Le tue ali sul mio cuore di Nausicaa Di Stelle (/viewuser.php?uid=33208)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 2: *** Discussioni ***
Capitolo 3: *** Due ritratti ***
Capitolo 4: *** A corte ***
Capitolo 5: *** L'udienza ***
Capitolo 6: *** Una notte a teatro - prima parte ***
Capitolo 7: *** Una notte a teatro - seconda parte ***
Capitolo 8: *** Conversazioni - prima parte ***
Capitolo 9: *** Conversazioni - seconda parte ***
Capitolo 10: *** La contessa di Lesath ***
Capitolo 11: *** Seduzioni ***
Capitolo 1 *** Ritorno a casa ***
Ritorno a casa
Capitolo I
Ritorno a casa
Era un
mattino di pallido autunno e il vento soffiava ancor tiepido fra le
chiome brunite dei tigli che fiancheggiavano il viale. A tratti,
cadevano volteggiando deboli foglie, corrose dalle albe di nebbia che
da qualche tempo si succedevano le une alle altre. Con solerte calma,
una carrozza scura percorreva la strada deserta. Sulle fiancate recava
l’emblema di un nobile casato: uno scudo attraversato
diagonalmente da una banda, nella cui metà sinistra
campeggiavano un giglio e due lune a falce, mentre in quella di destra
si snodava un ramo d’edera. Il tutto sormontato da una corona
di conte.
Nella
penombra dell'abitacolo, l’unico passeggero contemplava
silenzioso il paesaggio dal finestrino, trattenendo nel cuore una
sentimento misto di gioia e impazienza. Solo quando il viale
voltò ad una curva, dirigendosi d’un tratto verso
est, egli si sporse fuori a guardare, cercando di scorgere
ciò che l'attendeva alla fine della strada: un palazzo
bianco e snello, circondato da due alte torri e coperto da un tetto blu
cobalto si ergeva al di là di un imponente cancello in ferro
battuto. Oltre il cancello, si estendeva vasto parco, che si prolungava
per ettari dietro l’edificio, prima di giungere al bosco, ai
pascoli e ai campi di proprietà della famiglia.
- A casa,
finalmente… - mormorò tra sé,
sorridendo appena.
Il volto
lievemente abbronzato risplendette tutto di quel tenue sorriso e negli
occhi castani si diffuse una vivida luce.
Dopo pochi
minuti la carrozza oltrepassò il cancello, già
spalancato, e s’inoltrò lungo il viale lievemente
in salita che conduceva fino al palazzo; non era ancora perfettamente
immobile di fronte al colonnato che s’apriva sulla facciata,
quando la portiera venne aperta dall’interno, e il giovane
passeggero scese con un balzo.
-
Ma… colonnello. – protestò il
cocchiere, smontando in quel momento da cassetta –
Perché non avete atteso: venivo giusto ad aprirvi in
quest’istante.
- Non fa
niente, Cedric: ho troppa voglia di rimettere piede a casa! –
rispose ridendo il giovane ufficiale, dando una pacca sulla spalla al
suo servitore, che ammutolì e restò a fissarlo
con occhi sbarrati.
Nessuno
della casa, né servitù né signori, gli
si fece incontro, perché nessuno sapeva del ritorno ed egli
avanzò, noncurante di tutto, verso la porta
d’entrata. Afferrò il batacchio cesellato e spinse
l’imposta verso l’interno. Una tenue luce si
diffuse nell’atrio, gettandosi fino ai piedi della scalinata
marmorea che conduceva ai piani superiori. Il colonnello si
guardò attorno, con aria di soddisfazione, ed
abbracciò con lo sguardo tutto ciò che lo
circondava. La sua figura si stagliava scura contro il vano della
porta, resa ancor più sottile dal diffuso bagliore che
l’avvolgeva. Non indossava il mantello né altro
indumento sopra la divisa, che mostrava così apertamente
tutti i segni delle fatiche a cui era stata sottoposta, assieme al suo
proprietario: le maniche erano sdrucite, la stoffa logorata sui gomiti
e sui polsi, i risvolti d’oro sbiaditi e consunti. Le
spalline erano sfilacciate e sul petto, in più punti,
portava i segni della polvere dei campi di battaglia e dei cannoni.
Anche la fascia scarlatta che gli cingeva i fianchi era sciupata e
stinta ed i pantaloni non avevano più il loro bianco
luminoso ma erano d’un grigio smorto, mentre gli stivali, di
fattura pregiata e di ottima pelle, erano ormai sdruciti
dall’uso prolungato.
Mentre
stava per muovere i primi passi, voltando a sinistra lungo il
corridoio, vide qualcuno scendere rapidamente le scale; si
fermò di scatto, non riconoscendo quella figura: si trattava
d’un giovane vestito da cavallerizzo, che gli
lanciò un’occhiata distratta, soppesando con
disapprovazione il suo abbigliamento alquanto trasandato. Aveva capelli
lunghi, d’un castano chiaro e brillante, mentre gli occhi,
azzurri e freddi come il ghiaccio ma molto espressivi spiccavano in un
volto lievemente abbronzato, dandogli luce e vitalità. Il
naso era sottile e ben fatto e le sopracciglia non folte e leggermente
arcuate.
Per alcuni
istanti, i due si fissarono in volto, senza profferire parola. Poi il
ragazzo vestito da cavallerizzo riprese, con passo rapido, a discendere
le scale, esclamando:
- La
contessa di Lorckshire non è in casa in questo momento,
ritornate più tardi se avete bisogno di parlare con lei.
Si
fermò di fronte al colonnello come se attendesse una
risposta. Quest’ultimo era rimasto profondamente sorpreso da
tali parole e si stava domandando chi mai fosse quel giovane che si
prendeva tanta libertà a casa sua. Ma dal suo volto
impassibile non trasparve nessuna emozione. Si limitò a
rispondere, con voce incolore:
- Quando
pensate rientrerà la contessa?
- Nel
tardo pomeriggio, verso le cinque, credo. – rispose
distrattamente. Si stava già allontanando quando aggiunse:
–
Ma… non è il caso che la aspettiate fino ad
allora: potrebbe far tardi.
Il
colonnello non replicò, rimanendo immobile al suo posto in
fondo alle scale. Il giovane gli lanciò un’ultima
occhiata, prima di allontanarsi esclamando:
- Fate
come volete.
Si diresse
verso l’entrata principale e la varcò con passo
rapido, come se avesse fretta d’andare a fare la sua
cavalcata.
Rimasto
solo nell’atrio, l’ufficiale continuò
per un po’ a fissare quella porta, immerso nei suoi pensieri.
- Che
novità è questa? Non sapevo ci fosse un ospite a
casa mia. E a giudicare da come si comporta, dev’essere anche
da un po’ che abita qui. Se fosse un nostro parente, dovrebbe
almeno sapere chi sono… e forse anch’io lo avrei
riconosciuto.
Si mosse
e, contrariamente a quello che era stato il suo proponimento iniziale,
cominciò a salire i primi gradini della scalinata. Sul suo
volto c’era ancora un’espressione particolarmente
assorta.
- Signor
conte! – lo chiamò una voce alle sue spalle
– Oh, signore, siete tornato! Come sono contenta di
rivedervi! Cedric è venuto ad avvertirci… oh, ma
se ci aveste avvisati per tempo, avreste trovato qualcuno ad
accogliervi sulla porta! E anche la signora contessa sarebbe stata
certamente a casa.
Il
colonnello si volse: era Mabel, la capo cameriera, una donna ormai
sulla cinquantina, rubiconda e gioviale ma anche attenta
amministratrice delle faccende domestiche di casa Lorckshire. Mentre
parlava, aveva salito un paio di gradini, restando però ad
una certa distanza dal suo padrone che ora invece ritornava sui suoi
passi per andare a salutarla.
- Mabel...
Come state? Vi trovo in forma. – chiese con un sorriso.
- Oh,
signor Harlock, preoccuparvi per me! Ma certo, io sto bene. E voi,
piuttosto? Siete così dimagrito! E avete l’aria
stanca2.
- Ho fatto
un viaggio molto lungo…
-
Dirò subito a John di portare di sopra il vostro bagaglio e
vi manderò su qualcuno perché metta tutto in
ordine. Ah, se l’avessi saputo prima avrei fatto prender aria
alla vostra stanza: ci sarà un odore di chiuso,
lì dentro! – protestò infine la vecchia
cameriera, lamentandosi con se stessa per non averci pensato prima
– L’arieggio sempre almeno una volta alla
settimana, un paio d’ore, ma non è sufficiente, ci
sarà…
- Mabel,
Mabel… - Harlock la interruppe con dolcezza – Non
angustiatevi: sapevo fin dal principio che tornando così
all’improvviso non avrei trovato tutto a posto ed in ordine.
Ma ho scelto così e non mi lamento. E poi l’odore
della mia camera, chiusa da tanto tempo, non è certo nulla
in confronto a ciò che ho sentito e visto durante la guerra,
non credete?
- Il mio
giovane signore! Quante dovete averne passate! – un moto di
tenerezza passò nel volto della donna, che alzò
la mano destra quasi volesse accarezzare il volto del conte. Ma fu solo
un movimento appena accennato, che dominò con prontezza e
senza sforzo, abituata com’era da gran tempo a controllarsi
in virtù della carica importante che rivestiva tra la
servitù.
Harlock
sorrise di quel gesto che aveva colto e si congedò dicendo:
- Ho il
vostro permesso per andare nelle mie stanze, signora Mabel?
- Ma
certo, signor conte! – rispose questa, stupita di una
richiesta tanto formale. Ma si accorse subito che era benevolmente
derisa, poiché il giovane colonnello la trattava
scherzosamente come uno dei suoi superiori.
Harlock
rise lievemente, di quella risata calda e sonora che da tanto non
riecheggiava tra le mura del palazzo. Disse qualcosa sottovoce, che la
cameriera non intese, e s’avviò verso il piano
superiore, quasi di corsa: nel cuore era sorto prepotente un improvviso
desiderio di rivedere quei luoghi dove aveva vissuto fino a
quattro anni fa, come se così facendo potesse
riappropriarsi, tutto in un istante, del se stesso quale era prima
della partenza, dei suoi lievi vent’un anni.
Arrivato
davanti alla sua stanza, aprì la porta spalancando entrambe
le imposte, come per cogliervi, di sorpresa qualcosa che
altrimenti temeva potesse nascondersi furtivo, per non farsi trovare
mai più. Nella stanza, però, c’era solo
buio e silenzio. Avanzò allora piano, per non inciampare
nell’arredo diventatogli sconosciuto: procedette a tastoni,
riconoscendo via via i mobili che gli appartenevano. Arrivò
infine allo scrittoio in noce con la sua poltrona, dal morbido
schienale di velluto, poi sfiorò le tende del letto a
baldacchino, la coperta di cotone e il morbido materasso di piume.
- Qui
dovrebbe esserci il comò e poi, a destra… la
finestra – disse, allungando una mano e fatti alcuni passi,
toccò finalmente la maniglia. La girò su se
stessa e aprì le imposte. Sempre a tastoni, anche se ormai i
suoi occhi s’erano abituati a
quell’oscurità, aprì i balconi e fece
piovere nella stanza una tiepida luce argentea.
Si
voltò allora a guardare, sorridendo tra sé. Ma il
sorriso gli morì lentamente sulle labbra, assalito da un
improvviso e inspiegabile presagio.
-
Perché ho l’impressione che presto non
sarà più mia? – si chiese, mentre
qualcosa gli stringeva il petto.
In quel
momento udì bussare timidamente sullo stipite della porta,
poiché quest’ultima era rimasta aperta. Era John,
vecchio domestico della famiglia che lavorava al loro servizio da
quando il padrone di casa era il nonno di Lord Harlock. Aveva visto
crescere e diventare uomo il giovane colonnello e nutriva per lui un
profondo affetto e un altrettanto incondizionata dedizione.
- Ho
portato i vostri bagagli, signore… - balbettò,
senza trovare il coraggio di oltrepassare la soglia.
- Mio buon
vecchio John. – il colonnello si avvicinò al
servitore, posandogli infine una mano sulla spalla – Ma sai
che non sei cambiato per nulla?
- Siete
troppo buono, signore. Io li sento così bene questi anni
feroci che mi strappano la pelle e me l’avvizziscono come la
buccia di una mela. – replicò, abbassando la
testa: non ardiva guardare negli occhi il suo padrone, ora che gli era
tanto vicino - E voi, signore, come state? Tutto questo tempo trascorso
a combattere lontano… siamo stati tanto in pena per voi.
– riprese, levando un poco il capo.
- Io sto
bene. Ho solo bisogno di riposare e credo che resterò a casa
per un bel po’ di tempo: niente feste, niente teatro, niente
soggiorni a Corte.
- Io spero
che vi sarà ancora piacevole restare a casa vostra,
adesso…
Harlock
aggrottò le sopracciglia, fissando l’interlocutore
con i suoi occhi penetranti:
- Cosa
intendi dire, John?
- Sono
successe molte cose da quando siete via… cose di cui non
sarete affatto contento… - tacque, abbassando di nuovo lo
sguardo come per cercare il coraggio di proseguire una spiegazione
tanto spinosa.
Harlock
attese che l’uomo ritrovasse il filo del suo discorso e
riprendesse a parlare:
- Vedete,
signor Harlock, da qualche tempo c’è un giovane
che abita in questa casa e che si comporta come se ne fosse il padrone.
Vostra madre… - s’interruppe di nuovo, notando che
il volto del colonnello si rabbuiava.
-
Continua. – lo incitò questi.
- Ecco,
signore, vostra madre l’ha preso in casa con sé e
gli dà il permesso di fare ciò che vuole:
è come se fosse uno di famiglia, adesso.
Harlock
restava in silenzio e John capì che doveva essere lui ad
avere la costanza di finire la sua narrazione.
- La
signora contessa l’ha conosciuto quasi un anno fa e dopo poco
tempo che si frequentavano l’ha invitato a trasferirsi qui da
lei e a restare qui… io credo per sempre. E’ un
amico molto stretto della signora.
- Un amico
molto stretto… - pensò Harlock, intuendo cosa
quelle parole tanto vaghe lasciassero intendere.
- Per
tutto questo tempo, in cui siete stato lontano, signore, è
stato lui il signor conte… Ma adesso che siete tornato,
farete mettere giudizio a quel giovinastro che crede di essere
chissà chi!
- Hai
molta fretta che venga fatta giustizia, a quanto pare.
- Signor
Harlock, lui non può permettersi certe libertà:
io non ho mai dimenticato, mai, in questi quattro anni, che siete voi
il padrone di casa, adesso che vostro padre non
c’è più. Per me, signore, non
c’è nessun altro padrone!
- Mio buon
vecchio John… - pensò Harlock – Capisco
bene ora perché sei tanto indignato. Non è il
giovane ospite in sé che ti disturba, né i suoi
ordini o le sue ipotetiche pretese. E’ la tua stessa
incondizionata lealtà alla mia famiglia che
t’accende tanto d’ira. Ma che cosa faccia
effettivamente a casa mia questo ragazzo e perché vi si sia
trasferito non è questione che devo discutere con te.
- Se le
parlerete voi, la signora contessa capirà… -
riprese il servo.
- Basta
così. – l’ordine fu pacato ma perentorio
e John ammutolì in un istante – Adesso vai: voglio
restare un po’ da solo e riposare. Di’ soltanto a
Mabel che desidero fare un bagno e che mi faccia preparare tutto
l’occorrente.
-
Sì signore. – John piegò in avanti il
busto in un inchino un po’ maldestro, sistemò
nella stanza i pochi bagagli che il colonnello aveva portato con
sé e poi si allontanò, in silenzio.
Per tutto il resto della giornata, Harlock restò nelle sue
stanze, a riposare e riflettere. Soltanto nel tardo pomeriggio
uscì a passeggiare nella Galleria delle Armi, che collegava
gli appartamenti della famiglia con quelli destinati agli ospiti. Alle
pareti, oltre che scudi, spade antiche e moderne, sciabole e lance,
v’erano appesi numerosi quadri. Alcuni ritraevano antenati e
predecessori, illustri o quasi sconosciuti. Certuni, invece, erano
dipinti da una mano giovane ed abile e si presentavano subito, ad una
prima occhiata, profondamente diversi dagli altri in quanto a stile e
tecnica. Harlock si soffermò soprattutto su questi ultimi,
indugiando ad esaminarne i pregi e i difetti d’esecuzione e
di fattura. Sembrava avere un’espressione molto insoddisfatta
e più volte lo prese la tentazione di staccarne uno dalla
parete per non riappendervelo mai più.
Soltanto
su due di essi il suo sguardo si fermò con piacere e rimase
a lungo a contemplarli. Erano due dipinti, posti ai due lati del grande
camino al centro della sala e rappresentavano due sirene: una era
seduta sulla riva del mare, i lunghi capelli corvini sciolti sul petto
morbido e dalla pelle luminosa, e contemplava alcuni oggetti rinvenuti
sulla spiaggia, resti di un recente naufragio. L’altra
s’era invece issata su di uno scoglio e stava cantando con
gli occhi alle stelle, ma il suo corpo, tutto in controluce
perché illuminato alle spalle dai raggi della luna, era poco
visibile. Avevano entrambe pinne lunghe e flessuose, dai riflessi
argentati che ora, sotto l’ultima luce del sole che andava
tramontando, brillavano intensamente, quasi fossero vere.
Mentre si
trovava nella galleria, un folto rumore di passi e il cigolare della
porta d’entrata giunse fino a lui, attraverso la volta del
soffitto e lo scalone che conduceva al piano inferiore e che distava da
lì solo pochi metri. Fra tutte le altre, udì una
voce femminile, sonora e squillante, che gli era famigliare. Allora si
mosse, dirigendosi verso le scale, in cima alle quali si
fermò, attendendo. Una donna bionda, bella e ancor giovane,
saliva verso di lui, sollevando con delicatezza un lembo della gonna.
Non l’aveva ancora visto, poiché teneva gli occhi
abbassati verso i gradini
-
Bentornata. – la salutò Harlock, scendendo un paio
di scalini.
- Harlock!
– esclamò sollevando il volto, che
s’illuminò di gioia – Oh Harlock, sei
tornato! – affrettò il passo e raggiunto il
giovane colonnello lo abbracciò con trasporto.
- Da
quanto tempo desideravo rivederti! – riprese la donna,
scostandosi da lui e guardandolo in viso – Mi sembri
più alto, chissà perché.
Harlock
sorrise.
- Quattro
lunghi anni… - mormorò lei, sfiorandogli il viso
con la punta delle dita - Mi sembrano secoli, tanto sono stati lenti a
trascorrere. Ma per una madre costretta lontana dal figlio anche un
giorno diventa un’eternità.
- Siete
bella e fresca come il giorno che vi ho lasciata. –
replicò Harlock, fissando lo sguardo con dolcezza nelle
pupille cerule della madre.
Rimasero a
guardarsi l’un l’altra ancora per un poco, immobili
sui gradini, lei con il volto alzato verso quello del figlio, immersi
in un colloquio silenzioso. Poi la contessa esclamò:
- Ah,
vieni, andiamo nella Sala delle Ninfe: sarai stanco e anch’io
ho proprio bisogno di riposarmi, dopo una giornata passata fuori di
casa.
- Da chi
siete stata, oggi? – chiese il colonnello, incamminandosi
sottobraccio con sua madre.
- La
contessa de Lussac mi ha invitata ad un piccolo party pomeridiano,
assieme ad altre dame.
- Vi siete
divertita?
- Per
niente: è stato terribilmente noioso! – rispose la
contessa Eva ridendo.
Entrarono in un vasto salotto, luminoso e accogliente, arredato con
poltrone e divanetti dal tessuto chiaro e riscaldato da un grande
camino in marmo, sopra il quale stava appeso un alto specchio dalla
cornice dorata. Alcuni busti di figure mitologiche femminili ornavano
gli angoli della stanza, mentre il soffitto era mirabilmente affrescato
con scene raffiguranti giochi di ninfe e amori d’antichi
dèi.
Harlock si
sedette su di un divano, di fronte a sua madre, ed accavallò
le gambe, poggiando un braccio sullo schienale. Era vestito in modo
molto informale, poiché indossava solo una camicia di seta
bianca, con il primo bottone lasciato slacciato, ed un paio di
pantaloni neri, senza fascia in vita.
Sua madre
lo guardò, disapprovando tanta trascuratezza, ma non disse
nulla, dando la colpa di tutto al lungo periodo trascorso in guerra e
all’inevitabile rozzezza di quell’ambiente.
- Non hai
nulla da raccontarmi, dopo tutto questo tempo che non ci vediamo?
– esordì lei d’un tratto, sporgendosi
verso Harlock.
- Non mi
sembra il caso di farvi la cronaca delle battaglie e delle varie
campagne militari. – rispose questi.
- Ci
sarà pur qualcos’altro di cui mi puoi parlare
senza scendere in racconti truci o spaventosi, non credi? –
si lamentò la contessa, ritirandosi.
- Adesso
non mi sovvengono momenti migliori di cui valga la pena raccontarvi.
- Sono
certa che se tuo padre fosse ancora vivo avreste molte cose da dirvi.
- Forse
sarebbe stato accanto a me… o se non altro, avrebbe
affrontato la guerra su di un altro campo di battaglia, su di un altro
fronte. – ipotizzò Harlock, immergendosi per un
solo istante in quest’impossibile eventualità.
- E io
sarei stata qui ogni giorno a tremare d’angoscia per
entrambi. Mio Dio, no… Mi è bastato avere te a
combattere. – disse sua madre, scuotendo la testa come
per scacciare un tale pensiero.
- E voi,
dovreste avere molte cose da narrarmi, vista tutta la vita mondana che
conducete. So che, nonostante fossero tempi duri, le feste e i
divertimenti a corte non sono certo diminuiti.
-
Sì, invece: dello splendore e della ricchezza di quattro
anni fa queste ultime feste ne avevano conservato solo pallide tracce.
– protestò, fingendo d’indispettirsi. Ma
poi riprese, sorridendo felice - Ma adesso che la guerra
è finita e che molti giovani valorosi ritornano finalmente
alle loro case potremo riprendere a divertirci con il cuore leggero e
potremo anche festeggiare tutti i vostri successi bellici!
- Siamo
stati molto vicini alla disfatta, invece… -
mormorò Harlock ed il suo volto si fece serio. –
Abbiamo resistito fino all’ultimo sul fronte nord nel quale
ero impegnato e le ultime battaglie sono state cruente e
feroci… ho perso molti uomini, in quei difficili giorni.
- Ma tu
sei ritornato sano e salvo. – lo interruppe sua madre,
allungando una mano verso di lui e posandogliela sulle ginocchia.
Harlock
non disse nulla e non la guardò in viso, continuando a
fissare nel vuoto davanti a sé. Eva capì di non
poter penetrare in quei pensieri e di non poter nemmeno pretendere che
suo figlio le parlasse di ciò che ora riempiva la sua mente:
era di fronte ad un uomo che aveva attraversato l’ombra
oscura della guerra e che aveva calpestato il sangue di nemici e
compagni. Nessuna parola umana può narrare tanto orrore.
-
Però, in mia assenza, devono essere avvenuti molti
cambiamenti… - esordì ad un tratto il colonnello,
fissando gli occhi in quelli della madre. – Anche
in questa casa, probabilmente.
- Oh, no:
qui cambiamenti sostanziali non ce ne sono stati. Avremo
tutt’al più spostato qualche mobile o acquistato
qualche dipinto. Questa casa, lo sai, è uguale da
generazioni. – rispose tranquillamente lei, ridendo.
Harlock
rimase in silenzio, ma non smise di guardarla in volto con i suoi occhi
penetranti, che sembravano possedere il dono di sondare gli abissi
più oscuri dell’animo umano. Come se avesse
compreso che con quello sguardo suo figlio la invitava a parlare, la
contessa Eva riprese la parola e disse:
-
C’è piuttosto un’altra cosa di cui
vorrei parlarti: una cosa molto più importante. –
fece una breve pausa ed abbassò gli occhi in grembo, per
rialzarli poco dopo. – Negli ultimi mesi ho conosciuto una
persona, un giovane, che è divenuto un mio carissimo
amico… mi è stato molto vicino quando tu non eri
a casa e mi ha aiutata a sopportare l’angoscia della
lontananza e della guerra. Per ringraziarlo… ed anche per
averlo sempre accanto, l’ho invitato a vivere qui, per
qualche tempo. Adesso so che non è in casa, ma dovrebbe
ritornare tra poco, così potrò finalmente
presentartelo: sono certa che ti piacerà! E’
intelligente, abile cavallerizzo e ottimo conversatore. –
concluse con un sorriso che esprimeva gioia ed orgoglio insieme.
-
L’ho già incontrato. – disse freddamente
Harlock. Il viso di Eva cambiò subito espressione, mostrando
evidenti segni di preoccupazione.
- Quando
l’hai incontrato? So che è fuori da questa
mattina… - chiese.
- Infatti:
stava proprio uscendo, quando ci siamo incrociati. Abbiamo scambiato
solo qualche parola.
- Davvero?
Spero ti abbia fatto una buona impressione. – Eva sorrise, ma
ciò nonostante non riuscì a celare la sua
apprensione.
- Per la
verità, non molto. – confessò
tranquillamente il colonnello. – Ma probabilmente la colpa
non è nemmeno sua: è stata la sorpresa di trovare
in casa mia, dopo lunghi anni di assenza, un estraneo che non mi
conosce e che, in tutta evidenza, si comporta come se ne fosse il
padrone.
- Gli ho
dato io il permesso di fare come se fosse a casa sua. – lo
difese subito la contessa, portandosi una mano al petto.
- Non lo
metto in dubbio… e anzi, vorrei ben vedere il contrario!
Ciò non toglie che, forse, avreste dovuto informarmi prima
della sua presenza, non credete?
- Ma
quando avrei potuto farlo? Per diversi mesi la nostra corrispondenza
è stata interrotta, a causa della violenza degli ultimi
scontri. E poi… e poi comunque preferivo parlartene di
persona: è una cosa molto importante per me e non mi
sembrava il caso di dartene una spiegazione sommaria per via epistolare.
-
Così vi è sembrato più adatto non
dirmi niente fino alla fine e farmi una sorpresa? – la
rimbeccò suo figlio, nella cui voce vibrava una nota
d’asprezza.
- Sei
stato tu a rientrare all’improvviso, senza dare il
benché minimo avvertimento, né a tua madre,
né alla servitù, perché ti ricevessero
come si doveva!
Harlock
aggrottò le sopracciglia, infastidito da quelle parole.
- Sta
bene. – disse. – Accetto l’accusa.
Quantunque non creda necessario fare tante cerimonie solo per ritornare
a casa propria.
-
Cerimonie? Ti chiedevo solo di avvertire per tempo del tuo ritorno,
così che ti si potesse accogliere. –
replicò Eva, stizzita.
-
Ciò non toglie che l’avrei comunque trovato a casa
mia, senza averlo mai neppure sentito nominare, senza che mi diceste
nemmeno: “Ho conosciuto un amico che ti vorrei presentare
quando torni”.
- Ma
infine, qual è il problema? – sbottò la
contessa, fissando gelidamente in volto suo figlio.
- Il
problema, madre, è che avete condotto a casa un giovane,
verso il quale provate un interesse ben superiore
all’amicizia e avete aspettato che io tornassi per mettermene
al corrente. – la voce di Harlock era fredda, ma vi
traspariva ugualmente con sufficiente evidenza il suo disappunto.
- Chi ti
ha detto queste cose? Chi si è permesso di parlarti del tipo
di rapporto che dovrebbe esserci tra me ed Anthony? – la
contessa di Lorckshire serrò i pugni in grembo e la sua voce
si alterò.
- Nessuno,
l’ho capito dal modo in cui si è comportato lui
questa mattina e da come me ne avete parlato poco fa. –
mentì il colonnello, volendo evitare che il nome di John
entrasse nella vicenda.
- E
t’infastidisce così tanto che io sia felice, che
abbia un amico?
- Non
è un amico, lo sapete meglio di me. E comunque… -
riprese, senza lasciare ad Eva il tempo di replicare –
Comunque non è questo che mi dà fastidio, anzi:
mi fa piacere che ci sia stato qualcosa, qualcuno, che vi ha distratta
dal pensiero della guerra, che vi ha impedito di preoccuparvi di
continuo per me. Quello che non accetto è il tipo di legame
che avete con questa persona e anche il modo in cui ne sono venuto a
conoscenza.
- Ma
è proprio questo tipo di legame che mi rende felice:
è il suo amore, dopo tanta solitudine, dopo tanti anni
trascorsi dalla morte di tuo padre! – si difese la contessa,
portando entrambe le mani al petto in un gesto accorato.
Harlock si
levò in piedi ed andò verso la finestra,
fermandosi poi a guardare fuori dai vetri: il giardino
s’andava sempre più dipingendo di toni ocra e
scarlatti e un tappeto di foglie ricopriva il prato e le aiuole, che si
preparavano ormai a dormire il lungo sonno invernale.
-
E’ un giovane gentile, intelligente e premuroso.
– la voce di Eva riempiva ancora la stanza. – Se tu
non avessi dei pregiudizi nei suoi confronti, sono certa che ti
piacerebbe e che potreste diventare ottimi amici. E quel che
più conta, mi vuole bene. E gliene voglio anch’io!
Non hai il diritto d’impedirmi di amarlo!
- Amarlo?
– replicò Harlock, voltandosi di nuovo e
sforzandosi di dominare l’impeto con cui stava per
pronunciare le sue parole. – Madre, quel giovane
avrà sì e no la mia età! Come potete
dire di amare qualcuno che potrebbe essere vostro figlio?
- Ma tutto
questo non ha alcuna importanza! L’amore, Harlock, non si
misura facendo un computo anagrafico. Allora che dovresti dire di tutte
le fanciulle che vanno in spose a uomini molto più maturi di
loro? Perché non ti scandalizzi anche di questo?
- Lo
sapete benissimo che non approvo certe unioni. – rispose il
colonnello.
- Non le
approvi perché sai benissimo che questi matrimoni sono
celebrati su ben altra base che non l’amore. Ma io ed Anthony
ci amiamo davvero, siamo entrambi abbastanza maturi per gestire i
nostri sentimenti e la nostra vita! E di questo mio legame non voglio
rendere conto a nessuno.
- Rendere
conto? – esclamò Harlock, avvicinandosi
– Io non vi chiedo di rendermene conto, so benissimo che non
potrei e che comunque non servirebbe a nulla: conosco la vostra
cocciutaggine.
Il bel
volto di Eva si oscurò e i suoi occhi brillarono, come il
cielo lavato dalla pioggia.
- Stai
denigrando i miei sentimenti… - disse in un soffio.
Harlock la
guardò e tacque. Comprese in un istante che questa penosa
discussione era perfettamente inutile e che alla fine del loro
colloquio, comunque, nulla sarebbe cambiato. Gli restava solo, nel
petto, una spina dolorosa che sembrava trafiggerlo da parte a parte e
anche il ritmo del suo respiro era mutato.
-
Dannazione… - pensò, portandosi fugacemente la
mano al centro del petto – Non mi era mai accaduto di sentire
queste fitte per un banale diverbio.
- Questa
sera a cena lo vedrai. – riprese Eva, palesemente offesa
– Così potrai conoscerlo e fartene
un’idea più obiettiva: almeno dopo parlerai con
cognizione di causa.
Si
alzò, scostandosi dal divanetto sul quale era seduta.
- Adesso
scusami, vado a cambiarmi: ci vediamo più tardi. –
uscì dalla stanza senza aggiungere altro. Harlock
udì ancora il frusciare della sua veste lungo il corridoio,
poi anche quel suono si spense.
Rimase a lungo solo nella stanza a riflettere, in piedi accanto alla
finestra. Il giorno moriva silenzioso davanti ai suoi occhi, oltre i
vetri che si dipingevano dei cangianti riflessi del sole. Un soffio di
tenebra s’andava distendendo nella stanza, illuminata solo
dai caldi barbagli del fuoco che ardeva nel camino.
- Forse
sono io che sbaglio. – pensò – Mia madre
sembrava tanto felice e anche oggi, appena l’ho rivista, il
suo volto mi era apparso così luminoso… Per lei
questo sentimento dev’essere stato molto importante e
probabilmente l’ha aiutata più di quello che posso
immaginare a superare i cupi anni della guerra.
Però… - la mano che teneva appoggiata contro
l’infisso della finestra si chiuse a pugno e le sopracciglia
si corrugarono. – Però come posso credere che
anche per quel giovane le cose stiano allo stesso modo? Come posso
pensare seriamente che ricambi i sentimenti di mia madre con la stessa
intensità, con la stessa dedizione? E come può
crederlo lei stessa?
|
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Capitolo 2 *** Discussioni ***
Capitolo
II
Discussioni
La
contessa di Lorckshire e il suo giovane amico erano già a
tavola e
conversavano gioiosamente delle vicende accadute negli ultimi giorni,
quando Harlock entrò nella sala da pranzo. Indossava
un’uniforme
molto più in ordine e in buono stato di quella con cui era
giunto al
mattino.
-
Buonasera. – li salutò, avviandosi verso il suo
posto a
capotavola.
-
Buonasera… - gli rispose il conte Anthony, osservandolo.
Harlock
s’accorse di quello sguardo prolungato, che indagava
indiscretamente ogni parte della sua divisa, ma non fece commenti,
volendo evitare un altro alterco con sua madre.
-
Vi ho fatto aspettare? – chiese una volta che si fu seduto.
-
No, siamo scesi da poco anche noi. – disse Eva, sorridendo
amabilmente con i suoi occhi di cerva e guardando soprattutto in
direzione del conte di Ayveron, come se una qualche
complicità
segreta li avesse legati in quelle ore.
Anche
Harlock lo guardò: era davvero bello, il suo volto era
armonioso e
aveva lineamenti delicati e tutta la persona emanava il fascino
sottile e seducente della giovinezza sbocciata da poco. Tutto in lui
era ancora una perfetta mescolanza di fanciullezza spensierata e
virilità nascente e forse questo, si disse il colonnello,
aveva
tanto attratto sua madre.
-
Mi dispiace che questa mattina non abbiamo avuto tempo per le
presentazioni. – esordì Anthony, guardando
sorridente il suo
interlocutore. – Se mi aveste detto chi eravate non sarei
stato
così scortese da andarmene subito e vi avrei tenuto
compagnia fino
al ritorno di Eva.
-
Possiamo sempre rimediare adesso. – replicò il
colonnello.
-
Certo: io sono Anthony Michelangelo, conte di Ayveron. - rispose,
senza che il suo sfacciato sorriso gli venisse meno sulle labbra
-
Harlock di Lorckshire. – rispose semplicemente il colonnello.
Si
guardarono negli occhi per un lungo istante ed Harlock ebbe
l’impressione che gli fosse lanciata una sfida silenziosa e
che con
quel sorriso Anthony si beffasse di lui. Ma nonostante ciò
ne fu
divertito ed in cuor suo si disse: “Sta bene,
accetto!”
Durante
la cena i due uomini discussero molto, toccando i più
disparati
argomenti: la guerra, la politica, l’economia, la filosofia,
l’arte. Harlock si rese conto di trovarsi di fronte ad un
abile
conversatore, colto, forbito nel parlare, ma anche molto cinico e
pungente. La contessa li ascoltava con piacere, guardando in viso ora
l’uno ora l’altro ed in cuor suo era molto
soddisfatta della
piega che aveva preso la serata e dell'inaspettata sintonia creatasi
tra loro. Quand’ebbero finito di mangiare si spostarono nella
sala
delle Ninfe ed Harlock andò a prendere del buon vino
italiano perché
Anthony ne assaggiasse. Glielo servì personalmente dicendo:
-
Viene dalle colline toscane: sono sicuro che vi piacerà.
– poi lo
versò anche nel suo bicchiere - Era da un bel po’
che desideravo
assaporare di nuovo il suo aroma.
Prese
il calice tra le dita, sedendosi su di una poltrona con aria assorta.
Le candele del lampadario, riflettendo la loro luce nel vino, gli
donavano mille infuocati riflessi ed esso sembrava così un
piccolo
lago acherontèo murato tra rocce di vetro.
-
Davvero speciale. – commentò Anthony, dopo averne
bevuto alcuni
sorsi.
-
Infatti di solito lo teniamo per le occasioni speciali. –
commentò
la contessa – Ma questa è di certo una serata
speciale ed è
quindi più che giusto averne stappato una bottiglia:
finalmente
Harlock è tornato a casa e vi siete conosciuti. Per me
è una gioia
immensa avervi qui tutt’e due! – prese le mani di
Anthony e si
avvicinò di più a lui sul divano.
Harlock
li osservò: sua madre aveva sempre un’espressione
così languida e
tenera quando stava con il conte di Ayveron, quando poteva incrociare
il suo sguardo o ascoltarne la voce. Si vedeva ad occhio nudo che era
divorata da un sentimento intenso e bruciante che la rendeva viva e
splendida come un’azalea carminia. Del resto Eva era sempre
stata
una donna passionale, dal temperamento ardito e molte volte, nelle
sue azioni, si lasciava trasportare dal cuore e dalle emozioni.
