, sennò da questa facoltà non ci uscirai mai senza la laurea in mano.».
«Ehi! Non mi dia del nullafacente, prof! Potrei offendermi, sa?».
«Indubbiamente ognuno ha i suoi tempi, non posso darti torto. E so che talvolta la verità ferisce, Shirosaki, ma è anche bene affrontarla. Soprattutto in vista della prova della settimana prossima.».
Nella classe si levò un soffuso vociare di protesta, condito da una sonora imprecazione da parte di Hichigo, che si beccò una gomitata nelle costole.
«Che cazzo mi picchi, Darkie! Vuole far compito la settimana prossima!».
«Hai sette giorni di tempo, dai… meno scazzottate e più libri per un po’ di giorni.» lo liquidò facendo spallucce, chinandosi per prendere la cartella ed ignorando il fiume di improperi che uscivano dalla bocca del suo amico.
Ci frugò dentro per una manciata di minuti, ficcandoci dentro entrambe le mani per spostare libri e quaderni ma niente, l’agenda non si trovava proprio. Sparita. Persa. Introvabile.
«Che cavolo! Lì dentro mi sono appuntata tutto!» sbottò, ributtando nella borsa tutto il materiale che aveva tirato fuori per quell’inutile ricerca.
Hichigo si guardò bene dal commentare, sapeva che la gomitata gli sarebbe arrivata sui denti se non avesse misurato le parole – anzi, se non avesse tenuto la lingua tra i denti.
«Dai, era solo un’agenda…» si lasciò sfuggire.
«Non era solo un’agenda! Lì dentro mi ero appuntata tutte le date delle prove e gli orari dei corsi extracurriculari!» lo fulminò con lo sguardo, riprendendo la borsa e cercando nuovamente, in caso fosse rispuntata per miracolo.
Ma niente, quella piccola agenda dalla copertina beige e il bordo nero, contenente il suo piccolo tesoro di date e orari, si era volatilizzato nel nulla. Puff, dissoltasi nell’aria come un fantasma.
Afferrò con rabbia la penna per segnarsi la data dell’esame sul quaderno, ignorando Hichigo che, sotto sotto, se la rideva a vederla così disperata per uno stupido quadernino. Per quel che lo riguardava, era già tanto sprecare i soldi per farsi le fotocopie dei suoi appunti, figurarsi spenderne altri per appuntarsi quei diabolici appuntamenti con il 18 risicato.

«Andiamo, ma sei sicura di non averla lasciata a casa?».
«Ti dico di no, Hichi! Al di là che preparo la borsa la sera prima, ma è sempre l’ultima cosa che metto in cartella! Non posso averla dimenticata!».
Seguirono il fiume di gente che usciva dalla classe, sviando appena possibile per avviarsi verso i portoni delle scale. Iniziarono a scendere diretti al piano inferiore, evitando studenti e professori che erano diretti nella direzione opposta, con Hichigo che le faceva da guida per non farla schiantare contro qualcun altro, vista l’aria meditabonda che aveva in volto. Aveva rischiato di inciampare per non aver visto l’ultimo gradino, non fosse stato per lui che l’aveva presa al volo prima che si spalmasse a terra come un tappeto.
«Sta’ a vedere che meni tutte ‘ste storie e poi l’hai lasciata a casa sul serio. E se è così mi paghi pure da bere, porca miseria, ormai mi hai sfracellato le palle con ‘sta cazzo di agenda!».
«Hichigo Shirosaki, piantala subito o le palle te le sfracello anche fisicamente! E sta’ sicuro che per il prossimo test t’arrangi!».
«Cosa?! Che è ‘sto vile ricatto?! È da quando sei arrivata che non fai che parlare di quel maledetto quadernetto!» il ragazzo buttò con malagrazia la cartella su uno dei banchi, facendo sobbalzare praticamente tutta la fila «Magari si è stufato pure lui di farsi bistrattare a suon di date e orari, ha fatto le gambe e se l’è filata dalla tua borsa.».
«Ma piantala di dire cretinat…che hai detto, scusa?».
«Ah?» Hichigo si voltò a guardarla quasi preoccupato, mentre appendeva la giacca ad un appendiabiti «Ho detto che forse hai rotto le balle pure all’agenda e per fuggirti ti è scappata dalla borsa.».
«La borsa, ma certo!» lo afferrò per la maglia con entrambi i pugni, nonostante la considerevole differenza di stazza che li divideva «Hichi, sei un genio!».
«Non dirmi che te ne sei accorta solo adesso, eh.» sbuffò lui, facendo spallucce e sedendosi al posto su cui aveva buttato la borsa «È da due anni che tento di fartelo capire.».
«No, no, le scale!» lo interruppe nuovamente, concitata «Prima di arrivare in classe mi sono scontrata con un tipo, e i libri e quaderni mi sono usciti! È stato allora che l’ho persa, ne son sicura!».
Hichigo si poggiò allo schienale della sedia, scrutandola con aria scettica.
«E chi era quel tizio? Se sai chi è, non dovresti metterci tanto a ritrovarlo, no? Magari l’ha presa e te la vuole restituire.».
«Hai ragione, sì… non fosse che non ho la minima idea di chi fosse quel ragazzo.» sbottò lei tra i denti, sedendosi accanto a lui e tirandosi in grembo la borsa «Avevo troppa fretta di arrivare per fermarmi a guardarlo e non mi ero accorta di aver dimenticato l’agenda.».
L’albino si astenne dal darle dell’idiota, anche se ne avrebbe avuto tutte le ragioni. Se l’era cercata, alla fine, lei e la sua fissa di non poter – dover – arrivare in ritardo a lezione. Da un lato ammirava il suo essere così diligente, così organizzata e comunque sempre disposta ad aiutarlo – nonostante l’avesse minacciato più volte di negargli le ore di ripetizioni e le fotocopie degli appunti. Dall’altra, però, trovava i suoi sforzi assurdi: non perché fosse stupida, ma perché si privava di ore che poteva passare a divertirsi, piuttosto che starsene tappata in camera a consumarsi gli occhi sui libri. D’accordo che proveniva da una famiglia di legali di tradizione e che per questo si sentisse in dovere di non deludere i suoi parenti, però talvolta esagerava davvero, almeno secondo i suoi parametri.
Già se la vedeva a correr fuori dalla classe per cercare il tuo piccolo tesoro di carta e inchiostro, ma l’arrivo del docente la obbligò a mettersi seduta a seguire. Avrebbe dovuto rimandare ancora, dal momento che quel giorno avrebbero iniziato i ripassi prima dell’esame di metà trimestre. Chiunque guardandola avrebbe potuto dire che era tranquilla, ma ormai Hichigo la conosceva troppo bene per non notare il nervoso tamburellare del piede sul pavimento e le occhiate che di quando in quando lanciava all’orologio sopra la cattedra. Quando finalmente arrivò il cambio dell’ora Darukia scattò in piedi come una molla, gettando tutto in borsa con una velocità che aveva dell’incredibile, e si voltò verso il ragazzo come a volergli dire qualcosa.
«Sì, sì, la giacca e la borsa te le prendo io, e ti tengo pure il posto per psicologia dinamica.» la placcò lui, agitando la mano come se stesse scacciando un’idea stupida «Su, muovi il culo e sparisci, nanerottola.».
«Ti sei riguadagnato metà delle risposte per il prossimo test, Hichi, grazie!» rispose lei, facendosi strada tra la gente e scappando fuori.
«E che sia la volta buona…» sbottò l’albino, prendendo sottobraccio entrambi i giacconi e caricandosi in spalla le cartelle, dirigendosi svogliatamente verso la classe accanto.

**

And I still wonder
Why our heaven has died
The skies are all falling
I’m breathing but why?
In silence I hold on
To you and I…


«Mmmh…».
Una mano esile spuntò da sotto il pesante piumone appallottolato, cercando a tentoni il cellulare che vibrava senza sosta sul comodino. Ed intanto la morbida melodia al pianoforte s’era fatta più viva, quando finalmente riuscì a trovarlo e zittirlo. Dalle coperte emerse una scompigliata testa mora, seguita poi da tutto il resto del corpo che, tra uno sbadiglio ed una grattata alla nuca, si stiracchiò pigramente. Facendosi luce con il cellulare cercò l’interruttore dell’abat-jour e l’accese, illuminando la stanza con quella tenue luce, prima di cercare le pantofole a terra. Arraffando una giacca da indossare sopra il pigiama Rukia si diresse alla finestra, scostando la pesante tenda ed alzando la persiana: il paesaggio che le si presentò non era certo un trionfo di natura incontaminata, ma la vista del parco cittadino era sicuramente meglio della zona industriale. Spalancò le ante, lasciando che la fredda aria invernale circolasse liberamente per la stanza, prima di voltarsi e uscire per andare a mangiare.
Attraversò silenziosa il corridoio, usando particolare riguardo quando passò davanti alla camera di suo fratello: Byakuya aveva lavorato fino a tardi ad un caso piuttosto importante, e di certo lei non voleva disturbarlo o svegliarlo. L’aroma dei frutti di bosco l’accolse quando entrò in cucina, fragranza che si levava leggera ed invitante dalla teiera sul tavolo, accanto al pacco di biscotti chiuso alla bell’e meglio e alla sua tazza. Darukia doveva essere uscita da un pezzo, a giudicare dall’ora e dal tempo che imperversava fuori: conoscendo la gemella, sapeva benissimo che non si sarebbe mai e poi mai permessa di arrivare in ritardo, e se per qualche disgraziata coincidenza avesse perso minuti preziosi a causa di terzi, avrebbe rivoltato l’intera città pur di non far tardi a lezione.
Non che lei fosse tanto diversa, però: aveva lezione entro un paio d’ore, ma voleva prendersi il tempo giusto per prepararsi con calma e fare colazione decentemente. Non accese nemmeno la televisione, tanto a quell’ora non davano nulla d’interessante, a parte programmi di varietà dai contenuti rivolti più a casalinghe annoiate che a giovani universitarie. Lasciò la tazza lavata a sgocciolare nel lavello, tornando quindi in camera per prendere i vestiti e rinchiudersi in bagno per lavarsi. Non era mai stata il tipo fissato col trucco, che si sentiva moralmente obbligata a ricoprirsi di fondotinta, cipria e ombretti prima di uscire di casa, e così era pure sua sorella. Nel ripiano a loro dedicato c’era giusto l’essenziale per poter essere in ordine e nascondere i segni delle nottate passate in bianco a studiare, ma nulla più. Il trucco sui loro volti c’era, ma era quasi invisibile. Sorrise al proprio riflesso, prima di darsi un’ultima spazzolata ai capelli e uscire per prendere la borsa in camera, chiudendosi la porta d’ingresso alle spalle e correndo giù per la gradinata coperta del giardino.

 
Non si aspettava certo che l’autobus fosse così pieno. Almeno, di solito a quell’ora c’era sì gente, ma in qualche modo riusciva sempre a trovare un posticino in cui infilarsi per poter fare il tragitto in tranquillità. E invece no. Quel giorno dovevano essersi tutti coalizzati per prendere proprio quell’autobus. Aspettò che qualche pia anima scendesse, per poi aggrapparsi al corrimano e poggiare un piede all’interno del mezzo, cercando un posto abbastanza grande su cui fermarsi, quando una voce palesemente disperata le giunse alle orecchie, facendo voltare anche altri oltre a lei. Un ragazzo correva in direzione dell’autobus, avvolto fino al mento dalla sciarpa, e con ciuffi di capelli rossi che spuntavano da sotto il berretto nero che si era ben calcato in testa e che in quel momento gli ballavano allegramente davanti agli occhi. Teneva la cinghia di una borsa portata a tracolla e rischiava di inciampare da un momento all’altro nella stringa della scarpa che si era slacciata.
«Eeeeeeeeeeeehi! Non chiuda, per favore!» si sbracciò per farsi vedere dall’autista, come se non si fosse già fatto notare a sufficienza «Aspetti solo un minuto!».
Dal suo posto, Rukia notò uno sbuffo a metà tra l’esausto e il divertito del conducente, che però lasciò le porte aperte per permettere a quel giovane ormai sfiatato di salire. Questi quasi si lanciò all’interno del mezzo, aggrappandosi ad uno dei pali più vicini e premendosi una mano all’altezza del cuore, una volta assicuratosi di essere riuscito a non perdere la corsa.
«Grazie mille, sa! Mi ha veramente salvato la mattinata!» esclamò con un sorriso.
«Hai rischiato l’osso del collo, giovanotto, riallacciati la scarpa.» gli fece notare un’anziana, da uno dei posti a sedere, indicandogli la stringa sciolta.
«Uh? Ah, grazie davvero, signora.».
Constatando che era impossibile piegarsi, cercò di tenersi in equilibrio su una sola gamba, mentre procedeva a riannodare il laccio. Non aveva calcolato le svolte del mezzo e la brusca frenata ad un semaforo rosso, che sballottò i passeggeri in piedi verso il muso dell’autobus. Rukia se lo vide praticamente arrivare addosso e, alto com’era rispetto a lei, rischiò seriamente di farsi travolgere. Fortuna volle che il giovane fosse anche piuttosto svelto di riflessi, bloccandosi pochi istanti prima di farla finire a terra.
«Scusami, scusami!» disse, inarcandosi quel tanto che riusciva per non finirle contro «Non pensavo ci fosse così tanto caos a quest’ora, ed oggi è la prima volta che prendo un autobus di qui. Ti sei fatta male?».
«N… no, tutto bene, grazie. Non c’è bisogno di scusarsi.». Rukia si portò nervosamente un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, stringendo al petto la cartella e poggiandosi con la schiena al vetro del finestrino.
«Senti, scusa la domanda, ma alle medie le lezioni non sono già cominciate? Non dirmi che stai bigiando, alla tua età!».
Se avesse potuto, Rukia lo avrebbe fatto nero. Ma che faccia tosta! Solo perché era minuta, non significava che fosse per forza una mocciosa delle medie! Ma che poi, chi caspita era quel rosso dalla parlantina sfrenata? Non ricordava di averlo mai visto da quelle parti, nemmeno in passato. Aveva detto che era la prima volta che prendeva l’autobus in città, probabilmente si era appena trasferito. Bel modo di accattivarsi la sua simpatia, davvero!
«Non sto bigiando.» replicò a denti stretti, fulminandolo con lo sguardo «E per tua informazione non sono nemmeno alle medie, frequento il secondo anno di università!».
Resosi conto della gaffe madornale appena commessa, il ragazzo arrossì al punto di far concorrenza ai capelli che spuntavano da sotto il berretto. Si grattò nervosamente la nuca, accennando un sorriso dispiaciuto.
«Sul serio? Scusami, dico davvero. È che… sì, insomma, sei così piccina che… sembri una ragazzina delle medie, ecco.».
Un verso stizzito di Rukia fu tutto ciò che ricevette in risposta, mentre la giovane tirava fuori il libro di letteratura per ripassare.

«Sì può sapere perché mi stai seguendo?» sbottò ad un tratto, voltandosi.
Da quando era scesa dalla fermata dell’autobus, quel ragazzo non aveva smesso un istante di seguirla. La teneva un po’ a distanza, imbarazzato per la figuraccia di poco prima, ma le andava dietro passo passo.
«Senti, mi dispiace per prima, non volevo offenderti! Però, come dire… sai mica dove posso trovare la facoltà di Lettere? Mi sono trasferito qui solo pochi giorni fa e non conosco ancora bene la città, prima ho notato il libro che leggevi, e così…».
«Ah. A che anno sei?» chiese, fermandosi per aspettarlo.
«Al secondo, anche se penso che dovrò ridare qualche esame del primo anno che alla vecchia facoltà non ero riuscito a registrare. La segreteria ha fatto qualche pasticcio coi miei voti durante il trasferimento, purtroppo.» le si accostò, sorridendole. Solo allora Rukia notò la benda che gli copriva l’occhio destro. In mezzo alla calca nell’autobus non ci aveva nemmeno fatto caso. Ed ora che lo guardava bene, era veramente un gigante in confronto a lei… «Ah, a proposito, io mi chiamo Lavi Bookman. Piacere di conoscerti!».
Non sembrava esserci modo di metter freno alla sua lingua, decisamente. Accennando un sorriso, allungò la mano verso quella che il giovane le stava tendendo, stringendola e lasciandosi avvolgere il palmo dalle sue dita.
«Rukia Kuchiki. Il piacere è tutto mio.».

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Meetings and Greetings ***


Wow, è la prima volta che mi ritrovo a pubblicare dei ringraziamenti. In primis a N e m e e I r i s, per aver inserito la storia nelle preferite. Nuovamente a I r i s, Kuchiki Chan e Shaila Light per averla inserita nelle storie seguite, e di nuovo Shaila Light, per averla messe tra quelle “ricordate”. Un grazie specialissimo a I r i s, ancora, per avermi inserito addirittura tra gli autori preferiti, davvero, grazie di cuore ;A;

Con questo, vi invito nuovamente a lasciare pure un vostro parere a fine capitolo, ribadisco, mi farebbe piacere sapere che ne pensate… anche per dire che fa schifo, eh xD Insomma, giusto per vedere se vale la pena o meno di continuare a pubblicare.
Un ultimo appunto, poi smetto di rompervi le scatole xD Non prendete per oro colato ciò che scriverà Hichigo. Alcune parti le ho volutamente sbagliate, ma unicamente per necessità di trama - visto che comunque è il mio campo di studi xD. Detto questo, vi lascio al capitolo, buona lettura!

 

   Capitolo 2 – Meetings and Greetings 



«Wow, che figata!».
Varcarono i cancelli della facoltà di Lettere fianco a fianco, ritrovandosi in un grande giardino, al cui centro svettava una grande statua di uno dei fondatori. Fortunatamente i custodi avevano avuto l’accortezza di spargere sale in modo da evitare che si formasse il ghiaccio su tutto il piazzale, salvando parecchie anime da spiacevoli voli e sederi doloranti.

«Eccoci arrivati.» esordì Rukia «Quella che vedi laggiù è la sede principale. Lì si tengono la maggior parte delle lezioni. Quello laggiù, invece – e indicò un edificio poco distante, di dimensioni più modeste dell’altro – è l’archivio. Se devi fare ricerche su testi particolari, puoi controllare lì. Ci sono tanti libri da far invidia alla biblioteca della città.».

«Sul serio? Ottimo!» replicò Lavi, con aria entusiasta «Dovrò assolutamente andare a farci una visita, allora.».

«Non te l’ho nemmeno chiesto, ora che ci penso. A che indirizzo sei iscritto?».

«Storia. Sai, il mio vecchio è uno storico.» spiegò il ragazzo, abbassandosi la sciarpa per scoprire la bocca «Sin da quand’ero piccolo mi ha sempre fatto leggere libri di storia, e così… sai com’è. Alla fine mi ci sono appassionato talmente tanto che ho deciso di seguire le sue orme.».

«Capisco. Il destino sui libri ce l’hai proprio scritto anche nel cognome, eh.» azzardò lei, sorridendo appena.

«Vero?» sorrise il giovane «L’ho sempre detto che noi Bookman siamo destinati a dedicarci alla storia e ai libri! Mio fratello però non è tanto d’accordo. Non ne ha voluto sapere di iscriversi a Lettere, ha preferito buttarsi su Psicologia.».

«Hai un fratello?».

«Un gemello, in realtà. Però siamo uguali solo d’aspetto, di carattere siamo parecchio diversi. Dei due son io quello che attacca bottone con la gente, prima che si sbottoni lui stiamo freschi tutti quanti. Cosa ci sia andato a fare in quella facoltà lo sa solo lui, dato che se può risparmia le parole come i soldi nel portafogli.».

«Mh, chissà come mai l’avevo previsto.».

«Ti sto dando fastidio?».

«No, no, affatto. È solo che hai una parlantina talmente vivace che non serviva un genio per capire chi dei due era il chiacchierone, dopo quello che mi hai detto. Senti, ti interrompo un attimo: hai lezione tra poco o devi passare anche in segreteria?».

Lavi si controllò l’orologio, rallentando per riuscire a spostare meglio la manica del giaccone, poi rialzò lo sguardo verso di lei.

«Dovrei passare in segreteria a ritirare il badge e la tessera studentesca, ma non voglio romperti ulteriormente, mi hai già salvato la vita portandomi qui.» disse «Se mi dici a grandi linee come arrivarci, ti ringrazio già da ora.».

Rukia scrollò appena le spalle, risistemandosi la borsa a tracolla, prima di ricacciare entrambe le mani in tasca e guardandolo con un sorriso.

«Nessun problema, tanto ho ancora un bel po’ di tempo prima dell’inizio delle lezioni, ti posso accompagnare. Non è molto distante da qui.».

«Davvero?» il viso del ragazzo s’illuminò in un gran bel sorriso «Sei veramente un angelo! Giuro che poi non ti scoccio più, promesso!».
«Per così poco? Figurati.» replicò lei «Dai, che se ci mettiamo poco torniamo in tempo anche per prenderci i posti per le lezioni.».
Lavi approvò con un cenno della testa, seguendola diligentemente verso l’archivio e passando oltre. Alla segreteria riuscirono a cavarsela in una decina di minuti, vista la modesta quantità di studenti in attesa, e infatti ben presto si ritrovarono nuovamente nel giardino della facoltà. Visto l’ormai imminente inizio delle lezioni optarono per l’entrare direttamente nella sede, fermandosi davanti al tabellone con l’elenco elettronico delle aule.

«Uhm… io ho lezione al quarto piano. Tu?».

Rukia consultò di sfuggita il tabellone, scorrendo con lo sguardo la lista e i nomi, prima di sospirare con un mezzo sorriso.

«Al secondo. E in una delle classi più piccole, tra l’altro.» scrollò le spalle, riaggiustando di nuovo la borsa «Sarà meglio che vada, o mi toccherà fare lezione seduta per terra. Ci vediamo!».

Lo salutò con un gesto della mano e si avviò di corsa su per le scale, quasi senza lasciargli il tempo di replicare. Lavi rimase a guardare il punto in cui aveva svoltato l’angolo per un paio di minuti, come imbambolato, prima di sospirare e avviarsi a sua volta verso la scalinata. Sperava di riuscire ad offrirle almeno da bere, visto che gli aveva risparmiato una mattinata di pellegrinaggio alla ricerca della facoltà e della segreteria, ma gli era andata piuttosto male. Si consolò pensando che, se non altro, almeno il suo nome ce l’aveva, ed era sicuramente meglio che essere a mani vuote. Visto l’approccio non esattamente splendido, aveva quasi temuto che l’avrebbe lasciato per strada senza pensarci due volte – in fondo non lo si poteva colpevolizzare a priori, era così piccina! Chiunque avrebbe frainteso, o almeno così volle convincersi. E invece lo aveva aiutato ben volentieri, inaspettatamente.

Era nuovo di quella città e si ritrovava circondato da una marea di sconosciuti. Un po’ lo rallegrava il fatto di aver già un’amica, o qualcosa di simile, anche se in genere non aveva problemi ad attaccare discorso con chi aveva davanti. Era un tipo abbastanza alla mano, con cui era semplice andare d’accordo e, nonostante il fare sempre allegro e da bonaccione, sapeva anche stare al suo posto. In qualche modo forse se la sarebbe cavata anche senza l’aiuto di Rukia, ma le possibilità di sbrigarsela tanto velocemente erano veramente poche. Quella ragazzina era stata una vera manna dal cielo.
 
Rimuginò tra sé mentre entrava in classe, lanciando occhiate distratte in giro intanto che cercava un posto libero. Il docente di storia dell’arte moderna non era ancora arrivato e mancava ancora una manciata di minuti all’inizio delle lezioni, ma la classe era già abbastanza piena. Allungò il collo per vedere oltre le teste dei primi banchi, ma le fine centrali erano tutte occupate.
«Ehi, qui è libero, se vuoi.».

Lavi abbassò lo sguardo verso il ragazzo che gli aveva parlato, incrociando due iridi azzurre come il cielo. Il giovane spostò rapidamente il giaccone che occupava quel posto altrimenti libero, infagottandolo e cacciandolo sotto il banco, prima di tornare a guardarlo con un bel sorriso stampato in faccia.

«Purtroppo non è il massimo come visuale, lo so, ma tocca accontentarsi, almeno finché non si decidono a darci la vecchia classe possibilmente sistemata. Non mi pare di averti mai visto prima da queste parti, sei nuovo?».

Lavi l’osservò per una manciata di secondi, leggermente spiazzato, salvo poi ritrovare il dono della parola e rispondere anche al sorriso che gli era stato rivolto, mentre si sedeva.

«Ah… beh, ma mi accontento, meglio che far lezione a terra! Anzi, grazie davvero. Comunque sia sì, mi sono trasferito qui una manciata di giorni fa… si nota tanto una faccia diversa, da queste parti?».

L’altro fece spallucce, poggiando il braccio sul banco della fila  retrostante.

«Figurati, per una scemenza del genere… stavo aspettando un mio amico e gli stavo tenendo il posto, ma ha dato buca perché è rimasto appiedato. Con ‘sto tempo non me ne stupisco nemmeno... ad ogni modo! Diciamo che non è nostra abitudine cercare col radar i nuovi arrivati, ma una chioma fiammante come la tua non passa inosservata, ecco. Son tinti?».

«Capisco… Comunque no, niente tinta. Tutta roba naturale.» replicò Lavi, tirandosi appena una ciocca di capelli.

«Figo! A me è toccato il classico dei classici, invece. Neri e totalmente menefreghisti delle possibili pettinature che tento inutilmente di dargli. Son spiriti liberi che sfidano quotidianamente le spazzole. L’unica cosa che li doma un po’ è il gel, ma non ne vado matto. E dopo tutto ‘sto cianciare, mi rendo pure conto di non essermi neanche presentato. Mi chiamo Kaien Shiba, piacere di conoscerti… e benvenuto al manicomio del secondo anno di Storia.».

Per Lavi fu un’insolita novità. Di solito era lui quello che sommergeva le persone di parole, chiacchierando a briglia sciolta come se l’avessero caricato con la molla. Invece quel Kaien era forse più carico di lui, ma di certo era una sorta di anima affine. In genere la gente si mostrava esitante ad iniziare un discorso con lui (e ora, almeno un po’, capiva il motivo), temendo un fiume di parole senza fine, per certi versi si riteneva fortunato ad averlo incontrato. Strano ma vero, quel giorno era destinato a fare solo incontri fausti. Prima Rukia, ora Kaien… si riscosse dalla trance di riflessioni quando si accorse che il moro in questione lo stava fissando, in attesa di una risposta.

«Oh, scusa! Cioè… io sono Lavi Bookman, piacere mio. Ma perché dici che qui è un manicomio? Ho sentito parlare molto bene di questa facoltà.».

«Ah, senza dubbio siamo tra le migliori del Paese, su questo non ci piove.» rispose Kaien, gesticolando appena «Ma aspetta di vedere il professore di arte, è un piccoletto un po’ scoppiato, ma fidati che ne sa per tre. A vederlo non scommetteresti un centesimo su di lui, quando invece potrebbe elencarti per filo e per segno tutte le opere dei più grandi artisti pure in ordine cronologico per mese e anno. Ah, eccolo, sta arrivando adesso.» aggiunse, indicandogli la porta, dove un giovane forse poco più grande di loro arrancava verso la cattedra, trascinandosi una cartella ed un raccoglitore stracolmo di fogli, perdendosi post-it e foglietti vari lungo il tragitto.

«Salve a tutti, ragazzi! Che tempaccio infame, eh?» esordì lasciando cadere la propria roba sul tavolo e tirando un sospiro per riprendere fiato, per poi andare a recuperare il materiale perduto «Noto con piacere che abbiamo fatto il pieno anche oggi. Prima che iniziate a protestare per i posti ve lo dico, ho già chiamato quattro volte la segreteria, stamattina, e se non mi hanno mandato a quel paese è stato solo per cortesia, quindi vi prego di portar pazienza. Detto questo, fuori libro e quaderno, baldi giovani, che oggi avrete da scrivere appunti come non mai.».

«Eccolo che parte… ora nemmeno una bomba lo ferma più.» sospirò Kaien, tirando fuori dall’astuccio la biro e preparando il polso alle due ore più attive e faticose della mattinata.


**

Darukia uscì mestamente dalla segreteria, sospirando frustrata. Era stata ad aspettare per quasi mezz’ora per via della straordinaria presenza del rettore di facoltà, capitato da quelle parti proprio in quel momento, e alla fine non era riuscita a risolvere niente, lo sconosciuto con cui si era scontrata non aveva avuto la lampante idea di rendere il suo quadernetto alla segreteria. Sul momento gli diede dell’idiota, chiunque fosse: che diavolo se ne faceva della sua agenda? Non pensava che potesse essere di vitale importanza, per lei? Lì aveva appuntato tutte le date più importanti e gli impegni della settimana, dalle esercitazioni in laboratorio alle scadenze dei libri della biblioteca, e l’averla persa era una tragedia, dal suo punto di vista. Prima di imboccare nuovamente le scale che portavano alle classi fece tappa al distributore automatico, selezionando un tè al limone extra-zuccherato. Mentre aspettava che la bevanda fosse pronta, sentì il cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni.

Come tu faccia a pensare che ‘sto tipo dica cose interessanti Dio solo lo sa, in ogni caso sto tentando di seguire per bene (‘sti bambini sono dei pornazzi già a ‘sta età? E dici a me che son pervertito, cazzo! Ma ‘sti psicanalisti scopavano, ogni tanto, o erano un branco di frustrati?) ヽ(≧Д≦)ノ E con ‘sti appunti mi son riguadagnato anche le altre risposte. Ora però riporta il tuo culo ossuto in classe, che sto cominciando a non sopportarlo più, se ho voglia di sentire o guardare roba porno vado su Internet - e no, non m’interessa sapere se hai ritrovato o no quello stupido quaderno. ಠ_ಠ#


Hichigo, ovviamente, era il mittente del messaggio.
Rabbrividì all’idea di che “appunti” potesse aver preso, e se parlava di “pornazzi”, quasi sicuramente era capitato lo sviluppo psicosessuale di Freud… Sorseggiò velocemente la bevanda, cercando di non scottarsi la lingua e, dopo aver gettato il bicchierino vuoto nel cestino, fece ritorno in classe. Approfittò del quarto d’ora accademico per rientrare in aula, cercando la testa bianca di Hichigo e localizzandola verso le ultime file.

«Era ora, porca miseria!» sbottò non appena la vide, alzandosi tanto velocemente da farla bloccare sul posto.

«Scusa, ma c’era il rettore in segreteria e non si decideva a venir fuori.» si giustificò lei, occhieggiando quasi timorosa il libro e il quaderno che il ragazzo aveva ancora aperti sul banco.

L’albino intercettò lesto il suo sguardo, abbassandosi su di lei fin quasi a sovrastarla.

«Sturati bene le orecchie, mia piccola cervellona secchiona. Ho fatto del mio meglio per quelle tre cazzate che ha spiegato, chiaro? Che non ti venga in mente di venire a reclamare chissà cosa. Saranno state anche pornazzate, ma erano di una rottura immane, cose che se mi ci metto son più bravo io a renderle su carta. Tutto chiaro, dolcezza?».

«… posso aspettare di leggere cosa hai scritto, prima di risponderti?».

Sul momento le sembrò l’unica via di fuga. Magari si era impegnato davvero e aveva scritto bene tutto quanto (o quasi), ma se lo conosceva abbastanza decentemente era un’ipotesi da scartare a priori. Hichigo si spostò per permetterle di prendere il quaderno e sistemarselo in braccio, salvo poi doverlo avvicinare per tentare di decifrare quanto aveva scritto. Proprio come temeva, l’argomento di discussione era quello che aveva previsto, Freud e lo sviluppo psicosessuale dell’infante. Deglutì quasi con timore, prima di mettersi a leggere.


Fase orale: il moccioso mette in bocca tutto quel che gli capita, facendosi nel contempo mille seghe perché immagina di ciucciare le tette. Segaiolo incallito fin dalla nascita, fino ai 18 mesi. Si ciuccia pure le dita dei piedi (cazzo, CHE SCHIFO!), e non voglio pensare a quali oggetti inanimati siano quelli a cui fa riferimento ‘sto vecchio pazzo. Di certo non solo i ciucci –e anche se lo fossero, il moccioso pensa già alle porcate, anche se non consapevolmente. Da segaioli in erba, sì.

Fase anale: il moccioso ci gode a spararle grosse. Le trattiene, poi le butta fuori, se gli gira male sta pure a guardare, toccare e annusare. Se si è limitato ad un’indigestione di cioccolata forse se la caverà con poco, sennò… aumenta il tasso di rischio di morte per asfissia. Ma tra tutte le cose che ci sono da annusare –cazzo ne so, i fiori, il profumo di sua mamma, l’odore del bagnoschiuma-, quello deve odorare proprio il cesso dove ha appena scaricato? Robe da pazzi. Ah, va dai 18 mesi ai tre anni di età. (se l’annusa ogni volta che la fa per un anno e mezzo, come cazzo fa a non morire? Mah…)

Fase fallica-edipica: evoluzione a segaiolo alle prime armi. Il moccioso mette mano all’arnese seriamente, ma se ne interessa in modo ambiguo. Tanto più che idealizza quello del suo vecchio e teme che a lui venga tagliato via (io ‘ste seghe mentali non me le sono mai fatte!). Pure le femmine iniziano ad interessarsene e si sentono sfigate perché non ce l’hanno. Certi istinti e interessi son precoci, eh. Specie se si considera il fatto che ‘sti infoiati hanno dai due e mezzo ai sei anni di età. Io alla loro età pensavo a tirare i giocattoli contro quel coglione di mio fratello, sperando di fargli tanto male. Il più delle volte ci riuscivo, anche. Sarà per questo che ho sempre amato i mattoncini delle costruzioni (e il mio arnese non me lo sono mai menato, a quell’età!). Quel che forse è peggio è che hanno fantasie sessuali anche CONSCIE nei confronti del genitore di sesso opposto. Li amano e li odiano entrambi, li invidiano e entrano pure in competizione. Cioè, è un casino assurdo (Darkie, fai prima a leggerti il libro, perché su ‘sto passaggio non c’ho capito più un cazzo).

Si rifiutò di leggere oltre, sospirando e richiudendo il quaderno con aria quasi rassegnata. Hichigo, accanto a lei, attendeva un giudizio tenendo i pugni sui fianchi e il petto gonfio per la soddisfazione del proprio lavoro. Da un lato si era già arresa all’idea di dover rifare tutto daccapo, anche perché usare appunti del genere aveva un ché di paradossale, ma d’altro canto ci aveva provato, insomma, doveva riconoscerne un minimo di meriti. Aveva seguito la lezione e appuntato le cose indispensabili a modo suo… se non altro, non le aveva dato il quaderno lasciato in bianco.
«Allora?».

«Sì, come dire… sei stato bravo, Hichi. Certo, avrei scritto un po’ di concetti in maniera leggermente diversa, ma…».

«Beh, ma riconoscerai che sono di immediata comprensione! Che te ne fai di tutti quei paroloni assurdi e dei giri di parole? Così arrivi al nocciolo della questione subito.».

«Non lo metto in dubbio, davvero… ma appunto, dovrò rivedere un paio di cose, in fondo hai scritto tu stesso che dopo il terzo stadio non ci hai più capito nulla.».

«E ti credo! Cioè, ma dai! Una persona o ti sta in culo, oppure no! Come fai a amarla e odiarla al tempo stesso, me lo dici? e poi, mi spieghi che è ‘sta storia del complesso edipico?».

Darukia sospirò nuovamente, sfregandosi leggermente gli occhi con due dita e scuotendo appena la testa. Certo, lei quel capitolo lo aveva già visto a grandi linee, ed era solo questione di pazienza prima che il professor Ukitake spiegasse il famigerato complesso edipico. Hichigo, invece, di pazienza ne aveva pochissima. Le cose le voleva sapere subito e in modo chiaro, senza tanti ma e perché. Piuttosto, era strano che s’interessasse tanto a quel dettaglio in particolare, il più delle volte si limitava a fingere di aver capito, per poi salvarsi la media coi suoi appunti.

«Se porti un po’ di pazienza, Hichi, alla prossima ora magari lo spiega. È il sottocapitolo successivo. E comunque sia, certe parentesi potevi evitartele. Non m’interessa di certo sapere se da bambino ti trastullavi o meno col tuo gingillo!».

«Ehi, non osare offendere il mio regale arnese chiamandolo gingillo! È roba di prima classe, questa!» si infervorò, indicandosi il cavallo dei pantaloni con l’indice.

«Sì, sì, non ne dubito… ma sempre gingillo è. E comunque vedrai che poi il professore lo spiega, quel complesso edipico che tanto t’angustia.».

L’albino sbatté le braccia lungo i fianchi, sbuffando esasperato. Gli pareva strano che la piccoletta non sapesse dargli una risposta ad ogni suo quesito: era sempre più convinto che avesse un computer al posto del cervello, decisamente. Sapeva bene che era il frutto delle tante ore di studio, ma la cosa lo sorprendeva ogni volta. Avercela avuta lui, tutta quella voglia… anzi, no. Lui stava benissimo così com’era: certo, doveva ammettere che se non l’avevano già buttato fuori dalla facoltà era stato solo grazie a lei che lo aiutava con fotocopie e ore di preparazione (dove le battute più ricorrenti erano «Darkie, mi son rotto le palle di ‘sta cosa, metti via e giochiamo con la Play!» «No, Hichi, prima finisci il capitolo. Poi forse facciamo una pausa. Certo, se avessi studiato prima, a quest’ora staresti giocando tranquillamente con la tua Play.»), ma per il resto si sentiva piuttosto bene con se stesso. Aveva imparato a fregarsene dei commenti malevoli sul suo aspetto fisico, e i pochi stupidi che osavano dirgli qualcosa di scomodo ritornavano a casa con i denti in mano. Così si era guadagnato il rispetto di tutto il circondario e dell’ambiente giovanile della città: erano finiti i tempi in cui scappava a piangere alle spalle del fratello quando gli altri bambini lo prendevano in giro, ora chicchessia ci pensava due volte prima di dargli contro.

Bene o male, poteva dire di avere una vita piuttosto soddisfacente. Certo, se solo una certa nanetta saputella si fosse accorta che sotto la scorza da teppista volgare c’era un sincero attaccamento…

«Finalmente ti trovo, brutto scemo.».

Oh, era già arrivato qualcuno ansioso di rifarsi i denti? Hichigo si voltò stirando un ghigno che non prometteva nulla di buono, salvo trovarsi faccia a faccia con un paio di occhi marroni che lo scrutavano con palese rimprovero.

«Oh, ma guarda chi c’è, il mio amato fratellone. Cosa ti porta ad allontanarti dalle tue caviette in laboratorio, dolce fragolina?».

«Falla finita, se non vuoi che questo me lo riporti a casa.». Ichigo, il suo gemello dalla zazzera fulva, gli mostrò il portafogli, così sottile da dar l’idea di essere completamente vuoto, non fosse stato per un angolo spiegazzato di una banconota che faceva capolino da uno dei bordi.

«Mio salvatore, mia alba aranciata in una notte di tenebre, cosa farei senza di te?» lo canzonò lui con finta adorazione, prendendo il portafogli dalle sue mani e guardandolo come se avesse un delicato tesoro in custodia.

«Non faresti veramente niente, visto che mi tocca sempre starti dietro, la testa non la scordi solo perché l’hai attaccata al collo.» lo rimbeccò Ichigo, sospirando irritato «Oggi saresti rimasto a secco.».

«Balle, avrei chiesto a Darkie un prestito, perché lei è buona e sa che i soldi glieli rendo. Non è così, Darkie?» si voltò verso di lei, trovandola intenta a confrontare i suoi appunti col libro. Digrignò i denti, quasi ringhiando «E metti giù quel cazzo di libro! I miei appunti sono giustissimi!».

«Come no, Hichi. Sarà per questo che mi devi ancora quel toast per le risposte che ti ho passato a Psicologia Sociale.» disse la ragazza, scostando la spalla che Hichigo aveva tentato di prenderle «E ti ricordo che era un esame dell’anno scorso.».

«Stronzate, parliamo della sessione di luglio, sei mesi fa.» replicò lui, mettendo il broncio proprio come un bambino.

«Che era compresa nello scorso anno accademico.»

«Ma cazzo, stai sempre a menare il dettaglio? Prima o poi te lo pago, sta’ tranquilla!».

Ichigo assistette allo scambio di battute in silenzio, osservando con sottile interesse la ragazzina che, strano ma vero, teneva testa a suo fratello senza il minimo timore. Quello scriccioletto sapeva il fatto suo, decisamente, specie se considerava il fatto che, probabilmente, non erano nuovi a battute del genere.

«… Stamattina sei una rompipalle, da quando hai perso quella stupida agenda sei diventata più acida del latte scaduto!».

«Non è vero! Ma insomma, ti ci sei fissato, eh?».

«Scusate se vi interrompo, ma… sei mica tu la tipa con cui mi sono scontrato stamattina?» chiese Ichigo, osservando meglio Darukia più da vicino.

«Se ti riferisci ad uno scontro vicino alle scale… sì, sono io.» rispose lei, con una vaga luce di speranza dietro allo sguardo perplesso.

«Allora mi sa che questa è tua.» disse, tirando fuori dalla borsa la sua agenda e porgendogliela «Avrei voluto restituirtela prima, ma non sapevo dove trovarti e quelli alla segreteria non si son fatti vivi per due ore. Volevo sapere se conoscevi ‘sto demente» e indicò Hichigo con il mento «e se sapevi dove poterlo trovare, visto che dovevo rendergli il portafogli.».

«Hai un futuro come porta-pacchi, fratello. Mai pensato di fare il corriere?».
«Certo, e alla prima corsa t’investo ingranando la quinta.»
«Anch’io ti voglio bene, scemo.».
Darukia prese l’agenda che Ichigo le stava offrendo con le mani quasi tremanti e lo sguardo lucido, come se avesse appena vinto il Nobel per la pace. Se la strinse al petto e la baciò, anche, andando poi a depositarla al sicuro, nella borsa.
«Grazie davvero, non sai che favore mi hai fatto!» si rivolse a Ichigo con un gran sorriso «Mi ero quasi rassegnata all’idea di non trovarla più.».
«Oh, figurati. Scusami tu per il ritardo, piuttosto.» il ragazzo scrollò le spalle con fare noncurante, restituendole il sorriso.
«Bene, ora che la tua buona azione quotidiana l’hai fatta puoi anche dileguarti, fratellino caro.».
«Ti manderei a quel paese, ma devo riconoscere che hai ragione. Tra un po’ riprendo i corsi pure io, quindi è meglio se me ne vado. Ah, sei una santa a sopportarlo, sappilo.» aggiunse rivolgendosi a Darukia, prima di uscire dalla classe.
Scosse la testa, sospirando con un vago sorriso, ignorando bellamente l’osceno invito che gli aveva rivolto il fratello, tornando sul piazzale principale e dirigendosi verso la facoltà di Medicina.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Not a pleasure to meet you ***


E rieccomi qui, col terzo capitolo della storia. Parto senza perder tempo con i ringraziamenti, partendo da I r i s, Kuchiki Chan, Kumiko Walker, Shaila Light, Tiamath e Ucha per averla inserita tra le seguite; Giuu, GLOGLOSSY, I r i s e N e m e per averla messa nelle preferite; di nuovo a Shaila Light, per averla inserita nelle ricordate; a N e m e, GLOGLOSSY e I r i s per avermi inserita tra gli autori preferiti. E grazie anche a chi ha recensito, davvero! <3
Detto questo, buona lettura! *-*

*** *** *** ***

Capitolo 3 – Not a pleasure to meet you




Rukia richiuse i libri in borsa, sospirando. Il professore di letteratura non li aveva di certo risparmiati, in quanto ad appunti da prendere e versioni da sistemare. Stando alla tabella di marcia sarebbero seguite due ore di Museologia, poi avrebbe avuto la giornata libera. Era stata fortunata a trovare quel posto a metà delle file, arraffato quasi al limite: più di qualcuno infatti era rimasto seduto a terra, sotto la lunga fila di appendiabiti da cui pendevano sciarpe e giacconi, cercando la posizione più confortevole per riuscire a scrivere decentemente. Per l’ora successiva molti se ne stavano andando, lasciando liberi abbastanza posti da permettere anche a quei pochi rimasti di poter stare comodi sui banchi. Sospirò, preparando il libro e il quaderno su un angolo, e raccattò un succo dalla borsa.
Il professore era appena entrato e la classe si stava lentamente ripopolando di gente quando, nella marea di persone, intravide una zazzera mora che riconobbe quasi subito. Kaien Shiba aveva appena varcato l’ingresso dell’aula, diretto subito verso la cattedra: teneva sottobraccio dei raccoglitori e nell’altra mano reggeva un grosso tomo che porse all’insegnante. Rimasero a parlare per un po’ e lei, ovviamente, non perse occasione per poter rimirare il profilo del ragazzo. Cercò di camuffare lo sguardo adorante per non farsi cogliere in flagrante, ma nel mentre seguiva ogni linea di quello splendido viso, a suo parere perfetto oltre ogni dire. Per non parlare dei suoi occhi: quanto li adorava! Così chiari e belli, sembravano riflettere il cielo in un giorno di primavera, e creavano un contrasto assai affascinante coi capelli neri come le piume di un corvo che, quel giorno come tante altre volte, stavano sparati in tutte le direzioni.
Ma ciò che adorava di più non erano i suoi occhi, né i suoi capelli, né il fisico atletico: ciò che per primo l’aveva colpita era stato il suo sorriso – così luminoso, istintivo e vivace. Metteva allegria solo a vederlo, sapeva contagiare chi lo circondava con la sua spontaneità. Riusciva a far amicizia con tutti senza grosse difficoltà, e anche nel loro gruppo si era fatto accettare praticamente subito. E quante volte l’aveva riaccompagnata quando uscivano insieme con la compagnia, scortandola per non lasciarla andare da sola. Un vero cavaliere, insomma, con cui talvolta si era ritrovata a studiare in biblioteca o in aula studio, od in un bar per un semplice caffè e quattro chiacchiere. Se doveva essere completamente sincera, per lei non era facile avvicinarlo. Mentre con chicchessia riusciva ad essere abbastanza spigliata, con lui ammutoliva già quando se lo trovava a cinque metri di distanza. Le piaceva ed era innegabile, e poi lui aveva quel modo di fare sempre così affabile…
Si riscosse dalla sua trance d’adorazione quando si accorse che Kaien le si stava avvicinando. Sperò per un attimo che non l’avesse beccata con quello sguardo da triglia inebetita a guardare proprio verso di lui, mentre cercava di riassumere una specie di posa composta. Fu parecchio difficile non concentrarsi sul suo sorriso per non restarne incantata di nuovo, ma fece del suo meglio, sistemando inutilmente i libri che aveva sul tavolo per scaricare la tensione.
«Ehilà, Kuchiki. Lezione pesante?» la salutò, appoggiandosi al banco con una mano.
Lei si sistemò nervosamente un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, ricambiando il sorriso che il ragazzo le stava rivolgendo.
«Più o meno.» rispose dopo una manciata di secondi «Diciamo che ha spiegato molto più di quanto mi aspettassi. Temo avrò parecchio da fare, a casa.».
«Sempre sui libri, eh? Immagino che tuo fratello non abbia veramente di che lamentarsi, di voi due.».
«Già. Almeno, spero sia così. So che non è cattivo, ma… insomma, sia io che mia sorella ci teniamo a non deluderlo. Specie contando il fatto che ora siamo entrambe sulle sue spalle.». Rukia si rigirò distrattamente una penna tra le mani, abbassando lo sguardo, salvo poi volgerlo di nuovo verso Kaien «Voialtri, piuttosto. Ho saputo che non avete ancora riavuto la vecchia aula.».
«Già, e non ti dico che macello è! Più che altro è una seccatura assurda, se non arrivi minimo venti minuti prima fai lezione per terra.» sospirò lui, grattandosi la nuca «Quel piccoletto del professor Gill ha chiamato la segreteria anche oggi, ma a quanto pare non hanno nessuna voglia e/o intenzione di metter mano a quei benedetti riscaldamenti.».
«Ed è l’unica classe in tutto l’istituto ad avere problemi…».
«Già, peccato sia anche una delle più grandi e una di quelle maggiormente utilizzate. E dire che coi soldi che sborsiamo per le tasse trimestrali, da queste parti dovremmo camminare sui tappeti rossi.»
Rukia rise, più per la sua aria da bambino imbronciato che della battuta in sé. Incredibile come riuscisse, spesso involontariamente, a metterla a suo agio con poche semplici parole. Per certi versi gli era pure grata, visto quanto spesso e volentieri si trovasse in difficoltà in sua presenza.
«Se nel mentre avete finito di fare salotto, voi due…».
La voce del professore li fece sobbalzare entrambi. La classe era nuovamente piena, poche altre anime stavano entrando in cerca di uno straccio di posto, e il proiettore era già impostato sui lucidi della lezione del giorno. Il ragazzo si voltò, grattandosi la nuca con fare imbarazzato.
«Sì, mi scusi, prof! Do un’ultima cosa a Kuchiki e sparisco, promesso.». disse, aprendo la borsa e cominciando a cercare freneticamente in mezzo a quaderni e libri. Ne tirò fuori una busta piena di fogli, che le porse frettolosamente. «Sono i documenti che mi aveva chiesto tuo fratello, ho fatto più un fretta che ho potuto, spero gli vadano bene. Ora mi eclisso, o il prof mi uccide. Scusate il disturbo!».
La salutò con un cenno della mano e corse fuori dall’aula, senza nemmeno preoccuparsi di richiudere la cartella. Appoggiato alla parete del corridoio c’era Lavi, intento a sgranocchiare un dolcetto alla cioccolata ancora mezzo incartato, tenendo nell’altra mano un succo di frutta. Aveva seguito Kaien per tutte le lezioni ed era riuscito a farsi dare tutti i programmi svolti fino a quel momento dai professori, bene o male era a buon punto.
Chissà come se la stava cavando suo fratello. Era parecchio tentato di chiamarlo al cellulare, ma la prospettiva di sentirsi sbattere il telefono in faccia dopo uno scocciato “Sto studiando, non rompere” l’aveva fatto desistere. Deak non era mai stato un fratello particolarmente affettuoso, o meglio, era sempre stato restio a dimostrarlo. Si poteva veramente dire che non si somigliassero affatto, a parte nell’aspetto fisico. Considerando i loro trascorsi non gli si poteva nemmeno dare torto, però Lavi aveva sempre fatto del suo meglio per far stare a suo agio chi gli stava intorno, cosa che Deak non si era mai sprecato a fare. Sebbene facesse finta di niente, in cuor suo Lavi ci restava un po’ male ogni volta che suo fratello gli rispondeva con la stessa freddezza con cui si rivolgeva a chiunque altro. Insomma, erano fratelli, tra loro avrebbe dovuto esserci un bel legame, anche solo di fondo. Eppure Deak sembrava non fidarsi di nessuno, nemmeno di lui. Per quanto ci stesse male, però, non poteva di certo piantarlo in asso, anche se ci aveva pensato innumerevoli volte, colto dalla rabbia. Ma alla fine si decideva sempre a portar pazienza, convinto che la sua non fosse autentica cattiveria – e per questo, non sapeva se lodarsi o darsi dell’ingenuo.
L’arrivo di Kaien lo distolse a forza dai suoi pensieri. Si staccò dal muro contro cui si era appoggiato, aspettando che il ragazzo richiudesse la cartella, per poi dirigersi con lui verso il piano terra. Dopo essersi divisi, fuori dal cancello della facoltà, Lavi era parecchio indeciso. L’aria si era fatta ancora più fredda e l’idea di stare ancora fuori non lo entusiasmava più di tanto. Sospirando, si rassegnò alla consapevolezza che avrebbe passato tutta la sera a studiare, se non altro per rimettersi in pari con eventuali argomenti mancanti. Alla fermata dell’autobus c’era parecchia gente in attesa, tra cui alcuni studenti che aveva visto di sfuggita nei corridoi o in aula, eppure non si fece avanti per fare quattro chiacchiere in attesa del mezzo. Affondò il mento nella sciarpa, cacciandosi le mani in tasca e fissando un punto indistinto davanti a sé. Vide la sagoma di se stesso riflessa nella vetrina del bar di fronte e qualche ombra oltre il vetro. La porta si aprì e due persone uscirono dal locale: una di queste aveva un cappottino beige e una sciarpa dello stesso colore ad avvolgerle morbidamente il collo, e ciuffi di capelli neri facevano capolino da sotto il baschetto ben calcato in testa. Una figura che gli era stata fondamentale, quella mattina, senza la quale si sarebbe sicuramente perso.
Il braccio scattò in alto ancora prima che se ne rendesse conto, la mano a sferzare l’aria nella speranza di farsi notare. Chiamò a gran voce il suo nome, ma la ragazza non si voltò, continuando a camminare noncurante fino a sparire dietro un angolo. Sentendosi uno stupido mentre tutti lo guardavano, Lavi abbassò lentamente la mano, stringendola appena a pugno e fissandosi i piedi. Preferiva pensare di essersi sbagliato o che lei non l’avesse sentito, piuttosto che valutare l’ipotesi che Rukia l’avesse volutamente ignorato.

** ** **

Con un sospiro, Byakuya richiuse il tomo che occupava gran parte della sua scrivania. Il raffinato tavolo in mogano era pieno di volumi e scartoffie varie, tutte assurdamente necessarie per un solo caso. Non che stesse preparando un’accusa scrupolosa per timore di perdere la causa, figurarsi – non per niente era uno dei più promettenti avvocati che c'erano in giro, erede di una famiglia di legali da generazioni –, ma nemmeno voleva presentarsi al processo con argomentazioni sostenute alla meno peggio. Gli sbagli non facevano decisamente per lui, e tutti i suoi collaboratori lo sapevano benissimo. Il rigore che il giovane Kuchiki si imponeva si ripercuoteva di riflesso anche su di loro, motivo per cui nessuno si lamentava per quelle giornate in cui, spesso e volentieri, si superava l’orario di lavoro canonico. Di per contro, quella severità quasi marziale aveva comportato la rigorosa selezione di un personale scelto: tante segretarie, per un motivo o per l’altro – chi perché proprio non ce la faceva, chi perché aveva famiglia e non poteva stare ore in più, chi perché lo trovava un dispotico rompiscatole –, non riuscivano a reggere i suoi ritmi di lavoro, e l’avevano costretto più di qualche volta a nuove selezioni e periodi di prova.
Sistemando alcuni fogli nel fascicolo nero Byakuya alzò per un attimo lo sguardo verso la porta, vedendo mentalmente la scrivania della giovane che da poche settimane a quella parte era la sua nuova segretaria: parlava poco e lavorava molto, ma aveva un ché di così fragile che, per un attimo, si era chiesto cosa l’avesse spinta a proporsi proprio da lui, visto che la sua reputazione lo precedeva di molto. Insomma, a prima vista non sembrava assolutamente il tipo in grado di sopportare i periodi di stress e pressione psicologica a cui talvolta erano sottoposti, ma fino a quel momento aveva svolto un lavoro pressoché impeccabile. Era fresca di studi, non aveva una famiglia a carico e lavorare qualche ora extra non le costava affatto, a suo dire.
Quasi la vedeva mentre parlava al telefono, appuntando qualcosa sull’agenda che aveva davanti. Poche domande precise, che richiedevano risposte altrettanto precise, confronti di date e orari, appuntamenti di lavoro, cause che venivano rinviate per richiesta della difesa… lei appuntava e riorganizzava la sua giornata in base a quello. Byakuya doveva riconoscere l’effettiva efficienza della giovane, tutt’altro che presa a limarsi le unghie o a fargli gli occhi dolci come già in passato gli era capitato. Gli si rivolgeva con rispetto sincero, lasciava sempre l’ufficio insieme a lui, al mattino era già alla scrivania quando lui arrivava, ogni giorno impeccabile in un completo semplice ma elegante, che fosse un tailleur dal taglio giovane, ai pantaloni e camicetta. In cuor suo, sebbene non volesse ammetterlo, Byakuya sperava che quella fosse la volta buona, che almeno lei resistesse. Venne distratto dallo squillo del telefono, a cui rispose dopo una manciata di secondi ed un altro squillo.
«Dottore, c’è il signor giudice Yamamoto sulla linea 2.» eccola, quella voce bassa ma sempre gentile che ormai aveva imparato a conoscere. Facendo mente locale e scacciando i pensieri inutili, si sistemò meglio sulla poltrona.
«Grazie, Hisana.».
Si allungò per premere il numero della linea, provvedendo ad avvicinarsi le carte che gli sarebbero potute servire. Anche quello sarebbe stato un lungo pomeriggio, già se lo aspettava. Come aveva previsto, la chiamata riguardava il caso imminente per cui la difesa avversaria aveva chiesto il rinvio dell’udienza. “Necessità di verificare altre prove”, avevano detto. L’unica prova che avrebbe salvato l’imputato da una condanna certa era solo quella che confermava l’operato di una qualche entità superiore che gli aveva fatto il lavaggio del cervello. Ma proprio per non lasciare nulla al caso aveva deciso di preparare un’accusa impietosa, lo stesso trattamento che riservava a chiunque fosse il malcapitato imputato che aveva la sfortuna di avercelo contro.
Ascoltò tutto ciò che il giudice aveva da dire, riponendo la cornetta solo dieci minuti più tardi. Si alzò dalla poltrona per sgranchirsi un po’ le gambe, in fondo era seduto da ore e aveva lavorato senza sosta. Optò alla fine per un bel caffé e uscì dallo studio, incrociando quasi per caso lo sguardo di Hisana che, come lo vide, scattò in piedi come un soldato sull’attenti, facendogli scappare un sorriso.
«Dottore, è forse successo qualcosa?» chiese, sinceramente preoccupata.
«No, nulla di che.» rispose lui, facendole cenno con la mano di rimettersi seduta «Avevo solo voglia di prendermi un caffé.».
«Potevate dirmelo, dottore, ve l’avrei portato subito. Non è necessario che vi disturbiate.».
La giovane si alzò nuovamente, facendo il giro della scrivania, nonostante l’invito di Byakuya a restare seduta. Si appartò in un angolo della stanza dove c’era una piccola credenza e tutto il necessario per intrattenere qualche cliente particolarmente importante con qualche bevanda. Ben presto nella saletta aleggiò l’aroma di caffé appena fatto, mentre il gorgogliare della moka riempiva il silenzio che si era creato tra di loro.
Byakuya osservò attentamente la scrivania della giovane: il famoso calendario/agenda era riposto aperto vicino al telefono, i documenti erano ben impilati e suddivisi per cliente o tempi di urgenza, una semplice tazza decorata con fiori dai colori pastello fungeva da portapenne. Su un angolo, lontano dallo schermo del pc, aveva  messo un vasetto con una piccola stella di Natale, di quelle probabilmente prese in un supermercato per pochi yen. Il vaso era avvolto con della carta da pacchi rosso brillante, tenuta ferma da un nastro dorato chiuso a fiocco. Una piantina che le si addiceva, minuta ed elegante come lei. Notò anche, però, la totale assenza di fotografie. Solitamente le sue precedenti segretarie si portavano le foto dei mariti, dei figli, dei fidanzati, per averli vicini anche se solo sulla carta stampata. Lei invece no, sulla sua scrivania non vi era la minima traccia di un portafoto, nonostante le avesse detto di decorare il proprio tavolo come meglio preferiva. Come se non avesse affetti a cui tenersi aggrappata, o momenti racchiusi nella carta e inchiostro, immortalati per essere sempre ricordati.
Si voltò verso di lei, indaffarata su quel piccolo fornelletto a parete un po’ nascosto dal resto dell’ambiente, mentre afferrava la caffettiera con una presina per non scottarsi e versava quel liquido scuro e bollente in una tazza. Gli pareva così strano che in quel corpo tanto esile ci fosse la forza di tirare avanti tutta la giornata senza mai risentirne, anche prolungando l’orario lavorativo di svariate ore. Eppure Hisana non si lamentava mai, anzi, lavorava con solerzia da quando arrivava a quando lasciavano l’ufficio. Certo, anche le altre segretarie erano state altrettanto diligenti nel proprio mestiere, ma lei aveva… qualcosa in più. Sembrava veramente metterci l’anima in ciò che faceva, per non deluderlo e per facilitargli il più possibile il lavoro. Si era presa carico anche di tenere i contatti con gli amministratori della palazzina dove c’era il loro studio, di sistemare le scartoffie per banca e poste… insomma, si dava decisamente da fare.
Sorrise, il giovane, mentre Hisana gli porgeva la tazza con la bevanda già zuccherata – due cucchiai, non di più. Sicuramente non era una santa scesa dal cielo, ma per quello che poteva, avrebbe fatto il possibile per tenersela stretta.

