Just don't give up di LucreziaPo (/viewuser.php?uid=32158)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1: Don't give up on me ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Chapter III ***
Capitolo 4: *** Chapter IV ***
Capitolo 5: *** Chapter V ***
Capitolo 6: *** Chapter VI ***
Capitolo 7: *** Chapter VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 1 *** Chapter 1: Don't give up on me ***
Sorseggiò la sua
birra per un attimo,
lanciandogli un'occhiata di sottecchi.
Fissava il prato dinanzi a
sé, quel
luogo immerso nel verde, colmo di alberi, fiori...Era un mondo
completamente diverso rispetto a quello cui erano abituati, ma James
Wilson respirò quell'aria pura con un sorriso.
Sentiva lo sguardo su di
sé di House,
che lo scrutava come se tentasse di leggere i suoi pensieri.
Lanciò uno
sguardo al cielo sgombro di
nuvole e tornò a stendersi sull'erba.
“Lo
farò.”
House sussultò,
posando lo sguardo su
di lui.
Wilson fissava il cielo,
sereno, i
capelli castani arruffati, un sorriso un po' stanco sulle labbra.
“Credevo avessi
smesso di curarti e
deciso di godere ciò che ti rimane, facendo follie e sesso a
tre.”continuò House.
“Sei stato tu a
propormi la cura.
Cosa...”
“Credevo non
avresti accettato.”
House lo fissava,
incuriosito.
Come mai aveva cambiato
idea?
“Sei
incredibile.”borbottò Wilson,
ma stava sorridendo.
“Se lo fai per un
puro desiderio di
sopravvivenza, credo sarebbe stato meglio farlo un mese e mezzo fa,
invece di andartene in giro per il mondo a bere mojito.
E se lo fai
per...”
“House, sta'
zitto e smettila di
psicanalizzarmi. Ho detto che voglio solo provare questa cura. Fine
della discussione.”lo zittì, vedendo che stava per
ribattere.
Non aveva la minima voglia
di
rispondere al perché avesse deciso di cambiare idea.
A dirla tutta non sapeva
neanche per
chi lo stava facendo.
Accettò la mano
dell'amico per
rialzarsi, ma non disse nulla neanche durante il tragitto verso il
loro rifugio.
Salito nella loro stanza,
l'unica
stanza da letto in tutta la casa, lanciò uno sguardo al
paesaggio
attorno a loro.
La baita era immersa nella
natura,
nella calma, lontano da tutto e da tutti.
Wilson abbozzò
un sorriso triste.
Avrebbe voluto restare
lì per sempre,
in quella solitaria città del Maryland, tra i boschi e
lontano dal
mondo intero.
Ma non poteva,
né doveva.
Sentì la nausea
coglierlo
improvvisamente e House gli porse la bacinella, cogliendo il suo
gemito.
L'osservò
vomitare anche l'anima,
scosso da sussulti, mentre lo guardava, incapace di fare null'altro,
se non aspettare che stesse meglio.
Si sentiva impotente ed era
frustrante.
“Toast imburrato.
Ecco cosa hai
mangiato a colazione. Almeno credo che quello sia pane...”
“S-sei
disgustoso.”biascicò
Wilson, senza neanche prendersela troppo per le analisi che House
faceva del suo vomito.
Era diventato una sorta di
assurdo
rituale, cercare di indovinare cosa l'altro avesse mangiato dal suo
colore.
“Ed il sapore
continua a non essere
migliore quando torna su.”ribatté, crollando sul
letto.
Si sentiva esausto, come se
avesse
corso per una maratona.
“Tutti mentono.
Ed alcuni nascondono
ai loro amici cosa hanno in mente di fare.”
“Ho intenzione di
vivere.”pensò
Wilson, ma dirlo sarebbe stato superfluo.
House lo sapeva.
Sapeva sempre ogni cosa.
“Se vuoi andare
in Giamaica per una
nuova passione per l'ornitologia mi sta bene. Ti ci vedo in tenuta da
esploratore a cercare nuove specie. Ma la cura...”
“Potrebbe
funzionare.”
House lo guardò.
Avevano passato quasi due
mesi andando
da una zona all'altra, senza mai fermarsi, dormendo in macchina, in
motel di quart'ordine, inseguendo questo o quell'altro spettacolo da
vedere.
Avevano visto il rotolo di
spago più
grande del mondo e quello più piccolo, la casa a forma di
scarpa di
Pennysilvania, il Grand Canyon (che era stato uno spettacolo, che li
aveva spinti a dormire in una tenda per tutto il loro tempo di
soggiorno e che House aveva maledetto con tutte le sue forze temendo
che succedesse qualcosa a Wilson nel mezzo del nulla...), il ponte di
Brooklyn, il Golden Gate Bridge...
Wilson l'aveva
convinto/costretto a
venire in Italia con lui, perché voleva vedere il Colosseo.
Erano rimasti a Roma quasi
una
settimana intera, bighellonando in giro per musei, che House trovava
noiosi, statue, costruzioni antiche come i Fori Romani, per poi
trascinarlo ancora a Venezia, in Grecia ed in mille altri posti,
dando sfogo a qualsiasi desiderio gli venisse in mente.
Era stato un viaggio
incredibile, una
fuga lontano dal mondo intero.
Wilson era stato bene, per
la maggior
parte del tempo.
E poi c'erano stati quegli
attimi acuti
di dolore, che l'avevano costretto a letto a vomitare anche l'anima,
a digrignare i denti per la sofferenza e contro i quali nessun
monumento antico, o hot dog da 100 chili avrebbero potuto distrarlo.
Ed in quelle situazioni
House rimaneva
accanto a lui, di solito parlando di cose stupide e senza senso, con
solo scopo di distrarlo o divertirlo.
Ma mai, neanche una volta,
Wilson aveva
accennato a riprendere le cure.
Se da una parte House
l'avrebbe preso
volentieri a pugni per una scelta così sconsiderata, capiva
la sua
paura di passare il resto della sua vita in uno squallido ospedale.
Inoltre, era una sua scelta
e non
sarebbe stato giusto ostacolare i suoi desideri.
Sfogliò
distrattamente i dati che
aveva stampato, prima che la linea internet desse forfait ed
aggrottò
le sopracciglia.
In cuor suo non avrebbe mai
smesso di
tentare di salvargli la vita.
Non voleva che morisse, non
aveva
nessuna intenzione di perderlo.
Egoisticamente era ben
consapevole che
senza di lui non sarebbe riuscito ad andare avanti.
E questo lo sapevano
entrambi.
Per questo ogni tanto
suggeriva qualche
nuova idea, o cura, come quell'ultima.
E mai si sarebbe aspettato
di vedere
Wilson rispondere “lo farò” visto e
considerando che aveva
ignorato le sue ultime 15 idee.
Ma il suo amico non aveva
intenzione di
rispondere al perché avesse deciso di provare la cura,
rifiutandosi
di lasciarsi psicanalizzare da House.
Per quanto in precedenza
House avrebbe
bellamente ignorato e scavalcato le sue reticenze, portandolo
all'esasperazione ed infine all'agognata verità, Wilson era
capacissimo di rimanersene zitto a lungo, ignorando le sue proteste o
fingendo di dormire od irritandosi.
E da quando s'era ammalato
House aveva
tentato di evitare ogni ulteriore motivo di stress.
Sì, si stava
decisamente rammollendo.
Decidere di andare in
Giamaica
comportava, ovviamente, un volo aereo ed i relativi controlli.
E visto che House era
legalmente morto,
Wilson tenne il fiato sospeso quando gli addetti al check in
osservarono la sua falsa carta d'identità ed il passaporto e
diedero
finalmente il biglietto ad un certo Richard Collins.
“Richard Collins?
Perché hai...”
“Ssh!”
House si guardò
in giro con aria,
circospetta, trascinando Wilson e valigie in avanti.
Wilson alzò gli
occhi al cielo,
sospirando.
“Non
c'è nessuno che ci segue,
Hou...Collins. Ti chiamerò Collins, ma smettila di fare
l'agente in
missione segreta.”
La storia sulla nuova vita
e la nuova
identità aveva entusiasmato entrambi.
Era stato divertente
trovare qualcuno
che potesse creare una nuova identità, fornire nuovi
documenti (e
l'avevano trovato in uno squallido tugurio di Manhattan, da cui House
aveva cacciato Wilson costringendolo a rimanere in albergo
perché
temeva chissà quali infezioni...), nuove carte di credito,
dopo aver
svuotato il conto corrente di House (cosa che aveva fatto prima di
venir dichiarato ufficialmente morto) e ricominciare tutto
dall'inizio.
Era stato un nuovo inizio
per House e
Wilson, che desideravano lasciarsi tutto alle spalle.
Wilson aveva trovato
difficile dire
addio a tutto quello che era la sua vita, anche se voleva
disperatamente farlo.
I sensi di colpa l'avevano
inizialmente
tormentato quando s'era rifiutato per giorni di rispondere alle
chiamate dei suoi genitori, della Cuddy, di Foreman e degli altri
medici suoi colleghi.
Era stato in bilico tra il
rispondere e
lasciarsi convincere a tornare a casa e riprendere le cure e lanciare
il telefono fuori dal finestrino dell'auto.
Dilemma che House aveva
risolto, dopo
una notte in cui il telefono di Wilson non aveva fatto altro che
squillare e vibrare ed aveva gettato l'aggeggio nel water, ponendo
fine ai tormenti di Wilson ed alle notti insonni di entrambi.
La cosa di cui Wilson era
più che
certo era che, se House si fosse trovato al suo posto e senza di lui,
probabilmente avrebbe fatto qualcosa di molto stupido ed
auto-lesionista.
House era abituato a
gestire il dolore,
ma non significava che lo sopportasse.
Lui era abituato a tenere
tutti alla
larga ed a stare da solo.
Ma non era mai realmente solo.
Wilson era sempre stato al
suo fianco,
anche quando non s'erano rivolti la parola per mesi, anche quando
House era finito in prigione.
Wilson sapeva che House
avrebbe fatto
qualcosa di molto stupido ed auto-distruttivo se lui...quando lui
sarebbe morto.
E non poteva evitare di
sentirsi
responsabile per lui.
Foreman, in fondo, aveva
avuto ragione.
Wilson era responsabile per
House,
sapeva che il suo migliore amico aveva bisogno di lui.
Ed era ben consapevole di
quanto ciò
era reciproco.
Aveva visto House
affrontare la sua
malattia in mille modi diversi.
Non era mai stato il tipo
di persona
che diceva “mi dispiace” e piangeva sulla sua
spalla.
Ma aveva reagito alla
malattia di
Wilson urlando contro Taub, cercando di strangolare un paziente e
fingendosi morto.
E chiudendosi a riccio.
Era questa la reazione che
Wilson aveva
visto negli ultimi tempi.
Coglieva lo sguardo di
House su di sé,
silenzioso come una carezza, ma carico di paura e timore.
L'aveva visto rimanere
accanto a lui,
sostenerlo quando stava male, stuzzicandolo quando stava bene,
vegliando su di lui quando dormiva (e Wilson lo ritrovava seduto
accanto al suo letto, le occhiaie profonde ed un ghigno stanco sul
volto) e lottando silenziosamente al suo fianco, sempre accompagnato
dalle sue battute sarcastiche e menefreghiste che nascondevano la sua
vera paura.
Quindi glielo doveva.
Doveva lottare, se non per
sé stesso,
ma per House, perché non poteva rischiare di perderlo.
“Non ricordavo
che soffrissi di mal
di aereo.”
House fissava il finestrino
senza
realmente vederlo, sentendo lo sguardo su di sé dell'amico.
“Sto bene.
Rimettiti a
dormire.”biascicò.
L'aereo era immerso nella
penombra, il
cielo attorno a loro era nerissimo e puntellato di stelle.
Era uno spettacolo, ma
House era troppo
focalizzato su altro per pensarci.
Poi Wilson capì.
“Non è
l'aereo. È la gamba,
giusto?”
Era da una manciata di
minuti che lo
vedeva digrignare i denti e fissare il finestrino, senza realmente
vederlo.
“House...”
“Sto
bene!”sbottò a voce un po'
troppo alta, richiamando l'attenzione di un hostess che lo
zittì.
Wilson sospirò e
frugò nella borsa,
porgendogli la confezione di Vicodin.
Da quando erano in viaggio
quelle erano
state le unici antidolorifici che avevano portato con sé,
dividendoli in caso di necessità.
House scosse il capo.
“Non fare
l'idiota. Prendilo.”
House scosse il capo ancora
una volta,
mentre il dolore gli artigliava la carne.
Non poteva prendere il
Vicodin.
Non se serviva anche a
Wilson.
L'aveva visto
raggomitolarsi su un
fianco e gemere dal dolore, stringendo così forte i denti da
farsi
male e quelle dannate pillole erano state l'unico modo per calmargli
il dolore.
Non era semplice procurarsi
morfina
terapeutica e dato che stavano tenendo il profilo basso (visto che
House era legalmente morto e finire sui giornali per furto e spaccio
di droga non era l'ideale...) non poteva sprecarle.
“Un
whiskey.”chiese ad un hostess
che passava, che gli riservò un'occhiata indagatrice prima
di
eseguire la sua richiesta.
Sentì l'alcool
lenire in misura minore
il dolore, ma quella era la sua unica alternativa.
Wilson l'osservò
bere, a denti
stretti, la mano artigliata sulla gamba ferita, gli occhi chiusi.
“Perché?”chiese
dopo un lungo
attimo di silenzio.
House non lo guardava.
“Se lo stai
facendo per me...”
House sbuffò.
“Per chi diavolo
credi lo stia
facendo, altrimenti?”sbottò, nervoso.
“Non
farlo.”disse Wilson, ma sapeva
che le parole era inutili.
House era testardo ed
incapace di
esprimere i suoi sentimenti.
Wilson sapeva benissimo
come tutta
quella situazione lo stesse facendo soffrire come non mai, ma non era
capace di parlarne.
Non voleva forzare House ad
affrontare
la sua malattia, perché non era disposto a farlo neanche lui.
Era fuggito lontano, aveva
cercato di
dimenticare ogni cosa, credendo che, non pensandoci, tutto sarebbe
andato bene.
Ma non era così.
E doveva prendere in mano
la
situazione.
“Sarebbe
questo?”
House alzò lo
sguardo verso l'edificio
di fronte a loro.
“Clinica Rocker.
È l'unica qui
sull'isola. In bocca al lupo.”
Il tassista li
lasciò all'ingresso,
sgommando via.
“In bocca al
lupo? Ma dove accidenti
mi hai portato?”
Quello sembrava tutto
fuorché
un'ospedale od una clinica sperimentale.
Sembrava più che
altro un albergo di
lusso a cinque stelle.
Era un edificio con almeno
una ventina
di piani, circondato da giardini e piscine ed affacciato sull'Oceano.
“Davvero, dove mi
hai portato,
H...Richard?”
House controllò
nuovamente l'indirizzo
sulla mail.
“E'
questo.”
“Sembra
più un hotel che un posto
dove far esperimenti su malati terminali.”
House alzò gli
occhi al cielo.
“Smettila.”
“Magari
è un bel posto dove
morire.”fece Wilson e prima che House potesse ribattere
afferrò il
trolley ed avanzò, guardandosi intorno.
Effettivamente quel posto
era l'ultima
cosa che s'aspettava.
Non aveva mai visto una
clinica
sperimentale, ma quella era decisamente...bizzarra.
Vide alcune persone con
indosso camici
che indicavano medici e pazienti, ma non sembrava affatto
un'ospedale.
“Desidera?”
La donna alla reception
lanciò uno
sguardo ai nuovi arrivati.
Era molto carina, sulla
trentina e
sorrideva loro.
“Abbiamo un
appuntamento con il dr
Johnson.”rispose House, giocherellando con il suo bastone.
“Nome?”
“Wilson.”
“D'accordo. Il
dottore vi riceverà
tra un minuto.”disse la donna, dopo aver controllato il nome
su un
registro online.
House le lanciò
un altro sguardo.
“Carina.”ammiccò
a Wilson.
“Non sono qui per
fare conquiste.”
Wilson lanciò
uno sguardo alle pareti
verde chiaro, alla fontana nell'atrio ed ai pazienti che camminavano
avanti ed indietro, con indosso vestaglie, o camici od abiti normali,
ma tutti con il bracciale identificativo.
“Stai
bene?”
House notò il
suo sguardo.
“No, è
solo...strano.”
“Possiamo
andarcene, se vuoi.”
Per quanto curioso fosse,
House notò
lo sguardo spaesato di Wilson.
“Mi hai fatto una
promessa,
ricordalo.”disse Wilson, senza guardarlo, concentrandosi
sulla
finestra che dava sul giardino in fiore e poi sull'acqua.
“Sì,
la ricordo.”
Wilson annuì.
Si sentiva strano nel dover
realmente
affrontare il dr Johnson e parlare del suo futuro.
“Chi di voi
è il signor Wilson?”
Un uomo sulla cinquantina
si fece
avanti, osservandoli.
Indossava un camicie
bianco, sotto al
quale portava jeans e maglietta di Bon Jovi.
“Lui.”
House indicò
Wilson con la punta del
bastone.
“E' un piacere.
Io sono il Dr Everett
Johnson. E lei è...”
“Richard
Collins.”
House accettò la
mano del dottore solo
dopo che Wilson gli ebbe dato una gomitata nello stomaco.
Era ancora strano usare
quel nuovo
nome.
O fingersi educato quando
cercava una
nuova cura per Wilson.
“Seguitemi.
Potete lasciare le vostre
valigie all'ingresso e prenderle dopo, in caso la cura non vi
interessi. Per chi di voi è?”
House si sentì
immediatamente
proiettato nel passato.
Quel tipo sembrava proprio
un tipico
insegnante che faceva domande e spiegava ogni cosa.
E dopo aver detto a Wilson
qualche
frase di circostanza (ed House si morse la lingua per non ribattere a
tono per l'ovvietà della cosa) lo sentì parlare e
descrivere la
clinica in ogni suo aspetto.
“E' un edificio
che fu fondato oltre
100 anni fa, nel 1798 da John Ricker. Ovviamente oggi è uno
dei
primi del settore della ricerca e della sperimentazione. Ci sono
venticinque piani in tutto.
I primi 16 sono occupati da
settori
dell'ospedale, della ricerca e da camere operatorie, i restanti dagli
alloggi dei pazienti. Ci sono circa 120 appartamenti.”
“Appartamenti? I
pazienti vivono qui
in pianta stabile?”
Johnson lanciò
una breve occhiata a
Wilson, annuendo, prima di riprendere il suo discorso.
“Tutti quelli che
si sottopongono
alla sperimentazione devono essere tenuti sono strettissima
osservazione. E poiché molti vengono da altri Paesi abbiamo
preferito creare alloggi per loro e chi li accompagna, come suo
marito in questo caso.”
House sussultò.
Marito?
Ma che marito?
“Sono suo
amico.”sbottò ed il
dottore chinò lo sguardo, un po' a disagio.
“Scusate.
Credevo...di solito i
pazienti vengono qui accompagnati da familiari. Ho dato per
scontato...”
“Parli della
cura.”lo incitò
House.
“E' una cura
molto efficace. Non si
usano né chemio né radioterapia qui. Stiamo
brevettando l'uso
dell'ipilimumab, che è un farmaco che colpisce il tumore e
stimola
il sistema immunitario a riconoscere e distruggere le cellule
cancerose.
Può essere preso
sotto forma di
pillole, ma di solito si inietta per endovena. Fa parte
dell'immunoterapia, che mira a risvegliare la risposta del sistema
immunitario.
Nel depliant ci sono
scritte tutte le
componenti ed i principi attivi del farmaco.
È in grado di
contrastare qualsiasi
tipo di tumore.”
Il dottore li condusse per
lunghi
corridoi illuminati dal Sole, sale operatorie, stanze vuote ed
accoglienti, le varie sale della terapia, dove pazienti sedevano da
soli od in compagnia alle prese con questa fantomatica medicina.
I risultati erano ottimi,
House l'aveva
letto sulla ricerca che aveva trovato ed il dottore stesso
gliel'aveva confermato per e-mail.
Ma non voleva gettare
Wilson nella
bocca del leone senza aver controllato ogni piccola sfaccettatura di
quella cura.
Aveva fatto una promessa,
dopotutto.
“Come mai questo
posto sembra un
albergo?”chiese Wilson d'un tratto, dopo che il dottore ebbe
mostrato loro il giardino sul retro.
C'erano altalene, panchine,
gazebi
immersi nel Sole.
“Lo era. Lo
è stato per un certo
tempo, poi decidemmo di trasformarlo in una clinica.
Vogliamo che i nostri
pazienti si
sentano a proprio agio, qui e che non ci sia l'impressione di stare
in un ospedale o...”
“Di venire
trattati come cavie.”finì
House per lui, ricevendo un'occhiataccia.
Wilson sospirò.
House e la sua boccaccia.
“Signor Collins,
qui abbiamo la
massima cura dei nostri pazienti. Vengono qui per loro scelta e di
certo noi non li costringiamo a fare nulla. Qui curiamo
sperimentazioni per farmaci contro qualsiasi tipo di cancro o
malattia ed i risultati sono ottimi.
La cura cui siete
interessati ha dei
rischi, ma tutte le cure ne posseggono.”
“Quali sono i
rischi?”chiese
Wilson.
“Lei che tipo di
cancro ha?”
“Un
timoma.”
“Capisco.
L'ipilimumab attacca le
cellule cancerose con particolare aggressività.
Può compromettere
il sistema immunitario, come fa la chemio, ma qui abbiamo trovato un
modo per impedire il crollo dei globuli bianchi e la conseguente
esposizione del corpo a mille pericoli ed ulteriori malattie.
I nostri studiosi hanno
inventato una
particolare cellula in grado di compiere le esatte funzioni dei
globuli bianchi, dando il tempo e l'occasione al midollo osseo di
produrre altri globuli, mentre la cellula li sostituisce. È
una
sorta di cellula staminale, in grado di sostituire per un certo
periodo qualsiasi tipo di cellula compromessa.”
Detto così la
cura sembrava geniale.
“Quali sono i
rischi?”ripeté
Wilson.
L'idea di sottoporsi ad una
cura
sperimentale lo terrorizzava, nonostante spesso ne avesse consigliate
alcune ai suoi stessi pazienti.
Ma davvero non riusciva a
fare il
medico di sé stesso.
Se la cura era ancora in
fase di
brevetto significava che non tutto era rose e fiori come il dr
Johnson voleva far credere loro.
Il dottore si
passò una mano tra i
capelli radi.
Erano ritornati di nuovo
alla hall ed
il medico sedette su un divano.
“Non è
stata ancora brevettata
perché ci sono dei rischi collegati al fegato. In
particolare la
cura è particolarmente aggressiva con esso, nonostante
stiamo
tentando di trovare una soluzione. Ecco perché i pazienti
vengono
costantemente monitorati.”
“Può
attaccare il fegato?”chiese
House, puntellandosi sul bastone.
“Non
può, lo fa sempre. È un
rischio quasi certo, anche se non avviene subito e ci dà
tempo di
preservare il fegato con altri farmaci. Ma nel 60% dei casi i
pazienti hanno bisogno di un trapianto.”
Cadde il silenzio.
Prima che venisse
interrotto dal bip
del cerca-persone di Johnson.
“Io devo andare.
È stato un piacere
conoscervi. Mi faccia sapere se accetta di partecipare alla
sperimentazione, signor Wilson. In ogni caso, in bocca al lupo per la
sua guarigione.”
House e Wilson lo videro
correre via.
La distesa d'acqua era
immensa, dai
colori che andavano dal verde chiaro al blu più profondo.
Il Sole illuminava la
spiaggia, la cui
sabbia sottile s'infilava tra le dita dei piedi.
Wilson affondò i
piedi nella sabbia
calda, fissando l'oceano dinanzi a sé.
Era una visione splendida
ed allo
stesso tempo l'atterriva.
L'atterriva
quell'immensità,
quell'infinito e la sensazione che lui fosse
così...insignificante.
Il bastone non faceva
rumore sulla
sabbia, ma Wilson percepì la sua presenza prima ancora di
vederlo.
House sedette sulla sabbia
accanto a
lui, rivolgendo lo sguardo alla spiaggia semi-deserta.
Wilson sentiva la domanda
aleggiare tra
loro, ma non disse nulla.
Sapeva cosa voleva sapere
House.
Sapeva cosa avrebbe dovuto
decidere.
Affondò i palmi
nella sabbia calda,
lasciando che gli scivolasse tra le dita.
