Just don't give up

di LucreziaPo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1: Don't give up on me ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Chapter III ***
Capitolo 4: *** Chapter IV ***
Capitolo 5: *** Chapter V ***
Capitolo 6: *** Chapter VI ***
Capitolo 7: *** Chapter VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***



Capitolo 1
*** Chapter 1: Don't give up on me ***


Sorseggiò la sua birra per un attimo, lanciandogli un'occhiata di sottecchi.

Fissava il prato dinanzi a sé, quel luogo immerso nel verde, colmo di alberi, fiori...Era un mondo completamente diverso rispetto a quello cui erano abituati, ma James Wilson respirò quell'aria pura con un sorriso.

Sentiva lo sguardo su di sé di House, che lo scrutava come se tentasse di leggere i suoi pensieri.

Lanciò uno sguardo al cielo sgombro di nuvole e tornò a stendersi sull'erba.

“Lo farò.”

House sussultò, posando lo sguardo su di lui.

Wilson fissava il cielo, sereno, i capelli castani arruffati, un sorriso un po' stanco sulle labbra.

“Credevo avessi smesso di curarti e deciso di godere ciò che ti rimane, facendo follie e sesso a tre.”continuò House.

“Sei stato tu a propormi la cura. Cosa...”

“Credevo non avresti accettato.”

House lo fissava, incuriosito.

Come mai aveva cambiato idea?

“Sei incredibile.”borbottò Wilson, ma stava sorridendo.

“Se lo fai per un puro desiderio di sopravvivenza, credo sarebbe stato meglio farlo un mese e mezzo fa, invece di andartene in giro per il mondo a bere mojito.

E se lo fai per...”

“House, sta' zitto e smettila di psicanalizzarmi. Ho detto che voglio solo provare questa cura. Fine della discussione.”lo zittì, vedendo che stava per ribattere.

Non aveva la minima voglia di rispondere al perché avesse deciso di cambiare idea.

A dirla tutta non sapeva neanche per chi lo stava facendo.

Accettò la mano dell'amico per rialzarsi, ma non disse nulla neanche durante il tragitto verso il loro rifugio.

Salito nella loro stanza, l'unica stanza da letto in tutta la casa, lanciò uno sguardo al paesaggio attorno a loro.

La baita era immersa nella natura, nella calma, lontano da tutto e da tutti.

Wilson abbozzò un sorriso triste.

Avrebbe voluto restare lì per sempre, in quella solitaria città del Maryland, tra i boschi e lontano dal mondo intero.

Ma non poteva, né doveva.

Sentì la nausea coglierlo improvvisamente e House gli porse la bacinella, cogliendo il suo gemito.

L'osservò vomitare anche l'anima, scosso da sussulti, mentre lo guardava, incapace di fare null'altro, se non aspettare che stesse meglio.

Si sentiva impotente ed era frustrante.

“Toast imburrato. Ecco cosa hai mangiato a colazione. Almeno credo che quello sia pane...”

“S-sei disgustoso.”biascicò Wilson, senza neanche prendersela troppo per le analisi che House faceva del suo vomito.

Era diventato una sorta di assurdo rituale, cercare di indovinare cosa l'altro avesse mangiato dal suo colore.

“Ed il sapore continua a non essere migliore quando torna su.”ribatté, crollando sul letto.

Si sentiva esausto, come se avesse corso per una maratona.

“Tutti mentono. Ed alcuni nascondono ai loro amici cosa hanno in mente di fare.”

“Ho intenzione di vivere.”pensò Wilson, ma dirlo sarebbe stato superfluo.

House lo sapeva.

Sapeva sempre ogni cosa.

“Se vuoi andare in Giamaica per una nuova passione per l'ornitologia mi sta bene. Ti ci vedo in tenuta da esploratore a cercare nuove specie. Ma la cura...”

“Potrebbe funzionare.”

House lo guardò.

Avevano passato quasi due mesi andando da una zona all'altra, senza mai fermarsi, dormendo in macchina, in motel di quart'ordine, inseguendo questo o quell'altro spettacolo da vedere.

Avevano visto il rotolo di spago più grande del mondo e quello più piccolo, la casa a forma di scarpa di Pennysilvania, il Grand Canyon (che era stato uno spettacolo, che li aveva spinti a dormire in una tenda per tutto il loro tempo di soggiorno e che House aveva maledetto con tutte le sue forze temendo che succedesse qualcosa a Wilson nel mezzo del nulla...), il ponte di Brooklyn, il Golden Gate Bridge...

Wilson l'aveva convinto/costretto a venire in Italia con lui, perché voleva vedere il Colosseo.

Erano rimasti a Roma quasi una settimana intera, bighellonando in giro per musei, che House trovava noiosi, statue, costruzioni antiche come i Fori Romani, per poi trascinarlo ancora a Venezia, in Grecia ed in mille altri posti, dando sfogo a qualsiasi desiderio gli venisse in mente.

Era stato un viaggio incredibile, una fuga lontano dal mondo intero.

Wilson era stato bene, per la maggior parte del tempo.

E poi c'erano stati quegli attimi acuti di dolore, che l'avevano costretto a letto a vomitare anche l'anima, a digrignare i denti per la sofferenza e contro i quali nessun monumento antico, o hot dog da 100 chili avrebbero potuto distrarlo.

Ed in quelle situazioni House rimaneva accanto a lui, di solito parlando di cose stupide e senza senso, con solo scopo di distrarlo o divertirlo.

Ma mai, neanche una volta, Wilson aveva accennato a riprendere le cure.

Se da una parte House l'avrebbe preso volentieri a pugni per una scelta così sconsiderata, capiva la sua paura di passare il resto della sua vita in uno squallido ospedale.

Inoltre, era una sua scelta e non sarebbe stato giusto ostacolare i suoi desideri.

Sfogliò distrattamente i dati che aveva stampato, prima che la linea internet desse forfait ed aggrottò le sopracciglia.

In cuor suo non avrebbe mai smesso di tentare di salvargli la vita.

Non voleva che morisse, non aveva nessuna intenzione di perderlo.

Egoisticamente era ben consapevole che senza di lui non sarebbe riuscito ad andare avanti.

E questo lo sapevano entrambi.

Per questo ogni tanto suggeriva qualche nuova idea, o cura, come quell'ultima.

E mai si sarebbe aspettato di vedere Wilson rispondere “lo farò” visto e considerando che aveva ignorato le sue ultime 15 idee.

Ma il suo amico non aveva intenzione di rispondere al perché avesse deciso di provare la cura, rifiutandosi di lasciarsi psicanalizzare da House.

Per quanto in precedenza House avrebbe bellamente ignorato e scavalcato le sue reticenze, portandolo all'esasperazione ed infine all'agognata verità, Wilson era capacissimo di rimanersene zitto a lungo, ignorando le sue proteste o fingendo di dormire od irritandosi.

E da quando s'era ammalato House aveva tentato di evitare ogni ulteriore motivo di stress.

Sì, si stava decisamente rammollendo.


Decidere di andare in Giamaica comportava, ovviamente, un volo aereo ed i relativi controlli.

E visto che House era legalmente morto, Wilson tenne il fiato sospeso quando gli addetti al check in osservarono la sua falsa carta d'identità ed il passaporto e diedero finalmente il biglietto ad un certo Richard Collins.

“Richard Collins? Perché hai...”

“Ssh!”

House si guardò in giro con aria, circospetta, trascinando Wilson e valigie in avanti.

Wilson alzò gli occhi al cielo, sospirando.

“Non c'è nessuno che ci segue, Hou...Collins. Ti chiamerò Collins, ma smettila di fare l'agente in missione segreta.”

La storia sulla nuova vita e la nuova identità aveva entusiasmato entrambi.

Era stato divertente trovare qualcuno che potesse creare una nuova identità, fornire nuovi documenti (e l'avevano trovato in uno squallido tugurio di Manhattan, da cui House aveva cacciato Wilson costringendolo a rimanere in albergo perché temeva chissà quali infezioni...), nuove carte di credito, dopo aver svuotato il conto corrente di House (cosa che aveva fatto prima di venir dichiarato ufficialmente morto) e ricominciare tutto dall'inizio.

Era stato un nuovo inizio per House e Wilson, che desideravano lasciarsi tutto alle spalle.

Wilson aveva trovato difficile dire addio a tutto quello che era la sua vita, anche se voleva disperatamente farlo.

I sensi di colpa l'avevano inizialmente tormentato quando s'era rifiutato per giorni di rispondere alle chiamate dei suoi genitori, della Cuddy, di Foreman e degli altri medici suoi colleghi.

Era stato in bilico tra il rispondere e lasciarsi convincere a tornare a casa e riprendere le cure e lanciare il telefono fuori dal finestrino dell'auto.

Dilemma che House aveva risolto, dopo una notte in cui il telefono di Wilson non aveva fatto altro che squillare e vibrare ed aveva gettato l'aggeggio nel water, ponendo fine ai tormenti di Wilson ed alle notti insonni di entrambi.

La cosa di cui Wilson era più che certo era che, se House si fosse trovato al suo posto e senza di lui, probabilmente avrebbe fatto qualcosa di molto stupido ed auto-lesionista.

House era abituato a gestire il dolore, ma non significava che lo sopportasse.

Lui era abituato a tenere tutti alla larga ed a stare da solo.

Ma non era mai realmente solo.

Wilson era sempre stato al suo fianco, anche quando non s'erano rivolti la parola per mesi, anche quando House era finito in prigione.

Wilson sapeva che House avrebbe fatto qualcosa di molto stupido ed auto-distruttivo se lui...quando lui sarebbe morto.

E non poteva evitare di sentirsi responsabile per lui.

Foreman, in fondo, aveva avuto ragione.

Wilson era responsabile per House, sapeva che il suo migliore amico aveva bisogno di lui.

Ed era ben consapevole di quanto ciò era reciproco.

Aveva visto House affrontare la sua malattia in mille modi diversi.

Non era mai stato il tipo di persona che diceva “mi dispiace” e piangeva sulla sua spalla.

Ma aveva reagito alla malattia di Wilson urlando contro Taub, cercando di strangolare un paziente e fingendosi morto.

E chiudendosi a riccio.

Era questa la reazione che Wilson aveva visto negli ultimi tempi.

Coglieva lo sguardo di House su di sé, silenzioso come una carezza, ma carico di paura e timore.

L'aveva visto rimanere accanto a lui, sostenerlo quando stava male, stuzzicandolo quando stava bene, vegliando su di lui quando dormiva (e Wilson lo ritrovava seduto accanto al suo letto, le occhiaie profonde ed un ghigno stanco sul volto) e lottando silenziosamente al suo fianco, sempre accompagnato dalle sue battute sarcastiche e menefreghiste che nascondevano la sua vera paura.

Quindi glielo doveva.

Doveva lottare, se non per sé stesso, ma per House, perché non poteva rischiare di perderlo.


“Non ricordavo che soffrissi di mal di aereo.”

House fissava il finestrino senza realmente vederlo, sentendo lo sguardo su di sé dell'amico.

“Sto bene. Rimettiti a dormire.”biascicò.

L'aereo era immerso nella penombra, il cielo attorno a loro era nerissimo e puntellato di stelle.

Era uno spettacolo, ma House era troppo focalizzato su altro per pensarci.

Poi Wilson capì.

“Non è l'aereo. È la gamba, giusto?”

Era da una manciata di minuti che lo vedeva digrignare i denti e fissare il finestrino, senza realmente vederlo.

“House...”

“Sto bene!”sbottò a voce un po' troppo alta, richiamando l'attenzione di un hostess che lo zittì.

Wilson sospirò e frugò nella borsa, porgendogli la confezione di Vicodin.

Da quando erano in viaggio quelle erano state le unici antidolorifici che avevano portato con sé, dividendoli in caso di necessità.

House scosse il capo.

“Non fare l'idiota. Prendilo.”

House scosse il capo ancora una volta, mentre il dolore gli artigliava la carne.

Non poteva prendere il Vicodin.

Non se serviva anche a Wilson.

L'aveva visto raggomitolarsi su un fianco e gemere dal dolore, stringendo così forte i denti da farsi male e quelle dannate pillole erano state l'unico modo per calmargli il dolore.

Non era semplice procurarsi morfina terapeutica e dato che stavano tenendo il profilo basso (visto che House era legalmente morto e finire sui giornali per furto e spaccio di droga non era l'ideale...) non poteva sprecarle.

“Un whiskey.”chiese ad un hostess che passava, che gli riservò un'occhiata indagatrice prima di eseguire la sua richiesta.

Sentì l'alcool lenire in misura minore il dolore, ma quella era la sua unica alternativa.

Wilson l'osservò bere, a denti stretti, la mano artigliata sulla gamba ferita, gli occhi chiusi.

“Perché?”chiese dopo un lungo attimo di silenzio.

House non lo guardava.

“Se lo stai facendo per me...”

House sbuffò.

“Per chi diavolo credi lo stia facendo, altrimenti?”sbottò, nervoso.

“Non farlo.”disse Wilson, ma sapeva che le parole era inutili.

House era testardo ed incapace di esprimere i suoi sentimenti.

Wilson sapeva benissimo come tutta quella situazione lo stesse facendo soffrire come non mai, ma non era capace di parlarne.

Non voleva forzare House ad affrontare la sua malattia, perché non era disposto a farlo neanche lui.

Era fuggito lontano, aveva cercato di dimenticare ogni cosa, credendo che, non pensandoci, tutto sarebbe andato bene.

Ma non era così.

E doveva prendere in mano la situazione.


“Sarebbe questo?”

House alzò lo sguardo verso l'edificio di fronte a loro.

“Clinica Rocker. È l'unica qui sull'isola. In bocca al lupo.”

Il tassista li lasciò all'ingresso, sgommando via.

“In bocca al lupo? Ma dove accidenti mi hai portato?”

Quello sembrava tutto fuorché un'ospedale od una clinica sperimentale.

Sembrava più che altro un albergo di lusso a cinque stelle.

Era un edificio con almeno una ventina di piani, circondato da giardini e piscine ed affacciato sull'Oceano.

“Davvero, dove mi hai portato, H...Richard?”

House controllò nuovamente l'indirizzo sulla mail.

“E' questo.”

“Sembra più un hotel che un posto dove far esperimenti su malati terminali.”

House alzò gli occhi al cielo.

“Smettila.”

“Magari è un bel posto dove morire.”fece Wilson e prima che House potesse ribattere afferrò il trolley ed avanzò, guardandosi intorno.

Effettivamente quel posto era l'ultima cosa che s'aspettava.

Non aveva mai visto una clinica sperimentale, ma quella era decisamente...bizzarra.

Vide alcune persone con indosso camici che indicavano medici e pazienti, ma non sembrava affatto un'ospedale.

“Desidera?”

La donna alla reception lanciò uno sguardo ai nuovi arrivati.

Era molto carina, sulla trentina e sorrideva loro.

“Abbiamo un appuntamento con il dr Johnson.”rispose House, giocherellando con il suo bastone.

“Nome?”

“Wilson.”

“D'accordo. Il dottore vi riceverà tra un minuto.”disse la donna, dopo aver controllato il nome su un registro online.

House le lanciò un altro sguardo.

“Carina.”ammiccò a Wilson.

“Non sono qui per fare conquiste.”

Wilson lanciò uno sguardo alle pareti verde chiaro, alla fontana nell'atrio ed ai pazienti che camminavano avanti ed indietro, con indosso vestaglie, o camici od abiti normali, ma tutti con il bracciale identificativo.

“Stai bene?”

House notò il suo sguardo.

“No, è solo...strano.”

“Possiamo andarcene, se vuoi.”

Per quanto curioso fosse, House notò lo sguardo spaesato di Wilson.

“Mi hai fatto una promessa, ricordalo.”disse Wilson, senza guardarlo, concentrandosi sulla finestra che dava sul giardino in fiore e poi sull'acqua.

“Sì, la ricordo.”

Wilson annuì.

Si sentiva strano nel dover realmente affrontare il dr Johnson e parlare del suo futuro.

“Chi di voi è il signor Wilson?”

Un uomo sulla cinquantina si fece avanti, osservandoli.

Indossava un camicie bianco, sotto al quale portava jeans e maglietta di Bon Jovi.

“Lui.”

House indicò Wilson con la punta del bastone.

“E' un piacere. Io sono il Dr Everett Johnson. E lei è...”

“Richard Collins.”

House accettò la mano del dottore solo dopo che Wilson gli ebbe dato una gomitata nello stomaco.

Era ancora strano usare quel nuovo nome.

O fingersi educato quando cercava una nuova cura per Wilson.

“Seguitemi. Potete lasciare le vostre valigie all'ingresso e prenderle dopo, in caso la cura non vi interessi. Per chi di voi è?”

House si sentì immediatamente proiettato nel passato.

Quel tipo sembrava proprio un tipico insegnante che faceva domande e spiegava ogni cosa.

E dopo aver detto a Wilson qualche frase di circostanza (ed House si morse la lingua per non ribattere a tono per l'ovvietà della cosa) lo sentì parlare e descrivere la clinica in ogni suo aspetto.

“E' un edificio che fu fondato oltre 100 anni fa, nel 1798 da John Ricker. Ovviamente oggi è uno dei primi del settore della ricerca e della sperimentazione. Ci sono venticinque piani in tutto.

I primi 16 sono occupati da settori dell'ospedale, della ricerca e da camere operatorie, i restanti dagli alloggi dei pazienti. Ci sono circa 120 appartamenti.”

“Appartamenti? I pazienti vivono qui in pianta stabile?”

Johnson lanciò una breve occhiata a Wilson, annuendo, prima di riprendere il suo discorso.

“Tutti quelli che si sottopongono alla sperimentazione devono essere tenuti sono strettissima osservazione. E poiché molti vengono da altri Paesi abbiamo preferito creare alloggi per loro e chi li accompagna, come suo marito in questo caso.”

House sussultò.

Marito?

Ma che marito?

“Sono suo amico.”sbottò ed il dottore chinò lo sguardo, un po' a disagio.

“Scusate. Credevo...di solito i pazienti vengono qui accompagnati da familiari. Ho dato per scontato...”

“Parli della cura.”lo incitò House.

“E' una cura molto efficace. Non si usano né chemio né radioterapia qui. Stiamo brevettando l'uso dell'ipilimumab, che è un farmaco che colpisce il tumore e stimola il sistema immunitario a riconoscere e distruggere le cellule cancerose.

Può essere preso sotto forma di pillole, ma di solito si inietta per endovena. Fa parte dell'immunoterapia, che mira a risvegliare la risposta del sistema immunitario.

Nel depliant ci sono scritte tutte le componenti ed i principi attivi del farmaco.

È in grado di contrastare qualsiasi tipo di tumore.”

Il dottore li condusse per lunghi corridoi illuminati dal Sole, sale operatorie, stanze vuote ed accoglienti, le varie sale della terapia, dove pazienti sedevano da soli od in compagnia alle prese con questa fantomatica medicina.

I risultati erano ottimi, House l'aveva letto sulla ricerca che aveva trovato ed il dottore stesso gliel'aveva confermato per e-mail.

Ma non voleva gettare Wilson nella bocca del leone senza aver controllato ogni piccola sfaccettatura di quella cura.

Aveva fatto una promessa, dopotutto.

“Come mai questo posto sembra un albergo?”chiese Wilson d'un tratto, dopo che il dottore ebbe mostrato loro il giardino sul retro.

C'erano altalene, panchine, gazebi immersi nel Sole.

“Lo era. Lo è stato per un certo tempo, poi decidemmo di trasformarlo in una clinica.

Vogliamo che i nostri pazienti si sentano a proprio agio, qui e che non ci sia l'impressione di stare in un ospedale o...”

“Di venire trattati come cavie.”finì House per lui, ricevendo un'occhiataccia.

Wilson sospirò.

House e la sua boccaccia.

“Signor Collins, qui abbiamo la massima cura dei nostri pazienti. Vengono qui per loro scelta e di certo noi non li costringiamo a fare nulla. Qui curiamo sperimentazioni per farmaci contro qualsiasi tipo di cancro o malattia ed i risultati sono ottimi.

La cura cui siete interessati ha dei rischi, ma tutte le cure ne posseggono.”

“Quali sono i rischi?”chiese Wilson.

“Lei che tipo di cancro ha?”

“Un timoma.”

“Capisco. L'ipilimumab attacca le cellule cancerose con particolare aggressività. Può compromettere il sistema immunitario, come fa la chemio, ma qui abbiamo trovato un modo per impedire il crollo dei globuli bianchi e la conseguente esposizione del corpo a mille pericoli ed ulteriori malattie.

I nostri studiosi hanno inventato una particolare cellula in grado di compiere le esatte funzioni dei globuli bianchi, dando il tempo e l'occasione al midollo osseo di produrre altri globuli, mentre la cellula li sostituisce. È una sorta di cellula staminale, in grado di sostituire per un certo periodo qualsiasi tipo di cellula compromessa.”

Detto così la cura sembrava geniale.

“Quali sono i rischi?”ripeté Wilson.

L'idea di sottoporsi ad una cura sperimentale lo terrorizzava, nonostante spesso ne avesse consigliate alcune ai suoi stessi pazienti.

Ma davvero non riusciva a fare il medico di sé stesso.

Se la cura era ancora in fase di brevetto significava che non tutto era rose e fiori come il dr Johnson voleva far credere loro.

Il dottore si passò una mano tra i capelli radi.

Erano ritornati di nuovo alla hall ed il medico sedette su un divano.

“Non è stata ancora brevettata perché ci sono dei rischi collegati al fegato. In particolare la cura è particolarmente aggressiva con esso, nonostante stiamo tentando di trovare una soluzione. Ecco perché i pazienti vengono costantemente monitorati.”

“Può attaccare il fegato?”chiese House, puntellandosi sul bastone.

“Non può, lo fa sempre. È un rischio quasi certo, anche se non avviene subito e ci dà tempo di preservare il fegato con altri farmaci. Ma nel 60% dei casi i pazienti hanno bisogno di un trapianto.”

Cadde il silenzio.

Prima che venisse interrotto dal bip del cerca-persone di Johnson.

“Io devo andare. È stato un piacere conoscervi. Mi faccia sapere se accetta di partecipare alla sperimentazione, signor Wilson. In ogni caso, in bocca al lupo per la sua guarigione.”

House e Wilson lo videro correre via.


La distesa d'acqua era immensa, dai colori che andavano dal verde chiaro al blu più profondo.

Il Sole illuminava la spiaggia, la cui sabbia sottile s'infilava tra le dita dei piedi.

Wilson affondò i piedi nella sabbia calda, fissando l'oceano dinanzi a sé.

Era una visione splendida ed allo stesso tempo l'atterriva.

L'atterriva quell'immensità, quell'infinito e la sensazione che lui fosse così...insignificante.

Il bastone non faceva rumore sulla sabbia, ma Wilson percepì la sua presenza prima ancora di vederlo.