-
Sarà bene, Harlock, che presto ti rechi a palazzo per
salutare sua
Maestà ed informarlo personalmente del tuo ritorno.
– esclamò ad
un tratto la contessa, volgendosi verso il figlio.
Il
colonnello sospirò, come se gli avessero ricordato una
fastidiosa
incombenza.
-
Lo sapete che non andrei mai a corte… ma temo che in questa
circostanza non potrò farne a meno.
-
Sarebbe una gravissima scortesia non andare a porgere il tuo saluto
al Re: tutti gli ufficiali appartenenti ai casati più
importanti del
regno andranno a rendergli omaggio e tu non puoi certo essere da
meno! – lo rimproverò Eva, socchiudendo gli occhi.
-
Sì sì, ho capito… - replicò
Harlock, alzando lo sguardo verso il
soffitto.
-
E’ dura essere un uomo abituato a comandare un intero
esercito e
poi dover subire i rimproveri della madre! – disse Anthony e
la sua
voce era a metà tra il sarcastico e il divertito.
Harlock
lo guardò interdetto per un istante, poi sorrise e
constatò:
-
Già: questo succede quando, pur essendo molto giovani, si
riveste
una carica tanto elevata. Ma molti degli ufficiali assieme ai quali
ho condiviso questi anni di guerra avevano un’età
tale da poter
ricevere certi tipi di rimproveri.
-
In effetti ultimamente sembra che nell’esercito regio sia
stata
davvero arruolata il fior fiore della gioventù. –
disse Anthony,
rivolgendo il pensiero a tutti i nomi che aveva sentito e a tutte le
persone che conosceva e che rientravano in questa casistica.
Il
colonnello annuì, diventando improvvisamente serio.
-
Fortunatamente, però, la maggior parte di essi è
ritornata sana e
salva a casa e all’affetto dei famigliari. –
commentò la
contessa.
-
Forse perché molti se ne sono stati nelle
retrovie… - disse
Anthony, voltandosi verso di lei.
-
Credete forse che tutti gli ufficiali siano dei codardi? –
esclamò
Harlock. Per un istante nei suoi occhi brillò una luce di
sdegno.
-
Non voglio dire questo. E soprattutto non voglio mettere in dubbio il
vostro valore militare e l’abnegazione che certamente avete
avuto
per la causa del nostro paese. – si difese Anthony, ma la sua
replica non aveva affatto i toni di una scusa. – Ma credo sia
risaputo che, quando c’è da mandare qualcuno a
farsi ammazzare, si
preferiscono i figli della plebe.
-
Non tutti coloro che entrano all’Accademia militare lo fanno
perché
hanno nell’animo di divenire dei veri soldati, non tutti sono
coraggiosi ed intrepidi… ma gettar fango impunemente anche
su tutti
quelli che hanno sacrificato se stessi durante questo conflitto
è
una meschinità! – replicò il
colonnello, e benché le parole gli
venissero dal profondo dell’anima la sua voce rimase calma.
Il
conte di Ayveron stava per rimbeccare ulteriormente Harlock, quando
Eva intervenne, allungando le sue bianche mani verso il petto di
Anthony, frapponendosi così fra i due.
-
Sono certa che Anthony non intendesse insultare nessuno,
perciò via,
non riscaldatevi tanto… in fin dei conti non è
una questione di
così elevata gravità.
-
Non c’è bisogno che rispondiate per lui, credo lo
sappia fare
benissimo da solo: fin’ora ha sostenuto egregiamente la
nostra
conversazione. – disse Harlock, lanciando a sua madre
un’eloquente
occhiata di disapprovazione.
-
Andiamo, Harlock: perché devi sempre incominciare delle
inutili
discussioni appena ritorni? – protestò Eva,
volendo evitare che il
colloquio degenerasse e che ci fosse subito scontro tra di loro.
Il
colonnello la fissò, allibito e irritato insieme. Ma strinse
i denti
e tacque. Anche Anthony scelse la via del silenzio, preferendo non
contraddire Eva, ma si disse: “Avremo modo di riprendere la
nostra
discussione, quando saremo soli… e sono certo che
verrà molto
presto quel momento”.
Rimasero
assieme per un’altra ora, parlando con molta
tranquillità delle
cose più disparate, senza toccare questa volta argomenti
delicati,
ma entrambi i giovani potevano sentire chiaramente che tra di loro
s’era creata come un’onda cupa ed ostile e che solo
nel momento
in cui avessero finalmente potuto parlarsi chiaramente, senza false
gentilezze, il loro rapporto sarebbe stato più limpido e
definito.
Di qualunque natura potesse diventare.
Contro
la sua consuetudine, che tanto spesso l’aveva spinto a
lasciarsi
avvolgere dal cupo manto delle tenebre, Harlock fu il primo a
lasciare la sala. Non fu solo per la compagnia, non completamente
gradita. Disse che si sentiva stanco, ed era vero. Tornando a casa
aveva deciso che si sarebbe concesso un lungo periodo di riposo
perché il suo corpo era realmente sfibrato e gli sembrava
quasi che
in quei lunghi giorni di sangue e morte qualcosa, con mano fredda e
adunca, gli avesse furtivamente strappato piccoli brandelli di se
stesso, sparpagliandoli poi al vento di perenne autunno che soffia
sulle terre dove infuriano le battaglie.
La
contessa e Anthony lasciarono il salotto quasi un’ora dopo
che il
colonnello se n’era andato. Rimasti soli, avevano scelto di
non
parlare di lui e di quanto era accaduto in quella giornata,
concedendosi invece del tempo solo per loro stessi.
S’avviarono poi
insieme verso le loro stanze, ma arrivati al piano superiore, davanti
alla porta della sua camera Eva congedò il suo amante
dicendo:
-
Buonanotte, Anthony. Sarà meglio che per questa volta
dormiamo
separati: non voglio altri battibecchi con Harlock, nel caso dovesse
vederci uscire di qui assieme, domattina.
-
Ma dopotutto dovreste essere libera di scegliere come gestire la
vostra vita, non credete? – replicò Anthony, con
volto serio. –
Incluso il fatto di dormire da sola oppure no. Vostro figlio non ha
alcun diritto d’interferire in cose che non lo riguardano.
-
Purtroppo invece lo riguardano, eccome. – sospirò,
divenendo per
un istante pensierosa. – Ma comunque sia, non gli
permetterò di
distruggere quest’unione, così faticosamente
creata.
Eva
si sporse, flessuosa come un giunco, verso le labbra di Anthony e le
baciò delicatamente, simile ad una farfalla che si posa sul
petalo
vermiglio di un fiore. Il conte di Ayveron raccolse quel bacio
schiudendo le labbra, per conservarne gelosamente l’umido
sapore.
-
Buonanotte… - le disse in un soffio, mentre le mani sottili
di Eva
scivolavano tra le sue e si allontanavano.
Dolcemente,
la porta fu chiusa ed Anthony rimase solo nel vasto corridoio,
circondato soltanto da una moltitudine di pensieri e dubbi, difficili
da districare. D’un tratto fu costretto a interrogarsi
seriamente
sul futuro di quell’insolito legame che aveva stretto con la
bellissima contessa di Lorckshire, oltre che sul senso stesso di una
tale unione. Scelse di non darsi risposte: era convinto infatti che
non fosse ancora giunto il momento per fare un bilancio di questo
legame, nato da troppo poco tempo per dover essere già
giudicato.
Il
mattino era ancor fresco ed il sole s’era da poco levato
più in su
dell’orizzonte, quando il colonnello si recò nelle
scuderie in
tenuta da cavallerizzo. Lo stalliere che lo vide arrivare lo
salutò
con deferenza, inchinandosi profondamente. Non si stupì di
vederlo
in piedi già a quell’ora poiché sapeva
che era abitudine del suo
padrone alzarsi presto e fare lunghe cavalcate solitarie. Piuttosto,
fu anzi soddisfatto che il tempo trascorso lontano non lo avesse per
nulla cambiato.
-
Buongiorno, signor conte. Devo preparare il vostro cavallo? –
chiese andandogli incontro.
-
Aspetta, prima voglio salutarlo di persona… sono quattro
anni che
non lo cavalco, forse non si ricorderà nemmeno
più di me. – fatti
pochi passi, però, si voltò di nuovo verso il
servo, ridendo. –
Spero almeno che nel frattempo non ne abbiate fatto delle bistecche!
-
Bistecche? – balbettò – Ma no, signore:
è ancora là e gode di
ottima salute!
Harlock
raggiunse il box dove uno stallone nero, fiero e nobile, sbuffava e
scalpitava, fissandolo con occhi fiammeggianti. La lunga criniera
selvaggia fluttuava ad ogni colpo della testa, ondeggiando come una
nube di tempesta.
-
Hai riconosciuto la mia voce, non è vero Tenebra?
– bisbigliò il
colonnello, allungando una mano verso la testa dell’animale e
iniziando ad accarezzarlo. – Sei davvero in forma, sai? Ho
fatto
bene a non portarti con me in guerra: mi saresti senz’altro
stato
d’aiuto, con la tua intelligenza e l’intesa che
c’è tra di
noi, però a questo punto saresti morto… e non una
sola volta.
Il
cavallo si sottrasse bruscamente alle carezze di Harlock ed
allungò
il muso verso il suo volto, accostandolo delicatamente ad una
guancia. Il colonnello ne fu sorpreso e sorrise, riprendendo ad
accarezzare l’animale.
-
Mi vuoi dire che ti sono mancato? Ma adesso sono a casa e credo ci
resterò per un lungo periodo: avremo tempo per fare tutte le
corse
che vuoi. – il destriero scrollò la testa,
sbuffando e sollevando
ritmicamente le zampe anteriori – Ehy, come sei impaziente!
Non
sono davvero riuscito ad insegnarti neanche un po’ di
disciplina,
in questi anni? - Tenebra scrollò ancora una volta la
criniera - No,
eh? Probabilmente me la cavo meglio con i miei soldati: con te
è
sempre stato difficile trattare... siamo troppo simili, noi due.
Troppo ribelli. Vieni…
Così
dicendo aprì lo sportello e fece uscire Tenebra,
conducendolo poi
verso l’entrata delle scuderie, dove, accanto ad una parete,
erano
sistemate le selle dei vari cavalli. Lo scudiero gli si fece incontro
per occuparsi lui di tutto ma Harlock lo invitò a farsi da
parte e
sellò personalmente il suo destriero.
Poco
lontano dalle stalle vi montò in groppa e si
allontanò con lui, al
passo. Attraversò il viale, dirigendosi verso il piccolo
cancello
secondario ad ovest della casa che conduceva alle terre di
proprietà
della famiglia.
Qualcuno
però lo aveva visto allontanarsi: dall’alto della
finestra della
sua stanza, il conte di Ayveron aveva infatti seguito tutta la scena.
-
Si alza presto, il colonnello. – pensò –
Bene, vorrà dire che
fra breve avremo modo di parlarci a tu per tu.
Anche
Anthony, in verità, benché assieme ad Eva
frequentasse assiduamente
feste e rappresentazioni teatrali che si protraevano fino
all’alba,
non disdegnava mai, quando se ne presentava l’occasione, di
alzarsi
di buon ora per fare una passeggiata, per cavalcare in solitudine o
semplicemente per respirare l’aria fresca del mattino.
Tuttavia
erano ben pochi a conoscere queste sue abitudini.
Il
conte di Lorckshire restò fuori fino all’ora di
pranzo, galoppando
a briglie sciolte lungo i sentieri che attraversavano i campi
già
seminati, percorrendo i vigneti distesi sui pendii ai piedi del bosco
e ritornando poi costeggiando il fiume che a nord si snodava lungo le
loro terre. Tenebra sembrava felice di quella cavalcata e non
risentiva per nulla dei tanti chilometri percorsi: quando il suo
padrone lo lasciò alle cure dello stalliere scalpitava e
fremeva
come chi ha ancora tante energie da spendere.
Il
colonnello rientrò in casa di corsa, salendo rapidamente la
scalinata che conduceva alle sue stanze, sapendo di dover far presto
a cambiarsi, se non voleva arrivare in ritardo a tavola. Mentre
saliva gli ultimi gradini, però, sentì una fitta
al centro del
petto e per un solo, brevissimo istante, gli sembrò che il
suo cuore
smettesse di battere. Si sentì avvolto dal nulla e tutto
attorno a
lui si fece vago ed incerto. Fu questione di un attimo: poi il mondo
riacquistò forma e nitidezza ed Harlock si
ritrovò appoggiato alla
balaustra, con il respiro affannoso ed una mano premuta sul petto.
Un’onda di pensieri confusi si agitava nella sua mente, ma
nessuno
di essi riusciva a raggiungere la coscienza e a divenire concreto. Si
costrinse a rimettersi in piedi, stringendo i denti per la fatica che
ciò gli provocava, e si avviò di nuovo verso la
sua camera. Entrò
e si fermò di fronte al letto, immobile. Sciolse lentamente
il
foulard che portava attorno al collo e lo gettò con un moto
di
collera sulle coperte.
-
Che mi succede? – si chiese – Perché
questo dolore continua a
perseguitarmi?
Si
sedette sulla sponda del letto, emettendo un profondo sospiro,
lasciandosi subito dopo ricadere disteso sulla schiena. Rimase a
lungo così assorto, finché non udì la
voce di sua madre provenire
dal corridoio: doveva aver appena lasciato la sua stanza e si stava
dirigendo verso il piano inferiore, verso la sala da pranzo. Il conte
di Ayveron era con lei. Harlock allora si ridestò e
finì di
cambiarsi, indossando i suoi abiti da casa.
Quando
li raggiunse, Eva e il suo amico erano già seduti a tavola.
Sua
madre lo accolse con un’espressione di disapprovazione e di
sollievo insieme:
-
Finalmente… pensavamo non volessi unirti a noi,
quest’oggi.
-
Scusate. – rispose soltanto, sedendosi al suo posto.
-
Hai fatto una lunga cavalcata, immagino. – riprese Eva.
-
Abbastanza. Ma ne ho fatte di più lunghe: infatti Tenebra
non era
ancora stanco.
-
Quel cavallo ti ha aspettato così a lungo che dovrai
faticare un bel
po’ prima che si stanchi di galoppare assieme a te.
– osservò
lei, sorridendo con i suoi denti bianchissimi.
-
Temo anch’io.
Il
conte di Ayveron non poté fare a meno di notare come le
risposte di
Harlock fossero sbrigative, come se il suo unico desiderio fosse
quello di essere lasciato tranquillo, in silenzio.
-
Fin dove siete stato? – gli chiese allora, desiderando
verificare i
suoi sospetti.
-
Ho fatto il giro delle nostre terre: al limitare del bosco mi sono
fermato e sono ritornato verso sud, costeggiando un tratto del fiume.
-
Capisco… allora non siete andato davvero molto lontano. Io
mi sono
spinto spesso molto più in là.
Harlock
non rispose. Su invito di Eva, alcune cameriere iniziarono a servire
in tavola. Per un po’ il pranzo si svolse silenzioso,
finché la
contessa non riprese la parola esclamando:
-
Harlock, ascolta: pensavo sarebbe meglio che già domani tu
ti
recassi a palazzo, dal Re. Presto la notizia del tuo ritorno si
diffonderà e giungerà rapidamente anche ai suoi
orecchi. Io però
non vorrei davvero che sua Maestà venisse a conoscenza del
tuo
rientro da qualcun altro. Devi essere tu ad informarlo personalmente,
com’è giusto.
-
Perché vi preoccupate tanto? – rispose il
colonnello – Il Re
sarà già a conoscenza dei nomi di tutti coloro
che sono ritornati
dalla guerra, chi sono gli scampati, chi i dispersi e chi i morti. Il
ministro della guerra l’avrà già
informato di tutto e così saprà
anche che sono vivo e ben oltre i confini del regno.
-
Oh, che razza di ragioni! – ribatté sua madre,
lanciandogli
un’occhiata di rimprovero – Anche se sa benissimo
che sei tornato
ai tuoi possedimenti, sano e salvo, l’etichetta e il decoro
prevedono che sii tu ad andare a salutare il sovrano.
-
Questo lo so. Ma non vedo il motivo di doverci andare di corsa,
domani.
-
E’ una cosa che va fatta: è inutile aspettare,
dopotutto. –
sentenziò Eva.
Harlock
sospirò. Da molto tempo, forse da sempre, sua madre aveva
preteso da
lui una grande deferenza nei confronti del Re, invitandolo spesso a
recarsi a corte, alle feste o alle celebrazioni solenni appositamente
per compiacere sua Maestà. Proprio lui, che schivava il
potere e gli
onori, la compagnia dei potenti, le lodi e le onorificenze ufficiali.
Eppure, nonostante tutto, c’era chi mormorava che il conte di
Lorckshire avesse ottenuto così giovane il grado di
colonnello solo
grazie ai favori reali.
-
Comunque sia, madre, non vi crucciate tanto: ho già deciso
di andare
a corte giovedì prossimo. E così intendo fare.
-
Giovedì? Fra una settimana? – protestò
vivacemente Eva.
-
Sono cinque giorni. – precisò Harlock.
-
Sono troppi.
-
Non ho intenzione di discutere oltre! – le disse secco suo
figlio,
squadrandola con un’occhiata severa e autoritaria.
-
Sappi però che non approvo la tua scelta. –
concluse la contessa,
palesemente infastidita.
-
Questo non ha importanza. – mormorò Harlock,
riprendendo a
mangiare.
|
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Capitolo 3 *** Due ritratti ***
Capitolo
III
Due
ritratti
Quel
pomeriggio Harlock stava di nuovo passeggiando, apparentemente senza
una meta, per i corridoi e le stanze della sua casa. In
verità era
spinto dalla volontà di ritrovare attorno a sé
oggetti famigliari,
desiderando quasi che potessero dargli l’illusione che il
tempo
non era affatto trascorso e, forse, che neppure la guerra c'era mai
stata. Era un sentimento vago e al contempo imperioso che lo
spingeva a vagare da una parte all’altra, attraverso i luoghi
che
gli erano più famigliari, frequentati assiduamente durante
tutta la
sua vita. Fu così che alla fine giunse all’estrema
ala sinistra
del palazzo, di fronte ad una porta ampia e molto alta.
Esitò per un
attimo, prima di poggiare la mano sulla maniglia. Nell’anima
gli
vibravano, confuse, una gioia trepidante e una penosa inquietudine.
Quando la porta s’aprì, un intenso odore di olio
di lino e di
colori lo investì, insieme ad una luce vivida e calda la
quale,
entrando dalle ampie e luminose vetrate lungo le pareti, si gettava
sul pavimento come un pulviscolo d'oro. Si trattava di uno spazioso
ed accogliente atelier, ingombro di tele delle più svariate
dimensioni, appese alle pareti oppure accatastate le une sulle altre;
alcune erano incorniciate, altre ancora nude mentre talune di esse
presentavano solo pochi segni, abbozzi di figure od oggetti mai
portati a compimento. Quasi al centro della stanza c’era un
cavalletto e sopra di esso un dipinto non finito, il ritratto di una
donna bionda e fulgida come il sole: la contessa Eva di Lorckshire.
Harlock si avvicinò al dipinto e lo guardò
attentamente: non era
perfetto, tuttavia da quelle linee morbide e dai quei colori
così
caldi e luminosi traspariva tutto il sentimento che lo aveva animato
mentre lo dipingeva: tutto l’affetto che portava a sua madre
e il
profondo dolore per l’imminente separazione. Il conte di
Lorckshire
vi aveva infatti lavorato fino a pochi giorni prima della partenza
per il fronte. Lo prese con entrambe le mani e lo sollevò
dal
cavalletto, tenendolo ad una certa distanza da sé, per
rimirarlo
meglio.
-
Pensavo che forse non ci saremmo più rivisti…
– disse tra sé –
Ritrarre qui il vostro volto, madre, è stato un tentativo di
ricordarvi, di portare con me, in mezzo all’ombra e al fango,
un
po’ del vostro splendore. Ma fortunatamente tutto questo non
è
stato necessario. – tacque, divenendo improvvisamente pensoso
–
Anche se ora vi trovo cambiata: vedo in voi sentimenti che non
provavate da tempo e che io, forse, non conoscevo più.
Dopo
aver rimesso il quadro al suo posto si sedette sullo sgabello di
fronte al cavalletto e rimase lì, per diversi minuti,
assorto nei
suoi pensieri. Finché alcuni lievi tocchi battuti su di
un’anta
della porta rimasta aperta non lo richiamarono alla realtà:
sull’entrata, un po’ in disparte, c’era
il conte Anthony.
-
Ah, buonasera… - lo salutò Harlock, alzandosi.
-
Buonasera, colonnello. Vi ho disturbato? – rispose.
-
No, prego, venite avanti. – si avvicinò a lui di
qualche passo e
gli indicò un divanetto rivestito di tessuto rosso
ch’era poco
discosto dalla parete di fronte al cavalletto.
Anthony
entrò, guardandosi attorno con una certa
curiosità.
-
E’ la prima volta che vengo qui, da quando abito in questa
casa. –
disse, fermandosi al centro della stanza ed ammirandola in tutte le
direzioni. Vide anche, nell’angolo di una parete, una porta
finestra che conduceva all’esterno, verso la parte del
giardino in
cui erano coltivate innumerevoli varietà di rose.
– E’ un posto
molto suggestivo, con tutta questa luce e l'ampia vista sul giardino.
-
Un posto ideale per dipingere anche se c'è cattivo tempo: da
qui...
– disse avvicinandosi di qualche passo alla porta finestra
– si
possono facilmente ritrarre dal vivo la furia di un temporale o i
petali di una rosa imperlati di pioggia. Eppoi l’atelier
è
circondato da molti alberi e c’è sempre una
piacevole frescura
anche nei giorni di canicola estiva.
Anthony
oltrepassò il colonnello ed aprì la porta verso
il giardino,
rimanendo sulla soglia. Lasciò vagare lo sguardo
tutt'intorno,
posandolo ora sui roseti, ora sulle fronde degli alberi che si
tingevano sempre più di giallo e scarlatto. Infine lo
spostò verso
l'alto e lo fissò sul cielo di un azzurro pallido, percorso
da nubi
rapide e leggere. Intanto Harlock gli si era avvicinato senza quasi
far rumore ed era rimasto dietro di lui ad osservare lo stesso
panorama: era più alto di Anthony di una buona testa e non
aveva
difficoltà a vedere in lontananza, oltre la figura di
Anthony
stagliata contro la porta.
-
Da qui il cielo si vede abbastanza bene. –
commentò.
-
Anche le stelle, probabilmente. – ipotizzò
Anthony, volgendosi
verso il colonnello.
-
Purtroppo questo posto non offre una visuale completa: per
abbracciare con lo sguardo l'intera volta celeste non ci dovrebbe
essere nessun tipo di ostacolo, mentre qui ci sono comunque troppi
alberi attorno.
-
Peccato, altrimenti avrei potuto portare qui vostra madre, per
ammirare le persèidi, praticamente senza prendere freddo.
–
Anthony sorrise malizioso, sapendo bene di mettere in imbarazzo il
conte di Lorckshire con quell'affermazione.
Per
tutta risposta, Harlock gli lanciò un’occhiata
gelida, penetrante
e si staccò da lui, ritornando accanto al cavalletto. Prese
il
quadro che prima aveva contemplato e lo depose a terra, in un angolo
fra le altre tele. Il conte di Ayveron continuò a scrutarlo
per un
po’, senza muoversi, con un sorriso sardonico che gli
increspava le
labbra, poi, con un'alzata di spalle si avvicinò di nuovo al
colonnello, mentre sul volto affiorava un'espressione più
gentile.
-
Ho visto molti dei vostri dipinti, appesi un po’ ovunque in
casa e
devo ammettere che ve la cavate piuttosto bene, soprattutto per
essere un soldato.
-
Cosa intendete? – gli domandò Harlock, ai cui
orecchi le parole
del conte suonavano inevitabilmente cariche di doppi sensi.
-
Intendo dire che non avete certo avuto a disposizione per i vostri
studi artistici tutto il tempo che hanno i pittori professionisti.
–
rispose questi, appoggiandosi con un braccio al cavalletto.
-
L’arte è sempre stata un piacevole passatempo, per
me, un modo per
liberare la mente da ogni pensiero, da ogni tensione. Forse
però è
strano passare dai pennelli alla spada con tanta facilità.
-
Perché dovrebbe? Anche Caravaggio lo faceva. –
replicò Anthony,
guardandolo con il suo consueto sorriso, tra il divertito e il
malizioso.
-
Già, anche Caravaggio. – rispose Harlock
accomodante – Con la
sola differenza che lui non era un soldato.
-
Ma anche lui era parimenti abile con la spada e con i pennelli.
Harlock
rise lievemente e fu come se una calda brezza avesse attraversato la
stanza per un istante.
-
Mi state forse paragonando a Michelangelo Merisi, signor Anthony?
Credo che la strada da fare sia ancora molto lunga… troppo,
per me.
-
Avete ragione: da qui a Porto Ercole la distanza è tanta.
–
concluse il conte di Ayveron, sarcasticamente.
Il
colonnello lo fulminò con un’occhiata.
-
Perché vi sentite sempre in obbligo di lanciare stoccate o
di fare
battute pungenti? – gli chiese.
-
Non era una battuta pungente. – si difese il giovane, alzando
le
mani in un gesto di discolpa che mostrava ben poca convinzione.
-
Porto Ercole è il luogo dove Caravaggio è morto.
Di malaria, tra
l’altro. – replicò Harlock.
-
Si dice, ma non si sa se sia veramente così.
C’è chi sostiene che
sia stato ucciso. – disse Anthony, fingendo di non capire,
mentre
di nuovo quel sorriso sarcastico spuntava sulle sue labbra.
Harlock
trasse un sospiro e rinunciò a proseguire con la
requisitoria. Il
conte di Ayveron lo fissò per qualche tempo e mentre il suo
sorriso
mutava fino a perdere la sua piega ironica, riprese:
-
Ritornando al punto di partenza del nostro discorso, parlavo sul
serio quando ho detto che alcuni dei vostri lavori mi sono piaciuti
molto: il ritratto di Eva che c’è nella Sala della
Notte, per
esempio, o i dipinti delle sirene della Galleria, sono davvero molto
belli.
Harlock
lo squadrò, soppesando il vero senso di quelle parole con
una sola
occhiata, quindi si volse di nuovo verso il cavalletto, sul quale
aveva posto un'altra vecchia opera che doveva superare il suo severo
giudizio, e rispose:
-
Vi ringrazio. Credo che siano effettivamente tra le mie opere
migliori, o almeno sono tra i pochi dipinti che non ho avuto la
tentazione di staccare quando li ho rivisti.
-
E perché avreste dovuto staccarli? – gli fece eco
Anthony,
perplesso.
-
In molte tele ho trovato così tanti difetti che mi chiedo
con quale
diritto possano stare ancora appese al muro. - rispose, osservando
quella che aveva di fronte da angolazioni diverse sempre con il
medesimo sguardo corrucciato.
-
Forse siete
troppo severo con voi stesso: dopotutto sono opere giovanili.
-
Già… e si nota molto. Forse sono stato troppo
presuntuoso: essere
un vero artista non significa solo saper tracciare pochi segni su di
un pezzo di stoffa, mettere giù alla ben e meglio alcuni
colori.
Essere artista è una vocazione, è un bisogno
dell’anima: per
queste persone, uniche al mondo, non poter dipingere o scolpire o
intagliare è come non respirare. Inoltre –
riprese, dopo un breve
silenzio e la sua voce
s’era fatta
più grave – sono convinto che solo
un sentimento potente, come l’amore o la sofferenza, possano
produrre quella che si definisce ‘la grande arte’.
Anthony
lo osservava attentamente ed era il suo sguardo a tradire
più d’ogni
altra cosa tutto il suo interesse: gli occhi azzurri scintillavano
come acquamarina sotto le lunghe ciglia scure mentre si sforzava di
comprendere il senso più profondo di quelle parole.
-
Non ho creato nulla che valga veramente la pena di essere conservato.
In tutto questo tempo io non ho creato assolutamente nulla. - Harlock
fissava la tela davanti a sé senza vederla e la sua voce
sembrò
turbata.
-
Parlate solo dell’arte? – chiese Anthony, a cui non
era sfuggito
quell’accoramento.
-
Di che altro dovrei parlare? - rispose il colonnello, con voce
incolore.
Il
conte di Ayveron rimase in silenzio di fronte ad Harlock, un braccio
delicatamente appoggiato alla tela sul cavalletto, senza smettere di
fissare in volto il suo interlocutore, che dal canto suo pareva non
vederlo più, quasi che la stessa presenza di Anthony
divenisse più
evanescente via via che i minuti passavano. Quando Anthony
parlò di
nuovo, la sua voce risuonò stranamente forte nel grande
atelier
rimasto così a lungo silenzioso.
-
Avete passato quattro anni a combattere, non certo tra ozi e
divertimenti licenziosi. Immagino che questa lunga guerra vi abbia
tolto anche molte energie, o forse adesso non avete ancora il
desiderio d’impegnare quelle che vi restano in qualcosa di
particolarmente gravoso.
Harlock
non replicò, gli occhi ancora fissi davanti sulla tele di
fronte a
lui, ma Anthony ebbe l’impressione che stesse riflettendo
sulla sua
affermazione.
-
Ora che siete di nuovo a casa, con tutto il tempo che avete a vostra
disposizione, non vi sta tornando la voglia di dipingere? –
riprese
Anthony.
-
Il desiderio, sì, ma l’ispirazione... Credo che
sia avvizzita come
un fiore in mezzo alla battaglia. O forse, chissà, mi manca
semplicemente un bel soggetto da dipingere! – rise, guardando
di
nuovo il suo interlocutore con un’espressione maliziosa. Pur
spiazzato da quel cambiamento, Anthony si riprese in fretta e
colpì
Harlock con una delle sue consuete stoccate:
-
Forse, mio caro colonnello, a voi manca una donna!
Harlock
si fece di nuovo serio e replicò:
-
Non intendevo ciò quando ho pronunciato quella frase.
-
Certe cose non si possono dire esplicitamente, ma io vi ho inteso lo
stesso, colonnello! – il conte di Ayveron gli
lanciò un’ultima
occhiata, prima di allontanarsi da lui dirigendosi verso la porta.
Harlock
non replicò, limitandosi a scrollare la testa con un breve
sospiro,
consapevole che Anthony sapeva combattere
con la lingua tanto bene quanto lui tirava di scherma.
-
Vi auguro una buona serata, colonnello: adesso devo proprio
raggiungere vostra madre di sopra o le farò far tardi a
teatro. –
lo salutò, sorridendo amabile e beffardo al contempo.
– Se volete
unirvi a noi, comunque, siete il benvenuto.
-
No, vi ringrazio: credo sarei di troppo. - anche se la voce era
cortese l’espressione si era fatta improvvisamente dura.
Per
nulla colpito, Anthony sorrise e, indietreggiando di un passo senza
voltarsi, richiuse la porta davanti a sé.
Harlock
fissò ancora quella porta chiusa finché il suono
dei passi di
Anthony non si estinse lungo il corridoio, poi il suo sguardo
andò a
posarsi sul dipinto della contessa di Lorckshire che poco prima aveva
deposto dal cavalletto. Gli sorrideva deliziosamente con labbra rosse
più del corallo. Si alzò e, presolo tra le mani,
ritornò a deporlo
sul cavalletto. Poi raccolse i suoi pennelli, preparò i
colori e li
stese sulla tavolozza e infine rimise mano al ritratto, adagiando
nuovi tocchi di luce su quella pelle pallida e splendente che i suoi
occhi ormai conoscevano talmente bene da poter fare a meno della
modella.
Soltanto
dopo che il sole fu tramontato dietro gli alberi oltre le grandi
vetrate dell’atelier Harlock abbandonò
l’esecuzione del suo
quadro: la luce nella stanza andava ormai diminuendo sempre
più
rapidamente e se avesse acceso delle candele avrebbe rischiato di
falsare il tono dei colori di tutto il dipinto poiché la
luce
naturale conferisce alle cose luminosità e tinte diverse da
quella
artificiale. Immaginò di aver fatto molto tardi, concentrato
com’era
sul suo lavoro da non rendersi neppure conto del tempo che passava,
così dopo aver sciacquato i pennelli e averli deposti ad
asciugare
nel solito vasetto di vetro tutto incrostato e aver lanciato
un’ultima occhiata al volto di sua madre che lo osservava
dalla
tela, uscì dall’atelier con l’intenzione
di dirigersi in sala da
pranzo per la cena. Dopo aver percorso a ritroso il cammino che quel
pomeriggio l’aveva condotto fino all’atelier ed
essere ritornato
nell’ala principale del palazzo, si fermò lungo il
corridoio, in
fondo al quale si trovava la stanza da pranzo, a consultare
l’ora
nell’antica pendola a muro che ticchettava con il suo ritmico
battito: erano quasi le sette. Mabel sapeva bene che Harlock non
voleva essere disturbato quando dipingeva e doveva aver dato ordine
alle cameriere di non chiamarlo ma di tenersi pronte a preparare la
cena appena fosse tornato “nel mondo dei vivi”,
come soleva dire
sua madre. Harlock sorrise a quel pensiero e fece per proseguire ma
fu allora che, senza essere evocato, un ricordo si affacciò
subitaneo alla sua memoria. Si voltò lentamente verso la
parete alle
sue spalle: era lì, dietro quella porta di legno scuro che
si
trovava il salotto grande, quello dei ricevimenti formali per ospiti
di un certo prestigio. E là dentro... Mentre il battito del
suo
cuore accelerava impercettibilmente, Harlock posò la mano
sulla
maniglia facendo scattare la serratura ed entrò. La stanza
era
immersa nell’oscurità ed era pregna del forte
odore di legno
proveniente dagli antichi mobili in noce, l’odore
caratteristico
delle stanze che restano a lungo chiuse. La luce proveniente dal
corridoio illuminava sufficientemente la stanza perché
Harlock
potesse camminare con sicurezza in quell’ambiente che
conosceva a
memoria. Avanzò superando agilmente le sedie imbottite di
stoffa e
il tavolino dalle gambe sottili e raggiunse la parete opposta dove a
tentoni aprì le imposte di una finestra, facendo piovere la
fioca
luce del crepuscolo all’interno della stanza, che assunse
tonalità
cremisi. Mentre un crescente stato di attesa gli saliva
nell’anima,
si volse verso il camino, sopra il quale stava un imponente ritratto
a figura intera di un uomo vestito in uniforme. Harlock si
avvicinò,
destreggiandosi senza guardarle fra le poltrone di velluto rosso
disposte davanti al camino, gli occhi fissi sul volto dipinto. Si
fermò a pochi passi e sorrise con dolcezza
all’uomo effigiato.
-
Sono tornato, padre. - fu quasi un sussurro, ma la sua voce
risuonò
nella grande stanza silenziosa e d’improvviso tutto parve
ridestarsi e tornare alla vita. La calda luce del crepuscolo danzava
sulla tela, donandole nuove profondità, e pareva che anche
quella
figura d’uomo fosse viva e potesse d’improvviso
staccarsi dalla
superficie e scendere nella stanza, per abitare di nuovo la casa che
un tempo era stata sua. Quella visione così realistica
turbò il
colonnello come una promessa irrealizzabile e un irrimediabile senso
di perdita gli strinse il petto. Senza staccare i caldi occhi
nocciola da quelli del padre, turchesi e profondi, riprese a parlare.
-
E’ passato molto tempo dall’ultima volta che sono
stato qui: fu
il giorno prima della partenza per il fronte, quando pensai che fosse
giusto congedarmi anche da voi come da mia madre. - il
conte di Lorckshire sembrava fissare il figlio con grande interesse,
come se lo stesse ascoltando e l’espressione intensa del
volto,
ombreggiato da una folta chioma leonina, contribuiva a
quest’effetto.
Solo poche rughe gli segnavano gli angoli della bocca e
sottolineavano la curva degli occhi in un viso che era maturo ma
ancora giovane: non doveva avere più di
quarant’anni.
-
Sono cambiate molte cose in questi quattro anni... - e il suo
pensiero andò subito al conte di Ayveron – Mia
madre era così
disperata, quando ci avete lasciati, per giorni interi non ha fatto
che piangere, inconsolabile, e ora... Davvero il cuore delle donne
è
così volubile, come diceva Amleto, o è forse la
più grande eredità
dell’amore quella di dare a chi resta la forza per continuare
a
vivere?
Harlock
tacque, quasi stesse ascoltando la muta risposta del padre, lo
sguardo ancora fisso in quello di lui. Trascorse così
diversi
minuti, completamente dimentico del tempo che passava, assorto in un
colloquio interiore che non ammetteva intromissioni.
