It's a god-awful small affair

di MadnessInk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Parte 1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2 - Parte 2 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 2 - Parte 3 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 2 - Parte 4 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 3 - Parte 2 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 3 - Parte 3 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 3 - Parte 1 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 4 - Parte 1 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 4 - Parte 2 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 4 - Parte 3 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 4 - Parte 4 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 4 - Parte 5 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 4 - Parte 6 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 5 - EPILOGO ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Faceva freddo, molto freddo. Era la metà di maggio inoltrata, è vero, ma faceva freddo. Dentro e fuori. Mya si guardò al parasole dotato di specchietto del taxi che aveva preso. Il tassista, un suo vecchio amico, la aveva fatta sedere davanti, per avere una conversazione e perché, sì, era sua amica. Che stupore quando Mya entrò nel taxi e vide quel viso così familiare. Balbettò il suo nome, Massimo e, quando lui annui dicendo a sua volta il nome di lei, i due si abbracciarono come se non si vedessero da anni. In effetti era così. Erano ormai undici anni che Massimo non aveva più notizie di Mya. Undici anni. Una vita. Così, come ho detto, la fece sedere davanti.

-Allora Mya, dove ti porto?- chiese con un tono allegro il tassista ventottenne. La ragazza si tolse gli occhiali da sole scuri e opachi, sfoggiando un bel paio di occhioni azzurri tendenti al ghiaccio e, sorridente gli rispose: -Al Pavillon de Paris-. Max, come lo chiamava lei ai tempi delle medie, quando erano compagni di banco, esclamò accendendo la radio: -Certo!-, poi dopo una breve pausa riprese: -Vai a vedere il concerto di David Bowie?- e lei, sempre sorridendo:-Non esattamente. Sono comunque lì per l'evento. Tu piuttosto, come sei finito a fare il tassista a Parigi?- domandò lei, pregando che non avesse toccato un argomento delicato. -Oh beh, sai che ho sempre desiderato fare il tassista. E sai che ho sempre adorato Parigi. Così... faccio il tassista a Parigi. Vivo qui con mia moglie e i miei due bambini- e lei, entusiasta :-Sei sposato? E hai dei bambini? È meraviglioso!- e lui, con aria orgogliosa, giacché erano al semaforo, prese il portafogli dalla tasca e ne uscì una foto. La mostrò a Mya : -Questi siamo noi. Questa è mia moglie- disse indicando la donna bionda al quale era abbracciato -Questo è Dante- disse indicando un bambino di cinque anni con i capelli biondi e gli occhi scuri, poi proseguì -E questa invece è Beatrice- e indicò una bimba di tre anni con i capelli neri e gli occhi verdi. Mya sorrise, mostrando il suo bianchissimo sorriso a trentadue denti ed esclamò: -Siete bellissimi! Hai dei figli meravigliosi. Ed una moglie molto bella. Complimenti. Sembra... Alice!- e lui, orgoglioso : -Infatti è Alice, Alice che veniva con noi alle medie- e lei, ridendo gridò: -L'avevo detto io che vi sareste sposati!-. Lui sorrise e riprese a guidare, poi ché il semaforo era diventato ormai verde.

Dopo qualche secondo si rivolse a lei: -E tu? Che fai nella vita?-. Lei sorrise e abbassò lo sguardo, poi si girò verso di lui sorridente e rispose: -La truccatrice- e lui, con aria dispiaciuta e interdetta: -Sei portata, è vero, ma non odiavi truccare le persone?-. Guardandosi allo specchietto del parasole e aggiustandosi il ciuffo della lunga, folta e brillante chioma corvina, lei rispose ridacchiando:-Infatti. E lo odio tutt'ora-. Poi sospirò -Ma non posso farci niente. Ho iniziato da truccatrice molti anni fa-. Lui, curioso, andò avanti con le domande sull'argomento: -E chi trucchi?-. Mya si morse il labbro sorridendo : -Se te lo dico ti prego di credermi e di non metterti a ridere, va bene?- e lui ridendo: -Ok, va bene-. Mya si unì alla risata e poi, sbuffando disse : -Ecco, stai già ridendo. Comunque... lavoro per David Bowie. Mi occupo del suo trucco. Sono la sua make up artist personale- e lui, rimasto a bocca aperta : -Oh, e com'è? Lui intendo- e lei, tranquilla, come se stesse parlando del vicino di casa : -Oh, tranquillo, molto simpatico e molto professionale. Come la maggior parte delle celebrità è un po' capriccioso, però... ci si accontenta-.

Trenta glaciali secondi di imbarazzante silenzio. Alla radio si sentirono le prime note di “The Fool On The Hill”, dei Beatles. Mya lanciò un'occhiataccia alla radio. Odiava i Beatles, li odiava con tutto il cuore. Avevano avuto un successo immeritato. E odiava a morte quella canzone. Sembrava parlare di lei. Anzi, si domandava spesso se il buon McCartney non l'avesse vista un giorno per caso in un bar e ci avesse scritto una canzone. Dopo quei glaciali trenta secondi iniziarono a ridere entrambi : -No, non mi posso lamentare!- disse Mya e poi, pensando alle parole che aveva appena pronunciato, sospirò. Max cambiò discorso: -Immagino che anche tu sia sposata-. Lei rise di gusto: -Affatto! Te l'ho detto: io non mi sposerò mai!- in realtà rideva di sé stessa. Non si sarebbe mai sposata. Per un motivo o per l'altro. Non aveva un bel carattere: era introversa, fredda e diffidente. Era seria, aveva la testa sulle spalle la ragazza. Forse era per questo che non si sarebbe mai sposata. Perché non era un tipo che se ne andava con il primo che capitava. La maggior parte dei ragazzi che conosceva erano tutti pretendisti, scortesi, sessisti e volevano una ragazza facile. Lei non lo era, non lo era affatto. E questo la consolava almeno un po'. Comunque sta di fatto che arrivarono alla meta. -Max- disse Mya -è stato bello rincontrarti. Porta i miei saluti alla tua famiglia. Quanto ti devo?- e lui, come se fosse offeso: -Come sarebbe a dire quanto ti devo?- poi sorrise e si gettò al collo dell'amica -Un abbraccio basta e avanza- e perciò lei lo abbracciò. Quando si staccò da quell'abbraccio soffocante fece per prendere il portafogli dalla borsa, ma Max subito le si rivolse: -Mya, non voglio soldi. È stato un piacere accompagnarti. Stammi bene- lei sorrise e scese dal taxi. Si affacciò al finestrino: -Max, grazie mille. Stammi bene anche tu-. Dopo averle concesso un sorriso Max sfrecciò via, dopo qualche secondo non lo si poteva vedere più.

Mya si incamminò verso l'entrata riservata allo staff. Non ci sarebbe voluta andare, ma dovette. Mostrata carta di identità e tesserino alla sicurezza arrivò di fronte alla porta del camerino del Duca. Che cosa passasse per la testa di Mya in quel momento, che esitava ad aprire la porta, lo si capiva: non voleva entrare. Ma perché? Preso coraggio aprì la porta ed entrò. Era vuoto. Non c'era anima viva. Tirò un sospiro di sollievo ed entrò, poi si chiuse la porta alle spalle.

Non osò neanche pensare di appendere il suo trench all'attaccapanni o di poggiare i suoi effetti personali sul tavolino di quella stanza. Chiese a Jim, l'addetto all'acustica, se poteva poggiare le sue cose nel camerino delle coriste dove stava anche lui. Il ragazzo ovviamente acconsentì. Dopo essersi lavata le mani mise in ordine tutto il necessario al trucco: creme, fondotinta, ciprie, blush, primer, matite, ombretti e così discorrendo. Mise al loro posto anche le spugnette e i pennelli. Raccolse i capelli in una coda di cavallo e poi in uno chingnon. Si lavò nuovamente le mani. Era una maniaca dell'igiene, lei. Sentì aprire la porta. Si girò come se ci fosse qualcosa o qualcuno che non voleva vedere. Era solo il manager di Bowie, Trevor, un quarantenne di radici latine, estremamente gentile e simpatico. -Ciao Mya!- le disse l'uomo. Lei sorrise e ricambiò il saluto: -Ciao Trevor, come stai?- -Io sto benissimo, grazie. Tu?- le chiese l'omone e lei, rispose sorridendo: -Anch'io me la passo tranquillamente-. Trevor la mise al corrente dell'arrivo del Duca: -Attualmente è alla sicurezza-.

Neanche fece in tempo a dirlo che lui, in tutto il suo fascino, entrò dall'altra porta. Già tutto vestito accuratamente: camicia bianca, panciotto nero, pantaloni e scarpe del medesimo colore. Un look alquanto contrastante con la sua chioma tinta: rossa e bionda, tirata all'indietro. Gli mancava solo il trucco. Eppure lo faceva sempre per secondo il trucco. Lui non disse una parola, non si degnò neanche di dire “Buonasera, iniziamo”, che si sedette e si mise comodo.

Mya gli si avvicinò: -Vuole un bicchiere d'acqua prima di iniziare, signor Bowie?- e lui, quasi irritato: -No, no. Iniziamo subito. Non ho voglia di perdere tempo in chiacchiere stasera. A proposito, solito trucco, ma stavolta fammi una linea di eyeliner più marcata sull'occhio destro. Iniziamo dal sinistro oggi-. -Come desidera, signor Bowie- e si mise all'opera.

Stese la crema idratante e protettiva, poi il correttore liquido sulle occhiaie, intorno al naso e intorno alla bocca, poi passò un velo di fondotinta liquido con un pennello apposito, non c'era bisogno di metterne tanto, la sua pelle era già perfetta così. Prese un blush aranciato e lo stese nella zona vicino alle tempie e delle guance, per scolpire il viso. Poi fissò con della cipria neutra. Prese del primer illuminante e con il pennello picchiettò gli zigomi, il naso e la fronte, Si lavò di nuovo le mani. Iniziò a lavorare sull'occhio sinistrp. Ci stese una base color carne. Poi applicò su tutta la palpebra mobile e al limite della rima interna inferiore un ombretto marroncino e lo sfumò. Prese un ombretto color champagne e lo applicò sull'arcata sopraccigliare e nell'angolo interno dell'occhio. Fu la volta dell'eyeliner: tracciò una linea sottilissima attaccata alle ciglia.

Fin qui nessun problema. Quelli arrivarono non appena passò all'occhio destro. Bowie era stanco di stare seduto. Gli si erano addormentate le gambe. Odiava quando gli si addormentavano le gambe, ma voleva finire in fretta, non voleva perdere tempo, il Duca.

Mentre Mya lo truccava, lui prese a canticchiare, a fischiettare e, purtroppo, anche a parlare. Canticchiando faceva delle piccole, quasi impercettibili, oscillazioni con il capo. E dopo più o meno un nanosecondo, inevitabilmente...-Ah! Sta' attenta!- urlò Bowie. Mya, molto dolce e paziente, si rivolse al ventinovenne: -Cerchi di non muoversi, così non le farò male- lui stava per replicare, ma quando fece per aprire bocca, un grazioso ciuffetto di capelli di Mya, quello facente parte del ciuffo principale, sfuggì alla presa dell'elastico e scivolò accanto al viso della ragazza, che aveva gli occhi sull'occhio dell'artista, stava mettendo l'eyeliner. Rimase lì a fissarlo con l'occhio sinistro, quel ciuffetto nero nero così lucente, accostato alla pelle chiarissima della sua dipendente. Spostò un attimo lo sguardo quando gli occhi di lei incontrarono il suo. -Ho quasi fin...- Non fece in tempo a finire la frase che subito, lui, gridando come un pazzo: -Sei impazzita? Vuoi farmi un occhio e un occhio? Cos'è quella linea?- E lei, sgranando gli occhi: -Mi ha detto lei di farla più spessa-. David girò la testa chiudendo l'occhio sinistro, quello destro non voleva più chiuderlo, con fare molto snob, altamente snob: -Sciocchezze!-. Mya, capriccioso com'era David, disse, molto pazientemente: -Va bene, lo strucco e lo rifacciamo, d'accordo?- e lui, credendo di sembrare superiore, mentre Mya cercava di tenergli fermo l'occhio sinistro che lui non voleva chiudere, esclamò: -Non abbiamo tempo, per oggi chiuderò un occhio-. Mya, al limite della sua pazienza, senza alcuna intenzione di essere comica: -Possibilmente quello che sto truccando, altrimenti sbavo-. Sì sentirono le risatine soffocate dello staff. Bowie, sentendosi offeso disse: -Che ridere. Cerchi di essere meno spiritosa e di rendersi utile facendo bene il suo lavoro, perché è per questo che la pago-.

A quelle parole i nervi percossero la schiena di Mya. “È per questo che la pago”. Lei che lavorava per lui da nove anni e che lo supportava da undici. Lei che non voleva essere pagata, lei che non lo faceva che per lui. Lui che la supplicò, all'epoca, di andare con lui altrove, di seguirlo, senza pensare al suo futuro, solo a quello di lui. E lei... lei lo fece. Era l'unica amica che aveva del resto. Se gli avesse detto no... gli sarebbe crollato il mondo addosso a quel poveretto.

Perciò, dopo un attimo di interdizione disse, cercando di non perdere la pazienza che aveva già perso: -Chiuda l'occhio- e lui, non capendo la situazione, in modo impertinente: -Oh, che seccatura!- e l'occhio non lo chiuse comunque. Lei, davvero stavolta al limite della sua pazienza che aveva già perso da cinque minuti che cercava di truccargli quell'occhio: -Mi spiega come faccio a truccarle l'occhio se non lo chiude? Vuole che le trucchi il bulbo oculare?-. E David si limitò solamente a dire:-Trevor, dopo lo show provvedi a licenziare questa dipendente inutile-. Inutile. Inutile. Lei inutile? Eppure non le sembrava che fosse così inutile quando lui piangeva tra le sue braccia, come un bambino tra le braccia della mamma. Quando lei passava dolcemente le mani tra i suoi capelli e lo consolava “La gente non ti capisce Davey, sei troppo per loro” gli diceva. E ora la definiva inutile. Trevor, di tutta risposta, in difesa dell'amica sempre gentile e cordiale con lui si oppose: -Ma mr. Bowie, che sta dicendo? È la m...- e lui, sbraitando letteralmente: -Taci, fa quello che ti ho detto!-. A quel punto Mya non resse più.

-Senta, qui lei è circondato da un sacco di gente, sa? Gente che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto e ogni secondo che il loro contratto prevede e non, danno il massimo per soddisfare le sue esigenze, qualunque esse siano. Qui tutti lavorano duro per renderla una celebrità. Certo, nessuno di loro finisce sul giornale, ma tutti si fanno in quattro, in sei, in mille pezzi per farla finire sulla prima pagina di una qualunque rivista.- fece una breve pausa, guardandolo dritto negli occhi. Lui se ne stava lì con gli occhi sgranati e con la faccia di chi si dice “Oh, cazzo”.

Poi lei riprese, un po' più calma: -Ognuno di loro qui ha fatto e fa tutt'ora sacrifici immani per lavorare qui, non per farle da straccetto usa e getta. Qui dentro siamo tutti uguali, abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri, poiché siamo tutti umani. Ci sono persone che lavorano qui da più di cinque anni. Jessie e Cassie, le due gemelle stiliste, sono con lei proprio da cinque anni. Jim, l'addetto all'acustica, è qui da sei anni. Per non parlare di Danny, Tim, Ivette e Alex, che sono qui dai tempi della sua Space Oddity.- Lui li guardava tutti, con i suoi occhioni glaciali, man mano che lei li nominava. Lei continuò: -C'è gente che è arrivata ieri, il mese scorso, un anno fa, non importa. Sono stati disponibili sin dal primo nanosecondo che hanno firmato il contratto. C'è gente che non lo fa neanche per soldi. E neanche per lei. Lo fanno perché a loro piace il loro mestiere, perché si sono conosciuti e vogliono mantenere intatta la loro amicizia, perché a loro piace viaggiare e conoscere nuove persone, perché vogliono imparare una nuova lingua, perché non possono tornare a casa. C'è anche qualche suo fan. C'è persino chi, poveretto, è innamorato di lei-.

Una lunga pausa. Lui la guardò dritto negli occhi, convinto che lei stesse alludendo a sé stessa. Lei capì e scosse la testa. L'aveva colto alla sprovvista. Nessuno lo aveva mai umiliato in quel modo. Poi lo guardò con i suoi occhi glaciali, ma glaciali davvero e fu lui a spaventarsi. Lei abbassò lo sguardo che si addolcì. Poi proseguì: -Quante ragazze ho sentito piangere la notte a causa sua. Per la sua scortesia. Quanti ragazzi erano amareggiati per i suoi comportamenti. Persone che la amano e che la prendono per ciò che è e persone che si ammazzerebbero per il suo piacere. Quanti ne ho consolati e quanti di loro erano inconsolabili e poveri loro, illusi. Sa che cosa dico a tutte queste persone?- Lui, ormai nelle sue mani, scosse la testa, come un ebete . Lei gli rispose: -“Pazientate, sarà un brutto periodo per quella povera anima. Starà avendo problemi, non vuole far vedere che un cuore ce l'ha, perché forse qualcuno glie l'ha spezzato tempo fa. Passerà, passerà”-.

Abbassò lo sguardo per un attimo e si interruppe bruscamente. Poi tornò a fissarlo gelidamente negli occhi. Non era mai stata così con lui. Andò avanti: -Sinceramente ho smesso di crederci anch'io da un sacco di tempo, forse non passerà mai più. Lei sbaglia, mio caro, lei sbaglia. Fingere di non avere un cuore non la rende più forte, anzi, la rende più vulnerabile. Non starò qui a dirle tutti i suoi difetti e neanche suoi pregi, potrei fare un corposo elenco in entrambi i casi. Lasci solo che le dica una cosa: si guardi intorno-. Lui la guardò con l'aria di chi si dice “Ma parli sul serio?”. E lei, indicandoli: -Avanti, su. Guardi quanta gente che c'è qui-. Lui girò lentamente con la sua sedia girevole. Lei continuò a parlare: -Li guardi tutti e pian piano diventi consapevole che loro, tutti loro, chi più, chi meno, chi in un modo, chi in un altro, lavorano per lei. E tutti loro, lo può notare in ogni sguardo, anche di chi cerca di nasconderlo, chi in un modo, chi in un altro, ci tengono a lei-.

“Ci tengono a me” si ripeté in testa David. E si girò di nuovo verso Mya. I suoi occhi parlavano per lui, che non si muoveva per risparmiare le energie necessarie a respirare. Dicevano “Davvero? Ci tengono a me?”. In quel momento l'espressione gelida che aveva caratterizzato per la maggior parte del tempo lo sguardo mi Mya, lasciò posto ad una dolcezza unica: -Sono tutti qui per lei. Sa cosa, soprattutto, li tiene qui?-. Lui ebbe l'impressione di essere lontano dal capirlo, lei gli tolse immediatamente il dubbio: -Ciò che li tiene tutti qui è l'amore. L'amore sotto qualunque forma, verso chiunque o qualunque cosa, non importa. L'ho detto prima e lo ripeto: qui hanno tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri. Loro hanno il dovere di lavorare, che è anche un diritto, lei ha il dovere di rispettarli tutti, dalla ragazza che le porta il caffè al suo manager. Lo guardi, lo guardi il suo manager, a cui appena qualche minuto fa ha ordinato sbraitando di tacere-. Lui si voltò a guardarlo, lei andò avanti con il suo discorso: -Sa che cosa ha pensato in quel momento? Uh? Lo sa?- David scosse la testa, Mya lo guardò e addolcì il tono: -Ha pensato “Ma guarda tu, io mi ammazzo per questo. Io lascio mia moglie e i miei figli la mattina presto, mentre dormono e li rivedo la notte, mentre dormono. E questo mi ripaga così. Ma che m'importa, è solo lavoro”. Eppure in cuor suo sa che non è così. Sa che infondo a questo ventinovenne dai capelli rossi vuole un sacco di bene. E sta zitto. Loro, tutti loro non sono venuti qui a fare gli schiavi per lei e non se lo meritano neanche, dal momento che tutti qui le portano un rispetto che non si porta neanche ad una madre, ad un padre, al proprio Dio-. Mya si interruppe e guardò David negli occhi con un'espressione dolce e triste, tipo da “Riesci a capirlo?”. Poi proseguì, con tono più fermo del precedente: -Ora stia fermo, in silenzio e mi lasci fare il mio lavoro, dal momento che, come ha giustamente detto prima lei, vengo pagata per lavorare.- Quelle parole, “pagata per lavorare”, le disse con una tale acidità... poi ritornò al tono fermo: -Dato che lì fuori c'è della gente che aspetta di vedere il proprio idolo, dopo aver affrontato tante stancanti ore di viaggio e aver pagato somme esorbitanti. E faccia attenzione all'immagine che trasmette ai giovani lì fuori, che crescono con il suo esempio, se un giorno sbaglieranno gli effetti si ritorceranno gravosamente contro di lei, dal momento che la gente spesso fraintende le buone intenzioni.- Con lo sguardo abbassato e con il tono di chi l'ha provato sulla propria pelle: -Non glie lo auguro proprio-. Poi riprese normalmente: -E ora chiuda quel benedetto occhio e finiamola qui-. E riprese a fare il suo lavoro. David la guardava, la fissava, la studiava, la ammirava, forse se la stava mangiando con gli occhi, anzi, con l'occhio. Lei era a pezzi, aveva il cuore in pezzi. Da troppo tempo ormai le cose tra loro due andavano a rotoli. Dai tempi di Ziggy e gli Spiders non si concedevano del tempo per loro. Non erano amanti, no, non lo erano affatto. Erano l'uno il migliore amico dell'altra. E poi... lui iniziò ad essere Ziggy e iniziò a trascurarla sempre di più, fino a scordarsi di tutto quello che avevano passato insieme. Mya pensò a tutto questo e quasi pianse. Si dedicò infine alle labbra, le sue bellissime labbra. Dopo un minuto si rivolse all'uomo: -Ecco fatto. Può andare, maggiore Tom- disse facendolo alzare, poi continuò: -Prenda le sue pillole proteiche e si metta il casco, controlli l'accensione e che, davvero- si interruppe e gli accarezzò il braccio, guardandolo con gli occhi di chi ti sta dicendo addio e poi, con tono di chi è giunto alle sue ultime parole gli disse: -Dio l'assista-. Poi si voltò, chiuse fulminea il tutto e se ne andò fuori, senza voltarsi a guardarlo per l'ultima volta. Perché per lei quella sarebbe stata davvero l'ultima volta.

