La seconda vita

di Glenda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


NOTE:

Traduzione delle sigle:

WePI - web private investigations: società di investigazione privata, che si occupa di scovare informazioni in rete per i suoi clienti o di dare la caccia ad hackers.

Brain Watch - polizia che registra tipo anagrafe tutti coloro che hanno poteri esp spendibili in rete

Scissista - tipo di paranormale che riesce a far muovere la propria mente all'interno della rete scindendola dal corpo fisico, senza bisogno di nessun deck o supporto cibernetico e che agisce utilizzando la forza del pensiero.

supporto SK - supporto Soul Keeper, è una specie di "dischetto" su cui si può scaricare e intrappolare la mente di uno scissista nel momento in cui è separata dal suo corpo fisico, impedendogli così di tornare indietro.

 

 

Capitolo 1

 

Lethia Ballard si presentò in tarda mattinata alla reception del Glass-Globe Hotel e porse all’impiegato il suo biglietto da visita. Il ragazzo lo prese e sorrise di cortesia, alzando i piccoli occhietti da topo che si posarono distrattamente all'altezza del petto della donna. Lei abbassò lo sguardo maliziosamente e con le dita si sfiorò il colletto della camicia, che, nonostante l‘abbottonatura sobria, metteva in evidenza il seno abbondante.

- Ho per caso una macchia sul vestito? - domandò, candida, con una punta di malizia negli occhi - Sarebbe una pessima prima impressione... -

Il giovane arrossì vistosamente e cercò di ricomporsi

- Oh, no, no...Mi scusi. Stavo solo apprezzando la sua bellezza, signorina. Non credevo che la WePI annoverasse agenti così giovani e affascinanti -

Aveva cercato di salvarsi in corner, ma la donna non parve apprezzare: il suo sguardo magnetico, più nero della notte, emanava una disarmante e austera freddezza.

- Io invece preferisco la professionalità all’apparenza - sorrise con distacco - soprattutto sul posto di lavoro -

Il volto dell’impiegato lasciò trasparire un evidente disagio.

- Certo, certo. Lei ha assolutamente ragione - asserì con deferenza - prego, si accomodi: è attesa alla camera 25, piano attico - le porse una tessera magnetica, sfuggendo deliberatamente il suo sguardo - l’ascensore è in fondo a destra -

 

Quando la porta si aprì, un fascio di luce ampio le ferì lo sguardo: per quanto il tempo non fosse dei migliori, e il cielo promettesse pioggia, la vetrata che si apriva alle spalle del suo cliente e occupava l’intera parete creava un notevole sbalzo di luminosità rispetto ai corridoi dell'hotel, resi più cupi dal rosso opaco delle moquette e dalle carte da parati.

Non aveva mai visto di persona il dirigente della Omega society, una delle più grandi agenzie di telecomunicazioni sulla piazza, ma la sua eccellente memoria visiva richiamò subito le poche immagini di lui che gli erano capitate sotto gli occhi. In televisione e nei notiziari web non rendeva come dal vivo: i suoi capelli erano più biondi di come li ricordava, e i lineamenti lievemente più spigolosi; aveva occhi brillanti e vitali ma dall’espressione vagamente inquieta. Sembrava più giovane dei suoi almeno cinquant’anni: tutto sommato, un bell’uomo.

- Benvenuta, signorina Ballard - la accolse - sono lieto che lei abbia accettato il lavoro -

Sedeva a gambe incrociate, di fronte ad un tavolino rotondo in simil-vetro, su cui era appoggiato un vassoio con alcuni calici e una bottiglia di vino: le fece cenno di accomodarsi.

- Per il momento ho accettato solo un invito, non ho firmato un contratto – sorrise, mentre avanzava seguita dagli sguardi di due guardie del corpo posizionate ai lati della porta.

- Apprezzo la precisazione - rispose a tono l’uomo - ma spero che alla fine della nostra consultazione potrà dire il contrario -

Le versò un bicchiere di vino: dal colore sembrava di alta qualità, a meno che non si trattasse di una straordinaria imitazione.

- Ho esposto il mio problema alla WePI, e mi è stato assicurato che lei è la nuova promessa delle investigazioni virtuali. Così mi sono permesso di farmi inviare il suo curriculum: davvero sorprendente, per la sua età. E con un particolare interessante... -

- Dipende da cosa considera più o meno interessante, signor Serjei Adrianov -

L’uomo non nascose un compiaciuto stupore

- Vedo che anche lei si è informata su di me... -

- Mai accettare un appuntamento al buio. Non è professionale -

Lethia portò il calice alle labbra e vuotò il contenuto del bicchiere. L’uomo sorrise, ed un’ironia intelligente brillò nel suo sguardo.

- Se lei è professionale sul lavoro come è veloce nel bere vino, credo di aver fatto una scelta eccellente -

- Se vuole che sul lavoro sia veloce a tal punto, si affretti a espormi il problema come si è affrettato a offrirmi da bere -

Serjei diede in una risata composta: quella donna gli piaceva, sapeva sfidarlo senza per questo diventare irrispettosa. Il direttore dell’istituto di investigazione privata virtuale aveva parlato di lei come di una persona estremamente difficile da trattare, ma impareggiabile sul lavoro. Era nella società da poco, ed aveva già risolto una serie di casi complessi che avevano fruttato alla WePI notevoli guadagni. Ma non era solo per questo che il compenso per le sue prestazioni era tanto alto. Lethia Ballard aveva anche altre doti, che andavano al di là delle sue capacità in rete: il potere che possedeva non era misurabile in denaro.

- Bene. Vorrà dire che tralascerò gli altri convenevoli che avevo in serbo per lei, e “mi affretterò” ad illustrale la situazione. L’incarico che voglio offrirle, come avrà capito dalla cifra che le viene offerta, è di un grado di pericolosità elevato. Non si tratta di seguire le tracce in rete di un normale criminale informatico e non si tratta nemmeno di un recupero di coscienza, ovvero il principale tipo di lavoro che lei ha svolto fino ad ora -

Era vero, in genere la contattavano proprio per questo: ciò che Adrianov non sapeva, tuttavia, era che recuperare le coscienze disperse nella rete era proprio il lavoro che gli era più indigesto. Fu lieta nel sentirsi dire che si trattava di qualcosa di diverso, benché ad alto rischio.

- Il soggetto che cerchiamo si chiama Kevin Lockport, ed è stato riconosciuto come uno scissista non catalogato -

Finalmente un barlume di interesse increspò la liscia fronte della donna. Non aveva mai avuto a che fare con gli scissisti: la proposta cominciava a farsi stimolante.

- La Brain-watch non lo ha mai segnalato? Non è stato neppure inserito in una lista di presunti? -

- Certo che no, signorina Ballard. Per quale motivo, altrimenti, avrei dovuto chiamare lei? -

- Dunque non avete i suoi parametri -

- Esatto. Non possediamo né la sua impronta in rete, né il suo tracciato cerebrale in fase di separazione, né le sue potenzialità operative -

- In sostanza è come dare la caccia ad un criminale di cui non si possiedono né i dati anagrafici, né una foto, né il DNA, né le impronte digitali... -

Serjei annuì gravemente

- Ha reso l’idea. Ma anche un criminale del genere potrebbe essere scovato se l’agente che lo cerca sapesse leggere i suoi pensieri...e pare proprio che lei sia dotata di questa facoltà -

Lethia sorrise senza partecipazione

- E' così -

- Il soggetto in questione sta tentando di accedere ad un’area riservata del nostro sistema. Deve essere catturato prima che ci riesca -

- Comprendo. Perciò, lei desidera che io lo rintracci, identifichi il luogo da cui opera, e, dopo avervelo comunicato, interrompa la scissione e lo riporti indietro? -

Gli sembrava il modo di procedere più ovvio: in quel modo la brain-watch avrebbe potuto procedere alla cattura una volta che l’individuo se ne fosse tornato al suo posto, nel suo corpo.

Ma Serjei non pareva della stessa idea.

- In vero, ciò che voglio da lei è che si limiti a isolare la sua mente e scaricarla su un supporto SK - accompagnò le parole con un appena percettibile irrigidimento del viso - Supporto che consegnerà immediatamente a noi -

Gli occhi di Lethia ebbero un guizzo: il desiderio di pronunciare una domanda si formulò chiaramente in quello sguardo, ma subito la quieta indifferenza si stese di nuovo sul suo volto.

“Non si fanno domande sul lavoro. Non domande che non siano di lavoro”

- Perfetto - disse - nessun problema. Sarà un procedimento più rapido -

Era evidente che la Omega Society non ci teneva affatto a coinvolgere la Brain Watch: per questo si erano rivolti ad un’agenzia di investigazioni privata. Probabilmente, avrebbero pensato loro a regolare i conti con quel Lockport, forse avevano qualcosa da chiedergli, o più semplicemente non volevano che la polizia ficcasse il naso negli armadi dell‘azienda, dove di certo, come in qualsiasi altra grande corporazione, c’era nascosto qualche scheletro.

- Molto bene - le sorrise Serjei Adrianov, facendo scivolare sul tavolo una valigetta - Qui ci sono tutte le informazioni che possiamo metterle a disposizione. Vi sono documenti cartacei e una serie di registrazioni che potranno servirle. So che voi della WePI siete soliti studiare i vostri obiettivi dal punto di vista biografico e psicologico, prima di procedere, e immagino che l’avere di fronte uno scissista non faccia eccezione. In ogni caso - il suo viso divenne di nuovo allusivo - le consiglio tutta la discrezione necessaria -

Lethia Ballard prese la valigetta, si alzò con grazia rassettandosi la gonna con un gesto elegante, e sorrise decisa.

- Stia tranquillo. La mia prestazione è coperta da segreto professionale -

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

“Gli scissisti sono uomini assolutamente comuni, la loro abilità non è legata né a caratteristiche fisiche particolari, né a un quoziente intellettivo superiore”

Era una delle prime cose che si apprendevano alla Brain Watch, e anche alla WePI: tutti i poliziotti e gli investigatori della rete lo sapevano, e nel caso del soggetto in analisi quel principio sembrava avere la sua conferma visiva.

L’immagine sullo schermo gli rimandava il volto di un giovane uomo dall’aspetto impiegatizio, i lineamenti ordinari e un sorriso da fototessera, lineare e poco comunicativo. L’unico punto di quel viso su cui valeva la pena soffermare l’attenzione erano due piccoli occhi color ghiaccio dal taglio orientale, pittorescamente in contrasto con i tratti razziali chiaramente europei, che conferivano alla sua espressione un tocco di sottile arguzia.

Kevin Lockport, 29 anni, presunto scissista, aveva lavorato fino all'anno prima nel settore pubbliche relazioni di una grande agenzia pubblicitaria, poi si era licenziato e da allora in poi di lui non si avevano altre notizie.

Ma poiché la sua impronta non era stata registrata, nulla poteva garantire che il responsabile dell’infiltrazione fosse veramente lui, e Lethia non aveva idea di come la Omega fosse risalita proprio al suo nominativo.

Pazienza: il sacrosanto principio del non porsi domande inopportune vigeva anche in quel caso.

Richiamò il menù principale e cliccò sul video del colloquio di assunzione.

- Beh, vediamo che tipo sei... -

Sullo schermo comparve nuovamente l’immagine dell’uomo, stavolta a mezzo busto, un po’ più giovane e privo di quel lieve sorriso stereotipato. La voce fuori campo gli chiedeva i dati anagrafici, le tappe del suo curriculum, le esperienze lavorative, le motivazioni professionali che lo spingevano verso quel tipo di impiego. Lui rispondeva pacatamente, con una bella voce fluida, senza esitazioni. La situazione pareva non emozionarlo: la limpidezza della dizione, la postura del corpo, la tranquillità quasi incosciente dello sguardo facevano intuire una notevole sicurezza di sé, alla quale la foto precedente non rendeva giustizia.

- Sei bravo a nascondere i tuoi stati d’animo. Non sarà semplice, con te... -

Cliccò sul link successivo. Il file conteneva numerose riprese della telecamera di sorveglianza del suo ufficio: Kevin Lockport appariva un lavoratore meticoloso e affidabile, sempre pronto nel rispondere al telefono, amante del buon caffè, dei quotidiani e della puntualità. Delle sue relazioni sociali si poteva comprendere poco, tranne attraverso i colloqui telefonici, che mostravano un uomo con grande predisposizione alla conversazione, che conduceva con eleganza, buon senso e brillantezza.

- Mmm...tutto sommato sei un tipo interessante... -

Lethia estrasse il dischetto e lo ripose nella custodia.

- proviamo a conoscerci di persona, ora... -

Saltò giù dalla sedia girevole, prese il suo deck ed andò a accovacciarsi sul divanetto a due posti: la piccola stanza era in penombra, come le piaceva che fosse quando lavorava. Le serrande erano chiuse e sulla scrivania vi era una sola lampada da tavolo, che emanava una luce giallognola. Lethia adagiò il capo sul bracciolo, e cercò una posizione comoda: le ginocchia nude si distesero tra i cuscini. Sorrise, pensando alla faccia che avrebbe fatto Serjei Adrianov se l’avesse vista in quel momento, dopo che le aveva offerto le avanzatissime attrezzature della sua ditta, le sue comode poltrone deck-munite, e anche l’assistenza del suo personale. Ma non era quello il suo modo di lavorare. Lei, quando il mondo scompariva alla sua vista e la sua mente si apriva alle voci del sistema, desiderava essere lì, sdraiata su un antico divano in velluto rosso, con un paio di pantaloni corti e la t-shirt sdrucita. Uscire dal tallieur e dalle scarpe di vernice era come uscire dalla sua stessa vita, così come il mondo gliela aveva costruita addosso.

“Dentro Zeus non c’è vita. C’è solo il peccato originale di questa vita”

Con le dita cercò il fermacapelli su un lato della testa, ne sfiorò il freddo metallo perlato: “Lady Bird”, che nome buffo. Lo aveva chiamato così per la sua forma, una coccinella laminata che aveva comprato da piccola, forse incantata da quella stupida storia della fortuna. Chissà chi gliel’aveva raccontata, poi...! Probabilmente qualche stupido assistente sociale che credeva di risolverle i problemi incoraggiandola a credere a babbo natale, o a Dio...! Beh, fortuna non gliene aveva mai portata, ma era un ottimo strumento per avere a portata di mano il lettore di comando mentale. Quando lo aveva fatto modificare, il tecnico aveva sorriso: ricordava il suo sorriso dolce, di chi aveva pensato che forse a quella stupida barzelletta sulla buona sorte ci si potesse credere.

Il dito pollice scivolò lungo il fermaglio: il sistema riconobbe la sua impronta digitale.