-
Lo so che anche voi le volevate molto bene. - sorrise al pensiero di
un ricordo lontano – Ogni volta che vi faceva arrabbiare la
perdonavate sempre con un sorriso perché più di
ogni altra cosa
eravate felice quando lei lo era, quando vi volteggiava attorno con
quella sua aria da ragazzina spensierata, proprio come fa ora con il
conte di Ayveron. Forse anche adesso approvereste, purché
lei sia
felice. - sospirò, posando un braccio sulla mensola del
caminetto e
abbassando la testa, gli occhi fissi sul pavimento – Padre, e
io
che cosa devo fare?
Un
giorno anche tu troverai la tua strada e non permetterai a nessuno di
dirti che cosa devi fare.
Harlock
sbarrò gli occhi, rialzando di scatto la testa: nessuno
aveva
parlato, ma quella risposta, così diretta, così
vera, corrispondeva
talmente bene allo stile di suo padre e gli era nata così
all’improvviso nell’anima che gli sembrò
di essere riuscito, per
qualche strana ragione, ad entrare in contatto con quel genitore che
tanto amava. Sorrise, senza sapere se di gioia o amarezza e
raddrizzandosi salutò suo padre con il saluto militare.
-
Tornerò ancora a trovarvi, padre, perché
più che in ogni altro
luogo è qui che il vostro spirito è ancora
presente, su questa tela
e in questi colori che di voi hanno saputo catturare
l’essenza più
profonda, con una maestria che io non potrò mai imitare.
Il
colonnello rimase ancora alcuni istanti fermo davanti al dipinto,
come se si stesse congedando, quindi si volse ed uscì dalla
stanza,
lasciando che gli ultimi raggi del sole al tramonto che lo avevano
reso di nuovo vivo continuassero a danzare sul quadro del conte di
Lorckshire come folletti di luce, finché questi non fu
avvolto dal
buio manto della notte, scivolando di nuovo in un oblio simile alla
morte.
|
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Capitolo 4 *** A corte ***
Capitolo
IV
A
corte
Giovedì,
come deciso, il colonnello Harlock di Lorckshire si recò a
corte per
salutare il sovrano. Da molto tempo non metteva piede in quei luoghi
ma fin da quando la sua carrozza varcò i cancelli della
reggia
s’accorse che nulla era mutato: le regole antiche,
l’etichetta e
la consuetudine rendevano il palazzo reale immune al trascorrere del
tempo. La fontana in marmo di Carrara raffigurante Eos, dea
dell’Aurora, situata nella zona centrale del Piccolo Parco
antistante la reggia, mandava ancora i suoi zampilli verso il cielo
ed il carro della dea sembrava scivolare sulle acque trainato da
impetuosi destrieri alati, eternamente bloccato in
quell’attimo
fremente e vitale. L’architetto Hodern l’aveva
realizzata quasi
settant’anni prima, durante i lavori di ampliamento e
ammodernamento del palazzo promossi da re Maganhart VII, il nonno
dell’attuale sovrano, ed era stata restaurata di recente, per
restituire ad ogni sua parte lucentezza e splendore come nel primo
giorno.
Harlock
ricordava di aver giocato lungo i bordi di quella fontana quando,
ancora bambino, era venuto per la prima volta a far visita al re,
accompagnato dalla sorella di sua madre, la contessa Raflesia di
Lesath. A quell’epoca il delfino, che aveva tre anni in meno
di
lui, godeva ancora di ottima salute e nulla lasciava presagire la
malattia che l’avrebbe colto di lì a pochi anni e
che nel giro di
breve tempo l’avrebbe condotto alla morte.
-
Adesso avrebbe ventidue anni e un giorno nelle sue mani sarebbe stato
il destino di questo Paese. – pensò il colonnello,
gli occhi
smarriti nell’infinito luccicare dell’acqua nella
fontana. –
Quel mattino di tanti anni fa giocammo assieme come due bambini
qualsiasi. Era intelligente e cordiale, sono certo che sarebbe stato
un ottimo sovrano.
Harlock
appoggiò la testa allo schienale del sedile e chiuse gli
occhi
mentre i ricordi di quel giorno tornavano a danzare vividi nella sua
memoria. Era un pomeriggio di giugno e nel cielo senza nubi il sole
splendeva con tutto il suo calore, ma accanto alla fontana
dell’Aurora la temperatura era mitigata dai freschi spruzzi
che
uscivano dalle figure di marmo, levandosi in alti zampilli che
scherzavano con i raggi del sole, creando sfavillanti arcobaleni. Il
saluto al re era stato più lungo di quello che
s’immaginava: si
era dovuto sorbire una quantità inaspettata di domande su di
lui, i
suoi interessi, la sua salute, sotto lo sguardo compiaciuto di zia
Raflesia che si era detta molto fiera di come si era comportato con
il sovrano. E poi era arrivato lui a salvarlo: uno scricciolo biondo
di appena sette anni, dal sorriso splendente come il sole di quel
giorno e dagli occhi gentili e penetranti come se ne vedono di rado
in bambini così piccoli. Quasi avesse letto con un solo
sguardo
quanto era diventato tedioso quel colloquio per Harlock, con poche
parole aveva ottenuto il permesso dal re suo padre di uscire a
giocare con lui ed anzi, il re era sembrato piuttosto felice di
concederglielo, quasi non aspettasse altro che i due facessero
amicizia. E così era stato: quelle poche ore trascorse
assieme si
erano quasi moltiplicate nei ricordi del colonnello, che a distanza
di anni ricordava ogni minimo particolare di quello che avevano
fatto. La fontana era stata solo l’ultima delle loro tappe
attraverso il parco, prima che una cameriera di palazzo riuscisse a
raggiungerli dicendo che la contessa di Lesath era in procinto di
partire e che Harlock doveva andare subito da lei. Accanto al
possente destriero alato che trainava il carro della dea avevano
suggellato per sempre la loro amicizia. Harlock sospirò a
quel
pensiero e nella sua mente riecheggiò ancora una volta la
voce
argentina del Delfino, che rideva mentre camminava in equilibrio
lungo il bordo della grande vasca. Harlock lo seguiva a pochi passi
di distanza, pronto ad afferrarlo se fosse scivolato e nello stesso
tempo sicuro che non sarebbe mai potuto accadere perché il
principe
avanzava agile e leggero, quasi ci fossero invisibili ali a reggerlo
nella sua danza e i suoi piedi sfiorassero soltanto il cordolo di
marmo senza poggiarvi.
-
Al mio tre scendiamo di qui e andiamo di corsa alla Grotta di
Persefone: forse riusciremo a lasciarci indietro il vecchio Archie. -
il Delfino bisbigliò la sua strategia senza voltarsi, mentre
il
maggiordomo che li sorvegliava ansioso continuava ad avvicinarsi alla
vasca, allungando le braccia verso il principe senza toccarlo, come
se potesse sorreggerlo a distanza, ripetendo angosciato le sue
inutili raccomandazioni.
-
Come volete, principe Nikandros. - la risposta di Harlock era stata
pronta e decisa, come si conviene davanti ad un ordine.
L’Accademia
Militare, che frequentava ormai da qualche anno, aveva infatti
già
plasmato alcuni aspetti del suo comportamento.
A
quelle parole il principe si era voltato, volteggiando su se stesso
con la leggerezza di un folletto, e aveva piantato i suoi occhi
azzurri in quelli nocciola del suo compagno. Il suo volto era serio.
-
Harlock, volete che siamo amici?
Harlock,
che si era bloccato all’istante di fronte
all’improvvisa virata
del suo interlocutore, lo fissava interdetto.
-
Certo, principe. - ancora una volta, la risposta era stata pronta ma
anche sincera. Harlock sentiva infatti di essersi già
affezionato a
quel bambino dall’animo trasparente che giocava con lui come
se si
conoscessero da sempre.
-
Dite la verità?
-
Sì, principe. - Harlock fu addolorato che dubitasse della
sua
parola, ma non protestò.
-
Allora non chiamatemi più “principe”.
Harlock
non riusciva a capire cosa ci fosse all’improvviso che non
andava
negli appellativi che aveva usato fin lì: Raflesia si era
impegnata
molto perché lui imparasse correttamente tutti i modi in cui
poteva
rivolgersi al sovrano e agli altri membri della famiglia reale, del
caso li avesse incontrati e lui era sicuro di aver memorizzato tutto
correttamente.
-
Come dovrei chiamarvi allora, altezza? - chiese, attendendo la
risposta come si attende la rivelazione di un arcano.
-
Semplicemente Nikandros, come io vi chiamo Harlock.
-
Non credo sarebbe corretto: le persone hanno dei titoli a seconda del
ruolo che ricoprono. Anche nell’esercito i superiori vengono
chiamati “signore” oppure con il loro grado.
Il
principe Nikandros sorrise con dolcezza e di nuovo il suo viso
s’illuminò.
-
Ma noi non siamo nell’esercito e voi avete appena detto di
voler
essere mio amico. - Harlock annuì e il principe concluse
– E gli
amici si chiamano per nome.
D’improvviso,
fu come se quelle parole stracciassero un velo che
l’educazione
ricevuta a casa e in Accademia avevano tessuto davanti alla
realtà
delle cose. Harlock ammutolì senza riuscire a replicare,
consapevole
che quanto detto dal principe corrispondeva a verità. Fu
così che i
due bambini si strinsero la mano, come promessa di eterna amicizia,
sopra le acque tumultuose della fontana, di fronte allo sguardo
immortale della dea dell’Aurora.
Purtroppo
non abbiamo potuto frequentarci assiduamente. Io ero all'Accademia,
mentre lui non poteva sottrarsi all'istruzione che doveva ricevere in
qualità di erede al trono. Ma ogni volta che
c'incontravamo era una grande gioia: entrambi
aspettavamo
il giorno in cui avremmo potuto rivederci come si attende una festa e
per me, che non ho mai avuto fratelli, era davvero come ritrovare una
persona cara, un famigliare che vive lontano. Ma
all’improvviso,
tutto è stato cancellato...
Il
colonnello sospirò, mentre un’ondata di dolore gli
serrava la gola
al sorgere di nuovi ricordi. Era la primavera di dodici anni prima:
Harlock si trovava in Accademia e stava seguendo le lezioni di
scherma con il maggiore Nightingale, quando un altro degli istruttori
venne a chiamarlo. Gli disse che era venuta una carrozza a prenderlo
e che data l’urgenza della questione il direttore gli
concedeva il
permesso di lasciare l’Accademia per due giorni. Harlock, che
si
aspettava di vedere suo padre o al massimo sua madre ad aspettarlo
nel vestibolo, fu molto sorpreso di trovarvi invece sua zia Raflesia:
il bel viso della contessa era talmente colmo d’apprensione
che
Harlock sulle prime temette fosse accaduto qualcosa di grave alla sua
famiglia. Ma non fu meno doloroso scoprire la verità: il
Delfino,
che già da qualche tempo era ammalato, era peggiorato
improvvisamente la sera precedente. Il modo in cui Raflesia
insistette perché Harlock andasse subito dal principe, che
aveva
espressamente chiesto di vederlo, gli fece capire che le sue
condizioni dovevano essere gravissime. Fu una corsa contro il tempo:
Harlock rimase affacciato al finestrino
per
tutto il viaggio, come se in tal modo potesse costringere
la
strada ad accorciarsi e appena giunsero a corte, saltò
giù dalla
carrozza senza aspettare che fosse ferma, attraversando a perdifiato
le stanze che conducevano agli appartamenti del Delfino. Si
fermò
solo di fronte all’anticamera, dove già
c’era un via vai di
medici e membri della famiglia reale. Attese solo pochi istanti prima
di essere ammesso nella camera da letto del principe, assieme alla
contessa di Lesath, che aveva attraversato con lui di corsa mezzo
palazzo.
Ma
il Delfino era in agonia. Il suo respiro era superficiale e a tratti
si lamentava, implorando forse il Cielo di concedergli ancora un
po’
d’aria. Appena li vide sulla soglia, re Waldemar fece loro
cenno di
avvicinarsi: il suo volto era una maschera di dolore ed Harlock
comprese che, nonostante per tutto il viaggio avesse sperato e
pregato che il principe potesse guarire, ormai non c’era
più nulla
da fare. Il re si fece da parte perché Harlock e il principe
potessero restare soli alcuni istanti, mentre la regina
dall’altro
capo del letto non cessava di accarezzare i morbidi capelli biondi
del figlio sparsi sul cuscino. Harlock si chinò accanto al
volto del
suo amico mormorando:
-
Sono qui, sono arrivato. - gli prese una delle mani che teneva
premute sul petto e la strinse fra le sue. - Nikandros... amico mio,
sono qui.
Inaspettata,
in un flebile sussurro simile alla brezza di quei giorni di
primavera, venne la voce del Delfino:
-
Lo sapevo... che sareste venuto... perché... non... mi
avreste
lasciato... partire... da solo... senza salutarmi... Noi siamo...
amici.
Harlock
annuì, mentre un velo di lacrime gli saliva agli occhi
impedendogli
di vedere distintamente il volto pallido del principe che lo fissava
con i suoi occhi azzurri, resi ancora più splendenti dalla
febbre.
-
Resistete, vi prego. Come vuole il vostro nome che vi dice sempre
vincitore, non lasciatevi sconfiggere dalla morte! Non ve ne andate!
- Harlock lo implorò, stringendo più forte quella
piccola mano
smagrita.
Come
se non l’avesse sentito, o forse perché ormai
privo della forza
per rispondere convenientemente a qualunque cosa, il principe disse,
in un sussurro che si era fatto udibile solo da Harlock, chino
accanto alle sue labbra:
-
Sono rimasto... solo per voi... Vorrei dirvi... tante cose... Ma non
c’è... più tempo. Promettete... che
resterete come siete... per
sempre... Harlock... per sem... pre...
Il
Delfino spirò tra le braccia di Harlock e della regina sua
madre, il
cui pianto disperato riempì a lungo la stanza. Quando
Harlock
abbandonò gli appartamenti del Delfino si sentì
svuotato come se se
ne fosse appena andata una parte di se stesso. Si diresse verso le
stanze occupate dalla sua famiglia assieme alla contessa Raflesia,
che piangeva in silenzio come se non volesse mostrare quanto questo
lutto era penoso anche per il suo cuore. Harlock invece non si
curò
neppure di asciugare le lacrime che gli rigavano il volto,
poiché
non gli interessava nascondere la gravità della perdita che
aveva
subito: era il primo vero dolore della sua vita. Ed era stato
straziante.
Incapace
di sopportare oltre il peso di quei ricordi, il colonnello
riaprì
gli occhi: la carrozza era quasi giunta di fronte alla scalinata di
marmo che costituiva l’accesso alla reggia riservato ai
nobili.
Trasse un profondo respiro e si passò una mano sul volto,
ricacciando indietro le lacrime: la vita gli aveva insegnato a non
piangere persino nei momenti più bui eppure non aveva
dimenticato
che non bisogna mai vergognarsi delle lacrime versate per gli amici.
Ma questo non era il momento opportuno per mostrare le tracce di un
antico dolore e come se non bastasse, non voleva dare a nessuno
l’occasione di guardare così a fondo nel suo
cuore. E a distanza
di tempo Harlock aveva capito che questo doveva essere stato il
motivo che aveva spinto anche sua zia a nascondere in pubblico il suo
dolore per la morte del Delfino.
Appena
lo sportello della vettura fu aperto dal servitore, Harlock scese con
un agile balzo, facendo svolazzare il mantello di panno leggero: il
clima tardava a diventare invernale e non era ancora tempo
d’indossare indumenti troppo pesanti.
Poco
dopo, attraversati l’ingresso e il grande vestibolo dalle
possenti
colonne di marmo rosso, salì lo scalone d’onore,
custodito dalle
statue di Atena e Dike, poste ciascuna a lato di una delle rampe
della scalinata a simboleggiare le virtù del sovrano, e
giunse
infine nella Galleria di Zeus. Qui un gran numero di nobili
passeggiava, conversando sugli argomenti più disparati,
alcuni seri
e gravi, altri frivoli o faceti. Harlock
avanzò silenzioso, lanciando ogni tanto fugaci occhiate alle
persone
che incrociava per capire se c’era qualcuno che conosceva e
che,
secondo il suo modo di vedere, meritava di essere salutato. Non era
alterigia, semplicemente non gli piacevano le vuote cortesie di
circostanza e credeva che le persone dovessero fare in modo di
meritarsi rispetto e attenzione, che invece a corte molto spesso si
finiva per tributare a qualcuno solo in considerazione del casato di
appartenenza.
Benché
Harlock tirasse diritto per la sua strada, alla maggior parte dei
nobili
presenti non sfuggì
quell’alta e ombrosa figura che aveva varcato la soglia con
piglio
insieme tranquillo e deciso.
-
Guardate, contessa de Lussac, non è forse il colonnello
Harlock di
Lorckshire quel giovane che sta attraversando il salone in questo
momento? – bisbigliò una nobildonna vestita di
lilla e pervinca
all’orecchio di un’altra, che ancora non
s’era voltata.
-
Ma sì, avete ragione. Non sapevo che fosse tornato. -
esclamò
quest’ultima appena lo scorse.
-
Oh, mia cara, conoscete il conte di Lorckshire: preferisce che
nessuno sappia mai quello che fa. – le rispose la sua amica
con
aria saccente, arieggiandosi
il viso con
il ventaglio.
-
Sì, è vero, ma non perderò certo
l’occasione per andare a
salutarlo. – Antoinette de Lussac,
s’incamminò a passi rapidi
verso il colonnello, che le aveva ormai oltrepassate, arrivandogli
alle spalle.
-
Buongiorno, colonnello: mi fa molto piacere rivedervi, state bene?
–
gli disse appena gli fu abbastanza vicina. La sua voce era
stucchevole come marmellata troppo zuccherata.
Harlock
si voltò, squadrandola da capo a piedi con il suo sguardo
freddo e
penetrante. Un brivido di disagio percorse le spalle nude e la
schiena della contessa de Lussac, e il sorriso adulatore che si era
stampata in faccia le tremò sulle labbra, facendole
raggrinzire gli
angoli della bocca in una serie di piccole rughe. Antoinette era una
donna ancora giovane, attorno ai trentacinque, di modesta bellezza ma
assai esperta nell’arte di truccare il volto e agghindare il
corpo,
capacità che le permetteva di conferire alla sua persona un
certo
fascino. Aveva capelli d’un castano molto chiaro acconciati
in modo
piuttosto sofisticato, ricchi di riccioli e boccoli che ricadevano
sulle spalle e s’insinuavano tra i seni turgidi e bene in
vista. Di
carnagione chiara, usava incipriarsi abbondantemente per aumentarne
ulteriormente il pallore ed amava indossare corsetti molto stretti,
per rendere i suoi fianchi estremamente sottili. Ma la sua voce era
sgradevole agli orecchi del colonnello come la nota acuta di un
violino scordato.
La
calda voce di Harlock, in netto contrasto con il suo sguardo che
restava impenetrabile, rimise appena in tempo la contessa de Lussac a
suo agio.
-
Sto bene, grazie, e voi? – le disse, fissando i suoi occhi in
quelli della donna.
-
Anch’io sto bene... sì... - Antoinette si
schiarì la voce, mentre
riprendeva il pieno controllo delle sue emozioni. - Siete... siete
appena tornato dal fronte, vero? E’ la prima volta che vi
vedo a
corte dallo scoppio della guerra.
-
Non sbagliate.
Sempre
molto laconico. Vediamo se riesco a cavargli qualche altra parola di
bocca.
Intanto,
anche l’altra donna aveva raggiunto la contessa de Lussac e
sembrava tutta intenzionata a proseguire la conversazione, mentre il
colonnello, al contrario, era già pronto a riprendere la sua
strada.
-
Oh, immagino che non avrete voglia di parlare ancora di scontri e
battaglie, ma chissà quanto sarete curioso di conoscere le
ultime
novità di palazzo! - e mentre la contessa in lilla annuiva
con
decisione all’affermazione di Antoinette il colonnello stava
per
risponderle che aveva ben altro da fare in quella mattinata che non
starsene lì ad ascoltare gli ultimi pettegolezzi di corte.
Ma
Antoinette non gli lasciò il tempo d’intervenire e
proseguì
imperterrita, come un fiume in piena. L’obbiettivo di tutto
il suo
conversare era infatti uno solo. E così, dopo avergli
elencato
rapidamente le ultime dicerie su una gravidanza sospetta, un
matrimonio riparatore e le supposizioni a riguardo di una tresca
ignominiosa, toccò finalmente l’argomento che
tanto le
interessava.
-
Santo cielo, colonnello, ma se siete all’oscuro di fatti del
genere
significa che non sapete neppure del matrimonio della mia Nanette
Dorothée! - lo stupore talmente enfatizzato della contessa
de Lussac
permise ad Harlock di capire che, fin dall’inizio, era stato
quello
l’unico scopo di tutto il suo blaterare. - Dovreste vedere
come si
è fatta bella! Voi l’avete conosciuta poco prima
dello scoppio
della guerra, alla festa di Carnevale: aveva appena fatto il suo
debutto in società. Adesso ha sedici anni ed è
entrata a corte come
marchesa de Gabher. Conoscete Pancrazio de Gabher, non è
vero?
-
Sposata? - Harlock era spiazzato da quella rivelazione: ricordava
Nanette e la sera in cui le era stata presentata dalla madre, forse
con la speranza che fosse proprio lui a sposarla, unico erede di un
illustre casato e di un patrimonio tutt’altro che
disprezzabile. Ai
suoi occhi era poco più di una bambina e il suo volto
rotondo e
sorridente esprimeva tutta l’innocenza dei suoi dodici anni.
Antoinette
non parve notare lo sconcerto del colonnello e proseguì come
se
nulla fosse.
-
Il marchese de Gabher è talmente preso da lei che io credo
non
esista al mondo un uomo più innamorato! Quando si
è fatto avanti
non ho avuto alcun dubbio che si trattasse di un ottimo matrimonio:
non capita tutti i giorni che vi sia anche l’amore in
un’unione e
in questo mia figlia è stata molto fortunata.
-
Ma il marchese de Gabher è un uomo maturo... avrà
quarant’anni,
ormai. - il volto di Harlock divenne improvvisamente severo, ma di
nuovo Antoinette finse di non accorgersene.
-
E quale uomo migliore per una fanciulla che non sa ancora nulla del
mondo e ha bisogno di qualcuno che la protegga e la guidi?
L’amica
della contessa de Lussac intervenne con svariate espressioni di
assenso, complimentandosi con lei per la scelta assolutamente
opportuna che aveva saputo compiere. Harlock ne fu nauseato e stava
per congedarsi con una delle educate formule che gli erano state
insegnate da ragazzo quando un’altra persona si
accostò al
gruppetto.
-
Colonnello Harlock di Lorckshire, vero? Finalmente vi si vede di
nuovo tra i vivi! - Harlock si volse verso l’uomo in
uniforme, la
cui voce stentorea aveva sovrastato senza sforzo il chiacchiericcio
delle due donne.
-
Generale di brigata Guerin, che piacere rivedervi! Come state? - i
due ufficiali si strinsero calorosamente la mano. Il generale era un
uomo di media statura e di corporatura robusta ma non grasso e il
viso, cordiale e severo ad un tempo, parlava chiaramente
dell’uomo
di guerra, capace di farsi ubbidire ed amare dai propri soldati.
-
Molto bene, grazie, colonnello. Anche voi mi sembrate in forma per
essere appena tornato dal fronte nord. Ho sentito a lungo parlare
della durezza delle battaglie che si sono combattute laggiù,
soprattutto degli ultimi scontri. Il generale Heinrich, che era a
capo anche della vostra divisione, mi ha raccontato molti dettagli
che... beh, forse è meglio tralasciare in presenza di queste
gentili
signore.
-
Purtroppo molti, troppi soldati hanno perso la vita in quelle terre.
- il volto di Harlock si rabbuiò al ricordo della neve tinta
dal
sangue dei suoi compagni, mentre il generale Guerin annuiva
mestamente. Nonostante il dolore dei ricordi la conversazione
proseguì ancora su argomenti militari: entrambi gli
ufficiali
chiesero e ricevettero notizie su persone che non vedevano da tempo e
che sotto varie forme avevano preso parte alla guerra, commentarono
l’esito di alcune battaglie e la scelta di una determinata
strategia piuttosto che di un’altra. Antoinette e la sua
amica
intervennero tutte le volte che poterono, soprattutto con espressioni
di contrizione, con l’unico scopo di rammentare ai due uomini
la
loro presenza.
Piano
piano, altra gente iniziò ad avvicinarsi per poter salutare
il conte
di Lorckshire e felicitarsi per il suo ritorno. Godeva
infatti di grande reputazione a corte e il suo nome era ormai
indissolubilmente legato alle eroiche imprese compiute sui campi di
battaglia. Molte delle famiglie nobili più in vista
desideravano
ardentemente che una delle loro figlie andasse in sposa al giovane
colonnello,
unico discendente di un antico casato le cui ricchezze, si diceva,
non avevano subito alcun dissesto. Ma
Harlock non amava
gli adulatori e per abitudine sfuggiva ogni genere di complimento,
anche quando era sincero. Così, dopo aver scambiato poche
chiacchiere con una o due persone che gradiva rivedere,
salutò con
parole di circostanza altra gente che gli si era accalcata attorno,
cogliendo appena poté il momento opportuno per defilarsi in
silenzio, come un guerriero che nella notte attraversa il campo
nemico. Quando notarono la sua assenza e qualcuno lo cercò
per
rivolgergli una parola, era già fuori dal salone.
-
Finalmente, cominciava a mancarmi il respiro. – rise tra
sé,
mentre s’allontanava a grandi falcate attraverso altre
stanze,
dirigendosi verso gli appartamenti reali per chiedere udienza. Sapeva
che generalmente la trafila per essere ricevuti dal re era piuttosto
lunga.
Dopo
aver attraversato un gran numero di stanze, si fermò lungo
un
corridoio per guardare fuori da una delle finestre che dava sul
giardino: folate di foglie gialle cadevano dagli alberi e riempivano
i viali di riflessi arancio e dorati o si dondolavano tristemente,
sospese sull’acqua di qualche fontana di uno spento turchese.
-
L’autunno… Avrei preferito tornare a casa in una
stagione più
bella, invece di essere costretto a trascorrere così tante
primavere
in mezzo ai cannoni e al sangue dei caduti. Benché questo
tempo sia
ancora tanto mite, fra poco arriveranno i venti freddi dal nord e
cadrà la prima neve.
Mentre
era immerso in queste considerazioni, gli si accostò un
giovane,
vestito con abiti eleganti ma dal portamento piuttosto marziale.
-
Buongiorno, colonnello. Non salutate più i vecchi amici?
– disse
sorridendo. Subito Harlock si voltò.
-
Frederick! – esclamò, avvicinandoglisi con un gran
sorriso.
Il
maggiore Frederick di Narwall aveva ventotto anni. Di figura alta e
snella e fisico prestante, aveva sguardo insieme scaltro e leale,
capelli color mogano e occhi sfavillanti, verdi come un mare
tempestoso. Si trattava di un amico di vecchia data del conte di
Lorckshire: erano stati compagni all’Accademia Militare e per
lunghi mesi durante la guerra avevano combattuto assieme, prima che
gli eventi bellici e la morte di alcuni alti ufficiali li spingessero
su fronti lontani, a capo di interi reggimenti.
-
Sono molto felice di rivedervi. - proseguì il colonnello,
abbracciando con forza il suo amico. - Come state? So che siete stato
ferito, durante la battaglia di Hessex.
-
Adesso sto molto meglio, ma effettivamente me la sono vista brutta. -
spiegò il conte. - Il medico che era con noi mi dava per
spacciato,
ma fortunatamente, nella cittadina di Overden, poco lontana dal campo
di battaglia, c’era un ottimo chirurgo: credo non sia
esagerato
dire che ha fatto un miracolo! – rise, portandosi la mano al
fianco
sinistro. Harlock osservò quel gesto e divenne pensieroso.
– E
così per me la guerra è finita quasi dieci mesi
prima degli altri,
anche se non fa piacere ad un vero soldato essere costretto ad
abbandonare il campo di battaglia senza potervi più
rimettere piede
e soprattutto senza poter più essere di alcun aiuto.
-
Vi capisco, ma credo non ci fosse altra scelta, per voi. –
commentò
Harlock, posandogli una mano sulla spalla.
-
Ma adesso siamo di nuovo qui, tra il lusso e gli sfarzi di questa
grande reggia, e non è più tempo di pensare alla
guerra e alle
vecchie ferite: è ora di divertirsi, spensieratamente! E
anche voi
dovreste fare lo stesso. – esclamò Frederick con
voce stentorea,
attirando gli sguardi di alcuni valletti. Con un ampio, radioso
sorriso, afferrò Harlock saldamente per le spalle.
-
Sapete bene che non mi piacciono certi generi di divertimenti.
-
Sì, lo sanno tutti che siete una persona ombrosa e un
po’
misantropa, che disprezza la corte e coloro che la frequentano e che
preferisce di gran lunga la compagnia dei cavalli o dei pennelli!
–
Harlock fissò Frederick perplesso, chiedendosi se davvero la
gente
avesse quest’opinione di lui – Ma adesso
è arrivato anche per
voi il tempo di dedicarvi ad oziosi piaceri e d’imparare a
conversare amabilmente con dolci dame incipriate.
-
State scherzando? – la voce di Harlock vibrò di
ribrezzo.
-
Nient’affatto! Seguitemi, vi condurrò lungo i
sentieri della
perdizione! - replicò Frederick, sforzandosi di restare
serio.
-
Veramente... io dovevo andare dal re. - protestò il
colonnello,
mentre Frederick, afferratolo per un braccio, lo conduceva con
sé
verso uno dei saloni più interni, arredati appositamente con
poltrone e divani per favorire “l’amabile
conversazione”.
-
Avete ancora tempo: il re non riceverà nessuno prima delle
undici. –
gli disse.
Ben
presto Harlock non oppose più alcuna resistenza e
così il conte di
Narwall smise di trascinarlo e iniziò a camminare al suo
fianco per
scambiare qualche parola. In verità al conte di Lorckshire
l’idea
di rimandare ancora un po’ l’incontro ufficiale con
il sovrano
non dispiaceva affatto.
Poco
dopo entrarono nel Salone di Psiche, affrescato circa
centocinquant’anni prima da Lewis Erhard, artista di corte di
grande talento, ormai circondato da una fama leggendaria.
-
Spero non abbiate davvero intenzione di mettere a frutto il vostro
malaugurato progetto, Frederick. – disse Harlock, una volta
giunti
quasi al centro della stanza. – Non ho nessuna intenzione di
mettermi a chiacchierare con qualche donna di dubbia intelligenza che
pensa solo a sbattere le ciglia più del necessario.
-
Voi pretendete troppo dalle donne: non vi basta che siano belle?
–
lo canzonò il giovane ufficiale, sempre sorridendo.
-
Ci sono molte donne che sono acculturate, oltre che belle. Purtroppo
però è difficile trovarle in questi luoghi.
– spiegò,
guardandosi intorno. Fu così che vide, piuttosto in fondo
alla
stanza, un gruppo di giovani che discuteva, con fervore e gioia
insieme, di qualche argomento che doveva essere di estremo interesse.
Al centro di essi, seduta su di un divano a due posti, c’era
una
giovane donna vestita da uomo: portava sciolti sulle spalle i lunghi
capelli corvini e nel volto magro dall’ovale perfetto
splendevano,
come stelle gelide, occhi d’un intenso azzurro cobalto,
sottolineati da sopracciglia finissime. Le labbra vermiglie e sottili
risaltavano sul pallore dell’incarnato, illuminate da due
file di
denti bianchi, che brillavano in un largo sorriso venato di amarezza.
Per
diversi istanti Frederick osservò con un sorrisetto
malizioso il
colonnello, che non accennava a distogliere lo sguardo da quei
giovani e quando infine gli domandò se non riconosceva la
persona
seduta al centro del gruppo e sulla
quale con
tanta insistenza si era fermato il suo sguardo, era certo
di
conoscere già la risposta.
-
Non ne ho idea. Voi la conoscete?
A
Frederick sfuggì una lieve risata.
-
Certo che lo conosco. Ed è anche una
delle vostre conoscenze,
per quanto forse sia passato molto tempo dall’ultima volta
che vi
siete visti.
Harlock
inarcò un sopracciglio e il suo sguardo divenne
improvvisamente
penetrante, come quello di un falco.
Conosco
quello sguardo, colonnello. Vi si dipinge in faccia tutte le volte
che siete contrariato perché qualcosa vi sfugge.
E’ decisamente
uno dei vostri sguardi migliori.
-
Si tratta del duca Lemort di Larckstein... ve ne ricordate?
-
Il duca di Larckstein? – esclamò Harlock,
stupefatto. – Io…
l’avevo scambiato per una donna in abiti maschili.
-
Non siete il primo che commette un simile errore. – rise
Frederick,
guardando il rossore imbarazzato che rapidamente scompariva dalle
guance di Harlock. – E’ molto cambiato, in questi
quattro anni.
-
Già… quattro lunghi anni.
Forse
evocato dal pensiero del fulmineo trascorrere del tempo, nella mente
di Harlock riemerse, vivido, il ricordo di un giorno di primavera di
otto anni prima, in cui lui e il duca di Larckstein,
all’epoca
quindicenne, si erano incontrati durante una cavalcata. Spinto
dall’ebrezza della corsa sulla groppa del veloce Tenebra,
Harlock
era giunto fino ai possedimenti del conte di Norberg, presso il quale
il duca allora risiedeva.
All’epoca Lemort non portava ancora i capelli
così lunghi, che arrivavano soltanto
ad accarezzargli le spalle, e il suo viso aveva
un’espressione
diversa, più candida, anche se triste.
L’intensità e la sorpresa
di quell’incontro erano rimasti incisi per sempre nel cuore
di
Harlock.
-
A cosa state pensando? – la voce di Frederick lo
riportò
bruscamente nel presente.
-
A nulla. - Harlock scosse il capo, fingendo indifferenza, mentre i
sentimenti risvegliati da quella visione lontana faticavano a
ritrovare il loro posto nel suo cuore.
-
Volete che ve lo presenti? Dopo tutto questo tempo sarà come
se non
lo conosceste più. - chiese Frederick, con aria allegra,
benché non
credesse alla risposta di Harlock.
-
D’accordo.
I
due ufficiali si diressero verso quel gruppo che conversava tanto
spensieratamente, incurante delle risate troppo forti che uscivano
dalle loro labbra e degli sguardi di disapprovazione dei nobili
attorno a loro.
Quando
furono a pochi passi di distanza, il conte di Narwall li
salutò con
la sua voce chiara e allegra e subito i giovani lo invitarono ad
unirsi a loro, chi additandogli un posto vuoto, chi offrendogli il
bracciolo della sua poltrona o le proprie gambe come sedile.
-
Mi unisco a voi molto volentieri, ma prima vorrei presentarvi il
colonnello Harlock di Lorckshire che, come ormai tutti sanno,
è
appena tornato dai campi di battaglia. - Fredercik allungò
un
braccio in direzione di Harlock, che si era fermato a un passo di
distanza dietro di lui.
-
Siamo molto lieti di fare la vostra conoscenza, colonnello! Io sono
il conte Irwing di Zoder e vi do il benvenuto a corte, nel nostro
personale salotto. – disse, parlando a nome di tutti. - Ossia
nel
posto dove amiamo passare alcuni dei nostri pomeriggi, solo per non
privare questa vetusta nobiltà della nostra gaia presenza.
A
quelle parole gli altri risero in segno di approvazione. Lemort si
limitò a sorridere, senza staccare gli occhi di dosso ad
Harlock.
-
Questo è Myura, conte di Hessex, il nostro più
giovane affiliato. –
proseguì Irwing, ridendo di nuovo, mentre i capelli biondi,
chiarissimi e lisci come seta, traevano argentei bagliori dalla luce
del sole spiovente dalle vetrate.
Myura
tese la piccola mano ad Harlock, sorridendogli graziosamente come una
statuina di porcellana.
-
Molto piacere, colonnello… - disse con voce argentina. Aveva
un
viso ancora fanciullesco, labbra rosse e carnose e guance rosate,
soffici capelli color miele, che s’avvolgevano in riccioli
sinuosi
sulle spalle.
Harlock
ne rimase colpito e il suo stupore dovette trasparire
dall’espressione con cui fissò il conte di Hessex,
perché gli
altri giovani si scambiarono occhiate eloquenti e risatine sommesse.
-
E questi sono Hadrian Maximilian conte di Raiden, nonché mio
cugino,
e il conte Aeneas di Avendish, suo amico oltre che nostro ospite qui
a corte. – riprese Irwing, gli occhi azzurri chiarissimi che
si
posavano prima su uno e poi sull’altro dei giovani appena
nominati,
mentre quelli di Harlock facevano altrettanto.
