Detective Martinsson

di kiara_star
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il caso di Hedeskoga ***
Capitolo 2: *** La differenza fra Indagare e Curiosare ***
Capitolo 3: *** Questione di percentuali ***
Capitolo 4: *** Un poliziotto sfortunato ***
Capitolo 5: *** Jag gillar honom ***
Capitolo 6: *** Gustav Ringdal ***
Capitolo 7: *** L’appuntamento delle 18:00 ***
Capitolo 8: *** Un incontro inaspettato ***
Capitolo 9: *** Il furto Fustern ***
Capitolo 10: *** Kollaps (parte 1) ***
Capitolo 11: *** Kollaps (parte 2) ***
Capitolo 12: *** In cerca di risposte ***
Capitolo 13: *** Fine dei giochi ***
Capitolo 14: *** Una bussola smagnetizzata ***
Capitolo 15: *** Vedere davvero ***
Capitolo 16: *** Un passo avanti (forse due) ***
Capitolo 17: *** Lì, chiuso in un cassetto ***
Capitolo 18: *** Colpevole ***
Capitolo 19: *** Al di là del vetro ***
Capitolo 20: *** Kärlek ***
Capitolo 21: *** Strana stranezza ***
Capitolo 22: *** Un futuro imbarazzante ricordo ***
Capitolo 23: *** Senza nome ***
Capitolo 24: *** “I” come Indagine ***
Capitolo 25: *** La pelle del poliziotto ***
Capitolo 26: *** Caso chiuso ***
Capitolo 27: *** Il giorno dei perdenti ***
Capitolo 28: *** Phil e François ***
Capitolo 29: *** Senza maschere né gravità ***
Capitolo 30: *** E d'amore peccò ***
Capitolo 31: *** Una nuova sinfonia ***



Capitolo 1
*** Il caso di Hedeskoga ***


Detective Martinsson Premessa: Siccome Magnus mi ha tormentato nell’ultima settimana (come ha fatto un po’ con tutte) ho deciso di scrivere una long con il bel riccio come protagonista.
Personaggi: Magnus Martinsson (Tom Hiddleston), Eric the Huntsman (Chris Hemsworth)
Ambientazione: Siamo a Ystad, ridente cittadina svedese, in cui Magnus lavora come detective della polizia. Qui, durante un’indagine, farà un incontro che gli scombussolerà la vita.
Note:
1. Questa storia sarà un crossover ambientato proprio nell’universo di Wallander (qui per le info), per cui il titolo è un rifacimento di quello dell’opera. Se avete visto il telefilm sarà più facile entrare nella storia, ma siccome Magnus non è un personaggio molto approfondito, anche chi non lo conosce può leggerla. Cercherò di renderla accessibile a tutti.


Disclaimer: Gli avvenimenti narrati in questa storia sono pura invenzione. I personaggi non mi appartengono e sono dei legittimi proprietari. Scritta senza scopo di lucro e senza vergogna.

Buona lettura
kiss kiss Chiara





Detective Martinsson






I. Il caso di Hedeskoga



Il telefono squilla.
Uno, due, tre.
Guardo Anne-Britt, ma ha gli occhi fissi sui documenti che regge fra le mani. Sa che la sto guardando.
Quattro.
Kurt sta parlando con Lisa riguardo al caso del giovane prete trovato morto davanti la chiesa di San Pietro. Mi schiarisco la voce con un colpo di tosse al quinto squillo, ma nessuno sembra avermi sentito. Mi chiedo se non lo facciano di proposito. Mi chiedo cosa abbiano contro di me. Mi alzo seccato dalla sedia ed afferro la cornetta quando ormai l’ottavo squillo mi ha urtato i timpani insieme ai nervi.
«Martinsson» sospiro passandomi una mano sugli occhi. È Sven dell’obitorio con delle novità sul caso del prete. Chiede di Kurt, ovviamente. «È per te.» Gli allungo la cornetta e torno a domandarmi perché ce l’abbiano con me. Chi è che ce l’ha con me? Dio? I miei colleghi? Il destino?
Sono un detective preparato e ligio. So fare il mio lavoro. Amo il mio lavoro. Eppure mi hanno tenuto fuori dal caso più importante del momento.
Torno alla mia scrivania e mi accascio sulla sedia. Una matita fra le dita mi aiuta a scaricare lo stress. La faccio roteare e la mordicchio. La picchio ad intermittenza sul legno del tavolo e la faccio roteare ancora.
Sono le undici passate e sto ancora stilando questo noiosissimo rapporto da ieri sera.
È una giornata d’inferno come tutte le altre. Come ogni dannatissima giornata da ormai qualche periodo.
Non cerco il sangue, non sono uno di quegli psicotici agenti che attendono un caso inquietante per eccitarsi. Vorrei solo poter fare ciò che so fare meglio: il mio lavoro.
«C’è stato un furto ad Hedeskoga. Una villa di un’anziana donna.» Guardo il viso dell’agente appena entrato e prego intensamente. No, non voglio lavorare su uno stupidissimo caso di furto!
«Ci sono state aggressioni?» chiedo. Magari c’è qualcosa di interessante.
«No. Hanno solo portato via qualcosa di valore.» Non c’è nulla di interessante.
«Magnus, occupatene tu.» Mi ritrovo a stringere i denti. Dannazione, Lisa! Perché non posso lavorare sul caso dell’assassinio di San Pietro?
«Vado subito.» Ma non ho intenzione di fare scenate. Trattengo a malapena una smorfia e, presa la giacca dalla sedia, mi avvio verso la porta.
Guarda il lato positivo, Magnus, non sarai più costretto a rispondere al telefono!

La strada per Hedeskoga è una striscia di desolazione. Le case si possono contare sulla punta delle dita e nessuna di esse sembra viva. È una bella zona, ma non certo la più popolata di Ystad. Mi lascio sfuggire un lungo sospiro mentre giro verso il viale della casa. In un posto come questo è normale che i ladri facciano festa.
Ci sono due agenti che non conosco. Parcheggio e mi avvicino ad uno di loro, mentre l’altro è intento a parlare con una donna. Sarà di certo la vittima del furto. Faccio domande di routine per sapere a che punto sono.
«Sono entrati dalla porta sul retro. È stata forzata.»
«Cosa hanno preso?» Ispeziono con gli occhi l’esterno.
«I gioielli, un paio di oggetti d’argento e circa 6000 corone.» 6000 corone? Magro bottino. Magro caso.
«La scientifica ha trovato qualcosa?»
«Niente. Non ci sono impronte. Forse indossavano dei guanti.» Annuisco «Dice di non aver sentito nulla. Si è accorta del furto solo stamattina.» Avrei dovuto essere con Kurt a San Pietro ed invece sono qui a dare la caccia ad un ladro di galline!
«Grazie.» Almeno gli agenti mi sembrano preparati. Mi passo una mano fra i capelli e mi avvicino alla donna.
Amanda Fustern, 73 anni, vedova. Statura bassa e tarchiata, capelli grigi raccolti in un ordinato chignon, occhiali da vista con catenina rossa, vestito a stampe floreali di dubbio gusto. Parla animatamente gesticolando con le mani. È agitata e dovrò comportarmi di conseguenza.
«Signora Fustern, sono il Detective Martinsson.» Le mostro il distintivo con tono gentile e la vedo annuire. Faccio un cenno al giovane in divisa e lui si allontana verso il collega. «Signora, mi racconti cosa è successo.» Mi ripete le stesse cose che ho già saputo dall’agente, ma entrare in contatto con la vittima è fondamentale. Annuisco ad ogni informazione.
«Era di mia nonna. Magari non era di valore, ma era un oggetto carissimo per me.» Ha le lacrime agli occhi.
«Faremo del nostro meglio, signora. Non si preoccupi.» Una mano a coprirsi la bocca ed annuisce.
Se non ci sono impronte non credo riusciremo a trovare i ladri. Non abbiamo una descrizione, ed il misero valore della refurtiva ci renderà le cose ancora più difficili. L’unica strada potrebbe essere qualche traccia lasciata sul terreno: segni di pneumatici, mozziconi di sigarette.

Mi volto a guardare la zona. Non ci sono case, a parte una piccola villetta ad un centinaio di metri. Difficilmente ci saranno testimoni. Mi spiace per la signora Fustern, ma sarà meglio che si rassegni all’idea che la collana di sua nonna è perduta.
«Sono sicura che sia stato lui!» Mi volto a guardarla ed aggrotto le sopracciglia. Un sospettato? Beh, è un inizio.
«A chi si riferisce?» Indica la casa che stavo guardando prima.
«Non mi è piaciuto dall’inizio. Sono certa che sia stato lui.»
«Crede che sia stato il suo vicino a derubarla?» Annuisce. «Le ha dato già qualche fastidio?»
«No, direi di no.»
«Mi parli di lui: è sposato? Che lavoro fa?»
«Non ne ho idea. Non so neanche come si chiami.» Perfetto! Proprio un ottimo indizio. «Ma non mi piace!» Ed ora dovrei andare in giro ad arrestare la gente in base al piacere di una vecchia signora con pessimi gusti di moda. Poggio le mani sui fianchi sospirando. Giornata davvero d’inferno.

Ispeziono l’interno della casa. È modesta ma ordinata. Non ci sono sfregi, a parte gli oggetti mancanti, e non c’è nulla ad occhio che mi indichi una qualche pista da seguire. I ladri sono stati bravi a non lasciare tracce. Almeno per il momento. Non mi resta che partire dall’unica cosa che posseggo: il pregiudizio di questa donna.
Mentre esco dalla casa, il cellulare squilla.
«Come va ad Hedeskoga?» È Anne-Britt.
«Non credo che li beccheremo. Hanno preso qualche gioiello ed un po’ di soldi. Nulla di gran valore.» Attraverso la strada per dirigermi verso l’abitazione di questo vicino. Ho deciso di farmela a piedi, così avrò modo di borbottare in santa pace contro la sfortuna che mi perseguita.
«Quando hai finito, vieni in centrale. Lisa deve parlarti.»
«Riguarda San Pietro?» Fa' che sia così! Fa' che sia così! Fa' che sia così!
«No, è sul rapporto che dovevi consegnare ieri.»
Magnus, fattene una ragione: ti odiano!
«Ok, appena ho fatto, torno.» Attacco e mi lascio sfuggire un’imprecazione.
Chi è che gli ha salvato la vita? Chi è che ha sparato a quel figlio di puttana prima che uccidesse sua figlia? Io, Magnus Martinsson! Sono stato io a salvargli la pelle! E lui come mi ringrazia? Lasciandomi fuori! Kurt Wallander, sei un vero bastardo!
La rabbia velocizza i miei passi, ed i cento metri mi sembrano esser solo poche falcate. Mi fermo respirando a pieni polmoni. Non posso farmi prendere dalle emozioni adesso. Sono un maledetto detective, anche se sembra che nessuno se lo ricordi.
Una Ford blu scuro è parcheggiata davanti alla porta del garage. Sembra che sia in casa. Bene, almeno chiuderò questa faccenda alla svelta.
Suono il campanello cercando di leggere il nome dalla cassetta della posta, ma non trovo nulla. Risuono ancora verificando la presenza di qualcuno al di là della staccionata, ma non c’è anima viva. Potrebbero essere sul retro. Il cancelletto di legno è aperto, così lo spingo ed entro.
Percorro il breve tratto fino alle scale e picchio le nocche sul legno.
«Sono della polizia.» Cerco di farmi sentire, ma la casa sembra vuota. Busso nuovamente. «Polizia. Aprite!» Trascorrono altri secondi di silenzio. Forse davvero non c’è nessuno.
Mi volto sul punto di andarmene, quando sento un rumore provenire dal retro. Cerco di prestare attenzione e lo avverto più nitidamente. Un rumore secco ad intervalli. Scendo i pochi pioli e mi avvicino alla fonte di quel suono che cresce di intensità ad ogni mio passo. Ho ormai fiancheggiato la casa, quando riesco a riconoscerne la natura: colpo d’accetta. Ne ho la certezza quando svolto l’angolo e vedo la figura di un uomo intento a spaccare a metà un ciocco di legno.

Alto, molto alto. Coda di cavallo bruna che gli ricade sul collo sudato. Braccia scolpire. Spalle scolpite. Fisico scolpito. Riesco a notarlo perché indossa solo una canotta di cotone bianco su un paio di jeans.
Fa freddo oggi. È ottobre e fa freddo. Io indosso camicia, pullover e giacca, e se non fosse per l’accumulo eccessivo di stress degli ultimi minuti, potrei sentire ancora freddo. Ma quest’uomo indossa solo una misera canotta completamente zuppa che gli si è quasi attaccata alla pelle. Pelle dal colore ambrato.

Non si deve essere accorto di me, perché prende un altro ceppo e lo trancia con un solo colpo. Rimango in silenzio ad osservare i suoi gesti. Non conosco il suo viso, eppure posso dire che è un uomo che mette soggezione. Sarà la stazza, sarà la faccenda del freddo, sarà la fermezza con cui maneggia l’ascia, non so dirlo, ma posso affermare con facilità che mi sento inquieto.
Mi volto di spalle chiedendomi se non sia meglio tornare in un altro momento, ma un nuovo colpo di accetta mi costringe a portare lo sguardo su di lui.

Magnus, che stai facendo lì imbambolato? Sei un poliziotto, giusto? Stai rompendo le palle a tutti -coscienza compresa- su questo punto, ed ora non riesci a schiodarti da quella parete? Cos’è, ti sei incantato a guardare i muscoli di questo tizio?
Mi sento arrossire. Quel pensiero mi ha agitato ulteriormente.
Passo le dita fra i ricci e mi faccio forza. Devo parlare con quest’uomo e chiarire la faccenda del furto.
«Mi scusi.» Tengo la voce ferma ed il tono deciso, ma quando lui si volta, mi chiedo se avrò ancora abbastanza fermezza per continuare.
«E tu chi sei? Che ci fai in casa mia?» La sua voce rispecchia il suo fisico. Forte, possente. Sul viso una barba incolta e qualche ciocca scura che gli ricade sulla fronte. Occhi che sono due fari azzurri.
La mia impressione era corretta: quest’uomo mette in soggezione. Mi mette terribilmente ed inspiegabilmente in soggezione.

«Ehm... » Mi schiarisco la voce afferrando il distintivo dalla tasca. Meglio chiarire subito prima che mi ritrovi con quell’ascia conficcata da qualche parte. «Magnus Martinsson. Polizia di Ystad.» Mi avvicino per mostrarglielo. Più passi faccio verso di lui, più la mia inquietudine cresce. Quando ormai gli sono di fronte, mi chiedo se sia normale avere il battito così accelerato.
Maledizione, Magnus, datti un cavolo di contegno!

«Polizia?» Sposta lo sguardo sul distintivo e gliene sono grato. «Non hai la faccia da poliziotto.» Un sorriso gli piega le labbra ed i suoi occhi sono di nuovo su di me.
È indubbiamente un bell’uomo. Molto bello, forse troppo. Mi verrebbe da dire che rasenta la perfezione, e la mia autostima subisce una battuta d’arresto dietro l’altra.

«Ieri sera la sua vicina ha subito un furto.» Inizio rimettendo in tasca il distintivo «Ha sentito qualcosa?» Mi ascolta corrucciando la fronte ed i suoi occhi diventano sottili linee di ghiaccio.
«Quella vecchia? E che le hanno rubato, la simpatia?» ridacchia allontanandosi per prendere un altro pezzo di legno. Lo ripone sul ciocco più grande e lo trancia a metà. Il colpo secco mi fa sussultare. I miei nervi sono tesi come corde di violino e non capisco perché. Sarà tutto lo stress che ho accumulato in questi giorni. È colpa di Kurt e del suo continuo non apprezzarmi, è colpa delle mie eccessive elucubrazioni mentali! È colpa di questo, e non certo dell’individuo di fronte a me di cui ancora non so il nome.
«Sulla cassetta non c’è il nome.» Gli faccio notare puntando il pollice alle mie spalle. Mi guarda distrattamente e continua il suo lavoro.
«Mi sono trasferito da poco.» E giù un altro colpo.
«Le spiace dirmi il suo nome?» Prendo il blocchetto con la penna ed attendo che colpisca un altro ceppo.
«Eric.» Si limita a sospirare asciugandosi la fronte con il dorso della mano. Annuisco e scrivo.
«”Eric” e?» Solo quando rialzo gli occhi mi accorgo che mi guarda con uno sorriso sghembo. «Il suo cognome.» Insisto cercando di non cedere alla strana agitazione che si è nuovamente impossessata di me.
Andiamo, Magnus, come diavolo hai fatto a diventare detective se non riesci neanche a sostenere lo sguardo di un uomo?
Non ne ho idea! Gli anni di accademia e l’esperienza sul campo sono totalmente svaniti dalla mia mente. Restano solo pensieri che risuonano psichedelici. Riflessioni contorte e considerazioni di morale opinabile.
«Sicuro che sei un poliziotto?» chiede ancora sorridente. Mi ritrovo ad aggrottare la fronte confuso.
«Vuole rivedere il distintivo?» Mi porto una mano alla tasca pensando che forse non ha letto bene e vuole ricontrollare. Ma lui scuote la testa tornando a fare il lavoro che aveva interrotto.
«Non ho mai visto un poliziotto con quei ricci.» Ride e mi sento avvampare.
I miei capelli. Ha appena fatto apprezzamenti sui miei capelli.
Che hanno di sbagliato i miei capelli? Perché tutti ce l’hanno con i miei capelli?

«Ehm...» Sono grato che sia occupato ad affettare altri poveri ceppi, perché così non ha modo di vedere il rossore imbarazzante comparso sulle mie guance.
Mi gratto il mento leggendo gli appunti che ho scritto. Cerco di ritrovare una degna lucidità, ma la sua risata mi risuona ancora in testa.

«Huntsman.» Alzo gli occhi. «Eric Huntsman.» Sorride ancora, e quel sorriso è più tagliente della lama della sua ascia.

















Continua...






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Capitolo 2
*** La differenza fra Indagare e Curiosare ***


2. L’uomo dagli occhi di ghiaccio
Detective Martinsson



II. La differenza fra Indagare e Curiosare



«Signor Huntsman, lei non si è accorto di nulla stanotte?»
Devo tornare all’indagine. Sono qui per questo: indagare sul furto ai danni della signora Amanda Fustern.
Eric Huntsman è un potenziale testimone o, al limite, un potenziale sospettato. È solo questo. Deve essere solo questo.
Eppure faccio fatica a convincermene. Mi è incredibilmente difficile concentrarmi sulle sue parole senza lasciare che pensieri estranei mi affollino il cervello.
Sono abbastanza maturo per non cedere alle sue provocazioni (vedi battuta poco carina sui miei capelli), sono abbastanza “detective” da non lasciarmi incartare in qualche discorso al fine di sviarmi, sono abbastanza etero da non farmi distrarre dalla sua evidente avvenenza.
Lo sono.
Lo sono?
«Non so niente di ieri sera. Sono andato a letto presto e mi sono alzato altrettanto presto.» Un pezzo di legna in ogni mano «Non ho idea di quello che sia successo in casa di quella vecchia.» Mi supera ed appoggia i ciocchi sugli altri, ordinatamente allineati fra due paletti.
Seguo con lo sguardo ogni suo gesto. Appunto ogni sua parola. Studio ogni sua espressione.
Il suo viso è una tela affascinante: ci sono sottili linee che gli attraversano la fronte ed altrettante gli angoli della bocca quando sorride. Quando parla, tende a passarsi la lingua sulle labbra. Perché è ottobre e fa freddo, ed anche se sembra non accusarlo, l’aria secca di Ystad, non risparmia di asciugare quelle labbra carnose.

L’hai rifatto, Magnus. Hai di nuovo sconfinato con i pensieri.
Scuoto la testa.
«Quindi lei era in casa?» Mi lancia un’occhiata a stento e continua a sistemare altra legna.
«Te l’ho detto: sono andato a letto presto.»
«Quanto presto? Erano le 21? Le 23? Era prima o dopo mezzanotte?» Si ferma, mi guarda. Mi fissa. Mi ghiaccia con le sue iridi.
«Era presto.» Un tono che non ammette repliche e che si colora di un’evidente nota d’irritazione. Sembra facilmente irascibile. Dovrò stare attento a come mi muovo.
«Va bene, signor Huntsman.» Fingo di annotare qualcosa sul blocchetto, ma in realtà sto ricalcando il suo nome. «Lei vive qui da solo?» Non risponde immediatamente. Anche lui mi sta studiando, glielo leggo negli occhi. Reclina di qualche grado la testa dal lato destro ed aggrotta le sopracciglia.
Brutto segno, Magnus. Brutto segno.
«Non starai pensando che io c’entri qualcosa con questa storia, vero?»
No, in realtà ho smesso di pensare chiaramente da quando sono entrato in questa casa. Ma sotto la massa di patetiche riflessioni, c’è un vago sospetto.
«Assolutamente!» Cerco di essere convincente. Se un testimone/sospettato si mette sulla difensiva, è tutto più difficile. Già sto facendo fatica di mio a portare avanti quest’assurda indagine, se lui inizia a creare altre difficoltà, può solo peggiorare. «Volevo solo farle qualche domanda. Se non le dispiace.» Spero che il mio tono sia stato abbastanza cortese. Spero che non abbia tradito alcuna agitazione. Spero, soprattutto, che questa giornata abbia presto una fine. «Se è un problema, posso tornare più tardi, o questo pomeriggio.» Aspetto una sua reazione e non mi accorgo di aver appena iniziato a giocherellare con la penna che ho nella mano.
Controllo. Cerca di avere controllo.
Mi studia ancora e poi getta uno sguardo verso casa sua.
«Ti do cinque minuti.»
«Basteranno.» Gli sorrido gentile ma lui non ricambia. Conficca l’ascia nel legno del grosso ceppo e si avvia verso la porta sul retro. Non aspetto che mi inviti e lo seguo.

Se è possibile - e dubito fortemente lo sia - sono ancora più in soggezione di quanto non lo sia stato prima.
La casa di Eric Huntsman è il perfetto riflesso del suo carattere. Colori neutri, assenza totale di sopramobili. Assenza totale di dettagli che ne rivelino la natura. Solo linee primitive, solo l’essenziale.
Mi inquieta, mi agita.
Al centro dell’enorme salotto scarno, un tavolino di legno ed un divano di pelle marrone. Un grande camino sulla parete, che irradia la stanza di arancio e riempie l’aria di un caldo quasi asfissiante. Ma forse sono io ad avvertirlo troppo.
Mi siedo mentre lui va in cucina. È sulla parete destra, riesco a vedere solo le mattonelle di un pallido avorio. Mi allento il colletto del maglione e mi chiedo se non sia il caso di togliermi la giaccia. Non lo faccio. Sono solo cinque minuti, cinque caldissimi e soffocanti minuti e poi uscirò da qui.
«Prendi.» Mi volto quando entra nella stanza. Nella mano, una lattina di birra.
«Grazie, ma non posso bere in servizio.» Inizio a trovare irritante che si rivolga a me con tale confidenza, mentre io sono ancora fermo al “Signor Huntsman”.
«È analcolica» sospira poggiandola sul tavolo e si siede accanto a me.
C’è la presenza di un cuscino a separarci, eppure mi sento come se fosse un confine davvero troppo sottile. Trenta centimetri sono troppo pochi. Avrei bisogno di metri, di centinai di metri.
«Grazie.» Mi avvento sulla lattina e ne bevo un sorso. La sua è stretta nel palmo destro e credo sia quasi terminata, perché mentre beve, reclina molto la testa. Il suo collo è grosso quasi quanto la mia vita.
Magnus, scheletrico detective svedese!
Riappoggio la birra sul tavolo e riapro il mio blocchetto.
«Lei che lavoro fa, signor Huntsman?»
«Lavoro al porto. Allo scarico merci.» Come sospettavo, la sua birra è finita, e la poggia sul legno accanto alla mia.
«Oggi non lavora?» Sorride.
«Ho il turno alle 14.00.» Credo che trovi buffe le mie domande. Inizio a pensare che trovi buffo me, e quel pensiero mi innervosisce.
«Vive qui da solo?» Ripongo la domanda a cui non ha risposto prima, anche se ormai la risposta mi è chiara. In questa casa non vi è la presenza di qualcun altro, tantomeno di una donna.
«Sì.» Ha perso il sorriso, e quella singola sillaba è più un ringhio che altro. Vorrei indagate oltre. Vorrei sapere se era sposato, fidanzato. Se ha una qualche relazione complicata in corso. Ma non sono informazioni pertinenti al caso. Non devono essere neanche informazioni pertinenti alla mia assurda curiosità.
«Ehm... » Rileggo le risposte e mi rendo conto che non so che altro chiedergli. Non sa niente del furto, e questo non lo rende un testimone. Non ho prove né indizi a suo carico, per cui è escluso dai sospettati, almeno per ora. Eric Huntsman non è di alcuna utilità per il caso Fustern. Dovrei andare via e tornare alla centrale da Lisa. Dovrei.
«Hai finito?» Rialzo gli occhi su di lui. Ha un’espressione annoiata e la chiara voglia di vedermi fuori da casa sua quanto prima, stampata in quelle iridi di ghiaccio.
Vacillo nella risposta.
Si, grazie per il suo aiuto.” Dovrei replicare. Dovrei alzarmi ed uscire. Dovrei dirgli che se per caso ricordasse qualcosa, può chiamarmi e dovrei allungargli il biglietto con il numero della centrale. Dovrei uscire dal cancello e percorrere i cento metri. Dovrei infilarmi nella mia auto ed affidare il caso Fustern ad un altro.
«A dire il vero, avrei qualche altra domanda.» Ed invece finisco con il dire una frase tanto sbagliata quanto falsa. Mi guarda negli occhi e sbuffa, ed io inizio ad avere il panico perché non ho la più pallida idea di che cosa chiedergli. Ma mentre faccio a pugni con la mia stupidità, lui si alza dal divano.
«Hai fretta?» Non capisco il senso della domanda. Scuoto la testa come risposta. «Ok, allora aspetta qui.» Si allontana in direzione delle scale.
«Mi scusi-» Ma le mie parole sono bloccate.
«Vado a farmi una doccia.» Si volta appena «Non andartene a curiosare in giro. Chiaro?» Il suo sguardo è un fucile a canne mozze che mi ha appena sparato dritto al petto.
«Signor Huntsman, non oserei mai.» E gradualmente sparisce dalla mia vista.


Sprofondo le dita fra i capelli e mi poggio con i gomiti sulle ginocchia.
Ma che diamine stai facendo? Non è questo il modo di portare avanti un’indagine!
Sono troppo stressato. Ho bisogno di una vacanza, di una dannatissima vacanza lontano da Ystad, da Kurt, da Lisa e da tutto il resto. Volevo lavorare sull’omicidio di San Pietro, ed invece sono qui in casa di uno che di cognome fa “Cacciatore”!
Respiro a fondo. Questo fuoco mi sta ustionando.
Mi sfilo la giaccia e la getto sul divano. Poi mi alzò ed inizio a passeggiare avanti e indietro con le mani sui fianchi.
Devo ragionare: posso andarmene, non ho motivo di rimanere. Sì, posso farlo, anzi, devo farlo. Aspetterò che finisca la doccia, per educazione, e poi mi congederò come avrei dovuto fare da un pezzo.
Rispetta il piano, Magnus, e non avrai problemi.
Rallento i passi fino a fermarmi. Sposto lo sguardo sull’enorme camino e poi lo faccio vagare in giro. Questa casa è grande per una persona sola, ed Eric Huntsman è una persona sola. Almeno così ha detto.
Una casa grande e spoglia. Non un quadro sulla parete, non una foto. Niente di niente. Muri vuoti e mal tinti, pavimento privo di tappeti e mobilia che ha visto più anni di me.
Mi sono trasferito da poco.
Da dove? Da dove si è trasferito? Da un’altra città, o da un altro stato?
I suoi lineamenti non sono svedesi. Potrebbe essere solo puro caso, eppure qualcosa mi dice che non è così. La sua pelle è ambrata ed i suoi capelli rasentano l’ebano. Solo i suoi occhi tradiscono discendenze nordiche. Sono azzurri come pochi altri che ho visto in vita mia. Sarà per il contrasto con il suo viso - non so dirlo. Sono magnetici, sono affascinanti. Sono pericolosi.
Senza rendermene conto, guidato dai miei pensieri, mi avvio verso la cucina. Il suo monito è ora solo una lontana eco che la mia curiosità tende di ignorare.
È ordinata, luminosa ed accogliente. Mobili color panna, tende arancioni alla finestra. Sul ripiano del lavandino, stoviglie pulite che non sgocciolano più: una padella, due piatti, una forchetta, un coltello. Un solo bicchiere. Tutto ricorda la mia cucina, ma senza le buste di cereali sparse in giro.
Ha quell’odore di solitudine, di cene silenziose e colazioni veloci, di cui ritrovi i piatti sporchi al tuo ritorno, perché nessuno li ha lavati. Nessuno ti ha lasciato una lista della spesa attaccata al frigo e nessuno ti ha tirato le orecchie perché hai dimenticato di prendere il latte.
La vita di Eric Huntsman somiglia alla mia, eppure mi sembra più triste. Ma in realtà non la conosco e sono certo che lui non muoia dalla voglia di raccontarmela.
Sfioro con le dita la tovaglia plastificata sul tavolo e traccio il contorno dei grossi girasoli gialli dipinti sopra. Sorrido; era dai tempi di mia nonna che non ne vedevo una simile. Sono certo non l’abbia acquistata lui, ma che si trovasse già qui. Non ce lo vedo Eric Huntsman andare in giro per casalinghi a scegliere tovaglie di plastica! Anche se la cosa sarebbe divertente: la sua espressione corrucciata mentre soppesa la scelta fra i girasoli gialli e le pigne d’uva viola...
Scuoto la testa passandomi le dita sugli occhi.
Basta fare simili fantasie.
Torno nel soggiorno caldo e nudo, e guardo il divano senza provare desiderio di sedermi. Mi ha detto di non curiosare in giro, ma io sono un poliziotto! Curiosare fa parte del mio mestiere. E poi sarò silenzioso e rapido come un felino, e lui non se ne accorgerà. Credo. Più che altro lo spero.
Raggiungo le scale e guardo in alto. Non sento alcun suono.
Inizio a salire lentamente ogni piolo di legno facendo scivolare il palmo sul passamani liscio, e lentamente il rumore dell’acqua accresce nelle mie orecchie.
Dopo diciannove scalini, sono al piano superiore.
Stretto corridoio ed una porta sul fondo. Sulla destra, quattro altre porte chiuse ed una dietro di me, poco dopo un piccolo gomito di muro. Lo scroscio dell’acqua viene dal fondo, ed è anche l’unica porta da cui si intravede la luce.
Potrei dare un'occhiata in giro, magari aprire una di queste porte e scoprire se questo Huntsman nasconda qualcosa. Forse i pregiudizi della signora Fustern non sono infondati. Cerco di pensarla così, perché non voglio credere che le mie prossime azioni siano solo frutto di una natura inspiegabilmente curiosa verso quest’uomo.
Non sono neanche arrivato ad ipotizzare dove possa essere la sua camera da letto, che sento il getto chiudersi.
Accidenti!
Mi irrigidisco e butto giù un groppo di saliva ed ansia. Devo scendere prima che lui esca, se mi trova qui farò la fine di quei ciocchi di legna!
Scivolo giù dalle scale cercando di non fare troppo rumore, e torno a sedermi sul divano. Il calore del soggiorno pare aumentare di secondo in secondo, ma stavolta sono certo sia colpa dell’ansia di poc’anzi.
Mi avvento sulla lattina di birra, ormai imbevibile per via della temperatura troppo alta, e la tracanno senza prender fiato. Peccato non sia alcolica, mi sarebbe stata di certo più d’aiuto.
La bevo fino all’ultima goccia e con uno sbuffo esausto la poggio sul legno accanto a quella già vuota. La lattina di Eric.
Mi ritrovo a fissarla. Un pensiero mi attraversa la mente e lascio la mia per prendere l’altra. C’è ancora qualche goccia, come in ogni fondo di latta. La scuoto appena e vedo brillare l’ambra del liquido. Faccio scorrere gli occhi sull’etichetta, ma in realtà non la sto leggendo. Mi sto chiedendo perché provi l’inspiegabile desiderio di bere quel residuo di birra caldo. Mi sto chiedendo perché un omaccione di quasi due metri con dei modi alquanto bruschi e scostanti, mi desti tanta curiosità ed interesse.
La guardo ancora per qualche attimo e poi la poggio sul tavolino. Mi lascio affondare con le spalle al divano mentre mi tiro indietro i capelli.
I miei ricci... Ha detto di non aver mai visto un poliziotto con i ricci.
Non so perché, ma mi viene da sorridere.
«Che idiota... » sospiro appena. Ma non so realmente a chi dei due sia diretto.


Quando Eric Huntsman scende in soggiorno, ha una felpa pesante color fumo, con il cappuccio sul retro e due cordoncini bianchi che ricadono sul collo. Altri jeans dal colore più chiaro, ed i capelli sciolti ancora umidi.
Sembra meno austero, sembra quasi più disposto al dialogo. Mi chiedo se sia il caso di emettere tali sentenze per via di un paio di indumenti, forse sarebbe più opportuno concentrarsi sulla maniera con cui tirarmi fuori da questo mezzo casino.
Rimane in piedi a guardarmi con le mani sprofondate nelle tasche della felpa.
«Poteva fare con calma.» Mi riferisco ai suoi capelli, credendo che abbia deciso di non asciugarli per risparmiare tempo. Accenna ad un sorriso -che riesco a decifrare come un: "non credere che mi sia precipitato per te. La verità è che non vedo l'ora che te ne vai da casa mia."- e li tira dietro l’orecchio senza dire nulla. Una ciocca sfugge comunque al suo controllo e finisce con il rigargli una guancia. Sembra una criniera nero pece, ed i suoi occhi già pericolosi, sono diventati ora quasi letali.
«Che altro vuoi sapere? Non voglio portarti fretta, ma dovrei pranzare.» Fra la barba scura, il suo sorriso sembra sfavillare. Non è un sorriso generoso. Eric Huntsman è un uomo avaro di sorrisi. Sono accennati, tirati, quasi più una smorfia che altro, eppure nel suo modo di piegare le labbra, c’è un che di estremamente intrigante.
Esci da questa casa, Magnus. Ora! Subito!
«Mi scusi, ha ragione.» Mi alzo e stavolta riesco a seguire i miei stessi consigli. «La ringrazio per la collaborazione, signor Huntsman.» Ed infilo il blocchetto degli appunti nella tasca posteriore dei pantaloni.
«Non avevi da chiedermi nient’altro?» Osservazione corretta, anzi impeccabilmente corretta, e sono nuovamente preda di una soffocante agitazione. Nella sua testa sono certo stia balenando la domanda: “perche diavolo ha aspettato seduto qui se non doveva chiedermi più nulla?”. Sarei curioso anch’io di conoscere la risposta, dato che non ho la più pallida idea di quale essa sia.
«No. Credo che possa bastare così, signor Huntsman.» Afferro la giacca e la indosso «Se per caso dovesse ricordarsi qualcosa, anche solo un piccolo dettaglio, me lo faccia sapere.» Annuisce. «La ringrazio per la birra.» Mi avvio verso la porta e sento i suoi passi alle mie spalle.

Caldo, ancora caldo nonostante l’aria fredda che proviene dall’esterno. Varco la soglia e mi volto per allungargli il biglietto con il numero della centrale.
«Chieda del detective Martinsson.» No, non farlo, ti prego!

«Ok» alita vago afferrando il biglietto e guardandolo con diffidenza. I suoi capelli umidi odorano di mandarino. Usa uno shampoo al mandarino? Non mi sembra il tipo. Dovrei andarmene, ma resto a fissare la sua nuca finché non rialza lo sguardo. «Non ricordo il tuo nome.»
«Magnus. Magnus Martinsson» scandisco lentamente.
Non ricorda il mio nome. La cosa non mi sorprende, ciò che mi sorprende è il perché la sua dimenticanza mi abbia irritato. Non sono così egocentrico da pretendere che le persone si ricordino di me. Sono solo un soldato di un esercito anonimo. Siamo distintivi e pistole. Siamo turni e rapporti. Siamo “bastardi” e “salvatori”.
Eric Huntsman non ha l’obbligo di ricordare il nome di un tizio che gli è piombato in casa per fare domande sulla sua vicina poco simpatica. Eppure, Magnus Martinsson, sperava che lo facesse.
Scendo le scale e mi avvio verso il cancello. Getto un occhio all’auto e memorizzo il numero di targa. Non so perché, abitudine, presumo. Non mi soffermo a chiedermi se ci sia dell’altro.
Quando svolto per la strada, mi accorgo che Eric è ancora sulla soglia. Le mie gambe vanno più veloci finché non raggiungo l’abitazione della Fustern. I due agenti sono ancora sul posto.

«Io torno alla centrale. Informatemi se ci sono novità.» Il ragazzo annuisce e salgo in auto.
Ho un numero imbarazzante di domande che mi affollano il cervello e nessuna di esse riguarda il caso. Nessuna di esse riguarda il mio lavoro.
Mi confondono, mi agitano. Mi terrorizzano.
Quando sfreccio davanti alla casa di Eric, lui è già rientrato.

















Continua...






NdA.
Innanzitutto, un grazie enorme per aver apprezzato la storia, o meglio, la sua idea. Onestamente non mi aspettavo tanto successo. Perciò, ancora Grazie!
Spero vivamente di riuscire a portarla avanti con il piede giusto. Per ora, ho un mucchio di idee che non riesco neanche a scrivere tutte per quanto veloci viaggiano nella mia testa @_@
Beh, mi auguro che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento. La storia ha un ritmo abbastanza lento e spero non vi dispiaccia. In verità, non mi piace affrettare le cose, ma voglio che tutto si svolga nel modo più “reale” possibile. E poi, se proprio volete prendervela con qualcuno, prendetevela con Magnus che ha il cervello fritto dai sensi di inferiorità e complessi peggio di suo cugino Loki!
Il terzo atto dovrebbe arrivare a breve (credo)!
Vi auguro una felice fine ed uno spettacolare inizio di anno ^^
kiss kiss Chiara

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Capitolo 3
*** Questione di percentuali ***


Questione di percentuali
Detective Martinsson



III. Questione di percentuali



«Sono due giorni che lo aspetto.» Lisa è irritata.
«Lo so, ma ho avuto le testimonianze di Borg e di Maier solo ieri.» Alza lo sguardo per qualche secondo e poi lo riporta nuovamente sui documenti.
«Va bene, Magnus.» Continua a sfogliare il rapporto che le ho consegnato con aria stanca. Sono certo che stia pensando al caso di San Pietro.
«Novità su San Pietro?» Sto quasi diventando patetico per quante volte ho cercato di aprire il discorso sperando che mi dicessero di unirmi alle loro indagini, ed in questo momento credo che Lisa stia pensando più o meno lo stesso. Solleva gli occhi su di me e poi si alza dalla scrivania lasciando cadere il dossier su di essa.
«Magnus, non considerarla una mancanza di fiducia nelle tue capacità, ma il vescovo Karlberg ha chiesto esplicitamente di Kurt.» Mi ritrovo ad irrigidire la mascella e sposto lo sguardo su due agenti appena entrati. «Se avesse bisogno di te, lo sai, non esiterebbe a chiedertelo.» Mi poggia una mano sulla spalla e torno a guardare il suo viso.
«Kurt non ha mai realmente avuto bisogno di me. Ed anche dopo che... » Non continuo.
«Non è così. Ti è grato per aver salvato la vita di Linda. Smettila di buttarti giù: sei un ottimo poliziotto! Non hai bisogno che qualcuno te lo dica.» Forse invece ne ho bisogno. Magari mi sarebbe bastato anche solo un grazie. «Come va con il furto ad Hedeskoga?»
Cambi argomento, Lisa? Mossa scontata, ma faccio finta di niente.
«Niente impronte, niente testimoni.... Solo un sospetto della donna sul suo vicino.» Già, il suo vicino.
«Ha precedenti?» Scuoto la testa. Lei pensa sia un no, in realtà è un ”non ho ancora controllato, perché ho cercato di non pensarci.” «Fai qualche ricerca sul suo conto: magari ricavi qualcosa.» Mi sorride e si allontana. La seguo finché non sparisce fra la ressa di persone che come al solito affolla il commissariato. Sospiro passandomi una mano dietro la nuca.
Seimila misere corone ed una vecchia collana senza valore. Questo magro bottino mi ha già causato parecchie grane. Se quei maledetti ladri avessero deciso di derubare un’altra villa, a quest’ora non mi ritroverei il cervello ridotto ad un cubo di rubik!
Mi verso del caffè nella tazza e mi avvio verso la mia scrivania. Oggi niente toast, nessuno si è ricordato di comprarli. Non mi stupisco, solitamente è un compito di cui mi faccio carico io. Ma mentre ritornavo da Hedeskoga, sono riuscito solo a pensare a tutte le assurde sensazioni che mi si erano riversate nello stomaco. Ansia, agitazione, irritazione, panico. Curiosità. Famelica curiosità. Prima era il caso San Pietro, ora è diventato Eric Huntsman il centro attorno a cui vorticano i miei pensieri. Il caso San Pietro detiene ancora il 70% della mia attenzione, ma il fatto che minuto dopo minuto, ricordo dopo ricordo, quel 30% cresca esponenzialmente, mi inquieta. E non poco.
Morale della favola? Facoltà cerebrali in panne e difficoltà ad elaborare anche i pensieri più semplici.

Sono già le 13 e 35. Butto giù un sorso di caffè ed osservo lo schermo del mio pc. Non posso lasciarmi imbottigliare così. Non è da me. Seguirò il consiglio di Lisa e considererò Eric Huntsman solo un possibile sospettato.
Accedo all’archivio della motorizzazione ed inserisco il numero di targa della sua Ford.

Risultato: Ford Fusion del 2003 di proprietà di Gustav Ringdal.

Aggrotto la fronte e rileggo più volte il nome. Gustav Ringdal.
Inizio a mordicchiare la punta della penna dondolandomi sulla sedia.
Eric Huntsman, cosa nascondi?
Non risulta nessuna denuncia di furto per quest’auto, potrebbe essergli stata prestata, oppure Eric Huntsman non è il suo vero nome. Non ho controllato i suoi documenti e non ho fatto alcuna ricerca su di lui. Lisa ha detto che sono un ottimo poliziotto, credo che in questo momento si rimangerebbe quelle parole.
La mia curiosità cresce ad ogni tasto che pigio, e dentro provo un certo sollievo pensando che parte di essa sia dovuta alla necessità del caso Fustern. Parte, purtroppo, solo parte di essa.

Eric Huntsman:
Nato ad Edimburgo l’ 11 agosto 1983. Cittadinanza Scozzese.
Madre, deceduta. Padre, deceduto.
Un unico fratello, William.
Nessun altro familiare. Nessuna moglie.
[Battito cardiaco leggermente accelerato.]
Rissa e disturbo della quiete pubblica.
Resistenza a Pubblico Ufficiale.
Guida in stato di ebbrezza.
Condanna a 14 mesi di reclusione di cui solo sei scontati. Restante pena commutata in servizio pubblico svolto presso l’istituto St. George di Edimburgo.
[...]

Faccio scorrere gli occhi ed ogni informazione è un tassello del puzzle. Il quadro inizia a prendere forma. È il quadro di un uomo fatto di fiamme, che prende fuoco e si incendia facilmente. Un uomo che nasconde dietro quella ostentata diffidenza, un vortice nero e corrosivo. Un uomo che sembra essere niente di più di una testa calda dal pugno facile.
Un uomo come tanti, di quelli a cui ho messo le manette tante, troppe volte. Eric Huntsman non sembra più un mistero. Eppure la mia curiosità per lui non è diminuita, al contrario si è triplicata. E la cosa è altamente nociva.
Continuo a leggere oltre e mi soffermo sulla foto segnaletica, in cui il suo viso è liscio ed i capelli corti. Sembra un ragazzino, non sembra l’uomo che ho incontrato stamattina, che aveva un mondo celato nelle iridi di ghiaccio ed una storia non raccontata fra le leggere rughe sul viso perfetto. Eppure le date non mentono, ed oggi quel ragazzo nella foto, ha solo qualche anno di più.
Cerco informazioni su Gustav Ringdal, ma non trovo nulla. Deve essere incensurato.
«Magnus, non hai preso i toast oggi?» Sollevo gli occhi sul viso di Anne-Britt.
«Potevi farlo tu.»
«Credevo che te ne saresti occupato come al solito.» Come al solito. È questa la cosa che mi manda in bestia.
«Me ne sono dimenticato.» La sento sospirare ma riporto lo sguardo sullo schermo. Ho già abbastanza problemi di mio, non posso stare qui a fare l’addetto alle scorte del commissariato!
«Chi è “Eric Huntsman”?» Non mi rendo conto che è alle mie spalle e mi sento attraversare la spina dorsale da un brivido. «Riguarda il furto di stamattina?»
«Sì!» Risposta estremamente veloce: denota una certa agitazione, probabile sentore di colpevolezza. In momenti come questo, la psicologia spicciola del criminale mi fa sentire solo più idiota. «È un potenziale sospettato.» Cerco di recuperare mentre tengo gli occhi fissi sulla foto.
«Uno scozzese attaccabrighe! Sembra uno scontato cliché.» Sorride ma non riesco a rispondere al suo sorriso e sono grato che non possa notarlo. «Buon lavoro, allora.» Ma la mia risposta è poco più di un borbottio indefinito.

Quando esco dalla centrale, sono le due passate del pomeriggio. Il mio stomaco si sta contorcendo in modo imbarazzante e la cosa non fa che peggiorare il mal di testa che mi ha colpito da qualche minuto.

Mi  infilo in auto decidendo di fermarmi a pranzare da qualche parte. Non credo che un panino mi sarebbe d’aiuto, meglio un pasto completo.
Non so se sia colpa del mio subconscio, o solo una ritorsione karmica per non so quale azione malvagia abbia commesso in passato, ma mi ritrovo al porto. Non posso non ricordare che Eric Huntsman ha detto di lavorare qui, né che avrebbe iniziato il turno alle 14.00.
C’è un piccolo ristorantino in cui decido di fermarmi. Entro ed il campanello sulla porta suona sollecitamente. Non c’è molta gente. Scelgo un tavolo alla vetrata e mi siedo.
Ci sono un paio di traghetti ed una piccola nave mercantile. Una decina di uomini in totale affolla il molo.
«Buongiorno. Cosa le porto?» Una sorridente ragazza con un grembiule rosso mi affianca. Capelli biondi tenuti indietro da una treccia e sorriso gentile sul viso lentigginoso.
«Il menù del giorno andrà bene.»
«Arriva subito, signore.» Mi sorride e si allontana. Non ho neanche dato uno sguardo al menù, ma sinceramente non sono in vena di turismo gastronomico. Poggio il mento nel palmo della mano e continuo a guardare fuori.
Scozzese, nato e cresciuto ad Edimburgo. Le mie considerazioni erano corrette: non è svedese, ma lo parla correttamente. Non ci sono inflessioni particolari nella sua pronuncia, in caso contrario l’avrei notato.
Il porto di Ystad è grande e dispersivo, quindi da un punto di vita prettamente logico, non ho molte possibilità di aver beccato il molo preciso dove lavora. Ma la logica mi fa decisamente difetto oggi, per cui mi lascio cullare dalla speranza che invece sia così.
Trascorre una decina di minuti e la cameriera torna con il mio piatto: spaghetti ai frutti di mare. Credo di essere entrato in un ristorante che se non è italiano, ne ha la cucina.
«Buon appetito, signore.»
«Grazie.»
Sposto lo sguardo sul piatto, ma ciò che mi colpisce è il suo profumo. Lo ispiro a pieni polmoni e mi ricorda qualcosa, e senza che necessiti di una domanda, la cameriera chiarisce quel mio dubbio: «Sono spaghetti di mare al profumo di agrumi. Specialità del nostro chef Franco.»
Mandarino... Annuisco e cerco di non badare all’assurdità del caso mentre lei si allontana.
Affondo la forchetta nel piatto ed inizio a rotearla lentamente. Alla prima forchettata porto ancora lo sguardo all’esterno. Il piatto è davvero buono, anche se quell’odore di agrumi mi distrae dall’assaporare al meglio il tutto.
Un traghetto è andato via e il mercantile sta finendo le manovre per salpare. È rimasto solo l’altro traghetto su cui una manciata di uomini sta sistemando delle casse.
Inghiotto gli spaghetti e temo di strozzarmi, perché fra le varie teste, scorgo la criniera bruna di Eric Huntsman.
Mi pulisco le labbra con il tovagliolo ed affino lo sguardo. Non posso essere stato così fortunato. O sfortunato? Questo dovrò deciderlo in seguito, credo. Sparisce per qualche istante dalla mia vista ma continuo a cercarlo. Quando la piccola calca si dirada, lo ritrovo. È lui, non posso sbagliarmi. Indossa un giubbino verde mirto, ma riesco ad intravedere la felpa grigia di questa mattina. Ha una cassa poggiata sulla spalla destra e la sorregge con un solo braccio. Capelli nuovamente tenuti indietro. Il piatto che si sta freddando davanti a me, mi permette di rammentare ancora più chiaramente il loro odore. Un uomo alla sua destra ha detto qualcosa e lui ha sorriso. Ora Eric gli sta rispondendo e l’uomo ride.
Mi ritrovo a morire dalla voglia di sapere cosa si stanno dicendo. Voglio ascoltare ancora quella voce profonda che parla uno svedese estremamente corretto.

Eric ha lavorato sull’imbarcazione incessantemente. Ha caricato e scaricato casse di varia grandezza. Ha borbottato ed ha sorriso. Ha sorriso molto e qualche volta ha perfino riso. Non sono riuscito a ritrovare nell’uomo che faceva diligentemente il suo lavoro, il ragazzo delle risse nei pub di Edimburgo. Non sembra la stessa persona. Forse, non è la stessa persona.
Alle 15.00 circa, ho ricevuto una chiamata dalla centrale e sono dovuto andare via. Ho lasciato Eric ancora sull’imbarcazione ed il piatto di spaghetti praticamente intatto sul tavolo.

Quando esco dal commissariato è ormai tarda sera. Non ho lavoro arretrato da fare, per cui posso dire che la mia giornata è teoricamente terminata. Ovvio, devo scattare alla prima chiamata di emergenza, ma il mio cervello questa sera si accontenta di nascondersi dietro una rassicurante teoria priva di insidie.
«Magnus, vieni con noi? Andiamo a bere qualcosa.» In effetti mi farebbe bene, ma non credo che sarei una buona compagnia. Una serata steso sul divano ad addormentarmi davanti all’ennesima replica di un poliziesco americano, sarà di certo una degna chiusura per questa giornata.
«La prossima volta.» Affondo le mani nelle tasche della giacca e mi avvio verso l’auto.
Mi immetto nella statale principale di Ystad. Il nero inghiotte l’asfalto illuminato a salti dalla pallida luce dei lampioni. Sembra una notte serena. L’aria è pungente, ma il cielo è un’unica enorme costellazione priva di nubi. Accendo la radio dell’auto ed una canzone di qualche anno fa risuona nell’abitacolo freddo. Il mio riscaldamento è rotto e sarebbe ora di aggiustarlo. Per adesso posso resistere, ma quando arriverà il freddo assiderante di dicembre, non avrò altra scelta.
Sul sedile accanto ho gettato il piccolo dossier che ho stilato questo pomeriggio. Il soggetto è ovviamente lui: Eric Huntsman. Mi ritrovo a buttargli uno sguardo prima di riportare l’attenzione alla strada. Non avrei dovuto farlo, perché adesso, benché il mio piccolo appartamento si trovi esattamente dalla parte opposta, non riesco ad impedire alle dita di inserire la freccia per Hedeskoga.  
Quando mi chiedo se sia la cosa giusta, sono ormai arrivato nei pressi della sua abitazione.
Mi fermo in un sentiero fra i campi, esattamente a metà fra la villa della Fustern e quella di Eric. Nel gergo corretto, questo si chiamerebbe appostamento, ma in realtà è più uno spiare grezzo e privo di morale, e sono abbastanza onesto con me stesso da ammetterlo.
Fari spenti e musica sparita. Non c’è null’altro che il ticchettio dell’ orologio e il mio respiro che si condensa nell’aria fredda.

Le luci esterne sono accese, ma la Ford non c’è. Non deve ancora essere tornato. Mi ritrovo a picchiettare le dita sul volante mentre mi stendo contro il sedile.
Magnus, ma che diamine stai facendo?
Sorveglio un potenziale colpevole di furto! Peccato che io sia il primo a non crederci. Non sto sorvegliano il signor Huntsman, vicino misterioso della vedova Fustern, ma sto pateticamente spiando Eric, scozzese attaccabrighe dalla voce profonda e dagli occhi pericolosi.  
Nelle mia testa le percentuali sono drasticamente capovolte: San Pietro 20%, Eric Huntsman 80%.

Sono le 21 e 47 quando la Ford blu parcheggia lentamente davanti all’abitazione. Eric scende ed apre il portellone posteriore. Sta scaricando qualcosa. Assottiglio lo sguardo e, grazie alla buona illuminazione della casa, riesco a non avere troppa difficoltà nel vedere di cosa si tratta. Sono assi di legno e corde. Deve averle prese al porto. Mi chiedo a cosa gli servano, ma dato lo scarno della sua abitazione, presumo che gli necessitino per qualche lavoro di ristrutturazione.  È un uomo che ama la manualità e di certo il suo fisico massiccio gli permette di fare qualsiasi tipo di lavoro. Non riesco a vedere il suo viso. Troppe ombre, troppe dannatissime ombre me lo celano. Scorgo solo i suoi capelli stretti nella coda e quell’inopportuna agitazione mi annega nuovamente lo stomaco affamato. Sono un idiota: perché non ho preso un take-away o qualcosa di simile? Fare appostamenti a stomaco vuoto è una delle cose peggiori che possono capitare ad un poliziotto.
Getto uno sguardo alla villa della signora Fustern. Il fatto che sia qui per motivi totalmente estranei al furto che ha subito, mi fa sentire una persona alquanto scorretta. Ma se scoprissi qualcosa sul suo conto, sarebbe un aiuto anche per le indagini.
Sì, continua a ripetertelo, magari alla fine ci crederai davvero!
Mi accascio contro il volante facendo attenzione a non cozzare contro il clacson, ci manca solo che in questo silenzio tombale mi ritrovi a palesare la mia presenza come l’ultimo dei pivelli dell’accademia.
Eric sistema le casse lungo il muro della casa. È un tipo ordinato, il che non si direbbe a prima vista. Ma quante cose non dovrebbero dirsi a prima vista.
   “Non hai la faccia da poliziotto.
«E che faccia ho?» mi ritrovo a chiedere nella solitudine dell’auto. La faccia da ragazzino, come dice sempre mia madre. La faccia di uno che non mette timore, come diceva il mio istruttore, sentenziando che avrei dovuto cambiare lavoro. Perché se un cittadino non ti teme, non ti rispetta. Ed il rispetto è ciò che fa di un uomo, un poliziotto. Forse è vero che la gente non mi rispetta, i miei colleghi me lo stanno dimostrando chiaramente.   
Ma forse dovrei smetterla di annegare nell’autocommiserazione e fare un po’ di sana autocritica. Magari questa notte di freddo e solitudine a spiare un taciturno scozzese, potrebbe essere il momento giusto per tentare di farlo. Non sono il miglior poliziotto della Svezia, né tantomeno ho l’illusione di diventarlo. Conosco i miei limiti ma so anche quello che valgo.
Ho abbastanza sangue freddo per tenere puntata una pistola addosso a qualcuno? Sì. Ho abbastanza sangue freddo da premere il grilletto? Sì. Questo basta a fare un buon poliziotto? Forse no, di certo non basta per essere un uomo. Il sangue freddo non basta ed io non ne ho neanche abbastanza per girare quest’auto e tornarmene a casa.
Ma forse è proprio questo il punto: il sangue. Il mio è diventato dannatamente caldo da quando ho incrociato quegli occhi, e la verità è che voglio capire perché.
Temo le risposte che posso trovare, rabbrividisco all’idea di quali verità possa aver sepolto inconsciamente per un’intera vita. Credo di poter capire solo adesso quello che ha provato Svedberg[1]. I suoi silenzi, la sua vergogna.
Stringo gli occhi e mi abbandono ad un lungo sospiro. No, non posso crederlo. Non voglio crederlo.
Quando risollevo lo sguardo, Eric ha appena chiuso lo sportello.
Quando rientrerà, metterò in moto e me ne tornerò a casa. Domani chiederò una vacanza a Lisa. Sono certo che non avrà problemi a concedermela.

Ore 22.05, Eric Huntsman è rientrato in casa e dalla finestra proviene una tenue luce irregolare. È la finestra del soggiorno dove mi ha fatto accomodare stamattina. Non c’è luce artificiale, è solo l’irradiazione del camino.
Me lo immagino seduto in silenzio davanti all’enorme brace. Immagino il suo viso illuminato dall’arancio del fuoco, i suoi occhi in cui sfavillano le fiamme, i capelli forse sciolti che odorano insospettatamente di mandarino. Sta stringendo una birra fra le dita, o forse una tazza di tè. Potrebbe essere il tipo da tè caldo? Non lo so, ma quell’immagine mi scalda. Mi sento come se fossi seduto nuovamente accanto a lui, sebbene il mio fiato annebbiato dovrebbe rammentarmi che invece mi sto congelando il sedere in questa Volvo priva di riscaldamento. Desidero essere seduto accanto a lui. Quei trenta centimetri, adesso mi sembrerebbero anche troppi.

Fisso la luce di quella finestra per un tempo che pare infinito, finché non si attenua.
Sono ormai passate le 23 quando, poggiato contro il sedile, mi addormento senza neanche rendermene conto.

















Continua...




[1] Sveberg era un poliziotto che lavorava nella squadra. Nel 3° episodio della prima stagione viene assassinato. Si scopre poi che aveva una relazione con un travestito e che era anche segretamente innamorato di Kurt. [ndr. Roba che manco Beautiful nei suoi anni migliori]



NdA.
Nuovo capitolo e nuovi grattacapi per il nostro Magnus ^^
Ormai ho preso l’abitudine di aggiornare di domenica e credo che per adesso la manterrò.
IMPORTANTE: Volevo informarvi che tutto ciò che sarà scritto riguardo a leggi, condanne e via dicendo è assolutamente inattendibile. Conosco a malapena il codice italiano, non so quindi quale sia quello scozzese né quello svedese. Ho fatto un paio di ricerche ma non mi assumo responsabilità per la veridicità di quanto riportato. Perciò prendete per buono ciò che leggerete senza farvi troppe domande. Ok? u///u L’ignoranza alle volte giova! ^______^

Come al solito grazie a tutti voi che seguite, spero come sempre che anche questo aggiornamento sia stato di vostro gradimento.
Ne approfitto per dire tack a Sara che mi ha fatto dono di questa splenderrima gif.
Let me love you  *w*



Kiss kiss chiara

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Capitolo 4
*** Un poliziotto sfortunato ***


4. Un poliziotto sfortunato
Detective Martinsson



IV. Un poliziotto sfortunato



L’alba deve essere sorta da poco. Apro lentamente le palpebre avvertendo il fastidio di un torcicollo che mi avvelenerà la giornata. Le dita sono ghiaccioli di carne e sono quasi certo che i miei piedi non siano in condizioni migliori. Mi stiracchio per quanto mi è possibile, mentre cerco negli immediati secondi successivi, di riattivare la totalità delle mie funzioni cognitive.
Sono ad Hedeskoga, a pochi metri dalla casa di Eric Huntsman (tormento delle mie ultime ventiquattro ore).
Ho la bocca allappata e sono senza un goccio di acqua né tantomeno di caffè. Fortuna che riesco a trovare dei chewing gum nel vano portaoggetti, e ringrazio per questo.
Lancio uno sguardo al mio riflesso attraverso lo specchietto retrovisore ma distolgo subito la vista.
Ho un aspetto orrendo. Mi sento orrendo.

Porto gli occhi all’abitazione di Eric e noto che la sua auto è ancora lì. Starà dormendo? Avrà il turno di mattina o di pomeriggio? E se invece fosse il suo giorno libero?
Ma perché dovrebbe importarmene, poi? Ho già sprecato troppo tempo.
Se è vero che la notte porta consiglio, quello che mi ha sospirato nel freddo di quest’auto, è di lasciar perdere tutto. Non ho avuto le risposte che cercavo, ma se fossi realmente sincero con me stesso, direi che quelle che ho trovato non mi sono piaciute.
Devo stargli lontano. Per il mio bene, devo mettere quanta più distanza e quanto più lavoro fra me e lui. Venire qui non è stata per niente una buona idea. Restare, ne sarebbe solo una peggiore.
Guardo l’orologio: sono le sette passate da qualche minuto. Dovrei fare un salto a casa prima di andare alla centrale. Una doccia è d’obbligo. Una colazione quantomeno decente, pure.
Che se ne vada al diavolo Eric Huntsman ed i suoi segreti!
Afferro le chiavi fra le dita e giro. Due secondi e l’auto si spegne.
Colpa del freddo, credo.
Riprovo, ma stavolta non si accende neppure.
«Non fare scherzi!» ringhio a denti stretti mentre ritento per l’ennesima volta di mettere in moto questo catorcio che mi ritrovo come macchina. Quando ottengo un altro fallimento, inizio a battere nervosamente i palmi sul volante maledicendo tutto ciò che mi passa per la mente.
«’Fanculo!» È il mio ultimo sfogo mentre mi ritrovo a passare le dita sulla fronte. Devo solo chiamare un taxi e smetterla di perdere tempo.
Magnus, lascia perdere Eric Huntsman, lascia perdere il caso Fustern e chiedi quella maledettissima vacanza!
Infilo la mano nella tasca dei pantaloni e tiro fuori il cellulare. Lo accendo, o meglio, tento di farlo.
«Non è possibile... » Se non fossi un uomo e per giunta un poliziotto, forse inizierei a piangere.
Avanti, brutto aggeggio inutile: accenditi!
Forse davvero c’è qualcuno che ce l’ha con me. Forse in questo universo, c’è una forza mistica che ama crogiolarsi nelle mie disgrazie, altrimenti non si spiegherebbe perché accadano tutte e me.
Getto il cellulare praticamente morto sul sedile con uno sbuffo.
Non ho il carica batterie con me. Non ho acqua, con me. Non ho caffè, con me. Non ho più pazienza, con me! Ho solo questa pistola che sarebbe il caso di puntarmi alla tempia! Ma per fortuna, sono molto lontano dall’essere un tipo da istinti suicida.
Lo riprendo infilandolo nella tasca.
Apro la portiera e non mi lascio il tempo di rabbrividire per l’aria gelida del mattino. Sollevo il cofano e do uno sguardo al motore.
La metterò in moto! Farò partire questa carretta ad ogni costo!
Ma la verità è che non ho la più pallida idea di dove mettete le mani.
Mi poggio con entrambi i palmi sulla carrozzeria mentre un sospiro fra il disperato e il limite dell’ira, abbandona la mia gola. Ora sì, ho davvero voglia di piangere.
Deve essere colpa del freddo, su questo non ci sono dubbi. Ma come faccio a capire come sistemarla? Sono un detective non un meccanico!
Sono sul punto di prenderla a calci, quando sento il rumore di un'auto che si ferma alle mie spalle. Se non fossi stato così occupato a maledirmi, mi sarei accorto da che direzione fosse arrivata. Mi sarei accorto che era una Ford Fusion blu scuro. Mi sarei accorto che alla guida ci fosse Eric Huntsman.
«Sei rimasto a piedi?» Mi volto incontrando un sorriso sghembo su un viso stranamente rilassato nonostante sia mattina presto. Io sono uno straccio. Quegli occhi pericolosi stanno guardando la faccia stravolta e incazzata di uno straccio umano.
«Signor Huntsman!» Sono quasi certo che la mia voce abbia avuto una tonalità più alta del normale. Ma la sorpresa di trovarmelo davanti è stata alquanto destabilizzante.
Mi ritrovo a passare una mano fra i capelli mentre cerco di non pensare a ciò che gli starà passando per la testa: “Il tizio di ieri. Il poliziotto rompiscatole dai buffi capelli ricci di cui non ricordo il nome”.
Scende dall’auto e lo vedo avvicinarsi lentamente. Mentre la sua figura si fa più nitida, realizzo che sono a stomaco vuoto, dopo aver passato una notte orribile in auto e senza aver fatto una doccia.
Oddio, che odore avrò?!
Tutto ciò che mi salva è questa gomma alla menta che sto tranciando in modo quasi ossessivo.
«Non parte?»
«No, non si accende.» Non mi guarda. La sua attenzione è rivolta al cofano aperto e mi ritrovo a fissare il suo profilo. L’espressione concentrata, le labbra semi dischiuse, il suo orecchio destro che trattiene qualche ciocca di capelli – capelli, come al solito, stretti nella coda.  
Bello.
È l’unica cosa che riesco a pensare in questo momento. L’unica parola che rimbalza dolorosa nella testa e che mi costringe ad ingoiare un sospiro decisamente inopportuno.
Indossa il giubbino verde di ieri, ma da sotto ha un maglione azzurro. Si sporcherà, probabilmente. Non voglio che si sporchi a causa mia, ma la mia lingua è frenata. Non c’è suono nell’aria che non sia quello della natura che ci circonda, che non sia il rumore delle mani di Eric che armeggiano con il motore.
«Prova a mettere in moto.» Alza gli occhi su di me e per un solo istante prego che non riesca a leggere ciò che giace in fondo ai miei.
«Va bene.» Entro in auto e tento di avviarla. «Non va.» Perché diamine mi sta aiutando?
«Il quadro è acceso?»
«Sì.» Fisso il metallo del cofano finché non lo vedo chiudersi. Eric si poggia le mani sui fianchi scuotendo la testa mentre si passa distrattamente la punta della lingua nell’angolo destro delle labbra.
Bello.
Ancora una volta il mio cervello è andato in crash.
«Non è la batteria. Probabilmente riguarda il motorino di avviamento.» Resto a guardare le sue labbra muoversi ma non capisco una sola parola di quello che dice. Non mi intendo di motori, ma soprattutto, sono distratto da altro.
«Ah...» Credo che stavolta non sia riuscito ad impedirgli di leggermi nella testa, perché lo vedo sorridere in modo divertito mentre si pulisce le mani sui pantaloni. Deglutisco e stringo forte le dita attorno al volante per qualche secondo. Non posso farmi giocare così dalle emozioni.
Prendo un respiro profondo. Ok, puoi farcela!
Scendo e lo raggiungo.
«Credo che tu debba cambiare le spazzole... » Si guarda le mani prima di rivolgermi gli occhi ed un altro sorriso beffardo. «E non mi riferisco a quelle per i capelli.» La sua risata mi riempie le orecchie ed il resto del corpo. È calda, profonda, avvolgente. Inspiegabilmente rilassante. Eppure non posso ignorare che è una chiara presa in giro nei miei confronti. «O devi cambiare l’intero motorino. Di certo però, non è la batteria.» Non sono ancora riuscito a dire niente, mentre lo vedo gettare un’ultima occhiata al cofano ora chiuso.
Devo almeno ringraziarlo. Di cosa non lo so, se per aver tentato di rianimare la mia auto o per avermi fritto il cervello nelle ultime ventiquattro ore. No, nel secondo caso sarebbe più opportuno prenderlo a pugni. Se solo non fosse così grosso, se solo non fosse così...
«Signor Huntsman, io la ringrazio e... Mi spiace se si è sporcato.» Con un gesto della mano gli indico i pantaloni ma lui mi guarda alzando un sopracciglio. «Ero qui per controllare la casa della signora Fustern... Sa, per l’indagine.» Sento il mio naso allungarsi come quello della fiaba, ma lui pare ignorare le mie parole ed alza appena lo sguardo all’orizzonte. Il sole risplende fra le ciglia e l’azzurro dei suoi occhi diventa un mare in cui annego senza possibilità di salvezza.
Non riesco a trovare una riva a cui giungere. Non c’è niente che possa impedirmi inesorabilmente di perdermi. Ed ho paura.
«Fai controlli a quest’ora del mattino, Magnus?» Non so cosa mi abbia bloccato il respiro, se la sua osservazione acuta, se i suoi occhi devastanti su di me, o il suono del mio nome pronunciato dalla sua voce.
Si ricorda il mio nome. Non il mio cognome, non uno scontato e comune “agente”. Ma il mio nome.
Sono patetico se trovo la cosa di estrema soddisfazione?
«I criminali non conoscono orari, signor Huntsman, e neanche i poliziotti.» Sorrido quasi in modo liberatorio ed Eric ricambia annuendo.
«Signor Huntsman... » Ridacchia sottovoce facendomi il verso, ma non riesco a coglierne il significato. Un’altra presa in giro? Cosa c’è di divertente in me? La mia faccia? La voce? I capelli? Aggrotto le sopracciglia restando in silenzio per qualche secondo.
«Signor Huntsman, io-»
«Eric.» Ora ho capito.
Magnus, sei un idiota!
Vuole che lo chiami con il suo nome, forse trova irritante che continui a rivolgergli quel “Signor Huntsman” che invece per me è diventato un’ipnotica cantilena. Devo dargli del tu, me lo sta chiedendo, ma... Lo sento come un limite che non dovrei superare. Non è una questione di etichetta né sono stupidaggini sul ruolo. È un margine di sicurezza. La mia.
«Ehm... Eric, io... » Ma a volte non puoi fare a meno di rompere gli argini. «Ti ringrazio.» Ed aspettare che la piena ti travolga.
Sto sorridendo in modo ebete, me ne rendo conto, ma non riesco ad impedire alle mie guance di tirarsi.
«L’hai già fatto prima.» Sì, lo so. Dannazione, lo so! Mi sto incartando. Sto ritornando a ieri e a quella sensazione di disagio e soggezione. «E comunque io non ho fatto niente.» Si batte le mani rumorosamente e si avvia verso la sua auto. Lo seguo con gli occhi sentendo il battito accelerare e diminuire allo stesso tempo. «Dovrai chiamare un taxi.» Sospira abulico mentre risale in auto.
Sì, dovrei ma... «Il mio cellulare è scarico... credo.» Mi guarda aggrottando la fronte e mi sento totalmente in imbarazzo. Distolgo lo sguardo grattandomi nervosamente il lobo dell’orecchio sinistro. Voglio sotterrarmi all’istante.
Sarebbe lecito chiedergli di farmi fare una telefonata. A dire il vero, l’ho appena fatto, anche se in modo molto indiretto e davvero patetico.
«Ma che razza di poliziotto sei?» Suona come un’offesa -un’altra- eppure non riesco a non sorridere e torno a guardarlo.
«Uno molto sfortunato, signor Huntsman.» Stringo gli occhi accorgendomi dell’errore. «Eric.»
L’aria gelida del mattino di Hedeskoga mi attraversa gli abiti, mi arriva alla pelle e la fa rabbrividire, eppure non posso negare di avvertire un tepore nascere da dentro. E non vorrei sentirlo.
Eric sorride in modo impercettibile e sposta lo sguardo davanti a sé. Braccio poggiato fuori dal finestrino e dita a sfiorare la fronte.
«Ti porto alla centrale?» So di non aver capito male.
«Oh, no! Non serve, mi basta fare una telefonata. Grazie.» Io seduto nella sua stessa auto? Nel sedile accanto al suo? Con il solo cambio a dividerci? No, no, no, no: non se ne parla!
«Ti porto alla centrale?» La sua espressione mi piega ancora più delle sue parole.
Eric Huntsman è un tipo decisamente tenace.
Non riesco a tenergli testa e non capisco se sia lui o sia io. In fondo è solo uno con una fedina penale per niente pulita. Non è uno stinco di santo né sembra preoccuparsi troppo di esserlo. Non dovrei farmi intimidire da qualcuno del genere, anche perché ho visto criminali peggiori. Allora perché? Cos’ha quello sguardo per farmi bloccare la lingua ed i pensieri? È lui o è l’effetto che hanno su di me?
Sono io?
«Eric, grazie. Ma davvero, non preoccuparti. Mi basta fare una telefonata.» Il mio è un sorriso di circostanza, di quelli che piegano le labbra ma non gli occhi. Non so se è così che l’ha percepito, ma sospira scuotendo la testa.
«Senti, lo vuoi o no questo passaggio?» Stanco, annoiato, brusco, decisamente al limite della pazienza.
I suoi occhi tornano a destabilizzarmi e sono incapace di muovermi, di parlare, anche solo di respirare.
La situazione mi è decisamente sfuggita dalla mani. Una stupida indagine per furto, si è trasformata -Dio solo sa come- in uno spaventoso attentato a tutte le mie sicurezze. Un solo giorno ha minato tutto ciò di cui ero certo, tutti i miei perni fissi nel terreno, tutto quello in cui credevo. Tutto si è frantumato.
Vorrei sapere come sono arrivato a questo. Vorrei sapere se esiste la possibilità di tornare indietro. Vorrei capire come può questo tizio, farmi un simile effetto.
«Guarda che non ho tutto il giorno.» Mi sento sul ciglio di un burrone. Una sola parola, un solo passo e cadrò davvero al di là del dirupo. Cosa mi aspetta sul fondo di questo abisso, non lo so. Non so neanche se ci sia un fondo a cui giungere.  
«Ehm... » Tentenno. Non posso farlo. Non posso davvero farlo.
«Se vuoi fartela a piedi, accomodati.»
Il rumore del motore. Il fumo che esce dalla marmitta.
Il freddo di Hedeskoga, adesso riesco a sentirlo tutto.
Le mie gambe si muovono incuranti di ciò che urla la mia testa. Si avviano verso la Ford blu, e le mani decidono di seguire il loro cattivo esempio ed aprono lo sportello.
Abbandono l’auto fra le piane di Hedeskoga. Sul sedile del passeggero, un pacchetto di vecchie chewing gum ed un dossier che porta il nome “Eric Huntsman”.
La mia caduta è appena iniziata.

















Continua...






NdA.
In questo capitolo, Magnus, oltre alle pose, si è sparato anche un paio di perle di saggezza, ma non fategliene una colpa. Mettetevi nei suoi panni: non ci sta più con la capoccia, porello u.u Eric rincitrullirebbe chiunque.
Ad ogni modo, siamo in caduta libera. Ma prima di arrivare a sentire il botto... beh, ce ne vorrà ancora.
Ora dopo il solito sproloquio inutile, per voi, ho due notizie. Una buona ed una cattiva.
La buona: il prossimo aggiornamento sarà di Venerdì e non di Domenica! (Spero vivamente la consideriate come buona XD)
La cattiva: Sabato parto e non avrò né il tempo né la possibilità materiale di aggiornare la storia *^*
Tornerò verso la metà di febbraio, forse, per cui la fic resterà momentaneamente in stand-by.
Tenete in considerazione, comunque, che ho già abbozzato i prossimi 4 capitoli, per cui appena avrò modo di metterci le mani sopra, avrete l’aggiornamento.
Mi sembrava corretto informarvi, così non mi darete per dispersa ^^'
Ed ora, come sempre,  Grazie! Mi ripeto, lo so, ma è l’unica cosa da dire visto l’affetto che state dimostrando verso questa storia *w*
Kiss kiss Chiara

P.S. Dedico questo capitolo a mio fratello, l’espero di meccanica a cui mi sono affidata per scrivere una scena appena realistica.
Thanks, brother ^w^

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Capitolo 5
*** Jag gillar honom ***


5. Jag gillar honom
Detective Martinsson



V. Jag gillar honom[1]



Guida in stato di ebbrezza. Quella voce dell’elenco mi lampeggia come monito nella testa.
Getto uno sguardo al suo profilo, alla mano ferma sul cambio e a quella che tiene il volante.
Sei mesi di reclusione, in Scozia è questa la pena per quel tipo di reato. Da noi, se ne sarebbe fatto qualcuno di più.
È silenzioso. Eric Huntsman è un tipo di poche parole, ma questo l’avevo già notato. Tiene gli occhi fissi sulla strada, ed anche quando mi parla -rarissime volte- non sposta mai lo sguardo dall’asfalto. Forse ha imparato la lezione, forse semplicemente non ha interesse a farlo.
«È stata una fortuna incontrarti, davvero» sospiro con un sorriso e lui conferma tutte le mie osservazioni annuendo appena sempre di profilo. «Sarei potuto rimanere fermo lì per ore. Non sarebbe stato divertente!» La mia risata è solitaria. Risuona nel silenzioso abitacolo e mi ritrovo ad inghiottire un groppo di disagio.
«Che ci facevi lì?» Adesso mi guarda. Solo qualche istante, prima di inserire la terza e prendere una svolta.
«Te l’ho detto: è per il furto della Fustern.» Mi ritrovo a guardare fuori dal finestrino, lontano dal suo sguardo palesemente sospetto.
«Non capisco quale sia l’utilità di spiare una vecchia di prima mattina... Ma non sono affari miei.» Torna la quarta.
«Non la stavo spiando.» Non stavo spiando lei. «Volevo solo avere qualche risposta.» Da te.
Disegno più volte con il pensiero la linea della sua mascella. «Tu, quindi, ti intendi di motori?» Non trovo modo meno banale per cambiare argomento.
Eric Huntsman: occhi fissi sulla strada e labbra serrate.
«Più o meno.» Non continua il discorso e torna a coprirsi di silenzio.
Mi mordo l’angolo interno della bocca cercando una calma amica, perché effettivamente me ne serve molta.
Da quando sono salito in quest’auto, sono stato tutto il tempo con il cuore in gola. Ho cercato di non pensare all’odore di vernice che invade prepotente l’abitacolo -qualche barattolo nel cofano, forse. Ho cercato di non badare alla sua mano, che inserendo la quarta, mi ha sfiorato il ginocchio. Ho cercato di  non notare quanto appaia ancora più insopportabilmente attraente alla luce aranciata del mattino, e soprattutto, ho cercato di ignorare le sensazioni sconvenienti che mi si sono riversate nello stomaco.
Ma ho fallito in tutto.
Sapevo a cosa sarei andato in contro. Sapevo che non ne avrei ricavato nulla di buono. Sapevo che forse mi avrebbe fatto male, ma ho voluto comunque buttarmi.
Non mi resta che essere onesto ed affrontare la realtà. Non posso nascondermi dietro a bugie che provocherebbero solo altri danni. Se Svedberg mi ha insegnato qualcosa, è che non si può vivere in un segreto. E per quanto difficile sia accettarlo, devo farlo: mi piace.
Eric Huntsman, mi piace. E molto.
Ti senti meglio?
Non credo, anzi, sto peggio, perché non so se sarò ancora in grado di guardarmi in faccia. Soprattutto, non so come posso continuare a guardare lui. Forse per questo tengo la testa rivolta a destra, contro il finestrino, contro il verde dei prati che sfilano davanti a me.
«Di solito cerco di stare alla larga dai poliziotti.» Ma le sue frasi sono così rare che non riesco ad ignorare quella sincerità, come non riesco ad ignorare la sua fedina penale. Mi volto a guardarlo. «Non mi piacciono molto.» 
«E come mai?» Resistenza a Pubblico Ufficiale.
«Fanno troppe domande.» Mi ritrovo a ridere ed Eric fa lo stesso.
Nella mia testa una domanda che non ho il coraggio di porre ma di cui, in verità, non necessito di risposta. L’ho già avuta, al nostro primo incontro, e non è stato più possibile dimenticarla: “non hai la faccia da poliziotto.”
Avrei altro di chiedergli, vorrei approfittare di questo breve momento per soddisfare la mia famelica curiosità nei suoi confronti, ma non posso. Gli darei conferma di ciò che ha appena detto: i poliziotti fanno troppe domande.
«Ti ringrazio ancora.» Mi limito all’unica frase che non può avere effetti pericolosi.
Eric annuisce ed è di nuovo silenzio. Stavolta è diverso, però. È un silenzio piacevole, di quelli che sono compagnia e non distacco.