House sedette sulla sabbia accanto a lui, rivolgendo lo sguardo alla spiaggia semi-deserta.

Wilson sentiva la domanda aleggiare tra loro, ma non disse nulla.

Sapeva cosa voleva sapere House.

Sapeva cosa avrebbe dovuto decidere.

Affondò i palmi nella sabbia calda, lasciando che gli scivolasse tra le dita.

Aveva paura.

Non tanto delle complicazioni al fegato di cui aveva parlato Johnson, quanto di sperare nella cura e vedere poi ogni cosa svanire nel nulla.

Non aveva intenzione di morire ed adesso perfino l'idea di vivere senza pensieri ciò che gli rimaneva gli sembrava assurdo.

Come poteva non pensarci, se era ben consapevole del rischio che stava correndo, del cancro che l'avrebbe ucciso?

E come poteva non fare nulla?

Quella cura...era...così allettante ed allo stesso tempo insidiosa.

Sapeva cosa significava cura aggressiva.

Sapeva che ci sarebbero stati giorni interi di dolore, in cui sarebbe stato piegato in due dal dolore, od a vomitare od incapace perfino di alzarsi dal letto.

Sarebbe stato troppo debole perfino per sollevare il capo, perché aveva visto come potevano ridursi i suoi pazienti.

Strinse la sabbia tra le dita, ma essa gli sfuggì, finendogli in grembo.

Sarebbe stato male.

Ma sarebbe stato male anche senza seguire la cura.

Sarebbe stato peggio e sarebbe morto.

Forse così...

“Cosa dovrei fare?”

Evitò lo sguardo di House, concentrandosi ancora sulla sabbia.

“Non lo so.”

La voce di House era stanca, Wilson lo percepiva.

Ma lo stupiva che non fosse pronto a nessuna battuta o consiglio od a spingerlo a scegliere.

Lo guardò.

House s'era tolto anche lui le scarpe e fissava il Sole che tramontava.

“Parlami.”lo incitò.

“E' una tua decisione.”

“E da quando non intervieni?”

House incrociò i suoi occhi.

Wilson attendeva una sua risposta, un chiarimento.

“Tu non vuoi morire.”mormorò.

“Nessuno vuole morire, House.”

Wilson abbozzò un sorriso, nervoso.

“La tua idea di vivere intensamente gli ultimi mesi per poi consegnarti nelle braccia della Morte non è andata secondo i piani. Perché?”

Wilson sospirò.

Ancora con quella domanda.

“House...io non lo so, va bene? Non...non è stata una così grande idea. Forse all'inizio, ma...”

“Ho delle responsabilità. Ho te di cui occuparmi. E tu crolleresti a pezzi se io morissi, House.”pensò, ma tacque.

House sembrava aver capito la ragione e per questo era restio ad acconsentire a quel cambiamento di rotta.

Non voleva che lo facesse per lui.

“Mi hai detto che la tua morte doveva essere tua e non doveva riguardare me.”

Wilson annuì.

Ricordava cosa aveva detto.

“Sono stato stupido a rifiutare le cure. Ho sempre spinto i miei pazienti a fare di tutto per sconfiggere il loro male, li ho indirizzati verso qualsiasi tipo di cura disponibile ed io mi sono arreso alla prima volta.”

“Avevi paura. Hai paura.”

Wilson annuì, senza guardarlo.

“Non è giusto. Non...voglio dover soffrire, né dovermi sottoporre ad una cura contro il cancro, ma se lasciassi perdere sarebbe come lasciarmi morire. E non voglio. Non voglio arrendermi.”

House abbozzò un sorriso.

Era da tempo che non lo sentiva parlare in un modo così determinato.

Era da tempo che non vedeva Wilson comportarsi da Wilson.

“Ora ti stai comportando come il vecchio te. È un sollievo. Mi chiedevo dove fosse finito.”

Wilson rise e fece per alzarsi in piedi, ma barcollò e si ritrovò disteso sulla sabbia.

House scoppiò a ridere.

“Sono io quello zoppo, ricordi? Dovresti avere un minimo senso dell'e...”

House non fece in tempo a finire la frase che Wilson l'afferrò per una gamba e lo fece ruzzolare accanto a lui sulla spiaggia.

“Bleah!”

House si tolse la sabbia dal viso e dalle labbra, mentre Wilson rideva.

Almeno prima che House gli tirasse addosso un grumo di sabbia bagnata che gli si spiaccicò tra i capelli.

“House!”


“Questo posto è incredibile.”

House si lasciò cadere sul letto, provando la morbidezza del materasso e dei cuscini di piuma d'oca.

“Aah!”sospirò. “Credo che rimarrò sempre qui a dormire.”decretò.

L'appartamento che avevano assegnato loro affacciava sull'oceano, come la maggior parte degli altri.

Era dotato di due camere da letto, bagno, un piccolo soggiorno e la cucina.

Anche la dispensa era piena di roba fino a scoppiare.

Gironzolarono per la casa, osservandola.

House afferrò un pacco di patatine, si gettò sul divano in soggiorno ed accese la televisione.

“Mi daresti una mano?”

“A far che? Hai intenzione di mettere in ordine come una casalinga disperata?”

Udì lo sbuffo di Wilson e ritornò a concentrarsi su una puntata di O.C.

Poi sentì un tonfo.

Scattò in piedi con il cuore in gola e zoppicò velocemente verso la camera da letto dell'amico...che trovò seduto sulla poltrona a fissarlo con espressione divertita.

Sul pavimento c'era un pesante libro.

“Idiota.”sbottò House, irritato e fece per andarsene.

“L'unico modo che ho per farmi aiutare è fingere di stare male?”

“Hai mai sentito parlare del racconto di colui che gridava “al lupo, al lupo”?”lo prese in giro House, appoggiandosi allo stipite.

“So che il ragazzino alla fine viene ucciso perché nessuno gli credeva.”

“Appunto. Sta attento!”lo provocò House e se ne andò, sentendolo ridere.


“La cura può provocare nausea, diarrea, vomito, mancamenti ed, in alcuni casi, allucinazioni.”

L'infermiera attaccò la flebo a Wilson, prima di sorridergli incoraggiante ed andarsene verso altri pazienti.

Wilson osservò il liquido giallastro del contenitore, sedendosi sulla poltrona ed aspettando l'esito della prima sessione di cure.

Era nervoso.

Ricordava benissimo come s'era ridotto quando aveva deciso di assumere quelle potenti dosi.

Era stata una mossa stupida ed autolesionista, in cui House aveva deciso di rispettare le sue decisioni ed acconsentire alla sua pazzia, nonostante fosse chiaramente contrario.

Ricordava i dolori atroci, la debolezza acuta, il vomito, l'umiliazione di non riuscire neanche ad arrivare in bagno da solo ed il dover usare pannolini per adulti ed House gli era stato accanto, somministrandogli antidolorifici, rinunciando al suo Vicodin per lui (cosa che aveva fatto ripetutamente in quell'ultimo mese e mezzo), sostenendolo quando doveva vomitare...

Ed ora non c'era.

Cercò di non dimostrarsi troppo deluso dal non averlo accanto, ma non poté evitare di dispiacersene.

Almeno finché lui non entrò carico di riviste, computer e cibo per un esercito.

“Ma cosa...”

House gli tese un succo di frutta.

“Avevo pensato ad una birra, ma sono le nove del mattino e non sarebbe l'ideale.”

Wilson abbozzò un sorriso quando House requisì una poltrona ed usò un'altra per posare i piedi, aprendo il pc sulle sue ginocchia.

“Ho scoperto che ti sono arrivate tantissime e-mail.”

“Hai frugato tra le mie e-mail?”

Ormai Wilson si chiedeva perché era ancora stupito da ciò che House faceva.

“Ti hanno scritto i tuoi genitori, che tra un poco mettono la tua faccia sui manifesti pur di ritrovarti, Chase, Foreman, un certo Warmen, il dr Nolan...come mai il mio psichiatra ha la tua e-mail? Poi Cameron, Taub, Thirteen, la Cuddy e mia madre.”

Wilson gli fece segno d'avvicinarsi, per leggere le mail.

Tutte, senza alcuna eccezione, gli chiedevano di tornare nel New Jersey, gli facevano le condoglianze per la morte di House, gli chiedevano come stava e cosa stesse facendo.

“Mia madre s'è lanciata in una filippica strappalacrime di come le manco, di come sa che tu stai soffrendo per la mia morte, dato che, cito testualmente, “Voi due eravate così uniti, così anime gemelle”, e che è idiota ed irresponsabile fuggire via, senza avvisare nessuno e senza dire dove stai andando.”continuò House. “E che questo è il comportamento di un uomo sofferente, che ha bisogno di aiuto e di compagnia. Questo lo dicono tua madre e tuo padre.

Inoltre, credo che la Cuddy sia ancora furiosa con me, perché dice che “House è stato tremendamente egoista ad entrare in quell'edificio. Folle dei suoi puzzle e di droga ha provocato la sua stessa morte, lasciandoti da solo. Non lo meritavi e non meritavi un amico che da te ha preso tanto e che poi ti ha lasciato.” Ouch...”

“Sarebbe quello che penserei anche io, se tu fossi realmente morto.”

Wilson gli tolse di mano il pc, iniziando a leggere i messaggi.

La Cuddy parlava di Rachel, di come stava crescendo, di quanto avrebbe voluto rivederlo e sapere che stava bene.

I successivi messaggi erano un continuo chiedere informazioni sulla sua salute e sulle ipotetiche cure che stava seguendo ed a cercare di confortarlo per la morte di House.

Era strano leggere cose del genere, perché lo spingevano a chiedersi cosa avrebbe realmente fatto se House fosse morto veramente e lui si fosse trovato da solo ad affrontare un cancro, senza il suo amico più caro.

Sentì le mani tremargli, mentre il cuore veniva stretto in una morsa.

“Ehi! Cosa...è possibile che la medicina stia già facendo effetto? Sei qui da dieci minuti!”

House osservò il medicinale, ma Wilson scosse il capo.

“Non è la medicina. Stavo solo pensando.”

“Vedo che ti fa male. Smettila e guardati un porno. Ho portato il computer per questo motivo.”

Wilson rise.

“Sono in una clinica privata. Non posso guardarmi un porno in una sala comune, H...”

“Rick.”

“E' strano doverti chiamare in un altro modo. Comunque, non sono tipo da porno. Sono più curioso di leggere cosa dice il dr Nolan. E poi devo rispondere.”

House lo guardò.

“Pensavo volessi tagliare i ponti.”

“Lo voglio. Lo sto facendo. Ma loro credono che tu sia morto e che io mi ritrovi da solo con un cancro. Devo dire loro che sto bene.”

Il dr Nolan era stato lo psichiatra di House, ai tempi del Mayfield Hospital e una figura che l'aveva consigliato anche in altre occasioni.

La sua mail era molto interessante.


“Il dr House è stato un mio paziente e mi è dispiaciuto molto sentire della sua morte.

So che lei ed il mio paziente eravate molto legati, perché House ha spesso parlato di lei durante le nostre sedute. È stato il suo migliore amico per anni e so che ha lottato a lungo per lenire un po' di quel dolore e quella malinconia che lo seguiva ovunque.

Non incolpi sé stesso di ciò che è accaduto. Credo che nessuno avrebbe potuto salvarlo.

Da ciò che ho potuto dedurre dalle nostre sedute House è sempre stata una persona molto sola, incapace di interagire con gli altri e di creare una relazione stabile con loro.

Prostrato dal dolore sia psicologico che fisico, dovuto al trauma alla sua gamba destra, ha sempre avuto difficoltà ad aprirsi con gli altri ed ha adottato quella tecnica di menefreghismo, odio verso gli altri e strafottenza.

Il dr House aveva un carattere molto difficile, più facile da odiare che da amare.

Ma lei è stata l'unica persona in grado di rompere quella sua armatura e di comprenderlo meglio. Dietro quell'aria di indifferenza, di rabbia malcelata, di dolore e anche di atteggiamento bastardo, House era una persona che aveva disperatamente bisogno di qualcuno che lo capisse, che lo guidasse, che fosse la sua coscienza e la sua speranza e questo qualcuno è sempre stato lei, dr Wilson.

Il dr House l'ha amata profondamente, anche se a livello inconscio. Lei era l'unica persona di cui House si fidasse veramente, al punto da rischiare la sua stessa vita per lei, al punto anche di morire, se necessario.

Nelle conversazioni su di lei House lasciava trasparire un profondo affetto nei suoi confronti, che non credo sia stato mai in grado di dimostrarglielo.

E credo che se fosse vivo in questo momento sarebbe accanto a lei a sostenerla nel suo viaggio verso la guarigione.

Le auguro il meglio.

Dr Nolan”


Wilson rimase ad osservare la lettera, incredulo, mentre House era alle prese con un videogioco sul game-boy.

Sapeva benissimo che House teneva a lui, ma era stupito dall'analisi del dr Nolan.

Il dr House l'ha amata profondamente, anche se a livello inconscio. Lei era l'unica persona di cui House si fidasse veramente, al punto da rischiare la sua stessa vita per lei, al punto anche di morire, se necessario.

Nelle conversazioni su di lei House lasciava trasparire un profondo affetto nei suoi confronti, che non credo sia stato mai in grado di dimostrarglielo.”

Inoltre, aveva anche previsto il reale comportamento di House che, effettivamente, gli era accanto e lo sosteneva.

“Hai letto il messaggio di Nolan?”

“Tutte psicostronzate. Forza, andiamo! Sì, 50 punti!”esclamò House, giocando con il game-boy.

“Ssh!”esclamò un'infermiera di turno.

“Penso che abbia ragione.”continuò Wilson, dopo che House si fu zittito. “Ha anche previsto che mi saresti stato accanto. Beh, lui non sa che sei vivo, ma comunque aveva ragione.”

“Anche sul fatto che sei la mia coscienza?”

“Soprattutto su quello!”rise Wilson.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Tremava follemente.

Si raggomitolò su un fianco, cercando di smettere di tremare e stringendosi nella coperta.

“H-Hou...”

“Sono qui.”

Wilson sentì il letto cigolare quando House si sedette porgendogli una borsa dell'acqua calda e coprendolo con un altro strato di plaid.

“Pessimo primo giorno.”sentenziò.

Wilson aveva trascorso tutta la giornata a fare da spola tra bagno e camera da letto e nell'ultima mezz'ora era stato scosso da violenti brividi.

Wilson sentì la sua mano sulla spalla, che la stringeva con forza.

House si sentiva uno schifo, come ogni volta che l'amico stava male.

Ma non poteva fare assolutamente nulla.

“N-non...a-anda...”

“Non vado da nessuna parte. Cerca di dormire.”


Si chinò sul water, tossendo e vomitando.

La cura stava facendo sentire i suoi effetti.

Dopo tre settimane di cicli s'era ritrovato a vomitare ed a non essere capace di alzarsi dal letto.

Gli spasmi muscolari s'erano fatti vivi e lui vide le sue mani tremare mentre si chinava di nuovo per vomitare.

Sapeva che House era fuori la porta, impotente.

Vedeva il suo sguardo incupirsi quando Wilson stava male e nonostante le sue battute e prese in giro, si capiva benissimo che si sentiva inutile.

La porta del bagno s'aprì ed House scivolò sul pavimento, spalle al muro, accanto a lui.

“E' parecchio pittoresco qui. Capisco il perché vieni sempre in bagno.”lo prese in giro, osservando le mattonelle azzurre e verdi della toilette.

Gli tese un asciugamano per asciugarsi le labbra.

Il volto di Wilson era pallido, tirato, i capelli arruffati e fradici di sudore, le profonde occhiaie.

Si lasciò cadere tremante accanto ad House.

Non s'era mai sentito così fragile.

“Credo che la serata al Diablo salti, questa sera.”mormorò, gli occhi chiusi.

“Ti ci posso sempre portare in carrozzella.”

“Scordatelo.”

Il Diablo era un locale che avevano scoperto grazie a Mirna, una bella infermiera che Wilson aveva conosciuto in terapia.

Era una sorta di ristorante internazionale, che faceva piatti di tutti i tipi ed House s'era messo in testa che voleva provare il messicano.

Wilson strinse le mani tra loro per bloccarne il tremito, ma non fece effetto.

House gli mostrò una siringa.

“Te l'ha data Johnson o l'hai sgraffignata?”

“Me l'ha data lui, amico di poca fede. Ha detto di somministrartela se il dolore è forte.”

Wilson scosse il capo.

Aveva l'emicrania e gli tremavano le mani, ma non stava male.

Era stato molto peggio di così.

“Sto bene. Non ne ho bisogno ora.”

House fece per fargli ugualmente la siringa.

“House...davvero. Sto bene. Sono stato peggio di così.”

House lo guardò per un lungo attimo e poi posò la siringa.

“Se vuoi andare al Diablo, vai. Io resterò qui a vedere la televisione. Se venissi vomiterei tutto.”

Wilson s'aggrappò barcollando al lavabo, prima che House l'afferrasse e lo sostenesse.

Lo pilotò verso il letto, dove Wilson crollò, esausto.

Sentiva le forze del suo corpo abbandonarlo e sentì a stento cosa stava dicendo House, prima di addormentarsi profondamente.


La cura fece sentire presto i suoi effetti, riducendo Wilson ad uno stato quasi catatonico, rendendolo incapace di alzarsi e reagire.

Quando la debolezza non l'aggrediva, lo faceva qualcos'altro.

Si ritrovò a vomitare così tanto da spingere il dr Johnson ad interrompere le cure, momentaneamente.

Il dolore lo coglieva in qualsiasi momento. Sentiva una morsa al petto che gli impediva di respirare, spingendolo ad urlare, le fitte di dolore al resto del corpo, come se mille lame lo stessero aggredendo.

L'umore divenne altalenante, spingendolo più volte al litigio con House.

Iniziò ad averne abbastanza del suo carattere, del suo modo di fare strafottente e delle sue battute.

House aveva tentato di stargli vicino, ma si sentiva impotente e fu spesso vittima delle sfuriate di Wilson che arrivò addirittura a mollargli un pugno.


L'oncologo ricordava bene quel litigio, anche se non da cosa era partito.

Tutto era nato da una stupida osservazione sulla cura e poi avevano finito per urlarsi contro cose orribili.

Wilson non voleva essere un peso per House e ricordava di avergli urlato che non voleva averlo attorno, che non era giusto che a soffrire fosse lui, perché non aveva fatto nulla di male, mentre lui, House, aveva sempre goduto dell'infelicità altrui e stava benissimo, invece, e che non desiderava passare i suoi ultimi giorni o mesi con un misantropo fastidioso.

Ed House se n'era realmente andato.

Era tornato tre ore più tardi, trovando l'amico seduto sulla sedia fuori il balcone, le lacrime che gli rigavano le guance e le mani che gli tremavano.

“Mi dispiace. Non volevo dire quelle cose. Tu non meriti di soffrire.”aveva sussurrato l'oncologo, la voce rotta dal pianto.

House era rimasto in silenzio per un lungo momento, guardando le sue spalle tremare, scosse dai singhiozzi.

Poi aveva detto:

“Avevi ragione.”

House s'era seduto accanto a lui, senza guardarlo.

Non l'avrebbe ammesso mai, ma le parole di Wilson l'avevano davvero ferito.

Wilson non meritava quello che stava subendo, non lui.

“Non ho mai voluto che tu soffrissi, House. Mi dispiace.”

“Sei malato ed in preda agli ormoni. E stai piangendo come una ragazzina. Sei giustificato.”

Wilson scacciò rabbiosamente le lacrime con il dorso della mano.

Non voleva farsi vedere debole.

“Se il cancro dovesse...dovesse peggiorare...se dovessi stare davvero male...aiutami a farla finita.”

House sussultò, guardandolo.

Era la prima volta che Wilson ne parlava apertamente.

L'oncologo volse il viso verso di lui.

Gli occhi marroni erano colmi di lacrime.

“Ti prego, House. Non so a chi chiedere. Mi fido di te.”

House sentì la gola arida.

Sentì le parole fuoriuscirgli di bocca senza neanche capire cosa stesse dicendo.

“Lo farò se tu farai lo stesso con me.”

Wilson sgranò gli occhi ed una lacrima scivolò giù sulla sua guancia.

“Cosa...”

Poi capì.

“No. Non lo farò. Non puoi chiedermi di farlo. Non posso...”

“Uccidermi? Hai chiesto a me di fare lo stesso.”

“E' diverso. Io morirò comunque.”

“Tutti muoiono, Wilson. Prima o dopo non farà alcuna differenza.”

House s'appoggiò allo schienale della sedia osservando il giardino in silenzio.

Sentiva il suo cuore a mille.

Non poteva pensare alla morte di Wilson. Non ci riusciva.

Soprattutto perché sapeva che non sarebbe stato capace di andare avanti se lui non ci fosse stato.

Anche quando avevano litigato per mesi, rifiutandosi di rivolgersi la parola, anche quando era andato al Mayfield od il carcere, c'era sempre stata la consapevolezza che Wilson ci sarebbe stato al suo ritorno, con i loro scherzi, le loro pizze preparate al momento, le loro risate, i loro battibecchi...

Pensare ad una vita senza di lui era impossibile.

Non esisteva.

“House, non chiedermelo. Non ti farò del male. Mai. Scordatelo.”

“Neanche io.”

“Hai una vita intera davanti a te, House. Puoi vivere per altri 20 o 30 anni.”

“Potresti farlo anche tu.”

Wilson abbassò lo sguardo, abbozzando una risata.

“Sai che per me è più difficile. Sai che...”

“So che hai il cancro, ma so anche che stai lottando e che non sei il tipo d'arrenderti. Non adesso.”

“Ma se dovessi stare davvero...”

“Lo farò. Se tu lo farai con me.”aveva mormorato prima d'alzarsi.


La moto rombava mentre House faceva un giro di prova nel cortile della clinica.

“E' favolosa.”dovette ammettere Wilson.

Era appoggiato al muretto ed osservava l'amico correre avanti ed indietro con la moto affittata.

“Andiamo. Monta su.”

Wilson gli lanciò un'occhiata sarcastica.

“Ho il camice, House. Non posso mica andarmene in giro così.”

Wilson indicò la tenuta ospedaliera, di pantaloni e maglietta candidamente bianchi.

“Paura di mostrare le gambe?”lo prese in giro, ghignando.

“Non vengo. Ho il ciclo tra...”

“Due ore. Andiamo, abbiamo il tempo di farci un giro sulla costa.”

“House, non...”

Wilson non fece in tempo a finire la frase che House sgommò proprio dinanzi a lui e l'afferrò per un braccio.

“Sali.”intimò.

Wilson sospirò, salendo dietro di lui e non fece neanche in tempo a reggersi che House aveva accelerato, lasciandosi la clinica alle spalle.

Da quando erano arrivati era stato difficile visitare Kingston, poiché Wilson s'era ritrovato subito a dover seguire le cure ed a subirne gli effetti.