Aveva paura.
Non tanto delle
complicazioni al fegato
di cui aveva parlato Johnson, quanto di sperare nella cura e vedere
poi ogni cosa svanire nel nulla.
Non aveva intenzione di
morire ed
adesso perfino l'idea di vivere senza pensieri ciò che gli
rimaneva
gli sembrava assurdo.
Come poteva non pensarci,
se era ben
consapevole del rischio che stava correndo, del cancro che l'avrebbe
ucciso?
E come poteva non fare
nulla?
Quella
cura...era...così allettante ed
allo stesso tempo insidiosa.
Sapeva cosa significava
cura
aggressiva.
Sapeva che ci sarebbero
stati giorni
interi di dolore, in cui sarebbe stato piegato in due dal dolore, od
a vomitare od incapace perfino di alzarsi dal letto.
Sarebbe stato troppo debole
perfino per
sollevare il capo, perché aveva visto come potevano ridursi
i suoi
pazienti.
Strinse la sabbia tra le
dita, ma essa
gli sfuggì, finendogli in grembo.
Sarebbe stato male.
Ma sarebbe stato male anche
senza
seguire la cura.
Sarebbe stato peggio e
sarebbe morto.
Forse così...
“Cosa dovrei
fare?”
Evitò lo sguardo
di House,
concentrandosi ancora sulla sabbia.
“Non lo
so.”
La voce di House era
stanca, Wilson lo
percepiva.
Ma lo stupiva che non fosse
pronto a
nessuna battuta o consiglio od a spingerlo a scegliere.
Lo guardò.
House s'era tolto anche lui
le scarpe e
fissava il Sole che tramontava.
“Parlami.”lo
incitò.
“E' una tua
decisione.”
“E da quando non
intervieni?”
House incrociò i
suoi occhi.
Wilson attendeva una sua
risposta, un
chiarimento.
“Tu non vuoi
morire.”mormorò.
“Nessuno vuole
morire, House.”
Wilson abbozzò
un sorriso, nervoso.
“La tua idea di
vivere intensamente
gli ultimi mesi per poi consegnarti nelle braccia della Morte non
è
andata secondo i piani. Perché?”
Wilson sospirò.
Ancora con quella domanda.
“House...io non
lo so, va bene?
Non...non è stata una così grande idea. Forse
all'inizio, ma...”
“Ho delle
responsabilità. Ho te di
cui occuparmi. E tu crolleresti a pezzi se io morissi,
House.”pensò,
ma tacque.
House sembrava aver capito
la ragione e
per questo era restio ad acconsentire a quel cambiamento di rotta.
Non voleva che lo facesse
per lui.
“Mi hai detto che
la tua morte doveva
essere tua e non doveva riguardare me.”
Wilson annuì.
Ricordava cosa aveva detto.
“Sono stato
stupido a rifiutare le
cure. Ho sempre spinto i miei pazienti a fare di tutto per
sconfiggere il loro male, li ho indirizzati verso qualsiasi tipo di
cura disponibile ed io mi sono arreso alla prima volta.”
“Avevi paura. Hai
paura.”
Wilson annuì,
senza guardarlo.
“Non è
giusto. Non...voglio dover
soffrire, né dovermi sottoporre ad una cura contro il
cancro, ma se
lasciassi perdere sarebbe come lasciarmi morire. E non voglio. Non
voglio arrendermi.”
House abbozzò un
sorriso.
Era da tempo che non lo
sentiva parlare
in un modo così determinato.
Era da tempo che non vedeva
Wilson
comportarsi da Wilson.
“Ora ti stai
comportando come il
vecchio te. È un sollievo. Mi chiedevo dove fosse
finito.”
Wilson rise e fece per
alzarsi in
piedi, ma barcollò e si ritrovò disteso sulla
sabbia.
House scoppiò a
ridere.
“Sono io quello
zoppo, ricordi?
Dovresti avere un minimo senso dell'e...”
House non fece in tempo a
finire la
frase che Wilson l'afferrò per una gamba e lo fece ruzzolare
accanto
a lui sulla spiaggia.
“Bleah!”
House si tolse la sabbia
dal viso e
dalle labbra, mentre Wilson rideva.
Almeno prima che House gli
tirasse
addosso un grumo di sabbia bagnata che gli si spiaccicò tra
i
capelli.
“House!”
“Questo posto
è incredibile.”
House si lasciò
cadere sul letto,
provando la morbidezza del materasso e dei cuscini di piuma d'oca.
“Aah!”sospirò.
“Credo che
rimarrò sempre qui a dormire.”decretò.
L'appartamento che avevano
assegnato
loro affacciava sull'oceano, come la maggior parte degli altri.
Era dotato di due camere da
letto,
bagno, un piccolo soggiorno e la cucina.
Anche la dispensa era piena
di roba
fino a scoppiare.
Gironzolarono per la casa,
osservandola.
House afferrò un
pacco di patatine, si
gettò sul divano in soggiorno ed accese la televisione.
“Mi daresti una
mano?”
“A far che? Hai
intenzione di mettere
in ordine come una casalinga disperata?”
Udì lo sbuffo di
Wilson e ritornò a
concentrarsi su una puntata di O.C.
Poi sentì un
tonfo.
Scattò in piedi
con il cuore in gola e
zoppicò velocemente verso la camera da letto
dell'amico...che trovò
seduto sulla poltrona a fissarlo con espressione divertita.
Sul pavimento c'era un
pesante libro.
“Idiota.”sbottò
House, irritato e
fece per andarsene.
“L'unico modo che
ho per farmi
aiutare è fingere di stare male?”
“Hai mai sentito
parlare del racconto
di colui che gridava “al lupo, al
lupo”?”lo prese in giro
House, appoggiandosi allo stipite.
“So che il
ragazzino alla fine viene
ucciso perché nessuno gli credeva.”
“Appunto. Sta
attento!”lo provocò
House e se ne andò, sentendolo ridere.
“La cura
può provocare nausea,
diarrea, vomito, mancamenti ed, in alcuni casi,
allucinazioni.”
L'infermiera
attaccò la flebo a
Wilson, prima di sorridergli incoraggiante ed andarsene verso altri
pazienti.
Wilson osservò
il liquido giallastro
del contenitore, sedendosi sulla poltrona ed aspettando l'esito della
prima sessione di cure.
Era nervoso.
Ricordava benissimo come
s'era ridotto
quando aveva deciso di assumere quelle potenti dosi.
Era stata una mossa stupida
ed
autolesionista, in cui House aveva deciso di rispettare le sue
decisioni ed acconsentire alla sua pazzia, nonostante fosse
chiaramente contrario.
Ricordava i dolori atroci,
la debolezza
acuta, il vomito, l'umiliazione di non riuscire neanche ad arrivare
in bagno da solo ed il dover usare pannolini per adulti ed House gli
era stato accanto, somministrandogli antidolorifici, rinunciando al
suo Vicodin per lui (cosa che aveva fatto ripetutamente in
quell'ultimo mese e mezzo), sostenendolo quando doveva vomitare...
Ed ora non c'era.
Cercò di non
dimostrarsi troppo deluso
dal non averlo accanto, ma non poté evitare di dispiacersene.
Almeno finché
lui non entrò carico di
riviste, computer e cibo per un esercito.
“Ma
cosa...”
House gli tese un succo di
frutta.
“Avevo pensato ad
una birra, ma sono
le nove del mattino e non sarebbe l'ideale.”
Wilson abbozzò
un sorriso quando House
requisì una poltrona ed usò un'altra per posare i
piedi, aprendo il
pc sulle sue ginocchia.
“Ho scoperto che
ti sono arrivate
tantissime e-mail.”
“Hai frugato tra
le mie e-mail?”
Ormai Wilson si chiedeva
perché era
ancora stupito da ciò che House faceva.
“Ti hanno scritto
i tuoi genitori,
che tra un poco mettono la tua faccia sui manifesti pur di
ritrovarti, Chase, Foreman, un certo Warmen, il dr Nolan...come mai
il mio psichiatra ha la tua e-mail? Poi Cameron, Taub, Thirteen, la
Cuddy e mia madre.”
Wilson gli fece segno
d'avvicinarsi,
per leggere le mail.
Tutte, senza alcuna
eccezione, gli
chiedevano di tornare nel New Jersey, gli facevano le condoglianze
per la morte di House, gli chiedevano come stava e cosa stesse
facendo.
“Mia madre
s'è lanciata in una
filippica strappalacrime di come le manco, di come sa che tu stai
soffrendo per la mia morte, dato che, cito testualmente, “Voi
due
eravate così uniti, così anime
gemelle”, e che è idiota ed
irresponsabile fuggire via, senza avvisare nessuno e senza dire dove
stai andando.”continuò House. “E che
questo è il comportamento
di un uomo sofferente, che ha bisogno di aiuto e di compagnia. Questo
lo dicono tua madre e tuo padre.
Inoltre, credo che la Cuddy
sia ancora
furiosa con me, perché dice che “House
è stato tremendamente
egoista ad entrare in quell'edificio. Folle dei suoi puzzle e di
droga ha provocato la sua stessa morte, lasciandoti da solo. Non lo
meritavi e non meritavi un amico che da te ha preso tanto e che poi
ti ha lasciato.” Ouch...”
“Sarebbe quello
che penserei anche
io, se tu fossi realmente morto.”
Wilson gli tolse di mano il
pc,
iniziando a leggere i messaggi.
La Cuddy parlava di Rachel,
di come
stava crescendo, di quanto avrebbe voluto rivederlo e sapere che
stava bene.
I successivi messaggi erano
un continuo
chiedere informazioni sulla sua salute e sulle ipotetiche cure che
stava seguendo ed a cercare di confortarlo per la morte di House.
Era strano leggere cose del
genere,
perché lo spingevano a chiedersi cosa avrebbe realmente
fatto se
House fosse morto veramente e lui si fosse trovato da solo ad
affrontare un cancro, senza il suo amico più caro.
Sentì le mani
tremargli, mentre il
cuore veniva stretto in una morsa.
“Ehi!
Cosa...è possibile che la
medicina stia già facendo effetto? Sei qui da dieci
minuti!”
House osservò il
medicinale, ma Wilson
scosse il capo.
“Non è
la medicina. Stavo solo
pensando.”
“Vedo che ti fa
male. Smettila e
guardati un porno. Ho portato il computer per questo motivo.”
Wilson rise.
“Sono in una
clinica privata. Non
posso guardarmi un porno in una sala comune, H...”
“Rick.”
“E' strano
doverti chiamare in un
altro modo. Comunque, non sono tipo da porno. Sono più
curioso di
leggere cosa dice il dr Nolan. E poi devo rispondere.”
House lo guardò.
“Pensavo volessi
tagliare i ponti.”
“Lo voglio. Lo
sto facendo. Ma loro
credono che tu sia morto e che io mi ritrovi da solo con un cancro.
Devo dire loro che sto bene.”
Il dr Nolan era stato lo
psichiatra di
House, ai tempi del Mayfield Hospital e una figura che l'aveva
consigliato anche in altre occasioni.
La sua mail era molto
interessante.
“Il dr House
è stato un mio paziente
e mi è dispiaciuto molto sentire della sua morte.
So che lei ed il mio
paziente eravate
molto legati, perché House ha spesso parlato di lei durante
le
nostre sedute. È stato il suo migliore amico per anni e so
che ha
lottato a lungo per lenire un po' di quel dolore e quella malinconia
che lo seguiva ovunque.
Non incolpi sé
stesso di ciò che è
accaduto. Credo che nessuno avrebbe potuto salvarlo.
Da ciò che ho
potuto dedurre dalle
nostre sedute House è sempre stata una persona molto sola,
incapace
di interagire con gli altri e di creare una relazione stabile con
loro.
Prostrato dal dolore sia
psicologico
che fisico, dovuto al trauma alla sua gamba destra, ha sempre avuto
difficoltà ad aprirsi con gli altri ed ha adottato quella
tecnica di
menefreghismo, odio verso gli altri e strafottenza.
Il dr House aveva un
carattere molto
difficile, più facile da odiare che da amare.
Ma lei è stata
l'unica persona in
grado di rompere quella sua armatura e di comprenderlo meglio. Dietro
quell'aria di indifferenza, di rabbia malcelata, di dolore e anche di
atteggiamento bastardo, House era una persona che aveva
disperatamente bisogno di qualcuno che lo capisse, che lo guidasse,
che fosse la sua coscienza e la sua speranza e questo qualcuno
è
sempre stato lei, dr Wilson.
Il dr House l'ha amata
profondamente,
anche se a livello inconscio. Lei era l'unica persona di cui House si
fidasse veramente, al punto da rischiare la sua stessa vita per lei,
al punto anche di morire, se necessario.
Nelle conversazioni su di
lei House
lasciava trasparire un profondo affetto nei suoi confronti, che non
credo sia stato mai in grado di dimostrarglielo.
E credo che se fosse vivo
in questo
momento sarebbe accanto a lei a sostenerla nel suo viaggio verso la
guarigione.
Le auguro il meglio.
Dr Nolan”
Wilson rimase ad osservare
la lettera,
incredulo, mentre House era alle prese con un videogioco sul
game-boy.
Sapeva benissimo che House
teneva a
lui, ma era stupito dall'analisi del dr Nolan.
“Il dr
House l'ha amata
profondamente, anche se a livello inconscio. Lei era l'unica persona
di cui House si fidasse veramente, al punto da rischiare la sua
stessa vita per lei, al punto anche di morire, se necessario.
Nelle
conversazioni su di lei House
lasciava trasparire un profondo affetto nei suoi confronti, che non
credo sia stato mai in grado di dimostrarglielo.”
Inoltre,
aveva
anche previsto il reale comportamento di House che, effettivamente,
gli era accanto e lo sosteneva.
“Hai
letto il
messaggio di Nolan?”
“Tutte
psicostronzate. Forza, andiamo! Sì, 50
punti!”esclamò House,
giocando con il game-boy.
“Ssh!”esclamò
un'infermiera di turno.
“Penso
che abbia
ragione.”continuò Wilson, dopo che House si fu
zittito. “Ha
anche previsto che mi saresti stato accanto. Beh, lui non sa che sei
vivo, ma comunque aveva ragione.”
“Anche
sul fatto
che sei la mia coscienza?”
“Soprattutto
su
quello!”rise Wilson.
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
Tremava
follemente.
Si
raggomitolò su
un fianco, cercando di smettere di tremare e stringendosi nella
coperta.
“H-Hou...”
“Sono
qui.”
Wilson
sentì il
letto cigolare quando House si sedette porgendogli una borsa
dell'acqua calda e coprendolo con un altro strato di plaid.
“Pessimo
primo
giorno.”sentenziò.
Wilson
aveva
trascorso tutta la giornata a fare da spola tra bagno e camera da
letto e nell'ultima mezz'ora era stato scosso da violenti brividi.
Wilson
sentì la
sua mano sulla spalla, che la stringeva con forza.
House
si sentiva
uno schifo, come ogni volta che l'amico stava male.
Ma non
poteva fare
assolutamente nulla.
“N-non...a-anda...”
“Non
vado da
nessuna parte. Cerca di dormire.”
Si
chinò sul
water, tossendo e vomitando.
La cura
stava
facendo sentire i suoi effetti.
Dopo
tre settimane
di cicli s'era ritrovato a vomitare ed a non essere capace di alzarsi
dal letto.
Gli
spasmi
muscolari s'erano fatti vivi e lui vide le sue mani tremare mentre si
chinava di nuovo per vomitare.
Sapeva
che House
era fuori la porta, impotente.
Vedeva
il suo
sguardo incupirsi quando Wilson stava male e nonostante le sue
battute e prese in giro, si capiva benissimo che si sentiva inutile.
La
porta del bagno
s'aprì ed House scivolò sul pavimento, spalle al
muro, accanto a
lui.
“E'
parecchio
pittoresco qui. Capisco il perché vieni sempre in
bagno.”lo prese
in giro, osservando le mattonelle azzurre e verdi della toilette.
Gli
tese un
asciugamano per asciugarsi le labbra.
Il
volto di Wilson
era pallido, tirato, i capelli arruffati e fradici di sudore, le
profonde occhiaie.
Si
lasciò cadere
tremante accanto ad House.
Non
s'era mai
sentito così fragile.
“Credo
che la
serata al Diablo salti, questa sera.”mormorò, gli
occhi chiusi.
“Ti
ci posso
sempre portare in carrozzella.”
“Scordatelo.”
Il
Diablo era un
locale che avevano scoperto grazie a Mirna, una bella infermiera che
Wilson aveva conosciuto in terapia.
Era una
sorta di
ristorante internazionale, che faceva piatti di tutti i tipi ed House
s'era messo in testa che voleva provare il messicano.
Wilson
strinse le
mani tra loro per bloccarne il tremito, ma non fece effetto.
House
gli mostrò
una siringa.
“Te
l'ha data
Johnson o l'hai sgraffignata?”
“Me
l'ha data
lui, amico di poca fede. Ha detto di somministrartela se il dolore
è
forte.”
Wilson
scosse il
capo.
Aveva
l'emicrania e
gli tremavano le mani, ma non stava male.
Era
stato molto
peggio di così.
“Sto
bene. Non ne
ho bisogno ora.”
House
fece per
fargli ugualmente la siringa.
“House...davvero.
Sto bene. Sono stato peggio di così.”
House
lo guardò
per un lungo attimo e poi posò la siringa.
“Se
vuoi andare
al Diablo, vai. Io resterò qui a vedere la televisione. Se
venissi
vomiterei tutto.”
Wilson
s'aggrappò
barcollando al lavabo, prima che House l'afferrasse e lo sostenesse.
Lo
pilotò verso il
letto, dove Wilson crollò, esausto.
Sentiva
le forze
del suo corpo abbandonarlo e sentì a stento cosa stava
dicendo
House, prima di addormentarsi profondamente.
La cura
fece
sentire presto i suoi effetti, riducendo Wilson ad uno stato quasi
catatonico, rendendolo incapace di alzarsi e reagire.
Quando
la debolezza
non l'aggrediva, lo faceva qualcos'altro.
Si
ritrovò a vomitare così tanto da spingere il dr
Johnson ad
interrompere le cure, momentaneamente.
Il
dolore lo
coglieva in qualsiasi momento. Sentiva una morsa al petto che gli
impediva di respirare, spingendolo ad urlare, le fitte di dolore al
resto del corpo, come se mille lame lo stessero aggredendo.
L'umore
divenne
altalenante, spingendolo più volte al litigio con House.
Iniziò
ad averne
abbastanza del suo carattere, del suo modo di fare strafottente e
delle sue battute.
House
aveva tentato
di stargli vicino, ma si sentiva impotente e fu spesso vittima delle
sfuriate di Wilson che arrivò addirittura a mollargli un
pugno.
L'oncologo
ricordava bene quel litigio, anche se non da cosa era partito.
Tutto
era nato da
una stupida osservazione sulla cura e poi avevano finito per urlarsi
contro cose orribili.
Wilson
non voleva
essere un peso per House e ricordava di avergli urlato che non voleva
averlo attorno, che non era giusto che a soffrire fosse lui,
perché
non aveva fatto nulla di male, mentre lui, House, aveva sempre goduto
dell'infelicità altrui e stava benissimo, invece, e che non
desiderava passare i suoi ultimi giorni o mesi con un misantropo
fastidioso.
Ed
House se n'era
realmente andato.
Era
tornato tre ore
più tardi, trovando l'amico seduto sulla sedia fuori il
balcone, le
lacrime che gli rigavano le guance e le mani che gli tremavano.
“Mi
dispiace. Non
volevo dire quelle cose. Tu non meriti di soffrire.”aveva
sussurrato l'oncologo, la voce rotta dal pianto.
House
era rimasto
in silenzio per un lungo momento, guardando le sue spalle tremare,
scosse dai singhiozzi.
Poi
aveva detto:
“Avevi
ragione.”
House
s'era seduto
accanto a lui, senza guardarlo.
Non
l'avrebbe
ammesso mai, ma le parole di Wilson l'avevano davvero ferito.
Wilson
non meritava
quello che stava subendo, non lui.
“Non
ho mai
voluto che tu soffrissi, House. Mi dispiace.”
“Sei
malato ed in
preda agli ormoni. E stai piangendo come una ragazzina. Sei
giustificato.”
Wilson
scacciò
rabbiosamente le lacrime con il dorso della mano.
Non
voleva farsi
vedere debole.
“Se
il cancro
dovesse...dovesse peggiorare...se dovessi stare davvero
male...aiutami a farla finita.”
House
sussultò,
guardandolo.
Era la
prima volta
che Wilson ne parlava apertamente.
L'oncologo
volse il
viso verso di lui.
Gli
occhi marroni
erano colmi di lacrime.
“Ti
prego, House.
Non so a chi chiedere. Mi fido di te.”
House
sentì la
gola arida.
Sentì
le parole
fuoriuscirgli di bocca senza neanche capire cosa stesse dicendo.
“Lo
farò se tu
farai lo stesso con me.”
Wilson
sgranò gli
occhi ed una lacrima scivolò giù sulla sua
guancia.
“Cosa...”
Poi
capì.
“No.
Non lo farò.
Non puoi chiedermi di farlo. Non posso...”
“Uccidermi?
Hai
chiesto a me di fare lo stesso.”
“E'
diverso. Io
morirò comunque.”
“Tutti
muoiono,
Wilson. Prima o dopo non farà alcuna differenza.”
House
s'appoggiò
allo schienale della sedia osservando il giardino in silenzio.
Sentiva
il suo
cuore a mille.
Non
poteva pensare
alla morte di Wilson. Non ci riusciva.
Soprattutto
perché
sapeva che non sarebbe stato capace di andare avanti se lui non ci
fosse stato.
Anche
quando
avevano litigato per mesi, rifiutandosi di rivolgersi la parola,
anche quando era andato al Mayfield od il carcere, c'era sempre stata
la consapevolezza che Wilson ci sarebbe stato al suo ritorno, con i
loro scherzi, le loro pizze preparate al momento, le loro risate, i
loro battibecchi...
Pensare
ad una vita
senza di lui era impossibile.
Non
esisteva.
“House,
non
chiedermelo. Non ti farò del male. Mai.
Scordatelo.”
“Neanche
io.”
“Hai
una vita
intera davanti a te, House. Puoi vivere per altri 20 o 30
anni.”
“Potresti
farlo
anche tu.”
Wilson
abbassò lo
sguardo, abbozzando una risata.
“Sai
che per me è
più difficile. Sai che...”
“So
che hai il
cancro, ma so anche che stai lottando e che non sei il tipo
d'arrenderti. Non adesso.”
“Ma
se dovessi
stare davvero...”
“Lo
farò. Se tu
lo farai con me.”aveva mormorato prima d'alzarsi.
La moto
rombava
mentre House faceva un giro di prova nel cortile della clinica.
“E'
favolosa.”dovette ammettere Wilson.
Era
appoggiato al
muretto ed osservava l'amico correre avanti ed indietro con la moto
affittata.
“Andiamo.
Monta
su.”
Wilson
gli lanciò
un'occhiata sarcastica.
“Ho
il camice,
House. Non posso mica andarmene in giro così.”
Wilson
indicò la
tenuta ospedaliera, di pantaloni e maglietta candidamente bianchi.
“Paura
di
mostrare le gambe?”lo prese in giro, ghignando.
“Non
vengo. Ho il
ciclo tra...”
“Due
ore.
Andiamo, abbiamo il tempo di farci un giro sulla costa.”
“House,
non...”
Wilson
non fece in
tempo a finire la frase che House sgommò proprio dinanzi a
lui e
l'afferrò per un braccio.
“Sali.”intimò.
Wilson
sospirò,
salendo dietro di lui e non fece neanche in tempo a reggersi che
House aveva accelerato, lasciandosi la clinica alle spalle.
Da
quando erano
arrivati era stato difficile visitare Kingston, poiché
Wilson s'era
ritrovato subito a dover seguire le cure ed a subirne gli effetti.
Era una
città
commerciale, piena di vita, che s'affacciava sulla costa.
Passarono
strade
popolatissime, negozi di ogni tipo, vagando senza meta.
Wilson
aveva
insistito per andare a visitare il parco nazionale, dove, si diceva
c'erano moltissime specie di uccelli, colibrì, pappagalli, e
per
andare a Montego Bay, un parco marino, incontrando le reticenze di
House che non aveva la minima intenzione di andare nei parchi pieni
di zanzare ed insetti o di immergersi da nessuna parte.
