Le tue ali sul mio cuore

di Nausicaa Di Stelle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorno a casa ***
Capitolo 2: *** Discussioni ***
Capitolo 3: *** Due ritratti ***
Capitolo 4: *** A corte ***
Capitolo 5: *** L'udienza ***
Capitolo 6: *** Una notte a teatro - prima parte ***
Capitolo 7: *** Una notte a teatro - seconda parte ***
Capitolo 8: *** Conversazioni - prima parte ***
Capitolo 9: *** Conversazioni - seconda parte ***
Capitolo 10: *** La contessa di Lesath ***
Capitolo 11: *** Seduzioni ***



Capitolo 1
*** Ritorno a casa ***


Ritorno a casa
Capitolo I

Ritorno a casa


Era un mattino di pallido autunno e il vento soffiava ancor tiepido fra le chiome brunite dei tigli che fiancheggiavano il viale. A tratti, cadevano volteggiando deboli foglie, corrose dalle albe di nebbia che da qualche tempo si succedevano le une alle altre. Con solerte calma, una carrozza scura percorreva la strada deserta. Sulle fiancate recava l’emblema di un nobile casato: uno scudo attraversato diagonalmente da una banda, nella cui metà sinistra campeggiavano un giglio e due lune a falce, mentre in quella di destra si snodava un ramo d’edera. Il tutto sormontato da una corona di conte.
Nella penombra dell'abitacolo, l’unico passeggero contemplava silenzioso il paesaggio dal finestrino, trattenendo nel cuore una sentimento misto di gioia e impazienza. Solo quando il viale voltò ad una curva, dirigendosi d’un tratto verso est, egli si sporse fuori a guardare, cercando di scorgere ciò che l'attendeva alla fine della strada: un palazzo bianco e snello, circondato da due alte torri e coperto da un tetto blu cobalto si ergeva al di là di un imponente cancello in ferro battuto. Oltre il cancello, si estendeva vasto parco, che si prolungava per ettari dietro l’edificio, prima di giungere al bosco, ai pascoli e ai campi di proprietà della famiglia.
- A casa, finalmente… - mormorò tra sé, sorridendo appena.
Il volto lievemente abbronzato risplendette tutto di quel tenue sorriso e negli occhi castani si diffuse una vivida luce.
Dopo pochi minuti la carrozza oltrepassò il cancello, già spalancato, e s’inoltrò lungo il viale lievemente in salita che conduceva fino al palazzo; non era ancora perfettamente immobile di fronte al colonnato che s’apriva sulla facciata, quando la portiera venne aperta dall’interno, e il giovane passeggero scese con un balzo.
- Ma… colonnello. – protestò il cocchiere, smontando in quel momento da cassetta – Perché non avete atteso: venivo giusto ad aprirvi in quest’istante.
- Non fa niente, Cedric: ho troppa voglia di rimettere piede a casa! – rispose ridendo il giovane ufficiale, dando una pacca sulla spalla al suo servitore, che ammutolì e restò a fissarlo con occhi sbarrati.
Nessuno della casa, né servitù né signori, gli si fece incontro, perché nessuno sapeva del ritorno ed egli avanzò, noncurante di tutto, verso la porta d’entrata. Afferrò il batacchio cesellato e spinse l’imposta verso l’interno. Una tenue luce si diffuse nell’atrio, gettandosi fino ai piedi della scalinata marmorea che conduceva ai piani superiori. Il colonnello si guardò attorno, con aria di soddisfazione, ed abbracciò con lo sguardo tutto ciò che lo circondava. La sua figura si stagliava scura contro il vano della porta, resa ancor più sottile dal diffuso bagliore che l’avvolgeva. Non indossava il mantello né altro indumento sopra la divisa, che mostrava così apertamente tutti i segni delle fatiche a cui era stata sottoposta, assieme al suo proprietario: le maniche erano sdrucite, la stoffa logorata sui gomiti e sui polsi, i risvolti d’oro sbiaditi e consunti. Le spalline erano sfilacciate e sul petto, in più punti, portava i segni della polvere dei campi di battaglia e dei cannoni. Anche la fascia scarlatta che gli cingeva i fianchi era sciupata e stinta ed i pantaloni non avevano più il loro bianco luminoso ma erano d’un grigio smorto, mentre gli stivali, di fattura pregiata e di ottima pelle, erano ormai sdruciti dall’uso prolungato.
Mentre stava per muovere i primi passi, voltando a sinistra lungo il corridoio, vide qualcuno scendere rapidamente le scale; si fermò di scatto, non riconoscendo quella figura: si trattava d’un giovane vestito da cavallerizzo, che gli lanciò un’occhiata distratta, soppesando con disapprovazione il suo abbigliamento alquanto trasandato. Aveva capelli lunghi, d’un castano chiaro e brillante, mentre gli occhi, azzurri e freddi come il ghiaccio ma molto espressivi spiccavano in un volto lievemente abbronzato, dandogli luce e vitalità. Il naso era sottile e ben fatto e le sopracciglia non folte e leggermente arcuate.
Per alcuni istanti, i due si fissarono in volto, senza profferire parola. Poi il ragazzo vestito da cavallerizzo riprese, con passo rapido, a discendere le scale, esclamando:
- La contessa di Lorckshire non è in casa in questo momento, ritornate più tardi se avete bisogno di parlare con lei.
Si fermò di fronte al colonnello come se attendesse una risposta. Quest’ultimo era rimasto profondamente sorpreso da tali parole e si stava domandando chi mai fosse quel giovane che si prendeva tanta libertà a casa sua. Ma dal suo volto impassibile non trasparve nessuna emozione. Si limitò a rispondere, con voce incolore:
- Quando pensate rientrerà la contessa?
- Nel tardo pomeriggio, verso le cinque, credo. – rispose distrattamente. Si stava già allontanando quando aggiunse:
– Ma… non è il caso che la aspettiate fino ad allora: potrebbe far tardi.
Il colonnello non replicò, rimanendo immobile al suo posto in fondo alle scale. Il giovane gli lanciò un’ultima occhiata, prima di allontanarsi esclamando:
- Fate come volete.
Si diresse verso l’entrata principale e la varcò con passo rapido, come se avesse fretta d’andare a fare la sua cavalcata.
Rimasto solo nell’atrio, l’ufficiale continuò per un po’ a fissare quella porta, immerso nei suoi pensieri.
- Che novità è questa? Non sapevo ci fosse un ospite a casa mia. E a giudicare da come si comporta, dev’essere anche da un po’ che abita qui. Se fosse un nostro parente, dovrebbe almeno sapere chi sono… e forse anch’io lo avrei riconosciuto.
Si mosse e, contrariamente a quello che era stato il suo proponimento iniziale, cominciò a salire i primi gradini della scalinata. Sul suo volto c’era ancora un’espressione particolarmente assorta.
- Signor conte! – lo chiamò una voce alle sue spalle – Oh, signore, siete tornato! Come sono contenta di rivedervi! Cedric è venuto ad avvertirci… oh, ma se ci aveste avvisati per tempo, avreste trovato qualcuno ad accogliervi sulla porta! E anche la signora contessa sarebbe stata certamente a casa.
Il colonnello si volse: era Mabel, la capo cameriera, una donna ormai sulla cinquantina, rubiconda e gioviale ma anche attenta amministratrice delle faccende domestiche di casa Lorckshire. Mentre parlava, aveva salito un paio di gradini, restando però ad una certa distanza dal suo padrone che ora invece ritornava sui suoi passi per andare a salutarla.
- Mabel... Come state? Vi trovo in forma. – chiese con un sorriso.
- Oh, signor Harlock, preoccuparvi per me! Ma certo, io sto bene. E voi, piuttosto? Siete così dimagrito! E avete l’aria stanca2.
- Ho fatto un viaggio molto lungo…
- Dirò subito a John di portare di sopra il vostro bagaglio e vi manderò su qualcuno perché metta tutto in ordine. Ah, se l’avessi saputo prima avrei fatto prender aria alla vostra stanza: ci sarà un odore di chiuso, lì dentro! – protestò infine la vecchia cameriera, lamentandosi con se stessa per non averci pensato prima – L’arieggio sempre almeno una volta alla settimana, un paio d’ore, ma non è sufficiente, ci sarà…
- Mabel, Mabel… - Harlock la interruppe con dolcezza – Non angustiatevi: sapevo fin dal principio che tornando così all’improvviso non avrei trovato tutto a posto ed in ordine. Ma ho scelto così e non mi lamento. E poi l’odore della mia camera, chiusa da tanto tempo, non è certo nulla in confronto a ciò che ho sentito e visto durante la guerra, non credete?
- Il mio giovane signore! Quante dovete averne passate! – un moto di tenerezza passò nel volto della donna, che alzò la mano destra quasi volesse accarezzare il volto del conte. Ma fu solo un movimento appena accennato, che dominò con prontezza e senza sforzo, abituata com’era da gran tempo a controllarsi in virtù della carica importante che rivestiva tra la servitù.
Harlock sorrise di quel gesto che aveva colto e si congedò dicendo:
- Ho il vostro permesso per andare nelle mie stanze, signora Mabel?
- Ma certo, signor conte! – rispose questa, stupita di una richiesta tanto formale. Ma si accorse subito che era benevolmente derisa, poiché il giovane colonnello la trattava scherzosamente come uno dei suoi superiori.
Harlock rise lievemente, di quella risata calda e sonora che da tanto non riecheggiava tra le mura del palazzo. Disse qualcosa sottovoce, che la cameriera non intese, e s’avviò verso il piano superiore, quasi di corsa: nel cuore era sorto prepotente un improvviso desiderio di rivedere quei luoghi dove aveva vissuto fino a quattro anni fa, come se così facendo potesse riappropriarsi, tutto in un istante, del se stesso quale era prima della partenza, dei suoi lievi vent’un anni.
Arrivato davanti alla sua stanza, aprì la porta spalancando entrambe le imposte, come per cogliervi, di sorpresa qualcosa che altrimenti temeva potesse nascondersi furtivo, per non farsi trovare mai più. Nella stanza, però, c’era solo buio e silenzio. Avanzò allora piano, per non inciampare nell’arredo diventatogli sconosciuto: procedette a tastoni, riconoscendo via via i mobili che gli appartenevano. Arrivò infine allo scrittoio in noce con la sua poltrona, dal morbido schienale di velluto, poi sfiorò le tende del letto a baldacchino, la coperta di cotone e il morbido materasso di piume.
- Qui dovrebbe esserci il comò e poi, a destra… la finestra – disse, allungando una mano e fatti alcuni passi, toccò finalmente la maniglia. La girò su se stessa e aprì le imposte. Sempre a tastoni, anche se ormai i suoi occhi s’erano abituati a quell’oscurità, aprì i balconi e fece piovere nella stanza una tiepida luce argentea.
Si voltò allora a guardare, sorridendo tra sé. Ma il sorriso gli morì lentamente sulle labbra, assalito da un improvviso e inspiegabile presagio.
- Perché ho l’impressione che presto non sarà più mia? – si chiese, mentre qualcosa gli stringeva il petto.
In quel momento udì bussare timidamente sullo stipite della porta, poiché quest’ultima era rimasta aperta. Era John, vecchio domestico della famiglia che lavorava al loro servizio da quando il padrone di casa era il nonno di Lord Harlock. Aveva visto crescere e diventare uomo il giovane colonnello e nutriva per lui un profondo affetto e un altrettanto incondizionata dedizione.
- Ho portato i vostri bagagli, signore… - balbettò, senza trovare il coraggio di oltrepassare la soglia.
- Mio buon vecchio John. – il colonnello si avvicinò al servitore, posandogli infine una mano sulla spalla – Ma sai che non sei cambiato per nulla?
- Siete troppo buono, signore. Io li sento così bene questi anni feroci che mi strappano la pelle e me l’avvizziscono come la buccia di una mela. – replicò, abbassando la testa: non ardiva guardare negli occhi il suo padrone, ora che gli era tanto vicino - E voi, signore, come state? Tutto questo tempo trascorso a combattere lontano… siamo stati tanto in pena per voi. – riprese, levando un poco il capo.
- Io sto bene. Ho solo bisogno di riposare e credo che resterò a casa per un bel po’ di tempo: niente feste, niente teatro, niente soggiorni a Corte.
- Io spero che vi sarà ancora piacevole restare a casa vostra, adesso…
Harlock aggrottò le sopracciglia, fissando l’interlocutore con i suoi occhi penetranti:
- Cosa intendi dire, John?
- Sono successe molte cose da quando siete via… cose di cui non sarete affatto contento… - tacque, abbassando di nuovo lo sguardo come per cercare il coraggio di proseguire una spiegazione tanto spinosa.
Harlock attese che l’uomo ritrovasse il filo del suo discorso e riprendesse a parlare:
- Vedete, signor Harlock, da qualche tempo c’è un giovane che abita in questa casa e che si comporta come se ne fosse il padrone. Vostra madre… - s’interruppe di nuovo, notando che il volto del colonnello si rabbuiava.
- Continua. – lo incitò questi.
- Ecco, signore, vostra madre l’ha preso in casa con sé e gli dà il permesso di fare ciò che vuole: è come se fosse uno di famiglia, adesso.
Harlock restava in silenzio e John capì che doveva essere lui ad avere la costanza di finire la sua narrazione.
- La signora contessa l’ha conosciuto quasi un anno fa e dopo poco tempo che si frequentavano l’ha invitato a trasferirsi qui da lei e a restare qui… io credo per sempre. E’ un amico molto stretto della signora.
- Un amico molto stretto… - pensò Harlock, intuendo cosa quelle parole tanto vaghe lasciassero intendere.
- Per tutto questo tempo, in cui siete stato lontano, signore, è stato lui il signor conte… Ma adesso che siete tornato, farete mettere giudizio a quel giovinastro che crede di essere chissà chi!
- Hai molta fretta che venga fatta giustizia, a quanto pare.
- Signor Harlock, lui non può permettersi certe libertà: io non ho mai dimenticato, mai, in questi quattro anni, che siete voi il padrone di casa, adesso che vostro padre non c’è più. Per me, signore, non c’è nessun altro padrone!
- Mio buon vecchio John… - pensò Harlock – Capisco bene ora perché sei tanto indignato. Non è il giovane ospite in sé che ti disturba, né i suoi ordini o le sue ipotetiche pretese. E’ la tua stessa incondizionata lealtà alla mia famiglia che t’accende tanto d’ira. Ma che cosa faccia effettivamente a casa mia questo ragazzo e perché vi si sia trasferito non è questione che devo discutere con te.
- Se le parlerete voi, la signora contessa capirà… - riprese il servo.
- Basta così. – l’ordine fu pacato ma perentorio e John ammutolì in un istante – Adesso vai: voglio restare un po’ da solo e riposare. Di’ soltanto a Mabel che desidero fare un bagno e che mi faccia preparare tutto l’occorrente.
- Sì signore. – John piegò in avanti il busto in un inchino un po’ maldestro, sistemò nella stanza i pochi bagagli che il colonnello aveva portato con sé e poi si allontanò, in silenzio.
Per tutto il resto della giornata, Harlock restò nelle sue stanze, a riposare e riflettere. Soltanto nel tardo pomeriggio uscì a passeggiare nella Galleria delle Armi, che collegava gli appartamenti della famiglia con quelli destinati agli ospiti. Alle pareti, oltre che scudi, spade antiche e moderne, sciabole e lance, v’erano appesi numerosi quadri. Alcuni ritraevano antenati e predecessori, illustri o quasi sconosciuti. Certuni, invece, erano dipinti da una mano giovane ed abile e si presentavano subito, ad una prima occhiata, profondamente diversi dagli altri in quanto a stile e tecnica. Harlock si soffermò soprattutto su questi ultimi, indugiando ad esaminarne i pregi e i difetti d’esecuzione e di fattura. Sembrava avere un’espressione molto insoddisfatta e più volte lo prese la tentazione di staccarne uno dalla parete per non riappendervelo mai più.
Soltanto su due di essi il suo sguardo si fermò con piacere e rimase a lungo a contemplarli. Erano due dipinti, posti ai due lati del grande camino al centro della sala e rappresentavano due sirene: una era seduta sulla riva del mare, i lunghi capelli corvini sciolti sul petto morbido e dalla pelle luminosa, e contemplava alcuni oggetti rinvenuti sulla spiaggia, resti di un recente naufragio. L’altra s’era invece issata su di uno scoglio e stava cantando con gli occhi alle stelle, ma il suo corpo, tutto in controluce perché illuminato alle spalle dai raggi della luna, era poco visibile. Avevano entrambe pinne lunghe e flessuose, dai riflessi argentati che ora, sotto l’ultima luce del sole che andava tramontando, brillavano intensamente, quasi fossero vere.
Mentre si trovava nella galleria, un folto rumore di passi e il cigolare della porta d’entrata giunse fino a lui, attraverso la volta del soffitto e lo scalone che conduceva al piano inferiore e che distava da lì solo pochi metri. Fra tutte le altre, udì una voce femminile, sonora e squillante, che gli era famigliare. Allora si mosse, dirigendosi verso le scale, in cima alle quali si fermò, attendendo. Una donna bionda, bella e ancor giovane, saliva verso di lui, sollevando con delicatezza un lembo della gonna. Non l’aveva ancora visto, poiché teneva gli occhi abbassati verso i gradini
- Bentornata. – la salutò Harlock, scendendo un paio di scalini.
- Harlock! – esclamò sollevando il volto, che s’illuminò di gioia – Oh Harlock, sei tornato! – affrettò il passo e raggiunto il giovane colonnello lo abbracciò con trasporto.
- Da quanto tempo desideravo rivederti! – riprese la donna, scostandosi da lui e guardandolo in viso – Mi sembri più alto, chissà perché.
Harlock sorrise.
- Quattro lunghi anni… - mormorò lei, sfiorandogli il viso con la punta delle dita - Mi sembrano secoli, tanto sono stati lenti a trascorrere. Ma per una madre costretta lontana dal figlio anche un giorno diventa un’eternità.
- Siete bella e fresca come il giorno che vi ho lasciata. – replicò Harlock, fissando lo sguardo con dolcezza nelle pupille cerule della madre.
Rimasero a guardarsi l’un l’altra ancora per un poco, immobili sui gradini, lei con il volto alzato verso quello del figlio, immersi in un colloquio silenzioso. Poi la contessa esclamò:
- Ah, vieni, andiamo nella Sala delle Ninfe: sarai stanco e anch’io ho proprio bisogno di riposarmi, dopo una giornata passata fuori di casa.
- Da chi siete stata, oggi? – chiese il colonnello, incamminandosi sottobraccio con sua madre.
- La contessa de Lussac mi ha invitata ad un piccolo party pomeridiano, assieme ad altre dame.
- Vi siete divertita?
- Per niente: è stato terribilmente noioso! – rispose la contessa Eva ridendo.
Entrarono in un vasto salotto, luminoso e accogliente, arredato con poltrone e divanetti dal tessuto chiaro e riscaldato da un grande camino in marmo, sopra il quale stava appeso un alto specchio dalla cornice dorata. Alcuni busti di figure mitologiche femminili ornavano gli angoli della stanza, mentre il soffitto era mirabilmente affrescato con scene raffiguranti giochi di ninfe e amori d’antichi dèi.
Harlock si sedette su di un divano, di fronte a sua madre, ed accavallò le gambe, poggiando un braccio sullo schienale. Era vestito in modo molto informale, poiché indossava solo una camicia di seta bianca, con il primo bottone lasciato slacciato, ed un paio di pantaloni neri, senza fascia in vita.
Sua madre lo guardò, disapprovando tanta trascuratezza, ma non disse nulla, dando la colpa di tutto al lungo periodo trascorso in guerra e all’inevitabile rozzezza di quell’ambiente.
- Non hai nulla da raccontarmi, dopo tutto questo tempo che non ci vediamo? – esordì lei d’un tratto, sporgendosi verso Harlock.
- Non mi sembra il caso di farvi la cronaca delle battaglie e delle varie campagne militari. – rispose questi.
- Ci sarà pur qualcos’altro di cui mi puoi parlare senza scendere in racconti truci o spaventosi, non credi? – si lamentò la contessa, ritirandosi.
- Adesso non mi sovvengono momenti migliori di cui valga la pena raccontarvi.
- Sono certa che se tuo padre fosse ancora vivo avreste molte cose da dirvi.
- Forse sarebbe stato accanto a me… o se non altro, avrebbe affrontato la guerra su di un altro campo di battaglia, su di un altro fronte. – ipotizzò Harlock, immergendosi per un solo istante in quest’impossibile eventualità.
- E io sarei stata qui ogni giorno a tremare d’angoscia per entrambi. Mio Dio, no… Mi è bastato avere te a combattere. – disse sua madre, scuotendo la testa come per scacciare un tale pensiero.
- E voi, dovreste avere molte cose da narrarmi, vista tutta la vita mondana che conducete. So che, nonostante fossero tempi duri, le feste e i divertimenti a corte non sono certo diminuiti.
- Sì, invece: dello splendore e della ricchezza di quattro anni fa queste ultime feste ne avevano conservato solo pallide tracce. – protestò, fingendo d’indispettirsi. Ma poi riprese, sorridendo felice - Ma adesso che la guerra è finita e che molti giovani valorosi ritornano finalmente alle loro case potremo riprendere a divertirci con il cuore leggero e potremo anche festeggiare tutti i vostri successi bellici!
- Siamo stati molto vicini alla disfatta, invece… - mormorò Harlock ed il suo volto si fece serio. – Abbiamo resistito fino all’ultimo sul fronte nord nel quale ero impegnato e le ultime battaglie sono state cruente e feroci… ho perso molti uomini, in quei difficili giorni.
- Ma tu sei ritornato sano e salvo. – lo interruppe sua madre, allungando una mano verso di lui e posandogliela sulle ginocchia.
Harlock non disse nulla e non la guardò in viso, continuando a fissare nel vuoto davanti a sé. Eva capì di non poter penetrare in quei pensieri e di non poter nemmeno pretendere che suo figlio le parlasse di ciò che ora riempiva la sua mente: era di fronte ad un uomo che aveva attraversato l’ombra oscura della guerra e che aveva calpestato il sangue di nemici e compagni. Nessuna parola umana può narrare tanto orrore.
- Però, in mia assenza, devono essere avvenuti molti cambiamenti… - esordì ad un tratto il colonnello, fissando gli occhi in quelli della madre. – Anche in questa casa, probabilmente.
- Oh, no: qui cambiamenti sostanziali non ce ne sono stati. Avremo tutt’al più spostato qualche mobile o acquistato qualche dipinto. Questa casa, lo sai, è uguale da generazioni. – rispose tranquillamente lei, ridendo.
Harlock rimase in silenzio, ma non smise di guardarla in volto con i suoi occhi penetranti, che sembravano possedere il dono di sondare gli abissi più oscuri dell’animo umano. Come se avesse compreso che con quello sguardo suo figlio la invitava a parlare, la contessa Eva riprese la parola e disse:
- C’è piuttosto un’altra cosa di cui vorrei parlarti: una cosa molto più importante. – fece una breve pausa ed abbassò gli occhi in grembo, per rialzarli poco dopo. – Negli ultimi mesi ho conosciuto una persona, un giovane, che è divenuto un mio carissimo amico… mi è stato molto vicino quando tu non eri a casa e mi ha aiutata a sopportare l’angoscia della lontananza e della guerra. Per ringraziarlo… ed anche per averlo sempre accanto, l’ho invitato a vivere qui, per qualche tempo. Adesso so che non è in casa, ma dovrebbe ritornare tra poco, così potrò finalmente presentartelo: sono certa che ti piacerà! E’ intelligente, abile cavallerizzo e ottimo conversatore. – concluse con un sorriso che esprimeva gioia ed orgoglio insieme.
- L’ho già incontrato. – disse freddamente Harlock. Il viso di Eva cambiò subito espressione, mostrando evidenti segni di preoccupazione.
- Quando l’hai incontrato? So che è fuori da questa mattina… - chiese.
- Infatti: stava proprio uscendo, quando ci siamo incrociati. Abbiamo scambiato solo qualche parola.
- Davvero? Spero ti abbia fatto una buona impressione. – Eva sorrise, ma ciò nonostante non riuscì a celare la sua apprensione.
- Per la verità, non molto. – confessò tranquillamente il colonnello. – Ma probabilmente la colpa non è nemmeno sua: è stata la sorpresa di trovare in casa mia, dopo lunghi anni di assenza, un estraneo che non mi conosce e che, in tutta evidenza, si comporta come se ne fosse il padrone.
- Gli ho dato io il permesso di fare come se fosse a casa sua. – lo difese subito la contessa, portandosi una mano al petto.
- Non lo metto in dubbio… e anzi, vorrei ben vedere il contrario! Ciò non toglie che, forse, avreste dovuto informarmi prima della sua presenza, non credete?
- Ma quando avrei potuto farlo? Per diversi mesi la nostra corrispondenza è stata interrotta, a causa della violenza degli ultimi scontri. E poi… e poi comunque preferivo parlartene di persona: è una cosa molto importante per me e non mi sembrava il caso di dartene una spiegazione sommaria per via epistolare.
- Così vi è sembrato più adatto non dirmi niente fino alla fine e farmi una sorpresa? – la rimbeccò suo figlio, nella cui voce vibrava una nota d’asprezza.
- Sei stato tu a rientrare all’improvviso, senza dare il benché minimo avvertimento, né a tua madre, né alla servitù, perché ti ricevessero come si doveva!
Harlock aggrottò le sopracciglia, infastidito da quelle parole.
- Sta bene. – disse. – Accetto l’accusa. Quantunque non creda necessario fare tante cerimonie solo per ritornare a casa propria.
- Cerimonie? Ti chiedevo solo di avvertire per tempo del tuo ritorno, così che ti si potesse accogliere. – replicò Eva, stizzita.
- Ciò non toglie che l’avrei comunque trovato a casa mia, senza averlo mai neppure sentito nominare, senza che mi diceste nemmeno: “Ho conosciuto un amico che ti vorrei presentare quando torni”.
- Ma infine, qual è il problema? – sbottò la contessa, fissando gelidamente in volto suo figlio.
- Il problema, madre, è che avete condotto a casa un giovane, verso il quale provate un interesse ben superiore all’amicizia e avete aspettato che io tornassi per mettermene al corrente. – la voce di Harlock era fredda, ma vi traspariva ugualmente con sufficiente evidenza il suo disappunto.
- Chi ti ha detto queste cose? Chi si è permesso di parlarti del tipo di rapporto che dovrebbe esserci tra me ed Anthony? – la contessa di Lorckshire serrò i pugni in grembo e la sua voce si alterò.
- Nessuno, l’ho capito dal modo in cui si è comportato lui questa mattina e da come me ne avete parlato poco fa. – mentì il colonnello, volendo evitare che il nome di John entrasse nella vicenda.
- E t’infastidisce così tanto che io sia felice, che abbia un amico?
- Non è un amico, lo sapete meglio di me. E comunque… - riprese, senza lasciare ad Eva il tempo di replicare – Comunque non è questo che mi dà fastidio, anzi: mi fa piacere che ci sia stato qualcosa, qualcuno, che vi ha distratta dal pensiero della guerra, che vi ha impedito di preoccuparvi di continuo per me. Quello che non accetto è il tipo di legame che avete con questa persona e anche il modo in cui ne sono venuto a conoscenza.
- Ma è proprio questo tipo di legame che mi rende felice: è il suo amore, dopo tanta solitudine, dopo tanti anni trascorsi dalla morte di tuo padre! – si difese la contessa, portando entrambe le mani al petto in un gesto accorato.
Harlock si levò in piedi ed andò verso la finestra, fermandosi poi a guardare fuori dai vetri: il giardino s’andava sempre più dipingendo di toni ocra e scarlatti e un tappeto di foglie ricopriva il prato e le aiuole, che si preparavano ormai a dormire il lungo sonno invernale.
- E’ un giovane gentile, intelligente e premuroso. – la voce di Eva riempiva ancora la stanza. – Se tu non avessi dei pregiudizi nei suoi confronti, sono certa che ti piacerebbe e che potreste diventare ottimi amici. E quel che più conta, mi vuole bene. E gliene voglio anch’io! Non hai il diritto d’impedirmi di amarlo!
- Amarlo? – replicò Harlock, voltandosi di nuovo e sforzandosi di dominare l’impeto con cui stava per pronunciare le sue parole. – Madre, quel giovane avrà sì e no la mia età! Come potete dire di amare qualcuno che potrebbe essere vostro figlio?
- Ma tutto questo non ha alcuna importanza! L’amore, Harlock, non si misura facendo un computo anagrafico. Allora che dovresti dire di tutte le fanciulle che vanno in spose a uomini molto più maturi di loro? Perché non ti scandalizzi anche di questo?
- Lo sapete benissimo che non approvo certe unioni. – rispose il colonnello.
- Non le approvi perché sai benissimo che questi matrimoni sono celebrati su ben altra base che non l’amore. Ma io ed Anthony ci amiamo davvero, siamo entrambi abbastanza maturi per gestire i nostri sentimenti e la nostra vita! E di questo mio legame non voglio rendere conto a nessuno.
- Rendere conto? – esclamò Harlock, avvicinandosi – Io non vi chiedo di rendermene conto, so benissimo che non potrei e che comunque non servirebbe a nulla: conosco la vostra cocciutaggine.
Il bel volto di Eva si oscurò e i suoi occhi brillarono, come il cielo lavato dalla pioggia.
- Stai denigrando i miei sentimenti… - disse in un soffio.
Harlock la guardò e tacque. Comprese in un istante che questa penosa discussione era perfettamente inutile e che alla fine del loro colloquio, comunque, nulla sarebbe cambiato. Gli restava solo, nel petto, una spina dolorosa che sembrava trafiggerlo da parte a parte e anche il ritmo del suo respiro era mutato.
- Dannazione… - pensò, portandosi fugacemente la mano al centro del petto – Non mi era mai accaduto di sentire queste fitte per un banale diverbio.
- Questa sera a cena lo vedrai. – riprese Eva, palesemente offesa – Così potrai conoscerlo e fartene un’idea più obiettiva: almeno dopo parlerai con cognizione di causa.
Si alzò, scostandosi dal divanetto sul quale era seduta.
- Adesso scusami, vado a cambiarmi: ci vediamo più tardi. – uscì dalla stanza senza aggiungere altro. Harlock udì ancora il frusciare della sua veste lungo il corridoio, poi anche quel suono si spense.
Rimase a lungo solo nella stanza a riflettere, in piedi accanto alla finestra. Il giorno moriva silenzioso davanti ai suoi occhi, oltre i vetri che si dipingevano dei cangianti riflessi del sole. Un soffio di tenebra s’andava distendendo nella stanza, illuminata solo dai caldi barbagli del fuoco che ardeva nel camino.
- Forse sono io che sbaglio. – pensò – Mia madre sembrava tanto felice e anche oggi, appena l’ho rivista, il suo volto mi era apparso così luminoso… Per lei questo sentimento dev’essere stato molto importante e probabilmente l’ha aiutata più di quello che posso immaginare a superare i cupi anni della guerra. Però… - la mano che teneva appoggiata contro l’infisso della finestra si chiuse a pugno e le sopracciglia si corrugarono. – Però come posso credere che anche per quel giovane le cose stiano allo stesso modo? Come posso pensare seriamente che ricambi i sentimenti di mia madre con la stessa intensità, con la stessa dedizione? E come può crederlo lei stessa?