Era una città commerciale, piena di vita, che s'affacciava sulla costa.

Passarono strade popolatissime, negozi di ogni tipo, vagando senza meta.

Wilson aveva insistito per andare a visitare il parco nazionale, dove, si diceva c'erano moltissime specie di uccelli, colibrì, pappagalli, e per andare a Montego Bay, un parco marino, incontrando le reticenze di House che non aveva la minima intenzione di andare nei parchi pieni di zanzare ed insetti o di immergersi da nessuna parte.

Wilson era convinto che fosse a causa della ferita alla gamba, il perché non volesse esplorare la molteplice fauna acquatica della Giamaica.

Ma le sue cure stavano tenendo entrambi ancorati alla clinica e quel giorno era il primo dopo un mese in cui uscivano.

“Dobbiamo festeggiare!”esclamò House per contrastare il rumore del motore e Wilson rise, mentre si stringeva alla sua vita per non cadere.

Aveva ragione.

Quel giorno il dr Johnson l'aveva sottoposto ad un'esame completo e la TAC aveva evidenziato che il tumore era diminuito, anche se non tantissimo.

“E' un buon inizio.”aveva commentato il medico, prima di congratularsi con lui.

“Qui. Fermiamoci qui.”fece Wilson, indicando un mercato lì vicino.

“Sei qui per fare shopping?”rise House, scendendo dalla moto.

Lo seguì zoppicando per il mercato.

Era ricco di colori, di voci straniere.

Kingston era colma di persone dalla nazionalità più diversa.

Era quasi un sollievo immergersi in quel caos e non pensare a nulla.

Era uno dei pochissimi giorni in cui non si sentiva uno schifo e voleva approfittarne.

Moltissimi avevano lunghe trecce colorate, cappelli variopinti e vestiti originali.

Perfino Wilson con il suo camice d'ospedale passava inosservato.

House lo vide guardarsi intorno, fermarsi alle bancarelle, mentre s'addentravano di più, verso la spiaggia.

Sorrideva.

Era la prima volta dopo tempo che quel sorriso era sincero e non velato di sofferenza o preoccupazione.

La TAC aveva mostrato che il cancro era in fase di guarigione.

Certo, non potevano già cantar vittoria, soprattutto perché il percorso era ancora lungo e la cura aveva ridotto Wilson ad uno straccio.

Ma vederlo in piedi sorridere senza motivo era una bella sensazione.

“Prendere, prendere! È ottimo, signore!”

Un venditore afferrò Wilson per un braccio trascinandolo verso una bancarella in cui vendeva della strana pasta a forma conica.

“Che roba è?”chiese House.

“Mia specialità. Assaggia, assaggia, signore!”

Il venditore, un uomo di colore sulla quarantina con trecce rasta, gli spinse tra le mani il vassoio.

“House, chissà cosa c'è...”iniziò Wilson, ma House era già impegnato a mangiarne uno.

Il gusto gli esplose in bocca, un gusto che sapeva di alcool e frutta di vario genere e diversi tipi di alcool tra cui, riconobbe, rum, whisky e gin.

“Questo mi piace.”

House ne prese un sacchetto da dividere con Wilson.

Mangiarono i dolcetti seduti su una panchina, guardando il via vai delle persone.

Wilson posò i gomiti sulle ginocchia, fissandosi le scarpe.

“Dicevi sul serio?”

House aggrottò le sopracciglia.

“Quando dicevo che la tipa del negozio di magliette me la sarei portata a letto? O che avevo trovato la ragazza giusta per te, proprio nel...”

“Quando hai detto che saresti morto se fossi morto io.”

House lo guardò e lo sguardo fu più che eloquente.

Wilson posò le mani sul volto.

“House...”

“Non ne voglio parlare.”

“Se hai intenzione di farti del male...”

Wilson lo guardò, intensamente, ma House ignorò risolutamente il suo sguardo.

Non poteva mica dire sul serio?


“Credo che qui gli spacciatori si facciano pagare molto meno rispetto all'America.”

House entrò nell'appartamento, sventolando un sacchetto.

Wilson era semi-disteso sul divano e giocava con il suo game-boy.

“Spacciatori? Ma dove diavolo sei stato?”

House estrasse una confezione di Vicodin dalla busta e si lasciò cadere accanto a Wilson che ritrasse le gambe appena in tempo.

“Hai comprato il Vicodin da uno spacciatore?”

House gli lanciò uno sguardo, divertito.

“Mi conosci da 13 anni e ti stupisci ancora?”

“Da' qua.”

Wilson osservò le confezioni di pillole azzurre.

“Ne hai prese per l'intero ospedale?”

“Servono a me.”

House fece per riprendersi la busta, ma Wilson la spostò al di fuori della sua presa.

“Che cos'è? Chissà cosa ci hanno messo dentro, House. Se è contraffatto o...”

“E' Vicodin. E qualcos'altro, tipo marijuana. L'ho assaggiato.”

Wilson gli lanciò un'occhiata di rimprovero, mentre House mandava giù due pillole e chiudeva gli occhi.

“Fa molto male?”

House non rispose, aspettando che l'ondata di dolore passasse.

Nel mese precedente era riuscito a sopravvivere con i tubetti di Vicodin che aveva, ma il dolore spesso era diventato così insopportabile da indurlo a bere per stordirsi.

Wilson non lo sapeva, od almeno così pensava, perché oltre agli sguardi preoccupati che di tanto in tanto gli lanciava, da tipico Wilson, non aveva detto nulla.

“Puoi usare i miei antidolorifici, House. Non c'è bisogno che tu vada da uno spacciatore e che ti cacci nei guai.”

“Non mi caccio nei guai. E c'è un motivo se si chiamano tuoi antidolorifici. Sei malato.”

“Oh, lo so bene. Ma non voglio vedere te soffrire od assumere chissà quali schifezze! L'ultima volta che hai provato una cura alternativa hai rischiato di morire, ricordi? Non voglio che si ripeta una cosa del genere e...”

“Sarei in un ospedale in ogni caso.”

House fece per mandare giù un'altra pillola, ma Wilson afferrò la confezione e la lanciò lontano, facendola aprire e lasciando che tutto il contenuto si riversasse sul tappeto.

Cadde il silenzio.

“Sei un vero idiota.”disse House a denti stretti.

Wilson aveva un'espressione irata sul viso.

“Smettila di farti del male, House.”

House fece per alzarsi ed afferrare le pillole, ma l'oncologo l'afferrò per il braccio, frenandolo.

“Smettila! Non puoi continuare così! Io non ci sarò per sempre a proteggerti, House!”

House si liberò violentemente dalla sua stretta, alzandosi irritato.

Wilson ebbe il tempo di vedere la gamba tremare ed un'espressione sofferente sul volto dell'amico, prima che quest'ultimo gli sferrasse un pugno sul volto.

L'oncologo gemette di dolore, portandosi le mani al viso.

Sentì la porta sbattere violentemente alle spalle di House.


House avrebbe voluto spaccare tutto, distruggere tutto ciò che incontrava per la sua strada.

Accelerò sulla moto, lasciando che il vento portasse via la sua rabbia ed il suo dolore.

La gamba lo faceva impazzire, ma sapeva benissimo che non era solo provocata dal dolore fisico.

Odiava quella situazione, odiava come Wilson stringeva forte le labbra per impedirsi di urlare, odiava vederlo raggomitolato in posizione fetale o chiuso nel bagno a vomitare.

Odiava che il suo migliore amico avesse il cancro, che rischiasse di morire, cura sperimentale o non cura sperimentale.

Ed odiava che, invece di preoccuparsi di sé stesso, Wilson lo guardava con apprensione e temeva cosa ne sarebbe stato di lui alla sua morte, invece di lottare per rimanere in vita.

Sentì il telefono vibrare e l'ignorò a lungo, prima di rendersi conto che potevano essere notizie serie.

Frenò bruscamente al lato della strada e guardò lo schermo del cellulare.

Wilson.

Le pillole sono trattate con una sostanza tossica, con qualche tipo di pesticida. L'ho fatta analizzare. Torna immediatamente.”


“Ma cosa ti è saltato in mente? Vuoi farmi denunciare?”sibilò House, vedendo Wilson all'ingresso del parcheggio.

Un livido violaceo si stava allargando sotto l'occhio destro.

House sentì una fitta di senso di colpa al petto.

“Idiota! Betty, del reparto analisi, l'ha analizzato. Ho detto che ti hanno truffato e che ti hanno detto che erano tranquillanti naturali. House, potrebbero provocarti delle embolie, razza di idiota!”

Le successive due ore furono piene di ansia e di controlli.

L'amica di Wilson, Betty, insistette per visitare House, spingendolo a fare un'angiografia per controllare possibili embolie.

Voleva protestare, dire che stava bene, ma visto lo sguardo di Wilson, House decise che era meglio cedere.

“Ok, dall'analisi non esce nulla, ma è meglio tenerlo sotto osservazione.”

Betty era una dottoressa carina dai capelli rossi, palesemente cotta di Wilson.

In quel preciso istante lo guardava, arrossendo furiosamente.

“Deve essere ricoverato?”

“Non è necessario. Dobbiamo solo fare attenzione a qualsiasi tipo di dolore particolare. Signor Collins, se inizia a soffrire di dolore al petto, od affanno o...”

“Sì, lo so. Verrò qui.”

House afferrò la giacca e fece per uscire.

“Il suo amico mi ha parlato del suo problema alla gamba. Posso prescriverle qualcosa.”

Si bloccò, la mano sulla maniglia.

Wilson non stava mai zitto.

“Non credo che ibuprofene o roba simile possa fare qualcosa.”

“Posso darle ciò che il dr Johnson sta dando al signor Wilson, anche se dosi più leggere. So benissimo che il suo amico le cederebbe volentieri i propri antidolorifici.

Sì, signor Wilson, non faccia quell'espressione. Lo so.”

“Pensi a guarire lui.”disse House, scontroso, prima di andarsene.


“Io non riesco a capirti!”

“Eccoci.”sbuffò House, quando Wilson entrò nel loro appartamento come una furia.

“Stai male, fai un'idiozia che ti potrebbe anche uccidere e quando quella dottoressa ti offre un antidolorifico tu rifiuti! Ma sei pazzo?”

“Credevo che l'avessimo già appurato.”

“House!”

“So badare a me stesso. Ci sono riuscito per anni. Anche senza il tuo aiuto.”

“Lo spero. Lo spero davvero.”

L'espressione sul volto di Wilson era così ferita che House fece per aprir bocca, ma l'amico scosse il capo, andandosene.


House passò i successivi cinque giorni in attesa in un qualsiasi segno che indicasse un'embolia, che poteva colpirgli il cuore, i polmoni od il cervello.

Sussultava ad ogni minimo dolore, sorvegliato a vista da Wilson, ma i giorni passarono e loro tirarono un sospiro di sollievo.

“Mi devi 300 dollari. Immagino che tu abbia buttato quelle pillole.”esordì House, entrando nella sala in cui l'amico stava seguendo la cura.

“Tutto giù nel water. E scordati i soldi.”

Wilson tossì, raggomitolandosi su un fianco della poltrona.

Aveva le labbra secche e si sentiva febbricitante.

La mano di House era fresca sulla sua fronte.

“Infermiera! Ho bisogno di una coperta qui! Ha la febbre alta!”

Wilson si sentì avvolgere dalla coperta, ma continuò a tremare.

“Wilson...ehi...cosa diamine hai? Apri gli occhi. Cosa senti?”

Si sentiva troppo debole per sollevare le palpebre e troppo stanco per parlare.

Voleva solo dormire, voleva che il dolore passasse.

Tossì violentemente.

Sentì House accanto a lui dire qualcosa, ma non lo capì.

Sprofondò nell'oblio.

Quando si svegliò era avvolto nelle coperte fino al mento.

La testa gli doleva moltissimo ed il corpo...era come se l'avessero ripetutamente investito.

“Ben svegliato.”

Wilson si voltò verso la voce che parlava.

Era una voce che pensava di non sentire mai più.

I capelli biondi le scendevano attorno al viso, sulle spalle e lei gli sorrideva, seduta sul bordo del letto.

Amber.

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Capitolo 3
*** Chapter III ***


“Fammi indovinare. Sei un'allucinazione.”

“Allucinazione, voce della tua coscienza, fantasma. Chiamami come vuoi.”

Wilson si mise a sedere lentamente.

Era nella sua stanza, ma non c'era nessun altro.

“Dov'è...”

“House? Forse sta parlando con il dr Johnson. Gli effetti collaterali della cura si stanno facendo sentire. Oltre al dolore del cancro ci sono le allucinazioni, la febbre, il delirio, il collasso epatico...”

“Il mio fegato sta bene. Reggerà.”

“Sei in pericolo.”

Wilson strinse i denti, tremando.

Lo sapeva.

Sapeva quanto stava rischiando per quella cura.

“Per chi stai lottando?”

Non rispose.

Afferrò la giacca ed uscì.

Lei lo seguì giù nella hall, fuori l'edificio.

“Dove vai, Wilson? Stai scappando?”

“Via da qui.”


House emise un gemito di frustrazione, quando entrò e trovò la camera vuota.

Ma dove diavolo s'era cacciato? Come era possibile che, febbricitante e malato, Wilson fosse sparito?

“Dovete cercarlo! Non sta bene, dannazione!”urlò contro Johnson, che stava tentando invano di calmarlo.

“Abbiamo chiamato la polizia e stiamo mandando una squadra a cercarlo. Qualche idea di dove possa essere?”

Idea?

Non sapeva neanche perché era fuggito!

Si passò una mano sul volto, angosciato.

Ma che cazzo gli era saltato in mente?

“Lo vado a cercare. Se lo trovate prima di me, chiamatemi subito.”


La pioggia aveva iniziato a cadere quasi subito, torrenziale, inzuppandogli il camice d'ospedale e trasformando la sabbia in un pantano in cui affondava ad ogni passo.

Lei lo seguiva, sciorinando le sue teorie.

“Stai scappando perché hai paura che la cura possa non funzionare. In quel caso ti ritroveresti con poco da vivere e tu non vuoi morire. Ma non credo sia solo per quello che hai paura. Hai litigato spesso con House per...”

“Non ho alcuna voglia di parlare di House! Né della cura o del cancro o di nulla!”urlò.

La spiaggia era deserta e non c'era nessun luogo dove ripararsi.

Le scarpe erano bagnate e piene di sabbia.

Ogni passo lo faceva sprofondare nella sabbia bagnata e faticava a rimettersi in piedi.

Era zuppo e tremava.

Camminò senza meta, lungo la spiaggia, oltre di essa, verso la scogliera.

Sedette sulla gelida roccia, tremando da capo a piedi.

“Perché lo stai facendo?”

“Sei il mio subconscio. Dimmelo tu.”

Wilson sentì una forte stretta al petto.

“Potresti morire qui. Da solo. Perché sei scappato?”

“Io...io...non voglio che mi veda così.”

“House?”

Wilson sentì le lacrime scivolargli lungo le guance.

Anche i vestiti ed i capelli della sua allucinazione erano fradici.

Lei si sedette accanto a lui, facendo penzolare i piedi oltre il bordo.

“Sei svenuto ed hai pensato “Forse mi resta davvero poco tempo. Forse è meglio se me ne vado a morire in un posto isolato da solo, senza dover pesare su nessuno.

Senza vedere House morire di dolore, senza di me.”

Wilson s'affaccio alla scogliera.

Sotto c'erano rocce e spuntoni ed oltre esse, l'oceano.

“Basterebbe così poco per farla finita, vero? Lasciarsi cadere.”disse Amber. “Non sei mai stato un tipo suicida, cosa ti succede?”

“Io non voglio morire.”

“Nessuno vuole.”

“Io non posso farlo.”

“Per lui?”

Per House?

Davvero non voleva morire per lui?

“Resterà solo.”

“Non è una tua responsabilità.”

“Lo è. È mio amico. Ha bisogno di me. Mi è sempre stato accanto, mi ha sempre aiutato e...”

“Sempre cacciato nei guai, è sempre stato una spina del fianco e fonte di mille preoccupazioni.”

Wilson rise, apertamente.

“E' fatto così.”

“Ed a te va bene?”

“Sì, mi va sempre bene.”

Tacque, fissando l'acqua turbinare e la pioggia cadere a dirotto.

“Morirà senza di me. Ed ho paura.”

Lo sapeva, l'aveva sempre saputo, ancor prima di sentirglielo dire.

House non ce l'avrebbe fatta senza di lui. Aveva un bisogno disperato di lui.

House aveva sempre creduto che la sua vita fosse senza significato, s'era sempre fatto del male e Wilson era stato l'unico ad aiutarlo a tirare avanti, a cercare di capirlo.

“Vorresti che il dolore finisse, ma non vuoi lasciarlo? Devi amarlo molto.”

Wilson rise e si mosse in avanti, inconsapevolmente.

Fu un passo sbagliato.

Sentì la terra franare sotto di lui e cadde.


House imprecò sonoramente, cercando di ripararsi sotto l'ombrello dalla pioggia torrenziale.

I piedi ed il bastone affondavano in continuazione nella sabbia e tutt'attorno a lui c'erano le luci della macchina della polizia ed agenti che cercavano lungo la spiaggia che era lunga miglia e miglia.

Wilson poteva essere ovunque.

Poteva essere ferito, finito in acqua, svenuto.

Era febbricitante e malato.

Si maledisse per l'ennesima volta.

Non avrebbe dovuto lasciarlo da solo, ma aveva temuto che la febbre poteva essere sintomatica di qualcosa più grave di un semplice raffreddore.

Le difese immunitarie di Wilson erano deboli, nonostante la sostanza Yu, che sostituiva i suoi globuli bianchi, venisse costantemente iniettata nel suo corpo per proteggerlo.

Camminava da ore e sentiva il dolore alla gamba provocargli fitte intense di agonia ad ogni passo.

Ma l'idea di starsene in clinica ed attendere notizie non gli piaceva affatto.

Voleva sapere dov'era finito e prenderlo a pugni quando l'avrebbe trovato.

Ma dov'era diamine s'era cacciato?


Wilson gemette ad alta voce, sentendo in bocca il sapore acre e ferroso del sangue.

Si toccò leggermente il braccio, ma una nuova fitta di dolore lo travolge, costringendolo a vomitare bile.

“E' una fortuna che cadendo da quell'altezza ti sia rotto solo il braccio. Potevi morire.”

La voce di Amber era chiara e distinta, nonostante il temporale che infuriava.

Il pezzo di roccia su cui era caduto era a strapiombo sul mare e spruzzi gelidi di acqua salmastra lo inzuppavano.

“Ti troveranno. House ti troverà. Ti starà già cercando.”

“Mi troverà quando sarò morto...”

“Non essere pessimista. Non è da te.”

Amber era seduta accanto a lui, spalla a spalla.

Wilson sentiva il dolore travolgerlo ad ondate, era gelato da capo a piedi e sentiva le forze venir meno.

La febbre era molto alta, lo sentiva e stava tremando da freddo e dal dolore.

Si tastò lentamente il braccio rotto e gridò, gemendo.

Come avrebbe fatto a risalire in quelle condizioni?

Lanciò uno sguardo in alto.

La cima della roccia distava almeno un paio di metri e l'unico modo per salire erano spuntoni di altre rocce e piccole fessure.

“Sai cosa pensavo?”

“Dato che sei il mio subconscio sono certo che me lo dirai.”

“E' una cosa cui stavo pensando da tempo. Credo che tu sia innamorato di House.”

Wilson si voltò di scatto, così velocemente da sentire la testa esplodere.

“C-Cosa? Sei impazzita? O meglio, sono impazzito io?”

Lei rise e Wilson sorrise nel ricordare quella risata.

Le mancava.

A lui mancava ogni persona che aveva fatto parte della sua vita.

Soprattutto in quel momento, con la situazione così disperata.

“Non sono innamorato di lui.”

“A livello conscio, no. Ma inconsciamente, sì. Lo ami.”

“No.”

Era ridicolo.

“Io credo, no, so che è la persona più importante della tua vita, che faresti di tutto per stargli accanto, che ti stai aggrappando disperatamente alla vita e non ti stai lasciando andare alla morte perché non vuoi perderlo e non vuoi che soffra.

Sei fuggito perché non volevi che House ti vedesse stare male.

So che quando hai creduto che fosse morto il tuo cuore s'è frantumato e quando hai visto che era ancora vivo e disposto a rinunciare alla sua vita e carriera per te, sei stato la persona più felice del mondo.”

“E' il mio migliore amico. Gli voglio bene, ma non lo amo.”

“Non è così. Sei attratto da lui. È la tua anima gemella.”

“Non credo a cose del genere.”

“No, House non ci crede e ti ha influenzato con il suo cinismo. Tu speri di trovare qualcuno con cui passare il resto della tua vita, senza renderti conto che l'hai già trovato.”

“Se ti...”

“Mi riferisco a Gregory House.”

“Non è così.”

“Sei attratto da lui, dai suoi occhi azzurri, dal suo modo di fare, anche quando è uno stronzo e ferisce le persone, anche quando lo vorresti prendere a pugni e ti ritrovi sempre a perdonarlo ed a dif...”

“WILSON! WILSON! DOVE SEI, STUPIDO IDIOTA? WILSON!”

Wilson sussultò.

Era House.

Era...

“SONO QUI! QUI SOTTO!”


House fece un balzo quando sentì, oltre il rumore della pioggia e della mareggiata, la voce dell'amico.

Si precipitò verso il punto in cui l'aveva sentita, ben attento a non scivolare e s'affacciò oltre la scogliera.

Wilson giaceva seduto scompostamente su una roccia, un paio di metri più in giù.

Sussultò.

“Stai bene? Sei ferito?”urlò.

“Il braccio...credo sia rotto.”

Wilson lo guardò, speranzoso.

Era lì. L'aveva trovato.

House imprecò tra i denti, guardando in giù.

“Riesci a salire?”

Wilson si guardò intorno, il cuore che batteva all'infinito.

No. Non ce la faceva.

Sentì le gambe tremargli e scosse piano la testa.

“House, non...”

“Immaginavo.”

House strinse i denti, posando il bastone e l'ombrello.

La pioggia lo bagnò completamente, mentre scavalcava la scogliera.

“NO! HOUSE! NON FARLO!”

“Non posso mica lasciarti lì! Nel caso non te ne fossi accorto c'è una tempesta e l'acqua finirà anche per inondare la roccia dove sei!”

Wilson si guardò indietro.

Aveva ragione.

Il livello dell'acqua stava pericolosamente salendo ed ora gli arrivava alle caviglie.

Si alzò, dolorante e barcollante.

S'aggrappò ad una roccia lì vicino per contrastare il giramento di testa.

Tremava, ma House aveva una gamba matta e non sarebbe stato in grado di aiutarlo.

“Dobbiamo aspettare i soccorsi...”sussurrò a voce così bassa che temette che House non l'avrebbe sentito.