Wilson
era convinto
che fosse a causa della ferita alla gamba, il perché non
volesse
esplorare la molteplice fauna acquatica della Giamaica.
Ma le
sue cure
stavano tenendo entrambi ancorati alla clinica e quel giorno era il
primo dopo un mese in cui uscivano.
“Dobbiamo
festeggiare!”esclamò House per contrastare il
rumore del motore e
Wilson rise, mentre si stringeva alla sua vita per non cadere.
Aveva
ragione.
Quel
giorno il dr
Johnson l'aveva sottoposto ad un'esame completo e la TAC aveva
evidenziato che il tumore era diminuito, anche se non tantissimo.
“E'
un buon
inizio.”aveva commentato il medico, prima di congratularsi
con lui.
“Qui.
Fermiamoci
qui.”fece Wilson, indicando un mercato lì vicino.
“Sei
qui per fare
shopping?”rise House, scendendo dalla moto.
Lo
seguì
zoppicando per il mercato.
Era
ricco di
colori, di voci straniere.
Kingston
era colma
di persone dalla nazionalità più diversa.
Era
quasi un
sollievo immergersi in quel caos e non pensare a nulla.
Era uno
dei
pochissimi giorni in cui non si sentiva uno schifo e voleva
approfittarne.
Moltissimi
avevano
lunghe trecce colorate, cappelli variopinti e vestiti originali.
Perfino
Wilson con
il suo camice d'ospedale passava inosservato.
House
lo vide
guardarsi intorno, fermarsi alle bancarelle, mentre s'addentravano di
più, verso la spiaggia.
Sorrideva.
Era la
prima volta
dopo tempo che quel sorriso era sincero e non velato di sofferenza o
preoccupazione.
La TAC
aveva
mostrato che il cancro era in fase di guarigione.
Certo,
non potevano
già cantar vittoria, soprattutto perché il
percorso era ancora
lungo e la cura aveva ridotto Wilson ad uno straccio.
Ma
vederlo in piedi
sorridere senza motivo era una bella sensazione.
“Prendere,
prendere! È ottimo, signore!”
Un
venditore
afferrò Wilson per un braccio trascinandolo verso una
bancarella in
cui vendeva della strana pasta a forma conica.
“Che
roba
è?”chiese House.
“Mia
specialità.
Assaggia, assaggia, signore!”
Il
venditore, un
uomo di colore sulla quarantina con trecce rasta, gli spinse tra le
mani il vassoio.
“House,
chissà
cosa c'è...”iniziò Wilson, ma House era
già impegnato a
mangiarne uno.
Il
gusto gli
esplose in bocca, un gusto che sapeva di alcool e frutta di vario
genere e diversi tipi di alcool tra cui, riconobbe, rum, whisky e
gin.
“Questo
mi
piace.”
House
ne prese un
sacchetto da dividere con Wilson.
Mangiarono
i
dolcetti seduti su una panchina, guardando il via vai delle persone.
Wilson
posò i
gomiti sulle ginocchia, fissandosi le scarpe.
“Dicevi
sul
serio?”
House
aggrottò le
sopracciglia.
“Quando
dicevo
che la tipa del negozio di magliette me la sarei portata a letto? O
che avevo trovato la ragazza giusta per te, proprio nel...”
“Quando
hai detto
che saresti morto se fossi morto io.”
House
lo guardò e
lo sguardo fu più che eloquente.
Wilson
posò le
mani sul volto.
“House...”
“Non
ne voglio
parlare.”
“Se
hai
intenzione di farti del male...”
Wilson
lo guardò,
intensamente, ma House ignorò risolutamente il suo sguardo.
Non
poteva mica
dire sul serio?
“Credo
che qui
gli spacciatori si facciano pagare molto meno rispetto
all'America.”
House
entrò
nell'appartamento, sventolando un sacchetto.
Wilson
era
semi-disteso sul divano e giocava con il suo game-boy.
“Spacciatori?
Ma
dove diavolo sei stato?”
House
estrasse una
confezione di Vicodin dalla busta e si lasciò cadere accanto
a
Wilson che ritrasse le gambe appena in tempo.
“Hai
comprato il
Vicodin da uno spacciatore?”
House
gli lanciò
uno sguardo, divertito.
“Mi
conosci da 13
anni e ti stupisci ancora?”
“Da'
qua.”
Wilson
osservò le
confezioni di pillole azzurre.
“Ne
hai prese per
l'intero ospedale?”
“Servono
a me.”
House
fece per
riprendersi la busta, ma Wilson la spostò al di fuori della
sua
presa.
“Che
cos'è?
Chissà cosa ci hanno messo dentro, House. Se è
contraffatto o...”
“E'
Vicodin. E
qualcos'altro, tipo marijuana. L'ho assaggiato.”
Wilson
gli lanciò
un'occhiata di rimprovero, mentre House mandava giù due
pillole e
chiudeva gli occhi.
“Fa
molto male?”
House
non rispose,
aspettando che l'ondata di dolore passasse.
Nel
mese precedente
era riuscito a sopravvivere con i tubetti di Vicodin che aveva, ma il
dolore spesso era diventato così insopportabile da indurlo a
bere
per stordirsi.
Wilson
non lo
sapeva, od almeno così pensava, perché oltre agli
sguardi
preoccupati che di tanto in tanto gli lanciava, da tipico Wilson,
non aveva detto nulla.
“Puoi
usare i
miei antidolorifici, House. Non c'è bisogno che tu vada da
uno
spacciatore e che ti cacci nei guai.”
“Non
mi caccio
nei guai. E c'è un motivo se si chiamano tuoi
antidolorifici.
Sei malato.”
“Oh,
lo so bene.
Ma non voglio vedere te soffrire od assumere chissà quali
schifezze!
L'ultima volta che hai provato una cura alternativa hai rischiato di
morire, ricordi? Non voglio che si ripeta una cosa del genere
e...”
“Sarei
in un
ospedale in ogni caso.”
House
fece per
mandare giù un'altra pillola, ma Wilson afferrò
la confezione e la
lanciò lontano, facendola aprire e lasciando che tutto il
contenuto
si riversasse sul tappeto.
Cadde
il silenzio.
“Sei
un vero
idiota.”disse House a denti stretti.
Wilson
aveva
un'espressione irata sul viso.
“Smettila
di
farti del male, House.”
House
fece per
alzarsi ed afferrare le pillole, ma l'oncologo l'afferrò per
il
braccio, frenandolo.
“Smettila!
Non
puoi continuare così! Io non ci sarò per sempre a
proteggerti,
House!”
House
si liberò
violentemente dalla sua stretta, alzandosi irritato.
Wilson
ebbe il
tempo di vedere la gamba tremare ed un'espressione sofferente sul
volto dell'amico, prima che quest'ultimo gli sferrasse un pugno sul
volto.
L'oncologo
gemette
di dolore, portandosi le mani al viso.
Sentì
la porta
sbattere violentemente alle spalle di House.
House
avrebbe
voluto spaccare tutto, distruggere tutto ciò che incontrava
per la
sua strada.
Accelerò
sulla
moto, lasciando che il vento portasse via la sua rabbia ed il suo
dolore.
La
gamba lo faceva
impazzire, ma sapeva benissimo che non era solo provocata dal dolore
fisico.
Odiava
quella
situazione, odiava come Wilson stringeva forte le labbra per
impedirsi di urlare, odiava vederlo raggomitolato in posizione fetale
o chiuso nel bagno a vomitare.
Odiava
che il suo
migliore amico avesse il cancro, che rischiasse di morire, cura
sperimentale o non cura sperimentale.
Ed
odiava che,
invece di preoccuparsi di sé stesso, Wilson lo guardava con
apprensione e temeva cosa ne sarebbe stato di lui alla sua morte,
invece di lottare per rimanere in vita.
Sentì
il telefono
vibrare e l'ignorò a lungo, prima di rendersi conto che
potevano
essere notizie serie.
Frenò
bruscamente
al lato della strada e guardò lo schermo del cellulare.
Wilson.
“Le
pillole sono trattate con una
sostanza tossica, con qualche tipo di pesticida. L'ho fatta
analizzare. Torna immediatamente.”
“Ma
cosa ti è
saltato in mente? Vuoi farmi denunciare?”sibilò
House, vedendo
Wilson all'ingresso del parcheggio.
Un
livido violaceo
si stava allargando sotto l'occhio destro.
House
sentì una
fitta di senso di colpa al petto.
“Idiota!
Betty,
del reparto analisi, l'ha analizzato. Ho detto che ti hanno truffato
e che ti hanno detto che erano tranquillanti naturali. House,
potrebbero provocarti delle embolie, razza di idiota!”
Le
successive due
ore furono piene di ansia e di controlli.
L'amica
di Wilson,
Betty, insistette per visitare House, spingendolo a fare
un'angiografia per controllare possibili embolie.
Voleva
protestare,
dire che stava bene, ma visto lo sguardo di Wilson, House decise che
era meglio cedere.
“Ok,
dall'analisi
non esce nulla, ma è meglio tenerlo sotto
osservazione.”
Betty
era una
dottoressa carina dai capelli rossi, palesemente cotta di Wilson.
In quel
preciso
istante lo guardava, arrossendo furiosamente.
“Deve
essere
ricoverato?”
“Non
è
necessario. Dobbiamo solo fare attenzione a qualsiasi tipo di dolore
particolare. Signor Collins, se inizia a soffrire di dolore al petto,
od affanno o...”
“Sì,
lo so.
Verrò qui.”
House
afferrò la
giacca e fece per uscire.
“Il
suo amico mi
ha parlato del suo problema alla gamba. Posso prescriverle
qualcosa.”
Si
bloccò, la mano
sulla maniglia.
Wilson
non stava
mai zitto.
“Non
credo che
ibuprofene o roba simile possa fare qualcosa.”
“Posso
darle ciò
che il dr Johnson sta dando al signor Wilson, anche se dosi
più
leggere. So benissimo che il suo amico le cederebbe volentieri i
propri antidolorifici.
Sì,
signor Wilson,
non faccia quell'espressione. Lo so.”
“Pensi
a guarire
lui.”disse House, scontroso, prima di andarsene.
“Io
non riesco a
capirti!”
“Eccoci.”sbuffò
House, quando Wilson entrò nel loro appartamento come una
furia.
“Stai
male, fai
un'idiozia che ti potrebbe anche uccidere e quando quella dottoressa
ti offre un antidolorifico tu rifiuti! Ma sei pazzo?”
“Credevo
che
l'avessimo già appurato.”
“House!”
“So
badare a me
stesso. Ci sono riuscito per anni. Anche senza il tuo aiuto.”
“Lo
spero. Lo
spero davvero.”
L'espressione
sul
volto di Wilson era così ferita che House fece per aprir
bocca, ma
l'amico scosse il capo, andandosene.
House
passò i
successivi cinque giorni in attesa in un qualsiasi segno che
indicasse un'embolia, che poteva colpirgli il cuore, i polmoni od il
cervello.
Sussultava
ad ogni
minimo dolore, sorvegliato a vista da Wilson, ma i giorni passarono e
loro tirarono un sospiro di sollievo.
“Mi
devi 300
dollari. Immagino che tu abbia buttato quelle
pillole.”esordì
House, entrando nella sala in cui l'amico stava seguendo la cura.
“Tutto
giù nel
water. E scordati i soldi.”
Wilson
tossì,
raggomitolandosi su un fianco della poltrona.
Aveva
le labbra
secche e si sentiva febbricitante.
La mano
di House
era fresca sulla sua fronte.
“Infermiera!
Ho
bisogno di una coperta qui! Ha la febbre alta!”
Wilson
si sentì
avvolgere dalla coperta, ma continuò a tremare.
“Wilson...ehi...cosa
diamine hai? Apri gli occhi. Cosa senti?”
Si
sentiva troppo
debole per sollevare le palpebre e troppo stanco per parlare.
Voleva
solo
dormire, voleva che il dolore passasse.
Tossì
violentemente.
Sentì
House
accanto a lui dire qualcosa, ma non lo capì.
Sprofondò
nell'oblio.
Quando
si svegliò
era avvolto nelle coperte fino al mento.
La
testa gli doleva
moltissimo ed il corpo...era come se l'avessero ripetutamente
investito.
“Ben
svegliato.”
Wilson
si voltò
verso la voce che parlava.
Era una
voce che
pensava di non sentire mai più.
I
capelli biondi le
scendevano attorno al viso, sulle spalle e lei gli sorrideva, seduta
sul bordo del letto.
Amber.
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Capitolo 3 *** Chapter III ***
“Fammi
indovinare. Sei un'allucinazione.”
“Allucinazione,
voce della tua coscienza, fantasma. Chiamami come vuoi.”
Wilson
si mise a
sedere lentamente.
Era
nella sua
stanza, ma non c'era nessun altro.
“Dov'è...”
“House?
Forse sta
parlando con il dr Johnson. Gli effetti collaterali della cura si
stanno facendo sentire. Oltre al dolore del cancro ci sono le
allucinazioni, la febbre, il delirio, il collasso epatico...”
“Il
mio fegato
sta bene. Reggerà.”
“Sei
in
pericolo.”
Wilson
strinse i
denti, tremando.
Lo
sapeva.
Sapeva
quanto stava
rischiando per quella cura.
“Per
chi stai
lottando?”
Non
rispose.
Afferrò
la giacca
ed uscì.
Lei lo
seguì giù
nella hall, fuori l'edificio.
“Dove
vai,
Wilson? Stai scappando?”
“Via
da qui.”
House
emise un
gemito di frustrazione, quando entrò e trovò la
camera vuota.
Ma dove
diavolo
s'era cacciato? Come era possibile che, febbricitante e malato,
Wilson fosse sparito?
“Dovete
cercarlo!
Non sta bene, dannazione!”urlò contro Johnson, che
stava tentando
invano di calmarlo.
“Abbiamo
chiamato
la polizia e stiamo mandando una squadra a cercarlo. Qualche idea di
dove possa essere?”
Idea?
Non
sapeva neanche
perché era fuggito!
Si
passò una mano
sul volto, angosciato.
Ma che
cazzo gli
era saltato in mente?
“Lo
vado a
cercare. Se lo trovate prima di me, chiamatemi subito.”
La
pioggia aveva
iniziato a cadere quasi subito, torrenziale, inzuppandogli il camice
d'ospedale e trasformando la sabbia in un pantano in cui affondava ad
ogni passo.
Lei lo
seguiva,
sciorinando le sue teorie.
“Stai
scappando
perché hai paura che la cura possa non funzionare. In quel
caso ti
ritroveresti con poco da vivere e tu non vuoi morire. Ma non credo
sia solo per quello che hai paura. Hai litigato spesso con House
per...”
“Non
ho alcuna
voglia di parlare di House! Né della cura o del cancro o di
nulla!”urlò.
La
spiaggia era
deserta e non c'era nessun luogo dove ripararsi.
Le
scarpe erano
bagnate e piene di sabbia.
Ogni
passo lo
faceva sprofondare nella sabbia bagnata e faticava a rimettersi in
piedi.
Era
zuppo e
tremava.
Camminò
senza
meta, lungo la spiaggia, oltre di essa, verso la scogliera.
Sedette
sulla
gelida roccia, tremando da capo a piedi.
“Perché
lo stai
facendo?”
“Sei
il mio
subconscio. Dimmelo tu.”
Wilson
sentì una
forte stretta al petto.
“Potresti
morire
qui. Da solo. Perché sei scappato?”
“Io...io...non
voglio che mi veda così.”
“House?”
Wilson
sentì le
lacrime scivolargli lungo le guance.
Anche i
vestiti ed
i capelli della sua allucinazione erano fradici.
Lei si
sedette
accanto a lui, facendo penzolare i piedi oltre il bordo.
“Sei
svenuto ed
hai pensato “Forse mi resta davvero poco tempo. Forse
è meglio se
me ne vado a morire in un posto isolato da solo, senza dover pesare
su nessuno.
Senza
vedere House
morire di dolore, senza di me.”
Wilson
s'affaccio
alla scogliera.
Sotto
c'erano rocce
e spuntoni ed oltre esse, l'oceano.
“Basterebbe
così
poco per farla finita, vero? Lasciarsi cadere.”disse Amber.
“Non
sei mai stato un tipo suicida, cosa ti succede?”
“Io
non voglio
morire.”
“Nessuno
vuole.”
“Io
non posso
farlo.”
“Per
lui?”
Per
House?
Davvero
non voleva
morire per lui?
“Resterà
solo.”
“Non
è una tua
responsabilità.”
“Lo
è. È mio
amico. Ha bisogno di me. Mi è sempre stato accanto, mi ha
sempre
aiutato e...”
“Sempre
cacciato
nei guai, è sempre stato una spina del fianco e fonte di
mille
preoccupazioni.”
Wilson
rise,
apertamente.
“E'
fatto così.”
“Ed
a te va
bene?”
“Sì,
mi va
sempre bene.”
Tacque,
fissando
l'acqua turbinare e la pioggia cadere a dirotto.
“Morirà
senza di
me. Ed ho paura.”
Lo
sapeva, l'aveva
sempre saputo, ancor prima di sentirglielo dire.
House
non ce
l'avrebbe fatta senza di lui. Aveva un bisogno
disperato di
lui.
House
aveva sempre
creduto che la sua vita fosse senza significato, s'era sempre fatto
del male e Wilson era stato l'unico ad aiutarlo a tirare avanti, a
cercare di capirlo.
“Vorresti
che il
dolore finisse, ma non vuoi lasciarlo? Devi amarlo molto.”
Wilson
rise e si
mosse in avanti, inconsapevolmente.
Fu un
passo
sbagliato.
Sentì
la terra
franare sotto di lui e cadde.
House
imprecò
sonoramente, cercando di ripararsi sotto l'ombrello dalla pioggia
torrenziale.
I piedi
ed il
bastone affondavano in continuazione nella sabbia e tutt'attorno a
lui c'erano le luci della macchina della polizia ed agenti che
cercavano lungo la spiaggia che era lunga miglia e miglia.
Wilson
poteva
essere ovunque.
Poteva
essere
ferito, finito in acqua, svenuto.
Era
febbricitante e
malato.
Si
maledisse per
l'ennesima volta.
Non
avrebbe dovuto
lasciarlo da solo, ma aveva temuto che la febbre poteva essere
sintomatica di qualcosa più grave di un semplice raffreddore.
Le
difese
immunitarie di Wilson erano deboli, nonostante la sostanza Yu, che
sostituiva i suoi globuli bianchi, venisse costantemente iniettata
nel suo corpo per proteggerlo.
Camminava
da ore e
sentiva il dolore alla gamba provocargli fitte intense di agonia ad
ogni passo.
Ma
l'idea di
starsene in clinica ed attendere notizie non gli piaceva affatto.
Voleva
sapere
dov'era finito e prenderlo a pugni quando l'avrebbe trovato.
Ma
dov'era diamine
s'era cacciato?
Wilson
gemette ad
alta voce, sentendo in bocca il sapore acre e ferroso del sangue.
Si
toccò
leggermente il braccio, ma una nuova fitta di dolore lo travolge,
costringendolo a vomitare bile.
“E'
una fortuna
che cadendo da quell'altezza ti sia rotto solo il braccio. Potevi
morire.”
La voce
di Amber
era chiara e distinta, nonostante il temporale che infuriava.
Il
pezzo di roccia
su cui era caduto era a strapiombo sul mare e spruzzi gelidi di acqua
salmastra lo inzuppavano.
“Ti
troveranno.
House ti troverà. Ti starà già
cercando.”
“Mi
troverà
quando sarò morto...”
“Non
essere
pessimista. Non è da te.”
Amber
era seduta
accanto a lui, spalla a spalla.
Wilson
sentiva il
dolore travolgerlo ad ondate, era gelato da capo a piedi e sentiva le
forze venir meno.
La
febbre era molto
alta, lo sentiva e stava tremando da freddo e dal dolore.
Si
tastò
lentamente il braccio rotto e gridò, gemendo.
Come
avrebbe fatto
a risalire in quelle condizioni?
Lanciò
uno sguardo
in alto.
La cima
della
roccia distava almeno un paio di metri e l'unico modo per salire
erano spuntoni di altre rocce e piccole fessure.
“Sai
cosa
pensavo?”
“Dato
che sei il
mio subconscio sono certo che me lo dirai.”
“E'
una cosa cui
stavo pensando da tempo. Credo che tu sia innamorato di
House.”
Wilson
si voltò di
scatto, così velocemente da sentire la testa esplodere.
“C-Cosa?
Sei
impazzita? O meglio, sono impazzito io?”
Lei
rise e Wilson
sorrise nel ricordare quella risata.
Le
mancava.
A lui
mancava ogni
persona che aveva fatto parte della sua vita.
Soprattutto
in quel
momento, con la situazione così disperata.
“Non
sono
innamorato di lui.”
“A
livello
conscio, no. Ma inconsciamente, sì. Lo ami.”
“No.”
Era
ridicolo.
“Io
credo, no, so
che è la persona più importante della tua vita,
che faresti di
tutto per stargli accanto, che ti stai aggrappando disperatamente
alla vita e non ti stai lasciando andare alla morte perché
non vuoi
perderlo e non vuoi che soffra.
Sei
fuggito perché
non volevi che House ti vedesse stare male.
So che
quando hai
creduto che fosse morto il tuo cuore s'è frantumato e quando
hai
visto che era ancora vivo e disposto a rinunciare alla sua vita e
carriera per te, sei stato la persona più felice del
mondo.”
“E'
il mio
migliore amico. Gli voglio bene, ma non lo amo.”
“Non
è così.
Sei attratto da lui. È la tua anima gemella.”
“Non
credo a cose
del genere.”
“No,
House non ci
crede e ti ha influenzato con il suo cinismo. Tu speri di trovare
qualcuno con cui passare il resto della tua vita, senza renderti
conto che l'hai già trovato.”
“Se
ti...”
“Mi
riferisco a
Gregory House.”
“Non
è così.”
“Sei
attratto da
lui, dai suoi occhi azzurri, dal suo modo di fare, anche quando
è
uno stronzo e ferisce le persone, anche quando lo vorresti prendere a
pugni e ti ritrovi sempre a perdonarlo ed a dif...”
“WILSON!
WILSON!
DOVE SEI, STUPIDO IDIOTA? WILSON!”
Wilson
sussultò.
Era
House.
Era...
“SONO
QUI! QUI
SOTTO!”
House
fece un balzo
quando sentì, oltre il rumore della pioggia e della
mareggiata, la
voce dell'amico.
Si
precipitò verso
il punto in cui l'aveva sentita, ben attento a non scivolare e
s'affacciò oltre la scogliera.
Wilson
giaceva
seduto scompostamente su una roccia, un paio di metri più in
giù.
Sussultò.
“Stai
bene? Sei
ferito?”urlò.
“Il
braccio...credo sia rotto.”
Wilson
lo guardò,
speranzoso.
Era
lì. L'aveva
trovato.
House
imprecò tra
i denti, guardando in giù.
“Riesci
a
salire?”
Wilson
si guardò
intorno, il cuore che batteva all'infinito.
No. Non
ce la
faceva.
Sentì
le gambe
tremargli e scosse piano la testa.
“House,
non...”
“Immaginavo.”
House
strinse i
denti, posando il bastone e l'ombrello.
La
pioggia lo bagnò
completamente, mentre scavalcava la scogliera.
“NO!
HOUSE! NON
FARLO!”
“Non
posso mica
lasciarti lì! Nel caso non te ne fossi accorto
c'è una tempesta e
l'acqua finirà anche per inondare la roccia dove
sei!”
Wilson
si guardò
indietro.
Aveva
ragione.
Il
livello
dell'acqua stava pericolosamente salendo ed ora gli arrivava alle
caviglie.
Si
alzò, dolorante
e barcollante.
S'aggrappò
ad una
roccia lì vicino per contrastare il giramento di testa.
Tremava,
ma House
aveva una gamba matta e non sarebbe stato in grado di aiutarlo.
“Dobbiamo
aspettare i soccorsi...”sussurrò a voce
così bassa che temette
che House non l'avrebbe sentito.
House
si concentrò
sugli spuntoni, ignorando l'ultima frase.
Sapeva
che se
avesse messo un piede in fallo sarebbe caduto e sarebbero morti
entrambi.
Non
poteva
sbagliare.
Wilson
sentì una
fitta acuta al braccio quando un'onda lo sbatté contro una
roccia lì
vicino.
“WILSON!”
“S-st-...Sto
bene...”
House
imprecò ad
alta voce e sentì la mano ferirsi ad una roccia
particolarmente
appuntita.