Lui era lì. Fermo. Non si muoveva. C'era chi si chiedeva se respirasse ancora. Le guardie del corpo lo scortarono in prossimità del palco, dove riprese coscienza e si rese conto che, tutto impupato, stava per salire su di un palcoscenico. Bevve un bicchiere d'acqua e poi si mostrò alla folla che, già in delirio di suo, strillò e lo acclamò.

Mentre il concerto andava e lo staff intero era lì a goderselo, Mya era appoggiata alla porta di ingresso riservata allo staff, guardando le stelle e ascoltando il Duca cantare. D'altronde non poteva andare da nessuna parte senza le sue cose. Mentre pensava a neanche lei sapeva bene cosa, forse se c'è vita su Marte, le si avvicinò Trevor: -Ciao- le disse. -Ciao Trevor- rispose lei con lo sguardo ancora alle stelle e subito proseguì: -Hai da fare?- e lui, con la faccia da punto interrogativo: -No, perché?-. Mya sospirò impercettibilmente e poi disse con un filo di voce, come per paura che qualcuno la sentisse: -Vorrei parlare delle mie dimissioni-.

Trevor era letteralmente a bocca aperta. Non sapeva che dire. Per un momento pensò che stesse scherzando, ma poi ripensò al modo in cui gli si era rivolto e capì che non stava né scherzando né mentendo. Parlava sul serio, la mora: -N-non avrai preso sul serio quello che ti ha detto David, vero?- e lei, con tono amareggiato: -No, è una decisione che ho preso da un po' di tempo, avrei comunque dato le dimissioni oggi. Le carte sono qui- e glie le porse: -Copie dei documenti necessari, eccetera. Ho fatto fare i conti a un buon ragioniere, per questo mese non desidero essere retribuita. Dobbiamo solo firmare. Nient'altro-. Dopo queste parole la mascella inferiore di Trevor era, in breve, arrivatagli ai piedi. Non voleva crederci. Dopo undici anni al suo fianco, Mya voleva lasciare David a sé stesso e al suo successo che, già da tempo, lo stava consumando.

Non aprì bocca, sapeva che sarebbe stato inutile tentare di convincerla a restare. Entrarono nel camerino delle coriste e, con fare sbrigativo, Trevor tirò fuori una penna stilografica nera. Firmò e anche lei firmò. Fu un istante e Mya non faceva più parte dello staff di Bowie.

Mya si alzò, prese il suo trench marroncino, la sua borsa e le altre sue cose, poi si avvicinò a Trevor: -Grazie Trevor, grazie mille, non solo per questo, ma per tutto quello che hai sempre fatto per tutti noi. Grazie. Mi assicurerò di lasciare ogni cosa relativa allo staff alla reception dell'albergo. È stato un piacere lavorare con tutti voi. Vi auguro il meglio-. Trevor era in procinto di piangere, e tutto ciò che riuscì a fare fu abbracciare la ragazza e augurarle il meglio. Mya si allontanò salutando Trevor con la mano. Poi si bloccò e gli gridò: -Saluti allo staff e ai musicisti!- e poi, dopo un ultimo cenno della mano svanì nella fredda Parigi di quel 18 maggio 1976.

Mya prese un taxi, il primo che si fermò. Salì e chiese di portarla all'albergo nel quale alloggiava. L'autista annuì e, accelerando, accese la radio. Cercò una buona stazione radio e, dopo vari tentativi, ne mise una a caso. E, neanche a farlo apposta, ancora quell'odiosa canzone: “The Fool On The Hill”. Mya prese a chiedersi se quella sera le stazioni radio ce l'avessero con lei. Chiuse gli occhi e cercò di non pensarci. Non ci volle molto, il tassista prese una scorciatoia e arrivarono dopo appena dieci minuti all'albergo. Mya scese velocemente dal taxi e, molto cordialmente, pagò l'autista che, appena ricevuti i soldi e aver salutato, sfrecciò via alla velocità della luce.

Mya, ancora sul ciglio della strada, si voltò lentamente: era lì, silenzioso come non mai, l'albergo dove lei, il Duca Bianco e tutto lo staff alloggiavano. Si diresse verso l'ingresso. Il portinaio, cordialmente, le aprì la porta: -Buonasera, signorina, è in anticipo stasera- le disse l'uomo sulle trentacinque anni. -Oh, sì, ho finito prima stasera- e così dicendo lo salutò con un sorriso e andò a prendere le chiavi della sua stanza, poi si dileguò verso le scale.

Guardò in alto, verso le altre scalinate, e si ricordò che a separarla dalla sua stanza vi erano cinque piani. Già, proprio come nel film “L'uomo che cadde sulla terra”, in cui aveva recitato David, nel ruolo principale. Si disse “Ah, dannazione, avrei potuto prendere anch'io l'ascensore!” e poi proseguì per le scale, non le andava di tornare indietro. Preferiva farsi quei cinque piani di scale che sembrare una persona che non sapeva cosa fare. Perché ormai era come una bambina persa in un enorme centro commerciale: spaventata e indifesa. Cercava la mamma. Ma Mya, in quel momento, non lo sapeva neanche lei che cosa cercava. Forse un nuovo lavoro. Sì, quella sarebbe stata la priorità, cercarsi un lavoro e una casa. Una casa fissa. Pensando a tutto ciò non sentì neanche il peso di quei cinque piani, che si trovò a dover infilare la chiave nella serratura. Aprì la porta, entrò e se la richiuse alle spalle.

Lasciò il suo trench sull'attaccapanni, i suoi occhiali da sole e la borsa sul tavolino. Non si sedette sul letto, non voleva rovinarlo, tanto, aveva deciso, se ne sarebbe andata quella sera stessa. Non poteva sopportare l'idea di stare nello stesso albergo in cui alloggiavano gli altri. E David, l'albergo in cui alloggiava David.

Perciò prese le valige e le mise sul tavolo. Ci ripose quelle poche cose che aveva uscito: qualche pantalone, due o tre camicie e cose così. Decise di lasciare fuori solo la borsa, gli occhiali e le sue décolleté nere. In più uscì della biancheria intima nera, un pantalone nero, una maglietta nera e un altro trench, nero stavolta. Non aveva proprio intenzione di sembrare allegra. Uscì inoltre tutto quello che riguardava il suo lavoro. Cioè, meglio, il suo ex lavoro. Lo lasciò sul tavolo, promettendosi che li avrebbe impacchettati più tardi. Poi si spogliò, mise gli indumenti che aveva addosso nella valigia, ad eccezione della biancheria intima, che mise nel cesto della biancheria. Chiamò per telefono una delle donne che si occupavano della pulizia della camera e del resto, le disse di lavarle quello che c'era nella vaschetta e che la mancia, per il buon servizio svolto nel corso dei tre giorni di permanenza lì, era sul tavolo.

Poi schizzò sotto la doccia, con l'intenzione di farsi la doccia in meno di venti minuti. Cosa un po' impossibile, dato che i capelli le arrivavano sotto il seno e che erano tantissimi. Perciò aprì l'acqua: era calda, troppo calda. La mise gelida, così da sollecitarsi a fare alla svelta e iniziò ad insaponarsi tutta. Il suo sguardo era vuoto. Vuoto, nel vero senso della parola. Inutile dire a chi il suo pensiero fosse rivolto. Al Duca, mi sembra ovvio. Odiava ciò che era diventato, un'ombra di se stesso, un serpente che cambiava pelle continuamente, senza mostrare chi fosse realmente. Così freddo, spento, calcolatore. Sul palco così come nella vita privata. Le avevano detto che gli inglesi erano freddi di natura, ma lui non era come tutti gli altri. Almeno non lo era quando lo conobbe.

Prese a massaggiare energicamente lo shampoo sui capelli. Poi li sciacquò. Fece questa operazione per altre due volte, poi si diede un'ultima sciacquata generale e si strizzò i capelli. Prese l'asciugamano e se lo avvolse intorno al corpo. Ne prese uno più piccolo e ci avvolse i capelli, poi uscì dalla doccia.

Asciugatasi il corpo indossò la biancheria intima e poi il pantalone e le scarpe. Tamponò i capelli con l'asciugamano e poi li pettinò. Dopo di che li asciugò con il phon e la spazzola. Dopo aver terminato l'opera, si infilò la maglietta e passò al trucco.

Quella sera non voleva apparire. Anzi, non voleva mai apparire. Perciò stese la crema idratante sul viso, poi il correttore sulle poche imperfezioni cromatiche, poi un velo di fondotinta, un po' di blush rosato sulle gote. Del mascara sulle ciglia, una sottile linea di eyeliner, una base panna su tutto l'occhio, poi dell'ombretto molto naturale sulla palpebra mobile, dello champagne sull'arcata sopraccigliare e nell'angolo interno dell'occhio. Un balsamo idratante per le labbra, poi una matita marroncina per il contorno e un rossetto di una tonalità più chiara della matita, seguito da un gloss trasparente. Mise a posto tutto ciò che aveva utilizzato, si assicurò di non aver sporcato niente e poi uscì dal bagno, mettendosi un goccio di un anonimo profumo alla vaniglia. Poi andò verso il tavolino dove aveva lasciato il materiale riguardante il suo ormai ex lavoro.

Erano tutti lì: le magliette, i pennelli, tutti i cosmetici e le creme, gli accessori. Prese un pacchetto precedentemente comperato e ci mise dentro il tutto, molto velocemente, così da non sentirsi trafiggere il cuore dai ricordi. “E pensare che ho fatto così tanto per lui. No, non l'ho fatto per David Bowie, io l'ho fatto per David Jones. E David Jones, almeno per adesso, non so dove sia, se c'è ancora...” si diceva mentre sistemava le cose. Che rabbia, dannazione, che rabbia. Non ci pensò ulteriormente e chiuse il pacchetto. Si infilò il trench nero, prese la borsa, si infilò gli occhiali da sole, malgrado fosse quasi notte fonda, prese le valige e il pacchetto, prese le chiavi della stanza e, senza voltarsi a guardare, aprì la porta, uscì e se la chiuse alle spalle. Non era il tipo che si piangeva addosso per le proprie scelte, Mya. O almeno generalmente.

Scese in tutta fretta le scale, con l'acqua alla gola, poiché a breve lo staff sarebbe tornato all'albergo, non voleva vedere nessuno di loro prima di andarsene. E non voleva che nessuno di loro la vedesse, così debole, abbandonata a se stessa, lasciare in anticipo l'hotel, perché non sopportava più la vista di Bowie. In realtà non lo pensava neanche. Non avrebbe mai potuto non sopportare la vista di quello che, tanto tempo prima, era stato il suo migliore amico. No, non poteva. Gli voleva bene come un figlio. Lo trattava come fosse suo figlio, lo amava come fosse suo figlio e quella sera dovette sgridarlo proprio come fosse suo figlio. Così si diresse alla reception e, con fare sbrigativo, consegnò il pacchetto. “Per Trevor” c'era scritto sopra. Ovviamente l'unico Trevor che lei conoscesse e che sarebbe venuto a chiedere il famigerato pacchetto era il manager di Bowie, e questo lasciò detto. Disdisse la prenotazione per quella e le eventuali successive notti, sbrigò altre varie formalità e uscì frettolosa dall'albergo, senza voltarsi a guardare.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Parte 1 ***


Uscita dall'albergo, Mya si sedette sulla panchina e si mise a pensare. “Cosa fare adesso?” si chiese. Era tardi per partire, tardi per andare a prenotare in un altro hotel, tardi per andare al ristorante, tardi per rifarsi una vita. Odiava stare seduta, quindi decise di farsi una passeggiata, seguita dalle sue valige. Nessuna persona sana di mente l'avrebbe mai fatto, ma lei sì.
Si trascinava tristemente per le strade di Parigi, cercando di trovare una soluzione. Sapeva che ci sarebbe stata sempre una soluzione. Alzò gli occhi al cielo. “Eh, già” si disse “Ce l'hai proprio fatta, maggiore Tom”. Quanta strada aveva dovuto fare David per arrivare fino a dove era arrivato. E quanta ancora avrebbe dovuto farne per andare anche oltre. Iniziarono a sovvenirle ricordi londinesi, dolci ricordi londinesi... Poi il suo sguardo si posò sulla Torre Eiffel, le ricordò che era a Parigi.
Ah, Parigi, quanto la odiava. Fin da piccola l'odiava, fin da quando i suoi genitori la portarono con loro in quella città. Ah, il francese, quanto lo odiava il francese. “La lingua dell'amore... quante frottole” pensò. “È ora di prendere una decisione, del resto non posso trascorrere tutta la notte trascinandomi dietro questi affari” disse tra sé e sé.
Così, tra tutte le scelte che poteva fare, fece la più sbagliata che ci fosse: passare la notte fuori, in bianco. Cioè, la notte l'avrebbe comunque passata in bianco pensando ai fantasmi del passato, ma almeno l'avrebbe passata a letto, lontano dai pericoli di una grande città come Parigi. Una persona con l'anima a pezzi in quel modo non avrebbe saputo che cosa fare. Fortuna che la nostra amica sapeva bene che cosa fare: andare in una cremeria, un bar, qualche locale dove servissero crêpes, voleva togliersi lo sfizio. Così, proprio mentre camminava distrattamente per le vie parigine si trovò davanti, quasi per caso, un bar, tutto bianco. Era anche vuoto e teneva aperto tutta la notte. Era quello che faceva per lei. Entrò. Non c'era nessuno, per un momento pensò che non ci fosse neanche il personale. Ma di tutta risposta uscì un bel ragazzo in uniforme da cameriere, con i capelli tirati all'indietro: -Buonasera, posso aiutarla con i bagagli?- chiese il giovane. Lei, educatamente, rifiutò: -No, grazie, ce la faccio da sola-. L'uomo si mise dietro al bancone: -Prego, si accomodi. Vuole ordinare? Ecco il nostro menù-. Mya si sedette al bancone e, dopo aver dato una veloce occhiata al menù, ordinò una crêpe, d'altronde era lì per quello. Mentre lo sguardo vuoto di Mya si posava sul muro bianco, un uomo, che era l'unico cliente, le si avvicinò.
La guardò, la scrutò, la osservò e sembrò riconoscerla: -Mi scusi, è possibile che io l'abbia già vista da qualche parte?- domandò questo. Quando lei girò lentamente la testa verso di lui, quest'ultimo esclamò: -Penso di averla vista in una gelateria londinese nove anni fa a bere un frappè freddo e lungo. Oh, come si chiamava quella gelateria... ah sì! Il... MILKSHAKE! Mi ricordo di lei come fosse ieri!- Mya rabbrividì. Il MILKSHAKE... quanti ricordi in quel bar di Londra. Lei e David passavano lì tutte le mattine a prendere un frappè. Il frappè al cioccolato che gli piaceva tanto. E poi... quell'uomo ricordava dettagli di una sconosciuta vista nove anni prima in un bar. Ah, dimenticavo un piccolo particolare: l'uomo che le stava parlando era Paul McCartney, autore della tanto odiata canzone “The Fool On The Hill”, scritta nove anni prima. Forse fu per quest'ultimo motivo che rabbrividì. Le uniche parole che riuscì a dire furono: -Mi scusi, io...- e poi ci pensò lui: -Io sono Paul-, disse l'ex Beatle. Lei non poteva, non voleva credere ai suoi occhi, così si limitò a rispondere con poche parole: -Mya, piacere- e lui, tutto euforico, neanche avesse davanti il suo idolo: -No, mi creda, il piacere è tutto mio. Da tempo desideravo conoscerla-. “Conoscermi? Conoscere me? Perché mai Paul McCartney vorrebbe conoscere me?” si chiese perciò la mora, che non si augurava che quello che aveva sempre pensato divenisse realtà. - Scusi, ma io non capisco...- fece lei e Paul, con un sorriso smagliante: -Oh, mia cara, la notte è lunga, c'è tutto il tempo per capire-.
Passarono un'oretta a chiacchierare come due vecchi amici al bar, davanti ad un bel bicchiere di rum. Non c'era nessuno a seccarli: nessuno che gridava fai questo, fai quell'altro e nessuno che chiedeva autografi o foto. C'erano solo loro due e il personale. Poi Paul, da vero gentleman, pagò per entrambi e i due uscirono all'aria aperta. Camminando, Mya si rivolse a Paul: -Non dovrebbe andare in giro così tranquillamente, sa? Voglio dire, non ha paura che qualcuno la aggredisca?- lui scosse la testa: -No, vengo sempre in questo bar quando non voglio essere seccato. Sai, stasera ho litigato con mia moglie...- disse abbassando lo sguardo e passandosi la mano sulla bocca, poi continuò: -...sto ancora cercando di capire chi di noi due abbia ragione-, Mya lo guardò negli occhi, cercando di consolarlo: -Vuole parlarne? Magari posso aiutarla a risolvere la situazione. Almeno mi rendo utile...- disse, alludendo alle parole di David. Paul, con gli occhi pieni di gioia come un bambino che fissa il gelato nelle mani di un piccolo bombardiere, esclamò: -Sarebbe meraviglioso! Ti ringrazio di cuore! E ti prego, non darmi del tu, mi fai sentire vecchio-, Mya rise sottovoce e poi gli fece: -Ma come, vecchio in prossimità dei trentaquattro anni? Beh, allora sto diventando vecchia anch'io! Addio mondo crudele!- e scoppiarono a ridere entrambi. Poi lei ritornò seria: -Va bene. Stavi dicendo?- e lui iniziò a raccontare: -Beh, ero appena tornato da un concerto di due ore e mezza. Ero stanco morto, non so se capisci. Comunque, appena entrato, lei mi è saltata addosso in lingerie. Io l'ho baciata e le ho detto che ero stanco morto. Lei è scesa e ha iniziato a sbraitare che non la amo, che la trascuro, che la uso solamente... quella donna è tutta la mia vita. Come potrei non amarla?- e lei, con espressione da “Mi sa che non mi stai dicendo tutto”, gli chiese: -Da quanto tempo non ti dedichi a tua moglie?- e lui, esitante: -Mah... saranno... quattro mesi...-. La mora, con gli occhi sgranati, esclamò: -Quattro mesi? Lo credo bene che abbia da lamentarsi! Non ci si può dedicare ad una persona ogni quattro mesi! A maggior ragione se è una donna! E non ne parliamo neanche se è la propria consorte...-. Paul si mise le mani tra i capelli e, lamentosamente, confessò: -Lo so, lo so, ma non posso farci niente, non è colpa mia. Sono sempre diviso tra lo studio e il palcoscenico, non ho il tempo materiale per dedicarmi a lei. Ma giuro che le dico ogni giorno che l'amo-. Mya, tranquillamente, trovò la soluzione al problema: -E allora si crei il suo tempo-. Lui la guardò con l'espressione di chi non ci stava capendo molto, lei puntualizzò: -Si crei il suo tempo. Se sa che non riesce a portare a cena il sabato sera sua moglie perché è pieno zeppo di impegni, allora non organizzi venti impegni al giorno!-. Mya guardò gli occhi di Paul, si domandò se suo padre fosse un ladro, perché qualcuno, in quel momento, aveva rubato le stelle del cielo e glie le aveva messe negli occhi. -Hai ragione! Come ho fatto a non pensarci prima!-, esclamò Paul. -Tu, piuttosto, che hai intenzione di fare con quelle due valige? Cosa ti ha portato in quel bar stasera?-, le chiese Paul. Mya, come se non fosse successo nulla di particolare, gli rispose così: -Oh, niente di troppo importante, ho solamente appena dato le dimissioni dopo nove anni di servizio, undici di supporto e tanti altri di amicizia-. Paul comprese la situazione poco felice e la invitò nella sua temporanea casa: -Sbaglio o lei non ha un posto dove andare?-. McCartney si sentì rispondere così: -Non è che non ho un posto dove andare, se solo volessi pernotterei in un hotel qualsiasi, ma non ho voglia di dormire. Aspetterò che faccia giorno e poi andrò a fare il biglietto e tornerò in Inghilterra-. Paul le prese la mano e, con fare comprensivo, le disse: -Puoi venire a casa mia. D'altronde non puoi andare girando con queste valige-. Mya replicò immediatamente: -Sì, così tua moglie pensa che siamo amanti o qualcosa del genere-. Paul la rassicurò: -Tranquilla, ho tutto sotto controllo. E poi abbiamo ancora molto di cui parlare, noi due-. Mya era esitante, non voleva disturbare nessuno. Dopo un po' Paul riuscì a convincerla e i due si avviarono verso la casa dell'ex Beatle.



ANGOLO AUTRICE
Salve! Scusatemi se nel precedente capitolo non mi sono presentata, non so dove ho la testa a volte.
Sono MadnessInk, una nuova utente di EFP. Questa è la prima fanfiction che pubblico su questo sito e sono davvero terrorizzata dall'idea che qualcuno la legga, perché sono consapevole della sua trama scontata e della mia scarsa abilità nello scrivere. Gradirei che recensiste, in modo da capire i miei errori.
Ringrazio chi ha letto, chi ha recensito e chi ha inserito la fanfiction tra le seguite.

Un abbraccio, MadnessInk.