Siamo arrivati quasi al centro di Ystad, quando mi rendo conto che ora ho davvero bisogno di una doccia! Ma di certo non posso farmi accompagnare fin sotto casa mia. Sarebbe inopportuno oltre che tremendamente imbarazzante –e soprattutto decisamente ambiguo.
A due isolati dal commissariato lo faccio fermare.
Non voglio che mi vedano scendere dalla sua auto? Non lo so, anche se in realtà dubito fortemente che qualcuno si prenda la briga di monitorare i miei spostamenti. Non sono così interessante.
«Sei stato molto gentile. Davvero.» Gli offro un sorriso sincero ma lui mi restituisce solo due labbra leggermente sollevate da un lato. Scendo e chiudo lo sportello. Pochi altri secondi per godere di quegli occhi azzurri.
«Fai controllare le spazzole.» Non ho neanche il tempo per un “ok” , ché Eric Huntsman è già sparito fra il traffico mattutino di Ystad.


«Hai un aspetto terribile.» Anche dietro quella tazza di caffè, riesco a vedere il sorriso sulle labbra di Anne-Britt.
«Lo so. Grazie.» Getto la giaccia sulla sedia e mi siedo stancamente sulla scrivania stropicciandomi gli occhi.
«Nottataccia?» Non le serve una risposta. «Per colpa di cosa, o per meglio dire, per colpa di chi?»
No, il terzo grado di Anne-Britt di prima mattina è proprio l’ultima cosa di cui ho bisogno.
Afferro un dossier a caso dalla mia postazione e fingo di ignorare la domanda, ma non posso fare altrettanto con la risposta che lampeggia isterica nella mia testa.

Lisa è mattiniera come al solito e la vedo dare direttive a destra e a manca con il suo consueto tono gentile ma deciso. Kurt, invece, non riesco a scorgerlo. Forse non è ancora arrivato, o sarà fuori su qualche caso. Su San Pietro, presumo. È l’unico caso di cui si sta occupando. Non gliene do colpa, deve essere dura fare luce in quell’ingarbuglio di mezze verità che è l’ambiente ecclesiale.
Forse è il tipo di preoccupazione di cui necessito io. Quella preoccupazione che ti tiene sveglio di notte, che ti fa dimenticare i pasti, che ti fa correre da una parte all’altra della città al primo squillo di telefono. Quella preoccupazione che ti tiene la mente occupata e non hai né spazio né tempo per pensare ad altro. Sì, è proprio quello di cui ho bisogno. Un chiodo scaccia chiodo alla vecchia maniera. Sicuro ed efficace.
Ma non ce l’ho, e sono abbastanza stufo di elemosinare. Non mi umilierò ancora davanti agli occhi di Kurt o Lisa affinché mi tirino nel caso. Sono certo che ne salterà fuori uno anche per me.
Sì, Magnus, un po’ di ottimismo!
Il telefono squilla, ma stavolta qualcuno mi precede. Ma come vuole la sorte, l’unica volta in cui non rispondo, è una telefonata per me.
«È la signora Fustern.» Anne-Britt mi passa la cornetta. Ed ora cosa vorrà?
«Sono il detective Martinsson.»
«Detective, i ladri sono tornati! Ne sono sicura. Vogliono portare via anche il servizio di porcellana che il mio defunto marito mi regalò per il nostro decimo anniversario! Deve fare qualcosa: mandi degli agenti o venga lei. Non voglio che mi derubino ancora!» Un fiume mi si riversa nelle orecchie e mi ritrovo a passarmi le dita sugli occhi mentre prendo un lungo respiro.
«Signora Fustern, si calmi, la prego. Cos’è successo? Qualcuno le è entrato di nuovo in casa?»
«Non ancora.» Aggrotto un sopracciglio.
«Che vuol dire “non ancora”?»
«Mi stanno spiando. È da ieri sera che mi spiano. C’è una macchina ferma davanti casa mia da ieri sera, detective! Faccia qualcosa! Volevo chiamare prima, ma non ne ero sicura.» Ingoio un’imprecazione e noto che Anne-Britt l’ha carpita. Mi fa cenno con la testa per chiedermi se è tutto ok ed io annuisco, anche se non posso fare a meno di gridarmi mentalmente idiota da solo.
«Signora Fustern, è per caso un’auto grigia?»
«Sì! Vuole la targa? Riesco a vederla da qui. È ferma proprio davanti casa mia.» Ad essere precisi, è a quaranta metri da casa sua, ma credo che per una donna della sua età e con la sua vista, questo sia un dettaglio di poco conto.
«Senta, stia tranquilla. Non sono ladri. È mia quell’auto.» Si prende una piccola pausa.
«È sua? E perché la sua auto è davanti casa mia?» Non davanti, ma a quaranta metri!
«Stavo facendo una piccola ronda per la zona. Volevo controllare che fosse tutto in ordine. Nulla di cui preoccuparsi, signora.» Sto diventando un bugiardo di grande talento.[2]
«Oh, meno male. Lei è un proprio bravo giovanotto, detective!» Per fortuna non mi chiede come mai l’abbia lasciata lì.
«Ora stia pure serena. La polizia si sta occupando ampiamente del suo furto.» Sì, la polizia di Ystad, non certo io. E la cosa mi lascia un forte amaro nella bocca. Un amaro che neanche questa dannata gomma può cancellare.

Quando riesco a tranquillizzare la donna, torno ad accasciarmi sulla scrivania, prima che qualcuno mi allunghi una tazza fumante di caffè annacquato. Dovrei chiamare un carro attrezzi e far portar via l’auto.
«Non so che ti sia successo, ma devi riprenderti.»
«Grazie, Anne-Britt.» Non ho fatto neanche colazione. Ho avuto giusto il tempo di infilarmi in bagno e di agguantare una ciambella fredda.
«Buongiorno.» Lisa entra nella stanza con gli occhiali poggiati appena sulla punta del naso. Mi scruta con un piglio dubbioso e sono pronto a ricevere un’altra delicata osservazione.
«Magnus, tutto bene?» Annuisco silente mentre mando giù un sorso di liquido caldo. Ed è pure amaro! Ma sono troppo esausto per alzarmi a prendere il dolcificante. «Non sei tornato a casa stanotte?» La sua voce mi arriva come un richiamo di mia madre.
«Perché me lo chiedi?» Non posso credere che si noti così tanto la mia faccia da nottata-in-auto.
Mi lancia uno sguardo da sopra le lenti prima di sfogliare i documenti che ha in mano.
«Hai gli stessi vestiti di ieri.» Non alza lo sguardo dalle carte «Di solito non indossi mai un maglione due giorni di seguito.» La risata di Anne-Britt non mi sfugge. Così come non mi sfugge il risolino sulle labbra di Lisa.
«A dire il vero, ho fatto un appostamento. Per il caso Fustern.» Altro sorso, altra smorfia per l’assenza di zucchero.
«Un appostamento per un caso di furto? Andiamo Magnus, puoi dirlo se hai una fidanzata!» Spalanco le braccia sconcertato e per poco il caffè non mi si rovescia.
«Io non ho nessuna fidanzata!» Magari fosse quello il problema. Magari...
«Beh, non ci sarebbe nulla di male» sogghigna Anne-Britt prima di darmi una pacca sulla spalla. «Sei un tipo che può piacere a qualche categoria di donna.» Una perfetta offesa travestita da complimento.
«Ho detto che non ho nessuna fidanzata!» Mi ritrovo a ribadire in una stanza ormai vuota.
Abbasso entrambe le braccia che erano rimaste a mezz’aria calando lo sguardo sul liquido scuro. Riesco a vedere il mio stesso riflesso e mi lascio sfuggire un sospiro fra il liberatorio ed il disperato. A dirla tutta, mi sento più disperato che liberato! Al contrario, ho un peso che mi lega la testa ed il petto, e quel peso ha la voce profonda e gli occhi di ghiaccio.

«È una Volvo grigia.» Mi gratto la nuca con la penna che stavo mordicchiando un secondo fa. Devo ricordarmi di non farlo più. «Sì, passo questo pomeriggio all’officina...» Spero solo che la spesa non sia eccessiva, ma sono quasi sicuro mi andrà in fumo metà stipendio. «Credo siano le spazzole... » “E non mi riferisco a quelle per i capelli”... simpatico... «Magnus Martinsson... Sì, va bene. Grazie.»
«Come sei venuto a lavoro?» Non faccio in tempo ad appoggiare la cornetta, che la voce di Anne-Britt, strozzata da un morso di qualcosa (credo sia un toast), mi sbuca alle spalle.
«Mi hanno dato un passaggio.» Taglio corto mentre riprendo a lavorare su un profilo che mi ha chiesto Lisa: il giardiniere di una famiglia facoltosa sospettato di essere il mittente di alcune minacce verso la suddetta famiglia.
Batto i tasti del pc, ma sento lo sguardo indagatore della mia collega che mi brucia sulla guancia destra. «Che c’è?» chiedo senza spostare gli occhi dallo schermo.
Isak Ruddart, 63 anni. Divorziato da dodici e padre di due figli: Margaret e Liam. Lavora come giardiniere presso i Arttberg da quasi quindici anni.
«Com’è?» Piccoli precedenti per furto risalenti a più di vent’anni fa.
«Chi?» Devo stamparlo e poi consegnarlo a Lisa.
«La tua ragazza.» Ma per poco non cancello tutto.
«Io non... Ma come te lo devo dire che non c’è nessuna ragazza?!» chiarisco fissandola dritto. Sorride mandando giù l’ultimo pezzo di toast (avevo ragione, era un toast) e annuisce. Non crede alle mie parole. «È la verità» sospirò incrociando le braccia sulla scrivania mentre lei continua a guardarmi sorridente.
«Ok, Magnus. Se lo dici tu.» Ma ovviamente non mi crede. Di nuovo.
A parte che non penso siano affari di nessuno se abbia o meno una fidanzata, ma poi perché dovrei negarlo in caso fosse vero?
«Senti, perché dovrei mentirti?» Voglio sinceramente saperlo. Cos’è, adesso oltre al titolo di factotum del commissariato, ho anche quello di spara balle?!
Fa un piccolo sospiro e poi si avvicina lentamente alla mia scrivania. I capelli perfettamente stirati ai lati del viso e la piccola frangia che sottolinea gli occhi furbi. «Allora? Secondo te mi vergognerei a dire che ho una fidanzata?» insisto quando si poggia sulla mia postazione. Il suo sguardo è un misto fra il divertito ed il compassionevole, e non so dire quale dei due mi dia più fastidio.
«Hai una luce strana negli occhi e... Sono più che certa che sia a causa di una donna!»
Mi spiace Anne-Britt, hai toppato alla grande!
Sospiro spazientito.
«Non hai altro da fare oggi? Che ne so, correre a scodinzolare da Kurt?!» Pungo e voglio far male.
«Non in questo momento.» Ma lei non raccoglie -diplomatica, come sempre- e si allontana con un’espressione ghignante sul viso. Sul mio, un velo grigio.
Non so cosa sia, ma pesa come un senso di colpa. Non ho fatto nulla di male, a nessuno. Ed allora perché sento questo peso sullo stomaco? Mi vergogno di essere attratto da un uomo? Certo! L’idea che Eric Huntsman abbia un tale effetto su di me mi sconcerta e mi terrorizza, ma non so perché mi senta come se fosse una mia colpa. Non dovrei sentirlo. Come potevo sapere che sarebbe accaduto? Avrei potuto impedirlo? E come?
Mi arruffo i capelli e fisso lo schermo senza realmente guardarlo. Ho bisogno di staccare, almeno una mezz’ora; una doccia fredda ed un cambio di vestiti, e sperare che il mio cervello torni a funzionare.

Dopo aver chiesto a Lisa una pausa -ovviamente concessa, perché il commissariato di Ystad non piange mai la mia mancanza dato che non mi chiamo Kurt Wallander- ho preso una volante e sono tornato a casa.
Telefono in carica e getto d’acqua sulla testa. Non gelido, perché nonostante la volontà, il freddo vince su tutto. Caldo e rilassante, di quelli che dovrebbero sciogliere le tensioni ed alleggerire i problemi. Ma per mia sfortuna, Eric Huntsman non è né una tensione che si scoglie né un problema che si alleggerisce, tutt’altro.
È un tarlo che nonostante l’acqua, sa nuotare benissimo.

















Continua...




[1] Jag gillar honom è una frase svedese. [ndr. vi invito a trovare il significato su Google a fine lettura ^-* ]
[2] Un bugiardo di grande talento è una piccola citazione fangirlosa tratta da THOR.
La battuta precisa detta da Thor a Loki  è: “Sei un bugiardo di grande talento, fratello. Lo sei sempre stato.
[ndr. ma questo, lo sapevate già ^^]



NdA.
Come già preannunciato, il prossimo capitolo arriverà fra un po’. Odiatemi se volete, non ve ne farò una colpa ç_ç
Questo però lo voglio dedicate a tutte voi, che seguite con così tanto entusiasmo questa storia.
Mi rendete orgogliosa di ciò che scrivo e mi date la carica per continuare! Siete delle lettrici (e lettori, caso mai ci fosse qualche maschietto fra di voi, ma ne dubito XD) fantastiche!
I vostri commenti mi fanno sempre sorridere e non mi fanno sentire sola in questa folle ossessione “con la permanente” ^^
Spero di tornare ad aggiornare quanto prima *w* e farò il possibile per riuscirci!

Vi bacio tutte e, siccome non so se riuscirò a rispondere alle eventuali recensioni, ne approfitto qui per dirvi Grazie di cuore! 
Ora vado prima che mi scappi pure la lacrimuccia >.<
kiss kiss Chiara







P.S.
Neanche Magnus ha preso molto
bene la notizia del piccolo stop..
.


I’m sorry, detective u.u

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Capitolo 6
*** Gustav Ringdal ***


vi
Detective Martinsson



VI. Gustav Ringdal



Mi sto ancora frizionando i capelli con l’asciugamano, quando sento il vociare della tv che ho acceso qualche minuto fa. Per la precisione è la voce di Lisa e la sua dichiarazione rilasciata ieri circa le indagini sull’assassinio di San Pietro. Afferro il telecomando ed aumento il volume di qualche tono.
«... Non stiamo lasciando nulla al caso ed il commissario Wallander sta lavorando con la migliore squadra di polizia di Ystad... » Ah, ecco. Ho scoperto perché non ci sono anch’io.
Spengo la tv con un gesto seccato e preferisco tornare in bagno per asciugarmi i capelli.
Il rumore del fohn non riesce tuttavia a sopraffare i miei pensieri e le mie emozioni, che sono diventate un ingarbuglio difficile da districare. Molto più di questi dannati capelli. «Aho!» mi ritrovo a borbottare quando rimango incastrato con l’anulare in un paio di ricci.  Do uno strattone e non mi curo del sottile spago biondo che è rimasto attorcigliato al dito.
Stupidi capelli! Prima o poi vi raserò!
Ed il viso di Eric torna a fare capolino nei miei occhi.
Ormai non c’è alcun pensiero che possa fare in cui lui non riesca ad infilarsi in qualche modo. Se penso che qualche ora fa ero nella sua macchina, non so cosa provare. Imbarazzo? Disagio? Appagamento? Eccitazione? Ma è quest’ultima che mi crea più problemi, perché non posso ignorare le fantasie inopportune che mi hanno assalito mentre ero sotto la doccia. Il profumo dei suoi capelli, il ricordo del suo sorriso, della sua voce che sospirava il mio nome. La sua mano che sfiorava il mio ginocchio...
Spengo il fohn e mi poggio con entrambe le mani sul lavabo. Ho lo sguardo calato perché la mia faccia non riesco a guardarla. So che è bollente ed arrossata, e so anche che non è per l’aria calda con cui mi stavo asciugando la testa.
Non ho mai avuto fantasie né interesse per un altro uomo. Mai. Non ho grande successo con le donne, questo è vero, ma è solo questione di incontrare le persone sbagliate nel momento sbagliato, perché a me piacciono le donne. Lo so per certo. Non sono un... uno di quelli! Non lo sono!
«Come hai fatto a ridurti così?» mi ritrovo a sospirare amaramente al mio riflesso, avendo conferma di ciò che pensavo: le mie guance sono in fiamme ed i miei occhi lucidi. Ed il vapore che ricopre la lastra non basta a celarmi quella macabra verità.
Accarezzo il mio petto nudo allo specchio e non riesco a non provare una vena di tenera tristezza mentre penso al suo. Atletico, tonico. Perfetto. Io al confronto sembro un ragazzino che ancora non è entrato nella pubertà! Che sia solo mera ammirazione la mia? L’ammirazione di un uomo verso un altro uomo, una sorta anche di gelosia? Mi piacerebbe fosse così, ma -ahimè- non lo è. I miei desideri non vertono sull’avere un corpo come il suo, quanto sullo sfiorare quel corpo con il mio. E questa onesta ammissione mi incendia e mi fa rabbrividire allo stesso tempo.
So che per il mio bene dovrei stare alla larga da Eric Huntsman, ma non ci riesco. Vorrei andare al porto per vedere se è al lavoro, vorrei tornare sotto casa sua e rubare qualche altro attimo della sua vita. Vorrei dirgli ancora grazie per questa mattina e vorrei avere ancora i suoi occhi su di me.
Ma Volere e Dovere, come sempre, non sono mai dello stesso parere.

Quando torno in centrale, noto un fervore collettivo che spadroneggia nell’aria. Non riesco a capire cosa sia. Sto salendo le scale per andare da Lisa, quando incrocio Anne-Britt che scende in direzione opposta con un’espressione inasprita sul viso.
«Ma che succede?» chiedo quando mi supera di qualche gradino. Si volta ed alza di poco il viso per guardarmi.
«C’è stato un incidente nei pressi della stazione ferroviaria. È un casino e sono tutti mobilitati.»
«Stai andando lì?» Un "casino" è quello che mi ci vuole.
«No, io... » Si passa una mano sulla fronte. È decisamente spazientita. «Sto andando al porto. Ci sono dei disordini e, siccome tutti gli agenti sono impegnati, tocca a me.» Adesso puoi capire come mi sento due volte su tre in questo commissariato?! Ma la mia attenzione non è sfuggita al luogo in cui è diretta. Il porto.
Disordini, porto.
Il nome di Eric mi verrebbe naturale anche se non ci fossero di mezzo complesse implicazioni di dubbia (ed imbarazzante) natura.
«Vengo con te!» Non ci penso due volte. Scendo quei pochi gradini e le sono accanto.
«Sicuro?» Annuisco. «Va bene, allora andiamo con la mia auto, ovviamente.» Ovviamente.

Durante il breve tratto che ci separa dal porto di Ystad, non posso fare a meno di notare quante dannate coincidenze si siano susseguite da quando sono stato assegnato al furto Fustern. Qualcuno direbbe che è destino, ma io non credo molto a queste scemenze. Sono un tipo più pratico. Voglio un caso interessante su cui lavorare ed una pacca sulla spalla di tanto in tanto. Il destino e roba simile sono riservati alle ragazzine ed alle casalinghe che sognano davanti alle soap. Io devo continuare a chiamarle coincidenze.
«La chiamata è arrivata qualche minuto prima del tuo arrivo. Credo siano i soliti marinai che hanno alzato troppo il gomito.» Anne-Britt guida tenendo lo sguardo ridotto a due fessure per coprirsi dal sole.
E se fra quei marinai ci fosse anche Eric? È una storia che potrebbe calzargli alla perfezione, o per lo meno, è perfetta per quel ragazzo senza barba dalla sguardo incazzato.
Non voglio che si trovi in mezzo ad una rissa... o forse sì? Il mio desiderio di vederlo è davvero così forte da non curarmi della sua incolumità? Sono così egoista?
«Perché sei voluto venire con me? Non volevi un caso importante su cui lavorare?»
«Finché il caso non arriva, meglio tenersi occupato. Non credi?»
«Il furto Fustern ti ha già stancato, eh? Ti capisco.» Sposto lo sguardo al finestrino mentre mi passo l’indice fra le labbra. Non rispondo. Non saprei cosa dire oltre a qualche altra frase fatta. «Hai poi scoperto altro su quell’Huntsman?» Ma stavolta non la posso ignorare. Anne-Britt come sempre ha una memoria d’acciaio.
«Nulla di che. Non è stato lui, comunque.»
«Gli hai parlato?» Incrocio i suoi occhi e poi li riporto davanti a me.
«Sì, ma non è lui.» Non dovrei dirlo con tutta questa sicurezza, ma è qualcosa che sento a pelle. Ho detto di non credere a stupidaggini come il fato ed il destino, ma all’istinto credo ciecamente, e l’istinto mi dice che sebbene Eric Huntsman sia pericoloso, soprattutto per la mia salute mentale, non c’entra nulla con la faccenda del furto. 
«Kurt crede che il prete ucciso avesse una relazione.» Il caso San Pietro! La mia attenzione è tutta sulle labbra di Anne-Britt.
«Un delitto passionale quindi?» Il mio tono tradisce la smania di sapere e la rabbia per non essere stato inserito nella squadra, e non mi sforzo neanche di nasconderlo.
«Forse. Kurt non ne è sicuro, ma pare che il prete avesse una storia con un giovane seminarista francese. Stanno cercando di rintracciarlo perché ha lasciato la città qualche giorno fa. Se la faccenda fosse vera farebbe saltare fuori un bel casino!» Mando giù in groppo di sorpresa e disagio.
No, Magnus, si chiamano coincidenze, non è destino!
«Una storia... gay?» La voce mi si incrina sull’ultima parola ma lei sembra non farci caso. Annuisce e si infila nella strada per il porto.
«Forse qualcuno li ha scoperti o è stato proprio il giovane. Kurt ci sta lavorando senza sosta.» Anne-Britt ha sempre avuto una forte ammirazione per Kurt, un po’ come tutti al commissariato, ma nella sua voce ho sempre avvertito anche altro. Non so cosa sia, se una sorta di infatuazione, o un riflesso di una figura paterna che le è mancata. Non sono stato mai bravo a capire le persone, è uno dei miei limiti. Semplicemente mi manca quel guizzo per entrare nella testa della gente. Kurt riesce a farlo, entra in empatia con tutti, anche Anne-Britt possiede questa capacità, mentre io ho sempre la sensazione che chi mi sta di fronte non voglia farmi entrare. C’è un muro di vetro che non riesco mai ad infrangere. Lisa dice che certe cose si imparano sul campo, io credo che invece siano capacità innate. Mi auguro di sbagliarmi.

Siamo appena giunti al porto, quando una calca di persone rumorose ci si presenta davanti. Mentre Anne-Britt parcheggia, inizio istintivamente a cercare Eric. Non dovrebbe essere difficile individuarlo, è uno che si staglia sugli altri come fosse una statua di granito[1].
Sono in totale una quindicina di uomini. Statura varia, di età che va dai venti ai cinquant’anni. Ma lui non c’è. Niente giacca verde mirto, niente coda, niente occhi di ghiaccio. Un liquido amaro mi scende nello stomaco. È quella che si chiama delusione.
Scendo dall’auto e seguo la mia collega verso il gruppo. Al centro della ressa, due uomini che stanno chiaramente litigando, attorno, altri che si dividono fra istigatori ed aspiranti pacieri.
«Polizia di Ystad! Fermatevi!» dichiara a voce alta Anne-Britt, ma viene platealmente ignorata.
Mi faccio largo fra la folla e cerco di arrivare al centro.

«Fermi! Polizia!» Mostro il distintivo ma ricevo solo qualche occhiata vaga per poi venire sfacciatamente ignorato anch'io. L’uomo alla mia destra è poco più alto di me, fisico massiccio e capelli corti neri. Di fronte gli si oppone un uomo basso e tarchiato con un berretto arancione a coprire quella che sembra una testa calva. Si tirano per la maglia ingiuriandosi a vicenda e tento per l’ennesima volta di divederli. «Ho detto di fermarvi!» alzo ancora la voce afferrando l’uomo moro per un braccio, ma senza che me ne renda conto, vengo colpito allo zigomo destro da un pugno, o un gomito? Non ho la prontezza per stabilirlo, né tantomeno per evitarlo. 
Un colpo secco.
Brucia, pulsa, fa un male cane!
Perdo l’equilibro e mi ritrovo accasciato con la schiena contro un paio di uomini dietro di me che per fortuna mi sostengono. Mi porto la mano sulla guancia stringendo i denti. Per poco non mi beccava l’occhio.
«Basta!» Anne-Britt interviene e si infila fra i due, e con un gesto deciso di entrambe le braccia riesce nell’impresa in cui io ho pateticamente fallito: li divide e li placa.
Una donna che è la metà di me, con lo sguardo da cerbiatta, è riuscita a zittire due omaccioni che a me hanno dedicato solo un paio di sguardi tirati ed un pugno in pieno viso!
Decisamente oggi, non è giornata.

«Tutto ok?» Annuisco e continuo a tenermi la borsa con il ghiaccio poggiata sulla guancia. Mi alzo dal muretto di cemento su cui mi ero poggiato e guardo verso i due uomini che stanno parlando con gli agenti accorsi dopo di noi. Verranno portati alla centrale. Prima di toccarmi era una blanda rissa, adesso passeranno un brutto quarto d’ora. «Non dovrebbe gonfiarsi troppo.» Le dita di Anne-Britt mi sfiorano lo zigomo e automaticamente mi ritraggo con una smorfia. Fa male. Sono davvero poco virile in questo momento, ma fa dannatamente male.
«Il piccoletto aveva una relazione con la moglie dell’altro?» Mi concentro sulle parole per sfuggire momentaneamente all’incendio che sento sulla faccia.
«Pare di sì. Avrei detto il contrario... » Ma non riesco a ricambiare quel sorriso. La guancia mi duole, il mio orgoglio per la figuraccia di poco fa, anche. E tutto questo non è servito a niente: Eric Huntsman non è qui. «Meglio rientrare.» Annuisco. Guardo il sacchetto del ghiaccio con ancora una punta di stizza, e lo lascio sul muretto.
Anne-Britt si è già avviata verso l’auto, ma io sono ancora fermo a guardare i due che rilasciano le dichiarazioni agli agenti, ovviamente a debita distanza l’uno dall’altro. Riesco anche a sentire qualche parola, ed è proprio quando alle mie orecchie giunge un nome che non mi è nuovo, che mi ritrovo ad aggrottare la fronte.
«Gustav Ringdal è il mio capo. Può chiedere e lui, agente-» Mi avvio verso l’uomo basso e calvo e lo interrompo.
«Ha detto Gustav Ringdal?» chiedo. Mi guarda incuriosito ed annuisce.
«Detective, vuole fare qualche domanda lei?»
«No, voglio solo sapere dove posso trovare questo Ringdal.»
«È su quel mercantile adesso.» E mi indica una piccola nave a cento metri.
Forse non è stato un viaggio a vuoto.

Gustav Ringdal è un uomo magro, molto magro, quasi scheletrico. I vestiti gli cadono malamente addosso: pantaloni lerci e vecchi, ed un maglione che pare un cencio strausato. Sul viso una barba rada grigia ed un sigaro fra i denti. Capelli argentei corti sotto un berretto blu. Il viso segnato da una ragnatela di rughe, opera del tempo e del sole, della dura vita di mare. Mostra più anni di quelli che ha realmente. Probabilmente è sulla sessantina.
Tiene entrambe le mani nelle tasche della giacca impermeabile che gli copre le spalle ossute, e mi fissa come fossi un piccolo moscerino fastidioso. Forse lo sono.
«Sì, Eric Huntsman lavora per me.» Voce roca e bassa che stona decisamente con la sua fisicità esile. «Gli ho prestato la Ford perché aveva bisogno di un'auto e a me non serviva più.» Una nuvola di fumo mi annebbia la vista per qualche attimo. «Si è messo in qualche guaio per caso?»
«No, assolutamente.» Sorrido cortese ma con quest’uomo è una tattica che non prende. «Sto indagando su un furto che ha subito una sua vicina e mi sono ritrovato a controllare la sua auto, ed ovviamente è saltato fuori il suo nome, signor Ringdal.» Ammetto.
«Eric è un bravo ragazzo. Voi poliziotti rompete sempre le scatole alla gente sbagliata!» Un colpo di tosse ed un’occhiata di disprezzo.
«Erano controlli di routine. Non sto creando problemi al signor Huntsman.» Non so perché mi senta in dovere di giustificarmi con quest’uomo scontroso. Forse perché nelle sue parole riesco a leggere un velo di verità, o semplicemente perché mi sembra il caso di assecondarlo. «Oggi Huntsman non lavora?» chiedo cercando di essere il più distaccato possibile. Gli occhi vitrei del marinaio mi scrutano fin dentro le ossa ed un groppo di saliva mi scende in gola.
«Ha il turno alle 14.00.» 
«Da quanto lavora per lei?» Ma stavolta decide di non rispondermi e si limita a tagliuzzarmi con lo sguardo. «Sono domande che devo fare, signor Ringdal. Cerchi di capire. Sono solo poche domande, poi scenderò da questa nave e non le darò più fastidio. Glielo prometto.» Anne-Britt è già tornata alla centrale. Le ho detto che dovevo seguire una pista per il furto Fustern, e tutto sommato è una mezza verità. Per tornare prenderò un taxi, sempre che quest’uomo non decida di gettarmi in acqua nel chiaro intento di annegarmi! 
«Da circa quattro mesi.» Ma Gustav Ringdal è un uomo inaspettatamente paziente e gliene sono grato. «Si presentò una mattina con una faccia annoiata e la voce grossa. “Mi hanno detto che puoi darmi un lavoro, vecchio” mi disse.» Accenna ad un sorriso «È stato il modo più schifoso di cercare lavoro che abbia mai visto... Forse per questo ho deciso di prenderlo con me.» Altro fumo, altra tosse. «È un ragazzo volenteroso. Non parla molto, ma quando si sta in mezzo a tanti idioti che sparano cazzate per otto ore di fila, qualcuno che conosce il valore del silenzio è una benedizione!» Non riesco ad impedire alle mie labbra di piegarsi all’insù. Il disegno di quest’uomo di Eric è quanto mai preciso. Lo conosce da più tempo di me, eppure mi ritrovo nei suoi pensieri. Mi sembra di portare una vittoria a mio favore. Contro di chi, non saprei dirlo.
«Non ha mai creato problemi? Che so, risse, discussioni con i colleghi?» Ride e scuote la testa.
«Le discussioni sono all’ordine del giorno -guarda che è successo oggi- ma Eric è uno che ne sta alla larga. Se fossero tutti così i miei uomini, sarei un bastardo veramente fortunato.» Sento lo zigomo pulsare ma cerco di non badarci.
«Signor Ringdal, sa cosa faceva prima di lavorare per lei. Le ha mai detto niente?»
«Senti ragazzino, ti ho detto che è uno che parla poco. Secondo te mi ha raccontato la storia della sua vita?!» Stavolta il colpo di tosse parte dalla mia gola, ma non è colpa di quarant’anni di fumo, ma di un imbarazzante disagio che neanche faccio caso al "ragazzino".
«Ehm... Volevo dire se c’è altro che sa dirmi su di lui... Qualsiasi cosa andrà bene.» La mia ossessione psicotica si soddisfa con poco.
Fa una smorfia con un sonoro sbuffo con cui percepisco tutto il suo disinteresse al discorso.
«So che è scozzese e che ha mollato tutto qualche mese fa per venire a vivere in questo buco di merda. Per quale motivo? Non ne ho idea e francamente non me ne frega niente! Ora, ragazzino, devi scendere. Io devo lavorare e non posso perdere altro tempo dietro alle tue stronzate da poliziotto!»
Incasso, ringrazio e torno al molo.

Prima di salutare Gustav Ringdal, gli ho chiesto cortesemente di non riferire ad Eric Huntsman della nostra chiacchierata. Mi ha detto che non l’avrebbe fatto: “Okok, basta che ti toglie dalle scatole!” sono state le sue parole precise.
Mi sembra un uomo sincero ma, non so perché, non credo che manterrà fede alla sua promessa.

Un brutto presentimento? Chiamatelo semplicemente istinto.

















Continua...




[1] Una statua di granito: questa frase vuole essere un omaggio alla dichiarazione fatta da Tom su Chris in cui lo definiva, per l’appunto, come fatto di granito. [ndr. Diamogli torto...] 



NdA.
E dopo un intero ciclo di lune [oramai parlo come quel cerebroleso di un puffo] sono riuscita ad aggiornare questa storia.
Spero che a qualcuno sia rimasta la curiosità e lo stomaco di continuare a leggerla XD Dal canto mio, ho passato fin troppe notti a scribacchiare il continuo sul squadernino a righe da terza elementare acquistato per sbaglio, per arrestarmi dal continuare questa insolita fic!
Ho tracciato l’intera sinossi della storia e quindi devo solo svilupparla. L’unico appunto è che potrebbe essere più lunga del previsto, ma non fasciamoci la testa prima di cadere (o prima di farcela rompere da qualche marinaio cornuto!)
Ad ogni modo, vi ringrazio come al solito e perdonatemi se non ho risposto alle vostre recensioni >///<
Al prossimo aggiornamento
kiss kiss Chiara

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Capitolo 7
*** L’appuntamento delle 18:00 ***


vii
Detective Martinsson



VII. L’appuntamento delle 18:00



«Hai ancora un bel livido, Magnus.» Lisa è di buon umore oggi. Beata lei, io al contrario ho i nervi a pezzi. «Almeno si è sgonfiato...»
«Già.» Ribatto svogliatamente mentre tamburello la matita sul tavolo leggendo l’ennesimo rapporto stilato nella notte.
Oramai è passata una settimana dalla rissa al porto. Una settimana di notti insonni. Una settimana, da quando ho visto Eric per l’ultima volta.

«Ti dà un’aria più virile.» Alzo lo sguardo sul suo viso alla ricerca di una vena di ironia, ma non la trovo. Dovrei cercare meglio, o dovrei imparare ad accettare che alle volte ciò che si dice non ha per forza un altro significato dietro. Ma non ho la volontà di fare né l’una né l’altra. «Sei più silenzioso del solito. Problemi di cuore?»
Lisa è sempre stata il lato materno della squadra. Come una buona madre sa quando essere rigida e dura e quando abbassare il tono ed addolcire lo sguardo. Ma al contempo, come una madre, ama impicciarsi delle faccende personali dei figli.

Problemi di cuore? Magari fosse solo il cuore. I miei sono problemi di cuore, di stomaco, di testa, di coscienza, di vergogna, di paura. Io stesso mi sento un problema ambulante.
Siamo solo noi due in ufficio. Anne-Britt e Kurt sono fuori e Sven è alla scientifica. È una giornata calda, di quelle che ti fanno dimenticare che è quasi novembre e che presto si batteranno i denti. “La quiete prima della tempesta”, è così che si dice. È da qualche tempo che io sono in attesa della tempesta, perché ho la netta sensazione che presto mi si scatenerà contro violentemente, e mi chiedo quanto sia pronto ad affrontarla.
«Ultimamente soffro di insonnia. Sono solo stanco. Tutto qui» rispondo alla sua domanda con gentilezza, perché non è giusto che getti le mie ansie sui colleghi, su di Lisa soprattutto.
Mi si avvicina e mi poggia la mano sulla spalla.
«Se hai bisogno di qualche giorno, non farti problemi.» Le sorrido ed annuisco.
«Grazie, ma preferisco tenermi occupato.» Così ho meno tempo per pensare. Non c’è bisogno che lo aggiunga, perché dal suo sguardo capisco che ha sentito ugualmente quelle parole non dette.
Poi uno squillo di telefono spezza il nostro muto discorso.
«Martinsson.» Lisa si allontana e resto solo nell’ufficio così insolitamente silenzioso. Dall’altro capo è Sven.
«Magnus, cercavo te.» Strano! Non sto lavorando su alcun caso importante e mi chiedo di cosa voglia parlarmi.
«Dimmi.» Spero solo non sia una specie di messaggio da consegnare ad altri -Kurt- probabilmente irrintracciabili al momento.
«I miei ragazzi hanno trovato tracce di DNA su quei mozziconi di sigaretta.» Il furto Fustern! Avevo completamente dimenticato quel particolare. Alcuni agenti li avevano trovati nel giardino, e a me non è passato neanche per l’anticamera del cervello di sollecitare la scientifica. Sono sorpreso si siano presi la briga di analizzarli, in fondo è solo un piccolo caso di furto. Ma come dice Lisa: “ogni caso è importane per le vittime coinvolte”. Dovrei imparare ad essere meno cinico su alcune cose. «Quando puoi, passa da me.»
«Oh, certo... Grazie Sven, almeno ho qualcosa su cui lavorare.» Riaggancio e mi lascio sfuggire un sospiro.
Per colpa dei miei casini personali, sto mettendo al secondo posto il lavoro. Il mio lavoro è la mia vita, ed in pratica la sto ignorando per infilarmi in quella oscura di qualcun altro.

Apro il cassetto in basso a destra della scrivania e rimango a fissare il dossier marrone con il nome “Huntsman” scritto di mio pugno sull’etichetta. Dovrei comportarmi come in tutti i casi senza soluzione: archiviarlo. Il problema è che non ci riesco.
Lo afferro e lo apro. Non c’è nessuno in giro, e mi prendo tutto il tempo necessario, ed anche oltre, per sfogliarlo e risfogliarlo. Ormai so praticamente a memoria ogni pagina. Conosco il nome dei suoi genitori defunti -Richard Huntsman e Viktoria Nilsson- ed ho scoperto che sua madre era svedese. Nata proprio qui a Ystad ed emigrata in Scozia appena ventenne. Questo spiega il suo svedese perfetto ed il perché del suo trasferimento qui. Forse. Perché tutto quello che so su di lui proviene da archivi e da voci esterne. Non conosco la sua versione, per quanto mi stia dolorosamente rendendo conto, desideri conoscerla. Vorrei ascoltare dalla sua voce l’intera storia della sua vita, in cui sono entrato come un avvoltoio affamato senza neanche chiedere permesso. Il mio lavoro mi permette di non avere troppi sensi di colpa per questo. Quando devi scavare negli affari degli altri per trovare un assassino o peggio, impari che non c’è posto per le questioni morali. Eppure in queste lunghe notti bianche, mi sono spesso chiesto se fosse il caso di fermarmi. Di fare un passo indietro, un passo fuori. Ma non ci riesco, perché in fondo, benché inconsapevolmente, anche Eric Huntsman è entrato con violenza nella mia di vita, ed io sto ancora cercando di metabolizzare quel suo devastante arrivo.
Sfioro con le dita i fogli, percorro il contorno del suo viso nella foto. Mi soffermo su quegli occhi che sanno intimidirmi anche dalla carta.
Dov’è finito questo ragazzo arrabbiato? Cosa l’ha cambiato, se mai fosse cambiato?
C’è un grosso buco che non riesco a riempire, e so che solo Eric può aiutarmi a farlo. Ma non gli sarò mai così vicino. Non me lo permetterà, non me lo permetterei io stesso.
Sto inseguendo una chimera e sprecando tempo ed energie in una ricerca che non ha praticamente senso di esistere. Eric Huntsman è un caso senza vittime né colpevoli. In verità, non è neanche un caso. È solo il mio modo di affrontare la cosa: considerarlo nell’unica maniera in cui fa meno paura -e meno male-.
Se iniziassi a pensare a lui come ad altro, come a qualcuno che ha preso un posto scomodo nel mio cuore... Beh, sarebbe tutto ancora più difficile.
Mi accarezzo lentamente lo zigomo dove c’è ancora un leggero livido rossastro. Non fa più male, ma è comunque fastidioso. Lisa ha detto che mi rende più virile, io penso solo che mi ricorda la figuraccia che ho fatto, quando mi sono fatto “battere” da Anne-Britt. È un promemoria del mio essere un idiota, e sebbene fra qualche giorno sparirà, il suo ricordo di certo ci impiegherà un po’ di più ad abbandonarmi.

I risultati della scientifica non mi sono stati di nessun aiuto. Non ho trovato alcun riscontro con quelli del database della polizia. O si tratta di gente incensurata, o quella sigaretta apparteneva ad un povero disgraziato che magari l’ha gettata dal finestrino della sua auto.
Sbuffo sonoramente e chiudo lo schermo del portatile. Oggi è un’altra giornata vuota. Nessun caso, nessun cambiamento: la solita calma piatta.
Anne-Britt non è ancora tornata, avrei voluto sapere qualche altro dettaglio sul caso San Pietro. Ho abbandonato la speranza di entrare in squadra, ma la curiosità verso quel misterioso omicidio è ancora vivida in me. Soprattutto dopo aver saputo della relazione fra la vittima ed il giovane seminarista. Kurt è riuscito a rintracciarlo, ma non so cosa abbia scoperto.
Un amore proibito che ha portato alla morte di un uomo. Sembra il classico dramma shakespeariano, eppure è vita vera. Storie di tutti i giorni, storie che non ti sembrano reali finché non le provi sulla tua pelle. Forse sbaglio ad avvertire certe similitudini, in fondo la mia storia è molto diversa. A dirla tutta, la mia non è neanche una vera storia. Non c’è alcuna relazione, proibita o meno. Non c’è alcun amore pericoloso. C’è solo un’attrazione sbagliata verso qualcuno ancora più sbagliato. Non c’è alcun Romeo e Giulietta, ed in ogni caso, queste storie hanno tutte un pessimo finale.

Ancora il telefono a sollevarmi dai pensieri. Oggi mi sento più un centralinista che un poliziotto.
«Martinsson.»
«Detective, sono Amanda Fustern. Non si è più fatto vedere. Volevo sapere come vanno le indagini. Scoperto niente sulla mia collana?» Erano tre giorni che non chiamava, iniziavo a preoccuparmi...
«Signora Fustern, le ho già detto che quando avremo novità la informerò immediatamente.» Ma questa donna non ha nulla da fare, ché assillarmi? Se andiamo al fulcro della faccenda, è colpa sua se mi trovo in questo stato. Se non avesse iniziato a fare insinuazioni sul suo vicino, non avrei mai conosciuto Eric Huntsman e la mia esistenza sarebbe continuata serenamente. Più o meno.
«Senta, mi sono ricordata che quel giorno ho visto un auto parcheggiata di fronte casa mia. Era nel pomeriggio. Può essere utile?» Senza una targa direi proprio di no!
«Sì, mi dica cosa ricorda.» Cerco di appuntare qualcosa ma non ho molta convinzione. Il colore non basta, e la cara vedova non sa dirmi neanche che tipo di auto era.
«Se può, passi da me oggi. Volevo mostrarle qualcosa.» Aggrotto le sopracciglia con scetticismo. Non mi va per nulla di andare ad Hedeskoga. L’ultima volta la mia macchina mi ha tradito -ed il cuore? Neanche lui è stato un granché fedele-, per non parlare della nottataccia orribile al freddo! Non voglio avere occasione di incontrare Eric. Non saprei come comportarmi. Non credo riuscirei ad essere doverosamente distaccato. È stano come la brama di sapere impallidisca davanti all’opportunità di avere risposte. Sono un codardo? «Le offro una tazza di caffè. La prego, detective Martinsson, vorrei tanto parlarle di persona.» Ma allo stesso tempo non voglio che questa povera donna, a cui sto dedicando davvero un impegno misero, si senta ancora più abbandonata.
«Va bene, signora Fustern. Passo da lei oggi pomeriggio. Va bene intorno alle 18:00?»
«Oh, sarà perfetto! L’aspetto, detective.»  
Il mio primo appuntamento dopo mesi è con una vedova sulla settantina... Molto confortante.

Mentre guido per arrivare ad Hedeskoga, non riesco a non pensare a quel passaggio. Così inatteso, così strano, così destabilizzante. Alla fine il meccanico gli ha dato pure ragione e ha dovuto cambiare le spazzole. Ancora non sono riuscito a capire che diamine siano! D’altro canto non è che mi interessasse poi molto ciò che diceva quel pancione sporco di grasso.
La casa di Eric si fa più vicina ed automaticamente sollevo di poco il piede dall’acceleratore. La macchina sussulta e sono costretto a scalare anche di marcia. La Ford non c’è, deve essere a lavoro.
Chissà se Ringdal gli ha poi detto qualcosa della nostra chiacchierata...
Mi sento quasi sollevato e riesco a parcheggiare davanti alla villa della Fustern senza troppe complicazioni –sia tecniche che emotive.
Chiudo lo sportello ed infilo una mano nella tasca dei jeans mentre con l’altra apro il piccolo cancello. Deve essere in casa, così suono ed aspetto che mi apra.
«È stato molto puntuale, detective!» Un sorriso stampato sul viso ed un tono fin troppo gentile. Mi sento ancora più in colpa e piego le labbra quasi fosse una silenziosa richiesta di scuse.
Devo ancora superare la soglia quando sento un forte rumore provenire dal piano superiore dell’abitazione. Di istinto sollevo gli occhi verso le scale. «Sto facendo rinforzare le finestre.» Mi chiarisce la donna mentre chiude la porta alle mie spalle. «Non voglio avere altri ladri. Lei mi capisce.»
«Certo.» Annuisco dando ancora un’occhiata in alto prima di seguirla in cucina, la piccola e fin troppo calda cucina.
Sui fornelli due pentole fumanti ed un profumo invitante che avvolge l’aria.
«Stufato di alce. Le piace?»
«Oh, non l’ho mai assaggiato.» Sono costretto a togliere la giaccia per il troppo calore. La poggio sullo schienale di una sedia e mi accomodo.
«Non ha mai mangiato lo stufato di alce? Dio, che cosa assurda!» Sorrido mentre la piccola donna rigira il contenuto di una pentola con un grosso cucchiaio di legno. Ha tolto gli occhiali che adesso penzolano sul petto, di certo per evitare che il vapore li appannasse.
«Mia madre è vegetariana. Ho sempre mangiato poca carne ed è un’abitudine che mi sono portato dietro... » Quel piccolo aneddoto mi riporta ai giorni della mia infanzia e non posso fare a meno di avvertire una dolce nota di malinconia annegarmi nello stomaco.
Mia madre e la tisdagssoppe del martedì. Mio padre e il borbottare ad ogni cucchiaiata: troppo calda, troppo scotta, troppo sale, troppo poco. Era la prassi, almeno finché non è andato via di casa. Poi le cene, che fosse martedì o meno, diventarono via via più silenziose[1].
«Assaggi, su!» Mi ritrovo il cucchiaione fumante davanti alla faccia e mi tiro indietro per non ustionarmi.
«Oh, no, non si preoccupi!»  
«Avanti. Mangi!» Le donne di una certa età sanno essere decisamente insistenti. Onde evitare di indispettirla, nonché di offenderla, avvicino le labbra ed assaggio una punta di stufato. È buono anche se sono quasi certo che la mia lingua si sia bruciata. Avrei dovuto prima soffiarci sopra.
«È buono, signora Fustern. È un’ottima cuoca.» Annaspo cercando di combattere l’ustione che ho in bocca. Lei ridacchia lusingata e torna a girare nella pentola. Mi passo una mano sulle labbra.
Miseriaccia, come brucia!
«Potrei avere un po’ d’acqua, cortesemente?»
«Oh certo.» Quando mando giù il liquido freddo non posso fare a meno di ringraziare.

«Cosa ha fatto alla faccia?»
«Niente. È solo una piccola contusione.» Odio questo livido, ed odio chi non si fa scrupoli a farmelo notare.
«Dovrebbe metterci del ghiaccio.»
«Sta già andando via. Non ce n'è bisogno.» Bevo il caffè che la signora Fustern mi ha preparato -dopo avermi praticamente arso le papille gustative con il suo stufato- e l’ascolto mentre mi racconta, ancora, dell’auto sospetta di quel pomeriggio. Non c’è niente di utile nel suo racconto, ma lei sembra così impegnata a non tralasciare niente, che non ho il coraggio di fermarla. Prendo anche qualche appunto, giusto per fare scena.
Un nuovo rumore proviene dal piano superiore ed alzo nuovamente lo sguardo al soffitto, quasi fossi in grado di guardarci attraverso.
«Vado a vedere come procede il lavoro. Può controllare che lo stufato non bruci?»
«O-ok» sospiro incredulo mentre lei sparisce in direzione delle scale. Ed ora mi tocca anche fare l’aiuto cuoco.
Abbandono il caffè sul tavolo e mi avvicino ai fornelli. Quando alzo il coperchio della pentola, vengo investito da un vapore intenso ed arretro di qualche passo. Non sono previdente come la arzilla vedova e per poco non mi ustionavo tutta la faccia!
Avrebbe fatto pendant con il livido...
In cucina sono davvero un disastro. Sarà che è una vita che non cucino un piatto decente. Ormai vado avanti a take-away e piatti surgelati. Il microonde è diventato il mio alleato numero uno.
Vita da single.
Non voglio però che la Fustern mi bacchetti perché gli ho bruciato il suo prezioso stufato, così prendo il cucchiaio ed inizio a girare. Ma come ormai pare di regola, al secondo giro il liquido schizza e mi finisce sul maglione. Una bella macchia rossa giusto all’altezza dello stomaco.
«Porca miseria!» borbotto afferrando uno strofinaccio e tentando di rimediare al danno. Sospiro sonoramente e getto il canovaccio sul ripiano. Sarà meglio che torni al mio caffè, sperando sempre che anche quest’ultimo non abbia voglia di gettarsi gaiamente sui miei vestiti!
«Oh cielo, si è sporcato!» Non faccio in tempo a girarmi che mi ritrovo davanti il viso della signora Fustern. Ma ciò che mi sorprende di più è la figura apparsa alle sue spalle. «Vado a prendere lo smacchiatore.» Non le sento davvero quelle ultime parole, perché la mia attenzione è tutta rivolta a quegli occhi azzurri.
«Eric?» Un martello nella mano destra ed un’espressione indecifrabile sul viso.
Ecco la tempesta che aspettavo.

















Continua...




[1] Tisdagssoppe è una tipica zuppa svedese a base di orzo e patate. [ndr. Quest’aneddoto è di mia invenzione. Non so se nei romanzi ci sia qualche riferimento alla famiglia di Magnus, ma nella serie tv mi sembra non essercene  alcuno, perciò chiamatela licenza poetica.]



NdA.
Ed ecco finalmente (ri)entrare in scena anche il nostro misterioso vicino.
Perdonatemi questo volgarissimo cliffhanger, sono la prima ad odiarli, ma al contempo adoro usarli. Per la serie “coerenza? No, grazie.”
Sono felice che Magnus abbia un così nutrito numero di sostenitrici *w* Povera stella, ne ha bisogno visto che l’autrice che lo muove ama renderlo sfiga-scemo ogni capitolo di più.
Mi perdonate anche questo, vero? ^///^
Vi aspetto nel prossimo aggiornamento, dove sfiga-Magnus avrà ulteriore occasione di fare e dire la cosa sbagliata.
Un abbraccio a tutte e come di consueto, ma non per questo non sincero, un grosso Grazie di cuore.
kiss kiss Chiara


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Capitolo 8
*** Un incontro inaspettato ***


8.Un incontro inaspettato
Detective Martinsson



VIII. Un incontro inaspettato



Orrendo livido sullo zigomo, macchia imbarazzante di sugo sul maglione, espressione da ebete stampata sulla faccia. Dulcis in fundo, battito cardiaco indecentemente accelerato.
Cosa noterà per primo?
«Eric, che ci fai qui?» Certo non mi sono dimenticato che lui e la signora Fustern non sono propriamente due vicini amorevoli l’uno per l’altra.
«Ti sei dato alla cucina?» Macchia imbarazzante di sugo sul maglione: ottima scelta!
Un sorriso divertito gli piega le labbra mentre fa scivolare l’elsa del martello nella fibbia della grossa cintura che gli cade sui fianchi.
Tiro un sorriso a stento ma sento le guance deformarsi in una smorfia che non ho il coraggio di domandarmi come appaia ai suoi begli occhi.
Magnus, contegno!
«Stavo girando il sugo e... » Ma che fai, gli rispondi pure?
Indico con il pollice la pentola alle mie spalle ma le parole rimangono incastrate nella gola, parcheggiate fra un’imprecazione ed una richiesta di aiuto divino.
«Venga qui, detective.» La signora Fustern ritorna in cucina con un piccolo spray fra le mai. «Fra dieci minuti non si vedrà più nulla.» E mi salva da un ulteriore imbarazzo. Credo.
«Oh, non doveva preoccuparsi, signora.» Ma ha già spruzzato quella che sembra della schiuma bianca sul mio maglione. Abbasso lo sguardo sulla nuova macchia e spero davvero che fra dieci minuti non si veda più nulla.
«Ho bisogno di altri chiodi.» La voce di Eric mi si versa nelle orecchie prima che lo veda sorpassarmi ed uscire dalla porta che dalla cucina dà sul retro, con ancora un residuo di risolino divertito sulla bocca. Lo seguo con gli occhi e noto solo in quel momento la Ford blu parcheggiata.
Come ho fatto a non farci caso prima? Devono essere state tutte le chiacchiere soporifere della gentile vedova...

«Signora Fustern, mi perdoni, ma lei non mi pare avesse molta simpatia per il suo vicino. Che ci fa qui?» Non lo consideravi un pericoloso ladro? Eh? E mi hai pure mandato a casa sua per complicarmi la vita, nonnina diabolica!
«Oh, detective!» Si porta una mano al petto con fare scenico mentre poggia il coperchio sulla pentola. «È un caro ragazzo. Sbagliavo a considerarlo in modo così ingiusto.» Butto ancora un occhio all’esterno dove Eric pare intento a cercare qualcosa nel suo cofano posteriore. «Mi ha salvato la vita.» Cosa?
«Le ha salvato la vita?» Quando? Dove? Perché fra le miriadi di chiacchiere inutili non ha menzionato l’unica che aveva una minima rilevanza?
«L’altro giorno la mia canna fumaria ha preso fuoco. Non può capire che spavento!» Si accomoda su una sedia passandosi una mano sul viso. «Non sapevo cosa fare. Non riuscivo neanche a chiamare i vigili, ero pietrificata dalla paura. Sono solo uscita in giardino in cerca di aiuto. Ma come può vedere, è una zona molto isolata. Eric però deve avermi sentito gridare e me lo sono trovata davanti come un angelo.» Angelo? Non è proprio l’appellativo più consono ad uno come Eric Huntsman. Per me è più simile ad un demone che si è impossessato della mia mente e su cui sembra inefficace qualsiasi esorcismo! Credo dipenda dai punti di vista. «È stato tanto gentile… Ed io che lo consideravo un tipo pericoloso.» L’ultimo sembra più un richiamo a se stessa che altro. Torno a guardare la sagoma di Eric che chiude il portellone per rientrare in cucina.
«Eric caro, vuoi del caffè?» Eric caro?
«Non si preoccupi. Torno al lavoro, così entro stasera avrò finito, signora Fustern.» Ok. Da quando è diventato così garbato e gentile? Con quella che lui stesso ha definito una vecchia senza simpatia?! Questi due hanno chiaramente intenzione di mandarmi in confusione.
Lo vedo sparire nuovamente verso le scale e mi chiedo se ho abbastanza lucidità per rimanere ancora in questa casa.
«Mi raccomando, detective, non crei problemi a quel ragazzo!» Definire la mia espressione sconcertata è un eufemismo.
«Signora, perché mai dovrei creargli problemi?» Ormai tutti mi considerano alla stregua di uno stalker. Ma qualcuno si ricorda ancora che fra i vari compiti di un agente di polizia c’è anche quello di indagare su ogni possibile sospettato? Sospettato, che fra l’altro, è stata proprio lei ad indicarmi.
«Non dia importanza a quello che le raccontai quel giorno. Sbagliavo. Eric non è un ladro.» Ladro, forse no, di certo è uno che crea parecchi grattacapi, soprattutto a me.
Prendo aria e con essa il tempo necessario per acquisire un po’ di pazienza.
«Può stare tranquilla. Ho fatto tutte le indagini necessarie e non c’è alcun motivo per ritenere il signor Huntsman implicato in qualche maniera nel suo furto.» Sorride rasserenata e mi limito ad un cenno della testa.
«Ora, devo andare.» Ho bisogno di uscire di qui. Sono già stato sbeffeggiato abbastanza. E le tintorie chiudono alle 19.00!
«Di già? Volevo mostrarle prima qualcosa.» Non mi dà il tempo di chiedere nulla ché la vedo dirigersi verso un cassetto del salotto. Assottiglio lo sguardo per cercare di farmi un’idea di cosa stia facendo, ma non riesco a comprendere finché non torna da me con un piccolo portagioie di velluto rosso. «Questi sono gli orecchini di mia nonna.» Mi mostra due piccoli pendenti d’oro con una goccia di perla sul fondo. «Sono in completo con la collana. Era una parure. Ho pensato che potessero essere d’aiuto alle sue indagini.»
«Perché non hanno preso anche questi?» Chiedo aggrottando le sopracciglia e lei piega le labbra sottili in una linea tirata tristemente in su.
«Li avevo portati dal gioielliere per farli riparare. Questo aveva la chiusura rotta. Me li hanno consegnati stamattina... Al mio povero Arthur piacevano tanto.»
Semplice casualità. Beffarda, casualità.
Un cimelio di famiglia, uno di quegli oggetti che sono un pezzo di noi. È questo per Amanda Fustern la collana di sua nonna. Delle seimila corone non ha mai fatto parola. Non gli interessa di altro che di quella collana.
Non ha figli, non ha nipoti. Non ha nessuno a cui donarla, eppure la rivuole. Forse rappresenta quella famiglia che l’ha lasciata. Suo marito è morto anni addietro e lei è rimasta sola in questa casa isolata con tanti pregiudizi e tanta polverosa solitudine.
Non ho il diritto di sminuire il suo dolore. Ho solo l’obbligo di trovare quei ladri e restituirle ciò che le appartiene.

Raccolgo il piccolo cofanetto con cura.
«Grazie mille. Saranno di certo utili, signora.» Vedo i suoi occhi diventare lucidi prima che qualche piccola lacrima scenda lenta. È una dimostrazione di gratitudine che non mi merito.
Infilo il portagioie nella tasta della giacca appesa alla sedia, e sono più che deciso a far ritorno alla centrale e fare quanto in mio potere per ritrovare quella collana. Per qualche attimo dimentico perfino che Eric Huntsman è in questa stessa casa, al piano di sopra, ad armeggiare con le finestre. Dimentico che mi ha ridicolizzato di nuovo, e che per poco non arrossivo come una verginella...
«Detective, potrebbe cortesemente portare una tazza di caffè a quel giovane?» Ma la gentile vedova ci mette poco per rinfrescarmi la memoria. La guardo con un piglio confuso che la sprona a darmi una spiegazione che non posso che accettare senza possibilità di replica: «Andrei io, ma non vorrei che si attaccasse lo stufato.»

Non so perché lo sto facendo. Non so perché tengo stretta con forza questa tazza contro il palmo della mano, senza curarmi del calore ustionante che si riflette sulla mia pelle. Non so perché salgo lentamente ogni piolo con la stessa solennità di un condannato che si avvia alla forca.
Forse perché voglio risposte, forse perché semplicemente voglio rivedere quel sorriso. Magari la verità è che in me c’è una leggera vena masochista.
Svolto l’angolo e mi incammino verso il rumore di martello che odo. Ogni colpo lo sento rimbombare nella testa e nel petto. Quando sbuco davanti alla porta, mi affaccio di poco, giusto per scorgere la schiena di Eric curva su di un’asse.
Busso con la nocca dell’indice sulla porta aperta e lui si volta.
«La signora Fustern ti ha mandato del caffè.» Allungo il braccio cercando di essere il più distaccato possibile.
Tre sono i secondi che mi dedica prima di riprendere a martellare.
«Lars ti ha lasciato un bel ricordino.» Una sottile risata segue le sue parole.
Lars Silvstedt è il marinaio che al porto ha litigato con Derek Bellman. Il marinaio contro cui non ho poi più sporto denuncia, il marinaio che mi ha dato un bel cazzotto sulla faccia. È ovvio che Eric lo conosca. È altresì ovvio che la mia disavventura sia diventata argomento di dialogo fra tutti gli operai. Argomento su cui farsi due risate, potrei aggiungere.
«È stato un incidente.» Preciso percorrendo con gli occhi ogni piega che prende la stoffa chiara sulla sua schiena. Eric continua a picchiare i chiodi senza pausa. Di nuovo una maglia di cotone, ma stavolta ha la decenza di indossarne una a maniche lunghe. Io invece non ho la decenza di distogliere lo sguardo dal suo corpo. «Sono i rischi del mestiere.» E alle mie stesse orecchie l’ultima frase sembra un lento sospiro osceno. Cerco di ritrovare una certa lucidità e mi schiarisco leggermente la gola.
Ormai mi sento scomodo nella mia stessa pelle. Non riconosco le emozioni che provo, non sono miei i brividi che mi avvolgono quando lui si volta con un mezzo sorriso. Sono istinti che non mi appartengono, desideri estranei che mi provocano timori a cui non posso oppormi con alcuna pistola.
Sposto lo sguardo sul bordo in ceramica della tazza, lo percorro con gli occhi quasi non lo vedessi realmente ed ho l’impulso di fiondarmi a buttar giù tutto il caffè bollente pregando che anneghi ogni cosa. Che anneghi questo stupido e fastidioso bisogno di...
«Tutto bene?» Di te. Alzo di colpo la testa ed incrocio i suoi occhi che mi guardano interrogativi. Quegli occhi che mi tormentano ogni volta che chiudo i miei.
«Sì... sì, è tutto ok.» Tiro su le labbra per comodità, ma dentro di me ho solo voglia di nascondermi in un angolo e picchiare la testa contro il muro finché non si tingerà di rosso, o finché non sverrò - dipende quale delle due funziona prima.
Eric continua a guardarmi senza dire nulla, con il legno del martello stretto nella mano, con la capacità di mettermi a disagio con la sua sola presenza.
Ha capito che mentivo, ha capito che no, non sto bene. Mi chiedo se non abbia capito anche altro. Il solo pensiero è agghiacciante e potrei smettere di respirare all’istante se scoprissi che lui sa.
Cosa fai in questa casa? Perché hai aiutato quella donna? Perché continui a stordirmi senza che io possa oppormi? Perché? Perché, Eric? Perché provo quello che non dovrei provare?
Vorrei urlarlo, vorrei afferrarlo per le spalle e scuoterlo finché non mi avrà dato ogni risposta. Vorrei prenderlo a pugni fino a rompermi le dita! Vorrei, vorrei, vorrei e poi vorrei ancora. Voglio tante, troppe cose, e non sono in grado di averne alcuna.
Resto qui, in silenzio, con il suo sguardo a trafiggermi, con il mio a perdersi sul suo viso, su quella perfezione che è un supplizio.
Ho di nuovo 13 anni, l’apparecchio sui denti e sto fissando Susanne Gallstad senza avere il coraggio di darle il suo regalo di compleanno.
«È per me?» Fa un cenno con la testa per indicare la tazza che sosta calda nella mia mano. Ci impiego un po’ per far funzionare il cervello rimasto totalmente appannato dal suo sorriso.
«Oh, io... Sì, la signora Fustern mi ha chiesto di portatelo.» Gliela tendo ancora una volta e prego che il mio braccio non mi giochi contro iniziando a tremare. «Non poteva salire... Il suo stufato poteva bruciarsi, credo.» Ti prego, prendi il caffè e fammi andare via.
«Ah, capisco» E questo cos’è, sarcasmo? Pochi passi e mi è di fronte. «Allora grazie.» Susanne mi strappò il regalo dalle mani senza neanche degnarsi di guardarmi in faccia. E non le piacque neanche.
Quando Eric afferra la tazza, le sue dita sfiorano le mie per pochi secondi, e quando me la porta via il freddo si appropria della mia mano, il mio stomaco invece, è nelle fiamme più alte.
Stomaco? Dovresti ripassare un po’ di anatomia, detective Martinsson.
Un sorso che non vedo perché mi dà nuovamente le spalle, e poi poggia la tazza a terra. Ne approfitto per passarmi una mano fra i capelli avvilito, arrabbiato, totalmente in balia del caos più totale.
Prendo un respiro e soffio l’aria cercando di far meno rumore possibile. Quando i miei polmoni si sgonfiano, Eric torna a guardarmi. Non dice nulla e come se mi stesse studiando.
Lui? Sono io che dovrei studiarlo, che dovrei capire come accidenti faccia a farmi sentire così!
Devo riprendere il controllo di me e della situazione. O mi volto ed esco da questa stanza o afferro il toro per le corna. Azione, basta annegare nella mera riflessione!
«La signora Fustern mi ha raccontato della canna fumaria.» Buon argomento, sono quasi fiero di me. «È stato un bel gesto il tuo.» Avverto la divisa del poliziotto ricoprirmi e Dio solo sa quanto questo mi sia d’aiuto.
«L’ho solo sentita urlare» abbozza prima di tornare al suo lavoro. Prende una manciata di chiodi e li blocca fra i denti. Testa l’asse sinistra del telaio e poi riprende a martellare.
Sento una leggera sicurezza guidare passi e parole, ed entro più a fondo nella piccola stanza. Mi guardo un po’ in giro. Sono stato qui la mattina di... Oh, quella mattina, ovvio!

Pareti coperte di carta da parati verde con sottili linee porpora verticali. Un letto singolo di legno chiaro alla mia destra. Dello stesso colore il comodino accanto. Una abat-jour, un piccolo posacenere. Una trapunta rosa confetto con dei grossi fiori bianchi adorna la branda. Sulla parete di fronte, un armadio a due ante di un legno più scuro. Null’altro.
Deve essere una stanza per gli ospiti, ma di ospiti non deve averne avuti da un po’. Me lo suggerisce la coltre sottile di polvere, me lo conferma il ricordo degli occhi lucidi di Amanda Fustern.
Con un sentimento di tenerezza nel petto sposto ancora la mia attenzione ed il mio sguardo sulla figura di Eric Huntsman.
«Mi era parso di capire che fra di voi non ci fosse molta simpatia.» Mi infilo alla prima pausa di martello e una leggera risata anticipa la sua risposta.
«Avrei dovuto ignorare le sue urla?» Ed ora ho di nuovo il suo sguardo su di me.
«Certo che no! Volevo solo dire che è un gesto inatteso da parte tua. Ecco tutto.»
«Ah sì?» ghigna afferrando dalle labbra l’ultimo chiodo prima di piantalo con pochi colpi sull’asse destra. La leggera sicurezza sta scemando via via dal mio corpo. Potrei fare un passo indietro o potrei farne uno in avanti. Il mio buonsenso mi suggerisce la prima, il mio folle bisogno, la seconda.
«Ammetterai tu stesso che non ti era molto simpatica. E adesso le stai anche sistemando le finestre...» Vince la seconda.
«Tu aiuti la gente in base alla simpatia?» Credo che abbia terminato. Fa qualche passo indietro e ne controlla la riuscita prima di tornare ad agitarmi con il suo sguardo.
«Ovviamente no.» Non riesco a rimanere indifferente a quel sorriso sghembo né alla sua chiara voglia di provocarmi. «Ma io lo faccio di mestiere.» La tua scusa qual è?
«E sei bravo?»
Attento Magnus, qui finisce male.
«Nel mio lavoro? Abbastanza.» Dalla mia voce non trapela incertezza e quasi mi stupisco di come stia riuscendo a gestire questa insolita conversazione.
Forse ho riempito la mia testa di inutili paranoie per un’intera settimana, forse Eric Huntsman non è poi così indecifrabile come credevo.
«E come mai ancora non hai trovato quei ladri?» E poi erano i poliziotti a fare troppe domande, eh?!
«Le indagini richiedono tempo.» Annuisce e sposta lo sguardo sulla testa ferrata del martello. Pondera una risposta o ammette la sconfitta? Perché, è una sfida? Quando lo è diventata?
«Hai fatto anche indagini su di me, immagino...» Il tono è più basso, il suo sguardo più sottile. E la mia sicurezza si infrange come un cristallo sul pavimento.
Deglutisco una nuova inquietudine e sento che ogni passo verso di Eric fatto in questa manciata di minuti potrebbe essere annullato nei successivi secondi. La mia risposta è un’unica pallottola in canna.
«Ovvio.» Premo il grilletto e sono pericolosamente senza difese.
Il silenzio è la sua prima replica e ne approfitto per tentare di scoprire se la mia sincerità sia stata o meno un suicidio.
«E cosa hai scoperto?» La domanda scivola lenta sulla sua lingua mentre infila il manico del martello nuovamente alla cintola. Un brivido lento mi percorre la spina dorsale quando le dita di Eric scorrono su tutta la lunghezza dell’impugnatura. Ho di nuovo il battito indecentemente accelerato e non ho più saliva da mandar giù né santi in cielo a cui rivolgermi, ma sono in ballo e tanto vale gettarsi senza pensarci troppo.
«Dovresti saperlo.» Cerco di contenere cuore ed emozioni ma non posso fare a meno di incollare gli occhi ai suoi mentre un bianco sorriso si disegna fra la barba.
«Già... A voi poliziotti piace impicciarsi della vita degli altri, vero?»
«È un lavoro, Eric. Non è un hobby né un piacere.» Sono sincero alla prima ma mento spudoratamente alla seconda. Anche se “piacere” sarebbe meglio sostituirlo con “necessità psico-fisica”.
Ho passando l’ultimo periodo a giustificarmi con chiunque per una cosa di cui, onestamente, non dovrei. Prima Ringdal, poi la Fustern, adesso Eric stesso... Sono la legge, dannazione, non il crimine. Io sto dalla parte degli angeli[1].
Mi ritrovo a serrare la mascella quando Eric mi si avvicina con lenti passi. Non indietreggio, non mostro cedimenti. Non posso spogliarmi adesso della divisa e mostrargli tutte le mie insicurezze.
«Sospetti di me, Magnus?» alita sommessamente ad un soffio dal mio viso.
Se la soggezione fosse un qualcosa di materiale, avrebbe i suoi occhi.

«No... Non ne ho motivo, Eric.» Non credevo di potergli essere così vicino e non crollare sulle mie stesse ginocchia. Cosa mi tenga in piedi non lo so, magari è solo un residuo di dignità che non voglio perdere nonostante tutto.
I palmi delle mie mani sono sudaticci e le mie labbra tirano per la secchezza. Le sue si piegano leggermente all’insù in un sorriso che pare essere più una minaccia.
«Bene» sospira infine senza però avere intenzione di spostarsi dalla sua posizione.
Io ti avevo avvisato, stupido poliziotto!
«Detective!» È la Fustern. «Detective Martinsson?» La voce sale lenta dal piano di sotto, ma posso udirla senza troppi problemi.
«Ti stanno chiamando, detective.» Ma non riesco a spostarmi di qui. Ho i piedi incollati a terra e le ginocchia cementate. «Forse dovresti andare. È il tuo lavoro... no?» E quando il suo viso sparisce dal mio campo visivo mentre va a raccogliere gli attrezzi sul pavimento, solo allora mi accorgo di aver trattenuto il respiro per gli ultimi venti secondi.
La voce della signora Fustern giunge nuovamente alle mie orecchie. Per fortuna.

«Così pensavo che potesse esserle d’aiuto.»
«Ogni particolare è d’aiuto. Qualsiasi cosa ricordasse, anche in futuro, mi chiami senza problemi.»
«Sono felice che sia lei ad occuparsi del mio caso, detective.» Sollevo lo sguardo dal block-notes. «Sono sicura che riuscirà a ritrovare la mia collana.» Rimango a guardare quegli occhi grigi chiedendomi se sono davvero meritevole di essere chiamato detective. Annuisco con un sorriso ed appunto l’ultimo dettaglio ricordato dalla donna. Probabilmente si rivelerà di poca utilità, ma non voglio più fare meno di quanto devo.
Sono ancora occupato a scrivere quando Eric entra nella cucina. Speravo di riuscire ad andarmene prima del suo arrivo.
«Tutte le finestre sono sistemate» proclama. «Si aprono senza problemi, ma se dovesse avere qualche difficoltà mi chiami.»
«Non so come ringraziarti, caro!» All’ennesimo “caro” non riesco ad impedire all’angolo destro della mia bocca di sollevarsi. Indugio sul taccuino più del dovuto perché non oso alzare gli occhi e rischiare di incrociare lo sguardo di Eric.
«Allora io vado, devo solo raccogliere-»
«Non se ne parla!» Ma a quel tono deciso la mia testa si solleva automaticamente. «Non pensare che ti lasci andare a quest’ora senza neanche farti cenare.» Il viso della donna è una maschera di risolutezza.
«Non credo sia il caso, io-»
«Niente scuse!» Eric viene zittito nuovamente. «Ho fatto la stufato di alce e tu adesso ti siedi e mangi.» Lo afferra per un polso e lo trascina alla sedia di fronte a me. «È quasi pronto.» Ed io rimango adorabilmente sconcertato dalla facilità con cui questa anziana donna è riuscita a piegarlo alla sua volontà. Con me non c’era poi questa gran sorpresa, ma con uno come Eric... E lui non pare mostrare alcuna intenzione di ribattere.
«Signora, non deve- »
«Oh per l’amor del cielo, Eric. Non vuoi accettare i soldi, per lo meno accetta una cena.» Zittito per la terza volta consecutiva. Dovrei prendere esempio... «Non credi che questa povera vecchia si meriti la compagnia di due giovanotti almeno ogni tanto?!» Due giovanotti? Quel plurale mi mette in allarme. Infilo veloce il taccuino nella tasca e mi affretto ad alzarmi. Sento gli occhi di ghiaccio seguire i miei gesti ma non ho tempo per lasciarmi frenare. Questa giornata si è rivelata già abbastanza assurda, non la farò concludere con una cena che avrebbe del grottesco.
«Signora Fustern devo tornare in centrale.» Ora sono quattro gli occhi su di me.
«A quest’ora?» L’orologio appeso alla parete della cucina da cui fa capolino una grossa gallina gialla, indica le 19 passate. Dannazione, hanno già chiuso! Ma non è questo che mi preoccupa. Dal commissariato non è arrivata alcuna chiamata, teoricamente il mio turno è terminato cinque minuti fa.
Valuto velocemente le possibili vie di fuga: insistere sul rientro alla centrale; fingere una chiamata d’emergenza mai arrivata; inventare un impegno inesistente. Nessuna mi sembra adatta, tutte puzzano di menzogna lontano un miglio, e questa donna non ne merita più.

«Non vorrei disturbare...» sospiro grattandomi la nuca e rispondendo a quella domanda in modo quasi sincero.
Anche se non posso vederlo, perché mi sono categoricamente imposto di non guardarlo, posso percepire il ghigno divertito di Eric.

Come se tu fossi riuscito a sottrarti alla sua volontà, “caro”!
«Ma quale disturbo!» Amanda Fustern mi tira giù per un braccio e mi ritrovo nuovamente seduto sulla sedia e stavolta non posso proprio evitare quegli occhi.
«Non essere scortese, Magnus...» Di nuovo un brivido lungo la schiena.
Non conosco molti dettagli della vita di Eric Huntsman, il buco nero di incognite è ancora lì. Non ho idea di chi sia realmente quest’uomo, eppure una cosa è certa: ora, più che mai, voglio scoprire cosa si cela dietro quegli occhi.

















Continua...




[1] Dalla parte degli angeli è una frase, anche se con qualche variante, ©Sherlock (BBC) [ndr. Oh, Moriarty...]



NdA.
Siamo così giunti al settimo appuntamento con il detective più inutile carino della storia!
Spero sia stato di vostro gradimento, a me ha fatto molto piacere scriverlo e mi auguro di non aver maltrattato troppo i personaggi. Con Eric ho sempre qualche dubbio, perché in SWATH non è che si sia molto capito che tipo di uomo è. A me ha dato l’impressione di essere fondamentalmente un buono con la scorza ruvida. Poi, boh, come al solito avrò preso un abbaglio!
Un abbraccio a tutte voi ed un ennesimo grazie ^^
Alla prossima puntat- ehm, volevo dire, al prossimo capitolo ^w^
kiss kiss Chiara

p.s. ancora non ho capito quale malsana voglia l’abbia guidata, ma la gentilissima e bravissima Callie_Stephanides ha creato questo stupendo video su Magnus ed Eric *w* 
Vi invito caldamente a guardarlo perché, cavoli, merita cento volte di più di tutta la mia fic u.u



un bacio speciale, Sara >x<

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Capitolo 9
*** Il furto Fustern ***


Il furto Fustern
Detective Martinsson



IXIl furto Fustern



Arthur Fustern aveva 52 anni quando è morto. Era un impiegato postale ed aveva l’hobby della pesca.
Ogni domenica mattina si svegliava alle cinque e raggiungeva il laghetto ad un paio di chilometri da casa sua. Ogni domenica tornava a casa con qualche preda. Ogni domenica Amanda Fustern cucinava pesce alla griglia.
Un pomeriggio di marzo, il telefono squillò ed Amanda dovette correre in ospedale. Quella stessa sera, tornò a casa da sola. Un arresto cardiaco ed Arthur se ne era andato.
«Mi sedevo su quella sedia a fare l’uncinetto ed aspettavo di vedere Arthur spuntare sul vialetto. Era sempre puntuale il mio Arthur, non un minuto di ritardo. Usciva dall’ufficio e dieci minuti dopo era a casa.» Sorride dolcemente. «Alle volte mi sembra ancora di vederlo entrare dalla porta... -Ancora un po’ di patate?»
«È gentile, ma no, grazie. Sono sazio.» Declino gentilmente mentre mi tampono le labbra con il tovagliolo di stoffa.
Sulla parete della cucina, una vecchia foto di due giovani abbracciati: una bella ragazza dalla chioma chiara ed un giovane sorridente con un cappello sulla testa. Sembrano felici, forse lo erano.
«Eric, vuoi altro stufato?»
«No, grazie.»
Se qualcuno mi avesse detto che io, Eric Huntsman ed Amanda Fustern saremmo stati seduti allo stesso tavolo a cenare tranquillamente come una perfetta famigliola felice, credo che avrei trattenuto a stento una risata. Ed invece...
I ricordi della donna sono stati l’argomento più gettonato della serata, ma confesso che sono stati piacevoli da ascoltare. Una lunga vita dipinta nel racconto di qualche episodio, pochi tratti di qualcuno che ha amato tanto e che ama ancora oggi, di un amore che puoi solo invidiare.
Io mi sono limitato a contornare il tutto con qualche intervento sporadico. Eric è stato il più silenzioso. È stata un’indovinata previsione.
Manda giù un altro sorso d’acqua. Non ha voluto vino. Io ne ho preso solo due dita.
Non beve più, anche quel giorno a casa sua, mi offrì una birra analcolica. I sei mesi di reclusione devono aver sortito il loro effetto, oppure, chissà, sarà stato altro.
La forchetta affonda in un piccolo pezzo di carne per poi giungere alla sua bocca. Mangia in modo composto ed elegante, e la cosa mi ha sorpreso. Non volevo rinchiuderlo nel cliché dello scaricatore di porto rozzo e volgare, ci mancherebbe, però quest’oggi ho scoperto lati di lui che hanno finito con il confondermi ed affascinarmi ulteriormente. La generosità e la gentilezza verso questa donna per cui chiaramente non aveva grande propensione, il garbo con cui le si rivolge e quella, oserei dire, dolcezza appena accennata. Poi la sua vena di sfida, quasi di malizia, che ha usato nel nostro breve scambio di prima. L’ironia ed il sarcasmo che avevo già in parte sperimentato.
È un uomo dalle mille sfaccettature, Eric, ed io sono ben consapevole di averle intraviste solo in misera parte.
I suoi occhi si alzano sui miei mentre ancora mastica il boccone di poco prima ed io mi affretto a buttare giù l’ultima goccia di vino rosso spostando lo sguardo sul cestino del pane integrale.
«Lei ce l’ha una fidanzata, detective?» Ma che domanda è?!
Sento le guance arrossire e per poco non mi va il vino di traverso. Istintivamente scuoto la testa. «Non al momento.» Ammetto dopo un leggero colpo di tosse cercando di evitare di guardare l’uomo davanti a me, perché se continuerà a tormentare la mia mente - ed il mio corpo - credo che non avrò una fidanzata ancora a lungo.
«Che peccato! Neanche il nostro Eric ha una fidanzata, eppure siete così due bei giovani.» Ma stavolta non riesco a non incrociare il suo sguardo. Non ci sono espressioni sul suo viso. Continua a mangiare come se si stesse parlando di qualcun altro. Sembra un discorso che non gli interessa, magari è solo un discorso che vuole evitare. «Però non credo che non ne abbia mai avuta una.» Solo dopo qualche attimo capisco che quella domanda indiretta è per me. Amanda Fustern è una donna decisamente invadente, ma mi ha accolto nella sua casa con gentilezza e mi ha offerto la sua cena. Non credo sia cortese negarle una risposta. Sarà breve, perché davvero, non c’è molto da raccontare.
«C’è stata qualcuna che credevo fosse quella giusta... Ma mi sbagliavo.» Sorrido sperando di chiudere qui la faccenda. Eric si mostra ancora estraneo al discorso e vorrei tanto che Amanda Fustern usasse tutta la sua deliziosa invadenza anche con lui. Vorrei che gli facesse le domande che io non oso fare, a lei, molto probabilmente non potrebbe che rispondere.
«E come deve essere quella giusta?» Ed invece continua ad indirizzare la sua attenzione alla mia vita sentimentale, a sarebbe meglio dire, ai suoi residuati bellici.
«Non c’ho mai pensato, a dire il vero...» Non so neanche perché le rispondo. «Credo dovrebbe essere una persona con cui mi senta me stesso e che sia se stessa con me. Una persona semplice, sincera. Sì, credo sia questa la cosa fondamentale.» E quindi non può essere Eric Huntsman, perché quando sono in sua presenza, divento qualcuno che non conosco.
Vorresti che lo fosse?
«Sono certa che il Signore le abbia già destinato la persona giusta.» Poggia la sua mano calda sulla mia e mi regala un sorriso materno che mi scalda il cuore. «La deve solo incontrare.» E sono così perso in questo amorevole calore da non accorgermi degli occhi di Eric su di me.