Maximilian
ed Aeneas erano seduti vicini, su due poltrone accostate e, prima che
il saluto di Frederick li interrompesse, stavano parlando fitto fitto
tra loro. Aeneas aveva capelli color mogano, mentre quelli di
Maximilian, che tra i due doveva essere anche il più
giovane, erano
castano chiaro. Il suo volto, liscio e quasi senza il segno della
barba, possedeva lineamenti più delicati, mentre quello di
Aeneas
era più squadrato e la linea della mascella ampia e virile.
Entrambi
avevano l’aria di essere molto interessati
all’inaspettato arrivo
del colonnello.
-
E per finire, questi è Lemort di Larckstein, figlio del duca
Richard
di Larckstein e nostro insostituibile signore e padrone.
Di
nuovo nel gruppo echeggiarono alte risate, mentre Lemort, sorridendo
compiaciuto, rivolgeva al colonnello uno sguardo penetrante, simile a
un lupo che scruta attraverso le tenebre con occhi di cielo
vespertino.
-
Bentornato a casa, colonnello: siamo felici di avervi qui tra noi,
oggi. Venite, sedetevi, c’è ancora posto.
– lo invitò,
facendogli spazio vicino a lui. Frederick si accomodò su di
una
poltrona, iniziando subito a conversare con Irwing ed Aeneas,
dimostrandosi perfettamente a suo agio in mezzo a loro, come se li
conoscesse da molto tempo.
Harlock
notò che erano tutti giovani di bella presenza e di aspetto
molto
curato. La maggior parte portava i capelli più lunghi di
quello che
solitamente usano fare gli uomini e c’era chi, come Myura e
Maximilian, aveva labbra d’un rosso voluttuoso e intenso,
simili a
fiori di melograno. Irwing era alto ed esile, Aeneas aitante e virile
e Myura piccolo e grazioso come un giocattolo. Ma l’unico a
possedere una bellezza misteriosa, persino inquietante, era Lemort.
Harlock rimase a fissarlo, mentre tutti attorno a lui iniziavano a
conversare gaiamente, con un inspiegabile sentimento di angoscia che
lentamente gli prendeva lo stomaco.
Ha
qualcosa di oscuro e di triste, come il profumo di un fiore che
sboccia di notte.
-
Da quanti giorni siete di nuovo a casa, colonnello? – la voce
di
Lemort spezzò il corso dei suoi pensieri, riportandolo al
presente.
-
Da meno di una settimana.
-
So che il vostro reggimento ha combattuto fino all’ultimo,
sul
fronte nord e si dice che sia stata la regione dove gli scontri sono
stati più aspri e sanguinosi.
Harlock
annuì semplicemente: dopo aver già parlato di
quelle battaglie con
il generale Guerin e con Frederick, non aveva più voglia di
tornare
sull’argomento.
-
Credo che tutti noi, ora che la guerra si è conclusa e siamo
finalmente lontani dai campi di battaglia, non desideriamo
più
ripensare a un passato tanto recente da fare ancora male. Almeno, per
ciò che mi riguarda, questa ferita duole ancora...
– aggiunse
Frederick, portandosi una mano al fianco - E anche quelle dello
spirito sono tutt’ora aperte. Probabilmente anche il conte di
Lorckshire preferisce non parlare più di certi argomenti
e pensare un po’ a divertirsi.
-
Ma non vanno nemmeno dimenticati il sacrificio e il coraggio di
coloro che hanno combattuto o sono morti, obbedendo fedelmente agli
ordini del Re. – replicò Lemort. Il suo sguardo
era insieme dolce
e penetrante, come profumo di calicanto.
-
Non ho molta fretta d’iniziare a spassarmela, mio caro
Frederick. –
intervenne Harlock. – Ho intenzione di riposarmi, questo
sì. Ma
dopo tutto ciò che ho visto e fatto, l’idea di
tuffarmi negli
spassi della corte m’infastidisce soltanto.
-
Non siete mai stato un uomo amante delle feste e della vita mondana
in genere… ma vedrete che vi faremo cambiare idea!
– esclamò
Frederick, strizzando l’occhio in direzione di Aeneas, che
rise e
rispose:
-
Potete starne certo! Lo condurremo con noi, sulla strada del
godimento sfrenato.
Anche
gli altri risero, chi più forte, lasciando che una risata
squillante
vibrasse nella sala, chi più sommessamente, come il conte
Myura, il
quale si coprì la bocca con un gesto molto elegante della
mano.
Non
so se preoccuparmi o prenderla come una battuta scherzosa.
Harlock
guardò quei giovani uno a uno mentre un lieve sorriso gli
increspava le labbra.
-
Allora dobbiamo cominciare presto, prima che il conte si ritiri di
nuovo nel suo romitaggio... - decretò Lemort. Il suo sorriso
bianchissimo era un raggio di sole smarrito nella tempesta. –
Che
ne dite di unirvi a noi per una serata a teatro, colonnello?
-
A teatro? – chiese.
-
Sì: la prossima settimana pensavamo di andare a vedere la
prima
rappresentazione della nuova commedia di Karl Osembergh, che
è
appena stata tradotta. Non penso vi dispiacerà approfondire
la
vostra cultura, dopo tutti questi anni in cui l’avete
lasciata in
completo abbandono.
-
Oh, sì, che magnifica idea! Colonnello, siate gentile:
venite con
noi! Vedrete che vi divertirete molto. – esclamò
Myura, stringendo
con la sua piccola mano il braccio di Harlock.
Immediatamente,
avvertì sotto le dita la forza e il vigore di quei muscoli,
abituati
ad imbracciare il fucile, tesi e sodi persino in una posizione di
riposo. Quel contatto fece arrossire il conte di Hessex, che
abbassò
il viso nel tentativo di nascondere il suo turbamento, come una
fanciulla timida. In questo modo nessuno notò la sua
emozione, ma
niente poté distoglierlo dal pensare alla dura vita militare
che il
colonnello aveva condotto fino a quel momento, al suo corpo abituato
alla fatica, alla lotta, al sangue. Myura chiuse gli occhi con forza
per impedire alla sua immaginazione di galoppare oltre.
-
E ci divertiremo anche noi. – non lo raggiunse neppure il
sussurro
di Aeneas, che lanciava uno sguardo d’intesa ad Irwing,
seduto
accanto a lui.
Harlock
rimase alcuni istanti a riflettere in silenzio prima di rispondere.
-
Dopotutto, perché no? Il teatro può essere molto
interessante,
purché vi si rappresentino opere di qualità.
Mentre
Myura esultava per la decisione del colonnello e gli altri si
scambiavano qualche commento unitamente a maliziose occhiate,
Harlock si disse che era davvero curioso di approfondire la
conoscenza di questa strana compagnia: c’era qualcosa in loro
che
lo attraeva e al contempo lo turbava ed era deciso a scoprire di che
si trattava.
Harlock
si trattenne più a lungo del previsto assieme a
quell’allegra
combriccola, che rideva per ogni futile motivo e parlava liberamente
di ogni cosa, senza troppe formalità e senza alcun rispetto
per
l’etichetta di corte, che imponeva un certo contegno almeno
nei
pubblici saloni. Harlock si stupì di trovarsi
così bene in loro
compagnia. Dopotutto, non era mia stato un tipo da frivoli passatempi
ed inoltre era abituato alla rigida disciplina dell’Accademia
militare: tutta quell’allegra confusione avrebbe dovuto
disturbarlo
e invece scopriva, con sommo stupore, che sembrava fatta apposta per
lui.
Quando
si accomiatarono dagli altri, Frederick insistette per accompagnarlo
fino agli appartamenti reali e volle assicurarsi che avesse davvero
deciso di andare a teatro con loro, il prossimo venerdì.
-
Vi ho detto che verrò, Frederick. Ho forse mai mancato di
parola? -
chiese il colonnello, stizzito, non risparmiando al maggiore uno
sguardo di rimprovero che solo l’ora trascorsa in piacevole
compagnia riuscì ad attenuare.
-
Era solo per esserne sicuri... - rise Frederick, levando le mani
davanti al petto in segno di resa di fronte a un guerriero bellicoso.
- Allora, a venerdì.
Harlock
sospirò e la sua espressione si addolcì ma non
rispose. Frederick
si allontanò salutando il suo amico con un cenno della mano,
il
consueto sorriso allegro ancora stampato in faccia.
-
Non riesco a capire il perché di tutta questa insistenza.
– si
disse Harlock, mentre il suo amico s’allontanava. –
Che abbia
davvero paura che finisca per rinchiudermi a marcire tra quattro
mura, o c’è dell’altro?
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Capitolo 5 *** L'udienza ***
L’udienza
Diversamente
da quanto accadeva di solito per gli altri nobili che chiedevano
udienza, il re non fece attendere a lungo il conte di Lorckshire e lo
ricevette molto cordialmente nel suo studio, dimostrandosi
particolarmente felice che fosse tornato tutto intero dalla guerra.
-
Venite, colonnello, accomodatevi. - gli disse dopo che Harlock lo
ebbe salutato con un breve inchino.
Detestava
l’idea di doversi inginocchiare davanti a qualcuno e quando
poteva
preferiva evitare di farlo perfino di fronte al re.
Il
sovrano gli indicò una sedia davanti al camino acceso, che
riscaldava debolmente la grande stanza rivestita di marmo. Il
colonnello aspettò che il re prendesse posto prima di
sedersi.
-
So che in questi anni vi siete distinto per il vostro coraggio e
avete dato prova di grandi doti di stratega. E mi è anche
giunta
voce che avete più volte rischiato la vita combattendo in
prima
linea. Un curriculum da autentico eroe di guerra, non
c’è che
dire. – riprese il sovrano.
-
Vostra maestà è troppo gentile. - rispose
Harlock, chinando appena
il capo in un gesto che poteva facilmente essere interpretato come
deferenza ma che aveva l’unico scopo di nascondere il suo
imbarazzo.
Re
Waldemar sorrise impercettibilmente, interpretando il gesto di
Harlock per quello che realmente significava. Il sovrano era un uomo
affascinante e decisamente prestante, più simile ai re
guerrieri
delle antiche leggende che ai molti sovrani ingobbiti, rachitici o
minati dalla gota dell’epoca moderna. Aveva poco
più di
quarant’anni ed era alto quasi quanto Harlock che, con il suo
metro
e novantatré, non aveva mai trovato nessuno che gli stesse
alla
pari, eccetto il duca di Larckstein, da quello che aveva capito
quella mattina.
Il
suo volto dai lineamenti decisi, come scolpiti, era illuminato da
fieri occhi castani. Il naso importante, ma non aquilino, dava
risalto al viso dal colorito leggermente olivastro, che gli conferiva
un’aria sana anche durante i lunghi mesi poveri di sole. Le
labbra
sottili erano incorniciate da un mento forte e dall’ampia
ossatura
della mascella, che sottolineavano la virilità del volto
senza
appesantirlo, mentre i capelli color mogano erano tirati
all’indietro, in modo da lasciare libera l’ampia
fronte spaziosa.
-
Non siate modesto, colonnello, sapete bene che quello che dico
è
vero. - commentò il re. - Prima di voi a corte sono giunti i
vostri
dettagliati rapporti e, ancora prima e molto più
interessanti, le
testimonianze dei vostri superiori e poi quelle degli altri
ufficiali, quando siete stato promosso sul campo al grado di
colonnello.
Il
re fece una pausa, allungando una mano verso il tavolino. Prese un
ricciolo d’uva dalla fruttiera e lo contemplò un
istante contro il
riverbero del fuoco, prima di proseguire.
-
E’ senz’altro quella che si dice una brillante
carriera e
immagino che siate orgoglioso di come vi siete comportato fin qui.
Del resto, non vedo alcun motivo per cui non dobbiate esserlo.
Harlock
taceva, attendendo che il re finisse il suo discorso. Gli riusciva
difficile immaginare dove volesse andare a parare.
-
Tuttavia... vorrei chiedervi di non rischiare inutilmente la vostra
vita, la prossima volta: preferirei non sfoltire troppo in fretta il
numero dei miei migliori ufficiali. Siete d’accordo con me,
non è
vero? - concluse, piantando i suoi occhi in quelli di Harlock, che
rosseggiavano dei riflessi del fuoco.
-
Ho fatto solo ciò che era necessario, nulla di
più e nulla che si
potesse evitare.
-
Ne siete convinto?
Harlock
annuì con fermezza.
-
Io no. - il re spiccò
un acino d’uva
dal grappolo, rigirandolo distrattamente fra pollice e indice - Credo
invece che il vostro innato
sprezzo del
pericolo vi abbia fatto correre in più di
un’occasione rischi
assolutamente non necessari.
-
Sono un soldato prima che un ufficiale, maestà ed
è mio dovere
essere accanto ai miei uomini, anche se questo significa stare in
prima linea. Non posso guidare un esercito restando nelle retrovie.
Sono certo che capite.
Il
re tacque. Addentò l’acino e lo masticò
con calma, continuando a
fissare il fuoco. Anche Harlock volse lo sguardo alla fiamma che
ardeva placidamente nel camino e attese.
-
Mi aspettavo una simile risposta da voi. E questo dimostra ancora una
volta che quello che dico è vero. - il re tornò a
guardare il
colonnello e gli sorrise con una strana luce d’orgoglio negli
occhi
scuri - Siete uno dei miei migliori ufficiali.
-
Vi ringrazio, maestà. - rispose Harlock, senza sapere che
altro
aggiungere.
-
Non ringraziatemi. Non è merito mio se lo siete. - il re
alzò la
destra a zittire il colonnello. - Vostro padre era un uomo valoroso,
capace di gesti di grande eroismo e voi gli assomigliate. Siete
cresciuto ad un’ottima scuola.
Il
re tornò a fissare il fuoco, improvvisamente pensieroso.
-
Mio padre sarebbe felice delle vostre parole, altezza.
-
Conosceva la considerazione di cui godeva presso il suo sovrano, una
considerazione dettata anche dalla fedeltà che lui e la sua
famiglia
hanno sempre dimostrato verso la corona. Ed è un bene che
voi siate
il suo erede nel campo militare oltre che nella successione
dinastica. Sono certo che, se continuerete di questo passo,
diventerete generale prima di vostro padre. – concluse re
Waldemar
con un improvviso sogghigno.
-
Forse, se a breve vostra maestà pensa che ci sarà
un’altra
guerra. - rispose Harlock con il tono più cortese di cui era
capace,
senza tuttavia risparmiare una stoccata al sovrano, la cui fama non
si fondava certo sul fatto di essere un grande paciere.
-
Molto appropriata la vostra risposta, colonnello, perché
qualsiasi
cosa possano pensare gli storici al riguardo, sono esclusivamente i
sovrani che fanno le guerre. Potremmo chiamarlo un diritto
inalienabile che i re e le regine usano per il bene del paese e nel
nome di Dio.
Una
scintilla brillò negli occhi del colonnello, che
serrò i denti per
impedirsi di replicare. Il re se ne avvide, ma proseguì
facendo
finta di niente.
-
E così torniamo al punto di partenza del nostro discorso:
alla
necessità di avere ufficiali valorosi e fedeli che guidino
il grosso
dell’esercito. Vostro padre morì in battaglia
quando aveva più o
meno la mia età...
-
Aveva quarant’anni esatti. - precisò Harlock.
Il
re annuì.
-
E fu una perdita importante per le mie forze armate. Perciò
cercate
di non seguire il suo esempio, in questo genere di cose.
-
Vostra maestà dimentica che raggiungerò
l’età di mio padre
soltanto fra quindici anni. - Harlock sorrise a quella che nelle sue
intenzioni era una semplice battuta, ma il re non dimostrò
di averla
presa allo stesso modo.
-
Per l’appunto, Harlock! Cercate di ricordarvene anche quando
sarete
fuori da questa stanza.
Il
colonnello rimase spiazzato dall’atteggiamento del re e il
suo
volto si rabbuiò improvvisamente.
-
Vostra maestà chiede a tutti gli ufficiali di servirlo
fedelmente
standosene lontani dal pericolo?
-
Sua maestà tiene in considerazione alcuni ufficiali
più di altri. -
replicò il re con fermezza, inarcando le sopracciglia. Per
un breve
istante, le espressioni dei due uomini furono lo specchio
l’una
dell’altra. Poi improvvisamente, come una nube estiva
trascorre
davanti al sole, il volto del sovrano si rasserenò e le sue
labbra
s’incresparono in un ironico sorriso. - Questa discorso si
sta
facendo tedioso e io non vi ho ancora chiesto ciò che volevo
sentire
dalla vostra viva voce: raccontatemi della battaglia di Nazdat,
colonnello, mi sono giunte molte voci al riguardo, ora vorrei
conoscere come si sono svolti realmente i fatti.
-
Perché volete che vi racconti di quella battaglia? Risale a
più di
due anni fa e...
-
E fu quando perse la vita il colonnello Jerald e voi foste nominato
suo successore per il modo in cui vi distingueste in battaglia,
guidando le truppe al suo posto. Sì, avete indovinato,
è per questo
che voglio sentirvela raccontare. Voglio che mi parliate della vostra
impresa, di come guidaste i soldati alla vittoria, guadagnando al
contempo terreno sull’esercito nemico.
Harlock
rimase in silenzio, gli occhi fissi in quelli del re, il cui sguardo
in quel momento ricordava quello di un’aquila che scruta la
preda.
-
Come desiderate, altezza. - rispose infine, senza riuscire a
dissimulare l’improvvisa freddezza della sua voce.
La
bocca di re Waldemar s’increspò in un sorriso
sarcastico e i suoi
occhi brillarono.
-
Lasciate che prima vi offra un po’ di vino di borgogna:
è ottimo
per accompagnare i discorsi di guerra, specie quelli in cui scorre
molto sangue. - batté due volte forte le mani e subito un
giovane
valletto di camera comparve sulla soglia, profondendosi in un largo
inchino. - Porta due calici e una bottiglia di vino di borgogna.
Fatti consegnare l’annata migliore dal maestro
di tavola.
-
Sì maestà! - il valletto uscì dalla
stanza senza voltarsi per non
dare le spalle al re e questi riprese.
-
Iniziate pure, colonnello: il vino arriverà a momenti. - il
re si
rilassò appoggiandosi allo schienale della poltrona e
incrociò le
gambe, posando al contempo la guancia contro una mano, gli occhi
sempre fissi in quelli di Harlock, un sorriso che avrebbe voluto
essere cordiale dipinto in faccia.
Il
conte di Lorckshire iniziò a narrare gli avvenimenti di
quegli
ultimi giorni di agosto, dell’aspra battaglia e della
carneficina
di Nazdat, quando le acque dei pozzi attorno alla piana in cui si
tenne lo scontro si tinsero di scarlatto, dei fendenti mortali
portati dalle sciabole che trafissero il corpo del colonnello Jerald
mentre, in sella al suo destriero, guidava la cavalleria
all’attacco.
E mentre il sangue scorreva nei pensieri del re e nei ricordi di
Harlock, il vino fu versato nei bicchieri e portato alla bocca. Il re
ne bevve con gusto, assaporandolo a lungo prima di ingoiarlo,
reggendo il calice fra le dita robuste e affusolate ad un tempo, mani
forti che sarebbero state perfette per impugnare una spada bastarda e
non solo per reggere delicato cristallo.
Harlock
proseguì raccontando della difficoltà di riuscire
a recuperare il
corpo del colonnello, disarcionato dopo morto e travolto dai cavalli
e dall’impeto dell’esercito nemico. Di come lui
riuscì infine a
prendere in mano la situazione, rinsaldando i ranghi
dell’esercito,
sbaragliato dalle truppe avversarie e costernato per la morte del
proprio condottiero, infondendogli nuovo coraggio e mettendo a punto
la strategia che avrebbe ribaltato le sorti della battaglia.
Il
re ascoltava e chiedeva con grande interesse, fermando di quando in
quando il colonnello perché aggiungesse ulteriori dettagli
senza
tralasciare nulla, nemmeno i particolari più macabri.
Harlock
conosceva bene l’indole guerresca del re ma non poteva fare a
meno
di essere stupito dell’avidità con cui desiderava
conoscere tutte
quelle cose, come se un racconto il più possibile
particolareggiato
potesse restituirgli l’esperienza diretta della battaglia
dalla
quale era escluso, con suo evidente rammarico.
Purtroppo
la situazione dinastica di quel momento non gli consentiva affatto di
andare in guerra, per quanto lo desiderasse. Il principe ereditario
non godeva di buona salute e, benché fosse seguito dai
migliori
medici di corte, la sua condizione non era migliorata al punto tale
da cancellare ogni timore su una sua possibile prematura scomparsa. I
timori erano tutt’altro che infondati dopo la morte
improvvisa del
precedente Delfino e il re non desiderava affatto offrire
l’occasione
all’aprirsi di una lotta di successione in Akerion, lotta
alla
quale avrebbero preso parte, come ad un lauto banchetto, anche alcune
potenze straniere, in virtù di più o meno recenti
legami dinastici.
I
due uomini erano ora seduti più vicini e il tavolino con la
frutta,
spostato in mezzo a loro, si era trasformato nella ricostruzione del
campo di battaglia, dove acini d’uva, giuggiole e altri
piccoli
frutti avevano preso il posto dei soldati appartenenti ai due
reggimenti contrapposti.
-
Attaccammo l’esercito del generale Kaysakos su più
fronti, a ritmo
serrato. - il re seguiva con attenzione i rapidi movimenti con cui
Harlock spostava la frutta sul ripiano di legno, disponendo piccoli
acini a rappresentare i cannoni. - Per prima utilizzammo
l’artiglieria: sfruttammo la conformazione del terreno per
disporla
a livelli diversi e ottenere un fuoco intenso a varie gittate. Il
nostro obbiettivo erano le grandi formazioni della fanteria nemica...
I colpi furono devastanti: falciavano dozzine di uomini come se
fossero state spighe di grano.
Il
re annuì, sorridendo senza avvedersene, pregustando
l’imminente
epilogo di sangue che già conosceva, gli occhi che gli
brillavano
dei riflessi rossastri del fuoco.
-
Colpire trasversalmente i grandi quadrati o le colonne di fanteria
produce risultati decisamente più consistenti. -
confermò, sempre
con lo stesso sogghigno divertito. - Avete imparato bene la strategia
militare.
Harlock
non commentò, benché il compiacimento per nulla
celato del re gli
procurasse un certo disagio. Quell’uomo non si preoccupava
mai di
mostrarsi troppo sanguinario, quando parlava con i suoi ufficiali. O
almeno, quando parlava con lui.
-
Continuate, Harlock, raccontatemi il seguito. - lo incalzò
con un
gesto della mano.
Harlock
fece una pausa, mentre i suoi occhi
si facevano
lontani, perdendosi nei ricordi.
-
Il campo di battaglia era immerso nel fumo e nella polvere. A vista
era difficile avere un’idea precisa della posizione del
nemico,
bisognava affidarsi alla memoria... E agire molto in fretta. -
riprese a voce più bassa. - La fanteria era
l’unità che aveva
subito le maggiori perdite durante lo scontro precedente e molti
uomini erano feriti e non potevano più combattere. Per
questo anche
il loro morale era a terra.
-
Il morale degli uomini è molto importante. Mi domando cosa
gli
abbiate detto perché credessero non solo di poter
sopravvivere a
quella battaglia ma soprattutto di poter vincere.
A
quel ricordo, un sorriso lievemente imbarazzato comparve sulle labbra
di Harlock.
-
Dev’essere stato un discorso epico perché
sortì effetti
insperati, ma sfortunatamente non ne ricordo neppure una parola.
-
E’ un vero peccato, perché mi sarebbe piaciuto
risentirlo, parola
per parola. - commentò il re, con una punta di sarcasmo. Re
Waldemar
non sembrava convinto che Harlock avesse dimenticato davvero cosa
aveva detto quel giorno ai suoi soldati per riuscire a trascinarli
come un sol uomo verso la vittoria. - E voi, ci credevate? Credevate
davvero di potercela fare contro lo schieramento potente e
galvanizzato del generale Kaysakos?
-
Sì.
-
Perché? - incalzò il re, fissando Harlock dritto
negli occhi.
-
Perché se il colonnello aveva perso la sua battaglia, io non
avevo
ancora perso la mia. Conoscevo perfettamente le risorse di cui
disponevo: il numero e le qualità dei miei uomini, il potere
d’attacco dell’artiglieria, che non era stato
ancora intaccato e
la forza travolgente della cavalleria. - Harlock sostenne lo sguardo
del sovrano senza lasciarsi impressionare dai suoi modi inquisitori.
-
Così è stata la cavalleria il vostro asso nella
manica?
Harlock
scosse il capo.
-
E’ stata molto importante, forse anche decisiva, ma la cosa
fondamentale su di un campo di battaglia, per me, non è
né la
superiorità numerica né la potenza di fuoco, ma
la fedeltà
reciproca delle persone che combattono fianco a fianco.
-
E l’astuzia di colui che le comanda. Siete una persona
romantica,
Harlock, persino in battaglia, ma le guerre si vincono in ben altri
modi. - osservò il re, versandosi un altro mezzo bicchiere.
-
Fortunatamente, le vostre azioni sono molto meno romantiche e molto
più dirompenti
delle vostre parole.
Ora, se non vi dispiace, raccontatemi della cavalleria.
Il
pragmatismo privo di sentimenti del sovrano riusciva sempre a
sorprendere il colonnello oltre che a infastidirlo: uno che tratta
con tanta distaccata freddezza l’esercito nemico
avrà più
riguardo per il proprio?
-
Attaccammo contemporaneamente con la cavalleria e con quella parte
della fanteria che non aveva subito danni, su due fronti diversi ma
contigui. Volevo che partecipassero alla carica solo i fanti
più
forti, ossia coloro che non avevano riportato gravi ferite e che non
temevano di affrontare nuovamente il nemico, né di morire.
-
Gli chiedevate il martirio? - chiese il sovrano con un sogghigno.
-
Solo chi non ha paura della morte può sopravvivere. Ogni
soldato
deve avere la prudenza necessaria ad affrontare uno scontro, ma la
paura genera solo confusione, errori e fallimento.
Il
re annuì, soddisfatto.
-
Non aver paura della morte... - mormorò, perdendosi ad
osservare il
vino che ondeggiava nel suo calice. - Come voi... Eravate in testa
alla cavalleria, non è vero? Guidavate gli uomini verso il
punto
preciso in cui dirigere la spaventosa onda d’urto degli
squadroni.
Il
colonnello annuì e aggiunse:
-
E’ una prassi del tutto normale: sono gli ufficiali che...
Il
re levò una mano, bloccando la replica di Harlock.
-
Sì, lo so: sono gli ufficiali e generalmente quelli di rango
più
alto, a guidare la carica della cavalleria. Necessario ed
inevitabile. E vi siete anche guadagnato la promozione.
Harlock
rimase in silenzio mentre, dopo una breve pausa in cui bevve tutto
d’un fiato il suo vino, il re riprese.
-
Quando la notizia della morte del colonnello Jeralt e della vostra
insperata vittoria giunse ai suoi orecchi, il generale Heinrich non
ebbe bisogno di riflettere molto a lungo se fosse il caso di
nominarvi o meno colonnello. Quanto tempo impiegò ad
arrivare la
comunicazione della vostra promozione?
-
Tre giorni.
-
Tre giorni... e appena ventitré anni. Uno dei più
giovani ufficiali
del mio esercito, di certo il solo con un grado così alto a
quell’età. - nella sua voce c’era una
sfumatura d’orgoglio che
non sfuggì al colonnello, che tuttavia non fece domande,
anche se
non riusciva a capirne il significato.
Re
Waldemar scrutò di nuovo negli occhi di Harlock, quasi
volesse
penetrare fin nelle profondità di quell’anima che
non si era mai
aperta a nessuno. Nonostante il fastidio, Harlock non si sentiva
turbato dal suo sguardo poiché non esisteva ancora una
persona al
mondo in grado di metterlo in soggezione.
-
Vorrei invitarvi a restare ancora a lungo con me ma purtroppo la fila
di udienze che mi si chiede di concedere questa mattina è
molto
lunga. Del resto, quando mai non è così? -
commentò il sovrano a
mezza voce, alzandosi. - Sono costretto a congedarvi, non senza
rammarico, colonnello: dubito che nel proseguo avrò altre
conversazioni così interessanti e... distensive,
sì, perché no.
Harlock
si alzò e fece un lieve inchino con il capo, ringraziando il
re, pur
se con un evidente distacco nel timbro della sua voce:
-
Vostra maestà è stato molto gentile a concedermi
così tanto del
suo tempo.
Il
re rise.
-
Vi hanno insegnato bene le formalità, ma potete
risparmiarvele
quando sono così smaccate. Vi ho trattenuto per puro piacere
personale e non certo per farvi un favore e sia voi che io lo
sappiamo benissimo. - anche se re Waldemar sembrava effettivamente
divertito, Harlock non riuscì ad impedirsi di arrossire e
per un
brevissimo, interminabile istante, gli sembrò di essere nudo
di
fronte agli occhi del sovrano.
Il
colonnello era appena uscito quando nella stanza un lieve fruscio di
stoffa sul pavimento annunciò l’ingresso di
un’altra persona.
Tuttavia, non era dall’anticamera che il nuovo ospite
proveniva, ma
direttamente dalla camera da letto di sua maestà. I piedi
bianchi,
calzati nelle scarpine di velluto azzurro, attraversarono sicuri la
stanza fino a fermarsi vicino al re, che si volse e con un sorriso
gaudente cinse ai fianchi la donna che stava davanti a lui,
stringendola forte a sé.
Era
bella, di una bellezza altera e pericolosa come un’antica dea
guerriera. Alta e flessuosa e dal portamento deciso, nessuno avrebbe
dubitato del carattere sicuro e indomito che doveva celarsi in quel
corpo, solo all’apparenza fragile. I lunghi capelli neri
erano
acconcianti in modo semplice ed elegante e ricadevano languidamente
sulle spalle nivee, sottolineandone per contrasto il candore.
Indossava un vestito da giorno turchese ricamato con piccole rose in
tono, ma la vera rosa fra tutti quei fiori di stoffa era lei
soltanto.
-
Avete ascoltato tutta la nostra conversazione? - le chiese,
chinandosi a baciarle l’incavo tra il collo e le spalle.
-
Non avevo di meglio da fare. - rispose lei con noncuranza, facendo
scorrere la mano sulla schiena del re fino ad arrivare alla nuca,
dove affondò nella folta chioma castana.
-
Avreste potuto unirvi a noi, mia cara. - la proposta non era priva di
una punta d’ironia che la donna colse immediatamente.
-
Harlock non avrebbe amato molto vedermi uscire dalla vostra stanza,
lo sapete bene quanto me.
-
Vostro nipote è ormai un uomo di mondo e dovrebbe aver
capito come
vanno queste cose e accettarle senza fare inutili storie. -
replicò
il re, staccandosi leggermente dalla donna per guardarla negli occhi.
Le iridi penetranti di lei lo osservavano come una spada
d’acquamarina, rilucendo in quel volto pallido come neve.
-
Non ho ancora avuto occasione di vederlo, da quando è
tornato e
desidero aver modo di farlo in maniera più consona. -
rispose lei
con la consueta voce fredda e dura che il re amava tanto.
-
Più consona? - sbottò il sovrano. - Siete la
favorita del re,
Raflesia e solo un bambino potrebbe pensare che non frequentiate il
suo letto. Harlock è stato in guerra un sacco di tempo, ma
questo
non significa che abbia dimenticato come si fanno certe cose. E non
è
un ingenuo.
-
Chiunque avrebbe trovato poco conveniente che la vostra favorita si
unisse spontaneamente a
voi mentre siete
a colloquio con uno dei vostri ufficiali, uscendo dalla vostra alcova
come se nulla fosse. Persino se quest’ufficiale è
suo nipote. -
Raflesia appoggiò un dito sulle labbra del re, che stava per
ribattere. - Aggiungerei anche che chiunque avrebbe trovato
sconveniente che persino la regina vostra moglie uscisse dalla vostra
camera da letto per partecipare allegramente ad un’udienza
privata.
La
collera sbollì lentamente dal volto del re, tramutandosi in
un
sorriso a metà tra l’arrendevole e il bonario,
come se stesse
elargendo un favore in
virtù della sua
magnanimità.
-
Va bene, amica mia, ve lo concedo. Del resto siete sempre stata molto
abile nelle questioni diplomatiche, per quanto il vostro temperamento
sia fuoco e acciaio come il mio. - il re si avvicinò alla
scrivania
per farsi trovare al suo posto dal prossimo suddito. - Potrei credere
che è una qualità delle donne, se non fosse che
la regina non
possedeva né la tempra di una guerriera né la
diplomazia di un
ambasciatore.
Raflesia
si avvicinò con la leggerezza di una libellula, sollevando
appena un
lembo della gonna. I capelli brillarono simili a ossidiana sotto la
luce proveniente dal lampadario. Si fermò alla sinistra del
re,
appoggiandogli una mano sulla spalla.
-
Sapete che quello che dite non è vero. La regina Chantal era
una
donna prudente che conosceva le esigenze della diplomazia.
-
Ma non i suoi maneggi. Aveva un’idea così...
pulita di quello che
andrebbe o non andrebbe fatto tra stati sovrani. Una visione del
tutto teorica. - rispose il re, con una punta di disprezzo nella
voce. - Voi invece... siete nata per essere regina e solo
l’ingiustizia del destino non ve l’ha concesso.
Raflesia
non rispose ma le sue labbra si strinsero a quelle parole, lasciando
trasparire per un attimo che il peso di un simile destino non le era
indifferente.
-
Se foste stata voi mia moglie...
-
Avevamo deciso di non parlarne più. - la voce di Raflesia
era più
fredda del solito.
-
Già, era il nostro accordo. Ma io ci penso ogni giorno...
soprattutto quando vedo il principe mio figlio. - un’espressione furente
si
dipinse a poco a poso sul volto del re, seguendo il correre delle sue
riflessioni. - Non avrei perso Nikandros in quel modo e il Delfino
non sarebbe così debole e malato se foste stata voi sua
madre. No.
Sarebbero stati forti e indomiti come me... come Harlock.
-
Lasciamo fuori Harlock da questi discorsi! - gli occhi di Raflesia
brillarono di una luce glaciale e il re la fissò per lunghi
istanti,
mentre un silenzio pesante scendeva fra loro. Sembrava che in quel
muto duello nessuno dei due volesse cedere.
-
Bene, lasciamo fuori chi volete... - rispose il re, dominando
l’ira
nella sua voce. - Ciò non toglie che la realtà
sia questa ed è
solo perché hanno preso dalla madre che i miei figli sono
così
gracili. E ormai non c’è più la
possibilità di avere un altro
figlio legittimo, un erede al trono che sia sangue del mio sangue...
La regina è morta già da quasi dieci anni e
nessuno accetterebbe un
bastardo come futuro sovrano. Soltanto se l’avessi
legittimato
quand’era ora...
La
contessa di Lesath voltò bruscamente le spalle al sovrano,
staccandosi da lui. Il re tacque, osservandola: gli pareva che le sue
spalle tremassero di collera e capì che era stato solo per
non
schiaffeggiarlo che si era allontanata.
Re
Waldemar sospirò. Soltanto la raffinata educazione elitaria
ricevuta
probabilmente gli aveva impedito di imprecare, pur se sottovoce. Si
alzò e le andò vicino, ma si trattenne dal
toccarla: la conosceva
troppo bene e sapeva che in quel momento non gli avrebbe permesso
neppure di sfiorarla. Del resto, non si pesta la coda alla tigre per
poi andare ad accarezzarla.
-
D’accordo, lasciamo andare quest’argomento...
dopotutto è
doloroso per tutti e due. Ma non tenetemi il broncio come una
bambina.
Raflesia
si voltò: sul suo viso era dipinta un’espressione
sdegnosa che il
re conosceva bene. Come sapeva bene che in simili circostanze non
valeva la pena insistere.
-
Vostra maestà vorrà scusarmi: non voglio
sottrarvi altro tempo
prezioso da dedicare alla prossima udienza. - disse la contessa con
tono volutamente cerimonioso. Sollevò un lembo del vestito,
scoprendo una scarpina e senza degnare il sovrano di un altro
sguardo, si avviò per rientrare nell’alcova reale,
da dove sarebbe
poi uscita senza dare nell’occhio.
Mentre
gli passava accanto, re Waldemar l’afferrò per un
polso,
attirandola a sé, serrandole un braccio attorno alla vita
per
impedirle di sfuggirgli. Raflesia lo fissò furente e il re
la baciò,
a lungo e con intensità crescente. Cercò un paio
di volte di
divincolarsi ma la presa del sovrano era salda e non cedeva di un
millimetro. La lasciò andare solo quando fu sazio,
soffermandosi a
guardarla con un misto di soddisfazione e trionfo.
Raflesia era ben consapevole del significato di
quell’espressione
che gli vedeva dipinta in faccia.
Ricordati
che sei mia, solo mia.