** ** **

Quando entrarono in aula studio, non si aspettavano sicuramente di trovare così tanta calca. Certo, l’orario scelto era parecchio infelice, un po’ se l’aspettavano… tuttavia, dato che parlare in biblioteca era impossibile – c’era gente pronta a zittirli al minimo sibilo, figurarsi! – non avevano alternative. Darukia sospirò pesantemente, tirandosi dietro Hichigo che, sottilmente, sperava che non ci fosse nemmeno un posto libero. Evitò di dirlo ad alta voce, prima che la piccoletta che lo stava trascinando per una manica gli sparasse un colpo dei suoi. Darukia era minuta, certo, ma sapeva dove e come colpire. Il suo stomaco aveva provato più volte il tenero impatto con un suo pugno, e detta francamente non ci teneva a replicare l’esperienza, specie davanti a tre quarti di facoltà. Non che uno grande e grosso come lui ci facesse una bella figura, a farsi trascinare per la stanza da una piccoletta pelle e ossa, ma d’altro canto lo rincuorava il fatto che nessuno avrebbe osato deriderlo – non se ci tenevano a tornare a casa con tutte le ossa intere.
Darukia continuava a guardarsi intorno con aria meditabonda, rallentando il passo man mano che realizzava il fatto che la stanza era completamente piena. Dentro di sé Hichigo ringraziò la propria buona stella: sapeva che non sarebbe sfuggito alle famose ripetizioni, ma se non altro poteva posare il fondoschiena sul divano, e non su una di quelle scomodissime sedie in plastica rossa, tre quarti delle volte anche schifosamente traballanti. Stavano per fare retro-front quando, quasi per caso, la ragazza notò due posti ad uno dei tavoli nascosti dall’angolo della stanza, vicino all’uscita d’emergenza. Ci trascinò il compagno con l’espressione più allegra che le avesse mai visto, il sorriso che le piegava le labbra andava da un orecchio all’altro, neanche le avessero dato sul momento la laurea con il massimo dei voti e la lode. Rallentò quando si accorse che il tavolo era già occupato da un ragazzo dai capelli rossi, e che uno dei due posti liberi veniva usato come appendiabiti e appoggio per la borsa. Il giovane non alzò minimamente la testa quando gli andarono vicino, continuando a giocherellare con una matita mentre studiava sul grosso tomo di psicologia clinica.
«Ehm, scusa… questi posti sono liberi?».
Lo sconosciuto alzò lo sguardo verso di lei con aria quasi seccata, neanche gli avesse urlato nell’orecchio, rispondendo solo con un cenno del capo e togliendo la propria roba dalla sedia accanto.
Darukia lo ringraziò esitante e pure un po’ sconcertata: non si poteva certo dire che quel tipo fosse un chiacchierone, men che meno un mostro di simpatia. In fondo si era scusata prima di parlare, e la sua era stata una domanda innocente e quanto mai breve, eppure l’aveva guardata come se fosse la peggiore delle rompiscatole in Terra. Tutt’altro che impensierito dalla reazione dell’altro Hichigo tirò la sedia in questione verso di sé, poggiandola in malo modo e stravaccandocisi sopra, con la borsa stretta in grembo. Se ne fregò bellamente dell’occhiata truce che il rosso gli aveva rivolto, dato che gli voltava le spalle senza preoccuparsi di risultare maleducato. Sospirando, la ragazza si sedette a propria volta, disponendo sul tavolo il necessario, tra cui il quaderno aperto sugli appunti presi dall’albino.
«Ah, no, eh. Quelli non si toccano.»  sbottò lui, indicandole il quaderno «Sono perfetti così come sono.».
«Hichi, lascia perdere, quelli li rivediamo dopo. Ora tira fuori il libro di neuroscienze, dai.» replicò lei a bassa voce, aprendo il libro e avvicinandosi il quaderno.
«Uuuh, che facciamo, stavolta? E comunque, perché parli così piano? Mica ci sono i rompipalle della biblioteca, qui.».
Darukia gli indicò con un cenno del mento il ragazzo di fronte a loro, come a fargli capire che non voleva disturbarlo, già pareva abbastanza irritato. L’albino se ne uscì con un’alzata di spalle totalmente menefreghista, gettando con un tonfo il libro sul tavolo e la borsa per terra, e ghignando soddisfatto quando vide l’altro prendere le cuffie dell’ipod e cacciarsele sulle orecchie.
«Ecco, così non rompe più le palle. Allora, cosa facciamo?».
«Vediamo… oh, beh. Credo che ti piacerà, Hichi.».
Gli mostrò il libro aperto su un nuovo capitolo, ben oltre la  metà del volume, che provocò nel ragazzo un sorrisetto da perfetto arrapato. Aprì il libro a propria volta, leggendo il titolo ad alta voce, incurante.
«“Gli ormoni sessuali, il cervello e il comportamento.”. Oggi siamo in vena di sconcezze, eh, Darkie? Guarda che so come reagiscono la patata e il condor quando si fanno le porcellate.».
«Non sono in vena di niente, scemo. Sei tu che non ascolti mai quando siamo in classe. Almeno questo speravo l’ascoltassi!».
«Ah, speravi?».
«Avremmo avuto meno da fare, ma dato che Vostra Pigra Magnificenza non aveva voglia di stare attento, ci tocca fare anche questo. Forza, meno commentini stupidi e più lavoro, o ‘ste cose te le fai spiegare da tuo fratello.»
«Seh, figurati. Quella pudica verginella morirebbe di vergogna, mi lancerebbe il libro e mi direbbe di arrangiarmi.».
Passarono così un’ora abbondante, condita di occhiatacce della ragazza al compagno che, con abilità quasi magistrale, era capace di trovare esempi e metafore assai azzeccati e convincenti. Darukia ormai aveva perso la speranza di vederlo seriamente concentrato, ma se quello era l’unico modo per farlo lavorare, tanto valeva adattarsi. Fortunatamente il rosso che era con loro non trovò mai da ridire, isolato com’era nello studio e nella musica alle cuffiette - era la prima volta che trovava qualcuno che studiava ascoltando i notturni di Chopin. Aveva aiutato Hichigo scribacchiandogli degli schemi per rendere il tutto più facile, e comunque ne approfittava a propria volta per ripassare, cosa che comunque non le avrebbe fatto male. La quantità di dolcetti e bicchierini di caffè andava ormai ad accumularsi sempre di più al lato del tavolo, dato che Hichigo esigeva la pausa merenda ad ogni argomento terminato, e pure nel bel mezzo. Per riporre il sacchetto di patatine aveva spinto il quaderno di psicologia dinamica vicino al ragazzo che, strano ma vero, distolse lo sguardo dal libro per dare una sbirciata a quei famigerati appunti. Nel frattempo, Hichigo aveva appena tirato fuori il libro di psicanalisi e si accingeva ad aprirlo alle pagine indicate da Darukia quando, per la prima volta da quando erano lì, il rosso si decise a parlare.
«… Ti prego, dimmi che ‘sta porcheria l’ha scritta tuo fratello delle elementari.» disse, indicando il foglio con la matita e guardando l’albino a metà tra lo schifato e l’incredulo «Mi rifiuto di credere di aver davanti un esemplare così sottodotato di materia cerebrale, specie se consideriamo il fatto che siamo in una delle facoltà di Psicologia migliori del Paese.».
Inutile dire che Hichigo non la prese esattamente bene. Scoccò all’altro un’occhiata di puro odio, digrignando i denti e stringendo tra le mani un paio di patatine, riducendole in briciole.
«Senti, sottospecie di barbabietola, mi rifiuto di credere che tu non abbia una fottuta padellata di cazzi tuoi a cui pensare.» ribatté, poggiando il mento su una mano e tentando di non fare una sfuriata nel bel mezzo dell’aula studio. Poco ma sicuro, se lo avesse incontrato fuori non gli avrebbe risparmiato qualche cazzotto. Si ripulì le mani gettando a terra le briciole, sfregandole poi su un fazzoletto di carta che gettò nel cestino con stizza. Ci mancava solo il saputello di turno, oh.
«Quegli appunti erano uno scherzo, non è scemo fino a questo punto.» soggiunse Darukia, richiudendo il quaderno con aria seccata e ricacciandolo in borsa.
Il ragazzo le rivolse un’occhiata dubbiosa, inarcando il sopracciglio dell’unico occhio non coperto dalla frangia rossiccia e tamburellando sul libro con la matita, la testa poggiata sulla mano con aria molto naturale e, soprattutto, annoiata.
«Forse a tal punto no, ma di certo non è una stella nel firmamento della Psicologia. Almeno, stando a quanto gli hai semplificato quelle spiegazioni di neuroscienze…».
«Non vedo il motivo per cui dovremmo complicarci la vita quando dei concetti tanto astrusi possono essere compresi e memorizzati anche in maniera più semplice. E se permetti, certe insinuazioni le potremmo accettare da Wolcott Sperry, Gasser o Erlanger, ma di certo non da uno sconosciuto, a meno che tu non sia un discendente diretto o una copia ringiovanita.».
«Uuuh, ragazzina, per essere così piccola ne sai, eh?» l’altro ghignò, guardandola con aria di sufficienza «Ma ti consiglio di aiutare il tuo amichetto in altre maniere… se ha quest’idea dello sviluppo psicosessuale, non batte chiodo da un pezzo, fossi in te gli darei una mano d’aiuto, e intendila nel senso che preferisci... Darkie. Tra le righe, che razza di nome è?».
Darukia arrossì indignata, ma non fece in tempo a replicare che Hichigo aveva già afferrato il ragazzo per il bavero della felpa, costringendolo ad alzarsi dalla sedia, e gli stava letteralmente ringhiando a pochi centimetri dal naso.
«Non ti azzardare. Ribadisco, non ti azzardare mai più a prenderti gioco di lei, o le palle degli occhi te le strappo e te le caccio in un posto che non vorresti sentire occupato.».
Il rosso non parve affatto impressionato, al contrario, non aveva perso né la calma né la compostezza, e tanto meno aveva risposto alla provocazione. Fissava Hichigo come a volerlo sfidare ad alzare le mani davanti a tutti, e infatti nella stanza era piombato il silenzio, con più di qualcuno che si era voltato a guardarli.
«Hichi… dai, lascia perdere, non ne vale la pena…» Darukia tentò di fargli mollare la presa, guardandosi nervosamente attorno e accorgendosi di avere ormai gli occhi di tutti puntati addosso «Dai, smettila, stiamo dando spettacolo, mollalo prima che la sicurezza ti butti fuori.».
Senza dire nulla Hichigo lo mollò sgarbatamente, guardandolo schifato, mentre l’altro si risistemava alla bell’e meglio la felpa. Chiuse i libri e li buttò nella borsa, lasciando tutta l’immondizia sul tavolo e prendendo il giaccone sottobraccio.
«Andiamocene a casa, ‘sto imbecille mi ha fatto passar la voglia di studiare.».
«Come se ne avessi mai avuta, tu.» fu il commento derisorio dell’altro, che se ne fregò altamente di poter ricevere un altro strattone… o un più probabile pugno.
«Senti, pure tu, la vuoi piantare? Dovresti veramente pensare ai cavoli tuoi.».
«Penso a quello che mi pare… Darukia Kuchiki, terza classificata agli esami di ammissione dell’indirizzo di scienze cognitive.».
«Pensi di impressionarmi solo perché sai chi sono? Caschi male, rosso.».
«Deak Bookman, veramente. Non “rosso”.».
«”Deak”? Bell’assonanza con “Dick”, penso proprio che “testa di cazzo” sia un soprannome che ti si addica, sai?» Hichigo ghignò alle sue spalle, grattandosi la nuca.
L’altro non si scompose, di nuovo, e Darukia non poté che ammirare il suo self-control. Tuttavia rimise a propria volta i libri in borsa, indossando poi il giaccone e buttando i bicchierini e gli involucri nel cestino.
«Piacere di averti conosciuta, piccoletta.».
«Peccato non poter dire lo stesso, Bookman.».
Si voltò e si diresse fuori dall’aula con Hichigo al seguito, sentendosi ancora sulla schiena il sorrisetto di scherno del guercio dai capelli rossi.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Famiglia ***


Rieccomi qui, chi l’avrebbe mai detto? Ammetto che per qualche giorno avevo pensato di interrompere la storia (gli scherzi ormonali, temo…), e questo capitolo non è stato poi così facile da scrivere. È piuttosto di transizione, non accadono grandi cose, ma ho preferito concentrarmi di più sui vari nuclei che compongono il “cast” di questa storia. Spero che comunque la cosa non vi annoi.
Passando ai ringraziamenti,  non posso che citare I r i s, Kuchiki Chan, Kumiko Walker, Shaila Light, Tiamath, Ucha e Jeanny991 per averla inserita tra le seguite; Giuu, GLOGLOSSY, I r i s, _Haily_ e N e m e per averla inserita tra le preferite; ancora Shaila Light, per averla messa nelle ricordate, e infine N e m e, GLOGLOSSY e I r i s per avermi inserita tra gli autori preferiti.
Non manco di ringraziare per le recensioni, a tutti quelli che hanno lasciato la loro traccia post-lettura! Grazie!
Detto questo, vi lascio alla lettura. <3


** ** ** **


Capitolo 4 - Famiglia



Quella sera, ovviamente, Hichigo era di pessimo umore. Era tornato a casa fumando di rabbia come una ciminiera, ripensando alla faccia da schiaffi di quel Deak “testa di cazzo” Bookman, a come aveva trattato sia lui che Darukia. Quest’ultima lo seguiva in silenzio, cercando invano di farlo sbollire – ma dopo il terzo tentativo andato a vuoto, aveva rinunciato e si era limitata ad andargli dietro. Arrivati a casa Kurosaki, l’albino aveva gettato la borsa in camera senza nemmeno preoccuparsi di mirare al letto, col risultato che la cartella era finita a sbattere contro l’armadio, provocando la caduta della sua preziosa collezione di videogiochi. Imprecando come uno scaricatore di porto si era tolto la giacca, abbandonandola per terra, e si era messo a tirar su le custodie sparse sul pavimento, allontanando la cartella con un calcio. Darukia aveva evitato ogni sorta di commento, appoggiando la propria borsa vicino all’entrata e chinandosi per raccogliere quella di Hichigo da sotto il letto. L’aveva pulita con un paio di pacche e l’aveva appoggiata vicino alla scrivania, ma sapeva bene che neanche un miracolo avrebbe convinto l’albino a riprendere i mano i libri, almeno per quel giorno.
Continuando a borbottare il ragazzo era uscito dalla stanza con una custodia in mano, dirigendosi verso il salotto a passi pesanti, quasi prendendosela con l’innocente parquet del corridoio. Darukia l'aveva seguito a distanza di sicurezza, quasi temendo di essere di troppo, ed era rimasta a fissarlo dalla porta del soggiorno mentre calciava via le scarpe e accendeva la PlayStation, stravaccandosi poi sul divano col joystick in mano.
«Non guardarmi con quella faccia, Darkie.» aveva sbottato lui «Ho le palle che girano come eliche, se quello stronzo mi ricapita davanti prima di domani gli spacco la faccia e gliela rivolto come un calzino.».
Lei si era limitata ad annuire, appoggiata allo stipite. Non che si trovasse a disagio in casa Kurosaki, l’aveva frequentata molte volte, anche mentre Ichigo studiava all’estero e, di conseguenza, non aveva avuto occasione di vederlo prima. Ma Hichigo arrabbiato non era mai facile da trattare e, dopo la raccomandazione di non fare stupidaggini – Hichigo l’aveva guardata malissimo e non aveva nemmeno risposto, ma sperava le desse ascolto –, aveva preferito fare ritorno a casa, almeno per finire di studiare a propria volta.
Il ragazzo era rimasto a fissare il punto in cui la giovane era sparita per una manciata di secondi, fino a sentire il rumore della porta d’ingresso che si richiudeva, segno che se n’era effettivamente andata. Non ce l’aveva con lei, chiaramente, e nemmeno voleva arrivare a risponderle male, ma non poteva far nulla per controllare la propria rabbia. Il solo ricordo di come quel rosso li aveva trattati gli faceva salire il sangue al cervello. Di per suo sapeva di non essere una cima nello studio, non era certo una novità, ma quell’insinuazione sul “batter chiodo” e farsi “dare una mano” da lei, sputata così incurantemente davanti ad almeno il centinaio di persone che riempiva l’aula studio non gli andava veramente giù, tanto più che Darkie non se lo meritava nemmeno. Aveva fissato lo schermo della TV, colorato dalle luci accese della schermata d’inizio gioco, stringendo tra le dita il joystick fino a farlo scricchiolare.


«Sprizzi aura omicida da tutti i pori, lo sai?» Ichigo si portò alla bocca il riso condito con il curry, guardando storto il fratello e cercando di attaccare bottone con lui in un misto di preoccupazione e sospetto.
«Fatti i cazzi tuoi, Fragolina.» lo zittì lui, mettendo da parte la cena per fare un po’ di zapping alla tv.
Il fratello lo scrutò, affatto persuaso: certo, non era mica a prima volta che Hichigo gli rispondeva a male parole, e ormai si era anche stancato di sgridarlo per quel “Fragolina”, ma quella sera qualcosa non andava. Di rado l’aveva visto così arrabbiato, e qualcosa gli suggeriva che era meglio non tirare troppo la corda. Tuttavia non gli andava di passare la serata con un potenziale killer nella stessa stanza e, anche se non l’avrebbe mai ammesso, era un po’ curioso. Si allungò per prendere dell’altro condimento, lanciando un’occhiata distratta ai canali che Hichigo faceva scorrere sempre più velocemente.
«C’entra per caso la tua amica… Darkie, giusto? Avete litigato?».
«No, Fragolina, io e Darkie non abbiamo litigato, abbiamo solo incontrato una dannata testa di minchia che si è divertito a romperci le palle mentre studiavamo.» riassunse in breve l’altro, sperando che Ichigo non fosse in vena di altre domande – o avrebbe mandato a quel paese pure lui, entro poco. Continuò imperterrito la propria opera di zapping, raccattando distrattamente chicchi di riso dalla ciotola ormai vuota.
Nel loro piccolo appartamento in genere regnava il silenzio. Avevano poche occasioni per parlarsi, e le confidenze dei propri patemi non era cosa facile per nessuno dei due. Ichigo era un ragazzo parecchio riservato, che difficilmente si lasciava andare a sfoghi di sorta, preferendo tenersi tutto dentro. Non che fosse a disagio in ambienti sconosciuti, come poteva esserlo l’università in una città non sua, ma lì era riuscito ad integrarsi abbastanza bene e, cose da non credersi, pure a trovarsi una ragazza. Quando l’aveva saputo Hichigo gli aveva riso in faccia per cinque minuti abbondanti, freddandolo con un “ma figurati se ti credo, Fragolina verginella”. Solo dopo averla vista si era dovuto ricredere – il suo fratellino dalla zazzera fulva si era veramente trovato una fidanzata.
«Se però devi scopare con la tua amichetta, fallo fuori da queste quattro mura. Le mie sensibili orecchie potrebbero non reggere i tuoi versi da verginella eccitata.», aveva messo in chiaro Hichigo. Inutile dire che il fratello l’aveva mandato a quel paese senza pensarci due volte.
L’albino, da parte propria, era sempre stato restio alle confidenze più per una questione d’orgoglio che altro. Se da piccolo era più aperto nei confronti di chi lo circondava, le prese in giro e le derisioni l'avevano fatto diventare il tipo che si guadagnava il rispetto altrui a suon di pugni. C’era da dire che tra i due era probabilmente il più capriccioso ed infantile, ma quando c'era bisogno di serietà sapeva sfoggiare una freddezza invidiabile. Freddezza che cadeva di fronte alle provocazioni inaspettate, proprio come quelle che gli aveva lanciato Deak in aula studio. Era stato solo grazie a Darukia se non aveva rifatto i connotati a quella barbabietola saputella, e sperava davvero non gli ricapitasse davanti agli occhi prima della fine del secolo.
Per questo, solitamente riempivano il silenzio tra loro con musica o televisione. Almeno, quelle volte in cui non erano impegnati a punzecchiarsi o provocarsi. In fondo Hichigo non voleva male al fratello, anzi, solo che gli costava ammetterlo – e Ichigo sapeva che le sue prese in giro non erano sinceramente maligne, dietro le battute derisorie non c’era mai cattiveria, quanto più una dispettosa ma bonaria tendenza alla provocazione. L'inizio della loro convivenza non era stata delle più semplici – se a casa c'era Isshin a mettersi in mezzo prima che si saltassero alla gola, da quando si erano trasferiti per studiare avevano dovuto trovare degli accordi per il quieto vivere (o più semplicemente, si erano adattati prima che gli altri condomini li buttassero fuori a calci), tra cui il dividersi le faccende di casa, la spesa e altre piccole quisquilie casalinghe.
Ichigo sbuffò leggermente, alzandosi e cominciando a sparecchiare, poggiando le stoviglie nel lavabo. Aveva ben capito che il nervosismo del fratello non andava pungolata ulteriormente, per cui preferì non insistere con le domande, zittendo la propria curiosità un po' a malincuore.

** ** ** **

Hisana salvò le ultime modifiche apportate alla tabella di marcia del giorno successivo, non riuscendo a trattenere un leggero sorriso soddisfatto. Era stata una giornata piuttosto pesante, l’ufficio contabilità aveva avuto alcuni problemi con dei riepiloghi che non riusciva a trovare, e così era stata costretta a cercare per tutto il pomeriggio quei benedetti file. Doveva ancora finire di risistemare i dati rispetto alle impostazioni date dalla precedente segretaria, che li aveva ammucchiati in un’unica cartella senza ordine o divisione precisa, obbligandola così a controllarli uno alla volta.
Dopo la sfuggente uscita dell'avvocato Hisana non aveva più avuto modo di vederlo, chiuso dietro la porta in legno scuro del suo studio personale. Le impiegate presenti non risparmiavano i commenti quando lo incrociavano, seguendolo con lo sguardo fino a quando non spariva alla loro vista, bisbigliando tra di loro con aria sognante. Non c’era vergogna ad ammetterlo, Byakuya Kuchiki era un uomo assai affascinante, dotato di uno charme decisamente maturo per la sua giovane età. Eppure per lui la cosa era del tutto indifferente, non faceva nulla di particolare per mettersi in mostra o piacere a chi gli stava attorno, anzi. Apprezzamenti o malelingue sembravano scivolargli addosso come se nulla fosse, che fossero da parte di giovani impiegate o colleghi della procura, commenti che ignorava facendo sfoggio di un disinteresse notevole.
Era quasi ora di cena quando si lasciò l'ufficio alle spalle, dopo aver salutato Byakuya che si era diretto nella direzione opposta. Si era offerto di accompagnarla per non farle fare la strada a piedi con il buio, da sola, ma non se l'era sentita di approfittare della sua cortesia, scusandosi e preferendo optare per i mezzi pubblici. Fortunatamente abitava a poca distanza dalla fermata dell'autobus, quindi non avrebbe dovuto camminare tanto.
Rientrò a casa accolta solo dal buio e dal silenzio. Sospirò leggermente prima di cercare alla cieca l'interruttore sul muro, illuminando così il corridoio che s'inoltrava nell'abitazione. Essendo sola non poteva di certo permettersi una casa singola o un appartamento particolarmente grande, ma tutto sommato non si lamentava delle cinque stanze che componevano il suo alloggio. L’affitto era modesto, fortunatamente trovato per far sì che rientrasse nei bilanci del mese, insieme alla spesa e alle bollette di luce, acqua e gas. Considerando che la sua posizione presso lo studio Kuchiki non era ancora del tutto confermata preferiva rinunciare a qualche capriccio e metter da parte un po’ di denaro ogni mese, per ogni evenienza – gli imprevisti erano sempre dietro l’angolo.
Appese la borsa e il cappotto sull’attaccapanni vicino all’ingresso, lasciando gli stivali accanto alla scarpiera, e si diresse verso il bagno. Lo specchio le restituì l’immagine di una giovane donna stanca, con negli occhi la consapevolezza di aver ancora tanto da fare. C’era il bucato da stirare e la cena da preparare, in più doveva far partire il carico della lavatrice… Inspirò a fondo per farsi forza, lavandosi le mani e ciabattando fino alla cucina per prepararsi qualcosa da mangiare. Accese il piccolo televisore per sentire le notizie al telegiornale, o più che altro per avere qualcosa che facesse sparire il pressante silenzio del suo appartamento.
Le notizie di cronaca nera si susseguivano una dopo l’altra, rendendo quella serata un po’ più triste di quanto già non fosse. Cambiò canale, fermandosi su un quiz-show di poco conto, senza nemmeno curarsi di capire chi fosse la persona che in quel momento scavava nelle proprie conoscenze per potersi accaparrare una notevole cifra in yen.
Un leggero grattare alla finestra la fece voltare. Sorrise, alzandosi ed avvicinandosi al vetro, aprendolo piano e lasciando entrare nella stanzetta un piccolo micio bianco e nero, un randagio senza famiglia trovato qualche giorno prima sotto il porticato del giardino, sporco e infreddolito dalle basse temperature di quei giorni. Un po’ per sincera pena, un po’ per avere un po’ di compagnia, Hisana l’aveva preso con sé e lo aveva sfamato, cercando come possibile di ripulire il mantello e di farlo tornare candido come doveva essere. Aveva passato la serata a coccolarlo e gli aveva preparato una piccola cuccia con un vecchio maglione, ma al mattino dopo era sparito, approfittando del momento in cui aveva aperto la finestra per far cambiare aria alla stanza e si era allontanata. Seppur dispiaciuta aveva rimesso in ordine le poche cose usate quella sera e non vi aveva più prestato attenzione – fino al momento in cui se lo era trovato nuovamente davanti a grattare con la zampetta sulla sua finestra per farlo entrare. Da allora le faceva visita regolarmente, adattandosi sempre di più al piccolo ambiente che lo accoglieva.
«Hai fame, piccolo Shiro?» gli chiese, prendendo il cartone del latte e versandone un po’ in una ciotola, che poggiò vicino al muro.
Il micetto la guardò attento, le iridi dorate non perdevano un solo movimento della ragazza. Alternò lo sguardo da lei al latte che gli era stato offerto, miagolando in approvazione e cominciando a lappare soddisfatto. Ogni tanto alzava gli occhi per scrutarla, sorprendendo ogni volta Hisana a guardarlo. La lasciò lavorare in pace mentre stirava e riponeva il bucato nei vari cassetti e armadi, e pure quando appese allo stendibiancheria i vestiti appena lavati, felice di accoglierla quando, finalmente, decise di sedersi sul divano e prendersi una pausa. Lentamente la ragazza si lasciò scivolare sui cuscini, accarezzando distratta la testolina del gatto che, per tutta risposta, si strusciò con insistenza contro il suo fianco, allungandosi.
Amava quei piccoli momenti di relax e quel particolare compagno di coccole, forse un po’ approfittatore ma incredibilmente tenero. Almeno, con lui riusciva a sentirsi un po’ meno sola.

** ** **

«Rukia, è pronta la cena, vieni a tavola.».
La giovane aveva appena finito di sistemare i riassunti di letteratura nella borsa, quando la gemella bussò alla porta della sua camera per chiamarla. Non si era accorta che fosse già così tardi, per quel giorno poteva ritenersi soddisfatta del lavoro svolto. Rimise a posto velocemente la scrivania, alzandosi e spegnendo la lampada che illuminava il tavolo.
«Arrivo.».
Si lavò le mani prima di dirigersi in sala da pranzo dove, oltre alla sorella, c’era anche Byakuya. Darukia aveva preparato il katsudon e un po’ di tempura di verdure, già disposti a tavola, e si stava affaccendando per portare anche le bevande. Byakuya intanto aveva preso posto, dopo essersi tolto la giacca ed aver allentato la cravatta nera, posandosi il tovagliolo sulle gambe. Non aveva detto nulla da che l’aveva vista entrare, a parte un leggero cenno di saluto a cui era abituata. Non che tra loro ci fosse difficoltà di dialogo, anzi – sebbene per le due sorelle fosse più facile parlare tra di loro, ma Byakuya era comunque un fratello presente che non le aveva mai trascurate, evidentemente quella sera era più stanco del solito.
«Nii-sama, Kaien mi ha dato i documenti che gli avevi chiesto, dopo te li porto.» disse Rukia, sedendosi a propria volta e sistemandosi il tovagliolo in grembo.
Byakuya sorseggiò il bicchiere d’acqua che si era servito, rivolgendo poi alla ragazza un leggero sorriso. «Ho capito. Ringrazia Shiba-san da parte mia, per favore.».
Iniziarono a servirsi le pietanze, scambiandosi qualche sporadica chiacchiera di quando in quando. Preferivano il dialogo al sottofondo della televisione, che avevano appositamente messo soltanto in salotto, e di solito erano le due sorelle a tenere il banco delle conversazioni.
«Oggi sei stata poco da Hichigo, però, o sbaglio?» disse Rukia, prendendosi una zucchina impanata.
«Lo so, ma oggi non era in giornata. Diciamo che abbiamo avuto un battibecco con un tizio in aula studio, e così…».
«Aiuti ancora quel tipo?» intervenne Byakuya, pulendosi la bocca col tovagliolo prima di prendersi da bere.
«Non è un ragazzo cattivo, Nii-sama… è un po’ volgarotto, questo te lo concedo, però non è cattivo.» lo difese Darukia, mettendo da parte la ciotola di katsudon ormai vuota «Quando gli spiego le cose sta attento e ascolta. Ogni tanto ha bisogno di qualche aiutino in più… ma non è cattivo, ecco.».
«Mi basta che non ti cacci in qualche guaio, lo sai.» replicò lui «Ho saputo che non è esattamente un esempio di virtù.».
«Sono gli altri a provocarlo e sfotterlo, solo perché è albino. Alla lunga le prese in giro stancano, e dato che a parole non risolveva niente, è passato alle maniere più convincenti. Ora nessuno si azzarda più a dirgli niente sul suo aspetto… ma a quanto pare, ha trovato qualcuno che ha avuto da ridirgli a livello intellettivo.».
«Davvero?» Rukia si servì altra tempura, sporgendosi sul tavolo «E chi era?».
«Non so, non l’ho mai visto in facoltà.» rispose la sorella, poggiando il mento sopra il dorso della mano «Però mi conosceva per nome, sapeva anche che ero arrivata terza agli esami d’ammissione.»
«Uh-uuuuuuh! Ci stava provando?».
«Se lo stava facendo, ha completamente sbagliato metodo. Giuro di non aver mai incontrato nessuno così presuntuoso. Ci ha fatti vergognare davanti a centinaia di persone, a momenti Hichi gli rifaceva i connotati.».
«Era carino, almeno?».
«Ero più preoccupata a trattenere Hichigo dal pestarlo davanti a tutti per guardarlo in faccia, sorellina.».
«Capito…».
Darukia preferì far morire lì il discorso, prima si dimenticava di quel tipo e meglio era. Non fece riferimento alle sottili allusioni che quel tipo dai capelli rossi le aveva fatto in aula studio, giusto per evitare che la sorella, o peggio ancora Byakuya, si facesse strane idee. Non che venisse trattata e protetta come una bambina piccola e incosciente, ma sono voleva impensierirli con delle stupidaggini. In fondo, quello era stato solo un incontro casuale, niente di più. In realtà sperava di non doverci più aver nulla a che fare con quel saputello spuntato dal nulla, anche se non osava crederlo realmente.
Lasciò che fosse Rukia a lavare i piatti, quella sera, ritirandosi prima per poter finire di preparare gli appunti della lezione saltata. Forse Hichigo si sarebbe rifiutato anche solo di guardarli, in un primo momento, ma in fondo sapeva che non era uno stupido e che li avrebbe sicuramente letti. Fortunatamente gran parte del lavoro l’aveva già fatto, motivo per cui non ci mise molto a finirli e metterli al sicuro nella cartella. Accolse l’invito della sorella ad andare in salotto a guardare un film con loro, portandosi dietro un plaid beige per stare al caldo. Erano quelle le loro serate, stretti in tre sul divano, con le vestaglie in pile sopra i pigiami e i calzettoni in lana, in perfetto stile casalingo. E, sebbene le mancasse un po’ la vecchia casa dove abitavano ancora loro padre e il nonno, si ritrovò a pensare che difficilmente sarebbe riuscita a trovare un calore più piacevole della vicinanza di Rukia e Byakuya.

** ** **

«Sono a casa.».
Una frase che cadde nel vuoto, come sempre. Lavi ormai non ci faceva più caso, per lui era quasi un’abitudine. Non ricordava quand’era stata l’ultima volta che qualcuno lo aveva accolto con un sorriso, invitandolo a mettersi comodo dopo una lunga giornata. Il soggiorno era illuminato, segno che effettivamente qualcuno c’era. Ripose le chiavi di casa nella tasca del cappotto, sfilandosi la sciarpa e la giacca e lasciando le scarpe sull’ingresso del ripostiglio vicino alla porta. Il tappeto del corridoio attutiva i suoi passi, un incedere lento e silenzioso fino alla propria camera, dove abbandonò la cartella e la borsa con i libri comprati lungo la strada di ritorno. Sapeva che si sarebbe dovuto mettere a studiare, ma prima voleva vedere chi altri c’era in casa oltre a lui. Si affacciò al salotto, scorgendo il vecchio a dargli la schiena e il proprio gemello sulla poltrona accanto. Quest’ultimo aveva un’espressione seria come sempre in volto, quasi annoiata. Sfogliava un libro con fare parecchio svogliato, lasciando che l’iride verde scorresse veloce tra le righe, mentre il vecchio che gli stava seduto accanto prendeva appunti su un bloc-notes.
Deak alzò appena lo sguardo quando lo vide entrare, mugugnando qualcosa che somigliava vagamente ad un saluto, per poi tornare a dedicarsi al proprio libro.
«Oh, Lavi.» il vecchio si girò verso di lui, accennando un vago sorriso «È andato tutto bene?».
«Certo… certo, nonno. Tutto benissimo.» il ragazzo ricambiò il sorriso, facendo il giro del tavolino per prender posto a propria volta «Non è stato facile trovare la facoltà, in realtà. Per fortuna ho trovato qualcuno disposto a darmi una mano.».
«Mica ti eri portato dietro la mappa, genio?» intervenne Deak, sfogliando le pagine fino a richiudere il volume.
«A dire il vero no. Ieri sera sono crollato a letto prestissimo e stamattina la sveglia non ha suonato.».
«In pratica, sei riuscito ad arrivare per miracolo.».
«Più o meno. Ho praticamente preso l’autobus all’ultimo secondo.».
«Che idiota…».
«E tu, sapienza incarnata, come te la sei cavata?».
Deak si rilassò contro lo schienale della poltrona, incrociando le gambe e poggiando il libro sul tavolino che aveva davanti, sfoggiando un ghigno quasi derisorio.
«Tutto a meraviglia, ovviamente.» disse «Se escludiamo la presenza di elementi indegni anche solo di varcare l’ingresso della facoltà, posso dire che come primo giorno è stato piuttosto soddisfacente.».
Lavi preferì non indagare oltre, specie riguardo agli “elementi indegni”. Probabilmente aveva trovato da ridire con qualcuno della sua classe, chissà che avevano combinato per farsi dare un simile appellativo.
Nella stanza calò il silenzio, rotto solo dal crepitio del fuoco nel caminetto e dal ritmico ticchettare del pendolo dell’orologio alla parete. Lavi intascò le mani e poggiò la nuca contro lo schienale, fissando il soffitto. La piccola figura che era uscita dal bar e che proseguiva dritta per la propria strada, ignorando il suo richiamo, gli tornava in mente in continuazione. Possibile che Rukia l’avesse veramente ignorato? Eppure quella mattina gli era sembrata gentile, e di certo si era scusato a sufficienza per il malinteso in autobus… magari si era veramente sbagliato e basta. O forse non l’aveva sentito, in fondo c’era traffico…
Dal canto proprio, Deak non si poneva problemi di sorta riguardo all’episodio in aula studio. Se da una parte detestava aver a che fare con gente tanto ignorante, dall’altra stuzzicava il suo sadico e pesante sarcasmo. Si divertiva a mettere in difficoltà gli altri e raramente trovava qualcuno abbastanza sveglio e spigliato da rispondergli per le rime. Quell’albino, poi… di sicuro avrebbe fatto parlare i pugni al posto delle parole, se solo non si fossero trovati all’interno della facoltà. Aveva rischiato grosso, però si era divertito, specie a sfottere sottilmente anche la piccoletta. Chissà se fra quei due c’era qualcosa… in fondo lui era scattato come una molla, quando le aveva rivolto quelle neanche tanto velate allusioni. Magari era amore a senso unico, quello dell’albino. In quel caso avrebbe perseverato giusto un altro po’, tanto per vedere come avrebbe reagito, se si sarebbe reso conto che le sue erano solo prese in giro. Non che ci contasse, in realtà, ma la cosa andava comunque a vantaggio del suo divertimento.
Rimasero a leggere e chiacchierare di quando in quando fino all’ora di cena, quando il vecchio si ritirò per andare a preparare da mangiare. Lavi seguì con lo sguardo la minuta figura dell’anziano che procedeva lungo il corridoio, diretto alla cucina, chiedendosi cosa, in fondo, lo spingesse a stare insieme a loro. Era uno storico piuttosto di rilievo, senza moglie né altri parenti, che ora si portava sulle spalle anche la vita di quei due giovani. Li aveva presi con sé quando avevano poco più di sette anni, preoccupandosi di pagar loro tutte le spese per la loro formazione e prendendoli in affidamento. Si era detto pure disposto a far qualcosa per i loro occhi, ma Deak aveva rifiutato un simile aiuto – non era la pietà per il suo aspetto, quella che voleva ricevere. Odiava la gente che li compativa per via delle bende che portavano entrambi all’occhio destro, la loro compassione era l’ultima cosa che desiderava vedersi offrire.
«Vado ad aiutare il vecchio.» disse, alzandosi dal divano «Tu resti qui?».
Deak sembrò pensarci, osservando prima il suo viso, poi il libro che aveva rimesso in grembo. Con un sospiro ci mise in mezzo un segnalibro, chiudendolo con un leggero tonfo e poggiandolo sul bracciolo della poltrona.
«No, no. Vengo a darvi una mano.».
Dalla cucina iniziava a farsi sentire l’aroma dell’oyakodon, mentre il vecchio era ancora indaffarato ai fornelli. Prepararono la tavola senza dire nulla, accomodandosi tutti e tre una volta che le pietanze furono messe in tavola. Ascoltarono il tg serale, commentando le varie notizie man mano che venivano trasmesse. Le rivolte nel mondo erano, dal punto di vista culturale, importanti per il lavoro dell’anziano padrone di casa. Si erano trasferiti in quella città proprio per via dei suoi impegni di storico, lasciandosi alle spalle gente e ricordi che forse, nel giro di qualche mese, avrebbero completamente abbandonato le loro menti. In fondo in quella città c’era così tanto da scoprire, Lavi era certo che avrebbe ottenuto comunque qualcosa di buono, pur lasciandosi alle spalle parte del proprio passato.
Eppure, sebbene non volesse ammetterlo, c’erano cose che non avrebbe mai potuto dimenticare. Cose che nessuno avrebbe mai saputo… ma che lui, come suo fratello, tentava disperatamente di dimenticare per sempre.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Inquietudini ***


Pepperepèèèèèèèèèèè!
Alla fine son riuscita a finire pure ‘sto capitolo. È diventato spaventosamente lungo, praticamente il doppio di un capitolo normale… non chiedetemi perché. Le mie mani viaggiavano per conto loro. Spero comunque che non vi annoi!
Passando ai ringraziamenti (ho notato che son l’unica che ringrazia sempre gli stessi – con le aggiunte dei nuovi – ad ogni capitolo, ma son la sola o lo fa pure qualcun altro? :’D), iniziamo con Giuu, I r i s, _Haily_, Eyes Green, M e g a m i, Ookami san, tofuavariato e N e m e per averla inserita tra le preferite; I r i s, Kuchiki Chan, Kumiko_Walker, Shaila Light, Tiamath, Ucha, KayeJ, M e g a m i e Jeanny991 per averla inserita tra le seguite; e infine N e m e, Eyes green, M e g a m i, MimiWyspet, _Haily_  e I r i s per avermi inserita tra gli autori preferiti. Siete sempre di più, grazie a tutti! ;vv;
Detto questo, vi lascio al capitolo <3

 

Capitolo 5 – Inquietudini

 



«Ma questi non sono normali, guarda che schifo!».
«Lasciateci in pace!».
«Avete visto? Lavi non ha un occhio!».
«No, io…».
«Anche a Deak ne manca uno!».
«Lui non ha colpe, lasciatelo stare!».
«Che schifo! Ma perché stai ancora qui? Vai via!».
«Perché vorrei…».
«Noi non vi vogliamo, fate vomitare! Andate via!».
«Non è colpa nostra!».



Lavi si svegliò di soprassalto, ansimando pesantemente. Il cuore gli martellava nel petto come un tamburo impazzito, i capelli gli stavano appiccicati alla fronte sudaticcia. Era da tanto tempo che non aveva incubi del genere e, in tutta onestà, avrebbe preferito non riaverne ancora. Sospirò a fondo, lasciandosi cadere sul cuscino e fissando il soffitto buio. Sul comodino, la sveglia digitale segnava le 3:45 del mattino. Da un lato sapeva anche il motivo per cui proprio quella notte aveva avuto quell’incubo – lo stesso motivo che cercava da anni di dimenticare. Eppure si ripresentava puntuale come un orologio svizzero, vivido nella sua mente come se lo stesse rivedendo su uno schermo a cristalli liquidi. Anzi, contando la qualità audio e il fatto che sentisse anche fisicamente lo stesso dolore, sarebbe più corretto dire che gli pareva di riviverlo nuovamente sul proprio stesso corpo.
Si portò una mano all’occhio destro, sfiorando il tessuto della benda che lo proteggeva – sentiva chiaramente le pulsazioni del suo cuore ripercuotersi anche in quel punto. Lavi non la toglieva mai dall’occhio, nemmeno per dormire. Faceva eccezione solo sotto la doccia, altrimenti evitava di privarsene. Non voleva che gli altri vedessero cosa celava sotto quel sottile strato di stoffa nera, nessuno doveva permettersi di sapere. Era bravo ad eludere le domande dei curiosi, in tanti anni aveva sviluppato una certa attitudine alla bugia per buona causa. Il suo sorriso lo aiutava ad essere credibile in quella recita improvvisata, dove lui era sicuro di essere l’unico, a parte il fratello, consapevole di essere in scena a tempo indeterminato.
Erano passate poco più di due settimane dal loro arrivo in quella città, aveva seguito regolarmente tutte le lezioni e, anche con l’aiuto di Kaien, era riuscito a rimettersi in pari senza grossi problemi. Curioso davvero, quel ragazzo aveva una chiacchiera da far invidia ad una comare, eppure era tra i migliori del corso. Lo aveva presentato anche alla compagnia che frequentava di solito per il mercoledì universitario o per le uscite al sabato sera, e gli aveva fatto da guida in un lungo giro ai punti salienti della città, passando dai loro locali abituali ai cinema, i centri sportivi e le librerie, così come i principali centri commerciali o le sale giochi. Già che c’erano, gli aveva snocciolato le proprie conoscenze riguardanti le bellezze storico-artistiche della zona, giusto per tener fede anche al proprio corso di studi. E, per la miseria, quante ragazze conosceva! Che ne sapesse era libero come l’aria, eppure sembrava che chiunque lo conoscesse, da quelle parti. Tante facce associate ad altrettanti nomi, tante identità che si accumulavano nella sua mente e che, seppur involontariamente, ricordava come se i suddetti nomi li avessero stampati in fronte.
Tatsuki Arisawa, Lenalee Lee, Orihime Inoue, gli aveva presentato pure i suoi fratelli, Ganju e Kukaku – e di quest’ultima, oltre al nome e alle bocce davvero niente male che aveva davanti, ricordava pure i ceffoni agghiaccianti che aveva tirato a Ganju quando aveva sbagliato a portarle il tè. Pensò bene che convenisse poco farla arrabbiare. Alla cerchia della gente da conoscere, Kaien aveva incluso anche un certo Uryu Ishida – piuttosto introverso e diffidente, il ragazzo, a dire il vero. Però aveva dato prova di destreggiarsi magnificamente con ago e filo, quando ad Inoue si era sfilacciata una cucitura del maglione, al bar dove si erano incontrati – e un altro giovane dall’aria parecchio introversa, tale Ulquiorra Schiffer. Guardava tutti con aria piuttosto apatica, senza mai intervenire con particolare entusiasmo, quasi parlare gli costasse fatica. Aveva sentito un pizzico di vitalità nella sua voce solo quando aveva zittito con una battuta assai pungente un ragazzo dai capelli azzurri e un grugno da teppista che mezzo bastava. Grimmjow Jaequalcosa…
A sentire il suo cognome, Lavi aveva fatto una faccia educatamente perplessa. Troppi “jajeja”, per lui, ma a quanto pare il giovane non aveva particolarmente apprezzato la sua incapacità di pronunciare il suddetto cognome.
«Jaegerjaques, guercino. Su, ripeti con me. Jae-ger-ja-ques. Non è difficile, anche un tardo ci riuscirebbe.».
Detta così sembrerà un incitamento amichevole. Peccato che Grimmjow gli stesse ringhiando a pochi centimetri dal naso.
«E dai, Grimmjow, così lo spaventi! Poveraccio, ti ha appena incontrato e già lo terrorizzi in ‘sta maniera indegna?» era intervenuto Kaien, in sua difesa.
«Senti un po’, caro mio, scusa tanto se ci tengo che la gente non canni il mio cognome! Che cazzo! Non si predica la multinazionalità, al giorno d’oggi?».
«Sì, ma non siamo nati poliglotti… vedrai che ci prenderà la mano.».
«Gli conviene. Se ci riesci in meno di mezz’ora, guercio, ti offro da bere. Sempre ammesso che tu non lo faccia sembrare un cognome da checca francese.» aveva aggiunto poi, tirandogli una pacca sulla spalla.
Tempo un quarto d’ora, e Grimmjow si era ritrovato a dovergli veramente offrire da bere. In realtà Lavi si era fatto avanti dopo pochi minuti, ma l’altro aveva tentato di guadagnare tempo facendoglielo ripetere un’infinità di volte. Alla fine si era arreso all’evidenza dei fatti e gli aveva pagato la consumazione. Erano rimasti a chiacchierare per un bel po’, finché Kaien non l’aveva nuovamente sequestrato e portato in giro per la città – non dopo avergli strappato la promessa morale di uscire con loro, ogni tanto.
«A dire il vero ci sarebbero un altro po’ di persone nel nostro gruppo, ma sai com’è, con lo studio il tempo per uscire è quello che è…» aveva sbottato d’un tratto il moro, mentre attraversavano il parco «Magari la prossima volta che ci troviamo te le faccio conoscere. Una frequenta la nostra stessa facoltà, solo che segue altri corsi.».
«Con questa descrizione mi viene in mente una sola persona, ma dubito sia proprio la stessa a cui ti riferisci tu.» era stata la risposta di Lavi, mentre si grattava il mento con l’indice.
«Può essere, chi lo sa? Si chiama Rukia Kuchiki. Piccolina, coi capelli neri e corti… ha un ciuffo che le casca sempre in mezzo agli occhi. A vederla le daresti minimo dieci anni in meno, tanto è piccina e carina.».
Lavi aveva sgranato gli occhi a sentire quel nome, evitando lo sguardo del ragazzo che aveva accanto. In quelle due settimane non aveva più avuto occasione di incontrarla, nemmeno sull’autobus, e per questo non aveva nemmeno avuto la possibilità di chiederle perché, quel giorno, prima l’avesse aiutato e poi bellamente ignorato. Aveva valutato l’ipotesi che potesse non essere stata lei, ma con lo stesso colore del cappotto e della sciarpa… insomma, doveva essere la classica coincidenza che capita una sola volta in tutto l’anno.
«Sì… di vista ho presente chi è. O meglio, era lei la persona che ti dicevo, mi aveva aiutato la mattina che sono arrivato per la prima volta in facoltà. Solo che non la conosco così bene, e non l’ho nemmeno più rivista.».
«Beh, ultimamente viene prima in facoltà perché ogni tanto studiamo insieme prima delle lezioni, forse è per quello. Sai, con le prove di metà trimestre si era bloccata un attimo con un paio di materie, così mi ha chiesto se potevo darle una mano. Già studia un sacco per conto suo, almeno in compagnia ci si diverte di più.».
Lavi si era limitato ad annuire, borbottando un “Capisco.” nemmeno tanto convinto. Solo quando Kaien lo aveva lasciato per prendere l’autobus per tornare a casa si era accorto di essersi dimenticato una domanda forse stupida, ma che ormai cominciava a ronzargli in testa.


Si rigirò per l’ennesima volta, decidendo alla fine di alzarsi per andare a prendere da bere. Ciabattò più silenziosamente possibile fino alla cucina, accendendo il minimo indispensabile di luci per non svegliare il vecchio o suo fratello, e versò l’acqua in un bicchiere lasciato sul lavabo a sgocciolare. Non era il tipo che imprecava spesso, ma gli veniva male all’idea di doversi svegliare dopo neanche quattro ore scarse. In qualche modo doveva costringersi a riposare ancora un po’, o sarebbe crollato in aula come un pero cotto. La magra consolazione era che entro poco sarebbero iniziate le vacanze natalizie – era ormai la fine di novembre, ancora tre settimane e…
Scosse la testa e risciacquò il bicchiere, umettandosi delicatamente l’occhio dolorante con la mano appena umida, per poi fare ritorno alla propria stanza. Lungo il tragitto lanciò una rapida occhiata alla porta chiusa della camera del fratello, poi rientrò nella propria, buttandosi a letto e tirandosi le coperte fin oltre la testa.


 



Deak, nella propria stanza, si rigirava tra le coperte come un’anima in pena.
"Fanculo." pensò "Non mi ricordavo che fosse proprio in ‘sto periodo.".
Forse per quella leggendaria affinità tra gemelli, anche Deak soffriva per gli stessi motivi di Lavi. L’occhio destro bruciava con insistenza crudele, a poco serviva sollevare la benda e farsi aria con la mano. Stava coperto solo fino a metà petto, le maniche del pigiama sollevate fino ai gomiti nonostante le temperature tutt’altro che miti. Da anni non usava più il piumone in inverno, preferendo più sottili ma altrettanto calde coperte in pile e fustagno e lenzuola in flanella. A suo parere erano molto più comode di quelle coperte così rigonfie, che il più delle volte aveva trovato per metà a terra e non a coprirlo. Il vecchio non aveva voluto sentire ragioni, in inverno dovevano avere coperte adeguate – aveva accettato con un po’ di reticenza il fatto che entrambi i gemelli ripudiassero il piumone, sin da piccoli, non c’era stato verso di convincerli a tenerlo.
Deak sospirò pesantemente, mandando mentalmente mille accidenti a nessuno in particolare. Quella sera non c’era verso di riuscire a prendere sonno, aveva provato anche a leggere per stancare la vista, a contare le pecore come i bambini, a rileggere gli appunti presi in classe ma niente, Morfeo non veniva a fargli compagnia. Razza di stronzo villano. Il motivo lo sapeva, come sapeva che probabilmente il fratello era nelle sue stesse condizioni. Fissando il soffitto illuminato debolmente dall’abat-jour, il ragazzo si concesse qualche minuto per pensare a qualcosa che non fosse il fastidioso dolore all’occhio.
In passato, quando arrivava quel giorno, Lavi si affacciava timidamente alla porta della sua stanza, stringendo un peluche a forma di coniglio, e gli chiedeva di poter dormire con lui. Quante volte gli aveva voltato le spalle, sbottando un disinteressato “fa’ come vuoi”? E puntualmente, dopo pochi istanti, sentiva la porta chiudersi piano e il materasso abbassarsi un po’ sotto il peso del bambino che, cercando di farsi spazio sul letto, gli si stendeva accanto, abbracciato al peluche. Sentiva anche una delle sue mani stringergli la giacca del pigiama quasi a cercar conforto, ma non si era mai voltato né aveva fatto alcunché per tranquillizzarlo. Anzi, era convinto che il farlo dormire con lui fosse già abbastanza, meglio evitare di sbilanciarsi troppo. Se ti esponi troppo rischi sempre, non sai mai quando la gente è pronta a pugnalarti alle spalle sfruttando le tue debolezze. Per questo Deak teneva a distanza chiunque, anche Lavi. Tra i due fratelli quest’ultimo era sempre stato il più deboluccio e più bisognoso di sostegno. Dietro quella facciata sempre allegra si nascondeva sempre una muta richiesta di affetto, un tentennamento ad offrire la propria fiducia a chi aveva davanti – era prudente, sì, ma di certo non ai suoi livelli. Era il classico amico “di tutti e di nessuno”. Ciò nonostante di lui si fidava ciecamente, sebbene non si potesse certo dire che il suo comportamento fosse quello di un fratello esemplare. Eppure Lavi non perdeva la pazienza nemmeno quando gli rifilava le risposte più velenose che gli venivano in mente sul momento, a volte pure troppo velenose – l’abitudine a trattare gli altri allo stesso modo era più forte di lui, e non sapeva se definire la sua tenacia degna di lode o meno. 
L’aveva sentito passare davanti alla sua stanza, sebbene avesse cercato di essere più silenzioso possibile, probabilmente era sceso in cucina. Per un attimo lo rivide mentre apriva la porta, da bambino, ma non accadde niente del genere – continuò a regnare il silenzio tipico della notte, interrotto solo dal ticchettare della sveglia sul comodino. Probabilmente nemmeno lui riusciva a dormire per il suo stesso motivo, per gli stessi ricordi, lo stesso dolore, la stessa rabbia. Si maledisse per un istante, ogni anno si riprometteva di ingoiare un bel sonnifero per quella particolare sera, e puntualmente se ne dimenticava. Avrebbe dovuto mettersi un promemoria sul calendario, scritto in rosso e in maiuscolo, così da stamparselo bene in mente. Nella frenesia di quelle due settimane aveva un po’ perso il senso del tempo, troppo assorbito dalla routine quotidiana e dalla preparazione per quelle benedette prove intermedie. Non che temesse di non superarle, per carità, era consapevole del fatto di aver una gran testa, ma giusto per far rosicare ancora un pochino quell’albino e la piccoletta che aveva al seguito… La fortuna di avere a disposizione aule abbastanza grandi per le lezioni lo metteva nelle condizioni di non doverci per forza stare vicino. Si chiamava Hichigo Kurosaki, stando agli elenchi delle presenze da firmare. Tutti però lo chiamavano “Shirosaki”, pure i professori. Vabbé che bianco com’era, tra un po’ si confondeva con il muro. Come sopportasse tanto la luce restava un mistero, a meno che il suo non fosse albinismo ma semplice decolorazione totale dei capelli, unita ad una minima esposizione alla luce del sole. Però era veramente troppo pallido.
E che dire di Darukia Kuchiki? Nemmeno lei poteva vantare un’abbronzatura caraibica. Compagni di pallore, ecco cos’erano quei due. Approfittavano delle aule vuote per studiare senza impicci, forse temevano di averlo tra i piedi un’altra volta. Rise a quel pensiero e al ricordo dell’episodio in aula studio. Dargli il tormento, forse, sarebbe stato più divertente del previsto. Non che intendesse assillarli, Deak, proprio no. Non voleva certo dar loro l’impressione di avere una vita tanto triste da non aver altro svago, se non quello di rompergli le scatole ad ogni buona occasione – o peggio, che pensassero che li cercava apposta. Se capitava di averli a tiro, tanto valeva restare nei paraggi. L’albino si ostinava ad ignorarlo, stritolando la penna nella mano, mentre Darukia gli lanciava di quando in quando occhiate sfuggenti, come a volersi accertare che non si muovesse dal suo posto. E chi si muoveva? Se bastava così poco a far andare Shirosaki fuori dai gangheri…
Masticando un’imprecazione tra i denti, si voltò a guardare l’orologio che segnava le 4 passate.
Morfeo, amico mio, dove ti sei perso?
Si rigirò un’ultima volta, serrando gli occhi con forza – e lasciandosi sfuggire un’altra imprecazione. Dannato occhio! – e tirandosi su le coperte fino a coprirsi la testa – imitando inconsapevolmente il gemello.
Dormi, stupida mente iper-attiva.
Riposati per un po’, stupido occhio rovinato. Lasciami in pace, come gli altri giorni. Lasciami dormire giusto qualche ora. Almeno per recuperare energie, non per altro. Tanto so che il passato non si cancella,
tu non puoi essere cancellato. Lasciami solo l’illusione di poter dimenticare, però.


L’ora di alzarsi giunse anche prima di quanto si aspettasse. A palpo cercò la sveglia per zittirla, infastidito, sfregandosi poi l’occhio sinistro. Inutile dire che per quelle poche ore aveva dormito veramente malissimo, tanto più che arrivò in cucina grugnendo un “buongiorno” più incomprensibile del solito. Lavi non disse nulla, si limitò a salutarlo con un leggero cenno del capo, alzando appena lo sguardo dalla tazza di latte tiepido che stava sorseggiando.
Deak si servì del caffè, zuccherandolo forse più del dovuto – non era tipo da amare i dolci alla follia, ma quella mattina aveva bisogno di carburare.
«… dormito male?».
La domanda del fratello gli parve quasi assurda. Come se non lo sapessi, pensò. Nemmeno lui aveva una bella cera, gli occhi – anzi, l’occhio era visibilmente stanco, segno che non aveva decisamente dormito tranquillo e beato.
«Secondo te?» rispose brusco, sorseggiando la propria bevanda.
«Non so, magari…».
«Magari niente, Lavi. Tanto lo so che anche tu non hai chiuso occhio.». Ricevette uno sguardo un po’ allibito a tale risposta, tanto che si sentì in obbligo di aggiungere «Ti ho sentito stanotte, quando sei sceso.».
«Oh.» Lavi si leccò la bocca sporca di latte con la lingua, allungandosi per prendere la scatola di cereali «Pensavo di aver fatto piano, ho anche acceso poche luci.».
«Capirai, se son sveglio nel cuore della notte è ovvio che ti sento lo stesso.»
«Mh… vero.» rispose l’altro a bocca piena «In realtà ho pensato per un po’, poi mi è venuta sete.».
«Tu che pensi? Di notte?».
«Penso anche di giorno, ma la notte porta consiglio.».
«Ah, sì? La notte ti ha suggerito che mutande metterti oggi?».
«Spiritoso. Era una cosa seria.».
«Cosa, le tue mutande? Ma per favore.».
«Ma no, che c’entrano le mie mutande!».
«Beh, qualunque cosa fosse stata, basta che tu te la sia levata dai piedi in fretta.».
«In realtà no. Ci sto ancora pensando, ma vedrò meglio quando sarò in facoltà…».
«Non che m’interessi, bada bene. Era roba da studiare?».
«Non proprio…».
«Allora m’interessa ancora meno.» si alzò e sciacquò la tazza nel lavandino, lasciandola a sgocciolare «Ti precedo in bagno, tu vedi di non perdere la vita su quella tazza, che io non t’aspetto. Il vecchio è partito stamattina presto e non mi fido a lasciar le chiavi a te.».
Lavi mugugnò qualcosa in protesta, masticando i cereali al cioccolato con un broncio tale da farlo sembrare un bambino. Deak fece spallucce, uscendo dalla cucina per tornare in camera a prendersi i vestiti e andare a lavarsi, quando il fratello realizzò un piccolo ma fondamentale dettaglio.
«Ehi, ma io rincaso prima di te, oggi! Non voglio restar chiuso fuori! Ehi, Deak!».
Peccato che Deak fosse già scappato in bagno.



** ** ** **



«Hisana, cara, tu che progetti hai per Natale?».
La giovane si voltò verso la collega che le stava parlando – Yuki dell’ufficio contabilità, se non ricordava male – con un’espressione perplessa. In effetti non ci aveva fatto molto caso, ma lungo i vialoni principali cominciavano già ad apparire le prime lucine natalizie, sebbene mancassero ancora un po’ di settimane alla festività vera e propria. Ammise a se stessa che quella domanda l’aveva un po’ colta impreparata, Yuki era forse una delle prime ad interessarsi ai suoi programmi per le festività. Si concesse qualche attimo per pensare, prima di scuotere leggermente la testa.
«Nulla di particolare, in realtà. Ad essere sinceri, non penso sarà molto diverso dagli altri giorni.» rispose sorridendo, grattandosi leggermente la gota con l’indice.
L’altra la guardò con tanto d’occhi, stupefatta. Le pareva impossibile che non sentisse nell’aria l’allegria che solitamente portava il Natale. Insomma, almeno secondo lei…
In realtà Hisana aveva avuto a cuore le feste solo finché aveva potuto contare su una famiglia con la quale festeggiare. Da diversi anni non era più così, da quando i suoi erano morti in un incidente e la nonna paterna l’aveva presa in custodia, e pure dopo la morte della stessa. Durante gli anni dell’università aveva lavorato come cameriera in un ristorante per pagarsi le spese e l’affitto dell’appartamento dove viveva con la nonna, fino a quando quel buon cuore – prego, leggere con molta ironia – del proprietario non l’aveva invitata a disfarsi della propria roba e cercare alloggio altrove. Se non altro, c’era da ringraziare che avesse atteso che trovasse un altro posto prima di buttarla fuori di casa. Seppur a malincuore era stata costretta a vendere le poche cose che le erano rimaste della nonna, un po’ per racimolare qualche spicciolo in più, un po’ perché non poteva permettersi di trasportare a destra e a manca troppe cose superflue. Aveva conservato il minimo indispensabile per non sentirsi una completa ingrata, e il resto era ormai perduto per sempre. Le erano rimasti pochi monili da cui non era riuscita a separarsi e le foto che troneggiavano in camera sua, su un angolo curato appositamente, come un piccolo altarino. Un modo per sentire un po’ meno la loro mancanza.
Per questo, anche durante le feste, aveva preferito tenersi occupata con i lavoretti che era riuscita a trovare – che fosse la commessa in un konbini o la cameriera in un ristorantino –, fino a quando non aveva visto l’annuncio che lo studio Kuchiki richiedeva una segretaria in prova. Lo stipendio non era male, e di certo sarebbe riuscita a concedersi forse qualche capriccio in più rispetto al severo stile di vita che la magra paga dei lavori precedenti la obbligava a fare. Ed infatti ora eccola lì, in prova da quasi un mese in quello studio così prestigioso. Non pensava davvero di riuscire a passare la selezione, Byakuya Kuchiki era rinomato per essere una persona parecchio esigente. Invece era riuscita a procurarsi il posto, e pure a legare con lo staff già presente – era la più giovane, tra l’altro.
Notando lo sguardo della collega, a scanso di equivoci, Hisana si sentì in dovere di tranquillizzarla.
«Nel senso, la mia famiglia non sente le festività in particolare. Ci piace ritrovarci tutti assieme e fare un gran pranzo, magari scambiandoci qualche piccolo presente.» disse, stupendosi di se stessa di quanto brava fosse a raccontare frottole «Però questi ritrovi li facciamo anche alla domenica, ecco, non solo in occasioni particolari.».
In realtà avrebbe probabilmente condiviso un pranzo banale insieme a Shiro. Niente regali, niente pasto abbondante, del resto non poteva permettersi di sforare dalle spese mensili – il suo stipendio da impiegata in prova non era ancora così alto da darle una tranquillità assoluta. Ma non poteva certo andare a dirlo senza pensieri, non voleva nemmeno suscitare pietà di chicchessia. Finse di provare interesse verso le chiacchiere di Yuki, che le stava anticipando quali regali avrebbe preso per la famiglia e il suo fidanzato, al banchetto che avrebbe preparato, ai nipoti che reclamavano a gran voce l’albero di Natale che lei doveva ancora comprare. Venne salvata dalla fine della pausa caffè, segno che era ora di tornare a lavorare. Mentalmente Hisana ringraziò la propria buona stella, la collega la stava stordendo a forza di chiacchiere. Tornò al proprio posto posando il bicchierino di caffè ancora mezzo pieno – amava conservarne un po’ da sorseggiare di quando in quando – e aprì l’agenda degli appuntamenti. L’incontro con il magistrato Hirako era in forse, aveva detto che avrebbe chiamato per confermare ma non l’aveva più sentito. Fece per comporre il numero, la cornetta già in mano, quando Byakuya fece capolino dallo studio con aria parecchio seria.
«Hisana, per cortesia, venga un attimo nel mio ufficio.».
Per un istante la giovane sudò freddo. La sua mente si attivò a velocità impressionante, mentre si avviava con passo malfermo all’interno dell’ufficio del procuratore. Il suo periodo di prova era ormai alla fine, in effetti, ma perché aveva quell’espressione così seria? Aveva forse sbagliato da qualche parte? Stava per cacciarla via? Cosa le era sfuggito, che gli non era piaciuto? Aveva tenuto comportamenti sbagliati? Entrò a testa china, tormentandosi le mani e fermandosi a pochi passi dalla scrivania. Byakuya era seduto sulla poltrona nera, i gomiti poggiati sul tavolo e la bocca celata dietro le mani intrecciate – sembrava ancora più severo del solito.
«Dunque, Hisana, come già saprà il suo periodo di prova si sta per concludere.» disse con voce atona.
«… Sì, dottore.» rispose lei, alzando lo sguardo per incrociare i suoi occhi grigi. Aveva una vaga idea di quanto riuscisse ad essere inquietante?
«Non posso negare di avervi tenuta particolarmente d’occhio in questo mese. Come sapete, lo studio ha bisogno di personale affidabile e in gamba, e soprattutto che sappia lavorare anche in condizioni di forte stress. Lei come giudica il proprio operato?».
La ragazza abbassò per un attimo il capo, continuando a tormentarsi le mani e ripensando velocemente al proprio lavoro. Non riteneva di essersi comportata male o di aver sbagliato qualcosa ma, del resto, ad occhi esterni poteva sembrare il contrario. Tornò a guardarlo nuovamente, prendendo coraggio prima di rispondere.
«Non mi permetto di giudicarmi, dottore. Il mio potrebbe essere un parere assolutamente soggettivo, potrei credere di essere stata impeccabile come il contrario. Mi sembra più corretto che sia lei a giudicarmi, in quanto il mio operato dev’essere al suo servizio. Se quanto fatto finora soddisfa le sue esigenze, ne sarò lieta.».
«Lei vorrebbe continuare a lavorare presso questo studio?».
«Indubbiamente è un posto di una certa rilevanza, non posso negarlo, ma è anche un ambiente in cui è piacevole lavorare. Non lo dico per… per lustrarle le scarpe, sia chiaro.».
Per un attimo Byakuya ringraziò di avere le mani intrecciate davanti alle labbra, così da nascondere il leggero sorrisetto che gli piegò i lati della bocca.
«Capisco. Basta così, Hisana, potete andare.».
La ragazza temporeggiò per una manciata di secondi, prima di mormorare un timido «Con permesso.» e lasciare l’ufficio. Tornò al proprio posto sedendosi lentamente, fissando per un paio di minuti lo screen-saver del monitor senza dire alcunché. Forse, una volta tornata a casa, avrebbe decisamente fatto meglio a tenere d’occhio altri posti di lavoro.
Cercò di levarsi dalla testa ulteriori pensieri prendendo in mano il telefono e componendo il numero del magistrato. In fondo, quella giornata non era ancora finita.