«Questi li poggio qui?»
«Sì, grazie detective.» Sistemo i piatti sul ripiano accanto al lavandino.
«Può chiamarmi Magnus.» Solitamente non rinnego il mio grado, ma davanti alla disponibilità di questa donna lo sento pesare fastidioso. Mi sorride stringendomi l’avambraccio prima di affondare i piatti nella schiuma in un muto assenso.
Torno alla tavola per raccattare le ultime stoviglie e mi ritrovo un Eric che ha già raccolto tutto in una piccola catasta ben ordinata.
«Prego.» Me la porge con un ghigno ed io mi ritrovo ad afferrarla senza essere capace di dire nulla. «Attento a non farli cadere, Magnus.» Ancora non riesco ad abituarmi a sentirgli pronunciare il mio nome con quel tono enigmatico. Ho chiaramente intuito che trova divertente punzecchiarmi, deve essere per via del mio lavoro e della sua confessata avversione per i poliziotti. Certo non è facile incontrare un detective che non sa neanche tenere a freno le sue emozioni. Per lui devo essere un divertente passatempo. Ridicolo, forse patetico.
Durante tutta la cena non ho più ritrovato il coraggio per parlargli come prima, e a parte i “grazie“ per il sale ed il cestino del pane, non ci siamo scambiati mezza parola. Devo aver perso coraggio e dignità mentre scendevo le scale...
Porgo la catasta di piatti alla padrona di casa con un sorriso di circostanza. Credo sia arrivato il momento di tornare a casa.
 
«Grazie per la splendida cena e stia tranquilla, farò il possibile per riportarle la sua collana.» Una mano mi accarezza il viso. Un po’ inopportuno ma l’accetto senza ribattere.
«Grazie a te per il tuo impegno, Magnus, e vieni a trovarmi quando vuoi. Mi fa piacere avere visite così piacevoli.» Sorrido chiudendo la zip del giaccone e la saluto sulla soglia di casa. Mi avvio verso l’auto nel freddo della sera di Hedeskoga.
Sono quasi le 21 e davvero ho solo voglia di affondare con la testa sul cuscino. Eric è andato via prima di me, doveva lavorare presto, ha detto. Ha ringraziato ermeticamente per la cena e la signora Fustern per poco non lo stritolava in un abbraccio. Lui non si è ritratto.
Per un solo istante ho desiderato avere quarant’anni di più e l’artrite alle ginocchia solo per essere al suo posto.
Patetico...
Infilo le chiavi nella serratura dell’auto ed entro in macchina. Amanda è alla finestra e mi saluta con un gesto della mano. Mi ricorda mia madre quando vado a trovarla, quelle poche volte che il lavoro me lo consente. Rispondo al suo saluto con un cenno della testa e metto in moto. Deve essere la finestra da cui aspettava il ritorno del suo Arthur.
Passo davanti casa di Eric ed anche lì la luce è accesa. Mi chiedo cosa stia facendo. Alla fine non siamo poi così diversi, c’è una profonda solitudine in tutti noi, nello sguardo commosso della signora Fustern, nei silenzi di Eric, nel mio senso continuo di inadeguatezza.
L’immagine di lui seduto solo sul divano, mi accompagna finché non arrivo a casa.


«Probabilmente si è trattato di un tentativo di rapina finito male.»
Eric non ha parlato neanche una volta di sé. Tutti i suoi pochi discorsi erano per lo più risposte alle domande della signora Fustern sul suo lavoro al porto.
«Di certo qualcuno ha visto qualcosa.»
«Hai già fatto qualche domanda in giro?»
Perché è così riservato? Cos’ha da nascondere? Non ha menzionato la sua famiglia neanche una volta. Credo sia normale dopo aver perso entrambi i genitori, ma suo fratello William? Hanno buoni rapporti?
«Ho lasciato l’agente Brugder sul posto. Si sta occupando anche di rilevare possibili impronte.»
La sua vita sembra ruotare attorno al suo lavoro, però la signora Fustern sapeva che non è fidanzato. Glielo avrà chiesto senza farsi problemi come è accaduto con me.  Di che altro avranno parlato?
«Sarà utile non escludere alcuna possibile pista.»
Forse basterebbe essere più diretto. Dovrei realmente prendere esempio da lei e provare a-
«Magnus?» Sollevo la testa di colpo verso il viso di Lisa.
«Sì?» Mi guarda sbattendo le palpebre con l’aria decisamente irritata. E adesso che ho fatto?
«Sei con noi?»
«Sì.» Non mi rendo neanche conto che non è una vera domanda. Mi passo una mano fra i capelli sollevandomi di poco con la schiena dalla sedia. «Scusa, ero sovrappensiero.»
Maledetto Huntsman!
«Ce ne siamo accorti.» Sposto lo sguardo sulla penna che picchietto sul tavolo cercando di concentrarmi sulle parole dei miei colleghi. Sven sta parlando di una rapina o di un’aggressione. La verità è che non vedo né la penna né sento alcuna voce. Solo un volto riempie i miei pensieri, solo il suono di una risata bassa che pare nascondere altro.
Quando sono tornato a casa e mi sono infilato nel letto, non sono riuscito a prendere sonno. Rivivevo in continuazione quella strana cena. Rivivevo il nostro ambiguo scambio di battute. Risentivo il suo umore mutevole che mi colpiva e la mia paura di crollare. Potevo perfino percepire sotto le mie dita le sue.
Quello sguardo ha riempito il buio della stanza.
Mi sono addormentato poco prima che il sole sorgesse, ma quando ho riaperto le palpebre, non c’era abbastanza luce che accecasse il suo ricordo.
Mi sento avvilito, soffocato in ogni senso. Vorrei riuscire a staccarmi con il pensiero e con le emozioni da quell’incognita ambulante che è Eric Huntsman. Ma più ci provo, più tento con tutto me stesso di cancellare ciò che provo dal petto e dalla testa, più continuo ad essere attratto da lui, come un mulinello d’acqua a cui non è possibile sfuggire.
«Occupatene tu, Anne-Britt, di certo Magnus ha altri importanti questioni a cui pensare.» Porto lo sguardo sulle labbra di Lisa giusto il tempo per vederla uscire dall'ufficio. Sospiro accasciandomi sul tavolo e nascondendo la testa fra le braccia.
«Ancora la tua insonnia?» Rispondo alla domanda di Anne-Britt con un mugugno strozzato. Poi mi rendo conto che non gliene avevo parlato. Rialzo la testa con un piglio interrogativo e lei, ovviamente, sorride comprendendo perfettamente i miei pensieri. «Me lo ha detto Lisa.» Mi chiarisce afferrando un dossier dalla scrivania. Sven è già andato via insieme a Lisa, mentre Kurt... oh, beh, Kurt è una vita che non si vede in commissariato. «Dammi retta: prenditi un po’ di Valeriana e vedrai che starai meglio.» Alzo appena una mano per ringraziarla mentre la vedo andare via.
Valeriana? Forse sarebbe meglio buttarsi direttamente sullo Xanax!
Ritorno con la testa sulle mie stesse braccia chiudendo lentamente gli occhi. Il vociare confuso della centrale è un rumore familiare, rassicurante. Il profumo del caffè misto all’odore polveroso della carta della stampante. La luce che entra dalla finestra, il ronzio del computer acceso, lo squillo del telefono...
Lo squillo del telefono?
Sollevo di colpo la testa puntandola sull’apparecchio fastidioso che in questo momento sto odiando ancora più di quanto già non facessi. Mi alzo ingoiando un’imprecazione e rispondo senza badare di essere meno sgarbato.
«Polizia di Ystad!» È quasi un ringhio. Per fortuna è un agente che cerca Anne-Britt. Gli rispondo che non so dove sia e di chiedere a Lisa. Riaggancio con uno sbuffo buttando uno sguardo al paesaggio mattutino della città.
Non posso farmi manipolare così dai sentimenti. Sono un poliziotto, dannazione, ce l’avrò un minimo di autocontrollo, no?
Ho bisogno di concentrarmi sul lavoro. Terrò Eric fuori dalla testa con ogni mezzo. Lo cancellerò totalmente.
Almeno per queste 24 ore, Eric Huntsman non sarà che un nome su un dossier.
Vado alla mia scrivania ed afferro la giacca.
«Dove stai andando, Magnus?»
«Un caso importante!» Rispondo al volo mentre scendo spedito per le scale.


È da un po’ che non bazzico questa zona di Ystad. L’ultima volta ero in compagnia di Kurt - sarà stata una decina di mesi fa. Indagavamo su un caso di frode assicurativa e l’aiuto di un informatore fu prezioso per la risoluzione del caso. Ed è proprio da lui che mi sto recando. Spero che sappia darmi qualche dritta giusta anche stavolta.
Ho promesso ad Amanda Fustern che avrei fatto il possibile per ritrovare la sua collana ed ho tutta l’intenzione di mantenere la parola. È passata solo una settimana, la pista è ancora abbastanza calda. Forse ho perso del tempo, anzi, di certo è stato così, ma non posso perderne altro a rimuginare.
La piccola insegna al neon che si illumina ad intermittenza mi conferma che sono giunto a destinazione. Entro nel negozio ed il sonaglio orientale scroscia piccole note.
Ha fatto qualche cambiamento dalla mia ultima visita. C’è qualche cianfrusaglia in più e l’odore dolciastro di incenso. Non serve essere un poliziotto per sapere che serve a coprire altri odori. Per il resto è il solito negozio di pegni che ricordavo.
Dietro al bancone, occupato a maneggiare quella che ha tutta l’aria di essere una pessima imitazione di un Rolex, c’è Kevan Larsson. Precedenti per furto e ricettazione. Si è fatto un paio di anni e poi ha capito che collaborare con la polizia non era realmente un male se in cambio poteva continuare a gestire il suo bel negozietto. Noi chiudiamo un occhio e lui apre di tanto in tanto la bocca. Mi sembra uno scambio equo.
Capelli neri solo agli angoli della testa, una pelata lucida al centro. Occhiali spessi dall’eccentrica montatura rossa oltre la quale si intravedono due piccoli occhi scuri resi più grandi solo dall’effetto delle lenti.
«’Giorno. Come posso aiutarti?»
Mi avvicino dando un’altra vaga occhiata in giro e poi gli mostro il distintivo. Immediatamente ferma il suo lavoro e trattiene a stento un sospiro annoiato.
«Detective Martinsson.» Rimetto in tasca il distintivo. Kevan mi scruta dubbioso e capisco che non deve ricordarsi di me. Poco male, ci penserò io a rinfrescargli la memoria. «Sono un collega di Kurt Wallander.» E mi basta fare il suo nome affinché abbia tutta la sua attenzione. Kurt, quasi ti odio! «Sto cercando una collana.» Tiro fuori dalla tasca il cofanetto con gli orecchini della Fustern. «È stata rubata circa una settimana fa, ad Hedeskoga.» Glieli mostro e lui inizia a guardarli corrucciando la fronte. «Ti dice niente?» Ne afferra uno e gli dà un’altra occhiata da vicino.
«Mi spiace, ma non ho visto nulla di simile in giro.»
«Ne sei sicuro?» Chiedo serio mentre lui rimette a posto il piccolo gioiello annuendo.
«Per le mie mani non è passata.»
«E per le mani di chi, potrebbe essere passata?» Andiamo, lo so che conosci la concorrenza, Kevan.
Si aggiusta gli occhiali sul naso tenendo lo sguardo sul cofanetto ancora aperto.
«Guarda, non è merce di grande volare. È difficile che qualcuno l’abbia piazzata. È più probabile che si trovi al collo di qualche donnetta del porto.» Forse ho perso davvero troppo tempo.
«Se mi fai qualche nome te ne sarei grato.» Kevan ridacchia scuotendo la testa.
«Non ne so niente, te l’ho detto.» Ma non posso gettare la spugna così facilmente. Infilo il portagioie nella tasca con un sorriso.
«Voglio solo un nome. Preferisci farlo a me o agli agenti della narcotici che verranno a farti visita più tardi? Mi basta una telefonata, Larsson.» Di solito il ruolo del poliziotto cattivo è esclusiva fantasiosa delle serie americane, ma nella realtà pare essere altrettanto efficace.
Kevan serra la mascella e mi guarda con una chiara ira ben repressa.
Bravo, tienila a cuccia, non voglio avere un occhio nero per un’altra settimana.
«Si fa chiamare “Gambero”.» Alla fine cede. «È uno che spaccia al molo 16. Lui prende di tutto: soldi, gioielli, servizietti - se mi capisci.» Annuisco ma quel nome non mi dice niente.
«Com’è che non l’ho mai sentito?»
«Bazzica da poco in giro, ma ha le spalle coperte da alcuni pezzi grossi, perciò nessuno gli ha dato rogne.» Fino ad ora, aggiungerei. Spero solo che non sia questo Gambero a darle a me!
«Beh, Larsson, sei abbastanza informato per essere uno che non sapeva niente...»
«È tutto quello che so. Giuro!»
Spero sia davvero la dritta giusta.

Il suono del sonaglio torna a tintinnare quando esco dal negozio, ma non so perché, non mi mette per nulla di buon umore.

















Continua...






NdA.
Non vi aspettavate che una cenetta da zia Amanda avrebbe risolto ogni questione, vero? Che quei due si sarebbero rotolati sul tavolo gettando a terra stufato di alce e pane integrale con buona pace della vedova, vero?
Beh, se l’avete fatto, allora ancora non avete capito bene come non funziona la testa di Magnus – e la mia, ovvio. Ma soprattutto avete poco rispetto per il pane integrale svedese u.u
[fine note serie]

Scusatemi queste note più idiote più del solito, ma al termine di questo capitolo, mi sentivo un po’ come Magnus: totalmente rincoglionita. Non chiedetemi perché, non lo so neanche io. Spero solo che il mio stato di confusione mentale non abbia avuto ripercussioni su ciò che ho scritto. E perdonate anche Magnus che si atteggia a Vic Mackey dei poveri; ogni tanto ha la fantasiosa idea di credersi un poliziotto vero!
Per quel che riguarda il caso San Pietro, abbiate fede (oddio che freddura barbara x_x)!
Ci sarà spazio per tutto, fu*k time incluso. Bisognerà solo pazientare.
Vi bacio tutte e vi “appuntamento” alla prossima volta  >.<
Kiss kiss Chiara

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Capitolo 10
*** Kollaps (parte 1) ***


Kollaps (parte 1)
Detective Martinsson



X. Kollaps (parte 1)



Il Gambero. Sul database non ho trovato nulla su nessun pregiudicato. Larsson non sapeva dirmi il suo vero nome e non credo abbia mentito; la mia minaccia aveva avuto fin troppo effetto.
Ho passato l’intero pomeriggio di ieri a cercare, inutilmente, notizie sul conto di questo tizio e sono anche riuscito nell’intento di tenere lontano dalla mente il viso ed il pensiero di Eric, peccato però che stamattina è tornato tutto alla normalità, la mia nuova assurda normalità.
Non mi resta che impegnarmi a tenerlo fuori dai miei pensieri per altre 24 ore. Onestamente, ne basterebbe soltanto una e sarebbe già un’altra vittoria.
Sposto gli occhi dallo schermo del pc e li punto al gruppo di miei colleghi che sta parlottando a qualche metro. Mi passo l’indice fra le labbra soppesando cosa fare. C’è solo una persona che può aiutarmi in questa situazione ed io sto guardando il suo viso in questo preciso momento.
Non ho altra scelta.
Mi alzo dalla scrivania e li raggiungo.
«Kurt, posso parlarti un attimo?»
«Veramente stavo andando con Sven a-» Non lo lascio terminare.
«Ti rubo solo un minuto.» Ho bisogno di risposte, e ne ho bisogno ora.

Kurt ha un aspetto sciatto anche questa mattina, non che la cosa mi sorprenda, lui è sempre stato poco preoccupato della sua immagine, ma di solito si riduce così solo quando i pensieri che gli affollano la mente sono tanti e tutti pesanti come macigni. Forse è San Pietro, forse è Linda, forse altro. Non saprei dirlo, non glielo chiederei nemmeno.
Se ho imparato qualcosa dal lavorare al fianco di Kurt Wallander è che è sempre più bravo ad avvicinare le persone che a lasciarsi avvicinare.
«Larsson ha fatto il nome di un certo “Gambero”. Uno che spaccia al molo 16 a quanto ha detto.» Mi ascolta silente annuendo in modo impercettibile con il capo. «Tu ne hai sentito parlare?» Aspetto paziente che questa statua di malinconia e silenzi prenda vita e spero davvero che almeno lui ne sappia qualcosa.
«È un portoricano. Lavora per Brandberg.» Brandberg?
«Lo stesso Brandberg del sequestro di quella barca carica di eroina?» Ti prego, dimmi di no!
Ma la testa brizzolata del commissario annuisce ed io trattengo un sospiro che avrei tutta la voglia di tirare fuori, così come avrei voglia di gettarmi tutto questo casino alle spalle e andare a raccattare qualche inutile prova in un cassonetto qualsiasi di Ystad!
Chi l’avrebbe mai detto che sarei finito con il rimpiangere la mia vecchia vita di sbriga-noie.
Brandberg è uno che non si è fatto un solo giorno dentro per una montagna di droga trovata su una delle sue barche. Ed ora io dovrei andare da un suo protetto per chiedergli di una misera collana da poche corone?
Ma purtroppo non posso agire in maniera diversa.
Ho avuto le risposte che volevo, eppure c’è ancora una curiosità che mi urla nella testa e la mia bocca è incapace di trattenerla.
«Kurt, ho sentito dire che hai rintracciato quel francese.» Quasi straccio le parole fra i denti per impedire che lui possa anche solo intuire quale sia il mio vero interesse per quel caso. «Hai scoperto qualcosa di importante?» Kurt mi guarda facendo un lungo sospiro, lo stesso che io ho ingoiato qualche secondo fa.
«È una storia complicata. Non so dire se ci siano più bugie o segreti di mezzo.» Annuisco regolando faticosamente il respiro.
«Quindi la faccenda della loro relazione è vera?» Stupido cuore, smettila di battere così forte!
«Sì, ma dobbiamo lavorare ancora per... » Cerca stancamente le parole mentre si preme entrambi gli occhi con due dita, ma alla fine non le trova e la frase rimane a metà. Capisco che è decisamente il caso di tornare ad occuparmi dei miei di casini.
«Grazie per l’aiuto, Kurt.» Sto per andarmene quando la sua voce mi chiama.
«Ehi, Magnus...» Mi volto ed incrocio uno sguardo affaticato ma rassicurante. Lo sguardo di un uomo, che non posso negarlo, è per me un esempio da seguire. «Fa’ attenzione. Brandberg è pericoloso.» Sollevo di poco le labbra in un sorriso che è un nuovo grazie e mi allontano verso la mia scrivania.


Saranno coincidenze, ma io inizio ad averne abbastanza. Prima la macchina, poi la rissa, poi ancora la canna fumaria della Fustern. La cena... Ed adesso sono fermo in macchina ad osservare ciò che accade in questo stramaledetto molo 16, ben consapevole che potrei vedermi sbucare Eric davanti agli occhi da un momento all’altro.
Mi sono sforzato di non pensarci, cercando di concentrare tutte le mie energie nello studio di una strategia che mi permetta di avere risposte da questo Gambero senza rischiare la pelle, eppure quel viso barbuto sbuca sempre a rovinare ogni mio buon proposito.
Mi appoggio al volante e scruto la scena davanti a me: operai che lavorano, gente che passeggia, un paio di cani randagi che si rincorrono.
Un portoricano non dovrebbe essere difficile da individuare. Gli spacciatori lavorano indisturbati a qualunque ora del giorno e della notte, e se stamattina non riesco a racimolare niente, vorrà dire che questa sera si faranno le ore piccole a guardare l’acqua nera del porto. Tanto neanche nel mio letto riuscirei a dormire, anzi, adesso che ci penso, l’ultima volta che ho fatto una dormita quasi decente è stata proprio in questa macchina. Non è per nulla un pensiero felice.
La situazione è talmente piatta ed ordinaria che mi lascio sfuggire perfino uno sbadiglio. Vorrei solo un letto caldo ed un paio di ore di sonno garantito. Dove devo firmare?
La mattinata passa nell’inutilità più totale: nessun portoricano all’orizzonte, né tanto meno uno scozzese ben noto. Con la stessa velocità passa anche buona parte del pomeriggio. Oggi un panino per pranzo ed una mela troppo acerba.
Quando è quasi il tramonto, rimetto in moto e ritorno alla centrale.


«Stai scherzando, spero?!»
Lisa sospira e si sfila gli occhiali stringendo l’asticella destra fra le dita. «Non sono mai stata più seria.»
Sono decisamente esterrefatto. Aggrotto le sopracciglia scuotendo inconsciamente la testa.
«È per ieri? Perché ero distratto? Ero solo concentrato su un caso.» Un altro suo sospiro e la mia ira cresce ancora.
«No, Magnus, non è per ieri, ma per tutto l’ultimo periodo.» Inizia a camminare per l’ufficio e le vado dietro in automatico.
«Lisa, non puoi sospendermi solo perché sto lavorando su un caso!»
«Smettila di fare il melodrammatico, Magnus. Nessuno ti sta sospendendo.» Afferra un dossier da una scrivania e gli dà uno sguardo vago. Sento i miei nervi tendersi come corde e potrebbero spezzarsi con un soffio. «Ti ho solo dato qualche giorno di riposo. Dovresti ringraziarmi.»
Lisa, almeno abbi la decenza di guardarmi in faccia mentre mi metti in panchina!
«Non ti ho chiesto niente! Non voglio stare a riposo. Voglio lavorare e sono in grado di farlo.» Finalmente i suoi occhi sono sui miei. La sua espressione è ferma e mi chiedo se la mia appaia fragile così come la sento.
«Sei in grado di farlo? Sicuro? Magnus, sei fermo su un solo dannato furto da più di una settimana!»
«Vuoi farmi una colpa se sto dedicando tempo alle indagini? Non sei stata tu a dirmi che ogni caso è importante?» Torna a camminare ed io riprendo il mio inseguimento.
«Quando fai così mi chiedo se tu sia davvero un detective.»
«E questo che vuol dire?»
L’intero ufficio è diventato il silenzioso pubblico di questa imbarazzante scenetta iniziata appena ho messo piede in centrale, ma sinceramente non potrebbe fregarmene di meno. Non voglio essere messo da parte solo perché ho qualche pensiero di troppo per la testa. Valgo davvero così poco per questo commissariato?
«Prestare attenzione ad un caso non vuol dire ignorare gli altri.» Serro la mascella e mando giù un groppo di rabbia e delusione. «Se hai difficoltà con questo furto, puoi sempre affidarlo a qualcuno che abbia la volontà e la capacità di risolverlo.»
«Cosa?» Dentro di me spero sia solo un incubo perché davvero questa situazione ha del paradossale. «Il caso Fustern è mio e intendo risolverlo quanto prima. Ho un sospettato e devo solo interrogarlo.» Si ferma e mi scruta. «Ne ho parlato anche con Kurt...»
Ora lo sguardo incuriosito degli agenti inizia ad infastidirmi e non vedo l’ora che Lisa rinsavisca e la smetta con questa assurdità della vacanza forzata. Non ne ho presa una neanche quando ho sparato per la prima volta ad un uomo, ed allora ero scosso talmente tanto da farmi rivoltare lo stomaco. Ma ho affrontato la cosa da uomo, da poliziotto, e sono andato avanti senza ripercussioni.
Ed ora? Dovrei starmene a casa come un qualunque idiota solo perché ho perso la testa per uno stupido scaricatore di porto che non fa altro che umiliarmi?
La mia vita privata sarà anche un disastro, ma non ho mai permesso che influisse sul mio lavoro.
«Mi spieghi perché ti sei fissato con questo furto? Hai sempre detto che volevi avere più responsabilità.»
«E le voglio... Ma Lisa, ti prego, non lasciarmi fuori dal commissariato. Sarò più professionale. Te lo giuro.» La mia rabbia sta sfumando in una lenta supplica disperata che spero venga colta.
Lisa mi osserva in silenzio e tento di carpire i suoi pensieri.
«Mi spiace Magnus, ma con tutto il casino che si è creato con l’assassinio di San Pietro ho bisogno che tutti siate concentrati e facciate il vostro lavoro in modo impeccabile.»
«Ed io non lo faccio?» È più un sospiro incerto che però pare solo attraversare lo guardo vissuto del mio capo.
«Ci vediamo lunedì, Magnus. Tornatene a casa e riposati. Anne-Britt si occuperà del furto Fustern.» Resto fermo, raggelato, con il respiro corto e le mani ferme sui fianchi. Ho solo voglia di scaraventare l’intera scrivania a terra, di scaraventare l’intero commissariato a terra, di scaraventare la mia vita.
Sono stanco e non perché non dormo. Sono stanco di essere considerato meno di niente, di essere usato come un qualunque factotum senza importanza, di essere deriso da tutti, anche da lui. Sono stanco. Fra un po’ sarò stanco anche di me stesso.
«Ehi?» La voce di Anne-Britt. Alzo appena lo sguardo su di lei. «Lisa è stressato per tutta questa faccenda... Lei ha fiducia in te, vuole solo che ti rimetta in sesto.» Ma non ho gentilezza con cui rispondere alla sua. Non ho parole per giustificarmi né accusare. «Sono solo pochi giorni, poi-»
«Il dossier è sulla mia scrivania» ribatto severo. «Sono sicuro che non avrai problemi.»
Lascio la stanza, lascio lo sguardo della mia collega sulla mia schiena. Afferro la giaccia e guardo la scritta Fustern sulla cartella marrone che giace sulla mia postazione.
«Magnus...» Non ho voglia più di ascoltare niente. Ignoro occhiate più o meno critiche ed esco dall’ufficio. Scendo le scale della stazione senza volermi fare più domande; non voglio più avere risposte.
Quando esco dalla porta, l’aria gelida della sera mi pare uno schiaffo in pieno viso.


Infilo le chiavi della serratura e ruoto stancamente il polso. Un rumore secco e familiare. Ad accogliermi la solita oscura solitudine. Accendo la luce e la vista del mio appartamento in semi disordine mi fa risalire rabbia ed amarezza. Getto la giaccia sul divano mancandolo totalmente; la lascio giacere a terra senza preoccuparmi di raccattarla.
Apro il frigo ma lo richiudo immediatamente con un’imprecazione poco tenuta fra i denti: vuoto. Come questa casa, come il mio stomaco, come la mia stessa patetica vita.
Sono arrabbiato e deluso. Deluso da me stesso e dai miei colleghi, soprattutto. Deluso dalla loro più abietta mancanza di fiducia. Siamo una squadra? A parole, forse. Nei fatti siamo un manipolo di uomini e donne che cercano di usare le vite e le tragedie degli altri per sentirsi meno soli nelle proprie.
Odio questo velo di nichilismo che avvolge i miei pensieri. In realtà non voglio neanche più pensare.
Mi hanno dato una manciata di giorni di riposo, una vacanza anticipata per riposarmi? Bene, ne approfitterò per annullare ogni pensiero. Spegnerò qualsiasi funzione cerebrale che abbia a che fare con Lisa, con Kurt, con quello squallido buco di provincia di commissariato.
Azzererò pensieri ed emozioni.
Amanda Fustern, Eric Huntsman, saranno solo nomi scritti su fogli bianchi. Non è più affar mio, non ne voglio più sentire parlare. Mi getto a peso morto sul divano accendendo apaticamente la tv.
Cambio canale un’infinità di volte senza realmente prestare attenzione alle immagini ed i suoni che l’animano.
Anne-Britt sarà di certo più capace di me a trovare quei ladri. Quando rientrerò lunedì, avrà arrestato i colpevoli, avrà recuperato la collana e si sarà fatta invitare a cena da Eric!
Getto il telecomando contro lo schermo illuminato con un gesto strizzato e mi rialzo immediatamente.
Non voglio sentirmi così. L’ho fatto per un tempo troppo lungo in passato. Questo sentimento di inadeguatezza che ha dipinto la mia adolescenza e che pensavo fosse sparito con l’arrivo di quel distintivo, torna ad inondarmi la gola e l’anima.
Mi passo una mano sul viso, dietro al collo, fra i capelli. Vorrei solo essere davvero capace di spegnere tutto, ma non lo sono.
Restano solo parole, solo intenzioni fragili le mie, che spariscono non appena la verità mi copre gli occhi e il petto.
Lisa ha ragione. Non merito il grado di detective se non sono neanche capace di separare la vita privata dal lavoro, il cervello dal cuore.  
Mi avvio stancamente verso il bagno ed apro il getto d’acqua della doccia. Mi sfilo la maglia e, quando la sto per gettare nel cesto della biancheria, mi ritrovo a fissare il maglione ancora sporco di quella sera. La macchia di sugo è ancora lì, coperta da una coltre di polvere bianca incrostata.
Lascio cadere la maglia a terra a mi poggio con le mani sul lavandino. Stringo così forte la ceramica che mi pare di poterla frantumare fra le mie dita.
Perché è dovuto capitare proprio a me? Perché?
Io volevo solo fare il mio lavoro nel migliore dei modi e magari mettere le basi per una promozione. Ed invece mi sono ritrovato imbottigliato in sentimenti che faccio ancora fatica ad accettare, che mi terrorizzano come neanche stare sotto il tiro di una canna di pistola.
Oramai il mio è diventato un circolo vizioso. Ogni pensiero vortichi nella mia testa viene ingabbiato e trascinato giù dalla certezza che qualsiasi cosa faccia, non posso scappare da ciò che provo.
Una catena che devo spezzare, solo così potrò tornare ad essere il vecchio Magnus. Quello un po’ imbranato, ma sicuramente più padrone delle sue emozioni -per quel poco che basta.
Quando sollevo gli occhi al mio riflesso, al viso stanco, al livido ancora visibile sullo zigomo, alle leggere occhiaie che incorniciano i miei occhi, so che c’è solo una cosa che posso fare: chiudere il caso. Devo trovare il colpevole ed archiviare il furto Fustern, una volta per tutte.
Raccatto la maglia ed esco di casa senza neanche spegnere luci e tv. Salgo deciso in macchina.
La mia destinazione è solo una: porto di Ystad, molo 16.

















Continua...






Nota titolo: kollaps è una parola svedese è significa crollo, collasso.

NdA.
Vi avviso che ci stiamo avvicinando al primo checkpoint della storia. Una storia ha checkpoint? Le mie sì, e in questo caso sono due e poi c’è l’Arrivo.
No, scherzo, è che l’intera storia è divisa in tre parti, quindi diciamo che con il prossimo ci avviciniamo alla conclusione della prima, ma capirete da voi quando avremo svoltato la boa.
Momento confusione idee, terminato.
Spero di aver reso bene Kurt e Lisa, perché ho il timore di fare casini con i personaggi! Questo capitolo mi ha dato l’ansia, confesso. Spero che ne sia almeno valsa la pena.
Perdonatemi se è alquanto striminzito, in realtà era lungo il doppio, ma ho preferito dividerlo.
Alla prossima ^^
kiss kiss Chiara

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Capitolo 11
*** Kollaps (parte 2) ***


10 Kollaps (parte 2)
Detective Martinsson



XI. Kollaps (parte 2)



Il porto è silenzioso. Pochi movimenti, poche facce in giro.
Vecchi marinai dalle mani incallite, visi stanchi che hanno solo voglia di tornarsene a casa.
Silenzio ed ombre avvolgono il molo 16.
I fari della mia Volvo sono spenti. Ho parcheggiato lontano dalla gialla luce dei lampioni che illumina la scarna passerella. Sul sedile accanto a me, il cartoccio vuoto del panino che ho preso al volo come cena. Un altro, e dopo la mela di oggi, che mi è pure rimasta sullo stomaco con quello che è successo alla centrale, mi sembra davvero di mangiare per puro spirito di sopravvivenza.
Sono certo però che stasera riuscirò a beccarlo quel dannato Gambero, chiunque egli sia.
Mostrerò a Lisa quanto valgo e a quel punto sarà costretta a ricredersi, e potrei anche valutare la proposta di entrare nella task force di San Pietro.
Magnus, adesso non esagerare...
Respiro a fondo convincendomi, per quanto possibile, che ho fatto la scelta giusta.
Trascorrerò questi giorni di pausa qui, fermo in quest’auto ad aspettare. La mia tenacia sarà ripagata, ne sono certo.
Studio i movimenti di un paio di uomini che scendono da un piccolo traghetto. Parlottano fra di loro. Uno gesticola animatamente, l’altro ha entrambe le mani sprofondate nelle tasche del pesante giaccone. Sono sul punto di osservarne i lineamenti, quando qualcosa attira la mia attenzione: tre uomini hanno appena parcheggiato sotto un palo.
È un’auto di grossa cilindrata, un'Audi nera. Dimentico la coppia di marinai e concentro tutte le mie attenzioni sui tre appena scesi.
I vestiti che indossano, così come l’auto con cui sono arrivati, mostrano la voglia di ostentare un certo tenore di vita. Sono giovani, avranno la mia età.
Uno dei tre è più basso degli altri, ma pare il più loquace. Il secondo, più alto, che guidava, lo ascolta senza ribattere, mentre il terzo se ne sta seduto sul cofano con una sigaretta fra le labbra. La luce mi è d’aiuto e riesco a riconoscere una carnagione decisamente latina. Indossa un cappello di lana per proteggersi dal freddo, ma sono più che certo che sotto nasconda una testa calva.
Potrebbe essere lui il pusher che cercavo.
Stringo la pelle del volante ed ingoio ansia ed eccitazione. Ho bisogno di stare concentrato. Devo studiare la situazione e decidere solo dopo come agire.
Per stasera è il caso di starmene qui a guardare, ad aspettare una conferma che sono certo non tarderà ad arrivare.
Ora nel discorso è entrato anche il terzo, colui che credo sia Gambero. Sono troppo lontano per poter leggere le labbra, ma tento ugualmente senza però ricavarne nulla. Probabilmente stanno parlando spagnolo. Anche gli altri due potrebbero essere connazionali, ma non ne ho la certezza.

Sono quasi le due di notte, ma il misterioso trio è ancora qui al molo. Ormai non ho più dubbi sul fatto che si intrattengano al porto per affari decisamente illeciti. C’è stato un viavai di persone fino a questo momento, e sono convinto che continuerà ancora.
Droga. Non può essere altro. I movimenti sono i soliti: gesti veloci e sfuggevoli ad un occhio poco esperto e, benché io non sia un agente della narcotici, riesco facilmente a riconoscere un passaggio di mano.
Per facilitarmi il lavoro, ho soprannominato mentalmente i tre: Alto, Basso e Gambero. Non sarà il massimo della fantasia, ma mi ha permesso di appuntare velocemente ogni loro movimento.
Ho deciso che resterò qui finché non andranno via. La targa è già mia, non mi resta che accedere al...
Mando giù un groppo di rabbia mentre rammento che prima di lunedì non avrò accesso ad alcun database. Ma poco importa! Ho abbastanza materiale per poter dedurre che quello è il mio uomo.
Mi segno altri dettagli nel buio dell’auto che ho imparato ad apprezzare. Certo, mi sta costando un po’ di vista, ma non posso accendere la luce e palesare così la mia presenza.
È un avvertimento che però la mia mano sinistra non ascolta. Sto infilando la penna nel taschino della giacca, quando quest’ultima scivola via e nell’stinto di afferrarla, urto inavvertitamente il clacson. Un suono breve ma assordante nel silenzio della notte.
«Merda!» ringhio maledicendo la mia goffaggine. Il battito accelera di colpo quando i tre si voltano immediatamente verso la mia direzione.
Ho bisogno di pensare alla svelta a cosa fare, ma i passi veloci di Alto e Basso mi rendono ancora più difficile il tutto. Non posso andare via, questo è abbastanza chiaro.
Afferro il distintivo e lo getto sotto al sedile. Altrettanto faccio con la pistola d’ordinanza ed il block-notes.
Respiro a fondo, una, due, tre volte, stringendo il volante nervosamente.
Ho solo una soluzione da provare e spero sia quella giusta. Aspiro coraggio e preghiere e scendo dall’auto quando ormai i due sono giunti da me.
«Che stavi facendo nascosto qui?» Svedese perfetto, ho sbagliato deduzione: Basso non è portoricano.
«Io cercavo Gambero. Mi hanno detto che potevo trovarlo qui» rispondo cercando di essere convincente.
L’aria è gelida ed umida eppure sento il volto andare in fiamme.

Alto mi scruta senza aprire la bocca, con la fronte corrucciata e poco convinta ed è Basso a parlare nuovamente.
«Sei uno sbirro, per caso?» E meno male che non avevo la faccia da poliziotto...
«Certo che no! Volevo solo comprare qualc-» Non termino neanche la frase ché Basso inizia a perquisirmi. Mi volta sbattendomi con il petto sulla carrozzeria e continua il suo lavoro velocemente.
«È pulito.» Sentenzia infine mentre sento lo stomaco contorcersi per l’agitazione.
«Ti ho detto che non sono un poliziotto.» Fingo una certa irritazione che sembrano bersi entrambi.
«Che cercavi?» Ma c’è ancora una nota di diffidenza nella sua voce.
«Qualche pasticca. Roba così... Sono per una festa.» Sparo una menzogna dietro l’altra passandomi una mano fra i capelli nel tentativo di ammortizzare la tensione. Se non ho la faccia da poliziotto, ancor meno ho la faccia da tossico. Almeno spero, anzi, sarebbe meglio sperare che non sia così! Magari questo residuo di livido sul volto mi può anche essere d’aiuto.
I due mi studiano ancora ed io getto uno sguardo al presunto Gambero che è sempre fermo sotto al lampione a guardare verso di noi. Basso non ha negato la sua presenza ed è la conferma definitiva che cercavo.
«Aspetta qui.» Adesso è Alto a parlare ed anche in lui non scorgo inflessioni particolari. Annuisco e mi poggio all’auto nascondendo le mani nella tasche. Prendo un respiro profondo mentre sento gli occhi di Basso scrutarmi senza pausa.
«Perché te ne stavi qui all’ombra?» Bella domanda!
«Io... beh, è la prima volta che cerco certa roba.» Mi accarezzo il retro del collo e lui ridacchia.
«Si vede! È per fare colpo su una donna, ammettilo.» Perché, per fare colpo sulle donne ora si regalano anfetamine invece dei fiori?
«Eh già.» Abbozzo un sorriso e lui annuisce soddisfatto per aver indovinato le mie intenzioni.
Nel frattempo Alto e Gambero parlano fittamente.
Ma in che cavolo di situazione mi sono cacciato? Se non finisco con una pallottola in fronte adesso, sarà un miracolo!
E tutto per una cavolo di collana...
La mia prima intenzione era interrogare direttamente questo tizio e chiedergli se ne sapesse qualcosa. Gli avrei assicurato che non avrei ficcato il naso nei suoi traffici ed altrettanto avrebbe fatto la polizia di Ystad. Ero più che sicuro che sarebbe andato tutto liscio, ma adesso? Come posso scoprire qualcosa se mi credono un semplice cliente? Perché diamine mi sono infilato in una copertura che neanche mi spetta?!
Non riesco a trovare soluzioni per uscirne fuori.
«È carina?» Torno sul viso di Basso. Due grossi occhi neri e profonde occhiaie. Capelli scuri dal taglio militare, sul viso un largo sorriso malizioso con un incisivo spezzato appena in un angolo.
«Oh sì, è molto carina.» Continuo a dargli corda. Deve essere uno di quegli idioti con il pallino della donne. Ma forse il vero idiota sono io che, invece, mi faccio venire il pallino per gli scozzesi barbuti!
Alto e Gambero hanno finito di parlare e Basso si volta nella loro direzione. Si scambiano qualche segno di intesa che non colgo, e mi sento afferrare per un gomito e spintonare verso l’Audi.
«Cammina.» E non posso che obbedire.

«Quante te ne servono?» Il suo accento è chiaramente straniero. Il suo viso da vicino conferma ulteriormente la mia teoria: olivastro con lineamenti prettamente sudamericani.
«Pensavo ad un paio.» Dopo tanto buio la luce pallida del lampione mi pare quasi accecante. Mi stringo nella giacca avvertendo il freddo entrarmi fin dentro le ossa, ma forse è solo paura.
«È la prima volta!» Sento ridacchiare Basso, ma nessuno degli altri due lo segue. Alto è fermo al suo fianco dentro e mi guarda fisso, Gambero annuisce passando lo sguardo dal mio viso al resto del mio corpo con fare annoiato.
«Sicuro che non sei uno sbirro?»
«Secondo te ho la faccia da sbirro?» Sorriso forzatamente aprendo appena le braccia con fare ovvio. Gli occhi di Gambero si assottigliano e si inchiodano ai miei. Si alza dal cofano e mi si pianta davanti ad un palmo dal mio viso. Un ghigno decisamente poco rassicurante.
«Chi può dirlo...» Prego le gambe di reggermi e la mia espressione di non tradire alcun’emozione inopportuna. Gambero mi fissa ancora e poi si ritrae sedendosi nuovamente sul cofano. Si accende una sigaretta, l’ennesima della serata.
«L’ho perquisito e non ha niente. Né armi né altro.»
«E la sua auto?» Il mio cuore si ferma.
Merda!
Basso e Alto si scambiano uno sguardo e poi il piccoletto parte in direzione della mia Volvo.
Sono morto!
«Ora vediamo se sei o no uno sbirro, riccioli d’oro.» Il viso di Gambero è di nuovo fronte a me. Vengo investito dall’odore del fumo mentre due dita mi stirano una ciocca di capelli sulla fronte. «Oh, sono carini...» ridacchia ripetendo quel gesto fastidioso. Stavolta anche Alto ride beffardo.
Mi tornano in mente le parole di Larsson e quasi non ho più forza di nascondere il mio terrore.
Quando ormai ho accettato che la mia fine è vicina - e non sarà piacevole -, una voce tuona nelle mie orecchie.
«Tutto ok, qui?» Mi volto alle mie spalle facendo scivolare via da quelle dita i capelli, e muoio per davvero.
Ditemi che è un incubo!
«Non sono affari che ti riguardano!» Il mio cuore è in subbuglio e non certo più per la minaccia di Gambero.
«Io credo di sì.»
«Se fossi in te, ne starei alla larga, papi[1].» Gambero si allontana da me e si pianta davanti a quel dannato scozzese!
Ma che diamine ci fa qui a quest’ora? E perché si è messo in mezzo? Vorrei solo spaccargli la faccia per la sua incoscienza.
«Tu dici?» Si fissano ghignando per qualche altro secondo in cui prego il Signore della Fustern di incenerirli entrambi!
«Riccioli d’oro, per caso conosci questo ficcanaso?» Mi sento chiedere mentre i loro occhi continuano quella muta sfida. Mi schiarisco la voce intanto che nella mia testa scorre una lunga lista di insulti diretti un po’ ad ogni essere presente.
«Più o meno...» Sono costretto ad ammettete, altrimenti il bel viso di Eric sarebbe passato per le cure di questa banda di delinquenti.
Un risolino abbandona la gola del portoricano mentre è il primo a spostare lo sguardo.
«D’accordo. Stanotte sono di buon umore, perciò...» sospira lanciandomi una mezz’occhiata che non colgo – non voglio cogliere? «Chiama Dave.» Si rivolge poi ad Alto e l’altro fischia verso Basso, alias Dave, che si è arrestato a seguito dell’arrivo di Eric. Velocemente torna verso di noi.
«Sarà per un'altra volta, riccioli d’oro.» Mi sento sospirare all’orecchio prima che i tre salgano in auto.
Se mi chiami ancora riccioli d’oro ti svuoto un caricatore addosso!

Se solo avessi la pistola...


I fari dell’Audi si allontanano mentre il sangue nelle mie vene bolle come lava cocente.
«Si può sapere che ti è passato per la testa?» Sono al limite di tutto, della pazienza, della paura, della vita stessa.
Possibile che quest’uomo riesca a complicarmi le cose ogni volta, anche quando tocco il fondo più fondo?!
Fisso lo sguardo aggrottato di Eric con un’espressione semplicemente sconvolta e furiosa.
«Scusa?» ribecca lui con un mezzo ghigno.
«Ti sei messo in mezzo ad un’operazione di polizia! Te ne rendi conto?!»   
«Farsi ammazzare da degli spacciatori è un’operazione di polizia, adesso?» Con due passi gli sono di fronte.
«Non sono affari tuoi, Huntsman! Sta di fatto che non dovevi ficcare il naso!» Non riesco più a connettere cervello e lingua. Lo spintono sul petto e mi allontano camminando nervosamente avanti e dietro con le mani sui fianchi.
Caos. Assoluto, annebbiante, totalitario caos.
Il mio petto è un tamburo e quasi mi fa male.
«Se questo è il ringraziamento per averti salvato la vita... » Torno a fulminarlo con lo sguardo.
«Salvato la vita? Cosa diamine ti fa credere che avessi bisogno del tuo aiuto?» Eric scuote la testa facendo un gesto seccato con la mano. Mi dà poi le spalle intento ad andarsene, ma stavolta non ci sto.
Basta! Non puoi più giocare con me, non adesso!
Lo raggiungo e lo strattono per un braccio costringendolo a voltarsi.
«Rispondimi! Ti sembro uno che ha bisogno d’aiuto? Cos’è, vuoi fare il giustiziere solitario?» Gli urlo specchiandomi nel suo sguardo ora scuro come le acque di questo porto.
Sobbalza con gli occhi sui miei e scuote nuovamente la testa. «Si può sapere perché ti fa infuriare tanto che ti abbia aiutato?» Mi fa infuriare che tu abbia rischiato la tua vita, idiota!
Lo guardo respirando a fatica e senza rendermi conto di avere ancora le dita avvolte attorno al suo braccio. Quando lo faccio, mi allontano passandomi una mano sulla fronte inaspettatamente umida di sudore.
È tutto sbagliato. Tutto! La mia vita è un colossale fallimento. Sono un inetto come poliziotto ed uno squallore come uomo. Non c’è un solo tassello che sia al suo posto e mi chiedo se non sia il caso di prendermi una vacanza a tempo indeterminato! Lisa, come sempre, ci aveva visto lungo.
Tutti hanno visto la nullità che sono, a parte me!
Gli occhi mi pizzicano e li stringo forte mentre lego le dita di entrambe le mani dietro la testa.
Sbagliato! Sbagliato! Sbagliato!
«Ehi?» Stavolta è la mano di Eric a stringere il mio avambraccio.
«Lasciami in pace!» ringhio sfuggendo al suo tocco, alla sua vista. Voglio solo sprofondare e non riemergere più.
Non voglio che mi veda in queste condizioni. Non voglio che mi veda in assoluto.
Maledico il giorno in cui l’ho incontrato, il giorno in cui tutto è iniziato a crollare, io per primo.
«Ok, come vuoi.» Ascolto la sua voce con un groppo alla gola, un indegno groppo che non vuole scendere.
Nel silenzio tombale del porto, sento i suoi passi pesanti che si allontanano da me e riesco solo a cadere sulle mie stesse ginocchia.
Patetico!
Tiro un pugno al cemento a terra.
Patetico!
Poi un altro ed un altro ancora, finché il braccio non si blocca a mezz’aria.
Patetico...
Una mano stretta attorno al mio polso.
Alzo gli occhi lucidi su quel viso che tanto riempie i miei sogni e stavolta non reggo il suo sguardo. Torno ad abbassare la testa ma non ho forza per impedirgli di tirarmi su.
Il mio braccio attorno alle sue spalle, la mia mano che pulsa dolorosa stretta nella sua.
«Andiamo, ti porto a casa».

















Continua...




[1] Papi ha  vari significati in spagnolo. In questo caso, Gambero lo usa in modo sarcastico, come equivalente di “amico” in italiano, o “man” nello slang americano.



NdA.
Sì, alla fine Magnus è crollato nel senso letterale del termine, ma sembra che qualcuno, con somma sorpresa di tutti (sì, come no) gli abbia già allungato una mano...
Avevo qualche dubbio su questo capitolo, ma alla fine non è che lo trovi così male. Spero vi sia piaciuto e soprattutto che sia credibile. Mi sembrava plausibile un simile sclero da parte di riccioli d’oro, ma come sempre aspetto di sentire anche la vostra opinione, miei adorati lettori ^^
Il personaggio di Gambero è liberamente ispirato all’attore portoricano Amaury Nolasco, che ha interpretato il meraviglioso Sucre nel mio telefilm preferito in assoluto “Prison Break”.
Ed ora appuntamento alla prossima ed ovviamente una Buona Pasqua ed un'allegra Pasquetta a tutti.
Spero che le vostre uova vi abbiano regalato tante belle sorpresine ^^
Kiss kiss Chiara

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Capitolo 12
*** In cerca di risposte ***


Un cucciolo in cerca di risposte
Detective Martinsson



XII. In cerca di risposte



«Prendi.»
Non alzo lo sguardo ed aspetto che la tazza fumante mi venga poggiata direttamente fra le mani.

«Grazie.» Non credevo che la mia voce potesse assumere un tono così penoso.  
Il calore del camino mi brucia sulle guance ma non tanto quanto la vergogna che provo dentro di me.
Fare una scenata simile davanti ad Eric. Perdere la pazienza e la faccia. Perdere la dignità.
Mi sono lasciato raccattare come un bambinetto senza volontà né spina dorsale. Ho lasciato che mi facesse salire nella sua auto senza obiettare, senza dire una sola parola. Ed ora lascio che mi guardi perdere l’ultima goccia di autostima, senza fare nulla per impedirlo. Non sarò mai nulla per Eric al di fuori di un patetico poliziotto incapace.
«Non farlo freddare.»
Sbattere i pugni a terra come un pazzo?! Come uno che non ha alle spalle anni di accademia e di esperienza.

Cosa penserà di me? Cosa già pensa di me? Non lo so, non lo voglio sapere. Mi atterrerebbe ancora più di quanto non abbia già fatto io.
«Scusami per quello che è successo al porto.» Sospiro quelle parole senza alcuna emozione che non sia il disgusto per le mie azioni. Guardo fisso la superficie lucida del tè che stringo fra le mani. Guardo il leggero fumo che sale e si intravede fra le fiamme davanti a me. «Mi sento terribilmente imbarazzato.» L’ultima frase la sibilo fra i denti quasi con rabbia. Perché sì, sono imbarazzato da morire e non credo ci sarà mai situazione in cui potrei esserlo di più.
«No, avevi ragione. Non dovevo intromettermi.»
Sollevo la testa alla mia destra. Eric tiene la sua tazza nella mano e guarda anche lui il fuoco. I capelli sciolti, la fronte corrucciata fra mille pensieri.

Quanto ho desiderato vedere con i miei occhi questa scena? Quante volte l’ho disegnata nella mia testa, in quelle lunghe notti insonni? Eppure nessuna fantasia potrebbe eguagliare ciò che vedo ora. Una bellezza che mi spacca il cuore e mi fa stare ancora più male
[1].
Riporto mesto lo sguardo al tè.
«Non so perché abbia perso il controllo in quel modo... È stata una scena pietosa.» Un sorriso triste mi piega appena le labbra e avrei solo voglia di chiudere gli occhi e non riaprirli più, non guardare più la mia faccia né la sua. In quegli occhi riuscirei solo a rivedere ogni volta la mia vergogna. «Adesso penserai che sono ancora più ridicolo.» La verità delle mie paure sale dalla gola insieme ad un risolino isterico.
Sento gli occhi di Eric su di me ma non riesco ad incrociarli. Non dice nulla ed io altrettanto.
Bevo un piccolo sorso. Il tè è buono e dolce e caldo. Mi scende nello stomaco come una carezza, anche se forse in questo momento meriterei di più uno schiaffo.
«Aspetta qui.» Eric si alza e si dirige in cucina. Il vortice del senso di colpa che mi annega nella testa mi impedisce di rimuginare troppo sulla sua non-risposta. Bevo ancora un po’ di infuso e poggio la tazza sul tavolino di fronte.
Dovrei chiamare Lisa e parlare con lei, chiederle scusa per la mia arroganza e farmi allungare quei giorni di riposo.

Sento la necessità di fare i conti con me stesso, lontano da tutto, lontano da tutti.
Mi sono perso e non so se sarò mai in grado di ritrovarmi.
Allungo la mano e stendo lentamente le dita stringendo i denti nel sentirla dolere in quel modo. È arrossata e ci sono escoriazioni sulle nocche, sangue rappreso ed un leggero gonfiore. È un miracolo se non mi sono rotto qualche ossa. L’accarezzo piano con l’altra ma non riesco a trattenere un verso di dolore.
«Non è rotta, ma per qualche giorno ti conviene non usarla.» Eric è tornato e ha in mano qualcosa. Non capisco cos’è finché non mi si siede di nuovo accanto. Riconosco una bottiglia di disinfettante ed un rotolo di garze. Ne srotola una striscia e la inumidisce,  prende poi la mia mano fra le sue. Sussulto appena e lui alza il suo sguardo su di me. «Tranquillo, non voglio farti male. Ci pensi già tu a questo.» Sorride ed inizia a tamponare le mie nocche. Le sento bruciare e mando giù una lamentela. Poggia poi la garza sporca sul tavolino di fronte e ne prende una
pulita più lunga ed inizia a fasciare la mano con gesti esperti. Lascio che le sue dita sfiorino la mia pelle, le mie ferite, la mia stessa anima.
«Sei bravo.» Un pensiero che non riesco a tenere sulla lingua. Sento il cuore battere forte. Lui sorride ancora mentre passa la fasciatura sotto al mio palmo.
«Ho fatto a pugni un paio di volte, ma questo lo dovresti sapere, detective.» Sollevo appena le labbra in un piccolo sorriso e mi lascio cullare dalla sua voce e dalle sue cure.
Eric Huntsman che cura amorevole la mia mano dolorante.
Neanche nei miei sogni più arditi. Eppure non riesco a far sparire l’amaro che mi sale dallo stomaco. Eric potrà curare la mia mano, ma il mio orgoglio non si solleverà tanto presto.
«Grazie.» I suoi occhi quasi arancioni per via del fuoco che vi si specchia, tornano sui miei. «Grazie per tutto. Non so perché l’hai fatto ma io... grazie.» Non dice nulla, continua il suo lavoro con attenzione finché non mi rilascia la mano.
«È un po’ stretta ma così non si gonfierà ulteriormente.» Fisso il bianco delle bende ed annuisco.
Getta il piccolo rotolo sul tavolino e si lascia cadere con le spalle sul divano. Non oso guardarlo benché muoia dalla voglia di dirgli ancora grazie, ed ancora scusa. Scusa per essere entrato nella sua vita, per averlo giudicato, per non aver avuto né decenza né rispetto nel fare un passo indietro. Scusa, se provo qualcosa che non riesco ad accettare e che so, neanche lui potrebbe.
«Non dovevi prenderti tanti disturbi» alito piano chiudendo gli occhi. Sono stanco e sfinito. Ormai sono le tre di notte e dovrei andarmene a letto. Poi un flash balena nella mia testa: anche Eric è sveglio a quest’ora e di certo domani dovrà lavorare. Mi alzò immediatamente. «Devo tornarmene a casa. Tu devi dormire ed io ti ho già creato troppo problemi!» Mi volto con un fiume di parole che non riesco a regolare e lo vedo sorridere con la fronte appena contratta.
«Oggi ho fatto doppio turno e domani non lavoro, per cui rimettiti seduto.» Mi fa segno con l’indice, ma benché non abbia più alcun orgoglio a cui aggrapparmi, non posso restare in questa casa un minuto di più.
Scuoto la testa sorridendo a mia volta.
«Grazie, ma è meglio che me ne vada.» Mi ritrovo a passarmi una mano fra i capelli e, sarà l’ora tarda, saranno i suoi occhi su di me, uso la mano fasciata e... «Ahia!» lamento guardandola torvo.
Eric sorride e poi ride. Una risata calda e senza voglia di beffa. Una risata che mio malgrado mi ritrovo a ricambiare sentendo il viso farsi via via più caldo. Ricado sul divano accasciandomi con la schiena sulla pelle marrone. Lo sguardo al soffitto ed un residuo di ilarità ancora fra i denti.
«Sono un disastro...» Stringo le palpebre e lascio che una nuova risata mi accarezzi le orecchie.
Stasera ho perso tutto, un’altra umiliazione non cambierà nulla.
Quando il silenzio torna ad essere infranto solo dallo scoppiettare della legna del camino, riapro gli occhi. Le ombre sul soffitto disegnano forme irregolari ed affascinanti.
«Eric?» Non aspetto che risponda, so che è ancora al mio fianco sebbene non lo abbia nella mia visuale. «Che ci facevi al porto a quell’ora?» È la prima domanda che mi ha attraversato la mente quando l’ho visto sbucare alle mie spalle.
«Mi liberavo di un cadavere.» Cosa? Sollevo immediatamente le spalle con un’espressione sconvolta sul viso. «Era un poliziotto che mi dava noia. Sai com’è?!» Bastardo... Sbuffo con aria ancora più imbarazzata mentre lui torna a sorridere divertito sollevandosi a sua volta dallo schienale. «Lavoravo. Ho fatto doppio turno, te l’ho detto.»
«Perché ti prendi sempre gioco di me?» Spero che sappia leggere attraverso quella domanda.
«Lo faccio?» Spero che stavolta riceva la risposta che cerco da tempo.
«Direi di sì.»
Spero di essere disposto ad ascoltarla.
Ma lui sospira soltanto, allungandosi sul divano e chiudendo gli occhi. Perché non mi rispondi mai?

Mi perdo ad osservare quel viso che tanto desidererei sentire sotto le dita. La linea del suo naso, quella delle sue labbra. I capelli sciolti che gli tagliano una guancia. Li vorrei scostare, li vorrei far scivolare lentamente dietro al suo orecchio e continuare a guardare questo quadro perfetto che mi ha completamente rapito il cuore.
Sospiro appena e mi poggio con la guancia sullo schienale del divano. Non posso credere che si sia appisolato, eppure continua a tenere lo sguardo celato ed il respiro dannatamente regolare. Il mio sembra volermi spaccare la gabbia toracica.
Mi mordo un labbro trattenendo la voglia di sospirargli un altro grazie che so già non vorrebbe sentirsi dire.
Chiudo anch’io gli occhi. Il calore del camino mi copre come una coperta leggera, il silenzio della notte mi stringe a sé, il profumo di Eric mi riempie i polmoni e il sangue stesso.

È tutto così perfetto che dimentico quasi di aver perso faccia e dignità al molo 16, di essermi invischiato in una storia assurda di droga e portoricani ambigui, di aver lasciato che Eric vedesse la parte peggiore – e più fragile - di me.
Ricordo solo il suo abbraccio, la sua gentilezza, la sua pazienza, la sua disponibilità.
Perché l’ha fatto? È un’altra domanda che resta senza risposta e si perde fra le pieghe di un sonno da tempo agognato.


Apro lentamente gli occhi. C’è un po’ troppa luce. Devo aver dimenticato di chiudere le tende. Mi stringo nella coperta che stranamente è più corta del solito e... Da quando ho un camino in camera da letto?
Nello spazio di un secondo, il cuore mi scoppia insieme alla testa e mi tiro a sedere non senza fatica.
Sono a casa di Eric. Ieri mi ha portato qui dopo che...
Quel pensiero è un colpo di sciabola dritto sul collo. Abbasso lo sguardo sulla coperta azzurra che mi copre le gambe e la stringo con l’unica mano con cui posso farlo. Fisso l’altra, quella fasciata con cura da Eric, e la porto al petto con un sospiro.
Mi sono assopito sul suo divano guardando incantato il suo profilo e lui... Lui mi ha poggiato una coperta addosso e mi ha lasciato dormire qui, in casa sua, senza chiedere nulla.
L’intera situazione mi è decisamente sfuggita di mano.
Scendo dal divano lentamente. Il fuoco è spento ma c’è ancora qualche residuo di brace. Non avevo mai dormito accanto al fuoco prima d’ora. Non avevo mai dormito così, a dire il vero. Forse solo da bambino, quando il letto dei miei era una fortezza inespugnabile per qualsiasi mostro o uomo nero.
Sul tavolino non c’è alcuna tazza. È tutto in ordine e mi chiedo che ore siano. La casa sembra silenziosa ma non ho il coraggio di verificarlo. Non riuscirei a chiamare il suo nome, non adesso, non dopo ciò che è accaduto ieri. A mente fredda realizzo che è tutto troppo assurdo.
Mi dirigo verso la cucina da cui proviene un leggero sibilo. Quando varco la soglia sobbalzo appena. Eric è seduto al tavolo e beve del caffè. Solleva gli occhi su di me e non dice nulla. I suoi capelli sono ancora sciolti come ieri sera e il suo viso sembra riposato - e stupendo.
«Ti sei svegliato» sospira poggiando la tazza sul tavolo. Annuisco schiarendomi la voce.
«Sì, io... beh, io devo chiederti scusa se mi sono addormentato qui, non avrei dovuto, ma adesso me ne vado. Scusami ancora.» Mi volto e mi dirigo a passo spedito verso il divano. Avevo lasciato la giaccia qui, ma non riesco a trovarla. Cerco sotto le coperte sentendo l’intero corpo fremere per l’agitazione.
Non dovevo addormentarmi sul divano di Eric! Non avrei dovuto accettare la sua ospitalità, né la sua gentilezza. Tutto questo finirà solo con il farmi stare peggio di quanto già non stia.

Rivolto ancora la trapunta ma non trovo nulla. Vago con lo sguardo in giro e la vedo appesa all’attaccapanni di legno. Io non ce l’ho poggiata, deve essere stato Eric. La cosa non fa che aumentare la mia ansia.
Devo andare via di qui. Subito!
Mi incammino verso l’attaccapanni dell’ingresso quando una verità mi colpisce feroce: la mia auto è rimasta al porto. L’ho lasciata al molo 16, a quello stramaledetto molo 16! Insieme alla dignità e alla faccia, aggiungerei.
Mi fermo nel bel mezzo del soggiorno e mi volto verso la cucina. Eric è sulla soglia poggiato contro una trave con le braccia incrociate sul petto.
«Il divano doveva essere davvero scomodo...» ghigna provocatorio.
«Oh, certo che no! Ho dormito bene, più che bene! È solo che...» Sospiro ancora passandomi una mano sulla fronte. «È solo che devo andare. Non posso più stare qui» confesso infine.
Eric non sorride più. Annuisce appena e si sposta dalla trave.
«Dammi cinque minuti» alita prima di sparire nuovamente in cucina e portare via con sé quegli occhi in cui tanto amo perdermi.


Anche ora c’è silenzio nella sua auto. La prima volta era imbarazzo, la seconda vergogna, adesso dispiacere.

Non volevo andare via, non volevo negare quanto fossi stato bene in sua compagnia, ma dovevo. E il dovere viene prima di tutto, soprattutto per un poliziotto, anche quando questi ha perso ogni fiducia in sé e nel suo lavoro.
«Per quanto riguarda quello che è successo ieri sera... » Inizio un discorso che mi sono preparato in quei cinque minuti di attesa, prima di vederlo scendere dalla scale con i capelli raccolti e l’espressione seria sul viso.
«Non devi darmi spiegazioni.» Mi interrompe tenendo gli occhi sulla strada.
«No, davvero, Eric, io volevo che tu sapessi che mi spiace veramente che tua abbia dovuto assistere ad una simile scena. E soprattutto mi dispiace per averti aggredito.» Sposto lo sguardo sulla fasciatura. «Di solito ho i nervi un tantino più saldi, ma in quel momento-»
«Non serve. Non sono affari miei, dopotutto.» Il suo tono è deciso, quasi freddo, e la cosa mi confonde. Non capisco il suo cambio di umore. Credevo fosse sollevato di non avermi più fra i piedi, ma magari la mia può essere sembrata semplicemente ingratitudine. «Dimmi dove abiti.» A quella domanda indiretta riporto gli occhi sul suo profilo.
«Il porto... io credevo che... È lì che ho l’auto.»
«Con quella mano non puoi guidare. Ti accompagno  a casa e poi ti riporto l’auto.» No! Questo non glielo posso permettere.
«Non mi fa male, davvero.» Il suo sguardo mi fulmina. «È vero, guarda!» La scuoto appena e la sento pulsare dolorosa, ma non ho per niente voglia di finire dalla padella alla brace. «Vedi? Riesco a muoverla.» Ma il mio viso non riesce a fingere di non sentire le fitte che mi dilaniano le dita.
Eric scuote la testa e torna a fissare la strada.
«Piantala e dimmi dove abiti.»
È ufficiale: sono finito dalla padella alla brace.


Quando apro la porta, mi ritrovo di fronte una casa illuminata ed una tivù che “chiacchiera da sola”, come diceva mia nonno.
La richiudo alle spalle e mi dirigo verso la cucina. Riesco solo a buttare giù un bicchiere d’acqua, perché il mio stomaco è totalmente chiuso.
Troppe emozioni me l’hanno stravolto e mi chiedo se sarò ancora in grado di mangiare sul serio.
Ho detto ad Eric che non c’era bisogno che tornasse al porto a riprendere la mia Volvo. E poi come tornerà a casa? Mica può guidare due macchine?! Ha notevoli abilità ma non credo che l’ubiquità sia una di queste.
Mi lascio cadere sulla sedia della cucina con un sospiro che ne contiene altri cento.
Eric mi ha stretto a sé, ieri sera, ma io ero troppo sconvolto per dargli il giusto peso. Non era un abbraccio né altro, era solo un uomo che ne sosteneva un altro, eppure... Eppure il suo braccio si è legato attorno alla mia vita, il mio ha stretto le sue ampie spalle e il profumo della sua pelle mi ha avvolto.
Poi mi ha offerto il suo tè, il suo divano, ed io ne ho approfitto senza contegno.
Perché l’ha fatto? Cosa l’ha spinto a mettersi contro dei delinquenti per difendere me?
Magari ha una di quelle sindromi da difensore dei deboli. Basta pensare a come si è comportato con la Fustern. Oppure si deve essere mosso a pietà. Sì, deve essere andata così: ha avuto pietà di un uomo spezzato e l’ha portato a casa sua come si fa con un cucciolo ferito trovato per strada. Una volta curato, lo lasci tornare alla sua vita e te ne dimentichi. Il cucciolo, però, non dimenticherà mai.

Anche se con qualche accorgimento, sono riuscito a farmi una doccia decente. La fasciatura non si è bagnata, anche perché l’ho coperta con la cuffietta per la doccia che avevo sempre tenuto sulla mensola senza mai usarla. Pensai anche di gettarla, ma alla fine è stata una fortuna non averlo fatto; si è rivelata alquanto utile.
Ho giusto il tempo di vestirmi quando il campanello suona.
«Un secondo!» Urlo per farmi sentire mentre mi asciugo velocemente i capelli con l’asciugamano. Chi può essere? Anne-Britt? Magari vuole accertarsi di come sto. Ieri l’ho trattata in modo davvero ingiusto e sarebbe il caso di scusarsi
anche con lei. La lista di persone con cui scusarmi sembra allungarsi ad ogni respiro.
Non può essere nessun altro, Eric di certo non si precipiterà a...
Apro la porta e, contro ogni previsione, mi ritrovo davanti proprio il viso di Eric.
«Eccoti le chiavi.» Quanta fretta di liberarsi di me!
«Oh... Grazie, Eric.» Afferro le chiavi dalle sue dita e le stringo nel palmo della mano sana. «Ma adesso come tornerai al porto?»
«A piedi.» Scuoto la testa confuso. «Non sono che un paio di chilometri.» E un senso di colpa atroce mi attanaglia la gola.
«Non so perché ti prendi tanto disturbo, davvero.» Sospiro abbassando la testa. I cuccioli feriti non meritano tanto.
Non ricevo risposta e sollevo lo sguardo per cercarla fra le pieghe del suo bel viso. C’è ancora un sorriso sulle sue labbra, ma non riesco a decifrarlo.
Sento una goccia d’acqua cadermi su una guancia e mi ricordo solo allora di avere la testa completamente bagnata.
«Va’ ad asciugarti, non so curare la polmonite.» Ghigna ironico ma non riesco a sorridere perché dentro di me qualcosa urla. Una voce che mi esplode nei timpani forte come una supernova.
Eric sta per andarsene quando lo blocco per un braccio.
Ho bisogno di sapere.
«Dimmi perché l’hai fatto.»
«Fatto cosa?»
«Non fingere di non capire.» Per quello ci sono già io. «Dimmi perché mi hai aiutato ieri e la fasciatura, il divano...» farfuglio e mando giù un nodo umido. «Non riesco a spiegarmelo.» E il mio cuore non può sopportare altri misteri.
Lo fisso negli occhi cercando in quelle pozze chiare la risposta che anelo, ma non la trovo.
La trovo sulle sue labbra quando sorridono.
Quando si muovono lentamente. «Non sei molto sveglio, detective.»
Quando si avvicinano piano e si posano sulle mie.


















Continua...




[1] Una bellezza che mi spacca il cuore è una frase ispirata ad un verso della canzone “Atto di fede” di Ligabue.




NdA.
...
...
...
...
...
...


Non credo di aver altro da aggiungere u.u
Kiss kiss Chiara

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Capitolo 13
*** Fine dei giochi ***


13. Fine dei giochi
Detective Martinsson



XIII. Fine dei giochi



Il rumore costante dell’acqua che esce violenta dal rubinetto. I miei occhi sono fissi in quelli del mio riflesso eppure non lo vedono realmente.
Strofino forte lo spazzolino sui denti.
Sputo, passo le setole sotto l’acqua e strofino.
Non ci credo. Non ci voglio credere.
Spazzolo con insistenza e sputo ancora. Di nuovo setole sotto l’acqua.
Non ci voglio pensare.
Non è successo.
I miei capelli grondano gocce fredde ma non me ne curo. Continuo a passare senza gentilezza lo spazzolino sui denti.
Le mie palpebre sembrano aver dimenticato come chiudersi.
È stato un sogno, un incubo, un’allucinazione!
Non è accaduto per davvero! Eric non l’ha fatto!
Un ulteriore sputo e stavolta è schiuma rossa. Sento il sapore ferroso del sangue e mi passo la lingua sulle gengive spaccate. Mi attacco con le labbra direttamente al rubinetto e inondo la bocca di gelida acqua.
Eric non può averlo realmente fatto!
Sputo ancora e stavolta è solo sangue.
NO!
Chiudo l’acqua e piombo nel silenzio più assordante. Sento nelle mie stesse orecchie il martellare del cuore. Non ha smesso un attimo di battere furioso. Un‘adrenalina incontrollata mi ha intossicato il corpo. Una paura che non credevo di poter provare, mi ha completamente invaso.
Sulla mia lingua il sapore ferroso persiste.
Se chiudo gli occhi posso ancora sentirle: morbide, gentili, di quelle che non diresti appartengano ad un uomo.
Un bacio. Solo uno. Un bacio dannatamente innocente.
“Ci vediamo.”  
Una breve frase. Ha percorso poi i tre gradini di casa mia ed è sparito lasciandomi in completa balia della confusione più assoluta.
Eric Huntsman mi ha baciato.
Lui, ha baciato me.
Abbasso lo sguardo sulla ceramica bianca e stringo le palpebre.
Sono io che ho passato l’ultimo periodo a fantasticare sulle sue labbra, sulle sue mani, sulla sua voce. Sono io che ho dovuto combattere con tutte le mie forze per non cedere ad alcun gesto inopportuno o frase che potesse essere fraintesa. Sono io che mi sono completamente invaghito di lui. Eppure... Eppure lui ha poggiato le sue labbra sulle mie come fosse la cosa più normale del mondo. Non mi sono neanche chiesto se qualcuno ci ha visto.
Ci avranno visto?  
In questo preciso istante non potrebbe fregarmene di meno. L’unica cosa che voglio sapere è perché. Era un’altra presa in giro? Ha capito che ho un debole per lui e voleva farsi due risate? È questo?
Sono questo io, un giocattolo con cui divertirsi?
Serro la mascella ed il pugno così forte che quasi temo di dover fasciare anche questa mano.  
Il mio cuore ora battere scuro. Rabbia, imbarazzo, vergogna. Più di ieri, più di quanto non avessi mai provato.
Non sono stato in grado di dire nulla. Sono rimasto lì come un idiota, con la testa bagnata e il respiro smorzato.
“Perché ti prendi sempre gioco di me?”
“Lo faccio?”
«Dannazione!» Mi passo la mano sul viso sentendolo nuovamente accaldato. Non volevo che succedesse. Cioè, lo volevo, ma come si vuole qualcosa che non si può avere. Era più un desiderio, una pura fantasia, di quelle che non potrebbero mai diventare realtà. Desideravo sapere cosa si provava a premere le mie labbra su quelle di Eric, cosa si provava a far scorrere le dita fra i suoi capelli, sul suo viso, sul suo corpo. Ma non avrei mai creduto che anche solo una di quelle fantasie si potesse realizzare. Perché adesso fa più male di prima.
L’ignoto mi dava un’opportunità, mi regalava ancora un’ultima possibilità di ritornare me stesso.
Come sarebbe baciarlo? Probabilmente non bello. È un uomo, non ti piacerà.
Ed invece adesso non ho più nulla. Non so dire se sia stato piacevole o no, non so dire se mi abbia disgustato o eccitato. Non so dire nulla, non voglio farlo.
Per un tempo troppo lungo, ho sentito il mio cuore impolverarsi. Non c’erano più emozioni a dargli vita. Le cercavo nel mio lavoro, nei casi più assurdi, nella richiesta infantile di approvazione da parte dei miei colleghi. Poi Eric è entrato nella mia vita senza che potessi impedirglielo, ed ho iniziato a sentire la polvere sparire. Giorno dopo giorno, sguardo dopo sguardo, fantasia dopo fantasia. Non credo di aver mai provato prima qualcosa di simile. Non so dargli nome, e mi spaventa. È curiosità, quella che mi scatena Eric, è terrore, desiderio, rabbia, gioia, vergogna. È vita.
L’ho sentita impossessarsi di me lenta ed irrefrenabile finché non è esplosa quando le sue labbra si sono posate sulle mie. Ed ora, ed ora quella stessa vita mi sta uccidendo, perché non posso sopportare sia stato tutto solo l’ennesima beffa.
Afferro il fohn e prendo ad asciugarmi questa dannata testa senza troppa cura.
Neanche stavolta riesco a vedermi. Il mio riflesso è di cristallo. Lo attraverso, lo ignoro.
Nonostante la fasciatura ed il dolore che pulsa, tengo fermo nella mano il fohn e con l’altra mi aiuto a sistemare le ciocche fastidiose.
Quando termino il mio lavoro riesco finalmente a vedermi. Riesco a leggere nei miei stessi occhi ed è una lettura amara, rabbiosa, disperata.
Devo andare da lui, devo dirgli in faccia che ne ho abbastanza, che questo stupido poliziotto si è stancato dei suoi giochi.
I miei occhi mi parlano di una determinazione che quasi mi spaventa, di quelle che provi solo quando arrivi al limite. Questo è il mio limite ed Eric lo ha decisamente superato.
 