House si concentrò sugli spuntoni, ignorando l'ultima frase.

Sapeva che se avesse messo un piede in fallo sarebbe caduto e sarebbero morti entrambi.

Non poteva sbagliare.

Wilson sentì una fitta acuta al braccio quando un'onda lo sbatté contro una roccia lì vicino.

“WILSON!”

“S-st-...Sto bene...”

House imprecò ad alta voce e sentì la mano ferirsi ad una roccia particolarmente appuntita.

Wilson avanzò lentamente, cercando di issarsi su rocce più alte per facilitare il compito di House.

Sentiva il cuore battergli in gola mentre cercava, usando solo il braccio sano, di proseguire.

Il cuore saltò un battito quando il piede di House scivolò, facendolo cadere.

Per fortuna riuscì ad afferrare una roccia ed a frenare la caduta.

House sentì il cuore battergli violentemente, mentre s'afferrava più saldamente alla roccia.

La gamba lo stava facendo impazzire.

Era come se stesse andando a fuoco.

Strinse i denti, mordendosi le labbra a sangue e tese la mano a Wilson.

“Ti reggo. Prendi la mano.”

Wilson obbedì, sentendo la mano di House, gelida e bagnata, come la cosa più vicina ad un'ancora di sicurezza che avesse mai avuto.

House lo guardava, colmo di preoccupazione e dolore.

Wilson vide i suoi occhi azzurri velati dal dolore.

Stava soffrendo e non ci volle molto a capire il perché.

House l'afferrò per la camicia, aiutandolo a salire, passo dopo passo.

“Sta rischiando la vita per te, vedi?”

La voce di Amber gli rimbombava nella testa e lui la vide seduta sulla cima della scogliera, che li osservava.

“Ti sei sentito a casa quando ti ha preso la mano. Al sicuro.”

Wilson era dimagrito molto ed House se ne rese conto quando lo aiutò a proseguire, guidando i suoi passi.

Tremava ed era debolissimo, il braccio rotto che giaceva inerte sul fianco sinistro.

“Ti tengo. Ti tengo. Reggiti a me.”

House lo sollevò, aiutandolo a toccare terra e lo spinse il più lontano possibile dal precipizio, per poi lasciarsi cadere sulla roccia bagnata ed ansimare per lo sforzo ed il dolore.

Wilson s'era accasciato accanto a lui, gemendo.

“Wilson! Wilson...andiamo!”

House racimolò le forze che aveva per sollevare l'amico e cercare di portarlo in un luogo più riparato.

Ma attorno a loro c'erano solo rocce e vento.

Raccolse il bastone da terra, imprecò contro l'ombrello che il vento aveva portato via e cercò di sollevare Wilson in piedi.

“Dammi una mano! Non ce la faccio a...”

House ricadde in ginocchio di fronte a lui.

Wilson scottava moltissimo ed era incapace di reagire.

Era completamente bagnato, i capelli attaccati sulla fronte, le labbra secche e tremanti, gli occhi lucidi per la febbre.

“Così ti farai ammazzare, stupido idiota!”gli urlò contro House.

“Anche lui tiene a te.”disse Amber, in piedi accanto ad House.

“Sta' zitta. Ti prego, basta...”

Wilson affondò il viso tra le mani, afferrandosi i capelli e gemette.

“Zitta? Ma con chi...”

Poi House capì.

“Hai le allucinazioni...chi...chi vedi?”

“A-amber...”balbettò in risposta ed House fece una risata.

“Tipico. Popola le allucinazioni di tutti.”

Wilson s'aggrappò alla sua giacca e gemette.

House sussultò, preso alla sprovvista, nel vederlo stringersi a lui.

Aveva bisogno di lui, chiedeva il suo aiuto.

Gli posò una mano sulla spalla, incapace di consolarlo in altro modo.

Non era il migliore nelle relazioni umane.

“M-mi dispiace...mi di-dispiace tanto...”

“Di essere fuggito via? Ma a cosa stavi pensando?”

Wilson scosse ripetutamente il capo.

“Non lo so...non lo so...io...volevo...che mi...vedessi...così...io...no...non voglio...non voglio stare male...House, non voglio morire...”

“Smettila di preoccuparti per me...non...non avere paura. La cura...andrà tutto bene...”

“ Ho...bisogno di te.”

House non disse nulla, ma decise di passargli un braccio attorno alle spalle.

Wilson si strinse a lui più forte, mentre rimanevano in silenzio.

Per un po' si sentì solo la furia della tempesta.

Aveva freddo e tremava.

Wilson sentì House imprecare tra i denti qualcosa a proposito di “soccorsi” e “subito” e si lasciò stringere.

“Wilson! Rimani cosciente!”

House lo scrollò bruscamente, con voce presa dal panico quando Wilson scivolò nell'incoscienza la prima volta.

“Io non...ce la fa...”

“Sì che ce la fai! Resisti! Dimmi, perché sei fuggito?”

“Av...avevo...p-paura che...che...il can...cancro mi...avr...ebbe...u-c..ucci...ucciso.”balbettò.

“Volevi farla finita? Venendo qui con questo tempo? Volevi ammazzarti?”

House stava gridando, stupito.

Davvero aveva voluto uccidersi?

“Io...no...io...non lo so...non...”biascicò, confuso.

Amber era scomparsa e Wilson lasciò che le sue forze venissero meno, accasciandosi tra le braccia di House che lo sostenne, spaventato.

Non l'aveva mai visto in quelle condizioni.

Wilson era un groviglio di dolore e paura.

“Non...non vo...voglio mor...mori...morire. Non...non voglio che...ti accada...qualc...qualcosa...di...brutto, se-sen...senza di m-me...”

“Non pensare a me, stupido idiota! Pensa a stare bene, pensa a lottare.”

“Non...non...s-senza...di...t-te.”

“Non vado da nessuna parte.”disse House, fermo.

“T-tu ha...hai rin...rinunci...rinunciato a...t-tutto...per v-veni...venire c-con m-me...”

“Non ho rinunciato a nulla, Wilson. Smettila di complessarti.”

Wilson sentì il cuore stringersi in una morsa al pensiero di scivolare nel sonno e di non svegliarsi più.

Non voleva morire.

Non voleva perdere House.

Avevano così tante cose da fare, da vedere, da dirsi...doveva...

Poi capì.

Di colpo fu tutto più chiaro.

Amber aveva ragione. Il suo subconscio aveva ragione.

Lui amava House.

Lui non accettava l'idea di una vita senza la sua presenza prorompente, senza le sue follie, il suo modo di fare, le sue battute, gli occhi azzurri che s'illuminavano quando faceva uno scherzo o rideva, le mani che, come in quel momento, lo facevano sentire protetto ed al sicuro, anche se erano nel bel mezzo di una tempesta.

Sollevò il viso verso di lui, incrociando i suoi occhi.

Erano di un azzurro bellissimo e lo scrutavano, pieni di apprensione.

Alzò la mano sana posandola sulla sua guancia, coperta da barba ispida.

“Credo proprio di essermi preso una cotta per te.”

Wilson vide per un attimo gli occhi sgranati per la sorpresa di House, prima di avvicinare le labbra alle sue.

House sentì il suo respiro sulla bocca e fece per allontanarsi, ma il suo corpo non reagì e Wilson lo baciò piano, posando le sue labbra sulle proprie.

Erano secche e screpolate, ma baciarlo fu la sensazione più intensa che avesse mai provato prima di quel momento.

Rabbrividì, non di freddo quella volta, ma di piacere, quando Wilson gli schiuse piano la bocca per approfondire il bacio.

L'oncologo teneva gli occhi chiusi, la mano che sfiorava la guancia di House, carezzandogli il profilo della mascella ed approfondendo il bacio.

La barba ispida di House gli graffiò le guance, ma non se ne curò mentre le loro lingue s'intrecciarono e si baciarono furiosamente, staccandosi per respirare.

House sbatté le palpebre come uscendo da una trance.

Wilson l'aveva baciato.

E lui aveva ricambiato.

Sentì il corpo dell'amico tremare, prima che Wilson s'accasciasse contro il suo petto, privo di sensi.


Wilson rimase incosciente per i successivi sei giorni, oscillando tra il delirio causato dalla febbre ed un'immobilità spaventosa.

Il dr Johnson lo ricoverò immediatamente, gessandogli il braccio rotto e controllando tutte le sue funzioni vitali.

Dalla TAC, fortunatamente, risultò che il tumore non s'era ingrandito e che il delirio e le allucinazioni erano dovute alla fortissima febbre che la fuga di Wilson non aveva fatto altro che peggiorare.

Wilson passò i successivi giorni ad essere nutrito con la flebo, interrompendo momentaneamente la cura ed a tremare violentemente per la febbre alta.

La sua camera da letto fu riempita di macchinari che controllavano il battito cardiaco e le funzioni vitali.

House rimase accanto a lui il più possibile, cercando di concentrarsi sul presente.

Ma ogni volta che la sua concentrazione calava, i suoi pensieri tornavano al bacio.

Wilson l'aveva baciato.

E lui, preso da chissà quale follia, aveva ricambiato il bacio.

Ricordava chiaramente quel momento, il modo in cui Wilson tremava follemente, stringendosi a lui, il fatto che gli aveva detto che era innamorato di lui...

Non c'era altra spiegazione: Wilson era impazzito.

Il bacio era stato...stranissimo.

Era stato un bacio febbricitante e lungo.

Ricordava benissimo la sensazione della bocca dell'amico contro la sua, delle loro lingue che si toccavano, ricorrendosi.

Ma cosa gli era saltato in mente?

E perché lui aveva ricambiato il bacio?

Il freddo, il dolore alla gamba dovevano avergli dato alla testa.


Wilson aprì lentamente gli occhi, sentendosi le palpebre pesanti.

Per un attimo crudele, credette d'essere morto.

Era avvolto nel bianco.

Poi sbatté le palpebre mettendo a fuoco dove si trovava.

Riconobbe la scrivania, ingombra delle sue cose e riconobbe la sua stanza nella clinica.

Il beep dei macchinari lo spinsero a voltarsi, vedendosi circondato da macchine ospedaliere.

Si tolse lentamente i tubi attorno al naso.

Cos'era successo?

Cosa...

Poi di colpo ricordò ogni cosa: la febbre, la fuga, la pioggia, le allucinazioni di Amber, la caduta...

Lanciò uno sguardo al proprio braccio, vedendolo ingessato.

Il bacio...

Dannazione, aveva baciato House!

Si diede mentalmente dell'idiota, posandosi una mano sul volto.

Ma cosa aveva fatto?

“Buongiorno.”

Wilson fece un balzo nel sentire la sua voce e si voltò verso il luogo da cui proveniva.

Era stato così impegnato a ricordare ciò che gli era successo, che non aveva notato House seduto sulla poltrona all'angolo della stanza.

Teneva le gambe posate sulla scrivania accanto e sorseggiava una coca.

“Ehi...”

“Come ti senti?”

Wilson fece una breve ricognizione del suo corpo.

Si sentiva...intorpidito.

Notò la flebo attaccata al suo braccio.

Si sentiva un po' strano, leggero e non avvertiva nessun tipo di dolore.

Era una sensazione bellissima.

“Sto bene.”

“Sei così imbottito di farmaci che non sentiresti nulla neanche se ti segassero in due.”

Wilson abbozzò un sorriso.

House continuò a scrutarlo.

“Il dottore ha detto che la febbre non è stata provocata dal cancro, ma è stata un effetto collaterale della cura e tu l'hai peggiorata con la tua passeggiatina.”

Wilson annuì.

“E le allucinazioni sono state frutto della febbre alta. Anche se è curioso che Amber sia stata la stessa persona che hai visto anche tu.”

“Già. Bizzarro.”

Cadde il silenzio.

House sbuffò.

“Mi spieghi cosa accidenti ti è preso? Dimmi che stavi delirando, perché altrimenti non capisco il perché ti è venuto in mente di baciarmi!”

Wilson tacque.

Era ovvio che House fosse curioso e di certo, visto la sua abitudine a razionalizzare tutto, dirgli che era stato quasi spinto della sua allucinazione non avrebbe portato a nulla.

“Non...non lo so.”

Cosa avrebbe dovuto dirgli? Che s'era reso conto di tenere moltissimo a lui?

Sembrava folle anche solo dire “innamorato” di lui.

Si trattava di House! Il suo migliore amico. Come poteva essere attratto da lui?

Prima che potesse continuare ricordò chiaramente la sensazione che aveva provato quando aveva baciato quelle labbra, quando s'era ritrovato a pochi centimetri dai suoi occhi.

House l'aveva stretto a sé e lui s'era sentito al sicuro.

Per la prima volta dopo anni s'era reso conto quanto fosse importante la sua presenza e come non era disposto a lasciarlo andare.

“Mi dispiace.”

“Di cosa?”

Wilson scosse il capo.

Non sapeva cosa dire.

Non osò guardarlo negli occhi, perché era conscio che se l'avesse fatto tutta la sua, poca, determinazione sarebbe vacillata.

“Credo di provare qualcosa per te.”

“Dimmi che provi qualcosa per me nel senso che sei mio amico.”

House non riusciva a credere alla sue orecchie.

Wilson?

L'amico si passò una mano sul volto, senza guardarlo.

House si rese conto che evitava il suo sguardo.

“No. Penso sia qualcosa di diverso.”

“Mi stai dicendo che quando mi vedi ti vengono le farfalle allo stomaco? Perché qui c'è un bravo gastroenterologo che...”

“Smettila di fare l'idiota. Sto parlando seriamente.”

Wilson lo fulminò con lo sguardo.

Era già abbastanza difficile senza che House iniziasse con le sue battute idiote.

“Ti sei reso conto che ti sei innamorato di me quando hai rischiato di morire? Quando temevi che saresti morto su quella scogliera? Non credo che sia una cosa da...”

“Ho bisogno di tempo per pensare, ok? Non sono...non sono più sicuro di niente.

Ho bisogno che tu ci sia, House.”

“Anche se tu dovessi renderti conto di esserti innamorato di me?”

House sentì la gola farsi arida.

Ma cosa stava succedendo?

“Sì. Ti prego, non...non te ne andare.”

Era la cosa che lo terrorizzava di più, pensare che, se si fosse reso conto di provare davvero qualcosa per House, qualcosa che andava oltre la semplice e profonda amicizia, ed ancora non riusciva a capacitarsi di questa possibilità, House se ne sarebbe andato.

Lui non era capace di interagire con gli altri, non sapeva gestire i suoi sentimenti.

E Wilson temeva di rimanere solo.

Non voleva perderlo, non per colpa sua.

House sgranò gli occhi.

Andarsene?

Davvero pensava che l'avrebbe lasciato lì per...

“So che reagiresti male, che vorresti fuggire via...tu sei fatto così e lo capisco. Sono così confuso, non so che pensare e non voglio dover rimanere da solo qui.”

“Non me ne andrò.”


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Capitolo 4
*** Chapter IV ***


Convivere divenne incredibilmente più complicato.

House continuava a vegliare su Wilson, preoccupato di una sua ricaduta, aiutandolo nelle cose di tutti i giorni perché l'amico era ostacolato dal braccio rotto.

Si ritrovò ad aiutarlo a vestirsi, a sistemargli la flebo, a ridere della sua goffaggine.

Teneva a lui e l'ipotesi di lasciarlo non lo sfiorava neppure.

Accidenti, s'era finto morto per poter seguire tutte le sue pazzie!

Ma se realmente Wilson era impazzito del tutto ed era innamorato di lui, cosa avrebbe dovuto fare?

Rifiutarlo gentilmente? Acconsentire ai suoi desideri di malato di cancro?

Era una follia in entrambi i casi.

Lo rispettava troppo per fingere di amarlo, l'avrebbe solo ferito e non voleva.

Ed il fatto che il bacio che s'erano scambiati lo perseguitasse, provocandogli erezioni indesiderate non aiutava.

Non aiutava affatto.

D'altro canto Wilson iniziò a stare peggio e meglio a seconda dei giorni.

C'erano momenti in cui si sentiva in grado di fare tutto.

Trascinò House al parco acquatico, rimanendo a fissare incantato i pesci che nuotavano attorno a loro, lo spinse ad immergersi nella barriera corallina (cosa che House si rifiutò di fare, rimanendo a riva ed osservandolo sparire e riapparire in superficie, per schizzarlo e prenderlo in giro), andarono finalmente al Diablo, dove House mangiò così tanto da provocarsi un'indigestione e vomitare tutto la sera stessa.

Wilson sfidò House, dopo parecchi bicchieri di gin per entrambi, a farsi un tatuaggio, scommettendo che non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo.

Fu solo quando House gli mostrò un piccolo tribale sul fianco sinistro che dovette cedere, sbalordito, e pagare i 200 dollari di scommessa...per poi scoprire giorni dopo che House aveva usato un pennarello.

Invece c'erano momenti in cui stava malissimo.

Il dolore al petto diventava così forte da spingerlo ad urlare ed ansimare nella maschera dell'ossigeno, che il dr Johnson lo costrinse a lasciare in camera sua.

Rantolava, tremando ed a nulla servivano le parole delle infermiere che cercavano di lenirgli il dolore, almeno finché non arrivava lui, House, che lo stordiva con una dose del proprio e del suo antidolorifico, così potente da lasciarlo stordito anche per tutti i successivi due giorni.

La cura aveva aggredito violentemente il suo corpo, contribuendo a distruggere le cellule cancerose, anche se il tumore non era ancora scomparso del tutto dopo due mesi di terapia, ma lasciando Wilson almeno 2 giorni su 5 in uno stato comatoso.

House detestava sé stesso.

Odiava aver convinto Wilson ad accettare la cura ed odiava che lui l'avesse fatto non per sé stesso, almeno non solo, ma soprattutto per lui.

Perché non voleva che soffrisse.

Ed invece House soffriva comunque.

Non voleva vederlo raggomitolato in posizione fetale sul letto o sul divano, bere acqua dalla cannuccia, trascinarsi in bagno per vomitare e dormire giorni interi.

Quando stava bene cercavano di approfittare di ogni momento libero per andarsene via dalla clinica.

Wilson si sentiva soffocare ed House aveva imparato ad odiare ogni singola parete color pastello di quell'ospedale e della loro camera.

E dopo aver conosciuto mezza clinica grazie alle cure e mezzo personale per lo stesso motivo, Wilson ne aveva abbastanza di contatto umano.

Convinceva House a prendere la moto che aveva affittato e dirigersi ovunque, tranne che lì.

Si allacciava alla sua vita e lasciava che il vento portasse via le sue preoccupazioni.

Visto che i giorni buoni e cattivi erano impossibili da prevedere era altrettanto difficile fare progetti per il futuro.

Sempre che ce l'avesse ancora, un futuro.

Se da una parte il tumore era diminuito e su questo Johnson si congratulava ogni volta che eseguivano una TAC, Wilson era stato oncologo per 20 anni e sapeva benissimo che poteva subire una ricaduta, o morire per un'infezione contratta.

E nonostante House insistesse per tenerlo al sicuro, comportandosi in modo assolutamente diverso dal suo modo di fare solito, Wilson non aveva la minima intenzione di proteggersi dal mondo esterno.

Voleva vedere e fare tutto appena ne aveva l'occasione.


“Tu sei matto! Io non ci salgo di nuovo!”

House s'aggrappò alla ringhiera, ridendo, gli occhi al cielo.

“Andiamo!”

“No! È la terza volta! Sento la terra muoversi come se ci fosse un terremoto!”

“Fifone.”

House gli lanciò una strana occhiata.

Vedere Wilson in bermuda e maglietta colorata era bizzarro anche per chi, come lui, lo conosceva da anni ed anni.

E bizzarro era che lo stesso Wilson insistesse per fare per l'ennesima volta sulle montagne russe.

“Non avresti dovuto salirci.”

House indicò il cartello delle avvertenze.

“Dice di no ai malati di cuore.”

“Non sono malato di cuore. Ho solo il cancro. Andiamo, un ultimo giro!”

“L'hai detto anche prima. Basta.”

Wilson rise, guardandolo.

Il cappellino da baseball gli copriva gli occhi chiari, ma Wilson sapeva, anche senza vederlo, che lo stava scrutando sottecchi.

Non avevano più affrontato ciò che era successo settimane addietro, il bacio che s'erano scambiati quando Wilson era delirante, ma entrambi ci avevano pensato molto.

Wilson aveva seriamente pensato a come poteva essere stare con House, in quel senso.

Immaginava che non fosse poi molto diverso da quello che facevano di solito, fatta eccezione per una maggiore intimità, cosa che lo faceva arrossire al solo pensiero.

Lui ed House stavano sempre insieme, si conoscevano da una vita, potevano intuire cosa l'altro pensasse solo guardandolo ed avevano una profonda alchimia.

Cosa sarebbe realmente cambiato se avessero messo in gioco anche l'amore?

Perché, sì, Wilson s'era reso conto che non desiderava che House rimasse con lui perché era malato ed aveva bisogno di qualcuno.

Lui lo desiderava in tutti i sensi.

Quel singolo bacio era bastato a risvegliare i suoi sentimenti dal torpore in cui erano sprofondati da quando Sam l'aveva lasciato.

Ed House c'era. House c'era sempre per lui.

Si ritrovò ad arrossire ogni volta che House s'avvicinava a lui o lo fissava intensamente per cercare di capire cosa stesse pensando.

E quella era una cosa abbastanza imbarazzante.

Vide House prendere due zucchero filato porgendogliene uno, con un ghigno.

E Wilson si ritrovò a maledire sé stesso quando le guance s'imporporarono nei momenti meno opportuni.

Come quello.

Voltò lo sguardo, sentendo House ridere, rendendosene conto.

“Non ci credo che arrossisci per me.”mormorò, incredulo.

Era così...strano!

“Sta' zitto.”bofonchiò l'altro di rimando.

Wilson iniziò a camminare tra la folla.

Il parco divertimenti era immenso e c'erano giostre di tutti i tipi.

Wilson non andava in un posto del genere da anni ed aveva insistito per andarci quella sera.

E si stava divertendo un mondo, senza avere il tempo di pensare a nulla.

Tranne che in quel momento.

House seguì l'amico, zoppicando e guardandolo.

Possibile che fosse davvero innamorato di lui?

House aveva pensato molto a ciò che era successo, perché, nonostante non avessero più affrontato la questione, non era il tipo da lasciar perdere una cosa del genere.

Soprattutto se Wilson arrossiva nel guardarlo e lui agognava quelle labbra carnose.

Non andava affatto bene.

“Quindi la tua risposta è sì? Sei innamorato di me?”

Wilson sbuffò, ignorandolo, conscio che l'amico non avrebbe lasciato cadere la questione.

“Avanti, parlami.”

“Sì, d'accordo? Mi piaci. È un pasticcio. Troverò la soluzione.”

“Tipo? Una doccia fredda ogni volta che mi vedi? Dovr...”