Di Kevin Lockport non conosceva quasi niente: solo la sua voce, e l’area del sistema in cui voleva entrare. Gli mancava qualsiasi indizio sulle sue abilità effettive e sulla sua eventuale pericolosità. Per sicurezza, selezionò una serie di programmi di protezione che l'avrebbero resa un po’ più lenta, ma pazienza, meglio essere prudenti.

- Bene. Vediamo di che pasta sei fatto... -

Lethia Ballard chiuse gli occhi e sprofondò nella sua seconda casa.

 

“Aiutatemi...mi sento sola...Aiutatemi...non riesco a uscire”

La voce scivolò nel fondo del suo cervello, scese giù per la schiena in un brivido lento, e scomparve.

Sarebbe venuto un giorno...

Sarebbe venuto il che non l’avrebbe più sentita...

Il dolce vuoto gli abbracciò la testa.

In fondo, sempre più in fondo.

Pochi attimi.

Quelle pace durava sempre troppo poco.

Poi arrivarono tutti, in massa, ossessivi, invadenti, confusi: l’onda si faceva spazio con prepotenza, resistergli era improduttivo, bisogna lasciarla scorrere, fluire senza ostacoli, mentre la sua mente scendeva, e scendeva...

Pensieri su pensieri, pensieri da ogni luogo, di ogni sorta: gioco, perversione, buisness, lacrime, risa, fantasie, parole, fino alle più rare e più complesse macchinazioni di hacker all’opera, che in altre occasioni e per altri committenti si era trovata a intercettare.

Ma quella volta, doveva andare oltre.

Per trovare uno scissista si doveva scendere fino nel centro di zeus, là, nel cuore del sistema, dove potevano permettersi di esistere menti di creature che avevano il raro e ricercato dono di poter recidere del tutto il contatto tra il corpo e la mente, permettendo a quest’ultima di muoversi lì, come un’entità autonoma.

Un’intelligenza umana che agiva come un’intelligenza artificiale.

Un’intelligenza artificiale con un legame di carne e sangue.

A Lethia era capitato di giungere fino lì solo per alcuni casi di recuperi di coscienza: a volte accadeva che hackers inesperti, o solo clienti con disturbi cerebrali che avevano usufruito di programmi di realtà virtuale senza prima consultare il medico, rimanessero intrappolati nella rete e non riuscissero a scollegarsi senza l’intervento di quelli come lei.

Ma uno scissista era diverso.

Per uno scissista la separazione dalla propria realtà fisica era volontaria, non costante, e non supportata da alcun collegamento elettronico al sistema: era puro atto mentale, spontaneo e reversibile.

Dei veri e propri esp della rete, come lei.

Almeno da questo punto di vista, era uno scontro ad armi pari.

Attivò il programma di interferenza; non sapendo di essere cercato, il suo bersaglio era in svantaggio: l’attacco a sorpresa era la tattica migliore.

 

In Zeus c’era silenzio.

O almeno, ce n’era abbastanza per calmare la sua mente.

Adorava il silenzio: in quello stato attendere non era un peso. Sperò comunque di non dover monitorare la zona a tempo indeterminato: il suo corpo era in posizione abbastanza comoda, ma di certo, se la cosa andava per le lunghe, si sarebbe alzata con il torcicollo e il formicolio sotto i piedi.

Passarono lunghe ore prima che finalmente percepisse una presenza non identificata. A quella profondità, i casi erano pochi: o era una coscienza dispersa, o era un genio del sistema, o era il suo obiettivo.

Concentrò la sua mente ed entrò nei suoi pensieri: fu meno difficile del previsto.

“Ti amo, Sen”

Ehi, ma che razza di pensiero era? Certo, non era un pensiero di quelli che si sentivano di solito nel cuore della rete, laggiù dove le menti sono così staccate dalla loro dimensione reale da perdere quasi il senso della realtà.

“Sen. Meglio ricordarsi questo nome”

Poi seguì un pensiero ben più chiaro: un comando mentale per accedere al sistema della Omega e...una password!

"Accidenti, accede ai loro file riservati con regolare password? Come diavolo l'ha presa? Notevole davvero!"

Richiamò la funzione immobilizzante, non riusciva a individuare dove si trovasse l’obiettivo, quindi la estese su un campo abbastanza vasto. La banda di controllo all’estremità alta del suo campo visivo rimandò un segnale di errore, e una voce parlò nel suo cervello.

- Ops. Un’intrusa. Poco carino non farti neanche vedere! -

Davanti agli occhi di Lethia si materializzò la figura di Kevin Lockport, o forse avrebbe dovuto più propriamente dire la sua proiezione virtuale, anche se il nome tecnico non rendeva giustizia ad un’immagine dall’aspetto tanto reale.

- Complimenti. Icona perfetta -

- Se è per questo, la tua non è da meno -

Sorrise, con la stessa espressione del video, così tranquilla eppure vagamente aggressiva: Lethia si guardò le mani, e si rese conto che il suo programma di invisibilità era stato neutralizzato senza che lei neppure se ne accorgesse.

- Forse dovresti tornare a casa, signorina. Sei fuori posto, qui -

I suoi occhi brillavano vividi: l’emissione vocale corrispondeva perfettamente ai movimenti delle labbra.

- E’ questa la mia casa - rispose lei con tono di sfida - come faccio ad andarmene? -

- Semplice. Ti accompagnerò fuori io -

Lethia ebbe appena il tempo di vedere il segnale di pericolo accendersi sul menù principale: l’attacco fu velocissimo, il suo sistema di protezione intercettò l’attacco e lo assorbì, ma una dolorosa vibrazione le passò ugualmente attraverso le orecchie.

- Puoi fare di meglio, mi auguro! -

- Naturalmente. Ma lo vorrei evitare - il ragazzo la guardò deciso - Vattene -

- Spiacente. Il lavoro è lavoro -

Si concentrò nuovamente sulla funzione immobilizzante: la piccola icona rossa comparve ai piedi dell’uomo. Lui scosse la testa.

- Banalità - sussurrò.

Socchiuse gli occhi: il rosso divenne nero, e poi fumo, e poi nulla.

- Ma tu...come...? -

- Non ti sei mai scontrata con uno scissista, vero? La Omega avrebbe dovuto metterti in guardia, prima di ingaggiarti e mandarti incontro a morte certa... -

Non aveva del tutto torto: le potenzialità di quell’individuo erano superiori alle proprie, aveva neutralizzato il suo attacco con un battito di ciglia. Inoltre, non avendo bisogno di utilizzare programmi, le sue mosse erano assolutamente imprevedibili. Ma Lethia detestava essere svalutata.

- Non ti conviene offendermi. Potrei diventare cattiva... -

- Mi dispiace...ma il fatto che tu sia stata così brava da trovarmi, non significa che tu lo sia abbastanza anche per difenderti da me... -

- Sono rischi del mestiere -

Kevin Lockport esitò un istante, poi distese le labbra in quello strano sorriso che non aveva espressione e la fissò negli occhi

- E’ vero. Sono rischi del mestiere -

La banda di controllo rilevò un segnale anomalo, e prima che avesse tempo di reagire una scarica elettrica le attraversò il corpo: un velo nero calò sulla sua vista, ma la mente non perse lucidità. Comprese la natura di quell’attacco: la stava sbattendo fuori dal sistema.

- Ehi, per chi mi hai preso? Credi sia così facile sbarazzarti di me? -

- Di certo meno facile che ucciderti: ma non è nel mio stile. Se mi credi un assassino, vuol dire che la Omega ti ha dato informazioni scorrette... -

Non poteva più vedere la sua proiezione, non poteva vedere cosa stava facendo, ma per un attimo intuì che doveva esserle estremamente vicino: riusciva quasi a percepire fisicamente quella vicinanza.

- ...e tuttavia... - lo sentì dire - questo non significa che non ti farò del male... -

Un dolore lancinante trapassò la testa di Lethia, un’ondata di gelo attraversò il suo corpo, e d’un tratto le parve di star precipitando nel vuoto, senza appigli.

Spalancò gli occhi e lentamente mise a fuoco lo sguardo sulle mattonelle del pavimento di casa: era caduta dal divano e aveva sbattuto la fronte.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 

Abrham Hollis era ormai diventato la favola della clinica “Bluesummers”: la sua testarda convinzione ora commuoveva ora sollevava questioni morali ora faceva sorridere tutto il personale.

Persino il primario lo aveva convocato a colloquio e gli aveva parlato senza troppa delicatezza: morte cerebrale, coma irreversibile, non ci si poteva fare niente. Ma lui - il composto e riservato signor Hollis - gli aveva risposto che i medici pensavano da medici, un padre pensava da padre, e che lui non avrebbe mai autorizzato l’espianto degli organi, neppure in punto di morte, perché Dewy stava solo dormendo, e presto o tardi si sarebbe svegliato.

Forse in altri tempi, e in bel altre condizioni economiche rispetto alla sua, quella incrollabile speranza sarebbe stata da ammirare, ma di fronte alla certezza di finire presto sul lastrico, con troppi anni sulle spalle per poter ricominciare da capo, e messo di fronte ogni giorno ad uno scenario di cupa desolazione, dove famiglie ben più ricche permettevano che si staccasse la spina ai propri cari, cosa si poteva pensare di quell’ometto canuto che non aveva più un soldo per pagare la tassa sui macchinari che tenevano in vita suo figlio, eppure era sempre lì, a visitarlo, ogni giorno?

La dottoressa Lynch a volte se lo chiedeva.

E la risposta era che non poteva fare altrimenti.

Non poteva sradicare dalla sua mente quella convinzione, finché avesse continuato a venire lì, a sedere al suo capezzale, perché chiunque avesse guardato da vicino - come lei doveva fare ogni giorno, quando controllava i quadri di monitoraggio di quel reparto abbandonato da dio - quel giovane paziente non avrebbe potuto pensare nient’altro che stesse solo dolcemente dormendo.

Dewy Hollis, vent’anni a breve, era stato colpito da emorragia cerebrale quattro anni prima, era entrato in coma e il suo stato non aveva più subito alcuna evoluzione: eppure, a osservarlo, non aveva l‘aspetto di un malato, fosse anche solo per la inspiegabile espressività del suo viso. Aveva lineamenti aggraziati e gentili, labbra lievemente distese, quasi ad accennare un leggero sorriso, e capelli incredibilmente biondi, che in quattro anni erano cresciuti per conto proprio, arricciandosi deliziosamente, orgogliosi del loro dorato splendore.

Suo padre aveva speso per tenerlo in vita tutto ciò che aveva. E adesso aveva ipotecato la casa, che era poi anche il suo luogo di lavoro e la sua unica fonte di sostentamento.

La dottoressa sapeva, anche se non aveva mai avuto occasione di visitarla di persona, che l’ “officina Hollis” aveva avuto i suoi momenti di prestigio, un tempo: Abraham era rimasto uno dei pochi antiquari e restauratori esistenti al mondo, non era un mestiere redditizio, ma se ci si faceva un buon giro di clienti si poteva raggiungere una certa fama. Dopotutto, la moda non inventava mai niente di veramente nuovo, e in certi periodi, quando era particolarmente stanca di esercitare la fantasia per modificare il vecchio, si limitava a ripescare nel passato le cose tali quali erano. Abraham si era specializzato nell’imitazione di mobilio d’epoca, e si era costruito un buon giro di affari tra i cittadini bene di Reole, che non disdegnavano di mandare i loro consulenti immobiliari fino a Seaside Corner per commissionargli armadietti liberty per studi legali e uffici o cucine rustiche per soddisfare il gusto delle mogli. I loro macchinoni lucidi sollevavano la polvere delle strade del vecchio porto commerciale, e talvolta i loro elicotteri privati atterravano sul tetto del palazzo della succursale della Jarret viaggi, facendo volgere in su gli sguardi dei ragazzetti del molo.

Seaside Corner era chiamato anche “l’appendice della città”: una striscia della metropoli protratta sul mare, un tempo prospera, finché il porto che vi sorgeva non era stato rimpiazzato da una struttura più funzionale all’altro lato della città.

Lì, la metropolitana passava con cadenza oraria solo nei giorni feriali, la nettezza urbana prelevava i rifiuti una volta al mese, e persino i quotidiani arrivavano in edicola alle tre del pomeriggio: ma in certi posti - bastava saperlo - si poteva ancora trovare un buco sporco di fumo ed olio dove la gente cucinava cibo “vero”, cibo degno di essere consumato sulle belle tavole di legno che Abrham riproduceva con minuziosa precisione.

L’officina sorgeva poco lontano dal mare: dalle sue finestre, quando i mucchi di immondizia non coprivano la vista, si poteva vedere l’orizzonte, su cui si stagliava in lontananza la sagoma della piattaforma d’estrazione, vanto e ricchezza di Reole. Dà là, le petroliere facevano la spola per il porto, ma non attraccavano nel molo di Seaside Corner: il porto industriale stava dall’altro lato del golfo, e quel che restava del vecchio era ora solo luogo di scalo per contrabbandieri e clandestini. Ogni mattina, Seaside Corner si svuotava: la sopraelevata si copriva di smog, la metropolitana brulicava di piccole formiche indaffarate, e nel quartiere restavano i pochi che avevano la fortuna di lavorare alla Jarret viaggi o alla Gordon import-export, chiara copertura di immigrazioni clandestine e strani traffici. Anche Abrham, da quattro anni, quasi ogni mattina si spostava ma, al contrario del flusso di concittadini che si recavano al posto di lavoro, lui il lavoro lo lasciava, e andava a sedersi per un po’ al capezzale di quel ragazzo biondo, nella clinica Bluesummers, lindo ospedale privato della zona residenziale, abbastanza mal attrezzato e abbastanza poco professionale da pretendere una retta che poteva ancora permettersi.

Ancora per un po’, almeno.

 

- Ciao Dewy...come stai oggi? -

Abrham trascinò lo sgabello in ferro vicino al letto. Il cigolio tagliò l’aria con stridore: in quel silenzio innaturale anche il rumore di un passo poteva suonare fastidioso.

- Fuori è caldo...è una di quelle giornate che ti piacciono. Varrebbe la pena dare un’occhiata, lo sai?-

Aveva sentito tante di quelle strane testimonianze di persone che erano uscite dal coma e riuscivano a descrivere la propria stanza, riferire le voci dei medici e dei parenti, raccontare cosa era accaduto attorno a loro, come se il loro spirito fosse in qualche modo sospeso a mezz’aria nella camera e ascoltasse tutto ciò che veniva detto o fatto. Quelle storie, in un certo senso, lo rasserenavano

Ma Dewy non aveva l’aria di una persona la cui anima vola in giro per la stanza: Dewy sembrava sempre lì, anche se aveva gli occhi chiusi e la stessa espressione da quattro anni. In un certo senso, Abrham avrebbe preferito immaginare il suo spirito staccarsi dal corpo e passeggiare libero per i corridoi.