Erano
queste le parole che le riecheggiavano in testa.
Levò
la destra per schiaffeggiarlo. Il re fu costretto a mollare la presa
attorno ai suoi fianchi per fermarle la mano. Così, i due
amanti si
fissarono ancora, sorridendo nello stesso modo beffardo, impegnati in
un altro muto duello. Infine, re Waldemar la congedò con un
ultimo,
rapido bacio.
-
Andate. Riprenderemo questo discorso quando saremo a letto. - le
disse, liberandole i polsi dalla sua stretta.
Raflesia
si massaggiò, allontanandosi. Prima di uscire, si
fermò sulla
soglia che conduceva alla camera da letto, voltandosi indietro.
-
A questa notte... allora. - mormorò e, benché
sorridesse, i suoi
occhi taglienti non promettevano nulla di buono.
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Capitolo 6 *** Una notte a teatro - prima parte ***
Capitolo
VI
Una
notte a teatro
Venerdì
sera, verso le sette, il conte di Lorckshire era nella sua camera e
si stava preparando per andare a teatro, come promesso al conte di
Narwall. Stava tentando di vestirsi, dopo essersi concesso un lungo
bagno ristoratore, e tirava fuori dall’armadio un indumento
dopo
l’altro.
-
Devo confessare che non ho proprio molta roba decente da
indossare…
- commentò, osservando lo stato quasi pietoso in cui
versavano i
suoi capi d’abbigliamento. – Forse avrei dovuto
davvero farmi
fare qualcosa, al mio ritorno. Comunque sia, poco male:
vorrà dire
che metterò l’uniforme di gala. Quella dovrebbe
essere ancora
decente: non l’ho praticamente mai messa.
Così
dicendo prese dall’ultima anta dell’armadio una
divisa ancora
nuova: color avorio, con i polsini e le spalline in argento e un
ampio pettorale dello stesso tono, decorato in oro con i fregi
dell’esercito regio. La osservò alcuni istanti,
valutandola con
attenzione e, trovandola in perfetto stato, decise
d’indossarla. Vi
appuntò poi sopra i suoi gradi e le decorazioni, si cinse la
vita
con una lunga fascia bianca, dal bordo e dalle frange dorate e mentre
si stava sistemando la spada al fianco, udì bussare alla
porta.
-
Avanti… - disse distrattamente.
La
porta si aprì: nel grande specchio davanti al quale si stava
vestendo, Harlock vide riflettersi l’elegante figura di sua
madre.
-
Allora è proprio vero: stasera esci. –
esclamò appena entrata,
congiungendo le mani all’altezza del petto e squadrando suo
figlio
con espressione stupita e soddisfatta assieme. Poi sorrise,
avvicinandoglisi.
-
Deve essere una donna molto interessante quella per la quale ti sei
vestito in modo così elegante… la tua divisa di
gala: non l’avevi
mai indossata.
Il
colonnello la guardò e rise lievemente, di quel suo riso
caldo e
sonoro.
-
Mi spiace darvi una grande delusione, madre, ma non
c’è nessuna
donna: questa sera sarò assieme al maggiore Frederick di
Narwall e
alcuni suoi amici. In quanto alla divisa, è una fortuna che
non
l’abbia quasi mai portata: mi sono appena accorto che non ho
nulla
da indossare, ma almeno questa è ancora in buono stato.
-
Nulla da indossare… - la contessa di Lorckshire
scrutò gli
indumenti del figlio, sparsi sul letto. - In effetti hai ragione, la
tua roba è molto sdrucita e del resto la maggior parte di
essa
risale a quattro anni fa, prima della tua partenza. Mi domando
persino se ti vada ancora bene
Eva
sollevò con fare distratto, ma con sguardo esperto, il lembo
di una
giacca, le maniche di una camicia, l’orlo di un paio di
pantaloni
messi quasi in fila uno accanto all’altro sul letto come se
il
colonnello li avesse appena passati in rassegna come avrebbe potuto
fare con un drappello di soldati.
-
Ma del resto è colpa tua se ora ti ritrovi senza niente: la
sola
idea di farti fare qualcosa dal sarto ti ha sempre spaventato, quasi
si fosse trattato di farsi levare un dente. Mi sono sempre chiesta se
fosse parsimonia o qualcos’altro che non saprei nemmeno
definire.
-
Adesso non cominciate a rimproverarmi per queste
sciocchezze… e poi
non è questione di parsimonia: non avevo nessun motivo per
farmi
fare dei vestiti nuovi, quando rifiutavo il sarto. Ora invece sono
appena tornato dalla guerra e praticamente tutto ciò che
avevo
portato con me è andato rovinato o peggio. E di certo a casa
non è
rimasto molto che mi vada bene. - replicò il colonnello,
finendo di
chiudere gli ultimi gancetti del colletto della giacca. - Inoltre, se
vi interessa, i miei denti stanno benissimo.
-
Va bene, ho capito. – rispose Eva, sorridendo.
Si
avvicinò con grazia a suo figlio, scostandogli una ciocca di
capelli
da davanti agli occhi, che subito ritornò a ricadervi.
-
Allora vai a divertirti con i tuoi amici, sono contenta che tu esca
un po’: da quando sei tornato, hai sempre cercato di stare da
solo.
-
Avevo bisogno di riposare… ma ora sto meglio. - Harlock si
avviò
verso la porta, l’aprì ed uscì nel
corridoio. - Buonanotte,
madre, a domani.
-
Buonanotte… - lo salutò, seguendolo sino alla
balconata del piano
nobile e accompagnandolo con lo sguardo fino in fondo alle scale. Un
luminoso sorriso le rimase per un po’ dipinto sul viso al
pensiero
di suo figlio che finalmente andava a divertirsi, come lei gli aveva
sempre suggerito di fare.
Quando
Harlock giunse a teatro lo trovò già molto
affollato: un gran
numero di persone ancora sostava nel vestibolo, chiacchierando
rumorosamente, mentre un gran via vai di nobiluomini occupava le
scale che conducevano al primo piano, verso il foyer e i palchi dei
diversi ordini. Il colonnello si fece indicare da un inserviente il
numero del palco del duca di Larckstein e
si diresse a grandi passi verso lo scalone, che conduceva il
pubblico, come un’unica entità, verso la sua
magnifica ascesa.
E’
uno dei palchi situati nella posizione migliore, vicino al palchetto
reale. Del resto quello dei Larckstein è uno dei casati
più
importanti, imparentati direttamente con la famiglia reale.
Si
fermò poco lontano dal palco che recava il numero
diciassette: sulla
porta, immobile ed impettito, un servitore aveva tutta l’aria
di
aspettare qualcuno.
-
Buonasera… - lo salutò Harlock quando gli fu
vicino.
-
Buonasera, colonnello. – rispose questi, inchinandosi con
deferenza. - Il signor duca vi stava aspettando: vogliate avere la
cortesia di accomodarvi.
Il
servo aprì la porta, facendosi da parte per farlo entrare,
accompagnando il movimento da un altro profondo inchino e da un ampio
gesto del braccio verso l’interno del palchetto.
Il
conte di Lorckshire non riuscì a non sorridere di fronte al
modo di
fare così cerimonioso del cameriere, e varcò la
soglia mentre la
porta veniva silenziosamente richiusa alle sue spalle. Nel palco
c’erano già tutti i giovani che quel mattino
avevano aderito
all’iniziativa. Il duca di Larckstein si alzò per
accogliere il
suo ospite e assieme a lui Myura, che insistette per prendere il
mantello di Harlock e per consegnarlo al servitore fuori dalla porta,
sotto gli occhi divertiti degli altri, che trattennero a stento una
risata. Quando Myura vide che Harlock indossava la divisa di gala,
mandò un’esclamazione di gioia e di stupore e
prese a lodarla,
assieme alla figura di colui che la indossava.
-
Oh, conte, come state bene! Vi dona così tanto
quest’uniforme…
vi prego, fatemela toccare!
Harlock
rise, perplesso, passando distrattamente le lunghe dita affusolate
sulla stoffa della casacca.
-
E’ soltanto una divisa. – disse, quasi per
giustificarsi di
averla indossata.
-
Vi prego ugualmente, lasciatemela accarezzare solo un istante:
prometto che non la sdrucirò. – insistette il
ragazzo, con gli
occhi che brillavano.
-
Ha resistito alla polvere fino ad adesso, penso che non
cadrà a
pezzi per una vostra carezza… quantunque non capisca
perché vi
faccia così piacere.
Myura
non se lo fece ripetere due volte e posò la mano al centro
del petto
di Harlock, spostandola lentamente verso sinistra, a toccare una a
una le medaglie e le decorazioni che vi erano appuntate.
All’improvviso
e quasi senza rendersene conto, Harlock afferrò il polso di
Myura,
trattenendolo dalla sua esplorazione: gli occhi gli brillavano di una
strana luce e il suo volto tradiva tutto il suo stupore.
-
Oh, scusate, colonnello… - mormorò Myura,
incrociando lo sguardo
del conte di Lorckshire e immaginando, a ragione, di averlo messo in
imbarazzo.
-
Su, Myura, lascia accomodare il colonnello. – lo
invitò Irwing,
sorridendo dalla sua poltrona in fondo al palchetto.
Il
duca di Larckstein indicò ad Harlock un posto sul divanetto
accanto
a lui e questi vi prese posto, passando distrattamente due dita
all’interno del colletto della giacca per aggiustarselo,
senza che
ve ne fosse alcun bisogno.
-
Però Myura ha ragione: questa divisa vi dona davvero molto,
colonnello. – esclamò Lemort, dopo aver osservato
Harlock per
qualche attimo. – Mi dispiace non aver mai avuto occasione di
vedervela indossare prima.
-
Non sarebbe stato possibile, dato che credo sia la prima volta che la
metto. – rispose il colonnello, voltandosi verso il duca di
Larckstein ed accavallando le gambe, appoggiandosi comodamente allo
schienale.
-
Oh, che grande onore ci fate, colonnello! – rise Irwing
– L’avete
messa apposta per noi! E per Myura in particolare, scommetto.
Anche
Harlock rise, osservando di rimando il conte di Zoder.
-
In un certo senso sì, l’ho messa appositamente per
voi. Mia madre
sperava che fosse per una bella dama, ma ho dovuto deluderla.
-
Sarà rimasta ancora più delusa quando ha saputo
con chi avevate
scelto di passare questa serata. – commentò Lemort
e benché le
sue labbra sorridessero ancora, i suoi occhi non brillavano affatto
di gioia.
-
Perché dite così? – chiese Harlock,
fissando ora Lemort. – Non
ha avuto nessuna obiezione… e anche se ce ne fossero state,
di
certo non mi avrebbero fatto cambiare idea.
-
Anche perché ormai avevate promesso. – concluse
Frederick – E le
promesse si mantengono sempre, a qualunque costo.
Harlock
annuì in direzione di Frederick e in quel momento
notò qualcosa di
diverso nello sguardo del maggiore, un’espressione con la
quale
fino ad allora era sicuro di non essere mai stato guardato da lui.
Inarcò le sopracciglia, rendendosi conto che in effetti
c’era
un’atmosfera strana in quel palchetto e che forse questo era
dovuto
al fatto che c’erano solo uomini.
Già,
solo uomini…
Harlock
scrutò uno ad uno i giovani invitati: il conte Aeneas di
Avendish
stava in quel momento sussurrando qualcosa all’orecchio di
Irwing,
rivolgendo a tratti lo sguardo nella sua direzione.
E
quel che m’inquieta di più è forse
proprio questo sentimento di
strana curiosità che mi sembra provino nei miei confronti.
Forse è
solo perché non sono della compagnia, però tutto
questo mi mette a
disagio... e non mi era mai successo.
-
Faccio portare lo champagne? – la voce di Lemort interruppe
bruscamente il corso dei suoi pensieri.
-
Sì, è un’ottima idea! –
approvò Aeneas e gli altri invitati
gli fecero eco, in quell’esuberante allegria che ormai
Harlock
aveva notato essere una loro caratteristica.
Non
ci volle molto perché i servitori del duca giungessero non
solo con
lo champagne ma anche con cibo raffinato, servito su vassoi e piatti
d’argento. C’erano ostriche freschissime, noci,
formaggi dalla
pasta morbida insaporiti con miele e diversi tipi di carni.
-
Se portate tutta questa roba, duca, fra poco dovremo uscire noi. -
commentò Harlock, vedendo arrivare i camerieri
così carichi di
pietanze.
Lemort
rise, divertito, con la sua voce argentina e sonora.
-
Non vi preoccupate, colonnello: adesso mangiamo qualcosa e vedrete
che fra qualche minuto resterà ben poco di tutte queste
vivande. –
rispose infine, guardando Harlock con i suoi occhi di lupo. –
La
serata sarà molto lunga: mangiare qualcosa adesso ci
farà
senz’altro bene.
Contrariamente
all’invito rivolto ai suoi ospiti, però, il duca
di Larckstein
mangiò pochissimo: toccò solo qualche ostrica e
alcune noci e
bevette un calice di champagne. Tutti gli altri invece fecero onore
alla tavola, che era davvero ottima. Harlock assaggiò
volentieri un
po’ tutte le pietanze, ma nel complesso non mangiò
molto,
preferendo conversare con gli altri di teatro e letteratura. La
commedia di Karl Osemberg, intanto, non era ancora iniziata.
-
Ho sentito dire che dipingete, colonnello: è vero?
– chiese il
conte Aeneas di Avendish, sorseggiando dello champagne e scrutando il
volto di Harlock con gli occhi lievemente socchiusi.
-
Sì, qualcosa, da dilettante.
-
Mi piacerebbe molto vedere qualcosa di vostro, colonnello: sono certo
che siete molto bravo! – esclamò Myura di Hessex,
giungendo le
mani in un impeto d’entusiasmo.
-
Non sono così abile come credete: ho solo un po’
di talento, che
ho molto trascurato partendo per la guerra. – si
schermì Harlock.
-
Lasciate giudicare a noi, allora… - Lemort tornò
a sedersi accanto
ad Harlock, dopo aver preso un altro calice di champagne dal
tavolino, appollaiandosi questa volta sul bracciolo del divanetto.
–
Ci lascereste vedere qualcosa di vostro, o siete troppo geloso dei
vostri lavori?
-
Prima vorrei riprendere un po’ la mano e produrre qualcosa di
più
recente… anzi, avrei proprio bisogno di un modello che posi
per me.
-
Un modello? – fu la generale esclamazione che
passò di bocca in
bocca, mentre i giovani si guardavano tra loro, negli occhi una luce
di piacere ed entusiasmo.
Il
conte di Narwall fu il primo a riprendere la parola e disse:
-
Avreste dovuto dirlo prima, conte: qui ci sono cinque signori che non
aspettano altro che questa occasione… posare per voi!
-
Io lo farò senz’altro, ditemi quando avete bisogno
di me, vi
prego. – lo esortò Myura, sporgendosi verso di
lui. Aveva le
guance imporporate e le labbra rosse, così carnose e morbide
da
sembrare una vera ragazza con indosso abiti maschili.
Harlock
lo fissò confuso, mormorando un “Sembrate uscito
da un dipinto di
Boucher” che nessuno udì, a parte forse il duca di
Larckstein, che
comunque non disse nulla.
-
Avete bisogno di qualcuno che posi per un ritratto o volete dipingere
dell’altro? – s’informò
Aeneas, incuriosito.
-
A me servirebbe un modello disposto… disposto a fare tutto
quello
che gli dico. – ma vedendo che le sue parole stavano per
suscitare
reazioni equivoche, aggiunse – Intendo dire, disposto ad
assumere
tutte le pose che mi servono: m’interessa dipingere o
disegnare le
varie parti del corpo, non il volto soltanto.
-
E vi serve nudo, il vostro modello? – chiese il conte Hadrian
Maximilian di Raiden, dopo aver lanciato un’occhiata
significativa
a suo cugino Aeneas, mentre gli altri ancora ridevano e si
scambiavano battute a mezza voce.
-
Non necessariamente… però potrebbe servirmi mezzo
spogliato.
Dipende da ciò che voglio fare.
-
Beh, certo: in alcune circostanze la nudità e
senz’altro più
indicata. – replicò Aeneas, sorridendo malizioso.
-
Cosa dite? Non intendevo nulla di…
-
Non vi giustificate, colonnello: ci sono molte persone che farebbero
qualsiasi cosa per l’arte… venderebbero persino
l’anima al
diavolo. – intervenne sorridente il conte Hadrian di Raiden.
-
Oh, io venderei l’anima al diavolo senz’altro per
essere dipinto
da voi, colonnello! – esclamò Myura, poggiando una
mano sulla
gamba di Harlock e guardandolo colmo d’emozione.
-
Non è necessario tanto, grazie. – rispose Harlock,
scostando la
mano di Myura.
-
Un tipo freddino, il vostro amico. – mormorò
Irwing, parlando
all’orecchio di Frederick, seduto accanto a lui.
-
Già… ma è proprio questo che lo rende
interessante: Harlock è un
uomo estremamente riservato, geloso della propria intimità e
anche
della propria solitudine. Ma ha un animo appassionato. –
rispose
Frederick, con gli occhi che brillavano.
-
Avete avuto modo di sperimentarlo? – c’era una
punta di malizia
nelle parole di Irwing che non sfuggì al maggiore.
-
No, ma lo conosco da alcuni anni ormai: anche se cerca sempre di
controllarsi, anche se sul campo di battaglia nessuno ha mai la mente
lucida e i nervi a posto come lui, l’espressione dei suoi
occhi,
l’intensità del suo sguardo, delle sue parole, la
furia con cui si
lancia nel combattimento, tutto questo tradiscono il suo temperamento
passionale, indomito… ardente.
-
Un uomo estremamente interessante e pieno di sorprese, dunque.
–
concluse Irwing, voltandosi verso il colonnello, che ancora
conversava con gli altri.
-
Certamente un uomo dall’animo misterioso… - gli
fece eco
Frederick, perdendosi nei suoi pensieri.
Quando
finalmente la commedia ebbe inizio, per un bel po’ Harlock
restò a
guardarla in silenzio, cercando di cogliere, nonostante il fracasso
proveniente dal suo e dagli altri palchetti, le battute pronunciate
dagli attori. Era una ben difficile impresa, ma lui aveva un vivo
desiderio di ascoltare di nuovo un’opera teatrale, di vedere
di
nuovo degli uomini e delle donne in costume agitarsi, ridere, correre
sulla scena, creando attorno a loro un mondo fantastico. Gli altri
giovani erano tutti all’interno del palco e chiacchieravano
tra
loro, senza curarsi della rappresentazione. Solo il duca di
Larckstein ad un tratto si avvicinò al colonnello, sedendosi
silenziosamente accanto a lui.
-
Mi sembra vi piaccia l’opera di Karl Osembergh. –
commentò,
sorridendo lievemente.
-
E’ una commedia divertente, anche se l’intrigo non
è certo una
novità.
-
L’intrigo di base di ogni commedia è
pressoché lo stesso. –
spiegò il duca Lemort, volgendosi a guardare verso il palco.
- Sta
all’originalità dell’autore ravvivarlo
con un tocco personale
che renda unica la sua opera.
-
Allora qui questo tocco originale non c’è.
– disse Harlock,
senza voltarsi.
-
Perché allora la seguite con tanto interesse? –
domandò Lemort,
posando i suoi occhi chiari sul volto assente di Harlock.
-
Non lo so… forse perché mi sembra di recuperare
un po’ del tempo
perduto, un po’ di vita.
-
La vita della scena è falsa: tornate dentro con noi, se
avete voglia
di vivere intensamente. – lo esortò infine,
posandogli una mano
sul braccio.
-
Certamente la vostra vita e quella dei vostri amici
dev’essere
molto intensa. – si volse verso Lemort e la terra dei suoi
occhi
toccò il cielo tempestoso di quelli del giovane duca, il cui
cuore
ebbe un fremito. – Ma credo di avere bisogno anche di
guardare dal
di fuori tante cose, di conoscere ciò che è stato
scritto in questi
anni o ciò che è venuto alla luce adesso, dopo un
lungo periodo di
gestazione… non credo di riuscire a spiegarmi. Forse
perché non so
nemmeno bene io ciò che vado cercando.
Lemort
lo fissò in silenzio e il suo sguardo divenne triste.
Harlock
proseguì:
-
Forse ho quest’impressione soltanto perché sono
tornato da poco
alla vita di sempre, alla vita in tempo di pace: fra un po’
non
farò più caso a tutto questo. Ma intanto
è strano vivere così: mi
sembra di essere tornato dall’al di là.
– rise lievemente ed il
suo sorriso luminoso ferì Lemort al cuore, senza una ragione.
Rimasero
in silenzio, l’uno accanto all’altro, ancora per un
po’. La
commedia proseguiva rapida davanti ai loro occhi, tra
l’indifferenza
di molti spettatori. Dopo alcuni minuti, però, il conte di
Narwall
si avvicinò a loro, sedendosi accanto ad Harlock su di un
angolo del
divanetto, come chi ha fretta di rialzarsi, e disse:
-
Avete intenzione di trascurarci per tutta la serata?
-
Vi sentite soli? – esclamò scherzosamente il
colonnello, con il
tono di chi compiange dei bambini.
-
Molto, senza di voi, colonnello… - Frederick rispose con la
sua
migliore faccia contristata – E ancora di più
senza il padrone di
casa, che si è completamente dimenticato di noi.
-
Avete ragione… Tornerò ad occuparmi dei miei
ospiti. – rispose
Lemort, accarezzando in punta di dita la guancia ruvida di Frederick
– Venite, colonnello: torniamo dagli altri.
Lemort
si allontanò, raggiungendo i suoi amici, che ora discutevano
animatamente di qualche sconosciuto argomento, e al suo arrivo fu
subito eletto arbitro della discussione e gli venne chiesto di
emettere un giudizio. Harlock non si era ancora alzato e osservava la
scena da lontano, senza riuscire ad intendere di quale argomento
stessero conversando.
-
Vi divertite, Harlock? – gli chiese Frederick, dopo aver
contemplato furtivamente per alcuni momenti il volto
dell’amico.
-
Sono una strana compagnia. – rispose soltanto. – Un
po’ mi
stupisco che anche voi ne facciate parte: vi credevo diverso da
quello che ora mi apparite.
-
Credete sia un male questa mia natura sconosciuta? –
domandò il
conte Frederick, accomodandosi meglio sul divanetto.
-
No, non intendo dare giudizi di valore o di... moralità.
Credo sia
solo perché, per molto tempo, mi siete apparso
esclusivamente sotto
una luce marziale. Vi conoscevo da tanto come soldato, meno come
uomo. Invece, da che siete tornato dal fronte, avete completamente
abbandonato il vostro ruolo e il vostro atteggiamento di ufficiale e
vi siete dato alla vita mondana, alle amicizie e ai divertimenti.
-
Ho visto la morte molto da vicino, Harlock e quando ti accorgi di
quanto la vita sia effimera ti passa la voglia di darti un contegno e
di essere sempre una persona controllata e rispettabile. Ho ventisei
anni e vorrei viverne almeno altrettanti: divertirmi, sì che
c’è
di male? Scherzare in buona compagnia, fare la corte alle ragazze,
bere vino, ascoltare dolci melodie, andare a teatro per perdere
tempo… Anche perdere tempo è un lusso, sapete?
Quando hai la morte
alle costole non puoi pensare di buttare via dei giorni, ma ora che
mi sono completamente ristabilito e che di tempo, Dio volendo, me ne
resta ancora tanto, voglio prendermi anche la soddisfazione di non
fare niente, di divertirmi in modo superficiale: significa che sono
vivo e che lo resterò a lungo. Non so se potete
capirmi…
Harlock
non rispose, ma il suo volto divenne triste.
-
Ritorniamo con gli altri, adesso. – lo esortò
Frederick alzandosi
in piedi.
Harlock
lo seguì e i due amici si riunirono al resto della
compagnia. Myura
fece subito sedere il colonnello accanto a lui, provocando
l’ennesima
serie di commenti da parte di tutti.
-
Avete proprio messo gli occhi addosso al nostro giovane ufficiale,
allora. – esordì Aeneas.
-
Non dovreste essere così maleducato, Myura: anche noi
desideriamo
conoscere meglio il colonnello Lorckshire. Frederick ci ha assicurato
che è un uomo molto interessante. – Irwing
sorrise, sottolineando
in modo particolare quell’ultima parola.
-
Sono certo che oltre ad essere un artista sa fare molte altre
cose…
- commentò maliziosamente Hadrian Maximilian. –
Perché non ci
parlate di qualcun altro dei vostri interessi, colonnello?
-
Avanti, smettetela: se dite così lo spaventate. –
intervenne
Lemort, notando che Harlock sembrava perplesso. Ma il tono divertito
della sua voce contraddiceva le sue stesse parole.
Istintivamente,
come fosse sul campo di battaglia, Harlock si guardò attorno
e la
prima cosa che notò fu la gran quantità di
bicchieri vuoti di
champagne, lasciati in giro un po’ dappertutto: ce
n’erano sui
sedili delle poltrone, sul tavolino e un paio persino sulla balaustra
del palchetto. Il duca di Larckstein ne reggeva ancora uno in mano,
pieno per metà e le sue guance leggermente arrossate su quel
volto
sempre pallido misuravano meglio di ogni altra cosa il tasso alcolico
del suo sangue.
Non
devono essere molto in sé, questi ragazzi.
Si
disse con noncuranza, come se la cosa lo lasciasse, nonostante tutto,
indifferente.
Chissà
che razza di vita fanno, da mattina fino a sera.
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Capitolo 7 *** Una notte a teatro - seconda parte ***
una notte a teatro x FF
Una notte a teatro - seconda parte
Nel
palchetto aveva iniziato da un po’ a fare caldo e
l’aria era
ormai viziata. Per stare meglio alcuni non avevano esitato a
togliersi la giacca o a slacciarsi il foulard. Lemort, come il primo
giorno in cui Harlock l’aveva visto a corte, aveva la camicia
sbottonata, cosicché s’intravedeva senza
difficoltà la pelle
liscia e levigata del suo giovane petto sotto la seta bianca.
Frederick,
con molta noncuranza, esortò anche il colonnello a mettersi
un po’
più a suo agio.
-
D’altronde non mi risulta che sia da voi restare a lungo con
la
divisa perfettamente in ordine ed abbottonata. - concluse chinandosi
verso Harlock perché solo lui sentisse.
Harlock
gli sorrise, replicando a bassa voce:
-
Mi conoscete bene, maggiore Narwall.
-
Non è un segreto per nessuno che siete l’ufficiale
più in
disordine dell’esercito regio! – rise Frederick,
rispondendogli a
voce piuttosto alta. – Che il re non vi abbia ancora cacciato
è
una vera fortuna.
-
Oppure è grazie alla contessa Raflesia. –
sentenziò il conte
Hadrian di Raiden. Harlock, che stava slacciando alcuni bottoni della
casacca, lo fulminò con un’occhiata.
-
Non ho mai chiesto nessun genere di favore a mia zia, tanto meno che
mi proteggesse di fronte al re. – ribatté il
colonnello.
-
Non metto in dubbio questo, conte, ma non è un segreto per
nessuno
che la contessa di Lesath sia la donna più vicina al re, da
quando
la regina è scomparsa.
-
Il rapporto che mia zia ha con il re non è una cosa che mi
riguarda.
E non riguarda neppure voi. Vorrei essere lasciato fuori da qualsiasi
tipo di discussione che li coinvolga, se non vi spiace.
-
Non si tratta propriamente di chiacchiere che riguardano solo il re e
la sua favorita quando alcune di esse coinvolgono anche la vostra
rapida carriera. - Hadrian agitò una mano con noncuranza, lo
stesso
sorriso sempre stampato in volto.
-
Siete anche voi uno di quelli che sono convinti che tutta la mia
carriera sia dovuta esclusivamente agli appoggi reali? - la voce di
Harlock era dura come l’espressione del suo viso.
-
Non vi scaldate, colonnello… sono certo che siete un soldato
valoroso e non voglio mettere in dubbio le vostre qualità
sul campo
di battaglia. Ma certamente si chiude un occhio più
facilmente
quando qualcuno di famiglia…
-
Basta così, Hadrian! – la voce di Lemort
sorpassò tutte le altre,
come il vento improvviso sovrasta lo stormire delle fronde. –
Il
colonnello è mio ospite e non permetto che nessuno lo
offenda,
finché sta con me.
-
Non volevo offenderlo. – si difese il conte di Raiden,
levando le
mani.
-
Però ci state riuscendo perfettamente. – gli
rispose Lemort. – E
se offendete lui che è mio ospite offendete anche me.
-
Va bene, non ne parliamo più. – concluse il conte
di Raiden, con
un sorriso forzato.
Come
per meglio siglare la sua posizione sulla questione, Lemort
andò a
sedersi accanto ad Harlock.
-
Ve la siete presa molto a cuore. – gli disse il colonnello.
-
Mi dispiace che vi abbia offeso: Hadrian non ce l’ha con voi,
credetemi. A volte semplicemente sembra non sappia quello che dice.
–
rispose soltanto il duca di Larckstein.
-
Non vi preoccupate: succede quando si è bevuto troppo. - un
ironico
sorriso affiorò sulle labbra di Harlock per un istante.
–
Comunque, conosco bene le voci che girano sul mio conto, ma
nonostante questo continuo ad infastidirmi, perché non
corrispondono affatto alla verità.
-
Voi siete una persona che si comporta sempre onestamente, è
naturale
che vi offendiate. – Lemort si voltò a fissare il
profilo
scultoreo di Harlock, stagliato contro il rosso della tappezzeria.
-
Comportarmi onestamente è quello che cerco di fare, ma non
so se
sempre ci riesco… - il colonnello non riuscì a
dire altro, perché
la mano di Lemort gli stava sfiorando delicatamente il viso. Si
girò
e così i polpastrelli del duca scivolarono lievi sulle sue
labbra e
sul mento.
Harlock
lo fissò, sgranando gli occhi, senza riuscire a dire nulla:
la sua
mente girava a vuoto, ripetendosi la stessa domanda che non riusciva
a trovare la via per diventare parola.
-
Il vostro volto è ruvido… si sente il segno della
barba.
-
E’ naturale: sono un uomo. – la voce del colonnello
suonò un po’
più roca del solito mentre lui si sottraeva a
quell’insolito
contatto.
-
Già, è naturale… sono io che ho il
viso completamente liscio,
mentre non dovrebbe essere così. – senza
riflettere, Harlock
allungò la mano in direzione del volto di Lemort, ma la
ritrasse
subito, pentendosi di quel gesto. Lemort l’afferrò
prima che
Harlock l’allontanasse del tutto, appoggiandola sulla sua
guancia.
-
Potete accarezzarla, se volete. – lo incoraggiò.
Una pelle soffice
e morbida si rivelò a quel contatto.
Il
colonnello trasalì e guardò Lemort: i suoi occhi
erano lucidi e
languidi e le guance, tutte imporporate, contrastavano nettamente con
il pallore del resto del corpo.
-
Duca… avete bevuto troppo stasera.
Lemort
rise, di un riso strano e squillante.
-
Siete voi che avete bevuto troppo poco: perché non vi
divertite con
noi, avete paura?
-
Non ho paura. Forse siete voi e i vostri amici che vi divertite un
po’ troppo, non credete?
-
Che dite? – Lemort accarezzò di nuovo il mento di
Harlock,
ridendo. – Il conte di Narwall ha ragione: siete troppo
freddo,
scioglietevi un po’.
Così
dicendo, slacciò un altro paio di fibbie della casacca del
colonnello e poi passò a slacciare i primi bottoni della
camicia, ma
Harlock, con un rapido gesto, gli bloccò la mano,
ordinandogli di
fermarsi, sul viso lo stesso sguardo cupo con il quale aveva redarguito
poco prima il conte di Raiden.
-
Scusatemi colonnello. – mormorò Lemort abbassando
lo sguardo e
allontanandosi dal suo posto accanto al colonnello.
Harlock
richiuse in fretta la camicia e riabbottonò un poco anche la
casacca. Dentro il palchetto però faceva davvero caldo e
tutti
avevano il viso arrossato non solo per via dell’alcool.
Frederick,
che non aveva seguito le schermaglie tra Harlock e Lemort, si
avvicinò al colonnello reggendo in mano due calici di vino
rosso.
-
So che preferite questo ad ogni genere di champagne. – disse
allungando un bicchiere.
-
Grazie Frederick. – Harlock prese un calice con le dita
affusolate,
lo rimirò alcuni istanti facendone dondolare dolcemente il
contenuto, mentre Frederick prendeva posto accanto a lui –
Stiamo
bevendo tutti un po’ troppo, stasera. –
commentò a mezza voce,
sorseggiando il vino.
Intanto
Irwing e Myura erano in piedi vicino a Lemort e avevano
l’aria di
volersi accomiatare. Scambiarono poche parole con il duca e Irwing
lanciò anche un’occhiata in direzione di Harlock
prima di uscire,
con Myura che gli trotterellava fedelmente al fianco.
Lemort
parve sentire il peso dello sguardo del colonnello su di sé
e si
volse, gli sorrise in quel suo modo triste e tornò verso di
lui.
-
Irwing vuole approfittare di quest’occasione per fare qualche
altro
invito per il suo compleanno. - spiegò, parlando soprattutto
a
Frederick che sembrava già essere a conoscenza
dell’evento.
-
Si porta avanti per tempo. - rise questi.
Lemort
alzò le spalle.
-
Ha detto che più avanti manderà gli inviti
scritti.
-
Spero allora che si ricordi d’invitare anche il nostro
colonnello.
- Frederick fece l’occhiolino a Lemort, mentre passava un
braccio
attorno alle spalle di Harlock, dandogli un’amichevole
stretta da
camerati. Il colonnello sorrise prima di rispondere.
-
Credo che non debba sentirsi assolutamente in obbligo di invitare
chicchessia al suo compleanno.
-
Io invece mi auguro che ci pensi: ci si diverte sempre molto alle
feste di compleanno di Irwing e non voglio che perdiate
quest’occasione.
-
Vi ringrazio del pensiero... - gli disse Harlock, mentre in cuor suo
iniziava a preoccuparsi su quale tipo di divertimenti fosse
prediletto a queste famose feste.
Il
colonnello e il maggiore Frederick bevvero assieme un altro paio di
bicchieri di rosso: Frederick sapeva che Harlock reggeva molto bene
l’alcool e sembrava intenzionato a fare con lui una specie di
gara
della quale l’interessato non parve però
avvedersi. Lemort invece,
dopo il rimprovero subito dal colonnello, tentò di
mantenersi sobrio
e restò ad ascoltare i due amici che, tra un bicchiere e
l’altro,
si lasciavano andare ai ricordi di qualche vecchia battaglia, quando
gli scontri non si erano ancora fatti troppo aspri, o di divertenti
episodi di caserma. Nessuno dei due si accorse che nel frattempo
anche Hadrian e Maximilian erano usciti, diretti, a quanto dissero,
al palchetto della prozia di Hadrian per un saluto.
-
Certo che qui ha iniziato davvero a fare un caldo infernale. -
commentò Harlock ad un tratto, slacciando il primo bottone
della
camicia e passandosi una mano sul collo. Lemort lo
guardò in tralice.
-
Se aveste accettato il mio aiuto poco fa adesso avreste meno caldo. -
disse, ma poiché il colonnello sembrò non capire,
riprese – Ho
provato a slacciarvi qualche bottone ma voi vi sete offeso!
Lemort
voltò la testa con aria risentita e un fugace sorriso
danzò per un
attimo sulle sue labbra sottili. Nell’accorgersene, anche
Harlock
sorrise e stava per ribattere quando Frederick intervenne nella
conversazione.
-
Possiamo rimediare adesso, se dite: vi do una mano io, colonnello, in
due faremo prima. - Frederick rise ed Harlock notò che gli
occhi del
suo amico brillavano in modo strano: l’alcool doveva aver
iniziato
a sortire i suoi effetti. La destra di Frederick intanto aveva
già
raggiunto uno dei bottoni della camicia del colonnello e, nella
fretta, stava armeggiando un po’ maldestramente per
slacciarlo.
-
Frederick! - il colonnello gli afferrò la mano come poco
prima aveva
fatto con Lemort, con la consueta presa decisa e lo scostò
da sé. –
Credo sia una buona idea se vado a guardare un po’ la
commedia, da
solo.
-
Ehy, scherzavo! - rise Frederick levando le mani in segno di resa.
Harlock
si alzò rapidamente in piedi, com’era sua
abitudine, ma un
improvviso capogiro lo colse appena raggiunse la posizione eretta.
Barcollò, sbilanciandosi in avanti e urtò il
tavolino ancora pieno
di bicchieri, che tintinnarono come in allarme. Il duca di
Larckstein, che era ancora in piedi, lo afferrò prontamente,
trattenendolo per le spalle. Harlock si appoggiò al suo
petto,
serrando gli occhi.
-
Che avete, colonnello? Vi sentite male? – gli chiese.