 

** ** **



«Rukiaaaaaa! Muoviti, o perdiamo l’autobus!».
La ragazza corse giù dalle scale a rotta di collo, cercando di non finire al piano di sotto con un volo da record. Intascò il proprio mazzo di chiavi e lanciò alla sorella il suo, richiudendosi alle spalle il portone principale per correre in strada – o per lo meno, provarci. L’aria era notevolmente più frizzante del solito, vista anche l’ora, e il traffico non era nemmeno così sostenuto. Alla fermata c’era già qualche persona in attesa, ma per loro fortuna riuscirono a guadagnarsi anche dei posti a sedere. In genere al mattino erano di poche chiacchiere, forse per il troppo poco tempo passato dopo la sveglia, tant’è che erano solite fare il tragitto in silenzio. Quella mattina, però, Rukia sembrava in vena di spettegolare, oh, eccome se lo era.
«Ma senti un attimo, quel tipo l’hai più visto?».
«Chi?» Darukia si voltò verso la gemella, guardandola perplessa. Al di là del fatto che non si aspettava quella domanda, era stupita del fatto che fosse anche in vena di parlare.
«Quello che dicevi vi aveva dato fastidio in aula studio… non hai detto come si chiamava. Dai, quello che stava per subire una pesante modifica facciale da Hichigo.».
«Aah! … ah.» l’altra si rabbuiò per un attimo. Ma perché, tra tutti i discorsi possibili, era saltato fuori proprio quello?
«Ho toccato un tasto dolente?».
«A dire il vero sì, l’ho rivisto qualche volta a lezione, ma se non altro ha avuto il buon gusto di stare alla larga…».
«E non ti guardava nemmeno?».
«Rukia, che diamine, ma ti pare che stessi a tenerlo sotto controllo? Meno mi parla e meglio sto, per quel che mi riguarda.».
«Ti ho chiesto se ti guardava, non se ti parlava.» puntualizzò Rukia, con un leggero sorrisetto.
Non poté fare a meno di notare come la sorella evitasse il suo sguardo, vagamente stizzita, e quanto tormentasse le cinghie della borsa. Forse aveva colpito nel segno.
«È capitato. L’ho sgamato a fissare me e Hichi più di qualche volta, peccato avesse sempre in faccia un sorrisetto da schiaffi.».
Un fischio d’approvazione le uscì dalle labbra senza che se ne rendesse conto, facendole guadagnare un’occhiata assassina da parte di Darukia. Pensò bene di alzare le mani in segno di resa, onde evitare che la sorella la picchiasse in mezzo a tutta quella gente, e cercò di portare il discorso su un tono meno rovente.
«Però non vi ha più rotto le scatole, giusto?».
«Esatto, e gli conviene continuare così. Cioè, non hai idea di quanto se la tiri! Ti guarda come se l’intelligente fosse solo lui e tu valessi quanto uno straccio da pavimenti che per sbaglio gli insozza le scarpe. È insopportabile!».
Per Rukia era una strana novità vedere la sorella prendersela tanto con qualcuno. Era il tipo che se poteva cercava di andare d’accordo con tutti, evidentemente quel Deak s’era messo d’impegno per farsi trovare così odioso ai suoi occhi. Non fosse stato che l’avrebbe ritenuto alquanto improbabile, l’avrebbe giudicato come il classico bello e dannato dei manga che leggeva ai tempi del liceo, quello che faceva il bulletto prendendo di mira la povera protagonista che, dopo l’iniziale astio, cadeva cotta e innamorata tra le sue forti e possenti braccia.
Una gomitata sul fianco, attutita dall’imbottitura del giaccone, la riportò bruscamente alla realtà – Darukia si era ben immaginata i film mentali che le stavano passando per la testa, e casualità erano arrivate alla loro fermata. Si separarono una volta scese, prendendo due strade opposte per le rispettive facoltà. Erano entrambe in buon anticipo, e quella mattina l’autobus le aveva graziate arrivando puntuale, potevano prendersela con calma.
Per un istante Rukia sorrise tra sé alla prospettiva di trovarsi con Kaien anche quella mattina: quel santo ragazzo aveva accettato di darle una mano per alcune materie anche prima dei test di metà trimestre, e le aveva detto di non farsi problemi a chiamarlo comunque, se avesse avuto bisogno di aiuto. E chi era lei, per rifiutare una simile proposta? Se ne sarebbe pentita amaramente, lo sapeva bene. Se non altro, standoci così a stretto contatto, forse sarebbe riuscita a farsi passare quell’assurda agitazione che la pigliava ogni volta che Kaien si trovava nel raggio di dieci metri da lei…
«Buongiorno, Rukia.».
Si voltò per trovarsi faccia a faccia con un tipo coperto come un cosacco, distinguibile solo dai pochi ciuffi rossi che spuntavano da sotto il berretto in stile aviatore con tanto di pelo bianco. La sciarpa copriva a stento il naso arrossato dal freddo, ma Rukia riuscì ad intuire il leggero sorriso che gli piegava le labbra.
«Buongiorno, Lavi. Lezione presto, oggi?» chiese, fermandosi per permettere al ragazzo di raggiungerla.
Lui scosse la testa, intascando le mani guantate per proteggerle ulteriormente dal freddo e mettendosi al suo fianco, riprendendo il passo per invitarla a proseguire.
«In realtà no. È che io e mio fratello siamo soli a casa, abbiamo un solo mazzo di chiavi e lui usciva presto. Nostro nonno è stato chiamato per lavoro ed è partito molto prima di noi. Pensavo di approfittarne per ripassare un po’ prima delle lezioni.» spiegò, alternando lo sguardo da lei alla strada «Tu, invece?».
«Avrei lezione tra un paio d’orette, in realtà, ma come te pensavo di sfruttare l’anticipo per studiare un po’ con un amico. Frequenta il tuo corso, non so se lo conosci.».
«Parli di Kaien?».
«Sì, esatto.» replicò lei, sorridendo mentre un vago rossore le imporporava le guance «È stato tanto gentile da offrirsi di aiutarmi, e così… magari potresti aggregarti a noi, che ne dici? Insieme si studia molto più volentieri.».
«Mh, non saprei… non vorrei essere d’impiccio.» disse, alzando appena una mano quasi per scusarsi.
«Perché d’impiccio? Personalmente non mi dispiacerebbe, sai. Pure Kaien ne sarebbe contento, a lui piace stare con gli amici, anche se si tratta di studio.».
Il ragazzo sembrò pensarci su. Aveva ben notato com’era arrossita quando era finita a parlare di Kaien, e ritrovarsi in mezzo ad una situazione del genere lo metteva in difficoltà – forse Rukia non se ne rendeva conto, ma era chiaro come il sole quanto le piacesse Kaien. Insomma, volente o no si sarebbe sentito di troppo, però lei sembrava non disprezzare la sua compagnia…
«Mh, okay. Sempre se per voi non è un problema, mi aggrego volentieri…» mormorò dopo un po’, grattandosi la nuca.
«Allora perfetto! Kaien ci aspetta nell’aula C del terzo piano, a quest’ora è libera e potremo stare tranquilli.».
Neanche cinque minuti dopo arrivarono alla facoltà. Si presero il tempo di bere qualcosa di caldo per farsi passare il freddo accumulato fuori – e Lavi insistette per offrire. Era per ringraziarla dell’aiuto offertole al suo primo giorno in città, disse.
«Anche se forse non è buono come il tè che si beve al bar di fronte.» aggiunse.
«Ci sei già stato?» chiese Rukia, sorseggiando la bevanda bollente dal bicchierino di plastica.
«Al momento ancora no. Me lo consiglieresti?».
Che dire, Lavi era un maestro delle domande indirette. Sottilmente il bar poteva anche interessargli, ma non era esattamente quello che voleva sapere. Rukia agitò lentamente una mano davanti al viso, come a voler scacciare un’idea sciocca.
«Detto fra noi, non è esattamente dei migliori.» disse «Ci sono stata una volta e il servizio ha lasciato parecchio a desiderare. E poi, ci sono bar che servono cioccolate migliori. Tipo quello che c’è vicino alla segreteria, hai presente? Il “Black Moon”? Ecco, quello è un locale che merita. Ogni tanto ci raduniamo lì con la nostra compagnia, il sabato sera, magari Kaien te ne ha già parlato.».
«Diciamo che mi ha obbligato moralmente a venire con voi al vostro prossimo incontro.».
La ragazza scoppiò a ridere, prima di gettare il bicchierino vuoto nel cestino e sistemarsi la borsa sulla spalla.
«Tipico da parte sua, diciamo che vuole aiutarti a farti ambientare. Spero ti piaccia, come gruppo.».
«Ha dei begli elementi, sì.».
«Ti riferisci a qualcuno in particolare?».
«Beh, Grimmjow pare essere un tipo alquanto singolare, tanto per cominciare. Non mi pare che tra lui e Ulquiorra scorra buon sangue.».
«Non si può dire che si amino alla follia, ma nemmeno che si detestino. Si sopportano, ecco. Grimmjow è troppo casinista per Ulquiorra, lui è un tipo molto più pacato.».
«Sì, ho notato.».
«Avrai occasione di conoscere meglio tutti quanti sabato sera, allora. Ora ci conviene muoverci, o Kaien viene a tirarci entrambi per le orecchie.».
Lavi sorrise in risposta, mentre premeva il tasto di chiamata dell’ascensore. Era inspiegabilmente sollevato alla consapevolezza di essersi sbagliato, quel giorno, Rukia non l’aveva ignorato. Chissà chi diamine aveva salutato, allora… probabilmente un ignaro passante che non c’entrava nulla. Che scemo…
Salì con la ragazza fino al terzo piano, trovando l’aula semideserta e Kaien che li aspettava con un sorriso stampato in faccia.




«Che cazzo di freddo, porca miseria! Ma perché in ‘sta scuola non accendono i riscaldamenti?».
«Dai, Hichi, non dirmi che hai freddo sul serio.».
«No, guarda, lo dico tanto per. Prof! Ma non si può far qualcosa? Sembra di stare in un igloo!».
Il professore di antropologia culturale lo guardò con un sorriso di scuse, scuotendo leggermente la testa.
«Mi dispiace, Shirosaki, ma hanno impostato questa come temperatura media…».
«Scommetto che l’hanno fatto mentre avevano su un pastrano da moscovita.».
«Ma Hichi, hai una maglia e pure una felpa in pile addosso, sei sicuro di stare bene?».
«Sto una meraviglia, Darkie, non rompere.».
«Sarà…».
Darukia tornò a concentrarsi sui lucidi proiettati al muro. Stavano studiando il culto della stregoneria voodoo nel continente africano e, come c’era da aspettarsi, Hichigo non aveva rinunciato ai suoi perspicaci commenti anche durante la lezione, costringendola più volte a tapparsi la bocca con una mano per non scoppiare a ridere. C’era poco da fare, Hichigo era un comico nato. Non capiva se la sua fosse veramente ingenuità – ne dubitava – o se lo facesse apposta, in ogni caso con lui le risate erano assicurate. Peccato che mettersi a ridere durante una spiegazione non fosse esattamente una delle sue più grandi ambizioni…
Borbottando la propria disapprovazione, il ragazzo prese la sciarpa e se la sistemò intorno al collo, insaccandosi nelle spalle come se stesse veramente morendo di freddo. Darukia lo osservò con la coda dell’occhio, studiandone il profilo imbronciato, distante anni luce dal grugno da paura che aveva avuto qualche settimana prima. Non era sciocco, Hichigo, sapeva che il rosso li teneva d’occhio, ogni tanto. Non avere un pretesto per rifargli i connotati lo urtava da morire, ma finché non metteva un piede in fallo non poteva permettersi di sfondargli quel bel faccino che si ritrovava. D’altro canto l’altro non si era più nemmeno avvicinato, si limitava a guardarli dal proprio posto un paio di file più indietro, quando stavano nelle aule vuote a studiare. Per quel che lo riguardava odiava sentirsi osservato così insistentemente, ma finché non veniva a rompere le scatole poteva guardarli finché gli pareva.
Ad un certo punto Darukia lo vide posare la penna sul banco e alzarsi appena per non far troppo casino, sgusciando lentamente fuori dalla fila dei banchi. Preferiva per quel motivo i posti alle estremità, almeno poteva arrivare e andare quando voleva senza dover far alzare dieci persone ogni volta.
«Scappi in bagno?» sussurrò la ragazza, voltandosi verso di lui.
Hichigo negò con il capo, l’espressione parecchio seria in volto, mentre una mano saliva a sfregare il braccio.
«No, vado a bermi qualcosa di caldo. Sta’ a vedere che mi son veramente pigliato chissà cosa, porco mondo.» borbottò, uscendo dall’aula.
Sospirando, Darukia decise di tornare a concentrarsi sulla lezione. Era raro vedere Hichigo stare male, ma ehi, era un essere umano anche lui… Mordicchiò distrattamente il tappo della penna, osservando la lavagna, tanto mancava più di mezz’ora alla fine della lezione. Indubbiamente la magia voodoo aveva il suo fascino, avrebbe fatto un salto in biblioteca per vedere se avevano libri a tal proposito. Di certo non si aspettava quel che il professore stava per annunciare.
«Allora, ragazzi, sarà una cosa molto semplice. Per chi ha voglia di mettersi seriamente a studiare, s’intende.» disse «Vorrei che faceste delle ricerche in coppia, e poi che esponeste i vostri resoconti e le vostre riflessioni in merito in classe. Scegliete pure il compagno che preferite, basta che facciate il lavoro entro due settimane. Il risultato della vostra ricerca sarà molto influente anche sull’esame di fine corso.».
Subito si scatenò un vivace vociare. Tanti erano voltati verso i compagni che avevano accanto, confabulando per accordarsi sulle varie coppie, altri si erano messi in ginocchio sugli sgabelli per chiamare quelli seduti molto più indietro. Dopo una decina di minuti si erano accordati quasi tutti, e infatti alla cattedra c’era la fila per segnare le coppie. Darukia decise di prendersela comoda, tanto era certa di fare coppia con Hichigo, come sempre – anche perché, senza di lei, quel benedetto ragazzo sarebbe veramente stato perso.
Quando vide che la coda stava per esaurirsi si alzò a propria volta, pacifica, per andare a segnare il proprio nome e quello dell’albino. Si accorse per caso del ragazzo che le passò accanto, sorpassando tutti per andare a parlare direttamente con il professore. Chissà, magari andava a chiedergli se il suo compagno era intelligente abbastanza da averlo come partner di ricerca… La bionda che le stava davanti – ossigenata da far paura – le passò la penna per permetterle di firmare a sua volta, quando il professore mise una mano sul foglio, impedendole di scrivere alcunché. Lo guardò perplessa, chiedendosi mentalmente che diavolo gli prendesse e cercando di decifrare il sorriso che le stava rivolgendo.
«Signorina Kuchiki, il signor Bookman è rimasto senza compagno per la ricerca. Per lei è un problema se vi faccio lavorare insieme?».
Oddio, oddio, no. Tutti, ma non lui.
«Veramente… sarei in coppia con Kurosaki, professore.» mormorò, sperando di farlo desistere.
Povera illusa.
«Suvvia, non penso sia un grosso impiccio se il signor Bookman si aggiunge a voi. Avrà così modo di fare un po’ di conoscenze, visto che si è trasferito da poco, non trova?» si rivolse con un sorriso al ragazzo, che gli rispose sfoderando un faccino da angelo innocente che avrebbe sciolto un iceberg.
«Non mi dispiacerebbe affatto, in effetti. Kuchiki, spero che la cosa non ti disturbi.» disse, sorridendole.
Subdolo bastardo!

«Allora è deciso, voi starete in tre. Cercate di dividervi per bene il lavoro, mi raccomando.».
«Ma certo, professore, non ne dubiti.» rispose prontamente Deak, con la sua aria più credibile.
Sarebbe stato come trovarsi tra due fuochi. Hichigo non l’avrebbe di certo presa bene e, poco ma sicuro, sarebbe stato uno dei compiti più difficili della sua vita.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Collaborazioni ***


E son di nuovo qui. In ritardo stratosferico, eh, ma la poca voglia e la mancanza d’ispirazione m’hanno impedito per parecchio tempo di mettermi a scrivere qualcosa. Premettiamo che questo capitolo sarà incentrato quasi esclusivamente sulla “triade malefica”, ed è praticamente lungo quasi come il capitolo scorso. Rukia, Lavi, Hisana e company torneranno nel prossimo, probabilmente. Non so veramente se questo capitolo incontrerà appieno la vostra approvazione, probabilmente vi aspettavate qualcosa di più, ma ho comunque provato a fare del mio meglio, spero apprezzerete comunque (in caso contrario, mi spiace davvero). Un ultimo appunto - "Acqua e limon", che troverete citata nella prima parte, è quella dei Los Massadores. Avrei voluto citarla, ma far cantare Ichigo in dialetto veneto non era esattamente una buona idea. Diciamo che però il titolo lascia intendere tutto :''D Sono un po’ di corsa vista l’ora indecente (le 2:46 ò_O), per cui ringraziamenti e varie le rimando al capitolo prossimo. Buona lettura!
 
 
 

Capitolo 6 – Collaborazioni

 

«No, aspetta, ripeti un attimo. Temo che la febbre mi abbia completamente rincoglionito, di sicuro ho capito male io.».
«Hai capito benissimo, Hichi. Dobbiamo lavorare con lui.».
Per un lunghissimo minuto, l’unico rumore udibile fu il leggero picchiettare della pioggia contro il vetro della finestra della camera del ragazzo. Alla fine aveva scoperto di stare veramente male, motivo per cui, in facoltà, aveva preso la propria roba e se n’era andato dopo averle chiesto di fare un salto da lui nel pomeriggio, anche per i compiti. Ed infatti eccola lì, seduta accanto al letto di un Hichigo febbricitante e, a quanto pareva, pure parecchio suscettibile. Il ragazzo la conosceva ormai troppo bene per non notare l’aria tesa che irrigidiva quei lineamenti, qualcosa la preoccupava pure troppo e, dopo varie insistenze e minacce – continuava a cambiare discorso, mannaggia a lei! – era riuscito a farsi dire quel che voleva sentire. O meglio, che non voleva sentire.
«Ma porca puttana ladra!» esclamò rabbioso, alzandosi a sedere e stringendo tra i pugni le coperte «Quel bastardo l’ha fatto apposta! Prima ci tiene d’occhio a lezione come un avvoltoio gira attorno ad un cadavere, e poi tiè, ci fotte entrambi! Ah, ma stavolta quella faccia da barbabietole gliela disfo, oh, se gliela disfo, aspetta solo che mi capiti tra le mani e…».
«Hichi, calmati, accidenti!» Darukia lo costrinse a rimettersi disteso, premendogli sulle spalle con le mani «Dai, ormai è andata così. Faremo ‘sto lavoro insieme e poi basta, lui per la sua strada, noi per la nostra. Avremo il nostro bel voto e pace fatta.».
«Pace fatta un cazzo! Quello mi sta già sulle palle, e lo sai.» borbottò l’albino, guardandola malissimo «Se venisse strisciando sulle ginocchia e facendoci le sue più umili scuse, forse potrei anche perdonarlo. Sennò mi starà sulle palle a tempo indeterminato, punto, stop.».
«Lo so, Hichi, e non credere che a me stia tanto più simpatico, ma c’è in ballo un esame, quindi tanto vale far il buon viso per ‘sto voto. Poi, come dici tu… “ce lo leviamo dalle palle”, okay?».
L’altro mugugnò in risposta, guardandola con gli occhi lucidi. Per un istante si diede dello scemo ad essere uscito dalla piscina coi capelli bagnati ed incurante di tutto, fregandosene degli avvertimenti del fratello che, saggiamente, aveva ben pensato di portarsi dietro un berretto. Ed ecco cosa aveva ottenuto per la sua bravata – febbre a 38,5° e un rompicoglioni saputello con cui collaborare per un dannatissimo voto.
Accidenti a lui, alle sue bravate, agli esami e alle barbabietole saccenti. Sapeva di non poter andare tanto in giro in quelle condizioni, sebbene la sua indole ribelle gli suggerisse l’esatto contrario, spalleggiata anche dalla consapevolezza che, se non si fosse presentato agli incontri organizzativi, quel rosso mezzo orbo avrebbe avuto altri cento e più spunti per deriderlo. Ah, ma se avessero lavorato a casa di uno di loro, fargli saltare i denti con la scusa di avergli accidentalmente tirato una testata in bocca, per colpa di uno scivolone imprevisto, sarebbe stato facilissimo. Gli doveva già un cazzotto per quella volta in aula studio… Le parole di Darukia, però, lo costrinsero ad uscire dai meandri dei suoi oscuri pensieri.

«Ascolta, domani vediamo di organizzare qualcosa nel pomeriggio, tu intanto non fare stupidaggini e vedi di guarire, eh?».
«Ma domani è sabato, non c’è lezione.» sbottò lui, istintivamente.
«Lo so che domani è sabato, Hichi. Ma prima cominciamo e meglio è, no?».
«E dove diavolo vi trovate, se l’aula studio è chiusa? Da te?».
Silenzio funereo. Darukia abbassò lo sguardo, sospirando rassegnata, visto che avrebbe preferito evitare di spiattellare anche quel particolare. Già prevedeva come avrebbe reagito, oh, lo prevedeva eccome…
«… mi ha dato l’indirizzo per andare da lui. “Visto che mi sono imbucato nel vostro gruppo, metto almeno a disposizione la casa”, ha detto in classe, quando ci siamo segnati ai gruppi.» disse, grattandosi nervosamente il collo.
«Davanti al prof, magari.».
«Ovviamente.».
Ancora silenzio. Da una parte la ragazza sperava che la bomba prevista non scoppiasse ma, se lo conosceva abbastanza bene, stava solo elaborando le sue parole per poi esplodere in mille imprecazioni e parolacce irripetibili. Non stava nemmeno tenendo tra i pugni la coperta, in sé era già un buon segno, forse…
«Tu non ci vai, cara mia.» fece dopo una manciata di secondi, lapidario.
«Ah?».
Era convinta di aver capito male. Insomma, Hichigo che se ne usciva con tanta diplomazia? Da quando? Non fosse che l’aveva avuto sott’occhio fino a quel momento, testimone della sfilza di maledizioni augurategli non meno di dieci minuti prima, Darukia sarebbe stata convinta che quello sul letto fosse Ichigo tinto. O forse era solo l’effetto della febbre, chissà, magari era troppo stanco per reagire e…
«Quel grandissimo stronzo aveva previsto anche questo! Porco mondo quanto lo odio! Non perderà occasione di sfottermi perché non ci sarò, sicurissimo che me la stia facendo sotto dalla paura di ritrovarmelo davanti, e chissà che idee porche avrà in mente ad averti in casa! No, tu non ci vai, fine del discorso».
«Hichigo, ma stai delirando?!» esclamò la ragazza, sinceramente stupita «Che diavolo di idee porche vuoi che abbia su di me? Abbiamo parlato solo una volta e nemmeno tanto cordialmente, cosa vuoi che gli venga in mente?».
L’albino mise il muso, incrociando le braccia al petto e rintanandosi sotto le coperte. Darukia sospirò, massaggiandosi una tempia e scrutando quasi rassegnata il grugno che spuntava da sotto il piumone e le lenzuola azzurre. Quando voleva, Hichigo era peggio di un bambino capriccioso.
«Dai, davvero, non mi succederà un accidenti di niente! Ti stai facendo paranoie inutili, credi a me.».
«Questo lo dici tu, perché sei una tonta.» borbottò lui, continuando a guardarla malissimo «Ma non sai che l’uomo è predatore e quel rompipalle non fa eccezione, a meno che non sia dell’altra sponda. Cioè, ti rendi conto?! L’hai appena conosciuto e già ti porta a casa!».
Non si aspettava di certo che Darkie gli scoppiasse a ridere in faccia. Sulle prime ci rimase pure male, guardandola sgomento e tentando di risponderle per le rime, ma lei lo precedette.

«Hichi, davvero, la febbre ti fa sparare le migliori cavolate che abbia mai sentito in due anni che ti conosco!» disse tra le risate «Saresti da condannare anche tu, allora, visto che hai fatto lo stesso.».
«Ma io non avevo intenzioni porche, lì in sede non si poteva studiare e in biblioteca ti zittiscono anche se solo respiri!» si difese l’albino.
«Ma chi ti dice che lui invece le abbia, le intenzioni porche? Per me son tutte paranoie che ti fai tu. Sarà rompiscatole finché ti pare, ma non mi sembra un maniaco.».
Stavolta Hichigo ebbe il buonsenso di tacere, più che altro per rassegnazione – non c’era verso di convincerla che quel tipo andava evitato come la peste. Ah, ma che non pensasse di venire a piangere da lui, quando si sarebbe ritrovata disonorata nell’animo e nel corpo dopo i suoi avvertimenti! La guardò mentre si alzava e rimetteva a posto la sedia, sistemandosi il cappottino addosso e fasciandosi fino al mento con la sciarpa.
«Bene, compiti e notizie te le ho date, mi sa che è meglio se mi avvio verso casa. Tu vedi di guarire in fretta, eh.».
Fece per voltarsi, incrociando lo sguardo di Ichigo che passava in corridoio in quel momento.
«Oh? Fai il piccolo infermo, fratellino?» disse con un sorrisetto, fermandosi e appoggiandosi contro lo stipite della porta «Casualmente hai preso freddo l’altra sera in piscina?».

«Ingoiati la lingua, serpe!» sbottò l’altro, ringhiando. Ci mancava solo Ichigo e la sua ironia altamente sfottente. Non che potesse biasimarlo, quante volte aveva fatto lo stesso al suo posto…
«Ah, Ichigo. Lo lascio a te, allora, bada che faccia il bravo bambino.» soggiunse Darukia, con aria seria.
«Ma certo, tranquilla. Gli darò sempre lo sciroppino con la caramellina, va bene?» rispose l’altro, altrettanto serio.
«Andate a farvi fottere, tutti e due!» esclamò rabbioso Hichigo, lanciandogli contro il primo cuscino che gli capitò in mano e facendoli scappare via mentre ancora ridevano di lui.
Il ragazzo l’accompagnò fino alla porta, tenendo le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e scambiandosi le ultime raccomandazioni la salutò. E dire che erano passati anni dall’ultima volta che aveva visto il fratello ammalato… peccato davvero che, molto probabilmente, Hichigo sarebbe stato lo stesso di tanti anni prima. Gli sarebbe roso da matti farsi aiutare proprio da lui, ma se voleva guarire alla svelta non aveva la benché minima alternativa.
Rodendosi il fegato sotto le coperte, l’albino stava formulando gli stessi identici pensieri. Detestava l’idea di star male e dover affidarsi così pateticamente al fratello, ma le alternative erano ben poche. Tanto valeva farsi dare una mano. Quanto, però, lo sentì attraversare il corridoio canticchiando allegramente “Acqua e Limon” accennando qualche vago passo di danza, guardandolo con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, non poté esimersi dal mandarlo a quel paese per l’ennesima volta, sperando di trovarsi nei suoi panni al più presto, oh, sì.

 
** ** **

Il giorno dopo Darkie si avviò con buon anticipo verso la casa di Deak. Aveva più o meno presente la zona, ma onde evitare ritardi inutili aveva preferito, come sempre, partire prima. Avrebbe potuto sempre far con calma una volta arrivata nei paraggi. Aveva scoperto anche che abitavano abbastanza vicini, quindi il tragitto se l’era fatto a piedi. Di certo non avrebbe tirato fuori la macchina solo per evitare mezz’oretta di passeggiata…  tra l’altro era anche una zona abbastanza tranquilla e lontana dal traffico. Non fosse stato per le cuffiette che teneva nelle orecchie, l’unico rumore che avrebbe udito distintamente sarebbe stato lo scricchiolare del ghiaccio e dei sassi schiacciati dai suoi stivaletti neri.
Quando si ritrovò all’indirizzo segnato sul bigliettino che teneva in mano non poté che restare abbastanza stupita: era di fronte ad una villetta semplice ma molto ben curata, il vialetto che conduceva all’ingresso, sotto il porticato, era pulito dalla neve e cosparso di sassolini e probabilmente anche gemme di sale. Chissà perché per lui si era immaginato qualcosa di diverso… come stile, le ricordava vagamente una villetta vittoriana. Per un istante si immaginò Deak imbacuccato fino al naso e armato di pala intento a spalare la neve, per cercare di ridurre il rischio di farsi un volo memorabile. Avrebbe voluto vederselo, magari ad uscire presto di casa, a slittare su una bella lastra di ghiaccio e a finire gambe all’aria.
Si sfilò il guanto e premette il campanello sotto la targhetta in ottone che riportava il nome “Bookman”, restando in attesa mentre lanciava occhiate distratte al giardino. Non vi erano piante particolari, pochi cespugli che seguivano il muretto in mattoni e qualche aiuola spoglia. Le tende che intravedeva dalle finestre erano semplici, bianche, con quella che pareva una cortina più pesante raccolta ai lati. La struttura era composta su due piani in tutto, ben illuminata dalle grandi vetrate che riusciva a scorgere da lì. Sotto al porticato che copriva l’ingresso e l’esterno del pianterreno c’era anche posto a sufficienza per mettermi almeno un paio di poltrone, ad occhio e croce. Era un vero peccato vedere quella casa col grigiore dell’inverno… Nel vialetto accanto non c’erano vetture, probabilmente i genitori non erano in casa, o forse avevano lasciato l’auto in un probabile box sul retro.
Nella tasca del cappottino vibrò il cellulare, giusto un attimo. Un sms, e quasi temeva di sapere chi era il mittente.

 
Se ti ha già legata al letto e sta per farti le peggiori porcate, ringrazia il tuo essere così fottutamente testarda a non avermi dato retta. Oh, beh, se sei legata non puoi rispondermi. Effettivamente non potresti nemmeno vedere ‘sto messaggio. ┐(‘~`;)┌ In ogni caso, ricordati che son cazzi tuoi. Io te l’avevo detto. Però ti voglio bene anche se a volte fai la cretina, e tranquilla che appena posso gli rivolto la faccia sulla nuca (´∀`)”

 
Sono fuori dal cancello, scemo.” scrisse velocemente in risposta “E quante volte devo dirtelo, che non ha intenzioni porche?! Pensa a guarire, piuttosto che stare a rosicare perché sei a letto con la febbre per colpa delle tue manie da uomo-immune-a-tutto-anche-in-pieno-inverno! Davvero, Hichi, non stare a preoccuparti inutilmente. Appena finiamo ti chiamo, okay?

 
D’un tratto sentì la serratura dell’ingresso scattare, e vide una testa rossa far capolino da dietro la porta. Rimase spiazzata quando lo vide sorridere, quasi fosse veramente felice di vederla. Non fosse stato che la faccia era quella, avrebbe giurato di aver sbagliato indirizzo…
«Rukia, che piacere! » esclamò, uscendo sul porticato «Non stare lì fuori, entra, entra!».
Le aprì il cancelletto elettronico premendo un tasto vicino all’ingresso, aspettando che entrasse. La ragazza si fece strada con prudenza, osservandolo perplessa. Ma che diamine gli era preso? Che stesse fingendo che fosse una sua buona amica per non sfigurare davanti ai genitori? Persa nei suoi pensieri, non s’accorse che il ragazzo le stava parlando.
«Ah? Scusa… dicevi?».
«Ti stavo chiedendo se hai avuto l’indirizzo da Kaien. Sai, l’altro giorno ha voluto sapere l’indirizzo, e così…» gesticolava mentre parlava, lo notò solo in quel momento. Qualcosa non andava, davvero. Che ne sapesse lei, Kaien era un amico di sua sorella Rukia. Anche suo, certo, ma di recente non aveva avuto modo di farci una chiacchierata, men che meno si sarebbe mai sognata di andare a chiedere proprio l’indirizzo di casa di quel tipo assurdo. Già che ci pensava, però, lui l’aveva salutata chiamandola col nome della gemella…

«Aspetta, aspetta, aspetta, frena. Tu non sei Deak, vero?».
Il giovane la guardò stranito, quasi come se la sua domanda fosse giunta del tutto inaspettata.
«… come fai a conoscere mio fratello?» chiese, perplesso.
«Allora tu sei il fratello… non immaginavo potesse avere un gemello. Scusami, davvero, ma ti avevo scambiato per lui – e in effetti mi pareva ci fosse qualcosa che non andava, sorridi troppo…».
Lui scoppiò a ridere, alzando una mano e muovendola appena vicino al viso.
«Nemmeno io mi aspettavo che Rukia avesse una sorella gemella. Comunque sì, io sono Lavi, il fratello di Deak. Cavoli, nemmeno io ti avevo riconosciuta! Non capivo perché mi guardassi con quell’aria così perplessa, mi son detto “Mah, magari sto dicendo qualche stupidaggine?”… ma entra, dai, non stare qui fuori a gelarti!».
La fece accomodare in casa, offrendole un paio di pattine da indossare mentre stava lì. Era veramente diversissimo dal fratello, sebbene condividessero la faccia. Potevano avere gli stessi lineamenti, ma era spaventoso come sembrassero diversi a seconda delle espressioni che assumevano. Per quel che l’aveva osservato, Deak era un tipo molto più apatico, il classico “muso duro” che non ti fa un sorriso a meno che non sia per fregarti. Quel Lavi, invece, aveva una gamma leggermente più fornita di espressioni facciali… e poi, così di primo acchito, sembrava pure simpatico – più del fratello di sicuro. Anche un procione rabbioso sarebbe stato più simpatico di Deak.
Come si suol dire, Parli del diavolo e spuntano le corna. Da una delle stanze comparve proprio il suddetto Deak, osservandoli con aria quasi annoiata. Teneva le mani affondate nella tasca frontale della felpa nera, decorata con qualche scritta finto-rovinata che non si prese la briga di decifrare. Ora che li guardava insieme, si rese conto che la somiglianza tra loro era veramente incredibile… solo l’elastico della benda che entrambi portavano all’occhio destro li differenziava – Deak aveva l’elastico doppio, dato che uno gli passava anche sotto l’occhio sinistro, quasi tagliandogli a metà la faccia in orizzontale. Per il resto, erano identici anche nel taglio di capelli. I ciuffi rossicci incorniciavano gli ovali di entrambi, coprendo leggermente di più la parte destra del viso e lasciando intravedere appena la benda sottostante.
Lavi si voltò verso il fratello, curioso.
«Non mi avevi detto di esserti fatto amici, qui.» disse, sorridendo.
«Non è una mia amica.» sbottò l’altro in risposta, gelido «Dobbiamo solo collaborare per un lavoro di antropologia.».
Il sorriso sul viso di Lavi si spense lentamente, messo in difficoltà dalla risposta e dal tono del fratello. E dire che aveva sperato di riuscire a rompere così il ghiaccio…
«Sei stato tu ad imbucarti nel nostro gruppo, puoi anche evitare di fare l’acido, eh.».
In effetti, nemmeno Darukia l’aveva presa granché bene, come risposta. Più che altro, la sua sembrava una costante presa in giro. A che pro farsi mettere nel loro gruppo, invitarla a casa e poi sputar veleno come se niente fosse? Non fosse stato che era in casa d’altri e non era mai stata il tipo da mettere le mani addosso a qualcuno, un ceffone di certo non gliel’avrebbe risparmiato…
«Non faccio l’acido, dico le cose come stanno.» fu la secca replica di Deak, mentre incrociava le braccia al petto.
«Se ti comodo così poco potevi fare a meno di metterti in mezzo, non te l’ha ordinato nessuno.».
Il ragazzo la osservò in silenzio, distogliendo poi lo sguardo con quella che le sembrò uno strano miscuglio di vergogna e introversione, quasi le parole che gli uscirono di bocca gli fossero costate una fatica immane.
«… siete gli unici che conosco, in classe. E tu l’unica in quel gruppo che ritengo abbia un valido cervello.».
Inaspettatamente, Lavi sospirò accanto a Darukia.
«Abbi pazienza, ti prego. Mio fratello non è un tipo tanto incline ai rapporti sociali, per lui dire che hai un valido cervello equivale ad uno dei più grandi elogi che potresti mai sentire dalla sua bocca.» disse, scrollando le spalle «Non dico tu debba soffermarti su stupidi complimenti superficiali, fratellone, ma dovresti imparare a trattare meglio le donne…».

«Non m’interessa, Lavi. Se non hai altre perle di saggezza da snocciolare, che ne diresti di andare a farti un po’ di compiti per i fatti tuoi e lasciarci lavorare?».
«Ma sentitelo. Comunque tra un po’ devo uscire, ergo vi lascio il campo interamente libero. Il nonno ha detto che tornerà domani sera.».
«Ancora conferenze?».
Lavi scrollò leggermente le spalle, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans, e si limitò ad annuire con un cenno del capo. Poi tornò a guardare verso la ragazza, che era rimasta in disparte in quella loro conversazione.
«Piuttosto… ehm, scusa, ma come ti chiami?» chiese, grattandosi leggermente la nuca.

«Darukia. Ma tutti mi chiamano semplicemente Darkie, per non far confusione con mia sorella. Scusami, mi sarei dovuta presentare prima.» rispose lei, chinando appena la testa in segno di scuse.
«No, no, figurati! Ma ben sapendo che mio fratello è un pessimo padrone di casa, volevo chiederti se per caso volevi qualcosa da bere intanto che sei qui.».
«Oh…» rimase sorpresa per un attimo, stringendo maggiormente le cinghie della borsa che teneva tra le mani «Un bicchiere d’acqua andrà benissimo, grazie.».
«Solo quello? Sei sicura?».
«Sicurissima, davvero.» annuì sorridendo, rallegrandosi del fatto che almeno lui sembrava ben disposto nei suoi confronti.
Deak non aveva detto una sola parola in merito, anzi, si era limitato a starsene in silenzio in un angolo, alternando lo sguardo dalla ragazza al fratello. Ancora non riusciva a concepire come facesse Lavi ad essere così amichevole con una perfetta sconosciuta, per di più proprio in casa loro. Non che temesse chissà cosa da Darukia – piccina com’era, anche un suo ceffone gli avrebbe fatto il solletico –, era il concetto in sé che non riusciva ad afferrare. Come diavolo faceva? Si accorse per caso che la giovane lo stava osservando, come in attesa di qualcosa, e solo in un secondo momento ricordò il motivo della sua visita. Tirò le mani fuori dal tascone, sospirando e scrollando le spalle.

«Andremo nello studio, lì avremo più materiale a disposizione.» disse, incamminandosi per farle strada.
«Ma tuo fratello…» si voltò nella direzione in cui si era allontanato Lavi per andare in cucina, per poi tornare a guardarlo.
«Siamo nello studio!» replicò lui a voce più alta, giusto per essere certo di farsi sentire. E infatti la risposta di Lavi non tardò ad arrivare, da un’indefinibile stanza lungo il corridoio, confermandogli di aver capito.
Standogli dietro, Darukia osservò incuriosita l’ambiente circostante. Rimase piacevolmente sorpresa nel notare che l’arredamento della casa aveva una prevalenza di legno scuro, aveva un ché di così… caldo e avvolgente, e al contempo severo, non sapeva spiegarsi la ragione. In quelle stanze respirava un’austerità senza particolari radici, come se fosse un particolare impresso nell’essenza stessa della casa. C’erano pochi quadri appesi qui e là, arredamento non eccessivo sopra i mobili e nessun ninnolo particolare. Per un istante si chiese come mai quella casa sembrasse anche così… spoglia e minimalista. Di solito le donne amano decorare la propria casa anche per un fatto meramente estetico, evidentemente alla loro madre non garbava l’idea di trovarsi troppe cianfrusaglie da spolverare…
Altra cosa che la colpì, fu la totale assenza di fotografie. Nemmeno sopra una grossa cassettiera – anch’essa in legno scuro – su cui faceva bella mostra di sé un centrino con un vaso finemente decorato, c’era traccia di portafoto di sorta. Eppure di spazio ce n’era… come mai in quelle stanze i ricordi sembravano esser conservati solo nei volumi raccolti nelle numerose librerie che aveva visto fino a quel momento?
«Da questa parte.».
Sentir parlare Deak le pareva sempre strano, tant’è che lo fissò stupita per una manciata di secondi, prima di entrare nella stanza che il ragazzo le aveva indicato. Lo sentì socchiudere la porta dietro di sé, per poi sorpassarla per togliere dal grande tavolo al centro della sala dei libri impilati e metterli in un angolo, insieme a quello che fino a pochi istanti prima era aperto. Si guardò attorno meravigliata, constatando che quella stanza era piena zeppa di volumi. Superavano di sicuro il centinaio, riordinati con cura in grandi librerie protette da delle ante in vetro, magari suddivisi in ordine alfabetico d’autore o titolo. Ricordava esattamente le librerie che vedeva in certi film ambientati nell’Ottocento inglese, periodo che tra parentesi amava un sacco. In effetti, un po’ tutta la casa aveva uno stile molto vicino al Vittoriano… solo, con meno decori sparsi qui e là.

«Ti sei incantata?».
Di nuovo, la voce secca di Deak la costrinse a tornare alla realtà. Aveva preso posto al tavolo e le stava indicando la sedia di fronte alla propria, tenendo il viso poggiato sulla mano. Balbettando poche incomprensibili parole si sedette, sistemando il cappottino sullo schienale e tirandosi in grembo la borsa, da cui tirò fuori un quadernetto e la penna, giusto per trascriversi un’eventuale scaletta del lavoro. Deak l’osservava in silenzio, sempre tenendo la mano poggiata sulla guancia, quasi annoiato. Anche in quell’occasione si era dimostrata organizzata e precisa, per certi versi era quasi contento di averla scelta come compagna di lavoro. Non fosse stato per la presenza dell’albino…
«Il tuo amico non viene?» chiese d’un tratto, prima di alzarsi per prendere alcuni libri da uno scaffale.
La ragazza rimase in silenzio, finendo di sistemare la propria roba sul tavolo, e attese che si risedesse prima di parlare. Alzò lo sguardo su di lui, fissandolo per una manciata di secondi in quell’iride smeraldina e severa.
«È a letto con la febbre.» disse «Non credere che non sia qui per una qualche questione di vigliaccheria o ritrosia a vederti. Sarebbe venuto trascinandosi dietro pure le coperte del letto, se non fosse che l’ho affidato a suo fratello.».
«Se gli schifa così tanto vedermi, perché mai verrebbe?» replicò, sinceramente perplesso.
«… ha i suoi buoni motivi. Fatti un esame di coscienza e forse arrivi ad immaginarteli.».
L’altro fece spallucce, preferendo accantonare l’argomento. Un po’ se li immaginava davvero, quei motivi, ma non era di certo la ragione per cui quel giorno si erano incontrati. Avevano del lavoro da svolgere, e meno tempo perdevano, meglio era. Depose dei volumi sul tavolo e richiuse con cura l’anta della libreria, quasi fosse fatta interamente di cristallo. Per lui quella stanza, tutti quei libri valevano più dell’oro stesso, non tollerava nemmeno una piega su quelle pagine. Era una delle cose che aveva imparato più volentieri dal vecchio Bookman – trattare i libri come se fossero un bene preziosissimo, di cui avere cura e, anche se non volontariamente, di cui essere gelosi. E lui sì, era tremendamente geloso dei propri libri, non li prestava nemmeno a Lavi. Frequentava assiduamente le biblioteche, ma solo per andare a caccia di piccole perle che, nel giro di qualche giorno, avrebbe acquistato anche in libreria, per sentire quel piccolo nido di sapere come suo. Quella stanza, infatti, non era che una piccola parte della grande collezione dei Bookman: sbirciando in giro mentre seguiva Deak nello studio, Darukia aveva potuto notare scaffali zeppi di libri in ogni dove, poco ci mancava che ne avessero persino in bagno. Rendevano onore al loro cognome in tutti i sensi.
E tutta quell’attenzione non era certo sfuggita alla ragazza, che giocherellava con la penna mentre l’osservava. Non si azzardava ad aprire uno dei libri, onde evitare che la fulminasse sul posto, preferiva lasciare a lui il primo passo. Lo fissò mentre riprendeva posto e si tirava vicino uno dei volumi, osservandola di sfuggita per un breve istante. Sembrò incuriosito dal fatto che non avesse toccato nemmeno un libro, neanche per leggerne il titolo o i contenuti.
«Non mordono mica, sai.».
«Lo so.» replicò prontamente lei «Ma ho come l’impressione che se li avessi toccati mi avresti fulminata all’istante. Ci tieni a quei libri, vero?».
Deak la guardò inarcando un sopracciglio, scettico «Cosa te lo fa credere?».
«Il modo in cui li tieni, come li appoggi o li prendi dallo scaffale. Hai quasi paura di vederteli distrutti tra le mani. E poi sono tutti rilegati, uno per uno, sembrano appena usciti dalla libreria.» appoggiò il viso su una mano, ricambiando il suo sguardo «Non c’è niente di male nell’essere gelosi dei propri libri, eh. Anzi, è una cosa bella, almeno secondo me.».
Il ragazzo sbuffò e si appoggiò allo schienale della sedia, tutt’altro che convinto.
«Lo dici per farmi il contentino, o per non dirmi che pensi io sia uno fuori di testa?».
«Nessuno dei due. Perché mai dovrei pensare che tu sia uno fuori di testa? Un gran rompiscatole sì, ma fuori coi sentimenti no… credo.».
In quel momento arrivò anche Lavi, portando una caraffa d’acqua e una di succo su un vassoio, insieme ad un piatto pieno di biscotti e due bicchieri, giusto in tempo per sentire le sue ultime parole. Posò con cautela il vassoio sul tavolo, ben lontano da libri e quaderni, sotto lo sguardo attento del fratello – sapeva che macchiare anche per sbaglio uno di quei preziosi libri gli sarebbe costato caro, carissimo, per cui si rivolse a Darkie senza nemmeno incrociare l’iride verde di Deak.
«Non posso darti torto sul fatto che sia un rompiscatole, sai. E che tu lo conosci solo perché frequentate lo stesso corso universitario…» sospirò teatralmente, scrollando le spalle e incrociando le braccia al petto «Dai, fratellone, almeno con le signorine cerca di essere gentile, mica ti mangiano!».
«Lavi, se non la smetti di sparare consigli non richiesti e soprattutto insensati, ti butto fuori a calci. Non le sono saltato alla gola, mi pare.».
«E ci mancherebbe pure, razza di misantropo! Aaah, quanta pazienza ci vuole con te…» scosse la testa con fare rassegnato «Insomma, siamo qui da neanche tre settimane e già c’è chi ti considera un rompiscatole. Se volevi battere qualche strano record, mi sa che ci sei riuscito benissimo. Ad ogni modo ora smammo, ho un paio di impegni e rischio davvero di arrivare in ritardo. Ah, stasera non ceno, mi fermo fuori con la compagnia del corso.».
«Ecco, bravo, eclissati che fai solo bene.» lo zittì il fratello, guardandolo truce.
«Sempre un amore, tu, eh! Beh, buon lavoro ad entrambi e, Darukia, tanti saluti a casa!» e sparì fuori dalla porta, salutandola con la mano.
Tempo una manciata di minuti, ed entrambi sentirono la porta d’ingresso chiudersi alle spalle del ragazzo che era uscito. Deak sospirò quasi di sollievo, riprendendo i libri in mano.
«Allora, hai qualche idea?» chiese, porgendole un volumetto all’apparenza parecchio vecchio – seppur perfettamente conservato.
La giovane si prese qualche minuto per pensarci, sfogliando distrattamente il libro in cerca di qualche spunto o idea. Non l’aiutava il fatto che probabilmente quasi tutti avrebbero puntato ad una ricerca “classica” – le origini del voodoo, gli sciamani più conosciuti e altre cose simili, avevano bisogno di qualcosa di diverso. Espose i suoi dubbi a Deak che, incredibilmente, si mostrò d’accordo e cominciò a snocciolare a propria volta idee e pareri. Per la ragazza era quella che si poteva definire una piacevole novità, il trovarsi d’accordo con lui e collaborare così serenamente ad un progetto comune: Deak non era il massimo della simpatia, questo era chiaro come il sole, ma quando c’era di mezzo lo studio non accettava compromessi, ci metteva tutto se stesso per la buona riuscita del lavoro. Provarono a stendere un paio di scalette per i vari argomenti, sfogliando libri vecchi e altri più recenti. Le pareva di essere in una libreria, i Bookman avevano veramente ogni sorta di volume possibile ed immaginabile – ben presto, infatti, il tavolo era stato riempito di tomi con vari segnalibri tra le pagine, in modo da poterne avere di più a portata di mano, e il vassoio era stato momentaneamente appoggiato su una sedia.
D’un tratto Darukia sentì il cellulare vibrarle nella tasca dei pantaloni e, guardando lo schermo, sospirò snervata prima di rispondere.
«Se non la pianti di rompere, giuro che ti siluro di calci non appena ti ho davanti.» ringhiò, cercando di modulare la voce. Va bene essere preoccupati, ma Hichigo esagerava davvero!
«Allora di’ al guercio di aprirmi ‘sto cancello, qui fuori si gela. E sì, prima che tu me lo chieda, son proprio davanti a casa sua. Bella casa, tra le righe, ma tu non dirglielo.».
La giovane guardò Deak con aria quasi sconcertata, farfugliando qualcosa a proposito dell’albino che era arrivato per prender parte al lavoro. Lui restò impassibile e, per una frazione di secondo, Darukia temette che si rifiutasse di andare ad aprire. Invece si alzò ed uscì dalla stanza, diretto verso l’ingresso. Lo seguì tenendosi un po’ a distanza, fermandosi all’altezza della porta della cucina, osservando la schiena del ragazzo che si era affacciato al giardino. Sentì chiaramente la voce di Hichigo esclamare quello che probabilmente era un saluto mischiato ad un “col piffero che ti permetto di sfottermi. Visto? Alla fine ci sono anch’io”. Teneva un libro sottobraccio e uno zainetto sulle spalle, grande quanto bastava per tenerci dentro un quadernetto e un astuccio, forse, giusto il minimo indispensabile per un pomeriggio di ricerche.
Deak lo fece accomodare nello studio, spostando scartoffie e libri per fargli posto, per poi fargli un breve sunto di quanto avevano ottenuto in quel momento. Si assentò per qualche minuto, facendo ritorno con un blister di pastiglie che lanciò al ragazzo.
«Almeno eviterai di appestare pure noi con l’influenza.».
Ricevette in risposta un grugnito mischiato ad un “grazie” mormorato a denti stretti, poi ripresero a lavorare. Fu quando Hichigo mostrò la copertina del libro che si era portato dietro, che l’occhio verde del ragazzo sembrò quasi attraversato da un guizzo di sincero interesse.
«E quello dove l’hai trovato?» chiese, indicando il volume con un cenno della testa.
L’altro osservò alternativamente il libro che teneva in mano e il ragazzo, scrollando appena le spalle.
«Boh, me l’ha portato a casa il mio vecchio un sacco di tempo fa. Mi è venuto in mente ieri sera, l’avevo ancora in uno dei cassetti della scrivania, però mi ero scordato di darlo a Darkie. Magari serve.»
Deak non ebbe il coraggio di ammettere la propria invidia per quel libro. L’aveva cercato in lungo e in largo in qualsiasi libreria gli fosse capitata a tiro, ma era sempre fuori stampa o non disponibile. E, quando ormai s’era rassegnato all’idea che non avrebbe mai avuto il piacere di sfogliarne una copia, se l’era ritrovata davanti… e proprio in mano a quell’assurdo albino. Osservò con attenzione ogni dettaglio, sfiorando con attenzione le pagine patinate e, inaspettatamente, ancora integre. Si vedeva che Hichigo non l’aveva mai sfogliato granché.
Passarono le successive due ore tentando di lavorare serenamente, impresa assai ardua quando quei due non perdevano un istante per stuzzicarsi a vicenda…
«Questo quasi quasi lo provo. Darkie, tu che ne pensi?» Hichigo le indicò un rito puntando l’indice sul titolo, sorridendo con aria poco rassicurante «Per gli ingredienti forse faremo un po’ fatica, dici che al posto dei peli gli posso strappare i capelli?».

Rituale per provocare emorroidi fulminanti.

La ragazza scosse la testa con aria rassegnata. Da una parte sperò che Deak non rispondesse in malo modo, anche se ne avrebbe avuto tutte le ragioni, ma così non fu.  Anzi, lo vide sfogliare a propria volta un libro e mostrare ad entrambi un altro rituale. «Vuoi che provi questo su di te?».
Dissenteria permanente.

Sempre peggio.
Colpito nell’orgoglio – e memore delle ore passate in bagno il giorno precedente, Hichigo tornò all’attacco cercando altri riti, e così fece pure il padrone di casa, in un’assurda ed infantile sfida a chi trovava il rituale più disgustoso da infliggere all’altro anche solo col pensiero. Praticamente persero una mezz’ora abbondante solo a scagliarsi addosso le peggiori maledizioni. Il fondo lo raggiunsero quando Deak gli mostrò quello che avrebbe potuto provocargli una tremenda, catastrofica, atroce Impotenza sessuale. Ovviamente, non trovando niente di peggio da augurargli – o più che altro trattenendosi per non diventare veramente offensivo –, l’albino lo mandò poco cortesemente a quel paese con tanto di medio alzato.
«Insomma, volete smetterla!?» esclamò la ragazza, sbattendo le mani sul tavolo.
«Ma Darkie! Quello lì me lo vuole ammosciare per tutta la vita!» ribatté Hichigo, scandalizzato, puntando l’indice contro Deak.
«E chi se ne frega!».
«Frega a me se non ti spiace, ti pare che possa stare con l’arnese moscio finché crepo?».
«Non siamo qui per parlare di arnesi mosci ed emorroidi, accidenti! Stiamo cercando di fare un lavoro serio e, che diamine, il voodoo non si riduce alla stregoneria! Abbiamo un sacco di altra roba da trovare e scrivere, potete evitare di fare i deficienti per un po’?».
«Darkie, take it easy, avanti! Abbiamo ancora tempo a volontà.» cercò di farla calmare l’altro, alzando appena una mano.
«Sì, Hichi, tempo a volontà e una montagna di roba da presentare. C’è il tutto il materiale da spartire, il cartellone riassuntivo da preparare e l’interrogazione da organizzare. E abbiamo poco più di due settimane per fare tutto quanto. Ora, non so quali siano i vostri impegni, ma dubito che potremo trovarci tutti i santi giorni a casa di uno o dell’altro, senza contare che una volta concluso tutto, dovremmo prenderci anche qualche giorno per ripassare le rispettive parti.».
I due ragazzi l’osservarono in silenzio per un paio di minuti, prima di scambiarsi una rapida occhiata e scrollare le spalle.
«Non hai tutti i torti.» convenne Deak «Se non altro, siamo riusciti ad imbastire almeno lo scheletro di tutto il lavoro.».
«Appunto, ma siamo solo agli inizi. Guarda, ci son volute quante? Quattro ore solo per raccogliere il materiale e dare un’infarinatura di tutto… se andiamo avanti così, finirà che dovremo veramente trovarci tutti i giorni.
».
«Evviva…» l’entusiasmo di Hichigo rasentava il minimo storico, decisamente.
D’un tratto guardò l’orologio e sbiancò, masticando un’imprecazione, e si alzò di scatto.
«Vi devo lasciare, gentaglia. Se quel pirla di mio fratello scopre che non ci sono mi fa una menata lunga come l’anno della fame e chiama pure il vecchio Barbetta.» disse, raccattando in fretta le proprie cose «Ha veramente rotto le palle per farmi restare a letto come dicevi tu, eh, Darkie.»
«Ma allora hai ancora la febbre!» esclamò lei, accigliandosi di botto «Sei un cretino! Mica potevi restare a casa a riposare, eh?».
L’altro alzò le spalle con fare noncurante, sistemandosi addosso il giaccone e la borsa.
«Non rompere, dai. Che pure io vanto la coerenza di un ghiro iperattivo, però… bah, lascia stare. Senti un po’, il libro te lo lascio qui?» si rivolse a Deak, accennandogli con il mento il libro che aveva portato, ricevendo in risposta un muto assenso con il capo. «E tu? Torni a casa con me?».
Darukia si prese qualche attimo per pensarci, per poi scuotere lentamente la testa.
«Mi fermo un attimo a mettere a posto, o magari andiamo un po’ avanti, non so. Tu fila, prima che ti sgamino… o ti risalga la febbre di nuovo, brutto stupido.».
«Sempre piacevole come un calcio sui maroni, nanerottola dispotica.» rispose lui con una linguaccia «Oh, beh, grazie per l’ospitalità, rosso. Non che per questo tu mi stia tanto meno sulle palle, eh. Adios!».
E detto questo, uscì dalla stanza agitando una mano in segno di saluto.


«Come mai non sei andata con lui?».
Deak infranse il silenzio con quella domanda che, in fondo, un po’ si aspettava. Già, perché non se n’era andata con Hichigo? Una risposta chiara e concreta non sapeva darsela nemmeno lei, in effetti. In quella manciata di ore in cui erano stati soli, il ragazzo si era rivelato pure abbastanza piacevole, come compagno di studi. Si erano parlati solo per scambiarsi informazioni, ma non le era sfuggita l’attenzione al minimo dettaglio con cui Deak lavorava. Per certi versi, in quei momenti era stato pure di buona compagnia, poi ovviamente era tornato il bambino acidello e antipatico quando si era “scontrato” verbalmente con Hichigo…
«Mi pareva poco educato lasciarti riordinare da solo tutto ‘sto macello.» rispose semplicemente, indicandogli il tavolo pieno di libri.
«Come preferisci.» disse lui, facendo spallucce «Non ho problemi ad arrangiarmi.».
Misero degli appositi post-it sulle pagine da ricordare nei vari libri, informazioni utili per questo o quell’argomento, e li riunirono in due pile ordinate in un angolo. Era ormai ora di cena, e in quella casa regnava il silenzio più totale. Magari i suoi genitori sarebbero tornati entro poco, avrebbe fatto meglio a togliere il disturbo prima di allora. Raccolse le proprie cose e seguì Deak che, nel frattempo, si era diretto in cucina e stava preparando il tavolo per una sola persona, senza neanche tirar fuori la tovaglia – una tovaglietta da colazione gli pareva più che sufficiente.
«Il nonno ha detto che tornerà domani sera.».

E Lavi non era ancora rientrato.
«Mangi da solo?» chiese, un poco perplessa.
«E chi dovrei aspettare?» fece lui, poggiando sul tavolo una caraffa di acqua e un bicchiere «Lavi è via coi suoi amici e mio nonno torna domani, non vedo perché aspettar loro per mangiare.».
«Oh…».
Okay, Deak non era esattamente un amore di ragazzo, men che meno un individuo con cui veniva istintivo andare d’accordo. Però un po’ le dispiaceva immaginarselo a mangiare in completa solitudine, ascoltando il ticchettio dell’orologio che segnava un tempo troppo lungo da passare da solo, specie dopo aver passato un pomeriggio in compagnia - controvoglia o meno. Tra l’altro, le sarebbe toccata la stessa cosa una volta arrivata a casa: Rukia era uscita con la stessa compagnia di Lavi, e Byakuya era ad una cena di lavoro. Non che talvolta le dispiacesse starsene per conto proprio, ma in fondo sapeva quanto bello fosse avere attorno persone che le volevano bene e, per quanto stanca potesse essere, niente era più rilassante che stare coi suoi fratelli a guardarsi un film insieme.
Senza che se ne rendesse conto, mormorò un sottile «Anch’io.» che Deak, probabilmente, colse per caso. La guardò di nuovo, tenendo in mano una padella e facendo un enorme sforzo di volontà per non sparare qualche cattiveria delle sue.
«Cos’è, vuoi fermarti a mangiare qui?» disse.
«C-cosa?! No, no, figurati! Non voglio disturbare.» si giustificò subito lei, agitando leggermente la mano per negare.
«Quanto dista casa tua?».
«Mezz’oretta a piedi, più o meno…».
Il ragazzo sembrò pensarci su, come se fosse psicologicamente combattuto tra due idee diametralmente opposte – mandarla a casa fregandosene del tutto o farla restare ancora un po’. Alla fine, per qualche oscuro motivo – anzi, si disse, lo faceva solo per non avere rogne con l’albino nel caso le fosse successo qualcosa –, la invitò a restare, assicurandole (con la consapevolezza che il suo Io cinico lo avrebbe insultato per tutta la sera) che poi l’avrebbe accompagnata per non farle fare il tragitto da sola, al buio. Sulle prime Darukia tentò di rifiutare, dicendo che non voleva disturbare e che non voleva costringerlo a sopportare la sua presenza più del dovuto, ma alla fine cedette.
«Che sia chiaro.» precisò lui, mentre componeva il numero di una pizzeria da asporto «Lo faccio solo per non aver casini con quel tuo amico schizofrenico. Sia mai che mi rompa le scatole, se ti dovesse succedere qualcosa per strada.».
Ovviamente, non che lei si facesse illusioni o altro. Però, si ritrovò a pensare mal celando un leggero sorriso, in fondo era un gesto carino, da parte sua. Forse non era proprio un pessimo elemento come le era parso fino a quel momento. Sperò soltanto di non sbagliarsi, su quel giudizio forse un po’ affrettato.




Angolino Spot! Molto in breve, molto masochisticamente ho cominciato anche una ByaSana, dal titolo "When the Snow falls". Se vi va, fate un giro anche su quei lidi, mi farebbe molto piacere!

E son di nuovo qui. In ritardo stratosferico, eh, ma la poca voglia e la mancanza d’ispirazione m’hanno impedito per parecchio tempo di mettermi a scrivere qualcosa. Premettiamo che questo capitolo sarà incentrato quasi esclusivamente sulla “triade malefica”, ed è praticamente lungo quasi come il capitolo scorso. Rukia, Lavi, Hisana e company torneranno nel prossimo, probabilmente. Non so veramente se questo capitolo incontrerà appieno la vostra approvazione, probabilmente vi aspettavate qualcosa di più, ma ho comunque provato a fare del mio meglio, spero apprezzerete comunque (in caso contrario, mi spiace davvero). Un ultimo appunto - "Acqua e limon", che troverete citata nella prima parte, è quella dei Los Massadores. Avrei voluto citarla, ma far cantare Ichigo in dialetto veneto non era esattamente una buona idea. Diciamo che però il titolo lascia intendere tutto :''D Sono un po’ di corsa vista l’ora indecente (le 2:46 ò_O), per cui ringraziamenti e varie le rimando al capitolo prossimo. Buona lettura!
 
 
 

Capitolo 6 – Collaborazioni

 

«No, aspetta, ripeti un attimo. Temo che la febbre mi abbia completamente rincoglionito, di sicuro ho capito male io.».

«Hai capito benissimo, Hichi. Dobbiamo lavorare con lui.».

Per un lunghissimo minuto, l’unico rumore udibile fu il leggero picchiettare della pioggia contro il vetro della finestra della camera del ragazzo. Alla fine aveva scoperto di stare veramente male, motivo per cui, in facoltà, aveva preso la propria roba e se n’era andato dopo averle chiesto di fare un salto da lui nel pomeriggio, anche per i compiti. Ed infatti eccola lì, seduta accanto al letto di un Hichigo febbricitante e, a quanto pareva, pure parecchio suscettibile. Il ragazzo la conosceva ormai troppo bene per non notare l’aria tesa che irrigidiva quei lineamenti, qualcosa la preoccupava pure troppo e, dopo varie insistenze e minacce – continuava a cambiare discorso, mannaggia a lei! – era riuscito a farsi dire quel che voleva sentire. O meglio, che non voleva sentire.

«Ma porca puttana ladra!» esclamò rabbioso, alzandosi a sedere e stringendo tra i pugni le coperte «Quel bastardo l’ha fatto apposta! Prima ci tiene d’occhio a lezione come un avvoltoio gira attorno ad un cadavere, e poi tiè, ci fotte entrambi! Ah, ma stavolta quella faccia da barbabietole gliela disfo, oh, se gliela disfo, aspetta solo che mi capiti tra le mani e…».

«Hichi, calmati, accidenti!» Darukia lo costrinse a rimettersi disteso, premendogli sulle spalle con le mani «Dai, ormai è andata così. Faremo ‘sto lavoro insieme e poi basta, lui per la sua strada, noi per la nostra. Avremo il nostro bel voto e pace fatta.».
«Pace fatta un cazzo! Quello mi sta già sulle palle, e lo sai.» borbottò l’albino, guardandola malissimo «Se venisse strisciando sulle ginocchia e facendoci le sue più umili scuse, forse potrei anche perdonarlo. Sennò mi starà sulle palle a tempo indeterminato, punto, stop.»
«Lo so, Hichi, e non credere che a me stia tanto più simpatico, ma c’è in ballo un esame, quindi tanto vale far il buon viso per ‘sto voto. Poi, come dici tu… “ce lo leviamo dalle palle”, ok?».

L’altro mugugnò in risposta, guardandola con gli occhi lucidi. Per un istante si diede dello scemo ad essere uscito dalla piscina coi capelli bagnati ed incurante di tutto, fregandosene degli avvertimenti del fratello che, saggiamente, aveva ben pensato di portarsi dietro un berretto. Ed ecco cosa aveva ottenuto per la sua bravata – febbre a 38,5° e un rompicoglioni saputello con cui collaborare per un dannatissimo voto.

Accidenti a lui, alle sue bravate, agli esami e alle barbabietole saccenti. Sapeva di non poter andare tanto in giro in quelle condizioni, sebbene la sua indole ribelle gli suggerisse l’esatto contrario, spalleggiata anche dalla consapevolezza che, se non si fosse presentato agli incontri organizzativi, quel rosso mezzo orbo avrebbe avuto altri cento e più spunti per deriderlo. Ah, ma se avessero lavorato a casa di uno di loro, fargli saltare i denti con la scusa di avergli accidentalmente tirato una testata in bocca, per colpa di uno scivolone imprevisto, sarebbe stato facilissimo. Gli doveva già un cazzotto per quella volta in aula studio…
Le parole di Darukia, però, lo costrinsero ad uscire dai meandri dei suoi oscuri pensieri.
«Ascolta, domani vediamo di organizzare qualcosa nel pomeriggio, tu intanto non fare stupidaggini e vedi di guarire, eh?».

«Ma domani è sabato, non c’è lezione.» sbottò lui, istintivamente.

«Lo so che domani è sabato, Hichi. Ma prima cominciamo e meglio è, no?».

«E dove diavolo vi trovate, se l’aula studio è chiusa? Da te?».

Silenzio funereo. Darukia abbassò lo sguardo, sospirando rassegnata, visto che avrebbe preferito evitare di spiattellare anche quel particolare. Già prevedeva come avrebbe reagito, oh, lo prevedeva eccome…

«… mi ha dato l’indirizzo per andare da lui. “Visto che mi sono imbucato nel vostro gruppo, metto almeno a disposizione la casa”, ha detto in classe, quando ci siamo segnati ai gruppi.» disse, grattandosi nervosamente il collo.

«Davanti al prof, magari.».

«Ovviamente.».
Ancora silenzio. Da una parte la ragazza sperava che la bomba prevista non scoppiasse ma, se lo conosceva abbastanza bene, stava solo elaborando le sue parole per poi esplodere in mille imprecazioni e parolacce irripetibili. Non stava nemmeno tenendo tra i pugni la coperta, in sé era già un buon segno, forse…

«Tu non ci vai, cara mia.» fece dopo una manciata di secondi, lapidario.

«Ah?».
Era convinta di aver capito male. Insomma, Hichigo che se ne usciva con tanta diplomazia? Da quando? Non fosse che l’aveva avuto sott’occhio fino a quel momento, testimone della sfilza di maledizioni augurategli non meno di dieci minuti prima, Darukia sarebbe stata convinta che quello sul letto fosse Ichigo tinto. O forse era solo l’effetto della febbre, chissà, magari era troppo stanco per reagire e…

«Quel grandissimo stronzo aveva previsto anche questo! Porco mondo quanto lo odio! Non perderà occasione di sfottermi perché non ci sarò, sicurissimo che me la stia facendo sotto dalla paura di ritrovarmelo davanti, e chissà che idee porche avrà in mente ad averti in casa! No, tu non ci vai, fine del discorso».

«Hichigo, ma stai delirando?!» esclamò la ragazza, sinceramente stupita «Che diavolo di idee porche vuoi che abbia su di me? Abbiamo parlato solo una volta e nemmeno tanto cordialmente, cosa vuoi che gli venga in mente?».

L’albino mise il muso, incrociando le braccia al petto e rintanandosi sotto le coperte. Darukia sospirò, massaggiandosi una tempia e scrutando quasi rassegnata il grugno che spuntava da sotto il piumone e le lenzuola azzurre. Quando voleva, Hichigo era peggio di un bambino capriccioso.

«Dai, davvero, non mi succederà un accidenti di niente! Ti stai facendo paranoie inutili, credi a me.».

«Questo lo dici tu, perché sei una tonta.» borbottò lui, continuando a guardarla malissimo «Ma non sai che l’uomo è predatore e quel rompipalle non fa eccezione, a meno che non sia dell’altra sponda. Cioè, ti rendi conto?! L’hai appena conosciuto e già ti porta a casa!».

Non si aspettava di certo che Darkie gli scoppiasse a ridere in faccia. Sulle prime ci rimase pure male, guardandola sgomento e tentando di risponderle per le rime, ma lei lo precedette.
«Hichi, davvero, la febbre ti fa sparare le migliori cavolate che abbia mai sentito in due anni che ti conosco!» disse tra le risate «Saresti da condannare anche tu, allora, visto che hai fatto lo stesso.».

«Ma io non avevo intenzioni porche, lì in sede non si poteva studiare e in biblioteca ti zittiscono anche se solo respiri!» si difese l’albino.

«Ma chi ti dice che lui invece le abbia, le intenzioni porche? Per me son tutte paranoie che ti fai tu. Sarà rompiscatole finché ti pare, ma non mi sembra un maniaco.».
Stavolta Hichigo ebbe il buonsenso di tacere, più che altro per rassegnazione – non c’era verso di convincerla che quel tipo andava evitato come la peste. Ah, ma che non pensasse di venire a piangere da lui, quando si sarebbe ritrovata disonorata nell’animo e nel corpo dopo i suoi avvertimenti! La guardò mentre si alzava e rimetteva a posto la sedia, sistemandosi il cappottino addosso e fasciandosi fino al mento con la sciarpa.