- Staresti meglio a casa tua. La tua stanza è sempre lì, con la cornice dipinta a acrilico lasciata là, ad aspettare di essere finita. Quante volte ti avrò detto che non si lavora con gli acrilici nella stanza da letto? Sono sostanze che non dovrebbero essere inalate... -

Forse il suo spirito avrebbe dipinto anche quei muri, se avesse potuto. Detestava le pareti bianche. Gli erano sempre sembrate inespressive.

- quando la finirai...quella cornice la venderemo all’avvocato Crispi. Che ne dici? Col ricavato ricompriamo un po’ di cose...Anzi, no. Col ricavato ti porto a cena in centro... -

- Signor Hollis... -

La voce della dottoressa era ormai quasi una rassicurazione. In quel posto che sapeva di morte, le consuetudini erano l’attaccamento alla vita.

Quando tutto si ripeteva identico, voleva dire che almeno nulla era cambiato.

- Mi spiace, l’orario delle visite è... -

L’uomo si era già alzato, stancamente. In quegli anni la sua andatura si era fatta più goffa e incespicante.

- Si, lo so. Sto andando, dottoressa... -

Le fece un debole sorriso di cortesia.

Dewy, col suo viso dolce e i capelli ondulati abbandonati sul cuscino, sembrava ascoltarli da un luogo lontano, senza trovare opportuno intromettersi nella conversazione.

- Signor Hollis, per quanto tempo ancora pensa di... -

- Per quanto sarà necessario, dottoressa... - nella sua voce c’era una solennità pacata, di vecchio oracolo fallito - per legge di natura, i figli sopravvivono ai padri. Dewy ha vent’anni, ed io quasi settanta. Comunque vadano le cose, è giusto che io muoia prima di lui... -

La dottoressa Lynch gli rivolse uno sguardo di rassegnata tenerezza.

- Buona giornata, Abrham - disse

- Buona giornata a lei, dottoressa. Buona giornata, Dewy -

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

 

“Potrebbe trattarsi di una forma di schizofrenia. E’ un disturbo raro in una bambina così piccola, ma i primi test sembrerebbero avallare questa ipotesi”

“Si tratta di un disturbo curabile, vero?”

“Non posso avanzare ipotesi per il momento. Bisogna condurre ancora molte analisi, ma con gli psicofarmaci siamo in grado di risolvere molti problemi, e non è escluso che non con lo sviluppo...”

“E’ MALEDETTA! Mia figlia è maledetta! E’ stata baciata dal diavolo!”

“Non dire idiozie! Il diavolo no esiste!”

“Signora Ballard, si calmi. Non è poi così grave. Vedrà che con un piccolo aiuto farmacologico e una buona terapia...”

“VOI NON CAPITE! Io l’ho visto! L’ho visto entrare: è andato sul suo lettino...si è chinato su di lei! Siamo stati dannati, per sempre!”

“Tesoro, adesso basta!”

“Signor Ballard, accompagni fuori sua moglie, la prego..."

 

Lethia si tirò su a sedere, e i piedi nudi toccarono il freddo pavimento. Un brivido le risalì su per la schiena. Per colpa di quel Lockport, da due giorni aveva un mal di testa insopportabile, che le impediva persino di dormire.

E l’insonnia era sempre portatrice di cattivi pensieri.

La notte non era fatta per la veglia: nella notte si svegliavano i fantasmi, non quelli con cui era abituata a parlare, non quelli che avevano un corpo a cui essere ricondotti: i suoifantasmi, quelli più odiosi, perché non potevano essere riportati da nessuna parte.

Si stropicciò gli occhi, e guardò le lancette fluorescenti dell‘orologio: erano ancora le 4 del mattino e sapeva che non sarebbe più riuscita a prendere sonno. La giacca del Tallieur era appesa alla spalliera, la gonna ripiegata accuratamente, le scarpe abbandonate sotto la scrivania. In quei giorni era nervosa: benché il signor Adrianov fosse rimasto entusiasta dell’esito della sua operazione, che le aveva permesso di ottenere ed analizzare tutti i parametri di Kevin Lockport, per Lethia dover ammettere di essere stata buttata fuori dal sistema in due sole mosse era umiliante.

Inoltre, il dolore non accennava a diminuire.

- Bastardo - sussurrò a mezza voce - Bastardo! Te la farò pagare! -

Quello stronzetto dal sorriso elegante era stato il primo individuo al mondo che era riuscito a sfuggirgli.

Una volta, però.

Non ci sarebbe stata la seconda.

Si alzò in piedi, raccolse i lunghi capelli corvini in una coda, bevve una tazza di caffé e poi tornò a accomodarsi sul divano.

- Ho i tuoi parametri, mio caro - disse, inserendo un piccolo cip all’interno del deck - ed un nuovo programma fatto apposta per te. Non mi troverai più impreparata -

Aveva trascorso l’intera giornata precedente a studiare le informazioni raccolte durante il primo contatto con lo scissista: se lui era stato più abile nel confronto diretto, almeno lei era stata brava nel reperire i dati necessari. Da quel breve incontro era riuscita ad estrarre praticamente tutto ciò che gli serviva per elaborare un sistema di trasferimento fatto su misura per lui, e prendere precauzioni per non essere estromessa da Zeus di nuovo: se voleva sfuggirgli, stavolta, doveva ucciderla.

Indossò il fermaglio e controllò che ogni cosa fosse pronta.

- Oggi, sarà una barzelletta anche trovarti... -

Davanti al suo sguardo comparve l’ordinaria banda di controllo: stavolta non ci sarebbe stato bisogno di seguire i suoi pensieri, ci voleva meno tempo e meno fatica nel lasciare che il computer rintracciasse la sua impronta. Il brusio di sottofondo accompagnava la procedura, ma ci aveva fatto l’abitudine, e quando si concentrava sul lavoro riusciva facilmente ad ignorare i bisbigli dell’utenza della rete, per quanto insistenti potessero essere: un lontano ronzio, come di falene impazzite intorno ad una lampada, e nulla di più.

Bip...bip...

Un led rosso pulsò sulla banda di controllo.

- Kevin Lockport? -

Il programma di ricerca confermò, prima ancora che lei potesse finire di pronunciarne il nome, ma non ebbe tempo di agire che il sistema la avvisò della presenza di un campo d’isolamento che si era di colpo innalzato attorno a lei.

- Scollegati, ed io ti lascio andare -

L’immagine di Kevin si delineò sullo sfondo.

- Non hai le certe in regola per minacciare! Il tempo che ho impiegato a rintracciarti non ti dà alcuna garanzia di sicurezza, a meno che tu non mi bruci il cervello adesso! -

Paradossalmente, sentiva di non provare alcuna paura: la morte non le era mai sembrato quel granché, quantomeno avrebbe potuto constatare di persona che non esistono né diavoli né dei.

- Lo so. E me lo aspettavo. Per questo sono stato costretto ad usare una strategia preventiva -

D'un tratto si accorse che le provocazioni di quell'uomo la eccitavano: non aveva mai trovato un avversario così.

- Se è per questo, anche io mi sono prevenuta -

Lethia si concentrò sul suo potere: con la mente immaginò di sferrare un colpo violento a Kevin Lockport. L'immagine del ragazzo fu come investita da un muro d'aria invisibile.

- Ehi! Mi hai fatto male! - protestò lui

- Peggio per te. Uno pari -

Kevin alzò la testa: aveva begli occhi, penetranti e un po’ tristi.

- Non voglio farti del male. Vattene -

- Non posso accontentarti. Stai cercando di accedere ad un archivio privato del mio cliente. Ho l’ordine di impedirtelo -

- Errore. Sto cercando di dare al tuo cliente quel che si merita. Non ti sei neppure domandata perché ti è stato chiesto di trovarmi? -

- Non sono solita fare domande sul lavoro -

Stava cercando di distrarla, e non doveva permetterglielo: quattro anni di attività le avevano insegnato che quando si lavora con le menti altrui, ogni curiosità doveva essere lasciata da parte. In quel momento, come in tutti i suoi recuperi di coscienza, Kevin Lockport era solo uno spirito disperso in zeus che lei doveva riportare indietro, che lui lo desiderasse o meno. Si concentrò sui programmi e attivò la funzione paralizzante; questa volta avrebbe funzionato, era stata riadattata su misura per lui.

Il ragazzo le rivolse uno sguardo sorpreso, poi lo stupore si trasformò in rabbia.

- Che ti salta in mente? Lasciami andare! lasciami andare, o non ne uscirai viva, Lethia Ballard! -

Sul viso di lei comparve un sorriso di trionfo.

- Oh, vedo che conosci il mio nome! -

- Ma naturale...qua in Zeus sei ospite d’abitudine. Peccato che, nonostante la vita che hai avuto, tu preferisca vendere le tua capacità alle corporazioni anziché contribuire a evitare agli altri di subire le stesse ingiustizie! -

Aveva cambiato ancora espressione: adesso non stava più giocando, né la stava provocando: nella sua voce c’era la chiara intenzione di colpire un punto debole. Che pensava di ottenere?

- Qui non c'entra la mia vita -

- C'entra eccome. Anche io ho “studiato” i tuoi “parametri” nella giornata di libertà che mi hai concesso. E ho saputo un bel po’ di cose di te. Due a uno, signorina -

Lethia sentì l'ira salirle su dal fondo dello stomaco: da una parte verso di lui, che si permetteva di andare a scavare dove nemmeno lei scavava più da anni, dall’altra verso se stessa, che concedeva ad uno sconosciuto di riuscire così facilmente nell’intento di farle perdere la calma. Quel bastardo doveva aver capito fin troppo bene quanto la concentrazione le fosse indispensabile per agire, e stava portando avanti una sleale azione di disturbo psicologico. Pure, il desiderio di sapere fin dove si fosse spinto fu più forte del buon senso.

- Cosa sai di me? -

Il sorriso di Kevin mostrò un lampo di compiacimento.

- Beh, diverse faccende. Per esempio che da bambina sentivi strane voci, che dicevi di parlare con le macchine, che i tuoi genitori ti hanno presa per pazza e ti hanno spedito in manicomio, e che quando hanno scoperto la natura dei tuoi poteri avrebbero voluto sfruttarti a dovere, ma tu non hai più voluto tornare a casa. Te ne sei andata nei quartieri popolari, hai fatto cosette poco carine, sei finita in galera e....vuoi che vada avanti? -

Lo sguardo di Lethia era furioso: desiderava colpirlo con tutto il cuore per sfogare quella rabbia, desiderava stampare uno schiaffo su quella faccia di bronzo...desiderava ferirlo...

- Questo non è leale! La mia vita privata non ha nulla a che fare con la sfida tra me e te! -

Kevin le puntò gli occhi in faccia: nonostante fosse immobilizzato e indifeso, c’era qualcosa di minaccioso nel suo volto

- Ah, dunque è una sfida leale, la nostra? Bene. E ti sembra forse leale vendere un uomo ad una corporazione senza chiedergli neppure ciò che ha da dire? - la sua voce aveva un timbro vibrante, di cupa lucidità - è forse leale attaccarmi per denaro, ignorando di essere complice di un branco di assassini? E' forse leale cercare di imprigionarmi contro la mia volontà, senza neppure prenderti la briga di denunciarmi alla brain-watch? Dimmi una cosa, il fatto che abbiano ingaggiato un agente privato non ti ha fatto venire neanche un sospetto? Ma no, certo...tu sei quella che “non fa domande sul lavoro”! Beh, se permetti, ficcando il naso nella tua vita privata non ho fatto quel granché...! Per non parlare del fatto che non ho mai cercato di friggerti il cervello...! -

- Ma guarda cosa devo sentire! Un criminale informatico accusa me di agire contro la legge! Se davvero il mio cliente stesse facendo qualcosa di losco, perché non lo hai denunciato, invece di nasconderti nella rete? -.

- Avrei voluto farlo. E lo avrei fatto. Ma non posso-

- Che stai dicendo...? -

- Sto dicendo che non posso. Non posso andare alla polizia...Non ne ho modo -

- Ma davvero? E sentiamo, perché mai? Hai paura di beccarti dieci anni perché non ti sei fatto registrare alla brain watch? -

- No. Questo sarebbe impossibile. Nessuno può rinchiudermi. E nessuno può...toccarmi...o vedermi -

Kevin fece un sorriso strano: gli ricordò il riso di qualche misterioso folletto visto da bambina in chissà che libro di fiabe

- Io non posso fare più niente, fuori di qui. Perché io sono morto, Lethia Ballard -

- Sei...morto? -

Il silenzio calò per un attimo tra loro. Dall’espressione di Kevin, Lethia intuì che se non fosse stato paralizzato dal programma, probabilmente si sarebbe stretto nelle spalle in un gesto di disincantata rassegnazione.

- Esatto. Sono morto. Un sicario della Omega mi ha aggredito a casa mia, e mi ha piazzato una pallottola in testa. Non ho idea di che fina abbia fatto il mio cadavere, ma sicuramente lo hanno nascosto bene. Di soldi per insabbiare ogni sospetto ne hanno a sufficienza -

Le sopracciglia di Lethia si aggrottarono, ma verso l’interno: la naturalezza con cui quell’uomo parlava del suo presunto decesso aveva dell’inverosimile. Ma ammesso che non stesse mentendo - e non aveva ragioni di farlo - si trovava di fronte ad un fenomeno davvero interessante. La curiosità prese la precendenza anche sul lavoro.

- Ma...se sei fisicamente morto, come fai a trovarti qui? -

- Perché sono riuscito a effettuare la separazione nel momento stesso in cui mi sono reso conto di quel che stava succedendo. Un attimo prima che quella pallottola penetrasse nella mia fronte, io ero già qui. Non ricordo di aver percepito neppure il dolore. Sono molto bravo, no? -

Era bravo, sì. Era meravigliosamente bravo. Se fosse rimasta a ascoltarlo ancora, ne sarebbe stata incantata, e forse anche questo faceva parte della strategia di quell'uomo geniale e affascinante.

- Pazienza. Non importa se non c'è più un corpo a cui riportarti. La omega mi ha ordinato di scaricarti su un supporto -

Lethia attivò il programma di trasferimento che le era costato un giorno di lavoro: il supporto SK era già stato accuratamente predisposto nel suo deck.

- Maledizione, ma non ti interessa neanche un po’? - esclamò Kevin - Non vuoi nemmeno che ti spieghi? Non vuoi sapere perché faccio questo? Non vuoi sapere perché vogliono toglermi di mezzo? Non voui sapere cosa c'è in quegli archivi? -

- No, non voglio saperlo. E' una questione di professionalità -

- Non è AFFATTO una questione di professionalità! E’ una questione di COSCIENZA! C'è di mezzo un crimine, e se tu mi consegni a loro, ne permetterai altri...! -

La voce del ragazzo apparve sfalsata rispetto al movimento delle sue labbra. L’icona di lui non era più tanto nitida: il processo di trasferimento era avviato, in pochi minuti la mente di Kevin Lockport sarebbe stata intrappolata sul supporto SK e il suo lavoro sarebbe finito.