“Non mi aiuti, lo sai? Se la smettessi di fare il cretino, potresti renderti conto che per me è una situazione complicata scoprire di provare qualcosa per il mio migliore amico. E mi sento già abbastanza a disagio senza che tu mi prenda in giro od iniz...”

Wilson si zittì quando House fece un passo in avanti ritrovandosi a pochi centimetri dal suo viso.

Deglutì, la gola improvvisamente secca.

“Cosa stai facendo?”

“Ti zittisco. Ho scoperto che questo qui è un ottimo modo per farti chiudere la bocca.”

Wilson fece per arretrare, ma House lo frenò, afferrandolo per un braccio.

“Non farlo.”gemette l'oncologo.

“Hai detto che sei innamorato di me.”

Wilson deglutì a vuoto.

Dannazione, ma cosa stava facendo?

“Non voglio che tu stia con me perché sto morendo o perché ti faccio pietà.”

House avanzò ancora di un passo.

Ora era così vicino da poter cogliere le sfumature d'azzurro scuro dei suoi occhi alla luce delle giostre colorate.

“Tu non stai morendo. E non faccio nulla per pietà.”

“Allora, perché mi vuoi baciare?”

“Penso di aver scoperto il perché di tante mogli e di tante amanti. Ed il perché dei tuoi divorzi e delle tue rotture. Sei sempre stato cotto di me.”

“Sta' zitto. Non è affatto vero. House...perché?”

“Perché baci bene.”mormorò. “E perché desidero queste labbra da quasi un mese.”

Wilson lo guardò, stupito, un attimo prima che House gli circondasse il viso con le mani ed annullasse la poca distanza che c'era tra loro, lasciando cadere il bastone e zucchero filato.

Le labbra di House erano morbide e carnose ed impazienti quando si posarono su quelle di Wilson, schiudendogliele.

Baciò, succhiò e mordicchiò con passione, mentre Wilson chiudeva gli occhi e si lasciava andare.

House gli cinse la vita con un braccio, attirandolo a sé, mentre l'altra mano saliva ai suoi capelli castani, affondando le mani in essi.

Si staccarono dopo quella che parve un'eternità ed allo stesso tempo troppo poco.

Wilson ignorò il rossore che, lo sapeva, stava inondando le sue guance, mentre guardava Gregory House.

Che l'aveva appena baciato con tale passione da fargli sentire le gambe di gelatina come una ragazzina alla sua prima cotta.

“Uhm...”

“Funziona baciarti, vedo. Non parli più.”

“House, io...”

“Forse è meglio un al...”

“Smettila un secondo. Cosa hai intenzione di fare? Iniziare una storia con me?”

House non rispose subito.

Posò lo sguardo sui capelli spettinati di Wilson, sulle labbra arrossate dai suoi morsi e dal suo sguardo interrogativo.

Non voleva ferirlo, né avrebbe permesso che nulla interferisse con la loro amicizia.

Sapeva che iniziare una qualsiasi storia con Wilson significava che poteva andare bene tanto quanto poteva andare male.

Ma si sentiva attratto da lui.

Voleva poterlo baciare ogni volta che voleva.

L'aveva stretto a sé ed aveva avvertito il proprio cuore impazzire.

“Siamo entrambi disastrosi nelle relazioni, House. Non voglio distruggere la nostra amicizia.”

House rise.

“Perché ridi?”

“Perché siamo sopravvissuti a tre tuoi matrimoni falliti, alla morte di Amber, al mio ricovero in manicomio, alle minacce di andare in carcere ed al carcere stesso. E già, anche al crollo di un palazzo in fiamme, a tumori che mi ero provocato nella gamba, alla mia dipendenza dal Vicodin e...devo continuare?”

Anche Wilson stava ridendo.

“Siamo un disastro, House. Come credi che funzionerebbe?”

“Potrebbe.”

House era ancora vicinissimo a lui.

“Non farlo per me, d'accordo? Non voglio che...”

“Non ho intenzione di perderti come amico. Voglio solo provarci. Tu sei cotto di me, io adoro baciarti, è un buon inizio, giusto?”

Wilson rise di nuovo.

“Va bene.”sussurrò.


Da quel piccolo accordo tra loro cambiò ogni cosa.

L'idea di frequentare Wilson, in quel senso, era bizzarra, ma non spiacevole.

House non sapeva neanche cosa l'avesse spinto ad accettare quella novità, addirittura a proporgliela. Ma si ritrovò a baciare Wilson ad ogni occasione.

Assaporava le sue labbra la mattina, sentendo il sapore di caffè su di esse, quando si sedevano in giardino o sulla spiaggia, godendosi momenti di calma prima della seduta di cura di Wilson...

Si rese conto che il suo stesso atteggiamento stava cambiando.

Se, da quando aveva scoperto che Wilson era malato, la rabbia, il dolore e la preoccupazione l'avevano spinto ad essere protettivo nei suoi confronti, a vegliare su di lui, senza scalfire, però, la sua solita maschera, ora l'idea di ferirlo sentimentalmente lo spingeva a camminare con i piedi di piombo.

Wilson gli sembrava incredibilmente indifeso, anche se sapeva benissimo che non lo era.

Passavano il tempo a punzecchiarsi, a prendersi in giro come al solito, ma c'erano momenti di tenerezza cui anche House si stava affezionando.

Momenti in cui sedevano a guardare distrattamente la televisione, con Wilson disteso sul divano che lo punzecchiava con i piedi.

“Wilson! La vuoi smettere? Sto cercando di ved...Wilson!”

House sussultò quando Wilson gli tirò un piccolo calcetto allo stomaco.

Gli afferrò i piedi, immobilizzandoli e lo tirò verso di sé, ignorando le sue proteste.

“Smettila di dare fastidio.”

“Da che pulpito! Oggi durante la seduta hai passato due ore a punzecchiarmi con una piuma per non farmi dormire.”

“Dormivi ieri notte.”

“L'ho passata a vomitare.”gli ricordò lui ed House sentì una fitta di colpa.

Gli strinse i piedi leggermente, iniziando a fargli il solletico sotto la pianta.

“House! Ahahaha! Smettila! Non...ahahahaha!”

House rise della sua espressione, mentre l'amico tentava di liberarsi dalla sua stretta, ma era visibilmente più debole.

Ancora quel senso di colpa, attenuato solo dal fatto che lui stava ridendo, quindi non lo stava ferendo in alcun modo.

Fu solo quando smise che Wilson lo fissò intensamente e tese la mano.

“Vieni.”

House accettò curioso la mano e si distese accanto a lui, su un fianco, mentre Wilson

gli stringeva le dita tra le sue.

Il diagnosta non era affatto abituato a momenti di tenerezza, ma Wilson stava giocherellando con le dita e ci fu soltanto lui su cui concentrarsi, mentre la televisione accesa faceva da sottofondo.

House guardò i suoi capelli, in parte caduti per la violenza della cura, gli occhi marroni stanchi, le labbra secche e screpolate che tante volte aveva baciato.

Gli passò una mano tra i capelli, delicatamente.

“Sei così fragile.”si ritrovò a dire e Wilson non disse nulla.

Lo sapeva. Si sentiva in quel modo.

Posò la fronte contro il petto del compagno, chiudendo gli occhi.

“House?”

“Mmm...”

Wilson gli baciò piano la bocca, graffiandosi con la barba ispida, ma non curandosene affatto.

Sentì le braccia di House cingergli il corpo e rimase a baciargli le labbra, prima di scendere lungo la sua gola, baciando e succhiando la pelle.

Lo sentì irrigidirsi sotto il suo tocco, respirando profondamente, ma continuò a baciarlo in quel modo.

Rimasero a baciarsi tutta la sera, dimentichi di ogni cosa tranne che delle loro labbra e dei loro corpi stretti l'uno all'altro.

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Capitolo 5
*** Chapter V ***


“Se avessi saputo che pomiciare con te sarebbe stato così piacevole, avrei evitato di pagare tutte quelle prostitute, di sposare Dominika e stare con la Cuddy e Stacy.

Wilson, ma dove accidenti eri 13 anni fa?”

Wilson lo ignorò, le sue attenzioni focalizzare sul fucile per il tiro a piattello.

“E poi...ops...”

“House, la smetti di distrarmi!”sbottò, irritato dopo l'ennesimo tentativo di House di urtarlo e fargli sbagliare mira.

“Posso sempre puntartelo contro il fucile, se non smetti di rompere.”lo minacciò, mentre House, memore della sua prima volta con quel tipo di sport e dopo vari tiri mancati, lo fissava, seduto sull'erba.

Il campo era poco lontano dalla clinica e Wilson aveva inserito anche quell'attività tra le cose da fare.

House l'osservò puntare il fucile, il braccio che aveva rotto durante la caduta dalla scogliera, ancora un po' tremante ed incerto e centrare il piatto al primo colpo.

Aprì e richiuse la bocca un paio di volte, incredulo.

“E' la fortuna del principiante.”

Ma quando Wilson centrò anche la seconda, terza e quarta volta, sbuffò.

“Sarà un fucile difettoso.”

“No, sei tu che sei una schiappa.”disse allegramente, almeno finché House non l'afferrò per la caviglia spingendolo a terra.

“House, ma che diav...”

Si zittì quando House gli prese il viso tra le mani e lo baciò ardentemente, mettendo a tacere ogni tipo di protesta.

Rise, contro le sue labbra, sorridendo piano quando si staccò da lui.


“Sto bene, davvero. Lisa, non...no. Davvero. È tutto ok. Me la so cavare.”

Wilson giocherellava con un bracciale di cuoio che aveva comprato in Giamaica, sentendo Lisa parlare al telefono e con il braccialetto che avevano tutti i pazienti.

Dopo quasi cinque mesi di isolamento, aveva convinto House a riallacciare i rapporti con gli altri.

Non che fosse colpa sua, in effetti.

Wilson aveva sentito la voglia irrefrenabile di allontanarsi da ogni cosa che conosceva e fuggire il più lontano possibile, ma la nostalgia s'era fatta viva e con essa la voglia di sentire i suoi amici.

Aveva mandato loro solo qualche mail, ma poi nulla.

Poteva quasi immaginare la loro paura nel sapere che lui, malato di cancro e dopo aver subito il lutto del suo migliore amico, si rifiutasse di stare e parlare con loro.

I suoi avevano dato di matto quando li aveva chiamati.

Aveva sentito le loro urla preoccupate, che avevano svegliato House dal suo pisolino.

Irritato, gli aveva tirato addosso una pantofola che l'aveva centrato al braccio.

Ed ora si ritrovava con un braccio dolorante, un amico irritato ed i suoi che l'avevano supplicato di tornare a casa.

Sentire la calma Lisa fu un bel diversivo.

“Stai seguendo qualche cura, vero?”

“Sì. È una cosa sperimentale, ma...sto meglio. Insomma, mi fa star male come la chemio, ma pare abbia risultati decisamente migliori.”

“Sei da solo?”

“No, con me c'è House.”avrebbe voluto dirle.

Sentiva quanto era preoccupata a saperlo da solo ad affrontare tutto questo.

“Dimmi dove sei. Posso...”

“No, Lisa. È una cosa che devo fare da solo. Hai una famiglia, hai Rachel ed io starò bene.”

“Ti manca, vero?”

Wilson lanciò un'occhiata ad House.

Era disteso sul letto, gli occhi socchiusi.

Aveva i denti digrignati e stringeva forte la gamba.

Wilson aggrottò le sopracciglia, avvicinandosi.

“Stai bene?”sillabò, scuotendolo piano, ma House rispose scostandolo di malo modo.

“Lisa, devo andare.”

“Ma...”

Wilson non le diede il tempo di continuare.

Attaccò il telefono e s'accostò ad House.

“House...”

House continuò a gemere.

Teneva gli occhi serrati, le mani che artigliavano la stoffa del jeans, il corpo tremante.

Wilson imprecò tra i denti, afferrando la boccetta di pillole di antidolorifico che gli aveva dato il dr Johnson.

“Manda giù queste. House, ascoltami. Prendi queste.”

Gli cinse le spalle e lo costrinse a mandare giù un paio di pillole, mentre lo sentiva gemere ad alta voce.

Non l'aveva mai visto così sofferente.

Da quando s'era ammalato, House aveva evitato di dirgli del suo problema alla gamba.

Wilson lo vedeva digrignare i denti, imprecare tra sé, mandare giù antidolorifici, ma stavolta tremava violentemente e gemeva ad alta voce.

Gli doveva fare molto male.

L'attirò a sé ed House artigliò la stoffa della sua camicia, gemendo forte.

“Ssh...ssh...ssh...”sussurrò al suo orecchio, tentando di calmarlo.

La mano scese sulla sua gamba, sfiorandogliela piano.

Sentì la cicatrice attraverso la stoffa ed House gli afferrò forte il polso, costringendolo a non toccare.

Era qualcosa che lo metteva sempre a disagio.

“E' tutto ok.”mormorò Wilson contro le sue labbra.

Gli cinse le spalle e lo abbracciò, stendendosi sul letto accanto a lui.

Rimase a stringerlo a lungo, anche quando il tremore cessò ed House giacque un po' più tranquillo tra le sue braccia.

Lo fece appoggiare al suo petto, sfiorandogli i capelli sale e pepe e posandogli un bacio su di essi.


Sentiva le sue mani sul proprio corpo, scivolare a carezzargli il torace, il ventre, fino al suo inguine.

Wilson emise un gemito soffocato contro le labbra del compagno, quando House infilò la mano tra le sue gambe, liberandosi del pantalone e dei boxer con un gesto brusco, voglioso di procedere.

Non erano mai arrivati ad un livello tale di intimità, ma entrambi lo anelavano da tempo.

House osservò l'amico che gemeva al suo tocco.

Era incredibilmente eccitante vedere Wilson eccitarsi per lui.

Ghignò, malandrino e catturò le sue labbra ancora una volta, mentre continuava a masturbarlo.

Lo sentì venire tra le sue dita e continuò a baciare ogni lembo di pelle disponibile.

Non sapeva cosa guidasse le sue azioni, ma sentiva il bisogno fisico ed irrefrenabile di baciarlo, di averlo in ogni modo possibile.

Le mani di Wilson s'affrettarono a liberarlo dai vestiti, mettendosi a cavalcioni su di lui, mentre gli prendeva il viso tra le mani ed approfondiva il bacio.

Si sentiva rapito dal suo tocco, come mai s'era sentito prima d'ora.

L'afferrò per la vita, stringendolo a sé, ignorando il dolore alla gamba.

Voleva averlo, non importava il costo.

Wilson notò la sua espressione sofferente e lo bloccò.

“No, io...”

House lo mise a tacere, baciandolo dolcemente, stringendolo più forte a sé, mentre gli sfilava la maglietta e lo spingeva sotto di sé.

Lasciò che fosse la passione a guidarlo, perché se avesse ascoltato il cervello ci sarebbe stato un tripudio di “Ma cosa stai facendo?” “E' il tuo migliore amico!” “E' malato, rischi di ferirlo e...”.

Wilson l'attirò su di sé, lasciando che House prendesse il comando della situazione, sentendo le loro eccitazioni, ormai, premere dolorosamente.

Ricordava il “Sei sicuro?” sussurrato a pochi centimetri dalle sue labbra, prima di annuire, prima che House lo prendesse per la prima volta, dolorosamente ed incredibilmente.

Era stato incredibile.

Doloroso, ma aveva provato una sensazione pazzesca.

Wilson aveva stretto forte i denti, mordendosi le labbra quando House era entrato dolorosamente dentro di lui, ma poi il dolore era scemato, seppur lentamente, lasciando il posto all'eccitazione, al bisogno di averlo ancora, di più e più forte.

Era stato uno spingere, baciare, mordere, toccare, fino a crollare esausti, l'uno sull'altro, l'uno abbracciato all'altro.

Wilson cercò di contrastare lo sfarfallio allo stomaco ed il dolore sordo al sedere, la testa posata sulla spalla di House.

Era stato incredibile.

Era stato dentro di lui, dolorosamente, ma s'era sentito unito ad House nel modo più intimo che esistesse.

E bastava quello a fargli provare quello sfarfallio.

Non sapeva cosa dire, voleva soltanto crogiolarsi nel calore di quell'abbraccio.

House gli s'avvicinò.

“Stai bene? Ti ho...”

“Sto bene. È stato...”

“Strano.”concluse House

I suoi occhi erano incredibilmente azzurri e Wilson deglutì a stento.

Si sentiva bene. Dolorante, ma bene.

Era stata l'esperienza più folle e più bella che avesse mai fatto.

Annullò la distanza, baciandolo piano sulla bocca, ricambiato dal compagno, che gli affondò una mano tra i capelli.

House posò la fronte contro la sua, incapace di muovere anche solo un muscolo.

Sentiva il cervello pieno di domande e serrò gli occhi.

Quando li riaprì Wilson era accanto a lui, gli occhi chiusi, i capelli castani arruffati, il corpo seminudo coperto dal lenzuolo.

Sorrideva piano, addormentato.

Era sereno.


House non era mai stato bravo nelle relazioni e, visti i tre matrimoni falliti di Wilson, neanche lui era tanto più capace.

I giorni successivi al “fatto”, come aveva iniziato a pensarlo House, furono bizzarri.

Non s'era mai sentito attratto sessualmente da Wilson, ma baciarlo e fare sesso con lui era incredibilmente piacevole.

Nonostante le mille razionalizzazioni e spiegazioni che provò a dare alla situazione, “Wilson era malato ed instabile emotivamente”, “E' stato solo un attimo di sbandamento”, “Non accadrà più” e “Probabilmente siamo impazziti tutti e due”, non poteva evitare di pensare al suo amico che gemeva sotto di lui, che gemeva di piacere e che sentiva il bisogno di averlo dentro di sé.

Ed il fatto che il corpo di Wilson iniziava ad attrarlo ad ogni giorno che passava non aiutava nessuno.

Wilson, d'altro canto, si sentiva strano.

Era attratto da House e con lui si sentiva al sicuro.

Erano ormai passati quasi cinque mesi da quando aveva saputo di essere malato e quello era un traguardo che temeva e che agognava allo stesso tempo.

Cinque mesi.

Era ciò che, secondo i medici, gli rimaneva da vivere.

Era cambiato qualcosa, giusto?

La cura stava facendo effetto, vero?

O sarebbe morto comunque?

House riusciva a percepire la sua tensione, anche se Wilson non gliene aveva fatto parola.

Si sentiva stupido a dare un traguardo ad un giorno, come se significasse davvero qualcosa.

Ma per lui aveva un significato.

Il giorno del traguardo sedette sul terrazzino, gli occhi fissi sul mare.

Quei mesi di cura erano stati un Inferno ed un Paradiso allo stesso tempo.

La cura aveva ridimensionato il suo tumore, ma l'aveva fatto stare così male da ridurlo a letto per giorni interi.

Aveva vomitato intere notti, incapace di mandar giù un solo boccone, reso insofferente persino dall'odore del cibo, a tal punto che House aveva iniziato a chiamarlo “donna incinta”.

I giorni erano stati contraddistinti da momenti in cui il dolore al petto era così forte da impedirgli di respirare ed in cui poteva solo urlare, spingendo House a precipitarsi verso di lui, impotente, senza sapere cosa fare per aiutarlo.

C'erano stati momenti in cui avrebbe voluto farla finita, aveva fissato il vuoto per ore, incapace di reagire.

Ed House c'era sempre stato, nei bei momenti e soprattutto in quelli brutti.

Era sempre stata una presenza confortante, sarcastica, pungente, bisognosa e strafottente.

Wilson sapeva benissimo che gli antidolorifici che il dr Johnson aveva prescritto ad House per la gamba erano stati usati più per cacciare un dolore psicologico che fisico.

Vedeva la smorfia di dolore di House ogni volta che era lui a soffrire.

E lo sapeva e non poteva evitare che House si stordisse, perché stava troppo male nel vederlo soffrire.

Sussultò quando qualcuno gli posò una birra in grembo.

“Ehi.”sussurrò, lanciando uno sguardo all'amico.

“Ti godi il tramonto, ora?”

Wilson lanciò uno sguardo all'orizzonte, dove il Sole illuminava di colori aranciati il paesaggio.

“E' bellissimo, vero?”

Per tutta risposta House sbuffò.

Sedette sulla sedia e posò i piedi sul davanzale.

“Che giornata è?”

“Più sì che no.”

“Ed il no?”

“Credo di aver perso dei chili vomitando stamattina.”

House abbozzò un sorriso.

Le giornate di Wilson andavano dal “sì”, al “sì e no”, al “più sì che no”, “più no che sì” e “no, ho voglia di morire.”

Fortunatamente le ultime capitavano di rado.

Lo vide assorto fissare la spiaggia.

“Che hai?”

“Sai che giorno è?”

“Il 20 ottobre. Perché?”

“Perché oggi finisce il mio tempo massimo. Finiscono i cinque mesi. E se non morirò stanotte, e mi sento piuttosto bene, a dire la verità, ogni giorno sarà un regalo da domani.”

House sussultò.

Se n'era completamente dimenticato!

Fino a quel momento lui e Wilson avevano tentato di vivere la vita così intensamente da evitare di pensare a che giorno era.

Domani.

Sentì una stretta allo stomaco.

Lo guardò.

Era così tranquillo all'apparenza, ma notò che stringeva la bottiglia con forza e non aveva ancora bevuto un sorso di birra.

“House...”

“Andrà bene.”

Wilson annuì con un groppo alla gola.

S'era imposto di non piangere, di non avere paura di un giorno, ma dovette scacciare rabbiosamente le lacrime.

Sentì la mano dell'amico sulla spalla e non riuscì più a pensare.

In un attimo si stava aggrappando a lui, come un naufrago ad una zattera.

House sussultò, sorpreso.

Wilson lo stava stringendo così forte da fargli male.

Sentì il suo cuore battere violento, il corpo sussultare.

Gli fece spazio sulla sedia, lasciando che Wilson si raggomitolasse contro il suo petto come un bambino piccolo.

Da quando avevano fatto sesso erano passati solo pochi giorni e quello era l'unico momento in cui si erano ritrovati così vicini.

“Wilson...andiamo, sai che sono pessimo con queste situazioni! Che vuoi che faccia? Che ti canti la ninna nanna?”

Lo sentì ridere contro il suo collo ed il suo respiro lo fece rabbrividire di piacere.

Si costrinse a cingergli la vita, impacciato, e stringerlo a sé.

“Non vo...non voglio...”sussurrò Wilson, tremando, tra i singhiozzi.

Non voleva morire.

“Tu non vai da nessuna parte.”

Wilson gli artigliava la maglietta, così forte da fargli male.

“Promettimelo.”

House non rispose subito.

Non poteva fare promesse del genere.

“Non posso.”

“Promettimi che ci sarai, che non mi lascerai da solo se dovessi stare...”

“No. Non me ne andrò. Finora non sono andato da nessuna parte.”

Wilson lo strinse a sé, sfiorandogli il viso.