«Bene, compiti e notizie te le ho date, mi sa che è meglio se mi avvio verso casa. Tu vedi di guarire in fretta, eh.».

Fece per voltarsi, incrociando lo sguardo di Ichigo che passava in corridoio in quel momento.
«Oh? Fai il piccolo infermo, fratellino?» disse con un sorrisetto, fermandosi e appoggiandosi contro lo stipite della porta «Casualmente hai preso freddo l’altra sera in piscina?».
«Ingoiati la lingua, serpe!» sbottò l’altro, ringhiando. Ci mancava solo Ichigo e la sua ironia altamente sfottente. Non che potesse biasimarlo, quante volte aveva fatto lo stesso al suo posto…

«Ah, Ichigo. Lo lascio a te, allora, bada che faccia il bravo bambino.» soggiunse Darukia, con aria seria.

«Ma certo, tranquilla. Gli darò sempre lo sciroppino con la caramellina, va bene?» rispose l’altro, altrettanto serio.

«Andate a farvi fottere, tutti e due!» esclamò rabbioso Hichigo, lanciandogli contro il primo cuscino che gli capitò in mano e facendoli scappare via mentre ancora ridevano di lui.
Il ragazzo l’accompagnò fino alla porta, tenendo le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e scambiandosi le ultime raccomandazioni la salutò. E dire che erano passati anni dall’ultima volta che aveva visto il fratello ammalato… peccato davvero che, molto probabilmente, Hichigo sarebbe stato lo stesso di tanti anni prima. Gli sarebbe roso da matti farsi aiutare proprio da lui, ma se voleva guarire alla svelta non aveva la benché minima alternativa.

 Rodendosi il fegato sotto le coperte, l’albino stava formulando gli stessi identici pensieri. Detestava l’idea di star male e dover affidarsi così pateticamente al fratello, ma le alternative erano ben poche. Tanto valeva farsi dare una mano. Quanto, però, lo sentì attraversare il corridoio canticchiando allegramente “Acqua e Limon” accennando qualche vago passo di danza, guardandolo con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, non poté esimersi dal mandarlo a quel paese per l’ennesima volta, sperando di trovarsi nei suoi panni al più presto, oh, sì.

 
** ** **

 
Il giorno dopo Darkie si avviò con buon anticipo verso la casa di Deak. Aveva più o meno presente la zona, ma onde evitare ritardi inutili aveva preferito, come sempre, partire prima. Avrebbe potuto sempre far con calma una volta arrivata nei paraggi. Aveva scoperto anche che abitavano abbastanza vicini, quindi il tragitto se l’era fatto a piedi. Di certo non avrebbe tirato fuori la macchina solo per evitare mezz’oretta di passeggiata…  tra l’altro era anche una zona abbastanza tranquilla e lontana dal traffico. Non fosse stato per le cuffiette che teneva nelle orecchie, l’unico rumore che avrebbe udito distintamente sarebbe stato lo scricchiolare del ghiaccio e dei sassi schiacciati dai suoi stivaletti neri.

Quando si ritrovò all’indirizzo segnato sul bigliettino che teneva in mano non poté che restare abbastanza stupita: era di fronte ad una villetta semplice ma molto ben curata, il vialetto che conduceva all’ingresso, sotto il porticato, era pulito dalla neve e cosparso di sassolini e probabilmente anche gemme di sale. Chissà perché per lui si era immaginato qualcosa di diverso… come stile, le ricordava vagamente una villetta vittoriana. Per un istante si immaginò Deak imbacuccato fino al naso e armato di pala intento a spalare la neve, per cercare di ridurre il rischio di farsi un volo memorabile. Avrebbe voluto vederselo, magari ad uscire presto di casa, a slittare su una bella lastra di ghiaccio e a finire gambe all’aria.

Si sfilò il guanto e premette il campanello sotto la targhetta in ottone che riportava il nome “Bookman”, restando in attesa mentre lanciava occhiate distratte al giardino. Non vi erano piante particolari, pochi cespugli che seguivano il muretto in mattoni e qualche aiuola spoglia. Le tende che intravedeva dalle finestre erano semplici, bianche, con quella che pareva una cortina più pesante raccolta ai lati. La struttura era composta su due piani in tutto, ben illuminata dalle grandi vetrate che riusciva a scorgere da lì. Sotto al porticato che copriva l’ingresso e l’esterno del pianterreno c’era anche posto a sufficienza per mettermi almeno un paio di poltrone, ad occhio e croce. Era un vero peccato vedere quella casa col grigiore dell’inverno… Nel vialetto accanto non c’erano vetture, probabilmente i genitori non erano in casa, o forse avevano lasciato l’auto in un probabile box sul retro.

Nella tasca del cappottino vibrò il cellulare, giusto un attimo. Un'email, e quasi temeva di sapere chi era il mittente.

 
Se ti ha già legata al letto e sta per farti le peggiori porcate, ringrazia il tuo essere così fottutamente testarda a non avermi dato retta. Oh, beh, se sei legata non puoi rispondermi. Effettivamente non potresti nemmeno vedere ‘sto messaggio. (;-_-)ノIn ogni caso, ricordati che son cazzi tuoi. Io te l’avevo detto. Però ti voglio bene anche se a volte fai la cretina, e tranquilla che appena posso gli rivolto la faccia sulla nuca (´∀`)

 
Sono fuori dal cancello, scemo.” scrisse velocemente in risposta “E quante volte devo dirtelo, che non ha intenzioni porche?! Pensa a guarire, piuttosto che stare a rosicare perché sei a letto con la febbre per colpa delle tue manie da uomo-immune-a-tutto-anche-in-pieno-inverno! Davvero, Hichi, non stare a preoccuparti inutilmente. Appena finiamo ti chiamo, ok?

 
D’un tratto sentì la serratura dell’ingresso scattare, e vide una testa rossa far capolino da dietro la porta. Rimase spiazzata quando lo vide sorridere, quasi fosse veramente felice di vederla. Non fosse stato che la faccia era quella, avrebbe giurato di aver sbagliato indirizzo…
«Rukia, che piacere! » esclamò, uscendo sul porticato «Non stare lì fuori, entra, entra!».
Le aprì il cancelletto elettronico premendo un tasto vicino all’ingresso, aspettando che entrasse. La ragazza si fece strada con prudenza, osservandolo perplessa. Ma che diamine gli era preso? Che stesse fingendo che fosse una sua buona amica per non sfigurare davanti ai genitori? Persa nei suoi pensieri, non s’accorse che il ragazzo le stava parlando.
«Ah? Scusa… dicevi?».

«Ti stavo chiedendo se hai avuto l’indirizzo da Kaien. Sai, l’altro giorno ha voluto sapere l’indirizzo, e così…» gesticolava mentre parlava, lo notò solo in quel momento. Qualcosa non andava, davvero. Che ne sapesse lei, Kaien era un amico di sua sorella Rukia. Anche suo, certo, ma di recente non aveva avuto modo di farci una chiacchierata, men che meno si sarebbe mai sognata di andare a chiedere proprio l’indirizzo di casa di quel tipo assurdo. Già che ci pensava, però, lui l’aveva salutata chiamandola col nome della gemella…
«Aspetta, aspetta, aspetta, frena. Tu non sei Deak, vero?».

Il giovane la guardò stranito, quasi come se la sua domanda fosse giunta del tutto inaspettata.
«… come fai a conoscere mio fratello?» chiese, perplesso.

«Allora tu sei il fratello… non immaginavo potesse avere un gemello. Scusami, davvero, ma ti avevo scambiato per lui – e in effetti mi pareva ci fosse qualcosa che non andava, sorridi troppo…».

Lui scoppiò a ridere, alzando una mano e muovendola appena vicino al viso.
«Nemmeno io mi aspettavo che Rukia avesse una sorella gemella. Comunque sì, io sono Lavi, il fratello di Deak. Cavoli, nemmeno io ti avevo riconosciuta! Non capivo perché mi guardassi con quell’aria così perplessa, mi son detto “Mah, magari sto dicendo qualche stupidaggine?”… ma entra, dai, non stare qui fuori a gelarti!».

La fece accomodare in casa, offrendole un paio di pattine da indossare mentre stava lì. Era veramente diversissimo dal fratello, sebbene condividessero la faccia. Potevano avere gli stessi lineamenti, ma era spaventoso come sembrassero diversi a seconda delle espressioni che assumevano. Per quel che l’aveva osservato, Deak era un tipo molto più apatico, il classico “muso duro” che non ti fa un sorriso a meno che non sia per fregarti. Quel Lavi, invece, aveva una gamma leggermente più fornita di espressioni facciali… e poi, così di primo acchito, sembrava pure simpatico – più del fratello di sicuro. Anche un procione rabbioso sarebbe stato più simpatico di Deak.

Come si suol dire, Parli del diavolo e spuntano le corna. Da una delle stanze comparve proprio il suddetto Deak, osservandoli con aria quasi annoiata. Teneva le mani affondate nella tasca frontale della felpa nera, decorata con qualche scritta finto-rovinata che non si prese la briga di decifrare. Ora che li guardava insieme, si rese conto che la somiglianza tra loro era veramente incredibile… solo l’elastico della benda che entrambi portavano all’occhio destro li differenziava – Deak aveva l’elastico doppio, dato che uno gli passava anche sotto l’occhio sinistro, quasi tagliandogli a metà la faccia in orizzontale. Per il resto, erano identici anche nel taglio di capelli. I ciuffi rossicci incorniciavano gli ovali di entrambi, coprendo leggermente di più la parte destra del viso e lasciando intravedere appena la benda sottostante.

Lavi si voltò verso il fratello, curioso.

«Non mi avevi detto di esserti fatto amici, qui.» disse, sorridendo.

«Non è una mia amica.» sbottò l’altro in risposta, gelido «Dobbiamo solo collaborare per un lavoro di antropologia.».

Il sorriso sul viso di Lavi si spense lentamente, messo in difficoltà dalla risposta e dal tono del fratello. E dire che aveva sperato di riuscire a rompere così il ghiaccio…

«Sei stato tu ad imbucarti nel nostro gruppo, puoi anche evitare di fare l’acido, eh.».
In effetti, nemmeno Darukia l’aveva presa granché bene, come risposta. Più che altro, la sua sembrava una costante presa in giro. A che pro farsi mettere nel loro gruppo, invitarla a casa e poi sputar veleno come se niente fosse? Non fosse stato che era in casa d’altri e non era mai stata il tipo da mettere le mani addosso a qualcuno, un ceffone di certo non gliel’avrebbe risparmiato…

«Non faccio l’acido, dico le cose come stanno.» fu la secca replica di Deak, mentre incrociava le braccia al petto.

«Se ti comodo così poco potevi fare a meno di metterti in mezzo, non te l’ha ordinato nessuno.».
Il ragazzo la osservò in silenzio, distogliendo poi lo sguardo con quella che le sembrò uno strano miscuglio di vergogna e introversione, quasi le parole che gli uscirono di bocca gli fossero costate una fatica immane.

«… siete gli unici che conosco, in classe. E tu l’unica in quel gruppo che ritengo abbia un valido cervello.».

Inaspettatamente, Lavi sospirò accanto a Darukia.

«Abbi pazienza, ti prego. Mio fratello non è un tipo tanto incline ai rapporti sociali, per lui dire che hai un valido cervello equivale ad uno dei più grandi elogi che potresti mai sentire dalla sua bocca.» disse, scrollando le spalle «Non dico tu debba soffermarti su stupidi complimenti superficiali, fratellone, ma dovresti imparare a trattare meglio le donne…».
«Non m’interessa, Lavi. Se non hai altre perle di saggezza da snocciolare, che ne diresti di andare a farti un po’ di compiti per i fatti tuoi e lasciarci lavorare?».

«Ma sentitelo. Comunque tra un po’ devo uscire, ergo vi lascio il campo interamente libero. Il nonno ha detto che tornerà domani sera.».

«Ancora conferenze?».

Lavi scrollò leggermente le spalle, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans, e si limitò ad annuire con un cenno del capo. Poi tornò a guardare verso la ragazza, che era rimasta in disparte in quella loro conversazione.

«Piuttosto… ehm, scusa, ma come ti chiami?» chiese, grattandosi leggermente la nuca.
«Darukia. Ma tutti mi chiamano semplicemente Darkie, per non far confusione con mia sorella. Scusami, mi sarei dovuta presentare prima.» rispose lei, chinando appena la testa in segno di scuse.

 «No, no, figurati! Ma ben sapendo che mio fratello è un pessimo padrone di casa, volevo chiederti se per caso volevi qualcosa da bere intanto che sei qui.».

«Oh…» rimase sorpresa per un attimo, stringendo maggiormente le cinghie della borsa che teneva tra le mani «Un bicchiere d’acqua andrà benissimo, grazie.».

«Solo quello? Sei sicura?».

«Sicurissima, davvero.» annuì sorridendo, rallegrandosi del fatto che almeno lui sembrava ben disposto nei suoi confronti.

Deak non aveva detto una sola parola in merito, anzi, si era limitato a starsene in silenzio in un angolo, alternando lo sguardo dalla ragazza al fratello. Ancora non riusciva a concepire come facesse Lavi ad essere così amichevole con una perfetta sconosciuta, per di più proprio in casa loro. Non che temesse chissà cosa da Darukia – piccina com’era, anche un suo ceffone gli avrebbe fatto il solletico –, era il concetto in sé che non riusciva ad afferrare. Come diavolo faceva? Si accorse per caso che la giovane lo stava osservando, come in attesa di qualcosa, e solo in un secondo momento ricordò il motivo della sua visita. Tirò le mani fuori dal tascone, sospirando e scrollando le spalle.
«Andremo nello studio, lì avremo più materiale a disposizione.» disse, incamminandosi per farle strada.

«Ma tuo fratello…» si voltò nella direzione in cui si era allontanato Lavi per andare in cucina, per poi tornare a guardarlo.

«Siamo nello studio!» replicò lui a voce più alta, giusto per essere certo di farsi sentire. E infatti la risposta di Lavi non tardò ad arrivare, da un’indefinibile stanza lungo il corridoio, confermandogli di aver capito.

Standogli dietro, Darukia osservò incuriosita l’ambiente circostante. Rimase piacevolmente sorpresa nel notare che l’arredamento della casa aveva una prevalenza di legno scuro, aveva un ché di così… caldo e avvolgente, e al contempo severo, non sapeva spiegarsi la ragione. In quelle stanze respirava un’austerità senza particolari radici, come se fosse un particolare impresso nell’essenza stessa della casa. C’erano pochi quadri appesi qui e là, arredamento non eccessivo sopra i mobili e nessun ninnolo particolare. Per un istante si chiese come mai quella casa sembrasse anche così… spoglia e minimalista. Di solito le donne amano decorare la propria casa anche per un fatto meramente estetico, evidentemente alla loro madre non garbava l’idea di trovarsi troppe cianfrusaglie da spolverare…

Altra cosa che la colpì, fu la totale assenza di fotografie. Nemmeno sopra una grossa cassettiera – anch’essa in legno scuro – su cui faceva bella mostra di sé un centrino con un vaso finemente decorato, c’era traccia di portafoto di sorta. Eppure di spazio ce n’era… come mai in quelle stanze i ricordi sembravano esser conservati solo nei volumi raccolti nelle numerose librerie che aveva visto fino a quel momento?

«Da questa parte.».

Sentir parlare Deak le pareva sempre strano, tant’è che lo fissò stupita per una manciata di secondi, prima di entrare nella stanza che il ragazzo le aveva indicato. Lo sentì socchiudere la porta dietro di sé, per poi sorpassarla per togliere dal grande tavolo al centro della sala dei libri impilati e metterli in un angolo, insieme a quello che fino a pochi istanti prima era aperto. Si guardò attorno meravigliata, constatando che quella stanza era piena zeppa di volumi. Superavano di sicuro il centinaio, riordinati con cura in grandi librerie protette da delle ante in vetro, magari suddivisi in ordine alfabetico d’autore o titolo. Ricordava esattamente le librerie che vedeva in certi film ambientati nell’Ottocento inglese, periodo che tra parentesi amava un sacco. In effetti, un po’ tutta la casa aveva uno stile molto vicino al Vittoriano… solo, con meno decori sparsi qui e là.
«Ti sei incantata?».

Di nuovo, la voce secca di Deak la costrinse a tornare alla realtà. Aveva preso posto al tavolo e le stava indicando la sedia di fronte alla propria, tenendo il viso poggiato sulla mano. Balbettando poche incomprensibili parole si sedette, sistemando il cappottino sullo schienale e tirandosi in grembo la borsa, da cui tirò fuori un quadernetto e la penna, giusto per trascriversi un’eventuale scaletta del lavoro. Deak l’osservava in silenzio, sempre tenendo la mano poggiata sulla guancia, quasi annoiato. Anche in quell’occasione si era dimostrata organizzata e precisa, per certi versi era quasi contento di averla scelta come compagna di lavoro. Non fosse stato per la presenza dell’albino…
«Il tuo amico non viene?» chiese d’un tratto, prima di alzarsi per prendere alcuni libri da uno scaffale.

La ragazza rimase in silenzio, finendo di sistemare la propria roba sul tavolo, e attese che si risedette prima di parlare. Alzò lo sguardo su di lui, fissandolo per una manciata di secondi in quell’iride smeraldina e severa.

«È a letto con la febbre.» disse «Non credere che non sia qui per una qualche questione di vigliaccheria o ritrosia a vederti. Sarebbe venuto trascinandosi dietro pure le coperte del letto, se non fosse che l’ho affidato a suo fratello.».

«Se gli schifa così tanto vedermi, perché mai verrebbe?» replicò, sinceramente perplesso.
«… ha i suoi buoni motivi. Fatti un esame di coscienza e forse arrivi ad immaginarteli.».
L’altro fece spallucce, preferendo accantonare l’argomento. Un po’ se li immaginava davvero, quei motivi, ma non era di certo la ragione per cui quel giorno si erano incontrati. Avevano del lavoro da svolgere, e meno tempo perdevano, meglio era. Depose dei volumi sul tavolo e richiuse con cura l’anta della libreria, quasi fosse fatta interamente di cristallo. Per lui quella stanza, tutti quei libri valevano più dell’oro stesso, non tollerava nemmeno una piega su quelle pagine. Era una delle cose che aveva imparato più volentieri dal vecchio Bookman – trattare i libri come se fossero un bene preziosissimo, di cui avere cura e, anche se non volontariamente, di cui essere gelosi. E lui sì, era tremendamente geloso dei propri libri, non li prestava nemmeno a Lavi. Frequentava assiduamente le biblioteche, ma solo per andare a caccia di piccole perle che, nel giro di qualche giorno, avrebbe acquistato anche in libreria, per sentire quel piccolo nido di sapere come suo. Quella stanza, infatti, non era che una piccola parte della grande collezione dei Bookman: sbirciando in giro mentre seguiva Deak nello studio, Darukia aveva potuto notare scaffali zeppi di libri in ogni dove, poco ci mancava che ne avessero persino in bagno. Rendevano onore al loro cognome in tutti i sensi.
E tutta quell’attenzione non era certo sfuggita alla ragazza, che giocherellava con la penna mentre l’osservava. Non si azzardava ad aprire uno dei libri, onde evitare che la fulminasse sul posto, preferiva lasciare a lui il primo passo. Lo fissò mentre riprendeva posto e si tirava vicino uno dei volumi, osservandola di sfuggita per un breve istante. Sembrò incuriosito dal fatto che non avesse toccato nemmeno un libro, neanche per leggerne il titolo o i contenuti.

«Non mordono mica, sai.».

«Lo so.» replicò prontamente lei «Ma ho come l’impressione che se li avessi toccati mi avresti fulminata all’istante. Ci tieni a quei libri, vero?».

Deak la guardò inarcando un sopracciglio, scettico «Cosa te lo fa credere?».

«Il modo in cui li tieni, come li appoggi o li prendi dallo scaffale. Hai quasi paura di vederteli distrutti tra le mani. E poi sono tutti rilegati, uno per uno, sembrano appena usciti dalla libreria.» appoggiò il viso su una mano, ricambiando il suo sguardo «Non c’è niente di male nell’essere gelosi dei propri libri, eh. Anzi, è una cosa bella, almeno secondo me.».

Il ragazzo sbuffò e si appoggiò allo schienale della sedia, tutt’altro che convinto.
«Lo dici per farmi il contentino, o per non dirmi che pensi io sia uno fuori di testa?».

«Nessuno dei due. Perché mai dovrei pensare che tu sia uno fuori di testa? Un gran rompiscatole sì, ma fuori coi sentimenti no… credo.».

In quel momento arrivò anche Lavi, portando una caraffa d’acqua e una di succo su un vassoio, insieme ad un piatto pieno di biscotti e due bicchieri, giusto in tempo per sentire le sue ultime parole. Posò con cautela il vassoio sul tavolo, ben lontano da libri e quaderni, sotto lo sguardo attento del fratello – sapeva che macchiare anche per sbaglio uno di quei preziosi libri gli sarebbe costato caro, carissimo, per cui si rivolse a Darkie senza nemmeno incrociare l’iride verde di Deak.

«Non posso darti torto sul fatto che sia un rompiscatole, sai. E che tu lo conosci solo perché frequentate lo stesso corso universitario…» sospirò teatralmente, scrollando le spalle e incrociando le braccia al petto «Dai, fratellone, almeno con le signorine cerca di essere gentile, mica ti mangiano!».

«Lavi, se non la smetti di sparare consigli non richiesti e soprattutto insensati, ti butto fuori a calci. Non le sono saltato alla gola, mi pare.».

«E ci mancherebbe pure, razza di misantropo! Aaah, quanta pazienza ci vuole con te…»

scosse la testa con fare rassegnato «Insomma, siamo qui da neanche tre settimane e già c’è chi ti considera un rompiscatole. Se volevi battere qualche strano record, mi sa che ci sei riuscito benissimo. Ad ogni modo ora smammo, ho un paio di impegni e rischio davvero di arrivare in ritardo. Ah, stasera non ceno, mi fermo fuori con la compagnia del corso.».
«Ecco, bravo, eclissati che fai solo bene.» lo zittì il fratello, guardandolo truce.

«Sempre un amore, tu, eh! Beh, buon lavoro ad entrambi e, Darukia, tanti saluti a casa!» e sparì fuori dalla porta, salutandola con la mano.

Tempo una manciata di minuti, ed entrambi sentirono la porta d’ingresso chiudersi alle spalle del ragazzo che era uscito. Deak sospirò quasi di sollievo, riprendendo i libri in mano.
«Allora, hai qualche idea?» chiese, porgendole un volumetto all’apparenza parecchio vecchio – seppur perfettamente conservato.

La giovane si prese qualche minuto per pensarci, sfogliando distrattamente il libro in cerca di qualche spunto o idea. Non l’aiutava il fatto che probabilmente quasi tutti avrebbero puntato ad una ricerca “classica” – le origini del voodoo, gli sciamani più conosciuti e altre cose simili, avevano bisogno di qualcosa di diverso. Espose i suoi dubbi a Deak che, incredibilmente, si mostrò d’accordo e cominciò a snocciolare a propria volta idee e pareri. Per la ragazza era quella che si poteva definire una piacevole novità, il trovarsi d’accordo con lui e collaborare così serenamente ad un progetto comune: Deak non era il massimo della simpatia, questo era chiaro come il sole, ma quando c’era di mezzo lo studio non accettava compromessi, ci metteva tutto se stesso per la buona riuscita del lavoro. Provarono a stendere un paio di scalette per i vari argomenti, sfogliando libri vecchi e altri più recenti. Le pareva di essere in una libreria, i Bookman avevano veramente ogni sorta di volume possibile ed immaginabile – ben presto, infatti, il tavolo era stato riempito di tomi con vari segnalibri tra le pagine, in modo da poterne avere di più a portata di mano, e il vassoio era stato momentaneamente appoggiato su una sedia.

D’un tratto Darukia sentì il cellulare vibrarle nella tasca dei pantaloni e, guardando lo schermo, sospirò snervata prima di rispondere.

«Se non la pianti di rompere, giuro che ti siluro di calci non appena ti ho davanti.» ringhiò, cercando di modulare la voce. Va bene essere preoccupati, ma Hichigo esagerava davvero!
«Allora di’ al guercio di aprirmi ‘sto cancello, qui fuori si gela. E sì, prima che tu me lo chieda, son proprio davanti a casa sua. Bella casa, tra le righe, ma tu non dirglielo.».
La giovane guardò Deak con aria quasi sconcertata, farfugliando qualcosa a proposito dell’albino che era arrivato per prender parte al lavoro. Lui restò impassibile e, per una frazione di secondo, Darukia temette che si rifiutasse di andare ad aprire. Invece si alzò ed uscì dalla stanza, diretto verso l’ingresso. Lo seguì tenendosi un po’ a distanza, fermandosi all’altezza della porta della cucina, osservando la schiena del ragazzo che si era affacciato al giardino. Sentì chiaramente la voce di Hichigo esclamare quello che probabilmente era un saluto mischiato ad un “col piffero che ti permetto di sfottermi. Visto? Alla fine ci sono anch’io”. Teneva un libro sottobraccio e uno zainetto sulle spalle, grande quanto bastava per tenerci dentro un quadernetto e un astuccio, forse, giusto il minimo indispensabile per un pomeriggio di ricerche.

Deak lo fece accomodare nello studio, spostando scartoffie e libri per fargli posto, per poi fargli un breve sunto di quanto avevano ottenuto in quel momento. Si assentò per qualche minuto, facendo ritorno con un blister di pastiglie che lanciò al ragazzo.

«Almeno eviterai di appestare pure noi con l’influenza.».

Ricevette in risposta un grugnito mischiato ad un “grazie” mormorato a denti stretti, poi ripresero a lavorare. Fu quando Hichigo mostrò la copertina del libro che si era portato dietro, che l’occhio verde del ragazzo sembrò quasi attraversato da un guizzo di sincero interesse.
«E quello dove l’hai trovato?» chiese, indicando il volume con un cenno della testa.
L’altro osservò alternativamente il libro che teneva in mano e il ragazzo, scrollando appena le spalle.

«Boh, me l’ha portato a casa il mio vecchio un sacco di tempo fa. Mi è venuto in mente ieri sera, l’avevo ancora in uno dei cassetti della scrivania, però mi ero scordato di darlo a Darkie. Magari serve.»

Deak non ebbe il coraggio di ammettere la propria invidia per quel libro. L’aveva cercato in lungo e in largo in qualsiasi libreria gli fosse capitata a tiro, ma era sempre fuori stampa o non disponibile. E, quando ormai s’era rassegnato all’idea che non avrebbe mai avuto il piacere di sfogliarne una copia, se l’era ritrovata davanti… e proprio in mano a quell’assurdo albino. Osservò con attenzione ogni dettaglio, sfiorando con attenzione le pagine patinate e, inaspettatamente, ancora integre. Si vedeva che Hichigo non l’aveva mai sfogliato granché.

Passarono le successive due ore tentando di lavorare serenamente, impresa assai ardua quando quei due non perdevano un istante per stuzzicarsi a vicenda…
«Questo quasi quasi lo provo. Darkie, tu che ne pensi?» Hichigo le indicò un rito puntando l’indice sul titolo, sorridendo con aria poco rassicurante «Per gli ingredienti forse faremo un po’ fatica, dici che al posto dei peli gli posso strappare i capelli?».
Rituale per provocare emorroidi fulminanti.

La ragazza scosse la testa con aria rassegnata. Da una parte sperò che Deak non rispondesse in malo modo, anche se ne avrebbe avuto tutte le ragioni, ma così non fu.  Anzi, lo vide sfogliare a propria volta un libro e mostrare ad entrambi un altro rituale. «Vuoi che provi questo su di te?».

Dissenteria permanente.

Sempre peggio.

Colpito nell’orgoglio – e memore delle ore passate in bagno il giorno precedente, Hichigo tornò all’attacco cercando altri riti, e così fece pure il padrone di casa, in un’assurda ed infantile sfida a chi trovava il rituale più disgustoso da infliggere all’altro anche solo col pensiero. Praticamente persero una mezz’ora abbondante solo a scagliarsi addosso le peggiori maledizioni. Il fondo lo raggiunsero quando Deak gli mostrò quello che avrebbe potuto provocargli una tremenda, catastrofica, atroce Impotenza sessuale. Ovviamente, non trovando niente di peggio da augurargli – o più che altro trattenendosi per non diventare veramente offensivo –, l’albino lo mandò poco cortesemente a quel paese con tanto di medio alzato.

«Insomma, volete smetterla!?» esclamò la ragazza, sbattendo le mani sul tavolo.
«Ma Darkie! Quello lì me lo vuole ammosciare per tutta la vita!» ribatté Hichigo, scandalizzato, puntando l’indice contro Deak.

«E chi se ne frega!».

«Frega a me se non ti spiace, ti pare che possa stare con l’arnese moscio finché crepo?».

«Non siamo qui per parlare di arnesi mosci ed emorroidi, accidenti! Stiamo cercando di fare un lavoro serio e, che diamine, il voodoo non si riduce alla stregoneria! Abbiamo un sacco di altra roba da trovare e scrivere, potete evitare di fare i deficienti per un po’?».
«Darkie, take it easy, avanti! Abbiamo ancora tempo a volontà.» cercò di farla calmare l’altro, alzando appena una mano.

«Sì, Hichi, tempo a volontà e una montagna di roba da presentare. C’è il tutto il materiale da spartire, il cartellone riassuntivo da preparare e l’interrogazione da organizzare. E abbiamo poco più di due settimane per fare tutto quanto. Ora, non so quali siano i vostri impegni, ma dubito che potremo trovarci tutti i santi giorni a casa di uno o dell’altro, senza contare che una volta concluso tutto, dovremmo prenderci anche qualche giorno per ripassare le rispettive parti.».

I due ragazzi l’osservarono in silenzio per un paio di minuti, prima di scambiarsi una rapida occhiata e scrollare le spalle.

«Non hai tutti i torti.» convenne Deak «Se non altro, siamo riusciti ad imbastire almeno lo scheletro di tutto il lavoro.».

«Appunto, ma siamo solo agli inizi. Guarda, ci son volute quante? Quattro ore solo per raccogliere il materiale e dare un’infarinatura di tutto… se andiamo avanti così, finirà che dovremo veramente trovarci tutti i giorni.»

«Evviva…» l’entusiasmo di Hichigo rasentava il minimo storico, decisamente.
D’un tratto guardò l’orologio e sbiancò, masticando un’imprecazione, e si alzò di scatto.
«Vi devo lasciare, gentaglia. Se quel pirla di mio fratello scopre che non ci sono mi fa una menata lunga come l’anno della fame e chiama pure il vecchio Barbetta.» disse, raccattando in fretta le proprie cose «Ha veramente rotto le palle per farmi restare a letto come dicevi tu, eh, Darkie.»

«Ma allora hai ancora la febbre!» esclamò lei, accigliandosi di botto «Sei un cretino! Mica potevi restare a casa a riposare, eh?».

L’altro alzò le spalle con fare noncurante, sistemandosi addosso il giaccone e la borsa.
«Non rompere, dai. Che pure io vanto la coerenza di un ghiro iperattivo, però… bah, lascia stare. Senti un po’, il libro te lo lascio qui?» si rivolse a Deak, accennandogli con il mento il libro che aveva portato, ricevendo in risposta un muto assenso con il capo. «E tu? Torni a casa con me?».

Darukia si prese qualche attimo per pensarci, per poi scuotere lentamente la testa.
«Mi fermo un attimo a mettere a posto, o magari andiamo un po’ avanti, non so. Tu fila, prima che ti sgamino… o ti risalga la febbre di nuovo, brutto stupido.».

«Sempre piacevole come un calcio sui maroni, nanerottola dispotica.» rispose lui con una linguaccia «Oh, beh, grazie per l’ospitalità, rosso. Non che per questo tu mi stia tanto meno sulle palle, eh. Adios!».

E detto questo, uscì dalla stanza agitando una mano in segno di saluto.

 
 
«Come mai non sei andata con lui?».

Deak infranse il silenzio con quella domanda che, in fondo, un po’ si aspettava. Già, perché non se n’era andata con Hichigo? Una risposta chiara e concreta non sapeva darsela nemmeno lei, in effetti. In quella manciata di ore in cui erano stati soli, il ragazzo si era rivelato pure abbastanza piacevole, come compagno di studi. Si erano parlati solo per scambiarsi informazioni, ma non le era sfuggita l’attenzione al minimo dettaglio con cui Deak lavorava. Per certi versi, in quei momenti era stato pure di buona compagnia, poi ovviamente era tornato il bambino acidello e antipatico quando si era “scontrato” verbalmente con Hichigo…

«Mi pareva poco educato lasciarti riordinare da solo tutto ‘sto macello.» rispose semplicemente, indicandogli il tavolo pieno di libri.

«Come preferisci.» disse lui, facendo spallucce «Non ho problemi ad arrangiarmi.».
Misero degli appositi post-it sulle pagine da ricordare nei vari libri, informazioni utili per questo o quell’argomento, e li riunirono in due pile ordinate in un angolo. Era ormai ora di cena, e in quella casa regnava il silenzio più totale. Magari i suoi genitori sarebbero tornati entro poco, avrebbe fatto meglio a togliere il disturbo prima di allora. Raccolse le proprie cose e seguì Deak che, nel frattempo, si era diretto in cucina e stava preparando il tavolo per una sola persona, senza neanche tirar fuori la tovaglia – una tovaglietta da colazione gli pareva più che sufficiente.

«Il nonno ha detto che tornerà domani sera.».

E Lavi non era ancora rientrato.

«Mangi da solo?» chiese, un poco perplessa.

«E chi dovrei aspettare?» fece lui, poggiando sul tavolo una caraffa di acqua e un bicchiere «Lavi è via coi suoi amici e mio nonno torna domani, non vedo perché aspettar loro per mangiare.».

«Oh…».
Okay, Deak non era esattamente un amore di ragazzo, men che meno un individuo con cui veniva istintivo andare d’accordo. Però un po’ le dispiaceva immaginarselo a mangiare in completa solitudine, ascoltando il ticchettio dell’orologio che segnava un tempo troppo lungo da passare da solo, specie dopo aver passato un pomeriggio in compagnia - controvoglia o meno. Tra l’altro, le sarebbe toccata la stessa cosa una volta arrivata a casa: Rukia era uscita con la stessa compagnia di Lavi, e Byakuya era ad una cena di lavoro. Non che talvolta le dispiacesse starsene per conto proprio, ma in fondo sapeva quanto bello fosse avere attorno persone che le volevano bene e, per quanto stanca potesse essere, niente era più rilassante che stare coi suoi fratelli a guardarsi un film insieme.
Senza che se ne rendesse conto, mormorò un sottile «Anch’io.» che Deak, probabilmente, colse per caso. La guardò di nuovo, tenendo in mano una padella e facendo un enorme sforzo di volontà per non sparare qualche cattiveria delle sue.

«Cos’è, vuoi fermarti a mangiare qui?» disse.

«C-cosa?! No, no, figurati! Non voglio disturbare.» si giustificò subito lei, agitando leggermente la mano per negare.

«Quanto dista casa tua?».

«Mezz’oretta a piedi, più o meno…».

Il ragazzo sembrò pensarci su, come se fosse psicologicamente combattuto tra due idee diametralmente opposte – mandarla a casa fregandosene del tutto o farla restare ancora un po’. Alla fine, per qualche oscuro motivo – anzi, si disse, lo faceva solo per non avere rogne con l’albino nel caso le fosse successo qualcosa –, la invitò a restare, assicurandole (con la consapevolezza che il suo Io cinico lo avrebbe insultato per tutta la sera) che poi l’avrebbe accompagnata per non farle fare il tragitto da sola, al buio. Sulle prime Darukia tentò di rifiutare, dicendo che non voleva disturbare e che non voleva costringerlo a sopportare la sua presenza più del dovuto, ma alla fine cedette.

«Che sia chiaro.» precisò lui, mentre componeva il numero di una pizzeria da asporto «Lo faccio solo per non aver casini con quel tuo amico schizofrenico. Sia mai che mi rompa le scatole, se ti dovesse succedere qualcosa per strada.».

Ovviamente, non che lei si facesse illusioni o altro. Però, si ritrovò a pensare mal celando un leggero sorriso, in fondo era un gesto carino, da parte sua. Forse non era proprio un pessimo elemento come le era parso fino a quel momento. Sperò soltanto di non sbagliarsi, su quel giudizio forse un po’ affrettato.




Angolino Spot! Molto in breve, molto masochisticamente ho cominciato anche una ByaSana, dal titolo "When the Snow falls". Se vi va, fate un giro anche su quei lidi, mi farebbe molto piacere!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Nothing special but our Company ***


No, davvero, io aggiorno sempre più tardi. Sono le 4 del mattino, per farvi un esempio… e sto letteralmente crollando dal quasi-sonno e dal caldo. Dio benedica il ventilatore che ho in camera! D8
Cioè, ma più scrivo e in meno leggete, eh? XD Male, male! Lo sapete che voi lettori siete il carburante che spinge un autore a scrivere, mannaggia, eve" ad ogni modo, questo capitolo è ancora più lungo degli altri. Mi voglio proprio male, eh? L’altra volta ci siamo dedicati agli “Evils”, giusto? Per par condicio qui appaiono pochissimo, mentre i fatti ruotano più attorno a Rukia, Hisana & co. Spero di aver fatto un buon lavoro!
"L'Eremo di Giada", per chi non lo ricorda, è il manga horror che legge Rukia nel primo volume di Bleach, mentre Ichigo si allena al parco con le pepper-ball (cap. 3) :'D E "Makimura", cognome scelto per Hisana da nubile, è un chiaro riferimento a Kaori Makimura della serie City Hunter, è un personaggio che amo davvero tanto <3
Dato che il letto mi chiama invitante, lascio un ringraziamento generale a tutti quelli che continuano a seguire questa storia, a chi recensisce (Grazie davvero, quanto vi amo ç_ç <3), a chi ha inserito la storia tra le preferite e le seguite, anche chi legge e basta. Grazie, grazie, grazie! Vi lascio al capitolo, sperando che vi possa piacere, in ogni caso mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate! :)




Capitolo 7 – Nothing special but our Company

 

 

 

Lenalee Lee era una ragazza assai dolce e semplice, difficilmente si poteva dire il contrario. Aveva buoni voti all’università, dove frequentava il secondo anno all’indirizzo di scienze biologiche – la sua ambizione era diventare biologa marina –, ed era quella che si poteva tranquillamente definire “ragazza modello acqua e sapone”, senza grosse pretese o particolari grilli per la testa, e nel tempo libero prestava servizio come volontaria nel canile comunale. Insomma, era un vero e proprio pezzo di pane. Peccato che, talvolta, andasse in paranoia al punto tale da rasentare un attacco isterico.
Rukia sospirò, imponendosi di non perdere la pazienza. Stava sistemando le unghie della ragazza con un french – o meglio, ci stava provando, e Lenalee continuava a far tremare la mano e a stringerle le dita, impedendole di lavorare in serenità. Le aveva picchiato uno dei pennelli sul dorso, tentando di farle capire che, se avesse continuato con quella convulsa presa, non sarebbe mai riuscita a fare un lavoro decente.
Al di là dei disegni che invadevano la sua stanza – conigli, conigli ovunque. Era una vera feticista di quelle deliziose palle di pelo ghiotte di carote e amore libero –, non proprio classificabili come capolavori, Rukia aveva sempre avuto la passione per il decorare le unghie. Aveva cominciato con le proprie, sebbene piccoline, variando dal french semplice ai modesti decori con minuscoli brillantini, finché la sorella non le aveva proposto di fare un corso specifico. Da allora, in effetti, si era ritrovata a far le unghie praticamente a quasi tutte le ragazze della sua compagnia – eccezion fatta per Tatsuki, che le portava sempre troppo corte per poterci lavorare decentemente, e a cui sarebbero risultate un po’ “stonate”. Era una ragazza carina, sì, ma i più la ritenevano un vero e proprio maschiaccio, figurarsi vederle le unghie in gel sulle mani.
Sospirando snervata, rafforzò la presa sul mignolo di Lenalee per farla stare ferma. Poteva continuare a blaterare fino a restare rauca, ma che diamine, che almeno restasse ferma!
«Dici che lo apprezzerà? Oh, Rukia, sono così in ansia! E se dovesse trovarle una frivolezza?» gemette, guardando ansiosa la testa mora che in quel momento stava china sopra la sua mano, mentre Rukia tracciava con precisione la linea bianca sull’unghia, portando il gel dove necessario.
«Non lo so, Lena. Ma è un french semplice e senza decori, dà sempre l’idea di una mano in ordine, non vedo il motivo per trovarle frivole.» rispose, lasciandole il dito per permetterle di mettere la mano nel fornelletto apposito e porgerle l’altra mano «E poi dai, è… è cosa? Da quanti mesi state insieme, tu e Ichigo?».
«Un anno esatto oggi!» disse prontamente, sporgendosi verso di lei «È che in tutto questo tempo non mi sono mai preoccupata di valutare certe cose… magari ci farà caso, magari no, però…».
«Lena, davvero, se è il vostro anniversario baderà a tutto fuorché proprio alle tue unghie. E non è per vantarmi perché son io a fartelo, ma con il french sono molto più eleganti, anche se le hai già molto belle di tuo.».
«Tu trovi? Sai, quando mi ha regalato questo – e le mostrò un semplice anellino che portava all’anulare destro – e me l’ha messo al dito, ha detto che per lui ho le mani più belle del mondo. Che di mio, resto sempre del parere che sia un tale esagerato…».
«Sa solo riconoscere ciò che merita apprezzamento, dai. Non sminuirti così, Lena!» completò il proprio lavoro passando sopra il gel trasparente e il sigillante, ripulendole poi le mani con cura «Quindi stasera non venite al Black Moon?».
«Temo di no.» rispose la ragazza, guardandola dispiaciuta «Ichigo pensava di fare una cenetta insieme e poi un giro da qualche parte. Ho sentito che hanno installato un parco divertimenti itinerante nella zona dei giardini pubblici, magari faremo un salto lì.».
«Davvero? Non sono uscita spesso, ultimamente, non sapevo fosse arrivata una cosa del genere.» constatò Rukia, riponendo con cura i pennelli e i bastoncini in una tazza «Approfitto di questo weekend per rilassarmi un po’, e poi un’uscita al Black Moon ci serviva.».
«Immagino. Come ti sono andati gli esamini?».
«Non male, dai. Per alcuni ero un po’ in difficoltà, per fortuna Kaien mi ha aiutata. Non dovrei avere problemi per la sessione di febbraio.» si alzò e si mise a frugare in un armadietto, alla ricerca di un panno per pulire il tutto.
Lenalee sorrise, poggiando il mento tra le mani e guardandola con aria quasi intenerita.
«Ti piace veramente quel ragazzo, eh?».
Rukia arrossì di botto, insaccandosi nelle spalle e cercando di dissimulare con una risatina nervosa che, però, non fece altro che tradirla ancora di più.
«Ma no, dai, che dici? Kaien è un buon amico, niente di più, davvero!».
«Non hai mica di che vergognarti! E poi Kaien è un bel ragazzo.» replicò l’altra, raccogliendo i barattolini utilizzati.
Rukia si fermò per qualche istante, posando le mani su quelle di Lenalee per prenderle gentilmente i contenitori, poi scosse leggermente la testa, posandoli sulla sedia.
«Anche se fosse, di certo non sono il suo tipo. Voglio dire, ci conosciamo da parecchio tempo, ma penso che lui mi veda come una sorella più piccola, se proprio dobbiamo vederci qualcosa. E di sicuro uno così non può essere single.».
«Mamma mia, che tragica sei!».
Lenalee si alzò, tirando fuori dalla borsetta il portafogli e facendo per prendere una banconota, ma Rukia la placcò sul posto, additandola con fare quasi minaccioso.
«No, non ci provare. Non ti azzardare a tirar fuori neanche un centesimo, Lena, davvero.» disse, categorica «Non voglio soldi da te, cara mia.».
«Ma…».
«Niente ma. Offri un gelato a Ichigo, stasera, piuttosto. Consideralo il mio regalo per il vostro anniversario, ecco.».
La ragazza sorrise, sinceramente commossa, abbracciando stretta la più piccola e mormorando ripetuti “Grazie”, neanche le avesse regalato una villa con piscina. Magari poteva sembrare una piccolezza, ma lei lo considerava comunque un gesto veramente gentile, da parte sua. Non smise di ringraziarla nemmeno quando si salutarono, pochi minuti dopo. Lenalee si congedò con un inchino, salutando Rukia e Byakuya che stava finendo di prepararsi per la cena di quella sera. Era presto di sicuro, ma prima di recarsi al ristorante prenotato da alcuni colleghi aveva un’altra commissione da fare. Ripose alcune carte in una busta, che chiuse al sicuro nella sua ventiquattrore, e si sistemò addosso il cappotto e la sciarpa.
«Esci di già, nii-sama?» chiese Rukia, uscendo dalla cucina con un bicchiere di aranciata e osservando per un attimo l’orologio. Erano da poco passate le cinque, a che pro uscire con così tante ore di anticipo?
«Sì, ho alcune cose da fare, prima della cena di stasera. Tu a che ora esci?» rigirò la domanda alla sorella, prendendo la borsa.
«Ci troviamo al Black Moon verso le otto e mezza, ma alcuni di noi si trovano un po’ prima per fare un giro in centro e mangiare qualcosa in un fast-food.» fece una pausa per bere, rigirandosi poi il bicchiere vuoto tra le mani «Oggi dovevo sistemare le unghie a Lena, visto che mi avanza tempo mi do una sistemata anch’io e quando è pronta anche Darkie andiamo. Semmai ti faccio uno squillo appena arriviamo, okay?».
Byakuya annuì con un cenno del capo, cercando con lo sguardo le chiavi dal piccolo appendi-chiavi in legno appeso vicino all’ingresso «Non so per che ora farò ritorno, se tornate prima non aspettatemi sveglie.».
La ragazza annuì, sporgendosi indietro per poggiare il bicchiere sul ripiano della cucina, prima di tornare in corridoio.
«È un problema se tiriamo un po’ tardino?» chiese, incerta. Non che domandasse il permesso come ad un genitore, ma in fondo era pur sempre sotto la sua tutela, era il minimo.
«Domani è domenica, potrete sempre riposare. Solo, vorrei non dovervi sentire tornare alle 5.».
«No, no! Torniamo prima, sai che non ci piace girare tanto a notte fonda.».
«Shiba-san può accompagnarvi?».
«… penso di sì.».
Byakuya annuì nuovamente, lasciandosi scappare un sospiro – fortuna che c’era Kaien, in quella compagnia. Ragazzi con la testa così ben ferma sulle spalle ormai erano cosa assai rara – e lui si sentiva fin troppo spesso alla stregua di un padre apprensivo. C’erano poco meno di dieci anni di differenza tra lui e le due gemelle, ma anche il fatto che abitassero senza i genitori lo portava a preoccuparsi per loro forse più del dovuto. Erano entrambe ragazze coscienziose, non l’avrebbe mai messo in dubbio, era del mondo esterno che c’era poco da fidarsi, ma del resto mica poteva farle vivere sotto scorta, era giusto lasciar loro i propri spazi.
«Allora io vado. Ci vediamo domani.» salutò la sorella minore con un cenno della mano ed un ultimo sguardo, prima di chiudersi la porta di casa alle spalle.
Rimasta sola, Rukia tornò in camera canticchiando tra le labbra. Aveva ancora un po’ di tempo a disposizione e, se si fosse messa subito al lavoro, avrebbe finito in tempi brevissimi. Certo, lei e Darukia non si erano mai saltate alla gola per l’utilizzo del bagno, anzi, ognuna aveva la propria parte di specchio e riuscivano a lavorare in contemporanea senza intralciarsi, ma prima finiva di sistemarsi, e meglio era. Meno di un’ora dopo si stava già lavando le mani quando, improvvisamente, si rese effettivamente conto di che ore erano. Fuori era ormai buio e sua sorella non era ancora rientrata. Da che ne sapeva lei Hichigo era ammalato, e quindi impossibilitato a muoversi, quindi non avrebbe potuto accompagnarla. Che si fosse trovata a lavorare sola soletta con quel tipo che tanto detestava?
Ad ogni modo, cominciava ad essere un po’ in pensiero. Magari era già per strada, all’imbocco della via ma, giusto per accertarsene, preferì chiamarla. Sentire la sua voce tranquilla la fece sospirare mentalmente di sollievo.
«Pronto?».
«Darkie, sono io. Ci sono problemi?».
«No, perché me lo chiedi?».
«Ormai è buio, sei già per strada? Non esci con noi, stasera?».
«No, Rukia, lo sai. Abbiamo appena finito la sola imbastitura di tutto il lavoro e son stanca morta. Torno un po’ dopo, non ceno a casa. Comunque pensavo fossi già uscita.».
«No, è passata Lena per le unghie e già che c’ero mi son sistemata anche le mie. Ero convinta ci fossi anche tu, stasera! Se non ceni a casa potresti passare da noi, no?».
Ci fu un attimo di silenzio, prima che la sorella si decidesse a rispondere.
«In realtà Deak mi ha invitata a mangiare qui, poi mi accompagnerà a casa.».
«Oh.».
«Non farti strani film mentali.».
«Ma non ho detto niente!».
«Sei mia gemella e ti conosco anche troppo bene, Rukia!».
«Miscredente. Ma non vi sopportate o sbaglio?».
«Non sbagli, però…».
«Però?».
Di nuovo, Darukia rimase in silenzio per un po’, quasi a prender tempo per qualcosa che non voleva dire. Forse c’era Deak nei paraggi e non voleva farsi sentire?
«… ti racconto tutto domani, dai. Aiuto Deak a mettere a posto.».
«Non puoi piantarmi in asso così!» protestò la ragazza, piccata. Cioè, sua sorella le lanciava un sassolino così invitante, taceva a certe domande e poi troncava tutto quando stava per farle quelle migliori?
«Sì che posso. Dai, domani ti racconto tutto, promesso!».
«Domani un corno. Mi racconti tutto appena torni stasera!».
«E tu magari sarai fuori.».
«Allora appena torno.».
«Starò già dormendo di sicuro.».
«Ma Darkie…!».
«Dai, scherzo. Se non torni troppo tardi forse mi trovi ancora sveglia.».
«Ti adoro quando fai così, sorella.».
«… tu però metti a freno quella testaccia da mangofila incallita!» la sentì ridere dall’altro capo, accennando un vago assenso divertito «Dai, ora vado davvero. Divertiti e vedi di non farti rimorchiare da qualche sconosciuto che ti offre le caramelle.».
«Ah-ah-ah, divertente. E tu sta' attenta col tipo che hai in casa!».
«È inoffensivo.».
«Perché, è gay?».
«Non mi pare proprio. Ma ora come ora non sembra avere losche intenzioni. Anche se suo fratello Lavi, in confronto, è un angelo sceso in Terra, anche se hanno la stessa faccia.».
«È il gemello di Lavi?!».
«Dlin-dlon, risposta esatta. Non lo sapevi?».
«In effetti mi aveva detto di avere un fratello, ma non pensavo fosse proprio il tuo quasi-nemico-di-studio! Comunque sia non si sa mai, tu sta’ attenta lo stesso.»
«Sì, mammina. Possiamo chiudere?».
«Uff… e va bene! Divertitevi pure voi, eh!».
Rukia chiuse la chiamata fissando lo schermo del cellulare con un leggero sorrisetto, prima di sospirare e riporlo in una bustina – guarda caso, con un coniglietto e la scritta “Rabbit” ricamati sopra, e con tanto di ciondolo a forma di coniglio sorridente attaccato al gancio della zip. Lo lasciò nella borsetta bianca che avrebbe utilizzato quella sera, giusto per non rischiare di dimenticarselo, e si diresse in cucina per prepararsi la cena. Niente di impegnativo, alla fine, ma giusto per non andare fuori a stomaco vuoto… Poi, ovviamente, arrivò la parte critica, la scelta dei vestiti. Non che puntasse a chissà che look mozzafiato, ma quella sera era veramente indecisa su cosa mettersi. Cominciò a frugare nell’armadio, scartando man mano gli abiti sul letto, fermandosi solo dopo essersi resa conto che ormai non vedeva più le coperte e il cuscino. Alla fine preferì optare per un vestito grigio e bianco con una cintura nera in vita, calze – anch’esse nere - e stivali arricciati grigi. Avrebbe ravvivato il tutto con una semplice collana e qualche braccialetto colorato, giusto per staccare un po’ – avrebbe comunque tenuto il trucco al minimo indispensabile, non era da lei esagerare.
Facendo mente locale per esser certa di non essersi dimenticata niente, si mise il cappotto e la sciarpa, avvolgendosela per bene intorno al collo, e uscì di casa canticchiando tra sé.

 

 

** ** **

 

Parcheggiando sul primo posto trovato libero Byakuya scese dalla propria auto, facendo scricchiolare la neve sotto le scarpe. Se non aveva sbagliato indirizzo, in quello stabile viveva proprio la persona che stava cercando. Era un edificio senza grandi pretese, di certo nemmeno nuovissimo, e più di qualche tapparella necessitava di una bella sistemata. Lo stesso dicasi per il portone, che si aprì con un cigolio assai preoccupante. Era capitato in una sottospecie di castello infestato? Qualcuno l’aveva dimenticato aperto, di sicuro – avrebbe fatto meglio a citofonare, giusto per far sapere della sua presenza lì. L’indice scorse la lista di nomi scritti con le calligrafie più disparate – e certi erano pure illeggibili! – finché non trovò il cognome che stava cercando, “Makimura”. Premette il pulsante accanto per un paio di secondi, alzando istintivamente lo sguardo verso le finestre che davano su quel lato della strada. Pochi istanti dopo sentì il rumore del ricevitore che veniva alzato, seguito da un semplice e gracchiante (a quanto pare pure il citofono aveva bisogno di una bella revisionata!) “Chi è?”.
«Kuchiki Byakuya. Disturbo?».
Ci fu un brevissimo istante di pausa, chiaramente era un ospite alquanto inaspettato.
«Oh, dottore! Nessun disturbo, non si preoccupi. Terzo piano, appartamento 1/B. L’ascensore è rotto, però, mi spiace.».
Chiara, semplice ed efficiente al lavoro come a casa. Varcò la soglia e si richiuse il portone alle spalle, avviandosi verso la scalinata e tenendo stretta in mano la ventiquattrore. Si prese il proprio tempo, senza far i gradini di corsa, anche per non arrivare al terzo piano senza fiato – che figura ci avrebbe fatto? Non appena arrivò sul pianerottolo, vide Hisana aprire la porta quel tanto che bastava per far sbucare il suo viso sorridente e, anche se tentava di non darlo a vedere, pure un po’ preoccupato. Byakuya si fermò a pochi passi da lei, cercando di stendere i lineamenti a sufficienza per non sembrare troppo duro.
«Chiedo scusa per l’improvvisata, ma dovrei discutere con lei di alcune questioni. Ha da fare?».
«Cose di poco conto che posso rimandare a più tardi, dottore. Prego, si accomodi pure.» si scostò per aprire maggiormente la porta e lasciargli lo spazio per entrare, richiudendola una volta che l’uomo fu entrato.
Gli offrì un paio di pattine da mettere e si fece dare il cappotto da sistemare sull’appendiabiti, per poi fare strada fino al salottino, indicandogli il divano con un cenno della mano. Byakuya prese posto sistemandosi la borsa sulle ginocchia e alzando lo sguardo su di lei che, nel frattempo, era rimasta in piedi a pochi passi di distanza. Dal canto proprio, Hisana era un po’ nervosa. Era dell’idea che, vista la professione che esercitava, Byakuya fosse un uomo abituato a vivere in un ambiente di un certo livello. Sperò davvero che non pensasse che anche i suoi collaboratori dovessero avere forse non il suo stesso status economico, ma quantomeno una casa propria. Non che si vergognasse del proprio appartamento, era grande abbastanza per una persona e l’affitto era modesto, in linea con quello che poteva permettersi lei. E poi, era fermamente convinta che il valore di una persona non si misurasse in base allo stipendio o al lusso della casa in cui viveva e, sottilmente, si augurò che anche Byakuya fosse dello stesso avviso.
«Posso offrirle qualcosa, dottore? Caffè, the, un infuso…».
«Che tipo di infuso?».
«Fragola e frutti di bosco. Se le piace… altrimenti cerco qualcos’altro.».
«Andrà benissimo, ma non stia a scomodarsi, dico davvero.».
«Mi permetta di essere una buona ospite, dottore. Vado un attimo a mettere l’acqua a bollire, se ha carte o simili può usare il tavolino accanto al divano.» sparì oltre l’angolo della porta, dandosi da fare in cucina.
Più che voler essere una buona ospite, voleva trovare la maniera di sciogliere i nervi prima di parlare con lui. Perché era sempre così nervosa? Byakuya non l’aveva mai mangiata, né rimproverata – e lei non gli aveva mai dato motivo per farlo, né l’avrebbe mai fatto. Forse era il suo sguardo grigio, sempre così impenetrabile, o la sua espressione indecifrabile, non lasciava mai trasparire ciò che veramente pensava. Scosse la testa prima di sporgersi per prendere due tazze e la teiera, in cui versò l’infuso fumante. Sistemò il tutto su un vassoio, aggiungendo anche lo zucchero, e tornò in salotto.
Nel mentre, Byakuya aveva provveduto a tirar fuori una cartellina e una busta contenente dei fogli, che si era sistemato sulle gambe. Durante l’assenza di Hisana si era guardato un po’ intorno, osservando con attenzione l’ambiente circostante. Aveva già avuto modo di notare quanto la sua giovane segretaria fosse una persona modesta e senza grandi pretese e, in quel salotto, in quella stessa abitazione, si poteva notare quanto quella semplicità si riflettesse non solo sulla sua persona, ma anche in quella casa. I mobili, gli arredi, ogni cosa lì dentro era sì modesta, ma dotata di una strana sorta di elegante linearità che faceva passare in secondo piano l’umiltà originale. Stava ancora osservando la stanza quando, silenziosa, Hisana fece ritorno e posò il vassoio sul tavolino che Byakuya non aveva utilizzato. La vide versare la bevanda fumante nella tazzina bianca e porgergliela, attendendo che spostasse le carte per lasciarla nelle sue mani.
«Se vuole c’è anche lo zucchero.» soggiunse la giovane, versandosene una tazza a propria volta.
«Grazie, ma va bene così. Non avrebbe senso rovinarne l’aroma.».
«Giusta osservazione.».
Bevettero in silenzio i primi sorsi, prima che la lecita curiosità di Hisana la spingesse a prender nuovamente parola.
«Se non è un problema, potrei sapere come mai è venuto qui?».
Byakuya si prese qualche attimo per raccogliere le idee, prima di poggiare la tazzina ancora mezza piena sul tavolino. Si aspettava una domanda simile, anzi, era curioso il fatto che non gliel’avesse fatta prima. Lasciandosi scappare un leggero sospiro, si decise a rispondere.
«In realtà, sono qui per discutere sul suo attuale status di impiegata in prova presso il mio studio, Hisana. Come avevo avuto modo di dirle già un po’ di giorni fa, il periodo sta per terminare, così come quest’anno.».
Oh, era cose che aveva già messo in conto, lei. Non per niente aveva già adocchiato un paio di impieghi come commessa in negozi poco distanti da casa sua, preparando anche già i curriculum da consegnare – la parte burocratica più noiosa.
«Mi pareva paradossalmente fuori luogo discuterne in ufficio, specie durante l’orario di lavoro, per cui ho preferito parlarne in privato. Anzi, mi scuso di non averla avvertita prima.» proseguì Byakuya, intrecciando le mani in grembo.
«Si figuri, dottore, come può notare non avevo impegni impellenti.».
Lui annuì con un cenno del capo, prima di riprendere.
«Premetto che l’impiccio maggiore sarebbe a livello burocratico, dato che l’anno corrente è agli sgoccioli e stiamo già cominciando a sistemare i conti annuali. Come già le dicevo, si sta per concludere il suo contratto presso il nostro studio ed è necessario farle sapere se la nostra collaborazione continuerà o meno. A dire il vero volevo aspettare ancora un po’ di giorni, ma per altre questioni mi vedo costretto a parlargliene ora. Il fatto è, Hisana, che ho trovato assai valido l’impegno che mette nel fare il suo lavoro, così come devo ammettere che l’organizzazione impostata per i compiti di segreteria è ottimale. Per questo, volevo farle sapere che mi farebbe assai piacere proporle un contratto a tempo indeterminato, come segretaria fissa.».
Hisana lo fissò con tanto d’occhi, ringraziando per un attimo di avere abbastanza contegno da non tenere pure la bocca spalancata per lo stupore. Aveva veramente sentito bene, si era guadagnata un posto fisso in quello studio? Era veramente soddisfatto del suo lavoro? Fu quasi tentata di darsi un pizzicotto sul braccio per assicurarsi di non essere addormentata sul divano – sarebbe stato troppo deludente svegliarsi e vedere che non era successo davvero – ma a quanto pareva no, non stava sognando, era tutto vero.
«Questo, ovviamente, se lei è disposta a continuare ad operare. Riconosco che talvolta è stata obbligata a rimanere in ufficio più del dovuto, e me ne dispiace, ma sono gli imprevisti del mestiere. Comunque le lascerò alcuni giorni per pensarci, immagino abbia anche altri impegni da programmare.».
La mente della ragazza era come in stand-by. Negli ultimi giorni era stata così in ansia, aveva temuto di perderlo davvero, quel posto. E invece no, anzi, l’esatto contrario, Byakuya stesso le chiedeva se avrebbe accettato un posto fisso. E chi era lei per dire di no? Non le servivano nemmeno “alcuni giorni per pensarci”, non aveva obblighi verso nessuno, in fondo.
«I-io… sì, vorrei accettare, dottore.» mormorò, tentando di celare il fremito eccitato delle mani tra cui era posata la tazzina.
«Così su due piedi?» replicò lui, stupito.
«Sì, sì. Davvero, per me non è un problema lavorare fino a tardi. Come vede abito da sola, cenare ad un’ora o ad un’altra non mi cambia di molto. E poi, come già le avevo detto, l’ambiente di lavoro è piacevole, sono stata accolta bene nonostante fossi una novellina. Per cui sì… vorrei davvero accettare la sua offerta.».
Dentro di sé, Byakuya non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo. Temeva che alla fine di quel periodo Hisana scappasse a gambe levate, dopo aver visto con che razza di ritmi lavoravano. Non avevano attimi di pausa, nemmeno quando lui era via per le udienze, e già altre volte si era visto negare, con cortesia, la possibilità di avere una valida segretaria a tener nota dei suoi impegni e delle cause che doveva trattare. Invece lei, quello scricciolo su cui non avrebbe scommesso nemmeno mezzo yen, si era detta pronta a farsi carico di quel lavoro a pieno regime. Sperò davvero che fosse l’ultima volta che vedeva la scrivania vuota, e risistemata da un’altra sconosciuta.
«Molto bene, allora. Conti che per i primi dell’anno dovremo tornare agli uffici d’impiego per la modifica del contratto.».
«Non mancherò, dottore.».
Strinse la mano che Byakuya le stava tendendo, avvolgendola con le sue e sorridendo. Davvero, sembrava che la vita le sorridesse tutto d’un tratto. Finalmente poteva avere un posto fisso, e niente meno che in uno degli studi migliori della città. Mormorò a mezza voce ripetuti “grazie”, mentre ancora teneva la mano del dottore tra le proprie – o meglio, ci provava, quell’uomo aveva delle mani incredibilmente grandi e affusolate.
D’un tratto sentì grattare alla finestra della cucina, già sapeva chi poteva essere – e in effetti, si stava chiedendo quanto mancasse prima del suo arrivo. Si alzò, scusandosi con Byakuya, e si diresse nella stanza accanto. Shiro era al di là del vetro, la zampetta ancora sollevata a farle cenno di sbrigarsi, di farlo entrare al caldo per sfuggire al rigore invernale che imperversava fuori.
«Ora arrivo, ora arrivo…» disse lei, aprendo la finestra per permettere al micio di entrare.
Questi atterrò con eleganza sul pavimento, guardandosi attorno. Osservò con interesse Hisana che si allontanava per prendere la sua ciotola, seguendola fino in corridoio. E se prima aveva percepito solo un vago sentore lì, fermo sopra quel modesto tappeto, ne aveva la certezza. C’era un altro esemplare di cromosoma Y, in quella casa, e la cosa lo infastidiva incredibilmente. Nella sua mente felina, Shiro considerava Hisana una pia anima che gli regalava coccole, latte e un posto caldo dove dormire. Sottilmente era approfittatore, com’è un po’ nella natura di tutti i gatti, però era anche possessivo nei confronti di quella che ormai considerava la “sua” Hisana. Neanche fosse un amante geloso, direte voi.
Byakuya vide arrivare il gatto con la coda dell’occhio, quasi disinteressato. Aveva sempre ammirato i felini, dalla bellezza dei loro sguardi alla loro agilità ed eleganza, e quell’esemplare bianco e nero non faceva eccezione. Notò praticamente subito come quello sguardo dorato fosse decisamente insistente, cercava il suo senza timore, quasi indisponente. Non poteva immaginare, Byakuya, che quel perfido micio gli sarebbe balzato contro con un solo, preciso intento – fargli rovesciare il contenuto della tazzina sui pantaloni, quei bei pantaloni stirati che sembravano appena usciti da uno dei negozi più cari della città. Intento che riuscì perfettamente, constatò con soddisfazione mentre scendeva dal divano con un balzo, osservando come quell’uomo reggesse la tazzina che gocciolava un liquido rosa pallido dal bordo inferiore. Byakuya lo vide sedersi e mettersi a pulirsi il muso con la zampa, del tutto incurante del macello che aveva combinato. Razza di pestifera palla di pelo, che diavolo gli aveva fatto per farsi fare un dispetto del genere?
In quel momento tornò pure Hisana, lo sguardo di chi cerca qualcuno e non lo trova e, nel trovarsi di fronte a quella scena, la sua espressione mutò velocemente da ansiosa ad impanicata.
«Santo cielo, che è successo?» chiese, inginocchiandosi accanto a Byakuya che, nel mente, tentava di tamponare la macchia sui pantaloni, a metà coscia.
«Un attimo di disattenzione.» mormorò lui, continuando a sfregare «Evidentemente non sono molto simpatico al suo micio.».
«Sono… sono desolata, dottore! Aspetti, prendo un panno bagnato.» corse via ciabattando in corridoio, concitata, tornando dopo pochi attimi con una pezza leggermente inumidita. Si inginocchiò nuovamente, cominciando a strofinare sopra la chiazza della bevanda e lanciando un muto sguardo di rimprovero al gatto che, nel frattempo, era andato ad appollaiarsi sullo schienale della poltrona.
«Hisana, lasci stare, non è un problema… non avevo zuccherato la bevanda.».
«Sì, ma… stasera ha la cena con i suoi colleghi, no? Se solo non avessi fatto entrare Shiro…».
Byakuya rialzò lo sguardo sull’animale che, lesto, ricambiò. Il suo piano di attirare le attenzioni della sua padrona era andato a rotoli, anzi, aveva sortito l’effetto contrario – era stato silenziosamente rimproverato per quella marachella, e comunque Hisana non lo stava nemmeno guardando come probabilmente sperava.
«Non sapevo avesse un gatto. Non l’ho visto, quando sono arrivato.».
«Lo so.» la ragazza tamponò la macchia con la parte asciutta del panno, delicatamente «In realtà non è mio, è un micio randagio che ho sfamato un po’ di tempo fa e che, da allora, mi fa visita regolarmente.».
«Un randagio che si fa sfamare da una persona?».
Ai suoi occhi era una situazione un po’ strana. Fosse stato un cane avrebbe potuto capire, ma è noto che i gatti sono più indipendenti e menefreghisti nei confronti dell’uomo. Com’era che quella palla di pelo si era lasciata avvicinare tanto, al punto di diventare addirittura gelosa di una presenza maschile in casa?
«Sì, so che può sembrare paradossale. Ma era tutto sporco e infreddolito, mi faceva pena lasciarlo fuori con le nevicate dei giorni scorsi. Inaspettatamente si è abituato a venirmi a trovare.».
Lui si limitò ad annuire vagamente con il capo. Hisana si era prodigata come una fidanzata ansiosa a pulirgli quella – a parer suo – insignificante macchia sui pantaloni, pensando alla figura che ci avrebbe fatto in ristorante. Come se una chiazza d’acqua aromatizzata potesse ledere, in qualche modo, l’immagine che i colleghi avevano di lui.
«Hisana, davvero.» mormorò, posando una mano sopra la sua per fermarla «Non preoccupatevi. Si asciugherà in tempo e non si vedrà nulla. Era solo acqua, in fondo.».
Che lei non fosse del tutto convinta era più che palese, ma del resto preferì non insistere, tormentando leggermente la pezza tra le mani e rialzandosi in piedi, mormorando ancora scuse. Sembrò tranquillizzarsi solo quando Byakuya le ricordò che, in caso, poteva sempre accendere il riscaldamento della macchina mentre si avviava in ristorante, il grosso dell’umidità l’aveva tolta con il panno e, comunque, sul nero non si vedeva poi così tanto.
Si congedarono poco dopo, sul piccolo ingresso – lei non finiva più di ringraziarlo per quell’opportunità di lavoro, una manna dal cielo per lei che stava attenta ad ogni minima spesa per non rischiare di sforare, per esser cerca di riuscire a mettere un po’ di soldi da parte ogni mese. Il nuovo stipendio le avrebbe offerto la possibilità di spendere un po’ di più, e avere comunque una buona cifra al sicuro. Quando Hisana richiuse la porta non riuscì a trattenersi dall’esultare tra sé, in mezzo al corridoio, neanche le avessero annunciato di aver vinto alla lotteria. Per lei quell’impiego era meglio, molto meglio di un premio alla lotteria di quartiere. Un’opportunità che per nulla al mondo si sarebbe lasciata scappare.