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Capitolo 2
*** Discussioni ***


Capitolo II


Discussioni 


La contessa di Lorckshire e il suo giovane amico erano già a tavola e conversavano gioiosamente delle vicende accadute negli ultimi giorni, quando Harlock entrò nella sala da pranzo. Indossava un’uniforme molto più in ordine e in buono stato di quella con cui era giunto al mattino.
- Buonasera. – li salutò, avviandosi verso il suo posto a capotavola.
- Buonasera… - gli rispose il conte Anthony, osservandolo.
Harlock s’accorse di quello sguardo prolungato, che indagava indiscretamente ogni parte della sua divisa, ma non fece commenti, volendo evitare un altro alterco con sua madre.
- Vi ho fatto aspettare? – chiese una volta che si fu seduto.
- No, siamo scesi da poco anche noi. – disse Eva, sorridendo amabilmente con i suoi occhi di cerva e guardando soprattutto in direzione del conte di Ayveron, come se una qualche complicità segreta li avesse legati in quelle ore.
Anche Harlock lo guardò: era davvero bello, il suo volto era armonioso e aveva lineamenti delicati e tutta la persona emanava il fascino sottile e seducente della giovinezza sbocciata da poco. Tutto in lui era ancora una perfetta mescolanza di fanciullezza spensierata e virilità nascente e forse questo, si disse il colonnello, aveva tanto attratto sua madre.
- Mi dispiace che questa mattina non abbiamo avuto tempo per le presentazioni. – esordì Anthony, guardando sorridente il suo interlocutore. – Se mi aveste detto chi eravate non sarei stato così scortese da andarmene subito e vi avrei tenuto compagnia fino al ritorno di Eva.
- Possiamo sempre rimediare adesso. – replicò il colonnello.
- Certo: io sono Anthony Michelangelo, conte di Ayveron. - rispose, senza che il suo sfacciato sorriso gli venisse meno sulle labbra
- Harlock di Lorckshire. – rispose semplicemente il colonnello.
Si guardarono negli occhi per un lungo istante ed Harlock ebbe l’impressione che gli fosse lanciata una sfida silenziosa e che con quel sorriso Anthony si beffasse di lui. Ma nonostante ciò ne fu divertito ed in cuor suo si disse: “Sta bene, accetto!”
Durante la cena i due uomini discussero molto, toccando i più disparati argomenti: la guerra, la politica, l’economia, la filosofia, l’arte. Harlock si rese conto di trovarsi di fronte ad un abile conversatore, colto, forbito nel parlare, ma anche molto cinico e pungente. La contessa li ascoltava con piacere, guardando in viso ora l’uno ora l’altro ed in cuor suo era molto soddisfatta della piega che aveva preso la serata e dell'inaspettata sintonia creatasi tra loro. Quand’ebbero finito di mangiare si spostarono nella sala delle Ninfe ed Harlock andò a prendere del buon vino italiano perché Anthony ne assaggiasse. Glielo servì personalmente dicendo:
- Viene dalle colline toscane: sono sicuro che vi piacerà. – poi lo versò anche nel suo bicchiere - Era da un bel po’ che desideravo assaporare di nuovo il suo aroma.
Prese il calice tra le dita, sedendosi su di una poltrona con aria assorta. Le candele del lampadario, riflettendo la loro luce nel vino, gli donavano mille infuocati riflessi ed esso sembrava così un piccolo lago acherontèo murato tra rocce di vetro.
- Davvero speciale. – commentò Anthony, dopo averne bevuto alcuni sorsi.
- Infatti di solito lo teniamo per le occasioni speciali. – commentò la contessa – Ma questa è di certo una serata speciale ed è quindi più che giusto averne stappato una bottiglia: finalmente Harlock è tornato a casa e vi siete conosciuti. Per me è una gioia immensa avervi qui tutt’e due! – prese le mani di Anthony e si avvicinò di più a lui sul divano.
Harlock li osservò: sua madre aveva sempre un’espressione così languida e tenera quando stava con il conte di Ayveron, quando poteva incrociare il suo sguardo o ascoltarne la voce. Si vedeva ad occhio nudo che era divorata da un sentimento intenso e bruciante che la rendeva viva e splendida come un’azalea carminia. Del resto Eva era sempre stata una donna passionale, dal temperamento ardito e molte volte, nelle sue azioni, si lasciava trasportare dal cuore e dalle emozioni.
- Sarà bene, Harlock, che presto ti rechi a palazzo per salutare sua Maestà ed informarlo personalmente del tuo ritorno. – esclamò ad un tratto la contessa, volgendosi verso il figlio.
Il colonnello sospirò, come se gli avessero ricordato una fastidiosa incombenza.
- Lo sapete che non andrei mai a corte… ma temo che in questa circostanza non potrò farne a meno.
- Sarebbe una gravissima scortesia non andare a porgere il tuo saluto al Re: tutti gli ufficiali appartenenti ai casati più importanti del regno andranno a rendergli omaggio e tu non puoi certo essere da meno! – lo rimproverò Eva, socchiudendo gli occhi.
- Sì sì, ho capito… - replicò Harlock, alzando lo sguardo verso il soffitto.
- E’ dura essere un uomo abituato a comandare un intero esercito e poi dover subire i rimproveri della madre! – disse Anthony e la sua voce era a metà tra il sarcastico e il divertito.
Harlock lo guardò interdetto per un istante, poi sorrise e constatò:
- Già: questo succede quando, pur essendo molto giovani, si riveste una carica tanto elevata. Ma molti degli ufficiali assieme ai quali ho condiviso questi anni di guerra avevano un’età tale da poter ricevere certi tipi di rimproveri.
- In effetti ultimamente sembra che nell’esercito regio sia stata davvero arruolata il fior fiore della gioventù. – disse Anthony, rivolgendo il pensiero a tutti i nomi che aveva sentito e a tutte le persone che conosceva e che rientravano in questa casistica.
Il colonnello annuì, diventando improvvisamente serio.
- Fortunatamente, però, la maggior parte di essi è ritornata sana e salva a casa e all’affetto dei famigliari. – commentò la contessa.
- Forse perché molti se ne sono stati nelle retrovie… - disse Anthony, voltandosi verso di lei.
- Credete forse che tutti gli ufficiali siano dei codardi? – esclamò Harlock. Per un istante nei suoi occhi brillò una luce di sdegno.
- Non voglio dire questo. E soprattutto non voglio mettere in dubbio il vostro valore militare e l’abnegazione che certamente avete avuto per la causa del nostro paese. – si difese Anthony, ma la sua replica non aveva affatto i toni di una scusa. – Ma credo sia risaputo che, quando c’è da mandare qualcuno a farsi ammazzare, si preferiscono i figli della plebe.
- Non tutti coloro che entrano all’Accademia militare lo fanno perché hanno nell’animo di divenire dei veri soldati, non tutti sono coraggiosi ed intrepidi… ma gettar fango impunemente anche su tutti quelli che hanno sacrificato se stessi durante questo conflitto è una meschinità! – replicò il colonnello, e benché le parole gli venissero dal profondo dell’anima la sua voce rimase calma.
Il conte di Ayveron stava per rimbeccare ulteriormente Harlock, quando Eva intervenne, allungando le sue bianche mani verso il petto di Anthony, frapponendosi così fra i due.
- Sono certa che Anthony non intendesse insultare nessuno, perciò via, non riscaldatevi tanto… in fin dei conti non è una questione di così elevata gravità.
- Non c’è bisogno che rispondiate per lui, credo lo sappia fare benissimo da solo: fin’ora ha sostenuto egregiamente la nostra conversazione. – disse Harlock, lanciando a sua madre un’eloquente occhiata di disapprovazione.
- Andiamo, Harlock: perché devi sempre incominciare delle inutili discussioni appena ritorni? – protestò Eva, volendo evitare che il colloquio degenerasse e che ci fosse subito scontro tra di loro.
Il colonnello la fissò, allibito e irritato insieme. Ma strinse i denti e tacque. Anche Anthony scelse la via del silenzio, preferendo non contraddire Eva, ma si disse: “Avremo modo di riprendere la nostra discussione, quando saremo soli… e sono certo che verrà molto presto quel momento”.
Rimasero assieme per un’altra ora, parlando con molta tranquillità delle cose più disparate, senza toccare questa volta argomenti delicati, ma entrambi i giovani potevano sentire chiaramente che tra di loro s’era creata come un’onda cupa ed ostile e che solo nel momento in cui avessero finalmente potuto parlarsi chiaramente, senza false gentilezze, il loro rapporto sarebbe stato più limpido e definito. Di qualunque natura potesse diventare.
Contro la sua consuetudine, che tanto spesso l’aveva spinto a lasciarsi avvolgere dal cupo manto delle tenebre, Harlock fu il primo a lasciare la sala. Non fu solo per la compagnia, non completamente gradita. Disse che si sentiva stanco, ed era vero. Tornando a casa aveva deciso che si sarebbe concesso un lungo periodo di riposo perché il suo corpo era realmente sfibrato e gli sembrava quasi che in quei lunghi giorni di sangue e morte qualcosa, con mano fredda e adunca, gli avesse furtivamente strappato piccoli brandelli di se stesso, sparpagliandoli poi al vento di perenne autunno che soffia sulle terre dove infuriano le battaglie.
La contessa e Anthony lasciarono il salotto quasi un’ora dopo che il colonnello se n’era andato. Rimasti soli, avevano scelto di non parlare di lui e di quanto era accaduto in quella giornata, concedendosi invece del tempo solo per loro stessi. S’avviarono poi insieme verso le loro stanze, ma arrivati al piano superiore, davanti alla porta della sua camera Eva congedò il suo amante dicendo:
- Buonanotte, Anthony. Sarà meglio che per questa volta dormiamo separati: non voglio altri battibecchi con Harlock, nel caso dovesse vederci uscire di qui assieme, domattina.
- Ma dopotutto dovreste essere libera di scegliere come gestire la vostra vita, non credete? – replicò Anthony, con volto serio. – Incluso il fatto di dormire da sola oppure no. Vostro figlio non ha alcun diritto d’interferire in cose che non lo riguardano.
- Purtroppo invece lo riguardano, eccome. – sospirò, divenendo per un istante pensierosa. – Ma comunque sia, non gli permetterò di distruggere quest’unione, così faticosamente creata.
Eva si sporse, flessuosa come un giunco, verso le labbra di Anthony e le baciò delicatamente, simile ad una farfalla che si posa sul petalo vermiglio di un fiore. Il conte di Ayveron raccolse quel bacio schiudendo le labbra, per conservarne gelosamente l’umido sapore.
- Buonanotte… - le disse in un soffio, mentre le mani sottili di Eva scivolavano tra le sue e si allontanavano.
Dolcemente, la porta fu chiusa ed Anthony rimase solo nel vasto corridoio, circondato soltanto da una moltitudine di pensieri e dubbi, difficili da districare. D’un tratto fu costretto a interrogarsi seriamente sul futuro di quell’insolito legame che aveva stretto con la bellissima contessa di Lorckshire, oltre che sul senso stesso di una tale unione. Scelse di non darsi risposte: era convinto infatti che non fosse ancora giunto il momento per fare un bilancio di questo legame, nato da troppo poco tempo per dover essere già giudicato.

Il mattino era ancor fresco ed il sole s’era da poco levato più in su dell’orizzonte, quando il colonnello si recò nelle scuderie in tenuta da cavallerizzo. Lo stalliere che lo vide arrivare lo salutò con deferenza, inchinandosi profondamente. Non si stupì di vederlo in piedi già a quell’ora poiché sapeva che era abitudine del suo padrone alzarsi presto e fare lunghe cavalcate solitarie. Piuttosto, fu anzi soddisfatto che il tempo trascorso lontano non lo avesse per nulla cambiato.
- Buongiorno, signor conte. Devo preparare il vostro cavallo? – chiese andandogli incontro.
- Aspetta, prima voglio salutarlo di persona… sono quattro anni che non lo cavalco, forse non si ricorderà nemmeno più di me. – fatti pochi passi, però, si voltò di nuovo verso il servo, ridendo. – Spero almeno che nel frattempo non ne abbiate fatto delle bistecche!
- Bistecche? – balbettò – Ma no, signore: è ancora là e gode di ottima salute!
Harlock raggiunse il box dove uno stallone nero, fiero e nobile, sbuffava e scalpitava, fissandolo con occhi fiammeggianti. La lunga criniera selvaggia fluttuava ad ogni colpo della testa, ondeggiando come una nube di tempesta.
- Hai riconosciuto la mia voce, non è vero Tenebra? – bisbigliò il colonnello, allungando una mano verso la testa dell’animale e iniziando ad accarezzarlo. – Sei davvero in forma, sai? Ho fatto bene a non portarti con me in guerra: mi saresti senz’altro stato d’aiuto, con la tua intelligenza e l’intesa che c’è tra di noi, però a questo punto saresti morto… e non una sola volta.
Il cavallo si sottrasse bruscamente alle carezze di Harlock ed allungò il muso verso il suo volto, accostandolo delicatamente ad una guancia. Il colonnello ne fu sorpreso e sorrise, riprendendo ad accarezzare l’animale.
- Mi vuoi dire che ti sono mancato? Ma adesso sono a casa e credo ci resterò per un lungo periodo: avremo tempo per fare tutte le corse che vuoi. – il destriero scrollò la testa, sbuffando e sollevando ritmicamente le zampe anteriori – Ehy, come sei impaziente! Non sono davvero riuscito ad insegnarti neanche un po’ di disciplina, in questi anni? - Tenebra scrollò ancora una volta la criniera - No, eh? Probabilmente me la cavo meglio con i miei soldati: con te è sempre stato difficile trattare... siamo troppo simili, noi due. Troppo ribelli. Vieni…
Così dicendo aprì lo sportello e fece uscire Tenebra, conducendolo poi verso l’entrata delle scuderie, dove, accanto ad una parete, erano sistemate le selle dei vari cavalli. Lo scudiero gli si fece incontro per occuparsi lui di tutto ma Harlock lo invitò a farsi da parte e sellò personalmente il suo destriero.
Poco lontano dalle stalle vi montò in groppa e si allontanò con lui, al passo. Attraversò il viale, dirigendosi verso il piccolo cancello secondario ad ovest della casa che conduceva alle terre di proprietà della famiglia.
Qualcuno però lo aveva visto allontanarsi: dall’alto della finestra della sua stanza, il conte di Ayveron aveva infatti seguito tutta la scena.
- Si alza presto, il colonnello. – pensò – Bene, vorrà dire che fra breve avremo modo di parlarci a tu per tu.
Anche Anthony, in verità, benché assieme ad Eva frequentasse assiduamente feste e rappresentazioni teatrali che si protraevano fino all’alba, non disdegnava mai, quando se ne presentava l’occasione, di alzarsi di buon ora per fare una passeggiata, per cavalcare in solitudine o semplicemente per respirare l’aria fresca del mattino. Tuttavia erano ben pochi a conoscere queste sue abitudini.
Il conte di Lorckshire restò fuori fino all’ora di pranzo, galoppando a briglie sciolte lungo i sentieri che attraversavano i campi già seminati, percorrendo i vigneti distesi sui pendii ai piedi del bosco e ritornando poi costeggiando il fiume che a nord si snodava lungo le loro terre. Tenebra sembrava felice di quella cavalcata e non risentiva per nulla dei tanti chilometri percorsi: quando il suo padrone lo lasciò alle cure dello stalliere scalpitava e fremeva come chi ha ancora tante energie da spendere.
Il colonnello rientrò in casa di corsa, salendo rapidamente la scalinata che conduceva alle sue stanze, sapendo di dover far presto a cambiarsi, se non voleva arrivare in ritardo a tavola. Mentre saliva gli ultimi gradini, però, sentì una fitta al centro del petto e per un solo, brevissimo istante, gli sembrò che il suo cuore smettesse di battere. Si sentì avvolto dal nulla e tutto attorno a lui si fece vago ed incerto. Fu questione di un attimo: poi il mondo riacquistò forma e nitidezza ed Harlock si ritrovò appoggiato alla balaustra, con il respiro affannoso ed una mano premuta sul petto. Un’onda di pensieri confusi si agitava nella sua mente, ma nessuno di essi riusciva a raggiungere la coscienza e a divenire concreto. Si costrinse a rimettersi in piedi, stringendo i denti per la fatica che ciò gli provocava, e si avviò di nuovo verso la sua camera. Entrò e si fermò di fronte al letto, immobile. Sciolse lentamente il foulard che portava attorno al collo e lo gettò con un moto di collera sulle coperte.
- Che mi succede? – si chiese – Perché questo dolore continua a perseguitarmi?
Si sedette sulla sponda del letto, emettendo un profondo sospiro, lasciandosi subito dopo ricadere disteso sulla schiena. Rimase a lungo così assorto, finché non udì la voce di sua madre provenire dal corridoio: doveva aver appena lasciato la sua stanza e si stava dirigendo verso il piano inferiore, verso la sala da pranzo. Il conte di Ayveron era con lei. Harlock allora si ridestò e finì di cambiarsi, indossando i suoi abiti da casa.
Quando li raggiunse, Eva e il suo amico erano già seduti a tavola.
Sua madre lo accolse con un’espressione di disapprovazione e di sollievo insieme:
- Finalmente… pensavamo non volessi unirti a noi, quest’oggi.
- Scusate. – rispose soltanto, sedendosi al suo posto.
- Hai fatto una lunga cavalcata, immagino. – riprese Eva.
- Abbastanza. Ma ne ho fatte di più lunghe: infatti Tenebra non era ancora stanco.
- Quel cavallo ti ha aspettato così a lungo che dovrai faticare un bel po’ prima che si stanchi di galoppare assieme a te. – osservò lei, sorridendo con i suoi denti bianchissimi.
- Temo anch’io.
Il conte di Ayveron non poté fare a meno di notare come le risposte di Harlock fossero sbrigative, come se il suo unico desiderio fosse quello di essere lasciato tranquillo, in silenzio.
- Fin dove siete stato? – gli chiese allora, desiderando verificare i suoi sospetti.
- Ho fatto il giro delle nostre terre: al limitare del bosco mi sono fermato e sono ritornato verso sud, costeggiando un tratto del fiume.
- Capisco… allora non siete andato davvero molto lontano. Io mi sono spinto spesso molto più in là.
Harlock non rispose. Su invito di Eva, alcune cameriere iniziarono a servire in tavola. Per un po’ il pranzo si svolse silenzioso, finché la contessa non riprese la parola esclamando:
- Harlock, ascolta: pensavo sarebbe meglio che già domani tu ti recassi a palazzo, dal Re. Presto la notizia del tuo ritorno si diffonderà e giungerà rapidamente anche ai suoi orecchi. Io però non vorrei davvero che sua Maestà venisse a conoscenza del tuo rientro da qualcun altro. Devi essere tu ad informarlo personalmente, com’è giusto.
- Perché vi preoccupate tanto? – rispose il colonnello – Il Re sarà già a conoscenza dei nomi di tutti coloro che sono ritornati dalla guerra, chi sono gli scampati, chi i dispersi e chi i morti. Il ministro della guerra l’avrà già informato di tutto e così saprà anche che sono vivo e ben oltre i confini del regno.
- Oh, che razza di ragioni! – ribatté sua madre, lanciandogli un’occhiata di rimprovero – Anche se sa benissimo che sei tornato ai tuoi possedimenti, sano e salvo, l’etichetta e il decoro prevedono che sii tu ad andare a salutare il sovrano.
- Questo lo so. Ma non vedo il motivo di doverci andare di corsa, domani.
- E’ una cosa che va fatta: è inutile aspettare, dopotutto. – sentenziò Eva.
Harlock sospirò. Da molto tempo, forse da sempre, sua madre aveva preteso da lui una grande deferenza nei confronti del Re, invitandolo spesso a recarsi a corte, alle feste o alle celebrazioni solenni appositamente per compiacere sua Maestà. Proprio lui, che schivava il potere e gli onori, la compagnia dei potenti, le lodi e le onorificenze ufficiali. Eppure, nonostante tutto, c’era chi mormorava che il conte di Lorckshire avesse ottenuto così giovane il grado di colonnello solo grazie ai favori reali.
- Comunque sia, madre, non vi crucciate tanto: ho già deciso di andare a corte giovedì prossimo. E così intendo fare.
- Giovedì? Fra una settimana? – protestò vivacemente Eva.
- Sono cinque giorni. – precisò Harlock.
- Sono troppi.
- Non ho intenzione di discutere oltre! – le disse secco suo figlio, squadrandola con un’occhiata severa e autoritaria.
- Sappi però che non approvo la tua scelta. – concluse la contessa, palesemente infastidita.
- Questo non ha importanza. – mormorò Harlock, riprendendo a mangiare.

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Capitolo 3
*** Due ritratti ***



Capitolo III


Due ritratti



      Quel pomeriggio Harlock stava di nuovo passeggiando, apparentemente senza una meta, per i corridoi e le stanze della sua casa. In verità era spinto dalla volontà di ritrovare attorno a sé oggetti famigliari, desiderando quasi che potessero dargli l’illusione che il tempo non era affatto trascorso e, forse, che neppure la guerra c'era mai stata. Era un sentimento vago e al contempo imperioso che lo spingeva a vagare da una parte all’altra, attraverso i luoghi che gli erano più famigliari, frequentati assiduamente durante tutta la sua vita. Fu così che alla fine giunse all’estrema ala sinistra del palazzo, di fronte ad una porta ampia e molto alta. Esitò per un attimo, prima di poggiare la mano sulla maniglia. Nell’anima gli vibravano, confuse, una gioia trepidante e una penosa inquietudine. Quando la porta s’aprì, un intenso odore di olio di lino e di colori lo investì, insieme ad una luce vivida e calda la quale, entrando dalle ampie e luminose vetrate lungo le pareti, si gettava sul pavimento come un pulviscolo d'oro. Si trattava di uno spazioso ed accogliente atelier, ingombro di tele delle più svariate dimensioni, appese alle pareti oppure accatastate le une sulle altre; alcune erano incorniciate, altre ancora nude mentre talune di esse presentavano solo pochi segni, abbozzi di figure od oggetti mai portati a compimento. Quasi al centro della stanza c’era un cavalletto e sopra di esso un dipinto non finito, il ritratto di una donna bionda e fulgida come il sole: la contessa Eva di Lorckshire. Harlock si avvicinò al dipinto e lo guardò attentamente: non era perfetto, tuttavia da quelle linee morbide e dai quei colori così caldi e luminosi traspariva tutto il sentimento che lo aveva animato mentre lo dipingeva: tutto l’affetto che portava a sua madre e il profondo dolore per l’imminente separazione. Il conte di Lorckshire vi aveva infatti lavorato fino a pochi giorni prima della partenza per il fronte. Lo prese con entrambe le mani e lo sollevò dal cavalletto, tenendolo ad una certa distanza da sé, per rimirarlo meglio.
- Pensavo che forse non ci saremmo più rivisti… – disse tra sé – Ritrarre qui il vostro volto, madre, è stato un tentativo di ricordarvi, di portare con me, in mezzo all’ombra e al fango, un po’ del vostro splendore. Ma fortunatamente tutto questo non è stato necessario. – tacque, divenendo improvvisamente pensoso – Anche se ora vi trovo cambiata: vedo in voi sentimenti che non provavate da tempo e che io, forse, non conoscevo più.
Dopo aver rimesso il quadro al suo posto si sedette sullo sgabello di fronte al cavalletto e rimase lì, per diversi minuti, assorto nei suoi pensieri. Finché alcuni lievi tocchi battuti su di un’anta della porta rimasta aperta non lo richiamarono alla realtà: sull’entrata, un po’ in disparte, c’era il conte Anthony.
- Ah, buonasera… - lo salutò Harlock, alzandosi.
- Buonasera, colonnello. Vi ho disturbato? – rispose.
- No, prego, venite avanti. – si avvicinò a lui di qualche passo e gli indicò un divanetto rivestito di tessuto rosso ch’era poco discosto dalla parete di fronte al cavalletto.
Anthony entrò, guardandosi attorno con una certa curiosità.
- E’ la prima volta che vengo qui, da quando abito in questa casa. – disse, fermandosi al centro della stanza ed ammirandola in tutte le direzioni. Vide anche, nell’angolo di una parete, una porta finestra che conduceva all’esterno, verso la parte del giardino in cui erano coltivate innumerevoli varietà di rose. – E’ un posto molto suggestivo, con tutta questa luce e l'ampia vista sul giardino.
- Un posto ideale per dipingere anche se c'è cattivo tempo: da qui... – disse avvicinandosi di qualche passo alla porta finestra – si possono facilmente ritrarre dal vivo la furia di un temporale o i petali di una rosa imperlati di pioggia. Eppoi l’atelier è circondato da molti alberi e c’è sempre una piacevole frescura anche nei giorni di canicola estiva.
Anthony oltrepassò il colonnello ed aprì la porta verso il giardino, rimanendo sulla soglia. Lasciò vagare lo sguardo tutt'intorno, posandolo ora sui roseti, ora sulle fronde degli alberi che si tingevano sempre più di giallo e scarlatto. Infine lo spostò verso l'alto e lo fissò sul cielo di un azzurro pallido, percorso da nubi rapide e leggere. Intanto Harlock gli si era avvicinato senza quasi far rumore ed era rimasto dietro di lui ad osservare lo stesso panorama: era più alto di Anthony di una buona testa e non aveva difficoltà a vedere in lontananza, oltre la figura di Anthony stagliata contro la porta.
- Da qui il cielo si vede abbastanza bene. – commentò.
- Anche le stelle, probabilmente. – ipotizzò Anthony, volgendosi verso il colonnello.
- Purtroppo questo posto non offre una visuale completa: per abbracciare con lo sguardo l'intera volta celeste non ci dovrebbe essere nessun tipo di ostacolo, mentre qui ci sono comunque troppi alberi attorno.
- Peccato, altrimenti avrei potuto portare qui vostra madre, per ammirare le persèidi, praticamente senza prendere freddo. – Anthony sorrise malizioso, sapendo bene di mettere in imbarazzo il conte di Lorckshire con quell'affermazione.
Per tutta risposta, Harlock gli lanciò un’occhiata gelida, penetrante e si staccò da lui, ritornando accanto al cavalletto. Prese il quadro che prima aveva contemplato e lo depose a terra, in un angolo fra le altre tele. Il conte di Ayveron continuò a scrutarlo per un po’, senza muoversi, con un sorriso sardonico che gli increspava le labbra, poi, con un'alzata di spalle si avvicinò di nuovo al colonnello, mentre sul volto affiorava un'espressione più gentile.
- Ho visto molti dei vostri dipinti, appesi un po’ ovunque in casa e devo ammettere che ve la cavate piuttosto bene, soprattutto per essere un soldato.
- Cosa intendete? – gli domandò Harlock, ai cui orecchi le parole del conte suonavano inevitabilmente cariche di doppi sensi.
- Intendo dire che non avete certo avuto a disposizione per i vostri studi artistici tutto il tempo che hanno i pittori professionisti. – rispose questi, appoggiandosi con un braccio al cavalletto.
- L’arte è sempre stata un piacevole passatempo, per me, un modo per liberare la mente da ogni pensiero, da ogni tensione. Forse però è strano passare dai pennelli alla spada con tanta facilità.
- Perché dovrebbe? Anche Caravaggio lo faceva. – replicò Anthony, guardandolo con il suo consueto sorriso, tra il divertito e il malizioso.
- Già, anche Caravaggio. – rispose Harlock accomodante – Con la sola differenza che lui non era un soldato.
- Ma anche lui era parimenti abile con la spada e con i pennelli.
Harlock rise lievemente e fu come se una calda brezza avesse attraversato la stanza per un istante.
- Mi state forse paragonando a Michelangelo Merisi, signor Anthony? Credo che la strada da fare sia ancora molto lunga… troppo, per me.
- Avete ragione: da qui a Porto Ercole la distanza è tanta. – concluse il conte di Ayveron, sarcasticamente.
Il colonnello lo fulminò con un’occhiata.
- Perché vi sentite sempre in obbligo di lanciare stoccate o di fare battute pungenti? – gli chiese.
- Non era una battuta pungente. – si difese il giovane, alzando le mani in un gesto di discolpa che mostrava ben poca convinzione.
- Porto Ercole è il luogo dove Caravaggio è morto. Di malaria, tra l’altro. – replicò Harlock.
- Si dice, ma non si sa se sia veramente così. C’è chi sostiene che sia stato ucciso. – disse Anthony, fingendo di non capire, mentre di nuovo quel sorriso sarcastico spuntava sulle sue labbra.
Harlock trasse un sospiro e rinunciò a proseguire con la requisitoria. Il conte di Ayveron lo fissò per qualche tempo e mentre il suo sorriso mutava fino a perdere la sua piega ironica, riprese:
- Ritornando al punto di partenza del nostro discorso, parlavo sul serio quando ho detto che alcuni dei vostri lavori mi sono piaciuti molto: il ritratto di Eva che c’è nella Sala della Notte, per esempio, o i dipinti delle sirene della Galleria, sono davvero molto belli.
Harlock lo squadrò, soppesando il vero senso di quelle parole con una sola occhiata, quindi si volse di nuovo verso il cavalletto, sul quale aveva posto un'altra vecchia opera che doveva superare il suo severo giudizio, e rispose:
- Vi ringrazio. Credo che siano effettivamente tra le mie opere migliori, o almeno sono tra i pochi dipinti che non ho avuto la tentazione di staccare quando li ho rivisti.
- E perché avreste dovuto staccarli? – gli fece eco Anthony, perplesso.
- In molte tele ho trovato così tanti difetti che mi chiedo con quale diritto possano stare ancora appese al muro. - rispose, osservando quella che aveva di fronte da angolazioni diverse sempre con il medesimo sguardo corrucciato.
- Forse siete troppo severo con voi stesso: dopotutto sono opere giovanili.
- Già… e si nota molto. Forse sono stato troppo presuntuoso: essere un vero artista non significa solo saper tracciare pochi segni su di un pezzo di stoffa, mettere giù alla ben e meglio alcuni colori. Essere artista è una vocazione, è un bisogno dell’anima: per queste persone, uniche al mondo, non poter dipingere o scolpire o intagliare è come non respirare. Inoltre – riprese, dopo un breve silenzio e la sua voce s’era fatta più grave – sono convinto che solo un sentimento potente, come l’amore o la sofferenza, possano produrre quella che si definisce ‘la grande arte’.
Anthony lo osservava attentamente ed era il suo sguardo a tradire più d’ogni altra cosa tutto il suo interesse: gli occhi azzurri scintillavano come acquamarina sotto le lunghe ciglia scure mentre si sforzava di comprendere il senso più profondo di quelle parole.
- Non ho creato nulla che valga veramente la pena di essere conservato. In tutto questo tempo io non ho creato assolutamente nulla. - Harlock fissava la tela davanti a sé senza vederla e la sua voce sembrò turbata.
- Parlate solo dell’arte? – chiese Anthony, a cui non era sfuggito quell’accoramento.
- Di che altro dovrei parlare? - rispose il colonnello, con voce incolore.
Il conte di Ayveron rimase in silenzio di fronte ad Harlock, un braccio delicatamente appoggiato alla tela sul cavalletto, senza smettere di fissare in volto il suo interlocutore, che dal canto suo pareva non vederlo più, quasi che la stessa presenza di Anthony divenisse più evanescente via via che i minuti passavano. Quando Anthony parlò di nuovo, la sua voce risuonò stranamente forte nel grande atelier rimasto così a lungo silenzioso.
- Avete passato quattro anni a combattere, non certo tra ozi e divertimenti licenziosi. Immagino che questa lunga guerra vi abbia tolto anche molte energie, o forse adesso non avete ancora il desiderio d’impegnare quelle che vi restano in qualcosa di particolarmente gravoso.
Harlock non replicò, gli occhi ancora fissi davanti sulla tele di fronte a lui, ma Anthony ebbe l’impressione che stesse riflettendo sulla sua affermazione.
- Ora che siete di nuovo a casa, con tutto il tempo che avete a vostra disposizione, non vi sta tornando la voglia di dipingere? – riprese Anthony.
- Il desiderio, sì, ma l’ispirazione... Credo che sia avvizzita come un fiore in mezzo alla battaglia. O forse, chissà, mi manca semplicemente un bel soggetto da dipingere! – rise, guardando di nuovo il suo interlocutore con un’espressione maliziosa. Pur spiazzato da quel cambiamento, Anthony si riprese in fretta e colpì Harlock con una delle sue consuete stoccate:
- Forse, mio caro colonnello, a voi manca una donna!
Harlock si fece di nuovo serio e replicò:
- Non intendevo ciò quando ho pronunciato quella frase.
- Certe cose non si possono dire esplicitamente, ma io vi ho inteso lo stesso, colonnello! – il conte di Ayveron gli lanciò un’ultima occhiata, prima di allontanarsi da lui dirigendosi verso la porta.
Harlock non replicò, limitandosi a scrollare la testa con un breve sospiro, consapevole che Anthony sapeva combattere con la lingua tanto bene quanto lui tirava di scherma.
- Vi auguro una buona serata, colonnello: adesso devo proprio raggiungere vostra madre di sopra o le farò far tardi a teatro. – lo salutò, sorridendo amabile e beffardo al contempo. – Se volete unirvi a noi, comunque, siete il benvenuto.
- No, vi ringrazio: credo sarei di troppo. - anche se la voce era cortese l’espressione si era fatta improvvisamente dura.
Per nulla colpito, Anthony sorrise e, indietreggiando di un passo senza voltarsi, richiuse la porta davanti a sé.
Harlock fissò ancora quella porta chiusa finché il suono dei passi di Anthony non si estinse lungo il corridoio, poi il suo sguardo andò a posarsi sul dipinto della contessa di Lorckshire che poco prima aveva deposto dal cavalletto. Gli sorrideva deliziosamente con labbra rosse più del corallo. Si alzò e, presolo tra le mani, ritornò a deporlo sul cavalletto. Poi raccolse i suoi pennelli, preparò i colori e li stese sulla tavolozza e infine rimise mano al ritratto, adagiando nuovi tocchi di luce su quella pelle pallida e splendente che i suoi occhi ormai conoscevano talmente bene da poter fare a meno della modella.
Soltanto dopo che il sole fu tramontato dietro gli alberi oltre le grandi vetrate dell’atelier Harlock abbandonò l’esecuzione del suo quadro: la luce nella stanza andava ormai diminuendo sempre più rapidamente e se avesse acceso delle candele avrebbe rischiato di falsare il tono dei colori di tutto il dipinto poiché la luce naturale conferisce alle cose luminosità e tinte diverse da quella artificiale. Immaginò di aver fatto molto tardi, concentrato com’era sul suo lavoro da non rendersi neppure conto del tempo che passava, così dopo aver sciacquato i pennelli e averli deposti ad asciugare nel solito vasetto di vetro tutto incrostato e aver lanciato un’ultima occhiata al volto di sua madre che lo osservava dalla tela, uscì dall’atelier con l’intenzione di dirigersi in sala da pranzo per la cena. Dopo aver percorso a ritroso il cammino che quel pomeriggio l’aveva condotto fino all’atelier ed essere ritornato nell’ala principale del palazzo, si fermò lungo il corridoio, in fondo al quale si trovava la stanza da pranzo, a consultare l’ora nell’antica pendola a muro che ticchettava con il suo ritmico battito: erano quasi le sette. Mabel sapeva bene che Harlock non voleva essere disturbato quando dipingeva e doveva aver dato ordine alle cameriere di non chiamarlo ma di tenersi pronte a preparare la cena appena fosse tornato “nel mondo dei vivi”, come soleva dire sua madre. Harlock sorrise a quel pensiero e fece per proseguire ma fu allora che, senza essere evocato, un ricordo si affacciò subitaneo alla sua memoria. Si voltò lentamente verso la parete alle sue spalle: era lì, dietro quella porta di legno scuro che si trovava il salotto grande, quello dei ricevimenti formali per ospiti di un certo prestigio. E là dentro... Mentre il battito del suo cuore accelerava impercettibilmente, Harlock posò la mano sulla maniglia facendo scattare la serratura ed entrò. La stanza era immersa nell’oscurità ed era pregna del forte odore di legno proveniente dagli antichi mobili in noce, l’odore caratteristico delle stanze che restano a lungo chiuse. La luce proveniente dal corridoio illuminava sufficientemente la stanza perché Harlock potesse camminare con sicurezza in quell’ambiente che conosceva a memoria. Avanzò superando agilmente le sedie imbottite di stoffa e il tavolino dalle gambe sottili e raggiunse la parete opposta dove a tentoni aprì le imposte di una finestra, facendo piovere la fioca luce del crepuscolo all’interno della stanza, che assunse tonalità cremisi. Mentre un crescente stato di attesa gli saliva nell’anima, si volse verso il camino, sopra il quale stava un imponente ritratto a figura intera di un uomo vestito in uniforme. Harlock si avvicinò, destreggiandosi senza guardarle fra le poltrone di velluto rosso disposte davanti al camino, gli occhi fissi sul volto dipinto. Si fermò a pochi passi e sorrise con dolcezza all’uomo effigiato.
- Sono tornato, padre. - fu quasi un sussurro, ma la sua voce risuonò nella grande stanza silenziosa e d’improvviso tutto parve ridestarsi e tornare alla vita. La calda luce del crepuscolo danzava sulla tela, donandole nuove profondità, e pareva che anche quella figura d’uomo fosse viva e potesse d’improvviso staccarsi dalla superficie e scendere nella stanza, per abitare di nuovo la casa che un tempo era stata sua. Quella visione così realistica turbò il colonnello come una promessa irrealizzabile e un irrimediabile senso di perdita gli strinse il petto. Senza staccare i caldi occhi nocciola da quelli del padre, turchesi e profondi, riprese a parlare.
- E’ passato molto tempo dall’ultima volta che sono stato qui: fu il giorno prima della partenza per il fronte, quando pensai che fosse giusto congedarmi anche da voi come da mia madre. - il conte di Lorckshire sembrava fissare il figlio con grande interesse, come se lo stesse ascoltando e l’espressione intensa del volto, ombreggiato da una folta chioma leonina, contribuiva a quest’effetto. Solo poche rughe gli segnavano gli angoli della bocca e sottolineavano la curva degli occhi in un viso che era maturo ma ancora giovane: non doveva avere più di quarant’anni.
- Sono cambiate molte cose in questi quattro anni... - e il suo pensiero andò subito al conte di Ayveron – Mia madre era così disperata, quando ci avete lasciati, per giorni interi non ha fatto che piangere, inconsolabile, e ora... Davvero il cuore delle donne è così volubile, come diceva Amleto, o è forse la più grande eredità dell’amore quella di dare a chi resta la forza per continuare a vivere?
Harlock tacque, quasi stesse ascoltando la muta risposta del padre, lo sguardo ancora fisso in quello di lui. Trascorse così diversi minuti, completamente dimentico del tempo che passava, assorto in un colloquio interiore che non ammetteva intromissioni.
- Lo so che anche voi le volevate molto bene. - sorrise al pensiero di un ricordo lontano – Ogni volta che vi faceva arrabbiare la perdonavate sempre con un sorriso perché più di ogni altra cosa eravate felice quando lei lo era, quando vi volteggiava attorno con quella sua aria da ragazzina spensierata, proprio come fa ora con il conte di Ayveron. Forse anche adesso approvereste, purché lei sia felice. - sospirò, posando un braccio sulla mensola del caminetto e abbassando la testa, gli occhi fissi sul pavimento – Padre, e io che cosa devo fare?
Un giorno anche tu troverai la tua strada e non permetterai a nessuno di dirti che cosa devi fare.
Harlock sbarrò gli occhi, rialzando di scatto la testa: nessuno aveva parlato, ma quella risposta, così diretta, così vera, corrispondeva talmente bene allo stile di suo padre e gli era nata così all’improvviso nell’anima che gli sembrò di essere riuscito, per qualche strana ragione, ad entrare in contatto con quel genitore che tanto amava. Sorrise, senza sapere se di gioia o amarezza e raddrizzandosi salutò suo padre con il saluto militare.
- Tornerò ancora a trovarvi, padre, perché più che in ogni altro luogo è qui che il vostro spirito è ancora presente, su questa tela e in questi colori che di voi hanno saputo catturare l’essenza più profonda, con una maestria che io non potrò mai imitare.
Il colonnello rimase ancora alcuni istanti fermo davanti al dipinto, come se si stesse congedando, quindi si volse ed uscì dalla stanza, lasciando che gli ultimi raggi del sole al tramonto che lo avevano reso di nuovo vivo continuassero a danzare sul quadro del conte di Lorckshire come folletti di luce, finché questi non fu avvolto dal buio manto della notte, scivolando di nuovo in un oblio simile alla morte.