Wilson
avanzò
lentamente, cercando di issarsi su rocce più alte per
facilitare il
compito di House.
Sentiva
il cuore
battergli in gola mentre cercava, usando solo il braccio sano, di
proseguire.
Il
cuore saltò un
battito quando il piede di House scivolò, facendolo cadere.
Per
fortuna riuscì
ad afferrare una roccia ed a frenare la caduta.
House
sentì il
cuore battergli violentemente, mentre s'afferrava più
saldamente
alla roccia.
La
gamba lo stava
facendo impazzire.
Era
come se stesse
andando a fuoco.
Strinse
i denti,
mordendosi le labbra a sangue e tese la mano a Wilson.
“Ti
reggo. Prendi
la mano.”
Wilson
obbedì,
sentendo la mano di House, gelida e bagnata, come la cosa
più vicina
ad un'ancora di sicurezza che avesse mai avuto.
House
lo guardava,
colmo di preoccupazione e dolore.
Wilson
vide i suoi
occhi azzurri velati dal dolore.
Stava
soffrendo e
non ci volle molto a capire il perché.
House
l'afferrò
per la camicia, aiutandolo a salire, passo dopo passo.
“Sta
rischiando
la vita per te, vedi?”
La voce
di Amber
gli rimbombava nella testa e lui la vide seduta sulla cima della
scogliera, che li osservava.
“Ti
sei sentito a
casa quando ti ha preso la mano. Al sicuro.”
Wilson
era
dimagrito molto ed House se ne rese conto quando lo aiutò a
proseguire, guidando i suoi passi.
Tremava
ed era
debolissimo, il braccio rotto che giaceva inerte sul fianco sinistro.
“Ti
tengo. Ti
tengo. Reggiti a me.”
House
lo sollevò,
aiutandolo a toccare terra e lo spinse il più lontano
possibile dal
precipizio, per poi lasciarsi cadere sulla roccia bagnata ed ansimare
per lo sforzo ed il dolore.
Wilson
s'era
accasciato accanto a lui, gemendo.
“Wilson!
Wilson...andiamo!”
House
racimolò le
forze che aveva per sollevare l'amico e cercare di portarlo in un
luogo più riparato.
Ma
attorno a loro
c'erano solo rocce e vento.
Raccolse
il bastone
da terra, imprecò contro l'ombrello che il vento aveva
portato via e
cercò di sollevare Wilson in piedi.
“Dammi
una mano!
Non ce la faccio a...”
House
ricadde in
ginocchio di fronte a lui.
Wilson
scottava
moltissimo ed era incapace di reagire.
Era
completamente
bagnato, i capelli attaccati sulla fronte, le labbra secche e
tremanti, gli occhi lucidi per la febbre.
“Così
ti farai
ammazzare, stupido idiota!”gli urlò contro House.
“Anche
lui tiene
a te.”disse Amber, in piedi accanto ad House.
“Sta'
zitta. Ti
prego, basta...”
Wilson
affondò il
viso tra le mani, afferrandosi i capelli e gemette.
“Zitta?
Ma con
chi...”
Poi
House capì.
“Hai
le
allucinazioni...chi...chi vedi?”
“A-amber...”balbettò
in risposta ed House fece una risata.
“Tipico.
Popola
le allucinazioni di tutti.”
Wilson
s'aggrappò
alla sua giacca e gemette.
House
sussultò,
preso alla sprovvista, nel vederlo stringersi a lui.
Aveva
bisogno di
lui, chiedeva il suo aiuto.
Gli
posò una mano
sulla spalla, incapace di consolarlo in altro modo.
Non era
il migliore
nelle relazioni umane.
“M-mi
dispiace...mi di-dispiace tanto...”
“Di
essere
fuggito via? Ma a cosa stavi pensando?”
Wilson
scosse
ripetutamente il capo.
“Non
lo so...non
lo so...io...volevo...che
mi...vedessi...così...io...no...non
voglio...non voglio stare male...House, non voglio morire...”
“Smettila
di
preoccuparti per me...non...non avere paura. La cura...andrà
tutto
bene...”
“
Ho...bisogno di
te.”
House
non disse
nulla, ma decise di passargli un braccio attorno alle spalle.
Wilson
si strinse a
lui più forte, mentre rimanevano in silenzio.
Per un
po' si sentì
solo la furia della tempesta.
Aveva
freddo e
tremava.
Wilson
sentì House
imprecare tra i denti qualcosa a proposito di
“soccorsi” e
“subito” e si lasciò stringere.
“Wilson!
Rimani
cosciente!”
House
lo scrollò
bruscamente, con voce presa dal panico quando Wilson scivolò
nell'incoscienza la prima volta.
“Io
non...ce la
fa...”
“Sì
che ce la
fai! Resisti! Dimmi, perché sei fuggito?”
“Av...avevo...p-paura
che...che...il can...cancro
mi...avr...ebbe...u-c..ucci...ucciso.”balbettò.
“Volevi
farla
finita? Venendo qui con questo tempo? Volevi ammazzarti?”
House
stava
gridando, stupito.
Davvero
aveva
voluto uccidersi?
“Io...no...io...non
lo so...non...”biascicò, confuso.
Amber
era scomparsa
e Wilson lasciò che le sue forze venissero meno,
accasciandosi tra
le braccia di House che lo sostenne, spaventato.
Non
l'aveva mai
visto in quelle condizioni.
Wilson
era un
groviglio di dolore e paura.
“Non...non
vo...voglio mor...mori...morire. Non...non voglio che...ti
accada...qualc...qualcosa...di...brutto, se-sen...senza di
m-me...”
“Non
pensare a
me, stupido idiota! Pensa a stare bene, pensa a lottare.”
“Non...non...s-senza...di...t-te.”
“Non
vado da
nessuna parte.”disse House, fermo.
“T-tu
ha...hai
rin...rinunci...rinunciato a...t-tutto...per v-veni...venire c-con
m-me...”
“Non
ho
rinunciato a nulla, Wilson. Smettila di complessarti.”
Wilson
sentì il
cuore stringersi in una morsa al pensiero di scivolare nel sonno e di
non svegliarsi più.
Non
voleva morire.
Non
voleva perdere
House.
Avevano
così tante
cose da fare, da vedere, da dirsi...doveva...
Poi
capì.
Di
colpo fu tutto
più chiaro.
Amber
aveva
ragione. Il suo subconscio aveva ragione.
Lui
amava House.
Lui non
accettava
l'idea di una vita senza la sua presenza prorompente, senza le sue
follie, il suo modo di fare, le sue battute, gli occhi azzurri che
s'illuminavano quando faceva uno scherzo o rideva, le mani che, come
in quel momento, lo facevano sentire protetto ed al sicuro, anche se
erano nel bel mezzo di una tempesta.
Sollevò
il viso
verso di lui, incrociando i suoi occhi.
Erano
di un azzurro
bellissimo e lo scrutavano, pieni di apprensione.
Alzò
la mano sana
posandola sulla sua guancia, coperta da barba ispida.
“Credo
proprio di
essermi preso una cotta per te.”
Wilson
vide per un
attimo gli occhi sgranati per la sorpresa di House, prima di
avvicinare le labbra alle sue.
House
sentì il suo
respiro sulla bocca e fece per allontanarsi, ma il suo corpo non
reagì e Wilson lo baciò piano, posando le sue
labbra sulle proprie.
Erano
secche e
screpolate, ma baciarlo fu la sensazione più intensa che
avesse mai
provato prima di quel momento.
Rabbrividì,
non di
freddo quella volta, ma di piacere, quando Wilson gli schiuse piano
la bocca per approfondire il bacio.
L'oncologo
teneva
gli occhi chiusi, la mano che sfiorava la guancia di House,
carezzandogli il profilo della mascella ed approfondendo il bacio.
La
barba ispida di
House gli graffiò le guance, ma non se ne curò
mentre le loro
lingue s'intrecciarono e si baciarono furiosamente, staccandosi per
respirare.
House
sbatté le
palpebre come uscendo da una trance.
Wilson
l'aveva
baciato.
E lui
aveva
ricambiato.
Sentì
il corpo
dell'amico tremare, prima che Wilson s'accasciasse contro il suo
petto, privo di sensi.
Wilson
rimase
incosciente per i successivi sei giorni, oscillando tra il delirio
causato dalla febbre ed un'immobilità spaventosa.
Il dr
Johnson lo
ricoverò immediatamente, gessandogli il braccio rotto e
controllando
tutte le sue funzioni vitali.
Dalla
TAC,
fortunatamente, risultò che il tumore non s'era ingrandito e
che il
delirio e le allucinazioni erano dovute alla fortissima febbre che la
fuga di Wilson non aveva fatto altro che peggiorare.
Wilson
passò i
successivi giorni ad essere nutrito con la flebo, interrompendo
momentaneamente la cura ed a tremare violentemente per la febbre
alta.
La sua
camera da
letto fu riempita di macchinari che controllavano il battito cardiaco
e le funzioni vitali.
House
rimase
accanto a lui il più possibile, cercando di concentrarsi sul
presente.
Ma ogni
volta che
la sua concentrazione calava, i suoi pensieri tornavano al bacio.
Wilson
l'aveva
baciato.
E lui,
preso da
chissà quale follia, aveva ricambiato il bacio.
Ricordava
chiaramente quel momento, il modo in cui Wilson tremava follemente,
stringendosi a lui, il fatto che gli aveva detto che era innamorato
di lui...
Non
c'era altra
spiegazione: Wilson era impazzito.
Il
bacio era
stato...stranissimo.
Era
stato un bacio
febbricitante e lungo.
Ricordava
benissimo
la sensazione della bocca dell'amico contro la sua, delle loro lingue
che si toccavano, ricorrendosi.
Ma cosa
gli era
saltato in mente?
E
perché lui aveva
ricambiato il bacio?
Il
freddo, il
dolore alla gamba dovevano avergli dato alla testa.
Wilson
aprì
lentamente gli occhi, sentendosi le palpebre pesanti.
Per un
attimo
crudele, credette d'essere morto.
Era
avvolto nel
bianco.
Poi
sbatté le
palpebre mettendo a fuoco dove si trovava.
Riconobbe
la
scrivania, ingombra delle sue cose e riconobbe la sua stanza nella
clinica.
Il beep
dei
macchinari lo spinsero a voltarsi, vedendosi circondato da macchine
ospedaliere.
Si
tolse lentamente
i tubi attorno al naso.
Cos'era
successo?
Cosa...
Poi di
colpo
ricordò ogni cosa: la febbre, la fuga, la pioggia, le
allucinazioni
di Amber, la caduta...
Lanciò
uno sguardo
al proprio braccio, vedendolo ingessato.
Il
bacio...
Dannazione,
aveva
baciato House!
Si
diede
mentalmente dell'idiota, posandosi una mano sul volto.
Ma cosa
aveva
fatto?
“Buongiorno.”
Wilson
fece un
balzo nel sentire la sua voce e si voltò verso il luogo da
cui
proveniva.
Era
stato così
impegnato a ricordare ciò che gli era successo, che non
aveva notato
House seduto sulla poltrona all'angolo della stanza.
Teneva
le gambe
posate sulla scrivania accanto e sorseggiava una coca.
“Ehi...”
“Come
ti senti?”
Wilson
fece una
breve ricognizione del suo corpo.
Si
sentiva...intorpidito.
Notò
la flebo
attaccata al suo braccio.
Si
sentiva un po'
strano, leggero e non avvertiva nessun tipo di dolore.
Era una
sensazione
bellissima.
“Sto
bene.”
“Sei
così
imbottito di farmaci che non sentiresti nulla neanche se ti segassero
in due.”
Wilson
abbozzò un
sorriso.
House
continuò a
scrutarlo.
“Il
dottore ha
detto che la febbre non è stata provocata dal cancro, ma
è stata un
effetto collaterale della cura e tu l'hai peggiorata con la tua
passeggiatina.”
Wilson
annuì.
“E
le
allucinazioni sono state frutto della febbre alta. Anche se
è
curioso che Amber sia stata la stessa persona che hai visto anche
tu.”
“Già.
Bizzarro.”
Cadde
il silenzio.
House
sbuffò.
“Mi
spieghi cosa
accidenti ti è preso? Dimmi che stavi delirando,
perché altrimenti
non capisco il perché ti è venuto in mente di
baciarmi!”
Wilson
tacque.
Era
ovvio che House
fosse curioso e di certo, visto la sua abitudine a razionalizzare
tutto, dirgli che era stato quasi spinto della sua allucinazione non
avrebbe portato a nulla.
“Non...non
lo
so.”
Cosa
avrebbe dovuto
dirgli? Che s'era reso conto di tenere moltissimo a lui?
Sembrava
folle
anche solo dire “innamorato” di lui.
Si
trattava di
House! Il suo migliore amico. Come poteva essere attratto da lui?
Prima
che potesse
continuare ricordò chiaramente la sensazione che aveva
provato
quando aveva baciato quelle labbra, quando s'era ritrovato a pochi
centimetri dai suoi occhi.
House
l'aveva
stretto a sé e lui s'era sentito al sicuro.
Per la
prima volta
dopo anni s'era reso conto quanto fosse importante la sua presenza e
come non era disposto a lasciarlo andare.
“Mi
dispiace.”
“Di
cosa?”
Wilson
scosse il
capo.
Non
sapeva cosa
dire.
Non
osò guardarlo
negli occhi, perché era conscio che se l'avesse fatto tutta
la sua,
poca, determinazione sarebbe vacillata.
“Credo
di provare
qualcosa per te.”
“Dimmi
che provi
qualcosa per me nel senso che sei mio amico.”
House
non riusciva
a credere alla sue orecchie.
Wilson?
L'amico
si passò
una mano sul volto, senza guardarlo.
House
si rese conto
che evitava il suo sguardo.
“No.
Penso sia
qualcosa di diverso.”
“Mi
stai dicendo
che quando mi vedi ti vengono le farfalle allo stomaco?
Perché qui
c'è un bravo gastroenterologo che...”
“Smettila
di fare
l'idiota. Sto parlando seriamente.”
Wilson
lo fulminò
con lo sguardo.
Era
già abbastanza
difficile senza che House iniziasse con le sue battute idiote.
“Ti
sei reso
conto che ti sei innamorato di me quando hai rischiato di morire?
Quando temevi che saresti morto su quella scogliera? Non credo che
sia una cosa da...”
“Ho
bisogno di
tempo per pensare, ok? Non sono...non sono più sicuro di
niente.
Ho
bisogno che tu
ci sia, House.”
“Anche
se tu
dovessi renderti conto di esserti innamorato di me?”
House
sentì la
gola farsi arida.
Ma cosa
stava
succedendo?
“Sì.
Ti prego,
non...non te ne andare.”
Era la
cosa che lo
terrorizzava di più, pensare che, se si fosse reso conto di
provare
davvero qualcosa per House, qualcosa che andava oltre la semplice e
profonda amicizia, ed ancora non riusciva a capacitarsi di questa
possibilità, House se ne sarebbe andato.
Lui non
era capace
di interagire con gli altri, non sapeva gestire i suoi sentimenti.
E
Wilson temeva di
rimanere solo.
Non
voleva
perderlo, non per colpa sua.
House
sgranò gli
occhi.
Andarsene?
Davvero
pensava che
l'avrebbe lasciato lì per...
“So
che
reagiresti male, che vorresti fuggire via...tu sei fatto
così e lo
capisco. Sono così confuso, non so che pensare e non voglio
dover
rimanere da solo qui.”
“Non
me ne
andrò.”
|
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Capitolo 4 *** Chapter IV ***
Convivere
divenne
incredibilmente più complicato.
House
continuava a
vegliare su Wilson, preoccupato di una sua ricaduta, aiutandolo nelle
cose di tutti i giorni perché l'amico era ostacolato dal
braccio
rotto.
Si
ritrovò ad
aiutarlo a vestirsi, a sistemargli la flebo, a ridere della sua
goffaggine.
Teneva
a lui e
l'ipotesi di lasciarlo non lo sfiorava neppure.
Accidenti,
s'era
finto morto per poter seguire tutte le sue pazzie!
Ma se
realmente
Wilson era impazzito del tutto ed era innamorato di lui, cosa avrebbe
dovuto fare?
Rifiutarlo
gentilmente? Acconsentire ai suoi desideri di malato di cancro?
Era una
follia in
entrambi i casi.
Lo
rispettava
troppo per fingere di amarlo, l'avrebbe solo ferito e non voleva.
Ed il
fatto che il
bacio che s'erano scambiati lo perseguitasse, provocandogli erezioni
indesiderate non aiutava.
Non
aiutava
affatto.
D'altro
canto
Wilson iniziò a stare peggio e meglio a seconda dei giorni.
C'erano
momenti in
cui si sentiva in grado di fare tutto.
Trascinò
House al
parco acquatico, rimanendo a fissare incantato i pesci che nuotavano
attorno a loro, lo spinse ad immergersi nella barriera corallina
(cosa che House si rifiutò di fare, rimanendo a riva ed
osservandolo
sparire e riapparire in superficie, per schizzarlo e prenderlo in
giro), andarono finalmente al Diablo, dove House mangiò
così tanto
da provocarsi un'indigestione e vomitare tutto la sera stessa.
Wilson
sfidò
House, dopo parecchi bicchieri di gin per entrambi, a farsi un
tatuaggio, scommettendo che non avrebbe mai avuto il coraggio di
farlo.
Fu solo
quando
House gli mostrò un piccolo tribale sul fianco sinistro che
dovette
cedere, sbalordito, e pagare i 200 dollari di scommessa...per poi
scoprire giorni dopo che House aveva usato un pennarello.
Invece
c'erano
momenti in cui stava malissimo.
Il
dolore al petto
diventava così forte da spingerlo ad urlare ed ansimare
nella
maschera dell'ossigeno, che il dr Johnson lo costrinse a lasciare in
camera sua.
Rantolava,
tremando
ed a nulla servivano le parole delle infermiere che cercavano di
lenirgli il dolore, almeno finché non arrivava lui, House,
che lo
stordiva con una dose del proprio e del suo antidolorifico,
così
potente da lasciarlo stordito anche per tutti i successivi due
giorni.
La cura
aveva
aggredito violentemente il suo corpo, contribuendo a distruggere le
cellule cancerose, anche se il tumore non era ancora scomparso del
tutto dopo due mesi di terapia, ma lasciando Wilson almeno 2 giorni
su 5 in uno stato comatoso.
House
detestava sé
stesso.
Odiava
aver
convinto Wilson ad accettare la cura ed odiava che lui l'avesse fatto
non per sé stesso, almeno non solo, ma soprattutto per lui.
Perché
non voleva
che soffrisse.
Ed
invece House
soffriva comunque.
Non
voleva vederlo
raggomitolato in posizione fetale sul letto o sul divano, bere acqua
dalla cannuccia, trascinarsi in bagno per vomitare e dormire giorni
interi.
Quando
stava bene
cercavano di approfittare di ogni momento libero per andarsene via
dalla clinica.
Wilson
si sentiva
soffocare ed House aveva imparato ad odiare ogni singola parete color
pastello di quell'ospedale e della loro camera.
E dopo
aver
conosciuto mezza clinica grazie alle cure e mezzo personale per lo
stesso motivo, Wilson ne aveva abbastanza di contatto umano.
Convinceva
House a
prendere la moto che aveva affittato e dirigersi ovunque, tranne che
lì.
Si
allacciava alla
sua vita e lasciava che il vento portasse via le sue preoccupazioni.
Visto
che i giorni
buoni e cattivi erano impossibili da prevedere era altrettanto
difficile fare progetti per il futuro.
Sempre
che ce
l'avesse ancora, un futuro.
Se da
una parte il
tumore era diminuito e su questo Johnson si congratulava ogni volta
che eseguivano una TAC, Wilson era stato oncologo per 20 anni e
sapeva benissimo che poteva subire una ricaduta, o morire per
un'infezione contratta.
E
nonostante House
insistesse per tenerlo al sicuro, comportandosi in modo assolutamente
diverso dal suo modo di fare solito, Wilson non aveva la minima
intenzione di proteggersi dal mondo esterno.
Voleva
vedere e
fare tutto appena ne aveva l'occasione.
“Tu
sei matto! Io
non ci salgo di nuovo!”
House
s'aggrappò
alla ringhiera, ridendo, gli occhi al cielo.
“Andiamo!”
“No!
È la terza
volta! Sento la terra muoversi come se ci fosse un terremoto!”
“Fifone.”
House
gli lanciò
una strana occhiata.
Vedere
Wilson in
bermuda e maglietta colorata era bizzarro anche per chi, come lui, lo
conosceva da anni ed anni.
E
bizzarro era che
lo stesso Wilson insistesse per fare per l'ennesima volta sulle
montagne russe.
“Non
avresti
dovuto salirci.”
House
indicò il
cartello delle avvertenze.
“Dice
di no ai
malati di cuore.”
“Non
sono malato
di cuore. Ho solo il cancro. Andiamo, un ultimo giro!”
“L'hai
detto
anche prima. Basta.”
Wilson
rise,
guardandolo.
Il
cappellino da
baseball gli copriva gli occhi chiari, ma Wilson sapeva, anche senza
vederlo, che lo stava scrutando sottecchi.
Non
avevano più
affrontato ciò che era successo settimane addietro, il bacio
che
s'erano scambiati quando Wilson era delirante, ma entrambi ci avevano
pensato molto.
Wilson
aveva
seriamente pensato a come poteva essere stare con House, in quel
senso.
Immaginava
che non
fosse poi molto diverso da quello che facevano di solito, fatta
eccezione per una maggiore intimità, cosa che lo faceva
arrossire al
solo pensiero.
Lui ed
House
stavano sempre insieme, si conoscevano da una vita, potevano intuire
cosa l'altro pensasse solo guardandolo ed avevano una profonda
alchimia.
Cosa
sarebbe
realmente cambiato se avessero messo in gioco anche l'amore?
Perché,
sì,
Wilson s'era reso conto che non desiderava che House rimasse con lui
perché era malato ed aveva bisogno di qualcuno.
Lui lo desiderava
in tutti i sensi.
Quel
singolo bacio
era bastato a risvegliare i suoi sentimenti dal torpore in cui erano
sprofondati da quando Sam l'aveva lasciato.
Ed
House c'era.
House c'era sempre per lui.
Si
ritrovò ad
arrossire ogni volta che House s'avvicinava a lui o lo fissava
intensamente per cercare di capire cosa stesse pensando.
E
quella era una
cosa abbastanza imbarazzante.
Vide
House prendere
due zucchero filato porgendogliene uno, con un ghigno.
E
Wilson si ritrovò
a maledire sé stesso quando le guance s'imporporarono nei
momenti
meno opportuni.
Come
quello.
Voltò
lo sguardo,
sentendo House ridere, rendendosene conto.
“Non
ci credo che
arrossisci per me.”mormorò, incredulo.
Era
così...strano!
“Sta'
zitto.”bofonchiò l'altro di rimando.
Wilson
iniziò a
camminare tra la folla.
Il
parco
divertimenti era immenso e c'erano giostre di tutti i tipi.
Wilson
non andava
in un posto del genere da anni ed aveva insistito per andarci quella
sera.
E si
stava
divertendo un mondo, senza avere il tempo di pensare a nulla.
Tranne
che in quel
momento.
House
seguì
l'amico, zoppicando e guardandolo.
Possibile
che fosse
davvero innamorato di lui?
House
aveva pensato
molto a ciò che era successo, perché, nonostante
non avessero più
affrontato la questione, non era il tipo da lasciar perdere una cosa
del genere.
Soprattutto
se
Wilson arrossiva nel guardarlo e lui agognava quelle labbra carnose.
Non
andava affatto
bene.
“Quindi
la tua
risposta è sì? Sei innamorato di me?”
Wilson
sbuffò,
ignorandolo, conscio che l'amico non avrebbe lasciato cadere la
questione.
“Avanti,
parlami.”
“Sì,
d'accordo?
Mi piaci. È un pasticcio. Troverò la
soluzione.”
“Tipo?
Una doccia
fredda ogni volta che mi vedi? Dovr...”
“Non
mi aiuti, lo
sai? Se la smettessi di fare il cretino, potresti renderti conto che
per me è una situazione complicata scoprire di provare
qualcosa per
il mio migliore amico. E mi sento già abbastanza a disagio
senza che
tu mi prenda in giro od iniz...”
Wilson
si zittì
quando House fece un passo in avanti ritrovandosi a pochi centimetri
dal suo viso.
Deglutì,
la gola
improvvisamente secca.