** ** **



«Kuchiki, alla buonora! Ormai ti davamo per dispersa!».
«Ti piacerebbe, Grimmjow. L’autobus era in ritardo.».
Rukia si tolse il cappottino e la sciarpa, sistemandoseli sottobraccio, e si avvicinò al tavolino dove si erano riuniti tutti i suoi amici. Tatsuki, seduta accanto a Grimmjow, la salutò con un cenno della mano mentre sorseggiava una coca-cola, Orihime era impegnata a rigirare una crepes ripiena di qualcosa non ben definibile, Ulquiorra le rivolse un silenzioso cenno del capo, imitato da Ishida che si rigirava tra le mani un bicchiere mezzo pieno di aranciata, Renji aveva appena azzannato con molta grazia una pizzetta e la salutò agitando la mano leggermente unta di olio e, a seguire, Kaien, Lavi e Kukaku si fecero largo per accoglierla tra loro. Si insinuò come meglio riusciva tra gli ultimi due, scivolando oltre la panca di legno scuro.
«È una fortuna che tu sia così piccola, Rukia, occupi pochissimo spazio. E dire che oggi Fragolotto e Lee non ci sono nemmeno, i due piccioncini vanno a festeggiare e amoreggiare abbandonandoci, razza di villani.» rise Kukaku, tamburellando le dita sul bicchiere «Tua sorella non c’è?».
«Pensavo venisse, ma ha dovuto fare un lavoro di gruppo oggi pomeriggio ed era stufa, ha preferito riposarsi.».
«Vero, vero.» confermò Lavi «Pensa che l’avevo scambiata per te, quando l’ho vista. Cioè, siete veramente identiche!».
«Non proprio identiche, in realtà. Darkie ha i capelli più lunghi dei miei, e gli occhi leggermente più chiari. Ma proprio per far prima, la gente ci distingue solo per il taglio di capelli. Io li ho tagliati a metà estate, non reggevo più il caldo.».
«Altrimenti sarebbe stato impossibile distinguervi?».
«Più o meno. Il problema dell’avere una gemella monozigote…».
«Ah, non dirlo a me, sono sulla tua stessa barca!» ribatté il ragazzo, ridacchiando appena.
«Allora una volta vedi di trascinare qui anche tuo fratello, Lavi.» intervenne Kaien, poggiando sul tavolo il bicchiere ormai vuoto «E Rukia, tu magari porta Darkie. Se poi vi vestite uguali è la fine. Ah, ma le ragazze non valgono, si distinguono per i capelli…».
«Appunto.» lo riprese Kukaku, sorseggiando un bicchierino di sakè «Altro che tu e Ganju, siete diversi come il sole e la luna. Sarebbe praticamente impossibile scambiarvi l’uno per l’altro!».
Kaien si rabbuiò per un attimo, guardando dubbioso la sorella e il bicchierino che aveva in mano.
«Kukaku, non per dire, ma a quanti bicchieri sei arrivata…?».
«Dai, fratellone, è solo il primo. Stasera il micetto mi ha lanciato una sfida, no, Grimmjow?» si voltò ghignando verso Grimmjow che, nel frattempo, stava discutendo animatamente con Renji.
«No, dai, quella serie non la possiamo prendere. È vecchia come il cucco e non se la filerà nessuno!».
«Nessuno un cavolo! Cava gli occhi da quella dannata televisione e leggiti certi capolavori, eretico!» ribatté il rosso, puntandogli l’indice contro.
Lavi li stava osservando un po’ perplesso, chiedendosi di cosa mai stessero parlando. Intercettando il suo sguardo Rukia gli si avvicinò appena per dargli una spiegazione.
«Gestiscono insieme un negozio di fumetti e videogiochi in centro, hanno sorpreso tutti quando hanno deciso di mettersi in società. Sembra incredibile ma hanno un sacco di clienti, il negozio è sempre pieno.».
«Sì, pieno di ragazzine che vengono a sbavar dietro a ‘sto scemo invece che a comprare.».
«Dai, ananas, non te la prendere. Non è colpa mia se son figo e da te vengono solo appassionati di manga del secolo scorso.».
«Tsk, sempre meglio che farmi ricoprire di bava come te. Che tra le righe, mi sa che qualcuno non apprezza più di tanto…» sogghignò Renji, indicandogli Tatsuki al suo fianco con un ghigno.
Grimmjow si voltò verso la ragazza, facendo morire il sorriso compiaciuto dalle proprie labbra con una lentezza quasi da manuale, sbiancando in viso come se l’avessero prosciugato di colpo di tutto il sangue che aveva in corpo. Non per niente Tatsuki si stava scrocchiando le nocche delle dita con aria parecchio minacciosa e con un sogghigno che non prometteva nulla di buono.
«Tranquilla, tranquilla, scherzavo! Le lascio sbavare, ma niente di più, sanno che ho il cuore occupato, io! Non è così, Renji?».
«Ah, non mi pronuncio. Io sono occupato ad aiutare quei bravi “appassionati di manga del secolo scorso” a trovare le piccole chicche nel nostro negozio.» Renji fece spallucce con aria menefreghista, poggiando un gomito sul tavolo e il mento sul dorso della mano.
«Ananas bastarda! Lo sai pure tu che non mi faccio abbindolare da quelle lì!».
«Ma sì, ma sì…» rise nel vedere la sua espressione impanicata, in effetti Tatsuki sarebbe veramente stata in grado di rimescolargli i connotati. E addio faccino da figo su cui sbavare «Vai serena, Tatsuki, se la tira tanto ma in realtà non combina un piffero. Hai presente il modello “Sì, so che sono figo da paura ma no, non te lo do, non insistere”? Ecco, è lui. Però a quelle ragazze sta bene così…».
La mora gli lanciò un’altra occhiata d’avvertimento, prima di tornare a dedicarsi alla propria coca-cola e fingendo d’ignorare il sospiro di sollievo che tirò Grimmjow, consideratosi fuori pericolo.
«Ohi, Grimmjow, ti sei deciso a lasciar perdere quella stupida sfida?» fece Kukaku, rigirandosi il bicchierino di sakè vuoto tra le mani.
«Col cavolo, Shiba. Non esiste nemmeno nei tuoi sogni più rosei, che io regga l’alcool meno di te.» la minacciò il ragazzo, facendola ridere di gusto – cosa che lo fece infervorare ancora di più «Cos’hai da ridere?!».
«Rido perché tanto so che sei tutto fumo e niente arrosto. Il sakè non è latte, micetto.».
«Ah, sì? Ehi, capo!» Grimmjow si voltò verso il barman che, da dietro il bancone, chiacchierava affabilmente con alcune clienti. Sul momento non lo badò minimamente, concentrato com’era «SHUNSUI KYORAKU! Staccati da quelle pollastre e ascoltami, porca miseria!».
Sospirando sonoramente l’uomo si voltò verso il ragazzo, tenendo tra i denti un bastoncino di legno, e uscì da dietro il bancone per andargli incontro.
«Andiamo, Grimmjow, sai che non è carino interrompere un discorso con delle signorine così carine.».
«Ma dai, che stavi conversando con le loro tette.» sbuffò lui, agitando appena la mano.
«Sia mai. La mia lovely Nanao-chan mi ucciderebbe, se facessi il pesce lesso con altre donne. Comunque, posso sapere perché mi hai chiamato?».
«Semplice, amico mio. Quanto sakè hai nel locale?».
«Abbastanza da poter mandare in coma etilico tutti i presenti. Perché?».
«Bene, almeno hai buona scorta. La signorina qui presente» e gli indicò Kukaku al suo fianco «è convinta che io regga l’alcool molto meno di lei. Voglio dire sì, amo di più il latte, ma non mi va di farmi chiamare micio lattofilo che non regge l’alcool. Non è che puoi darmi una mano?».
«Purché qualcuno paghi okay, per me non c’è problema. O meglio, non ci sarebbe. Non vorrei veramente dovervi spedire in ospedale dopo una sbronza colossale.».
«In caso il pollo lo porto a casa io, Shunsui.» intervenne Tatsuki, tirando uno scappellotto al ragazzo dai capelli azzurri «Però ha ragione, non avete altre maniere per risolvervela? Cioè, Grimmjow, già l’ultima volta eri ridotto ad uno straccio da pulire i pavimenti. E hai vomitato sul pianerottolo di casa.».
«Non ricordarmelo. È colpa sua!» e tornò ad indicare l’altra ragazza, che gli rise in faccia.
«Dai, micio, forse è davvero meglio lasciar perdere. Mi fido della tua parola.».
« … evita di dirlo con quel sorriso pietoso e compiaciuto, però!».
«In cambio, però, offri un giro da bere per tutti.».
«Cosa!? Ma per chi mi hai preso? Mica è giorno di paga, oggi!».
«E dai. Tanto tocca a te in ogni caso. Stando alla tabella settimanale, stavolta tocca a te sborsare la pecunia.».
«Strega…».


Alla fine il ragazzo fu veramente costretto ad offrire a tutti i presenti. Kukaku preferì evitare di fargli pesar troppo quella sconfitta morale, ma non pensava l’avrebbe presa così sul serio. Alla fine era stato meglio non far quella sfida, cocciuto com’era si sarebbe sbronzato in maniera patetica, lo sapeva già – e di per suo, avrebbe volentieri evitato di doverlo portare in pronto soccorso. Si salutarono fuori dal locale verso l’una e un quarto, tutti imbacuccati contro il freddo pungente della notte. In cielo erano appena visibili le stelle, sarebbe stata una domenica di sole, forse.
«Rukia, posso parlarti un attimo?» Kaien si avvicinò a Rukia, chinandosi appena per cercare di vederle gli occhi «So che di solito ti accompagno io a casa, ma…» si voltò con aria eloquente verso Kukaku, leggermente alticcia e sorretta da Orihime. Stava blaterando qualcosa circa la neve che non smetteva di scendere – nella sua mente, probabilmente «Non avevo messo in conto una sbronza di mia sorella, di solito viene Ganju anche per questo. Hai qualcuno che ti può accompagnare?».
Rukia deglutì a disagio, sfregandosi le mani. No, non aveva proprio nessuno che poteva accompagnarla, e nemmeno poteva chiamare suo fratello. Se non era già a casa a dormire, probabilmente era ancora in compagnia dei suoi colleghi. Stava per dirgli che no, non c’era nessuno ma di non preoccuparsi, che ce l’avrebbe fatta da sola –  mica sarebbe successa una catastrofe, per una volta che tornava senza di lui –, ma Lavi la precedette, essendo accanto a lei aveva sentito tutto.
«Beh, Rukia, se non è un problema… ti posso accompagnare io. Più o meno ho capito dove abiti, non è neanche tanto distante da casa mia. Sempre se ti va, eh.».
La ragazza lo guardò sorridendo, grata per la sua offerta, ma non voleva stare a disturbarlo, come infatti gli disse. Ma niente da fare, Lavi non si fidava a lasciarla andare da sola e Kaien era d’accordo con lui. Senza contare che Byakuya l’avrebbe ucciso, se l’avesse saputo. Alla fine cedette, accettando con un leggero sorriso a piegarle le labbra, anche se la sciarpa celava la vista di più di metà del suo viso.
Congedatisi dal gruppo, decisero di prendere una scorciatoia per risparmiarsi parecchi minuti di strada, parlottando di quando in quando per rompere il silenzio che li circondava. Farsi accompagnare da lui fu effettivamente una buona idea, come constatò quando incrociarono un paio di ubriachi che incespicavano verso di loro reggendosi l’uno sull’altro. Istintivamente si portò più vicina al fianco di Lavi che, ben intuendo, le passò un braccio sulle spalle ed accelerò il passo per distaccarli. Fortunatamente quei due non li seguirono e, dopo poco più di mezz’ora, erano davanti al cancello di casa Kuchiki. Lavi si prese un paio di minuti per scrutare l’edificio, incuriosito, per poi tornare a guardare la ragazza che, nel mentre, stava cercando le chiavi nella borsetta.
«Ti inviterei a bere qualcosa di caldo, ma penso tu non veda l’ora di tornare a casa.» disse Rukia, abbassando la sciarpa per parlare e mostrando un leggero sorriso dispiaciuto «Scusami se ti ho fatto allungare la strada per niente.».
«Ma figurati, non dirlo neanche per scherzo.» ribatté lui «Vorrà dire che avanzerò da bere in facoltà.».
«Ah, su questo puoi star certo. È molto distante casa tua?».
«Non più di mezz’oretta, ma a passo spedito forse ci impiego meno.».
«Capisco… senti, appena arrivi mandami un messaggio, la mia email ce l’hai. Dopo che ti sei disturbato ad accompagnarmi, vorrei almeno saperti a casa tutto intero.».
«Oh, beh, d’accordo. Tipo messaggio della buona notte, insomma?».
«Direi più messaggio del tipo “sono tutto intero, non sono stato investito né mi hanno molestato o rapito, dormi pure in pace”.».
«Okay, allora, appena arrivo te lo mando. Mi ha fatto piacere uscire con voi, siete veramente una bella compagnia.».
«Figurati, spero tu ti sia divertito abbastanza. Buona notte, allora, ci vediamo in facoltà.».
Gli rivolse un ultimo sguardo prima di richiudere il cancello, salutandolo con un sorriso e un cenno della mano, e salendo poi le scale in punta di piedi. Una volta rientrata si tolse gli stivali, abbandonandoli nel ripostiglio lì vicino, e si diresse subito in bagno per lavarsi e cambiarsi. Darukia le aveva sistemato il pigiama sul ripiano vicino alla vasca, chissà se era ancora sveglia.
Nemmeno il tempo di pensarlo che, eccola lì, sull’uscio, a braccia conserte. Allora l’aveva veramente aspettata! Le sussurrò di far piano, che Byakuya stava già dormendo, e si diressero in camera di Rukia. Lei si sedette sul letto, sistemando le gambe sotto le coperte, mentre la sorella si avvolse in un plaid raccattato in soggiorno, infagottandosi per bene. Rukia non aveva certo dimenticato il motivo della loro chiacchierata e, sebbene durante la serata ci avesse pensato poco, come l’aveva vista le era tornato tutto prepotentemente in testa.
«Allora? Parla, donna, mi hai fatto morire di curiosità al telefono.» esordì, stringendosi le ginocchia al petto.
«Ma niente, che ti devo dire? Abbiamo mangiato una pizza, che ovviamente mi ha fatto pagare, e poi mi ha accompagnata a casa. Niente di più, signorina dalle facili fantasie.».
«Ma come, tutto lì?».
«Perché, cosa ti aspettavi?».
«Beh, non so… ma prima di tratta da schifo e poi ti invita a restare…».
«Ammetto che la cosa mi ha lasciata alquanto perplessa. Però, come dire… sì, non sarò chissà che psicologa, però forse quel ragazzo non è proprio il totale rompipalle che credevo.».
«Che vorresti dire?».
«Bada, che sia uno che se la tira da qui a Timbuctù non ci piove, ma… insomma, quando l’ho visto preparare la tavola per se stesso, con suo fratello fuori casa e suo nonno pure… boh, mi ha fatto un po’ pena.».
«E i suoi genitori?».
«Non ne ho idea. Non ha parlato di loro e non ho visto nemmeno una foto che li ritraesse, in giro. Anzi, in quella casa non ci sono proprio foto, a parte qualche paesaggio particolarmente suggestivo.» avvolse le ginocchia sotto la coperta, poggiandoci sopra il mento «Però magari sono a fare un viaggio e le foto le tengono al piano di sopra.».
«Può essere, sì… ma quindi, sei rimasta perché ti ha fatto pena?».
«Un po’ sì. Dubito che a lui importasse che io restassi o meno, ma mi pareva desolante piantarlo lì da solo dopo esserci stata insieme tutto il pomeriggio. Che a dirla tutta non è nemmeno proprio cafone, quando si tratta di studiare è parecchio bravo.».
«E tralasciando l’ambito studio?».
«Non ripartire con le fantasie. Ogni tentativo di dialogo è caduto di fronte a risposte monosillabiche, per cui abbiamo parlato giusto il minimo indispensabile.».
«Cavoli, proprio un simpaticone, insomma.».
«Già.» Darukia si sfregò un occhio, sbadigliando e scacciando le leggere lacrime di stanchezza che le bagnavano le ciglia «Senti, sorellina, vado a dormire, sto veramente crollando. In caso riprendiamo domani, eh?».
L’altra annuì in silenzio, sistemandosi meglio sotto le coperte. Era effettivamente stanca pure lei, di quella stanchezza che si accumula silenziosa e si avverte solo quando si posa la testa sul cuscino – come percepì non appena si stese, dopo aver salutato la sorella. Sospirò di sollievo, rilassando la schiena, e guardò il cellulare sul comodino, messo appositamente in silenzioso per non svegliare tutta la casa.
Nell’attesa del famoso messaggio si rilesse un volumetto di un manga che aveva in arretrato, cercando di rilassarsi – peccato che quel manga, “L’Eremo di Giada”, anziché calmarla la fece solo agitare di più, osservava febbrile ogni tavola e leggeva ansiosa i balloons uno dietro l’altro per sapere come continuava la storia. Sussultò quando avvertì la vibrazione del cellulare, al che chiuse il volume e prese in mano il telefono. Come si aspettava, il mittente era Lavi.


Arrivato a casa sano e salvo, ma mi sto gelando! (╥_╥) Ho dovuto tirare giù dal letto mio fratello, minimo domani mattina mi spella, mi va di lusso che ora sia troppo stanco.
Grazie ancora per la bella serata, anche per la compagnia!
Buona notte, Ruki


Ruki?
La ragazza osservò perplessa il display, soffermandosi su quella parola. Lavi non le sembrava tipo da dare nomignoli così liberamente, anzi. O forse lo conosceva ancora poco. Stava per rispondere, quando il cellulare vibrò una seconda volta.


Scusa, volevo dire Rukia! Son veramente stracotto e perdo vocali per strada, scusami ( ̄□ ̄;)
No, okay, vado a dormire che è meglio, prima che mi metta a sparare qualche altra genialata delle mie. Buona notte e grazie ancora!


Rukia sorrise, e si affrettò a rispondere a propria volta.


Ahah, ma figurati! Mi pareva strano un soprannome così all’improvviso, sinceramente  mi piace pure! (*≧▽≦)
Comunque son contenta tu sia arrivato a casa senza problemi, mi dispiace per tuo fratello! Vorrà dire che ti offrirò da bere due volte per scusarmi, eh? Ad ogni modo mi fa piacere sapere che ti sei divertito, magari si potrà replicare qualche altro weekend, appena riusciamo ad organizzarci ancora.
Ora dormo pure io, aspettavo giusto il messaggio. Buona notte, Lavi.”

 

Rilesse per bene tutto e, una volta inviato, spense il cellulare e lo lasciò sul comodino, sopra il volumetto a cui si sarebbe dedicata il giorno dopo. Sospirò rilassandosi sul cuscino, prima di spegnere la luce e addormentarsi.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Ombre ***


È seeeeeeeeeeempre più tardi, eh (e NVU è sempre più una m*rda, perché ca*biip* formatta come vuole lui il testo? Mah...). Ormai mi sono rassegnata, non aggiornerò MAI ad orari umani, rassegnatevi con me! E che dire? È stato un periodo altamente schifoso, questo. Ma proprio, proprio schifoso, in cui sono successe carrettate di robe più o meno brutte alla mia povera e tormentata psiche – ma non voglio stare a tediarvi con le mie pare mentali, miei cari. Spero solo che ‘sto periodaccio passi presto -A-“
Passando al capitolo: da qui in poi le cose andranno a complicarsi sempre di più, “chiudiamo” la parte dei capitoli spensierati per cominciare a scavare nel passato e nelle teste dei nostri protagonisti. Ma non voglio spoilerarvi niente, chissà, magari cambierò idea prima di scrivere i capitoli decisivi… per certe cose son un po’ volubile, sapete. Ma le idee di base ci sono, sono un po’ (TANTO) cattivelle, ma spero non me ne vogliate a male. Passando ai ringraziamenti, non posso che ringraziare di cuore tutti quelli che, nonostante i ritardi apocalittici, mi seguono ancora, coloro a cui questa storia piace e che lasciano tracce del loro passaggio con le recensioni, grazie davvero, mi fa sempre un piacere immenso sapere cosa ne pensate! Così come ringrazio di cuore chi tra voi ha seguito anche la “mini-raccolta” di When the Snow falls e When the Snow falls - After the Snow, just the Silence (che è una oneshot a parte, non presente nella raccolta), sul serio, grazie! Il Byasana è un pair talmente trascurato che non pensavo potessi ricavare qualche riscontro positivo, son contenta di essermi dovuta ricredere :’)
Bene, mi sa che ho chiacchierato a sufficienza. Vi lascio al capitolo, buona lettura!



 

Capitolo 8 – Ombre

 

I giorni di dicembre si trascinarono lenti e quasi tutti uguali, intramezzati solo da qualche uscita in centro di quando in quando per gli ultimi acquisti di Natale. Le canzoncine tipiche risuonavano per le strade illuminate a festa dalle luci appese sulle vetrine dei negozi, i Babbo Natale regalavano sorrisi e auguri ai passanti ad ogni ora. La corsa per i regali dell’ultimo minuto sembrava aver coinvolto più di qualcuno, chi cercava il regalo giusto per il partner, indeciso fino all’ultimo tra mille idee, genitori che tenevano per mano bambini che nei negozi di giocattoli si sentivano come nel paese delle meraviglie e viceversa, giovani che non avevano idea di cosa regalare a genitori o fratelli più grandi.
Le due gemelle Kuchiki erano tra queste, si mescolavano alla folla che passeggiava per i vialoni colorati di Ginza. Era uno dei quartieri più lussuosi di Tokyo, lo sapevano bene, ma avevano sperato di trovare qualcosa di abbastanza elegante e al contempo alla loro portata, visto che tra tutti i regali che avevano preso, mancava quello per Byakuya. E invece le loro speranze di trovare qualche buona occasione, magari mettendo i soldi insieme, si erano rivelate una bella utopia e basta. Non che fossero uscite con quattro centesimi, ma forse Ginza non era stata una scelta vincente. Darukia sospirò, guardando un poco abbattuta l’insegna luminosa del negozio davanti al quale si erano fermate.
«Rukia, davvero, ti pare che possiamo trovare qualcosa qui?» indicò con lo sguardo le vetrate con la scritta “Chanel” in bianco, cercando d’ignorare il logo che, gigantesco, illuminava la facciata frontale dell’edificio.
La sorella guardò il palazzo a propria volta. Effettivamente avevano ormai girato parecchi negozi, era pomeriggio inoltrato e ormai non si sentivano più i piedi da quanto avevano camminato, complici tutte le scalinate dei negozi che avevano salito e sceso alla ricerca di qualcosa che potesse adattarsi a Byakuya. Non dubitavano potesse piacergli qualcosa di semplice, per carità, ma per quell’anno preferivano prendergli un regalo che potesse portare sempre – e avevano escluso ciondoli o braccialetti, Byakuya non era tipo da portarne, e temevano di sbagliare taglia in caso gli avessero comprato una camicia o comunque un capo di vestiario. La scelta era caduta, così, su una cravatta, magari anche semplicemente nera, che il fratello potesse portare anche durante il lavoro. Solo che i prezzi erano ben diversi da quello che si erano aspettate…
«Ah, lasciamo perdere.» disse Rukia, insaccandosi nelle spalle «E se andassimo a Shinjuku? Magari lì riusciamo a trovare qualcosa.».
«In effetti…» la gemella si grattò la nuca sotto il bordo del baschetto, lanciando un’ultima occhiata al negozio che, con tutte quelle decorazioni brillanti, sembrava invitarle subdolamente ad entrare per farsi visitare, avvolgerle in quel lusso che, però, era un po’ eccessivo per le loro modeste tasche.
Fecero retrofront e si avviarono verso la stazione, riuscendo a prendere la prima corsa disponibile dopo neanche dieci minuti d’attesa. Se non altro poterono recuperare un po’ le forze e far riposare i piedi, sedute l’una accanto all’altra e condividendo un paio di cuffiette dell’mp3. La tratta durava mezz’ora esatta, e con altrettanta precisione arrivarono a destinazione, seguendo il fiume di gente fino all’uscita dalla stazione. Anche lì la situazione non era tanto diversa da Ginza, i negozi erano pieni di gente a caccia di regali esattamente come loro. Certo, Shinjuku offriva una scelta più vasta per il loro budget, anche se ovviamente preferivano evitare di puntare su pezzi di stoffa da quattro soldi…
«Ma che poi, davvero, non capisco perché quelle fatte bene costino così tanto. Voglio dire, è una striscia di stoffa!» disse d’un tratto Rukia, mentre tastava delicatamente una morbida sciarpa grigia che aveva attirato la sua attenzione.
«Beh, proprio perché son fatte bene… magari han bisogno di lavorazioni particolari, che ne so. Senti, andiamo a vedere da Isetan?» propose la sorella, riponendo su uno scaffale una borsetta.
E fu infatti quella la loro meta, quel gigantesco negozio che faceva angolo e si ergeva imponente tra tutti gli altri palazzi. Lì di scelta ce n’era fino alla nausea, se non avessero trovato niente nemmeno lì si sarebbero dovute rassegnare a scegliere qualcos’altro. Un negozio in particolare attirò la loro attenzione, aveva un’aria signorile ma non eccessiva, un po’ lo stile che ricordava ad entrambe il fratello maggiore. Salutarono la commessa con un sorriso timido, procedendo verso quello che avevano riconosciuto subito come lo scaffale delle cravatte.
«Darkie, guarda questa!» fece Rukia, entusiasta, indicandogliene una molto lineare, nera con dei semplici decori bianchi – niente di troppo pomposo, anche perché Byakuya non era esattamente il tipo…
«Sì, effettivamente non è male…» concordò la sorella, osservando a propria volta la cravatta che l’altra teneva in mano. Prese il cartellino del prezzo e lo girò, sbiancando e trattenendo il fiato per una manciata di secondi, avendo ben cura di dare le spalle alla commessa.
«Darkie, che hai?».
La ragazza non disse nulla, limitandosi a voltare il cartellino in modo che anche Rukia potesse vedere la cifra che vi era scritta sopra. Inutile dire che la reazione fu praticamente la stessa anche per lei.
«Q-Quindic-…» balbettò a bassa voce.
«Quindicimilacento yen, sì.» confermò con voce funerea la sorella.
Si guardarono in silenzio per quasi un minuto, alternando lo sguardo dal cartellino al viso dell’altra, rigirarono più volte la cravatta per osservarla bene… quasi nella speranza di trovare scritto da qualche parte il perché fosse così costosa. La risposta alla loro silenziosa domanda arrivò non appena videro qual era effettivamente la marca della cravatta che avevano in mano.
«Com’è che tra tante marche abbiamo la fortuna di trovare subito una delle più famose griffe per le cravatte?» borbottò Darukia, sospirando.
«Non so che dirti, davvero. Però è fatta bene, è pura seta e stando a quanto dice il certificato è lavorata tutta a mano… certo che dev’essere importante sul serio, se è italiana e viene importata pure qui in Giappone.».
«Già… senti, tagliamo la testa al toro e prendiamo questa.».
«Che? Darkie, ma sei sicura?».
«Ma sì, ti dico. Okay, costa…» abbassò cautamente la voce «Costa un bello sproposito, ma è bella e mi sa che ‘sti soldi li vale tutti. E poi Nii-san sarà contento, ne son sicura. E per i soldi…».
«Facciamo a metà come sempre, e preghiamo che nonno Ginrei ci allunghi una mancetta alla fine del pranzo di Natale?».
«Vedo che hai capito, brava, Rukia.».

Passò così anche il Natale, tra pranzi in famiglia, regali, auguri e abbracci. Se da una parte le gemelle e Byakuya erano tornati alla residenza dei Kuchiki per festeggiare con tutti i parenti, così come Ichigo e il fratello erano tornati dal padre e le sorelle, Deak e Lavi erano rimasti col vecchio Bookman, con il secondo che aveva fatto irruzione nella stanza del gemello di prima mattina esclamando con tanta gioia i suoi migliori auguri, solo per ricevere un cuscino in faccia e un “È presto, scemo, fammi dormire!” in risposta. Oh, ma Lavi non era tipo da demordere, era balzato sul letto e gli aveva mollato davanti al viso il pacchetto regalo, eclissandosi mentre ancora gli faceva gli auguri, per andare dal vecchio a ripetere la stessa scena e, oh, non si era mica scordato di fare il giro di messaggi, in risposta o meno. Anzi, aveva sorriso del fatto che Kaien e Renji fossero stati i primi a mandargli gli auguri, seguiti a ruota dalle gemelle. Darkie gli mandava a dire di fare gli auguri anche a Deak, almeno lei era gentile con quel brontolone cronico. Si era fatto raccontare – dopo averlo praticamente sfinito a furia di domande – cos’era successo quella sera, e a fine racconto poco ci mancava che la mandibola toccasse il pavimento.
Deak che invitava a cena una ragazza che non riteneva amica e per di più l’accompagnava a casa? Ovviamente, tutte le sue ipotesi sul presunto sbocciare della gentilezza di Deak vennero messe a tacere da un lapidario “Vallo a sentire l’albino se le succedeva qualcosa.”. Oh, beh, gli avrebbe volentieri riferito il messaggio della ragazza. Scambiò una veloce telefonata con Grimmjow, ancora pesantemente in fase “rimbambimento post-sveglia” nonostante fosse in piedi da più di un’ora, e ne approfittò per mandare un messaggio pure a Ichigo e Lenalee, che aveva avuto modo di conoscere in quei giorni. Sì, forse si stava lasciando andare un po’ troppo, forse era tutta colpa dell’atmosfera natalizia che rendeva tutti più buoni, fatto stava che Lavi era notevolmente più allegro del solito, tanto da non scocciarsi nemmeno quando lo avvisarono che il credito del suo cellulare stava ai minimi storici.

Hisana, dal canto proprio, aveva passato la giornata in tranquillità con Shiro, dando uno strappo alla solita rigidità e prendendosi anche una tortina per concludere degnamente il pasto, giusto per renderlo un po’ più ricco di quello delle altre giornate. Byakuya aveva fatto un regalo a tutti i suoi dipendenti, un pensiero semplice ma comunque molto carino, da parte sua – e sul suo portachiavi svettavano i kanji che componevano il suo nome, in lilla. Aveva tenuto un piccolo rinfresco in ufficio alla fine dell’orario di lavoro del 23 dicembre, giorno in cui aveva anche approfittato per dar loro quel piccolo presente e dei cestini con viveri tipici delle feste, anche se non era esattamente da tradizione. Ma, visto quanto li teneva sotto torchio, gli era parso il minimo. Lei non era tipo da bere alcolici, per di più da sola, avrebbe aspettato di avere una buona occasione per stappare quella bottiglia. Lanciò uno sguardo a Shiro che sonnecchiava beatamente rannicchiato sulla poltrona, quella stessa poltrona su cui s’era rifugiato dopo aver fatto rovesciare a Byakuya l’infuso sui pantaloni. Da parte sua si era sentita profondamente in imbarazzo a star lì, inginocchiata a terra, tentando di levare quella dannata macchia dalla stoffa scura. Per fortuna non aveva preso caffè, o non se la sarebbe di certo cavata con un semplice panno – ma no, sciocca, probabilmente sarebbe tornato semplicemente a casa a cambiarsi. Aveva abbondantemente rimproverato il micio quella sera, privandolo anche dei bocconcini che amava tanto per castigo e, incredibile ma vero, Shiro aveva tenuto il muso fino al giorno dopo, quand’era uscito. Hisana era convinta che non se lo sarebbe più ritrovato davanti, ma a quanto pare si sbagliava. E, guardandolo intenerita, tutto sommato non era nemmeno così dispiaciuta. Era stato un po’ grazie a quella marachella, che Byakuya le era sembrato più umano e meno inavvicinabile.


** ** **

In quella calda atmosfera, nonostante il freddo pungente che non dava tregua a nessuna ora del giorno, Capodanno si avvicinava lento. Fu una nuova sequela di messaggi, organizzazioni, spese dell’ultimo minuto. Rukia e Darkie, dal canto proprio, non volevano esser da meno - era da tanto che non vedevano loro padre e pure il nonno, si erano bellamente godute quei giorni alla villa principale, ma fare una replica dell’anno precedente – quando si erano ritrovati tutti dai Shiba, sfruttando la taverna del piano interrato della loro casa – sarebbe stata un’idea carina, a parer loro. Tanto più che erano arrivati anche Lavi e Deak, avrebbero potuto coinvolgerli e aiutarli ad inserirsi ancor meglio nella loro cerchia di amicizie. Per loro l’essere circondate da persone così disparate era una specie di toccasana, dal momento che fino alla fine del liceo avevano frequentato solo istituti privati femminili. L’approccio con i ragazzi era qualcosa che le aveva messe un po’ a disagio per parecchio tempo, non che avessero vissuto fuori dal mondo, ma vedevano di rado esemplari di sesso maschile che non fossero Byakuya o il padre a così brevi distanze di tempo. L’ingresso in università era stata una vera boccata d’aria fresca per entrambe, erano state assai fortunate ad aver trovato una compagnia sì pazza ma pure abbastanza responsabile. E poi sì, a modo loro sperimentavano quelle che non erano più “cottarelle” da scuola media ma nemmeno amore puro, qualcosa di più simile all’attrazione o alla complicità, un po’ come nel caso di Darkie e Hichigo. Si volevano bene ed era innegabile, nonostante i battibecchi e le scaramucce sapevano di poter contare sempre l’uno sull’altro, e questo li faceva stare bene. Per la ragazza era bello avere la consapevolezza di poter avere un rapporto così stretto con qualcuno che non fosse la sorella. Rukia, invece, un po’ ancora ci fantasticava, a volte venendosene fuori con teorie degne solo del più classico degli shoujo manga in circolazione ma, a parte Kaien, al momento non aveva adocchiato nessun altro. Ed ora erano entrati nelle loro vite anche i guerci rossi: la giovane aveva avuto modo di vedere soltanto Lavi ma, stando alle parole della sorella, Deak era praticamente identico, cambiava solo per l’elastico della benda e per il grugno che si portava costantemente sulla faccia. Certo, il fratello era più spigliato ad attaccare bottone o farsi coinvolgere nelle chiacchierate, eppure entrambe non avevano potuto fare a meno di notare che non si sbilanciava mai troppo, come se tentasse a tutti i costi di tenere le distanze cercando di sembrare garbato.
“Ma no, saranno solo idee”, si era detta Rukia. Magari certe domande toccavano brutti ricordi che lui non voleva rivedere – un po’ come quando Kaien gli aveva chiesto il perché di quella benda. “Sai, un’irritazione, per sbaglio mi sono graffiato la cornea, e così…” era stata la giustificazione di Lavi,  a distanza di parecchie settimane ancora non accennava a togliersela. Ma preferivano non insistere, magari a lui non andava di parlarne. Deak era una sorta di caso perso, stando alle stesse parole del fratello era meglio evitare domande troppo mirate, dal momento che il ragazzo era dotato di una lingua velenosa come un aspide che fortunatamente Lavi non aveva ereditato da genitori di cui non conoscevano ancora viso e nome. Non che la cosa le importasse particolarmente, in quel momento – voleva solo invitarli a passare una bella serata in compagnia.
I preparativi in quei giorni proseguirono veloci, erano riuscite ad avere da Byakuya la casa a disposizione, mentre lui sarebbe andato alla villa principale. Non potevano sperare in niente di meglio, e ben presto diedero inizio al giro di chiamate per consensi ed eventuali accordi per l’organizzazione. Avrebbero disposto materassini a sufficienza per far dormire tutti, alcuni più fortunati si sarebbero accaparrati i due divano-letto, ma bene o male erano in grado di offrire un posto comodo a tutti quanti. Era quasi buffo vederle girare per casa con i telefonini all’orecchio, parlando e gesticolando in quell’infinito via vai di botte e risposte, quasi come quelle affaccendatissime direttrici aziendali che vedevano in certi telefilm.
C’era voluto del bello e del buono per convincere Deak a venire con loro. A quanto pareva l’idea di trovarsi in mezzo ad una massa di sconosciuti non lo entusiasmava poi così tanto – almeno, quella fu la giustificazione data da Lavi al telefono. Rukia sentiva perfettamente i ringhi del fratello di sottofondo, così come Lavi non si preoccupava di rispondergli pur stando al telefono. Alla fine, per non si sa quale miracolo, anche lui accettò a passare il Capodanno da loro. Pur non prendendo parte alla festicciola, Byakuya le aiutò con la spesa e a recuperare tutto il necessario per dormire, salutandole in mattinata.
Passarono le ore precedenti a preparare tutta la casa in ordine e pulita, allungando la tavola in legno e spostando i mobili per poter avere più spazio a disposizione. Avevano già fatto le susuharai tradizionali, ma una spolverata in più non avrebbe fatto di certo male alla casa. Lenalee, Orihime e Tatsuki cominciarono ad arrivare a metà pomeriggio per aiutarle a preparare stuzzichini e vari piatti – anzi, Orihime fu gentilmente invitata a finire di sistemare il salotto, almeno sarebbe rimasta lontana dal cibo – e ad organizzare la serata. Avevano tutte disposto gli abiti nuovi da indossare la sera nella camera di Byakuya, che era la più grande e in cui nessuno sarebbe andato a curiosare. Il letto era coperto da kimono dalle fantasie e dai colori più disparati, in netto contrasto con la semplicità asettica della stanza. Optarono per preparare la tradizionale toshikoshi soba più tardi, mettendo in frigo o in forno quelle pietanze che necessitavano di conservarsi o finire di cuocersi, e passarono a stilare una lista di idee per trascorrere le ore che le separavano dallo scoccare della mezzanotte. Hichigo si era già proposto di portare la Playstation per indire un sano torneo a suon di picchiaduro, cosa che i ragazzi presenti avrebbero accettato più che volentieri, per il resto qualcosa sarebbero riuscite ad inventarselo, tanto gran parte del tempo l’avrebbero trascorso mangiando. Non sapevano nemmeno a che ora sarebbero andati a dormire, del resto.
Erano ancora indaffarate sui progetti, quando sentirono il citofono – e pochi minuti dopo si ritrovarono tutti gli invitati mancanti in casa, tra cui Grimmjow, Lavi, Deak, i gemelli Kurosaki, Kaien, Kukaku, Renji e Kanda, attirato in quella che lui definiva trappola dalle insistenze gentili di Orihime. Era un ragazzo che lavorava in una piccola libreria, parecchio schivo e taciturno, usciva di rado con loro ed era un tipo dall’incazzatura abbastanza facile. In genere i ragazzi andavano da lui a rifornirsi di libri, che fossero di studio o meno, fermandosi più di qualche volta a scambiare quattro chiacchiere. Ulquiorra aveva declinato a causa della febbre, Ishida era partito per un breve viaggio con la fidanzata Cirucci e Ganju era ad una festa-raduno con i compagni della palestra che frequentava, quindi non erano potuti intervenire. Lenalee andò a salutare Ichigo con un sorriso, sfiorandogli la mano cercando di non dar troppo nell’occhio – e, ovviamente, Hichigo e Deak si tenevano ben distanti l’uno dall’altro. Non che avessero avuto ulteriore occasione di beccarsi a vicenda, ma onde evitare di rovinare la serata a tutti, sembrano aver raggiunto il tacito accordo di non rompersi le scatole l’un l’altro. Mangiarono e chiacchierarono, lasciando di sottofondo la tv in salotto per avere più o meno un’idea di che ore fossero – e le portate si susseguivano una dietro l’altra, tra battute e chiacchiere spensierate. Verso le undici le ragazze si alzarono, dopo essersi scambiate uno sguardo d’intesa, perfettamente in sincronia, tanto che i ragazzi le guardarono sbigottiti.
«Dove andate?» chiese Ichigo, sgranocchiando un grissino.
«A cambiarci, è ovvio.» disse Lenalee «Sapete che è tradizione indossare abiti nuovi per la sera di Capodanno!».
«Ma manca un’ora alla mezzanotte.» l’albino non si fece problemi a fare quell’osservazione a bocca piena, sputacchiando briciole di pane.
«Beh, abbiamo i nostri tempi, che dobbiamo dirvi. Non ci piace fare le cose di fretta.» replicò Darukia, facendo spallucce «E voi fareste meglio a fare lo stesso, mi auguro non vogliate salutare il nuovo anno in mutande.».
«Tsk, tanto ci mettiamo due minuti a cambiarci, mica perdiamo una vita come voialtre.».
«Ah, lo spero per voi.».
«Ah, gemelline!» esclamò Grimmjow, prima che uscissero «La camera di vostro fratello è libera?».
Rukia lo guardò interrogativa, piegando appena la testa di lato. «Sì, perché?».
«Dite che Byakuya si offenderebbe se la prendessi in prestito per stanotte? Sapete come si dice, no? Chi scopa a Capodanno…».
«Grimmjow!» Tatsuki era violacea dall’imbarazzo, mentre lo stupore iniziale lasciava spazio alla muta promessa di un’atroce vendetta per quella stramba uscita.
«Ah, non pensarci neanche.» lo interruppe Darukia «Byakuya ti farebbe la pelle.».
«Ma non lo saprà mai!».
«Non abbiamo nessuna intenzione di lavare le lenzuola dove fai le tue porcate, gatto!».
«Ma chi ti dice che uso il letto! Se il tappeto è morbido si potrebbe…».
«GRIMMJOW!» la ciabatta di Tatsuki lo colpì in fronte prima che potesse aggiungere altro.
Lo lasciarono a bocca asciutta in mezzo a tutti gli altri ragazzi, andandosene senza aggiungere null’altro – Tatsuki si era ripresa la ciabatta lanciandogli un’occhiataccia che l’avrebbe ucciso all’istante. Grimmjow rimase balbo a fissare la porta chiusa per una manciata di secondi, per poi sbuffare e afferrare un innocente grissino che ben presto finì massacrato dai suoi denti. Non che, ovviamente, pensasse veramente a far sesso la notte di Capodanno, ma giusto per buttarla sullo scherzo… invece l’avevano freddato con quella frase e abbandonato a se stesso, e anzi, lo sguardo che gli aveva rivolto Tatsuki non prometteva nulla di buono. Avrebbe fatto meglio a cercare alla svelta un modo per ingraziarsela che non fosse l’incassare i suoi pugni.
Deak, fino a quel momento, aveva parlato poco e niente. Lavi aveva tentato di coinvolgerlo nelle discussioni più di qualche volta, ma il gemello lasciava perdere dopo poche battute. Le uniche persone che conosceva, a parte lui, erano Darukia e Hichigo – ma la prima s’era messa parecchi posti più in là con le altre ragazze, e l’albino era da tenere cautamente a distanza. In un certo qual modo apprezzava Ichigo per il suo essere così discreto, al contrario del gemello albino che si stava scatenando con Grimmjow in una gara di rutti dal gusto piuttosto discutibile – e per la cronaca, il ragazzo dai capelli azzurri era passato in vantaggio con un rutto che somigliava più ad un ruggito. Per fortuna le ragazze non erano nei paraggi!
«Grimmjow, non vale portarsi dietro i versi registrati!» fu il ben udibile e riconoscibile commento di Kukaku, seguito da una grassa risata. Forse non erano così fuori portata d’udito come credevano…
Decisero di cambiarsi in quella sala, chiudendo la porta affinché Rukia e compagnia non entrassero nel bel mezzo di quello spogliarello di gruppo. Le battutine sull’intimo e i rispettivi equipaggiamenti si sprecarono, coinvolgendo anche quelle povere anime di Ichigo, Kanda, Kaien e Deak che tentavano di non farsi tirare in mezzo, finendo con la pubblica dichiarazione, da parte dell’albino, che il gemello era in possesso – non in quel momento, per sua fortuna – di un delizioso paio di boxer con su disegnate delle adorabili fragole rossissime, scherzoso regalo di Lenalee per una non ben definita occasione. Ichigo non esitò un attimo a vendicarsi, mostrando dal cellulare la foto del fratello che dormiva spaparanzato a letto con tanto di pigiama a poins e berrettino coordinato, abbracciato ad un peluche di un pony bianco raccattato chissà dove (ricordo d’infanzia da cui, non si sa perché, Hichigo non si era separato ma che teneva ben nascosto). Ne venne fuori che il pupazzo gliel’aveva messo a tradimento Ichigo mentre il povero albino era strafatto dalla febbre, giusto per avere una pericolosa arma con cui ricattarlo, proprio come in quella occasione. Poco ci mancò che tra i gemelli Kurosaki finisse a cazzotti e nasi rotti, quando l’attenzione generale venne catturata da un Lavi che ammetteva, non senza vergogne, di avere dalla sua un paio di boxer coi conigli. Deak evitò di guardarlo fingendo di non conoscerlo, sbattendosi una mano in fronte e chiedendosi cos’avesse fatto di male per avere un fratello così stupido, mentre Grimmjow si prodigava in battute non esattamente caste sui conigli e la loro naturale inclinazione all’amore libero e passionale.
«E poi anche il tuo nome suona un po’ come “rabbit”. Hai la natura del coniglio, tu, e non la parte fifona, ammettilo.».
Lavi preferì evitare di rispondere, sviando quella spinosa affermazione con una battuta di poco conto e invitando tutti a finire in fretta, prima che Rukia e le altre tornassero.
Si riunirono quando ormai mancava una manciata di minuti alla mezzanotte, riempiendosi i bicchieri per poter brindare tutti insieme – e si scambiarono gli auguri di rito, abbracci e baci, rigorosamente sulla guancia, onde evitare scene imbarazzanti. Almeno, l’intento generale era quello, rovinato clamorosamente da Grimmjow che non ci pensò due secondi a cacciare un metro di lingua in bocca a Tatsuki con tanto di coreografico casquet e il conseguente “Auguri, eh. E comunque quello di prima era il mio buon augurio per un altro anno insieme, quindi fai poco l’arrabbiata.”.
Il cielo notturno era illuminato dai fuochi d’artificio sparati nel parco lì vicino, per le strade si sentivano chiaramente gli schiamazzi della gente che festeggiava. L’idea di unirsi a qualche festa già organizzata c’era, ma in fondo in casa avevano tutte le risorse di cui necessitavano per fare un po’ di sana baldoria senza correre il rischio di finire in mezzo a sconosciuti troppo allegri per il nuovo anno.
Poker, twister, black-Jack, agguerritissimi duelli a Tekken – in quelle ore successive alla mezzanotte si susseguirono tornei all’ultimo punto e all’ultimo vestito, dal momento che per alzare la posta in gioco, avevano messo in tavola la versione strip. Le ragazze optarono per mettersi comode, con grande scetticismo di Grimmjow – «Vi siete messe in tiro per quasi un’ora e adesso andate subito a cambiarvi? Chi vi capisce, voi femmine!», era stata la sua giusta osservazione. Ma loro si limitarono a far spallucce, tornando dieci minuti dopo vestite con comode tute o direttamente coi pigiami, pronte a dar battaglia a quei ragazzi che avevano saggiamente deciso di seguire il loro esempio. Avevano preso un liquore a bassa gradazione proprio per evitare spiacevoli inconvenienti, ma il livello del liquido si stava abbassando a velocità preoccupante – era la penitenza per chi perdeva a Black Jack. A Kukaku la cosa non faceva né caldo né freddo, ma Lenalee dava i primi segni di alterazione causata dall’alcool. Si vedeva che non beveva quasi mai! Non che a Twister se la cavassero meglio, però. Rukia e Darkie avevano qualche difficoltà a sovrastare gli altri, vedendosi costrette a pose alquanto imbarazzanti – come se quel gioco non facesse già la sua parte. Quando Rukia si ritrovò in una posa abbastanza comoda, praticamente accucciata con le mani davanti a sé, non poté che tirare un sospiro di sollievo. Quello che sentì sopra di sé, però, non era altrettanto. Riconobbe i pantaloni neri della tuta di Lavi e, quando tentò di guardare dov’era, si rese conto di non trovarsi in un posto esattamente bello. Forse stare a sedere all’aria sopra gli altri era decisamente meglio…
«Per carità, Rukia, non alzare la testa. Per piacere, eh.» Lavi sembrò quasi implorarla, guardando la testa mora della ragazza che si era ritrovato accucciata tra le gambe. Per fortuna gli dava le spalle, sennò sai che imbarazzo!
«Ohi ohi, coniglietto! La tua virtù messa in pericolo da una testata di Rukia!» esclamò Grimmjow, scoppiando a ridere «Se lo centri lo rendi un soprano, sappilo!».
«Grimmjow, ti prego!» gemette Rukia, arrossendo «È già sufficientemente imbarazzante senza che ti ci metta anche tu!».
«Perché, ti pare che io sia messa meglio?!» ribatté la gemella, accanto a loro.
Cercando di non alzare troppo la testa Rukia si voltò verso di lei, trovandola a quattro zampe sopra un Deak messo a ponte rovesciato. Le loro gambe erano un incrocio incomprensibile, e Darukia toccava il bollino colorato solo con la punta del piede.
«Puoi farlo cadere, Darkie!» fece Hichigo, seduto a gambe incrociate sulla sedia «Anche perché così ti guarda senza problemi dentro la scollatura.».
«Hichi, taci! Così mi distrai!».
«Ti ho solo dato un consiglio, nanerottola dispotica!».
«Guarda che non sono così messo male da andare a guardare dentro le scollature delle ragazze, Hichigo.» ringhiò Deak, piegando la testa all’indietro per rivolgergli un’occhiata truce.
«Seh, ammettilo che è solo perché sotto ha un’altra maglia, sennò col piffero che non staresti a guardare.».
«Hichi, odio dovertelo ricordare, ma non sono così tettona da attirare gli sguardi proprio lì.» sbottò la ragazza, punta sul vivo.
«Tettona ci staresti da schifo, Darkie. Tu sei tutta compatta, due meloni al posto delle tette ti farebbero sembrare una nana sproporzionata.».
«Ma la finisci di darmi della nana?!».
«Vabbé, diversamente alta. Ringrazia la tua magra statura se al cinema paghi ancora l’ingresso ridotto!».
«Possiamo andare avanti, per piacere?!» cercò di sviare il discorso, rivolgendo a Kaien quello che pareva uno sguardo disperato.
Ridacchiando, il ragazzo riprese a far girare la lancetta sul tabellone colorato. Le gemelle sperarono solo di essere risparmiate da altre pose così imbarazzanti. Dopo notevoli sforzi riuscirono a districarsi da quella scomoda situazione, riducendo la partita ad una secca finale tra Darkie e Lavi che si concluse con la vittoria sudatissima della giovane. Ripresero fiato e si asciugarono il sudore dalla fronte con fare molto melodrammatico, andando poi ad attaccarsi alle bottiglie d’acqua neanche avessero corso la maratona. Nel frattempo Orihime, Tatsuki, Kanda e Renji avevano preso il loro posto, dando a Kukaku l’onere e l’onore di decidere le loro tristi sorti con il tabellone in mano.
«Ananas, tocca o pensa sconcezze sulla mia donna e ti ficco il bottiglione di saké su per il culo.» fu la cordiale minaccia di Grimmjow, additando Renji.
Il rosso fece una faccia scandalizzata, arrossendo leggermente, mentre la famosa ciabatta si abbatteva nuovamente contro Grimmjow. Tatsuki lo invitò gentilmente a smettere di minacciare la gente a destra e a manca, sebbene fosse sottilmente felice di quella sua bizzarra gelosia. Sapeva che non era paranoico, anzi, il più delle volte le sue minacce erano solo scherzi, e questo lo sapevano anche i suoi amici, ma d’altro canto trovava assai imbarazzante il contenuto delle sue minacce. Povero Renji, non aveva nemmeno aperto bocca!
Rendendole la pantofola azzurra con aria fintamente sdegnata, Grimmjow decise di dedicarsi ad un feroce duello a Soul Calibur in compagnia di Hichigo, prendendo posto sul grande divano di fronte al televisore. Entrambi erano giocatori assai validi, il che li portava a scontrarsi con una ferocia senza pari, smanettando sui tasti con un impeto quasi preoccupante per l’integrità di quei poveri joystick. Il paradosso venne quando si ritrovarono a farsi un ko simultaneo per tre volte di fila, rimandando continuamente la vittoria di uno solo dei due. Deak, Ichigo e Kaien si misero ad osservarli e a tifare occasionalmente per l’uno o per l’altro, mentre le ragazze rimasero a godersi il faticoso aggrovigliamento di corpi che si stava svolgendo poco più in là – Orihime era rovinata sopra Kanda che era riuscito (non si sa come) a non cadere e a non implodere per l’essersi ritrovato quella sesta di seno spalmata in faccia. Nell’impeto di rialzarsi era scivolata del tutto e stavolta il ragazzo non era riuscito a frenare la sua caduta, la qual cosa finì con un esito assai prevedibile. L’imbarazzo gli impedì di sentire il «Uomo fortunato…» sbottato in una risatina da Renji, che stava combattendo contro Tatsuki per non cedere.
«Grimmjow, che cazzo! Il fuori ring non vale!» esclamò d’un tratto Hichigo, guardando storto il ragazzo che si stava facendo una grassa risata.
«In guerra tutto è lecito, caro mio. Guarda che non ti sculaccio se mi ricambi il favore, ma non sperare di riuscirci.».
«È un modo un po’ vile di vincere…» intervenne a bassa voce Lavi, grattandosi una guancia.
«Ben detto, rosso! No, aspetta… ma che cazzo, perché avete la faccia uguale, voi due!?» borbottò l’albino, cercando di capire con quale dei due stesse parlando.
«L’elastico.» Lavi s’indicò il viso «Deak ha il doppio elastico.».
«Uh. Buono a sapersi. Ehi, guercio 2 – la vendetta! Tu non giochi?» si girò verso Deak, che ricambiò il suo sguardo.
«No, grazie, non mi va.».
«Che è, non sai giocare?».
«Non ho detto questo. Semplicemente non mi va.».
«Ma insomma, guercio! Sei stato uno schifo di mummia tutta la sera, vedi di piantar via quel grugno da scazzato cronico e almeno stasera divertiti, no?».
Deak l’osservò per diversi istanti, soppesando le sue parole. Non che lo ritenesse l’apoteosi della bontà di cuore, ma forse – nonostante i modi tutt’altro che gentili – stava tentando di… coinvolgerlo? Non che a lui interessasse veramente, beninteso. Non era abituato a stare così a lungo a casa d’altri e per una festa, oltretutto. Doveva accettare? O semplicemente ribadire quanto poco la cosa gl’importasse? Grimmjow gli tese il joystick, scrutandolo con quegli occhi chiari e un ghigno in faccia.
«È divertente fargli il culo, sai. Hichigo non sa perdere.».
«Vaffanculo, Grimmjow! Sei un cazzo di sleale e lo sai!».
«Non stava scritto da nessuna parte che il fuori ring non era valido. Sfogati con lui, dai.» Grimmjow gli diede una pacca sulla spalla, alzandosi «Vado a vedere come se la cava il caro ananas.».
Hichigo gli borbottò contro per diversi istanti, guardandolo in cagnesco mentre si allontanava, prima di voltarsi verso Deak e spiegargli per sommi capi i vari attacchi e i relativi tasti da premere. L’altro annuì, fissando alternativamente il joystick e lo schermo con la selezione dei personaggi. Ne scelse uno a caso, per quel che ne sapeva lui uno valeva l’altro… Hichigo ghignò, pregustando una vittoria facile – stranamente il guercino non faceva il saputello per i picchiaduro, sarebbe stato uno spasso massacrarlo. Un vero peccato che le botte se le prendesse il personaggio sullo schermo… ma fino a quel momento s’era comportato bene, doveva riconoscerlo. Non che sperasse fosse diventato improvvisamente meno rompiscatole, ma giusto un lieve miglioramento…
Ad ogni modo, presto iniziarono il duello e Deak si trovò a dover parare come meglio riusciva i colpi che lo spadaccino di Hichigo stava scagliando contro il suo personaggio. Riuscì a parare e tirarsi indietro, sfruttando l’arma lunga per tenere l’altro a distanza – ma con qualche spostamento laterale il personaggio dell’albino lo rimise ben presto alle strette, concludendo il round con un ko dopo aver subito pochi colpi. Deak decise di rendergli pan per focaccia, anche premendo i tasti a casaccio, cosa che lo aiutò a fare diverse combo che Hichigo difficilmente riuscì a schivare o parare, e l’incontro finì con la sconfitta dell’albino per un soffio di HP. Il round finale fu una vera lotta senza esclusione di colpi e, solo dopo molte insistenze, fu vinta da Hichigo.
«Cavoli, non te la cavi male per essere un novellino.» sbottò, asciugandosi le mani sui pantaloni «Quasi speravo ci vedessi male, non ha funzionato.».
«Solo perché porto una benda non significa che me la debba cavare peggio degli altri.» Deak fece spallucce, mentre poggiava il joystick sul divano.
«Ma che cavolo avete combinato tutti e due, si può sapere?» Kaien, accanto a Lavi, fece cenno col mento verso il suo viso, alludendo alla benda.
«No, non si può sapere.» fu la secca replica di Deak, mentre si alzava «Vado a lavarmi le mani, odio sentirle sudaticce.».
Kaien non insistette, osservando per un istante Lavi che gli fece segno di no con la testa, non era il caso di chiedere oltre. Nel mentre il ragazzo si era accostato a Darukia, chiedendole dove fosse la toilette, e aveva mormorato un semplice “grazie” prima di avviarsi fuori dalla sala.
Era una bella casa, la loro, molto più luminosa di quella che condividevano con il vecchio Bookman. Pavimento e pareti erano chiari, in contrasto con i tappeti più scuri – e sui mobili c’erano ninnoli e fotografie che ritraevano le gemelle con quello che doveva essere il loro fratello più grande, quel Byakuya di cui avevano parlato precedentemente. Ce n’era anche una dove erano riuniti con la loro famiglia davanti ad una casa tradizionale e dall’aria parecchio lussuosa, tanto più che anche le gemelle indossavano dei kimono che parevano assai costosi. Avevano tutti un’aria così formale…
La sua attenzione venne attirata da dei fogli che sporgevano da sotto una cartellina, penzolanti da sopra la cassettiera. Li sfilò per sistemarli ma, prima di rendersene conto, la sua attenzione era stata attirata da un nome, stampato in maiuscolo, che troneggiava al di sopra di quello che pareva un dossier. Strinse la carta tra le dita quasi rischiando di accartocciarla, mentre sentiva un blocco allo stomaco che lo fece sudare freddo. Sobbalzò quando sentì la porta della sala aprirsi, e Rukia fece capolino in corridoio tenendo tra le mani delle bottiglie vuote.
«Deak, qualcosa non va?» chiese, fissandolo perplessa e fermandosi a pochi passi da lui.
«No… no, va tutto bene.» rispose il ragazzo, risistemando frettolosamente le carte che aveva trovato sopra la cartellina.
«Quelli sono documenti di mio fratello, per favore, stai attento a non rovinarli o perderli.» disse semplicemente, sorridendo appena e quasi superandolo per andare in cucina.
«Cosa c’entra tuo fratello con quello?» la domanda gli sorse spontanea, facendo bloccare la ragazza sul posto.
«Mio fratello è un avvocato penalista. A quanto ho capito quel tipo è l’imputato contro cui si sta preparando per un’udienza, ma pare sia un pezzo grosso, di quelli che han carrettate di soldi e che son pronti a sborsare cifre pazzesche per comprarsi l’assoluzione. Non saprei dirti altro, Byakuya non parla spesso del suo lavoro con noi.».
Deak l’osservò per una manciata di secondi con un’espressione indecifrabile. Che diavolo aveva combinato ancora quel pazzoide? E dire che aveva sperato di non rivedere né risentire quel nome schifoso per il resto della sua vita…  non seppe dirsi se il fatto che fosse finito sotto processo fosse una cosa bella o meno, per quel che gli interessava bastava che lasciasse in pace lui e suo fratello, di certo nemmeno Lavi avrebbe fatto i salti di gioia a risentire parlare di lui in un ambiente così… vicino a loro come poteva esserlo il piccolo nucleo dei Kuchiki. Si accorse solo in un secondo momento che Rukia lo stava ancora osservando, come in attesa che dicesse qualcosa.
«Ho… ho capito. Grazie mille.» la superò in pochi passi, rifugiandosi in bagno e aprendo l’acqua gelida con cui si bagnò le mani.
Cominciava a girargli la testa, dannazione. E no, non era colpa del poco alcool bevuto quella sera, men che meno la stanchezza che gli giocava brutti scherzi. A distanza di anni, quel pazzoide aveva ancora un forte ascendente su di lui – e Deak era amaramente consapevole che non si sarebbe scrollato di dosso il suo fantasma tanto facilmente. Sciolse i nodi della benda e, senza guardarsi allo specchio, si lavò la faccia più volte, cancellando con un leggero brivido quelle traditrici gocce di sudore che, senza che lui se ne accorgesse, avevano preso ad imperlargli la fronte.
Svanite nell’acqua gelida, che aveva infradiciato anche i suoi capelli. La stessa sorte che sperava subisse quel nodo che aveva preso ad attanagliargli lo stomaco.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Nessuno per me ***


Sono sempre più in ritardo, trallallerò trallallà 8’D no, dai, stavolta è record, non ho mai aggiornato ad orari così umani! Di solito punto verso le 3-4 del mattino, stavolta è da poco passata la mezzanotte! *balla la hula*
Davvero davvero, non so come scusarmi per i mastodontici ritardi per gli aggiornamenti. Sono una cosa vergognosa ;A;” ad ogni modo, stavolta faccio le cose per bene, piuttosto che darmi ai ringraziamenti generici faccio la brava, tempo ne ho!
Dunque, iniziamo con Giuu, HaChiElriC, I r i s, jeanny991, KayeJ, Kuchiki Chan, LadyWolf_, M e g a m i,  matechan, S h a i l a, Sky_Writer, Tiamath, Ucha,  Xyle,  Yami N e zombiecch per averla inserita tra le seguite;
Ale_Victory_chan, Giuu, I r i s, M e g a m i, matechan, N e m e, Ookami san, Sky_Writer, tofuavariato, viola97, Yami N
e _Haily_  per averla inserita tra le preferite;
e ovviamente ringrazio di cuore tutti coloro che lasciano una traccia della loro lettura con le recensioni! Mi fa sempre un piacere immenso leggere cosa ne pensate, grazie davvero! Ma un ringraziamento tutto speciale voglio dedicarlo a M e g a m i e N e m e che, nonostante tutto, incertezze, pare mentali e quant'altro, mi sostengono sempre. Grazie davvero, tesore mie! çwç
Per quanto concerne il capitolo, dico solo... ByaSana çwç o almeno, facciamo qualche passo in quella direzione! Tanto sapete tutti quanto li amo insieme e che inevitabilmente finiranno insieme, neh, è forse lo spoiler più scontato di tutta la storia xD (e a proposito di ByaSana, un veloce ringraziamento va anche a chi ha letto e apprezzato When the Snow falls e When the Snow falls - After the Snow, just the Silence, grazie di cuore! <3)
Bene, direi che è tutto… vi lascio al capitolo! ;D


 

 

Capitolo 9 – Nessuno per me






Una settimana, due, tre, forse un mese. Da quella sera di Capodanno, Rukia aveva notato un sottile cambiamento nel comportamento di Lavi. Certo, in quanto a sorrisi e battute non si risparmiava, ma quella punta di nervosismo si ripresentava ogni qual volta lo trovava solo a pensare, sebbene tentasse di non darlo a vedere. Anche durante le preparazioni agli esami, che avevano deciso di fare in gruppo, parlava poco e niente e, se interrogato, sobbalzava come se l’avessero colto in flagrante e tentasse di giustificarsi per chissà cosa. Ricordava che, dopo il ritorno di Deak in sala, aveva visto quest’ultimo avvicinarsi al fratello e mormorargli qualcosa all’orecchio – e non aveva potuto fare a meno di notare come la schiena di Lavi si fosse improvvisamente irrigidita. Però il resto della sera l’aveva passato tranquillo… almeno, così le era parso. Anche Deak sembrava decisamente più nervoso di prima, da quando aveva visto quelle carte che Byakuya aveva lasciato sopra la cassettiera. Sì, lo conosceva da poco, ma le era parso comunque strano. Dal canto suo Rukia non sapeva esattamente cosa pensare – le pareva un po’ improbabile che Lavi e Deak potessero avere a che fare con quell’individuo finito sotto processo e a cui Byakuya aveva promesso un’accusa spietata come poche altre. Sperava si trattasse di nervoso pre-sessione d’esame, lei stessa ripassava dozzine di volte le stesse cose per timore di dimenticarsele – ma sì, di sicuro doveva essere così. O forse si erano trovati a disagio sapendo che suo fratello aveva a che fare con cani grandi di quella risma.
Accarezzò soprappensiero il morbido pelo di Chappy, il coniglietto dal manto beige che le era stato regalato da suo padre per il suo compleanno – e l’animaletto ricambiò il suo sguardo con le belle iridi scure, pulendosi poi il musetto con le zampe e facendola sorridere. Sojun e Ginrei erano venuti a trovarli il pomeriggio precedente al loro compleanno, fermandosi anche per la notte per poter così passare tutta la giornata insieme. Oltre a quell’animaletto che ora sonnecchiava beato sopra il suo piumone a fiori, aveva ricevuto un caldo cappotto nero contornato in pelo e con il cappuccio decorato con due lunghe orecchie da coniglio, più una lauta mancetta.
Stesso dicasi per Darukia, che a propria volta aveva ricevuto un cappotto grigio e bianco, insieme alla mancia da parte di Ginrei e una scatola finemente decorata con uno di quei carillon per cui lei andava letteralmente matta. Aveva la camera piena di quei gingilli dalle dolci melodie, tutti camuffati in portagioie o scatoline più piccole, ed ogni tanto le piaceva caricarli e ascoltarli per rilassarsi – o, perché no, anche mentre leggeva stesa a letto. Hichigo aveva riso non poco quando l’aveva scoperto, definendola una sdolcinatezza che mal le si addiceva, eppure al suo compleanno le aveva sbattuto in mano un pacchetto goffamente incartato e infiocchettato, dentro il quale aveva trovato nientemeno che una di quelle scatoline che lui tanto derideva. E rise tra sé ad immaginarselo mentre la sceglieva in negozio, magari tentando di non dare troppo nell’occhio. Per scherzo aveva registrato quella melodia nel cellulare, mettendola come suoneria delle sue chiamate, cosa che lo aveva fatto imbestialire quando l’aveva scoperto.
«Non osare mettere questa suoneria da fighetta per me, sai!».
Decisamente, non l’aveva presa bene… e meno male che nessun altro era venuto a saperlo! Non ci aveva pensato un istante a sequestrarle il telefono e cambiarle la suoneria, optando per qualcosa di più adatto a sé – anche a costo di passarle la canzone stessa col proprio cellulare.
«Ecco, questa va già meglio.» aveva commentato, restituendole l’apparecchio con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Le era venuto un mezzo colpo a sentire che razza di canzone aveva scelto, ma in fondo si addiceva bene al suo modo di fare. “Number one”, come ritmo e testo, in fondo non gli stava poi così male.

