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Detective MartinssonPremessa:
Siccome Magnus mi ha
tormentato nell’ultima settimana (come ha fatto un
po’ con
tutte) ho deciso di scrivere una long con il bel riccio come
protagonista. Personaggi:
Magnus Martinsson (Tom Hiddleston), Eric the
Huntsman (Chris Hemsworth) Ambientazione:
Siamo a Ystad,
ridente cittadina svedese, in cui Magnus lavora come detective della
polizia. Qui, durante un’indagine, farà un
incontro che gli scombussolerà la vita. Note:
1. Questa storia
sarà un crossover ambientato proprio nell’universo
di Wallander
(qui
per le info),
per cui il titolo è un rifacimento di quello
dell’opera.
Se avete visto il telefilm sarà più facile
entrare nella
storia, ma siccome Magnus non è un personaggio molto
approfondito, anche chi non lo conosce può leggerla.
Cercherò di renderla accessibile a tutti.
Disclaimer:
Gli avvenimenti
narrati in questa storia sono pura invenzione. I personaggi non mi
appartengono e sono dei legittimi proprietari. Scritta senza scopo di
lucro e
senza vergogna.
Buona lettura
kiss kiss Chiara
Detective Martinsson
I.
Il caso di Hedeskoga
Il telefono
squilla. Uno, due,
tre. Guardo
Anne-Britt, ma ha gli occhi fissi sui documenti che regge fra le mani.
Sa che la sto guardando. Quattro. Kurt sta
parlando con Lisa
riguardo al caso del giovane prete trovato morto davanti la chiesa di
San Pietro. Mi schiarisco la voce con un colpo di tosse al
quinto
squillo, ma nessuno sembra avermi sentito. Mi chiedo se non lo facciano
di proposito. Mi chiedo cosa abbiano contro di me. Mi alzo seccato
dalla sedia ed afferro la cornetta quando ormai l’ottavo
squillo
mi ha urtato i timpani insieme ai nervi. «Martinsson»
sospiro passandomi una mano sugli occhi. È Sven
dell’obitorio con delle novità sul caso del prete.
Chiede di
Kurt, ovviamente. «È per te.» Gli
allungo la
cornetta e torno a domandarmi perché ce l’abbiano
con me.
Chi è che ce l’ha con me? Dio? I miei colleghi? Il
destino? Sono un
detective preparato e
ligio. So fare il mio lavoro. Amo il mio lavoro. Eppure mi hanno tenuto
fuori dal caso più importante del momento. Torno alla
mia scrivania e mi
accascio sulla sedia. Una matita fra le dita mi aiuta a scaricare lo
stress. La faccio roteare e la mordicchio. La picchio ad intermittenza
sul legno del tavolo e la faccio roteare ancora. Sono le
undici passate e sto ancora stilando questo noiosissimo rapporto da
ieri sera. È
una giornata d’inferno come tutte le altre. Come ogni
dannatissima giornata da ormai qualche periodo. Non cerco
il sangue, non sono
uno di quegli psicotici agenti che attendono un caso inquietante per
eccitarsi. Vorrei solo poter fare ciò che so fare meglio: il
mio
lavoro. «C’è
stato
un furto ad Hedeskoga. Una villa di un’anziana
donna.»
Guardo il viso dell’agente appena entrato e prego
intensamente.
No, non voglio lavorare su uno stupidissimo caso di furto! «Ci
sono state aggressioni?» chiedo. Magari
c’è qualcosa di interessante. «No.
Hanno solo portato via qualcosa di valore.» Non
c’è nulla di interessante. «Magnus,
occupatene
tu.» Mi ritrovo a stringere i denti. Dannazione, Lisa!
Perché non posso lavorare sul caso dell’assassinio
di San
Pietro? «Vado
subito.» Ma
non ho intenzione di fare scenate. Trattengo a malapena una smorfia e,
presa la giacca dalla sedia, mi avvio verso la porta. Guarda il lato positivo,
Magnus, non sarai più costretto a rispondere al telefono!
La strada
per Hedeskoga
è una striscia di desolazione. Le case si possono contare
sulla
punta delle dita e nessuna di esse sembra viva. È
una bella
zona, ma non certo la più popolata di Ystad. Mi lascio
sfuggire
un lungo sospiro mentre giro verso il viale della casa. In un posto
come questo è normale che i ladri facciano festa. Ci sono due
agenti che non
conosco. Parcheggio e mi avvicino ad uno di loro, mentre
l’altro
è intento a parlare con una donna. Sarà di certo
la
vittima del furto. Faccio domande di routine per sapere a che punto
sono. «Sono
entrati dalla porta sul retro. È stata forzata.» «Cosa
hanno preso?» Ispeziono con gli occhi l’esterno. «I
gioielli, un paio di oggetti d’argento e circa 6000
corone.» 6000 corone? Magro bottino. Magro caso. «La
scientifica ha trovato qualcosa?» «Niente.
Non ci sono
impronte. Forse indossavano dei guanti.» Annuisco
«Dice di
non aver sentito nulla. Si è accorta del furto solo
stamattina.» Avrei dovuto essere con Kurt a San Pietro ed
invece
sono qui a dare la caccia ad un ladro di galline! «Grazie.»
Almeno gli agenti mi sembrano preparati. Mi passo una mano fra i
capelli e mi avvicino alla donna. Amanda
Fustern, 73 anni,
vedova. Statura bassa e tarchiata, capelli grigi raccolti in un
ordinato chignon, occhiali da vista con catenina rossa, vestito a
stampe floreali di dubbio gusto. Parla animatamente gesticolando con le
mani. È agitata e dovrò comportarmi di
conseguenza. «Signora
Fustern, sono
il Detective Martinsson.» Le mostro il distintivo
con tono
gentile e la vedo annuire. Faccio un cenno al giovane in divisa e lui
si allontana verso il collega. «Signora, mi racconti cosa
è
successo.» Mi ripete le stesse cose che ho già
saputo
dall’agente, ma entrare in contatto con la vittima
è
fondamentale. Annuisco ad ogni informazione. «Era
di mia nonna. Magari non era di valore, ma era un oggetto carissimo per
me.» Ha le lacrime agli occhi. «Faremo
del nostro
meglio, signora. Non si preoccupi.» Una mano a coprirsi la
bocca
ed annuisce.
Se non ci sono impronte non credo riusciremo a trovare i
ladri. Non abbiamo una descrizione, ed il misero valore della refurtiva
ci renderà le cose ancora più difficili.
L’unica
strada potrebbe essere qualche traccia lasciata sul terreno: segni di
pneumatici, mozziconi di sigarette. Mi volto a
guardare la zona.
Non ci sono case, a parte una piccola villetta ad un centinaio di
metri. Difficilmente ci saranno testimoni. Mi spiace per la signora
Fustern, ma sarà meglio che si rassegni all’idea
che la
collana di sua nonna è perduta. «Sono
sicura che sia
stato lui!» Mi volto a guardarla ed aggrotto le sopracciglia.
Un
sospettato? Beh, è un inizio. «A
chi si riferisce?» Indica la casa che stavo guardando prima. «Non
mi è piaciuto dall’inizio. Sono certa che sia
stato lui.» «Crede
che sia stato il suo vicino a derubarla?» Annuisce.
«Le ha dato già qualche fastidio?» «No,
direi di no.» «Mi
parli di lui: è sposato? Che lavoro fa?» «Non
ne ho idea. Non so
neanche come si chiami.» Perfetto!
Proprio un ottimo indizio.
«Ma non mi piace!» Ed ora dovrei andare in giro ad
arrestare la gente in base al piacere
di una vecchia signora con
pessimi gusti di moda. Poggio le mani sui fianchi sospirando. Giornata
davvero d’inferno.
Ispeziono
l’interno
della casa. È modesta ma ordinata. Non ci sono sfregi, a
parte
gli oggetti mancanti, e non c’è nulla ad occhio
che mi
indichi una qualche pista da seguire. I ladri sono stati bravi a non
lasciare tracce. Almeno per il momento. Non mi resta che
partire
dall’unica cosa che posseggo: il pregiudizio di questa donna.
Mentre esco
dalla casa, il cellulare squilla. «Come
va ad Hedeskoga?» È Anne-Britt. «Non
credo che li
beccheremo. Hanno preso qualche gioiello ed un po’ di soldi.
Nulla
di gran valore.» Attraverso la strada per dirigermi verso
l’abitazione di questo vicino. Ho deciso di farmela a piedi,
così avrò modo di borbottare in santa pace contro
la
sfortuna che mi perseguita. «Quando
hai finito, vieni in centrale. Lisa deve parlarti.» «Riguarda
San Pietro?» Fa'
che sia così! Fa' che sia così! Fa' che sia
così! «No,
è sul rapporto che dovevi consegnare ieri.» Magnus, fattene una ragione:
ti odiano! «Ok,
appena ho fatto, torno.» Attacco e mi lascio sfuggire
un’imprecazione. Chi
è che gli ha
salvato la vita? Chi è che ha sparato a quel figlio di
puttana
prima che uccidesse sua figlia? Io, Magnus Martinsson! Sono stato io a
salvargli la pelle! E lui come mi ringrazia? Lasciandomi fuori! Kurt
Wallander, sei un vero bastardo! La rabbia
velocizza i
miei passi, ed i cento metri mi sembrano esser solo poche falcate. Mi
fermo respirando a pieni polmoni. Non posso farmi prendere dalle
emozioni adesso. Sono un maledetto detective, anche se sembra che
nessuno se lo ricordi. Una Ford
blu scuro è
parcheggiata davanti alla porta del garage. Sembra che sia in casa.
Bene, almeno chiuderò questa faccenda alla svelta.
Suono il campanello cercando di leggere il nome dalla cassetta della
posta, ma non trovo nulla. Risuono ancora verificando la presenza di
qualcuno al di là della staccionata, ma non
c’è
anima viva. Potrebbero essere sul retro. Il cancelletto di legno
è aperto, così lo spingo ed entro.
Percorro il breve tratto fino alle scale e picchio le nocche sul legno.
«Sono della polizia.» Cerco di farmi sentire, ma la
casa
sembra vuota. Busso nuovamente. «Polizia.
Aprite!» Trascorrono altri secondi di silenzio. Forse davvero
non
c’è nessuno.
Mi volto sul punto di andarmene, quando sento un rumore provenire dal
retro. Cerco di prestare attenzione e lo avverto più
nitidamente. Un rumore secco ad intervalli. Scendo i pochi
pioli e mi avvicino alla fonte di quel suono che cresce di
intensità
ad ogni mio passo. Ho ormai fiancheggiato la casa, quando riesco a
riconoscerne la natura: colpo d’accetta. Ne ho la certezza
quando
svolto l’angolo e vedo la figura di un uomo intento a
spaccare a
metà un ciocco di legno. Alto, molto
alto. Coda di
cavallo bruna che gli ricade sul collo sudato. Braccia scolpire. Spalle
scolpite. Fisico scolpito. Riesco a notarlo perché indossa
solo
una canotta di cotone bianco su un paio di jeans.
Fa freddo oggi.
È ottobre e fa freddo. Io indosso camicia, pullover e
giacca, e
se non fosse per l’accumulo eccessivo di stress degli ultimi
minuti, potrei sentire ancora freddo. Ma quest’uomo indossa
solo
una misera canotta completamente zuppa che gli si è quasi
attaccata alla pelle. Pelle dal colore ambrato. Non si deve
essere accorto di
me, perché prende un altro ceppo e lo trancia con un solo
colpo.
Rimango in silenzio ad osservare i suoi gesti. Non conosco il suo viso,
eppure posso dire che è un uomo che mette soggezione.
Sarà la stazza, sarà la faccenda del freddo,
sarà
la fermezza con cui maneggia l’ascia, non so dirlo, ma posso
affermare con
facilità che mi sento inquieto.
Mi volto di spalle chiedendomi
se non sia meglio tornare in un altro momento, ma un nuovo colpo di
accetta mi costringe a portare lo sguardo su di lui. Magnus, che stai facendo
lì imbambolato? Sei un poliziotto, giusto? Stai rompendo le
palle a tutti -coscienza compresa- su questo punto, ed ora non riesci a
schiodarti da quella parete? Cos’è, ti sei
incantato a
guardare i muscoli di questo tizio? Mi sento
arrossire. Quel pensiero mi ha agitato ulteriormente. Passo le
dita fra i ricci e mi faccio forza. Devo parlare con
quest’uomo e chiarire la faccenda del furto. «Mi
scusi.» Tengo
la voce ferma ed il tono deciso, ma quando lui si volta, mi chiedo se
avrò ancora abbastanza fermezza per continuare. «E
tu chi sei? Che ci
fai in casa mia?» La sua voce rispecchia il suo fisico.
Forte,
possente. Sul viso una barba incolta e qualche ciocca scura che gli
ricade sulla fronte. Occhi che sono due fari azzurri.
La mia
impressione era corretta: quest’uomo mette in soggezione. Mi
mette terribilmente ed inspiegabilmente in soggezione. «Ehm...
» Mi
schiarisco la voce afferrando il distintivo dalla tasca. Meglio
chiarire subito prima che mi ritrovi con quell’ascia
conficcata
da qualche parte. «Magnus Martinsson. Polizia di
Ystad.» Mi
avvicino per mostrarglielo. Più passi faccio verso di lui,
più la mia inquietudine cresce. Quando ormai gli sono di
fronte,
mi chiedo se sia normale avere il battito così accelerato. Maledizione,
Magnus, datti un cavolo di contegno! «Polizia?»
Sposta
lo sguardo sul distintivo e gliene sono grato. «Non hai la
faccia
da poliziotto.» Un sorriso gli piega le labbra ed i suoi
occhi
sono di nuovo su di me.
È indubbiamente un bell’uomo. Molto bello, forse
troppo.
Mi verrebbe da dire che rasenta la perfezione, e la mia autostima
subisce una battuta d’arresto dietro l’altra. «Ieri
sera la sua vicina
ha subito un furto.» Inizio rimettendo in tasca il distintivo
«Ha sentito qualcosa?» Mi ascolta corrucciando la
fronte ed
i suoi occhi diventano sottili linee di ghiaccio. «Quella
vecchia? E che
le hanno rubato, la simpatia?» ridacchia allontanandosi per
prendere un altro pezzo di legno. Lo ripone sul ciocco più
grande e lo trancia a metà. Il colpo secco mi fa sussultare.
I
miei nervi sono tesi come corde di violino e non capisco
perché.
Sarà tutto lo stress che ho accumulato in questi giorni.
È colpa di Kurt e del suo continuo non apprezzarmi,
è
colpa delle mie eccessive elucubrazioni mentali! È colpa di
questo, e non certo dell’individuo di fronte a me di cui
ancora
non so il nome. «Sulla
cassetta non
c’è il nome.» Gli faccio notare puntando
il pollice
alle mie spalle. Mi guarda distrattamente e continua il suo lavoro. «Mi
sono trasferito da poco.» E giù un altro colpo. «Le
spiace dirmi il suo nome?» Prendo il blocchetto con la penna
ed attendo che colpisca un altro ceppo. «Eric.»
Si limita a sospirare asciugandosi la fronte con il dorso della mano.
Annuisco e scrivo. «”Eric”
e?» Solo quando rialzo gli occhi mi accorgo che mi guarda con
uno
sorriso sghembo. «Il suo cognome.» Insisto cercando
di non
cedere alla strana agitazione che si è nuovamente
impossessata
di me. Andiamo, Magnus, come diavolo
hai fatto a diventare detective se non riesci neanche a sostenere lo
sguardo di un uomo? Non ne ho idea! Gli anni di
accademia e l’esperienza sul campo sono totalmente svaniti
dalla
mia mente. Restano solo pensieri che risuonano psichedelici.
Riflessioni contorte e considerazioni di morale opinabile. «Sicuro
che sei un poliziotto?» chiede ancora sorridente. Mi ritrovo
ad aggrottare la fronte confuso. «Vuole
rivedere il
distintivo?» Mi porto una mano alla tasca pensando che forse
non
ha letto bene e vuole ricontrollare. Ma lui scuote la testa tornando a
fare il lavoro che aveva interrotto. «Non
ho mai visto un
poliziotto con quei ricci.» Ride e mi sento
avvampare.
I miei capelli. Ha appena fatto apprezzamenti sui miei capelli.
Che hanno di sbagliato
i miei capelli? Perché tutti ce l’hanno con i miei
capelli? «Ehm...»
Sono
grato che sia occupato ad affettare altri poveri ceppi,
perché
così non ha modo di vedere il rossore imbarazzante comparso
sulle mie guance.
Mi gratto il mento leggendo gli appunti che ho
scritto. Cerco di ritrovare una degna lucidità, ma la sua
risata
mi risuona ancora in testa. «Huntsman.»
Alzo
gli occhi. «Eric Huntsman.» Sorride ancora, e quel
sorriso
è più tagliente della lama della sua ascia.
Capitolo 2 *** La differenza fra Indagare e Curiosare ***
2. L’uomo dagli occhi di ghiaccio
Detective Martinsson
II.
La
differenza fra Indagare
e Curiosare
«Signor Huntsman,
lei non si è accorto di nulla stanotte?»
Devo tornare all’indagine. Sono qui per questo: indagare sul
furto ai danni della signora Amanda Fustern. Eric Huntsman
è un
potenziale testimone o, al limite, un potenziale sospettato.
È
solo questo. Deve essere solo questo. Eppure faccio fatica a
convincermene. Mi è incredibilmente difficile concentrarmi
sulle
sue parole senza lasciare che pensieri estranei mi affollino il
cervello.
Sono abbastanza maturo per non cedere alle sue provocazioni (vedi
battuta poco carina sui miei capelli), sono abbastanza
“detective” da non lasciarmi incartare in qualche
discorso
al fine di sviarmi, sono abbastanza etero da non farmi distrarre
dalla sua evidente avvenenza. Lo sono. Lo
sono? «Non so
niente di ieri sera.
Sono andato a letto presto e mi sono alzato altrettanto
presto.»
Un pezzo di legna in ogni mano «Non ho idea di quello che
sia successo in casa di quella vecchia.» Mi supera ed
appoggia i ciocchi sugli altri, ordinatamente allineati fra due
paletti. Seguo con lo sguardo
ogni suo
gesto. Appunto ogni sua parola. Studio ogni sua espressione.
Il suo
viso è una tela affascinante: ci sono sottili linee che gli
attraversano la fronte ed altrettante gli angoli della bocca quando
sorride. Quando parla, tende a passarsi la lingua sulle labbra.
Perché è ottobre e fa freddo, ed anche se sembra
non
accusarlo, l’aria secca di Ystad, non risparmia di asciugare
quelle labbra carnose. L’hai
rifatto, Magnus. Hai di nuovo sconfinato con i pensieri. Scuoto la testa. «Quindi lei
era in casa?» Mi lancia un’occhiata a stento e
continua a sistemare altra legna. «Te
l’ho detto: sono andato a letto presto.» «Quanto
presto? Erano le 21?
Le 23? Era prima o dopo mezzanotte?» Si ferma, mi guarda. Mi
fissa. Mi ghiaccia con le sue iridi. «Era
presto.» Un tono
che non ammette repliche e che si colora di un’evidente nota
d’irritazione. Sembra facilmente irascibile. Dovrò
stare
attento a come mi muovo. «Va bene,
signor
Huntsman.» Fingo di annotare qualcosa sul blocchetto, ma in
realtà sto ricalcando il suo nome. «Lei vive qui
da
solo?» Non risponde immediatamente. Anche lui mi sta
studiando,
glielo leggo negli occhi. Reclina di qualche grado la testa dal lato
destro ed aggrotta le sopracciglia. Brutto
segno, Magnus. Brutto segno. «Non starai
pensando che io c’entri qualcosa con questa storia,
vero?» No, in
realtà ho smesso di
pensare chiaramente da quando sono entrato in questa casa. Ma sotto la
massa di patetiche riflessioni, c’è un vago
sospetto. «Assolutamente!»
Cerco
di essere convincente. Se un testimone/sospettato si mette sulla
difensiva, è tutto più difficile. Già
sto facendo
fatica di mio a portare avanti quest’assurda indagine, se lui
inizia a creare altre difficoltà, può solo
peggiorare.
«Volevo solo farle qualche domanda. Se non le
dispiace.»
Spero che il mio tono sia stato abbastanza cortese. Spero che non abbia
tradito alcuna agitazione. Spero, soprattutto, che questa giornata
abbia presto una fine. «Se è un problema, posso
tornare
più tardi, o questo pomeriggio.» Aspetto una sua
reazione
e non mi accorgo di aver appena iniziato a giocherellare con la penna
che ho nella mano. Controllo. Cerca di avere
controllo. Mi studia ancora e poi
getta uno sguardo verso casa sua. «Ti do
cinque minuti.» «Basteranno.»
Gli
sorrido gentile ma lui non ricambia. Conficca l’ascia nel
legno
del grosso ceppo e si avvia verso la porta sul retro. Non aspetto che
mi inviti e lo seguo.
Se è
possibile - e
dubito fortemente lo sia - sono ancora più in
soggezione di
quanto non lo sia stato prima. La casa di Eric
Huntsman è
il perfetto riflesso del suo carattere. Colori neutri, assenza totale
di sopramobili. Assenza totale di dettagli che ne rivelino la natura.
Solo linee primitive, solo l’essenziale. Mi inquieta, mi agita. Al centro
dell’enorme salotto
scarno, un tavolino di legno ed un divano di pelle marrone. Un grande
camino sulla parete, che irradia la stanza di arancio e riempie
l’aria di un caldo quasi asfissiante. Ma forse sono io ad
avvertirlo troppo. Mi siedo mentre lui va
in cucina.
È sulla parete destra, riesco a vedere solo le mattonelle di
un
pallido avorio. Mi allento il colletto del maglione e mi chiedo se non
sia il caso di togliermi la giaccia. Non lo faccio. Sono solo cinque
minuti, cinque caldissimi e soffocanti minuti e poi uscirò
da
qui. «Prendi.»
Mi volto quando entra nella stanza. Nella mano, una lattina di birra. «Grazie, ma
non posso bere in
servizio.» Inizio a trovare irritante che si rivolga a me con
tale confidenza, mentre io sono ancora fermo al “Signor
Huntsman”. «È
analcolica» sospira poggiandola sul tavolo e si siede accanto
a me. C’è
la presenza di un
cuscino a separarci, eppure mi sento come se fosse un confine davvero
troppo sottile. Trenta centimetri sono troppo pochi. Avrei bisogno di
metri, di centinai di metri. «Grazie.»
Mi avvento
sulla lattina e ne bevo un sorso. La sua è stretta nel palmo
destro e credo sia quasi terminata, perché mentre beve,
reclina
molto la testa. Il suo collo è grosso quasi quanto la mia
vita. Magnus,
scheletrico detective svedese! Riappoggio la birra
sul tavolo e riapro il mio blocchetto. «Lei che
lavoro fa, signor Huntsman?» «Lavoro al
porto. Allo
scarico merci.» Come sospettavo, la sua birra è
finita, e la
poggia sul legno accanto alla mia. «Oggi non
lavora?» Sorride. «Ho il turno
alle
14.00.» Credo che trovi buffe le mie domande. Inizio a
pensare
che trovi buffo me, e quel pensiero mi innervosisce. «Vive qui da
solo?»
Ripongo la domanda a cui non ha risposto prima, anche se ormai la
risposta mi è chiara. In questa casa non vi è la
presenza
di qualcun altro, tantomeno di una donna. «Sì.»
Ha perso
il sorriso, e quella singola sillaba è
più un ringhio
che altro. Vorrei indagate oltre. Vorrei sapere se era
sposato, fidanzato. Se ha una qualche relazione complicata in corso. Ma
non sono informazioni pertinenti al caso. Non devono essere neanche
informazioni pertinenti alla mia assurda curiosità. «Ehm...
» Rileggo le
risposte e mi rendo conto che non so che altro chiedergli. Non sa
niente del furto, e questo non lo rende un testimone. Non ho prove
né indizi a suo carico, per cui è escluso dai
sospettati, almeno per ora.
Eric Huntsman non è di alcuna utilità per il caso
Fustern. Dovrei andare via e tornare alla centrale da Lisa. Dovrei. «Hai
finito?» Rialzo
gli occhi su di lui. Ha un’espressione annoiata e la chiara
voglia di vedermi fuori da casa sua quanto prima, stampata in quelle
iridi di ghiaccio. Vacillo nella
risposta. “Si, grazie per il suo aiuto.”
Dovrei replicare. Dovrei alzarmi ed uscire. Dovrei dirgli che se per
caso ricordasse qualcosa, può chiamarmi e dovrei allungargli
il
biglietto con il numero della centrale. Dovrei uscire dal cancello e
percorrere i cento metri. Dovrei infilarmi nella mia auto ed affidare
il caso Fustern ad un altro. «A dire il
vero, avrei
qualche altra domanda.» Ed invece finisco con il dire una
frase
tanto sbagliata quanto falsa. Mi guarda negli occhi e sbuffa, ed io
inizio ad avere il panico perché non ho la più
pallida
idea di che cosa chiedergli. Ma mentre faccio a pugni con la mia
stupidità, lui si alza dal divano. «Hai
fretta?» Non
capisco il senso della domanda. Scuoto la testa come risposta.
«Ok, allora aspetta qui.» Si allontana in direzione
delle scale. «Mi
scusi-» Ma le mie parole sono bloccate. «Vado a
farmi una doccia.» Si volta appena «Non andartene a
curiosare in giro. Chiaro?» Il suo sguardo
è un fucile a canne mozze che mi ha appena sparato dritto al
petto.
«Signor Huntsman, non oserei mai.» E gradualmente
sparisce dalla mia vista.
Sprofondo le dita fra
i capelli e mi poggio con i gomiti sulle ginocchia. Ma che diamine stai
facendo? Non è questo il modo di portare avanti
un’indagine!
Sono troppo stressato. Ho bisogno di una vacanza, di una dannatissima
vacanza lontano da Ystad, da Kurt, da Lisa e da tutto il resto. Volevo
lavorare sull’omicidio di San Pietro, ed invece sono qui in
casa
di uno che di cognome fa “Cacciatore”!
Respiro a fondo. Questo fuoco mi sta ustionando.
Mi sfilo la giaccia e la getto sul divano. Poi mi
alzò ed inizio a passeggiare avanti e indietro con le mani
sui fianchi.
Devo ragionare: posso andarmene, non ho motivo di rimanere.
Sì, posso farlo, anzi, devo farlo. Aspetterò che
finisca la doccia, per educazione, e poi mi congederò come
avrei dovuto fare da un pezzo. Rispetta il piano,
Magnus, e non avrai problemi.
Rallento i passi fino a fermarmi. Sposto lo sguardo
sull’enorme
camino e poi lo faccio vagare in giro. Questa casa è grande
per
una persona sola, ed Eric Huntsman è una persona sola.
Almeno
così ha detto.
Una casa grande e spoglia. Non un quadro sulla parete, non una foto.
Niente di niente. Muri vuoti e mal tinti, pavimento privo di
tappeti e mobilia che ha visto più anni di me.
“Mi sono
trasferito da poco.”
Da dove? Da dove si è trasferito? Da un’altra
città, o da un altro stato?
I suoi lineamenti non sono svedesi.
Potrebbe essere solo puro caso, eppure qualcosa mi dice che non
è così. La sua pelle è ambrata ed i
suoi capelli
rasentano l’ebano. Solo i suoi occhi tradiscono discendenze
nordiche. Sono azzurri come pochi altri che ho visto in vita mia.
Sarà per il contrasto con il suo viso - non so dirlo. Sono
magnetici, sono affascinanti. Sono pericolosi.
Senza rendermene conto, guidato dai miei pensieri, mi avvio verso la
cucina. Il suo monito è ora solo una lontana eco che la mia
curiosità tende di ignorare.
È ordinata, luminosa ed accogliente. Mobili color panna,
tende
arancioni alla finestra. Sul ripiano del lavandino, stoviglie pulite
che non sgocciolano più: una padella, due piatti, una
forchetta,
un coltello. Un solo bicchiere. Tutto ricorda la mia cucina, ma senza
le buste di cereali sparse in giro.
Ha quell’odore di solitudine, di cene silenziose e colazioni
veloci, di cui ritrovi i piatti sporchi al tuo ritorno,
perché
nessuno li ha lavati. Nessuno ti ha lasciato una lista della spesa
attaccata al frigo e nessuno ti ha tirato le orecchie perché
hai
dimenticato di prendere il latte.
La vita di Eric Huntsman somiglia alla mia, eppure mi sembra
più
triste. Ma in realtà non la conosco e sono certo che lui non
muoia dalla voglia di raccontarmela.
Sfioro con le dita la tovaglia plastificata sul tavolo e traccio il
contorno dei grossi girasoli gialli dipinti sopra. Sorrido; era dai
tempi di mia nonna che non ne vedevo una simile. Sono certo non
l’abbia acquistata lui, ma che si trovasse già
qui. Non ce lo vedo Eric Huntsman andare in giro per casalinghi a
scegliere tovaglie di plastica! Anche se la cosa sarebbe divertente: la
sua espressione corrucciata mentre soppesa la scelta fra i girasoli
gialli e le pigne d’uva viola...
Scuoto la testa passandomi le dita sugli occhi. Basta fare simili
fantasie.
Torno nel soggiorno caldo e nudo, e guardo il divano senza provare
desiderio di sedermi. Mi ha detto di non curiosare in giro, ma io sono
un poliziotto! Curiosare fa parte del mio mestiere. E poi
sarò
silenzioso e rapido come un felino, e lui non se ne
accorgerà.
Credo. Più che altro lo spero.
Raggiungo le scale e guardo in alto. Non sento alcun suono.
Inizio a salire lentamente ogni piolo di legno facendo scivolare il
palmo sul passamani liscio, e lentamente il rumore dell’acqua
accresce nelle mie orecchie.
Dopo diciannove scalini, sono al piano superiore.
Stretto corridoio ed una porta sul fondo. Sulla destra, quattro altre
porte chiuse ed una dietro di me, poco dopo un piccolo gomito di muro.
Lo scroscio dell’acqua viene dal fondo, ed è anche
l’unica porta da cui si intravede la luce.
Potrei dare un'occhiata in giro, magari aprire una di queste porte e
scoprire se questo Huntsman nasconda qualcosa. Forse i pregiudizi della
signora Fustern non sono infondati. Cerco di pensarla così,
perché non voglio credere che le mie prossime azioni siano
solo
frutto di una natura inspiegabilmente curiosa verso
quest’uomo.
Non sono neanche arrivato ad ipotizzare dove possa essere la sua camera
da letto, che sento il getto chiudersi. Accidenti!
Mi irrigidisco e butto giù un groppo di saliva ed ansia.
Devo
scendere prima che lui esca, se mi trova qui farò la fine di
quei ciocchi di legna!
Scivolo giù dalle scale cercando di non fare troppo rumore,
e
torno a sedermi sul divano. Il calore del soggiorno pare aumentare di
secondo in secondo, ma stavolta sono certo sia colpa
dell’ansia
di poc’anzi.
Mi avvento sulla lattina di birra, ormai imbevibile per via
della
temperatura troppo alta, e la tracanno senza prender fiato. Peccato non
sia alcolica, mi sarebbe stata di certo più
d’aiuto.
La bevo fino all’ultima goccia e con uno sbuffo esausto la
poggio
sul legno accanto a quella già vuota. La lattina di Eric.
Mi ritrovo a fissarla. Un pensiero mi attraversa la mente e lascio la
mia per prendere l’altra. C’è
ancora qualche
goccia, come in ogni fondo di latta. La scuoto appena e vedo brillare
l’ambra del liquido. Faccio scorrere gli occhi
sull’etichetta, ma in realtà non la sto leggendo.
Mi sto
chiedendo perché provi l’inspiegabile desiderio di
bere
quel residuo di birra caldo. Mi sto chiedendo perché un
omaccione di quasi due metri con dei modi alquanto bruschi e scostanti,
mi desti tanta curiosità ed interesse.
La guardo ancora per qualche attimo e poi la poggio sul tavolino. Mi
lascio affondare con le spalle al divano mentre mi tiro indietro i
capelli.
I miei ricci... Ha detto di non aver mai visto un poliziotto con i
ricci.
Non so perché, ma mi viene da sorridere.
«Che idiota... » sospiro appena. Ma non so
realmente a chi dei due sia diretto.
Quando Eric Huntsman
scende in soggiorno, ha
una felpa pesante color fumo, con il cappuccio sul retro e due
cordoncini bianchi che ricadono sul collo. Altri jeans dal colore
più chiaro, ed i capelli sciolti ancora umidi. Sembra meno austero,
sembra quasi
più disposto al dialogo. Mi chiedo se sia il caso di
emettere
tali sentenze per via di un paio di indumenti, forse sarebbe
più
opportuno concentrarsi sulla maniera con cui tirarmi fuori da questo
mezzo casino. Rimane in
piedi a guardarmi con le mani sprofondate nelle
tasche della felpa. «Poteva fare
con calma.» Mi riferisco ai suoi capelli, credendo che abbia
deciso di non asciugarli per risparmiare tempo. Accenna ad un sorriso
-che riesco a decifrare come un: "non credere che mi sia
precipitato per te. La verità è che non vedo
l'ora che te ne vai da casa mia."- e li tira dietro
l’orecchio senza dire nulla. Una ciocca sfugge comunque al
suo controllo e finisce con il rigargli una guancia. Sembra una
criniera nero pece, ed i suoi occhi già pericolosi, sono
diventati ora quasi letali. «Che altro
vuoi sapere? Non
voglio portarti fretta, ma dovrei pranzare.» Fra la barba
scura,
il suo sorriso sembra sfavillare. Non è un sorriso generoso.
Eric Huntsman è un uomo avaro di sorrisi. Sono accennati,
tirati, quasi più una smorfia che altro, eppure nel suo modo
di
piegare le labbra, c’è un che di
estremamente intrigante. Esci
da questa casa, Magnus. Ora! Subito! «Mi scusi,
ha ragione.»
Mi alzo e stavolta riesco a seguire i miei stessi consigli.
«La
ringrazio per la collaborazione, signor Huntsman.» Ed infilo
il
blocchetto degli appunti nella tasca posteriore dei pantaloni.
«Non avevi da chiedermi nient’altro?»
Osservazione
corretta, anzi impeccabilmente corretta, e sono nuovamente preda di una
soffocante agitazione. Nella sua testa sono certo stia balenando la
domanda: “perche diavolo ha aspettato seduto qui se non
doveva
chiedermi più nulla?”. Sarei curioso
anch’io di
conoscere la risposta, dato che non ho la più pallida idea
di
quale essa sia.
«No. Credo che possa bastare così, signor
Huntsman.» Afferro la giacca e la indosso «Se per
caso
dovesse ricordarsi qualcosa, anche solo un piccolo dettaglio, me lo
faccia sapere.» Annuisce. «La ringrazio per la
birra.» Mi avvio verso la porta e sento i suoi passi alle mie
spalle. Caldo,
ancora caldo nonostante
l’aria fredda che proviene dall’esterno. Varco la
soglia e
mi volto per allungargli il biglietto con il numero della centrale.
«Chieda del detective Martinsson.» No, non farlo, ti prego! «Ok»
alita vago
afferrando il biglietto e guardandolo con diffidenza. I suoi capelli
umidi odorano di mandarino. Usa uno shampoo al mandarino? Non mi
sembra il tipo. Dovrei andarmene, ma resto a fissare la sua nuca
finché non rialza lo sguardo. «Non ricordo il tuo
nome.» «Magnus.
Magnus Martinsson» scandisco lentamente. Non ricorda il mio
nome. La cosa
non mi sorprende, ciò che mi sorprende è il
perché
la sua dimenticanza mi abbia irritato. Non sono così
egocentrico
da pretendere che le persone si ricordino di me. Sono solo un soldato
di un esercito anonimo. Siamo distintivi e pistole. Siamo
turni e
rapporti. Siamo “bastardi” e
“salvatori”. Eric Huntsman non ha
l’obbligo di ricordare il nome di un tizio che gli
è
piombato in casa per fare domande sulla sua vicina poco simpatica.
Eppure, Magnus Martinsson, sperava che lo facesse. Scendo le scale e mi
avvio verso il
cancello. Getto un occhio all’auto e memorizzo il numero di
targa. Non so perché, abitudine, presumo. Non mi soffermo a
chiedermi se ci sia dell’altro.
Quando svolto per la strada, mi
accorgo che Eric è ancora sulla soglia. Le mie gambe vanno
più veloci finché non raggiungo
l’abitazione della Fustern. I due agenti sono ancora sul
posto. «Io torno
alla centrale. Informatemi se ci sono novità.» Il
ragazzo annuisce e salgo in auto. Ho un numero
imbarazzante di
domande che mi affollano il cervello e nessuna di esse riguarda il
caso. Nessuna di esse riguarda il mio lavoro. Mi confondono, mi
agitano. Mi terrorizzano. Quando sfreccio
davanti alla casa di Eric, lui è già rientrato.
Continua...
NdA. Innanzitutto, un grazie enorme per aver apprezzato la
storia, o meglio, la sua idea. Onestamente non mi aspettavo tanto
successo. Perciò, ancora Grazie!
Spero vivamente di riuscire a portarla avanti con il piede giusto. Per
ora, ho un mucchio di idee che non riesco neanche a scrivere tutte per
quanto veloci viaggiano nella mia testa @_@
Beh, mi auguro che anche questo capitolo sia stato di vostro
gradimento. La storia ha un ritmo abbastanza lento e spero non vi
dispiaccia. In verità, non mi piace affrettare le cose, ma
voglio che tutto si svolga nel modo più
“reale” possibile. E poi, se proprio volete
prendervela con qualcuno, prendetevela con Magnus che ha il cervello
fritto dai sensi di inferiorità e complessi peggio di suo
cugino Loki!
Il terzo atto dovrebbe arrivare a breve (credo)!
Vi auguro una felice fine ed uno spettacolare inizio di anno ^^
kiss kiss Chiara
«Sono due giorni che lo
aspetto.» Lisa è irritata. «Lo
so, ma ho avuto le
testimonianze di Borg e di Maier solo ieri.» Alza lo sguardo
per
qualche secondo e poi lo riporta nuovamente sui documenti. «Va
bene, Magnus.»
Continua a sfogliare il rapporto che le ho consegnato con aria stanca.
Sono certo che stia pensando al caso di San Pietro. «Novità
su San
Pietro?» Sto quasi diventando patetico per quante volte ho
cercato di aprire il discorso sperando che mi dicessero di unirmi alle
loro indagini, ed in questo momento credo che Lisa stia pensando
più o meno lo stesso. Solleva gli occhi su di me e poi si
alza
dalla scrivania lasciando cadere il dossier su di essa. «Magnus,
non
considerarla una mancanza di fiducia nelle tue capacità, ma
il
vescovo Karlberg ha chiesto esplicitamente di Kurt.» Mi
ritrovo
ad irrigidire la mascella e sposto lo sguardo su due agenti appena
entrati. «Se avesse bisogno di te, lo sai, non esiterebbe a
chiedertelo.» Mi poggia una mano sulla spalla e torno a
guardare
il suo viso. «Kurt
non ha mai realmente avuto bisogno di me. Ed anche dopo che...
» Non continuo. «Non
è
così. Ti è grato per aver salvato la vita di
Linda.
Smettila di buttarti giù: sei un ottimo poliziotto! Non hai
bisogno che qualcuno te lo dica.» Forse invece ne ho bisogno.
Magari mi sarebbe bastato anche solo un grazie. «Come va con
il
furto ad Hedeskoga?» Cambi argomento, Lisa? Mossa
scontata, ma faccio finta di niente. «Niente
impronte, niente testimoni.... Solo un sospetto della donna sul suo
vicino.» Già, il suo vicino. «Ha
precedenti?»
Scuoto la testa. Lei pensa sia un no, in realtà è
un
”non ho ancora controllato, perché ho cercato di
non
pensarci.” «Fai qualche ricerca sul suo conto:
magari
ricavi qualcosa.» Mi sorride e si allontana. La seguo
finché non sparisce fra la ressa di persone che come al
solito
affolla il commissariato. Sospiro passandomi una mano dietro la nuca. Seimila
misere corone ed una
vecchia collana senza valore. Questo magro bottino mi ha già
causato parecchie grane. Se quei maledetti ladri avessero deciso di
derubare un’altra villa, a quest’ora non mi
ritroverei il
cervello ridotto ad un cubo di rubik! Mi verso
del caffè
nella tazza e mi avvio verso la mia scrivania. Oggi niente toast,
nessuno si è ricordato di comprarli. Non mi stupisco,
solitamente è un compito di cui mi faccio carico io. Ma
mentre ritornavo da Hedeskoga, sono riuscito solo a pensare a tutte le
assurde sensazioni che mi si erano riversate nello stomaco. Ansia,
agitazione, irritazione, panico. Curiosità. Famelica
curiosità. Prima era il caso San Pietro, ora è
diventato Eric Huntsman il centro attorno a cui vorticano i miei
pensieri. Il caso San Pietro detiene ancora il 70% della mia
attenzione, ma il fatto che minuto dopo minuto, ricordo dopo ricordo,
quel 30% cresca esponenzialmente, mi inquieta. E non poco. Morale
della favola? Facoltà cerebrali in panne e
difficoltà ad elaborare anche i pensieri più
semplici.
Sono già le 13 e
35. Butto giù un sorso di caffè ed osservo lo
schermo del mio pc. Non posso lasciarmi
imbottigliare così. Non è da me. Seguirò il
consiglio di Lisa e considererò Eric Huntsman solo un
possibile sospettato. Accedo
all’archivio della motorizzazione ed inserisco il numero di
targa della sua Ford.
Risultato: Ford Fusion del
2003 di proprietà di Gustav Ringdal.
Aggrotto la fronte e rileggo
più volte il nome. Gustav
Ringdal. Inizio a
mordicchiare la punta della penna dondolandomi sulla sedia. Eric Huntsman, cosa nascondi? Non risulta
nessuna denuncia
di furto per quest’auto, potrebbe essergli stata prestata,
oppure
Eric Huntsman non è il suo vero nome. Non ho controllato i
suoi
documenti e non ho fatto alcuna ricerca su di lui. Lisa ha detto che
sono un ottimo poliziotto, credo che in questo momento si rimangerebbe
quelle parole. La mia
curiosità cresce
ad ogni tasto che pigio, e dentro provo un certo sollievo pensando che
parte di essa sia dovuta alla necessità del caso Fustern.
Parte,
purtroppo, solo parte di essa.
Eric Huntsman: Nato ad
Edimburgo l’ 11 agosto 1983. Cittadinanza Scozzese. Madre,
deceduta. Padre, deceduto. Un unico
fratello, William. Nessun
altro familiare. Nessuna moglie.
[Battito
cardiaco leggermente accelerato.]
Rissa e disturbo della quiete
pubblica. Resistenza
a Pubblico Ufficiale. Guida in
stato di ebbrezza. Condanna a
14 mesi di
reclusione di cui solo sei scontati. Restante pena commutata in
servizio pubblico svolto presso l’istituto St. George di
Edimburgo. [...]
Faccio
scorrere gli occhi ed ogni informazione è un tassello del
puzzle. Il quadro inizia a prendere forma. È il quadro di un
uomo fatto di fiamme, che prende fuoco e si incendia facilmente. Un
uomo che nasconde dietro quella ostentata diffidenza, un vortice nero e
corrosivo. Un uomo che sembra essere niente di più di una
testa
calda dal pugno facile. Un uomo
come tanti, di quelli
a cui ho messo le manette tante, troppe volte. Eric Huntsman non sembra
più un mistero. Eppure la mia curiosità per lui
non
è diminuita, al contrario si è triplicata. E la cosa è
altamente nociva. Continuo a
leggere oltre e mi
soffermo sulla foto segnaletica, in cui il suo viso è liscio
ed
i capelli corti. Sembra un ragazzino, non sembra
l’uomo che
ho incontrato stamattina, che aveva un mondo celato nelle iridi di
ghiaccio ed una storia non raccontata fra le leggere rughe sul viso
perfetto. Eppure le date non mentono, ed oggi quel ragazzo nella foto,
ha solo qualche anno di più. Cerco
informazioni su Gustav Ringdal, ma non trovo nulla. Deve essere
incensurato. «Magnus,
non hai preso i toast oggi?» Sollevo gli occhi sul viso di
Anne-Britt. «Potevi
farlo tu.» «Credevo
che te ne
saresti occupato come al solito.» Come al solito.
È questa
la cosa che mi manda in bestia. «Me
ne sono
dimenticato.» La sento sospirare ma riporto lo sguardo sullo
schermo. Ho già abbastanza problemi di mio, non posso stare
qui
a fare l’addetto alle scorte del commissariato! «Chi
è
“Eric Huntsman”?» Non mi rendo conto che
è
alle mie spalle e mi sento attraversare la spina dorsale da un brivido.
«Riguarda il furto di stamattina?» «Sì!»
Risposta estremamente
veloce: denota una certa agitazione, probabile
sentore di colpevolezza. In momenti come questo, la
psicologia
spicciola del criminale mi fa sentire solo più idiota.
«È un potenziale sospettato.» Cerco di
recuperare
mentre tengo gli occhi fissi sulla foto. «Uno
scozzese
attaccabrighe! Sembra uno scontato cliché.»
Sorride ma non
riesco a rispondere al suo sorriso e sono grato che non possa notarlo.
«Buon lavoro, allora.» Ma la mia risposta
è poco
più di un borbottio indefinito.
Quando esco dalla centrale,
sono le due passate del pomeriggio. Il mio stomaco si sta contorcendo
in modo imbarazzante e la cosa non fa che peggiorare il mal di testa
che mi ha colpito da qualche minuto. Mi
infilo in auto
decidendo di fermarmi a pranzare da qualche parte. Non credo che un
panino mi sarebbe d’aiuto, meglio un pasto completo. Non so se
sia colpa del mio
subconscio, o solo una ritorsione karmica per non so quale azione
malvagia abbia commesso in passato, ma mi ritrovo al porto. Non posso
non ricordare che Eric Huntsman ha detto di lavorare qui, né
che
avrebbe iniziato il turno alle 14.00. C’è
un piccolo
ristorantino in cui decido di fermarmi. Entro ed il campanello sulla
porta suona sollecitamente. Non c’è molta gente.
Scelgo un
tavolo alla vetrata e mi siedo. Ci sono un
paio di traghetti ed una piccola nave mercantile. Una decina di uomini
in totale affolla il molo. «Buongiorno.
Cosa le
porto?» Una sorridente ragazza con un grembiule rosso mi
affianca. Capelli biondi tenuti indietro da una treccia e sorriso
gentile sul viso lentigginoso. «Il
menù del giorno andrà bene.» «Arriva
subito,
signore.» Mi sorride e si allontana. Non ho neanche dato uno
sguardo al menù, ma sinceramente non sono in vena di turismo
gastronomico. Poggio il mento nel palmo della mano e continuo a
guardare fuori. Scozzese,
nato e cresciuto ad
Edimburgo. Le mie considerazioni erano corrette: non è
svedese,
ma lo parla correttamente. Non ci sono inflessioni particolari nella
sua pronuncia, in caso contrario l’avrei notato. Il porto di
Ystad è
grande e dispersivo, quindi da un punto di vita prettamente logico, non
ho molte possibilità di aver beccato il molo preciso dove
lavora. Ma la logica mi fa decisamente difetto oggi, per cui mi lascio
cullare dalla speranza che invece sia così. Trascorre
una decina di minuti
e la cameriera torna con il mio piatto: spaghetti ai frutti di mare.
Credo di essere entrato in un ristorante che se non è
italiano,
ne ha la cucina. «Buon
appetito, signore.» «Grazie.» Sposto lo
sguardo sul piatto,
ma ciò che mi colpisce è il suo profumo. Lo
ispiro a
pieni polmoni e mi ricorda qualcosa, e senza che necessiti di una
domanda, la cameriera chiarisce quel mio dubbio: «Sono
spaghetti
di mare al profumo di agrumi. Specialità del nostro chef
Franco.» Mandarino...
Annuisco e cerco di non badare all’assurdità del
caso mentre lei si allontana. Affondo la
forchetta nel
piatto ed inizio a rotearla lentamente. Alla prima forchettata porto
ancora lo sguardo all’esterno. Il piatto è davvero
buono,
anche se quell’odore di agrumi mi distrae
dall’assaporare
al meglio il tutto. Un
traghetto è andato
via e il mercantile sta finendo le manovre per salpare. È
rimasto solo l’altro traghetto su cui una manciata di uomini
sta
sistemando delle casse. Inghiotto
gli spaghetti e temo di strozzarmi, perché fra le varie
teste, scorgo la criniera bruna di Eric Huntsman. Mi pulisco
le labbra con il
tovagliolo ed affino lo sguardo. Non posso essere stato così
fortunato. O sfortunato? Questo dovrò deciderlo in seguito,
credo. Sparisce per qualche istante dalla mia vista ma continuo a
cercarlo. Quando la piccola calca si dirada, lo ritrovo. È
lui,
non posso sbagliarmi. Indossa un giubbino verde mirto, ma riesco ad
intravedere la felpa grigia di questa mattina. Ha una cassa poggiata
sulla spalla destra e la sorregge con un solo braccio. Capelli
nuovamente tenuti indietro. Il piatto che si sta freddando davanti a
me, mi permette di rammentare ancora più chiaramente il loro
odore. Un uomo alla sua destra ha detto qualcosa e lui ha sorriso. Ora
Eric gli sta rispondendo e l’uomo ride. Mi ritrovo
a morire dalla
voglia di sapere cosa si stanno dicendo. Voglio ascoltare ancora quella
voce profonda che parla uno svedese estremamente corretto.
Eric ha
lavorato
sull’imbarcazione incessantemente. Ha caricato e scaricato
casse
di varia grandezza. Ha borbottato ed ha sorriso. Ha sorriso molto e
qualche volta ha perfino riso. Non sono riuscito a ritrovare
nell’uomo che faceva diligentemente il suo lavoro, il ragazzo
delle risse nei pub di Edimburgo. Non sembra la stessa persona. Forse,
non è la stessa persona. Alle 15.00
circa, ho ricevuto
una chiamata dalla centrale e sono dovuto andare via. Ho lasciato Eric
ancora sull’imbarcazione ed il piatto di spaghetti
praticamente
intatto sul tavolo.
Quando esco
dal commissariato
è ormai tarda sera. Non ho lavoro arretrato da fare, per cui
posso dire che la mia giornata è teoricamente terminata.
Ovvio,
devo scattare alla prima chiamata di emergenza, ma il mio cervello
questa sera si accontenta di nascondersi dietro una rassicurante teoria
priva di insidie.
«Magnus, vieni con noi? Andiamo a bere qualcosa.»
In
effetti mi farebbe bene, ma non credo che sarei una buona
compagnia. Una serata steso sul divano ad addormentarmi
davanti
all’ennesima replica di un poliziesco americano,
sarà di
certo una degna chiusura per questa giornata.
«La prossima volta.» Affondo le mani nelle tasche
della giacca e mi avvio verso l’auto.
Mi immetto nella statale principale di Ystad. Il nero inghiotte
l’asfalto illuminato a salti dalla pallida luce dei lampioni.
Sembra una notte serena. L’aria è pungente, ma il
cielo
è un’unica enorme costellazione priva di nubi.
Accendo la
radio dell’auto ed una canzone di qualche anno fa risuona
nell’abitacolo freddo. Il mio riscaldamento è
rotto e
sarebbe ora di aggiustarlo. Per adesso posso resistere, ma quando
arriverà il freddo assiderante di dicembre, non
avrò
altra scelta.
Sul sedile accanto ho gettato il piccolo dossier che ho stilato questo
pomeriggio. Il soggetto è ovviamente lui: Eric Huntsman. Mi
ritrovo a buttargli uno sguardo prima di riportare
l’attenzione
alla strada. Non avrei dovuto farlo, perché adesso,
benché il mio piccolo appartamento si trovi esattamente
dalla
parte opposta, non riesco ad impedire alle dita di inserire la freccia
per Hedeskoga.
Quando mi chiedo se sia la cosa giusta, sono ormai arrivato nei pressi
della sua abitazione.
Mi fermo in un sentiero fra i campi, esattamente a metà fra
la
villa della Fustern e quella di Eric. Nel gergo corretto, questo si
chiamerebbe appostamento, ma in realtà è
più uno
spiare grezzo e privo di morale, e sono abbastanza onesto con me stesso
da ammetterlo.
Fari spenti e musica sparita. Non c’è
null’altro che il ticchettio dell’ orologio e il
mio
respiro che si condensa nell’aria fredda. Le luci
esterne sono accese,
ma la Ford non c’è. Non deve ancora essere
tornato. Mi
ritrovo a picchiettare le dita sul volante mentre mi stendo contro il
sedile. Magnus, ma che diamine stai
facendo? Sorveglio
un potenziale
colpevole di furto! Peccato che io sia il primo a non crederci. Non sto
sorvegliano il signor Huntsman, vicino misterioso della vedova Fustern,
ma sto pateticamente spiando Eric, scozzese attaccabrighe dalla voce
profonda e dagli occhi pericolosi. Nelle mia
testa le percentuali sono drasticamente capovolte: San Pietro 20%, Eric
Huntsman 80%.
Sono le 21
e 47 quando la Ford
blu parcheggia lentamente davanti all’abitazione. Eric scende
ed
apre il portellone posteriore. Sta scaricando qualcosa. Assottiglio lo
sguardo e, grazie alla buona illuminazione della casa, riesco a non
avere troppa difficoltà nel vedere di cosa si tratta. Sono
assi
di legno e corde. Deve averle prese al porto. Mi chiedo a cosa gli
servano, ma dato lo scarno della sua abitazione, presumo che gli
necessitino per qualche lavoro di ristrutturazione.
È un
uomo che ama la manualità e di certo il suo fisico massiccio
gli
permette di fare qualsiasi tipo di lavoro. Non riesco a vedere il suo
viso. Troppe ombre, troppe dannatissime ombre me lo celano. Scorgo solo
i suoi capelli stretti nella coda e quell’inopportuna
agitazione
mi annega nuovamente lo stomaco affamato. Sono un idiota:
perché
non ho preso un take-away o qualcosa di simile? Fare appostamenti a
stomaco vuoto è una delle cose peggiori che possono capitare
ad
un poliziotto. Getto uno
sguardo alla villa
della signora Fustern. Il fatto che sia qui per motivi totalmente
estranei al furto che ha subito, mi fa sentire una persona alquanto
scorretta. Ma se scoprissi qualcosa sul suo conto, sarebbe un aiuto
anche per le indagini. Sì, continua a
ripetertelo, magari alla fine ci crederai davvero! Mi accascio
contro il volante
facendo attenzione a non cozzare contro il clacson, ci manca solo
che in questo silenzio tombale mi ritrovi a palesare la mia presenza
come l’ultimo dei pivelli dell’accademia. Eric
sistema le casse lungo il
muro della casa. È un tipo ordinato, il che non si direbbe a
prima vista. Ma quante cose non dovrebbero dirsi a prima vista.
“Non hai la
faccia da poliziotto.” «E
che faccia ho?»
mi ritrovo a chiedere nella solitudine dell’auto. La faccia
da
ragazzino, come dice sempre mia madre. La faccia di uno che non
mette timore, come diceva il mio istruttore, sentenziando che avrei
dovuto cambiare lavoro. Perché
se un cittadino non ti teme, non
ti rispetta. Ed il rispetto è ciò che fa di un
uomo, un
poliziotto. Forse è vero che la gente non mi
rispetta, i miei
colleghi me lo stanno dimostrando chiaramente.
Ma forse dovrei smetterla di annegare nell’autocommiserazione
e
fare un po’ di sana autocritica. Magari questa notte di
freddo e
solitudine a spiare un taciturno scozzese, potrebbe essere il momento
giusto per tentare di farlo. Non sono il miglior poliziotto della
Svezia, né tantomeno ho l’illusione di diventarlo.
Conosco
i miei limiti ma so anche quello che valgo.
Ho abbastanza sangue freddo per tenere puntata una pistola addosso a
qualcuno? Sì. Ho abbastanza sangue freddo da premere il
grilletto? Sì. Questo basta a fare un buon poliziotto? Forse
no,
di certo non basta per essere un uomo. Il sangue freddo non basta ed io
non ne ho neanche abbastanza per girare quest’auto e
tornarmene a
casa.
Ma forse è proprio questo il punto: il sangue. Il mio
è
diventato dannatamente caldo da quando ho incrociato quegli occhi, e la
verità è che voglio capire perché. Temo le risposte che posso
trovare,
rabbrividisco all’idea di quali verità possa aver
sepolto
inconsciamente per un’intera vita. Credo di poter capire solo
adesso quello che ha provato Svedberg[1].
I suoi silenzi, la sua vergogna. Stringo gli
occhi e mi abbandono ad un lungo sospiro. No, non posso crederlo. Non
voglio crederlo. Quando
risollevo lo sguardo, Eric ha appena chiuso lo sportello. Quando
rientrerà,
metterò in moto e me ne tornerò a casa. Domani
chiederò una vacanza a Lisa. Sono certo che non
avrà
problemi a concedermela.
Ore 22.05,
Eric Huntsman
è rientrato in casa e dalla finestra proviene una tenue luce
irregolare. È la finestra del soggiorno dove mi ha fatto
accomodare stamattina. Non c’è luce artificiale,
è
solo l’irradiazione del camino.
Me lo immagino seduto in silenzio davanti all’enorme brace.
Immagino il suo viso illuminato dall’arancio del fuoco, i
suoi
occhi in cui sfavillano le fiamme, i capelli forse sciolti che odorano
insospettatamente di mandarino. Sta stringendo una birra fra le dita, o
forse una tazza di tè. Potrebbe essere il tipo da
tè caldo? Non lo so,
ma quell’immagine mi scalda. Mi sento come se fossi seduto
nuovamente accanto a lui, sebbene il mio fiato annebbiato dovrebbe
rammentarmi che invece mi sto congelando il sedere in questa Volvo
priva di riscaldamento. Desidero essere seduto accanto a lui. Quei
trenta centimetri, adesso mi sembrerebbero anche troppi. Fisso la
luce di quella finestra per un tempo che pare infinito,
finché non si attenua. Sono ormai
passate le 23 quando, poggiato contro il sedile, mi addormento senza
neanche rendermene conto.
Continua...
[1] Sveberg era un
poliziotto che lavorava nella squadra. Nel 3°
episodio della prima stagione viene assassinato. Si scopre poi che
aveva
una relazione con un travestito e che era anche segretamente innamorato
di Kurt. [ndr. Roba che
manco Beautiful nei suoi anni migliori]
NdA. Nuovo capitolo e nuovi grattacapi per il nostro Magnus ^^
Ormai ho preso l’abitudine di aggiornare di domenica e credo
che per adesso la manterrò. IMPORTANTE:
Volevo informarvi che tutto ciò che sarà scritto
riguardo
a leggi, condanne e via dicendo è assolutamente
inattendibile.
Conosco a malapena il codice italiano, non so quindi quale sia quello
scozzese né quello svedese. Ho fatto un paio di ricerche ma
non mi assumo responsabilità per la veridicità di
quanto
riportato. Perciò prendete per buono ciò che
leggerete
senza farvi troppe domande. Ok? u///u L’ignoranza alle volte
giova! ^______^
Come al solito grazie a tutti voi che seguite, spero come sempre che
anche questo aggiornamento sia stato di vostro gradimento.
Ne approfitto per dire tack
a Sara che mi ha fatto dono di questa splenderrima gif.
L’alba deve essere
sorta da poco. Apro lentamente le palpebre avvertendo il fastidio di un
torcicollo che mi avvelenerà la giornata. Le dita sono
ghiaccioli di carne e sono quasi certo che i miei piedi non siano in
condizioni migliori. Mi stiracchio per quanto mi è
possibile, mentre cerco negli immediati secondi successivi, di
riattivare la totalità delle mie funzioni cognitive. Sono ad
Hedeskoga, a pochi metri dalla casa di Eric Huntsman (tormento delle
mie ultime ventiquattro ore). Ho la bocca
allappata e sono senza un goccio di acqua né
tantomeno di caffè. Fortuna che riesco a trovare dei chewing
gum nel vano portaoggetti, e ringrazio per questo. Lancio uno
sguardo al mio riflesso attraverso lo specchietto retrovisore ma
distolgo subito la vista.
Ho un aspetto orrendo. Mi sento orrendo. Porto gli
occhi all’abitazione di Eric e noto che la sua auto
è ancora lì. Starà dormendo?
Avrà il turno di mattina o di pomeriggio? E se invece fosse
il suo giorno libero? Ma
perché dovrebbe importarmene, poi? Ho già
sprecato troppo tempo. Se
è vero che la notte porta consiglio, quello che mi ha
sospirato nel freddo di quest’auto, è di lasciar
perdere tutto. Non ho avuto le risposte che cercavo, ma se fossi
realmente sincero con me stesso, direi che quelle che ho trovato non mi
sono piaciute. Devo
stargli lontano. Per il mio bene, devo mettere quanta più
distanza e quanto più lavoro fra me e lui. Venire qui non
è stata per niente una buona idea. Restare, ne sarebbe solo
una peggiore. Guardo
l’orologio: sono le sette passate da qualche minuto. Dovrei
fare un salto a casa prima di andare alla centrale. Una doccia
è d’obbligo. Una colazione quantomeno decente,
pure. Che se ne
vada al diavolo Eric Huntsman ed i suoi segreti! Afferro le
chiavi fra le dita e giro. Due secondi e l’auto si spegne. Colpa del
freddo, credo. Riprovo, ma
stavolta non si accende neppure. «Non
fare scherzi!» ringhio a denti stretti mentre ritento per
l’ennesima volta di mettere in moto questo catorcio che mi
ritrovo come macchina. Quando ottengo un altro fallimento, inizio a
battere nervosamente i palmi sul volante maledicendo tutto
ciò che mi passa per la mente. «’Fanculo!»
È il mio ultimo sfogo mentre mi ritrovo a passare le dita
sulla fronte. Devo solo chiamare un taxi e smetterla di perdere tempo. Magnus,
lascia perdere Eric Huntsman, lascia perdere il caso Fustern e chiedi
quella maledettissima vacanza! Infilo la
mano nella tasca dei pantaloni e tiro fuori il cellulare. Lo accendo, o
meglio, tento di farlo. «Non
è possibile... » Se non fossi un uomo e per giunta
un poliziotto, forse inizierei a piangere. Avanti, brutto aggeggio inutile:
accenditi! Forse
davvero c’è qualcuno che ce l’ha con me.
Forse in questo universo, c’è una forza mistica
che ama crogiolarsi nelle mie disgrazie, altrimenti non si spiegherebbe
perché accadano tutte e me. Getto il
cellulare praticamente morto sul sedile con uno sbuffo. Non ho il
carica batterie con me. Non ho acqua, con me. Non ho caffè,
con me. Non ho più pazienza, con me! Ho solo questa pistola
che sarebbe il caso di puntarmi alla tempia! Ma per fortuna, sono molto
lontano dall’essere un tipo da istinti suicida. Lo riprendo
infilandolo nella tasca. Apro la
portiera e non mi lascio il tempo di rabbrividire per l’aria
gelida del mattino. Sollevo il cofano e do uno sguardo al motore. La
metterò in moto! Farò partire questa carretta ad
ogni costo! Ma la
verità è che non ho la più pallida
idea di dove mettete le mani. Mi poggio
con entrambi i palmi sulla carrozzeria mentre un sospiro fra il
disperato e il limite dell’ira, abbandona la mia gola. Ora
sì, ho davvero voglia di piangere. Deve essere
colpa del freddo, su questo non ci sono dubbi. Ma come faccio a capire
come sistemarla? Sono un detective non un meccanico! Sono sul
punto di prenderla a calci, quando sento il rumore di un'auto che si
ferma alle mie spalle. Se non fossi stato così occupato a
maledirmi, mi sarei accorto da che direzione fosse arrivata. Mi sarei
accorto che era una Ford Fusion blu scuro. Mi sarei accorto che alla
guida ci fosse Eric Huntsman. «Sei
rimasto a piedi?» Mi volto incontrando un sorriso sghembo su
un viso stranamente rilassato nonostante sia mattina presto. Io sono
uno straccio. Quegli occhi pericolosi stanno guardando la faccia
stravolta e incazzata di uno straccio umano. «Signor
Huntsman!» Sono quasi certo che la mia voce abbia avuto una
tonalità più alta del normale. Ma la sorpresa di
trovarmelo davanti è stata alquanto destabilizzante. Mi ritrovo
a passare una mano fra i capelli mentre cerco di non pensare a
ciò che gli starà passando per la testa:
“Il tizio di ieri. Il poliziotto rompiscatole dai buffi
capelli ricci di cui non ricordo il nome”. Scende
dall’auto e lo vedo avvicinarsi lentamente. Mentre la sua
figura si fa più nitida, realizzo che sono a stomaco vuoto,
dopo aver passato una notte orribile in auto e senza aver fatto una
doccia. Oddio,
che odore avrò?! Tutto
ciò che mi salva è questa gomma alla menta che
sto tranciando in modo quasi ossessivo. «Non
parte?» «No,
non si accende.» Non mi guarda. La sua attenzione
è rivolta al cofano aperto e mi ritrovo a fissare il suo
profilo. L’espressione concentrata, le labbra semi dischiuse,
il suo orecchio destro che trattiene qualche ciocca di capelli
– capelli, come al solito, stretti nella coda. Bello. È
l’unica cosa che riesco a pensare in questo momento.
L’unica parola che rimbalza dolorosa nella testa e che mi
costringe ad ingoiare un sospiro decisamente inopportuno. Indossa il
giubbino verde di ieri, ma da sotto ha un maglione azzurro. Si
sporcherà, probabilmente. Non voglio che si sporchi a causa
mia, ma la mia lingua è frenata. Non
c’è suono nell’aria che non sia quello
della natura che ci circonda, che non sia il rumore delle mani di Eric
che armeggiano con il motore. «Prova
a mettere in moto.» Alza gli occhi su di me e per un solo
istante prego che non riesca a leggere ciò che giace in
fondo ai miei. «Va
bene.» Entro in auto e tento di avviarla. «Non
va.» Perché diamine mi sta aiutando? «Il
quadro è acceso?» «Sì.»
Fisso il metallo del cofano finché non lo vedo chiudersi.
Eric si poggia le mani sui fianchi scuotendo la testa mentre si passa
distrattamente la punta della lingua nell’angolo destro delle
labbra. Bello. Ancora una
volta il mio cervello è andato in crash. «Non
è la batteria. Probabilmente riguarda il motorino di
avviamento.» Resto a guardare le sue labbra muoversi ma non
capisco una sola parola di quello che dice. Non mi intendo di motori,
ma soprattutto, sono distratto da altro. «Ah...»
Credo che stavolta non sia riuscito ad impedirgli di leggermi nella
testa, perché lo vedo sorridere in modo divertito mentre si
pulisce le mani sui pantaloni. Deglutisco e stringo forte le dita
attorno al volante per qualche secondo. Non posso farmi giocare
così dalle emozioni. Prendo un
respiro profondo. Ok,
puoi farcela! Scendo e lo
raggiungo. «Credo
che tu debba cambiare le spazzole... » Si guarda le mani
prima di rivolgermi gli occhi ed un altro sorriso beffardo.
«E non mi riferisco a quelle per i capelli.» La sua
risata mi riempie le orecchie ed il resto del corpo. È
calda, profonda, avvolgente. Inspiegabilmente rilassante. Eppure non
posso ignorare che è una chiara presa in giro nei miei
confronti. «O devi cambiare l’intero motorino. Di
certo però, non è la batteria.» Non
sono ancora riuscito a dire niente, mentre lo vedo gettare
un’ultima occhiata al cofano ora chiuso. Devo almeno
ringraziarlo. Di cosa non lo so, se per aver tentato di rianimare la
mia auto o per avermi fritto il cervello nelle ultime ventiquattro ore.
No, nel secondo caso sarebbe più opportuno prenderlo a
pugni. Se solo non fosse così grosso, se solo non fosse
così... «Signor
Huntsman, io la ringrazio e... Mi spiace se si è
sporcato.» Con un gesto della mano gli indico i pantaloni ma
lui mi guarda alzando un sopracciglio. «Ero qui per
controllare la casa della signora Fustern... Sa, per
l’indagine.» Sento il mio naso allungarsi come
quello della fiaba, ma lui pare ignorare le mie parole ed alza appena
lo sguardo all’orizzonte. Il sole risplende fra le ciglia e
l’azzurro dei suoi occhi diventa un mare in cui annego senza
possibilità di salvezza. Non riesco
a trovare una riva a cui giungere. Non c’è niente
che possa impedirmi inesorabilmente di perdermi. Ed ho paura. «Fai
controlli a quest’ora del mattino, Magnus?» Non so
cosa mi abbia bloccato il respiro, se la sua osservazione acuta, se i
suoi occhi devastanti su di me, o il suono del mio nome pronunciato
dalla sua voce. Si ricorda
il mio nome. Non il mio cognome, non uno scontato e comune
“agente”. Ma il mio nome. Sono
patetico se trovo la cosa di estrema soddisfazione? «I
criminali non conoscono orari, signor Huntsman, e neanche i
poliziotti.» Sorrido quasi in modo liberatorio ed Eric
ricambia annuendo. «Signor
Huntsman... » Ridacchia sottovoce facendomi il verso, ma non
riesco a coglierne il significato. Un’altra presa in giro?
Cosa c’è di divertente in me? La mia faccia? La
voce? I capelli? Aggrotto le sopracciglia restando in silenzio per
qualche secondo. «Signor
Huntsman, io-» «Eric.»
Ora ho capito. Magnus,
sei un idiota! Vuole che
lo chiami con il suo nome, forse trova irritante che continui a
rivolgergli quel “Signor Huntsman” che invece per
me è diventato un’ipnotica cantilena. Devo dargli
del tu, me lo sta chiedendo, ma... Lo sento come un limite che non
dovrei superare. Non è una questione di etichetta
né sono stupidaggini sul ruolo. È un margine di
sicurezza. La mia. «Ehm...
Eric, io... » Ma a volte non puoi fare a meno di rompere gli
argini. «Ti ringrazio.» Ed aspettare che la piena
ti travolga. Sto
sorridendo in modo ebete, me ne rendo conto, ma non riesco ad impedire
alle mie guance di tirarsi. «L’hai
già fatto prima.» Sì, lo so. Dannazione, lo so!
Mi sto incartando. Sto ritornando a ieri e a quella sensazione di
disagio e soggezione. «E comunque io non ho fatto
niente.» Si batte le mani rumorosamente e si avvia verso la
sua auto. Lo seguo con gli occhi sentendo il battito accelerare e
diminuire allo stesso tempo. «Dovrai chiamare un
taxi.» Sospira abulico mentre risale in auto. Sì,
dovrei ma... «Il mio cellulare è scarico...
credo.» Mi guarda aggrottando la fronte e mi sento totalmente
in imbarazzo. Distolgo lo sguardo grattandomi nervosamente il lobo
dell’orecchio sinistro. Voglio sotterrarmi
all’istante. Sarebbe
lecito chiedergli di farmi fare una telefonata. A dire il vero,
l’ho appena fatto, anche se in modo molto indiretto e davvero
patetico. «Ma
che razza di poliziotto sei?» Suona come un’offesa
-un’altra- eppure non riesco a non sorridere e torno a
guardarlo. «Uno
molto sfortunato, signor Huntsman.» Stringo gli occhi
accorgendomi dell’errore. «Eric.» L’aria
gelida del mattino di Hedeskoga mi attraversa gli abiti, mi arriva alla
pelle e la fa rabbrividire, eppure non posso negare di avvertire un
tepore nascere da dentro. E non vorrei sentirlo. Eric
sorride in modo impercettibile e sposta lo sguardo davanti a
sé. Braccio poggiato fuori dal finestrino e dita a sfiorare
la fronte. «Ti
porto alla centrale?» So di non aver capito male. «Oh,
no! Non serve, mi basta fare una telefonata. Grazie.» Io
seduto nella sua stessa auto? Nel sedile accanto al suo? Con il solo
cambio a dividerci? No, no, no, no: non se ne parla! «Ti
porto alla centrale?» La sua espressione mi piega ancora
più delle sue parole. Eric
Huntsman è un tipo decisamente tenace. Non riesco
a tenergli testa e non capisco se sia lui o sia io. In fondo
è solo uno con una fedina penale per niente pulita. Non
è uno stinco di santo né sembra preoccuparsi
troppo di esserlo. Non dovrei farmi intimidire da qualcuno del genere,
anche perché ho visto criminali peggiori. Allora
perché? Cos’ha quello sguardo per farmi bloccare
la lingua ed i pensieri? È lui o è
l’effetto che hanno su di me? Sono io? «Eric,
grazie. Ma davvero, non preoccuparti. Mi basta fare una
telefonata.» Il mio è un sorriso di circostanza,
di quelli che piegano le labbra ma non gli occhi. Non so se
è così che l’ha percepito, ma sospira
scuotendo la testa. «Senti,
lo vuoi o no questo passaggio?» Stanco, annoiato, brusco,
decisamente al limite della pazienza. I suoi
occhi tornano a destabilizzarmi e sono incapace di muovermi, di
parlare, anche solo di respirare. La
situazione mi è decisamente sfuggita dalla mani. Una stupida
indagine per furto, si è trasformata -Dio solo sa come- in
uno spaventoso attentato a tutte le mie sicurezze. Un solo giorno ha
minato tutto ciò di cui ero certo, tutti i miei perni fissi
nel terreno, tutto quello in cui credevo. Tutto si è
frantumato. Vorrei
sapere come sono arrivato a questo. Vorrei sapere se esiste la
possibilità di tornare indietro. Vorrei capire come
può questo tizio, farmi un simile effetto. «Guarda
che non ho tutto il giorno.» Mi sento sul ciglio di un
burrone. Una sola parola, un solo passo e cadrò davvero al
di là del dirupo. Cosa mi aspetta sul fondo di questo
abisso, non lo so. Non so neanche se ci sia un fondo a cui giungere.
«Ehm...
» Tentenno. Non posso farlo. Non posso davvero farlo. «Se
vuoi fartela a piedi, accomodati.» Il rumore
del motore. Il fumo che esce dalla marmitta. Il freddo
di Hedeskoga, adesso riesco a sentirlo tutto. Le mie
gambe si muovono incuranti di ciò che urla la mia testa. Si
avviano verso la Ford blu, e le mani decidono di seguire il
loro cattivo esempio ed aprono lo sportello. Abbandono
l’auto fra le piane di Hedeskoga. Sul sedile del passeggero,
un pacchetto di vecchie chewing gum ed un dossier che porta il nome
“Eric Huntsman”. La mia
caduta è appena iniziata.
Continua...
NdA. In questo capitolo, Magnus, oltre alle pose, si
è sparato anche un paio di perle di saggezza, ma non
fategliene una colpa. Mettetevi nei suoi panni: non ci sta
più con la capoccia, porello u.u Eric rincitrullirebbe
chiunque.
Ad ogni modo, siamo in caduta libera. Ma prima di arrivare a sentire il
botto... beh, ce ne vorrà ancora.
Ora dopo il
solito sproloquio inutile, per voi, ho due notizie. Una
buona ed una cattiva.
La buona:
il prossimo aggiornamento sarà di Venerdì e non
di Domenica! (Spero vivamente la consideriate come buona XD)
La cattiva:
Sabato parto e non avrò né il tempo né
la possibilità materiale di aggiornare la storia *^*
Tornerò verso la metà di febbraio, forse, per cui
la fic resterà momentaneamente in stand-by.
Tenete in considerazione, comunque, che ho già abbozzato i
prossimi 4 capitoli, per cui appena avrò modo di metterci le
mani sopra, avrete l’aggiornamento.
Mi sembrava corretto informarvi, così non mi darete per
dispersa ^^'
Ed ora, come sempre, Grazie! Mi ripeto, lo so, ma
è l’unica cosa da dire visto l’affetto
che state dimostrando verso questa storia *w*
Kiss kiss Chiara
P.S. Dedico questo capitolo a mio fratello, l’espero di
meccanica a cui mi sono affidata per scrivere una scena appena
realistica.
Thanks, brother ^w^
Guida in stato di ebbrezza.
Quella voce dell’elenco mi lampeggia come monito nella testa.
Getto uno sguardo al
suo profilo, alla mano ferma sul cambio e a quella che tiene il
volante. Sei mesi di
reclusione, in Scozia
è questa la pena per quel tipo di reato. Da noi, se ne
sarebbe
fatto qualcuno di più. È
silenzioso. Eric Huntsman
è un tipo di poche parole, ma questo l’avevo
già
notato. Tiene gli occhi fissi sulla strada, ed anche quando mi parla
-rarissime volte- non sposta mai lo sguardo dall’asfalto.
Forse
ha imparato la lezione, forse semplicemente non ha interesse a farlo. «È
stata una fortuna
incontrarti, davvero» sospiro con un sorriso e lui conferma
tutte
le mie osservazioni annuendo appena sempre di profilo. «Sarei
potuto rimanere fermo lì per ore. Non sarebbe stato
divertente!» La mia risata è solitaria. Risuona
nel
silenzioso abitacolo e mi ritrovo ad inghiottire un groppo di disagio. «Che ci
facevi
lì?» Adesso mi guarda. Solo qualche istante, prima
di
inserire la terza e prendere una svolta. «Te
l’ho detto:
è per il furto della Fustern.» Mi ritrovo a
guardare fuori
dal finestrino, lontano dal suo sguardo palesemente sospetto. «Non capisco
quale sia
l’utilità di spiare una vecchia di prima
mattina... Ma non
sono affari miei.» Torna la quarta. «Non la
stavo spiando.» Non
stavo spiando lei. «Volevo solo avere qualche
risposta.» Da
te. Disegno più
volte con il
pensiero la linea della sua mascella. «Tu, quindi, ti intendi
di
motori?» Non trovo modo meno banale per cambiare argomento. Eric Huntsman: occhi
fissi sulla strada e labbra serrate. «Più
o meno.» Non continua il discorso e torna a coprirsi di
silenzio. Mi mordo
l’angolo interno della bocca cercando una calma amica,
perché effettivamente me ne serve molta. Da quando sono salito
in
quest’auto, sono stato tutto il tempo con il cuore in gola.
Ho
cercato di non pensare all’odore di vernice che invade
prepotente
l’abitacolo -qualche barattolo nel cofano, forse. Ho
cercato di non badare alla sua mano, che inserendo la quarta, mi ha
sfiorato il ginocchio. Ho cercato di non notare quanto appaia
ancora più insopportabilmente attraente alla luce aranciata
del
mattino, e soprattutto, ho cercato di ignorare le sensazioni
sconvenienti che mi si sono riversate nello stomaco. Ma ho fallito in tutto. Sapevo a cosa sarei
andato in
contro. Sapevo che non ne avrei ricavato nulla di buono. Sapevo che
forse mi avrebbe fatto male, ma ho voluto comunque buttarmi. Non mi resta che
essere onesto ed
affrontare la realtà. Non posso nascondermi dietro a bugie
che
provocherebbero solo altri danni. Se Svedberg mi ha insegnato qualcosa,
è che non si può vivere in un segreto. E per
quanto
difficile sia accettarlo, devo farlo: mi piace. Eric Huntsman, mi
piace. E molto. Ti
senti meglio? Non credo, anzi, sto
peggio,
perché non so se sarò ancora in grado di
guardarmi in
faccia. Soprattutto, non so come posso continuare a guardare lui. Forse
per questo tengo la testa rivolta a destra, contro il finestrino,
contro il verde dei prati che sfilano davanti a me. «Di solito
cerco di stare
alla larga dai poliziotti.» Ma le sue frasi sono
così rare
che non riesco ad ignorare quella sincerità, come non riesco
ad
ignorare la sua fedina penale. Mi volto a guardarlo. «Non mi
piacciono molto.» «E come
mai?» Resistenza a Pubblico
Ufficiale. «Fanno
troppe domande.» Mi ritrovo a ridere ed Eric fa lo stesso. Nella mia testa una
domanda che non
ho il coraggio di porre ma di cui, in verità, non necessito
di
risposta. L’ho già avuta, al nostro primo
incontro, e non
è stato più possibile dimenticarla: “non hai la
faccia da poliziotto.” Avrei altro di
chiedergli, vorrei
approfittare di questo breve momento per soddisfare la mia famelica
curiosità nei suoi confronti, ma non posso. Gli darei
conferma
di ciò che ha appena detto: i poliziotti fanno troppe
domande. «Ti
ringrazio ancora.» Mi limito all’unica frase che
non può avere effetti pericolosi. Eric annuisce ed
è di nuovo
silenzio. Stavolta è diverso, però. È
un silenzio
piacevole, di quelli che sono compagnia e non distacco.
Siamo arrivati quasi
al centro di
Ystad, quando mi rendo conto che ora ho davvero bisogno di una doccia!
Ma di certo non posso farmi accompagnare fin sotto casa mia. Sarebbe
inopportuno oltre che tremendamente imbarazzante –e
soprattutto
decisamente ambiguo. A due isolati dal
commissariato lo faccio fermare. Non voglio che mi
vedano scendere
dalla sua auto? Non lo so, anche se in realtà dubito
fortemente
che qualcuno si prenda la briga di monitorare i miei spostamenti. Non
sono così interessante. «Sei stato
molto gentile.
Davvero.» Gli offro un sorriso sincero ma lui mi restituisce
solo
due labbra leggermente sollevate da un lato. Scendo e chiudo lo
sportello. Pochi altri secondi per godere di quegli occhi azzurri. «Fai
controllare le
spazzole.» Non ho neanche il tempo per un
“ok”
, ché Eric Huntsman è già sparito fra
il traffico
mattutino di Ystad.
«Hai un
aspetto
terribile.» Anche dietro quella tazza di caffè,
riesco a
vedere il sorriso sulle labbra di Anne-Britt. «Lo so.
Grazie.» Getto la giaccia sulla sedia e mi siedo stancamente
sulla scrivania stropicciandomi gli occhi. «Nottataccia?»
Non le
serve una risposta. «Per colpa di cosa, o per meglio dire,
per
colpa di chi?»
No, il terzo grado di Anne-Britt di prima mattina
è proprio l’ultima cosa di cui ho bisogno.