- ...Aspetta almeno un momento! Lascia che ti parli...! Tu non sai cosa stanno facendo...Tu...tu mi devi ...! Ti prego, Lethia! Ti prego...! -

- Io sono quella che “non si fa domande sul lavoro”...lo hai detto anche tu. Mi dispiace -

Silenzio. Lo sguardo del giovane la fissò, sbiadito.

- Va bene. Allora non mi lasci scelta. Addio -

Fu l’ultima cosa che Lethia riuscì a udire, prima che un ronzio assordante le penetrasse le orecchie. Sentì un calore violento esploderle negli occhi: i comandi del menù impazzirono, la sua percezione di zeus si dissolse, fu come se ogni suo singolo impulso, ogni sua percezione, perdessero per un momento la forza di restare insieme, e se ne andassero per conto proprio, bruciati da quel fuoco improvviso attizzato dentro di lei...o...fuori di lei...

- Lockport! - gridò - Kevin Lockport, cazzo, che diavolo fai!? -

Ogni segnale di lui era scomparso, il processo di trasferimento, interrotto.

- Sei pazzo? Vuoi ammazzarti o cosa? Lockport, maledizione! Vuoi distruggere la tua stessa mente?-

Nessuna risposta. Lentamente i comandi del menù principale tornarono visibili, Lethia recuperò il controllo della connessione a zeus, ma dell’impronta di Kevin Lockport non c’era traccia.

Con calma, riemerse dal sistema, e riaprì gli occhi sul suo divano.

Il supporto SK si era letteralmente fuso.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

 

Il telefono squillò nel cuore della notte, vicino alla testa di Abrham Hollis, e dall’orecchio rimbalzò nel petto. Il telefono era un suono che da quattro anni ormai gli faceva paura: non poteva non farne, quando si ha una persona cara sospesa a metà tra la morte e la vita.

Secondo squillo... - la mano era già sulla cornetta - ...terzo squillo...

- Abrham Hollis, chi parla? -

La voce della dottoressa Lynch gli scese fino all’altezza del cuore, che accelerò il suo battito e gli compresse il torace.

- Deve venire subito, signor Hollis. Suo figlio... -

Mentre la donna parlava, la testa di Abrham si andava svuotando, e un fischio la attraversava da lato a lato, passando per le orecchie. Ora lo avrebbe detto: avrebbe detto quel fatidico “Mi dispiace, non c'è più nulla da fare”...lo attendeva ad ogni puntino di sospensione, quasi che l’attesa fosse più dolorosa della notizia.

Ma la notizia non venne.

- ...si tratta di un’attività encefalica irregolare che tuttavia... -

Abrham riprese il discorso in quel punto: le mani si serrarono entrambe alla cornetta, quasi a sorreggersi ad un appiglio invisibile

- Non voglio alimentare speranze, signor Hollis...ma la probabilità che Dewy si svegli non è da scartare -

 

Temeva di sognare.

L’ovattamento della notte gli abbracciava la testa.

Temeva che non fosse vero.

Non credeva che la realtà, tutto d’un tratto, potesse apparirgli così simile all’illusione.

Cercò di richiamare tutti i sensi e di percepire le funzioni del suo corpo.

“Sono qui. Sono su un taxi. Sento la sintopelle del sedile sotto le mie dita. Vedo la strada. Sono le cinque del mattino, e tra poco più di un’ora sorgerà l’alba. Non sto dormendo”

Scese davanti all’ingresso della clinica, consegnò al tassista le ultime banconote sdrucite che aveva in tasca, si mise a correre, per quanto il suo fiato permetteva.

"La probabilità che si svegli non è da scartare"

Poteva essere vero?

La ferma certezza che lo aveva accompagnato per quattro anni sembrava essersi sgretolata pezzo per pezzo, come l’intonaco di un vecchio muro: ora c’era solo angoscia, angoscia che non fosse reale, che non fosse possibile proprio nel momento in cui qualcuno aveva riacceso quella speranza.

- Signore, dove corre? -

L’infermiera di turno lo fermò. La reception, a quell’ora, era abbandonata. Non c’era quasi nessuno in quella piccola, linda clinica, dove la gente cercava di sopravvivere a costi accessibili.

- Dewy Hollis, al terzo piano. Mi aspetta la dottoressa Lynch...mi hanno fatto chiamare... -

La donna, una paffuta signora che la vita aveva consumato in fretta, screpolò il volto in un tirato sorriso.

- Ah, è lei - ridistese le labbra, quasi che il suo viso di ragazza invecchiata non potesse sopportare la serenità - Si calmi e beva un bicchier d’acqua. Non la faranno neppure entrare, con quella faccia! La psiche di un paziente appena uscito da un come così lungo è vulnerabile, non lo sa? -

- Mi...mi sta dicendo che è sveglio? -

- Eccome. Sveglio e cosciente. Per fortuna, a volte anche qui ci sono le belle notizie! -

L' infermiera lo accompagnò fino all’ingresso del reparto: lui entrò nel corridoio come un fantasma, le camere dei degenti erano buie, le lucine variopinte dei sistemi di monitoraggio sembravano stelline intermittenti.

Dalla stanza di Dewy uscì un uomo in camice, portava via un carrello compero da un telo sterile, lo vide, incrociò il suo sguardo, gli fece cenno di entrare. La dottoressa Lynch era in piedi vicino al letto, di spalle. Udì i suoi passi e si voltò.

- Venga qui, Abrham... -

Alcuni medici si affaccendavano nella stanza, e generavano un brusio confuso scambiandosi compiti e commenti

Lo sguardo di Abrham cercò il viso del ragazzo disteso nel letto: la sua mano, con le dita lunghe e sottili, immobili da tutto quel tempo, ora stava appoggiata all’altezza dello stomaco, e un cavo collegato al polso rimandava ad un macchinario il ritmo del battito cardiaco; i suoi occhi erano limpidi e presenti. Non li ricordava così verdi.

- Papà... - mormorò, con un fil di voce - ...ma che mi è successo? -

L'uomo scoppiò a piangere.

 

La dottoressa Lynch pensava che Dewy Hollis fosse il paziente più interessante di cui si fosse mai occupata, e non solo per l'eccezionalità del suo caso. Qualsiasi cosa dicesse o facesse, era come circondato da un fascino tutto suo, di cui non era nemmeno consapevole, e che riusciva inesorabilmente a catturare l’attenzione di chi gli stava attorno.

I suoi lineamenti, presi nella loro singolarità, presentavano vistose sproporzioni, che tuttavia sembravano studiate per garantire un effetto d’insieme: aveva occhi decisamente troppo grandi in rapporto alla dimensione del viso, e i denti davanti erano troppo sporgenti, tuttavia quando rideva i primi si strizzavano deliziosamente e i secondi rendevano il suo sorriso largo e luminoso. La sua espressione, sempre così schiva e senza pretese, emanava una spontanea e innocente suggestività. Non lo si sarebbe detto un ragazzo di vent’anni: in qualche modo, era come se anche la sua maturazione fisica si fosse fermata nel punto stesso in cui si era interrotta la sua vita: ma quel ritardo nella sua crescita intellettiva e biologica, sembrava anche l’unico strascico che quello strano paziente si portava dietro da quattro anni di coma profondo. La sua straordinaria ripresa costituiva una vera e propria anomalia dal punto di vista medico: non aveva impiegato che poche settimane a recuperare tutte le proprie funzioni, aveva ripreso subito possesso dell’uso del linguaggio, aveva ricordi chiari e consapevoli fino a non meno di un mese prima dell’incidente; riusciva a coordinare fluidamente i propri movimenti e ancora meglio i propri pensieri. Non c’era traccia di turbe psichiche o di danni neurologici: il personale aveva dovuto occuparsi principalmente della riabilitazione muscolare, ma, per quanto ancora avesse qualche difficoltà a rimanere alzato per tempi lunghi, in soli due mesi sembrava essere tornato in ottima salute.

“Sono caduto in una pausa del tempo” aveva detto lui, con il suo colorito modo di parlare. E, finita la pausa, il tempo aveva ricominciato a scorrere all’improvviso, senza apparenti ragioni, riprendendo il suo cammino dal punto esatto in cui si era interrotto.

Quando lasciò l'ospedale con le proprie gambe, qualcuno ancora stentava a crederci...

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

 

Lethia non pensava, quando aveva accettato l'incarico, che il suo ingaggio per la Omega prevedesse anche una trasferta a Reole, e tanto meno in un sobborgo come quello. Detestava le grosse metropoli industriali, le ricordavano il luogo in cui era cresciuta. Da quando il suo potere le aveva aperto le porte della carriera, era sempre vissuta nella capitale e provava una sorta di aristocratico fastidio per quelle città che non avevano nemmeno un centro storico ed erano state costruite a tavolino per ospitare fabbriche, aziende e centri commerciali.

Ma il caso di Kevin Lockport aveva inferto un brutto colpo al suo orgoglio, e il desiderio di rivlasa aveva vinto le sue reticenze.

Da quando si era dissolto davanti a lei per non farsi catturare, non era riuscita a togliersi dalla testa l'idea che quella faccenda fosse finita in modo troppo semplice. Uno di quello stampo, era il classico tipo che aveva in serbo un asso nella manica.

Così, quando Adrianov l'aveva fatta chiamare d'urgenza e le aveva esposto l'accaduto, non si era stupita.

Dopo oltre due mesi di tranquillità, gli esperti della Omega avevano rilevato l'intrusione, nel loro sistema, di un altro scissista, i cui paremetri erano stranamente simili a quelli di Lockport. Simili, ma non identici, il che escludeva che si trattasse di lui, ma lasciava ipotizzare che avesse un complice, da qualche parte: magari un parente di cui era riuscito a nascondere l'esitenza.

Lethia aveva preso tutti i dati necessari e si era rimessa subito al lavoro.

Per molti giorni non si era staccata un attimo da Zeus, e si era resa conto di trovarsi di fronte ad un fenomeno quantomai strano: la presenza che talvolta si affacciava negli archivi riservati della Omega, per quanto fosse certamente di uno scissita e per molti aspetti potesse ricordare Lockport, non sembrava avesse un piano, né aveva ancora compiuto alcuna azione lesiva nei confronti del sistema dell'azienza. A volte sembrava quasi capitarvi per errore, e per pochi istanti, come un osservatore passivo, che gli ricordava un po' le tante coscienze disperse nella rete che le era capitato di recuperare.

Inoltre, l'intruso non sembrava aver innalzato particolari difese: se avesse compiuto anche una sola azione, o avesse allungato di qualche secondo la sua permanenza, non sarebbe stato difficile immobilizzarlo e visualizzare la sua proiezione virtuale. Ma le sue visite erano più brevi d'un intermittenza, e le sue intezioni impossibili da prevedere.

L'unica cosa che Lethia era riuscita a fare, in settimane di estenuante lavoro, era stato circoscrivere la presunta zona da cui l'individuo operava: l'ex area portuale di Reole.

Era stato allora che Adrinov l'aveva spedita lì, nello sperduto sobborgo di Seaside Corner: nome poetico per un luogo assai poco ameno!

"Beh, qua non ci saranno problemi di parcheggio" pensò Lethia, mentre guidava per le strade spopolate "questo quartiere sembra il paese dei morti!"

La giornata era limpida e il sole alto: aveva impiegato quasi un'ora, con la sopraelevata, a percorrere il tragitto che separava l'aeroporto di Reole da Seaside Corner, ed aveva notato il flusso di traffico che si muoveva nella direzione opposta. La scarsa densità di popolazione, per quanto deprimente, le facilitava il lavoro: probabilmente quello era una specie di paese-dormitorio, dove i pendolari potevano affittare case a prezzi ragionevoli, e, se era fortunata, la persona che cercava non era tra questi, visto e considerato che aveva registrato la maggior parte delle sue presenze nelle ore diurne.

Si diresse verso quello che le sembrava il luogo più vivo della zona: il punto dove sorgevano due grossi grattacieli gemelli, che spiaccavano sul piattume delle case popolari.

Accostò lungo il bordo della strada, ai piedi di una delle due costruzioni, quando, all'improvviso, qualcosa di pesante si schianò sul suo parabrezza, incrinandolo pericolosamente.

"Cristo!!!" gridò lei, saltando fuori dalla vettura con foga "Che è stato?"

Sul cruscotto, anch'esso ammaccato, vide una grossa spatola per vetri, che aveva lasciato una larga chiazza di sapone e acqua sporca sulla carrozzeria. Lethia comprese di cosa si trattava: alzò gli occhi e infatti vide, sospeso all'altezza del terzo piano, il carrello scorrevole dell'impresa delle pulizie.

"Razza di cretini!" strillò "Potevate ammazzarmi!"

Era veramente furente: non solo si trovava in un paese abbandonato da dio, ma adesso doveva pure rendere conto del danno all'autonoleggio, scomodare l'assicurazione, eccetera eccetera...Come se cercare uno sconosciuto in mezzo a una città di sconosciuti fosse un'impresa da niente!

"Scendete giù, deficienti!"

Il carrello scese, e, man mano che si avvicinava, Lethia riusciva a sentire sempre meglio le voci dei due operai.

"E' la terza volta, cazzo! LA TERZA VOLTA!"

Una voce rude stava inveendo contro qualcuno che non rispondeva.

"Stavolta basta! Non voglio finire nei guai! Ti ho fatto un favore, ma non ne voglio farne le spese!"

Il carrello arrivò al piano terra, e fu allora che la donna riuscì a distinguere anche l'altra voce, e a vedere a chi appartenenva.

"Mi...mi dispiace! Non mi succederà più...io cercherò di..."

Il ragazzo che aveva parlato si teneva la testa tra le mani, e non aveva l'aria di stare bene: era pallido e stava tremando in modo visibile. Lethia lasciò per un attimo da parte la rabbia e si avvicinò a loro, mentre il più anziano dei due - a quanto pareva, il datore di lavoro - continuava ad urlare.

"Che cazzo cercerai di fare?! Tu non sei in condizioni di lavorare, porco cane! Se solo lo viene a sapere l'ispettorato del lavoro...."

"Che cosa dovrebbe venire a sapere, prego?"

La donna lo fissava con occhi taglienti: alta, bella, con un elegante tallieur scuro, emanava una certa autorità, che lasciò per un attimo l'uomo a bocca aperta.

"Niente..." la voce del ragazzo si intromise timida "niente, signorina..."

Alzò lo sguardo e sforzò un sorriso.

"Mi perdoni, sono mortificato...è colpa mia..."