“Cosa
stai
facendo?”
“Ti
zittisco. Ho
scoperto che questo qui è un ottimo modo per farti chiudere
la
bocca.”
Wilson
fece per
arretrare, ma House lo frenò, afferrandolo per un braccio.
“Non
farlo.”gemette l'oncologo.
“Hai
detto che
sei innamorato di me.”
Wilson
deglutì a
vuoto.
Dannazione,
ma cosa
stava facendo?
“Non
voglio che
tu stia con me perché sto morendo o perché ti
faccio pietà.”
House
avanzò
ancora di un passo.
Ora era
così
vicino da poter cogliere le sfumature d'azzurro scuro dei suoi occhi
alla luce delle giostre colorate.
“Tu
non stai
morendo. E non faccio nulla per pietà.”
“Allora,
perché
mi vuoi baciare?”
“Penso
di aver
scoperto il perché di tante mogli e di tante amanti. Ed il
perché
dei tuoi divorzi e delle tue rotture. Sei sempre stato cotto di
me.”
“Sta'
zitto. Non
è affatto vero. House...perché?”
“Perché
baci
bene.”mormorò. “E perché
desidero queste labbra da quasi un
mese.”
Wilson
lo guardò,
stupito, un attimo prima che House gli circondasse il viso con le
mani ed annullasse la poca distanza che c'era tra loro, lasciando
cadere il bastone e zucchero filato.
Le
labbra di House
erano morbide e carnose ed impazienti quando si posarono su quelle di
Wilson, schiudendogliele.
Baciò,
succhiò e
mordicchiò con passione, mentre Wilson chiudeva gli occhi e
si
lasciava andare.
House
gli cinse la
vita con un braccio, attirandolo a sé, mentre l'altra mano
saliva ai
suoi capelli castani, affondando le mani in essi.
Si
staccarono dopo
quella che parve un'eternità ed allo stesso tempo troppo
poco.
Wilson
ignorò il
rossore che, lo sapeva, stava inondando le sue guance, mentre
guardava Gregory House.
Che
l'aveva appena
baciato con tale passione da fargli sentire le gambe di gelatina come
una ragazzina alla sua prima cotta.
“Uhm...”
“Funziona
baciarti, vedo. Non parli più.”
“House,
io...”
“Forse
è meglio
un al...”
“Smettila
un
secondo. Cosa hai intenzione di fare? Iniziare una storia con
me?”
House
non rispose
subito.
Posò
lo sguardo
sui capelli spettinati di Wilson, sulle labbra arrossate dai suoi
morsi e dal suo sguardo interrogativo.
Non
voleva ferirlo,
né avrebbe permesso che nulla interferisse con la loro
amicizia.
Sapeva
che iniziare
una qualsiasi storia con Wilson significava che poteva andare bene
tanto quanto poteva andare male.
Ma si
sentiva
attratto da lui.
Voleva
poterlo
baciare ogni volta che voleva.
L'aveva
stretto a
sé ed aveva avvertito il proprio cuore impazzire.
“Siamo
entrambi
disastrosi nelle relazioni, House. Non voglio distruggere la nostra
amicizia.”
House
rise.
“Perché
ridi?”
“Perché
siamo
sopravvissuti a tre tuoi matrimoni falliti, alla morte di Amber, al
mio ricovero in manicomio, alle minacce di andare in carcere ed al
carcere stesso. E già, anche al crollo di un palazzo in
fiamme, a
tumori che mi ero provocato nella gamba, alla mia dipendenza dal
Vicodin e...devo continuare?”
Anche
Wilson stava
ridendo.
“Siamo
un
disastro, House. Come credi che funzionerebbe?”
“Potrebbe.”
House
era ancora
vicinissimo a lui.
“Non
farlo per
me, d'accordo? Non voglio che...”
“Non
ho
intenzione di perderti come amico. Voglio solo provarci. Tu sei cotto
di me, io adoro baciarti, è un buon inizio,
giusto?”
Wilson
rise di
nuovo.
“Va
bene.”sussurrò.
Da quel
piccolo
accordo tra loro cambiò ogni cosa.
L'idea
di
frequentare Wilson, in quel senso, era bizzarra, ma non spiacevole.
House
non sapeva
neanche cosa l'avesse spinto ad accettare quella novità,
addirittura
a proporgliela. Ma si ritrovò a baciare Wilson ad ogni
occasione.
Assaporava
le sue
labbra la mattina, sentendo il sapore di caffè su di esse,
quando si
sedevano in giardino o sulla spiaggia, godendosi momenti di calma
prima della seduta di cura di Wilson...
Si rese
conto che
il suo stesso atteggiamento stava cambiando.
Se, da
quando aveva
scoperto che Wilson era malato, la rabbia, il dolore e la
preoccupazione l'avevano spinto ad essere protettivo nei suoi
confronti, a vegliare su di lui, senza scalfire, però, la
sua solita
maschera, ora l'idea di ferirlo sentimentalmente lo spingeva a
camminare con i piedi di piombo.
Wilson
gli sembrava
incredibilmente indifeso, anche se sapeva benissimo che non lo era.
Passavano
il tempo
a punzecchiarsi, a prendersi in giro come al solito, ma c'erano
momenti di tenerezza cui anche House si stava affezionando.
Momenti
in cui
sedevano a guardare distrattamente la televisione, con Wilson disteso
sul divano che lo punzecchiava con i piedi.
“Wilson!
La vuoi
smettere? Sto cercando di ved...Wilson!”
House
sussultò
quando Wilson gli tirò un piccolo calcetto allo stomaco.
Gli
afferrò i
piedi, immobilizzandoli e lo tirò verso di sé,
ignorando le sue
proteste.
“Smettila
di dare
fastidio.”
“Da
che pulpito!
Oggi durante la seduta hai passato due ore a punzecchiarmi con una
piuma per non farmi dormire.”
“Dormivi
ieri
notte.”
“L'ho
passata a
vomitare.”gli ricordò lui ed House
sentì una fitta di colpa.
Gli
strinse i piedi
leggermente, iniziando a fargli il solletico sotto la pianta.
“House!
Ahahaha!
Smettila! Non...ahahahaha!”
House
rise della
sua espressione, mentre l'amico tentava di liberarsi dalla sua
stretta, ma era visibilmente più debole.
Ancora
quel senso
di colpa, attenuato solo dal fatto che lui stava ridendo, quindi non
lo stava ferendo in alcun modo.
Fu solo
quando
smise che Wilson lo fissò intensamente e tese la mano.
“Vieni.”
House
accettò
curioso la mano e si distese accanto a lui, su un fianco, mentre
Wilson
gli
stringeva le
dita tra le sue.
Il
diagnosta non
era affatto abituato a momenti di tenerezza, ma Wilson stava
giocherellando con le dita e ci fu soltanto lui su cui concentrarsi,
mentre la televisione accesa faceva da sottofondo.
House
guardò i
suoi capelli, in parte caduti per la violenza della cura, gli occhi
marroni stanchi, le labbra secche e screpolate che tante volte aveva
baciato.
Gli
passò una mano
tra i capelli, delicatamente.
“Sei
così
fragile.”si ritrovò a dire e Wilson non disse
nulla.
Lo
sapeva. Si
sentiva in quel modo.
Posò
la fronte
contro il petto del compagno, chiudendo gli occhi.
“House?”
“Mmm...”
Wilson
gli baciò
piano la bocca, graffiandosi con la barba ispida, ma non curandosene
affatto.
Sentì
le braccia
di House cingergli il corpo e rimase a baciargli le labbra, prima di
scendere lungo la sua gola, baciando e succhiando la pelle.
Lo
sentì
irrigidirsi sotto il suo tocco, respirando profondamente, ma
continuò
a baciarlo in quel modo.
Rimasero
a baciarsi
tutta la sera, dimentichi di ogni cosa tranne che delle loro labbra e
dei loro corpi stretti l'uno all'altro.
|
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Capitolo 5 *** Chapter V ***
“Se
avessi saputo
che pomiciare con te sarebbe stato così piacevole, avrei
evitato di
pagare tutte quelle prostitute, di sposare Dominika e stare con la
Cuddy e Stacy.
Wilson,
ma dove
accidenti eri 13 anni fa?”
Wilson
lo ignorò,
le sue attenzioni focalizzare sul fucile per il tiro a piattello.
“E
poi...ops...”
“House,
la smetti
di distrarmi!”sbottò, irritato dopo l'ennesimo
tentativo di House
di urtarlo e fargli sbagliare mira.
“Posso
sempre
puntartelo contro il fucile, se non smetti di rompere.”lo
minacciò,
mentre House, memore della sua prima volta con quel tipo di sport e
dopo vari tiri mancati, lo fissava, seduto sull'erba.
Il
campo era poco
lontano dalla clinica e Wilson aveva inserito anche
quell'attività
tra le cose da fare.
House
l'osservò
puntare il fucile, il braccio che aveva rotto durante la caduta dalla
scogliera, ancora un po' tremante ed incerto e centrare il piatto al
primo colpo.
Aprì
e richiuse la
bocca un paio di volte, incredulo.
“E'
la fortuna
del principiante.”
Ma
quando Wilson
centrò anche la seconda, terza e quarta volta,
sbuffò.
“Sarà
un fucile
difettoso.”
“No,
sei tu che
sei una schiappa.”disse allegramente, almeno
finché House non
l'afferrò per la caviglia spingendolo a terra.
“House,
ma che
diav...”
Si
zittì quando
House gli prese il viso tra le mani e lo baciò ardentemente,
mettendo a tacere ogni tipo di protesta.
Rise,
contro le sue
labbra, sorridendo piano quando si staccò da lui.
“Sto
bene,
davvero. Lisa, non...no. Davvero. È tutto ok. Me la so
cavare.”
Wilson
giocherellava con un bracciale di cuoio che aveva comprato in
Giamaica, sentendo Lisa parlare al telefono e con il braccialetto che
avevano tutti i pazienti.
Dopo
quasi cinque
mesi di isolamento, aveva convinto House a riallacciare i rapporti
con gli altri.
Non che
fosse colpa
sua, in effetti.
Wilson
aveva
sentito la voglia irrefrenabile di allontanarsi da ogni cosa che
conosceva e fuggire il più lontano possibile, ma la
nostalgia s'era
fatta viva e con essa la voglia di sentire i suoi amici.
Aveva
mandato loro
solo qualche mail, ma poi nulla.
Poteva
quasi
immaginare la loro paura nel sapere che lui, malato di cancro e dopo
aver subito il lutto del suo migliore amico, si rifiutasse di stare e
parlare con loro.
I suoi
avevano dato
di matto quando li aveva chiamati.
Aveva
sentito le
loro urla preoccupate, che avevano svegliato House dal suo pisolino.
Irritato,
gli aveva
tirato addosso una pantofola che l'aveva centrato al braccio.
Ed ora
si ritrovava
con un braccio dolorante, un amico irritato ed i suoi che l'avevano
supplicato di tornare a casa.
Sentire
la calma
Lisa fu un bel diversivo.
“Stai
seguendo
qualche cura, vero?”
“Sì.
È una cosa
sperimentale, ma...sto meglio. Insomma, mi fa star male come la
chemio, ma pare abbia risultati decisamente migliori.”
“Sei
da solo?”
“No,
con me c'è
House.”avrebbe voluto dirle.
Sentiva
quanto era
preoccupata a saperlo da solo ad affrontare tutto questo.
“Dimmi
dove sei.
Posso...”
“No,
Lisa. È una
cosa che devo fare da solo. Hai una famiglia, hai Rachel ed io
starò
bene.”
“Ti
manca, vero?”
Wilson
lanciò
un'occhiata ad House.
Era
disteso sul
letto, gli occhi socchiusi.
Aveva i
denti
digrignati e stringeva forte la gamba.
Wilson
aggrottò le
sopracciglia, avvicinandosi.
“Stai
bene?”sillabò, scuotendolo piano, ma House rispose
scostandolo di
malo modo.
“Lisa,
devo
andare.”
“Ma...”
Wilson
non le diede
il tempo di continuare.
Attaccò
il
telefono e s'accostò ad House.
“House...”
House
continuò a
gemere.
Teneva
gli occhi
serrati, le mani che artigliavano la stoffa del jeans, il corpo
tremante.
Wilson
imprecò tra
i denti, afferrando la boccetta di pillole di antidolorifico che gli
aveva dato il dr Johnson.
“Manda
giù
queste. House, ascoltami. Prendi queste.”
Gli
cinse le spalle
e lo costrinse a mandare giù un paio di pillole, mentre lo
sentiva
gemere ad alta voce.
Non
l'aveva mai
visto così sofferente.
Da
quando s'era
ammalato, House aveva evitato di dirgli del suo problema alla gamba.
Wilson
lo vedeva
digrignare i denti, imprecare tra sé, mandare giù
antidolorifici,
ma stavolta tremava violentemente e gemeva ad alta voce.
Gli
doveva fare
molto male.
L'attirò
a sé ed
House artigliò la stoffa della sua camicia, gemendo forte.
“Ssh...ssh...ssh...”sussurrò
al suo orecchio, tentando di calmarlo.
La mano
scese sulla
sua gamba, sfiorandogliela piano.
Sentì
la cicatrice
attraverso la stoffa ed House gli afferrò forte il polso,
costringendolo a non toccare.
Era
qualcosa che lo
metteva sempre a disagio.
“E'
tutto
ok.”mormorò Wilson contro le sue labbra.
Gli
cinse le spalle
e lo abbracciò, stendendosi sul letto accanto a lui.
Rimase
a stringerlo
a lungo, anche quando il tremore cessò ed House giacque un
po' più
tranquillo tra le sue braccia.
Lo fece
appoggiare
al suo petto, sfiorandogli i capelli sale e pepe e posandogli un
bacio su di essi.
Sentiva
le sue mani
sul proprio corpo, scivolare a carezzargli il torace, il ventre, fino
al suo inguine.
Wilson
emise un
gemito soffocato contro le labbra del compagno, quando House
infilò
la mano tra le sue gambe, liberandosi del pantalone e dei boxer con
un gesto brusco, voglioso di procedere.
Non
erano mai
arrivati ad un livello tale di intimità, ma entrambi lo
anelavano da
tempo.
House
osservò
l'amico che gemeva al suo tocco.
Era
incredibilmente
eccitante vedere Wilson eccitarsi per lui.
Ghignò,
malandrino
e catturò le sue labbra ancora una volta, mentre continuava
a
masturbarlo.
Lo
sentì venire
tra le sue dita e continuò a baciare ogni lembo di pelle
disponibile.
Non
sapeva cosa
guidasse le sue azioni, ma sentiva il bisogno fisico ed irrefrenabile
di baciarlo, di averlo in ogni modo possibile.
Le mani
di Wilson
s'affrettarono a liberarlo dai vestiti, mettendosi a cavalcioni su di
lui, mentre gli prendeva il viso tra le mani ed approfondiva il
bacio.
Si
sentiva rapito
dal suo tocco, come mai s'era sentito prima d'ora.
L'afferrò
per la
vita, stringendolo a sé, ignorando il dolore alla gamba.
Voleva
averlo, non
importava il costo.
Wilson
notò la sua
espressione sofferente e lo bloccò.
“No,
io...”
House
lo mise a
tacere, baciandolo dolcemente, stringendolo più forte a
sé, mentre
gli sfilava la maglietta e lo spingeva sotto di sé.
Lasciò
che fosse
la passione a guidarlo, perché se avesse ascoltato il
cervello ci
sarebbe stato un tripudio di “Ma cosa stai
facendo?” “E' il tuo
migliore amico!” “E' malato, rischi di ferirlo
e...”.
Wilson
l'attirò su
di sé, lasciando che House prendesse il comando della
situazione,
sentendo le loro eccitazioni, ormai, premere dolorosamente.
Ricordava
il “Sei
sicuro?” sussurrato a pochi centimetri dalle sue labbra,
prima di
annuire, prima che House lo prendesse per la prima volta,
dolorosamente ed incredibilmente.
Era
stato
incredibile.
Doloroso,
ma aveva
provato una sensazione pazzesca.
Wilson
aveva
stretto forte i denti, mordendosi le labbra quando House era entrato
dolorosamente dentro di lui, ma poi il dolore era scemato, seppur
lentamente, lasciando il posto all'eccitazione, al bisogno di averlo
ancora, di più e più forte.
Era
stato uno
spingere, baciare, mordere, toccare, fino a crollare esausti, l'uno
sull'altro, l'uno abbracciato all'altro.
Wilson
cercò di
contrastare lo sfarfallio allo stomaco ed il dolore sordo al sedere,
la testa posata sulla spalla di House.
Era
stato
incredibile.
Era
stato dentro di
lui, dolorosamente, ma s'era sentito unito ad House nel modo
più
intimo che esistesse.
E
bastava quello a
fargli provare quello sfarfallio.
Non
sapeva cosa
dire, voleva soltanto crogiolarsi nel calore di quell'abbraccio.
House
gli
s'avvicinò.
“Stai
bene? Ti
ho...”
“Sto
bene. È
stato...”
“Strano.”concluse
House
I suoi
occhi erano
incredibilmente azzurri e Wilson deglutì a stento.
Si
sentiva bene.
Dolorante, ma bene.
Era
stata
l'esperienza più folle e più bella che avesse mai
fatto.
Annullò
la
distanza, baciandolo piano sulla bocca, ricambiato dal compagno, che
gli affondò una mano tra i capelli.
House
posò la
fronte contro la sua, incapace di muovere anche solo un muscolo.
Sentiva
il cervello
pieno di domande e serrò gli occhi.
Quando
li riaprì
Wilson era accanto a lui, gli occhi chiusi, i capelli castani
arruffati, il corpo seminudo coperto dal lenzuolo.
Sorrideva
piano,
addormentato.
Era
sereno.
House
non era mai
stato bravo nelle relazioni e, visti i tre matrimoni falliti di
Wilson, neanche lui era tanto più capace.
I
giorni successivi
al “fatto”, come aveva iniziato a pensarlo House,
furono
bizzarri.
Non
s'era mai
sentito attratto sessualmente da Wilson, ma baciarlo e fare sesso con
lui era incredibilmente piacevole.
Nonostante
le mille
razionalizzazioni e spiegazioni che provò a dare alla
situazione,
“Wilson era malato ed instabile emotivamente”,
“E' stato solo
un attimo di sbandamento”, “Non accadrà
più” e “Probabilmente
siamo impazziti tutti e due”, non poteva evitare di pensare
al suo
amico che gemeva sotto di lui, che gemeva di piacere e che sentiva il
bisogno di averlo dentro di sé.
Ed il
fatto che il
corpo di Wilson iniziava ad attrarlo ad ogni giorno che passava non
aiutava nessuno.
Wilson,
d'altro
canto, si sentiva strano.
Era
attratto da
House e con lui si sentiva al sicuro.
Erano
ormai passati
quasi cinque mesi da quando aveva saputo di essere malato e quello
era un traguardo che temeva e che agognava allo stesso tempo.
Cinque
mesi.
Era
ciò che,
secondo i medici, gli rimaneva da vivere.
Era
cambiato
qualcosa, giusto?
La cura
stava
facendo effetto, vero?
O
sarebbe morto
comunque?
House
riusciva a
percepire la sua tensione, anche se Wilson non gliene aveva fatto
parola.
Si
sentiva stupido
a dare un traguardo ad un giorno, come se significasse davvero
qualcosa.
Ma per
lui aveva un
significato.
Il
giorno del
traguardo sedette sul terrazzino, gli occhi fissi sul mare.
Quei
mesi di cura
erano stati un Inferno ed un Paradiso allo stesso tempo.
La cura
aveva
ridimensionato il suo tumore, ma l'aveva fatto stare così
male da
ridurlo a letto per giorni interi.
Aveva
vomitato
intere notti, incapace di mandar giù un solo boccone, reso
insofferente persino dall'odore del cibo, a tal punto che House aveva
iniziato a chiamarlo “donna incinta”.
I
giorni erano
stati contraddistinti da momenti in cui il dolore al petto era
così
forte da impedirgli di respirare ed in cui poteva solo urlare,
spingendo House a precipitarsi verso di lui, impotente, senza sapere
cosa fare per aiutarlo.
C'erano
stati
momenti in cui avrebbe voluto farla finita, aveva fissato il vuoto
per ore, incapace di reagire.
Ed
House c'era
sempre stato, nei bei momenti e soprattutto in quelli brutti.
Era
sempre stata
una presenza confortante, sarcastica, pungente, bisognosa e
strafottente.
Wilson
sapeva
benissimo che gli antidolorifici che il dr Johnson aveva prescritto
ad House per la gamba erano stati usati più per cacciare un
dolore
psicologico che fisico.
Vedeva
la smorfia
di dolore di House ogni volta che era lui a soffrire.
E lo
sapeva e non
poteva evitare che House si stordisse, perché stava troppo
male nel
vederlo soffrire.
Sussultò
quando
qualcuno gli posò una birra in grembo.
“Ehi.”sussurrò,
lanciando uno sguardo all'amico.
“Ti
godi il
tramonto, ora?”
Wilson
lanciò uno
sguardo all'orizzonte, dove il Sole illuminava di colori aranciati il
paesaggio.
“E'
bellissimo,
vero?”
Per
tutta risposta
House sbuffò.
Sedette
sulla sedia
e posò i piedi sul davanzale.
“Che
giornata è?”
“Più
sì che
no.”
“Ed
il no?”
“Credo
di aver
perso dei chili vomitando stamattina.”
House
abbozzò un
sorriso.
Le
giornate di
Wilson andavano dal “sì”, al
“sì e no”, al “più
sì che
no”, “più no che
sì” e “no, ho voglia di
morire.”
Fortunatamente
le
ultime capitavano di rado.
Lo vide
assorto
fissare la spiaggia.
“Che
hai?”
“Sai
che giorno
è?”
“Il
20 ottobre.
Perché?”
“Perché
oggi
finisce il mio tempo massimo. Finiscono i cinque mesi. E se non
morirò stanotte, e mi sento piuttosto bene, a dire la
verità, ogni
giorno sarà un regalo da domani.”
House
sussultò.
Se
n'era
completamente dimenticato!
Fino a
quel momento
lui e Wilson avevano tentato di vivere la vita così
intensamente da
evitare di pensare a che giorno era.
Domani.
Sentì
una stretta
allo stomaco.
Lo
guardò.
Era
così
tranquillo all'apparenza, ma notò che stringeva la bottiglia
con
forza e non aveva ancora bevuto un sorso di birra.
“House...”
“Andrà
bene.”
Wilson
annuì con
un groppo alla gola.
S'era
imposto di
non piangere, di non avere paura di un giorno, ma dovette scacciare
rabbiosamente le lacrime.
Sentì
la mano
dell'amico sulla spalla e non riuscì più a
pensare.
In un
attimo si
stava aggrappando a lui, come un naufrago ad una zattera.
House
sussultò,
sorpreso.
Wilson
lo stava
stringendo così forte da fargli male.
Sentì
il suo cuore
battere violento, il corpo sussultare.
Gli
fece spazio
sulla sedia, lasciando che Wilson si raggomitolasse contro il suo
petto come un bambino piccolo.
Da
quando avevano
fatto sesso erano passati solo pochi giorni e quello era l'unico
momento in cui si erano ritrovati così vicini.
“Wilson...andiamo,
sai che sono pessimo con queste situazioni! Che vuoi che faccia? Che
ti canti la ninna nanna?”
Lo
sentì ridere
contro il suo collo ed il suo respiro lo fece rabbrividire di
piacere.
Si
costrinse a
cingergli la vita, impacciato, e stringerlo a sé.
“Non
vo...non
voglio...”sussurrò Wilson, tremando, tra i
singhiozzi.
Non
voleva morire.
“Tu
non vai da
nessuna parte.”
Wilson
gli
artigliava la maglietta, così forte da fargli male.
“Promettimelo.”
House
non rispose
subito.
Non
poteva fare
promesse del genere.
“Non
posso.”
“Promettimi
che
ci sarai, che non mi lascerai da solo se dovessi stare...”
“No.
Non me ne
andrò. Finora non sono andato da nessuna parte.”
Wilson
lo strinse a
sé, sfiorandogli il viso.
Gli
occhi erano
arrossati dal pianto, il naso rosso, ma House lo trovò
incredibilmente bello.
Che
diavolo stava
pensando?
Si
diede
mentalmente dell'idiota, ma Wilson sorrise e lo baciò sulla
bocca.
Un
bacio casto, a
timbro, ma House sentì che faceva decisamente effetto.