Afferro un
dossier a caso dalla mia postazione e fingo di ignorare la domanda, ma
non posso fare altrettanto con la risposta che lampeggia isterica nella
mia testa. Lisa è
mattiniera come al
solito e la vedo dare direttive a destra e a manca con il suo consueto
tono gentile ma deciso. Kurt, invece, non riesco a scorgerlo. Forse non
è ancora arrivato, o sarà fuori su qualche caso.
Su San
Pietro, presumo. È l’unico caso di cui si sta
occupando.
Non gliene do colpa, deve essere dura fare luce in
quell’ingarbuglio di mezze verità che è
l’ambiente ecclesiale. Forse è il
tipo di
preoccupazione di cui necessito io. Quella preoccupazione che ti tiene
sveglio di notte, che ti fa dimenticare i pasti, che ti fa correre da
una parte all’altra della città al primo squillo
di
telefono. Quella preoccupazione che ti tiene la mente occupata e non
hai né spazio né tempo per pensare ad altro.
Sì,
è proprio quello di cui ho bisogno. Un chiodo scaccia chiodo
alla vecchia maniera. Sicuro ed efficace. Ma non ce
l’ho, e sono
abbastanza stufo di elemosinare. Non mi umilierò ancora
davanti
agli occhi di Kurt o Lisa affinché mi tirino nel caso. Sono
certo che ne salterà fuori uno anche per me. Sì,
Magnus, un po’ di ottimismo! Il telefono squilla,
ma stavolta
qualcuno mi precede. Ma come vuole la sorte, l’unica volta in
cui
non rispondo, è una telefonata per me. «È
la signora Fustern.» Anne-Britt mi passa la cornetta. Ed ora
cosa vorrà? «Sono il
detective Martinsson.» «Detective,
i ladri sono
tornati! Ne sono sicura. Vogliono portare via anche il servizio di
porcellana che il mio defunto marito mi regalò per il nostro
decimo anniversario! Deve fare qualcosa: mandi degli agenti o venga
lei. Non voglio che mi derubino ancora!» Un fiume mi si
riversa
nelle orecchie e mi ritrovo a passarmi le dita sugli occhi mentre
prendo un lungo respiro. «Signora
Fustern, si calmi, la prego. Cos’è successo?
Qualcuno le è entrato di nuovo in casa?» «Non
ancora.» Aggrotto un sopracciglio. «Che vuol
dire “non ancora”?» «Mi stanno
spiando. È
da ieri sera che mi spiano. C’è una macchina ferma
davanti
casa mia da ieri sera, detective! Faccia qualcosa! Volevo chiamare
prima, ma non ne ero sicura.» Ingoio
un’imprecazione e noto
che Anne-Britt l’ha carpita. Mi fa cenno con la testa per
chiedermi se è tutto ok ed io annuisco, anche se non posso
fare
a meno di gridarmi mentalmente idiota
da solo. «Signora
Fustern, è per caso un’auto grigia?» «Sì!
Vuole la targa?
Riesco a vederla da qui. È ferma proprio davanti casa
mia.» Ad essere precisi, è a quaranta metri da
casa sua,
ma credo che per una donna della sua età e con la sua vista,
questo sia un dettaglio di poco conto. «Senta, stia
tranquilla. Non sono ladri. È mia
quell’auto.» Si prende una piccola pausa. «È
sua? E perché la sua auto è davanti casa
mia?» Non
davanti, ma a quaranta metri! «Stavo
facendo una piccola
ronda per la zona. Volevo controllare che fosse tutto in ordine. Nulla
di cui preoccuparsi, signora.» Sto diventando un bugiardo di
grande talento.[2] «Oh, meno
male. Lei è
un proprio bravo giovanotto, detective!» Per fortuna non mi
chiede come mai l’abbia lasciata lì. «Ora stia
pure serena. La
polizia si sta occupando ampiamente del suo furto.»
Sì, la
polizia di Ystad, non certo io. E la cosa mi lascia un forte amaro
nella bocca. Un amaro che neanche questa dannata gomma può
cancellare.
Quando riesco a
tranquillizzare la
donna, torno ad accasciarmi sulla scrivania, prima che qualcuno mi
allunghi una tazza fumante di caffè annacquato. Dovrei
chiamare
un carro attrezzi e far portar via l’auto. «Non so che
ti sia successo, ma devi riprenderti.» «Grazie,
Anne-Britt.»
Non ho fatto neanche colazione. Ho avuto giusto il tempo di infilarmi
in bagno e di agguantare una ciambella fredda. «Buongiorno.»
Lisa
entra nella stanza con gli occhiali poggiati appena sulla punta del
naso. Mi scruta con un piglio dubbioso e sono pronto a ricevere
un’altra delicata osservazione. «Magnus,
tutto bene?»
Annuisco silente mentre mando giù un sorso di liquido caldo.
Ed
è pure amaro! Ma sono troppo esausto per alzarmi a prendere
il
dolcificante. «Non sei tornato a casa stanotte?» La
sua
voce mi arriva come un richiamo di mia madre. «Perché
me lo chiedi?» Non posso credere che si noti così
tanto la mia faccia da nottata-in-auto. Mi lancia uno sguardo
da sopra le lenti prima di sfogliare i documenti che ha in mano. «Hai gli
stessi vestiti di
ieri.» Non alza lo sguardo dalle carte «Di solito
non
indossi mai un maglione due giorni di seguito.» La risata di
Anne-Britt non mi sfugge. Così come non mi sfugge il
risolino
sulle labbra di Lisa. «A dire il
vero, ho fatto un
appostamento. Per il caso Fustern.» Altro sorso, altra
smorfia
per l’assenza di zucchero. «Un
appostamento per un caso
di furto? Andiamo Magnus, puoi dirlo se hai una fidanzata!»
Spalanco le braccia sconcertato e per poco il caffè non mi
si
rovescia. «Io non ho
nessuna fidanzata!» Magari fosse quello il problema. Magari... «Beh, non ci
sarebbe nulla di
male» sogghigna Anne-Britt prima di darmi una pacca sulla
spalla.
«Sei un tipo che può piacere a qualche categoria
di
donna.» Una perfetta offesa travestita da complimento. «Ho detto
che non ho nessuna fidanzata!» Mi ritrovo a ribadire in una
stanza ormai vuota. Abbasso entrambe le
braccia che
erano rimaste a mezz’aria calando lo sguardo sul liquido
scuro.
Riesco a vedere il mio stesso riflesso e mi lascio sfuggire un sospiro
fra il liberatorio ed il disperato. A dirla tutta, mi sento
più
disperato che liberato! Al contrario, ho un peso che mi lega la testa
ed il petto, e quel peso ha la voce profonda e gli occhi di ghiaccio.
«È
una Volvo
grigia.» Mi gratto la nuca con la penna che stavo
mordicchiando
un secondo fa. Devo ricordarmi di non farlo più.
«Sì, passo questo pomeriggio
all’officina...»
Spero solo che la spesa non sia eccessiva, ma sono quasi sicuro mi
andrà in fumo metà stipendio. «Credo
siano le
spazzole... » “E
non mi riferisco a quelle per i
capelli”... simpatico... «Magnus
Martinsson... Sì,
va bene. Grazie.» «Come sei
venuto a
lavoro?» Non faccio in tempo ad appoggiare la cornetta, che
la
voce di Anne-Britt, strozzata da un morso di qualcosa (credo sia un
toast), mi sbuca alle spalle. «Mi hanno
dato un
passaggio.» Taglio corto mentre riprendo a lavorare su un
profilo
che mi ha chiesto Lisa: il giardiniere di una famiglia facoltosa
sospettato di essere il mittente di alcune minacce verso la suddetta
famiglia. Batto i tasti del pc,
ma sento lo
sguardo indagatore della mia collega che mi brucia sulla guancia
destra. «Che c’è?» chiedo
senza spostare gli
occhi dallo schermo. Isak Ruddart, 63 anni.
Divorziato
da dodici e padre di due figli: Margaret e Liam. Lavora come
giardiniere presso i Arttberg da quasi quindici anni. «Com’è?»
Piccoli precedenti per furto risalenti a più di
vent’anni fa. «Chi?»
Devo stamparlo e poi consegnarlo a Lisa. «La tua
ragazza.» Ma per poco non cancello tutto. «Io non...
Ma come te lo devo
dire che non c’è nessuna ragazza?!»
chiarisco
fissandola dritto. Sorride mandando giù l’ultimo
pezzo di
toast (avevo ragione, era un toast) e annuisce. Non crede alle mie
parole. «È la verità»
sospirò
incrociando le braccia sulla scrivania mentre lei continua a guardarmi
sorridente. «Ok, Magnus.
Se lo dici tu.» Ma ovviamente non mi crede. Di nuovo. A parte che non penso
siano affari
di nessuno se abbia o meno una fidanzata, ma poi perché
dovrei
negarlo in caso fosse vero? «Senti,
perché dovrei
mentirti?» Voglio sinceramente saperlo.
Cos’è,
adesso oltre al titolo di factotum del commissariato, ho anche quello
di spara balle?! Fa un piccolo sospiro
e poi si
avvicina lentamente alla mia scrivania. I capelli perfettamente stirati
ai lati del viso e la piccola frangia che sottolinea gli occhi furbi.
«Allora? Secondo te mi vergognerei a dire che ho una
fidanzata?» insisto quando si poggia sulla mia postazione. Il
suo
sguardo è un misto fra il divertito ed il compassionevole, e
non
so dire quale dei due mi dia più fastidio. «Hai una
luce strana negli
occhi e... Sono più che certa che sia a causa di una
donna!» Mi spiace Anne-Britt, hai
toppato alla grande! Sospiro spazientito. «Non hai
altro da fare oggi? Che ne so, correre a scodinzolare da
Kurt?!» Pungo e voglio far male. «Non in
questo
momento.» Ma lei non raccoglie -diplomatica, come sempre- e
si
allontana con un’espressione ghignante sul viso. Sul mio, un
velo
grigio. Non so cosa sia, ma
pesa come un
senso di colpa. Non ho fatto nulla di male, a nessuno. Ed allora
perché sento questo peso sullo stomaco? Mi vergogno di
essere
attratto da un uomo? Certo! L’idea che Eric Huntsman abbia un
tale effetto su di me mi sconcerta e mi terrorizza, ma non so
perché mi senta come se fosse una mia colpa. Non dovrei
sentirlo. Come potevo sapere che sarebbe accaduto? Avrei potuto
impedirlo? E come? Mi arruffo i capelli e
fisso lo
schermo senza realmente guardarlo. Ho bisogno di staccare, almeno una
mezz’ora; una doccia fredda ed un cambio di vestiti, e
sperare
che il mio cervello torni a funzionare.
Dopo aver chiesto a
Lisa una pausa -ovviamente concessa, perché il commissariato
di Ystad non
piange mai la mia mancanza dato che non mi chiamo Kurt Wallander- ho
preso una volante e sono tornato a casa. Telefono in carica e
getto
d’acqua sulla testa. Non gelido, perché nonostante
la
volontà, il freddo vince su tutto. Caldo e rilassante, di
quelli
che dovrebbero sciogliere le tensioni ed alleggerire i problemi. Ma per
mia sfortuna, Eric Huntsman non è né una tensione
che si
scoglie né un problema che si alleggerisce,
tutt’altro.
È
un tarlo che nonostante l’acqua, sa nuotare benissimo.
Continua...
[1] Jag gillar honom
è una frase svedese. [ndr.
vi invito a trovare il significato su Google a fine lettura ^-* ]
[2] Un bugiardo di
grande talento è una piccola citazione
fangirlosa tratta da THOR.
La
battuta precisa detta da Thor a Loki è:
“Sei un bugiardo di grande
talento, fratello. Lo sei sempre stato.”
[ndr. ma questo, lo
sapevate già ^^]
NdA.
Come già preannunciato, il prossimo capitolo
arriverà fra
un po’. Odiatemi se volete, non ve ne farò una
colpa
ç_ç
Questo però lo voglio dedicate a tutte voi, che seguite con
così tanto entusiasmo questa storia.
Mi rendete orgogliosa di
ciò che scrivo e mi date la carica per continuare! Siete
delle
lettrici (e lettori, caso mai ci fosse qualche maschietto fra di voi,
ma ne dubito XD) fantastiche!
I vostri commenti mi fanno sempre sorridere e non mi fanno sentire sola
in questa folle ossessione “con la permanente” ^^
Spero di tornare ad aggiornare quanto prima *w* e farò il
possibile per riuscirci!
Vi bacio tutte e, siccome non so se riuscirò a rispondere
alle
eventuali recensioni, ne approfitto qui per dirvi Grazie di
cuore!
Ora vado prima che mi scappi pure la lacrimuccia >.<
kiss kiss Chiara
P.S.
Neanche Magnus ha preso molto
bene la notizia del piccolo stop...
Mi
sto ancora frizionando i capelli con l’asciugamano, quando
sento
il vociare della tv che ho acceso qualche minuto fa. Per la precisione
è la voce di Lisa e la sua dichiarazione rilasciata ieri
circa
le indagini sull’assassinio di San Pietro. Afferro il
telecomando
ed aumento il volume di qualche tono. «...
Non stiamo
lasciando nulla al caso ed il commissario Wallander sta lavorando con
la migliore squadra di polizia di Ystad... » Ah, ecco. Ho
scoperto perché non ci sono anch’io. Spengo la
tv con un gesto seccato e preferisco tornare in bagno per asciugarmi i
capelli. Il rumore
del fohn non riesce
tuttavia a sopraffare i miei pensieri e le mie emozioni, che sono
diventate un ingarbuglio difficile da districare. Molto più
di
questi dannati capelli. «Aho!» mi ritrovo a
borbottare
quando rimango incastrato con l’anulare in un paio di
ricci. Do uno strattone e non mi curo del sottile spago
biondo
che è rimasto attorcigliato al dito. Stupidi capelli! Prima o poi
vi raserò! Ed il viso
di Eric torna a fare capolino nei miei occhi. Ormai non
c’è
alcun pensiero che possa fare in cui lui non riesca ad infilarsi in
qualche modo. Se penso che qualche ora fa ero nella sua macchina, non
so cosa provare. Imbarazzo? Disagio?
Appagamento? Eccitazione? Ma è quest’ultima che mi
crea
più problemi, perché non posso ignorare le
fantasie
inopportune che mi hanno assalito mentre ero sotto la doccia. Il
profumo dei suoi capelli, il ricordo del suo sorriso, della sua voce
che sospirava il mio nome. La sua mano che sfiorava il mio ginocchio...
Spengo il
fohn e mi poggio con
entrambe le mani sul lavabo. Ho lo sguardo calato perché la
mia
faccia non riesco a guardarla. So che è bollente ed
arrossata, e
so anche che non è per l’aria calda con cui mi
stavo
asciugando la testa. Non ho mai
avuto fantasie
né interesse per un altro uomo. Mai. Non ho grande successo
con
le donne, questo è vero, ma è solo questione di
incontrare le persone sbagliate nel momento sbagliato,
perché a
me piacciono le donne. Lo so per certo. Non sono un... uno di
quelli! Non lo sono! «Come
hai fatto a
ridurti così?» mi ritrovo a sospirare amaramente
al mio
riflesso, avendo conferma di ciò che pensavo: le mie guance
sono
in fiamme ed i miei occhi lucidi. Ed il vapore che ricopre la lastra
non basta a celarmi quella macabra
verità. Accarezzo
il mio petto nudo
allo specchio e non riesco a non provare una vena di tenera tristezza
mentre penso al suo. Atletico, tonico. Perfetto. Io al confronto sembro
un ragazzino che ancora non è entrato nella
pubertà! Che
sia solo mera ammirazione la mia? L’ammirazione di un uomo
verso
un altro uomo, una sorta anche di gelosia? Mi piacerebbe fosse
così, ma -ahimè- non lo è. I miei
desideri
non vertono sull’avere un corpo come il suo, quanto sullo
sfiorare
quel corpo con il mio. E questa onesta ammissione mi incendia e mi fa
rabbrividire allo stesso tempo. So che per
il mio bene dovrei
stare alla larga da Eric Huntsman, ma non ci riesco. Vorrei andare al
porto per vedere se è al lavoro, vorrei tornare sotto casa
sua e
rubare qualche altro attimo della sua vita. Vorrei dirgli ancora grazie
per questa mattina e vorrei avere ancora i suoi occhi su di me. Ma Volere e Dovere, come
sempre, non sono mai dello stesso parere.
Quando
torno in centrale, noto
un fervore collettivo che spadroneggia
nell’aria. Non riesco a capire cosa sia. Sto salendo le scale
per
andare da Lisa, quando incrocio Anne-Britt che scende in direzione
opposta con un’espressione inasprita sul viso. «Ma
che succede?» chiedo quando mi supera di qualche gradino. Si
volta ed alza di poco il viso per guardarmi. «C’è
stato
un incidente nei pressi della stazione ferroviaria. È un
casino
e sono tutti mobilitati.» «Stai
andando lì?» Un "casino" è quello che
mi ci vuole. «No,
io... » Si
passa una mano sulla fronte. È decisamente spazientita.
«Sto andando al porto. Ci sono dei disordini e, siccome tutti
gli
agenti sono impegnati, tocca a me.» Adesso puoi capire come mi
sento due volte su tre in questo commissariato?! Ma la mia
attenzione
non è sfuggita al luogo in cui è diretta. Il
porto. Disordini,
porto. Il nome di
Eric mi verrebbe naturale anche se non ci fossero di mezzo complesse
implicazioni di dubbia (ed imbarazzante) natura. «Vengo
con te!» Non ci penso due volte. Scendo quei pochi gradini e
le sono accanto. «Sicuro?»
Annuisco. «Va bene, allora andiamo con la mia auto,
ovviamente.» Ovviamente.
Durante il
breve tratto che ci
separa dal porto di Ystad, non posso fare a meno di notare quante
dannate coincidenze si siano susseguite da quando sono stato
assegnato al furto Fustern. Qualcuno direbbe che è
destino,
ma io non
credo molto a queste scemenze. Sono un tipo più pratico.
Voglio
un caso interessante su cui lavorare ed una pacca sulla spalla di tanto
in tanto. Il destino e roba simile sono riservati alle ragazzine ed
alle casalinghe che sognano davanti alle soap. Io devo continuare a
chiamarle coincidenze. «La
chiamata è
arrivata qualche minuto prima del tuo arrivo. Credo siano i soliti
marinai che hanno alzato troppo il gomito.» Anne-Britt guida
tenendo lo sguardo ridotto a due fessure per coprirsi dal sole. E se fra
quei marinai ci fosse
anche Eric? È una storia che potrebbe calzargli alla
perfezione,
o per lo meno, è perfetta per quel ragazzo senza barba dalla
sguardo incazzato. Non voglio
che si trovi in
mezzo ad una rissa... o forse sì? Il mio desiderio di
vederlo
è davvero così forte da non curarmi della sua
incolumità? Sono così egoista? «Perché
sei voluto venire con me? Non volevi un caso importante su cui
lavorare?» «Finché
il caso non arriva, meglio tenersi occupato. Non credi?» «Il
furto Fustern ti ha
già stancato, eh? Ti capisco.»
Sposto lo sguardo al finestrino mentre mi passo l’indice fra
le
labbra. Non rispondo. Non saprei cosa dire oltre a qualche altra frase
fatta. «Hai poi scoperto altro su
quell’Huntsman?» Ma
stavolta non la posso ignorare. Anne-Britt come sempre ha una memoria
d’acciaio. «Nulla
di che. Non è stato lui, comunque.» «Gli
hai parlato?» Incrocio i suoi occhi e poi li riporto davanti
a me. «Sì,
ma non
è lui.» Non dovrei dirlo con tutta questa
sicurezza, ma
è qualcosa che sento a pelle. Ho detto di non credere a
stupidaggini come il fato ed il destino, ma all’istinto credo
ciecamente, e l’istinto mi dice che sebbene Eric Huntsman sia
pericoloso, soprattutto per la mia salute mentale, non
c’entra
nulla con la faccenda del furto. «Kurt
crede che il prete
ucciso avesse una relazione.» Il caso San Pietro! La
mia
attenzione è tutta sulle labbra di Anne-Britt. «Un
delitto passionale
quindi?» Il mio tono tradisce la smania di sapere e la rabbia
per
non essere stato inserito nella squadra, e non mi sforzo neanche di
nasconderlo. «Forse.
Kurt non ne
è sicuro, ma pare che il prete avesse una storia con un
giovane
seminarista francese. Stanno cercando di rintracciarlo
perché ha
lasciato la città qualche giorno fa. Se la faccenda fosse
vera
farebbe saltare fuori un bel casino!» Mando giù in
groppo
di sorpresa e disagio. No, Magnus, si chiamano
coincidenze, non è destino! «Una
storia...
gay?» La voce mi si incrina sull’ultima parola ma
lei
sembra non farci caso. Annuisce e si infila nella strada per il porto. «Forse
qualcuno li ha
scoperti o è stato proprio il giovane. Kurt ci sta lavorando
senza sosta.» Anne-Britt ha sempre avuto una forte
ammirazione
per Kurt, un po’ come tutti al commissariato, ma nella sua
voce
ho sempre avvertito anche altro. Non so cosa sia, se una sorta di
infatuazione, o un riflesso di una figura paterna che le è
mancata. Non sono stato mai bravo a capire le persone, è uno
dei
miei limiti. Semplicemente mi manca quel guizzo per entrare nella testa
della gente. Kurt riesce a farlo, entra in empatia con tutti, anche
Anne-Britt possiede questa capacità, mentre io ho sempre la
sensazione che chi mi sta di fronte non voglia farmi entrare.
C’è un muro di vetro che non riesco mai ad
infrangere.
Lisa dice che certe cose si imparano sul campo, io credo che invece
siano capacità innate. Mi auguro di sbagliarmi.
Siamo
appena giunti al porto,
quando una calca di persone rumorose ci si presenta davanti. Mentre
Anne-Britt parcheggia, inizio istintivamente a cercare Eric. Non
dovrebbe essere difficile individuarlo, è uno che si staglia
sugli altri come fosse una statua di granito[1]. Sono in
totale una quindicina
di uomini. Statura varia, di età che va dai venti ai
cinquant’anni. Ma lui non c’è. Niente
giacca verde
mirto, niente coda, niente occhi di ghiaccio. Un liquido amaro mi
scende nello stomaco. È quella che si chiama delusione. Scendo
dall’auto e seguo
la mia collega verso il gruppo. Al centro della ressa, due
uomini che stanno chiaramente litigando, attorno, altri che si
dividono fra istigatori ed aspiranti pacieri. «Polizia
di Ystad!
Fermatevi!» dichiara a voce alta Anne-Britt, ma viene
platealmente ignorata.
Mi faccio largo fra la folla e cerco di arrivare
al centro. «Fermi!
Polizia!»
Mostro il distintivo ma ricevo solo qualche occhiata vaga per poi
venire sfacciatamente ignorato anch'io. L’uomo alla mia
destra è
poco più alto di me, fisico massiccio e capelli corti neri.
Di
fronte gli si oppone un uomo basso e tarchiato con un berretto
arancione a coprire quella che sembra una testa calva. Si tirano per la
maglia ingiuriandosi a vicenda e tento per l’ennesima volta
di
divederli. «Ho detto di fermarvi!» alzo ancora la
voce
afferrando l’uomo moro per un braccio, ma senza che me ne
renda
conto, vengo colpito allo zigomo destro da un pugno, o un gomito? Non
ho la prontezza per stabilirlo, né tantomeno per
evitarlo. Un colpo
secco. Brucia,
pulsa, fa un male cane! Perdo
l’equilibro e mi
ritrovo accasciato con la schiena contro un paio di uomini dietro di me
che per fortuna mi sostengono. Mi porto la mano sulla guancia
stringendo i denti. Per poco non mi beccava l’occhio. «Basta!»
Anne-Britt interviene e si infila fra i due, e con un gesto deciso di
entrambe le braccia riesce nell’impresa in cui io ho
pateticamente fallito: li divide e li placa. Una donna
che è la
metà di me, con lo sguardo da cerbiatta, è
riuscita a
zittire due omaccioni che a me hanno dedicato solo un paio di sguardi
tirati ed un pugno in pieno viso! Decisamente
oggi, non è giornata.
«Tutto
ok?»
Annuisco e continuo a tenermi la borsa con il ghiaccio poggiata sulla
guancia. Mi alzo dal muretto di cemento su cui mi ero poggiato e guardo
verso i due uomini che stanno parlando con gli agenti accorsi dopo di
noi. Verranno portati alla centrale. Prima di toccarmi era una blanda
rissa, adesso passeranno un brutto quarto d’ora.
«Non
dovrebbe gonfiarsi troppo.» Le dita di Anne-Britt mi sfiorano
lo
zigomo e automaticamente mi ritraggo con una smorfia. Fa male. Sono
davvero poco virile in questo momento, ma fa dannatamente male. «Il
piccoletto aveva una
relazione con la moglie dell’altro?» Mi concentro
sulle
parole per sfuggire momentaneamente all’incendio che sento
sulla
faccia. «Pare
di sì.
Avrei detto il contrario... » Ma non riesco a ricambiare quel
sorriso. La guancia mi duole, il mio orgoglio per la figuraccia di poco
fa, anche. E tutto questo non è servito a niente: Eric
Huntsman
non è qui. «Meglio rientrare.» Annuisco.
Guardo il
sacchetto del ghiaccio con ancora una punta di stizza, e lo lascio sul
muretto. Anne-Britt
si è
già avviata verso l’auto, ma io sono ancora fermo
a
guardare i due che rilasciano le dichiarazioni agli agenti,
ovviamente a debita distanza l’uno dall’altro.
Riesco anche
a sentire qualche parola, ed è proprio quando alle mie
orecchie
giunge un nome che non mi è nuovo, che mi ritrovo ad
aggrottare
la fronte. «Gustav
Ringdal è
il mio capo. Può chiedere e lui, agente-» Mi avvio
verso
l’uomo basso e calvo e lo interrompo. «Ha
detto Gustav Ringdal?» chiedo. Mi guarda incuriosito ed
annuisce. «Detective,
vuole fare qualche domanda lei?» «No,
voglio solo sapere dove posso trovare questo Ringdal.» «È
su quel mercantile adesso.» E mi indica una piccola nave a
cento metri. Forse non
è stato un viaggio a vuoto.
Gustav
Ringdal è un
uomo magro, molto magro, quasi scheletrico. I vestiti gli cadono
malamente addosso: pantaloni lerci e vecchi, ed un maglione che pare un
cencio strausato. Sul viso una barba rada grigia ed un sigaro fra i
denti. Capelli argentei corti sotto un berretto blu. Il viso segnato da
una ragnatela di rughe, opera del tempo e del sole, della dura vita di
mare. Mostra più anni di quelli che ha realmente.
Probabilmente
è sulla sessantina. Tiene
entrambe le mani
nelle tasche della giacca impermeabile che gli copre le spalle ossute,
e mi fissa come fossi un piccolo moscerino fastidioso. Forse lo sono. «Sì,
Eric
Huntsman lavora per me.» Voce roca e bassa che stona
decisamente
con la sua fisicità esile. «Gli ho prestato la
Ford
perché aveva bisogno di un'auto e a me non serviva
più.» Una nuvola di fumo mi annebbia la vista per
qualche
attimo. «Si è messo in qualche guaio per
caso?» «No,
assolutamente.» Sorrido cortese ma con quest’uomo
è
una tattica che non prende. «Sto indagando su un furto che ha
subito una sua vicina e mi sono ritrovato a controllare la sua auto, ed
ovviamente è saltato fuori il suo nome, signor
Ringdal.»
Ammetto. «Eric
è un bravo
ragazzo. Voi poliziotti rompete sempre le scatole alla gente
sbagliata!» Un colpo di tosse ed un’occhiata di
disprezzo. «Erano controlli
di routine. Non sto creando problemi al signor
Huntsman.» Non so perché mi senta in dovere di
giustificarmi con quest’uomo scontroso. Forse
perché nelle
sue parole riesco a leggere un velo di verità, o
semplicemente
perché mi sembra il caso di assecondarlo. «Oggi
Huntsman
non lavora?» chiedo cercando di essere il più
distaccato
possibile. Gli occhi vitrei del marinaio mi scrutano fin dentro le ossa
ed un groppo di saliva mi scende in gola. «Ha
il turno alle 14.00.» «Da
quanto lavora per
lei?» Ma stavolta decide di non rispondermi e si limita a
tagliuzzarmi con lo sguardo. «Sono domande che devo fare,
signor
Ringdal. Cerchi di capire. Sono solo poche domande, poi
scenderò
da questa nave e non le darò più fastidio. Glielo
prometto.» Anne-Britt è già tornata
alla centrale.
Le ho detto che dovevo seguire una pista per il furto Fustern, e tutto
sommato è una mezza verità. Per tornare
prenderò
un taxi, sempre che quest’uomo non decida di gettarmi in
acqua
nel chiaro intento di annegarmi! «Da
circa quattro
mesi.» Ma Gustav Ringdal è un uomo
inaspettatamente
paziente e gliene sono grato. «Si presentò una
mattina con
una faccia annoiata e la voce grossa. “Mi hanno detto che
puoi
darmi un lavoro, vecchio” mi disse.» Accenna ad un
sorriso
«È stato il modo più schifoso di
cercare lavoro che
abbia mai visto... Forse per questo ho deciso di prenderlo con
me.» Altro fumo, altra tosse. «È un
ragazzo
volenteroso. Non parla molto, ma quando si sta in mezzo a tanti idioti
che sparano cazzate per otto ore di fila, qualcuno che conosce il
valore del silenzio è una benedizione!» Non riesco
ad
impedire alle mie labbra di piegarsi all’insù. Il
disegno
di quest’uomo di Eric è quanto mai preciso. Lo
conosce da
più tempo di me, eppure mi ritrovo nei suoi pensieri. Mi
sembra
di portare una vittoria a mio favore. Contro di chi, non saprei dirlo. «Non
ha mai creato problemi? Che so, risse, discussioni con i
colleghi?» Ride e scuote la testa. «Le
discussioni sono
all’ordine del giorno -guarda che è successo oggi-
ma Eric
è uno che ne sta alla larga. Se fossero tutti
così i miei
uomini, sarei un bastardo veramente fortunato.» Sento lo
zigomo
pulsare ma cerco di non badarci. «Signor
Ringdal, sa cosa faceva prima di lavorare per lei. Le ha mai detto
niente?» «Senti
ragazzino, ti ho detto che è uno che parla poco. Secondo te
mi ha raccontato la storia della sua vita?!» Stavolta il
colpo di tosse parte dalla mia gola, ma non è colpa di
quarant’anni di fumo, ma di un imbarazzante disagio che
neanche faccio caso al "ragazzino".
«Ehm... Volevo dire se c’è altro che sa
dirmi su di lui... Qualsiasi cosa andrà bene.» La mia ossessione psicotica si
soddisfa con poco.
Fa una smorfia con un sonoro sbuffo con cui percepisco tutto il suo
disinteresse al discorso.
«So che è scozzese e che ha mollato tutto qualche
mese fa per venire a vivere in questo buco di merda. Per quale motivo?
Non ne ho idea e francamente non me ne frega niente! Ora, ragazzino,
devi scendere. Io devo lavorare e non posso perdere altro tempo dietro
alle tue stronzate da poliziotto!»
Incasso, ringrazio e torno al molo.
Prima di salutare Gustav Ringdal, gli ho chiesto cortesemente di non
riferire ad Eric Huntsman della nostra chiacchierata. Mi ha detto che
non l’avrebbe fatto: “Okok, basta che ti toglie
dalle scatole!” sono state le sue parole precise.
Mi sembra un uomo sincero ma, non so perché, non credo che
manterrà fede alla sua promessa. Un brutto
presentimento? Chiamatelo semplicemente istinto.
Continua...
[1] Una statua di granito:
questa frase vuole essere un omaggio alla dichiarazione fatta da Tom su
Chris in cui lo definiva, per l’appunto, come fatto di
granito. [ndr. Diamogli
torto...]
NdA.
E dopo un intero ciclo di lune [oramai parlo come quel cerebroleso di
un puffo] sono riuscita ad aggiornare questa storia.
Spero che a qualcuno sia rimasta la curiosità e lo stomaco
di continuare a leggerla XD Dal canto mio, ho passato fin troppe notti
a scribacchiare il continuo sul squadernino a righe da terza elementare
acquistato per sbaglio, per arrestarmi dal continuare questa insolita
fic!
Ho tracciato l’intera sinossi della storia e quindi devo solo
svilupparla. L’unico appunto è che potrebbe essere
più lunga del previsto, ma non fasciamoci la testa prima di
cadere (o prima di farcela rompere da qualche marinaio cornuto!)
Ad ogni modo, vi ringrazio come al solito e perdonatemi se non ho
risposto alle vostre recensioni >///<
Al prossimo aggiornamento ❤
kiss kiss Chiara
«Hai
ancora un bel livido, Magnus.» Lisa è di buon
umore oggi.
Beata lei, io al contrario ho i nervi a pezzi. «Almeno si
è sgonfiato...» «Già.»
Ribatto
svogliatamente mentre tamburello la matita sul tavolo leggendo
l’ennesimo rapporto stilato nella notte.
Oramai è passata
una settimana dalla rissa al porto. Una settimana di notti insonni. Una
settimana, da quando ho visto Eric per l’ultima volta. «Ti
dà un’aria
più virile.» Alzo lo sguardo sul suo viso alla
ricerca di
una vena di ironia, ma non la trovo. Dovrei cercare meglio, o dovrei
imparare ad accettare che alle volte ciò che si dice non ha
per
forza un altro significato dietro. Ma non ho la volontà di
fare
né l’una né l’altra.
«Sei più
silenzioso del solito. Problemi di cuore?»
Lisa è sempre
stata il lato materno della squadra. Come una buona madre sa quando
essere rigida e dura e quando abbassare il tono ed addolcire lo
sguardo. Ma al contempo, come una madre, ama impicciarsi delle faccende
personali dei figli.
Problemi di cuore?
Magari fosse
solo il cuore. I miei sono problemi di cuore, di stomaco, di testa, di
coscienza, di vergogna, di paura. Io stesso mi sento un problema
ambulante. Siamo solo noi due in
ufficio.
Anne-Britt e Kurt sono fuori e Sven è alla scientifica.
È
una giornata calda, di quelle che ti fanno dimenticare che è
quasi novembre e che presto si batteranno i denti. “La quiete
prima della tempesta”, è così che si
dice. È da qualche tempo che io sono in attesa della
tempesta, perché ho la netta sensazione che presto mi si
scatenerà contro violentemente, e mi chiedo quanto sia
pronto ad affrontarla. «Ultimamente
soffro di
insonnia. Sono solo stanco. Tutto qui» rispondo alla sua
domanda
con gentilezza, perché non è giusto che getti le
mie
ansie sui colleghi, su di Lisa soprattutto. Mi si avvicina e mi
poggia la mano sulla spalla. «Se hai
bisogno di qualche giorno, non farti problemi.» Le sorrido ed
annuisco. «Grazie, ma
preferisco
tenermi occupato.»
Così ho meno tempo per pensare. Non
c’è bisogno che lo aggiunga, perché dal
suo sguardo
capisco che ha sentito ugualmente quelle parole non dette. Poi uno squillo di
telefono spezza il nostro muto discorso. «Martinsson.»
Lisa si
allontana e resto solo nell’ufficio così
insolitamente
silenzioso. Dall’altro capo è Sven. «Magnus,
cercavo te.» Strano! Non sto lavorando su alcun caso
importante e mi chiedo di cosa voglia parlarmi. «Dimmi.»
Spero solo non
sia una specie di messaggio da consegnare ad altri -Kurt- probabilmente
irrintracciabili al momento. «I miei
ragazzi hanno trovato
tracce di DNA su quei mozziconi di sigaretta.» Il furto
Fustern!
Avevo completamente dimenticato quel particolare. Alcuni agenti li
avevano trovati nel giardino, e a me non è passato
neanche per l’anticamera del cervello di sollecitare la
scientifica. Sono sorpreso si siano presi la briga di analizzarli, in
fondo è solo un piccolo caso di furto. Ma come dice Lisa:
“ogni caso è importane per le vittime
coinvolte”.
Dovrei imparare ad essere meno cinico su alcune cose. «Quando
puoi, passa da me.» «Oh,
certo... Grazie Sven,
almeno ho qualcosa su cui lavorare.» Riaggancio e mi lascio
sfuggire un sospiro.
Per colpa dei miei casini personali, sto mettendo
al secondo posto il lavoro. Il mio lavoro è la mia vita, ed
in
pratica la sto ignorando per infilarmi in quella oscura di qualcun
altro. Apro il cassetto in
basso a destra
della scrivania e rimango a fissare il dossier marrone con il nome
“Huntsman” scritto di mio pugno
sull’etichetta.
Dovrei comportarmi come in tutti i casi senza soluzione: archiviarlo.
Il problema è che non ci riesco. Lo afferro e lo apro.
Non
c’è nessuno in giro, e mi prendo tutto il tempo
necessario, ed anche oltre, per sfogliarlo e risfogliarlo. Ormai so
praticamente a memoria ogni pagina. Conosco il nome dei suoi genitori
defunti -Richard Huntsman e Viktoria Nilsson- ed ho scoperto che sua
madre era svedese. Nata proprio qui a Ystad ed emigrata in Scozia
appena ventenne. Questo spiega il suo svedese perfetto ed il
perché del suo trasferimento qui. Forse.
Perché tutto
quello che so su di lui proviene da archivi e da voci esterne. Non
conosco la sua versione, per quanto mi stia dolorosamente rendendo
conto, desideri conoscerla. Vorrei ascoltare dalla sua voce
l’intera storia della sua vita, in cui sono entrato come un
avvoltoio affamato senza neanche chiedere permesso. Il mio lavoro mi
permette di non avere troppi sensi di colpa per questo. Quando devi
scavare negli affari degli altri per trovare un assassino o peggio,
impari che non c’è posto per le questioni morali.
Eppure
in queste lunghe notti bianche, mi sono spesso chiesto se fosse il caso
di fermarmi. Di fare un passo indietro, un passo fuori. Ma non ci
riesco, perché in fondo, benché
inconsapevolmente, anche
Eric Huntsman è entrato con violenza nella mia di vita, ed
io
sto ancora cercando di metabolizzare quel suo devastante arrivo. Sfioro con le dita i
fogli,
percorro il contorno del suo viso nella foto. Mi soffermo su quegli
occhi che sanno intimidirmi anche dalla carta. Dov’è
finito questo ragazzo arrabbiato? Cosa l’ha cambiato, se mai
fosse cambiato? C’è
un grosso buco che
non riesco a riempire, e so che solo Eric può aiutarmi a
farlo.
Ma non gli sarò mai così vicino. Non me lo
permetterà, non me lo permetterei io stesso. Sto inseguendo una
chimera e
sprecando tempo ed energie in una ricerca che non ha praticamente senso
di esistere. Eric Huntsman è un caso senza vittime
né
colpevoli. In verità, non è neanche un caso. È solo il mio modo di affrontare
la cosa: considerarlo nell’unica maniera in cui fa meno paura
-e meno male-. Se iniziassi a pensare
a lui come
ad altro, come a qualcuno che ha preso un posto scomodo nel mio
cuore... Beh, sarebbe tutto ancora più difficile. Mi accarezzo
lentamente lo zigomo
dove c’è ancora un leggero livido rossastro. Non
fa
più male, ma è comunque fastidioso. Lisa ha detto
che mi
rende più virile, io penso solo che mi ricorda la figuraccia
che
ho fatto, quando mi sono fatto “battere” da
Anne-Britt.
È un promemoria del mio essere
un idiota, e sebbene fra qualche
giorno sparirà, il suo ricordo di certo ci
impiegherà un
po’ di più ad abbandonarmi.
I risultati della
scientifica non
mi sono stati di nessun aiuto. Non ho trovato alcun riscontro con
quelli del database della polizia. O si tratta di gente incensurata, o
quella sigaretta apparteneva ad un povero disgraziato che magari
l’ha gettata dal finestrino della sua auto. Sbuffo sonoramente e
chiudo lo
schermo del portatile. Oggi è un’altra giornata
vuota.
Nessun caso, nessun cambiamento: la solita calma piatta.
Anne-Britt non
è ancora tornata, avrei voluto sapere qualche altro
dettaglio
sul caso San Pietro. Ho abbandonato la speranza di entrare in squadra,
ma la curiosità verso quel misterioso omicidio è
ancora
vivida in me. Soprattutto dopo aver saputo della relazione fra la
vittima ed il giovane seminarista. Kurt è riuscito a
rintracciarlo, ma non so cosa abbia scoperto.
Un amore proibito che ha
portato alla morte di un uomo. Sembra il classico dramma
shakespeariano, eppure è vita vera. Storie di tutti i
giorni,
storie che non ti sembrano reali finché non le provi sulla
tua
pelle. Forse sbaglio ad avvertire certe similitudini, in fondo la mia
storia è molto diversa. A dirla tutta, la mia non
è
neanche una vera storia. Non c’è alcuna relazione,
proibita
o meno. Non c’è alcun amore pericoloso.
C’è
solo un’attrazione sbagliata verso qualcuno ancora
più
sbagliato. Non c’è alcun Romeo e Giulietta, ed in
ogni
caso, queste storie hanno tutte un pessimo finale. Ancora il telefono a
sollevarmi dai pensieri. Oggi mi sento più un centralinista
che un poliziotto. «Martinsson.» «Detective,
sono Amanda
Fustern. Non si è più fatto vedere. Volevo sapere
come
vanno le indagini. Scoperto niente sulla mia collana?» Erano
tre
giorni che non chiamava, iniziavo a preoccuparmi... «Signora
Fustern, le ho
già detto che quando avremo novità la
informerò
immediatamente.» Ma questa donna non ha nulla da fare,
ché
assillarmi? Se andiamo al fulcro della faccenda, è colpa sua
se
mi trovo in questo stato. Se non avesse iniziato a fare insinuazioni
sul suo vicino, non avrei mai conosciuto Eric Huntsman e la mia
esistenza sarebbe continuata serenamente. Più o meno. «Senta, mi
sono ricordata che
quel giorno ho visto un auto parcheggiata di fronte casa mia. Era nel
pomeriggio. Può essere utile?» Senza una targa
direi
proprio di no! «Sì,
mi dica cosa
ricorda.» Cerco di appuntare qualcosa ma non ho molta
convinzione. Il colore non basta, e la cara vedova non sa dirmi neanche
che tipo di auto era. «Se
può, passi da me
oggi. Volevo mostrarle qualcosa.» Aggrotto le sopracciglia
con
scetticismo. Non mi va per nulla di andare ad Hedeskoga.
L’ultima
volta la mia macchina mi ha tradito -ed il cuore? Neanche lui
è stato un granché fedele-, per non parlare della
nottataccia orribile al freddo! Non voglio avere occasione di
incontrare Eric. Non saprei come comportarmi. Non credo riuscirei ad
essere doverosamente distaccato. È stano come la brama di
sapere
impallidisca davanti all’opportunità di avere
risposte.
Sono un codardo? «Le offro una tazza di caffè. La
prego,
detective Martinsson, vorrei tanto parlarle di persona.» Ma
allo
stesso tempo non voglio che questa povera donna, a cui sto dedicando
davvero un impegno misero, si senta ancora più abbandonata. «Va bene,
signora Fustern. Passo da lei oggi pomeriggio. Va bene intorno alle
18:00?» «Oh,
sarà perfetto! L’aspetto, detective.»
Il mio primo
appuntamento dopo mesi è con una vedova sulla settantina...
Molto confortante.
Mentre guido per
arrivare ad
Hedeskoga, non riesco a non pensare a quel passaggio. Così
inatteso, così strano, così destabilizzante. Alla
fine il
meccanico gli ha dato pure ragione e ha dovuto cambiare le spazzole.
Ancora
non sono riuscito a capire che diamine siano! D’altro canto
non
è che mi interessasse poi molto ciò che diceva
quel
pancione sporco di grasso. La casa di Eric si fa
più
vicina ed automaticamente sollevo di poco il piede
dall’acceleratore. La macchina sussulta e sono costretto a
scalare anche di marcia. La Ford non c’è, deve
essere a
lavoro. Chissà se
Ringdal gli ha poi detto qualcosa della nostra chiacchierata... Mi sento quasi
sollevato e riesco a
parcheggiare davanti alla villa della Fustern senza troppe
complicazioni –sia tecniche che emotive. Chiudo lo sportello ed
infilo una
mano nella tasca dei jeans mentre con l’altra apro il piccolo
cancello. Deve essere in casa, così suono ed aspetto che mi
apra. «È
stato molto
puntuale, detective!» Un sorriso stampato sul viso ed un tono
fin
troppo gentile. Mi sento ancora più in colpa e piego le
labbra
quasi fosse una silenziosa richiesta di scuse. Devo ancora superare
la soglia
quando sento un forte rumore provenire dal piano superiore
dell’abitazione. Di istinto sollevo gli occhi verso le scale.
«Sto facendo rinforzare le finestre.» Mi chiarisce
la donna
mentre chiude la porta alle mie spalle. «Non voglio avere
altri
ladri. Lei mi capisce.» «Certo.»
Annuisco dando
ancora un’occhiata in alto prima di seguirla in cucina, la
piccola e fin troppo calda cucina. Sui fornelli due
pentole fumanti ed un profumo invitante che avvolge l’aria. «Stufato di
alce. Le piace?» «Oh, non
l’ho mai
assaggiato.» Sono costretto a togliere la giaccia per il
troppo
calore. La poggio sullo schienale di una sedia e mi accomodo. «Non ha mai
mangiato lo
stufato di alce? Dio, che cosa assurda!» Sorrido mentre la
piccola donna rigira il contenuto di una pentola con un grosso
cucchiaio di legno. Ha tolto gli occhiali che adesso penzolano sul
petto, di certo per evitare che il vapore li appannasse. «Mia madre
è
vegetariana. Ho sempre mangiato poca carne ed è
un’abitudine che mi sono portato dietro... » Quel
piccolo
aneddoto mi riporta ai giorni della mia infanzia e non posso fare a
meno di avvertire una dolce nota di malinconia annegarmi nello stomaco.
Mia madre e la tisdagssoppe del
martedì. Mio padre e il borbottare ad ogni cucchiaiata:
troppo
calda, troppo scotta, troppo sale, troppo poco. Era la prassi, almeno
finché non è andato via di casa. Poi le cene, che
fosse
martedì o meno, diventarono via via più silenziose[1]. «Assaggi,
su!» Mi ritrovo il cucchiaione fumante davanti alla faccia e
mi tiro indietro per non ustionarmi. «Oh, no, non
si preoccupi!» «Avanti.
Mangi!» Le
donne di una certa età sanno essere decisamente insistenti.
Onde
evitare di indispettirla, nonché di offenderla, avvicino le
labbra ed assaggio una punta di stufato. È buono anche se
sono
quasi certo che la mia lingua si sia bruciata. Avrei dovuto prima
soffiarci sopra. «È
buono, signora
Fustern. È un’ottima cuoca.» Annaspo
cercando di
combattere l’ustione che ho in bocca. Lei ridacchia lusingata
e
torna a girare nella pentola. Mi passo una mano sulle labbra. Miseriaccia, come
brucia! «Potrei
avere un po’ d’acqua, cortesemente?» «Oh
certo.» Quando mando giù il liquido freddo non
posso fare a meno di ringraziare.
«Cosa ha
fatto alla faccia?» «Niente.
È solo una
piccola contusione.» Odio questo livido, ed odio chi non si
fa
scrupoli a farmelo notare. «Dovrebbe
metterci del ghiaccio.» «Sta
già andando via.
Non ce n'è bisogno.» Bevo il caffè che
la signora Fustern
mi ha preparato -dopo avermi praticamente arso le papille gustative con
il suo stufato- e l’ascolto mentre mi racconta, ancora,
dell’auto sospetta di quel pomeriggio. Non
c’è
niente di utile nel suo racconto, ma lei sembra così
impegnata a
non tralasciare niente, che non ho il coraggio di fermarla. Prendo
anche qualche appunto, giusto per fare scena. Un nuovo rumore
proviene dal piano
superiore ed alzo nuovamente lo sguardo al soffitto, quasi fossi in
grado di guardarci attraverso. «Vado a
vedere come procede il lavoro. Può controllare che lo
stufato non bruci?» «O-ok»
sospiro
incredulo mentre lei sparisce in direzione delle scale. Ed ora mi tocca
anche fare l’aiuto cuoco. Abbandono il
caffè sul
tavolo e mi avvicino ai fornelli. Quando alzo il coperchio
della
pentola, vengo investito da un vapore intenso ed arretro di qualche
passo. Non sono previdente come la arzilla vedova e per poco non mi
ustionavo tutta la faccia! Avrebbe fatto pendant
con il livido... In cucina sono davvero
un disastro.
Sarà che è una vita che non cucino un piatto
decente.
Ormai vado avanti a take-away e piatti surgelati. Il microonde
è
diventato il mio alleato numero uno. Vita da single. Non voglio
però che la
Fustern mi bacchetti perché gli ho bruciato il suo prezioso
stufato, così prendo il cucchiaio ed inizio a girare. Ma
come
ormai pare di regola, al secondo giro il liquido schizza e mi finisce
sul maglione. Una bella macchia rossa giusto all’altezza
dello
stomaco. «Porca
miseria!»
borbotto afferrando uno strofinaccio e tentando di rimediare al danno.
Sospiro sonoramente e getto il canovaccio sul ripiano. Sarà
meglio che torni al mio caffè, sperando sempre che anche
quest’ultimo non abbia voglia di gettarsi gaiamente sui miei
vestiti! «Oh cielo,
si è
sporcato!» Non faccio in tempo a girarmi che mi ritrovo
davanti
il viso della signora Fustern. Ma ciò che mi sorprende di
più è la figura apparsa alle sue spalle.
«Vado a
prendere lo smacchiatore.» Non le sento davvero quelle ultime
parole, perché la mia attenzione è tutta rivolta
a quegli
occhi azzurri. «Eric?»
Un martello nella mano destra ed un’espressione indecifrabile
sul viso. Ecco la tempesta che
aspettavo.
Continua...
[1] Tisdagssoppe
è una tipica zuppa svedese a base di orzo e patate. [ndr.
Quest’aneddoto è di mia invenzione. Non so se nei
romanzi ci sia
qualche riferimento alla famiglia di Magnus, ma nella serie tv mi
sembra non essercene alcuno, perciò chiamatela
licenza poetica.]
NdA.
Ed ecco finalmente (ri)entrare in scena anche il nostro misterioso
vicino.
Perdonatemi
questo volgarissimo cliffhanger, sono la prima ad odiarli, ma al
contempo adoro usarli. Per la serie “coerenza? No,
grazie.”
Sono
felice che Magnus abbia un così nutrito numero di
sostenitrici *w*
Povera stella, ne ha bisogno visto che l’autrice che lo muove
ama
renderlo sfiga-scemo ogni capitolo di più.
Mi perdonate anche questo, vero? ^///^
Vi aspetto nel prossimo aggiornamento, dove sfiga-Magnus
avrà ulteriore occasione di fare e dire la cosa sbagliata.
Un abbraccio a tutte e come di consueto, ma non per questo non sincero,
un grosso Grazie
di cuore.
kiss kiss Chiara
Orrendo
livido sullo zigomo, macchia imbarazzante di sugo sul maglione,
espressione da ebete stampata sulla faccia. Dulcis in fundo, battito
cardiaco indecentemente accelerato. Cosa noterà
per primo? «Eric, che
ci fai qui?»
Certo non mi sono dimenticato che lui e la signora Fustern non sono
propriamente due vicini amorevoli l’uno per
l’altra. «Ti sei dato
alla cucina?» Macchia imbarazzante di sugo sul
maglione: ottima scelta! Un sorriso divertito
gli piega le
labbra mentre fa scivolare l’elsa del martello nella fibbia
della
grossa cintura che gli cade sui fianchi. Tiro un sorriso a
stento ma sento
le guance deformarsi in una smorfia che non ho il coraggio di
domandarmi come appaia ai suoi begli occhi. Magnus, contegno! «Stavo
girando il sugo e... » Ma
che fai, gli rispondi pure? Indico con il pollice
la pentola
alle mie spalle ma le parole rimangono incastrate nella gola,
parcheggiate fra un’imprecazione ed una richiesta di aiuto
divino. «Venga qui,
detective.»
La signora Fustern ritorna in cucina con un piccolo spray fra le mai.
«Fra dieci minuti non si vedrà più
nulla.» E
mi salva da un ulteriore imbarazzo. Credo. «Oh, non
doveva preoccuparsi,
signora.» Ma ha già spruzzato quella che sembra
della
schiuma bianca sul mio maglione. Abbasso lo sguardo sulla nuova macchia
e spero davvero che fra dieci minuti non si veda più nulla. «Ho bisogno
di altri
chiodi.» La voce di Eric mi si versa nelle orecchie prima che
lo
veda sorpassarmi ed uscire dalla porta che dalla cucina dà
sul
retro, con ancora un residuo di risolino divertito sulla bocca. Lo
seguo
con gli occhi e noto solo in quel momento la Ford blu parcheggiata.
Come ho fatto a non farci caso prima? Devono essere state tutte le
chiacchiere soporifere della gentile vedova... «Signora
Fustern, mi perdoni,
ma lei non mi pare avesse molta simpatia per il suo vicino. Che ci fa
qui?» Non lo
consideravi un pericoloso ladro? Eh? E mi hai pure
mandato a casa sua per complicarmi la vita, nonnina diabolica! «Oh,
detective!» Si
porta una mano al petto con fare scenico mentre poggia il coperchio
sulla pentola. «È un caro ragazzo. Sbagliavo a
considerarlo in modo così ingiusto.» Butto ancora
un
occhio all’esterno dove Eric pare intento a cercare qualcosa
nel
suo cofano posteriore. «Mi ha salvato la vita.»
Cosa? «Le ha
salvato la
vita?» Quando? Dove? Perché fra le miriadi di
chiacchiere
inutili non ha menzionato l’unica che aveva una minima
rilevanza? «L’altro
giorno la mia canna fumaria ha preso fuoco. Non può capire
che
spavento!» Si accomoda su una sedia passandosi una mano sul
viso.
«Non sapevo cosa fare. Non riuscivo neanche a chiamare i
vigili,
ero pietrificata dalla paura. Sono solo uscita in giardino in cerca di
aiuto. Ma come può vedere, è una zona molto
isolata. Eric
però deve avermi sentito gridare e me lo sono trovata
davanti
come un angelo.» Angelo? Non è proprio
l’appellativo
più consono ad uno come Eric Huntsman. Per me è
più simile ad un demone che si è impossessato
della mia
mente e su cui sembra inefficace qualsiasi esorcismo! Credo dipenda dai
punti di vista. «È stato tanto gentile…
Ed io che
lo consideravo un tipo pericoloso.» L’ultimo sembra
più un richiamo a se stessa che altro. Torno a guardare la
sagoma di Eric che chiude il portellone per rientrare in cucina. «Eric caro,
vuoi del caffè?» Eric caro? «Non si
preoccupi. Torno al
lavoro, così entro stasera avrò finito, signora
Fustern.» Ok. Da quando è diventato
così garbato e
gentile? Con quella che lui stesso ha definito una vecchia senza
simpatia?! Questi due hanno chiaramente intenzione di mandarmi in
confusione. Lo vedo sparire
nuovamente verso le scale e mi chiedo se ho abbastanza
lucidità per rimanere ancora in questa casa. «Mi
raccomando, detective,
non crei problemi a quel ragazzo!» Definire la mia
espressione
sconcertata è un eufemismo. «Signora,
perché mai
dovrei creargli problemi?» Ormai tutti mi considerano alla
stregua di uno stalker. Ma qualcuno si ricorda ancora che fra i vari
compiti di un agente di polizia c’è anche quello
di
indagare su ogni possibile sospettato? Sospettato, che fra
l’altro, è stata proprio lei ad indicarmi. «Non dia
importanza a quello
che le raccontai quel giorno. Sbagliavo. Eric non è un
ladro.» Ladro, forse no, di certo è uno che crea
parecchi
grattacapi, soprattutto a me. Prendo aria e con essa
il tempo necessario per acquisire un po’ di pazienza. «Può
stare tranquilla.
Ho fatto tutte le indagini necessarie e non c’è
alcun
motivo per ritenere il signor Huntsman implicato in qualche maniera nel
suo furto.» Sorride rasserenata e mi limito ad un cenno della
testa. «Ora, devo
andare.» Ho
bisogno di uscire di qui. Sono già stato sbeffeggiato
abbastanza. E le tintorie chiudono alle 19.00! «Di
già? Volevo
mostrarle prima qualcosa.» Non mi dà il tempo di
chiedere
nulla ché la vedo dirigersi verso un cassetto del salotto.
Assottiglio
lo sguardo per cercare di farmi un’idea di cosa stia facendo,
ma
non riesco a comprendere finché non torna da me con un
piccolo
portagioie di velluto rosso. «Questi sono gli orecchini di
mia
nonna.» Mi mostra due piccoli pendenti d’oro con
una goccia
di perla sul fondo. «Sono in completo con la collana. Era una
parure. Ho pensato che potessero essere d’aiuto alle
sue indagini.» «Perché
non hanno
preso anche questi?» Chiedo aggrottando le sopracciglia e lei
piega le labbra sottili in una
linea tirata tristemente in su. «Li avevo
portati dal
gioielliere per farli riparare. Questo aveva la chiusura rotta. Me li
hanno consegnati stamattina... Al mio povero Arthur piacevano
tanto.» Semplice
casualità. Beffarda, casualità. Un cimelio di
famiglia, uno di
quegli oggetti che sono un pezzo di noi. È questo per Amanda
Fustern la collana di sua nonna. Delle seimila corone non ha mai fatto
parola. Non gli interessa di altro che di quella collana.
Non ha figli,
non ha nipoti. Non ha nessuno a cui donarla, eppure la rivuole. Forse
rappresenta quella famiglia che l’ha lasciata. Suo marito
è morto anni addietro e lei è rimasta
sola in questa casa
isolata con tanti pregiudizi e tanta polverosa solitudine.
Non ho il
diritto di sminuire il suo dolore. Ho solo l’obbligo di
trovare
quei ladri e restituirle ciò che le appartiene. Raccolgo il piccolo
cofanetto con cura. «Grazie
mille. Saranno di
certo utili, signora.» Vedo i suoi occhi diventare lucidi
prima
che qualche piccola lacrima scenda lenta. È una
dimostrazione di
gratitudine che non mi merito. Infilo il portagioie
nella tasta
della giacca appesa alla sedia, e sono più che deciso a far
ritorno alla centrale e fare quanto in mio potere per ritrovare quella
collana. Per qualche attimo dimentico perfino che Eric Huntsman
è in questa stessa casa, al piano di sopra, ad armeggiare
con le
finestre. Dimentico che mi ha ridicolizzato di nuovo, e che per poco
non arrossivo come una verginella... «Detective,
potrebbe
cortesemente portare una tazza di caffè a quel
giovane?»
Ma la gentile vedova ci mette poco per rinfrescarmi la memoria. La
guardo con un piglio confuso che la sprona a darmi una spiegazione che
non posso che accettare senza possibilità di replica:
«Andrei io, ma non vorrei che si attaccasse lo
stufato.»
Non so
perché lo sto
facendo. Non so perché tengo stretta con forza questa tazza
contro il palmo della mano, senza curarmi del calore ustionante che si
riflette sulla mia pelle. Non so perché salgo lentamente
ogni
piolo con la stessa solennità di un condannato che si avvia
alla
forca. Forse
perché voglio
risposte, forse perché semplicemente voglio rivedere quel
sorriso. Magari la verità è che in me
c’è
una leggera vena masochista. Svolto
l’angolo e mi
incammino verso il rumore di martello che odo. Ogni colpo lo sento
rimbombare nella testa e nel petto. Quando sbuco davanti alla porta, mi
affaccio di poco, giusto per scorgere la schiena di Eric curva su di
un’asse. Busso con la nocca
dell’indice sulla porta aperta e lui si volta. «La signora
Fustern ti ha
mandato del caffè.» Allungo il braccio cercando di
essere
il più distaccato possibile. Tre sono i secondi che
mi dedica prima di riprendere a martellare. «Lars ti ha
lasciato un bel ricordino.» Una sottile risata segue le sue
parole. Lars Silvstedt
è il marinaio
che al porto ha litigato con Derek Bellman. Il marinaio contro cui non
ho poi più sporto denuncia, il marinaio che mi ha dato un
bel
cazzotto sulla faccia. È ovvio che Eric lo conosca.
È
altresì ovvio che la mia disavventura sia diventata
argomento di
dialogo fra tutti gli operai. Argomento su cui farsi due risate, potrei
aggiungere. «È
stato un
incidente.» Preciso percorrendo con gli occhi ogni piega che
prende la stoffa chiara sulla sua schiena. Eric continua a picchiare i
chiodi senza pausa. Di nuovo una maglia di cotone, ma stavolta ha la
decenza di indossarne una a maniche lunghe. Io invece non ho la decenza
di distogliere lo sguardo dal suo corpo. «Sono i rischi del
mestiere.» E alle mie stesse orecchie l’ultima
frase sembra
un lento sospiro osceno. Cerco di ritrovare una certa
lucidità e
mi schiarisco leggermente la gola. Ormai mi sento scomodo
nella mia
stessa pelle. Non riconosco le emozioni che provo, non sono miei i
brividi che mi avvolgono quando lui si volta con un mezzo sorriso. Sono
istinti che non mi appartengono, desideri estranei che mi provocano
timori a cui non posso oppormi con alcuna pistola. Sposto lo sguardo sul
bordo in
ceramica della tazza, lo percorro con gli occhi quasi non lo vedessi
realmente ed ho l’impulso di fiondarmi a buttar
giù tutto
il caffè bollente pregando che anneghi ogni cosa. Che
anneghi
questo stupido e fastidioso bisogno di... «Tutto
bene?» Di te.
Alzo di colpo la testa ed incrocio i suoi occhi che mi guardano
interrogativi. Quegli occhi che mi tormentano ogni volta che chiudo i
miei. «Sì...
sì,
è tutto ok.» Tiro su le labbra per
comodità, ma
dentro di me ho solo voglia di nascondermi in un angolo e picchiare la
testa contro il muro finché non si tingerà di
rosso, o
finché non sverrò - dipende quale delle due
funziona prima. Eric continua a
guardarmi senza
dire nulla, con il legno del martello stretto nella mano, con la
capacità di mettermi a disagio con la sua sola presenza. Ha capito che mentivo,
ha capito
che no, non sto bene. Mi chiedo se non abbia capito anche altro. Il
solo pensiero è agghiacciante e potrei smettere di respirare
all’istante se scoprissi che lui sa. Cosa fai in questa
casa?
Perché hai aiutato quella donna? Perché continui
a
stordirmi senza che io possa oppormi? Perché?
Perché,
Eric? Perché provo quello che non dovrei provare? Vorrei urlarlo, vorrei
afferrarlo
per le spalle e scuoterlo finché non mi avrà dato
ogni
risposta. Vorrei prenderlo a pugni fino a rompermi le dita! Vorrei,
vorrei, vorrei e poi vorrei ancora. Voglio tante, troppe cose, e non
sono in grado di averne alcuna. Resto qui, in
silenzio, con il suo
sguardo a trafiggermi, con il mio a perdersi sul suo viso, su quella
perfezione che è un supplizio. Ho di nuovo 13 anni,
l’apparecchio sui denti e sto fissando Susanne Gallstad senza
avere il coraggio di darle il suo regalo di compleanno. «È
per me?» Fa
un cenno con la testa per indicare la tazza che sosta calda nella mia
mano. Ci impiego un po’ per far funzionare il cervello
rimasto
totalmente appannato dal suo sorriso. «Oh, io...
Sì, la
signora Fustern mi ha chiesto di portatelo.» Gliela tendo
ancora
una volta e prego che il mio braccio non mi giochi contro iniziando a
tremare. «Non poteva salire... Il suo stufato poteva
bruciarsi,
credo.» Ti
prego, prendi il caffè e fammi andare via. «Ah,
capisco» E questo
cos’è, sarcasmo? Pochi passi e mi è di
fronte.
«Allora grazie.» Susanne mi strappò il
regalo dalle
mani senza neanche degnarsi di guardarmi in faccia. E non le piacque
neanche. Quando Eric afferra la
tazza, le
sue dita sfiorano le mie per pochi secondi, e quando me la porta via il
freddo si appropria della mia mano, il mio stomaco invece, è
nelle fiamme più alte. Stomaco? Dovresti
ripassare un po’ di anatomia, detective Martinsson. Un sorso che non vedo
perché
mi dà nuovamente le spalle, e poi poggia la tazza a terra.
Ne
approfitto per passarmi una mano fra i capelli avvilito, arrabbiato,
totalmente in balia del caos più totale. Prendo un respiro e
soffio
l’aria cercando di far meno rumore possibile. Quando i miei
polmoni si sgonfiano, Eric torna a guardarmi. Non dice nulla e come se
mi stesse studiando. Lui? Sono io che
dovrei studiarlo, che dovrei capire come accidenti faccia a farmi
sentire così! Devo riprendere il
controllo di me
e della situazione. O mi volto ed esco da questa stanza o afferro il
toro per le corna. Azione, basta annegare nella mera riflessione! «La signora
Fustern mi ha
raccontato della canna fumaria.» Buon argomento, sono quasi
fiero
di me. «È stato un bel gesto il tuo.»
Avverto la
divisa del poliziotto ricoprirmi e Dio solo sa quanto questo mi sia
d’aiuto. «L’ho
solo sentita
urlare» abbozza prima di tornare al suo lavoro. Prende una
manciata di chiodi e li blocca fra i denti. Testa l’asse
sinistra
del telaio e poi riprende a martellare.
Sento una leggera sicurezza
guidare passi e parole, ed entro più a fondo nella piccola
stanza. Mi guardo un po’ in giro. Sono stato qui la
mattina
di... Oh, quella mattina, ovvio! Pareti coperte di
carta da parati
verde con sottili linee porpora verticali. Un letto singolo di legno
chiaro alla mia destra. Dello stesso colore il comodino accanto. Una
abat-jour, un piccolo posacenere. Una trapunta rosa confetto con dei
grossi fiori bianchi adorna la branda. Sulla parete di fronte, un
armadio a due ante di un legno più scuro.
Null’altro. Deve essere una stanza
per gli
ospiti, ma di ospiti non deve averne avuti da un po’. Me lo
suggerisce la coltre sottile di polvere, me lo conferma il ricordo
degli occhi lucidi di Amanda Fustern. Con un sentimento di
tenerezza nel petto sposto ancora la mia attenzione ed il mio sguardo
sulla figura di Eric Huntsman. «Mi era
parso di capire che
fra di voi non ci fosse molta simpatia.» Mi infilo alla prima
pausa di martello e una leggera risata anticipa la sua risposta. «Avrei
dovuto ignorare le sue urla?» Ed ora ho di nuovo il suo
sguardo su di me. «Certo che
no! Volevo solo dire che è un gesto inatteso da parte tua.
Ecco tutto.» «Ah
sì?» ghigna
afferrando dalle labbra l’ultimo chiodo prima di piantalo con
pochi colpi sull’asse destra. La leggera sicurezza sta
scemando
via via dal mio corpo. Potrei fare un passo indietro o potrei
farne uno in avanti. Il mio buonsenso mi suggerisce la prima, il mio
folle bisogno,
la seconda. «Ammetterai
tu stesso che non
ti era molto simpatica. E adesso le stai anche sistemando le
finestre...» Vince la seconda. «Tu aiuti la
gente in base
alla simpatia?» Credo che abbia terminato. Fa qualche
passo indietro e ne controlla la riuscita prima di tornare ad agitarmi
con il suo sguardo. «Ovviamente
no.» Non
riesco a rimanere indifferente a quel sorriso sghembo né
alla
sua chiara voglia di provocarmi. «Ma io lo faccio di
mestiere.» La
tua scusa qual è? «E sei
bravo?» Attento Magnus, qui
finisce male. «Nel mio
lavoro?
Abbastanza.» Dalla mia voce non trapela incertezza e quasi mi
stupisco di come stia riuscendo a gestire questa insolita
conversazione. Forse ho riempito la
mia testa di
inutili paranoie per un’intera settimana, forse Eric Huntsman
non
è poi così indecifrabile come credevo. «E come mai
ancora non hai trovato quei ladri?» E poi erano i poliziotti
a fare troppe domande, eh?! «Le indagini
richiedono
tempo.» Annuisce e sposta lo sguardo sulla testa ferrata del
martello. Pondera una risposta o ammette la sconfitta?
Perché,
è una sfida? Quando lo è diventata? «Hai fatto
anche indagini su
di me, immagino...» Il tono è più
basso, il suo
sguardo più sottile. E la mia sicurezza si infrange come un
cristallo sul pavimento. Deglutisco una nuova
inquietudine e
sento che ogni passo verso di Eric fatto in questa manciata di minuti
potrebbe essere annullato nei successivi secondi. La mia risposta
è un’unica pallottola in canna. «Ovvio.»
Premo il grilletto e sono pericolosamente senza difese. Il silenzio
è la sua prima
replica e ne approfitto per tentare di scoprire se la mia
sincerità sia stata o meno un suicidio. «E cosa hai
scoperto?»
La domanda scivola lenta sulla sua lingua mentre infila il manico del
martello nuovamente alla cintola. Un brivido lento mi percorre la spina
dorsale quando le dita di Eric scorrono su tutta la lunghezza
dell’impugnatura. Ho di nuovo il battito indecentemente
accelerato e non ho più saliva da mandar giù
né
santi in
cielo a cui rivolgermi, ma sono in ballo e tanto vale gettarsi senza
pensarci troppo. «Dovresti
saperlo.»
Cerco di contenere cuore ed emozioni ma non posso fare a meno di
incollare gli occhi ai suoi mentre un bianco sorriso si disegna fra la
barba. «Già...
A voi poliziotti piace impicciarsi della vita degli altri,
vero?» «È
un lavoro, Eric.
Non è un hobby né un piacere.» Sono
sincero alla
prima ma mento spudoratamente alla seconda. Anche se
“piacere” sarebbe meglio sostituirlo con
“necessità psico-fisica”. Ho passando
l’ultimo periodo
a giustificarmi con chiunque per una cosa di cui, onestamente, non
dovrei. Prima Ringdal, poi la Fustern, adesso Eric stesso... Sono la
legge, dannazione, non il crimine. Io sto dalla parte degli angeli[1]. Mi ritrovo a serrare
la mascella
quando Eric mi si avvicina con lenti passi. Non indietreggio, non
mostro cedimenti. Non posso spogliarmi adesso della divisa e mostrargli
tutte le mie insicurezze. «Sospetti di
me,
Magnus?» alita sommessamente ad un soffio dal mio viso.
Se la
soggezione fosse un qualcosa di materiale, avrebbe i suoi occhi. «No... Non
ne ho motivo,
Eric.» Non credevo di potergli essere così vicino
e non
crollare sulle mie stesse ginocchia. Cosa mi tenga in piedi non lo so,
magari è solo un residuo di dignità che non
voglio
perdere nonostante tutto. I palmi delle mie mani
sono
sudaticci e le mie labbra tirano per la secchezza. Le sue si piegano
leggermente all’insù in un sorriso che pare essere
più una minaccia. «Bene»
sospira infine senza però avere intenzione di spostarsi
dalla sua posizione. Io ti avevo avvisato,
stupido poliziotto! «Detective!»
È
la Fustern. «Detective Martinsson?» La voce sale
lenta dal
piano di sotto, ma posso udirla senza troppi problemi. «Ti stanno
chiamando,
detective.» Ma non riesco a spostarmi di qui. Ho i piedi
incollati a terra e le ginocchia cementate. «Forse dovresti
andare. È il tuo lavoro... no?» E quando il suo
viso
sparisce dal mio campo visivo mentre va a raccogliere gli attrezzi sul
pavimento, solo allora mi accorgo di aver trattenuto il respiro per gli
ultimi venti secondi. La voce della signora
Fustern giunge nuovamente alle mie orecchie. Per fortuna.
«Così
pensavo che potesse esserle d’aiuto.» «Ogni
particolare è d’aiuto. Qualsiasi cosa ricordasse,
anche in futuro, mi chiami senza problemi.» «Sono felice
che sia lei ad
occuparsi del mio caso, detective.» Sollevo lo sguardo dal
block-notes. «Sono sicura che riuscirà a ritrovare
la mia
collana.» Rimango a guardare quegli occhi grigi chiedendomi
se
sono davvero meritevole di essere chiamato detective. Annuisco con un
sorriso ed appunto l’ultimo dettaglio ricordato dalla donna.
Probabilmente si rivelerà di poca utilità, ma non
voglio
più fare meno di quanto devo. Sono ancora occupato a
scrivere quando Eric entra nella cucina. Speravo di riuscire ad
andarmene prima del suo arrivo. «Tutte le
finestre sono
sistemate» proclama. «Si aprono senza problemi, ma
se
dovesse avere qualche difficoltà mi chiami.» «Non so come
ringraziarti,
caro!» All’ennesimo “caro” non
riesco ad
impedire all’angolo destro della mia bocca di sollevarsi.
Indugio
sul taccuino più del dovuto perché non oso alzare
gli
occhi e rischiare di incrociare lo sguardo di Eric. «Allora io
vado, devo solo raccogliere-» «Non se ne
parla!» Ma a
quel tono deciso la mia testa si solleva automaticamente.
«Non
pensare che ti lasci andare a quest’ora senza neanche farti
cenare.» Il viso della donna è una maschera di
risolutezza. «Non credo
sia il caso, io-» «Niente
scuse!»Eric viene zittito nuovamente. «Ho fatto la
stufato di alce e tu adesso ti siedi e mangi.» Lo afferra per
un
polso e lo trascina alla sedia di fronte a me. «È
quasi
pronto.» Ed io rimango adorabilmente sconcertato dalla
facilità con cui questa anziana donna è riuscita
a
piegarlo alla sua volontà. Con me non c’era poi
questa
gran sorpresa, ma con uno come Eric... E lui non pare mostrare alcuna
intenzione di ribattere. «Signora,
non deve- » «Oh per
l’amor del
cielo, Eric. Non vuoi accettare i soldi, per lo meno accetta una
cena.» Zittito per la terza volta consecutiva. Dovrei
prendere esempio... «Non credi
che questa povera vecchia si meriti la compagnia di due giovanotti
almeno ogni tanto?!» Due
giovanotti? Quel plurale mi mette in
allarme. Infilo veloce il taccuino nella tasca e mi affretto ad
alzarmi. Sento gli occhi di ghiaccio seguire i miei gesti ma non ho
tempo per lasciarmi frenare. Questa giornata si è rivelata
già abbastanza assurda, non la farò concludere
con una
cena che avrebbe del grottesco. «Signora
Fustern devo tornare in centrale.» Ora sono quattro gli occhi
su di me. «A
quest’ora?»
L’orologio appeso alla parete della cucina da cui fa capolino
una
grossa gallina gialla, indica le 19 passate. Dannazione, hanno
già chiuso! Ma non è questo che mi preoccupa. Dal
commissariato non è arrivata alcuna chiamata, teoricamente
il
mio turno è terminato cinque minuti fa.
Valuto velocemente le
possibili vie di fuga: insistere sul rientro alla centrale; fingere una
chiamata d’emergenza mai arrivata; inventare un impegno
inesistente. Nessuna mi sembra adatta, tutte puzzano di menzogna
lontano un miglio, e questa donna non ne merita più. «Non vorrei
disturbare...» sospiro grattandomi la nuca e rispondendo a
quella
domanda in modo quasi sincero.
Anche se non posso vederlo,
perché mi sono categoricamente imposto di non guardarlo,
posso
percepire il ghigno divertito di Eric. Come se tu fossi
riuscito a sottrarti alla sua volontà,
“caro”! «Ma quale
disturbo!»
Amanda Fustern mi tira giù per un braccio e mi ritrovo
nuovamente seduto sulla sedia e stavolta non posso proprio evitare
quegli occhi. «Non essere
scortese, Magnus...» Di nuovo un brivido lungo la schiena. Non conosco molti
dettagli della
vita di Eric Huntsman, il buco nero di incognite è ancora
lì. Non ho idea di chi sia realmente quest’uomo,
eppure una
cosa è certa: ora, più che mai, voglio scoprire
cosa si cela dietro quegli occhi.
NdA.
Siamo così giunti al settimo appuntamento con il detective
più inutile
carino della storia!
Spero sia stato di vostro gradimento, a me ha fatto molto piacere
scriverlo e mi auguro di non aver maltrattato troppo i personaggi. Con
Eric ho sempre qualche dubbio, perché in SWATH non
è che
si sia molto capito che tipo di uomo è. A me ha dato
l’impressione di essere fondamentalmente un buono con la
scorza
ruvida. Poi, boh, come al solito avrò preso un abbaglio!
Un abbraccio a tutte voi ed un ennesimo grazie ^^
Alla prossima puntat- ehm, volevo dire, al prossimo capitolo ^w^
kiss kiss Chiara
p.s. ancora non ho capito quale malsana voglia l’abbia
guidata, ma la gentilissima e bravissima Callie_Stephanides
ha creato questo stupendo video su Magnus ed Eric *w*
Vi invito caldamente a
guardarlo perché, cavoli, merita
cento volte di più di tutta la mia fic u.u
Arthur Fustern aveva 52 anni
quando è morto. Era un impiegato postale ed aveva
l’hobby della pesca. Ogni
domenica mattina si svegliava
alle cinque e raggiungeva il laghetto ad un paio di chilometri da casa
sua. Ogni domenica
tornava a casa con qualche preda. Ogni domenica Amanda Fustern cucinava
pesce alla griglia. Un
pomeriggio di marzo, il telefono
squillò ed Amanda dovette correre in ospedale. Quella stessa
sera, tornò a casa da sola. Un arresto cardiaco ed Arthur se
ne
era andato. «Mi
sedevo su quella sedia a
fare l’uncinetto ed aspettavo di vedere Arthur spuntare sul
vialetto. Era sempre puntuale il mio Arthur, non un minuto di ritardo.
Usciva dall’ufficio e dieci minuti dopo era a
casa.»
Sorride dolcemente. «Alle volte mi sembra ancora di vederlo
entrare dalla porta... -Ancora un po’ di patate?» «È
gentile, ma no,
grazie. Sono sazio.» Declino gentilmente mentre mi tampono le
labbra con il tovagliolo di stoffa. Sulla
parete della cucina, una
vecchia foto di due giovani abbracciati: una bella ragazza dalla chioma
chiara ed un giovane sorridente con un cappello sulla testa. Sembrano
felici, forse lo erano. «Eric,
vuoi altro stufato?» «No,
grazie.» Se qualcuno
mi avesse detto che io,
Eric Huntsman ed Amanda Fustern saremmo stati seduti allo stesso tavolo
a cenare tranquillamente come una perfetta famigliola felice, credo che
avrei trattenuto a stento una risata. Ed invece... I ricordi
della donna sono stati
l’argomento più gettonato della serata, ma
confesso che
sono stati piacevoli da ascoltare. Una lunga vita dipinta nel racconto
di qualche episodio, pochi tratti di qualcuno che ha amato tanto e che
ama ancora oggi, di un amore che puoi solo invidiare. Io mi sono
limitato a contornare il tutto con qualche
intervento sporadico. Eric è stato il più
silenzioso.
È stata un’indovinata previsione. Manda
giù un altro sorso d’acqua. Non ha voluto vino. Io
ne ho preso solo due dita. Non beve
più, anche quel
giorno a casa sua, mi offrì una birra analcolica. I sei mesi
di
reclusione devono aver sortito il loro effetto, oppure,
chissà, sarà stato altro. La
forchetta affonda in un piccolo
pezzo di carne per poi giungere alla sua bocca. Mangia in modo composto
ed elegante, e la cosa mi ha sorpreso. Non volevo rinchiuderlo nel
cliché dello scaricatore di porto rozzo e volgare, ci
mancherebbe, però quest’oggi ho scoperto lati di
lui che
hanno finito con il confondermi ed affascinarmi ulteriormente. La
generosità e la gentilezza verso questa donna per cui
chiaramente non aveva grande propensione, il garbo con cui le si
rivolge e quella, oserei dire, dolcezza appena accennata. Poi la sua
vena di sfida, quasi di malizia, che ha usato nel nostro breve scambio
di prima. L’ironia ed il sarcasmo che avevo già in
parte
sperimentato. È
un uomo dalle mille sfaccettature, Eric, ed io sono ben consapevole di
averle intraviste solo in misera parte. I suoi
occhi si alzano sui miei
mentre ancora mastica il boccone di poco prima ed io mi affretto a
buttare giù l’ultima goccia di vino rosso
spostando lo
sguardo sul cestino del pane integrale. «Lei
ce l’ha una fidanzata, detective?» Ma che domanda è?! Sento le
guance arrossire e per
poco non mi va il vino di traverso. Istintivamente scuoto la
testa. «Non al momento.» Ammetto dopo un leggero
colpo di
tosse cercando di evitare di guardare l’uomo davanti a me,
perché se continuerà a tormentare la mia mente -
ed il
mio corpo - credo che non avrò una fidanzata ancora a lungo. «Che
peccato! Neanche il
nostro Eric ha una fidanzata, eppure siete così due bei
giovani.» Ma stavolta non riesco a non incrociare il suo
sguardo.
Non ci sono espressioni sul suo viso. Continua a mangiare come se si
stesse parlando di qualcun altro. Sembra un discorso che non gli
interessa, magari è solo un discorso che vuole evitare.
«Però non credo che non ne abbia mai avuta
una.»
Solo dopo qualche attimo capisco che quella domanda indiretta
è
per me. Amanda Fustern è una donna decisamente invadente, ma
mi
ha accolto nella sua casa con gentilezza e mi ha offerto la sua cena.
Non credo sia cortese negarle una risposta.
Sarà breve, perché davvero, non
c’è molto da
raccontare. «C’è
stata
qualcuna che credevo fosse quella giusta... Ma mi sbagliavo.»
Sorrido sperando di chiudere qui la faccenda. Eric si mostra ancora
estraneo al discorso e vorrei tanto che Amanda Fustern usasse tutta la
sua deliziosa invadenza anche con lui. Vorrei che gli facesse le
domande che io non oso fare, a lei, molto probabilmente non potrebbe
che rispondere. «E
come deve essere quella
giusta?» Ed invece continua ad indirizzare la sua attenzione
alla
mia vita sentimentale, a sarebbe meglio dire, ai suoi residuati bellici. «Non
c’ho mai pensato,
a dire il vero...» Non so neanche perché le
rispondo.