Gli occhi erano arrossati dal pianto, il naso rosso, ma House lo trovò incredibilmente bello.

Che diavolo stava pensando?

Si diede mentalmente dell'idiota, ma Wilson sorrise e lo baciò sulla bocca.

Un bacio casto, a timbro, ma House sentì che faceva decisamente effetto.

Lo sentì anche Wilson perché ridacchiò contro la sua bocca.

La sua mano scivolò verso il suo inguine ed House lo bloccò, prima che gli sbottonasse i pantaloni.

Lo guardò negli occhi, incapace di spiegare il perché fosse così reticente.

“S-Scusa, non...”

House lo bloccò stringendogli il polso e baciandolo con passione sulla bocca, schiudendogliela con foga per incontrare la sua lingua.

La bocca sapeva di lacrime, ma House ignorò quel sapore salato e lo spinse verso la sua camera da letto.

Stava iniziando a spogliarlo, quando Wilson riprese in mano la situazione ed iniziò a sbottonargli la camicia, sfilandogliela velocemente, prima di procedere a gettare da parte anche i jeans.

Sentiva le proprie eccitazioni crescere e si chinò sull'amico, baciandolo sul collo a lungo, lasciandogli piccoli baci e morsi sul torace.

Non s'era mai reso realmente conto di quanto House fosse magro.

Gli sfiorò i muscoli del petto e dell'addome, provocandogli intense ondate di piacere.

Baciò il suo collo, mentre scendeva con le mani a sfiorargli l'erezione.

House sussultò, colto di sorpresa dall'intraprendenza di Wilson.

Fece per baciarlo, ma Wilson si mise a cavalcioni su di lui, bloccandolo.

Il suo sguardo voleva dire “oggi comando io”.

I suoi baci erano roventi, disperati ed House lo lasciò fare, mentre sentiva improvvisamente molto caldo.

Lo aiutò a spogliarsi, mordicchiò le sue labbra, ignorando il dolore alla gamba, al momento decisamente in secondo piano e fece aderire i loro corpi in una danza di baci, di carezze bollenti e morsi.

Sfiorò la sua erezione con il proprio corpo, sentendolo ansimare contro il suo orecchio.

Sussultò quando capì cosa aveva intenzione di fare e lo guidò dolcemente verso di lui e dentro di lui, dolorosamente e senza riuscire a nascondere i gemiti di dolore.

House strinse i denti quando Wilson entrò dentro di lui.

Lo fece con cautela, baciandolo piano sulla bocca e stringendogli le dita con le proprie, prima di muoversi lentamente dentro il suo corpo, stretto e caldo.

Wilson lo prese dolcemente, cercando di tenere a freno la sua eccitazione, per non fargli male, ma poi sentì House muoversi verso di lui, incitarlo a continuare.

House lo baciò sulla bocca, mordendogli le labbra, succhiando la pelle tenera, anche quando Wilson uscì dal suo corpo, lasciandolo dolorante ed in subbuglio.

Gli cinse il collo con un braccio e lo baciò ancora ed ancora, sentendolo ridere contro le sue labbra.

“Cosa?”domandò.

“Nulla. Mi piace quando mi baci.”ammise Wilson.

Posò la fronte contro la sua, respirando piano.

“Aspetti con me la mezzanotte?”mormorò, di nuovo agitato.

Il sesso era stato una parentesi piacevolissima, ma ora sentiva di nuovo il peso di quel giorno.

“Sì. E dopo stasera col cavolo che ti lascio morire!”

Attesero l'alba del giorno dopo, abbracciati, fissandosi in viso.

“Se mi dovesse...”

“Non voglio...”

“Ti prego, ascoltami!”

Wilson gli premette una mano sulla bocca ed House ne approfittò per mordergli piano le dita.

“Se dovessi morire, se...quando arriverà la mia ora, voglio stare con te. Voglio...” Gli sfiorò le labbra “Vedere te come ultima persona.”

House sentì una stretta al cuore, violenta.

Fece per parlare, ma per la prima volta non seppe cosa dire.

Si limitò a cingergli il corpo con un braccio e stringerlo a sé.

Fu solo dopo la mezzanotte che Wilson tirò un breve sospiro di sollievo.

Aveva dato importanza a quel momento e si sentiva stranamente eccitato nel sapere che c'erano altri giorni oltre quello della scadenza.

Abbracciò House, sorridendo e s'addormentò contro il suo petto.


“Quindi, vuoi lavorare qui?”

Lily alzò un sopracciglio, guardando House.

Lo conosceva di fama, come una persona molto irritante e certamente geniale che era sempre accanto al suo amico.

Soprattutto di recente.

“Già. Sono un medico.”

“Cosa succede?”

Johnson s'avvicinò al banco informazioni passando lo sguardo dalla sua impiegata ad House.

“Signor Collins...”

“Vuole lavorare qui.”spiegò Lily.

“Qui?”

“Sì, qui. Non era difficile da capire.”sbottò House.

Come mai era così difficile trovare un lavoro lì?

Sarebbe stato l'ideale! Viveva anche lì!

“Parliamone.”

House lanciò un'occhiata al cielo e seguì Johnson lungo il corridoio verso il giardino.

Il dottore dispensava sorrisi a tutti, chiedendo informazioni ad impiegati e pazienti.

“Perché vuole lavorare qui?”

“Devo pagare le spese delle cure di Wilson.”

Erano mesi che vivevano giorno per giorno senza pensare a trovare un lavoro.

Ed House non avrebbe permesso a Wilson di lavorare.

Non nelle sue condizioni.

“E cosa vorrebbe fare?”

“Sono un medico.”

Johnson lo guardava, divertito.

Aveva una luce nel suo sguardo che insospettì House.

“So chi è. La cosa che mi domando, prima di darle qualsiasi lavoro, è perché?”

House s'incupì.

Perché?

“So chi è”?

Ma di cosa...

“Cosa intende?”

Che sapesse davvero chi era?

“Perché un medico geniale come lei ha deciso di buttare la sua vita e tutta la sua ventennale e più carriera per fuggire qui in Giamaica? House, non sono un idiota. So che non esiste nessun Richard Collins, anche se i suoi dati sono stati inseriti nei database e sembra tutto nella norma.”

House strinse il bastone con forza.

Johnson sapeva.

Ed ora?
“Qualsiasi cosa abbia fatto, a meno che non esista un mandato di cattura internazionale, qui non importa. Lei ha la fedina pulita.”

“Solo vandalismo.”

House fece girare il bastone.

“Come sa chi sono?”

Johnson rise e tirò fuori dalla tasca un pezzo di giornale.

“Glielo volevo mostrare, prima o poi. Ma speravo che venisse da me a dirmi tutto. Speranza inutile, devo ammettere. Ma speravo che ci fosse fiducia tra colleghi.”

“Io non mi fido di nessuno.”

House aprì il foglio, rivelando un articolo di giornale, un po' ingiallito.

Era un articolo su di lui, interamente dedicato a lui, alla sua carriera ed alla sua morte.

“E' uscito appena lei è “morto” e l'ho conservato, anche se non ricordo il perché.”

“Lo dirà a qualcuno?”

House chiuse il foglio.

Non aveva voglia di sentire cosa gli altri avevano da dire su di lui.

Sicuramente cose sdolcinate come ogni volta che qualche genio moriva.

“Assolutamente no. Altrimenti inizierebbero a lottare per avere il famoso genio House nel loro ospedale.”


“Lo sa? Ed ora?”

“E' strano, vero? Non credevo di essere famoso anche qui in Giamaica!”

House ghignò.

“Sto parlando sul serio. Ed ora che si fa?”

House lo guardò, continuando a girare le omelette in padella.

“Cosa si fa?”

“House! Se lo dice alla polizia? Se ti arrestano? Se...”

“Mi arrestano per essermi finto morto? Credo che la polizia abbia di meglio da fare. Johnson ha promesso di non dire nulla a nessuno.”

“E tu ti fidi? Tu?”

House scodellò il cibo nei piatti.

Wilson lo fissava, agitato.

“Senti, non credo mi tradirà.”ammise.

Non sapeva perché, ma lo sentiva.

“E se dovesse farlo?”

“Ci penseremo allora. Mangia.”lo incitò.

“Perché hai cercato un lavoro?”

Wilson osservò il pranzo, senza toccarlo.

Aveva la nausea.

Era terrorizzato per la faccenda di Johnson.

Non aveva intenzione di perdere House e se qualcuno avesse scoperto che lui era ancora vivo forse avrebbe potuto sbatterlo dritto in prigione ed allontanarlo da lui.

“Sei in vena di terzo grado?”

“Voglio sapere. Abbiamo dei soldi da parte e...”

“Non dureranno per sempre, le cure sono costose e mi annoiavo a non fare nulla.”

“Le cure le pago io, House.”

“Certo.”

Cadde il silenzio e Wilson alzò lo sguardo su di lui, vedendolo impegnato a finire il pranzo e non rivolgergli lo sguardo.

“House...”

“Cosa?”

Wilson lo fissò incredulo.

Quello sguardo noncurante non lo stava incantando affatto.

House stava mentendo.

“Hai pagato tu le mie cure.”

House lo guardò.

“Stai vaneggiando.”

“Ciò spiega perché hai trovato lavoro qui e perché parlavi di cure costose!”

House alzò gli occhi al cielo, posando le gambe sul tavolo, accanto al viso di Wilson, che le scostò, irritato.

“Dimmi la verità.”

“Non mi credi.”

“Non ti credo perché non è vero! House...”

“D'accordo. Le ho pagate io.”

Wilson tacque di colpo.

L'aveva davvero fatto?

“House, sono 40.000 dollari, ma sei impazzito? Perché l'hai fatto?”

Era sconvolto! Erano tantissimi soldi, come mai aveva deciso di pagare lui?

House scrollò le spalle.

“Avevi bisogno di aiuto.”

“Non dei tuoi soldi! Ti avevo chiesto di andare a fare il versamento in banca sul conto della clinica, non di pagare con i tuoi soldi!”

Wilson sbatté il piatto sul lavello, arrabbiato.

“Si può sapere come mai sei così arrabbiato? Tu paghi le cose per me continuamente e...”

“Non voglio che tu....”

“Che io cosa? Stai facendo una questione esagerata su...”

“Non voglio che ti occupi di me.”

House lo guardò.

“Non voglio che tu impieghi tutta la tua vita a pulire il mio vomito od a sostenermi mentre ho un mancamento od a scopare con me perché...”

Wilson si portò una mano al viso, tacendo.

“Sei impazzito?”

“Stiamo andando troppo oltre, House. Io...non avrei dovuto coinvolgerti. Tu mi piaci e questo complica tutto. Complica tutto perché io posso rimanere ferito e mi sta bene.

Ma so che morirò e sarai tu a dover raccogliere i cocci.”

Wilson stava tremando.

House lo fissò per un lungo momento, senza sapere cosa fare.

“Cos'è successo?”

“Io...non...”

“Non la pensavi così in questi giorni ed oggi sei irritabile ed infastidito. Non credo che tu sia in quel periodo del mese per ovvi...”

“Jodie è morta oggi.”

House lo guardò, non capendo.

Jodie?

“Ti ricordi quella ragazza all'incirca di vent'anni che stava facendo la cura per la leucemia? Alta, carina, si sedeva accanto a me ed a John nelle sedute?”

“Ah. Wilson può...”

“Stava andando in remissione, House. Lei...stava migliorando e...è la stessa cosa che capiterà anche a me.”

“Non sapevo che tu sapessi leggere il futuro. Dev'essere un effetto colla...”

“Puoi essere serio per un fottuto momento?”urlò Wilson di colpo, cogliendo di sorpresa House.

“Posso morire, House!”

“Tutti noi moriamo, Wilson. Fa parte della vita e...”

“Ma non sanno quando. Io lo so. Io so che finirò per morire qui e non voglio trascinare anche te.”

“Credo che sia ormai troppo tardi, non pensi?”

“No. Devi...devi andare via.”

Cadde il silenzio.

House aggrottò le sopracciglia.

“Ascolta. Capisco che tu ti stia lasciando influenzare da ciò che è successo alla tua amica e...”

“No. Ci ho pensato....”

“Oggi. Ci hai pensato solo oggi ed hai iniziato a dare di matto sulle tue probabilità di morire e...”

“Voglio che tu te ne vada. Ho già distrutto la tua vita coinvolgendoti in questa situazione, spingendoti a fingerti morto per seguirmi ovunque volessi andare. Non voglio averti sulla coscienza, perché so che faresti qualcosa di molto stupido alla mia morte. Come bere fino a stare male o drogarti o peggio e non voglio.

House, ti prego.”

“Mi vuoi davvero mandare via?”

House era incredulo.

Il viso di Wilson era contratto dal dolore, le mani strette a pugno.

“No. Non voglio. Non...vorrei che tu potessi rimanere accanto a me, che mi stringessi la notte quando non mi sento bene, che mi prendessi in giro quando sono troppo pessimista e che stessi con me anche quando sto bene e credo di poter fare tutto.

Ma non posso. Non...non posso permettere che soffra anche tu.”

“Credi che non stia già succedendo?”

House ringhiò.

Pensava davvero che non soffriva quando lo sentiva urlare la notte, o quando non riusciva a mandar giù neanche un boccone senza vomitare, oppure quando lo vedeva singhiozzare in bagno, preso dalla paura e dallo sconforto?

“Appunto per questo devi...”

“Prendo io le mie decisioni, Wilson.”disse duramente. “Non sei stato tu a costringermi a fuggire via.”

“Ah, no?”

“Forse la tua situazione ha spinto la cosa, ma non avevo la minima intenzione di passare sei mesi in carcere. E di certo non mi fa piacere pulire il tuo vomito o sentirti singhiozzare o svenire.

Ma sei il mio migliore amico e tu hai fatto questo ed anche di più quando mi sono cacciato nei guai o stavo male. Te lo devo.”

“Sei qui perché me lo devi, quindi?”

House sbuffò.

Ma che aveva oggi?

S'avvicinò a lui in modo da avere i loro visi vicinissimi.

“Sono qui perché tengo a te. E non voglio che tu muoia.”

“Hai detto tu che tutti muoiono.”

“Già. Ed ancora non possiedo la capacità di farti vivere in eterno. Ma non permetterò che tu muoia oggi. O domani. Magari tra vent'anni o trenta quando avrai sposato la tua settima od ottava moglie e sarai circondato da figli e nipoti.”

“No.”

House sussultò.

“No?”

“Non voglio mogli, figli e nipoti.”

“Era quello che ti aspettavi di avere alla tua morte.”

“Voglio te, House.”

House abbozzò un ghigno.

“Prima mi vuoi cacciare via ed ora mi vuoi? Sei...”

House tacque perché Wilson gli aveva posato una mano sul collo e l'aveva attirato a sé per baciarlo.

Sentì la sua bocca tremante contro la sua e gli cinge la vita, puntellandosi sulla gamba buona per abbracciarlo.

“Sta' calmo. Andrà tutto bene.”mormorò quando Wilson posò il capo sulla sua spalla, tremante.

“Scusami. Io...”

House non disse nulla.

Lasciò che Wilson lo stringesse a sé, il panico che assediava i loro corpi come bile bollente e chiuse gli occhi.

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Capitolo 6
*** Chapter VI ***


Lavorare in clinica era molto diverso dal lavorare al Princeton.

House divideva il suo ufficio con altri due dottori, un tale Bier ed una tale Ripert, ma non s'era mai realmente interessato ad interagire con loro.

Non aveva una sua squadra e le persone che andavano lì sapevano già cosa avevano, quindi non c'era nessun tipo di puzzle.

Principalmente era come fare sempre ambulatorio e la cosa lo annoiava terribilmente.

Non c'erano dei veri e propri casi da seguire, ma una truppa di malati da assistere.

Era noioso, ma non aveva altra scelta.

Non aveva intenzione di andare a cercare un lavoro nel momento in cui Wilson stava male un giorno sì ed uno no.

Era difficile prevedere gli attacchi del suo amico.

C'erano momenti in cui Wilson si sentiva in grado di fare tutto e lo trascinava nelle situazioni più folli.

Surf, vedere la barriera corallina, usare droghe.

House aveva visto per la prima volta il suo migliore amico alle prese con gli effetti delle droghe e Wilson non reggeva affatto bene.

House aveva impedito che si gettasse dalla terrazza perché era convinto di volare, l'aveva fermato dal rimorchiare una prostituta e l'aveva chiuso in camera dove Wilson aveva smaltito la droga ridendo come un ossesso.

In altri momenti Wilson era così fragile che non riusciva neanche ad alzarsi dal letto.

Come in quell'istante.

House sedette sul bordo del letto, osservando l'amico.

James Wilson era rintanato sotto le coperte, raggomitolato su un fianco, stringendo le labbra.

La mano di House salì automaticamente ai suoi capelli.

“Rimango qui.”decise.

“N-no. H-hai u-un l-lav...”

“Al diavolo il lavoro! Hai bisogno di aiuto!”

“B-bet...”

House lanciò un'occhiata a Beth, che stava preparando l'occorrente per il ciclo di cura di Wilson.

Era una giovane infermiera che era sempre molto gentile con Wilson.

E che gli faceva gli occhi dolci.

Per quanto questo gli provocasse una bizzarra stretta allo stomaco, capì che era in buone mani.

Ma ancora non se la sentiva di lasciarlo da solo.

“V-vai.”

Wilson gli strinse la mano, abbozzando un piccolo sorriso.

House imprecò mentalmente.

Fu spontaneo chinarsi su di lui e baciarlo sulla fronte.

Poté quasi sentire il calore sulle sue guance e quando lo guardò era arrossito.

“Torno appena posso.”promise.


“Andiamo, Jimmy. Andiamo, non...”

“Non mi va.”

“Sai che non sono il tipo che fa questo tipo di cose, potresti facilitarmi il compito?”

House tese il cucchiaio verso la bocca di Wilson, che, sbuffando, mangiò un po' di yogurt.

“Ti senti meglio?”

“Sa di vomito.”

House alzò gli occhi al cielo.

“Sei tu che hai vomitato tutto il giorno. Devi toglierti il brutto sapore da...”

House non finì la frase che Wilson saltò giù dal letto per correre in bagno a dare di stomaco.

Alzò gli occhi al cielo ed aiutò James a stendersi sul letto.

Lo strinse a sé, piano, carezzandogli i capelli madidi di sudore.

Wilson tremava.

“Oggi è stato brutto.”sussurrò.

“Mi dispiace non esserci stato.”

“Sei qui ora. Non mi devi fare da baby-sitter. So vomitare da solo.”

House ridacchiò.

Erano semi-stesi sul letto di Wilson, che teneva il capo posato sulle ginocchia di House.

Wilson gli strinse una mano, gli occhi chiusi.

“Johnson ha detto che la cura sta facendo peggiorare il mio fegato.”

“Era qualcosa che già sapevamo.”

“Ha detto che dovrebbe mancare pochissimo al collasso.”

“E ti ha detto anche il giorno? Così evitiamo di programmare qualcosa.”sbottò acido.

“Non prendertela con lui.”

House sospirò, appoggiandosi alla testata del letto.

“Sono arrabbiato, Wilson, cosa dovrei fare?”

Wilson chiuse gli occhi e strinse più forte la sua mano.

“Mi dispiace averti coinvolto in questo casino.”

House sbuffò.

“Se è l'ora di piagnistei inutili, dimmelo che vado a prendere una birra al bar accanto alla clinica.”


Successe all'improvviso, quando meno se l'aspettavano.

Wilson aveva passato il pomeriggio insieme ai bambini della clinica, aiutando le infermiere a gestirli e trascinando anche House nel giocare con loro.

“Ti sei fatto battere da una bambina di cinque anni, sai?”

Wilson rise.

“Stavo bluffando.”

“House, non stai bluffando.”

“Era un gioco stupido.”

“Era nascondino.”rise di nuovo.

Wilson gli passò un braccio attorno alla vita, camminando in corridoio.

Era novembre inoltrato e faceva parecchio freddo.

Si strinse ancora di più nel maglione e House se ne rese conto.

“Tutto bene?”

“Ho solo freddo.”

House lo guardò, malizioso e lo tirò a sé, appoggiandosi al muro.

Posò le labbra contro le sue, baciandolo piano ed affondando le mani nei suoi capelli.

Wilson sentì il respiro farsi corto e ricambiò il bacio, stuzzicando il suo collo e...

“Ah...”

Wilson gemette all'improvviso, artigliandogli il braccio.

House sussultò.

“Wilson...cos...

Si chinò su di lui, stringendogli le spalle, mentre Wilson digrignava i denti, sgranando gli occhi per la sorpresa.

Era...non...non ora...non...

“Ehi! Ehi...sta' calmo...è...”

House s'interruppe quando Wilson s'accasciò in avanti, vomitando sangue.


“Allora? Come sta?”

Il bastone di House bloccò il passaggio di Johnson, che sussultò, colto di sorpresa.

“House...”

“Wilson. Come sta?”disse scandendo le parole.

Era da oltre un'ora che aspettava fuori dalla sua stanza e l'attesa l'aveva fatto impazzire.

Johnson aveva l'aria esausta, ma House non gli badò.

“Allora?”incalzò.

“Purtroppo ha una grave insufficienza epatica, House. Lo dobbiamo ricoverare ed inserirlo nella lista trapianti.”

House annuì, sentendo il cuore battere forte.

“Posso entrare?”

Johnson lo lasciò passare.

Wilson giaceva sul letto, circondato ancora una volta da macchinari e tubi.

Era cereo.

Aveva gli occhi socchiusi.

House sedette sul bordo del letto.

“Sei sveglio?”

Wilson aprì piano gli occhi.

Erano leggermente giallognoli.

Wilson abbozzò un sorriso.

“C-ciao.”

“Ciao. Come ti senti? Senti dolore?”

“N-no. S-sono...s-stanco.”

“Riposati.”

House posò una mano sulla sua e strinse piano.

Wilson la strinse di rimando.

“R-resta.”

House annuì.

Si stese su un fianco accanto a lui e gli cinse la vita, lasciando che Wilson si stringesse a lui, sotto le coperte.

“G-grazie.”

House non rispose e lo baciò sulla fronte, abbracciandolo più stretto.


“Scommetto che mi stai facendo vincere di proposito.”

“Non stai così male da farmi fare questo.”

Wilson rise piano.

“Sono giallo.”

“Non ovunque. E poi ti dona.”

“Idiota.”

Stavolta toccò ad House ridere, prendendogli di mano le carte e sdraiandosi accanto a lui.

Wilson sentì le mani iniziare a tremargli e le strinse forte per cessare il tremore.

House non disse nulla, osservandolo di sottecchi, ma tese la mano e la posò sulle sue, stringendole.

“E' una brutta sensazione.”mormorò Wilson, appoggiando il capo sulla sua spalla.

L'altro annuì piano.

Detestava vederlo stare male...

“Aspetta...avevo preso una cosa per te.”