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Capitolo 4
*** A corte ***


Capitolo IV

A corte



Giovedì, come deciso, il colonnello Harlock di Lorckshire si recò a corte per salutare il sovrano. Da molto tempo non metteva piede in quei luoghi ma fin da quando la sua carrozza varcò i cancelli della reggia s’accorse che nulla era mutato: le regole antiche, l’etichetta e la consuetudine rendevano il palazzo reale immune al trascorrere del tempo. La fontana in marmo di Carrara raffigurante Eos, dea dell’Aurora, situata nella zona centrale del Piccolo Parco antistante la reggia, mandava ancora i suoi zampilli verso il cielo ed il carro della dea sembrava scivolare sulle acque trainato da impetuosi destrieri alati, eternamente bloccato in quell’attimo fremente e vitale. L’architetto Hodern l’aveva realizzata quasi settant’anni prima, durante i lavori di ampliamento e ammodernamento del palazzo promossi da re Maganhart VII, il nonno dell’attuale sovrano, ed era stata restaurata di recente, per restituire ad ogni sua parte lucentezza e splendore come nel primo giorno.

Harlock ricordava di aver giocato lungo i bordi di quella fontana quando, ancora bambino, era venuto per la prima volta a far visita al re, accompagnato dalla sorella di sua madre, la contessa Raflesia di Lesath. A quell’epoca il delfino, che aveva tre anni in meno di lui, godeva ancora di ottima salute e nulla lasciava presagire la malattia che l’avrebbe colto di lì a pochi anni e che nel giro di breve tempo l’avrebbe condotto alla morte.

- Adesso avrebbe ventidue anni e un giorno nelle sue mani sarebbe stato il destino di questo Paese. – pensò il colonnello, gli occhi smarriti nell’infinito luccicare dell’acqua nella fontana. – Quel mattino di tanti anni fa giocammo assieme come due bambini qualsiasi. Era intelligente e cordiale, sono certo che sarebbe stato un ottimo sovrano.

Harlock appoggiò la testa allo schienale del sedile e chiuse gli occhi mentre i ricordi di quel giorno tornavano a danzare vividi nella sua memoria. Era un pomeriggio di giugno e nel cielo senza nubi il sole splendeva con tutto il suo calore, ma accanto alla fontana dell’Aurora la temperatura era mitigata dai freschi spruzzi che uscivano dalle figure di marmo, levandosi in alti zampilli che scherzavano con i raggi del sole, creando sfavillanti arcobaleni. Il saluto al re era stato più lungo di quello che s’immaginava: si era dovuto sorbire una quantità inaspettata di domande su di lui, i suoi interessi, la sua salute, sotto lo sguardo compiaciuto di zia Raflesia che si era detta molto fiera di come si era comportato con il sovrano. E poi era arrivato lui a salvarlo: uno scricciolo biondo di appena sette anni, dal sorriso splendente come il sole di quel giorno e dagli occhi gentili e penetranti come se ne vedono di rado in bambini così piccoli. Quasi avesse letto con un solo sguardo quanto era diventato tedioso quel colloquio per Harlock, con poche parole aveva ottenuto il permesso dal re suo padre di uscire a giocare con lui ed anzi, il re era sembrato piuttosto felice di concederglielo, quasi non aspettasse altro che i due facessero amicizia. E così era stato: quelle poche ore trascorse assieme si erano quasi moltiplicate nei ricordi del colonnello, che a distanza di anni ricordava ogni minimo particolare di quello che avevano fatto. La fontana era stata solo l’ultima delle loro tappe attraverso il parco, prima che una cameriera di palazzo riuscisse a raggiungerli dicendo che la contessa di Lesath era in procinto di partire e che Harlock doveva andare subito da lei. Accanto al possente destriero alato che trainava il carro della dea avevano suggellato per sempre la loro amicizia. Harlock sospirò a quel pensiero e nella sua mente riecheggiò ancora una volta la voce argentina del Delfino, che rideva mentre camminava in equilibrio lungo il bordo della grande vasca. Harlock lo seguiva a pochi passi di distanza, pronto ad afferrarlo se fosse scivolato e nello stesso tempo sicuro che non sarebbe mai potuto accadere perché il principe avanzava agile e leggero, quasi ci fossero invisibili ali a reggerlo nella sua danza e i suoi piedi sfiorassero soltanto il cordolo di marmo senza poggiarvi.

- Al mio tre scendiamo di qui e andiamo di corsa alla Grotta di Persefone: forse riusciremo a lasciarci indietro il vecchio Archie. - il Delfino bisbigliò la sua strategia senza voltarsi, mentre il maggiordomo che li sorvegliava ansioso continuava ad avvicinarsi alla vasca, allungando le braccia verso il principe senza toccarlo, come se potesse sorreggerlo a distanza, ripetendo angosciato le sue inutili raccomandazioni.

- Come volete, principe Nikandros. - la risposta di Harlock era stata pronta e decisa, come si conviene davanti ad un ordine. L’Accademia Militare, che frequentava ormai da qualche anno, aveva infatti già plasmato alcuni aspetti del suo comportamento.

A quelle parole il principe si era voltato, volteggiando su se stesso con la leggerezza di un folletto, e aveva piantato i suoi occhi azzurri in quelli nocciola del suo compagno. Il suo volto era serio.

- Harlock, volete che siamo amici?

Harlock, che si era bloccato all’istante di fronte all’improvvisa virata del suo interlocutore, lo fissava interdetto.

- Certo, principe. - ancora una volta, la risposta era stata pronta ma anche sincera. Harlock sentiva infatti di essersi già affezionato a quel bambino dall’animo trasparente che giocava con lui come se si conoscessero da sempre.

- Dite la verità?

- Sì, principe. - Harlock fu addolorato che dubitasse della sua parola, ma non protestò.

- Allora non chiamatemi più “principe”.

Harlock non riusciva a capire cosa ci fosse all’improvviso che non andava negli appellativi che aveva usato fin lì: Raflesia si era impegnata molto perché lui imparasse correttamente tutti i modi in cui poteva rivolgersi al sovrano e agli altri membri della famiglia reale, del caso li avesse incontrati e lui era sicuro di aver memorizzato tutto correttamente.

- Come dovrei chiamarvi allora, altezza? - chiese, attendendo la risposta come si attende la rivelazione di un arcano.

- Semplicemente Nikandros, come io vi chiamo Harlock.

- Non credo sarebbe corretto: le persone hanno dei titoli a seconda del ruolo che ricoprono. Anche nell’esercito i superiori vengono chiamati “signore” oppure con il loro grado.

Il principe Nikandros sorrise con dolcezza e di nuovo il suo viso s’illuminò.

- Ma noi non siamo nell’esercito e voi avete appena detto di voler essere mio amico. - Harlock annuì e il principe concluse – E gli amici si chiamano per nome.

D’improvviso, fu come se quelle parole stracciassero un velo che l’educazione ricevuta a casa e in Accademia avevano tessuto davanti alla realtà delle cose. Harlock ammutolì senza riuscire a replicare, consapevole che quanto detto dal principe corrispondeva a verità. Fu così che i due bambini si strinsero la mano, come promessa di eterna amicizia, sopra le acque tumultuose della fontana, di fronte allo sguardo immortale della dea dell’Aurora.

Purtroppo non abbiamo potuto frequentarci assiduamente. Io ero all'Accademia, mentre lui non poteva sottrarsi all'istruzione che doveva ricevere in qualità di erede al trono. Ma ogni volta che c'incontravamo era una grande gioia: entrambi aspettavamo il giorno in cui avremmo potuto rivederci come si attende una festa e per me, che non ho mai avuto fratelli, era davvero come ritrovare una persona cara, un famigliare che vive lontano. Ma all’improvviso, tutto è stato cancellato...

Il colonnello sospirò, mentre un’ondata di dolore gli serrava la gola al sorgere di nuovi ricordi. Era la primavera di dodici anni prima: Harlock si trovava in Accademia e stava seguendo le lezioni di scherma con il maggiore Nightingale, quando un altro degli istruttori venne a chiamarlo. Gli disse che era venuta una carrozza a prenderlo e che data l’urgenza della questione il direttore gli concedeva il permesso di lasciare l’Accademia per due giorni. Harlock, che si aspettava di vedere suo padre o al massimo sua madre ad aspettarlo nel vestibolo, fu molto sorpreso di trovarvi invece sua zia Raflesia: il bel viso della contessa era talmente colmo d’apprensione che Harlock sulle prime temette fosse accaduto qualcosa di grave alla sua famiglia. Ma non fu meno doloroso scoprire la verità: il Delfino, che già da qualche tempo era ammalato, era peggiorato improvvisamente la sera precedente. Il modo in cui Raflesia insistette perché Harlock andasse subito dal principe, che aveva espressamente chiesto di vederlo, gli fece capire che le sue condizioni dovevano essere gravissime. Fu una corsa contro il tempo: Harlock rimase affacciato al finestrino per tutto il viaggio, come se in tal modo potesse costringere la strada ad accorciarsi e appena giunsero a corte, saltò giù dalla carrozza senza aspettare che fosse ferma, attraversando a perdifiato le stanze che conducevano agli appartamenti del Delfino. Si fermò solo di fronte all’anticamera, dove già c’era un via vai di medici e membri della famiglia reale. Attese solo pochi istanti prima di essere ammesso nella camera da letto del principe, assieme alla contessa di Lesath, che aveva attraversato con lui di corsa mezzo palazzo.

Ma il Delfino era in agonia. Il suo respiro era superficiale e a tratti si lamentava, implorando forse il Cielo di concedergli ancora un po’ d’aria. Appena li vide sulla soglia, re Waldemar fece loro cenno di avvicinarsi: il suo volto era una maschera di dolore ed Harlock comprese che, nonostante per tutto il viaggio avesse sperato e pregato che il principe potesse guarire, ormai non c’era più nulla da fare. Il re si fece da parte perché Harlock e il principe potessero restare soli alcuni istanti, mentre la regina dall’altro capo del letto non cessava di accarezzare i morbidi capelli biondi del figlio sparsi sul cuscino. Harlock si chinò accanto al volto del suo amico mormorando:

- Sono qui, sono arrivato. - gli prese una delle mani che teneva premute sul petto e la strinse fra le sue. - Nikandros... amico mio, sono qui.

Inaspettata, in un flebile sussurro simile alla brezza di quei giorni di primavera, venne la voce del Delfino:

- Lo sapevo... che sareste venuto... perché... non... mi avreste lasciato... partire... da solo... senza salutarmi... Noi siamo... amici.

Harlock annuì, mentre un velo di lacrime gli saliva agli occhi impedendogli di vedere distintamente il volto pallido del principe che lo fissava con i suoi occhi azzurri, resi ancora più splendenti dalla febbre.

- Resistete, vi prego. Come vuole il vostro nome che vi dice sempre vincitore, non lasciatevi sconfiggere dalla morte! Non ve ne andate! - Harlock lo implorò, stringendo più forte quella piccola mano smagrita.

Come se non l’avesse sentito, o forse perché ormai privo della forza per rispondere convenientemente a qualunque cosa, il principe disse, in un sussurro che si era fatto udibile solo da Harlock, chino accanto alle sue labbra:

- Sono rimasto... solo per voi... Vorrei dirvi... tante cose... Ma non c’è... più tempo. Promettete... che resterete come siete... per sempre... Harlock... per sem... pre...

Il Delfino spirò tra le braccia di Harlock e della regina sua madre, il cui pianto disperato riempì a lungo la stanza. Quando Harlock abbandonò gli appartamenti del Delfino si sentì svuotato come se se ne fosse appena andata una parte di se stesso. Si diresse verso le stanze occupate dalla sua famiglia assieme alla contessa Raflesia, che piangeva in silenzio come se non volesse mostrare quanto questo lutto era penoso anche per il suo cuore. Harlock invece non si curò neppure di asciugare le lacrime che gli rigavano il volto, poiché non gli interessava nascondere la gravità della perdita che aveva subito: era il primo vero dolore della sua vita. Ed era stato straziante.


Incapace di sopportare oltre il peso di quei ricordi, il colonnello riaprì gli occhi: la carrozza era quasi giunta di fronte alla scalinata di marmo che costituiva l’accesso alla reggia riservato ai nobili. Trasse un profondo respiro e si passò una mano sul volto, ricacciando indietro le lacrime: la vita gli aveva insegnato a non piangere persino nei momenti più bui eppure non aveva dimenticato che non bisogna mai vergognarsi delle lacrime versate per gli amici. Ma questo non era il momento opportuno per mostrare le tracce di un antico dolore e come se non bastasse, non voleva dare a nessuno l’occasione di guardare così a fondo nel suo cuore. E a distanza di tempo Harlock aveva capito che questo doveva essere stato il motivo che aveva spinto anche sua zia a nascondere in pubblico il suo dolore per la morte del Delfino.

Appena lo sportello della vettura fu aperto dal servitore, Harlock scese con un agile balzo, facendo svolazzare il mantello di panno leggero: il clima tardava a diventare invernale e non era ancora tempo d’indossare indumenti troppo pesanti.


Poco dopo, attraversati l’ingresso e il grande vestibolo dalle possenti colonne di marmo rosso, salì lo scalone d’onore, custodito dalle statue di Atena e Dike, poste ciascuna a lato di una delle rampe della scalinata a simboleggiare le virtù del sovrano, e giunse infine nella Galleria di Zeus. Qui un gran numero di nobili passeggiava, conversando sugli argomenti più disparati, alcuni seri e gravi, altri frivoli o faceti. Harlock avanzò silenzioso, lanciando ogni tanto fugaci occhiate alle persone che incrociava per capire se c’era qualcuno che conosceva e che, secondo il suo modo di vedere, meritava di essere salutato. Non era alterigia, semplicemente non gli piacevano le vuote cortesie di circostanza e credeva che le persone dovessero fare in modo di meritarsi rispetto e attenzione, che invece a corte molto spesso si finiva per tributare a qualcuno solo in considerazione del casato di appartenenza.

Benché Harlock tirasse diritto per la sua strada, alla maggior parte dei nobili presenti non sfuggì quell’alta e ombrosa figura che aveva varcato la soglia con piglio insieme tranquillo e deciso.

- Guardate, contessa de Lussac, non è forse il colonnello Harlock di Lorckshire quel giovane che sta attraversando il salone in questo momento? – bisbigliò una nobildonna vestita di lilla e pervinca all’orecchio di un’altra, che ancora non s’era voltata.

- Ma sì, avete ragione. Non sapevo che fosse tornato. - esclamò quest’ultima appena lo scorse.

- Oh, mia cara, conoscete il conte di Lorckshire: preferisce che nessuno sappia mai quello che fa. – le rispose la sua amica con aria saccente, arieggiandosi il viso con il ventaglio.

- Sì, è vero, ma non perderò certo l’occasione per andare a salutarlo. – Antoinette de Lussac, s’incamminò a passi rapidi verso il colonnello, che le aveva ormai oltrepassate, arrivandogli alle spalle.

- Buongiorno, colonnello: mi fa molto piacere rivedervi, state bene? – gli disse appena gli fu abbastanza vicina. La sua voce era stucchevole come marmellata troppo zuccherata.

Harlock si voltò, squadrandola da capo a piedi con il suo sguardo freddo e penetrante. Un brivido di disagio percorse le spalle nude e la schiena della contessa de Lussac, e il sorriso adulatore che si era stampata in faccia le tremò sulle labbra, facendole raggrinzire gli angoli della bocca in una serie di piccole rughe. Antoinette era una donna ancora giovane, attorno ai trentacinque, di modesta bellezza ma assai esperta nell’arte di truccare il volto e agghindare il corpo, capacità che le permetteva di conferire alla sua persona un certo fascino. Aveva capelli d’un castano molto chiaro acconciati in modo piuttosto sofisticato, ricchi di riccioli e boccoli che ricadevano sulle spalle e s’insinuavano tra i seni turgidi e bene in vista. Di carnagione chiara, usava incipriarsi abbondantemente per aumentarne ulteriormente il pallore ed amava indossare corsetti molto stretti, per rendere i suoi fianchi estremamente sottili. Ma la sua voce era sgradevole agli orecchi del colonnello come la nota acuta di un violino scordato.

La calda voce di Harlock, in netto contrasto con il suo sguardo che restava impenetrabile, rimise appena in tempo la contessa de Lussac a suo agio.

- Sto bene, grazie, e voi? – le disse, fissando i suoi occhi in quelli della donna.

- Anch’io sto bene... sì... - Antoinette si schiarì la voce, mentre riprendeva il pieno controllo delle sue emozioni. - Siete... siete appena tornato dal fronte, vero? E’ la prima volta che vi vedo a corte dallo scoppio della guerra.

- Non sbagliate.

Sempre molto laconico. Vediamo se riesco a cavargli qualche altra parola di bocca.

Intanto, anche l’altra donna aveva raggiunto la contessa de Lussac e sembrava tutta intenzionata a proseguire la conversazione, mentre il colonnello, al contrario, era già pronto a riprendere la sua strada.

- Oh, immagino che non avrete voglia di parlare ancora di scontri e battaglie, ma chissà quanto sarete curioso di conoscere le ultime novità di palazzo! - e mentre la contessa in lilla annuiva con decisione all’affermazione di Antoinette il colonnello stava per risponderle che aveva ben altro da fare in quella mattinata che non starsene lì ad ascoltare gli ultimi pettegolezzi di corte. Ma Antoinette non gli lasciò il tempo d’intervenire e proseguì imperterrita, come un fiume in piena. L’obbiettivo di tutto il suo conversare era infatti uno solo. E così, dopo avergli elencato rapidamente le ultime dicerie su una gravidanza sospetta, un matrimonio riparatore e le supposizioni a riguardo di una tresca ignominiosa, toccò finalmente l’argomento che tanto le interessava.

- Santo cielo, colonnello, ma se siete all’oscuro di fatti del genere significa che non sapete neppure del matrimonio della mia Nanette Dorothée! - lo stupore talmente enfatizzato della contessa de Lussac permise ad Harlock di capire che, fin dall’inizio, era stato quello l’unico scopo di tutto il suo blaterare. - Dovreste vedere come si è fatta bella! Voi l’avete conosciuta poco prima dello scoppio della guerra, alla festa di Carnevale: aveva appena fatto il suo debutto in società. Adesso ha sedici anni ed è entrata a corte come marchesa de Gabher. Conoscete Pancrazio de Gabher, non è vero?

- Sposata? - Harlock era spiazzato da quella rivelazione: ricordava Nanette e la sera in cui le era stata presentata dalla madre, forse con la speranza che fosse proprio lui a sposarla, unico erede di un illustre casato e di un patrimonio tutt’altro che disprezzabile. Ai suoi occhi era poco più di una bambina e il suo volto rotondo e sorridente esprimeva tutta l’innocenza dei suoi dodici anni.

Antoinette non parve notare lo sconcerto del colonnello e proseguì come se nulla fosse.

- Il marchese de Gabher è talmente preso da lei che io credo non esista al mondo un uomo più innamorato! Quando si è fatto avanti non ho avuto alcun dubbio che si trattasse di un ottimo matrimonio: non capita tutti i giorni che vi sia anche l’amore in un’unione e in questo mia figlia è stata molto fortunata.

- Ma il marchese de Gabher è un uomo maturo... avrà quarant’anni, ormai. - il volto di Harlock divenne improvvisamente severo, ma di nuovo Antoinette finse di non accorgersene.

- E quale uomo migliore per una fanciulla che non sa ancora nulla del mondo e ha bisogno di qualcuno che la protegga e la guidi?

L’amica della contessa de Lussac intervenne con svariate espressioni di assenso, complimentandosi con lei per la scelta assolutamente opportuna che aveva saputo compiere. Harlock ne fu nauseato e stava per congedarsi con una delle educate formule che gli erano state insegnate da ragazzo quando un’altra persona si accostò al gruppetto.

- Colonnello Harlock di Lorckshire, vero? Finalmente vi si vede di nuovo tra i vivi! - Harlock si volse verso l’uomo in uniforme, la cui voce stentorea aveva sovrastato senza sforzo il chiacchiericcio delle due donne.

- Generale di brigata Guerin, che piacere rivedervi! Come state? - i due ufficiali si strinsero calorosamente la mano. Il generale era un uomo di media statura e di corporatura robusta ma non grasso e il viso, cordiale e severo ad un tempo, parlava chiaramente dell’uomo di guerra, capace di farsi ubbidire ed amare dai propri soldati.

- Molto bene, grazie, colonnello. Anche voi mi sembrate in forma per essere appena tornato dal fronte nord. Ho sentito a lungo parlare della durezza delle battaglie che si sono combattute laggiù, soprattutto degli ultimi scontri. Il generale Heinrich, che era a capo anche della vostra divisione, mi ha raccontato molti dettagli che... beh, forse è meglio tralasciare in presenza di queste gentili signore.

- Purtroppo molti, troppi soldati hanno perso la vita in quelle terre. - il volto di Harlock si rabbuiò al ricordo della neve tinta dal sangue dei suoi compagni, mentre il generale Guerin annuiva mestamente. Nonostante il dolore dei ricordi la conversazione proseguì ancora su argomenti militari: entrambi gli ufficiali chiesero e ricevettero notizie su persone che non vedevano da tempo e che sotto varie forme avevano preso parte alla guerra, commentarono l’esito di alcune battaglie e la scelta di una determinata strategia piuttosto che di un’altra. Antoinette e la sua amica intervennero tutte le volte che poterono, soprattutto con espressioni di contrizione, con l’unico scopo di rammentare ai due uomini la loro presenza.

Piano piano, altra gente iniziò ad avvicinarsi per poter salutare il conte di Lorckshire e felicitarsi per il suo ritorno. Godeva infatti di grande reputazione a corte e il suo nome era ormai indissolubilmente legato alle eroiche imprese compiute sui campi di battaglia. Molte delle famiglie nobili più in vista desideravano ardentemente che una delle loro figlie andasse in sposa al giovane colonnello, unico discendente di un antico casato le cui ricchezze, si diceva, non avevano subito alcun dissesto. Ma Harlock non amava gli adulatori e per abitudine sfuggiva ogni genere di complimento, anche quando era sincero. Così, dopo aver scambiato poche chiacchiere con una o due persone che gradiva rivedere, salutò con parole di circostanza altra gente che gli si era accalcata attorno, cogliendo appena poté il momento opportuno per defilarsi in silenzio, come un guerriero che nella notte attraversa il campo nemico. Quando notarono la sua assenza e qualcuno lo cercò per rivolgergli una parola, era già fuori dal salone.

- Finalmente, cominciava a mancarmi il respiro. – rise tra sé, mentre s’allontanava a grandi falcate attraverso altre stanze, dirigendosi verso gli appartamenti reali per chiedere udienza. Sapeva che generalmente la trafila per essere ricevuti dal re era piuttosto lunga.

Dopo aver attraversato un gran numero di stanze, si fermò lungo un corridoio per guardare fuori da una delle finestre che dava sul giardino: folate di foglie gialle cadevano dagli alberi e riempivano i viali di riflessi arancio e dorati o si dondolavano tristemente, sospese sull’acqua di qualche fontana di uno spento turchese.

- L’autunno… Avrei preferito tornare a casa in una stagione più bella, invece di essere costretto a trascorrere così tante primavere in mezzo ai cannoni e al sangue dei caduti. Benché questo tempo sia ancora tanto mite, fra poco arriveranno i venti freddi dal nord e cadrà la prima neve.

Mentre era immerso in queste considerazioni, gli si accostò un giovane, vestito con abiti eleganti ma dal portamento piuttosto marziale.

- Buongiorno, colonnello. Non salutate più i vecchi amici? – disse sorridendo. Subito Harlock si voltò.

- Frederick! – esclamò, avvicinandoglisi con un gran sorriso.

Il maggiore Frederick di Narwall aveva ventotto anni. Di figura alta e snella e fisico prestante, aveva sguardo insieme scaltro e leale, capelli color mogano e occhi sfavillanti, verdi come un mare tempestoso. Si trattava di un amico di vecchia data del conte di Lorckshire: erano stati compagni all’Accademia Militare e per lunghi mesi durante la guerra avevano combattuto assieme, prima che gli eventi bellici e la morte di alcuni alti ufficiali li spingessero su fronti lontani, a capo di interi reggimenti.

- Sono molto felice di rivedervi. - proseguì il colonnello, abbracciando con forza il suo amico. - Come state? So che siete stato ferito, durante la battaglia di Hessex.

- Adesso sto molto meglio, ma effettivamente me la sono vista brutta. - spiegò il conte. - Il medico che era con noi mi dava per spacciato, ma fortunatamente, nella cittadina di Overden, poco lontana dal campo di battaglia, c’era un ottimo chirurgo: credo non sia esagerato dire che ha fatto un miracolo! – rise, portandosi la mano al fianco sinistro. Harlock osservò quel gesto e divenne pensieroso. – E così per me la guerra è finita quasi dieci mesi prima degli altri, anche se non fa piacere ad un vero soldato essere costretto ad abbandonare il campo di battaglia senza potervi più rimettere piede e soprattutto senza poter più essere di alcun aiuto.

- Vi capisco, ma credo non ci fosse altra scelta, per voi. – commentò Harlock, posandogli una mano sulla spalla.

- Ma adesso siamo di nuovo qui, tra il lusso e gli sfarzi di questa grande reggia, e non è più tempo di pensare alla guerra e alle vecchie ferite: è ora di divertirsi, spensieratamente! E anche voi dovreste fare lo stesso. – esclamò Frederick con voce stentorea, attirando gli sguardi di alcuni valletti. Con un ampio, radioso sorriso, afferrò Harlock saldamente per le spalle.

- Sapete bene che non mi piacciono certi generi di divertimenti.

- Sì, lo sanno tutti che siete una persona ombrosa e un po’ misantropa, che disprezza la corte e coloro che la frequentano e che preferisce di gran lunga la compagnia dei cavalli o dei pennelli! – Harlock fissò Frederick perplesso, chiedendosi se davvero la gente avesse quest’opinione di lui – Ma adesso è arrivato anche per voi il tempo di dedicarvi ad oziosi piaceri e d’imparare a conversare amabilmente con dolci dame incipriate.

- State scherzando? – la voce di Harlock vibrò di ribrezzo.

- Nient’affatto! Seguitemi, vi condurrò lungo i sentieri della perdizione! - replicò Frederick, sforzandosi di restare serio.

- Veramente... io dovevo andare dal re. - protestò il colonnello, mentre Frederick, afferratolo per un braccio, lo conduceva con sé verso uno dei saloni più interni, arredati appositamente con poltrone e divani per favorire “l’amabile conversazione”.

- Avete ancora tempo: il re non riceverà nessuno prima delle undici. – gli disse.

Ben presto Harlock non oppose più alcuna resistenza e così il conte di Narwall smise di trascinarlo e iniziò a camminare al suo fianco per scambiare qualche parola. In verità al conte di Lorckshire l’idea di rimandare ancora un po’ l’incontro ufficiale con il sovrano non dispiaceva affatto.

Poco dopo entrarono nel Salone di Psiche, affrescato circa centocinquant’anni prima da Lewis Erhard, artista di corte di grande talento, ormai circondato da una fama leggendaria.

- Spero non abbiate davvero intenzione di mettere a frutto il vostro malaugurato progetto, Frederick. – disse Harlock, una volta giunti quasi al centro della stanza. – Non ho nessuna intenzione di mettermi a chiacchierare con qualche donna di dubbia intelligenza che pensa solo a sbattere le ciglia più del necessario.

- Voi pretendete troppo dalle donne: non vi basta che siano belle? – lo canzonò il giovane ufficiale, sempre sorridendo.

- Ci sono molte donne che sono acculturate, oltre che belle. Purtroppo però è difficile trovarle in questi luoghi. – spiegò, guardandosi intorno. Fu così che vide, piuttosto in fondo alla stanza, un gruppo di giovani che discuteva, con fervore e gioia insieme, di qualche argomento che doveva essere di estremo interesse. Al centro di essi, seduta su di un divano a due posti, c’era una giovane donna vestita da uomo: portava sciolti sulle spalle i lunghi capelli corvini e nel volto magro dall’ovale perfetto splendevano, come stelle gelide, occhi d’un intenso azzurro cobalto, sottolineati da sopracciglia finissime. Le labbra vermiglie e sottili risaltavano sul pallore dell’incarnato, illuminate da due file di denti bianchi, che brillavano in un largo sorriso venato di amarezza.

Per diversi istanti Frederick osservò con un sorrisetto malizioso il colonnello, che non accennava a distogliere lo sguardo da quei giovani e quando infine gli domandò se non riconosceva la persona seduta al centro del gruppo e sulla quale con tanta insistenza si era fermato il suo sguardo, era certo di conoscere già la risposta.

- Non ne ho idea. Voi la conoscete?

A Frederick sfuggì una lieve risata.

- Certo che lo conosco. Ed è anche una delle vostre conoscenze, per quanto forse sia passato molto tempo dall’ultima volta che vi siete visti.

Harlock inarcò un sopracciglio e il suo sguardo divenne improvvisamente penetrante, come quello di un falco.

Conosco quello sguardo, colonnello. Vi si dipinge in faccia tutte le volte che siete contrariato perché qualcosa vi sfugge. E’ decisamente uno dei vostri sguardi migliori.

- Si tratta del duca Lemort di Larckstein... ve ne ricordate?

- Il duca di Larckstein? – esclamò Harlock, stupefatto. – Io… l’avevo scambiato per una donna in abiti maschili.

- Non siete il primo che commette un simile errore. – rise Frederick, guardando il rossore imbarazzato che rapidamente scompariva dalle guance di Harlock. – E’ molto cambiato, in questi quattro anni.

- Già… quattro lunghi anni.

Forse evocato dal pensiero del fulmineo trascorrere del tempo, nella mente di Harlock riemerse, vivido, il ricordo di un giorno di primavera di otto anni prima, in cui lui e il duca di Larckstein, all’epoca quindicenne, si erano incontrati durante una cavalcata. Spinto dall’ebrezza della corsa sulla groppa del veloce Tenebra, Harlock era giunto fino ai possedimenti del conte di Norberg, presso il quale il duca allora risiedeva. All’epoca Lemort non portava ancora i capelli così lunghi, che arrivavano soltanto ad accarezzargli le spalle, e il suo viso aveva un’espressione diversa, più candida, anche se triste. L’intensità e la sorpresa di quell’incontro erano rimasti incisi per sempre nel cuore di Harlock.

- A cosa state pensando? – la voce di Frederick lo riportò bruscamente nel presente.