Lo
sentì anche
Wilson perché ridacchiò contro la sua bocca.
La sua
mano scivolò
verso il suo inguine ed House lo bloccò, prima che gli
sbottonasse i
pantaloni.
Lo
guardò negli
occhi, incapace di spiegare il perché fosse così
reticente.
“S-Scusa,
non...”
House
lo bloccò
stringendogli il polso e baciandolo con passione sulla bocca,
schiudendogliela con foga per incontrare la sua lingua.
La
bocca sapeva di
lacrime, ma House ignorò quel sapore salato e lo spinse
verso la sua
camera da letto.
Stava
iniziando a
spogliarlo, quando Wilson riprese in mano la situazione ed
iniziò a
sbottonargli la camicia, sfilandogliela velocemente, prima di
procedere a gettare da parte anche i jeans.
Sentiva
le proprie
eccitazioni crescere e si chinò sull'amico, baciandolo sul
collo a
lungo, lasciandogli piccoli baci e morsi sul torace.
Non
s'era mai reso
realmente conto di quanto House fosse magro.
Gli
sfiorò i
muscoli del petto e dell'addome, provocandogli intense ondate di
piacere.
Baciò
il suo
collo, mentre scendeva con le mani a sfiorargli l'erezione.
House
sussultò,
colto di sorpresa dall'intraprendenza di Wilson.
Fece
per baciarlo,
ma Wilson si mise a cavalcioni su di lui, bloccandolo.
Il suo
sguardo
voleva dire “oggi comando io”.
I suoi
baci erano
roventi, disperati ed House lo lasciò fare, mentre sentiva
improvvisamente molto caldo.
Lo
aiutò a
spogliarsi, mordicchiò le sue labbra, ignorando il dolore
alla
gamba, al momento decisamente in secondo piano e fece aderire i loro
corpi in una danza di baci, di carezze bollenti e morsi.
Sfiorò
la sua
erezione con il proprio corpo, sentendolo ansimare contro il suo
orecchio.
Sussultò
quando
capì cosa aveva intenzione di fare e lo guidò
dolcemente verso di
lui e dentro di lui, dolorosamente e senza riuscire a nascondere i
gemiti di dolore.
House
strinse i
denti quando Wilson entrò dentro di lui.
Lo fece
con
cautela, baciandolo piano sulla bocca e stringendogli le dita con le
proprie, prima di muoversi lentamente dentro il suo corpo, stretto e
caldo.
Wilson
lo prese
dolcemente, cercando di tenere a freno la sua eccitazione, per non
fargli male, ma poi sentì House muoversi verso di lui,
incitarlo a
continuare.
House
lo baciò
sulla bocca, mordendogli le labbra, succhiando la pelle tenera, anche
quando Wilson uscì dal suo corpo, lasciandolo dolorante ed
in
subbuglio.
Gli
cinse il collo
con un braccio e lo baciò ancora ed ancora, sentendolo
ridere contro
le sue labbra.
“Cosa?”domandò.
“Nulla.
Mi piace
quando mi baci.”ammise Wilson.
Posò
la fronte
contro la sua, respirando piano.
“Aspetti
con me
la mezzanotte?”mormorò, di nuovo agitato.
Il
sesso era stato
una parentesi piacevolissima, ma ora sentiva di nuovo il peso di quel
giorno.
“Sì.
E dopo
stasera col cavolo che ti lascio morire!”
Attesero
l'alba del
giorno dopo, abbracciati, fissandosi in viso.
“Se
mi
dovesse...”
“Non
voglio...”
“Ti
prego,
ascoltami!”
Wilson
gli premette
una mano sulla bocca ed House ne approfittò per mordergli
piano le
dita.
“Se
dovessi
morire, se...quando arriverà la mia ora, voglio stare con
te.
Voglio...” Gli sfiorò le labbra “Vedere
te come ultima persona.”
House
sentì una
stretta al cuore, violenta.
Fece
per parlare,
ma per la prima volta non seppe cosa dire.
Si
limitò a
cingergli il corpo con un braccio e stringerlo a sé.
Fu solo
dopo la
mezzanotte che Wilson tirò un breve sospiro di sollievo.
Aveva
dato
importanza a quel momento e si sentiva stranamente eccitato nel
sapere che c'erano altri giorni oltre quello della scadenza.
Abbracciò
House,
sorridendo e s'addormentò contro il suo petto.
“Quindi,
vuoi
lavorare qui?”
Lily
alzò un
sopracciglio, guardando House.
Lo
conosceva di
fama, come una persona molto irritante e certamente geniale che era
sempre accanto al suo amico.
Soprattutto
di
recente.
“Già.
Sono un
medico.”
“Cosa
succede?”
Johnson
s'avvicinò
al banco informazioni passando lo sguardo dalla sua impiegata ad
House.
“Signor
Collins...”
“Vuole
lavorare
qui.”spiegò Lily.
“Qui?”
“Sì,
qui. Non
era difficile da capire.”sbottò House.
Come
mai era così
difficile trovare un lavoro lì?
Sarebbe
stato
l'ideale! Viveva anche lì!
“Parliamone.”
House
lanciò
un'occhiata al cielo e seguì Johnson lungo il corridoio
verso il
giardino.
Il
dottore
dispensava sorrisi a tutti, chiedendo informazioni ad impiegati e
pazienti.
“Perché
vuole
lavorare qui?”
“Devo
pagare le
spese delle cure di Wilson.”
Erano
mesi che
vivevano giorno per giorno senza pensare a trovare un lavoro.
Ed
House non
avrebbe permesso a Wilson di lavorare.
Non
nelle sue
condizioni.
“E
cosa vorrebbe
fare?”
“Sono
un medico.”
Johnson
lo
guardava, divertito.
Aveva
una luce nel
suo sguardo che insospettì House.
“So
chi è. La
cosa che mi domando, prima di darle qualsiasi lavoro, è
perché?”
House
s'incupì.
Perché?
“So
chi è”?
Ma di
cosa...
“Cosa
intende?”
Che
sapesse davvero
chi era?
“Perché
un
medico geniale come lei ha deciso di buttare la sua vita e tutta la
sua ventennale e più carriera per fuggire qui in Giamaica?
House,
non sono un idiota. So che non esiste nessun Richard Collins, anche
se i suoi dati sono stati inseriti nei database e sembra tutto nella
norma.”
House
strinse il
bastone con forza.
Johnson
sapeva.
Ed ora?
“Qualsiasi
cosa abbia fatto, a meno che non esista un mandato di cattura
internazionale, qui non importa. Lei ha la fedina pulita.”
“Solo
vandalismo.”
House
fece girare
il bastone.
“Come
sa chi
sono?”
Johnson
rise e tirò
fuori dalla tasca un pezzo di giornale.
“Glielo
volevo
mostrare, prima o poi. Ma speravo che venisse da me a dirmi tutto.
Speranza inutile, devo ammettere. Ma speravo che ci fosse fiducia tra
colleghi.”
“Io
non mi fido
di nessuno.”
House
aprì il
foglio, rivelando un articolo di giornale, un po' ingiallito.
Era un
articolo su
di lui, interamente dedicato a lui, alla sua carriera ed alla sua
morte.
“E'
uscito appena
lei è “morto” e l'ho conservato, anche
se non ricordo il
perché.”
“Lo
dirà a
qualcuno?”
House
chiuse il
foglio.
Non
aveva voglia di
sentire cosa gli altri avevano da dire su di lui.
Sicuramente
cose
sdolcinate come ogni volta che qualche genio moriva.
“Assolutamente
no. Altrimenti inizierebbero a lottare per avere il famoso genio
House nel loro ospedale.”
“Lo
sa? Ed ora?”
“E'
strano, vero?
Non credevo di essere famoso anche qui in Giamaica!”
House
ghignò.
“Sto
parlando sul
serio. Ed ora che si fa?”
House
lo guardò,
continuando a girare le omelette in padella.
“Cosa
si fa?”
“House!
Se lo
dice alla polizia? Se ti arrestano? Se...”
“Mi
arrestano per
essermi finto morto? Credo che la polizia abbia di meglio da fare.
Johnson ha promesso di non dire nulla a nessuno.”
“E
tu ti fidi?
Tu?”
House
scodellò il
cibo nei piatti.
Wilson
lo fissava,
agitato.
“Senti,
non credo
mi tradirà.”ammise.
Non
sapeva perché,
ma lo sentiva.
“E
se dovesse
farlo?”
“Ci
penseremo
allora. Mangia.”lo incitò.
“Perché
hai
cercato un lavoro?”
Wilson
osservò il
pranzo, senza toccarlo.
Aveva
la nausea.
Era
terrorizzato
per la faccenda di Johnson.
Non
aveva
intenzione di perdere House e se qualcuno avesse scoperto che lui era
ancora vivo forse avrebbe potuto sbatterlo dritto in prigione ed
allontanarlo da lui.
“Sei
in vena di
terzo grado?”
“Voglio
sapere.
Abbiamo dei soldi da parte e...”
“Non
dureranno
per sempre, le cure sono costose e mi annoiavo a non fare
nulla.”
“Le
cure le pago
io, House.”
“Certo.”
Cadde
il silenzio e
Wilson alzò lo sguardo su di lui, vedendolo impegnato a
finire il
pranzo e non rivolgergli lo sguardo.
“House...”
“Cosa?”
Wilson
lo fissò
incredulo.
Quello
sguardo
noncurante non lo stava incantando affatto.
House
stava
mentendo.
“Hai
pagato tu le
mie cure.”
House
lo guardò.
“Stai
vaneggiando.”
“Ciò
spiega
perché hai trovato lavoro qui e perché parlavi di
cure costose!”
House
alzò gli
occhi al cielo, posando le gambe sul tavolo, accanto al viso di
Wilson, che le scostò, irritato.
“Dimmi
la
verità.”
“Non
mi credi.”
“Non
ti credo
perché non è vero! House...”
“D'accordo.
Le ho
pagate io.”
Wilson
tacque di
colpo.
L'aveva
davvero
fatto?
“House,
sono
40.000 dollari, ma sei impazzito? Perché l'hai
fatto?”
Era
sconvolto!
Erano tantissimi soldi, come mai aveva deciso di pagare lui?
House
scrollò le
spalle.
“Avevi
bisogno di
aiuto.”
“Non
dei tuoi
soldi! Ti avevo chiesto di andare a fare il versamento in banca sul
conto della clinica, non di pagare con i tuoi soldi!”
Wilson
sbatté il
piatto sul lavello, arrabbiato.
“Si
può sapere
come mai sei così arrabbiato? Tu paghi le cose per me
continuamente
e...”
“Non
voglio che
tu....”
“Che
io cosa?
Stai facendo una questione esagerata su...”
“Non
voglio che
ti occupi di me.”
House
lo guardò.
“Non
voglio che
tu impieghi tutta la tua vita a pulire il mio vomito od a sostenermi
mentre ho un mancamento od a scopare con me
perché...”
Wilson
si portò
una mano al viso, tacendo.
“Sei
impazzito?”
“Stiamo
andando
troppo oltre, House. Io...non avrei dovuto coinvolgerti. Tu mi piaci
e questo complica tutto. Complica tutto perché io posso
rimanere
ferito e mi sta bene.
Ma so
che morirò e
sarai tu a dover raccogliere i cocci.”
Wilson
stava
tremando.
House
lo fissò per
un lungo momento, senza sapere cosa fare.
“Cos'è
successo?”
“Io...non...”
“Non
la pensavi
così in questi giorni ed oggi sei irritabile ed infastidito.
Non
credo che tu sia in quel periodo del mese per ovvi...”
“Jodie
è morta
oggi.”
House
lo guardò,
non capendo.
Jodie?
“Ti
ricordi
quella ragazza all'incirca di vent'anni che stava facendo la cura per
la leucemia? Alta, carina, si sedeva accanto a me ed a John nelle
sedute?”
“Ah.
Wilson
può...”
“Stava
andando in
remissione, House. Lei...stava migliorando e...è la stessa
cosa che
capiterà anche a me.”
“Non
sapevo che
tu sapessi leggere il futuro. Dev'essere un effetto colla...”
“Puoi
essere
serio per un fottuto momento?”urlò Wilson di
colpo, cogliendo di
sorpresa House.
“Posso
morire,
House!”
“Tutti
noi
moriamo, Wilson. Fa parte della vita e...”
“Ma
non sanno
quando. Io lo so. Io so che finirò per morire qui e non
voglio
trascinare anche te.”
“Credo
che sia
ormai troppo tardi, non pensi?”
“No.
Devi...devi
andare via.”
Cadde
il silenzio.
House
aggrottò le
sopracciglia.
“Ascolta.
Capisco
che tu ti stia lasciando influenzare da ciò che è
successo alla tua
amica e...”
“No.
Ci ho
pensato....”
“Oggi.
Ci hai
pensato solo oggi ed hai iniziato a dare di matto sulle tue
probabilità di morire e...”
“Voglio
che tu te
ne vada. Ho già distrutto la tua vita coinvolgendoti in
questa
situazione, spingendoti a fingerti morto per seguirmi ovunque volessi
andare. Non voglio averti sulla coscienza, perché so che
faresti
qualcosa di molto stupido alla mia morte. Come bere fino a stare male
o drogarti o peggio e non voglio.
House,
ti prego.”
“Mi
vuoi davvero
mandare via?”
House
era
incredulo.
Il viso
di Wilson
era contratto dal dolore, le mani strette a pugno.
“No.
Non voglio.
Non...vorrei che tu potessi rimanere accanto a me, che mi stringessi
la notte quando non mi sento bene, che mi prendessi in giro quando
sono troppo pessimista e che stessi con me anche quando sto bene e
credo di poter fare tutto.
Ma non
posso.
Non...non posso permettere che soffra anche tu.”
“Credi
che non
stia già succedendo?”
House
ringhiò.
Pensava
davvero che
non soffriva quando lo sentiva urlare la notte, o quando non riusciva
a mandar giù neanche un boccone senza vomitare, oppure
quando lo
vedeva singhiozzare in bagno, preso dalla paura e dallo sconforto?
“Appunto
per
questo devi...”
“Prendo
io le mie
decisioni, Wilson.”disse duramente. “Non sei stato
tu a
costringermi a fuggire via.”
“Ah,
no?”
“Forse
la tua
situazione ha spinto la cosa, ma non avevo la minima intenzione di
passare sei mesi in carcere. E di certo non mi fa piacere pulire il
tuo vomito o sentirti singhiozzare o svenire.
Ma sei
il mio
migliore amico e tu hai fatto questo ed anche di più quando
mi sono
cacciato nei guai o stavo male. Te lo devo.”
“Sei
qui perché
me lo devi, quindi?”
House
sbuffò.
Ma che
aveva oggi?
S'avvicinò
a lui
in modo da avere i loro visi vicinissimi.
“Sono
qui perché
tengo a te. E non voglio che tu muoia.”
“Hai
detto tu che
tutti muoiono.”
“Già.
Ed ancora
non possiedo la capacità di farti vivere in eterno. Ma non
permetterò che tu muoia oggi. O domani. Magari tra vent'anni
o
trenta quando avrai sposato la tua settima od ottava moglie e sarai
circondato da figli e nipoti.”
“No.”
House
sussultò.
“No?”
“Non
voglio
mogli, figli e nipoti.”
“Era
quello che
ti aspettavi di avere alla tua morte.”
“Voglio
te,
House.”
House
abbozzò un
ghigno.
“Prima
mi vuoi
cacciare via ed ora mi vuoi? Sei...”
House
tacque perché
Wilson gli aveva posato una mano sul collo e l'aveva attirato a
sé
per baciarlo.
Sentì
la sua bocca
tremante contro la sua e gli cinge la vita, puntellandosi sulla gamba
buona per abbracciarlo.
“Sta'
calmo.
Andrà tutto bene.”mormorò quando Wilson
posò il capo sulla sua
spalla, tremante.
“Scusami.
Io...”
House
non disse
nulla.
Lasciò
che Wilson
lo stringesse a sé, il panico che assediava i loro corpi
come bile
bollente e chiuse gli occhi.
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Capitolo 6 *** Chapter VI ***
Lavorare
in clinica
era molto diverso dal lavorare al Princeton.
House
divideva il
suo ufficio con altri due dottori, un tale Bier ed una tale Ripert,
ma non s'era mai realmente interessato ad interagire con loro.
Non
aveva una sua
squadra e le persone che andavano lì sapevano già
cosa avevano,
quindi non c'era nessun tipo di puzzle.
Principalmente
era
come fare sempre ambulatorio e la cosa lo annoiava terribilmente.
Non
c'erano dei
veri e propri casi da seguire, ma una truppa di malati da assistere.
Era
noioso, ma non
aveva altra scelta.
Non
aveva
intenzione di andare a cercare un lavoro nel momento in cui Wilson
stava male un giorno sì ed uno no.
Era
difficile
prevedere gli attacchi del suo amico.
C'erano
momenti in
cui Wilson si sentiva in grado di fare tutto e lo trascinava nelle
situazioni più folli.
Surf,
vedere la
barriera corallina, usare droghe.
House
aveva visto
per la prima volta il suo migliore amico alle prese con gli effetti
delle droghe e Wilson non reggeva affatto bene.
House
aveva
impedito che si gettasse dalla terrazza perché era convinto
di
volare, l'aveva fermato dal rimorchiare una prostituta e l'aveva
chiuso in camera dove Wilson aveva smaltito la droga ridendo come un
ossesso.
In
altri momenti
Wilson era così fragile che non riusciva neanche ad alzarsi
dal
letto.
Come in
quell'istante.
House
sedette sul
bordo del letto, osservando l'amico.
James
Wilson era
rintanato sotto le coperte, raggomitolato su un fianco, stringendo le
labbra.
La mano
di House
salì automaticamente ai suoi capelli.
“Rimango
qui.”decise.
“N-no.
H-hai u-un
l-lav...”
“Al
diavolo il
lavoro! Hai bisogno di aiuto!”
“B-bet...”
House
lanciò
un'occhiata a Beth, che stava preparando l'occorrente per il ciclo di
cura di Wilson.
Era una
giovane
infermiera che era sempre molto gentile con Wilson.
E che
gli faceva
gli occhi dolci.
Per
quanto questo
gli provocasse una bizzarra stretta allo stomaco, capì che
era in
buone mani.
Ma
ancora non se la
sentiva di lasciarlo da solo.
“V-vai.”
Wilson
gli strinse
la mano, abbozzando un piccolo sorriso.
House
imprecò
mentalmente.
Fu
spontaneo
chinarsi su di lui e baciarlo sulla fronte.
Poté
quasi sentire
il calore sulle sue guance e quando lo guardò era arrossito.
“Torno
appena
posso.”promise.
“Andiamo,
Jimmy.
Andiamo, non...”
“Non
mi va.”
“Sai
che non sono
il tipo che fa questo tipo di cose, potresti facilitarmi il
compito?”
House
tese il
cucchiaio verso la bocca di Wilson, che, sbuffando, mangiò
un po' di
yogurt.
“Ti
senti
meglio?”
“Sa
di vomito.”
House
alzò gli
occhi al cielo.
“Sei
tu che hai
vomitato tutto il giorno. Devi toglierti il brutto sapore
da...”
House
non finì la
frase che Wilson saltò giù dal letto per correre
in bagno a dare di
stomaco.
Alzò
gli occhi al
cielo ed aiutò James a stendersi sul letto.
Lo
strinse a sé,
piano, carezzandogli i capelli madidi di sudore.
Wilson
tremava.
“Oggi
è stato
brutto.”sussurrò.
“Mi
dispiace non
esserci stato.”
“Sei
qui ora. Non
mi devi fare da baby-sitter. So vomitare da solo.”
House
ridacchiò.
Erano
semi-stesi
sul letto di Wilson, che teneva il capo posato sulle ginocchia di
House.
Wilson
gli strinse
una mano, gli occhi chiusi.
“Johnson
ha detto
che la cura sta facendo peggiorare il mio fegato.”
“Era
qualcosa che
già sapevamo.”
“Ha
detto che
dovrebbe mancare pochissimo al collasso.”
“E
ti ha detto
anche il giorno? Così evitiamo di programmare
qualcosa.”sbottò
acido.
“Non
prendertela
con lui.”
House
sospirò,
appoggiandosi alla testata del letto.
“Sono
arrabbiato,
Wilson, cosa dovrei fare?”
Wilson
chiuse gli
occhi e strinse più forte la sua mano.
“Mi
dispiace
averti coinvolto in questo casino.”
House
sbuffò.
“Se
è l'ora di
piagnistei inutili, dimmelo che vado a prendere una birra al bar
accanto alla clinica.”
Successe
all'improvviso, quando meno se l'aspettavano.
Wilson
aveva
passato il pomeriggio insieme ai bambini della clinica, aiutando le
infermiere a gestirli e trascinando anche House nel giocare con loro.
“Ti
sei fatto
battere da una bambina di cinque anni, sai?”
Wilson
rise.
“Stavo
bluffando.”
“House,
non stai
bluffando.”
“Era
un gioco
stupido.”
“Era
nascondino.”rise di nuovo.
Wilson
gli passò
un braccio attorno alla vita, camminando in corridoio.
Era
novembre
inoltrato e faceva parecchio freddo.
Si
strinse ancora
di più nel maglione e House se ne rese conto.
“Tutto
bene?”
“Ho
solo freddo.”
House
lo guardò,
malizioso e lo tirò a sé, appoggiandosi al muro.
Posò
le labbra
contro le sue, baciandolo piano ed affondando le mani nei suoi
capelli.
Wilson
sentì il
respiro farsi corto e ricambiò il bacio, stuzzicando il suo
collo
e...
“Ah...”
Wilson
gemette
all'improvviso, artigliandogli il braccio.
House
sussultò.
“Wilson...cos...
Si
chinò su di
lui, stringendogli le spalle, mentre Wilson digrignava i denti,
sgranando gli occhi per la sorpresa.
Era...non...non
ora...non...
“Ehi!
Ehi...sta'
calmo...è...”
House
s'interruppe
quando Wilson s'accasciò in avanti, vomitando sangue.
“Allora?
Come
sta?”
Il
bastone di House
bloccò il passaggio di Johnson, che sussultò,
colto di sorpresa.
“House...”
“Wilson.
Come
sta?”disse scandendo le parole.
Era da
oltre un'ora
che aspettava fuori dalla sua stanza e l'attesa l'aveva fatto
impazzire.
Johnson
aveva
l'aria esausta, ma House non gli badò.
“Allora?”incalzò.
“Purtroppo
ha una
grave insufficienza epatica, House. Lo dobbiamo ricoverare ed
inserirlo nella lista trapianti.”
House
annuì,
sentendo il cuore battere forte.
“Posso
entrare?”
Johnson
lo lasciò
passare.
Wilson
giaceva sul
letto, circondato ancora una volta da macchinari e tubi.
Era
cereo.
Aveva
gli occhi
socchiusi.
House
sedette sul
bordo del letto.
“Sei
sveglio?”
Wilson
aprì piano
gli occhi.
Erano
leggermente
giallognoli.
Wilson
abbozzò un
sorriso.
“C-ciao.”
“Ciao.
Come ti
senti? Senti dolore?”
“N-no.
S-sono...s-stanco.”
“Riposati.”
House
posò una
mano sulla sua e strinse piano.
Wilson
la strinse
di rimando.
“R-resta.”
House
annuì.
Si
stese su un
fianco accanto a lui e gli cinse la vita, lasciando che Wilson si
stringesse a lui, sotto le coperte.
“G-grazie.”
House
non rispose e
lo baciò sulla fronte, abbracciandolo più stretto.
“Scommetto
che mi
stai facendo vincere di proposito.”
“Non
stai così
male da farmi fare questo.”
Wilson
rise piano.
“Sono
giallo.”
“Non
ovunque. E
poi ti dona.”
“Idiota.”
Stavolta
toccò ad
House ridere, prendendogli di mano le carte e sdraiandosi accanto a
lui.
Wilson
sentì le
mani iniziare a tremargli e le strinse forte per cessare il tremore.
House
non disse
nulla, osservandolo di sottecchi, ma tese la mano e la posò
sulle
sue, stringendole.
“E'
una brutta
sensazione.”mormorò Wilson, appoggiando il capo
sulla sua spalla.
L'altro
annuì
piano.
Detestava
vederlo
stare male...
“Aspetta...avevo
preso una cosa per te.”
House
rovistò nel
suo zaino, tirando fuori un pacco di...Oreo.
Wilson
rise.
“Li
ho comprati
durante la pausa pranzo, mentre dormivi.”
Glieli
tese.