Cercò di scendere dal carrello, ma una fitta di dolore gli attraversò il cranio: si tenne la testa con entrambe le mani e si lasciò cadere con la schiena contro il muro, emettendo un gemito.

Lethia non perse tempo: lo sorresse, lo aiutò a scivolare lungo la parete e a stendersi per terra e, china su di lui, gli sostenne il capo con una mano.

"Non stia lì impalato, lei" intimò all'altro individuo "Mi aiuti. Vada alla mia macchina e prenda la mia valigetta"

L'uomo obbedì, e la donna estrasse dalla ventriquattrore una scatola di metallo piena di strani congegni elettronici.

"Sei portatore di un impianto neurale, vero?" domandò, rivolta al ragazzo.

"Si..." ammise lui, a mezza voce.

La donna scelse un piccolo cip, e, con dimestichezza, glielo posizionò alla base della nuca, fissandolo con un gel adesivo.

"Dovrebbe attenuare il fastidio, ma è meglio se resti qualche minuto immobile"

"Ehi" si intromise l'uomo "Si può sapere che diavolo succede?"

Lethia appoggiò delicatamente la testa del ragazzo per terra e si alzò, fronteggiando l'interlocutore.

"Succede che il suo collega ha un problema di cyber-brusio" spiegò, tecnica "ovvero soffre di un'interferenza tra il newralware e zeus. E' un problema di impainti di installazione recente o di qualità non alta. Se lei è, come sembra, il suo capo, dovrebbe saperlo. I portatori di impianti sono tutti registrati ed hanno una tessera apposita che ne descrive il tipo: è fondamentale esserne in possesso, in caso di incidenti sul lavoro..."

Gli lanciò un'occhiata allusiva, e con un cenno della testa ammiccò alla sua auto.

"Dunque...paga la ditta, vero?"

L'uomo azzardò una timida resistenza

"Veramente il responsabile dell'incidente è..."

"Signore, la prego, niente questioni. Lei fa lavorare in nero un ragazzo che ha un pezzo di metallo nel cervello, e neppure lo sa. Mi faccia il piacere..."

Il poveretto incassò il colpo.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

 

"E così ti chiami Dewy..."

"Si...e lei?"

"Io sono Lethia. Ti senti meglio, adesso?"

"Molto meglio. Non so proprio come ringraziarla...Io le ho combinato un guaio enorme e lei invece mi difende..."

In verità, Lethia non capiva cosa l'avesse spinta a schierarsi dalla sua parte: forse gli aveva fatto tenerezza perché lo aveva visto star male, forse perché detestava lo sfruttamento, o forse semplicemente perché quello stranito ragazzo biondo era davvero l'individuo più grazioso che avesse mai visto. Aveva qualcosa nello sguardo e nel modo di parlare che trasmetteva una sensazione di profonda gradevolezza, e lei non era solita trovare piacevole la presenza altrui.

"Temo che mi licenzierà..." sospirò Dewy

"Non ne vedo il motivo. Ci sono molti modi per evitare quel tipo di interferenze: basta che tu vada da un buon tecnomedico..."

"Capisco..."

"Ma tu non ci sei andato. Perché...?"

Il ragazzo si guardò le ginocchia, con aria colpevole.

"Io non...non ho detto a mio padre che lavoro. Se lo sapesse, non me lo permetterebbe, e noi abbiamo bisogno di soldi. Quando avrò il primo stipendio, mi farò risolvere il problema..."

"Ma che razza di stupido...!" esclamò lei, con tono brusco "potevi caderci tu, da quel carrello, invece dello spazzolone!"

"Già..." sospirò lui.

Senza sapere perché, Lethia si sentì rimescolare lo stomaco. Avrebbe voluto che Dewy le rispondesse in qualche modo, magari dicendole di farsi gli affari propri: invece quella ammissione dimessa l'aveva spiazzata. Cosa aveva quello strano tipo per scatenare simili reazioni in lei? Era come se la persona che aveva di fronte avesse deciso di non innalzare alcuna barriera protettiva attorno a sé, e le si offrisse completamente vulnerabile, completamente inerme, senza provare alcuna paura.

"Senti un po'..." riprese con più dolcezza "perché hai quell'impianto nella testa?"

"E' un impianto di contenimento..." rispose lui "o almeno, così mi hanno spiegato in ospedale. E' servito a fermare l'emorragia che ho avuto al cervello. Mi hanno operato evitandomi la morte: poi ho dormito per quattro anni"

"Dormito...? Cioè sei stato in coma?"

Dewy fece un largo sorriso, che gli illuminò il volto.

"Si. Ma adesso sono qui, e sono vivo: non è fantastico?"

Lethia non aveva mai visto un uomo sorridere a quel modo. Era il sorriso di un ragazzino, ma aveva dentro la convinzione di un adulto. Per un attimo le parti le sembrarono rovesciate, e lei sentì di essere la più fragile fra i due. Desiderò poter protrarre ancora per un po' quella strana sensazione.

"Se vuoi ti accompagno a casa: sono sicura che ti gira ancora la testa"

"Lei è proprio gentile...!"

"Vuoi smettere di darmi del lei? Guarda che non sono tanto più vecchia di te!"

Dewy si fece rosso in viso e si affrettò a correggersi.

"No, no...che va a pensare? Solo che lei...emh...che tu sei così elegante che mi sento a disagio! Qui a Seaside corner siamo gente..." non trovò le parole e allargò la braccia, mostrando la salopette sdrucita "...gente così!"

Gente così...ripetè Lethia nella sua testa. Anche lei era stata tra la "gente così", un tempo.

Ma non aveva mai avuto quel sorriso.

 

Lethia entrò nell'officina Hollis con gli occhi spalancati per lo stupore: varcare quella soglia era come tornare indietro di un secolo. I mobili di legno, le tapparelle manuali, le tende di stoffa alle finestre, le mattonelle decorate e i lampadari che sembravano usciti da un vecchio film!

“Noi facciamo gli antiquari” spiegò Dewy “Io sono solo un restauratore, mio padre invece è capace di riprodurre qualsiasi cosa tu gli chieda!”

Abrahm si schermì, grattandosi la testa

“Beh, non proprio tutto...ma se Dewy mi avesse avvertito che portava ospiti, le avrei fatto trovare volentieri un thé servito in un set di tazze liberty!”

“E quale delle due cose è il pezzo d'antiquariato: le tazze liberty o il the?” scherzò Lethia, abituata alle buste solubili che con un vero the non avevano nulla a che fare.

Dewy spostò galantemente la sedia per lei.

“Entrambe, ovviamente...!” sorrise, e, da una credenza che avrebbe potuto trovarsi nella casetta di Biancaneve, tirò fuori una teiera col beccuccio, in metallo rosso brillante.

“Carina, vero? E' una delle poche riproduzioni che ho fatto io! Funziona anche il fischietto!” e le indicò col dito la piccola valvola a pressione “...e tu invece? Nella vita cosa fai?”

Appoggiò i gomiti sul tavolo e la testa tra le mani, come un bambino che si dispone ad ascoltare una favola: aveva dei modi così infantili! Non riusciva nemmeno a dargli un'età...eppure, era chiaro che non era più un adolescente. Per qualche attimo rimase ad osservarlo e non rispose alla domanda.

“Cosa faccio...?”

Socchiuse gli occhi, tormentandosi una ciocca di capelli.

“Non è semplice da spiegare. Diciamo che mi occupo di investigazioni in rete...”

“Ovvero, lavora nella Brain Watch?” si intromise Abrahm.

“No, opero nel privato: recuperi di coscienza, per lo più...”

“Cos'è un recupero di coscienza?”

“La spiegazione tecnica sarebbe complessa, signor Hollis. Da quel che mi chiede, immagino che lei non abbia mai fatto uso di realtà virtuali...”

“Per carità! A me piacciono le cose vere, non queste porcherie informatiche!”

Dewy ascoltava la conversazione attento e silenzioso.

“Quando un utente interagisce con una realtà virtuale in modo non corretto, come superando un certo limite di tempo o collegandosi in condizioni di salute non idonee, o, ancora, in caso di programmi difettosi, può andare incontro ad una serie di controindicazioni. Tra le più gravi vi è lo smarrimento in Zeus: in parole povere, è come se la coscienza perdesse la strada per ricollegarsi all'individuo, così la mente non è più in grado di dare il comando d'uscita dal sistema. Il mio compito è quello di ristabilire questo collegamento...”

Il fischio della teiera fece voltare la donna verso il fornello: quando i suoi occhi tornarono sugli interlocutori, incrociarono quelli del ragazzo, che erano fermi su di lei.

“E' un lavoro molto bello...” disse, con voce lenta e dolce “...perché, allora, il tuo sguardo è così vuoto?”

 

Lethia non riusciva a credere a quel che stava facendo.

Era come se un fiume in piena avesse rotto gli argini e adesso dilagasse feroce su una città arida, distruggendo tutto ma restituendo vita alla terra.

Cosa riusciva a fare quel ragazzo? Perché sembrava che le leggesse la mente e ne tirasse fuori i tarli, senza che lei riuscisse ad opporre resistenza?

Dewy Hollis le faceva paura: non riusciva a difendersi da lui.

Ma al tempo stesso lo sentiva indifeso.

Le sue parole si mettevano insieme da sole, quasi senza la sua volontà.

“Mio padre era un pastore protestante, mia madre una religiosa fanatica che lo aveva sposato più per il suo ruolo che per amore: se le cose fossero andate come nei loro sogni, adesso avrei dovuto essere una buona mamma e una buona moglie con tanti figli da crescere nell'insegnamento del vangelo. Ma la storia non si fa coi “se”. All'età di quattro anni mi regalarono una fiaba virtuale: fu la prima volta che entrai nel sistema. E fu da lì che cominciarono le “voci”. All'inizio erano come un brusio confuso...mi sembrò che il computer mi parlasse la trovai una cosa divertente. Poi mi accorsi che non c'era nulla di cui divertirsi, perché le voci erano persone vive. Persone che parlavano, persone che piangevano, persone che bestemmiavano, che ridevano, che gridavano, che avevano paura...e tutte si riversavano nella mia testa, sempre più forti, tante da non poterle sostenere. Eppure io ero tremendamente attratta da loro: sentivo che mi cercavano, che mi chiedevano aiuto, che non potevo ignorarle. Nè i miei genitori né i medici compresero cosa mi succedesse: continuavo a ripetere parole non mie, a dire che dovevo salvare qualcuno, ad avere crisi di rabbia se mi impedivano di entrare in zeus. Mi diagnosticarono una forma di schizofrenia e fui messa in una casa di cura. Ma non fui io ad impazzire...fu mia madre. Si convinse che ero stata maledetta dal diavolo e non volle più vedermi. Passai in quel buco d'ospedale dieci anni della mia vita, finché uno psichiatra più lungimirante riuscì a comprendere come stessero le cose: la mia mente non era malata, tutt'altro: possedeva una capacità paranormale di entrare in contatto con le menti altrui attraverso la rete. Mi illusi che l'incubo fosse finito e che sarei tornata a casa...ma mia madre non voleva che una bambina baciata dal demonio vivesse sotto il suo stesso tetto. Mio padre diede il consenso ad una equipe di medici di portate avanti una serie di studi sulle mie facoltà. Chissà, forse era il suo modo di lasciarmi in mani sicure. O forse quello di liberarsi di me. Ma io non lo permisi. Scappai...mi rifugiai nei bassifondi, e usai il mio potere per sopravvivere. Mi unii ad una banda di teppisti e truffatori e rimasi con loro fino a vent'anni, quando ci presero tutti e ci sbatterono in galera, con una condanna a dieci anni per crimini in rete, aggressione e tentato omicidio. Sarei ancora lì se la WePi non si fosse interessata al mio potere. Uscii di prigione grazie all'intercessione del dirigente, a condizione di un contratto vitalizio con l'agenzia. Non avevo nulla da perdere, solo tutto da guadagnare: sarei stata fuori da quel lurido carcere, avrei vissuto in una casa nella capitale, averei avuto soldi, prestigio. Sono con loro da sette anni, sono una dei loro migliori agenti: posso aiutare la gente e posso tradirla. Posso salvare coscienze diperse e posso incriminare giovani hacker disperati come un tempo sono stata io. Non sta a me scegliere. Io sono la ditta...”

Il ragazzo la fissava immobile.

Dalle tende traforate della piccola stanza da letto, la luce filtrava intagliando un motivo floreale sul terreno.

Quel posto era fermo, antico, calmo.

Il sole stava tramontando.

“Tu non sei la ditta. Non si può”

Dewy si alzò e aprì un cassetto, da cui estrasse due fermacarte di legno, perfettamente identici.

“Ti piacciono?” sorrise, tendendoglieli entrambi.

Lethia rimase sorpresa, ma prima che potesse aprire bocca, lui continuò.

“Sono un regalo per te! Uno è originale, ha un secolo di vita, l'altro l'ho fatto io...”

“Sei bravo, non saprei distinguere il vero dalla copia”

“Oh, io invece sì!”

Le prese le mani e glieli piazzò sui palmi: uno sul destro, uno sul sinistro.

“Guarda bene l'angolo in alto...uno dei due ha una lieve scalfitura, procurata chissà come e chissà da chi, nei suoi oltre cent'anni di esistenza” con un dito, indicò il punto esatto “se avessi voluto, avrei potuto riprodurre anche quel graffio...anche quella piccolissima imperfezione. Ma avrei saputo distinguerli ugualmente. Perché la mia scalfitura non porta con sé l'evento che l'ha provocata...”

Pose le proprie mani al di sotto di quelle di lei, come se volesse sorreggerle, o forse scaldarle.

Guardò fuori dalla finestra, con aria assorta.

“Non si può riprodurre l'arte. Non si può riprodurre neppure un vecchio rottame. Noi che per mestiere facciamo riproduzioni, possiamo sentirlo meglio degli altri. Per quanto io possa essere bravo, metterò sempre qualcosa di mio in ciò che faccio. E non è né una cosa bella, né una cosa brutta. Semplicemente, è così...”

Riportò gli occhi su di lei e Lethia si sentì invadere da uno sguardo caldo, accogliente.

“Allo stesso modo, tu non puoi essere la ditta. Nè se lo volessi, né se non lo volessi. Perché qualunque cosa tu faccia, deve passare attraverso di te...”

Lasciò le sue mani e d'improvviso arrossì vistosamente.

“nah, accidenti! Ora che ci penso questo discorso non è affatto incoraggiante, perché ti rovescia addosso un sacco di responsabilità...! Che disastro!”

Abbassò gli occhi e fece una faccia colpevole d'una ingenuità disarmante.

Lethia scoppiò a ridere di cuore: lo trovava veramente adorabile.

“Ma dai! Hai detto una cosa molto bella, invece: credi che niente sia sostituibile”

Alla frase di lei, Dewy fece di nuovo quel suo sorriso strano.