- A nulla. - Harlock scosse il capo, fingendo indifferenza, mentre i sentimenti risvegliati da quella visione lontana faticavano a ritrovare il loro posto nel suo cuore.

- Volete che ve lo presenti? Dopo tutto questo tempo sarà come se non lo conosceste più. - chiese Frederick, con aria allegra, benché non credesse alla risposta di Harlock.

- D’accordo.

I due ufficiali si diressero verso quel gruppo che conversava tanto spensieratamente, incurante delle risate troppo forti che uscivano dalle loro labbra e degli sguardi di disapprovazione dei nobili attorno a loro.

Quando furono a pochi passi di distanza, il conte di Narwall li salutò con la sua voce chiara e allegra e subito i giovani lo invitarono ad unirsi a loro, chi additandogli un posto vuoto, chi offrendogli il bracciolo della sua poltrona o le proprie gambe come sedile.

- Mi unisco a voi molto volentieri, ma prima vorrei presentarvi il colonnello Harlock di Lorckshire che, come ormai tutti sanno, è appena tornato dai campi di battaglia. - Fredercik allungò un braccio in direzione di Harlock, che si era fermato a un passo di distanza dietro di lui.

- Siamo molto lieti di fare la vostra conoscenza, colonnello! Io sono il conte Irwing di Zoder e vi do il benvenuto a corte, nel nostro personale salotto. – disse, parlando a nome di tutti. - Ossia nel posto dove amiamo passare alcuni dei nostri pomeriggi, solo per non privare questa vetusta nobiltà della nostra gaia presenza.

A quelle parole gli altri risero in segno di approvazione. Lemort si limitò a sorridere, senza staccare gli occhi di dosso ad Harlock.

- Questo è Myura, conte di Hessex, il nostro più giovane affiliato. – proseguì Irwing, ridendo di nuovo, mentre i capelli biondi, chiarissimi e lisci come seta, traevano argentei bagliori dalla luce del sole spiovente dalle vetrate.

Myura tese la piccola mano ad Harlock, sorridendogli graziosamente come una statuina di porcellana.

- Molto piacere, colonnello… - disse con voce argentina. Aveva un viso ancora fanciullesco, labbra rosse e carnose e guance rosate, soffici capelli color miele, che s’avvolgevano in riccioli sinuosi sulle spalle.

Harlock ne rimase colpito e il suo stupore dovette trasparire dall’espressione con cui fissò il conte di Hessex, perché gli altri giovani si scambiarono occhiate eloquenti e risatine sommesse.

- E questi sono Hadrian Maximilian conte di Raiden, nonché mio cugino, e il conte Aeneas di Avendish, suo amico oltre che nostro ospite qui a corte. – riprese Irwing, gli occhi azzurri chiarissimi che si posavano prima su uno e poi sull’altro dei giovani appena nominati, mentre quelli di Harlock facevano altrettanto.

Maximilian ed Aeneas erano seduti vicini, su due poltrone accostate e, prima che il saluto di Frederick li interrompesse, stavano parlando fitto fitto tra loro. Aeneas aveva capelli color mogano, mentre quelli di Maximilian, che tra i due doveva essere anche il più giovane, erano castano chiaro. Il suo volto, liscio e quasi senza il segno della barba, possedeva lineamenti più delicati, mentre quello di Aeneas era più squadrato e la linea della mascella ampia e virile. Entrambi avevano l’aria di essere molto interessati all’inaspettato arrivo del colonnello.

- E per finire, questi è Lemort di Larckstein, figlio del duca Richard di Larckstein e nostro insostituibile signore e padrone.

Di nuovo nel gruppo echeggiarono alte risate, mentre Lemort, sorridendo compiaciuto, rivolgeva al colonnello uno sguardo penetrante, simile a un lupo che scruta attraverso le tenebre con occhi di cielo vespertino.

- Bentornato a casa, colonnello: siamo felici di avervi qui tra noi, oggi. Venite, sedetevi, c’è ancora posto. – lo invitò, facendogli spazio vicino a lui. Frederick si accomodò su di una poltrona, iniziando subito a conversare con Irwing ed Aeneas, dimostrandosi perfettamente a suo agio in mezzo a loro, come se li conoscesse da molto tempo.

Harlock notò che erano tutti giovani di bella presenza e di aspetto molto curato. La maggior parte portava i capelli più lunghi di quello che solitamente usano fare gli uomini e c’era chi, come Myura e Maximilian, aveva labbra d’un rosso voluttuoso e intenso, simili a fiori di melograno. Irwing era alto ed esile, Aeneas aitante e virile e Myura piccolo e grazioso come un giocattolo. Ma l’unico a possedere una bellezza misteriosa, persino inquietante, era Lemort. Harlock rimase a fissarlo, mentre tutti attorno a lui iniziavano a conversare gaiamente, con un inspiegabile sentimento di angoscia che lentamente gli prendeva lo stomaco.

Ha qualcosa di oscuro e di triste, come il profumo di un fiore che sboccia di notte.

- Da quanti giorni siete di nuovo a casa, colonnello? – la voce di Lemort spezzò il corso dei suoi pensieri, riportandolo al presente.

- Da meno di una settimana.

- So che il vostro reggimento ha combattuto fino all’ultimo, sul fronte nord e si dice che sia stata la regione dove gli scontri sono stati più aspri e sanguinosi.

Harlock annuì semplicemente: dopo aver già parlato di quelle battaglie con il generale Guerin e con Frederick, non aveva più voglia di tornare sull’argomento.

- Credo che tutti noi, ora che la guerra si è conclusa e siamo finalmente lontani dai campi di battaglia, non desideriamo più ripensare a un passato tanto recente da fare ancora male. Almeno, per ciò che mi riguarda, questa ferita duole ancora... – aggiunse Frederick, portandosi una mano al fianco - E anche quelle dello spirito sono tutt’ora aperte. Probabilmente anche il conte di Lorckshire preferisce non parlare più di certi argomenti e pensare un po’ a divertirsi.

- Ma non vanno nemmeno dimenticati il sacrificio e il coraggio di coloro che hanno combattuto o sono morti, obbedendo fedelmente agli ordini del Re. – replicò Lemort. Il suo sguardo era insieme dolce e penetrante, come profumo di calicanto.

- Non ho molta fretta d’iniziare a spassarmela, mio caro Frederick. – intervenne Harlock. – Ho intenzione di riposarmi, questo sì. Ma dopo tutto ciò che ho visto e fatto, l’idea di tuffarmi negli spassi della corte m’infastidisce soltanto.

- Non siete mai stato un uomo amante delle feste e della vita mondana in genere… ma vedrete che vi faremo cambiare idea! – esclamò Frederick, strizzando l’occhio in direzione di Aeneas, che rise e rispose:

- Potete starne certo! Lo condurremo con noi, sulla strada del godimento sfrenato.

Anche gli altri risero, chi più forte, lasciando che una risata squillante vibrasse nella sala, chi più sommessamente, come il conte Myura, il quale si coprì la bocca con un gesto molto elegante della mano.

Non so se preoccuparmi o prenderla come una battuta scherzosa.

Harlock guardò quei giovani uno a uno mentre un lieve sorriso gli increspava le labbra.

- Allora dobbiamo cominciare presto, prima che il conte si ritiri di nuovo nel suo romitaggio... - decretò Lemort. Il suo sorriso bianchissimo era un raggio di sole smarrito nella tempesta. – Che ne dite di unirvi a noi per una serata a teatro, colonnello?

- A teatro? – chiese.

- Sì: la prossima settimana pensavamo di andare a vedere la prima rappresentazione della nuova commedia di Karl Osembergh, che è appena stata tradotta. Non penso vi dispiacerà approfondire la vostra cultura, dopo tutti questi anni in cui l’avete lasciata in completo abbandono.

- Oh, sì, che magnifica idea! Colonnello, siate gentile: venite con noi! Vedrete che vi divertirete molto. – esclamò Myura, stringendo con la sua piccola mano il braccio di Harlock.

Immediatamente, avvertì sotto le dita la forza e il vigore di quei muscoli, abituati ad imbracciare il fucile, tesi e sodi persino in una posizione di riposo. Quel contatto fece arrossire il conte di Hessex, che abbassò il viso nel tentativo di nascondere il suo turbamento, come una fanciulla timida. In questo modo nessuno notò la sua emozione, ma niente poté distoglierlo dal pensare alla dura vita militare che il colonnello aveva condotto fino a quel momento, al suo corpo abituato alla fatica, alla lotta, al sangue. Myura chiuse gli occhi con forza per impedire alla sua immaginazione di galoppare oltre.

- E ci divertiremo anche noi. – non lo raggiunse neppure il sussurro di Aeneas, che lanciava uno sguardo d’intesa ad Irwing, seduto accanto a lui.

Harlock rimase alcuni istanti a riflettere in silenzio prima di rispondere.

- Dopotutto, perché no? Il teatro può essere molto interessante, purché vi si rappresentino opere di qualità.

Mentre Myura esultava per la decisione del colonnello e gli altri si scambiavano qualche commento unitamente a maliziose occhiate, Harlock si disse che era davvero curioso di approfondire la conoscenza di questa strana compagnia: c’era qualcosa in loro che lo attraeva e al contempo lo turbava ed era deciso a scoprire di che si trattava.

Harlock si trattenne più a lungo del previsto assieme a quell’allegra combriccola, che rideva per ogni futile motivo e parlava liberamente di ogni cosa, senza troppe formalità e senza alcun rispetto per l’etichetta di corte, che imponeva un certo contegno almeno nei pubblici saloni. Harlock si stupì di trovarsi così bene in loro compagnia. Dopotutto, non era mia stato un tipo da frivoli passatempi ed inoltre era abituato alla rigida disciplina dell’Accademia militare: tutta quell’allegra confusione avrebbe dovuto disturbarlo e invece scopriva, con sommo stupore, che sembrava fatta apposta per lui.

Quando si accomiatarono dagli altri, Frederick insistette per accompagnarlo fino agli appartamenti reali e volle assicurarsi che avesse davvero deciso di andare a teatro con loro, il prossimo venerdì.

- Vi ho detto che verrò, Frederick. Ho forse mai mancato di parola? - chiese il colonnello, stizzito, non risparmiando al maggiore uno sguardo di rimprovero che solo l’ora trascorsa in piacevole compagnia riuscì ad attenuare.

- Era solo per esserne sicuri... - rise Frederick, levando le mani davanti al petto in segno di resa di fronte a un guerriero bellicoso. - Allora, a venerdì.

Harlock sospirò e la sua espressione si addolcì ma non rispose. Frederick si allontanò salutando il suo amico con un cenno della mano, il consueto sorriso allegro ancora stampato in faccia.

- Non riesco a capire il perché di tutta questa insistenza. – si disse Harlock, mentre il suo amico s’allontanava. – Che abbia davvero paura che finisca per rinchiudermi a marcire tra quattro mura, o c’è dell’altro?

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Capitolo 5
*** L'udienza ***


L’udienza



Diversamente da quanto accadeva di solito per gli altri nobili che chiedevano udienza, il re non fece attendere a lungo il conte di Lorckshire e lo ricevette molto cordialmente nel suo studio, dimostrandosi particolarmente felice che fosse tornato tutto intero dalla guerra.

- Venite, colonnello, accomodatevi. - gli disse dopo che Harlock lo ebbe salutato con un breve inchino. Detestava l’idea di doversi inginocchiare davanti a qualcuno e quando poteva preferiva evitare di farlo perfino di fronte al re.

Il sovrano gli indicò una sedia davanti al camino acceso, che riscaldava debolmente la grande stanza rivestita di marmo. Il colonnello aspettò che il re prendesse posto prima di sedersi.

- So che in questi anni vi siete distinto per il vostro coraggio e avete dato prova di grandi doti di stratega. E mi è anche giunta voce che avete più volte rischiato la vita combattendo in prima linea. Un curriculum da autentico eroe di guerra, non c’è che dire. – riprese il sovrano.

- Vostra maestà è troppo gentile. - rispose Harlock, chinando appena il capo in un gesto che poteva facilmente essere interpretato come deferenza ma che aveva l’unico scopo di nascondere il suo imbarazzo.

Re Waldemar sorrise impercettibilmente, interpretando il gesto di Harlock per quello che realmente significava. Il sovrano era un uomo affascinante e decisamente prestante, più simile ai re guerrieri delle antiche leggende che ai molti sovrani ingobbiti, rachitici o minati dalla gota dell’epoca moderna. Aveva poco più di quarant’anni ed era alto quasi quanto Harlock che, con il suo metro e novantatré, non aveva mai trovato nessuno che gli stesse alla pari, eccetto il duca di Larckstein, da quello che aveva capito quella mattina.

Il suo volto dai lineamenti decisi, come scolpiti, era illuminato da fieri occhi castani. Il naso importante, ma non aquilino, dava risalto al viso dal colorito leggermente olivastro, che gli conferiva un’aria sana anche durante i lunghi mesi poveri di sole. Le labbra sottili erano incorniciate da un mento forte e dall’ampia ossatura della mascella, che sottolineavano la virilità del volto senza appesantirlo, mentre i capelli color mogano erano tirati all’indietro, in modo da lasciare libera l’ampia fronte spaziosa.

- Non siate modesto, colonnello, sapete bene che quello che dico è vero. - commentò il re. - Prima di voi a corte sono giunti i vostri dettagliati rapporti e, ancora prima e molto più interessanti, le testimonianze dei vostri superiori e poi quelle degli altri ufficiali, quando siete stato promosso sul campo al grado di colonnello.

Il re fece una pausa, allungando una mano verso il tavolino. Prese un ricciolo d’uva dalla fruttiera e lo contemplò un istante contro il riverbero del fuoco, prima di proseguire.

- E’ senz’altro quella che si dice una brillante carriera e immagino che siate orgoglioso di come vi siete comportato fin qui. Del resto, non vedo alcun motivo per cui non dobbiate esserlo.

Harlock taceva, attendendo che il re finisse il suo discorso. Gli riusciva difficile immaginare dove volesse andare a parare.

- Tuttavia... vorrei chiedervi di non rischiare inutilmente la vostra vita, la prossima volta: preferirei non sfoltire troppo in fretta il numero dei miei migliori ufficiali. Siete d’accordo con me, non è vero? - concluse, piantando i suoi occhi in quelli di Harlock, che rosseggiavano dei riflessi del fuoco.

- Ho fatto solo ciò che era necessario, nulla di più e nulla che si potesse evitare.

- Ne siete convinto?

Harlock annuì con fermezza.

- Io no. - il re spiccò un acino d’uva dal grappolo, rigirandolo distrattamente fra pollice e indice - Credo invece che il vostro innato sprezzo del pericolo vi abbia fatto correre in più di un’occasione rischi assolutamente non necessari.

- Sono un soldato prima che un ufficiale, maestà ed è mio dovere essere accanto ai miei uomini, anche se questo significa stare in prima linea. Non posso guidare un esercito restando nelle retrovie. Sono certo che capite.

Il re tacque. Addentò l’acino e lo masticò con calma, continuando a fissare il fuoco. Anche Harlock volse lo sguardo alla fiamma che ardeva placidamente nel camino e attese.

- Mi aspettavo una simile risposta da voi. E questo dimostra ancora una volta che quello che dico è vero. - il re tornò a guardare il colonnello e gli sorrise con una strana luce d’orgoglio negli occhi scuri - Siete uno dei miei migliori ufficiali.

- Vi ringrazio, maestà. - rispose Harlock, senza sapere che altro aggiungere.

- Non ringraziatemi. Non è merito mio se lo siete. - il re alzò la destra a zittire il colonnello. - Vostro padre era un uomo valoroso, capace di gesti di grande eroismo e voi gli assomigliate. Siete cresciuto ad un’ottima scuola.

Il re tornò a fissare il fuoco, improvvisamente pensieroso.

- Mio padre sarebbe felice delle vostre parole, altezza.

- Conosceva la considerazione di cui godeva presso il suo sovrano, una considerazione dettata anche dalla fedeltà che lui e la sua famiglia hanno sempre dimostrato verso la corona. Ed è un bene che voi siate il suo erede nel campo militare oltre che nella successione dinastica. Sono certo che, se continuerete di questo passo, diventerete generale prima di vostro padre. – concluse re Waldemar con un improvviso sogghigno.

- Forse, se a breve vostra maestà pensa che ci sarà un’altra guerra. - rispose Harlock con il tono più cortese di cui era capace, senza tuttavia risparmiare una stoccata al sovrano, la cui fama non si fondava certo sul fatto di essere un grande paciere.

- Molto appropriata la vostra risposta, colonnello, perché qualsiasi cosa possano pensare gli storici al riguardo, sono esclusivamente i sovrani che fanno le guerre. Potremmo chiamarlo un diritto inalienabile che i re e le regine usano per il bene del paese e nel nome di Dio.

Una scintilla brillò negli occhi del colonnello, che serrò i denti per impedirsi di replicare. Il re se ne avvide, ma proseguì facendo finta di niente.

- E così torniamo al punto di partenza del nostro discorso: alla necessità di avere ufficiali valorosi e fedeli che guidino il grosso dell’esercito. Vostro padre morì in battaglia quando aveva più o meno la mia età...

- Aveva quarant’anni esatti. - precisò Harlock.

Il re annuì.

- E fu una perdita importante per le mie forze armate. Perciò cercate di non seguire il suo esempio, in questo genere di cose.

- Vostra maestà dimentica che raggiungerò l’età di mio padre soltanto fra quindici anni. - Harlock sorrise a quella che nelle sue intenzioni era una semplice battuta, ma il re non dimostrò di averla presa allo stesso modo.

- Per l’appunto, Harlock! Cercate di ricordarvene anche quando sarete fuori da questa stanza.

Il colonnello rimase spiazzato dall’atteggiamento del re e il suo volto si rabbuiò improvvisamente.

- Vostra maestà chiede a tutti gli ufficiali di servirlo fedelmente standosene lontani dal pericolo?

- Sua maestà tiene in considerazione alcuni ufficiali più di altri. - replicò il re con fermezza, inarcando le sopracciglia. Per un breve istante, le espressioni dei due uomini furono lo specchio l’una dell’altra. Poi improvvisamente, come una nube estiva trascorre davanti al sole, il volto del sovrano si rasserenò e le sue labbra s’incresparono in un ironico sorriso. - Questa discorso si sta facendo tedioso e io non vi ho ancora chiesto ciò che volevo sentire dalla vostra viva voce: raccontatemi della battaglia di Nazdat, colonnello, mi sono giunte molte voci al riguardo, ora vorrei conoscere come si sono svolti realmente i fatti.

- Perché volete che vi racconti di quella battaglia? Risale a più di due anni fa e...

- E fu quando perse la vita il colonnello Jerald e voi foste nominato suo successore per il modo in cui vi distingueste in battaglia, guidando le truppe al suo posto. Sì, avete indovinato, è per questo che voglio sentirvela raccontare. Voglio che mi parliate della vostra impresa, di come guidaste i soldati alla vittoria, guadagnando al contempo terreno sull’esercito nemico.

Harlock rimase in silenzio, gli occhi fissi in quelli del re, il cui sguardo in quel momento ricordava quello di un’aquila che scruta la preda.

- Come desiderate, altezza. - rispose infine, senza riuscire a dissimulare l’improvvisa freddezza della sua voce.

La bocca di re Waldemar s’increspò in un sorriso sarcastico e i suoi occhi brillarono.

- Lasciate che prima vi offra un po’ di vino di borgogna: è ottimo per accompagnare i discorsi di guerra, specie quelli in cui scorre molto sangue. - batté due volte forte le mani e subito un giovane valletto di camera comparve sulla soglia, profondendosi in un largo inchino. - Porta due calici e una bottiglia di vino di borgogna. Fatti consegnare l’annata migliore dal maestro di tavola.

- Sì maestà! - il valletto uscì dalla stanza senza voltarsi per non dare le spalle al re e questi riprese.

- Iniziate pure, colonnello: il vino arriverà a momenti. - il re si rilassò appoggiandosi allo schienale della poltrona e incrociò le gambe, posando al contempo la guancia contro una mano, gli occhi sempre fissi in quelli di Harlock, un sorriso che avrebbe voluto essere cordiale dipinto in faccia.

Il conte di Lorckshire iniziò a narrare gli avvenimenti di quegli ultimi giorni di agosto, dell’aspra battaglia e della carneficina di Nazdat, quando le acque dei pozzi attorno alla piana in cui si tenne lo scontro si tinsero di scarlatto, dei fendenti mortali portati dalle sciabole che trafissero il corpo del colonnello Jerald mentre, in sella al suo destriero, guidava la cavalleria all’attacco. E mentre il sangue scorreva nei pensieri del re e nei ricordi di Harlock, il vino fu versato nei bicchieri e portato alla bocca. Il re ne bevve con gusto, assaporandolo a lungo prima di ingoiarlo, reggendo il calice fra le dita robuste e affusolate ad un tempo, mani forti che sarebbero state perfette per impugnare una spada bastarda e non solo per reggere delicato cristallo.

Harlock proseguì raccontando della difficoltà di riuscire a recuperare il corpo del colonnello, disarcionato dopo morto e travolto dai cavalli e dall’impeto dell’esercito nemico. Di come lui riuscì infine a prendere in mano la situazione, rinsaldando i ranghi dell’esercito, sbaragliato dalle truppe avversarie e costernato per la morte del proprio condottiero, infondendogli nuovo coraggio e mettendo a punto la strategia che avrebbe ribaltato le sorti della battaglia.

Il re ascoltava e chiedeva con grande interesse, fermando di quando in quando il colonnello perché aggiungesse ulteriori dettagli senza tralasciare nulla, nemmeno i particolari più macabri. Harlock conosceva bene l’indole guerresca del re ma non poteva fare a meno di essere stupito dell’avidità con cui desiderava conoscere tutte quelle cose, come se un racconto il più possibile particolareggiato potesse restituirgli l’esperienza diretta della battaglia dalla quale era escluso, con suo evidente rammarico.

Purtroppo la situazione dinastica di quel momento non gli consentiva affatto di andare in guerra, per quanto lo desiderasse. Il principe ereditario non godeva di buona salute e, benché fosse seguito dai migliori medici di corte, la sua condizione non era migliorata al punto tale da cancellare ogni timore su una sua possibile prematura scomparsa. I timori erano tutt’altro che infondati dopo la morte improvvisa del precedente Delfino e il re non desiderava affatto offrire l’occasione all’aprirsi di una lotta di successione in Akerion, lotta alla quale avrebbero preso parte, come ad un lauto banchetto, anche alcune potenze straniere, in virtù di più o meno recenti legami dinastici.

I due uomini erano ora seduti più vicini e il tavolino con la frutta, spostato in mezzo a loro, si era trasformato nella ricostruzione del campo di battaglia, dove acini d’uva, giuggiole e altri piccoli frutti avevano preso il posto dei soldati appartenenti ai due reggimenti contrapposti.

- Attaccammo l’esercito del generale Kaysakos su più fronti, a ritmo serrato. - il re seguiva con attenzione i rapidi movimenti con cui Harlock spostava la frutta sul ripiano di legno, disponendo piccoli acini a rappresentare i cannoni. - Per prima utilizzammo l’artiglieria: sfruttammo la conformazione del terreno per disporla a livelli diversi e ottenere un fuoco intenso a varie gittate. Il nostro obbiettivo erano le grandi formazioni della fanteria nemica... I colpi furono devastanti: falciavano dozzine di uomini come se fossero state spighe di grano.

Il re annuì, sorridendo senza avvedersene, pregustando l’imminente epilogo di sangue che già conosceva, gli occhi che gli brillavano dei riflessi rossastri del fuoco.

- Colpire trasversalmente i grandi quadrati o le colonne di fanteria produce risultati decisamente più consistenti. - confermò, sempre con lo stesso sogghigno divertito. - Avete imparato bene la strategia militare.

Harlock non commentò, benché il compiacimento per nulla celato del re gli procurasse un certo disagio. Quell’uomo non si preoccupava mai di mostrarsi troppo sanguinario, quando parlava con i suoi ufficiali. O almeno, quando parlava con lui.

- Continuate, Harlock, raccontatemi il seguito. - lo incalzò con un gesto della mano.

Harlock fece una pausa, mentre i suoi occhi si facevano lontani, perdendosi nei ricordi.

- Il campo di battaglia era immerso nel fumo e nella polvere. A vista era difficile avere un’idea precisa della posizione del nemico, bisognava affidarsi alla memoria... E agire molto in fretta. - riprese a voce più bassa. - La fanteria era l’unità che aveva subito le maggiori perdite durante lo scontro precedente e molti uomini erano feriti e non potevano più combattere. Per questo anche il loro morale era a terra.

- Il morale degli uomini è molto importante. Mi domando cosa gli abbiate detto perché credessero non solo di poter sopravvivere a quella battaglia ma soprattutto di poter vincere.

A quel ricordo, un sorriso lievemente imbarazzato comparve sulle labbra di Harlock.

- Dev’essere stato un discorso epico perché sortì effetti insperati, ma sfortunatamente non ne ricordo neppure una parola.

- E’ un vero peccato, perché mi sarebbe piaciuto risentirlo, parola per parola. - commentò il re, con una punta di sarcasmo. Re Waldemar non sembrava convinto che Harlock avesse dimenticato davvero cosa aveva detto quel giorno ai suoi soldati per riuscire a trascinarli come un sol uomo verso la vittoria. - E voi, ci credevate? Credevate davvero di potercela fare contro lo schieramento potente e galvanizzato del generale Kaysakos?

- Sì.

- Perché? - incalzò il re, fissando Harlock dritto negli occhi.

- Perché se il colonnello aveva perso la sua battaglia, io non avevo ancora perso la mia. Conoscevo perfettamente le risorse di cui disponevo: il numero e le qualità dei miei uomini, il potere d’attacco dell’artiglieria, che non era stato ancora intaccato e la forza travolgente della cavalleria. - Harlock sostenne lo sguardo del sovrano senza lasciarsi impressionare dai suoi modi inquisitori.

- Così è stata la cavalleria il vostro asso nella manica?

Harlock scosse il capo.

- E’ stata molto importante, forse anche decisiva, ma la cosa fondamentale su di un campo di battaglia, per me, non è né la superiorità numerica né la potenza di fuoco, ma la fedeltà reciproca delle persone che combattono fianco a fianco.

- E l’astuzia di colui che le comanda. Siete una persona romantica, Harlock, persino in battaglia, ma le guerre si vincono in ben altri modi. - osservò il re, versandosi un altro mezzo bicchiere. - Fortunatamente, le vostre azioni sono molto meno romantiche e molto più dirompenti delle vostre parole. Ora, se non vi dispiace, raccontatemi della cavalleria.

Il pragmatismo privo di sentimenti del sovrano riusciva sempre a sorprendere il colonnello oltre che a infastidirlo: uno che tratta con tanta distaccata freddezza l’esercito nemico avrà più riguardo per il proprio?

- Attaccammo contemporaneamente con la cavalleria e con quella parte della fanteria che non aveva subito danni, su due fronti diversi ma contigui. Volevo che partecipassero alla carica solo i fanti più forti, ossia coloro che non avevano riportato gravi ferite e che non temevano di affrontare nuovamente il nemico, né di morire.

- Gli chiedevate il martirio? - chiese il sovrano con un sogghigno.

- Solo chi non ha paura della morte può sopravvivere. Ogni soldato deve avere la prudenza necessaria ad affrontare uno scontro, ma la paura genera solo confusione, errori e fallimento.

Il re annuì, soddisfatto.

- Non aver paura della morte... - mormorò, perdendosi ad osservare il vino che ondeggiava nel suo calice. - Come voi... Eravate in testa alla cavalleria, non è vero? Guidavate gli uomini verso il punto preciso in cui dirigere la spaventosa onda d’urto degli squadroni.

Il colonnello annuì e aggiunse:

- E’ una prassi del tutto normale: sono gli ufficiali che...

Il re levò una mano, bloccando la replica di Harlock.

- Sì, lo so: sono gli ufficiali e generalmente quelli di rango più alto, a guidare la carica della cavalleria. Necessario ed inevitabile. E vi siete anche guadagnato la promozione.

Harlock rimase in silenzio mentre, dopo una breve pausa in cui bevve tutto d’un fiato il suo vino, il re riprese.

- Quando la notizia della morte del colonnello Jeralt e della vostra insperata vittoria giunse ai suoi orecchi, il generale Heinrich non ebbe bisogno di riflettere molto a lungo se fosse il caso di nominarvi o meno colonnello. Quanto tempo impiegò ad arrivare la comunicazione della vostra promozione?

- Tre giorni.

- Tre giorni... e appena ventitré anni. Uno dei più giovani ufficiali del mio esercito, di certo il solo con un grado così alto a quell’età. - nella sua voce c’era una sfumatura d’orgoglio che non sfuggì al colonnello, che tuttavia non fece domande, anche se non riusciva a capirne il significato.

Re Waldemar scrutò di nuovo negli occhi di Harlock, quasi volesse penetrare fin nelle profondità di quell’anima che non si era mai aperta a nessuno. Nonostante il fastidio, Harlock non si sentiva turbato dal suo sguardo poiché non esisteva ancora una persona al mondo in grado di metterlo in soggezione.

- Vorrei invitarvi a restare ancora a lungo con me ma purtroppo la fila di udienze che mi si chiede di concedere questa mattina è molto lunga. Del resto, quando mai non è così? - commentò il sovrano a mezza voce, alzandosi. - Sono costretto a congedarvi, non senza rammarico, colonnello: dubito che nel proseguo avrò altre conversazioni così interessanti e... distensive, sì, perché no.

Harlock si alzò e fece un lieve inchino con il capo, ringraziando il re, pur se con un evidente distacco nel timbro della sua voce:

- Vostra maestà è stato molto gentile a concedermi così tanto del suo tempo.

Il re rise.

- Vi hanno insegnato bene le formalità, ma potete risparmiarvele quando sono così smaccate. Vi ho trattenuto per puro piacere personale e non certo per farvi un favore e sia voi che io lo sappiamo benissimo. - anche se re Waldemar sembrava effettivamente divertito, Harlock non riuscì ad impedirsi di arrossire e per un brevissimo, interminabile istante, gli sembrò di essere nudo di fronte agli occhi del sovrano.

Il colonnello era appena uscito quando nella stanza un lieve fruscio di stoffa sul pavimento annunciò l’ingresso di un’altra persona. Tuttavia, non era dall’anticamera che il nuovo ospite proveniva, ma direttamente dalla camera da letto di sua maestà. I piedi bianchi, calzati nelle scarpine di velluto azzurro, attraversarono sicuri la stanza fino a fermarsi vicino al re, che si volse e con un sorriso gaudente cinse ai fianchi la donna che stava davanti a lui, stringendola forte a sé.

Era bella, di una bellezza altera e pericolosa come un’antica dea guerriera. Alta e flessuosa e dal portamento deciso, nessuno avrebbe dubitato del carattere sicuro e indomito che doveva celarsi in quel corpo, solo all’apparenza fragile. I lunghi capelli neri erano acconcianti in modo semplice ed elegante e ricadevano languidamente sulle spalle nivee, sottolineandone per contrasto il candore. Indossava un vestito da giorno turchese ricamato con piccole rose in tono, ma la vera rosa fra tutti quei fiori di stoffa era lei soltanto.

- Avete ascoltato tutta la nostra conversazione? - le chiese, chinandosi a baciarle l’incavo tra il collo e le spalle.

- Non avevo di meglio da fare. - rispose lei con noncuranza, facendo scorrere la mano sulla schiena del re fino ad arrivare alla nuca, dove affondò nella folta chioma castana.

- Avreste potuto unirvi a noi, mia cara. - la proposta non era priva di una punta d’ironia che la donna colse immediatamente.

- Harlock non avrebbe amato molto vedermi uscire dalla vostra stanza, lo sapete bene quanto me.

- Vostro nipote è ormai un uomo di mondo e dovrebbe aver capito come vanno queste cose e accettarle senza fare inutili storie. - replicò il re, staccandosi leggermente dalla donna per guardarla negli occhi. Le iridi penetranti di lei lo osservavano come una spada d’acquamarina, rilucendo in quel volto pallido come neve.

- Non ho ancora avuto occasione di vederlo, da quando è tornato e desidero aver modo di farlo in maniera più consona. - rispose lei con la consueta voce fredda e dura che il re amava tanto.

- Più consona? - sbottò il sovrano. - Siete la favorita del re, Raflesia e solo un bambino potrebbe pensare che non frequentiate il suo letto. Harlock è stato in guerra un sacco di tempo, ma questo non significa che abbia dimenticato come si fanno certe cose. E non è un ingenuo.

- Chiunque avrebbe trovato poco conveniente che la vostra favorita si unisse spontaneamente a voi mentre siete a colloquio con uno dei vostri ufficiali, uscendo dalla vostra alcova come se nulla fosse. Persino se quest’ufficiale è suo nipote. - Raflesia appoggiò un dito sulle labbra del re, che stava per ribattere. - Aggiungerei anche che chiunque avrebbe trovato sconveniente che persino la regina vostra moglie uscisse dalla vostra camera da letto per partecipare allegramente ad un’udienza privata.

La collera sbollì lentamente dal volto del re, tramutandosi in un sorriso a metà tra l’arrendevole e il bonario, come se stesse elargendo un favore in virtù della sua magnanimità.

- Va bene, amica mia, ve lo concedo. Del resto siete sempre stata molto abile nelle questioni diplomatiche, per quanto il vostro temperamento sia fuoco e acciaio come il mio. - il re si avvicinò alla scrivania per farsi trovare al suo posto dal prossimo suddito. - Potrei credere che è una qualità delle donne, se non fosse che la regina non possedeva né la tempra di una guerriera né la diplomazia di un ambasciatore.

Raflesia si avvicinò con la leggerezza di una libellula, sollevando appena un lembo della gonna. I capelli brillarono simili a ossidiana sotto la luce proveniente dal lampadario. Si fermò alla sinistra del re, appoggiandogli una mano sulla spalla.

- Sapete che quello che dite non è vero. La regina Chantal era una donna prudente che conosceva le esigenze della diplomazia.