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Capitolo 4
*** Capitolo 2 - Parte 2 ***


Nel frattempo il concerto del Duca Bianco era finito. Fra applausi e grida di adolescenti esasperate, David tornò a torso nudo nel camerino, accaldato. Si sedette alla prima sedia che trovò e, esausto, grido: -Mya! Mya! Portami un bicchiere d'acqua! E in fretta, non voglio morire disidratato!-. Tutto lo staff lo guardò perplesso. Nessuno poteva credere a quelle parole. Aveva ancora il coraggio di rivolgere la parola a Mya in quel modo, dopo il rimprovero che lei gli aveva fatto. Lui, ancora più perplesso di loro, si rivolse alla sicurezza con un'acidità unica: -Dov'è finita?- e loro, stupiti dalle sue parole, gli risposero: -Se n'è andata-. David si ricordò del battibecco avuto prima dello spettacolo. Orgoglioso com'era, fece arrogante: -Bene, meglio così, non ce la facevo più ad averla tra i piedi. E voi che cosa fate lì? Eh? Forza, uscite! In fretta!- e tutti si dileguarono, parlando e sparlando.
L'uomo rimase a struccarsi. “Che insolente!” pensò, mentre si struccava l'occhio destro. Dopo essersi struccato tutto il viso, si guardò allo specchio: com'era smilzo. Poi si spogliò, lasciò i suoi indumenti sparsi per il camerino ed entrò nella doccia. L'acqua uscì gelata. Odiava farsi la doccia con l'acqua fredda, ma lì non avevano l'acqua calda. Sì insaponò tutto, cercando invano di riscaldarsi, e massaggiò dolcemente la cute con lo shampoo. Si ricordò di quando i suoi capelli non erano tinti: che bei giorni! Sia il bagnoschiuma che lo shampoo erano così schiumosi che, prima del risciacquo, Bowie sembrava un barboncino con i capelli rossi. Si sciacquò e poi insaponò di nuovo i capelli: la tinta iniziava a scaricare, avrebbe dovuto rifarla, quando ne avrebbe avuto voglia. Uscito dalla doccia sì asciugò il corpo. Si mise di fronte allo specchio: era decisamente sottopeso. Eppure qualche anno prima era più che in forma. Ma a lui non importava. Continuava a guardarsi allo specchio, che espressione arrabbiata che aveva. Poi sulle sue labbra apparve un ghigno. “Tornerà da me in ginocchio stasera, supplicandomi di perdonarla. E vedremo se saprà farsi perdonare...” pensò. Poi si ricordò che la porta era aperta e che chiunque sarebbe potuto entrare. Perciò indossò il suo intimo e poi si mise i calzini, i pantaloni e le scarpe. Con un altro asciugamano si tamponò dolcemente i capelli bicolore, poi si mise una camicia blu. Non gli piaceva affatto, ma dovette accontentarsi. Si asciugò i capelli col fono mentre per la testa gli passavano dei flashback anonimi. Spruzzò un po' di lacca sulla sua chioma e poi indossò il suo cappello, dopo di che si infilò nella sua limousine.
Bowie era spossato, e ora sua moglie, da cui stava divorziando, lo aspettava nella sua lussuosa stanza d'albergo. -John, accendi la radio- ordinò al suo autista. L'uomo eseguì senza dire una parola. David si sbottonò i primi tre bottoni della camicia. Era ancora euforico. E la brutta notizia era che forse non era a causa del concerto. Chiuse gli occhi e gli sovvennero le parole di Mya “ E tutti loro, lo può notare in ogni sguardo, anche di chi cerca di nasconderlo, chi in un modo, chi in un altro, ci tengono a lei”. Quelle ultime quattro parole gli risuonavano incessantemente nella testa. Da tanto qualcuno non glie le diceva. E quelle parole gli rimbombarono in testa fino a farlo addormentare, a fargli sognare tutto ciò che, forse, non avrebbe mai più potuto vivere nella realtà. A destarlo dai suoi flebili sogni fu la radio: “Mama, didn't mean to make you cry...”, si sentiva. Bowie si svegliò di soprassalto, sentì quella canzone e poi, tutto ad un tratto, come se la canzone gli avesse fatto qualcosa di male, sibilò: -John, spegni quell'affare!- e l'autista, un po' dubbioso, eseguì. David buttò un sospiro di sollievo e si rimise ben comodo sul sedile posteriore. Doveva essere “Bohemian Rhapsody” dei Queen. Aveva sentito Trevor e Mya che ne discutevano. Mya ne era una grande fan, fin dal primo loro disco, “Queen”, del 1973. Gli dava così fastidio che qualcuno che lavorava per lui ascoltasse e fosse fan di un'altra band concorrente in vendite. E quell'anno, il 1975, “A Night At The Opera” aveva superato il suo album soul “Young Americans” nelle vendite. E questo lo odiava particolarmente. David smise di pensare di progettare attentati contro Freddie Mercury quando si accorse che il suo autista gli aveva aperto lo sportello della macchina, allora scese frettolosamente.
Bowie entrò infuriato nell'hotel, senza neanche farsi aprire la porta dal portiere, schizzò in ascensore e, dopo aver premuto il bottone, si aggrappò all'appoggio. Mentre l'ascensore andava, si guardò allo specchio e iniziò ad aggiustarsi il colletto della giacca e il ciuffo. Si abbottonò i tre bottoni della camicia e, appena un filo di luce filtrò dalla porta metallica dell'ascensore, schizzò fuori. Senza neanche guardarsi intorno, si diresse a passo deciso verso la stanza di Mya.
Il Duca bussò una prima volta, ma niente. Provò una seconda volta, ma non ottenne nessuna risposta. “Che si sia addormentata?” pensò, immaginando la donna nel letto, con i capelli sciolti e una camicina da notte bianca. “Beh, si sveglierà!” pensò con un'estrema cattiveria immediatamente dopo. La terza volta bussò violentemente, almeno così l'avrebbe sentito: -Mya! Mya! Apri la porta! Sbrigati! Muoviti, o ti licenzio!- gridava a squarciagola. Forse tutto l'hotel lo aveva sentito, ma non gli importava. Voleva rimproverarla di essersene andata senza il suo consenso e voleva avere l'ultima parola su quella discussione imbarazzante. Voleva che gli chiedesse scusa in ginocchio, prostrandosi in lacrime di fronte alla sua magnificenza. E poi ci sarebbe stata la punizione. La divina punizione... Mentre per la sua testa passavano fantasie in pieno stile Bowie, la porta si aprì violentemente: ne uscì un tizio tutto muscoli, con i capelli castani e gli occhi marroni, dietro di lui una donna dalla chioma ramata in camicia da notte. Decisamente non era Mya. L'uomo gli bestemmiò qualcosa in francese, in tono molto arrabbiato e poi gli sbatté la porta in faccia.
Non era possibile. Era quella la camera di Mya, ne era certo, era la 1025. David guardò il numero sulla porta della stanza dalla quale era apparso quel tizio uscito dalla pubblicità degli attrezzi ginnici. Era lei, la 1025. Non era cieco, però era sotto effetto della cocaina, è vero. Quella dannata sostanza che aveva ricominciato ad assumere alla fine del '74. E che lo perseguitava ancora dopo un anno e più. Avrebbe voluto liberarsene, ma non ne aveva la forza. Non ce l'avrebbe mai fatta. Non da solo. Cocaina o no, quella era la 1025.
David si precipitò repentino alla reception: -Salve, può gentilmente dirmi in che camera alloggia Mya Sion?-disse lui, ansimando. L'impiegato controllò la lista più volte e poi, sicuro di ciò che stava per dire, gli comunicò la notizia: -La signorina Sion non alloggia più in questo albergo ormai dalle ventuno e quarantacinque del 18 maggio, signore-. Bowie guardò l'orologio a muro: mancava un minuto a mezzanotte. Perciò, capendo che non avrebbe potuto rintracciarla nel giro di qualche minuto, sbottò: -Cosa? Se n'è andata? Se n'è andata senza avvisarmi? Come si è permessa? La licenzio, giuro che la licenzio!-. E fu mezzanotte in punto quando gli arrivò lentamente alle spalle Trevor: -Non c'è bisogno signore, ci ha già pensato lei-, gli disse, con un nodo alla gola. Bowie era così sconvolto che per poco la sua pupilla sinistra non gli si restrinse. Forse iniziò a prendere coscienza dell'enorme danno che aveva fatto: -C-che vuoi dire, Trevor?- e lui, porgendogli tutte le carte: -Si è licenziata-. David non parlò per qualche minuto. Muoveva le labbra, ma non riusciva a parlare. Dopo aver bevuto un bicchiere d'acqua trovato lì per caso, con un filo di voce si rivolse all'uomo: -E tu le hai permesso di farlo?-. Trevor non poté far altro che annuire: -Non ho potuto fare niente-. Bowie chinò il capo. Se stesse piangendo, se stesse ridendo, se stesse imprecando, non lo si riuscì a capire. Poi, improvvisamente si ricompose e, con tono molto calmo, affermò: -Bene, meglio così, un dipendente in meno da pagare-, si rivolse poi al tizio della reception: -Grazie-, gli disse. Stava per andarsene, poi l'uomo della reception si rivolse a Trevor: -La signorina Sion le ha lasciato un pacco-, disse, prendendo da sotto il bancone una scatola rossa con un bigliettino attaccato “Per Trevor”. A quelle parole David tornò da Trevor: -Che cos'è?- domandò. “Un pacchetto, non vedi, razza di sciupa femmine?” gli venne da dire. E lo avrebbe detto davvero se solo non avesse avuto quel nodo alla gola che gli impediva di parlare. Trevor riuscì a malapena a ringraziare il gentile dipendente. Poi si avviò verso la sua camera, tenendo il pacchetto come se dentro ci fosse qualcosa di molto fragile o prezioso. Bowie gli andò dietro: -Dove credi di andare?- balbettò Bowie, poi seguitò a parlare: -Voglio sapere cosa c'è dentro-. Trevor scrollò le spalle in segno di rassegnazione. Gli fece segno di seguirlo in camera del cantante. Bowie non esitò neanche un istante. Si trattava di una cosa che gli apparteneva. Che gli era appartenuta per tanto tempo e che ora non gli apparteneva più. I due si incamminarono verso la camera di Bowie.


ANGOLO AUTRICE
Hello, how low? Dopo una brevissima citazione di Kurt Cobain, passo a ringraziare chi sta seguendo, leggendo e recensendo la mia fanfinction.
In questo trancio di capitolo ho descritto la reazione di Bowie dopo aver scoperto che Mya si è licenziata. Più vado avanti e più mi accorgo che la fanfiction prende una piega scontata... Mya e il suo nuovo amico ritorneranno nella terza parte del capitolo!
Spero che la seconda parte vi piaccia. Gradirei sapere cosa ne pensate, quindi lasciate una recensione positiva, negativa o neutra che sia.

Un abbraccio, MadnessInk.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 2 - Parte 3 ***


E se David era sull'orlo di scannare Trevor, Mya e Paul se la ridevano percorrendo con non troppa fretta le strade di Parigi. Fu dopo un bel po' che arrivarono di fronte ad un portone.
Paul si aggiustò il papillon e poi suonò il campanello. Si sentirono dei passi che scendevano le scale e una voce che, come una figura dalla penombra, emergeva: -...suona il campanello, suona, che non sai fare nient'altro, razza di s...- Linda, la moglie di Paul, non fece in tempo a finire la frase che, appena aperta la porta, il maritò la baciò appassionatamente. Poi si scostò e, con il terrore di essere fatto a tocchetti dalla moglie, le sussurrò all'orecchio: -Linda, amore mio, dovremmo ospitare una donna per stanotte...-. La moglie stette per sbattere il marito contro il muro al fine di picchiarlo a sangue, ma Paul si salvò in calcio d'angolo prendendo il telefono in mano e chiamando la sua segretaria: -Monica? Ciao, sono Paul, per domani disdici tutti gli appuntamenti in programmazione, devo dedicarmi a mia moglie! E a chi importa di quei tizi così grigi! La vita bisogna godersela! Ciao Monica, ci sentiamo!-, e dicendo questo sbatté la cornetta al suo posto e si rivolse dolcemente alla moglie: -Avevi ragione tu, mi dedico troppo poco a te! E lei è la donna che me lo ha fatto capire. Però anche lei sembra avere il cuore a pezzi ed io vorrei adesso ricambiarle il favore che mi ha fatto, capisci, cara?-. Quel genio di Paul riuscì a convincere la sua consorte: -Ah, capisco-, sussurrò Linda all'orecchio di Paul, poi accolse Mya col sorriso sulle labbra in casa loro: -Entra cara, come ti chiami?- le chiese la casalinga. Lei, con un filo di voce, rispose: -Sono Mya, piacere- e porse la mano alla signora McCartney, che la strinse: -Cara, è notte fonda, perché vai in giro con gli occhiali da sole?- le disse la gentile donna in vestaglia. Mya si toccò delicatamente attorno gli occhi ed esclamò sorridendo: -Già, è vero!- e togliendo gli occhiali rivelò gli occhi color ghiaccio e uno sguardo affogato nella tristezza. Linda chiamò il maggiordomo: -Laurent! Laurent! Su, svelto!- ed un ragazzo sulle ventitré anni scese dalle scale: -Sì, madame, cosa posso fare per lei?- disse a Linda, facendo un inchino non troppo profondo. La donna, indicando Mya, gli ordinò con tono dolce: -Prepara una stanza per la nostra ospite e porta su i suoi bagagli, per favore-. Il ragazzo annuì poi, andando verso Mya, le si rivolse con garbo: -Permette, madame?-. Mya, un po' allibita da tale cortesia, lo corresse: -Mademoiselle, ma può chiamarmi Mya- poi gli porse gentilmente i bagagli: -Ecco a lei, e tante grazie-. Laurent si inchinò un'altra volta e poi prese i bagagli e sparì su per le scale.
Paul, Linda e Mya andarono in salotto, si accomodarono. Paul si rivolse a Mya: -Allora... Mya, parlaci un po' di te. Intendo dire... sono anni che volevo conoscerti, non so praticamente nulla di te. Ad esempio... ehm... vediamo... ah! La tua famiglia: tuo marito, i tuoi figli eccetera-. Mya sorrise e ridacchiando disse: -Io non sono sposata e non ho figli. Non ho legami di alcun tipo che mi riconducono a qualcuno in particolare. L'unica famiglia di cui posso parlarvi è quella in cui sono cresciuta, se va bene lo stesso- Paul e Linda annuirono e Mya continuò: -Beh... direi che per iniziare dovrei dire che non sono inglese- Paul balzò in aria, sconvolto: -Che vuol dire che non sei inglese?-, Mya gli fece segno di sedersi: -Calmo Paul, calmo. No, non sono inglese, sono italiana. Io e la mia famiglia ci siamo trasferiti in Inghilterra quando io avevo dieci anni. Mia madre, siciliana, si chiama Ada e mio padre, pugliese, Diego. Ho due fratelli: Daniel e Kurt. Daniel è undici anni più grande di me, Kurt invece quattordici. Ho vissuto a Londra per più o meno undici-dodici anni. Poi ho sempre dovuto viaggiare per lavoro- Mya si fermò. Non sapeva che altro dire, così ci pensò Linda: -E che professione eserciti?- disse. Paul volle tappare la bocca alla moglie, ma non ce ne fu bisogno, Mya rispose tranquilla: -Beh, ora sono ufficialmente disoccupata, ma fino a qualche ora fa esercitavo la professione che più odio al mondo: il make-up artist-. Linda era in procinto di dire qualcosa, ma Paul la fermò dicendole: -Linda, tesoro, è per questo che ha il cuore a pezzi, si è licenziata-. Linda, con una dolcezza unica si rivolse comprensiva alla loro ospite: -Bene, cara, cosa ti è successo? Non sembri molto allegra, la gente dovrebbe sempre essere allegra. Su, confidati pure con noi-. Un po' esitante Mya iniziò il suo monologo: -Beh, iniziò tutto un pomeriggio del novembre del 1961, a Londra. Uscivo da scuola alle sette all'epoca, poiché seguivo dei corsi fuori dall'orario scolastico standard. Quando uscii dal portone della mia scuola mi accorsi che da più o meno un quarto d'ora un temporale simile al diluvio universale era scoppiato. Mio padre era a lavoro, mia madre anche e non potevano prendermi da scuola. Mio fratello aveva la febbre e l'altro mio fratello era dalla fidanzata. Casa mia non era molto lontana, ma neanche troppo vicina. Perciò dovetti correre. Ero a pezzi dopo due minuti di corsa, che non erano pochi dato che andavo a 180 all'ora. Ero una delle studentesse più veloci della mia scuola, ma non mi allenavo sulla resistenza da un sacco di tempo. Perciò mi fermai davanti alla gelateria dove ero solita andare: il MILKSHAKE. La proprietaria mi fece segno di entrare. Ero una cliente affezionata di quel locale, lo sono tutt'oggi. Perciò Cindy, così si chiamava la proprietaria, mi diede un asciugamano e una cioccolata calda. Parlammo del più e del meno, poi pagai e feci per alzarmi. “Dove vai senza ombrello? Aspetta che smetta di piovere o ti verrà il raffreddore!” mi disse Cindy. “Ho fretta, non posso aspettare, mio fratello ha la febbre, non voglio che stia solo più del dovuto” esclamai io. Poi sentii una voce maschile alle mie spalle “Allora mi permette di accompagnarla, signorina?”. Mi girai e vidi un ragazzo con gli occhi azzurri e i capelli castani con in mano un ombrello. Rimasi stupita. I ragazzi come lui erano molto rudi, lui era il primo così galante con me. Ma gentilmente rifiutai e uscii. Dopo appena quindici secondi mi ritrovai riparata da un ombrello. Era il ragazzo di prima. “Mi scusi, ma proprio non voglio che si prenda un raffreddore”. Si presentò, poi mi prese la mano e la baciò. Cercai di non far vedere quanto fossi esterrefatta. “Io sono Mya Sion, piacere di conoscerla” e cose così. Perciò mi accompagnò a casa. Mi lasciò davanti alla porta, aspettando che entrassi. Forse inizialmente non era proprio quella la sua intenzione, posso dire adesso, conoscendolo come le mie tasche. Comunque ci lasciammo lì e non successe nient'altro. Lo vidi dalla finestra del piano di sopra scriversi l'indirizzo di casa mia. Alla fine di novembre eravamo inseparabili: due inseparabili amici del cuore. Lui era un musicista, sempre alla ricerca di una nuova band ed io sempre al suo fianco, per evitare che facesse stupidate. Poi decise di fare il solista, ma la maggior parte dei suoi testi non erano accettati dalle case discografiche, e lui era sempre più giù per questo, la gente non lo capiva. E forse non lo capisce tutt'ora. Era un ragazzo molto timido e molto egocentrico, so che può sembrare strano, ma è vero. Un giorno eravamo al MILKSHAKE. Lui mi guardò e mi disse “Ho un contratto”. Io ero felicissima e anche lui, certamente, lo era. Poi continuò “E ho bisogno che tu mi stia vicina. Ci sarai?”. Era la domanda del secolo. Per me lo è ancora. In piena coscienza di ciò che stavo dicendo gli dissi “Certo, dovunque, quando dovessi aver bisogno di me, io per te ci sarò sempre, come al solito”. Dopo qualche mese mi ritrovai ad essere la sua truccatrice. Odiavo truccare le persone, lo odio ancora, ma non m'importava. Era mio amico, avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Nel 1967 uscì il suo primo disco. Non fu un successo, ma lui non si abbatté. Nel 1969 il secondo. Qui arrivò il successo. Era al settimo cielo. Io sapevo che quel momento sarebbe arrivato. E non ci sarebbe voluto molto, perché era un genio, perché è un genio-. Paul guardò la moglie Linda con l'espressione di chi si sta vantando “Sì, un genio, e chi sarà mai 'sto tizio...”. Mya lo guardò e pensò in risposta, quasi come se Paul avesse pensato ad alta voce “Sicuramente uno più genio di te”. Poi continuò: -Andava a ritmo di un album all'anno. Durante le sessioni di registrazione del terzo album, nel 1970, io non potei essere con lui notte e giorno, per motivi di esami. Però lo chiamavo una sera sì e una no. Per sapere come stava, come andavano le registrazioni. Quando non lo chiamavo io mi chiamava lui, quindi ci sentivamo ogni giorno. Non eravamo fidanzati, non lo siamo mai stati, siamo sempre stati i migliori amici l'uno dell'altra. Niente avrebbe mai potuto dividerci. Neanche sua moglie, quando la conobbe. Anzi, le ero molto simpatica, non so per quale assurdo motivo, ma le ero simpatica. Sarà perché non ci provavo col marito. Come avrei potuto? Era il mio migliore amico. Passavamo i natali insieme: io, lui e sua moglie. Ebbero anche un bellissimo bambino che farà cinque anni tra qualche giorno, Duncan.
Però... però qualcosa ci divise: il troppo successo. Dopo l'album del 1971 arrivò quello che ad oggi è considerato il suo miglior disco. Il '72 è l'ultimo bel ricordo che mi resta della nostra amicizia. Poi partì il tour mondiale. Iniziò a diventare come la maggior parte della gente famosa: presuntuoso, arrogante, viziato e quant'altro. Iniziò a comportarsi in modo freddo con me ed io dovetti fare lo stesso, non abbandonando però la dolcezza. Tutti noi dello staff siamo finiti a fargli da tappetino. Avevo deciso di dare le dimissioni oggi. E quel che è successo mi ha convinta ancora di più. Lo stavo truccando: non voleva chiudere l'occhio che stavo trattando. “Cerchi di essere meno spiritosa e di rendersi utile facendo bene il suo lavoro, perché è per questo che la pago” mi ha detto. “È per questo che la pago”, ma vogliamo scherzare? Sarei dovuta andare all'università a studiare invece di star lì con lui. Perciò dopo averlo rimproverato ho dato le dimissioni. Fine della storia- e dopo aver finito riprese a respirare come le persone normali.
Linda, sconvolta, affermò: -Oh, ma è terribile! Tanti anni di amicizia finiti così!-, Paul subito la riprese: -Ma se lei non avesse dato le dimissioni non sarebbe successo!-, Linda replicò: -Ma se lui non si fosse comportato in quel modo lei non avrebbe dato le dimissioni, idiota!-, Paul non volle star zitto: -Se ami una persona la sopporti-, sua moglie ribatté: - Ma hai visto com'era diventato?-, lui voleva avere ragione: -Se ami una persona la prendi così com'è!- e finì per avere torto: -Ma lui non era così! Lei lo ama per quello che era! Il troppo successo lo ha reso una bestia! E lei non poteva più sopportare la vista del suo amico che peggiorava sempre più. Hai capito ora, testa di rapa?- esclamò la moglie. Paul stette un attimo zitto e poi proferì: -Ah. Non l'avevo capito. E allora hai fatto bene-. Linda, con le mani tra i capelli sospirò e si rivolse al consorte: -Oh, Paul, a volte mi chiedo come tu sia riuscito a fare un tale successo con un cervello del genere!-. Il marito girò la frittata a suo favore: -Ma dai, tesoro, a chi non piacciono i Beatles? Voglio dire...- e così dicendo si rivolse a Mya: -Mya, a te piacciono i Beatles?-. E lei, con molta gentilezza: -No, in realtà detesto i Beatles. Soprattutto la concezione che la gente ha dei Beatles. Sono l'eccezione che conferma la regola, se vuoi prenderla così, Paul. Altrimenti ti chiedo di non essere offeso-. Paul restò di stucco e la moglie anche. Paul, prontamente rispose: -Beh, non me lo sento dire tutti i giorni. Sei proprio schietta, eh? Allora, potrei sapere che musica ascolti?- le chiese un po' acidino. Mya sospirò in silenzio, pensando a ciò che non aveva mai pensato prima. Era una fan di David Bowie e non ci aveva mai pensato. Perciò sospirò un'altra volta e rispose alla domanda che Paul le aveva posto: -Beh, io ascolto di tutto, ma non tutto mi piace. Tendo molto all'heavy metal, anche se non sembrerebbe. Adoro ascoltare Fabrizio De André e Renato Zero. Mi piace molto la musica classica, ma non ci perdo la testa. Penso che Bob Dylan sia un genio. Sono fan dei Queen e di David Bowie e penso che Mercury e Bowie siano dei geni-. Stettero lì a parlare di questo e di quello, Paul difendeva i Beatles, Mya faceva lo stesso con Bowie. Linda era quella che ogni volta cambiava discorso e che permetté una nottata divertente e senza morti.