«Ohi, Darkie, mi stai ascoltando?».
La voce dell’albino la riportò bruscamente alla realtà. Al di là della chiamata per gli auguri di compleanno, in quei giorni si sentivano di quando in quando anche per semplici chiacchierate, se non avevano il tempo di andare l’uno a casa dell’altro. Certo, chat o facebook sarebbero stati decisamente più economici, ma preferivano entrambi le chiacchierate a voce alle sterili chattate su uno schermo.
«Ah? Sì, sì, scusa, stavo pensando.» rispose in fretta la ragazza, scuotendo appena la testa e grattandosi distrattamente la nuca. Si lasciò cadere sul letto, fissando il soffitto bianco, mentre Hichigo riprendeva a parlare.
«Ti dicevo, hai più sentito la barbabietola? Manco più per studio ci fila, eh.».
«Ne sembri quasi dispiaciuto, Hichi.».
«Vorrai scherzare!» esclamò lui, piccato «È solo che ha ancora a casa il mio libro, quello che avevamo usato per antropologia. Altrimenti meno scassa e meglio sto, lo sai.».
«Stavo scherzando, tranquillo.» ridacchiò lei, accennando un sorrisetto che Hichigo non poteva vedere «Ora che mi ci fai pensare, ha ancora un quaderno che gli avevo prestato per alcuni appunti. Magari un giorno di questi gli chiedo se posso passare a prenderli.».
«Non si uccide se schioda il culo da casa e te li porta.» fu l’acida risposta «E sa dove abiti, visto che ci ha fatto l’onore di venire per Capodanno.».
«Vero anche questo. Ma potrebbe dirti che, visto che il libro è tuo, puoi andare tu a prendertelo.».
«Si faccia un giro! Visto che gliel’ho prestato è obbligo suo riportarmelo! Anche se in realtà se se lo tiene non mi fa né caldo né freddo, ma è il principio, capisci?».
«Sì, tranquillo, capisco.» replicò accondiscendente, giocherellando distrattamente con lo smalto del pollice «Però non so… sai, ne parlavo con Rukia l’altra sera. L’aveva incrociato in corridoio dopo la vostra sfida alla Play, e sembrava parecchio nervoso. Anche dopo aver parlottato con suo fratello, mi son parsi entrambi strani. Ma magari è solo una nostra impressione.».
«Se devo essere schietto, quand’è tornato dal bagno era più bianco del muro e con la faccia di uno che sta per sboccare da un momento all’altro. Ma che diavolo ha combinato in corridoio? Dubito che sia stata colpa mia e della batosta che gli ho tirato a Soul Calibur. Tra le righe non è mica una pippa coi videogiochi, eh!».
«Rukia l’ha trovato con i documenti di mio fratello sul caso a cui sta lavorando, magari è rimasto impressionato dal tipo con cui ha a che fare.».
«Ma dai? Non mi pare che sia il tipo che si fa impressionare tanto facilmente. Nemmeno quando gli ho gentilmente proposto una plastica facciale a suon di cazzotti ha fatto una piega.».
Darukia rimase in silenzio, rigirandosi tra le dita una ciocca di capelli. Non capiva nemmeno lei, in effetti, quell’improvviso isolamento da parte di Deak. Certo, si conoscevano da pochi mesi, erano partiti con il piede sbagliatissimo, ma tutto sommato non era un ragazzo da schifare a priori, tanto più che anche durante l’interrogazione era andato in soccorso di Hichigo suggerendogli alcune risposte sottovoce, per non farsi sgamare dal professore. Lei l’aveva fissato stupita, così come l’albino, che alla fine dell’ora gli aveva borbottato un impacciato “grazie per l’aiuto” prima di mettersi a sedere. Anche alla festa di Capodanno si erano comportati bene, non era accaduto nulla che facesse presagire quel rifiuto totale ad avere qualsivoglia rapporto con loro. Avrebbe potuto provare a chiamarlo, in effetti, ma avrebbe corso il rischio di vedersi liquidata dopo poche parole, costretta a sentire il telefono che suonava a vuoto. Piombargli in casa era fuori discussione, lei per prima non era il tipo da fare scenate del genere… era sicura al mille per cento che gli avrebbe dato ancora più fastidio e che la cosa l’avrebbe portato a tagliare definitivamente i ponti con loro. Da una parte si diceva di fregarsene, che un musone del genere era meglio perderlo che trovarlo, che aveva ben altro a cui pensare – tipo gli esami, ecco –, che in fondo non poteva pretendere niente da lui, visto che non avevano chissà che rapporto d’amicizia o altro. Si erano solo trovati a lavorare insieme e lei l’aveva invitato ad una festa per farlo integrare. D’altro canto, però, il sottile sospetto che la causa del suo isolamento fosse proprio qualcosa che riguardava ciò che aveva visto in casa loro si faceva strada sempre più impietoso, complice il fatto che anche Lavi stava prendendo lo stesso andazzo comportamentale del fratello, anche se non a livelli così estremi.
«Daaaaaaaaaaaaaarkie! Ohi, ma sei diventata muta a furia di pensare troppo?».
«Scusa!» farfugliò lei, sobbalzando leggermente.
«Quel rosso ti sta impensierendo troppo.» borbottò l’albino, tirando indietro la sedia della scrivania e poggiando i piedi sopra il tavolo, schivando la tastiera di poco.
«Ma non è vero! È solo che… oh, Hichi, ma sei geloso?».
Lo sentì soffocarsi con la saliva, tossendo rumorosamente per riuscire a riprendersi e tirare fiato, rischiando nel mentre di cadere dalla sedia.
«Ma non dire idiozie!» esclamò, schiarendosi la voce da quel fastidioso blocco di saliva che gli si era incastrato in gola «Cioè, Darkie, parliamoci chiaro. Se dici gelosia pseudo-fraterna ti posso anche dire di sì, accidenti, sai che ti voglio bene e per me sei come una sorellina a cui star dietro.» ignorò quel mormorato “ehi!” da parte di lei, continuando in un borbottio «Ma gelosia amorosa no, eh. Per te rompo il culo a chi ti scoccia e se hai bisogno di una spalla su cui smoccolare le tue pene di cuore non sono forse la persona più indicata, ma ci sono, lo sai meglio di me, ma dirmi innamorato mi pare un po’ troppo.».
«… quindi sei geloso?».
«Fraternamente parlando sì. Che tipo, non vorrei che tu andassi ad ossessionarti per quel guercio del cazzo e poi quello vada a deluderti e fartici star male, e che diavolo.» borbottò tra i denti, grattandosi la testa.
«Non mi ci ossessiono, Hichi, vai tranquillo… ma grazie comunque per la premura, davvero.» replicò lei, sorridendo verso il soffitto «È solo che mi pare strano, capisci? Voglio dire, trova qualcosa in casa nostra che all’improvviso lo fa sparire dalla circolazione… Uno può essere una specie di sociopatico, ma è stata una cosa troppo repentina, non ti pare?».
«Mh, in effetti… hai qualche idea?».
«Potremmo provare a parlarci se lo becchiamo in facoltà durante gli esami, che ne pensi?».
«Penso che tutto sommato non sono così ansioso di rivedere il suo muso da scazzato cronico. Però mi rode che ci abbia solo usati per quel lavoro del piffero e basta.».
«Hichi, non dire scemenze, non ti avrebbe aiutato durante l’interrogazione se ci avesse solo “usati”. Okay, già di per suo ha parecchi problemi relazionali, ma non mi sembra un tipo che usa la gente, quanto piuttosto uno che tenta di tenersene a distanza.».
«Beh, è un fetente. Ti ha fatto gli auguri, per esempio?».
«No, ma del resto non sapeva nemmeno che fosse il mio compleanno.».
Hichigo incassò il colpo, alzandosi con uno sbuffo e andando a stravaccarsi sul letto, facendo cigolare le molle della rete. Tirò un paio di pugni al cuscino per sistemarlo meglio, portandosi un braccio piegato dietro la testa mentre si distendeva.
«E se semplicemente non gli interessasse stare con noi?».
«Possiamo dire di averci provato.» lei scrollò le spalle, massaggiandosi il collo «Se poi ci dirà chiaro e tondo che gli scocciamo e non vuole stare con noi pace, non insisteremo oltre.».
«Uhm, ok. Mettendo da parte quel piffero di guercio, non è che domani pomeriggio saresti libera?».
Lei aggrottò la fronte, sporgendosi verso la cartella per afferrare la propria agendina.
«Aspetta che controllo…» si sistemò il telefono contro la spalla per poter sfogliare meglio le pagine «Oh, ecco. Non ho niente da fare, caro Hichi, sono libera come l’aria… almeno per ora.».
«Meglio così.» replicò lui, lanciando un’occhiata malevola ai libri sopra la scrivania «Per caso potresti passare per darmi una mano con psicometria? Ci sono degli esercizi dove ho perso… boh, un’ora e mezza in tentativi, forse? Sono impossibili!».
Lei ridacchiò, portandosi un piede al ginocchio opposto e tormentando distrattamente gli orsetti ricamati sui calzettoni di lana con le gommine – gentilmente definiti da Hichigo come “l’apoteosi dell’abbigliamento casalingo anti-sesso”.
«Un’ora e mezza senza smadonnare? Stai migliorando!».
«Solo perché non mi hai sentito, dannazione. A parte questo, potresti passare verso… boh, le tre e mezza?».
Lei annuì, segnandosi “Hichi – psicometria” nell’agenda, prendendo gli ultimi accordi. Era un po’ insolito che lui per primo le chiedesse così esplicitamente aiuto, solitamente era assai più restio a mettere in mostra il proprio bisogno di suggerimenti.
Anche se non voleva darlo a vedere, Hichigo temeva ancora i giudizi altrui. Il più delle volte metteva a tacere tutti con una sola occhiataccia, facendo abbassare gli sguardi di chiunque avesse la vaga idea di prenderlo per i fondelli – eppure sapeva che lei non l’avrebbe comunque giudicato, se si fosse “abbassato” a chiederle aiuto. Magari c’era chi lo riteneva quasi ridicolo a farsi dare una mano da una ragazza che in confronto a lui sembrava una pulce, ma nessuno si azzardava a dirgli “bah”. Non era nemmeno una questione di ingoiare il boccone amaro dell’orgoglio, né di sfruttare Darkie per avere la “pappa pronta” per i compiti. Sapeva già di suo di non poter contare su di lei ogni volta, anche se l’indolenza era dannatamente difficile da battere voleva dimostrarle di non essere proprio una testa di legno, di essere in grado di farcela. Specie prima di quell’interrogazione di antropologia culturale si era impegnato, per quanto glielo permettesse la febbre, dicendole che si sarebbe arrangiato per non rischiare di passarle l’influenza. Aveva già rischiato quand’era andato a lavorare dal guercio, meno male che almeno lì aveva ingoiato una pastiglia per farsi abbassare un po’ la febbre. Certo, un paio di domande l’avevano un po’ colto impreparato, ma a grandi linee se l’era cavata abbastanza bene. Lo aveva sinceramente reso contento il fatto che, una volta a posto, Darkie gli avesse sorriso e, con una pacca sulla spalla, si fosse complimentata per quel che era riuscito a fare. Se poi durante l’esame di psicometria se la fosse cavata da solo, riducendo la quantità di suggerimenti da chiederle, quel moto di fastidio all’idea di essere quello che si fa perennemente aiutare se ne sarebbe andato - e magari, così, sarebbe stata davvero orgogliosa di lui – idea che, sottilmente o meno, gli faceva assai piacere. Tanto più che a detta della ragazza non era nemmeno uno stupido, dietro le battute afferrava velocemente i concetti che Darukia gli spiegava. Il suo unico, fetente scoglio era praticamente una mastodontica, decennale pigrizia, da quel momento in cura per una pronta (o quasi) guarigione.
Forse.



** ** **

Senza saperlo, Rukia aveva avuto la medesima idea della sorella. Parlando con Kaien, aveva saputo che avrebbero avuto l’esame di storia dell’arte contemporanea lo stesso giorno in cui lei avrebbe tenuto quello di Paletnologia. Un pizzico di buona sorte aveva fatto sì che lei dovesse tenere l’esame in mattinata, i ragazzi nel pomeriggio, così non se lo sarebbe fatto scappare. Kaien, stando a quanto le aveva detto, non era riuscito a chiedergli niente di più di quanto fosse successo a Capodanno. Lavi sembrava un maestro ad eludere le domande scottanti e, per carità, non era sua intenzione farsi raccontare vita, morte e miracoli. Solo, sperava che il ragazzo se ne uscisse con qualcosa di convincente, rispetto all’evasivo “Niente, non preoccuparti, ho solo discusso con Deak.”.


Uscì dall’aula sospirando pesantemente, sistemandosi la borsa su una spalla. L’esame era stato più duro di quel che pensava, il professore era stato parecchio  severo con le domande. Fortunatamente alcuni collegamenti li aveva ricordati senza problemi, riuscendo così a completare il compito senza particolari intoppi – c’era da dire, però, che aveva dovuto usare tutto il tempo a disposizione, cosa che di rado le succedeva. Declinò gentilmente l’invito di alcune compagne che le avevano chiesto di unirsi a loro per andare a mangiare in un bar poco distante – al di là che, se proprio doveva, preferiva andare al Black Moon – e si diresse al quinto piano, dove c’era la biblioteca. In quel periodo era quasi deserta, molti preferivano stare a casa a studiare, piuttosto che fare a guerra per un posto. Si diresse verso le vetrate, sedendosi sull’ultima sedia del lungo bancone, e attaccò la spina del pc portatile alla presa della corrente. Pure i suoi nervi necessitavano di un po’ di svago, dopo quelle pesantissime tre ore di esame. Navigò un po’ in Internet, dedicandosi poi a qualche partita a Mahjong mentre consumava il bento che si era portata da casa. Il tempo passò lento, stando alla tabella di marcia passatale da Kaien il loro esame sarebbe cominciato di lì a mezz’ora. Aveva quindi un’ora abbondante prima di andare ad appostarsi davanti all’aula C del secondo piano. In quel lasso di tempo, mentre accoppiava distrattamente le tessere colorate, pensava a qualcosa, qualsiasi cosa da poter dire a Lavi senza risultare invadente. Lei per prima non tollerava chi si faceva gli affari degli altri, ma le dispiaceva vederlo allontanarsi così, all’improvviso e senza una valida spiegazione. Se era un torto che gli aveva fatto si sarebbe scusata, ovviamente, ma prima voleva capire qual era stata la causa scatenante di quella repentina volubilità da parte sua. In fondo non credeva che la sua affabilità fosse stata una facciata per ingraziarseli, non avrebbe avuto nemmeno un tornaconto. Più ci pensava e meno ne veniva a capo, per cui preferì concentrarsi sul proprio pasto e sulle combinazioni per terminare la partita.
L’improvviso vibrare del cellulare, nella tasca, la fece sobbalzare. Era il segnale concordato con Kaien, per avvisarla del momento in cui Lavi si sarebbe alzato dal posto per consegnare il compito e uscire. Richiuse il portatile rimettendolo nella borsa e, raccogliendo le proprie cose, uscì velocemente dalla grande sala, strisciando il badge elettronico per aprire il cancelletto. Scese le scale di corsa, sperando che il ragazzo fosse tipo da preparare la borsa con comodo prima di andarsene, magari lanciando un’occhiata a chi invece doveva ancora finire di scrivere. Sperò anche che si fermasse ad aspettare Kaien, magari sarebbero scesi a prendere qualcosa al distributore, e…
«Lavi!».
Lo vide sbucare dalla porta antincendio che conduceva all’atrio del piano, pensieroso, tanto che trasalì quando si sentì chiamare. Non si aspettava di certo di vedergli spuntare un gran sorriso sulle labbra, però.
«Ah, Rukia! Com’è andato l’esame?» chiese, osservandola incuriosito mentre lo raggiungeva e riprendeva fiato.
Lei lo scrutò seria, piantando lo sguardo in quell’unico occhio smeraldino che le era concesso di vedere attirandosi, se possibile, ancora più perplessità da parte del ragazzo, incerto su cosa dire.
«Ehm… è andato male?».
Rukia scosse la testa un paio di volte, stropicciando tra le mani la sciarpa beige di lana. Possibile che fosse così tranquillo? Che tutto quel nervoso fosse dovuto veramente ad una discussione con Deak? Temendo che, se avesse scoperto subito le proprie carte non avrebbe cavato un ragno dal buco, decise di girarci un po’ attorno, giusto per sondare il terreno.
«Non era facilissimo, ma per fortuna erano cose che avevo ripassato abbastanza.» disse, massaggiandosi il collo «Tu, invece? Andata bene?».
Il ragazzo spalancò le braccia, lasciando andare un sospiro e annuendo appena.
«Già. Però da noi c’era qualche disperato che ha rischiato di farsi sgamare con i bigliettini. Pensa che uno si era perfino scritto appunti sulla caviglia, io non ci avrei mai pensato!».
Rukia continuava a guardarlo, ascoltando giusto il necessario per non perdere totalmente il discorso. Non pretendeva di conoscerlo come le proprie tasche, ma c’era qualcosa che le faceva capire che tutta quella spensieratezza era una colossale balla. Forse era troppo abituata all’occhio critico di Darukia, alla sua strana inclinazione a voler scavare nella psiche di chi aveva davanti, quasi come se non si fidasse della superficie, optando per ciò che stava sotto la facciata. Con Lavi era la stessa cosa, più che altro perché trovava paradossale pensare che si fosse dimenticato all’improvviso di ciò che era successo a Capodanno.
«La sbronza a Black Jack e a poker, alla festa, non ti ha annebbiato completamente i circuiti mentali, per fortuna.» commentò con un sorriso accondiscendente, incrociando le braccia al petto.
Gli era stato dettagliatamente raccontato come i ragazzi, ad eccezione di Ichigo e Deak, fossero cascati sui materassi come pere cotte, sfatti dal sonno, il liquore e l’euforia. Grimmjow aveva pure teso le labbra verso Tatsuki in cerca del “bacio della buonanotte, buona mattina, buon inizio anno” e di qualcos’altro che il ragazzo non era riuscito a dire, addormentatosi in pochi istanti.
Rukia e la sorella avevano scavalcato Hichigo che russava rumorosamente, Kaien che mormorava qualcosa a Kukaku circa il fatto che beveva troppo, Renji che sbavava sul cuscino dormendo con la bocca spalancata e altre povere anime profondamente in coma per raggiungere il corridoio per le camere quando, voltandosi un’ultima volta, avevano scorto Deak guardare il fratello pensieroso, quasi preoccupato. Di quello, però, nessuno gli aveva fatto parola.
«Ah, non me lo ricordare, ho avuto un mal di testa pazzesco tutto il giorno successivo.» fece un gesto con la mano, come a scacciare il pensiero «Almeno non ho preso a gironzolare per la casa, quando dormo fuori divento sonnambulo.».
«Mi avresti fatto prendere un colpo se ti avessi trovato a zonzo per la casa addormentato.» annuì lei, prendendo tempo «Tuo fratello, invece? Tutto bene?».
Lavi scrollò le spalle, assentendo con un altro sorriso. Invitò la ragazza a scendere al pian terreno, visto che voleva prendersi una lattina di limonata. Scesero le scale in silenzio, aspettando pazientemente che l’addetto finisse di ricaricare il distributore prima di servirsi. Rukia declinò l’offerta di qualcosa da bere, poggiandosi al corrimano in ferro mentre il ragazzo si chinava per prendere la lattina dal vano in cui era caduta. Non aveva dato cenni di nervosismo quando l’aveva vista, anzi, le era parso spensierato come al solito… il dubbio di essersi sbagliata continuava a balenarle per la mente. E se avesse fatto veramente cilecca? Se le sue fossero state veramente semplici fantasie condizionate da Darkie e Deak? Lavi continuava a bere tranquillo, deglutendo lunghi sorsi della bibita fredda, per poi leccarsi le labbra e buttare la lattina nel cestino poco distante. Si sentiva addosso quello sguardo attento, quasi insistente, ma si risolse pensando che, probabilmente, stava riflettendo su tutt’altro e s’era incantata a guardare nella sua direzione.
«Avete fatto pace, tu e Deak?» chiese improvvisamente Rukia, poggiando il pugno chiuso contro la guancia.
«Avevamo litigato?».
Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse rendersene conto. Che idiota! Aveva giustificato il nervoso di quei giorni dando la colpa ad un litigio col fratello, perché era stato così stupido da parlare prima di pensarci?
«Avevate litigato, no? Eravate entrambi parecchio nervosi, in questi giorni.».
«Oh… sì, sì, tutto a posto. È che io e Deak discutiamo spesso e stavolta abbiamo alzato un po’ i toni, ma non era proprio un litigio serio, tutto qui.».
“Fa’ che ci creda, fa’ che ci creda, fa’ che ci…”

«Riguardo ai documenti di mio fratello che Deak ha trovato?».
Lavi rimase spiazzato per un istante. L’aveva sottovalutata, non pensava che se ne fosse davvero accorta. Che razza di figura ci stava facendo? Sentiva la tensione tendergli ogni singolo muscolo e il sudore freddo colargli lungo il collo. Era stato stupido da parte sua, prenderla così sottogamba era stato un errore. Rukia non era sciocca, e probabilmente anche Darukia se n’era accorta. Nascose velocemente le mani nelle tasche del giubbotto, stropicciando tra i pugni la fodera interna con fare nervoso. Forse era ancora in grado di salvarsi la faccia da quella scomoda situazione, però.
«No, Rukia, credimi. Era rimasto impressionato a vedere che tuo fratello deve andare a dar battaglia in tribunale ad un tizio del genere, ma davvero, non c’entra nulla!» disse, ostentando il sorriso più convincente che gli riuscì «Abbiamo discusso sul regalo per il nonno, aveva sforato con il budget che gli avevo dato da parte mia e mi aveva fatto un po’ incavolare. Una stupidaggine, come puoi vedere. Magari è successo anche a te una cosa simile, con tua sorella.».
Rukia scrollò le spalle tutt’altro che convinta, soppesando le parole per non irritarlo – fino a quel momento non l’aveva mai visto rispondere male a qualcuno, ma…
«Lavi, davvero… non è mia intenzione ficcanasare negli affari tuoi e di tuo fratello. Ma se abbiamo fatto qualcosa di male vorrei saperlo, fosse anche solo per chiedervi scusa.» mormorò, cauta «È dalla sera di Capodanno che siete strani, tutti e due, e di certo non per una questione di soldi che uno deve all’altro. Se fosse quella la vera ragione, non avreste tentato di evitarci così palesemente. Te l’ho detto, non pretendo di sapere cosa vi è successo… solo, vorrei sapere se è colpa nostra.».
Stavolta il ragazzo non rispose. Sviò lo sguardo senza far nulla per nascondere il proprio nervosismo – ma non ce l’aveva con Rukia, in fondo lei non aveva colpe, nemmeno quella, in fondo, di avergli riaperto inconsapevolmente piaghe che da anni tentava di cicatrizzare. Strinse di più i pugni nelle tasche, deglutendo prima di riprendere parola, senza guardarla.
«Te lo ripeto, Rukia, né tu né tua sorella c’entrate.» replicò con un tono più secco di quel in realtà intendeva usare «Non so che idee vi siate fatte, ma davvero, voi due non c’entrate nulla, non dovete farvi perdonare né da me né da Deak. Ora scusa, ma devo andare a prendere dei testi per il vecchio.».
Le rivolse una rapida occhiata e un cenno della mano in segno di saluto, prima di voltarle le spalle e dirigersi a passo spedito verso l’uscita della facoltà, ignorando la ragazza che tentava di richiamarlo indietro, invano.

Una volta nell’autobus, con la fronte premuta contro il finestrino freddo del mezzo, Lavi si diede dell’idiota. Si era lasciato cogliere impreparato dalle parole di Rukia, non si aspettava di essere così poco credibile e, se l’idea era quella di scrollarsi di dosso ogni dubbio da parte di lei, l’unico risultato ottenuto era stato quello di farla insospettire ancora di più, probabilmente. Premette il pugno chiuso contro la benda, digrignando i denti – stupido, stupido, aveva commesso un madornale errore. Fino a quel momento era riuscito a tirare avanti senza farsi problemi di sorta nei confronti degli altri, tenendo le distanze quel che bastava per far sì che nessuno s’interessasse dei fatti suoi. Deak, d’accordo, era un caso a parte: lui le distanze le teneva a prescindere, disilluso e menefreghista com’era. Infatti gli era parso strano che avesse accettato non solo di lavorare con Darukia e Hichigo, ma anche di partecipare alla festa di Capodanno a casa della ragazza, sebbene con parecchia riluttanza. Per lui studiare a casa di qualche compagno di corso era una cosa fuori da ogni schema, abituato com’era alla sua scrivania in legno chiaro, con quel cuscino che non contribuiva a rendere più comoda la permanenza su quella sedia con le ruote che cigolavano in maniera assai preoccupante, o con quel bracciolo sinistro che sembrava sul punto di staccarsi ogni volta che vi si appoggiava. La sua “zona studio” era l’unica parte di mobilio che aveva chiesto al vecchio di poter portare con sé durante il trasloco, quella scrivania all’apparenza così semplice che, per qualche istante, il vecchio Bookman si era chiesto il perché di tanto attaccamento. Ma sapeva anche che Lavi non faceva né chiedeva mai nulla senza un motivo specifico, per cui si era limitato ad acconsentire senza domandargli nulla. Non sapeva, lui, quanti colpi avesse sopportato quel tavolo, quante lacrime avessero bagnato la sua superficie, quanta bava ci avesse versato nelle pennichelle quando studiava troppo, né quanti scarabocchi infantili, rappresentanti i due gemelli sereni, una famiglia, qualsiasi cosa passasse nella testa di Lavi nei momenti in cui pensava, l’avessero decorato.
Lavi sapeva a memoria tutte le macchie e le venature del legno, sorrideva quasi con nostalgia passando le dita sulle rigature prodotte da un taglierino mentre faceva alcuni lavoretti, allora inconsapevole che avrebbe dovuto mettere un ripiano di protezione sotto. Quanto s’era dispiaciuto di averlo rovinato! Eppure, a distanza di anni, gli veniva spontaneo sorridere, ripensandoci. Quando si era trovato con Kaien e Rukia, a casa del primo, gli era parso così strano lavorare su un tavolo scuro, seduto su una sedia con un cuscino veramente morbido e con la luce del grande lampadario che illuminava tutto il piano di lavoro. E le battutine, la bassa musica di sottofondo che Kaien canticchiava tra le labbra di quando in quando, il tintinnare dei bicchieri quando qualcuno si prendeva da bere, le domande che si rivolgevano l’un l’altro alla fine dei ripassi, tutto per lui era strano e nuovo. Ma non era riuscito neanche allora a distogliere la mente dalle parole che gli aveva rivolto suo fratello all’inizio di quell’anno che si prospettava tutt’altro che buono.
Scese svogliatamente dall’autobus per dirigersi verso casa, insaccandosi nelle spalle. Già, alla fine Rukia e la sorella non c’entravano nulla con quell’individuo. Non avevano motivo di temerle, di tenerle così a distanza. Eppure Deak gliel’aveva fatto sottilmente notare – quella era gente con cui non si poteva scherzare, e già le gemelle non sapevano contro chi loro fratello si era messo. Forse avrebbe dovuto avvertirle, si disse. Ma avvisi del genere avrebbero comportato anche domande scottanti che lui preferiva evitare. Se lui e Deak volevano continuare a vivere più o meno in pace, dovevano attenersi ai classici metodi. Conservare, tra quei legami, un blando filo a tenerli uniti.

 

** ** **



Sapeva che l’orario di lavoro era finito da un pezzo. Oh, lo sapeva eccome, il giovane Byakuya, eppure pareva tutt’altro che intenzionato a chiudere i fascicoli per porre fine a quella giornata. Il silenzio nel suo ufficio era rotto solo dal ritmico rumore del pendolo che scandiva il tempo che, talvolta, gli pareva passasse troppo lentamente. Si massaggiò leggermente gli occhi e le tempie, cercando di rilassarsi almeno per qualche secondo. Stava tardando anche troppo, forse. Le impiegate dell’ufficio contabilità erano andate via da un pezzo, com’era nel loro orario usuale, soltanto Hisana era ancora fuori alla sua scrivania, in attesa che uscisse anche lui. Non era certo la prima giornata del nuovo anno in cui lavoravano così a lungo. Quel caso lo stava tenendo più occupato di quel che credeva, c’erano dozzine di fascicoli da esaminare, prove da valutare, rapporti della polizia da leggere. Nel pomeriggio era passata anche Yoruichi, sua vecchia amica e agente incaricata di fornirgli tutto il materiale necessario per quell’udienza. Aveva messo non in poca difficoltà la povera Hisana, che non sapeva nulla di quella sua bizzarra abitudine di andare e venire quando le capitava, anche senza appuntamento. Aveva tentato di fermarla, dicendole che Byakuya era molto occupato e che non poteva riceverla, dal momento che era anche senza appuntamento – ma lei aveva sorriso, assicurandole che a sentire il suo nome “Byakuya-bo” avrebbe di sicuro accettato di farla passare, cosa che era effettivamente avvenuta dopo poche parole scambiate sulla linea interna. Reprimendo un certo fastidio, si ritrovò a pensare che Yoruichi non si sarebbe mai cavata l’abitudine di chiamarlo “piccolo Byakuya” anche mentre lavorava, per di più davanti alla sua segretaria. Accidenti a lui e a quando le aveva dato occasione, da piccolo, di affibbiargli un soprannome tanto stupido.
Lanciò una rapida occhiata ai fascicoli che la poliziotta aveva lasciato sulla sua scrivania, denominati con la sua grafia un po’ tondeggiante, per poi sospirare e comporre il numero che lo collegava a Hisana. Il telefono suonò a vuoto, lo sentiva a stento al di là della porta chiusa, ma la sua segretaria non rispondeva. Soppesò che forse era in bagno, al che preferì uscire direttamente, spegnendo la lampada che illuminava la scrivania e riponendo tutti i rapporti in un cassetto che richiuse a chiave. Quando si ritrovò nella saletta si voltò subito verso il tavolo di Hisana, trovandolo vuoto. Il monitor del pc mostrava alcune schede che stava ultimando, ma di lei nessuna traccia. Era chino a scrutare quanto scritto, quando sentì dei passi incerti avvicinarsi, bloccarsi, e venir sostituiti dalla voce della giovane.
«D-dottore! M-mi dispiace, ero andata un istante in bagno… aveva bisogno di qualcosa?».
Byakuya rialzò lo sguardo su di lei, bloccandosi per un attimo: la ragazza si teneva una mano al ventre e il suo incarnato era tanto pallido che sul momento lo stupì. Osservandola meglio, notò che gli occhi erano vagamente acquosi e che respirava affannosamente.
«… Hisana, sta male?».
Lì per lì si diede dell’idiota, che domanda era?! Si vedeva lontano un miglio che non era il ritratto della salute, se ne rendeva conto da solo, ma…
«Oh, no, è solo un po’ di… indisposizione.» replicò lei arrossendo, superandolo per poter tornare al proprio posto.
«Spenga tutto, Hisana.» disse lapidario, scrutandola.
La sua poteva anche essere indisposizione per via del ciclo, con due sorelle più piccole non era certo nuovo a cose del genere, ma a suo parere era molto di più. In quei giorni avevano lavorato a lungo e a ritmi serrati per poter raccogliere il maggior quantitativo di prove utili per il processo, e Hisana non aveva avuto un attimo di pausa. Aveva accettato e si era detta pronta ad un lavoro del genere, certamente, ma era umana pure lei, non era di sicuro immune a stress e stanchezza, men che meno all’influenza che aleggiava nell’aria da qualche giorno. Zittì con uno sguardo la debole protesta della ragazza, che voleva finire almeno quel foglio di lavoro, assicurandosi che effettivamente spegnesse il pc e si alzasse da quella sedia.
La osservò mentre, con un brivido, si metteva addosso il cappotto e si avvolgeva la sciarpa intorno al collo, acciambellandola per bene per non lasciare spiragli scoperti, e ricambiava il suo sguardo come a dirgli che era pronta. Traditori furono i gradini che per poco non la fecero ruzzolare fino al pianterreno, se lui non fosse stato abbastanza pronto di riflessi da fermarla per un braccio. Sollevandole i ciuffi di capelli posò una mano sulla sua fronte, rendendosi conto che scottava come il fuoco. Da quanto stava così male? Possibile che non se ne fosse minimamente accorto nessuno, nemmeno le altre impiegate? La sorresse fino all’uscita, facendola appoggiare ad una delle colonne dell’ingresso mentre chiudeva a chiave gli uffici.
«Da quanto ha la febbre?».
Hisana rimase in silenzio per diversi istanti. Si era testardamente imposta di non cedere, di non assecondare la fatica e la stanchezza, ma alla fine la sua resistenza aveva avuto la peggio. Ma lei aveva accettato quel lavoro pur sapendo che sarebbe stato stressante, non voleva dargli motivo di credere di essere una incapace di sopportare un po’ di stress fisico e mentale, ne andava un po’ anche del suo orgoglio. Non ebbe nemmeno il coraggio di guardarlo in viso, mentre quel vago senso di nausea le attanagliava la gola e lo stomaco.
«È solo stanchezza, dottore… davvero, non è niente di grave.».
Peccato che lui non fosse dello stesso avviso. La scrutò ancor più gravemente di prima per diversi istanti, prima di tirar fuori dalla tasca le chiavi della macchina parcheggiata poco distante e aprirla, per poi avvicinarsi per riprenderla sottobraccio.
«L’accompagno a casa, venga.».
Hisana lo guardò sconcertata e agitata, assumendo un vago colorito roseo e agitando nervosamente una mano.
«Oh, no, no, dottore! Non serve, posso… posso andare in autobus.».
«Non se ne parla nemmeno. In queste condizioni non lascerei uscire nemmeno le mie sorelle.» borbottò, cercando di ingoiare quel vago senso di colpa per non essersi accorto prima delle condizioni della giovane «Non ho intenzioni losche, ma questo lo sa anche lei. Mi permetta di riaccompagnarla a casa, per favore.».
Lei si lasciò docilmente accompagnare alla macchina, prendendo posto sul sedile in pelle senza riuscire a celare un certo nervosismo: se la nausea si fosse fatta più impellente durante il viaggio, avrebbe seriamente rischiato di rovinare quei sedili… e lei non aveva di certo i soldi per ripagargli i danni! Decise quindi di portare la testa indietro, contro il poggiatesta, e di chiudere gli occhi. Doveva assolutamente evitare di pensare alla possibilità di dar di stomaco proprio in macchina, con tutta probabilità non avrebbe avuto nemmeno più il coraggio di farsi vedere in faccia da lui. Nel mentre, Byakuya aveva preso posto a propria volta, alzando di qualche grado il riscaldamento della macchina. Lanciò uno sguardo dubbioso a Hisana, trovandola con gli occhi chiusi, e mise rapidamente in moto per portarla a casa. Badò bene di tenere una guida abbastanza fluida, onde evitare improvvisi sbalzi che peggiorassero la situazione. Sospirò snervato ad un incolonnamento al semaforo, intoppo che per fortuna non gli portò via troppo tempo. Una volta arrivato sotto casa sua parcheggiò poco distante, scendendo per primo e facendo il giro per andare ad aiutarla.
«Hisana…» aprì la porta e le toccò leggermente la spalla, per farle capire che erano arrivati.
Lei riaprì gli occhi, stordita, volgendo leggermente lo sguardo verso di lui. Si scusò per essersi assopita per quei pochi minuti, cercando di scendere senza inciampare sui propri passi, e accennò un inchino verso Byakuya.
«La ringrazio davvero, dottore. Mi dispiace averla disturbata.» mormorò a testa china, convinta che si sarebbe voltato e se ne sarebbe tornato in macchina dopo un rapido saluto. Quanto si sbagliava!
«Nessun disturbo, Hisana. Ora però saliamo, non è bene star fuori al freddo.» rispose lui, porgendole la mano.
Se possibile, Hisana sentì le mani sudare ancora di più. Voleva evitare di disturbare Byakuya a tal punto, avrebbe preferito di gran lunga arrangiarsi. Scioccamente si vergognava perfino all’idea di rigettare chiusa in bagno, se lui era in casa! Eppure sapeva da sé che sarebbe stato un miracolo arrivare fino al terzo piano senza trascinarsi su per le scale. Accettò quindi, ingoiando l’imbarazzo, l’aiuto che Byakuya le offriva, lasciando che lui l’accompagnasse fino a casa. Non sapeva dirsi se lo facesse per pietà o altro, lui che le era parso sempre così austero e distaccato non sembrava veramente il tipo che si scomodava addirittura ad accompagnare a casa la segretaria malaticcia. O forse era semplicemente lei che l’aveva giudicato fin troppo menefreghista. Tirò un leggero sospiro di sollievo a vedere il pianerottolo di casa e, dopo pochi istanti, il corridoio che portava all’interno dell’abitazione. Byakuya si tolse velocemente le scarpe e l’aiutò a fare altrettanto, accompagnandola poi in camera. Prese il soprabito che ancora non aveva tolto e glielo posò sopra una sedia poco distante, lasciandola poi sola per darle il tempo di cambiarsi, non prima di essersi fatto dire dove tenesse il termometro.
Hisana scostò svogliatamente le coperte, sedendosi sul morbido materasso che si piegò appena sotto il suo peso. La testa le martellava da morire, dandole la spiacevole sensazione che, a furia di colpi, le esplodesse. Si sporse per prendere da un cassetto un paio di calzettoni pesanti, che indossò a scaldare i piedi gelidi, e tentò di sistemarsi sotto le coperte. Byakuya tornò dopo poco con una tazza fumante in una mano e nell’altra un termometro, che le porse per misurarsi la febbre mentre, di suo, sistemava meglio le coperte per assicurarsi che non restasse fuori nemmeno un piede.
Di per contro nemmeno Byakuya sapeva spiegarsi perché, esattamente, stesse facendo tutto quello. Quante volte si era ritrovato a fare più o meno le stesse cose con Rukia e Darukia, quand’erano più piccole? Talvolta si era ritrovato anche a dormire seduto a terra perché la malata di turno non voleva che andasse via. Ma Hisana non era sua sorella, era solo una segretaria. Eppure aveva un’apparenza così fragile che l’aveva spinto a prendersene cura, e forse quel che sentiva allo stomaco era il leggero e fastidioso senso di colpa per averla sfruttata così senza rendersi conto di quanto la cosa l’avesse portata a star male. Insomma, solo perché aveva accettato di fare ore extra non significava che fosse immunizzata da tutto, e i risultati s’erano visti. C’era da dire, a suo favore, che aveva resistito ad un mese serrato che aveva messo a dura prova anche lui.
Mentre Hisana si misurava la febbre, ne approfittò per guardarsi un po’ attorno: la camera era molto asettica, tinta di un beige molto chiaro e con un arredamento che verteva prettamente sul bianco crema. Non teneva molti ninnoli, giusto qualche quadretto e un carillon del vento attaccato vicino alla finestra, sotto la quale c’era una scrivania con una mensola su cui erano messi in fila alcuni libri e un vasetto decorato a fare da fermo. Poco distante c’era un'altra mensola con alcune fotografie, dei fiori e degli incensi – e no, contrariamente a quel che gli era parso sul momento, non erano ritratti di spensierate passeggiate in montagna o pigre giornate al mare. Ogni portafoto conteneva un singolo ritratto, erano quattro in tutto. Hisana sembrò indovinare dov’era diretto il suo sguardo, e si portò le coperte appena sotto il mento, per lasciare la bocca libera.
«I miei genitori e i miei nonni.» disse semplicemente, stringendo per un attimo il termometro che teneva sotto il braccio.
«… mi dispiace.» replicò aggrottando leggermente le sopracciglia, grato al provvidenziale “bip-bip” del termometro che interruppe quel silenzio imbarazzato che era calato tra loro. Lo prese dalla mano di Hisana e lo guardò attentamente, lasciandosi scappare un sospiro «38,6°. Non so se complimentarmi o meno per aver resistito fino a questo punto.».
Lei arrossì, nascondendo metà del viso sotto le coperte.
«Mi scusi…».
«Non ne vedo il motivo, davvero.» ribatté, poggiando il termometro sul comodino, poco distante dalla tazza «Mi sono permesso di preparare del tè caldo. L’aiuterà a rimettere un po’ a posto lo stomaco.».
Hisana annuì nuovamente, dopo aver lanciato un rapido sguardo alla scodella che ancora fumava. Non sapeva davvero cosa dire o fare, a parte tenere lo sguardo basso per l’imbarazzo. Byakuya non l’aiutava di certo, silenzioso com’era non le dava il minimo spunto per un’eventuale conversazione. Lo vide quasi per caso mandare un messaggio al cellulare, dopo aver controllato l’ora. Probabilmente la fidanzata lo stava aspettando…
«Non so davvero come ringraziarla, dottore… e scusarmi per il disturbo che le ho arrecato.» mormorò, stropicciando un po’ le coperte.
«Hisana, ribadisco, non mi avete causato nessun fastidio. Ho avvisato le mie sorelle che tarderò, quindi nemmeno loro avranno da preoccuparsi per aspettarmi. Piuttosto, c’è qualcuno che può aiutarla? Non so, un… parente, un vicino…?».
Lei scosse lentamente la testa, sfregando la nuca contro la morbida federa del cuscino. Non aveva nessuno, proprio come tempo prima gli aveva detto che, in fondo, non doveva rendere conto a chicchessia di ciò che faceva, o se tardava a tornare a casa. E per un attimo, Byakuya desiderò non averglielo mai chiesto.
«Ma domani starò bene, davvero, non c’è bisogno di…».
«Non se ne parla assolutamente.» la zittì lui, severo «Al di là del rischiare di attaccare l’influenza a qualcun altro, è meglio se in questi giorni pensa solo a riposare. La sua dedizione al lavoro è degna di lode, davvero, ma non per questo deve permettersi di trascurarsi.».
Hisana sprofondò ancora di più nelle coperte. Lei voleva solo fare del proprio meglio per tenersi stretto quel lavoro, anche se Byakuya l’aveva ormai assunta a tempo indeterminato non voleva dargli motivo di scontento del proprio lavoro. Pigolò qualche scusa a tal proposito, ottenendo solo una ferma negazione da parte sua. Tagliando nettamente il discorso, l’uomo si fece dire dove tenesse le medicine, così da poterle portare almeno un’aspirina. Nel corridoio incrociò lo sguardo dorato di Shiro, che lo fissava quasi rabbioso per quell’intrusione. Ma non si sarebbe lasciato fregare una seconda volta, lui, non era tipo da cadere due volte nello stesso errore.
«Bada bene, palla di pelo, c’è la tua padroncina che sta male, evita di farla preoccupare ancora di più.» borbottò tra i denti, sorpassandolo per andare a prendere il blister di medicinali nell’armadietto del bagno e un bicchiere d’acqua.
Quando rientrò in camera trovò il gatto acciambellato sulle coperte, vicino ai piedi di Hisana, e la ragazza con gli occhi chiusi. Prese la sedia dalla scrivania e, tolto il cuscino, vi depositò con cautela il bicchiere con le medicine, mettendo il tutto a portata di mano. Le iridi ambrate del micio lo fissavano ancora, al che gli rivolse una smorfia e uscì, lasciandole un semplice biglietto vicino alla tazza del tè, coperta da un piattino per poterne conservare il calore.

Spero si rimetta presto. Se mai dovesse aver bisogno di qualsiasi cosa, non esiti a chiamarmi. Il numero lo trova sul retro. Passerò domani in serata per vedere come sta.
Con i migliori auguri,

Byakuya Kuchiki


Una volta in strada, Byakuya si fermò per qualche istante ad osservare l’edificio. Non pensava che, quando diceva di non dover render conto a nessuno, intendesse dire che tutta la sua famiglia era morta. Doveva ammetterlo, c’era un po’ rimasto male per lei, così giovane e già senza più nessuno al mondo. Lui, anche se viveva distante, aveva ancora suo padre e il nonno, nonché le gemelle che lo aspettavano a casa, ogni sera. Chissà com’era, per lei, tornare a casa e farsi accogliere sempre dal buio e dal silenzio. Oppure da quel dispettoso ammasso di pelo dagli occhi dorati. Scosse leggermente la testa, prima di rimettersi in macchina e partire verso casa. La giornata e quell’imprevisto stavano cominciando a pesare persino a lui. Aveva sempre dato per scontato il calore delle persone che lo accoglievano con un sorriso, fino a quel momento ignaro di quanto fosse, in realtà, prezioso ed insostituibile.

 

** ** **

 

Rukia, davvero, scusami. Non era mia intenzione trattarti così oggi pomeriggio, ma… mi sono un po’ innervosito, e lo stress di questi giorni non ha contribuito. Mi dispiace, non dovevo sfogarmi così su di te, tanto più che ti eri preoccupata anche di scusarti per qualcosa di cui non hai assolutamente colpa. Come messaggio ti sembrerà un po’ sciocco e vuoto… ma chiamiamolo premessa: mi scuserò come si deve di persona, ammesso che tu voglia parlarmi ancora.
Ti chiedo scusa, di nuovo.
Lavi
.”


Rukia lesse un paio di volte quel messaggio, seduta a gambe incrociate sul letto. Sul momento aveva gettato il cellulare un po’ amareggiata, ma stando alle sue parole sembrava veramente dispiaciuto. Lei per prima c’era rimasta male, quel pomeriggio, quando s’era vista piantare in asso con una scusa palesemente falsa. Cominciava a covare il dubbio che i problemi di Lavi fossero, probabilmente, più grandi di quel che temeva. In cuor suo sperava davvero che il ragazzo non si offendesse per i suoi tentativi di aiutarlo. Perché dietro a quelle negazioni, quel nervoso, quegli sguardi frustrati e stizziti, sembrava scorgere solo una muta e disperata richiesta d’aiuto.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Distanze ***


No, vabbé, famo record di ritardi :’’D Chiedo umilmente perdono! Ma come vedrete questo capitolo è lungo, ma luuuuuuuuuungo! Spero che comunque non vi annoi, davvero. Ci tenevo ad aggiornare prima di andare a Lucca, senza contare che sono già parecchio in ritardo rispetto all’aggiornamento precedente D:
Ma bando alle ciance, signori. Inutile dire che ringrazio di cuore tutti quelli che seguono questo ciarpame di storia (:’D) e che ancora hanno la forza e il coraggio per andare avanti e sostenermi nonostante i numerosissimi periodi no: grazie davvero!
Come sempre, l’invito a farmi sapere cosa ne pensate è più che valido! Davvero, fatemi sapere se per voi sto andando troppo a passo di lumaca, troppo veloce, troppo… boh. Insomma, fatemi sapere çwç <3 Ah, sì, un’ultima nota! Ludovico Einaudi mi è stato di grande aiuto per la parte con Byakuya e Hisana (MA VA’), specie con le note di Oltremare, Primavera e Divenire. Anche se in generale sono stupende tutte, vi consiglio davvero di ascoltarle, se amate il genere <3
Detto questo mi eclisso e vi lascio alla lettura <3


Capitolo 10 – Distanze






Quella sera, mentre cenavano, il vecchio Bookman non poté fare a meno di notare la tensione che c’era a tavola. Deak mangiava in silenzio come sempre, lanciando rapide occhiate al televisore mentre ascoltavano il Tg serale, ma Lavi… Lavi sembrava su un altro pianeta. Si vedeva che mandava giù i bocconi tutt’altro che convinto, come se a bloccare il cibo ci fossero quelle parole che, insistenti, premevano dalla sua lingua per uscire. Di solito era il primo a commentare le notizie, mentre quella sera non aveva alzato una sola volta lo sguardo sulla televisione, che proseguiva imperterrita nella sua programmazione. Il vecchio depositò le bacchette sull’apposito appoggio, prima di ripulirsi la bocca e piantare gli occhi scuri sul nipote più pensieroso.
«Ti vedo preoccupato, Lavi.».
Il ragazzo sobbalzò leggermente, fermando a mezz’aria la corsa delle bacchette dalla ciotola alla bocca. Ricambiò per qualche attimo lo sguardo dell’anziano, per poi scuotere la testa.
«Non è niente, nonno. Pensavo solo… che forse ho trattato troppo male una persona che voleva aiutarmi.» mormorò, riprendendo a mangiare.
Per la prima volta da quando avevano iniziato a mangiare, Deak prese parola lanciandogli un’occhiata scettica.
«Che avevi, eri rimasto indietro col compito?».
Lavi negò nuovamente con un cenno del capo, alzando il viso a cercare quello sguardo smeraldino simile al suo, facendogli capire che forse gliene avrebbe parlato più tardi.
«Ti sei scusato, allora?» chiese il vecchio Bookman.
«Certo, certo.» replicò prontamente il ragazzo «È che mi dispiace davvero, sono stato brusco e non se lo meritava. Ma con lo stress di questi giorni, l’esame e via dicendo… le ho risposto un po’ male.».
«“Le”?» ripeté il gemello «Stai forse parlando di Rukia?».
Stavolta gli toccò annuire, dopo qualche istante d’esitazione. Non avrebbe retto ancora a lungo, voleva parlare, dannazione, dirgli quel che pensava. Ma non voleva far impensierire anche il vecchio, non era decisamente il caso vista anche l’età non proprio giovanissima. Cercò d’ignorare il verso stizzito di Deak, che aveva stretto l’occhio fino a renderlo una fessura da cui quell’iride verde lo scrutava con evidente rimprovero. Non era così che doveva comportarsi, Lavi. Stava rischiando di mandare all’aria anni di duro lavoro, aveva faticato tanto per rendersi insensibile al resto del mondo. Non doveva lasciarsi influenzare, assolutamente – e per farlo doveva evitare qualsiasi legame. Era difficile, tanto difficile, e Lavi se ne rendeva conto ogni giorno di più. Eppure non voleva rischiare ancora di stare così tanto male. I suoi precedenti bastavano e avanzavano, non c’era bisogno di aggiungere altri problemi alla lista. Finì velocemente il proprio pasto e si alzò per portare via i piatti, andando a rifugiarsi in cucina per lavarli. Il vecchio Bookman fece per seguirlo, ma un cenno di Deak lo portò a desistere: ci avrebbe parlato lui, lasciò intendere, giustificando quell’intesa tra loro alla classica complicità tra gemelli che condividevano anche i medesimi trascorsi.
Si appostò per una manciata di minuti alla porta della cucina, osservando il fratello che era del tutto ignaro dell’attento esame a cui Deak lo stava sottoponendo – del resto non poteva vederlo, considerato il fatto che l’altro stava alla sua destra, dal lato dell’occhio bendato. Deak cercò di capire cosa diavolo gli stesse passando per la testa, ma invano: lui non riusciva a comprendere quel ragazzo dal viso identico al suo, ma con uno sguardo cento volte più triste e vulnerabile. Si rese conto che, pur condividendo i lineamenti, quegli stessi capelli rossi e le iridi verdi, sebbene fossero nati dalla stessa madre, fossero stati insieme sin da quand’erano nel ventre di quella donna, lui non conosceva affatto quel ragazzo chiamato “Lavi”. Anni e anni passati ad isolarsi da tutti, anche da lui, l’avevano portato inconsciamente ad allontanarsi anche da quel solido legame di sangue che li teneva uniti, almeno sulla carta. Aggrottò per un istante le sopracciglia, senza staccare lo sguardo da quel profilo così simile al suo: aveva fatto davvero bene a trincerarsi dietro al cinismo e all’indifferenza anche con suo fratello? Lavi aveva cercato tante volte il suo sostegno, anche da bambini, in quelle notti in cui si rintanava nel suo letto e gli stringeva il pigiama, ma lui aveva sempre continuato a voltargli la schiena. Nemmeno quando lo sentiva singhiozzare nel sonno, stretto a quell’ingombrante peluche a forma di coniglio, s’era mai preoccupato di sincerarsi delle sue condizioni – e intanto lo sentiva, non mollava la presa sulla stoffa della sua giacca, stropicciandola nel pugnetto. Ma lui, ostinatamente, preferiva non pensarci. Aveva già abbastanza rogne a cui pensare, si diceva sempre, senza stare a tormentarsi anche per quelle degli altri. Sapeva che Lavi sarebbe stato l’ultima persona al mondo che l’avrebbe tradito, eppure… preferiva andarci cauto, in ogni caso, onde evitarsi brucianti delusioni in seguito. Aveva eretto anche contro di lui spessi muri, di quando in quando sentiva che Lavi tentava di riavvicinarsi – ma ecco che il timore, l’abitudine a fregarsene di lui, lo portava ad ignorarlo. Intimamente era consapevole del fatto che Lavi si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che tradirlo, i loro trascorsi li avevano saldamente uniti, ma anche divisi. Perché Deak aveva paura e per proteggersi ancora, per non soffrire più, aveva sbarrato le porte del proprio cuore con tutti, proprio con tutti. Ecco cosa l’aveva portato a non capire nemmeno più il proprio fratello.


Quando Lavi tornò in camera trovò Deak seduto sul suo letto, in attesa con le braccia blandamente poggiate contro le ginocchia. Deglutì con un certo nervosismo, richiudendo la porta dietro di sé e cercando di evitare il suo sguardo. Digrignando appena i denti l’altro si alzò e gli si piazzò davanti, incrociando le braccia al petto e cercando insistentemente quell’iride verde che continuava a sfuggire alla sua.
«Allora, si può sapere che hai?» sbottò dopo pochi attimi.
«Niente.» fu la pronta risposta dell’altro, che lo sorpassò per andare a prendere posto sul letto.
«Niente un corno, Lavi, non sono fesso. Che diavolo ti sta passando per la testa, eh? Prima hai accennato a Rukia ed a quel che le hai risposto oggi.».
Lavi abbassò lo sguardo, tormentandosi nervosamente le mani. Nemmeno lui sapeva cosa fare, se raccontare o meno al fratello quel che era accaduto in facoltà – e da una parte, temeva che spifferare tutto avrebbe oltremodo peggiorato la situazione. Ma Deak non era tipo da lasciarsi liquidare tanto facilmente, non era di certo stupido e sapeva che a lui non era capace di mentire, neanche volendolo.
«Loro… cioè, Rukia e sua sorella… hanno capito qualcosa.» mormorò, ben tenendo la testa bassa. Non poté notare quanto i lineamenti di Deak si fossero induriti in quel momento, mentre aspettava che dicesse altro «Non cosa c’entri davvero quel tipo, ma… a Capodanno non siamo passati inosservati, ecco.».
«Se ne sono accorte, dici? Rukia ti ha fatto qualche… domanda?».
«Oh, no, no. Rukia pensava che in questi giorni… insomma, tenessi le distanze e fossi nervoso per colpa di qualcosa che avevano fatto lei e sua sorella. Era venuta a chiedermi cos’avessi, se era colpa sua, per scusarsi, ma… ha capito che quei documenti che hai trovato, che hai visto, c’entrano qualcosa.».
Deak masticò un’imprecazione, passeggiando inquieto per la stanza. Ogni tanto tornava a scrutare il viso del fratello, nella speranza che aggiungesse altro – tipo che a scanso di equivoci futuri, le sarebbe stato ben distante. Era quella la cosa giusta da fare, sì. Se le gemelle erano coinvolte anche minimamente con quell’individuo, la cosa migliore da fare era tagliare al più presto i ponti con loro. Diavolo, possibile che tra tutte le persone che dovevano incontrare, gli erano capitate tra capo e collo proprio le sorelle di un avvocato che aveva dichiarato guerra a quel bastardo? Sapeva da sé che le ritorsioni non si sarebbero fatte attendere. E questo lo sapeva bene anche Lavi.
«… dovremmo avvertirle.» disse infatti il ragazzo seduto sul letto, ingoiando a fatica quel boccone amaro.
«Non se ne parla. Sai meglio di me che se le mettessimo in guardia contro quello lì, si chiederebbero come e perché ne siamo tanto sicuri. E io non ho nessuna intenzione di sbandierare ai quattro venti quello che è successo.» fu la secca replica di Deak, che gli scoccò un’occhiata truce.
«Ma hanno il diritto di sapere! Sai benissimo cosa sarebbe in grado di fare, anche solo per ripicca!».
«Lo so, Lavi! Cazzo, lo so! E sentiamo, se Rukia ti chiedesse come fai a sapere che è gente pericolosa, tu come risponderesti? “L’ho sentito dire in giro”? Non crede più nessuno a certe cazzate, e Rukia non mi pare una stupida.».
«Potrebbe farle qualcosa, però. A lei, o a Darukia.».
Stavolta Deak si prese diversi istanti prima di rispondere. Strinse i pugni con forza, scostando lo sguardo dal fratello e digrignando i denti. Sapeva che ciò che stava per dire poteva risultare una carognata, ma sottilmente rispecchiava anche i suoi pensieri.
«Te ne importerebbe qualcosa? Diavolo, Lavi, meno ci troviamo tra i piedi chi ha a che fare con lui anche così poco, e meglio è. Non ho nessuna intenzione di rivederlo, nemmeno per sbaglio, men che meno per colpa di quelle due. Se dobbiamo dircelo chiaramente, meglio loro che noi.».
Lavi lo guardò con tanto d’occhi, incredulo. Non riusciva a credere di aver sentito davvero quelle parole. Al cinismo di Deak era abituato, ma non pensava potesse spingersi a tal punto.
«Stai scherzando, vero? Non hanno fatto niente di male per meritarsi tanta bastardaggine da parte tua!» ribatté, accigliandosi «Sono pur sempre nostre amiche!».
«Scusa?!» ripeté l’altro, portandosi una mano dietro l’orecchio «“Amiche”? Ora sono io che spero in un tuo scherzo, Lavi. Sei davvero un idiota se credi ancora nell’amicizia, se ancora provi a fidarti degli estranei, quando sai benissimo che non aspettano altro che un’occasione per fregarti. Possiamo fidarci solo di noi stessi, tra di noi, e STOP.».
«Non dire stronzate!» Lavi si tirò in piedi, fronteggiando il fratello. Non era da lui dargli contro così, lui che era sempre stato il più pacato e che aveva sopportato tante parole velenose da parte sua, perché era pur sempre suo fratello, per il quieto vivere di casa «Cristo, Deak, ci hanno accolti a braccia aperte! Chi altri mai ci ha invitati a casa loro per studiare, per fare una festa, anche solo per uscire una sera tutti insieme? Mai, tu per primo hai sempre tenuto un muso tale da spaventare chiunque provasse ad avvicinarti! Qui non ci hanno fatto niente di male, anzi! Ci hanno trattati come se fossimo sempre stati loro amici!».
Deak rimase alquanto sorpreso dalla reazione di Lavi. Era forse la prima volta che lo vedeva infervorarsi così, ribattergli qualcosa, contestargli pareri che non gli andavano a genio. E gli rodeva da morire ammetterlo, ma aveva ragione – mai, in nessun’altra città in cui avevano vissuto erano stati accolti così bene dai ragazzi della scuola. Certo, a parte i saluti e le frasi di circostanza, ma mai un invito, mai un pomeriggio passato insieme, seppur a studiare. Ma lui si rifiutava di darsi la colpa di ciò, la sua era… una naturale reazione alle mazzate ricevute. Il mondo si era rivelato troppo presto infido con loro e, piuttosto che permettere a qualcuno di ferirlo di nuovo, preferiva isolarsi completamente. Perché Lavi non la vedeva allo stesso modo? Perché? Era forse la lotta interiore peggiore che avesse mai passato. Lavi lo stava facendo incavolare di brutto, lui si preoccupava che nessuno potesse più nuocere ad entrambi e suo fratello che faceva? Si rifiutava di allontanarsi da quelle persone che, seppur inconsciamente, stavano per gettarsi tra le braccia di uno psicotico da manicomio. Se solo quello fosse venuto a conoscenza della loro presenza in quella città, si sarebbero visti costretti ad organizzare in fretta e furia un altro trasloco, il più lontano possibile. Sì, scappavano da anni eppure a Deak non costava ammetterlo. Non si vedeva un vigliacco. Desiderava solo poter vivere in pace.
«Okay, su questo hai ragione. Mi stai dicendo che, se capitasse l’occasione di rischiare di finire negli intrallazzi di quell’uomo, ti ci butteresti tu per salvare loro?».
Lavi fece un passo indietro, abbassando leggermente lo sguardo. Messa così, non poteva dare del bastardo a Deak. Forse avrebbe avuto paura e sì, probabilmente avrebbe spinto nella trappola Rukia o la sorella per salvarsi la pelle. Non aveva alcun diritto di criticare il fratello, anche se più combattuto era un vile proprio come lui. D’altro canto, però, non poteva nemmeno esserne sicuro. Kaien, Rukia, Grimmjow, i gemelli Kurosaki, Kukaku, Orihime, Kanda… erano tutti così diversi, sì, eppure l’avevano accolto a braccia aperte tra di loro. Nessuno l’aveva giudicato per la benda che portava, per il suo inusuale colore di capelli naturale, o per il fatto che non parlava volentieri dei suoi trascorsi o della sua famiglia. Lo avevano trascinato senza porgli domande, senza obbligarlo, facendolo sorridere sinceramente come non faceva da troppo tempo. Kaien in particolare si era rivelato il miglior amico che avesse mai avuto, con la sua irrefrenabile parlantina, gli scherzi che combinava a Grimmjow, e tutte le volte che l’aveva invitato a casa sua a studiare o passare un pomeriggio all’insegna dell’assoluto relax, con chiacchiere, patatine e coca-cola. E poi… beh, sì, c’era anche Rukia. Quella stessa ragazza che aveva conosciuto facendo una figuraccia assurda, facendola arrabbiare, e che poi si era fatta avanti per prima quando l’aveva visto allontanarsi senza spiegazioni, prendendosi una colpa che non aveva, scusandosi per qualcosa che non aveva fatto. Non aveva mai avuto tempo da dedicare all’amore o ai rapporti con le ragazze, Lavi. Anzi, non ne aveva mai avuto l’occasione. Ai tempi delle medie era l’amichetto da tenersi buono per i compiti, un po’ ingenuo e timido, ma che le ragazzine evitavano per via di quella benda nera che per loro nascondeva qualcosa di orribile e con cui non volevano aver nulla a che fare. Prima dell’inizio del liceo si erano trasferiti, ma le cose non erano di certo migliorate. Era sempre stato un tipo abbastanza amichevole, nel suo costante bisogno di farsi accettare, di sentirsi dire che non era anormale per quella benda, per quei capelli dal colore così particolare, per il fatto che non avesse i genitori. Eppure si era sempre visto relegare tra “gli sfigati” che nessuna si filava particolarmente, che non vestiva di marca per tirarsela, che non frequentava locali “giusti”, che non passava da una ragazza all’altra solo per tenere il conto delle paia di gambe che apriva al mese. Era riservato, sì, forse pure troppo, e nessuna tra le ragazze che aveva conosciuto sembrava disposta ad aspettare pazientemente, scavare con discrezione per capire cosa si celasse dietro quelle mura invisibili che Lavi aveva eretto attorno a sé. Però lei, così piccola eppure così forte, si era avvicinata in punta di piedi, con delicatezza, cominciando a grattare sulla spessa coltre di ghiaccio. Certo, si trovava bene anche con Lenalee, Kukaku, Orihime o Tatsuki, e anche Darukia si era rivelata una compagnia piacevole, ma… ma Rukia, senza far nulla di speciale, faceva oscillare quelle mura. A parole, gesti, silenzi. Con quel suo essere così preoccupata a vederlo allontanarsi, come se non volesse, come se le dispiacesse. Ormai non era più “quello nuovo”, era da mesi che si conoscevano, non poteva ritenersi tra i veterani della sua sfilza d’amicizie ma non si sentiva più in imbarazzo quando stava in mezzo a loro, in attesa che qualcuno lo tirasse in mezzo per scambiare quattro chiacchiere, o travolgendo a propria volta gli altri con un fiume di parole. Certo, aveva la battuta pronta, sapeva far ridere e affascinare con le parole, ma sapeva anche quando era il momento di tacere, evitando di intervenire in mezzo ad un discorso che non lo riguardava. Non aveva neanche mai sperimentato l’amore, Lavi. Stava inconsciamente scoprendo cosa volesse dire affezionarsi a qualcuno. E a Rukia ci teneva, accidenti, e non sapeva nemmeno spiegarsi cosa l’avesse spinto a tal punto. Forse, ed era un forse… per il bene di quelle persone che senza volerlo aveva iniziato a reputare importanti l’avrebbe fatto, si sarebbe buttato al posto loro.
«… Non lo so, Deak. Non me la sento nemmeno di dirti che no, manderei loro ad occhi chiusi. Non sono così bastardo da… da non accorgermi di quanto siamo stati accettati, qui.» mormorò infine, tenendo la testa bassa.
«Stai dando del bastardo a me, però.».
«Non ho detto questo! Oddio, forse sì, e… e capisco anche la tua paura. Ma non è giusto, Deak, non dopo quello che hanno fatto per noi. Mamma non lo vorrebbe.».
«Tsk, come se potessi sapere cosa vorrebbe. Alla fine ci ha mollati pure lei.».
«Ci ha salvati, vorrai dire!».
«Salvati? SALVATI?!» ringhiò Deak, nero di rabbia, stringendo il bavero del maglione di Lavi e guardandolo con odio «Se avesse voluto salvarci davvero, non ci avrebbe mollati davanti alla porta di un orfanotrofio! Sarebbe rimasta con noi, ma lontani da quella casa! Invece no, ha preferito piantarci lì come rifiuti, piuttosto che scappare con noi, piuttosto che rinunciare ai lussi di quella villa! Che cazzo di madre è una che smolla i figli davanti ad un istituto senza la minima spiegazione, buttandoli tra le braccia di gente sconosciuta, e che non si fa più viva nemmeno per telefono?! AVEVAMO SOLO QUATTRO ANNI, LAVI! COME CAZZO FAI A DIRE CHE CI HA SALVATI?!».
«Deak, in quella casa ci stavano uccidendo! Anch’io avrei preferito che venisse con noi, cosa credi?!» ribatté l’altro, stringendo le mani sopra quelle del gemello, che gli stavano stritolando il colletto del maglione. Diamine, non l’aveva mai visto così arrabbiato «Per lo meno non siamo rimasti lì. Non siamo più stati obbligati a sorbirci quei trattamenti!».
«Ah, perché i dispetti e le bastardate che ci riservavano quegli stronzi che stavano con noi all’istituto erano meglio, vero?! Era meglio la pietà dei grandi che se ne uscivano con quei “Poverini, non siate cattivi, hanno pure un occhio che non va, non fategli i dispetti”, manco fossimo dei cretini indifesi, quando sapevano benissimo che quei dispetti erano intenzionali! Ti sei mai sentito accettato, Lavi?! Siamo sempre stati guardati con ribrezzo, per queste bende, per… per tutto! Con che coraggio puoi ancora fidarti degli estranei?!».
«Lo so, Deak, e dammi pure dello stupido. Ma ormai siamo grandi, tutti e due. Anch’io ho paura, accidenti! Però sono stanco di scappare, di… di tenermi a distanza da tutti per paura di rimanerci ancora male. Qui – sì, proprio qui, anche se c’è qualcuno che conosce quel bastardo – possiamo rifarci una vita, avere rapporti… normali, come tutti. Non dico che… che dobbiamo raccontare tutto a tutti. Ma almeno un inizio… un briciolo di fiducia…».
«Ma nemmeno per sbaglio. Se hai voglia di farti fregare di nuovo prego, accomodati, non sperare che ti segua come un idiota.» lo zittì ringhiando tra i denti, mollandogli la maglia con sgarbo e avviandosi verso la porta, rivolgendogli un ultimo sguardo «Ma lo giuro, guai a te se te ne esci con quello che ci è successo, cosa c’è sotto queste fottute bende. Parlane con qualcuno e lo giuro su quel che ti pare, te ne farò pentire amaramente. A costo di dimenticarmi che sei mio fratello.».
Lavi lo vide uscire sbattendo pesantemente la porta, restando piantato in mezzo alla stanza senza riuscire a reagire. Non aveva mai litigato così con Deak e, contrariamente a quel che poteva pensare, non era nervoso o arrabbiato con lui. Era più che altro… mortificato. Perché a Deak voleva un bene dell’anima, anche se aveva un carattere tutt’altro che facile, e l’idea di vederlo così deluso e amareggiato gli dispiaceva. Lo capiva, sì, ma… ma era ingenuo, forse. Voleva fare un tentativo, provare a fidarsi di quei ragazzi che l’avevano accolto con un affetto che in più di vent’anni Deak non gli aveva mai dimostrato.