«Credo dovrebbe essere una persona con cui mi senta me stesso
e
che sia se stessa con me. Una persona semplice, sincera. Sì,
credo sia questa la cosa fondamentale.» E quindi non
può
essere Eric Huntsman, perché quando sono in sua presenza,
divento qualcuno che non conosco. Vorresti
che lo fosse? «Sono
certa che il Signore le
abbia già destinato la persona giusta.» Poggia la
sua mano
calda sulla mia e mi regala un sorriso materno che mi scalda il cuore.
«La deve solo incontrare.» E sono così
perso in
questo amorevole calore da non accorgermi degli occhi di Eric su di me.
«Questi
li poggio qui?» «Sì,
grazie detective.» Sistemo i piatti sul ripiano accanto al
lavandino. «Può
chiamarmi
Magnus.» Solitamente non rinnego il mio grado, ma davanti
alla disponibilità di questa donna lo sento pesare
fastidioso. Mi sorride
stringendomi l’avambraccio prima di affondare i piatti nella
schiuma in un muto assenso. Torno alla
tavola per raccattare le
ultime stoviglie e mi ritrovo un Eric che ha già raccolto
tutto
in una piccola catasta ben ordinata. «Prego.»
Me la porge
con un ghigno ed io mi ritrovo ad afferrarla senza essere capace di
dire nulla. «Attento a non farli cadere, Magnus.»
Ancora
non riesco ad abituarmi a sentirgli pronunciare il mio nome con quel
tono enigmatico. Ho chiaramente intuito che trova divertente
punzecchiarmi, deve essere per via del mio lavoro e della sua
confessata
avversione per i poliziotti. Certo non è facile incontrare
un
detective che non sa neanche tenere a freno le sue emozioni. Per lui
devo essere un divertente passatempo. Ridicolo, forse patetico. Durante
tutta la cena non ho
più ritrovato il coraggio per parlargli come prima, e a
parte i
“grazie“ per il sale ed il cestino del pane, non ci
siamo
scambiati mezza parola. Devo aver perso coraggio e dignità
mentre scendevo le scale... Porgo la
catasta di piatti alla padrona di casa con un sorriso di circostanza.
Credo sia arrivato il momento di tornare a casa. «Grazie
per la splendida cena
e stia tranquilla, farò il possibile per riportarle la sua
collana.» Una mano mi accarezza il viso. Un po’
inopportuno
ma l’accetto senza ribattere. «Grazie
a te per il tuo
impegno, Magnus, e vieni a trovarmi quando vuoi. Mi fa piacere avere
visite così piacevoli.» Sorrido chiudendo la zip
del
giaccone e la saluto sulla soglia di casa. Mi avvio verso
l’auto
nel freddo della sera di Hedeskoga. Sono quasi
le 21 e davvero ho solo
voglia di affondare con la testa sul cuscino. Eric è andato
via
prima di me, doveva lavorare presto, ha detto. Ha ringraziato
ermeticamente per la cena e la signora Fustern per poco non lo
stritolava in un abbraccio. Lui non si è ritratto. Per un solo
istante ho desiderato
avere quarant’anni di più e l’artrite
alle ginocchia
solo per essere al suo posto. Patetico... Infilo le
chiavi nella serratura
dell’auto ed entro in macchina. Amanda è alla
finestra e
mi saluta con un gesto della mano. Mi ricorda mia madre quando vado a
trovarla, quelle poche volte che il lavoro me lo consente. Rispondo al
suo saluto con un cenno della testa e metto in moto. Deve essere la
finestra da cui aspettava il ritorno del suo Arthur. Passo
davanti casa di Eric ed anche
lì la luce è accesa. Mi chiedo cosa stia facendo.
Alla
fine non siamo poi così diversi, c’è
una profonda
solitudine in tutti noi, nello sguardo commosso della signora Fustern,
nei silenzi di Eric, nel mio senso continuo di inadeguatezza. L’immagine
di lui seduto solo sul divano, mi accompagna finché non
arrivo a casa.
«Probabilmente
si è trattato di un tentativo di rapina finito
male.» Eric non ha
parlato neanche una
volta di sé. Tutti i suoi pochi discorsi erano per lo
più
risposte alle domande della signora Fustern sul suo lavoro al porto. «Di
certo qualcuno ha visto qualcosa.» «Hai
già fatto qualche domanda in giro?» Perché
è così
riservato? Cos’ha da nascondere? Non ha menzionato la sua
famiglia neanche una volta. Credo sia normale dopo aver perso entrambi
i genitori, ma suo fratello William? Hanno buoni rapporti? «Ho
lasciato l’agente Brugder sul posto. Si sta occupando anche
di rilevare possibili impronte.» La sua vita
sembra ruotare attorno
al suo lavoro, però la signora Fustern sapeva che non
è
fidanzato. Glielo avrà chiesto senza farsi problemi come
è accaduto con me. Di che altro avranno parlato? «Sarà
utile non escludere alcuna possibile pista.» Forse
basterebbe essere più diretto. Dovrei realmente prendere
esempio da lei e provare a- «Magnus?»
Sollevo la testa di colpo verso il viso di Lisa. «Sì?»
Mi guarda sbattendo le palpebre con l’aria decisamente
irritata. E adesso che ho fatto? «Sei
con noi?» «Sì.»
Non mi
rendo neanche conto che non è una vera domanda. Mi passo una
mano fra i capelli sollevandomi di poco con la schiena dalla sedia.
«Scusa, ero sovrappensiero.» Maledetto
Huntsman! «Ce
ne siamo accorti.»
Sposto lo sguardo sulla penna che picchietto sul tavolo cercando di
concentrarmi sulle parole dei miei colleghi. Sven sta parlando di una
rapina o di un’aggressione. La verità è
che non
vedo né la penna né sento alcuna voce. Solo un
volto
riempie i miei pensieri, solo il suono di una risata bassa che pare
nascondere altro. Quando sono
tornato a casa e mi
sono infilato nel letto, non sono riuscito a prendere sonno. Rivivevo
in continuazione quella strana cena. Rivivevo il nostro ambiguo scambio
di battute. Risentivo il suo umore mutevole che mi colpiva e la mia
paura di crollare. Potevo perfino percepire sotto le mie dita le sue. Quello
sguardo ha riempito il buio della stanza. Mi sono
addormentato poco prima che
il sole sorgesse, ma quando ho riaperto le palpebre, non
c’era
abbastanza luce che accecasse il suo ricordo. Mi sento
avvilito, soffocato in
ogni senso. Vorrei riuscire a staccarmi con il pensiero e con le
emozioni
da quell’incognita ambulante che è Eric Huntsman.
Ma
più ci provo, più tento con tutto me stesso di
cancellare
ciò che provo dal petto e dalla testa, più
continuo ad
essere attratto da lui, come un mulinello d’acqua a cui non
è possibile sfuggire. «Occupatene
tu, Anne-Britt,
di certo Magnus ha altri importanti questioni a cui pensare.»
Porto lo sguardo sulle labbra di Lisa giusto il tempo per vederla
uscire dall'ufficio. Sospiro accasciandomi sul tavolo e nascondendo la
testa fra le braccia. «Ancora
la tua
insonnia?» Rispondo alla domanda di Anne-Britt con un mugugno
strozzato. Poi mi rendo conto che non gliene avevo parlato. Rialzo la
testa con un piglio interrogativo e lei, ovviamente, sorride
comprendendo perfettamente i miei pensieri. «Me lo ha detto
Lisa.» Mi chiarisce afferrando un dossier dalla scrivania.
Sven
è già andato via insieme a Lisa, mentre Kurt...
oh, beh,
Kurt è una vita che non si vede in commissariato.
«Dammi
retta: prenditi un po’ di Valeriana e vedrai che starai
meglio.» Alzo appena una mano per ringraziarla mentre la vedo
andare via. Valeriana?
Forse sarebbe meglio buttarsi direttamente sullo Xanax! Ritorno con
la testa sulle mie
stesse braccia chiudendo lentamente gli occhi. Il vociare confuso della
centrale è un rumore familiare, rassicurante. Il profumo del
caffè misto all’odore polveroso della carta della
stampante. La luce che entra dalla finestra, il ronzio del computer
acceso, lo squillo del telefono... Lo
squillo del telefono? Sollevo di
colpo la testa
puntandola sull’apparecchio fastidioso che in questo momento
sto
odiando ancora più di quanto già non facessi. Mi
alzo
ingoiando un’imprecazione e rispondo senza badare di essere
meno
sgarbato. «Polizia
di Ystad!»
È quasi un ringhio. Per fortuna è un agente che
cerca Anne-Britt. Gli rispondo che non so dove sia e di chiedere a
Lisa. Riaggancio con uno sbuffo buttando uno sguardo al paesaggio
mattutino della città. Non posso
farmi manipolare
così dai sentimenti. Sono un poliziotto, dannazione, ce
l’avrò un minimo di autocontrollo, no? Ho bisogno
di concentrarmi sul lavoro. Terrò Eric fuori dalla testa con
ogni mezzo. Lo cancellerò totalmente. Almeno per
queste 24 ore, Eric Huntsman non sarà che un nome su un
dossier. Vado alla
mia scrivania ed afferro la giacca. «Dove
stai andando, Magnus?» «Un
caso importante!» Rispondo al volo mentre scendo spedito per
le scale.
È
da un po’ che non
bazzico questa zona di Ystad. L’ultima volta ero in compagnia
di
Kurt - sarà stata una decina di mesi fa. Indagavamo su un
caso
di frode assicurativa e l’aiuto di un informatore fu prezioso
per
la risoluzione del caso. Ed è proprio da lui che mi sto
recando.
Spero che sappia darmi qualche dritta giusta anche stavolta. Ho promesso
ad Amanda Fustern che
avrei fatto il possibile per ritrovare la sua collana ed ho tutta
l’intenzione di mantenere la parola. È passata
solo una
settimana, la pista è ancora abbastanza calda. Forse ho
perso
del tempo, anzi, di certo è stato così, ma non
posso
perderne altro a rimuginare. La piccola
insegna al neon che si
illumina ad intermittenza mi conferma che sono giunto a destinazione.
Entro nel negozio ed il sonaglio orientale scroscia piccole note. Ha fatto
qualche cambiamento dalla
mia ultima visita. C’è qualche cianfrusaglia in
più
e l’odore dolciastro di incenso. Non serve essere un
poliziotto
per sapere che serve a coprire altri
odori. Per
il resto è il solito negozio di pegni che ricordavo. Dietro al
bancone, occupato a
maneggiare quella che ha tutta l’aria di essere una pessima
imitazione di un Rolex, c’è Kevan Larsson.
Precedenti per
furto e ricettazione. Si è fatto un paio di anni e poi ha
capito
che collaborare con la polizia non era realmente un male se in cambio
poteva continuare a gestire il suo bel negozietto. Noi chiudiamo un
occhio e lui apre di tanto in tanto la bocca. Mi sembra uno scambio
equo. Capelli
neri solo agli angoli della
testa, una pelata lucida al centro. Occhiali spessi
dall’eccentrica montatura rossa oltre la quale si intravedono
due
piccoli occhi scuri resi più grandi solo
dall’effetto
delle lenti. «’Giorno.
Come posso aiutarti?» Mi avvicino
dando un’altra
vaga occhiata in giro e poi gli mostro il distintivo. Immediatamente
ferma il suo lavoro e trattiene a stento un sospiro annoiato. «Detective
Martinsson.»
Rimetto in tasca il distintivo. Kevan mi scruta dubbioso e capisco che
non deve ricordarsi di me. Poco male, ci penserò io a
rinfrescargli la memoria. «Sono un collega di Kurt
Wallander.» E mi basta fare il suo nome affinché
abbia
tutta la sua attenzione. Kurt,
quasi ti odio!
«Sto cercando una collana.» Tiro fuori dalla tasca
il
cofanetto con gli orecchini della Fustern. «È
stata rubata
circa una settimana fa, ad Hedeskoga.» Glieli mostro e lui
inizia
a guardarli corrucciando la fronte. «Ti dice
niente?» Ne
afferra uno e gli dà un’altra occhiata da vicino. «Mi
spiace, ma non ho visto nulla di simile in giro.» «Ne
sei sicuro?» Chiedo serio mentre lui rimette a posto il
piccolo gioiello annuendo. «Per
le mie mani non è passata.» «E
per le mani di chi, potrebbe essere passata?» Andiamo, lo so che conosci la
concorrenza, Kevan. Si aggiusta
gli occhiali sul naso tenendo lo sguardo sul cofanetto ancora aperto. «Guarda,
non è merce di
grande volare. È difficile che qualcuno l’abbia
piazzata.
È più probabile che si trovi al collo di qualche
donnetta
del porto.» Forse ho perso davvero troppo tempo. «Se
mi fai qualche nome te ne sarei grato.» Kevan ridacchia
scuotendo la testa. «Non
ne so niente, te
l’ho detto.» Ma non posso gettare la spugna
così
facilmente. Infilo il portagioie nella tasca con un sorriso. «Voglio
solo un nome.
Preferisci farlo a me o agli agenti della narcotici che verranno a
farti visita più tardi? Mi basta una telefonata,
Larsson.»
Di solito il ruolo del poliziotto cattivo è esclusiva
fantasiosa
delle serie americane, ma nella realtà pare essere
altrettanto
efficace. Kevan serra
la mascella e mi guarda con una chiara ira ben repressa. Bravo,
tienila a cuccia, non voglio avere un occhio nero per
un’altra settimana. «Si
fa chiamare
“Gambero”.» Alla fine cede.
«È uno che
spaccia al molo 16. Lui prende di tutto: soldi, gioielli, servizietti -
se mi capisci.» Annuisco ma quel nome non mi dice niente. «Com’è
che non l’ho mai sentito?» «Bazzica
da poco in giro, ma
ha le spalle coperte da alcuni pezzi grossi, perciò nessuno
gli
ha dato rogne.» Fino
ad ora, aggiungerei. Spero solo che non sia
questo Gambero a darle a me! «Beh,
Larsson, sei abbastanza informato per essere uno che non sapeva
niente...» «È
tutto quello che so. Giuro!» Spero sia
davvero la dritta giusta.
Il suono
del sonaglio torna a
tintinnare quando esco dal negozio, ma non so perché, non mi
mette per nulla di buon umore.
Continua...
NdA. Non vi aspettavate che una cenetta da zia Amanda avrebbe
risolto ogni
questione, vero? Che quei due si sarebbero rotolati sul tavolo gettando
a terra stufato di alce e pane integrale con buona pace della vedova,
vero?
Beh, se l’avete fatto, allora ancora non avete capito bene
come
non
funziona la testa di Magnus – e la mia, ovvio. Ma soprattutto
avete poco rispetto per il pane integrale svedese u.u
[fine note serie]
Scusatemi queste note più idiote più del solito,
ma al
termine di questo capitolo, mi sentivo un po’ come Magnus:
totalmente rincoglionita. Non chiedetemi perché, non lo so
neanche io. Spero solo che il mio stato di confusione mentale non abbia
avuto ripercussioni su ciò che ho scritto. E perdonate anche
Magnus che si atteggia a Vic
Mackey dei poveri;
ogni tanto ha la fantasiosa
idea di credersi un poliziotto vero!
Per quel che riguarda il caso San Pietro, abbiate fede (oddio che
freddura barbara x_x)!
Ci sarà spazio per tutto, fu*k time incluso.
Bisognerà solo pazientare.
Vi bacio tutte e vi “appuntamento” alla prossima
volta >.<
Kiss kiss Chiara
Il
Gambero. Sul database non ho trovato nulla su nessun pregiudicato.
Larsson non sapeva dirmi il suo vero nome e non credo abbia mentito; la
mia minaccia aveva avuto fin troppo effetto. Ho passato
l’intero
pomeriggio di ieri a cercare, inutilmente, notizie sul conto di questo
tizio e sono anche riuscito nell’intento di tenere lontano
dalla
mente il viso ed il pensiero di Eric, peccato però che
stamattina è tornato tutto alla normalità, la mia
nuova
assurda normalità. Non mi
resta che impegnarmi a
tenerlo fuori dai miei pensieri per altre 24 ore. Onestamente, ne
basterebbe soltanto una e sarebbe già un’altra
vittoria. Sposto gli
occhi dallo schermo
del pc e li punto al gruppo di miei colleghi che sta parlottando a
qualche metro. Mi passo l’indice fra le labbra soppesando
cosa
fare. C’è solo una persona che può
aiutarmi in
questa situazione ed io sto guardando il suo viso in questo preciso
momento. Non ho
altra scelta. Mi alzo
dalla scrivania e li raggiungo. «Kurt,
posso parlarti un attimo?» «Veramente
stavo andando con Sven a-» Non lo lascio terminare. «Ti
rubo solo un minuto.» Ho bisogno di risposte, e ne ho bisogno
ora.
Kurt ha un
aspetto sciatto
anche questa mattina, non che la cosa mi sorprenda, lui è
sempre
stato poco preoccupato della sua immagine, ma di solito si riduce
così solo quando i pensieri che gli affollano la mente sono
tanti e tutti pesanti come macigni. Forse è San Pietro,
forse
è Linda, forse altro. Non saprei dirlo, non glielo chiederei
nemmeno. Se ho
imparato qualcosa dal
lavorare al fianco di Kurt Wallander è che è
sempre
più bravo ad avvicinare le persone che a lasciarsi
avvicinare. «Larsson
ha fatto il
nome di un certo “Gambero”. Uno che spaccia al molo
16 a
quanto ha detto.» Mi ascolta silente annuendo in modo
impercettibile con il capo. «Tu ne hai sentito
parlare?»
Aspetto paziente che questa statua di malinconia e silenzi prenda vita
e spero davvero che almeno lui ne sappia qualcosa. «È
un portoricano. Lavora per Brandberg.» Brandberg? «Lo
stesso Brandberg del sequestro di quella barca carica di
eroina?» Ti
prego, dimmi di no! Ma la testa
brizzolata del
commissario annuisce ed io trattengo un sospiro che avrei tutta la
voglia di tirare fuori, così come avrei voglia di gettarmi
tutto
questo casino alle spalle e andare a raccattare qualche inutile prova
in un cassonetto qualsiasi di Ystad! Chi
l’avrebbe mai detto che sarei finito con il rimpiangere la
mia vecchia vita di sbriga-noie. Brandberg
è uno che non
si è fatto un solo giorno dentro per una montagna di droga
trovata su una delle sue barche. Ed ora io dovrei andare da un suo
protetto per chiedergli di una misera collana da poche corone? Ma
purtroppo non posso agire in maniera diversa. Ho avuto le
risposte che
volevo, eppure c’è ancora una curiosità
che mi urla
nella testa e la mia bocca è incapace di trattenerla. «Kurt,
ho sentito dire
che hai rintracciato quel francese.» Quasi straccio le parole
fra
i denti per impedire che lui possa anche solo intuire quale sia il mio
vero interesse per quel caso. «Hai scoperto qualcosa di
importante?» Kurt mi guarda facendo un lungo sospiro, lo
stesso
che io ho ingoiato qualche secondo fa. «È
una storia
complicata. Non so dire se ci siano più bugie o segreti di
mezzo.» Annuisco regolando faticosamente il respiro. «Quindi
la faccenda della loro relazione è vera?» Stupido cuore, smettila di
battere così forte! «Sì,
ma dobbiamo
lavorare ancora per... » Cerca stancamente le parole mentre
si
preme entrambi gli occhi con due dita, ma alla fine non le trova e la
frase rimane a metà. Capisco che è decisamente il
caso di
tornare ad occuparmi dei miei di casini. «Grazie
per l’aiuto, Kurt.» Sto per andarmene quando la sua
voce mi chiama. «Ehi,
Magnus...» Mi
volto ed incrocio uno sguardo affaticato ma rassicurante. Lo sguardo di
un uomo, che non posso negarlo, è per me un esempio da
seguire.
«Fa’ attenzione. Brandberg è
pericoloso.»
Sollevo di poco le labbra in un sorriso che è un nuovo
grazie e
mi allontano verso la mia scrivania.
Saranno
coincidenze, ma io
inizio ad averne abbastanza. Prima la macchina, poi la rissa, poi
ancora la canna fumaria della Fustern. La cena... Ed adesso sono fermo
in macchina ad osservare ciò che accade in questo
stramaledetto
molo 16, ben consapevole che potrei vedermi sbucare Eric davanti agli
occhi da un momento all’altro. Mi sono
sforzato di non
pensarci, cercando di concentrare tutte le mie energie nello studio di
una strategia che mi permetta di avere risposte da questo Gambero senza
rischiare la pelle, eppure quel viso barbuto sbuca sempre a rovinare
ogni mio buon proposito. Mi appoggio
al volante e
scruto la scena davanti a me: operai che lavorano, gente che passeggia,
un paio di cani randagi che si rincorrono. Un
portoricano non dovrebbe
essere difficile da individuare. Gli spacciatori lavorano indisturbati
a qualunque ora del giorno e della notte, e se stamattina non riesco a
racimolare niente, vorrà dire che questa sera si faranno le
ore
piccole a guardare l’acqua nera del porto. Tanto neanche nel
mio
letto riuscirei a dormire, anzi, adesso che ci penso,
l’ultima
volta che ho fatto una dormita quasi decente è stata proprio
in
questa macchina. Non è per nulla un pensiero felice. La
situazione è
talmente piatta ed ordinaria che mi lascio sfuggire perfino uno
sbadiglio. Vorrei solo un letto caldo ed un paio di ore di sonno
garantito. Dove devo
firmare? La
mattinata passa
nell’inutilità più totale: nessun
portoricano
all’orizzonte, né tanto meno uno scozzese ben
noto. Con la
stessa velocità passa anche buona parte del pomeriggio. Oggi
un
panino per pranzo ed una mela troppo acerba. Quando
è quasi il tramonto, rimetto in moto e ritorno alla centrale.
«Stai
scherzando, spero?!» Lisa
sospira e si sfila gli
occhiali stringendo l’asticella destra fra le dita.
«Non
sono mai stata più seria.» Sono
decisamente esterrefatto. Aggrotto le sopracciglia scuotendo
inconsciamente la testa. «È
per ieri?
Perché ero distratto? Ero solo concentrato su un
caso.» Un
altro suo sospiro e la mia ira cresce ancora. «No,
Magnus, non
è per ieri, ma per tutto l’ultimo
periodo.» Inizia a
camminare per l’ufficio e le vado dietro in automatico. «Lisa,
non puoi sospendermi solo perché sto lavorando su un
caso!» «Smettila
di fare il
melodrammatico, Magnus. Nessuno ti sta sospendendo.» Afferra
un
dossier da una scrivania e gli dà uno sguardo vago. Sento i
miei
nervi tendersi come corde e potrebbero spezzarsi con un soffio.
«Ti ho solo dato qualche giorno di riposo. Dovresti
ringraziarmi.» Lisa, almeno abbi la decenza di
guardarmi in faccia mentre mi metti in panchina! «Non
ti ho chiesto
niente! Non voglio stare a riposo. Voglio lavorare e sono in grado di
farlo.» Finalmente i suoi occhi sono sui miei. La sua
espressione
è ferma e mi chiedo se la mia appaia fragile così
come la
sento. «Sei
in grado di farlo? Sicuro? Magnus, sei fermo su un solo dannato furto
da più di una settimana!» «Vuoi
farmi una colpa se
sto dedicando tempo alle indagini? Non sei stata tu a dirmi che ogni
caso è importante?» Torna a camminare ed io
riprendo il
mio inseguimento. «Quando
fai così mi chiedo se tu sia davvero un detective.» «E
questo che vuol dire?» L’intero
ufficio
è diventato il silenzioso pubblico di questa imbarazzante
scenetta iniziata appena ho messo piede in centrale, ma sinceramente
non potrebbe fregarmene di meno. Non voglio essere messo da parte solo
perché ho qualche pensiero di troppo per la testa. Valgo
davvero
così poco per questo commissariato? «Prestare
attenzione ad
un caso non vuol dire ignorare gli altri.» Serro la mascella
e
mando giù un groppo di rabbia e delusione. «Se hai
difficoltà con questo furto, puoi sempre affidarlo a
qualcuno
che abbia la volontà e la capacità di
risolverlo.» «Cosa?»
Dentro di
me spero sia solo un incubo perché davvero questa situazione
ha
del paradossale. «Il caso Fustern è mio e intendo
risolverlo quanto prima. Ho un sospettato e devo solo
interrogarlo.» Si ferma e mi scruta. «Ne ho parlato
anche
con Kurt...» Ora lo
sguardo incuriosito
degli agenti inizia ad infastidirmi e non vedo l’ora che Lisa
rinsavisca e la smetta con questa assurdità della vacanza
forzata. Non ne ho presa una neanche quando ho sparato per la prima
volta ad un uomo, ed allora ero scosso talmente tanto da farmi
rivoltare lo stomaco. Ma ho affrontato la cosa da uomo, da poliziotto,
e sono andato avanti senza ripercussioni. Ed ora?
Dovrei starmene a casa
come un qualunque idiota solo perché ho perso la testa per
uno
stupido scaricatore di porto che non fa altro che umiliarmi? La mia vita
privata sarà anche un disastro, ma non ho mai permesso che
influisse sul mio lavoro. «Mi
spieghi
perché ti sei fissato con questo furto? Hai sempre detto che
volevi avere più responsabilità.» «E
le voglio... Ma Lisa,
ti prego, non lasciarmi fuori dal commissariato. Sarò
più
professionale. Te lo giuro.» La mia rabbia sta sfumando in
una
lenta supplica disperata che spero venga colta. Lisa mi
osserva in silenzio e tento di carpire i suoi pensieri. «Mi
spiace Magnus, ma
con tutto il casino che si è creato con
l’assassinio di
San Pietro ho bisogno che tutti siate concentrati e facciate il vostro
lavoro in modo impeccabile.» «Ed
io non lo
faccio?» È più un sospiro incerto che
però
pare solo attraversare lo guardo vissuto del mio capo. «Ci
vediamo
lunedì, Magnus. Tornatene a casa e riposati. Anne-Britt si
occuperà del furto Fustern.» Resto fermo,
raggelato, con
il respiro corto e le mani ferme sui fianchi. Ho solo voglia di
scaraventare l’intera scrivania a terra, di scaraventare
l’intero commissariato a terra, di scaraventare la mia vita. Sono stanco
e non
perché non dormo. Sono stanco di essere considerato meno di
niente, di essere usato come un qualunque factotum senza importanza, di
essere deriso da tutti, anche da lui. Sono stanco. Fra un po’
sarò stanco anche di me stesso. «Ehi?»
La voce di
Anne-Britt. Alzo appena lo sguardo su di lei. «Lisa
è
stressato per tutta questa faccenda... Lei ha fiducia in te, vuole solo
che ti rimetta in sesto.» Ma non ho gentilezza con cui
rispondere
alla sua. Non ho parole per giustificarmi né accusare.
«Sono solo pochi giorni, poi-» «Il
dossier è sulla mia scrivania» ribatto severo.
«Sono sicuro che non avrai problemi.» Lascio la
stanza, lascio lo sguardo della mia collega sulla mia schiena. Afferro
la giaccia e guardo la scritta Fustern
sulla cartella marrone che giace sulla mia postazione. «Magnus...»
Non ho
voglia più di ascoltare niente. Ignoro occhiate
più o
meno critiche ed esco dall’ufficio. Scendo le scale della
stazione senza volermi fare più domande; non voglio
più
avere risposte. Quando esco
dalla porta, l’aria gelida della sera mi pare uno schiaffo in
pieno viso.
Infilo le
chiavi della
serratura e ruoto stancamente il polso. Un rumore secco e familiare. Ad
accogliermi la solita oscura solitudine. Accendo la luce e la vista del
mio appartamento in semi disordine mi fa risalire rabbia ed amarezza.
Getto la giaccia sul divano mancandolo totalmente; la lascio giacere a
terra senza preoccuparmi di raccattarla. Apro il
frigo ma lo richiudo
immediatamente con un’imprecazione poco tenuta fra i denti:
vuoto. Come questa casa, come il mio stomaco, come la mia stessa
patetica vita. Sono
arrabbiato e deluso.
Deluso da me stesso e dai miei colleghi, soprattutto. Deluso dalla loro
più abietta mancanza di fiducia. Siamo una squadra? A
parole,
forse. Nei fatti siamo un manipolo di uomini e donne che cercano di
usare le vite e le tragedie degli altri per sentirsi meno soli nelle
proprie. Odio questo
velo di nichilismo che avvolge i miei pensieri. In realtà
non voglio neanche più pensare. Mi hanno
dato una manciata di
giorni di riposo, una vacanza anticipata per riposarmi? Bene, ne
approfitterò per annullare ogni pensiero.
Spegnerò
qualsiasi funzione cerebrale che abbia a che fare con Lisa, con Kurt,
con quello squallido buco di provincia di commissariato. Azzererò
pensieri ed emozioni. Amanda
Fustern, Eric Huntsman,
saranno solo nomi scritti su fogli bianchi. Non è
più
affar mio, non ne voglio più sentire parlare. Mi getto a
peso
morto sul divano accendendo apaticamente la tv. Cambio
canale
un’infinità di volte senza realmente prestare
attenzione
alle immagini ed i suoni che l’animano. Anne-Britt
sarà di
certo più capace di me a trovare quei ladri. Quando
rientrerò lunedì, avrà arrestato i
colpevoli,
avrà recuperato la collana e si sarà fatta
invitare a
cena da Eric! Getto il
telecomando contro lo schermo illuminato con un gesto strizzato e mi
rialzo immediatamente. Non voglio
sentirmi
così. L’ho fatto per un tempo troppo lungo in
passato.
Questo sentimento di inadeguatezza che ha dipinto la mia adolescenza e
che pensavo fosse sparito con l’arrivo di quel distintivo,
torna
ad inondarmi la gola e l’anima. Mi passo
una mano sul viso,
dietro al collo, fra i capelli. Vorrei solo essere davvero capace di
spegnere tutto, ma non lo sono. Restano
solo parole, solo intenzioni fragili le mie, che spariscono non appena
la verità mi copre gli occhi e il petto. Lisa ha
ragione. Non merito il
grado di detective se non sono neanche capace di separare la vita
privata dal lavoro, il cervello dal cuore. Mi avvio
stancamente verso il
bagno ed apro il getto d’acqua della doccia. Mi sfilo la
maglia
e, quando la sto per gettare nel cesto della biancheria, mi ritrovo a
fissare il maglione ancora sporco di quella sera. La macchia di sugo
è ancora lì, coperta da una coltre di polvere
bianca
incrostata. Lascio
cadere la maglia a
terra a mi poggio con le mani sul lavandino. Stringo così
forte
la ceramica che mi pare di poterla frantumare fra le mie dita. Perché
è dovuto capitare proprio a me? Perché? Io volevo
solo fare il mio
lavoro nel migliore dei modi e magari mettere le basi per una
promozione. Ed invece mi sono ritrovato imbottigliato in sentimenti che
faccio ancora fatica ad accettare, che mi terrorizzano come neanche
stare sotto il tiro di una canna di pistola. Oramai il
mio è
diventato un circolo vizioso. Ogni pensiero vortichi nella mia testa
viene ingabbiato e trascinato giù dalla certezza che
qualsiasi
cosa faccia, non posso scappare da ciò che provo. Una catena
che devo spezzare,
solo così potrò tornare ad essere il vecchio
Magnus.
Quello un po’ imbranato, ma sicuramente più
padrone delle
sue emozioni -per quel poco che basta. Quando
sollevo gli occhi al
mio riflesso, al viso stanco, al livido ancora visibile sullo zigomo,
alle leggere occhiaie che incorniciano i miei occhi, so che
c’è solo una cosa che posso fare: chiudere il
caso. Devo
trovare il colpevole ed archiviare il furto Fustern, una volta per
tutte. Raccatto la
maglia ed esco di casa senza neanche spegnere luci e tv. Salgo deciso
in macchina. La mia
destinazione è solo una: porto di Ystad, molo 16.
Continua...
Nota titolo: kollaps
è una parola svedese è significa crollo,
collasso.
NdA.
Vi avviso che ci stiamo avvicinando al primo checkpoint della storia.
Una storia ha checkpoint? Le mie sì, e in questo caso sono
due e
poi c’è l’Arrivo.
No, scherzo, è che
l’intera storia è divisa in tre parti, quindi
diciamo che
con il prossimo ci avviciniamo alla conclusione della prima, ma
capirete da voi quando avremo svoltato la boa.
Momento confusione idee, terminato.
Spero di aver reso bene Kurt e Lisa, perché ho il timore di
fare
casini con i personaggi! Questo capitolo mi ha dato l’ansia,
confesso. Spero che ne sia almeno valsa la pena.
Perdonatemi se è alquanto striminzito, in realtà
era lungo il doppio, ma ho preferito dividerlo.
Alla prossima ^^
kiss kiss Chiara
Ilporto è silenzioso.
Pochi movimenti, poche facce in giro.
Vecchi marinai dalle mani incallite, visi stanchi che hanno solo voglia
di tornarsene a casa. Silenzio ed ombre
avvolgono il molo 16. I fari della mia Volvo
sono spenti.
Ho parcheggiato lontano dalla gialla luce dei lampioni che illumina la
scarna passerella. Sul sedile accanto a me, il cartoccio vuoto del
panino che ho preso al volo come cena. Un altro, e dopo la mela di
oggi, che mi è pure rimasta sullo stomaco con quello che
è successo alla centrale, mi sembra davvero di mangiare per
puro
spirito di sopravvivenza. Sono certo
però che stasera riuscirò a beccarlo quel dannato
Gambero, chiunque egli sia. Mostrerò a
Lisa quanto valgo
e a quel punto sarà costretta a ricredersi, e potrei anche
valutare la proposta di entrare nella task force di San Pietro. Magnus,
adesso non esagerare... Respiro a fondo
convincendomi, per quanto possibile, che ho fatto la scelta giusta. Trascorrerò
questi giorni di
pausa qui, fermo in quest’auto ad aspettare. La mia tenacia
sarà ripagata, ne sono certo. Studio i movimenti di
un paio di
uomini che scendono da un piccolo traghetto. Parlottano fra di loro.
Uno gesticola animatamente, l’altro ha entrambe le mani
sprofondate nelle tasche del pesante giaccone. Sono sul punto di
osservarne i lineamenti, quando qualcosa attira la mia attenzione: tre uomini hanno appena
parcheggiato sotto un palo.
È un’auto di grossa cilindrata, un'Audi nera.
Dimentico la
coppia di marinai e concentro tutte le mie attenzioni sui tre appena
scesi. I vestiti che
indossano,
così come l’auto con cui sono arrivati, mostrano
la voglia
di ostentare un certo tenore di vita. Sono giovani, avranno la mia
età. Uno dei tre
è più
basso degli altri, ma pare il più loquace. Il secondo,
più alto, che guidava, lo ascolta senza ribattere, mentre il
terzo se ne sta seduto sul cofano con una sigaretta fra le labbra. La
luce mi è d’aiuto e riesco a riconoscere una
carnagione
decisamente latina. Indossa un cappello di lana per proteggersi dal
freddo, ma sono più che certo che sotto nasconda una testa
calva. Potrebbe essere lui il
pusher che cercavo. Stringo la pelle del
volante ed
ingoio ansia ed eccitazione. Ho bisogno di stare concentrato. Devo
studiare la situazione e decidere solo dopo come agire. Per stasera
è il caso di
starmene qui a guardare, ad aspettare una conferma che sono certo non
tarderà ad arrivare. Ora nel discorso
è entrato
anche il terzo, colui che credo sia Gambero. Sono troppo lontano per
poter leggere le labbra, ma tento ugualmente senza però
ricavarne nulla. Probabilmente stanno parlando spagnolo. Anche gli
altri due potrebbero essere connazionali, ma non ne ho la certezza.
Sono quasi le due di
notte, ma il
misterioso trio è ancora qui al molo. Ormai non ho
più dubbi sul fatto che si intrattengano al porto
per
affari decisamente illeciti. C’è stato un viavai
di
persone fino a questo momento, e sono convinto che
continuerà
ancora. Droga. Non
può essere altro.
I movimenti sono i soliti: gesti veloci e sfuggevoli ad un occhio poco
esperto e, benché io non sia un agente della narcotici,
riesco
facilmente a riconoscere un passaggio di mano.
Per facilitarmi il lavoro, ho soprannominato mentalmente i tre: Alto,
Basso e Gambero. Non sarà il massimo della fantasia, ma mi
ha
permesso di appuntare velocemente ogni loro movimento. Ho deciso che
resterò qui
finché non andranno via. La targa è
già mia, non
mi resta che accedere al... Mando giù
un groppo di
rabbia mentre rammento che prima di lunedì non
avrò
accesso ad alcun database. Ma poco importa! Ho abbastanza materiale per
poter dedurre che quello è il mio uomo. Mi segno altri
dettagli nel buio
dell’auto che ho imparato ad apprezzare. Certo, mi sta
costando
un po’ di vista, ma non posso accendere la luce e
palesare
così la mia presenza. È un
avvertimento che
però la mia mano sinistra non ascolta. Sto infilando la
penna
nel taschino della giacca, quando quest’ultima scivola via e
nell’stinto di afferrarla, urto inavvertitamente il clacson.
Un
suono breve ma assordante nel silenzio della notte. «Merda!»
ringhio
maledicendo la mia goffaggine. Il battito accelera di colpo quando i
tre si voltano immediatamente verso la mia direzione. Ho bisogno di pensare
alla svelta a
cosa fare, ma i passi veloci di Alto e Basso mi rendono ancora
più difficile il tutto. Non posso andare via, questo
è
abbastanza chiaro. Afferro il distintivo
e lo getto sotto al sedile. Altrettanto faccio con la pistola
d’ordinanza ed il block-notes. Respiro a fondo, una,
due, tre volte, stringendo il volante nervosamente. Ho solo una soluzione
da provare e
spero sia quella giusta. Aspiro coraggio e preghiere e scendo
dall’auto quando ormai i due sono giunti da me. «Che stavi
facendo nascosto qui?» Svedese perfetto, ho sbagliato
deduzione: Basso non è portoricano. «Io cercavo
Gambero. Mi hanno
detto che potevo trovarlo qui» rispondo cercando di essere
convincente.
L’aria è gelida ed umida eppure sento il
volto andare in fiamme. Alto mi scruta senza
aprire la bocca, con la fronte corrucciata e poco convinta ed
è Basso a parlare nuovamente. «Sei uno
sbirro, per caso?» E meno male che non avevo la faccia da
poliziotto... «Certo che
no! Volevo solo
comprare qualc-» Non termino neanche la frase ché
Basso
inizia a perquisirmi. Mi volta sbattendomi con il petto sulla
carrozzeria e continua il suo lavoro velocemente. «È
pulito.» Sentenzia infine mentre sento lo stomaco contorcersi
per l’agitazione. «Ti ho detto
che non sono un poliziotto.» Fingo una certa irritazione che
sembrano bersi entrambi. «Che
cercavi?» Ma c’è ancora una nota di
diffidenza nella sua voce. «Qualche
pasticca. Roba così... Sono per una festa.»
Sparo una menzogna dietro l’altra passandomi una mano fra i
capelli nel tentativo di ammortizzare la tensione. Se non ho la faccia
da poliziotto, ancor meno ho la faccia da tossico. Almeno spero, anzi,
sarebbe meglio sperare che non sia così! Magari questo
residuo
di livido sul volto mi può anche essere d’aiuto. I due mi studiano
ancora ed io
getto uno sguardo al presunto Gambero che è sempre fermo
sotto
al lampione a guardare verso di noi. Basso non ha negato la sua
presenza ed è la conferma definitiva che cercavo. «Aspetta
qui.» Adesso
è Alto a parlare ed anche in lui non scorgo inflessioni
particolari. Annuisco e mi poggio all’auto nascondendo le
mani
nella tasche. Prendo un respiro profondo mentre sento gli occhi di
Basso scrutarmi senza pausa. «Perché
te ne stavi qui all’ombra?» Bella domanda! «Io... beh,
è la prima volta che cerco certa roba.» Mi
accarezzo il retro del collo e lui ridacchia. «Si vede!
È per fare colpo su una donna, ammettilo.» Perché, per fare
colpo sulle donne ora si regalano anfetamine invece dei fiori? «Eh
già.» Abbozzo un sorriso e lui annuisce
soddisfatto per aver indovinato le mie intenzioni. Nel frattempo Alto e
Gambero parlano fittamente. Ma in che cavolo di
situazione mi sono cacciato? Se non finisco con una pallottola in
fronte adesso, sarà un miracolo! E tutto per una cavolo
di collana... La mia prima
intenzione era
interrogare direttamente questo tizio e chiedergli se ne sapesse
qualcosa. Gli avrei assicurato che non avrei ficcato il naso nei suoi
traffici ed altrettanto avrebbe fatto la polizia di Ystad. Ero
più che sicuro che sarebbe andato tutto liscio, ma adesso?
Come
posso scoprire qualcosa se mi credono un semplice cliente?
Perché diamine mi sono infilato in una copertura che neanche
mi
spetta?! Non riesco a trovare
soluzioni per uscirne fuori. «È
carina?»
Torno sul viso di Basso. Due grossi occhi neri e profonde occhiaie.
Capelli scuri dal taglio militare, sul viso un largo sorriso malizioso
con un incisivo spezzato appena in un angolo. «Oh
sì, è molto
carina.» Continuo a dargli corda. Deve essere uno di quegli
idioti con il pallino della donne. Ma forse il vero idiota sono io che,
invece, mi faccio venire il pallino per gli scozzesi barbuti! Alto e Gambero hanno
finito di
parlare e Basso si volta nella loro direzione. Si scambiano qualche
segno di intesa che non colgo, e mi sento afferrare per un gomito e
spintonare verso l’Audi. «Cammina.»
E non posso che obbedire.
«Quante te
ne servono?»
Il suo accento è chiaramente straniero. Il suo viso da
vicino
conferma ulteriormente la mia teoria: olivastro con lineamenti
prettamente sudamericani. «Pensavo ad
un paio.»
Dopo tanto buio la luce pallida del lampione mi pare quasi accecante.
Mi stringo nella giacca avvertendo il freddo entrarmi fin dentro le
ossa, ma forse è solo paura. «È
la prima
volta!» Sento ridacchiare Basso, ma nessuno degli altri due
lo
segue. Alto è fermo al suo fianco dentro e mi guarda fisso,
Gambero annuisce passando lo sguardo dal mio viso al resto del mio
corpo con fare annoiato. «Sicuro che
non sei uno sbirro?» «Secondo te
ho la faccia da
sbirro?» Sorriso forzatamente aprendo appena le braccia con
fare
ovvio. Gli occhi di Gambero si assottigliano e si inchiodano ai miei.
Si alza dal cofano e mi si pianta davanti ad un palmo dal mio viso. Un
ghigno decisamente poco rassicurante. «Chi
può
dirlo...» Prego le gambe di reggermi e la mia espressione di
non
tradire alcun’emozione inopportuna. Gambero mi fissa ancora e
poi
si ritrae sedendosi nuovamente sul cofano. Si accende una
sigaretta, l’ennesima della serata. «L’ho
perquisito e non ha niente. Né armi né
altro.» «E la sua
auto?» Il mio cuore si ferma. Merda!
Basso e Alto si
scambiano uno sguardo e poi il piccoletto parte in direzione della mia
Volvo. Sono morto! «Ora vediamo
se sei o no uno
sbirro, riccioli d’oro.» Il viso di Gambero
è di
nuovo fronte a me. Vengo investito dall’odore del fumo mentre
due
dita mi stirano una ciocca di capelli sulla fronte. «Oh, sono
carini...» ridacchia ripetendo quel gesto fastidioso.
Stavolta
anche Alto ride beffardo. Mi tornano in mente le
parole di Larsson e quasi non ho più forza di nascondere il
mio terrore. Quando ormai ho
accettato che la mia fine è vicina - e non sarà
piacevole -, una voce tuona nelle mie orecchie. «Tutto ok,
qui?» Mi volto alle mie spalle facendo scivolare via da
quelle dita i capelli, e muoio per davvero. Ditemi che
è un incubo! «Non sono
affari che ti riguardano!» Il mio cuore
è in subbuglio e non certo più per la minaccia di
Gambero. «Io credo di
sì.» «Se fossi in
te, ne starei alla larga, papi[1].»
Gambero si allontana da me e si pianta davanti a quel dannato scozzese! Ma che
diamine ci fa qui a quest’ora? E perché si
è
messo in mezzo? Vorrei solo spaccargli la faccia per la sua
incoscienza. «Tu
dici?» Si fissano
ghignando per qualche altro secondo in cui prego il Signore della
Fustern di incenerirli entrambi! «Riccioli
d’oro, per
caso conosci questo ficcanaso?» Mi sento chiedere mentre i
loro
occhi continuano quella muta sfida. Mi schiarisco la voce intanto che
nella mia testa scorre una lunga lista di insulti diretti un
po’
ad ogni essere presente. «Più
o meno...»
Sono costretto ad ammettete, altrimenti il bel viso di Eric sarebbe
passato per le cure di questa banda di delinquenti. Un risolino abbandona
la gola del portoricano mentre è il primo a spostare lo
sguardo. «D’accordo.
Stanotte
sono di buon umore, perciò...» sospira lanciandomi
una
mezz’occhiata che non colgo – non voglio cogliere?
«Chiama Dave.» Si rivolge poi ad Alto e
l’altro
fischia verso Basso, alias Dave, che si è arrestato a
seguito
dell’arrivo di Eric. Velocemente torna verso di noi. «Sarà
per un'altra
volta, riccioli d’oro.» Mi sento sospirare
all’orecchio prima che i tre salgano in auto.
Se mi chiami ancora
riccioli d’oro ti svuoto un caricatore addosso! Se solo
avessi la
pistola...
I fari
dell’Audi si allontanano mentre il sangue nelle mie vene
bolle come lava cocente. «Si
può sapere che ti
è passato per la testa?» Sono al limite di tutto,
della
pazienza, della paura, della vita stessa. Possibile che
quest’uomo riesca a complicarmi le cose ogni volta, anche
quando tocco il fondo più fondo?! Fisso lo sguardo
aggrottato di Eric con un’espressione semplicemente sconvolta
e furiosa. «Scusa?»
ribecca lui con un mezzo ghigno. «Ti sei
messo in mezzo ad un’operazione di polizia! Te ne rendi
conto?!» «Farsi
ammazzare da degli
spacciatori è un’operazione di polizia,
adesso?» Con
due passi gli sono di fronte. «Non sono
affari tuoi,
Huntsman! Sta di fatto che non dovevi ficcare il naso!» Non
riesco più a connettere cervello e lingua. Lo spintono sul
petto
e mi allontano camminando nervosamente avanti e dietro con le mani sui
fianchi. Caos. Assoluto,
annebbiante, totalitario caos. Il mio
petto è un tamburo e quasi mi fa male. «Se questo
è il ringraziamento per averti salvato la vita...
» Torno a fulminarlo con lo sguardo. «Salvato la
vita? Cosa
diamine ti fa credere che avessi bisogno del tuo aiuto?» Eric
scuote la testa facendo un gesto seccato con la mano. Mi dà
poi
le spalle intento ad andarsene, ma stavolta non ci sto. Basta!
Non puoi più giocare con me, non adesso! Lo raggiungo e lo
strattono per un braccio costringendolo a voltarsi. «Rispondimi!
Ti sembro uno
che ha bisogno d’aiuto? Cos’è, vuoi fare
il
giustiziere solitario?» Gli urlo specchiandomi nel suo
sguardo
ora scuro come le acque di questo porto. Sobbalza
con gli occhi sui
miei e scuote nuovamente la testa. «Si può
sapere
perché ti fa infuriare tanto che ti abbia
aiutato?» Mi
fa
infuriare che tu abbia rischiato la tua vita, idiota! Lo guardo respirando a
fatica e
senza rendermi conto di avere ancora le dita avvolte attorno al suo
braccio. Quando lo faccio, mi allontano passandomi una mano sulla
fronte inaspettatamente umida di sudore. È tutto
sbagliato. Tutto! La
mia vita è un colossale fallimento. Sono un inetto come
poliziotto ed uno squallore come uomo. Non c’è un
solo
tassello che sia al suo posto e mi chiedo se non sia il caso di
prendermi una vacanza a tempo indeterminato! Lisa, come sempre, ci
aveva visto lungo. Tutti hanno visto la
nullità che sono, a parte me! Gli occhi mi pizzicano
e li stringo forte mentre lego le dita di entrambe le mani
dietro la testa. Sbagliato! Sbagliato!
Sbagliato! «Ehi?»
Stavolta è la mano di Eric a stringere il mio avambraccio. «Lasciami in
pace!»
ringhio sfuggendo al suo tocco, alla sua vista. Voglio solo sprofondare
e non riemergere più. Non voglio che mi veda
in queste condizioni. Non voglio che mi veda in assoluto. Maledico il giorno in
cui l’ho incontrato, il giorno in cui tutto è
iniziato a crollare, io per primo. «Ok, come
vuoi.» Ascolto
la sua voce con un groppo alla gola, un indegno groppo che non vuole
scendere. Nel
silenzio tombale del porto, sento i suoi passi pesanti che
si allontanano da me e riesco solo a cadere sulle mie stesse ginocchia.
Patetico! Tiro un pugno al
cemento a terra. Patetico! Poi un altro ed un
altro ancora, finché il braccio non si blocca a
mezz’aria. Patetico... Una mano stretta
attorno al mio polso. Alzo gli occhi lucidi
su quel viso
che tanto riempie i miei sogni e stavolta non reggo il suo sguardo.
Torno ad abbassare la testa ma non ho forza per impedirgli di tirarmi
su. Il mio braccio attorno
alle sue spalle, la mia mano che pulsa dolorosa stretta nella sua. «Andiamo, ti
porto a casa».
Continua...
[1] Papi ha
vari significati in spagnolo. In questo caso, Gambero lo usa in modo
sarcastico, come equivalente di “amico” in
italiano, o
“man” nello slang americano.
NdA.
Sì, alla fine Magnus è crollato nel senso
letterale del
termine, ma sembra che qualcuno, con somma sorpresa di tutti
(sì, come no) gli abbia già allungato una mano...
Avevo qualche dubbio su questo capitolo, ma alla fine non è
che
lo trovi così male. Spero vi sia piaciuto e soprattutto che
sia
credibile. Mi sembrava plausibile un simile sclero da parte di riccioli
d’oro, ma come sempre aspetto di sentire anche la vostra
opinione, miei adorati lettori ^^
Il personaggio di Gambero è liberamente ispirato
all’attore portoricano Amaury
Nolasco, che ha interpretato il meraviglioso Sucre nel mio
telefilm preferito in assoluto “Prison Break”.
Ed ora appuntamento alla prossima ed ovviamente una Buona Pasqua ed
un'allegra Pasquetta a tutti.
Spero che le vostre uova vi abbiano regalato tante belle sorpresine ^^
Kiss kiss Chiara
«Prendi.»
Non alzo lo
sguardo ed aspetto che la tazza fumante mi venga poggiata direttamente
fra le mani. «Grazie.»
Non credevo che la mia voce potesse assumere un tono così
penoso. Il calore del camino
mi brucia sulle guance ma non tanto quanto la vergogna che provo dentro
di me. Fare una scenata
simile davanti ad Eric. Perdere la pazienza e la faccia. Perdere la
dignità. Mi sono lasciato
raccattare come un bambinetto senza volontà né
spina dorsale. Ho lasciato che mi facesse salire nella sua auto senza
obiettare, senza dire una sola parola. Ed ora lascio che mi guardi
perdere l’ultima goccia di autostima, senza fare nulla per
impedirlo. Non sarò mai nulla per Eric al di fuori di un
patetico poliziotto incapace. «Non farlo
freddare.»
Sbattere i pugni a terra come un
pazzo?! Come uno che non ha alle spalle anni di accademia e di
esperienza. Cosa
penserà di me? Cosa già pensa di me? Non lo so,
non lo voglio sapere. Mi atterrerebbe ancora più di quanto
non abbia già fatto io. «Scusami per
quello che è successo al porto.» Sospiro quelle
parole senza alcuna emozione che non sia il disgusto per le mie azioni.
Guardo fisso la superficie lucida del tè che stringo fra le
mani. Guardo il leggero fumo che sale e si intravede fra le fiamme
davanti a me. «Mi sento terribilmente imbarazzato.»
L’ultima frase la sibilo fra i denti quasi con rabbia.
Perché sì, sono imbarazzato da morire e non credo
ci sarà mai situazione in cui potrei esserlo di
più. «No, avevi
ragione. Non dovevo intromettermi.»
Sollevo la testa
alla mia destra. Eric tiene la sua tazza nella mano e guarda anche lui
il fuoco. I capelli sciolti, la fronte corrucciata fra mille pensieri. Quanto ho desiderato
vedere con i miei occhi questa scena? Quante volte l’ho
disegnata nella mia testa, in quelle lunghe notti insonni? Eppure
nessuna fantasia potrebbe eguagliare ciò che vedo ora. Una
bellezza che mi spacca il cuore e mi fa stare ancora più
male[1]. Riporto
mesto lo
sguardo al tè. «Non so
perché abbia perso il controllo in quel modo... È
stata una scena pietosa.» Un sorriso triste mi piega appena
le labbra e avrei solo voglia di chiudere gli occhi e non riaprirli
più, non guardare più la mia faccia né
la sua. In quegli occhi riuscirei solo a rivedere ogni volta la mia
vergogna. «Adesso penserai che sono ancora più
ridicolo.» La verità delle mie paure sale dalla
gola insieme ad un risolino isterico.
Sento gli occhi di Eric su di me ma non riesco ad incrociarli. Non dice
nulla ed io altrettanto.
Bevo un piccolo sorso. Il tè è buono e dolce e
caldo. Mi scende nello stomaco come una carezza, anche se forse in
questo momento meriterei di più uno schiaffo.
«Aspetta qui.» Eric si alza e si dirige in cucina.
Il vortice del senso di colpa che mi annega nella testa mi impedisce di
rimuginare troppo sulla sua non-risposta. Bevo ancora un po’
di infuso e poggio la tazza sul tavolino di fronte.
Dovrei chiamare Lisa e parlare con lei, chiederle scusa per la mia
arroganza e farmi allungare quei giorni di riposo. Sento la
necessità di fare i conti con me stesso, lontano da tutto,
lontano da tutti. Mi sono perso e non so
se sarò mai in grado di ritrovarmi. Allungo la mano
e stendo lentamente le dita stringendo i denti nel
sentirla dolere in quel modo.
È arrossata e ci sono escoriazioni sulle nocche, sangue rappreso ed un leggero gonfiore. È un miracolo se non mi
sono rotto qualche ossa. L’accarezzo piano con
l’altra ma non riesco a trattenere un verso di dolore. «Non
è rotta, ma per qualche giorno ti conviene non
usarla.» Eric è tornato e ha in mano qualcosa. Non
capisco cos’è finché non mi si siede di
nuovo accanto. Riconosco una bottiglia di disinfettante ed un rotolo di
garze. Ne srotola una striscia e la inumidisce, prende poi la
mia mano fra le sue. Sussulto appena e lui alza il suo sguardo su di
me. «Tranquillo, non voglio farti male. Ci pensi
già tu a questo.» Sorride ed inizia a tamponare le
mie nocche. Le sento bruciare e mando giù una lamentela.
Poggia poi la garza sporca sul tavolino di fronte e ne prende una pulita più lunga ed inizia
a fasciare la mano con gesti esperti. Lascio che le sue dita
sfiorino la mia pelle, le mie ferite, la mia stessa anima.
«Sei bravo.» Un pensiero che non riesco a tenere
sulla lingua. Sento il cuore battere forte. Lui sorride ancora mentre
passa la fasciatura sotto al mio palmo.
«Ho fatto a pugni un paio di volte, ma questo lo dovresti
sapere, detective.» Sollevo appena le labbra in un piccolo
sorriso e mi lascio cullare dalla sua voce e dalle sue cure.
Eric Huntsman che cura amorevole la mia mano dolorante.
Neanche nei miei sogni più arditi. Eppure non riesco a far
sparire l’amaro che mi sale dallo stomaco. Eric
potrà curare la mia mano, ma il mio orgoglio non si
solleverà tanto presto.
«Grazie.» I suoi occhi quasi arancioni per via del
fuoco che vi si specchia, tornano sui miei. «Grazie per
tutto. Non so perché l’hai fatto ma io...
grazie.» Non dice nulla, continua il suo lavoro con
attenzione finché non mi rilascia la mano.
«È un po’ stretta ma così non
si gonfierà ulteriormente.» Fisso il bianco delle
bende ed annuisco. Getta il piccolo
rotolo sul tavolino e si lascia cadere con le spalle sul divano. Non
oso guardarlo benché muoia dalla voglia di dirgli ancora
grazie, ed ancora scusa. Scusa per essere entrato nella sua vita, per
averlo giudicato, per non aver avuto né decenza
né rispetto nel fare un passo indietro. Scusa, se provo
qualcosa che non riesco ad accettare e che so, neanche lui potrebbe. «Non dovevi
prenderti tanti disturbi» alito piano chiudendo gli occhi.
Sono stanco e sfinito. Ormai sono le tre di notte e dovrei andarmene a
letto. Poi un flash balena nella mia testa: anche Eric è
sveglio a quest’ora e di certo domani dovrà
lavorare. Mi alzò immediatamente. «Devo
tornarmene a casa. Tu devi dormire ed io ti ho già creato
troppo problemi!» Mi volto con un fiume di parole che non
riesco a regolare e lo vedo sorridere con la fronte appena contratta. «Oggi ho
fatto doppio turno e domani non lavoro, per cui rimettiti
seduto.» Mi fa segno con l’indice, ma
benché non abbia più alcun orgoglio a cui
aggrapparmi, non posso restare in questa casa un minuto di
più. Scuoto la testa
sorridendo a mia volta. «Grazie, ma
è meglio che me ne vada.» Mi ritrovo a passarmi
una mano fra i capelli e, sarà l’ora tarda,
saranno i suoi occhi su di me, uso la mano fasciata
e... «Ahia!» lamento guardandola torvo. Eric sorride e poi
ride. Una risata calda e senza voglia di beffa. Una risata che mio
malgrado mi ritrovo a ricambiare sentendo il viso farsi via via
più caldo. Ricado sul divano accasciandomi con la schiena
sulla pelle marrone. Lo sguardo al soffitto ed un residuo di
ilarità ancora fra i denti. «Sono un
disastro...» Stringo le palpebre e lascio
che una nuova
risata mi accarezzi le orecchie. Stasera ho perso
tutto, un’altra umiliazione non cambierà nulla. Quando il silenzio
torna ad essere infranto solo dallo scoppiettare della legna del
camino, riapro gli occhi. Le ombre sul soffitto disegnano forme
irregolari ed affascinanti. «Eric?»
Non aspetto che risponda, so che è ancora al mio fianco
sebbene non lo abbia nella mia visuale. «Che ci facevi al
porto a quell’ora?» È la prima domanda
che mi ha attraversato la mente quando l’ho visto sbucare
alle mie spalle. «Mi liberavo
di un cadavere.» Cosa?
Sollevo immediatamente le spalle con
un’espressione sconvolta sul viso. «Era un
poliziotto che mi dava noia. Sai
com’è?!»
Bastardo...
Sbuffo con aria ancora più imbarazzata mentre
lui torna a sorridere divertito sollevandosi a sua volta dallo
schienale. «Lavoravo. Ho fatto doppio turno, te
l’ho detto.» «Perché
ti prendi sempre gioco di me?» Spero che sappia leggere
attraverso quella domanda.
«Lo faccio?» Spero che stavolta riceva la
risposta che cerco da tempo.
«Direi di sì.»
Spero di essere disposto ad ascoltarla.
Ma lui sospira soltanto, allungandosi sul divano e chiudendo gli occhi.
Perché non mi
rispondi mai? Mi perdo ad osservare
quel viso che tanto desidererei sentire sotto le dita. La linea del suo
naso, quella delle sue labbra. I capelli sciolti che gli tagliano una
guancia. Li vorrei scostare, li vorrei far scivolare lentamente dietro
al suo orecchio e continuare a guardare questo quadro perfetto che mi
ha completamente rapito il cuore. Sospiro appena e mi
poggio con la guancia sullo schienale del divano. Non posso credere che
si sia appisolato, eppure continua a tenere lo sguardo celato ed il
respiro dannatamente regolare. Il mio sembra volermi spaccare la gabbia
toracica. Mi mordo un labbro
trattenendo la voglia di sospirargli un altro grazie che so
già non vorrebbe sentirsi dire.
Chiudo anch’io gli
occhi. Il calore del camino mi copre come una coperta leggera, il
silenzio della notte mi stringe a sé, il profumo di Eric mi
riempie i polmoni e il sangue stesso. È tutto
così perfetto che dimentico quasi di aver perso faccia e
dignità al molo 16, di essermi invischiato in una storia
assurda di droga e portoricani ambigui, di aver lasciato che Eric
vedesse la parte peggiore – e più fragile - di me.
Ricordo solo il suo
abbraccio, la sua gentilezza, la sua pazienza, la sua
disponibilità. Perché
l’ha fatto? È un’altra domanda che resta
senza risposta e si perde fra le pieghe di un sonno da tempo agognato.
Apro lentamente gli
occhi. C’è un po’ troppa luce. Devo aver
dimenticato di chiudere le tende. Mi stringo nella coperta che
stranamente è più corta del solito e... Da quando
ho un camino in camera da letto? Nello spazio di un
secondo, il cuore mi scoppia insieme alla testa e mi tiro a sedere non
senza fatica. Sono a casa di Eric.
Ieri mi ha portato qui dopo che... Quel pensiero
è un colpo di sciabola dritto sul collo. Abbasso lo sguardo
sulla coperta azzurra che mi copre le gambe e la stringo con
l’unica mano con cui posso farlo. Fisso l’altra,
quella fasciata con cura da Eric, e la porto al petto con un sospiro. Mi sono assopito sul
suo divano guardando incantato il suo profilo e lui... Lui mi ha
poggiato una coperta addosso e mi ha lasciato dormire qui, in casa sua,
senza
chiedere nulla. L’intera
situazione mi è decisamente sfuggita di mano. Scendo dal divano
lentamente. Il fuoco è spento ma c’è
ancora qualche residuo di brace. Non avevo mai dormito accanto al fuoco
prima d’ora. Non avevo mai dormito così, a dire il
vero. Forse solo da bambino, quando il letto dei miei era una fortezza
inespugnabile per qualsiasi mostro o uomo nero. Sul tavolino non
c’è alcuna tazza. È tutto in ordine e
mi chiedo che ore siano. La casa sembra silenziosa ma non ho il
coraggio di verificarlo. Non riuscirei a chiamare il suo nome, non
adesso, non dopo ciò che è accaduto ieri. A mente
fredda realizzo che è tutto troppo assurdo. Mi dirigo verso la
cucina da cui proviene un leggero sibilo. Quando varco la soglia
sobbalzo appena. Eric è seduto al tavolo e beve del
caffè.
Solleva gli occhi su di me e non dice nulla. I suoi capelli sono ancora
sciolti come ieri sera e il suo viso sembra riposato - e stupendo. «Ti sei
svegliato» sospira poggiando la tazza sul tavolo. Annuisco
schiarendomi la voce. «Sì,
io... beh, io devo chiederti scusa se mi sono addormentato qui, non
avrei dovuto, ma adesso me ne vado. Scusami ancora.» Mi volto
e mi dirigo a passo spedito verso il divano. Avevo lasciato la giaccia
qui, ma non riesco a trovarla. Cerco sotto le coperte sentendo
l’intero corpo fremere per l’agitazione.
Non dovevo
addormentarmi sul divano di Eric! Non avrei dovuto accettare la sua
ospitalità, né la sua gentilezza. Tutto questo
finirà solo con il farmi stare peggio di quanto
già
non stia. Rivolto ancora la
trapunta ma non trovo nulla. Vago con lo sguardo in giro e la vedo
appesa all’attaccapanni di legno. Io non ce l’ho
poggiata, deve essere stato Eric. La cosa non fa che aumentare la mia
ansia. Devo andare via di
qui. Subito! Mi incammino verso
l’attaccapanni dell’ingresso quando una
verità mi colpisce feroce: la mia auto è rimasta
al porto. L’ho lasciata al molo 16, a quello stramaledetto
molo 16! Insieme alla dignità e alla faccia, aggiungerei. Mi fermo nel bel mezzo
del soggiorno e mi volto verso la cucina. Eric è sulla
soglia poggiato contro una trave con le braccia incrociate sul petto. «Il divano
doveva essere davvero scomodo...» ghigna provocatorio. «Oh, certo
che no! Ho dormito bene, più che bene! È solo
che...» Sospiro ancora passandomi una mano sulla fronte.
«È solo che devo andare. Non posso più
stare qui» confesso infine. Eric non sorride
più. Annuisce appena e si sposta dalla trave. «Dammi
cinque minuti» alita prima di sparire
nuovamente in cucina e portare via con sé quegli occhi in
cui tanto amo perdermi.
Anche ora
c’è silenzio nella sua auto. La prima volta era
imbarazzo, la seconda vergogna, adesso dispiacere. Non volevo andare via,
non volevo negare quanto fossi stato bene in sua compagnia, ma dovevo.
E il dovere viene prima di tutto, soprattutto per un poliziotto, anche
quando questi ha perso ogni fiducia in sé e nel suo lavoro. «Per quanto
riguarda quello che è successo ieri sera... »
Inizio un discorso che mi sono preparato in quei cinque minuti di
attesa, prima di vederlo scendere dalla scale con i capelli raccolti e
l’espressione seria sul viso. «Non devi
darmi spiegazioni.» Mi interrompe tenendo gli occhi sulla
strada. «No,
davvero, Eric, io volevo che tu sapessi che mi spiace veramente che tua
abbia dovuto assistere ad una simile scena. E soprattutto mi dispiace
per averti aggredito.» Sposto lo sguardo sulla fasciatura.
«Di solito ho i nervi un tantino più saldi, ma in
quel momento-» «Non serve.
Non sono affari miei, dopotutto.» Il suo tono è
deciso, quasi freddo, e la cosa mi confonde. Non capisco il suo cambio
di umore. Credevo fosse sollevato di non avermi più fra i
piedi, ma magari la mia può essere sembrata semplicemente
ingratitudine. «Dimmi dove abiti.» A quella domanda
indiretta riporto gli occhi sul suo profilo. «Il porto...
io credevo che... È lì che ho
l’auto.» «Con quella
mano non puoi guidare. Ti accompagno a casa e poi ti riporto
l’auto.» No!
Questo non glielo posso permettere. «Non mi fa
male, davvero.» Il suo sguardo mi fulmina.
«È vero, guarda!» La scuoto appena e la
sento pulsare dolorosa, ma non ho per niente voglia di finire dalla
padella alla brace. «Vedi? Riesco a muoverla.» Ma
il mio viso non riesce a fingere di non sentire le fitte che mi
dilaniano le dita. Eric scuote la testa e
torna a fissare la strada. «Piantala e
dimmi dove abiti.» È
ufficiale: sono finito dalla padella alla brace.
Quando apro la porta,
mi ritrovo di fronte una casa
illuminata ed una tivù che “chiacchiera da
sola”, come diceva mia nonno. La richiudo alle
spalle e mi dirigo verso la cucina. Riesco solo a buttare
giù un bicchiere d’acqua, perché il mio
stomaco è totalmente chiuso. Troppe emozioni me
l’hanno stravolto e mi chiedo se sarò ancora in
grado di mangiare sul serio. Ho detto ad Eric che
non c’era bisogno che tornasse al porto a riprendere la mia
Volvo. E poi come tornerà a casa? Mica può
guidare due macchine?! Ha notevoli abilità ma non credo che
l’ubiquità sia una di queste. Mi lascio cadere sulla
sedia della cucina con un sospiro che ne contiene altri cento. Eric mi ha stretto a
sé, ieri sera, ma io ero troppo sconvolto per dargli il
giusto peso. Non era un abbraccio né altro, era solo un uomo
che ne sosteneva un altro, eppure... Eppure il suo braccio si
è legato attorno alla mia vita, il mio ha stretto le sue
ampie spalle e il profumo della sua pelle mi ha avvolto. Poi mi ha offerto il
suo tè, il suo divano, ed io ne ho approfitto senza
contegno. Perché
l’ha fatto? Cosa l’ha spinto a mettersi contro dei
delinquenti per difendere me? Magari ha una di
quelle sindromi da difensore dei deboli. Basta pensare a come si
è comportato con la Fustern. Oppure si deve essere mosso a
pietà. Sì, deve essere andata così: ha
avuto pietà di un uomo spezzato e l’ha portato a
casa sua come si fa con un cucciolo ferito trovato per strada. Una
volta curato, lo lasci tornare alla sua vita e te ne dimentichi. Il
cucciolo, però, non dimenticherà mai.
Anche se con qualche
accorgimento, sono riuscito a farmi una doccia decente. La fasciatura
non si è bagnata, anche perché l’ho
coperta con la cuffietta per la doccia che avevo sempre tenuto sulla
mensola senza mai usarla. Pensai anche di gettarla, ma alla fine
è stata una fortuna non averlo fatto; si è
rivelata alquanto utile. Ho giusto il tempo di
vestirmi quando il campanello suona. «Un
secondo!» Urlo per farmi sentire mentre mi asciugo
velocemente i capelli con l’asciugamano. Chi può
essere? Anne-Britt? Magari vuole accertarsi di come sto. Ieri
l’ho trattata in modo davvero ingiusto e sarebbe il
caso di scusarsi anche con lei. La lista di persone
con cui scusarmi sembra
allungarsi ad ogni respiro. Non può
essere nessun altro, Eric di certo non si precipiterà a... Apro la porta e,
contro
ogni previsione, mi ritrovo davanti proprio il viso di Eric. «Eccoti le
chiavi.» Quanta fretta di liberarsi di me! «Oh...
Grazie, Eric.» Afferro le chiavi dalle sue dita e le stringo
nel palmo della mano sana. «Ma adesso come tornerai al
porto?» «A
piedi.» Scuoto la testa confuso. «Non sono che un
paio di chilometri.» E un senso di colpa
atroce mi attanaglia la gola. «Non so
perché ti prendi tanto disturbo, davvero.» Sospiro
abbassando la testa. I cuccioli feriti non meritano tanto. Non ricevo risposta e
sollevo lo sguardo per cercarla fra le pieghe del suo bel viso.
C’è ancora un sorriso sulle sue labbra, ma non
riesco a decifrarlo. Sento una goccia
d’acqua cadermi su una guancia e mi ricordo solo allora di
avere la testa completamente bagnata. «Va’
ad asciugarti, non so curare la polmonite.» Ghigna ironico ma
non riesco a sorridere perché dentro di me qualcosa urla.
Una voce che mi esplode nei timpani forte come una supernova. Eric sta per andarsene
quando lo blocco per un braccio. Ho bisogno di sapere. «Dimmi
perché l’hai fatto.» «Fatto
cosa?» «Non fingere
di non capire.» Per
quello ci sono già io. «Dimmi
perché mi hai aiutato ieri e la fasciatura, il
divano...» farfuglio e mando giù un nodo umido.
«Non riesco a spiegarmelo.» E il mio cuore non
può sopportare altri misteri.
Lo fisso negli occhi cercando in quelle pozze chiare la risposta che
anelo, ma non la trovo.
La trovo sulle sue labbra quando sorridono.
Quando si muovono lentamente. «Non sei molto sveglio,
detective.»
Quando si avvicinano piano e si posano sulle mie.
Continua...
[1] Una
bellezza che mi spacca il cuore è una
frase ispirata ad un verso della canzone “Atto di
fede” di Ligabue.
NdA.
...
...
...
...
...
...
Non credo di aver altro da aggiungere u.u
Kiss kiss Chiara
Il rumore
costante dell’acqua che esce violenta dal rubinetto. I miei
occhi
sono fissi in quelli del mio riflesso eppure non lo vedono realmente. Strofino forte lo
spazzolino sui denti. Sputo, passo le setole
sotto l’acqua e strofino. Non ci credo. Non ci
voglio credere. Spazzolo con
insistenza e sputo ancora. Di nuovo setole sotto l’acqua. Non ci voglio pensare.
Non è
successo. I miei capelli
grondano gocce fredde ma non me ne curo. Continuo a passare senza
gentilezza lo spazzolino sui denti. Le mie palpebre
sembrano aver dimenticato come chiudersi. È stato un
sogno, un incubo, un’allucinazione! Non è
accaduto per davvero! Eric non l’ha fatto! Un ulteriore sputo e
stavolta
è schiuma rossa. Sento il sapore ferroso del sangue e mi
passo
la lingua sulle gengive spaccate. Mi attacco con le labbra direttamente
al rubinetto e inondo la bocca di gelida acqua. Eric non
può averlo realmente fatto! Sputo ancora e
stavolta è solo sangue. NO! Chiudo
l’acqua e piombo nel
silenzio più assordante. Sento nelle mie stesse orecchie il
martellare del cuore. Non ha smesso un attimo di battere furioso.
Un‘adrenalina incontrollata mi ha intossicato il corpo. Una
paura
che non credevo di poter provare, mi ha completamente invaso. Sulla mia lingua il
sapore ferroso persiste. Se chiudo gli occhi
posso ancora sentirle: morbide, gentili, di quelle che non diresti
appartengano ad un uomo. Un bacio. Solo uno. Un
bacio dannatamente innocente. “Ci
vediamo.” Una breve frase. Ha
percorso poi i
tre gradini di casa mia ed è sparito lasciandomi in completa
balia della confusione più assoluta. Eric Huntsman mi ha
baciato. Lui, ha baciato me. Abbasso lo sguardo
sulla ceramica bianca e stringo le palpebre. Sono io che ho passato
l’ultimo periodo a fantasticare sulle sue labbra, sulle sue
mani, sulla sua voce. Sono io che ho dovuto combattere con tutte le mie
forze per non cedere ad alcun gesto inopportuno o frase che potesse
essere fraintesa. Sono io che mi sono completamente invaghito di lui.
Eppure... Eppure lui ha poggiato le sue labbra sulle mie come fosse la
cosa più normale del mondo. Non mi sono neanche chiesto se
qualcuno ci ha visto. Ci avranno visto?
In questo preciso
istante non
potrebbe fregarmene di meno. L’unica cosa che voglio sapere
è perché. Era un’altra presa in giro?
Ha capito che
ho un debole per lui e voleva farsi due risate? È questo? Sono questo io, un
giocattolo con cui divertirsi? Serro la mascella ed
il pugno così forte che quasi temo di dover fasciare anche
questa mano. Il mio cuore ora
battere scuro. Rabbia, imbarazzo, vergogna. Più di ieri,
più di quanto non avessi mai provato. Non sono stato in
grado di dire nulla. Sono rimasto lì come un idiota, con la
testa bagnata e il respiro smorzato. “Perché
ti prendi sempre gioco di me?” “Lo
faccio?” «Dannazione!»
Mi passo
la mano sul viso sentendolo nuovamente accaldato. Non volevo che
succedesse. Cioè, lo volevo, ma come si vuole qualcosa che
non
si può avere. Era più un desiderio, una pura
fantasia, di
quelle che non potrebbero mai diventare realtà. Desideravo
sapere cosa si provava a premere le mie labbra su quelle di Eric, cosa
si provava a far scorrere le dita fra i suoi capelli, sul suo viso, sul
suo corpo. Ma non avrei mai creduto che anche solo una di quelle
fantasie si potesse realizzare. Perché adesso fa
più male
di prima. L’ignoto mi
dava un’opportunità, mi regalava ancora
un’ultima
possibilità di ritornare me stesso. Come
sarebbe baciarlo? Probabilmente non bello. È un uomo, non ti
piacerà. Ed invece adesso non
ho più
nulla. Non so dire se sia stato piacevole o no, non so dire se mi abbia
disgustato o eccitato. Non so dire nulla, non voglio farlo. Per un tempo troppo
lungo, ho
sentito il mio cuore impolverarsi. Non c’erano più
emozioni a dargli vita. Le cercavo nel mio lavoro, nei casi
più
assurdi, nella richiesta infantile di approvazione da parte dei miei
colleghi. Poi Eric è entrato nella mia vita senza che
potessi
impedirglielo, ed ho iniziato a sentire la polvere sparire. Giorno dopo
giorno, sguardo dopo sguardo, fantasia dopo fantasia. Non credo di aver
mai provato prima qualcosa di simile. Non so dargli nome, e mi
spaventa. È curiosità, quella che mi scatena
Eric,
è terrore, desiderio, rabbia, gioia, vergogna. È
vita. L’ho sentita
impossessarsi di
me lenta ed irrefrenabile finché non è esplosa
quando le
sue labbra si sono posate sulle mie. Ed ora, ed ora quella stessa vita
mi sta uccidendo, perché non posso sopportare sia stato
tutto
solo l’ennesima beffa. Afferro il fohn e
prendo ad asciugarmi questa dannata testa senza troppa cura. Neanche stavolta
riesco a vedermi. Il mio riflesso è di cristallo. Lo
attraverso, lo ignoro. Nonostante la
fasciatura ed il
dolore che pulsa, tengo fermo nella mano il fohn e con
l’altra mi
aiuto a sistemare le ciocche fastidiose. Quando termino il mio
lavoro riesco
finalmente a vedermi. Riesco a leggere nei miei stessi occhi ed
è una lettura amara, rabbiosa, disperata. Devo andare da lui,
devo dirgli in
faccia che ne ho abbastanza, che questo stupido poliziotto si
è
stancato dei suoi giochi. I miei occhi mi
parlano di una
determinazione che quasi mi spaventa, di quelle che provi solo quando
arrivi al limite. Questo è il mio limite ed Eric lo ha
decisamente superato.
Fa male. La mano fa
davvero male, e come ho imparato a mie spese, Eric aveva ragione. Guido lento,
indifferente ai clacson alle mie spalle. Che vadano tutti a farsi- Rimani
concentrato! Il tempo per arrivare
ad Hedeskoga
è lungo il doppio del normale, ma le mie sensazioni
smentiscono
l’orologio. Forse i pensieri che mi hanno fatto compagnia
hanno
ridotto la reale percezione del tempo, ma di fatto mi sembra di
arrivare a casa di Eric in un batter di ciglia. Respiro a fondo. Mando
giù
saliva e coraggio, quel poco che ho ritrovato in un angolo affamato
dello stomaco. Spengo il motore e la mano pulsa furiosa. Cambiare le
marce è stato più difficile del previsto, ma ne
è
valsa la pena. La Ford non
c’è, ma
sono certo che arriverà da un momento all’altro.
Deve
arrivare, a costo di aspettarlo qui fino alla fine dei miei giorni! Scendo
dall’auto e mi siedo sul cofano. Braccia incrociate e sguardo
fisso alla strada. Il tempo dei giochi
è terminato e questo pupazzo non si è mai
realmente divertito. Minuto dopo minuto,
ritrovo forza e
sicurezza, ma forse è solo ira e rancore. È solo
vergogna. Ormai non mi curo più di fare distinzioni. Il
cuore
batte forte, qualunque sia il motivo; Eric dovrà affrontarne
le
conseguenze. Non so bene cosa dirgli, voglio solo averlo davanti. Non
baderò alle parole, mi lascerò andare come un
fiume in
piena senza argini, e travolgerò ogni cosa. Quando è
passata poco
più di un’ora, scorgo il blu della Ford Fusion,
prima del
blu dei suoi occhi. Eric parcheggia davanti al suo vialetto e scende
con un’espressione confusa sul viso. Un accenno di sorriso
che è più che altro un’incognita. Il fuoco mi incendia
le vene. È
tutto tuo! Ispiro e serro la
mascella. «Ehi, che ci
fai-» Due passi, braccio
tirato e pugno dritto alla meta. Stringo i denti. Unico errore, usare
la mano fasciata. Eric barcolla appena e
si porta un mano sulla bocca. «Ma sei
impazzito!?» Un
po’ di sangue gli sporca le dita e capisco che deve essersi
spaccato un labbro. Respiro affaticato. Ho lo stomaco completamente
sottosopra e la gola che arde. «Magnus, ma che cavolo ti
è
preso?» Mi urla contro con lo sguardo ridotto ad una lama.
Deglutisco ed apro la bocca secca per prendere aria. «Devi
smetterla di prenderti
gioco di me» sospiro scuotendo la testa inconsciamente. Nel
frattempo anche la fasciatura inizia a sporcarsi di sangue e temo che
quelle poche escoriazioni debbano essersi riaperte. «Che?»
Ora è Eric a scuotere la testa confuso ed arrabbiato direi. «Questa
mattina hai superato ogni limite! Ora devi finirla!» «Questa
mattina? Ma che stai
farneticando?» Il mio battito accelera ancora
perché non
riesco a sopportare quell’espressione disorientata. Smettila di
fare così, Eric Huntsman! SMETTILA! «Questa
mattina, Eric. Questa
mattina!» Deglutisco ancora dando uno sguardo alla mano. Fa
male
più di ieri e stavolta non ci sarà nessuno a
fasciarmela,
temo. «È
perché ti ho
baciato?» Ci
sei arrivato, Einstein! Non gli servo una risposta,
non voglio anche quest’umiliazione. Mi limito a scostare lo
sguardo dai suoi occhi prima di sentire ulteriore imbarazzo scaldarmi
la faccia. «Cristo santo, Magnus!» Sputa a terra
saliva e
sangue e si pulisce poco elegantemente le labbra con il dorso della
mano. «Tu hai qualche problema.» Scatto come una molla.
«Adesso io ho qualche problema?» Lo raggiungo
lasciando che
sia poco più di un metro a dividerci. «Tu ti
prendi gioco
di me, mi umili, mi tratti come se fossi un fantoccio senza
volontà, ed io ho qualche problema?» Sento le dita
tremare
ed un nodo stringermi la gola. «Non so di
che diavolo stai
parlando, ma è meglio che te ne vai.» Mi supera
dirigendosi verso la sua abitazione. Non posso permettergli di
cavarsela così. «Almeno abbi
il coraggio di ammetterlo, Eric!» È arrivato
davanti alla porta e continua a darmi le spalle ma scuote la testa. «Magnus, ti
avverto: vattene prima che sia tardi.» «Perché?