-
Ah… non è niente… Solo un capogiro. -
rispose. Alzò gli occhi
oltre il petto di Lemort: tutto ondeggiava attorno a lui,
distorcendosi come in uno specchio deformante. Serrò forte
le
palpebre, nascondendo il viso nell’incavo della spalla del
duca.
-
Harlock! – esclamò questi, mentre Frederick si
avvicinava a loro.
-
Tutto bene? - la voce del maggiore arrivò stranamente
ovattata agli
orecchi di Harlock.
-
Mi manca l’aria… - mormorò il
colonnello, la voce insolitamente
roca – Vi prego, Frederick, accompagnatemi fuori.
-
No, colonnello, non mi sembra il caso. Sdraiatevi un po’ sul
divano. - disse Lemort che non aveva smesso di sorreggerlo. - Vi
slacceremo casacca e camicia e vi sventoleremo un poco: starete
meglio.
Harlock
annuì, riaprendo gli occhi. Si staccò da Lemort,
sforzandosi di
arrivare da solo fino al divano. Erano solo pochi passi ma le sue
gambe sembravano di piombo.
-
Ce la fate? - anche la voce di Lemort si era fatta remota. Harlock
non rispose. Mosse il primo passo, ma qualcosa sembrò
spezzarsi,
proprio al centro del suo petto e un’improvvisa onda di
calore salì
da quel punto fino al viso. Poi tutto divenne freddo e gli
sembrò di
sprofondare in un immenso abisso.
Durò
solo pochi istanti, ma parvero eterni.
Avvertì
di nuovo le mani di Lemort che l’afferravano e altre mani,
doveva
essere Frederick, che lo sorreggevano da dietro le spalle.
Sentì che
i suoi amici dicevano qualcosa e le loro voci erano concitate.
Harlock tentò di parlare, di dire che andava tutto bene, ma
i suoi
pensieri non trovarono la strada per divenire suono.
Lemort
lo sollevò da solo e lo adagiò sul divano,
armeggiando poi con le
fibbie della casacca e i bottoni della camicia. Harlock non
immaginava che fosse così forte da riuscire a prenderlo in
braccio
senza l’aiuto di nessuno. Il duca gli sollevò in
alto le gambe,
appoggiandole sul bracciolo, di modo che il sangue affluisse alla
testa. Gli mise anche qualcosa di morbido e ripiegato
sotto il capo. Dal profumo il colonnello capì che doveva
trattarsi
proprio della giacca di Lemort: aveva lo stesso odore speziato e
malinconico che gli aveva sentito addosso per tutta la sera. Si
sforzò di respirare a fondo, più e più
volte, cercando di
ritornare in possesso delle forze perdute ma soprattutto di tornare
lucido. Allo stesso tempo riaprì gli occhi, tenendoli fissi
su un
punto imprecisato del soffitto. Le lunghe dita di Lemort gli
scostarono alcune ciocche di capelli dalla fronte, indugiando ad
accarezzargli la guancia, poi lo sentì inginocchiarsi
accanto a sé,
ma non lo vide entrare nel suo campo visivo.
-
Come vi sentite? – gli chiese il duca, mentre con fare
esperto gli
prendeva il polso per ascoltare il battito del cuore: era decisamente
aritmico. Lemort inarcò le sopracciglia, ma non disse nulla.
-
Abbiamo spalancato la porta del palchetto perché entri
più aria
possibile: nel corridoio c’è fresco, fra poco
starete meglio.
-
Sto già meglio. – rispose Harlock, posando il
braccio libero sugli
occhi, come a proteggersi dalla luce. Con l’altra mano,
quando
Lemort la lasciò, afferrò i due lembi della
camicia,
riavvicinandoli. Il duca non l’aveva aperta troppo, per
timore di
offendere il colonnello, vista la sua reazione di poco prima, quando
aveva cercato di spogliarlo.
-
C’è mancato poco che perdeste conoscenza! -
Frederick era in piedi
vicino a loro e, benché avesse tentato di stamparsi in
faccia il più
classico dei suoi sorrisi, il suo tentativo di fingersi rilassato non
riuscì molto convincente.
Harlock
non rispose: inspirò più profondamente, frustrato.
-
Qui dentro faceva davvero molto caldo e l’aria era viziata:
può
succedere anche ad un uomo di avere un mancamento. - intervenne
Lemort. - Anche se... non mi è sembrato che sia stato solo
il caldo
a darvi fastidio. Forse stavate già poco bene, questa sera,
colonnello?
-
No... - rispose. - Credo sia stato... un insieme di cause.
Pensò
al vino, all’aria pesante, alla stanchezza che si portava
dietro
dalla fine della guerra... Tutto insieme, però, non bastava
a dargli
ragione di quanto era successo.
Nemmeno
sui campi di battaglia, quando il fumo della polvere da sparo rende
praticamente impossibile respirare, quando il calore diventa
insopportabile e la fatica fisica è altissima, mi era mai
accaduta
una cosa del genere… e certo sarebbe imperdonabile per un
ufficiale
sentirsi male mentre combatte. Allora che cos’è
stato? Sono
davvero ancora troppo stanco? Mi sono concesso un lungo riposo, in
questi giorni: possibile che non sia bastato?
Questi
erano i pensieri che agitavano la mente del colonnello, immobile sul
divano, gli occhi ancora serrati.
Lemort
era ancora inginocchiato accanto ad Harlock, celato al suo sguardo
dalla sua posizione molto laterale, ma il colonnello continuava ad
avvertirne la presenza. Sul volto del duca era dipinta
un’espressione colma di ansia alla quale le parole non erano
riuscite fin’ora a rendere giustizia.
-
Si riprenderà subito, non vi preoccupate. – disse
Frederick con
convinzione, dopo aver osservato a lungo Lemort. – Credo che
sia
soltanto ancora molto stanco e provato dalla guerra: è
tornato a
casa sciupato e dimagrito, l’avete visto anche voi. Ma il
colonnello è di fibra forte, non si lascerà certo
prostrare per
così poco.
-
Volete un po’ d’acqua? –
domandò Lemort, posando una mano su
quella di Harlock. Era fredda e molto pallida. Guardò il
colonnello,
cercando di scorgerne il viso, ma questi aveva di nuovo il braccio
sugli occhi, gettando così ombra sulla faccia. Lemort
immaginò che
doveva avere un colore cereo e una morsa d’angoscia gli prese
lo
stomaco. Con delicatezza gli scostò il braccio. Harlock si
girò,
fissando i suoi occhi in quelli di Lemort, interrogativo: il suo viso
era proprio come l'angoscia di Lemort
glielo aveva fatto immaginare, pallido ed esangue come
la morte. Lemort dovette usare tutto il suo dominio su se stesso per
riprendere il controllo dei propri pensieri e imporsi di riformulare
la domanda.
-
Vi ho chiesto se volete un po’ d’acqua. - la voce
gli uscì più
bassa di quel che avrebbe voluto e, come per scusarsi, aggiunse -
Forse non mi avete sentito...
-
Sì, vi ho sentito... Sì, un po’
d’acqua forse mi farà bene.
-
Se non altro vi aiuterà a diluire tutto quel vino che avete
bevuto!
- Frederick prese una sedia, accomodandosi vicino ad Harlock con
l’intenzione di tenergli su il morale. Il colonnello non
poté non
sorridere alla sua battuta.
-
Forse il vino mi ha giocato un brutto tiro, ma non da solo. Comunque
vi ricordo maggiore, semmai ve ne fosse bisogno, che siete
più
alticcio di me. - replicò con un ghigno.
Intanto
Lemort era riuscito a procurarsi il bicchiere d’acqua, che
fortunatamente non mancava pur in mezzo a tutto quello champagne e
bottiglie di vino pregiato.
-
Tenete un attimo l’acqua, Frederick, mentre aiuto il
colonnello a
mettersi seduto. - disse tendendogli il bicchiere.
-
Ce la faccio da solo. - e senza dare a nessuno il tempo di replicare,
Harlock si appoggiò sui gomiti rizzandosi a sedere. La
stanza
ondeggiò leggermente ma Harlock non volle badarci: rispetto
a prima
era già un discreto progresso.
Lemort
lo guardò con biasimo.
-
Non dovreste alzarvi così presto, avete bisogno di
riprendere pian
piano le forze.
-
Le forze sono già tornate. - replicò il
colonnello, sorseggiando la
sua acqua. Era inaspettatamente fresca e fu un sollievo per il fisico
oltre che per la gola.
-
E’ cocciuto. - sussurrò Frederick
all’orecchio di Lemort. - Ma
anche questo è uno dei suoi pregi.
-
Già... - ammise Lemort con un sospiro.
Passarono
solo pochi minuti e il colonnello era già seduto sul divano,
con i
piedi appoggiati sul pavimento e la schiena rilassata contro la
spalliera. Era vero che si sentiva meglio ma questo
‘meglio’ non
era ancora la perfezione della sua forma fisica. Continuava a provare
un senso di spossatezza generale che lo infastidiva e un peso
inspiegabile al centro del petto. Odiava sentirsi
debole, un’esperienza che del resto gli era capitata ben
poche
volte nella vita, perché questo fatto limitava la sua
indipendenza,
la sua autonomia e, in breve, la sua libertà. Lemort si
sincerò
ancora un paio di volte che Harlock stesse davvero bene, pur sapendo
d’incorrere così nella sua disapprovazione, ma non
poteva evitare
di domandargli come si sentiva dato che il suo aspetto era
sì
migliorato ma non quanto si aspettava: il suo viso non aveva
riacquistato il bel colorito che gli era consueto e le sue mani, che
Lemort aveva avuto l’occasione di sfiorare ancora una volta
riprendendo il bicchiere, erano ancora fredde.
Il
colonnello non sembrava intenzionato a discutere oltre delle sue
condizioni fisiche e così la conversazione si
spostò praticamente
da subito su altri argomenti. Irwing e Myura, che furono i primi a
tornare, li trovarono rilassati come se nulla fosse accaduto, immersi
in un dialogo che pareva piuttosto piacevole. I nuovi arrivati si
unirono allegramente alla conversazione e Myura approfittò
subito
del posto vuoto sul divanetto per sedersi accanto ad Harlock e godere
ancora un poco della sua vicinanza fisica. Trovò il
colonnello
particolarmente rilassato e anche per una persona che lo conosceva
così poco come lui non fu difficile accorgersi che sorrideva
molto
più del solito. Gli occhi di Lemort, però, anche
se nessuno se ne
avvide, non abbandonarono mai il volto di Harlock, spiando ogni
minimo mutamento della sua espressione o del suo colorito con la
stessa costanza di un lupo che scruta la sua preda acquattato nel buio.
Il
resto della serata trascorse rapida e tranquilla: una decina di
minuti dopo il ritorno dei conti di Zoder e di Hessex erano rientrati
anche Hadrian e Maximilian e, benché ormai tutti apparissero
molto
più sobri e riuscissero a discorrere in modo rilassato e
amichevole,
non scomparvero mai del tutto le battute maliziose o ambigue, rivolte
per la maggior parte a qualcuno dei presenti, o ancora le occhiate
d’intesa che ogni tanto si scambiavano tra loro, unite a
qualche
complice sorriso. Harlock non mancò di notare tutto questo e
di
farsi nuove domande su quei giovani così singolari ma,
nonostante
questo diversivo, il pensiero di quel fastidioso mancamento non
abbandonò mai del tutto la sua mente e dentro di lui un
dubbio
profondo e cupo si faceva sempre più strada.
Harlock
e Frederick furono tra i primi a lasciare il teatro. Su insistenza di
Lemort, che non poteva abbandonare il palchetto finché gli
altri
suoi ospiti vi si intrattenevano, il maggiore accompagnò
Harlock
alla sua vettura, fingendo di voler scambiare con lui le ultime
chiacchiere. Prima che il colonnello salisse in carrozza volle anche
sincerarsi che si sentisse perfettamente in forze, e questi lo
rassicurò in modo sbrigativo, palesemente infastidito da
tanta
premura.
-
Vorrei farvi notare, Frederick, che non sono a cavallo: il mio
cocchiere conosce bene la strada e mi riporterà
indietro… fosse
anche morto. – disse il colonnello, un piede poggiato sullo
scalino
della carrozza e l’altro ancora sospeso a mezz’aria.
-
E’ proprio quello che vorrei evitare. – rispose
Frederick,
salutando il suo amico con un sorriso e un gesto della mano, prima di
allontanarsi.
Miriadi
di stelle brillavano, lontane e silenti, nel blu profondo delle
tenebre autunnali. Un vento sottile e tagliente, insolito dopo una
giornata d’autunno tanto mite, aveva accolto i due giovani
all’uscita dal teatro e ora li accompagnava, come un
servitore muto
ed indiscreto, nel loro viaggio verso casa. Il conte di Lorckshire
non aveva mentito a Frederick: la stanchezza sembrava essersene
completamente andata e nessun disturbo gli diede noia nel tempo che
trascorse per strada. Ma nemmeno quest’apparente
normalità
riusciva a scacciare dal suo cuore l’insidioso presagio che
vi
aveva messo radici, penetrante e persistente come quel vento lieve.
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Capitolo 8 *** Conversazioni - prima parte ***
Capitolo
VII
Conversazioni -
Prima parte
Qualche
giorno dopo, la contessa Eva di Lorckshire sedeva da sola nella Sala
delle Ninfe. Indossava un vestito da giorno di colore azzurro,
semplice ed elegante nello stesso tempo ed i capelli erano acconciati
in morbidi boccoli che le ricadevano sulle spalle nude
incorniciandole il volto, conferendogli in tal modo maggior
splendore. Non era ancora ora di pranzo e avendo deciso, come
accadeva molto di rado, di trascorrere a casa quel giorno, se ne
stava tranquilla nel suo salotto, intenta ad un ricamo che non
prendeva in mano da diverse settimane. Mentre stava così,
immersa
nei suoi pensieri, un servo bussò alla porta. Reggeva in
mano un
vassoio, sul quale erano appoggiati diversi biglietti, recanti i
sigilli e le firme più svariate. Il servitore fece un lieve
inchino,
posò il vassoio sul tavolo di fronte alla contessa ed
uscì.
-
I soliti inviti… - mormorò Eva con un sorriso,
compiacendosi di
essere così ricercata. Scorse uno a uno i nomi dei mittenti:
tutte
persone piuttosto in vista, che godevano di un’ottima
posizione e
di un certo prestigio sociale.
-
Oh, questo è indirizzata ad Harlock… -
esclamò quando lesse il
nome di suo figlio su uno dei biglietti. – Chissà
chi glielo
manda? Forse una dama o la famiglia di qualche fanciulla in
età da
marito?
Voltò
il biglietto speranzosa, ma trasalì appena vide il nome del
mittente:
-
Lemort Vincent di Larckstein? Impossibile: che cosa può
volere da
mio figlio? – sul volto della contessa si dipinse subito
un’espressione preoccupata. Si strinse il biglietto contro il
petto
mentre rifletteva sul da farsi e alla fine decise che la cosa
migliore fosse parlarne direttamente con l’interessato e
così,
senza pensarci oltre, s’alzò e si diresse verso la
stanza da letto
di Harlock.
Il
colonnello era da poco tornato da una lunga cavalcata e si stava
cambiando d’abito. L’armadio era spalancato e
alcuni indumenti
gettati in disordine sul letto o sul pavimento. La contessa
bussò
delicatamente alla porta e subito le rispose la voce di suo figlio,
che la pregava di attendere alcuni istanti, poiché era
ancora mezzo
spogliato. Quando finalmente poté varcare la soglia,
inarcò le
sopracciglia alla vista di tanto scompiglio e lanciò a suo
figlio
un’occhiata di disapprovazione, ma non disse nulla:
fortunatamente
la sua condizione le risparmiava il compito di dover rimettere in
ordine.
-
Sei sempre fuori a cavalcare… - commentò
soltanto, avanzando verso
di lui.
-
Se non sto cavalcando sono nell’atelier e anche su quello
avete da
ridire. – replicò Harlock distrattamente.
-
Lo sai che vorrei che tu facessi un po’ più di
vita di società:
ci sono tante persone che mi chiedono di te, che vorrebbero tu mi
accompagnassi a qualche party, a qualche festa o a palazzo.
-
Vi accompagna già lord Anthony. – rispose il
colonnello annodando
il foulard.
Perché
mai lo metti, se tanto fra poco lo scioglierai e resterà
solo un
lembo di stoffa passato attorno al collo o, peggio, lo dimenticherai
su di una poltrona del salotto o nel tuo atelier…
Si
chiese la contessa, osservando suo figlio che finiva di vestirsi,
restando in silenzio per alcuni istanti, finché non si
decise ad
affrontare l’argomento per il quale era venuta fin
lì.
-
Poco fa Jacob mi ha portato i biglietti d’invito che sono
giunti
questa mattina… - esordì, scrutando di nascosto
il volto di
Harlock – Ce n’era uno anche per te. –
concluse, tendendogli il
biglietto ancora sigillato.
-
Spero non sia l’inizio di una brutta abitudine. –
commentò il
colonnello, prendendolo. – Di chi è?
Lo
girò e vide, in una calligrafia elegante e minuta, la firma
del duca
di Larckstein. L’aprì e lesse in silenzio il breve
messaggio.
-
Come mai il duca di Larckstein ti ha mandato un invito? –
chiese
Eva, fingendo un disinteresse che non provava affatto.
-
Non è un invito: mi ringrazia per essere stato a teatro con
lui lo
scorso venerdì. – rispose il colonnello, alzando
gli occhi dal
foglio. Non disse che Lemort gli chiedeva anche notizie sulla sua
salute, augurandosi che ora stesse meglio.
-
Non mi avevi detto che eri andato a teatro con lui. –
replicò sua
madre, accigliandosi.
-
Vi avevo detto che ci andavo con alcuni amici del maggiore Narwall.
–
rispose Harlock perplesso.
-
Però non avevi fatto il nome del duca di Larckstein.
-
Non lo ritenevo necessario. – disse il colonnello –
Perché
v’infastidisce che non vi abbia messo al corrente del nome di
colui
che mi ha invitato?
-
Perché, se avessi saputo di chi si trattava, ti avrei
sconsigliato
di andare a teatro: il duca di Larckstein non è affatto una
buona
compagnia ed è un male anche per il nome della nostra
famiglia che
tu lo frequenti.
Il
colonnello divenne scuro in volto e un’espressione di
rimprovero
comparve nei suoi occhi mentre fissava la madre.
-
Su quali basi fate simili affermazioni? – le chiese.
-
Solo tu che sei vissuto lontano per tutto questo tempo puoi non
sapere le vicende che riguardano il duca di Larckstein: è un
giovane
vizioso, che conduce una vita dissoluta assieme ai suoi amici, tutti
giovani di importanti e rispettate famiglie e che proprio per questo
si permettono di divertirsi come meglio credono, facendosi beffe
della morale e delle regole sociali. Non voglio che tu lo frequenti!
Harlock
inarcò le sopracciglia e il suo sguardo si
rabbuiò ancora di più.
Eva conosceva quell’espressione e, benché si
trattasse di suo
figlio, un brivido di timore le percorreva le spalle ogni volta che
vedeva quello sguardo.
-
E’ inutile che mi fissi così. – disse,
sostenendo il peso degli
occhi di suo figlio – Il mio punto di vista non cambia: non
voglio
che tu stia in simile compagnia. Quei giovani non sono degni di te.
-
Lo sapete benissimo come la penso: su certi argomenti
l’opinione
della gente non ha alcun peso per me. Conoscerò chiunque
susciti il
mio interesse e giudicherò da solo se sono persone degne
della mia
presenza e della mia amicizia. Il duca di Larckstein è stato
corretto con me e per il momento non ho nessun motivo per evitarlo.
-
Vuoi aspettare che accada qualcosa prima di fare marcia indietro?
-
Che cosa dovrebbe mai accadere? – esclamò Harlock,
mentre la sua
voce si alterava leggermente.
-
Qualsiasi cosa… Ma soprattutto che il tuo nome sia infangato
per
causa sua! - anche la voce di Eva era salita di tono mentre cercava
di convincere Harlock a ubbidirle con l’autorità
di una madre nei
confronti del figlio piccolo.
Il
colonnello non disse nulla ed Eva riprese, avvicinandoglisi e
posandogli una mano sul braccio.
-
Harlock… sei tornato dalla guerra come un eroe, il tuo nome
è
circondato di onore e di gloria. Vuoi che tutto quello che hai fatto
fin qui sia inutile, vuoi essere nominato assieme a tutti coloro che
sono coperti d’infamia e di vergogna, assieme a coloro che
non
potranno più rialzarsi da una simile condizione?
-
Che cosa dite? – mormorò il conte di Lorckshire,
scuotendo la
testa. – Io ho combattuto per il mio paese: della gloria e
della
fama non m’importa nulla! Il maggiore Frederick è
mio amico e mi
ha presentato questi giovani: saranno anche quel che dite, ma da
quando sono tornato gli unici discorsi colti ed interessanti li ho
trovati solo restando in loro compagnia. - concluse ripensando
all’ultima parte della serata, quando Irwing e gli altri,
ritornati
al palchetto molto più sobri, avevano discusso con lui non
solo
della commedia di Osemberg ma anche della produzione teatrale
più
recente, di musica e poesia.
-
Ma è naturale, passi tutto il tuo tempo chiuso tra le
quattro mura
di quell’atelier oppure in solitarie cavalcate –
prorruppe sua
madre - Chi vuoi incontrare in certi posti che faccia discorsi
interessanti, che s’intrattenga con te conversando
d’arte, di
poesia e di filosofia? Un contadino, forse, o qualche pastore?
Harlock, sii serio.
-
Io sono serio! Se parlo con qualcuno a palazzo mi sento spesso
riferire i soliti pettegolezzi o i classici discorsi sui fatti del
giorno riguardanti il re o qualcuno dei nobili più in vista.
Ho
conosciuto quei ragazzi e abbiamo parlato di argomenti piacevoli, che
m’interessava ascoltare… non ho intenzione di
entrare nel loro
entourage, ma nemmeno di allontanarli da me senza averli ancora
conosciuti.
-
Questo non basta: quando li avrai frequentati per un certo tempo e
t’accorgerai che è stata una scelta sbagliata,
sarà troppo tardi,
non potrai più liberarti dal legame che si sarà
instaurato tra il
tuo nome e il loro! – ribatté Eva, accorata.
-
Tutto ciò non ha alcuna importanza per me. – disse
Harlock.
-
Ma lo ha per me: sono tua madre, voglio impedirti di commettere certi
errori, quando mi è possibile!
-
Vi state facendo un mucchio d’inutili problemi. Quei giovani
li ho
appena conosciuti, potrei non rivederli mai più o potrei
scambiare
con loro solo qualche occasionale parola, dunque non è il
caso che
vi angustiate tanto per un legame che non è neppure detto
s’instauri. – fece una breve pausa, indi riprese,
vedendo che sua
madre accennava di nuovo a protestare – E poi non credo
nemmeno di
essere l’unica persona che li ha frequentati, giusto? Il
maggiore
Narwall, per esempio, è loro amico e penso che altre persone
cosiddette dabbene s’intrattengano in loro compagnia.
-
Infatti per me è stata una sorpresa sapere che il conte
Frederick di
Narwall è in amicizia con il duca di Larckstein: non avrei
mai
pensato che un uomo come lui, di ottima famiglia e di estrazione
sociale elevata, potesse frequentare certa gente…
-
Certa gente... - gli fece eco Harlock, stizzito - Vi ricordo che il
duca di Larckstein è imparentato direttamente con la casa
reale.
-
Sì, ed è solo grazie a questo che non
è ancora stato cacciato da
corte e che i suoi amici, forti della sua protezione, possono
condurre la via che fanno, sotto gli occhi di tutti.
-
Ho capito: terminiamo qui quest’inutile discorso. –
concluse il
colonnello, prendendo la sua giacca e gettandosela su di una spalla
mentre s’avviava verso la porta.
-
Possibile che non t’importi mai dell’opinione di
tua madre? –
gridò Eva, arrossendo di sdegno.
-
Non è vero che non m’importa della vostra
opinione. – replicò
Harlock con voce calma, voltandosi di nuovo – Ma su
quest’argomento
abbiamo opinioni talmente diverse che è inutile continuare a
discutere, non verremmo mai a capo di niente. Io non ho intenzione di
cambiare il mio atteggiamento e voi neppure, dunque risparmiamoci un
infruttuoso litigio.
-
Non dovrebbe esserci nessuna discussione, dovresti accettare il
consiglio di tua madre e basta. – ribatté la
contessa, ancor più
infastidita dalle considerazioni di suo figlio.
-
Appunto: il vostro è un consiglio, non un ordine e i
consigli si
ascoltano, ma nessuno può costringerci ad accettarli e a
metterli in
pratica. Io non voglio farvi esasperare e non mi diverte nemmeno
avere continui scontri d’idee con voi, però sapete
benissimo come
la penso, soprattutto a riguardo di certe questioni. Lasciatemi
decidere da solo, nel bene e nel male, quale deve essere la mia
condotta di vita. Consigliatemi pure tutte le volte che lo ritenete
necessario, ma non aspettatevi che io vi ubbidisca automaticamente
solo perché voi siete convinta che la vostra visione delle
cose sia
giusta. O solo perché siete mia madre.
Si
mosse di nuovo verso la porta, afferrò la maniglia e fece
scattare
la serratura. Eva rimase in silenzio, in mezzo alla stanza. Il
colonnello si voltò, la guardò dolcemente e
riprese:
-
Non abbiatecela con me: non faccio tutto questo perché
disprezzo le
vostre opinioni e i vostri sentimenti… vi prego, madre,
cercate di
capirmi. – mormorò infine, abbassando lo sguardo.
Uscì,
senza richiudere la porta. La contessa di Lorckshire
sospirò,
portandosi una mano al viso, costernata. Quindi, come per aiutarsi a
pensare, iniziò ad andare su e giù per la stanza,
riflettendo sul
da farsi.
-
Dopotutto è vero: forse mi sto preoccupando per
nulla… - disse,
cercando di tranquillizzarsi – Non è detto che
Harlock riveda
ancora quei ragazzi e di certo era in buona fede quando ha accettato
l’invito, non sapendo nulla del duca di Larckstein o degli
altri
convitati. Mi chiedo però perché il maggiore
Narwall non gli abbia
detto niente e lo abbia convinto a partecipare a quella serata a
teatro.
Rimase
in silenzio, assorta, riprendendo poco dopo il filo dei suoi
pensieri.
-
Però… perché mio figlio deve sempre
discutere su ciò che gli
dico, perché non accettare senza tante opposizioni le parole
di sua
madre? Adesso che è un uomo crede di poter fare sempre tutto
di
testa sua, come se nessuno fosse più in diritto di metterlo
in
guardia!
Gli
ultimi pensieri avevano contribuito più ad aumentare che a
mitigare
la stizza di Eva, che per calmarsi preferì uscire dalla
stanza del
figlio e passeggiare lungo i corridoi. Aveva fatto solo poca strada
quando incrociò il conte di Ayveron, che subito, vedendola,
si
fermò: sul volto della contessa traspariva ancora
chiaramente tutto
il turbamento che le agitava il cuore.
-
Avete avuto una discussione con vostro figlio, non è
così? – le
disse dolcemente Anthony prendendole le mani – Vi ho sentiti
parlare dalla mia stanza…
-
Stavamo gridando, vero? – Eva sorrise amaramente, abbassando
lo
sguardo.
-
No, ma le vostre voci erano entrambe alterate. – rispose
Anthony,
cercando di tranquillizzarla – E’ forse accaduto
qualcosa di
grave?
-
Per ora no… ma temo che possa esservi qualche evento
spiacevole in
futuro.
Anthony
rimase in silenzio, attendendo che Eva proseguisse il suo discorso.
La contessa sollevò gli occhi su di lui e riprese.
-
So che Harlock è stato nel palchetto del duca di Larckstein,
venerdì
sera, su suo esplicito invito. Lui non si rende conto che
frequentando quel giovane rischia di macchiare la propria reputazione
per sempre e non vuole nemmeno ascoltare i consigli di sua madre.
Dice che i giovani che fanno parte della cerchia del duca gli
sembrano tutti interessanti e colti e che conversare con loro
è
piacevole, più che intrattenersi con altri aristocratici che
frequentano la corte. Io non so davvero come fare perché
capisca
come stanno realmente le cose. – concluse, scuotendo il capo.
-
Il duca di Larckstein gode comunque di una posizione di tutto
rispetto e molte persone cercano il suo appoggio e la sua protezione
per avvicinarsi al re, contando sul prestigio che il suo casato
ancora possiede. – le disse Anthony – Non credo
sembri tanto
strano che anche un uomo come il colonnello stia in sua compagnia:
anche se non ha nulla da chiedere al duca in termini di favori o
aiuti, comunque quelle dei Lorckshire e dei Larckstein sono due
famiglie illustri e d’antica nobiltà, che possono
intrattenere tra
loro importanti e proficui rapporti.
-
La pensi anche tu come mio figlio, dunque? – disse Eva,
sospirando.
-
Volevo solo tranquillizzarvi: forse quello che vi sembra un male in
realtà non lo è. Certo, a patto che il conte
eviti di frequentare
il palchetto del duca di Larckstein, soprattutto se vengono tirate le
tendine.
-
Hanno tirato le tende? – esclamò Eva allibita.
– Chi te l’ha
detto?
-
No, state tranquilla! – ribatté Anthony,
afferrando delicatamente
le mani che la contessa tendeva verso di lui. – So che
è una
pratica molto usata da Lord Lemort, ma non ho sentito nessuna voce in
tal senso a proposito di venerdì sera, inoltre non ero
nemmeno a
conoscenza del fatto che il conte fosse stato nel suo palco.
-
Oh, ti prego, Anthony, parlagli tu! – disse Eva concitata.
–
Forse ti darà ascolto…
-
Darà ascolto a me? – esclamò Anthony,
ridendo – Penso davvero
di essere l’ultima persona che può fargli cambiare
idea, visto che
praticamente mi detesta.
-
Oh, non dire così: Harlock si è offeso
perché non gli ho parlato
prima del nostro rapporto, ma non può avere nulla da ridire
sul tuo
conto. Ti prego, Anthony, cerca di convincerlo: voi due avete pochi
anni di differenza, siete due giovani che possono parlare alla pari,
confrontarsi… forse ti ascolterà e
capirà che quello che gli ho
detto è giusto.
Il
conte di Ayveron sospirò, chiudendo gli occhi per un breve
istante.
-
Va bene, cercherò di parlargli. –
acconsentì in tono paziente –
Ma non vi assicuro niente, nemmeno che il mio discorso non lo
indisponga ancor di più.
Eva
sorrise raggiante e ringraziò Anthony con un delicato bacio
sulle
labbra, che questi accolse con piacere.
-
Comunque, vostro figlio immaginerà subito che siete stata
voi a
chiedermi di parlargli. – aggiunse il conte di Ayveron.
-
Cerca di essere discreto, di trovare un modo per entrare
nell’argomento. – suggerì Eva, il cui
volto aveva ripreso la
consueta espressione tranquilla.
-
Come volete. Però voi intanto non angustiatevi: non
è davvero una
cosa tanto grave conoscere il duca di Larckstein e stare in sua
compagnia. Dopotutto, molte delle cose che si dicono sul suo conto
sono e restano solo delle voci, che nessuno ha mai dimostrato:
qualunque cosa faccia, nel suo palchetto o nella palazzina di caccia
di famiglia, si guarda bene dallo sbandierarlo ai quattro venti.
-
Lo so, Anthony: ma anche le voci possono uccidere. Soprattutto una
reputazione onorata.
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Capitolo 9 *** Conversazioni - seconda parte ***
Capitolo
VII
Conversazioni
- seconda parte
Qualche
giorno dopo la sorte offrì ai due giovani
l’occasione per parlarsi
faccia a faccia. Harlock era uscito molto presto a cavallo, ma quella
mattina anche il conte di Ayveron aveva fatto lo stesso ed aveva
attraversato con il suo destriero i possedimenti dei Lorckshire per
molti chilometri, fermandosi infine lungo un ramo del fiume Sheylon,
deviato molto tempo prima perché le sue acque potessero
irrigare le
terre appartenenti alla famiglia. Anthony sostò in una
radura, dove
l’erba bassa e ancor verde offriva un piacevole tappeto per
sdraiarsi e riposare e dove d’estate crescevano gigli
selvatici e i
roveti davano more dolci e succose. Era un luogo privilegiato lungo
il corso del fiume, le cui acque in quel punto si facevano meno
impetuose e durante la bella stagione si poteva tranquillamente fare
il bagno. Pure Harlock conosceva molto bene quel posto e lo sceglieva
spesso per le sue soste, così anche quel giorno vi si
fermò a
riposare e a dissetarsi. Quando arrivò, il conte di Ayveron
era già
lì, disteso tra l’erba, un po’ nascosto
dietro alcuni alti
giunchi che crescevano lungo la riva. Nessuno dei due si avvide della
presenza dell’altro, ma Harlock rivelò presto se
stesso rivolgendo
la parola al suo destriero per invitarlo a non bere perché
troppo
sudato. Egli era certo che Tenebra capisse perfettamente tutto quello
che gli diceva e in effetti anche quella volta dimostrò di
aver
inteso perché, scrollando la testa in segno di
disapprovazione, si
allontanò dalla riva per mangiare un po’
d’erba.
Al
suono di quella voce Anthony sussultò, rizzandosi a sedere.
Il
conte di Lorckshire… Non si può proprio stare
tranquilli da
nessuna parte.
In
breve, però, l’aria imbronciata con la quale aveva
accolto la
consapevolezza della presenza di un intruso si trasformò in
un
ghigno divertito e così rimase in assoluto silenzio ad
attendere
l’avvicinarsi del colonnello.
Harlock
intanto si era inginocchiato accanto alla sponda e aveva tuffato una
mano nell’acqua per bere. Anthony poteva vederlo dal suo
riparo
mentre si dissetava ma non proferì parola, rimanendo in
attesa della
prossima mossa del colonnello. In effetti, poco dopo, Harlock si
diresse proprio verso il luogo in cui si trovava Anthony e, giunto a
pochi passi da lui, lo scorse oltre il canneto. Non riconoscendo
inizialmente a chi appartenesse quella figura in abiti da
cavallerizzo, avanzò fino a superare i giunchi e a
ritrovarsi sullo
stesso prato di Anthony.
-
Buongiorno colonnello. – lo salutò questi con il
più caldo dei
sorrisi – Anche voi da queste parti?
-
Conte di Ayveron… - Harlock si fermò, sorpreso, a
pochi passi da
lui. Rimasero entrambi in silenzio per alcuni istanti, ognuno con gli
occhi fissi in quelli dell’altro.
-
Non sapevo foste uscito a cavalcare… - esordì
d’un tratto il
colonnello, sedendosi accanto ad Anthony.
-
Nemmeno io ero a conoscenza della vostra uscita, sebbene dovessi
aspettarmelo, dato che non passa praticamente giorno che non stiate
in compagnia di quella povera bestia… voglio dire, di quello
splendido destriero. – un sorriso beffardo brillava ora sul
volto
di Anthony.
Harlock
gli lanciò un’occhiata infastidita, che non
riuscì tuttavia a
spegnere quel luminoso sorriso.
Che
razza di ragazzaccio! Invece con mia madre è sempre tutto
gentilezze
e moine…
Il
colonnello raccolse uno stelo d’erba e se lo pose tra le
labbra,
restando in silenzio.
-
A furia di stare con il vostro cavallo avete iniziato a mangiare
l’erba? – esclamò Anthony, ridendo.
-
Perché non la smettete di provocarmi? – Harlock si
volse, incapace
di dissimulare il suo disappunto.
-
Siete voi ad essere troppo suscettibile: dovreste imparare a stare
agli scherzi. – replicò Anthony, divenendo serio.
-
E voi dovreste imparare ad essere meno insistente con certe sciocche
battute.
-
Come siete permaloso! – sbottò il conte di
Ayveron, alzandosi in
piedi. – Se non foste prevenuto nei miei confronti non
reagireste
in questo modo.
-
Io non sono prevenuto.
-
Davvero? Mi guardate storto dal primo giorno che mi avete visto,
quando eravate appena tornato.
-
Veramente, in quell’occasione siete stato voi a guardarmi
storto,
probabilmente per via dell’uniforme logora e in disordine.
–
ribatté Harlock, fissando Anthony negli occhi.
-
Non potevo immaginare che foste il figlio di Eva appena tornato dalla
guerra.
-
Non ci voleva certo la scala per arrivarci! –
replicò il
colonnello, sarcastico.
-
La… scala? – balbettò Anthony.
– E’ forse un modo di dire
che avete imparato tra i soldati?
-
Lasciamo perdere… - Harlock distolse lo sguardo da lui,
tornando a
fissare le acque dello Sheylon che scorrevano veloci.