“Già. Nessunoè sostituibile!” esclamò.

 

Era sera, quando Lethia lasciò casa Hollis. Aveva passato la giornata più bizzarra della sua vita, e si sentiva dentro una strana leggerezza.

“Torna a trovarmi, per favore!” la pregò Dewy con assoluta spontaneità.

“Tornerò certamente...ma in quell'occasione voglio assicurarmi che tu ti sia preso cura della tua salute”

“Promesso. E scusa ancora per la macchina...”

“Un giorno me ne riprodurrai una d'epoca...”

Si guardarono a lungo in silenzio, poi lei risalì sulla vettura.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

 

Lei sorrise, tendendo le mani verso di lui. Ma lui non era lui, e quelle non erano le sue mani.

Però si scaldava in quel sorriso, e non riusciva a smettere di guardarlo. Lei ruotava su se stessa e rideva fresca, con gli occhi leggermente strizzati e la larga gonna che le volava attorno: lunghi capelli rossi le incorniciavano il viso.

“Dai, balla con me!” lo chiamava “Sei sempre così serio, amore!”

Dewy cercò di raggiungere quelle mani, ma la visione scomparve. Non conosceva quella donna che lo chiamava “amore”, ma qualcosa dentro di lui la stava amando.

Dal buio emerse un'ombra: l'ombra era alta e lunga, e teneva in mano una pistola. Una chiazza di sangue si allargò fino ai suoi piedi. Cercò di arretrare, ma le sue gambe non riuscivano a muoversi.

Davanti a lui c'era un uomo, disteso a terra. Un uomo giovane, con gli occhi spalancati e un buco in fronte. L'ombra lunga troneggiava su di loro.

Dewy lottò contro la forza che lo teneva bloccato, e cominciò a correre.

Sulla sua traiettoria si stagliò un enorme scaffale, fatto di piccoli cassetti, ciasuno contrassegnato da una targhetta bianca. Una serie di numeri gli danzavano fluttuanti davanti agli occhi.

Poi udì una voce femminile, dritta nella testa, pungente come un ago.

“...Ed ora dimmi chi sei!”

Dewy sentì un formicolio invadergli il cranio, e scendere lungo la colonna vertebrale fino alle braccia e alle gambe. Un gelo pervase il suo corpo, come se il sangue nelle sue vene fosse improvvisamente diventato un flusso di acqua ghiacciata. Si mise a gridare.

Esci!” si sentì gridare nella mente “Esci subito: basta che tu lo pensi!”

Uscire? Da dove? In che modo? E chi era l'uomo che gli stava parlando?

Poi una forza lo afferrò: fu come il risucchio d'un mulinello, il reflusso di un'onda.

E lo sbattè a terra.

 

“Ahi!”

La sua mano corse alla tempia, che pulsava dolorosamente.

Era lungo disteso sul pavimento di camera, e aveva battuto la testa nello spigolo del comodino. Come aveva fatto a cadere in modo tanto stupido? E da dove era venuto quella specie di sogno? Si tirò su a sedere, continuando a massaggiarsi il punto leso. S'accorse che gli tremavano forte le mani.

Forse Lethia aveva ragione: doveva vedere al più presto un medico.

All'inizio, aveva dovuto combattere solo con quelle fastidiose interferenze, ma, ultimamente, gli stavano accadendo cose che avevano cominciato a fargli paura. Gli pareva di avere dei continui vuoti di memoria, delle assenze che venivano riempite da visioni che non riusciva a ricollegare a nessuno dei suoi ricordi. E tutte le volte c'erano quella donna e quel grosso scaffale scuro.

Si fece appoggio al comodino per rimettersi in peidi, ma i suoi polpastrelli avvertirono una sensazione insolita come se la superfice levigata di quel mobile antico fosse diventata all'improvviso ruvida.

“Ma che diavolo...”

Si curvò sul ripiano e notò che il pregiato legno di noce era stato barbaramente inciso con qualcosa di tagliente: si chinò a guardarsi attorno, e scoprì, sotto il letto, il coltello a punta fine che usava per gli intagli.

“Non è possibile...” balbettò a mezza voce “non posso essere stato io...”

Non era nemmeno la sua calligrafia, infatti. Qualcuno aveva inciso un messaggio sul suocomodino, con il suocoltello! Cercò di decifrare quelle lettere spigolose, tracciate in malo modo.

Dolly Ebbs, wellington road 51, Princo.

“Una donna. Chi sarà mai...?” sussurrò Dewy fra le labbra. Aveva sentito tante storie sulle esperienze paranormali vissute da malati in coma: la dottoressa Lynch gli aveva raccontato di un paziente che ricordava d'aver fluttuato nella stanza e d'aver visto il proprio corpo immobile nel letto, di una ragazza che diceva d'aver inseguito una luce bianca e di essere stata richiamata indietro dalla mano del suo uomo, e molte altre storie; ma gli aveva anche spiegato che la veridicità di queste visioni non era dimostrabile, e che lei, personalmente, credeva fossero frutto di suggestione. Tuttavia, l'intera equipe della clinica Bluesummers aveva dovuto riconoscere che il caso di Dewy si avvicinava veramente al concetto di miracolo, e al momento non possedevano gli strumenti scientifici per spiegarlo.

“Princo...” rifletté “se non sbaglio, non è lontanissimo...”

Scese in soggiorno e aprì il vecchio stradario. Non lo consultava da quattro anni, e c'era la possibilità che qualcosa fosse cambiato, specie con la velocità alla quale venivano costruite nuove strade e interi nuovi quartieri: ma Princo era un sobborgo alla periferia nord di Reole, e ci arrivava la ferrovia. Era domenica, non doveva andare a lavoro, e, se prendeva la metro per la stazione e trovava una buona coicidenza, aveva la possibilità di essere lì in qualche ora.

Senza pensarci troppo su, infilò lo stradario nello zaino, si legò una felpa in vita, e lasciò un biglietto sulla tavola.

“Faccio un giro in città. Torno stasera per cena. Dewy”

 

Lethia era stordita.

La velocità di quel misterioso scissista era impressionante. Ma soprattutto, i suoi movimenti erano così poco sensati da essere imprevedibili. Un attimo prima era nell'archivio della Omega, un attimo dopo vagava per Zeus senza direzione, un attimo dopo ancora spariva, per ricomparire pochi secondo più tardi, e poi dissolversi di nuovo...Sembrava una luce a intermittenza impazzita, ma ciò che spaventava Lethia, era che lo studio dei suoi parametri evidenziava potenzialità stupefacenti. Se veramente avesse voluto accedere ai dati come aveva fatto Lockport, lo scontro con lui si sarebbe presentato molto interessante...Ma, fino ad allora, lo sconosciuto non aveva fatto alcuna mossa, e questo le impediva di analizzare a fondo le sue effettive capacità.

“Eccoti di nuovo! Ma si può sapere dove vuoi andare?”

La presenza era di nuovo lì, davanti all'archivio della Omega. Lethia attivò un programma che le permettesse di evidenziare la sua proiezione in rete, ma fu inutile: probabilmente quello scissista non ne possedeva una. Strano. Che non avesse forza sufficiente per materializzarla? Gli sembrava inverosimile. E se fosse stato solo privo di esperienza? Questo poteva spiegare la convivenza, in lui, di ottime potenzialità ed evidente sprovvedutezza...Certo, però, che era strano per un uomo come Lockport essersi scelto un complice alle prime armi!

“Niente da fare, caro...stavolta mi dirai chi sei!”

Aveva potenziato la velocità della sua funziona paralizzante, a discapito della buona tenuta. La rapidità con cui il bersaglio si muoveva l'aveva costretta a privilegiare quest'aspetto, o non lo avrebbe mai immobilizzato. Attivò il programma sul suo obiettivo: la barra di controllo gli indicò che l'attacco era andato a segno.

“Ed ora dimmi chi sei...!”

Con la forza del suo potere, entrò nei suoi pensieri.

E Fu allora che avvenne ciò che mai si sarebbe aspettata.

La voce di Kevin Lockport, bella e decisa come se la ricordava, le attraversò la testa con chiarezza.

Esci! Esci subito: basta che tu lo pensi!”

Il led del programma paralizzante si spense. Qualcosa lo aveva distattivato.

“Lockport!!!” gridò Lethia “Dannazione! Lockport, dove sei?”

Non rispose nessuno: anche il misterioso scissista era sparito.

“VAFFANCULO!!!”

La ragazza sbattè gli occhiali scheramenti sul divano, e colpì ripetutamente il bracciolo con il pungo “Vaffanculo, maledetto! Come fai ad essere ancora vivo? CHE COSA CAZZO SEI, LOCKPORT???”

Tolse dalla testa Ladybird e la collegò al computer: non aveva subito attacchi, dunque tutti i suoi dati dovevano essere rimasti, teoricamente, salvati. Poteva provare a rintracciare la posizione da cui aveva operato lo scissista, e sperò di poter circoscrivere il campo più di quanto avesse fatto l'ultima volta.

 

Dewy scese dal treno a mezzogiorno: il sole batteva alto sulla minuscola stazione di Princo.

“Che strano posto...” pensò.

Sulla pensilina non c'era nessuno, tranne un barbone che dormiva coperto di stracci: non era certo la persona più adatta a cui chiedere indicazioni. Si lasciò il piccolo edificio cadente alle spalle, e passeggiò verso il paese; quel luogo avrebbe probabilmente messo a disagio chiunque, ma non lui: le strade e le case avevano sapore d'antico, probabilmente avrebbero avuto un valore, se qualcuno gliene avesse dato. Se qualcuno avesse ancora pensato che le cose vecchie erano belle non per ragioni estetiche, ma per le mille storie che potevano raccontare.

Guardandosi in giro, Dewy si rese subito conto che l'età media degli abitanti superava la sessantina: forse anche quello, come il suo paese, era un quartiere dormitorio ed i giovani erano tutti a lavoro; o forse tra quelle casupole si erano rifugiati pensionati nostalgici in cerca di un affitto sostenibile e di un po' di tranquillità.

Trovare la via dell'indirizzo fu più facile del previsto: era una delle strade principali che tagliavano in quattro la pianta della cittadina. L'intonaco cadeva a pezzi dai muri e le persiane sgangherate erano tutte chiuse o semi chiuse, mentre da pochi balconi ondeggiavano al vento lenzuola ingiallite.

“Ebbs...Ebbs...” mormorava Dewy tra sé cercando di leggere i nomi sul campanello. Non trovò niente: due sole targhette avevano un nome, le altre erano vuote. Provò a suonarle una per una, senza ricevere risposta, ma poco dopo una tapparella al terzo piano si sollevò cigolando.

“Chi è lei...?”

Il ragazzo alzò la testa e vide una donna con una pezzola in capo affacciartsi alla finestra: poteva avere poco più di cinquant'anni, ma il suo viso era smunto e sciupato.

“Io...” balbettò Dewy, preso da un improvviso imbarazzo “Mi...mi chiamo Dewy Hollis, e sto cercando la signora Ebbs...”

La donna parve colta sul vivo: sollevò un sopracciglio e lo squadrarò da capo a piedi.

“E perché mai la cerchi?”

Già. Perché la cercava? Nemmeno lui lo sapeva. Ma non voleva mentire: quel viso diffidente gli stava chiedendo la verità, non una stupida scusa.

“La cerco...perché continuo a sognare una ragazza dai capelli rossi, e voglio scoprire chi è..!”

La signora lo fissò per un lungo istante, poi scomparve dalla finestre. Un attimo dopo, il portone pricnipale si aprì, e lei si affacciò sulla soglia.

“Vieni dentro” disse.

 

La macchina di Lethia, a dispetto del vetro incrinato, correva veloce, per quanto le strade malandate glielo consentissero, verso il molo di Seaside Corner. Non riusciva a credere a ciò che i suoi dati le avevano rivelato: non era possibile che lo strano ragazzo biondo e il suo bizzarro padre fossero complici di Kevin Lockport! Diavolo, Dewy non sapeva neppure cos'era un'interferenza neurale...come poteva essere uno scissista? E Abrham Hollis le aveva confessato di disprezzare la tecnologia: che fosse stata una menzogna per depistarla? Proprio non riusciva ad accettare questa ipotesi! Dewy era la persona con cui si era sentita più a proprio agio in vita sua: non voleva scontrarsi con lui. Tuttavia, per sicurezza, aveva portato con sé una piccola pistola automatica, che teneva nella tasca interna della giacca.

“Oh...la signorina Lethia!” la accolse cordialmente Abrahm “Non immaginavo di rivederla tanto presto!”

Erano passati solo pochi giorni dal loro incontro.

“Dov'è Dewy?”

“Vorrei saperlo. Sarà andato a fare un giro dei suoi. Quel benedetto ragazzo si diverte a farmi stare in pensiero!”

Lethia entrò in casa e chiuse la porta bruscamente.

“Allora vorrà dire che parlerò con lei!” disse.

Solo allora il signor Hollis si rese conto del nembo scuro che offuscava il volto della donna.

“Che avete a che fare con Lockport?” fece lei, prima che Abrahm potesse aprir bocca.

“Chi...?”

“Kevin Lockport, lo scissista! Ho rintracciato la provenienza del segnale...qualcuno, in questa casa, lavora per lui...”

Abrham sul momento pensò che quella ragazza avesse qualche rotella fuori posto: quasi non si conoscevano e piombava lì come una furia accusandolo chissà di che!

“Signorina, veda di calmarsi” gli rispose con tutta la pazienza possibile “se un tizio con questo nome fosse passato a fare un ordine alla mia officina, non lo ricordo: non tengo a memoria i nomi dei clienti. Ma qua dentro nessuno 'lavora' per nessuno...”

“Non mi prenda in giro!”

Lethia estrasse la pistola dalla giacca e Abrahm arretrò d'un passo.

“Signorina...lei è impazzita...”

“Uno scissista non registrato entra in zeus da casa sua: questo mi dà il diritto di denunciare sia lei che suo figlio alla brain Watch fin da ora. Ma se mi fornisce le informazioni di cui ho bisogno farò finta di niente!”

Nonostante la situazione lo spaventasse, Abrham mantenne il suo autocontrollo.

“In casa mia non è entrato nessuno nelle ultime trentasei ore”

“Allora significa che lo scissita che cerco è uno di voi due”

“Senta, mia cara” sbottò il signor Hollis, fronteggiandola deciso “io non so neppure cosa sia uno scissista, e mio figlio, per la cronaca, si è svegliato da un coma di quattro anni il 20 marzo scorso!”

Il venti marzo scorso...

Quella data d'un tratto le balenò davanti, come se una lampada enorme si fosse appena accesa nella sua testa. Venti di marzo! Non era quello, il giorno in cui Kevin si era dissolto nel nulla durante il processo di download? ...E Dewy...aveva un impianto neurale nel cervello...