Vuoi
pestarmi? Non ho paura di te. Sono un poliziotto, Huntsman. Non
dimenticarlo!» E vorrei essere io il primo a non farlo. Gonfia le spalle e si
volta.
«Allora lascia che ti dica una cosa.» Il suo
sguardo
è puro ghiaccio. «Poliziotto o no, Magnus, tu sei
un vero
idiota.» Finalmente la verità. Sento le labbra
vibrare perché sì, la volevo, ma non pensavo
facesse così male. Un idiota, ecco cosa
pensa Eric di me, cosa ha sempre pensato. Sono un idiota. Annuisco schiarendomi
la voce. «Bene, direi che è tutto.» Ho trovato
ciò che cercavo,
gli ho perfino rifilato un pugno. Ora posso andare in ospedale e farmi
medicare la mano e magari il cuore, sperando ci sia un cicatrizzante
anche per quello. «Ma come ti
può venire
in mente che ti abbia baciato per prenderti in giro?» Alzo lo
sguardo sul suo viso. È arrabbiato, forse più di
prima,
più che per il pugno e non capisco perché.
Aggrotto le
sopracciglia scuotendo la testa. «E allora
perché
diavolo l’hai fatto?» ringhio con voce ferma. Non
voglio
neanche pensare sia per... NO! Non è possibile, non
può
essere vero. Eric non può averlo fatto per quel motivo. Non ho
neanche il coraggio di prenderlo in considerazione, si rivelerebbe poi
solo l’ennesima delusione. La peggiore di tutte. Eric, non
farlo... «Perché
mi
andava!» sbotta ed io salto un battito. Si prende una pausa
mentre le mie gambe potrebbero cedere da un momento
all’altro.
«E pensavo lo volessi anche tu.» Arresto cardiaco in
corso! «Io?
Perché tu...
co-come... » Sento le parole perdersi sulla lingua e faccio
una
fatica immane per metterle in ordine. «Cosa te l’ha
fatto
credere, eh?» «Devo anche
risponderti?» Sembra più tranquillo di prima ma io
al
contrario sto solo peggio. Credo di avere l’aspetto di un
peperone in questo istante, perfino le orecchie mi stanno andando a
fuoco. Ho sempre vissuto la cosa come fosse un monologo affettivo, ed
ora salta fuori che anche lui lo voleva. Ma voleva cosa? «Che vuoi
dire?»
È appena un sussurro e stavolta sono più che
onesto con
me stesso ammettendo che sto facendo spudoratamente il finto tonto. “Perché
mi andava” Quelle tre parole mi
rimbombano nella testa senza freno ed io ho paura di volerle udire
ancora. Eric si tocca ancora
il labbro ferito. «Magnus,
sei...» Fa un
lungo sospiro mentre io trattengo il mio. «Come hai fatto a
guidare?» Sposto gli occhi dalla mia Volvo alla mano
insanguinata
prima di riportarli al suo viso. «Che te ne
importa?» Che
ti importa di me? Un altro sospiro
abbandona la sua
gola. Resto in silenzio a guardare la mia mano diventare sempre
più rossa. Stavolta temo di aver fatto una vera
stupidaggine. Ma
alla fine questa mano malandata è davvero l’ultimo
dei mie
problemi. «Vieni
dentro.» Un
ordine che risuona nell’aria. Alzo lo sguardo ma Eric non
è più sulla soglia. La porta è aperta
ed io non so
che cavolo fare. Nella mia mente
caotici flash delle
miei ultime ore. Lisa, i suoi occhi di rimprovero - di delusione. Il
porto, le acque nere, la voce di Gambero, quella di Eric. Il suo
abbraccio, la sua auto. Il divano. La mia mano che pulsa furiosa. Il
sangue sul cemento del molo 16, quello che macchia le bende. Il sangue
che sento lacrimare dentro l’anima. Le labbra di Eric, come
laudano sulle mie. Continuo a fissare
quella porta aperta senza schiodarmi da qui. Devo andarmene, devo
chiudere tutto
in un cassetto e annegarlo senza rimorsi. Eppure è atroce il
senso di impotenza che mi pervade nella semplice azione di andare via.
Eric sa mandare in confusione qualsiasi mio meccanismo di difesa,
sa abbattere ogni mia barriera. Nudo ed inerme, come la preda fra le
fauci del cacciatore. Quale sadica beffa! Ho quasi voglia di
piangere e se
non fossi determinato a non perdere ancora la faccia, credo che lo
farei. C’è qualcosa dentro al mio petto, un nodo
che mi
soffoca, ma in questo momento non so dire per quale vera emozione.
Riconosco solo un bisogno, urgente e autoritario, al quale non posso
oppormi, il bisogno dei suoi occhi nei miei, della sua voce, del suo
profumo. Il bisogno disarmante di lui. Raggiungo i pochi
gradini e li
salgo lentamente. Quando sono in casa, accompagno la porta fino a
chiuderla con un secco click
della serratura. Eric non è in
soggiorno, ma lo sento armeggiare in cucina. Che
sto facendo? «Siediti.»
Avrebbe
dovuto fare lui il poliziotto, ha un istinto innato per dare direttive,
a cui non riesco mai ad oppormi, fra l’altro. Mi siedo senza batter
ciglio. Sul tavolo, la
cassetta del pronto
soccorso: il rotolo candido di garza sterile, la bottiglia di
disinfettante, la tintura di iodio, cotone idrofilo. Altri ricordi mi
affollano laceranti la mente. «Che
fai?» sospiro
stupidamente chiedendomi ancora perché sono seduto qui, ora,
dopo tutto quello che è successo. Non dovrei. Dovrei essere
steso su un lettino a farmi psicanalizzare o, al limite, a piangere
miseramente seduto sulla tavoletta del bagno. «Fa’
silenzio.» Quel tono rigido quasi mi scatena un brivido. Eric si siede di
fronte a me e
senza dire altro afferra la mia mano. La sfascia ed io stringo i denti.
Nel silenzio della cucina posso udire lo stesso il “ti sta
bene” che gli risuona nella testa, o forse risuona nella mia.
Lo lascio fare senza
aprire bocca.
Lascio che mi pulisca quelle poche escoriazioni con la solita sicurezza
che guida i suoi gesti, che torni ad avvolgermi una garza pulita
attorno alla mano. Lascio che le sue dita scorrano ancora una volta
sulla mia pelle ferita senza poter fare a meno di pensare a quelle
dannate tre parole. Il suo labbro non
sanguina
più ma si è leggermente gonfiato. Mi mordo il mio
con un
bruciante senso di colpa che mi contorce lo stomaco. Perché
diavolo gli ho dato un pugno? E perché mi sento in colpa per
averlo fatto? In fondo è tutta colpa sua. Se
l’è
meritato, eppure... «Scusa»
alito ma lui
non alza lo sguardo sul mio viso, tiene occhi ed attenzione sul suo
lavoro. «Non avrei dovuto darti quel pugno.» Ancora nessuna
risposta. Fa un ultimo giro e poi stringe la fasciatura. «Cambiala
stasera.»
Chiude la cassetta e la ripone su una mensola. Guardo la sua nuova
opera. Io come pubblico ufficiale non sono neanche in grado di mettere
un cerotto... Ma adesso non ho tempo
né energie per analizzare anche questo lato
–fallimentare- della mia vita. Un
passo alla volta, Magnus. Uno alla volta. «Eric?»
Mi dà
ancora le spalle per qualche secondo, poi si volta poggiandosi contro
un mobile. Il suo sguardo mi inchioda alla sedia e mi blocca il
respiro. Deglutisco scostando gli occhi. Voglio sparire
all’istante. «Perché
ti ha
sconvolto tanto?» Sorrido nervosamente alla sua domanda e mi
torturo una pellicina con un’unghia senza alzare la testa. Se
gli
rispondo mi farò solo altro male. Da quando sono diventato
così autolesionista? «Perché
era la prima
volta... Era la prima volta che qualcuno... che... intendo un uomo...
» Ma l’imbarazzo mi fa morire le parole in gola.
Pessima
performance, direi. «Ho
capito.» Beato
te,
perché io invece non ci sto capendo più nulla.
«Allora forse è meglio che torni a casa,
Magnus.»
Sento qualcosa incrinarsi nel petto. Un nuovo muro si sta erigendo e
sono stato io a mettere il primo mattone. Annuisco e mi alzo. Eric è
fermo contro il
mobile. Le mani poggiate sul ripiano e mi guarda con
un’espressione che riesco a definire solo con una parola:
gentilezza. Nel suo essere
scostante e
diffidente, Eric Huntsman è una delle persone più
gentili
che abbia mai conosciuto. Una gentilezza fatta di gesti e non parole,
di piccole e grandi azioni che non vuole neanche vengano riconosciute. «Ti fa
male?» chiedo indicandomi il labbro. Lui alza un solo angolo
della bocca. «Ne ho presi
di più forti, credimi.» «E li avrai
anche ricambiati.» Riesco a strappargli una risata. «Of course.»
E lui
invece mi strappa un feroce brivido che mi attraversa la colonna
vertebrale nel sentirlo parlare nella sua lingua. Restiamo
così, in silenzio, a guardarci per una manciata abbondante
di secondi. «Io devo
andare»
farfuglio con poca convinzione, ma di fatto resto inchiodato qui con
gli occhi fissi sulle mie stesse mani. Credo stiano tremando. «Tutto
bene?» Sobbalzo guardandolo. Eric... «Io...
Sì.» Sorrido e mento. Sul suo viso però
non scorgo alcun
sorriso, solo un’ombra di esso. Ho di nuovo voglia di
piangere.
«Perché mi hai baciato stamattina?» Un
pensiero che
prende vita in un leggero sospiro. «Perché
trovi così strano che qualcuno voglia baciarti?» «Mi rispondi
sempre con una
domanda» sottolineo abbassando lo sguardo. Perché non sei
mai chiaro? Perché mi lasci incatenato a questa confusione
senza
liberarmi? Lancio un occhio alle
mie spalle, a quella porta che sento urgente bisogno di raggiungere. «Non volevo
incasinarti.» Mando giù un nuovo magone. Vorrei
voltarmi e
perdermi ancora sul suo viso, sul suo labbro gonfio a causa mia e
chiedergli perdono con mille baci. Vorrei affondare fra le sue braccia
e pregarlo di perdonarmi se sono solo uno stupido incapace di accettare
i suoi stessi sentimenti. Vorrei umiliarmi ancora e sperare che mi
rialzi di nuovo da terra. Vorrei... «Devo
andare» Ripeto atono ed esco dalla cucina. Mi avvio lentamente
verso la porta.
Alla mia destra il camino spento mi sfiora la vista. Il divano, il suo
divano. Il suo sorriso, il suo calore. Ogni passo
è un grado in più nell’aria, quando
sfioro la maniglia sento quasi di sciogliermi. Mi mordo con forza le
labbra cercando la determinazione per spingerla ed andare via, ma non
riesco a trovarla. Resto qui, con le dita
avvolte
attorno al pomello e la pelle che arde. La sento quasi staccarsi da me.
Ho bisogno di sentirla staccare. Voglio liberarmene, voglio gettarla e
respirare,
ma non ci riesco. Da solo non credo ce la farei mai. Sospiro. Eric... “Sei
un vero idiota” Una scossa mi
attraversa il corpo e finalmente apro la porta. Quasi corro verso la
mia auto e mi
infilo dentro come se qualcuno stesse per spararmi addosso. La mano
brucia al contatto con il cambio, ma stringo denti e stomaco e continuo
a
fuggire. Mi lascio la sua casa
alle spalle
ed anche qualcos’altro che chiamerei cuore, se non lo
sentissi
battere dilaniante nel petto. Mi sento un coccio
incrinato che
potrebbe rompersi da un momento all’altro. Ho troppe crepe e
mi
rendo conto di averle create tutte da solo e l’unica persona
che
sembra capace di tenerle unite, è l’unica a cui
non posso
permettere di farlo. Le dita tremano sul
volante. Le labbra tremano. La vista mi si offusca. Il respiro si
smorza. Accosto lentamente
nella verde
campagna di Hedeskoga. Non c’è nulla al di fuori
di una
vegetazione silente, di un pallido sole autunnale e di questa strada
isolata. Non c’è nulla al di fuori di questo
sentimento
che sento scoppiare dentro e di cui ho un maledetto terrore. Mi accascio contro il
volante e
bagno le mie mani con le lacrime che mi scendono sul viso. Solo
vergognosi singhiozzi nell’aria, prima deboli, debolissimi,
poi
sempre più forti, come quelli di un bambino. Non pensavo
che
anche gli uomini potessero piangere in questo modo. Non pensavo che le
lacrime potesse bruciare come fiamme.
Continua...
NdA.
Aggiornamento in leggero ritardo u///u ma ieri è stata
davvero una domenica
bestiale ed oggi un lunedì da bestie (tanto per
cambiare)!
Spero mi perdonerete.
Il tempo di un grazie e alla prossima ^^
kiss kiss Chiara
«Avevo bisogno di
dirtelo.» «Non
era
necessario, Magnus.
Anzi, forse sono io a doverti delle scuse. Avrei dovuto parlarti prima
di decidere per te.» Scuoto la testa nella solitudine della
mia
cucina. «No,
avevi
ragione. Devo staccare un po’. Devo veramente
farlo.» «Magnus,
voglio che sia
chiaro che questo non ha nulla a che vedere con le tue
capacità.
Tu sei un elemento prezioso per la squadra, non
dimenticarlo.»
Quelle parole sono come acqua su uno specchio. Non le sento, non mi
toccano. Non
rispondo ed
è Lisa a dire qualche altra frase prima di salutarmi. «Ci
vediamo
lunedì» sospiro sorridendo al niente e chiudo la
chiamata.
Lascio cadere il telefono nella tasca e mi passo le dita sugli occhi. Prendo un
respiro.
È la decisione giusta. Mi dirigo
verso la
porta ed afferro
il piccolo borsone di pelle. Non mi regalo neanche un ultimo sguardo a
questo appartamento vuoto e mi chiudo la porta alle spalle.
Il suono
delle rotaie
è
qualcosa che mi riporta al passato, ai giorni di scuola, quando era
routine salire sul treno e cercare un posto libero accanto a qualcuno
che non avesse avuto intenzione di tormentarmi già di prima
mattina. Non sono bei ricordi, ma sono ricordi lontani e sembra non
facciano più male. Guardo dal
finestrino
la natura e le case che sfrecciano veloci. Il cielo si sta rabbuiando. Nel vagone,
una
manciata di
persone: una coppia di anziani, un uomo d’affari che traffica
con
il palmare, due ragazzi che ridacchiano fra di loro. Di fronte a me,
una ragazza giovane, avrà meno di vent’anni, che
ascolta
musica dal suo ipod. È carina, con lunghi capelli biondi che
ricadono ondulati fino alla vita. Un cerchietto rosa li tiene indietro.
Due occhi chiari, azzurri, dietro ad un paio di lenti incorniciate da
altro rosa. Si accorge
del mio
sguardo e mi
sorride. Io ricambio ma sposto la mia attenzione al mutare
dell’ambiente al di là del vetro. Non sono
neanche venti
minuti di
viaggio, eppure mi sembra di allontanarmi da Ystad di centinaia di
miglia. Mi illudo di poter fare lo stesso con i miei pensieri, ma mi
accorgo presto che invece hanno fatto il biglietto e sono saliti con me
- e non hanno avuto neanche la decenza di rimanere nel borsone. “Pensavo
lo
volessi anche tu.” Certo che
lo volevo,
lo volevo come
non ho mai voluto altro e poi... E poi ho rovinato tutto.
L’ho
aggredito e attaccato. L’ho incolpato ingiustamente e
l’ho
costretto a venirmi incontro ancora una volta. La pazienza di Eric
è eguagliata solo dalla sua gentilezza. L’ho
chiamata
pietà, ad esso non saprei davvero che nome darle. La mia
invece
un nome ce l’ha e brucia come acido sulla carne: codardia. Sono un
codardo, un
codardo che si
è perso e non è più capace
di trovarsi, e
quando ci si perde, si può solo ripartire
dall’inizio. Il
mio inizio è la prossima fermata. «Dove
scendi?» Una voce sottile mi giunge alle orecchie
strappandomi dal vortice caotico della mia testa. «Tomelilla.»
È la ragazza bionda. Ha tolto una cuffia che ora penzola
sulle sue gambe. «Io
a
Garsnas.» Annuisco e le sorrido ancora. «Sono
Irene.» «Magnus.»
Torno a
guardare il finestrino. Non sono in vena di fare amicizie, neanche con
ragazze carine, e poi dalle scritte a penna sulle sue Converse, mi sta
venendo il dubbio che sia addirittura minorenne. «Magnus,
tu
che fai nella
vita?» Ma perché non mi sono seduto accanto ai due
vecchi?
O vicino al businessman? Perché si è tolta quei
cavolo di
auricolari? «Sono
un
poliziotto.»
Cerco di essere cortese ma senza mostrare troppo interesse, anzi, spero
che capisca che non ho per niente voglia di mettermi a parlare della
mia vita, adesso proprio no. «Wow!
Che
figo!» Ho
appena avuto la conferma che è minorenne, quindi nel qual
caso,
rischio anche una denuncia. Sarebbe la ciliegina sulla torta!
«Io
studio danza e appena termino il liceo mi trasferirò a
Stoccolma!» Ecco, per l’appunto. I suoi
occhi brillano
ed il suo sorriso è contagioso. I sogni dei
ragazzi,
belli e
dorati. Tutti pieni di vita e speranze, senza sapere che un giorno tali
speranze verranno spazzate via come un scioccare di mosche. «Allora
buona fortuna.»
Poggio la testa contro il sedile e chiudo le palpebre. Non è
certamente l’atteggiamento più educato, ma tanto
entusiasmo mi fa solo sentire peggio. I miei problemi sono
lì,
ad aspettarmi sotto le palpebre ed urlano e graffiano. Non riesco
più a scindere quelli reali dal resto delle soffocanti
paranoie. Non mi
concedo riposo,
solo
silenzio. Il silenzio rotto dal vociare sommesso, dalle risate dei due
ragazzi, dal rumore costante e trascinante delle rotaie. Una culla
d’acciaio. Poi
lentamente il
treno rallenta con un crescendo stridere dei freni. Mi sento toccare un
ginocchio ed apro gli occhi. «È
la tua fermata,
Magnus.» Irene mi sorride gentile e torna a sentire la sua
musica. Questa ragazzina ha molta più diplomazia di quanta
ne
potrò mai avere io. Le sospiro
un grazie
che non sente, o fa finta di non sentire, ed afferro la borsa
dirigendomi verso l’uscita. Il treno si
ferma e le
porte si aprono. Metto un piede sul marciapiede polveroso ed ispiro a
pieni polmoni. “Home
Sweet
Home”, è così che si dice? Of course. Mi ritrovo
a sorridere
amaro.
Il cielo
sembra voglia
svuotarsi da
un momento all’altro, sollevo il colletto della giacca
camminando
con passo spedito. Per fortuna la borsa non è pesante, in
fondo
ci sono dentro due o tre vestiti, non di più. La sistemo
meglio
sulla spalla con l’unica mano che ancora mi funziona
perfettamente. Infilo l’altra nella tasca e stringo i denti
al
vento gelido che mi schiaffeggia il viso. Non ho
preso un taxi
perché casa mia dista poche centinaia di metri dalla
stazione. È
da quasi
un anno che
manco, non sono riuscito a venire neanche per il 6 Giugno[1] e sarei
tornato probabilmente per Natale. Sono solo venti minuti di viaggio
– in auto appena quindici - ed è strano come alle
volte
sembri un tragitto troppo lungo da percorrere, eppure stamattina sono
corso qui come un assetato nel deserto davanti ad un’oasi.
Credo
si chiami semplicemente egoismo. Quando ho
detto a mia
madre che
sarei stato da lei per un paio di giorni, sembrava felice. Spero lo sia
anche quando vedrà la mia mano fasciata ed il livido
giallastro
sulla faccia. Mi ritrovo
a sorridere
e imbocco una piccola traversa che in pochi passi mi porta davanti
casa. Mi fermo ed
ispiro
ancora rincuorato dalla sua vista familiare. Una piccola
goccia mi
cade su una guancia e sposto il naso all’insù. Un
tuono poi un altro. Riesco
appena a
raggiungere il porticato quando dal cielo inizia a piovere pesantemente. Sembra che
lassù qualcuno
abbia voluto risparmiarmi un bagno, forse c’è
ancora
qualche dio che mi ama. Forse. Come al
solito la
porta è aperta. Mamma,
quando imparerai ad essere
più prudente? «C’è
nessuno?» La chiudo giusto il tempo di vedere mia madre
sbucare
dalla cucina. I capelli biondi raccolti con un bastoncino, il grembiule
addosso e le mani nei guanti per il forno. Non riesco più a
respirare mentre mi stringe a sé. «Piccolo
mio!» «Ciao,
mamma.» Le bacio
una guancia ricurvo nel suo abbraccio. Non si direbbe dal figlio, ma
mia madre è alta poco più di un metro e sessanta. «Tesoro
mio!» «Mamma,
mi
stai soffocando.» «Fa’
silenzio! Sono
mesi che non vedo mio figlio, ora lascia che recuperi il tempo
perso.» Sospiro rasserenato e lascio cadere il borsone per
stringerla forte. La sollevo e lei si lascia scappare un urletto.
«Mettimi giù, Magnus!» Ride ed io
obbedisco. Il mio
cuore a
brandelli sembra già stare un po’ meglio.
«Dov’è
Rob?» «In
giro a
cercare qualcosa
per il suo nuovo bonsai.» Sorrido e la seguo nel lungo
corridoio
al piano di sopra. «Tutto come hai lasciato.»
Guardo la mia
stanza, la mia vecchia stanza in perfetto ordine. Il letto a doppia
piazza con il copriletto color verde bottiglia. La finestra che
dà sulla strada, l’armadio a due ante. Sul muro
verniciato
di ocra, il calendario della polizia del mio primo anno di servizio. «Ho
fatto i
tuoi biscotti preferiti!» «Mamma,
non
ho più dieci anni.» La sua mano mi accarezza il
viso e mi sorride dolce. «Lo
so.» Da quando
si
è risposata con
Robert, mia madre sembra rinata. Anche se, adesso che ho passato gli
anni orribili del divorzio, con tutta la rabbia e il senso di colpa
tipico dei figli di divorziati, posso confessare che non l’ho
mai
vista così felice neanche con papà. Lui
è sempre
stato un tipo autoritario e severo. La sua personalità forte
e
decisa ci ha in qualche modo legati, schiacciati. E a volte mi chiedo
se tutte le mie insicurezze non siano una sua mancanza... Ma non voglio
essere uno di quelli che scarica i propri fallimenti sui genitori. Se
ho fatto qualche sbaglio è solo colpa mia. Ora tutto sta a
porvi
rimedio – se mai ce ne fosse uno. Mio padre
lo vedo
poco, continua a
fare l’avvocato di successo a Stoccolma. Di Natale una
telefonata, se va bene. Il mio compleanno l’ha rimosso
dall’agenda dopo che ho compiuto 19 anni. Per il resto ci
pensa
mamma: “Papà ti manda gli auguri”,
“grazie,
ricambia.” Vanno d’accordo adesso più di
prima,
forse perché ci sono 600 km a separarli. Poggio la
borsa sul
letto e mi
tolgo la giacca. Mamma è tornata in cucina e, conoscendola,
starà preparando una cioccolata calda. Mi ci vuole proprio! Mi siedo
sul
copriletto che profuma
di pulito e lo sfioro con le dita. Ancora non si è accorta
della
mano, forse del livido sì, ma ha fatto finta di nulla.
Meglio,
almeno non dovrò darle spiegazioni che sarebbero solo bugie.
Non
ancora. Guadagnare tempo alle volte è l’unica cosa
che si
può fare. Ieri a
quest’ora, ero al porto a cercare Gambero. Stamattina ero a
casa di Eric. Ieri la mia
vita era
un disastro, stamattina si è praticamente sbriciolata. Il suo
volto mi
riempie i pensieri
ed il petto mi si ingrossa. Sfioro ancora con i polpastrelli la stoffa
liscia e vedo la sua pelle, le sue labbra. Accarezzo
le mie con
la lingua e sento il cuore galoppare forte. Non riuscirò mai
a tirarmi fuori da questo casino! Crollo sul
letto e la
borsa cade a
terra con un tonfo. Mi raggomitolo su un fianco e tengo lo sguardo
fisso al vecchio calendario. Tante piccole facce mi guardano e mi
giudicano, tante piccole divise che appesantiscono la mia. Sospiro a
fondo e mi giro sulla schiena fino ad incrociare con lo sguardo le
travi in legno del soffitto. «Eric...»
Neanche la
sento la mia stessa voce, perso come sono a chiedermi se ci
sarà
mai modo di tornare indietro. Fuori,
continua a
diluviare.
«Mh,
mi era
mancata la tua
cioccolata, mamma.» Mi godo un altro sorso caldo e morbido
mentre
mamma sorride accanto al forno. «Li
ho fatti
appena mi hai
detto che saresti venuto.» Poggia la teglia sul tavolo e
sposto
la tazza per farle posto. Sono invitanti e profumati e tutti perfetti,
della stessa identica forma. Tanti piccoli rombi di cacao e cocco. Ne
afferro uno e lo mangio con delizia sentendo il sapore familiare e
impagabile che tanto ha accompagnato la mia infanzia. «Buonissimi,
mamma. Come sempre.» Ne prende uno anche lei e mi si siede di
fronte. Mangio il
biscotto e
lo alterno
alla cioccolata – sto usando una sola mano. Quello che si
dice
è vero, quando si è depressi bisogna rimpinzarsi
di dolci. «Allora,
Magnus, che è successo?» Ed ero stato un illuso a
credere che non avrebbe capito. Mi guarda
dolce con il
mento
poggiato nella mano. La sottile linea di eyeliner appena sfumata
attorno ai suoi occhi identici ai miei e tutto l’amore di
questo
mondo sospeso nel suo accenno di sorriso. «Ho
qualche
giorno di ferie
arretrate, così ne ho approfittato per venire a
trovarti»
mento e lei continua a sorridermi e so che non mi crede. «Questa
è la versione
ufficiale, e invece la verità qual è?»
Ah, mamma,
avresti dovuto fare tu il detective! Abbasso lo
sguardo
sulla tazza e
poggio il biscotto morso per metà sul tavolo.
«Avevo
bisogno di allontanarmi da Ystad per un po’»
confesso
tenendo gli occhi alla cioccolata su cui si sta formando una leggera
pellicola più densa. «Problemi
a
lavoro?» Sorrido
appena.
«Magari
fossero solo quelli.» C’è solo
un’altra
persona oltre a mia madre con cui mi sento sempre nudo e senza difese e
la cosa mi spaventa. Lei è mia madre, mi ha portato dentro
di
lei per mesi. Abbiamo lo stesso sangue, la stessa anima. Lui chi
è? Chi
sei, Eric? «È
una donna,
allora?» Sollevo lo sguardo ai suoi occhi gentili e mi sento
trafiggere la gola da mille spilli. Vorrei
poterle dire
tutto, dirle
quale stato confusionale sto attraversando. Dirle di Eric, dei suoi
occhi, delle sue maniere gentili, della sua voce profonda. Dirle dei
brividi che mi scatena un suo solo sguardo e di quante notti sono
rimasto sveglio a pensarlo. Vorrei dirle di come il mio cuore sia
esploso quando mi ha baciato e di come sia esploso di nuovo quanto mi
ha detto che voleva farlo sul serio, che non era un gioco. Vorrei
raccontarle della notte sul suo divano, del fuoco nei suoi occhi e
sotto la mia pelle. Vorrei dirle quanta paura mi fa sentirmi
così nei suoi confronti, quanta rabbia corroda il mio
stomaco
perché non riesco ad accettare di volerlo come
l’ossigeno
stesso. Vorrei mostrale la mano e sospirare con quanta cura
l’ha
fasciata, con quanta cura mi ha risollevato da terra nel senso
letterale del termine. Ma non posso... Tengo la
mano celata
sotto al tavolo e mille parole chiuse nella testa, ferme in lacrime a
marcire. «È
complicato.»
Mi limito all’unica verità che so non
può fare
male, né a me né a lei. «Oh,
tesoro,
l’amore
è sempre complicato.» Sento le guance arrossarsi e
mi
nascondo dietro alla tazza. «Parlami di lei.» «Mamma,
ti
prego...» «Non
sarà di nuovo Catherine?» Catherine? «Con
Catherine è finita un secolo fa.» Ed era durata
molto meno. «Però
era molto
carina, non capisco perché tu l’abbia
lasciata.»
Termino la cioccolata e sistemo la tazza vuota accanto al vassoio di
biscotti. «È
stata lei a
lasciare me.» Le ricordo grattandomi un sopracciglio e
nonostante
tutto è ancora un pensiero fastidioso. In fondo stavamo bene
insieme. Sì, ok, ero sempre impegnato con il lavoro e lei
voleva
avere più attenzioni, ma ero appena entrato in squadra con
Kurt
e volevo fare bella figura, volevo guadagnarmi il suo rispetto. Mi
chiedo se l’abbia mai ottenuto almeno una volta, di certo
Catherine non ne ha avuto quando mi ha mollato da un giorno
all’altro per Steven il magazziniere, “attento e
gentile
come tu non sei mai stato.” Attento e gentile... ora quegli
aggettivi mi ricordano solo una persona. «Ad
ogni
modo non era molto
simpatica.» Sorrido intenerito dal suo voler rimediare alla
dimenticanza di prima e la guardo mentre addenta un biscotto. Il mio
è rimasto a metà, direi che la fame mi
è
decisamente passata. In un
momento di
distrazione mi
passo le dita fra i capelli con la mano destra e...«Oddio,
Magnus! Che hai fatto alla mano?» Ingoio la mia stessa
imbranataggine. Ma in fondo non potevo nasconderglielo per sempre. «Nulla
di
grave. Non preoccuparti.» Ma lei si è
già precipitata da me per studiare la ferita fasciata. «Sei
andato
in ospedale? Come ho fatto a non vederla prima!?» «Non
ce
n’è
stato bisogno, è solo una piccola contusione.» La
faccio
scivolare via dalle sua mani premurose e la scuoto per
mostrarle
che non è così drammatico. Una volta tornato a
casa ho
preso un paio di antidolorifici e il dolore si è attenuato.
Li
ho portati con me in caso dovesse tornare a pulsare. Avrei preso anche
degli ansiolitici se solo li avessi avuti... «Chi
te
l’ha fasciata? Tu non sei pratico in queste cose.»
Il cuore mi arriva in gola. «Un
amico...
Un
collega.» Spero che mamma non riesca a leggere nei miei occhi
l’agitazione che mi sta pervadendo in questo momento. «Anche
questa è una
piccola contusione?» Mi ritrovo il suo dito premuto sullo
zigomo
e sospiro colpevole. L’aveva visto. «Sì,
anche
questa.» Rispondo anche se non serve. La sua mano mi sfiora i
capelli e poi mi poggia un bacio sulla fronte, ispiro il suo profumo e
vorrei solo poter tornare bambino e dimenticare i casini dei grandi.
Vorrei solo scappare e quasi non mi rendo conto che è quello
che
sto già facendo.
Quando Rob
torna
è zuppo
fino alle ossa e mamma lo richiama di non aver preso un ombrello quando
lei glielo aveva consigliato. Lui si scusa e poi fila in bagno ad
asciugarsi. «Come
va,
Magnus?» «Bene,
Rob.» «Tua
madre
è felice di averti qui. Dovresti farci visita più
spesso.» Pranziamo
tutti
insieme e Rob mi
racconta dei suoi nuovi bonsai giunti direttamente dal Giappone. Ne
colleziona da anni ed ha una stanza apposta in cui li cura come fossero
figli. Mia madre è sempre stata convinta che sia
perché
non ha potuto averli. Con me è sempre stato gentile, e
benché non l’abbia mai considerato come un padre,
gli sono
affezionato. Non sono stato un figliastro facile, sono abbastanza
onesto da ammetterlo, ma lui ha avuto pazienza e fiducia in me, forse
è stato uno dei pochi a farlo. «Vado
a
controllare Mimo.» Quando si alza, guardo confuso mia madre e
lei ride divertita. «Alcuni
li
chiama per
nome.» Mi ritrovo a sorridere anche io dicendomi che era
proprio
da tanto che non tornavo qui. L’aiuto
con
i piatti con quel
poco che mi è concesso dalla mano e lei di tanto in tanto
sospira avvilita lanciandomi occhiatacce di richiamo. Sì,
mamma,
lo so che sono un caso disperato. «Sembra
proprio che non
voglia smettete di piovere.» Il temporale non ha cessato un
attimo ed i vetri bagnati alterano la visuale della strada e del
giardino. Avrei voluto sedermi sotto il porticato, sulla panca di
legno e guardare il cielo di Tomelilla, anche se so bene cosa avrei
visto: due stelle azzurre, troppo azzurre che mi avrebbero impedito di
dormire. Forse è meglio così, forse, è
un altro
regalo del mio buon dio. «D’altronde
è
autunno» sentenzio banale e mia madre annuisce caricando la
lavastoviglie. Avvia il programma e mi lascia un sorriso dolce. Io sono
poggiato contro la finestra e la guardo come quando ero bambino e vedo
una roccia indistruttibile. L’ho vista piangere tante notti,
l’ho vista piangere anche senza lacrime ed urlare nel
silenzio
delle nostre cene solitarie. L’ho vista come una donna e non
come
una madre e ho provato tanta tristezza e rabbia. L’ho vista
prima
di Rob e dopo Rob ed ho provato ancora più rabbia. Ma adesso
è di nuovo la mia roccia, quella che mi asciugava il viso
quando
venivo preso in giro dai compagni, che mi ascoltava cantare le lodi di
Susanne Gallstad con la stupidità di chi non si accorge di
non
contare nulla per lei. Ho di nuovo dieci anni per i suoi occhi e per il
mio cuore. «Ti
va di
fare due chiacchiere?» L’abbraccio forte poggiando
il mento sui suoi capelli. «Non
adesso,
mamma.» Non
sono ancora pronto. «Come
vuoi,
bambino mio.» E il suo calore è tutto
ciò di cui ho bisogno.
Continua...
[1] Il 6 giugno in Svezia
si festeggia il Sveriges
nationaldag
[Festa Nazionale Svedese] che è, per l’appunto,
una
festività nazionale. [nda.
L'ho considerata un po'
l'equivalente
svedese del nostro 2 Giugno]
NdA.
Eh sì, anche Magnus ha bisogno di mammà!
No, oggi niente commentacci inutili, ve li risparmio.
Ho un Grazie enorme come la confusione di Magnus da fare a Angie per
avermi fatto dono (immeritatamente) di questa stupenderrima fanart *w*
Ed un altro ennesimo Grazie per quell’altra santa donna di Sara
anche lei con la voglia di sprecare tempo ed energie per creare roBBa
in nome di questa storia *^*
Perdonatemi il riferimento fangirloso a Thor, ma ci stava e ce
l’ho lasciato u.u
E con questo I regret
nothing ringrazio tutte e vi abbraccio con vero affetto.
kiss kiss Chiara
Ha
piovuto per tutta la notte e per tutto il girono seguente. Ha piovuto
ad intensità diverse eppure non ha mai smesso. Solo ora mi
sembra di scorgere dalla finestra un pallido riflesso di sole.
L’aria è fredda e mi aggrada starmene stretto nel
vecchio
golfino grigio trovato nell’armadio. Scosto la tendina e
getto un
altro sguardo al cielo. «Tesoro,
io e Rob
usciamo.» Mi volto ed annuisco con un sorriso. Mamma
è
bellissima con i capelli sciolti e ricci che le sfiorano le spalle, con
il suo rossetto rosa e la mania di sistemarsi gli orecchini come le
cadessero da un momento all’altro. Si avvicina piano e mi
stringe
le dita attorno al braccio. «Lo so che è non
è
carino lasciarti da solo, ma non credo che far visita alla zia
novantenne di Rob sia nei tuoi piani.» Mi lascio
sfuggire un risolino.
«Non preoccuparti, mamma, anzi sbrigati perché Rob
credo
voglia partire subito.» Dalla strada lo vedo borbottare al
telefono poggiato contro la sua auto. «Così
torneremo
prima.» Un bacio sulla guancia. «Se non dovessimo
fare in
tempo, la cena è pronta, devi solo scaldarla. Ok?»
Annuisco e mi ritrovo di nuovo le sue braccia al collo.
«È
bello averti qui, Magnus.» «Anche
io sono contento di stare con voi, mamma.» Un clacson sale
dalla strada. «A
stasera.» Aspetto di
vederla scendere in
strada e salire in macchina. Mi lancia un ultimo saluto e le sorrido
coprendo nuovamente il vetro con la tendina quando l’auto
svolta
l’angolo. Ci siamo,
dopo due giorni di quasi
pace, ecco che sono costretto a fare i conti con me stesso. Le
chiacchiere di Rob ed i suoi bonsai, i dibattiti sulla politica
“opportunista e disonesta”, i buffi pettegolezzi
sulla
signora Schneider che avrebbe deciso di fare testamento a favore della
sua badante anziché dei figli, tutto mi ha aiutato a tenere
lontane dalla testa e dal petto le miriadi di domande che mi hanno
bombardato a Ystad. Ma come avevo temuto, era solo questione di tempo.
Al primo silenzio hanno fatto breccia nelle mie difese e ora sono qui a
picchiarmi forte nel cervello. Forte, più forte di prima. Il pensiero
di Eric, invece, per
quanto mi sia sforzato, non mi ha abbandonato un attimo. Mia madre ha
tentato più volte di aprire discorso ma ho sempre glissato
ogni
domanda. Non posso risponderle, non posso risponderle e farmi altro
male. Non conosco neanche le risposte, cosa potrei dirle? Mi avvicino
al calendario e lo
stacco dalla parete. Lo poggio in un cassetto e lo chiudo. È
un’altra fuga, un’altra scorciatoia facile. Mi
arruffo i
capelli gonfiando le guance e poi butto fuori aria e angoscia
accasciandomi sul letto. Che
cavolo faccio? Nessuno
risponde, neanche questa volta.
Mentre vago
stancamente per la casa
silenziosa, mi accorgo che fuori ha completamente smesso di piovere. Fa
un freddo pungente, ma ho davvero voglia di respirare aria
nuova. Non mi
preoccupo di prendere un
ombrello, mi lascio rassicurare dal cielo che pare volersi aprire e mi
chiudo la porta alle spalle. A differenza di mia madre però
bado
bene a chiuderla con responsabilità. Farsi svaligiare casa
con
un poliziotto presente sarebbe un vero paradosso! L’odore
di erba bagnata
è piacevole, è il classico odore autunnale. Mi
piace
l’autunno, forse perché ha molteplici sfumature.
Un
po’ mi ci rivedo. Il sole e la pioggia si rincorrono con
regolarità, così come in me si alternano
repentini
differenti stati d’animo. Non c’è il
rigore
dell’inverno o la spensieratezza dell’estate. Come
la
primavera, è una stagione che sfuma fra altre due, ma
è meno illusa. Io mi sento sfumare e perdere fra due
differenti
emozioni: desiderio e paura. È
l’unica conclusione
a cui sono arrivato. L’unica
differenza è che prima o poi
l’autunno passa e le foglie si rinnovano, io non so dire se
riuscirò mai a rinnovare le mie. Passeggio
lentamente con le mani
sprofondate nelle tasche. Riconosco qualche volto fra i pochi che
incrocio ma mi rendo presto conto che non è altrettanto per
loro. Sono sempre stato un tipo anonimo, uno di quelli che passa
inosservato e a cui porgi di continuo la domanda: “Come hai
detto
che ti chiami?” Almeno è quella che mi sono
sentito
rivolgere più spesso. Non me
n’è mai
importato molto, o per lo meno, non più. Non ho
più
brufoli sulla faccia né libri pesanti nella borsa. Non
c’è bisogno che qualcuno si ricordi il mio nome,
ho un
distintivo apposta per questo compito. Il mio distintivo, il mio unico
vero orgoglio. Lo tengo
nella tasca dei pantaloni
così come la pistola, stretta nella fondina al fianco. Un
tempo
mi faceva sentire sicuro, prima ancora, impaurito da una tale
responsabilità. Ora sembra quasi solo freddo ferro. Svolto un
vicolo e mi ritrovo
davanti al parchetto dove venivo a giocare da bambino. I giochi sono
ancora qui: lo scivolo che ti bruciava i palmi delle mani, la giostra
che pendeva sulla destra, il cavalluccio a molla e la mia preferita,
l’altalena di legno, ora completamente zuppa
d’acqua. Mi
avvicino e accarezzo le catene con le dita. Un debole sorriso mi si
disegna sulla labbra. Amavo questo posto, amavo quando mia madre mi
portava qui dopo la merenda. “Mangia tutto e andiamo a
giocare”, ed io finivo frutta e torta con voracità
perché l’altalena era una - l’altra era
rotta - e
tutti i bambini volevano salirci. Io restavo sempre l’ultimo
a
fare il giro, ma una volta su non volevo mai scendere. Gli altri
bambini si annoiavano ad aspettare il loro turno e finivano con
l’interessarsi agli altri giochi, oppure giocavano fra di
loro ed
io restavo a guardarli dall’altro della mia altalena. Forse sono
ancora seduto su quest’altalena mentre il resto del mondo
gioca senza di me. Sento il
suono del cellulare che mi strappa via dal passato. È
Anne-Britt. Accidenti,
avrei dovuto chiamare anche lei! «Ehi!»
La mia voce cela male il sentimento di colpa che provo. «Ciao
Magnus. Come stai?» «Bene,
Anne-Britt.»
Abbandono l’altalena e riprendo a camminare verso una
destinazione ignota. «Avrei dovuto chiamarti,
scusami.» «Oh,
figurati! Volevo sapere come andavano le cose. Ti stai
riposando?» La sento ridere e sorrido a mia volta. «Direi
di sì. Sono tornato a Tomelilla per qualche
giorno.» «Tua
madre ne sarà felice, immagino.» «Puoi
dirlo forte, credo che
quando dovrò tornare a Ystad mi supplicherà di
rimanere.» Vorrei tanto che lo facesse, vorrei tanto poterle
dire
di sì. Anne-Britt ride ancora. «Noi
mamme siamo
così.» A volte dimentico che anche Anne-Britt ha
dei
figli, eppure non dovrei vista la sensibilità che mostra in
ogni
occasione. Le donne sembrano avere una marcia in più, le
mamme,
due. «Stai riuscendo a dormire?» Ah sì,
la mia
insonnia. «Più
o meno.» «Incubi?»
Il suo tono è dolce e comprensivo ed io lo conosco bene.
Sorrido di nuovo. «Non
proprio.» Solo risposte incerte, le mie. Solo il riflesso di
ciò che realmente provo dentro. «Magnus,
so che
c’è qualcosa che ti preoccupa e di cui forse non
hai
voglia di parlare. Posso capirti, voglio solo che tu sappia che io ci
sono. Ok? Siamo amici, lo sa.» Prendo un lungo respiro ed
annuisco in solitudine. «Non c’è nulla
che non si
può affrontare insieme. Ricordati quello che è
successo
con Svedberg. Non tenerti tutto dentro.» Sento gli angoli
degli
occhi pungere e sposto lo sguardo in alto al cielo grigio. «Anne-Britt,
io...» La
voce mi si spezza e non riesco a continuare. Prendo un altro respiro e
mi sforzo di ricacciare indietro lacrime e tristezza.
«Grazie.» «Ti
voglio bene.» «Anche
io.» Solo ora mi
rendo conto di quanto avessi bisogno di dirlo e di sentirmelo dire.
Sono solo parole eppure possono terrorizzarti o salvarti. Parole, io ne
ho già sprecate troppe, lui troppo poche, eppure le sue mi
hanno
semplicemente stravolto. Un leggero vento si alza ed un brivido mi
attraversa il corpo. «Credo che stia per piovermi
addosso»
sospiro aggrottando la fronte verso le nuove nuvole
all’orizzonte. «Sei
in strada?» «Sono
uscito a fare una passeggiata ma non ho preso un ombrello.» «Ah,
sei sempre il
solito.» Torno verso casa mentre le raffiche aumentano.
«Sbrigati a tornare a casa, Magnus! Non vorrai ammalarti
prima di
lunedì!?» Riesco persino a ridere mentre sento una
goccia
ricadermi sul collo. Porca miseria! «Non
preoccuparti, lunedì sarò come nuovo.» Più o meno. Faccio in
tempo a salutarla prima
di infilare il cellulare nella tasca e correre verso il portico.
Stavolta non sono stato così fortunato e mi ritrovo le
spalle
completamente zuppe d’acqua. Anche il mio ultimo dio pare
avermi
abbandonato.
«Etciù!»
Mia
madre mi guarda dall’altra parte del tavolo ma non dice
nulla.
Tiro su con il naso e continuo a mangiare cercando di non badare alle
successive occhiate. Alla fine
sono riusciti a tornare
prima di cena ed ioho fatto in tempo ad asciugarmi e a fingere di non
essere uscito con un cielo sbilenco, senza un ombrello, ed essermi
così beccato un semi raffreddore. Non credo però
mia madre abbia
avuto bisogno di sentirmelo dire. Rob sta
parlando di un suo cugino
ed onestamente non è un discorso che mi interessa molto,
preferivo i bonsai. Mamma lo ascolta e risponde, ma quando mi lascio
sfuggire l’ennesimo starnuto, la sento sospirare. «Sei
uscito senza ombrello e hai beccato un acquazzone. Giusto?» «No»
mento asciugandomi il naso con un fazzoletto. «Sono rimasto
sul portico e forse ho preso freddo.» Rob mi
lancia un sorriso di intesa e poi guarda mamma che invece ha lo sguardo
completamente nero. Brutto segno... «Hai
lasciato il fohn nel
bagno invece di metterlo nel cassetto della camera e non dirmi che ti
sei fatto una doccia perché il box è
asciutto.» «Beh,
l’ho asciugato...» Riduco in poltiglia le patate. «Magnus.»
Oddio, ma
quanto posso essere imbranato? Ma come faccio ad essere realmente un
detective?! Inizio ad avere qualche dubbio perfino io. «Ho
fatto una passeggiata
fino al parco.» Confesso mangiando il timballo di zucchine al
sesamo. «Non potevo immaginare che sarebbe
diluviato.» «Per
questo avresti dovuto portarti un ombrello.» «Oh,
andiamo Emelie, può capitare.» «E
tu non difenderlo solo
perché sei uno smemorato come lui, Rob.» Rob
incassa e
torna a mangiare silente il suo di timballo. Ci scambiamo
un’occhiata di reciproca comprensione e non tentiamo
più
alcuna difesa. Sarebbe una partita persa in partenza. Non finisco
la cena perché
ho solo voglia di buttarmi a letto. Credo che stasera invece degli
antidolorifici mi toccherà prendere un antistaminico.
Mando
giù la pillola con un sorso d’acqua e poggio il
bicchiere sul comodino. «Grazie,
mamma.»
Trent’anni ed ancora mi devo far rimboccare le coperte da mia
madre. Credevo di aver raggiunto il picco dell’essere
patetico a
quel dannato molo 16. Devo ricredermi. «Dammi
la mano.» Mia
madre mi ha cambiato la fasciatura due volte al giorno e ormai non mi
fa quasi più male. Erano davvero poche escoriazioni e
quest’ultima fasciatura è solo per sicurezza, ha
detto
lei. “Potrebbe comunque infettarsi. Per fortuna il tuo
collega
l’ha pulita bene.” Il nodo che mi è
sceso allo
stomaco devo ancora digerirlo. Quando la
fasciatura è
completa, poggia la benda avanzata sul comodino e mi guarda con
un’espressione che conosco fin troppo bene. «Sono
stanco.» Cerco di evitarlo ancora, ma stasera credo sia
più difficile del previsto. «Cos’è
che ti fa
stare così male, Magnus?» Mi passo le dita sugli
occhi e
mi appoggio contro la testiera del letto. «Mamma,
ti ho già detto che non voglio parlarne. Per favore, non
insistere.» «Non
puoi chiedermi di ignorare quello sguardo che ti vedo da quando sei
qui.» Sospiro.
«Quale sguardo?» Mi scruta
senza dire nulla e poi mi riprende la mano fra le sue. «Tesoro,
tu sei un uomo ormai
e sei un agente di polizia, e so bene quanto questo pesi sul tuo
orgoglio - in fondo sei figlio di tuo padre.» Un sorriso le
piega
le labbra ed una morsa afferra la mia gola. «Non pretendo che
mi
racconti la tua vita, voglio solo che tu capisca che qualunque cosa ti
stia facendo male, devi tirarla fuori. Non puoi continuare a startene
nel tuo guscio e a nasconderti dietro quei sorrisi. Non ti fa
bene.» Le sue dita si stringono con forza attorno alla mia
mano
ed io abbasso lo sguardo sulla fascia bianca che copre la mia pelle.
«Chi ha tolto il sonno al mio bambino, eh?» Gli
occhi
saettano sul suo viso. Ancora non mi capacito di quanto possa
conoscermi bene, forse meglio di me stesso. Mi mordo un
labbro e tentenno ma
alla fine la mia lingua si muove senza che possa impedirlo.
«Mi
sento uno straccio.» Questo
sì che è essere veri
uomini, Magnus! «La
donna misteriosa?»
Corretta la seconda, totalmente sbagliata la prima. Annuisco comunque.
«Non so cosa fare» sospiro. «Non ho mai
provato una
cosa simile.» Vedo un sorriso piegarle gli angoli della bocca
e i
suoi occhi addolcirsi più di prima, se mai fosse possibile. «È
questo che ti
spaventa, tesoro?» La sua voce mi accarezza come la sua
stessa
mano fa sul mio viso. Scuoto la testa. «Non
lo so. So solo che non
dovrei provarlo! Non è giusto! Non è...
giusto.» Le
parole sfumano perché sentirle a voce alta suonano atroci.
Vere
ed atroci. Non
è giusto. Non dovrei
provare questo sentimento per Eric e i perché sono troppo
numerosi per elencarli tutti. «Che
vuol dire che non
dovresti,
Magnus? L’amore non è fatto di dovere o di
potere. È fatto di emozioni che non puoi governare con la
volontà.» «Non
è amore!»
Sento le guance in fiamme. No, non è amore.
L’amore
è un’altra cosa. Lo so bene perché
l’ho
provato in passato. L’ho
provato? «E
cos’è, un'attrazione?» «Oddio,
mamma, ti prego!» Tiro via la mano mentre mi sistemo
imbarazzato sul letto. «Ok,
come vuoi, chiamiamolo
“interesse”. Va bene
“interesse”?» Amore?
Attrazione? Interesse? Cambia la forma ma non la sostanza. «No,
non chiamiamolo proprio!
Non voglio più parlarne.» Mi metto sulla difensiva
con
tanto di espressione accigliata a seguito. Sono davvero un moccioso. Se
potessi mi prenderei a schiaffi da solo! Mamma
trattiene a stento un sorriso
divertito, sì divertito. Lei non può realmente
capire
cosa provi e probabilmente crede sia solo una classica e banale cotta.
Forse lo è, forse è solo una cotta, forse
passerà,
forse basterà non pensarci può è tutto
si
risolverà come per magia! Sarebbe
bello, peccato abbia smesso di credere alla magia ormai da anni. «Perché
ti fa paura
quello che provi per questa persona?» Non demorde e
nonostante il
mio mutismo la vedo guardarmi con l'espressione di chi spera, anzi, si
aspetta una risposta. Perché è
un uomo! Vorrei rispondere, ma so già che
sarebbe solo un madornale sbaglio. «Non
è il mio
tipo.» Alla fine cedo, ma limito i danni con quella frase che
però non sembra avere l’effetto desiderato. Mamma alza
un sopracciglio e quasi mi sembra di guardarmi in uno specchio. «Tutto
qui? È una questione di estetica? Non è
carina?» Sembra sconcertata. «No!
Cioè, voglio
dire...» Cerco le parole meno scorrette,
«È di
bell’aspetto, anzi, è davvero di
bell’aspetto...» Il mio cuore galoppa mentre vedo
il viso
di Eric fare capolino fra i miei pensieri. Il suo sorriso, il suono
della sua risata, e carina
mi sembra solo un insulto. «Solo che
non è il mio tipo abituale.» Tipo abituale? Alle
mie
stesse orecchie suona proprio insensato. Lei deve pensare
più o
meno lo stesso perché continua a guardarmi attonita. «Magnus,
può capitare
di essere attratti da qualche donna diversa dal solito. Non dovrebbe
essere un reale problema.» È questo il problema
reale,
mamma: non è una donna! «Per
me lo è»
sussurro appena distogliendo lo sguardo. Mi sento terribilmente a
disagio a parlarle di questo perché, semplicemente, non
è
così che vorrei parlarle. Vorrei usare pronomi corretti e
pronunciare ad alta voce il suo nome, ma il fatto che non possa farlo
dice abbastanza del perché questa sia una situazione
totalmente
insostenibile. «Cosa
ti piace di lei?»
Mi passo una mano sul viso. Non può chiedermelo davvero....
«Avanti, non sarà il tuo tipo ma ci deve essere
qualcosa
che ti piace, altrimenti non staresti così.» La
semplicità della questione è spaventosa. Tipo o
no, uomo
o donna, Eric mi piace. Cosa? Quasi
risponderei "tutto"! «È
affascinante.» Inizio con un tono appena più alto
di un
sospiro. Mi ritrovo a sorridere fra l’imbarazzato e il
disperato
mentre nella testa partono in veloce successione mille dettagli di lui,
mille batticuori, mille lacrime. «È...
È gentile,
molto gentile, ed anche se non parla molto sa ascoltare.»
Continuo a sorridere e quasi mi sento uno sciocco. Sì, Eric
sa
ascoltare, sono io che dico le frasi sbagliate. «Deve
essere una bella persona allora.» Annuisco.
«Lo è.
È una persona meravigliosa.» Ed io non sono capace
di
accettarlo – di accettarmi. Il sorriso sfuma e gli occhi
bruciano. No, non posso sprofondare ora
nell’autocommiserazione. «Magnus?»
Mia madre si
accorge del velo scuro che mi ha coperto lo sguardo e le sorrido solo
per impedirle di vedere anche quello che copre il mio cuore, ma
è abbastanza palese che l’ha già visto
bene
altrimenti non staremo qui a parlarne. «Vorrei
solo cancellare quello che provo.» «Oh,
tesoro.»
Un’altra carezza mi sfiora il viso e stavolta afferro la mano
di
mia madre e la trattengo con disperato bisogno. «A volte
è
difficile accettare di provare qualcosa per qualcuno che non ci
aspettavamo, ma cancellarlo è impossibile.» E
purtroppo me
ne sto rendendo conto. Sospiro e vorrei solo chiudere gli occhi e
svegliarmi un mese indietro. «Dimmi una cosa, Magnus, lei
ricambia i tuoi sentimenti?» È la domanda che mi
sono
fatto dopo quel dannato bacio, dopo quel suo “Perché mi
andava” ma la risposta non l’ho ancora
voluta udire. Parlare con
mia madre mi sembra
l’ennesimo dibattito interiore che sto vivendo da tempo, ma
stavolta le domande hanno forza e suono, stavolta alle risposte non
posso sfuggire. «Forse.» «È
un forse sì, o un forse no?» Mi viene da sorridere
alla sua espressione incuriosita. «Un
forse sì» ammetto nel imbarazzo che mi avvolge il
viso. Non ci credo, l’ho detto! «E
allora di che hai paura?» Respiro a
fondo e scuoto la testa.
«Oh, mamma, vorrei...» Vorrei potertelo dire, ma ti
ferirei. Non voglio ferire anche te. «Vorrei
che fosse solo
più semplice. Tutto qui.» «Non
lo è mai,
Magnus.» I suoi occhi sono lucidi e mi sento stringere il
petto.
In quel breve sospiro tutto un dolore che non ho mai veramente
compreso. «Mamma...»
Le accarezzo la mano e mi sorride. «Lo
sai, ho conosciuto tuo
padre quando avevo appena 18 anni. Io ero una giovane matricola e lui
un promettente studente di legge con un futuro brillante
all’orizzonte.» La storia la conosco:
“Era bello e
carismatico e poteva avere tutte le ragazze, ma scelse me.”
«Aveva tutto ciò che avevo sempre cercato in un
uomo:
bellezza, eleganza, modi garbati. Sembrava perfetto, noi sembravamo
perfetti, avrebbe dovuto essere una vita perfetta, ed invece...
L’unica cosa perfetta sei stato tu.» Mi sfiora il
viso
dolcemente. «Il resto era solo una facciata dorata e tu
purtroppo
lo sai bene.» Mi ritrovo a mandare giù ricordi
grigi,
ricordi di litigate che venivano dal piano di sotto, ricordi di cuscini
premuti sulle orecchie e lacrime contro mani tremanti. Ricordi di colpe
mai meritate. «Perché
mi stai dicendo questo?» «Perché
voglio che tu
capisca che non sempre la perfezione è sinonimo di
felicità. Alle volte, la cosa più imperfetta,
quella che
ci sembra la più sbagliata, è l’unica
in grado di
darci un po’ di serenità, di darci quello di cui
abbiamo
realmente bisogno.» Mi sento sempre più piccolo e
avrei
solo voglia di sotterrarmi nel piumone. «Robert ha impiegato
mesi
prima che mi decidessi a dargli una possibilità,
perché
avevo i tuoi stessi dubbi. Non mi sembrava l’uomo adatto a
me. Lo
vedi, no? È l’opposto di tuo padre. Non
è alto, non
è bello-» «Mamma!»
Mi sento a
disagio nel sentirle dire certe cose perché è
ciò
che ho pensato quando l’ho visto per la prima volta. Un
nanerottolo con pochi capelli ed un’imbarazzante risata che
somigliava al grugnito di un maiale. “Non è come
papa!” Ancora non avevo capito quanto questo fosse un bene. «È
la verità,
Magnus. Rob è totalmente l’opposto
dell’uomo che
avrei voluto accanto, ma di certo è l’unico che
sia capace
di farmi sentire amata e protetta.» «Per
me è un po’
diverso.» Purtroppo c’è qualche
dettaglio di
fondamentale importanza nella situazione e mi imbarazza anche solo
pensarci. «Oh,
quanto può
esserlo?!» Mi sorride ancora. «Avanti, tesoro,
guardati! Sei innamorato di qualcuno che ricambia i tuoi sentimenti e
ti stai struggendo solo perché non è il tuo tipo!
Ma ti
sembra sensato?» Certo, messa così sembra
insensato anche
a me, ma come posso ignorare che Eric è un uomo? Non ho mai
avuto simili inclinazioni e non capisco perché dovrei
iniziare
ora. Mi chiedo se davvero sia questa la verità. Se Eric
fosse
stato una donna, ci avrei provato? Avrei avuto gli stessi timori e le
stesse insicurezze? Probabilmente no, eppure è un dubbio che
non
riesco a togliermi. Mai nessuna donna mi ha rapito come ha fatto lui.
Mai nessuno. Non ci sono
mai stati occhi tanto
azzurri da offuscarmi i pensieri ogni notte. Nessuna voce mi
è
risuonata prima nel petto e poi nelle orecchie ogni volta che ne avevo
il ricordo. Nessuna passione mi ha tolto il fiato come la gentilezza
dei suoi piccoli gesti. Mai nessuno come Eric e credo che mai ci
sarà. «Che
dovrei fare?» Eppure conosco la risposta. «Dimentica
gli occhi e guarda
solo con questo.» Mi poggia una mano sul cuore e mi sorride
dolcemente. Lo sento battere forte. «E
se si sbagliasse?» E
se non ne avessi il coraggio? Ho paura... Picchietta
con decisione le dita sul mio petto. «Tu ascoltalo e smettila
di farti domande.» Forse...
potrei.
Continua...
NdA.
Scusate il ritardo, è appena iniziato un altro periodo
“incasinata fino all’ultimo riccio” per
cui
latiterò per un po’.
Non prometto più aggiornamenti settimanali ma
tenterò
ugualmente di non lasciarvi a bocca asciutta per tempi indecenti,
diciamo sulla decina di giorni. Ok?
Non uccidetemi, ci sta già pensando la mia vita, e a
confronto quella di Magnus mi sembra davvero un paradiso...
Un bacio a tutte ed un grazie ipermegasuper ^^
kiss kiss Chiara
«Sicuro che non puoi
restare ancora un giorno?» «Mi
piacerebbe Rob, ma ho qualche faccenda da sistemare e domani rientro a
lavoro.» Mamma sorride tronfia ed io evito di doverle
mostrare l’imbarazzo che porto dentro perché, dannazione, come
posso essere ancora così imbranato da aver bisogno dei suoi
consigli per tirarmi fuori dagli ingarbugli in cui mi sono ficcato da
solo? «Tornerò a Natale. Promesso.» Rob
mi dà una pacca sulla spalla ed annuisce, mamma continua a
guardarmi sorridente. «Telefona
quando arrivi e fammi sapere come finisce.»
L’abbraccio forte e sospiro un OK sconfitto. «Come
finisce "cosa"?» Rob ha lo sguardo confuso. «Non
sono affari tuoi.» Lo zittisce lei mentre mi sistemo la sacca
sulla spalla. «Non
sono mai affari miei.» Mette il broncio ma ormai lo
conosciamo bene tutti e due da limitarci a sorridere. Rob è
un tipo in gamba, mamma è stata fortunata. «Grazie
per l’ospitalità.» «Oh,
piantala! Questa è casa tua!» Mi sembra di
ritornare al primo giorno d’accademia. Mamma alla stazione
con le lacrime agli occhi, solo che stavolta non
c’è papà a guardarmi altero e a
intimarmi di farmi onore. Onore, una parola davvero sopravvalutata. L’altoparlante
annuncia l’arrivo del mio treno e guardo verso le rotaie
ancora sgombre. «Hai
preso tutto?» «Sì.» «I
vestiti? Lo spazzolino? La pistola?» Le faccio segno di
abbassare la voce. Mi guardo intorno ma nessuno l’ha sentita.
Che diamine, ci manca solo che mi prendano per un terrorista! «Ho
preso tutto, sta’ tranquilla.» Sospira ed annuisce.
Il fischio del treno intanto anticipa il suo arrivo. «Fa’
buon viaggio, ragazzo.» «Grazie,
Rob.» Quando salgo sulla carrozza, quasi posso giurare di
aver visto luccicare anche i suoi piccoli occhi castani. Stavolta
sono stato più fortunato, il vagone è semi vuoto.
È un bene, stavolta è un bene. Ho bisogno
di un po’ di solitudine. Mamma mi ha tartassato dopo la
nostra chiacchierata e mi ha riempito di fin troppi consigli.
“Un invito a
cena è ottimo per iniziare o magari un cinema.”
Dubito fortemente che sarei in grado di proporre sia l’uno
che l’altro ad Eric. Il solo pensiero mi fa rabbrividire. Ho
solo bisogno di parlargli, di liberarmi da questi tarli e dirgli la
verità. Hanno detto
che devo ascoltare e vedere con il cuore? Bene, ho deciso di chiudere
occhi e orecchie, ed anche un po’ di cervello, in fondo
è lui che mi ha causato più problemi. Mentre
Tomelilla si allontana, sento l’ansia nuotare nello stomaco e
strofino le mani fra di loro con un profondo sospiro. Non ho
più fasciature, non ho più lividi. Ho solo
qualche taglio nell’orgoglio, ma credo che per quello ci
vorrà un po’ più di tempo. Oggi
è domenica e domani riprenderò a lavorare. Non ho
sentito più Lisa né Anne-Britt e voglio che mi
ritrovino in forma. Lo sono, mi sento in forma. Ho ancora qualche
dubbio, non lo nego, ma sono arrivato alla conclusione che scappare non
mi porterà a nulla. Devo affrontare la cosa, affrontare le
mie paure, affrontare Eric. Rivedere i
suoi occhi non so qualche effetto avrà su di me. Temo che la
mia sicurezza possa sparire e che tutti i progressi fatti si rivelino
inutili, ma non posso continuare a torturarmi con ipotesi e pessimismi.
Devo agire, se devo farmi del male, voglio vedere il sangue sulla
pelle. Non voglio più nascondermi dai miei stessi
sentimenti. Voglio accettarli, voglio viverli - perlomeno provarci. Il treno
corre spedito e lentamente vedo disegnarsi una sagoma familiare. Ho i
palmi sudati e li asciugo sui jeans. Respiro ancora mentre guardo fuori
dal finestrino. Oggi c’è il sole, sembra che non
ci sia più alcun acquazzone ad attendermi dietro
l’angolo. “Siamo in arrivo a Ystad.”
Gracchia l’altoparlante della carrozza. Mi ritrovo a fissarlo
e inghiotto. Un nuovo respiro. Posso
farcela. Il cuore
batte forte. Puoi farcela. Il treno si
ferma. Afferro la borsa e scendo. Nella
tasca, il biglietto del parcheggio. Raggiungo la Volvo e getto la sacca
sul sedile del passeggero. Quando accendo il motore, sorrido nel
sentire di nuovo sotto le dita la pelle del volante, il freddo del
cambio. Stavolta niente guide dolorose, stavolta si va liscio e senza
intoppi. Le lascio il tempo di riscaldarsi e mi guardo le mani: non
tremano più.
Rivedere il
mio appartamento mi ha fatto uno strano effetto, eppure non
è che una manciata di giorni da quando l’ho
lasciato. È spento, buio, freddo. Non mi piace. Apro le
tende il più possibile e lascio che i raggi del sole
filtrino generosi nel soggiorno. Altrettanto faccio con la camera e la
cucina. Mi dico che
devo cambiare arredamento, devo comprare qualche quadro, qualche
stupidaggine da poggiare qui e lì. Potrei andare da Larsson
e trovare qualcosa a buon prezzo. Quel pensiero mi riporta a Gambero,
al furto Fustern. L’ho accantonato per tutto il tempo e mi
chiedo se Anne-Britt abbia fatto qualche progresso. Dovrei chiamarla,
forse potrei farlo, ma è domenica e lei sarà a
casa con i suoi bambini. Glielo chiederò domani. Il lavoro a
domani, per oggi ho altre questioni da risolvere.
Il deserto
che regna nel mio frigo mi obbliga a recarmi nell’unico
supermercato aperto per comprare almeno il pranzo. A stomaco vuoto non
si ragiona bene, ormai l’ho imparato. E dopo essere stato
viziato da mia madre in questi giorni, non riuscirei ad arrangiarmi con
roba precotta. Voglio cucinare come si deve e trovare la forza anche
fisica per affrontare la mia vera battaglia! Sei
il solito melodrammatico... Sorrido di
me, mentre le porte automatiche si aprono. Una
musichetta risuona nell’aria e mi stringo nella giacca per
via della temperatura fredda del locale. Prendo un carrello e sono
deciso a fare una spesa degna di questo nome. Ci sono pochi clienti,
giusto qualche single come me – credo – e mamme in cerca di qualcosa
all’ultimo minuto. Dopo i
primi due scaffali, ho quasi riempito per metà il carrello.
Il mio portafoglio alla fine della corsa credo piangerà
parecchio. Meglio lui che lo stomaco. Sto per
svoltare nel reparto surgelati quando per poco il cuore non mi arriva
in gola. Fermo a scrutare attentamente una busta di minestrone
c’è lui: Eric Huntsman. Che ci fa
qui? Ritiro il
carrello e mi nascondo dietro allo scaffale dei legumi in scatola. Non
può succedere per davvero! Sono cose da film! Sono quegli
stupidi cliché da commediola da quattro soldi! Non posso
incontrarlo proprio qui! Non ora! Come temevo
tutta la sicurezza sparisce. No, non
posso parlargli, non so che dirgli! Cosa potrei dire di importante
davanti ad un’intera sfilza di pizze precotte congelate? La
situazione si sta colorando di grottesco. Una signora
che mi passa accanto mi lancia un’occhiata stranita. Devo
avere un’espressione assurda sulla faccia. Controllo,
controllo. Basta
aspettare che se ne vada. Mi affaccio
di poco ma Eric è ancora li, stavolta con le mani impegnate
a rigirare quella che sembra una busta di spinaci. Buttala
nel carrello e vai alla cassa! Torno nel
mio rifugio e cerco di respirare con regolarità. Perché
a parole è tutto così semplice?
Perché, invece, quando ti trovi davanti ai fatti
è come scalare una montagna a mani nude? Lo guardo
di nuovo. Indossa il suo giaccone verde mirto su un paio di jeans
chiari ed ha i capelli raccolti solo per metà ed un paio di
ciocche libere gli sfiorano il viso. Non li ho mai visti
legati in quel modo ma non posso negare che stia dannatamente bene
anche così. I suoi capelli che profumano di mandarino... Posa la
busta e ne prende un’altra. Mi mordo un labbro agitato. Che posso
fare? Cosa avrà fatto in questi giorni? Avrà mai
pensato a quello che è successo quella mattina? E se non
l’avesse fatto? E se invece si fosse buttato tutto alle
spalle non appena ho chiuso quella porta? E se tutta la fatica di
questi giorni fosse stata inutile ed io stessi realmente inseguendo una
chimera? "Smettila di farti domande." Mamma, sono
solo un perdente. Sto per
perdere di nuovo lucidità e controllo in una feroce paura
quando un’anziana donna mi si avvicina. «Scusi,
giovanotto, potrebbe prendermi quella confezione
lassù?» Cerco di tornare in me e guardo verso
l’ultimo scaffale in alto. «Certo.»
L’afferro e gliela porgo. «Grazie
mille.» Rispondo al suo sorriso e la guardo sparire verso il
banco frigo. Il carrello
cigola. Non
può essere! Uno, due,
tre: Eric si volta ed io gelo. Smetto di
respirare, smetto di pensare, smetto di esistere. «Ehi.»
La sua voce, i suoi occhi. Oh,
Eric... «Ehi!»
Finalmente getta la busta nel carrello - troppo tardi, purtroppo. Stringo
forte l’impugnatura rossa d’acciaio e cerco di non
mostrare alcuna agitazione. «Fai compere?» Mi sento
un completo idiota. Dopo tutto quello che è successo, dopo
tutti i discorsi fatti ed ascoltati, dopo le lacrime, dopo la rabbia,
dopo le promesse con me stesso mi ritrovo a chiedergli se fa compere? Cosa
vuoi che faccia in un supermercato? «Ogni
tanto.» Il suo sorriso mi strappa via ogni pensiero.
L’ho rivisto ogni notte quando chiudevo le palpebre eppure mi
sembra di vederlo per la prima volta. Mia madre ha ragione, questo
sentimento ha un nome corretto, molto corretto, peccato io faccia
così tanta fatica a dirlo ad alta voce. «Come
stai?» Il suo tono è quasi piatto eppure intuisco
una nota di sincera gentilezza. «Bene.»
Sospiro e stavolta credo di esser sincero anch’io.
Sì, sto bene. Ora sto bene, con i suoi occhi su di me, con
le sue labbra che mi sorridono. Sto bene. «Io dovrei scusarmi
per quello che è successo quella mattina.» La
situazione è la più sbagliata, questa musichetta
pop è inopportuna, l’aria gelida che sale dai
frigoriferi è la cosa più fastidiosa di questo
mondo. Gli scatoli di cereali che sommergono il mio carrello e le sue
buste di minestrone e spinaci, sono l’ultima cosa di cui ho
bisogno per sentirmi a mio agio, eppure le parole escono da sole. Non
ci sono le vecchiette che mi chiedono di passare, non ci sono i
commessi con il camice rosso che sistemano la merce, non
c’è lo sconto 3x2 attaccato alla mia destra.
C’è solo Eric, ci sono io e
c’è la voglia di non scappare più. «Non
devi. Non ce n’è bisogno.» «Invece
sì. Tu sei stato gentile e così disponibile con
me ed invece io ti ho trattato come non avrei dovuto. Sono stato un
vero idiota. Avevi ragione!» ridacchio nervosamente e abbasso
lo sguardo al carrello. Dignità? In questo momento
decisamente superflua. «Ho
parlato con una donna.» Rialzo lo sguardo. Eric ha in mano
una confezione di funghi che però rimette a posto.
«È venuta a farmi qualche domanda sulla
Fustern.» Riporta i suoi occhi sui miei. «Anne-Britt»
sospiro più che altro a me stesso. Perché
l’ha fatto? In fondo le avevo detto che Eric non
c’entrava. «Non
ricordo il suo nome, ma le ho detto che avevo già parlato
con te e che se voleva sapere qualcosa doveva semplicemente
chiedertelo.» Immagino la reazione di Anne-Britt ai modi di
Eric. Purtroppo l’impressione che dà a prima vista
è totalmente diversa da come è in
realtà. Ricordo la prima volta che gli parlai, credevo che
mi avrebbe lanciato la sua accetta non appena avessi sbagliato ad
aprire bocca. Mi viene da sorridere. Sembra una vita fa eppure sono
solo settimane. Come posso essere cambiato così
drasticamente in così poco tempo? Come può il mio
cuore essere mutato così? Come
hai fatto, Eric? «Lei
si è occupata temporaneamente dei miei casi. Sono stato
fuori servizio per qualche giorno.» «A
me ha detto che eri impegnato in un caso importante.» Sorride
ancora alzando un sopracciglio ed io mi mordo le labbra stupidamente.
Anne-Britt mi ha coperto egregiamente ed io mi sono sputtanato
al volo. Ah, mi era mancato sentirmi così ridicolo davanti
agli occhi di Eric... «È
una buona collega ed una cara amica.» Lui annuisce e torna a
guardare il suo carrello. Vorrei dirgli mille cose ma in questo momento
non ho parole per nessuna di esse. «Oggi non
lavori?» «È
domenica.» «Oh,
certo!» Mi gratto la fronte e cerco di non diventare ancora
più rosso. «La
tua mano?» Le do un occhio e la ruoto stringendo e
rilasciando le dita. «Sta
bene anche lei, anzi, ancora grazie per... ehm... Le tue cure,
cioè, per quello che hai fatto, io... Non so, credo dovrei
sdebitarmi in qualche modo.» Magari stando zitto ed
evitandogli un’altra patetica cascata di parole a caso. Mi
gratto anche la testa e ormai sono più che sicuro
di avere i nervi impazziti. «Magnus,
puoi farmi un favore?» Chi,
io? Sbatto le palpebre confuso ed annuisco. «Certo.» Tutto quello che vuoi! Eric si
bagna le labbra e sorride con una strana espressione. Tremito
al ginocchio destro. «Potresti smetterla di ringraziarmi e di
scusarti?» Mi ritrovo a ridacchiare colpevole e sono
costretto a scostare lo sguardo sull’ordinata file di zuppe
di farro. Ah, dovrei prenderne un paio! È
questo che mi attrae e spaventa di lui, il modo in cui riesce a farmi
sentire ogni volta. Allegro, terrorizzato, imbarazzato, sorpreso,
stupido, buffo, peggiore... migliore. «Ci
proverò» sospiro riuscendo a sollevare appena gli
occhi su di lui. «Bene.»
«Bene»
ripeto con un leggero sussurro. Il suo sorriso allarga il mio e torno a
ridacchiare passandomi una mano sul collo. Penserà che gli
sto ridendo in faccia! «Scusami.» «Ah,
perfetto!» Non riesco a controllare questa risata nervosa e
quasi contagio anche lui. Mi sento totalmente idiota, ma un idiota
stranamente felice. Ero così spaventato dall’idea
di rivederlo che quasi mi sembra non sia reale questa situazione
assurda e insensata ma semplicemente perfetta. Il supermercato, i
carrelli, l’altoparlante che invita a recarsi al reparto
frutteria per uno sconto sulle mele. La sua risata, la mia. Il mio
imbarazzo, forse il suo. «Ti trovo bene.» Il riso
sfuma ed annuisco. «Sì.»
Non era una domanda eppure dovevo rispondere. I suoi occhi sorridono al
posto delle labbra e mi rendo conto solo ora che per Eric non sono
così insignificante come ho creduto. È una
breccia che mi spalanca letteralmente il cuore. «Anche tu
stai bene...» passo inconsciamente le dita
sull’impugnatura del carrello. Eric non dice nulla.
Resta a guardarmi con un mezzo sorriso ed una sottile ciocca di capelli
che gli taglia l’occhio destro. Mi mordo un labbro e sono
costretto a spostare lo sguardo altrove. L’aria gelida dei
frigoriferi adesso è una vera manna. «Allora
ci vediamo.» Saetto sul suo viso ed annuisco con vigore. «Sì,
certo! Ci vediamo.» «Ok.»
Eric afferra il suo carrello. «Ok...»
Devo smetterla di ripetere tutto quello che dice come un cerebroleso.
Mi regala una veloce alzata di sopracciglia e poi sparisce verso il
reparto accanto. Quando non l’ho più nella mia
visuale mi lascio andare ad un lungo sospiro ed alzo la testa in alto,
verso le luci del locale, verso le serpentine di tubi e cavi, verso
quel viso che è ancora fermo nei miei occhi. Ho
l’insano istinto di seguirlo, di vederlo mentre paga e carica
le buste in auto, mentre guida verso casa e sistema tutto nel frigo,
nella credenza. Voglio vederlo fare qualcosa che non sia distruggere la
mia vita o salvarla. L’ho visto cenare, però,
l’ho visto lavorare, l’ho visto riposare...
L’ho visto sanguinare. Mi lascio
scappare un altro sospiro e stavolta i miei occhi si chiudono. In
fondo, benché con lentezza, lo sto scoprendo, ed ogni
scoperta accelera il mio battito. «Scusi?»
Torno alle realtà. «Oh,
mi scusi lei.» Sposto il carrello per permettere ad una mamma
ed il suo bambino di passare. «Grazie.»
Le sorrido con un cenno della testa. Meglio
finirla con le fantasie e tornare a fare la spesa, magari Eric
è già andato via. Getto la
busta di farro nel cumulo e vado al reparto carni. No, Eric
non è ancora andato via. È lì che
parla con il ragazzo dietro al banco. Dovrei
girare i tacchi ed andarmene o povrei avvicinarmi e sospiragli
ridacchiando un “Chi si rivede?!” A cui lui
riderebbe. Forse. Ma
preferisco la prima e vado alla cassa. Ho già abbastanza
scorte per non morire di fame per almeno una settimana ed ho fatto
già abbastanza per alleggerirmi le spalle. Il cuore invece
no, non ha alcun peso e sembra quasi mi libri nel petto.
Ho riempito
credenza, frigo e congelatore. Sono stato però
costretto ad infilare le buste di cereali sotto al lavandino;
ne ho prese davvero troppe. Chiudo l’anta ed inizio a
preparare il pranzo. La tivù parlotta ma la guardo con
distrazione. Allo spot del deodorante al limone, neanche mi rendo conto
di canticchiare la musica. Non
cammino, volo. Quando
getto i piatti e le padelle sporche nella lavastoviglie quasi sono
fiero di me, sazio e fiero. Sono sicuro che anche mia madre lo
sarebbe. Vorrei
chiamarla, vorrei dirle dell’incontro assurdo del
supermercato, ma lei mi chiederebbe i dettagli. I dettagli sono
ciò che rendono tutto più difficile. Sono quel
femminile degli aggettivi, che mi fa toccare di nuovo terra. Scelgo
velocemente il programma di lavaggio ed avvio la macchina. Mi ritrovo
ad accasciarmi sul divano con lo sguardo perso allo schermo. Ripenso
alle sue parole, al suo “Ti
trovo bene”, alla luce del suo sguardo.
“Ti trovo
bene, sono contento”, era questa la frase
completa ed io l’ho capita. Mi passo
una mano sul viso per nascondere il sorriso imbarazzante che ha piegato
le mie labbra. Mi sembra di tornare indietro di quindici anni, quando
bastava una sola parola, un solo sguardo ed era tutto. Ma poi ti
accorgevi che no, non bastava, e lì c’erano gli
ormoni che ti spingevo senza che potessi fare nulla. E come non bastava
a quindici anni, non basta neanche ora, ma gli ormoni adesso li puoi
controllare. Teoricamente. Mi torturo
le labbra fra i denti e vorrei fossero le sue ed è un colpo
dritto in pancia. Prendo un profondo respiro e mi tiro indietro i
capelli. Alla tivù, l’intervista al ministro
dell’economia. Vedo la sua bocca muoversi ma non sento alcuna
parola. Voglio
vederlo, voglio parlargli ancora. Non mi basta, non mi basta
più. Mi tiro a
sedere e cerco di regolare il respiro. Ho già fatto un
enorme passo avanti non posso correre il rischio di farne uno
sbagliato. Ora sto bene, ho ritrovato uno pseudo equilibrio, domani
tornerò al lavoro e devo farlo nel migliore dei modi. Per
Eric ci sarà tempo, devo prendermi tempo. Ci siamo chiariti,
è tutto chiarito. Niente grazie né scuse, lui me
l’ha chiesto ed io lo farò. La testa lo
pensa, la lingua potrebbe anche ripeterlo e quasi me ne convincerei, ma
il batticuore che risuona nel mio petto non vuole sentire ragioni,
così come il sangue che pompa nei muscoli e mi obbliga a
scattate in piedi, a camminare avanti e dietro, e stavolta non
è più ansia, stavolta è diverso. Afferro il
telecomando e cambio canale alla ricerca di qualcosa che mi tenga il
cervello impegnato, qualcosa che catturi la mia attenzione e la sposti
da lì, da lui. Telegiornale.
Cambio. Il profumo
della sua pelle. Film di
guerra. Cambio. Il suono
della sua voce. Pubblicità.
Cambio. Le sue mani
sulle mie. Il cuore
accelera. Programma
di cucina. Alzo il volume. La sua
bocca sulla mia. Lo stomaco
si contorce ed il salmone alla francese non ne è il motivo. Poggio
entrambe le mani sullo schienale del divano e stringo con forza la
stoffa calda. No, non
posso farlo. Sono le due del pomeriggio di domenica. Non posso andare a
casa sua e bussare alla sua porta. “Che
ci fai qui?” mi chiederebbe ed io non saprei rispondere.