Tacquero
entrambi per alcuni minuti, con la musica del fiume in sottofondo ai
loro pensieri. Poi fu Anthony a riprendere la parola.
-
Possibile che con voi non si riesca mai a conversare senza finire per
discutere? Siete una persona litigiosa! Se non aveste scelto la
carriera militare avreste fatto duelli ogni giorno con il primo
poveraccio che vi capitava a tiro.
Harlock
si voltò verso di lui per ribattere qualcosa, ma le parole
gli
morirono tra le labbra. Tornò a fissare le acque del fiume,
perdendosi nei suoi pensieri. Per un po’ Anthony non distolse
lo
sguardo da lui, ma vedendo che il colonnello non si ridestava dal suo
solitario ragionamento, gli si sedette accanto, fissando la stessa
acqua limpida e fredda.
-
Credo davvero che dovreste cercare di riallacciare i rapporti con la
società, con il mondo civile. – gli disse dopo un
lungo silenzio.
- Siete stato troppo a lungo in guerra e avete perso la
capacità di
convivere pacificamente con il resto degli uomini.
-
Non sono ancora a questo punto, nonostante vi siate potuto fare una
simile idea dai rapporti che noi due abbiamo avuto fin qui. Forse
è
solo un difetto del mio temperamento, troppo battagliero e sempre in
lotta contro tutti. Combattere non mi spaventa, neanche nella
relazioni interpersonali, ma generalmente lo faccio con le persone
che, per le più varie ragioni, riescono ad indispormi. Non
c’è
bisogno che vi citi degli esempi.
Anthony
colse la stoccata e benché la classica battuta gli venisse
spontaneamente alle labbra, s’impegnò a proseguire
una
conversazione su toni pacati, senza lanciare frecciatine che
avrebbero indisposto il suo interlocutore.
-
Ammettendo che quello che dite sia la verità e non
sussistano altre
ragioni per la vostra litigiosità, perché questa
resta un dato di
fatto, dovete concedermelo, - aggiunse Anthony vedendo come Harlock
lo guardava in tralice – credo che tutta questa solitudine vi
renda
ancora più ombroso e scostante: invece di fuggire le
occasioni
mondane, cercate di approfittarne per migliorare il vostro rapporto
con la gente.
Harlock
sospirò per mantenersi calmo.
-
Nonostante tutto, credo di avere bisogno di stare un po’ da
solo. E
poi… - riprese, mentre un pensiero riemergeva alla
coscienza. –
L’unica volta che accetto un invito mondano e mi reco a
teatro mi
devo sentir rimproverare per la scelta della compagnia.
-
Cosa intendete? – chiese Anthony, che aveva colto in
quell’affermazione un riferimento alla serata trascorsa nel
palco
del duca di Larckstein.
-
Qualche sera fa sono stato a teatro con Lemort di Larckstein e i suoi
amici. - rispose semplicemente Harlock, dopo essere rimasto in
silenzio alcuni istanti.
-
Siete andato nel palchetto del duca? – chiese Anthony.
-
Ovviamente, dato che è stato lui ad invitarmi.
-
Voi siete tornato da poco e probabilmente non sapete cosa si mormora
a proposito del palco dei Larckstein. – continuò
Anthony. – Si
dice sia un luogo di perdizione, dove avvengono incontri proibiti fra
i giovani rampolli della nobiltà.
Harlock
fissò Anthony, nel volto un espressione di chiaro stupore.
Poi i
ricordi di tutti i piccoli dettagli fuori posto che aveva notato
quella notte s’incastrarono gli uni negli altri, trovando la
loro
esatta collocazione: Myura che accarezza la sua divisa, gli sguardi e
la battute maliziose dei convitati, Lemort che gli sfiora la guancia.
Un improvviso rossore colorì il volto del colonnello a
quell’ultimo,
vivido, pensiero e per nasconderlo distolse di nuovo lo sguardo dagli
occhi chiari di Anthony. Le acque dello Sheylon, che avevano sempre
avuto il potere di calmarlo, sembravano possedere anche la misteriosa
capacità di rinfrescarlo, seppur da lontano e
così,
nell’osservarle, sentì che l’imbarazzo
che aveva fatto avvampare
il suo viso stava scomparendo.
Riprese
di nuovo a seguire il corso dei suoi pensieri.
Frederick
era l’unico, tra quei giovani, che gli sembrava essere sempre
lo
stesso che conosceva. O quasi. Ma il fatto di essere più
rilassato e
scherzoso in un’occasione informale, in compagnia di vecchi
amici,
non poteva certo diventare un valido capo d’imputazione. No,
Frederick non aveva niente fuori posto.
-
Non sapevo di queste voci... - furono le prime parole del colonnello.
Anthony
lo scrutò con attenzione, aspettandosi di sentirgli
rinnegare quella
serata, ma Harlock proseguì.
-
E anche se l’avessi saputo non mi sarebbe importato: me ne
sono
sempre fregato delle chiacchiere della gente, soprattutto
perché per
la maggior parte sono falsità.
Anthony
sorrise.
-
Ma a mia madre, invece, importa molto di queste chiacchiere.
-
Eva ci tiene alla vostra reputazione.
-
Reputazione… - commentò freddamente Harlock,
lanciando un piccolo
sasso nel fiume.
-
Vi siete divertito, almeno? – riprese Anthony.
-
Ho passato una serata piacevole.
-
E non avete notato nulla di strano? – continuò il
conte di
Ayveron.
Il
colonnello non rispose subito, nuovamente immerso nella rievocazione
degli avvenimenti di quella notte.
-
Sono ragazzi molto esuberanti, che vivono al di sopra delle regole e
delle convenzioni sociali… e hanno creato tra loro una forte
intimità, forse un po’ singolare. –
disse infine.
-
La trovate soltanto “singolare”? – chiese
Anthony.
-
C’è una grande complicità nelle loro
parole, nei loro sguardi.
Sembra si conoscano molto bene, anche negli aspetti più
personali ed
hanno una gran voglia di divertirsi, di vivere allegramente. Non mi
è
parso però che con i loro comportamenti possano nuocere a
qualcuno.
Certo, il giovane più strano di tutti è il conte
Myura di Hessex! –
rise Harlock, voltandosi verso Anthony.
-
Come mai? - chiese questi.
-
Ha un fare da bambina e due stupende guance rosse che ne farebbero il
protagonista perfetto di qualche ammiccante dipinto di Boucher.
Anthony
rise lievemente, esclamando
-
Di certo è molto effeminato. Credo che gli dispiaccia non
essere
nato donna…
-
Dite sul serio? - Harlock parve perplesso.
-
Perché, voi non lo direste, osservandolo?
-
Beh, in effetti… - il colonnello si ricordò di
tutti gli strani
atteggiamenti che Myura aveva tenuto con lui, quella sera, compresa
quella sua gioia ansiosa di fargli da modello, e il suo volto alla
fine si fece triste – A volte la natura è davvero
crudele.
Il
conte di Ayveron lo fissò con sguardo interrogativo, ma non
gli
occorse molto tempo per cogliere il significato di
quell’affermazione.
-
Ci sono persone che nascono nel corpo sbagliato… come il
duca di
Larckstein. – disse Anthony. – Anche lui avrebbe
dovuto nascere
donna.
-
Il primo giorno che l’ho visto… -
esordì il colonnello,
interrompendosi un istante dopo.
Gli
azzurri occhi di Anthony fissi su di lui lo esortarono a continuare.
Harlock sorrise al ricordo di quell’avvenimento e sul suo
volto
sempre tanto impassibile comparve una lieve espressione
d’imbarazzo.
-
Quando l’ho veduto per la prima volta a corte, alcuni giorni
fa,
l’ho scambiato per una donna in abiti maschili. Lo so che
è
strano, dopotutto lui non è così
effeminato… ma qualcosa nel suo
aspetto mi aveva tratto in inganno. Ed aveva anche un fascino molto
seducente.
-
Il fascino dell’ambiguità! –
decretò Anthony, sdraiandosi sul
prato a fissare il cielo. Piccole nuvole leggere passarono sopra la
sua testa, sospinte da un vento che
ormai si
era fatto più fresco.
-
Già, era davvero un fascino molto ambiguo. – il
conte di
Lorckshire condivise quella definizione, proseguendo nella sua
riflessione sul duca. – Credo che una donna in abiti maschili
non
starebbe poi tanto male.
-
Vi piacciono le amazzoni? Le donne androgine?
-
No… non è questione di
“piacere”, non in quel senso, almeno.
Sto solo parlando di fascino.
-
Una donna con una corporatura esile, con un vitino sottile e un bel
seno sodo non starebbe mai bene con un abito maschile,
perché
sarebbe troppo grande per lei, nasconderebbe solo la sua figura e la
farebbe goffa ed impacciata. – esclamò Anthony.
-
Dovrebbe essere tagliato su misura, come i vestiti che indossano
sempre. A volte sarebbe anche più comodo, come quando vanno
a
cavallo, per esempio.
-
Vi assicuro che non ci sono molte donne che vanno a cavallo: di
solito preferiscono la carrozza. L’equitazione è
una pratica
prevalentemente maschile. – spiegò Anthony.
– Ma voi non pensate
ad una donna qualsiasi, voi state pensando al duca di
Larckstein…
Dicendo che vorreste vedere una donna in abiti maschili in
verità
state affermando che vorreste vedere il duca vestito da donna.
Harlock
si voltò di scatto, fissando Anthony allibito, le labbra
socchiuse
come se non riuscisse a mettere in fila tutte le parole che,
confusamente, gli si erano accavallate nella testa.
-
Come… come vi salta in mente una deduzione del genere, tanto
strampalata quanto campata in aria? – sbottò.
Anthony
rise, di un riso squillante ed argentino che salì, fresco e
giovane,
fino alle alte chiome dei pioppi che frusciavano sopra le loro teste.
-
E non ridete! – lo rimproverò Harlock, voltandosi
di nuovo verso
il fiume, più confuso che indispettito.
-
Non vi offendete, colonnello! – disse Anthony, sempre ridendo
–
In fondo non avete tutti i torti: sono sicuro che il duca starebbe
davvero molto bene in abiti femminili: dopotutto si dice che la sua
somiglianza con la madre sia sorprendente.
La
sua somiglianza con la madre. Queste parole risvegliarono nel cuore
di Harlock un altro pensiero, sopito ormai da molti anni e per alcuni
momenti vagò, d’associazione in associazione, tra
i meandri della
sua mente.
-
Non siete l’unica persona sulla quale il duca esercita un
fascino
tanto intrigante e potente. – riprese Anthony, costringendo
il
conte di Lorckshire a ritornare nel presente. – Sembra che
siano
molti quelli caduti nella sua rete di sirena pescatrice
d’uomini.
-
Se fosse davvero una donna sarebbe tutto più naturale.
-
Non so se al duca interessi quanti giovani ha portato alla
perdizione, fin’ora: conduce la sua vita in modo molto
spregiudicato, senza remore di nessun tipo. Solo la vicinanza della
sua famiglia alla casa reale lo salva da una severa punizione.
–
disse il conte di Ayveron.
-
I discorsi moraleggianti non hanno senso in un luogo come la corte e
in generale tra i membri della nobiltà:
c’è una moltitudine
infinita di persone a cui non interessa nulla dei danni e dei dolori
che arreca con il suo comportamento a quanti la circondano. –
replicò Harlock. – E credo non sia nemmeno
l’unico a seguire una
condotta di vita così particolare e libertina.
-
E’ vero, ma tutti gli altri sono molto più accorti
di lui e
l’aristocrazia così non ha modo di mormorare sui
loro trascorsi.
Mentre del duca di Larckstein si conoscono fin troppi dettagli su di
un argomento tanto delicato e scottante… e insieme alle sue
vicende, si vengono a sapere anche quelle dei giovani che lo
frequentano e intrecciano con lui legami sentimentali. –
Anthony
parlava molto seriamente, ora, ed Harlock rimase ad ascoltarlo in
silenzio. Anche quando il conte ebbe terminato il suo discorso,
continuò a tacere.
Anthony
fissò a lungo il colonnello, sempre muto. Poi riprese:
-
Andare nel palchetto del duca di Larckstein o, peggio, alla sua
palazzina di caccia, equivale ad una dichiarazione d’intenti.
E’
un po’ come dire: “sono entrato nella cerchia dei
suoi amici più
intimi”.
-
Insomma, l’unico luogo dove si può frequentarlo
tranquillamente è
a corte, nei posti di pubblico passaggio, così da essere
sotto gli
occhi di tutti, perfettamente controllabili, perfettamente limpidi e
trasparenti, in intenti ed azioni. – concluse il colonnello,
piantando i suoi occhi castani in quelli di Anthony e fu come se una
nube levatasi dalla terra oscurasse l’azzurro del cielo.
-
Ci sono dei luoghi che hanno un significato particolare, questo
dovreste saperlo meglio di me. – replicò Anthony.
-
I luoghi hanno il significato che noi gli attribuiamo.
-
Mettetela come volete, però è così: la
palazzina e il palco del
duca sono ambienti di fornicazione. Questo è quello che si
dice e
chi li frequenta sa a cosa va incontro. – rispose il conte di
Ayveron, freddamente.
-
Quei posti di proprietà del duca hanno assunto tale
significato
perché è stata l’insana e morbosa
fantasia della nobiltà ad
attribuirglieli. Se nessuno di quei moralisti ben pensanti è
mai
stato nel suo palchetto o, peggio, nella sua palazzina, come fa ad
essere tanto sicuro di quello che vi avviene? –
protestò Harlock,
ed i suoi occhi si fecero più cupi.
-
Evidentemente qualcuno ha raccontato qualche particolare… o
forse,
ed è molto probabile, un servitore ha chiacchierato troppo.
–
Anthony si alzò in piedi, pulendosi i pantaloni
dall’erba. –
Infine, colonnello, non è solo ciò che
effettivamente vi accade ad
essere importante, ma anche ciò che si crede vi avvenga: le
convinzioni umane guidano le azioni tanto quanto i fatti reali.
-
Non si può ghettizzare una persona solo per questo: delle
dicerie
non bastano! – replicò Harlock.
-
Non sono soltanto dicerie: veramente quella sera non vi siete accorto
di nulla? Siate sincero con voi stesso. – la voce di Anthony
scese
nel profondo dell’anima di Harlock e gli sembrò
che, per un
istante, qualcuno vi accendesse una vivida luce.
Harlock
sospirò, lasciandosi cadere sull’erba, le braccia
aperte. E
ripensò a tutti quegli sguardi, agli occhi avidi di piacere
e
desiderio che lo avevano fissato lungamente, alle mani che lo avevano
sfiorato con un fremito, ai tanti modi in cui il suo nome era stato
pronunciato. Ed infine, al volto pallido e dolce di Lemort e ai suoi
occhi di lupo ferito, alle labbra sottili e appena rosate che lo
avevano invitato a spogliarsi… Il colonnello
serrò forte le
palpebre e si portò una mano alla fronte, mentre il conte di
Ayveron
continuava ad osservarlo, con lucido distacco. Poi si
allontanò,
silenzioso, si accostò al suo cavallo, prendendo le briglie
tra le
mani. Lanciò un ultimo sguardo ad Harlock prima di montare
in sella,
senza dire una parola di commiato, e diresse il suo destriero verso
la stradina che, serpeggiando tra i campi, conduceva al castello dei
Lorckshire. Il colonnello ascoltò il ritmico suono degli
zoccoli
allontanarsi sempre di più finché ebbe coscienza
di esser rimasto
solo, circondato unicamente dai pensieri suscitati da quel lungo
colloquio.
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Capitolo 10 *** La contessa di Lesath ***
Capitolo
VIII
La
contessa di Lesath
Per
molti giorni il tempo fu cattivo: la pioggia aveva iniziato a cadere,
portando tra le sue liquide dita il fangoso autunno. Harlock aveva
rinunciato alle sue cavalcate perché i sentieri erano
divenuti un
pantano impraticabile ed aveva ripreso a dipingere con maggior
costanza, pur non potendo giovarsi di quel modello che gli sarebbe
stato tanto utile per proseguire i suoi studi anatomici. Durante
quelle noiose settimane Harlock era andato un paio di sere a teatro
in compagnia della madre e del conte di Ayveron, e talvolta con loro
c’erano stati anche degli ospiti di riguardo, invitati dalla
contessa di Lorckshire. Qualche pomeriggio si era pure dedicato alla
scherma, allenandosi in giardino se la pioggia concedeva una breve
tregua oppure nella Galleria delle Armi.
Quel
pomeriggio, invece, si trovava nella Sala delle Ninfe assieme alla
madre e al conte di Ayveron a prendere un po’ di
tè. Fuori il
cielo era di un azzurro spento e a tratti alcune nubi impalpabili
offuscavano quel po' di sole che, timidamente, osava ancora
riscaldare la terra. Dopo aver discusso di arte e dei lavori
che il colonnello stava portando avanti nel suo atelier la loro
conversazione si era spostata sulla musica e così Eva aveva
colto
l’occasione per fare una proposta ai suoi due uomini.
-
Che ne diresti, Anthony – esordì – di
suonare un poco il violino
per noi? E’ da tanto che non ti ascolto più e
comincio a sentire
nostalgia delle dolci note che sai trarre dal tuo strumento. Harlock
potrebbe accompagnarti al pianoforte: di certo abbiamo in casa lo
spartito di qualche sinfonia che potreste eseguire assieme.
-
Io sono molto arrugginito… - protestò il
colonnello – Non ho più
rimesso le mani su di un pianoforte, da che sono tornato.
-
Sono certa che sei ancora bravissimo e poi si tratta di suonare qui,
in famiglia. Non devi esibirti davanti a nessuno.
-
Non è questo. Temo che non riuscirei ad accompagnare come si
deve il
conte di Ayveron: finirei per farlo sbagliare. Preferisco ascoltarlo
assieme a voi.
-
Non vi preoccupate: se sbaglierò, riprenderemo daccapo,
finché non
vi sarete riappropriato di un’ottima tecnica. –
rise Anthony e di
nuovo Harlock non capì se si stava prendendo gioco di lui o
se
dicesse sul serio.
Stavano
ancora parlando quando un rumore di ruote proveniente dal viale che
costeggiava la casa attirò l’attenzione del
colonnello, che si
alzò e si diresse alla finestra.
-
Che cosa c’è? – gli chiese sua madre.
-
Una carrozza… - mormorò il colonnello, aspettando
il momento in
cui avrebbe potuto scorgere lo stemma sulla fiancata della vettura.
-
Abbiamo visite. – commentò Eva, felice che
qualcuno venisse a
spezzare la monotonia di quella giornata autunnale. Si alzò
a sua
volta, dirigendosi verso suo figlio – Non sta bene spiare di
nascosto dalla finestra: fra poco Mabel verrà a dirci chi
è
arrivato.
Ma
Harlock rimase dove si trovava, la tenda completamente scostata dalla
finestra. Anche Anthony gli si avvicinò, incuriosito e
attese con
lui di vedere chi sarebbe sceso dalla carrozza. La contessa di
Lorckshire sospirò, ma non disse altro per convincerli a
spostarsi.
-
E’ mia zia… - mormorò Harlock,
scorgendo una slanciata figura di
donna scendere il gradino della vettura, aiutata da un servo. Dopo di
lei smontò un’altra giovane donna, avvolta in un
lungo mantello
blu cobalto. – Ariel… che sia lei?
-
Raflesia hai detto? – alle parole di Harlock il viso di Eva
si era
illuminato – Era da tanto che non mi faceva visita.
Chissà se ti
troverà cambiato? Non vi siete ancora rivisti dopo il tuo
ritorno.
Poco
dopo le due donne giunsero nella Sala delle Ninfe, accompagnate dalla
governante Mabel. Eva si fece loro subito incontro, prendendo le mani
della sorella e baciandola affettuosamente su entrambe le guance.
-
Come stai, Raflesia? – le chiese.
-
Sto bene, ti ringrazio. E tu? – rispose la contessa di Lesath.
Una
di fronte all’altra, le due sorelle erano come il giorno e la
notte
quando s’incontrano sul limitare dell’aurora:
bionda e dalla
pelle splendente Eva, lunghissimi capelli corvini e un incarnato
pallido e lunare Raflesia, e benché entrambe avessero gli
occhi
azzurri, quelli di Raflesia erano di un colore cangiante che a volte
assumeva tonalità verde mare, altre volte quelle
dell’acquamarina.
Questa mutevolezza era unico segnale dell’insidiosa burrasca
del
suo cuore.
La
contessa Eva si voltò poi sorridente verso la nipote,
esclamando con
sincero compiacimento:
-
Oh, Ariel Urania: ogni volta che ti vedo sei sempre più
bella!
-
Grazie zia. – rispose questa.
Ariel
Urania aveva diciassette anni, il volto ovale fresco come un fiore
nel quale spiccavano due intensi occhi castani dalle linee ormai
adulte, e sensuali labbra carnose, rosse come una melagrana. I
capelli, di un castano chiaro dai riflessi ramati, erano acconciati
con ricercatezza eppure nell’insieme davano
un’impressione di
grande naturalezza.
Era
la prima volta che Anthony la incontrava e ne restò
incantato.
Anche
Harlock, nel rivederla dopo tanti anni, osservò con
ammirazione il
cambiamento avvenuto in lei: non era più la bambina che
aveva
lasciato partendo per la guerra.
Dopo
aver salutato la sorella e scambiato con lei poche parole, Raflesia
rivolse lo sguardo verso il fondo della stanza dove, fin dal suo
ingresso, aveva scorto le figure dei due giovani che si stagliavano
contro la luce proveniente dalla finestra.
Appena
i suoi occhi si posarono su Harlock, il volto le si illuminò
di
gioia.
-
Harlock… - mormorò muovendo qualche passo verso
di lui, mentre
anche il colonnello le andava incontro.
-
Ti trovo cambiato… - disse la contessa di Lesath,
scrutandolo con
attenta dolcezza. – E anche dimagrito.
Harlock
sorrise come chi si è sentito ripetere quelle parole tante
volte.
-
Voi invece siete sempre bella ogni giorno di più: sembra che
il
trascorrere del tempo su di voi non abbia effetto. - le disse.
Anche
Raflesia sorrise, dello stesso sorriso che poco prima si era
disegnato sulle labbra di Harlock.
-
Non mi salutate, cugino? – la voce di Ariel, fresca come il
vento
di primavera, richiamò d’un tratto
l’attenzione di Harlock tutta
su di lei.
-
La mia cuginetta… - mormorò questi,
contemplandola da capo a piedi
come se fosse di fronte ad un capolavoro dell’arte scultorea.
–
Sono trascorsi solo quattro anni ma sembrano molti di più:
in questo
tempo vi siete fatta una donna, non siete più la bambina con
la
quale giocavo.
-
Mi siete mancato molto, Harlock. – l’intenso
brillare degli occhi
di Ariel Urania furono più eloquenti di qualsiasi altra
parola.
-
Ariel, mia cara, vorrei presentarvi anche un’altra persona.
–
disse Eva, mentre con un gesto della mano indicava Anthony. –
Questi è il conte Anthony Michelangelo di Ayveron, un mio
carissimo
amico.
-
Onorato di fare la vostra conoscenza. – Anthony
s’inchinò con
eleganza e le baciò la mano.
-
Il piacere è mio. – replicò Ariel.
Pur
non avendolo mai visto prima, Ariel era a conoscenza del tipo di
rapporto esistente tra sua zia e il conte di Ayveron grazie ad una
lunga conversazione avuta con la madre qualche tempo prima.
E’
davvero molto bello… e molto giovane.
-
Stavamo prendendo un po’ di tè, volete unirvi a
noi? – li invitò
la contessa di Lorckshire andando verso il tavolino ancora imbandito.
La
contessa Raflesia e la figlia si sedettero una accanto
all’altra su
uno dei divanetti, mentre Harlock prese posto sull’altro
divano che
si trovava di fronte al loro, separati dal tavolino di cristallo. Eva
si sedette sulla poltrona accanto alla sorella ed Anthony
sull’altra,
di fronte ad Eva e accanto ad Ariel.
-
Faccio portare anche una fetta di torta o qualche biscotto. –
disse
Eva, suonando il campanello per la servitù.
-
Grazie, zia: i dolci della vostra cuoca sono davvero squisiti.
Poco
dopo, Mabel e un’altra cameriera vennero a servirli, portando
ognuna un vassoio ricolmo di ogni prelibatezza. Mabel usava sempre
servire con grande abbondanza gli ospiti più importanti.
-
E ditemi, cara sorella, come mai questa visita improvvisa? –
chiese
Eva mentre la contessa di Lesath sorseggiava il tè.
-
Semplicemente una visita di piacere. Inoltre avevo sentito dire che
Harlock era tornato, così sono venuta per salutarlo. -
sempre
sorridendo, Raflesia lanciò un’occhiata tagliente
al nipote che
suonava come un rimprovero, ma non aggiunse altro.
-
Sarei dovuto venire io, mi dispiace. – si scusò il
colonnello.
Raflesia annuì impercettibilmente.
-
E’ vero, siete stato molto sgarbato a trascurarci
così! – lo
rimproverò Ariel, ma il suo volto sorridente diceva
esattamente
l’opposto.
-
Hai ragione, Ariel. Invece è sempre fuori a cavalcare.
– continuò
Eva, lanciando a sua volta un’occhiata di disapprovazione a
suo
figlio, che non cercò di giustificarsi sapendo che sua madre
diceva
la verità.
-
Non gliene faccio una colpa. – intervenne Raflesia
– Era appena
tornato dalla guerra e aveva il diritto di prendersi tutto il tempo
che voleva per riposare e stare un po’ tranquillo: sarebbe
stato
ingiusto e scortese pretendere che si recasse ogni giorno a trovare
tutti i parenti, gli amici e i conoscenti che non vedeva da tempo.
Anche se forse avrebbe potuto trovare un pomeriggio per le sue uniche
parenti strette.
-
Infatti. - Eva sorseggiò il suo tè con tutta
calma, mentre Harlock,
alzando gli occhi al soffitto, si lasciava sfuggire un sospiro - E
sarei contenta se ogni tanto frequentasse la buona società,
invece
che starsene sempre da solo, a dipingere o a cavalcare.
-
Allora dovreste venire con noi a corte. – esclamò
Ariel Urania,
sporgendosi verso il cugino e fissandolo con occhi suadenti, le
labbra un bocciolo di rosa.
Harlock
la fissò senza rispondere e i suoi occhi si velarono di
tristezza,
divenendo scuri e penetranti.
Vi
siete fatta una sirena ammaliatrice, in tutto questo tempo.
Quello
sguardo invitante, quei modi seducenti erano sconosciuti alla
ragazzina che ricordava, quella che andava in barca con lui nei
lunghi pomeriggi d’estate e raccoglieva fiori lungo la riva,
sotto
il suo sguardo pieno d’affetto.
-
Andate a palazzo? – chiese Anthony, sporgendosi a sua volta
verso
Ariel, che era seduta poco lontano da lui, alla sua destra.
-
Sì, partiamo domani: i bagagli sono già
preparati. – i denti
bianchi di Ariel brillarono nel nuovo sorriso che rivolse al conte di
Ayveron.
-
Immagino vi fermerete a lungo. – disse Eva rivolta alla
sorella.
-
Sì, penso che trascorreremo là quasi tutto
l’inverno. –
rispose questa, posando sul tavolo la sua tazza da tè.
-
E’ sempre stata vostra abitudine frequentare per tempi molto
prolungati l’ambiente di corte. –
commentò Eva e nelle sue
parole c’era un tono di disapprovazione che Raflesia colse
immediatamente. Le due sorelle si fissarono negli occhi, scambiandosi
mutamente vecchie parole, pronunciate tante volte da non necessitare
più di essere profferite.
Ariel
dal canto suo stava insistendo con il cugino per ottenere finalmente
una risposta positiva.
-
Allora, verrete con noi Harlock?
-
Non si muoverà mai di qui! – intervenne Anthony -
Vostro cugino è
un misantropo.
Anthony
lanciò ad Harlock uno dei suoi ironici sorrisi, prima di
voltarsi di
nuovo verso Ariel Urania.
-
E voi, conte, cosa pensate di fare? Verrete a corte? – gli
chiese
questa, senza smettere di sorridergli. Era come se tutta la luce del
sole fosse racchiusa fra quelle labbra carminie.
Anthony
sentì che gli si mozzava il fiato e la sua risposta non fu
pronta
come al solito.
-
Non mi dispiacerebbe… può darsi che Eva abbia
intenzione di
andarci, la potrei accompagnare. – disse, cercando di
mascherare il
suo imbarazzo dietro una risposta che suonasse il più
possibile
sciolta.
-
Volete dire che verrete a corte solo se viene mia zia? –
insistette
Ariel.
-
La accompagna ovunque vada, molto fedelmente. – fu la volta
di
Harlock di lanciare una battuta sarcastica.
-
Non vedo il motivo per cui dovrei lasciarla qui a casa da sola.
Certo, se fosse per voi e per tutta la compagnia che le fate sarebbe
già morta di solitudine.
-
Questo non significa che dobbiate seguirla come la sua ombra, non
credete?
-
Forse voi non riuscite neppure ad immaginare cosa vuol dire che due
persone stanno assieme.
-
Non litigate, vi prego… - Ariel si frappose fra i due,
allungando
le mani in avanti, una verso Anthony e una in direzione del cugino -
Perché non chiedete a mia zia che cosa intende fare?
Potremmo
ritrovarci tutti assieme a palazzo: è tanto tempo che non
succede.
Ariel
si era rivolta di nuovo solo ad Anthony ed Harlock rimase, scuro in
volto, ad attendere che Anthony facesse la prossima mossa.
-
Glielo chiederò. - rispose semplicemente il conte di Ayveron.
-
Fareste molto presto: è qui poco distante. –
riprese Harlock con
voce tagliente, fissando Anthony dritto negli occhi.
-
Non voglio disturbarla, sta parlando con vostra zia. –
replicò
Anthony.
Quando
iniziano a rimbeccarsi non la smettono più! Penso che non
vadano per
niente d’accordo e immagino di sapere il motivo: non credo
che
Harlock abbia accettato l’unione tra mia zia e il conte di
Ayveron. Del resto... Anthony è persino più
giovane di Harlock: Eva
potrebbe essere sua madre.
Ariel
si rese conto che, a causa del suo lungo silenzio, gli occhi di
entrambi i suoi interlocutori erano ora fissi su di lei.
Così
sorrise come se nulla fosse, sospirò e disse:
-
Allora glielo chiederò io. Scusatemi, zia…
Si
voltò verso Eva, parlando a voce più alta.
-
Dimmi pure, cara. - le sorrise questa.
-
Stavo dicendo ad Harlock e al conte di Ayveron che mi farebbe molto
piacere se veniste tutti e tre a corte, per il tempo in cui vi
soggiorneremo io e mia madre. Credete sia possibile?
-
Perché no? E’ un po’ di tempo che non mi
fermo a lungo a palazzo
e sarebbe un’ottima occasione per indurre Harlock a fare una
più
intensa vita di società. – Eva sorrise, sbirciando
con la coda
dell’occhio la reazione del figlio, che non si fece attendere.
-
Intensa… vita di società? –
esclamò Harlock, uscendosene poi
con una lieve, calda risata. – Riuscirete facilmente a
costringermi
ad andare a corte, anzi, per far felice Ariel ci vado volentieri, ma
mai e poi mai riuscirete ad obbligarmi a frequentare assiduamente
tutte le occasioni mondane che si presenteranno.
-
Avete sentito, Raflesia? Mio figlio è davvero un giovane
ombroso! – un’ironica espressione di sofferenza
comparve sul viso di Eva ad
accompagnare le sue parole.
-
Allora è deciso: verrete tutti e tre a corte, nei prossimi
giorni. –
concluse Ariel esultante, abbracciando con lo sguardo i due giovani.
-
Con molto piacere… - le disse in un soffio il conte di
Ayveron. I
suoi occhi brillarono intensamente nell’incrociare quelli di
Ariel
che, confusa, distolse subito lo sguardo.
-
Sono molto felice che sia ritornato a casa. – Raflesia
posò per un
attimo i suoi occhi chiari sul colonnello prima di proseguire, sempre
a bassa voce – Ho temuto così tanto per la sua
vita che quasi non
riesco a credere che sia di nuovo qui, sano e salvo. Durante le
ultime battaglie lungo i confini del Nord, nella piana di Moor e sul
fiume Oreb gli scontri sono stati così violenti e numerosi
soldati
ed ufficiali hanno perso la vita. La vittoria è stata pagata
a caro
prezzo e anche la vita
di Harlock
avrebbe potuto...
-
Ma così non è stato. – Eva la
interruppe bruscamente – Harlock
è un bravissimo ufficiale e non è un uomo che
muore tanto
facilmente, proprio come suo padre.
La
contessa pronunciò queste ultime parole con grande
convincimento,
come a ribadire per l’ennesima volta una verità
che non doveva mai
essere dimenticata. Ralfesia non disse niente, come se non avesse
sentito e dopo un breve silenzio riprese:
-
Quando pensate di raggiungerci a corte?
-
Faremo i preparativi in questi giorni, quindi penso che fra quindici
giorni al massimo saremo a palazzo… Dovrò di
certo farmi fare
qualche vestito nuovo. E soprattutto dovrò farne fare
qualcuno ad
Harlock! Pensa che qualche tempo fa si è recato a
teatro… -
s’interruppe un istante, ripensando al nome di colui che
aveva
invitato suo figlio a quella serata – Sì, a
teatro… indossando
la divisa di gala, che non aveva mai messo, solo perché,
mentre
sceglieva i vestiti, si è accorto che non aveva nulla di
decoroso da
indossare. Capisco che ha passato quattro anni in guerra, che tutto
quello che ha nell’armadio è vecchio e molti dei
suoi indumenti
sono andati rovinati o perduti proprio in guerra, ma almeno, una
volta tornato, poteva subito chiamare un sarto e rifarsi il
guardaroba.
-
Avresti dovuto pensarci tu: lo sai com’è Harlock,
detesta ogni
tipo di mondanità e non si è mai curato delle
mode e talvolta, mi
dispiace ammetterlo, nemmeno del decoro. – replicò
Raflesia.
-
Di certo in questo non ha preso da me! – si difese Eva.
– Io non
esco mai se non sono perfettamente in ordine.
-
E’ il suo carattere. – rispose Raflesia.
– E’ testardo,
orgoglioso e fiero e piuttosto che piegarsi a qualcosa o qualcuno
preferisce morire.
-
Questo suo temperamento gli ha procurato sempre tanti guai anche
all’Accademia militare e persino con i superiori.
-
Ma gli ha sempre tenuto lontano molti individui dappoco. –
Raflesia
sorrise, ricordando un episodio del passato in cui Harlock aveva
manifestato tutto il suo disappunto perché l’uomo
che aveva
sfidato a duello si era rifiutato di accettare e gli aveva inviato un
biglietto di scuse in cui finiva per proclamarsi suo amico ed
“umile
servo”. – Aveva soltanto diciassette
anni…
-
Stai ripensando di nuovo alla vicenda del conte di Kuning? –
chiese
Eva, sorridendo a sua volta. – Quanto si arrabbiò!
Lo definì un
codardo senza spina dorsale e stracciò la lettera che gli
aveva
inviato. Per molti anni, tutte le volte che Harlock lo incontrava,
distoglieva lo sguardo da lui che gli abbozzava un mellifluo sorriso,
come Dante dagli ignavi dell’Inferno.
La
contessa di Lesath annuì, senza smettere di guardare in
direzione di
suo nipote, che intanto conversava, come al solito animatamente, con
Anthony e la cugina.
-
Adesso sembra finalmente essersi calmato. –
commentò Eva,
nonostante la scena che aveva davanti non fosse la più
adatta a
confermare le sue supposizioni.
-
Dopo quattro anni di guerra quasi ininterrotta è normale che
sia
stanco di litigare e di fare duelli. Anche se non mi sembra che gli
sia passata l’abitudine di dire sempre quello che pensa: pare
che
lui e il tuo giovane amico non vadano molto d’accordo.
-
A volte bisticciano un po’, ma tutto sommato sono buoni
amici. –
rispose la contessa Eva con un sorriso.
-
Ne sei sicura? – Raflesia le lanciò uno sguardo
indagatore, tanto
simile a quelli di Harlock.
-
Certo! – Eva parve stizzita – E lo vedrai tu stessa
quando
staranno tutto il giorno sotto i tuoi occhi, a corte.
Le
due sorelle si fissarono come se si lanciassero una sfida silenziosa
ed una luce fiera e caparbia brillò nei loro occhi. Poi,
improvvisamente, Raflesia si voltò verso la figlia e il suo
viso si
fece più sereno, senza perdere la consueta espressione
altera.
-
Ariel, è ora di andare.
-
Di già, madre? - Ariel osservò la pendola che
ticchettava in fondo
alla stanza – Non siamo state molto... spero almeno che ci
rivedremo presto a corte, così avremo modo di conversare
quanto
vogliamo.