“Mio dio...”

Abrham vide la donna impallidire ed abbassare la pistola.

“Signorina? E adesso che le prende...?”

Gli occhi di Lethia erano sfocati nel vuoto. L'idea che aveva appena concepito le sembrava pura fantascienza, eppure riusciva a spiegare tutte le stranezze che le erano capitate, dalla scomparsa di Lockport in poi. Senza rispondere all'allibito padrone di casa, corse al piano di sopra, quasi sforndando la porta della camera di Dewy: spalancò i pochi cassetti della scrivania, frugò fra i suoi quanderni, nel suo armadio, fra i suoi oggetti personali, alla frenetica ricerca di un indizio, anche un solo segno che confermasse o smentisse la sua pazzesca teoria. Poi, mente Hollis entrava a sua volta nella stanza sbraitando, l'occhio le si fermò sul comodino.

“Cos'è questo?”

La sorpresa placò la furia di Abrahm: non era certo da Dewy scrivere sui mobili!

“Sembra un indirizzo...”

“Questo lo vedo anche io! Ma l'indirizzo di chi?”

L'uomo cercò di concentrarsi, per ricordare se lui o suo nitpote avessero mai incontrato una donna con quel nome.

“Non lo so”

Lethia fissò per alcuni attimi l'incisione, poi prese una penna e l'appuntò sul suo taccuino.

“La prego di chiamare Dewy, signor Hollis...e gli dica di tornare subito a casa. Spero di sbagliare, ma devo vederlo: temo che gli sia accaduto qualcosa...Qualcosa che lui stesso non sa...”

 

La casa era piccola e buia: due sole stanze, un ingresso con un cucinotto e una piccola tavola, e una camera da letto. Sul fornello, una pentola borbottava allegramente.

Lo sguardo di Dewy fu subito rapito dalla fotografia appesa accanto alla porta.

“E' lei...” balbettò “E' la ragazza del mio sogno!”

La donna annuì, come se già sapesse.

“E' mia figlia: Sen. E il tuo non è un sogno. E' stato Kevin a mandarti qui...”

Dewy era smarrito: non conosceva nessun Kevin e non aveva mai visto quella donna. Eppure, gli sembrava d'essere già stato in quella casa: lì dentro c'era qualcosa di familiare...

“Mi dispiace...” disse, mestamente “io non riesco a capire...”

Dolly Ebbs gli rivolse un sorriso gentile, e, posandogli una mano attorno alla spalla, lo guidò a sedere al tavolino.

“Non c'è niente che devi capire. Ti racconetò tutto io. Tu hai già fatto molto venendo a cercarmi: nulla ti obbligava a farlo...”

Si diresse al fornello e spense il fuoco sotto la zuppa.

“Mangi con me? E' ora di pranzo...”

Dewy annuì.

Quasi senza rendersene conto, si diresse alla credenza, e trovò ogni cosa al proprio posto.

No, non era mai stato lì.

Ma conosceva quella casa come se ci avesse sempre vissuto.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

 

“Dewy. E' proprio un bel nome. E tu hai capelli così morbidi e biondi che mi fanno pensare a Sen. Diceva sempre di desiderare un figlio con i riccioli biondi...come quelli di un angelo...”

La donna fece un sospiro e fissò il ragazzo negli occhi

“Forse tu sei un angelo...un angelo mandato da loro...”

“No...un angelo, non lo sono. Ma se mi trovo qui, forse è perché un angelo mi ha concesso una seconda vita...”

“Una seconda vita?”

“Si. Una seconda vita...”

 

Lethia uscì dall'officina Hollis, e si avviò alla macchina, ma la portiera si aprì dall'interno: uno sconosciuto stava seduto al suo posto di guida. Comprese subito chi lo mandava.

“Pensavo di avere la fiducia del signor Adrianov...” esordì.

L'uomo la guardò impassibile.

“Certo che ce l'ha. Ma i suoi rapporti non facevano mezione della sue visite a questa casa”

“Perché non ce n'era motivo” si difese “ho un amico, qui. Qualcosa in contrario?”

“Proprio niente, signorina Ballard. Ma per precauzione mi è stato chiesto di fare un sopralluogo...”

Uscì compostamente dalla vettura, e, con un sorriso di circostanza, prese Lethia sottobraccio, conducendola indietro sui suoi passi, verso l'abitazione.

Questa non ci voleva – pensò la ragazza, in preda ad una crescente ansia.

Non voglio che coinvolgono Dewy. Non lui.

Vedranno l'indirizzo. Lo cercheranno. Scopriranno tutto e...

Mise un piede sul gradino, e strinse il braccio del suo accompagnatore.

Poi, tutto avvenne in un istante.

Ruotò sul busto e vibrò un calcio tra le gambe dell'uomo.

Gridò.

“SCAPPI, ABRAHM! SCAPPI!!!”

Uno sparo.

Lethia gemette: si piegò su se stessa e guardò atterrita il sangue sgorgare dal palmo della mano, trapassato da un proiettile.

“Credevi di essere più veloce di me, puttana?”

Le balzò addosso e la colpì al ventre. Lethia si dibattè, reagendo con tutta la sua forza, ma l'avversario era molto più forte di lei, la costrinse bocconi e le immobilizzò le braccia dietro la schiena.

“Ed ora vieni con me, stronza!” ordinò, costringendola ad alzarsi e strattonandola fino alla porta.

Con altri due colpi di pistola, fece saltare la serratura: l'ingresso era vuoto, e la finestra sul retro spalancata.

“Ti ha fottuto, bastardo...” sibilò Lethia tra i denti, mordendosi le labbra per il dolore.

 

“Mia figlia Sen è sempre stata un passo più avanti degli altri. Lo era alla scuola elementare, lo è stata alla scuola media...così fino all'università. A vent'anni era già una delle programmatrici più contese dalle maggiori corporazioni del paese. Accettò un incarico presso una grande azienda, La Omega society, un'agenzia di telecomunicazioni che le offrì un contratto da lasciare strabiliati. Si trasferì in città, e lì conobbe Kevin. Non volle dirmi come lo aveva incontrato, non mi disse quasi nulla di lui: ma lo portò in casa quasi subito, presentandolo come il suo fidanzato. Io ero perplessa, mia figlia era sempre stata una ragazza posata, razionale: non la credevo capace di innamorarsi così, in pochi giorni, di uno sconosciuto. Ma mi sbagliavo: quando quei due erano insieme, era come se l'aria attorno a loro vibrasse! Kevin non era un ragazzo qualsiasi: lui aveva qualcosa di speciale, qualcosa di solo suo. E, di qualunque cosa si trattasse, aveva rapito mia figlia...e anche me. Volevano sposarsi, e forse lo avrebbero fatto subito se la Omega non avesse chiesto a Sen di lavorare al progetto che ci ha rovinati. Non ho mai saputo in che consistesse: con me, lei non volle mai parlare. Solo Kevin lo sapeva. Ci vollero pochi mesi perché il lavoro la rapisse completamente: passava notti e giorni presso la ditta, veniva a trovarmi solo di rado, e ogni volta era più fosca in viso. Quando l'ospedale mi chiamò, per dirmi dell'incidente, non la vedevo da mesi. Era morta – mi dissero – sbandando con la sua auto, mentre correva sulla sopraelevata imbottita di stupefacenti. Non me la sono mai bevuta. Sen non era il tipo di donna che si rifugia nella droga; lei era forte, determinata, tenace: chi la conosceva davvero, non poteva credere a quella sporca bugia. E Kevin, infatti, non ci ha creduto. Disse che era stata la ditta ad ucciderla e che lui lo avrebbe dimostrato. Gli chiesi cosa pensasse di fare, lui solo, contro una grande corporazione. E fu allora che seppi ciò che mia figlia non aveva mai osato dirmi: Kevin era uno scissista. Uno scissista non riconosciuto, che si serviva delle sue capacità per sabotare i traffici delle grandi corporazioni. Mia figlia lo aveva scoperto, ed era stato così che lo aveva conosciuto. Ma se ne era innamorata, e non aveva detto niente. Non solo. Era stato il suo potere a permettere a Sen di realizzare il progetto per la Omega Society, e quel progetto, adesso, era nelle sue mani. Mi disse che Sen, all'ultimo momento, si era tirata indietro, che aveva deciso di non consegnare il suo lavoro all'azienda, e che per questa ragione era stata tolta di mezzo. Ma lui li avrebbe incastrati: sarebbe entrato nel loro sistema e avrebbe trovato le prove. Dal giorno della morte di Sen, Kevin venne da me quasi ogni settimana. Stavamo seduti qui, a questo tavolo, come noi adesso, e pranzavamo insieme. Poi, un giorno, non è più venuto. So che non devo aspettarmi di vederlo attraversare quella porta. So che è è stato ucciso. Ma mi ha mandato te...”

Le mani di Dewy tremavano, stringendo nervosamente l'orlo della tovaglia.

I suoi occhi sembravano ancora più grandi e più azzurri.

Loro...appaiono nei miei sogni. Signora Ebbs...io...che devo fare?”

 

“Maledizione...MALEDIZIONE!”

Abrham aveva il petto in subbuglio. Era corso a nascondersi nella cantina di un vecchio fabbricato, e il cellulare non prendeva bene. Finalmente sentì il segnale di libero, e poco dopo la voce di Dewy, graffiata dai brusii come se parlasse da anni luce di distanza.

“Sono uscito a fare un giro. Sto tornando” lo prevenne il ragazzo, temendo un rimprovero.

“NO!” ruppe Abhram dall'altro lato della cornetta “NON DEVI tornare! E se ti trovi nel luogo che penso, vattene di lì immediatamente!!!”

Dewy sbattè le ciglia, e rimase zitto.

“L'indirizzo inciso sul comodino...” proseguì lui “Sei stato lì, non è vero?”

“Ma come...”

“Risopondi: sei lì, Dewy?”

L'ansia dello zio cominciava a mettergli agitazione.

“S-sono appena uscito...stavo andando...alla stazione”

“Sentimi bene, figliolo” fece allora Abhram, cercando di mantenere la calma “Non salire sul treno per Seaside Corner. Non devi prendere alcun mezzo di trasporto diretto qui. Prendi il primo treno per Dovenport e fatti trovare sotto l'hotel Flower. ti raggiungo lì”

L'agitazione era diventata spavanto.

“Cos'è successo? Papà, ti prego, dimmi qualcosa!”

“FAI COME TI DICO” impose lui, drastico “E non usare il telefono per chiamarmi. Non so ancora con chi abbiamo a che fare”

Detto questo, attaccò.

“Ehi...? Zio Abrham? Ehi!!!” Dewy claciò un sasso in mezzo alla stranda “Accidenti! ACCIDENTI!”

Tornò indietro, e suonò con foga il campanello.

“Signora Ebbs!” gridò da sotto la finestra “Deve venire con me, subito!”

 

Quando Dewy raggiunse l'hotel Flower, era il tramonto. Abrham lo aspettava già da un po', e gli corse incontro abbracciandolo con sollievo.

“Per la miseria, piccolo! Mi devi delle spiegazioni!”

Poi spostò lo sguardo sulla donna che era arrivata col nipote.

“E lei chi è?” domando, rivolto a entrambi.

“Sono Dolly Ebbs” si presentò, con un sorriso mesto “La donna che questo ragazzo gentile è venuto a strappare alla sua disperazione...”

Abrahm si strinse nelle spalle: s'aspettava una risposta un po' più esplicativa, viste le circostanze: ma non era il caso – per quanto insospettabile fosse quella cittadina fuori mano – restare ancora lì sulla porta a fare conversazione.

“Bah! Andiamo di sopra a chiarire le stranezze, signori. Ho un bel po' di cose da chiedervi...”

Dewy annuì, sollevando la grossa borsa di Dolly.

“Anche io ne ho un bel po'...” fece eco.

Dovenport non si poteva neppure definire un paese: era, piuttosto, una gigantesca stazione ferroviaria in mezzo al niente. Lì, vi era uno dei principali raccordi tra le linee sotterranee e quelle di superficie: prima della costruzione della metro, in quell'area brulla e triste vi erano solo deserto e una discarica a cielo aperto non troppo lontana. La metropolitana aveva fatto la fortuna di qualche astuto investitore che aveva deciso di erigere lì un albergo, un negozio, un self service: tutto sorgeva a poche centinaia di metri attorno ai binari...altrove tornava il nulla assoluto.

Il signor Hollis aveva un amico in uno di quegli Hotel, ed aveva ottenuto una camera senza bisogno di registrare i propri dati alla reception: questo – aveva pensato – avrebbe dovuto metterli al sicuro per un po'.

La signora Ebbs si tolse il buffo cappellino a tre quarti e la mantella fuori moda, Abrham le scostò una sedia e la invitò ad accomodarsi; Dewy, invece, si lasciò cadere sul letto con la testa che gli faceva un male d'inferno.

“Da chi stiamo scappando?” domandò.

“Ah, beh...questo volevo chiederlo a te! Prima la tua amica, quella bella signorina mora, è venuta a casa nostra e mi ha minacciato con una pistola, poi, ad un tratto, ha cominciato a dire che dovevo chiamarti subito perché voleva parlarti! Se n'è scappata via in fretta e furia e poco dopo l'ho sentita gridarmi di fuggire. Volevo uscire a vedere che succedeva, ma ho sentito uno sparo e così sono scappato dalla porta sul retro...”

“Lethia?” sbarrò gli occhi Dewy “Che diavolo c'entra, lei?”

“Anche questo speravo di saperlo da te...Ha comincito a vaneggiare dicendo che eri complice di un...un coso...uno scissore...”

“Uno scissista” intervenne Dolly Ebbs

“Ecco, proprio così!”

Dewy si morse le nocche delle dita.

“Kevin Lockport...” sussurrò

“Lockport!” confermò lo zio “E' proprio il nome che ha fatto lei. Lo conosci, Dewy?”

Il ragazzo ignorò la domanda.

“E Lethia dov'è...?”

“Non ne ho idea: sono corso a nascondermi e ad avvertire te”

Dewy si alzò di scatto.

“Dobbiamo trovarla...!”

Abrham lo bloccò per un braccio al volo.

“Ehi, che ti salta in testa, giovanotto?” sbottò, afferrandolo per le spalle e rispingendolo a sedere “Prima vedi di spiegarmi che succede, e poi, forse, potrai dirmi cosa dobbiamo o non dobbiamo fare...”

“No...” fece lui, meccanicamente, sfocando lo sguardo oltre la spalla dello zio “Io devo trovarla ora!”

Chiuse gli occhi, e si accasciò sul letto.

“Dewy, che fai? Non scherzare!” si allarmò il signor Hollis, e lo afferrò per un polso, cercando di tirarlo su. Ma il ragazzo non ebbe reazioni: rimase esanime, completamente abbandonato.