Resterei lì imbambolato a lasciare che la mia faccia parli
di imbarazzo e paura e non potrei chiedergli neanche scusa. Ho bisogno
di aria. Mi infilo
in auto e mi ritrovo al porto. È calmo e silenzioso. In
lontananza il suono di una sirena, marinai, i soliti, che passeggiano
rapidi. Parcheggio davanti al ristorante in cui mi fermai quel giorno a
mangiare gli spaghetti, mi sono detto che sarei dovuto tornare, ma non
oggi, per fortuna ho già pranzato. C’è
una leggera brezza piacevole che mi scompiglia i capelli e mi fa
restare con le mani nelle tasche a fissare le acque chiare. Qualche
nube macchia il cielo ma siamo lontani dall’acquazzone di
Tomelilla. L’aria è gradevole, forse
sarà una delle ultime giornale di tiepido autunno. Prendo a
camminare sulla passerella e scalcio una piccola pietra che mi compare
davanti. Magari fosse altrettanto facile scalciare via dubbi e
pensieri. Perché ci sono, diversi, nuovi, vecchi, e fanno
sempre tutti paura. Stavolta non ci sarà mia madre, non
può esserci. Stavolta ci sono i brividi sulla pelle quando
penso alla sua, c’è la bocca che si asciuga al
desiderio di perdersi in quella di Eric. C’è un
corpo che reagisce d’impulso ad un cuore che urla. Ci sono io,
Magnus Martinsson, e nessun distintivo da mostrare. Alla mia
sinistra scorgo l’insegna di una gelateria.
C’è un po’ di movimento, qualche
coppietta che si tiene per mano, un gruppo di ragazzini, genitori e
figli, ma la mia attenzione si focalizza su un piccolo tavolino tondo.
Seduto stancamente, con una coppa di gelato praticamente integra
c’è Kurt. Sguardo pensieroso e cucchiaio che
affonda meccanicamente nella crema ma al solo scopo di ferirla. Di
fronte a lui, un’altra coppa di gelato a metà ed
una sedia vuota. Non pensavo
di rivederlo prima di domani. Mi avvicino
e, quando lo affianco, alza lo sguardo su di me. «Magnus!»
Cos’è, un sorriso? Non credo di averne mai visto
uno più strascinato. «Ciao,
Kurt.» Il mio è una semplice tirata di labbra.
«Ti ho visto seduto qui e ho pensato di
disturbarti.» «Siediti.»
Mi fa un cenno con la testa ed io riempio quel posto vuoto di fronte.
«Pensavo fossi a Tomelilla.» «Sono
tornato questa mattina.» Lo sguardo di Kurt ha sempre uno
strano alone. Non sono mai stato in grado di definirlo: triste,
profondo, perso. Sconfitto. Probabilmente
sbaglio su tutte. «Eri
con Linda?» azzardo e lui annuisce tornando a deturpare con
la punta d’acciaio la coppa di gelato. «Ha
ricevuto una telefonata ed è dovuta andare via.» «Come
sta?» «Bene.
Lei sta bene.» Ma
tu no. Stavolta però preferisco tacere. Vago
con lo sguardo in giro, al tavolino accanto, due fidanzati che
sorridono e parlano a bassa voce. Un’immagine che mi provoca
opposti sentimenti. «Come
vanno le indagini?» chiedo e non serve specificare quali. Kurt mi
osserva in silenzio per qualche attimo, poi lascia affondare il
cucchiaio nella crema e si porta una mano alla giaccia.
Dall’interno sinistro tira fuori una busta di plastica. «L’ho
trovata sul parabrezza della mia auto due giorni fa.»
Aggrotto la fronte e l’afferro quando me la porge. Al suo
interno un foglio con qualche riga scritta a mano. Una calligrafia
ordinata e pulita, raffinata, azzarderei dire. Faccio
scorrere gli occhi sul suo contenuto ed inghiotto un certo disagio.
Continua...
NdA.
Magnus è tornato a Ystad e pare che le cose si siano un
po’ evolute, soprattutto sotto la cintura dei suoi pantaloni.
Ok, questa era pietosa >///>
Come al solito grazie per l’affetto con cui seguite questa
storia. Siete davvero FANTASTICHE! TUTTE! (invece io sono pessima
perché creo inutili allarmismi -///- forgive me!)
Che ci sarà scritto nella lettera di Kurt? Eh... segreto!
kiss kiss Chiara
“Perciò
Dio li ha lasciati in balia dei desideri
sfrenati dei loro cuori, fino all’immondezza che è
consistita nel disonorare il loro corpo tra di loro. Ugualmente gli uomini, lasciato
il rapporto naturale con la donna,
bruciarono di desiderio gli uni verso gli altri, compiendo turpitudini,
uomini con uomini, ricevendo in se stessi la ricompensa debita della
loro aberrazione.”
Leggo
più volte ed ogni parola colpisce lo stomaco. Mi sento
cadere sulle spalle un peso fastidioso, mi copre il cuore e la testa,
mi fa sentire piccolo e terribilmente inappropriato. Scuoto la testa
per scacciare pensieri poco salutari e mi rivolgo a Kurt. «Che
significa?» «Sono
passi della bibbia, di San Paolo.» Avevo intuito una
cosa simile. Leggo ancora le inquietanti frasi e poi gli restituisco la
lettera. Non voglio vederla ancora. «Potrebbe
essere uno scherzo di cattivo gusto?» Lui scuote la testa
mentre ripone la busta nella giaccia. «Anche
Lisa lo pensa ma... Non lo so. Credo che qualcuno voglia
dirmi qualcosa.» Assottiglio lo sguardo e cerco di leggere
nel
suo. «Chi?
» «Qualcuno
che sa.» Non riesco ad afferrare il suo discorso
forse perché sono esageratamente scosso dal turbine di
inquietudine che quelle parole hanno provocato nel mio petto.
«Parliamo di un prete ucciso davanti ad una chiesa. Un prete
che
aveva una relazione con un seminarista dieci anni più
giovane. E poi questa lettera: passi della bibbia. È
tutto collegato, non è un semplice scherzo.»
Respiro a
fondo e guardo il gelato a metà di Linda. «Kurt,
perché lo stai dicendo a me? Io non sono nella
squadra.» Vomito una certa amarezza. Non ci sono perché tu
non mi hai voluto. I suoi
occhi stanchi mi studiano e poi si spostano alle onde leggermente
agitate dal vento che cresce di minuto in minuto. «Hai
ragione, scusami. Volevo solo un tuo parere.» Ingoio
altro fastidio. Vorrei chiedergli perché non lo ha
chiesto prima, perché ora il mio parere ha valore, ora che
sono
stato perfino messo a riposo forzato, ora che ho la vita incasinata da
qualsiasi angolazione la si guardi. Ora, lui ha bisogno del
mio parere.
Prendo un
respiro e mi dico di non essere infantile. Un buon detective,
devo essere questo. «La
faccenda della relazione è stata resa pubblica?»
Non ho seguito i tg, non mi importava, avevo altro a cui pensare. «No,
certo. Il vescovo Karlberg ha chiesto massima discrezione ed
è quello che cerchiamo di fare, e perciò, Magnus,
credo
che questa lettera non sia un semplice scherzo!» Kurt mette
davvero il cuore nelle sue indagini, per un certo verso si lascia
trascinare anche troppo. Non riesce a tenere il distacco, molte volte
mi sono chiesto se non sia un pericolo. Ma lui è il migliore
di
Ystad, forse per essere il migliore bisogna anche correre dei pericoli. «Come
fai ad essere sicuro che la cosa non sia comunque trapelata in
qualche modo?» La nomea di “boccaccia”
sarà anche mia, ma di certo sono altri quelli che non hanno
la
decenza né la professionalità di far rimanere le
indagini
riservate tali. «Ystad
è una cittadina, se si fosse saputo in giro sarebbe
già sulla bocca di tutti. No, nessuno sa nulla, a parte la
persona che ha scritto questo biglietto.» «Nessuna
impronta?» Scuote la testa ed io annuisco con la
mia. Il caso che ho bramato tanto è qui davanti a me, eppure
ho
solo voglia di girare la faccia dall’altra parte.
«Come hai
scoperto della loro storia?» Prima avrei trovato curiosa, al
massimo strana
una tale scoperta, adesso la sento toccarmi troppo da
vicino. Porgo la domanda ma temo qualsiasi risposta. «Abbiamo
trovato delle lettere nella stanza di Padre Phil.
Lettere da parte di un certo François. Il loro contenuto era
alquanto eloquente.» Mi bagno le labbra secche. Eloquente.
Perché quell’aggettivo mi ha fatto rabbrividire?
«Magnus,» Kurt ha lo sguardo fisso al mare, la
solita
venatura pensierosa, stanca, gli attraversa le iridi. «Se non
sei
stato inserito nella squadra è solo perché
credevo che
volessi dei casi di cui occuparti in prima persona. Di te mi fido come
nessun altro, lo sai. Non si trattava di escluderti... ma
di…» Non trova le parole ma credo di averle
capite. Ho
stressato tutti perché riconoscessero il mio vero valore.
Non
volevo essere un semplice poliziotto delle retrovie, volevo essere un
detective. Un eccesso di arroganza, forse, magari solo la voglia di
sentirsi realmente apprezzato. Non riesco a trovare intenzioni
diverse in Kurt. La mia esclusione me la solo semplicemente chiamata.
Mi rendo
conto solo ora di quanto si possa maturare se si accettano i
propri limiti e le proprie debolezze, se si guarda dentro al cuore
senza pregiudizi e si guarda davvero. Eric mi ha messo letteralmente a
nudo davanti a me stesso. Non sono chi credevo di essere, sono diverso,
sono peggiore, forse migliore. «Kurt,
a me piace lavorare con te e con tutta la squadra in
generale. Se hai bisogno di qualcosa, non devi farti problemi. Anche se
bisogna cercare in qualche cassonetto. Ok?» Ridacchia
debolmente
ed annuisce. Riesco a sorridere anche io.
«È
bello rivederti.» Le braccia di Anne-Britt mi si stringono al
collo e sorrido abbracciandola a mia volta. «Anche
per me lo è.» Strano, sono solo pochi giorni
eppure mi sembra di essere stato via un’eternità.
Il
commissariato mi è mancato, i suoi rumori ripetitivi e
caotici,
il vociare degli agenti, il pessimo arredo, perfino la vista
malinconica su cui mi sono perso coi pensieri decine di volte. «Ti
trovo in forma! Tomelilla ti ha rimesso a nuovo, eh?» «Più
che Tomelilla è stata la cucina di mia
madre.» Le rubo una risata e la condivido. Mi sento
decisamente
bene. Lisa mi ha
sospirato un breve Bentornato
con un accenno di sorriso, ma
nella sua mano sul mio braccio ho percepito una sincera amicizia.
Amici, è un po’ questo che siamo tutti, sebbene
alla fine
ci conosciamo realmente così poco. Anne-Britt, seduta sulla mia scrivania, mi informa di ciò
che è accaduto negli ultimi
giorni mentre io nel frattempo riprendo
confidenza con il mio adorato pc. Non posso
fare a meno di chiederglielo. «Hai
fatto qualche passo in avanti con il furto Fustern?»
Decido di prenderla alla larga, chiederle direttamente di Eric sarebbe
alquanto imprudente. «Non
molti, purtroppo. Gambero non ha saputo dirmi nulla.»
Gambero? Sbatto le palpebre confuso. «Lo
hai interrogato?» I suoi occhi si alzano dalla cartella che
ha fra le mani e si posano sui miei. «Era
il tuo sospettato numero uno, a quanto avevo letto - e
comunque il suo nome è Ruben Vargas.» Rivivo
velocemente
quella notte al porto e con essa tutto il disagio imbarazzante che ne
è seguito. «Che
hai scoperto?» Anne-Britt ha fatto semplicemente
quello che avrei dovuto fare io: prenderlo di petto è
chiedergli
quanto c’entrasse lui con il furto della collana, eppure mi
sento
come se fosse qualcosa di straordinario. Chiude la
cartella a la poggia sulla mia scrivania prendendone
un’altra. «Ha
detto che non può ricordarsi tutto quello che gli
passa fra le mani. Gli ho mostrato gli orecchini che avevi lasciato nel
cassetto ma non ha fatto progressi. Ovviamente gli ho detto che
collaborare sarebbe stato utile alla sua "attività di
vendita", ma
mi ha riso in faccia chiamandomi chica.»
Le labbra si piegano in
un sorriso tirato ma gli occhi sono seri. Riccioli
d’oro. Un brivido
fastidioso mi attraversa la schiena. Scrollo la testa e vago
con lo sguardo sui vari dossier. «A te cosa aveva detto? Non
ho
trovato nulla nella cartella.» Semplicemente
perché non
l’ho mai interrogato. «Oh,
avevo intenzione di parlargli ma poi non ne ho avuto
l’occasione.» Non è il caso di dirle di
ciò
che è successo quella notte. Non voglio che sappia, non
voglio
che nessuno sappia. A quelle domande non voglio rispondere. Lei
annuisce continuando a leggere concentrata le sue carte.
«Nient’altro?» Quando ritrovo i suoi
occhi, Anne-Britt
resta a guardarmi silente per qualche attimo, poi si sposta una ciocca
di capelli dietro l’orecchio. «Ho
parlato anche con Huntsman.» Mi sforzo di non deglutire
e mi limito ad un cenno di assenso. «Ho visto che ne avevi
studiato un profilo accurato ed ho pensato che forse avessi qualche
dubbio.» Certo, il dossier di Eric. Non ho pensato di
portarlo
via ed è rimasto nel cassetto della scrivania; era logico
che
lei lo avrebbe trovato. Annuisco ancora e mi inumidisco le labbra. «Ehm,
sì, inizialmente avevo qualche sospetto ma non credo sia
coinvolto.» Faccia,
non tradirmi! «A
me non ha detto molto. Sembrava solo infastidito e mi ha
invitato a chiedere a te qualsiasi informazione.» Stavolta la
mia
gola sussulta e riesco solo a reprimere un sorriso che sarebbe di certo
inopportuno. «Ah
sì?» Faccio il vago e lei annuisce. «“Il
detective Martinsson sa tutto. Chiedi a
lui”… Non è un tipo molto
socievole.»
Socievole
forse è un aggettivo che poco gli si accompagna,
Anne-Britt ha ragione, per fortuna ce ne sono altri che invece gli
calzano a pennello, e in questo momento l’unico che mi
rimbomba
nella testa è quello più imbarazzante.
«In compenso
è molto attraente.» Il mio cuore salta un battito
ed
osservo il sorriso di Anne-Britt con una certa agitazione. In fondo non
dovrei. Eric è davvero attraente ed è normale che
le
donne lo notino, e allora cos’è questa stretta
allo
stomaco? «Lo
trovi attraente?» La lingua si muove a chiedere una
conferma che in realtà quasi non voglio ascoltare.
Anne-Britt
ridacchia appena con un leggero rossore sul viso. La stretta
allo
stomaco si fa più ferrea. «Indubbiamente,
ma più che altro ha un non so
che…» Porta lo sguardo in un punto vuoto della
parete. I
miei occhi fissano le sue labbra con una silente supplica: non dire
più nulla! «Forse è il
fascino dell’uomo di
poche parole, dai modi bruschi - come si dice: bello e dannato,
giusto?» È troppo! «Non
saprei.» Il discorso mi ha messo in un certo disagio.
Prendo a battere le dita sulla tastiera cercando di annegare nei dati
allo schermo questa strana acidità. «Comunque
è tutto nel dossier.» Annuisco con gli
occhi sbarrati sulle infinite lettere. «Magnus,» li
sposto
solo quando sento le sue dita sulla mia spalla. Alzo il viso verso il
suo sorriso. «Sono contenta che stai bene.» «Grazie.»
Ma stavo meglio prima.
Nonostante
la buona volontà, non sono riuscito a liberarmi dal
fastidio di prima. La voce di Anne-Britt mi suona nella testa,
quell’attraente
mi graffia i timpani, la sua risata mi inacidisce
lo stomaco. Perché
mi ha agitato così tanto il suo discorso? In fondo
ha detto solo la verità, non c’era nulla di
realmente
strano nelle sue parole eppure mi sento come se avessi preferito non
udirle. Nella mente
lampeggiando immagini irreali, strane fantasie su quel
breve scambio di battute fra di loro. Il fastidio
aumenta. Eric le
sorride e Anne-Britt arrossisce. “Vuoi qualcosa da
bere?”
“Grazie, sei gentile.” Le mani si sfiorano e... Chiudo con
forza lo schermo del PC. Che diavolo
era quella fantasia? Perché mi dà così
incredibilmente fastidio? Gelosia, sibila la
mia mente. Verde, acida, bruciante. Scuoto la
testa. Non può essere. Gelosia verso chi, Eric?
Andiamo, lo conosco appena ed è solo qualcuno che mi piace e
che
mi ha rubato il sonno ed i sogni e a cui penso ogni dannato minuto di
ogni dannata ora di ogni dannatissima giornata!!! Sì,
è gelosia. Un sospiro
stanco abbandona le mie labbra e mi stropiccio gli occhi con
strizza. Non doveva iniziare una nuova fase della mia vita? No, sono
sempre qui a rimuginare su ogni più piccolo dettaglio che lo
riguardi. Mi sento al
punto di partenza. Vago con lo
sguardo in giro, osservo ogni viso, ogni movimento, ogni
foglio che cade e viene raccolto. Tutti avranno i loro problemi, i loro
tarli, eppure lavorano duramente lasciandoli sulla soglia di casa, io
invece me li devo portare dietro ovunque vada senza riuscire
minimamente a zittirli. Perché sono così debole? Un nuovo
respiro, un nuovo sospiro, una nuova fitta alla pancia. Cosa
abbiamo realmente chiarito davanti a quel banco frigo? Un emerito
niente. Non gli ho
detto nulla di tutto quello che avrei voluto, lui altrettanto. “Ci vediamo.” Quando?
Dove? Con quale scusa? Il caso Fustern ha esaurito tutta la sua
utilità. Non ho reale motivo di cercarlo, lui credo lo
stesso.
Guardo il telefono dell’ufficio con il disperato desiderio di
chiamare mia madre. Ho bisogno della sua voce che mi dice che posso
farcela, che non c’è nulla di cui avere paura, che
è tutto più semplice di come la testa lo elabori.
Devi
farcela da solo! Il mio
orgoglio appesantisce le mani che non riescono a raggiungere la
cornetta ma afferrano il dossier Fustern che Anne-Britt ha lasciato
sulla scrivania. Lo sfoglio torturandomi con i denti un angolo della
bocca. Devo sbloccarmi e ripartire. Potrei parlare davvero con Gambero,
o meglio Ruben, stavolta senza nascondermi sotto una patetica maschera
mal riuscita. Lui spaccia
droga, da casa Fustern sono state portate via
poche cose di valore ed una manciata di soldi. Uno scasso da manuale
sul retro, nessuna impronta, quindi gente che non è al suo
primo
furto. Tossici in cerca di liquidi e qualcosa da rivendere. Siamo in
una città di provincia, non ci sono ricettatori o simili. Se
non
si passa da Larsson allora si va direttamente dal venditore. Vargas
è l’indiziato numero uno perché nessun
altro
spacciatore a noi noto si prende la briga di accettare gioielli o altro
come pagamento. Ha inoltre le spalle coperte da Brandberg e la sua
opera di pusher è facilmente intuibile non sia la sua fonte
primaria di guadagno. Potrei fare
altre ricerche, ma sono quasi certo che non porterebbero a
nulla. Per lui è un gioco, una collana come
un’altra, una
ragazza come un’altra... un ragazzo come un altro. Per Amanda
Fustern è qualcosa di molto prezioso, per me è un
caso
che sta diventando terribilmente personale. Il cervello
inizia a carburare lentamente e riesco a parcheggiare la
questione Eric in un cassetto che mi comando di aprire solo quando mi
sarò chiuso la porta di casa mia alle spalle. Passo il
resto della mattinata con le dita sulla tastiera e gli occhi
allo schermo. Ho letto con attenzione il dossier aggiornato da
Anne-Britt, ho letto le dichiarazioni di Ruben Vargas. Non
c’è nessuna negazione netta ma traspare una
pungente
arroganza, sa di essere intoccabile e ovviamente usa la cosa a suo
favore. Ma nessuno è intoccabile, basta trovare la giusta
breccia e partire da lì. Se riuscissi a procurarmi qualcosa
con
cui metterlo con le spalle al muro! Basterebbe riprendere un qualsiasi
scambio di mano, una sua foto mentre prende denaro in cambio di droga e
potrei denunciarlo senza problemi. “Dimmi della collana e
chiudiamo la storia.” Teoricamente
sembra di una semplicità disarmante, ma so bene che
non è così. Inizio a
pensare che dopo la visita di
Anne-Britt si sia anche fatto più accorto nei suoi traffici,
di
certo non ha cambiato zona di spaccio, sa bene che sarebbe solo un modo
per perdere clienti. Magari gli orari, magari i modi di scambio. Mi passo
l’indice fra le labbra mentre cerco di elaborare un
possibile piano. Do un’occhiata all’orologio;
potrei
tornare al porto stasera. Sì, non ho motivo di perdere il
controllo stavolta. Mi limiterò a verificare che le mie idee
siano corrette. È
rischioso. Prendo un
respiro profondo e gonfio le guance alternando l’aria
dalla destra alla sinistra. Quando la butto fuori sonoramente mi chiedo
se non sia il caso di chiedere una mano ad Anne-Britt. “Ha detto che eri impegnato in un
caso importante.” No,
Eric, rimani nel tuo cassetto, ti prego! Credo sia
davvero il lavorare in solitudine che mi porta a crearmi
troppi grattacapi. C’è bisogno di scambiare
pareri,
c’è bisogno di sentirsi dire che si è
sulla strada
giusta oppure che è solo uno sbaglio. Mi alzo
dalla scrivania e mi dirigo verso la caraffa di caffè,
mi riempio la tazza e cerco la mia collega nell’ufficio. Non
la
trovo. Poggio la tazza sulla scrivania e scendo le scale per cercarla
anche al piano di sotto. «Ehi,
sa dov’è Anne-Britt?» chiedo ad un
agente. «Il
detective Hoglund è uscita un’ora fa. È
su una scena del crimine, se non sbaglio.» Annuisco e poggio
entrambe le mani sui fianchi fissando la porta del commissariato. Lei
ha decine di casi fra le mani, ed io sono qui impantanato su un misero
furto. Sospiro
ancora arruffandomi i capelli e me ne torno alla mia postazione. No,
non posso chiederle aiuto, devo cavarmela da solo.
Verso le
tre del pomeriggio, mentre ascolto l’agente Forbanz che
mi racconta i dettagli di un assurdo scippo nei pressi della stazione
ferroviaria, il mio cellulare squilla. «Scusami.»
Mi allontano leggendo sullo schermo un nome che
mi fa sorridere. «Mamma» sospiro raggiungendo la
finestra e
guardando il placido mare azzurro. «Pensavo
mi avresti chiamato.» «Sto
lavorando, mamma.» Non c’è richiamo solo
la semplice e scialba verità. «Oh,
lo so, ma io mi riferivo alla tua donna misteriosa. Non hai
neanche voluto dirmi il suo nome.» Donna misteriosa. Ormai ho
imparato a sorriderci perché crogiolarsi nella vergogna non
giova a nulla. «Ti
chiamo stasera e ti dico tutto, va bene? Ora non posso stare
al telefono.» Getto un occhio in giro: sono tutti in pausa.
Alle
tre del pomeriggio a Ystad succede davvero poco. «L’hai
vista?» Mi bagno le labbra e annuisco al mio riflesso. «Sì»
alito stancamente. Dall’altra parte del
telefono posso sentire il rumore di un risolino soffocato.
Perché improvvisamente sento la mia vita come sostituta di
una
soap-opera messicana? «E
allora? Com’è andata?» «Non
posso parlare, mamma! Te l’ho detto che sono a lavoro e-
» «Va
bene, va bene! Ma siccome so già che non mi chiamerai,
ti telefono io verso le otto. D’accordo?» Andiamo, non ti
serve il mio permesso, tanto lo farai lo stesso. «D’accordo.»
Chiudo la chiamata e chiedo al Magnus del vetro cosa mai
potrò dirle stasera alle otto.
Ho
setacciato tutti gli archivi a disposizione della polizia di
Scania[1] e alla fine sono riuscito a
trovare qualche dettaglio in
più su Ruben Vargas. È nato a San Juan
trentacinque anni
fa. Nessun precedente, a parte un piccolo furto d’auto quando
era
minorenne da cui si è tirato fuori grazie ai soldi di
papà Vargas. Uomo ricco ma credo in modo poco legale.
Collegamenti fra lui e Brandberg non ve ne sono apparentemente, ma
Brandberg è uno che sta attento a non lasciare tracce in
giro.
Mi è sempre più chiaro che i soldi funzionano
meglio di
qualsiasi sbiancante. Potrei
cercare qualche legame fra suo padre e Brandberg visto che
dovrebbero avere più o meno la stessa età, ma ho
gli
occhi stanchi e la fatica si fa sentire. Me li strofino con le dita
mentre vedo i lampioni illuminarsi dalla finestra. Riprendere a
lavorare dopo tutti quei giorni di stop è stato
più
difficile del previsto. Il turno
è finito da quasi dieci minuti ma me ne sono reso conto
solo quando ho alzato lo sguardo sull’orologio. Se non
rientro
ora non farò neanche in tempo a cenare prima che quella
invadente donna di mia madre chiami. Non risponderle sarebbe solo un
suicidio. Afferro la
giacca e il dossier che stringo nella mano. «Buona
serata.» Sorrido agli agenti del turno di notte e
raggiungo la mia Volvo. È
più freddo di ieri sera ed
anche più umido. Una nuvoletta di vapore abbandona le mie
labbra
mentre mi affretto ad entrare in auto. Una volta a
casa accendo il gas e metto a bollire dell’acqua. Ho
preso delle scatole di pelati italiani (ma Made in Spain) e
qualche
busta di pasta. Non sarà come cenare in un pittoresco
ristorante
di Roma, ma meglio di niente. Ho posticipato anche la doccia al
dopocena, o meglio al dopo interrogatorio, perché non avrei
fatto in tempo. Mentre
scolo la pasta il cellulare squilla. Mamma, sei in anticipo.
Afferro sorridente il telefono ma sullo schermo leggo il nome di
Anne-Britt. «Ehi!»
Forse ha saputo che la cercavo. «Magnus,
sei a casa?» Il suo tono non mi piace. Il sorriso sparisce e
la fronte mi si aggrotta. «Che
succede?» La pasta si sta incollando ma non me ne curo. Ho un
brutto presentimento. «Sono
in ospedale.» «Stai
bene?» Il cuore inizia a battere forte al solo pensiero che
le possa essere successo qualcosa. «Sì,
io sì, ma dovresti venire.» Non riesco comunque a
tranquillizzarmi. «Ma
che è successo, Anne-Britt?» Ho già
ripreso la giacca e le chiavi e sto spegnendo la luce per poi chiudermi
la porta alle spalle. «C’è
stata un’aggressione.» «Chi?»
Una lista di nomi mi passa nella testa ma
l’unico che non vorrei udire è quello che
pronuncia la sua
voce seria. «Eric Huntsman.»
Al secondo gradino quasi perdo
l’equilibrio. Eric...
Mi aggrappo
al passamani. La gola
stretta, gli occhi sbarrati ed un fischio assordante nelle orecchie. «Eric...
è stato aggredito?» Il mio cuore ha smesso di
battere.
Continua...
[1] Scania è
la contea svedese di cui fa parte la città di Ystad.
Divoro
l’asfalto come non ci fossero altre auto oltre la mia. Ignoro
i
clacson, ignoro il rosso dei semafori. Sterzo bruscamente ed evito in
extremis un motociclista e prendo a respirare sempre più a
fondo. Svolto a sinistra senza neanche inserire la freccia. Altri
clacson. “Forse non
è in pericolo di vita.”
Non sono riuscito a farmi bastare quelle parole. Non sono riuscite a
calmare l’agitazione che si è impossessata di ogni
mia
cellula, che mi ha fatto tremare le dita mentre inserivo la chiave, che
mi ha fatto pregare ogni Dio esistente nella solitudine di un'auto
troppo calda. “Era
privo di sensi in uno dei cantieri del porto.” Non ho
voluto sentire i
dettagli, mi sono fiondato in strada ed ho guidato senza neanche
pensare. Quando arrivo sotto all’ospedale, parcheggio
malamente e
salto giù senza neanche chiudere a chiave né
curarmi del
cellulare che suona sul sedile. Non riesco
a regolarizzare il
respiro e sento gli occhi bruciare per
l’impossibilità di
chiudersi. La paura mi ha reso teso come un filo d’acciaio e
non
so neanche dire come facciano le mie gambe a muoversi. Alla
reception cerco
Anne-Britt furiosamente ma tutte le facce mi sembrano uguali. Vedo solo
camici, nelle mie orecchie solo sirene e parole confuse. Alla fine
è lei a trovare me. «Magnus!»
Non sento neanche la sua mano sul mio braccio. «Dov’è?»
chiedo con un’espressione che il suo viso mi suggerisce come
semplicemente terrorizzata. «I
medici lo stanno stabilizzando, non sanno ancora dire se sia a
rischio.» Dio,
ti prego! «Ma
che è
successo?» Non so neanche da dove mi vengano fuori le parole,
non
so se sono capace realmente di ascoltare una risposta. «Due
operai
l’hanno trovato mentre tornavano a casa, anche Huntsman aveva
finito il suo turno a quanto dicono.» Seguo il suo sguardo e
lo
porto su due uomini che stanno parlando con un agente. Immediatamente
li raggiungo, Anne-Britt mi segue. «Ditemi
che è
successo!» Il giovane agente mi scruta un po’
infastidito
ma in questo momento non potrebbe fregarmene di meno. «Io...»
Il primo
uomo mi guarda confuso e non ci penso due volte ed afferrarlo per un
lembo della giaccia e scuoterlo. «Dimmi
che è successo!» «Magnus!»
Mi sento
tirare indietro e gli occhi di Anne-Britt mi accusano. I miei non so
che abbiano da dire, vogliono solo poter rivedere il suo volto.
«Calmati! Ma che ti prende?» Non le rispondo e
torno a
guardare l’uomo che sembra essersi deciso a parlare. «Io
e Gary stavamo tornando a casa quando ci siamo fermati al capanno
23.» «Avevo
dimenticato un
paio di attrezzi nel pomeriggio.» Interviene
l’altro, un
ragazzo sulla ventina che sembra alquanto scosso. «Eric
era a terra,
accanto ad alcune casse. Non rispondeva, ho provato a svegliarlo ma...
c'era del sangue e abbiamo chiamato l’ambulanza
e...» Sento
il cuore battere sempre più forte, quell’immagine
basta
per dilaniarmi il petto. Mando giù un urlo. L’uomo
si
passa una mano sul volto e scuote la testa. «Chi ha potuto
fargli
una cosa simile?!» Non ho più parole. Sento la
gola
bruciare e la mascella fare male per quanto forte l’ho
serrata. «Aveva
qualche nemico?
Qualcuno con cui aveva litigato?» È Anne-Britt a
fare le
domande soffocate sulla mia lingua fra la paura e la rabbia. «No,
no. Eric è benvoluto da tutti.» L’uomo
continua a scuotere la testa. «Ultimamente
però c’era qualcuno che lo infastidiva.» «Chi?»
Ritrovo
voce e fisso il volto del più giovane vedendolo deglutire.
«Chi è che lo infastidiva?» «Non
lo so chi sono, giravano per il porto e gli stavano sempre intorno ma
Eric non gli ha mai dato corda-» «Le
loro facce,
descrivimele.» Un dubbio atroce mia assale. Ricordi di una
notte
di lacrime e sangue davanti alle nere acque di un molo maledetto. Un
ghigno beffardo e risate fastidiose. Riccioli d’oro. «Ehm...
Uno aveva i
capelli rasati e una specie di cresta e l’altro era calvo -
no
forse aveva i capelli corti, non mi ricordo.» «Concentrati,
ti prego.
Sai che auto avevano? Che cosa gli dicevano? Hai sentito nominare un
certo Dave o Ruben?» Saetto con lo sguardo da un occhio
all’altro ansioso di sapere se le mie paure siano fondate, se
quel senso atroce di colpa che mi sta salendo dallo stomaco abbia o no
una ragione. «Non
lo so, pensavo
fossero quei figli di papà annoiati che si divertono a
tormentare i poveri operai. Io... non lo so.» «Va
bene. Derez, prendi nota di tutto.» Le parole di Anne-Britt
mi scivolano nelle orecchie. Capelli
rasati, figli di papà... Chi poteva
avercela con uno
come Eric tanto da pestarlo così forte da mandarlo in
ospedale?
Chi se non quel bastardo a cui ha fatto fare la figura
dell’idiota quella sera al molo? Ruben Vargas, Gambero. Mi sento
trascinare lontano dai due uomini fino alle seggiole della sala
aspetto. «Si
può sapere
che hai? Perché la stai prendendo
così?» Il tono di
Anne-Britt è basso ma avverto tutta la sua
incredulità.
Chiudo gli occhi ed affondo entrambe le mani nei capelli, le gambe non
resistono e mi ritrovo ad accasciarmi contro il sedile rosso della
sala. «Magnus?» «È
colpa
mia» sospiro scuotendo la testa e torno a tirarmi indietro i
capelli. «È colpa mia!» «Che
stai dicendo? Come
può essere colpa tua?» Anne-Britt mi si siede
accanto e mi
scuote la spalla. «Huntsman è stato aggredito da
dei
balordi per chissà quale motivo. Cos-» «È
stato Gambero.
Lui ed i suoi... Sono stati loro, Anne-Britt. Sono stati
loro!»
Sento la testa pulsare dolorosa ed una preghiera disperata che mi
nuota nello stomaco. Voglio vederlo! «Come
fai ad essere sicuro che-» Mi alzo di scatto senza
ascoltarla. «Magnus?» «Dove
si trova?» chiedo e lei si solleva a sua volta guardandomi
con un'espressione preoccupata sul viso. «Per
favore, Magnus,
spiegami cos’è questa storia di Gambero e
perché
mai la stai prendendo così.» Abbasso lo sguardo e
vedo le
mani tremare - di nuovo. Le stringo con forza e sento qualcosa
spezzarsi nel petto. Il mio cuore urla sangue.
«Pensavo
di essere
veramente nei guai e all’improvviso Eric è sbucato
dal
nulla e si è messo contro quei tre e... e poi se ne sono
andati
ed io...» Sono
crollato. «Perché
non mi
hai detto nulla? È stata un’azione davvero
sconsiderata da
parte tua!» Annuisco a quel richiamo che in questo momento
non
può farmi male, non più di quello che sta facendo
quest’attesa soffocante. Saetto sul viso di ogni medico che
attraversa la sala sperando venga verso di noi, ed ogni volta abbasso
lo sguardo sul caffè freddo che Anne-Britt ha preso dalla
macchinetta. «Non pensavo foste amici. Ti ho chiamato
credendo
che avresti potuto avere qualche sospetto sui suoi aggressori. Lo
conoscevi, la sua cartella era molto accurata ed io...» Le
dita
di Anne-Britt si stringono attorno alla mia mano quando non presto
alcuna attenzione alle sue parole. Sollevo lo sguardo lucido sui suoi
occhi e ricaccio indietro le lacrime solo per una stupida vergogna che
in questo momento mi sembra solo spregevole. «Non ha dei
parenti?» Scuoto
la testa fissando le mattonelle del pavimento. «I suoi
genitori
sono morti e suo fratello è in Scozia... Non ha
nessuno.»
È tutto un incubo da cui vorrei svegliarmi
all’istante. Le
patetiche paranoie dell’ultimo periodo mi sembrano delle vere
bestemmie. Che io sia dannato! «Magnus..» È
solo colpa mia! Eric
è in questo
ospedale per colpa mia e dalla mia incapacità! Non merito
neanche di essere qui, non merito nulla da lui. «Credi sia
stata
una ritorsione da parte di Vargas?» Annuisco con vigore
mentre
batto nervosamente il piede a terra. «Ne
sono certo.»
Sfrego le dita delle mani intrecciate fra di loro e torno a guardare
verso i medici. Il viso ghignate di Gambero fa breccia nei miei occhi e
quasi mi sembra di bruciare. «Gliela farò pagare.
Giuro
che la pagherà!» «Non
fare così!
Non essere precipitoso, dovremo prima indagare.» Il mio
sguardo
la fulmina. Serro la mascella ed inghiotto lacrime e rabbia. «No,
Anne-Britt, non ho
alcun dubbio che sia stato quel bastardo di Vargas e quando me lo
troverò davanti gli farò pentire di aver messo
piede in
questa città!» Non riesce a ribattere
ché un medico sulla
cinquantina ci si avvicina. Immediatamente scatto in piedi. «Dottore,
come
sta?» Anne-Britt mi precede e guardo le labbra
dell’uomo
con una tremenda paura di udire parole che potrebbero semplicemente
uccidermi. «Ha
subito
un’emorragia interna e ha ecchimosi ed ematomi un
po’ su
tutto il corpo. Un paio di costole incrinate ed un polso lussato, ma il
danno più serio è
l’emorragia.» Quasi non mi
sembra reale. Non voglio che sia reale. «Sta uscendo ora
dalla
sala operatoria.» «Dottore.»
La mia
voce si spezza e mi prendo un secondo per ritrovare la forza di
continuare. «Si riprenderà?» «Abbiamo
arginato
l’emorragia che per fortuna non era molto estesa, ma dobbiamo
monitorarlo costantemente. Il rischio di un ulteriore shock ipovolemico
è alto in questi casi, ma se supera la notte potremo sperare
che
si rimetta. Non posso assicurarvi altro, dobbiamo solo
aspettare.» Aspettare... «Grazie
dottore.»
Sta per andarsene quando lo fermo per un braccio senza neanche
preoccuparmi dell’inopportunità del gesto. «Possiamo
vederlo?» La mia gola vibra, lo stesso fa il cuore. «Lo
stanno trasportando in terapia intensiva, non potete entrare.» «La
prego,
dottore!» Sento le labbra e la voce tremare «Voglio
solo
vederlo.» Gli occhi di Anne-Britt mi bruciano sulla guancia
insieme a mille silenziose domande. È
strano come l’orgoglio di un uomo semplicemente evapori
davanti alla paura di perdere chi ama.
Fili.
Decine di fili e di
tubi. Luci ad intermittenza. Numeri, linee fastidiose che si alzano e
si abbassano. Un lenzuolo bianco, una camera bianca, tende bianche. C’è
un’infermiera che sta controllando qualcosa su uno schermo,
poi esce ed Eric resta solo. Non capisco
come possa
guardarlo al di là di questo freddo vetro e non scoppiare ad
urlare. Forse la rabbia ghiaccia le parole così come la
disperazione prosciuga le lacrime. Sembra che
stia dormendo. Gli occhi chiusi – i miei
occhi azzurri - e i capelli sciolti. Un livido sullo zigomo, il
sopracciglio appena suturato. Una fascia stretta attorno al polso
sinistro. Aghi, altri
tubi, altri dannati fili! Vorrei
staccarli tutti e stringerlo forte ed aspettare che mi sorrida. Mi
sorriderai ancora, vero Eric? Tornerai a prenderti gioco di me e a
farmi sentire impacciato e stupido? Non lasciarmi! Non puoi lasciarmi
proprio adesso! «Restare
qui sarebbe inutile.» «Io
resto.» Gli occhi sempre su di lui, Anne-Britt al mio fianco
sospira e mi stringe un braccio. «Magnus,
cerca di reagire-» «Io
non lo lascio. Io resto.» Tutta la notte, tutta la vita se
sarà necessario. «Perché?»
Un’unica parola che raccoglie mille domande diverse e a tutte
posso rispondere alla stessa identica maniera. «Perché
ne ho
bisogno.» Ho bisogno di stare qui, ho bisogno di vederlo
svegliarsi. Ho bisogno di lui.
Sento un bacio sulla guancia e chiudo
gli occhi trattenendo la voglia di stringerla e scoppiare. «Ho
i bambini, altrimenti sarei rimasta con te.» «Lo
so.» Quando il
calore di Anne-Britt si allontana, resto solo davanti a questo vetro,
dall’altra parte attaccata a quelle macchine,
c’è la
mia stessa vita.
Sono le tre
di notte.
L’ospedale è più silenzioso ma sembra
che sia
cambiato poco o niente. Ci sono infermieri e medici che camminano
veloci nei corridoi, tanti volti sofferenti, tanta tristezza, pochi
sorrisi.
Esco giusto il tempo di un caffè e rientro di nuovo
girando stancamente l’asticella di plastica nel caldo
liquido. Quando Eric
si
sveglierà lo inviterò a bere un caffè
decente in
quel bar carino vicino al parco. Gli piacerà. E poi gli
racconterò di quanti problemi mi sia fatto prima di
invitarlo.
Gli dirò di mia madre e dei suoi consigli. Rideremo insieme
del
pugno che gli diedi quella mattina e di come mi sentivo imbarazzato
quel pomeriggio al supermercato. Gli racconterò dei sogni in
cui
lui mi aiutava a ridipingere casa e di quelli in cui semplicemente
camminavamo per la spiaggia a piedi nudi. Gli chiederò della
sua
famiglia, di suo fratello e della Scozia. Mi imbarazzerò
quando
mi dirà che sono un impiccione ed abbasserò la
testa
colpevole. Lui la solleverà e mi bacerà ed io lo
stringerò forte e gli sospirerò che ho desiderato
che lo
facesse dalla prima volta che l’ho visto, che non volevo
altro
che sentirlo vicino, che è diventato un’ossessione
e che
vorrei che mi spiegasse come ha fatto. I suoi occhi saranno sui miei,
il suo sorriso mi scalderà il cuore ma non mi
risponderà.
Non mi
risponderà... Sento le
guance bagnate ed il
sapore salato delle lacrime scendere sulle labbra. Poggio il
caffè sulla sedia e nascondo il viso nelle mani. Mi sento
morire. Perché
ho sprecato
tanto tempo, perché ho fatto vincere i miei stupidi dubbi
invece
del cuore? Perché dovevo vederlo steso su un asettico letto
d’ospedale prima di rendermi conto di quanto fosse importante
per
me? Perché
sono stato così codardo? PERCHÉ? Le lacrime
non voglio
arrestarsi e le asciugo inutilmente con le mani. Deboli singhiozzi
nella piccola sala. Al di là del vetro Eric continua a
dormire.
Svegliati,
Eric! Svegliati e dimmi di nuovo che sono un idiota, stavolta non
scapperò.
Mi sono
appisolato sulla panca
fredda della sala d’aspetto ma continuavo a sentire il rumore
delle barelle e l’odore pungente del disinfettate. Mi passo
una
mano sul viso e torno a guardare la scena immutata di fronte a me. Il
Dr. Lindgren mi ha concesso di stare nell’anticamera della
sala
di terapia intensiva ed io sono pronto a restarci finché
sarà necessario. Guardo un infermiere che sta cambiando la
flebo
di Eric. Aspetto che esca per chiedergli se ci sono cambiamenti. «Sta
reagendo bene.
Nessuna complicazione.» Ringrazio il cielo e mi lascio andare
ad
un sospiro stanco. «Lei è un parente?»
Sposto lo
sguardo al letto silenzioso. «Sono
della polizia.» Non sono niente per lui se non una causa di
problemi. Non voglio più esserlo. Il giovane
in camice mi guarda silente ed annuisce. «Dobbiamo
aspettare.» «Sì...»
Poi esce e sono di nuovo solo con i miei rimpianti. Appoggio
una mano contro il vetro e mi chiedo cosa stia sognando. Starà
sognando? Si può sognare quando si ha una sonda nella gola
ed una macchina che segna i tuoi battiti? Solo ieri
era tutto perfetto
ed oggi mi sento come se fin’ora non avessi realmente
vissuto. Il
terrore ti fa sentire vivo forse più della
felicità. Ti
graffia il petto e ti calpesta l’anima. Sei vivo
perché
sei vicino alla fine. Sento la
sua voce nelle
orecchie che si allontana secondo dopo secondo. È tutto
ovattato
ed amplificato allo stesso tempo ed è una sensazione
spaventosa.
Vorrei spaccare ogni dannata cosa in questa stanza, vorrei correre al
molo e ammazzare quei bastardi con le mie stesse mani e non fermami
neanche quando saranno freddi cadaveri! Non conta
più una stupida collana, non conta un inutile distintivo,
non conta più nulla. Non riesco
a razionalizzare,
non riesco a pensare alle parole di Anne-Britt e concedermi un dubbio.
Il mio cuore sanguina e non c’è posto per nessuna
domanda. L’orologio
segna le
quattro passate del mattino quando getto nel cestino
l’ennesimo
bicchiere vuoto di caffè. Quante
notte insonni a
tormentarmi stupidamente e avrei potuto trascorrerle con il suo profumo
sulla pelle. Se solo potessi tornare indietro non chiederei di non
conoscerlo ma di viverlo. È troppo tardi? Mi passo
una mano sul collo
indolenzito mentre mi accascio nuovamente sulla panca. La notte
è quasi passata, ormai manca poco. Vorrei che
le palpebre non si
chiudessero, vorrei che la stanchezza non fosse più forte
del
desiderio di vedere quell’orologio ticchettare
finché non
sarà davvero finita, ma mi poggio con la testa contro il
muro e
per qualche attimo mi sento lontano da questo ospedale e torno a
Tomelilla. Torno all’altalena solitaria. Non ci sono altri
bambini, ci sono solo io ma sono troppo triste per giocare. Poi un
rumore trascinante mi riporta alla realtà, un infermiere ed
una
barella vuota che mi passa davanti. Sono le
cinque meno dieci. Mi
strofino il viso con entrambe le mani e sospiro. È una
tortura
interminabile. Mi alzo e torno davanti al vetro. Non sembra cambiato
nulla. Fisso la flebo che gocciola lenta, un plic
dopo l’altro che non posso udire. C’è
troppo
silenzio, troppa calma. Non mi piace, mi agita. Ma è un
bene,
giusto? Deve rimanere tutto calmo, tutto silenzioso, deve tacere tutto
ed Eric starà bene. Le macchine non devono suonare, le linee
devono continuare a salire e scendere ritmicamente. Eric
starà
bene, Eric si sveglierà! E
se non dovesse farlo? È
un pensiero che mi fa bloccare il respiro. No, no, Eric ce la
farà, deve farcela! Come
fai ad esserne sicuro? Potrebbe morire... Non
morirà! Dovrai imparare a convivere con
i rimpianti e con le colpe. Chiudo
forte le palpebre e serro la mascella. È
colpa mia. Le mani
tremano, le braccia tremano, la mia anima trema. Avresti
dovuto dirgli prima quello che provavi. Avrei
dovuto. Avresti
dovuto confessargli tutto e smetterla di avere paura. Non ne
avevo il coraggio. La prima
lacrima mi riga una guancia. Sei
un vigliacco, Magnus, un vigliacco! Un’altra
ed un’altra ancora. Le asciugo
e tiro su con il naso. Non
sarò più un vigliacco. Non ho più
paura. È
troppo tardi. «Non
è troppo tardi...» sussurro contro il vetro
appannandolo appena. Scende ancora una lacrima, una sola. A
rispondermi solo il silenzio.
Continua...
NdA.
Spero abbiate apprezzato anche questo capitolo un pochetto
più drammatico, ma non rattristatevi. Io amo gli happy
ending ^^
Grazie per s(o)upportare questa storia con tanto affetto ❤
Kiss kiss Chiara
AVVISO:
Tutti i riferimenti e le spiegazioni mediche sono frutto di ricerche
personali e come tali privi di totale affidabilità. In
questo e nei capitoli che ne seguiranno potrebbero esserci delle
inesattezze in tale campo. Potete chiamarle ignoranza e non
sbagliereste, ma io mi riparerò sfacciatamente dietro alla
sempre valida “licenza poetica.” ^‿^
«Credo
che il peggio sia passato. L’emorragia si è
completamente
assorbita e non ci sono state complicazioni
all’intervento.» «Quando
si sveglierà?» «Dobbiamo
aspettare che
l’organismo smaltisca i farmaci somministrati durane la
notte. Lo
terremo in terapia intensiva per altre 24/48 ore per
un’ulteriore
sicurezza, ma mi sento di essere positivo.» Il sorriso del
medico
mi fa quasi pungere gli occhi. Annuisco grato e sposto lo sguardo
nuovamente al vetro. «Purtroppo non può entrare
non
essendo un parente, lei capirà.» «Certo,
anzi, la
ringrazio per avermi permesso di stare almeno qui.» La mia
voce
è poco più di un sospiro ma giunge ugualmente
alle sue
orecchie. Vorrei potesse giungere anche a quelle di Eric. Gli occhi
scuri del Dr. Lindgren seguono il mio sguardo. «Non
ha nessuno, vero?» «Nessuno
che può
essere qui.» Nel breve silenzio, solo il tamburo ora
più
calmo del mio cuore. Sento il dottore rumoreggiare con la cartella e lo
scruto preoccupato, ma quando risolleva lo sguardo su di me mi sorride
nuovamente. «Stia
tranquillo. Il suo amico è forte. Si rimetterà.» «Grazie,
dottore.»
E quando sparisce dietro alla spessa porta bianca, torno a guardare
oltre il vetro con gli occhi velati, stavolta di sollievo.
Ho
trascorso la mattina fra la
macchinetta del caffè e dei crackers e
l’anticamera della
terapia intensiva. Ormai ne ho imparato a memoria ogni dettaglio. Verso le
nove scorgo la chioma scura di Anne-Britt sbucare dalla porta centrale
dell’ospedale. «Ehi,
come sta?» Sorrido stanco e semplicemente annuisco con lo
sguardo al nero liquido che stringo fra le dita. «Ha
superato la notte e il dottore dice che si sveglierà
presto.» «È
una bella
notizia, Magnus.» La sua mano mi accarezza un braccio e le
sorrido ancora. «E tu come stai? Ora puoi anche andare a
riposarti, resto io. Ho parlato con Lisa e le ho spigato che eri qui.
Ha provato a chiamarti ma non è riuscita a
rintracciarti.»
Ricordo solo in quel momento che ho lasciato il cellulare in auto, il
cellulare che suonava rumoroso con la scritta
“Mamma” sullo
schermo. Non ho proprio pensato a recuperarlo, non ho pensato a
chiamarla, non ho pensato a nulla, solo a lui. «Torna a casa
e
dormi un po’, mangia qualcosa.» Vorrei provare
desiderio
nel farlo, ma la sola idea di lasciare Eric qui mi fa fermare il
respiro. Scuoto la testa e butto giù il caffè con
pochi
sorsi. «Voglio
aspettare che si
svegli.» Mi avvio verso la stanza ed Anne-Britt mi segue
senza
cercare di convincermi, sa che sarebbe inutile. Non credevo
che avrei potuto guardare così a lungo qualcuno dormire
senza stancarmi. «Magnus,»
la sua
voce è ferma e seria, «quando Huntsman si
sveglierà, se riconoscerà in Vargas o chiunque
altro, il
suo aggressore, voglio che tu rimanga lucido. Chiaro?» Prendo
un
profondo respiro ed abbasso lo sguardo sul suo. «Sei un
poliziotto non un giustiziere. Non devi passare dalla parte del
torto.» «Sono
anche la causa per cui è steso in quel letto.» «No,
non lo sei. Sei il
detective che metterà in prigione chi lo ha ridotto
così.» Inghiotto rabbia e mi mordo le labbra con
veleno.
«Devi controllare i tuoi istinti di vendetta. Non
portano a
nulla. Rovinerai la tua carriera e soprattutto, quelli la passeranno
liscia. Pensa a questo.» In questo momento non credo che la
mia
carriera conti davvero qualcosa, ma l’idea che Gambero ed i
suoi
possano passarla liscia mi fa ribollire il sangue. Annuisco senza dire
nulla ed Anne-Britt mi accarezza di nuovo il braccio. «Ho
chiesto
a Lisa di affidarti il caso, ma giurami che saprai mantenere la
freddezza necessaria. Se sapesse che sei così coinvolto
emotivamente mangerebbe prima il mio distintivo e poi il tuo,
ok?» Le sue labbra si piegano in un dolce sorriso e torno ad
annuire. «Grazie,
Anne-Britt. Ti
giuro che farò tutto ciò che è
necessario per non
farti pentire. Io... io voglio solo avere giustizia. Eric la
merita.» Ruoto la testa verso il vetro, al letto immobile al
centro della stanza. Merita tutto ciò che non sono stato in
grado di dargli. «E
l’avrà, Magnus.» Sì,
avrà tutto.
Anne-Britt
mi ha gentilmente riportato il cellulare dall’auto e con esso
un tramezzino dal bar. «Grazie.»
Afferro entrambi convincendomi che non potrò mai dirle
abbastanza quella parola. Mi si siede
accanto mentre
controllo il cellulare. Sullo schermo leggo diciotto chiamate perse:
dodici di mia madre, quattro di Lisa e due di Anne-Britt. Non ho
abbastanza forza per
richiamare mia madre. So quanto sia preoccupata, ma davvero non saprei
cosa dirle a parte ammettere che suo figlio è un idiota
colossale che ha sprecato tempo ed energie per tenere lontana
l’unica persona che lo abbia mai fatto sentire vivo. Gli
infermieri stanno cambiando le fasciature di Eric e ci hanno chiesto di
uscire. Me ne sto
seduto nella sala
d’aspetto con la presenza calda di Anne-Britt e la busta
rumorosa
del tramezzino che le mie dita faticano ad aprire. Ho la testa pesante
e lo stomaco annacquato di caffè. Avrei bisogno di lavarmi
il
viso, ma non riesco ad allontanarmi ché di pochi metri da
quella
porta. Anne-Britt
afferra il
tramezzino e lo apre. La guardo con gli occhi di chi non ha
più
alcuna maschera da indossare. Le sue domande le so, credo lei conosca
le risposte. «Tieni.» «Grazie.»
No, non lo dirò mai abbastanza. È
ormai tarda mattinata
e mi chiedo quante volte abbia guardato quell’orologio nelle
ultime dodici ore. Troppe, troppo poche. La lancetta ha scandito i miei
respiri e sembrava girare sempre troppo lentamente. Mando
giù il tramezzino
con pochi morsi, rendendomi conto solo ora quanto ne avessi bisogno.
Anne-Britt non ha detto più nulla, siamo rimasti qui, io a
guardare la porta e lei a guardare me. Un
infermiere esce ma non ci
dà ancora il permesso di entrare. Io sono già
scattato in
piedi con le mani sui fianchi ed il desiderio di varcare quanto prima
quella porta. «Era
questo il motivo
della tua insonnia?» La domanda arriva da un viso gentile
ancora
seduto sulle seggiole rosse alla mia destra. «Sì...»
ammetto e quasi mi sento più leggero. Sì, era
questo il
motivo per cui non dormivo, per cui non riuscivo a concludere nulla,
per cui avevo la testa altrove e nessun caso risolto. Il motivo era lui
e non ne sento vergogna. Non più. «Capisco
perché
non ne volevi parlare.» Recepisco quella frase come il
pensiero
onesto di un’amica e la guardo senza cercare vili
insinuazioni. «È
successo
all’improvviso e non sapevo come comportarmi.» La
porta
è sempre chiusa e l’attesa è smorzata
solo da
quelle parole che mi strappano di dosso l’ultima ombra di
paura. «Posso
immaginare... Lo
so come sei fatto. Sarà stato un vero dramma per
te.»
Riesco perfino a rispondere al suo sorriso. «Dramma
forse è
un eufemismo.» A lei sfugge una risata che però
recupera
presto e mi guarda con un'espressione che semplicemente mi fa sentire
compreso, che mi fa sentire nel giusto. «Sono stato stupido e
infantile e quando mi hai telefonato ieri...» «Siamo
esseri umani,
Magnus, non solo poliziotti. Siamo pieni di paure e di dubbi anche
quando non ce ne sarebbe motivo.» Annuisco e respiro a fondo.
«Io
non voglio
più avere dubbi e paure, Anne-Britt. Non voglio
più.» La vedo alzarsi ed avvicinarsi ancora
finché
le sue braccia non mi avvolgono e mi ritrovo piegato in un caldo
abbraccio. La stringo forte fra le mie. «Grazie.» «Non
dirlo più, ok?» «Ok.»
L’abbraccio si scioglie solo quando il suo cellulare squilla.
È la centrale. Dovere,
lavoro. Nella mia classifica attuale di cose importanti, decisamente
all’ultimo posto. «Devo
andare. Se hai
bisogno di essere sfamato, chiamami.» Mi sorride e le sfioro
le
dita mentre la vedo sparire per i corridoi dell’ospedale. Un
secondo dopo le spesse porte della sala si aprono e due infermieri
escono. Mascherina sul viso di entrambi. «Posso
entrare?» Chiedo mentre il primo si abbassa la mascherina
verde. «Bisognerà
chiedere il parere del Dr. Lindgren.» Non riesco a capire.
Prima
potevo e adesso ho bisogno del parere del medico per poter stare dietro
ad un dannatissimo vetro? Aggrotto la fronte indignato mentre porto lo
sguardo al di là della porta ora nuovamente chiusa. «Ma
credevo che avrei potuto-». «Bisogna
evitare ogni
stress,» vengo interrotto dal secondo infermiere,
«anche la
sua semplice vista potrebbe agitare il paziente. Gliel’ho
detto,
bisogna chiedere al Dr. Lindgren.» Potrebbe agitare il paziente... Sgrano gli
occhi e li porto sul viso del ragazzo. «È
sveglio?» «Da
cinque minuti.»
Venti,
invece, sono i minuti
che trascorro a torturarmi le dita davanti alla sala in attesa che il
Dr. Lindgren si decida a farsi vivo. Eric è sveglio al di
là di questa porta ed io vorrei solo poterlo vedere con i
miei
occhi ed avere la certezza che non è solo una mia illusione. «Detective.»
Finalmente la figura alta del medico mi compare di fronte. I capelli
brizzolati un po' spettinati e fra le mani una cartella gialla. «Dr.
Lindgren!»
Sento l’agitazione farmi tremare la gola e attorcigliarsi
nello
stomaco. Mando giù ogni domanda e guardo le sue labbra
muoversi.
«Ho
provato a farle
avere un permesso speciale per entrare in sala, ma le regole
dell’ospedale sono ferree. Mi spiace.» Scuoto la
testa con un
sorriso. «No, non si preoccupi. È stato gentile a
tentare.
Volevo sapere se almeno posso entrare nell’anticamera. Gli
infermieri mi hanno detto che Eric- che il signor Huntsman è
sveglio. Non voglio fargli alcuna domanda, voglio solo...»
Prendo
un leggero sospiro «Solo vederlo.» I suoi occhi mi
scrutano
silenti per poi posarsi sulla cartella per qualche attimo. «Può
restare qualche minuto però poi la invito ad uscire. Va
bene?» «Sì,
certo, va
più che bene, dottore.» Mi chiedo se tutto questo
entusiasmo non sia fuori luogo. Non mi impegno a cercare una risposta. Mi fa
strada e lo seguo in quella che è ormai diventata una
piccola sala familiare. Con il
cuore in gola, porto lo
sguardo a quel letto e sembra una scena immutata, ma sul viso scorgo
due occhi chiari che guardano di fronte a sé. Cerco di
reprimere la gioia
liquida che mi si sta riversando nel corpo mentre il medico indossa il
necessario prima di entrare nella stanza. Gli occhi
di Eric si spostano
su di lui e ne seguono i passi finché non gli si avvicina,
le
sue labbra si muovono appena e il Dr. Lindgren sembra rispondere da
sotto la mascherina. Eric...
Non riesco
a udire ciò
che dicono. Resto incollato a questo vetro fissando ogni dettaglio di
quel volto ferito che tanto ho avuto timore di perdere e vorrei solo
poterlo sfiorare. Lo sguardo
del medico si alza
su di me e pare dire qualcos’altro. Non ho neanche il tempo
di
chiedermi di cosa possa trattarsi, ché gli occhi di Eric mi
investono. Adesso
sì che potrei crollare davvero sulle mie stesse gambe. Le sue
palpebre sbattono
più volte mentre il cuore salta un paio di battiti nel mio
petto. Lentamente, un gesto appena accennato, le dita della sua mano si
alzano e si muovono piano. Un enorme
sorriso si allarga sul mio viso, infantile, patetico forse, ma non
riesco – non voglio – reprimerlo. Questa
fiamma che bruca forte dentro si chiama felicità? Non credo
di averla mai avvertita prima. Alzo la
mano a mia volta e la
poggio contro il vetro picchiando appena i polpastrelli sulla lastra.
Le labbra di Eric si piegano in un piccolo e stanco sorriso. Vorrei
entrare nella stanza e
tuffarmi su quel letto. Scoppiare il lacrime fra le sue braccia e
urlargli ancora quelle scuse che non vuole udire. Mi sono
proibite entrambe: non
posso entrare e non posso cedere a stupidi sentimentalismi. Non ora.
Non gli sarebbero d’aiuto e non lo sarebbero a me. Voglio, devo, ascoltare le
parole di Anne-Britt e rimanere lucido. Devo farlo per lui. La mia mano
è ancora
ferma contro il freddo vetro mentre il dottore continua a controllare
gli schermi e la cartella, ed Eric parla lentamente, poi
il medico
annuisce prima di uscire ed Eric torna con lo sguardo su di me. Ora non
ho più alcuna intenzione di sfuggire dai suoi occhi
né
dal mio cuore. La porta si
apre mentre il Dr. Lindgren si sfila la mascherina. «Ha
un forte spirito. Si rimetterà in fretta.» «Ne
sono felice» rispondo concedendogli una veloce occhiata di
pochi secondi. «Gli
ho detto che
è stato qui per tutta la notte.» Stavolta gli
occhi
saettano sul suo viso e il batticuore cresce. «Mi ha detto di
dirle che è uno stupido.» Sorride ed io mi sento
scogliere. Sì, lo sono. Sono l’essere
più stupido
di questo pianeta! «Lo
so» sospiro non riuscendo a sconfiggere un lieve imbarazzo
che mi fa accaldare la punta delle orecchie. Ah, patetico poliziotto! «Può
dirglielo.» Il dottore mi indica un piccolo citofono sulla
parete. L’ho tenuto davanti alla vista tutta la notte e non
aveva
capito a che servisse. Sì, sono estremamente stupido. «Posso?»
tentenno e lui annuisce con uno sguardo che mi fa chiaramente capire
che anche lui deve ritenermi tale. Mi avvicino
all’apparecchio color panna e pigio il pulsante portando lo
sguardo su quello di Eric. «Lo
so.» Sento la
mia stessa voce gracchiare dall’altra parte e lo vedo
sorridere
un po’ di più. Avrei
voglia di abbattere questo vetro a testate... «Ora
lasciamolo riposare.» «Va bene.» Sorrido
appena e scuoto ancora la mano. Le dita di Eric si muovono di nuovo e
stavolta anche le labbra. Potrei giurare che abbia sospirato un debole “Bye”.
«Dottore,
è proprio necessario tenerlo ancora in terapia
intensiva?» «Capisco
che desideri
poter essere vicino al suo amico, ma più che necessario
è
la prassi dopo un intervento come il suo.» Sento il viso
accaldarsi. Non era ciò che intendevo, ma mi guardo bene dal
sottolinearlo. È ovvio che vorrei potergli stare vicino, ma
in
realtà voglio sapere quali sono i reali pericoli per cui
viene
tenuto lì. «Quali
sono i
rischi?» chiedo mentre il Dr. Lindgren si ferma a firmare
delle
carte che gli porge un’infermiera «Dobbiamo
monitorare
costantemente la pressione e l’ossigenazione del sangue per
evitare eventuali nuove emorragie. Se non intervenissimo in tempo il
rischio maggiore è che il paziente riporti danni cerebrali
dovuti alla cattiva ossigenazione.» «Danni
cerebrali?» Sono di nuovo allarmato ed ora è la
mia di pressione ad aver bisogno di un controllo. Lui mi
guarda con un’espressione serena ed infila nel taschino del
camice la sua penna mentre l'infermiera si allontana. «Detective,
sto parlando
di una rarissima possibilità. Il signor Huntsman ha superato
bene la notte e non c’è motivo per preoccuparsi.
Sono solo
precauzioni. Non si lasci impressionare dalle parole, era solo per
rispondere alla sua domanda.» Mi sorride ancora.
«Fra
qualche giorno gli sarà seduto accanto a sistemargli i
cuscini,
si fidi.» Non riesco a condividere quel sorriso e mi limito
ad
annuire. «Grazie...
quando-» «Questo
pomeriggio.» Mi anticipa. «Ora lo lasci riposare e
si
riposi anche lei, ne ha bisogno.» Sì, lo so che ho
una
cera orribile, ma non riesco ad allontanarmi da qui. Getto un occhio
alla porta chiusa ed inghiotto la voglia di aprirla. «Non ha
motivo di essere in apprensione, glielo dico da medico, e sempre da
medico la invito anche a fare una ricca colazione ed una bella dormita.
Rischia un collasso da stress e credo che neanche al suo amico piaccia
l’idea.» Dr.
Lindgren, lei sa perfettamente quali tasti toccare. Ha ragione,
se crollo non
sarò di nessun aiuto né ad Eric né
alle indagini.
Per quanto il cuore mi urli di restare, il mio corpo stanco
è
lieto di seguire le sue indicazioni. Salgo in
auto stendendomi esausto contro il sedile. Potrei dormire qui, magari... Non
essere ancora più stupido! Ripenso
alle parole riferitemi dal dottore e riesco perfino a sorridere.
Accendo il motore e mi avvio verso casa. Prima vado,
prima torno.
Getto le
chiavi sul mobiletto dell’ingresso ed appendo la giacca con
un gesto stanco. La pasta è ancora
nella pentola, ormai solo da buttare. Gli occhi
bruciano e lo
stomaco formicola. Cedo ai primi e mi stendo sul divano. Giusto il
tempo di qualche pensiero su quanto ho rischiato di perdere. Il viso di
Eric è l’ultima immagine impressa nei miei occhi
prima che
mi addormenti. È
il suono del cellulare a svegliarmi. Brontolo
con la bocca asciutta
e mi stropiccio le palpebre. Non mi sento per niente riposato, anzi,
sono più stanco di prima, forse è solo il mio
corpo che
mi ripaga di questa notte sulle seggiole atroci
dell’ospedale, ma
per quel sorriso, sarei disposto a dormirci tutte le notti! Sto
diventando tremendamente
sdolcinato... Chissà se è qualcosa che ad Eric
piace.
Semplicemente glielo chiederò. Sto ancora
metabolizzando il tutto con un sonoro sbadiglio mentre la suoneria
continua a torturarmi i timpani. Poi un
flash: potrebbe essere l’ospedale. Ho lasciato il
mio numero in caso di emergenza! È
un pensiero che mi
calcia letteralmente il sedere e mi fa scattare verso la giacca.
Afferro velocemente il cellulare dalla tasca ma sul display leggo un
nome che mi fa sospirare grato per alcuni attimi: mamma. Subito dopo
un altro tipo di apprensione mi pesa sul petto. Che faccio,
rispondo? L’orologio
segna le due passate. Ho dormito davvero a lungo senza fra
l’altro sognare nulla. «Mamma...»
alito grattandomi la testa arruffata. «Grazie
a Dio! Perché non hai risposo alle mie chiamate? Mi hai
fatto preoccupare, Magnus!» Lo immaginavo. «Scusami,
ma ho avuto un’emergenza e non ho avuto tempo per
chiamarti.» «Tutta
la notte?» Suona come un richiamo più che
una vera domanda. Mi avvio
verso la cucina.
«Sì, mamma, tutta la notte.» Ed apro il
frigo
afferrando una bottiglia d’acqua. «Questioni
di lavoro, vero?» Blocco il telefono fra la spalla e la
guancia e svito il tappo. «Sì,
lavoro» mento buttando giù un sorso. Non voglio
che si preoccupi, non voglio che sappia che ho rischiato tutto per
colpa delle mie paure. «Stai
bene, tesoro? Mi sembri stanco.» Poggio la bottiglia sul
tavolo e mi stropiccio ancora gli occhi. «In
effetti lo sono. Vorrei farmi una doccia e poi devo tornare in
centrale, scusami.» «Non
ti preoccupare,
chiamerò in un momento migliore per sapere della tua
misteriosa
donna.» Sospiro nel sentirla ridacchiare. «Mamma?» «Sì?» «Grazie.»
E scusami se ti sto
mentendo ancora. «Asciugati
bene i
capelli altrimenti ti viene un’otite, ricordalo!»
Mi
strappa una debole risata prima di riagganciare.
L’acqua
calda mi cade sul corpo come fosse una carezza mentre nel piccolo bagno
lo scrosciare del getto risuona forte coprendo i miei singhiozzi. Sul viso
lavo via altre lacrime. Di paura, di gioia, di gratitudine, di colpa. Hanno tutte
il sapore di Eric.
Continua...
NdA.
So cosa state pensando: Magnus ormai sta diventando un piagnone, ma la
colpa è di Hiddleston che si presta troppobbene a
queste scene u.u
Eric è fuori pericolo, Anne-Britt sa tutto ed il Dr.
Lindgren
è felicemente sposato, per cui evitate di chiedermi il suo
numero di telefono.
OK?
Anche queste patetiche note sono terminate.
Un bacio corale e fatevi amare <3
kiss Kiss Chiara
Quando
entro in ospedale mi trovo di fronte una scena che non mi aspettavo.
Davanti alla sala aspetto ci sono la bellezza di undici uomini, tra cui
riconosco il viso di Lars Silvstedt (il colpevole della mia figura
barbina al porto nonché del livido orrendo che mi ha
accompagnato per giorni). Mi avvicino
con la fronte corrucciata perché li sento
battibeccare con le infermiere. «Non
è possibile! Questo è un ospedale
non un club!» «Senti,
noi vogliamo solo sapere come sta il nostro
amico.» «Perché
non ci dite niente? Cosa avete da
nascondere, eh?» Li ho ormai
raggiunti quando vedo qualcuno di loro guardarmi e
richiamare l’attenzione degli altri. «Che
succede?» chiedo e la metà di
quegli occhi è su di me. «Lei
è il detective Martinsson?»
Annuisco alla
domanda della donna che si passa spazientita una mano sulla fronte.
«Il Dr. Lindgren ha detto che sarebbe passato e-» «Chi
ha aggredito Eric?» Viene interrotta dalla
voce grossa
di un uomo sulla trentina, berretto sulla testa e camicia di flanella
arrotolata fino ai gomiti. Un ghigno duro su un viso barbuto. «Non
lo sappiamo ancora, stiamo indagando.» Volevo
solo
restare davanti a quel vetro perdendomi negli occhi di Eric ed invece
mi tocca recitare la parte del poliziotto. Per un po’ avrei
preferito togliere la divisa, ma forse è vero che alla fine
ti
si
attacca sulla pelle. «Ma
com'è possibile?! » «Per
cortesia, non urli.» «Non
sto urlando!» «Abbassi
la voce, si ricordi dove siamo!» Mi strofino
gli occhi ingoiando un sospiro stanco. No, una disputa
marinaio-infermiera non è proprio quello che mi occorre. «Detective?»
Alzo lo sguardo sul viso di Lars.
«Io
volevo ringraziarla per non aver sporto denuncia... beh, io, le sono
grato e non volevo. Eh, non...» «Acqua
passata.» Taglio corto mentre lui si passa
impacciato una mano sul collo. Lo osservo per un po’ e poi
passo
gli occhi al resto di questo rumoroso - sì, ha
ragione
l’infermiera - gruppo. Sbagliavo.
Mi ero dannatamente sbagliato. Eric ce l’ha una
famiglia, grande e molto affiatata. Perché il sangue alla
fine
lega poco. «Perché
non possiamo sapere
nulla?»
È di nuovo Lars. «Stamattina al lavoro veniamo a
sapere
che Eric è in ospedale, corriamo qui e nessuno sa dirci come
sta. Siamo preoccupati.» L’altro marinaio sta
ancora
litigando con l’infermiera a cui se n’è
aggiunta
un’altra. «Ha
subito un intervento ma ora è fuori
pericolo.»
Parlarne mi aiuta a metabolizzare il tutto. Ieri sembra lontano, la
paura anche, i rimorsi... quelli ancora bruciano forte. «Che
tipo di intervento?» È una voce
nuova, di un ragazzo giovane, forse non ha neanche vent’anni.
«Aveva
un’emorragia interna. Per questo
è in terapia intensiva e non potete fargli visita.» «Ma
si riprenderà, vero?» Terza voce,
terza faccia nuova. Annuisco
con le mani sui fianchi accorgendomi che il vociare litigioso
si è affievolito. Non sono
informazioni che si dovrebbero
divulgare, ma di fronte a me vedo i volti preoccupati di coloro che
hanno a cuore solo la salute di Eric. Per una volta infrango le regole
e li metto al corrente di ciò che so riguardo le sue
condizioni.
Alla fine li vedo sollevati e gli occhi di qualcuno farsi
più
lucidi. «Mi
raccomando, detective, trovi quei bastardi!» «È
ciò che intendo fare.»
Trovarli e sbatterli
dentro magari letteralmente a calci nel culo! «Cosa
sta succedendo qui? Detective, chi sono queste
persone?» Sul viso del Dr. Lindgren, appena giunto, la fronte
aggrottata e uno sdegno mal celato a piegargli le labbra e mi chiedo
perché stia rivolgendo quell’espressione a me.
Mica li ho
portati io!? «Dr.
Lindgren, questi sono colleghi del signor Huntsman e
volevano avere solo qualche notizia sulle condizioni del loro
compagno.» Spiego cercando di non badare alle fitte alla
testa.
Ci mancava solo l’emicrania post dormita ma soprattutto post
pianto. «Il
signor Huntsman è fuori pericolo ma voi non
potete
stare qui, non tutti insieme.» Le rughe sul suo viso si
stendono
appena mentre lancia uno sguardo ad ognuno dei presenti. «Non
è possibile vederlo?» È
di nuovo Lars a parlare. «Assolutamente
no! Il paziente ha bisogno di riposo e di
tranquillità.» «Ma
dottor-» «Quando
lo trasferiremo in una stanza potrete fargli visita e
solo due per volta.» Un brusio generale si solleva
nell’aria mentre quasi mi sento in difetto per il trattamento
speciale che invece mi è stato riservato. Eppure sono io la
causa della sua aggressione... «Questo è un
ospedale non
un ritrovo per comitive.» «Sì,
l’avevamo capito,
dottore»
borbotta
sarcastico l’uomo che stava litigando con
l’infermiera ma
il Dr. Lindgren ignora ogni frecciata e si limita ad
un’occhiata
di rimprovero. «Quando
possiamo fargli visita?» chiede un marinaio
basso ed estremamente magro stretto in una tuta grigia. «Nei
prossimi giorni.» E mentre il gruppo prende a
parlottare fra di loro, il medico mi si avvicina. «Non aveva
nessuno, eh?» sospira con un accenno di richiamo ed io mi
ritrovo
a grattarmi la nuca colpevole. «Come
sta?» Preferisco riportare
l’attenzione
all’unica vera questione che la merita, i rimproveri per la
mia
negligenza, teniamoli per dopo. Il Dr.
Lindgren si guarda attorno e poi mi sorride. «Sta
bene, ma ha tentato di alzarsi e gli sono saltati un
paio di punti. Ho dovuto fargli una lavata di testa.» Eric... e poi lo stupido sarei
io? «Ma
ora è tutto a posto?» «Sì,
stia tranquillo, glielo stiamo trattando con
i
guanti, detective.» E con quella battuta
- allusione?
- si allontana lasciandomi in balia di questa banda di
curiosi e
chiassosi marinai.
«Tu
ne sai niente?» Alla fine buona parte degli
uomini sono
tornati al porto e solo Silvstedt ed un altro paio hanno deciso di
restare - ancora non ho ben capito perché - e tra di loro
c’è il tipo odiainfermiere
che ho scoperto
chiamarsi Hernest. «Eric
non mi ha parlato di nulla.» Annuisco alle
parole di
Lars. «Anche se conoscendolo non credo che nel caso qualcuno
lo
stesse infastidendo l’avrebbe fatto. È un tipo
molto
riservato e soprattutto orgoglioso.» «Già,
figurati se Eric si viene a lamentare per un
paio di
idioti che gli danno noia.» Hernest manda giù il
suo
caffè con un ghigno per poi accartocciare il bicchiere vuoto
nella mano e gettarlo nel cestino. «Comunque se li prendo gli
stacco le gambe e poi le uso per prenderli a calci!» «Sono
con te, amico.» «Lo
siamo tutti!» Dalle
parole di questi uomini riesco a delineare un altro tratto della
vita di Eric. È un tratto rude eppure ricolmo di una tenera
dolcezza. Mi torna in mente il suo sorriso, quello che gli vidi quella
prima volta al porto mentre lavorava ed io mangiavo quegli spaghetti
freddi. Quel sorriso che vorrei fosse sempre sulle sue labbra. «Però
una sera - un paio di sere fa,
quando siamo
andati a bere da Clouds
- era piuttosto nervoso.»
Mi
ridesto e porto lo sguardo sul viso del ragazzo. «Già,
è vero» conferma Lars. «Perché
era nervoso?» chiedo ed
è nuovamente il giovane a rispondermi. «Non
so il motivo, glielo chiesi ma lui non mi disse nulla.
Però era come se stesse con la testa da un’altra
parte e
buttò giù una birra.» «Analcolica?»
Scuote la
testa. «Di solito sì, ma quella sera ne
ha presa
una normale. Me lo ricordo proprio perché Eric non beve
niente.
È astemio.» Questo magari è inesatto ma
mi guardo
bene dal correggere. Un paio di
sere fa... La domenica al supermarket mi è
sembrato
sereno, ma non posso dirlo con certezza, quando si tratta di lui non
riesco mai a restare distaccato. Ero così agitato e nervoso
che
forse non ho notato come stesse in realtà. Ho guardato i
suoi
capelli, le sue labbra... Stupido, superficiale Magnus! «Lo hanno
preso alle spalle» enuncia Hernest seduto
sulla seggiola della sala. «Ne sono sicuro. È
l’unico motivo per cui sono riusciti a mandarlo in ospedale.
Hanno agito da codardi.» E purtroppo è un pensiero
che ha
accarezzato anche me. Forse erano più di due, forse era un
gruppo, o magari è stato aggredito alla sprovvista. I danni
che
ha riportato non sono compatibili con una semplice
scazzottata.
Sento la rabbia montare nello stomaco ma mi sforzo di rimanere
concentrato. Ora sono il Detective Martinsson e come tale devo
comportarmi. E come
detective mi dico di prendere con le pinze ogni parola. Che
sotto ci sia Gambero ne sono certo, ma finché non
parlerò
con Eric sono solo supposizioni. Se ha visto
chi lo ha aggredito, me lo dirà ed allora io
prenderò quei bastardi e farò scontare loro ogni
graffio
ed ogni livido, ogni singola goccia di sangue che hanno osato fargli
versare! «Dobbiamo
rientrare o Gustav ci scuoierà
vivi.» «Ringdal?»
chiedo una conferma che in
realtà non mi
serve. Lars annuisce ed Hernest si alza dalla panca. Forse Ringdal
può saperne qualcosa. Quell’unica volta che gli
parlai mi
sembrò che fra lui ed Eric ci fosse un buon rapporto. Gli ha
prestato la sua auto e mi ha ammonito quando ho fatto domande su di
lui. Potrei parlargli. «Detective,
l’avverto, se non trovate quei figli di
puttana, giuro che li troverò io.»
L’indice di Hernest si punta sulla mia faccia «Voi
poliziotti perdete
sempre
troppo tempo.» E quella frase mi risuona in testa anche
quando
ormai sono usciti dall’ospedale.
Leggo un
messaggio di Anne-Britt che mi invita ad andare alla centrare
appena possibile, molto probabilmente Lisa vuole parlarmi di persona
per affidarmi ufficialmente il caso. Mi chiedo quanto possa nasconderle
i veri sentimenti che mi guidano a far luce su
quest’indagine.
Sono assolutamente sicuro che Anne-Britt non le abbia detto nulla ed
anche se non ho più voglia di indossare maschere, sono
convinto
che se sapesse ciò che provo in realtà, sarebbe
più restia, per non dire contraria, ad affidarmi il caso. Rifletto su
ogni frase scambiata in questi minuti con i colleghi di
Eric ed appunto ogni cosa nel block notes che è sempre nel
taschino della giacca. Concentrarmi sul lavoro mi aiuta a domare la
rabbia che provo, contro quei delinquenti e contro me stesso. Mi chiedo
per quanto riuscirò a tenerla davvero sotto freno. «È
ancora qui. Perché la cosa non mi
sorprende?» Alzo lo sguardo ed incrocio il volto del Dr.
Lindgren. «Oh,
dottore.» Velocemente infilo il taccuino e la
penna in tasca e mi alzo dalla sedia. «Vedo
che è riuscito a liberare la sala aspetto.
Gliene
sono grato.» Inizia a camminare lesto e gli vado dietro. «Non
avevano intenzione di creare problemi
all’ospedale.» «Lo
so, anzi è rassicurante vedere una tale
amicizia, ma
il signor Huntsman non è il nostro unico
paziente.» «Capisco
perfettamente quello che vuole dire.» Ci
troviamo
davanti alla sala della terapia intensiva quando si arresta. «Cinque
minuti, detective.» Mi lancia uno
sguardo e
poi sparisce prima che possa dirgli l’ennesimo grazie.
Spingo le
porte ed entro piano nell’anticamera. Eric
è sveglio. Resto a
guardarlo per qualche secondo prima che si accorga della mia
presenza. Non ha più la sondina, ma la flebo attaccata al
braccio è ancora lì. Scuoto appena la mano con un
sorriso
e lui solleva le dita, stavolta con più decisione. Appoggio
le
mie contro il vetro e continuo a guardarlo. Lo vedo sorridere e poi
stringere gli occhi con forza. Credo abbia avuto una fitta o qualcosa
di simile. Panico! Mi guardo
agitato in giro in cerca di un infermiere ma quando torno con
lo sguardo su di lui vedo la sua mano fammi un segno. Lo interpreto
come uno “Sto bene” e mi lascio sfuggire un sospiro
poggiando anche la fronte contro la lastra fredda. Devo sembrare un
animale in gabbia, o al limite, un criminale psicopatico chiuso in una
cella di cristallo, di quelle che vanno tanto di moda al cinema. No, cinque
minuti sono pochi e questo vetro è di troppo. Porto lo
sguardo al piccolo citofono chiedendomi che mai potrei dirgli.
Ho così tante parole nella testa e nel petto eppure non
riesco a
scegliere. E poi lui non potrebbe rispondermi... Mi avvicino
e premo il pulsante. «Ehm...