Fa male. La mano fa davvero male, e come ho imparato a mie spese, Eric aveva ragione.
Guido lento, indifferente ai clacson alle mie spalle. Che vadano tutti a farsi-
Rimani concentrato!
Il tempo per arrivare ad Hedeskoga è lungo il doppio del normale, ma le mie sensazioni smentiscono l’orologio. Forse i pensieri che mi hanno fatto compagnia hanno ridotto la reale percezione del tempo, ma di fatto mi sembra di arrivare a casa di Eric in un batter di ciglia.
Respiro a fondo. Mando giù saliva e coraggio, quel poco che ho ritrovato in un angolo affamato dello stomaco. Spengo il motore e la mano pulsa furiosa. Cambiare le marce è stato più difficile del previsto, ma ne è valsa la pena.
La Ford non c’è, ma sono certo che arriverà da un momento all’altro. Deve arrivare, a costo di aspettarlo qui fino alla fine dei miei giorni!
Scendo dall’auto e mi siedo sul cofano. Braccia incrociate e sguardo fisso alla strada.
Il tempo dei giochi è terminato e questo pupazzo non si è mai realmente divertito.
Minuto dopo minuto, ritrovo forza e sicurezza, ma forse è solo ira e rancore. È solo vergogna. Ormai non mi curo più di fare distinzioni. Il cuore batte forte, qualunque sia il motivo; Eric dovrà affrontarne le conseguenze. Non so bene cosa dirgli, voglio solo averlo davanti. Non baderò alle parole, mi lascerò andare come un fiume in piena senza argini, e travolgerò ogni cosa.
Quando è passata poco più di un’ora, scorgo il blu della Ford Fusion, prima del blu dei suoi occhi. Eric parcheggia davanti al suo vialetto e scende con un’espressione confusa sul viso.
Un accenno di sorriso che è più che altro un’incognita.
Il fuoco mi incendia le vene.
È tutto tuo!
Ispiro e serro la mascella.
«Ehi, che ci fai-»
Due passi, braccio tirato e pugno dritto alla meta. Stringo i denti. Unico errore, usare la mano fasciata.
Eric barcolla appena e si porta un mano sulla bocca.
«Ma sei impazzito!?» Un po’ di sangue gli sporca le dita e capisco che deve essersi spaccato un labbro. Respiro affaticato. Ho lo stomaco completamente sottosopra e la gola che arde. «Magnus, ma che cavolo ti è preso?» Mi urla contro con lo sguardo ridotto ad una lama. Deglutisco ed apro la bocca secca per prendere aria.
«Devi smetterla di prenderti gioco di me» sospiro scuotendo la testa inconsciamente. Nel frattempo anche la fasciatura inizia a sporcarsi di sangue e temo che quelle poche escoriazioni debbano essersi riaperte.
«Che?» Ora è Eric a scuotere la testa confuso ed arrabbiato direi.
«Questa mattina hai superato ogni limite! Ora devi finirla!»
«Questa mattina? Ma che stai farneticando?» Il mio battito accelera ancora perché non riesco a sopportare quell’espressione disorientata. Smettila di fare così, Eric Huntsman! SMETTILA!
«Questa mattina, Eric. Questa mattina!» Deglutisco ancora dando uno sguardo alla mano. Fa male più di ieri e stavolta non ci sarà nessuno a fasciarmela, temo.
«È perché ti ho baciato?» Ci sei arrivato, Einstein! Non gli servo una risposta, non voglio anche quest’umiliazione. Mi limito a scostare lo sguardo dai suoi occhi prima di sentire ulteriore imbarazzo scaldarmi la faccia. «Cristo santo, Magnus!» Sputa a terra saliva e sangue e si pulisce poco elegantemente le labbra con il dorso della mano. «Tu hai qualche problema.»
Scatto come una molla. «Adesso io ho qualche problema?» Lo raggiungo lasciando che sia poco più di un metro a dividerci. «Tu ti prendi gioco di me, mi umili, mi tratti come se fossi un fantoccio senza volontà, ed io ho qualche problema?» Sento le dita tremare ed un nodo stringermi la gola.
«Non so di che diavolo stai parlando, ma è meglio che te ne vai.» Mi supera dirigendosi verso la sua abitazione. Non posso permettergli di cavarsela così.
«Almeno abbi il coraggio di ammetterlo, Eric!»
È arrivato davanti alla porta e continua a darmi le spalle ma scuote la testa.
«Magnus, ti avverto: vattene prima che sia tardi.»
«Perché? Vuoi pestarmi? Non ho paura di te. Sono un poliziotto, Huntsman. Non dimenticarlo!» E vorrei essere io il primo a non farlo.
Gonfia le spalle e si volta. «Allora lascia che ti dica una cosa.» Il suo sguardo è puro ghiaccio. «Poliziotto o no, Magnus, tu sei un vero idiota.» Finalmente la verità.
Sento le labbra vibrare perché sì, la volevo, ma non pensavo facesse così male.
Un idiota, ecco cosa pensa Eric di me, cosa ha sempre pensato.
Sono un idiota.
Annuisco schiarendomi la voce. «Bene, direi che è tutto.»
Ho trovato ciò che cercavo, gli ho perfino rifilato un pugno. Ora posso andare in ospedale e farmi medicare la mano e magari il cuore, sperando ci sia un cicatrizzante anche per quello.
«Ma come ti può venire in mente che ti abbia baciato per prenderti in giro?» Alzo lo sguardo sul suo viso. È arrabbiato, forse più di prima, più che per il pugno e non capisco perché. Aggrotto le sopracciglia scuotendo la testa.
«E allora perché diavolo l’hai fatto?» ringhio con voce ferma. Non voglio neanche pensare sia per... NO! Non è possibile, non può essere vero. Eric non può averlo fatto per quel motivo. Non ho neanche il coraggio di prenderlo in considerazione, si rivelerebbe poi solo l’ennesima delusione. La peggiore di tutte.
Eric, non farlo...
«Perché mi andava!» sbotta ed io salto un battito. Si prende una pausa mentre le mie gambe potrebbero cedere da un momento all’altro. «E pensavo lo volessi anche tu.»
Arresto cardiaco in corso!
«Io? Perché tu... co-come... » Sento le parole perdersi sulla lingua e faccio una fatica immane per metterle in ordine. «Cosa te l’ha fatto credere, eh?»
«Devo anche risponderti?» Sembra più tranquillo di prima ma io al contrario sto solo peggio. Credo di avere l’aspetto di un peperone in questo istante, perfino le orecchie mi stanno andando a fuoco. Ho sempre vissuto la cosa come fosse un monologo affettivo, ed ora salta fuori che anche lui lo voleva. Ma voleva cosa?
«Che vuoi dire?» È appena un sussurro e stavolta sono più che onesto con me stesso ammettendo che sto facendo spudoratamente il finto tonto.
“Perché mi andava”
Quelle tre parole mi rimbombano nella testa senza freno ed io ho paura di volerle udire ancora.
Eric si tocca ancora il labbro ferito.
«Magnus, sei...» Fa un lungo sospiro mentre io trattengo il mio. «Come hai fatto a guidare?» Sposto gli occhi dalla mia Volvo alla mano insanguinata prima di riportarli al suo viso.
«Che te ne importa?» Che ti importa di me?  
Un altro sospiro abbandona la sua gola. Resto in silenzio a guardare la mia mano diventare sempre più rossa. Stavolta temo di aver fatto una vera stupidaggine. Ma alla fine questa mano malandata è davvero l’ultimo dei mie problemi.
«Vieni dentro.» Un ordine che risuona nell’aria. Alzo lo sguardo ma Eric non è più sulla soglia. La porta è aperta ed io non so che cavolo fare.
Nella mia mente caotici flash delle miei ultime ore. Lisa, i suoi occhi di rimprovero - di delusione. Il porto, le acque nere, la voce di Gambero, quella di Eric. Il suo abbraccio, la sua auto. Il divano. La mia mano che pulsa furiosa. Il sangue sul cemento del molo 16, quello che macchia le bende. Il sangue che sento lacrimare dentro l’anima. Le labbra di Eric, come laudano sulle mie.
Continuo a fissare quella porta aperta senza schiodarmi da qui.
Devo andarmene, devo chiudere tutto in un cassetto e annegarlo senza rimorsi. Eppure è atroce il senso di impotenza che mi pervade nella semplice azione di andare via. Eric sa mandare in confusione qualsiasi mio meccanismo di difesa, sa abbattere ogni mia barriera. Nudo ed inerme, come la preda fra le fauci del cacciatore. Quale sadica beffa!
Ho quasi voglia di piangere e se non fossi determinato a non perdere ancora la faccia, credo che lo farei. C’è qualcosa dentro al mio petto, un nodo che mi soffoca, ma in questo momento non so dire per quale vera emozione. Riconosco solo un bisogno, urgente e autoritario, al quale non posso oppormi, il bisogno dei suoi occhi nei miei, della sua voce, del suo profumo. Il bisogno disarmante di lui.
Raggiungo i pochi gradini e li salgo lentamente. Quando sono in casa, accompagno la porta fino a chiuderla con un secco click della serratura. Eric non è in soggiorno, ma lo sento armeggiare in cucina.
Che sto facendo?
«Siediti.» Avrebbe dovuto fare lui il poliziotto, ha un istinto innato per dare direttive, a cui non riesco mai ad oppormi, fra l’altro.
Mi siedo senza batter ciglio.
Sul tavolo, la cassetta del pronto soccorso: il rotolo candido di garza sterile, la bottiglia di disinfettante, la tintura di iodio, cotone idrofilo. Altri ricordi mi affollano laceranti la mente.
«Che fai?» sospiro stupidamente chiedendomi ancora perché sono seduto qui, ora, dopo tutto quello che è successo. Non dovrei. Dovrei essere steso su un lettino a farmi psicanalizzare o, al limite, a piangere miseramente seduto sulla tavoletta del bagno.
«Fa’ silenzio.» Quel tono rigido quasi mi scatena un brivido.
Eric si siede di fronte a me e senza dire altro afferra la mia mano. La sfascia ed io stringo i denti. Nel silenzio della cucina posso udire lo stesso il “ti sta bene” che gli risuona nella testa, o forse risuona nella mia.
Lo lascio fare senza aprire bocca. Lascio che mi pulisca quelle poche escoriazioni con la solita sicurezza che guida i suoi gesti, che torni ad avvolgermi una garza pulita attorno alla mano. Lascio che le sue dita scorrano ancora una volta sulla mia pelle ferita senza poter fare a meno di pensare a quelle dannate tre parole.
Il suo labbro non sanguina più ma si è leggermente gonfiato. Mi mordo il mio con un bruciante senso di colpa che mi contorce lo stomaco. Perché diavolo gli ho dato un pugno? E perché mi sento in colpa per averlo fatto? In fondo è tutta colpa sua. Se l’è meritato, eppure...
«Scusa» alito ma lui non alza lo sguardo sul mio viso, tiene occhi ed attenzione sul suo lavoro. «Non avrei dovuto darti quel pugno.»
Ancora nessuna risposta. Fa un ultimo giro e poi stringe la fasciatura.
«Cambiala stasera.» Chiude la cassetta e la ripone su una mensola. Guardo la sua nuova opera. Io come pubblico ufficiale non sono neanche in grado di mettere un cerotto...
Ma adesso non ho tempo né energie per analizzare anche questo lato –fallimentare- della mia vita.
Un passo alla volta, Magnus. Uno alla volta.
«Eric?» Mi dà ancora le spalle per qualche secondo, poi si volta poggiandosi contro un mobile. Il suo sguardo mi inchioda alla sedia e mi blocca il respiro. Deglutisco scostando gli occhi.
Voglio sparire all’istante.
«Perché ti ha sconvolto tanto?» Sorrido nervosamente alla sua domanda e mi torturo una pellicina con un’unghia senza alzare la testa. Se gli rispondo mi farò solo altro male. Da quando sono diventato così autolesionista?
«Perché era la prima volta... Era la prima volta che qualcuno... che... intendo un uomo... » Ma l’imbarazzo mi fa morire le parole in gola. Pessima performance, direi.
«Ho capito.» Beato te, perché io invece non ci sto capendo più nulla. «Allora forse è meglio che torni a casa, Magnus.» Sento qualcosa incrinarsi nel petto. Un nuovo muro si sta erigendo e sono stato io a mettere il primo mattone.
Annuisco e mi alzo.
Eric è fermo contro il mobile. Le mani poggiate sul ripiano e mi guarda con un’espressione che riesco a definire solo con una parola: gentilezza.
Nel suo essere scostante e diffidente, Eric Huntsman è una delle persone più gentili che abbia mai conosciuto. Una gentilezza fatta di gesti e non parole, di piccole e grandi azioni che non vuole neanche vengano riconosciute.
«Ti fa male?» chiedo indicandomi il labbro. Lui alza un solo angolo della bocca.
«Ne ho presi di più forti, credimi.»
«E li avrai anche ricambiati.» Riesco a strappargli una risata.
«Of course.» E lui invece mi strappa un feroce brivido che mi attraversa la colonna vertebrale nel sentirlo parlare nella sua lingua.
Restiamo così, in silenzio, a guardarci per una manciata abbondante di secondi.
«Io devo andare» farfuglio con poca convinzione, ma di fatto resto inchiodato qui con gli occhi fissi sulle mie stesse mani. Credo stiano tremando.
«Tutto bene?» Sobbalzo guardandolo. Eric...
«Io... Sì.» Sorrido e mento. Sul suo viso però non scorgo alcun sorriso, solo un’ombra di esso. Ho di nuovo voglia di piangere. «Perché mi hai baciato stamattina?» Un pensiero che prende vita in un leggero sospiro.
«Perché trovi così strano che qualcuno voglia baciarti?»
«Mi rispondi sempre con una domanda» sottolineo abbassando lo sguardo. Perché non sei mai chiaro? Perché mi lasci incatenato a questa confusione senza liberarmi?
Lancio un occhio alle mie spalle, a quella porta che sento urgente bisogno di raggiungere.
«Non volevo incasinarti.» Mando giù un nuovo magone. Vorrei voltarmi e perdermi ancora sul suo viso, sul suo labbro gonfio a causa mia e chiedergli perdono con mille baci. Vorrei affondare fra le sue braccia e pregarlo di perdonarmi se sono solo uno stupido incapace di accettare i suoi stessi sentimenti. Vorrei umiliarmi ancora e sperare che mi rialzi di nuovo da terra. Vorrei...
«Devo andare» Ripeto atono ed esco dalla cucina.
Mi avvio lentamente verso la porta. Alla mia destra il camino spento mi sfiora la vista. Il divano, il suo divano. Il suo sorriso, il suo calore.
Ogni passo è un grado in più nell’aria, quando sfioro la maniglia sento quasi di sciogliermi.
Mi mordo con forza le labbra cercando la determinazione per spingerla ed andare via, ma non riesco a trovarla.
Resto qui, con le dita avvolte attorno al pomello e la pelle che arde. La sento quasi staccarsi da me. Ho bisogno di sentirla staccare. Voglio liberarmene, voglio gettarla e respirare, ma non ci riesco. Da solo non credo ce la farei mai.
Sospiro.
Eric...
“Sei un vero idiota”
Una scossa mi attraversa il corpo e finalmente apro la porta.
Quasi corro verso la mia auto e mi infilo dentro come se qualcuno stesse per spararmi addosso. La mano brucia al contatto con il cambio, ma stringo denti e stomaco e continuo a fuggire.
Mi lascio la sua casa alle spalle ed anche qualcos’altro che chiamerei cuore, se non lo sentissi battere dilaniante nel petto.
Mi sento un coccio incrinato che potrebbe rompersi da un momento all’altro. Ho troppe crepe e mi rendo conto di averle create tutte da solo e l’unica persona che sembra capace di tenerle unite, è l’unica a cui non posso permettere di farlo.
Le dita tremano sul volante. Le labbra tremano. La vista mi si offusca. Il respiro si smorza.
Accosto lentamente nella verde campagna di Hedeskoga. Non c’è nulla al di fuori di una vegetazione silente, di un pallido sole autunnale e di questa strada isolata. Non c’è nulla al di fuori di questo sentimento che sento scoppiare dentro e di cui ho un maledetto terrore.
Mi accascio contro il volante e bagno le mie mani con le lacrime che mi scendono sul viso. Solo vergognosi singhiozzi nell’aria, prima deboli, debolissimi, poi sempre più forti, come quelli di un bambino.
Non pensavo che anche gli uomini potessero piangere in questo modo.
Non pensavo che le lacrime potesse bruciare come fiamme.

















Continua...






NdA.
Aggiornamento in leggero ritardo u///u ma ieri è stata davvero una domenica bestiale ed oggi un lunedì da bestie (tanto per cambiare)!
Spero mi perdonerete.
Il tempo di un grazie e alla prossima ^^
kiss kiss Chiara

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Capitolo 14
*** Una bussola smagnetizzata ***


14
Detective Martinsson



XIV. Una bussola smagnetizzata



«Avevo bisogno di dirtelo.»
«Non era necessario, Magnus. Anzi, forse sono io a doverti delle scuse. Avrei dovuto parlarti prima di decidere per te.» Scuoto la testa nella solitudine della mia cucina.
«No, avevi ragione. Devo staccare un po’. Devo veramente farlo.»  
«Magnus, voglio che sia chiaro che questo non ha nulla a che vedere con le tue capacità. Tu sei un elemento prezioso per la squadra, non dimenticarlo.» Quelle parole sono come acqua su uno specchio. Non le sento, non mi toccano.
Non rispondo ed è Lisa a dire qualche altra frase prima di salutarmi.
«Ci vediamo lunedì» sospiro sorridendo al niente e chiudo la chiamata. Lascio cadere il telefono nella tasca e mi passo le dita sugli occhi.
Prendo un respiro. È la decisione giusta.
Mi dirigo verso la porta ed afferro il piccolo borsone di pelle. Non mi regalo neanche un ultimo sguardo a questo appartamento vuoto e mi chiudo la porta alle spalle.


Il suono delle rotaie è qualcosa che mi riporta al passato, ai giorni di scuola, quando era routine salire sul treno e cercare un posto libero accanto a qualcuno che non avesse avuto intenzione di tormentarmi già di prima mattina. Non sono bei ricordi, ma sono ricordi lontani e sembra non facciano più male.
Guardo dal finestrino la natura e le case che sfrecciano veloci. Il cielo si sta rabbuiando.
Nel vagone, una manciata di persone: una coppia di anziani, un uomo d’affari che traffica con il palmare, due ragazzi che ridacchiano fra di loro. Di fronte a me, una ragazza giovane, avrà meno di vent’anni, che ascolta musica dal suo ipod. È carina, con lunghi capelli biondi che ricadono ondulati fino alla vita. Un cerchietto rosa li tiene indietro. Due occhi chiari, azzurri, dietro ad un paio di lenti incorniciate da altro rosa.
Si accorge del mio sguardo e mi sorride. Io ricambio ma sposto la mia attenzione al mutare dell’ambiente al di là del vetro.
Non sono neanche venti minuti di viaggio, eppure mi sembra di allontanarmi da Ystad di centinaia di miglia. Mi illudo di poter fare lo stesso con i miei pensieri, ma mi accorgo presto che invece hanno fatto il biglietto e sono saliti con me - e non hanno avuto neanche la decenza di rimanere nel borsone.
“Pensavo lo volessi anche tu.”
Certo che lo volevo, lo volevo come non ho mai voluto altro e poi... E poi ho rovinato tutto. L’ho aggredito e attaccato. L’ho incolpato ingiustamente e l’ho costretto a venirmi incontro ancora una volta. La pazienza di Eric è eguagliata solo dalla sua gentilezza. L’ho chiamata pietà, ad esso non saprei davvero che nome darle. La mia invece un nome ce l’ha e brucia come acido sulla carne: codardia.
Sono un codardo, un codardo che si è perso  e non è più capace di trovarsi, e quando ci si perde, si può solo ripartire dall’inizio. Il mio inizio è la prossima fermata.
«Dove scendi?» Una voce sottile mi giunge alle orecchie strappandomi dal vortice caotico della mia testa.
«Tomelilla.» È la ragazza bionda. Ha tolto una cuffia che ora penzola sulle sue gambe.
«Io a Garsnas.» Annuisco e le sorrido ancora. «Sono Irene.»
«Magnus.» Torno a guardare il finestrino. Non sono in vena di fare amicizie, neanche con ragazze carine, e poi dalle scritte a penna sulle sue Converse, mi sta venendo il dubbio che sia addirittura minorenne.
«Magnus, tu che fai nella vita?» Ma perché non mi sono seduto accanto ai due vecchi? O vicino al businessman? Perché si è tolta quei cavolo di auricolari?
«Sono un poliziotto.» Cerco di essere cortese ma senza mostrare troppo interesse, anzi, spero che capisca che non ho per niente voglia di mettermi a parlare della mia vita, adesso proprio no.
«Wow! Che figo!» Ho appena avuto la conferma che è minorenne, quindi nel qual caso, rischio anche una denuncia. Sarebbe la ciliegina sulla torta! «Io studio danza e appena termino il liceo mi trasferirò a Stoccolma!» Ecco, per l’appunto.
I suoi occhi brillano ed il suo sorriso è contagioso.
I sogni dei ragazzi, belli e dorati. Tutti pieni di vita e speranze, senza sapere che un giorno tali speranze verranno spazzate via come un scioccare di mosche.
«Allora buona fortuna.» Poggio la testa contro il sedile e chiudo le palpebre. Non è certamente l’atteggiamento più educato, ma tanto entusiasmo mi fa solo sentire peggio. I miei problemi sono lì, ad aspettarmi sotto le palpebre ed urlano e graffiano. Non riesco più a scindere quelli reali dal resto delle soffocanti paranoie.
Non mi concedo riposo, solo silenzio. Il silenzio rotto dal vociare sommesso, dalle risate dei due ragazzi, dal rumore costante e trascinante delle rotaie. Una culla d’acciaio.
Poi lentamente il treno rallenta con un crescendo stridere dei freni. Mi sento toccare un ginocchio ed apro gli occhi.
«È la tua fermata, Magnus.» Irene mi sorride gentile e torna a sentire la sua musica. Questa ragazzina ha molta più diplomazia di quanta ne potrò mai avere io.
Le sospiro un grazie che non sente, o fa finta di non sentire, ed afferro la borsa dirigendomi verso l’uscita.
Il treno si ferma e le porte si aprono. Metto un piede sul marciapiede polveroso ed ispiro a pieni polmoni.
“Home Sweet Home”, è così che si dice?
Of course.
Mi ritrovo a sorridere amaro.

Il cielo sembra voglia svuotarsi da un momento all’altro, sollevo il colletto della giacca camminando con passo spedito. Per fortuna la borsa non è pesante, in fondo ci sono dentro due o tre vestiti, non di più. La sistemo meglio sulla spalla con l’unica mano che ancora mi funziona perfettamente. Infilo l’altra nella tasca e stringo i denti al vento gelido che mi schiaffeggia il viso.
Non ho preso un taxi perché casa mia dista poche centinaia di metri dalla stazione.
È da quasi un anno che manco, non sono riuscito a venire neanche per il 6 Giugno[1] e sarei tornato probabilmente per Natale. Sono solo venti minuti di viaggio – in auto appena quindici - ed è strano come alle volte sembri un tragitto troppo lungo da percorrere, eppure stamattina sono corso qui come un assetato nel deserto davanti ad un’oasi. Credo si chiami semplicemente egoismo.
Quando ho detto a mia madre che sarei stato da lei per un paio di giorni, sembrava felice. Spero lo sia anche quando vedrà la mia mano fasciata ed il livido giallastro sulla faccia.
Mi ritrovo a sorridere e imbocco una piccola traversa che in pochi passi mi porta davanti casa.
Mi fermo ed ispiro ancora rincuorato dalla sua vista familiare.
Una piccola goccia mi cade su una guancia e sposto il naso all’insù. Un tuono poi un altro.
Riesco appena a raggiungere il porticato quando dal cielo inizia a piovere pesantemente.
Sembra che lassù qualcuno abbia voluto risparmiarmi un bagno, forse c’è ancora qualche dio che mi ama. Forse.
Come al solito la porta è aperta. Mamma, quando imparerai ad essere più prudente?
«C’è nessuno?» La chiudo giusto il tempo di vedere mia madre sbucare dalla cucina. I capelli biondi raccolti con un bastoncino, il grembiule addosso e le mani nei guanti per il forno. Non riesco più a respirare mentre mi stringe a sé.
«Piccolo mio!»
«Ciao, mamma.» Le bacio una guancia ricurvo nel suo abbraccio. Non si direbbe dal figlio, ma mia madre è alta poco più di un metro e sessanta.
«Tesoro mio!»
«Mamma, mi stai soffocando.»
«Fa’ silenzio! Sono mesi che non vedo mio figlio, ora lascia che recuperi il tempo perso.» Sospiro rasserenato e lascio cadere il borsone per stringerla forte. La sollevo e lei si lascia scappare un urletto. «Mettimi giù, Magnus!» Ride ed io obbedisco.
Il mio cuore a brandelli sembra già stare un po’ meglio.

«Dov’è Rob?»
«In giro a cercare qualcosa per il suo nuovo bonsai.» Sorrido e la seguo nel lungo corridoio al piano di sopra. «Tutto come hai lasciato.» Guardo la mia stanza, la mia vecchia stanza in perfetto ordine. Il letto a doppia piazza con il copriletto color verde bottiglia. La finestra che dà sulla strada, l’armadio a due ante. Sul muro verniciato di ocra, il calendario della polizia del mio primo anno di servizio.
«Ho fatto i tuoi biscotti preferiti!»
«Mamma, non ho più dieci anni.» La sua mano mi accarezza il viso e mi sorride dolce.
«Lo so.»
Da quando si è risposata con Robert, mia madre sembra rinata. Anche se, adesso che ho passato gli anni orribili del divorzio, con tutta la rabbia e il senso di colpa tipico dei figli di divorziati, posso confessare che non l’ho mai vista così felice neanche con papà. Lui è sempre stato un tipo autoritario e severo. La sua personalità forte e decisa ci ha in qualche modo legati, schiacciati. E a volte mi chiedo se tutte le mie insicurezze non siano una sua mancanza... Ma non voglio essere uno di quelli che scarica i propri fallimenti sui genitori. Se ho fatto qualche sbaglio è solo colpa mia. Ora tutto sta a porvi rimedio – se mai ce ne fosse uno.
Mio padre lo vedo poco, continua a fare l’avvocato di successo a Stoccolma. Di Natale una telefonata, se va bene. Il mio compleanno l’ha rimosso dall’agenda dopo che ho compiuto 19 anni. Per il resto ci pensa mamma: “Papà ti manda gli auguri”, “grazie, ricambia.” Vanno d’accordo adesso più di prima, forse perché ci sono 600 km a separarli.
Poggio la borsa sul letto e mi tolgo la giacca. Mamma è tornata in cucina e, conoscendola, starà preparando una cioccolata calda. Mi ci vuole proprio!
Mi siedo sul copriletto che profuma di pulito e lo sfioro con le dita. Ancora non si è accorta della mano, forse del livido sì, ma ha fatto finta di nulla. Meglio, almeno non dovrò darle spiegazioni che sarebbero solo bugie. Non ancora. Guadagnare tempo alle volte è l’unica cosa che si può fare.
Ieri a quest’ora, ero al porto a cercare Gambero. Stamattina ero a casa di Eric.
Ieri la mia vita era un disastro, stamattina si è praticamente sbriciolata.
Il suo volto mi riempie i pensieri ed il petto mi si ingrossa. Sfioro ancora con i polpastrelli la stoffa liscia e vedo la sua pelle, le sue labbra.
Accarezzo le mie con la lingua e sento il cuore galoppare forte. Non riuscirò mai a tirarmi fuori da questo casino!
Crollo sul letto e la borsa cade a terra con un tonfo. Mi raggomitolo su un fianco e tengo lo sguardo fisso al vecchio calendario. Tante piccole facce mi guardano e mi giudicano, tante piccole divise che appesantiscono la mia. Sospiro a fondo e mi giro sulla schiena fino ad incrociare con lo sguardo le travi in legno del soffitto.
«Eric...» Neanche la sento la mia stessa voce, perso come sono a chiedermi se ci sarà mai modo di tornare indietro.
Fuori, continua a diluviare.

«Mh, mi era mancata la tua cioccolata, mamma.» Mi godo un altro sorso caldo e morbido mentre mamma sorride accanto al forno.
«Li ho fatti appena mi hai detto che saresti venuto.» Poggia la teglia sul tavolo e sposto la tazza per farle posto. Sono invitanti e profumati e tutti perfetti, della stessa identica forma. Tanti piccoli rombi di cacao e cocco. Ne afferro uno e lo mangio con delizia sentendo il sapore familiare e impagabile che tanto ha accompagnato la mia infanzia.
«Buonissimi, mamma. Come sempre.» Ne prende uno anche lei e mi si siede di fronte.
Mangio il biscotto e lo alterno alla cioccolata – sto usando una sola mano. Quello che si dice è vero, quando si è depressi bisogna rimpinzarsi di dolci.
«Allora, Magnus, che è successo?» Ed ero stato un illuso a credere che non avrebbe capito.
Mi guarda dolce con il mento poggiato nella mano. La sottile linea di eyeliner appena sfumata attorno ai suoi occhi identici ai miei e tutto l’amore di questo mondo sospeso nel suo accenno di sorriso.
«Ho qualche giorno di ferie arretrate, così ne ho approfittato per venire a trovarti» mento e lei continua a sorridermi e so che non mi crede.
«Questa è la versione ufficiale, e invece la verità qual è?» Ah, mamma, avresti dovuto fare tu il detective!
Abbasso lo sguardo sulla tazza e poggio il biscotto morso per metà sul tavolo. «Avevo bisogno di allontanarmi da Ystad per un po’» confesso tenendo gli occhi alla cioccolata su cui si sta formando una leggera pellicola più densa.
«Problemi a lavoro?»
Sorrido appena. «Magari fossero solo quelli.» C’è solo un’altra persona oltre a mia madre con cui mi sento sempre nudo e senza difese e la cosa mi spaventa. Lei è mia madre, mi ha portato dentro di lei per mesi. Abbiamo lo stesso sangue, la stessa anima. Lui chi è?
Chi sei, Eric?
«È una donna, allora?» Sollevo lo sguardo ai suoi occhi gentili e mi sento trafiggere la gola da mille spilli.
Vorrei poterle dire tutto, dirle quale stato confusionale sto attraversando. Dirle di Eric, dei suoi occhi, delle sue maniere gentili, della sua voce profonda. Dirle dei brividi che mi scatena un suo solo sguardo e di quante notti sono rimasto sveglio a pensarlo. Vorrei dirle di come il mio cuore sia esploso quando mi ha baciato e di come sia esploso di nuovo quanto mi ha detto che voleva farlo sul serio, che non era un gioco. Vorrei raccontarle della notte sul suo divano, del fuoco nei suoi occhi e sotto la mia pelle. Vorrei dirle quanta paura mi fa sentirmi così nei suoi confronti, quanta rabbia corroda il mio stomaco perché non riesco ad accettare di volerlo come l’ossigeno stesso. Vorrei mostrale la mano e sospirare con quanta cura l’ha fasciata, con quanta cura mi ha risollevato da terra nel senso letterale del termine. Ma non posso...
Tengo la mano celata sotto al tavolo e mille parole chiuse nella testa, ferme in lacrime a marcire.
«È complicato.» Mi limito all’unica verità che so non può fare male, né a me né a lei.
«Oh, tesoro, l’amore è sempre complicato.» Sento le guance arrossarsi e mi nascondo dietro alla tazza. «Parlami di lei.»
«Mamma, ti prego...»
«Non sarà di nuovo Catherine?» Catherine?
«Con Catherine è finita un secolo fa.» Ed era durata molto meno.
«Però era molto carina, non capisco perché tu l’abbia lasciata.» Termino la cioccolata e sistemo la tazza vuota accanto al vassoio di biscotti.
«È stata lei a lasciare me.» Le ricordo grattandomi un sopracciglio e nonostante tutto è ancora un pensiero fastidioso. In fondo stavamo bene insieme. Sì, ok, ero sempre impegnato con il lavoro e lei voleva avere più attenzioni, ma ero appena entrato in squadra con Kurt e volevo fare bella figura, volevo guadagnarmi il suo rispetto. Mi chiedo se l’abbia mai ottenuto almeno una volta, di certo Catherine non ne ha avuto quando mi ha mollato da un giorno all’altro per Steven il magazziniere, “attento e gentile come tu non sei mai stato.” Attento e gentile... ora quegli aggettivi mi ricordano solo una persona.
«Ad ogni modo non era molto simpatica.» Sorrido intenerito dal suo voler rimediare alla dimenticanza di prima e la guardo mentre addenta un biscotto. Il mio è rimasto a metà, direi che la fame mi è decisamente passata.
In un momento di distrazione mi passo le dita fra i capelli con la mano destra e...«Oddio, Magnus! Che hai fatto alla mano?» Ingoio la mia stessa imbranataggine. Ma in fondo non potevo nasconderglielo per sempre.
«Nulla di grave. Non preoccuparti.» Ma lei si è già precipitata da me per studiare la ferita fasciata.
«Sei andato in ospedale? Come ho fatto a non vederla prima!?»
«Non ce n’è stato bisogno, è solo una piccola contusione.» La faccio scivolare via dalle sua mani premurose  e la scuoto per mostrarle che non è così drammatico. Una volta tornato a casa ho preso un paio di antidolorifici e il dolore si è attenuato. Li ho portati con me in caso dovesse tornare a pulsare. Avrei preso anche degli ansiolitici se solo li avessi avuti...
«Chi te l’ha fasciata? Tu non sei pratico in queste cose.» Il cuore mi arriva in gola.
«Un amico... Un collega.» Spero che mamma non riesca a leggere nei miei occhi l’agitazione che mi sta pervadendo in questo momento.
«Anche questa è una piccola contusione?» Mi ritrovo il suo dito premuto sullo zigomo e sospiro colpevole. L’aveva visto.
«Sì, anche questa.» Rispondo anche se non serve. La sua mano mi sfiora i capelli e poi mi poggia un bacio sulla fronte, ispiro il suo profumo e vorrei solo poter tornare bambino e dimenticare i casini dei grandi. Vorrei solo scappare e quasi non mi rendo conto che è quello che sto già facendo.

Quando Rob torna è zuppo fino alle ossa e mamma lo richiama di non aver preso un ombrello quando lei glielo aveva consigliato. Lui si scusa e poi fila in bagno ad asciugarsi.
«Come va, Magnus?»
«Bene, Rob.»
«Tua madre è felice di averti qui. Dovresti farci visita più spesso.»
Pranziamo tutti insieme e Rob mi racconta dei suoi nuovi bonsai giunti direttamente dal Giappone. Ne colleziona da anni ed ha una stanza apposta in cui li cura come fossero figli. Mia madre è sempre stata convinta che sia perché non ha potuto averli. Con me è sempre stato gentile, e benché non l’abbia mai considerato come un padre, gli sono affezionato. Non sono stato un figliastro facile, sono abbastanza onesto da ammetterlo, ma lui ha avuto pazienza e fiducia in me, forse è stato uno dei pochi a farlo.  
«Vado a controllare Mimo.» Quando si alza, guardo confuso mia madre e lei ride divertita.
«Alcuni li chiama per nome.» Mi ritrovo a sorridere anche io dicendomi che era proprio da tanto che non tornavo qui.
L’aiuto con i piatti con quel poco che mi è concesso dalla mano e lei di tanto in tanto sospira avvilita lanciandomi occhiatacce di richiamo. Sì, mamma, lo so che sono un caso disperato.  
«Sembra proprio che non voglia smettete di piovere.» Il temporale non ha cessato un attimo ed i vetri bagnati alterano la visuale della strada e del giardino. Avrei voluto sedermi sotto il porticato, sulla panca di legno e guardare il cielo di Tomelilla, anche se so bene cosa avrei visto: due stelle azzurre, troppo azzurre che mi avrebbero impedito di dormire. Forse è meglio così, forse, è un altro regalo del mio buon dio.
«D’altronde è autunno» sentenzio banale e mia madre annuisce caricando la lavastoviglie. Avvia il programma e mi lascia un sorriso dolce. Io sono poggiato contro la finestra e la guardo come quando ero bambino e vedo una roccia indistruttibile. L’ho vista piangere tante notti, l’ho vista piangere anche senza lacrime ed urlare nel silenzio delle nostre cene solitarie. L’ho vista come una donna e non come una madre e ho provato tanta tristezza e rabbia. L’ho vista prima di Rob e dopo Rob ed ho provato ancora più rabbia. Ma adesso è di nuovo la mia roccia, quella che mi asciugava il viso quando venivo preso in giro dai compagni, che mi ascoltava cantare le lodi di Susanne Gallstad con la stupidità di chi non si accorge di non contare nulla per lei. Ho di nuovo dieci anni per i suoi occhi e per il mio cuore.
«Ti va di fare due chiacchiere?» L’abbraccio forte poggiando il mento sui suoi capelli.
«Non adesso, mamma.» Non sono ancora pronto.
«Come vuoi, bambino mio.» E il suo calore è tutto ciò di cui ho bisogno.

















Continua...




[1] Il 6 giugno in Svezia si festeggia il Sveriges nationaldag [Festa Nazionale Svedese] che è, per l’appunto, una festività nazionale. [nda. L'ho considerata un po' l'equivalente svedese del nostro 2 Giugno]



NdA.
Eh sì, anche Magnus ha bisogno di mammà!
No, oggi niente commentacci inutili, ve li risparmio.
Ho un Grazie enorme come la confusione di Magnus da fare a Angie per avermi fatto dono (immeritatamente) di questa stupenderrima fanart *w*





Ed un altro ennesimo Grazie per quell’altra santa donna di Sara anche lei con la voglia di sprecare tempo ed energie per creare roBBa in nome di questa storia *^*



Perdonatemi il riferimento fangirloso a Thor, ma ci stava e ce l’ho lasciato u.u
E con questo I regret nothing ringrazio tutte e vi abbraccio con vero affetto.
kiss kiss Chiara

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Capitolo 15
*** Vedere davvero ***


Vedere davvero
Detective Martinsson



XV. Vedere davvero



Ha piovuto per tutta la notte e per tutto il girono seguente. Ha piovuto ad intensità diverse eppure non ha mai smesso. Solo ora mi sembra di scorgere dalla finestra un pallido riflesso di sole. L’aria è fredda e mi aggrada starmene stretto nel vecchio golfino grigio trovato nell’armadio. Scosto la tendina e getto un altro sguardo al cielo.
«Tesoro, io e Rob usciamo.» Mi volto ed annuisco con un sorriso. Mamma è bellissima con i capelli sciolti e ricci che le sfiorano le spalle, con il suo rossetto rosa e la mania di sistemarsi gli orecchini come le cadessero da un momento all’altro. Si avvicina piano e mi stringe le dita attorno al braccio. «Lo so che è non è carino lasciarti da solo, ma non credo che far visita alla zia novantenne di Rob sia nei tuoi piani.»
Mi lascio sfuggire un risolino. «Non preoccuparti, mamma, anzi sbrigati perché Rob credo voglia partire subito.» Dalla strada lo vedo borbottare al telefono poggiato contro la sua auto.
«Così torneremo prima.» Un bacio sulla guancia. «Se non dovessimo fare in tempo, la cena è pronta, devi solo scaldarla. Ok?» Annuisco e mi ritrovo di nuovo le sue braccia al collo. «È bello averti qui, Magnus.»
«Anche io sono contento di stare con voi, mamma.» Un clacson sale dalla strada.
«A stasera.»
Aspetto di vederla scendere in strada e salire in macchina. Mi lancia un ultimo saluto e le sorrido coprendo nuovamente il vetro con la tendina quando l’auto svolta l’angolo.
Ci siamo, dopo due giorni di quasi pace, ecco che sono costretto a fare i conti con me stesso. Le chiacchiere di Rob ed i suoi bonsai, i dibattiti sulla politica “opportunista e disonesta”, i buffi pettegolezzi sulla signora Schneider che avrebbe deciso di fare testamento a favore della sua badante anziché dei figli, tutto mi ha aiutato a tenere lontane dalla testa e dal petto le miriadi di domande che mi hanno bombardato a Ystad. Ma come avevo temuto, era solo questione di tempo. Al primo silenzio hanno fatto breccia nelle mie difese e ora sono qui a picchiarmi forte nel cervello. Forte, più forte di prima.
Il pensiero di Eric, invece, per quanto mi sia sforzato, non mi ha abbandonato un attimo. Mia madre ha tentato più volte di aprire discorso ma ho sempre glissato ogni domanda. Non posso risponderle, non posso risponderle e farmi altro male. Non conosco neanche le risposte, cosa potrei dirle?
Mi avvicino al calendario e lo stacco dalla parete. Lo poggio in un cassetto e lo chiudo. È un’altra fuga, un’altra scorciatoia facile. Mi arruffo i capelli gonfiando le guance e poi butto fuori aria e angoscia accasciandomi sul letto.
Che cavolo faccio?
Nessuno risponde, neanche questa volta.

Mentre vago stancamente per la casa silenziosa, mi accorgo che fuori ha completamente smesso di piovere. Fa un freddo pungente, ma ho davvero voglia di respirare aria nuova.
Non mi preoccupo di prendere un ombrello, mi lascio rassicurare dal cielo che pare volersi aprire e mi chiudo la porta alle spalle. A differenza di mia madre però bado bene a chiuderla con responsabilità. Farsi svaligiare casa con un poliziotto presente sarebbe un vero paradosso!
L’odore di erba bagnata è piacevole, è il classico odore autunnale. Mi piace l’autunno, forse perché ha molteplici sfumature. Un po’ mi ci rivedo. Il sole e la pioggia si rincorrono con regolarità, così come in me si alternano repentini differenti stati d’animo. Non c’è il rigore dell’inverno o la spensieratezza dell’estate. Come la primavera, è una stagione che sfuma fra altre due, ma è meno illusa. Io mi sento sfumare e perdere fra due differenti emozioni: desiderio e paura.
È l’unica conclusione a cui sono arrivato.
L’unica differenza è che prima o poi l’autunno passa e le foglie si rinnovano, io non so dire se riuscirò mai a rinnovare le mie.
Passeggio lentamente con le mani sprofondate nelle tasche. Riconosco qualche volto fra i pochi che incrocio ma mi rendo presto conto che non è altrettanto per loro. Sono sempre stato un tipo anonimo, uno di quelli che passa inosservato e a cui porgi di continuo la domanda: “Come hai detto che ti chiami?” Almeno è quella che mi sono sentito rivolgere più spesso.
Non me n’è mai importato molto, o per lo meno, non più. Non ho più brufoli sulla faccia né libri pesanti nella borsa. Non c’è bisogno che qualcuno si ricordi il mio nome, ho un distintivo apposta per questo compito. Il mio distintivo, il mio unico vero orgoglio.
Lo tengo nella tasca dei pantaloni così come la pistola, stretta nella fondina al fianco. Un tempo mi faceva sentire sicuro, prima ancora, impaurito da una tale responsabilità. Ora sembra quasi solo freddo ferro.
Svolto un vicolo e mi ritrovo davanti al parchetto dove venivo a giocare da bambino. I giochi sono ancora qui: lo scivolo che ti bruciava i palmi delle mani, la giostra che pendeva sulla destra, il cavalluccio a molla e la mia preferita, l’altalena di legno, ora completamente zuppa d’acqua. Mi avvicino e accarezzo le catene con le dita. Un debole sorriso mi si disegna sulla labbra. Amavo questo posto, amavo quando mia madre mi portava qui dopo la merenda. “Mangia tutto e andiamo a giocare”, ed io finivo frutta e torta con voracità perché l’altalena era una - l’altra era rotta - e tutti i bambini volevano salirci. Io restavo sempre l’ultimo a fare il giro, ma una volta su non volevo mai scendere. Gli altri bambini si annoiavano ad aspettare il loro turno e finivano con l’interessarsi agli altri giochi, oppure giocavano fra di loro ed io restavo a guardarli dall’altro della mia altalena.
Forse sono ancora seduto su quest’altalena mentre il resto del mondo gioca senza di me.
Sento il suono del cellulare che mi strappa via dal passato. È Anne-Britt.
Accidenti, avrei dovuto chiamare anche lei!
«Ehi!» La mia voce cela male il sentimento di colpa che provo.
«Ciao Magnus. Come stai?»
«Bene, Anne-Britt.» Abbandono l’altalena e riprendo a camminare verso una destinazione ignota. «Avrei dovuto chiamarti, scusami.»
«Oh, figurati! Volevo sapere come andavano le cose. Ti stai riposando?» La sento ridere e sorrido a mia volta.
«Direi di sì. Sono tornato a Tomelilla per qualche giorno.»
«Tua madre ne sarà felice, immagino.»
«Puoi dirlo forte, credo che quando dovrò tornare a Ystad mi supplicherà di rimanere.» Vorrei tanto che lo facesse, vorrei tanto poterle dire di sì. Anne-Britt ride ancora.
«Noi mamme siamo così.» A volte dimentico che anche Anne-Britt ha dei figli, eppure non dovrei vista la sensibilità che mostra in ogni occasione. Le donne sembrano avere una marcia in più, le mamme, due. «Stai riuscendo a dormire?» Ah sì, la mia insonnia.
«Più o meno.»
«Incubi?» Il suo tono è dolce e comprensivo ed io lo conosco bene. Sorrido di nuovo.
«Non proprio.» Solo risposte incerte, le mie. Solo il riflesso di ciò che realmente provo dentro.
«Magnus, so che c’è qualcosa che ti preoccupa e di cui forse non hai voglia di parlare. Posso capirti, voglio solo che tu sappia che io ci sono. Ok? Siamo amici, lo sa.» Prendo un lungo respiro ed annuisco in solitudine. «Non c’è nulla che non si può affrontare insieme. Ricordati quello che è successo con Svedberg. Non tenerti tutto dentro.» Sento gli angoli degli occhi pungere e sposto lo sguardo in alto al cielo grigio.
«Anne-Britt, io...» La voce mi si spezza e non riesco a continuare. Prendo un altro respiro e mi sforzo di ricacciare indietro lacrime e tristezza. «Grazie.»
«Ti voglio bene.»
«Anche io.» Solo ora mi rendo conto di quanto avessi bisogno di dirlo e di sentirmelo dire. Sono solo parole eppure possono terrorizzarti o salvarti. Parole, io ne ho già sprecate troppe, lui troppo poche, eppure le sue mi hanno semplicemente stravolto. Un leggero vento si alza ed un brivido mi attraversa il corpo. «Credo che stia per piovermi addosso» sospiro aggrottando la fronte verso le nuove nuvole all’orizzonte.
«Sei in strada?»
«Sono uscito a fare una passeggiata ma non ho preso un ombrello.»
«Ah, sei sempre il solito.» Torno verso casa mentre le raffiche aumentano. «Sbrigati a tornare a casa, Magnus! Non vorrai ammalarti prima di lunedì!?» Riesco persino a ridere mentre sento una goccia ricadermi sul collo. Porca miseria!
«Non preoccuparti, lunedì sarò come nuovo.» Più o meno.
Faccio in tempo a salutarla prima di infilare il cellulare nella tasca e correre verso il portico. Stavolta non sono stato così fortunato e mi ritrovo le spalle completamente zuppe d’acqua. Anche il mio ultimo dio pare avermi abbandonato.

«Etciù!» Mia madre mi guarda dall’altra parte del tavolo ma non dice nulla. Tiro su con il naso e continuo a mangiare cercando di non badare alle successive occhiate.
Alla fine sono riusciti a tornare prima di cena ed ioho fatto in tempo ad asciugarmi e a fingere di non essere uscito con un cielo sbilenco, senza un ombrello, ed essermi così beccato un semi raffreddore. Non credo però mia madre abbia avuto bisogno di sentirmelo dire.
Rob sta parlando di un suo cugino ed onestamente non è un discorso che mi interessa molto, preferivo i bonsai. Mamma lo ascolta e risponde, ma quando mi lascio sfuggire l’ennesimo starnuto, la sento sospirare.
«Sei uscito senza ombrello e hai beccato un acquazzone. Giusto?»
«No» mento asciugandomi il naso con un fazzoletto. «Sono rimasto sul portico e forse ho preso freddo.»
Rob mi lancia un sorriso di intesa e poi guarda mamma che invece ha lo sguardo completamente nero. Brutto segno...
«Hai lasciato il fohn nel bagno invece di metterlo nel cassetto della camera e non dirmi che ti sei fatto una doccia perché il box è asciutto.»
«Beh, l’ho asciugato...» Riduco in poltiglia le patate.
«Magnus.» Oddio, ma quanto posso essere imbranato? Ma come faccio ad essere realmente un detective?! Inizio ad avere qualche dubbio perfino io.
«Ho fatto una passeggiata fino al parco.» Confesso mangiando il timballo di zucchine al sesamo. «Non potevo immaginare che sarebbe diluviato.»
«Per questo avresti dovuto portarti un ombrello.»
«Oh, andiamo Emelie, può capitare.»
«E tu non difenderlo solo perché sei uno smemorato come lui, Rob.» Rob incassa e torna a mangiare silente il suo di timballo. Ci scambiamo un’occhiata di reciproca comprensione e non tentiamo più alcuna difesa. Sarebbe una partita persa in partenza.
Non finisco la cena perché ho solo voglia di buttarmi a letto. Credo che stasera invece degli antidolorifici mi toccherà prendere un antistaminico.

Mando giù la pillola con un sorso d’acqua e poggio il bicchiere sul comodino.
«Grazie, mamma.» Trent’anni ed ancora mi devo far rimboccare le coperte da mia madre. Credevo di aver raggiunto il picco dell’essere patetico a quel dannato molo 16. Devo ricredermi.
«Dammi la mano.» Mia madre mi ha cambiato la fasciatura due volte al giorno e ormai non mi fa quasi più male. Erano davvero poche escoriazioni e quest’ultima fasciatura è solo per sicurezza, ha detto lei. “Potrebbe comunque infettarsi. Per fortuna il tuo collega l’ha pulita bene.” Il nodo che mi è sceso allo stomaco devo ancora digerirlo.
Quando la fasciatura è completa, poggia la benda avanzata sul comodino e mi guarda con un’espressione che conosco fin troppo bene.
«Sono stanco.» Cerco di evitarlo ancora, ma stasera credo sia più difficile del previsto.
«Cos’è che ti fa stare così male, Magnus?» Mi passo le dita sugli occhi e mi appoggio contro la testiera del letto.
«Mamma, ti ho già detto che non voglio parlarne. Per favore, non insistere.»
«Non puoi chiedermi di ignorare quello sguardo che ti vedo da quando sei qui.»
Sospiro. «Quale sguardo?»
Mi scruta senza dire nulla e poi mi riprende la mano fra le sue.
«Tesoro, tu sei un uomo ormai e sei un agente di polizia, e so bene quanto questo pesi sul tuo orgoglio - in fondo sei figlio di tuo padre.» Un sorriso le piega le labbra ed una morsa afferra la mia gola. «Non pretendo che mi racconti la tua vita, voglio solo che tu capisca che qualunque cosa ti stia facendo male, devi tirarla fuori. Non puoi continuare a startene nel tuo guscio e a nasconderti dietro quei sorrisi. Non ti fa bene.» Le sue dita si stringono con forza attorno alla mia mano ed io abbasso lo sguardo sulla fascia bianca che copre la mia pelle. «Chi ha tolto il sonno al mio bambino, eh?» Gli occhi saettano sul suo viso. Ancora non mi capacito di quanto possa conoscermi bene, forse meglio di me stesso.
Mi mordo un labbro e tentenno ma alla fine la mia lingua si muove senza che possa impedirlo. «Mi sento uno straccio.» Questo sì che è essere veri uomini, Magnus!
«La donna misteriosa?» Corretta la seconda, totalmente sbagliata la prima. Annuisco comunque. «Non so cosa fare» sospiro. «Non ho mai provato una cosa simile.» Vedo un sorriso piegarle gli angoli della bocca e i suoi occhi addolcirsi più di prima, se mai fosse possibile.
«È questo che ti spaventa, tesoro?» La sua voce mi accarezza come la sua stessa mano fa sul mio viso. Scuoto la testa.
«Non lo so. So solo che non dovrei provarlo! Non è giusto! Non è... giusto.» Le parole sfumano perché sentirle a voce alta suonano atroci. Vere ed atroci.
Non è giusto. Non dovrei provare questo sentimento per Eric e i perché sono troppo numerosi per elencarli tutti.  
«Che vuol dire che non dovresti, Magnus? L’amore non è fatto di dovere o di potere. È fatto di emozioni che non puoi governare con la volontà.»
«Non è amore!» Sento le guance in fiamme. No, non è amore. L’amore è un’altra cosa. Lo so bene perché l’ho provato in passato.
L’ho provato?
«E cos’è, un'attrazione?»
«Oddio, mamma, ti prego!» Tiro via la mano mentre mi sistemo imbarazzato sul letto.
«Ok, come vuoi, chiamiamolo “interesse”. Va bene “interesse”?» Amore? Attrazione? Interesse? Cambia la forma ma non la sostanza.
«No, non chiamiamolo proprio! Non voglio più parlarne.» Mi metto sulla difensiva con tanto di espressione accigliata a seguito. Sono davvero un moccioso. Se potessi mi prenderei a schiaffi da solo!
Mamma trattiene a stento un sorriso divertito, sì divertito. Lei non può realmente capire cosa provi e probabilmente crede sia solo una classica e banale cotta. Forse lo è, forse è solo una cotta, forse passerà, forse basterà non pensarci può è tutto si risolverà come per magia!
Sarebbe bello, peccato abbia smesso di credere alla magia ormai da anni.
«Perché ti fa paura quello che provi per questa persona?» Non demorde e nonostante il mio mutismo la vedo guardarmi con l'espressione di chi spera, anzi, si aspetta una risposta.
Perché è un uomo! Vorrei rispondere, ma so già che sarebbe solo un madornale sbaglio.
«Non è il mio tipo.» Alla fine cedo, ma limito i danni con quella frase che però non sembra avere l’effetto desiderato.
Mamma alza un sopracciglio e quasi mi sembra di guardarmi in uno specchio.
«Tutto qui? È una questione di estetica? Non è carina?» Sembra sconcertata.
«No! Cioè, voglio dire...» Cerco le parole meno scorrette, «È di bell’aspetto, anzi, è davvero di bell’aspetto...» Il mio cuore galoppa mentre vedo il viso di Eric fare capolino fra i miei pensieri. Il suo sorriso, il suono della sua risata, e carina mi sembra solo un insulto. «Solo che non è il mio tipo abituale.» Tipo abituale? Alle mie stesse orecchie suona proprio insensato. Lei deve pensare più o meno lo stesso perché continua a guardarmi attonita.
«Magnus, può capitare di essere attratti da qualche donna diversa dal solito. Non dovrebbe essere un reale problema.» È questo il problema reale, mamma: non è una donna!
«Per me lo è» sussurro appena distogliendo lo sguardo. Mi sento terribilmente a disagio a parlarle di questo perché, semplicemente, non è così che vorrei parlarle. Vorrei usare pronomi corretti e pronunciare ad alta voce il suo nome, ma il fatto che non possa farlo dice abbastanza del perché questa sia una situazione totalmente insostenibile.
«Cosa ti piace di lei?» Mi passo una mano sul viso. Non può chiedermelo davvero.... «Avanti, non sarà il tuo tipo ma ci deve essere qualcosa che ti piace, altrimenti non staresti così.» La semplicità della questione è spaventosa. Tipo o no, uomo o donna, Eric mi piace.
Cosa? Quasi risponderei "tutto"!
«È affascinante.» Inizio con un tono appena più alto di un sospiro. Mi ritrovo a sorridere fra l’imbarazzato e il disperato mentre nella testa partono in veloce successione mille dettagli di lui, mille batticuori, mille lacrime. «È... È gentile, molto gentile, ed anche se non parla molto sa ascoltare.» Continuo a sorridere e quasi mi sento uno sciocco. Sì, Eric sa ascoltare, sono io che dico le frasi sbagliate.
«Deve essere una bella persona allora.»
Annuisco. «Lo è. È una persona meravigliosa.» Ed io non sono capace di accettarlo – di accettarmi. Il sorriso sfuma e gli occhi bruciano. No, non posso sprofondare ora nell’autocommiserazione.
«Magnus?» Mia madre si accorge del velo scuro che mi ha coperto lo sguardo e le sorrido solo per impedirle di vedere anche quello che copre il mio cuore, ma è abbastanza palese che l’ha già visto bene altrimenti non staremo qui a parlarne.
«Vorrei solo cancellare quello che provo.»
«Oh, tesoro.» Un’altra carezza mi sfiora il viso e stavolta afferro la mano di mia madre e la trattengo con disperato bisogno. «A volte è difficile accettare di provare qualcosa per qualcuno che non ci aspettavamo, ma cancellarlo è impossibile.» E purtroppo me ne sto rendendo conto. Sospiro e vorrei solo chiudere gli occhi e svegliarmi un mese indietro. «Dimmi una cosa, Magnus, lei ricambia i tuoi sentimenti?» È la domanda che mi sono fatto dopo quel dannato bacio, dopo quel suo “Perché mi andava” ma la risposta non l’ho ancora voluta udire.
Parlare con mia madre mi sembra l’ennesimo dibattito interiore che sto vivendo da tempo, ma stavolta le domande hanno forza e suono, stavolta alle risposte non posso sfuggire.
«Forse.»
«È un forse sì, o un forse no?» Mi viene da sorridere alla sua espressione incuriosita.
«Un forse sì» ammetto nel imbarazzo che mi avvolge il viso. Non ci credo, l’ho detto!
«E allora di che hai paura?»
Respiro a fondo e scuoto la testa. «Oh, mamma, vorrei...» Vorrei potertelo dire, ma ti ferirei. Non voglio ferire anche te. «Vorrei che fosse solo più semplice. Tutto qui.»
«Non lo è mai, Magnus.» I suoi occhi sono lucidi e mi sento stringere il petto. In quel breve sospiro tutto un dolore che non ho mai veramente compreso.
«Mamma...» Le accarezzo la mano e mi sorride.
«Lo sai, ho conosciuto tuo padre quando avevo appena 18 anni. Io ero una giovane matricola e lui un promettente studente di legge con un futuro brillante all’orizzonte.» La storia la conosco: “Era bello e carismatico e poteva avere tutte le ragazze, ma scelse me.” «Aveva tutto ciò che avevo sempre cercato in un uomo: bellezza, eleganza, modi garbati. Sembrava perfetto, noi sembravamo perfetti, avrebbe dovuto essere una vita perfetta, ed invece... L’unica cosa perfetta sei stato tu.» Mi sfiora il viso dolcemente. «Il resto era solo una facciata dorata e tu purtroppo lo sai bene.» Mi ritrovo a mandare giù ricordi grigi, ricordi di litigate che venivano dal piano di sotto, ricordi di cuscini premuti sulle orecchie e lacrime contro mani tremanti. Ricordi di colpe mai meritate.
«Perché mi stai dicendo questo?»
«Perché voglio che tu capisca che non sempre la perfezione è sinonimo di felicità. Alle volte, la cosa più imperfetta, quella che ci sembra la più sbagliata, è l’unica in grado di darci un po’ di serenità, di darci quello di cui abbiamo realmente bisogno.» Mi sento sempre più piccolo e avrei solo voglia di sotterrarmi nel piumone. «Robert ha impiegato mesi prima che mi decidessi a dargli una possibilità, perché avevo i tuoi stessi dubbi. Non mi sembrava l’uomo adatto a me. Lo vedi, no? È l’opposto di tuo padre. Non è alto, non è bello-»
«Mamma!» Mi sento a disagio nel sentirle dire certe cose perché è ciò che ho pensato quando l’ho visto per la prima volta. Un nanerottolo con pochi capelli ed un’imbarazzante risata che somigliava al grugnito di un maiale. “Non è come papa!” Ancora non avevo capito quanto questo fosse un bene.
«È la verità, Magnus. Rob è totalmente l’opposto dell’uomo che avrei voluto accanto, ma di certo è l’unico che sia capace di farmi sentire amata e protetta.»
«Per me è un po’ diverso.» Purtroppo c’è qualche dettaglio di fondamentale importanza nella situazione e mi imbarazza anche solo pensarci.
«Oh, quanto può esserlo?!» Mi sorride ancora. «Avanti, tesoro, guardati! Sei innamorato di qualcuno che ricambia i tuoi sentimenti e ti stai struggendo solo perché non è il tuo tipo! Ma ti sembra sensato?» Certo, messa così sembra insensato anche a me, ma come posso ignorare che Eric è un uomo? Non ho mai avuto simili inclinazioni e non capisco perché dovrei iniziare ora. Mi chiedo se davvero sia questa la verità. Se Eric fosse stato una donna, ci avrei provato? Avrei avuto gli stessi timori e le stesse insicurezze? Probabilmente no, eppure è un dubbio che non riesco a togliermi. Mai nessuna donna mi ha rapito come ha fatto lui. Mai nessuno.
Non ci sono mai stati occhi tanto azzurri da offuscarmi i pensieri ogni notte. Nessuna voce mi è risuonata prima nel petto e poi nelle orecchie ogni volta che ne avevo il ricordo. Nessuna passione mi ha tolto il fiato come la gentilezza dei suoi piccoli gesti. Mai nessuno come Eric e credo che mai ci sarà.   
«Che dovrei fare?» Eppure conosco la risposta.
«Dimentica gli occhi e guarda solo con questo.» Mi poggia una mano sul cuore e mi sorride dolcemente. Lo sento battere forte.
«E se si sbagliasse?» E se non ne avessi il coraggio? Ho paura...
Picchietta con decisione le dita sul mio petto. «Tu ascoltalo e smettila di farti domande.»
Forse... potrei.

















Continua...






NdA.
Scusate il ritardo, è appena iniziato un altro periodo “incasinata fino all’ultimo riccio” per cui latiterò per un po’.
Non prometto più aggiornamenti settimanali ma tenterò ugualmente di non lasciarvi a bocca asciutta per tempi indecenti, diciamo sulla decina di giorni. Ok?
Non uccidetemi, ci sta già pensando la mia vita, e a confronto quella di Magnus mi sembra davvero un paradiso...
Un bacio a tutte ed un grazie ipermegasuper ^^
kiss kiss Chiara

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Capitolo 16
*** Un passo avanti (forse due) ***


16. Un passo avanti (forse due)
Detective Martinsson



XVI. Un passo avanti (forse due)



«Sicuro che non puoi restare ancora un giorno?»
«Mi piacerebbe Rob, ma ho qualche faccenda da sistemare e domani rientro a lavoro.» Mamma sorride tronfia ed io evito di doverle mostrare l’imbarazzo che porto dentro perché, dannazione, come posso essere ancora così imbranato da aver bisogno dei suoi consigli per tirarmi fuori dagli ingarbugli in cui mi sono ficcato da solo? «Tornerò a Natale. Promesso.» Rob mi dà una pacca sulla spalla ed annuisce, mamma continua a guardarmi sorridente.
«Telefona quando arrivi e fammi sapere come finisce.» L’abbraccio forte e sospiro un OK sconfitto.
«Come finisce "cosa"?» Rob ha lo sguardo confuso.
«Non sono affari tuoi.» Lo zittisce lei mentre mi sistemo la sacca sulla spalla.
«Non sono mai affari miei.» Mette il broncio ma ormai lo conosciamo bene tutti e due da limitarci a sorridere. Rob è un tipo in gamba, mamma è stata fortunata.
«Grazie per l’ospitalità.»
«Oh, piantala! Questa è casa tua!» Mi sembra di ritornare al primo giorno d’accademia. Mamma alla stazione con le lacrime agli occhi, solo che stavolta non c’è papà a guardarmi altero e a intimarmi di farmi onore. Onore, una parola davvero sopravvalutata.
L’altoparlante annuncia l’arrivo del mio treno e guardo verso le rotaie ancora sgombre.
«Hai preso tutto?»
«Sì.»
«I vestiti? Lo spazzolino? La pistola?» Le faccio segno di abbassare la voce. Mi guardo intorno ma nessuno l’ha sentita. Che diamine, ci manca solo che mi prendano per un terrorista!
«Ho preso tutto, sta’ tranquilla.» Sospira ed annuisce. Il fischio del treno intanto anticipa il suo arrivo.
«Fa’ buon viaggio, ragazzo.»
«Grazie, Rob.» Quando salgo sulla carrozza, quasi posso giurare di aver visto luccicare anche i suoi piccoli occhi castani.
 
Stavolta sono stato più fortunato, il vagone è semi vuoto. È un bene, stavolta è un bene.
Ho bisogno di un po’ di solitudine. Mamma mi ha tartassato dopo la nostra chiacchierata e mi ha riempito di fin troppi consigli. “Un invito a cena è ottimo per iniziare o magari un cinema.” Dubito fortemente che sarei in grado di proporre sia l’uno che l’altro ad Eric. Il solo pensiero mi fa rabbrividire. Ho solo bisogno di parlargli, di liberarmi da questi tarli e dirgli la verità.
Hanno detto che devo ascoltare e vedere con il cuore? Bene, ho deciso di chiudere occhi e orecchie, ed anche un po’ di cervello, in fondo è lui che mi ha causato più problemi.
Mentre Tomelilla si allontana, sento l’ansia nuotare nello stomaco e strofino le mani fra di loro con un profondo sospiro. Non ho più fasciature, non ho più lividi. Ho solo qualche taglio nell’orgoglio, ma credo che per quello ci vorrà un po’ più di tempo.
Oggi è domenica e domani riprenderò a lavorare. Non ho sentito più Lisa né Anne-Britt e voglio che mi ritrovino in forma. Lo sono, mi sento in forma. Ho ancora qualche dubbio, non lo nego, ma sono arrivato alla conclusione che scappare non mi porterà a nulla. Devo affrontare la cosa, affrontare le mie paure, affrontare Eric.
Rivedere i suoi occhi non so qualche effetto avrà su di me. Temo che la mia sicurezza possa sparire e che tutti i progressi fatti si rivelino inutili, ma non posso continuare a torturarmi con ipotesi e pessimismi. Devo agire, se devo farmi del male, voglio vedere il sangue sulla pelle. Non voglio più nascondermi dai miei stessi sentimenti. Voglio accettarli, voglio viverli - perlomeno provarci.
Il treno corre spedito e lentamente vedo disegnarsi una sagoma familiare. Ho i palmi sudati e li asciugo sui jeans. Respiro ancora mentre guardo fuori dal finestrino. Oggi c’è il sole, sembra che non ci sia più alcun acquazzone ad attendermi dietro l’angolo.
Siamo in arrivo a Ystad.” Gracchia l’altoparlante della carrozza. Mi ritrovo a fissarlo e inghiotto. Un nuovo respiro.
Posso farcela.
Il cuore batte forte.
Puoi farcela.
Il treno si ferma. Afferro la borsa e scendo.
Nella tasca, il biglietto del parcheggio. Raggiungo la Volvo e getto la sacca sul sedile del passeggero. Quando accendo il motore, sorrido nel sentire di nuovo sotto le dita la pelle del volante, il freddo del cambio. Stavolta niente guide dolorose, stavolta si va liscio e senza intoppi. Le lascio il tempo di riscaldarsi e mi guardo le mani: non tremano più.

Rivedere il mio appartamento mi ha fatto uno strano effetto, eppure non è che una manciata di giorni da quando l’ho lasciato. È spento, buio, freddo. Non mi piace.
Apro le tende il più possibile e lascio che i raggi del sole filtrino generosi nel soggiorno. Altrettanto faccio con la camera e la cucina.
Mi dico che devo cambiare arredamento, devo comprare qualche quadro, qualche stupidaggine da poggiare qui e lì. Potrei andare da Larsson e trovare qualcosa a buon prezzo. Quel pensiero mi riporta a Gambero, al furto Fustern. L’ho accantonato per tutto il tempo e mi chiedo se Anne-Britt abbia fatto qualche progresso. Dovrei chiamarla, forse potrei farlo, ma è domenica e lei sarà a casa con i suoi bambini. Glielo chiederò domani. Il lavoro a domani, per oggi ho altre questioni da risolvere.

Il deserto che regna nel mio frigo mi obbliga a recarmi nell’unico supermercato aperto per comprare almeno il pranzo. A stomaco vuoto non si ragiona bene, ormai l’ho imparato. E dopo essere stato viziato da mia madre in questi giorni, non riuscirei ad arrangiarmi con roba precotta. Voglio cucinare come si deve e trovare la forza anche fisica per affrontare la mia vera battaglia!
Sei il solito melodrammatico...
Sorrido di me, mentre le porte automatiche si aprono.
Una musichetta risuona nell’aria e mi stringo nella giacca per via della temperatura fredda del locale. Prendo un carrello e sono deciso a fare una spesa degna di questo nome. Ci sono pochi clienti, giusto qualche single come me – credo  e mamme in cerca di qualcosa all’ultimo minuto.
Dopo i primi due scaffali, ho quasi riempito per metà il carrello. Il mio portafoglio alla fine della corsa credo piangerà parecchio. Meglio lui che lo stomaco.
Sto per svoltare nel reparto surgelati quando per poco il cuore non mi arriva in gola. Fermo a scrutare attentamente una busta di minestrone c’è lui: Eric Huntsman.
Che ci fa qui?
Ritiro il carrello e mi nascondo dietro allo scaffale dei legumi in scatola.
Non può succedere per davvero! Sono cose da film! Sono quegli stupidi cliché da commediola da quattro soldi! Non posso incontrarlo proprio qui! Non ora!
Come temevo tutta la sicurezza sparisce.
No, non posso parlargli, non so che dirgli! Cosa potrei dire di importante davanti ad un’intera sfilza di pizze precotte congelate?
La situazione si sta colorando di grottesco.
Una signora che mi passa accanto mi lancia un’occhiata stranita. Devo avere un’espressione assurda sulla faccia.
Controllo, controllo. Basta aspettare che se ne vada.
Mi affaccio di poco ma Eric è ancora li, stavolta con le mani impegnate a rigirare quella che sembra una busta di spinaci.
Buttala nel carrello e vai alla cassa!
Torno nel mio rifugio e cerco di respirare con regolarità.
Perché a parole è tutto così semplice? Perché, invece, quando ti trovi davanti ai fatti è come scalare una montagna a mani nude?
Lo guardo di nuovo. Indossa il suo giaccone verde mirto su un paio di jeans chiari ed ha i capelli raccolti solo per metà ed un paio di ciocche libere gli sfiorano il viso. Non li ho mai visti legati in quel modo ma non posso negare che stia dannatamente bene anche così. I suoi capelli che profumano di mandarino...
Posa la busta e ne prende un’altra. Mi mordo un labbro agitato.
Che posso fare? Cosa avrà fatto in questi giorni? Avrà mai pensato a quello che è successo quella mattina? E se non l’avesse fatto? E se invece si fosse buttato tutto alle spalle non appena ho chiuso quella porta? E se tutta la fatica di questi giorni fosse stata inutile ed io stessi realmente inseguendo una chimera?
"Smettila di farti domande."
Mamma, sono solo un perdente.
Sto per perdere di nuovo lucidità e controllo in una feroce paura quando un’anziana donna mi si avvicina.
«Scusi, giovanotto, potrebbe prendermi quella confezione lassù?» Cerco di tornare in me e guardo verso l’ultimo scaffale in alto.
«Certo.» L’afferro e gliela porgo.
«Grazie mille.» Rispondo al suo sorriso e la guardo sparire verso il banco frigo.
Il carrello cigola.
Non può essere!
Uno, due, tre: Eric si volta ed io gelo.
Smetto di respirare, smetto di pensare, smetto di esistere.
«Ehi.» La sua voce, i suoi occhi.
Oh, Eric...
«Ehi!» Finalmente getta la busta nel carrello - troppo tardi, purtroppo.
Stringo forte l’impugnatura rossa d’acciaio e cerco di non mostrare alcuna agitazione. «Fai compere?» Mi sento un completo idiota. Dopo tutto quello che è successo, dopo tutti i discorsi fatti ed ascoltati, dopo le lacrime, dopo la rabbia, dopo le promesse con me stesso mi ritrovo a chiedergli se fa compere?
Cosa vuoi che faccia in un supermercato?
«Ogni tanto.» Il suo sorriso mi strappa via ogni pensiero. L’ho rivisto ogni notte quando chiudevo le palpebre eppure mi sembra di vederlo per la prima volta. Mia madre ha ragione, questo sentimento ha un nome corretto, molto corretto, peccato io faccia così tanta fatica a dirlo ad alta voce. «Come stai?» Il suo tono è quasi piatto eppure intuisco una nota di sincera gentilezza.
«Bene.» Sospiro e stavolta credo di esser sincero anch’io. Sì, sto bene. Ora sto bene, con i suoi occhi su di me, con le sue labbra che mi sorridono. Sto bene. «Io dovrei scusarmi per quello che è successo quella mattina.» La situazione è la più sbagliata, questa musichetta pop è inopportuna, l’aria gelida che sale dai frigoriferi è la cosa più fastidiosa di questo mondo. Gli scatoli di cereali che sommergono il mio carrello e le sue buste di minestrone e spinaci, sono l’ultima cosa di cui ho bisogno per sentirmi a mio agio, eppure le parole escono da sole. Non ci sono le vecchiette che mi chiedono di passare, non ci sono i commessi con il camice rosso che sistemano la merce, non c’è lo sconto 3x2 attaccato alla mia destra. C’è solo Eric, ci sono io e c’è la voglia di non scappare più.
«Non devi. Non ce n’è bisogno.»
«Invece sì. Tu sei stato gentile e così disponibile con me ed invece io ti ho trattato come non avrei dovuto. Sono stato un vero idiota. Avevi ragione!» ridacchio nervosamente e abbasso lo sguardo al carrello. Dignità? In questo momento decisamente superflua.
«Ho parlato con una donna.» Rialzo lo sguardo. Eric ha in mano una confezione di funghi che però rimette a posto. «È venuta a farmi qualche domanda sulla Fustern.» Riporta i suoi occhi sui miei.
«Anne-Britt» sospiro più che altro a me stesso. Perché l’ha fatto? In fondo le avevo detto che Eric non c’entrava.
«Non ricordo il suo nome, ma le ho detto che avevo già parlato con te e che se voleva sapere qualcosa doveva semplicemente chiedertelo.» Immagino la reazione di Anne-Britt ai modi di Eric. Purtroppo l’impressione che dà a prima vista è totalmente diversa da come è in realtà. Ricordo la prima volta che gli parlai, credevo che mi avrebbe lanciato la sua accetta non appena avessi sbagliato ad aprire bocca. Mi viene da sorridere. Sembra una vita fa eppure sono solo settimane. Come posso essere cambiato così drasticamente in così poco tempo? Come può il mio cuore essere mutato così?
Come hai fatto, Eric?
«Lei si è occupata temporaneamente dei miei casi. Sono stato fuori servizio per qualche giorno.»
«A me ha detto che eri impegnato in un caso importante.» Sorride ancora alzando un sopracciglio ed io mi mordo le labbra stupidamente. Anne-Britt mi ha coperto egregiamente ed io mi sono sputtanato al volo. Ah, mi era mancato sentirmi così ridicolo davanti agli occhi di Eric...
«È una buona collega ed una cara amica.» Lui annuisce e torna a guardare il suo carrello. Vorrei dirgli mille cose ma in questo momento non ho parole per nessuna di esse. «Oggi non lavori?»
«È domenica.»
«Oh, certo!» Mi gratto la fronte e cerco di non diventare ancora più rosso.
«La tua mano?» Le do un occhio e la ruoto stringendo e rilasciando le dita.
«Sta bene anche lei, anzi, ancora grazie per... ehm... Le tue cure, cioè, per quello che hai fatto, io... Non so, credo dovrei sdebitarmi in qualche modo.» Magari stando zitto ed evitandogli un’altra patetica cascata di parole a caso. Mi gratto anche la testa e ormai sono più che sicuro di avere i nervi impazziti.
«Magnus, puoi farmi un favore?» Chi, io? Sbatto le palpebre confuso ed annuisco.
«Certo.» Tutto quello che vuoi!
Eric si bagna le labbra e sorride con una strana espressione. Tremito al ginocchio destro. «Potresti smetterla di ringraziarmi e di scusarti?» Mi ritrovo a ridacchiare colpevole e sono costretto a scostare lo sguardo sull’ordinata file di zuppe di farro. Ah, dovrei prenderne un paio!
È questo che mi attrae e spaventa di lui, il modo in cui riesce a farmi sentire ogni volta. Allegro, terrorizzato, imbarazzato, sorpreso, stupido, buffo, peggiore... migliore.
«Ci proverò» sospiro riuscendo a sollevare appena gli occhi su di lui.
«Bene.»
«Bene» ripeto con un leggero sussurro. Il suo sorriso allarga il mio e torno a ridacchiare passandomi una mano sul collo. Penserà che gli sto ridendo in faccia! «Scusami.»
«Ah, perfetto!» Non riesco a controllare questa risata nervosa e quasi contagio anche lui. Mi sento totalmente idiota, ma un idiota stranamente felice. Ero così spaventato dall’idea di rivederlo che quasi mi sembra non sia reale questa situazione assurda e insensata ma semplicemente perfetta. Il supermercato, i carrelli, l’altoparlante che invita a recarsi al reparto frutteria per uno sconto sulle mele. La sua risata, la mia. Il mio imbarazzo, forse il suo. «Ti trovo bene.» Il riso sfuma ed annuisco.
«Sì.» Non era una domanda eppure dovevo rispondere. I suoi occhi sorridono al posto delle labbra e mi rendo conto solo ora che per Eric non sono così insignificante come ho creduto. È una breccia che mi spalanca letteralmente il cuore. «Anche tu stai bene...» passo inconsciamente le dita sull’impugnatura del carrello. Eric non dice nulla. Resta a guardarmi con un mezzo sorriso ed una sottile ciocca di capelli che gli taglia l’occhio destro. Mi mordo un labbro e sono costretto a spostare lo sguardo altrove. L’aria gelida dei frigoriferi adesso è una vera manna.
«Allora ci vediamo.» Saetto sul suo viso ed annuisco con vigore.
«Sì, certo! Ci vediamo.»  
«Ok.» Eric afferra il suo carrello.
«Ok...» Devo smetterla di ripetere tutto quello che dice come un cerebroleso. Mi regala una veloce alzata di sopracciglia e poi sparisce verso il reparto accanto. Quando non l’ho più nella mia visuale mi lascio andare ad un lungo sospiro ed alzo la testa in alto, verso le luci del locale, verso le serpentine di tubi e cavi, verso quel viso che è ancora fermo nei miei occhi.
Ho l’insano istinto di seguirlo, di vederlo mentre paga e carica le buste in auto, mentre guida verso casa e sistema tutto nel frigo, nella credenza. Voglio vederlo fare qualcosa che non sia distruggere la mia vita o salvarla. L’ho visto cenare, però, l’ho visto lavorare, l’ho visto riposare... L’ho visto sanguinare.
Mi lascio scappare un altro sospiro e stavolta i miei occhi si chiudono. In fondo, benché con lentezza, lo sto scoprendo, ed ogni scoperta accelera il mio battito.
«Scusi?» Torno alle realtà.
«Oh, mi scusi lei.» Sposto il carrello per permettere ad una mamma ed il suo bambino di passare.
«Grazie.» Le sorrido con un cenno della testa.
Meglio finirla con le fantasie e tornare a fare la spesa, magari Eric è già andato via.
Getto la busta di farro nel cumulo e vado al reparto carni.
No, Eric non è ancora andato via. È lì che parla con il ragazzo dietro al banco.
Dovrei girare i tacchi ed andarmene o povrei avvicinarmi e sospiragli ridacchiando un “Chi si rivede?!” A cui lui riderebbe. Forse.
Ma preferisco la prima e vado alla cassa. Ho già abbastanza scorte per non morire di fame per almeno una settimana ed ho fatto già abbastanza per alleggerirmi le spalle. Il cuore invece no, non ha alcun peso e sembra quasi mi libri nel petto.

Ho riempito credenza, frigo e congelatore. Sono stato però costretto ad infilare le buste di cereali sotto al lavandino; ne ho prese davvero troppe. Chiudo l’anta ed inizio a preparare il pranzo. La tivù parlotta ma la guardo con distrazione. Allo spot del deodorante al limone, neanche mi rendo conto di canticchiare la musica.
Non cammino, volo.
Quando getto i piatti e le padelle sporche nella lavastoviglie quasi sono fiero di me, sazio e fiero. Sono sicuro che anche mia madre lo sarebbe.
Vorrei chiamarla, vorrei dirle dell’incontro assurdo del supermercato, ma lei mi chiederebbe i dettagli. I dettagli sono ciò che rendono tutto più difficile. Sono quel femminile degli aggettivi, che mi fa toccare di nuovo terra.
Scelgo velocemente il programma di lavaggio ed avvio la macchina. Mi ritrovo ad accasciarmi sul divano con lo sguardo perso allo schermo.
Ripenso alle sue parole, al suo “Ti trovo bene”, alla luce del suo sguardo. “Ti trovo bene, sono contento”, era questa la frase completa ed io l’ho capita.
Mi passo una mano sul viso per nascondere il sorriso imbarazzante che ha piegato le mie labbra. Mi sembra di tornare indietro di quindici anni, quando bastava una sola parola, un solo sguardo ed era tutto. Ma poi ti accorgevi che no, non bastava, e lì c’erano gli ormoni che ti spingevo senza che potessi fare nulla. E come non bastava a quindici anni, non basta neanche ora, ma gli ormoni adesso li puoi controllare. Teoricamente.
Mi torturo le labbra fra i denti e vorrei fossero le sue ed è un colpo dritto in pancia. Prendo un profondo respiro e mi tiro indietro i capelli. Alla tivù, l’intervista al ministro dell’economia. Vedo la sua bocca muoversi ma non sento alcuna parola.
Voglio vederlo, voglio parlargli ancora. Non mi basta, non mi basta più.
Mi tiro a sedere e cerco di regolare il respiro. Ho già fatto un enorme passo avanti non posso correre il rischio di farne uno sbagliato. Ora sto bene, ho ritrovato uno pseudo equilibrio, domani tornerò al lavoro e devo farlo nel migliore dei modi. Per Eric ci sarà tempo, devo prendermi tempo. Ci siamo chiariti, è tutto chiarito. Niente grazie né scuse, lui me l’ha chiesto ed io lo farò.
La testa lo pensa, la lingua potrebbe anche ripeterlo e quasi me ne convincerei, ma il batticuore che risuona nel mio petto non vuole sentire ragioni, così come il sangue che pompa nei muscoli e mi obbliga a scattate in piedi, a camminare avanti e dietro, e stavolta non è più ansia, stavolta è diverso.
Afferro il telecomando e cambio canale alla ricerca di qualcosa che mi tenga il cervello impegnato, qualcosa che catturi la mia attenzione e la sposti da lì, da lui.
Telegiornale. Cambio.
Il profumo della sua pelle.
Film di guerra. Cambio.
Il suono della sua voce.
Pubblicità. Cambio.
Le sue mani sulle mie.
Il cuore accelera.
Programma di cucina. Alzo il volume.
La sua bocca sulla mia.
Lo stomaco si contorce ed il salmone alla francese non ne è il motivo.
Poggio entrambe le mani sullo schienale del divano e stringo con forza la stoffa calda.
No, non posso farlo. Sono le due del pomeriggio di domenica. Non posso andare a casa sua e bussare alla sua porta.
“Che ci fai qui?” mi chiederebbe ed io non saprei rispondere. Resterei lì imbambolato a lasciare che la mia faccia parli di imbarazzo e paura e non potrei chiedergli neanche scusa.
Ho bisogno di aria.
Mi infilo in auto e mi ritrovo al porto. È calmo e silenzioso. In lontananza il suono di una sirena, marinai, i soliti, che passeggiano rapidi. Parcheggio davanti al ristorante in cui mi fermai quel giorno a mangiare gli spaghetti, mi sono detto che sarei dovuto tornare, ma non oggi, per fortuna ho già pranzato. C’è una leggera brezza piacevole che mi scompiglia i capelli e mi fa restare con le mani nelle tasche a fissare le acque chiare. Qualche nube macchia il cielo ma siamo lontani dall’acquazzone di Tomelilla. L’aria è gradevole, forse sarà una delle ultime giornale di tiepido autunno.
Prendo a camminare sulla passerella e scalcio una piccola pietra che mi compare davanti. Magari fosse altrettanto facile scalciare via dubbi e pensieri. Perché ci sono, diversi, nuovi, vecchi, e fanno sempre tutti paura. Stavolta non ci sarà mia madre, non può esserci. Stavolta ci sono i brividi sulla pelle quando penso alla sua, c’è la bocca che si asciuga al desiderio di perdersi in quella di Eric. C’è un corpo che reagisce d’impulso ad un cuore che urla.
Ci sono io, Magnus Martinsson, e nessun distintivo da mostrare.
Alla mia sinistra scorgo l’insegna di una gelateria. C’è un po’ di movimento, qualche coppietta che si tiene per mano, un gruppo di ragazzini, genitori e figli, ma la mia attenzione si focalizza su un piccolo tavolino tondo. Seduto stancamente, con una coppa di gelato praticamente integra c’è Kurt. Sguardo pensieroso e cucchiaio che affonda meccanicamente nella crema ma al solo scopo di ferirla. Di fronte a lui, un’altra coppa di gelato a metà ed una sedia vuota.
Non pensavo di rivederlo prima di domani.
Mi avvicino e, quando lo affianco, alza lo sguardo su di me.
«Magnus!» Cos’è, un sorriso? Non credo di averne mai visto uno più strascinato.
«Ciao, Kurt.» Il mio è una semplice tirata di labbra. «Ti ho visto seduto qui e ho pensato di disturbarti.»
«Siediti.» Mi fa un cenno con la testa ed io riempio quel posto vuoto di fronte. «Pensavo fossi a Tomelilla.»
«Sono tornato questa mattina.» Lo sguardo di Kurt ha sempre uno strano alone. Non sono mai stato in grado di definirlo: triste, profondo, perso. Sconfitto.
Probabilmente sbaglio su tutte.
«Eri con Linda?» azzardo e lui annuisce tornando a deturpare con la punta d’acciaio la coppa di gelato.
«Ha ricevuto una telefonata ed è dovuta andare via.»
«Come sta?»
«Bene. Lei sta bene.» Ma tu no. Stavolta però preferisco tacere. Vago con lo sguardo in giro, al tavolino accanto, due fidanzati che sorridono e parlano a bassa voce. Un’immagine che mi provoca opposti sentimenti.
«Come vanno le indagini?» chiedo e non serve specificare quali.
Kurt mi osserva in silenzio per qualche attimo, poi lascia affondare il cucchiaio nella crema e si porta una mano alla giaccia. Dall’interno sinistro tira fuori una busta di plastica.
«L’ho trovata sul parabrezza della mia auto due giorni fa.» Aggrotto la fronte e l’afferro quando me la porge. Al suo interno un foglio con qualche riga scritta a mano. Una calligrafia ordinata e pulita, raffinata, azzarderei dire.
Faccio scorrere gli occhi sul suo contenuto ed inghiotto un certo disagio.

