House rovistò nel suo zaino, tirando fuori un pacco di...Oreo.

Wilson rise.

“Li ho comprati durante la pausa pranzo, mentre dormivi.”

Glieli tese.

“Grazie, House.”

Wilson s'appoggiò meglio a lui, mangiucchiando, gli occhi chiusi.

Il dolore lo investiva ad ondate, stavolta localizzato nel ventre, in corrispondenza del fegato.

Era ricoverato da tre giorni, giorni in cui non aveva fatto altro che urlare dal dolore e vomitare sangue.

Ora era così intontito dagli antidolorifici che non sentiva assolutamente nulla.


Il dolore era così forte da impedirgli di respirare.

Ansimò, artigliando il lenzuolo, ma non servì a nulla.

Sentiva House gridare qualcosa, avvertiva le sue mani sulla fronte, tra i capelli, spronandolo a calmarsi, ma non ci riusciva.

Riusciva solo a stare male.

Vomitò oltre il bordo del letto, sentendo in bocca il sapore del sangue.

House gli posò una mano sulla fronte, sorreggendolo.

Era fresca, mentre Wilson si sentiva bruciare.

Il diagnosta gli asciugò le labbra, avvolgendolo nella coperta, mentre Wilson si accasciava tra le sue braccia, con un gemito, tremando.

“Wilson...ehi...”

Non sapeva cosa dire.

Rimase a stringerlo forte, impotente, sentendolo gemere dal dolore.


“Non possiamo fare nulla? Niente?”

“House, lo stiamo riempiendo di antidolorifici. Non possiamo fare altro. Dobbiamo solo sperare di trovare il fegato compatibile in tempo. Il problema è che il suo gruppo sanguigno è 0 positivo ed è raro.”

“Morirà se non lo troviamo in tempo?”

Johnson osservò il dottore.

House era visibilmente esausto.

La barba cresciuta, le occhiaie, lo sguardo stanco e le mani strette a pugno.

“Mi dispiace.”si sentì dire, mentre House andava via furioso, sbattendo la porta alle sue spalle.


Quando House entrò nella stanza, Wilson giaceva su un fianco, gli occhi socchiusi.

“Mi resta poco, non è vero?”

House sentì il cuore serrato in una morsa.

Avrebbe voluto crollare, ma non poteva.

Non davanti a Wilson.

Si distese accanto a lui, cingendogli il corpo con un braccio.

“Starai bene. Tu sei forte.”mormorò contro il suo orecchio.

Wilson non rispose alla stretta.

“So cosa accade quando si arriva al punto in cui sono io.”

“Non sei in nessun punto.”

“Morirò, House. Il problema è quando...”

House rafforzò la stretta attorno al suo corpo.

“No. Troveranno un fegato.”

“Non abbastanza in tempo...”

La voce di Wilson s'incrinò e lui appoggiò il volto contro la spalla di House, tremando.

“Mi dispiace...”

“Di cosa? Non è colpa tua.”

House posò una mano tra i suoi capelli.

Erano molto più radi di prima.

Wilson deglutì a vuoto, mentre sentiva le lacrime inondargli gli occhi.

“Stava andando tutto bene...tra noi.”

“Ssh...”

House non voleva che parlasse.

Suonava molto come un addio.

E sarebbe bastato pochissimo per farlo crollare.

“Devi lasciarmi parlare.”

Wilson posò una mano sulla sua bocca, occhi nei suoi.

Il diagnosta annuì, piano.

“Io non voglio...non voglio morire. Ma qualunque cosa accada ti sarò sempre grato per essermi stato accanto e per esserti preso cura di me. Non ce l'avrei fatta altrimenti. Credo che sarei crollato subito senza il tuo aiuto.”

House posò la fronte contro la sua.

Sentiva il respiro di Wilson contro il suo viso e lo strinse a sé, stringendolo per il camice.

Wilson si raggomitolò contro il suo petto, gli occhi pieni di lacrime.

“Cerca di resistere.”mormorò House.

Wilson annuì contro il suo petto, mentre il dolore veniva lenito da massicce dosi di calmanti.

“Ti amo, lo sai, vero?”

House sussultò.

Ti amo?

Era la prima volta che Wilson glielo diceva.

L'amava? Davvero?

Gli carezzò i capelli.

“Voglio dirtelo prima che sia troppo tardi. Credo davvero di amarti, House. E non lo dico perché sto morendo, ma perché...hai fatto tanto per me. Sei sempre stato la mia roccia.”

House scosse il capo.

“Eri tu che mi aiutavi, non io. Io ero quello che causava problemi, Jimmy. Credo che la nostra amicizia ti abbia fatto più male che bene. In questo momento avresti dovuto essere con la tua famiglia, circondato dalle persone che ami, non in Giamaica, lontano da tutti e con un drogato accanto.”

“Non dire sciocchezze. Se tu non mi avessi spronato ad affrontare la cura, sarei morto due mesi fa.”

“Questa stessa cura che ora ti ucciderà.”

Wilson non rispose subito.

Respirò profondamente.

“La nostra amicizia è stata la cosa più faticosa, impossibile e difficile della mia vita, House. Mi sono cacciato nei guai, ti ho visto rischiare la vita un sacco di volte, andare in terapia, poi in carcere, combinare tutti quei guai e trascinare anche me, qualche volta. Sei un egoista, cinico e bastardo.

Ma non rinuncerei ad un solo giorno. Tu ami profondamente le persone che ti stanno a cuore e le proteggi sempre.

Con te la vita è una follia, divertente, imprevedibile e mi piace stare con te. Mi piace sapere che ci sei quando ho bisogno di te. E...so che starai male quando morirò. Non voglio che tu soffra, House.”

“Non pensare a me.”

Wilson scosse il capo.

“Io mi prendo sempre cura di te. Non posso smettere di pensarci.”

Posò le labbra contro le sue, baciandolo piano e lentamente.

Sciolse un secondo l'abbraccio per prendere un pacchettino dal comodino e lo tese ad House.

“Cosa c'è?”

“Le ho prese qualche tempo fa, temendo di morire tra atroci sofferenze. Ma non sono per me.”

House fece piovere sul palmo della mano delle pillole gialle.

Fece per assaggiarne una, ma Wilson scosse la testa.

“E' un veleno. Tyrol. È estratto da un fiore che cresce qui. Me l'ha dato Beth..”

“L'infermiera? Ti ha dato un veleno per suicidarti?”esclamò House, alzando la voce, incredulo.

Wilson gli tappò la bocca.

“Non gridare.”

Wilson chiuse il sacchetto.

“Wilson...”

“Non voglio farlo. So che quando arriverà la mia ora sarò così imbottito di farmaci che mi addormenterò e basta. Johnson me l'ha promesso.”

“E questo per chi è?”

“Per te.”

House sgranò gli occhi.

“C-cosa...”

Wilson deglutì a vuoto e lo guardò.

“Mi hai detto che non volevi vivere senza di me. Me l'hai detto più di una volta.”

House prese il sacchetto che Wilson gli tendeva.

“Vuoi davvero che muoia?”

“No! No! Assolutamente no!”

Wilson gli prese il viso tra le mani e lo strinse a sé.

“No...no. No. No. No. No.”continuò a ripetere, sfiorandogli le guance.

House notò come le sue mani fossero scheletriche.

“Allora perché?”

House era confuso.

“Perché so che ti faresti del male. So che finiresti per farti davvero del male, che finiresti per ucciderti se...”

“Senza di te?”

“Io...”

Wilson stava piangendo.

“Jimmy...non...non piangere...non mi farò del male. Te lo...”

“No, non prometterlo. House, ti ho visto passare dei momenti terribili in questi anni. Ed io c'ero sempre. Non voglio che tu resti solo. Non voglio pensare a cosa ti potrebbe accadere senza di me. So che hai bisogno di me. E va bene. Va benissimo. Perché anche io ho bisogno di te. Ma se proprio devi ucciderti, se non ce la fai a continuare...non voglio che tu soffra.”

“Per questo hai preso il veleno.”

House deglutì a vuoto.

Era un pensiero...assurdo, ma capiva la logica di Wilson.

Ce l'avrebbe fatta senza di lui? Sarebbe sopravvissuto? A che pro?

Non aveva nessuno e niente cui tornare.

Non aveva niente se non lui.

“Ho solo te.”si rese conto e Wilson annuì, piangendo.

House gli prese il viso tra le mani e lo baciò sugli occhi, avvertendo il sapore salato delle lacrime.

“Grazie.”sussurrò.

“Io voglio che tu stia bene. Che tu sia felice. Ma se non ce la fai, io...”

“Lo so. Ho capito.”

House lo abbracciò stretto, facendolo stendere sul letto ed accarezzandogli il capelli.

Wilson crollò tra le sue braccia, le dita intrecciate con le sue.


Gregory House gli carezzava i capelli, un braccio attorno alla sua vita.

Sentiva il respiro lieve del compagno sul suo collo.

James lottava per non chiudere gli occhi.

“Non voglio...”gemette.

House serrò gli occhi, stringendolo un po'.

“Starai bene.”

“House, non voglio. Ti prego...non voglio andare via...”

Wilson sentì il panico invaderlo ed aprì gli occhi per incrociare quelli di House.

Gli avevano dato sempre conforto e sicurezza, ma stavolta vi lesse la paura e la rassegnazione.

House non avrebbe potuto salvarlo quella volta.

Quando gli avevano detto che per il suo amico non c'era nulla da fare, se non aspettare e pregare in un miracolo, House aveva urlato e spaccato ogni cosa gli capitasse a tiro.

Wilson non era presente, perché ricoverato, ma gliel'aveva raccontato Beth con un sorriso triste sul volto.

Gli aveva detto che House aveva iniziato a devastare l'ufficio di Johnson, resistendo ai suoi tentativi di calmarlo.

“Era sconvolto, caro. Non l'ho mai visto così.”gli aveva detto Beth.

Wilson non l'aveva mai visto in quel modo.

Quando House gli aveva spiegato la situazione, la voce era leggermente incrinata, ma aveva tenuto duro per lui.

Solo per lui.

Wilson s'era poi accorto delle sue lacrime, mentre s'erano addormentati abbracciati.

Ed ora lo teneva stretto a sé, cercando di calmarlo.

“Credi che ci sia qualcosa?”

House guardò Wilson.

“Che cosa?”

“Non lo so...so che non credi nella vita dopo la morte, ma...”

“Non è detto che tutto ciò in cui credo sia vero.”

No, House non credeva in cose come il Paradiso o l'Inferno...ma Wilson stava male.

Aveva bisogno di sapere che sarebbe andato tutto bene.

Gli cinse la vita e posò le labbra contro le sue per un attimo.

“Scommetto che esiste un posto dove andrai, in cui potrai avere ciò che vuoi, fare ciò che vuoi e stare bene.”

Wilson rise, piano.

“Lo stai dicendo solo perché sto morendo.”

House sentì qualcosa artigliargli il cuore.

Rafforzò la stretta e Wilson lo lasciò fare, raggomitolandosi contro il suo petto e sentendo il cuore di House battere forte.

“HOUSE!”

House sussultò quando sentì la voce di Johnson chiamarlo.

Il medico irruppe nella sala, col fiatone.

“Ma cosa...”

“Fegato. Abbiamo...”ansimò. “trovato il fegato compatibile.”

House gli lanciò una rapida occhiata, poi posò lo sguardo su Wilson.

Era ancora stretto a lui, gli occhi chiusi.

“Non supererà l'intervento e lo sai.”disse, cercando di mantenere la voce ferma.

Era una flebile speranza, ma Wilson era debolissimo e sarebbe morto, molto probabilmente.

“Potrebbe.”

“Non ho intenzione di lasciarlo morire sotto...”

“Fatelo.”

La voce di Wilson era fioca, ma determinata.

House lo guardò, incrociando i suoi occhi marroni.

Erano stanchi, esausti e velati di lacrime.

House deglutì a vuoto.

“James...”

“Fatelo.”

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Capitolo 7
*** Chapter VII ***


“NO! NO! NO! NO! NO!”

House afferrò la tazza sul tavolo e la mandò ad infrangersi contro il muro.

Vide i pezzi di ceramica unirsi agli altri frammenti delle cose che aveva distrutto, ma non se ne curò.

Imprecò quando un pezzo di vetro gli ferì il palmo della mano ed il dolore gli annebbiò la mente ancora di più.

Cadde in ginocchio, urlando ancora, ma senza sentire cosa stava dicendo.

Sentì le lacrime calde rigargli le guance, senza neanche rendersi conto di stare piangendo.


“Si riprenderà.”

“Non lo sai! Non sai un accidenti...”

“House...”

“COSA? HOUSE...COSA?”

Everett Johnson chiuse gli occhi. Non sapeva cosa dire.

House era visibilmente distrutto.

I capelli sale e pepe erano in disordine, un po' troppo cresciuti, le occhiaie sul volto, gli occhi lucidi.

James Wilson era entrato in arresto cardiorespiratorio, subito dopo l'operazione ed era in coma da oltre tre giorni.

House serrò gli occhi, resistendo all'impulso di prendere a pugni Johnson.

Se l'avessero cacciato dalla clinica non avrebbe potuto stare con Wilson...

“Ti avevo detto che era rischioso. TI AVEVO DETTO CHE ERA MEGLIO EVITARE!”urlò.

“Wilson l'ha accettato. Spettava a lui decidere...”

“E VOLEVA QUESTO?”

“House, calmati, ti prego. Lui...può ancora...”

“Ancora cosa...COSA, JOHNSON? STA MORENDO! E' IN COMA! COME PENSI POSSA STARE MEGLIO?”


Le dita gli sfioravano piano la fronte, i capelli castani, gli occhi chiusi.

Wilson respirava affannosamente nel respiratore, le mani strette a pugno anche nel sonno.

Se quello si poteva chiamare sonno.

House cercò di allentare la stretta dei pugni e gli sfiorò le dita, prendendogli le mani tra le sue.

“Sai...speravo che davvero potevi farcela stavolta.”mormorò più a sé stesso che a Wilson che, sapeva, non poteva sentirlo.

S'era quasi... “abituato” all'idea di perderlo prima dell'operazione.

L'aveva tenuto tra le sue braccia, cullando, cercando di tranquillizzarlo, di guidarlo verso un luogo senza dolore, senza nulla.

L'operazione aveva riacceso le sue speranze tanto rapidamente quanto le aveva spente.

Ricordava lo sguardo di Johnson quando era uscito dalla sala operatoria, macchiato del sangue di Wilson sul camice, dicendo che era entrato in arresto cardio-respiratorio, che era in coma, che il suo corpo era così stanco che non ce l'avrebbe fatta a combattere ancora a lungo.

La piccola speranza di vederlo sano e salvo era svanita.

Gli sfiorò le dita, gli occhi lucidi di lacrime.

Sentiva le forze abbandonarlo.

Era stanco di lottare, stanco di afferrarlo con tutte le sue forze per tenerlo con sé, per poi vederselo strappare via con violenza, un'altra volta.

Tentò di trattenere le lacrime, ma era come contrastare lo straripamento di un fiume in piena con un ombrello, per di più rotto.

Appoggiò il viso contro il suo braccio, sul lenzuolo e scoppiò in singhiozzi.

Se Johnson l'aveva visto o meno, non avrebbe saputo dirlo, ma entrò nella stanza dopo un po', quando ormai House cercava di controllarsi.

“Hai bisogno di qualcosa? Sei qui da ore.”

Il diagnosta scosse il capo.

“No, non...non lo lascio.”


Wilson aprì piano gli occhi e sussultò ritrovandosi sdraiato su una spiaggia.

Dov'era? Com'era finito lì?

L'ultima cosa che ricordava era che l'avevano sedato per l'operazione, per il trapianto al fegato.

Ricordava lo sguardo preoccupato di House che gli stringeva la mano, cercando di tranquillizzarlo quando, lo sapevano entrambi, era spaventato anche lui.

Dov'era ora?

“Una spiaggia. Perché, lo posso chiedere?”

Wilson sussultò sentendo la sua voce e si voltò.

Lei era lì, con lo stesso camice di quando era morta.

“Amber...”

“Non è un'allucinazione, se è quello che stai pensando. Sono reale. Più o meno. È difficile da spiegare.”

Wilson si mise lentamente in piedi.

“Sono...morto?”

“Non ancora. Sei in coma.”

Wilson guardò il suo corpo, guardò intorno, guardò lei.

Sembrava tutto così reale.

“Sta accadendo davvero o nella mia testa?”

“Che differenza fa? Sono qui per aiutarti.”

“A fare cosa?”

Era incredibile vederla.

Era strano sapere da lei che lui era in coma e che stava morendo.

“Dov'è House?”chiese a bruciapelo.

“E' nell'ospedale, accanto a te. Credo che si sia addormentato.”

Lo scenario cambiò di colpo e lui si ritrovò nella stanza della clinica dove un esausto House dormiva con il capo posato sul materasso, su cui era sdraiato...lui.

“E' strano.”

Wilson fece un passo avanti, ma notò come tutto attorno a lui non era affatto solido.

Tese la mano verso una brocca, ma fu come attraversarla.

“Non sei realmente qui. Sei come...un fantasma, diciamo. Tra la vita e la morte.”

“Non è bello saperlo.”

Wilson osservò il suo compagno.

Vide le lacrime che gli rigavano gli occhi, le mani che stringevano le sue.

“Greg...”

Tese la mano per sfiorarlo, ma fu come essere nebbia e nient'altro.

House non si mosse neppure al suo “tocco”.

“Non può sentirti.”disse lei, dolcemente.

Wilson la vide accanto al letto.

“Sono in una specie di limbo?”

“Diciamo di sì. Di solito, da quel che ho sentito, le persone che muoiono tendono a rievocare un bel posto. Tu hai pensato a questa spiaggia. A questo posto. Perché? Qui sei stato malissimo, hai sofferto, stai morendo...”

Wilson non disse nulla.

Continuò a fissare intensamente House, nella vana speranza che lui si voltasse e lo vedesse accanto a lui.

E poi? Cosa avrebbero fatto?

Se stava davvero morendo, non avrebbe potuto fare nulla, vero?

House non aveva potere sulla vita e sulla morte, anche se soleva vantarsi di ciò.

“James...è per lui, vero? Per House?”

“Credo di sì. Se tutti tendono a rievocare un bel posto io ho pensato a questo perché qui l'ho amato. Ho amato ed amo Greg House.”

Si voltò verso di lei, con un sorriso triste sul volto.

“E' strano dirlo dinanzi a te.”

Lei abbozzò un sorriso di rimando.

“Sono morta da 5 anni. Sei andato avanti. Non m'aspettavo con lui, ma col senno di poi noi donne della tua vita avremmo dovuto capire chi era al primo posto per te.”

“House non...”

“Sì. È sempre stato al primo posto nella tua vita.”


Era strano essere lì.

Vedere il via vai di infermiere, di notti e giorni senza avvertire nessun cambiamento.

Wilson era come se non fosse realmente lì, era come nebbia, fumo, che poteva disperdersi e girovagare per l'ospedale, per la spiaggia al solo suo pensiero, ma che restava comunque legato a quel posto.

“Non puoi andartene di qui. Non puoi andare nel New Jersey a trovare i tuoi amici, o genitori. Sei legato al tuo corpo.”

“Non voglio andarmene. Voglio restare qui.”

“Con lui.”era sottinteso, ma non ci fu bisogno di dirlo.

House rimaneva accanto a lui sempre.

Le uniche volte in cui s'assentava era per un veloce cambio d'abiti e per un frugale pasto che qualche infermiera lo forzava a mandare giù.

Wilson era convinto che se l'avessero lasciato a sé stesso, House sarebbe rimasto lì giorni interi senza mangiare, bere o fare altro se non sperare in un suo risveglio.

Non l'aveva mai visto in quelle condizioni.

“Cosa accadrà?”

“Non posso vedere il futuro.”

La voce di Amber era dolce, comprensiva.

Wilson coglieva il suo sguardo preoccupato.

“Sei qui per...portarmi via, vero?”

Gliel'aveva chiesto altre volte, ma lei non aveva mai risposto.

“Sì.”disse stavolta.

“Non verrò da nessuna parte.”disse, deciso.

Non l'avrebbe lasciato.

“Non hai scelta. Non puoi rimanere qui. Quando il tuo corpo smetterà del tutto di funzionare tu sarai costretto ad andartene.”

“Dove? Andare dove?”

Lei sorrise lentamente.

“Andrà tutto bene.”

“Non esistono cose come il Paradiso o l'Inferno. Sarà il nulla e basta. E non voglio.”

“Parli come House.”

“Forse lui ha ragione.”

“Non è Dio.”

Wilson annuì.

“Lo so. Ma gli ho affidato la mia vita e lui non mi deluderà, non permetterà che muoia.”

“Non può fare più nulla.”


“Il signor Wilson aveva affidato a lei la delega, House.”

Johnson entrò nella stanza, conscio di trovarlo lì, come sempre.

House non alzò nemmeno lo sguardo su di lui.

Lo sapeva. Wilson gliel'aveva detto.

“Sono passate tre settimane.”

Sapeva anche qual era l'intento di Johnson.

Sapeva cosa significava ogni giorno che passava senza risultato.

“Non staccherò la spina. Non lo farò.”mormorò atono.

Sentiva il peso della responsabilità su di lui.

Sapeva che avrebbe dovuto prendere una decisione, ma il pensiero di essere lui a porre fine alla sua vita lo atterriva.

“Può ancora...”

“Sì, ma potrebbe anche non svegliarsi più.”

Johnson s'era seduto accanto a lui, osservando il geniale diagnosta.

House aveva la barba sfatta, gli occhi infossati, le labbra secche, le mani strette attorno a quelle dell'amico.

“Sta migliorando.”mormorò, poco convinto.

“E' vero. Ha smesso di soffrire per il cuore e le sue funzionalità si stanno normalizzando, ma ciò che non significa che si risveglierà. Non voglio essere duro, voglio solo farti capire che c'è una possibilità che si va affievolendo con il passare delle settimane.”

House annuì.

Lo sapeva.

Era anche lui un medico, dopotutto.

Sentì la porta chiudersi alle sue spalle e chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime scivolassero giù.

“Ti prego...per favore, Jimmy...non mollare.”

“Sono qui. Sono qui. Sono qui.”

Wilson si chinò su di lui per poter essere alla sua stessa altezza e lo guardò, ben consapevole che House non l'avrebbe visto.

“Ti amo...”mormorò House con voce rotta. “Ti amo. E sono un idiota perché...ho scelto proprio il momento meno opportuno per dirtelo. Tu non...non puoi sentirmi...”

La mano di House sfiorò i capelli del compagno, mentre Wilson lo guardava, sorpreso.

House gli aveva appena detto che l'amava?

L'aveva fatto davvero?

“E' meglio se...”iniziò Amber.

“No! Non ho intenzione di morire, non ora che mi ha detto che mi ama, non...”