» Inizio pessimo davvero. Lascio il tasto e
mi
gratto la testa e mi accorgo solo allora del sorriso di Eric sempre
più ampio.
Mi arrendo. Allargo le
braccia e scuoto la testa sconfitto. “Sono un
imbranato, Eric, scusami!” Sembra udirlo e
scuote la testa a
sua
volta, lentamente, è appena un accenno, ma basta per
riempirmi
l’anima. Che stai pensando? Cosa provi
realmente? Voglio
chiederglielo e voglio rispondere a mia volta. Ma non ora,
non con un citofono ed un vetro a dividerci - o
unirci? Premo di
nuovo il pulsante con un sorriso. «I
tuoi colleghi sono venuti a trovarti.» La voce
stride.
Aspetto che annuisca debolmente e poi torno a parlare. «Hanno
fatto un casino incredibile ed Hernest ha litigato con
un’infermiera.» Mi pento di quella frase quando una
leggera
risata lo obbliga a stringere nuovamente le palpebre. I punti saltai
stamattina! L’avevo quasi dimenticato.
«Scusami!» E
dimentico anche di togliere il dito. Eric mi guarda aprendo una
palpebra e sibila qualcosa ma non riesco a capire. Scuoto la testa e
assottiglio la vista. Torna a
parlare. Non... dirlo... più. Abbasso lo
sguardo contenendo la voglia di urlargli quanta paura abbia
avuto di perderlo e quanta ne abbia di sentirlo stretto contro di me.
Annuisco e riporto gli occhi nei suoi. «Va
bene» sospiro al citofono. Alle mie spalle la
porta si
apre. È un infermiere e capisco che i miei cinque minuti
sono
già trascorsi. «Devo andare...» Ma
ritorno. Vorrei
dirlo, ma non aggiungo altro. Le sue dita si muovono ancora ed io rubo
quel sorriso tenendolo stretto negli occhi e nel cuore mentre vado via.
«Quando
puoi parlargli?» «Appena
verrà dimesso dalla terapia
intensiva.» Lisa annuisce e si toglie gli occhiali. «Anne-Britt
dice che hai dei sospetti.» «Sì,
riguardano un pusher del porto. Stavo
indagando su-» «Sì,
sì, mi ha raccontato di quella tua
trovava.» Sento le guance accaldarsi e faccio fatica a
reggere il
suo sguardo. Ovviamente tenere la storia del molo 16 celata era
impossibile, però lo sguardo di richiamo di Lisa mi
imbarazza
comunque. «Sei stato molto imprudente, Magnus.» «Lo
so, mi spiace.» Non
puoi immaginare quanto. Se non
avessi fatto quella stupidata, a quest’ora Eric non
sarebbe steso in quel letto. È un errore che non credo
riuscirò mai davvero a perdonarmi. Stringo la mascella ed
abbasso lo sguardo sulle mie dita che si torturano a vicenda. «Ormai
è fatta, inutile rimuginarci
sopra.» La sua
mano si posa sul mio braccio per qualche secondo ma quando sollevo lo
sguardo Lisa è intenta a scrutare delle carte con
concentrazione. So che ha percepito il mio forte senso di colpa e se
non ha detto qualche frase scontata come “Non è
colpa
tua” è solo perché è il capo
e perché
sa che la commiserazione è l’ultima cosa che aiuta
un
poliziotto a lavorare. «Cerca di interrogarlo. Siete amici,
giusto?» Sobbalzo ed annuisco incerto. No, non
siamo amici. Non so dire cosa siamo, cosa potremo essere.
L’unica cosa che so è cosa io voglio essere per
lui,
eppure dentro di me quasi sento di non meritarlo. «Spero
di potergli parlare quanto prima.» Ed
è una frase che davvero sento nascere dal fondo del petto.
«Ho
dovuto dirglielo.» La voce di Anne-Britt mi
sorprende alle spalle. «Lo
so, non preoccuparti.» Le sorrido e lascio che
si sieda accanto a me. Questa
panchina di fronte al commissariato è sempre vuota,
gli
agenti la usano per allacciarsi le scarpe e preferiscono chiacchierare
in piedi a mezzo metro invece che sedersi. Neanche io ricordo di
essermi mai seduto qui prima di oggi. Avevo
bisogno di aria. Mentre smanettavo al pc, un nodo caldo mi ha
efferato la gola e sono dovuto uscire. Forse era l’aria
viziata
del commissariato che è molto diversa da quella asettica e
fredda dell’ospedale, forse bisogno di una pausa, forse
semplicemente la voglia di tornare dietro a quel vetro. «Stai
bene?» La sua mano si stringe sulla mia e
torno a guardare il suo viso. «Non
lo so» rispondo sincero. Il vociare e le
risate degli
agenti mi circondano deboli. Non presto neanche attenzione alle sirene
delle auto che partono né alle bestemmie
dell’ennesimo
arrestato. «Non so cosa sto stringendo fra le
mani...»
sospiro e gli occhi pizzicano. Sfuggo al suo calore per portare
entrambe le mano fra i capelli. «Ti sei mai sentita in bilico
senza sapere dove stai andando? Come se non ci fosse più
alcuna
certezza?» Non risponde e continua a guardarmi con occhi
dolci.
Le parole escono dalla bocca da sole senza che abbia neanche il tempo
di elaborarle. «Ho creduto di perdere tutto, ma questo tutto
cos’è, Anne-Britt?... Eric... »
Inghiotto un magone
e scuoto la testa. «Ho sempre creduto che il lavoro fosse la
mia
vita, che essere un buon agente, un buon detective, fosse
l’unica
cosa importante. E adesso tutto ha perso di significato ed io... Io non
so cosa sto stringendo fra le mani...» Le labbra si piegano
in un
triste sorriso. «Un sentimento confuso che non ho chiesto,
che
non volevo...» La voce si spezza e chiudo gli occhi prendendo
un
respiro. Se non fossimo davanti al commissariato credo che sarei
già con i palmi premuti contro una faccia bagnata. «Quando
è nato Edinson ho pianto ogni notte per
quattro
mesi.» Sollevo appena gli occhi sul viso di Anne-Britt che
però è dritto davanti a sé.
«Lo guardavo
dormine nella sua culla e mi ritrovavo in lacrime. Non credevo di aver
potuto dare alla luce qualcosa di così meraviglioso. Non
credevo
si potesse provare un amore così grande e così
improvviso.» Prende una pausa e mi sorride.
«Sai cosa
pensavo ogni notte mentre piangevo davanti alla sua culla?»
Scuoto la testa silente. «“Che
senso aveva la mia vita prima? Per cosa ho
vissuto in
tutti questi anni?” Mi sentivo come se avessi sprecato ogni
singolo respiro, perché niente aveva più senso di
quel
bambino che dormiva. E faceva terribilmente paura.»
Mando
giù un’onda di emozione ementre
l’ennesima sirena parte ed un paio di agenti
ridacchiano a qualche metro da noi. «Quando provi qualcosa di
così profondo, qualunque o chiunque ne sia il motivo, ti
senti
inerme e come sospeso a metà. Ti sembra impossibile aver
vissuto
senza fino a quel momento e ti chiedi cosa accadrebbe se dovessi
perderlo.» Annuisco fissando le mie
ginocchia. Se dovessi
perderlo...
Non so cosa provi Eric
realmente, ma so cosa fa battere forte il mio
cuore ogni volta che penso a lui, cosa potrebbe spezzarlo, cosa
potrebbe semplicemente farmi smettere di respirare. Ne ho avuto una
paura indicibile e così tanta vergogna da provare repulsione
per
ogni più piccolo desiderio che mi sfiorava la mente. Ho tentato
di fuggire da esso, ho lasciato Ystad credendo potessi
lasciare dietro anche il resto, ma non è servito. Nulla
è
sparito ed anzi si è solo ingigantito, e quando
l’ho visto
dietro a quel vetro ho capito che non sarei più potuto
scappare
anche volendo. Mi sento un
funambolo su un filo ma in realtà non
è la
paura di cadere a smozzarmi il fiato quanto scoprire cosa ci sia sotto
ad afferrarmi. Forse è perché conosco la risposa,
forse
è perché ho cercato di rimanere su quel filo con
le
unghie e con i denti, ed ora dovrei solo lasciarmi cadere. Cosa stringo fra le dita? La domanda
è sbagliata ed è per questo che non
riesco a rispondere. Cosa stringe me? È
questa la domanda giusta e la risposta l’ho
sempre saputa.
Continua...
[1] Kärlek
è una parola svedese. [nda.
Stesso giochino dell’altra volta, ma stavolta il significato
lo
troverete senza utilizzare alcun traduttore. Fidatevi ^-*]
NdA.
Ultimo capitolo di passaggio. Dal prossimo iniziano gli incontri
ravvicinati del terzo tipo...
Solita scema, ormai dovreste aver imparato a conoscermi ^^
Sono di nuovo qui a
mostrarvi un’altra meraviglia nata dalle manine di Callie in
onore di questa storia.
Eric
sta dormendo e il Dr. Lindgren mi ha concesso di restare qui per
più di quei famosi cinque minuti. Non sono riuscito a venire
prima dal commissariato anche se ho concluso davvero poco. Anne-Britt
mi ha letteralmente impedito di andare al porto confiscandomi le chiavi
della mia Volvo. “Potrei prendere
un’altra auto. Non ci hai pensato?” “No, non lo farai.”
E infatti
non l’ho fatto. Ho terrore
di come potrei
realmente reagire se mi trovassi davanti la faccia di Vargas o di uno
dei suoi tirapiedi. Nulla è certo, ma soprattutto, Eric
è
ancora steso in questo letto e la mia priorità adesso
è
lui. Guardo le
palpebre chiuse ed
il respiro lento. Il livido sul suo zigomo mi sembra quasi
più
grande di prima ma credo sia normale. Mi chiedo se gli faccia male, mi
chiedo cosa si provi ad avere tutte quelle macchine che ti circondano,
cosa si provi a restare chiuso in una scatola di vetro senza poterti
muovere. Sento il labbro tremare per la rabbia e le dita stringersi con
forza. Non posso cedere alla collera, non ancora. Eppure è
così difficile rimanere calmo. È stato difficile
restare
seduto a quella scrivania a fissare uno schermo mentre il mio pensiero
tornava sempre a questa stanza, a quella sera al molo, al veleno che
gli ho sputato contro quel mattino, al calore del camino sulla mia
pelle, a quel piccolo bacio che ha saputo sconvolgermi così
tanto. Mi torna
alla mente il nostro
primo incontro, l’ascia stretta fra le mani che
spaccava i
ciocchi di legna, la sua schiena e la mia incertezza. Se non fossi
entrato nella sua vita non sarebbe stato aggredito. Mi strofino
gli occhi e sospiro. Il senso di colpa può essere
un macigno dannatamente pesante. «Ha
intenzione di
restare anche questa notte?» È la voce del Dr.
Lindgren
appena entrato dalla porta alle mie spalle. «Se
posso, sì.» Mi affianca e pone lo sguardo su di
Eric. «Certo
che può ma le consiglio di tornare a casa e dormire in un
letto.» Non
mi preoccupo per un po’ di mal di schiena, ma grazie comunque
per l’interessamento, dottore.
«Il signor Huntsman è adeguatamente seguito e
soprattutto
oggi ha trascorso una giornata tranquilla sotto il profilo clinico. Non
mi sento di preoccuparmi quindi.» «Non
metto in dubbio la professionalità dell’ospedale
ma-» «Detective,
ho speso la
mia vita accanto a chi soffre e se ho capito qualcosa è che
per
loro è ancora più difficile guardare i loro cari
soffrire
di riflesso.» I suoi occhi non hanno abbandonato il letto
mentre
i miei sono fissi silenti sul suo profilo. «Torni a casa e
dorma.
Un’altra nottata sulle nostre scomode panche non
è necessaria a nessuno.» Mi sorride ed io
trattengo un
sospiro perché faccio fatica a pensare di tornare a casa e
lasciarlo qui. «Ma se vuole restare non la
fermerò. La
invito solo a dormire nella sala aspetto perché se il
paziente
dovesse svegliarsi e vederla qui, sono certo che non farebbe i salti di
gioia.» «Lo
sa che è la
seconda volta che usa questo mezzo per costringermi a tornare a
casa?» chiedo retorico lasciandomi andare ad un sorriso. «La
prima volta mi pare
abbia funzionato.» Sorride a sua volta. «Buona
notte,
detective.» E mi lascia solo davanti a questo vetro. Già,
ed anche stavolta funziona perfettamente.
Fisso il
soffitto della mia
camera con la luce dei lampioni che entra dalla finestra. Non ho chiuso
le tende perché questa notte non voglio buio attorno a me. I
fari delle auto che sfrecciano in strada illuminano di tanto in tanto
le pareti con fasci veloci. Mi giro su un fianco, verso il vetro e
chiudo le palpebre senza però riuscire a chiudere fuori
anche i
pensieri. Continuo a vedere il suo viso e a chiedermi perché
sono tornato a casa. Potevo rimanere, dovevo rimanere. E
quel dovevo
mi ferisce doppiamente. La colpa, il bisogno ed ancora la colpa. Vorrei
non provarla così forte e bruciante ma mi è
impossibile
ignorarla. Mi stringo
nelle coperte e riapro le palpebre. Dormire da
solo in questo letto non mi è mai sembrato più
triste.
Mi lascio
andare ad uno
sbadiglio mentre parcheggio davanti all’ospedale. Come al
solito
ho preso sonno solo alle prime luci dell’alba, e sebbene la
mia
schiena mi abbia ringraziato per averle evitato
un’altra tortura, la mia testa non sembra dello
stesso
parere. Sbadiglio ancora e mi stropiccio gli occhi. Ho dormito fino
alle dieci passate, ignorando la sveglia e le chiamate di Lisa. Questa
mattinata è iniziata con un caffè bollente ed una
doverosa lista di scuse. Beh, non poteva andare meglio. Prima di
entrare a lavoro
però ho deciso comunque di passare da Eric, anche solo per
dirgli
buongiorno.
Magari è sveglio, e nel caso contrario
chiederò come ha passato la notte e mi godrò i
miei
cinque minuti da stalker davanti al vetro. Entro nella
sala aspetto e mi
dirigo spedito verso quella di terapia intensiva. Odio dover conoscere
così bene ogni corridoio di questo ospedale. Come al
solito aspetto di
incrociare un infermiere o il Dr. Lindgren prima di entrare, sperando
non si facciano attendere troppo. Mi sistemo il colletto del maglione
azzurro cercando qualche volto familiare
nella folla di camici che mi passano accanto. Riconosco infine un
infermiere e lo avvicino. «Buongiorno,
sono il
detective Martinsson. Ricorda?» Domanda d’obbligo,
visto il
numero delle facce che sarà costretto ad incrociare ogni
giorno. «Certo,
detective. Buongiorno.» Mi sorride ed io ricambio. «Volevo
sapere se
è possibile far visita al paziente in terapia
intensiva.»
Mi guarda un po’ confuso e poi getta uno sguardo alla porta
della
sala. «Si
riferisce ad Eric Huntsman, giusto?» Annuisco con una certa
ansia. Cosa voleva dire quello sguardo? «È
successo
qualcosa durante la nottata?» chiedo agitato. «Il
Dr.
Lindgren ha detto che mi avrebbe avvisato in caso di-» «No,
no, stia
tranquillo.» Mi interrompe prima che rischi un collasso anche
se
il mio battito è già partito a galoppare forte.
«Il
paziente sta bene, anzi ,visto che non c’erano effettive
necessità, è stato trasferito in una stanza.» «Oh...
» Tiro un respiro di sollievo. «Ho
capito.»
«È al secondo piano, ma non credo possa fargli
visita senza un’autorizzazione.» Immaginavo sarebbe
andata a finire così. È un’agonia senza
fine. Mi scosto i capelli dalla fronte ed annuisco. «Posso
chiedere del Dr. Lindgren, se vuole, ma non so se ora sia in sala
operatoria.»
«Posso aspettare.» A questo punto non mi costa
più niente, vorrà dire che più tardi
Lisa sentirà altre scuse.
«Vado a chiedere.» Si allontana verso uno
dei corridoi e fisso la porta della sala dove ho lasciato lacrime e
preghiere, e forse anche un pezzo del vecchio me. Di certo non lo
rivoglio indietro.
Inizio a passeggiare avanti e dietro quasi più agitato di
quanto non avessi creduto. È una buona notizia che Eric sia
fuori dalla terapia intensiva, eppure ho una forte ansia di vederlo, di
potergli parlare, di sentire la sua voce.
Guardo il corridoio dove è sparito l’infermiere e
poi l’ascensore che si apre e da cui escono due signore
anziane.
Secondo piano, Eric è lì.
Quanto ci vuole a giungere al secondo piano con l’ascensore?
Forse farei prima con le scale.
La testa gira a vuoto attorno all’unica verità:
voglio vederlo ora!
Trascorre una decina di minuti quando scorgo il viso del giovane.
Reprimo un sospiro perché mi rendo conto che è da
solo.
«Il Dr. Lindgren stava per entrare in sala ma gli
ho riferito la sua richiesta. Ha detto che può fargli visita
a patto che non gli faccia alcuna domanda, immagino intendesse riguardo
la sua aggressione.»
Riesco perfino a figurarmi nella mente lo sguardo del Dr. Lindgren ed
il suo monito.
Annuisco con vigore. «Certo, ci mancherebbe.» Posso anche starmene zitto se
questo servirà, anzi non aprirò bocca, ma fatemi
entrare in quella stanza, vi scongiuro!
Il giovane controlla una cartella e torna a parlare:.
«Secondo piano, stanza numero 124.»
«Grazie.»
«Di nulla.» Lo vedo andare nuovamente via e
riguardo l’ascensore, forse le mie gambe non reggerebbero
neanche due rampe di scale.
Il
corridoio è
silenzioso. Quest’ala dell’ospedale deve essere
riservata a
chi ha subito interventi di una certa entità. Le porte delle
stanze sono chiuse, ma in quelle aperte scorgo un solo letto ed altri
macchinari che attorniano la branda, anche se in numero inferiore a
quelli contenuti nella terapia intensiva. 120, 121,
122. Mi arresto
e prendo un respiro profondo. Alla mia destra, la stanza di Eric. La porta
è socchiusa.
Forse starà riposando, spero di non disturbarlo. Forse
dovrei
tornare questo pomeriggio, forse - Un leggero
colpo di tosse mi fa saltare un battito. Viene da dietro la porta. Copro i
pochi passi che mi
dividono ed afferro la maniglia spingendola lentamente. Quando mi
affaccio lo vedo con le palpebre chiuse e la testa leggermente
inclinata a destra, verso la finestra. Non
c’è più un vetro a dividerci, non
voglio che ce ne sia più alcuno. Entro nella
stanza ed accompagno con accortezza la porta per non fare rumore mentre
si chiude. La stanza
è piccola e
simile alle altre che ho visto. Sul davanzale, un vaso vuoto, forse
viene usato per i fiori. Chissà quali sono i suoi fiori
preferiti, chissà se ha dei fiori preferiti. Io non so dire
quali siano i miei, non credo di averci mai realmente pensato. Giro
attorno al letto con
passi ovattati mentre il cuore batte forte. Vorrei sfiorargli la mano
stesa sul lenzuolo bianco ma ho paura di svegliarlo. Studio il suo viso
assopito, i punti di sutura sul sopracciglio, il livido sulla guancia,
e noto solo in quel momento che non c’è
più alcuna
flebo attaccata al suo braccio anche se ci sono ancora delle sonde che
escono dal camice bianco che indossa. Il macchinario segna
qualcosa ma non so dire quali siano i valori. Raggiungo la finestra e
mi appoggio contro il muro sprofondando le mani nelle tasche.
Oggi non
c’è neanche un raggio di sole. Il cielo
è grigio e
stanco, ma non serve alcuna luce per far risaltare il suo viso,
perfetto nonostante le ferite, o sono i miei occhi che lo vedono tale. Sei
reale? Il mio
battito si regolarizza
giusto il tempo necessario per impazzire ancora quando le sue palpebre
si aprono. Inghiotto mentre i suoi occhi si accorgono della mia figura.
«Ehi...»
Quel breve sospiro mi apre dentro qualcosa che non so definire. «Ehi.»
Eric prende
un respiro ed io trattengo il mio. «Come ti senti?»
chiedo
senza riuscire a scollarmi dal muro. «Un
po’... rotto.» Le sue labbra si piegano
leggermente e le mie seguono il suo gesto. Noto una
bottiglia
d’acqua poggiata sul comodino accanto. «Vuoi
bere?»
Ma non so se sono realmente capace di prendere quella bottiglia,
svitarla e versarla nel bicchiere. Sento le mani tremare e le passo
sui fianchi per calmarle. «Non
posso.» La
voce di Eric continua ad essere poco più di un sussurro
eppure
basta per farmi rabbrividire. Ho temuto davvero di non udirla
più. «Perché?»
chiedo con un tono eccessivamente alto. Eric mi guarda silente e poi
sorride di nuovo. «Non
lo so...
Loro...» Inghiotte con un smorfia e torna a parlare.
«Loro
hanno detto che non posso bere.» Anche quelle poche parole
sembrano fargli male. «Capisco.»
Abbasso
la sguardo sulle mie mani e non so perché non riesca a fare
nulla di ciò che volevo quando ero dietro a quel vetro. «Ci
tenevi proprio
tanto...» Eric mi sorride ancora con la guancia sul cuscino.
«... a ricambiare il favore. Vero?» Inizio a
ridacchiare imbarazzato e mi arruffo i capelli. Come può
essere lui a dover tirare su il morale a me? «Avrei
preferito non doverlo fare» sospiro. «Anche
io... Non sei bravo con le fasciature... per quello che
ricordo.» Torno a ridacchiare ed annuisco. «Non
sono bravo in tante cose a dire il vero.» «E
in cosa... sei bravo?» Fisso i suoi occhi e lentamente il
sorriso sfuma dalle mie labbra. «Chi
è stato?» E la mia domanda fa morire il suo.
Sposta il viso di fronte e sospira. «Non
lo so.» «Sono
gli uomini di quella sera, non è
così?» «No.»
Mi stacco
dal muro e raggiungo il letto. Il monito del dottore è ormai
solo un vago ricordo. «Dimmelo,
Eric! Dimmi
chi è stato e gliela faccio pagare!» Non mi rendo
conto
della rabbia con cui l’ho detto ma lui invece sì.
Mi
guarda silente e non dice nulla. «Dimmelo...» «Non
lo so.» Sento
altra ira pervadermi il corpo perché so benissimo
che sta
mentendo, lo intuisco dal modo in cui mi guarda, dal modo in cui
inghiotte. Ma non capisco perché lo stia facendo. «Te
lo chiedo come poliziotto, Eric: dimmi chi è stato ed
io-» «E
tu cosa?» Mi spezza le parole con quegli occhi azzurri ed un
filo di voce. «Stanne fuori, Magnus.» «Come
posso starne fuori!?» Sul mio viso un’espressione
semplicemente incredula. Come
puoi chiedermi questo? «Perché non
vuoi dirmi chi è stato? I tuoi colleghi hanno
confermato
che c’era qualcuno che ti infastidiva al porto e-» «No!»
Alzare la
voce lo costringe a strizzare gli occhi in una smorfia di dolore che mi
stiletta il petto. «Non c’era nessuno... Ti hanno
detto...
delle stupidaggini.» La smorfia continua mentre cerca di
parlare
e mi sento mancare il fiato. «Non
sforzarti»
sospiro e vorrei allungare una mano per sfiorargli il viso ma resta
sospesa a mezz’aria per poi ricadere sul mio fianco. Sto solo
facendo un errore dietro l’altro. Non dovevo fargli alcuna
domanda, dovevo solo ringraziare che fosse ancora vivo ed aspettare che
si rimettesse. Ed invece la mia avventatezza mi gioca sempre contro.
«Scusami, ora ti lascio riposare.» Ma non riesco ad
andare
via che le sue dita raggiungono il mio polso. Le sento
deboli contro la mia
pelle e scivolano finché non sfiorano le mie. Le stringo
tremante e cerco di reprimere la voglia di piangere non so se di rabbia
o di gioia, ormai faccio fatica a distinguerle. Resta. Non lo sento
dalla sue labbra ma lo leggo nel suo sguardo. «Mi
dispiace...»
sussurro mentre continuo a tenere quelle dita strette nelle mie.
«Sono stato stupido e...» «Quel
colore ti sta
bene.» Sollevo lo sguardo sul suo viso sorridente.
«Il
maglione... Stai bene.» Non so se sia la voglia di non voler
udire il mio ennesimo fiume di scuse o la voglia di non tornare sul
discorso di prima. Non me lo chiedo e mi siedo sul letto giusto quel
tanto da non infastidirlo. «Smettila»
borbotto giocherellando inconsciamente con le sue dita e non riuscendo
a
reggere il suo sguardo. «E
perché?... Mi piace... vederti arrossire,
detective.» Mi mordo un labbro ancora più
imbarazzato. Mi piace. La sua mano
è calda ed
è così rassicurante sentirla nella mia che non
credo di
riuscire più a lasciarla. «Eric...»
Inizio
un discorso che sinceramente non so come finire mentre intreccio le
dita nelle sue. «Non volevo darti quel
pugno. Credimi, era
l’ultima cosa che volevo fare...» Lo sento
ridacchiare
debolmente con un’ennesima smorfia sofferta e la mano scivola
via
dalla mia e si poggia sul suo ventre da sopra le lenzuola.
«Stai
bene?» chiedo agitato ma nonostante il dolore il sorriso non
sembra voler sparire dal suo viso. «I
punti» sussurra, «Sono i punti.» E la sua
mano ritrova la mia. «Continua.» «Cosa?»
Ho leggermente perso il filo. «Il
discorso su... quello che volevi fare.» Sorrido.
«Non credo di
ricordarmelo più.» Ma è una menzogna,
in
realtà lo ricordo bene perché mi ha perseguitato
per
tutte le notti. Volevo,
vorrei, voglio. «Fallo.»
I miei occhi percorrono le sue labbra e poi tornano a legarsi
ai suoi.
«Quello che vuoi fare...» Sento lo
stomaco contorcersi e il cuore battere forte. «Adesso?»
La mia voce è incerta e la gola vibra. Eric
sorride. «No, non adesso... Ma quando avrai voglia, fallo...
Ok?» Annuisco e
mi mordo involontariamente un angolo della bocca perché, dannazione, io lo
farei davvero adesso! Ma non
è il momento né il luogo adatto. Continuo a
sfiorare le sue dita, palmo contro palmo, poi le intreccio e mi perdo
nei suoi occhi. «È
strano...» sospiro e posso sentire le guance ardere. «Cosa?» «Questo.»
Abbasso lo sguardo sulle nostre mani e poi lo riporto imbarazzato al
suo viso. «Perché
è strano?» La reale
stranezza che sento
è l’assenza totale di stranezza. In fondo cosa ci
siamo
detti? Cosa abbiamo condiviso? Eppure è così
naturale
sentire il calore della sua pelle contro la mia. Devo essere
davvero partito con tutto il cervello. «È
strano che non
sia strano. Era questo che volevo dire... Più o
meno.»
Lo vedo trattenere una risata che gli farebbe solo male. «Non
ridere di me, mi fa sentire un idiota.» «Scusa.»
Quasi mi
sento in colpa per averglielo fatto dire. Anche se sorride non
spetta a lui chiedermi scusa, è tutto l’opposto. «Io
dovrei tornare in
centrale...» Ma continuo a tenere le dita fra le sue e
quest’esitazione mi porta a ridacchiare impacciato. «È
questa la
mano... con cui tieni la pistola?» Mi chiede ed io aggrotto
la
fronte non riuscendo a capire il perché di quella
curiosità. «Sì»
rispondo mentre Eric strofina i polpastrelli contro i miei.
«Perché?» «Ti
stavo immaginando... con una pistola.» «Ah
sì?»
Annuisce mentre io sorrido. «E cosa immaginavi?» I
suoi
gesti si fermano ed i suoi occhi mi inchiodano. Domanda
insidiosa, me ne rendo
conto troppo tardi. Prima ancora che le sue labbra si muovano sono
già diventando un pomodoro. «Forse...
è
meglio che torni a lavoro, detective.» Sorride lasciando
libera
la mia mano. Credo che la mia espressione terrorizzata lo abbia
convinto ad evitare ogni altra parola in merito a mani, pistole e
fantasie, soprattutto. «Sì,
direi che
è ora.» Mi alzo in piedi ed annuisco.
«Torno
stasera... Cerca di non fare sforzi - cioè, il Dr. Lindgren
dice che non devi fare sforzi.» «Non
vedo quali sforzi
potrei fare... steso in questo letto.» Mi fa notare con un
sorriso che mi ritrovo a ricambiare. Letto,
mani, pistole, fantasie... Magnus,
scaccia pensieri inopportuni! «Riguardati.»
Annuisce senza dire altro ed io mi avvio alla porta. Prima di
uscire gli lancio un ultimo sguardo che però mi fa arrestare
con il palmo sulla maniglia. No, non
voglio andare via. «Non
mi aspettavo di
trovarti... dietro quel vetro.» La sua voce lascia
trapelare una certa dolcezza che anche il volto ferito
tradisce.
Non so cosa rispondere, forse perché la risposta “Ci avrei passato la vita”
mi suona troppo sincera e perciò troppo difficile. Ma Eric
non
chiede una risposta. Mi sorride ancora ed alza la mano per salutarmi
ironico. «Buon lavoro.» Ma adesso
posso udire la sua voce, posso sentire tutti i brividi che mi provoca. «Grazie.»
E quando
esco dalla stanza, posso sentire ancora le sue dita strette nelle mie.
Continua...
NdA.
Oh, finalmente il vetro è andato!
Contenti?
Ma sì che lo siete, non negatelo. Anche Magnus ed Eric sono
contenti, e a ‘sto punto io potrei anche chiuderla qui, che
ne
dite?
...
Va beh, sparisco prima di beccarmi qualche insulto virtuale (lo so,
è troppo tardi.)
Baciandovi tutti, vi ringrazio again
e vi lascio con la visione di un altro spettacolare video fatto dalla
sempre meravigliosa Callie.
So cosa vi state chiedendo ma no, non la pago. Per quanto
possa sembrare assurdo, lo fa di sua spontanea volontà ed io
non posso che gongolare per una tale fortuna ^‿^
Capitolo 22 *** Un futuro imbarazzante ricordo ***
Un futuro imbarazzante ricordo
Detective Martinsson
XXII. Un
futuro imbarazzante ricordo
«Alla
fine mi ha costretto ad accompagnarla.» Anne-Britt ride di
cuore
ed io sospiro stancamente. «E ovviamente devo anche andare a
riprenderla e riportarla a casa.» «Come
se ti dispiacesse
tornare in ospedale.» Le getto uno sguardo falsamente offeso,
ma
poi mi sciolgo in un sorriso. «Forse
la settimana prossima lo dimettono.» «Bene,
così la signora Fustern può trasferirsi
direttamente a casa sua!» «È
questa la mia paura
- anche quella di Eric, credo.» Ridiamo entrambi mentre un
agente fa scivolare una cartella sulla scrivania. «Deve
essere archiviata.» Annuisco e la prendo. «Me
ne occupo io.» Tornare
alla normalità non è stato possibile, in compenso
ne ho dovuta creare una nuova. Passare da
Eric prima di venire a
lavoro e poi di nuovo prima di tornare a casa. Qualche volta sono
riuscito anche a scappare lì durante una pausa pranzo e poi
la
signora Fustern mi ha ufficialmente nominato suo autista personale e
non si fa scrupoli a chiamarmi anche nel bel mezzo del lavoro per
chiedermi di andare a prenderla e portarla da Eric - visto che i
bignè alle castagne sono ancora caldi e “curano tutti i
mali", le diceva sua nonna. Appena ha
saputo
dell’incidente di Eric, mi ha tartassato di telefonate per
sapere
come stesse, rimproverandomi perché non le avevo comunicato
la
cosa. Della collana non ha più fatto parola. Eric dal
canto suo sembra felice
delle sue visite come di quelle dei suoi colleghi che, a pomeriggi
alterni, trovo a far confusione nella sua stanza, con buona pace delle
infermiere. Eric sembra
tante cose da quando è in ospedale. Gli hanno
tolto tutti i macchinari
e può anche alzarsi con le dovute attenzioni dato che ha
ancora
i punti di sutura sull’addome. Il livido sul suo viso sta
sfumando giorno dopo giorno mentre il sentimento che provo per lui
cresce a dismisura ogni volta che trovo il suo sorriso ad aspettarmi. È
passata una settimana da
quando le nostre mani si sono sfiorate la prima volta, e si sono
sfiorate sempre più spesso. Sempre più spesso
sono le mie
a cercare le sue. Il
cellulare squilla, il nome che lampeggia non mi stupisce. «È
lei?» Noto
che non stupisce neanche Anne-Britt. Annuisco e guardo il dossier da
archiviare. Mi porterà via qualche ora, dovrei dire alla
signora
Fustern che deve chiamare un taxi. «Vai
pure, questa la sbrigo
io.» La cartella sparisce dalle mie mani prima che possa
replicare. «Avanti, rispondi, altrimenti si
preoccuperà.» Sorride strizzandomi un occhio. «Ricambierò
il favore, lo giuro!» Le grido dietro mentre si allontana
scuotendo una mano di spalle.
Non sono
ancora arrivato alla
stanza che sento il chiacchiericcio di Amanda e naturalmente il
silenzio di Eric. Mi lascio scappare un sorriso. Spingo la porta ed
entro silenzioso. «...Quindi
non mi sembra un
buon motivo per saltare la messa del sabato mattina.» Eric
annuisce ed alza gli occhi su di me. Non riesco neanche a dirgli Ciao
che mi ritrovo le mani della signora Fustern attorno al braccio. «Figliolo,
sei in ritardo!» «Ero
in centrale, non potevo venire prima.» Neanche il tempo di un
passo ché mi trascina di nuovo alla porta. «Eric,
tesoro, vengo a portarti le meringhe giovedì.» «Grazie,
Amanda.» Lo
guardo da sopra la testa della donna e gli sospiro un muto
“torno
subito” a cui risponde con un sorriso.
Mantengo
fede alla promessa e, dopo
aver accompagnato la signora Fustern ad Hedeskoga che come ogni volta
continuava a ringraziare Nostro Signore per trovare Eric migliorato
giorno dopo giorno - un grazie anche da parte mia - riesco a
tornare in ospedale abbastanza velocemente, nonostante i semafori rossi
che mi giocano contro. Quando
parcheggio però noto
il furgone di Hernest arrestarsi qualche posto più in
là.
Perfetto, oggi doppia visita. E a me quando toccherà? Sospiro
deluso e lo guardo salire
le scale. A questo punto tanto valeva fermarsi dalla Fustern ad
assaggiare lo sformato di funghi... Aveva anche insistito tanto. Ieri
c’era Lars,
l’altro ieri Steven e quell’altro con quel
nomignolo
ridicolo, il giorno prima ricevo una chiamata da Lisa
nell’unico
momento in cui eravamo soli. Non ce la
faccio più! Sarò
un egoista, ma vorrei
solo avere un po’ di tempo per godermi la sua compagnia. Ne
ho
sprecato così tanto che ora lo bramo fisicamente. Tamburello
con le dita sul volante
guardando l’entrata per dieci minuti buoni. Potrei comunque
salire, magari Hernest deciderà di accorciare la visita se
io
sono lì. Non faccio
in tempo a darmi del bambino per quel pensiero ché lo vedo
riscendere. Sale sul furgone e poi va via.
Meno male,
visita lampo anche oggi. Indosso il mio bel sorriso soddisfatto e vado
a godermi il mio turno. Scale,
ascensore, corridoio. Prima di
aprire la porta mi sistemo
i capelli, stiro il bavero della camicia e mi dico che avrei dovuto
farlo in macchina, almeno lì c’era un dannatissimo
specchio. Entro nella
stanza ma con mio stupore mi accorgo che il letto è vuoto. «Eric?»
Poi sento il rumore del rubinetto. Deve essere in bagno, di fatti un
secondo dopo esce. «Ehi,
ce l’hai fatta?» Mi sorride barcollando verso il
letto. «Aspetta.» «Ce
la faccio, tranquillo.» Gli prendo comunque un braccio e lo
aiuto a sedersi sul letto. Che
testone! Quante volte gli
devono dire di non alzarsi da solo? Io quante volte gliel’ho
detto? E mi avesse ascoltato una volta. «Se
si aprono i punti resti
qui un altro mese» sibilo mentre si stende sulle lenzuola.
Lui mi
risponde con un sorrisetto ed io sospiro. «Ho visto
Hernest.» Eric si
sistema piano sul letto
facendo attenzione a non sforzare il polso sinistro con il tutore.
«Sì, non sei l’unico che mi fa visita.
L’avrai
notato.» «Sì,
ho notato.»
Reprimo una smorfia divertita mordendomi un labbro e come sempre lo
sguardo di Eric è capace di sciogliermi. «Come ti
senti
oggi?» «Bene.
Domani mi faranno delle analisi e potrebbero anche dimettermi prima del
previsto.» «Davvero?»
Annuisce e
poggia la testa contro il muro. Non credevo
lo avrebbero fatto
così presto ma non posso negare di essere felice di vederlo
fuori da
questo ospedale. Finalmente potrei... Mi ritrovo
a guardare le sue labbra. Mi sono
obbligato a non lasciarmi
andare finché saremo stati in questa stanza, ma diventa
difficile ogni giorno di più. Mi sono fatto bastare le sue
mani
sulle mie, i nostri discorsi vaghi su tutto, le sue battutine, il mio
immancabile rossore. Adesso non so quanto possano davvero bastarmi. «Che
c’è?» Torno ai suoi occhi e scuoto la
testa. Devo
essermi imbambolato senza accorgermene. Eric ridacchia e mi fa segno di
avvicinarmi. Mi accomodo sul letto e subito le sue dita trovano le mie.
«Hai arrestato qualcuno oggi?» «No,
però ho redatto un importantissimo
dossier su un postino» sospiro sarcastico e lo sento ridere. «Un
lavoro difficile, immagino.» «Altroché!»
Condivido quella risata ma mi ritrovo nuovamente a vagare con gli occhi
sulla sua bocca. Sono
costretto ad abbassare lo
sguardo sulle nostre mani. «Per quanto devi portare quel
tutore?» Cerco di concentrarmi su altro. Eric muove
il polso fasciato di nero ed alza le spalle. «Non
so, un’altra decina di giorni.» «Deve
essere fastidioso.» «Non
come si crede.» Ed
affonda le dita fra i miei capelli e come ogni volta mi ritrovo a
trattenere un sospiro. Vorrei solo chiudere gli occhi e godermi questa
sensazione. «Quanti ricci, detective!» Sorrido e
arrossisco
- il classico. «Quando
ci siamo incontrati mi dicesti che non avevi mai visto un poliziotto
con i ricci.» «È
la
verità.» Le dita mi accarezzano piano la nuca poi
scendono
sul viso finché non mi solleva il mento con
l’indice.
«...Such a
cute cop.» Non riesco
neanche chiedergli cosa
abbia detto perché tutta la mia attenzione è sul
suo
indice che mi accarezza le labbra. No,
non farlo, così mi fai perdere quel poco di controllo. Mi scosto
quel tanto per fargli
lasciare il tocco ed Eric decide di non rifarlo. Dentro di me gliene
sono grato e allo stesso tempo avrei voluto che continuasse. Sono
l’emblema vivente della contraddizione. Eric
abbandona anche la mia mano,
però, e si poggia nuovamente contro il muro. Stavolta
è
lui a guardarmi in uno strano silenzio. Mi gita. «Tu
mi piaci.» E quelle
parole mi agitano ulteriormente. Sentirglielo dire così
apertamente mi fa quasi tremare le gambe. «Nel caso non ti
fosse
chiaro abbastanza.» Mi lascio
sfuggire un risolino colpevole ed annuisco. «No, mi era
chiaro.» «Bene.»
Sul suo viso un
sorriso appena disegnato dove rimango impantanato ancora una volta.
«Ne vuoi uno?» Sbatto le
palpebre disorientato. «Scusa?» E lui ride. «Li
ha portati Amanda. Non so
come si chiamano... Ne vuoi uno?» Noto il vassoio sul
comodino
accanto con una decina di biscotti ripieni. «Oh,
sì, certo.
Grazie.» Ne afferro uno e lo porto alla bocca. È
morbido e
sento il sapore inconfondibile di marmellata alle ciliegie, ed io adoro
la marmellata alle ciliegie. Amanda,
altro punto a tuo favore. «Buono...»
sospiro
leccandomi appena un dito per pulirmi dallo zucchero a velo sulla
superficie. «Ne posso prendere un altro?» Eric
annuisce e
sorride. «Portateli,
io non posso mangiarli.» «E
perché?» chiedo afferrandone un altro. «Le
analisi di domani.»
Ah giusto... Beh, potrei portarmeli davvero a casa, stasera
sarà
piacevole abbuffarmi prima di andare a dormire. «Neanche
un assaggio?»
Non finisco neanche di dirlo che Eric ha già preso la mia
mano.
Il cuore mi arriva in gola quando avvicina le mie dita alla bocca e
lecca via lo zucchero. Meno male
che siamo già in ospedale, così posso collassare
senza problemi. Sento il
calore umido sui miei polpastrelli e il cuore dalla gola scendere fin
dentro lo stomaco. Forse più giù. «Solo
un assaggio» sospira infine lasciandomi andare la mano.
Ancora un sorriso. Ok, alzo
bandiera bianca. Credo di
non poter mantenere fede
al mio buon proposito, forse non lo crede neanche la mia testa, visto
che si spinge in avanti sempre più vicina a quella di Eric.
Quando arrivo ad un soffio dal suo viso lui sta ancora sorridendo e
lascio che quel sorriso si stampi sul mio. La sua mano
mi sfiora una guancia
ed io avvolgo le mie dita fra i suoi capelli sciolti. Il battito
accelera e mi spingo di più verso di lui. Dischiudo le
labbra e
mi lascio travolgere da quel turbine di sensazioni da cui ho
stupidamente voluto stare alla larga. Sulla
lingua sento ancora il sapore della marmellata.
Non so per
quanto tempo ci siamo baciati, so solo che le labbra mi bruciano e che
quelle di Eric non hanno smesso di sorridere. Baciare un
uomo è diverso da
baciare una donna. È quasi una sfida, è una
lotta.
È rude dolcezza, un prendere senza chiedere. O forse
è
perché è la sua bocca e non quella di qualcun
altro. L’unica
certezza è che
non credo di poterne più fare a meno. Di fatti torno a
sfiorargli le labbra con le mie stando attendo a non spingermi contro
il suo corpo ancora dolente, per quanto senta le mani fremere per
scendere oltre quel collo caldo. La sua
barba mi solletica i
polpastrelli mentre mi chiedo se sarò mai in grado di uscire
da
questa stanza, di alzarmi da questo letto, di staccarmi dal suo calore.
La mia bocca sembra non abbia desiderato altro in vita sua che
assaggiare la sua. La mia
presa sui suoi capelli si fa più
ferrea e mi ritrovo a mordergli un labbro sentendolo ridere.
«Guarda che mi vendico poi... » Quando sono i suoi
denti ad
affondare nella mia carne mi lascio sfuggire un leggero rantolo, lo
chiamerei gemito se avessi meno pudore. «Eric...»
soffoco la
mia voce ancora una volta sulle sue labbra e davvero non sento altro al
di fuori di questo desiderio cullato così a lungo. Purtroppo
per
me, non sento neanche la porta che si apre, ma odo perfettamente un
colpo di tosse. Oddio! Sobbalzo
indietro con il cuore in gola e le labbra a fuoco. Sulla soglia il viso
appena a disagio del Dr. Lindgren. ODDIO!
«Dottore!»
Imbarazzo.
Imbarazzo. Imbarazzo! Il mio
cervello è in stand-by. Non riesco a pensare. Sento solo il
viso in fiamme. Scatto in
piedi e mi sistemo
impacciato i capelli con una mano, quella sfuggita via dalla calda
pelle di Eric. La lingua passa veloce sulle labbra come se questo
bastasse per cancellare questo assurdo momento. «Non
volevo disturbare.» «No,
nessun disturbo!»
affermo con un tono di voce appena più alto del normale.
Eric
invece sembra estremamente tranquillo e non capisco come faccia. In fondo me
lo merito. Devo sempre
esagerare. Sarebbe bastato fermarsi ed invece non sono riuscito a
frenare la voglia di sentire ancora il suo sapore. «Ero
venuto per avvisarla che
domattina alle 7 passeranno per i prelievi e che questa sera la cena
potrebbe essere un po’ più leggera.»
Seguo il
discorso con fatica perché nella mia testa slittano altri
pensieri, ben più piacevoli. «Non li
avrà mica
mangiati?» Il Dr. Lindgren indica i biscotti della signora
Fustern ed Eric mi guarda con un sorriso compiaciuto. «Solo
un assaggio.» Sono costretto a distogliere lo sguardo per non
farmi prendere da nuovi pericolosi istinti. Smettila,
Eric! «Bene.»
Il Dr. Lindgren
controlla la cartella per qualche secondo. «Allora, signor
Huntsman, si riposi ed eviti qualsiasi stress.» I suoi occhi
nocciola mi fulminano. «Qualsiasi tipo di stress. Ci siamo
intesi?» Annuisco vigorosamente. «Se i risultati
delle analisi saranno positivi, fra qualche giorno la
dimetteremo ed avrete tutto il tempo per recuperare. Ma per
adesso
cerchiamo di mantenere a freno gli ormoni.» Voglio
sotterrarmi all’istante. «Va
bene, dottore.»
Eric risponde con la solita tranquillità ed io resto a
guardarlo
incredulo ed ammirato. Vorrei esserne capace anche io. Il Dr.
Lindgren esce, non prima di
averci bacchettato ancora, ed io mi lascio andare ad un sospiro intenso
poggiandomi con le mani contro il bordo d’acciaio del letto. Non ci
credo che siamo stati appena
beccati mentre ci baciavamo. Il nostro primo vero bacio sarà
per
sempre accompagnato da questo imbarazzante ricordo. «Tutto
ok?» Annuisco sospirando ancora e mi passo una mano dietro al
collo. È dannatamente caldo e sudato. «Più
o meno.»
Molto meno
che più, a dire il vero. Sollevo gli occhi su quelli
di Eric che sorride divertito. «Non è
divertente»
brontolo ma lui ridacchia allegro. Giusto, adora vedermi in
imbarazzo... Molto gratificante! «Oh,
sì che lo è.» «No,
non lo è! Credevo
sarei morto dalla vergogna!» La sua risata si fa
più calda
e a malincuore mi ritrovo a ricambiarla. «Che
imbarazzo...»
Mi siedo sulle lenzuola passandomi due dita sulla fronte. Non
riuscirò più a guardare il Dr. Lindgren senza
arrossire.
Credo avesse capito che c’era qualcosa di diverso dalla
semplice
amicizia a legarci, ma una cosa è crederlo
un’altra
è vederlo! Quasi
riesco a risentire la mia voce che geme il suo nome... Le dita di
Eric mi arruffano i capelli riportandomi altri ricordi appena vissuti. «Coraggio,
sopravvivrai.» «È
tutta colpa tua...» Affermo voltandomi a guardarlo. «Mia?»
Lui ancora sorride. «Se
non mi avessi istigato io...» Avrei anche potuto trattenermi. Sì,
come no. «Se
non lo facevi tu,
l’avrei fatto io.» Il suo sorriso sfuma in
un’espressione dolce che mi fa sentire in difetto,
perché
non è colpa sua, non esiste alcuna colpa. Sono solo il
solito
melodrammatico, come dice Lisa. Ingigantisco sempre tutto. Anche se il
Dr. Lindgren ci ha visto, non importa. Non voglio nascondere
ciò
che provo e non devo neanche nascondere ciò che quei
sentimenti
mi portano a fare. Bacerei Eric per il resto della mia vita, e lo farei
davanti al mondo intero. Potevo perderlo, ora è qui e lo
sento
più vicino di quanto non avessi mai sperato. Gli occhi degli
altri non contano, contano solo i suoi che in questo momento mi
guardano come forse non merito di essere guardato. Sollevo le
spalle e gli poso un piccolo bacio sulle labbra, ma quando sta per
diventare più profondo mi tiro indietro. «Niente
stress.» «Questo
non è stress.» E torna a baciarmi. «Per
me lo è,
credimi...» Sorride contro la mia bocca ed ignoriamo
bellamente
le raccomandazioni del Dr. Lindgren. Scusi
dottore, ma credo che il freno sia bello che andato.
La
tivù parlotta di qualcosa
che è accaduto in Etiopia, una scoperta archeologica o roba
simile. Non riesco realmente ad interessarmi, mentre sento sotto al
palato il sapore dolce dei biscotti della signora Fustern. Ne sono
rimasti solo due, ed ogni
volta che ne mangiavo uno, sulle labbra sentivo quelle di Eric. Il
suono della sua risata copriva il mio masticare, le sue mani
scivolavano sulla mia bocca al posto dello zucchero. Mangio
l’ultimo. Fra i denti
la fame diventa desiderio; sulla mia lingua, crema che diventa pelle. Ogni morso
è un bacio che gli darò domani.
Continua...
NdA.
E beh, dopo 'sto capitolo, mi sono sentita parecchio meglio, devo
dirlo. Spero sia stato lo stesso per voi.
Magnus di certo sta meglio, a parte la figuraccia col dottore, ma lui
ormai è abituato a farle u.u’
Ed ora, forza, tutti a fare sogni erotici coi pasticcini alla
marmellata!
kiss kiss Chiara
Lisa
ha la fronte aggrottata, le labbra strette in una linea rigida ed un
sospiro spazientito pronto ad uscire. So cosa vuole dire, so che non
posso più sottrarmi. «Lo
dimetteranno fra due giorni. È solo questione di due
giorni, Lisa.» Cerco di essere convincente, cerco di essere
rilassato, cerco di contenere l’ansia. Lisa
è una sfinge, mi scruta dritto negli occhi come potesse
facilmente intuire che no, non sto riuscendo in nulla. «Senza
denuncia, non si può aprire l’indagine.» «Lo
so, Lisa, lo so benissimo, perciò ti chiedevo solo due
giorni. Solo due.» A questo punto non mi resta che affidarmi
allo
sguardo disperato e a un ti
prego sillabato con le palpebre. «Solo
due.» Mi punta la penna contro ed io annuisco grato,
ma quando si allontana nello stomaco ho una tormenta di inquietudine. È
stato tutto inutile. Ho tentato più volte di aprire il
discorso con Eric e in ognuna di esse si trasformava in una statua di
gesso. “Non lo
so” oppure “Non ricordo.”
L’altro giorno ne ha aggiunta un’altra: “È acqua passata.”
Ho dovuto trattenermi dal prenderlo a pugni sul serio. No, non
è acqua passata, non lo sarà finché
quelli
saranno in giro liberi, non lo sarà finché non
sarà stata fatta giustizia. Sospiro
sonoramente e scuoto la testa nella solitudine
dell’ufficio. Dannazione, non so più cosa fare.
Parlare
della sua aggressione equivale ad un pomeriggio di silenzi e frasi
stracciate fra i denti, equivale alla mia frustrazione nel sentirmi
inutile e alla sua ostinazione nel farmi pentire di aver aperto bocca a
riguardo. È il pantano dove finiamo per rovinare tutto, dove
annegano i baci e le battute, e resta solo una patina appiccicosa a
dividerci. Odio doverlo fare, odio che Eric sia così
testardo,
odio non riuscire a capirne il motivo. Ha paura,
è normale, è umano averla dopo ciò che
gli è successo, ma perché non si fida di me?
Vorrei solo
che si aprisse sul serio, che mi confidasse i suoi dubbi, i suoi
timori, ciò che lo frena in un silenzio soffocante se gli
faccio
qualche domanda su quella sera. Quanta strada posso fare se la meta si
allontana spontaneamente ogni volta che tento di raggiungerla? È
avvilente e arrivo al punto di dire: ok, facciamo come vuole. Non ne
parliamo più. Il suo
calore è più importante della giustizia. Magnus
lo
accetta con codarda facilità, il detective Martinsson
ripudia
quell’idea come fosse una bestemmia. Di nuovo diviso a
metà, di nuovo a un bivio e sei sempre tu a spezzarmi... Sospiro
ancora, stavolta di rabbia, quella stessa rabbia di cui mi sento troppo
saturo. Devo fare
qualcosa, qualunque cosa per smuovermi da questo stallo «Derek?»
La voce esce fuori mentre sto ancora elaborando il pensiero.
L’agente Carlsson si ferma e mi guarda. «Mi
dica, detective.» Potrei provarci, potrebbe essere
l’unica soluzione. Gli faccio segno di avvicinarsi e lui
esegue
quel tacito comando. «Sei
occupato in qualche indagine al momento?» Scuote la
testa ed io annuisco. Ok, facciamolo. «Devi farmi un
favore.»
«Lascia
che gli parli io.» Stringo il
volante e scuoto la testa. «Sarebbe inutile. Non direbbe una
parola.» «Magari
con me sarebbe diverso.» Volto lo sguardo verso
Anne-Britt ma continuo a scuotere la testa. «Magnus,
è
logico che abbia paura, ma ciò che mi sembra ti sfugga
è
capire per chi
ha paura.» «Che
vuoi dire?» Non riesco a seguire il suo discorso, in
realtà sto pensando se la mia sia stata una buona idea. Devo
solo aspettare. «Voglio
dire che Eric non teme che quelli possano vendicarsi su
di lui se li denuncia, ma che possano farlo su di te.» Cosa? Stacco i
pensieri e sbatto le palpebre con un sorriso tragicamente divertito. «Ma
io sono un detective, Anne-Britt. Di cosa dovrebbe aver
paura? So fare il mio lavoro.» Per quanto se ne dica il
contrario... Eric ha
così poca stima di me? «Ma
per lui no, non solo, per lo meno. Sei qualcuno di importante e questo
dovresti averlo capito.» Eric teme
che Gambero e i suoi possano rivalersi su di me? È un
pensiero che mi riempie di diverse emozioni, la più forte
è ancora la rabbia, però. Sono in grado di
affrontare
chiunque, non sono più il ragazzo spaventato di qualche
tempo
fa, non sono neanche più un uomo in bilico sulla passerella
di
quel molo 16. Ho trovato, anche se a fatica, il mio equilibrio e non
cederò più. Devi fidarti di me. «Lo
convincerò, vedrai» affermo parcheggiando sotto
l’ospedale. Anne-Britt non dice nulla ma noto che non ne
è
così convinta, non lo sono neanche io, ma devo farcela. Due giorni
sono tanti, quante cose possono cambiare in due giorni? La mia vita
è mutata radicalmente in appena cinque minuti.
Anne-Britt
è venuta a trovare Eric un paio di volte e
benché temessi non fosse una buona idea, ho dovuto
ricredermi
subito. Passano quasi più tempo a chiacchierare loro due di
quanto non facciamo noi! Se non avessi avuto determinate conferme da
Eric e non conoscessi Anne-Britt, potrei anche essere geloso... in
verità lo sono lo stesso, ma ho decenza di non mostrarlo. «Ancora
due?» «Diciamo
uno e mezzo.» Si scambiano un abbraccio ed io stringo la
mascella. Sei ridicolo! Lo so, ma
non riesco a farne a meno. Eric mi
sorride ed io sollevo appena una angolo della bocca. Purtroppo
il discorso di stamani con Lisa mi risuona ancora nella testa
così come le parole che ho detto a Derek. Deve accorgersene
e mi
scruta in silenzio. «Lo
sai che la Fustern vuole le chiavi di casa tua?»
Anne-Britt interrompe il suo muto studio e lo fa sorridere di nuovo. «Perché
mai?» «Credo
voglia rassettare prima del tuo rientro» rispondo io
e mi avvicino di qualche passo al letto. Rimango in piedi, mentre la
seggiola da visitatore viene occupata da Anne-Britt. Non resta mai a
lungo. Di solito una visita veloce di cinque minuti e poi va via. Lei
abita a un paio di isolati da qui e per quante volte le abbia detto che
potrei accompagnarla, tante lei ha rifiutato dicendomi che preferiva
sapermi qui. Sì,
la mia gelosia è decisamente ridicola. «Rassettare?»
ripete divertito Eric ed io annuisco. «Con
ogni probabilità mi obbligherà ad
aiutarla» sospiro certo di ciò che dico. «Allora
le darò sicuramente le chiavi!» Eric ride ed
Anne-Britt lo accompagna. Sì, prendetevi gioco
di me, ormai c’ho fatto l’abitudine. Sorrido
comunque, perché è un ruolo che alla fine non mi
spiace; per quel sorriso lo gioco volentieri. «Però
avrai bisogno di qualcosa da indossare per uscire
dall’ospedale.» Giusta osservazione di Anne-Britt.
Mica
può andarsene in giro con quel camicie bianco? Potrei
passare da casa sua e- «Chiederò
a Hernest di prendermi qualcosa da casa.»
Hernest? Mi gelo all’istante. Perché Hernest? Anne-Britt
nota la mia reazione, Eric no. «È
di strada?» gli chiede lei ed un groppo
fastidioso mi sta formicolando dalla gola allo stomaco mentre tengo gli
occhi fissi sulle lenzuola. «No,
ma...» Quel silenzio mi obbliga a risollevare gli
occhi sul suo viso e noto che finalmente ha capito. Non aggiunge altro
e scosta lo sguardo altrove. Altro
silenzio. «Forse
è il caso che vada.» No, non andartene altrimenti
potrei soffocarlo con un cuscino!
«Devo preparare ancora la cena.» Le lancio uno
sguardo che
è una richiesta d’aiuto ma lei si alza e mi
sorride, poi
saluta Eric e si avvia alla porta. «Ci
vediamo domani.» Il mio Ok è
poco più di un rantolo. La porta si
chiude e torna il silenzio. Non ho il coraggio di
guardarlo, non ho il coraggio di chiedermi perché abbia
detto
quella frase. Hernest è un suo amico, un suo caro amico, ma
allora io cosa sono? «Ehi?»
Inghiotto e sposto gli occhi sul suo viso. Le mie
labbra ancora incollate fra di loro. «Non capisco
perché
stai facendo così.» «Così
come?» chiedo lapidario affondando le mani nelle tasche dei
jeans. Eric
sospira e scuote la testa. «Ok,
come ti pare.» Eccolo: quando bisogna affrontare un
discorso lo chiude prima di iniziarlo. È una cosa che mi fa
imbestialire. «Non
ti fidi di me come poliziotto e posso anche
accettarlo.» I suoi occhi mi fulminano, i miei sono due
fiamme
rabbiose. «Ma che non ti fidi di me neanche come... come -non
lo
so, come amico? Beh mi fa incazzare!» «Ma
che stai farneticando?» «Andiamo,
Eric, non costringermi a...» Mi passo una mano
sul viso camminando furiosamente avanti e dietro. Dannazione, controllo
perso. «A
fare cosa? Magnus parla chiaro!» «Chiaro?
Vuoi che parli chiaro?» Lo vedo irrigidirsi mentre
non so cosa cavolo sto dicendo. Cosa credo di fare con questo
atteggiamento stupido? Eppure non riesco a frenarmi. «Cosa
sono per
te? Cosa siamo?» La gola trema e la voce si incrina.
«I-io
non lo so» Sono costretto a spostare lo sguardo. Mi avvicino
alla finestra e mi poggio con entrambi i palmi sul freddo marmo. «È
per la faccenda di Hernest? Come puoi reagire
così?!» «Io
ho bisogno di una risposta!» «Perché
diavolo vuoi una risposta per tutto?» «Perché
sono fatto così e sarò fatto male,
ma non posso cambiare... Neanche per te!» Non mi volto e
serro
gli occhi per impedire a qualsiasi emozione di bagnarmeli. Non ora, non
davanti a lui. «Non
te lo chiederei mai...» La sua voce si abbassa ed io
sento il corpo tremare. Sono un disastro ambulante. Stringo le dita in
un pugno e respiro a fondo. «Io non sono bravo con le parole
e
non so cosa vorresti che dicessi.» Vorrei voltarmi e vedere
il
suo viso, ma so che poi non avrei più alcuna forza di
resistere.
«Cerchi una spiegazione per tutto, vuoi dare un nome a tutto,
beh,
io quel nome non ce l’ho ed onestamente non me ne frega nulla
di
trovarlo - e Santo Dio guardami in faccia per lo meno!» «Chiudiamola
qui, è meglio.» Cerco di respirare in modo
regolare ma escono solo affanni. «Vuoi
scappare anche questa volta?» Non è una
domanda, è una secca affermazione e dalla mia gola sale una
risata isterica. «Non
sono io quello che scappa, Eric, sei tu che non vuoi farmi
avvicinare.» Finalmente mi volto e sul suo viso incontro due
occhi che mi
guardano severi. «Perché non ti fidi di
me?»
È un sospiro lieve che mi costringe a trovare altra forza
per
trattenere lacrime e urla. «Io vorrei solo che...»
Scuoto
la testa con un sorriso triste. «A volte mi sembra che ci sia
ancora un vetro a dividerci... Perché?» «Neanche
io so cambiare.» «Io
non voglio che tu cambi, vorrei solo conoscerti.» Non
mi rendo conto del tremore della mia bocca, ma gli occhi di Eric lo
vedono chiaramente. «Vorrei vedere chi sei...» «Potrebbe
non piacerti ciò che sono.» «Non
potresti mai non
piacermi.» Un piccolo
sorriso gli piega le labbra. «L’hai
detto...» Con lenti
passi mi avvicino al letto. «Avevi bisogno che lo
dicessi?» Avevi
bisogno che ti dimostrassi ancora quanto sei
importante per me? «Magnus...»
Mi prende la mano e come ogni volta mi sembra perfetta per stare
stretta nella sua. «Non
voglio obbligarti a dire qualcosa che non vuoi dire.»
Che non senti.
«Voglio solo poter...» Mi lascio cadere
sul letto stringendo forte le sue dita e le labbra di Eric catturano le
mie. La rabbia sfuma impercettibilmente lasciando spazio a
qualcos’altro a cui neanche io so dare nome. «Ultima
porta a destra, secondo cassetto... lì ci sono i
boxer.» Rido
sentendomi ancora una volta vittima di questo sentimento che non so
come possa stare tutto in questo piccolo cuore. «Vuoi
che ti porti solo i boxer?» «Sono
settimane che sono senza quindi mi basterebbero quelli,
credimi.» Gli accarezzo il viso e il tiepido alone di quel
livido
sulla sua guancia. Sul sopracciglio, un cerotto dove prima
c’erano i punti. Eric bacia le mie dita quando sfiorano le
sue
labbra. Non voglio
perdere tutto questo, non voglio rovinare tutto. Non
sopravvivrei. «Vuoi sapere anche dove sono le camicie e i
pantaloni?» Annuisco
ridacchiando e poi mi perdo nei suoi occhi. «Voglio
sapere tutto... Se avrai voglia di dirmelo.» Se avrai voglia di
aprirmi il tuo cuore. Le chiavi del mio sono già tue, lo
sono
state dalla prima volta che mi hai guardato. «Va
bene, detective... chiedi pure.» Mi bagno le labbra e scuoto
la testa. «Non
ora.» Adesso
voglio solo baciarti fino a perdere il fiato.
Mentre
guido non posso fare a meno di sorridere guardando la chiave poggiata
sul cruscotto, la chiave di casa sua. “Non ficcare il tuo bel naso da
altre parti. Ok?” L’ha
detto con un sorriso però era chiaramente una frase
ben poco ironica. Non voglio invadere la sua privacy, non
più,
però mi chiedo quanto sarò in grado di mantenere
questo
bel proposito. La Ford di
Eric è parcheggiata davanti al vialetto. È
stato Hernest a riportargliela insieme a Lars. Hernest,
l’amico
fidato... Scuoto la
testa e scaccio via l’ultima polvere di quel fastidio mentre
parcheggio accanto alla sua auto. Le luci
esterne sono accese e mi fa strano pensare che sono state
accese per tutti questi giorni senza un motivo. Getto un occhio alla
casa di Amanda da cui intravedo il bagliore della cucina. Pima di
tornare a casa le farò un saluto, e magari mi
fermerò a
cena. Non ho voglia di cucinare e di certo lei mi inviterà,
ma
la verità non è questa. Il vero motivo
è che
quando torno in quell’appartamento silenzioso, la mancanza di
Eric diventa quasi insostenibile. Mi chiedo cosa accadrà
quando
riprenderà la sua vita, quando non ci sarà
più
quella stanza sterile come sfondo dei nostri strani incontri. Mi
inviterà da lui? Verrà da me? Usciremo come una
coppiettina al loro primo appuntamento? Non
c’è nulla di canonico in questa storia senza nome,
è accaduto tutto in un ordine forse sbagliato, ma
è
accaduto. Mentre
infilo la chiave nella serratura, rivivo il giorno in cui
letteralmente scappai da qui, scappai da lui. Ancora mi prenderei a
schiaffi! Accendo la
luce chiudendo la porta alle mie spalle. È tutto
così silenzioso ma soprattutto freddo. Il camino
è nero e
spento, non c’è il fuoco a disegnare strane sagome
sul
soffitto. Sfioro con le dita lo schienale del divano e mi mordo le
labbra con un sorriso. Abbracciati
stretti su questo divano, baci riscaldati dal calore delle fiamme... È
una fantasia che mi fa imbarazzare nonostante sia solo in
questo salotto. No, meglio
prendere quei vestiti e tornare a casa prima
che il battito acceleri troppo. Salgo le
scale velocemente ma quando arrivo in cima mi arresto.
L’unica volta in cui sono stato qui è stata
durante
quell’orribile interrogatorio che ha minato per sempre tutte
le
mie certezze. La camera
di Eric è l’ultima porta a destra. Cammino lento
nel corridoio cercando di ignorare la voglia di aprire le altre porte.
Magari potrei solo dare una sbirciata veloce, ma quando giungo davanti
alla sua stanza quel desiderio sparisce. La porta è aperta
ed
accendo la luce illuminando l’ambiente. Il suo
letto cattura subito la mia attenzione: è grande, con una
trapunta di un tenue paglierino e due guanciali gonfi. Mi viene da
sorridere.
Così sei uno che gonfia i cuscini... È
lo stesso vizio di mia madre che però non ho voluto
ereditare, preferendo tenermi il mio cuscino "sottiletta". Quel pezzo
di vita celata mi scalda e diverte allo stesso tempo. Domani una
battuta non riuscirà ad evitarla. Ai lati del
letto, due comodini in coordinato con l’armadio
frontale, ma solo su uno c’è una piccola abat-jour
e
capisco che Eric dorme sul lato sinistro. Io ho sempre dormito su
quello destro.
Sei la mia perfetta metà, vedi? Mi sento
ridicolo a fare certi pensieri e mi torna in mente il nostro piccolo
scontro di oggi. “Cerchi una spiegazione per
tutto, vuoi dare un nome a tutto, beh
io quel nome non ce l’ho ed onestamente non me ne frega nulla
di
trovarlo.” Anche se
Eric prova qualcosa per me, non credo sia lo stesso sentimento
che provo io, non ancora. Chissà se mai lo sarà. “Tu mi piaci.” Ma io ti amo... Sospiro
sedendomi sul letto ed accarezzo il suo cuscino. Non so se
lo abbia capito, non so se preferisca ignorarlo. È
l’unica curiosità che non voglio soddisfare,
perché
è l’unica che potrebbe davvero ferirmi. Vago con
gli occhi nella stanza e li porto al comò sul lato destro
sovrastato da un grande specchio in cornice di legno. Secondo
cassetto. Il cassetto dei boxer. Partiamo da
quelli. Mi alzo e
mi avvicino cercando di non pensare all’amarezza che mi
ha assalito qualche attimo fa e mi lascio andare ad un risolino goffo
quando apro la cassettiera e mi trovo davanti, ordinatamente piegati,
boxer e calzini. Sto
mettendo le mani nella biancheria intima di Eric e, benché
mi abbia dato il permesso, mi sento comunque un pervertito. E pensare
che un tempo amavo sbottonare reggiseni... Credo che
lo rifarei ancora. Credo che farei ancora sesso con una
donna, in fondo non sono immune al fascino femminile, l’unica
differenza è che non ho mai baciato qualcuno con lo stesso
desiderio con cui ho baciato Eric. Non mi sono mai sentito un completo
idiota davanti ad un sorriso, non ho mai sognato per notti intere due
occhi azzurri che mi guardavano. Non ho mai sentito azzerarsi il
respiro al solo pensiero di poter sentire due mani su di me.
Non
ho mai provato la stessa paura e, al tempo stesso, il folle
desiderio che questo accada. Sfioro la
stoffa e sospiro affannato. Dannazione, pessimo momento per
farsi prendere dal batticuore - o dall’ormone, come direbbe
il Dr. Lindgren. Sono
costretto a chiudere il cassetto ma non riesco a chiudere anche i
pensieri che mi stanno affollando la testa. Non posso
fare una cosa simile
nella stanza da letto di Eric. Ma forse
è proprio questo che mi impedisce di controllare le mie
pulsazioni. Il suo
profumo avvolge ogni angolo, dalla trapunta alle
tende, il suo cuscino cattura i miei occhi, l’immagine del
suo
viso assopito in piena notte, delle lenzuola che sfiorano la sua pelle
nuda, del sudore che incolla i capelli sul suo collo.
Le labbra
socchiuse e il respiro caldo che si perde sulla mia bocca. È
un pensiero che scivola dritto nello stomaco e scende fino ad arrivare
a farmi tremare le ginocchia. Almeno il
bagno è a due passi.
Mi sciacquo
le mani scuotendo la testa. Maledizione, neanche avessi quindici anni! Va bene
farlo nel silenzio di casa mia, ma lasciarmi andare così
in quella di Eric - e lui ancora steso in quel letto - mi risulta
proprio di pessimo gusto. Chiudo
l’acqua e lancio uno sguardo alla confezione di shampoo
sulla mensola della doccia. Non riesco a non afferrarlo. Apro il tappo
e ne inspiro l’aroma ad occhi chiusi. Mandarino... Mi mordo un
labbro ripensando alla prima volta che l’ho sentito entrarmi
nella testa e poi nel petto, come tutto ciò che ruota
intorno ad
Eric, come Eric stesso. Torno in
camera e vado dritto al suo armadio, quando apro le ante, il
suo profumo mi investe come una tormenta, di nuovo. Le sue maglie, i
suoi jeans, le sue t-shirt di cotone appese alle grucce nonostante sia
ormai novembre inoltrato. Sospiro
grattandomi la testa mentre scorro con gli occhi su ogni capo e,
inevitabilmente, immaginandolo sul suo corpo... Ecco, lo
sapevo, avrei fatto meglio a lasciare questo compito ingrato a Hernest.
Continua...
NdA.
Capitolo di cemento, in quanto basilare per i futuri sviluppi. (?)
Spero sia stato gradito, e spero soprattutto di essere riuscita a
restare in rating nonostante tutto.
Nel prossimo alziamo un po’ il tiro, ma nulla di scabroso, io
sono pudica come Magnus u.u *mente
malissimo*
Rinnovo l’avviso fatto verso l’inizio della storia
in merito a leggi e procedure penali et similia. Io sono una capra
immensa per cui chiedo venia da ora per le assurdità che
scriverò, ma non ho avuto davvero il tempo per informarmi
sulle leggi svedesi, perciò abbiate pietà. Ok?
Meno male che non potete vedere la mia faccia imbarazzata in questo
momento >////<
Grazie a tutte/i, vi voglio bene <3
Kiss kiss Chiara
Sento il cellulare squillare
nella giacca ma non ho voglia di alzarmi, non voglio allontanarmi da
questo cuscino, il cuscino di Eric. Con uno
sbuffo raggiungo la giacca gettata ai piedi del letto, ma quando leggo
il nome sullo schermo automaticamente strizzo gli occhi e stringo i
denti: beccato. «Stai
ancora facendo il ficcanaso?» La sua voce mi colpisce in
pieno. Ma come diavolo fa? Neanche gli avevo detto che sarei passato di
qui stasera. «Non
so di cosa stai parlando...» Che pessimo bugiardo. Lo sento
ridacchiare dall’altra parte e torno a stendermi sul letto,
nel suo profumo. «Hai
trovato i boxer?» Sì, li ho trovati ed
è stato imbarazzante quello che ne è seguito, ma
meglio tenere determinate esperienze per me. «Sei
molto ordinato, non lo credevo.» «Hai
già trovato anche il cadavere sotto il letto?»
Rido anche io. «Vuoi
sapere la verità?» Un verso mi risponde in senso
affermativo. «Ci sono sopra...» Oddio,
perché gliel’ho detto? Un attimo
di silenzio. «Al
cadavere?» Per poco
non ci rimetto un polmone. «No, al letto. Sono sul tuo
letto... Spero non ti dispiaccia.» L’ilarità
sfuma e mi sento come un ragazzino alla sua prima cotta. «Senza
di me?» Mi mordo le labbra non riuscendo a rispondere e lo
sento ridacchiare. «Riesco a vedere la tua faccia a
fuoco.» Ed in questo momento sì, è
davvero a fuoco. Mi rigiro di schiena fino a fissare gli occhi al
soffitto. «Ti chiederei cosa stai facendo tutto solo sul mio
letto, ma mi limiterò a invitarti a cambiare le lenzuola...
Dopo.» Se solo sapesse... Taci,
Magnus. Taci. «Pensavo
che sarà difficoltoso per te salire quelle scale quando
tornerai.» «No,
non stavi pensando a quello...» Mi strappa un’altra
risata. «Sono
serio.» «Anche
io.» Non riusciremo mai a fare un discorso sensato, a dire il
vero non ne abbiamo fatto realmente uno, se non si tiene conto di
quella pseudo litigata di oggi, ma neanche lì ci siamo detti
chissà che. Alla fine tutto ciò che so
è ciò che provo e mi chiedo quanta vera
importanza possa avere il resto. «Hai
cenato?» «Riso
bianco e pollo freddo... Sì, diciamo di sì. Tu?
Scrocchi la cena anche stasera?» «Io
non scrocco cene, sono solo cortese quando mi invitano.» Ed elemosino compagnia in tua
assenza. «Questo
è scroccare, detective.» Sì, hai ragione. «Vorrei
cenare con te qualche volta...» Quella frase prende forma
nella mia testa ed esce dalle labbra che neanche me ne rendo conto.
Eric tace per qualche attimo ed io continuo a fissare il suo soffitto,
il soffitto che lui guarda tutte le notti, forse. «È
un appuntamento?» Sorrido.
«Se lo fosse, diresti sì?»
Posso percepire anche il suo sorriso e il mio si allarga. «Quanta
iniziativa dietro al telefono... Chiedimelo di persona e ti
rispondo.» Che
bastardo! Ma in fondo è anche questo che mi piace di lui:
non so mai cosa aspettarmi. Riesce a indovinare ogni mio pensiero
mentre io sono ancora vittima del suo alone di mistero. Fascino e
incertezza, un binomio alquanto fatale. «Ho
preso dei jeans ed un maglione verde. Va bene?» «Sì,
ma i boxer li hai presi?» La mascella quasi mi fa male per il
sorriso imbecille stampato sopra. «Sì,
ho preso anche i tuoi amati boxer.» «Quali
hai preso?» Quelli
blu scuro con l’elastico rigato, ma non te lo dirò
mai. «Un
paio a caso» mento e lo sento ridacchiare. «Cosa
vuoi insinuare, che abbia passato il tempo a ficcanasare nella tua
biancheria?» «L’hai
fatto?» Sì,
ma non ti dirò neanche questo. «Certo
che no!» «Tanto
me ne accorgerei. L’hai detto tu: sono ordinato...»
Il silenzio che ne segue mi incastra inevitabilmente e
un’altra risata mi risuona nelle orecchie. Torno a voltarmi
poggiando la guancia sul cuscino e godendomi il calore della sua voce. «Eric?»
sospiro appena ed aspetto che torni il silenzio.«Vorrei che
fossi qui...» «Prima
l’appuntamento ed ora il sesso telefonico...» Credo
di aver smesso di respirare e lui deve essersene accorto.
«Scusa, la smetto.» «Grazie.»
Lo dico con sincera gratitudine, perché
quell’argomento è ancora parecchio delicato per
me, decisamente, decisamente delicato. Ho una lotta intestina fra
cervello e corpo: uno cerca di razionalizzare ciò che
l’altro semplicemente brama intensamente. Una
situazione per nulla piacevole, direi. «Ehi,
detective?» Eric spezza quel lungo silenzio in cui ero
rimasto ad ascoltare il suo respiro. «Sì?» «Il
cassetto del comodino, aprilo.» «Quello
a sinistra?» «Sì,
aprilo.» Mi sporgo leggermente con un leggero batticuore e
quando lo apro il batticuore cresce in modo esponenziale. Le dita
tremano appena mentre afferrano il piccolo cartoncino quadrato. «L’hai
conservato... perché?» Sulla carta lucida la
scritta: Detective Martinsson e relativo numero di telefono. «Per
le indagini.» Sento gli occhi pungere ed una forte emozione
affogarmi qualsiasi parola. Lo teneva nel comodino, accanto al suo
letto. Lo ha sempre tenuto qui ed io... Ed io sono stato cieco
e stupido. Sorrido ancora incredulo continuando a passare gli occhi sul
biglietto da visita come fosse la prima volta che lo vedo.
«Sei ancora vivo?» «Più
o meno...» Mi lascio andare ad un risolino liberatorio e lui
fa lo stesso. «Ora sì che vorrei che fossi
qui.» «Ed
ora sì che mi stai chiedendo sesso telefonico.» La
mia risata aumenta mentre stringo fra le dita quella piccola
confessione. «Non
so neanche come si fa» ammetto candidamente. «Oh,
non avevo dubbi!» Mi copro il viso con un braccio mentre lo
sento ridere dall’altra parte. «Poi ti
insegno.» «Ah
si?» «Quando
avrai fatto pratica con quello reale - e per favore, conserva il
rossore per quanto potrò vederlo» «Allora
smettila con questi discorsi.» Altro che rossore, sto andando
letteralmente a fuoco. «Ehi,
sei tu che te ne stai steso sul mio letto... Non chiedermi di non
fantasticarci sopra.» Ecco. Questa
telefonata non porterà mai a nulla di buono. «Allora
è meglio che mi alzi.» Mi metto a sedere con un
sorriso mentre mi rigiro ancora fra le dita il mio stesso biglietto da
visita. «Domani ti porto la borsa con il cambio, ma non posso
passare prima del pomeriggio.» «Grazie.»
Ah, perché
non sei qui? Sposto il
telefono dalle labbra per non fargli udire un sonoro sospiro. Tornerei
in ospedale in questo preciso momento se mi lasciassero entrare. «Allora,
buona notte.» «Buona
notte, Magnus.» Chiudo gli occhi mordendomi le labbra. Sarebbe
“buona” solo se fossi accanto a me. «Buona
notte, Eric.» Riaggancio con un ulteriore sospiro.
Continuo a
battere i dati al computer finché non vedo Lisa entrare in
ufficio. La seguo con lo sguardo mentre parla con un paio di agenti e
porge loro delle carte. Inizio a
pensare che forse il mio piano non sia stato una gran pensata. Derek
ancora non si è visto e non ha neanche chiamato.
Conoscendolo starà eseguendo il compito che gli ho affidato
con scrupolo, ma non vorrei gli fosse successo qualcosa. Continuo a
digitare sulla tastiera saltando con gli occhi dallo schermo al viso di
Lisa. Due giorni,
ho solo quelli ed in realtà me ne resta solo uno,
perché domattina alle 10.00 Eric sarà fuori
dall’ospedale e quando gli chiederò di denunciare
i suoi aggressori mi risponderà con un categorico No. Controllo
l’orario, è quasi mezzogiorno e non ho concluso
nulla. Ho evitato di chiamare l’agente Carlsson per non
creargli problemi, ma a questo punto... Sto per
afferrare il telefono quando lo vedo sbucare dalla porta.
Immediatamente lascio il lavoro in stand-by e lo raggiungo. «Derek!» «Buongiorno,
detective.» Non indossa la divisa. Mi allunga una busta
gialla ed io la prendo subito. «Le ho fatte sviluppare
un’ora fa.» All’interno una decina di
foto e al solo guardarle sento l’ira montarmi nelle vene.
«Lavorano sempre al solito posto. Molo 16.» Passo
con lo sguardo dalle foto al suo viso annuendo. Il volto di Vargas,
quello di Dave e quello serio di Alto, a cui non sono ancora riuscito a
dare nome. «Sono stati lì fino alle 4 di mattina
poi sono andati via. Stamani non c’erano e ho fatto qualche
domanda in giro.» Fermo l’esame delle foto e lo
ascolto. «Che
hai scoperto?» «Gira
voce che Gambero e Brandberg siano ai ferri corti. Pare che il
portoricano abbia fatto qualche colpo di testa che non è
andato giù a Brandberg.» «Potrebbe
aver perso la sua protezione.» È un ragionamento
che faccio a voce alta. Se fosse davvero così la cosa
giocherebbe di certo a mio favore. Togliere Brandberg dalla faccenda mi
semplificherà le cose. «C’è
altro?» «No,
detective.» «Ottimo
lavoro, Carlsson. Ti devo un favore.» Gli batto la mano sulla
spalla e corro al pc. Devo verificare le voci e soprattutto mostrare
queste foto ai colleghi di Eric. Mi basta che ne riconoscano solo uno
ed avrò la strada in discesa. Tiro fuori
tutte le foto e le sistemo ordinatamente sulla scrivania. Anche se era
notte Derek ha fatto un lavoro egregio, altro che favore, dovrei
cercare di farlo promuovere. Non potevo farmi vedere al
porto perché non avrei avuto la freddezza
necessaria, sono abbastanza onesto con me stesso per ammetterlo. L’agente
Carlsson è riuscito anche a fotografare un chiaro scambio di
droga e so che questo farà felici quelli della narcotici.
Per adesso rende il mio morale decisamente più alto. Prendo
una foto con un primo piano di Vargas e la guardo stringendo forte la
mascella. «Te la farò pagare.» La getto
poi sul mucchio con le altre. Stavolta
vado fino in fondo.