 

ANGOLO AUTRICE

Hello! Io, Paul, Linda e Mya siamo tornati per allietare (speriamo) le vostre giornate! David e Trevor torneranno nel prossimo mini-chapter! Mancano più o meno due mini-chapter e poi si passerà al capitolo 3 (che sto scrivendo da settembre-ottobre... e non mi viene nulla di nulla...). Godetevela e, per favore, recensite in molti, vorrei tanto sapere cosa ognuno di voi prova mentre legge ciò che scrivo.

Bacioni, MadnessInk


 

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Capitolo 6
*** Capitolo 2 - Parte 4 ***


Mya pensava a David e poiché David pensava alla rabbia che aveva dentro, dovette pensarci Trevor a Mya per David.
B
owie e Trevor entrarono nella stanza del primo. Angie non c'era. Che strano, di solito aspettava il marito in camera subito dopo il concerto. Trevor mise il pacchetto sul tavolo e, andando verso la porta della toilette, si rivolse a Bowie, che nel frattempo stava osservando con aria curiosa, seduto sulla sedia, il pacchetto scarlatto: -Non credo che lei abbia delle macchine a raggi x o a infrarossi al posto degli occhi, se continua a guardare incessantemente quel pacchetto non saprà mai cosa c'è dentro. Può aprirlo lei, se vuole, io vengo tra un attimo- e si chiuse in bagno.
David fissava il pacchetto. Il pacchetto avrebbe fissato lui se solo avesse avuto gli occhi. E non parliamo di cosa avrebbe detto se avesse avuto la bocca...

Dopo dieci minuti Trevor non usciva, ma il Duca non ci faceva caso, era troppo occupato a fissare con gli occhi vuoti quel pacchetto rosso sangue. Poi, mentre era attentissimo alla scatola, come se un qualcuno invisibile avrebbe potuto rubargliela, gli passò da sotto il naso un profumo familiare. Era il profumo di Mya, la stessa fragranza che le regalò per il Natale del '71. Proveniva da dentro la scatola. Sarebbe stato quel profumo che l'avrebbe spinto ad aprire la scatola...se solo avesse smesso di stare lì a fissarla come un vegetale. Trevor uscì dal bagno dopo tre quarti d'ora, non voleva vedere Bowie per un po', era così arrabbiato con quello spregevole essere umano. Ma quando lo vide per poco non scoppiò a terra dalle risate: -Ma come? Non l'ha ancora aperto? Va bene, lo farò io per lei- disse prendendo il pacchetto in mano. David mormorò: -Eravate amanti... non è così?-, Trevor lo guardò come se a David fossero spuntate le antennine da alieno, poi strepitò infuriato: -Ma è impazzito tutto ad un tratto? Come osa pensare questo della sua dipendente più fidata! Di qualcuno che ha trascorso più tempo accanto a lei di quanto ne abbia trascorso con la sua famiglia! Mya è innamorata! E io non tradirei mai mia moglie! Con una persona tanto onesta, poi!-. Trevor parlava al muro: David aveva smesso di ascoltare da “Mya è innamorata”. “Allora è per questo che si è dimessa”, pensò. Si era dimessa per attuare la sua fuga d'amore con l'uomo di cui si era innamorata. Trevor continuava a parlare , ma David non vedeva altro che sé stesso, Mya e un tizio con un punto interrogativo al posto della testa. Ma di chi si era innamorata? David balzò improvvisamente sulla sedia, strillando con il pugno verso la lampadina: -Chi è l'uomo che ha strappato dalle mie braccia la mia adorata Mya? Di quale casata fa parte? Costui dovrà essere trovato, portato da me e poi gli sarà inflitta la punizione che spetta a chi persuade le dame altrui! Ma quale donzella amerebbe mai un cavaliere sanguinario che infierisce sul suo amato? Come dovrei dunque mostrarmi a costei? Tenero e comprensivo o spietato e crudele? Oh, essere o non essere, questo è il dilemma. Ordunque necessitiam di una soluzione. Voi cosa consigliate, mio fedele consulente?- disse rivolgendosi a Trevor. L'uomo fece un passo indietro: -Credo che questa sia la cocaina-, mormorò. David, stranamente, lo sentì: -Non sono gli effetti collaterali della cocaina, penso proprio che dev'essere amore!-, e si mise a cantare a ripetizione quel verso di “Station To Station”, poi si lasciò cadere a terra. “Amore” pensò. “Che sia davvero così? No, non può essere, io sono l'esile Duca Bianco che lancia dardi negli occhi degli innamorati. Io sono David Bowie! Non mi innamoro!” e così pensando schizzò in piedi. Trevor dal canto suo, con ancora il pacchetto in mano, pensò “Amore? Ma chi, questo tizio? Questo spregevole essere umano dovrebbe provare amore? Nei confronti di una creatura così meravigliosa, poi? E come può una creatura così meravigliosa amare uno spregevole essere umano come quello? No, proprio non me ne capacito. Non ho idea di come Mya abbia potuto innamorarsi di questo ibrido. Avrebbe potuto innamorarsi anche di un panda, ma non di questo... questo...” e guardò Bowie, seduto per terra a gambe incrociate, con i gomiti che affondavano nelle ginocchia e con le mani che accarezzavano una foto che ritraeva il cantante e la sua truccatrice abbracciati. Doveva essere del '72 quella foto. Questo spiega perché c'era anche Mya in foto. Una lacrima rigò il viso di David. Questo la asciugò in fretta, come se volesse nascondere al mondo la sua natura umana. Trevor ritornò a pensare “...questo amabile ventinovenne dai capelli rossi...”. Poi si rivolse a David, prorompendo: -Beh, allora, vogliamo vedere cosa c'è in questo dannato pacchetto?-. L'uomo dai capelli rossi si alzò e annuì, sedendosi alla sedia del tavolo. Trevor iniziò a spacchettare la scatola.

David pensava a Mya, Mya pensava a David, Paul, Linda e Laurent pensavano a Mya, affacciata alla finestra. Aveva un'aria così triste. E stanca. Capperi, se era stanca! Quella testa di carciofo l'aveva fatta lavorare e innervosire così tanto. Paul disse qualcosa a Mya. Lei si girò dopo qualche attimo: -Hai detto qualcosa, David?- disse. Paul, con il sopracciglio destro inarcato, la corresse: -Paul-. Mya replicò la sua espressione con il sopracciglio sinistro inarcato: -Sì, Paul. È questo il tuo nome, vero?- gli fece lei. Paul stette per parlare, ma Linda gli diede una gomitata nello stomaco. Paul trattenne un grido di proporzioni bibliche: -Perché l'hai fatto?-, mormorò con un filo di voce il poveretto. Linda lo zittì: -Stai zitto- sussurrò, poi si rivolse a Mya, quasi gridando: -Sei molto stanca, non è così?-, Mya annuì. Linda volse lo sguardo a Laurent e lo chiamò: -Laurent! Mostra alla signorina la sua camera e fa che possa trascorrere una buona nottata- concluse Linda. Il maggiordomo non se lo fece ripetere due volte: -Come desidera madame. Voglia seguirmi, per favore, mademoiselle-, disse a Mya. Lei annuì, si girò verso i due coniugi: -Grazie mille per la fantastica nottata, buona notte- disse. Linda ricambiò: -Buona notte, cara, e sogni d'oro-. Paul non seppe resistere: -Ma io sono Paul non D...- e come risultato ebbe un'altra gomitata dalla moglie. Dopo aver trattenuto un altro grido abissale, continuò, con un filo di voce: -Buona notte Mya, e sogni d'oro-. Mya, che non aveva visto nessuna delle due gomitate, lo salutò con un cenno della mano. Poi salì le scale. -Ma perché l'hai fatto, Linda?- disse McCartney, sempre con il famoso filo di voce. Linda lo zittì: -Shh! Non vedi che ha nostalgia di quell'uomo? Evidentemente si chiama David, tonto!- e così dicendo i due salirono le scale e scomparirono nel buio.

-Va bene, la apro io- disse Trevor fissando la scatola rossa. Sollevò il coperchio e iniziò ad uscire qualcosa: cosmetici, pennelli e tante altre cose. Poi uscì una maglietta con su scritto “BOWIE STAFF”. David sentì di nuovo quel profumo. Appena Trevor poggiò l'indumento sul tavolo Bowie la prese fra le mani e se la portò vicino al naso. La annusò e socchiuse gli occhi. Si ricordò di quel Natale passato insieme, senza Angie.
Ma David! Avevo detto niente regali per Natale!”, disse lei. “Niente ma! E poi anche tu mi hai fatto un regalo. Aprilo, avanti! Spero che ti piaccia...”, fece lui. “Anche tu hai scelto un profumo! Ah ah ah!”rise Mya e lui la incitò. “Avanti, su, mettine un po', voglio sentire come ti sta addosso e voglio assolutamente sapere se ti piace”. Lei fece quello che lui le disse. “D'accordo. Che bella fragranza! Come hai fatto a sceglierne una così buona?”, chiese la ragazza. E lui, con quel tono da superiore le rispose. “Ho buon gusto io!”. Mya rise “Ah ah... grazie mille, ho apprezzato tanto il tuo regalo, ma la cosa più bella è passare il Natale insieme, David.” David le prese la mano. “È vero, l'importante è che noi due siamo vicini anche a Natale!” e si abbracciarono.
David riaprì gli occhi e si trovò abbracciato a Trevor, che gli stava bestemmiando qualcosa per il gesto improvviso. Si staccarono e Trevor, nervoso, mise un pacchettino in mano al Duca: -Tenga, l'ho trovato dentro la scatola-. Il rosso guardò la scatolina. Era nera e sopra c'era scritto “A mr. Jones”. Aprì lentamente la scatolina e, una volta visto il contenuto, sgranò gli occhi. Non poteva essere. Era lei, la boccetta del profumo che lui le aveva regalato per il Natale del '71. Un piccolo messaggio era allegato alla bottiglietta: “Ecco, questo è l'unico oggetto materiale che era in mio possesso che mi ha donato. E siccome quando rompe con qualcuno rivuole tutto indietro... ecco. Non è l'unica cosa che mi rimarrà di lei, alcune cose non si possono dimenticare. Grazie di tutto, di tutte le esperienze che ho potuto fare al suo fianco. Con affetto, Mya Sion”. David abbassò la testa, aveva le parole contate: -Trevor, lasciami solo per favore, buona notte-. Il manager uscì senza dir niente, chiudendo silenziosamente la porta della camera di Bowie.
David fece appena in tempo a togliersi la camicia e le scarpe, che le forze lo abbandonarono sul letto matrimoniale della suite. Affondò il viso nel morbido cuscino di piuma d'oca e, appena qualche attimo dopo, scoppiò in un pianto disperato, un pianto disperatamente silenzioso. E in quel mare di lacrime si addormentò.

-Questa è la sua camera, mademoiselle, faccia come se fosse a casa sua, le auguro una buona nottata- disse Laurent indicando una porta. Mya gli sorrise e gli augurò buona notte a sua volta, poi lo congedò. La ragazza entrò nella sua camera. Si mise in camicia da notte e si stese sul letto. Guardò fuori dalla finestra. Il cielo era stellato e la luna splendeva alta. Mentre per la testa le passavano mille e un pensiero, iniziò a canticchiare una canzone di David: “There's a starman waiting in the sky...”. E con queste note di sottofondo, consapevole che all'indomani le sarebbe toccato partire, si addormentò beata.
 

 

ANGOLO AUTRICE (che autrice si fa per dire)

¡Hola! Come promesso ecco l'aggiornamento di metà mese (più o meno metà mese...). Con questo mi sono portata avanti di una pubblicazione, anticipando la fine del secondo capitolo. Eh sì, mie care, a breve si passerà al terzo capitolo! Non intendo fare anticipazioni, ma vorrei scusarmi in anticipo (e per tutte le volte che non l'ho fatto) per gli eventuali errori presenti nel testo. Desidero inoltre ringraziare tutti coloro che seguono e leggono la mia fan fiction. Un particolare ringraziamento va a silvermoon74, sempre costante e presente nel recensire ogni pubblicazione (se così si dice), e a Cordelia Loveless, che ha recensito il mio ultimo mini-chapter. Vi invito a recensire e a farmi sapere cosa ne pensate, in modo da migliorare il più possibile. Amusez-vous!

Bacetti, MadnessInk

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Capitolo 7
*** Capitolo 3 - Parte 2 ***


-Allora, eccomi, sono pronto, possiamo andare- disse Trevor scendendo gli scalini e aggiustandosi la cravatta nera. -Finalmente. Andiamo, basta perdere tempo- borbottava Bowie mentre si metteva la giacca. O meglio... tentava di mettersi la giacca, ma non ci riusciva. Non riusciva a centrare la manica con il braccio. Quasi tutto l'atrio aveva gli occhi su Bowie che, nell'intento di infilarsi quella dannatissima giacca, girava intorno a se stesso come un cane che rincorre la sua stessa coda. A salvare il cantante da quella situazione a dir poco dannosa per la sua immagine fu il suo manager, che lo bloccò e gli infilò il braccio nella manica. Bowie lo guardò negli occhi e poi distolse lo sguardo, come uno che sa di aver fatto la figura dell'idiota. I due uscirono dall'albergo e si precipitarono nella Mercedes blu scuro della star.
Messe le cinture di sicurezza i due uomini si guardarono a vicenda. -Tu ce l'hai un piano, vero Trevor? Vero?- disse Bowie. Il manager infilò una mano nella tasca interna della giacca. Ci stette un po', poi tirò fuori un foglio di carta ripiegato su se stesso. Bowie inarcò il sopracciglio, squadrando Trevor e il suo foglietto. Cosa voleva fare con un foglio? Scriverci la lista della spesa? Non ci fu bisogno della domanda di David, Trevor lo anticipò: -Se vogliamo muoverci a Parigi ci serve una cartina-. David annuì, poi mise in moto.
-Dove pensa che sia potuta andare?- domandò Trevor a David che, ovviamente lo fulminò con lo sguardo: -Beh, se lo sapessi non starei qui fermo al parcheggio, non credi?-
-Beh, allora se lei fosse stato Mya, che cosa avrebbe fatto?-
-La risposta non cambia!- sbraitò il cantante. Trevor non perse la pazienza: -Allora... se la licenziassero lei dove se ne andrebbe?- domandò. Bowie ci pensò un po' prima di rispondere: -Beh... in un locale a luci rosse, fra le braccia di qualche bella spogliarellista. Oppure andrei ad ubriacarmi in un bar-. Il viso di Trevor si illuminò: -Di gran lunga la seconda opzione. Ma ci sono un migliaio di bar a Parigi! Direi che è quasi impossibile andare a pescare quello giusto!-. Bowie, in una fase di ira improvvisa afferrò Trevor per il colletto della giacca: -Senti un po', razza di incapace: non ti ho assunto per fare ipotesi, ma per lavorare! Vedi di trovarla!-. Inspirò profondamente. Non poteva essere. Non aveva davvero preso per il colletto della giacca il suo manager. No, non poteva essere così. Lo lasciò qualche istante dopo aver detto quelle parole. Poi abbassò lo sguardo. Certo che la lezione gli era servita! Trevor scese dalla macchina e si precipitò in albergo. Bowie rimase come un pesce lesso. Stette per mandare il manager a quel paese, quando questo ritornò in macchina, dopo qualche minuto, con in mano dei fogli: -L'ho trovata!- esclamò Trevor una volta dentro, chiudendo lo sportello. -Dov'è?- disse agitandosi Bowie, trepidando come un bambino la mattina di Natale mentre apre i suoi regali. Il manager abbassò lo sguardo e grattandosi la testa iniziò a farfugliare qualcosa. -Cosa c'è adesso?- gli chiese il cantante. Trevor sembrò non voler rispondere. David ripeté con più decisione la sua domanda. Trevor iniziò a balbettare: -Beh... in realtà non l'ho trovata, ma ho trovato il luogo dove potrebbe essere andata- e finì la frase alla velocità della luce, poi mise le braccia come a ripararsi da un eventuale colpo da parte di Bowie che, dal canto suo invece, osservava il pover'uomo impaurito. Poi si degnò di dare un taglio alle sue pene: -Portamici-. Il cantante si tolse la cintura: -Guida tu- disse mentre usciva dallo sportello della macchina. E subito Trevor si fiondò al posto di Bowie e, messosi la cinta, schiacciò l'acceleratore.
Non ci volle molto per arrivare nel luogo “incriminato”. Bowie prima e Trevor poi scesero dalla macchina e si trovarono davanti un locale che portava la scritta “Le Péché Mignon”. I due si scambiarono uno sguardo di intesa ed entrarono. La campana di ottone posta al di sopra della porta tintinnò. Dietro al bancone stava allegra una abbondante signora sulla cinquantina, dall'aria molto amichevole. I due uomini si guardarono di nuovo. -Trevor, ma dove mi hai portato?- sussurrò Bowie, rivolgendosi al manager.
-Buongiorno signori- esordì la donna, avvicinandosi ai due uomini che si fissavano terrorizzati, come se lei volesse mangiarseli. La formosa signora continuò: -Accomodatevi, prego. Cosa posso servirvi?-
-Niente, grazie abbiamo già fatto colazione in albergo. Non è vero, Trevor?- fece Bowie al manager, che era rapito dalla moltitudine di leccornie che vi erano nel banco freezer, che aspettavano soltanto di essere mangiate. Bowie continuò: - Lo prenda come un sì. Piuttosto vorrei un'informazione-
-Che genere di informazione?-
-Vede- disse Bowie, tirando fuori dalla tasca della giacca una foto di Mya e mostrandola alla signora -...noi stiamo cercando questa ragazza, Mya Sion. Mi è stato detto che ieri sera è stata qui, in questo bar. Sa confermarmelo? E sa eventualmente dove possa essere andata?-
-Signore, io ieri ho fatto il turno di mattina, il secondo turno l'ha fatto Fabien che ora è nella cucina. Deve chiedere a lui- disse. Poi la donna si volse verso le cucine: -Fabien? Fabien? Vieni qui!-. In meno di una frazione di secondo un ragazzo impacciato e apparentemente inesperto fu di fronte a Bowie e Trevor. Il Duca mostrò la foto al ragazzo che appena la vide sgranò gli occhi.
-Che succede? La conosce? L'ha vista?- disse Bowie. Il ragazzo annuì debolmente, poi continuò -Ieri sera era qui al bar con... Paul McCartney e proprio stamattina era a casa sua, le ho portato io stesso un anello che aveva perso qui-
-PAUL MCCARTNEY?!? Mi ci può accompagnare? Sa, questa ragazza è molto importante per me, devo subito trovarla-
-Io signore, non so se potrei... sa, la privacy...-
-E a chi importa della privacy? Avanti, mi porti a casa McCartney- disse e poi, sottovoce -la pagherò bene se mi condurrà lì-
Il ragazzo era un po' riluttante nell'accettare la proposta, ma alla fine furono in macchina in meno di un minuto e mezzo, bagnati fradici, perché a Parigi già pioveva.

A Parigi già pioveva, vero, ma sulla strada per il molo il temporale tardava ad arrivare. Nella macchina di Paul e Linda regnava un silenzio tale da poter avvertire i respiri gli uni degli altri. Ogni tanto Paul sospirava e ogni tanto qualcuno tossiva.
Mya distaccò lo sguardo da un qualsiasi punto fisso immaginario che stava fissando insistentemente da una mezz'oretta e lo rivolse a Paul. Lo guardava tramite lo specchietto retrovisore, attentamente, avendo cura di non perdersi neanche un particolare dell'uomo. Né del suo aspetto fisico, né del suo modo di fare. Era cambiato molto dal periodo in cui militava nei Beatles dei '60. La frangia spettinata gli sfiorava appena le tempie e i capelli castani e lucenti si appoggiavano morbidi sulle sue spalle. Niente più completi eleganti, ma per lui camicia a quadri e un jeans ad alta vita. Non aveva più quei modi di fare altezzosi, forse non lo era mai stato, forse era solo John ad influenzarlo. Adesso nei suoi occhi vi era tranquillità, pacatezza, serenità. Come cambiano le persone, almeno fisicamente. A questo pensiero Mya sorrise, poi si rivolse a Paul ad alta voce:
-Paul, perché non ci animi il viaggio? Sembra che sia morto qualcuno. Canta qualcosa, avanti-
-Chi, io? Perché io?-
-Beh, sei tu il cantante qui, non di certo io. E poi ieri sera non hai fatto altro che vantarti di quanto successo tu ed i tuoi amichetti avete ottenuto durante questi anni-
-Ah, la tua è tutta invidia-
-La mia? Ma per cortesia! Piuttosto non cambiare discorso e canta qualcosa. Non necessariamente dei Beatles o tua. Qualcosa di carino-
-D'accordo. Dunque...- rispose McCartney e dopo alcuni minuti attaccò, direttamente dal ritornello: -Oh it's such a perfect day...-. Mya e Linda si accodarono immediatamente -I'm glad I spent it with you...- e tra “Perfect Day” di Lou Reed, “Knocking On Heaven's Door” di Bob Dylan ed inevitabilmente molti brani dei Beatles arrivarono al molo.
-Mya, cara, torna a trovarci quando vuoi- disse Linda, abbracciando Mya, Paul si aggiunse all'abbraccio: -Sì, la vita è dura, ci vogliono gli amici-. Mya socchiuse gli occhi. Era così piacevole quell'abbraccio, così caloroso, profumava di casa.
-D'accordo- disse Mya sorridente, una volta sciolto l'abbraccio -Adesso è ora di andare per me. Grazie per tutto quello che avete fatto per me e per il tempo trascorso insieme. Ho vissuto momenti stupendi con voi-. I tre ci misero un po' a lasciarsi, ma alla fine toccò loro separarsi.
Un cenno della mano e un sorriso di Mya, questo bastò ai coniugi McCartney. O comunque dovettero farselo bastare, poiché la nave stava partendo e Mya era in ritardo. Mya salì, la nave partì e, magicamente, appena lasciato il molo, la nave incontrò la pioggia.

 

ANGOLO AUTRICE:

¡Hola! Chiedo scusa per questa mia assenza che persino a me è sembrata interminabile. Non sapete quanto sono felice di pubblicare questo capitoletto, sperando che sia di vostro gradimento. È un mini-chapter piuttosto... ehm... mini. Mi scuso per eventuali sviste ed errori grammaticali o di altra natura... (correggetemi nelle recensioni o sbaglierò a vita!). Non ammazzatemi se non vi piace, ve ne prego. Mi raccomando leggete, recensite e soprattutto enjoy the chapter!