“Grazie,
House.”
Wilson
s'appoggiò
meglio a lui, mangiucchiando, gli occhi chiusi.
Il
dolore lo
investiva ad ondate, stavolta localizzato nel ventre, in
corrispondenza del fegato.
Era
ricoverato da
tre giorni, giorni in cui non aveva fatto altro che urlare dal dolore
e vomitare sangue.
Ora era
così
intontito dagli antidolorifici che non sentiva assolutamente nulla.
Il
dolore era così
forte da impedirgli di respirare.
Ansimò,
artigliando il lenzuolo, ma non servì a nulla.
Sentiva
House
gridare qualcosa, avvertiva le sue mani sulla fronte, tra i capelli,
spronandolo a calmarsi, ma non ci riusciva.
Riusciva
solo a
stare male.
Vomitò
oltre il
bordo del letto, sentendo in bocca il sapore del sangue.
House
gli posò una
mano sulla fronte, sorreggendolo.
Era
fresca, mentre
Wilson si sentiva bruciare.
Il
diagnosta gli
asciugò le labbra, avvolgendolo nella coperta, mentre Wilson
si
accasciava tra le sue braccia, con un gemito, tremando.
“Wilson...ehi...”
Non
sapeva cosa
dire.
Rimase
a stringerlo
forte, impotente, sentendolo gemere dal dolore.
“Non
possiamo
fare nulla? Niente?”
“House,
lo stiamo
riempiendo di antidolorifici. Non possiamo fare altro. Dobbiamo solo
sperare di trovare il fegato compatibile in tempo. Il problema
è che
il suo gruppo sanguigno è 0 positivo ed è
raro.”
“Morirà
se non
lo troviamo in tempo?”
Johnson
osservò il
dottore.
House
era
visibilmente esausto.
La
barba cresciuta,
le occhiaie, lo sguardo stanco e le mani strette a pugno.
“Mi
dispiace.”si
sentì dire, mentre House andava via furioso, sbattendo la
porta alle
sue spalle.
Quando
House entrò
nella stanza, Wilson giaceva su un fianco, gli occhi socchiusi.
“Mi
resta poco,
non è vero?”
House
sentì il
cuore serrato in una morsa.
Avrebbe
voluto
crollare, ma non poteva.
Non
davanti a
Wilson.
Si
distese accanto
a lui, cingendogli il corpo con un braccio.
“Starai
bene. Tu
sei forte.”mormorò contro il suo orecchio.
Wilson
non rispose
alla stretta.
“So
cosa accade
quando si arriva al punto in cui sono io.”
“Non
sei in
nessun punto.”
“Morirò,
House.
Il problema è quando...”
House
rafforzò la
stretta attorno al suo corpo.
“No.
Troveranno
un fegato.”
“Non
abbastanza
in tempo...”
La voce
di Wilson
s'incrinò e lui appoggiò il volto contro la
spalla di House,
tremando.
“Mi
dispiace...”
“Di
cosa? Non è
colpa tua.”
House
posò una
mano tra i suoi capelli.
Erano
molto più
radi di prima.
Wilson
deglutì a
vuoto, mentre sentiva le lacrime inondargli gli occhi.
“Stava
andando
tutto bene...tra noi.”
“Ssh...”
House
non voleva
che parlasse.
Suonava
molto come
un addio.
E
sarebbe bastato
pochissimo per farlo crollare.
“Devi
lasciarmi
parlare.”
Wilson
posò una
mano sulla sua bocca, occhi nei suoi.
Il
diagnosta annuì,
piano.
“Io
non
voglio...non voglio morire. Ma qualunque cosa accada ti sarò
sempre
grato per essermi stato accanto e per esserti preso cura di me. Non
ce l'avrei fatta altrimenti. Credo che sarei crollato subito senza il
tuo aiuto.”
House
posò la
fronte contro la sua.
Sentiva
il respiro
di Wilson contro il suo viso e lo strinse a sé, stringendolo
per il
camice.
Wilson
si
raggomitolò contro il suo petto, gli occhi pieni di lacrime.
“Cerca
di
resistere.”mormorò House.
Wilson
annuì
contro il suo petto, mentre il dolore veniva lenito da massicce dosi
di calmanti.
“Ti
amo, lo sai,
vero?”
House
sussultò.
Ti amo?
Era la
prima volta
che Wilson glielo diceva.
L'amava?
Davvero?
Gli
carezzò i
capelli.
“Voglio
dirtelo
prima che sia troppo tardi. Credo davvero di amarti, House. E non lo
dico perché sto morendo, ma perché...hai fatto
tanto per me. Sei
sempre stato la mia roccia.”
House
scosse il
capo.
“Eri
tu che mi
aiutavi, non io. Io ero quello che causava problemi, Jimmy. Credo che
la nostra amicizia ti abbia fatto più male che bene. In
questo
momento avresti dovuto essere con la tua famiglia, circondato dalle
persone che ami, non in Giamaica, lontano da tutti e con un drogato
accanto.”
“Non
dire
sciocchezze. Se tu non mi avessi spronato ad affrontare la cura,
sarei morto due mesi fa.”
“Questa
stessa
cura che ora ti ucciderà.”
Wilson
non rispose
subito.
Respirò
profondamente.
“La
nostra
amicizia è stata la cosa più faticosa,
impossibile e difficile
della mia vita, House. Mi sono cacciato nei guai, ti ho visto
rischiare la vita un sacco di volte, andare in terapia, poi in
carcere, combinare tutti quei guai e trascinare anche me, qualche
volta. Sei un egoista, cinico e bastardo.
Ma non
rinuncerei
ad un solo giorno. Tu ami profondamente le persone che ti stanno a
cuore e le proteggi sempre.
Con te
la vita è
una follia, divertente, imprevedibile e mi piace stare con te. Mi
piace sapere che ci sei quando ho bisogno di te. E...so che starai
male quando morirò. Non voglio che tu soffra,
House.”
“Non
pensare a
me.”
Wilson
scosse il
capo.
“Io
mi prendo
sempre cura di te. Non posso smettere di pensarci.”
Posò
le labbra
contro le sue, baciandolo piano e lentamente.
Sciolse
un secondo
l'abbraccio per prendere un pacchettino dal comodino e lo tese ad
House.
“Cosa
c'è?”
“Le
ho prese
qualche tempo fa, temendo di morire tra atroci sofferenze. Ma non
sono per me.”
House
fece piovere
sul palmo della mano delle pillole gialle.
Fece
per
assaggiarne una, ma Wilson scosse la testa.
“E'
un veleno.
Tyrol. È estratto da un fiore che cresce qui. Me l'ha dato
Beth..”
“L'infermiera?
Ti
ha dato un veleno per suicidarti?”esclamò House,
alzando la voce,
incredulo.
Wilson
gli tappò
la bocca.
“Non
gridare.”
Wilson
chiuse il
sacchetto.
“Wilson...”
“Non
voglio
farlo. So che quando arriverà la mia ora sarò
così imbottito di
farmaci che mi addormenterò e basta. Johnson me l'ha
promesso.”
“E
questo per chi
è?”
“Per
te.”
House
sgranò gli
occhi.
“C-cosa...”
Wilson
deglutì a
vuoto e lo guardò.
“Mi
hai detto che
non volevi vivere senza di me. Me l'hai detto più di una
volta.”
House
prese il
sacchetto che Wilson gli tendeva.
“Vuoi
davvero che
muoia?”
“No!
No!
Assolutamente no!”
Wilson
gli prese il
viso tra le mani e lo strinse a sé.
“No...no.
No. No.
No. No.”continuò a ripetere, sfiorandogli le
guance.
House
notò come le
sue mani fossero scheletriche.
“Allora
perché?”
House
era confuso.
“Perché
so che
ti faresti del male. So che finiresti per farti davvero del male, che
finiresti per ucciderti se...”
“Senza
di te?”
“Io...”
Wilson
stava
piangendo.
“Jimmy...non...non
piangere...non mi farò del male. Te lo...”
“No,
non
prometterlo. House, ti ho visto passare dei momenti terribili in
questi anni. Ed io c'ero sempre. Non voglio che tu resti solo. Non
voglio pensare a cosa ti potrebbe accadere senza di me. So che hai
bisogno di me. E va bene. Va benissimo. Perché anche io ho
bisogno
di te. Ma se proprio devi ucciderti, se non ce la fai a
continuare...non voglio che tu soffra.”
“Per
questo hai
preso il veleno.”
House
deglutì a
vuoto.
Era un
pensiero...assurdo, ma capiva la logica di Wilson.
Ce
l'avrebbe fatta
senza di lui? Sarebbe sopravvissuto? A che pro?
Non
aveva nessuno e
niente cui tornare.
Non
aveva niente se
non lui.
“Ho
solo te.”si
rese conto e Wilson annuì, piangendo.
House
gli prese il
viso tra le mani e lo baciò sugli occhi, avvertendo il
sapore salato
delle lacrime.
“Grazie.”sussurrò.
“Io
voglio che tu
stia bene. Che tu sia felice. Ma se non ce la fai, io...”
“Lo
so. Ho
capito.”
House
lo abbracciò
stretto, facendolo stendere sul letto ed accarezzandogli il capelli.
Wilson
crollò tra
le sue braccia, le dita intrecciate con le sue.
Gregory
House gli
carezzava i capelli, un braccio attorno alla sua vita.
Sentiva
il respiro
lieve del compagno sul suo collo.
James
lottava per
non chiudere gli occhi.
“Non
voglio...”gemette.
House
serrò gli
occhi, stringendolo un po'.
“Starai
bene.”
“House,
non
voglio. Ti prego...non voglio andare via...”
Wilson
sentì il
panico invaderlo ed aprì gli occhi per incrociare quelli di
House.
Gli
avevano dato
sempre conforto e sicurezza, ma stavolta vi lesse la paura e la
rassegnazione.
House
non avrebbe
potuto salvarlo quella volta.
Quando
gli avevano
detto che per il suo amico non c'era nulla da fare, se non aspettare
e pregare in un miracolo, House aveva urlato e spaccato ogni cosa gli
capitasse a tiro.
Wilson
non era
presente, perché ricoverato, ma gliel'aveva raccontato Beth
con un
sorriso triste sul volto.
Gli
aveva detto che
House aveva iniziato a devastare l'ufficio di Johnson, resistendo ai
suoi tentativi di calmarlo.
“Era
sconvolto,
caro. Non l'ho mai visto così.”gli aveva detto
Beth.
Wilson
non l'aveva
mai visto in quel modo.
Quando
House gli
aveva spiegato la situazione, la voce era leggermente incrinata, ma
aveva tenuto duro per lui.
Solo
per lui.
Wilson
s'era poi
accorto delle sue lacrime, mentre s'erano addormentati abbracciati.
Ed ora
lo teneva
stretto a sé, cercando di calmarlo.
“Credi
che ci sia
qualcosa?”
House
guardò
Wilson.
“Che
cosa?”
“Non
lo so...so
che non credi nella vita dopo la morte, ma...”
“Non
è detto che
tutto ciò in cui credo sia vero.”
No,
House non
credeva in cose come il Paradiso o l'Inferno...ma Wilson stava male.
Aveva
bisogno di
sapere che sarebbe andato tutto bene.
Gli
cinse la vita e
posò le labbra contro le sue per un attimo.
“Scommetto
che
esiste un posto dove andrai, in cui potrai avere ciò che
vuoi, fare
ciò che vuoi e stare bene.”
Wilson
rise, piano.
“Lo
stai dicendo
solo perché sto morendo.”
House
sentì
qualcosa artigliargli il cuore.
Rafforzò
la
stretta e Wilson lo lasciò fare, raggomitolandosi contro il
suo
petto e sentendo il cuore di House battere forte.
“HOUSE!”
House
sussultò
quando sentì la voce di Johnson chiamarlo.
Il
medico irruppe
nella sala, col fiatone.
“Ma
cosa...”
“Fegato.
Abbiamo...”ansimò. “trovato il fegato
compatibile.”
House
gli lanciò
una rapida occhiata, poi posò lo sguardo su Wilson.
Era
ancora stretto
a lui, gli occhi chiusi.
“Non
supererà
l'intervento e lo sai.”disse, cercando di mantenere la voce
ferma.
Era una
flebile
speranza, ma Wilson era debolissimo e sarebbe morto, molto
probabilmente.
“Potrebbe.”
“Non
ho
intenzione di lasciarlo morire sotto...”
“Fatelo.”
La voce
di Wilson
era fioca, ma determinata.
House
lo guardò,
incrociando i suoi occhi marroni.
Erano
stanchi,
esausti e velati di lacrime.
House
deglutì a
vuoto.
“James...”
“Fatelo.”
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Capitolo 7 *** Chapter VII ***
“NO!
NO! NO! NO!
NO!”
House
afferrò la
tazza sul tavolo e la mandò ad infrangersi contro il muro.
Vide i
pezzi di
ceramica unirsi agli altri frammenti delle cose che aveva distrutto,
ma non se ne curò.
Imprecò
quando un
pezzo di vetro gli ferì il palmo della mano ed il dolore gli
annebbiò la mente ancora di più.
Cadde
in ginocchio,
urlando ancora, ma senza sentire cosa stava dicendo.
Sentì
le lacrime
calde rigargli le guance, senza neanche rendersi conto di stare
piangendo.
“Si
riprenderà.”
“Non
lo sai! Non
sai un accidenti...”
“House...”
“COSA?
HOUSE...COSA?”
Everett
Johnson
chiuse gli occhi. Non sapeva cosa dire.
House
era
visibilmente distrutto.
I
capelli sale e
pepe erano in disordine, un po' troppo cresciuti, le occhiaie sul
volto, gli occhi lucidi.
James
Wilson era
entrato in arresto cardiorespiratorio, subito dopo l'operazione ed
era in coma da oltre tre giorni.
House
serrò gli
occhi, resistendo all'impulso di prendere a pugni Johnson.
Se
l'avessero
cacciato dalla clinica non avrebbe potuto stare con Wilson...
“Ti
avevo detto
che era rischioso. TI AVEVO DETTO CHE ERA MEGLIO
EVITARE!”urlò.
“Wilson
l'ha
accettato. Spettava a lui decidere...”
“E
VOLEVA
QUESTO?”
“House,
calmati,
ti prego. Lui...può ancora...”
“Ancora
cosa...COSA, JOHNSON? STA MORENDO! E' IN COMA! COME PENSI POSSA STARE
MEGLIO?”
Le dita
gli
sfioravano piano la fronte, i capelli castani, gli occhi chiusi.
Wilson
respirava
affannosamente nel respiratore, le mani strette a pugno anche nel
sonno.
Se
quello si poteva
chiamare sonno.
House
cercò di
allentare la stretta dei pugni e gli sfiorò le dita,
prendendogli le
mani tra le sue.
“Sai...speravo
che davvero potevi farcela stavolta.”mormorò
più a sé stesso che
a Wilson che, sapeva, non poteva sentirlo.
S'era
quasi...
“abituato” all'idea di perderlo prima
dell'operazione.
L'aveva
tenuto tra
le sue braccia, cullando, cercando di tranquillizzarlo, di guidarlo
verso un luogo senza dolore, senza nulla.
L'operazione
aveva
riacceso le sue speranze tanto rapidamente quanto le aveva spente.
Ricordava
lo
sguardo di Johnson quando era uscito dalla sala operatoria, macchiato
del sangue di Wilson sul camice, dicendo che era entrato in arresto
cardio-respiratorio, che era in coma, che il suo corpo era
così
stanco che non ce l'avrebbe fatta a combattere ancora a lungo.
La
piccola speranza
di vederlo sano e salvo era svanita.
Gli
sfiorò le
dita, gli occhi lucidi di lacrime.
Sentiva
le forze
abbandonarlo.
Era
stanco di
lottare, stanco di afferrarlo con tutte le sue forze per tenerlo con
sé, per poi vederselo strappare via con violenza, un'altra
volta.
Tentò
di
trattenere le lacrime, ma era come contrastare lo straripamento di un
fiume in piena con un ombrello, per di più rotto.
Appoggiò
il viso
contro il suo braccio, sul lenzuolo e scoppiò in singhiozzi.
Se
Johnson l'aveva
visto o meno, non avrebbe saputo dirlo, ma entrò nella
stanza dopo
un po', quando ormai House cercava di controllarsi.
“Hai
bisogno di
qualcosa? Sei qui da ore.”
Il
diagnosta scosse
il capo.
“No,
non...non lo
lascio.”
Wilson
aprì piano
gli occhi e sussultò ritrovandosi sdraiato su una spiaggia.
Dov'era?
Com'era
finito lì?
L'ultima
cosa che
ricordava era che l'avevano sedato per l'operazione, per il trapianto
al fegato.
Ricordava
lo
sguardo preoccupato di House che gli stringeva la mano, cercando di
tranquillizzarlo quando, lo sapevano entrambi, era spaventato anche
lui.
Dov'era
ora?
“Una
spiaggia.
Perché, lo posso chiedere?”
Wilson
sussultò
sentendo la sua voce e si voltò.
Lei era
lì, con lo
stesso camice di quando era morta.
“Amber...”
“Non
è
un'allucinazione, se è quello che stai pensando. Sono reale.
Più o
meno. È difficile da spiegare.”
Wilson
si mise
lentamente in piedi.
“Sono...morto?”
“Non
ancora. Sei
in coma.”
Wilson
guardò il
suo corpo, guardò intorno, guardò lei.
Sembrava
tutto così
reale.
“Sta
accadendo
davvero o nella mia testa?”
“Che
differenza
fa? Sono qui per aiutarti.”
“A
fare cosa?”
Era
incredibile
vederla.
Era
strano sapere
da lei che lui era in coma e che stava morendo.
“Dov'è
House?”chiese a bruciapelo.
“E'
nell'ospedale, accanto a te. Credo che si sia addormentato.”
Lo
scenario cambiò
di colpo e lui si ritrovò nella stanza della clinica dove un
esausto
House dormiva con il capo posato sul materasso, su cui era
sdraiato...lui.
“E'
strano.”
Wilson
fece un
passo avanti, ma notò come tutto attorno a lui non era
affatto
solido.
Tese la
mano verso
una brocca, ma fu come attraversarla.
“Non
sei
realmente qui. Sei come...un fantasma, diciamo. Tra la vita e la
morte.”
“Non
è bello
saperlo.”
Wilson
osservò il
suo compagno.
Vide le
lacrime che
gli rigavano gli occhi, le mani che stringevano le sue.
“Greg...”
Tese la
mano per
sfiorarlo, ma fu come essere nebbia e nient'altro.
House
non si mosse
neppure al suo “tocco”.
“Non
può
sentirti.”disse lei, dolcemente.
Wilson
la vide
accanto al letto.
“Sono
in una
specie di limbo?”
“Diciamo
di sì.
Di solito, da quel che ho sentito, le persone che muoiono tendono a
rievocare un bel posto. Tu hai pensato a questa spiaggia. A questo
posto. Perché? Qui sei stato malissimo, hai sofferto, stai
morendo...”
Wilson
non disse
nulla.
Continuò
a fissare
intensamente House, nella vana speranza che lui si voltasse e lo
vedesse accanto a lui.
E poi?
Cosa
avrebbero fatto?
Se
stava davvero
morendo, non avrebbe potuto fare nulla, vero?
House
non aveva
potere sulla vita e sulla morte, anche se soleva vantarsi di
ciò.
“James...è
per
lui, vero? Per House?”
“Credo
di sì. Se
tutti tendono a rievocare un bel posto io ho pensato a questo
perché
qui l'ho amato. Ho amato ed amo Greg House.”
Si
voltò verso di
lei, con un sorriso triste sul volto.
“E'
strano dirlo
dinanzi a te.”
Lei
abbozzò un
sorriso di rimando.
“Sono
morta da 5
anni. Sei andato avanti. Non m'aspettavo con lui, ma col senno di poi
noi donne della tua vita avremmo dovuto capire chi era al primo posto
per te.”
“House
non...”
“Sì.
È sempre
stato al primo posto nella tua vita.”
Era
strano essere
lì.
Vedere
il via vai
di infermiere, di notti e giorni senza avvertire nessun cambiamento.
Wilson
era come se
non fosse realmente lì, era come nebbia, fumo, che poteva
disperdersi e girovagare per l'ospedale, per la spiaggia al solo suo
pensiero, ma che restava comunque legato a quel posto.
“Non
puoi
andartene di qui. Non puoi andare nel New Jersey a trovare i tuoi
amici, o genitori. Sei legato al tuo corpo.”
“Non
voglio
andarmene. Voglio restare qui.”
“Con
lui.”era
sottinteso, ma non ci fu bisogno di dirlo.
House
rimaneva
accanto a lui sempre.
Le
uniche volte in
cui s'assentava era per un veloce cambio d'abiti e per un frugale
pasto che qualche infermiera lo forzava a mandare giù.
Wilson
era convinto
che se l'avessero lasciato a sé stesso, House sarebbe
rimasto lì
giorni interi senza mangiare, bere o fare altro se non sperare in un
suo risveglio.
Non
l'aveva mai
visto in quelle condizioni.
“Cosa
accadrà?”
“Non
posso vedere
il futuro.”
La voce
di Amber
era dolce, comprensiva.
Wilson
coglieva il
suo sguardo preoccupato.
“Sei
qui
per...portarmi via, vero?”
Gliel'aveva
chiesto
altre volte, ma lei non aveva mai risposto.
“Sì.”disse
stavolta.
“Non
verrò da
nessuna parte.”disse, deciso.
Non
l'avrebbe
lasciato.
“Non
hai scelta.
Non puoi rimanere qui. Quando il tuo corpo smetterà del
tutto di
funzionare tu sarai costretto ad andartene.”
“Dove?
Andare
dove?”
Lei
sorrise
lentamente.
“Andrà
tutto
bene.”
“Non
esistono
cose come il Paradiso o l'Inferno. Sarà il nulla e basta. E
non
voglio.”
“Parli
come
House.”
“Forse
lui ha
ragione.”
“Non
è Dio.”
Wilson
annuì.
“Lo
so. Ma gli ho
affidato la mia vita e lui non mi deluderà, non
permetterà che
muoia.”
“Non
può fare
più nulla.”
“Il
signor Wilson
aveva affidato a lei la delega, House.”
Johnson
entrò
nella stanza, conscio di trovarlo lì, come sempre.
House
non alzò
nemmeno lo sguardo su di lui.
Lo
sapeva. Wilson
gliel'aveva detto.
“Sono
passate tre
settimane.”
Sapeva
anche qual
era l'intento di Johnson.
Sapeva
cosa
significava ogni giorno che passava senza risultato.
“Non
staccherò
la spina. Non lo farò.”mormorò atono.
Sentiva
il peso
della responsabilità su di lui.
Sapeva
che avrebbe
dovuto prendere una decisione, ma il pensiero di essere lui a porre
fine alla sua vita lo atterriva.
“Può
ancora...”
“Sì,
ma potrebbe
anche non svegliarsi più.”
Johnson
s'era
seduto accanto a lui, osservando il geniale diagnosta.
House
aveva la
barba sfatta, gli occhi infossati, le labbra secche, le mani strette
attorno a quelle dell'amico.
“Sta
migliorando.”mormorò, poco convinto.
“E'
vero. Ha
smesso di soffrire per il cuore e le sue funzionalità si
stanno
normalizzando, ma ciò che non significa che si
risveglierà. Non
voglio essere duro, voglio solo farti capire che c'è una
possibilità
che si va affievolendo con il passare delle settimane.”
House
annuì.
Lo
sapeva.
Era
anche lui un
medico, dopotutto.
Sentì
la porta
chiudersi alle sue spalle e chiuse gli occhi, lasciando che le
lacrime scivolassero giù.
“Ti
prego...per
favore, Jimmy...non mollare.”
“Sono
qui. Sono
qui. Sono qui.”
Wilson
si chinò su
di lui per poter essere alla sua stessa altezza e lo guardò,
ben
consapevole che House non l'avrebbe visto.
“Ti
amo...”mormorò House con voce rotta. “Ti
amo. E sono un idiota
perché...ho scelto proprio il momento meno opportuno per
dirtelo. Tu
non...non puoi sentirmi...”
La mano
di House
sfiorò i capelli del compagno, mentre Wilson lo guardava,
sorpreso.
House
gli aveva
appena detto che l'amava?
L'aveva
fatto
davvero?
“E'
meglio
se...”iniziò Amber.
“No!
Non ho
intenzione di morire, non ora che mi ha detto che mi ama,
non...”