 

** ** **

Byakuya non l’avrebbe mai ritenuto possibile. Dagli albori della sua carriera di avvocato si era ritrovato giusto un paio di volte a farsi sfiorare dal pensiero, ma quel giorno si rese conto fin troppo bene di quanto pesasse la mancanza di una persona che occupasse degnamente il posto di segretaria. Hisana in quei mesi l’aveva letteralmente viziato – sempre pronta e disponibile a sobbarcarsi di lavori e chiamate, silenziosa ed efficiente, non perdeva mai tempo a fargli gli occhi dolci o a chinarsi per sbattergli sotto il naso la scollatura della camicetta per accalappiarlo. Era composta, pure troppo per una ragazza così giovane, quasi castigata – e se mai avesse notato in lei comportamenti ammiccanti, l’avrebbe sicuramente ritenuta sotto effetto di alcolici. La sua semplicità disarmante contrastava assurdamente con le sottili avances che le altre impiegate gli rivolgevano per attirare le sue simpatie. Come se bastasse un ammiccamento e uno spacco un po’ provocante della gonna per fargli perdere la testa. Ecco perché aveva imparato ad ammirare Hisana: non era tipo da grilli per la testa, di quelle che tentano di acchiappare lo scapolone per assicurarsi una bella vita o favorismi. Se davvero era sola significava che non aveva nemmeno un fidanzato – e lì per lì se n’era anche stupito, ragazze così deliziosamente modeste e buone erano rare, e poi aveva una bellezza semplice dalla propria, chiunque con un po’ di sale in zucca ci avrebbe fatto un pensierino. Ma forse era proprio quello il motivo per cui non aveva un uomo accanto – lei per prima non si metteva in mostra, dando la precedenza a cose che riteneva ben più importanti, la casa e il lavoro in primis. O forse era terrorizzata dall’idea di perdere ancora qualcuno di caro, e per questo evitava di dar vita ad una qualsivoglia storia d’amore con un’altra persona.
Per quel giorno aveva messo Yuki al posto di Hisana, dato che aveva anche competenze in quel lavoro. Un vero peccato che non ci fosse assolutamente paragone con l’operato di Hisana! Infatti non ci pensò due volte a salutarlo al finire dell’orario di lavoro, lasciandolo impegolato con una pila di documenti e fascicoli alta come un dizionario. Byakuya sospirò snervato, chiudendo brusco un dossier in cui aveva infilato un miscuglio di appunti e orari d’appuntamenti che doveva combinare, per poi schiaffare il tutto dentro ad un cassetto. Di solito era Hisana ad occuparsi di quei dati, senza contare che aveva probabilmente preso accordi di cui lui era momentaneamente all’oscuro. Decise di uscire, chiudendo gli uffici con un espressione più accigliata del solito, quasi amareggiato da se stesso – si era sempre ritenuto un tipo che non aveva bisogno d’aiuti esterni, eppure quel giorno se n’era accorto definitivamente: aveva bisogno di Hisana come braccio destro. E non solo perché era sempre pronta e disponibile a tutto, ma anche come persona in sé, era sicuramente meglio di tanta gente con cui si era ritrovato a lavorare. Aveva avvisato le gemelle che forse avrebbe tardato anche quella sera, dato che aveva promesso a Hisana di farle visita dopo il lavoro. Guidò fino al complesso residenziale della giovane, trovando posto dopo un largo giro di vie e parcheggi assurdamente pieni. Ripose la ventiquattrore sotto un sedile e si avviò verso il portone, dove suonò il citofono al nome corrispondente. Ci volle un po’ prima che la voce di Hisana si facesse sentire, bassa ed esitante, probabilmente non era ancora pienamente in forze. Una volta entrato salì velocemente le scale, il solo rumore del leggero tacco delle francesine nere rimbombava sulla tromba delle scale, accompagnandolo fino al terzo piano. Hisana lo accolse stretta in una calda vestaglia in pile rosa tenue, tenendosi un po’ a distanza per non rischiare di attaccargli la febbre. Mormorò circa il fatto che sarebbe tornata a letto per via della pressione un po’ bassa, scusandosi per le pessime maniere con cui trattava l’ospite. Byakuya scrollò le spalle, tutt’altro che offeso, e la esortò a tornare in camera. La giovane prese posto sotto le coperte, rivolgendo subito lo sguardo verso di lui.
«Non ho ancora avuto modo di scusami per essermi addormentata, ieri… e ringraziarla per il tè che mi ha preparato. Era veramente buono, come l’ha fatto? Le foglie sono le stesse che uso io, ma…».
«È tutta questione di gradi di temperatura. Ad esempio, gli aromi migliori delle foglie di tè nero vengono rilasciati se l’acqua è di 95°. Inevitabilmente, però, i gradi calano quando si travasa il tè dal pentolino alla teiera, e dalla teiera alla tazza. Sono piccoli accorgimenti che sentivo spesso dire da mia madre.» spiegò lui, prendendo posto sulla sedia della scrivania, ancora vicina al letto «Piuttosto, come si sente?».
«Meglio… penso. Sì, sono ancora parecchio indebolita e mi gira la testa se mi alzo, ma… con un buon sonno ed una pastiglia, forse sono migliorata almeno un po’. Stamattina la febbre era scesa a poco meno di 38°.».
«Capisco.».
«Oh, a proposito, dottore… avrei voluto avvertirla prima, ieri non sono riuscita a finire quei fogli… e c’erano accordi per questa settimana che dovevo ancora sistemare e comunicarle…».
«Sì, lo so.» annuì Byakuya, con un leggero cenno del capo «Stamattina mi ci è voluto un po’ per pareggiarmi con il programma, ma effettivamente ci sono alcune cose di cui è a conoscenza solo lei.».
«Esattamente.» concordò la giovane, puntando lo sguardo verso la scrivania «Prima me ne sono ricordata e… ho buttato giù alcuni appunti e gli appuntamenti per questa settimana, così non avrà più problemi.».
Lui seguì il suo sguardo, sporgendosi per prendere il bloc-notes su cui c’erano quasi tre fogli di appuntamenti e annotazioni varie. Possibile che nemmeno con la febbre riuscisse a star buona ed a non pensare al lavoro? Si accigliò lanciandole un’occhiata severa, facendole nascondere metà viso sotto le coperte per la vergogna.
«Non ho mai trovato tanta testardaggine in una donna, mi creda sulla parola.».
«Ma non volevo perdesse tempo per via del mio ritardo!» si giustificò lei, stringendo tra le mani la coperta «È che ha sempre così tanto da fare, ho pensato che le sarebbe potuto tornare utile…».
«Ed è utile, in effetti.» la interruppe «Ma vorrei che ogni tanto pensasse a qualcosa di diverso dal lavoro. È andata a memoria per scrivere questi?» e agitò leggermente il bloc-notes.
«No, avevo alcuni appunti da parte. Spero di non aver sbagliato niente, ogni tanto m’interrompevo e perdevo un po’ il filo, se…».
«Mi fido.» tornò a zittirla, incrociando le braccia al petto e stringendo i fogli in una mano «Ora mi dica che devo fare: sequestrarle tutti i fogli e tutte le penne che tiene in casa, fidarmi della sua parola che se ne starà buona a riposare, oppure licenziarla in tronco per convincerla a riguardarsi seriamente?».
«Oddio, no!» esclamò la ragazza, tirandosi su a sedere e guardandolo allarmata, ignorando le vertigini «G-giuro che non farò più niente! Davvero, dottore, mi alzerò solo per mangiare o per il bagno, ma per favore, non mi licenzi!».
«Devo fidarmi?» la guardò scettico, agitandole sotto il naso i fogli «Anche dopo questi?».
«Lo giuro, mi riguarderò per bene, non prenderò più in mano una penna o un foglio finché non starò meglio, non… non penserò al lavoro, promesso.» annuì freneticamente con il capo, stritolando la coperta nei pugni.
Quando lo vide piegare le labbra in un leggero sorriso sentì la morsa della tensione sullo stomaco sciogliersi pian piano, inumidendole leggermente gli occhi. Non era mai stata tipo da piagnucolare per un nonnulla, ma ci teneva troppo a quel lavoro per permettersi di poterlo perdere. Senza contare che non voleva proprio vederselo portare via per un motivo simile, lei era sicura di aver fatto una buona cosa – e probabilmente lui apprezzava davvero, anche se non condivideva il fatto che lei pensasse al lavoro anche da malata. Ma non sapeva mai se prenderlo sul serio o meno, non si sarebbe azzardata a ridergli in faccia scambiando un avvertimento per una battuta.
«Hisana, per favore, si calmi.» mormorò lui, sporgendosi un po’ verso di lei «Non arriverei a mezzi così estremi, vorrei solo che si riguardasse con la dovuta attenzione, o in ufficio non ci rientrerà mai.».
«Sì… mi scusi.» mormorò lei, abbassando la testa.
Byakuya si lasciò andare ad un sospiro, poggiandosi contro lo schienale della sedia e guardandola un po’ divertito.
«Sa, ha le stesse identiche reazioni che le mie sorelle avevano quando le sgridavo.».
«Le sue sorelle…?» Hisana alzò lo sguardo verso di lui, strisciando piano per rimettersi stesa sotto le coperte «Sono molto più piccole?».
«Frequentano entrambe il secondo anno di università, ora. Abbiamo poco meno di dieci anni di differenza.» spiegò lui. Quando però si rese conto di dove quel discorso sarebbe andato a parare, preferì troncare. Non voleva certo sbatterle in faccia quanto lui fosse legato alle sue sorelle, alla sua famiglia, non davanti a chi non aveva più nessuno. Si sistemò meglio sulla sedia, osservandola per qualche istante «Piuttosto, ha già cenato?».
«No, ma…».
Il borbottio del suo stomaco parlò per lei, facendola arrossire. Mormorò qualcosa circa il fatto che sarebbe andata a prendersi il brodo che aveva preparato prima del suo arrivo, e gli chiese se per caso volesse qualcosa a propria volta. Byakuya negò con un cenno del capo, alzandosi. Poco gli sarebbe costato andare a scaldarle il brodo per poi andare con calma a casa per cenare. Col permesso della padrona di casa si diresse in cucina, una stanza un po’ più piccola del salotto che comprendeva anche la zona pranzo. Scaldò al microonde la scodella che gli era stata indicata da Hisana e, dopo essersi accertato che fosse ad una temperatura accettabile, la portò alla giovane.
«Siete davvero gentile, dottore. Posso chiederle una cosa?» mormorò, girando distrattamente il cucchiaio e fissando il liquido ambrato contenuto nella ciotola.
Lui annuì, piegando appena la testa di lato – e sottilmente si chiese cosa mai stesse pensando, continuando a girare quel cucchiaio che distruggeva ogni tentativo di vedere il proprio riflesso su quella superficie increspata di leggere onde.
«Perché sta facendo tutto questo? Voglio dire… perché viene anche a trovarmi? Sono una semplice impiegata, dopotutto, non mi deve niente.».
Bella domanda, davvero. Il problema era che la suddetta domanda non aveva una risposta. Abitudine, si era detto: Hisana somigliava un po’ alle gemelle, di cui lui si era preso cura sin da quando erano piccine. Ma no, forse non era nemmeno quello. Curiosità, pensava. Trovava curiosamente interessante quella ragazza dall’animo tanto umile e modesto, pronta a farsi in quattro per gli altri e per riuscire al meglio nel proprio lavoro, anche arrivando a scrivergli fogli di appunti pur avendo la febbre. Le sue però erano nient’altro che ipotesi, un motivo vero e proprio che l’aveva spinto a ritardare il rientro a casa per andare a trovarla non ce l’aveva. Anche perché doveva riconoscerlo da sé, era alquanto strano che un avvocato andasse a trovare la segretaria ammalata a casa, neanche fossero stati amanti. Non che Byakuya fosse il tipo che delle donne se ne fregava, aveva avuto un po’ di storie ma il tutto s’era sempre concluso con un nulla di serio, tanto più che dopo il liceo si era impuntato solo nello studio trascurando tutto il resto, ragazze comprese. Hisana era una bellezza semplice e senza grandi pretese, non era di quelle che si ricoprivano la faccia con una montagna di trucco, anzi, la si poteva definire la semplicità incarnata – eppure non era neanche attrazione ciò che lo spingeva ad andare a trovarla.
«Non lo so, se devo essere onesto.» mormorò dopo un po’, ricambiando lo sguardo che lei gli aveva rivolto a sentire la sua risposta.
La vide aggrottare leggermente le sopracciglia e sistemarsi meglio la giacca in pile sulle spalle, fermando momentaneamente il lento giro del cucchiaio.
«Glielo dicevo perché… se è la pena a spingerla a venire qui, vorrei chiederle di andarsene.» disse piano, stringendo la scodella «Non voglio che il fatto di aver saputo che non ho parenti in vita la porti ad assistermi per pietà. Posso farcela da sola.».
Byakuya rimase spiazzato. Non gli era mai passata per la testa l’idea di fare una cosa del genere – certo, gli dispiaceva per lei, ma non era per quello che in quel momento si trovava seduto nella sua camera mentre lei era a letto con la febbre. E non era nemmeno la semplice necessità di avere quei fogli di appuntamenti.
«Hisana, la prego, non fraintenda.» replicò, alzando appena una mano «So che è odioso sentirsi compatiti, ma sono davvero l’ultima persona che assisterebbe qualcuno per pietà. Ci tengo che lei stia bene, al di là che in ufficio si sente la sua mancanza e, detta fra noi, dopo questi mesi non riesco a vederci qualcun altro alla sua scrivania. Diciamo che voglio assicurarmi che si curi per bene e che torni in salute al più presto.».
«Mi crede una sconsiderata, dottore?».
«Non ho detto nemmeno questo. Né la ritengo tanto disgraziata da non potersi permettere delle cure adeguate. Non entro nel merito di come lei gestisce il proprio stipendio, in fondo non è affar mio. Le dà fastidio che mi preoccupi per lei?».
«No, no… è che…» Hisana strinse di nuovo la ciotola, abbassando lo sguardo «È brutto sentirsi compatiti. Gli sguardi di pietà della gente non sono belli da ricevere, anche se magari loro agiscono con le migliori intenzioni. È vero, ho faticato tanto per arrivare dove sono, non è molto in confronto alla sua posizione, per esempio, ma nel mio piccolo ci provo. È che quando cedo per un attimo, mi sembra di rivedere i vicini di un tempo che mi guardavano come se fossi stata un cane abbandonato per strada. La compassione altrui, anche se involontaria, non è piacevole per nessuno. Per questo le chiedevo… se era quello il motivo che la spingeva a venire qui.».
«Allora la veda in questi termini, Hisana: ci tengo che lei stia bene per un mio tornaconto, perché voglio che la scrivania da segretaria sia occupata da lei. Lo preferisce?».
«Così sa più da ipocrita…» si lasciò scappare un leggero sorriso, guardandolo «Ma è sicuramente meglio della pietà.».
«Non mi prenda in parola, eh. Certo, non nego che prima torna e meglio è, ma vorrei che rientrasse nel pieno delle forze con i tempi di cui necessita, senza sforzarsi. Me lo può fare, questo favore?».
Hisana sorrise nuovamente, posando la scodella sul comodino e ritornando ad accoccolarsi sotto le coperte.
«Certamente, dottore.».
«Piuttosto… non ho ancora avuto modo di vedere il suo gatto, oggi.».
«Shiro? Dovrebbe essere qui intorno… rinuncia anche alle passeggiate fuori per stare qui con me. Stanotte ha dormito sempre poggiato contro la mia gamba.».
«A modo suo le fa la guardia, quindi.».
«Già… non lo credevo possibile da parte sua. Non che me ne intenda molto di animali, non ne ho mai avuto uno… Shiro è il primo gatto con cui ho strettamente a che fare. Li ho sempre ritenuti animali menefreghisti… son contenta di essermi sbagliata, riguardo a lui.».
«È anche tremendamente geloso, lo sa? Sembra non tollerare presenze maschili.».
«Ho notato… in effetti non pare averla accolta benissimo il mese scorso, quando… insomma…» Hisana sviò per un attimo lo sguardo, ricordando la disgraziata macchia sui pantaloni che Byakuya indossava per la cena in programma quella sera di dicembre. E lei s’era indaffarata per smacchiarlo alla bell’e meglio, vergognandosi pure per la pessima figura fatta.
«Oh, sì, ricordo. Ha voluto aromatizzarmi i pantaloni con fragola e frutti di bosco.».
«Spero non si siano rovinati…».
«No, ci mancherebbe. Come le avevo fatto notare, non avevo zuccherato la bevanda. Senza contare che s’è prodigata a tentare di smacchiarli.».
«Mi pareva il minimo, dottore…».
Byakuya rimase ad osservarla per diversi istanti, in silenzio. Aveva la tendenza a nascondere parte del viso sotto le coperte quand’era in imbarazzo, quasi si vergognasse a mostrare il rossore che le imporporava le gote, e questo lo fece sorridere. Fu allora, in quegli attimi in cui le loro voci tacevano, che sentì parlare qualcos’altro. Aggrottò le sopracciglia, guardandosi attorno: non ci aveva fatto caso fino ad allora, preoccupato più a sentire le parole di Hisana per prestare attenzione a ciò che faceva da contorno a ciò che diceva. La musica era molto bassa, a stento udibile – eppure riconobbe le note di un violino ed un pianoforte. Era una melodia lenta e molto calma, senza particolari variazioni di ritmo fino a quel momento, infondeva un vago senso di serenità – e forse era proprio quello che aiutava Hisana a rilassarsi per poter riposare. Il piccolo stereo era poggiato a terra vicino al comodino, a portata di mano anche per la ragazza, a cui bastava allungare un braccio per raggiungere i tasti di comando. Restò ad ascoltare fino alla fine della canzone, ed anche parte della successiva – eppure, nonostante amasse la musica strumentale tradizionale e classica occidentale, non riusciva a riconoscere gli artisti all’opera. Lei sembrò quasi decifrare i suoi meditabondi tentativi di azzeccare i nomi di coloro che in quel momento si stavano prodigando in una melodia vagamente più vivace, con il pianoforte che prendeva il predominio sul violino.
«I miei genitori erano musicisti.» mormorò a bassa voce «Mio padre era pianista, mia madre violinista. Si conobbero al conservatorio e non si lasciarono più. La musica li ha sempre accompagnati, passo per passo. Avevo cominciato anch’io a prendere lezioni di pianoforte, mio padre era severo ma molto bravo. Diceva che non appena sarei stata abbastanza brava, avremmo suonato insieme. Mi sarebbe piaciuto tanto poterlo fare. Una volta nascosi un registratore nella stanza dove provavano e li registrai a loro insaputa. Ho ancora la cassetta, mi fa sorridere ancor’oggi la dolcezza che c’era tra loro, anche quando si correggevano a vicenda o si prendevano in giro quando per caso steccavano. Non nego che a volte li invidio davvero, per quel loro rapporto e la loro complicità.».
Si zittì per diversi istanti, accennando un vago sorriso e fissando davanti a sé – e quasi involontariamente, lo sguardo si spostò lento fino al piccolo altarino.
«Anche quando morirono la musica era con loro. Si stavano dirigendo a teatro per esibirsi in un concerto con l’orchestra, ma non riuscirono ad arrivare. Un camionista ubriaco perdette il controllo del camion che guidava e si schiantò contro l’auto dei miei genitori. Mamma morì sul colpo, mio padre non riuscì ad arrivare in ospedale a causa dell’enorme perdita di sangue e delle lesioni interne. Nella radio dell’auto c’era ancora l’ultimo cd che avevano registrato insieme. Me ne sono fatta fare una copia, non volevo correre il rischio di perdere anche quel poco che era rimasto. Ah, mi scusi. Non dovrei tediarla con discorsi così angoscianti e che probabilmente non la interessano.».
«… erano davvero molto bravi.» replicò lui, accennando un vago sorriso e lanciando un breve sguardo allo stereo «Mi spiace sinceramente, Hisana.».
«Ormai è passato tanto tempo…» sospirò in risposta, sistemandosi sotto le coperte «Ma mi piace ascoltare le loro canzoni per rilassarmi. Certo, non è piacevole avere un disco come unico mezzo per sentirli di nuovo, ma… era la loro musica, mi piace pensare che mettessero anche il cuore in ciò che suonavano. Ho imparato a… a non vedere solo il lato malinconico della cosa.».
Restarono ancora in silenzio, fino alla fine dell’ennesima canzone. Non erano movimentate, non vi era altro che un violino e un pianoforte, ma erano armonie che di studiato e costruito non avevano nulla, se non una corretta esecuzione – non erano suonate come un banale esercizio di scuola, c’era trasporto in ogni singola nota, anche in quei brevissimi attimi di silenzio. Erano melodie dolci, rilassanti eppure non noiose. I due strumenti sembravano fondersi perfettamente l’uno con l’altro in quel susseguirsi di note.
L’ultimo brano era finito da una decina di minuti, quando si congedarono. La ciotola vuota del brodo giaceva a sgocciolare nel lavandino, lo stereo era rimasto in standby. E un leggero sorriso piegava ancora le labbra di Hisana, quando Byakuya la salutò per tornare a casa.

 

** ** **

Il mercoledì era giorno di accurate pulizie, in casa Kuchiki. Rukia era solita approfittarne per pulire da cima a fondo il grande appartamento che condivideva con il fratello e la gemella, mentre il primo era al lavoro e l’altra seguiva le lezioni mattutine riprese dopo gli esami. Nella settimana riuscivano ad organizzarsi per tenere in ordine e pulito ma, dato che proprio a metà settimana aveva il giorno libero dalle lezioni, tanto valeva fare i lavori per bene. Le piaceva avere la casa per sé, poter mettere a palla i Within Temptation o i Nightwish allo stereo e pulire cantando senza che qualcuno la prendesse per pazza. La musica e l’aspirapolvere le impedirono, sulle prime, di sentire il campanello che suonava – e fu nel bel mezzo del ritornello di “Nemo”, seguito dall’elettrizzante assolo di chitarra di Emppu Vuorinen, che se ne accorse. Ripose in un angolo l’aspirapolvere e abbassò il volume dello stereo, correndo al citofono. Rimase parecchio perplessa quando, dallo schermo, vide in bianco e nero il mezzobusto di Lavi che si guardava attorno, leggermente a disagio.
«Lavi?!» fece, prendendo in mano la cornetta.
Il ragazzo sobbalzò per un attimo, grattandosi la nuca da sopra il berretto, e si avvicinò al microfono.
«Scusa l’improvvisata, Rukia… potresti scendere un momento, per favore?» mormorò lui, alzando a stento lo sguardo verso di lei, inconsapevolmente.
«Dai, sali. Non sono tanto cafona da lasciarti giù al freddo!» replicò, premendo il tasto per aprire il portone principale.
Il ragazzo rimase incerto per una manciata di secondi, prima di decidersi a spingere il cancello per salire. Nel mentre Rukia rimise velocemente via l’aspirapolvere e le pezze per spolverare, lasciando la porta aperta per permettergli di entrare. Sentì i suoi passi lungo le scale, dietro le ormai basse note della canzone, fino a quando se lo trovò sulla soglia con le mani cacciate in tasca e la testa bassa. Lo invitò ad entrare, scusandosi per il disordine dovuto alle pulizie interrotte e facendolo accomodare in cucina, seduti faccia a faccia davanti ad una tazza di caffè preparato al momento. Lavi si tolse con esitazione il giubbotto e il berretto, quasi a disagio, prima di sospirare e alzare lo sguardo sulla ragazza che gli stava seduta davanti.
«Rukia, come dire… mi dispiace per quel che è successo l’altra settimana. Davvero, non volevo risponderti così male ma… ero un po’ sotto stress. Non che voglia giustificarmi, è che… insomma, ho esagerato e volevo chiederti scusa.».
Rukia l’osservò tenendo la tazza di caffè tra le mani, sorpresa – non si aspettava che si presentasse a casa sua solo per chiederle scusa. Poggiò la testa contro la mano chiusa a pugno, soppesando le parole per una manciata di secondi, prima di riportare le dita a stringere la tazza azzurro ancora mezza piena.
«Lavi, davvero, non ce n’era bisogno. Sono stata indiscreta io ad insistere, vuoi anche lo stress post-esame, capisco che…».
«No, no.» la interruppe lui, agitando leggermente una mano «Non sei stata affatto indiscreta, sono io quello che è strippato così, di colpo… è che è un periodo un po’ pesante, diciamo così.».
La ragazza si appoggiò allo schienale della sedia, sospirando e limitandosi ad annuire con il capo. Lavi non sembrava affatto a suo agio, nemmeno mentre sorseggiava distrattamente il caffè. Aveva intuito che stava nascondendo qualcosa, non ci voleva un genio per capirlo, ma del resto non poteva nemmeno forzarlo a parlargliene – sarebbe stata una prepotenza del tutto ingiustificata e soprattutto ingiusta.
«Se non vuoi parlarne non ti obbliga nessuno, Lavi.» mormorò dopo un po’, avvicinandosi la tazza alle labbra «Tutti abbiamo segreti che preferiamo tenere per noi.».
Lo vide sollevare di colpo lo sguardo verso di lei, stringendo per un attimo il manico sottile un po’ più del dovuto, fissando poi altrove, quasi stesse considerando le sue parole. Apprezzava il fatto che Rukia avesse capito la faccenda – “in fondo non dobbiamo niente a nessuno”, avrebbe pensato suo fratello. Il che era anche vero, ma d’altro canto lì si erano dimostrati tutti gentili con loro, anche Hichigo, sebbene il suo primo approccio con Deak non fosse stato dei migliori. Non erano gli amichetti di comodo per i compiti, né appestati da evitare per i loro capelli o la benda. Chissà se anche Hichigo era stato trattato come loro per via del suo albinismo. Ad ogni buon conto pareva uno capace di farsi rispettare con le buone e anche con le cattive, cosa che né a lui né a Deak veniva istintivo. Il fratello era più il tipo che colpiva a parole, senza usare eccessive volgarità, non ne aveva bisogno. Ma lui… lui non era capace neanche di quello. E non poté che restare sorpreso, quando vide Rukia poggiarsi sul tavolo coi gomiti per sporgersi un po’ verso di lui.
«Nessuno di noi vuole obbligare te o tuo fratello a dire ciò che non volete, davvero.» disse «Ma per favore, non allontanarti così. Certo, ci conosciamo da poco, ma dispiacerebbe a tutti, me per prima, vederti tagliarci fuori. Non siamo tanto carogne da pugnalare la gente alle spalle, Lavi, cattiverie del genere non fanno bene a nessuno. Ti sembrerà strano detto da chi conosci da poco tempo, ma per piacere, fidati di noi. Siamo amici, no?».
Non lo so, Rukia. Ho paura a definire gli altri “amici”, anche se si tratta di voi.” fu il suo primo pensiero, che però non riuscì ad esternare. Certo, non si aspettava quelle parole da Rukia, come in ogni caso gli pareva ancora strano sentirsi accettato in quel gruppo di ragazzi così scalmanati, ma si era detto che era colpa della poca abitudine. Ma dall’altra parte quel timore di abituarsi e vedersi deluso lo bloccava ancora – sebbene tentasse di convincersi che era grande e vaccinato da poter affrontare una cosa del genere. Non poteva scappare per sempre, lo sapeva bene. Del resto, però, era un terreno pericoloso e che conosceva ancora poco, un po’ come un campo disseminato di trappole – e doveva muoversi cauto, per non rischiare di farsi veramente male. Si rese conto da solo che a furia di scappare non avrebbe mai risolto nulla, sarebbe rimasto imprigionato in quel limbo di solitudine in cui si era volutamente rinchiuso – ma forse, Rukia e gli altri ragazzi sarebbero stati un buon aiuto, un incentivo a smuoversi da quell’invisibile prigione che puzzava di stantio.
«Sì. Credo… credo di sì.».
Rukia gli lanciò un’occhiata perplessa.
«“Credi”?».
«Il fatto è, Rukia…» Lavi sospirò, premendosi maggiormente contro lo schienale e alzando lo sguardo verso di lei «Il fatto è che né io né mio fratello siamo mai stati accettati. Vuoi per le bende, vuoi per i capelli rossi non tinti, vuoi perché ci spostiamo continuamente da una città all’altra. Non prenderlo come vittimismo, con il tempo ci siamo abituati alla cosa, tutto sommato dopo un po’ non ci fai nemmeno più caso e vivi sereno anche senza essere circondato da altre persone. Per questo per noi è strano avere attorno gente “amica”, capisci? Cioè, questo vale per me. Deak si rifiuta a priori di provare a fidarsi ancora di qualcuno.».
«Ma c’è… insomma, un motivo particolare?».
«Temo di non potertelo dire, Rukia.».
«Capisco…».
«Cioè, lo so, ci sto facendo la figura del cane abbandonato che ha paura dell’uomo e che cerca la compassione altrui. Non è così, davvero, pietà da parte di altri è l’ultima cosa che voglio. Chiamami ridicolo se vuoi, ma… nemmeno io riesco ancora a fidarmi completamente di qualcuno.».
«Sono cose per cui serve tempo, Lavi. È chiaro che nessuno metterebbe i propri segreti in mano al primo che passa. E credimi che non sei affatto ridicolo, anzi. Siamo umani, in fondo, è lecito avere timori!» si sporse sul tavolo, poggiandogli entrambe le mani su un braccio «Ma vorrei che tu lo sapessi, anche come… toh, “informazione di servizio”. Io, mia sorella, Kaien, Lenalee… perfino Hichigo e Grimmjow, o Renji… insomma, ci siamo. Tra di noi abbiamo legato tanto in poco tempo, nessuno vi sbatterà le porte in faccia. Parlo ora per te, magari per tuo fratello ci vorrà qualcosina in più. Ma non vogliamo voltarvi le spalle, Lavi. Permettici di dimostrare a te, o a Deak… che non ci sono solo carogne in giro. Puoi fare questo tentativo?».
Il ragazzo rimase a guardarle per un attimo le mani, in silenzio, metabolizzando le sue parole. L’istinto fece subito nascere il pensiero del “a parole son bravi tutti”, ma s’impose di non farci troppo caso, o non ne sarebbe veramente mai uscito. Non ricambiò il suo sguardo, posando blandamente l’altra mano sopra le sue – e notando solo in quel momento quanto fossero piccole in confronto, e soprattutto calde nonostante ci fosse lo strato del maglione e della camicia a separare i suoi palmi dalla pelle del braccio.
Erano passati anni dall’ultima volta in cui aveva sentito un tocco così caldo e delicato, da troppo tempo si era circondato solo da freddo vuoto – figurarsi se Deak l’aveva mai consolato abbracciandolo, lui cercava un contatto che il fratello gli negava sempre, dovendosi quindi accontentare del tenero calore di un grande pupazzo a forma di coniglio che conservava ancora. Nemmeno i primi mesi dopo esser entrati all’istituto, quando si svegliava urlando e piangendo, Deak l’aveva abbracciato o gli aveva anche solo stretto la mano per fargli capire che c’era, che non era solo. Temeva il tocco degli estranei, nemmeno le giovani responsabili che prestavano servizio riuscivano ad avvicinarglisi senza vederlo indietreggiare spaventato. Si accoccolava contro la schiena del fratello per cercare un conforto da parte sua – quanto, quanto aveva sperato che si girasse e lo stringesse a sé? Eppure Deak non si era mai voltato, né gli aveva mai detto alcunché. Entrambi erano chiusi in una sorta di mutismo involontario, la voce dalla bocca di Lavi usciva solo nei mugolii che emetteva nel sonno, mentre il gemello non aveva spiccicato parola per mesi interi, comunicando con il solo sguardo quanto odiasse tutto ciò che lo circondava. Nemmeno il vecchio Bookman era mai stato incline alle coccole – nonostante fosse riuscito ad avvicinarsi a loro molto più di quanto non fossero riusciti a fare psicologi e pediatri in tutto quel tempo in cui erano rimasti all’orfanotrofio. Non li trattava con pietà, anzi. Mettendoli davanti a cose sempre nuove era riuscito a stimolare la loro infantile curiosità, tramutata nel tempo in vera e propria fame di conoscenza. Lavi ricordava fin troppo bene come, al posto delle classiche favole della buona notte, si facesse raccontare dall’anziano studioso gli aneddoti storici più curiosi e particolari che gli venissero in mente – e prima di dormire gli dava sempre una carezza sulla testa, lisciando i ciuffi di capelli rossi. Riusciva a dormire tranquillo, al sicuro, certo che il giorno dopo il vecchio sarebbe stato lì per farlo sedere in poltrona per raccontare qualche altro stralcio di storia che per lui era meglio di una fiaba. Certo, a parte quando veniva l’anniversario di quel giorno
Anche se il paragone gli sembrò un po’ azzardato, Lavi trovò il tocco gentile di Rukia rassicurante quasi quanto quello della madre che non vedeva da anni, e di cui ricordava veramente poco. Una blanda carezza dettata dalla sincera volontà di aiutarlo, di fargli capire che non era solo, non più. Anche se forse era un po’ troppo cresciuto per cercare gli abbracci altrui… ma proprio forse. Era passato così tanto tempo dall’ultimo abbraccio che aveva ricevuto, che quasi si era dimenticato cosa si provasse a sentire contro di sé il calore di un’altra persona.
«Sicura che non vi stancherete prima?».
«Non abbiamo tutti l’istinto da crocerossine che vogliono assolutamente aiutare il prossimo per il proprio ego, Lavi. Vi lasceremo i vostri tempi, è ovvio. Ma anche tu… insomma, puoi provare a venirci incontro.».
Lavi fece un leggero cenno d’assenso con il capo, alzando appena lo sguardo per sorriderle.
«Puoi provarci?» chiese ancora lei, ricambiando il sorriso.
«Posso provarci. Non assicuro nulla… ma posso provarci.».

 

** ** **


Aveva cercato per parecchio tempo di trovare l’occasione buona per riavvicinarsi a Deak e attaccare bottone con lui. Dalla sera di Capodanno, e pure durante il periodo degli esami, era stato fin troppo sfuggente: arrivava giusto cinque minuti prima dell’inizio dei test, appena finito usciva e se ne tornava a casa, al telefono si faceva negare con la scusa dello studio o che era fuori. Darkie non era mai stata tipo da impuntarsi o cercare insistentemente gli altri, men che meno un ragazzo, ma quella di Deak stava diventando quasi una questione di principio – non tanto perché le mancasse la sua compagnia in sé, era un ottimo compagno di studi e a Capodanno si era comportato pure bene, ma quei suoi precedenti tutt’altro che trascurabili non lo mettevano in pole position nella classifica di maschi con cui trascorrere un tranquillo pomeriggio di chiacchiere, quanto perché… beh, si sentiva quasi come se la cosa fosse rimasta in sospeso, tra loro. Poteva avere delle aspettative su di lui? Sarebbe riuscita a diventare un’amica, o anche semplicemente qualcuno a cui non rispondere male o lanciare occhiatine di sufficienza? Non riusciva a capire nemmeno lei perché ci fosse rimasta così male a vedersi voltare le spalle dal ragazzo – chiaro, se a “voltarle le spalle” in quella maniera fosse stato Hichigo sarebbe stato molto peggio. Si disse che voleva semplicemente mettere le cose in chiaro senza troppi giri di parole o tentennamenti che avrebbero già scoraggiato chiunque, sì, era solo per quello.
L’occasione sembrò capitarle a fagiolo il giorno di registrazione straordinaria dei voti di Psicometria. La volta precedente il professore era stato costretto a rimandarli a casa per via della mancanza dei registri, invitandoli quindi a tornare per quel giorno. Deak, tanto per cambiare, si era preso un posto in ultima fila, distante dai gruppetti di studenti che chiacchieravano tra di loro in attesa dell’arrivo dell’insegnante. Si aspettava di vederlo arrivare all’ultimo come agli esami, invece si era presentato in anticipo come gli altri. Quell’esame era stato parecchio critico un po’ per tutti, lei stessa aveva dovuto impiegare molto più tempo del solito per cercare di dare tutte le risposte agli esercizi. Ciò che l’aveva un po’ stupita era il fatto che in quell’occasione Hichigo si fosse rivolto a lei pochissime volte, per lo più tenendo la testa china sul foglio e scrivendo nervosamente in malacopia le prove delle esecuzioni. Ben decisa a non farsi sgamare aveva atteso che fosse lui a chiamarla, facendosi passare i fogli delle brutte copie più velocemente che riuscivano. Dopo l’esame, però, non aveva più voluto dire niente, né si era giustificato per quel suo bizzarro comportamento. A lei non dispiaceva aiutarlo, anzi, si prodigava ben volentieri per il suo migliore amico. Si guardò intorno per cercare la sua zazzera chiara, che solitamente spiccava più che facilmente in mezzo alla gente, ma niente, non c’era ancora. Sospirò, magari non era andata benissimo e si era ritrovato costretto a rifare il compito daccapo – sperò di cuore non fosse così, che in realtà fosse solo in ritardo, perciò  decise di occuparsi del soggetto a portata di mano. Appese la giacca all’appendiabiti in fondo all’aula e prese posto sulla sedia davanti a lui, poggiando i gomiti sul tavolo che aveva di fronte.
«Certo che potresti anche evitare di snobbarci così allegramente, eh.» disse, guardando avanti. Sapeva che Deak l’aveva sentita benissimo, come constatò quando lo sentì sospirare seccato.
«Non vi sto snobbando. Non mi pare ci sia nient’altro da dire, no?» ribatté lui, giocherellando con la copertina del libretto universitario.
Punta sul vivo, Darkie si girò verso di lui tutt’altro che convinta.
«Nient’altro da dire? Ma c’è bisogno per forza di avere qualcosa da dire per stare con qualcuno? E no, non t’azzardare a dire “sennò non c’è motivo per stare insieme”!».
Deak alzò lo sguardo verso di lei con espressione seria, a tratti quasi annoiata.
«Ti stai rispondendo da sola.».
Diamine, che voglia di tirargli un pugno in un occhio le stava facendo venire! Digrignò i denti ingoiando le imprecazioni che le stavano per uscire di bocca, stringendo il pugno sullo schienale della sedia, prima di sospirare pesantemente per calmarsi – o almeno, provarci.
«Okay, okay, allora sturati le orecchie perché io ho qualcosa da dirti. Non abbiamo forse lavorato bene, per antropologia? Oppure, che so… a Capodanno, ecco! Non ti sei divertito anche tu? Non hai nemmeno litigato con Hichigo, o tuo fratello… pensavo che…».
«Non so cosa pensassi e non m’interessa. Per antropologia mi son visto costretto a lavorare con voi.».
«Costretto un cavolo! Potevi benissimo lavorare con qualcun altro! Sbaglio, o sei stato tu a cercare quella “con il cervello valido nel gruppo”?».
Deak ebbe il buonsenso di tacere, riconoscendo che in effetti aveva ragione. Senza contare che era stato lui stesso ad ammetterlo, quando lei si era presentata per la prima volta a casa sua.
«E a Capodanno, allora? Non ti abbiamo ficcato una pistola in bocca per costringerti a venire da noi, né era una questione di cervello valido o meno.».
«Quello perché-…».
Venne interrotto dall’arrivo del professore, che intimò il silenzio in classe, costringendola così a girarsi per guardare avanti e interrompere quella quasi-chiacchierata – o pretesa di spiegazioni, più che altro. Chissà cosa si sarebbe inventato per giustificare la sua partecipazione alla festa di Capodanno. Sbuffando si guardò distrattamente intorno, cercando Hichigo: possibile che avesse veramente cannato il test e che quindi non si fosse presentato? Si rigirò il libretto universitario tra le mani, lisciando le pagine e giocherellando con i bordi della copertina plastificata, notando quasi per caso, al lato opposto della fila dove stava seduta, un ragazzo insaccato nelle spalle e con un berretto nero calcato sulla testa. Sulle prime non gli aveva minimamente prestato attenzione, presa com’era a cercare una certa zazzera bianca, ma alcuni ciuffi chiari che spuntavano da sotto il bordo lo tradirono in pieno.
«Hichi!» sibilò, sporgendosi verso di lui.
L’interpellato sobbalzò, guardando alla propria destra e incrociando lo sguardo di Darkie, ormai quasi stesa sulle sedie per potergli parlare senza farsi scoprire.
«Ma che hai da nasconderti, si può sapere?».
«Non mi sto nascondendo.» borbottò lui, spostandosi di un posto nella sua direzione.
«E ‘sto cappello, allora?».
«Non ho cavoli di togliermelo. Riesci a star buona e zitta dieci minuti, Darkie? Poi parliamo con calma.».
«Ma…».
«Kuchiki!».
La ragazza sobbalzò, sentendosi richiamare dal professore. Mormorò qualche scusa, abbassando la testa e tormentando il libretto che teneva tra le mani. Sentì lo sbuffo di Deak alle proprie spalle, ma fece finta di nulla. Nel mentre, uno alla volta, gli studenti presenti vennero chiamati per la registrazione dei voti. Era curioso notare le diverse reazioni, da quelli che ricevevano voti più alti del previsto e parevano felici come il giorno di Natale, altri che non mostravano particolare entusiasmo senza rinunciare ad un sorriso soddisfatto, a quelli che parevano usciti da un funerale. Accanto a lei, Hichigo stringeva i bordi della copertina del libretto fin quasi a piegarli, tanto era nervoso. Tra sé Darkie sperò che non si aggiungesse alla schiera di quelli che avevano rimediato l’insufficienza o un voto giust’appena superiore, le sarebbe dispiaciuto un sacco per lui – e d’altra parte, sperò a propria volta di aver preso un voto discreto. Quando venne chiamato, Deak si avviò con fare noncurante alla cattedra, porgendo al docente il libretto già aperto e i documenti d’identificazione. Non era il tipo che gioiva dei propri voti, nemmeno quando riusciva a prendere la lode – e i suoi voti, da quel che aveva visto, non andavano mai al di sotto del 28. Infatti, non appena tornò al proprio posto gettò noncurante il tutto sul tavolo, chinandosi per prendere la propria borsa.
«Ehi, non penserai di filartela.» sbottò Darukia, voltandosi verso di lui.
«Non me la filo, torno a casa.» replicò il ragazzo, infilando libretto e documenti in una tasca e chiudendo la zip con un colpo secco.
«Ma non ho ancora finito di parlare!».
Le rivolse un’occhiata di sufficienza, infilandosi la borsa a tracolla e facendo spallucce, accennando un sorrisetto sprezzante.
«Peccato per te che non me ne freghi niente.».
La lasciò lì, ferma al suo posto a fissare la sua schiena mentre usciva dall’aula. Mentre scendeva le scale si morse la lingua – e se la sarebbe tranciata piuttosto che ammettere che effettivamente in sua, anzi, loro compagnia stava paradossalmente bene. Aveva lavorato tranquillamente per la ricerca di antropologia, stuzzicare Hichigo lo aveva divertito parecchio, così come si era sentito accettato e tranquillo la sera di Capodanno, seppur in mezzo a gente che non conosceva – e aveva trovato pure gente con cui era quasi… piacevole scambiare due parole. Non che questo gli avesse fatto cambiare idea, meno si lasciava andare e meglio era, e l’esperienza gli aveva insegnato a non lasciare troppo scoperto il fianco con la scusante del “facciamo amicizia”. Non avrebbe compiuto di nuovo l’errore di fidarsi degli altri, di qualcuno esterno alla propria famiglia… anzi, di tutti, a parte se stesso.


«Dai, lascia perdere.» borbottò Hichigo, poggiando il mento sul pugno chiuso «Quel deficiente non si merita un briciolo di considerazione, parla per dar fiato alla gola e basta.».
La ragazza si strinse nelle spalle, tutt’altro che convinta. A dirla tutta si diede della stupida per essersi impuntata così testardamente su quel tipo che chiaramente non voleva aver niente a che fare con loro, e soprattutto per esserci anche rimasta male. Quel che non capiva era la ragione di quel palese rifiuto, non gli avevano fatto niente di male per meritarsi tanto menefreghismo da parte sua. Non sapeva veramente come comportarsi, se fregarsene una volta per sempre o provare a prenderlo con un approccio diverso. Era talmente presa dai suoi pensieri che Hichigo dovette tirarle una gomitata al fianco e farle cenno verso il professore, che la stava fissando spazientito. Recuperò le proprie cose in tutta fretta, avvicinandosi alla cattedra e porgendo il libretto all’insegnante, che le convalidò con una firma il 27 che si era guadagnata. Certo, non era uno dei suoi voti migliori, ma per lo meno si era levata dai piedi quell’esame infernale. Si accucciò a terra per sistemarsi la borsa, mentre Hichigo si avviava a propria volta verso la cattedra, tenendo stretti libretto e documento. Guardò verso la pagina che gli era stata firmata solo dopo che il docente gli ebbe spinto il libretto sotto gli occhi.
«Che, scherza?» buttò lì, sinceramente perplesso.
«Affatto, Kurosaki. Sarò sincero, da te non me lo sarei aspettato, ma a quanto pare mi sbagliavo.» replicò l’insegnante, sfogliando il registro per chiamare lo studente successivo «Su, fila al posto.».
«Oh. Beh… grazie.».
Tornò al proprio posto con un ghigno che andava da un orecchio all’altro, soddisfatto come non mai, ma non disse nulla alla ragazza che lo fissava incuriosita. Prese la propria borsa, buttando dentro il tutto e sistemandosi sottobraccio la giacca, avviandosi fuori dall’aula – e Darkie lo seguì pochi passi dietro, mentre si allacciava il cappottino.
«Allora? Dai, Hichi, sputa il rospo.».
Faceva tanto il prezioso, lui, soddisfatto come non mai di se stesso. Alla fine la sua prova aveva dato dei frutti discreti – certo, ben lungi dai livelli a cui era abituato grazie agli aiuti della ragazza, ma era comunque un buon inizio per lui. Sfregò una mano sulla testa di Darkie, che gli strattonava la manica per sapere cos’avesse da sorridere così. Rovistò quindi nella borsa, porgendole il libretto.
«Su, guarda, guarda cosa riesco a fare senza il tuo aiuto. Cioè, quasi senza. Però per di più da solo, ecco.» disse, guardandola mentre cercava la pagina, gonfiando il petto con soddisfazione.
Darkie non riusciva a crederci. Hichigo si era guadagnato un 22 tutto da solo – o quasi. Okay, qualche domandina gliel’aveva fatta, ma molte di meno rispetto al solito, e il risultato era stato quel 22, che un po’ stonava in mezzo ai 27 e 28 che costellavano il resto della pagina, ma probabilmente il ragazzo era molto più soddisfatto di quel voto più basso, ottenuto da solo, che non usando i suoi suggerimenti.
«Sei stato bravissimo, Hichi!» esclamò sinceramente contenta, rimettendogli il libretto in borsa «Hai visto che non sei proprio uno zuccone come credi? Se vuoi ci riesci benissimo!».
Lui annuì, passandole un braccio intorno al collo mentre scendevano le scale, rischiando di farla inciampare.
«E visto che oggi sono estremamente felice, ti offro pure da bere. Così non avrò più debiti con te, piccoletta malefica.» replicò, senza smettere per un istante di sorridere.
Si avviarono al bar più vicino, brindando alla sua piccola vittoria morale con due belle cioccolate calde. Niente a che vedere con quelle che servivano al Black Moon, ma per il momento andavano più che bene.
«E comunque…» borbottò lui, leccandosi i baffi di cioccolato «Non stare a pensare a quel testa di pirla. Avrà avuto le palle girate.».
«Sarà… ma insomma, ti pareva la maniera di rispondere? Dopo che abbiamo cercato di aiutarlo e l’abbiamo pure accolto nel nostro gruppo, che diamine!» ribatté la ragazza, azzannando un cornetto alla marmellata.
Hichigo scrollò le spalle, grattando sul fondo con il cucchiaino per raccogliere gli ultimi rimasugli di cioccolata e zucchero.
«È un pirla, te l’ho detto. Meglio perderlo che trovarlo, dai retta a me!».
«Non lo so, Hichi… cioè, è paradossale! Senza contare che ha ancora i nostri libri e quaderni, ma… non so, ti pare gli abbiamo fatto qualcosa di male?».
«Ovvio che no, è solo lui che ha troppe pippe per la testa. Fidati, quello non sta mica messo bene col cervello.».
«Uno che colleziona 30 e lode sul libretto non è del tutto scemo.».
«Tsk, ovvio che nello studio è così bravo, non fa un cazzo d’altro tutto il giorno! Sempre su libri e appunti, è già tanto che sia venuto a Capodanno senza portarsi dietro un libro per studiare. Lodevole senza dubbio, ma figliolo, fatti una vita.».
La ragazza sospirò di nuovo. Rukia si era ritrovata nella stessa situazione con Lavi, solo che quest’ultimo non le aveva sputato in faccia tutto il suo cinismo: la sorella le aveva raccontato di quella loro piccola chiacchierata in soggiorno, mentre lei era a lezione, e la cosa l’aveva sorpresa non poco. Ciò che infastidiva entrambi i gemelli doveva essere un fattore comune che avevano trovato in casa loro, e l’unica idea che le veniva in mente erano quelle famigerate carte. Ma che c’entravano loro con il titolare di quel colosso dell’industria farmaceutica contro cui Byakuya stava preparando un’accusa senza pari? Non aveva mai scoperto cosa avessero gli occhi di entrambi, il motivo per cui portavano una benda all’occhio destro, che c’entrasse qualcosa? Eppure, qualcosa le diceva che per attaccare bottone non era l’argomento più adatto da tirare in ballo, o avrebbe seriamente rischiato di ritrovarsi una porta sbattuta in faccia. L’orgoglio le impediva moralmente di presentarsi da lui implorando spiegazioni – nossignore, non si sarebbe abbassata a tanto, non ci teneva a far la figura simile a quella della fidanzata lasciata con il cuore a pezzi senza un perché. Sarebbe stata ferma senza dubbio, se si aspettava che dopo la sua rispostaccia cedesse le armi si sbagliava di grosso. Se possibile, in testardaggine a scoprire le cose eguagliava – e forse superava – perfino Byakuya.Aveva la scusante perfetta per presentarsi da lui il giorno dopo – i loro libri erano ancora lì. E, volente o nolente, le avrebbe fornito le risposte che cercava.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Preludio ***


Ohil- *schiva pomodori* lo so, scusateeeee! Sono in ritardo ritardassimo, non posso nemmeno dire che non è colpa mia, ma sapete, il freddo, la pigrizia, il blocco dello scrittore… insomma, non è del tutto colpa mia. Mi perdonate, vero? Insomma, mi posso ingraziare qualcuno con questo capitolo lungo quanto il precedente? Spero davvero di sì, sennò prego comunque per la vostra magnanimità xD Anzi, no, non ho esattamente solo cazzeggiato, sarò franca xD Per la serie "spargiamo il verbo del ByaSana", ho aggiunto un'altra oneshot al ciclo di "When the Snow falls". Il richiamo ByaSanico per me è sempre irresistibile, se ne ho l'occasione <3
Sono un po’ di corsa, stasera, anche se stranamente riesco ad aggiornare ad un orario VERAMENTE UMANO. LOL. Ma ci tenevo a lasciarvi l’aggiornamento prima della partenza per le ferie di Natale. Vado al caldo, migro come le rondini. Tanto torno per Capodanno, eh, ma qualcosina ve la volevo lo stesso lasciare. Non perdo ovviamente occasione per ringraziare tutti coloro che seguono questa storia, chi addirittura non manca di recensire ogni volta nonostante gli apocalittici ritardi, vi adoro! Siete voi il mio carburante per continuare questa long che, spero, possa continuare a piacervi. Un ultimo avviso, poi smetto di rompervi: forse le gemelline sembreranno un po' OOC (e forse lo sono, chiedo venia), ma mi son voluta prendere una piccola "licenza" per quest'occasione - anche perché in seguito avranno poco da scherzare, ma non voglio anticiparvi nulla. Non vi tedio oltre e vi lascio alla lettura, belle bimbe. Alla prossima!
 