 

MadnessInk

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Capitolo 8
*** Capitolo 3 - Parte 3 ***


DID DON!
Laurent si affrettò a scendere la lunga scalinata che dalla camera dei coniugi McCartney portava alla hall. “Che monsieur McCartney sia già di ritorno?”, si chiese il maggiordomo ormai a pochi passi dalla maniglia in ottone, ben lucida per opera sua, dell'enorme portone. Aprì. Si inchinò davanti a Bowie, Trevor e il povero Fabien, spaventato come un cucciolo strappato alla madre.
-I signori desiderano?- disse quindi Laurent. Bowie diede una “spintarella” a Trevor, che lo fece arrivare più o meno nelle braccia del maggiordomo.
-Ehm, sì, salve. Staremmo cercando una donna... ehm... ecco... Mya Sion. Lui- disse Trevor, indicando Fabien, bagnato come un pulcino -Ci ha detto che è qui-
-Mademoiselle Sion è partita un'ora e mezza fa-. Trevor ci rimase un bel po'. -Ma prego, accomodatevi, piove e siete tutti bagnati- continuò il maggiordomo, indicando l'ingresso della casa McCartney.
-Per dove è partita?- si intromise Bowie.
-Non mi è stato riferito-
-Come ci è arrivata qui?- continuò il Duca con il suo quarto grado.
-In compagnia di monsieur McCartney, suppongo a piedi-. Bowie si avvicinò improvvisamente con aria minacciosa al maggiordomo urlando sotto il suo ombrello blu:
-IN COMPAGNIA? Dov'è il signor McCartney?-
-Ha accompagnato mademoiselle Sion al molo- rispose Laurent freddo come una cella frigorifera.
-Molo?- Bowie prese Trevor per il colletto -Andiamo, forza, Trevor! Andiamo a riprendercela!- disse trascinandosi quel sacco di patate appresso, lui sotto il suo
bell'ombrello e il povero manager sotto lo scrosciare incessante della pioggia.
-Credo che la nave sia già salpata. Almeno da mezz'ora-.
Fu a quel punto che Bowie si fermò, lasciò Trevor ed anche il suo ombrello. Era di spalle sia al maggiordomo sia agli altri due uomini. Una miriade di pensieri gli attraversarono la mente alla velocità della luce ed un dolore gli attraversò il cuore come un proiettile, mentre la pioggia gli scorreva, fredda, addosso. Era perfettamente immobile, con lo sguardo vuoto. Non c'era rancore, non c'era dolore, non c'era rimorso e non c'era neanche amore nel suo sguardo. Dio solo sapeva a cosa stava precisamente pensando. Il silenzio che si era venuto a creare si ruppe. David aprì lo sportello della macchina dalla parte del guidatore:
-Andiamo, Trevor- disse, poi girò dalla parte del passeggero davanti ed aprì anche quello sportello, continuando -Non c'è più niente da fare, l'abbiamo persa. Pace- concluse infilandosi silenziosamente in macchina, aprendo lo sportello posteriore destro e richiudendolo delicatamente qualche secondo dopo.
Trevor non sapeva che fare al riguardo. David che gettava la spugna così... Ma che gli era preso? Per come era lui, e non era certo poco noto questo lato del carattere del cantante, avrebbe fatto di tutto per riavere quello che desiderava. Sarebbe andato in capo al mondo, avrebbe girato anni pur di ottenere l'oggetto dei suoi desideri. E alla fine l'avrebbe ottenuto.
-Quindi... non sarebbe possibile... raggiungerla?-
-Credo proprio di no, signore-
-Ehm... va bene. Grazie mille per il suo tempo. E lo scusi, per lui significa molto quella donna. Buona giornata- fece Trevor, molto imbarazzato e alquanto confuso.
-A voi, signori- e così dicendo Laurent rientrò in casa ma non prima di aver fatto un inchino di congedo.
Trevor e Fabien si diressero silenziosi verso la macchina. Trevor si mise al posto del guidatore. Fabien stette per aprire lo sportello posteriore sinistro quando la voce di Trevor lo fermò:
-Ehi, forse... forse è meglio se siedi davanti- disse, indicando con un cenno del capo il sedile accanto al proprio. Fabien annuì e sedette davanti. Partirono. Tutti bagnati, ma partirono.
Trevor accostò davanti al bar “Le Péché Mignon”, Fabien scese dalla macchina:
-Ehm... grazie del passaggio...-. Trevor annuì :
-Grazie a te per il tuo aiuto, Fabien-. Si lanciarono un'occhiata complice e poi Trevor ripartì.
Per tutto il tragitto che avevano percorso dalla dimora dei McCartney fino a quel bar Bowie non aveva fiatato.
-Ed ora? Dove si va?- lo interrogò con lo sguardo Trevor. Bowie sembrò per un attimo essere su di un altro pianeta. Con lo sguardo rivolto fuori dal finestrino, pareva non stesse più facendo caso a niente e a nessuno. Che stesse pensando a Marte?
-All'hotel, mi sembra ovvio. Dove vuoi andare sotto questa pioggia?-. Bowie si mise i suoi bravi occhiali da sole, sebbene nel cielo non ci fossero altro che nuvole, a protezione dei suoi occhi. E si diressero veloci, silenziosi, all'hotel. Quella sera Bowie sarebbe dovuto partire, sarebbe stato meglio fare in fretta.

Passarono alcune ore ed i coniugi McCartney furono di ritorno, Laurent aprì loro la porta, accogliendoli nella loro casa mite ed asciutta rispetto alla coppia che era fradicia. Linda andò subito a farsi un bagno caldo. Anche Paul aveva intenzione di andare a farsi un bel bagno caldo rilassante, distensivo con la sua adorata mogliettina che da quel momento in poi non avrebbe mai più trascurato, ma Laurent lo fermò ancor prima che potesse esprimere questo suo desiderio:
-Signore, alcune ore fa tre uomini sono venuti qui, in cerca di mademoiselle Sion-
-Forse uno di quelli era il suo datore di lavoro-. Paul si fermò un attimo a pensare. Chissà com'era il datore di lavoro di Mya. Non glielo aveva mai descritto, non gli aveva mai detto neanche il suo nome... -Ad ogni modo non hanno trovato quel che cercavano. Beh, io vado a rilassarmi un po' con Linda- disse Paul e, mentre stava per avviarsi su per le scale Laurent lo fermò di nuovo:
-Tutto è pronto- disse. Paul lo guardò interdetto ed annuì. Che diavolo intendeva Laurent? Cosa era pronto? L'ex Beatle, noncurante delle parole del maggiordomo, raggiunse la moglie nel bagno e si immerse nella vasca riempita di acqua caldissima e bagnoschiuma al cacao.
-Paul, pensi che Mya starà meglio?- disse linda guardando il soffitto. Paul le prese la mano:
-Sono sicuro di sì. È una donna forte-.
I due si goderono il bel bagno caldo, poi si avviarono in camera da letto. Appena Linda aprì la porta, un profumo di rose la inebriò: il letto, il pavimento e le superfici dei mobili erano ricoperti di petali di rose rosse. Tantissimi petali di rose rosse.
-Paul!- esclamò Linda abbracciando il marito -Come sei romantico!-. Un bacio risuonò nell'aria silenzioso, poi la coppia entrò nella camera. Si sentì della musica, molto alta. Dopo qualche minuto Paul uscì dalla camera e dietro la porta di questa vi affisse un cartello, poi rientrò.
Laurent più tardi passò di lì per andare a sistemare il bagno. Lesse il cartello: “NON DISTURBARE”. Un sorriso di soddisfazione gli si dipinse sul viso, poi passò oltre, continuando a fare il suo dovere.

 

ANGOLO AUTRICE

Salve a tutti! Sono tornata con la fine del terzo capitolo di questa maledettissima FF. Non ho particolari commenti da fare a proposito di questo mini-chapter, a parte che non mi ispira molto e anche se spero che a voi piaccia. Dunque buona lettura, recensite mi raccomando e... buone vacanze!
Un beso, MadnessInk

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Capitolo 8
*** Capitolo 3 - Parte 1 ***


Furono presto le sei del mattino e un passerotto entrò nella stanza di Mya. Fu lui a svegliarla, cinguettandole nelle orecchie. Mya sbadigliò stropicciandosi gli occhi. Guardò fuori dalla finestra e poi si accorse dell'orario: era tardi, tardissimo! Scese frettolosamente dal letto e si precipitò in tutta fretta in bagno: strada facendo si tolse la camicia da notte e il resto, poi chiuse la porta della toilette e si mise sotto la doccia. “Chissà se oggi vorrà il trucco di ieri o cambierà ancora... camaleontico com'è...”, pensò mentre l'acqua le scorreva addosso.
Doveva essere a lavoro alle sette e mezza, altrimenti David la avrebbe... ah giusto, si era già licenziata lei. Finì di farsi la doccia e si avvolse nell'accappatoio bianco. Iniziò a sentire freddo. Erano le sei e mezza del mattino, dannazione se avrebbe dovuto sentire freddo! Aprì così la valigia e tirò fuori il necessario: la biancheria, una camicia bianca a maniche lunghe, un jeans a vita alta e una giacca di jeans con la zip. Si asciugò i capelli, si vestì e si sedette sul letto. Poi, mentre cercava le scarpe, saltò fuori Aladdin Sane. Allora il passerotto si posò sul comodino affianco al letto: -Cip... cip... cip cip-. Sembrava quasi che parlasse. Mya lo guardò e gli sorrise. Il grazioso volatile si posò sulla spalla della nostra amica. Aveva freddo anche lui. Mya gli avvicinò l'indice e il passerotto gli si strofinò cinguettando. La ragazza lo prese tra le mani e lo riscaldò un po', accarezzandolo.

Ehi, Mya, che hai in mano?”, fece capolino dalla porta Bowie. La ragazza sorrise e glie lo mostrò: “È un passerotto, è ferito, ha sbattuto alla finestra stamattina e sto cercando di aiutarlo. Gli ho già medicato la ferita all'ala che si è procurato”. David sorrise e si inginocchiò per osservare meglio la situazione. “Ci tieni molto, eh?”. Mya mise il passero nelle mani di David, dicendo: “Mi sembra ovvio, è un povero passerottino ferito, è normale che ci debba tenere. Un pizzico di umanità non fa mai male” e poi, guardandogli il petto piumato vi riconobbe una specie di fulmine: “Ehi, Davey, guarda un po'... non è un fulmine quello?” gli disse con un sorriso che andava da una parte all'altra del viso. “Sì, hai ragione! Sai cosa ti dico? Sarà la copertina del mio prossimo album!” disse David, allora venticinquenne.
E così fu. Ricordò ancora la volta in cui gli suggerì di dipingere quel fulmine sul viso. Come ne fu entusiasta! Poi di colpo David si dimenticò la “genesi” dell'idea del fulmine e tutto andò come andò.
Mya sospirò. Il passerotto volò via delle sue mani, cinguettandole grazie.
Si mise le scarpe e si asciugò i capelli. Si erano già fatte le sette. Mentre si chiedeva se i due coniugi fossero svegli, sentì Linda parlare: -No, Paul, non svegliarla, sarà stanca, pensa a quanto ha camminato ieri sera, portandosi le sue cose dietro, per giunta-. Il marito, continuando a salire le scale: -Ma Linda, tesoro, poi non farà in tempo a fare colazione, oggi voglio portarla a fare un giro, meglio svegl...-. Paul non fece in tempo a finire la frase che Mya aprì la porta: -Buongiorno Paul, buongiorno Linda. Fa un po' freddo stamani, non credete? Ma come mai siete svegli così di buon mattino?-. Marito e moglie scoppiarono a ridere sotto i baffi, quando il maggiordomo apparve dal nulla e, rivolgendosi a Mya, disse: -Buongiorno mademoiselle. C'è un uomo che chiede di lei-. Tutti si fecero seri. Il giovane continuò: -Voglia seguirmi, per cortesia, mademoiselle-. Mya annuì e seguì il maggiordomo fino al piano inferiore. Il francesino si fermò, si volse verso la donna: -Vada pure, è in salotto -. Mya lo ringraziò e lo congedò. Le bastò girare a sinistra per arrivare al salotto. Lì c'era un uomo molto giovane, un po' impacciato, con qualcosa in mano. Se ne stava lì, seduto sul divano, con le ginocchia strette e la testa abbassata. Mya rimase appoggiata al muro del salotto per un po', in attesa che l'uomo si accorgesse della sua presenza. Quando lui alzò la testa la vide e balzò subito in piedi: -Oh, salve. Io sono... lei è...?- balbettò. -Mya Sion, piacere.- disse Mya porgendo la mano al giovane, che a mala pena riuscì a stringerla. Poi continuò: - Mi è stato detto che ha chiesto di me. Bene, mi dica pure-. -Io sono... beh, non importa davvero chi sono. Comunque questo dev'essere il suo...- mormorò l'uomo. Alzò la testa e Mya si accorse che era il cameriere della sera prima. Ma cosa ci faceva a casa di Paul McCartney? In mano aveva un anello in argento, molto sottile e semplice. Lo porse alla donna che, sorridendo, lo prese nelle mani: -Grazie mille. Credo che mi sia caduto entrando nel bar ieri sera. Ah, che sbadata che sono! Mi chiedo dove diamine ho la testa recentemente!- e si fermò, quasi come se non avesse più parole, un po' come la sua professoressa di italiano del liceo quando perdeva il filo del discorso. Poi riprese a parlare: - La ringrazio per la sua infinita cordialità-. In quel momento scese Paul dalle scale: - Tutto bene Mya?- disse. Il cameriere del bar non poteva credere di avere davanti a lui chi credeva che avesse davanti a lui. Così salutò frettolosamente e uscì dal portone. -Mah, strani i francesi!- esclamò Paul fissando il portone con il mente il pensiero di quel tizio che era appena fuggito via. -Mya- disse l'ex Beatle, voltandosi verso la neo disoccupata, poi proseguì -Oggi voglio portarti a fare un giro nelle campagne francesi. Vedrai: sono stupende!-. Mya non gli rispose subito, necessitava tempo per riuscire a dire a Paul ciò che voleva fare. Così prese un bel respiro e proferì: -In realtà oggi... avevo intenzione di partire per Londra-. Dal piano di sopra si sentì Linda: -Come? Cara, già te ne vai? Ma non abbiamo passato molto tempo insieme!-. -Ne sono consapevole- rispose la mora - ma questa città a dir la verità non mi è mai piaciuta. E poi manco da tanto, tantissimo tempo da Londra. Mi chiedo se qualcuno senta realmente la mia mancanza laggiù-. E sospirò. Impercettibilmente, ma sospirò. Linda le mise una mano sulla spalla destra: -Va bene, allora vorrà dire che dopo aver fatto colazione tutti quanti insieme andremo al molo ad accompagnarti-. Paul imitò la moglie mise una mano sulla spalla sinistra di Mya: -Sì, sono d'accordo con Linda: facciamo colazione!-. La moglie gli lanciò un'occhiataccia e il marito si corresse quasi immediatamente: -...colazione insieme, s'intenda...-. Mya scoppiò a ridere, poi si ricompose: - Non c'è bisogno che vi disturbiate più di quanto abbiate già fatto, posso andare da sola al molo, ho preso molte volte il traghetto per Londra-. - Non dirlo neanche!- strillò Linda -Non esiste che tu vada da sola al molo! Altrimenti che amici saremmo?- e detto questo i due sposi trascinarono Mya alla tavola imbandita di tutto ciò che persino il più goloso dei golosi non sarebbe mai arrivato ad immaginare.

I raggi di sole entrarono anche dalla finestra di David, che aprì gli occhi appena, fissando quella luce accecante che proveniva dall'esterno. “Chissà che ore sono”, si chiese. Dovevano essere almeno le nove. Provò ad alzarsi, ma delle braccia gli cingevano la vita: -Ma che cazz...- disse a bassa voce l'uomo, poi si voltò “Angie?” si domandò tra sé e sé Bowie. “Ma sbaglio o ieri sera non c'era? Ma si doveva proprio attaccare come una cozza?” e così dicendo cercò di levarsela dalla vita. Dopo vari tentativi riuscì nel suo intento e corse in bagno. Si fece una doccia e si preparò. Uscì quatto quatto dalla sua stanza e si precipitò da Trevor. Bussò alla porta. Ne uscì Trevor in vestaglia e pigiama viola. -Dobbiamo trovarla, Trevor. Dobbiamo assolutamente trovarla-. -Ah, Bowie, sono le sette e mezza del mattino, abbiamo tutto il giorno per cercarla!- esclamò Trevor sbadigliando. Povero ragazzo, si era sicuramente svegliato da poco tempo. -Stai scherzando spero. A quest'ora potrebbe già essere chissà dove. Muoviti. Hai dieci minuti, non di più. Io aspetto nell'atrio- disse Bowie, con tono minaccioso, guardando Trevor dritto negli occhi. -Ok, ma facciamo venti minuti-. -Dieci minuti e non un secondo di più- sibilò Bowie. -Oh, e va bene!- bofonchiò il povero manager chiudendosi la porta alle spalle.
David scese lentamente ogni scalino, riordinando i pensieri riguardanti la sera precedente. Mya... che avesse davvero una relazione a sua insaputa?

-Ah, Paul, sei sempre tu!- esclamò Linda vedendo suo marito a terra sepolto dalle valige. Mya, accortasi del poverello a terra, scese giù per le scale, si chinò e lo aiutò a tirarsi su. -Sai Linda, sei proprio un tesoro...- fece Paul. Senza troppi altri intoppi Paul riuscì a raggiungere tutto d'un pezzo il cofano della macchina. Sollevò le pesanti valige da terra e le adagiò nel cofano. Dopo di ché chiamò il maggiordomo: -Laurent!-. Il giovane schizzò fuori dalla porta in un baleno: -Mi dica signore- disse inchinandosi. Paul chiuse il cofano: -Noi accompagniamo la signorina Sion al molo, saremo di ritorno per cena-. Poi si avvicinò al giovane: -Voglio sul letto matrimoniale tanti petali di rosa quanti sono i fan dei Beatles oggi nel mondo- disse Paul. -Certo, può contare su di me, monsieur- lo assicurò Laurent. Poi Mya gli si avvicinò, porgendogli la mano: -È stato un piacere conoscerla- e gli sorrise. Il francesino le baciò la mano: -Mai quanto lo è stato per me, mademoiselle-. Mya gli sorrise ancora e salì in macchina. Alla partenza salutò il francese con un fine gesto della mano.
-Ah, che bravo ragazzo che è Laurent, non credi Paul?- domandò Linda al consorte mentre quest'ultimo si allacciava la cintura di sicurezza: -Sì, davvero un giovane con la testa a posto. Ah, questa dannata cinta...- strillò Paul mentre si strangolava con la cintura di sicurezza della macchina. -Paul! Sta' calmo!- proruppe Linda, poi continuò -Non c'è bisogno di agitarsi come un pollo! Si fa così!- affermò la donna, aggiustando la cintura di sicurezza al marito. La cinta, Linda. Linda, la cinta. Questo era il percorso che gli occhi di Paul percorsero per qualche minuto fino a quando l'uomo non proferì: -Ah. Grazie amore-. Linda volse gli occhi al cielo e si chiese se avesse dovuto lasciare che il marito si strangolasse con la cintura di sicurezza.
-Bene, siamo pronti per partire, suppongo- urlò Paul. Linda fece per accendere la radio, ma Paul la fermò: -Linda, tesoro, non accendere la radio. Non si può parlare con la radio accesa-. Mya esclamò: -A proposito di parlare, Paul...- e Paul si ricordò ciò che doveva assolutamente dirle: -Certo, certo. Dunque...- e si schiarì la voce, poi iniziò a raccontare del suo magico incontro: -Stavo registrando Sgt. Pepper's negli studi di Abbey Road, era novembre e pioveva. Ero stanchissimo, ero a pezzi, credetemi- e la moglie Linda lo interruppe: -Ma Paul, tu sei sempre stanco?- Mya sorrise appena, per non offendere né Paul né Linda, il primo chiuse un occhio e continuò: -Bene, come dicevo ero stanco e decisi di andare a prendere qualcosa da sgranocchiare. Sai, io sono un gran mangione. Così uscii dagli studi e dal quartiere St John's Wood e feci un giro in macchina. Mi fermai davanti ad una gelateria, misi il mio cappello e uscii dalla macchina. Fortuna che non mi riconobbe nessuno. Entrai in quel locale. Era caldo e volli restare lì per un po', poiché fuori faceva freddissimo. Perciò mi sedetti ad un tavolo e ordinai un tè con dei biscotti. Ero immerso nei miei pensieri quando, all'improvviso, si sentì un baccano tremendo. Girai la testa e vidi un folto gruppo di amici sedersi ad un tavolo. Una di loro si alzò e andò ad ordinare per tutti. Una ragazza sussurrò qualcosa e tutti si misero a ridere. Era una persona seria, lei. Era amante della musica, ma non della musica che ascoltavano gli altri. Era molto carina. non capivo perché i ragazzi facessero i playboy con le altre ragazze invece che con lei. Mentre cercavo di trovare una risposta plausibile, guardavo la scena: quei ragazzini appena maggiorenni bevevano alcolici e lei, mentre sorseggiava un frappè al cioccolato, era immersa nelle sue letture. “L'uomo che cadde sulla Terra” mi pare che fosse-. Mya sospirò. “L'uomo che cadde sulla terra”. Il suo libro preferito. E pensare che non avrebbe mai immaginato che nove anni dopo David avrebbe recitato nei panni del protagonista Thomas Jerome Newton. Paul continuò: -Poi un ragazzo della comitiva di già ubriaco le si avvicinò dicendo cose poco carine. Lei non se ne accorse, era troppo presa dal romanzo. Non se ne accorse finché il ragazzo non le strappò il libro di mano. Non si scompose minimamente, proprio in stile inglese. Poi tese la mano destra verso il ragazzo, poiché con la sinistra teneva il frappè, e disse, con tono calmo, mentre guardava il suo frappè “Per cortesia, mi ridaresti il libro che avevo in mano?”. Lui, pretenzioso, le chiese un bacio in cambio. “Suvvia, non vorremo starcene qui tutta la notte, vero? Potresti darmi quel libro, gentilmente?” disse la fanciulla, facendo finta di non averlo sentito. Lui le richiese la stessa cosa. “Non scherziamo. Avanti, su, devo finire quel libro entro tre giorni. Sono con l'acqua alla gola”. L'ubriaco non desistette. “Se lo vuoi vieni a prendertelo” disse il poveretto. Era il più gettonato della comitiva. Ma a lei non importava. “Sai, mi scoccia tenere la mano tesa” disse lei “Dammi quel libro, Tyler”. “Altrimenti?” fece lui, prepotentemente e lei rispose in tono seccato“Tyler, dammi quel libro, potrei arrabbiarmi”. “Oh, tremo dalla paura! Figurati se ho paura di uno scricciolo come te!” esclamò il giovane. E tutti risero. La ragazza staccò lo sguardo dal frappè e, con una gelidità unica, gli lanciò un'occhiataccia dicendo “Dovresti davvero” poi ritornò con lo sguardo sul frappè: “Dammi il libro, Tyler”. “Non può farmi niente, bambina” disse il ragazzo, poi prese la mano semi-tesa della fanciulla e la tirò violentemente a sé. Strinse la ragazza tra le sue braccia, le faceva male, ma lei non lo dava a vedere. “Visto? Sei innocua. E ora...” le sussurrò il ragazzo. Lei, in tutta risposta “E ora hai dieci secondi per lasciarmi andare oppure finisce male!”. Passati dieci secondi di orologio la ragazza si liberò senza troppi problemi della stretta, poi si prese il libro dalle mani del ragazzo a bocca aperta. Poi gli aggiustò la cravatta che gli aveva disfatto nell'atto del liberarsi. Si girò, guardò l'orologio da polso “Sono le tre e un quarto. È ora di rientrare” proferì. Tutti si alzarono prendendo le proprie cose. La ragazza mise il libro nella cartella scolastica, si diresse al bancone, pagò il suo frappè al cioccolato. Si avviò verso la porta dell'uscita. Fece per aprirla, ma la aprì per lei il ragazzo di prima, dandole la precedenza “Grazie, Tyler” e sorrise. Poi uscì, salutando i clienti e il personale con un cenno della mano. Con questo pensiero tornai in studio e registrai “The Fool On The Hill”. L'avevo già scritta, è vero, ma se non avessi vissuto quella situazione non avrei cantato quella canzone con quella sfumatura con la quale oggi è conosciuta- e dopo aver concluso guardò nello specchietto retrovisore, cercando Mya. Vide la ragazza con un punto interrogativo dipinto in faccia. Questa esclamò: -Va bene, bella storia, ma io che c'entro con tutto questo?-. Paul quasi frenò di botto, per fortuna che la strada per il molo era deserta e che tutti avevano le cinte. -Paul! Guarda che scherzavo! Non dovresti avere reazioni così impulsive!- esclamò Mya, con i capelli stravolti. -Caro, ha ragione! Stai rilassato, o andrà a finire che faremo un incidente oggi!- affermò la moglie. Ci fu uno di quei momenti di silenzio imbarazzanti. Poi Paul proruppe: -Beh? Allora Mya? Non dici niente?-. La ragazza guardò fuori dal finestrino. Il tempo era scuro. -Sta per piovere, meglio affrettarsi-.