“Vale
la pena
continuare a soffrire? Tu non volevi morire in un ospedale,
perché
permettere che s'accaniscano su di te?”
“Perché
non
posso lasciarlo. Non voglio.”disse con forza. “Non
ne ho
intenzione.”
Sentì
la mano di
Amber sulla sua spalla, solida rispetto al resto.
“Vieni.
Non
continuare a soffrire così.”
“Se
lo lascio
morirà.”
“E'
per House che
continui a lottare? O per te?”
“Per
entram...”
Wilson
si bloccò,
vedendo House stringere tra le mani il pacchettino che gli aveva dato
lui.
Quello
con il
veleno.
“NO!
NO! HOUSE,
NO!”
Si
voltò verso di
Amber.
“Aiutami
a
tornare da lui, aiutami a...”
“Non
posso farlo.
Non si può.”
“MORIRA'
A CAUSA
MIA!”
Amber
lo guardava
dolcemente.
“Ti
prego...”
“Non
posso fare
nulla. Sono qui solo per portar...”
“House...House,
non fare sciocchezze. Posso ancora tornare, pos...”
Ansimò,
all'improvviso, sentendo un dolore fortissimo al petto.
Ed in
quell'istante
vide i monitor impazzire.
Udì
il bip
continuo, House che scattava in piedi e s'affrettava ad usare il
defibrillatore.
“No...ti
prego,
no...”mormorò Wilson.
“Credo
che ci
vedremo più in là.”
Si
voltò verso
Amber, prima di vedere tutto buio.
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Capitolo 8 *** Capitolo VIII ***
Ansimò,
come un
naufrago che finalmente arriva sulla terraferma, dopo giorni di mare
burrascoso, aggrappato ad una zattera.
Cercò
di
immagazzinare quanto più ossigeno possibile, sentendo
qualcuno
premergli sul volto una mascherina.
Ogni
boccata era un
puro e semplice sollievo.
“Stai
tranquillo...ssh...ora sei al sicuro...respira...”
Quella
voce era
familiare, era...
Wilson
decise di
aprire gli occhi, vedendo di fronte a lui gli occhi blu di House.
Erano
lucidi di
lacrime, ma lo stringevano con fermezza, una mano dietro la nuca ed
una sulla mascherina dell'ossigeno.
Mentre
tutt'intorno
a lui era nel caos, infermiere che controllavano i suoi valori,
qualcuno, Johnson, che parlava a voce alta, House era l'unico punto
di riferimento.
“Non
lasciarmi.”sillabò ed House capì,
prendendogli la mano e
facendogli l'occhiolino.
“Sono
qui.”mormorò piano, in modo che sentisse solo lui.
Wilson
l'aveva
costretto a mettere via il veleno, appena aveva visto il pacchettino
accanto al letto ed aveva intuito le intenzioni di House.
Gli
aveva
raccontato della sua esperienza durante il coma, di come l'aveva
visto a pezzi per il dolore.
Aveva
delle
difficoltà a parlare, le parole si incespicavano nella sua
bocca e
gli ci voleva più tempo per formulare una frase completa.
“Mi
hai
detto...mi hai detto “ti amo”, mentre ero in
coma.”balbettò.
Erano
sdraiati sul
letto della clinica, Wilson raggomitolato su un fianco accanto ad
House.
Il
dolore era
scomparso quasi del tutto, nonostante Wilson fosse perennemente
tenuto sotto controllo.
E non
c'era stato
alcun rigetto del fegato.
House
non rispose.
Teneva
un braccio
attorno alla sua vita e giocherellava con le sue dita con le proprie.
“House...”
“Eri
in coma,
avrai sognato tutto.”
“Forse...”
House
non disse
nulla, intrecciando le loro dita e tirandolo verso di sé,
senza
fargli male.
“Cambierebbe
qualcosa se te lo dicessi?”
“Uhm...suppongo
di no.”rifletté tra sé e scosse il capo.
“Visto?”
“Trovo
strano che
entrambi abbiamo sognato Amber nel momento della nostra quasi
morte.”mormorò.
Gli ci
volle un po'
per articolare la frase.
“Credo
sia solo
stato un sogno, Wilson. Non esistono fantasmi o roba simile. Sei un
medico, perché fantastichi su queste
cose?”sbuffò.
Era
ormai gennaio
inoltrato e faceva freddo.
Wilson
si coprì di
più con la coperta, agognando un contatto maggiore con House
che lo
accontentò, stendendosi su un fianco e sfiorandogli il viso.
Percorreva
con le
dita le sue guance, la barba un po' cresciuta, il naso, la bocca...
Lo
guardava in
silenzio.
“House...Cos'hai?”sussurrò
lentamente.
“Pensavo.”
“A
cosa?”
Le dita
scivolarono
sulle sue labbra, percorrendole da destra a sinistra e viceversa.
Wilson
gliele baciò
piano.
Lo
preoccupava quel
silenzio.
Era
uscito dal coma
da pochi giorni ed House era sempre stato quasi del tutto in
silenzio.
Non era
da lui.
“Parlami.
Stai
bene?”
“Sei
tu quello
uscito dal coma.”
“Ti
ho
spaventato?”balbettò.
House
continuò ad
accarezzargli il volto.
Wilson
gli bloccò
la mano, dolcemente e s'avvicinò a lui.
“Parlami.”ripeté.
“Non voglio il silenzio da parte tua. Voglio sapere cosa ti
frulla
per la testa. Stavi per suicidarti, quando hai temuto per me.
House...dimmi cosa c'è.”lo pregò.
“Avrei
dovuto
dirlo a tutti...chiamare i tuoi genitori, la tua famiglia, i tuoi
amici e dire a tutti o chiedere a Johnson di farlo, che il loro
figlio, il loro amico era morto. E che l'unica cosa che avrei potuto
fare io, perché non ci sarebbe stato nessuno cui tornare
era...”
Wilson
capì.
Vide i
suoi occhi
lucidi, le labbra che tremavano e l'abbracciò stretto.
“Sto
bene.
E'...tutto ok. Ci sono io.”
House
rise,
nervosamente.
“Dovrei
essere io
a rincuorarti, non tu.”
“Va
bene lo
stesso. Sto bene.”
Wilson
posò le
labbra sulle sue lentamente.
Assaporò
la sua
bocca, piano, come se volesse gustarsela senza fretta,
mordicchiandogli prima il labbro superiore, poi quell'inferiore,
prima di intrufolare nella sua bocca la lingua per approfondire il
bacio.
House
posò una
mano sulla sua guancia, attirandolo ancora di più a
sé, finché i
loro corpi non aderirono del tutto, lottando per avere più
calore,
più pelle possibile.
Wilson
affondò le
mani tra i suoi capelli, baciandolo con foga finché entrambi
non
ebbero bisogno di riprendere fiato.
Le mani
di House
scivolarono sotto il suo camice, sfiorandogli il petto, il ventre, la
schiena.
Si
fermarono
cingendogli la schiena e baciandolo sul collo.
“Mi
è mancato
tutto questo.”mormorò al suo orecchio e Wilson
arrossì.
La
barba di House
gli graffiò il collo, ma lui non se ne curò e
lasciò che lo
baciasse a lungo e con foga.
Wilson
gli cinse la
vita, facendo aderire i loro corpi ancora di più, ma House
lo fermò,
allontanandosi.
L'altro
gli lanciò
uno sguardo interrogativo ed House scosse il capo.
“Non
possiamo.
Non ora che ti sei appena ripreso. Devi riposarti.”
Wilson
scosse il
capo e fece scivolare una mano tra le gambe di House che
sussultò,
compiaciuto da quel gesto, ma lottò contro sé
stesso per impedirgli
di continuare.
“Dormi.”
“Non
ho voglia di
dormire.”mormorò.
“Ed
io di fare
sesso.”
“Bugiardo.”
Sì,
era una bugia
enorme.
House
aveva una
voglia matta di prendere Wilson lì senza pensare alle
conseguenze,
ma il suo compagno s'era appena ripreso da un coma di tre settimane
ed era così fragile.
Non
aveva
intenzione di fargli del male.
“Almeno
resta
qui.”
House
abbozzò un
sorriso e gli passò un braccio attorno alla vita.
“Promesso.”sussurrò
contro le sue labbra, prima di posargli un bollente, seppur casto,
bacio.
Riprendersi
da un
coma richiedeva lungo tempo.
Wilson
aveva delle
difficoltà a camminare, vomitava ciò che mangiava
e dormiva molto.
Inoltre
era spesso
confuso e gli risultava difficile articolare frasi complesse e
lunghe.
Finiva
per
innervosirsi ancora di più quando non riusciva a parlare ed
House
era sempre lì a stringerlo a sé, a stuzzicarlo
con una battuta ed a
prenderlo in giro con affetto.
Lo
spingeva a
mangiare, lo aiutava a vestirsi e con la sua ripresa si riprese anche
House.
Johnson
lo vide più
allegro, meno triste, più in carne rispetto a quando aveva
quasi del
tutto smesso di mangiare per la preoccupazione e la paura.
Vedere
Wilson senza
barba era come un segnale per House.
Significava
che le
cose stavano andando per il verso giusto, nonostante le
difficoltà.
Aveva
preso
l'abitudine a premiare Wilson ogni volta che faceva dei progressi.
La
fisioterapia era
una cosa che lui odiava immensamente, ma che gli era utile a riuscire
a controllare meglio i suoi movimenti che, dopo il coma, erano molto
impacciati.
House
lo baciava
dolcemente quando Wilson faceva dei progressi, lo stuzzicava con
affetto, gli comprava i suoi cibi preferiti per farlo mangiare.
Era una
cosa che
non pesava su nessuno dei due, perché prendersi cura l'uno
dell'altro era qualcosa che avevano sempre fatto ed ora era il turno
di House di occuparsi di lui.
“Così.
No, così.
Ecco, stringi e poi lancia.”
House
era seduto
accanto a Wilson nella sala della fisioterapia e lo aiutava con una
pallina da ping pong.
Le mani
di Wilson
tremavano leggermente, ma di meno rispetto ai primi giorni in cui non
riusciva ad afferrare nulla.
“Prova
a
lanciarmela.”
“Non
ci riesco.”
House
annuì,
incoraggiante, sorridendogli.
Wilson
ricambiò il
sorriso.
“Amo
quando
sorridi. Lo fai raramente.”gli disse.
“Non
ho molti
motivi per farlo.”
“Ah,
grazie.”
“Non
parlavo di
te.”
House
rifletté per
un attimo, spintonandolo leggermente con la spalla.
“Ora
sto bene.”
Wilson
sollevò lo
sguardo verso di lui e lo baciò sulla guancia, spingendo
House a
cingergli le spalle ed abbracciarlo stretto.
“Greg...”
“Mmm...”
“Voglio
tornare a
casa.”
“Sistemerà
tutto
lui. Garantito. È un pezzo grosso della polizia di Kingston
e deve
un favore ad House perché ha scoperto la malattia della
moglie e
grazie a lui ora è viva e vegeta. Sarà facile
fingere che House
abbia scontato qui la pena. E riavere il suo nome.”
“E'
illegale.”mormorò Wilson.
“Anche
fingersi
morto per evitare il carcere lo è.”
Il
pezzo grosso era
George Arthur, che Wilson aveva conosciuto di sfuggita alla clinica,
quando assisteva la moglie malata.
Non gli
era
particolarmente simpatico, era un omaccione con lo sguardo arcigno e
parecchio alto, ma se riusciva ad aiutare House gli andava
più che
bene.
“Sì,
sistemerà
tutto. Ne sono certo.”assicurò Johnson a nome suo.
Fu solo
dopo un
paio di giorni che House ricevette una carta d'identità col
suo vero
nome e tutte le informazioni corrette ed una fedina penale che
contava anche 8 mesi di carcere per atti vandalici e per essersi
finto morto.
“Wow...questo
fa
di me davvero un cattivo ragazzo.”disse, facendo l'occhiolino
a
Wilson.
“A
me piacciono i
cattivi ragazzi.”disse l'altro, baciandolo sulla bocca di
impulso.
House
fu
piacevolmente sorpreso dal suo gesto e gli cinse il corpo con le
braccia, arretrando fino a sedersi sul divano e tirandolo su di
sé.
Wilson
sorrise,
baciandolo ancora più profondamente.
Il
diagnosta gli
tolse la maglietta, baciando e mordendo ogni singolo lembo di pelle
che riusciva a raggiungere e lo spinse sotto di sé sul
divano,
imprigionandolo sotto il suo corpo e spogliandolo del tutto.
Wilson
lo lasciò
fare, incantato dai suoi baci, dal suo calore, dall'eccitazione che
continuava a crescere violenta ed incontenibile.
Gettò
di lato la
camicia di House, facendo saltare alcuni bottoni dello spalancarla ed
infilò la mano tra le sue gambe, lottando per liberarlo dai
jeans e
boxer.
House
gemette ad
alta voce quando il compagno iniziò a massaggiarlo con foga,
spingendolo ad aggrapparsi al divano per non crollargli addosso.
Lasciò
che le sue
mani gli dessero sollievo, mani che a lungo non l'avevano toccato o
stretto.
Ansimò
quando
raggiunse l'apice del piacere, ma Wilson non aspettò che si
calmasse, ma lo attirò a sé con forza e lo
baciò sulla bocca,
muovendo il suo corpo contro il suo, ansioso di maggior contatto,
maggior calore, più pelle, più baci,
più sesso.
House
affondò le
mani nei suoi capelli voltandolo bruscamente mentre lo prendeva e
continuò a stringerlo a sé, tenendolo per i
fianchi, mentre si
muovevano l'uno verso l'altro, in ritmiche spinte.
Catturò
le sue
labbra, bloccando i loro gemiti di piacere e chiudendo gli occhi,
felice perché lui era ancora lì,
perché poteva sempre baciarlo ed
averlo e che nessuno gliel'avrebbe portato via.
Wilson
mordicchiò
le sue dita, crogiolandosi nel suo calore e baciandogli la bocca
lentamente, dolcemente.
“Stai
bene?”sussurrò House.
Cenno
d'assenso.
Wilson
prese il
braccio di House e se l'avvolse attorno alle spalle come una coperta
calda ed umana, mentre House posava il viso sulla mano e lo guardava.
“Cosa
c'è?
Perché mi guardi così?”
“Così
come?”
“Come
se volessi
leggermi dentro.”
“Stavo
solo
pensando.”
“A
cosa?”
“Al
ritorno a
casa. Perché vuoi tornare? Ti mancano i tuoi genitori? I
tuoi
amici?”
“Sì.
Voglio solo
far saper loro che sto bene, House. Sistemare alcune cose...”
“Che
cose?”
House
lo guardava
intensamente e Wilson ricambiò lo sguardo.
“Johnson
ha detto
che è meglio interrompere la cura per un po', per dare tempo
al mio
organismo di riprendersi. Dopo potremo asportare il tumore.”
“Lo
so. E vuoi
tornare perché temi di non rivederli più? Nel
caso l'operazione
andasse male?”
Wilson
deglutì a
vuoto.
Quegli
occhi erano
capaci di sconvolgerlo ogni volta.
“Sì.
Pensi sia
una cosa stupida?”
“Se
lo pensassi
mi staresti a sentire?”
“Credo
che
stavolta non lo farei.”
“Immaginavo.”
House
si sistemò
meglio sul divano e Wilson gli strinse un braccio.
“Voglio
rivedere
la mia famiglia. Dirle che sto bene, che sono felice e che sto con
te.”
“Hai
intenzione
di sconvolgerli, quindi? Immagino la scena “Ciao mamma, ciao
papà.
Ricordate House? Ha finto di essere morto, ma non lo è e
scopa con
me!”
Wilson
rise.
House
amava la sua
risata.
Amava
il modo in
cui chiudeva gli occhi e si lasciava andare, ridendo.
Lo
baciò di
slancio, facendolo ridere ancora di più.
“Credo
che ai
miei verrebbe un colpo. Ma voglio che sappiano che sto bene. E voglio
vedere la faccia di Foreman e degli altri quando diremo
“stiamo
insieme”!”
“Stiamo
insieme?
Mi sembra sdolcinato da dire.”
“Dire
“scopiamo
come conigli” non è meglio.”
“Beh,
è la
verità.”
Wilson
gli pizzicò
un fianco ridendo e House ne approfittò per afferrarlo e
stringerlo
al petto.
“Ci
penseremo
quando saremo lì.”mormorò Wilson,
ammaliato dai suoi occhi blu.
Smetteva
di pensare
quando House lo guardava in quel modo così lussurioso e
pieno di
brama.
Sentì
la bocca di
House catturare la sua ancora una volta e s'abbandonò alla
sua
stretta, avendo un bisogno disperato di amarlo il più
possibile.
“Dovete
venire
assolutamente! Tutti quanti!”
Amanda
Lest
saltellava da un piede all'altro nel reparto di oncologia.
House
lanciò
un'occhiata interrogativa a Wilson, ma prima che potesse udire la sua
risposta la ragazza era piombata dinanzi a loro, tendendogli un
bigliettino argentato.
“Io
e Leon ci
sposiamo stasera. Ci sarà questa sciamana a consacrare il
matrimonio
e vi voglio tutti quanti.”
Baciò
sia lui che
Wilson sulla guancia e saltellò verso altri invitati.
L'espressione
di
House era palese.
Stava
per dire
qualcosa di pungente o scoppiare a ridere.
“E'
una cara
ragazza.”lo prevenne Wilson.
Conosceva
Amanda da
qualche mese.
Era
stata assunta
come infermiera nel reparto di oncologia ed era un vero tornado.
Non
stava mai
zitta, era sempre allegra ed era una boccata di aria fresca per
chiunque stesse male.
Wilson
l'aveva
conosciuta pochissimo perché era stato operato ed entrato in
coma
due settimane dopo il suo arrivo, ma era stata lei a prendersi cura
di lui durante i cicli di cura successivi al coma.
“Sciamana?”
“Sarà
interessante.”
“Sciamana?”ripeté
ancora House quando s'unirono alla folla sulla spiaggia.
C'erano
dei
giganteschi tendoni e gazebi, ma tutta la folla si riunì
attorno
alla coppia di sposi ed ad una tipa davvero bizzarra.
Indossava
molteplici veli colorati, aveva la faccia dipinta di bianco e rosso
ed era in ginocchio dinanzi agli sposi, seduti a gambe incrociate.
Wilson
intuì che
House stava per dire qualcosa e gli tappò la bocca,
lanciandogli
un'occhiataccia perentoria ed ammonitrice.
“Non
una
parola.”sillabò, mentre tutti tacevano.
Il
rituale
consisteva nel recitare alcuni inni nella lingua giamaicana, lo
scambio di promesse e poi la parte più importante consisteva
in un
piccolo taglio sul palmo della mano dei due sposi e nel mischiare il
loro sangue mettendo a contatto le ferite.
“E'
stata la cosa
più strana che abbia mai
visto.”annunciò House al suo orecchio,
dopo la cerimonia, mentre si mescolavano agli ospiti nel prendere da
mangiare.
“E'
stata una
cosa particolare.”
“Assurda.
E
ridicola.”
“Un
po'. Però è
stata bella.”
“Io
non credo nei
matrimoni. E visti i tuoi precedenti, non dovresti neanche
tu.”
House
addentò una
mini quiche e si voltò per andare a sbattere contro
la...sciamana.
S'era
tolta il
trucco, rivelando la pelle scura al di sotto di tutto quel bianco e
rosso.
“Tu
hai l'aria di
uno scettico.”
“Mi
creda, è il
re degli scettici.”la corresse Wilson.
La
donna si voltò
verso di lui.
“Tu
sei il suo
compagno e migliore amico, James Wilson. L'hai amato a lungo, ma te
ne sei accorto solo ora.”
“Sta
tirando ad
indovinare. O qualcuno le ha detto chi siamo.”
House
fece per
andare via, ma la donna lo bloccò, afferrandolo per un
braccio.
“Gregory
House,
la persona che dovrebbe essere morta, almeno è
ciò che credono i
suoi amici. Sei fuggito da tutto e da tutti per poterlo proteggere ed
aiutare. Hai sofferto così tanto nella tua vita che credi di
ferire
chiunque tu ti trovi a toccare. Ma questa persona la ami molto e sai
che faresti di tutto, anche allontanarla da te, se ciò
servisse a
renderla felice.”
House
si liberò
dalla sua stretta.
“Chi
sei?”
“Mi
chiamo
Alalea. E so molte cose. Su molte persone. E su di voi.”
“Come?”
“Posso
vedere.”
“Cosa,
esattamente?”
“Tutto,
Gregory.
Ogni cosa nel presente e nel futuro e nel passato.”
“E'
impossibile.
Non è una cosa umanamente possibile.”
“So
che sei
spaventato. Perché ora sei felice ed hai paura che tutto
possa
svanire dinanzi ai tuoi occhi. Hai paura di perdere il tuo migliore
amico e compagno, di vederlo morire tra le tue braccia e di non
riuscire a vivere senza. E tu, James, temi che questo benessere ti
possa abbandonare e soprattutto che la tua morte coincida con il suo
suicidio. Ho sbagliato, per caso?”
“Andiamocene.”
House
prese Wilson
per un braccio e fece per portarlo fuori, ma Wilson scosse il capo.
“Aspetta.”
“Non
le crederai
mica?”
“Finora
hai
indovinato ogni cosa.”
“Appunto
indovinato.”
“Quindi
ho
indovinato anche il nome di Lisa, Amber, Sam, Stacy?”
House
si voltò,
guardandola incredulo.
Ma cosa
faceva
a....
“Esistono
cose
che non puoi spiegare, House. Miracoli. Veggenti. Dei. La scienza non
spiega tutto, ma capisco come possa essere la tua roccaforte. Ci sono
momenti, però, in cui è necessario qualcos altro.
Come quando hai
rassicurato Wilson dicendo che sarebbe andato in un posto
migliore.”
“D'accordo.
Ammettiamo che esistano. Cosa vuoi da noi?”
“Solo
darvi la
mia benedizione per il viaggio di ritorno. E legare le vostre anime.
Come ho fatto con Amanda ed il suo ragazzo.”
“Credevo
che
fosse un matrimonio poco convenzionale.”disse Wilson.
“E'
un rito per
legare due anime, due spiriti. Voi attendete solo di essere
legati.”
“No,
graz...”
“Perché
no?”
House
tacque
sentendo la frase di Wilson.
“Sei
diventato
matto all'improvviso? O romantico, il che è peggio?
Già, tu sei
sempre stato...”
“House,
lo voglio
fare. Andiamo. Non cambierà nulla.”
“Allora,
perché
farlo?”
“Perché
è un
bel modo per dimostrare ciò che proviamo.”
House
aprì la
bocca, ma la richiuse subito dopo con un sospiro.
Wilson
aveva uno
strano sguardo.
Incuriosito
dalla
sciamana e dal rituale e voglioso di una nuova esperienza.
Perché
opporsi?
Era uno
stupido
rito, fatto da una sciamana che sembrava veggente, forse lo era, ma
House non l'avrebbe mai ammesso, cui Wilson teneva.
“D'accordo.
Sposami.”decise, attirandolo a sé con un braccio e
cingendogli la
vita per far aderire i loro corpi.
Wilson
rise e la
sciamana abbozzò un sorriso.
Fu
strano.
House
ricordò
quella notte per la musica ad alto volume, il buon cibo, il freddo
sulla spiaggia e l'acqua gelida.
Ma
soprattutto per
la canzone sciamana, per il breve dolore per il taglio al palmo della
mano, il bacio di Wilson, caldo, morbido che suggellava l'unione
delle loro anime, oltre che dei loro corpi.
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Capitolo 9 *** Capitolo IX ***
Salve a tutti!
Allora questo è un capitolo di transizione,
perché, purtroppo, sono a corto d'ispirazione ed ho
preferito fermarmi un pò, prima di poter continuare la
storia.
Mi dispiace un sacco di aver fatto aspettare così tanto
tempo, prima di farmi viva e vi chiedo scusa!
Solo che sto partecipando ad una serie di concorsi e quindi sono un
pò impegnata al momento.
Sto partecipando al concorso Giunti di scrittura, con lo pseudonimo di
LilyP.
La mia storia si chiama Unbreakable e mi fareste un enorme favore se
andaste a votarla od a lasciare un commento!
http://www.concorsogiuntishift.it/vota-la-storia/
Questo è il link del concorso.
Bisogna registrarsi per votare.
Se mi votaste e spargeste la voce, mi fareste un favore gigantesco!
Spero di poter aggiornare presto e vi saluto tutti!
Lily
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