- Ma non i suoi maneggi. Aveva un’idea così... pulita di quello che andrebbe o non andrebbe fatto tra stati sovrani. Una visione del tutto teorica. - rispose il re, con una punta di disprezzo nella voce. - Voi invece... siete nata per essere regina e solo l’ingiustizia del destino non ve l’ha concesso.

Raflesia non rispose ma le sue labbra si strinsero a quelle parole, lasciando trasparire per un attimo che il peso di un simile destino non le era indifferente.

- Se foste stata voi mia moglie...

- Avevamo deciso di non parlarne più. - la voce di Raflesia era più fredda del solito.

- Già, era il nostro accordo. Ma io ci penso ogni giorno... soprattutto quando vedo il principe mio figlio. - un’espressione furente si dipinse a poco a poso sul volto del re, seguendo il correre delle sue riflessioni. - Non avrei perso Nikandros in quel modo e il Delfino non sarebbe così debole e malato se foste stata voi sua madre. No. Sarebbero stati forti e indomiti come me... come Harlock.

- Lasciamo fuori Harlock da questi discorsi! - gli occhi di Raflesia brillarono di una luce glaciale e il re la fissò per lunghi istanti, mentre un silenzio pesante scendeva fra loro. Sembrava che in quel muto duello nessuno dei due volesse cedere.

- Bene, lasciamo fuori chi volete... - rispose il re, dominando l’ira nella sua voce. - Ciò non toglie che la realtà sia questa ed è solo perché hanno preso dalla madre che i miei figli sono così gracili. E ormai non c’è più la possibilità di avere un altro figlio legittimo, un erede al trono che sia sangue del mio sangue... La regina è morta già da quasi dieci anni e nessuno accetterebbe un bastardo come futuro sovrano. Soltanto se l’avessi legittimato quand’era ora...

La contessa di Lesath voltò bruscamente le spalle al sovrano, staccandosi da lui. Il re tacque, osservandola: gli pareva che le sue spalle tremassero di collera e capì che era stato solo per non schiaffeggiarlo che si era allontanata.

Re Waldemar sospirò. Soltanto la raffinata educazione elitaria ricevuta probabilmente gli aveva impedito di imprecare, pur se sottovoce. Si alzò e le andò vicino, ma si trattenne dal toccarla: la conosceva troppo bene e sapeva che in quel momento non gli avrebbe permesso neppure di sfiorarla. Del resto, non si pesta la coda alla tigre per poi andare ad accarezzarla.

- D’accordo, lasciamo andare quest’argomento... dopotutto è doloroso per tutti e due. Ma non tenetemi il broncio come una bambina.

Raflesia si voltò: sul suo viso era dipinta un’espressione sdegnosa che il re conosceva bene. Come sapeva bene che in simili circostanze non valeva la pena insistere.

- Vostra maestà vorrà scusarmi: non voglio sottrarvi altro tempo prezioso da dedicare alla prossima udienza. - disse la contessa con tono volutamente cerimonioso. Sollevò un lembo del vestito, scoprendo una scarpina e senza degnare il sovrano di un altro sguardo, si avviò per rientrare nell’alcova reale, da dove sarebbe poi uscita senza dare nell’occhio.

Mentre gli passava accanto, re Waldemar l’afferrò per un polso, attirandola a sé, serrandole un braccio attorno alla vita per impedirle di sfuggirgli. Raflesia lo fissò furente e il re la baciò, a lungo e con intensità crescente. Cercò un paio di volte di divincolarsi ma la presa del sovrano era salda e non cedeva di un millimetro. La lasciò andare solo quando fu sazio, soffermandosi a guardarla con un misto di soddisfazione e trionfo. Raflesia era ben consapevole del significato di quell’espressione che gli vedeva dipinta in faccia.

Ricordati che sei mia, solo mia.

Erano queste le parole che le riecheggiavano in testa.

Levò la destra per schiaffeggiarlo. Il re fu costretto a mollare la presa attorno ai suoi fianchi per fermarle la mano. Così, i due amanti si fissarono ancora, sorridendo nello stesso modo beffardo, impegnati in un altro muto duello. Infine, re Waldemar la congedò con un ultimo, rapido bacio.

- Andate. Riprenderemo questo discorso quando saremo a letto. - le disse, liberandole i polsi dalla sua stretta.

Raflesia si massaggiò, allontanandosi. Prima di uscire, si fermò sulla soglia che conduceva alla camera da letto, voltandosi indietro.

- A questa notte... allora. - mormorò e, benché sorridesse, i suoi occhi taglienti non promettevano nulla di buono.

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Capitolo 6
*** Una notte a teatro - prima parte ***


Capitolo VI

Una notte a teatro



Venerdì sera, verso le sette, il conte di Lorckshire era nella sua camera e si stava preparando per andare a teatro, come promesso al conte di Narwall. Stava tentando di vestirsi, dopo essersi concesso un lungo bagno ristoratore, e tirava fuori dall’armadio un indumento dopo l’altro.
- Devo confessare che non ho proprio molta roba decente da indossare… - commentò, osservando lo stato quasi pietoso in cui versavano i suoi capi d’abbigliamento. – Forse avrei dovuto davvero farmi fare qualcosa, al mio ritorno. Comunque sia, poco male: vorrà dire che metterò l’uniforme di gala. Quella dovrebbe essere ancora decente: non l’ho praticamente mai messa.
Così dicendo prese dall’ultima anta dell’armadio una divisa ancora nuova: color avorio, con i polsini e le spalline in argento e un ampio pettorale dello stesso tono, decorato in oro con i fregi dell’esercito regio. La osservò alcuni istanti, valutandola con attenzione e, trovandola in perfetto stato, decise d’indossarla. Vi appuntò poi sopra i suoi gradi e le decorazioni, si cinse la vita con una lunga fascia bianca, dal bordo e dalle frange dorate e mentre si stava sistemando la spada al fianco, udì bussare alla porta.
- Avanti… - disse distrattamente.
La porta si aprì: nel grande specchio davanti al quale si stava vestendo, Harlock vide riflettersi l’elegante figura di sua madre.
- Allora è proprio vero: stasera esci. – esclamò appena entrata, congiungendo le mani all’altezza del petto e squadrando suo figlio con espressione stupita e soddisfatta assieme. Poi sorrise, avvicinandoglisi.
- Deve essere una donna molto interessante quella per la quale ti sei vestito in modo così elegante… la tua divisa di gala: non l’avevi mai indossata.
Il colonnello la guardò e rise lievemente, di quel suo riso caldo e sonoro.
- Mi spiace darvi una grande delusione, madre, ma non c’è nessuna donna: questa sera sarò assieme al maggiore Frederick di Narwall e alcuni suoi amici. In quanto alla divisa, è una fortuna che non l’abbia quasi mai portata: mi sono appena accorto che non ho nulla da indossare, ma almeno questa è ancora in buono stato.
- Nulla da indossare… - la contessa di Lorckshire scrutò gli indumenti del figlio, sparsi sul letto. - In effetti hai ragione, la tua roba è molto sdrucita e del resto la maggior parte di essa risale a quattro anni fa, prima della tua partenza. Mi domando persino se ti vada ancora bene
Eva sollevò con fare distratto, ma con sguardo esperto, il lembo di una giacca, le maniche di una camicia, l’orlo di un paio di pantaloni messi quasi in fila uno accanto all’altro sul letto come se il colonnello li avesse appena passati in rassegna come avrebbe potuto fare con un drappello di soldati.
- Ma del resto è colpa tua se ora ti ritrovi senza niente: la sola idea di farti fare qualcosa dal sarto ti ha sempre spaventato, quasi si fosse trattato di farsi levare un dente. Mi sono sempre chiesta se fosse parsimonia o qualcos’altro che non saprei nemmeno definire.
- Adesso non cominciate a rimproverarmi per queste sciocchezze… e poi non è questione di parsimonia: non avevo nessun motivo per farmi fare dei vestiti nuovi, quando rifiutavo il sarto. Ora invece sono appena tornato dalla guerra e praticamente tutto ciò che avevo portato con me è andato rovinato o peggio. E di certo a casa non è rimasto molto che mi vada bene. - replicò il colonnello, finendo di chiudere gli ultimi gancetti del colletto della giacca. - Inoltre, se vi interessa, i miei denti stanno benissimo.
- Va bene, ho capito. – rispose Eva, sorridendo.
Si avvicinò con grazia a suo figlio, scostandogli una ciocca di capelli da davanti agli occhi, che subito ritornò a ricadervi.
- Allora vai a divertirti con i tuoi amici, sono contenta che tu esca un po’: da quando sei tornato, hai sempre cercato di stare da solo.
- Avevo bisogno di riposare… ma ora sto meglio. - Harlock si avviò verso la porta, l’aprì ed uscì nel corridoio. - Buonanotte, madre, a domani.
- Buonanotte… - lo salutò, seguendolo sino alla balconata del piano nobile e accompagnandolo con lo sguardo fino in fondo alle scale. Un luminoso sorriso le rimase per un po’ dipinto sul viso al pensiero di suo figlio che finalmente andava a divertirsi, come lei gli aveva sempre suggerito di fare.
Quando Harlock giunse a teatro lo trovò già molto affollato: un gran numero di persone ancora sostava nel vestibolo, chiacchierando rumorosamente, mentre un gran via vai di nobiluomini occupava le scale che conducevano al primo piano, verso il foyer e i palchi dei diversi ordini. Il colonnello si fece indicare da un inserviente il numero del palco del duca di Larckstein e si diresse a grandi passi verso lo scalone, che conduceva il pubblico, come un’unica entità, verso la sua magnifica ascesa.
E’ uno dei palchi situati nella posizione migliore, vicino al palchetto reale. Del resto quello dei Larckstein è uno dei casati più importanti, imparentati direttamente con la famiglia reale.
Si fermò poco lontano dal palco che recava il numero diciassette: sulla porta, immobile ed impettito, un servitore aveva tutta l’aria di aspettare qualcuno.
- Buonasera… - lo salutò Harlock quando gli fu vicino.
- Buonasera, colonnello. – rispose questi, inchinandosi con deferenza. - Il signor duca vi stava aspettando: vogliate avere la cortesia di accomodarvi.
Il servo aprì la porta, facendosi da parte per farlo entrare, accompagnando il movimento da un altro profondo inchino e da un ampio gesto del braccio verso l’interno del palchetto.
Il conte di Lorckshire non riuscì a non sorridere di fronte al modo di fare così cerimonioso del cameriere, e varcò la soglia mentre la porta veniva silenziosamente richiusa alle sue spalle. Nel palco c’erano già tutti i giovani che quel mattino avevano aderito all’iniziativa. Il duca di Larckstein si alzò per accogliere il suo ospite e assieme a lui Myura, che insistette per prendere il mantello di Harlock e per consegnarlo al servitore fuori dalla porta, sotto gli occhi divertiti degli altri, che trattennero a stento una risata. Quando Myura vide che Harlock indossava la divisa di gala, mandò un’esclamazione di gioia e di stupore e prese a lodarla, assieme alla figura di colui che la indossava.
- Oh, conte, come state bene! Vi dona così tanto quest’uniforme… vi prego, fatemela toccare!
Harlock rise, perplesso, passando distrattamente le lunghe dita affusolate sulla stoffa della casacca.
- E’ soltanto una divisa. – disse, quasi per giustificarsi di averla indossata.
- Vi prego ugualmente, lasciatemela accarezzare solo un istante: prometto che non la sdrucirò. – insistette il ragazzo, con gli occhi che brillavano.
- Ha resistito alla polvere fino ad adesso, penso che non cadrà a pezzi per una vostra carezza… quantunque non capisca perché vi faccia così piacere.
Myura non se lo fece ripetere due volte e posò la mano al centro del petto di Harlock, spostandola lentamente verso sinistra, a toccare una a una le medaglie e le decorazioni che vi erano appuntate.
All’improvviso e quasi senza rendersene conto, Harlock afferrò il polso di Myura, trattenendolo dalla sua esplorazione: gli occhi gli brillavano di una strana luce e il suo volto tradiva tutto il suo stupore.
- Oh, scusate, colonnello… - mormorò Myura, incrociando lo sguardo del conte di Lorckshire e immaginando, a ragione, di averlo messo in imbarazzo.
- Su, Myura, lascia accomodare il colonnello. – lo invitò Irwing, sorridendo dalla sua poltrona in fondo al palchetto.
Il duca di Larckstein indicò ad Harlock un posto sul divanetto accanto a lui e questi vi prese posto, passando distrattamente due dita all’interno del colletto della giacca per aggiustarselo, senza che ve ne fosse alcun bisogno.
- Però Myura ha ragione: questa divisa vi dona davvero molto, colonnello. – esclamò Lemort, dopo aver osservato Harlock per qualche attimo. – Mi dispiace non aver mai avuto occasione di vedervela indossare prima.
- Non sarebbe stato possibile, dato che credo sia la prima volta che la metto. – rispose il colonnello, voltandosi verso il duca di Larckstein ed accavallando le gambe, appoggiandosi comodamente allo schienale.
- Oh, che grande onore ci fate, colonnello! – rise Irwing – L’avete messa apposta per noi! E per Myura in particolare, scommetto.
Anche Harlock rise, osservando di rimando il conte di Zoder.
- In un certo senso sì, l’ho messa appositamente per voi. Mia madre sperava che fosse per una bella dama, ma ho dovuto deluderla.
- Sarà rimasta ancora più delusa quando ha saputo con chi avevate scelto di passare questa serata. – commentò Lemort e benché le sue labbra sorridessero ancora, i suoi occhi non brillavano affatto di gioia.
- Perché dite così? – chiese Harlock, fissando ora Lemort. – Non ha avuto nessuna obiezione… e anche se ce ne fossero state, di certo non mi avrebbero fatto cambiare idea.
- Anche perché ormai avevate promesso. – concluse Frederick – E le promesse si mantengono sempre, a qualunque costo.
Harlock annuì in direzione di Frederick e in quel momento notò qualcosa di diverso nello sguardo del maggiore, un’espressione con la quale fino ad allora era sicuro di non essere mai stato guardato da lui. Inarcò le sopracciglia, rendendosi conto che in effetti c’era un’atmosfera strana in quel palchetto e che forse questo era dovuto al fatto che c’erano solo uomini.
Già, solo uomini…
Harlock scrutò uno ad uno i giovani invitati: il conte Aeneas di Avendish stava in quel momento sussurrando qualcosa all’orecchio di Irwing, rivolgendo a tratti lo sguardo nella sua direzione.
E quel che m’inquieta di più è forse proprio questo sentimento di strana curiosità che mi sembra provino nei miei confronti. Forse è solo perché non sono della compagnia, però tutto questo mi mette a disagio... e non mi era mai successo.
- Faccio portare lo champagne? – la voce di Lemort interruppe bruscamente il corso dei suoi pensieri.
- Sì, è un’ottima idea! – approvò Aeneas e gli altri invitati gli fecero eco, in quell’esuberante allegria che ormai Harlock aveva notato essere una loro caratteristica.
Non ci volle molto perché i servitori del duca giungessero non solo con lo champagne ma anche con cibo raffinato, servito su vassoi e piatti d’argento. C’erano ostriche freschissime, noci, formaggi dalla pasta morbida insaporiti con miele e diversi tipi di carni.
- Se portate tutta questa roba, duca, fra poco dovremo uscire noi. - commentò Harlock, vedendo arrivare i camerieri così carichi di pietanze.
Lemort rise, divertito, con la sua voce argentina e sonora.
- Non vi preoccupate, colonnello: adesso mangiamo qualcosa e vedrete che fra qualche minuto resterà ben poco di tutte queste vivande. – rispose infine, guardando Harlock con i suoi occhi di lupo. – La serata sarà molto lunga: mangiare qualcosa adesso ci farà senz’altro bene.
Contrariamente all’invito rivolto ai suoi ospiti, però, il duca di Larckstein mangiò pochissimo: toccò solo qualche ostrica e alcune noci e bevette un calice di champagne. Tutti gli altri invece fecero onore alla tavola, che era davvero ottima. Harlock assaggiò volentieri un po’ tutte le pietanze, ma nel complesso non mangiò molto, preferendo conversare con gli altri di teatro e letteratura. La commedia di Karl Osemberg, intanto, non era ancora iniziata.
- Ho sentito dire che dipingete, colonnello: è vero? – chiese il conte Aeneas di Avendish, sorseggiando dello champagne e scrutando il volto di Harlock con gli occhi lievemente socchiusi.
- Sì, qualcosa, da dilettante.
- Mi piacerebbe molto vedere qualcosa di vostro, colonnello: sono certo che siete molto bravo! – esclamò Myura di Hessex, giungendo le mani in un impeto d’entusiasmo.
- Non sono così abile come credete: ho solo un po’ di talento, che ho molto trascurato partendo per la guerra. – si schermì Harlock.
- Lasciate giudicare a noi, allora… - Lemort tornò a sedersi accanto ad Harlock, dopo aver preso un altro calice di champagne dal tavolino, appollaiandosi questa volta sul bracciolo del divanetto. – Ci lascereste vedere qualcosa di vostro, o siete troppo geloso dei vostri lavori?
- Prima vorrei riprendere un po’ la mano e produrre qualcosa di più recente… anzi, avrei proprio bisogno di un modello che posi per me.
- Un modello? – fu la generale esclamazione che passò di bocca in bocca, mentre i giovani si guardavano tra loro, negli occhi una luce di piacere ed entusiasmo.
Il conte di Narwall fu il primo a riprendere la parola e disse:
- Avreste dovuto dirlo prima, conte: qui ci sono cinque signori che non aspettano altro che questa occasione… posare per voi!
- Io lo farò senz’altro, ditemi quando avete bisogno di me, vi prego. – lo esortò Myura, sporgendosi verso di lui. Aveva le guance imporporate e le labbra rosse, così carnose e morbide da sembrare una vera ragazza con indosso abiti maschili.
Harlock lo fissò confuso, mormorando un “Sembrate uscito da un dipinto di Boucher” che nessuno udì, a parte forse il duca di Larckstein, che comunque non disse nulla.
- Avete bisogno di qualcuno che posi per un ritratto o volete dipingere dell’altro? – s’informò Aeneas, incuriosito.
- A me servirebbe un modello disposto… disposto a fare tutto quello che gli dico. – ma vedendo che le sue parole stavano per suscitare reazioni equivoche, aggiunse – Intendo dire, disposto ad assumere tutte le pose che mi servono: m’interessa dipingere o disegnare le varie parti del corpo, non il volto soltanto.
- E vi serve nudo, il vostro modello? – chiese il conte Hadrian Maximilian di Raiden, dopo aver lanciato un’occhiata significativa a suo cugino Aeneas, mentre gli altri ancora ridevano e si scambiavano battute a mezza voce.
- Non necessariamente… però potrebbe servirmi mezzo spogliato. Dipende da ciò che voglio fare.
- Beh, certo: in alcune circostanze la nudità e senz’altro più indicata. – replicò Aeneas, sorridendo malizioso.
- Cosa dite? Non intendevo nulla di…
- Non vi giustificate, colonnello: ci sono molte persone che farebbero qualsiasi cosa per l’arte… venderebbero persino l’anima al diavolo. – intervenne sorridente il conte Hadrian di Raiden.
- Oh, io venderei l’anima al diavolo senz’altro per essere dipinto da voi, colonnello! – esclamò Myura, poggiando una mano sulla gamba di Harlock e guardandolo colmo d’emozione.
- Non è necessario tanto, grazie. – rispose Harlock, scostando la mano di Myura.
- Un tipo freddino, il vostro amico. – mormorò Irwing, parlando all’orecchio di Frederick, seduto accanto a lui.
- Già… ma è proprio questo che lo rende interessante: Harlock è un uomo estremamente riservato, geloso della propria intimità e anche della propria solitudine. Ma ha un animo appassionato. – rispose Frederick, con gli occhi che brillavano.
- Avete avuto modo di sperimentarlo? – c’era una punta di malizia nelle parole di Irwing che non sfuggì al maggiore.
- No, ma lo conosco da alcuni anni ormai: anche se cerca sempre di controllarsi, anche se sul campo di battaglia nessuno ha mai la mente lucida e i nervi a posto come lui, l’espressione dei suoi occhi, l’intensità del suo sguardo, delle sue parole, la furia con cui si lancia nel combattimento, tutto questo tradiscono il suo temperamento passionale, indomito… ardente.
- Un uomo estremamente interessante e pieno di sorprese, dunque. – concluse Irwing, voltandosi verso il colonnello, che ancora conversava con gli altri.
- Certamente un uomo dall’animo misterioso… - gli fece eco Frederick, perdendosi nei suoi pensieri.
Quando finalmente la commedia ebbe inizio, per un bel po’ Harlock restò a guardarla in silenzio, cercando di cogliere, nonostante il fracasso proveniente dal suo e dagli altri palchetti, le battute pronunciate dagli attori. Era una ben difficile impresa, ma lui aveva un vivo desiderio di ascoltare di nuovo un’opera teatrale, di vedere di nuovo degli uomini e delle donne in costume agitarsi, ridere, correre sulla scena, creando attorno a loro un mondo fantastico. Gli altri giovani erano tutti all’interno del palco e chiacchieravano tra loro, senza curarsi della rappresentazione. Solo il duca di Larckstein ad un tratto si avvicinò al colonnello, sedendosi silenziosamente accanto a lui.
- Mi sembra vi piaccia l’opera di Karl Osembergh. – commentò, sorridendo lievemente.
- E’ una commedia divertente, anche se l’intrigo non è certo una novità.
- L’intrigo di base di ogni commedia è pressoché lo stesso. – spiegò il duca Lemort, volgendosi a guardare verso il palco. - Sta all’originalità dell’autore ravvivarlo con un tocco personale che renda unica la sua opera.
- Allora qui questo tocco originale non c’è. – disse Harlock, senza voltarsi.
- Perché allora la seguite con tanto interesse? – domandò Lemort, posando i suoi occhi chiari sul volto assente di Harlock.
- Non lo so… forse perché mi sembra di recuperare un po’ del tempo perduto, un po’ di vita.
- La vita della scena è falsa: tornate dentro con noi, se avete voglia di vivere intensamente. – lo esortò infine, posandogli una mano sul braccio.
- Certamente la vostra vita e quella dei vostri amici dev’essere molto intensa. – si volse verso Lemort e la terra dei suoi occhi toccò il cielo tempestoso di quelli del giovane duca, il cui cuore ebbe un fremito. – Ma credo di avere bisogno anche di guardare dal di fuori tante cose, di conoscere ciò che è stato scritto in questi anni o ciò che è venuto alla luce adesso, dopo un lungo periodo di gestazione… non credo di riuscire a spiegarmi. Forse perché non so nemmeno bene io ciò che vado cercando.
Lemort lo fissò in silenzio e il suo sguardo divenne triste. Harlock proseguì:
- Forse ho quest’impressione soltanto perché sono tornato da poco alla vita di sempre, alla vita in tempo di pace: fra un po’ non farò più caso a tutto questo. Ma intanto è strano vivere così: mi sembra di essere tornato dall’al di là. – rise lievemente ed il suo sorriso luminoso ferì Lemort al cuore, senza una ragione.
Rimasero in silenzio, l’uno accanto all’altro, ancora per un po’. La commedia proseguiva rapida davanti ai loro occhi, tra l’indifferenza di molti spettatori. Dopo alcuni minuti, però, il conte di Narwall si avvicinò a loro, sedendosi accanto ad Harlock su di un angolo del divanetto, come chi ha fretta di rialzarsi, e disse:
- Avete intenzione di trascurarci per tutta la serata?
- Vi sentite soli? – esclamò scherzosamente il colonnello, con il tono di chi compiange dei bambini.
- Molto, senza di voi, colonnello… - Frederick rispose con la sua migliore faccia contristata – E ancora di più senza il padrone di casa, che si è completamente dimenticato di noi.
- Avete ragione… Tornerò ad occuparmi dei miei ospiti. – rispose Lemort, accarezzando in punta di dita la guancia ruvida di Frederick – Venite, colonnello: torniamo dagli altri.
Lemort si allontanò, raggiungendo i suoi amici, che ora discutevano animatamente di qualche sconosciuto argomento, e al suo arrivo fu subito eletto arbitro della discussione e gli venne chiesto di emettere un giudizio. Harlock non si era ancora alzato e osservava la scena da lontano, senza riuscire ad intendere di quale argomento stessero conversando.
- Vi divertite, Harlock? – gli chiese Frederick, dopo aver contemplato furtivamente per alcuni momenti il volto dell’amico.
- Sono una strana compagnia. – rispose soltanto. – Un po’ mi stupisco che anche voi ne facciate parte: vi credevo diverso da quello che ora mi apparite.
- Credete sia un male questa mia natura sconosciuta? – domandò il conte Frederick, accomodandosi meglio sul divanetto.
- No, non intendo dare giudizi di valore o di... moralità. Credo sia solo perché, per molto tempo, mi siete apparso esclusivamente sotto una luce marziale. Vi conoscevo da tanto come soldato, meno come uomo. Invece, da che siete tornato dal fronte, avete completamente abbandonato il vostro ruolo e il vostro atteggiamento di ufficiale e vi siete dato alla vita mondana, alle amicizie e ai divertimenti.
- Ho visto la morte molto da vicino, Harlock e quando ti accorgi di quanto la vita sia effimera ti passa la voglia di darti un contegno e di essere sempre una persona controllata e rispettabile. Ho ventisei anni e vorrei viverne almeno altrettanti: divertirmi, sì che c’è di male? Scherzare in buona compagnia, fare la corte alle ragazze, bere vino, ascoltare dolci melodie, andare a teatro per perdere tempo… Anche perdere tempo è un lusso, sapete? Quando hai la morte alle costole non puoi pensare di buttare via dei giorni, ma ora che mi sono completamente ristabilito e che di tempo, Dio volendo, me ne resta ancora tanto, voglio prendermi anche la soddisfazione di non fare niente, di divertirmi in modo superficiale: significa che sono vivo e che lo resterò a lungo. Non so se potete capirmi…
Harlock non rispose, ma il suo volto divenne triste.
- Ritorniamo con gli altri, adesso. – lo esortò Frederick alzandosi in piedi.
Harlock lo seguì e i due amici si riunirono al resto della compagnia. Myura fece subito sedere il colonnello accanto a lui, provocando l’ennesima serie di commenti da parte di tutti.
- Avete proprio messo gli occhi addosso al nostro giovane ufficiale, allora. – esordì Aeneas.
- Non dovreste essere così maleducato, Myura: anche noi desideriamo conoscere meglio il colonnello Lorckshire. Frederick ci ha assicurato che è un uomo molto interessante. – Irwing sorrise, sottolineando in modo particolare quell’ultima parola.
- Sono certo che oltre ad essere un artista sa fare molte altre cose… - commentò maliziosamente Hadrian Maximilian. – Perché non ci parlate di qualcun altro dei vostri interessi, colonnello?
- Avanti, smettetela: se dite così lo spaventate. – intervenne Lemort, notando che Harlock sembrava perplesso. Ma il tono divertito della sua voce contraddiceva le sue stesse parole.
Istintivamente, come fosse sul campo di battaglia, Harlock si guardò attorno e la prima cosa che notò fu la gran quantità di bicchieri vuoti di champagne, lasciati in giro un po’ dappertutto: ce n’erano sui sedili delle poltrone, sul tavolino e un paio persino sulla balaustra del palchetto. Il duca di Larckstein ne reggeva ancora uno in mano, pieno per metà e le sue guance leggermente arrossate su quel volto sempre pallido misuravano meglio di ogni altra cosa il tasso alcolico del suo sangue.
Non devono essere molto in sé, questi ragazzi.
Si disse con noncuranza, come se la cosa lo lasciasse, nonostante tutto, indifferente.
Chissà che razza di vita fanno, da mattina fino a sera.

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Capitolo 7
*** Una notte a teatro - seconda parte ***


una notte a teatro x FF

Una notte a teatro - seconda parte




Nel palchetto aveva iniziato da un po’ a fare caldo e l’aria era ormai viziata. Per stare meglio alcuni non avevano esitato a togliersi la giacca o a slacciarsi il foulard. Lemort, come il primo giorno in cui Harlock l’aveva visto a corte, aveva la camicia sbottonata, cosicché s’intravedeva senza difficoltà la pelle liscia e levigata del suo giovane petto sotto la seta bianca.

Frederick, con molta noncuranza, esortò anche il colonnello a mettersi un po’ più a suo agio.
- D’altronde non mi risulta che sia da voi restare a lungo con la divisa perfettamente in ordine ed abbottonata. - concluse chinandosi verso Harlock perché solo lui sentisse.
Harlock gli sorrise, replicando a bassa voce:
- Mi conoscete bene, maggiore Narwall.
- Non è un segreto per nessuno che siete l’ufficiale più in disordine dell’esercito regio! – rise Frederick, rispondendogli a voce piuttosto alta. – Che il re non vi abbia ancora cacciato è una vera fortuna.
- Oppure è grazie alla contessa Raflesia. – sentenziò il conte Hadrian di Raiden. Harlock, che stava slacciando alcuni bottoni della casacca, lo fulminò con un’occhiata.
- Non ho mai chiesto nessun genere di favore a mia zia, tanto meno che mi proteggesse di fronte al re. – ribatté il colonnello.
- Non metto in dubbio questo, conte, ma non è un segreto per nessuno che la contessa di Lesath sia la donna più vicina al re, da quando la regina è scomparsa.
- Il rapporto che mia zia ha con il re non è una cosa che mi riguarda. E non riguarda neppure voi. Vorrei essere lasciato fuori da qualsiasi tipo di discussione che li coinvolga, se non vi spiace.
- Non si tratta propriamente di chiacchiere che riguardano solo il re e la sua favorita quando alcune di esse coinvolgono anche la vostra rapida carriera. - Hadrian agitò una mano con noncuranza, lo stesso sorriso sempre stampato in volto.
- Siete anche voi uno di quelli che sono convinti che tutta la mia carriera sia dovuta esclusivamente agli appoggi reali? - la voce di Harlock era dura come l’espressione del suo viso.
- Non vi scaldate, colonnello… sono certo che siete un soldato valoroso e non voglio mettere in dubbio le vostre qualità sul campo di battaglia. Ma certamente si chiude un occhio più facilmente quando qualcuno di famiglia…
- Basta così, Hadrian! – la voce di Lemort sorpassò tutte le altre, come il vento improvviso sovrasta lo stormire delle fronde. – Il colonnello è mio ospite e non permetto che nessuno lo offenda, finché sta con me.
- Non volevo offenderlo. – si difese il conte di Raiden, levando le mani.
- Però ci state riuscendo perfettamente. – gli rispose Lemort. – E se offendete lui che è mio ospite offendete anche me.
- Va bene, non ne parliamo più. – concluse il conte di Raiden, con un sorriso forzato.
Come per meglio siglare la sua posizione sulla questione, Lemort andò a sedersi accanto ad Harlock.
- Ve la siete presa molto a cuore. – gli disse il colonnello.
- Mi dispiace che vi abbia offeso: Hadrian non ce l’ha con voi, credetemi. A volte semplicemente sembra non sappia quello che dice. – rispose soltanto il duca di Larckstein.
- Non vi preoccupate: succede quando si è bevuto troppo. - un ironico sorriso affiorò sulle labbra di Harlock per un istante. – Comunque, conosco bene le voci che girano sul mio conto, ma nonostante questo continuo ad infastidirmi, perché non corrispondono affatto alla verità.
- Voi siete una persona che si comporta sempre onestamente, è naturale che vi offendiate. – Lemort si voltò a fissare il profilo scultoreo di Harlock, stagliato contro il rosso della tappezzeria.
- Comportarmi onestamente è quello che cerco di fare, ma non so se sempre ci riesco… - il colonnello non riuscì a dire altro, perché la mano di Lemort gli stava sfiorando delicatamente il viso. Si girò e così i polpastrelli del duca scivolarono lievi sulle sue labbra e sul mento.
Harlock lo fissò, sgranando gli occhi, senza riuscire a dire nulla: la sua mente girava a vuoto, ripetendosi la stessa domanda che non riusciva a trovare la via per diventare parola.
- Il vostro volto è ruvido… si sente il segno della barba.
- E’ naturale: sono un uomo. – la voce del colonnello suonò un po’ più roca del solito mentre lui si sottraeva a quell’insolito contatto.
- Già, è naturale… sono io che ho il viso completamente liscio, mentre non dovrebbe essere così. – senza riflettere, Harlock allungò la mano in direzione del volto di Lemort, ma la ritrasse subito, pentendosi di quel gesto. Lemort l’afferrò prima che Harlock l’allontanasse del tutto, appoggiandola sulla sua guancia.
- Potete accarezzarla, se volete. – lo incoraggiò.
Una pelle soffice e morbida si rivelò a quel contatto.