 

ANGOLO AUTRICE

Salve, lettori e lettrici di fanfiction! Mi scuso per il ritardo, ma finalmente è arrivato l'inizio del terzo capitolo. Premetto che io questo mini-chapter lo odio profondamente! Non credo che il seguito arriverà molto presto, poiché non ho molte idee. Per questo chiedo il vostro aiuto: cosa immaginate come conseguenza di quest'ultimo mini-chapter? Magari così mi date l'ispirazione! Vi mando un bacio e un invito a recensire (inserendo magari le vostre idee).

MadnessInk

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Capitolo 9
*** Capitolo 4 - Parte 1 ***


Un bel giorno, mentre il sole splendeva nel cielo e gli uccellini cinguettavano allegri, nella sua lussuosa camera da letto dai muri rossi Mick Ronson si svegliò tra le lenzuola bianche stropicciate e le braccia di due stupende donne, una bionda e una rossa, ancora addormentate. Ci mise un po' a capire cosa era successo la notte precedente. Si tirò su, facendo attenzione a non svegliarle, scese silenziosamente dall'enorme letto matrimoniale, si infilò le sue pantofole dall'aspetto di un coniglietto bianco e andò in bagno. Si osservò davanti allo specchio: aveva gli occhi ancora semichiusi e non riusciva ad aprirli completamente ma erano distinguibili due macchie scure che ricoprivano il contorno occhi per intero, delle macchie di rossetto rosso e rosa chiaro gli ricoprivano il corpo, soprattutto il collo e i suoi biondi capelli sembravano aver perso la loro piega e parevano una massa informe di spaghetti.
Alcool, di nuovo. Festino, di nuovo.
Mick si strofinò gli occhi arrossati. Cavoli, doveva essere molto tardi quando si era addormentato! Si passò entrambe le mani sul viso e dopo qualche minuto gocce di acqua fredda scivolavano su di lui portando via la schiuma della saponetta dal suo corpo. Ci voleva proprio una bella doccia dopo tutto il casino della sera prima.
Uscito dal bagno, sul tavolo del soggiorno della sua suite c'era ad aspettarlo una colazione completa. Le due donne erano sparite e avevano probabilmente avvisato il servizio in camera che il signor Ronson si era svegliato. Mick si abbottonò il secondo bottone della camicia e si sedette a tavola accendendo la TV che avrebbe portato via, almeno così sperava lui, tutta quella confusione che aveva in testa.
“Il nuovo album di David Bowie, lo shock-rocker col rossetto, si intitola Low. Il disco è un flop ”
Un flop? Un disco di Bowie? No, non era possibile. Non per come la pensava Mick Ronson che lo conosceva per quello che era da molti anni. Uno con così tanto talento e sale in zucca come lui non poteva fare un flop.
-Diamine... chissà come l'avrà presa...- pensò Mick, divorando pezzo dopo pezzo la sua seconda salsiccia di maiale -Conoscendolo se ne sarà fregato però... è passato tanto tempo da quando non vedo quel figlio di puttana, quindi...-.
Dopo aver finito di fare colazione ed essersi lavato i denti Mick uscì dalla porta della sua camera di albergo. Scese le due scalinate che lo portarono fino alla hall e poi proseguì verso l'uscita.

-Beh, considerando la posizione dell'immobile, i dettagli e i comfort che vi sono, il prezzo è modesto-
-Ma a dir la verità... non è che mi ispiri molto...-
Papà, papà prendiamola! È bella, mi piace!-
-Zowie, non tirarmi!- disse Bowie, rivolgendosi al figlio di cinque anni che aveva i suoi stessi occhi azzurri.
-E poi piace anche a suo figlio come può vedere, mr. Jones- osservò l'agente immobiliare con aria di chi ormai l'aveva vinta.
-Diciamo che ci devo pensare... la contatterò appena mi sarò deciso-
-D'accordo signor Jones, alla prossima-
E fu così che Bowie e il suo piccolo figlioletto uscirono mano nella mano dall'immobile che avrebbero comprato fra non molto. Perché sì, David l'avrebbe comprato. Piaceva al suo Zowie e questo bastava per fargli uscire di tasca i franchi necessari ad acquistare quella casa situata nella fredda e triste Berlino dell'anno 1977.
-Papà, papà, la compreremo, vero?- disse il piccolo Duncan che guardava il padre con gli occhioni da gatto, dal basso verso l'alto.
-A te piace davvero?-
-Sì, mi piace troppissimo! È grande e c'è una stanza tutta per me! E poi è anche vicino a dove tu lavori, quindi è perfetta!-. Zowie era così entusiasta e felice che David non poté resistere:
-D'accordo allora- fece retro-front -Andiamo a comprarla!-.
-Papà, ma dici sul serio?- chiese il bambino con un sorrisone pieno di gioia.
Bowie annuì e il suo figlioletto gli saltò addosso, riempendolo di baci.
Zowie... il suo piccolo era l'unica persona che non lo aveva abbandonato nel corso degli anni.
<> pensò Bowie, non conscio forse di quanta gente fosse realmente ai suoi piedi, pronta a eseguire alla lettera ogni suo ordine. E che volete... la vita da superstar rende pazzi.

DIN DON.
-Sì?- disse la donna, aprendo la porta.
-Ciao- fece un uomo sulla trentina.
Dopo qualche secondo, un'esclamazione:
-Amias!- disse Mya, facendo entrare il suo amico di vecchia data nella sua casa di Londra.
-Oh, Mya, temevo che non mi avresti riconosciuto ma grazie al cielo mi sbagliavo-
-Che sorpresa meravigliosa! Come avrei potuto non riconoscerti?-
-Sai, è passato così tanto tempo dall'ultima volta che ci siamo visti... siamo cresciuti e non poco-
-Già, adesso abbiamo più o meno il doppio dell'età che avevamo l'ultima volta che ci vedemmo! Ma dimmi, come mai da queste parti?- disse Mya, prendendo il cappotto di Amias e appendendolo all'appendiabiti in legno di ciliegio.
-Sono tornato da un sito archeologico in Africa, e appena ho saputo che eri tornata mi sono fatto vivo. A proposito...- Amias le porse un mazzo di freschissime e delicate camelie bianche -... un piccolo pensiero per te. So che non è molto, ma ho avuto davvero pochissimo tempo, pensa un po' che ho saputo due ore fa al bar che eri tornata... quindi ho dovuto fare tutto in fretta e furia-
-Ti ringrazio, sono stupende. Ma non era necessario... ti perdi sempre dietro queste formalità- entrambi sorrisero. Mya indicò con la mano il salotto, alla sinistra dell'entrata: -Vieni, accomodati pure. Posso offrirti qualcosa? Un drink, non so... ricordo che eri un amante del whisky-
-E lo sono ancora. Non preoccuparti, va bene così. E poi voglio rimanere lucido-. Mya sorrise divertita e felice che il suo vecchio amico non fosse cambiato quasi per niente da quando erano ragazzi. Adesso era più alto, aveva un lavoro e sembrava molto meno spaventato dal mondo ma dentro, Mya ne era sicura, era rimasto l' Amias di tanti anni fa.
-D'accordo-. Mya si sedette, accavallò le gambe e si appoggiò allo schienale della poltroncina in pelle color avorio. I due si fissarono per una decina di minuti, muti, senza aprir bocca, come se avessero paura di rompere il silenzio che li avvolgeva.
-Allora, non vorremmo passare tutto il tempo così... avanti, hai così tante cose da raccontarmi, Amias!-. Amias aveva la testa tra le nuvole, si suppone, e quando Mya parlò sembrò come se si fosse appena svegliato da un sogno:
-Eh? Come?-
-Amias, va tutto bene?-
-Sì, certo. Vedo che ti sei sistemata bene: il salotto, la cucina... hai arredato tutto tu?- Mya annuì, Amias continuò, sorridendo -Ah, ci avrei scommesso. E tuo marito? È al lavoro?-
-E tua moglie dov'è?-
-Beh... io non sono sposato, Mya, lo sai-
-E allora perché dovrei esserlo io? Non sono sposata, non credo di essere un tipo da bacetti e marmocchi- disse Mya. Amias le lanciò un'occhiata maliziosa, sorridendo lievemente:
-Oh, beh, certo... se lo dici tu... Ma dimmi- e ritornò serio -il lavoro come va? Sei in ferie?-
-No, sto lavorando qui e lì come pianista. È una delle mie passioni la musica, lo sai. Tu invece... hai deciso di seguire le orme di tuo padre?-
-Già, alla fine mi sono deciso a fare il medico. E, con mio grande stupore, mi piace anche. Ti capitano certe bellezze di pazienti a volte... -
Entrambi risero e la serata passò in un attimo, tra risate, vecchi ricordi, nuovi progetti e un bicchiere di buon vecchio whisky.
Amias e Mya erano sempre stati ottimi amici, forse anche più di quanto lo erano lei e David.
-Sai, sono tornato più volte qui a Londra durante questi anni. A volte zia Mary mi permetteva di venire qui a respirare un po' di aria di casa. Ogni volta che chiedevo di te mi sentivo dire che eri andata via da poco o che saresti venuta fra pochi mesi, quando io sarei già ripartito. Questa è la prima volta che riesco a trovarti qui in tutti questi anni-
-Eh già. Sai com'è, no? Il lavoro...-
-Ehi, a proposito! Ma tu non lavoravi come truccatrice una volta?- chiese Amias, osservando il whisky nel suo bicchiere.
-Sì, fino a maggio dell'anno scorso-
-Ah, ecco, mi ricordavo bene... e poi?-. Mya tagliò corto. Lo disse senza mezzi termini:
-E poi mi sono licenziata-. Amias sgranò gli occhi, incredulo:
-Come? Perché?-
-Ah, non era più vita quella... venivamo trattati come schiavi. Non ce la facevo più-. Amias mise un braccio intorno alle spalle di Mya:
-Mi dispiace. So che ci tenevi a David. Era un tuo amico. Coraggio, amica mia, coraggio...-
-Sì, non preoccuparti... non facciamo di un granello di sabbia una montagna... sto bene. Ho una casa mia, ho un lavoro... non mi manca niente-.
Amias sorrise. Mya non glielo avrebbe mai detto. Non gli avrebbe mai detto che era felice, triste, preoccupata, nervosa, contenta... non avrebbe mai ammesso che in quel momento non se la stava passando propriamente benissimo, ma faceva parte di lei e a lui Mya piaceva così com'era.
-Piuttosto, parliamo di cose serie- proruppe Mya, non prima di aver sbadigliato e aver messo educatamente la mano davanti alla bocca -Dimmi che non hai già pernottato-
-Ho già pernottato-
-Ah, testa di quiz! Ero disposta a farti stare qui-
-Pazienza... sarà per la prossima volta- disse Amias, facendo spallucce.
-E quando sarebbe la prossima volta? Chi ti dice che riuscirai a beccarmi?-
-Oh, beh, ma se insisti tanto posso disdire-
-Insisto, insisto. Dai- Mya gli fece l'occhiolino -se sei fortunato e trovi una ragazza alla reception può darsi che ti rimborsi le notti che hai pernottato!-. Amias sorrise, quasi offeso. Ma che idea aveva Mya di lui?
-D'accordo. Allora vado in albergo e torno- disse l'uomo, cercando le chiavi della sua macchina nelle tasche dei pantaloni.
-Aspetta, Amias, puoi sempre telefonare!-
-No, ho le valigie in albergo-. Mya si mise una mano a coprire gli occhi:
-Oh mio Dio... allora mettiamo la tua macchina in garage e prendiamo la mia, così guido io-
-Ih... e perché?-
-Perché hai bevuto tre bicchieri di whisky, ecco perché...-
-Ma non sono ubriaco- esclamò Amias, mentre Mya gli metteva il cappotto.
-Beh, insomma... diciamo che sei allegro... ma se ti beccano poi passi la notte al fresco...-
-Uh... no, no... va bene, guida tu...-
-Bene- Mya sorrise. Si assicurò di aver preso la borsa e poi prese Amias per mano -Andiamo, vieni-
-Sì- rispose l'uomo, mettendosi gli occhiali da sole. Era notte, ma gli occhiali da sole lo rendevano più affascinante... almeno secondo la sua personale opinione di medico.
Mya e Amias uscirono dalla porta di casa, misero l'Audi rossa del medico nel garage. Poi entrarono nella macchina di Mya e partirono.

 

ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti miei cari lettori. Vi prego di non uccidermi. Sono passati due mesi dall'ultima volta. Avrei dovuto pubblicare a fine agosto ma abbiamo avuto problemi di linea internet e pertanto ho deciso di pubblicarlo oggi. Chiedo scusa per questa lunga assenza (e pensare che mi avevano detto di pubblicare più spesso... sono mortificata) e spero che con questo mini-chapter possa farmi perdonare almeno un po'. Buona lettura e (se non succede qualche altra cosa) al mese prossimo!

MadnessInk

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Capitolo 10
*** Capitolo 4 - Parte 2 ***


DRIIIN! DRIIIN!
-Pronto?-
-Ehi, testa di cazzo! Come va?-
-Va alla grande, razza di stronzo! Come stai, Mick?- disse Bowie mentre si limava le unghie con la sua bellissima limetta rosa shocking. Era rosa, è vero, ma faceva bene il suo lavoro.
-Mah, guarda, me la passo piuttosto bene... tra una donna e l'altra finiranno per definirmi un don Giovanni!-. I due amici risero, dopo qualche anno che non si sentivano fu bello ridere insieme come ai tempi degli Spiders From Mars. Molte cose erano cambiate da quel periodo ma la loro amicizia era rimasta immutata.
-Dì un po', Bowie- fece Mick , dopo circa un quarto d'ora dall'inizio della telefonata -posso venire a farti una visita per romperti l'anima o mi lasci fuori dalla porta quando arrivo a Berlino?-
-Però, questa sì che è un'idea! Tu vieni, poi vediamo... se mi porti un buon vino ti faccio entrare-
-Ci vediamo in giro allora, quando meno te lo aspetti, Davey!-
-Sì, certo... seriamente, quand'è che arrivi?-
-Sarò davanti a casa tua alle diciotto e ventisette, tra due giorni-
-A tra due giorni, allora, Mick-
-A tra due giorni, testa di cazzo-.
David chiuse la telefonata e si andò a lavare le mani. Si guardò allo specchio: com'era cambiato, perdinci! Il colore dei suoi capelli era tornato naturale, adesso aveva un'aria un po' più “mascolina” rispetto a quella di quando era in tour con Mick. Il suo vecchio amico! Il suo vecchio Mick! Tra due giorni lo avrebbe rivisto e sicuramente sarebbero morti dalle risate insieme.


Una mano sfiorò le spalle di Mya, e una voce parlava in lontananza. La mano continuava a sfiorarle la spalla con insistenza mentre la voce si faceva sempre più vicina e udibile. Mya si tirò le coperte e vi si avvolse dentro. Un paio di labbra le si poggiarono sull'orecchio sinistro e Mya sentì un dolce sussurro provenire da queste: - Mya... piccola Mya... svegliati... è ora di alzarsi-. La mano aveva iniziato ad accarezzarle i capelli e Mya, pian piano, schiuse gli occhi.
-Buongiorno, dormigliona!- urlò Amias non appena riuscì a vedere le iridi azzurre di Mya.
-Amias... ciao- disse la donna, tirandosi su e sedendosi sul letto, con la schiena contro la testiera in noce del letto -Ma che ore sono?- fece, sbadigliando.
-Sono le otto e tredici, precisamente-. Amias posò un vassoio sulle gambe di Mya che lo guardò come se avesse visto il cinghiale della pubblicità del digestivo.
-E questo cos'è?-
-Beh, è un vassoio con la tua colazione. Non riesci ancora a vedere? Oh, aspetta, apro le tende allora- e così dicendo spalancò le tende blu azteco della camera di Mya. La stanza si illuminò di luce, nonostante quella del sole fosse piuttosto fioca. Il cielo era coperto e la giornata sembrava rigida solo a guardarla. Mya guardò il vassoio e riuscì a mettere a fuoco: un cappuccino con panna, un croissant alla crema e dei frutti di bosco appena raccolti.
-Amias... beh... grazie. Ti sei preso un bel fastidio. Ma tu hai già fatto colazione?-
-Sì, una tazzina di caffè, un plumcake e una mela-
-Ma a che ora ti sei alzato?- fece Mya, iniziando a bere il cappuccino.
-Alle cinque e ventisette-
-Cavoli! E, se posso chiedere, come mai così mattiniero?-
-Sono andato a correre... dove andavo con mio padre. Mi chiedo se...-. Gli occhi di Amias si intristirono nel ricordo del suo defunto padre. Mya si alzò dal letto e si avvicinò ad Amias, affacciato alla finestra. Gli mise una mano sulla spalla, rassicurandolo:
-Tuo padre è orgoglioso di te. Lo è sempre stato. Sei sempre stato l'orgoglio di tuo padre. E hai il suo stesso talento-
-Io... non lo so. Penso sempre che stia per fare la cosa sbagliata, in ogni cosa che faccio. Ho paura di sbagliare e non poter rimediare a i miei errori, ho paura che possano essere... irreparabili-
-Non eri così insicuro quando eravamo ragazzi. Forse è che inizi a invecchiare e ad ammattire...-
-Sì, certo... sai come si dice, no? Più il vino invecchia e più diventa buono...-
-No, non è vero... diventa aceto-
-Certo che tu ne sai una più del diavolo, eh? Ma mangia ora, così più tardi magari usciamo-. Mya sorrise e annuì. Tornò sul letto e finì la sua colazione, la sua golosa colazione. 


ANGOLO AUTRICE

Sorpresa! Non ve lo aspettavate, eh? Ebbene, per farmi perdonare ho deciso di mettermi a scrivere e pubblicare oggi un capitoletto, sperando che vi piaccia o che possa almeno farvi diminuire la fame fino alla prossima pubblicazione.
Bacioni, MadnessInk

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Capitolo 11
*** Capitolo 4 - Parte 3 ***


Mick Ronson era davanti a casa di David dalle diciotto e ventisette precise, avvolto nel freddo congestionante del febbraio berlinese. Erano ormai le diciotto e cinquantanove quando la porta grande e scura dello stabile si aprì. Uno spiraglio di luce arancione soffusa illuminò gli occhi di Mick, che li chiuse imprecando.
-Adesso stai arrivando e già mi prendi a parolacce, Ronno?- sghignazzò Bowie, facendo entrare il ghiacciolo che Mick era diventato.
-Spiritoso, Davey...- disse con voce calma Mick. Quando Bowie gli si avvicinò per prendere il cappotto di lana grigio che indossava, Mick lo prese per il maglione color melanzana:
-Grandissimo stronzo, che volevi fare? Farmi congelare là fuori? Ti pare normale lasciare una persona a -12 gradi per ventidue fottuti minuti? No, ma come diamine lo vedi il mondo?-
-Andiamo, per un po' di venticello tutte queste lamentele... piuttosto, hai portato il vino?-
-Sì, sì, testa di carciofo... voilà- disse, tirando fuori da una busta di carta una bottiglia scura -Direttamente dal mio ultimo salto in Italia... Barolo! Annata... annata mille... mille... cavolo, non ricordo! Mill...-. Bowie strappò la bottiglia dalle mani dell'amico:
-Chi se ne frega dell'annata!- prese due calici, stappò la bottiglia -Andiamo, alla salute!- disse, porgendo uno dei due calici a Mick, che guardò David di traverso:
-Non è che per caso sei già ubriaco?-
-No, ma se non bevi lo sarò presto, dato che mi scolerò l'intera bottiglia da solo-
-Non sia mai... l'ho pagato una fortuna, voglio almeno sapere che sapore ha- Mick prese il calice in mano, alzò il bicchiere.
-Alla salute!- strillarono entrambi, finendo in meno di pochi attimi il primo bicchiere.