Continua...






NdA.
Magnus è tornato a Ystad e pare che le cose si siano un po’ evolute, soprattutto sotto la cintura dei suoi pantaloni. Ok, questa era pietosa >///>
Come al solito grazie per l’affetto con cui seguite questa storia. Siete davvero FANTASTICHE! TUTTE! (invece io sono pessima perché creo inutili allarmismi -///- forgive me!)
Che ci sarà scritto nella lettera di Kurt? Eh... segreto!
kiss kiss Chiara

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Capitolo 17
*** Lì, chiuso in un cassetto ***


17. Lì, chiuso in un cassetto
Detective Martinsson



XVII. Lì, chiuso in un cassetto



“Perciò Dio li ha lasciati in balia dei desideri sfrenati dei loro cuori, fino all’immondezza che è consistita nel disonorare il loro corpo tra di loro.
Ugualmente gli uomini, lasciato il rapporto naturale con la donna, bruciarono di desiderio gli uni verso gli altri, compiendo turpitudini, uomini con uomini, ricevendo in se stessi la ricompensa debita della loro aberrazione.

Leggo più volte ed ogni parola colpisce lo stomaco. Mi sento cadere sulle spalle un peso fastidioso, mi copre il cuore e la testa, mi fa sentire piccolo e terribilmente inappropriato. Scuoto la testa per scacciare pensieri poco salutari e mi rivolgo a Kurt.
«Che significa?»
«Sono passi della bibbia, di San Paolo.» Avevo intuito una cosa simile. Leggo ancora le inquietanti frasi e poi gli restituisco la lettera. Non voglio vederla ancora.
«Potrebbe essere uno scherzo di cattivo gusto?» Lui scuote la testa mentre ripone la busta nella giaccia.
«Anche Lisa lo pensa ma... Non lo so. Credo che qualcuno voglia dirmi qualcosa.» Assottiglio lo sguardo e cerco di leggere nel suo.
«Chi? »
«Qualcuno che sa.» Non riesco ad afferrare il suo discorso forse perché sono esageratamente scosso dal turbine di inquietudine che quelle parole hanno provocato nel mio petto. «Parliamo di un prete ucciso davanti ad una chiesa. Un prete che aveva una relazione con un seminarista dieci anni più giovane. E poi questa lettera: passi della bibbia. È tutto collegato, non è un semplice scherzo.» Respiro a fondo e guardo il gelato a metà di Linda.
«Kurt, perché lo stai dicendo a me? Io non sono nella squadra.» Vomito una certa amarezza. Non ci sono perché tu non mi hai voluto.
I suoi occhi stanchi mi studiano e poi si spostano alle onde leggermente agitate dal vento che cresce di minuto in minuto.
«Hai ragione, scusami. Volevo solo un tuo parere.»
Ingoio altro fastidio. Vorrei chiedergli perché non lo ha chiesto prima, perché ora il mio parere ha valore, ora che sono stato perfino messo a riposo forzato, ora che ho la vita incasinata da qualsiasi angolazione la si guardi. Ora, lui ha bisogno del mio parere.
Prendo un respiro e mi dico di non essere infantile. Un buon detective, devo essere questo.
«La faccenda della relazione è stata resa pubblica?» Non ho seguito i tg, non mi importava, avevo altro a cui pensare.
«No, certo. Il vescovo Karlberg ha chiesto massima discrezione ed è quello che cerchiamo di fare, e perciò, Magnus, credo che questa lettera non sia un semplice scherzo!» Kurt mette davvero il cuore nelle sue indagini, per un certo verso si lascia trascinare anche troppo. Non riesce a tenere il distacco, molte volte mi sono chiesto se non sia un pericolo. Ma lui è il migliore di Ystad, forse per essere il migliore bisogna anche correre dei pericoli.
«Come fai ad essere sicuro che la cosa non sia comunque trapelata in qualche modo?» La nomea di “boccaccia” sarà anche mia, ma di certo sono altri quelli che non hanno la decenza né la professionalità di far rimanere le indagini riservate tali.
«Ystad è una cittadina, se si fosse saputo in giro sarebbe già sulla bocca di tutti. No, nessuno sa nulla, a parte la persona che ha scritto questo biglietto.»
«Nessuna impronta?» Scuote la testa ed io annuisco con la mia. Il caso che ho bramato tanto è qui davanti a me, eppure ho solo voglia di girare la faccia dall’altra parte. «Come hai scoperto della loro storia?» Prima avrei trovato curiosa, al massimo strana una tale scoperta, adesso la sento toccarmi troppo da vicino. Porgo la domanda ma temo qualsiasi risposta.
«Abbiamo trovato delle lettere nella stanza di Padre Phil. Lettere da parte di un certo François. Il loro contenuto era alquanto eloquente.» Mi bagno le labbra secche. Eloquente. Perché quell’aggettivo mi ha fatto rabbrividire? «Magnus,» Kurt ha lo sguardo fisso al mare, la solita venatura pensierosa, stanca, gli attraversa le iridi. «Se non sei stato inserito nella squadra è solo perché credevo che volessi dei casi di cui occuparti in prima persona. Di te mi fido come nessun altro, lo sai. Non si trattava di escluderti... ma di…» Non trova le parole ma credo di averle capite. Ho stressato tutti perché riconoscessero il mio vero valore. Non volevo essere un semplice poliziotto delle retrovie, volevo essere un detective. Un eccesso di arroganza, forse, magari solo la voglia di sentirsi realmente apprezzato. Non riesco a trovare intenzioni diverse in Kurt. La mia esclusione me la solo semplicemente chiamata.
Mi rendo conto solo ora di quanto si possa maturare se si accettano i propri limiti e le proprie debolezze, se si guarda dentro al cuore senza pregiudizi e si guarda davvero. Eric mi ha messo letteralmente a nudo davanti a me stesso. Non sono chi credevo di essere, sono diverso, sono peggiore, forse migliore.
«Kurt, a me piace lavorare con te e con tutta la squadra in generale. Se hai bisogno di qualcosa, non devi farti problemi. Anche se bisogna cercare in qualche cassonetto. Ok?» Ridacchia debolmente ed annuisce. Riesco a sorridere anche io.


«È bello rivederti.» Le braccia di Anne-Britt mi si stringono al collo e sorrido abbracciandola a mia volta.
«Anche per me lo è.» Strano, sono solo pochi giorni eppure mi sembra di essere stato via un’eternità. Il commissariato mi è mancato, i suoi rumori ripetitivi e caotici, il vociare degli agenti, il pessimo arredo, perfino la vista malinconica su cui mi sono perso coi pensieri decine di volte.
«Ti trovo in forma! Tomelilla ti ha rimesso a nuovo, eh?»
«Più che Tomelilla è stata la cucina di mia madre.» Le rubo una risata e la condivido. Mi sento decisamente bene.
Lisa mi ha sospirato un breve Bentornato con un accenno di sorriso, ma nella sua mano sul mio braccio ho percepito una sincera amicizia. Amici, è un po’ questo che siamo tutti, sebbene alla fine ci conosciamo realmente così poco.
Anne-Britt, seduta sulla mia scrivania, mi informa di ciò che è accaduto negli ultimi giorni mentre io nel frattempo riprendo confidenza con il mio adorato pc.
Non posso fare a meno di chiederglielo.
«Hai fatto qualche passo in avanti con il furto Fustern?» Decido di prenderla alla larga, chiederle direttamente di Eric sarebbe alquanto imprudente.
«Non molti, purtroppo. Gambero non ha saputo dirmi nulla.» Gambero? Sbatto le palpebre confuso.
«Lo hai interrogato?» I suoi occhi si alzano dalla cartella che ha fra le mani e si posano sui miei.
«Era il tuo sospettato numero uno, a quanto avevo letto - e comunque il suo nome è Ruben Vargas.» Rivivo velocemente quella notte al porto e con essa tutto il disagio imbarazzante che ne è seguito.
«Che hai scoperto?» Anne-Britt ha fatto semplicemente quello che avrei dovuto fare io: prenderlo di petto è chiedergli quanto c’entrasse lui con il furto della collana, eppure mi sento come se fosse qualcosa di straordinario.
Chiude la cartella a la poggia sulla mia scrivania prendendone un’altra.
«Ha detto che non può ricordarsi tutto quello che gli passa fra le mani. Gli ho mostrato gli orecchini che avevi lasciato nel cassetto ma non ha fatto progressi. Ovviamente gli ho detto che collaborare sarebbe stato utile alla sua "attività di vendita", ma mi ha riso in faccia chiamandomi chica.» Le labbra si piegano in un sorriso tirato ma gli occhi sono seri.
Riccioli d’oro.
Un brivido fastidioso mi attraversa la schiena. Scrollo la testa e vago con lo sguardo sui vari dossier. «A te cosa aveva detto? Non ho trovato nulla nella cartella.» Semplicemente perché non l’ho mai interrogato.
«Oh, avevo intenzione di parlargli ma poi non ne ho avuto l’occasione.» Non è il caso di dirle di ciò che è successo quella notte. Non voglio che sappia, non voglio che nessuno sappia. A quelle domande non voglio rispondere. Lei annuisce continuando a leggere concentrata le sue carte. «Nient’altro?» Quando ritrovo i suoi occhi, Anne-Britt resta a guardarmi silente per qualche attimo, poi si sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Ho parlato anche con Huntsman.» Mi sforzo di non deglutire e mi limito ad un cenno di assenso. «Ho visto che ne avevi studiato un profilo accurato ed ho pensato che forse avessi qualche dubbio.» Certo, il dossier di Eric. Non ho pensato di portarlo via ed è rimasto nel cassetto della scrivania; era logico che lei lo avrebbe trovato. Annuisco ancora e mi inumidisco le labbra.
«Ehm, sì, inizialmente avevo qualche sospetto ma non credo sia coinvolto.» Faccia, non tradirmi!
«A me non ha detto molto. Sembrava solo infastidito e mi ha invitato a chiedere a te qualsiasi informazione.» Stavolta la mia gola sussulta e riesco solo a reprimere un sorriso che sarebbe di certo inopportuno.
«Ah sì?» Faccio il vago e lei annuisce.
«“Il detective Martinsson sa tutto. Chiedi a lui”… Non è un tipo molto socievole.» Socievole forse è un aggettivo che poco gli si accompagna, Anne-Britt ha ragione, per fortuna ce ne sono altri che invece gli calzano a pennello, e in questo momento l’unico che mi rimbomba nella testa è quello più imbarazzante. «In compenso è molto attraente.» Il mio cuore salta un battito ed osservo il sorriso di Anne-Britt con una certa agitazione. In fondo non dovrei. Eric è davvero attraente ed è normale che le donne lo notino, e allora cos’è questa stretta allo stomaco?
«Lo trovi attraente?» La lingua si muove a chiedere una conferma che in realtà quasi non voglio ascoltare. Anne-Britt ridacchia appena con un leggero rossore sul viso.
La stretta allo stomaco si fa più ferrea.
«Indubbiamente, ma più che altro ha un non so che…» Porta lo sguardo in un punto vuoto della parete. I miei occhi fissano le sue labbra con una silente supplica: non dire più nulla! «Forse è il fascino dell’uomo di poche parole, dai modi bruschi - come si dice: bello e dannato, giusto?» È troppo!
«Non saprei.» Il discorso mi ha messo in un certo disagio. Prendo a battere le dita sulla tastiera cercando di annegare nei dati allo schermo questa strana acidità.
«Comunque è tutto nel dossier.» Annuisco con gli occhi sbarrati sulle infinite lettere. «Magnus,» li sposto solo quando sento le sue dita sulla mia spalla. Alzo il viso verso il suo sorriso. «Sono contenta che stai bene.»
«Grazie.» Ma stavo meglio prima.

Nonostante la buona volontà, non sono riuscito a liberarmi dal fastidio di prima. La voce di Anne-Britt mi suona nella testa, quell’attraente mi graffia i timpani, la sua risata mi inacidisce lo stomaco.
Perché mi ha agitato così tanto il suo discorso? In fondo ha detto solo la verità, non c’era nulla di realmente strano nelle sue parole eppure mi sento come se avessi preferito non udirle.
Nella mente lampeggiando immagini irreali, strane fantasie su quel breve scambio di battute fra di loro.
Il fastidio aumenta.
Eric le sorride e Anne-Britt arrossisce. “Vuoi qualcosa da bere?” “Grazie, sei gentile.” Le mani si sfiorano e...
Chiudo con forza lo schermo del PC.
Che diavolo era quella fantasia? Perché mi dà così incredibilmente fastidio?
Gelosia, sibila la mia mente. Verde, acida, bruciante.
Scuoto la testa. Non può essere. Gelosia verso chi, Eric? Andiamo, lo conosco appena ed è solo qualcuno che mi piace e che mi ha rubato il sonno ed i sogni e a cui penso ogni dannato minuto di ogni dannata ora di ogni dannatissima giornata!!!
Sì, è gelosia.
Un sospiro stanco abbandona le mie labbra e mi stropiccio gli occhi con strizza. Non doveva iniziare una nuova fase della mia vita? No, sono sempre qui a rimuginare su ogni più piccolo dettaglio che lo riguardi.
Mi sento al punto di partenza.
Vago con lo sguardo in giro, osservo ogni viso, ogni movimento, ogni foglio che cade e viene raccolto. Tutti avranno i loro problemi, i loro tarli, eppure lavorano duramente lasciandoli sulla soglia di casa, io invece me li devo portare dietro ovunque vada senza riuscire minimamente a zittirli. Perché sono così debole?
Un nuovo respiro, un nuovo sospiro, una nuova fitta alla pancia.
Cosa abbiamo realmente chiarito davanti a quel banco frigo? Un emerito niente.
Non gli ho detto nulla di tutto quello che avrei voluto, lui altrettanto.
Ci vediamo.”
Quando? Dove? Con quale scusa? Il caso Fustern ha esaurito tutta la sua utilità. Non ho reale motivo di cercarlo, lui credo lo stesso. Guardo il telefono dell’ufficio con il disperato desiderio di chiamare mia madre. Ho bisogno della sua voce che mi dice che posso farcela, che non c’è nulla di cui avere paura, che è tutto più semplice di come la testa lo elabori.
Devi farcela da solo!
Il mio orgoglio appesantisce le mani che non riescono a raggiungere la cornetta ma afferrano il dossier Fustern che Anne-Britt ha lasciato sulla scrivania. Lo sfoglio torturandomi con i denti un angolo della bocca. Devo sbloccarmi e ripartire. Potrei parlare davvero con Gambero, o meglio Ruben, stavolta senza nascondermi sotto una patetica maschera mal riuscita.
Lui spaccia droga, da casa Fustern sono state portate via poche cose di valore ed una manciata di soldi. Uno scasso da manuale sul retro, nessuna impronta, quindi gente che non è al suo primo furto. Tossici in cerca di liquidi e qualcosa da rivendere.
Siamo in una città di provincia, non ci sono ricettatori o simili. Se non si passa da Larsson allora si va direttamente dal venditore. Vargas è l’indiziato numero uno perché nessun altro spacciatore a noi noto si prende la briga di accettare gioielli o altro come pagamento. Ha inoltre le spalle coperte da Brandberg e la sua opera di pusher è facilmente intuibile non sia la sua fonte primaria di guadagno.
Potrei fare altre ricerche, ma sono quasi certo che non porterebbero a nulla. Per lui è un gioco, una collana come un’altra, una ragazza come un’altra... un ragazzo come un altro. Per Amanda Fustern è qualcosa di molto prezioso, per me è un caso che sta diventando terribilmente personale.
Il cervello inizia a carburare lentamente e riesco a parcheggiare la questione Eric in un cassetto che mi comando di aprire solo quando mi sarò chiuso la porta di casa mia alle spalle.
Passo il resto della mattinata con le dita sulla tastiera e gli occhi allo schermo. Ho letto con attenzione il dossier aggiornato da Anne-Britt, ho letto le dichiarazioni di Ruben Vargas. Non c’è nessuna negazione netta ma traspare una pungente arroganza, sa di essere intoccabile e ovviamente usa la cosa a suo favore. Ma nessuno è intoccabile, basta trovare la giusta breccia e partire da lì. Se riuscissi a procurarmi qualcosa con cui metterlo con le spalle al muro! Basterebbe riprendere un qualsiasi scambio di mano, una sua foto mentre prende denaro in cambio di droga e potrei denunciarlo senza problemi. “Dimmi della collana e chiudiamo la storia.”
Teoricamente sembra di una semplicità disarmante, ma so bene che non è così.
Inizio a pensare che dopo la visita di Anne-Britt si sia anche fatto più accorto nei suoi traffici, di certo non ha cambiato zona di spaccio, sa bene che sarebbe solo un modo per perdere clienti. Magari gli orari, magari i modi di scambio.
Mi passo l’indice fra le labbra mentre cerco di elaborare un possibile piano. Do un’occhiata all’orologio; potrei tornare al porto stasera. Sì, non ho motivo di perdere il controllo stavolta. Mi limiterò a verificare che le mie idee siano corrette.
È rischioso.
Prendo un respiro profondo e gonfio le guance alternando l’aria dalla destra alla sinistra. Quando la butto fuori sonoramente mi chiedo se non sia il caso di chiedere una mano ad Anne-Britt.
Ha detto che eri impegnato in un caso importante.
No, Eric, rimani nel tuo cassetto, ti prego!
Credo sia davvero il lavorare in solitudine che mi porta a crearmi troppi grattacapi. C’è bisogno di scambiare pareri, c’è bisogno di sentirsi dire che si è sulla strada giusta oppure che è solo uno sbaglio.
Mi alzo dalla scrivania e mi dirigo verso la caraffa di caffè, mi riempio la tazza e cerco la mia collega nell’ufficio. Non la trovo. Poggio la tazza sulla scrivania e scendo le scale per cercarla anche al piano di sotto.
«Ehi, sa dov’è Anne-Britt?» chiedo ad un agente.
«Il detective Hoglund è uscita un’ora fa. È su una scena del crimine, se non sbaglio.» Annuisco e poggio entrambe le mani sui fianchi fissando la porta del commissariato. Lei ha decine di casi fra le mani, ed io sono qui impantanato su un misero furto.
Sospiro ancora arruffandomi i capelli e me ne torno alla mia postazione. No, non posso chiederle aiuto, devo cavarmela da solo.

Verso le tre del pomeriggio, mentre ascolto l’agente Forbanz che mi racconta i dettagli di un assurdo scippo nei pressi della stazione ferroviaria, il mio cellulare squilla.
«Scusami.» Mi allontano leggendo sullo schermo un nome che mi fa sorridere. «Mamma» sospiro raggiungendo la finestra e guardando il placido mare azzurro.
«Pensavo mi avresti chiamato.»
«Sto lavorando, mamma.» Non c’è richiamo solo la semplice e scialba verità.
«Oh, lo so, ma io mi riferivo alla tua donna misteriosa. Non hai neanche voluto dirmi il suo nome.» Donna misteriosa. Ormai ho imparato a sorriderci perché crogiolarsi nella vergogna non giova a nulla.
«Ti chiamo stasera e ti dico tutto, va bene? Ora non posso stare al telefono.» Getto un occhio in giro: sono tutti in pausa. Alle tre del pomeriggio a Ystad succede davvero poco.
«L’hai vista?» Mi bagno le labbra e annuisco al mio riflesso.
«Sì» alito stancamente. Dall’altra parte del telefono posso sentire il rumore di un risolino soffocato. Perché improvvisamente sento la mia vita come sostituta di una soap-opera messicana?
«E allora? Com’è andata?»
«Non posso parlare, mamma! Te l’ho detto che sono a lavoro e- »
«Va bene, va bene! Ma siccome so già che non mi chiamerai, ti telefono io verso le otto. D’accordo?» Andiamo, non ti serve il mio permesso, tanto lo farai lo stesso.
«D’accordo.» Chiudo la chiamata e chiedo al Magnus del vetro cosa mai potrò dirle stasera alle otto.

Ho setacciato tutti gli archivi a disposizione della polizia di Scania[1] e alla fine sono riuscito a trovare qualche dettaglio in più su Ruben Vargas. È nato a San Juan trentacinque anni fa. Nessun precedente, a parte un piccolo furto d’auto quando era minorenne da cui si è tirato fuori grazie ai soldi di papà Vargas. Uomo ricco ma credo in modo poco legale. Collegamenti fra lui e Brandberg non ve ne sono apparentemente, ma Brandberg è uno che sta attento a non lasciare tracce in giro. Mi è sempre più chiaro che i soldi funzionano meglio di qualsiasi sbiancante.
Potrei cercare qualche legame fra suo padre e Brandberg visto che dovrebbero avere più o meno la stessa età, ma ho gli occhi stanchi e la fatica si fa sentire. Me li strofino con le dita mentre vedo i lampioni illuminarsi dalla finestra. Riprendere a lavorare dopo tutti quei giorni di stop è stato più difficile del previsto.
Il turno è finito da quasi dieci minuti ma me ne sono reso conto solo quando ho alzato lo sguardo sull’orologio. Se non rientro ora non farò neanche in tempo a cenare prima che quella invadente donna di mia madre chiami. Non risponderle sarebbe solo un suicidio.
Afferro la giacca e il dossier che stringo nella mano.
«Buona serata.» Sorrido agli agenti del turno di notte e raggiungo la mia Volvo.
È più freddo di ieri sera ed anche più umido. Una nuvoletta di vapore abbandona le mie labbra mentre mi affretto ad entrare in auto.
Una volta a casa accendo il gas e metto a bollire dell’acqua. Ho preso delle scatole di pelati italiani (ma Made in Spain) e qualche busta di pasta. Non sarà come cenare in un pittoresco ristorante di Roma, ma meglio di niente. Ho posticipato anche la doccia al dopocena, o meglio al dopo interrogatorio, perché non avrei fatto in tempo.
Mentre scolo la pasta il cellulare squilla. Mamma, sei in anticipo. Afferro sorridente il telefono ma sullo schermo leggo il nome di Anne-Britt.
«Ehi!» Forse ha saputo che la cercavo.
«Magnus, sei a casa?» Il suo tono non mi piace. Il sorriso sparisce e la fronte mi si aggrotta.
«Che succede?» La pasta si sta incollando ma non me ne curo. Ho un brutto presentimento.
«Sono in ospedale.»
«Stai bene?» Il cuore inizia a battere forte al solo pensiero che le possa essere successo qualcosa.
«Sì, io sì, ma dovresti venire.» Non riesco comunque a tranquillizzarmi.
«Ma che è successo, Anne-Britt?» Ho già ripreso la giacca e le chiavi e sto spegnendo la luce per poi chiudermi la porta alle spalle.
«C’è stata un’aggressione.»
«Chi?»
Una lista di nomi mi passa nella testa ma l’unico che non vorrei udire è quello che pronuncia la sua voce seria. «Eric Huntsman.»
Al secondo gradino quasi perdo l’equilibrio.

Eric...
Mi aggrappo al passamani.
La gola stretta, gli occhi sbarrati ed un fischio assordante nelle orecchie.
«Eric... è stato aggredito?» Il mio cuore ha smesso di battere.

















Continua...




[1] Scania è la contea svedese di cui fa parte la città di Ystad.



NdA.
Non.Odiatemi.
kiss kiss Chiara

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Capitolo 18
*** Colpevole ***


18. Senza respiro
Detective Martinsson



XVIII. Colpevole



Divoro l’asfalto come non ci fossero altre auto oltre la mia. Ignoro i clacson, ignoro il rosso dei semafori. Sterzo bruscamente ed evito in extremis un motociclista e prendo a respirare sempre più a fondo. Svolto a sinistra senza neanche inserire la freccia. Altri clacson.
“Forse non è in pericolo di vita.” Non sono riuscito a farmi bastare quelle parole. Non sono riuscite a calmare l’agitazione che si è impossessata di ogni mia cellula, che mi ha fatto tremare le dita mentre inserivo la chiave, che mi ha fatto pregare ogni Dio esistente nella solitudine di un'auto troppo calda.
“Era privo di sensi in uno dei cantieri del porto.”
Non ho voluto sentire i dettagli, mi sono fiondato in strada ed ho guidato senza neanche pensare. Quando arrivo sotto all’ospedale, parcheggio malamente e salto giù senza neanche chiudere a chiave né curarmi del cellulare che suona sul sedile.
Non riesco a regolarizzare il respiro e sento gli occhi bruciare per l’impossibilità di chiudersi. La paura mi ha reso teso come un filo d’acciaio e non so neanche dire come facciano le mie gambe a muoversi.
Alla reception cerco Anne-Britt furiosamente ma tutte le facce mi sembrano uguali. Vedo solo camici, nelle mie orecchie solo sirene e parole confuse.
Alla fine è lei a trovare me.
«Magnus!» Non sento neanche la sua mano sul mio braccio.
«Dov’è?» chiedo con un’espressione che il suo viso mi suggerisce come semplicemente terrorizzata.
«I medici lo stanno stabilizzando, non sanno ancora dire se sia a rischio.»
Dio, ti prego!
«Ma che è successo?» Non so neanche da dove mi vengano fuori le parole, non so se sono capace realmente di ascoltare una risposta.
«Due operai l’hanno trovato mentre tornavano a casa, anche Huntsman aveva finito il suo turno a quanto dicono.» Seguo il suo sguardo e lo porto su due uomini che stanno parlando con un agente. Immediatamente li raggiungo, Anne-Britt mi segue.
«Ditemi che è successo!» Il giovane agente mi scruta un po’ infastidito ma in questo momento non potrebbe fregarmene di meno.
«Io...» Il primo uomo mi guarda confuso e non ci penso due volte ed afferrarlo per un lembo della giaccia e scuoterlo.
«Dimmi che è successo!»
«Magnus!» Mi sento tirare indietro e gli occhi di Anne-Britt mi accusano. I miei non so che abbiano da dire, vogliono solo poter rivedere il suo volto. «Calmati! Ma che ti prende?» Non le rispondo e torno a guardare l’uomo che sembra essersi deciso a parlare.
«Io e Gary stavamo tornando a casa quando ci siamo fermati al capanno 23.»
«Avevo dimenticato un paio di attrezzi nel pomeriggio.» Interviene l’altro, un ragazzo sulla ventina che sembra alquanto scosso.
«Eric era a terra, accanto ad alcune casse. Non rispondeva, ho provato a svegliarlo ma... c'era del sangue e abbiamo chiamato l’ambulanza e...» Sento il cuore battere sempre più forte, quell’immagine basta per dilaniarmi il petto. Mando giù un urlo. L’uomo si passa una mano sul volto e scuote la testa. «Chi ha potuto fargli una cosa simile?!» Non ho più parole. Sento la gola bruciare e la mascella fare male per quanto forte l’ho serrata.
«Aveva qualche nemico? Qualcuno con cui aveva litigato?» È Anne-Britt a fare le domande soffocate sulla mia lingua fra la paura e la rabbia.  
«No, no. Eric è benvoluto da tutti.» L’uomo continua a scuotere la testa.
«Ultimamente però c’era qualcuno che lo infastidiva.»
«Chi?» Ritrovo voce e fisso il volto del più giovane vedendolo deglutire. «Chi è che lo infastidiva?»
«Non lo so chi sono, giravano per il porto e gli stavano sempre intorno ma Eric non gli ha mai dato corda-»
«Le loro facce, descrivimele.» Un dubbio atroce mia assale. Ricordi di una notte di lacrime e sangue davanti alle nere acque di un molo maledetto. Un ghigno beffardo e risate fastidiose. Riccioli d’oro.
«Ehm... Uno aveva i capelli rasati e una specie di cresta e l’altro era calvo - no forse aveva i capelli corti, non mi ricordo.»
«Concentrati, ti prego. Sai che auto avevano? Che cosa gli dicevano? Hai sentito nominare un certo Dave o Ruben?» Saetto con lo sguardo da un occhio all’altro ansioso di sapere se le mie paure siano fondate, se quel senso atroce di colpa che mi sta salendo dallo stomaco abbia o no una ragione.
«Non lo so, pensavo fossero quei figli di papà annoiati che si divertono a tormentare i poveri operai. Io... non lo so.»
«Va bene. Derez, prendi nota di tutto.» Le parole di Anne-Britt mi scivolano nelle orecchie.
Capelli rasati, figli di papà...
Chi poteva avercela con uno come Eric tanto da pestarlo così forte da mandarlo in ospedale? Chi se non quel bastardo a cui ha fatto fare la figura dell’idiota quella sera al molo? Ruben Vargas, Gambero.
Mi sento trascinare lontano dai due uomini fino alle seggiole della sala aspetto.
«Si può sapere che hai? Perché la stai prendendo così?» Il tono di Anne-Britt è basso ma avverto tutta la sua incredulità. Chiudo gli occhi ed affondo entrambe le mani nei capelli, le gambe non resistono e mi ritrovo ad accasciarmi contro il sedile rosso della sala. «Magnus?»
«È colpa mia» sospiro scuotendo la testa e torno a tirarmi indietro i capelli. «È colpa mia!»
«Che stai dicendo? Come può essere colpa tua?» Anne-Britt mi si siede accanto e mi scuote la spalla. «Huntsman è stato aggredito da dei balordi per chissà quale motivo. Cos-»
«È stato Gambero. Lui ed i suoi... Sono stati loro, Anne-Britt. Sono stati loro!» Sento la testa pulsare dolorosa ed una preghiera disperata che mi nuota nello stomaco. Voglio vederlo!
«Come fai ad essere sicuro che-» Mi alzo di scatto senza ascoltarla. «Magnus?»
«Dove si trova?» chiedo e lei si solleva a sua volta guardandomi con un'espressione preoccupata sul viso.
«Per favore, Magnus, spiegami cos’è questa storia di Gambero e perché mai la stai prendendo così.» Abbasso lo sguardo e vedo le mani tremare - di nuovo. Le stringo con forza e sento qualcosa spezzarsi nel petto. Il mio cuore urla sangue.

«Pensavo di essere veramente nei guai e all’improvviso Eric è sbucato dal nulla e si è messo contro quei tre e... e poi se ne sono andati ed io...» Sono crollato.
«Perché non mi hai detto nulla? È stata un’azione davvero sconsiderata da parte tua!» Annuisco a quel richiamo che in questo momento non può farmi male, non più di quello che sta facendo quest’attesa soffocante. Saetto sul viso di ogni medico che attraversa la sala sperando venga verso di noi, ed ogni volta abbasso lo sguardo sul caffè freddo che Anne-Britt ha preso dalla macchinetta. «Non pensavo foste amici. Ti ho chiamato credendo che avresti potuto avere qualche sospetto sui suoi aggressori. Lo conoscevi, la sua cartella era molto accurata ed io...» Le dita di Anne-Britt si stringono attorno alla mia mano quando non presto alcuna attenzione alle sue parole. Sollevo lo sguardo lucido sui suoi occhi e ricaccio indietro le lacrime solo per una stupida vergogna che in questo momento mi sembra solo spregevole. «Non ha dei parenti?»
Scuoto la testa fissando le mattonelle del pavimento. «I suoi genitori sono morti e suo fratello è in Scozia... Non ha nessuno.» È tutto un incubo da cui vorrei svegliarmi all’istante. Le patetiche paranoie dell’ultimo periodo mi sembrano delle vere bestemmie. Che io sia dannato!
«Magnus..»
È solo colpa mia!
Eric è in questo ospedale per colpa mia e dalla mia incapacità! Non merito neanche di essere qui, non merito nulla da lui. «Credi sia stata una ritorsione da parte di Vargas?» Annuisco con vigore mentre batto nervosamente il piede a terra.
«Ne sono certo.» Sfrego le dita delle mani intrecciate fra di loro e torno a guardare verso i medici. Il viso ghignate di Gambero fa breccia nei miei occhi e quasi mi sembra di bruciare. «Gliela farò pagare. Giuro che la pagherà!»
«Non fare così! Non essere precipitoso, dovremo prima indagare.» Il mio sguardo la fulmina. Serro la mascella ed inghiotto lacrime e rabbia.
«No, Anne-Britt, non ho alcun dubbio che sia stato quel bastardo di Vargas e quando me lo troverò davanti gli farò pentire di aver messo piede in questa città!» Non riesce a ribattere ché un medico sulla cinquantina ci si avvicina. Immediatamente scatto in piedi.
«Dottore, come sta?» Anne-Britt mi precede e guardo le labbra dell’uomo con una tremenda paura di udire parole che potrebbero semplicemente uccidermi.
«Ha subito un’emorragia interna e ha ecchimosi ed ematomi un po’ su tutto il corpo. Un paio di costole incrinate ed un polso lussato, ma il danno più serio è l’emorragia.» Quasi non mi sembra reale. Non voglio che sia reale. «Sta uscendo ora dalla sala operatoria.»
«Dottore.» La mia voce si spezza e mi prendo un secondo per ritrovare la forza di continuare. «Si riprenderà?»
«Abbiamo arginato l’emorragia che per fortuna non era molto estesa, ma dobbiamo monitorarlo costantemente. Il rischio di un ulteriore shock ipovolemico è alto in questi casi, ma se supera la notte potremo sperare che si rimetta. Non posso assicurarvi altro, dobbiamo solo aspettare.» Aspettare...
«Grazie dottore.» Sta per andarsene quando lo fermo per un braccio senza neanche preoccuparmi dell’inopportunità del gesto.
«Possiamo vederlo?» La mia gola vibra, lo stesso fa il cuore.
«Lo stanno trasportando in terapia intensiva, non potete entrare.»
«La prego, dottore!» Sento le labbra e la voce tremare «Voglio solo vederlo.» Gli occhi di Anne-Britt mi bruciano sulla guancia insieme a mille silenziose domande.
È strano come l’orgoglio di un uomo semplicemente evapori davanti alla paura di perdere chi ama.

Fili. Decine di fili e di tubi. Luci ad intermittenza. Numeri, linee fastidiose che si alzano e si abbassano. Un lenzuolo bianco, una camera bianca, tende bianche.
C’è un’infermiera che sta controllando qualcosa su uno schermo, poi esce ed Eric resta solo.
Non capisco come possa guardarlo al di là di questo freddo vetro e non scoppiare ad urlare. Forse la rabbia ghiaccia le parole così come la disperazione prosciuga le lacrime.
Sembra che stia dormendo. Gli occhi chiusi – i miei occhi azzurri - e i capelli sciolti. Un livido sullo zigomo, il sopracciglio appena suturato. Una fascia stretta attorno al polso sinistro.
Aghi, altri tubi, altri dannati fili!
Vorrei staccarli tutti e stringerlo forte ed aspettare che mi sorrida.
Mi sorriderai ancora, vero Eric? Tornerai a prenderti gioco di me e a farmi sentire impacciato e stupido? Non lasciarmi! Non puoi lasciarmi proprio adesso!
«Restare qui sarebbe inutile.»
«Io resto.» Gli occhi sempre su di lui, Anne-Britt al mio fianco sospira e mi stringe un braccio.
«Magnus, cerca di reagire-»
«Io non lo lascio. Io resto.» Tutta la notte, tutta la vita se sarà necessario.
«Perché?» Un’unica parola che raccoglie mille domande diverse e a tutte posso rispondere alla stessa identica maniera.
«Perché ne ho bisogno.» Ho bisogno di stare qui, ho bisogno di vederlo svegliarsi. Ho bisogno di lui.
Sento un bacio sulla guancia e chiudo gli occhi trattenendo la voglia di stringerla e scoppiare.

«Ho i bambini, altrimenti sarei rimasta con te.»
«Lo so.» Quando il calore di Anne-Britt si allontana, resto solo davanti a questo vetro, dall’altra parte attaccata a quelle macchine, c’è la mia stessa vita.

Sono le tre di notte. L’ospedale è più silenzioso ma sembra che sia cambiato poco o niente. Ci sono infermieri e medici che camminano veloci nei corridoi, tanti volti sofferenti, tanta tristezza, pochi sorrisi.
Esco giusto il tempo di un caffè e rientro di nuovo girando stancamente l’asticella di plastica nel caldo liquido.

Quando Eric si sveglierà lo inviterò a bere un caffè decente in quel bar carino vicino al parco. Gli piacerà. E poi gli racconterò di quanti problemi mi sia fatto prima di invitarlo. Gli dirò di mia madre e dei suoi consigli. Rideremo insieme del pugno che gli diedi quella mattina e di come mi sentivo imbarazzato quel pomeriggio al supermercato. Gli racconterò dei sogni in cui lui mi aiutava a ridipingere casa e di quelli in cui semplicemente camminavamo per la spiaggia a piedi nudi. Gli chiederò della sua famiglia, di suo fratello e della Scozia. Mi imbarazzerò quando mi dirà che sono un impiccione ed abbasserò la testa colpevole. Lui la solleverà e mi bacerà ed io lo stringerò forte e gli sospirerò che ho desiderato che lo facesse dalla prima volta che l’ho visto, che non volevo altro che sentirlo vicino, che è diventato un’ossessione e che vorrei che mi spiegasse come ha fatto. I suoi occhi saranno sui miei, il suo sorriso mi scalderà il cuore ma non mi risponderà.
Non mi risponderà...
Sento le guance bagnate ed il sapore salato delle lacrime scendere sulle labbra. Poggio il caffè sulla sedia e nascondo il viso nelle mani. Mi sento morire.
Perché ho sprecato tanto tempo, perché ho fatto vincere i miei stupidi dubbi invece del cuore? Perché dovevo vederlo steso su un asettico letto d’ospedale prima di rendermi conto di quanto fosse importante per me?
Perché sono stato così codardo? PERCHÉ?
Le lacrime non voglio arrestarsi e le asciugo inutilmente con le mani. Deboli singhiozzi nella piccola sala. Al di là del vetro Eric continua a dormire.  
Svegliati, Eric! Svegliati e dimmi di nuovo che sono un idiota, stavolta non scapperò.

Mi sono appisolato sulla panca fredda della sala d’aspetto ma continuavo a sentire il rumore delle barelle e l’odore pungente del disinfettate. Mi passo una mano sul viso e torno a guardare la scena immutata di fronte a me. Il Dr. Lindgren mi ha concesso di stare nell’anticamera della sala di terapia intensiva ed io sono pronto a restarci finché sarà necessario. Guardo un infermiere che sta cambiando la flebo di Eric. Aspetto che esca per chiedergli se ci sono cambiamenti.
«Sta reagendo bene. Nessuna complicazione.» Ringrazio il cielo e mi lascio andare ad un sospiro stanco. «Lei è un parente?» Sposto lo sguardo al letto silenzioso.
«Sono della polizia.» Non sono niente per lui se non una causa di problemi. Non voglio più esserlo.
Il giovane in camice mi guarda silente ed annuisce.
«Dobbiamo aspettare.»
«Sì...» Poi esce e sono di nuovo solo con i miei rimpianti.
Appoggio una mano contro il vetro e mi chiedo cosa stia sognando.
Starà sognando? Si può sognare quando si ha una sonda nella gola ed una macchina che segna i tuoi battiti?
Solo ieri era tutto perfetto ed oggi mi sento come se fin’ora non avessi realmente vissuto. Il terrore ti fa sentire vivo forse più della felicità. Ti graffia il petto e ti calpesta l’anima. Sei vivo perché sei vicino alla fine.
Sento la sua voce nelle orecchie che si allontana secondo dopo secondo. È tutto ovattato ed amplificato allo stesso tempo ed è una sensazione spaventosa. Vorrei spaccare ogni dannata cosa in questa stanza, vorrei correre al molo e ammazzare quei bastardi con le mie stesse mani e non fermami neanche quando saranno freddi cadaveri!
Non conta più una stupida collana, non conta un inutile distintivo, non conta più nulla.
Non riesco a razionalizzare, non riesco a pensare alle parole di Anne-Britt e concedermi un dubbio. Il mio cuore sanguina e non c’è posto per nessuna domanda.
L’orologio segna le quattro passate del mattino quando getto nel cestino l’ennesimo bicchiere vuoto di caffè.
Quante notte insonni a tormentarmi stupidamente e avrei potuto trascorrerle con il suo profumo sulla pelle. Se solo potessi tornare indietro non chiederei di non conoscerlo ma di viverlo. È troppo tardi?
Mi passo una mano sul collo indolenzito mentre mi accascio nuovamente sulla panca. La notte è quasi passata, ormai manca poco.
Vorrei che le palpebre non si chiudessero, vorrei che la stanchezza non fosse più forte del desiderio di vedere quell’orologio ticchettare finché non sarà davvero finita, ma mi poggio con la testa contro il muro e per qualche attimo mi sento lontano da questo ospedale e torno a Tomelilla. Torno all’altalena solitaria. Non ci sono altri bambini, ci sono solo io ma sono troppo triste per giocare. Poi un rumore trascinante mi riporta alla realtà, un infermiere ed una barella vuota che mi passa davanti.
Sono le cinque meno dieci. Mi strofino il viso con entrambe le mani e sospiro. È una tortura interminabile. Mi alzo e torno davanti al vetro. Non sembra cambiato nulla. Fisso la flebo che gocciola lenta, un plic dopo l’altro che non posso udire. C’è troppo silenzio, troppa calma. Non mi piace, mi agita. Ma è un bene, giusto? Deve rimanere tutto calmo, tutto silenzioso, deve tacere tutto ed Eric starà bene. Le macchine non devono suonare, le linee devono continuare a salire e scendere ritmicamente. Eric starà bene, Eric si sveglierà!
E se non dovesse farlo?
È un pensiero che mi fa bloccare il respiro. No, no, Eric ce la farà, deve farcela!
Come fai ad esserne sicuro? Potrebbe morire...
Non morirà!
Dovrai imparare a convivere con i rimpianti e con le colpe.
Chiudo forte le palpebre e serro la mascella.
È colpa mia.
Le mani tremano, le braccia tremano, la mia anima trema.
Avresti dovuto dirgli prima quello che provavi.
Avrei dovuto.
Avresti dovuto confessargli tutto e smetterla di avere paura.
Non ne avevo il coraggio.
La prima lacrima mi riga una guancia.
Sei un vigliacco, Magnus, un vigliacco!
Un’altra ed un’altra ancora.
Le asciugo e tiro su con il naso.
Non sarò più un vigliacco. Non ho più paura.
È troppo tardi.
«Non è troppo tardi...» sussurro contro il vetro appannandolo appena. Scende ancora una lacrima, una sola.
A rispondermi solo il silenzio.

















Continua...






NdA.
Spero abbiate apprezzato anche questo capitolo un pochetto più drammatico, ma non rattristatevi. Io amo gli happy ending ^^
Grazie per s(o)upportare questa storia con tanto affetto
Kiss kiss Chiara

AVVISO: Tutti i riferimenti e le spiegazioni mediche sono frutto di ricerche personali e come tali privi di totale affidabilità. In questo e nei capitoli che ne seguiranno potrebbero esserci delle inesattezze in tale campo. Potete chiamarle ignoranza e non sbagliereste, ma io mi riparerò sfacciatamente dietro alla sempre valida “licenza poetica.” ^‿^

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Capitolo 19
*** Al di là del vetro ***


19. Al di là del vetro
Detective Martinsson



XIX. Al di là del vetro 



«Credo che il peggio sia passato. L’emorragia si è completamente assorbita e non ci sono state complicazioni all’intervento.»
«Quando si sveglierà?»
«Dobbiamo aspettare che l’organismo smaltisca i farmaci somministrati durane la notte. Lo terremo in terapia intensiva per altre 24/48 ore per un’ulteriore sicurezza, ma mi sento di essere positivo.» Il sorriso del medico mi fa quasi pungere gli occhi. Annuisco grato e sposto lo sguardo nuovamente al vetro. «Purtroppo non può entrare non essendo un parente, lei capirà.»
«Certo, anzi, la ringrazio per avermi permesso di stare almeno qui.» La mia voce è poco più di un sospiro ma giunge ugualmente alle sue orecchie. Vorrei potesse giungere anche a quelle di Eric. Gli occhi scuri del Dr. Lindgren seguono il mio sguardo.
«Non ha nessuno, vero?»
«Nessuno che può essere qui.» Nel breve silenzio, solo il tamburo ora più calmo del mio cuore. Sento il dottore rumoreggiare con la cartella e lo scruto preoccupato, ma quando risolleva lo sguardo su di me mi sorride nuovamente.
«Stia tranquillo. Il suo amico è forte. Si rimetterà.»
«Grazie, dottore.» E quando sparisce dietro alla spessa porta bianca, torno a guardare oltre il vetro con gli occhi velati, stavolta di sollievo.

Ho trascorso la mattina fra la macchinetta del caffè e dei crackers e l’anticamera della terapia intensiva. Ormai ne ho imparato a memoria ogni dettaglio.
Verso le nove scorgo la chioma scura di Anne-Britt sbucare dalla porta centrale dell’ospedale.
«Ehi, come sta?» Sorrido stanco e semplicemente annuisco con lo sguardo al nero liquido che stringo fra le dita.
«Ha superato la notte e il dottore dice che si sveglierà presto.»
«È una bella notizia, Magnus.» La sua mano mi accarezza un braccio e le sorrido ancora. «E tu come stai? Ora puoi anche andare a riposarti, resto io. Ho parlato con Lisa e le ho spigato che eri qui. Ha provato a chiamarti ma non è riuscita a rintracciarti.» Ricordo solo in quel momento che ho lasciato il cellulare in auto, il cellulare che suonava rumoroso con la scritta “Mamma” sullo schermo. Non ho proprio pensato a recuperarlo, non ho pensato a chiamarla, non ho pensato a nulla, solo a lui. «Torna a casa e dormi un po’, mangia qualcosa.» Vorrei provare desiderio nel farlo, ma la sola idea di lasciare Eric qui mi fa fermare il respiro. Scuoto la testa e butto giù il caffè con pochi sorsi.
«Voglio aspettare che si svegli.» Mi avvio verso la stanza ed Anne-Britt mi segue senza cercare di convincermi, sa che sarebbe inutile.
Non credevo che avrei potuto guardare così a lungo qualcuno dormire senza stancarmi.
«Magnus,» la sua voce è ferma e seria, «quando Huntsman si sveglierà, se riconoscerà in Vargas o chiunque altro, il suo aggressore, voglio che tu rimanga lucido. Chiaro?» Prendo un profondo respiro ed abbasso lo sguardo sul suo. «Sei un poliziotto non un giustiziere. Non devi passare dalla parte del torto.»
«Sono anche la causa per cui è steso in quel letto.»
«No, non lo sei. Sei il detective che metterà in prigione chi lo ha ridotto così.» Inghiotto rabbia e mi mordo le labbra con veleno. «Devi controllare i tuoi istinti di vendetta. Non portano a nulla. Rovinerai la tua carriera e soprattutto, quelli la passeranno liscia. Pensa a questo.» In questo momento non credo che la mia carriera conti davvero qualcosa, ma l’idea che Gambero ed i suoi possano passarla liscia mi fa ribollire il sangue. Annuisco senza dire nulla ed Anne-Britt mi accarezza di nuovo il braccio. «Ho chiesto a Lisa di affidarti il caso, ma giurami che saprai mantenere la freddezza necessaria. Se sapesse che sei così coinvolto emotivamente mangerebbe prima il mio distintivo e poi il tuo, ok?» Le sue labbra si piegano in un dolce sorriso e torno ad annuire.
«Grazie, Anne-Britt. Ti giuro che farò tutto ciò che è necessario per non farti pentire. Io... io voglio solo avere giustizia. Eric la merita.» Ruoto la testa verso il vetro, al letto immobile al centro della stanza. Merita tutto ciò che non sono stato in grado di dargli.
«E l’avrà, Magnus.» Sì, avrà tutto.

Anne-Britt mi ha gentilmente riportato il cellulare dall’auto e con esso un tramezzino dal bar.
«Grazie.» Afferro entrambi convincendomi che non potrò mai dirle abbastanza quella parola.
Mi si siede accanto mentre controllo il cellulare. Sullo schermo leggo diciotto chiamate perse: dodici di mia madre, quattro di Lisa e due di Anne-Britt.
Non ho abbastanza forza per richiamare mia madre. So quanto sia preoccupata, ma davvero non saprei cosa dirle a parte ammettere che suo figlio è un idiota colossale che ha sprecato tempo ed energie per tenere lontana l’unica persona che lo abbia mai fatto sentire vivo.
Gli infermieri stanno cambiando le fasciature di Eric e ci hanno chiesto di uscire.
Me ne sto seduto nella sala d’aspetto con la presenza calda di Anne-Britt e la busta rumorosa del tramezzino che le mie dita faticano ad aprire. Ho la testa pesante e lo stomaco annacquato di caffè. Avrei bisogno di lavarmi il viso, ma non riesco ad allontanarmi ché di pochi metri da quella porta.
Anne-Britt afferra il tramezzino e lo apre. La guardo con gli occhi di chi non ha più alcuna maschera da indossare. Le sue domande le so, credo lei conosca le risposte.
«Tieni.»
«Grazie.» No, non lo dirò mai abbastanza.
È ormai tarda mattinata e mi chiedo quante volte abbia guardato quell’orologio nelle ultime dodici ore. Troppe, troppo poche. La lancetta ha scandito i miei respiri e sembrava girare sempre troppo lentamente.
Mando giù il tramezzino con pochi morsi, rendendomi conto solo ora quanto ne avessi bisogno. Anne-Britt non ha detto più nulla, siamo rimasti qui, io a guardare la porta e lei a guardare me.
Un infermiere esce ma non ci dà ancora il permesso di entrare. Io sono già scattato in piedi con le mani sui fianchi ed il desiderio di varcare quanto prima quella porta.
«Era questo il motivo della tua insonnia?» La domanda arriva da un viso gentile ancora seduto sulle seggiole rosse alla mia destra.
«Sì...» ammetto e quasi mi sento più leggero. Sì, era questo il motivo per cui non dormivo, per cui non riuscivo a concludere nulla, per cui avevo la testa altrove e nessun caso risolto. Il motivo era lui e non ne sento vergogna. Non più.
«Capisco perché non ne volevi parlare.» Recepisco quella frase come il pensiero onesto di un’amica e la guardo senza cercare vili insinuazioni.
«È successo all’improvviso e non sapevo come comportarmi.» La porta è sempre chiusa e l’attesa è smorzata solo da quelle parole che mi strappano di dosso l’ultima ombra di paura.
«Posso immaginare... Lo so come sei fatto. Sarà stato un vero dramma per te.» Riesco perfino a rispondere al suo sorriso.
«Dramma forse è un eufemismo.» A lei sfugge una risata che però recupera presto e mi guarda con un'espressione che semplicemente mi fa sentire compreso, che mi fa sentire nel giusto. «Sono stato stupido e infantile e quando mi hai telefonato ieri...»
«Siamo esseri umani, Magnus, non solo poliziotti. Siamo pieni di paure e di dubbi anche quando non ce ne sarebbe motivo.» Annuisco e respiro a fondo.
«Io non voglio più avere dubbi e paure, Anne-Britt. Non voglio più.» La vedo alzarsi ed avvicinarsi ancora finché le sue braccia non mi avvolgono e mi ritrovo piegato in un caldo abbraccio. La stringo forte fra le mie. «Grazie.»
«Non dirlo più, ok?»
«Ok.» L’abbraccio si scioglie solo quando il suo cellulare squilla. È la centrale.
Dovere, lavoro. Nella mia classifica attuale di cose importanti, decisamente all’ultimo posto.
«Devo andare. Se hai bisogno di essere sfamato, chiamami.» Mi sorride e le sfioro le dita mentre la vedo sparire per i corridoi dell’ospedale. Un secondo dopo le spesse porte della sala si aprono e due infermieri escono. Mascherina sul viso di entrambi.
«Posso entrare?» Chiedo mentre il primo si abbassa la mascherina verde.
«Bisognerà chiedere il parere del Dr. Lindgren.» Non riesco a capire. Prima potevo e adesso ho bisogno del parere del medico per poter stare dietro ad un dannatissimo vetro? Aggrotto la fronte indignato mentre porto lo sguardo al di là della porta ora nuovamente chiusa.
«Ma credevo che avrei potuto-».
«Bisogna evitare ogni stress,» vengo interrotto dal secondo infermiere, «anche la sua semplice vista potrebbe agitare il paziente. Gliel’ho detto, bisogna chiedere al Dr. Lindgren.»
Potrebbe agitare il paziente...
Sgrano gli occhi e li porto sul viso del ragazzo. «È sveglio?»
«Da cinque minuti.»

Venti, invece, sono i minuti che trascorro a torturarmi le dita davanti alla sala in attesa che il Dr. Lindgren si decida a farsi vivo. Eric è sveglio al di là di questa porta ed io vorrei solo poterlo vedere con i miei occhi ed avere la certezza che non è solo una mia illusione.
«Detective.» Finalmente la figura alta del medico mi compare di fronte. I capelli brizzolati un po' spettinati e fra le mani una cartella gialla.
«Dr. Lindgren!» Sento l’agitazione farmi tremare la gola e attorcigliarsi nello stomaco. Mando giù ogni domanda e guardo le sue labbra muoversi.
«Ho provato a farle avere un permesso speciale per entrare in sala, ma le regole dell’ospedale sono ferree. Mi spiace.»
Scuoto la testa con un sorriso. «No, non si preoccupi. È stato gentile a tentare. Volevo sapere se almeno posso entrare nell’anticamera. Gli infermieri mi hanno detto che Eric- che il signor Huntsman è sveglio. Non voglio fargli alcuna domanda, voglio solo...» Prendo un leggero sospiro «Solo vederlo.» I suoi occhi mi scrutano silenti per poi posarsi sulla cartella per qualche attimo.
«Può restare qualche minuto però poi la invito ad uscire. Va bene?»
«Sì, certo, va più che bene, dottore.» Mi chiedo se tutto questo entusiasmo non sia fuori luogo. Non mi impegno a cercare una risposta.
Mi fa strada e lo seguo in quella che è ormai diventata una piccola sala familiare.
Con il cuore in gola, porto lo sguardo a quel letto e sembra una scena immutata, ma sul viso scorgo due occhi chiari che guardano di fronte a sé.
Cerco di reprimere la gioia liquida che mi si sta riversando nel corpo mentre il medico indossa il necessario prima di entrare nella stanza.
Gli occhi di Eric si spostano su di lui e ne seguono i passi finché non gli si avvicina, le sue labbra si muovono appena e il Dr. Lindgren sembra rispondere da sotto la mascherina.
Eric...
Non riesco a udire ciò che dicono. Resto incollato a questo vetro fissando ogni dettaglio di quel volto ferito che tanto ho avuto timore di perdere e vorrei solo poterlo sfiorare.
Lo sguardo del medico si alza su di me e pare dire qualcos’altro. Non ho neanche il tempo di chiedermi di cosa possa trattarsi, ché gli occhi di Eric mi investono.
Adesso sì che potrei crollare davvero sulle mie stesse gambe.
Le sue palpebre sbattono più volte mentre il cuore salta un paio di battiti nel mio petto. Lentamente, un gesto appena accennato, le dita della sua mano si alzano e si muovono piano.
Un enorme sorriso si allarga sul mio viso, infantile, patetico forse, ma non riesco – non voglio – reprimerlo.
Questa fiamma che bruca forte dentro si chiama felicità? Non credo di averla mai avvertita prima.
Alzo la mano a mia volta e la poggio contro il vetro picchiando appena i polpastrelli sulla lastra. Le labbra di Eric si piegano in un piccolo e stanco sorriso.
Vorrei entrare nella stanza e tuffarmi su quel letto. Scoppiare il lacrime fra le sue braccia e urlargli ancora quelle scuse che non vuole udire.
Mi sono proibite entrambe: non posso entrare e non posso cedere a stupidi sentimentalismi. Non ora. Non gli sarebbero d’aiuto e non lo sarebbero a me. Voglio, devo, ascoltare le parole di Anne-Britt e rimanere lucido. Devo farlo per lui.
La mia mano è ancora ferma contro il freddo vetro mentre il dottore continua a controllare gli schermi e la cartella, ed Eric parla lentamente, poi il medico annuisce prima di uscire ed Eric torna con lo sguardo su di me. Ora non ho più alcuna intenzione di sfuggire dai suoi occhi né dal mio cuore.
La porta si apre mentre il Dr. Lindgren si sfila la mascherina.
«Ha un forte spirito. Si rimetterà in fretta.»
«Ne sono felice» rispondo concedendogli una veloce occhiata di pochi secondi.
«Gli ho detto che è stato qui per tutta la notte.» Stavolta gli occhi saettano sul suo viso e il batticuore cresce. «Mi ha detto di dirle che è uno stupido.» Sorride ed io mi sento scogliere. Sì, lo sono. Sono l’essere più stupido di questo pianeta!
«Lo so» sospiro non riuscendo a sconfiggere un lieve imbarazzo che mi fa accaldare la punta delle orecchie.
Ah, patetico poliziotto!
«Può dirglielo.» Il dottore mi indica un piccolo citofono sulla parete. L’ho tenuto davanti alla vista tutta la notte e non aveva capito a che servisse. Sì, sono estremamente stupido.
«Posso?» tentenno e lui annuisce con uno sguardo che mi fa chiaramente capire che anche lui deve ritenermi tale.
Mi avvicino all’apparecchio color panna e pigio il pulsante portando lo sguardo su quello di Eric.
«Lo so.» Sento la mia stessa voce gracchiare dall’altra parte e lo vedo sorridere un po’ di più.  
Avrei voglia di abbattere questo vetro a testate...
«Ora lasciamolo riposare.»
«Va bene.» Sorrido appena e scuoto ancora la mano. Le dita di Eric si muovono di nuovo e stavolta anche le labbra. Potrei giurare che abbia sospirato un debole “Bye”.

«Dottore, è proprio necessario tenerlo ancora in terapia intensiva?»
«Capisco che desideri poter essere vicino al suo amico, ma più che necessario è la prassi dopo un intervento come il suo.» Sento il viso accaldarsi. Non era ciò che intendevo, ma mi guardo bene dal sottolinearlo. È ovvio che vorrei potergli stare vicino, ma in realtà voglio sapere quali sono i reali pericoli per cui viene tenuto lì.
«Quali sono i rischi?» chiedo mentre il Dr. Lindgren si ferma a firmare delle carte che gli porge un’infermiera
«Dobbiamo monitorare costantemente la pressione e l’ossigenazione del sangue per evitare eventuali nuove emorragie. Se non intervenissimo in tempo il rischio maggiore è che il paziente riporti danni cerebrali dovuti alla cattiva ossigenazione.»
«Danni cerebrali?» Sono di nuovo allarmato ed ora è la mia di pressione ad aver bisogno di un controllo.
Lui mi guarda con un’espressione serena ed infila nel taschino del camice la sua penna mentre l'infermiera si allontana.
«Detective, sto parlando di una rarissima possibilità. Il signor Huntsman ha superato bene la notte e non c’è motivo per preoccuparsi. Sono solo precauzioni. Non si lasci impressionare dalle parole, era solo per rispondere alla sua domanda.» Mi sorride ancora. «Fra qualche giorno gli sarà seduto accanto a sistemargli i cuscini, si fidi.» Non riesco a condividere quel sorriso e mi limito ad annuire.
«Grazie... quando-»
«Questo pomeriggio.» Mi anticipa. «Ora lo lasci riposare e si riposi anche lei, ne ha bisogno.» Sì, lo so che ho una cera orribile, ma non riesco ad allontanarmi da qui. Getto un occhio alla porta chiusa ed inghiotto la voglia di aprirla. «Non ha motivo di essere in apprensione, glielo dico da medico, e sempre da medico la invito anche a fare una ricca colazione ed una bella dormita. Rischia un collasso da stress e credo che neanche al suo amico piaccia l’idea.» Dr. Lindgren, lei sa perfettamente quali tasti toccare.
Ha ragione, se crollo non sarò di nessun aiuto né ad Eric né alle indagini. Per quanto il cuore mi urli di restare, il mio corpo stanco è lieto di seguire le sue indicazioni.
Salgo in auto stendendomi esausto contro il sedile. Potrei dormire qui, magari...
Non essere ancora più stupido!
Ripenso alle parole riferitemi dal dottore e riesco perfino a sorridere. Accendo il motore e mi avvio verso casa.
Prima vado, prima torno.

Getto le chiavi sul mobiletto dell’ingresso ed appendo la giacca con un gesto stanco. La pasta è ancora nella pentola, ormai solo da buttare.
Gli occhi bruciano e lo stomaco formicola. Cedo ai primi e mi stendo sul divano. Giusto il tempo di qualche pensiero su quanto ho rischiato di perdere. Il viso di Eric è l’ultima immagine impressa nei miei occhi prima che mi addormenti.
È il suono del cellulare a svegliarmi.
Brontolo con la bocca asciutta e mi stropiccio le palpebre. Non mi sento per niente riposato, anzi, sono più stanco di prima, forse è solo il mio corpo che mi ripaga di questa notte sulle seggiole atroci dell’ospedale, ma per quel sorriso, sarei disposto a dormirci tutte le notti!
Sto diventando tremendamente sdolcinato... Chissà se è qualcosa che ad Eric piace. Semplicemente glielo chiederò.
Sto ancora metabolizzando il tutto con un sonoro sbadiglio mentre la suoneria continua a torturarmi i timpani.
Poi un flash: potrebbe essere l’ospedale. Ho lasciato il mio numero in caso di emergenza!
È un pensiero che mi calcia letteralmente il sedere e mi fa scattare verso la giacca. Afferro velocemente il cellulare dalla tasca ma sul display leggo un nome che mi fa sospirare grato per alcuni attimi: mamma.
Subito dopo un altro tipo di apprensione mi pesa sul petto.
Che faccio, rispondo?
L’orologio segna le due passate. Ho dormito davvero a lungo senza fra l’altro sognare nulla.
«Mamma...» alito grattandomi la testa arruffata.
«Grazie a Dio! Perché non hai risposo alle mie chiamate? Mi hai fatto preoccupare, Magnus!» Lo immaginavo.
«Scusami, ma ho avuto un’emergenza e non ho avuto tempo per chiamarti.»
«Tutta la notte?» Suona come un richiamo più che una vera domanda.
Mi avvio verso la cucina. «Sì, mamma, tutta la notte.» Ed apro il frigo afferrando una bottiglia d’acqua.
«Questioni di lavoro, vero?» Blocco il telefono fra la spalla e la guancia e svito il tappo.
«Sì, lavoro» mento buttando giù un sorso.
Non voglio che si preoccupi, non voglio che sappia che ho rischiato tutto per colpa delle mie paure.
«Stai bene, tesoro? Mi sembri stanco.» Poggio la bottiglia sul tavolo e mi stropiccio ancora gli occhi.
«In effetti lo sono. Vorrei farmi una doccia e poi devo tornare in centrale, scusami.»
«Non ti preoccupare, chiamerò in un momento migliore per sapere della tua misteriosa donna.» Sospiro nel sentirla ridacchiare.
«Mamma?»
«Sì?»
«Grazie.» E scusami se ti sto mentendo ancora.
«Asciugati bene i capelli altrimenti ti viene un’otite, ricordalo!» Mi strappa una debole risata prima di riagganciare.

L’acqua calda mi cade sul corpo come fosse una carezza mentre nel piccolo bagno lo scrosciare del getto risuona forte coprendo i miei singhiozzi.
Sul viso lavo via altre lacrime. Di paura, di gioia, di gratitudine, di colpa.
Hanno tutte il sapore di Eric.

















Continua...






NdA.
So cosa state pensando: Magnus ormai sta diventando un piagnone, ma la colpa è di Hiddleston che si presta troppobbene a queste scene u.u
Eric è fuori pericolo, Anne-Britt sa tutto ed il Dr. Lindgren è felicemente sposato, per cui evitate di chiedermi il suo numero di telefono.
OK?
Anche queste patetiche note sono terminate.
Un bacio corale e fatevi amare <3
kiss Kiss Chiara

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Capitolo 20
*** Kärlek ***


Kärlek
Detective Martinsson



XX. Kärlek[1]



Quando entro in ospedale mi trovo di fronte una scena che non mi aspettavo. Davanti alla sala aspetto ci sono la bellezza di undici uomini, tra cui riconosco il viso di Lars Silvstedt (il colpevole della mia figura barbina al porto nonché del livido orrendo che mi ha accompagnato per giorni).
Mi avvicino con la fronte corrucciata perché li sento battibeccare con le infermiere.
«Non è possibile! Questo è un ospedale non un club!»
«Senti, noi vogliamo solo sapere come sta il nostro amico.»
«Perché non ci dite niente? Cosa avete da nascondere, eh?»
Li ho ormai raggiunti quando vedo qualcuno di loro guardarmi e richiamare l’attenzione degli altri.
«Che succede?» chiedo e la metà di quegli occhi è su di me.
«Lei è il detective Martinsson?» Annuisco alla domanda della donna che si passa spazientita una mano sulla fronte. «Il Dr. Lindgren ha detto che sarebbe passato e-»
«Chi ha aggredito Eric?» Viene interrotta dalla voce grossa di un uomo sulla trentina, berretto sulla testa e camicia di flanella arrotolata fino ai gomiti. Un ghigno duro su un viso barbuto.
«Non lo sappiamo ancora, stiamo indagando.» Volevo solo restare davanti a quel vetro perdendomi negli occhi di Eric ed invece mi tocca recitare la parte del poliziotto. Per un po’ avrei preferito togliere la divisa, ma forse è vero che alla fine ti si attacca sulla pelle.
«Ma com'è possibile?! »
«Per cortesia, non urli.»
«Non sto urlando!»
«Abbassi la voce, si ricordi dove siamo!»
Mi strofino gli occhi ingoiando un sospiro stanco. No, una disputa marinaio-infermiera non è proprio quello che mi occorre.
«Detective?» Alzo lo sguardo sul viso di Lars. «Io volevo ringraziarla per non aver sporto denuncia... beh, io, le sono grato e non volevo. Eh, non...»
«Acqua passata.» Taglio corto mentre lui si passa impacciato una mano sul collo. Lo osservo per un po’ e poi passo gli occhi al resto di questo rumoroso - sì, ha ragione l’infermiera - gruppo.
Sbagliavo. Mi ero dannatamente sbagliato. Eric ce l’ha una famiglia, grande e molto affiatata. Perché il sangue alla fine lega poco.
«Perché non possiamo sapere nulla?» È di nuovo Lars. «Stamattina al lavoro veniamo a sapere che Eric è in ospedale, corriamo qui e nessuno sa dirci come sta. Siamo preoccupati.» L’altro marinaio sta ancora litigando con l’infermiera a cui se n’è aggiunta un’altra.
«Ha subito un intervento ma ora è fuori pericolo.» Parlarne mi aiuta a metabolizzare il tutto. Ieri sembra lontano, la paura anche, i rimorsi... quelli ancora bruciano forte.
«Che tipo di intervento?» È una voce nuova, di un ragazzo giovane, forse non ha neanche vent’anni.
«Aveva un’emorragia interna. Per questo è in terapia intensiva e non potete fargli visita.»
«Ma si riprenderà, vero?» Terza voce, terza faccia nuova.
Annuisco con le mani sui fianchi accorgendomi che il vociare litigioso si è affievolito.
Non sono informazioni che si dovrebbero divulgare, ma di fronte a me vedo i volti preoccupati di coloro che hanno a cuore solo la salute di Eric. Per una volta infrango le regole e li metto al corrente di ciò che so riguardo le sue condizioni. Alla fine li vedo sollevati e gli occhi di qualcuno farsi più lucidi.
«Mi raccomando, detective, trovi quei bastardi!»
«È ciò che intendo fare.» Trovarli e sbatterli dentro magari letteralmente a calci nel culo!
«Cosa sta succedendo qui? Detective, chi sono queste persone?» Sul viso del Dr. Lindgren, appena giunto, la fronte aggrottata e uno sdegno mal celato a piegargli le labbra e mi chiedo perché stia rivolgendo quell’espressione a me. Mica li ho portati io!?
«Dr. Lindgren, questi sono colleghi del signor Huntsman e volevano avere solo qualche notizia sulle condizioni del loro compagno.» Spiego cercando di non badare alle fitte alla testa. Ci mancava solo l’emicrania post dormita ma soprattutto post pianto.
«Il signor Huntsman è fuori pericolo ma voi non potete stare qui, non tutti insieme.» Le rughe sul suo viso si stendono appena mentre lancia uno sguardo ad ognuno dei presenti.
«Non è possibile vederlo?» È di nuovo Lars a parlare.
«Assolutamente no! Il paziente ha bisogno di riposo e di tranquillità.»
«Ma dottor-»
«Quando lo trasferiremo in una stanza potrete fargli visita e solo due per volta.» Un brusio generale si solleva nell’aria mentre quasi mi sento in difetto per il trattamento speciale che invece mi è stato riservato. Eppure sono io la causa della sua aggressione... «Questo è un ospedale non un ritrovo per comitive.»
«Sì, l’avevamo capito, dottore» borbotta sarcastico l’uomo che stava litigando con l’infermiera ma il Dr. Lindgren ignora ogni frecciata e si limita ad un’occhiata di rimprovero.
«Quando possiamo fargli visita?» chiede un marinaio basso ed estremamente magro stretto in una tuta grigia.
«Nei prossimi giorni.» E mentre il gruppo prende a parlottare fra di loro, il medico mi si avvicina. «Non aveva nessuno, eh?» sospira con un accenno di richiamo ed io mi ritrovo a grattarmi la nuca colpevole.
«Come sta?» Preferisco riportare l’attenzione all’unica vera questione che la merita, i rimproveri per la mia negligenza, teniamoli per dopo.
Il Dr. Lindgren si guarda attorno e poi mi sorride.
«Sta bene, ma ha tentato di alzarsi e gli sono saltati un paio di punti. Ho dovuto fargli una lavata di testa.»
Eric... e poi lo stupido sarei io?
«Ma ora è tutto a posto?»
«Sì, stia tranquillo, glielo stiamo trattando con i guanti, detective.» E con quella battuta - allusione? - si allontana lasciandomi in balia di questa banda di curiosi e chiassosi marinai.

«Tu ne sai niente?» Alla fine buona parte degli uomini sono tornati al porto e solo Silvstedt ed un altro paio hanno deciso di restare - ancora non ho ben capito perché - e tra di loro c’è il tipo odiainfermiere che ho scoperto chiamarsi Hernest.
«Eric non mi ha parlato di nulla.» Annuisco alle parole di Lars. «Anche se conoscendolo non credo che nel caso qualcuno lo stesse infastidendo l’avrebbe fatto. È un tipo molto riservato e soprattutto orgoglioso.»
«Già, figurati se Eric si viene a lamentare per un paio di idioti che gli danno noia.» Hernest manda giù il suo caffè con un ghigno per poi accartocciare il bicchiere vuoto nella mano e gettarlo nel cestino. «Comunque se li prendo gli stacco le gambe e poi le uso per prenderli a calci!»
«Sono con te, amico.»
«Lo siamo tutti!»
Dalle parole di questi uomini riesco a delineare un altro tratto della vita di Eric. È un tratto rude eppure ricolmo di una tenera dolcezza. Mi torna in mente il suo sorriso, quello che gli vidi quella prima volta al porto mentre lavorava ed io mangiavo quegli spaghetti freddi. Quel sorriso che vorrei fosse sempre sulle sue labbra.
«Però una sera - un paio di sere fa, quando siamo andati a bere da Clouds - era piuttosto nervoso.» Mi ridesto e porto lo sguardo sul viso del ragazzo.
«Già, è vero» conferma Lars.
«Perché era nervoso?» chiedo ed è nuovamente il giovane a rispondermi.
«Non so il motivo, glielo chiesi ma lui non mi disse nulla. Però era come se stesse con la testa da un’altra parte e buttò giù una birra.»
«Analcolica?»
Scuote la testa. «Di solito sì, ma quella sera ne ha presa una normale. Me lo ricordo proprio perché Eric non beve niente. È astemio.» Questo magari è inesatto ma mi guardo bene dal correggere.
Un paio di sere fa... La domenica al supermarket mi è sembrato sereno, ma non posso dirlo con certezza, quando si tratta di lui non riesco mai a restare distaccato. Ero così agitato e nervoso che forse non ho notato come stesse in realtà. Ho guardato i suoi capelli, le sue labbra...
Stupido, superficiale Magnus!
«Lo hanno preso alle spalle» enuncia Hernest seduto sulla seggiola della sala. «Ne sono sicuro. È l’unico motivo per cui sono riusciti a mandarlo in ospedale. Hanno agito da codardi.» E purtroppo è un pensiero che ha accarezzato anche me. Forse erano più di due, forse era un gruppo, o magari è stato aggredito alla sprovvista. I danni che ha riportato non sono compatibili con una semplice scazzottata.
Sento la rabbia montare nello stomaco ma mi sforzo di rimanere concentrato. Ora sono il Detective Martinsson e come tale devo comportarmi.

E come detective mi dico di prendere con le pinze ogni parola. Che sotto ci sia Gambero ne sono certo, ma finché non parlerò con Eric sono solo supposizioni.
Se ha visto chi lo ha aggredito, me lo dirà ed allora io prenderò quei bastardi e farò scontare loro ogni graffio ed ogni livido, ogni singola goccia di sangue che hanno osato fargli versare!
«Dobbiamo rientrare o Gustav ci scuoierà vivi.»
«Ringdal?» chiedo una conferma che in realtà non mi serve. Lars annuisce ed Hernest si alza dalla panca. Forse Ringdal può saperne qualcosa. Quell’unica volta che gli parlai mi sembrò che fra lui ed Eric ci fosse un buon rapporto. Gli ha prestato la sua auto e mi ha ammonito quando ho fatto domande su di lui. Potrei parlargli.
«Detective, l’avverto, se non trovate quei figli di puttana, giuro che li troverò io.» L’indice di Hernest si punta sulla mia faccia «Voi poliziotti perdete sempre troppo tempo.» E quella frase mi risuona in testa anche quando ormai sono usciti dall’ospedale.

Leggo un messaggio di Anne-Britt che mi invita ad andare alla centrare appena possibile, molto probabilmente Lisa vuole parlarmi di persona per affidarmi ufficialmente il caso. Mi chiedo quanto possa nasconderle i veri sentimenti che mi guidano a far luce su quest’indagine. Sono assolutamente sicuro che Anne-Britt non le abbia detto nulla ed anche se non ho più voglia di indossare maschere, sono convinto che se sapesse ciò che provo in realtà, sarebbe più restia, per non dire contraria, ad affidarmi il caso.
Rifletto su ogni frase scambiata in questi minuti con i colleghi di Eric ed appunto ogni cosa nel block notes che è sempre nel taschino della giacca. Concentrarmi sul lavoro mi aiuta a domare la rabbia che provo, contro quei delinquenti e contro me stesso. Mi chiedo per quanto riuscirò a tenerla davvero sotto freno.
«È ancora qui. Perché la cosa non mi sorprende?» Alzo lo sguardo ed incrocio il volto del Dr. Lindgren.
«Oh, dottore.» Velocemente infilo il taccuino e la penna in tasca e mi alzo dalla sedia.
«Vedo che è riuscito a liberare la sala aspetto. Gliene sono grato.» Inizia a camminare lesto e gli vado dietro.
«Non avevano intenzione di creare problemi all’ospedale.»
«Lo so, anzi è rassicurante vedere una tale amicizia, ma il signor Huntsman non è il nostro unico paziente.»
«Capisco perfettamente quello che vuole dire.» Ci troviamo davanti alla sala della terapia intensiva quando si arresta.
«Cinque minuti, detective.» Mi lancia uno sguardo e poi sparisce prima che possa dirgli l’ennesimo grazie.

Spingo le porte ed entro piano nell’anticamera. Eric è sveglio.
Resto a guardarlo per qualche secondo prima che si accorga della mia presenza. Non ha più la sondina, ma la flebo attaccata al braccio è ancora lì. Scuoto appena la mano con un sorriso e lui solleva le dita, stavolta con più decisione. Appoggio le mie contro il vetro e continuo a guardarlo. Lo vedo sorridere e poi stringere gli occhi con forza. Credo abbia avuto una fitta o qualcosa di simile.
Panico!
Mi guardo agitato in giro in cerca di un infermiere ma quando torno con lo sguardo su di lui vedo la sua mano fammi un segno. Lo interpreto come uno “Sto bene” e mi lascio sfuggire un sospiro poggiando anche la fronte contro la lastra fredda. Devo sembrare un animale in gabbia, o al limite, un criminale psicopatico chiuso in una cella di cristallo, di quelle che vanno tanto di moda al cinema.
No, cinque minuti sono pochi e questo vetro è di troppo.
Porto lo sguardo al piccolo citofono chiedendomi che mai potrei dirgli. Ho così tante parole nella testa e nel petto eppure non riesco a scegliere. E poi lui non potrebbe rispondermi...
Mi avvicino e premo il pulsante.
«Ehm... » Inizio pessimo davvero. Lascio il tasto e mi gratto la testa e mi accorgo solo allora del sorriso di Eric sempre più ampio.
Mi arrendo.