Il colonnello trasalì e guardò Lemort: i suoi occhi erano lucidi e languidi e le guance, tutte imporporate, contrastavano nettamente con il pallore del resto del corpo.
- Duca… avete bevuto troppo stasera.
Lemort rise, di un riso strano e squillante.
- Siete voi che avete bevuto troppo poco: perché non vi divertite con noi, avete paura?
- Non ho paura. Forse siete voi e i vostri amici che vi divertite un po’ troppo, non credete?
- Che dite? – Lemort accarezzò di nuovo il mento di Harlock, ridendo. – Il conte di Narwall ha ragione: siete troppo freddo, scioglietevi un po’.
Così dicendo, slacciò un altro paio di fibbie della casacca del colonnello e poi passò a slacciare i primi bottoni della camicia, ma Harlock, con un rapido gesto, gli bloccò la mano, ordinandogli di fermarsi, sul viso lo stesso sguardo cupo con il quale aveva redarguito poco prima il conte di Raiden.
- Scusatemi colonnello. – mormorò Lemort abbassando lo sguardo e allontanandosi dal suo posto accanto al colonnello.
Harlock richiuse in fretta la camicia e riabbottonò un poco anche la casacca. Dentro il palchetto però faceva davvero caldo e tutti avevano il viso arrossato non solo per via dell’alcool.
Frederick, che non aveva seguito le schermaglie tra Harlock e Lemort, si avvicinò al colonnello reggendo in mano due calici di vino rosso.
- So che preferite questo ad ogni genere di champagne. – disse allungando un bicchiere.
- Grazie Frederick. – Harlock prese un calice con le dita affusolate, lo rimirò alcuni istanti facendone dondolare dolcemente il contenuto, mentre Frederick prendeva posto accanto a lui – Stiamo bevendo tutti un po’ troppo, stasera. – commentò a mezza voce, sorseggiando il vino.
Intanto Irwing e Myura erano in piedi vicino a Lemort e avevano l’aria di volersi accomiatare. Scambiarono poche parole con il duca e Irwing lanciò anche un’occhiata in direzione di Harlock prima di uscire, con Myura che gli trotterellava fedelmente al fianco.
Lemort parve sentire il peso dello sguardo del colonnello su di sé e si volse, gli sorrise in quel suo modo triste e tornò verso di lui.
- Irwing vuole approfittare di quest’occasione per fare qualche altro invito per il suo compleanno. - spiegò, parlando soprattutto a Frederick che sembrava già essere a conoscenza dell’evento.
- Si porta avanti per tempo. - rise questi.
Lemort alzò le spalle.
- Ha detto che più avanti manderà gli inviti scritti.
- Spero allora che si ricordi d’invitare anche il nostro colonnello. - Frederick fece l’occhiolino a Lemort, mentre passava un braccio attorno alle spalle di Harlock, dandogli un’amichevole stretta da camerati. Il colonnello sorrise prima di rispondere.
- Credo che non debba sentirsi assolutamente in obbligo di invitare chicchessia al suo compleanno.
- Io invece mi auguro che ci pensi: ci si diverte sempre molto alle feste di compleanno di Irwing e non voglio che perdiate quest’occasione.
- Vi ringrazio del pensiero... - gli disse Harlock, mentre in cuor suo iniziava a preoccuparsi su quale tipo di divertimenti fosse prediletto a queste famose feste.
Il colonnello e il maggiore Frederick bevvero assieme un altro paio di bicchieri di rosso: Frederick sapeva che Harlock reggeva molto bene l’alcool e sembrava intenzionato a fare con lui una specie di gara della quale l’interessato non parve però avvedersi. Lemort invece, dopo il rimprovero subito dal colonnello, tentò di mantenersi sobrio e restò ad ascoltare i due amici che, tra un bicchiere e l’altro, si lasciavano andare ai ricordi di qualche vecchia battaglia, quando gli scontri non si erano ancora fatti troppo aspri, o di divertenti episodi di caserma. Nessuno dei due si accorse che nel frattempo anche Hadrian e Maximilian erano usciti, diretti, a quanto dissero, al palchetto della prozia di Hadrian per un saluto.
- Certo che qui ha iniziato davvero a fare un caldo infernale. - commentò Harlock ad un tratto, slacciando il primo bottone della camicia e passandosi una mano sul collo. Lemort lo guardò in tralice.
- Se aveste accettato il mio aiuto poco fa adesso avreste meno caldo. - disse, ma poiché il colonnello sembrò non capire, riprese – Ho provato a slacciarvi qualche bottone ma voi vi sete offeso!
Lemort voltò la testa con aria risentita e un fugace sorriso danzò per un attimo sulle sue labbra sottili. Nell’accorgersene, anche Harlock sorrise e stava per ribattere quando Frederick intervenne nella conversazione.
- Possiamo rimediare adesso, se dite: vi do una mano io, colonnello, in due faremo prima. - Frederick rise ed Harlock notò che gli occhi del suo amico brillavano in modo strano: l’alcool doveva aver iniziato a sortire i suoi effetti. La destra di Frederick intanto aveva già raggiunto uno dei bottoni della camicia del colonnello e, nella fretta, stava armeggiando un po’ maldestramente per slacciarlo.
- Frederick! - il colonnello gli afferrò la mano come poco prima aveva fatto con Lemort, con la consueta presa decisa e lo scostò da sé. – Credo sia una buona idea se vado a guardare un po’ la commedia, da solo.
- Ehy, scherzavo! - rise Frederick levando le mani in segno di resa.
Harlock si alzò rapidamente in piedi, com’era sua abitudine, ma un improvviso capogiro lo colse appena raggiunse la posizione eretta. Barcollò, sbilanciandosi in avanti e urtò il tavolino ancora pieno di bicchieri, che tintinnarono come in allarme. Il duca di Larckstein, che era ancora in piedi, lo afferrò prontamente, trattenendolo per le spalle. Harlock si appoggiò al suo petto, serrando gli occhi.
- Che avete, colonnello? Vi sentite male? – gli chiese.
- Ah… non è niente… Solo un capogiro. - rispose. Alzò gli occhi oltre il petto di Lemort: tutto ondeggiava attorno a lui, distorcendosi come in uno specchio deformante. Serrò forte le palpebre, nascondendo il viso nell’incavo della spalla del duca.
- Harlock! – esclamò questi, mentre Frederick si avvicinava a loro.
- Tutto bene? - la voce del maggiore arrivò stranamente ovattata agli orecchi di Harlock.
- Mi manca l’aria… - mormorò il colonnello, la voce insolitamente roca – Vi prego, Frederick, accompagnatemi fuori.
- No, colonnello, non mi sembra il caso. Sdraiatevi un po’ sul divano. - disse Lemort che non aveva smesso di sorreggerlo. - Vi slacceremo casacca e camicia e vi sventoleremo un poco: starete meglio.
Harlock annuì, riaprendo gli occhi. Si staccò da Lemort, sforzandosi di arrivare da solo fino al divano. Erano solo pochi passi ma le sue gambe sembravano di piombo.
- Ce la fate? - anche la voce di Lemort si era fatta remota. Harlock non rispose. Mosse il primo passo, ma qualcosa sembrò spezzarsi, proprio al centro del suo petto e un’improvvisa onda di calore salì da quel punto fino al viso. Poi tutto divenne freddo e gli sembrò di sprofondare in un immenso abisso.
Durò solo pochi istanti, ma parvero eterni.
Avvertì di nuovo le mani di Lemort che l’afferravano e altre mani, doveva essere Frederick, che lo sorreggevano da dietro le spalle. Sentì che i suoi amici dicevano qualcosa e le loro voci erano concitate. Harlock tentò di parlare, di dire che andava tutto bene, ma i suoi pensieri non trovarono la strada per divenire suono.
Lemort lo sollevò da solo e lo adagiò sul divano, armeggiando poi con le fibbie della casacca e i bottoni della camicia. Harlock non immaginava che fosse così forte da riuscire a prenderlo in braccio senza l’aiuto di nessuno. Il duca gli sollevò in alto le gambe, appoggiandole sul bracciolo, di modo che il sangue affluisse alla testa. Gli mise anche qualcosa di morbido e ripiegato sotto il capo. Dal profumo il colonnello capì che doveva trattarsi proprio della giacca di Lemort: aveva lo stesso odore speziato e malinconico che gli aveva sentito addosso per tutta la sera. Si sforzò di respirare a fondo, più e più volte, cercando di ritornare in possesso delle forze perdute ma soprattutto di tornare lucido. Allo stesso tempo riaprì gli occhi, tenendoli fissi su un punto imprecisato del soffitto. Le lunghe dita di Lemort gli scostarono alcune ciocche di capelli dalla fronte, indugiando ad accarezzargli la guancia, poi lo sentì inginocchiarsi accanto a sé, ma non lo vide entrare nel suo campo visivo.
- Come vi sentite? – gli chiese il duca, mentre con fare esperto gli prendeva il polso per ascoltare il battito del cuore: era decisamente aritmico. Lemort inarcò le sopracciglia, ma non disse nulla. - Abbiamo spalancato la porta del palchetto perché entri più aria possibile: nel corridoio c’è fresco, fra poco starete meglio.
- Sto già meglio. – rispose Harlock, posando il braccio libero sugli occhi, come a proteggersi dalla luce. Con l’altra mano, quando Lemort la lasciò, afferrò i due lembi della camicia, riavvicinandoli. Il duca non l’aveva aperta troppo, per timore di offendere il colonnello, vista la sua reazione di poco prima, quando aveva cercato di spogliarlo.
- C’è mancato poco che perdeste conoscenza! - Frederick era in piedi vicino a loro e, benché avesse tentato di stamparsi in faccia il più classico dei suoi sorrisi, il suo tentativo di fingersi rilassato non riuscì molto convincente.
Harlock non rispose: inspirò più profondamente, frustrato.
- Qui dentro faceva davvero molto caldo e l’aria era viziata: può succedere anche ad un uomo di avere un mancamento. - intervenne Lemort. - Anche se... non mi è sembrato che sia stato solo il caldo a darvi fastidio. Forse stavate già poco bene, questa sera, colonnello?
- No... - rispose. - Credo sia stato... un insieme di cause.
Pensò al vino, all’aria pesante, alla stanchezza che si portava dietro dalla fine della guerra... Tutto insieme, però, non bastava a dargli ragione di quanto era successo.
Nemmeno sui campi di battaglia, quando il fumo della polvere da sparo rende praticamente impossibile respirare, quando il calore diventa insopportabile e la fatica fisica è altissima, mi era mai accaduta una cosa del genere… e certo sarebbe imperdonabile per un ufficiale sentirsi male mentre combatte. Allora che cos’è stato? Sono davvero ancora troppo stanco? Mi sono concesso un lungo riposo, in questi giorni: possibile che non sia bastato?
Questi erano i pensieri che agitavano la mente del colonnello, immobile sul divano, gli occhi ancora serrati.
Lemort era ancora inginocchiato accanto ad Harlock, celato al suo sguardo dalla sua posizione molto laterale, ma il colonnello continuava ad avvertirne la presenza. Sul volto del duca era dipinta un’espressione colma di ansia alla quale le parole non erano riuscite fin’ora a rendere giustizia.
- Si riprenderà subito, non vi preoccupate. – disse Frederick con convinzione, dopo aver osservato a lungo Lemort. – Credo che sia soltanto ancora molto stanco e provato dalla guerra: è tornato a casa sciupato e dimagrito, l’avete visto anche voi. Ma il colonnello è di fibra forte, non si lascerà certo prostrare per così poco.
- Volete un po’ d’acqua? – domandò Lemort, posando una mano su quella di Harlock. Era fredda e molto pallida. Guardò il colonnello, cercando di scorgerne il viso, ma questi aveva di nuovo il braccio sugli occhi, gettando così ombra sulla faccia. Lemort immaginò che doveva avere un colore cereo e una morsa d’angoscia gli prese lo stomaco. Con delicatezza gli scostò il braccio. Harlock si girò, fissando i suoi occhi in quelli di Lemort, interrogativo: il suo viso era proprio come l'angoscia di Lemort glielo aveva fatto immaginare, pallido ed esangue come la morte. Lemort dovette usare tutto il suo dominio su se stesso per riprendere il controllo dei propri pensieri e imporsi di riformulare la domanda.
- Vi ho chiesto se volete un po’ d’acqua. - la voce gli uscì più bassa di quel che avrebbe voluto e, come per scusarsi, aggiunse - Forse non mi avete sentito...
- Sì, vi ho sentito... Sì, un po’ d’acqua forse mi farà bene.
- Se non altro vi aiuterà a diluire tutto quel vino che avete bevuto! - Frederick prese una sedia, accomodandosi vicino ad Harlock con l’intenzione di tenergli su il morale. Il colonnello non poté non sorridere alla sua battuta.
- Forse il vino mi ha giocato un brutto tiro, ma non da solo. Comunque vi ricordo maggiore, semmai ve ne fosse bisogno, che siete più alticcio di me. - replicò con un ghigno.
Intanto Lemort era riuscito a procurarsi il bicchiere d’acqua, che fortunatamente non mancava pur in mezzo a tutto quello champagne e bottiglie di vino pregiato.
- Tenete un attimo l’acqua, Frederick, mentre aiuto il colonnello a mettersi seduto. - disse tendendogli il bicchiere.
- Ce la faccio da solo. - e senza dare a nessuno il tempo di replicare, Harlock si appoggiò sui gomiti rizzandosi a sedere. La stanza ondeggiò leggermente ma Harlock non volle badarci: rispetto a prima era già un discreto progresso.
Lemort lo guardò con biasimo.
- Non dovreste alzarvi così presto, avete bisogno di riprendere pian piano le forze.
- Le forze sono già tornate. - replicò il colonnello, sorseggiando la sua acqua. Era inaspettatamente fresca e fu un sollievo per il fisico oltre che per la gola.
- E’ cocciuto. - sussurrò Frederick all’orecchio di Lemort. - Ma anche questo è uno dei suoi pregi.
- Già... - ammise Lemort con un sospiro.
Passarono solo pochi minuti e il colonnello era già seduto sul divano, con i piedi appoggiati sul pavimento e la schiena rilassata contro la spalliera. Era vero che si sentiva meglio ma questo ‘meglio’ non era ancora la perfezione della sua forma fisica. Continuava a provare un senso di spossatezza generale che lo infastidiva e un peso inspiegabile al centro del petto. Odiava sentirsi debole, un’esperienza che del resto gli era capitata ben poche volte nella vita, perché questo fatto limitava la sua indipendenza, la sua autonomia e, in breve, la sua libertà. Lemort si sincerò ancora un paio di volte che Harlock stesse davvero bene, pur sapendo d’incorrere così nella sua disapprovazione, ma non poteva evitare di domandargli come si sentiva dato che il suo aspetto era sì migliorato ma non quanto si aspettava: il suo viso non aveva riacquistato il bel colorito che gli era consueto e le sue mani, che Lemort aveva avuto l’occasione di sfiorare ancora una volta riprendendo il bicchiere, erano ancora fredde.
Il colonnello non sembrava intenzionato a discutere oltre delle sue condizioni fisiche e così la conversazione si spostò praticamente da subito su altri argomenti. Irwing e Myura, che furono i primi a tornare, li trovarono rilassati come se nulla fosse accaduto, immersi in un dialogo che pareva piuttosto piacevole. I nuovi arrivati si unirono allegramente alla conversazione e Myura approfittò subito del posto vuoto sul divanetto per sedersi accanto ad Harlock e godere ancora un poco della sua vicinanza fisica. Trovò il colonnello particolarmente rilassato e anche per una persona che lo conosceva così poco come lui non fu difficile accorgersi che sorrideva molto più del solito. Gli occhi di Lemort, però, anche se nessuno se ne avvide, non abbandonarono mai il volto di Harlock, spiando ogni minimo mutamento della sua espressione o del suo colorito con la stessa costanza di un lupo che scruta la sua preda acquattato nel buio.
Il resto della serata trascorse rapida e tranquilla: una decina di minuti dopo il ritorno dei conti di Zoder e di Hessex erano rientrati anche Hadrian e Maximilian e, benché ormai tutti apparissero molto più sobri e riuscissero a discorrere in modo rilassato e amichevole, non scomparvero mai del tutto le battute maliziose o ambigue, rivolte per la maggior parte a qualcuno dei presenti, o ancora le occhiate d’intesa che ogni tanto si scambiavano tra loro, unite a qualche complice sorriso. Harlock non mancò di notare tutto questo e di farsi nuove domande su quei giovani così singolari ma, nonostante questo diversivo, il pensiero di quel fastidioso mancamento non abbandonò mai del tutto la sua mente e dentro di lui un dubbio profondo e cupo si faceva sempre più strada.
Harlock e Frederick furono tra i primi a lasciare il teatro. Su insistenza di Lemort, che non poteva abbandonare il palchetto finché gli altri suoi ospiti vi si intrattenevano, il maggiore accompagnò Harlock alla sua vettura, fingendo di voler scambiare con lui le ultime chiacchiere. Prima che il colonnello salisse in carrozza volle anche sincerarsi che si sentisse perfettamente in forze, e questi lo rassicurò in modo sbrigativo, palesemente infastidito da tanta premura.
- Vorrei farvi notare, Frederick, che non sono a cavallo: il mio cocchiere conosce bene la strada e mi riporterà indietro… fosse anche morto. – disse il colonnello, un piede poggiato sullo scalino della carrozza e l’altro ancora sospeso a mezz’aria.
- E’ proprio quello che vorrei evitare. – rispose Frederick, salutando il suo amico con un sorriso e un gesto della mano, prima di allontanarsi.
Miriadi di stelle brillavano, lontane e silenti, nel blu profondo delle tenebre autunnali. Un vento sottile e tagliente, insolito dopo una giornata d’autunno tanto mite, aveva accolto i due giovani all’uscita dal teatro e ora li accompagnava, come un servitore muto ed indiscreto, nel loro viaggio verso casa. Il conte di Lorckshire non aveva mentito a Frederick: la stanchezza sembrava essersene completamente andata e nessun disturbo gli diede noia nel tempo che trascorse per strada. Ma nemmeno quest’apparente normalità riusciva a scacciare dal suo cuore l’insidioso presagio che vi aveva messo radici, penetrante e persistente come quel vento lieve.

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Capitolo 8
*** Conversazioni - prima parte ***



Capitolo VII

Conversazioni - Prima parte


Qualche giorno dopo, la contessa Eva di Lorckshire sedeva da sola nella Sala delle Ninfe. Indossava un vestito da giorno di colore azzurro, semplice ed elegante nello stesso tempo ed i capelli erano acconciati in morbidi boccoli che le ricadevano sulle spalle nude incorniciandole il volto, conferendogli in tal modo maggior splendore. Non era ancora ora di pranzo e avendo deciso, come accadeva molto di rado, di trascorrere a casa quel giorno, se ne stava tranquilla nel suo salotto, intenta ad un ricamo che non prendeva in mano da diverse settimane. Mentre stava così, immersa nei suoi pensieri, un servo bussò alla porta. Reggeva in mano un vassoio, sul quale erano appoggiati diversi biglietti, recanti i sigilli e le firme più svariate. Il servitore fece un lieve inchino, posò il vassoio sul tavolo di fronte alla contessa ed uscì.
- I soliti inviti… - mormorò Eva con un sorriso, compiacendosi di essere così ricercata. Scorse uno a uno i nomi dei mittenti: tutte persone piuttosto in vista, che godevano di un’ottima posizione e di un certo prestigio sociale.
- Oh, questo è indirizzata ad Harlock… - esclamò quando lesse il nome di suo figlio su uno dei biglietti. – Chissà chi glielo manda? Forse una dama o la famiglia di qualche fanciulla in età da marito?
Voltò il biglietto speranzosa, ma trasalì appena vide il nome del mittente:
- Lemort Vincent di Larckstein? Impossibile: che cosa può volere da mio figlio? – sul volto della contessa si dipinse subito un’espressione preoccupata. Si strinse il biglietto contro il petto mentre rifletteva sul da farsi e alla fine decise che la cosa migliore fosse parlarne direttamente con l’interessato e così, senza pensarci oltre, s’alzò e si diresse verso la stanza da letto di Harlock.
Il colonnello era da poco tornato da una lunga cavalcata e si stava cambiando d’abito. L’armadio era spalancato e alcuni indumenti gettati in disordine sul letto o sul pavimento. La contessa bussò delicatamente alla porta e subito le rispose la voce di suo figlio, che la pregava di attendere alcuni istanti, poiché era ancora mezzo spogliato. Quando finalmente poté varcare la soglia, inarcò le sopracciglia alla vista di tanto scompiglio e lanciò a suo figlio un’occhiata di disapprovazione, ma non disse nulla: fortunatamente la sua condizione le risparmiava il compito di dover rimettere in ordine.
- Sei sempre fuori a cavalcare… - commentò soltanto, avanzando verso di lui.
- Se non sto cavalcando sono nell’atelier e anche su quello avete da ridire. – replicò Harlock distrattamente.
- Lo sai che vorrei che tu facessi un po’ più di vita di società: ci sono tante persone che mi chiedono di te, che vorrebbero tu mi accompagnassi a qualche party, a qualche festa o a palazzo.
- Vi accompagna già lord Anthony. – rispose il colonnello annodando il foulard.
Perché mai lo metti, se tanto fra poco lo scioglierai e resterà solo un lembo di stoffa passato attorno al collo o, peggio, lo dimenticherai su di una poltrona del salotto o nel tuo atelier…
Si chiese la contessa, osservando suo figlio che finiva di vestirsi, restando in silenzio per alcuni istanti, finché non si decise ad affrontare l’argomento per il quale era venuta fin lì.
- Poco fa Jacob mi ha portato i biglietti d’invito che sono giunti questa mattina… - esordì, scrutando di nascosto il volto di Harlock – Ce n’era uno anche per te. – concluse, tendendogli il biglietto ancora sigillato.
- Spero non sia l’inizio di una brutta abitudine. – commentò il colonnello, prendendolo. – Di chi è?
Lo girò e vide, in una calligrafia elegante e minuta, la firma del duca di Larckstein. L’aprì e lesse in silenzio il breve messaggio.
- Come mai il duca di Larckstein ti ha mandato un invito? – chiese Eva, fingendo un disinteresse che non provava affatto.
- Non è un invito: mi ringrazia per essere stato a teatro con lui lo scorso venerdì. – rispose il colonnello, alzando gli occhi dal foglio. Non disse che Lemort gli chiedeva anche notizie sulla sua salute, augurandosi che ora stesse meglio.
- Non mi avevi detto che eri andato a teatro con lui. – replicò sua madre, accigliandosi.
- Vi avevo detto che ci andavo con alcuni amici del maggiore Narwall. – rispose Harlock perplesso.
- Però non avevi fatto il nome del duca di Larckstein.
- Non lo ritenevo necessario. – disse il colonnello – Perché v’infastidisce che non vi abbia messo al corrente del nome di colui che mi ha invitato?
- Perché, se avessi saputo di chi si trattava, ti avrei sconsigliato di andare a teatro: il duca di Larckstein non è affatto una buona compagnia ed è un male anche per il nome della nostra famiglia che tu lo frequenti.
Il colonnello divenne scuro in volto e un’espressione di rimprovero comparve nei suoi occhi mentre fissava la madre.
- Su quali basi fate simili affermazioni? – le chiese.
- Solo tu che sei vissuto lontano per tutto questo tempo puoi non sapere le vicende che riguardano il duca di Larckstein: è un giovane vizioso, che conduce una vita dissoluta assieme ai suoi amici, tutti giovani di importanti e rispettate famiglie e che proprio per questo si permettono di divertirsi come meglio credono, facendosi beffe della morale e delle regole sociali. Non voglio che tu lo frequenti!
Harlock inarcò le sopracciglia e il suo sguardo si rabbuiò ancora di più. Eva conosceva quell’espressione e, benché si trattasse di suo figlio, un brivido di timore le percorreva le spalle ogni volta che vedeva quello sguardo.
- E’ inutile che mi fissi così. – disse, sostenendo il peso degli occhi di suo figlio – Il mio punto di vista non cambia: non voglio che tu stia in simile compagnia. Quei giovani non sono degni di te.
- Lo sapete benissimo come la penso: su certi argomenti l’opinione della gente non ha alcun peso per me. Conoscerò chiunque susciti il mio interesse e giudicherò da solo se sono persone degne della mia presenza e della mia amicizia. Il duca di Larckstein è stato corretto con me e per il momento non ho nessun motivo per evitarlo.
- Vuoi aspettare che accada qualcosa prima di fare marcia indietro?
- Che cosa dovrebbe mai accadere? – esclamò Harlock, mentre la sua voce si alterava leggermente.
- Qualsiasi cosa… Ma soprattutto che il tuo nome sia infangato per causa sua! - anche la voce di Eva era salita di tono mentre cercava di convincere Harlock a ubbidirle con l’autorità di una madre nei confronti del figlio piccolo.
Il colonnello non disse nulla ed Eva riprese, avvicinandoglisi e posandogli una mano sul braccio.
- Harlock… sei tornato dalla guerra come un eroe, il tuo nome è circondato di onore e di gloria. Vuoi che tutto quello che hai fatto fin qui sia inutile, vuoi essere nominato assieme a tutti coloro che sono coperti d’infamia e di vergogna, assieme a coloro che non potranno più rialzarsi da una simile condizione?
- Che cosa dite? – mormorò il conte di Lorckshire, scuotendo la testa. – Io ho combattuto per il mio paese: della gloria e della fama non m’importa nulla! Il maggiore Frederick è mio amico e mi ha presentato questi giovani: saranno anche quel che dite, ma da quando sono tornato gli unici discorsi colti ed interessanti li ho trovati solo restando in loro compagnia. - concluse ripensando all’ultima parte della serata, quando Irwing e gli altri, ritornati al palchetto molto più sobri, avevano discusso con lui non solo della commedia di Osemberg ma anche della produzione teatrale più recente, di musica e poesia.
- Ma è naturale, passi tutto il tuo tempo chiuso tra le quattro mura di quell’atelier oppure in solitarie cavalcate – prorruppe sua madre - Chi vuoi incontrare in certi posti che faccia discorsi interessanti, che s’intrattenga con te conversando d’arte, di poesia e di filosofia? Un contadino, forse, o qualche pastore? Harlock, sii serio.
- Io sono serio! Se parlo con qualcuno a palazzo mi sento spesso riferire i soliti pettegolezzi o i classici discorsi sui fatti del giorno riguardanti il re o qualcuno dei nobili più in vista. Ho conosciuto quei ragazzi e abbiamo parlato di argomenti piacevoli, che m’interessava ascoltare… non ho intenzione di entrare nel loro entourage, ma nemmeno di allontanarli da me senza averli ancora conosciuti.
- Questo non basta: quando li avrai frequentati per un certo tempo e t’accorgerai che è stata una scelta sbagliata, sarà troppo tardi, non potrai più liberarti dal legame che si sarà instaurato tra il tuo nome e il loro! – ribatté Eva, accorata.
- Tutto ciò non ha alcuna importanza per me. – disse Harlock.
- Ma lo ha per me: sono tua madre, voglio impedirti di commettere certi errori, quando mi è possibile!
- Vi state facendo un mucchio d’inutili problemi. Quei giovani li ho appena conosciuti, potrei non rivederli mai più o potrei scambiare con loro solo qualche occasionale parola, dunque non è il caso che vi angustiate tanto per un legame che non è neppure detto s’instauri. – fece una breve pausa, indi riprese, vedendo che sua madre accennava di nuovo a protestare – E poi non credo nemmeno di essere l’unica persona che li ha frequentati, giusto? Il maggiore Narwall, per esempio, è loro amico e penso che altre persone cosiddette dabbene s’intrattengano in loro compagnia.
- Infatti per me è stata una sorpresa sapere che il conte Frederick di Narwall è in amicizia con il duca di Larckstein: non avrei mai pensato che un uomo come lui, di ottima famiglia e di estrazione sociale elevata, potesse frequentare certa gente…
- Certa gente... - gli fece eco Harlock, stizzito - Vi ricordo che il duca di Larckstein è imparentato direttamente con la casa reale.
- Sì, ed è solo grazie a questo che non è ancora stato cacciato da corte e che i suoi amici, forti della sua protezione, possono condurre la via che fanno, sotto gli occhi di tutti.
- Ho capito: terminiamo qui quest’inutile discorso. – concluse il colonnello, prendendo la sua giacca e gettandosela su di una spalla mentre s’avviava verso la porta.
- Possibile che non t’importi mai dell’opinione di tua madre? – gridò Eva, arrossendo di sdegno.
- Non è vero che non m’importa della vostra opinione. – replicò Harlock con voce calma, voltandosi di nuovo – Ma su quest’argomento abbiamo opinioni talmente diverse che è inutile continuare a discutere, non verremmo mai a capo di niente. Io non ho intenzione di cambiare il mio atteggiamento e voi neppure, dunque risparmiamoci un infruttuoso litigio.
- Non dovrebbe esserci nessuna discussione, dovresti accettare il consiglio di tua madre e basta. – ribatté la contessa, ancor più infastidita dalle considerazioni di suo figlio.
- Appunto: il vostro è un consiglio, non un ordine e i consigli si ascoltano, ma nessuno può costringerci ad accettarli e a metterli in pratica. Io non voglio farvi esasperare e non mi diverte nemmeno avere continui scontri d’idee con voi, però sapete benissimo come la penso, soprattutto a riguardo di certe questioni. Lasciatemi decidere da solo, nel bene e nel male, quale deve essere la mia condotta di vita. Consigliatemi pure tutte le volte che lo ritenete necessario, ma non aspettatevi che io vi ubbidisca automaticamente solo perché voi siete convinta che la vostra visione delle cose sia giusta. O solo perché siete mia madre.
Si mosse di nuovo verso la porta, afferrò la maniglia e fece scattare la serratura. Eva rimase in silenzio, in mezzo alla stanza. Il colonnello si voltò, la guardò dolcemente e riprese:
- Non abbiatecela con me: non faccio tutto questo perché disprezzo le vostre opinioni e i vostri sentimenti… vi prego, madre, cercate di capirmi. – mormorò infine, abbassando lo sguardo.
Uscì, senza richiudere la porta. La contessa di Lorckshire sospirò, portandosi una mano al viso, costernata. Quindi, come per aiutarsi a pensare, iniziò ad andare su e giù per la stanza, riflettendo sul da farsi.
- Dopotutto è vero: forse mi sto preoccupando per nulla… - disse, cercando di tranquillizzarsi – Non è detto che Harlock riveda ancora quei ragazzi e di certo era in buona fede quando ha accettato l’invito, non sapendo nulla del duca di Larckstein o degli altri convitati. Mi chiedo però perché il maggiore Narwall non gli abbia detto niente e lo abbia convinto a partecipare a quella serata a teatro.
Rimase in silenzio, assorta, riprendendo poco dopo il filo dei suoi pensieri.
- Però… perché mio figlio deve sempre discutere su ciò che gli dico, perché non accettare senza tante opposizioni le parole di sua madre? Adesso che è un uomo crede di poter fare sempre tutto di testa sua, come se nessuno fosse più in diritto di metterlo in guardia!
Gli ultimi pensieri avevano contribuito più ad aumentare che a mitigare la stizza di Eva, che per calmarsi preferì uscire dalla stanza del figlio e passeggiare lungo i corridoi. Aveva fatto solo poca strada quando incrociò il conte di Ayveron, che subito, vedendola, si fermò: sul volto della contessa traspariva ancora chiaramente tutto il turbamento che le agitava il cuore.
- Avete avuto una discussione con vostro figlio, non è così? – le disse dolcemente Anthony prendendole le mani – Vi ho sentiti parlare dalla mia stanza…
- Stavamo gridando, vero? – Eva sorrise amaramente, abbassando lo sguardo.
- No, ma le vostre voci erano entrambe alterate. – rispose Anthony, cercando di tranquillizzarla – E’ forse accaduto qualcosa di grave?
- Per ora no… ma temo che possa esservi qualche evento spiacevole in futuro.
Anthony rimase in silenzio, attendendo che Eva proseguisse il suo discorso. La contessa sollevò gli occhi su di lui e riprese.
- So che Harlock è stato nel palchetto del duca di Larckstein, venerdì sera, su suo esplicito invito. Lui non si rende conto che frequentando quel giovane rischia di macchiare la propria reputazione per sempre e non vuole nemmeno ascoltare i consigli di sua madre. Dice che i giovani che fanno parte della cerchia del duca gli sembrano tutti interessanti e colti e che conversare con loro è piacevole, più che intrattenersi con altri aristocratici che frequentano la corte. Io non so davvero come fare perché capisca come stanno realmente le cose. – concluse, scuotendo il capo.
- Il duca di Larckstein gode comunque di una posizione di tutto rispetto e molte persone cercano il suo appoggio e la sua protezione per avvicinarsi al re, contando sul prestigio che il suo casato ancora possiede. – le disse Anthony – Non credo sembri tanto strano che anche un uomo come il colonnello stia in sua compagnia: anche se non ha nulla da chiedere al duca in termini di favori o aiuti, comunque quelle dei Lorckshire e dei Larckstein sono due famiglie illustri e d’antica nobiltà, che possono intrattenere tra loro importanti e proficui rapporti.
- La pensi anche tu come mio figlio, dunque? – disse Eva, sospirando.
- Volevo solo tranquillizzarvi: forse quello che vi sembra un male in realtà non lo è. Certo, a patto che il conte eviti di frequentare il palchetto del duca di Larckstein, soprattutto se vengono tirate le tendine.
- Hanno tirato le tende? – esclamò Eva allibita. – Chi te l’ha detto?
- No, state tranquilla! – ribatté Anthony, afferrando delicatamente le mani che la contessa tendeva verso di lui. – So che è una pratica molto usata da Lord Lemort, ma non ho sentito nessuna voce in tal senso a proposito di venerdì sera, inoltre non ero nemmeno a conoscenza del fatto che il conte fosse stato nel suo palco.
- Oh, ti prego, Anthony, parlagli tu! – disse Eva concitata. – Forse ti darà ascolto…
- Darà ascolto a me? – esclamò Anthony, ridendo – Penso davvero di essere l’ultima persona che può fargli cambiare idea, visto che praticamente mi detesta.
- Oh, non dire così: Harlock si è offeso perché non gli ho parlato prima del nostro rapporto, ma non può avere nulla da ridire sul tuo conto. Ti prego, Anthony, cerca di convincerlo: voi due avete pochi anni di differenza, siete due giovani che possono parlare alla pari, confrontarsi… forse ti ascolterà e capirà che quello che gli ho detto è giusto.
Il conte di Ayveron sospirò, chiudendo gli occhi per un breve istante.
- Va bene, cercherò di parlargli. – acconsentì in tono paziente – Ma non vi assicuro niente, nemmeno che il mio discorso non lo indisponga ancor di più.
Eva sorrise raggiante e ringraziò Anthony con un delicato bacio sulle labbra, che questi accolse con piacere.
- Comunque, vostro figlio immaginerà subito che siete stata voi a chiedermi di parlargli. – aggiunse il conte di Ayveron.
- Cerca di essere discreto, di trovare un modo per entrare nell’argomento. – suggerì Eva, il cui volto aveva ripreso la consueta espressione tranquilla.
- Come volete. Però voi intanto non angustiatevi: non è davvero una cosa tanto grave conoscere il duca di Larckstein e stare in sua compagnia. Dopotutto, molte delle cose che si dicono sul suo conto sono e restano solo delle voci, che nessuno ha mai dimostrato: qualunque cosa faccia, nel suo palchetto o nella palazzina di caccia di famiglia, si guarda bene dallo sbandierarlo ai quattro venti.
- Lo so, Anthony: ma anche le voci possono uccidere. Soprattutto una reputazione onorata.