-E dimmi, Davey- fece Mick, rigirandosi la bottiglia vuota del vino tra le mani -Come va con Angie?-
-Ah... Angie... cavoli. Quella mi sta facendo impazzire... il bambino fa due settimane con me e due con lei. Sto cercando di farla finita in fretta, è massacrante-
-Mio Dio, ci credo... e poi quella donna è così pesante...-
-Tu come fai a lamentarti... cioè, non è tua moglie, quindi sei fortunato-
-Infatti, io sono andato decisamente bene...- disse ridendo Mick. -Ehi!- esclamò, indicando dei numeri che erano sulla bottiglia -Eccola l'annata!- gridò ancora più forte, alzando la bottiglia come se fosse un trofeo e gioendo della sua scoperta come chi ha vinto la Coppa dei Campioni.
-Certo che siamo due idioti. A non sapere che l'annata è sulla bottiglia...- disse Bowie, strappando la bottiglia dalle mani di Mick e posandola sul tavolino difronte ai divani.
-Due idioti... Mya ce lo dice sempre... a proposito, come sta? È da molto che non la vedo-
Silenzio.
Le lancette dell'orologio segnavano le venti e ventitré, rintoccando e rimbombando tra le pareti del salotto di David. Segnavano un'ora indeterminata, rintoccando e rimbombando tra le pareti del cuore di David. Cosa poteva importargli dell'ora adesso che gli era stato ricordato di tutto il tempo che aveva perso dal 18 maggio dell'anno prima? Minuto più, minuto meno, non avrebbe potuto fare più nulla per rimediare al guaio che aveva combinato.
Le lancette dell'orologio scandivano il tempo con cui le lacrime di David scendevano giù dagli occhi come fossero piombo fuso: bollenti e pesanti.
-Perché sei venuto, Mick? Per ricordarmi di quanto faccia schifo? Per rinfacciarmi i miei ripetuti errori? Per mettermi davanti a uno specchio e farmi vedere che non sono... non sono neanche metà dell'uomo che ero quando ho incontrato Mya. E lo dimostra il fatto che ho preferito la cocaina a lei. Ho messo me stesso prima di tutto. Sono stato più egocentrico ed egoista di quanto non lo fossi mai stato-.
-Che cazzo è... che cazzo è successo?-
-Cosa credi che sia successo?!- gridò lui, rosso in viso. -Si è licenziata perché sono stato un coglione!-. Le mani tremanti nei capelli, gli occhi serrati, per proteggersi da un ricordo troppo, troppo doloroso. Il ritratto di un uomo distrutto.
-Da quanto non la vedi? Una settimana, due, tre?-
-Sono NOVE FOTTUTISSIMI MESI!-.
Mick aveva gli occhi spalancati, increduli.
-Non ci hai parlato?- disse Mick. Bowie scosse la testa.
-Avrei voluto... ma non ne ho avuto l'occasione quel giorno e poi... ho gettato la spugna. Non ho idea di dove possa essere. E non credo che dopo tutto il casino che ho combinato abbia voglia di vedermi-
-David... posso fare qualcosa?- disse Mick, mettendo una mano sulla spalla dell'amico.
-Sì, lasciami solo- fece il Duca, togliendo con un movimento nervoso il braccio di Mick dalla propria spalla.
Mick sospirò: -Non credo che stare da solo serv...-
-Lasciami solo!- urlò David.
-Come vuoi- Mick si alzò dal divano, prese il suo cappotto di lana grigio e se lo mise, lentamente. -Ci si vede presto- disse. Così Mick Ronson uscì dalla porta di casa Bowie con un'idea non troppo malvagia per la testa.


ANGOLO AUTRICE
Ehilà! Dopo non so quanto tempo ecco un altro mini-chapter. Non ho particolari commenti, ho citato Yesterday dei Beatles “I'm not half the man I used to be”, tradotto più o meno letteralmente. Spero che vi piaccia. Recensite, vorrei sapere che ne pensate!

MadnessInk

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Capitolo 12
*** Capitolo 4 - Parte 4 ***


Perché sei venuto, Mick? Per ricordarmi di quanto faccia schifo? Per rinfacciarmi i miei ripetuti errori? Per mettermi davanti a uno specchio e farmi vedere che non sono... non sono neanche metà dell'uomo che ero quando ho incontrato Mya. E lo dimostra il fatto che ho preferito la cocaina a lei. Ho messo me stesso prima di tutto. Sono stato più egocentrico ed egoista di quanto non lo fossi mai stato”
“Non sono neanche metà dell'uomo che ero quando ho incontrato Mya...” pensò David mentre camminava lungo il corridoio, con le mani sudate e i sensi che lo avrebbero a breve abbandonato, lasciando spazio al nero totale. Il suo respiro si appesantiva sempre di più e la sua testa pareva volteggiare senza sosta, come una busta di plastica in preda a una forte folata di vento. Barcollava visibilmente mentre agitava freneticamente le mani tremule in cerca dell'interruttore della luce. Poi, finalmente, lo trovò. E luce fu: fece pochi passi, pesanti e trascinati, oltrepassò la soglia della sua camera da letto aperta e, senza troppe cerimonie, si lasciò andare sul suo morbido letto. Questo lo assorbì quasi completamente così come il sonno che lo costrinse a serrare gli occhi i quali, se fosse entrato qualcuno in quel momento, avrebbero certo tradito David. Dal salotto le note della radio accesa in diffusione...

“Why she had to go? I don't know, she wouldn't say... I said something wrong, now I long for yesterday”

-Ma che cazzo! Proprio oggi il fottuto traffico?- imprecava Mick, accanendosi contro il volante come se fosse lui il responsabile per l'infinita fila di veicoli che, come il suo, si dirigevano verso l'entrata di Londra. Era lì da oltre un ora e un quarto e ancora non poteva imboccare la strada principale.
Era ormai sera quando a casa di Mya squillò il telefono. Quattro squilli e Mya si allontanò dai fornelli della sua cucina per rispondere.
-Pronto?-
-Ciao Mya, sono Mick-
-Mick!- esclamò Mya -Quanto tempo è passato! Come stai?-
-Bene, bene...- Mick decise di tagliar corto, tempo per le chiacchiere ce ne sarebbe stato abbastanza all'indomani -Ci vediamo per un caffè domani?-
-Un caffè? E dove?-
-Al Milkshake. Ti va? Sono a Londra-
-Dio, ma è fantastico!-
-Allora per un caffè domani?-
-Ok, ti spiace se porto un amico?-
-No no, fai pure. Al Milkshake alle 09:00. Ok?-
-Sì, certo-
-Ci conto. Io vado, sono atteso in camera da letto-
-Oh, Mick!-
-Che vuoi, sono un vip io... eh! Ci vediamo domani-
-A domani Mick-
Quando Mya chiuse la chiamata, Amias sbucò da dietro il muro -Beh? Chi era?-
-Mick- disse lei, con una gioia estrema. Amias si accomodò sul divano, sorridendo maliziosamente. Mya se ne accorse -Che hai da sorridere in quel modo?- gli domandò scherzosamente irritata.
-Ti mette entusiasmo, questo Mick... c'è qualcosa che dovrei sapere?-
-A parte che sei un idiota... no, non credo. Ah, sì: domani mattina alle nove ti aspetto al Milkshake, io ci andrò un po' prima-
-Al Milkshake?-
-Sì. Te lo ricordi il Milkshake, vero?-
-Certo. Che ci vai a fare?-
-Che ci andiamo a fare, vorrai dire. Beh, ti presenterò Mick e prenderemo tutti e tre insieme un caffé-
-Va bene, come vuoi tu, mia piccola Mya ma... cos'è questo strano odore?-
-La cena!- urlò Mya e così dicendo si precipitò in cucina. Salvata e servita la cena, fatto il da farsi, Mya diede la buonanotte ad Amias e si ritirò in camera sua. Mick... da quanto tempo non lo vedeva e per quanto tempo aveva pensato a lui e a tutte le serate dopo i concerti passate a morire dal ridere. E dopo tanto tempo avrebbe potuto rivederlo. Mick...

-Mick, non essere sciocco- lo interruppe Mya, girando lentamente il cucchiaino nel suo cappuccino con cioccolato, con gli occhi di ghiaccio rivolti verso il basso, illuminati dalla calda luce giallognola del bar in cui si trovavano. -Non posso ritornare da David dopo non so neanche quanto tempo e dirgli “Ehi, Dave, mi piacerebbe moltissimo tornare a lavorare con te”. Né io né lui lo sopporteremmo, sarebbe così... strano stargli vicino di nuovo, non mi sentirei a mio agio. Ho sofferto molto in questo periodo e non so se sono pronta per un altro cambiamento-
Mick sospirò, giocherellando con una forchetta. Si guardò attorno per un po', fino a quando non si accorse di una solitaria e silenziosa lacrima che rigava la guancia sinistra di Mya.
-Scusami, Mya- le sussurrò prendendole delicatamente la mano destra e accarezzandola.
-No, Mick, non preoccuparti. È quasi normale per me, ci ho fatto l'abitudine ormai-
Mentre Mya s'asciugava la triste lacrima, Amias fece la sua entrata nel bar, diede una rapida occhiata ai tavoli e vide i nostri due amici. Si avvicinò e si sedette.
-Ciao ragazzi- esclamò mentre si toglieva la giacca di velluto marrone. Mick rispose con un sorriso e un cenno della mano, mentre Mya sorrise -Ciao Amias. Ci hai messo un po' ad arrivare, come mai? Hai avuto difficoltà a ricordarti dov'era il bar?-
-No, affatto. Ricordavo perfettamente, solo che ho avuto un contrattempo per strada. Oggi c'è un traffico!-
-Oh, non dirlo a me che sono arrivato ieri sera e c'era il doppio del traffico- borbottò Mike, pensando alle ore che aveva passato in autostrada.
Dopo aver presentato Mick ad Amias e viceversa, Mya tornò al suo cappuccino.
-Allora, di che si parla da queste parti? Non è che ho interrotto qualcosa?-
-Oh, no, Amias, tranquillo. Stavamo aspettando te- rispose Mya tra un sorso e l'altro di quel suo cappuccino che aveva ordinato. Mick non sembrò troppo felice della risposta della sua amica, perciò prese a parlarle, quasi ignorando il povero Amias, all'oscuro di ciò che Mick e Mya si erano detti fino a qualche minuto prima:
-Avanti, Mya. Dagli un'altra chance. Vieni a Berlino con me e parla con David-
-Mick, ne abbiamo appena parlato, preferirei che le cose rimanessero così come sono-
-Mya, ti stai comportando come una bambina...- continuò Mick, non curante ancora una volta di Amias che assisteva in silenzio, con le sopracciglia corrugate e lo sguardo sottile, alla conversazione tra i due -Non devi pensare che tutto sia immutabile e niente possa ritornare com'era prima- soggiunse, con la comprensione negli occhi, nel cuore e nelle mani che tenevano strette quelle di Mya, che in quel momento aveva sulle labbra un sorriso dipinto di una leggera e quasi impercettibile amara ironia.
-Suvvia Mick, lascia stare, non c'era più niente da fare. Il rapporto tra me e David si era lentamente sgretolato già durante gli anni precedenti a quando ho deciso di prendere la mia strada. La mia non è stata altro che la mossa tanto aspettata che doveva esser fatta prima o poi da uno o dall'altro. Credo che neanche con il più bel discorso, pieno delle promesse più meravigliose, nessuno di noi potrà riparare i nostri errori-
-Non dire stronzate! Potete entrambi riparare i vostri errori- fece Mick, piuttosto pacato -ma nessuno di voi due ci sta provando: lui continua a farsi di cocaina e di schifezze varie nella stessa casa in cui gioca Duncan ignaro di tutto, crede lui. E tu? Speravo in una certa maturità almeno da parte tua-. Mick interrogava Mya con lo sguardo, attendendo ansioso una risposta possibilmente positiva. Ma Mya aveva sempre quello strano sorriso ironico, mentre le sue lunghe e folte ciglia nere nascondevano le iridi vuote, che non seguivano il movimento del cucchiaino che lei continuava a fissare e della schiuma bianca da esso trasportata, schiuma che pian piano andava macchiandosi di un marrone chiaro, sciogliendosi lentamente, quasi drammaticamente per la dinamica con cui lo faceva, nel cioccolato caldo, fumante, liquido. Il suo sguardo di limitava a fissare una crepa nella tazza, mentre lei ascoltava attentamente il suono metallico del suddetto cucchiaino che continuava ininterrottamente a far girare.
-Non posso essere sempre io la persona matura. Vorrei essere anch'io una bambina ogni tanto... ogni tanto spetterebbe anche a me. Ogni tanto...-.
Mick sospirò di nuovo. Capì che non c'era niente da fare con lei, e che, probabilmente, anche se avesse parlato per ore a Mya, con lo scopo di convincerla, consolarla, rassicurarla o anche solo chiarirle un po' le idee, non avrebbe cavato un ragno dal buco.
-D'accordo. Ho capito-. Mick si alzò dalla sedia, Amias seguì il movimento con lo sguardo. -Io comunque parto dopodomani per Berlino- aggiunse il primo, indossando la giacca in pelle nera che aveva appeso all'attaccapanni distante dal tavolo solo tre passi.
-Spero che durante il volo non ci saranno turbolenze- disse Mya, dando un ultimo sguardo al cappuccino: la schiuma si era definitivamente sciolta e la bevanda non fumava più. Si alzò dalla sedia e si avvicinò a Mick -Scusami Mick, ma ho preso la mia decisione. Mi spiace se non ti ho dato la soddisfazione che volevi, so che avresti voluto vedermi accettare entusiasta la tua proposta di andare da David a Berlino per mettere a posto le cose. Il mio carattere, le mie esperienze e quello che io sono, più in generale, mi impone questa scelta-. Mya si alzò sulle punte dei piedi per arrivare all'altezza di Mick e dargli un dolce e delicato bacio sulla guancia sinistra, non dopo aver portato le braccia dietro al collo di lui, quasi come se lei avesse paura di cadere. Mick invece, teneva delicatamente Mya per la vita, per non farle perdere l'equilibrio e per godersi meglio l'amore di quel bacio quasi inaspettato e piuttosto spontaneo. -Fa' buon viaggio, Mick. Te lo dico adesso nel caso non dovessimo vederci più fino a dopodomani-.
Mick le arruffò i capelli, sorridendo già un po' nostalgicamente, al pensiero che non avrebbe rivisto la sua amica per chissà quanto altro tempo -Dai, ti vengo a salutare dopodomani mattina, prima di andare- fece Mick.
Entrambi sorrisero e si salutarono. Dopo che Mick uscì dal bar si passò una mano sul viso, come per lavare via tutta quell'inquietudine improvvisa e quasi insensata. Del resto non era mica la sua fidanzata lei. Non era con lui che doveva chiarire. Ma allora perché si preoccupava tanto? Cercava di farsene una ragione Amias, che più o meno aveva capito la situazione basandosi su quello che Mya gli aveva raccontato in quei giorni e su quello che Mick aveva appena detto. Amias guardava Mya, che nel frattempo era tornata a sedersi accanto a lui e che aveva un'espressione serena sul viso, mentre beveva il suo cappuccino ormai tiepido. Ad un tratto si alzò e prese Mya per la mano -Vieni, voglio fare due passi-
-E il cappuccino?-
E il cappuccino rimase sul tavolo assieme al conto mentre Amias e Mya uscirono dal bar, diretti dove solo lui sapeva.



ANGOLO AUTRICE
Salve a tutti! E dopo quattro mesi esatti arriva la quarta parte del quarto capitolo di questa FF! Mi scuso con tutti i miei lettori (quei due o tre poveri pazzi rimasti) che continuano a seguirmi e che hanno aspettato con immane pazienza questo piccolo mini-chapter. Non ho niente in particolare da dire se non grazie ancora a tutti voi e alla vostra fedeltà. Vi chiedo ancora di recensire in tanti di modo che possa leggere tutte le vostre opinioni positive o negative che siano (sappiate che io non mangio nessuno, se criticate non succede niente, purché lo facciate in modo costruttivo) e cercare di migliorare per me e per voi il mio modo di scrivere.
Un bacio e alla (speriamo vicina nel tempo) prossima pubblicazione, 

MadnessInk

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Capitolo 13
*** Capitolo 4 - Parte 5 ***


Amias camminava a passo sostenuto, tenendo Mya per il polso trascinandosela dietro senza guardarla. Lei si limitava a seguirlo, ponendogli ogni tanto qualche domanda, che spesso non trovava risposta o non dava soddisfazione alla sua curiosità e perplessità, derivate dal gesto improvviso e irruento di Amias.
-Potrei sapere dove siamo diretti? E perché con così tanta fretta?- domandò Mya all'uomo mentre passavano per un viale alberato.
-Adesso che ci arriviamo vedi- rispose distrattamente Amias, continuando a camminare.
In aria il vento trasportava l'umidità e l'odore di pioggia di un temporale che a breve sarebbe scoppiato, gli alberi già si inquietavano, ondeggiando e oscillando nervosamente come ghiacciati dal freddo pungente.
Dopo qualche minuto i due arrivarono di fronte a una struttura in legno, consumata dal tempo e dalle intemperie, circondata e ornata da rampicanti secche e da fiori bianchi.
Un tempo era una casa.
Mya e Amias stavano in silenzio impietriti davanti a quel relitto testimone di tristi vicende. A rompere il silenzio solo il sinistro cigolio degli infissi graffiati e instabili. Il gracchio dei corvi passeggeri e il cielo scuro rendevano il luogo opprimente e angoscioso.
-Papà-.
Amias guardava la casa con occhi commossi: l'immagine si faceva sempre più sfocata, annebbiata dalle lacrime che stentavano a scendere ma che, tuttavia, riempivano gli occhi del giovane. Dopo qualche attimo l'immagine tornò chiara e le guance di Amias si inumidirono. Mya gli posò una mano sulla spalla.
-Ce l'hai ancora?- disse Amias, facendo segno col capo alla mano di Mya.
-Sì- rispose lei, sfilandosi dall'anulare della mano destra un sottile anello d'argento. -Te l'avevo promesso, l'avrei tenuto sempre con me. E così ho fatto. Eccetto per una notte, quando mi cadde in un bar di Parigi. Quella sera del 18 maggio. In verità non ho mai capito perché hai voluto donarmelo-
-All'epoca avevo una bella cotta per te, sai? Però non ho mai avuto il coraggio di dirtelo, temevo che mi avresti rifiutato categoricamente. Allora ho preferito tenermi tutto dentro-
-L'avrei fatto-
-Ecco, meglio così allora-
-Già-.
-Allora, cos'hai deciso di fare?-
-Riguardo a cosa?-
-A David-.
Mya sospirò -Cosa pensi che abbia deciso di fare? Non andrò, è ovvio-
-Ma dai... sei seria?-
-Certo-
-Tu? Tu ti sei data per vinta? Tu?! Proprio tu, Mya Sion, che hai sempre dato filo da torcere a tutti con la tua incredibile caparbietà. Proprio tu che hai sempre fatto fronte a tutto e a tutti, che mai ti sei rifiutata di aiutare qualcuno, adesso ti rifiuti di aiutare te stessa e David, il tuo migliore amico e probabilmente l'uomo che ami e di cui sei innamorata! Che ti succede? Cos'è adesso David per te?-
-Non lo so, Amias. Non lo so- fece Mya a voce bassa, con lo sguardo rivolto alle nuvole con le braccia a stringersi lo stomaco, con la mente confusa e piena di pensieri.
-Allora, visto che non lo sai, vai- rispose Amias. Mya lo guardò stranita. Amias si schiarì la voce e continuò il discorso: - Se non sai cos'è David per te ora, allora credo che dovresti scoprirlo. E per scoprirlo non c'è altra soluzione: devi andare da lui, a Berlino. Devi parlargli e devi chiarirti, devi chiarirgli le idee. Dovete chiarirvi, o questa situazione di abbandono mista ad autodistruzione finirà per uccidervi. Dentro e fuori-
-Credi davvero di sapere cos'è meglio per me?-
-Sì, dannazione, sì! Questo non ti fa bene! Stai soffrendo! Quando cazzo ti renderai conto di quanto quello che stai facendo, che state facendo, non fa altro che peggiorare il rapporto con te stessa prima di quello con David e con gli altri! Ama te stessa prima, per poi amare gli altri!-
Ancora una volta, nessuno parlava. Amias era rosso dalla rabbia e stava riprendendo fiato dopo la sfuriata, giusta e legittima, che aveva appena avuto luogo.

Mya non sapeva più a che pensare. Si trovava ancora una volta immersa nei pensieri e nell'incertezza, nella paura di fare una scelta sbagliata.
-Mya- proruppe Amias -io non dimenticherò mai quello che hai fatto per me quando mio padre... si suicidò. Molte persone hanno cercato di aiutarmi, ma nessuno si è mai preoccupato eccessivamente per me. Ma la tua famiglia e tu in particolare... voi mi avete aiutato in tutti i modi a superare quel momento orribile della mia vita. Mi sei stata sempre accanto e ogni giorno che passa penso di non averti ringraziato mai abbastanza per avermi guarito da tutte le mie malattie, mentali o fisiche che fossero. Ed è per questo che voglio aiutarti. Sarò sempre in debito con te-
-Ma smettila di dire sciocchezze!- disse Mya, dando una pacca sul braccio ad Amias - Non sei in debito con me per nessun motivo! Anche tu mi hai aiutato nei miei alti e bassi, lo stai dimostrando adesso. Quindi non provare mai più a ripetere quello che hai appena detto, è chiaro?-. Mya aveva gli occhi severi e addolorati, feriti. Cosa stesse passando per la sua testa forse neanche lei lo sapeva. E anche se lo avesse saputo, tutte le idee furono poi spazzate via.
-Sì, padrona!- disse Amias, congiungendo le mani e chinando il capo -Ogni tuo desiderio è un ordine per me, padrona!- continuò con voce robotica. Mya si aprì in un sorriso, rilassando i muscoli del viso e del corpo, contratti e intorpiditi, facendo posto a un'aria più distesa.
-No, forse tu non hai capito... questo È UN ORDINE!-
-Sì, padrona!-
-Ehi, biondo... poco lo spiritoso, ok?- Amias annuì sorridendo.
-Andiamo a casa, ok? E non pensiamoci più. Tanto sappiamo entrambi molto bene come andrà a finire-.
E così dicendo si incamminarono sulla via del ritorno tirati su dal sole che stava sbucando da dietro le nuvole, ma solo per il breve tragitto: quando furono a casa si scatenò uno dei temporali più belli a cui avessero mai assistito.


 

ANGOLO AUTRICE:

Salve a tutti. Allora, oggi posto questo minimini-chapter che era rimasto in un angolino del pc da almeno due mesi, aspettando pazientemente di essere messo a posto e pubblicato. Se la fortuna mi assisterà nei prossimi giorni dovreste poter leggere il seguito. Vi amo, per questo non mi uccidete. Si accettano pareri e critiche costruttive. Alla prossima!