Allargo le braccia e scuoto la testa sconfitto. “Sono un imbranato, Eric, scusami!” Sembra udirlo e scuote la testa a sua volta, lentamente, è appena un accenno, ma basta per riempirmi l’anima.
Che stai pensando? Cosa provi realmente?
Voglio chiederglielo e voglio rispondere a mia volta.
Ma non ora, non con un citofono ed un vetro a dividerci - o unirci?
Premo di nuovo il pulsante con un sorriso.
«I tuoi colleghi sono venuti a trovarti.» La voce stride. Aspetto che annuisca debolmente e poi torno a parlare. «Hanno fatto un casino incredibile ed Hernest ha litigato con un’infermiera.» Mi pento di quella frase quando una leggera risata lo obbliga a stringere nuovamente le palpebre. I punti saltai stamattina! L’avevo quasi dimenticato. «Scusami!» E dimentico anche di togliere il dito. Eric mi guarda aprendo una palpebra e sibila qualcosa ma non riesco a capire. Scuoto la testa e assottiglio la vista.
Torna a parlare.
Non... dirlo... più.
Abbasso lo sguardo contenendo la voglia di urlargli quanta paura abbia avuto di perderlo e quanta ne abbia di sentirlo stretto contro di me. Annuisco e riporto gli occhi nei suoi.
«Va bene» sospiro al citofono. Alle mie spalle la porta si apre. È un infermiere e capisco che i miei cinque minuti sono già trascorsi. «Devo andare...» Ma ritorno. Vorrei dirlo, ma non aggiungo altro. Le sue dita si muovono ancora ed io rubo quel sorriso tenendolo stretto negli occhi e nel cuore mentre vado via.

«Quando puoi parlargli?»
«Appena verrà dimesso dalla terapia intensiva.» Lisa annuisce e si toglie gli occhiali.
«Anne-Britt dice che hai dei sospetti.»
«Sì, riguardano un pusher del porto. Stavo indagando su-»
«Sì, sì, mi ha raccontato di quella tua trovava.» Sento le guance accaldarsi e faccio fatica a reggere il suo sguardo. Ovviamente tenere la storia del molo 16 celata era impossibile, però lo sguardo di richiamo di Lisa mi imbarazza comunque. «Sei stato molto imprudente, Magnus.»
«Lo so, mi spiace.» Non puoi immaginare quanto.
Se non avessi fatto quella stupidata, a quest’ora Eric non sarebbe steso in quel letto. È un errore che non credo riuscirò mai davvero a perdonarmi. Stringo la mascella ed abbasso lo sguardo sulle mie dita che si torturano a vicenda.
«Ormai è fatta, inutile rimuginarci sopra.» La sua mano si posa sul mio braccio per qualche secondo ma quando sollevo lo sguardo Lisa è intenta a scrutare delle carte con concentrazione. So che ha percepito il mio forte senso di colpa e se non ha detto qualche frase scontata come “Non è colpa tua” è solo perché è il capo e perché sa che la commiserazione è l’ultima cosa che aiuta un poliziotto a lavorare. «Cerca di interrogarlo. Siete amici, giusto?» Sobbalzo ed annuisco incerto.
No, non siamo amici. Non so dire cosa siamo, cosa potremo essere. L’unica cosa che so è cosa io voglio essere per lui, eppure dentro di me quasi sento di non meritarlo.
«Spero di potergli parlare quanto prima.» Ed è una frase che davvero sento nascere dal fondo del petto.

«Ho dovuto dirglielo.» La voce di Anne-Britt mi sorprende alle spalle.
«Lo so, non preoccuparti.» Le sorrido e lascio che si sieda accanto a me.
Questa panchina di fronte al commissariato è sempre vuota, gli agenti la usano per allacciarsi le scarpe e preferiscono chiacchierare in piedi a mezzo metro invece che sedersi. Neanche io ricordo di essermi mai seduto qui prima di oggi.
Avevo bisogno di aria. Mentre smanettavo al pc, un nodo caldo mi ha efferato la gola e sono dovuto uscire. Forse era l’aria viziata del commissariato che è molto diversa da quella asettica e fredda dell’ospedale, forse bisogno di una pausa, forse semplicemente la voglia di tornare dietro a quel vetro.
«Stai bene?» La sua mano si stringe sulla mia e torno a guardare il suo viso.
«Non lo so» rispondo sincero. Il vociare e le risate degli agenti mi circondano deboli. Non presto neanche attenzione alle sirene delle auto che partono né alle bestemmie dell’ennesimo arrestato. «Non so cosa sto stringendo fra le mani...» sospiro e gli occhi pizzicano. Sfuggo al suo calore per portare entrambe le mano fra i capelli. «Ti sei mai sentita in bilico senza sapere dove stai andando? Come se non ci fosse più alcuna certezza?» Non risponde e continua a guardarmi con occhi dolci. Le parole escono dalla bocca da sole senza che abbia neanche il tempo di elaborarle. «Ho creduto di perdere tutto, ma questo tutto cos’è, Anne-Britt?... Eric... » Inghiotto un magone e scuoto la testa. «Ho sempre creduto che il lavoro fosse la mia vita, che essere un buon agente, un buon detective, fosse l’unica cosa importante. E adesso tutto ha perso di significato ed io... Io non so cosa sto stringendo fra le mani...» Le labbra si piegano in un triste sorriso. «Un sentimento confuso che non ho chiesto, che non volevo...» La voce si spezza e chiudo gli occhi prendendo un respiro. Se non fossimo davanti al commissariato credo che sarei già con i palmi premuti contro una faccia bagnata.
«Quando è nato Edinson ho pianto ogni notte per quattro mesi.» Sollevo appena gli occhi sul viso di Anne-Britt che però è dritto davanti a sé. «Lo guardavo dormine nella sua culla e mi ritrovavo in lacrime. Non credevo di aver potuto dare alla luce qualcosa di così meraviglioso. Non credevo si potesse provare un amore così grande e così improvviso.» Prende una pausa  e mi sorride. «Sai cosa pensavo ogni notte mentre piangevo davanti alla sua culla?» Scuoto la testa silente. «“Che senso aveva la mia vita prima? Per cosa ho vissuto in tutti questi anni?” Mi sentivo come se avessi sprecato ogni singolo respiro, perché niente aveva più senso di quel bambino che dormiva. E faceva terribilmente paura.»
Mando giù un’onda di emozione ementre l’ennesima sirena parte ed un paio di agenti ridacchiano a qualche metro da noi. «Quando provi qualcosa di così profondo, qualunque o chiunque ne sia il motivo, ti senti inerme e come sospeso a metà. Ti sembra impossibile aver vissuto senza fino a quel momento e ti chiedi cosa accadrebbe se dovessi perderlo.» Annuisco fissando le mie ginocchia. Se dovessi perderlo...
Non so cosa provi Eric realmente, ma so cosa fa battere forte il mio cuore ogni volta che penso a lui, cosa potrebbe spezzarlo, cosa potrebbe semplicemente farmi smettere di respirare. Ne ho avuto una paura indicibile e così tanta vergogna da provare repulsione per ogni più piccolo desiderio che mi sfiorava la mente.
Ho tentato di fuggire da esso, ho lasciato Ystad credendo potessi lasciare dietro anche il resto, ma non è servito. Nulla è sparito ed anzi si è solo ingigantito, e quando l’ho visto dietro a quel vetro ho capito che non sarei più potuto scappare anche volendo.
Mi sento un funambolo su un filo ma in realtà non è la paura di cadere a smozzarmi il fiato quanto scoprire cosa ci sia sotto ad afferrarmi. Forse è perché conosco la risposa, forse è perché ho cercato di rimanere su quel filo con le unghie e con i denti, ed ora dovrei solo lasciarmi cadere.
Cosa stringo fra le dita?
La domanda è sbagliata ed è per questo che non riesco a rispondere.
Cosa stringe me?
È questa la domanda giusta e la risposta l’ho sempre saputa.

















Continua...




[1] Kärlek è una parola svedese. [nda. Stesso giochino dell’altra volta, ma stavolta il significato lo troverete senza utilizzare alcun traduttore. Fidatevi ^-*]




NdA.
Ultimo capitolo di passaggio. Dal prossimo iniziano gli incontri ravvicinati del terzo tipo...
Solita scema, ormai dovreste aver imparato a conoscermi ^^
Sono di nuovo qui a mostrarvi un’altra meraviglia nata dalle manine di Callie in onore di questa storia.

un bacio a tutte, e due a TE ❤
Kiss kiss Chiara


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Capitolo 21
*** Strana stranezza ***


La strana stranezza del non essere strano
Detective Martinsson



XXI. Strana stranezza 



Eric sta dormendo e il Dr. Lindgren mi ha concesso di restare qui per più di quei famosi cinque minuti. Non sono riuscito a venire prima dal commissariato anche se ho concluso davvero poco. Anne-Britt mi ha letteralmente impedito di andare al porto confiscandomi le chiavi della mia Volvo.
Potrei prendere un’altra auto. Non ci hai pensato?
No, non lo farai.
E infatti non l’ho fatto.
Ho terrore di come potrei realmente reagire se mi trovassi davanti la faccia di Vargas o di uno dei suoi tirapiedi. Nulla è certo, ma soprattutto, Eric è ancora steso in questo letto e la mia priorità adesso è lui.
Guardo le palpebre chiuse ed il respiro lento. Il livido sul suo zigomo mi sembra quasi più grande di prima ma credo sia normale. Mi chiedo se gli faccia male, mi chiedo cosa si provi ad avere tutte quelle macchine che ti circondano, cosa si provi a restare chiuso in una scatola di vetro senza poterti muovere. Sento il labbro tremare per la rabbia e le dita stringersi con forza. Non posso cedere alla collera, non ancora. Eppure è così difficile rimanere calmo. È stato difficile restare seduto a quella scrivania a fissare uno schermo mentre il mio pensiero tornava sempre a questa stanza, a quella sera al molo, al veleno che gli ho sputato contro quel mattino, al calore del camino sulla mia pelle, a quel piccolo bacio che ha saputo sconvolgermi così tanto.
Mi torna alla mente il nostro primo incontro, l’ascia stretta fra le mani che spaccava i ciocchi di legna, la sua schiena e la mia incertezza. Se non fossi entrato nella sua vita non sarebbe stato aggredito.
Mi strofino gli occhi  e sospiro. Il senso di colpa può essere un macigno dannatamente pesante.
«Ha intenzione di restare anche questa notte?» È la voce del Dr. Lindgren appena entrato dalla porta alle mie spalle.
«Se posso, sì.» Mi affianca e pone lo sguardo su di Eric.
«Certo che può ma le consiglio di tornare a casa e dormire in un letto.» Non mi preoccupo per un po’ di mal di schiena, ma grazie comunque per l’interessamento, dottore. «Il signor Huntsman è adeguatamente seguito e soprattutto oggi ha trascorso una giornata tranquilla sotto il profilo clinico. Non mi sento di preoccuparmi quindi.»
«Non metto in dubbio la professionalità dell’ospedale ma-»
«Detective, ho speso la mia vita accanto a chi soffre e se ho capito qualcosa è che per loro è ancora più difficile guardare i loro cari soffrire di riflesso.» I suoi occhi non hanno abbandonato il letto mentre i miei sono fissi silenti sul suo profilo. «Torni a casa e dorma. Un’altra nottata sulle nostre scomode panche non è necessaria a nessuno.» Mi sorride ed io trattengo un sospiro perché faccio fatica a pensare di tornare a casa e lasciarlo qui. «Ma se vuole restare non la fermerò. La invito solo a dormire nella sala aspetto perché se il paziente dovesse svegliarsi e vederla qui, sono certo che non farebbe i salti di gioia.»
«Lo sa che è la seconda volta che usa questo mezzo per costringermi a tornare a casa?» chiedo retorico lasciandomi andare ad un sorriso.
«La prima volta mi pare abbia funzionato.» Sorride a sua volta. «Buona notte, detective.» E mi lascia solo davanti a questo vetro.
Già, ed anche stavolta funziona perfettamente.

Fisso il soffitto della mia camera con la luce dei lampioni che entra dalla finestra. Non ho chiuso le tende perché questa notte non voglio buio attorno a me. I fari delle auto che sfrecciano in strada illuminano di tanto in tanto le pareti con fasci veloci. Mi giro su un fianco, verso il vetro e chiudo le palpebre senza però riuscire a chiudere fuori anche i pensieri. Continuo a vedere il suo viso e a chiedermi perché sono tornato a casa. Potevo rimanere, dovevo rimanere. E quel dovevo mi ferisce doppiamente. La colpa, il bisogno ed ancora la colpa. Vorrei non provarla così forte e bruciante ma mi è impossibile ignorarla.
Mi stringo nelle coperte e riapro le palpebre.
Dormire da solo in questo letto non mi è mai sembrato più triste.


Mi lascio andare ad uno sbadiglio mentre parcheggio davanti all’ospedale. Come al solito ho preso sonno solo alle prime luci dell’alba, e sebbene la mia schiena mi abbia ringraziato per averle evitato un’altra tortura, la mia testa non sembra dello stesso parere. Sbadiglio ancora e mi stropiccio gli occhi. Ho dormito fino alle dieci passate, ignorando la sveglia e le chiamate di Lisa.
Questa mattinata è iniziata con un caffè bollente ed una doverosa lista di scuse. Beh, non poteva andare meglio.
Prima di entrare a lavoro però ho deciso comunque di passare da Eric, anche solo per dirgli buongiorno. Magari è sveglio, e nel caso contrario chiederò come ha passato la notte e mi godrò i miei cinque minuti da stalker davanti al vetro.
Entro nella sala aspetto e mi dirigo spedito verso quella di terapia intensiva. Odio dover conoscere così bene ogni corridoio di questo ospedale.
Come al solito aspetto di incrociare un infermiere o il Dr. Lindgren prima di entrare, sperando non si facciano attendere troppo. Mi sistemo il colletto del maglione azzurro cercando qualche volto familiare nella folla di camici che mi passano accanto. Riconosco infine un infermiere e lo avvicino.
«Buongiorno, sono il detective Martinsson. Ricorda?» Domanda d’obbligo, visto il numero delle facce che sarà costretto ad incrociare ogni giorno.
«Certo, detective. Buongiorno.» Mi sorride ed io ricambio.
«Volevo sapere se è possibile far visita al paziente in terapia intensiva.» Mi guarda un po’ confuso e poi getta uno sguardo alla porta della sala.
«Si riferisce ad Eric Huntsman, giusto?» Annuisco con una certa ansia. Cosa voleva dire quello sguardo?
«È successo qualcosa durante la nottata?» chiedo agitato. «Il Dr. Lindgren ha detto che mi avrebbe avvisato in caso di-»
«No, no, stia tranquillo.» Mi interrompe prima che rischi un collasso anche se il mio battito è già partito a galoppare forte. «Il paziente sta bene, anzi ,visto che non c’erano effettive necessità, è stato trasferito in una stanza.»
«Oh... » Tiro un respiro di sollievo. «Ho capito.»
«È al secondo piano, ma non credo possa fargli visita senza un’autorizzazione.» Immaginavo sarebbe andata a finire così. È un’agonia senza fine. Mi scosto i capelli dalla fronte ed annuisco. «Posso chiedere del Dr. Lindgren, se vuole, ma non so se ora sia in sala operatoria.»
«Posso aspettare.» A questo punto non mi costa più niente, vorrà dire che più tardi Lisa sentirà altre scuse.
«Vado a chiedere.» Si allontana verso uno dei corridoi e fisso la porta della sala dove ho lasciato lacrime e preghiere, e forse anche un pezzo del vecchio me. Di certo non lo rivoglio indietro.
Inizio a passeggiare avanti e dietro quasi più agitato di quanto non avessi creduto. È una buona notizia che Eric sia fuori dalla terapia intensiva, eppure ho una forte ansia di vederlo, di potergli parlare, di sentire la sua voce.
Guardo il corridoio dove è sparito l’infermiere e poi l’ascensore che si apre e da cui escono due signore anziane.
Secondo piano, Eric è lì.
Quanto ci vuole a giungere al secondo piano con l’ascensore? Forse farei prima con le scale.
La testa gira a vuoto attorno all’unica verità: voglio vederlo ora!
Trascorre una decina di minuti quando scorgo il viso del giovane. Reprimo un sospiro perché mi rendo conto che è da solo.
«Il Dr. Lindgren  stava per entrare in sala ma gli ho riferito la sua richiesta. Ha detto che può fargli visita a patto che non gli faccia alcuna domanda, immagino intendesse riguardo la sua aggressione.»
Riesco perfino a figurarmi nella mente lo sguardo del Dr. Lindgren ed il suo monito.
Annuisco con vigore. «Certo, ci mancherebbe.» Posso anche starmene zitto se questo servirà, anzi non aprirò bocca, ma fatemi entrare in quella stanza, vi scongiuro!
Il giovane controlla una cartella e torna a parlare:. «Secondo piano, stanza numero 124.»
«Grazie.»
«Di nulla.» Lo vedo andare nuovamente via e riguardo l’ascensore, forse le mie gambe non reggerebbero neanche due rampe di scale.

Il corridoio è silenzioso. Quest’ala dell’ospedale deve essere riservata a chi ha subito interventi di una certa entità. Le porte delle stanze sono chiuse, ma in quelle aperte scorgo un solo letto ed altri macchinari che attorniano la branda, anche se in numero inferiore a quelli contenuti nella terapia intensiva.
120, 121, 122.
Mi arresto e prendo un respiro profondo. Alla mia destra, la stanza di Eric.
La porta è socchiusa. Forse starà riposando, spero di non disturbarlo. Forse dovrei tornare questo pomeriggio, forse -
Un leggero colpo di tosse mi fa saltare un battito. Viene da dietro la porta.
Copro i pochi passi che mi dividono ed afferro la maniglia spingendola lentamente. Quando mi affaccio lo vedo con le palpebre chiuse e la testa leggermente inclinata a destra, verso la finestra.
Non c’è più un vetro a dividerci, non voglio che ce ne sia più alcuno.
Entro nella stanza ed accompagno con accortezza la porta per non fare rumore mentre si chiude.
La stanza è piccola e simile alle altre che ho visto. Sul davanzale, un vaso vuoto, forse viene usato per i fiori. Chissà quali sono i suoi fiori preferiti, chissà se ha dei fiori preferiti. Io non so dire quali siano i miei, non credo di averci mai realmente pensato.
Giro attorno al letto con passi ovattati mentre il cuore batte forte. Vorrei sfiorargli la mano stesa sul lenzuolo bianco ma ho paura di svegliarlo. Studio il suo viso assopito, i punti di sutura sul sopracciglio, il livido sulla guancia, e noto solo in quel momento che non c’è più alcuna flebo attaccata al suo braccio anche se ci sono ancora delle sonde che escono dal camice bianco che indossa. Il macchinario segna qualcosa ma non so dire quali siano i valori. Raggiungo la finestra e mi appoggio contro il muro sprofondando le mani nelle tasche.
Oggi non c’è neanche un raggio di sole. Il cielo è grigio e stanco, ma non serve alcuna luce per far risaltare il suo viso, perfetto nonostante le ferite, o sono i miei occhi che lo vedono tale.

Sei reale?
Il mio battito si regolarizza giusto il tempo necessario per impazzire ancora quando le sue palpebre si aprono. Inghiotto mentre i suoi occhi si accorgono della mia figura.
«Ehi...» Quel breve sospiro mi apre dentro qualcosa che non so definire.
«Ehi.» Eric prende un respiro ed io trattengo il mio. «Come ti senti?» chiedo senza riuscire a scollarmi dal muro.
«Un po’... rotto.»  Le sue labbra si piegano leggermente e le mie seguono il suo gesto.
Noto una bottiglia d’acqua poggiata sul comodino accanto. «Vuoi bere?» Ma non so se sono realmente capace di prendere quella bottiglia, svitarla e versarla nel bicchiere. Sento le mani tremare e le passo sui fianchi per calmarle.
«Non posso.» La voce di Eric continua ad essere poco più di un sussurro eppure basta per farmi rabbrividire. Ho temuto davvero di non udirla più.
«Perché?» chiedo con un tono eccessivamente alto. Eric mi guarda silente e poi sorride di nuovo.
«Non lo so... Loro...» Inghiotte con un smorfia e torna a parlare. «Loro hanno detto che non posso bere.» Anche quelle poche parole sembrano fargli male.
«Capisco.» Abbasso la sguardo sulle mie mani e non so perché non riesca a fare nulla di ciò che volevo quando ero dietro a quel vetro.
«Ci tenevi proprio tanto...» Eric mi sorride ancora con la guancia sul cuscino. «... a ricambiare il favore. Vero?»
Inizio a ridacchiare imbarazzato e mi arruffo i capelli. Come può essere lui a dover tirare su il morale a me?
«Avrei preferito non doverlo fare» sospiro.
«Anche io...  Non sei bravo con le fasciature... per quello che ricordo.» Torno a ridacchiare ed annuisco.
«Non sono bravo in tante cose a dire il vero.»
«E in cosa... sei bravo?» Fisso i suoi occhi e lentamente il sorriso sfuma dalle mie labbra.
«Chi è stato?» E la mia domanda fa morire il suo. Sposta il viso di fronte e sospira.
«Non lo so.»
«Sono gli uomini  di quella sera, non è così?»
«No.»
Mi stacco dal muro e raggiungo il letto. Il monito del dottore è ormai solo un vago ricordo.
«Dimmelo, Eric! Dimmi chi è stato e gliela faccio pagare!» Non mi rendo conto della rabbia con cui l’ho detto ma lui invece sì. Mi guarda silente e non dice nulla. «Dimmelo...»
«Non lo so.» Sento altra ira pervadermi il corpo perché so benissimo che sta mentendo, lo intuisco dal modo in cui mi guarda, dal modo in cui inghiotte. Ma non capisco perché lo stia facendo.
«Te lo chiedo come poliziotto, Eric: dimmi chi è stato ed io-»
«E tu cosa?» Mi spezza le parole con quegli occhi azzurri ed un filo di voce. «Stanne fuori, Magnus.»
«Come posso starne fuori!?» Sul mio viso un’espressione semplicemente incredula. Come puoi chiedermi questo? «Perché non vuoi dirmi chi è stato? I tuoi colleghi hanno confermato che c’era qualcuno che ti infastidiva al porto e-»
«No!» Alzare la voce lo costringe a strizzare gli occhi in una smorfia di dolore che mi stiletta il petto. «Non c’era nessuno... Ti hanno detto... delle stupidaggini.» La smorfia continua mentre cerca di parlare e mi sento mancare il fiato.
«Non sforzarti» sospiro e vorrei allungare una mano per sfiorargli il viso ma resta sospesa a mezz’aria per poi ricadere sul mio fianco. Sto solo facendo un errore dietro l’altro. Non dovevo fargli alcuna domanda, dovevo solo ringraziare che fosse ancora vivo ed aspettare che si rimettesse. Ed invece la mia avventatezza mi gioca sempre contro. «Scusami, ora ti lascio riposare.» Ma non riesco ad andare via che le sue dita raggiungono il mio polso.
Le sento deboli contro la mia pelle e scivolano finché non sfiorano le mie. Le stringo tremante e cerco di reprimere la voglia di piangere non so se di rabbia o di gioia, ormai faccio fatica a distinguerle.
Resta. Non lo sento dalla sue labbra ma lo leggo nel suo sguardo.
«Mi dispiace...» sussurro mentre continuo a tenere quelle dita strette nelle mie. «Sono stato stupido e...»
«Quel colore ti sta bene.» Sollevo lo sguardo sul suo viso sorridente. «Il maglione... Stai bene.» Non so se sia la voglia di non voler udire il mio ennesimo fiume di scuse o la voglia di non tornare sul discorso di prima. Non me lo chiedo e mi siedo sul letto giusto quel tanto da non infastidirlo.
«Smettila» borbotto giocherellando inconsciamente con le sue dita e non riuscendo a reggere il suo sguardo.
«E perché?... Mi piace... vederti arrossire, detective.» Mi mordo un labbro ancora più imbarazzato. Mi piace.
La sua mano è calda ed è così rassicurante sentirla nella mia che non credo di riuscire più a lasciarla.
«Eric...» Inizio un discorso che sinceramente non so come finire mentre intreccio le dita nelle sue. «Non volevo darti quel pugno. Credimi, era l’ultima cosa che volevo fare...» Lo sento ridacchiare debolmente con un’ennesima smorfia sofferta e la mano scivola via dalla mia e si poggia sul suo ventre da sopra le lenzuola. «Stai bene?» chiedo agitato ma nonostante il dolore il sorriso non sembra voler sparire dal suo viso.
«I punti» sussurra, «Sono i punti.» E la sua mano ritrova la mia. «Continua.»
«Cosa?» Ho leggermente perso il filo.
«Il discorso su... quello che volevi fare.»
Sorrido. «Non credo di ricordarmelo più.» Ma è una menzogna, in realtà lo ricordo bene perché mi ha perseguitato per tutte le notti.
Volevo, vorrei, voglio.
«Fallo.» I miei occhi percorrono le sue labbra e poi tornano a legarsi ai suoi. «Quello che vuoi fare...»
Sento lo stomaco contorcersi e il cuore battere forte.
«Adesso?» La mia voce è incerta e la gola vibra.
Eric sorride. «No, non adesso... Ma quando avrai voglia, fallo... Ok?»
Annuisco e mi mordo involontariamente un angolo della bocca perché, dannazione, io lo farei davvero adesso!
Ma non è il momento né il luogo adatto.
Continuo a sfiorare le sue dita, palmo contro palmo, poi le intreccio e mi perdo nei suoi occhi.
«È strano...» sospiro e posso sentire le guance ardere.
«Cosa?»
«Questo.» Abbasso lo sguardo sulle nostre mani e poi lo riporto imbarazzato al suo viso.
«Perché è strano?»
La reale stranezza che sento è l’assenza totale di stranezza. In fondo cosa ci siamo detti? Cosa abbiamo condiviso? Eppure è così naturale sentire il calore della sua pelle contro la mia.
Devo essere davvero partito con tutto il cervello.
«È strano che non sia strano. Era questo che volevo dire... Più o meno.» Lo vedo trattenere una risata che gli farebbe solo male. «Non ridere di me, mi fa sentire un idiota.»
«Scusa.» Quasi mi sento in colpa per averglielo fatto dire. Anche se sorride non spetta a lui chiedermi scusa, è tutto l’opposto.
«Io dovrei tornare in centrale...» Ma continuo a tenere le dita fra le sue e quest’esitazione mi porta a ridacchiare impacciato.
«È questa la mano... con cui tieni la pistola?» Mi chiede ed io aggrotto la fronte non riuscendo a capire il perché di quella curiosità.
«Sì» rispondo mentre Eric strofina i polpastrelli contro i miei. «Perché?»
«Ti stavo immaginando... con una pistola.»
«Ah sì?» Annuisce mentre io sorrido. «E cosa immaginavi?» I suoi gesti si fermano ed i suoi occhi mi inchiodano.
Domanda insidiosa, me ne rendo conto troppo tardi. Prima ancora che le sue labbra si muovano sono già diventando un pomodoro.
«Forse... è meglio che torni a lavoro, detective.» Sorride lasciando libera la mia mano. Credo che la mia espressione terrorizzata lo abbia convinto ad evitare ogni altra parola in merito a mani, pistole e fantasie, soprattutto.
«Sì, direi che è ora.» Mi alzo in piedi ed annuisco. «Torno stasera... Cerca di non fare sforzi - cioè, il Dr. Lindgren dice che non devi fare sforzi.»
«Non vedo quali sforzi potrei fare... steso in questo letto.» Mi fa notare con un sorriso che mi ritrovo a ricambiare.
Letto, mani, pistole, fantasie...
Magnus, scaccia pensieri inopportuni!
«Riguardati.» Annuisce senza dire altro ed io mi avvio alla porta.
Prima di uscire gli lancio un ultimo sguardo che però mi fa arrestare con il palmo sulla maniglia.
No, non voglio andare via.
«Non mi aspettavo di trovarti... dietro quel vetro.» La sua voce lascia trapelare una certa dolcezza che anche il volto ferito tradisce. Non so cosa rispondere, forse perché la risposta “Ci avrei passato la vita” mi suona troppo sincera e perciò troppo difficile. Ma Eric non chiede una risposta. Mi sorride ancora ed alza la mano per salutarmi ironico. «Buon lavoro.»
Ma adesso posso udire la sua voce, posso sentire tutti i brividi che mi provoca.
«Grazie.»
E quando esco dalla stanza, posso sentire ancora le sue dita strette nelle mie.

















Continua...






NdA.
Oh, finalmente il vetro è andato!
Contenti?
Ma sì che lo siete, non negatelo. Anche Magnus ed Eric sono contenti, e a ‘sto punto io potrei anche chiuderla qui, che ne dite?
...
Va beh, sparisco prima di beccarmi qualche insulto virtuale (lo so, è troppo tardi.)
Baciandovi tutti, vi ringrazio again e vi lascio con la visione di un altro spettacolare video fatto dalla sempre meravigliosa Callie.
So cosa vi state chiedendo ma no, non la pago. Per quanto possa sembrare assurdo, lo fa di sua spontanea volontà ed io non posso che gongolare per una tale fortuna ^‿^




Kiss kiss Chiara

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Capitolo 22
*** Un futuro imbarazzante ricordo ***


Un futuro imbarazzante ricordo
Detective Martinsson



XXII. Un futuro imbarazzante ricordo



«Alla fine mi ha costretto ad accompagnarla.» Anne-Britt ride di cuore ed io sospiro stancamente. «E ovviamente devo anche andare a riprenderla e riportarla a casa.»
«Come se ti dispiacesse tornare in ospedale.» Le getto uno sguardo falsamente offeso, ma poi mi sciolgo in un sorriso.
«Forse la settimana prossima lo dimettono.»
«Bene, così la signora Fustern può trasferirsi direttamente a casa sua!»
«È questa la mia paura - anche quella di Eric, credo.» Ridiamo entrambi mentre un agente fa scivolare una cartella sulla scrivania.
«Deve essere archiviata.» Annuisco e la prendo.
«Me ne occupo io.»
Tornare alla normalità non è stato possibile, in compenso ne ho dovuta creare una nuova.
Passare da Eric prima di venire a lavoro e poi di nuovo prima di tornare a casa. Qualche volta sono riuscito anche a scappare lì durante una pausa pranzo e poi la signora Fustern mi ha ufficialmente nominato suo autista personale e non si fa scrupoli a chiamarmi anche nel bel mezzo del lavoro per chiedermi di andare a prenderla e portarla da Eric - visto che i bignè alle castagne sono ancora caldi e “curano tutti i mali", le diceva sua nonna.
Appena ha saputo dell’incidente di Eric, mi ha tartassato di telefonate per sapere come stesse, rimproverandomi perché non le avevo comunicato la cosa. Della collana non ha più fatto parola.
Eric dal canto suo sembra felice delle sue visite come di quelle dei suoi colleghi che, a pomeriggi alterni, trovo a far confusione nella sua stanza, con buona pace delle infermiere.
Eric sembra tante cose da quando è in ospedale.
Gli hanno tolto tutti i macchinari e può anche alzarsi con le dovute attenzioni dato che ha ancora i punti di sutura sull’addome. Il livido sul suo viso sta sfumando giorno dopo giorno mentre il sentimento che provo per lui cresce a dismisura ogni volta che trovo il suo sorriso ad aspettarmi.
È passata una settimana da quando le nostre mani si sono sfiorate la prima volta, e si sono sfiorate sempre più spesso. Sempre più spesso sono le mie a cercare le sue.
Il cellulare squilla, il nome che lampeggia non mi stupisce.
«È lei?» Noto che non stupisce neanche Anne-Britt. Annuisco e guardo il dossier da archiviare. Mi porterà via qualche ora, dovrei dire alla signora Fustern che deve chiamare un taxi.
«Vai pure, questa la sbrigo io.» La cartella sparisce dalle mie mani prima che possa replicare. «Avanti, rispondi, altrimenti si preoccuperà.» Sorride strizzandomi un occhio.
«Ricambierò il favore, lo giuro!» Le grido dietro mentre si allontana scuotendo una mano di spalle.

Non sono ancora arrivato alla stanza che sento il chiacchiericcio di Amanda e naturalmente il silenzio di Eric. Mi lascio scappare un sorriso. Spingo la porta ed entro silenzioso.
«...Quindi non mi sembra un buon motivo per saltare la messa del sabato mattina.» Eric annuisce ed alza gli occhi su di me. Non riesco neanche a dirgli Ciao che mi ritrovo le mani della signora Fustern attorno al braccio.
«Figliolo, sei in ritardo!»
«Ero in centrale, non potevo venire prima.» Neanche il tempo di un passo ché mi trascina di nuovo alla porta.
«Eric, tesoro, vengo a portarti le meringhe giovedì.»
«Grazie, Amanda.» Lo guardo da sopra la testa della donna e gli sospiro un muto “torno subito” a cui risponde con un sorriso.

Mantengo fede alla promessa e, dopo aver accompagnato la signora Fustern ad Hedeskoga che come ogni volta continuava a ringraziare Nostro Signore per trovare Eric migliorato giorno dopo giorno - un grazie anche da parte mia - riesco a tornare in ospedale abbastanza velocemente, nonostante i semafori rossi che mi giocano contro.
Quando parcheggio però noto il furgone di Hernest arrestarsi qualche posto più in là. Perfetto, oggi doppia visita. E a me quando toccherà?
Sospiro deluso e lo guardo salire le scale. A questo punto tanto valeva fermarsi dalla Fustern ad assaggiare lo sformato di funghi... Aveva anche insistito tanto.
Ieri c’era Lars, l’altro ieri Steven e quell’altro con quel nomignolo ridicolo, il giorno prima ricevo una chiamata da Lisa nell’unico momento in cui eravamo soli.
Non ce la faccio più!
Sarò un egoista, ma vorrei solo avere un po’ di tempo per godermi la sua compagnia. Ne ho sprecato così tanto che ora lo bramo fisicamente.
Tamburello con le dita sul volante guardando l’entrata per dieci minuti buoni. Potrei comunque salire, magari Hernest deciderà di accorciare la visita se io sono lì.
Non faccio in tempo a darmi del bambino per quel pensiero ché lo vedo riscendere.
Sale sul furgone e poi va via.
Meno male, visita lampo anche oggi. Indosso il mio bel sorriso soddisfatto e vado a godermi il mio turno.
Scale, ascensore, corridoio.
Prima di aprire la porta mi sistemo i capelli, stiro il bavero della camicia e mi dico che avrei dovuto farlo in macchina, almeno lì c’era un dannatissimo specchio.
Entro nella stanza ma con mio stupore mi accorgo che il letto è vuoto.
«Eric?» Poi sento il rumore del rubinetto. Deve essere in bagno, di fatti un secondo dopo esce.
«Ehi, ce l’hai fatta?» Mi sorride barcollando verso il letto.
«Aspetta.»
«Ce la faccio, tranquillo.» Gli prendo comunque un braccio e lo aiuto a sedersi sul letto.
Che testone! Quante volte gli devono dire di non alzarsi da solo? Io quante volte gliel’ho detto? E mi avesse ascoltato una volta.
«Se si aprono i punti resti qui un altro mese» sibilo mentre si stende sulle lenzuola. Lui mi risponde con un sorrisetto ed io sospiro. «Ho visto Hernest.»
Eric si sistema piano sul letto facendo attenzione a non sforzare il polso sinistro con il tutore. «Sì, non sei l’unico che mi fa visita. L’avrai notato.»
«Sì, ho notato.» Reprimo una smorfia divertita mordendomi un labbro e come sempre lo sguardo di Eric è capace di sciogliermi. «Come ti senti oggi?»
«Bene. Domani mi faranno delle analisi e potrebbero anche dimettermi prima del previsto.»
«Davvero?» Annuisce e poggia la testa contro il muro.
Non credevo lo avrebbero fatto così presto ma non posso negare di essere felice di vederlo fuori da questo ospedale. Finalmente potrei...
Mi ritrovo a guardare le sue labbra.
Mi sono obbligato a non lasciarmi andare finché saremo stati in questa stanza, ma diventa difficile ogni giorno di più. Mi sono fatto bastare le sue mani sulle mie, i nostri discorsi vaghi su tutto, le sue battutine, il mio immancabile rossore. Adesso non so quanto possano davvero bastarmi.
«Che c’è?» Torno ai suoi occhi e scuoto la testa. Devo essermi imbambolato senza accorgermene. Eric ridacchia e mi fa segno di avvicinarmi. Mi accomodo sul letto e subito le sue dita trovano le mie. «Hai arrestato qualcuno oggi?»
«No, però ho redatto un importantissimo dossier su un postino» sospiro sarcastico e lo sento ridere.
«Un lavoro difficile, immagino.»
«Altroché!» Condivido quella risata ma mi ritrovo nuovamente a vagare con gli occhi sulla sua bocca.
Sono costretto ad abbassare lo sguardo sulle nostre mani. «Per quanto devi portare quel tutore?» Cerco di concentrarmi su altro.
Eric muove il polso fasciato di nero ed alza le spalle.
«Non so, un’altra decina di giorni.»
«Deve essere fastidioso.»
«Non come si crede.» Ed affonda le dita fra i miei capelli e come ogni volta mi ritrovo a trattenere un sospiro. Vorrei solo chiudere gli occhi e godermi questa sensazione. «Quanti ricci, detective!» Sorrido e arrossisco - il classico.
«Quando ci siamo incontrati mi dicesti che non avevi mai visto un poliziotto con i ricci.»
«È la verità.» Le dita mi accarezzano piano la nuca poi scendono sul viso finché non mi solleva il mento con l’indice. «...Such a cute cop
Non riesco neanche chiedergli cosa abbia detto perché tutta la mia attenzione è sul suo indice che mi accarezza le labbra.
No, non farlo, così mi fai perdere quel poco di controllo.
Mi scosto quel tanto per fargli lasciare il tocco ed Eric decide di non rifarlo. Dentro di me gliene sono grato e allo stesso tempo avrei voluto che continuasse.
Sono l’emblema vivente della contraddizione.
Eric abbandona anche la mia mano, però, e si poggia nuovamente contro il muro. Stavolta è lui a guardarmi in uno strano silenzio. Mi gita.
«Tu mi piaci.» E quelle parole mi agitano ulteriormente. Sentirglielo dire così apertamente mi fa quasi tremare le gambe. «Nel caso non ti fosse chiaro abbastanza.»
Mi lascio sfuggire un risolino colpevole ed annuisco. «No, mi era chiaro.»
«Bene.» Sul suo viso un sorriso appena disegnato dove rimango impantanato ancora una volta. «Ne vuoi uno?»
Sbatto le palpebre disorientato. «Scusa?» E lui ride.
«Li ha portati Amanda. Non so come si chiamano... Ne vuoi uno?» Noto il vassoio sul comodino accanto con una decina di biscotti ripieni.
«Oh, sì, certo. Grazie.» Ne afferro uno e lo porto alla bocca. È morbido e sento il sapore inconfondibile di marmellata alle ciliegie, ed io adoro la marmellata alle ciliegie.
Amanda, altro punto a tuo favore.
«Buono...» sospiro leccandomi appena un dito per pulirmi dallo zucchero a velo sulla superficie. «Ne posso prendere un altro?» Eric annuisce e sorride.
«Portateli, io non posso mangiarli.»
«E perché?» chiedo afferrandone un altro.
«Le analisi di domani.» Ah giusto... Beh, potrei portarmeli davvero a casa, stasera sarà piacevole abbuffarmi prima di andare a dormire.
«Neanche un assaggio?» Non finisco neanche di dirlo che Eric ha già preso la mia mano. Il cuore mi arriva in gola quando avvicina le mie dita alla bocca e lecca via lo zucchero.
Meno male che siamo già in ospedale, così posso collassare senza problemi.
Sento il calore umido sui miei polpastrelli e il cuore dalla gola scendere fin dentro lo stomaco. Forse più giù.
«Solo un assaggio» sospira infine lasciandomi andare la mano. Ancora un sorriso.
Ok, alzo bandiera bianca.
Credo di non poter mantenere fede al mio buon proposito, forse non lo crede neanche la mia testa, visto che si spinge in avanti sempre più vicina a quella di Eric. Quando arrivo ad un soffio dal suo viso lui sta ancora sorridendo e lascio che quel sorriso si stampi sul mio.
La sua mano mi sfiora una guancia ed io avvolgo le mie dita fra i suoi capelli sciolti. Il battito accelera e mi spingo di più verso di lui. Dischiudo le labbra e mi lascio travolgere da quel turbine di sensazioni da cui ho stupidamente voluto stare alla larga.
Sulla lingua sento ancora il sapore della marmellata.  

Non so per quanto tempo ci siamo baciati, so solo che le labbra mi bruciano e che quelle di Eric non hanno smesso di sorridere.
Baciare un uomo è diverso da baciare una donna. È quasi una sfida, è una lotta. È rude dolcezza, un prendere senza chiedere. O forse è perché è la sua bocca e non quella di qualcun altro.
L’unica certezza è che non credo di poterne più fare a meno. Di fatti torno a sfiorargli le labbra con le mie stando attendo a non spingermi contro il suo corpo ancora dolente, per quanto senta le mani fremere per scendere oltre quel collo caldo.
La sua barba mi solletica i polpastrelli mentre mi chiedo se sarò mai in grado di uscire da questa stanza, di alzarmi da questo letto, di staccarmi dal suo calore. La mia bocca sembra non abbia desiderato altro in vita sua che assaggiare la sua.
La mia presa sui suoi capelli si fa più ferrea e mi ritrovo a mordergli un labbro sentendolo ridere. «Guarda che mi vendico poi... » Quando sono i suoi denti ad affondare nella mia carne mi lascio sfuggire un leggero rantolo, lo chiamerei gemito se avessi meno pudore.
«Eric...» soffoco la mia voce ancora una volta sulle sue labbra e davvero non sento altro al di fuori di questo desiderio cullato così a lungo. Purtroppo per me, non sento neanche la porta che si apre, ma odo perfettamente un colpo di tosse.
Oddio!
Sobbalzo indietro con il cuore in gola e le labbra a fuoco. Sulla soglia il viso appena a disagio del Dr. Lindgren.
ODDIO!
«Dottore!»
Imbarazzo. Imbarazzo. Imbarazzo!
Il mio cervello è in stand-by. Non riesco a pensare. Sento solo il viso in fiamme.
Scatto in piedi e mi sistemo impacciato i capelli con una mano, quella sfuggita via dalla calda pelle di Eric. La lingua passa veloce sulle labbra come se questo bastasse per cancellare questo assurdo momento.
«Non volevo disturbare.»
«No, nessun disturbo!» affermo con un tono di voce appena più alto del normale. Eric invece sembra estremamente tranquillo e non capisco come faccia.
In fondo me lo merito. Devo sempre esagerare. Sarebbe bastato fermarsi ed invece non sono riuscito a frenare la voglia di sentire ancora il suo sapore.
«Ero venuto per avvisarla che domattina alle 7 passeranno per i prelievi e che questa sera la cena potrebbe essere un po’ più leggera.» Seguo il discorso con fatica perché nella mia testa slittano altri pensieri, ben più piacevoli. «Non li avrà mica mangiati?» Il Dr. Lindgren indica i biscotti della signora Fustern ed Eric mi guarda con un sorriso compiaciuto.
«Solo un assaggio.» Sono costretto a distogliere lo sguardo per non farmi prendere da nuovi pericolosi istinti.
Smettila, Eric!
«Bene.» Il Dr. Lindgren controlla la cartella per qualche secondo. «Allora, signor Huntsman, si riposi ed eviti qualsiasi stress.» I suoi occhi nocciola mi fulminano. «Qualsiasi tipo di stress. Ci siamo intesi?» Annuisco vigorosamente. «Se i risultati delle analisi saranno positivi, fra qualche giorno la dimetteremo ed avrete tutto il tempo per recuperare. Ma per adesso cerchiamo di mantenere a freno gli ormoni.»
Voglio sotterrarmi all’istante.
«Va bene, dottore.» Eric risponde con la solita tranquillità ed io resto a guardarlo incredulo ed ammirato. Vorrei esserne capace anche io.
Il Dr. Lindgren esce, non prima di averci bacchettato ancora, ed io mi lascio andare ad un sospiro intenso poggiandomi con le mani contro il bordo d’acciaio del letto.
Non ci credo che siamo stati appena beccati mentre ci baciavamo. Il nostro primo vero bacio sarà per sempre accompagnato da questo imbarazzante ricordo.
«Tutto ok?» Annuisco sospirando ancora e mi passo una mano dietro al collo. È dannatamente caldo e sudato.
«Più o meno.» Molto meno che più, a dire il vero. Sollevo gli occhi su quelli di Eric che sorride divertito. «Non è divertente» brontolo ma lui ridacchia allegro. Giusto, adora vedermi in imbarazzo... Molto gratificante!
«Oh, sì che lo è.»
«No, non lo è! Credevo sarei morto dalla vergogna!» La sua risata si fa più calda e a malincuore mi ritrovo a ricambiarla. «Che imbarazzo...» Mi siedo sulle lenzuola passandomi due dita sulla fronte. Non riuscirò più a guardare il Dr. Lindgren senza arrossire. Credo avesse capito che c’era qualcosa di diverso dalla semplice amicizia a legarci, ma una cosa è crederlo un’altra è vederlo!
Quasi riesco a risentire la mia voce che geme il suo nome...
Le dita di Eric mi arruffano i capelli riportandomi altri ricordi appena vissuti.
«Coraggio, sopravvivrai.»
«È tutta colpa tua...» Affermo voltandomi a guardarlo.
«Mia?» Lui ancora sorride.
«Se non mi avessi istigato io...» Avrei anche potuto trattenermi.
Sì, come no.
«Se non lo facevi tu, l’avrei fatto io.» Il suo sorriso sfuma in un’espressione dolce che mi fa sentire in difetto, perché non è colpa sua, non esiste alcuna colpa. Sono solo il solito melodrammatico, come dice Lisa. Ingigantisco sempre tutto. Anche se il Dr. Lindgren ci ha visto, non importa. Non voglio nascondere ciò che provo e non devo neanche nascondere ciò che quei sentimenti mi portano a fare. Bacerei Eric per il resto della mia vita, e lo farei davanti al mondo intero. Potevo perderlo, ora è qui e lo sento più vicino di quanto non avessi mai sperato. Gli occhi degli altri non contano, contano solo i suoi che in questo momento mi guardano come forse non merito di essere guardato.
Sollevo le spalle e gli poso un piccolo bacio sulle labbra, ma quando sta per diventare più profondo mi tiro indietro.
«Niente stress.»
«Questo non è stress.» E torna a baciarmi.
«Per me lo è, credimi...» Sorride contro la mia bocca ed ignoriamo bellamente le raccomandazioni del Dr. Lindgren.
Scusi dottore, ma credo che il freno sia bello che andato.

La tivù parlotta di qualcosa che è accaduto in Etiopia, una scoperta archeologica o roba simile. Non riesco realmente ad interessarmi, mentre sento sotto al palato il sapore dolce dei biscotti della signora Fustern.
Ne sono rimasti solo due, ed ogni volta che ne mangiavo uno, sulle labbra sentivo quelle di Eric. Il suono della sua risata copriva il mio masticare, le sue mani scivolavano sulla mia bocca al posto dello zucchero.
Mangio l’ultimo.
Fra i denti la fame diventa desiderio; sulla mia lingua, crema che diventa pelle.
Ogni morso è un bacio che gli darò domani.

















Continua...






NdA.
E beh, dopo 'sto capitolo, mi sono sentita parecchio meglio, devo dirlo. Spero sia stato lo stesso per voi.
Magnus di certo sta meglio, a parte la figuraccia col dottore, ma lui ormai è abituato a farle u.u’
Ed ora, forza, tutti a fare sogni erotici coi pasticcini alla marmellata!
kiss kiss Chiara

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Capitolo 23
*** Senza nome ***


23. Senza nome
Detective Martinsson



XXIII. Senza nome



Lisa ha la fronte aggrottata, le labbra strette in una linea rigida ed un sospiro spazientito pronto ad uscire. So cosa vuole dire, so che non posso più sottrarmi.
«Lo dimetteranno fra due giorni. È solo questione di due giorni, Lisa.» Cerco di essere convincente, cerco di essere rilassato, cerco di contenere l’ansia.
Lisa è una sfinge, mi scruta dritto negli occhi come potesse facilmente intuire che no, non sto riuscendo in nulla.
«Senza denuncia, non si può aprire l’indagine.»
«Lo so, Lisa, lo so benissimo, perciò ti chiedevo solo due giorni. Solo due.» A questo punto non mi resta che affidarmi allo sguardo disperato e a un ti prego sillabato con le palpebre.
«Solo due.» Mi punta la penna contro ed io annuisco grato, ma quando si allontana nello stomaco ho una tormenta di inquietudine.
È stato tutto inutile. Ho tentato più volte di aprire il discorso con Eric e in ognuna di esse si trasformava in una statua di gesso. “Non lo so” oppure “Non ricordo.” L’altro giorno ne ha aggiunta un’altra: “È acqua passata.” Ho dovuto trattenermi dal prenderlo a pugni sul serio.
No, non è acqua passata, non lo sarà finché quelli saranno in giro liberi, non lo sarà finché non sarà stata fatta giustizia.
Sospiro sonoramente e scuoto la testa nella solitudine dell’ufficio. Dannazione, non so più cosa fare. Parlare della sua aggressione equivale ad un pomeriggio di silenzi e frasi stracciate fra i denti, equivale alla mia frustrazione nel sentirmi inutile e alla sua ostinazione nel farmi pentire di aver aperto bocca a riguardo. È il pantano dove finiamo per rovinare tutto, dove annegano i baci e le battute, e resta solo una patina appiccicosa a dividerci. Odio doverlo fare, odio che Eric sia così testardo, odio non riuscire a capirne il motivo.
Ha paura, è normale, è umano averla dopo ciò che gli è successo, ma perché non si fida di me? Vorrei solo che si aprisse sul serio, che mi confidasse i suoi dubbi, i suoi timori, ciò che lo frena in un silenzio soffocante se gli faccio qualche domanda su quella sera. Quanta strada posso fare se la meta si allontana spontaneamente ogni volta che tento di raggiungerla?
È avvilente e arrivo al punto di dire: ok, facciamo come vuole. Non ne parliamo più.
Il suo calore è più importante della giustizia. Magnus lo accetta con codarda facilità, il detective Martinsson ripudia quell’idea come fosse una bestemmia.
Di nuovo diviso a metà, di nuovo a un bivio e sei sempre tu a spezzarmi...
Sospiro ancora, stavolta di rabbia, quella stessa rabbia di cui mi sento troppo saturo.
Devo fare qualcosa, qualunque cosa per smuovermi da questo stallo
«Derek?» La voce esce fuori mentre sto ancora elaborando il pensiero. L’agente Carlsson si ferma e mi guarda.
«Mi dica, detective.» Potrei provarci, potrebbe essere l’unica soluzione. Gli faccio segno di avvicinarsi e lui esegue quel tacito comando.
«Sei occupato in qualche indagine al momento?» Scuote la testa ed io annuisco. Ok, facciamolo. «Devi farmi un favore.»

«Lascia che gli parli io.»
Stringo il volante e scuoto la testa. «Sarebbe inutile. Non direbbe una parola.»
«Magari con me sarebbe diverso.» Volto lo sguardo verso Anne-Britt ma continuo a scuotere la testa. «Magnus, è logico che abbia paura, ma ciò che mi sembra ti sfugga è capire per chi ha paura.»
«Che vuoi dire?» Non riesco a seguire il suo discorso, in realtà sto pensando se la mia sia stata una buona idea. Devo solo aspettare.
«Voglio dire che Eric non teme che quelli possano vendicarsi su di lui se li denuncia, ma che possano farlo su di te.» Cosa?
Stacco i pensieri e sbatto le palpebre con un sorriso tragicamente divertito.
«Ma io sono un detective, Anne-Britt. Di cosa dovrebbe aver paura? So fare il mio lavoro.» Per quanto se ne dica il contrario...
Eric ha così poca stima di me?
«Ma per lui no, non solo, per lo meno. Sei qualcuno di importante e questo dovresti averlo capito.»
Eric teme che Gambero e i suoi possano rivalersi su di me? È un pensiero che mi riempie di diverse emozioni, la più forte è ancora la rabbia, però. Sono in grado di affrontare chiunque, non sono più il ragazzo spaventato di qualche tempo fa, non sono neanche più un uomo in bilico sulla passerella di quel molo 16. Ho trovato, anche se a fatica, il mio equilibrio e non cederò più.
Devi fidarti di me.
«Lo convincerò, vedrai» affermo parcheggiando sotto l’ospedale. Anne-Britt non dice nulla ma noto che non ne è così convinta, non lo sono neanche io, ma devo farcela.
Due giorni sono tanti, quante cose possono cambiare in due giorni?
La mia vita è mutata radicalmente in appena cinque minuti.

Anne-Britt è venuta a trovare Eric un paio di volte e benché temessi non fosse una buona idea, ho dovuto ricredermi subito. Passano quasi più tempo a chiacchierare loro due di quanto non facciamo noi! Se non avessi avuto determinate conferme da Eric e non conoscessi Anne-Britt, potrei anche essere geloso... in verità lo sono lo stesso, ma ho decenza di non mostrarlo.
«Ancora due?»
«Diciamo uno e mezzo.» Si scambiano un abbraccio ed io stringo la mascella.
Sei ridicolo!
Lo so, ma non riesco a farne a meno.
Eric mi sorride ed io sollevo appena una angolo della bocca. Purtroppo il discorso di stamani con Lisa mi risuona ancora nella testa così come le parole che ho detto a Derek. Deve accorgersene e mi scruta in silenzio.
«Lo sai che la Fustern vuole le chiavi di casa tua?» Anne-Britt interrompe il suo muto studio e lo fa sorridere di nuovo.
«Perché mai?»
«Credo voglia rassettare prima del tuo rientro» rispondo io e mi avvicino di qualche passo al letto. Rimango in piedi, mentre la seggiola da visitatore viene occupata da Anne-Britt. Non resta mai a lungo. Di solito una visita veloce di cinque minuti e poi va via. Lei abita a un paio di isolati da qui e per quante volte le abbia detto che potrei accompagnarla, tante lei ha rifiutato dicendomi che preferiva sapermi qui.
Sì, la mia gelosia è decisamente ridicola.
«Rassettare?» ripete divertito Eric ed io annuisco.
«Con ogni probabilità mi obbligherà ad aiutarla» sospiro certo di ciò che dico.
«Allora le darò sicuramente le chiavi!» Eric ride ed Anne-Britt lo accompagna.
Sì, prendetevi gioco di me, ormai c’ho fatto l’abitudine.
Sorrido comunque, perché è un ruolo che alla fine non mi spiace; per quel sorriso lo gioco volentieri.
«Però avrai bisogno di qualcosa da indossare per uscire dall’ospedale.» Giusta osservazione di Anne-Britt. Mica può andarsene in giro con quel camicie bianco?
Potrei passare da casa sua e-
«Chiederò a Hernest di prendermi qualcosa da casa.» Hernest? Mi gelo all’istante. Perché Hernest?
Anne-Britt nota la mia reazione, Eric no.
«È di strada?» gli chiede lei ed un groppo fastidioso mi sta formicolando dalla gola allo stomaco mentre tengo gli occhi fissi sulle lenzuola.
«No, ma...» Quel silenzio mi obbliga a risollevare gli occhi sul suo viso e noto che finalmente ha capito. Non aggiunge altro e scosta lo sguardo altrove.
Altro silenzio.
«Forse è il caso che vada.» No, non andartene altrimenti potrei soffocarlo con un cuscino! «Devo preparare ancora la cena.» Le lancio uno sguardo che è una richiesta d’aiuto ma lei si alza e mi sorride, poi saluta Eric e si avvia alla porta.
«Ci vediamo domani.»
Il mio Ok è poco più di un rantolo.
La porta si chiude e torna il silenzio. Non ho il coraggio di guardarlo, non ho il coraggio di chiedermi perché abbia detto quella frase. Hernest è un suo amico, un suo caro amico, ma allora io cosa sono?
«Ehi?» Inghiotto e sposto gli occhi sul suo viso. Le mie labbra ancora incollate fra di loro. «Non capisco perché stai facendo così.»
«Così come?» chiedo lapidario affondando le mani nelle tasche dei jeans.
Eric sospira e scuote la testa.
«Ok, come ti pare.» Eccolo: quando bisogna affrontare un discorso lo chiude prima di iniziarlo. È una cosa che mi fa imbestialire.
«Non ti fidi di me come poliziotto e posso anche accettarlo.» I suoi occhi mi fulminano, i miei sono due fiamme rabbiose. «Ma che non ti fidi di me neanche come... come -non lo so, come amico? Beh mi fa incazzare!»
«Ma che stai farneticando?»
«Andiamo, Eric, non costringermi a...» Mi passo una mano sul viso camminando furiosamente avanti e dietro. Dannazione, controllo perso.
«A fare cosa? Magnus parla chiaro!»
«Chiaro? Vuoi che parli chiaro?» Lo vedo irrigidirsi mentre non so cosa cavolo sto dicendo. Cosa credo di fare con questo atteggiamento stupido? Eppure non riesco a frenarmi. «Cosa sono per te? Cosa siamo?» La gola trema e la voce si incrina. «I-io non lo so» Sono costretto a spostare lo sguardo. Mi avvicino alla finestra e mi poggio con entrambi i palmi sul freddo marmo.
«È per la faccenda di Hernest? Come puoi reagire così?!»
«Io ho bisogno di una risposta!»
«Perché diavolo vuoi una risposta per tutto?»
«Perché sono fatto così e sarò fatto male, ma non posso cambiare... Neanche per te!» Non mi volto e serro gli occhi per impedire a qualsiasi emozione di bagnarmeli. Non ora, non davanti a lui.
«Non te lo chiederei mai...» La sua voce si abbassa ed io sento il corpo tremare. Sono un disastro ambulante. Stringo le dita in un pugno e respiro a fondo. «Io non sono bravo con le parole e non so cosa vorresti che dicessi.» Vorrei voltarmi e vedere il suo viso, ma so che poi non avrei più alcuna forza di resistere. «Cerchi una spiegazione per tutto, vuoi dare un nome a tutto, beh, io quel nome non ce l’ho ed onestamente non me ne frega nulla di trovarlo - e Santo Dio guardami in faccia per lo meno!»
«Chiudiamola qui, è meglio.» Cerco di respirare in modo regolare ma escono solo affanni.
«Vuoi scappare anche questa volta?» Non è una domanda, è una secca affermazione e dalla mia gola sale una risata isterica.
«Non sono io quello che scappa, Eric, sei tu che non vuoi farmi avvicinare.» Finalmente mi volto e sul suo viso incontro due occhi che mi guardano severi. «Perché non ti fidi di me?» È un sospiro lieve che mi costringe a trovare altra forza per trattenere lacrime e urla. «Io vorrei solo che...» Scuoto la testa con un sorriso triste. «A volte mi sembra che ci sia ancora un vetro a dividerci... Perché?»
«Neanche io so cambiare.»
«Io non voglio che tu cambi, vorrei solo conoscerti.» Non mi rendo conto del tremore della mia bocca, ma gli occhi di Eric lo vedono chiaramente. «Vorrei vedere chi sei...»
«Potrebbe non piacerti ciò che sono.»
«Non potresti mai non piacermi.»
Un piccolo sorriso gli piega le labbra. «L’hai detto...»
Con lenti passi mi avvicino al letto. «Avevi bisogno che lo dicessi?» Avevi bisogno che ti dimostrassi ancora quanto sei importante per me?
«Magnus...» Mi prende la mano e come ogni volta mi sembra perfetta per stare stretta nella sua.
«Non voglio obbligarti a dire qualcosa che non vuoi dire.» Che non senti. «Voglio solo poter...» Mi lascio cadere sul letto stringendo forte le sue dita e le labbra di Eric catturano le mie. La rabbia sfuma impercettibilmente lasciando spazio a qualcos’altro a cui neanche io so dare nome.
«Ultima porta a destra, secondo cassetto... lì ci sono i boxer.»
Rido sentendomi ancora una volta vittima di questo sentimento che non so come possa stare tutto in questo piccolo cuore.
«Vuoi che ti porti solo i boxer?»
«Sono settimane che sono senza quindi mi basterebbero quelli, credimi.» Gli accarezzo il viso e il tiepido alone di quel livido sulla sua guancia. Sul sopracciglio, un cerotto dove prima c’erano i punti. Eric bacia le mie dita quando sfiorano le sue labbra.
Non voglio perdere tutto questo, non voglio rovinare tutto. Non sopravvivrei. «Vuoi sapere anche dove sono le camicie e i pantaloni?»
Annuisco ridacchiando e poi mi perdo nei suoi occhi. «Voglio sapere tutto... Se avrai voglia di dirmelo.» Se avrai voglia di aprirmi il tuo cuore. Le chiavi del mio sono già tue, lo sono state dalla prima volta che mi hai guardato.
«Va bene, detective... chiedi pure.» Mi bagno le labbra e scuoto la testa.
«Non ora.» Adesso voglio solo baciarti fino a perdere il fiato.

Mentre guido non posso fare a meno di sorridere guardando la chiave poggiata sul cruscotto, la chiave di casa sua.
Non ficcare il tuo bel naso da altre parti. Ok?
L’ha detto con un sorriso però era chiaramente una frase ben poco ironica. Non voglio invadere la sua privacy, non più, però mi chiedo quanto sarò in grado di mantenere questo bel proposito.
La Ford di Eric è parcheggiata davanti al vialetto. È stato Hernest a riportargliela insieme a Lars. Hernest, l’amico fidato...
Scuoto la testa e scaccio via l’ultima polvere di quel fastidio mentre parcheggio accanto alla sua auto.
Le luci esterne sono accese e mi fa strano pensare che sono state accese per tutti questi giorni senza un motivo. Getto un occhio alla casa di Amanda da cui intravedo il bagliore della cucina. Pima di tornare a casa le farò un saluto, e magari mi fermerò a cena. Non ho voglia di cucinare e di certo lei mi inviterà, ma la verità non è questa. Il vero motivo è che quando torno in quell’appartamento silenzioso, la mancanza di Eric diventa quasi insostenibile. Mi chiedo cosa accadrà quando riprenderà la sua vita, quando non ci sarà più quella stanza sterile come sfondo dei nostri strani incontri.
Mi inviterà da lui? Verrà da me? Usciremo come una coppiettina al loro primo appuntamento?
Non c’è nulla di canonico in questa storia senza nome, è accaduto tutto in un ordine forse sbagliato, ma è accaduto.
Mentre infilo la chiave nella serratura, rivivo il giorno in cui letteralmente scappai da qui, scappai da lui. Ancora mi prenderei a schiaffi!
Accendo la luce chiudendo la porta alle mie spalle. È tutto così silenzioso ma soprattutto freddo. Il camino è nero e spento, non c’è il fuoco a disegnare strane sagome sul soffitto. Sfioro con le dita lo schienale del divano e mi mordo le labbra con un sorriso.
Abbracciati stretti su questo divano, baci riscaldati dal calore delle fiamme...
È una fantasia che mi fa imbarazzare nonostante sia solo in questo salotto.
No, meglio prendere quei vestiti e tornare a casa prima che il battito acceleri troppo.
Salgo le scale velocemente ma quando arrivo in cima mi arresto. L’unica volta in cui sono stato qui è stata durante quell’orribile interrogatorio che ha minato per sempre tutte le mie certezze.
La camera di Eric è l’ultima porta a destra. Cammino lento nel corridoio cercando di ignorare la voglia di aprire le altre porte. Magari potrei solo dare una sbirciata veloce, ma quando giungo davanti alla sua stanza quel desiderio sparisce. La porta è aperta ed accendo la luce illuminando l’ambiente.
Il suo letto cattura subito la mia attenzione: è grande, con una trapunta di un tenue paglierino e due guanciali gonfi. Mi viene da sorridere.
Così sei uno che gonfia i cuscini...
È lo stesso vizio di mia madre che però non ho voluto ereditare, preferendo tenermi il mio cuscino "sottiletta".
Quel pezzo di vita celata mi scalda e diverte allo stesso tempo. Domani una battuta non riuscirà ad evitarla.
Ai lati del letto, due comodini in coordinato con l’armadio frontale, ma solo su uno c’è una piccola abat-jour e capisco che Eric dorme sul lato sinistro. Io ho sempre dormito su quello destro.
Sei la mia perfetta metà, vedi?
Mi sento ridicolo a fare certi pensieri e mi torna in mente il nostro piccolo scontro di oggi.
Cerchi una spiegazione per tutto, vuoi dare un nome a tutto, beh io quel nome non ce l’ho ed onestamente non me ne frega nulla di trovarlo.
Anche se Eric prova qualcosa per me, non credo sia lo stesso sentimento che provo io, non ancora. Chissà se mai lo sarà.
Tu mi piaci.”
Ma io ti amo...
Sospiro sedendomi sul letto ed accarezzo il suo cuscino.
Non so se lo abbia capito, non so se preferisca ignorarlo. È l’unica curiosità che non voglio soddisfare, perché è l’unica che potrebbe davvero ferirmi.
Vago con gli occhi nella stanza e li porto al comò sul lato destro sovrastato da un grande specchio in cornice di legno.
Secondo cassetto. Il cassetto dei boxer.
Partiamo da quelli.
Mi alzo e mi avvicino cercando di non pensare all’amarezza che mi ha assalito qualche attimo fa e mi lascio andare ad un risolino goffo quando apro la cassettiera e mi trovo davanti, ordinatamente piegati, boxer e calzini.
Sto mettendo le mani nella biancheria intima di Eric e, benché mi abbia dato il permesso, mi sento comunque un pervertito. E pensare che un tempo amavo sbottonare reggiseni...
Credo che lo rifarei ancora. Credo che farei ancora sesso con una donna, in fondo non sono immune al fascino femminile, l’unica differenza è che non ho mai baciato qualcuno con lo stesso desiderio con cui ho baciato Eric. Non mi sono mai sentito un completo idiota davanti ad un sorriso, non ho mai sognato per notti intere due occhi azzurri che mi guardavano. Non ho mai sentito azzerarsi il respiro al solo pensiero di poter sentire due mani su di me.  Non ho mai provato la stessa paura e, al tempo stesso, il folle desiderio che questo accada.
Sfioro la stoffa e sospiro affannato. Dannazione, pessimo momento per farsi prendere dal batticuore - o dall’ormone, come direbbe il Dr. Lindgren.
Sono costretto a chiudere il cassetto ma non riesco a chiudere anche i pensieri che mi stanno affollando la testa.
Non posso fare una cosa simile nella stanza da letto di Eric. Ma forse è proprio questo che mi impedisce di controllare le mie pulsazioni.
Il suo profumo avvolge ogni angolo, dalla trapunta alle tende, il suo cuscino cattura i miei occhi, l’immagine del suo viso assopito in piena notte, delle lenzuola che sfiorano la sua pelle nuda, del sudore che incolla i capelli sul suo collo. Le labbra socchiuse e il respiro caldo che si perde sulla mia bocca.
È un pensiero che scivola dritto nello stomaco e scende fino ad arrivare a farmi tremare le ginocchia.
Almeno il bagno è a due passi.

Mi sciacquo le mani scuotendo la testa. Maledizione, neanche avessi quindici anni!
Va bene farlo nel silenzio di casa mia, ma lasciarmi andare così in quella di Eric - e lui ancora steso in quel letto - mi risulta proprio di pessimo gusto.
Chiudo l’acqua e lancio uno sguardo alla confezione di shampoo sulla mensola della doccia. Non riesco a non afferrarlo. Apro il tappo e ne inspiro l’aroma ad occhi chiusi. Mandarino...
Mi mordo un labbro ripensando alla prima volta che l’ho sentito entrarmi nella testa e poi nel petto, come tutto ciò che ruota intorno ad Eric, come Eric stesso.
Torno in camera e vado dritto al suo armadio, quando apro le ante, il suo profumo mi investe come una tormenta, di nuovo. Le sue maglie, i suoi jeans, le sue t-shirt di cotone appese alle grucce nonostante sia ormai novembre inoltrato.
Sospiro grattandomi la testa mentre scorro con gli occhi su ogni capo e, inevitabilmente, immaginandolo sul suo corpo...
Ecco, lo sapevo, avrei fatto meglio a lasciare questo compito ingrato a Hernest.

















Continua...






NdA.
Capitolo di cemento, in quanto basilare per i futuri sviluppi. (?)
Spero sia stato gradito, e spero soprattutto di essere riuscita a restare in rating nonostante tutto.
Nel prossimo alziamo un po’ il tiro, ma nulla di scabroso, io sono pudica come Magnus u.u *mente malissimo*
Rinnovo l’avviso fatto verso l’inizio della storia in merito a leggi e procedure penali et similia. Io sono una capra immensa per cui chiedo venia da ora per le assurdità che scriverò, ma non ho avuto davvero il tempo per informarmi sulle leggi svedesi, perciò abbiate pietà. Ok?
Meno male che non potete vedere la mia faccia imbarazzata in questo momento >////<
Grazie a tutte/i, vi voglio bene <3
Kiss kiss Chiara

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Capitolo 24
*** “I” come Indagine ***


24. “I” come Indagine
Detective Martinsson



XXIV. “I” come Indagine



Sento il cellulare squillare nella giacca ma non ho voglia di alzarmi, non voglio allontanarmi da questo cuscino, il cuscino di Eric.
Con uno sbuffo raggiungo la giacca gettata ai piedi del letto, ma quando leggo il nome sullo schermo automaticamente strizzo gli occhi e stringo i denti: beccato.
«Stai ancora facendo il ficcanaso?» La sua voce mi colpisce in pieno. Ma come diavolo fa? Neanche gli avevo detto che sarei passato di qui stasera.
«Non so di cosa stai parlando...» Che pessimo bugiardo. Lo sento ridacchiare dall’altra parte e torno a stendermi sul letto, nel suo profumo.
«Hai trovato i boxer?» Sì, li ho trovati ed è stato imbarazzante quello che ne è seguito, ma meglio tenere determinate esperienze per me.
«Sei molto ordinato, non lo credevo.»
«Hai già trovato anche il cadavere sotto il letto?» Rido anche io.
«Vuoi sapere la verità?» Un verso mi risponde in senso affermativo. «Ci sono sopra...» Oddio, perché gliel’ho detto?
Un attimo di silenzio.
«Al cadavere?»
Per poco non ci rimetto un polmone. «No, al letto. Sono sul tuo letto... Spero non ti dispiaccia.»
L’ilarità sfuma e mi sento come un ragazzino alla sua prima cotta.
«Senza di me?» Mi mordo le labbra non riuscendo a rispondere e lo sento ridacchiare. «Riesco a vedere la tua faccia a fuoco.» Ed in questo momento sì, è davvero a fuoco. Mi rigiro di schiena fino a fissare gli occhi al soffitto. «Ti chiederei cosa stai facendo tutto solo sul mio letto, ma mi limiterò a invitarti a cambiare le lenzuola... Dopo.»  Se solo sapesse...
Taci, Magnus. Taci.
«Pensavo che sarà difficoltoso per te salire quelle scale quando tornerai.»
«No, non stavi pensando a quello...» Mi strappa un’altra risata.
«Sono serio.»
«Anche io.» Non riusciremo mai a fare un discorso sensato, a dire il vero non ne abbiamo fatto realmente uno, se non si tiene conto di quella pseudo litigata di oggi, ma neanche lì ci siamo detti chissà che. Alla fine tutto ciò che so è ciò che provo e mi chiedo quanta vera importanza possa avere il resto.
«Hai cenato?»
«Riso bianco e pollo freddo... Sì, diciamo di sì. Tu? Scrocchi la cena anche stasera?»
«Io non scrocco cene, sono solo cortese quando mi invitano.» Ed elemosino compagnia in tua assenza.
«Questo è scroccare, detective.» Sì, hai ragione.
«Vorrei cenare con te qualche volta...» Quella frase prende forma nella mia testa ed esce dalle labbra che neanche me ne rendo conto. Eric tace per qualche attimo ed io continuo a fissare il suo soffitto, il soffitto che lui guarda tutte le notti, forse.
«È un appuntamento?»
Sorrido. «Se lo fosse, diresti ?» Posso percepire anche il suo sorriso e il mio si allarga.
«Quanta iniziativa dietro al telefono... Chiedimelo di persona e ti rispondo.»
Che bastardo! Ma in fondo è anche questo che mi piace di lui: non so mai cosa aspettarmi. Riesce a indovinare ogni mio pensiero mentre io sono ancora vittima del suo alone di mistero. Fascino e incertezza, un binomio alquanto fatale.
«Ho preso dei jeans ed un maglione verde. Va bene?»
«Sì, ma i boxer li hai presi?» La mascella quasi mi fa male per il sorriso imbecille stampato sopra.
«Sì, ho preso anche i tuoi amati boxer.»
«Quali hai preso?» Quelli blu scuro con l’elastico rigato, ma non te lo dirò mai.
«Un paio a caso» mento e lo sento ridacchiare. «Cosa vuoi insinuare, che abbia passato il tempo a ficcanasare nella tua biancheria?»
«L’hai fatto?» Sì, ma non ti dirò neanche questo.
«Certo che no!»
«Tanto me ne accorgerei. L’hai detto tu: sono ordinato...» Il silenzio che ne segue mi incastra inevitabilmente e un’altra risata mi risuona nelle orecchie. Torno a voltarmi poggiando la guancia sul cuscino e godendomi il calore della sua voce.
«Eric?» sospiro appena ed aspetto che torni il silenzio.«Vorrei che fossi qui...»
«Prima l’appuntamento ed ora il sesso telefonico...» Credo di aver smesso di respirare e lui deve essersene accorto. «Scusa, la smetto.»
«Grazie.» Lo dico con sincera gratitudine, perché quell’argomento è ancora parecchio delicato per me, decisamente, decisamente delicato. Ho una lotta intestina fra cervello e corpo: uno cerca di razionalizzare ciò che l’altro semplicemente brama intensamente.
Una situazione per nulla piacevole, direi.
«Ehi, detective?» Eric spezza quel lungo silenzio in cui ero rimasto ad ascoltare il suo respiro.
«Sì?»
«Il cassetto del comodino, aprilo.»
«Quello a sinistra?»
«Sì, aprilo.» Mi sporgo leggermente con un leggero batticuore e quando lo apro il batticuore cresce in modo esponenziale. Le dita tremano appena mentre afferrano il piccolo cartoncino quadrato.
«L’hai conservato... perché?» Sulla carta lucida la scritta: Detective Martinsson e relativo numero di telefono.
«Per le indagini.» Sento gli occhi pungere ed una forte emozione affogarmi qualsiasi parola. Lo teneva nel comodino, accanto al suo letto. Lo ha sempre tenuto qui ed io... Ed io sono stato cieco e stupido. Sorrido ancora incredulo continuando a passare gli occhi sul biglietto da visita come fosse la prima volta che lo vedo. «Sei ancora vivo?»
«Più o meno...» Mi lascio andare ad un risolino liberatorio e lui fa lo stesso. «Ora sì che vorrei che fossi qui.»
«Ed ora sì che mi stai chiedendo sesso telefonico.» La mia risata aumenta mentre stringo fra le dita quella piccola confessione.
«Non so neanche come si fa» ammetto candidamente.
«Oh, non avevo dubbi!» Mi copro il viso con un braccio mentre lo sento ridere dall’altra parte. «Poi ti insegno.»
«Ah si?»
«Quando avrai fatto pratica con quello reale - e per favore, conserva il rossore per quanto potrò vederlo»
«Allora smettila con questi discorsi.» Altro che rossore, sto andando letteralmente a fuoco.
«Ehi, sei tu che te ne stai steso sul mio letto... Non chiedermi di non fantasticarci sopra.» Ecco.
Questa telefonata non porterà mai a nulla di buono.
«Allora è meglio che mi alzi.» Mi metto a sedere con un sorriso mentre mi rigiro ancora fra le dita il mio stesso biglietto da visita. «Domani ti porto la borsa con il cambio, ma non posso passare prima del pomeriggio.»
«Grazie.» Ah, perché non sei qui?
Sposto il telefono dalle labbra per non fargli udire un sonoro sospiro. Tornerei in ospedale in questo preciso momento se mi lasciassero entrare.
«Allora, buona notte.»
«Buona notte, Magnus.» Chiudo gli occhi mordendomi le labbra. Sarebbe “buona” solo se fossi accanto a me.
«Buona notte, Eric.» Riaggancio con un ulteriore sospiro.


Continuo a battere i dati al computer finché non vedo Lisa entrare in ufficio. La seguo con lo sguardo mentre parla con un paio di agenti e porge loro delle carte.
Inizio a pensare che forse il mio piano non sia stato una gran pensata. Derek ancora non si è visto e non ha neanche chiamato. Conoscendolo starà eseguendo il compito che gli ho affidato con scrupolo, ma non vorrei gli fosse successo qualcosa.
Continuo a digitare sulla tastiera saltando con gli occhi dallo schermo al viso di Lisa.
Due giorni, ho solo quelli ed in realtà me ne resta solo uno, perché domattina alle 10.00 Eric sarà fuori dall’ospedale e quando gli chiederò di denunciare i suoi aggressori mi risponderà con un categorico No.
Controllo l’orario, è quasi mezzogiorno e non ho concluso nulla. Ho evitato di chiamare l’agente Carlsson per non creargli problemi, ma a questo punto...
Sto per afferrare il telefono quando lo vedo sbucare dalla porta. Immediatamente lascio il lavoro in stand-by e lo raggiungo.
«Derek!»
«Buongiorno, detective.» Non indossa la divisa. Mi allunga una busta gialla ed io la prendo subito. «Le ho fatte sviluppare un’ora fa.» All’interno una decina di foto e al solo guardarle sento l’ira montarmi nelle vene. «Lavorano sempre al solito posto. Molo 16.» Passo con lo sguardo dalle foto al suo viso annuendo. Il volto di Vargas, quello di Dave e quello serio di Alto, a cui non sono ancora riuscito a dare nome. «Sono stati lì fino alle 4 di mattina poi sono andati via. Stamani non c’erano e ho fatto qualche domanda in giro.» Fermo l’esame delle foto e lo ascolto.
«Che hai scoperto?»
«Gira voce che Gambero e Brandberg siano ai ferri corti. Pare che il portoricano abbia fatto qualche colpo di testa che non è andato giù a Brandberg.»
«Potrebbe aver perso la sua protezione.» È un ragionamento che faccio a voce alta. Se fosse davvero così la cosa giocherebbe di certo a mio favore. Togliere Brandberg dalla faccenda mi semplificherà le cose. «C’è altro?»
«No, detective.»
«Ottimo lavoro, Carlsson. Ti devo un favore.» Gli batto la mano sulla spalla e corro al pc. Devo verificare le voci e soprattutto mostrare queste foto ai colleghi di Eric. Mi basta che ne riconoscano solo uno ed avrò la strada in discesa.
Tiro fuori tutte le foto e le sistemo ordinatamente sulla scrivania. Anche se era notte Derek ha fatto un lavoro egregio, altro che favore, dovrei cercare di farlo promuovere. Non potevo farmi vedere al porto perché non avrei avuto la freddezza necessaria, sono abbastanza onesto con me stesso per ammetterlo.
L’agente Carlsson è riuscito anche a fotografare un chiaro scambio di droga e so che questo farà felici quelli della narcotici. Per adesso rende il mio morale decisamente più alto. Prendo una foto con un primo piano di Vargas e la guardo stringendo forte la mascella. «Te la farò pagare.» La getto poi sul mucchio con le altre.
Stavolta vado fino in fondo.