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Capitolo 9
*** Conversazioni - seconda parte ***



Capitolo VII
Conversazioni - seconda parte
 


Qualche giorno dopo la sorte offrì ai due giovani l’occasione per parlarsi faccia a faccia. Harlock era uscito molto presto a cavallo, ma quella mattina anche il conte di Ayveron aveva fatto lo stesso ed aveva attraversato con il suo destriero i possedimenti dei Lorckshire per molti chilometri, fermandosi infine lungo un ramo del fiume Sheylon, deviato molto tempo prima perché le sue acque potessero irrigare le terre appartenenti alla famiglia. Anthony sostò in una radura, dove l’erba bassa e ancor verde offriva un piacevole tappeto per sdraiarsi e riposare e dove d’estate crescevano gigli selvatici e i roveti davano more dolci e succose. Era un luogo privilegiato lungo il corso del fiume, le cui acque in quel punto si facevano meno impetuose e durante la bella stagione si poteva tranquillamente fare il bagno. Pure Harlock conosceva molto bene quel posto e lo sceglieva spesso per le sue soste, così anche quel giorno vi si fermò a riposare e a dissetarsi. Quando arrivò, il conte di Ayveron era già lì, disteso tra l’erba, un po’ nascosto dietro alcuni alti giunchi che crescevano lungo la riva. Nessuno dei due si avvide della presenza dell’altro, ma Harlock rivelò presto se stesso rivolgendo la parola al suo destriero per invitarlo a non bere perché troppo sudato. Egli era certo che Tenebra capisse perfettamente tutto quello che gli diceva e in effetti anche quella volta dimostrò di aver inteso perché, scrollando la testa in segno di disapprovazione, si allontanò dalla riva per mangiare un po’ d’erba.
Al suono di quella voce Anthony sussultò, rizzandosi a sedere.
Il conte di Lorckshire… Non si può proprio stare tranquilli da nessuna parte.
In breve, però, l’aria imbronciata con la quale aveva accolto la consapevolezza della presenza di un intruso si trasformò in un ghigno divertito e così rimase in assoluto silenzio ad attendere l’avvicinarsi del colonnello.
Harlock intanto si era inginocchiato accanto alla sponda e aveva tuffato una mano nell’acqua per bere. Anthony poteva vederlo dal suo riparo mentre si dissetava ma non proferì parola, rimanendo in attesa della prossima mossa del colonnello. In effetti, poco dopo, Harlock si diresse proprio verso il luogo in cui si trovava Anthony e, giunto a pochi passi da lui, lo scorse oltre il canneto. Non riconoscendo inizialmente a chi appartenesse quella figura in abiti da cavallerizzo, avanzò fino a superare i giunchi e a ritrovarsi sullo stesso prato di Anthony.
- Buongiorno colonnello. – lo salutò questi con il più caldo dei sorrisi – Anche voi da queste parti?
- Conte di Ayveron… - Harlock si fermò, sorpreso, a pochi passi da lui. Rimasero entrambi in silenzio per alcuni istanti, ognuno con gli occhi fissi in quelli dell’altro.
- Non sapevo foste uscito a cavalcare… - esordì d’un tratto il colonnello, sedendosi accanto ad Anthony.
- Nemmeno io ero a conoscenza della vostra uscita, sebbene dovessi aspettarmelo, dato che non passa praticamente giorno che non stiate in compagnia di quella povera bestia… voglio dire, di quello splendido destriero. – un sorriso beffardo brillava ora sul volto di Anthony.
Harlock gli lanciò un’occhiata infastidita, che non riuscì tuttavia a spegnere quel luminoso sorriso.
Che razza di ragazzaccio! Invece con mia madre è sempre tutto gentilezze e moine…
Il colonnello raccolse uno stelo d’erba e se lo pose tra le labbra, restando in silenzio.
- A furia di stare con il vostro cavallo avete iniziato a mangiare l’erba? – esclamò Anthony, ridendo.
- Perché non la smettete di provocarmi? – Harlock si volse, incapace di dissimulare il suo disappunto.
- Siete voi ad essere troppo suscettibile: dovreste imparare a stare agli scherzi. – replicò Anthony, divenendo serio.
- E voi dovreste imparare ad essere meno insistente con certe sciocche battute.
- Come siete permaloso! – sbottò il conte di Ayveron, alzandosi in piedi. – Se non foste prevenuto nei miei confronti non reagireste in questo modo.
- Io non sono prevenuto.
- Davvero? Mi guardate storto dal primo giorno che mi avete visto, quando eravate appena tornato.
- Veramente, in quell’occasione siete stato voi a guardarmi storto, probabilmente per via dell’uniforme logora e in disordine. – ribatté Harlock, fissando Anthony negli occhi.
- Non potevo immaginare che foste il figlio di Eva appena tornato dalla guerra.
- Non ci voleva certo la scala per arrivarci! – replicò il colonnello, sarcastico.
- La… scala? – balbettò Anthony. – E’ forse un modo di dire che avete imparato tra i soldati?
- Lasciamo perdere… - Harlock distolse lo sguardo da lui, tornando a fissare le acque dello Sheylon che scorrevano veloci.
Tacquero entrambi per alcuni minuti, con la musica del fiume in sottofondo ai loro pensieri. Poi fu Anthony a riprendere la parola.
- Possibile che con voi non si riesca mai a conversare senza finire per discutere? Siete una persona litigiosa! Se non aveste scelto la carriera militare avreste fatto duelli ogni giorno con il primo poveraccio che vi capitava a tiro.
Harlock si voltò verso di lui per ribattere qualcosa, ma le parole gli morirono tra le labbra. Tornò a fissare le acque del fiume, perdendosi nei suoi pensieri. Per un po’ Anthony non distolse lo sguardo da lui, ma vedendo che il colonnello non si ridestava dal suo solitario ragionamento, gli si sedette accanto, fissando la stessa acqua limpida e fredda.
- Credo davvero che dovreste cercare di riallacciare i rapporti con la società, con il mondo civile. – gli disse dopo un lungo silenzio. - Siete stato troppo a lungo in guerra e avete perso la capacità di convivere pacificamente con il resto degli uomini.
- Non sono ancora a questo punto, nonostante vi siate potuto fare una simile idea dai rapporti che noi due abbiamo avuto fin qui. Forse è solo un difetto del mio temperamento, troppo battagliero e sempre in lotta contro tutti. Combattere non mi spaventa, neanche nella relazioni interpersonali, ma generalmente lo faccio con le persone che, per le più varie ragioni, riescono ad indispormi. Non c’è bisogno che vi citi degli esempi.
Anthony colse la stoccata e benché la classica battuta gli venisse spontaneamente alle labbra, s’impegnò a proseguire una conversazione su toni pacati, senza lanciare frecciatine che avrebbero indisposto il suo interlocutore.
- Ammettendo che quello che dite sia la verità e non sussistano altre ragioni per la vostra litigiosità, perché questa resta un dato di fatto, dovete concedermelo, - aggiunse Anthony vedendo come Harlock lo guardava in tralice – credo che tutta questa solitudine vi renda ancora più ombroso e scostante: invece di fuggire le occasioni mondane, cercate di approfittarne per migliorare il vostro rapporto con la gente.
Harlock sospirò per mantenersi calmo.
- Nonostante tutto, credo di avere bisogno di stare un po’ da solo. E poi… - riprese, mentre un pensiero riemergeva alla coscienza. – L’unica volta che accetto un invito mondano e mi reco a teatro mi devo sentir rimproverare per la scelta della compagnia.
- Cosa intendete? – chiese Anthony, che aveva colto in quell’affermazione un riferimento alla serata trascorsa nel palco del duca di Larckstein.
- Qualche sera fa sono stato a teatro con Lemort di Larckstein e i suoi amici. - rispose semplicemente Harlock, dopo essere rimasto in silenzio alcuni istanti.
- Siete andato nel palchetto del duca? – chiese Anthony.
- Ovviamente, dato che è stato lui ad invitarmi.
- Voi siete tornato da poco e probabilmente non sapete cosa si mormora a proposito del palco dei Larckstein. – continuò Anthony. – Si dice sia un luogo di perdizione, dove avvengono incontri proibiti fra i giovani rampolli della nobiltà.
Harlock fissò Anthony, nel volto un espressione di chiaro stupore. Poi i ricordi di tutti i piccoli dettagli fuori posto che aveva notato quella notte s’incastrarono gli uni negli altri, trovando la loro esatta collocazione: Myura che accarezza la sua divisa, gli sguardi e la battute maliziose dei convitati, Lemort che gli sfiora la guancia. Un improvviso rossore colorì il volto del colonnello a quell’ultimo, vivido, pensiero e per nasconderlo distolse di nuovo lo sguardo dagli occhi chiari di Anthony. Le acque dello Sheylon, che avevano sempre avuto il potere di calmarlo, sembravano possedere anche la misteriosa capacità di rinfrescarlo, seppur da lontano e così, nell’osservarle, sentì che l’imbarazzo che aveva fatto avvampare il suo viso stava scomparendo.
Riprese di nuovo a seguire il corso dei suoi pensieri.
Frederick era l’unico, tra quei giovani, che gli sembrava essere sempre lo stesso che conosceva. O quasi. Ma il fatto di essere più rilassato e scherzoso in un’occasione informale, in compagnia di vecchi amici, non poteva certo diventare un valido capo d’imputazione. No, Frederick non aveva niente fuori posto.
- Non sapevo di queste voci... - furono le prime parole del colonnello.
Anthony lo scrutò con attenzione, aspettandosi di sentirgli rinnegare quella serata, ma Harlock proseguì.
- E anche se l’avessi saputo non mi sarebbe importato: me ne sono sempre fregato delle chiacchiere della gente, soprattutto perché per la maggior parte sono falsità.
Anthony sorrise.
- Ma a mia madre, invece, importa molto di queste chiacchiere.
- Eva ci tiene alla vostra reputazione.
- Reputazione… - commentò freddamente Harlock, lanciando un piccolo sasso nel fiume.
- Vi siete divertito, almeno? – riprese Anthony.
- Ho passato una serata piacevole.
- E non avete notato nulla di strano? – continuò il conte di Ayveron.
Il colonnello non rispose subito, nuovamente immerso nella rievocazione degli avvenimenti di quella notte.
- Sono ragazzi molto esuberanti, che vivono al di sopra delle regole e delle convenzioni sociali… e hanno creato tra loro una forte intimità, forse un po’ singolare. – disse infine.
- La trovate soltanto “singolare”? – chiese Anthony.
- C’è una grande complicità nelle loro parole, nei loro sguardi. Sembra si conoscano molto bene, anche negli aspetti più personali ed hanno una gran voglia di divertirsi, di vivere allegramente. Non mi è parso però che con i loro comportamenti possano nuocere a qualcuno. Certo, il giovane più strano di tutti è il conte Myura di Hessex! – rise Harlock, voltandosi verso Anthony.
- Come mai? - chiese questi.
- Ha un fare da bambina e due stupende guance rosse che ne farebbero il protagonista perfetto di qualche ammiccante dipinto di Boucher.
Anthony rise lievemente, esclamando
- Di certo è molto effeminato. Credo che gli dispiaccia non essere nato donna…
- Dite sul serio? - Harlock parve perplesso.
- Perché, voi non lo direste, osservandolo?
- Beh, in effetti… - il colonnello si ricordò di tutti gli strani atteggiamenti che Myura aveva tenuto con lui, quella sera, compresa quella sua gioia ansiosa di fargli da modello, e il suo volto alla fine si fece triste – A volte la natura è davvero crudele.
Il conte di Ayveron lo fissò con sguardo interrogativo, ma non gli occorse molto tempo per cogliere il significato di quell’affermazione.
- Ci sono persone che nascono nel corpo sbagliato… come il duca di Larckstein. – disse Anthony. – Anche lui avrebbe dovuto nascere donna.
- Il primo giorno che l’ho visto… - esordì il colonnello, interrompendosi un istante dopo.
Gli azzurri occhi di Anthony fissi su di lui lo esortarono a continuare. Harlock sorrise al ricordo di quell’avvenimento e sul suo volto sempre tanto impassibile comparve una lieve espressione d’imbarazzo.
- Quando l’ho veduto per la prima volta a corte, alcuni giorni fa, l’ho scambiato per una donna in abiti maschili. Lo so che è strano, dopotutto lui non è così effeminato… ma qualcosa nel suo aspetto mi aveva tratto in inganno. Ed aveva anche un fascino molto seducente.
- Il fascino dell’ambiguità! – decretò Anthony, sdraiandosi sul prato a fissare il cielo. Piccole nuvole leggere passarono sopra la sua testa, sospinte da un vento che ormai si era fatto più fresco.
- Già, era davvero un fascino molto ambiguo. – il conte di Lorckshire condivise quella definizione, proseguendo nella sua riflessione sul duca. – Credo che una donna in abiti maschili non starebbe poi tanto male.
- Vi piacciono le amazzoni? Le donne androgine?
- No… non è questione di “piacere”, non in quel senso, almeno. Sto solo parlando di fascino.
- Una donna con una corporatura esile, con un vitino sottile e un bel seno sodo non starebbe mai bene con un abito maschile, perché sarebbe troppo grande per lei, nasconderebbe solo la sua figura e la farebbe goffa ed impacciata. – esclamò Anthony.
- Dovrebbe essere tagliato su misura, come i vestiti che indossano sempre. A volte sarebbe anche più comodo, come quando vanno a cavallo, per esempio.
- Vi assicuro che non ci sono molte donne che vanno a cavallo: di solito preferiscono la carrozza. L’equitazione è una pratica prevalentemente maschile. – spiegò Anthony. – Ma voi non pensate ad una donna qualsiasi, voi state pensando al duca di Larckstein… Dicendo che vorreste vedere una donna in abiti maschili in verità state affermando che vorreste vedere il duca vestito da donna.
Harlock si voltò di scatto, fissando Anthony allibito, le labbra socchiuse come se non riuscisse a mettere in fila tutte le parole che, confusamente, gli si erano accavallate nella testa.
- Come… come vi salta in mente una deduzione del genere, tanto strampalata quanto campata in aria? – sbottò.
Anthony rise, di un riso squillante ed argentino che salì, fresco e giovane, fino alle alte chiome dei pioppi che frusciavano sopra le loro teste.
- E non ridete! – lo rimproverò Harlock, voltandosi di nuovo verso il fiume, più confuso che indispettito.
- Non vi offendete, colonnello! – disse Anthony, sempre ridendo – In fondo non avete tutti i torti: sono sicuro che il duca starebbe davvero molto bene in abiti femminili: dopotutto si dice che la sua somiglianza con la madre sia sorprendente.
La sua somiglianza con la madre. Queste parole risvegliarono nel cuore di Harlock un altro pensiero, sopito ormai da molti anni e per alcuni momenti vagò, d’associazione in associazione, tra i meandri della sua mente.
- Non siete l’unica persona sulla quale il duca esercita un fascino tanto intrigante e potente. – riprese Anthony, costringendo il conte di Lorckshire a ritornare nel presente. – Sembra che siano molti quelli caduti nella sua rete di sirena pescatrice d’uomini.
- Se fosse davvero una donna sarebbe tutto più naturale.
- Non so se al duca interessi quanti giovani ha portato alla perdizione, fin’ora: conduce la sua vita in modo molto spregiudicato, senza remore di nessun tipo. Solo la vicinanza della sua famiglia alla casa reale lo salva da una severa punizione. – disse il conte di Ayveron.
- I discorsi moraleggianti non hanno senso in un luogo come la corte e in generale tra i membri della nobiltà: c’è una moltitudine infinita di persone a cui non interessa nulla dei danni e dei dolori che arreca con il suo comportamento a quanti la circondano. – replicò Harlock. – E credo non sia nemmeno l’unico a seguire una condotta di vita così particolare e libertina.
- E’ vero, ma tutti gli altri sono molto più accorti di lui e l’aristocrazia così non ha modo di mormorare sui loro trascorsi. Mentre del duca di Larckstein si conoscono fin troppi dettagli su di un argomento tanto delicato e scottante… e insieme alle sue vicende, si vengono a sapere anche quelle dei giovani che lo frequentano e intrecciano con lui legami sentimentali. – Anthony parlava molto seriamente, ora, ed Harlock rimase ad ascoltarlo in silenzio. Anche quando il conte ebbe terminato il suo discorso, continuò a tacere.
Anthony fissò a lungo il colonnello, sempre muto. Poi riprese:
- Andare nel palchetto del duca di Larckstein o, peggio, alla sua palazzina di caccia, equivale ad una dichiarazione d’intenti. E’ un po’ come dire: “sono entrato nella cerchia dei suoi amici più intimi”.
- Insomma, l’unico luogo dove si può frequentarlo tranquillamente è a corte, nei posti di pubblico passaggio, così da essere sotto gli occhi di tutti, perfettamente controllabili, perfettamente limpidi e trasparenti, in intenti ed azioni. – concluse il colonnello, piantando i suoi occhi castani in quelli di Anthony e fu come se una nube levatasi dalla terra oscurasse l’azzurro del cielo.
- Ci sono dei luoghi che hanno un significato particolare, questo dovreste saperlo meglio di me. – replicò Anthony.
- I luoghi hanno il significato che noi gli attribuiamo.
- Mettetela come volete, però è così: la palazzina e il palco del duca sono ambienti di fornicazione. Questo è quello che si dice e chi li frequenta sa a cosa va incontro. – rispose il conte di Ayveron, freddamente.
- Quei posti di proprietà del duca hanno assunto tale significato perché è stata l’insana e morbosa fantasia della nobiltà ad attribuirglieli. Se nessuno di quei moralisti ben pensanti è mai stato nel suo palchetto o, peggio, nella sua palazzina, come fa ad essere tanto sicuro di quello che vi avviene? – protestò Harlock, ed i suoi occhi si fecero più cupi.
- Evidentemente qualcuno ha raccontato qualche particolare… o forse, ed è molto probabile, un servitore ha chiacchierato troppo. – Anthony si alzò in piedi, pulendosi i pantaloni dall’erba. – Infine, colonnello, non è solo ciò che effettivamente vi accade ad essere importante, ma anche ciò che si crede vi avvenga: le convinzioni umane guidano le azioni tanto quanto i fatti reali.
- Non si può ghettizzare una persona solo per questo: delle dicerie non bastano! – replicò Harlock.
- Non sono soltanto dicerie: veramente quella sera non vi siete accorto di nulla? Siate sincero con voi stesso. – la voce di Anthony scese nel profondo dell’anima di Harlock e gli sembrò che, per un istante, qualcuno vi accendesse una vivida luce.
Harlock sospirò, lasciandosi cadere sull’erba, le braccia aperte. E ripensò a tutti quegli sguardi, agli occhi avidi di piacere e desiderio che lo avevano fissato lungamente, alle mani che lo avevano sfiorato con un fremito, ai tanti modi in cui il suo nome era stato pronunciato. Ed infine, al volto pallido e dolce di Lemort e ai suoi occhi di lupo ferito, alle labbra sottili e appena rosate che lo avevano invitato a spogliarsi… Il colonnello serrò forte le palpebre e si portò una mano alla fronte, mentre il conte di Ayveron continuava ad osservarlo, con lucido distacco. Poi si allontanò, silenzioso, si accostò al suo cavallo, prendendo le briglie tra le mani. Lanciò un ultimo sguardo ad Harlock prima di montare in sella, senza dire una parola di commiato, e diresse il suo destriero verso la stradina che, serpeggiando tra i campi, conduceva al castello dei Lorckshire. Il colonnello ascoltò il ritmico suono degli zoccoli allontanarsi sempre di più finché ebbe coscienza di esser rimasto solo, circondato unicamente dai pensieri suscitati da quel lungo colloquio.

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Capitolo 10
*** La contessa di Lesath ***


Capitolo VIII

La contessa di Lesath



Per molti giorni il tempo fu cattivo: la pioggia aveva iniziato a cadere, portando tra le sue liquide dita il fangoso autunno. Harlock aveva rinunciato alle sue cavalcate perché i sentieri erano divenuti un pantano impraticabile ed aveva ripreso a dipingere con maggior costanza, pur non potendo giovarsi di quel modello che gli sarebbe stato tanto utile per proseguire i suoi studi anatomici. Durante quelle noiose settimane Harlock era andato un paio di sere a teatro in compagnia della madre e del conte di Ayveron, e talvolta con loro c’erano stati anche degli ospiti di riguardo, invitati dalla contessa di Lorckshire. Qualche pomeriggio si era pure dedicato alla scherma, allenandosi in giardino se la pioggia concedeva una breve tregua oppure nella Galleria delle Armi.
Quel pomeriggio, invece, si trovava nella Sala delle Ninfe assieme alla madre e al conte di Ayveron a prendere un po’ di tè. Fuori il cielo era di un azzurro spento e a tratti alcune nubi impalpabili offuscavano quel po' di sole che, timidamente, osava ancora riscaldare la terra. Dopo aver discusso di arte e dei lavori che il colonnello stava portando avanti nel suo atelier la loro conversazione si era spostata sulla musica e così Eva aveva colto l’occasione per fare una proposta ai suoi due uomini.
- Che ne diresti, Anthony – esordì – di suonare un poco il violino per noi? E’ da tanto che non ti ascolto più e comincio a sentire nostalgia delle dolci note che sai trarre dal tuo strumento. Harlock potrebbe accompagnarti al pianoforte: di certo abbiamo in casa lo spartito di qualche sinfonia che potreste eseguire assieme.
- Io sono molto arrugginito… - protestò il colonnello – Non ho più rimesso le mani su di un pianoforte, da che sono tornato.
- Sono certa che sei ancora bravissimo e poi si tratta di suonare qui, in famiglia. Non devi esibirti davanti a nessuno.
- Non è questo. Temo che non riuscirei ad accompagnare come si deve il conte di Ayveron: finirei per farlo sbagliare. Preferisco ascoltarlo assieme a voi.
- Non vi preoccupate: se sbaglierò, riprenderemo daccapo, finché non vi sarete riappropriato di un’ottima tecnica. – rise Anthony e di nuovo Harlock non capì se si stava prendendo gioco di lui o se dicesse sul serio.
Stavano ancora parlando quando un rumore di ruote proveniente dal viale che costeggiava la casa attirò l’attenzione del colonnello, che si alzò e si diresse alla finestra.
- Che cosa c’è? – gli chiese sua madre.
- Una carrozza… - mormorò il colonnello, aspettando il momento in cui avrebbe potuto scorgere lo stemma sulla fiancata della vettura.
- Abbiamo visite. – commentò Eva, felice che qualcuno venisse a spezzare la monotonia di quella giornata autunnale. Si alzò a sua volta, dirigendosi verso suo figlio – Non sta bene spiare di nascosto dalla finestra: fra poco Mabel verrà a dirci chi è arrivato.
Ma Harlock rimase dove si trovava, la tenda completamente scostata dalla finestra. Anche Anthony gli si avvicinò, incuriosito e attese con lui di vedere chi sarebbe sceso dalla carrozza. La contessa di Lorckshire sospirò, ma non disse altro per convincerli a spostarsi.
- E’ mia zia… - mormorò Harlock, scorgendo una slanciata figura di donna scendere il gradino della vettura, aiutata da un servo. Dopo di lei smontò un’altra giovane donna, avvolta in un lungo mantello blu cobalto. – Ariel… che sia lei?
- Raflesia hai detto? – alle parole di Harlock il viso di Eva si era illuminato – Era da tanto che non mi faceva visita. Chissà se ti troverà cambiato? Non vi siete ancora rivisti dopo il tuo ritorno.
Poco dopo le due donne giunsero nella Sala delle Ninfe, accompagnate dalla governante Mabel. Eva si fece loro subito incontro, prendendo le mani della sorella e baciandola affettuosamente su entrambe le guance.
- Come stai, Raflesia? – le chiese.
- Sto bene, ti ringrazio. E tu? – rispose la contessa di Lesath.
Una di fronte all’altra, le due sorelle erano come il giorno e la notte quando s’incontrano sul limitare dell’aurora: bionda e dalla pelle splendente Eva, lunghissimi capelli corvini e un incarnato pallido e lunare Raflesia, e benché entrambe avessero gli occhi azzurri, quelli di Raflesia erano di un colore cangiante che a volte assumeva tonalità verde mare, altre volte quelle dell’acquamarina. Questa mutevolezza era unico segnale dell’insidiosa burrasca del suo cuore.
La contessa Eva si voltò poi sorridente verso la nipote, esclamando con sincero compiacimento:
- Oh, Ariel Urania: ogni volta che ti vedo sei sempre più bella!
- Grazie zia. – rispose questa.
Ariel Urania aveva diciassette anni, il volto ovale fresco come un fiore nel quale spiccavano due intensi occhi castani dalle linee ormai adulte, e sensuali labbra carnose, rosse come una melagrana. I capelli, di un castano chiaro dai riflessi ramati, erano acconciati con ricercatezza eppure nell’insieme davano un’impressione di grande naturalezza.
Era la prima volta che Anthony la incontrava e ne restò incantato.
Anche Harlock, nel rivederla dopo tanti anni, osservò con ammirazione il cambiamento avvenuto in lei: non era più la bambina che aveva lasciato partendo per la guerra.
Dopo aver salutato la sorella e scambiato con lei poche parole, Raflesia rivolse lo sguardo verso il fondo della stanza dove, fin dal suo ingresso, aveva scorto le figure dei due giovani che si stagliavano contro la luce proveniente dalla finestra.
Appena i suoi occhi si posarono su Harlock, il volto le si illuminò di gioia.
- Harlock… - mormorò muovendo qualche passo verso di lui, mentre anche il colonnello le andava incontro.
- Ti trovo cambiato… - disse la contessa di Lesath, scrutandolo con attenta dolcezza. – E anche dimagrito.
Harlock sorrise come chi si è sentito ripetere quelle parole tante volte.
- Voi invece siete sempre bella ogni giorno di più: sembra che il trascorrere del tempo su di voi non abbia effetto. - le disse.
Anche Raflesia sorrise, dello stesso sorriso che poco prima si era disegnato sulle labbra di Harlock.
- Non mi salutate, cugino? – la voce di Ariel, fresca come il vento di primavera, richiamò d’un tratto l’attenzione di Harlock tutta su di lei.
- La mia cuginetta… - mormorò questi, contemplandola da capo a piedi come se fosse di fronte ad un capolavoro dell’arte scultorea. – Sono trascorsi solo quattro anni ma sembrano molti di più: in questo tempo vi siete fatta una donna, non siete più la bambina con la quale giocavo.
- Mi siete mancato molto, Harlock. – l’intenso brillare degli occhi di Ariel Urania furono più eloquenti di qualsiasi altra parola.
- Ariel, mia cara, vorrei presentarvi anche un’altra persona. – disse Eva, mentre con un gesto della mano indicava Anthony. – Questi è il conte Anthony Michelangelo di Ayveron, un mio carissimo amico.
- Onorato di fare la vostra conoscenza. – Anthony s’inchinò con eleganza e le baciò la mano.
- Il piacere è mio. – replicò Ariel.
Pur non avendolo mai visto prima, Ariel era a conoscenza del tipo di rapporto esistente tra sua zia e il conte di Ayveron grazie ad una lunga conversazione avuta con la madre qualche tempo prima.
E’ davvero molto bello… e molto giovane.
- Stavamo prendendo un po’ di tè, volete unirvi a noi? – li invitò la contessa di Lorckshire andando verso il tavolino ancora imbandito.
La contessa Raflesia e la figlia si sedettero una accanto all’altra su uno dei divanetti, mentre Harlock prese posto sull’altro divano che si trovava di fronte al loro, separati dal tavolino di cristallo. Eva si sedette sulla poltrona accanto alla sorella ed Anthony sull’altra, di fronte ad Eva e accanto ad Ariel.
- Faccio portare anche una fetta di torta o qualche biscotto. – disse Eva, suonando il campanello per la servitù.
- Grazie, zia: i dolci della vostra cuoca sono davvero squisiti.
Poco dopo, Mabel e un’altra cameriera vennero a servirli, portando ognuna un vassoio ricolmo di ogni prelibatezza. Mabel usava sempre servire con grande abbondanza gli ospiti più importanti.
- E ditemi, cara sorella, come mai questa visita improvvisa? – chiese Eva mentre la contessa di Lesath sorseggiava il tè.
- Semplicemente una visita di piacere. Inoltre avevo sentito dire che Harlock era tornato, così sono venuta per salutarlo. - sempre sorridendo, Raflesia lanciò un’occhiata tagliente al nipote che suonava come un rimprovero, ma non aggiunse altro.
- Sarei dovuto venire io, mi dispiace. – si scusò il colonnello. Raflesia annuì impercettibilmente.
- E’ vero, siete stato molto sgarbato a trascurarci così! – lo rimproverò Ariel, ma il suo volto sorridente diceva esattamente l’opposto.
- Hai ragione, Ariel. Invece è sempre fuori a cavalcare. – continuò Eva, lanciando a sua volta un’occhiata di disapprovazione a suo figlio, che non cercò di giustificarsi sapendo che sua madre diceva la verità.
- Non gliene faccio una colpa. – intervenne Raflesia – Era appena tornato dalla guerra e aveva il diritto di prendersi tutto il tempo che voleva per riposare e stare un po’ tranquillo: sarebbe stato ingiusto e scortese pretendere che si recasse ogni giorno a trovare tutti i parenti, gli amici e i conoscenti che non vedeva da tempo. Anche se forse avrebbe potuto trovare un pomeriggio per le sue uniche parenti strette.
- Infatti. - Eva sorseggiò il suo tè con tutta calma, mentre Harlock, alzando gli occhi al soffitto, si lasciava sfuggire un sospiro - E sarei contenta se ogni tanto frequentasse la buona società, invece che starsene sempre da solo, a dipingere o a cavalcare.
- Allora dovreste venire con noi a corte. – esclamò Ariel Urania, sporgendosi verso il cugino e fissandolo con occhi suadenti, le labbra un bocciolo di rosa.
Harlock la fissò senza rispondere e i suoi occhi si velarono di tristezza, divenendo scuri e penetranti.
Vi siete fatta una sirena ammaliatrice, in tutto questo tempo.
Quello sguardo invitante, quei modi seducenti erano sconosciuti alla ragazzina che ricordava, quella che andava in barca con lui nei lunghi pomeriggi d’estate e raccoglieva fiori lungo la riva, sotto il suo sguardo pieno d’affetto.
- Andate a palazzo? – chiese Anthony, sporgendosi a sua volta verso Ariel, che era seduta poco lontano da lui, alla sua destra.
- Sì, partiamo domani: i bagagli sono già preparati. – i denti bianchi di Ariel brillarono nel nuovo sorriso che rivolse al conte di Ayveron.
- Immagino vi fermerete a lungo. – disse Eva rivolta alla sorella.
- Sì, penso che trascorreremo là quasi tutto l’inverno. – rispose questa, posando sul tavolo la sua tazza da tè.
- E’ sempre stata vostra abitudine frequentare per tempi molto prolungati l’ambiente di corte. – commentò Eva e nelle sue parole c’era un tono di disapprovazione che Raflesia colse immediatamente. Le due sorelle si fissarono negli occhi, scambiandosi mutamente vecchie parole, pronunciate tante volte da non necessitare più di essere profferite.
Ariel dal canto suo stava insistendo con il cugino per ottenere finalmente una risposta positiva.
- Allora, verrete con noi Harlock?
- Non si muoverà mai di qui! – intervenne Anthony - Vostro cugino è un misantropo.
Anthony lanciò ad Harlock uno dei suoi ironici sorrisi, prima di voltarsi di nuovo verso Ariel Urania.
- E voi, conte, cosa pensate di fare? Verrete a corte? – gli chiese questa, senza smettere di sorridergli. Era come se tutta la luce del sole fosse racchiusa fra quelle labbra carminie.
Anthony sentì che gli si mozzava il fiato e la sua risposta non fu pronta come al solito.
- Non mi dispiacerebbe… può darsi che Eva abbia intenzione di andarci, la potrei accompagnare. – disse, cercando di mascherare il suo imbarazzo dietro una risposta che suonasse il più possibile sciolta.
- Volete dire che verrete a corte solo se viene mia zia? – insistette Ariel.
- La accompagna ovunque vada, molto fedelmente. – fu la volta di Harlock di lanciare una battuta sarcastica.
- Non vedo il motivo per cui dovrei lasciarla qui a casa da sola. Certo, se fosse per voi e per tutta la compagnia che le fate sarebbe già morta di solitudine.
- Questo non significa che dobbiate seguirla come la sua ombra, non credete?
- Forse voi non riuscite neppure ad immaginare cosa vuol dire che due persone stanno assieme.
- Non litigate, vi prego… - Ariel si frappose fra i due, allungando le mani in avanti, una verso Anthony e una in direzione del cugino - Perché non chiedete a mia zia che cosa intende fare? Potremmo ritrovarci tutti assieme a palazzo: è tanto tempo che non succede.
Ariel si era rivolta di nuovo solo ad Anthony ed Harlock rimase, scuro in volto, ad attendere che Anthony facesse la prossima mossa.
- Glielo chiederò. - rispose semplicemente il conte di Ayveron.
- Fareste molto presto: è qui poco distante. – riprese Harlock con voce tagliente, fissando Anthony dritto negli occhi.
- Non voglio disturbarla, sta parlando con vostra zia. – replicò Anthony.
Quando iniziano a rimbeccarsi non la smettono più! Penso che non vadano per niente d’accordo e immagino di sapere il motivo: non credo che Harlock abbia accettato l’unione tra mia zia e il conte di Ayveron. Del resto... Anthony è persino più giovane di Harlock: Eva potrebbe essere sua madre.
Ariel si rese conto che, a causa del suo lungo silenzio, gli occhi di entrambi i suoi interlocutori erano ora fissi su di lei. Così sorrise come se nulla fosse, sospirò e disse:
- Allora glielo chiederò io. Scusatemi, zia…
Si voltò verso Eva, parlando a voce più alta.
- Dimmi pure, cara. - le sorrise questa.
- Stavo dicendo ad Harlock e al conte di Ayveron che mi farebbe molto piacere se veniste tutti e tre a corte, per il tempo in cui vi soggiorneremo io e mia madre. Credete sia possibile?
- Perché no? E’ un po’ di tempo che non mi fermo a lungo a palazzo e sarebbe un’ottima occasione per indurre Harlock a fare una più intensa vita di società. – Eva sorrise, sbirciando con la coda dell’occhio la reazione del figlio, che non si fece attendere.
- Intensa… vita di società? – esclamò Harlock, uscendosene poi con una lieve, calda risata. – Riuscirete facilmente a costringermi ad andare a corte, anzi, per far felice Ariel ci vado volentieri, ma mai e poi mai riuscirete ad obbligarmi a frequentare assiduamente tutte le occasioni mondane che si presenteranno.
- Avete sentito, Raflesia? Mio figlio è davvero un giovane ombroso! – un’ironica espressione di sofferenza comparve sul viso di Eva ad accompagnare le sue parole.
- Allora è deciso: verrete tutti e tre a corte, nei prossimi giorni. – concluse Ariel esultante, abbracciando con lo sguardo i due giovani.
- Con molto piacere… - le disse in un soffio il conte di Ayveron. I suoi occhi brillarono intensamente nell’incrociare quelli di Ariel che, confusa, distolse subito lo sguardo.
- Sono molto felice che sia ritornato a casa. – Raflesia posò per un attimo i suoi occhi chiari sul colonnello prima di proseguire, sempre a bassa voce – Ho temuto così tanto per la sua vita che quasi non riesco a credere che sia di nuovo qui, sano e salvo. Durante le ultime battaglie lungo i confini del Nord, nella piana di Moor e sul fiume Oreb gli scontri sono stati così violenti e numerosi soldati ed ufficiali hanno perso la vita. La vittoria è stata pagata a caro prezzo e anche la vita di Harlock avrebbe potuto...
- Ma così non è stato. – Eva la interruppe bruscamente – Harlock è un bravissimo ufficiale e non è un uomo che muore tanto facilmente, proprio come suo padre.
La contessa pronunciò queste ultime parole con grande convincimento, come a ribadire per l’ennesima volta una verità che non doveva mai essere dimenticata. Ralfesia non disse niente, come se non avesse sentito e dopo un breve silenzio riprese:
- Quando pensate di raggiungerci a corte?
- Faremo i preparativi in questi giorni, quindi penso che fra quindici giorni al massimo saremo a palazzo… Dovrò di certo farmi fare qualche vestito nuovo. E soprattutto dovrò farne fare qualcuno ad Harlock! Pensa che qualche tempo fa si è recato a teatro… - s’interruppe un istante, ripensando al nome di colui che aveva invitato suo figlio a quella serata – Sì, a teatro… indossando la divisa di gala, che non aveva mai messo, solo perché, mentre sceglieva i vestiti, si è accorto che non aveva nulla di decoroso da indossare. Capisco che ha passato quattro anni in guerra, che tutto quello che ha nell’armadio è vecchio e molti dei suoi indumenti sono andati rovinati o perduti proprio in guerra, ma almeno, una volta tornato, poteva subito chiamare un sarto e rifarsi il guardaroba.
- Avresti dovuto pensarci tu: lo sai com’è Harlock, detesta ogni tipo di mondanità e non si è mai curato delle mode e talvolta, mi dispiace ammetterlo, nemmeno del decoro. – replicò Raflesia.
- Di certo in questo non ha preso da me! – si difese Eva. – Io non esco mai se non sono perfettamente in ordine.
- E’ il suo carattere. – rispose Raflesia. – E’ testardo, orgoglioso e fiero e piuttosto che piegarsi a qualcosa o qualcuno preferisce morire.
- Questo suo temperamento gli ha procurato sempre tanti guai anche all’Accademia militare e persino con i superiori.
- Ma gli ha sempre tenuto lontano molti individui dappoco. – Raflesia sorrise, ricordando un episodio del passato in cui Harlock aveva manifestato tutto il suo disappunto perché l’uomo che aveva sfidato a duello si era rifiutato di accettare e gli aveva inviato un biglietto di scuse in cui finiva per proclamarsi suo amico ed “umile servo”. – Aveva soltanto diciassette anni…
- Stai ripensando di nuovo alla vicenda del conte di Kuning? – chiese Eva, sorridendo a sua volta. – Quanto si arrabbiò! Lo definì un codardo senza spina dorsale e stracciò la lettera che gli aveva inviato. Per molti anni, tutte le volte che Harlock lo incontrava, distoglieva lo sguardo da lui che gli abbozzava un mellifluo sorriso, come Dante dagli ignavi dell’Inferno.
La contessa di Lesath annuì, senza smettere di guardare in direzione di suo nipote, che intanto conversava, come al solito animatamente, con Anthony e la cugina.
- Adesso sembra finalmente essersi calmato. – commentò Eva, nonostante la scena che aveva davanti non fosse la più adatta a confermare le sue supposizioni.
- Dopo quattro anni di guerra quasi ininterrotta è normale che sia stanco di litigare e di fare duelli. Anche se non mi sembra che gli sia passata l’abitudine di dire sempre quello che pensa: pare che lui e il tuo giovane amico non vadano molto d’accordo.
- A volte bisticciano un po’, ma tutto sommato sono buoni amici. – rispose la contessa Eva con un sorriso.
- Ne sei sicura? – Raflesia le lanciò uno sguardo indagatore, tanto simile a quelli di Harlock.
- Certo! – Eva parve stizzita – E lo vedrai tu stessa quando staranno tutto il giorno sotto i tuoi occhi, a corte.
Le due sorelle si fissarono come se si lanciassero una sfida silenziosa ed una luce fiera e caparbia brillò nei loro occhi. Poi, improvvisamente, Raflesia si voltò verso la figlia e il suo viso si fece più sereno, senza perdere la consueta espressione altera.
- Ariel, è ora di andare.
- Di già, madre? - Ariel osservò la pendola che ticchettava in fondo alla stanza – Non siamo state molto... spero almeno che ci rivedremo presto a corte, così avremo modo di conversare quanto vogliamo.
La contessina di Lesath sorrise ammaliatrice ad Harlock ed Anthony prima di alzarsi.
- Me lo auguro anch’io. - Anthony si chinò, baciandole delicatamente la mano e congedandosi da lei.
Harlock lo squadrò e i suoi occhi si strinsero, penetranti.
- Arrivederci Harlock. – Ariel gli tese la mano – Venite presto: abbiamo da recuperare tanto tempo perduto.
- Verrò presto… - le promise questi, stringendole dolcemente la mano.