La
contessina di Lesath sorrise ammaliatrice ad Harlock ed Anthony prima
di alzarsi.
-
Me lo auguro anch’io. - Anthony si chinò,
baciandole delicatamente
la mano e congedandosi da lei.
Harlock
lo squadrò e i suoi occhi si strinsero, penetranti.
-
Arrivederci Harlock. – Ariel gli tese la mano –
Venite presto:
abbiamo da recuperare tanto tempo perduto.
-
Verrò presto… - le promise questi, stringendole
dolcemente la
mano.
Poco
dopo, quando la contessa di Lesath e la figlia se ne erano ormai
andate, Anthony e Harlock rimasero soli nella stanza. Il colonnello
tornò a sedersi su di una poltrona, l’aria
assorta, mentre Anthony
sceglieva un libro da una pila ordinatamente disposta su di un
tavolo.
-
Sembra che Ariel Urania vi abbia molto colpito. – Harlock
incrociò
le gambe, posando la guancia sul palmo della mano, in un
atteggiamento solo apparentemente rilassato.
-
Mi sembra una persona interessante. - replicò Anthony con
voce
incolore, ancora intento a leggere i titoli stampati sulla costa dei
libri.
-
E il vostro interesse traspariva chiaramente dal modo in cui
l’avete
guardata.
-
Siete geloso di vostra cugina? – replicò il conte
di Ayveron,
chiudendo con uno schiocco il romanzo che aveva appena iniziato a
sfogliare.
-
Non sono geloso di lei: la mia è una constatazione
oggettiva.
-
Non l’ho guardata in nessun modo particolare. Sono stato
soltanto
cortese. – ribatté Anthony.
-
Siete gentile a quel modo con tutte le donne che conoscete? –
gli
occhi di Harlock sfavillarono.
-
A differenza vostra, io sono sempre cortese con le donne e non credo
di dovermi giustificare per questo. Se provate della gelosia per la
contessina di Lesath è un problema vostro.
-
Voi non avete guardato Ariel come un uomo che cerca di essere
cordiale! – ribatté il colonnello.
-
Se è per questo, nemmeno voi l’avete guardata come
un cugino. –
Anthony lo fissò con la sicurezza di aver colpito nel segno.
-
Ci conosciamo da quando eravamo bambini: lei per me è come
una
sorella. Abbiamo trascorso intere giornate assieme, ci siamo
confidati di tutto… Non avete il diritto
d’insinuare queste cose
sul nostro conto! - il colonnello era in piedi e fissava Anthony
dritto negli occhi, lo sguardo duro che ormai tante volte il conte
gli aveva visto tenere nei suoi confronti.
Anthony
tacque: per quanto dal volto di Harlock trasparissero chiaramente
risentimento e persino dolore per quelle ultime parole, egli non
riusciva a provare alcun rimorso per quanto aveva appena detto.
Nemmeno la consapevolezza che le circostanze e la convenienza lo
obbligassero ad un atteggiamento più conciliante nei
confronti di
colui che era pur sempre il padrone a casa Lorckshire riuscirono a
indurlo a cambiare di un millimetro la sua linea di condotta.
-
Siete entrato in questa casa, nella mia famiglia: sta bene. -
proseguì il colonnello - Ma con che diritto venite a sputare
sentenze sui rapporti che esistevano qui, tra i suoi componenti,
molto tempo prima che voi arrivaste? Non l’avete voi una
sorella a
cui voler bene, una madre di cui preoccuparvi, un’amica? Non
sapete
che genere di sentimenti suscitano questi affetti? Se lo sapeste,
allora non fareste certe basse insinuazioni. Io non sono
“geloso”
di mia cugina né di mia madre: io non voglio che il primo
giovinastro farabutto che le si avvicina possa umiliarla, ferirla ed
ingannarla. Se siete davvero interessato a lei, se l’amate
sinceramente, non guardate altre donne e soprattutto non guardatele a
quel modo!
Anthony
si morse le labbra, in silenzio. Strinse i pugni, senza smettere di
guardare Harlock dritto negli occhi, le iridi sfavillanti come
ghiaccio che riluce sotto la sferza del sole.
Che
ne sai tu, dall’alto della tua posizione, tu, nominato
colonnello a
meno di venticinque anni, di quale sia stata la mia vita fin qui? E
più di tutto, che ne sai tu di me, dei miei sentimenti, dei
miei
affetti?
-
Harlock… andate all’Inferno! –
esclamò, lanciando il libro sul
divano dove prima era stato seduto il colonnello.
Anthony
uscì, sbattendo la porta, lasciando Harlock, solo e
immobile, al
centro della stanza.
-
Questa volta abbiamo litigato di brutto. - mormorò il
colonnello,
tuffando una mano fra le ciocche di capelli che gli ricoprivano la
fronte - Però non posso far finta di non aver visto con che
occhi
guardava Ariel e tanto meno posso restare indifferente mentre lui
si prende gioco di mia madre. Possibile che non si sia accorta di
nulla, possibile che lei, così bella, così
orgogliosa e sicura di
sé, sia tanto ingenua da lasciarsi prendere in giro in
questo modo
da un ragazzo che ha la metà dei suoi anni? E che possa
accettare di
restare accanto ad una persona che si sta prendendo gioco di lei?
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Capitolo 11 *** Seduzioni ***
Capitolo
IV
Seduzioni
Era
un mattino uggioso e grigie nubi coprivano il cielo. Erano giunte da
Nord, dai monti lontani, sospinte da un vento gelido. Da alcuni
giorni l’aria s’era fatta pungente e la brina
ricopriva ogni cosa
e si scioglieva soltanto verso mezzogiorno. Ma quel mattino sembrava
aver deciso di resistere anche al tenue calore delle ore meridiane e
di attendere che una nuova notte distendesse su di lei un secondo
strato di gelidi cristalli, per trasformarsi in una coltre sempre
più
spessa.
Harlock
era nella sua stanza: su ordine di sua madre, uno dei migliori sarti
della città era venuto fin lì per confezionare al
colonnello tutti
gli indumenti di cui avesse bisogno. Ed Eva stessa era stata presente
per una lunga ora, aveva consigliato le stoffe, le fogge delle
camicie e delle giacche, la lunghezza dei pizzi e dei merletti che
Harlock non avrebbe mai indossato. E quando il colonnello finalmente
s’era ritrovato da solo con il sarto era più
sfinito che dopo una
giornata intera di combattimenti. Abbandonato sulla poltrona ai piedi
del letto ascoltava il cicalio dell’uomo che andava
enumerando
chissà quali sconosciuti tipi di stoffe ed era quasi tentato
di
lasciargli fare tutto da solo.
Mentre
Harlock se ne stava così, la testa appoggiata al palmo della
mano e
gli occhi persi oltre la figura sfocata del sarto, nel cielo
lattiginoso attraversato da nubi vaporose, qualcuno bussò
delicatamente alla porta.
-
Avanti… - esclamò, nella voce
un’esasperazione crescente.
-
Accidenti, che tono da martire! – il conte di Ayveron apparve
sulla
soglia, il consueto sorriso canzonatore stampato sulle labbra.
-
Non mettetevici anche voi! – sbottò Harlock,
abbandonando la sua
posizione stravaccata per tornare ad appoggiarsi di nuovo allo
schienale della poltrona.
Da
diversi giorni non si scambiavano che poche parole, evitando di fare
una vera conversazione. Ma quel giorno Anthony aveva deciso di
divertirsi un poco assistendo allo spettacolo del colonnello
Lorckshire costretto a rifarsi il guardaroba prima di poter mettere
piede a corte.
-
Non avete ancora finito di scegliere la foggia dei vostri nuovi
vestiti? – chiese Anthony, fermandosi in piedi di fronte a
quell’insieme confuso di stoffe riversate sulle sedie, sulla
sponda
del letto e sul pavimento.
-
Vorrei non aver mai cominciato… - disse Harlock per tutta
risposta.
-
Se volete posso aiutarvi.
Il
colonnello non disse nulla, dubitando che l’offerta di
Anthony
fosse sincera e che non nascondesse piuttosto qualche secondo fine.
-
Dovrete essere in ordine quando vi recherete a palazzo e soprattutto
non dovrete far fare una brutta figura a vostra madre e infangare il
nome della vostra famiglia presentandovi conciato come un
pezzente…
come quel giorno in cui siete tornato, con quella divisa logora:
scommetto che non l’avete ancora gettata via.
-
Non sono affari che vi riguardano. E comunque… - riprese
dopo pochi
istanti – Indosserò per la maggior parte del tempo
l’uniforme,
perciò non è necessario che scelga
chissà quanti tipi diversi di
giacche, camicie e pantaloni… Anzi, facciamo una cosa.
– esclamò,
alzandosi. – Signor Leval, credo di non aver bisogno di
altro:
consegnatemi a palazzo, quando sarà pronto, ciò
che vi ho
commissionato. Ora andate.
-
Ma, signor conte, vostra madre…
-
Non importa quello che vi ha detto mia madre: sono io che devo farmi
fare dei vestiti da voi e ho deciso che questi sono più che
sufficienti. – così dicendo Harlock
uscì dalla stanza, sospirando
come se dal petto gli fosse stato levato un insopportabile peso.
-
Peccato, speravo di godermi più a lungo lo spettacolo.
– Anthony
sorrise tra sé, prendendo tra le mani uno scampolo di raso
rosso,
che lasciò scorrere distrattamente tra le dita affusolate.
Quindi
riprese, rivolto al sarto – Non temete, presto il colonnello
avrà
di nuovo bisogno di voi: quando sarà a corte si
renderà finalmente
conto che quel poco di vestiario che vi ha ordinato non è
sufficiente.
Era
una fredda mattina quando i Lorckshire giunsero al palazzo reale.
L’aria profumava di pioggia e il cielo era grigio e nuvoloso.
Gli
splendidi giardini erano silenziosi e deserti, le fontane ammutolite
ed ogni cosa pareva dormire, in attesa dell’inverno ormai
alle
porte. Ma all’interno, nei saloni e nei corridoi, nelle
gallerie e
nelle stanze private, la vita si agitava rumorosamente, inseguendo
sogni, intessendo amori e complotti, rincorrendo vane brame di gloria
o consumandosi nel dolore della delusione.
Nessuno
di loro ebbe il tempo di far sistemare i bagagli nei rispettivi
appartamenti che già il ritmo serrato della corte li
avvinghiava
nelle sue spire, immergendoli in quel brulicante fermento. La
contessa di Lorckshire volle subito andare assieme ad Anthony a
salutare alcune delle sue amiche, facendo loro sapere del suo arrivo,
mentre Harlock, che durante la sua comparsa a corte qualche tempo
prima era stato quasi monopolizzato dal gruppo di amici del duca di
Larckstein, ebbe presto attorno uomini di stato e alti ufficiali, che
vollero discutere con lui degli avvenimenti bellici e complimentarsi
per l’esito di alcune importanti campagne.
Era
quasi ora di andare a pranzo quando il conte di Ayveron, percorrendo
da solo un corridoio secondario diretto ai propri appartamenti,
lontano dal rumoroso via vai dell’aristocrazia,
incrociò la
contessa Ariel Urania di Lesath. Quando questa lo vide gli sorrise
dolcemente, affrettando il passo per andargli incontro e come quel
giorno a casa Lorckshire ad Anthony sembrò che il sole fosse
apparso
di nuovo in cielo, squarciando le nubi.
Appena
le fu di fronte, Anthony la salutò con un inchino e le
baciò la
mano: era fredda come doveva essere in quel momento la mano della
statua di Diana, umida di pioggia nel cortile di marmo .
-
Questi corridoi non sono riscaldati, dovreste evitare di percorrerli
o vi ammalerete. - le disse, trattenendole la mano fra le sue. Un
dolce tepore si diffuse sulla pelle di Ariel, che non si sottrasse a
quel contatto.
-
Ci sono ben pochi corridoi riscaldati: nella maggior parte dei luoghi
di passaggio del palazzo c’è sempre molto freddo.
E per noi dame è
un supplizio, costrette come siamo a portare questi abiti scollati.
–
così dicendo si sfiorò con la mano le spalle
nude, nivee e
luminose.
A
quella vista, un lungo fremito percorse il corpo di Anthony, che
avrebbe voluto afferrare di nuovo la mano che aveva appena lasciato
andare. Ariel sembrò accorgersene e lo fissò,
interrogativa. Bastò
quello sguardo perché Anthony capisse di doversi dare un
contegno e,
fingendo indifferenza, le si mise al fianco, tendendole il braccio.
-
Permettete che vi accompagni nei vostri appartamenti?
-
Molto volentieri. – rispose Ariel Urania, passando il suo
braccio
attorno a quello del conte.
Fecero
pochi passi nel più assoluto silenzio, un tempo sufficiente
perché
Anthony temesse che Ariel potesse udire il suo cuore che gli
martellava in gola.
-
Sono davvero contenta che siate finalmente arrivati: ci avete fatto
aspettare a lungo, cominciavo a temere che aveste cambiato idea. -
riprese la contessina di Lesath.
-
Come sapete il colonnello non aveva molto da indossare per fare degna
figura a corte, così abbiamo dovuto attendere un
po’ perché si
facesse fare dei vestiti nuovi. Naturalmente anche vostra zia ne ha
approfittato per aggiungere qualche capo al suo guardaroba. –
Anthony aveva parlato con voce ilare concludendo il suo discorso con
un sorriso prima di voltarsi verso Ariel.
-
Mio cugino non è mai stato molto amante della
mondanità, né dei
bei vestiti e delle feste… l’unica cosa che lo ha
sempre
appassionato è la polvere dei cannoni e il luccichio delle
spade.
-
Un tipo molto allegro… - bisbigliò il conte di
Ayveron, parlando
più a se stesso.
-
Credo che l’amore per le armi sia una caratteristica che la
famiglia dei Lorckshire trasmette agli eredi maschi attraverso le
generazioni. – continuò la contessa di Lesath, che
non aveva
sentito.
-
Allora ciò che viene lasciato in eredità alle
fanciulle del vostro
casato è senz’altro una mirabile bellezza.
– replicò Anthony,
guardandola intensamente.
-
Siete molto lusinghiero, signor Anthony. – rispose Ariel
Urania,
fermandosi di fronte alla porta dei propri appartamenti. – Ma
temo
che questa preziosa eredità si sia consumata tutta con mia
madre: la
sua bellezza è davvero superiore a quella di qualsiasi altra
donna
che io conosca. Anche a quella di Eva. Forse perché mia
madre ha,
oltre alla bellezza del viso, un fascino sottile che ammalia
perdutamente… un fascino fatale.
Concluse
quasi in un soffio, socchiudendo gli occhi per meglio scrutare tra le
vacillanti ombre dei ricordi e sul suo volto comparve
un’espressione
amara.
Per
nulla impaurito da una simile rivelazione, ma piuttosto curioso di
sperimentarne gli effetti, Anthony riprese dicendo:
-
Possedete anche voi una simile fatale bellezza?
-
Non posso essere io a giudicare. – Ariel tornò a
sorridere,
suadente, scacciando dalla mente i fantasmi dei ricordi e tese la
mano ad Anthony perché la baciasse - Volete essere voi il
primo a
scoprirlo?
Le
sue ultime parole furono solo un alito leggero, mescolato al rumore
metallico dello scatto della serratura.
Non
aspetto altro…
Fu
l’unico pensiero di Anthony mentre Ariel scompariva, leggera
e
silenziosa, oltre la soglia.
Una
volta all’interno, Ariel appoggiò la schiena
contro la porta che
aveva appena richiuso dietro di sé, mordendosi il labbro.
Che
cosa sto facendo? Sono impazzita forse? Sto
tentando il
giovane fidanzato di mia zia...
Silenzioso
e ombroso come sempre Harlock stava attraversando la Galleria della
Notte, immerso nei propri pensieri. Era passato così poco da
che era
arrivato e già desiderava andare via.
Preferirei
essere sui campi di battaglia piuttosto che in un luogo così
pieno
di nulla.
Si
ripeteva mentre cercava qualche modo più costruttivo per
impiegare
il proprio tempo anche a corte, dato che non avrebbe potuto andarsene
dopo una sola giornata, come aveva fatto quando era venuto a rendere
omaggio al re.
-
Sempre di ottimo umore. – una voce maschile giunse improvvisa
agli
orecchi del colonnello, una voce che stava già imparando a
riconoscere.
Harlock
si voltò e vide, appoggiato a una delle alte finestre della
galleria, il duca di Larckstein che gli sorrideva con quella sua
inconfondibile tristezza. Ricambiò istintivamente il sorriso
e gli
si avvicinò, fermandosi in piedi di fronte a lui.
-
E’ passato molto tempo dall’ultima volta che siete
venuto a
corte: siete fuggito per causa mia? - chiese Lemort, senza smettere
di sorridere in quel modo triste.
-
A parte il fatto che non è mia abitudine fuggire, per quale
ragione
avrei dovuto farlo per causa vostra?
-
Da quando siete stato nel mio palchetto non vi siete più
fatto
vedere: credevo foste rimasto sconvolto.
Harlock
rise lievemente, con la sua risata calda e sonora e Lemort
l’ascoltò
con doloroso piacere.
-
Ci vuole ben altro per sconvolgermi! – esclamò il
colonnello,
sorridendo beffardo.
-
Ne sono felice. – rispose Lemort, e tacque.
-
Se temevate di sconvolgermi – riprese il colonnello
– avreste
dovuto evitare d’invitarmi.
-
E perdere così l’opportunità di
conoscerci meglio? Piuttosto
preferisco correre il rischio. Dopotutto, con un uomo d’arme,
correre dei rischi è la cosa più naturale.
-
Avreste dovuto dire “Correre rischi è la cosa meno
rischiosa”.
-
Già... - Lemort annuì.
Calò
di nuovo il silenzio. Lemort teneva gli occhi fissi sul volto di
Harlock, beandosi della sua contemplazione come di fronte ad
un’opera
d’arte. Un profondo imbarazzo colse il colonnello che si
voltò,
dando le spalle al duca, ma la sua voce suonò calma e decisa
come
sempre quando gli chiese se aveva voglia di fare quattro passi con
lui.
-
Passeggiare e conversare è un doppio piacere. -
spiegò.
Per
tutta risposta, Lemort si allontanò dalla finestra, muovendo
alcuni
passi e superando in tal modo il colonnello. Quindi si girò
verso di
lui, invitandolo a seguirlo, un furbo sorriso nei suoi occhi di lupo.
Camminarono per un po’ senza dire nulla, entrambi assorti, e
fu di
nuovo il duca a parlare per primo.
-
Siete venuto per restare un po’ di tempo o avete intenzione
di
ripartire subito anche questa volta, colonnello? - gli
domandò.
-
No, questa volta resterò più a lungo…
purtroppo. Sono venuto a
corte su invito di mia cugina e anche per accontentare mia madre.
–
la voce di Harlock divenne più squillante quando aggiunse.
– Mi
sono messo in trappola da solo: non bisognerebbe mai dar
soddisfazione alle donne!
Lemort
rise.
-
Non temete: ci penserò io a trovare qualche divertimento per
voi,
nel tempo in cui starete qui. – promise.
-
Devo preoccuparmi?
-
Solo se siete un misantropo che preferisce le più oscure
caverne
alla compagnia dei suoi simili.
-
Oh no, non avrete in mente anche voi di creare qualche
“imperdibile”
occasione mondana apposta per me! - Harlock storse le labbra ed il
suo sguardo ironicamente supplice strappò di nuovo una
risata al
duca di Larckstein.
-
Non del genere che intendete voi... - rispose, soffocando il riso
dietro la mano, portata alle labbra con la stessa eleganza di una
donna. Harlock seguì quel gesto senza dire nulla, prima di
distogliere lo sguardo e tornare a fissare la folla davanti a
sé.
Avevano ormai lasciato la Galleria della Notte ma i saloni che
stavano attraversando erano ancora pieni di gente che andava e
veniva, discorrendo delle cose più futili, proprio come loro
in quel
momento.
-
Stavo pensando di organizzare delle serate di gioco alla roulette nei
miei appartamenti e mi piacerebbe che partecipaste anche voi.
-
Roulette? Credete che il re vi darà il permesso di fare del
gioco
d’azzardo qui a corte? La gestione di questo genere di
passatempi è
riservato alla famiglia reale. – commentò Harlock.
-
Non è la prima volta che organizzo questo tipo di serate,
sempre con
il consenso del re. Anzi, talvolta vi ha partecipato anche il duca di
Calsberry, per vincere la noia delle solite serate dedicate alla
musica da camera e all’esibizione di qualche dama di dubbio
talento.
-
Il fratello del re? - chiese Harlock.
Lemort
annuì.
-
La famiglia reale si dà al gioco d’azzardo. -
c’era un tono di
biasimo nella voce del colonnello che non sfuggì al duca di
Larckstein.
-
Non vi facevo così moralista.
-
Non è morale, ma certo non mi dà grande
soddisfazione constatare in
che modo poco oculato la famiglia reale utilizza il denaro.
-
Vi preoccupate che le casse dello stato restino piene?
-
Forse mi preoccupo della giustizia. - rispose Harlock, fissando
Lemort dritto negli occhi. - Ma la giustizia, si sa, non è
di questo
mondo.
-
La giustizia resterà in questo mondo finché gli
uomini giusti
continueranno a preoccuparsene. - ribatté Lemort,
accarezzando con
lo sguardo quel volto che avrebbe tanto voluto sfiorare di nuovo con
la punta delle dita.
-
Non credo di essere un uomo “giusto”:
c’è qualcosa di troppo
altisonante e anche di troppo religioso in questo termine. - Harlock
sorrise e il suo volto tornò a rilassarsi – Forse
sono
semplicemente un uomo d’altri tempi.
Fossero
tutti come voi gli uomini d’altri tempi.
Lemort
lasciò indugiare ancora un po’ i suoi occhi sul
viso del
colonnello, prima di tornare al primitivo argomento della loro
conversazione.
-
Manderò anche a voi l’invito per il gioco alla
roulette. Spero che
vorrete accettare, nonostante i vostri scrupoli.
Harlock
rifletté alcuni momenti prima di rispondere.
-
Penso sappiate già che non mi state invitando ad uno dei
miei
passatempi preferiti.
-
Lo so... - nello sguardo di Lemort si distese un velo di tristezza. -
Ma non credo vi farà male per una sera un po’ di
chiasso e
confusione.
-
No, non mi farà male. - Harlock sorrise di nuovo –
Chissà che
idea la gente si è ormai fatta di me? Forse la maggior parte
pensa
davvero che io sia... come avete detto? “Un misantropo che
predilige le oscure caverne ai suoi simili”!
-
Forse... Di certo avete dato loro modo di pensarlo, con la vostra
vita ritirata.
-
Allora forse è arrivato il momento di sfatare questo mito:
vedranno
il colonnello in mezzo alla confusione e al chiacchiericcio di damine
incipriate. - Harlock fece un gesto con la mano ad imitare gli
atteggiamenti vezzosi di qualche nobile signorina - Ma non sperate di
vederlo giocare!
Lemort,
che stava soffocando un riso a quel motteggio inaspettato, non
riuscì
a trattenere il suo disappunto.
-
Ma come? Non potete venire e non giocare nemmeno: basta che lo
facciate ogni tanto, non è necessario che partecipiate a
tutte le
puntate. Altrimenti alla fine vi annoierete.
-
Non mi annoierò se ci sarà qualcuno di
interessante con cui
conversare.
-
Ditemi allora chi desiderate che inviti per farvi piacere. -
insistette Lemort.
-
Frederick sarebbe una buona scelta. - il colonnello non ebbe bisogno
di rifletterci su prima di rispondere: Frederick era un buon amico e
un compagno divertente quando ce n’era di bisogno, ma con lui
si
poteva parlare anche di argomenti seri o fare delle confidenze senza
temere che non sapesse mantenere il riserbo.
Immerso
com’era nella conversazione con il duca di Larckstein,
Harlock non
si era reso conto che avevano ormai lasciato le stanze più
frequentate per addentrarsi nell’ala del palazzo dove meno
spesso
si spingevano i nobili.
-
Dove mi state portando? - chiese d’un tratto, aggrottando le
sopracciglia.
-
Non indovinate? Dovreste conoscere questa zona: siamo quasi
nell’ala
est.
-
L’ala est... volete dire...
-
Sì... - un’espressione furbescamente maliziosa
aleggiava sul viso
di Lemort, che proseguì a bassa voce, quasi parlando tra
sé – Ciò
che vi voglio mostrare si trova lì da quasi tre anni:
è stata
portata nella Galleria delle Statue direttamente dall’Italia,
ma è
soltanto una copia, eseguita da un abile scultore di cui non conosco
il nome.
Mentre
Lemort proseguiva con la spiegazione, iniziarono a salire un ampio
scalone che conduceva alla Galleria delle Statue. Era un ambiente
molto ampio e ben illuminato, dalle pareti bianche con modanature oro
e un ricco soffitto affrescato.
-
Qui a corte ha riscosso un grande successo, specie tra le dame, che
la guardano di sfuggita e sempre arrossendo… ma anche alla
gioventù
maschile non credo affatto dispiaccia, pur scatenando a volte penosi
confronti. Vedremo se sarà anche di vostro gradimento.
Senza
capirne il perché Harlock sorrise, beffardo, quindi rispose
con un
impercettibile “vedremo”.
Nella
Galleria delle Statue erano state raccolte, per mezzo di originali o
copie di notevole fattura, le opere più considerevoli
dall’antichità
classica all’età moderna. C’erano
sculture di ogni genere e
scuola, disposte con un certo gusto artistico e secondo un ordine
cronologico, che faceva della Galleria, soprattutto per gli amanti
dell’arte, un luogo molto piacevole dove passeggiare,
specialmente
durante l’inverno. Oltre alle opere statuarie
c’erano anche vasi
e anfore di marmo e pietra, stele e lastre scolpite a bassorilievo e
naturalmente alcuni canapè sui quali riposarsi dopo la lunga
passeggiata.
Proprio
al centro della galleria c’era l’opera che Lemort
voleva mostrare
al colonnello: stava quasi sola, leggermente discosta dalle altre per
non offuscarne la bellezza con la sua presenza.
-
Eccola: l’Antinoo, scolpito a figura intera e completamente
nudo.
Il suo realismo è pari solo alla sua bellezza. -
esclamò Lemort
quando furono lì davanti ed Harlock notò che le
sue guance avevano
assunto un colorito più rosato.
-
E’ molto bella davvero. - commentò Harlock - Molto
ben fatta e ha
un’espressione particolarmente assorta…
-
Vi assicuro che non è all’espressione che molti
guardano quando vi
passano davanti. - rise Lemort. Harlock lo squadrò,
perplesso e
quasi infastidito che il suo commento non fosse stato preso sul
serio.
-
Davvero non capite? Guardate bene, proprio al centro del suo
corpo…
- Lemort lo invitò con voce suadente, come di strega che
cerca
d’indurre la preda a stipulare un patto mortale.
Il
colonnello guardò dove gli era stato indicato e sul suo viso
apparve un’espressione d’imbarazzato stupore.
-
Come siete sciocco! So benissimo che la statua è nuda, ma
chi la
guarda con interesse
d’artista non si
ferma ad... analizzare certi particolari anatomici. Siete malizioso!
- protestò, voltandosi di nuovo verso il duca.
-
Perché? Non è così! Quanto dico
corrisponde a verità poiché
conosco bene il genere di sguardi che la gente posa sul suo corpo
giovanilmente virile, plasmato dall’attività
fisica e dall’amore.
- c’era, nella voce di Lemort, un accento colmo di desiderio
trattenuto e quando sollevò una mano in direzione della
statua Harlock credette che volesse davvero accarezzarla. - Restate
seduto
un po’ con me su quel divano e insieme verificheremo se
quello che
vi ho detto è una menzogna oppure no.
-
Non ci tengo a spiare i comportamenti della gente.
-
Invece c’è molto da imparare da questo genere
d’indagini...
dovreste provare. - Lemort accostò il suo viso a quello
dell’ufficiale, parlandogli in un sussurro.
Harlock
non si scostò da lui, incapace di sottrarre lo sguardo dal
viso del
duca.
Le
vostre labbra sono sempre così scarlatte sul viso tanto
pallido: due
strisce di sangue su una statua di marmo. E dietro la spavalda
allegria dei vostri atteggiamenti si nasconde spesso un’ombra
di
tristezza. Che cos’è quest’aura notturna
che vi circonda, simile
al profumo di un fiore sbocciato di notte?
Ma
Lemort non poteva immaginare quali fossero i pensieri di Harlock in
quel momento: con lo stesso sorriso malizioso di poco prima, lo prese
per un braccio, conducendolo dolcemente verso il divano senza che il
colonnello opponesse resistenza.
-
Venite, non abbiate paura. - gli disse con l’identica voce
suadente
di poco prima - O forse temete che la gente abbia di che mormorare
vedendovi qui con me, di fronte alla statua di Antinoo?
-
Non ho paura dei giudizi della gente, Lemort. - rispose il
colonnello.
Quella
semplice parola riecheggiò nella mente del duca, trasportata
dalla
voce calda e sensuale che l’aveva pronunciata come da un
vento del
sud che giunge a sciogliere la neve.
Lemort…
E’ la prima volta che mi chiamate per nome. L’avete
pronunciato
con così tanta dolcezza… perché?
Si
sedettero assieme sul canapè appoggiato alla parete
dirimpetto alla
statua. Il conte di Lorckshire pareva profondamente assorto nella sua
indagine artistica del capolavoro scultoreo che aveva di fronte, ma
in realtà non erano solo di quel genere i pensieri che
occupavano la
sua mente. Continuava a riandare alla conversazione avuta qualche
settimana addietro con Anthony: la femminilità di Lemort,
l’ambiguità dei suoi comportamenti, la sua palese
inclinazione per
l’universo maschile erano ora così palesi che si
chiedeva come
avesse potuto ingannarsi sul suo conto. Eppure, nonostante questo,
non provava il desiderio di fuggire.
Dal
canto suo, il duca di Larckstein approfittò di quei minuti
in cui
potevano stare di nuovo vicini e praticamente da soli per ammirare
indisturbato i lineamenti di quel volto maschile che tanto lo
affascinava.
La
linea elegante e decisa del tuo naso è quasi greca e la
fronte deve
essere ampia e spaziosa sotto le morbide ciocche castane che sempre
la ricoprono e che velano in parte anche l’occhio destro.
E’
forse per timore di penetrare troppo a fondo nell’animo umano
con i
tuoi fieri occhi d’aquila che cerchi di adombrarne il potere?
Brillano quali stelle nella notte, sono freddi ed impenetrabili come
specchi stregati, inquietano più che infondere pace. Eppure,
se tu
distogliessi da me il tuo sguardo, se non volessi più che i
tuoi
occhi incrociassero i miei, ciò mi ferirebbe molto
più di quanto
essi facciano quando mi guardano con rimprovero o sdegno.
Lemort,
sentendo che le lacrime gli salivano agli occhi, si girò di
nuovo
verso la scultura di Antinoo, guardandola senza vederla dietro quel
velo che gli aveva offuscato lo sguardo.
Oggi
- si disse, lasciandosi condurre liberamente dal corso dei suoi
pensieri - il colorito della tua pelle è vivido ed
intenso. Hai
ancora addosso il velo dorato che il sole dell’estate,
trascorsa
sui campi di battaglia, ha disteso sul tuo corpo. Ma quella notte,
quando sei svenuto nel mio palco, il tuo volto è diventato
bianco
come la morte, quasi che in te non scorresse più neppure una
goccia
di sangue: sembrava che ti avessero colpito a morte.
Improvviso,
un pensiero, un dubbio balenò nella mente di Lemort, che si
voltò a
guardare il colonnello, ancora perso nei suoi pensieri, cercando di
cogliere una scintilla di verità, la risposta ad una domanda
non
ancora formulata. Lo trovò impassibile e tranquillo come lo
aveva
lasciato poco prima e il suo viso così luminoso, ancora
abbronzato,
contrastò con violenza con il ricordo che era riemerso nella
mente
del duca.
Stai
bene… è stato solo un malore, probabilmente. Non
ho motivo
d’inquietarmi così.
Il
colonnello, sentendo il peso di quello sguardo fisso su di lui, si
voltò verso Lemort, facendolo arrossire improvvisamente: il
duca
temeva infatti che Harlock avesse in qualche modo colto quello che
passava nella sua mente.
-
Andiamo? - gli chiese invece il colonnello - Siamo rimasti qui
abbastanza.
-
Sì, forse è vero… ma questa statua
è così bella che non mi
stancherei mai di guardarla. - Lemort si voltò in fretta
verso
l’Antinoo per nascondere i suoi turbamenti a quei profondi
occhi
indagatori che adesso lo fissavano con insistenza.
Non
è vero… sto mentendo. L’unica opera
d’arte che non mi
stancherei mai di guardare sei tu, Harlock...
Il
colonnello si alzò senza aggiungere altro, allontanandosi di
alcuni
passi dal duca di Larckstein e fermandosi in piedi al centro della
Galleria, immobile come solo lui sapeva stare, anche per lunghe ore,
quand’era immerso in strategie di guerra. Lemort si
alzò e gli
andò incontro, fermandosi un ultimo istante davanti alla
superba
scultura romana.
-
Però avete certamente una cosa in comune con il giovane
Antinoo… -
esclamò Lemort, sorridendo con gli occhi ancora lucidi di
lacrime.
-
Che cosa? - Harlock si aspettava già qualche sproposito,
probabilmente lascivo.
-
Le vostre labbra sono sinuose e carnose come le sue, così
morbide e
calde…
Harlock
sgranò gli occhi, senza trovare nulla di conveniente da
replicare:
era difficile allibirlo, ma Lemort c’era riuscito in pieno.
-
Morbide… e calde? - replicò - Che ne sapete?
-
Sono certo che è così. - rispose il duca,
allungando la destra in
direzione del volto dell’ufficiale e sfiorando con
l’indice la
sua bocca.
Harlock
gli bloccò il polso, una luce di biasimo nelle scure
pupille, le
sopracciglia aggrottate.
-
Siete molto bello quando restate spiazzato, ma ancor più
quando vi
arrabbiate. - Lemort sottrasse la mano senza sforzo da quella
stretta, che si sciolse dolcemente. L’espressione dura di
Harlock
rimase immutata - Ma, che voi lo vogliate o no, è la
verità: le
vostre labbra sono carnose quasi come quelle di Antinoo. Anche se
molto più virili.
-
Non ci assomigliamo minimamente. - protestò Harlock
– Come potete
vedere qualcosa in comune tra me e quel giovane efebo dal volto
arrotondato e ancora infantile?
-
E’ vero, Antinoo è solo un ragazzo, voi siete
molto più maturo...
Possedete lo lo stesso sguardo di Adriano. - accondiscese Lemort,
indicando il busto dell’imperatore collocato accanto alla
statua
del suo amato. - Avete la stessa espressione corrucciata e volitiva:
l’espressione del dominatore.
-
Vi sbagliate, duca: io non sono un dominatore. - lo contraddisse
Harlock. - Sono un uomo d’armi, so comandare e condurre un
esercito, ma non ho mai avuto la pretesa di dominare nessuno.
-
Nemmeno in amore? - chiese Lemort, ma poi, abbassando lo sguardo, si
corresse - Scusate… non sono affari che mi riguardano.
-
Già. - fu la secca risposta.
Il
colonnello si allontanò senza aggiungere altro. Il suono dei
suoi
passi che si facevano sempre più distanti colpì
Lemort come un
pugno dritto al cuore. Rialzò il volto e fissò
quella figura alta
e magra che se ne andava.
Aspettami…
Non
riuscì a raggiungere subito il colonnello, che non pareva
avere la
minima intenzione di aspettarlo.
Con
l’animo greve, gli fu di nuovo accanto solo quando il conte
di
Lorckshire aveva già raggiunto l’ultimo gradino in
fondo alle
scale. Soltanto allora Harlock si voltò, fissandolo con
volto
impassibile e distante.
-
Fatemi sapere per quella serata nei vostri appartamenti. - disse,
senza mutare espressione.
Lemort
annuì, poi aggiunse:
-
Sarete il primo a saperlo.
Il
colonnello gli rispose solo con un cenno del capo, si voltò
e
proseguì da solo lungo il salone. Era chiaro che non voleva
essere
seguito.
Il
duca di Larckstein restò immobile in fondo alle scale, il
cuore che
gli martellava forte nel petto.
Perché
siete sempre così freddo? Eppure sento che dentro di voi
brucia un
fuoco veemente, fatto di passione, di desiderio,
d’ira… E invece
serrate le porte della vostra anima, vi rinchiudete in voi stesso e
diventate insensibile, proprio come una statua. Una statua che ha un
cuore. Quando accetterete di mostrarlo?
Note: La statua dell'Antinoo citata nel capitolo è quella
conservata al Museo Archeologico di Napoli.
Il busto di Adriano è quello dei Musei Capitolini di Roma.
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