Tornare al
porto credevo mi avrebbe fatto uno strano effetto, ma forse a causa di
ciò che ho scoperto questa mattina, riesco a tenere sotto
controllo nervi ed emozioni. Le facce
che salgono e scendono dal mercantile mi sembra quasi di
riconoscerle tutte, di certo riconosco quella di Lars che vedo
raggiungermi dopo qualche momento. «Detective,
che ci fa qui? Eric sta bene?» «Sì,
domani lo dimettono.» «Allora
Hernest non mi stava prendendo in giro... Quel maledetto.»
Sorrido e scuoto la testa gettando un altro sguardo in giro. «Senti
Lars, cercavo Gary Shiltter.» Seguo il suo sguardo alla mia
destra. «È
nel capanno 12. Glielo vado a chiamare?» «Sì,
grazie.» Lo vedo allontanarsi verso la struttura ma, prima
che torni, qualcuno mi raggiunge. «Ragazzino,
non puoi distrarre i miei uomini mentre lavorano.»
È Ringdal e l’immagine che mi si para di fronte
è quasi identica a quella che ricordavo. Stesso sigaro,
stesso cappello, stessa aria irritata, ma stavolta la giaccia
è verde. Chiesi ad
Eric se non gli dispiacesse che Gustav non fosse andato a trovarlo. Lui
mi rispose che non sarebbe mai andato. “Perché?”
Non disse nulla, mi sorrise e mi arruffò i capelli. In quel
momento mi sono sentito un bambino stupido. «Signor
Ringdal, ho bisogno di parlare con un operaio per le indagini
sull’aggressione di Eric. Si ricorda ancora di Eric,
vero?» Il mio sarcasmo mi costa un’occhiataccia ed
una coltre di fumo. «Non
portargli via troppo tempo. Questa nave non si scaricherà da
sola.» «Chi
lo infastidiva?» Lo fermo prima che si allontani. Lui mi
guarda con sufficienza e deforma il viso scavato in un ghigno. «Per
quello che ne so, solo un poliziotto impiccione.» Ok, questa
me la sono meritata. «Se
sa qualcosa, la prego di collaborare e-» «Senti,
Eric è un ragazzo in gamba e sa stare al suo posto, ma ha
avuto la pessima idea di mettersi contro gente poco onesta.
Perché l’ha fatto non lo so, ma mi auguro che
abbia imparato la lezione. Gli è costata cara.» «Eric
non si è messo contro nessuno, sono quelli che se la sono
presa con lui senza motivo!» Il pugno mi trema ed altrettanto
fa la gola. Sono costretto a tacere e a spostare lo sguardo sulle acque
del porto. Eric non ha nessuna colpa, quella spetta a me, e me
la prenderò tutta. L’arrivo
di Lars mi costringe a nascondere la rabbia in un angolo dello stomaco. Con la coda
dell’occhio vedo Ringdal andare via borbottando qualcosa fra
i denti ed il sigaro. «Detective,
mi cercava?» Shiltter si pulisce le mani sulla tuta mentre
ringrazio Lars e lo lascio tornare al lavoro. «Ti
porterò via solo un minuto, voglio che tu veda
queste.» Dalla tasca interna della giacca tiro fuori una foto
con il primo piano di Vargas e dei suoi due compari. «Dimmi
se riconosci in questi uomini quelli che giravano attorno ad
Eric.» «Posso?» Lascio che
Gary la prenda e che la guardi con attenzione. Si morde un labbro e
socchiude gli occhi, quando me la riporge deglutisce. «Sì,
sono questi due.» Indica Dave e Alto, come avevo immaginato. «Sei
sicuro?» Annuisce
con vigore. «Sicurissimo, però detective, io non
vorrei avere dei guai, questa gente...» «Non
preoccuparti, avevo solo bisogno che tu mi dessi una
conferma.» Infilo la foto in tasca aggiungendo altra rabbia
allo stomaco. «Cercherò di fare in modo che tu non
debba testimoniare.» «La
ringrazio, ora mi scusi, ma devo tornare a lavoro.» «Grazie
per l’aiuto.» Annuisce ancora e si allontana. Porto gli
occhi al mare con una determinazione ben definita nella testa. Ormai ho
tutte le carte sul tavolo, me ne manca solo una, ma farò in
modo di ottenerla. Alla fine
Eric dovrà cedere.
Mentre mi
dirigo verso la sua stanza, nel corridoio incrocio il Dr. Lindgren. Non
posso farci nulla, ogni volta che lo vedo non riesco ad impedire a un
profondo imbarazzo di cogliermi. «Detective.» «Dr.
Lindgren, salve... Era da Eric?» chiedo cercando di non
balbettare come un idiota. «Sì,
gli ho tolto i punti, ma le ricordo che il monito è ancora
valido.» Tenere
a freno gli ormoni, lo ricordo abbastanza bene. «Sì,
dottore, anzi, devo ancora scusarmi per la situazione... ehm...
sconveniente dell’altra volta.» Prima o poi dovevo
dirglielo, ne andava della mia precaria salute mentale. Mi gratto
nervosamente il collo ma lui scuote la testa con
tranquillità. «Mi
creda, non è la prima volta che mi capita. Non si senta in
imbarazzo, non ce n’è motivo. Ora però
devo lasciarla, ho da finire il giro delle visite.» «Sì,
certo. Buon lavoro.» E
grazie. Mi fa un
cenno della testa ed entra nella stanza accanto. Apro la
porta di quella di Eric ma non lo trovo. Sarà di nuovo in
bagno. Poggio il
borsone sul tavolo bianco sul fondo della stanza pensando alle parole
di Gary. Quel bastardo di Vargas la pagherà! Gli occhi
sono fermi sulla cerniera che chiude la sacca. Mi sembra di aver preso
tutto, al massimo mi toccherà ritornare a casa sua, e la
cosa non sarebbe spiacevole, confesso. Faccio
mente locale: ho preso scarpe, pantaloni, camicia e la sua giaccia. Gli
immancabili boxer e- Sobbalzo
quando sento due braccia avvolgermi il corpo. «Buongiorno,
detective.» Mi irrigidisco all’istante e neanche la
sua voce calda riesce a sciogliermi. «Buongiorno»
annaspo come fossi un blocco di gesso. «Non
ti voglio uccidere, tranquillo.» Eric sorride e mi lascia
andare arruffandomi i capelli. Quasi faccio fatica a voltarmi. «Ti
ho portato la borsa con il cambio.» Cerco di sfuggire alla
sensazione di poco prima ma i suoi occhi mi guardano con una luce
divertita che non posso ignorare. «Com’è
il mio letto, comodo?» Le mie labbra si piegano da sole ed
annuisco silente. Eric si siede sulla piccola branda e solo allora noto
che non ha più il camice. «Mi hanno dato una tuta.
Gentili a farlo un giorno prima di dimettermi.» I pantaloni
grigi morbidi sono abbinati ad una maglia altrettanto grigia a manica
lunga. «Credo
abbiano aspettato di toglierti i punti. Per le medicazioni è
più comodo il camice.» «Per
le medicazioni, non per me. Al contrario di quanto si pensa, noi
scozzesi non amiamo indossare gonne.» Rido mentre
un’immagine alquanto bizzarra mi compare nella testa.
«In effetti non ho trovato kilt nel tuo armadio.» Eric
ghigna. «Non li troveresti da nessuna parte.» «Non
lo so, magari li tieni nascosti bene...» Tiro fuori le sue
chiavi dalla tasca e le faccio tintinnare fra le dita. «Mi
tengo queste e vado a controllare, che ne dici?» «Dico
che ti preferivo quando mi prendevi a pugni, tutta questa iniziativa
non mi piace...» Ridacchio e gliele getto. Eric non riesce ad
afferrarle e cadono sul letto. «Ho perso anche i riflessi in
questo dannato letto» brontola ruotando il busto per
recuperarle dalle lenzuola. Io ho trovato tutto in questo
letto, vorrei rispondergli, ma preferisco tacere ed
avvicinarmi a lui. Gli siedo accanto e lui mi sorride, ancora. Se non
fosse per il livido che gli copre uno zigomo direi che è
tornato il vecchio Eric, il mio
vecchio Eric, quello che mi ha incasinato la vita ed il cuore, e di cui
non credo di poter più fare a meno. Le sue
labbra lambiscono le mie e come tutte le volte non riesco
più a pensare. Gli avvolgo le braccia attorno alle spalle e
lascio che le sue mi stringano la vita. «Ho
incontrato il Dr. Lindgren...» sospiro fra un bacio e
l’altro. «Che
ti ha detto?» Ma è una domanda a cui sembra non
interessi alcuna risposta. Sento le sue dita scivolare sotto la maglia
e sfiorarmi la schiena e d’istinto soffoco un gemito. «Che
il monito è ancora valido» affondo le mie fra i
suoi capelli mentre le labbra di Eric scendono piano sul mio
collo. Non credo di essere ancora in grado di parlare.
«E-Eric...» «Shhh, non
verrà nessuno.» Il suo fiato mi scalda la pelle
umida ma non riesco a dimenticare dove siamo. Sento il graffiare
piacevole della sua barba, il mio cuore batte furente mentre cerco di
nuovo la sua bocca. La sua
mano, ormai priva di tutore, scivola via dalla mia schiena e mi sfiora
il bordo dei jeans. La sento arrivare fino al bottone metallico sul
davanti. «Aspetta!»
Prendo aria e gli bloccò la mano con la mia. «Non
possiamo. Non... qui, ed io... il dottor-» Le sue
labbra inghiottono ogni altra mia parola. «Non
verrà nessuno. Fidati.» Il bottone abbandona
l’asola ed il mio respiro mi risuona assordante nelle mie
stesse orecchie. «Rilassati, Magnus.» La sua voce
mi accarezza mentre sento la zip scendere. «Eric...»
È l’unico suono che accompagna i miei successivi
gemiti.
Continua...
NdA.
Purtroppo ‘sto letto d’ospedale mi ispira le peggio
scene da filmetto squallido di serie Z, abbiate pazienza. Per fortuna
è l’ultimo capitolo ospedaliero e anche il Dr.
Lindgren ringrazia.
È anche l’ultimo capitolo di pseudo quiete
perché dal prossimo le cose cambieranno.
Rinnovo lo stessa richiesta dell’ultima volta: se ho sforato
rating (aridaje
co’ sto rating, dirà qualcuna, magari
in bresciano...) ditemelo e provvederò a cambiarlo. Well,
grazie ancora a tutti/e <3
Kiss kiss Chiara
«Home sweet home.» Sorrido mentre chiudo
la porta alle
spalle. Eric cammina fino al divano e poi si volta con
un’espressione serena. «Questo divano è
la cosa che
mi è mancata di più.» «Avrei
scommesso sull’ascia» ribatto sarcastico poggiando
la borsa a terra. Eric ride ed annuisce. «Sì,
anche quella mi
è mancata parecchio.» Mi sento sollevato nel
vederlo
nuovamente qui, nella sua casa, anche se meno calda del solito, ma dal
suo viso percepisco che conta poco quel dettaglio. «Voglio un
caffè. Ne ho bisogno.» «Se mi dici
dove lo tieni, lo
preparo io.» Mi propongo quando sta per andare in cucina, ma
lui
mi lancia un’occhiata divertita scuotendo la testa. «L’unica
volta in cui ti ho visto accanto ad un fornello non mi sei sembrato
molto pratico.» Oddio,
l’orrenda macchia di
sugo! L’avevo quasi dimenticata. A quanto pare Eric non
l’ha fatto. Quel maglione alla fine l’ho dovuto
portare
davvero in tintoria visto che l’alone non se ne andava
più. «Un
caffè lo so fare,
però.» Cerco di difendermi raggiungendolo ma
l’unica
risposta che ricevo sono due labbra sulle mie. «La prossima
volta magari.» Mentre varco la
soglia, gli occhi
cadono sulla tovaglia che trovai bizzarra la prima volta. Sfioro un
girasole sedendomi su una sedia. «Ti
piacciono i girasoli?» «Uhm?»
Eric si volta mentre apre un’anta in alto. Indico la tovaglia
e lui sorride afferrando due tazze. «Era di mia
madre. A lei piacevano.» Percorro con
l’indice ogni
petalo pensando che Eric non mi ha mai parlato della sua famiglia fino
adesso, non mi ha mai parlato di lui in generale, a dire il vero. «Com’era
tua madre?...
Se non sono indiscreto.» Non lo vedo, ma posso quasi essere
sicuro stia sorridendo mentre carica l’acqua della caraffa. «Le piaceva
cantare mentre cucinava ma non era molto intonata. Io e Will la
prendevamo sempre in giro.» «E lei che
faceva?» «Nulla.
Continuava a
cantare.» Sul viso di Eric un’ombra che riconosco
come
nostalgia. Mi porge la tazza vuota e mi si sede di fronte aspettando
che il caffè sia pronto. «Scusami.
Non avrei dovuto
chiederti di lei.» Abbasso lo sguardo sul mio stesso indice
ancora fermo sui petali di questo fiore in plastica. Non so cosa voglia
dire perdere
qualcuno che ami, se dovessi perdere mia madre credo impazzirei dal
dolore, credo lo stesso di mio padre, anche se non siamo molto legati.
Eric deve aver affrontato tanta sofferenza nella sua giovane vita,
eppure mi sembra un uomo che ha saputo farne tesoro. Vorrei avere un
briciolo della sua forza, vorrei soprattutto non dovesse più
affrontarne alcuna. «Questa casa
era sua.»
Rialzo gli occhi nei suoi. Sulle labbra un piccolo sorriso.
«Abitava qui con i suoi genitori prima di trasferirsi a
Edimburgo.» «È
lei che ti ha insegnato a parlare svedese?» La mia domanda lo
fa sorridere ulteriormente. «L’ho
sempre sentita
parlare svedese in casa. Con me e Will parlava poco inglese. Anche mio
padre aveva imparato qualche parola ma il suo accento era
pessimo.» «Quando ero
bambino mia madre
provò ad insegnami un po’ di francese - lei ha
vissuto a
Lione per qualche anno. Ma non sono andato oltre il “Je m'appelle...”»
La mia risata lo contagia. Sono sempre stato una capra... «Anche io
conosco un po’ di francese.» Se adesso inizi a parlare
francese giuro che non sarò più in grado di
contenere i miei istinti. Prendo un respiro e
scuoto la testa. «Ok, dimmi qualcosa che non sai fare. Ti
prego!» «Ce ne sono
tante...» «Dimmene
una.» I suoi occhi si assottigliano mentre finge di pensare. «Ehm...» «Piantala!»
Rido spintonandolo su una spalla. Il sibilo copre la sua risata ma sono
io ad alzarmi prima di lui. Afferro la caraffa e
riempio le due tazze sotto lo sguardo divertito di Eric. «Merci.»
Lo sapevo che l’avrebbe fatto.
«Non devi
affaticarti, quando il mio Arthur fu operato alla colecisti, stette a
riposo un mese intero.» Incrocio gli occhi di
Eric e cerco
di reprimere un sorriso. La signora Fustern è piombata qui
quasi
istantaneamente, non avevamo neanche finito di bere il caffè. «Sto bene,
Amanda, non si
preoccupi.» Ma il cuscino gli finisce lo stesso dietro la
schiena. Povero Eric, credo che dovrà sopportarla per un bel
po’. Il cellulare squilla
ed il mio sorriso si spegne. Mi allontano dal soggiorno in modo da non
essere udito. «È
al porto.» È l’agente Carlsson. «Resta
lì, sto arrivando.» Riaggancio e prendo un
respiro. Gli avevo detto di
tenere
d’occhio Dave, in quanto era l’unico che andava
spesso in
giro per la zona portuale senza Gambero. Alto, di cui ancora
non
sono riuscito ad avere l’identità,
è sempre
insieme a Vargas, per cui inavvicinabile per adesso. Dal poco che ho
potuto capire quella spiacevole sera, Dave mi sembra anche
l’anello debole e quindi il solo su cui un po’ di
pressione
potrebbe funzionare. «Io devo
andare in centrale.» «Fai
attenzione, caro.» Annuisco e poi guardo Eric. «A
stasera.» «Ok.»
Mi regala un sorriso che aumenta la mia determinazione.
Guido fino al porto
tenendo stretto
negli occhi il volto di Vargas e la voglia di vederlo sanguinare a
serrarmi le dita sul volante. Scorgo Derek seduto su
un tavolino di un bar e lo raggiungo. «È
in fondo alla passerella, insieme a due ragazzine, probabilmente
minorenni.» Mi siedo sulla sedia
accanto e butto l’occhio nella direzione indicatami
dall’agente. «Di Vargas
nessuna traccia?» «Quello
è un vampiro,
esce solo dopo il tramonto.» Non riesco a condividere il suo
sorriso ma gli faccio cenno di alzarsi. «Tienimi il
gioco.» Annuisce mentre tasto
la pistola da
sopra la giaccia. Un centinaio di metri ci dividono e ad ogni passo
vorrei correre. Tengo il controllo delle gambe e spero di riuscire a
tenere anche quello delle mie emozioni. «Dave?»
Si volta con un ghigno
accigliato,
visto che stavamo interrompendo il suo adescamento di minori, ma quando
riconosce il mio viso sorride sghembo. «Chi si
rivede, riccioli d’oro. È tutto ok,
amico?»
Riccioli d’oro... maledetto Vargas! Sorrido a mia volta e
gli mostro il distintivo. «Detective
Martinsson,
polizia di Ystad.» Il suo di sorriso sparisce
all’istante
lasciando il posto ad un’espressone agghiacciata.
«Dobbiamo
parlare un po’.» «Merda...»
Una mano sul viso a nascondere quella che credo sia semplicemente
disperazione. Si alza il sipario.
Quando raggiungiamo i
pressi del
parcheggio non riesco a fermare il mio pugno che si pianta dritto nello
stomaco di Dave. Derek mi lancia un’occhiata che ignoro ed
afferro entrambe le spalle del tirapiedi di Vargas sbattendolo contro
un’auto. «Sai
perché sono qui, vero?» Dave tossisce e scuote
la testa. «Non so niente.» Lo sbatto ancora
contro la carrozzeria. «Avete fatto
l’errore
più grosso della vostra vita quando gli avete messo le mani
addosso» ringhio sul suo viso. Sapevo che non avrei avuto la
capacità di trattenermi e forse anche per questo ho chiesto
all’agente Carlsson di accompagnarmi, almeno se dovessi
perdere
realmente il controllo eviterà che la faccia davvero grossa.
«So che siete stati tu e i tuo amichetto a mandarlo in
ospedale,
ma sono certo non sia stata una vostra iniziativa, sbaglio?» «Io,
non-» «Sbaglio?»
Deglutisce mentre lo
vedo cercare lo sguardo di Derek che però rimane silente al
mio fianco. «Gambero ci
ha detto di rompergli un po’ le scatole.» Vedo solo nero. «Rompergli
le scatole? Potevate ammazzarlo ed è solo per puro caso che
non è successo!» Lo stavo perdendo per colpa di
tre pezzi di merda come voi! Prendo un respiro fra
gli affanni e lo lascio andare. Guardo Derek, che non sembra aver
intenzione di intervenire. «Gambero ci
ha detto di provocarlo ma quello lì non reagiva
mai.» «E allora
avete pensato bene
di pestarlo a sangue?!» Sento la mascella serrarsi dolorosa
mentre avrei solo voglia di sfogare su questa faccia tutta la rabbia
accumulata in queste settimane. «È
stato lui a cominciare!» Lo riafferro per le
spalle. «Non dire cazzate!» «Lo giuro!
È stato lui! I-io gli ho solo fatto un paio di battute e
lui-» «Che gli hai
detto?» «Erano solo
delle battute.» Gli assesto un altro pugno e poi un alto e
solo a quel punto sento la voce di Carlsson. «Detective...»
Me lo ritrovo a mezzo metro e mi passo una mano fra i capelli. Devo cercare di
controllarmi e non
passare dalla parte del torto. Nella faccia sofferente di Dave rivedo
le notti in terapia intensiva, rivedo le macchine e i tubi, rivedo la
flebo nel suo braccio e le lacrime versate davanti a quel vetro. «Dammi
Vargas.» Lo
afferro per il volto e lo obbligo a guardarmi dritto negli occhi.
«Consegnami Vargas e te la potrai anche cavare, altrimenti ti
sbatto dentro per tentato omicidio e farò in modo che il tuo
compagno di cella sia degno di te.» Dave affanna con lo
sguardo sgranato ma annuisce. «Ok,
ok!» Gli mollo il viso e gli do le spalle. «Portalo in
centrale.» Il cuore batte forte
contro il petto e avrei solo voglia di tornare da Eric e dirgli che
presto sarà finita sul serio.
«Non puoi
tenerlo qui, non ci sono gli estremi per arrestarlo.» «Posso
incriminarlo per spaccio.» «Magnus...»
Anne-Britt
mi afferra un polso e mi guarda severa. «Non fare
stupidaggini.
Senza la denuncia di Eric, Dave è solo un cittadino che sta
subendo un sopruso da parte della polizia di Ystad. È lui
che
può denunciare tutto il dipartimento, non fare finta di non
saperlo.» «Voglio solo
che mi consegni
Vargas. Non è in arresto, è qui come persona
informata
dei fatti. È tutto legale.» «Ma non
è quello che gli è stato detto.» «Sono
dettagli.» «Magnus,
cerca di far funzionare la testa! Lisa ti sospenderà se
viene a sapere quello che stai facendo.» «Non lo
saprà.»
La sorpasso e raggiungo il vetro da cui vedo Vargas parlare con
l’agente Carlsson. Non potevo interrogarlo io
perché
probabilmente avrei riperso il controllo e farlo in centrale era
assolutamente fuori discorso. «Neanche
Eric ne sa niente di
questa tua pessima iniziativa, vero?» Anne-Britt mi affianca
ma
io tengo lo sguardo fisso su quel viso che parla accalorandosi. «Non era
necessario che
sapesse. Gli farò firmare una confessione spontanea e poi mi
farò consegnare Vargas, a quel punto Eric potrà
denunciarli senza alcun timore.» Dave Fuentes, 29 anni,
nato a Ponce ma cittadino svedese da più di 15 anni. Armand Durelli, 28
anni, stesso passato. Ed infine Ruben Vargas. Tre nomi che presto
saranno solo un ricordo. «Non
dirò nulla a Lisa, ma stai attento e soprattutto parlane con
Eric. Non credo la prenderà bene.» La vedo allontanarsi
con la coda dell’occhio e mando giù un groppo di
inquietudine. Cerco di scacciare via
ogni pensiero superfluo ed entro nella stanza. Dave si arresta dal
parlare e poi continua. «Brandberg
ha deciso che Ruben sta facendo troppo di testa sua e ormai
è chiaro che vuole mollarlo.» «Che
significa?» «È
una zavorra. Sono
più i soldi che ha fatto spendere a Brandberg per tirarlo
fuori
dai casini che quelli che gli fa guadagnare. Io non voglio andare a
fondo con lui.» «Avresti
dovuto pensarci prima di mandare la gente in ospedale per conto
suo.» Mi intrometto e lo vedo deglutire. «Ho
già detto che non pensavamo stesse così male e...
mi dispiace.» «Per favore,
risparmiaci i
tuoi sensi di colpa.» Lo fronteggio poggiando entrambe le
mani
sul tavolo. «Metti per iscritto tutto quello che ci ha detto
e
quando si aprirà il processo dirò al giudice che
la tua
collaborazione è stata preziosa.» «E non
andrò in carcere?» «Non farai
un solo
giorno» mento e sento lo sguardo dell’agente
Carlsson.
Adesso mi importa di questa confessione, che poi mi mandi pure qualche
avvocato. Per ora è l’ultimo dei miei problemi. Tentenna qualche
istante e poi annuisce. «Va bene.» Direi che è
un primo passo decisivo.
«Domattina
Ruben e Armand saranno al molo 16 perché devono ricevere una
consegna.» «Fatti
trovare lì con loro.» «Perché?» Sorrido sghembo mentre
lo
accompagno fuori dal commissariato. «Arresteremo anche te,
almeno
che tu non voglia far capire che li hai venduti.» «No, certo
che no.» E
metterti le manette sarà un enorme piacere. Lo seguo con lo
sguardo mentre si
infila velocemente nella folla sui marciapiedi pensando che vederlo
investito da una macchina non sarebbe per nulla spiacevole. Strano come
un sentimento come l’amore possa tirar fuori lati
così
oscuri. «Per ora
è carta straccia.» Vengo raggiunto dalla voce e
poi dalla presenza di Anne-Britt. «Domani non
lo sarà.» «Per non
parlare della
ghigliottina che pende sulle nostre teste.» Le sorrido ma lei
non
ricambia. «Magnus, stavolta stai rischiando grosso. Spero
davvero
che tu sappia quello che fai.» «Lo so,
Anne-Britt. Purtroppo non ho avuto scelta.» Annuisce e mi sfiora
un braccio.
«So che Kurt ti cercava. Ora è fuori
città e torna
fra qualche giorno, ma potresti chiamarlo.» «Aspetterò
che torni, Kurt non ama parlare al telefono.» Finalmente le strappo
un sorriso. Quando si parla di Kurt uno le sfugge sempre.
Amanda è
ancora da Eric e me ne accorgo perché sento la sua voce
dalla finestra del soggiorno. Per potergli parlare
devo
ovviamente aspettare che ci lasci soli, ma inconsciamente sono
sollevato che quel momento sia ritardato. Sono un po’
codardo, lo
so, ma temo che Eric, come previsto da Anne-Britt, possa non prenderla
bene. Cercherò di farmi perdonare e comunque è
solo il
mio lavoro, questo Eric deve capirlo. Spero lo faccia. Suono il campanello ed
è il viso della signora Fustern ad accogliermi. «Magnus,
già di ritorno? Ho appena messo su la pentola. Fra dieci
minuti è pronto.» Ecco, ora Eric ha
anche una governante tutto fare. Ieri ha davvero
rassettato tutta
casa ma per fortuna non mi ha incluso nelle sue faccende da colf. Credo
sia felice di potersi prendere cura di qualcuno, credo ne sia felice
anche Eric. Il discorso di
stamattina ancora mi
risuona nella testa, le parole su sua madre, il modo dolce in cui la
ricordava, quel sorriso malinconico. Raggiungo la cucina
dove se ne sta seduto a sgranocchiare quelli che mi sembrano dei
crostini di pane integrale. «Non mi pare
di averti invitato a cenare con noi» sorride vedendomi
entrare. «L’ho
invitato
io» chiarisce Amanda ovviamente ignara che quella fosse una
battuta. Eric ride ed io mi accodo mentre lei si dirige a fornelli a
rigirare qualcosa. «Andate a lavarvi le mani mentre
apparecchio.» «Agli
ordini!» ghigna ancora Eric alzandosi con accortezza dalla
sedia. «Come ti
senti?» gli
chiedo quando ritorniamo in soggiorno. Sul lato opposto della stanza
c’è un altro piccolo bagno di cui ho scoperto
l’esistenza quando sono venuto a preparargli la borsa.
Sì,
lo confesso, un po’ ho ficcanasato in giro, ma nulla di
realmente
eccessivo. «Amanda mi
ha raccontato vita
e miracoli di Bingo, il suo bracco sfortunatamente finito sotto una
mietitrebbia.» Non riesco a contenere una risata e sono
costretto
a coprirmi la bocca con una mano per non farmi sentire.
«Magnus,
non si ride di certe disgrazie.» «E tu non
raccontarle con quel tono!» «Con quale
tono?» Il
suo sorriso mi sembra illuminare questa giornata piena di rabbia,
scaricata certo, ma sempre rabbia. Lancio uno guardo alla cucina da cui
vedo la schiena della Fustern intenta a condire qualcosa e gli poso
velocemente un bacio sulle labbra. «Vieni.» Mi ritrovo tirato nel
piccolo bagno
con la porta immediatamente chiusa. Eric apre forte il getto
dell’acqua ma le sue mani finiscono sui miei fianchi. «Siamo qui
per lavarci le mani» Sorriso mentre le sento sfiorarmi la
pelle. Eric mi guada con un
ghigno e poi mi bacia ancora. «Prima sporchiamole.» Torno a ridere e
stavolta me lo porto dietro. «Ok, ma dopo» sospiro
ma è un dopo
con un duplice significato. Dopo
cena, dopo che ti avrò detto tutto. Un altro sorriso, un
altro piccolo bacio. «Come vuoi tu, detective
Martinsson.»
Come al solito la cena
è
stata un “Amanda show” in piena regola - ormai ci
abbiamo
fatto l’abitudine entrambi - e come al solito non ha voluto
aiuto
per sparecchiare né per lavare i piatti, nonostante le
insistenze di Eric. «Grazie per
tutto.» «Oh, non
dirlo neanche. Domattina ti porto la crostata di mele.» Eric annuisce con un
sorriso e si lascia accarezzare il viso. «Buona
notte.» Le rispondo anche io
da dietro le spalle di Eric. La porta si chiude e,
neanche a dirlo, mi ritrovo fra le sue braccia. È sempre
caldo il suo abbraccio che mi chiedo come possa considerare qualsiasi
altra cosa calore.
Prima che le sue
carezze mi
facciano perdere testa e controllo, tengo bene in mente ciò
che
devo dirgli. Prendo aria dalle sue labbra e lo guardo serio. «Devo
parlarti.» I suoi occhi nei miei
mi scrutano a lungo e poi le braccia mi lasciano andare. «Di
cosa?»
Un’espressione fra il confuso e il preoccupato gli piega il
viso
e mi rendo conto che forse non sarà così semplice
come
credevo. Mi passo una mano sul
collo e prendo un respiro. «Di Vargas e
della tua aggressione.» All’istante
diventa una statua, come ogni volta. «Ti ho
già detto che non-» «Domani lo
arresterò. Lui ed i suoi, ma ho bisogno che tu faccia la
denuncia, Eric.» Aggrotta la fronte e
scuote il capo. «Di che stai parlando?» «Ho fatto
delle indagini non
ufficiali e ho tutti gli elementi per sbattere quei tre dentro, ma ho
bisogno della tua denuncia altrimenti-» «Come ti
è saltato in
mente?» La sua voce letteralmente tuona sotto la mia pelle
facendomi rabbrividire. «Ti avevo detto di starne fuori, di
lasciar perdere! Perché ti sei voluto mettere in
mezzo!?» «Come potevo
starne fuori,
Eric?» Mi dà le spalle ma vedo anche il suo corpo
fremere
ma di rabbia. «Come detective non potevo ignorare
ciò che
ti avevano fatto e, anche se ti sembra assurdo, io so difendermi
benissimo da solo. Non devi proteggermi.» «È
più forte di
te, non ce la fai proprio a non indossare quella divisa,
vero?»
Quando i suoi occhi mi guardano sono due lame azzurre. Mi tagliano
dentro senza che possa impedirlo. «Per tutto questo tempo non
mi
hai detto niente, hai aspettato - cosa? Che fossi fuori da quel
maledetto ospedale? Volevi mettermi davanti al fatto compiuto
così non avrei potuto dirti di no? È
così che mi
chiedi di fidarmi di te?» Non ho risposte, sento
solo il tremito delle mani, sento solo le lacrime sospese fra le
ciglia. «Io non
avevo-» «Non dire
più niente, per favore. Vattene.» Salto un battito. Lo
raggiungo con
pochi passi e gli afferrò la mano. «Aspetta, io
non volevo
agire alle tua spalle. L’ho fatto solo-» Con un gesto secco
sento le sue dita sfuggire alle mie mentre mi da di nuovo le spalle. «Eric-» «Vattene,
Magnus.» No,
ti prego, non mandarmi via! «Eric... per
favore.» E il suo silenzio e
più assordante delle urla. Piccoli passi che
neanche mi rendo conto di fare. La mano sulla maniglia fredda. Inghiotto tutto il mio
cuore ed esco dalla porta.
Continua...
NdA.
Okay, i pomodori sono alla vostra destra, i pugnali affilati alla
vostra sinistra.
Prendete bene la mira e colpitemi quanto volete.
Tenete qualche munizione, però, vi serviranno per il
prossimo capitolo...
Kiss kiss Chiara
Non ho chiuso letteralmente
occhio. Ho passato la notte fra il cellulare che non ha mai squillato e
il cuscino zuppo di rabbia. Sì,
ho sbagliato, come sempre, ma non doveva mandarmi via così -
non dovevo andarmene. Perché
non capisce che se ho fatto ciò che ho fatto era
per lui?! Così
come lui voleva proteggere me, io volevo avere
giustizia per quello che quei bastardi gli avevano fatto. E cosa ho
ottenuto? Un altro squarcio nel petto, un’altra ferita al mio
orgoglio ma soprattutto al mio cuore. Una notte
intera con i denti stretti e le unghie contro il palmo. Una notte di perché
terminata solo all’alba. Nessuna
risposta. Doccia,
caffè e lavoro. Il
cellulare non squilla più.
Sarei
voluto passare da lui prima di venire in centrale, ma non sono
riuscito ad inserire quella dannata freccia. Qualcosa ha bloccato le
mie dita. Paura, orgoglio... ancora paura. Paura di sentirgli ripetere
quel vattene,
forse. Paura di sentirgli dire di peggio. Quella che
mi aspetta oggi sarà una giornata di inferno. La
litigata di ieri con Eric non ha schiaffeggiato solo i miei sentimenti,
ma ha anche minato la mia carriera. Oggi non
potrò arrestare
Vargas, oggi Fuentes scoprirà che ieri gli ho mentito e che
può fare causa a me e a tutto il
dipartimento. Oggi Lisa
mi toglierà questo distintivo e forse non lo
rivedrò
più, eppure tutto questo mi sembra avere davvero poco senso,
perché gli occhi carichi di delusione di Eric, mi fanno
più male di tutto. “È così che
mi chiedi di fidarmi di te?” Serro la
mascella mentre entro in commissariato. Ho fatto tardi anche
stamattina, ma non potevo venire qui con gli occhi gonfi di lacrime. «Detective?»
Incrocio immediatamente il viso di Derek e
respiro a fondo. Ha fatto un lavoro inutile, un ottimo lavoro inutile,
ma è un buon poliziotto, di certo diventerà un
detective
migliore di me, come se fosse difficile farlo. «Il detective
Hoglund la cercava. Io vado al porto e vi aspetterò
lì.» «Carlsson,
non possiamo più proseguire.» Sbatte le
palpebre interdetto e posso solo immaginare la sua delusione. Ho messo
nei guai anche lui, ma davanti a Lisa mi prenderò ogni
responsabilità. «Il
detective Hoglund ha detto che possiamo procedere, per questo
sto andando al porto. Fuentes sarà già
lì con
Vargas.» Non riesco a seguire il suo discorso. Cerco con gli
occhi Anne-Britt scorgendola al piano superiore. Mi dirigo
verso di lei lasciando Carlsson sulla soglia della centrale,
non mi rendo conto che invece prende la porta ed esce. Non sono in
grado di ragionare con la giusta chiarezza, perché ho
passato le
ultime ore a fissare il soffitto di una camera silenziosa, troppo
silenziosa. Aveva
ragione lei, me lo sono ripetuto decine di volte. Ha sempre avuto
ragione. Anne-Britt
ha compreso Eric meglio di quanto abbia fatto io. Lei non
avrebbe commesso un simile sbaglio. Io riesco solo a rovinare tutto. La
mia unica capacità è questa. Salgo le
scale velocemente, sul viso indosso un’espressione
semplicemente di plastica. «Anne-Britt.» «Ah,
sei qui, finalmente.» Mi afferra un braccio e mi trascina
verso un angolo più riservato. «Che
sta succedendo? Ieri ho provato a parlare con Eric ma... Avevi ragione
tu e-» «Ha
fatto la denuncia.» Mi blocco
all’istante. «Cosa?»
Che significa? Prende un
respiro e mi guarda dritto negli occhi. «Stamattina
è venuto qui presto ed abbiamo parlato. Ha detto che avrebbe
fatto la denuncia che volevi.» Mi sembra
di riprendere solo adesso a respirare. Forse ha capito quello
che volevo dirgli, ha compreso che stavo solo facendo il mio lavoro. «Devo
parlargli.» Rifletto ad alta voce ma non riesco
neanche a prendere il cellulare che Anne-Britt blocca ogni mio gesto. «Magnus,
aspetta.» «No,
Anne-Britt. Ieri è stato orribile ma sapevo che
avrebbe capito! Lo sapevo!» Il mio sorriso dura il tempo di
notare le sue labbra ferme in una linea sottile. «Che ti ha
detto?» Tentenna mentre sento il cuore galoppare
furiosamente.
«Anne-Britt, che cosa ti ha detto?» Le afferro
entrambe le
braccia senza rendermi conto di stringerle con troppa forza. «Non
vuole vederti. Mi ha chiesto di dirti di non cercarlo,
perché lui...» Sono sul
bordo di un precipizio. Sento gli occhi bruciare e le orecchie
rifiutarsi di udire oltre.
Eric, non puoi farmi questo, non puoi spezzarmi così! «Cosa?»
È quasi più un sospiro che altro. «Non
vuole più avere nulla a che fare con te - ma Magnus,
era arrabbiato, sono certa non lo pensi sul serio.» La gambe
potrebbero cedermi come quel giorno sulle scale di casa. Lo sto
perdendo di nuovo, e stavolta è davvero solo colpa mia. Mi passo
una mano sulla fronte affannando senza riuscire a controllarmi. Non voglio
perderlo, non posso! Come potrei anche solo vivere adesso?
Dopo tutto quello che ho provato? Dopo averlo sentito
così vicino...
Eric, ti prego! La mia
testa confonde i pensieri che si accavallano fra di loro. «Magnus,
adesso dobbiamo andare a prendere Vargas.» Guardo le labbra
di
Anne-Britt muoversi ma le parole sono lontane. “Non voglio vederti
più.” Riesco
perfino a udire la sua voce. “Vattene.” «Io
devo parlare con Eric, lui deve ascoltarmi.» «Dopo,
Magnus, dopo aver fatto il tuo lavoro. Ora sei un
detective e devi chiudere questo caso. Eric capirà, ne sono
certa. Lascialo sfogare un po’.» Mi afferra il viso
e mi
sorride. «È un tipo orgoglioso, lo sai. Gli serve
solo
tempo.» Annuisco per istinto ma non so se sia davvero
così. «Ora dobbiamo andare. Carlsson
sarà
già lì. Coraggio!» Tempo... Sì,
a me è servito, forse servirà anche ad Eric. Una
speranza che è solo una debole eco nella mia testa nel caos.
Mi sento
letteralmente in una bolla d’aria.
Le strade
sfrecciano invisibili davanti ai miei occhi, odo la voce di Anne-Britt
dirmi qualcosa. Forse la
sto prendendo nel modo sbagliato. È solo una litigata,
la prima vera litigata. Capita a tutti, no? L’importate
è
chiarirsi. E io ed Eric ci chiariremo. Ne sono sicuro. Dopo
andrò da lui e gli chiederò scusa per tutto, lui
mi
guarderà male ma poi si scioglierà e mi
dirà che
sono un idiota. Sì,
sì, andrà così. Non può
finire
tutto ancora prima di cominciare, Eric non mi farebbe mai nulla di
simile. «Hai
capito, Magnus?» Volto il
capo ed annuisco. «Tranquilla, saprò
contenermi.» No, non ne sarò capace, ma cerco di
crederci
almeno un po’. Quando
Anne-Britt arresta la marcia, scorgo subito il viso di Vargas e
il mio stomaco si piega su se stesso. Dave è con lui ed
anche
Armand. Scendo
dall’auto ancor prima di lei, ma presto la sento seguirmi.
«Controllo.» Deglutisco
acido mentre mi accorgo dello sguardo di Vargas. Divertito,
direi, soddisfatto, però muta quando vede
Anne-Britt al mo
fianco. Armand sembra impassibile e Dave è un fascio di
nervi. «Ruben
Vargas, devi seguirci in centrale.» Una risata
risponde alle parole di Anne-Britt. «Perché
dovrei?... Quindi anche tu sei uno sbirro, riccioli d’oro?
Avrei-» La mia mano
è più veloce della sua lingua. La sofferenza
più forte della rabbia. Gli afferro
un polso e lo piego con vigore dietro alla sua schiena.
«Lasciami andare, subito! Asqueroso hijo de puta![1]» Le manette
scattano e sento scattarle anche sui polsi degli altri. Lo spingo
con il viso contro un container d’acciaio e mi avvicino al
suo orecchio. «Brandberg
non alzerà un dito e tu marcirai in
galera.» Pagherai
cara ogni azione che mi sta allontanando da lui. «Ne
sei sicuro?» ride beffardo. «Di’ un
po’, come sta il tuo amichetto, riccioli d’oro?
Riesce
ancora a camminare?» Serro le
dita attorno alle sua braccia e lo sbatto di nuovo contro il container,
eppure lo sento ridere ancora. «Carlsson,
carica questo idiota nella volante.» Lo tiro
indietro senza alcuna gentilezza e letteralmente lo lancio fra le
braccia dell’agente che ha già fatto accomodare
Armand
nell’auto. Vargas mi
lancia un’occhiata che semplicemente taglia, ma in
questo momento sono solo aria. Nessuno potrebbe farmi nulla. Nessuno ha
importanza tranne lui. «Vieni
a farmi visita, riccioli d’oro, ti faccio divertire
io...» Tenta un ultimo affondo con un ghigno che sparisce non
appena Derek gli fa sbattere “casualmente” la testa
contro
il tettuccio della volante. «Zitto,
Vargas.» Lo ammonisce ed io resto
silente con la voglia di sbattere a mia volta la testa da qualche
parte. Di nuovo in
questo maledetto molo, di nuovo ad un passo dal crollare. Stavolta
Eric non c’è, stavolta nessuna mano mi
solleverà. Quella stessa mano potrebbe solo uccidermi. «Sicuro
che Brandberg non farà nulla?» La domanda
di Anne-Britt resta senza risposta.
Compilo
carte su carte, rispondo a tremila telefonate e lascio che Lisa
mi dica che ho fatto un buon lavoro. Nulla ha realmente senso. Ho
letteralmente congelato ogni emozione, faccio perfino fatica a
muovere i muscoli della faccia per abbozzare un sorriso verso Derek. Lavoro. Devo
finirlo, devo andare subito da lui. E cosa gli
dirò? Grazie? Scusami? Perdonami se sono un idiota
patologico? Quante
volte l’ha sentito, quante volte dovrà ancora
sentirlo... “Non posso cambiare... Neanche
per te.”
Bugiardo...
Per te cambierei tutto, sono già cambiato e cambierei
ancora, anche se tu non me lo chiedessi mai.
Vorrei essere in grado di cambiare, vorrei farlo per non dover sentire
ancora questo vuoto nella pancia e la paura di leggere altra rabbia
nei tuoi occhi. Alzo il
volto dal rapporto solo quando sento la mano di Anne-Britt posarsi
sulla spalla. «Era
solo arrabbiato.» «E
ha tutte le ragioni per esserlo» sospiro coprendomi gli
occhi con una mano. «Come posso fare un errore dietro
l’altro senza mai imparare? Come posso essere così
-
così stupido!?» ringhio quell’ultima
parola
così forte che sembra spezzarsi fra i denti. «Finisco
io, se vuoi... ormai sono quasi le otto.» Scuoto la
testa e riprendo a leggere il documento compilato nel pomeriggio. «No,
grazie, voglio chiudere questa storia una volta per tutte,
voglio...»Voglio non dovergli nascondere
più nulla. Non gli
nasconderò neanche le mie lacrime se sarà
necessario, anche se risulterò ancora più
patetico di
quanto già non sia. Anne-Britt
mi lascia senza dire null’altro, sa bene quanto il
silenzio mi sia di miglior conforto, perché nel silenzio
posso
sentire più chiaramente la mia voce chiamare forte il suo
nome,
il cuore battere disperato, il senso di colpa pungere nella testa
acuminato come uno spillo. Vargas
è solo un nome su un foglio, è un viso dietro a
delle sbarre. È lavoro da giudici e avvocati. Vargas non
è più nulla se non un ricordo. Voglio che
Eric lo sappia, voglio che sappia che renderò quel
ricordo così lontano che sembrerà che non sia mai
esistito.
Era quello che ti aveva chiesto...
Ma io non potevo accettare, ora posso.
E se fosse lui a non accettare? Stringo i
fogli fra le dita e poi li faccio cadere sulla scrivania.
Eric...
Il cielo
è nero pece sulla mia testa, non una stella, non un
riflesso di luna che non sia nascosto da gonfie nubi scure. Mi stringo
nella giaccia guardando quei pochi gradini. La Ford
è parcheggiata al solito posto. La luce è accesa,
il fuoco è acceso, lo vedo dai riflessi sulle tende. Le gambe
pesano ad ogni passo e quando busso sul legno anche le dita sembrano di
cemento. Sono eterni
i secondi prima che la porta si apra, prima che la freddezza del suo
sguardo mi colpisca come uno schiaffo. «Ciao.»
È un alito distorto, è un sorriso sbilenco quello
che mi piega le labbra. «Che
vuoi?» Un altro
schiaffo. Raccolgo
tutta la forza nella gola mentre serro la mascella. «Posso
entrare? Per favore.» I suoi
occhi mi fanno male, non credevo avrebbero mai fatto così
male. Mi stanno letteralmente lacerando il cuore a
metà. Stringo forte le dita e le sento tremare in quel lungo
silenzio. «Per favore, Eric...» «Che
vuoi, Magnus?» Anche le
mie labbra tremano mentre il vetro che un tempo ci ha diviso
è ora acciaio invalicabile, è un muro su cui
potrei
spaccarmi le mani senza mai riuscire ad abbatterlo. Scuoto la
testa inconsciamente e i miei occhi supplicano forse
più delle parole. «Scusami, lo so che ho sbagliato
a
tenerti nascosta la faccenda delle indagini ma, ti prego, Eric,
non...» Non
allontanarmi... Deglutisco
a difficoltà sotto il gelo dei suoi occhi.
Come puoi essere così distante? «Li
hai arrestati?» La domanda è lapidaria e
altrettanto priva di tono. Annuisco
silente ancora fermo davanti a questa porta mezza aperta. Sento
qualche goccia cadermi sul collo ma non me ne curo. «Grazie
per quello che hai fatto.» «Non
c’è di che.» «Aspetta!»
Blocco con la mano il legno prima che si chiuda.
«Aspetta, Eric, come puoi trattarmi
così?!» Avverto
gli occhi inumidirsi come le mie spalle eppure Eric sembra indifferente
ad entrambi. «Ho sbagliato, è vero, ma
l’ho fatto
per te, perché volevo avere giustizia per ciò che
ti
avevano fatto e-» «Io
non ti ho chiesto né giustizia né altro, Magnus.
Ed ora vattene.» «No,
aspetta!» Spingo di nuovo la porta e so che lui
potrebbe chiuderla all’istante se volesse e quella
consapevolezza
mi sprona a provarci ancora, perché non posso andarmene di
qui
senza aver avuto il suo perdono, o qualsiasi cosa voglia darmi, anche
un pugno mi andrebbe bene. Vorrei solo che la smettesse di ferirmi con
la sua indifferenza. «Ti prego, Eric, non chiedermi di
andarmene
ora, non dopo quello che - quello che ho passato, che abbiamo passato.
Non-» «Ehi,
ascoltami, qualsiasi cosa tu abbia creduto ci fosse tra di
noi, non c’è mai stata. Chiaro?» Perdo
un battito e
subito ne ritrovo altri cento tutti insieme. «Tu sei un
poliziotto. È questo che vuoi essere. Hai la tua bella
pistola,
il tuo bel distintivo... Ed io ero la povera vittima da
difendere.» «Non
ho mai pensato a te in questo modo! Come puoi dirmi una cosa
simile?» La voce vibra eppure potrei urlare fino al cielo per
le
assurdità che mi sembra di ascoltare. Eric continua a
rivolgermi
il suo sguardo rigido. Le dita strette attorno alla porta e
l’espressione stanca sul viso. «Tu hai detto che
non sapevi
dare un nome a ciò che siamo, io so darlo, io posso dargli
un
nome ma, ti prego, non chiudermi questa porta in faccia e fingere che
ciò che c’è tra di noi sia
niente!» «E
cos’è? Dai, fai quel nome.» «Non
trattarmi così, Eric, non me lo merito.» Il mio
viso si piega in una smorfia disperata, il suo sembra prendere fuoco. «Non
è niente, Magnus. Non è amicizia, non
è
sesso - andiamo, non ti ho neanche toccato! E tanto meno è
amore. Ok?» Mi mordo un labbro per non iniziare a
singhiozzare.
Gli occhi trattengono le lacrime solo perché il dolore che
provo
in questo momento le ha completamente prosciugate. «Credevi
fosse
amore? Dai, non essere sciocco.» Quel sorriso mi trafigge il
petto e credo di aver quasi smesso di sentire il mio stesso corpo. Non
sento i tuoni in lontananza né l’acqua che si
è
arrestata ma che esploderà presto, non sento i brividi sulla
pelle né il tremore delle mie mani. Sento solo il lancinante
vuoto dentro cui mi ha appena gettato. «Può
esserlo...» Le sue
labbra non smettono di sorridere crudelmente. «No,
non lo sarà mai.» «Eric-» «Mi
hai chiesto se c’era qualcosa che non sapessi fare,
beh, c’è... E tu l’hai appena capito,
vero?» Scuoto la
testa in un’ultima supplica. Sospiro ancora il suo nome
ma le sue orecchie restano sorde ad ogni mia preghiera. «Non
potrei mai amarti, Magnus, perciò fai un favore ad entrambi
e
tornatene a casa.» «Non
puoi punirmi in questo modo per una cosa così...
stupida!» «Non
ti sto punendo.» Il suo sorriso si spegne e gli occhi
sembrano lasciar andare una piccola emozione che però non so
definire. «Ti sto evitando un altro errore.» «Eric!»
Ma la porta si è già chiusa. Ancora
tuoni, eppure dal cielo non piove una sola goccia. Neanche sul
mio viso scende una sola lacrima ma le sento tutte inondarmi il cuore.
No, no, no, no... «Eric...»
Non pensavo
avrei mai potuto provare un dolore così forte, non
credevo avrei potuto continuare a vivere dopo essere stato pugnalato
dritto al petto.
«Glielo
riferirò quando la vedo e- aspetta, è appena
entrata.» Incrocio lo sguardo di Lisa e le allungo la
cornetta.
«Sven dalla scientifica. La rapina in banca.» «Dimmi.» Lascio Lisa
alla scrivania e
cammino veloce verso quella di Steven. «Hai avuto notizie
sull’aggressione in centro?» «Non
ancora, se ne sta occupando Brudel.» Annuisco.
«Tienimi informato.» Torno ai
miei dossier. Gli occhi
scorrono le lettere, la
fronte organizza i pensieri, i denti mordicchiano il tappo della penna,
le orecchie in ascolto di ogni squillo, di ogni suono. Il cuore
tace. Continuo a
lasciarlo in silenzio
perché se gli dessi una sola voce lo sentirei urlare e i
nervi
crollerebbero e le ciglia non basterebbero a trattenere tutte le
lacrime. Quattro
giorni, circa cento ore.
Sembrano poche di fronte ad una vita, eppure le ho sentire scorrere
tutte con un tale peso che mi è sembrato difficile anche
solo
svegliarmi la mattina. Credo di
aver ampiamente compreso
il senso della frase “cuore spezzato”. Se solo
avessi
saputo che faceva così male... Sono
passato davanti casa sua
più volte, l’ho cercato nelle finestre, nella
portiera
aperta dell’auto, nel tremore delle ombre del fuoco. Non
l’ho mai trovato, Eric non ha voluto farsi trovare. Ho
incrociato
i suoi occhi e mi hanno solo attraversato. La signora
Fustern sembra voler tentare di capire cosa sia successo. “Avete litigato, per caso?” “No.”
Riesco a mentire sempre peggio. “Anche i buoni amici hanno
incomprensioni, Magnus.” Avrei solo
voluto piangere ancora. «Magnus?»
Sollevo lo
sguardo sul viso di Anne-Britt. «Devo incontrare una persona
ma
la mia macchina credo mi odi. Mi dai uno strappo?» «Certo.» Stupide
labbra, cercate di sorridere decentemente.
Il silenzio
sceso nell’auto è palpabile. Scalo di
marcia e resto dietro ad un SUV nero. Gli occhi controllano lo
specchietto retrovisore. «Senti,
se non ti va di andarci, va bene. Mi farò accompagnare da
Derek.» Riprendo la
marcia e ricontrollo lo specchietto. «Non
c’è problema, Anne-Britt. Perché
dovrebbe?» «Andiamo,
puoi anche
togliertela questa maschera adesso. Lo so che ci stai male.»
Le
lancio uno sguardo vuoto cercando invece di incollarmi la maschera al
viso il meglio possibile. «Sono giorni che te ne stai chiuso
come
un riccio. Quante volte te lo devo dire che puoi parlare con
me?» «Va
tutto bene, non c’è nulla di cui
parlare.» «Sì
che c’è, altrimenti mi guarderesti in
faccia.» «Non
voglio tamponare nessuno.» «Magnus...
per favore.» Deglutisco
a fatica serrando la mascella. Ho evitato
di andare al porto, ho
evitato di trovarmi davanti al suo gelo, ho evitato dopo
quell’occhiata invisibile che mi ha regalato. Quando ho
visto Lars l’altro
giorno, mi ha detto che Eric aveva ripreso a lavorare e che Ringdal gli
aveva affidato mansioni da coordinatore per permettergli di recuperare
fisicamente. Ero davvero
felice per lui. Anne-Britt
ha ragione, sto male,
sto così male che vorrei solo chiudermi in una stanza buia e
non
uscirne, ma non posso perché il tempo dei patetismi
è
terminato. «Avrei
dovuto essere meno
ingenuo. Tutto qui. C’ho sbattuto la faccia e ho imparato la
lezione. Fine della storia.» Le strade
di Ystad mi sfrecciano di
fronte insieme a tante piccole vite, tanti piccoli cuori, tutti con i
loro dolori, tutti in cerca di un po’ di felicità.
Io
pensavo di averla trovata ed invece era solo l’ennesima
illusione. L’ennesimo
errore. Volevi
evitarmi un altro errore?
Avresti dovuto pensarci prima di incasinarmi la vita con quel dannato
bacio. Avresti dovuto pensarci prima di calpestare i miei sentimenti
come fossero merce avariata... Stringo le
dita attorno al volante mentre intravedo i capannoni del porto. «Ok,
ha preso male la faccenda di Vargas, ma non penso che tu debba reagire
così. Forse-» «Tu
non sai quello
che...» Posso ancora sentire la rabbia sotto alla pelle.
«Non hai sentito quello che ha detto. Non hai visto la sua
freddezza, Anne-Britt, la sua... Sono stato il solito
stupido.» Quando
parcheggio mi lascio andare ad un lungo sospiro mentre sento le dita di
Anne-Britt accarezzarmi la testa. «Ehi?
Io non penso che tu sia
stupido, Magnus, penso solo che tu stia soffrendo, giustamente,
perché so quanto Eric significhi per te.» Non
riesco a
guardarla, ho paura che la divisa possa abbandonarmi del tutto. Non
posso stare ancora una volta nudo sotto altri occhi, neanche se sono
quelli di Anne-Britt. «Niente.
È questo che
ha detto, che non c’era niente. Comico, no?»
È un
sorriso disperato quello che mi piega le labbra, è una
dolcezza
dolorosa quella con cui Anne-Britt continua ad accarezzarmi i capelli,
perché mi fa ricordare le sue mani, il suo calore. «È
solo arrabbiato e probabilmente si sente tradito. Dagli
tempo.» «No,
Anne-Britt, stavolta non
serve tempo. Devo semplicemente accettare che sia stato solo un
momento, devo riprendere in mano la mia vita e non pensarci
più.»
Devo dimenticarti, anche se mi sembra impossibile
visto che il tuo pensiero violenta la mia mente ogni attimo. «O
potresti parlargli apertamente e provare a chiarire.» «Non
ho intenzione di umiliarmi ancora.» «Non
esiste l’umiliazione in amore, Magnus, esiste
l’orgoglio e la sua totale inutilità.» «Amore?
Sì, come no...» “Non
è amicizia, non è sesso... E tanto meno
è amore.” Allora
perché il mio cuore continua a battere solo per te? Ma
certo, è solo il mio a
battere, è sempre stato solo il mio. Il tuo l’hai
tenuto
così stretto nel petto che a malapena si è
accorto di me.
Un bel
giochino. Un passatempo. Il confuso poliziotto dai riccioli buffi che
si imbarazza per un non nulla... Era questo
il suo niente?
Ero questo io? Un nome su
un biglietto? Una
cerniera che scendeva con troppa facilità? Un patetico corpo
che
vibrava sotto la più piccola carezza? Non sono
mai stato altro? Neanche una sola volta? Eppure
dietro a quel vetro ho visto
qualcosa in quegli occhi, ho visto qualcosa nella sua sorpresa, ho
sentito qualcosa nei suoi baci e nelle sue risate. Anche
quello era niente? Quanto
vorrei chiederglielo, ma
come posso passare sulla mia dignità ancora un volta? Quel
briciolo di spirito di sopravvivenza mi vieta di farlo o è
l’inutile orgoglio di cui parla Anne-Britt. Non lo so, so
solo
che non sono riuscito a chiamare quel nome sul cellulare ed ho guardato
troppo a lungo lo schermo nella speranza di vederlo lampeggiare. «Te
lo ripeto, credo dovreste solo parlarvi a cuore aperto. Tutti e
due.» «Ci
penserò.»
Bugia, sporca bugia, perché voglio correre via da questa
macchina e da questa sensazione di impotenza. Le mie mani
stringono di nuovo il vuoto. Io stesso,
mi sento solo una voragine scarna.
Al porto
Eric non c’era
eppure i miei occhi non hanno smesso di cercarlo per un solo minuto. Il
battito ha accelerato ad ogni paio di iridi azzurre, ad ogni coda di
cavallo. Patetico...
La finestra
mi restituisce il
riflesso di un viso triste, di un sorriso inesistente, di rabbia e
pianto annegato in uno sguardo scuro. Vorrei non
dover andare via dalla
centrale, vorrei tornare ai tempi dove solo con un caso fra le mani mi
sentivo bene, mi sentivo completo. Vorrei tornare ad essere il testone
detective a cui si dovevano ripetere le cose due volte,
perché
sognava troppo e produceva poco. Magnus si
è perso ed io non so chi sono. «Kurt
è qui?» Mi volto verso l’agente appena
entrato e scuoto la testa. «A
quest’ora non credo rientri più.» «Il
commissario ha detto che
potevo trovarlo qui.» La voce sale dal fianco
dell’agente.
È un ragazzo biondo dall’aspetto remissivo. Il suo
accento
tradisce origini diverse da quelle svedesi. «Posso
provare a rintracciarlo. È importante?» chiedo
mentre l’agente al suo fianco si congeda. Il ragazzo
annuisce e mi si avvicina. Fra le mani scorgo quella che mi sembra una
busta, forse contenente qualche documento. «Le
sarei grato se potesse
chiedergli di venire. Devo parlagli con urgenza.» Ancora non
riesco a capire da dove venga. Poggio la
tazza di caffè che
stavo bevendo sulla scrivania e prendo il cellulare. Mentre cerco il
nome di Kurt nella rubrica getto ancora uno sguardo a questo ragazzo.
Un paio di
occhi nocciola che sul viso pallido incorniciato dai biondi
capelli, sembrano quasi contrastare troppo. Un maglione
marrone con lo scollo
tondo da cui sbuca il colletto di una camicia bianca, i pantaloni neri
e le mani sempre strette attorno a quella busta. «Il
commissario è
molto impegnato» parlo mentre sento il telefono di Kurt
bussare a
vuoto. Quando parte la segreteria riprovo a chiamare. «Sicuro
che
non può aspettare domattina?» «Vorrei
potergli parlare questa sera.» «Riguardo
cosa?» Resta un
attimo in silenzio mentre
la voce di Kurt mi risponde dall’altra parte del cellulare.
«Kurt? Stai rientrando in centrale? C’è
una persona
che ti cerca, dice che è importante... Scusi, può
dirmi
il suo nome?» «François
Ruchen.» Lo ripeto
dall’altra parte e mi sembra di averlo già sentito
da qualche parte. «Vengo
subito, digli di aspettare e, Magnus, resta con lui. Devo
parlarti.» «Va
bene.» Non chiedevo altro che una distrazione. Infilo il
cellulare nella tasca ed
informo il ragazzo che Kurt sarà qui a breve, lo invito a
sedersi e lui accetta silente. Mi poggio
alla scrivania e continuo a studiarlo. François...
Dov’è che ho sentito questo nome? «Francese?»
chiedo per
spezzare il silenzio sceso nella stanza. Il
commissariato si sta
svuotando e ormai resta solo chi ha il turno di notte, il mio
è
finito un’ora fa, ma qualche straordinario non può
che
essere una buona medicina alle mie ferite. «Sì,
sono di
Marsiglia» mi risponde cortese ma sul viso l’ombra
spenta
non è ancora sparita. Di certo non è nulla di
piacevole
ciò di cui ha bisogno di parlare con Kurt. François...
Francese... Un secondo
dopo un flash mi passa nella testa. «Riguarda
Padre Phil?»
chiedo senza lasciare il tempo alla mia lingua di porre una domanda con
meno avida curiosità. Il suo
corpo sembra quasi tremare impercettibilmente mentre annuisce. Certo! Il
caso San Pietro! Il seminarista francese con cui la vittima aveva una
relazione. François Ruchen.
Devo aver sentito questo nome da Anne-Britt. Senza
rendermene conto inizio a
guardarlo con più insistenza mentre lui passa lo sguardo
dall’orologio sulla parete alle scale, da cui, immagino, si
aspetti di veder comparire Kurt. Ho avuto la
testa così
occupata da aver completamente dimenticato quanto volessi entrare nelle
indagini per questo omicidio. Il pensiero
torna ad Eric, ovviamente, torna ai sui occhi freddi, torna a quel
"niente" che mi risuona nel petto torturandomi. Di solito a
quest’ora ero
ancora in ospedale, seduto su quel letto bianco a farmi prendere in
giro, a farmi baciare, a credere scioccamente che le cose sarebbero
rimaste le stesse anche una volta usciti da quella stanza. Ed invece...
Sono bastate solo poche ore e tutto è andato in frantumi. “È
un appuntamento?” “Se
lo fosse diresti sì?” Riesco a
sentire la sua risata e la mia vergogna. Ogni notte
mi sembra di rivivere quella prima notte in terapia intensiva, ma
questa volta non aspetto alcun risveglio. Incrocio le
braccia sul petto come a volermi proteggere da altri ricordi,
così belli eppure così crudeli. Non
avrei voluto conoscere le tue carezze, a quest’ora non mi
sarebbero mancate così tanto... «Anche
lei sta seguendo le
indagini?» Quello strano accento mi riporta alla centrale, mi
riporta allo sguardo di questo ragazzo. «Io?...
A dire il vero-» «François!»
Kurt
entra spezzando le mie parole. Mi sollevo dalla scrivania e aspetto che
mi raggiunga. «Rimani.» Annuisco
mentre dedica le sue attenzioni al ragazzo. François
è in piedi e gli sorride appena. «Commissario,
mi scusi per l’ora.» «Figurati.
Prego,
siediti.» Torna ad accomodarsi e Kurt mi fa segno di
avvicinarmi. Mi siedo accanto a lui intrecciando le dita sul tavolo. Non capisco
perché voglia che resti, in fondo io non sono nelle squadra.
Non faccio
domande, lascio che il caso che ho tanto bramato scacci almeno un
po’ il pensiero di Eric. So
già quanto sarà difficile che accada. François
porge la busta a Kurt che la prende guardandola con la fronte
corrucciata. «Cos’è?» «Le
avevo detto che Phil
aveva preso in affitto un piccolo appartamento vicino alla parrocchia
di St. Patrick. Io alloggiavo lì quando ero in
Svezia.» «L’hai
trovata lì? E perché adesso?» «Non
sono più
riuscito ad entrare in quella stanza e... E volevo prendere alcuni
oggetti di Phil. Piccole cose.» I suoi occhi si inumidiscono.
«Era sotto al cuscino. È una lettera. La data
è del
giorno... di quel giorno.» Kurt guarda ancora la busta prima
di
aprirla. Ne tira fuori due fogli, mi sporgo per poter leggere anche io
il contenuto. «Non ha fatto in tempo a
spedirmela...»
Piccole lacrime scendono sul pallido viso ed io non riesco a tenere gli
occhi sulle righe. Il dolore che leggo nei suoi singhiozzi ha un
effetto che non avevo previsto. Sento la
gola secca e mi bagno le labbra con la poca saliva che conservo. Recupero la
confezione di fazzoletti da una scrivania e glieli porgo silente. «Grazie.» Kurt
continua a leggere la lettera ed io quasi vorrei non dover stare in
questa stanza davanti alla sofferenza di questo ragazzo e alle parole
di chi non ha avuto occasione di farle leggere alla persona che amava. «Dice
che voleva sistemare le cose. Hai idea di cosa significa?» François
scuote la testa
mentre si asciuga il naso con un altro fazzoletto. «Gli avevo
detto che avrei lasciato il seminario. Volevo venire ad Ystad per stare
con lui...» «E
Phil che voleva
fare?» chiedo senza neanche domandarmi se posso fare domande.
Kurt non mi interrompe e mi lascia continuare. «Anche lui
voleva
abbandonare il ministero sacerdotale?» «Phil
amava essere un sacerdote, amava la sua comunità ed io... Io
so che per lui era difficile.» «Le
sue parole sembrano
lasciar trapelare questa scelta, però. Non ti ha
parlato
di questa eventualità?» François
scuote di nuovo la testa. «Magari
ne ha parlato con
qualcun altro» bisbiglio verso Kurt. Lui mi guarda senza dire
altro e poi perde lo sguardo nuovamente sui fogli fra le sue mani. “Il Signore mi ha indicato la
via, mio caro Fran, ed io voglio seguirla. Voglio che tu possa essere
felice come meriti... Mio cuore, mio unico amore...” Quelle
parole mi lasciano una patina di tristezza sulla pelle, una tristezza
mista a rabbia. L’egoismo
di chi soffre, presumo. Mio unico
amore... Ed
è sempre il tuo viso a disegnarsi nei miei occhi. «Quanto
resterai in città?» «Fino
al termine della settimana, poi devo rientrare a Marsiglia.» Kurt
annuisce reprimendo quello che mi sembra un sospiro.
«Credo
che la voglia di lasciare l’abito talare sia
l’ipotesi più plausibile.» Alzo lo
sguardo al cielo nero mentre una nuvola di vapore abbandona la mia
bocca. «Fino
ad ora non sono
riuscito a trovare una sola ipotesi plausibile, a dire il
vero.»
Kurt si passa una mano sulla fronte. L’aria
è gelida. Questo autunno mi sembra insopportabilmente rigido. Raggiungo
l’auto con le mani sprofondate nelle tasche. «Kurt,
sei sicuro che posso entrare adesso?» «Pensavo
fosse quello che volevi.» «Lo
è, ma mi chiedevo
se fosse altrettanto giusto.» Non so se sono davvero in grado
di
affrontare un caso come questo nella mia attuale condizione. Kurt infila
le chiavi nella serratura tossendo un paio di volte. «Farai
un buon lavoro, Magnus.» Sollevo un
solo angolo delle labbra ad annuisco. Sale in auto e mi saluta con un
cenno della testa. Altro
vapore abbandona le mie labbra.
Rientro in centrale
solo per recuperare il dossier San Pietro. Forse
è quello che mi ci vuole, non una distrazione, ma un vero
caso. Un mattone,
un piccolo inizio per lasciarmi tutto alle spalle. Per
lasciarti alle spalle. Apro il
cassetto della mia scrivania e raccolgo la cartella con su scritto
“Eric Huntsman”. Dovrei
buttarla, credo. Magari dovrei solo infilarla in quella del caso
Fustern e archiviala come Caso Non Risolto. Nessun
colpevole, solo vittime. Ed invece
poggio quella di San Pietro sulla scrivania e la apro. Sfioro con
le dita la sua foto, i
suoi occhi arrabbiati, il viso giovane di qualcuno che però
aveva già conosciuto la sofferenza. Stringo
nella gola il suo nome, nelle mani il ricordo della sua pelle. Stringo
nell'anima la dolcezza con cui ha parlato di sua madre e la gentilezza
con cui mi accarezzava i capelli. Stringo fra
le labbra il sapore delle sue e nelle orecchie il suono della sua voce.
Lascio che
il cuore parli e tutto ciò che riesco ad sentire
è un “Mi
manchi” umido di lacrime.
Continua...
NdA.
Ultimo aggiornamento prima delle mie vacanzucce <3
Mi sento un po’ una cacca a lasciare Magnus (e voi) in questa
situazione poco felice, ma al mio ritorno cercheremo di sistemare le
cose, anzi, di certo si sistemeranno.
Auguro buone vacanze a tutti voi che siete i lettori migliori che una
povera mentecatta come me potesse mai sperare di avere
>///< *lacrimuccia da addio*
Ci leggiamo a fine agosto.
VEVOJOBBENE!!!
Kiss kiss Chiara
P.S. il titolo del capitolo è preso gentilmente in prestito
da quello di una canzone di Masini (canzone molto Magnusiana, fra
l'altro...)
Padre
Phil era quello che si può definire un brav'uomo. Aveva
trascorso diversi anni nelle zone più povere del mondo anche
prima di prendere i voti. A giorni alterni si
dedicava alla
mensa caritatevole di Ystad, ed ogni domenica, dopo le funzioni,
trascorreva il pomeriggio con i ragazzi della Casa Famiglia di
Horsbarg. Un santo, a vederla
così, eppure era solo un uomo. Un uomo che ha amato
come un uomo,
l’unica nota stonata è che indossava un abito
importante,
paradossalmente, gli sarebbe bastato abbracciare una fede diversa[1]. Ed invece è
morto con il
petto pugnalato, con un solo colpo vicino al cuore. È morto
dissanguato sulle scale di una chiesa, quasi fosse un’ultima
crudele beffa. Nessuno ha visto,
nessuno ha sentito, nessuno aveva alcun motivo per togliere la vita ad
una persona come Padre Phil. Almeno questo
è ciò
che dicono le carte, le carte da cui un volto gentile mi sorride. Due
occhi neri incorniciati da lenti sobrie, una massa confusa di capelli
sulla testa in cui un piccolo bambino di colore si diverte a mettere
disordine. Respiro a fondo e mi
stropiccio gli occhi con le dita. Ho trascorso tutta la
notte a
studiare il caso, tutte le prove raccolte - praticamente inutili
- le testimonianze di chi lo conosceva, le ipotesi dei colleghi,
l’inconcludenza di ognuna di esse. “Ci siamo incontrati a Roma.
Io ero lì per un viaggio insieme ad un gruppo di altri
seminaristi, Phil era in ritiro spirituale per qualche
settimana.” Riesco a sentire l’accento
particolare di
François e il dolore sparso nelle parole. Leggo ancora la
sua
dichiarazione, leggo di come hanno iniziato a scriversi, di come Padre
Phil gli era di sostegno perché François aveva
dei dubbi
sulla sua scelta, leggo di come dopo qualche mese lui era giunto in
Svezia e si erano rivisti, leggo di come scoprire che non era solo
amicizia abbia spaventato entrambi. Sono emozioni che si
intersecano inevitabilmente con le mie, è una sofferenza
scritta che rivivo in ogni lettera. Kurt ha deciso che
domani andremo a
parlare con Monsignore Karlberg per chiedergli ragguagli circa la
possibile volontà di Padre Phil di lasciare il ministero
sacerdotale. Domani. Domani sembra non
arrivare mai. Le notti diventano
sempre
più lunghe, le ore si dilatano e la lancetta
dell’orologio
è una sciabola sul collo ad ogni secondo. Le 2.35, sono ancora
le 2.35. Se rileggo nuovamente
questi
rapporti finirò per impararli a memoria, e poi le foto
dell’autopsia di questo pover'uomo non conciliano di certo il
sonno. Getto la cartellina
sul lato vuoto alla mia sinistra. La luce dell'abat-jour
delinea le
ombre create dal cuscino, dalla piega poco scomposta,
dall’assenza che regna al mio fianco. La
tua assenza. È
insostenibile ogni minuto di più, pesa sullo stomaco, pesa
nella testa. Mi sembra di impazzire. Mi rigiro sul fianco
con gli occhi fissi al niente che mi fa compagnia. Il nostro niente. Mi chiedo cosa stia
facendo, come stia, se il livido sia sparito, se la ferita gli dia
fastidio. Mi chiedo se ci sono
già
altri capelli in cui sta affondando le dita, mi chiedo se ci sia
già un’altra bocca a strappargli baci e risate. Sono ridicolo, in
fondo ha ragione: cosa abbiamo diviso? Cosa ci univa? Era un legame di cui
reggevo da
solo il filo, un rapporto monco di cui mi sono reso conto tardi, eppure
la solo possibilità che ci sia già qualcun altro
mi fa
strozzare la gola con un singhiozzo, l’idea che questo
sentimento
sia destinato a non cancellarsi mai, me ne fa ingoiare un altro e poi
un altro ancora. Voglio tornare su quel
divano, voglio tornare sotto i suoi occhi, voglio tornare a vivere. Adesso è
solo un esercizio
dei polmoni, respirare, è l’involontario contrarsi
di un
muscolo, il battere di questo cuore. Stringo le dita
attorno alla federa e mi mordo con forza le labbra. “Tu
sei un poliziotto. È questo che vuoi essere.” Avrei voluto essere
altro, avrei voluto essere tutto e invece non sono mai stato niente. Non
è così, Eric? Niente.
I corridoi di San
Pietro sono ampi
quasi quanto quelli dell’omonima Basilica di Roma, almeno
credo.
Io a Roma non ho mai messo piede. Non ne ho mai messo uno fuori dalla
Svezia, e in qualche folle pensiero, avevo veramente creduto che un
giorno avrei calpestato la verde erba della Scozia. Kurt al mio fianco
è
silente. Seguiamo l’uomo che ci sta conducendo dal vescovo
Karlberg come fossimo diretti ad un’esecuzione. Posso percepire i
pensieri muoversi
nella sua testa, le domande crearsi e rispondersi e, quelle che restano
senza risposta, depositarsi sulla lingua. Ascolto, osservo e
taccio. Ho capito quanto farlo
sia
importante, ho capito a caro prezzo quanto dire ed ascoltare siano
ugualmente importanti. Ho imparato che se si parla è meglio
dire
la verità e che chi tace può dire molto di
più. Svoltiamo un angolo e
l’uomo ci fa arrestare. Picchia le dita contro
la porta di vetro da cui non si intravede neanche una sagoma. Un deciso
“avanti” e le due porte di aprono. «Monsignore,
c’è il commissario Wallander.» «Grazie,
Theodor. Commissario, buongiorno.» «Buongiorno.»
Monsignore Karlberg si
alza dalla
sedia e sorride affabile ad entrambi ma, naturalmente, sembra
interessato alla mia presenza. L’uomo che ci ha fatto da
guida
esce dalla stanza chiudendo la porta alle nostre spalle. Do uno sguardo veloce
allo studio
che sembra essere quello di mio padre: altrettanto sterile, altrettanto
intimidatorio, altrettanto schiacciante.
C’è qualche
crocifisso in più e qualche telefono di meno. «Sono il
detective
Martinsson.» Mi presento, conscio che Kurt, con ogni
probabilità, avrebbe saltato questo passaggio. «Piacere,
detective. Prego,
accomodatevi.» Di fronte alla scrivania di legno chiaro, due
sedie dall’apparenza comoda. Kurt non si siede ed io decido
di
imitarlo. Il vescovo ci sorride
ancora e
sceglie di girare attorno alla scrivania e raggiungerci. È
un
uomo alto e dall’aspettato curato. Folti capelli bianchi e
occhiali privi di reale montatura. L’ho intravisto un paio di
volte in occasione di qualche funerale importante. La signora Fustern
ne parla spesso usando sempre parole molto lusinghiere. «Monsignore,
volevo farle qualche altra domanda su Padre Phil.» «C’è
qualche buona notizia, commissario?» «Forse.»
Resto ancora
in silenzio, un passo dietro Kurt. «Padre Phil le ha mai
parlato
della possibilità di lasciare il ministero?» «Padre Phil
amava parlare di tante cose.» «E di questo
ne ha parlato?» Karlberg continua a
sorridere ma è chiaramente una forzatura. Immagino
quanto questa faccenda
possa essere spinosa per la sua diocesi. Già un prete che si
innamora è disdicevole, che poi si innamori di un ragazzo,
per
giunta seminarista, credo sia una delle peggiori situazioni che possano
capitare in questo ambiente. Innamorarsi... Forse il vero dramma
è proprio questo, indipendentemente dal chi. «Ci sono
questioni di cui non si può parlare con chiunque,
commissario, forse solo con Nostro Signore.» Sì,
peccato che non possiamo interrogarlo. Kurt mal cela un
sospiro stanco e come lui non posso che trovare inutili questi sermoni
gratuiti. «Non sa con
chi Padre Phil
possa essersi confidato?» chiedo istintivamente e Monsignore
Karlberg mi restituisce un’occhiata diffidente. «Phil aveva
tanti amici, ma non so quanti di loro possano essere stati suoi
confidenti.» «Ci basta
qualche nome.» Il vescovo annuisce
ancora.
«Certo, commissario.» Torna poi a sedersi dietro la
scrivana. Mentre aspettiamo che stili una lista scorgo una foto sulla
parete destra, una foto di gruppo in cui riconosco sia Phil che
Karlberg. Deve essere un villaggio africano o qualche luogo simile.
Phil indossa una t-shirt gialla e tiene il braccio attorno ad una
ragazza del luogo. Sembra felice. «Eravamo in
Congo.» Mi volto verso
Karlberg che mi sorride per poi porgere il foglio a Kurt. «A quanto
risale?» chiedo. «Un paio di
anni fa. Fu Phil
a organizzare tutto. Phil era... Era un bravo sacerdote ed un
brav’uomo.» Riguardo la foto e, se il viso
può dire
qualcosa credo che le parole del vescovo Karlberg siano veritiere.
«Prego ogni giorno che Nostro Signore sappia illuminarvi... A
volte è difficile comprendere il suo disegno.» Padre Phil
è stato brutalmente assassinato, non credo ci sia poi molto
da comprendere. Da chi, questo
è ciò che conta insieme a quell'altrettanto
incomprensibile perché. Dalla foto, Phil
sorride ancora.
«Che ne
pensi? Dovremmo
interrogarli uno per uno?» Guardo la breve lista che ci ha
stilato Karlberg mentre Kurt continua a guidare. Sono una
decina di nomi e mi sembra di averli già sentiti tutti. «Possiamo
tentare ma sarebbe tempo sprecato.» «Che vuoi
dire?» Sposto gli occhi sul suo profilo ma Kurt resta
silente. Nella testa scorrono
le parole
lette durante quest’ennesima notte insonne ed ogni nome
ritorna
al suo posto: i volontari della Casa Famiglia, i fedeli, il custode
della chiesa di St. Patrick. Sarebbe inutile
perché sono già stati interrogati tutti. Se avessero saputo
qualcosa l’avrebbero detto, se avessero saputo qualcosa
l’avrei letto in quel dossier. Fisso fuori dal
finestrino il mutare del paesaggio mentre piccole gocce iniziano a
colpire il vetro. Mi chiedo
perché Kurt abbia
chiesto il mio aiuto, in fondo mi sembra di essere utile quanto una
mollica di pane. Ha già tentato tutto, ha già
battuto
ogni pista. Forse non dovrei dirlo
dopo mezza
giornata di indagine, ma mi sembra sempre più possibile che
questo resterà uno dei tanti casi irrisolti. Un’illuminazione...
Sì, forse è quello che ci vuole. Beffando il mio
pensiero un fulmine
taglia il cielo e la pioggia paradossalmente si arresta. Tutto come
quella sera, quando sono tornato a casa zuppo non di pioggia ma di
lacrime, con il cuore frantumato e la dignità sciolta nelle
pozzanghere delle strade. «Torneremo a
interrogarli. Tutti. Qualcuno può aver mentito.» La voce di Kurt
è sicura e rassicurante eppure scorgo comunque quel barlume
di incertezza che l’attraversa. «Va
bene» alito mentre parcheggiamo davanti al commissariato. No, non ci credo
neanche io.
Il primo sole che ha
fatto capolino
dalle nubi grigie di questi giorni, mi riempie di malinconia. Bevo un
sorso di caffè scorrendo con gli occhi sullo schermo del pc.
Che
stai facendo? Sei
a lavoro? Stai
bene? ... Ti
manco almeno un po’? Sospiro stancamente
passandomi una mano sul viso. Mi arruffo i capelli e mi stropiccio gli
occhi con forza. Perché
non riesco a mandarti via? È il
germogliare continuo di
angoscia a riempirmi i polmoni. Ogni sospiro è una richiesta
di
risposte che non troverà mai accoglimento. Kurt è con
Linda. Sta per sposarsi ed io lo vengo a sapere solo ora. “Auguri, allora.”
Il sorriso di Kurt non era poi diverso dal mio: stanco, stirato. Un
dovere. Il commissariato non
mi sembra tanto accogliente come avevo creduto, non è un
rifugio così impenetrabile. Volto lo sguardo verso
il tiepido
sole e mi sembra di rivederlo ancora, quel suo sorriso assurdo. Troppo
perfetto per essere vero, troppo gentile per essere stato capace di
farmi così tanto male. Afferro la giaccia e
scendo le scale. I miei piedi camminano
senza reale meta. Camminano silenti, le
lacrime restano tutte chiuse negli occhi e il suo nome sospeso sulle
labbra. Lascio che il riflesso
sbiadito di
questo autunno mi scaldi il viso e vorrei solo non pensare
continuamente al calore delle sue carezze. Mi ritrovo nella
strada più
affollata del centro, immerso in un mare di gente che sembra
inghiottirmi. Mi passano accanto e sono invisibile, di nuovo. Come
sempre. E
mi ero illuso di non esserlo almeno per i tuoi occhi. «Detective
Martinsson.» Una voce sale da queste onde umane e scorgo solo
allora il viso pallido di François. «Signor
Ruchen.»
È fermo sul ciglio del marciapiede e sono io a raggiungerlo.
Sempre la solita espressione remissiva e triste. «La prego,
mi chiami
François.» In quell’accento incerto
posso ancora
sentire il suo ironico Merci.