“DEWY!” gridò Abrham, in preda al panico.

“Non abbia paura: è così che funziona...”

Il signor Hollis si voltò: Dolly Ebbs era in piedi dietro di lui.

“ Ho visto Kevin farlo molte volte. Si chiama fase di separazione. Non può svegliarlo finché la sua mente non torna qui. In questo momento, lui non è tra noi”

 

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Capitolo 10
*** capitolo 10 ***


Capitolo 10

 

Tutto intorno a lui era di un chiarore assente, non riusciva a vedere nulla, nemmeno se stesso, nemmeno le proprie mani: eppure le aveva stese avanti di fronte a sé per cercare di tastare qualcosa, di trovare anche un solo appiglio solido in quella vastità inconsistente.

Se il vuoto aveva un colore, doveva essere quello.

Ma non era spaventato. Era come se conoscesse già quella sensazione.

“Finalmente ci sei riuscito”

La voce non proveniva da nessuna direzione.

“Chi sei?”

“Sono Kevin”

“Perché non riesco a vederti?”

“Perché sono nella tua testa. Oh, scusami. Così suona retorico. Sono nell'impianto che hai nella testa: diciamo che mi ci sono nascosto per un po' ”

“Mi hai svegliato tu...”

“Probabile. Lo trovi un buono scambio?”

Dewy provò il desiderio di fare un gesto, di mostrare un'espressione. Non ci riuscì, ma fu come se per un attimo lo spazio attorno a sé vibrasse.

“Mi hai riportato qui! Mi hai restituito la mia vita, la mia famiglia! Mi hai dato una seconda occasione: non è uno scambio, è un dono! Ti devo la cosa più importante...”

“E allora, adesso ti chiedo di aiutarmi a fare l'unica cosa che è ancora importante per me”

“Dimmi solo in che modo, e lo farò”

“Prima di tutto devi imparare ad usare i miei poteri. Non puoi piombare in zeus a casaccio senza sapere che fare. E' pericoloso. Devi sapere come muoverti...”

“Scusa. Non so nemmeno cosa sia, Zeus”

“Non c'è bisogno che io te lo spieghi. Ascolta i miei pensieri e lo saprai. Io penso nella tua mente, Dewy. Sto vivendo nella tua testa. I miei pensieri possono passare a te come nulla fosse...devi solo essere meno teso, e smettere di credere che tutto ciò sia frutto di un tuo delirio. Devi pensare a tutto ciò che stai vivendo come se fosse più reale del reale”

La voce di Dewy tremò.

“...Non so nemmeno dove sono. Come può questo vuoto essere realtà?”

Le parole di Kevin risposero con una dolcezza rassicurante.

“Non c'è nulla di vuoto in Zeus. Sei esattamente dove ti va di essere. Devi solamente immaginarlo...”

Quasi d'un tratto, Dewy si accorse di essere seduto dentro un piccolo salotto del secolo precedente: il divano sotto di lui era comodo e la sua schiena vi affondava morbidamente. Con la mano sentì la consistenza della stoffa, le pareti erano decorate da carta da parati dai colori pastello, il tavolo rotondo, in mezzo, era di legno lucido e il sole che entrava abbondante dalla finestra lo divideva in due perfetti emisferi di luce ed ombra. In un angolo c'era una vecchia TV, con sopra una fila di quelle paperelle in ceramica col becco rivolto verso il basso. L'orologio ticchettava allegramente sopra la porta.

“Strani posti frequenti tu!” la voce di Kevin era fresca e scherzosa “Carino, però. Sarebbe piaciuto a Sen...”

Dewy si alzò e si guardò introno, affascinato. Adesso vedeva le proprie mani, il suo corpo, e riusciva a muoversi normalmente. Cominciò a sentirsi a proprio agio.

Poi lo colse un pensiero.

“Lethia! Io devo trovare Lethia!”

A quelle parole, senza che egli avesse compiuto alcun gesto, la porta si aprì, mostrando un lungo corridoio vuoto.

La voce di Kevin si alterò.

“Lethia? Quella bastarda della Wepi? Cosa hai a che fare con lei?”

Stavolta Dewy riuscì a percepire distintamente i suoi pensieri: o forse non erano i suoi pensieri, era il suo istinto, la sua emotività. Se ne sentì colpito, quasi invaso. Gli diede una strana sensazione e si portò una mano allo stomaco.

“Roba così dovrebbe stare nella pancia, non nella testa” mormorò, turbato “Sei nella mia testa o nella mia pancia?”

“Ehi, non scherziamo, rispondi alla mia domanda!”

Dewy seguì la sua riflessione, assorto, e ignorò l'urgenza che sentiva premere dentro di sé.

“Forse sei un fantasma, Kevin...e puoi parlare con me perché sono stato un fantasma anche io...”

“Maledizione, Dewy! Non ho tutto questo tempo!”

Il ragazzo si riscosse e si diresse verso la porta

“Allora andiamo a salvare Lethia”

Un dolore acuto gli attraversò la testa: uno spasmo di rabbia, frustrazione, angoscia.

“QUELLA PUTTANA MI HA UCCISO LA SECONDA VOLTA!”

Il grido di Kevin era sinceramente disperato

“Non sarei qui, se non mi avesse intrappolato per consegnarmi alla Omega! Non avrei avuto bisogno di te!”

Dewy rimase immobile davanti al corridoio nero. Lo fissò. D'un tratto nel corridoio si sollevò un volo di coccinelle impazzite: una danza di gocce di sangue che aveva una macabra e straziante bellezza.

“Allora anche a lei devo l'essere vivo” fece Dewy, grave “Ma lei, invece, non è viva. E' molto meno viva di te. Io l'ho sentito, e sono stato triste per lei: perché se sei così poco vivo non puoi fare proprio niente...”

“A fare del male a me ci è riuscita benissimo!”

“Kevin...” la voce di Dewy ora era calma e dolcissima “Kevin. Sei nella mia testa. Sei nei miei pensieri. Lo hai detto tu, no? Non pensare come penseresti tu...prova a sentire come sento io. Lo puoi fare, vero? Sono sicuro di poterti trasmettere questo, di poterti far percepire questa certezza: Lethia non vuole fare del male a me. E finché sarai qui..non vorrà farne nemmeno a te...”

Dewy fece un passo nel corridoio. Le coccinelle cessarono il loro turbinio frenetico ed una di esse andò a posarsi sulla sua spalla. Poi il corridoio divenne luminoso, e si distinsero chiaramente porte, svincoli, direzioni.

“Kevin...sei stato tu?”

La voce di Lockport gli risuonò vicina, come se, per una volta, anche lui avesse posato la mano sulla sua spalla.

“Tu sei incredibile, sai? Hai sentimenti che non riesco a capire...Che non so neppure immaginare possibili. Eppure li sento: sono veri. Non so come tu sia sopravvissuto in un mondo del genere. Come il mondo non ti abbia già fatto a pezzi. Ma essere nella tua testa è una bella sensazione”

“Mi aiuterai?”

“Ti dirò tutto ciò che devi fare. Ma ricorda che lo scissista ora sei tu: io sono solo una voce guida nella tua mente. La localizzeremo e vedremo che si può fare. Ma giuro che se quella stronza ci frega...”

“Non lo farà” Dewy sorrise, sicuro di sé.

“Ok. Non lo farà. Adesso apri la seconda porta che vedi sulla destra”

 

Lethia non sentiva più dolore: era come se la mano non le appartenesse più.

Abbandonata in un angolo di quella cella, con le braccia pesanti lungo il busto, si chiedeva da quante ore fosse lì dentro.

Avrebbe voluto provare qualcosa: rabbia, o paura, o anche solo sentire il suo cuore battere più forte, il suo respiro sussultare. Invece le sembrava che il suo corpo fosse un involucro abbandonato, gettato lì per essere buttato via.

Da quando si era ridotta così?

Da quanto tempo non soffriva e non gioiva più?

Non se lo era mai chiesto davvero.

L'ultima volta che era finita in galera, aveva pensato “chissenefrega, la mia vita non cambierà granché”. Quando la Omega l'aveva tirata fuori si era detta “bah, vediamo cosa ne cavo, non ho niente da perdere”...e via così, se cercava di ricostruire i suoi sentimenti andando indietro agli eventi principali della sua vita. E gli stessi pensieri si affacciavano freddi nel suo cervello anche adesso.

Forse Dewy Hollis era stata la sola persona a vederli.

Forse per questo aveva finito per commettere un errore per proteggerlo, senza neppure conoscerlo.

Aveva tradito l'azienda, e questo voleva dire tradire anche se stessa.

Ma, pensandoci bene, una come lei l'avrebbe tradita volentieri, se l'avesse incontrata in un'altra vita.

Una come lei non era una persona che si desiderava avere come amica.

Avvertì un formicolio alla tempia e cercò di muovere la mano sana per grattarsi la testa.

La sua coccinella era sempre lì.

Probabilmente non avevano neppure pensato che fosse il suo accesso a Zeus. Chi poteva mai inventarsi una cosa tanto stupida? A mala pena una bambina...

A quell'idea sorrise. Ladybird era l'unico pezzo di leggerezza che le era rimasto addosso. Magari era questo che significava “portare fortuna”.

La porta si aprì.

Senza dire niente, due uomini la sollevarono quasi di peso e la trascinarono in un'altra stanza.

Lei non disse niente.

Il posto ricordava la sala interrogatori di un commissariato: quel giorno lo ricordava bene, l'agente che l'aveva interrogata aveva gli occhi azzurri e lei aveva pensato per un attimo che fosse un bell'uomo, che il suo viso fosse rassicurante e le sarebbe piaciuto che quelli fossero gli occhi di suo padre. Ma poi si era vergognata così tanto di quel pensiero che gli aveva sputato in faccia.

Non lo aveva più rivisto.

“Adesso dobbiamo parlare, signorina”

Davanti a lei non si era seduto nessuno, si era solo materializzato l'ologramma del signor Adrianov. I due che l'avevano portata lì stavano immobili ai suoi lati, come due guardiani di pietra.

“Cosa volete che vi dica? Avete dimostrato di non fidarvi di me nel momento stesso in cui mi avete fatta seguire durante le mie indagini”

“Non mi prenda in giro. L'abbiamo sorpresa a casa delle persone che avrebbe dovuto catturare”

La tranquillità glaciale con cui Adrianov le parlava faceva più paura della violenza, non perché lo temesse, ma perché le pareva di riflettersi in uno di quegli specchi deformanti, che ti rimandano un'immagine che sei tu e non sei tu.

Non voglio diventare questo. Sono veramente così anche io?

“Dovevo cercare Kevin Lockport!” esclamò, perdendo per un attimo il controllo ed arrossendo in tutto il volto “E LUI NON E' KEVIN LOCKPORT!”

Non lo era. Non lo era.

Questa era la verità.

Lui era Dewy: il ragazzo più dolce e improbabile che le fosse mai capitato di incontrare, Il primo a cui aveva desiderato confidarsi, e che, con tanta naturalezza, aveva stemperato il suo dolore con un paio di timide frasi sulle riproduzioni di oggetti antichi.

Adrianov sorrise con un solo lato della bocca.

Di quale Lui sta parlando? Dell'antiquario Abrham Hollis? O di suo figlio? Che c'è, ha un debole per i vecchi o preferisce i ragazzini?”

Lethia lo guardò con occhi di fuoco.

NON E' Kevin Lockport” ripetè “Non sa nemmeno di esserci entrato, nel vostro sistema. E non ha nessun interesse ad entrarci ancora. Se mi aveste permesso di trovarlo e di parlargli, avrei risolto io il problema!”

AVREBBE RISOLTO IL PROBLEMA? Questo non è un suo “problema”, signorinella: è un problema della ditta! Il tuo compito era solo scaricare la mente di Lockport su un supporto: e se il “supporto” non è un disco SK ma un ragazzetto di periferia, non fa differenza!”

La mano di Lethia ricominciò a fare male, la sentiva pulsare forte, desiderò serrarla a pugno, e scagliarla forte contro qualcuno o qualcosa, come se solo un gesto simile potesse far smettere il dolore.

NON FA DIFFERENZA? Un essere umano non fa differenza da un insieme di circuiti..?”

Che stava dicendo? Da dove scaturivano quelle frasi? Quali erano i pensieri che stavano alle loro spalle, e che la facevano sentire fiera di parlare così? Solo qualche tempo prima, di fronte a Kevin Lockport, aveva sostenuto che niente di questo aveva importanza. “Non si fanno domande sul lavoro”, aveva detto. E lui...l'aveva supplicata in nome della coscienza! Da quale momento Lethia Ballard, l'agente della WePi, la carrierista devota all'azienda, parlava con coscienza? Forse da quando un ragazzino biondo le aveva fatto un regalo? O da quando era entrata in quella casa antica, saltando fuori dal tempo? O ancora prima, quando lui aveva sorriso e aveva detto “sono qui, sono vivo: non è fantastico”?

Ora, lei era lì.

Ed era viva.

Poteva proteggere quel sorriso limpido come un cristallo.

Si sentì felice.

Vaffanculo” disse.

Adrianov socchiuse gli occhi con gravità.

“Lei è stata proprio stupida, Lethia Ballard. Se avesse fatto le cose per bene, adesso noi ci occuperemmo dello scissista, e lei avrebbe avuto il suo compenso e se ne starebbe tranquilla a casa sua. Invece ha voluto fare di testa sua, e adesso...”

Non concluse la frase. La stanza si riempì d'un ronzio assordante e l'immagine olografica si dissolse.

Le luci si spensero, solo quella d'emergenza cominciò a lampeggiare, poi frizzò, gemette e saltò in aria.

Che cazzo succede!?” gridò uno dei due sorveglianti, mentre l'altro afferrava le spalle di Lethia nell'oscurità.

La porta della stanza si spalancò, gli allarmi suonavano da luoghi indefiniti, ladybird sembrava vibrare, come se davvero sbattesse le piccole ali rosse tra i suoi capelli.

Lethia si piegò con tutte le forze in avanti, sbilanciando l'uomo che la tratteneva. L'altro estrasse la pistola, ma nel buio completo il colpo andò a vuoto.

Idiota, che cazzo fai!”

“Pensa alla donna, deficiente!”

Lethia si lanciò verso la porta, la attraversò, la sentì chiudersi alle sue spalle come per magia.

Corse nel corridoio buio, corse e corse senza sapere dove stava andando.

Le paratie si aprivano al suo tocco, si richiudevano dietro di lei: la strada le si srotolava sotto, le diceva di andare, andare, andare...

Un portellone si aprì sulla luce del giorno: sotto di lei c'era una scogliera, ed il lamento del mare che rotolava, minaccioso, affascinante.

Lethia fece un passo indietro.

Poi chiuse gli occhi, prese la rincorsa e si tuffò.

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