 
 
 
 
Capitolo 11 – Preludio


 

 
«Darkie, ma si può sapere cosa ti prende? Hai un’aura omicida attorno!».
Rukia osservava la sorella da diversi minuti mordicchiando il tappo della penna nera, lo sguardo fisso sulla ragazza seduta di fronte a lei e una mano che cercava alla cieca i biscotti sistemati su un piatto poco distante. Ne aveva appena morso uno quando Darukia sollevò appena la testa per riuscire a vederla in viso, rivolgendole involontariamente un’occhiata torva che la stupì non poco.
«No, non dirmelo. Scommetto che è colpa…».
«Di Deak, sì.» ringhiò l’altra completando la frase di Rukia, stringendo il portamine nero tanto da far scricchiolare il gancetto argento.
La sorella sospirò, richiudendo la penna e portandosi il viso tra le mani, coi gomiti poggiati sopra il quaderno degli appunti. Era da quando si era seduta a tavola in salotto, il loro posto prediletto per sistemare gli appunti come quando andavano al liceo, che Darukia aveva continuato a fissare con aria malevola il libro di etologia, scarabocchiando di quando in quando poche parole e sottolineando frasi apparentemente a caso. Hichigo l’aveva accompagnata a casa – e l’albino aveva rivolto una semplice scrollata di spalle allo sguardo perplesso di Rukia, che osservava la sorella dirigersi a passo di marcia verso la propria camera, dopo averle rivolto un saluto distratto. “Il solito pirla con la lingua da aspide.”, aveva detto lui. E c’era una sola persona capace di far arrabbiare in quella maniera la ragazza. Anzi, arrabbiata non era nemmeno la definizione corretta – pareva, piuttosto, testardamente determinata. Probabilmente, mentre sottolineava frasi su frasi, si rivedeva durante la discussione che l’aveva fatta alterare così.
«Che ha combinato stavolta?».
Era meglio andarci cauti in certe situazioni: Darkie non era il tipo che esplodeva in scatti di rabbia, ma del resto era da quando aveva conosciuto Deak che i suoi malumori erano diventati più frequenti. Nemmeno quando aveva conosciuto Hichigo si era comportata allo stesso modo.
«È una testa di fava. Uno stupido testardo e maleducato. Che nervi mi fa venire, quel… quel cretino!» esclamò la ragazza, sbattendo una mano sul tavolo e rovesciando briciole sul ripiano «“Non me ne frega niente di quel che dici”, ma scherziamo? Nemmeno Hichi mi ha mai risposto così!».
«Perché Hichigo è tuo amico e tiene a te, si sa. Anche se all’inizio ti prendeva sempre in giro.».
«Appunto. Cioè, ma con tutta la buona volontà, ti pare una risposta sensata e da persona intelligente? Secondo me lui e Lavi non sono nemmeno fratelli, sono tipo vipera e agnellino!».
Rukia scrollò leggermente le spalle, sospirando. Le aveva raccontato per sommi capi la loro discussione, ma non aveva accennato a ciò che Lavi le aveva riferito riguardo al gemello.
«Secondo Lavi, Deak ha bisogno di… più tempo, per fidarsi di qualcuno. O anche solo convincersi a provare.» mormorò esitante, giocherellando con la penna.
La gemella sbuffò, lasciando cadere il portamine tra le pagine del libro. L’aveva capito anche lei che a Deak serviva tempo, non era un parere influenzato di Lavi, impietosito perché si trattava del fratello. Quel che non capiva era la sua necessità di essere così scontroso e maleducato anche con chi tentava pacificamente di avvicinarlo. Rukia le aveva riferivo anche il poco che il ragazzo le aveva detto riguardo al loro “farsi accettare” dagli altri. Certo, non doveva esser stato un bel vivere, costantemente messi in disparte per via del colore dei capelli o della benda sull’occhio. E per certi versi poteva pure capire il suo essere così restio ad avvicinarsi a qualcuno, ma lui si stava veramente chiudendo a riccio contro chiunque.
«Darkie, secondo me non è cattivo come vuole far credere. Magari la sua è solo…».
«Paura.» sbottò lei, poggiando il mento su un palmo «Deak ha paura. Vuol tenere tutti a distanza perché ha paura di essere ancora allontanato o tradito, quindi ovvia il problema evitando per primo di avvicinarsi a qualcuno.».
«Ecco perché Lavi ha detto che si rifiuta di provare a fidarsi degli altri… ma secondo te abbiamo una faccia così da mascalzone?» mentre parlava cercò un altro biscotto, mangiucchiandolo distrattamente.
«Non penso sia quello il fatto, Rukia… senti, io vado a parlargli. A costo di piantare le tende sotto il portico di casa sua.» annunciò, richiudendo il libro e gettando il portamine nell’astuccio.
«Darkie, aspetta!» Rukia cercò di trattenere la gemella, prendendola per un polso «Forzarlo non servirebbe a niente, lo faresti arrabbiare ancora di più.».
«Non voglio forzarlo, infatti.» replicò l’altra, facendo spallucce «Né voglio che mi dica perché si fa tante paranoie ritenendoci tutti dei mostri. Insomma, capirà anche lui che non voglio essergli amica per un tornaconto personale, no? È acido come il latte scaduto!».
«Appunto. Perché ti ostini tanto con lui? Non dirmi che senti gli istinti da crocerossina che vede il poverino in difficoltà e lo vuole aiutare!».
«Lo curerei a suon di ceffoni, altroché.» si prese qualche attimo, prima di riprendere a parlare «Non lo so perché, Rukia. Non è di certo pena o filantropia, però…».
«Sei curiosa?».
«… Non posso negarlo. Ma non è quello il punto, davvero.».
«Non è che sta cominciando a piacerti, piuttosto?».
«Quando un pugno allo stomaco. Certo che no, scema!» arrossì a quelle parole, accigliandosi. Ovvio che non era per quello, che razza di idee assurde gironzolavano nella testa di sua sorella? «Anche perché sarei piuttosto masochista, non ti pare? Tu, piuttosto, potrei dirti lo stesso di Lavi. Fate pure le chiacchierate in casa all’insaputa di tutti… pensa se viene a saperlo nii-san.».
«N-non è vero! E poi è stato lui a venire qui, non l’ho di certo chiamato io! Abbiamo solo parlato!».
Darukia sghignazzò di fronte al rossore che imporporava le guance della sorella, raccogliendo la propria roba per riportarla in camera.
«Stavo scherzando, Rukia. Certo che se ti infervori così…» le fece una linguaccia prima di entrare nella stanza, lasciando tutto sopra la scrivania e cercando la propria giacca. Si sistemò per bene la sciarpa e si avviò all’ingresso, seguita dallo sguardo della sorella.
«Ti conviene portarti un ombrello, mi sa che tra un po’ piove.» bofonchiò tra un pezzo di biscotto e l’altro «Ma non è meglio se aspetti nii-san?».
«Byakuya tornerà tardi e quel cafone non può pensare di farla franca così a buon mercato. Meglio battere il ferro finché è caldo, no?».
«Finisce che ti butta veramente fuori di casa.» Rukia incrociò le braccia al petto, tutt’altro che convinta «Darkie, davvero, io non mi fido a lasciarti andare da sola, d’accordo che è nuvoloso e non buio pesto, ma…».
«Sorellina, tu ti preoccupi troppo.» l’altra le sorrise, chinandosi per sistemarsi ai piedi gli stivaletti «E poi avrò anche l’ombrello, sai che non mi tiro indietro dall’usarlo come arma se qualcuno prova a mettermi le mani addosso.».
«Non dirlo neanche! Aspetta un secondo, eh.» corse in camera ciabattando rumorosamente lungo il corridoio, tornando dopo un paio di minuti con una mini-bomboletta che le mise in mano «Spray al peperoncino, non si sa mai.».
Darkie stava per replicare con una battuta, ma lo sguardo serio della gemella la convinse a tenere la lingua tra i denti. Povera Rukia, era davvero preoccupata. Le assicurò che avrebbe fatto attenzione, dandole un rapido abbraccio prima di uscire – erano veramente tanto legate, in fondo era inevitabile che si preoccupassero così l’una dell’altra. Una volta in cortile, constatò che effettivamente era più buio di quel che pensava. Non che fosse troppo tardi, per quello – anche perché non avrebbe percorso strade buie o scorciatoie, tenendosi comunque sulle strade principali. D’accordo voler risparmiare tempo, ma non era tanto stupida da girare da sola lungo vie isolate. Strinse forte l’ombrello e lo spallaccio della tracolla, sistemandosi le cuffiette alle orecchie – un po’ sconsigliate, ma era più forte di lei: la inquietava troppo non avere la musica, quand’era fuori. A conti fatti, se la sarebbe cavata in un’oretta e mezza, forse, giusto il tempo di tornare a casa a mangiare – e, sottilmente, sperò che Byakuya non la sgridasse per essere uscita da sola. Non era come un cane da guardia, certo, ma era pur sempre un fratello maggiore abbastanza apprensivo e severo, nel suo piccolo faceva del suo meglio perché non finissero nei pasticci. Si ritrovò a canticchiare a mezza voce, mentre costeggiava un corso d’acqua protetto dalla recinzione. Anche vicino alla villa dove viveva il resto della sua famiglia c’era un fiumiciattolo del genere, ricordava benissimo quando lei e Rukia, da piccole, scappavano di nascosto per andare a tirare i sassi in acqua – e pure quante volte Sojun avesse minacciato di sculacciarle se si fossero allontanate di nuovo senza dire nulla. Se l’erano quasi sempre cavata facendo gli occhi lucidi al padre che, per quanto ci provasse, non riusciva davvero a prendersela con quelle due piccole pesti. Alla fine avevano fatto di Byakuya loro complice, ambasciatore col genitore e responsabile affinché si assicurasse che nessuna delle due finisse accidentalmente in acqua– e sì, era successo pure quello. Ma quella volta Rukia aveva pianto così disperata che Sojun non se l’era sentita di rimproverarla ulteriormente, si era spaventata già a sufficienza, contando anche che al tempo la poverina non sapeva nemmeno nuotare. Sorrise nell’osservare il pigro scorrere dell’acqua, notando quasi per caso le luci dei lampioni accesi che si riflettevano sulla superficie in figure indistinte. Essendo piuttosto distanti gli uni dagli altri creavano zone d’ombra tra loro, ma nell’immediato non ci fece nemmeno caso. Ormai mancava poco alla casa dei gemelli Bookman, appurò dandosi una rapida occhiata attorno. Era finita nella zona residenziale, immersa nella pace più completa, anche i veicoli passavano di rado da quelle parti. Era così rilassata che quasi avrebbe accennato qualche passo saltellato, facendo ondeggiare la borsa e l’ombrello – non fosse che si sentì tirare per un polso all’improvviso, facendola trasalire.
Era una presa chiaramente maschile, sentiva il polso imprigionato in quella stretta troppo forte per lei, e mentalmente si mandò mille accidenti per non aver lasciato a casa l’mp3. Mannaggia a lei e al suo vizio di tenere le cuffiette! Prima che potesse pensare o fare qualsiasi cosa si sentì strattonare indietro, facendola barcollare, mandandola nel panico più completo. Rukia aveva ragione, avrebbe dovuto stare attenta, non uscire da sola, non quando stava lentamente calando la sera.  Sentì un brivido gelido quando avvertì una mano sulla schiena, poco più sopra del sedere, sul momento non capì nemmeno se la stesse tenendo per la cintura del cappotto o meno. Lo spray, dov’era lo spray? Chiuso in borsetta, si rispose subito, ma l’unica mano libera era quella che reggeva l’ombrello – motivo per cui, voltandosi, lo brandì a mo’ di mazza, allungando preventivamente un calcio in mezzo alle gambe del suo aggressore.
«Porco!» esclamò colpendolo alla schiena più volte, approfittando del fatto che quello si fosse piegato in due per il dolore «Maniaco schifoso! Ti insegno io… a dar fastidio… alle ragazze sole… brutto stronzo… che non sei altro!».
Ogni frammento di frase veniva intervallato da un nuovo colpo alla schiena o alle gambe, aggiungendoci poi schiaffoni, calci, borsate e pure pugni intrecciati sulla testa. E l’altro ringhiava lamenti tra i denti, tentando di proteggersi come meglio poteva, riuscendo dopo poco ad allontanarla con una leggera spinta e risollevandosi. Darkie deglutì, era spaventosamente più alto di lei e pure più robusto – non che ci volesse molto, considerò amaramente. Lo vide allungare una mano verso di lei, al che reagì istintivamente con un ceffone sul palmo che le bruciò da matti e che fece masticare una colorita imprecazione a quel tipo – ma quando tentò di tirargliene un altro si sentì afferrare di nuovo, mentre anche l’altra mano veniva imprigionata nella stretta di quei palmi troppo grandi.
«Lasciami! Lasciami o giuro che urlo!» tentò di tirarsi indietro strattonando le mani ma niente, non sembrava minimamente intenzionato a mollarla «Ti ammazzo se solo provi a toccarmi, bastardo!».
«Macché toccarti e toccarti, cretina!» brontolò lui, tirando il filo delle cuffiette per fargliele cadere dalle orecchie «Si può sapere che diavolo ti è preso? Tu sei completamente pazza! Ehi, guardami. Guardami, accidenti!».
Darkie sollevò appena lo sguardo, senza smettere di tremare – non aveva mai desiderato tanto di essere a casa con Rukia e Byakuya, al sicuro, al calduccio -, rendendosi conto dopo una manciata di secondi che quello che aveva davanti non era affatto un maniaco, ma il più acido dei gemelli Bookman – certo, imbacuccato come un moscovita, ma quei ciuffi rossi su cui era riflessa la debole luce del lampione erano inconfondibili. Ne fu quasi sollevata, sperando che le ginocchia non le cedessero proprio in quel momento, ma gli occhi furono più infami e non tardarono a diventare lucidi di lacrime trattenute.
«D… Deak?!» singhiozzò, sentendosi le guance avvampare. Diamine, che spavento s’era presa.
«Stupida!» esclamò il ragazzo, tenendole ancora i polsi stretti nei pugni «Non te l’ha detto nessuno di non girare di sera con quelle diavolo di cuffiette nelle orecchie? Avevo poco da chiamarti, se tenevi la musica a palla!».
«Mi… mi stavi chiamando?».
«Cosa che non è servita a niente, vista la scarica di botte che mi hai dato del tutto gratuitamente. Che ci fai qui? Non stavi venendo da noi, vero?».
La ragazza ammutolì e s’imbronciò, punta sul vivo, mentre cercava una risposta abbastanza verosimile per salvaguardare la propria credibilità. L’acidità di Deak le aveva fatto completamente dimenticare lo spavento.
«C-certo che no! Stavo andando… a far la spesa!». Totale fallimento, altroché.
«Qui?» il ragazzo sollevò un sopracciglio con aria scettica, incrociando le braccia al petto «Un vero peccato che i negozi siano da tutt’altra parte. Ho forse la scritta “fesso” stampata in fronte?».
«Ooh, e va bene!» sbottò lei, stringendo i pugni «Sì, stavo venendo da te, d’accordo? Non pensare di abbindolarmi con quella linguaccia da vipera che ti ritrovi, in primis perché son sicura di non averti fatto nulla di male per meritarmi tutta ‘sta cafonaggine da parte tua.».
Deak abbassò lo sguardo sull’indice che lei aveva preso a premergli contro il petto, come a rimarcare il concetto. Accidenti, quant’era testarda. Stava chiaramente per dire qualcos’altro, quando la vide scrutarlo aggrottando le sopracciglia.
«Vieni un secondo qui.».
Lo trascinò di più sotto la luce del lampione, prendendogli il mento tra le mani per rigirargli il viso e vederlo meglio. Ignorò lo sguardo scettico del ragazzo, abbassandogli la sciarpa dal naso e notando quanto la pelle fosse arrossata – non si era davvero risparmiata con i colpi. Un rivolo rosso prese a scendergli dalla narice, finendo lentamente sul bordo delle labbra. Epitassi, fantastico. Abbassò la testa porgendogli un fazzoletto, vergognandosi a morte.
«Scusa, non volevo.» mormorò, rabbuiandosi.
Non intendeva fargli così male, accidenti, chissà lividi che gli aveva lasciato pure sulle gambe. Non era mai stata il tipo da mettere le mani addosso a qualcuno, lei, ma il terrore di essere finita tra le grinfie di un maniaco aveva mandato in totale black-out il suo proverbiale autocontrollo. Deak si toccò la bocca, leccando quelle poche gocce che erano finite sulle labbra e sentendo immediatamente il gusto ferroso del sangue, scoccando una rapida occhiata alla ragazza davanti a sé.
«Sarai contenta, immagino.» sbottò, afferrando il fazzoletto che lei ancora gli porgeva e premendoselo contro il naso, alzando la testa verso l’alto «Ammettilo che non aspettavi altro.».
«Co… cosa? Ti sembro il tipo che va a menar le mani a destra e a manca?» Darkie strinse l’ombrello tra le mani, soffocando a fatica l’istinto di usarlo per tirargli un altro colpo in testa «Pensavo fossi un maniaco, ecco tutto. Sarai stato anche un gran cafone, ma di certo non vendicherei riempiendoti di botte – e poi, tanto per essere puntigliosi, sei pure tanto più grande di me, sarei io quella che finirebbe col farsi male!».
«Visto che per oggi hai già combinato abbastanza guai, che ne dici  di eclissarti? Giuro di non denunciarti.» le propose lui con un sorrisetto sbieco.
«Suvvia, tuo nonno si chiederà dove hai rimediato così tanti lividi, non voglio sfuggire alle mie responsabilità. Gli spiegherò tutta la situazione.» replicò la ragazza, ricambiandolo con un sorriso affabile e altrettanto falso.
«Mio nonno non c’è, è via per lavoro.».
«Sì che c’è, quando ho chiamato tuo fratello ha detto che era in casa pure lui e che non avrebbe avuto problemi se mi fossi presentata.» non sapeva nemmeno da dove le fosse uscita quella bugia, presa dalla foga del momento. Sperò solo di non aver detto una scemenza colossale.
«Lavi dovrebbe cucirsi la bocca col filo spinato.» borbottò l’altro a denti stretti.
Avvertiva, oltre al fastidioso calore al naso che non accennava a smettere di sanguinare, anche un vago bruciore allo stinco sinistro. Quella dannata ragazzina non gliene aveva risparmiata mezza, se non altro aveva avuto prova di quanta forza e irruenza fossero racchiuse in quel corpo così minuto. Anche se per un attimo pensò che forse, ma proprio forse, avrebbe preferito lasciare che fosse quell’individuo che la seguiva da un po’, tenendosi diversi metri più indietro e ben al riparo dalla luce, a prenderle di santa ragione in caso avesse avuto la malaugurata idea di aggredirla. Non era certo intervenuto per difenderla da un’eventuale molestia, nossignore. Almeno così volle convincersi, mentre si avviava verso casa con quella piccola furia che lo seguiva con un sorrisetto soddisfatto stampato in faccia – sembrava totalmente inutile allungare il passo per cercare di distanziarla. Certo era che aveva non poche difficoltà a camminare tenendo alta la testa per fermare il sangue, in più con la benda e la luce piuttosto scarsa del viale la visibilità non era delle migliori. Ma non si sarebbe mai abbassato a chiederle di dargli una mano, piuttosto si sarebbe schiantato contro il primo albero disponibile – e l’avrebbe fatto a testa alta, letteralmente.
«Deak?».
«Che vuoi, ancora?».
«Volevo solo avvisarti che tra due passi rischi di spalmarti contro un palo.».
Lui però non fece in tempo a frenarsi, sbattendo violentemente la punta del piede sinistro contro un paracarri in cemento e facendosi scappare uno strozzato “Cazzo!” che gli uscì del tutto spontaneo. Si chinò tenendosi il piede dolorante, masticando imprecazioni come uno scaricatore di porto. Gli stava salendo un’enorme voglia di prenderlo a calci, quel dannato palo in cemento, ma chi era stato l’idiota che l’aveva messo in mezzo alla strada? Ripensandoci ancora, era solo ed esclusivamente colpa di quella ragazzina che gli stava accanto se era stato costretto a camminare col naso per aria. Accidenti, accidenti a lei, gli portava solo un mucchio di sfighe!
«Potevi anche avvisarmi prima!».
«Ehi, c’eri tu davanti, come potevo vederlo?» fu la pronta replica, mentre gettava in un cestino il fazzoletto che gli era caduto e si chinava per premergliene un altro sul naso, assumendo l’espressione più ingenua che le riuscì «Insomma, andavi via così spedito che sembrava volessi evitarmi a tutti i costi.».
«Ma che brava, ci sei arrivata? Sei più sveglia di quel che pensavo.» sbottò lui, lanciandole un’occhiataccia.
«Era ironico, fenomeno. E visto che la pensi così, ti sta pure bene. Dai, ti aiuto.».
Stavolta Deak fu costretto a mordersi la lingua. Aveva avuto prova da pochi minuti di quanta forza riuscisse a tirar fuori quando voleva, quei colpi alla schiena gli avevano tolto il fiato – e lo stinco non smetteva di bruciare, senza contare che ora si era aggiunto anche il piede a fargli un male allucinante. Si obbligò a non protestare quando la sentì passarsi un suo braccio sulle spalle e portargliene uno in vita – non riteneva necessario aiutarlo così tanto, non s’era di certo rotto una gamba, ma per non guadagnarsi altri lividi inghiottì a fatica l’orgoglio e la lasciò fare. La differenza d’altezza tra loro era piuttosto notevole, tanto che Deak pensò bene di non caricare il peso su di lei, onde evitare di finire a terra entrambi. Mentalmente sperò che non ne facesse parola con l’albino, ci mancava solo che quello schizzato venisse a sapere quante ne aveva prese da quella ragazzina, l’avrebbe sfottuto fino alla morte – non che lo scontro con il paracarri fosse stato tanto meglio, doveva ammetterlo. Lei però non aveva riso, anzi, anche durante il tragitto lo aiutò in silenzio, avvisandolo quando si trovava in prossimità di gradini o buche. Poco prima di giungere sulla via di casa sua il ragazzo si scostò, borbottando che l’epitassi si era fermata e che avrebbe proseguito per i fatti suoi, ora che poteva vedere. Darkie accettò con una scrollata di spalle, ben immaginandosi che lui avrebbe preferito mordersi la lingua a sangue piuttosto che farsi vedere soccorso agli occhi di suo fratello – e proprio da lei, poi. Una volta arrivati al cancello Deak le lanciò un’occhiata, quasi sperando che lo salutasse e se ne andasse, visto che lo sapeva al sicuro, ma lei gli rispose con un sorrisetto così adorabile che gli fece saltare ancora di più i nervi. Piccola bastardella, chissà quanto si stava divertendo. Sospirò rassegnato avviandosi sotto il portico e aprendo la porta, scostandosi un poco per permetterle di entrare e richiudersi l’uscio alle spalle.
«Sono tornato.» disse, chinandosi per togliersi le scarpe.
Da una delle porte – a Darkie pareva di ricordare che lì si trovasse il salotto – fece capolino un anziano piuttosto basso – addirittura più basso di lei, constatò la ragazza, vestito in una lunga tunica nera in stile cinese, con dei morbidi pantaloni stretti alle caviglie. Sugli occhi portava un pesantissimo quanto eccentrico trucco nero, e i pochi capelli rimasti, bianchi, erano raccolti in una coda sulla sommità del capo. Portava degli orecchini pendenti lavorati con un particolare intreccio, cosa che rendeva l’insieme particolarmente stravagante. L’uomo la scrutò incuriosito per diversi secondi, prima che Darkie gli rivolgesse un sorriso e un educato inchino.
«Scusi l’improvvisata a quest’ora, signor Bookman. Sono Darukia Kuchiki, una compagna di università di suo nipote Deak.» si presentò, rialzando lo sguardo e notando che il vecchio l’osservava ancora con le mani nascoste all’interno delle lunghe maniche della veste, davanti al petto.
«Sei la benvenuta in questa casa, Darukia Kuchiki.» disse, ricambiandole l’inchino «Lavi mi ha parlato molto di te e di tua sorella.».
Lavi, ovviamente. Sia mai che Deak pensasse di raccontare a suo nonno qualcosa della sua quotidianità alla facoltà. Nel mentre il ragazzo l’aveva superata, zoppicando ancora piuttosto vistosamente, diretto verso le scale in legno scuro che conducevano al piano di sopra.
«Deak, cosa t’è successo?».
«Niente, nonno. Non ho visto un gradino e sono inciampato.» fu la spiccia risposta che il vecchio ricevette, mentre Deak spariva oltre l’angolo delle scale.
Darkie incrociò le braccia al petto, osservando il punto in cui il ragazzo aveva svoltato. Perché non aveva detto la verità? Doveva temere ritorsioni da parte di suo nonno? Gli rivolse uno sguardo, trovandolo a grattarsi la testa e a sospirare, borbottando qualcosa che somigliava vagamente ad un “Quel benedetto ragazzo mi farà impazzire.”. Non aveva idea di che rapporto si fosse instaurato tra l’anziano storico e Deak, all’apparenza il primo sembrava abbastanza severo, ma magari si sarebbe ritrovata ad avere a che fare con la persona più gentile del mondo. Tanto valeva vuotare il sacco, perché non dirgli come stavano effettivamente le cose?
«Signor Bookman, in realtà…» mormorò tormentandosi leggermente le mani, non prima di aver poggiato l’ombrello in un angolo, dove non avrebbe dato fastidio a nessuno «In realtà Deak non è inciampato. Cioè, la botta al piede se l’è presa da solo, ma per il resto… insomma, sono stata io…».
«Ti ha fatto qualcosa di male? Ti ha messo le mani addosso?» l’interruppe lui assottigliando lo sguardo, quasi pronto a correre su per le scale per andare a tirare qualche scapaccione al nipote.
«N-no, no!» esclamò concitata, agitando le mani «Cioè, è stato tutto un malinteso, non l’avevo sentito mentre mi chiamava e quando mi son sentita prendere per il polso, ecco… ho avuto paura che fosse un maniaco e non c’ho più visto. Lui non ha colpa, davvero.».
L’uomo l’osservò scettico, quasi incredulo che una pulce come lei avesse potuto conciare in quella maniera il nipote, decisamente più alto e robusto. Quando l’aveva visto aveva un leggero alone scuro all’altezza dello zigomo, poco sotto l’occhio sinistro, e la pelle tra il naso e le labbra era sporca di rosso, probabilmente per via di un’epitassi. Studiando meglio l’ombrello che la ragazza aveva posato vicino alla porta notò che un paio di stecche erano piegate – e, senza sapere d’aver pensato giusto, si chiese se per caso non l’avesse picchiato anche con quello. Doveva essersi veramente presa uno spavento assurdo, chissà come aveva reagito quando si era resa conto di chi aveva effettivamente di fronte. Magari aveva pianto – ma guardandola in viso si accorse che gli occhi non erano arrossati. Forse, semplicemente, non aveva pianto poi così tanto, ma era certo che in fondo si fosse sentita sollevata del fatto che il presunto maniaco non era altri che un suo amico particolarmente sfortunato, in quel momento.
Darukia, dal canto suo, si sentiva estremamente in imbarazzo. Quel vecchio la studiava come uno scienziato osserva una cavietta da laboratorio, attento, seppur cordiale. Almeno non l’aveva messa alla porta dopo aver scoperto che aveva barbaramente picchiato suo nipote. Si tormentò nervosamente le mani, leccandosi le labbra e alternando lo sguardo dalle scale all’uomo che aveva di fronte, vergognandosi a stare lì impalata.
«Ehm… davvero, mi dispiace, signor Bookman.» disse inchinandosi di nuovo, almeno sfuggiva a quelle iridi fredde «Non era mia intenzione far così male a suo nipote, non… non so davvero come scusarmi.».
«Non è a me che devi chiedere scusa.» replicò l’anziano storico «Ma se ti senti in colpa anche dopo aver chiesto il suo perdono, potresti provare a dargli una mano a medicarsi se ne ha bisogno. Deak è sempre stato una frana a disinfettarsi le ferite, ha una certa… ritrosia ad utilizzare certi prodotti.».
«Posso davvero…?» la ragazza rialzò la testa, perplessa.
«Prego. Il bagno è l’ultima stanza sulla destra. La camera di Deak si trova giusto accanto al parapetto delle scale a sinistra.».
«Allora… con permesso…».
Si chinò per togliersi le scarpe, accettando con un sorriso le pantofole che il vecchio le aveva messo davanti, e si avviò su per le scale, ritrovandosi in un corridoio illuminato dalle luci tenui delle plafoniere attaccate alle pareti. Si guardò attorno, notando immediatamente la quasi totale assenza di mobili in quell’ambiente, fatta eccezione per una cassettiera in legno scuro con sopra un centrino e una lampada.  Anche lì, nessuna foto. In quella casa sembrava davvero che i ritratti di persone fossero stati aboliti, rimpiazzati da quadri di paesaggi. La luce del lampione che avevano accanto al cancello penetrava fin lì, proiettando ombre sul tappeto che copriva il parquet. Decidendo di tralasciare l’arredamento, la ragazza fece per avviarsi verso il bagno – se doveva disinfettarsi, di certo era andato lì. Invece, il rumore di qualcosa che cadeva e una secca imprecazione la costrinsero a voltarsi verso la stanza di Deak. Si avvicinò titubante, bussando un paio di volte alla porta.
«Che c’è?» lo sentì chiedere, percependo perfettamente la nota scocciata nella sua voce.
«Ehm… hai bisogno di una mano?».
«No.» seccato e deciso come sempre, del resto.
Darkie sospirò, abbassando la testa. Era davvero impossibile tentare di riallacciare un qualsiasi rapporto con lui, se per primo le impediva anche solo di dargli una mano per botte che lei stessa gli aveva dato. Le dispiaceva, accidenti, perché non la lasciava parlare e pareva non dar peso alle scuse che diceva? Certo, di per suo pensava non aver altro per cui chiedergli perdono, anzi, se ne aspettava da lui visto il modo in cui la trattava. Tsk, sembrava davvero una fidanzatina abbandonata con il cuore a pezzi – ma non aveva nessuna intenzione di abbassarsi a piagnucolare per poter entrare, no davvero.
«Senti, posso entrare…?».
«Mi sto cambiando.».
«Oh. Allora… allora aspetto.».
«Sì, certo… sai che non puoi piantare le radici in corridoio, vero?».
«Beh…» si ritrovò a sospirare, sollevandosi la manica del cappotto per poter vedere l’orologio «Diciamo che se entro un minuto non sei cambiato, ecco, qualche uccellino dispettoso potrebbe mettere al corrente qualcuno di nostra conoscenza della tua involontaria esperienza come sacco da boxe.».
Lo sentì imprecare di nuovo, avvicinandosi a passo pesante alla porta e spalancandola – e guarda caso, era già sistemato di tutto punto. I pantaloni che indossava prima giacevano a terra, sostituiti da un paio più largo e comodo, da ginnastica. Le rivolse un’occhiata truce, quasi minacciandola con il solo sguardo di non azzardarsi a dire mezza parola su quel che era successo. Certo, in altri casi avrebbe lasciato correre, ma quell’avvertimento l’aveva colto del tutto impreparato, tanto che si stava già pentendo di averle aperto la porta. Visto che ormai il danno era fatto, tanto valeva sentire cos’aveva da dirgli, salutarla e tanti baci, ognuno per la sua strada. Schioccò la lingua riavviandosi verso il letto, permettendole solo in quel momento di vedere che la gamba sinistra dei pantaloni era tirata su, lasciando la pelle scoperta fino a metà coscia. Lei accennò un paio di passi esitanti all’interno della stanza, subito colpita dalla mostruosa quantità di libri stipati su ogni ripiano disponibile. Una parete accanto alla porta era occupata interamente da una grande libreria in legno scuro, mentre la parete più lunga era percorsa dagli armadi e, nascosto sotto, c’era il letto a ponte. La metà delle ante superiori erano state tolte per far spazio a mensole e libri, mentre sulla parete opposta rispetto all’ingresso vi era una grande finestra e la scrivania – incredibilmente in ordine, con libri e quaderni riposti in pile ordinate e le penne riunite in un barattolo nero. Sull’altro muro rimasto ancora mensole, mensole e mensole, tutte stracolme di volumi di ogni autore possibile ed immaginabile. La totale mancanza di foto veniva compensata dalla quasi soffocante moltitudine di tomi, se non altro. E si avvertiva anche nell’odore di carta che permeava nell’aria.
Deak, nel frattempo, si era seduto nuovamente sul letto e stava trafficando con il barattolo di disinfettante e del cotone. Sebbene bruciasse sfregava quasi seccato sulla ferita, concentrato, pur di non darle motivo di iniziare una discussione. Fu costretto a rialzare lo sguardo quando la ragazza, ponendosi davanti a lui, coprì la luce del lampadario – e solo allora si accorse che si era tolta il cappotto e l’aveva posato sullo schienale della sedia della sua scrivania. Lo guardava seria, osservando dispiaciuta quello che doveva essere il risultato di uno dei tanti calci che aveva tirato.
«Sei un vero disastro.» mormorò, chinandosi in avanti e prendendo un po’ di cotone, inumidendolo per bene con il disinfettante. Si sistemò in ginocchio sui talloni, tenendogli ferma la gamba con una mano «Aveva proprio ragione tuo nonno, a dire che con ‘ste cose non ci sai fare.».
«Non ho bisogno del tuo aiuto!» sbottò lui, facendo per tirare indietro la gamba «Sono capacissimo di arrangiarmi, non serve che tu mi faccia da baby-sitter.».
«Non faccio la baby-sitter, stupido.» ribatté la ragazza, rafforzando la presa sul suo tallone e premendo di più il cotone sulla ferita, guardandolo male «Vorrei solo che ti entrasse in quella testaccia più dura del granito che io con te ci voglio parlare, okay? Anche se mi trovi una rompipalle per chissà quale oscuro motivo.».
«Non ti trovo una rompipalle. Ma dato che non abbiamo niente di cui parlare, non vedo perché insistere tanto.».
«Sei tu che non mi dai la possibilità di trovare argomenti!».
«Va bene, allora forza, trovane uno.».
La ragazza si accigliò, riportando lo sguardo sulla ferita che stava tamponando. Poco più su c’era un piccolo alone nero, ma non si azzardò a premerci sopra un dito. Presa così in contropiede non sapeva davvero cosa andare a dirgli, il che significava anche dargliela vinta – ma da quando era tipo che si arrendeva così facilmente? Fece per dire qualcosa, ma si ritrovò a sentire lo sbuffo soddisfatto del ragazzo seduto sul letto.
«Come pensavo, non hai nessuna idea.».
«Perché non ci sono foto, in questa casa?» chiese allora, senza alzare lo sguardo.
«Sì che ce ne sono. Anche appese alle pareti.» Deak piegò appena la testa, osservandola mentre ripuliva per bene la ferita – ma no, Deak, non farti strani pensieri, si disse. Si sentiva stupidamente in colpa e voleva rimediare, ecco tutto. Uno stupido senso del dovere, per sentirsi a posto con se stessa.
«Solo paesaggi. Non ci sono persone.».
«Ce ne sono anche altre. Mica le teniamo tutte fuori. E comunque a me e Lavi non piace farci fare fotografie.».
Seguirono diversi minuti di silenzio, durante i quali Darkie finì di medicargli la ferita allo stinco. Fu quando tolse anche il calzino nero che si rese conto di aver combinato più pasticci del previsto. L’unghia dell’alluce era rotta a metà e il dito era tutto bordato di sangue. Un veloce esame le fece capire che lì poteva fare ben poco, se non ripulire il tutto cercando di fargli meno male possibile. Stupidamente si ritrovò a constatare che aveva anche piedi incredibilmente curati, per essere un uomo. Anche la sua stanza non aveva una virgola fuori posto, quella che sembrava una giacca della tuta era ripiegata per bene ai piedi del letto, non c’erano vestiti in giro – a parte i pantaloni che prima indossava -, niente consolle con cavi che spuntavano da ogni dove, libri e quaderni sistemati con una cura quasi maniacale. Insomma, quella stanza era l’esatto opposto di quella di Hichigo, molto più colorata ma anche infinitamente più disordinata. Inumidì per l’ultima volta il cotone, dando gli ultimi tamponamenti per togliere eventuali rimasugli sfuggiti.
«Ti conviene togliere l’unghia dopo esserti fatto una doccia o lasciato i piedi a mollo. Così la pelle sarà più morbida e darà meno fastidio.» disse, lasciandogli andare il tallone.
Il ragazzo sollevò il piede dopo una manciata di secondi, spostando lo sguardo dalle propria ginocchia al suo viso, sempre mantenendo un’espressione corrucciata.
«Ora sei contenta?».
«Prego?».
Se non altro, doveva riconoscere che quella ragazza aveva un ottimo talento nella simulazione: pareva sinceramente perplessa, come se la sua domanda l’avesse colta del tutto impreparata.
«Ti senti meglio con te stessa, ora che hai medicato le ferite che proprio tu hai causato?».
«Io non… mica l’ho fatto per compiacermi!» sbottò irritata, accigliandosi a sua volta «Figurati se devo proprio mettermi a fare la crocerossina per autocompiacimento! Non ho certo un ego del genere.».
«Ora verrai a dirmi che ti dispiaceva davvero e che l’hai fatto senza secondi fini.».
«No, il secondo fine c’era, e bene o male lo sto raggiungendo.».
Stavolta fu lui a non afferrare per bene il concetto. Possibile che avesse un fine ultimo di cui lui non si era nemmeno accorto?
«E sarebbe?».
«Sto parlando con te.».
Deak inarcò le sopracciglia, seriamente stupito. Era quello il suo fine? Poter parlare con lui? Ma cosa ne guadagnava, se lui per primo le rispondeva sprezzante com’era abituato a fare? Testarda e pure stramba, ecco cos’era quella ragazza. Evidentemente l’influenza di Hichigo era stata più forte del previsto. O forse era più propensa a rapportarsi con tipi “problematici”, come lui stesso riconosceva di essere – ma non per questo si biasimava, anzi. Sapeva di non essere un angelo sceso in Terra in quanto a rapporti con la gente, aveva perso il conto dei compagni di scuola delle altre città che aveva tenuto a debita distanza con il proprio atteggiamento. Per non parlare delle ragazze, ce n’erano state tre o quattro di un paio di anni più grandi che ci avevano provato con lui ai tempi del liceo – inutile dire che si erano viste rifiutate in malo modo, pensando poi di ferirlo nell’orgoglio accennando qualcosa circa al fatto che “con quella benda facevi pena, di sicuro non avrai mai rimediato nulla”. Non sapevano, loro, quanta rabbia si portasse dentro quel ragazzo – ma non per quelle parole, Deak passava la moneta per quel che valeva, in quel caso meno di zero, erano solo spinte dal loro amor proprio ferito dal suo netto rifiuto. Non odiava nemmeno le donne, c’era da dirlo – odiava che lo vedessero come un menomato per via di quella benda. Che aveva in meno degli altri? Nulla. Doveva solo sforzare un po’ di più l’occhio sinistro per vederci, ma nulla di più. Il suo ostinato orgoglio gli impediva di vedere in quella benda un handicap: certo, avrebbe preferito cento volte non essere costretto a portarla, d’altronde sapeva da sé di non avere alternative. Ma non poteva sopportare che la gente lo considerasse alla stregua di un ritardato solo per un pezzo di stoffa, come se da quello fosse conseguito un deficit mentale. La sua rabbia lo spingeva a dimostrare a tutti che non era affatto stupido, e anzi, ben presto sia lui che Lavi avevano rivelato due menti a dir poco geniali. La loro capacità di memorizzazione era quasi spaventosa, le loro interrogazioni parevano conferenze di luminari, non avevano difficoltà a risolvere anche i problemi più complessi. Di per contro, la cosa aveva tirato addosso ad entrambi le antipatie dei più invidiosi – e Lavi era stato quello che più ne aveva sofferto. Vedeva nel gemello il bisogno di sentirsi accettato, al di là della benda che portava all’occhio, al di là di quella mente fin troppo sveglia. Ma la disillusione sui rapporti umani sembrava accompagnarli entrambi per mano: non erano mai riusciti a legare con i compagni di classe, che si limitavano ai saluti di circostanza e quattro chiacchiere buttate lì.
Osservando la ragazza che in quel momento stava sistemando il cotone e la bottiglietta di disinfettante nella scatola del pronto soccorso, si rese conto che in effetti, per il fratello, quel posto era il Paradiso – o qualcosa del genere: spesso si fermava fuori con i suoi compagni di corso, pranzavano insieme o si ritrovavano a casa dell’uno o dell’altro per un pomeriggio di studio o una spensierata chiacchierata. Darukia, nel suo piccolo, aveva tentato di coinvolgerlo a sua volta, di farlo divertire, di fargli conoscere altra gente che sembrava di tutt’altra pasta rispetto a quella che era stato costretto a frequentare negli anni precedenti. Chissà se era sempre stata così propositiva nei confronti degli altri.
«Vi conoscete da tanto?» chiese d’un tratto, alzando lo sguardo a cercare quello di Darukia, vagamente perplesso «Tu e Hichigo, intendo.».
«Oh. Beh, ormai sono quasi due anni…» lei si grattò la nuca, guardando per un attimo il soffitto «L’ho conosciuto il giorno dell’esame d’ammissione. Ed era insopportabile almeno quanto tu lo sei tutt’ora.».
«Grazie, eh.».
«Dovere.» lei scrollò le spalle, accennando un sorrisetto «Se sono riuscita a rendere lui una compagnia piacevole, non vedo perché non potrei riuscirci anche con te.».
«Non mi farai il lavaggio del cervello, t’avviso.».
«Non voglio farti il lavaggio del cervello, stupido. Solo… provare a capire da che parte prenderti. E farmi considerare come un soggetto “non dannoso” ad un livello sufficiente per parlarti senza ricevere veleno in faccia. Un po’ come ora, insomma.».
«T’intestardisci così con tutti?».
La ragazza ammutolì per diversi istanti, come se ci stesse pensando a propria volta solo in quel momento. Non poteva negare a se stessa che qualunque altra persona gli avrebbe già tirato un ceffone e tanti saluti, piuttosto che sorbirsi le sue battutine e le sue rispostacce. Però lei ne era rimasta incuriosita, una volta passata l’irritazione dei primi attriti. Non era di certo quella che andava a caccia di cause socialmente perse per farle ridiventare amabili col resto del mondo, anzi, non si era mai esentata dal rispondere per le rime a chi la trattava in malo modo. Per Hichigo era stato un po’ diverso, lui non era cattivo, solo molto strafottente, e con un orgoglio a dir poco smisurato. Ma per lo meno, la ragione principale era visibile a tutti: si era sempre rifiutato di tingersi i capelli di nero per celare il proprio albinismo, sfoggiava la chioma chiarissima con una disinvoltura estrema – la medesima nonchalance con cui faceva parlare i pugni quando qualcuno azzardava più di una parola di troppo. Dietro la scorza rude Darkie aveva trovato una persona essenzialmente buona, ma bersagliata da troppi pregiudizi e cattiverie. Non c’era da stupirsi se era diventato un tipo da rissa per strada – e raccontava con fierezza tutte le volte in cui era stato sospeso da scuola per una scazzottata nei corridoi o in terrazza. Una personalità del genere, affiancata poi ad un elemento come Grimmjow, avrebbe potuto generale una miscela a dir poco esplosiva – le volte in cui erano quasi venuti alle mani erano state parecchie, agli inizi –, che però era sfociata in quella tipica amicizia tra maschi, fatta di sfottò a frequenza regolare ma assoluta fiducia e lealtà reciproca. Non c’era da stupirsi, infatti, che durante gli anni del liceo i due avessero passato più tempo in punizione insieme che ai club sportivi. Dopo il diploma l’albino e il fratello si erano trasferiti a Tokyo per studiare all’università, e Grimmjow aveva aperto la propria attività con Renji, altro scavezzacollo che aveva frequentato con lui il club di kick-boxing al liceo.
Deak, invece, non lasciava intendere i motivi del suo atteggiamento. Si rifiutava di credere che la sua acidità da zitella frustrata fosse naturale del suo essere, anche perché in quel momento stavano discutendo civilmente. Insomma, non l’aveva ancora cacciata fuori e questo era già un bel passo avanti, almeno dal suo punto di vista. Solo, non riusciva a vedere motivazioni chiare, palesi come poteva esserlo l’albinismo di Hichigo: l’unica “nota stonata” del suo aspetto era quella benda che portava, come il fratello, sull’occhio destro. Non riteneva che i capelli rossi fossero un fattore così “anomalo” da comportare pregiudizi da parte della gente, aveva visto ragazzi con le chiome tinte dei colori più disparati, che fosse un verde acido o azzurro cielo – e Grimmjow era un esempio lampante, giusto per citarne uno. Anche Renji vantava una chioma rosso fuoco, e pure bella lunga, sempre stretta in una coda di cavallo – e quei due erano tutto fuorché degli asociali, anzi, vivevano praticamente sempre a contatto con la gente. Forse era anche quello, sì, uno dei motivi che spingeva Darkie a cercare di conoscerlo meglio. Di per contro, pensandoci bene si diede pure dell’egoista: stava passando sopra le opinioni altrui per soddisfare la propria curiosità.
«Forse farei meglio a lasciar perdere, hai ragione.» disse, accennando un sorriso. Si rialzò in piedi, dandosi qualche pacca sui pesanti leggings neri e allungando un braccio per riprendersi il cappottino «O finirà che mi troverai davvero odiosa.».
Deak rimase alquanto perplesso a quella risposta, non combaciava affatto con i comportamenti che aveva tenuto fino ad allora. Era davvero una tipa stramba, quella lì. Però l’idea di “esser lasciato perdere” lo infastidiva senza una ragione precisa. Solo perché è una delle poche facce conosciute, si disse. E non sapeva ancora se quel pensiero fosse sincero o meno.
«Non ho detto nemmeno che ti troverei odiosa. Volevo sapere se per caso facevo parte di una lista di elementi selezionati.».
«Tsé, selezionati! Non ho un debole per le cause perse, se questo ti può consolare.» sbottò lei, sempre sorridendo «E no, non c’è nessuna lista. Te l’ho detto, vorrei solo… provare a capirti, tutto qui. Almeno, se poi mi manderai al diavolo definitivamente, potrò dire di averci almeno provato.».
Stavolta il ragazzo non disse nulla, limitandosi a sospirare e buttando un’occhiata verso la finestra. Si era fatto veramente buio, fuori, e di sicuro suo nonno non avrebbe mai permesso che Darukia tornasse a casa da sola. Non che ce l’avesse a morte con lei per averlo picchiato – ragionandoci un istante, una reazione simile era stata più che naturale, anche se non era di certo possibile dare la colpa solo a lui. Volente o meno si sarebbe ritrovato moralmente costretto a riaccompagnarla, o avrebbe dovuto sorbirsi i truci sguardi di suo nonno in caso si fosse rifiutato. Cercò con tutte le sue forze di non dare la colpa alla consapevolezza che qualcuno stava pedinando la ragazza: dopo essersi reso conto che lui non avrebbe lasciato da sola Darukia – seppur controvoglia -, lo sconosciuto si era volatilizzato nel giro di poco. Forse la sua poteva essere paranoia, eppure qualcosa gli impediva di mollarla fuori di casa da sola. Se solo Lavi l’avesse saputo, se ne sarebbe sicuramente uscito con un “te l’avevo detto, neanche tu lasceresti da sola una ragazza indifesa” – oddio, indifesa mica tanto…
Si sistemò un cerotto sull’alluce per tenere bloccata l’unghia e gettò sopra i pantaloni i calzini, alzandosi poi dal letto sotto lo sguardo perplesso della giovane.
«Scendi a cena? Forse è meglio che me ne vada.» si sistemò il cappotto addosso, armeggiando con la fibbia della cintura per richiuderla in vita.
«Ti accompagno.» sbottò lui, constatando con non poco sollievo che dopo una buona medicazione le ferite non bruciavano più così tanto. Rovistò in un cassetto per prendere un altro paio di calzini, prima di chinarsi per raccogliere gli abiti sporchi e riprendere a parlare «Mio nonno mi fucilerebbe se ti lasciassi uscire da sola con questo buio.».
«Ma no, non…» s’interruppe quando vide il ragazzo sorpassarla senza aggiungere altro.
Si apprestò a seguirlo in corridoio, aspettandolo mentre depositava i vestiti in bagno, e fino al piano di sotto, dove si fermarono per rimettersi entrambi le scarpe. Deak avvisò il vecchio Bookman che l’avrebbe riaccompagnata a casa e uscì senza nemmeno aspettarla, sistemandosi spiccio la giacca e la sciarpa – Darukia si congedò velocemente con un inchino e si affrettò a raggiungerlo, camminandogli accanto. Non si dissero nulla per buona parte del tragitto, entrambi presi dai propri pensieri per scambiarsi qualche parola. Fu solo quando arrivarono ai cancelli del residence dove vivevano i tre fratelli Kuchiki che Deak si decise finalmente a parlare.
«Ti sei ingraziata pure mio nonno, ora. Ma non pensare di averla vinta tanto facilmente.» cacciò le mani nelle tasche del giaccone, mormorando al di sopra del bordo della sciarpa.
«Detta così, la fai sembrare una sfida a conquistare il tuo freddo cuoricino.» replicò la ragazza, ghignando in risposta e atteggiandosi «Qualcosa del tipo “hai conquistato loro, ma non scioglierai anche me, con quei tuoi occhioni da cerbiatta, con quell’aria così dolce, con quel fare così posato e innocente!”, rendo?».
«Fare posato e innocente, tu? Parlo con la stessa persona che mi ha picchiato con la ferocia di una schizzata in piena crisi pre-mestruale?».
«E tu cosa ne sai, di crisi pre-mestruali? Parli per esperienza?».
«Lo sanno anche i sassi che voialtre femmine date di matto in quel periodo. Tu, poi, sembri tanto piccina e deboluccia, poi scalci peggio di un mulo quando lo ferrano…».
«Giusto perché tu lo sappia, non sto rimpiangendo nemmeno uno degli schiaffi che ti ho dato!» esclamò lei punta sul vivo, incrociando le braccia al petto.
«Inutile far tanto la sostenuta, hai già piagnucolato a sufficienza le dovute scuse.» Deak rispose con una linguaccia e un sorrisetto altrettanto bastardo, facendola infervorare ancora di più, tanto che gli rifilò uno spintone per allontanarlo. Poi però sembrò ripensarci e, dopo aver cercato per un po’ nella borsa, gli schiaffò in mano un oggetto che, sulle prime, Deak non riuscì a distinguere. Solo quando vide di cosa effettivamente si trattava, non riuscì a trattenere un’espressione alquanto scettica.
«Spray anti-aggressione? Ma starai scherzando!» cercò di renderglielo, ma Darkie fece un passo indietro, stringendosi le braccia al petto.
«Non si sa mai! Metti che un altro paracarri voglia venirti addosso, con quel bel faccino che ti ritrovi tenteresti anche un platano…» si affrettò a rimangiarsi le parole, non appena vide la sua mano stringersi a pugno ed alzarsi, quasi a volerle tirare un colpo in testa «Dai, scherzavo! Solo per sicurezza, eh? Magari te lo tieni in tasca e non te ne fai niente, ma insomma, metti che veramente gira gente strana…».
«Tsk, ma figurati se mi metterebbero mai le mani addosso.» sbottò lui, intascandoselo con aria seccata e voltandosi «Io vado, ciao.».
«Ah, ehm… uno squillo quando arrivi? Tanto per star sicura?».
«Ma certo, mammina. Vuoi anche che ti mandi una foto con tanto di dedica, magari un “ciao amore, sono ancora tutto intero, nessuno ha messo a rischio la mia virtù”?».
«Ma la finisci di sfottere?! Che deficiente che sei!».
«Sei tu che hai paranoie da fidanzatina ansiosa!».
«Fidan-…?! Mi pare normale preoccuparsi per i propri amici!».
«Vabbé, dai, ti faccio ‘sto benedetto squillo che almeno ti calmi! Ora ti spiace se vado?».
«Tsk, vai pure! E vedi di non schiantarti di nuovo, stavolta!».
Deak borbottò qualcosa e scrollò le spalle, allontanandosi. La ragazza rimase a fissare il punto in cui era sparito, svoltando l’angolo, prima di decidersi a tornare in casa, sbuffando come una locomotiva. Che razza di tipo! Tra sé, però, non riuscì a trattenere un sorrisetto: che gli piacesse o meno, era riuscita almeno in parte nel suo intento.
 
*** *** ***
 
Un paio di giorni dopo, con non poco sollievo, Byakuya vide la scrivania dell’ufficio occupata proprio da Hisana. Di suo era stato assente per via di una causa felicemente conclusasi con la condanna dell’imputato, peraltro colpevole senza possibilità d’errore – troppe erano le prove contro di lui -, era stato un caso forse troppo semplice. La vide salutarlo con un bel sorriso, il viso con un colorito finalmente sano e, immancabili, alcune pratiche da fargli firmare. Quell’attimo di idilliaca pace, però, ebbe vita assai breve: osservò irrigidendosi come un pezzo di marmo la sua segretaria che, con ancora in mano la cornetta del citofono e un sorriso quasi angelico, gli annunciava che quello che aveva appena suonato non era un cliente o il postino con delle carte da consegnargli, ma nientemeno che Yoruichi, la persona più baldanzosa e irriverente che conoscesse. Per quanto bene potesse volerle come amica d’infanzia, ovviamente. Questa si presentò con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, placcando Byakuya prima che questi potesse andare a rintanarsi nell’ufficio con la scusante di qualche cliente urgente da sistemare.
«Byakuya-bo, finalmente riesco a trovarti.» disse, salutando Hisana con un cenno della testa «Ho provato a chiamarti un sacco di volte a casa e non ti ho mai trovato, in questi giorni. Praticamente mi sto scarrozzando dietro queste carte da un’eternità, e sai che non posso mica venire quando ti fa più comodo. Ma fino a che ora stagni qui in ufficio, si può sapere?».
«Non ho orari definiti, Yoruichi, dovresti ben saperlo. E comunque, mi pare che tu vada e venga quando ti pare e piace, non quando fa comodo a me.».
«Dettagli, dettagli. Ma per lo meno verso le sette e mezza dovresti esserci, a casa. L’altra sera ha risposto Darkie e ha detto che le avevi appena avvisate che avresti tardato per non ricordo cosa…».
«È… è colpa mia.» pigolò timidamente Hisana, arrossendo di botto.
Due paia di occhi si piantarono su di lei, facendola diventare ancora più rossa – Yoruichi, poi, la guardava come se fosse stata un’aliena, chiedendo spiegazioni con il solo sguardo. Non riusciva davvero a vedere il nesso tra la segretaria e l’assenteismo di Byakuya da casa. A meno che…
«È che… in questi giorni sono stata male, e il dottore è stato così gentile da assistermi dopo l’orario d’ufficio… ma non pensavo che vi avrebbe causato ritardi con il lavoro, dottore, mi dispiace!» farfugliò, inchinandosi dispiaciuta.
Non poté vedere lo sguardo sbalordito dell’agente, che si alternava da lei all’uomo che aveva accanto il quale, nel mentre, sperava ardentemente che non si sentisse in colpa per le parole di Yoruichi – aveva il vizio troppo radicato di sentirsi un disturbo, accidenti a lei.
«Sarei stato comunque impegnato per preparare l’udienza di ieri per poterle leggere con la dovuta attenzione, Hisana, quindi non c’è motivo di scusarsi.» disse, incrociando le braccia al petto.
«Byakuya-bo, ma voi due…».
«No.» fu la secca risposta dell’avvocato «Prima che tu ti faccia strani film mentali, Yoruichi, metto in chiaro che tra noi non ci sono chissà che tresche da romanzetto rosa. Stava male e l’ho aiutata, tu non faresti lo stesso se qualcuno dei tuoi stesse male?».
«Beh, oddio, dipende.» la donna si grattò svogliatamente la nuca, continuando a fissare entrambi «Un tipo come Omaeda dell’ufficio di sorveglianza forse no. Non che abbia qualcosa contro di lui, chiariamoci, ma di certo non starei ore extra fuori casa solo per vederlo vomitare in preda alla febbre.».
Touché, pensò Byakuya. D’altro canto non se la sentiva di spifferare ai quattro venti che Hisana non aveva nessuno che potesse assisterla e, ovviamente, non voleva dare l’idea sbagliata di averlo fatto per pietà nei suoi confronti. Vero era che per la maggior parte del tempo Hisana era rimasta a letto a parlare con lui, sonnecchiando di quando in quando anche per pochi minuti, mentre magari lui ne approfittava per portare via una scodella vuota o portarle altro tè caldo – sempre, ovviamente, sotto lo sguardo inquisitorio della palla di pelo che teneva in casa. Solitamente quel gatto se ne stava steso sul letto accanto alle gambe di Hisana, rispondendo con le fusa ai lievi grattini che lei gli faceva dietro le orecchie, a quelle che parevano di più blande carezze – e miagolava quando la sentiva fermarsi, come a rimproverarla di aver interrotto quel piacevole passatempo.
Ma Hisana, quasi con ingenua vergogna, ammise a mezza voce che no, lei non aveva dato di stomaco mentre Byakuya era in casa. Aveva “avuto l’accortezza di evitarlo”, mormorò, perché la cosa l’avrebbe imbarazzata parecchio. Cosa ci fosse di imbarazzante Byakuya non lo sapeva davvero, lui che si era preso cura per anni delle sorelline quando stavano male era veramente abituato a tutto – ma, più probabilmente, era dovuto al fatto che Hisana fosse poco avvezza ad avere gente estranea in casa, figurarsi in un momento del genere.
«Yoruichi, vieni nel mio ufficio.» disse d’un tratto, prendendo dalle mani della poliziotta la busta. Si avviò verso la porta, fermandosi prima di abbassare la maniglia «Hisana, per cortesia, vorrei prima delle 14 la programmazione della settimana e i vari colloqui previsti, specie per quanto riguarda gli avvocati della difesa di quel magnate.».
Attese solo la conferma da parte della giovane, prima di entrare nella stanza e far accomodare la poliziotta, che lo seguì con un sorrisetto che andava da un orecchio all’altro.
«Ma da quando gli avvocati si prendono cura delle proprie segretarie malaticce?» la donna attese che chiudesse la porta, prima di parlare «Non dirmi che non è una trama da romanzo perché non ci credo neanche se mi paghi.».
«Yoruichi, piantala. Hisana è un’ottima segretaria, con la testa a posto. Non è assolutamente una di quelle che fanno le gattemorte per avere favoritismi.» Byakuya s’avviò alla propria scrivania, gettandoci sopra la busta e facendo il giro per sedersi sulla poltrona.
«Non ho mai detto questo, Byakuya-bo. Ha troppo il faccino da brava ragazza per essere una di quelle che mostra la scollatura per un aumento. È che è strano da parte tua, non dire di no. Insomma, a che io sappia finora ti sei sempre e solo preso cura delle tue sorelle, mai delle tue dipendenti.».
«Una volta anche di te, ma eri talmente stordita dalla febbre che mi hai vomitato sulle pantofole non appena mi sono seduto accanto al tuo letto.».
«Oddio, te ne ricordi ancora? Non è stata colpa mia, dai. Avevo un po’ lo stomaco deboluccio, allora.».
«Lasciamo perdere questo argomento, per ora. Hai novità?».
Yoruichi sospirò, tornando seria. Sapeva fare la simpaticona, specie con Byakuya, ma sapeva anche quand’era il momento di smettere di scherzare.
«Poco e nulla, per ora. Ma le prime voci hanno iniziato a girare, sanno che ti stai occupando di questo caso, Byakuya, non ci metteranno molto a darsi da fare e sai anche tu che quella è gente che non scherza. Ne hai parlato con Rukia e Darkie?».
«Ovvio che no, non nel dettaglio, almeno. Meno sanno di questa storia e meglio è.» mormorò lui, meditabondo «Stavo pensando di mandarle per un po’ di tempo alla villa, ma sono in pieno anno accademico e non se ne andranno senza motivazioni valide.».
«Cerca solo di proteggerle, Byakuya. Nella più malata delle ipotesi, potrebbero colpire loro per cercare di fermarti. Sanno che non ti fermi davanti a niente, non sarebbe strano se le prendessero di mira.».
«Non dirlo neanche per scherzo.» la voce di Byakuya si ridusse ad un ringhio, mentre stringeva nervosamente le dita intrecciate «Chiamerò mio padre e gli chiederò due agenti della nostra scorta, non posso permettere che gli succeda qualcosa. Ma spero davvero non debbano mai avere occasione di agire.».
«Lo spero per te, Byakuya. Comunque sia, pare che alla lista delle persone legate a quel simpatico personaggio, e scomparse in circostanze del tutto sconosciute, si sia aggiunta anche una donna, una cugina alla lontana. Non si hanno più notizie di lei da più di dieci anni e nessuno sa che fine abbia fatto.».
«Stai cercando di dirmi che è possibile che venga aggiunto un altro capo d’imputazione? Mi pare che quelli già presenti siano sufficientemente gravi da assicurargli la prigione a vita, come minimo.».
«È una possibilità da non escludere. Specie se, nel frattempo, la suddetta donna dovesse tornare… o meglio, venisse ritrovata con pochi lembi di pelle attaccati alle ossa, se rendo l’idea.».
«La rendi pure troppo.» Byakuya sospirò, sfogliando i documenti prima contenuti nella busta «Farò il possibile per farlo finire in gabbia, Yoruichi. Su questo puoi starne certa.».
«Lo so che quando ti metti in testa un’idea non la cambi neanche a morire, Byakuya-bo. Esattamente come quando eri un bambinello testardo che s’infiammava per un nonnulla.».
«Le tue interruzioni ai miei allenamenti di kendo non erano un nonnulla.».
«Io però mi divertivo a farti imbestialire.» Yoruichi ridacchiò, scrollando le spalle «Dai, ti lascio lavorare. In bocca al lupo, Byakuya-bo.».
«Lo spero davvero.» fu la pronta risposta, mentre tornava a concentrarsi su quei dossier.
 
 
Erano ormai le 19 passate, quando Byakuya richiuse gli uffici. Salutò Hisana con un cenno della testa, prima di avviarsi verso la macchina e metterla in moto, sparendo alla vista della giovane alla prima curva. Hisana si lasciò scappare un sospiro, stringendosi nel cappotto e immergendo il viso nella sciarpa: vero era che mancava poco più di un mese e mezzo alla primavera, ma le temperature erano ancora veramente rigide, non ci teneva a passare un’altra settimana a letto con la febbre. Lungo il tragitto non prestò più di tanta attenzione a chi la circondava, tutti se ne stavano imbacuccati nei pesanti cappotti, sembrava quasi che il trascorso Natale si fosse portato via tutta la vitalità della gente, i negozi e le strade erano già state spogliate di tutte quelle lucine che avevano rallegrato le fredde serate in città. Poggiò la tempia contro il finestrino dell’autobus, osservando distratta il paesaggio scorrerle davanti agli occhi attraverso il vetro appannato e leggermente sporco all’esterno. Non vedeva davvero l’ora di arrivare a casa e farsi un bagno caldo, rilassarsi un po’ dopo quella giornataccia – non aveva avuto un attimo di tregua, sempre presa da chiamate e programmazione dei colloqui. Per non parlare dell’incontro con Yoruichi, sulle prime l’aveva scambiata anche per la fidanzata dell’avvocato – ma, ragionandoci un istante, Byakuya non avrebbe dichiarato con tanta leggerezza di esser rimasto da lei piuttosto che a casa, se davvero tra loro c’era qualcosa. Altra conferma arrivò proprio da Yoruichi che, tra una chiacchiera e l’altra, aveva accennato ad un certo Kisuke, lasciando intendere un rapporto ben più profondo della semplice amicizia. E quando, timidamente, Hisana le aveva chiesto se sapesse in che modo poteva sdebitarsi nei confronti di Byakuya, lei le aveva risposto qualcosa del tipo “Il solo fatto che tu sia qui per lui è un ringraziamento più che sufficiente, anche se non vuole ammetterlo.”. Aveva subito chiarito che non c’era chissà quale risvolto romantico nella sua frase, cercando di sedare bonariamente l’imbarazzo che aveva causato. Era una tipa simpatica, quella Yoruichi – e diamine, era veramente bella. La pelle ambrata sembrava impreziosita dalle iridi quasi dorate e dai lunghi capelli scuri, tendenti al viola. La superava d’altezza, ma era anche fisicamente più formosa di lei – decisamente più formosa. Insomma, faceva la sua bella figura tra la gente, specie in divisa – e non osò immaginarla in abiti formali o eleganti, anche per salvaguardare un po’ la propria già misera autostima in confronto ad una bellezza del genere.
Una volta scesa dal mezzo, si fermò a pochi passi dalla porta della palazzina per cercare le chiavi nella borsetta. Mentalmente prese nota di dover chiamare gli addetti all’illuminazione del palazzo, visto che le luci avevano dato bellamente forfait. Si spostò poco più sotto del lampione, con la testa ancora china alla ricerca del mazzo scomparso – non si accorse dell’aitante giovane che le arrivò alle spalle, senza sfiorarla né nulla, ma ad una vicinanza tale da renderle difficile riuscire a girarsi per vederlo in viso.
«Chiedo scusa, signorina…» mormorò, la voce ben udibile nonostante il filtro della sciarpa «Lei è per caso la segretaria dell’avvocato Byakuya Kuchiki?».
Hisana fermò la mano ancora immersa nella borsetta, cercando di sciogliere i muscoli che le si erano improvvisamente irrigiditi – e non solo per il freddo – a constatare che non aveva abbastanza spazio, intrappolata tra quell’individuo, il cestino dell’immondizia e il palo della luce.
«Chi vuole saperlo?» chiese in risposta, cercando di riunire quanto più coraggio possibile.
«Lui sa chi sono, non si preoccupi, signorina. E dal suo scetticismo deduco che sì, lei è la sua segretaria. Come mai tutta questa rigidità? Non sono un maniaco, mi creda.».
«Faccio fatica a crederlo, quando lei per primo non mi permette di vederla in viso. Cosa vuole da me?».
«Oh, niente di che, davvero. Solo, vorrei che riferisse al suo principale che gli conviene davvero interrompere tutte le sue indagini nel caso di quel famoso magnate di cui lei ha sicuramente sentito parlare. Sa, non si sa mai come trattare con certa gente, potrebbero non prendere bene il suo ficcanasare nelle faccende altrui…».
«Non si permetta di fare minacce!» esclamò lei, cercando di voltarsi – ma lui la bloccò sul posto, puntandole qualcosa contro la schiena. Non volle davvero assicurarsi che si trattasse di un semplice indice o di qualcosa di peggio.
«Non faccio minacce, signorina. Il mio è un semplice avvertimento. Ne vogliamo uscire tutti sani, no?» quella voce melliflua le sfiorò l’orecchio, facendola rabbrividire per il disgusto «Mi raccomando, lo faccia sapere al suo capo. Non vorrà mica che succeda qualcosa a lui o alle sue adorabili sorelline, vero?».
Hisana non riuscì a rispondere, raggelata. Stava valutando tutti i modi per riuscire a voltarsi e bloccare quel tipo, vederlo almeno in viso, ma prima che potesse farlo sentì quella pressione alla schiena sparire, e un frettoloso rumore di passi allontanarsi. Deglutì prima di girarsi, quasi tentata di rincorrerlo – ma quel tipo, chiunque esso fosse, si era velocemente mescolato alla gente che passava in quel momento, impedendole di capire chi potesse essere. Recuperò in fretta le chiavi e salì fino a casa quasi correndo, premendosi contro la porta dell’appartamento e riprendendo fiato solo dopo essere entrata. Non le aveva fatto molestie di sorta, quel tipo, ma le sole parole erano bastate a farle venire i brividi come poche altre volte in vita sua. Shiro, fermo sul tappeto del corridoio, la fissava senza nemmeno avvicinarsi mentre, lasciandosi scivolare seduta sul pavimento, la ragazza prendeva tra le mani il cellulare. Aveva messo in memoria il numero di Byakuya sin dal giorno in cui lui stesso glielo aveva lasciato, ma non aveva mai trovato il coraggio di chiamarlo, anche solo per ringraziarlo. Ma se davvero era a rischio lui, o addirittura le sue sorelle, non poteva starsene zitta. Inspirò profondamente più volte, tentando di comporre il numero con le dita sufficientemente ferme.
 
 
Byakuya era rientrato da poco, abbandonando la giacca e la borsa nella propria camera. Sciolse il nodo della cravatta, sistemandola sulla sedia, e si diresse in cucina. Darukia era tutta presa a preparare la cena, canticchiando sommessamente tra le labbra, mentre la sorella finiva di preparare la tavola.
«Nii-san, stasera sei tornato presto.» disse Rukia, sistemando i bicchieri sui rispettivi posti «Niente impegni, stavolta?».
«No, Hisana si è rimessa perfettamente.» rispose sovrappensiero, sedendosi sul divano e aprendo il giornale. Non si accorse minimamente dello sguardo che si erano scambiate le sorelle, alquanto perplesso.
«Scusa, ma chi sarebbe Hisana? Una fidanzata di cui non sapevamo niente?»  chiese l’altra, senza riuscire nemmeno a rimettere il mestolo nella pentola piena di verdure.
«La mia segretaria, Darkie. Non è la mia fidanzata.».
«No, no, fammi capire.» Rukia agitò le mani, frenetica «Sei stato a casa della tua segretaria malata per prenderti cura di lei, in questi giorni?».
Stavolta Byakuya si trovò costretto a rialzare lo sguardo dalle notizie economiche, squadrando le gemelle che lo fissavano con tanto d’occhi.
«Rukia, per piacere, non fare come Yoruichi che si è fatta chissà quali film mentali. In parte è stata anche colpa mia, mi pareva il minimo.».
Darkie si sentì strattonare per il braccio dalla sorella che, con espressione fin troppo allegra, aveva cominciato a tirarla a sé.
«Darkie, ti ricorda niente? È come in Midnight Secretary, solo che lui era un capo aziendale e pure vampiro!».
«Effettivamente la tresca capo-segretaria è gettonatissima pure nei manga…» la ragazza si sfiorò il mento, osservando attenta il fratello.
«Non c’è nessuna tresca, vi ho detto!».
«Aah, stoico e freddo come Kyouhei! Ti mancano solo i canini e le compresse di sangue finto, nii-san!».
«E tutte le belle donne che si ripassava per avere sangue fresco…».
«Ma poi ha scelto la serietà e la semplicità della dolcissima Kaya.».
«In effetti poi ha voluto solo lei come compagna… meglio non dire come faceva per avere il sangue allo stato migliore, però.».
«Ragazze, ho una vaga idea di quali idee malate vi stiano frullando per la testa, ma torno a ribadirvi che tra me e Hisana non c’è stato assolutamente niente, nessuna tresca e nessunissimo coinvolgimento fisico-emotivo mentre eravamo in casa sua.» Byakuya depose il giornale, tanto era certo che non avrebbe più letto in tranquillità nemmeno una riga. Possibile che tutti fraintendessero? La cosa cominciava pure ad irritarlo «Aveva la febbre e l’ho aiutata, visto che non ha parenti che possano occuparsi di lei se sta male.».
Le gemelle parvero quasi ponderare le sue parole, accennando poi un vago sorrisetto mentre tornavano ad occuparsi delle loro faccende.
«Sai che comunque noi tifiamo per te, nii-san. Insomma, è un peccato che caruccio come sei, non trovi una donna pure tu. Voglio dire, passi il bell’aspetto, ma se c’è riuscito uno dalla parolaccia facile come Grimmjow, non vedo come non possa riuscirci anche tu.».
«Non ho tempo per le relazioni, Rukia, non vedi pure tu che non so mai a che ora torno la sera?».
«Per questo ti stiamo dicendo che, in caso la tua fidanzata fosse anche la tua segretaria, riuscireste a passare comunque del tempo insieme.».
Era una battaglia persa, decisamente. Byakuya si rassegnò ad alzare metaforicamente la bandiera bianca, quando si trattava di certi argomenti le gemelle partivano in quinta – e chi riusciva più a fermarle? Venne salvato, ringraziando il cielo, dallo squillare del telefonino che aveva lasciato in camera. Si diresse a passo spedito nella stanza, cercando bonariamente d’ignorare le gemelle che ridacchiavano alla faccia sua, e raccattò il cellulare dalla tasca.
Il numero chiamante era sconosciuto, al che avvicinò l’apparecchio con un certo scetticismo.
«Pronto?».
«Dottor Kuchiki? Mi dispiace disturbarla, sono… sono Makimura.».
«Hisana! È successo qualcosa?».
Occhieggiando verso la porta vide Rukia e Darkie semi-nascoste dall’angolo del muro ad origliare, aggrottò le sopracciglia dirigendosi verso la porta per richiuderla. Ma rimase con la maniglia stretta nel pugno, i lineamenti così induriti da sembrare scolpiti nel marmo. Aveva previsto che, da quando avrebbe cominciato a circolare la voce che il caso era in mano sua, ci sarebbero stati dei guai. Sojun gli avrebbe mandato due agenti delle loro scorte per tenere al sicuro almeno le gemelle. Quello che non aveva calcolato, però, era che avvicinassero persino Hisana. Sentì un brivido corrergli su per la schiena, sebbene in casa fosse più che caldo. E, stranamente, non fu affatto per le sottili minacce che la segretaria gli stava riferendo in quel momento.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=982597