Tornare al porto credevo mi avrebbe fatto uno strano effetto, ma forse a causa di ciò che ho scoperto questa mattina, riesco a tenere sotto controllo nervi ed emozioni.
Le facce che salgono  e scendono dal mercantile mi sembra quasi di riconoscerle tutte, di certo riconosco quella di Lars che vedo raggiungermi dopo qualche momento.
«Detective, che ci fa qui?  Eric sta bene?»
«Sì, domani lo dimettono.»
«Allora Hernest non mi stava prendendo in giro... Quel maledetto.» Sorrido e scuoto la testa gettando un altro sguardo in giro.
«Senti Lars, cercavo Gary Shiltter.» Seguo il suo sguardo alla mia destra.
«È nel capanno 12. Glielo vado a chiamare?»
«Sì, grazie.» Lo vedo allontanarsi verso la struttura ma, prima che torni, qualcuno mi raggiunge.
«Ragazzino, non puoi distrarre i miei uomini mentre lavorano.» È Ringdal e l’immagine che mi si para di fronte è quasi identica a quella che ricordavo. Stesso sigaro, stesso cappello, stessa aria irritata, ma stavolta la giaccia è verde.
Chiesi ad Eric se non gli dispiacesse che Gustav non fosse andato a trovarlo. Lui mi rispose che non sarebbe mai andato.
Perché?” Non disse nulla, mi sorrise e mi arruffò i capelli. In quel momento mi sono sentito un bambino stupido.
«Signor Ringdal, ho bisogno di parlare con un operaio per le indagini sull’aggressione di Eric. Si ricorda ancora di Eric, vero?» Il mio sarcasmo mi costa un’occhiataccia ed una coltre di fumo.
«Non portargli via troppo tempo. Questa nave non si scaricherà da sola.»
«Chi lo infastidiva?» Lo fermo prima che si allontani. Lui mi guarda con sufficienza e deforma il viso scavato in un ghigno.
«Per quello che ne so, solo un poliziotto impiccione.» Ok, questa me la sono meritata.
«Se sa qualcosa, la prego di collaborare e-»
«Senti, Eric è un ragazzo in gamba e sa stare al suo posto, ma ha avuto la pessima idea di mettersi contro gente poco onesta. Perché l’ha fatto non lo so, ma mi auguro che abbia imparato la lezione. Gli è costata cara.»
«Eric non si è messo contro nessuno, sono quelli che se la sono presa con lui senza motivo!» Il pugno mi trema ed altrettanto fa la gola. Sono costretto a tacere e a spostare lo sguardo sulle acque del porto. Eric non ha nessuna colpa, quella spetta a me, e me la prenderò tutta.
L’arrivo di Lars mi costringe a nascondere la rabbia in un angolo dello stomaco.
Con la coda dell’occhio vedo Ringdal andare via borbottando qualcosa fra i denti ed il sigaro.
«Detective, mi cercava?» Shiltter si pulisce le mani sulla tuta mentre ringrazio Lars e lo lascio tornare al lavoro.
«Ti porterò via solo un minuto, voglio che tu veda queste.» Dalla tasca interna della giacca tiro fuori una foto con il primo piano di Vargas e dei suoi due compari. «Dimmi se riconosci in questi uomini quelli che giravano attorno ad Eric.»
«Posso?»
Lascio che Gary la prenda e che la guardi con attenzione. Si morde un labbro e socchiude gli occhi, quando me la riporge deglutisce.
«Sì, sono questi due.» Indica Dave e Alto, come avevo immaginato.
«Sei sicuro?»
Annuisce con vigore. «Sicurissimo, però detective, io non vorrei avere dei guai, questa gente...»
«Non preoccuparti, avevo solo bisogno che tu mi dessi una conferma.» Infilo la foto in tasca aggiungendo altra rabbia allo stomaco. «Cercherò di fare in modo che tu non debba testimoniare.»
«La ringrazio, ora mi scusi, ma devo tornare a lavoro.»
«Grazie per l’aiuto.» Annuisce ancora e si allontana.
Porto gli occhi al mare con una determinazione ben definita nella testa.
Ormai ho tutte le carte sul tavolo, me ne manca solo una, ma farò in modo di ottenerla.
Alla fine Eric dovrà cedere.

Mentre mi dirigo verso la sua stanza, nel corridoio incrocio il Dr. Lindgren. Non posso farci nulla, ogni volta che lo vedo non riesco ad impedire a un profondo imbarazzo di cogliermi.
«Detective.»
«Dr. Lindgren, salve... Era da Eric?» chiedo cercando di non balbettare come un idiota.
«Sì, gli ho tolto i punti, ma le ricordo che il monito è ancora valido.» Tenere a freno gli ormoni, lo ricordo abbastanza bene.
«Sì, dottore, anzi, devo ancora scusarmi per la situazione... ehm... sconveniente dell’altra volta.» Prima o poi dovevo dirglielo, ne andava della mia precaria salute mentale. Mi gratto nervosamente il collo ma lui scuote la testa con tranquillità.
«Mi creda, non è la prima volta che mi capita. Non si senta in imbarazzo, non ce n’è motivo. Ora però devo lasciarla, ho da finire il giro delle visite.»
«Sì, certo. Buon lavoro.» E grazie.
Mi fa un cenno della testa ed entra nella stanza accanto.
Apro la porta di quella di Eric ma non lo trovo. Sarà di nuovo in bagno.
Poggio il borsone sul tavolo bianco sul fondo della stanza pensando alle parole di Gary. Quel bastardo di Vargas la pagherà!
Gli occhi sono fermi sulla cerniera che chiude la sacca. Mi sembra di aver preso tutto, al massimo mi toccherà ritornare a casa sua, e la cosa non sarebbe spiacevole, confesso.
Faccio mente locale: ho preso scarpe, pantaloni, camicia e la sua giaccia. Gli immancabili boxer e-
Sobbalzo quando sento due braccia avvolgermi il corpo.
«Buongiorno, detective.» Mi irrigidisco all’istante e neanche la sua voce calda riesce a sciogliermi.
«Buongiorno» annaspo come fossi un blocco di gesso.
«Non ti voglio uccidere, tranquillo.» Eric sorride e mi lascia andare arruffandomi i capelli. Quasi faccio fatica a voltarmi.
«Ti ho portato la borsa con il cambio.» Cerco di sfuggire alla sensazione di poco prima ma i suoi occhi mi guardano con una luce divertita che non posso ignorare.
«Com’è il mio letto, comodo?» Le mie labbra si piegano da sole ed annuisco silente. Eric si siede sulla piccola branda e solo allora noto che non ha più il camice. «Mi hanno dato una tuta. Gentili a farlo un giorno prima di dimettermi.» I pantaloni grigi morbidi sono abbinati ad una maglia altrettanto grigia a manica lunga.
«Credo abbiano aspettato di toglierti i punti. Per le medicazioni è più comodo il camice.»
«Per le medicazioni, non per me. Al contrario di quanto si pensa, noi scozzesi non amiamo indossare gonne.»
Rido mentre un’immagine alquanto bizzarra mi compare nella testa. «In effetti non ho trovato kilt nel tuo armadio.»
Eric ghigna. «Non li troveresti da nessuna parte.»
«Non lo so, magari li tieni nascosti bene...» Tiro fuori le sue chiavi dalla tasca e le faccio tintinnare fra le dita. «Mi tengo queste e vado a controllare, che ne dici?»
«Dico che ti preferivo quando mi prendevi a pugni, tutta questa iniziativa non mi piace...» Ridacchio e gliele getto. Eric non riesce ad afferrarle e cadono sul letto. «Ho perso anche i riflessi in questo dannato letto» brontola ruotando il busto per recuperarle dalle lenzuola.
Io ho trovato tutto in questo letto, vorrei rispondergli, ma preferisco tacere ed avvicinarmi a lui. Gli siedo accanto e lui mi sorride, ancora. Se non fosse per il livido che gli copre uno zigomo direi che è tornato il vecchio Eric, il mio vecchio Eric, quello che mi ha incasinato la vita ed il cuore, e di cui non credo di poter più fare a meno.
Le sue labbra lambiscono le mie e come tutte le volte non riesco più a pensare. Gli avvolgo le braccia attorno alle spalle e lascio che le sue mi stringano la vita.
«Ho incontrato il Dr. Lindgren...» sospiro fra un bacio e l’altro.
«Che ti ha detto?» Ma è una domanda a cui sembra non interessi alcuna risposta. Sento le sue dita scivolare sotto la maglia e sfiorarmi la schiena e d’istinto soffoco un gemito.
«Che il monito è ancora valido» affondo le mie fra i suoi capelli mentre le labbra di Eric scendono piano sul mio collo. Non credo di essere ancora in grado di parlare. «E-Eric...»
«Shhh, non verrà nessuno.» Il suo fiato mi scalda la pelle umida ma non riesco a dimenticare dove siamo. Sento il graffiare piacevole della sua barba, il mio cuore batte furente mentre cerco di nuovo la sua bocca.
La sua mano, ormai priva di tutore, scivola via dalla mia schiena e mi sfiora il bordo dei jeans. La sento arrivare fino al bottone metallico sul davanti.
«Aspetta!» Prendo aria e gli bloccò la mano con la mia. «Non possiamo. Non... qui, ed io... il dottor-»
Le sue labbra inghiottono ogni altra mia parola.
«Non verrà nessuno. Fidati.» Il bottone abbandona l’asola ed il mio respiro mi risuona assordante nelle mie stesse orecchie. «Rilassati, Magnus.» La sua voce mi accarezza mentre sento la zip scendere.
«Eric...» È l’unico suono che accompagna i miei successivi gemiti.

















Continua...






NdA.
Purtroppo ‘sto letto d’ospedale mi ispira le peggio scene da filmetto squallido di serie Z, abbiate pazienza. Per fortuna è l’ultimo capitolo ospedaliero e anche il Dr. Lindgren ringrazia.
È anche l’ultimo capitolo di pseudo quiete perché dal prossimo le cose cambieranno.
Rinnovo lo stessa richiesta dell’ultima volta: se ho sforato rating (aridaje co’ sto rating, dirà qualcuna, magari in bresciano...) ditemelo e provvederò a cambiarlo.
Well, grazie ancora a tutti/e <3
Kiss kiss Chiara

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Capitolo 25
*** La pelle del poliziotto ***


25. La pelle del poliziotto
Detective Martinsson



XXV. La pelle del poliziotto



«Home sweet home
Sorrido mentre chiudo la porta alle spalle. Eric cammina fino al divano e poi si volta con un’espressione serena. «Questo divano è la cosa che mi è mancata di più.»
«Avrei scommesso sull’ascia» ribatto sarcastico poggiando la borsa a terra. Eric ride ed annuisce.
«Sì, anche quella mi è mancata parecchio.» Mi sento sollevato nel vederlo nuovamente qui, nella sua casa, anche se meno calda del solito, ma dal suo viso percepisco che conta poco quel dettaglio. «Voglio un caffè. Ne ho bisogno.»
«Se mi dici dove lo tieni, lo preparo io.» Mi propongo quando sta per andare in cucina, ma lui mi lancia un’occhiata divertita scuotendo la testa.
«L’unica volta in cui ti ho visto accanto ad un fornello non mi sei sembrato molto pratico.»
Oddio, l’orrenda macchia di sugo! L’avevo quasi dimenticata. A quanto pare Eric non l’ha fatto. Quel maglione alla fine l’ho dovuto portare davvero in tintoria visto che l’alone non se ne andava più.
«Un caffè lo so fare, però.» Cerco di difendermi raggiungendolo ma l’unica risposta che ricevo sono due labbra sulle mie.
«La prossima volta magari.»
Mentre varco la soglia, gli occhi cadono sulla tovaglia che trovai bizzarra la prima volta. Sfioro un girasole sedendomi su una sedia.
«Ti piacciono i girasoli?»
«Uhm?» Eric si volta mentre apre un’anta in alto. Indico la tovaglia e lui sorride afferrando due tazze.
«Era di mia madre. A lei piacevano.»
Percorro con l’indice ogni petalo pensando che Eric non mi ha mai parlato della sua famiglia fino adesso, non mi ha mai parlato di lui in generale, a dire il vero.
«Com’era tua madre?... Se non sono indiscreto.» Non lo vedo, ma posso quasi essere sicuro stia sorridendo mentre carica l’acqua della caraffa.
«Le piaceva cantare mentre cucinava ma non era molto intonata. Io e Will la prendevamo sempre in giro.»
«E lei che faceva?»
«Nulla. Continuava a cantare.» Sul viso di Eric un’ombra che riconosco come nostalgia. Mi porge la tazza vuota e mi si sede di fronte aspettando che il caffè sia pronto.
«Scusami. Non avrei dovuto chiederti di lei.» Abbasso lo sguardo sul mio stesso indice ancora fermo sui petali di questo fiore in plastica.
Non so cosa voglia dire perdere qualcuno che ami, se dovessi perdere mia madre credo impazzirei dal dolore, credo lo stesso di mio padre, anche se non siamo molto legati. Eric deve aver affrontato tanta sofferenza nella sua giovane vita, eppure mi sembra un uomo che ha saputo farne tesoro. Vorrei avere un briciolo della sua forza, vorrei soprattutto non dovesse più affrontarne alcuna.
«Questa casa era sua.» Rialzo gli occhi nei suoi. Sulle labbra un piccolo sorriso. «Abitava qui con i suoi genitori prima di trasferirsi a Edimburgo.»
«È lei che ti ha insegnato a parlare svedese?» La mia domanda lo fa sorridere ulteriormente.
«L’ho sempre sentita parlare svedese in casa. Con me e Will parlava poco inglese. Anche mio padre aveva imparato qualche parola ma il suo accento era pessimo.»
«Quando ero bambino mia madre provò ad insegnami un po’ di francese - lei ha vissuto a Lione per qualche anno. Ma non sono andato oltre il “Je m'appelle...”» La mia risata lo contagia. Sono sempre stato una capra...
«Anche io conosco un po’ di francese.» Se adesso inizi a parlare francese giuro che non sarò più in grado di contenere i miei istinti.
Prendo un respiro e scuoto la testa. «Ok, dimmi qualcosa che non sai fare. Ti prego!»
«Ce ne sono tante...»
«Dimmene una.» I suoi occhi si assottigliano mentre finge di pensare.
«Ehm...»
«Piantala!» Rido spintonandolo su una spalla. Il sibilo copre la sua risata ma sono io ad alzarmi prima di lui.
Afferro la caraffa e riempio le due tazze sotto lo sguardo divertito di Eric.
«Merci.» Lo sapevo che l’avrebbe fatto.

«Non devi affaticarti, quando il mio Arthur fu operato alla colecisti, stette a riposo un mese intero.»
Incrocio gli occhi di Eric e cerco di reprimere un sorriso. La signora Fustern è piombata qui quasi istantaneamente, non avevamo neanche finito di bere il caffè.
«Sto bene, Amanda, non si preoccupi.» Ma il cuscino gli finisce lo stesso dietro la schiena. Povero Eric, credo che dovrà sopportarla per un bel po’.
Il cellulare squilla ed il mio sorriso si spegne. Mi allontano dal soggiorno in modo da non essere udito.
«È al porto.» È l’agente Carlsson.
«Resta lì, sto arrivando.» Riaggancio e prendo un respiro.
Gli avevo detto di tenere d’occhio Dave, in quanto era l’unico che andava spesso in giro per la zona portuale senza Gambero. Alto, di cui ancora non sono riuscito ad avere l’identità,  è sempre insieme a Vargas, per cui inavvicinabile per adesso. Dal poco che ho potuto capire quella spiacevole sera, Dave mi sembra anche l’anello debole e quindi il solo su cui un po’ di pressione potrebbe funzionare.
«Io devo andare in centrale.»
«Fai attenzione, caro.» Annuisco e poi guardo Eric.
«A stasera.»
«Ok.» Mi regala un sorriso che aumenta la mia determinazione.

Guido fino al porto tenendo stretto negli occhi il volto di Vargas e la voglia di vederlo sanguinare a serrarmi le dita sul volante.
Scorgo Derek seduto su un tavolino di un bar e lo raggiungo.
«È in fondo alla passerella, insieme a due ragazzine, probabilmente minorenni.»
Mi siedo sulla sedia accanto e butto l’occhio nella direzione indicatami dall’agente.
«Di Vargas nessuna traccia?»
«Quello è un vampiro, esce solo dopo il tramonto.» Non riesco a condividere il suo sorriso ma gli faccio cenno di alzarsi.
«Tienimi il gioco.»
Annuisce mentre tasto la pistola da sopra la giaccia. Un centinaio di metri ci dividono e ad ogni passo vorrei correre. Tengo il controllo delle gambe e spero di riuscire a tenere anche quello delle mie emozioni.
«Dave?»
Si volta con un ghigno accigliato, visto che stavamo interrompendo il suo adescamento di minori, ma quando riconosce il mio viso sorride sghembo.
«Chi si rivede, riccioli d’oro. È tutto ok, amico?» Riccioli d’oro... maledetto Vargas!
Sorrido a mia volta e gli mostro il distintivo.
«Detective Martinsson, polizia di Ystad.» Il suo di sorriso sparisce all’istante lasciando il posto ad un’espressone agghiacciata. «Dobbiamo parlare un po’.»
«Merda...» Una mano sul viso a nascondere quella che credo sia semplicemente disperazione.
Si alza il sipario.

Quando raggiungiamo i pressi del parcheggio non riesco a fermare il mio pugno che si pianta dritto nello stomaco di Dave. Derek mi lancia un’occhiata che ignoro ed afferro entrambe le spalle del tirapiedi di Vargas sbattendolo contro un’auto.
«Sai perché sono qui, vero?»
Dave tossisce e scuote la testa. «Non so niente.»
Lo sbatto ancora contro la carrozzeria.
«Avete fatto l’errore più grosso della vostra vita quando gli avete messo le mani addosso» ringhio sul suo viso. Sapevo che non avrei avuto la capacità di trattenermi e forse anche per questo ho chiesto all’agente Carlsson di accompagnarmi, almeno se dovessi perdere realmente il controllo eviterà che la faccia davvero grossa. «So che siete stati tu e i tuo amichetto a mandarlo in ospedale, ma sono certo non sia stata una vostra iniziativa, sbaglio?»
«Io, non-»
«Sbaglio?»
Deglutisce mentre lo vedo cercare lo sguardo di Derek che però rimane silente al mio fianco.
«Gambero ci ha detto di rompergli un po’ le scatole.»
Vedo solo nero.
«Rompergli le scatole? Potevate ammazzarlo ed è solo per puro caso che non è successo!» Lo stavo perdendo per colpa di tre pezzi di merda come voi!
Prendo un respiro fra gli affanni e lo lascio andare. Guardo Derek, che non sembra aver intenzione di intervenire.
«Gambero ci ha detto di provocarlo ma quello lì non reagiva mai.»
«E allora avete pensato bene di pestarlo a sangue?!» Sento la mascella serrarsi dolorosa mentre avrei solo voglia di sfogare su questa faccia tutta la rabbia accumulata in queste settimane.
«È stato lui a cominciare!»
Lo riafferro per le spalle. «Non dire cazzate!»
«Lo giuro! È stato lui! I-io gli ho solo fatto un paio di battute e lui-»
«Che gli hai detto?»
«Erano solo delle battute.» Gli assesto un altro pugno e poi un alto e solo a quel punto sento la voce di Carlsson.
«Detective...» Me lo ritrovo a mezzo metro e mi passo una mano fra i capelli.
Devo cercare di controllarmi e non passare dalla parte del torto. Nella faccia sofferente di Dave rivedo le notti in terapia intensiva, rivedo le macchine e i tubi, rivedo la flebo nel suo braccio e le lacrime versate davanti a quel vetro.
«Dammi Vargas.» Lo afferro per il volto e lo obbligo a guardarmi dritto negli occhi. «Consegnami Vargas e te la potrai anche cavare, altrimenti ti sbatto dentro per tentato omicidio e farò in modo che il tuo compagno di cella sia degno di te.»
Dave affanna con lo sguardo sgranato ma annuisce.
«Ok, ok!» Gli mollo il viso e gli do le spalle.
«Portalo in centrale.»
Il cuore batte forte contro il petto e avrei solo voglia di tornare da Eric e dirgli che presto sarà finita sul serio.

«Non puoi tenerlo qui, non ci sono gli estremi per arrestarlo.»
«Posso incriminarlo per spaccio.»
«Magnus...» Anne-Britt mi afferra un polso e mi guarda severa. «Non fare stupidaggini. Senza la denuncia di Eric, Dave è solo un cittadino che sta subendo un sopruso da parte della polizia di Ystad. È lui che può denunciare tutto il dipartimento, non fare finta di non saperlo.»
«Voglio solo che mi consegni Vargas. Non è in arresto, è qui come persona informata dei fatti. È tutto legale.»
«Ma non è quello che gli è stato detto.»
«Sono dettagli.»
«Magnus, cerca di far funzionare la testa! Lisa ti sospenderà se viene a sapere quello che stai facendo.»
«Non lo saprà.» La sorpasso e raggiungo il vetro da cui vedo Vargas parlare con l’agente Carlsson. Non potevo interrogarlo io perché probabilmente avrei riperso il controllo e farlo in centrale era assolutamente fuori discorso.
«Neanche Eric ne sa niente di questa tua pessima iniziativa, vero?» Anne-Britt mi affianca ma io tengo lo sguardo fisso su quel viso che parla accalorandosi.
«Non era necessario che sapesse. Gli farò firmare una confessione spontanea e poi mi farò consegnare Vargas, a quel punto Eric potrà denunciarli senza alcun timore.»
Dave Fuentes, 29 anni, nato a Ponce ma cittadino svedese da più di 15 anni.
Armand Durelli, 28 anni, stesso passato. Ed infine Ruben Vargas.
Tre nomi che presto saranno solo un ricordo.
«Non dirò nulla a Lisa, ma stai attento e soprattutto parlane con Eric. Non credo la prenderà bene.»
La vedo allontanarsi con la coda dell’occhio e mando giù un groppo di inquietudine.
Cerco di scacciare via ogni pensiero superfluo ed entro nella stanza. Dave si arresta dal parlare e poi continua.
«Brandberg ha deciso che Ruben sta facendo troppo di testa sua e ormai è chiaro che vuole mollarlo.»
«Che significa?»
«È una zavorra. Sono più i soldi che ha fatto spendere a Brandberg per tirarlo fuori dai casini che quelli che gli fa guadagnare. Io non voglio andare a fondo con lui.»
«Avresti dovuto pensarci prima di mandare la gente in ospedale per conto suo.» Mi intrometto e lo vedo deglutire.
«Ho già detto che non pensavamo stesse così male e... mi dispiace.»
«Per favore, risparmiaci i tuoi sensi di colpa.» Lo fronteggio poggiando entrambe le mani sul tavolo. «Metti per iscritto tutto quello che ci ha detto e quando si aprirà il processo dirò al giudice che la tua collaborazione è stata preziosa.»
«E non andrò in carcere?»
«Non farai un solo giorno» mento e sento lo sguardo dell’agente Carlsson. Adesso mi importa di questa confessione, che poi mi mandi pure qualche avvocato. Per ora è l’ultimo dei miei problemi.
Tentenna qualche istante e poi annuisce. «Va bene.»
Direi che è un primo passo decisivo.

«Domattina Ruben e Armand saranno al molo 16 perché devono ricevere una consegna.»
«Fatti trovare lì con loro.»
«Perché?»
Sorrido sghembo mentre lo accompagno fuori dal commissariato. «Arresteremo anche te, almeno che tu non voglia far capire che li hai venduti.»
«No, certo che no.» E metterti le manette sarà un enorme piacere.
Lo seguo con lo sguardo mentre si infila velocemente nella folla sui marciapiedi pensando che vederlo investito da una macchina non sarebbe per nulla spiacevole. Strano come un sentimento come l’amore possa tirar fuori lati così oscuri.
«Per ora è carta straccia.» Vengo raggiunto dalla voce e poi dalla presenza di Anne-Britt.
«Domani non lo sarà.»
«Per non parlare della ghigliottina che pende sulle nostre teste.» Le sorrido ma lei non ricambia. «Magnus, stavolta stai rischiando grosso. Spero davvero che tu sappia quello che fai.»
«Lo so, Anne-Britt. Purtroppo non ho avuto scelta.»
Annuisce e mi sfiora un braccio. «So che Kurt ti cercava. Ora è fuori città e torna fra qualche giorno, ma potresti chiamarlo.»
«Aspetterò che torni, Kurt non ama parlare al telefono.»
Finalmente le strappo un sorriso. Quando si parla di Kurt uno le sfugge sempre.

Amanda è ancora da Eric e me ne accorgo perché sento la sua voce dalla finestra del soggiorno.
Per potergli parlare devo ovviamente aspettare che ci lasci soli, ma inconsciamente sono sollevato che quel momento sia ritardato. Sono un po’ codardo, lo so, ma temo che Eric, come previsto da Anne-Britt, possa non prenderla bene. Cercherò di farmi perdonare e comunque è solo il mio lavoro, questo Eric deve capirlo. Spero lo faccia.
Suono il campanello ed è il viso della signora Fustern ad accogliermi.
«Magnus, già di ritorno? Ho appena messo su la pentola. Fra dieci minuti è pronto.»
Ecco, ora Eric ha anche una governante tutto fare.
Ieri ha davvero rassettato tutta casa ma per fortuna non mi ha incluso nelle sue faccende da colf. Credo sia felice di potersi prendere cura di qualcuno, credo ne sia felice anche Eric.
Il discorso di stamattina ancora mi risuona nella testa, le parole su sua madre, il modo dolce in cui la ricordava, quel sorriso malinconico.
Raggiungo la cucina dove se ne sta seduto a sgranocchiare quelli che mi sembrano dei crostini di pane integrale.
«Non mi pare di averti invitato a cenare con noi» sorride vedendomi entrare.
«L’ho invitato io» chiarisce Amanda ovviamente ignara che quella fosse una battuta. Eric ride ed io mi accodo mentre lei si dirige a fornelli a rigirare qualcosa. «Andate a lavarvi le mani mentre apparecchio.»
«Agli ordini!» ghigna ancora Eric alzandosi con accortezza dalla sedia.
«Come ti senti?» gli chiedo quando ritorniamo in soggiorno. Sul lato opposto della stanza c’è un altro piccolo bagno di cui ho scoperto l’esistenza quando sono venuto a preparargli la borsa. Sì, lo confesso, un po’ ho ficcanasato in giro, ma nulla di realmente eccessivo.
«Amanda mi ha raccontato vita e miracoli di Bingo, il suo bracco sfortunatamente finito sotto una mietitrebbia.» Non riesco a contenere una risata e sono costretto a coprirmi la bocca con una mano per non farmi sentire. «Magnus, non si ride di certe disgrazie.»
«E tu non raccontarle con quel tono!»
«Con quale tono?» Il suo sorriso mi sembra illuminare questa giornata piena di rabbia, scaricata certo, ma sempre rabbia. Lancio uno guardo alla cucina da cui vedo la schiena della Fustern intenta a condire qualcosa e gli poso velocemente un bacio sulle labbra. «Vieni.»
Mi ritrovo tirato nel piccolo bagno con la porta immediatamente chiusa. Eric apre forte il getto dell’acqua ma le sue mani finiscono sui miei fianchi.
«Siamo qui per lavarci le mani» Sorriso mentre le sento sfiorarmi la pelle.
Eric mi guada con un ghigno e poi mi bacia ancora. «Prima sporchiamole.»
Torno a ridere e stavolta me lo porto dietro. «Ok, ma dopo» sospiro ma è un dopo con un duplice significato.
Dopo cena, dopo che ti avrò detto tutto.
Un altro sorriso, un altro piccolo bacio. «Come vuoi tu, detective Martinsson.»

Come al solito la cena è stata un “Amanda show” in piena regola - ormai ci abbiamo fatto l’abitudine entrambi - e come al solito non ha voluto aiuto per sparecchiare né per lavare i piatti, nonostante le insistenze di Eric.
«Grazie per tutto.»
«Oh, non dirlo neanche. Domattina ti porto la crostata di mele.»
Eric annuisce con un sorriso e si lascia accarezzare il viso.
«Buona notte.»
Le rispondo anche io da dietro le spalle di Eric.
La porta si chiude e, neanche a dirlo, mi ritrovo fra le sue braccia.
È sempre caldo il suo abbraccio che mi chiedo come possa considerare qualsiasi altra cosa calore.
Prima che le sue carezze mi facciano perdere testa e controllo, tengo bene in mente ciò che devo dirgli. Prendo aria dalle sue labbra e lo guardo serio.
«Devo parlarti.»
I suoi occhi nei miei mi scrutano a lungo e poi le braccia mi lasciano andare.
«Di cosa?» Un’espressione fra il confuso e il preoccupato gli piega il viso e mi rendo conto che forse non sarà così semplice come credevo.
Mi passo una mano sul collo e prendo un respiro.
«Di Vargas e della tua aggressione.»
All’istante diventa una statua, come ogni volta.
«Ti ho già detto che non-»
«Domani lo arresterò. Lui ed i suoi, ma ho bisogno che tu faccia la denuncia, Eric.»
Aggrotta la fronte e scuote il capo. «Di che stai parlando?»
«Ho fatto delle indagini non ufficiali e ho tutti gli elementi per sbattere quei tre dentro, ma ho bisogno della tua denuncia altrimenti-»
«Come ti è saltato in mente?» La sua voce letteralmente tuona sotto la mia pelle facendomi rabbrividire. «Ti avevo detto di starne fuori, di lasciar perdere! Perché ti sei voluto mettere in mezzo!?»
«Come potevo starne fuori, Eric?» Mi dà le spalle ma vedo anche il suo corpo fremere ma di rabbia. «Come detective non potevo ignorare ciò che ti avevano fatto e, anche se ti sembra assurdo, io so difendermi benissimo da solo. Non devi proteggermi.»
«È più forte di te, non ce la fai proprio a non indossare quella divisa, vero?» Quando i suoi occhi mi guardano sono due lame azzurre. Mi tagliano dentro senza che possa impedirlo. «Per tutto questo tempo non mi hai detto niente, hai aspettato - cosa? Che fossi fuori da quel maledetto ospedale? Volevi mettermi davanti al fatto compiuto così non avrei potuto dirti di no? È così che mi chiedi di fidarmi di te?»
Non ho risposte, sento solo il tremito delle mani, sento solo le lacrime sospese fra le ciglia.
«Io non avevo-»
«Non dire più niente, per favore. Vattene.»
Salto un battito. Lo raggiungo con pochi passi e gli afferrò la mano. «Aspetta, io non volevo agire alle tua spalle. L’ho fatto solo-»
Con un gesto secco sento le sue dita sfuggire alle mie mentre mi da di nuovo le spalle.
«Eric-»
«Vattene, Magnus.»
No, ti prego, non mandarmi via!
«Eric... per favore.»
E il suo silenzio e più assordante delle urla.
Piccoli passi che neanche mi rendo conto di fare. La mano sulla maniglia fredda.
Inghiotto tutto il mio cuore ed esco dalla porta.

















Continua...






NdA.
Okay, i pomodori sono alla vostra destra, i pugnali affilati alla vostra sinistra.
Prendete bene la mira e colpitemi quanto volete.
Tenete qualche munizione, però, vi serviranno per il prossimo capitolo...
Kiss kiss Chiara

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Capitolo 26
*** Caso chiuso ***


26. Caso chiuso
Detective Martinsson



XXVI. Caso chiuso



Non ho chiuso letteralmente occhio. Ho passato la notte fra il cellulare che non ha mai squillato e il cuscino zuppo di rabbia.
Sì, ho sbagliato, come sempre, ma non doveva mandarmi via così - non dovevo andarmene.
Perché non capisce che se ho fatto ciò che ho fatto era per lui?!
Così come lui voleva proteggere me, io volevo avere giustizia per quello che quei bastardi gli avevano fatto. E cosa ho ottenuto? Un altro squarcio nel petto, un’altra ferita al mio orgoglio ma soprattutto al mio cuore.
Una notte intera con i denti stretti e le unghie contro il palmo. Una notte di perché terminata solo all’alba.
Nessuna risposta.
Doccia, caffè e lavoro.
Il cellulare non squilla più.

Sarei voluto passare da lui prima di venire in centrale, ma non sono riuscito ad inserire quella dannata freccia. Qualcosa ha bloccato le mie dita. Paura, orgoglio... ancora paura. Paura di sentirgli ripetere quel vattene, forse. Paura di sentirgli dire di peggio.
Quella che mi aspetta oggi sarà una giornata di inferno. La litigata di ieri con Eric non ha schiaffeggiato solo i miei sentimenti, ma ha anche minato la mia carriera.
Oggi non potrò arrestare Vargas, oggi Fuentes scoprirà che ieri gli ho mentito e che può fare causa a me e a tutto il dipartimento. Oggi Lisa mi toglierà questo distintivo e forse non lo rivedrò più, eppure tutto questo mi sembra avere davvero poco senso, perché gli occhi carichi di delusione di Eric, mi fanno più male di tutto.
È così che mi chiedi di fidarmi di te?
Serro la mascella mentre entro in commissariato. Ho fatto tardi anche stamattina, ma non potevo venire qui con gli occhi gonfi di lacrime.
«Detective?» Incrocio immediatamente il viso di Derek e respiro a fondo. Ha fatto un lavoro inutile, un ottimo lavoro inutile, ma è un buon poliziotto, di certo diventerà un detective migliore di me, come se fosse difficile farlo. «Il detective Hoglund la cercava. Io vado al porto e vi aspetterò lì.»
«Carlsson, non possiamo più proseguire.» Sbatte le palpebre interdetto e posso solo immaginare la sua delusione. Ho messo nei guai anche lui, ma davanti a Lisa mi prenderò ogni responsabilità.
«Il detective Hoglund ha detto che possiamo procedere, per questo sto andando al porto. Fuentes sarà già lì con Vargas.» Non riesco a seguire il suo discorso. Cerco con gli occhi Anne-Britt scorgendola al piano superiore.
Mi dirigo verso di lei lasciando Carlsson sulla soglia della centrale, non mi rendo conto che invece prende la porta ed esce.
Non sono in grado di ragionare con la giusta chiarezza, perché ho passato le ultime ore a fissare il soffitto di una camera silenziosa, troppo silenziosa.
Aveva ragione lei, me lo sono ripetuto decine di volte. Ha sempre avuto ragione.
Anne-Britt ha compreso Eric meglio di quanto abbia fatto io. Lei non avrebbe commesso un simile sbaglio. Io riesco solo a rovinare tutto. La mia unica capacità è questa.
Salgo le scale velocemente, sul viso indosso un’espressione semplicemente di plastica.
«Anne-Britt.»
«Ah, sei qui, finalmente.» Mi afferra un braccio e mi trascina verso un angolo più riservato.
«Che sta succedendo? Ieri ho provato a parlare con Eric ma... Avevi ragione tu e-»
«Ha fatto la denuncia.»
Mi blocco all’istante.
«Cosa?» Che significa?
Prende un respiro e mi guarda dritto negli occhi. «Stamattina è venuto qui presto ed abbiamo parlato. Ha detto che avrebbe fatto la denuncia che volevi.»
Mi sembra di riprendere solo adesso a respirare. Forse ha capito quello che volevo dirgli, ha compreso che stavo solo facendo il mio lavoro.
«Devo parlargli.» Rifletto ad alta voce ma non riesco neanche a prendere il cellulare che Anne-Britt blocca ogni mio gesto.
«Magnus, aspetta.»
«No, Anne-Britt. Ieri è stato orribile ma sapevo che avrebbe capito! Lo sapevo!» Il mio sorriso dura il tempo di notare le sue labbra ferme in una linea sottile. «Che ti ha detto?» Tentenna mentre sento il cuore galoppare furiosamente. «Anne-Britt, che cosa ti ha detto?» Le afferro entrambe le braccia senza rendermi conto di stringerle con troppa forza.
«Non vuole vederti. Mi ha chiesto di dirti di non cercarlo, perché lui...»
Sono sul bordo di un precipizio. Sento gli occhi bruciare e le orecchie rifiutarsi di udire oltre.
Eric, non puoi farmi questo, non puoi spezzarmi così!
«Cosa?» È quasi più un sospiro che altro.
«Non vuole più avere nulla a che fare con te - ma Magnus, era arrabbiato, sono certa non lo pensi sul serio.» La gambe potrebbero cedermi come quel giorno sulle scale di casa. Lo sto perdendo di nuovo, e stavolta è davvero solo colpa mia.
Mi passo una mano sulla fronte affannando senza riuscire a controllarmi.
Non voglio perderlo, non posso! Come potrei anche solo vivere adesso? Dopo tutto quello che ho provato? Dopo averlo sentito così vicino...
Eric, ti prego!
La mia testa confonde i pensieri che si accavallano fra di loro.
«Magnus, adesso dobbiamo andare a prendere Vargas.» Guardo le labbra di Anne-Britt muoversi ma le parole sono lontane.
Non voglio vederti più.
Riesco perfino a udire la sua voce.
Vattene.
«Io devo parlare con Eric, lui deve ascoltarmi.»
«Dopo, Magnus, dopo aver fatto il tuo lavoro. Ora sei un detective e devi chiudere questo caso. Eric capirà, ne sono certa. Lascialo sfogare un po’.» Mi afferra il viso e mi sorride. «È un tipo orgoglioso, lo sai. Gli serve solo tempo.» Annuisco per istinto ma non so se sia davvero così. «Ora dobbiamo andare. Carlsson sarà già lì. Coraggio!»
Tempo...
Sì, a me è servito, forse servirà anche ad Eric.
Una speranza che è solo una debole eco nella mia testa nel caos.
Mi sento letteralmente in una bolla d’aria.

Le strade sfrecciano invisibili davanti ai miei occhi, odo la voce di Anne-Britt dirmi qualcosa.
Forse la sto prendendo nel modo sbagliato. È solo una litigata, la prima vera litigata. Capita a tutti, no? L’importate è chiarirsi. E io ed Eric ci chiariremo. Ne sono sicuro. Dopo andrò da lui e gli chiederò scusa per tutto, lui mi guarderà male ma poi si scioglierà e mi dirà che sono un idiota.
Sì, sì, andrà così. Non può finire tutto ancora prima di cominciare, Eric non mi farebbe mai nulla di simile.
«Hai capito, Magnus?»
Volto il capo ed annuisco. «Tranquilla, saprò contenermi.» No, non ne sarò capace, ma cerco di crederci almeno un po’.
Quando Anne-Britt arresta la marcia, scorgo subito il viso di Vargas e il mio stomaco si piega su se stesso. Dave è con lui ed anche Armand.
Scendo dall’auto ancor prima di lei, ma presto la sento seguirmi. «Controllo.»
Deglutisco acido mentre mi accorgo dello sguardo di Vargas. Divertito, direi, soddisfatto, però muta quando vede Anne-Britt al mo fianco. Armand sembra impassibile e Dave è un fascio di nervi.
«Ruben Vargas, devi seguirci in centrale.»
Una risata risponde alle parole di Anne-Britt.
«Perché dovrei?... Quindi anche tu sei uno sbirro, riccioli d’oro? Avrei-»
La mia mano è più veloce della sua lingua. La sofferenza più forte della rabbia.
Gli afferro un polso e lo piego con vigore dietro alla sua schiena. «Lasciami andare, subito! Asqueroso hijo de puta![1]»
Le manette scattano e sento scattarle anche sui polsi degli altri.
Lo spingo con il viso contro un container d’acciaio e mi avvicino al suo orecchio.
«Brandberg non alzerà un dito e tu marcirai in galera.» Pagherai cara ogni azione che mi sta allontanando da lui.
«Ne sei sicuro?» ride beffardo. «Di’ un po’, come sta il tuo amichetto, riccioli d’oro? Riesce ancora a camminare?»
Serro le dita attorno alle sua braccia e lo sbatto di nuovo contro il container, eppure lo sento ridere ancora.
«Carlsson, carica questo idiota nella volante.» Lo tiro indietro senza alcuna gentilezza e letteralmente lo lancio fra le braccia dell’agente che ha già fatto accomodare Armand nell’auto.
Vargas mi lancia un’occhiata che semplicemente taglia, ma in questo momento sono solo aria. Nessuno potrebbe farmi nulla. Nessuno ha importanza tranne lui.
«Vieni a farmi visita, riccioli d’oro, ti faccio divertire io...» Tenta un ultimo affondo con un ghigno che sparisce non appena Derek gli fa sbattere “casualmente” la testa contro il tettuccio della volante.
«Zitto, Vargas.» Lo ammonisce ed io resto silente con la voglia di sbattere a mia volta la testa da qualche parte.
Di nuovo in questo maledetto molo, di nuovo ad un passo dal crollare.
Stavolta Eric non c’è, stavolta nessuna mano mi solleverà. Quella stessa mano potrebbe solo uccidermi.
«Sicuro che Brandberg non farà nulla?»
La domanda di Anne-Britt resta senza risposta.

Compilo carte su carte, rispondo a tremila telefonate e lascio che Lisa mi dica che ho fatto un buon lavoro. Nulla ha realmente senso.
Ho letteralmente congelato ogni emozione, faccio perfino fatica a muovere i muscoli della faccia per abbozzare un sorriso verso Derek.
Lavoro.
Devo finirlo, devo andare subito da lui.
E cosa gli dirò? Grazie? Scusami? Perdonami se sono un idiota patologico?
Quante volte l’ha sentito, quante volte dovrà ancora sentirlo...
Non posso cambiare... Neanche per te.
Bugiardo...
Per te cambierei tutto, sono già cambiato e cambierei ancora, anche se tu non me lo chiedessi mai.
Vorrei essere in grado di cambiare, vorrei farlo per non dover sentire ancora questo vuoto nella pancia e la paura di leggere altra rabbia nei tuoi occhi.
Alzo il volto dal rapporto solo quando sento la mano di Anne-Britt posarsi sulla spalla.
«Era solo arrabbiato.»
«E ha tutte le ragioni per esserlo» sospiro coprendomi gli occhi con una mano. «Come posso fare un errore dietro l’altro senza mai imparare? Come posso essere così - così stupido!?» ringhio quell’ultima parola così forte che sembra spezzarsi fra i denti.
«Finisco io, se vuoi... ormai sono quasi le otto.»
Scuoto la testa e riprendo a leggere il documento compilato nel pomeriggio.
«No, grazie, voglio chiudere questa storia una volta per tutte, voglio...» Voglio non dovergli nascondere più nulla.
Non gli nasconderò neanche le mie lacrime se sarà necessario, anche se risulterò ancora più patetico di quanto già non sia.
Anne-Britt mi lascia senza dire null’altro, sa bene quanto il silenzio mi sia di miglior conforto, perché nel silenzio posso sentire più chiaramente la mia voce chiamare forte il suo nome, il cuore battere disperato, il senso di colpa pungere nella testa acuminato come uno spillo.
Vargas è solo un nome su un foglio, è un viso dietro a delle sbarre. È lavoro da giudici e avvocati. Vargas non è più nulla se non un ricordo.
Voglio che Eric lo sappia, voglio che sappia che renderò quel ricordo così lontano che sembrerà che non sia mai esistito.
Era quello che ti aveva chiesto...
Ma io non potevo accettare, ora posso.
E se fosse lui a non accettare?
Stringo i fogli fra le dita e poi li faccio cadere sulla scrivania.
Eric...

Il cielo è nero pece sulla mia testa, non una stella, non un riflesso di luna che non sia nascosto da gonfie nubi scure. Mi stringo nella giaccia guardando quei pochi gradini.
La Ford è parcheggiata al solito posto. La luce è accesa, il fuoco è acceso, lo vedo dai riflessi sulle tende.
Le gambe pesano ad ogni passo e quando busso sul legno anche le dita sembrano di cemento.
Sono eterni i secondi prima che la porta si apra, prima che la freddezza del suo sguardo mi colpisca come uno schiaffo.
«Ciao.» È un alito distorto, è un sorriso sbilenco quello che mi piega le labbra.
«Che vuoi?»
Un altro schiaffo.
Raccolgo tutta la forza nella gola mentre serro la mascella. «Posso entrare? Per favore.»
I suoi occhi mi fanno male, non credevo avrebbero mai fatto così male. Mi stanno letteralmente lacerando il cuore a metà. Stringo forte le dita e le sento tremare in quel lungo silenzio. «Per favore, Eric...»
«Che vuoi, Magnus?»
Anche le mie labbra tremano mentre il vetro che un tempo ci ha diviso è ora acciaio invalicabile, è un muro su cui potrei spaccarmi le mani senza mai riuscire ad abbatterlo.
Scuoto la testa inconsciamente e i miei occhi supplicano forse più delle parole. «Scusami, lo so che ho sbagliato a tenerti nascosta la faccenda delle indagini ma, ti prego, Eric, non...» Non allontanarmi...
Deglutisco a difficoltà sotto il gelo dei suoi occhi.
Come puoi essere così distante?
«Li hai arrestati?» La domanda è lapidaria e altrettanto priva di tono.
Annuisco silente ancora fermo davanti a questa porta mezza aperta.
Sento qualche goccia cadermi sul collo ma non me ne curo.
«Grazie per quello che hai fatto.»
«Non c’è di che.»
«Aspetta!» Blocco con la mano il legno prima che si chiuda. «Aspetta, Eric, come puoi trattarmi così?!» Avverto gli occhi inumidirsi come le mie spalle eppure Eric sembra indifferente ad entrambi. «Ho sbagliato, è vero, ma l’ho fatto per te, perché volevo avere giustizia per ciò che ti avevano fatto e-»
«Io non ti ho chiesto né giustizia né altro, Magnus. Ed ora vattene.»
«No, aspetta!» Spingo di nuovo la porta e so che lui potrebbe chiuderla all’istante se volesse e quella consapevolezza mi sprona a provarci ancora, perché non posso andarmene di qui senza aver avuto il suo perdono, o qualsiasi cosa voglia darmi, anche un pugno mi andrebbe bene. Vorrei solo che la smettesse di ferirmi con la sua indifferenza. «Ti prego, Eric, non chiedermi di andarmene ora, non dopo quello che - quello che ho passato, che abbiamo passato. Non-»
«Ehi, ascoltami, qualsiasi cosa tu abbia creduto ci fosse tra di noi, non c’è mai stata. Chiaro?» Perdo un battito e subito ne ritrovo altri cento tutti insieme. «Tu sei un poliziotto. È questo che vuoi essere. Hai la tua bella pistola, il tuo bel distintivo... Ed io ero la povera vittima da difendere.»
«Non ho mai pensato a te in questo modo! Come puoi dirmi una cosa simile?» La voce vibra eppure potrei urlare fino al cielo per le assurdità che mi sembra di ascoltare. Eric continua a rivolgermi il suo sguardo rigido. Le dita strette attorno alla porta e l’espressione stanca sul viso. «Tu hai detto che non sapevi dare un nome a ciò che siamo, io so darlo, io posso dargli un nome ma, ti prego, non chiudermi questa porta in faccia e fingere che ciò che c’è tra di noi sia niente!»
«E cos’è? Dai, fai quel nome.»
«Non trattarmi così, Eric, non me lo merito.» Il mio viso si piega in una smorfia disperata, il suo sembra prendere fuoco.
«Non è niente, Magnus. Non è amicizia, non è sesso - andiamo, non ti ho neanche toccato! E tanto meno è amore. Ok?» Mi mordo un labbro per non iniziare a singhiozzare. Gli occhi trattengono le lacrime solo perché il dolore che provo in questo momento le ha completamente prosciugate. «Credevi fosse amore? Dai, non essere sciocco.» Quel sorriso mi trafigge il petto e credo di aver quasi smesso di sentire il mio stesso corpo. Non sento i tuoni in lontananza né l’acqua che si è arrestata ma che esploderà presto, non sento i brividi sulla pelle né il tremore delle mie mani. Sento solo il lancinante vuoto dentro cui mi ha appena gettato.
«Può esserlo...»
Le sue labbra non smettono di sorridere crudelmente.
«No, non lo sarà mai.»
«Eric-»
«Mi hai chiesto se c’era qualcosa che non sapessi fare, beh, c’è... E tu l’hai appena capito, vero?»
Scuoto la testa in un’ultima supplica. Sospiro ancora il suo nome ma le sue orecchie restano sorde ad ogni mia preghiera. «Non potrei mai amarti, Magnus, perciò fai un favore ad entrambi e tornatene a casa.»
«Non puoi punirmi in questo modo per una cosa così... stupida!»
«Non ti sto punendo.» Il suo sorriso si spegne e gli occhi sembrano lasciar andare una piccola emozione che però non so definire. «Ti sto evitando un altro errore.»
«Eric!» Ma la porta si è già chiusa.
Ancora tuoni, eppure dal cielo non piove una sola goccia.
Neanche sul mio viso scende una sola lacrima ma le sento tutte inondarmi il cuore.
No, no, no, no...
«Eric...»
Non pensavo avrei mai potuto provare un dolore così forte, non credevo avrei potuto continuare a vivere dopo essere stato pugnalato dritto al petto.

















Continua...




[1] In spagnolo: brutto figlio di puttana.




NdA.
Ehmmm...
...
Sorry!
Kiss kiss Chiara

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Capitolo 27
*** Il giorno dei perdenti ***


27.
Detective Martinsson



XXVII. Il giorno dei perdenti



«Glielo riferirò quando la vedo e- aspetta, è appena entrata.» Incrocio lo sguardo di Lisa e le allungo la cornetta. «Sven dalla scientifica. La rapina in banca.»
«Dimmi.»
Lascio Lisa alla scrivania e cammino veloce verso quella di Steven. «Hai avuto notizie sull’aggressione in centro?»
«Non ancora, se ne sta occupando Brudel.»
Annuisco. «Tienimi informato.»
Torno ai miei dossier.
Gli occhi scorrono le lettere, la fronte organizza i pensieri, i denti mordicchiano il tappo della penna, le orecchie in ascolto di ogni squillo, di ogni suono.
Il cuore tace.
Continuo a lasciarlo in silenzio perché se gli dessi una sola voce lo sentirei urlare e i nervi crollerebbero e le ciglia non basterebbero a trattenere tutte le lacrime.
Quattro giorni, circa cento ore. Sembrano poche di fronte ad una vita, eppure le ho sentire scorrere tutte con un tale peso che mi è sembrato difficile anche solo svegliarmi la mattina.
Credo di aver ampiamente compreso il senso della frase “cuore spezzato”. Se solo avessi saputo che faceva così male...
Sono passato davanti casa sua più volte, l’ho cercato nelle finestre, nella portiera aperta dell’auto, nel tremore delle ombre del fuoco. Non l’ho mai trovato, Eric non ha voluto farsi trovare. Ho incrociato i suoi occhi e mi hanno solo attraversato.
La signora Fustern sembra voler tentare di capire cosa sia successo.
Avete litigato, per caso?
No.” Riesco a mentire sempre peggio.
Anche i buoni amici hanno incomprensioni, Magnus.
Avrei solo voluto piangere ancora.
«Magnus?» Sollevo lo sguardo sul viso di Anne-Britt. «Devo incontrare una persona ma la mia macchina credo mi odi. Mi dai uno strappo?»
«Certo.»
Stupide labbra, cercate di sorridere decentemente.

Il silenzio sceso nell’auto è palpabile.
Scalo di marcia e resto dietro ad un SUV nero. Gli occhi controllano lo specchietto retrovisore.
«Senti, se non ti va di andarci, va bene. Mi farò accompagnare da Derek.»
Riprendo la marcia e ricontrollo lo specchietto.
«Non c’è problema, Anne-Britt. Perché dovrebbe?»
«Andiamo, puoi anche togliertela questa maschera adesso. Lo so che ci stai male.» Le lancio uno sguardo vuoto cercando invece di incollarmi la maschera al viso il meglio possibile. «Sono giorni che te ne stai chiuso come un riccio. Quante volte te lo devo dire che puoi parlare con me?»
«Va tutto bene, non c’è nulla di cui parlare.»
«Sì che c’è, altrimenti mi guarderesti in faccia.»
«Non voglio tamponare nessuno.»
«Magnus... per favore.»
Deglutisco a fatica serrando la mascella.
Ho evitato di andare al porto, ho evitato di trovarmi davanti al suo gelo, ho evitato dopo quell’occhiata invisibile che mi ha regalato.
Quando ho visto Lars l’altro giorno, mi ha detto che Eric aveva ripreso a lavorare e che Ringdal gli aveva affidato mansioni da coordinatore per permettergli di recuperare fisicamente.
Ero davvero felice per lui.
Anne-Britt ha ragione, sto male, sto così male che vorrei solo chiudermi in una stanza buia e non uscirne, ma non posso perché il tempo dei patetismi è terminato.
«Avrei dovuto essere meno ingenuo. Tutto qui. C’ho sbattuto la faccia e ho imparato la lezione. Fine della storia.»
Le strade di Ystad mi sfrecciano di fronte insieme a tante piccole vite, tanti piccoli cuori, tutti con i loro dolori, tutti in cerca di un po’ di felicità. Io pensavo di averla trovata ed invece era solo l’ennesima illusione.
L’ennesimo errore.
Volevi evitarmi un altro errore? Avresti dovuto pensarci prima di incasinarmi la vita con quel dannato bacio. Avresti dovuto pensarci prima di calpestare i miei sentimenti come fossero merce avariata...
Stringo le dita attorno al volante mentre intravedo i capannoni del porto.
«Ok,  ha preso male la faccenda di Vargas, ma non penso che tu debba reagire così. Forse-»
«Tu non sai quello che...» Posso ancora sentire la rabbia sotto alla pelle. «Non hai sentito quello che ha detto. Non hai visto la sua freddezza, Anne-Britt, la sua... Sono stato il solito stupido.»
Quando parcheggio mi lascio andare ad un lungo sospiro mentre sento le dita di Anne-Britt accarezzarmi la testa.
«Ehi? Io non penso che tu sia stupido, Magnus, penso solo che tu stia soffrendo, giustamente, perché so quanto Eric significhi per te.» Non riesco a guardarla, ho paura che la divisa possa abbandonarmi del tutto. Non posso stare ancora una volta nudo sotto altri occhi, neanche se sono quelli di Anne-Britt.
«Niente. È questo che ha detto, che non c’era niente. Comico, no?» È un sorriso disperato quello che mi piega le labbra, è una dolcezza dolorosa quella con cui Anne-Britt continua ad accarezzarmi i capelli, perché mi fa ricordare le sue mani, il suo calore.
«È solo arrabbiato e probabilmente si sente tradito. Dagli tempo.»
«No, Anne-Britt, stavolta non serve tempo. Devo semplicemente accettare che sia stato solo un momento, devo riprendere in mano la mia vita e non pensarci più.» Devo dimenticarti, anche se mi sembra impossibile visto che il tuo pensiero violenta la mia mente ogni attimo.
«O potresti parlargli apertamente e provare a chiarire.»
«Non ho intenzione di umiliarmi ancora.»
«Non esiste l’umiliazione in amore, Magnus, esiste l’orgoglio e la sua totale inutilità.»
«Amore? Sì, come no...»
“Non è amicizia, non è sesso... E tanto meno è amore.”
Allora perché il mio cuore continua a battere solo per te?
Ma certo, è solo il mio a battere, è sempre stato solo il mio. Il tuo l’hai tenuto così stretto nel petto che a malapena si è accorto di me.
Un bel giochino. Un passatempo. Il confuso poliziotto dai riccioli buffi che si imbarazza per un non nulla...
Era questo il suo niente? Ero questo io?
Un nome su un biglietto? Una cerniera che scendeva con troppa facilità? Un patetico corpo che vibrava sotto la più piccola carezza?
Non sono mai stato altro? Neanche una sola volta?
Eppure dietro a quel vetro ho visto qualcosa in quegli occhi, ho visto qualcosa nella sua sorpresa, ho sentito qualcosa nei suoi baci e nelle sue risate.
Anche quello era niente?
Quanto vorrei chiederglielo, ma come posso passare sulla mia dignità ancora un volta? Quel briciolo di spirito di sopravvivenza mi vieta di farlo o è l’inutile orgoglio di cui parla Anne-Britt. Non lo so, so solo che non sono riuscito a chiamare quel nome sul cellulare ed ho guardato troppo a lungo lo schermo nella speranza di vederlo lampeggiare.
«Te lo ripeto, credo dovreste solo parlarvi a cuore aperto. Tutti e due.»
«Ci penserò.» Bugia, sporca bugia, perché voglio correre via da questa macchina e da questa sensazione di impotenza.
Le mie mani stringono di nuovo il vuoto.
Io stesso, mi sento solo una voragine scarna.

Al porto Eric non c’era eppure i miei occhi non hanno smesso di cercarlo per un solo minuto. Il battito ha accelerato ad ogni paio di iridi azzurre, ad ogni coda di cavallo.
Patetico...
La finestra mi restituisce il riflesso di un viso triste, di un sorriso inesistente, di rabbia e pianto annegato in uno sguardo scuro.
Vorrei non dover andare via dalla centrale, vorrei tornare ai tempi dove solo con un caso fra le mani mi sentivo bene, mi sentivo completo. Vorrei tornare ad essere il testone detective a cui si dovevano ripetere le cose due volte, perché sognava troppo e produceva poco.
Magnus si è perso ed io non so chi sono.
«Kurt è qui?» Mi volto verso l’agente appena entrato e scuoto la testa.
«A quest’ora non credo rientri più.»
«Il commissario ha detto che potevo trovarlo qui.» La voce sale dal fianco dell’agente. È un ragazzo biondo dall’aspetto remissivo. Il suo accento tradisce origini diverse da quelle svedesi.
«Posso provare a rintracciarlo. È importante?» chiedo mentre l’agente al suo fianco si congeda.
Il ragazzo annuisce e mi si avvicina. Fra le mani scorgo quella che mi sembra una busta, forse contenente qualche documento.
«Le sarei grato se potesse chiedergli di venire. Devo parlagli con urgenza.» Ancora non riesco a capire da dove venga.
Poggio la tazza di caffè che stavo bevendo sulla scrivania e prendo il cellulare. Mentre cerco il nome di Kurt nella rubrica getto ancora uno sguardo a questo ragazzo.
Un paio di occhi nocciola che sul viso pallido incorniciato dai biondi capelli, sembrano quasi contrastare troppo.
Un maglione marrone con lo scollo tondo da cui sbuca il colletto di una camicia bianca, i pantaloni neri e le mani sempre strette attorno a quella busta.
«Il commissario è molto impegnato» parlo mentre sento il telefono di Kurt bussare a vuoto. Quando parte la segreteria riprovo a chiamare. «Sicuro che non può aspettare domattina?»
«Vorrei potergli parlare questa sera.»
«Riguardo cosa?»
Resta un attimo in silenzio mentre la voce di Kurt mi risponde dall’altra parte del cellulare. «Kurt? Stai rientrando in centrale? C’è una persona che ti cerca, dice che è importante... Scusi, può dirmi il suo nome?»
«François Ruchen.»
Lo ripeto dall’altra parte e mi sembra di averlo già sentito da qualche parte.
«Vengo subito, digli di aspettare e, Magnus, resta con lui. Devo parlarti.»
«Va bene.» Non chiedevo altro che una distrazione.  
Infilo il cellulare nella tasca ed informo il ragazzo che Kurt sarà qui a breve, lo invito a sedersi e lui accetta silente.
Mi poggio alla scrivania e continuo a studiarlo.
François... Dov’è che ho sentito questo nome?
«Francese?» chiedo per spezzare il silenzio sceso nella stanza.
Il commissariato si sta svuotando e ormai resta solo chi ha il turno di notte, il mio è finito un’ora fa, ma qualche straordinario non può che essere una buona medicina alle mie ferite.
«Sì, sono di Marsiglia» mi risponde cortese ma sul viso l’ombra spenta non è ancora sparita. Di certo non è nulla di piacevole ciò di cui ha bisogno di parlare con Kurt.
François... Francese...
Un secondo dopo un flash mi passa nella testa.
«Riguarda Padre Phil?» chiedo senza lasciare il tempo alla mia lingua di porre una domanda con meno avida curiosità.
Il suo corpo sembra quasi tremare impercettibilmente mentre annuisce.
Certo! Il caso San Pietro! Il seminarista francese con cui la vittima aveva una relazione.
François Ruchen. Devo aver sentito questo nome da Anne-Britt.
Senza rendermene conto inizio a guardarlo con più insistenza mentre lui passa lo sguardo dall’orologio sulla parete alle scale, da cui, immagino, si aspetti di veder comparire Kurt.
Ho avuto la testa così occupata da aver completamente dimenticato quanto volessi entrare nelle indagini per questo omicidio.
Il pensiero torna ad Eric, ovviamente, torna ai sui occhi freddi, torna a quel "niente" che mi risuona nel petto torturandomi.
Di solito a quest’ora ero ancora in ospedale, seduto su quel letto bianco a farmi prendere in giro, a farmi baciare, a credere scioccamente che le cose sarebbero rimaste le stesse anche una volta usciti da quella stanza. Ed invece... Sono bastate solo poche ore e tutto è andato in frantumi.
“È un appuntamento?”
“Se lo fosse diresti sì?”
Riesco a sentire la sua risata e la mia vergogna.
Ogni notte mi sembra di rivivere quella prima notte in terapia intensiva, ma questa volta non aspetto alcun risveglio.
Incrocio le braccia sul petto come a volermi proteggere da altri ricordi, così belli eppure così crudeli.
Non avrei voluto conoscere le tue carezze, a quest’ora non mi sarebbero mancate così tanto...
«Anche lei sta seguendo le indagini?» Quello strano accento mi riporta alla centrale, mi riporta allo sguardo di questo ragazzo.
«Io?... A dire il vero-»
«François!» Kurt entra spezzando le mie parole. Mi sollevo dalla scrivania e aspetto che mi raggiunga. «Rimani.»
Annuisco mentre dedica le sue attenzioni al ragazzo.
François è in piedi e gli sorride appena.
«Commissario, mi scusi per l’ora.»
«Figurati. Prego, siediti.» Torna ad accomodarsi e Kurt mi fa segno di avvicinarmi. Mi siedo accanto a lui intrecciando le dita sul tavolo.
Non capisco perché voglia che resti, in fondo io non sono nelle squadra.
Non faccio domande, lascio che il caso che ho tanto bramato scacci almeno un po’ il pensiero di Eric.
So già quanto sarà difficile che accada.
François porge la busta a Kurt che la prende guardandola con la fronte corrucciata.
«Cos’è?»
«Le avevo detto che Phil aveva preso in affitto un piccolo appartamento vicino alla parrocchia di St. Patrick. Io alloggiavo lì quando ero in Svezia.»
«L’hai trovata lì? E perché adesso?»
«Non sono più riuscito ad entrare in quella stanza e... E volevo prendere alcuni oggetti di Phil. Piccole cose.» I suoi occhi si inumidiscono. «Era sotto al cuscino. È una lettera. La data è del giorno... di quel giorno.» Kurt guarda ancora la busta prima di aprirla. Ne tira fuori due fogli, mi sporgo per poter leggere anche io il contenuto. «Non ha fatto in tempo a spedirmela...» Piccole lacrime scendono sul pallido viso ed io non riesco a tenere gli occhi sulle righe. Il dolore che leggo nei suoi singhiozzi ha un effetto che non avevo previsto.
Sento la gola secca e mi bagno le labbra con la poca saliva che conservo.
Recupero la confezione di fazzoletti da una scrivania e glieli porgo silente.
«Grazie.» Kurt continua a leggere la lettera ed io quasi vorrei non dover stare in questa stanza davanti alla sofferenza di questo ragazzo e alle parole di chi non ha avuto occasione di farle leggere alla persona che amava.
«Dice che voleva sistemare le cose. Hai idea di cosa significa?»
François scuote la testa mentre si asciuga il naso con un altro fazzoletto. «Gli avevo detto che avrei lasciato il seminario. Volevo venire ad Ystad per stare con lui...»
«E Phil che voleva fare?» chiedo senza neanche domandarmi se posso fare domande. Kurt non mi interrompe e mi lascia continuare. «Anche lui voleva abbandonare il ministero sacerdotale?»
«Phil amava essere un sacerdote, amava la sua comunità ed io... Io so che per lui era difficile.»
«Le sue parole sembrano lasciar trapelare questa scelta, però. Non  ti ha parlato di questa eventualità?»
François scuote di nuovo la testa.
«Magari ne ha parlato con qualcun altro» bisbiglio verso Kurt. Lui mi guarda senza dire altro e poi perde lo sguardo nuovamente sui fogli fra le sue mani.
Il Signore mi ha indicato la via, mio caro Fran, ed io voglio seguirla. Voglio che tu possa essere felice come meriti... Mio cuore, mio unico amore...
Quelle parole mi lasciano una patina di tristezza sulla pelle, una tristezza mista a rabbia.
L’egoismo di chi soffre, presumo.
Mio unico amore...
Ed è sempre il tuo viso a disegnarsi nei miei occhi.
«Quanto resterai in città?»
«Fino al termine della settimana, poi devo rientrare a Marsiglia.»
Kurt annuisce reprimendo quello che mi sembra un sospiro.

«Credo che la voglia di lasciare l’abito talare sia l’ipotesi più plausibile.»
Alzo lo sguardo al cielo nero mentre una nuvola di vapore abbandona la mia bocca.
«Fino ad ora non sono riuscito a trovare una sola ipotesi plausibile, a dire il vero.» Kurt si passa una mano sulla fronte.
L’aria è gelida. Questo autunno mi sembra insopportabilmente rigido.
Raggiungo l’auto con le mani sprofondate nelle tasche.
«Kurt, sei sicuro che posso entrare adesso?»
«Pensavo fosse quello che volevi.»
«Lo è, ma mi chiedevo se fosse altrettanto giusto.» Non so se sono davvero in grado di affrontare un caso come questo nella mia attuale condizione.
Kurt infila le chiavi nella serratura tossendo un paio di volte.
«Farai un buon lavoro, Magnus.»
Sollevo un solo angolo delle labbra ad annuisco. Sale in auto e mi saluta con un cenno della testa.
Altro vapore abbandona le mie labbra.

Rientro in centrale solo per recuperare il dossier San Pietro.
Forse è quello che mi ci vuole, non una distrazione, ma un vero caso.
Un mattone, un piccolo inizio per lasciarmi tutto alle spalle.
Per lasciarti alle spalle.
Apro il cassetto della mia scrivania e raccolgo la cartella con su scritto “Eric Huntsman”.
Dovrei buttarla, credo. Magari dovrei solo infilarla in quella del caso Fustern e archiviala come Caso Non Risolto.
Nessun colpevole, solo vittime.
Ed invece poggio quella di San Pietro sulla scrivania e la apro.
Sfioro con le dita la sua foto, i suoi occhi arrabbiati, il viso giovane di qualcuno che però aveva già conosciuto la sofferenza.
Stringo nella gola il suo nome, nelle mani il ricordo della sua pelle.
Stringo nell'anima la dolcezza con cui ha parlato di sua madre e la gentilezza con cui mi accarezzava i capelli.
Stringo fra le labbra il sapore delle sue e nelle orecchie il suono della sua voce.
Lascio che il cuore parli e tutto ciò che riesco ad sentire è un “Mi manchi” umido di lacrime.

















Continua...






NdA.
Ultimo aggiornamento prima delle mie vacanzucce <3
Mi sento un po’ una cacca a lasciare Magnus (e voi) in questa situazione poco felice, ma al mio ritorno cercheremo di sistemare le cose, anzi, di certo si sistemeranno.
Auguro buone vacanze a tutti voi che siete i lettori migliori che una povera mentecatta come me potesse mai sperare di avere >///<
*lacrimuccia da addio*
Ci leggiamo a fine agosto.
VEVOJOBBENE!!!
Kiss kiss Chiara

P.S. il titolo del capitolo è preso gentilmente in prestito da quello di una canzone di Masini (canzone molto Magnusiana, fra l'altro...)

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Capitolo 28
*** Phil e François ***


28. Phil e François
Detective Martinsson



XXVIII. Phil e François



Padre Phil era quello che si può definire un brav'uomo. Aveva trascorso diversi anni nelle zone più povere del mondo anche prima di prendere i voti.
A giorni alterni si dedicava alla mensa caritatevole di Ystad, ed ogni domenica, dopo le funzioni, trascorreva il pomeriggio con i ragazzi della Casa Famiglia di Horsbarg.
Un santo, a vederla così, eppure era solo un uomo.
Un uomo che ha amato come un uomo, l’unica nota stonata è che indossava un abito importante, paradossalmente, gli sarebbe bastato abbracciare una fede diversa[1].
Ed invece è morto con il petto pugnalato, con un solo colpo vicino al cuore. È morto dissanguato sulle scale di una chiesa, quasi fosse un’ultima crudele beffa.
Nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno aveva alcun motivo per togliere la vita ad una persona come Padre Phil.
Almeno questo è ciò che dicono le carte, le carte da cui un volto gentile mi sorride. Due occhi neri incorniciati da lenti sobrie, una massa confusa di capelli sulla testa in cui un piccolo bambino di colore si diverte a mettere disordine.
Respiro a fondo e mi stropiccio gli occhi con le dita.
Ho trascorso tutta la notte a studiare il caso, tutte le prove raccolte - praticamente inutili - le testimonianze di chi lo conosceva, le ipotesi dei colleghi, l’inconcludenza di ognuna di esse.
Ci siamo incontrati a Roma. Io ero lì per un viaggio insieme ad un gruppo di altri seminaristi, Phil era in ritiro spirituale per qualche settimana.” Riesco a sentire l’accento particolare di François e il dolore sparso nelle parole. Leggo ancora la sua dichiarazione, leggo di come hanno iniziato a scriversi, di come Padre Phil gli era di sostegno perché François aveva dei dubbi sulla sua scelta, leggo di come dopo qualche mese lui era giunto in Svezia e si erano rivisti, leggo di come scoprire che non era solo amicizia abbia spaventato entrambi.
Sono emozioni che si intersecano inevitabilmente con le mie, è una sofferenza scritta che rivivo in ogni lettera.
Kurt ha deciso che domani andremo a parlare con Monsignore Karlberg per chiedergli ragguagli circa la possibile volontà di Padre Phil di lasciare il ministero sacerdotale.
Domani.
Domani sembra non arrivare mai.
Le notti diventano sempre più lunghe, le ore si dilatano e la lancetta dell’orologio è una sciabola sul collo ad ogni secondo.
Le 2.35, sono ancora le 2.35.
Se rileggo nuovamente questi rapporti finirò per impararli a memoria, e poi le foto dell’autopsia di questo pover'uomo non conciliano di certo il sonno.
Getto la cartellina sul lato vuoto alla mia sinistra.
La luce dell'abat-jour delinea le ombre create dal cuscino, dalla piega poco scomposta, dall’assenza che regna al mio fianco.
La tua assenza.
È insostenibile ogni minuto di più, pesa sullo stomaco, pesa nella testa. Mi sembra di impazzire.
Mi rigiro sul fianco con gli occhi fissi al niente che mi fa compagnia.
Il nostro niente.
Mi chiedo cosa stia facendo, come stia, se il livido sia sparito, se la ferita gli dia fastidio.
Mi chiedo se ci sono già altri capelli in cui sta affondando le dita, mi chiedo se ci sia già un’altra bocca a strappargli baci e risate.
Sono ridicolo, in fondo ha ragione: cosa abbiamo diviso? Cosa ci univa?
Era un legame di cui reggevo da solo il filo, un rapporto monco di cui mi sono reso conto tardi, eppure la solo possibilità che ci sia già qualcun altro mi fa strozzare la gola con un singhiozzo, l’idea che questo sentimento sia destinato a non cancellarsi mai, me ne fa ingoiare un altro e poi un altro ancora.
Voglio tornare su quel divano, voglio tornare sotto i suoi occhi, voglio tornare a vivere.
Adesso è solo un esercizio dei polmoni, respirare, è l’involontario contrarsi di un muscolo, il battere di questo cuore.
Stringo le dita attorno alla federa e mi mordo con forza le labbra.
“Tu sei un poliziotto. È questo che vuoi essere.”
Avrei voluto essere altro, avrei voluto essere tutto e invece non sono mai stato niente.
Non è così, Eric?
Niente.


I corridoi di San Pietro sono ampi quasi quanto quelli dell’omonima Basilica di Roma, almeno credo. Io a Roma non ho mai messo piede. Non ne ho mai messo uno fuori dalla Svezia, e in qualche folle pensiero, avevo veramente creduto che un giorno avrei calpestato la verde erba della Scozia.
Kurt al mio fianco è silente. Seguiamo l’uomo che ci sta conducendo dal vescovo Karlberg come fossimo diretti ad un’esecuzione.
Posso percepire i pensieri muoversi nella sua testa, le domande crearsi e rispondersi e, quelle che restano senza risposta, depositarsi sulla lingua.
Ascolto, osservo e taccio.
Ho capito quanto farlo sia importante, ho capito a caro prezzo quanto dire ed ascoltare siano ugualmente importanti. Ho imparato che se si parla è meglio dire la verità e che chi tace può dire molto di più.
Svoltiamo un angolo e l’uomo ci fa arrestare.
Picchia le dita contro la porta di vetro da cui non si intravede neanche una sagoma.
Un deciso “avanti” e le due porte di aprono.
«Monsignore, c’è il commissario Wallander.»
«Grazie, Theodor. Commissario, buongiorno.»
«Buongiorno.»
Monsignore Karlberg si alza dalla sedia e sorride affabile ad entrambi ma, naturalmente, sembra interessato alla mia presenza. L’uomo che ci ha fatto da guida esce dalla stanza chiudendo la porta alle nostre spalle.
Do uno sguardo veloce allo studio che sembra essere quello di mio padre: altrettanto sterile, altrettanto intimidatorio, altrettanto schiacciante. C’è qualche crocifisso in più e qualche telefono di meno.
«Sono il detective Martinsson.» Mi presento, conscio che Kurt, con ogni probabilità, avrebbe saltato questo passaggio.
«Piacere, detective. Prego, accomodatevi.» Di fronte alla scrivania di legno chiaro, due sedie dall’apparenza comoda. Kurt non si siede ed io decido di imitarlo.
Il vescovo ci sorride ancora e sceglie di girare attorno alla scrivania e raggiungerci. È un uomo alto e dall’aspettato curato. Folti capelli bianchi e occhiali privi di reale montatura. L’ho intravisto un paio di volte in occasione di qualche funerale importante. La signora Fustern ne parla spesso usando sempre parole molto lusinghiere.  
«Monsignore, volevo farle qualche altra domanda su Padre Phil.»
«C’è qualche buona notizia, commissario?»
«Forse.» Resto ancora in silenzio, un passo dietro Kurt. «Padre Phil le ha mai parlato della possibilità di lasciare il ministero?»
«Padre Phil amava parlare di tante cose.»
«E di questo ne ha parlato?»
Karlberg continua a sorridere ma è chiaramente una forzatura. Immagino quanto questa faccenda possa essere spinosa per la sua diocesi. Già un prete che si innamora è disdicevole, che poi si innamori di un ragazzo, per giunta seminarista, credo sia una delle peggiori situazioni che possano capitare in questo ambiente.
Innamorarsi...
Forse il vero dramma è proprio questo, indipendentemente dal chi.
«Ci sono questioni di cui non si può parlare con chiunque, commissario, forse solo con Nostro Signore.»
Sì, peccato che non possiamo interrogarlo.
Kurt mal cela un sospiro stanco e come lui non posso che trovare inutili questi sermoni gratuiti.
«Non sa con chi Padre Phil possa essersi confidato?» chiedo istintivamente e Monsignore Karlberg mi restituisce un’occhiata diffidente.
«Phil aveva tanti amici, ma non so quanti di loro possano essere stati suoi confidenti.»
«Ci basta qualche nome.»
Il vescovo annuisce ancora. «Certo, commissario.» Torna poi a sedersi dietro la scrivana. Mentre aspettiamo che stili una lista scorgo una foto sulla parete destra, una foto di gruppo in cui riconosco sia Phil che Karlberg. Deve essere un villaggio africano o qualche luogo simile. Phil indossa una t-shirt gialla e tiene il braccio attorno ad una ragazza del luogo. Sembra felice.
«Eravamo in Congo.»
Mi volto verso Karlberg che mi sorride per poi porgere il foglio a Kurt.
«A quanto risale?» chiedo.
«Un paio di anni fa. Fu Phil a organizzare tutto. Phil era... Era un bravo sacerdote ed un brav’uomo.» Riguardo la foto e, se il viso può dire qualcosa credo che le parole del vescovo Karlberg siano veritiere. «Prego ogni giorno che Nostro Signore sappia illuminarvi... A volte è difficile comprendere il suo disegno.»
Padre Phil è stato brutalmente assassinato, non credo ci sia poi molto da comprendere.
Da chi, questo è ciò che conta insieme a quell'altrettanto incomprensibile perché.
Dalla foto, Phil sorride ancora.

«Che ne pensi? Dovremmo interrogarli uno per uno?» Guardo la breve lista che ci ha stilato Karlberg mentre Kurt continua a guidare. Sono una decina di nomi e mi sembra di averli già sentiti tutti.
«Possiamo tentare ma sarebbe tempo sprecato.»
«Che vuoi dire?» Sposto gli occhi sul suo profilo ma Kurt resta silente.
Nella testa scorrono le parole lette durante quest’ennesima notte insonne ed ogni nome ritorna al suo posto: i volontari della Casa Famiglia, i fedeli, il custode della chiesa di St. Patrick.
Sarebbe inutile perché sono già stati interrogati tutti.
Se avessero saputo qualcosa l’avrebbero detto, se avessero saputo qualcosa l’avrei letto in quel dossier.
Fisso fuori dal finestrino il mutare del paesaggio mentre piccole gocce iniziano a colpire il vetro.
Mi chiedo perché Kurt abbia chiesto il mio aiuto, in fondo mi sembra di essere utile quanto una mollica di pane. Ha già tentato tutto, ha già battuto ogni pista.
Forse non dovrei dirlo dopo mezza giornata di indagine, ma mi sembra sempre più possibile che questo resterà uno dei tanti casi irrisolti.
Un’illuminazione... Sì, forse è quello che ci vuole.
Beffando il mio pensiero un fulmine taglia il cielo e la pioggia paradossalmente si arresta. Tutto come quella sera, quando sono tornato a casa zuppo non di pioggia ma di lacrime, con il cuore frantumato e la dignità sciolta nelle pozzanghere delle strade.
«Torneremo a interrogarli. Tutti. Qualcuno può aver mentito.»
La voce di Kurt è sicura e rassicurante eppure scorgo comunque quel barlume di incertezza che l’attraversa.
«Va bene» alito mentre parcheggiamo davanti al commissariato.
No, non ci credo neanche io.