MadnessInk

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Capitolo 14
*** Capitolo 4 - Parte 6 ***


-Allora, sei proprio sicura di non voler venire?-
-Sì, Mick. Sono sicura-
-D'accordo-. Mick sospirò, poi diede un bacio sulla fronte di Mya -Stammi bene- disse. Mya annuì, dicendo nulla. Sul suo volto un'espressione serena e rassicurante. Mick prese la sua valigia e salì sul taxi, salutando Mya con la mano dal finestrino scuro della vettura.
Adesso anche Mick se n'era andato. Il giorno prima era toccato ad Amias, ora a lui. Di nuovo immersa nella routine quotidiana, grigia, monotona, noiosa e seccante. Ma anche rassicurante, un punto fermo, una garanzia, un'ancora. Ora quasi non temeva più di abituarsi ad apprezzarla. Dunque rientrò in casa e, facendo scivolare le mani sulla porta, se la chiuse alle spalle.
“E quale cazzo è il mio posto?” pensava Mick mentre girava la testa a destra e a sinistra, incurante delle persone che lo guardavano di traverso. Appena una hostess gli indicò il suo posto, Mick si fiondò sul suo sedile e distese i nervi. Il viaggio non durò molto o almeno non sembrò durare molto dal momento che tutto ciò che Mick fece fu dormire, nonostante dubbi e speranze gli chiedessero di restare a preoccuparsi di loro.

La strada era trafficata. Le luci dei fari delle auto tutte in fila erano abbaglianti e mettevano a dura prova la vista di Mick che, grazie al cielo, non stava guidando la vettura nera nella quale viaggiava. Aveva prevenuto una buona percentuale di rischi, si stava rilassando e aveva dato un lavoro a un uomo. Tre buone azioni con un gesto solo. Si coprì gli occhi con la mano sinistra mentre con la destra reggeva la cornetta del telefono con il quale cercava da più di mezz'ora di chiamare David. Dannato. Menomale che c'era traffico.
-Pronto?- fece in tono piuttosto assonnato la voce al telefono.
-Davie, sono Mick. Prepara qualcosa perché sto arrivando-
-Ehi, che? Quante ore ti ci vogliono?-
-Sono a casa tua tra sette minuti. Sbrigati-
-Grazie del preavviso, cazzo!-
-E tu grazie per aver risposto alle mie precedenti ottocentosettantadue chiamate!- ribatté Mick, poi aggiunse -Stai perdendo tempo, ciao- e riagganciò prima che David potesse dire altro.
-Porca troia di un Mick di merda...- bofonchiò David, sbattendo la cornetta laddove era il suo destino stare e andando a infilarsi qualcosa di decente.
-Bene, anche la nebbia... ora sì che non arriviamo più da nessuna parte...- lamentò Mick, giocherellando con il bordo della sua giacca. Poi alla radio...
“Each morning I get up I die a little, can barely stand on my feet...”. I Queen. Oh, se ci fosse stato David... ma, dal momento che non c'era, non c'era motivo di preoccuparsi. Occhio non vede, cuore non sente, dicevano. Beh, più o meno. Mick chiese all'autista di alzare il volume e, dopo qualche parola che uscì esitante dalle loro bocche, iniziarono a cantare la canzone a squarciagola.

DIN DON.

Dopo strani tonfi e scricchiolii, la porta di casa di David si aprì e mostrò il Duca (o quello che ne era rimasto) con addosso un maglioncino color panna e dei pantaloni marrone scuro.
-Entra e muoviti ché fa freddo- disse, stretto nelle proprie spalle magre. Mick entrò. David chiuse la porta e iniziò a fissare Mick, che si era tolto la giacca di pelle e guardava la nuova disposizione dei mobili della casa. Mick si accorse che David lo stava guardando male.
-Che c'è?-
-Ciao. Scusami se sono venuto senza cazzo di preavviso. Grazie di avermi accolto in casa. Sei molto sexy con quel maglione panna. Non dici niente di tutto questo?-
-Sei molto sexy con quel maglione panna-
-Vaffanculo- disse David, abbracciando Mick e respingendolo quasi immediatamente -Sei freddo. Cinque minuti in castigo- gli intimò David, indicandogli l'angolo nel quale c'era il camino con il fuoco acceso.
-Cioè? Vuoi bruciarmi vivo alla Giovanna D'Arco?-
David annuì convintissimo, mentre portava sul tavolo difronte al caminetto una teiera. La tazzina era già lì, come i biscotti. E tutti sappiamo perché la tazzina e non le tazzine.
Dopo aver strappato la giacca dalle braccia di Mick e averla appesa all'appendiabiti, David venne inghiottito dalla morbida poltrona.
-Allora, come mai vieni a trovare uno stronzo che l'ultima volta ti ha cacciato di casa?- disse David guardando la tazzina di Mick e sperando che nessuno spiacevole incidente accadesse.
-Un po' di malsana compagnia non fa mai male, no?-
-Mh-. David sospirò, aveva gli occhi bassi -Scusami per la scenata dell'ultima volta-.
Mick lo guardò sorridendo -Oh, sono sicuro che potrò perdonarti-. Poi strabuzzò gli occhi.
-Che hai?- domandò David inarcando un sopracciglio.
-Cazzo. Posso fare una telefonata? È di vitale importanza-.
David mostrò il telefono a Mick e si allontanò, lasciandogli il tempo necessario da solo. Normalmente avrebbe adorato farsi gli affari di Mick per poi ricattarlo di poterli sputtanare a gente a caso, ma non gli andava di origliare. Origliare era faticoso.
-Sono uno smemorato tremendo- frignava Mick grattandosi la testa mentre raggiungeva David.
Il campanello suonò. Mick guardò la porta con le sopracciglia aggrottate. David lo interrogò con lo sguardo.
-Scusa un attimo-. Non aspettava nessuno. Andò ad aprire, chiedendosi chi potesse suonare alla sua porta di sera. A parte Mick, s'intenda.

-Salve-. Davanti a David una ragazza con una lettera e una penna in mano. -C'è una raccomandata per il signor Jones-.
-Ah- fece David prendendo in mano la penna che la ragazza, capelli ricci color mogano di media lunghezza e occhi marroni, gli stava gentilmente porgendo. Firmò e la congedò. La guardò andare via e rientrò in casa.
-Ehi-.
Il sangue nelle vene gli si raggelò. Non era stato Mick a parlare, anche perché la voce veniva da fuori, attraverso lo spazio che la porta non aveva ancora colmato. David si voltò molto lentamente, timoroso come un bimbo terrorizzato dall'aprire l'armadio credendo di trovarci l'Uomo Nero.
-Ciao David-. Le sopracciglia contratte, gli occhi sbarrati, le labbra serrate, la mascella rigida. David era immobile di fronte a Mya, abbracciata dal suo trench nero e accarezzata da alcuni fiocchi di neve che stavano iniziando a scendere lentamente proprio in quel momento.
-Vattene- riuscì a dire David.
-Me ne andrei volentieri, ma devo mettere in chiaro un paio di cose-. Mya si strinse nelle spalle, fissando David quasi senza batter ciglio: non aveva per niente un'aria da persona sana. Era sempre più nervoso David.
-Per esempio?-
-Come stai?-
-Bene, molto bene-.
Mick comparve sulla soglia della porta, alle spalle di un ambiguo David:
-Fa freddo potresti almeno farla entrare...-
-Stanne fuori Mick- quasi gli urlò contro, poi tornò a rivolgersi a Mya -Cos'è che vuoi mettere in chiaro?- disse andando fuori.
-Il mio comportamento. Ti devo delle scuse, non sarei dovuta andare via senza neanche avvisarti di persona-
-Già, non avresti dovuto-
-David, io ho fatto il primo passo. Tocca a te. Non essere così ostile-
-Non essere così ostile? Al diavolo! Sai cosa? Va' a farti fottere!- e così dicendo David girò i tacchi. A passi interrotti si apprestava a raggiungere la soglia della porta, ma Mya non rimase in silenzio a guardare:
-David, riflettici. Non è un film. Non ci sarà il cliché secondo cui ti prenderò per il polso e ti chiederò di non lasciarmi. Se vuoi tornartene dentro e chiuderla qui, va', sei liberissimo di farlo. Ma sappi che non tornerò a Berlino e vorrei che questo viaggio non fosse stato inutile-.
Sembrò non esserci risposta da parte di David quindi Mya voltò le spalle alla casa -Come vuoi. Addio, ti auguro il meglio-. Iniziò a incamminarsi. Stava per raggiungere il marciapiede quando David la fermò con le parole:
-Tu lo sapevi!-
-Sapevo cosa?-
-Che ne avrei sofferto-
Dopo qualche attimo di silenzio l'amareggiato -Sì, è vero- di Mya riempì l'aria rigida di risentimento. David lo respirò tutto e, a passo deciso, andò verso Mya:
-Mi sono sentito uno schifo! Non sai cosa ho fatto, quello che mi è successo! Hai idea di quello che ho passato?-
-No, ma so quello che ho passato io-
-Tu... tu non avresti dovuto-.
Perse le staffe. Il collo di Mya era stretto dalle mani di David, ossute e grandi, che la soffocavano. Le vene gonfie percorrevano braccia e mani. Nonostante la debolezza fisica riuscì a sollevare di pochi centimetri il corpo di Mya dal suolo. La donna, con il poco fiato che le rimaneva, si rivolse decisa a David:
-Strangolami, se lo ritieni necessario! Ma cosa otterrai?!? Assolutamente niente. Lo sai-.

-Allora, sei proprio sicura di non voler venire?-
-Sì, Mick. Sono sicura-
-D'accordo-. Mick sospirò, poi diede un bacio sulla fronte di Mya -Stammi bene- disse. Mya annuì, dicendo nulla. Sul suo volto un'espressione serena e rassicurante. Mick prese la sua valigia e salì sul taxi, salutando Mya con la mano dal finestrino scuro della vettura.
Adesso anche Mick se n'era andato. Il giorno prima era toccato ad Amias, ora a lui. Di nuovo immersa nella routine quotidiana, grigia, monotona, noiosa e seccante. Ma anche rassicurante, un punto fermo, una garanzia, un'ancora. Ora quasi non temeva più di abituarsi ad apprezzarla. Dunque rientrò in casa e, facendo scivolare le mani sulla porta, se la chiuse alle spalle.
-Bene, è ora che mi dia una mossa, altrimenti perderò l'aereo. È la mia ultima possibilità di mettere a posto le cose. Per Mick, per Amias. Per me. Per David-.
Non le ci volle molto per arrivare all'aeroporto. Passò in fretta il check-in. L'imbarco. Il suo posto. E Mick. La sorte, che buffa alle volte. Anche seduti insieme.
-Mick, Mick! Siamo quasi arrivati...- disse Mya, scuotendo dolcemente Mick e destandolo così dai suoi sogni.
-Eh? Oh, salve. Mya?- Mick la guardava parecchio male, chiedendosi se il suo sogno stesse continuando o se davvero Mya fosse lunatica a tal punto. -Ma tu non...-
-Non chiedermelo. Scendiamo, dai-.

-Così hai deciso di parlargli, eh?-
-Sì. Questo capitolo va concluso, obbligatoriamente-
-Mh... ho un'idea!- strillò Mick nel bel mezzo del ristorante dell'hotel, a rischio di soffocarsi con il boccone che aveva in bocca.
-Sentiamo-
-Andiamo tutti e due da David, tu rimani in macchina e, quando ti chiamo, tu scendi e suoni alla porta-
-Che idea geniale... mi aspettavo una grande trovata, visto il tuo entusiasmo e la figuraccia che abbiamo fatto...-
-Oh, beh! Hai idee migliori?-
-In effetti no, al momento proprio no-
-E allora non criticare!-

La strada era trafficata. Le luci dei fari delle auto tutte in fila erano abbaglianti e donavano al viaggio un'aria un po' da sogno. Mya guardava Mick, infastidito dalla troppa luce, coprirsi gli occhi con la mano sinistra mentre con la destra reggeva la cornetta del telefono con il quale cercava da più di mezz'ora di chiamare David. Il solito scapestrato e distratto. Prima donna irascibile in preda alla sindrome premestruale.
Mick ci parlava al telefono, Mya non riusciva a nascondere di essere almeno un po' divertita dal vedere Mick prendersi gioco di David. Però poi pensò che avrebbe scontato il suo nervosismo su di lei e che quindi non c'era niente da ridere.
-Bene, anche la nebbia... ora sì che non arriviamo più da nessuna parte...- lamentò Mick, giocherellando con il bordo della sua giacca.
-Mick, ti lamenti da quando siamo a Berlino, calmati, per favore...-. Mya mostrava segni di panico: una mano a reggere la fronte, l'altra stringeva la cinta del suo cappotto. Il respiro era irregolare e percettibile.
-Mya, calmati. Dovrai essere in grado di controllarti quando sarai di fronte a David. Sono preoccupato, l'ultima volta era così nervoso...-
Poi alla radio...
Each morning I get up I die a little, can barely stand on my feet...”. I Queen. Mya ebbe motivo di sorridere. Mick chiese all'autista di alzare il volume e, dopo qualche parola che uscì esitante dalle loro bocche, iniziarono a cantare la canzone a squarciagola.

-Allora io scendo, d'accordo?- chiese Mick a Mya, tenendole la mano. Mya annuì e, non dopo averle indicato il telefono per ricordarle del piano, Ronson scese dal taxi.
Dal finestrino scuro Mya poteva vedere Mick avvicinarsi alla porta d'ingresso della casa di David ed entrare, accolto dal padrone di casa.
Di cosa si stessero dicendo, lei non aveva la più pallida idea. E le mani le tremavano, sentiva le unghia deboli strette nel suo pugno. Il respiro sempre più pesante e frammentato, il calore dietro il collo.
Che agonia.
E poi il telefono. La voce di Mick. Voleva dirle di andare. E andò.

La neve si stava posando, si era giunti già a tre centimetri di spessore. Il vento schiaffeggiava gli alberi e tutto sembrava in procinto di volare via.
Tutto tranne Mya, che appariva così pesante nella fredda neve che ora la stava ricoprendo. Tutto tranne David, inginocchiato accanto al corpo esanime della donna che, comprendeva appieno solo ora, aveva amato inconsapevolmente. Sempre.
-Mi dispiace... Mya...-. La abbracciava, la stringeva a sé, dondolandosi e soffocando singhiozzi, ingoiando neve e lacrime.

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Capitolo 15
*** Capitolo 5 - EPILOGO ***


EPILOGO: LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

-David... David!- David aprì la porta, con uno spesso strato di sonno spalmato sul viso.
-Ah, Mya... Buongiorno-
-Buongiorno-
-Entra pure-
-Grazie-. L'ex Duca si scostò facendo passare la donna che, non appena lo ebbe osservato meglio, esclamò -Ma come, sei ancora in pigiama? David, è tardissimo!-
-Ma io...-
-Niente ma! Vai a farti una doccia. Hai dieci minuti, non di più!-
-Ma Mya, come faccio?-
-“Non mi interessa come, l'importante è che tu lo faccia”. L'hai detto tu, ricordi?-
-Va bene, va bene... aspettami qui, ok?-
-Sì, ora fila sotto la doccia-
-Perché sei tutta nera? Andiamo a pranzo insieme, non ad un funerale-
-È affar mio quello che ho addosso. Vai, sbrigati-
-Come vuoi, tu aspettami qui-
-Siamo già a nove minuti...-
-Vado, vado, Generale!- e corse in bagno. Undici minuti dopo era fuori, in boxer, a guardarsi nello specchio.
-Sono sexy... dove lo trovi uno come me?- diceva, girando su se stesso varie volte per vedere il suo corpo riflesso nello specchio. Quando, dopo una quindicina di secondi...
-E copriti, spudorato, ché sei vecchio!-
-Ah, Mya...-
-Su, avanti, vestiti! Non sei poi così bello, anzi, oserei dire che fai addirittura impressione-
-Che cosa?- David stette per ribattere, quando vide che lo sguardo di Mya, imperioso, esigeva che lui fosse immediatamente pronto. Quindi si vestì in men che non si dica. Poi, con il fiatone per lo sforzo, continuò a dire ciò che avrebbe voluto dire in precedenza -Cosicché io nudo farei impressione?
-In realtà anche vestito, però nudo sei ancora peggio-.
David sgranò gli occhi -Me ne ricorderò, sai?-
-Sì, scrivitelo sul calendario. Anzi, fallo dopo, ora è tardi- e, tirando David per la manica della giacca grigia, Mya uscì dalla camera di David.
-Dunque io sarei vecchio, non è così?- esordì David, entrando nella sua camera. Al suo seguito c'era Mya, che non tardò a rispondere, mentre posava la sua borsa su una sedia addossata al muro.
-Oh, sì, sei un vecchietto con i reumatismi-
-Ah sì?-
-Sì, assolutamente. Sei un vecchietto che soffre di vertigini. A proposito, dovresti superare questo problema, lo sai?-
-Già, sta diventando una vera seccatura. Tu mi aiuteresti a superarlo?-
-Certo che sì, per te questo ed altro-
-Intendi che faresti qualsiasi cosa per me?-
-Beh, più o meno...-
-Cosa non faresti?-
-Tu che cosa vuoi che io faccia? Dimmelo e ti dirò di sì o di no-
-No, era giusto per chiedere-
-Va bene...-
-Mya, mi daresti una mano con la cravatta?-
-Sì, certo- Andò verso di lui e si mise all'opera. Sai, credo che il tuo problema con le cravatte sia la pazienza. Dovresti essere paziente con le tue cravatte, dovresti trattarle con amore, loro ti amano-. 
David non sembrava prestare troppa attenzione alle parole della donna. Dopo qualche secondo, le si rivolse -Mya... pensi davvero che sia vecchio e che faccia impressione?-
-Ovvio, ma del resto che cosa importa della mia opinione?-
-Lo sai che per me è molto importante-
-David, non avrai preso sul serio quello che ti ho detto, spero-
-Beh, io veramente...-
-Oh, David... certo che non penso davvero che tu sia vecchio e che faccia impressione. Scherzavo, credevo fosse ovvio, pensavo l'avessi capito. E poi, hai anche il coraggio di chiedermi se sei vecchio? Ma come, una persona a trent'anni è già vecchia? Beh, fai sentire vecchia anche me...-
-Allora non faccio impressione?-
-No, non fai impressione. Almeno, a me non fai questo effetto. Magari agli altri sì, io non posso saperlo-
-E che effetto ti faccio?- si sbottona il primo bottone della camicia
-Tu che effetto mi fai? Io... ma che razza di domande fai, si può sapere? Sei un uomo affascinante, senz'altro-
-E quindi che effetto ti faccio?-
-Mi provochi una reazione allergica...-
-Sbaglio o non vuoi rispondermi?- si aggiusta la camicia mostrando il collo
-Cosa vuoi che ti dica? Sto bene quando sto con te. Mi fai sentire a casa, come se non mi mancasse niente. Questo è l'effetto che mi fai-
-Soltanto questo?-
-Sì-
-Alice Mya Sion...-
-David Robert Howard Jones alias Bowie-
-Non mi ero mai accorto del fatto che avessi una voglia sulla spalla-
-Cosa?-
Che maledetto.
-Se l'effetto che ti provoco è solamente quello di farti sentire bene, mi spieghi perché sei i colpo arrossita? Non ti ho mai vista arrossire- sottolineò Davey, mentre teneva il mento di Mya con sue dita, sorridendo diabolicamente non troppo lontano dal suo viso.
-Forse siamo troppo vicini, potrei trasmetterti l'influenza o qualsiasi altra cosa infettiva potenzialmente mortale...-
-In sedici anni che ci conosciamo non mi hai mai trasmesso nulla, anzi, sono sempre stato io a trasmetterti tutte le malattie possibili e immaginabili. E no, non ho nessuna malattia oggi. Dunque?-
-Dunque cosa?-
-Sembra che debba essere io a prendere l'iniziativa...-
-Ehi, no, quale iniziativa, non scherziamo...-
-Quindi sarebbe questo l'effetto che ti faccio-
-No, questo è l'effetto che mi fa il tuo collo, quindi per favore coprilo o potrei svenirti in braccio-
-E se volessi, diciamo, correre il rischio?-
David si avvicinò ancora di più, a ogni millimetro in meno il suo sorriso malizioso svaniva e lasciava spazio a un'espressione seria. David socchiuse gli occhi, Mya li spalancò pi di quanto già non fossero spalancati. David c'era quasi...

-David, l'avvocato ha detto che l'appuntamento è fissato per domani alle 10:15 al suo studio-. Dannato segretario.

-David, io vado, è tardi-
-E dai, su, non fare così: adesso chiudo la porta così non ci disturba più nessuno-
-No, davvero, è meglio che vada, ho esagerato, poi immagino che vorrai riposarti-
-Ehi, ehi, aspetta. Esagerato in cosa?-
-Forse ti ho dato troppa corda...-
-Ti sto facendo la corte, è normale che mi debba dare corda...-
-Di' un po', non è che hai solamente voglia di toglierti quello sfizio che la prima volta che ci incontrammo non riuscisti a toglierti?-
-Che? Di che sfizio stai... Ehi, no! Non ho quel tipo di intenzioni. Non mi era neanche passato per la mente di... va bene, mi era passato per la mente, ma ho lasciato stare quando ti ho conosciuta meglio-
-Sì, certo...-. Mya terminò ciò che aveva iniziato David, stupendo lui e se stessa: un bacio breve ma intenso. Dopo pochi minuti David uscì dalla camera, per affiggere un cartello alla porta.
Il segretario, diretto da David per comunicargli di un appuntamento per il giorno dopo, si trovò davanti la scritta “NON DISTURBARE”.
E così tutto si risolse per il meglio. David riuscì ad ottenere il divorzio da Angie e la custodia di Duncan, Mya riebbe il suo lavoro e il suo amato. Paul, Linda, Mya e David diventarono grandi amici e Mya riuscì finalmente a far passare a David l'odio per i Queen.

“Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?”.

 

ANGOLO AUTRICE

Ma salve. Perdono. Chiedo perdono a tutti i lettori superstiti di questa mia FF. Chiedo perdono per i ritardi, per gli errori grammaticali, per le cose senza senso, per il falso finale tragico... Scusatemi. Eh eh. Era finalmente ora che questa FF giungesse al termine. Ringrazio tutti voi per la pazienza, la curiosità, l'interesse mostrati per questa storiella che sa tanto di dejà-vu e teen comedy. Spero di avervi un po' emozionati, allietati o almeno distratti nel corso di questi anni. Ci terrei a sapere la vostra su questo sforzo letterario che sarà annoverato in tutti i libri di letteratura italiana come il capolavoro del ventunesimo secolo.
Un bacione,

MadnessInk

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