“Vale la pena continuare a soffrire? Tu non volevi morire in un ospedale, perché permettere che s'accaniscano su di te?”

“Perché non posso lasciarlo. Non voglio.”disse con forza. “Non ne ho intenzione.”

Sentì la mano di Amber sulla sua spalla, solida rispetto al resto.

“Vieni. Non continuare a soffrire così.”

“Se lo lascio morirà.”

“E' per House che continui a lottare? O per te?”

“Per entram...”

Wilson si bloccò, vedendo House stringere tra le mani il pacchettino che gli aveva dato lui.

Quello con il veleno.

“NO! NO! HOUSE, NO!”

Si voltò verso di Amber.

“Aiutami a tornare da lui, aiutami a...”

“Non posso farlo. Non si può.”

“MORIRA' A CAUSA MIA!”

Amber lo guardava dolcemente.

“Ti prego...”

“Non posso fare nulla. Sono qui solo per portar...”

“House...House, non fare sciocchezze. Posso ancora tornare, pos...”

Ansimò, all'improvviso, sentendo un dolore fortissimo al petto.

Ed in quell'istante vide i monitor impazzire.

Udì il bip continuo, House che scattava in piedi e s'affrettava ad usare il defibrillatore.

“No...ti prego, no...”mormorò Wilson.

“Credo che ci vedremo più in là.”

Si voltò verso Amber, prima di vedere tutto buio.

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


Ansimò, come un naufrago che finalmente arriva sulla terraferma, dopo giorni di mare burrascoso, aggrappato ad una zattera.

Cercò di immagazzinare quanto più ossigeno possibile, sentendo qualcuno premergli sul volto una mascherina.

Ogni boccata era un puro e semplice sollievo.

“Stai tranquillo...ssh...ora sei al sicuro...respira...”

Quella voce era familiare, era...

Wilson decise di aprire gli occhi, vedendo di fronte a lui gli occhi blu di House.

Erano lucidi di lacrime, ma lo stringevano con fermezza, una mano dietro la nuca ed una sulla mascherina dell'ossigeno.

Mentre tutt'intorno a lui era nel caos, infermiere che controllavano i suoi valori, qualcuno, Johnson, che parlava a voce alta, House era l'unico punto di riferimento.

“Non lasciarmi.”sillabò ed House capì, prendendogli la mano e facendogli l'occhiolino.

“Sono qui.”mormorò piano, in modo che sentisse solo lui.


Wilson l'aveva costretto a mettere via il veleno, appena aveva visto il pacchettino accanto al letto ed aveva intuito le intenzioni di House.

Gli aveva raccontato della sua esperienza durante il coma, di come l'aveva visto a pezzi per il dolore.

Aveva delle difficoltà a parlare, le parole si incespicavano nella sua bocca e gli ci voleva più tempo per formulare una frase completa.

“Mi hai detto...mi hai detto “ti amo”, mentre ero in coma.”balbettò.

Erano sdraiati sul letto della clinica, Wilson raggomitolato su un fianco accanto ad House.

Il dolore era scomparso quasi del tutto, nonostante Wilson fosse perennemente tenuto sotto controllo.

E non c'era stato alcun rigetto del fegato.

House non rispose.

Teneva un braccio attorno alla sua vita e giocherellava con le sue dita con le proprie.

“House...”

“Eri in coma, avrai sognato tutto.”

“Forse...”

House non disse nulla, intrecciando le loro dita e tirandolo verso di sé, senza fargli male.

“Cambierebbe qualcosa se te lo dicessi?”

“Uhm...suppongo di no.”rifletté tra sé e scosse il capo.

“Visto?”

“Trovo strano che entrambi abbiamo sognato Amber nel momento della nostra quasi morte.”mormorò.

Gli ci volle un po' per articolare la frase.

“Credo sia solo stato un sogno, Wilson. Non esistono fantasmi o roba simile. Sei un medico, perché fantastichi su queste cose?”sbuffò.

Era ormai gennaio inoltrato e faceva freddo.

Wilson si coprì di più con la coperta, agognando un contatto maggiore con House che lo accontentò, stendendosi su un fianco e sfiorandogli il viso.

Percorreva con le dita le sue guance, la barba un po' cresciuta, il naso, la bocca...

Lo guardava in silenzio.

“House...Cos'hai?”sussurrò lentamente.

“Pensavo.”

“A cosa?”

Le dita scivolarono sulle sue labbra, percorrendole da destra a sinistra e viceversa.

Wilson gliele baciò piano.

Lo preoccupava quel silenzio.

Era uscito dal coma da pochi giorni ed House era sempre stato quasi del tutto in silenzio.

Non era da lui.

“Parlami. Stai bene?”

“Sei tu quello uscito dal coma.”

“Ti ho spaventato?”balbettò.

House continuò ad accarezzargli il volto.

Wilson gli bloccò la mano, dolcemente e s'avvicinò a lui.

“Parlami.”ripeté. “Non voglio il silenzio da parte tua. Voglio sapere cosa ti frulla per la testa. Stavi per suicidarti, quando hai temuto per me. House...dimmi cosa c'è.”lo pregò.

“Avrei dovuto dirlo a tutti...chiamare i tuoi genitori, la tua famiglia, i tuoi amici e dire a tutti o chiedere a Johnson di farlo, che il loro figlio, il loro amico era morto. E che l'unica cosa che avrei potuto fare io, perché non ci sarebbe stato nessuno cui tornare era...”

Wilson capì.

Vide i suoi occhi lucidi, le labbra che tremavano e l'abbracciò stretto.

“Sto bene. E'...tutto ok. Ci sono io.”

House rise, nervosamente.

“Dovrei essere io a rincuorarti, non tu.”

“Va bene lo stesso. Sto bene.”

Wilson posò le labbra sulle sue lentamente.

Assaporò la sua bocca, piano, come se volesse gustarsela senza fretta, mordicchiandogli prima il labbro superiore, poi quell'inferiore, prima di intrufolare nella sua bocca la lingua per approfondire il bacio.

House posò una mano sulla sua guancia, attirandolo ancora di più a sé, finché i loro corpi non aderirono del tutto, lottando per avere più calore, più pelle possibile.

Wilson affondò le mani tra i suoi capelli, baciandolo con foga finché entrambi non ebbero bisogno di riprendere fiato.

Le mani di House scivolarono sotto il suo camice, sfiorandogli il petto, il ventre, la schiena.

Si fermarono cingendogli la schiena e baciandolo sul collo.

“Mi è mancato tutto questo.”mormorò al suo orecchio e Wilson arrossì.

La barba di House gli graffiò il collo, ma lui non se ne curò e lasciò che lo baciasse a lungo e con foga.

Wilson gli cinse la vita, facendo aderire i loro corpi ancora di più, ma House lo fermò, allontanandosi.

L'altro gli lanciò uno sguardo interrogativo ed House scosse il capo.

“Non possiamo. Non ora che ti sei appena ripreso. Devi riposarti.”

Wilson scosse il capo e fece scivolare una mano tra le gambe di House che sussultò, compiaciuto da quel gesto, ma lottò contro sé stesso per impedirgli di continuare.

“Dormi.”

“Non ho voglia di dormire.”mormorò.

“Ed io di fare sesso.”

“Bugiardo.”

Sì, era una bugia enorme.

House aveva una voglia matta di prendere Wilson lì senza pensare alle conseguenze, ma il suo compagno s'era appena ripreso da un coma di tre settimane ed era così fragile.

Non aveva intenzione di fargli del male.

“Almeno resta qui.”

House abbozzò un sorriso e gli passò un braccio attorno alla vita.

“Promesso.”sussurrò contro le sue labbra, prima di posargli un bollente, seppur casto, bacio.


Riprendersi da un coma richiedeva lungo tempo.

Wilson aveva delle difficoltà a camminare, vomitava ciò che mangiava e dormiva molto.

Inoltre era spesso confuso e gli risultava difficile articolare frasi complesse e lunghe.

Finiva per innervosirsi ancora di più quando non riusciva a parlare ed House era sempre lì a stringerlo a sé, a stuzzicarlo con una battuta ed a prenderlo in giro con affetto.

Lo spingeva a mangiare, lo aiutava a vestirsi e con la sua ripresa si riprese anche House.

Johnson lo vide più allegro, meno triste, più in carne rispetto a quando aveva quasi del tutto smesso di mangiare per la preoccupazione e la paura.

Vedere Wilson senza barba era come un segnale per House.

Significava che le cose stavano andando per il verso giusto, nonostante le difficoltà.

Aveva preso l'abitudine a premiare Wilson ogni volta che faceva dei progressi.

La fisioterapia era una cosa che lui odiava immensamente, ma che gli era utile a riuscire a controllare meglio i suoi movimenti che, dopo il coma, erano molto impacciati.

House lo baciava dolcemente quando Wilson faceva dei progressi, lo stuzzicava con affetto, gli comprava i suoi cibi preferiti per farlo mangiare.

Era una cosa che non pesava su nessuno dei due, perché prendersi cura l'uno dell'altro era qualcosa che avevano sempre fatto ed ora era il turno di House di occuparsi di lui.

“Così. No, così. Ecco, stringi e poi lancia.”

House era seduto accanto a Wilson nella sala della fisioterapia e lo aiutava con una pallina da ping pong.

Le mani di Wilson tremavano leggermente, ma di meno rispetto ai primi giorni in cui non riusciva ad afferrare nulla.

“Prova a lanciarmela.”

“Non ci riesco.”

House annuì, incoraggiante, sorridendogli.

Wilson ricambiò il sorriso.

“Amo quando sorridi. Lo fai raramente.”gli disse.

“Non ho molti motivi per farlo.”

“Ah, grazie.”

“Non parlavo di te.”

House rifletté per un attimo, spintonandolo leggermente con la spalla.

“Ora sto bene.”

Wilson sollevò lo sguardo verso di lui e lo baciò sulla guancia, spingendo House a cingergli le spalle ed abbracciarlo stretto.

“Greg...”

“Mmm...”

“Voglio tornare a casa.”


“Sistemerà tutto lui. Garantito. È un pezzo grosso della polizia di Kingston e deve un favore ad House perché ha scoperto la malattia della moglie e grazie a lui ora è viva e vegeta. Sarà facile fingere che House abbia scontato qui la pena. E riavere il suo nome.”

“E' illegale.”mormorò Wilson.

“Anche fingersi morto per evitare il carcere lo è.”

Il pezzo grosso era George Arthur, che Wilson aveva conosciuto di sfuggita alla clinica, quando assisteva la moglie malata.

Non gli era particolarmente simpatico, era un omaccione con lo sguardo arcigno e parecchio alto, ma se riusciva ad aiutare House gli andava più che bene.

“Sì, sistemerà tutto. Ne sono certo.”assicurò Johnson a nome suo.

Fu solo dopo un paio di giorni che House ricevette una carta d'identità col suo vero nome e tutte le informazioni corrette ed una fedina penale che contava anche 8 mesi di carcere per atti vandalici e per essersi finto morto.

“Wow...questo fa di me davvero un cattivo ragazzo.”disse, facendo l'occhiolino a Wilson.

“A me piacciono i cattivi ragazzi.”disse l'altro, baciandolo sulla bocca di impulso.

House fu piacevolmente sorpreso dal suo gesto e gli cinse il corpo con le braccia, arretrando fino a sedersi sul divano e tirandolo su di sé.

Wilson sorrise, baciandolo ancora più profondamente.

Il diagnosta gli tolse la maglietta, baciando e mordendo ogni singolo lembo di pelle che riusciva a raggiungere e lo spinse sotto di sé sul divano, imprigionandolo sotto il suo corpo e spogliandolo del tutto.

Wilson lo lasciò fare, incantato dai suoi baci, dal suo calore, dall'eccitazione che continuava a crescere violenta ed incontenibile.

Gettò di lato la camicia di House, facendo saltare alcuni bottoni dello spalancarla ed infilò la mano tra le sue gambe, lottando per liberarlo dai jeans e boxer.

House gemette ad alta voce quando il compagno iniziò a massaggiarlo con foga, spingendolo ad aggrapparsi al divano per non crollargli addosso.

Lasciò che le sue mani gli dessero sollievo, mani che a lungo non l'avevano toccato o stretto.

Ansimò quando raggiunse l'apice del piacere, ma Wilson non aspettò che si calmasse, ma lo attirò a sé con forza e lo baciò sulla bocca, muovendo il suo corpo contro il suo, ansioso di maggior contatto, maggior calore, più pelle, più baci, più sesso.

House affondò le mani nei suoi capelli voltandolo bruscamente mentre lo prendeva e continuò a stringerlo a sé, tenendolo per i fianchi, mentre si muovevano l'uno verso l'altro, in ritmiche spinte.

Catturò le sue labbra, bloccando i loro gemiti di piacere e chiudendo gli occhi, felice perché lui era ancora lì, perché poteva sempre baciarlo ed averlo e che nessuno gliel'avrebbe portato via.

Wilson mordicchiò le sue dita, crogiolandosi nel suo calore e baciandogli la bocca lentamente, dolcemente.

“Stai bene?”sussurrò House.

Cenno d'assenso.

Wilson prese il braccio di House e se l'avvolse attorno alle spalle come una coperta calda ed umana, mentre House posava il viso sulla mano e lo guardava.

“Cosa c'è? Perché mi guardi così?”

“Così come?”

“Come se volessi leggermi dentro.”

“Stavo solo pensando.”

“A cosa?”

“Al ritorno a casa. Perché vuoi tornare? Ti mancano i tuoi genitori? I tuoi amici?”

“Sì. Voglio solo far saper loro che sto bene, House. Sistemare alcune cose...”

“Che cose?”

House lo guardava intensamente e Wilson ricambiò lo sguardo.

“Johnson ha detto che è meglio interrompere la cura per un po', per dare tempo al mio organismo di riprendersi. Dopo potremo asportare il tumore.”

“Lo so. E vuoi tornare perché temi di non rivederli più? Nel caso l'operazione andasse male?”

Wilson deglutì a vuoto.

Quegli occhi erano capaci di sconvolgerlo ogni volta.

“Sì. Pensi sia una cosa stupida?”

“Se lo pensassi mi staresti a sentire?”

“Credo che stavolta non lo farei.”

“Immaginavo.”

House si sistemò meglio sul divano e Wilson gli strinse un braccio.

“Voglio rivedere la mia famiglia. Dirle che sto bene, che sono felice e che sto con te.”

“Hai intenzione di sconvolgerli, quindi? Immagino la scena “Ciao mamma, ciao papà. Ricordate House? Ha finto di essere morto, ma non lo è e scopa con me!”

Wilson rise.

House amava la sua risata.

Amava il modo in cui chiudeva gli occhi e si lasciava andare, ridendo.

Lo baciò di slancio, facendolo ridere ancora di più.

“Credo che ai miei verrebbe un colpo. Ma voglio che sappiano che sto bene. E voglio vedere la faccia di Foreman e degli altri quando diremo “stiamo insieme”!”

“Stiamo insieme? Mi sembra sdolcinato da dire.”

“Dire “scopiamo come conigli” non è meglio.”

“Beh, è la verità.”

Wilson gli pizzicò un fianco ridendo e House ne approfittò per afferrarlo e stringerlo al petto.

“Ci penseremo quando saremo lì.”mormorò Wilson, ammaliato dai suoi occhi blu.

Smetteva di pensare quando House lo guardava in quel modo così lussurioso e pieno di brama.

Sentì la bocca di House catturare la sua ancora una volta e s'abbandonò alla sua stretta, avendo un bisogno disperato di amarlo il più possibile.


“Dovete venire assolutamente! Tutti quanti!”

Amanda Lest saltellava da un piede all'altro nel reparto di oncologia.

House lanciò un'occhiata interrogativa a Wilson, ma prima che potesse udire la sua risposta la ragazza era piombata dinanzi a loro, tendendogli un bigliettino argentato.

“Io e Leon ci sposiamo stasera. Ci sarà questa sciamana a consacrare il matrimonio e vi voglio tutti quanti.”

Baciò sia lui che Wilson sulla guancia e saltellò verso altri invitati.

L'espressione di House era palese.

Stava per dire qualcosa di pungente o scoppiare a ridere.

“E' una cara ragazza.”lo prevenne Wilson.

Conosceva Amanda da qualche mese.

Era stata assunta come infermiera nel reparto di oncologia ed era un vero tornado.

Non stava mai zitta, era sempre allegra ed era una boccata di aria fresca per chiunque stesse male.

Wilson l'aveva conosciuta pochissimo perché era stato operato ed entrato in coma due settimane dopo il suo arrivo, ma era stata lei a prendersi cura di lui durante i cicli di cura successivi al coma.

“Sciamana?”

“Sarà interessante.”

“Sciamana?”ripeté ancora House quando s'unirono alla folla sulla spiaggia.

C'erano dei giganteschi tendoni e gazebi, ma tutta la folla si riunì attorno alla coppia di sposi ed ad una tipa davvero bizzarra.

Indossava molteplici veli colorati, aveva la faccia dipinta di bianco e rosso ed era in ginocchio dinanzi agli sposi, seduti a gambe incrociate.

Wilson intuì che House stava per dire qualcosa e gli tappò la bocca, lanciandogli un'occhiataccia perentoria ed ammonitrice.

“Non una parola.”sillabò, mentre tutti tacevano.

Il rituale consisteva nel recitare alcuni inni nella lingua giamaicana, lo scambio di promesse e poi la parte più importante consisteva in un piccolo taglio sul palmo della mano dei due sposi e nel mischiare il loro sangue mettendo a contatto le ferite.

“E' stata la cosa più strana che abbia mai visto.”annunciò House al suo orecchio, dopo la cerimonia, mentre si mescolavano agli ospiti nel prendere da mangiare.

“E' stata una cosa particolare.”

“Assurda. E ridicola.”

“Un po'. Però è stata bella.”

“Io non credo nei matrimoni. E visti i tuoi precedenti, non dovresti neanche tu.”

House addentò una mini quiche e si voltò per andare a sbattere contro la...sciamana.

S'era tolta il trucco, rivelando la pelle scura al di sotto di tutto quel bianco e rosso.

“Tu hai l'aria di uno scettico.”

“Mi creda, è il re degli scettici.”la corresse Wilson.

La donna si voltò verso di lui.

“Tu sei il suo compagno e migliore amico, James Wilson. L'hai amato a lungo, ma te ne sei accorto solo ora.”

“Sta tirando ad indovinare. O qualcuno le ha detto chi siamo.”

House fece per andare via, ma la donna lo bloccò, afferrandolo per un braccio.

“Gregory House, la persona che dovrebbe essere morta, almeno è ciò che credono i suoi amici. Sei fuggito da tutto e da tutti per poterlo proteggere ed aiutare. Hai sofferto così tanto nella tua vita che credi di ferire chiunque tu ti trovi a toccare. Ma questa persona la ami molto e sai che faresti di tutto, anche allontanarla da te, se ciò servisse a renderla felice.”

House si liberò dalla sua stretta.

“Chi sei?”

“Mi chiamo Alalea. E so molte cose. Su molte persone. E su di voi.”

“Come?”

“Posso vedere.”

“Cosa, esattamente?”

“Tutto, Gregory. Ogni cosa nel presente e nel futuro e nel passato.”

“E' impossibile. Non è una cosa umanamente possibile.”

“So che sei spaventato. Perché ora sei felice ed hai paura che tutto possa svanire dinanzi ai tuoi occhi. Hai paura di perdere il tuo migliore amico e compagno, di vederlo morire tra le tue braccia e di non riuscire a vivere senza. E tu, James, temi che questo benessere ti possa abbandonare e soprattutto che la tua morte coincida con il suo suicidio. Ho sbagliato, per caso?”

“Andiamocene.”

House prese Wilson per un braccio e fece per portarlo fuori, ma Wilson scosse il capo.

“Aspetta.”

“Non le crederai mica?”

“Finora hai indovinato ogni cosa.”

“Appunto indovinato.”

“Quindi ho indovinato anche il nome di Lisa, Amber, Sam, Stacy?”

House si voltò, guardandola incredulo.

Ma cosa faceva a....

“Esistono cose che non puoi spiegare, House. Miracoli. Veggenti. Dei. La scienza non spiega tutto, ma capisco come possa essere la tua roccaforte. Ci sono momenti, però, in cui è necessario qualcos altro. Come quando hai rassicurato Wilson dicendo che sarebbe andato in un posto migliore.”

“D'accordo. Ammettiamo che esistano. Cosa vuoi da noi?”

“Solo darvi la mia benedizione per il viaggio di ritorno. E legare le vostre anime. Come ho fatto con Amanda ed il suo ragazzo.”

“Credevo che fosse un matrimonio poco convenzionale.”disse Wilson.

“E' un rito per legare due anime, due spiriti. Voi attendete solo di essere legati.”

“No, graz...”

“Perché no?”

House tacque sentendo la frase di Wilson.

“Sei diventato matto all'improvviso? O romantico, il che è peggio? Già, tu sei sempre stato...”

“House, lo voglio fare. Andiamo. Non cambierà nulla.”

“Allora, perché farlo?”

“Perché è un bel modo per dimostrare ciò che proviamo.”

House aprì la bocca, ma la richiuse subito dopo con un sospiro.

Wilson aveva uno strano sguardo.

Incuriosito dalla sciamana e dal rituale e voglioso di una nuova esperienza.

Perché opporsi?

Era uno stupido rito, fatto da una sciamana che sembrava veggente, forse lo era, ma House non l'avrebbe mai ammesso, cui Wilson teneva.

“D'accordo. Sposami.”decise, attirandolo a sé con un braccio e cingendogli la vita per far aderire i loro corpi.

Wilson rise e la sciamana abbozzò un sorriso.

Fu strano.

House ricordò quella notte per la musica ad alto volume, il buon cibo, il freddo sulla spiaggia e l'acqua gelida.

Ma soprattutto per la canzone sciamana, per il breve dolore per il taglio al palmo della mano, il bacio di Wilson, caldo, morbido che suggellava l'unione delle loro anime, oltre che dei loro corpi.


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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


Salve a tutti!
Allora questo è un capitolo di transizione, perché, purtroppo, sono a corto d'ispirazione ed ho preferito fermarmi un pò, prima di poter continuare la storia.
Mi dispiace un sacco di aver fatto aspettare così tanto tempo, prima di farmi viva e vi chiedo scusa!
Solo che sto partecipando ad una serie di concorsi e quindi sono un pò impegnata al momento.
Sto partecipando al concorso Giunti di scrittura, con lo pseudonimo di LilyP.
La mia storia si chiama Unbreakable e mi fareste un enorme favore se andaste a votarla od a lasciare un commento!

http://www.concorsogiuntishift.it/vota-la-storia/

Questo è il link del concorso.
Bisogna registrarsi per votare.
Se mi votaste e spargeste la voce, mi fareste un favore gigantesco!
Spero di poter aggiornare presto e vi saluto tutti!
Lily

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