Il primo sole che ha fatto capolino dalle nubi grigie di questi giorni, mi riempie di malinconia. Bevo un sorso di caffè scorrendo con gli occhi sullo schermo del pc.
Che stai facendo?
Sei a lavoro?
Stai bene?
...
Ti manco almeno un po’?
Sospiro stancamente passandomi una mano sul viso. Mi arruffo i capelli e mi stropiccio gli occhi con forza.
Perché non riesco a mandarti via?
È il germogliare continuo di angoscia a riempirmi i polmoni. Ogni sospiro è una richiesta di risposte che non troverà mai accoglimento.
Kurt è con Linda. Sta per sposarsi ed io lo vengo a sapere solo ora.
Auguri, allora.” Il sorriso di Kurt non era poi diverso dal mio: stanco, stirato. Un dovere.
Il commissariato non mi sembra tanto accogliente come avevo creduto, non è un rifugio così impenetrabile.
Volto lo sguardo verso il tiepido sole e mi sembra di rivederlo ancora, quel suo sorriso assurdo. Troppo perfetto per essere vero, troppo gentile per essere stato capace di farmi così tanto male.
Afferro la giaccia e scendo le scale.
I miei piedi camminano senza reale meta.
Camminano silenti, le lacrime restano tutte chiuse negli occhi e il suo nome sospeso sulle labbra.
Lascio che il riflesso sbiadito di questo autunno mi scaldi il viso e vorrei solo non pensare continuamente al calore delle sue carezze.
Mi ritrovo nella strada più affollata del centro, immerso in un mare di gente che sembra inghiottirmi. Mi passano accanto e sono invisibile, di nuovo. Come sempre.
E mi ero illuso di non esserlo almeno per i tuoi occhi.
«Detective Martinsson.» Una voce sale da queste onde umane e scorgo solo allora il viso pallido di François.
«Signor Ruchen.» È fermo sul ciglio del marciapiede e sono io a raggiungerlo. Sempre la solita espressione remissiva e triste.
«La prego, mi chiami François.» In quell’accento incerto posso ancora sentire il suo ironico Merci. «Come vanno le indagini? Avete scoperto se Phil...»
«Stiamo facendo il possibile. Il commissario sta impegnando ogni risorsa.»
Mi regala una linea di labbra leggermente piegata all’insù, un sorriso che non riesco neanche a definire tale. «Grazie per il vostro lavoro.»
Annuisco soltanto e vorrei essere capace di dire qualcosa di opportuno, anche una triste frase di circostanza, ma la lingua rimarrebbe incartata in parole che farebbero male anche a me.
«Ho deciso che terminerò il percorso in seminario e prenderò i voti.» Guardo il suo viso pallido e quel accenno di sorriso stavolta mi sembra meno sofferente. «Dedicherò la mia vita al Signore... per ringraziarlo.»
«Di cosa?» La domanda nasce spontanea. Di cosa si può ringraziare quando la persona che ami ti viene portata via in un modo così orribile? A chi puoi dire grazie quando il cuore ti esce dal petto e letteralmente si schianta al suolo?
François mi osserva ancora con le labbra sorridenti. «Per aver avuto l’opportunità di conoscere Phil... l’opportunità di amarlo, anche se per un lasso di tempo così breve.»
«Non sei arrabbiato con il tuo Signore per ciò che gli è successo?» Non riesco a capire come possa non esserlo, forse è questa la fede? Non saprei dirlo, non ne ho mai avuta molta.
Nell’istinto, ecco in ciò che credo, nel sesto senso, in una buona intuizione. Fortuna, destino... Cosa sono se non invenzioni per non prendersi la responsabilità delle proprie azioni? Dei propri errori?
«Sono molto arrabbiato, detective, alcuni giorni sono così arrabbiato che mi sembra di soffocare, ma anche se per poco tempo, anche se non ci era stata destinata una vita come quella che avremmo voluto, sono felice di aver avuto quel poco e lo porterò con me fino alla fine dei miei giorni, finché non ci ritroveremo.»
«Hai una grande forza, François...» Ti invidio, vorrei averla anche io.
Scosto lo sguardo e lo porto al cielo azzurro macchiato dalle nubi.
Vorrei avere la stessa forza per andare da Eric e chiedergli ancora perché, la stessa forza per urlargli ciò che provo e ribadirgli ancora una volta quanto sia importante per me. Tutto. La mia stessa vita. Ecco cosa significa, ecco cosa sento di aver perso.
Ma come potrei anche solo presentarmi da lui dopo quello che mi ha detto? Dopo il modo in cui mi ha guardato? Dopo il cinismo con cui ha deriso ciò che ci legava?
Niente... niente... niente.
Anche tu sei un bugiardo, Eric.
«Non si tratta di forza, detective, si tratta di credere.»
«In cosa? In Dio?»
«In ciò che si prova, in ciò che fa battere il cuore. Io per tanto tempo l’ho chiamata fede, poi ho conosciuto Phil ed è diventato altro.»
«E adesso cos’è?»
Il silenzio che segue è frantumato dal vociare della folla, dai passi frenetici attorno a noi, dalle vite di tutte queste persone che sembrano ignorare il dolore e le gioie degli altri.
François respira a fondo e poi mi sorride. «I sentimenti non vanno via con le persone, detective.»
«Sarebbe più facile se fosse così.» Farebbe meno male.
«Oh, sarebbe più triste, invece. Anche se possiamo soffrire - e soffrire tanto - ne vale la pena. Sempre... Me l’ha insegnato Phil.»
Ne vale la pena.
E per cosa? Per chi?
Per te?
Ne vali davvero la pena? Vali tutto questo dolore che mi accompagna da giorni? Vali tutte le lacrime, tutte le umiliazioni?
Vale la pena affrontare tutto solo per sentirmi dire di nuovo che non sono niente?
La risposta è così scontata che è ridicolo anche solo cercarla.

Il cielo ha deciso di reggermi il gioco, ha deciso di non lasciare andare alcuna goccia d’acqua, ha deciso che posso restare seduto su questo cofano ad aspettarlo, davanti casa sua, con lo sguardo fisso sulla strada come quella strana mattina.
Aspetto silente, contando i gradini più volte, sollevando il naso ed annusando l’odore dell’aria umida.
Aspetto silente con i capelli smossi dal vento e le mani sprofondate nelle tasche, sotto i polpastrelli la superficie liscia del piccolo biglietto bianco.
Aspetto silente ascoltando il suono delle foglie che cadono giù ad ogni raffica e si lasciano trascinare senza opporre resistenza.
Ti aspetto silente.
Prenderò  il mio cuore e lo getterò fra le tue mani, fanne ciò che vuoi, tanto è tuo, ti è sempre appartenuto.
Lascerò che le parole volino da te come quelle foglie, calpestale pure, non mi importa. Solo, ascoltale.
Ascoltami anche se dirò stupidaggini, di certo lo farò, perché l‘amore rende sciocchi ed io sono estremamente sciocco adesso.
Prenditi pure gioco di me e tagliami in due con i tuoi occhi, ma tienili su di me, ancora una volta, fosse anche l’ultima.
Un piccolo puntino blu si intravede da lontano, deglutisco ed aspetto che diventi sempre più grande, finché non si arresta, finché non vedo il suo viso attraverso il vetro e posso quasi percepire il suo sospiro.
La portiera si apre, il mio battito accelera.
La convinzione vacilla quando sento quello sguardo posarsi su di me, ma cerco di trattenerla con le unghie e con i denti.
No, stavolta non cado.

















Continua...




[1] La Chiesa di Svezia, la principale confessione religiosa svedese di matrice luterana, accetta tranquillamente i preti omosessuali e concede anche loro di sposarsi senza distinzioni di sesso, come concede di unirsi in matrimonio a qualunque coppia gay.
Padre Phil è invece un prete cattolico cristiano, da qui la riflessione di Magnus.
Nota extra: in Svezia il Cattolicesimo è una fede religiosa poco diffusa e in realtà l’unica diocesi cattolica si trova a Stoccolma. Non ne esiste alcuna nella contea di Scania, per cui tutto ciò che riguarda il caso San Pietro è totalmente inventato per fini di trama.




NdA.
Ecchimi a voi, un po’ triste per le ferie finite (domani si rientra a lavoro, sigh T^T) un po’ felice per aver ritrovato questa storia e ovviamente voi, bellissimi lettori <3
Siamo agli sgoccioli, un’altra manciata di capitoli e si chiude.
Magnus è carico come una molla e pronto per dire... per dire cosa? Mah, speriamo solo non faccia fiasco...
Un abbraccio a tutti e spero vi siate goduti questi giorni di calura estiva.
Kiss kiss Chiara

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Capitolo 29
*** Senza maschere né gravità ***


29. Senza maschere né gravità
Detective Martinsson



XXIX. Senza maschere né gravità



La sensazione è la stessa che si prova quando si ha un’arma puntata contro, quando il freddo di una canna di pistola ti sfiora la pelle e vedi l’indice teso stringere il grilletto.
Il sudore ti imperla la fronte e sai che potresti morire nel secondo successivo.
La vita ti passa davanti? No, non è vero, non succede come raccontano i film. Ciò che percepisci è il vuoto, ciò a cui pensi non è il tuo passato ma il futuro che non vedrai mai.
Eric tiene quel grilletto.
«Ehi.»
«Magnus-»
«No.» Lo interrompo subito e mi sollevo dal cofano. «Sono qui solo perché devo dirti qualcosa. Ti chiedo di ascoltarmi, ok? Poi me ne vado e ti lascio in pace ma, per favore, ascoltami senza interrompere.»
Mi guarda in silenzio ed io mi soffermo sul suo viso di nuovo perfetto. Accarezzo con gli occhi la sua guancia, le labbra, i capelli.
Mi manchi...
«Va bene.» È un sospiro breve e deciso. Freddo.
Non importa, devo farlo. Adesso o mai più.
Annuisco e mi umetto le labbra prendendo un profondo respiro.
«Ok, allora...» Mi ribagno le labbra e sento le parole dissolversi a ogni battito. «Pensavo fosse più facile...» Un risolino nervoso mentre sento l’ansia pervadere ogni fibra del mio corpo.
«Ascolta, Magnus, io-»
«Ti amo.» Se non avessi udito la mia voce non avrei mai creduto di essere stato io a dirlo. E invece l’ho detto.
Te l’ho detto.
Eric deglutisce a sua volta e mi sembra che la freddezza si sgretoli appena dai suoi occhi.
«Ti amo, Eric, credo di averti sempre amato da... non lo so, magari dalla prima volta, quando volevi affettarmi con l’ascia!» Sorrido imbarazzato ma continuo senza lasciargli il tempo di fermarmi. Non posso, non voglio farlo. «So che non avrei dovuto, ma non ho potuto farci nulla. Ho tentato, Dio, se ho tentato ma – come se poi si potesse scegliere chi amare.» Rido ancora con una nota di disperazione che non sfugge a nessuno dei due. «Mai avrei immaginato di potermi innamorare di te, di un uomo... È-è stato difficile per me, tremendamente difficile, ma quando sei finito in ospedale ho capito che non volevo perderti, perché non ci sarebbe mai stato nessuno che mi avrebbe fatto sentire tanto inadeguato e tanto stupido, perché è così che mi sento quando sono con te: uno stupido e inadeguato ragazzino.» Sento gli occhi pungere ma non voglio badarci. Non voglio badare alla sensazione di fragilità che si impossessa velocemente di me, alla sua gola che sussulta di nuovo, ai suoi occhi che si sciolgono a ogni parola. «Ma mi sento anche vivo, mi sono sentito vivo per la prima volta grazie a te e volevo che tu lo sapessi. Volevo che sapessi che non era “niente”, non per me. Non sei mai stato “niente”, per me, Eric, sei sempre stato tutto...» La vista quasi si appanna ma ricaccio indietro ogni lacrima perché posso resistere ancora un po’. «Avrei voluto conoscerti sul serio, avrei voluto che anche tu mi conoscessi e che vedessi oltre questi ridicoli capelli e questa mia goffaggine ma... Non sono riuscito a non rovinare nulla, perché sono fatto così, Eric, sbaglio e sbaglierò sempre, ma sappi che provare questo sentimento non è mai stato un errore, mai. E non credo che tu non sappia amare, forse non puoi amare me...» Tiro sul col naso e deglutisco fingendo un sorriso solo perché sembra rendere tutto meno doloroso. Eric è sempre immobile e i suoi occhi non mi hanno lasciato un solo istante. «Lo so che non provi lo stesso ma, onestamente, non credo alle tue parole, Eric.» Raccolgo aria e forza per continuare, per spogliarmi di quest’ultima pelle e dargli tutto. «Anche io conto qualcosa per te, altrimenti non ti saresti quasi fatto ammazzare per difendermi.»
La sua gola vibra ancora e vedo chiaramente le parole strette fra i denti. «Lo so cosa ti hanno detto. Fuentes mi ha raccontato delle battute squallide e stupide su di me e... Se non ero niente, Eric, perché lo hai fatto? Se non posso avere la tua fiducia, dammi almeno la tua sincerità. Credo di meritarmela dopotutto... No?»
Un lungo sospiro, gli occhi mi abbandonando per celarsi dietro alla sua mano.
«Quanto sei cocciuto, Magnus.»
«Un altro dei miei tanti difetti.» Torna a guardarmi, a guardare il sorriso triste che mi piega le labbra e il pianto asciutto che sta investendo il mio cuore. «Rispondimi... perché?»
«Perché sono un idiota, immagino. Un immenso idiota e io...» Mi nega ancora il suo sguardo. «Non dovevo incasinarti, perciò è meglio che stiamo lontani. Ok?»
«No, non è ok, Eric, e lo sai. Per me non è ok e neanche per te.»
«Oh, per me va benissimo, credimi.»
Piego ancora le labbra. «E allora perché non me lo dici guardandomi in faccia?» Ma i suoi occhi restano a fissare il blu dell’auto. Le mani poggiate sui fianchi, un altro lungo respiro trattenuto a stento. «Guardami negli occhi e dimmi che non sono niente, dimmi che ciò che c’è stato fra di noi, per quanto breve, non era niente. Dimmelo ancora una volta, dritto in faccia, Eric, e io me ne andrò e non ti dovrai più preoccupare di Magnus Martinsson.»
«Magnus...»
«È facile. L’hai fatto già. Già una volta mi hai calpestato. Cosa ti costa rifarlo se non sono niente?» Il caldo di una lacrima mi riga una guancia, la cancello subito con il dorso della mano, ma non abbastanza velocemente da impedirgli di vederla.
Ti sei preso tutto, anche la mia dignità, dammi almeno qualcosa di te, dammi quella verità e nessun altra menzogna.
«Perché sei venuto qui? Perché vuoi costringermi a farti del male?» La sua voce si ingrossa e lo sguardo si assottiglia.
La mia rabbia affianca il dolore in un lampo.
«Non voglio costringerti a fare nulla! Voglio solo sentirti dire la verità!» Quasi urlo, senza preoccuparmi di essere nel bel mezzo del suo giardino. «Dimmi che non sono mai stato niente! Dimmi che questo biglietto non era niente!» Lo afferro d’istinto dalla tasca e lo getto facendolo cadere a terra davanti ai miei stessi piedi. «Dimmi che ogni volta che mi hai baciato o toccato non hai provato niente!»
«Oddio, Magnus!»
«Cos’è, non ci riesci? Non riesci a mentire se non hai una porta da chiudermi in faccia, eh? Sei così codardo, Eric?!» Le mie spalle si alzano e abbassano per il fiatone, Eric serra la mascella e mi guarda torvo.
«Tu non sai niente di me.»
«E questo per colpa di chi?»
«Ah, ecco, adesso vuoi farmi sentire in colpa perché ti sei ingenuamente innamorato di uno come me? È per questo che sei qui?»
«Cosa?! Non sono così meschino! Neanche tu hai capito nulla di me a questo punto!»
La cosa sta degenerando. Volevo un ultimo chiarimento e invece siamo finiti a litigare. Forse è vero che dobbiamo stare lontani, è vero che non avremo mai qualcosa a unirci, non possiamo costruire nulla, non ci saranno mai basi dove posare un bel niente. «Sai che ti dico? Mi hai già risposto, Eric. Ora tolgo subito il disturbo – quanto sono stato stupido a credere che ti importasse qualcosa di me?!» Raggiungo la Volvo con passi veloci. Non riesco più a stare qui, ho solo voglia di urlare e spaccare tutto, ho solo voglia di prendermi a schiaffi.
Non riesco neanche ad aprire la portiera che subito si richiude.
Alzo il viso e incrocio il suo. Serio, furente, bellissimo.
«Vuoi prendermi a pugni?» sibilo deglutendo per la sua vicinanza. Io vorrei fare altro, io vorrei baciare e mordere quelle labbra e non lasciarle andare via.
«Sì, vorrei farlo, vorrei spaccarti la faccia, giuro!»
Il fiato corto fa sussultare ancora le mie spalle. «Fallo, allora. Avanti!»
«Non tentarmi, Magnus...» Il suo respiro si perde nel mio, sento la rabbia ribollire ancora e non riesco a impedire alla mia bocca di posarsi violenta sulla sua.
E ora puoi anche massacrarmi di pugni.
Ma il pugno non arriva. La sua mano afferra i miei capelli con presa ferrea e le sue labbra si schiudono alle mie. Mi trovo schiacciato fra la mia stessa auto e il calore del suo corpo.
Gli arpiono disperatamente le spalle e ora sono mie le dita che affondano nei suoi capelli. Sono miei i denti che gli strappano un sospiro, sono miei i fianchi che spingono indecentemente verso di lui.
Il cuore martella forte nelle orecchie, non sento il rumore delle auto che sfrecciano rade, non sento il vento freddo che sta schiaffeggiando la mia pelle, sento solo le sue mani che mi stringono, le sue labbra che non abbandonano mai le mie, il suono lascivo di ogni gemito che ingoio.
Non lasciami, Eric, non ancora... non farlo mai.
I suoi occhi si inchiodano ai miei mentre il respiro caldo asciuga la mia bocca. «Sei un idiota...»
«Tu lo sei.» Gli accarezzo il viso quasi fosse qualcosa che potrebbe svanire da sotto le mie dita e lo bacio ancora disperato. Poggio la fronte contro la sua e sfioro di nuovo la sua bocca con le dita. «Eric...»
Non risponde alla mia preghiera, mi artiglia i fianchi e mi soffoca fra le sue braccia.
Potrei morire adesso e non me ne importerebbe niente.


Le carezze di Eric sono gentili e allo stesso tempo rudi, la sua bocca scivola sapiente su ogni angolo della mia pelle, fino a rubarmi brividi che non avrei creduto di poter vivere. Accarezzo i suoi capelli mentre sento le labbra risalire piano verso il mio ventre, su, fino al mio collo, finché non incontrano di nuovo le mie.
Le lenzuola si attaccano alla pelle umida, la stanza, la sua stanza, si riempie di sospiri e ansimi, il mio cuore non ha smesso un attimo di battere impazzito sotto ogni suo tocco.
Le mani sfiorano affamate il suo corpo che tanto ho desiderato e che tanto ho odiato per come mi faceva sentire. Sento sotto le dita la linea sottile della cicatrice che si disegna sul suo addome, quella cicatrice che in qualche modo mi appartiene.
Mi ritrovo spalle al materasso con i suoi occhi a guardarmi lucidi nella penombra della camera.
«Se vuoi che mi fermi, dillo ora...»
È un’immagine che toglie il fiato il suo viso sudato e i capelli che gli ricadono scomposti, le labbra dischiuse che aspettano una mia risposta, i muscoli tesi delle braccia ferme ai lati del mio corpo. Neanche nelle mie fantasie più sfrenate avrei potuto avvicinarmi a ciò che vedo ora.
La paura lotta con il desidero, la razionalità con l’amore.
Voglio tutto, voglio Eric come se ne andasse della mia stessa vita.
Lascio che le labbra rispondano mute, che posino sulle sue quel “fai l’amore con me” che un infantile pudore mi fa fermare in gola.
Eric lo ascolta e mi bacia come non sono mai stato baciato, mi accarezza come nessuno ha mai fatto, mi fa vibrare fin dentro all’anima ogni gemito, asciuga lacrime che non mi rendo neanche conto di versare, respira quel ti amo ogni volta che abbandona la mia bocca.


Il suo petto si alza e abbassa lentamente, un braccio piegato dietro alla testa e l’altro lasciato cadere lungo un fianco. Studio il suo viso soffermandomi su ogni dettaglio. Gli sposto delicatamente una sottile ciocca bruna dalla fronte e lascio scivolare le dita fra i suoi capelli umidi di sudore.
Non ho il coraggio di muovermi, di sollevare queste lenzuola e uscire dal letto, o di posarmi al suo fianco e baciargli le labbra, o ancora di svegliarlo per il semplice gusto di vedere ancora una volta il blu sciolto nel nero dei suoi occhi.
Una parte di me, quella più razionale, mi avverte che non sarebbe piacevole nessun gesto, soprattutto dopo ciò che è successo. Quella stessa razionalità che si chiede perché lo abbia fatto, perché gli abbia lasciato anche la più intima parte di me.
Al mio ti amo, lui non ha mai risposto.
Affondo con il viso sul cuscino stringendomi troppo pudicamente nelle coperte e avvertendo una fitta fastidiosa che avrei dovuto prevedere.
Cerco di non badarci tornando a sentire sotto le dita i suoi capelli, inebriandomi del suono ovattato del suo respiro e della sensazione del suo ginocchio che sfiora la mia gamba.
È ormai notte e scopro che la luce di un lampione sul lato opposto della casa illumina troppo nitidamente questa stanza, scopro che Eric non chiude le tende né le tapparelle, scopro che come me non ama il buio.
Quando si sveglierà, cosa sarò?
Un altro errore.
Una frase scontata.
Niente...
Un leggero lamento fa gelare ogni pensiero e ritiro la mano dalla sua nuca mentre Eric si volta verso di me. Ancora palpebre chiuse, ancora un’espressione che mi incanta a ogni sguardo di più.
Respiro a fondo e ignoro ogni fastidio e ogni sensazione dolorosa. Mi sporgo e gli rubo un bacio muto.
Me lo farò bastare, mi farò bastare questa notte e non-
«Vuoi smetterla di tirarmi i capelli?» Un sorriso stanco risponde alla mia faccia sorpresa.
«Scusa!» Avrei solo voglia di nascondermi sotto le coperte e non uscire mai.
Sono tentato di bypassare le fitte in basso e saltare via da questo letto prima di sentirmi ancora più stupido, ma due labbra lambiscono le mie e una mano mi accarezza il viso.
«Va bene, ti do il permesso di continuare, se vuoi.»
Sorrido. «Eric?»
«Mh...»
«Ora non puoi più dire che non c’è niente.» Lo penso e lo sussurro.
Lascio che il suo sguardo si getti dolce nel mio e che le labbra si incontrino ancora una volta.
«No, e non avrei dovuto dirlo neanche prima. Sei l’ultima persona a cui avrei voluto fare del male e invece... Anche io faccio un errore dietro l’altro.»
«Perché mi hai detto quelle cose se non le pensavi? Perché non vuoi che mi avvicini a te?»
Eric sospira e sorride impercettibilmente. «Non lo so, forse hai ragione tu, forse sono solo un codardo.»
«Di cosa hai paura?» Mi risponde scuotendo lentamente la testa. «Capita a tutti di avere paura. Io sto morendo di paura, Eric, sono terrorizzato come non lo sono mai stato.» Vedo il suo sorriso allargarsi e lo fermo di nuovo sulla mia bocca. «Possiamo avere paura insieme, che ne dici?» Possiamo dimenticare tutto e ripartire da qui.
«Sai così poco di me, Magnus.»
«E tu di me, ma io voglio conoscerti e voglio che tu mi conosca. Puoi prenderti tutto il tempo che vuoi... Non ho fretta, Eric, e non vado da nessuna parte. Stavolta non ti liberi di me facilmente, Huntsman.»
«Suona come una minaccia.»
«Oh, lo è.»
Gli strappo una risata assonnata e un bacio sulla fronte che mi fa ingoiare ogni altro dubbio.
«E se poi fossi tu a volerti liberare di me?» Le sue parole appena sussurrate risuonano forti nel mio petto e vedo quel muro sgretolarsi a ogni fiato, sono pronto a buttarlo a terra a mani nude.
«Non accadrà mai.»
«Ne sei sicuro? Non sono una persona facile.»
«Nessuno lo è, ma io sono cocciuto, l’hai detto tu!» Il suo sorriso mi calamita ancora una volta. «Prova a fidarti di me, Eric.»
Mi guarda silente e mi ritrovo di nuovo stretto contro il suo petto caldo. Ogni briciola di sonno sparisce all’istante.
Brucio fra desiderio e bisogno. Ogni carezza è un invito a cui mi sembra impossibile dire no, eppure... «Non so se riesco a...cioè...» Il rossore sul mio volto completa la frase.
Eric sorride dolcemente. «Indolenzito?»
«Leggermente.» Nascondo l’imbarazzo affondando con il viso nel suo collo e lo sento ridere contro la mia pelle. «Ti prego, non ridere» piagnucolo mentre mi arruffa i capelli.
«Va bene, vediamo che si può fare.» Sollevo il viso e guardo il suo piegarsi in una splendida espressione di pura malizia. Quando mi ritrovo comodamente adagiato fra le sue gambe, capisco e quasi sono ancora più imbarazzato.
«Eric...» Ciò che abbandona le mie labbra è solo un mezzo sospiro che finisco con l’ingoiare insieme ad altri mille mentre lascio che le sue mani scivolino lentamente sulla mia schiena e le ginocchia mi sfiorino i fianchi.
«Così va meglio?» La sua voce è un’ulteriore calda carezza.
Mi bagno le labbra e annuisco.
«Credo di sì.» Mi sposta qualche ciocca dal viso e mi avvolge con uno sguardo che mi scioglie e incendia allo stesso tempo. «Dio... sì...»
Sorride ancora e mi ritrovo a ridacchiare colpevole prima di far mia la sua bocca e mio ogni attimo di questa notte.


«Kevin era il mio migliore amico. Frequentavamo lo stesso liceo e condividevamo la passione per le moto e i motori in generale.» Sento il suo battito contro la mia guancia e le dita che mi accarezzano dolcemente i capelli. «Quando ci diplomammo andai a lavorare con lui nell’officina di suo padre.»
«Per questo sei così bravo: eri un meccanico.» Anche se non posso vedere il suo viso sono più che certo stia sorridendo.
«Mi è sempre venuto piuttosto naturale. Poi James -suo padre- fu costretto a vendere l’officina e finimmo a lavorare in un fast food. La paga era da fame ma potevamo avere la birra gratis... A quel tempo credo fosse l’unica cosa di cui mi importasse.»
Eric mi ha raccontato qualche dettaglio della sua infanzia a Edimburgo. Delle partite di calcio con suo fratello William e del suo talento che però non ha coltivato preferendo dedicarsi all’architettura.
Lavora in un piccolo studio ma sono sicuro farà strada.
Ha detto che non si sentono da quando si è trasferito qui ma che anche prima non avevano avuto mai un gran rapporto.
Da bambini eravamo inseparabili.
E poi cos’è successo?
Siamo cresciuti e cambiati... e io non ero più un bel fratello.
Quando Eric ha preferito parlare di altro non ho insistito.
Ancora faccio fatica a credere di essere qui, nudo e vero, poggiato sul suo petto dopo aver fatto l’amore come mai prima. Mi sembra irreale che Eric abbia dolcemente parlato di sé, che mi abbia aperto anche se di poco quel suo scrigno e che mi abbia regalato tanto in così poco tempo.
Ha sospirato il mio nome in modo così intenso che non potrei più udirlo da nessun altro. Non potrei più toccare nessuno ora che conosco il sapore della sua pelle, il suono dei suoi gemiti, il calore del suo piacere.
Non potrei più amare nessun altro.
Mi sembra una terribile condanna eppure potrei scontarla a vita senza tirarmi indietro. Mi tornano alla mente le parole di François, e mi sembrano così vicine a quelle che mi passano nella testa che faccio fatica a distinguere chi le abbia davvero pronunciate. Anche se per poco, anche se fosse solo questa notte, anche se domani rovineremo tutto di nuovo, se esiste un dio a cui dire grazie, lo farò.
«Tu e Kevin... Eravate solo amici?» chiedo incerto e stavolta la sua risata raggiunge le mie orecchie.
«Eravamo buoni amici. Lo siamo stati per parecchi anni, poi lui è finito dentro e quando è uscito... Beh, ci sono finito io.»
Sollevo la testa e lo guardo in silenzio. Non dico nulla ma Eric sembra leggere nel mio silenzio. Mi accarezza ancora le labbra e io mi sporgo per baciare le sue.
Non voglio pensare a quante altre labbra abbiano sfiorato, a chi altro ha regalato gemiti e carezze. Non importa quanti e quali nomi abbia sospirato, voglio solo che sulla sua bocca da oggi ci sia solo il mio.
È una pretesa arrogante e infantile e probabilmente quando sorgerà il sole perderò ogni certezza, ma per adesso voglio solo restare in questo letto finché me lo concederà.
«Vorrei fare l’amore con te fino a perdere i sensi...»
Ma che ho detto?!
Eric mi guarda alzando un sopracciglio e sorride divertito. «È la cosa più strana che abbia mai sentito!» Stavolta non cedo all’imbarazzo ma rido annuendo, conscio che in questo momento il cervello non funziona proprio pienamente o, semplicemente, ha deciso di lasciare il comando a qualcun altro. «Ma è anche la più sexy.» Ora sono io a sollevare le sopracciglia ed Eric sorride di nuovo. «Sei terribilmente sexy, detective Martinsson.»
«Smettila, per favore.» Strano, come dopo tutta questa intimità, una sola frase possa imbarazzarmi tanto.
«Perché? È la verità.» Gioca con le mie dita come quel giorno in ospedale e mi sento allo stesso modo: spaventato e felice. «Nessuno ti ha mai detto che sei sexy?»
«A dire il vero, no... Immagino sia per via dei capelli, i ricci non sono considerati molto sexy.» La sua risata mi stringe prima ancora delle sue braccia e tutto mi sembra troppo perfetto per essere vero. «Eric?»
«Mh...» Eppure il suo calore è reale, il suo profumo è reale. Eric è reale.
«Posso dormire qui?» Posso amarti?
Chiudo gli occhi e un bacio mi accarezza la tempia.
Il suo silenzio è una dolce risposta.

















Continua...






NdA.
28 capitoli di drammoni esistenziali per arrivare a questo.
Ne è valsa la pena?
Per Magnus credo di sì (anzi, per citarlo: oddiossì!), per voi non saprei. Se avete qualche uova che vi avanza lanciatela pure, ma evitate la faccia, grazie.
Piccola nota: la cicatrice di cui parla Magnus è quella dovuta all’intervento di laparotomia subito da Eric a seguito della sua aggressione. [Wikipedia docent]
Non aggiungo molto, volevo rappacificarli e accoppiarli da taaanto e ora, credetemi, mi sento meglio.
Alla prossima, c’è ancora qualche nodo da sciogliere e poi adieu <3
Kiss kiss Chiara

P.S. Anche in questo caso il titolo del capitolo è tratto da un verso di una canzone di Masini, “E ti amo”.
[Grazie Maso ❤]

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Capitolo 30
*** E d'amore peccò ***


30.
Detective Martinsson



XXX. E d’amore peccò



Il caffè è in alto a sinistra. Non fare disastri.
Leggo il post-it per la centesima volta da questa mattina e per la centesima volta sorrido come uno stupido.
Quando mi sono svegliato Eric non c’era, ma onestamente non me la sono presa per essere andato a lavoro senza dirmi niente. Non siamo una coppiettina da commedia romantica, non credo potremmo mai esserlo. Non so neanche dire cosa siamo, ma voglio smetterla di farmi domande e di darmi risposte.
Voglio vivere ogni istante come viene. So che Eric non ricambia totalmente i miei sentimenti, ma va bene. Sono pronto a farmi bastare ciò che può offrirmi, per adesso sì, va bene così.

Ripenso ancora una volta a ciò che è accaduto questa notte come fosse stato solo un lungo sogno, ma i ricordi sono reali e così lo sono le forti sensazioni che ancora mi fanno battere il cuore all’impazzata.
Infilo il piccolo foglietto scritto di pugno da Eric nella tasca e tento inutilmente di concentrarmi sul lavoro.
Kurt non è ancora arrivato. Stamattina interrogheremo uno per uno tutti coloro che il vescovo Karlberg ci ha segnalato. Non serbo molte aspettative in proposito e credo che Kurt la pensi più o meno come me.
Dobbiamo tentare, dobbiamo trovare almeno un piccolo taglio in cui infilarci o non riusciremo mai a venire a capo di questa storia.

«Buongiorno.»
«Oh, buongiorno Anne-Britt.»
«Avanti, parla.»
Sollevo lo sguardo dal computer per portarlo nel suo. «Scusa?»
«Quell’espressione beata che hai stampata sulla faccia da quando sei entrato qui. Parla.»
È così evidente? Forse a quel famoso centesimo sorriso stupido chiunque avrebbe sospettato qualcosa, soprattutto perché ormai avevo dimenticato come si sorridesse.
Scuoto la testa con finta innocenza ma capitolo alla sua prima occhiata affilata.
«E va bene, ieri ho parlato con Eric.»
«E non dici nulla?!» Lo schiaffo sulla testa non me lo aspettavo, ma lo accetto con un ennesimo sorriso. «Allora? Pace fatta?»
«Pace fatta.» Non aggiungo altro e Anne-Britt non chiede oltre, credo che la mia “faccia beata” abbia tutte le risposte che cerca.
Mi regala un sorriso gentile e annuisce. «Sono contenta, Magnus. Ora cercate di non litigare, almeno per le prossime 24 ore.»
Rido colpevole. «Ci proveremo.»
Mal che vada, possiamo sempre ri-fare pace.

Chiudo la portiera dell’auto e non riesco a trattenere uno sbuffo stanco. «Niente di nuovo.» Kurt tace e accende il motore. «Andiamo da Sebastian Hout?»
«No.» Mi volto a guardarlo e non riesco a leggere oltre la fronte corrucciata e le labbra strette. «Torniamo in centrale.»
Mi limito ad annuire e rispetto il silenzio a cui Kurt ha deciso di far spegnere ogni conversazione.
Alla Casa Famiglia non hanno saputo dirci nulla di ciò che già non sapevamo. Nessuno sapeva niente di una possibile volontà di Padre Phil di lasciare il sacerdozio.
Possibile che fosse altro? Quale potrebbe essere la soluzione che secondo lui il Signore gli aveva indicato?
Ho come la sensazione che manchi qualcosa, e poi il biglietto che Kurt trovò sul suo parabrezza, quei versi inquietanti.
Un mitomane?
Credo sempre più fortemente che sia stata la stessa mano che ha ucciso Phil a scrivere quelle parole.

«E se fosse stato l’assassino? Sapeva di Phil e François e non approvava, magari è qualcuno fortemente religioso, un fanatico. È la soluzione più scontata, lo so, ma se fosse così?»
«E perché scrivere quel biglietto e lasciarlo sulla mia auto?»
Scuoto la testa. «Uno psicolabile?»
Kurt torna a leggere i fogli. «O magari vuole farsi prendere...»
«Poteva semplicemente costituirsi.» Ma Kurt non mi sta ascoltando, ha lo sguardo perso in chissà quali pensieri e io resto a picchiettare le dita sul legno del tavolo gonfiando una sola guancia. Potrei anche andarmene e neanche se ne accorgerebbe. Lo lascio riflettere senza irromperlo quando sento il cellulare vibrare nella tasca.
È un messaggio: “Sei riuscito a lasciare intatta la mia cucina, detective?
Il cuore mi salta nel petto e neanche reprimo un risolino divertito.
Non temere, stasera troverai tutto al suo posto. Ho anche rifatto il letto.” Lo invio mordendomi un labbro e attendo una risposta che spero non tardi.
Non lo fa e dopo pochi secondi lo schermo si riaccende: “Era il minimo, in fondo sei stato tu a metterlo in disordine.
«Magnus?»
«Sì?» Alzo lo sguardo con ancora un sorriso sulle labbra e vedo Kurt studiarmi per qualche secondo. «Dimmi, Kurt.» Cerco di ritrovare un contegno poggiando il cellulare sul tavolo e cancellandomi quest’aria felice dalla faccia.
«Niente, devo vedere Linda.»
«Pranzi con lei?» Annuisce e lascia che i fogli ricadano sulla scrivania. «Ci vediamo più tardi allora.»
«Sì, a più tardi e... Stai facendo un buon lavoro, Magnus.»
Grazie. Lascio che sia un cenno della testa a dirlo per me mentre Kurt esce dalla stanza con mille pensieri stretti nella testa brizzolata.
Ritrovo un sorriso, stavolta meno idiota, e quando prendo il cellulare rileggo il messaggio di Eric.
Controllo l’ora: 12.48
Sei in pausa?” Lo scrivo e lo invio senza pensarci due volte.
Ancora per 15 min.
Neanche il tempo di leggerlo che sono già in auto.

Scorgo Eric fra un gruppo di uomini seduti disordinatamente su delle casse di legno. Riconosco praticamente tutte le facce. A un centinaio di metri Eric mi vede e alza una mano per salutarmi. Lo imito e mi arresto aspettando che mi raggiunga.
A ogni passo mi sembra di impazzire di felicità.
«Ehi.»
«Ehi...» Reprimo la voglia di baciarlo perché no, non è il caso, né il momento, né il luogo. «Sei stato veloce.»
«Ero di strada» mento ricordandomi il semaforo rosso che ho ignorato così come i limiti di velocità totalmente infranti.
Adesso mi sembra quasi più bello di quanto non lo sia mai stato, ma credo sia solo perché, adesso, mi sembra un po’ più vicino a me, un po’ più mio.
Butto un occhio al gruppo di marinai che sembrano divertiti dalla nostra conversazione.
Oddio, dimmi che non sanno niente!
Eric è un tipo riservato e dubito che abbia detto qualcosa a qualcuno, forse sono paranoico, forse inizio a vedere cose che non ci sono, forse-
«Come stai?» La sua voce spezza le mie stupide elucubrazioni mentali. Il suo sorriso mi fa fremere le mani e le stringo nelle tasche per evitare che finiscano sul suo viso.
«Bene... Sì, sto bene.» Rido imbarazzato conscio di quanto sembri idiota in questo preciso momento. «Tu?»
«Idem.»
«Idem...» Stavolta è lui a ridere e io mi accodo.
«Hai da fare stasera?»
Ho appena perso dieci anni vita. Mi torturo le dita nelle tasche e scuoto la testa. «No, nessun programma.» Lo sguardo di Eric indugia sul mio. «Tu sei... libero?» Deglutisco e sento l’aria farsi più calda attorno al mio viso.
Eric si stringe nella sua pesante giacca da lavoro e sorride. «È un appuntamento?»
«Se lo fosse, diresti
Il ricordo di quella telefonata torna dolce nei miei pensieri e mi sembra di scorgere lo stesso negli occhi di Eric. Ora non c’è alcun telefono, ora sono pronto a mettermi davvero in gioco.
«Stacco alle 18.00.»
«Ti passo a prendere alle 20?»
La mia domanda lo fa ghignare divertito. «Mi passi a prendere?»
Non mi ero reso conto di quanto suonasse stupida la cosa. Mi gratto la testa imbarazzato gettando ancora uno sguardo al gruppo di marinai che sembrano intenti a non abbandonare la nostra conversazione.
«Volevo dire che... hai capito.»
«Alle 20 va bene.» Sul suo viso un sorriso dolce che fa vacillare ogni determinazione di compostezza.
«Perfetto, allora» sospiro senza nascondere la gioia che provo in questo momento.
«Ricorda, non è carino fare aspettare una ragazza.»
Rido strofinandomi le dita sulla fronte e cercando di scacciare dalla testa l’ennesima immagine di un kilt che inizia a diventare insospettatamente intrigante.
«EHI, ERIC!» La voce è quella di Hernest che è in piedi su una cassa a urlare senza molti problemi. «MUOVI IL CULO! DOBBIAMO ANDARE!... SALVE, DETECTIVE!»
Scuoto una mano decidendo di ignorare la delicata frase di Hernest. No, direi che è ancora presto per i pensieri sconci - è ancora mezzogiorno!
«ARRIVO!» Eric mi sorride ancora «Devo andare.»
«Certo. Ehm... buon lavoro.»
«Anche a te.»
Dio, voglio baciarti ora!
«A stasera.»
«Ok.»
Resto a guardare la sua figura allontanarsi per raggiungere i suoi compagni e sospiro sonoramente.
Solo quando risalgo in auto riesco a realizzare che questa sera avrò un appuntamento con Eric. Un vero appuntamento - anche se un po’ in ritardo.
Ti passo a prendere alle 20?
«Che cretino...» Mi rimprovero passandomi una mano sul viso. Attraverso lo specchio retrovisore non riesco a non sorridere al mio riflesso arrossato.

L’orologio segna le 17.30.
Se prima mi sembrava che girasse troppo lentamente adesso mi sembra stia correndo impazzito. Alla seconda occhiata sono già le 18.00.
Ok, Eric ha appena staccato. Starà tornando a casa, si farà una doccia, si cambierà i vestiti, magari mangerà qualcosa e...
Ok, l’eccitazione di questa mattina si sta trasformando spaventosamente in puro panico.
Perché sono così agitato?
Abbiamo fatto l’amore meno di 24 ore fa, gli ho detto che lo amo, mi ha chiesto scusa per ciò che aveva detto lui e mi ha dimostrato con i fatti che in fondo si fida di me. Stasera è solo un altro piccolo passo, non è nulla rispetto a ciò che abbiamo vissuto finora, non è niente rispetto alla fatica e alla sofferenza che ho attraversato per giungere qui.
E allora, perché ho il terrore di bussare alla sua porta?
«Il cinema. È l’ideale per un primo appuntamento, e stasera c’è il nuovo film di Julia Roberts.»
Sospiro picchiando la penna sulla scrivania. «Eric ti sembra il tipo da film con la Roberts?»
Anne-Britt cela malamente un sorriso divertito. «Che ne sai?! Magari è un romanticone...»
«Sì, come no» brontolo poggiando il mento nel palmo della mano. «E poi il cinema è... non lo so, è imbarazzante.»
«Cosa c’è di imbarazzante nel guardare un film insieme?» Non rispondo e sbuffo ancora una volta. «Sarebbe meno imbarazzante una passeggiata al chiaro di luna?... Mano nella mano a sospirarvi dolci parol-»
«Oddio, smettila!» Al solo pensarci riesco a bruciare e questo non fa che farla ridacchiare crudelmente. «Non dovevo dirti niente!»
«Dai, mi sto solo divertendo.»
«A mie spese, però.»
«È a questo che servono gli amici.» Alzo un sopracciglio scettico e Anne-Britt mi sorride dolcemente. «Ascolta, non credo che a Eric importi molto dove e cosa farete - come immagino importi poco a te - ciò che conta è che passiate del tempo insieme a parlare, a conoscervi...A fare altro.» Ascolto le sue parole e vi trovo tanta verità. Sì, non devo andare nel panico per questo appuntamento, voglio solo stare con lui.
«Hai ragione.»
«Io ho sempre ragione.»
Sorrido e respiro a fondo. «Magari il cinema è una buona idea.»
«C’è anche l’ultimo di Vin Diesel...»
Rido annuendo mentre Anne-Britt si allontana pensando che non è poi una battuta così  scontata. Eric ama i motori magari un film su quell’argomento potrebbe piacergli.
L’ultima volta che sono andato al cinema stavo ancora con Catherine. Mi sembra una vita fa, mi sembra la vita di un altro Magnus.
Ricordo che con Catherine stavo bene, non ricordo come, ma stavamo bene insieme, eppure mi sembra che quei sentimenti fossero nulla in confronto a ciò che provo adesso. Non fu facile quando mi lasciò per Steven, non fu facile vederla abbracciata a lui. Ho sempre creduto che l’amassi, ora mi chiedo se fosse realmente così. Magari esistono modi diversi di amare, esistono modi diversi di essere amati.
Mi sto ancora perdendo fra mille pensieri quando vedo Kurt entrare trafelato dalla porta.
«Magnus?»
«Che succede?» Ha i capelli arruffati, il colletto della camicia stropicciato e ancora qualche briciola di quello che credo sia pane sulla giacca.
«La lista di Karlberg, dov’è?» La domanda è fulminea, cerco di esserlo anch’io nella risposta.
«Ce l’ho io.» Mi infilo una mano nella tasca dei pantaloni ma non la trovo. «Forse è nella giacca» rifletto ad alta voce cercandola anche nelle tasche posteriori.
«Magnus, dammi quella lista adesso!»
«Sì, sì Kurt, lo trovo subito!» Quasi mi sembra di balbettare come ai vecchi tempi. Mi alzo dalla scrivania cercando con gli occhi la mia giacca, la trovo poggiata su una sedia dall’altra parte della stanza. La raggiungo e Kurt mi segue. Setaccio le tasche e finalmente trovo la lista. Forse Kurt ha capito chi fra quei nomi sa qualcosa, forse siamo finalmente a una svolta.
«Tieni.» Mi strappa letteralmente il foglio dalle mani e si dirige silente verso il tavolo dove sono sparse le prove del caso San Pietro.
Lo vedo cercare furente qualcosa.
«Cosa ti serve, Kurt? Che succede?»
«Dovevo capirlo subito! Sono stato un idiota!» È la sua risposta.
Provo a capire cosa gli passi per la testa ma non riesco a fare altro che seguire le sue mani che spostano disordinatamente le varie buste finché non trova quella che cerca. Riconosco il contenuto.
«Kurt-»
«Magnus, guarda!» Dispone la lista sulla scrivania e appoggia accanto l’altra busta trasparente. «Guarda bene, cosa vedi?»
Deglutisco scrutando i due fogli. Leggo nuovamente i nomi, uno per volta e non mi dicono niente. Che dovrebbero dirmi?
«Io...» L’altro foglio è quello che riporta i versi di San Paolo.
Non capisco l’attinenza. Guardo ancora e alla fine lo vedo.
Ecco cosa c’era che non andava, ecco perché quella lista mi aveva disorientato subito.
Sgrano gli occhi e anche le labbra. «È la stessa calligrafia!»
Non può essere.
Guardo Kurt i cui occhi brillano di forte determinazione mentre annuisce.
«Oddio, Kurt, non vorrai dire che è stato Karlberg?» chiedo incredulo mentre lui si infila le due prove nella tasca.
«Non lo so.» Lo seguo mentre si avvia alla porta afferrando al volo la giaccia dalla sedia.

«Continuavo a pensare a quella lista e mi dicevo che c’era qualcosa che non tornava.» Ascolto la voce di Kurt mentre guida velocemente verso San Pietro. I suoi pensieri riflettono i miei. «Poi Linda ha iniziato a parlare delle partecipazioni...»
«E hai capito che era la calligrafia e non il contenuto.»
Annuisce umettandosi le labbra. Io mi passo due dita sulla fronte tacendo i miei dubbi. Non riesco a credere possa essere stato il vescovo Karlberg a uccidere Phil. Le due scritture si somigliano ma non possiamo dire con certezza provengano dalla stessa persona.
«Kurt, non dovremmo mandarle in laboratorio? Un’analisi calligrafica potrebbe-»
«No, non c’è tempo.»
«E se ti sbagliassi? Karlberg è un vescovo, Kurt, ed è anche molto amato. Potremmo alzare un polverone inutile... potremmo avere contro tutta l’opinione pubblica! Forse dovremmo essere sicuri di-»
«Come puoi pensare a queste stupidaggini, Magnus?» Taccio al suo richiamo sentendomi leggermente in imbarazzo.
È stato un pensiero spontaneo di cui ho voluto metterlo a conoscenza.
È la verità: se andassimo da Karlberg e lo accusassimo di aver ucciso Padre Phil e poi scoprissimo che è stato un errore?
È un rischio, un azzardo e Kurt mi sembra più che determinato a seguirlo.
Mi rendo conto solo adesso che l’espressione sul suo viso è la stessa che avevo io quando cercavo il responsabile dell’aggressione di Eric. Con Vargas ho rischiato, ho rischiato tutto perché per Eric ne valeva la pena.
E per Phil? Per François? Sono così egoista da ritenere la loro giustizia inferiore alla mia?

Mi sento in colpa per come sto affrontando la cosa e decido di scacciare ogni dubbio.
Se Kurt crede sia una buona idea allora lo sarà anche per me.
«Ci siamo» sospiro serio mentre parcheggiamo davanti alle scalinate.
Guardo il profilo di Kurt ma lui è già sceso dall’auto.

«Commissario, Monsignore Karlberg non può riceverla ora.» Theodor, l’uomo che ci accompagnò l’ultima volta segue i nostri passi con affanno. Kurt percorre veloce i corridoi di San Pietro come li conoscesse a memoria, io tengo il suo passo silente.
In poco raggiungiamo lo studio di Karlberg.
Stavolta nessuno bussa, stavolta nessuno aspetta un Avanti.
«Commissario!»
Kurt spalanca la porta di vetro ed entriamo.
«Monsignore, ho provato a fermarli ma-»
«Non preoccuparti, Theodor, le visite del commissario Wallander sono sempre ben accette. Va’ pure.»
Karlberg è ancora una volta seduto dietro la sua scrivania. Il sorriso gentile e lo sguardo pulito.
«Come possa aiutarla stavolta?» Theodor esce con qualche incertezza e la porta si chiude nuovamente.
Kurt estrae dalla tasca interna della giacca le due lettere e le piazza senza troppe cerimonie sulla scrivania.
«Mi dica che sto sbagliando.» La voce è calma ma tradisce una vena di rabbia.
Il vescovo abbassa lo sguardo e non perde il sorriso. Guarda i due fogli e poi solleva il viso. Quel sorriso adesso mi fa rabbrividire. «No, non sbaglia.»
Un altro brivido percorre la mia pelle. Saetto con lo sguardo sul volto di Kurt dove la rabbia è ora ben visibile. Sul mio non so dire cosa governi se incredulità o disgusto.
«È stato lei a uccidere Phil?» lo chiedo con il battito troppo accelerato, con la bocca troppo secca, con le mani che quasi tremano.
«Aspettavo questa domanda da un po’, detective. Grazie per avermela porta.»
Scuoto inconsciamente la testa. Karlberg abbandona la scrivania e ci raggiunge.
«Perché?» E sono ancora io a chiederlo.
«Perché era giusto così.»
«Cosa era giusto? Pugnalare un povero prete solo perché si era innamorato?» La rabbia di Kurt ora risuona forte. Io sono gelato, non ho più parole sul fondo della gola, ho solo il volto di François negli occhi e la sua voce nelle orecchie.
«Phil aveva perduto la strada, stava abbandonando il disegno di Dio per colpa di quel ragazzino francese! Non potevo lasciare che perdesse anche la sua anima.» Karlberg non ha più sorriso, non ha neanche più calma. «Venne da me, felice come un bambino per dirmi che voleva abbandonare tutto, e perché? Perché si era innamorato! Innamorato di un... di un uomo! E il Signore mi sia testimone, ho provato a farlo ragionare. Ma niente... Aveva deciso di smarrirsi in un peccato così abietto.»
«Era una sua scelta.» Il disgusto piega anche il viso di Kurt. Io avrei bisogno di sedermi, avrei bisogno di uscire da questa stanza e vomitare anche gli occhi perché non riesco a sopportare tutte queste assurdità.
«È stato deviato. Phil era un bravo sacerdote e lo sarebbe stato ancora a lungo se avesse avuto la forza di resistere a quella tentazione riprovevole! Il Signore non può perdonare un simile abominio! Un simile oltraggio alla sua natura.»
La nausea aumenta, la testa mi gira e faccio qualche passo indietro. Kurt non lo nota, Karlberg è troppo occupato a continuare il suo monologo per rendersi conto di come le sue parole mi stiano colpendo ferocemente.
«Non è stato il Signore a pugnalarlo, ma lei, ed è questa la cosa abominevole.»
«Ho solo seguito il suo volere.»
«No, ha solo ucciso un amico e non ha avuto neanche il coraggio di confessarlo... E perché lasciare quel biglietto?»
Karlberg torna a sorridere, io sento gli occhi pungere e mando giù un pugno di aghi.
«Gliel’ho detto, ho seguito il disegno di Dio. Se per la legge degli uomini ho commesso un errore, pagherò. Non voglio sfuggire alle mie responsabilità. Volevo che il volere di Nostro Signore fosse chiaro. Ho aspettato di vederla entrare da quella porta con la verità sulle labbra, e ogni volta che usciva da qui capivo che non era ancora giunto il momento. Adesso sono pronto ad affrontare la vostra giustizia, conscio che la mia mano non sarà sola, ma che Dio sarà con me in ogni passo, perché io non ho commesso peccato ai suoi occhi, ho solo lavato via le colpe di Phil.»
«Lei è pazzo» sospira Kurt scuotendo il capo.
«Perché...?» La mia voce esce strozzata. Vibra e si spezza. Sono qui eppure non ci sono davvero. «Che colpa può avere avuto Phil? Che colpa ha François? Che colpa c’è a innamorarsi?...»
Nessuno mi risponde, Kurt fuma di rabbia forse per essersi sentito preso in giro da quest’uomo, forse perché come me trova assurdo e inaccettabile essere puniti solo perché si ha amato.
Karlberg mi guarda con un sorriso gentile e due occhi glaciali. Mi scrutano dentro e mi giudicano.
Vedono e sanno.
E anch’io merito il loro disprezzo.

Torno a casa alle nove passate. Mi stendo sul divano e lì resto inerme per non so quanto tempo.
Il caso è chiuso, Karlberg è ormai con le manette ai polsi. Domattina tutta Ystad sarà scossa dalla notizia del suo arresto, probabilmente la notizia si spargerà per tutta Scania.
Lisa pensa di organizzare una conferenza stampa per evitare che nascano delle false dichiarazioni.
Sarà difficile tenere sotto chiave ancora la relazione fra Phil e François.
Kurt lo ha telefonato appena siamo giunti in centrale. Ho potuto sentire anche io le lacrime dall’altra parte del telefono.
Non mi ha chiesto perché fossi tanto scosso, non so se possa conoscere la risposta, in tutta onestà non me ne importa poi tanto.
Sullo schermo del cellulare ho trovato tre chiamate di Eric e un solo messaggio: “Tutto ok?
Ancora non gli ho risposto.
Non so se sia tutto ok, non credo di essere molto ok questa sera, eppure so che se vedessi il suo viso, se sentissi la sua voce dimenticherei ogni sensazioni di disagio, dimenticherei gli occhi di Karlberg e le sue parole.
Dimenticherei, perché Eric è l’unica cosa a cui ho voglia di pensare.
Scendo dal divano e afferro la giacca.
Una manciata di minuti dopo sono sotto casa sua.
Basta che mi apra la porta e mi sorrida che sento che tutto va bene, che tutto andrà bene.
«Un po’ in ritardo... Ti pare?»
Annuisco e respiro a fondo.
«Troppo tardi per andare al cinema, vero?»
Ride e ogni peso sul mio petto diventa polvere. «Hai cenato?»
«Continuerai a rispondermi con una domanda?»
«E tu?»
Sorrido sconfitto. «Ho una certa fame, a dire il vero.»
«E allora entra, e vai a lavarti le mani.»
Varco la soglia ridendo e lascio fuori al freddo questa strana giornata.

















Continua...






NdA.
Ci siamo, ormai è arrivata la fine, il prossimo sarà l’ultimo.
Spero la risoluzione del caso sia stata per lo meno decente, lo so che si poteva fare di meglio, ma spero vogliate perdonare lo stesso la banalità della cosa.

Ne approfitto per fare qui i ringraziamenti di rito, perché farli nell’ultimo mi mette una certa tristezza.
Grazie a chiunque abbia letto e apprezzato questa storia.
Grazie a chi mi ha fatto compagnia in questa lunga avventura durata quasi un anno.
Grazie a chi mi ha dato consigli e a chi mi ha fatto bellissimi complimenti che hanno scaldato il mio cuore e coccolato la mia autostima.
Grazie alle persone che mi hanno regalato sorrisi ed emozioni con i loro commenti e a chi mi ha aiutato a riflettere e migliorare.
Grazie a Callie_Stephanides per aver regalato alla mia storia opere meravigliose con i suoi video e i suoi lavori. Sei stata più che gentile, sei stata davvero meravigliosa.
Grazie a Angeline Farewell che mi ha fatto dono di una fantastica fanart disegnata appositamente per me, o meglio per Magnus ed Eric ^^
La tengo orgogliosamente attaccata al muro e me ne faccio vanto con tutti coloro che transitano lì davanti. Sappilo!
Grazie per la bellissima esperienza che è stata scrivere questa storia, perché senza di voi, non sarebbe stato lo stesso.
Mi auguro che il finale possa chiudere degnamente questo percosso di vita.
Io e Magnus siamo cresciuti insieme, abbiamo sbagliato e abbiamo imparato insieme.
Soltanto che io, ahimè, ancora non ho beccato un Eric disponibile.
Chissà, magari prima o poi...
Un abbraccio e un bacio a tutti.
Come direbbe François: tutta questa fatica... beh, ne è valsa la pena <3
Kiss kiss Chiara

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Capitolo 31
*** Una nuova sinfonia ***


31. Una nuova sinfonia (ULTIMO)
Detective Martinsson



XXXI. Una nuova sinfonia



«È delizioso, Eric.»
«Non è nulla di speciale.»
Affondo ancora la forchetta nel piatto. «Per me che vivo di precotti e take away è molto speciale, invece!» Mi godo ancora la bontà di questa cena cercando di limitare gorgogli di apprezzamento.
Eric sa cucina, e cucinare davvero bene.
La tavola era ancora apparecchiata per due in modo semplice, e mi sono sentito quasi mancare quando ho visto le pentole sulla cucina, il forno spento che ancora profumava di buono.
Non riesco a pensare a come mi sarei sentito in colpa se non fossi venuto.
Dannato Karlberg e i suoi sermoni omofobi!
Sono orgoglioso di me per non aver ceduto alla malinconia, sono contento di essere qui a cenare con Eric, anche se è stato costretto a riscaldare tutto.
Sono un disastro in ogni caso.
Eric mangia lentamente, non so se abbia già cenato prima e se adesso mi stia solo facendo compagnia, non potrei sentirmi comunque meglio di come mi senta adesso.
Guardo il suo maglione color panna che fa risaltare la pelle ambrata e i suoi begli occhi realizzando ancora una volta quanto realmente ci tenga a lui, quanto sarebbe impensabile adesso vivere senza.
«Lo sai, tu sei l’unica persona al mondo che può cucinare con un maglione chiaro senza macchiarsi.» Dico una stupidata senza riflettere eppure lui sorride.
«Vuoi conoscere il mio segreto?»
«Assolutamente.» Sorrido a mia volta mentre si sporge in avanti con un ghigno divertito.
«Grembiule da cucina.» Non trattengo una risata e cerco di non strozzarmi. «L’ho tenuto fino a poco fa, l’ho tolto quando hai bussato.»
«Perché? Potevi tenerlo, immagino ti doni.» Come qualsiasi altro indumento...
«Oh, sì, è molto sexy con tutti quei funghi rossi disegnati sopra.»
Ok, stavolta mi strozzerò davvero.
«Dove hai imparato?» mormoro con la bocca mezza piena. «È tutto squisito, sul serio, Eric.»
«Quando tua madre muore e tuo padre è fuori tutto il giorno devi arrangiarti in qualche modo.» La sua risposta è diretta e serena eppure mi provoca una morsa dritta allo stomaco e mi sembra di non avere più molto appetito.
Mastico lentamente mandando giù un boccone più amaro degli altri.
«Non deve essere stato facile perdere tua madre così presto...» Eric aveva solo 14 anni e suo fratello appena 10. Quando poi suo padre è morto, Eric stava scontando la sua condanna in carcere. Non è andato neanche al suo funerale. «Perdonami, non volevo.»
«Non ti preoccupare.» Mi sorride e ingoio un sospiro.
Ho sempre il timore di rovinare tutto, di dire una frase sbagliata... e perderlo.
«Sono felice di essere qui stasera» confesso semplicemente. «Grazie.»
Mi sembra di scorgere un leggero velo di imbarazzo ma forse è solo una mia impressione.

Guardo le fiamme danzare alte nel camino e mi sembra ieri che ero seduto su questo divano completamente spezzato, con Eric che mi fasciava la mano con cura e gentilezza.
Stringo la tazza calda fra le mani e sorrido poggiando le labbra contro il bordo della ceramica.
Getto uno sguardo alla cucina dove Eric è sparito qualche minuto fa.
Non so cosa stia facendo, ma se sbuca fuori con indosso quel grembiule non riuscirò più ad avere il controllo delle mie azioni.
Qualche attimo dopo eccolo tornare, nessun grembiule, ma fra le mani stringe un piccolo vassoio che poggia sul tavolino davanti.
Quando riconosco il contenuto non so se ridere o piangere.
«Li hai fatti tu?» chiedo incredulo.
«Non sono bravo fino a questo punto.» Afferro il piccolo pasticcino coperto di zucchero scuotendo la testa inconsciamente. I dolcetti alla marmellata che mangiai in ospedale, i dolcetti alla marmellata del nostro primo imbarazzante bacio. «Ho chiesto ad Amanda di prepararli.»
Tengo ancora il piccolo bignè fra le dita con un sorriso assolutamente ebete stampato sulla faccia. «Perché proprio questi?»
«Secondo te?» Continuo a guardare il dolce come fosse irreale. «Non li ho avvelenati, Biancaneve, fidati.»
Biancaneve?
Eric sorride divertito e io ignoro ogni altra presa in giro. «Avanti, mangia.»
Non me lo faccio dire due volte e ne spazzolo un paio con voracità.
Stessa marmellata dell’altra volta, stessa sensazione di appagamento dei sensi.
Eric ne mangia solo uno e mi diverto a guardare lo zucchero sporcare di bianco la barba sul suo mento.
«Anche tu combini disastri» sospiro e lui alza un sopracciglio masticando confuso. Gli indico il mento e solo allora si pulisce con le dita, ma essendo piene di zucchero non fa altro che aumentare il danno.
«Credo di aver peggiorato la cosa» borbotta continuando a masticare e io lo trovo talmente adorabile che quasi mi sembra irreale la sua momentanea imbranataggine. Inizio a ridere e dopo qualche attimo me lo tiro dietro. «Ok, ridi pure, credo di essermelo meritato.»
«Un po’ sì.» Le risate sfumano e restano solo sorrisi.
«Vendetta?»
Scuoto la testa. «Giustizia.»
«Oh, certo... Un poliziotto, dimenticavo.» Gli tiro una leggera spallata e cerco di pulire le mani strofinandole fra di loro. Quando torno a guardare il suo viso, c’è ancora il velo bianco sul suo mento.
Non resisto. Avvicino le dita e lentamente spazzolo via lo zucchero lasciando che gli occhi di Eric mi osservino silenti.
Non c’è suono che non sia lo scoppiettio del fuoco.
Ormai non c’è più traccia di nulla eppure le mie dita continuano a sfiorare delicatamente il suo viso.
«Grazie.» È solo un sospiro.
Il sorriso di Eric è gentile e dolce, mi scalda più del fuoco, mi riempie e mi svuota allo stesso tempo, e mi fa vibrare nel cuore ancora una volta una tremenda paura.
Non legare la tua vita a quella di qualcun altro, Magnus.”
Che vuoi dire, papà?
Avevo solo 13 anni e troppi brufoli sul viso e spintoni sul treno per farmi simili domande.
Mio padre non ha risposto. Quella sera non tornò a casa, il giorno dopo aveva la valigia aperta sul letto.
Ora sento la sua risposta e posso dirgli la mia.
Errore già commesso, papà.
«Ne è rimasto solo uno.» Solo allora sembro riprendermi dal mio momentaneo stallo. Guardo il vassoio e vedo il piccolo bignè bianco. «Te lo lascio.»
«Ah sì?» chiedo mentre Eric lo afferra e me lo porge.
«Devi mettere su un po’ di carne o volerai alla prima folata di vento.»
«Ah, ora capisco il vero scopo di questa cena: vuoi mettermi all’ingrasso.» Stavolta è Eric a ridere mentre divoro con un solo inelegante boccone il dolce. «Mia madre è una vita che ci prova senza successo.» Mi rendo conto tardi che non è un argomento di cui dovrei parlare.
«Chissà, avrò più fortuna di lei.» Eppure non sembra perdere il sorriso, anzi, mi strizza un occhio e si stende spalle al divano.
Mi mordo lo stesso la lingua e non riesco più a dire niente.
Un altro scusa sarebbe stupido, cambiare discorso mi verrebbe male.
Lo imito e guardo le fiamme alte nel camino. «Eric?»
«Mh...»
«Hai una canzone preferita?»
Lo sento ridere e lo guardo maledicendomi: sapevo che mi sarebbe venuto male.
«Cos’è, stai per iniziare con le domande classiche da primo appuntamento?»
Sbuffo con un sorriso e scuoto la testa. «No, era solo una curiosità.»
«La tua qual è?» Guardo i suoi occhi caldi e mi rendo conto di non avere una risposta.
«Non ce l’ho... Non credo di averci mai pensato» ammetto alzando le spalle.
Non ho una canzone preferita, né un film, né altro che possa distinguersi dal resto. Prima di Eric, credo non aver neanche avuto un batticuore più forte degli altri.
Mi chiedo perché gli abbia fatto quella domanda, la glicemia deve avermi dato alla testa. O sei solo tu ad abbattete sempre ogni mia barriera... «Lascia stare, era una stupidaggine.»
«Bitter Sweet Symphony
Rimango in silenzio e sorpreso, perché non penso di aver ben capito cosa abbia detto - beneamata ignoranza - ma soprattutto perché mi ha risposto.
«Non credo di conoscerla.»
Eric sorride ancora. «È impossibile!» Mi sento di nuovo imbarazzato e deve rendersene conto. «Aspetta.»
Lo seguo con lo sguardo mentre si alza dal divano e si avvicina a un mobile del soggiorno. Si inginocchia e apre l’anta marrone. Quello che ne tira fuori è un piccolo stereo di forma sferica, di quelli che solitamente si trovano nelle stanze dei teenagers.
Non riesco a godermi la stranezza della cosa ché lo vedo armeggiare con quella che mi sembra la custodia di un CD. Mi è abbastanza chiaro che Eric vuole farmi ascoltare la sua canzone preferita e non so se esserne felice o spaventato: se non la riconosco davvero crederà che sono un cretino.
Quando suonano le prime note Eric torna a sedersi accanto a me. Il volume non è alto.
«Sì, la conosco» ammetto tirando un sospiro di sollievo mentre continuo a sentire la melodia degli archi.
Non riesco a cancellarmi questo sorriso dalla faccia.
La musica in sottofondo, la sua vicinanza, il calore del fuoco e quello che mi nasce da dentro.
Le dita di Eric che trovano le mie, i suoi occhi che non mi lasciano mai.
È un’intimità più profonda perfino di quella che abbiamo condiviso la scorsa notte, è un’intimità che non fa paura ma che mi fa sentire quasi più forte.
«Potevi cantarla...» scherzo, e mi regala un sorriso a cui rispondo volentieri. «Perché è la tua preferita?» chiedo lasciandomi cullare dal suono di parole che in verità non comprendo.
Eric esita a rispondermi continuando a stringere e sciogliere le dita con le mie.
«È l’ultima canzone che ho sentito cantare a mia madre.» Sorride e io sento il cuore stringersi e gli occhi inumidirsi con troppa facilità. «L’unica che la faceva sorridere in ospedale... Dovevi sentirla, era terribilmente stonata!» È lacerante la piccola risata che abbandona la sua gola e mi ritrovo a mandare giù un nodo mentre la mano si chiude nella sua. «Quando è morta ho continuato ad ascoltarla. Sempre, ogni pomeriggio, ogni istante. Camminavo per strada sentendola nella testa e credevo di essere come Richard Ashcroft: intoccabile, senza paura di nessuno[1]... Per un po’ ha funzionato.»
«E poi?» sospiro con un accenno di voce non del tutto stabile.
Eric abbassa la testa e piega di nuovo le labbra all’insù. «Poi ho iniziato a dimenticare il suono della sua voce...» Quando solleva lo sguardo non sorride più e i suoi occhi diventano troppo simili ai miei. «Lei mi guardava come mi guardi tu, come se fossi speciale... È questo che mi fa paura, Magnus. Io non sono speciale eppure ogni volta che mi guardi... quasi mi illudo di esserlo davvero.» Sorride di nuovo e io non riesco a dire una sola parola, non riesco a impedire alle mie labbra di vibrare e agli occhi di farsi ancora più umidi. Non riesco a impedire alle braccia di avvolgersi attorno alle sue spalle, e quando sento le sue stringere me, sento con esse tutto il suo dolore e la sua paura. Lo sento davvero, lo sento come non credevo possibile. «Quando penso a come ti ho trattato... Dio, mi sento morire.»
«Ti prego, Eric, non dire niente.» Il mio cuore batte già troppo forte. «Non dire niente.» Lo bacio con bisogno e passione.
«Perdonami, Magnus.» Bacio le sue labbra e il suo viso privo di lacrime, bacio le palpebre che le custodiscono silenti e che forse le stanno custodendo da chissà quanto. «Perdonami...»
Bacio di nuovo la sua bocca e quella richiesta disperata e sincera, e mi sembra più forte di ogni stupido ti amo.
Odo ancora parole e musica, nelle orecchie, nella testa, nel cuore, mentre gli archi coprono il suono ovattato degli abiti che cadono sul pavimento.

*

«Che ne dici di questa?» Mi volto verso Eric che però sembra più interessato a guardare la Suzuki parcheggiata di fronte al marciapiede. «Se non ti andava di venire potevi dirlo...» sospiro conscio che non avrei dovuto insistere.
«No, non è questo. Ma cosa vuoi che ne capisca io di collane?»
«Perché, io ti sembro un esperto?» Un altro sbuffo mentre guardo il mio riflesso nella vetrina. «Forse non è una buona idea.»
«Ascolta, scegline una qualsiasi, Amanda lo apprezzerà in ogni caso.» Le parole di Eric non mi convincono. Mi mordo l’interno di un labbro continuando a tenere gli occhi fissi sulla collana di perle.
Non c’è stato modo di ritrovarla, Vargas non sapeva dire dove fosse o chi l’avesse e per poco non mi ha aggredito quando sono andato a interrogarlo in prigione.
Il caso Fustern è rimasto un caso irrisolto.
Amanda dice che non importa, che i ricordi si tengono nel cuore e non negli oggetti ma io ancora ricordo i suoi occhi lucidi mentre parlava di quella collana.
È diventata una persona importante, ciò non bastasse, devo a lei la serenità che sto vivendo adesso: senza i suoi pregiudizi su Eric, non l’avrei mai conosciuto. Non avrei avuto l’opportunità di innamorarmi di lui e di vivere queste intense emozioni.
Ormai è quasi un mese che ci frequentiamo come due persone normali.
Normale, credo di non aver ancora afferrato il vero significato di questo termine.
Eric ancora non mi ha detto quelle due parole, ma io le sento ogni volta che mi tiene stretto fra le braccia, le sento quando ascolta in silenzio le mie lamentele su Kurt, su Lisa e sul caso imbarazzante affidatomi, le sento quando mi chiede se resto a cena e sorride quando dico di sì, le sento quando mi prende in giro perché ancora non sono in grado di dire una frase in inglese senza stravolgerne il significato.
Le sento quando la malinconia gli copre gli occhi e lascia che io gli sfiori i capelli senza allontanarmi.
Le sento sempre e forti, e non credo serva altro.
«Quella lì.»
«Quale?»
Mi indica una sottile collana d'oro con un piccolo ciondolo rosa. «Quella. »
Mi avvicino alla vetrina per guardarla meglio e do una bella capocciata al vetro. «Ahi!»
«Il solito imbranato» ridacchia lui ma mi passa una mano sulla fronte. «Fatto male?»
Scuoto la testa e reprimo un sorriso divertito. «È molto simile agli orecchini... Di’, un po’, non è che alla fine la collana l’hai presa davvero tu?»
Sorride. «Beccato! È nascosta in un baule insieme a mille kilt.»
Rido stringendomi nel cappotto all’ennesima fredda folata di vento. «È aria di neve» sospiro e Eric alza lo sguardo al cielo sempre più bianco.
«Meglio affrettarci allora, non ho le catene.»
«Sono tre isolati, credi che arriverà una tormenta nei prossimi cinque minuti?!» ghigno entrando nel negozio.
«Chi lo sa? Io non conosco ancora bene questo vostro clima.» Mi segue e il campanello sulla porta tintinna dolcemente.
«Buongiorno, posso aiutarvi?» Una bella signora sulla quarantina ci sorride dall’altra parte di un lucido bancone.
«Vorremmo vedere la collana in vetrina, quella con il ciondolo rosa.»
«Oh, certo.» La commessa si avvicina al vetro e prende il piccolo gioiello.
«È per la sua ragazza.» Eric ridacchia e io lo colpisco leggermente con un gomito.
È da quando ho deciso di fare questo regalo ad Amanda che mi tormenta. Avevo pensato di darglielo per Natale ma manca ancora un po’ e io sento che devo farlo ora.
«È un oggetto molto elegante e raffinato, alla sua fidanzata piacerà.»
Fingo di ignorare l’eccessivo divertimento sul viso di Eric e seguo la donna fino al bancone. In effetti è davvero una collana molto bella.
«Hai dei bei gusti...» mormoro guardandolo di sottecchi. Non dice nulla ma scorgo la soddisfazione brillare negli occhi.
Appena torniamo a casa mi dovrò vendicare.
«È una creazione di classe e a questo prezzo è quasi regalata.»
Il prezzo, giusto, ancora non l'ho chiesto.
Quando lo faccio deglutisco visibilmente.
«8000 corone?» Ma è un furto, altro che regalata!
«È oro bianco e il brillante del ciondolo da solo vale 5000 corone.»
Neanche Eric sorride più.
Mi gratto la testa indeciso. Non pensavo di spendere una cifra simile, ma questa collana è davvero molto bella e ricorda moltissimo gli orecchini di Amanda.
Riesco persino a vederla al suo collo.
«Va bene, la prendiamo.»
«Eric?» Lascio che i miei occhi chiedano e aspetto che i suoi rispondano. Non lo fanno.
«Faccio un pacchetto regalo quindi?»
«Sì, grazie.»
Mentre la commessa inizia a sistemare sul bancone cofanetti e nastri vari, ne approfitto per capire cosa gli stia passando per la testa.
«Non ce le ho 8000 corone, Eric! E non so neanche se posso pagarla a rate.»
«Ti piace?» Mi chiede con un sorriso. «La collana, dico. Ti piace?»
«Certo ma-»
«E allora non preoccuparti. Te ne bastano 4000.»
Ci impiego qualche attimo per realizzare le sue intenzioni.
«No, Eric. È stata una mia idea e non voglio che tu-»
«Volete anche un bigliettino accanto?» L’elegante signora mi interrompe e porto gli occhi sulla graziosa confezione che ha creato. È davvero bella.
«No, grazie. Va bene così.»
«Eric, per favore....»
«Sono 8000 corone, allora. All’interno c’è anche la garanzia di originalità dei materiali.»
Non ho più potere, Eric ha già sistemato la sua parte sul bancone e mi guarda con un'espressione così determinata che semplicemente mi arrendo.
Pago la mia metà e prendo il regalo.
«Te li do al prossimo stipendio. Te lo prometto» bisbiglio mentre usciamo dal negozio.
Il campanellino suona ancora una volta.
«Dammi quattromila di questi e siamo pari.»
Quando mi bacia davanti alla vetrina sento un fiocco di neve accarezzarmi una guancia.


È il decimo fazzoletto. Fra un po’ finirà la scatola.
«Amanda, per favore.»
«Oh, Magnus, è il regalo più bello...Più... siete dei ragazzi speciali. Tutti e due.»
Alzo lo sguardo su Eric che sta caricando la caraffa d’acqua per il tè. Solleva le sopracciglia con un sorriso e io sospiro mentre Amanda afferra l’undicesimo fazzoletto.
Non è stata una buona idea organizzare questa cena, soprattutto è stata una pessima idea darle la collana al termine. Ha reso il tutto troppo importante, non che non lo fosse, ma non volevo che consumasse una confezione di kleenex.
Avevo messo in conto che si sarebbe commossa, ma adesso mi chiedo se smetterà mai.
«Quanto sono fortunata ad avere due persone come voi.» Mi stringe una mano mentre guarda ancora la confezione aperta con il ciondolo rosa. «Se il mio Arthur vi avesse conosciuto... Oh, quanto gli sareste piaciuti.»
«Io più di lui, scommetto.» La frase di Eric la fa sorridere e gliene sono grato.
Eric ha un modo tutto suo di dare affetto, eppure non credo esista qualcuno con un cuore più gentile. E ha deciso di donarlo a me.
Cosa ho fatto di buono nella mia vita per meritare tanto?
«Coraggio, ci faccia vedere come le sta.» Si avvicina e le poggia entrambe le mani sulle spalle. Guardo il viso della signora Fustern illuminarsi ancora di più con gli occhi arrossati e felici. Poi guardo quello di Eric che mi sorride strizzandomi un occhio.
Prendo la collana dal cofanetto e gliela passo. La delicatezza con cui l’allaccia attorno al suo collo fa piegare anche le mie labbra.
«È davvero meravigliosa...» sospira Amanda sfiorando il ciondolo con le dita.
«Lei è meravigliosa, Amanda.»
Era meglio che stavo zitto, perché adesso mi toccherà prendere altri cento fazzoletti.
Mentre cerco di rattoppare il danno, il cellulare squilla nella mia tasca.
Lascio a Eric il compito di arrestare le lacrime, mi sembra gli riesca immensamente meglio, e vado a rispondere in soggiorno.
«Ehi, mamma?»
«Come sta il mio figlio famoso?»
Ancora con questa storia.
Sospiro con un sorriso. «Sta benone, mamma.»
Dopo l’arresto di Karlberg e l’ovvio scalpore che ne è seguito, un quotidiano locale ha pubblicato un articolo con una foto di Kurt in cui, ancora devo capire come, c’ero anche io. Mia madre ha ordinato due copie del giornale e ha deciso che ero diventato un detective famoso. Credo non abbia notato che nella didascalia sotto la foto compariva solo il nome di Kurt...
«Tu come stai?... E Rob?»
«Al solito, tesoro, anzi proprio di questo volevo parlarti.»
«Dimmi tutto.» Butto un occhio alla cucina in cui Eric ha riempito una tazza fumante davanti alla signora Fustern e sta dicendo qualcosa sulla mia testata di ieri contro la vetrina. Amanda ride, meglio così.
«Questo sabato ci sarà una mostra di bonsai a Ystad, alla Fiera del porto.» Ne avevo sentito parlare, era stato Eric a dirmi che avevano passato un pomeriggio a scaricare casse contenenti qualcosa per una mostra di non ricordava bene cosa.
Hernest ha litigato con Gustav perché gli ha imposto due turni serali di fila e sua moglie per poco non voleva lasciarlo.
I racconti di Eric vertono sempre sulle disgrazie che capitano ai suoi colleghi. Credo nasconda una vena sadica in fondo a quel cuore gentile...
«Rob vuole andare alla mostra, immagino?» chiedo.
«Esatto, però vuole parteciparvi. Quindi dobbiamo venire a Ystad almeno un giorno prima per fare l’iscrizione e sistemare altre scartoffie.»
«Certo, capisco.»
Amanda ha smesso di piangere - grazie a Dio - e Eric continua a raccontare di altre “divertenti” disavventure stavolta successe al povero Lars.
«Magnus, volevo sapere se potevamo stare da te qualche giorno. Lo sai che Rob odia andare in albergo e per i suoi bonsai c’è bisogno di spazio.»
Riporto l’attenzione al discorso di mia madre.
«Mamma, non c’è problema, lo sai.» No, un problema c’è, e pure bello grosso.
Ho rimandando la cosa anche troppo e adesso non penso più di volerlo fare.
«Tesoro, grazie. Oh, non vedo l’ora di abbracciarti...»
«Anch’io, mamma.»
Eric si affaccia dalla porta e mi chiede con un movimento di labbra se è tutto ok.
Annuisco.
È mia madre, sibilo muto e lui mi sorride.
Quel sorriso è il mio tesoro più grande, Eric è il mio gioiello senza prezzo.
«Ehi, mamma?» Eric torna in cucina e io guardo dalla finestra la neve che cade copiosa.
«Dimmi, amore.»
Prendo un respiro e sorrido anch’io. «Quando vieni a Ystad, voglio presentarti una persona.»
Voglio presentarti la mia vita.
«Non vedo l’ora di incontrarla... Buon notte, bambino mio.»
«Buona notte, mamma.»
Il telefono si spegne e lo rimetto in tasca.
«Magnus, il tuo tè si fredderà!»
«Arrivo subito, Amanda.»
Una tazza mi aspetta sul tavolo. Mi siedo con Eric alla mia sinistra e il viso raggiante di Amanda di fronte a me con la nostra collana al collo.
Ascolto silente ancora una volta i racconti di Eric, guardo le sue labbra muoversi lentamente, i suoi occhi cercare i miei e guardare gentili quelli di Amanda.
Bevo un sorso caldo.
Fuori continua a nevicare, forse nevicherà per tutta la notte.
«Ancora un po’ di tè, figliolo.»
Scuoto la testa. «Sto bene così, grazie.»
Eric sorride e sorrido anch’io.
Sì, sto bene così.




















[1] Nel famoso video della canzone, Richard Ashcroft, il cantante dei The Verve cammina cantando lungo una strada londinese incurante di chiunque gli venga in contro. Eric si riferisce appunto a quell’atteggiamento. [Video]












Fine







P.S
Godetevi ancora una volta un’altra opera di Angie <3








[Ci leggiamo presto, Magnus ha qualcuno da presentare a mamma...]

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