«Come vanno le indagini? Avete
scoperto se Phil...» «Stiamo
facendo il possibile. Il commissario sta impegnando ogni
risorsa.» Mi regala una linea di
labbra
leggermente piegata all’insù, un sorriso che non
riesco
neanche a definire tale. «Grazie per il vostro
lavoro.» Annuisco soltanto e
vorrei essere capace di dire qualcosa di opportuno, anche una
triste frase di
circostanza, ma la lingua rimarrebbe incartata in parole che farebbero
male anche a me. «Ho deciso
che
terminerò il percorso in seminario e prenderò i
voti.» Guardo il suo viso pallido e quel accenno di sorriso
stavolta mi sembra meno sofferente. «Dedicherò la
mia vita
al Signore... per ringraziarlo.» «Di
cosa?» La domanda
nasce spontanea. Di cosa si può ringraziare quando la
persona
che ami ti viene portata via in un modo così orribile? A chi
puoi dire grazie quando il cuore ti esce dal petto e letteralmente si
schianta al suolo? François mi
osserva ancora
con le labbra sorridenti. «Per aver avuto
l’opportunità di conoscere Phil...
l’opportunità di amarlo, anche se per un lasso di
tempo
così breve.» «Non sei
arrabbiato con il
tuo Signore per ciò che gli è
successo?» Non riesco
a capire come possa non esserlo, forse è questa la fede? Non
saprei dirlo, non ne ho mai avuta molta. Nell’istinto,
ecco in
ciò che credo, nel sesto senso, in una buona intuizione.
Fortuna, destino... Cosa sono se non invenzioni per non prendersi la
responsabilità delle proprie azioni? Dei propri errori? «Sono molto
arrabbiato,
detective, alcuni giorni sono così arrabbiato che mi sembra
di
soffocare, ma anche se per poco tempo, anche se non ci era stata
destinata una vita come quella che avremmo voluto, sono felice di aver
avuto quel poco e lo porterò con me fino alla fine dei miei
giorni, finché non ci ritroveremo.» «Hai una
grande forza, François...» Ti invidio, vorrei averla anche
io. Scosto lo sguardo e lo
porto al
cielo azzurro macchiato dalle nubi. Vorrei
avere la stessa forza per
andare da Eric e chiedergli ancora perché,
la stessa forza per
urlargli ciò che provo e ribadirgli ancora una volta quanto
sia
importante per me. Tutto. La mia stessa vita. Ecco cosa significa, ecco
cosa sento di aver perso. Ma come potrei anche
solo
presentarmi da lui dopo quello che mi ha detto? Dopo il modo in cui mi
ha guardato? Dopo il cinismo con cui ha deriso ciò che ci
legava? Niente... niente...
niente. Anche
tu sei un bugiardo, Eric. «Non si
tratta di forza, detective, si tratta di credere.» «In cosa? In
Dio?» «In
ciò che si prova,
in ciò che fa battere il cuore. Io per tanto tempo
l’ho
chiamata fede, poi ho conosciuto Phil ed è diventato
altro.» «E adesso
cos’è?» Il silenzio che segue
è
frantumato dal vociare della folla, dai passi frenetici attorno a noi,
dalle vite di tutte queste persone che sembrano ignorare il dolore e le
gioie degli altri. François
respira a fondo e poi mi sorride.
«I sentimenti non vanno via con le persone,
detective.» «Sarebbe
più facile se fosse così.» Farebbe meno male. «Oh, sarebbe
più
triste, invece. Anche se possiamo soffrire - e soffrire tanto - ne vale
la pena. Sempre... Me l’ha insegnato Phil.» Ne vale la pena. E per cosa? Per chi? Per
te? Ne
vali davvero la pena? Vali tutto
questo dolore che mi accompagna da giorni? Vali tutte le lacrime, tutte
le umiliazioni? Vale la pena affrontare tutto
solo per sentirmi dire di
nuovo che non sono niente? La risposta
è così scontata che è ridicolo anche
solo cercarla.
Il cielo ha deciso di
reggermi il
gioco, ha deciso di non lasciare andare alcuna goccia
d’acqua, ha
deciso che posso restare seduto su questo cofano ad aspettarlo, davanti
casa sua, con lo sguardo fisso sulla strada come quella strana mattina.
Aspetto silente,
contando i gradini più volte, sollevando il naso ed
annusando l’odore dell’aria umida. Aspetto silente con i
capelli
smossi dal vento e le mani sprofondate nelle tasche, sotto i
polpastrelli la superficie liscia del piccolo biglietto bianco. Aspetto silente
ascoltando il suono
delle foglie che cadono giù ad ogni raffica e si lasciano
trascinare senza opporre resistenza. Ti
aspetto silente. Prenderò
il mio cuore
e lo getterò fra le tue mani, fanne ciò che vuoi,
tanto
è tuo, ti è sempre appartenuto. Lascerò
che le parole volino da te come quelle foglie, calpestale pure, non mi
importa. Solo, ascoltale. Ascoltami
anche se dirò
stupidaggini, di certo lo farò, perché
l‘amore
rende sciocchi ed io sono estremamente sciocco adesso. Prenditi
pure gioco di me e tagliami in due con i tuoi occhi, ma tienili su di
me, ancora una volta, fosse anche l’ultima. Un piccolo puntino blu
si intravede
da lontano, deglutisco ed aspetto che diventi sempre più
grande,
finché non si arresta, finché non vedo il suo
viso
attraverso il vetro e posso quasi percepire il suo sospiro. La portiera si apre,
il mio battito accelera. La convinzione vacilla
quando sento quello sguardo posarsi su di me, ma cerco di trattenerla
con le unghie e con i denti. No, stavolta non cado.
Continua...
[1] La Chiesa di Svezia,
la principale confessione religiosa svedese di matrice luterana,
accetta tranquillamente i preti omosessuali e concede anche loro di
sposarsi senza distinzioni di sesso, come concede di unirsi in
matrimonio a qualunque coppia gay.
Padre Phil è invece un prete cattolico cristiano, da qui la
riflessione di Magnus.
Nota extra: in Svezia il Cattolicesimo è una
fede religiosa poco
diffusa e in realtà l’unica diocesi cattolica si
trova a
Stoccolma. Non ne esiste alcuna nella contea di Scania, per cui tutto
ciò che riguarda il caso San Pietro è totalmente
inventato per fini di trama.
NdA. Ecchimi
a voi, un
po’ triste per le ferie finite (domani si rientra a lavoro,
sigh
T^T) un po’ felice per aver ritrovato questa storia e
ovviamente
voi, bellissimi lettori <3
Siamo agli sgoccioli, un’altra manciata di capitoli e si
chiude.
Magnus è carico come una molla e pronto per dire... per dire
cosa? Mah, speriamo solo non faccia fiasco...
Un abbraccio a tutti e spero vi siate goduti questi giorni di calura
estiva.
Kiss kiss Chiara
La
sensazione è la stessa che si prova quando si ha
un’arma
puntata contro, quando il freddo di una canna di pistola ti sfiora la
pelle e vedi l’indice teso stringere il grilletto. Il sudore
ti imperla la fronte e sai che potresti morire nel secondo successivo. La vita ti
passa davanti? No, non
è vero, non succede come raccontano i film. Ciò
che
percepisci è il vuoto, ciò a cui pensi non
è il
tuo passato ma il futuro che non vedrai mai. Eric tiene
quel grilletto. «Ehi.» «Magnus-» «No.»
Lo interrompo
subito e mi sollevo dal cofano. «Sono qui solo
perché devo
dirti qualcosa. Ti chiedo di ascoltarmi, ok? Poi me ne vado e ti lascio
in pace ma, per favore, ascoltami senza interrompere.» Mi guarda
in silenzio ed io mi
soffermo sul suo viso di nuovo perfetto. Accarezzo con gli occhi la
sua guancia, le labbra, i capelli. Mi manchi... «Va
bene.» È un sospiro breve e deciso. Freddo. Non
importa, devo farlo. Adesso o mai più. Annuisco e
mi umetto le labbra prendendo un profondo respiro. «Ok,
allora...» Mi
ribagno le labbra e sento le parole dissolversi a ogni battito.
«Pensavo fosse più facile...» Un
risolino nervoso
mentre sento l’ansia pervadere ogni fibra del mio corpo. «Ascolta,
Magnus, io-» «Ti
amo.» Se non avessi
udito la mia voce non avrei mai creduto di essere stato io a dirlo. E
invece l’ho detto. Te l’ho detto. Eric
deglutisce a sua volta e mi sembra che la freddezza si sgretoli appena
dai suoi occhi. «Ti
amo, Eric, credo di
averti sempre amato da... non lo so, magari dalla prima volta, quando
volevi affettarmi con l’ascia!» Sorrido imbarazzato
ma
continuo senza lasciargli il tempo di fermarmi. Non posso, non voglio
farlo. «So che non avrei dovuto, ma non ho potuto farci
nulla. Ho
tentato, Dio, se ho tentato ma – come se poi si potesse
scegliere
chi amare.» Rido ancora con una nota di disperazione che non
sfugge a nessuno dei due. «Mai avrei immaginato di potermi
innamorare di te, di un uomo... È-è stato
difficile per
me, tremendamente difficile, ma quando sei finito in ospedale ho capito
che non volevo perderti, perché non ci sarebbe mai stato
nessuno
che mi avrebbe fatto sentire tanto inadeguato e tanto stupido,
perché è così che mi sento quando sono
con te: uno
stupido e inadeguato ragazzino.» Sento gli occhi pungere ma
non
voglio badarci. Non voglio badare alla sensazione di
fragilità
che si impossessa velocemente di me, alla sua gola che sussulta di
nuovo, ai suoi occhi che si sciolgono a ogni parola. «Ma mi
sento anche vivo, mi sono sentito vivo per la prima volta grazie a te e
volevo che tu lo sapessi. Volevo che sapessi che non era
“niente”, non per me. Non sei mai stato
“niente”, per me, Eric, sei sempre stato
tutto...» La
vista quasi si appanna ma ricaccio indietro ogni lacrima
perché
posso resistere ancora un po’. «Avrei voluto
conoscerti sul
serio, avrei voluto che anche tu mi conoscessi e che vedessi oltre
questi ridicoli capelli e questa mia goffaggine ma... Non sono riuscito
a non rovinare nulla, perché sono fatto così,
Eric,
sbaglio e sbaglierò sempre, ma sappi che provare questo
sentimento non è mai stato un errore, mai. E non credo che
tu
non sappia amare, forse non puoi amare me...» Tiro sul col
naso e
deglutisco fingendo un sorriso solo perché sembra rendere
tutto
meno doloroso. Eric è sempre immobile e i suoi occhi non mi
hanno lasciato un solo istante. «Lo so che non provi lo
stesso
ma, onestamente, non credo alle tue parole, Eric.» Raccolgo
aria
e forza per continuare, per spogliarmi di quest’ultima pelle
e
dargli tutto. «Anche io conto qualcosa per te, altrimenti non
ti
saresti quasi fatto ammazzare per difendermi.» La sua gola
vibra ancora e vedo
chiaramente le parole strette fra i denti. «Lo so cosa ti
hanno
detto. Fuentes mi ha raccontato delle battute squallide e stupide su di
me e... Se non ero niente, Eric, perché lo hai fatto? Se non
posso avere la tua fiducia, dammi almeno la tua sincerità.
Credo
di meritarmela dopotutto... No?» Un lungo
sospiro, gli occhi mi abbandonando per celarsi dietro alla sua mano. «Quanto
sei cocciuto, Magnus.» «Un
altro dei miei tanti
difetti.» Torna a guardarmi, a guardare il sorriso triste che
mi
piega le labbra e il pianto asciutto che sta investendo il mio cuore.
«Rispondimi... perché?» «Perché
sono un
idiota, immagino. Un immenso idiota e io...» Mi nega ancora
il
suo sguardo. «Non dovevo incasinarti, perciò
è
meglio che stiamo lontani. Ok?» «No,
non è ok, Eric, e lo sai. Per me non è ok e
neanche per te.» «Oh,
per me va benissimo, credimi.» Piego
ancora le labbra. «E
allora perché non me lo dici guardandomi in
faccia?» Ma i
suoi occhi restano a fissare il blu dell’auto. Le mani
poggiate
sui fianchi, un altro lungo respiro trattenuto a stento.
«Guardami negli occhi e dimmi che non sono niente, dimmi che
ciò che c’è stato fra di noi, per
quanto breve, non
era niente. Dimmelo ancora una volta, dritto in faccia, Eric, e io me
ne andrò e non ti dovrai più preoccupare di
Magnus
Martinsson.» «Magnus...» «È
facile. L’hai
fatto già. Già una volta mi hai calpestato. Cosa
ti costa
rifarlo se non sono niente?» Il caldo di una lacrima mi riga
una
guancia, la cancello subito con il dorso della mano, ma non abbastanza
velocemente da impedirgli di vederla. Ti
sei preso tutto, anche la mia
dignità, dammi almeno qualcosa di te, dammi quella
verità
e nessun altra menzogna. «Perché
sei venuto
qui? Perché vuoi costringermi a farti del male?»
La sua
voce si ingrossa e lo sguardo si assottiglia. La mia
rabbia affianca il dolore in un lampo. «Non
voglio costringerti a
fare nulla! Voglio solo sentirti dire la verità!»
Quasi
urlo, senza preoccuparmi di essere nel bel mezzo del suo giardino.
«Dimmi che non sono mai stato niente! Dimmi che questo
biglietto
non era niente!» Lo afferro d’istinto dalla tasca e
lo
getto facendolo cadere a terra davanti ai miei stessi piedi.
«Dimmi che ogni volta che mi hai baciato o toccato non hai
provato niente!» «Oddio,
Magnus!» «Cos’è,
non ci
riesci? Non riesci a mentire se non hai una porta da chiudermi in
faccia, eh? Sei così codardo, Eric?!» Le mie
spalle si
alzano e abbassano per il fiatone, Eric serra la mascella e mi guarda
torvo. «Tu
non sai niente di me.» «E
questo per colpa di chi?» «Ah,
ecco, adesso vuoi farmi
sentire in colpa perché ti sei ingenuamente innamorato di
uno
come me? È per questo che sei qui?» «Cosa?!
Non sono così meschino! Neanche tu hai capito nulla di me a
questo punto!» La cosa sta
degenerando. Volevo un
ultimo chiarimento e invece siamo finiti a litigare. Forse è
vero che dobbiamo stare lontani, è vero che non avremo mai
qualcosa a unirci, non possiamo costruire nulla, non ci saranno mai
basi dove posare un bel niente. «Sai che ti dico? Mi hai
già risposto, Eric. Ora tolgo subito il disturbo –
quanto
sono stato stupido a credere che ti importasse qualcosa di
me?!»
Raggiungo la Volvo con passi veloci. Non riesco più a stare
qui,
ho solo voglia di urlare e spaccare tutto, ho solo voglia di prendermi
a schiaffi. Non riesco
neanche ad aprire la portiera che subito si richiude. Alzo il
viso e incrocio il suo. Serio, furente, bellissimo. «Vuoi
prendermi a
pugni?» sibilo deglutendo per la sua vicinanza. Io vorrei
fare
altro, io vorrei baciare e mordere quelle labbra e non lasciarle andare
via. «Sì,
vorrei farlo, vorrei spaccarti la faccia, giuro!» Il fiato
corto fa sussultare ancora le mie spalle. «Fallo, allora.
Avanti!» «Non
tentarmi,
Magnus...» Il suo respiro si perde nel mio, sento la rabbia
ribollire ancora e non riesco a impedire alla mia bocca di posarsi
violenta sulla sua. E
ora puoi anche massacrarmi di pugni. Ma il pugno
non arriva. La sua mano
afferra i miei capelli con presa ferrea e le sue labbra si schiudono
alle mie. Mi trovo schiacciato fra la mia stessa auto e il calore del
suo corpo. Gli arpiono
disperatamente le
spalle e ora sono mie le dita che affondano nei suoi capelli. Sono
miei i denti che gli strappano un sospiro, sono miei i fianchi che
spingono indecentemente verso di lui. Il cuore
martella forte nelle
orecchie, non sento il rumore delle auto che sfrecciano rade, non sento
il vento freddo che sta schiaffeggiando la mia pelle, sento solo le sue
mani che mi stringono, le sue labbra che non abbandonano mai le mie, il
suono lascivo di ogni gemito che ingoio. Non
lasciami, Eric, non ancora... non farlo mai. I suoi
occhi si inchiodano ai miei mentre il respiro caldo asciuga la mia
bocca. «Sei un idiota...» «Tu
lo sei.» Gli
accarezzo il viso quasi fosse qualcosa che potrebbe svanire da
sotto le mie dita e lo bacio ancora disperato. Poggio la
fronte contro
la sua e sfioro di nuovo la sua bocca con le dita.
«Eric...» Non
risponde alla mia preghiera, mi artiglia i fianchi e mi soffoca fra le
sue braccia. Potrei
morire adesso e non me ne importerebbe niente.
Le carezze
di Eric sono gentili e
allo stesso tempo rudi, la sua bocca scivola sapiente su ogni angolo
della mia pelle, fino a rubarmi brividi che non avrei creduto di poter
vivere. Accarezzo i suoi capelli mentre sento le labbra risalire piano
verso il mio ventre, su, fino al mio collo, finché non
incontrano di nuovo le mie. Le lenzuola
si attaccano alla pelle
umida, la stanza, la sua stanza, si riempie di sospiri e ansimi, il mio
cuore non ha smesso un attimo di battere impazzito sotto ogni suo tocco. Le mani
sfiorano affamate il
suo corpo che tanto ho desiderato e che tanto ho odiato per come mi
faceva sentire. Sento sotto le dita la linea sottile della cicatrice
che si disegna sul suo addome, quella cicatrice che in qualche modo mi
appartiene. Mi ritrovo
spalle al materasso con i suoi occhi a guardarmi lucidi nella penombra
della camera. «Se
vuoi che mi fermi, dillo ora...» È
un’immagine che
toglie il fiato il suo viso sudato e i capelli che gli ricadono
scomposti, le labbra dischiuse che aspettano una mia risposta, i
muscoli tesi delle braccia ferme ai lati del mio corpo. Neanche nelle
mie fantasie più sfrenate avrei potuto avvicinarmi a
ciò
che vedo ora. La paura
lotta con il desidero, la razionalità con l’amore.
Voglio
tutto, voglio Eric come se ne andasse della mia stessa vita. Lascio che
le labbra rispondano
mute, che posino sulle sue quel “fai l’amore con me”
che un infantile pudore mi fa fermare in gola. Eric lo
ascolta e mi bacia come non
sono mai stato baciato, mi accarezza come nessuno ha mai fatto, mi fa
vibrare fin dentro all’anima ogni gemito, asciuga lacrime che
non
mi rendo neanche conto di versare, respira quel ti amo ogni volta
che
abbandona la mia bocca.
Il suo
petto si alza e abbassa
lentamente, un braccio piegato dietro alla testa e l’altro
lasciato cadere lungo un fianco. Studio il suo viso soffermandomi su
ogni dettaglio. Gli sposto delicatamente una sottile ciocca bruna dalla
fronte e lascio scivolare le dita fra i suoi capelli umidi di sudore. Non ho il
coraggio di muovermi, di
sollevare queste lenzuola e uscire dal letto, o di posarmi al suo
fianco e baciargli le labbra, o ancora di svegliarlo per il semplice
gusto
di vedere ancora una volta il blu sciolto nel nero dei suoi occhi. Una parte
di me, quella più
razionale, mi avverte che non sarebbe piacevole nessun gesto,
soprattutto dopo ciò che è successo. Quella
stessa
razionalità che si chiede perché lo abbia fatto,
perché gli abbia lasciato anche la più intima
parte di me. Al mio ti amo, lui non ha
mai risposto. Affondo con
il viso sul cuscino
stringendomi troppo pudicamente nelle coperte e avvertendo una fitta
fastidiosa che avrei dovuto prevedere. Cerco di
non badarci tornando a
sentire sotto le dita i suoi capelli, inebriandomi del suono ovattato
del suo respiro e della sensazione del suo ginocchio che sfiora la mia
gamba. È
ormai notte e scopro che
la luce di un lampione sul lato opposto della casa illumina troppo
nitidamente questa stanza, scopro che Eric non chiude le tende
né le tapparelle, scopro che come me non ama il buio. Quando si
sveglierà, cosa sarò? Un altro
errore. Una frase
scontata. Niente... Un leggero
lamento fa gelare ogni
pensiero e ritiro la mano dalla sua nuca mentre Eric si volta verso di
me. Ancora palpebre chiuse, ancora un’espressione che mi
incanta
a ogni sguardo di più. Respiro a
fondo e ignoro ogni fastidio e ogni sensazione dolorosa. Mi sporgo e
gli rubo un bacio muto. Me lo
farò bastare, mi farò bastare questa notte e non- «Vuoi
smetterla di tirarmi i capelli?» Un sorriso stanco risponde
alla mia faccia sorpresa. «Scusa!»
Avrei solo voglia di nascondermi sotto le coperte e non uscire mai. Sono
tentato di bypassare le fitte
in basso e saltare via da questo letto prima di sentirmi ancora
più stupido, ma due labbra lambiscono le mie e una mano mi
accarezza il viso. «Va
bene, ti do il permesso di continuare, se vuoi.» Sorrido.
«Eric?» «Mh...» «Ora
non puoi più dire che non c’è
niente.» Lo penso e lo sussurro. Lascio che
il suo sguardo si getti dolce nel mio e che le labbra si incontrino
ancora una volta. «No,
e non avrei dovuto dirlo
neanche prima. Sei l’ultima persona a cui avrei voluto fare
del
male e invece... Anche io faccio un errore dietro
l’altro.» «Perché
mi hai detto quelle cose se non le pensavi? Perché non vuoi
che mi avvicini a te?» Eric
sospira e sorride impercettibilmente. «Non lo so, forse hai
ragione tu, forse sono solo un codardo.» «Di
cosa hai paura?» Mi
risponde scuotendo lentamente la testa. «Capita a tutti di
avere
paura. Io sto morendo di paura, Eric, sono terrorizzato come non lo
sono mai stato.» Vedo il suo sorriso allargarsi e lo fermo di
nuovo sulla mia bocca. «Possiamo avere paura insieme, che ne
dici?» Possiamo
dimenticare tutto e ripartire da qui. «Sai
così poco di me, Magnus.» «E
tu di me, ma io voglio
conoscerti e voglio che tu mi conosca. Puoi prenderti tutto il tempo
che vuoi... Non ho fretta, Eric, e non vado da nessuna parte.
Stavolta non ti liberi di me facilmente, Huntsman.» «Suona
come una minaccia.» «Oh,
lo è.» Gli strappo
una risata assonnata e un bacio sulla fronte che mi fa ingoiare ogni
altro dubbio. «E
se poi fossi tu a volerti
liberare di me?» Le sue parole appena sussurrate risuonano
forti
nel mio petto e vedo quel muro sgretolarsi a ogni fiato, sono pronto a
buttarlo a terra a mani nude. «Non
accadrà mai.» «Ne
sei sicuro? Non sono una persona facile.» «Nessuno
lo è, ma io
sono cocciuto, l’hai detto tu!» Il suo sorriso mi
calamita ancora una volta. «Prova a fidarti di me,
Eric.» Mi guarda
silente e mi ritrovo di nuovo stretto contro il suo petto caldo. Ogni
briciola di sonno sparisce all’istante. Brucio fra
desiderio e bisogno.
Ogni carezza è un invito a cui mi sembra
impossibile dire
no, eppure... «Non so se riesco
a...cioè...» Il
rossore sul mio volto completa la frase. Eric
sorride dolcemente. «Indolenzito?» «Leggermente.»
Nascondo
l’imbarazzo affondando con il viso nel suo collo e lo sento
ridere contro la mia pelle. «Ti prego, non ridere»
piagnucolo mentre mi arruffa i capelli. «Va
bene, vediamo che si
può fare.» Sollevo il viso e guardo il suo
piegarsi in una
splendida espressione di pura malizia. Quando mi ritrovo comodamente
adagiato fra le sue gambe, capisco
e quasi sono ancora più
imbarazzato. «Eric...»
Ciò
che abbandona le mie labbra è solo un mezzo sospiro che
finisco
con l’ingoiare insieme ad altri mille mentre lascio che le
sue
mani scivolino lentamente sulla mia schiena e le ginocchia mi sfiorino
i fianchi. «Così
va meglio?» La sua voce è un’ulteriore
calda carezza. Mi bagno le
labbra e annuisco. «Credo
di sì.»
Mi sposta qualche ciocca dal viso e mi avvolge con uno sguardo che mi
scioglie e incendia allo stesso tempo. «Dio...
sì...» Sorride
ancora e mi ritrovo a ridacchiare colpevole prima di far mia la sua
bocca e mio ogni attimo di questa notte.
«Kevin
era il mio migliore
amico. Frequentavamo lo stesso liceo e condividevamo la passione per le
moto e i motori in generale.» Sento il suo battito contro la
mia
guancia e le dita che mi accarezzano dolcemente i capelli.
«Quando ci diplomammo andai a lavorare con lui
nell’officina di suo padre.» «Per
questo sei così
bravo: eri un meccanico.» Anche se non posso vedere il suo
viso
sono più che certo stia sorridendo. «Mi
è sempre venuto
piuttosto naturale. Poi James -suo padre- fu costretto a vendere
l’officina e finimmo a lavorare in un fast food. La paga era
da
fame ma potevamo avere la birra gratis... A quel tempo credo fosse
l’unica cosa di cui mi importasse.» Eric mi ha
raccontato qualche
dettaglio della sua infanzia a Edimburgo. Delle partite
di calcio con suo fratello William e del suo talento che
però
non ha coltivato preferendo dedicarsi all’architettura.
“Lavora in un piccolo studio ma
sono sicuro farà
strada.” Ha detto
che non si sentono da
quando si è trasferito qui ma che anche prima non avevano
avuto
mai un gran rapporto. “Da bambini eravamo inseparabili.”
“E poi cos’è
successo?” “Siamo cresciuti e
cambiati... e io non ero più un bel fratello.”
Quando Eric
ha preferito parlare di altro non ho insistito. Ancora
faccio fatica a credere di
essere qui, nudo e vero, poggiato sul suo petto dopo aver fatto
l’amore come mai prima. Mi sembra irreale che Eric abbia
dolcemente parlato di sé, che mi abbia aperto anche se di
poco
quel suo scrigno e che mi abbia regalato tanto in così poco
tempo. Ha
sospirato il mio nome in modo
così intenso che non potrei più udirlo da nessun
altro.
Non potrei più toccare nessuno ora che conosco il sapore
della
sua pelle, il suono dei suoi gemiti, il calore del suo piacere. Non potrei
più amare nessun altro. Mi sembra
una terribile condanna
eppure potrei scontarla a vita senza tirarmi indietro. Mi tornano alla
mente le parole di François, e mi sembrano così
vicine a
quelle che mi passano nella testa che faccio fatica a distinguere chi
le abbia davvero pronunciate. Anche se per poco, anche se fosse solo
questa notte, anche se domani rovineremo tutto di nuovo, se esiste un
dio a cui dire grazie, lo farò. «Tu
e Kevin... Eravate solo amici?» chiedo incerto e stavolta la
sua risata raggiunge le mie orecchie. «Eravamo
buoni
amici. Lo
siamo stati per parecchi anni, poi lui è finito dentro e
quando
è uscito... Beh, ci sono finito io.» Sollevo la
testa e lo guardo in
silenzio. Non dico nulla ma Eric sembra leggere nel mio silenzio. Mi
accarezza ancora le labbra e io mi sporgo per baciare le sue. Non voglio
pensare a quante altre
labbra abbiano sfiorato, a chi altro ha regalato gemiti e carezze. Non
importa quanti e quali nomi abbia sospirato, voglio solo che sulla sua
bocca da oggi ci sia solo il mio. È
una pretesa arrogante e
infantile e probabilmente quando sorgerà il sole
perderò
ogni certezza, ma per adesso voglio solo restare in questo letto
finché me lo concederà. «Vorrei
fare l’amore con te fino a perdere i sensi...» Ma che ho
detto?! Eric mi
guarda alzando un
sopracciglio e sorride divertito. «È la cosa
più
strana che abbia mai sentito!» Stavolta non cedo
all’imbarazzo
ma rido annuendo, conscio che in questo momento il cervello non
funziona proprio pienamente o, semplicemente, ha deciso di lasciare il
comando a qualcun altro. «Ma è anche la
più
sexy.» Ora sono io a sollevare le sopracciglia ed Eric
sorride di
nuovo. «Sei terribilmente sexy, detective
Martinsson.» «Smettila,
per favore.» Strano, come dopo tutta questa
intimità, una sola frase possa imbarazzarmi tanto. «Perché?
È la
verità.» Gioca con le mie dita come quel giorno in
ospedale e mi sento allo stesso modo: spaventato e felice.
«Nessuno ti ha mai detto che sei sexy?» «A
dire il vero, no...
Immagino sia per via dei capelli, i ricci non sono considerati molto
sexy.» La sua risata mi stringe prima ancora delle sue
braccia e
tutto mi sembra troppo perfetto per essere vero.
«Eric?» «Mh...»
Eppure il suo calore è reale, il suo profumo è
reale. Eric è reale. «Posso
dormire qui?» Posso
amarti? Chiudo gli
occhi e un bacio mi accarezza la tempia. Il suo
silenzio è una dolce risposta.
Continua...
NdA.
28 capitoli di drammoni esistenziali per arrivare a questo.
Ne è valsa la pena?
Per Magnus credo di sì (anzi, per citarlo: oddiossì!),
per voi non saprei. Se avete qualche uova che vi avanza
lanciatela
pure, ma evitate la faccia, grazie. Piccola nota:
la cicatrice di cui parla Magnus è quella dovuta
all’intervento di laparotomia
subito da Eric a seguito della sua
aggressione. [Wikipedia
docent]
Non aggiungo molto, volevo rappacificarli e accoppiarli da taaanto e
ora, credetemi, mi sento meglio.
Alla prossima, c’è ancora qualche nodo da
sciogliere e poi adieu
<3
Kiss kiss Chiara
P.S. Anche in questo caso il titolo del capitolo è tratto da
un verso di una canzone di Masini, “E ti amo”.
[Grazie Maso ❤]
“Il caffè è
in alto a sinistra. Non fare disastri.” Leggo il
post-it per la centesima volta da questa mattina e per la centesima
volta sorrido come uno stupido. Quando mi
sono svegliato Eric non
c’era, ma onestamente non me la sono presa per essere andato
a
lavoro senza dirmi niente. Non siamo una coppiettina da commedia
romantica, non credo potremmo mai esserlo. Non so neanche dire cosa
siamo, ma voglio smetterla di farmi domande e di darmi risposte.
Voglio
vivere ogni istante come viene. So che Eric non ricambia totalmente i
miei sentimenti, ma va bene. Sono pronto a farmi bastare ciò
che
può offrirmi, per adesso sì, va bene
così. Ripenso
ancora una volta a
ciò che è accaduto questa notte come fosse stato
solo un
lungo sogno, ma i ricordi sono reali e così lo sono le forti
sensazioni che ancora mi fanno battere il cuore
all’impazzata. Infilo il
piccolo foglietto scritto
di pugno da Eric nella tasca e tento inutilmente di concentrarmi sul
lavoro.
Kurt non è ancora arrivato. Stamattina interrogheremo
uno per uno tutti coloro che il vescovo Karlberg ci ha segnalato. Non
serbo molte aspettative in proposito e credo che Kurt la pensi
più o meno come me.
Dobbiamo tentare, dobbiamo trovare almeno un
piccolo taglio in cui infilarci o non riusciremo mai a venire a capo di
questa storia. «Buongiorno.» «Oh,
buongiorno Anne-Britt.» «Avanti,
parla.» Sollevo lo
sguardo dal computer per portarlo nel suo. «Scusa?» «Quell’espressione
beata che hai stampata sulla faccia da quando sei entrato qui.
Parla.» È
così evidente?
Forse a quel famoso centesimo sorriso stupido chiunque avrebbe
sospettato qualcosa, soprattutto perché ormai avevo
dimenticato
come si sorridesse. Scuoto la
testa con finta innocenza ma capitolo alla sua prima occhiata affilata.
«E
va bene, ieri ho parlato con Eric.» «E
non dici nulla?!» Lo
schiaffo sulla testa non me lo aspettavo, ma lo accetto con un ennesimo
sorriso. «Allora? Pace fatta?» «Pace
fatta.» Non
aggiungo altro e Anne-Britt non chiede oltre, credo che la mia
“faccia beata” abbia tutte le risposte che cerca. Mi regala
un sorriso gentile e
annuisce. «Sono contenta, Magnus. Ora cercate di non
litigare,
almeno per le prossime 24 ore.» Rido
colpevole. «Ci proveremo.» Mal che
vada, possiamo sempre ri-fare pace.
Chiudo la
portiera dell’auto
e non riesco a trattenere uno sbuffo stanco. «Niente di
nuovo.» Kurt tace e accende il motore. «Andiamo da
Sebastian Hout?» «No.»
Mi volto a
guardarlo e non riesco a leggere oltre la fronte corrucciata e le
labbra strette. «Torniamo in centrale.» Mi limito
ad annuire e rispetto il silenzio a cui Kurt ha deciso di far spegnere
ogni conversazione. Alla Casa
Famiglia non hanno saputo
dirci nulla di ciò che già non sapevamo. Nessuno
sapeva
niente di una possibile volontà di Padre Phil di lasciare il
sacerdozio. Possibile
che fosse altro? Quale potrebbe essere la soluzione che secondo lui il
Signore gli aveva indicato? Ho come la
sensazione che manchi qualcosa, e poi il biglietto che Kurt
trovò sul suo parabrezza, quei versi inquietanti. Un
mitomane? Credo
sempre più fortemente che sia stata la stessa mano che ha
ucciso Phil a scrivere quelle parole.
«E
se fosse stato
l’assassino? Sapeva di Phil e François e non
approvava,
magari è qualcuno fortemente religioso, un fanatico.
È la
soluzione più scontata, lo so, ma se fosse
così?» «E
perché scrivere quel biglietto e lasciarlo sulla mia
auto?» Scuoto la
testa. «Uno psicolabile?» Kurt torna
a leggere i fogli. «O magari vuole farsi
prendere...» «Poteva
semplicemente
costituirsi.» Ma Kurt non mi sta ascoltando, ha lo sguardo
perso
in chissà quali pensieri e io resto a picchiettare le dita
sul
legno del tavolo gonfiando una sola guancia. Potrei anche andarmene e
neanche se ne accorgerebbe. Lo lascio riflettere senza irromperlo
quando sento il cellulare vibrare nella tasca. È
un messaggio: “Sei
riuscito a lasciare intatta la mia cucina, detective?”
Il cuore mi
salta nel petto e neanche reprimo un risolino divertito. “Non temere, stasera troverai
tutto al suo posto. Ho anche rifatto il letto.”
Lo invio mordendomi un labbro e attendo una risposta che spero non
tardi. Non lo fa e
dopo pochi secondi lo schermo si riaccende: “Era il minimo, in fondo sei
stato tu a metterlo in disordine.” «Magnus?» «Sì?»
Alzo lo
sguardo con ancora un sorriso sulle labbra e vedo Kurt studiarmi per
qualche secondo. «Dimmi, Kurt.» Cerco di ritrovare
un
contegno poggiando il cellulare sul tavolo e cancellandomi
quest’aria felice dalla faccia. «Niente,
devo vedere Linda.» «Pranzi
con lei?»
Annuisce e lascia che i fogli ricadano sulla scrivania. «Ci
vediamo più tardi allora.» «Sì,
a più tardi e... Stai facendo un buon lavoro,
Magnus.» Grazie.
Lascio che sia un cenno della testa a dirlo per me mentre Kurt esce
dalla stanza con mille pensieri stretti nella testa brizzolata. Ritrovo un
sorriso, stavolta meno idiota, e quando prendo il cellulare rileggo il
messaggio di Eric. Controllo
l’ora: 12.48 “Sei in pausa?”
Lo scrivo e lo invio senza pensarci due volte. “Ancora per 15 min.” Neanche il
tempo di leggerlo che sono già in auto.
Scorgo Eric
fra un gruppo di uomini
seduti disordinatamente su delle casse di legno. Riconosco praticamente
tutte le facce. A un centinaio di metri Eric mi vede e alza una mano
per salutarmi. Lo imito e mi arresto aspettando che mi raggiunga. A ogni
passo mi sembra di impazzire di felicità. «Ehi.» «Ehi...»
Reprimo la
voglia di baciarlo perché no, non è il caso,
né il
momento, né il luogo. «Sei stato veloce.» «Ero
di strada» mento
ricordandomi il semaforo rosso che ho ignorato così come i
limiti di velocità totalmente infranti. Adesso mi
sembra quasi più
bello di quanto non lo sia mai stato, ma credo sia solo
perché,
adesso, mi sembra un po’ più vicino a me, un
po’
più mio. Butto un
occhio al gruppo di marinai che sembrano divertiti dalla nostra
conversazione. Oddio, dimmi che non sanno
niente! Eric
è un tipo riservato e
dubito che abbia detto qualcosa a qualcuno, forse sono paranoico, forse
inizio a vedere cose che non ci sono, forse- «Come
stai?» La sua
voce spezza le mie stupide elucubrazioni mentali. Il suo sorriso mi fa
fremere le mani e le stringo nelle tasche per evitare che finiscano sul
suo viso. «Bene...
Sì, sto
bene.» Rido imbarazzato conscio di quanto sembri idiota in
questo
preciso momento. «Tu?» «Idem.» «Idem...»
Stavolta è lui a ridere e io mi accodo. «Hai
da fare stasera?» Ho appena
perso dieci anni vita. Mi
torturo le dita nelle tasche e scuoto la testa. «No, nessun
programma.» Lo sguardo di Eric indugia sul mio. «Tu
sei...
libero?» Deglutisco e sento l’aria farsi
più calda
attorno al mio viso. Eric si
stringe nella sua pesante giacca da lavoro e sorride.
«È un appuntamento?» «Se
lo fosse, diresti sì?» Il ricordo
di quella telefonata
torna dolce nei miei pensieri e mi sembra di scorgere lo stesso negli
occhi di Eric. Ora non c’è alcun telefono, ora
sono pronto
a mettermi davvero in gioco. «Stacco
alle 18.00.» «Ti
passo a prendere alle 20?» La mia
domanda lo fa ghignare divertito. «Mi passi a
prendere?» Non mi ero
reso conto di quanto
suonasse stupida la cosa. Mi gratto la testa imbarazzato gettando
ancora uno sguardo al gruppo di marinai che sembrano intenti a non
abbandonare la nostra conversazione. «Volevo
dire che... hai capito.» «Alle
20 va bene.» Sul suo viso un sorriso dolce che fa vacillare
ogni determinazione di compostezza. «Perfetto,
allora» sospiro senza nascondere la gioia che provo in questo
momento. «Ricorda,
non è carino fare aspettare una ragazza.» Rido
strofinandomi le dita sulla
fronte e cercando di scacciare dalla testa l’ennesima
immagine di
un kilt che inizia a diventare insospettatamente intrigante. «EHI,
ERIC!» La voce
è quella di Hernest che è in piedi su una cassa a
urlare
senza molti problemi. «MUOVI IL CULO! DOBBIAMO ANDARE!...
SALVE,
DETECTIVE!» Scuoto una
mano decidendo di ignorare la delicata
frase di Hernest. No, direi che è ancora presto per i
pensieri sconci - è ancora mezzogiorno! «ARRIVO!»
Eric mi sorride ancora «Devo andare.» «Certo.
Ehm... buon lavoro.» «Anche
a te.» Dio,
voglio baciarti ora! «A
stasera.» «Ok.» Resto a
guardare la sua figura allontanarsi per raggiungere i suoi compagni e
sospiro sonoramente. Solo quando
risalgo in auto riesco
a realizzare che questa sera avrò un appuntamento con Eric.
Un
vero appuntamento - anche se un po’ in ritardo. “Ti passo a prendere alle 20?”
«Che
cretino...» Mi
rimprovero passandomi una mano sul viso. Attraverso lo specchio
retrovisore non riesco a non sorridere al mio riflesso arrossato.
L’orologio
segna le 17.30. Se prima mi
sembrava che girasse
troppo lentamente adesso mi sembra stia correndo impazzito. Alla
seconda occhiata sono già le 18.00. Ok, Eric ha
appena staccato.
Starà tornando a casa, si farà una doccia, si
cambierà i vestiti, magari mangerà qualcosa e... Ok,
l’eccitazione di questa mattina si sta trasformando
spaventosamente in puro panico. Perché
sono così agitato? Abbiamo
fatto l’amore meno di
24 ore fa, gli ho detto che lo amo, mi ha chiesto scusa per
ciò
che aveva detto lui e mi ha dimostrato con i fatti che in fondo si fida
di me. Stasera è solo un altro piccolo passo, non
è nulla
rispetto a ciò che abbiamo vissuto finora, non è
niente
rispetto alla fatica e alla sofferenza che ho attraversato per giungere
qui. E allora,
perché ho il terrore di bussare alla sua porta? «Il
cinema. È
l’ideale per un primo appuntamento, e stasera
c’è il
nuovo film di Julia Roberts.» Sospiro
picchiando la penna sulla scrivania. «Eric ti sembra il tipo
da film con la Roberts?» Anne-Britt
cela malamente un sorriso divertito. «Che ne sai?! Magari
è un romanticone...» «Sì,
come no»
brontolo poggiando il mento nel palmo della mano. «E poi il
cinema è... non lo so, è imbarazzante.» «Cosa
c’è di
imbarazzante nel guardare un film insieme?» Non rispondo e
sbuffo
ancora una volta. «Sarebbe meno imbarazzante una passeggiata
al
chiaro di luna?... Mano nella mano a sospirarvi dolci parol-» «Oddio,
smettila!» Al
solo pensarci riesco a bruciare e questo non fa che farla ridacchiare
crudelmente. «Non dovevo dirti niente!» «Dai,
mi sto solo divertendo.» «A
mie spese, però.» «È
a questo che
servono gli amici.» Alzo un sopracciglio scettico e
Anne-Britt mi
sorride dolcemente. «Ascolta, non credo che a Eric importi
molto
dove e cosa farete - come immagino importi poco a te - ciò
che
conta è che passiate del tempo insieme a parlare, a
conoscervi...A fare altro.»
Ascolto le sue parole e vi trovo tanta verità.
Sì, non
devo andare nel panico per questo appuntamento, voglio solo stare con
lui. «Hai
ragione.» «Io
ho sempre ragione.» Sorrido e
respiro a fondo. «Magari il cinema è una buona
idea.» «C’è
anche l’ultimo di Vin Diesel...» Rido
annuendo mentre Anne-Britt si
allontana pensando che non è poi una battuta
così
scontata. Eric ama i motori magari un film su quell’argomento
potrebbe piacergli. L’ultima
volta che sono
andato al cinema stavo ancora con Catherine. Mi sembra una vita fa, mi
sembra la vita di un altro Magnus. Ricordo che
con Catherine stavo
bene, non ricordo come, ma stavamo bene insieme, eppure mi sembra che
quei sentimenti fossero nulla in confronto a ciò che provo
adesso. Non fu facile quando mi lasciò per Steven, non fu
facile
vederla abbracciata a lui. Ho sempre creduto che l’amassi,
ora mi
chiedo se fosse realmente così. Magari esistono modi diversi
di
amare, esistono modi diversi di essere amati. Mi sto
ancora perdendo fra mille pensieri quando vedo Kurt entrare trafelato
dalla porta. «Magnus?» «Che
succede?» Ha i
capelli arruffati, il colletto della camicia stropicciato e ancora
qualche briciola di quello che credo sia pane sulla giacca. «La
lista di Karlberg,
dov’è?» La domanda è
fulminea, cerco di
esserlo anch’io nella risposta. «Ce
l’ho io.» Mi
infilo una mano nella tasca dei pantaloni ma non la trovo.
«Forse
è nella giacca» rifletto ad alta voce cercandola
anche
nelle tasche posteriori. «Magnus,
dammi quella lista adesso!» «Sì,
sì Kurt,
lo trovo subito!» Quasi mi sembra di balbettare come ai
vecchi
tempi. Mi alzo dalla scrivania cercando con gli occhi la mia giacca, la
trovo poggiata su una sedia dall’altra parte della stanza. La
raggiungo e Kurt mi segue. Setaccio le tasche e finalmente trovo la
lista. Forse Kurt ha capito chi fra quei nomi sa qualcosa, forse siamo
finalmente a una svolta. «Tieni.»
Mi strappa
letteralmente il foglio dalle mani e si dirige silente verso il tavolo
dove sono sparse le prove del caso San Pietro. Lo vedo
cercare furente qualcosa. «Cosa
ti serve, Kurt? Che succede?» «Dovevo
capirlo subito! Sono stato un idiota!» È la sua
risposta. Provo a
capire cosa gli passi per
la testa ma non riesco a fare altro che seguire le sue mani che
spostano disordinatamente le varie buste finché non trova
quella
che cerca. Riconosco il contenuto. «Kurt-» «Magnus,
guarda!»
Dispone la lista sulla scrivania e appoggia accanto l’altra
busta
trasparente. «Guarda bene, cosa vedi?» Deglutisco
scrutando i due fogli. Leggo nuovamente i nomi, uno per volta e non mi
dicono niente. Che dovrebbero dirmi? «Io...»
L’altro foglio è quello che riporta i versi di San
Paolo. Non capisco
l’attinenza. Guardo ancora e alla fine lo vedo. Ecco cosa
c’era che non andava, ecco perché quella lista mi
aveva disorientato subito. Sgrano gli
occhi e anche le labbra. «È la stessa
calligrafia!» Non
può essere. Guardo Kurt
i cui occhi brillano di forte determinazione mentre annuisce. «Oddio,
Kurt, non vorrai dire
che è stato Karlberg?» chiedo incredulo mentre lui
si
infila le due prove nella tasca. «Non
lo so.» Lo seguo mentre si avvia alla porta afferrando al
volo la giaccia dalla sedia.
«Continuavo
a pensare a
quella lista e mi dicevo che c’era qualcosa che non
tornava.» Ascolto la voce di Kurt mentre guida velocemente
verso
San Pietro. I suoi pensieri riflettono i miei. «Poi Linda ha
iniziato a parlare delle partecipazioni...» «E
hai capito che era la calligrafia e non il contenuto.» Annuisce
umettandosi le labbra. Io
mi passo due dita sulla fronte tacendo i miei dubbi. Non riesco a
credere possa essere stato il vescovo Karlberg a uccidere Phil. Le due
scritture si somigliano ma non possiamo dire con certezza provengano
dalla stessa persona. «Kurt,
non dovremmo mandarle in laboratorio? Un’analisi calligrafica
potrebbe-» «No,
non c’è tempo.» «E
se ti sbagliassi? Karlberg
è un vescovo, Kurt, ed è anche molto amato.
Potremmo
alzare un polverone inutile... potremmo avere contro tutta
l’opinione pubblica! Forse dovremmo essere sicuri
di-» «Come
puoi pensare a queste stupidaggini, Magnus?» Taccio al suo
richiamo sentendomi leggermente in imbarazzo. È
stato un pensiero spontaneo di cui ho voluto metterlo a conoscenza. È
la verità: se
andassimo da Karlberg e lo accusassimo di aver ucciso Padre Phil e poi
scoprissimo che è stato un errore? È
un rischio, un azzardo e
Kurt mi sembra più che determinato a seguirlo.
Mi rendo conto
solo adesso che l’espressione sul suo viso è la
stessa che
avevo io quando cercavo il responsabile dell’aggressione di
Eric.
Con Vargas ho rischiato, ho rischiato tutto perché per Eric
ne
valeva la pena.
E per Phil? Per François? Sono così
egoista da ritenere la loro giustizia inferiore alla mia? Mi sento in
colpa per come sto affrontando la cosa e decido di scacciare ogni
dubbio. Se Kurt
crede sia una buona idea allora lo sarà anche per me. «Ci
siamo» sospiro serio mentre parcheggiamo davanti alle
scalinate. Guardo il
profilo di Kurt ma lui è già sceso
dall’auto.
«Commissario,
Monsignore
Karlberg non può riceverla ora.» Theodor,
l’uomo che
ci accompagnò l’ultima volta segue i nostri passi
con
affanno. Kurt percorre veloce i corridoi di San Pietro come li
conoscesse a memoria, io tengo il suo passo silente. In poco
raggiungiamo lo studio di Karlberg. Stavolta
nessuno bussa, stavolta nessuno aspetta un Avanti. «Commissario!»
Kurt
spalanca la porta di vetro ed entriamo. «Monsignore,
ho provato a fermarli ma-» «Non
preoccuparti, Theodor, le visite del commissario Wallander sono sempre
ben accette. Va’ pure.» Karlberg
è ancora una volta seduto dietro la sua scrivania. Il
sorriso gentile e lo sguardo pulito. «Come
possa aiutarla stavolta?» Theodor esce con qualche incertezza
e la porta si chiude nuovamente. Kurt estrae
dalla tasca interna della giacca le due lettere e le piazza senza
troppe cerimonie sulla scrivania. «Mi
dica che sto sbagliando.» La voce è calma ma
tradisce una vena di rabbia. Il vescovo
abbassa lo sguardo e non
perde il sorriso. Guarda i due fogli e poi solleva il viso. Quel
sorriso adesso mi fa rabbrividire. «No, non
sbaglia.» Un altro
brivido percorre la mia
pelle. Saetto con lo sguardo sul volto di Kurt dove la rabbia
è
ora ben visibile. Sul mio non so dire cosa governi se
incredulità o disgusto. «È
stato lei a
uccidere Phil?» lo chiedo con il battito troppo accelerato,
con
la bocca troppo secca, con le mani che quasi tremano. «Aspettavo
questa domanda da un po’, detective. Grazie per avermela
porta.» Scuoto
inconsciamente la testa. Karlberg abbandona la scrivania e ci
raggiunge. «Perché?»
E sono ancora io a chiederlo. «Perché
era giusto così.» «Cosa
era giusto? Pugnalare
un povero prete solo perché si era innamorato?» La
rabbia
di Kurt ora risuona forte. Io sono gelato, non ho più parole
sul
fondo della gola, ho solo il volto di François negli occhi e
la
sua voce nelle orecchie. «Phil
aveva perduto la
strada, stava abbandonando il disegno di Dio per colpa di quel
ragazzino francese! Non potevo lasciare che perdesse anche la sua
anima.» Karlberg non ha più sorriso, non ha
neanche
più calma. «Venne da me, felice come un bambino
per dirmi
che voleva abbandonare tutto, e perché? Perché si
era
innamorato! Innamorato di un... di un uomo! E il Signore mi sia
testimone, ho provato a farlo ragionare. Ma niente... Aveva deciso di
smarrirsi in un peccato così abietto.» «Era
una sua scelta.»
Il disgusto piega anche il viso di Kurt. Io avrei bisogno di sedermi,
avrei bisogno di uscire da questa stanza e vomitare anche gli occhi
perché non riesco a sopportare tutte queste
assurdità. «È
stato deviato. Phil
era un bravo sacerdote e lo sarebbe stato ancora a lungo se avesse
avuto la forza di resistere a quella tentazione riprovevole! Il Signore
non può perdonare un simile abominio! Un simile oltraggio
alla
sua natura.» La nausea
aumenta, la testa mi gira
e faccio qualche passo indietro. Kurt non lo nota, Karlberg
è
troppo occupato a continuare il suo monologo per rendersi conto di come
le sue parole mi stiano colpendo ferocemente. «Non
è stato il Signore a pugnalarlo, ma lei, ed è
questa la cosa abominevole.» «Ho
solo seguito il suo volere.» «No,
ha solo ucciso un amico
e non ha avuto neanche il coraggio di confessarlo... E
perché
lasciare quel biglietto?» Karlberg
torna a sorridere, io sento gli occhi pungere e mando giù un
pugno di aghi. «Gliel’ho
detto, ho
seguito il disegno di Dio. Se per la legge degli uomini ho commesso un
errore, pagherò. Non voglio sfuggire alle mie
responsabilità. Volevo che il volere di Nostro Signore fosse
chiaro. Ho aspettato di vederla entrare da quella porta con la
verità sulle labbra, e ogni volta che usciva da qui capivo
che
non era ancora giunto il momento. Adesso sono pronto ad affrontare la
vostra giustizia, conscio che la mia mano non sarà sola, ma
che
Dio sarà con me in ogni passo, perché io non ho
commesso
peccato ai suoi occhi, ho solo lavato via le colpe di Phil.» «Lei
è pazzo» sospira Kurt scuotendo il capo. «Perché...?»
La
mia voce esce strozzata. Vibra e si spezza. Sono qui eppure non ci sono
davvero. «Che colpa può avere avuto Phil? Che
colpa ha
François? Che colpa c’è a
innamorarsi?...» Nessuno mi
risponde, Kurt fuma di
rabbia forse per essersi sentito preso in giro da quest’uomo,
forse perché come me trova assurdo e inaccettabile essere
puniti
solo perché si ha amato. Karlberg mi
guarda con un sorriso gentile e due occhi glaciali. Mi scrutano dentro
e mi giudicano. Vedono e
sanno. E
anch’io merito il loro disprezzo.
Torno a
casa alle nove passate. Mi stendo sul divano e lì resto
inerme per non so quanto tempo. Il caso
è chiuso, Karlberg
è ormai con le manette ai polsi. Domattina tutta Ystad
sarà scossa dalla notizia del suo arresto, probabilmente la
notizia si spargerà per tutta Scania. Lisa pensa
di organizzare una conferenza stampa per evitare che nascano delle
false dichiarazioni. Sarà
difficile tenere sotto chiave ancora la relazione fra Phil e
François. Kurt lo ha
telefonato appena siamo
giunti in centrale. Ho potuto sentire anche io le lacrime
dall’altra parte del telefono. Non mi ha
chiesto perché
fossi tanto scosso, non so se possa conoscere la risposta, in tutta
onestà non me ne importa poi tanto. Sullo
schermo del cellulare ho trovato tre chiamate di Eric e un solo
messaggio: “Tutto
ok?” Ancora non
gli ho risposto. Non so se
sia tutto ok, non credo
di essere molto ok questa sera, eppure so che se vedessi il suo viso,
se sentissi la sua voce dimenticherei ogni sensazioni di disagio,
dimenticherei gli occhi di Karlberg e le sue parole. Dimenticherei,
perché Eric è l’unica cosa a cui ho
voglia di pensare. Scendo dal
divano e afferro la giacca. Una
manciata di minuti dopo sono sotto casa sua. Basta che
mi apra la porta e mi sorrida che sento che tutto va bene, che tutto
andrà bene. «Un
po’ in ritardo... Ti pare?» Annuisco e
respiro a fondo. «Troppo
tardi per andare al cinema, vero?» Ride e ogni
peso sul mio petto diventa polvere. «Hai cenato?» «Continuerai
a rispondermi con una domanda?» «E
tu?» Sorrido
sconfitto. «Ho una certa fame, a dire il vero.» «E
allora entra, e vai a lavarti le mani.» Varco la
soglia ridendo e lascio fuori al freddo questa strana giornata.
Continua...
NdA.
Ci siamo, ormai è arrivata la fine, il prossimo
sarà l’ultimo.
Spero la risoluzione del caso sia stata per lo meno decente, lo so che
si poteva fare di meglio, ma spero vogliate perdonare lo stesso la
banalità della cosa.
Ne approfitto per fare qui i ringraziamenti di rito, perché
farli nell’ultimo mi mette una certa tristezza.
Grazie a chiunque abbia letto e apprezzato questa storia.
Grazie a chi mi ha fatto compagnia in questa lunga avventura durata
quasi un anno.
Grazie a chi mi ha dato consigli e a chi mi ha fatto bellissimi
complimenti che hanno scaldato il mio cuore e coccolato la mia
autostima.
Grazie alle persone che mi hanno regalato sorrisi ed emozioni con i
loro commenti e a chi mi ha aiutato a riflettere e migliorare.
Grazie a Callie_Stephanides
per aver regalato alla mia storia opere meravigliose con i suoi video e
i suoi lavori. Sei stata più che gentile, sei stata davvero
meravigliosa.
Grazie a Angeline
Farewell che mi ha fatto dono di una fantastica fanart
disegnata appositamente per me, o meglio per Magnus ed Eric ^^
La tengo orgogliosamente attaccata al muro e me ne faccio vanto con
tutti coloro che transitano lì davanti. Sappilo!
Grazie per la bellissima esperienza che è stata scrivere
questa
storia, perché senza di voi, non sarebbe stato lo stesso.
Mi auguro che il finale possa chiudere degnamente questo percosso di
vita.
Io e Magnus siamo cresciuti insieme, abbiamo sbagliato e abbiamo
imparato insieme.
Soltanto che io, ahimè, ancora non ho beccato un Eric
disponibile.
Chissà, magari prima o poi...
Un abbraccio e un bacio a tutti.
Come direbbe François: tutta questa fatica... beh, ne
è valsa la pena <3
Kiss kiss Chiara
«È
delizioso, Eric.»
«Non è nulla di speciale.»
Affondo ancora la forchetta nel piatto. «Per me che vivo di
precotti e take away è molto speciale, invece!» Mi
godo
ancora la bontà di questa cena cercando di limitare gorgogli
di
apprezzamento.
Eric sa cucina, e cucinare davvero bene.
La tavola era ancora apparecchiata per due in modo semplice, e mi sono
sentito quasi mancare quando ho visto le pentole sulla cucina, il forno
spento che ancora profumava di buono.
Non riesco a pensare a come mi sarei sentito in colpa se non fossi
venuto.
Dannato Karlberg e i suoi sermoni omofobi!
Sono orgoglioso di me per non aver ceduto alla malinconia, sono
contento di essere qui a cenare con Eric, anche se è stato
costretto a riscaldare tutto.
Sono un disastro in ogni caso.
Eric mangia lentamente, non so se abbia già cenato prima e
se
adesso mi stia solo facendo compagnia, non potrei sentirmi comunque
meglio di come mi senta adesso. Guardo il
suo maglione color panna che
fa risaltare la pelle ambrata e i suoi begli occhi realizzando ancora
una volta quanto realmente ci tenga a lui, quanto sarebbe impensabile
adesso vivere senza.
«Lo sai, tu sei l’unica persona al mondo che
può
cucinare con un maglione chiaro senza macchiarsi.» Dico una
stupidata senza riflettere eppure lui sorride.
«Vuoi conoscere il mio segreto?»
«Assolutamente.» Sorrido a mia volta mentre si
sporge in avanti con un ghigno divertito.
«Grembiule da cucina.» Non trattengo una risata e
cerco di
non strozzarmi. «L’ho tenuto fino a poco fa,
l’ho
tolto quando hai bussato.»
«Perché? Potevi tenerlo, immagino ti
doni.» Come
qualsiasi altro indumento...
«Oh, sì, è molto sexy con tutti quei
funghi rossi disegnati sopra.»
Ok, stavolta mi strozzerò davvero.
«Dove hai imparato?» mormoro con la bocca mezza
piena. «È tutto squisito, sul serio,
Eric.»
«Quando tua madre muore e tuo padre è fuori tutto
il
giorno devi arrangiarti in qualche modo.» La sua risposta
è diretta e serena eppure mi provoca una morsa dritta allo
stomaco e mi sembra di non avere più molto appetito.
Mastico lentamente mandando giù un boccone più
amaro degli altri.
«Non deve essere stato facile perdere tua madre
così
presto...» Eric aveva solo 14 anni e suo fratello appena 10.
Quando poi suo padre è morto, Eric stava scontando la sua
condanna in carcere. Non è andato neanche al suo funerale.
«Perdonami, non volevo.»
«Non ti preoccupare.» Mi sorride e ingoio un
sospiro. Ho
sempre il timore di rovinare tutto, di dire una frase sbagliata... e
perderlo.
«Sono felice di essere qui stasera» confesso
semplicemente. «Grazie.»
Mi sembra di scorgere un leggero velo di imbarazzo ma forse
è solo una mia impressione.
Guardo le fiamme danzare alte nel camino e mi sembra ieri che ero
seduto su questo divano completamente spezzato, con Eric che mi
fasciava la mano con cura e gentilezza.
Stringo la tazza calda fra le mani e sorrido poggiando le labbra contro
il bordo della ceramica.
Getto uno sguardo alla cucina dove Eric è sparito qualche
minuto
fa. Non so cosa
stia facendo, ma se sbuca fuori con indosso quel
grembiule non riuscirò più ad avere il controllo
delle
mie azioni.
Qualche attimo dopo eccolo tornare, nessun grembiule, ma fra le mani
stringe un piccolo vassoio che poggia sul tavolino davanti.
Quando riconosco il contenuto non so se ridere o piangere.
«Li hai fatti tu?» chiedo incredulo.
«Non sono bravo fino a questo punto.» Afferro il
piccolo
pasticcino coperto di zucchero scuotendo la testa inconsciamente. I
dolcetti alla marmellata che mangiai in ospedale, i dolcetti alla
marmellata del nostro primo imbarazzante bacio. «Ho chiesto
ad
Amanda di prepararli.»
Tengo ancora il piccolo bignè fra le dita con un sorriso
assolutamente ebete stampato sulla faccia. «Perché
proprio
questi?»
«Secondo te?» Continuo a guardare il dolce come
fosse
irreale. «Non li ho avvelenati, Biancaneve,
fidati.»
Biancaneve?
Eric sorride divertito e io ignoro ogni altra presa in giro.
«Avanti, mangia.»
Non me lo faccio dire due volte e ne spazzolo un paio con
voracità. Stessa
marmellata dell’altra volta,
stessa
sensazione di appagamento dei sensi.
Eric ne mangia solo uno e mi diverto a guardare lo zucchero sporcare di
bianco la barba sul suo mento.
«Anche tu combini disastri» sospiro e lui
alza un
sopracciglio masticando confuso. Gli indico il mento e solo allora si
pulisce con le dita, ma essendo piene di zucchero non fa altro che
aumentare il danno.
«Credo di aver peggiorato la cosa» borbotta
continuando a
masticare e io lo trovo talmente adorabile che quasi mi sembra irreale
la sua momentanea imbranataggine. Inizio a ridere e dopo qualche attimo
me lo tiro dietro. «Ok, ridi pure, credo di essermelo
meritato.»
«Un po’ sì.» Le risate sfumano
e restano solo sorrisi.
«Vendetta?»
Scuoto la testa. «Giustizia.»
«Oh, certo... Un poliziotto, dimenticavo.» Gli tiro
una
leggera spallata e cerco di pulire le mani strofinandole fra di loro.
Quando torno a guardare il suo viso, c’è ancora il
velo
bianco sul suo mento.
Non resisto. Avvicino le dita e lentamente spazzolo via lo zucchero
lasciando che gli occhi di Eric mi osservino silenti.
Non c’è suono che non sia lo scoppiettio del
fuoco.
Ormai non c’è più traccia di nulla
eppure le mie dita continuano a sfiorare delicatamente il suo viso.
«Grazie.» È solo un sospiro.
Il sorriso di Eric è gentile e dolce, mi scalda
più del
fuoco, mi riempie e mi svuota allo stesso tempo, e mi fa vibrare nel
cuore ancora una volta una tremenda paura.
“Non legare la
tua vita a quella di qualcun altro,
Magnus.”
“Che vuoi
dire, papà?”
Avevo solo 13 anni e troppi brufoli sul viso e spintoni sul treno per
farmi simili domande.
Mio padre non ha risposto. Quella sera non tornò a casa, il
giorno dopo aveva la valigia aperta sul letto.
Ora sento la sua risposta e posso dirgli la mia.
Errore già commesso, papà.
«Ne è rimasto solo uno.» Solo allora
sembro
riprendermi dal mio momentaneo stallo. Guardo il vassoio e vedo il
piccolo bignè bianco. «Te lo lascio.»
«Ah sì?» chiedo mentre Eric lo afferra e
me lo porge.
«Devi mettere su un po’ di carne o volerai alla
prima folata di vento.»
«Ah, ora capisco il vero scopo di questa cena: vuoi mettermi
all’ingrasso.» Stavolta è Eric a ridere
mentre
divoro con un solo inelegante boccone il dolce. «Mia madre
è una vita che ci prova senza successo.» Mi rendo
conto
tardi che non è un argomento di cui dovrei parlare.
«Chissà, avrò più fortuna di
lei.»
Eppure non sembra perdere il sorriso, anzi, mi strizza un occhio e si
stende spalle al divano. Mi mordo lo
stesso la lingua e non riesco
più a dire niente. Un altro scusa sarebbe
stupido, cambiare
discorso mi verrebbe male.
Lo imito e guardo le fiamme alte nel camino. «Eric?»
«Mh...»
«Hai una canzone preferita?»
Lo sento ridere e lo guardo maledicendomi: sapevo che mi sarebbe venuto
male.
«Cos’è, stai per iniziare con le domande
classiche da primo appuntamento?»
Sbuffo con un sorriso e scuoto la testa. «No, era solo una
curiosità.»
«La tua qual è?» Guardo i suoi occhi
caldi e mi rendo conto di non avere una risposta.
«Non ce l’ho... Non credo di averci mai
pensato» ammetto alzando le spalle.
Non ho una canzone preferita, né un film, né
altro che
possa distinguersi dal resto. Prima di Eric, credo non aver neanche
avuto un batticuore più forte degli altri. Mi chiedo
perché gli abbia fatto quella domanda, la glicemia deve
avermi
dato alla testa. O sei
solo tu ad abbattete sempre ogni mia barriera...
«Lascia stare, era una stupidaggine.»
«Bitter Sweet
Symphony.» Rimango in
silenzio e
sorpreso,
perché non penso di aver ben capito cosa abbia detto -
beneamata
ignoranza - ma soprattutto perché mi ha risposto.
«Non credo di conoscerla.»
Eric sorride ancora. «È impossibile!» Mi
sento di
nuovo imbarazzato e deve rendersene conto.
«Aspetta.» Lo
seguo con lo sguardo mentre si alza dal divano e si avvicina a un
mobile del
soggiorno. Si inginocchia e apre l’anta marrone. Quello che
ne
tira fuori è un piccolo stereo di forma sferica, di quelli
che
solitamente si trovano nelle stanze dei teenagers. Non riesco
a godermi
la stranezza della cosa ché lo vedo armeggiare con quella
che mi sembra
la custodia di un CD. Mi è abbastanza chiaro che Eric vuole
farmi ascoltare la sua canzone preferita e non so se esserne felice o
spaventato: se non la riconosco davvero crederà che sono un
cretino.
Quando suonano le prime note Eric torna a sedersi accanto a me. Il
volume non è alto.
«Sì, la conosco» ammetto tirando un
sospiro di sollievo mentre continuo a sentire la melodia degli archi.
Non riesco a cancellarmi questo sorriso dalla faccia.
La musica in sottofondo, la sua vicinanza, il calore del fuoco e quello
che mi nasce da dentro.
Le dita di Eric che trovano le mie, i suoi occhi che non mi lasciano
mai.
È un’intimità più profonda
perfino di quella
che abbiamo condiviso la scorsa notte, è
un’intimità che non fa paura ma che mi fa sentire
quasi
più forte.
«Potevi cantarla...» scherzo, e mi regala un
sorriso a cui
rispondo volentieri. «Perché è la tua
preferita?» chiedo lasciandomi cullare dal suono di parole
che in
verità non comprendo.
Eric esita a rispondermi continuando a stringere e sciogliere le dita
con le mie.
«È l’ultima canzone che ho sentito
cantare a mia
madre.» Sorride e io sento il cuore stringersi e gli occhi
inumidirsi con troppa facilità. «L’unica
che la
faceva sorridere in ospedale... Dovevi sentirla, era terribilmente
stonata!» È lacerante la piccola risata che
abbandona la
sua gola e mi ritrovo a mandare giù un nodo mentre la mano
si
chiude nella sua. «Quando è morta ho continuato ad
ascoltarla. Sempre, ogni pomeriggio, ogni istante. Camminavo per strada
sentendola nella testa e credevo di essere come Richard Ashcroft:
intoccabile, senza paura di nessuno[1]... Per un po’ ha
funzionato.»
«E poi?» sospiro con un accenno di voce non del
tutto stabile.
Eric abbassa la testa e piega di nuovo le labbra
all’insù.
«Poi ho iniziato a dimenticare il suono della sua
voce...»
Quando solleva lo sguardo non sorride più e i suoi occhi
diventano troppo simili ai miei. «Lei mi guardava come mi
guardi
tu, come se fossi speciale... È questo che mi fa paura,
Magnus.
Io non sono speciale eppure ogni volta che mi guardi... quasi mi illudo
di esserlo davvero.» Sorride di nuovo e io non riesco a dire
una
sola parola, non riesco a impedire alle mie labbra di vibrare e agli
occhi di farsi ancora più umidi. Non riesco a impedire alle
braccia di avvolgersi attorno alle sue spalle, e quando sento le sue
stringere me, sento con esse tutto il suo dolore e la sua paura. Lo
sento
davvero, lo sento come non credevo possibile. «Quando
penso
a come ti ho trattato... Dio, mi sento morire.»
«Ti prego, Eric, non dire niente.» Il mio cuore
batte
già troppo forte. «Non dire
niente.» Lo
bacio con
bisogno e passione.
«Perdonami, Magnus.» Bacio le sue labbra e il suo
viso
privo di lacrime, bacio le palpebre che le custodiscono silenti e che
forse le stanno custodendo da chissà quanto.
«Perdonami...»
Bacio di nuovo la sua bocca e quella richiesta disperata e sincera, e
mi sembra più forte di ogni stupido ti amo.
Odo ancora parole e musica, nelle orecchie, nella testa, nel cuore,
mentre gli archi coprono il suono ovattato degli abiti che cadono sul
pavimento.
*
«Che ne dici di questa?» Mi volto verso Eric che
però sembra più interessato a guardare la Suzuki
parcheggiata di fronte al marciapiede. «Se non ti andava di
venire potevi dirlo...» sospiro conscio che non avrei dovuto
insistere.
«No, non è questo. Ma cosa vuoi che ne capisca io
di collane?»
«Perché, io ti sembro un esperto?» Un
altro sbuffo
mentre guardo il mio riflesso nella vetrina. «Forse non
è
una buona idea.»
«Ascolta, scegline una qualsiasi, Amanda lo
apprezzerà in ogni caso.»
Le parole di Eric non mi convincono. Mi mordo l’interno di un
labbro continuando a tenere gli occhi fissi sulla collana di perle.
Non c’è stato modo di ritrovarla, Vargas non
sapeva dire
dove fosse o chi l’avesse e per poco non mi ha aggredito
quando
sono andato a interrogarlo in prigione.
Il caso Fustern è rimasto un caso irrisolto.
Amanda dice che non importa, che i ricordi si tengono nel cuore e non
negli oggetti ma io ancora ricordo i suoi occhi lucidi mentre parlava
di quella collana.
È diventata una persona importante, ciò non
bastasse,
devo a lei la serenità che sto vivendo adesso: senza i suoi
pregiudizi su Eric, non l’avrei mai conosciuto. Non avrei
avuto
l’opportunità di innamorarmi di lui e di vivere
queste
intense emozioni.
Ormai è quasi un mese che ci frequentiamo come due persone
normali. Normale,
credo di non aver ancora afferrato il vero significato di
questo termine.
Eric ancora non mi ha detto quelle due parole, ma io le
sento ogni volta che mi tiene stretto fra le braccia, le sento quando
ascolta in silenzio le mie lamentele su Kurt, su Lisa e sul caso
imbarazzante affidatomi, le sento quando mi chiede se resto a cena e
sorride quando dico di sì, le sento quando mi prende in giro
perché ancora non sono in grado di dire una frase in inglese
senza stravolgerne il significato.
Le sento quando la malinconia gli copre gli occhi e lascia che io gli
sfiori i capelli senza allontanarmi.
Le sento sempre e forti, e non credo serva altro.
«Quella lì.»
«Quale?»
Mi indica una sottile collana d'oro con un piccolo ciondolo rosa.
«Quella. »
Mi avvicino alla vetrina per guardarla meglio e do una bella capocciata
al vetro. «Ahi!»
«Il solito imbranato» ridacchia lui ma mi passa una
mano sulla fronte. «Fatto male?»
Scuoto la testa e reprimo un sorriso divertito. «È
molto
simile agli orecchini... Di’, un po’, non
è che alla
fine la collana l’hai presa davvero tu?»
Sorride. «Beccato! È nascosta in un baule insieme
a mille kilt.»
Rido stringendomi nel cappotto all’ennesima fredda folata di
vento. «È aria di neve» sospiro e Eric
alza lo
sguardo al cielo sempre più bianco.
«Meglio affrettarci allora, non ho le catene.»
«Sono tre isolati, credi che arriverà una tormenta
nei prossimi cinque minuti?!» ghigno entrando nel negozio.
«Chi lo sa? Io non conosco ancora bene questo vostro
clima.» Mi segue e il campanello sulla porta tintinna
dolcemente.
«Buongiorno, posso aiutarvi?» Una bella signora
sulla
quarantina ci sorride dall’altra parte di un lucido bancone.
«Vorremmo vedere la collana in vetrina, quella con il
ciondolo
rosa.»
«Oh, certo.» La commessa si avvicina al vetro e
prende il piccolo gioiello.
«È per la sua ragazza.» Eric ridacchia e
io lo colpisco leggermente con un gomito.
È da quando ho deciso di fare questo regalo ad Amanda che mi
tormenta. Avevo pensato di darglielo per Natale ma manca ancora un
po’ e io sento che devo farlo ora.
«È un oggetto molto elegante e raffinato, alla sua
fidanzata piacerà.»
Fingo di ignorare l’eccessivo divertimento sul viso di Eric e
seguo la donna fino al bancone. In effetti è davvero una
collana
molto bella.
«Hai dei bei gusti...» mormoro guardandolo di
sottecchi.
Non dice nulla ma scorgo la soddisfazione brillare negli occhi.
Appena torniamo a casa mi dovrò vendicare.
«È una creazione di classe e a questo prezzo
è quasi regalata.»
Il prezzo, giusto, ancora non l'ho chiesto.
Quando lo faccio deglutisco visibilmente.
«8000 corone?» Ma è un furto, altro che
regalata!
«È oro bianco e il brillante del ciondolo da solo
vale 5000 corone.»
Neanche Eric sorride più.
Mi gratto la testa indeciso. Non pensavo di spendere una cifra simile,
ma questa collana è davvero molto bella e ricorda moltissimo
gli
orecchini di Amanda.
Riesco persino a vederla al suo collo.
«Va bene, la prendiamo.»
«Eric?» Lascio che i miei occhi chiedano e aspetto
che i suoi rispondano. Non lo fanno.
«Faccio un pacchetto regalo quindi?»
«Sì, grazie.»
Mentre la commessa inizia a sistemare sul bancone cofanetti e nastri
vari, ne approfitto per capire cosa gli stia passando per la testa.
«Non ce le ho 8000 corone, Eric! E non so neanche se posso
pagarla a rate.»
«Ti piace?» Mi chiede con un sorriso. «La
collana, dico. Ti piace?»
«Certo ma-»
«E allora non preoccuparti. Te ne bastano 4000.»
Ci impiego qualche attimo per realizzare le sue intenzioni.
«No, Eric. È stata una mia idea e non voglio che
tu-»
«Volete anche un bigliettino accanto?»
L’elegante
signora mi interrompe e porto gli occhi sulla graziosa confezione che
ha creato. È davvero bella.
«No, grazie. Va bene così.»
«Eric, per favore....»
«Sono 8000 corone, allora. All’interno
c’è
anche la garanzia di originalità dei materiali.»
Non ho più potere, Eric ha già sistemato la sua
parte sul
bancone e mi guarda con un'espressione così determinata che
semplicemente mi arrendo.
Pago la mia metà e prendo il regalo.
«Te li do al prossimo stipendio. Te lo prometto»
bisbiglio mentre usciamo dal negozio.
Il campanellino suona ancora una volta.
«Dammi quattromila di questi e siamo pari.»
Quando mi bacia davanti alla vetrina sento un fiocco di neve
accarezzarmi una guancia.
È il decimo fazzoletto. Fra un po’
finirà la scatola.
«Amanda, per favore.»
«Oh, Magnus, è il regalo più
bello...Più... siete dei ragazzi speciali. Tutti e
due.»
Alzo lo sguardo su Eric che sta caricando la caraffa d’acqua
per
il tè. Solleva le sopracciglia con un sorriso e io sospiro
mentre Amanda afferra l’undicesimo fazzoletto.
Non è stata una buona idea organizzare questa cena,
soprattutto
è stata una pessima idea darle la collana al termine. Ha
reso il tutto troppo importante, non
che non lo fosse, ma non volevo che consumasse una confezione di
kleenex. Avevo messo
in conto che si sarebbe commossa, ma adesso mi
chiedo se smetterà mai.
«Quanto sono fortunata ad avere due persone come
voi.» Mi
stringe una mano mentre guarda ancora la confezione aperta con il
ciondolo rosa. «Se il mio Arthur vi avesse conosciuto... Oh,
quanto gli sareste piaciuti.»
«Io più di lui, scommetto.» La frase di
Eric la fa sorridere e gliene sono grato.
Eric ha un modo tutto suo di dare affetto, eppure non credo esista
qualcuno con un cuore più gentile. E ha deciso di
donarlo a me.
Cosa ho fatto di buono nella mia vita per meritare tanto?
«Coraggio, ci faccia vedere come le sta.» Si
avvicina e le
poggia entrambe le mani sulle spalle. Guardo il viso della signora
Fustern illuminarsi ancora di più con gli occhi arrossati e
felici. Poi guardo quello di Eric che mi sorride strizzandomi un occhio.
Prendo la collana dal cofanetto e gliela passo. La delicatezza con cui
l’allaccia attorno al suo collo fa piegare anche le mie
labbra.
«È davvero meravigliosa...» sospira
Amanda sfiorando il ciondolo con le dita.
«Lei è meravigliosa, Amanda.»
Era meglio che stavo zitto, perché adesso mi
toccherà prendere altri cento fazzoletti.
Mentre cerco di rattoppare il danno, il cellulare squilla nella mia
tasca.
Lascio a Eric il compito di arrestare le lacrime, mi sembra gli riesca
immensamente meglio, e vado a rispondere in soggiorno.
«Ehi, mamma?»
«Come sta il mio figlio famoso?»
Ancora con questa storia.
Sospiro con un sorriso. «Sta benone, mamma.» Dopo
l’arresto di Karlberg e l’ovvio scalpore che ne
è
seguito, un quotidiano locale ha pubblicato un articolo con una foto di
Kurt in cui, ancora devo capire come, c’ero anche io. Mia
madre
ha ordinato due copie del giornale e ha deciso che ero diventato un
detective famoso. Credo non abbia notato che nella didascalia sotto la
foto compariva solo il nome di Kurt...
«Tu come stai?... E Rob?»
«Al solito, tesoro, anzi proprio di questo volevo
parlarti.»
«Dimmi tutto.» Butto un occhio alla cucina in cui
Eric ha
riempito una tazza fumante davanti alla signora Fustern e sta dicendo
qualcosa sulla mia testata di ieri contro la vetrina. Amanda ride,
meglio così.
«Questo sabato ci sarà una mostra di
bonsai a Ystad,
alla Fiera del porto.» Ne avevo sentito parlare, era stato
Eric a
dirmi che avevano passato un pomeriggio a scaricare casse contenenti
qualcosa per una mostra di non ricordava bene cosa.
“Hernest ha
litigato con Gustav perché gli ha imposto due
turni serali di fila e sua moglie per poco non voleva
lasciarlo.”
I racconti di Eric vertono sempre sulle disgrazie che capitano ai suoi
colleghi. Credo nasconda una vena sadica in fondo a quel cuore
gentile...
«Rob vuole andare alla mostra, immagino?» chiedo.
«Esatto, però vuole parteciparvi. Quindi dobbiamo
venire a
Ystad almeno un giorno prima per fare l’iscrizione e
sistemare
altre scartoffie.»
«Certo, capisco.»
Amanda ha smesso di piangere - grazie a Dio - e Eric continua a
raccontare di altre “divertenti” disavventure
stavolta
successe al povero Lars.
«Magnus, volevo sapere se potevamo stare da te qualche
giorno. Lo
sai che Rob odia andare in albergo e per i suoi bonsai
c’è
bisogno di spazio.» Riporto
l’attenzione al
discorso di
mia madre.
«Mamma, non c’è problema, lo
sai.» No, un problema c’è, e pure bello
grosso.
Ho rimandando la cosa anche troppo e adesso non penso più di
volerlo fare.
«Tesoro, grazie. Oh, non vedo l’ora di
abbracciarti...»
«Anch’io, mamma.» Eric si
affaccia dalla
porta e mi
chiede con un movimento di labbra se è tutto ok. Annuisco.
È mia madre, sibilo muto e lui mi sorride.
Quel sorriso è il mio tesoro più grande, Eric
è il mio gioiello senza prezzo.
«Ehi, mamma?» Eric torna in cucina e io guardo
dalla finestra la neve che cade copiosa.
«Dimmi, amore.»
Prendo un respiro e sorrido anch’io. «Quando vieni
a Ystad, voglio presentarti una persona.»
Voglio presentarti la mia vita.
«Non vedo l’ora di incontrarla... Buon notte,
bambino mio.»
«Buona notte, mamma.»
Il telefono si spegne e lo rimetto in tasca.
«Magnus, il tuo tè si
fredderà!»
«Arrivo subito, Amanda.»
Una tazza mi aspetta sul tavolo. Mi siedo con Eric alla mia sinistra e
il viso raggiante di Amanda di fronte a me con la nostra collana al
collo.
Ascolto silente ancora una volta i racconti di Eric, guardo le sue
labbra muoversi lentamente, i suoi occhi cercare i miei e guardare
gentili quelli di Amanda.
Bevo un sorso caldo.
Fuori continua a nevicare, forse nevicherà per tutta la
notte.
«Ancora un po’ di tè,
figliolo.»
Scuoto la testa. «Sto bene così, grazie.»
Eric sorride e sorrido anch’io. Sì, sto bene
così.
[1] Nel famoso video
della canzone, Richard
Ashcroft,
il cantante dei The Verve cammina cantando lungo una strada londinese
incurante di chiunque gli venga in contro. Eric si riferisce appunto a
quell’atteggiamento. [Video]
Fine
P.S
Godetevi ancora una volta un’altra opera di Angie <3
[Ci leggiamo presto, Magnus ha qualcuno da presentare a mamma...]