Poco dopo, quando la contessa di Lesath e la figlia se ne erano ormai andate, Anthony e Harlock rimasero soli nella stanza. Il colonnello tornò a sedersi su di una poltrona, l’aria assorta, mentre Anthony sceglieva un libro da una pila ordinatamente disposta su di un tavolo.
- Sembra che Ariel Urania vi abbia molto colpito. – Harlock incrociò le gambe, posando la guancia sul palmo della mano, in un atteggiamento solo apparentemente rilassato.
- Mi sembra una persona interessante. - replicò Anthony con voce incolore, ancora intento a leggere i titoli stampati sulla costa dei libri.
- E il vostro interesse traspariva chiaramente dal modo in cui l’avete guardata.
- Siete geloso di vostra cugina? – replicò il conte di Ayveron, chiudendo con uno schiocco il romanzo che aveva appena iniziato a sfogliare.
- Non sono geloso di lei: la mia è una constatazione oggettiva.
- Non l’ho guardata in nessun modo particolare. Sono stato soltanto cortese. – ribatté Anthony.
- Siete gentile a quel modo con tutte le donne che conoscete? – gli occhi di Harlock sfavillarono.
- A differenza vostra, io sono sempre cortese con le donne e non credo di dovermi giustificare per questo. Se provate della gelosia per la contessina di Lesath è un problema vostro.
- Voi non avete guardato Ariel come un uomo che cerca di essere cordiale! – ribatté il colonnello.
- Se è per questo, nemmeno voi l’avete guardata come un cugino. – Anthony lo fissò con la sicurezza di aver colpito nel segno.
- Ci conosciamo da quando eravamo bambini: lei per me è come una sorella. Abbiamo trascorso intere giornate assieme, ci siamo confidati di tutto… Non avete il diritto d’insinuare queste cose sul nostro conto! - il colonnello era in piedi e fissava Anthony dritto negli occhi, lo sguardo duro che ormai tante volte il conte gli aveva visto tenere nei suoi confronti.
Anthony tacque: per quanto dal volto di Harlock trasparissero chiaramente risentimento e persino dolore per quelle ultime parole, egli non riusciva a provare alcun rimorso per quanto aveva appena detto. Nemmeno la consapevolezza che le circostanze e la convenienza lo obbligassero ad un atteggiamento più conciliante nei confronti di colui che era pur sempre il padrone a casa Lorckshire riuscirono a indurlo a cambiare di un millimetro la sua linea di condotta.
- Siete entrato in questa casa, nella mia famiglia: sta bene. - proseguì il colonnello - Ma con che diritto venite a sputare sentenze sui rapporti che esistevano qui, tra i suoi componenti, molto tempo prima che voi arrivaste? Non l’avete voi una sorella a cui voler bene, una madre di cui preoccuparvi, un’amica? Non sapete che genere di sentimenti suscitano questi affetti? Se lo sapeste, allora non fareste certe basse insinuazioni. Io non sono “geloso” di mia cugina né di mia madre: io non voglio che il primo giovinastro farabutto che le si avvicina possa umiliarla, ferirla ed ingannarla. Se siete davvero interessato a lei, se l’amate sinceramente, non guardate altre donne e soprattutto non guardatele a quel modo!
Anthony si morse le labbra, in silenzio. Strinse i pugni, senza smettere di guardare Harlock dritto negli occhi, le iridi sfavillanti come ghiaccio che riluce sotto la sferza del sole.
Che ne sai tu, dall’alto della tua posizione, tu, nominato colonnello a meno di venticinque anni, di quale sia stata la mia vita fin qui? E più di tutto, che ne sai tu di me, dei miei sentimenti, dei miei affetti?
- Harlock… andate all’Inferno! – esclamò, lanciando il libro sul divano dove prima era stato seduto il colonnello.
Anthony uscì, sbattendo la porta, lasciando Harlock, solo e immobile, al centro della stanza.
- Questa volta abbiamo litigato di brutto. - mormorò il colonnello, tuffando una mano fra le ciocche di capelli che gli ricoprivano la fronte - Però non posso far finta di non aver visto con che occhi guardava Ariel e tanto meno posso restare indifferente mentre lui si prende gioco di mia madre. Possibile che non si sia accorta di nulla, possibile che lei, così bella, così orgogliosa e sicura di sé, sia tanto ingenua da lasciarsi prendere in giro in questo modo da un ragazzo che ha la metà dei suoi anni? E che possa accettare di restare accanto ad una persona che si sta prendendo gioco di lei?

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Capitolo 11
*** Seduzioni ***


Capitolo IV

Seduzioni


Era un mattino uggioso e grigie nubi coprivano il cielo. Erano giunte da Nord, dai monti lontani, sospinte da un vento gelido. Da alcuni giorni l’aria s’era fatta pungente e la brina ricopriva ogni cosa e si scioglieva soltanto verso mezzogiorno. Ma quel mattino sembrava aver deciso di resistere anche al tenue calore delle ore meridiane e di attendere che una nuova notte distendesse su di lei un secondo strato di gelidi cristalli, per trasformarsi in una coltre sempre più spessa.
Harlock era nella sua stanza: su ordine di sua madre, uno dei migliori sarti della città era venuto fin lì per confezionare al colonnello tutti gli indumenti di cui avesse bisogno. Ed Eva stessa era stata presente per una lunga ora, aveva consigliato le stoffe, le fogge delle camicie e delle giacche, la lunghezza dei pizzi e dei merletti che Harlock non avrebbe mai indossato. E quando il colonnello finalmente s’era ritrovato da solo con il sarto era più sfinito che dopo una giornata intera di combattimenti. Abbandonato sulla poltrona ai piedi del letto ascoltava il cicalio dell’uomo che andava enumerando chissà quali sconosciuti tipi di stoffe ed era quasi tentato di lasciargli fare tutto da solo.
Mentre Harlock se ne stava così, la testa appoggiata al palmo della mano e gli occhi persi oltre la figura sfocata del sarto, nel cielo lattiginoso attraversato da nubi vaporose, qualcuno bussò delicatamente alla porta.
- Avanti… - esclamò, nella voce un’esasperazione crescente.
- Accidenti, che tono da martire! – il conte di Ayveron apparve sulla soglia, il consueto sorriso canzonatore stampato sulle labbra.
- Non mettetevici anche voi! – sbottò Harlock, abbandonando la sua posizione stravaccata per tornare ad appoggiarsi di nuovo allo schienale della poltrona.
Da diversi giorni non si scambiavano che poche parole, evitando di fare una vera conversazione. Ma quel giorno Anthony aveva deciso di divertirsi un poco assistendo allo spettacolo del colonnello Lorckshire costretto a rifarsi il guardaroba prima di poter mettere piede a corte.
- Non avete ancora finito di scegliere la foggia dei vostri nuovi vestiti? – chiese Anthony, fermandosi in piedi di fronte a quell’insieme confuso di stoffe riversate sulle sedie, sulla sponda del letto e sul pavimento.
- Vorrei non aver mai cominciato… - disse Harlock per tutta risposta.
- Se volete posso aiutarvi.
Il colonnello non disse nulla, dubitando che l’offerta di Anthony fosse sincera e che non nascondesse piuttosto qualche secondo fine.
- Dovrete essere in ordine quando vi recherete a palazzo e soprattutto non dovrete far fare una brutta figura a vostra madre e infangare il nome della vostra famiglia presentandovi conciato come un pezzente… come quel giorno in cui siete tornato, con quella divisa logora: scommetto che non l’avete ancora gettata via.
- Non sono affari che vi riguardano. E comunque… - riprese dopo pochi istanti – Indosserò per la maggior parte del tempo l’uniforme, perciò non è necessario che scelga chissà quanti tipi diversi di giacche, camicie e pantaloni… Anzi, facciamo una cosa. – esclamò, alzandosi. – Signor Leval, credo di non aver bisogno di altro: consegnatemi a palazzo, quando sarà pronto, ciò che vi ho commissionato. Ora andate.
- Ma, signor conte, vostra madre…
- Non importa quello che vi ha detto mia madre: sono io che devo farmi fare dei vestiti da voi e ho deciso che questi sono più che sufficienti. – così dicendo Harlock uscì dalla stanza, sospirando come se dal petto gli fosse stato levato un insopportabile peso.
- Peccato, speravo di godermi più a lungo lo spettacolo. – Anthony sorrise tra sé, prendendo tra le mani uno scampolo di raso rosso, che lasciò scorrere distrattamente tra le dita affusolate. Quindi riprese, rivolto al sarto – Non temete, presto il colonnello avrà di nuovo bisogno di voi: quando sarà a corte si renderà finalmente conto che quel poco di vestiario che vi ha ordinato non è sufficiente.

Era una fredda mattina quando i Lorckshire giunsero al palazzo reale. L’aria profumava di pioggia e il cielo era grigio e nuvoloso. Gli splendidi giardini erano silenziosi e deserti, le fontane ammutolite ed ogni cosa pareva dormire, in attesa dell’inverno ormai alle porte. Ma all’interno, nei saloni e nei corridoi, nelle gallerie e nelle stanze private, la vita si agitava rumorosamente, inseguendo sogni, intessendo amori e complotti, rincorrendo vane brame di gloria o consumandosi nel dolore della delusione.
Nessuno di loro ebbe il tempo di far sistemare i bagagli nei rispettivi appartamenti che già il ritmo serrato della corte li avvinghiava nelle sue spire, immergendoli in quel brulicante fermento. La contessa di Lorckshire volle subito andare assieme ad Anthony a salutare alcune delle sue amiche, facendo loro sapere del suo arrivo, mentre Harlock, che durante la sua comparsa a corte qualche tempo prima era stato quasi monopolizzato dal gruppo di amici del duca di Larckstein, ebbe presto attorno uomini di stato e alti ufficiali, che vollero discutere con lui degli avvenimenti bellici e complimentarsi per l’esito di alcune importanti campagne.
Era quasi ora di andare a pranzo quando il conte di Ayveron, percorrendo da solo un corridoio secondario diretto ai propri appartamenti, lontano dal rumoroso via vai dell’aristocrazia, incrociò la contessa Ariel Urania di Lesath. Quando questa lo vide gli sorrise dolcemente, affrettando il passo per andargli incontro e come quel giorno a casa Lorckshire ad Anthony sembrò che il sole fosse apparso di nuovo in cielo, squarciando le nubi.
Appena le fu di fronte, Anthony la salutò con un inchino e le baciò la mano: era fredda come doveva essere in quel momento la mano della statua di Diana, umida di pioggia nel cortile di marmo .
- Questi corridoi non sono riscaldati, dovreste evitare di percorrerli o vi ammalerete. - le disse, trattenendole la mano fra le sue. Un dolce tepore si diffuse sulla pelle di Ariel, che non si sottrasse a quel contatto.
- Ci sono ben pochi corridoi riscaldati: nella maggior parte dei luoghi di passaggio del palazzo c’è sempre molto freddo. E per noi dame è un supplizio, costrette come siamo a portare questi abiti scollati. – così dicendo si sfiorò con la mano le spalle nude, nivee e luminose.
A quella vista, un lungo fremito percorse il corpo di Anthony, che avrebbe voluto afferrare di nuovo la mano che aveva appena lasciato andare. Ariel sembrò accorgersene e lo fissò, interrogativa. Bastò quello sguardo perché Anthony capisse di doversi dare un contegno e, fingendo indifferenza, le si mise al fianco, tendendole il braccio.
- Permettete che vi accompagni nei vostri appartamenti?
- Molto volentieri. – rispose Ariel Urania, passando il suo braccio attorno a quello del conte.
Fecero pochi passi nel più assoluto silenzio, un tempo sufficiente perché Anthony temesse che Ariel potesse udire il suo cuore che gli martellava in gola.
- Sono davvero contenta che siate finalmente arrivati: ci avete fatto aspettare a lungo, cominciavo a temere che aveste cambiato idea. - riprese la contessina di Lesath.
- Come sapete il colonnello non aveva molto da indossare per fare degna figura a corte, così abbiamo dovuto attendere un po’ perché si facesse fare dei vestiti nuovi. Naturalmente anche vostra zia ne ha approfittato per aggiungere qualche capo al suo guardaroba. – Anthony aveva parlato con voce ilare concludendo il suo discorso con un sorriso prima di voltarsi verso Ariel.
- Mio cugino non è mai stato molto amante della mondanità, né dei bei vestiti e delle feste… l’unica cosa che lo ha sempre appassionato è la polvere dei cannoni e il luccichio delle spade.
- Un tipo molto allegro… - bisbigliò il conte di Ayveron, parlando più a se stesso.
- Credo che l’amore per le armi sia una caratteristica che la famiglia dei Lorckshire trasmette agli eredi maschi attraverso le generazioni. – continuò la contessa di Lesath, che non aveva sentito.
- Allora ciò che viene lasciato in eredità alle fanciulle del vostro casato è senz’altro una mirabile bellezza. – replicò Anthony, guardandola intensamente.
- Siete molto lusinghiero, signor Anthony. – rispose Ariel Urania, fermandosi di fronte alla porta dei propri appartamenti. – Ma temo che questa preziosa eredità si sia consumata tutta con mia madre: la sua bellezza è davvero superiore a quella di qualsiasi altra donna che io conosca. Anche a quella di Eva. Forse perché mia madre ha, oltre alla bellezza del viso, un fascino sottile che ammalia perdutamente… un fascino fatale.
Concluse quasi in un soffio, socchiudendo gli occhi per meglio scrutare tra le vacillanti ombre dei ricordi e sul suo volto comparve un’espressione amara.
Per nulla impaurito da una simile rivelazione, ma piuttosto curioso di sperimentarne gli effetti, Anthony riprese dicendo:
- Possedete anche voi una simile fatale bellezza?
- Non posso essere io a giudicare. – Ariel tornò a sorridere, suadente, scacciando dalla mente i fantasmi dei ricordi e tese la mano ad Anthony perché la baciasse - Volete essere voi il primo a scoprirlo?
Le sue ultime parole furono solo un alito leggero, mescolato al rumore metallico dello scatto della serratura.
Non aspetto altro…
Fu l’unico pensiero di Anthony mentre Ariel scompariva, leggera e silenziosa, oltre la soglia.
Una volta all’interno, Ariel appoggiò la schiena contro la porta che aveva appena richiuso dietro di sé, mordendosi il labbro.
Che cosa sto facendo? Sono impazzita forse? Sto tentando il giovane fidanzato di mia zia...

Silenzioso e ombroso come sempre Harlock stava attraversando la Galleria della Notte, immerso nei propri pensieri. Era passato così poco da che era arrivato e già desiderava andare via.
Preferirei essere sui campi di battaglia piuttosto che in un luogo così pieno di nulla.
Si ripeteva mentre cercava qualche modo più costruttivo per impiegare il proprio tempo anche a corte, dato che non avrebbe potuto andarsene dopo una sola giornata, come aveva fatto quando era venuto a rendere omaggio al re.
- Sempre di ottimo umore. – una voce maschile giunse improvvisa agli orecchi del colonnello, una voce che stava già imparando a riconoscere.
Harlock si voltò e vide, appoggiato a una delle alte finestre della galleria, il duca di Larckstein che gli sorrideva con quella sua inconfondibile tristezza. Ricambiò istintivamente il sorriso e gli si avvicinò, fermandosi in piedi di fronte a lui.
- E’ passato molto tempo dall’ultima volta che siete venuto a corte: siete fuggito per causa mia? - chiese Lemort, senza smettere di sorridere in quel modo triste.
- A parte il fatto che non è mia abitudine fuggire, per quale ragione avrei dovuto farlo per causa vostra?
- Da quando siete stato nel mio palchetto non vi siete più fatto vedere: credevo foste rimasto sconvolto.
Harlock rise lievemente, con la sua risata calda e sonora e Lemort l’ascoltò con doloroso piacere.
- Ci vuole ben altro per sconvolgermi! – esclamò il colonnello, sorridendo beffardo.
- Ne sono felice. – rispose Lemort, e tacque.
- Se temevate di sconvolgermi – riprese il colonnello – avreste dovuto evitare d’invitarmi.
- E perdere così l’opportunità di conoscerci meglio? Piuttosto preferisco correre il rischio. Dopotutto, con un uomo d’arme, correre dei rischi è la cosa più naturale.
- Avreste dovuto dire “Correre rischi è la cosa meno rischiosa”.
- Già... - Lemort annuì.
Calò di nuovo il silenzio. Lemort teneva gli occhi fissi sul volto di Harlock, beandosi della sua contemplazione come di fronte ad un’opera d’arte. Un profondo imbarazzo colse il colonnello che si voltò, dando le spalle al duca, ma la sua voce suonò calma e decisa come sempre quando gli chiese se aveva voglia di fare quattro passi con lui.
- Passeggiare e conversare è un doppio piacere. - spiegò.
Per tutta risposta, Lemort si allontanò dalla finestra, muovendo alcuni passi e superando in tal modo il colonnello. Quindi si girò verso di lui, invitandolo a seguirlo, un furbo sorriso nei suoi occhi di lupo. Camminarono per un po’ senza dire nulla, entrambi assorti, e fu di nuovo il duca a parlare per primo.
- Siete venuto per restare un po’ di tempo o avete intenzione di ripartire subito anche questa volta, colonnello? - gli domandò.
- No, questa volta resterò più a lungo… purtroppo. Sono venuto a corte su invito di mia cugina e anche per accontentare mia madre. – la voce di Harlock divenne più squillante quando aggiunse. – Mi sono messo in trappola da solo: non bisognerebbe mai dar soddisfazione alle donne!
Lemort rise.
- Non temete: ci penserò io a trovare qualche divertimento per voi, nel tempo in cui starete qui. – promise.
- Devo preoccuparmi?
- Solo se siete un misantropo che preferisce le più oscure caverne alla compagnia dei suoi simili.
- Oh no, non avrete in mente anche voi di creare qualche “imperdibile” occasione mondana apposta per me! - Harlock storse le labbra ed il suo sguardo ironicamente supplice strappò di nuovo una risata al duca di Larckstein.
- Non del genere che intendete voi... - rispose, soffocando il riso dietro la mano, portata alle labbra con la stessa eleganza di una donna. Harlock seguì quel gesto senza dire nulla, prima di distogliere lo sguardo e tornare a fissare la folla davanti a sé. Avevano ormai lasciato la Galleria della Notte ma i saloni che stavano attraversando erano ancora pieni di gente che andava e veniva, discorrendo delle cose più futili, proprio come loro in quel momento.
- Stavo pensando di organizzare delle serate di gioco alla roulette nei miei appartamenti e mi piacerebbe che partecipaste anche voi.
- Roulette? Credete che il re vi darà il permesso di fare del gioco d’azzardo qui a corte? La gestione di questo genere di passatempi è riservato alla famiglia reale. – commentò Harlock.
- Non è la prima volta che organizzo questo tipo di serate, sempre con il consenso del re. Anzi, talvolta vi ha partecipato anche il duca di Calsberry, per vincere la noia delle solite serate dedicate alla musica da camera e all’esibizione di qualche dama di dubbio talento.
- Il fratello del re? - chiese Harlock.
Lemort annuì.
- La famiglia reale si dà al gioco d’azzardo. - c’era un tono di biasimo nella voce del colonnello che non sfuggì al duca di Larckstein.
- Non vi facevo così moralista.
- Non è morale, ma certo non mi dà grande soddisfazione constatare in che modo poco oculato la famiglia reale utilizza il denaro.
- Vi preoccupate che le casse dello stato restino piene?
- Forse mi preoccupo della giustizia. - rispose Harlock, fissando Lemort dritto negli occhi. - Ma la giustizia, si sa, non è di questo mondo.
- La giustizia resterà in questo mondo finché gli uomini giusti continueranno a preoccuparsene. - ribatté Lemort, accarezzando con lo sguardo quel volto che avrebbe tanto voluto sfiorare di nuovo con la punta delle dita.
- Non credo di essere un uomo “giusto”: c’è qualcosa di troppo altisonante e anche di troppo religioso in questo termine. - Harlock sorrise e il suo volto tornò a rilassarsi – Forse sono semplicemente un uomo d’altri tempi.
Fossero tutti come voi gli uomini d’altri tempi.
Lemort lasciò indugiare ancora un po’ i suoi occhi sul viso del colonnello, prima di tornare al primitivo argomento della loro conversazione.
- Manderò anche a voi l’invito per il gioco alla roulette. Spero che vorrete accettare, nonostante i vostri scrupoli.
Harlock rifletté alcuni momenti prima di rispondere.
- Penso sappiate già che non mi state invitando ad uno dei miei passatempi preferiti.
- Lo so... - nello sguardo di Lemort si distese un velo di tristezza. - Ma non credo vi farà male per una sera un po’ di chiasso e confusione.
- No, non mi farà male. - Harlock sorrise di nuovo – Chissà che idea la gente si è ormai fatta di me? Forse la maggior parte pensa davvero che io sia... come avete detto? “Un misantropo che predilige le oscure caverne ai suoi simili”!
- Forse... Di certo avete dato loro modo di pensarlo, con la vostra vita ritirata.
- Allora forse è arrivato il momento di sfatare questo mito: vedranno il colonnello in mezzo alla confusione e al chiacchiericcio di damine incipriate. - Harlock fece un gesto con la mano ad imitare gli atteggiamenti vezzosi di qualche nobile signorina - Ma non sperate di vederlo giocare!
Lemort, che stava soffocando un riso a quel motteggio inaspettato, non riuscì a trattenere il suo disappunto.
- Ma come? Non potete venire e non giocare nemmeno: basta che lo facciate ogni tanto, non è necessario che partecipiate a tutte le puntate. Altrimenti alla fine vi annoierete.
- Non mi annoierò se ci sarà qualcuno di interessante con cui conversare.
- Ditemi allora chi desiderate che inviti per farvi piacere. - insistette Lemort.
- Frederick sarebbe una buona scelta. - il colonnello non ebbe bisogno di rifletterci su prima di rispondere: Frederick era un buon amico e un compagno divertente quando ce n’era di bisogno, ma con lui si poteva parlare anche di argomenti seri o fare delle confidenze senza temere che non sapesse mantenere il riserbo.
Immerso com’era nella conversazione con il duca di Larckstein, Harlock non si era reso conto che avevano ormai lasciato le stanze più frequentate per addentrarsi nell’ala del palazzo dove meno spesso si spingevano i nobili.
- Dove mi state portando? - chiese d’un tratto, aggrottando le sopracciglia.
- Non indovinate? Dovreste conoscere questa zona: siamo quasi nell’ala est.
- L’ala est... volete dire...
- Sì... - un’espressione furbescamente maliziosa aleggiava sul viso di Lemort, che proseguì a bassa voce, quasi parlando tra sé – Ciò che vi voglio mostrare si trova lì da quasi tre anni: è stata portata nella Galleria delle Statue direttamente dall’Italia, ma è soltanto una copia, eseguita da un abile scultore di cui non conosco il nome.
Mentre Lemort proseguiva con la spiegazione, iniziarono a salire un ampio scalone che conduceva alla Galleria delle Statue. Era un ambiente molto ampio e ben illuminato, dalle pareti bianche con modanature oro e un ricco soffitto affrescato.
- Qui a corte ha riscosso un grande successo, specie tra le dame, che la guardano di sfuggita e sempre arrossendo… ma anche alla gioventù maschile non credo affatto dispiaccia, pur scatenando a volte penosi confronti. Vedremo se sarà anche di vostro gradimento.
Senza capirne il perché Harlock sorrise, beffardo, quindi rispose con un impercettibile “vedremo”.
Nella Galleria delle Statue erano state raccolte, per mezzo di originali o copie di notevole fattura, le opere più considerevoli dall’antichità classica all’età moderna. C’erano sculture di ogni genere e scuola, disposte con un certo gusto artistico e secondo un ordine cronologico, che faceva della Galleria, soprattutto per gli amanti dell’arte, un luogo molto piacevole dove passeggiare, specialmente durante l’inverno. Oltre alle opere statuarie c’erano anche vasi e anfore di marmo e pietra, stele e lastre scolpite a bassorilievo e naturalmente alcuni canapè sui quali riposarsi dopo la lunga passeggiata.
Proprio al centro della galleria c’era l’opera che Lemort voleva mostrare al colonnello: stava quasi sola, leggermente discosta dalle altre per non offuscarne la bellezza con la sua presenza.
- Eccola: l’Antinoo, scolpito a figura intera e completamente nudo. Il suo realismo è pari solo alla sua bellezza. - esclamò Lemort quando furono lì davanti ed Harlock notò che le sue guance avevano assunto un colorito più rosato.
- E’ molto bella davvero. - commentò Harlock - Molto ben fatta e ha un’espressione particolarmente assorta…
- Vi assicuro che non è all’espressione che molti guardano quando vi passano davanti. - rise Lemort. Harlock lo squadrò, perplesso e quasi infastidito che il suo commento non fosse stato preso sul serio.
- Davvero non capite? Guardate bene, proprio al centro del suo corpo… - Lemort lo invitò con voce suadente, come di strega che cerca d’indurre la preda a stipulare un patto mortale.
Il colonnello guardò dove gli era stato indicato e sul suo viso apparve un’espressione d’imbarazzato stupore.

- Come siete sciocco! So benissimo che la statua è nuda, ma chi la guarda con interesse d’artista non si ferma ad... analizzare certi particolari anatomici. Siete malizioso! - protestò, voltandosi di nuovo verso il duca.
- Perché? Non è così! Quanto dico corrisponde a verità poiché conosco bene il genere di sguardi che la gente posa sul suo corpo giovanilmente virile, plasmato dall’attività fisica e dall’amore. - c’era, nella voce di Lemort, un accento colmo di desiderio trattenuto e quando sollevò una mano in direzione della statua Harlock credette che volesse davvero accarezzarla. - Restate seduto un po’ con me su quel divano e insieme verificheremo se quello che vi ho detto è una menzogna oppure no.
- Non ci tengo a spiare i comportamenti della gente.
- Invece c’è molto da imparare da questo genere d’indagini... dovreste provare. - Lemort accostò il suo viso a quello dell’ufficiale, parlandogli in un sussurro.
Harlock non si scostò da lui, incapace di sottrarre lo sguardo dal viso del duca.
Le vostre labbra sono sempre così scarlatte sul viso tanto pallido: due strisce di sangue su una statua di marmo. E dietro la spavalda allegria dei vostri atteggiamenti si nasconde spesso un’ombra di tristezza. Che cos’è quest’aura notturna che vi circonda, simile al profumo di un fiore sbocciato di notte?
Ma Lemort non poteva immaginare quali fossero i pensieri di Harlock in quel momento: con lo stesso sorriso malizioso di poco prima, lo prese per un braccio, conducendolo dolcemente verso il divano senza che il colonnello opponesse resistenza.
- Venite, non abbiate paura. - gli disse con l’identica voce suadente di poco prima - O forse temete che la gente abbia di che mormorare vedendovi qui con me, di fronte alla statua di Antinoo?
- Non ho paura dei giudizi della gente, Lemort. - rispose il colonnello.
Quella semplice parola riecheggiò nella mente del duca, trasportata dalla voce calda e sensuale che l’aveva pronunciata come da un vento del sud che giunge a sciogliere la neve.
Lemort… E’ la prima volta che mi chiamate per nome. L’avete pronunciato con così tanta dolcezza… perché?
Si sedettero assieme sul canapè appoggiato alla parete dirimpetto alla statua. Il conte di Lorckshire pareva profondamente assorto nella sua indagine artistica del capolavoro scultoreo che aveva di fronte, ma in realtà non erano solo di quel genere i pensieri che occupavano la sua mente. Continuava a riandare alla conversazione avuta qualche settimana addietro con Anthony: la femminilità di Lemort, l’ambiguità dei suoi comportamenti, la sua palese inclinazione per l’universo maschile erano ora così palesi che si chiedeva come avesse potuto ingannarsi sul suo conto. Eppure, nonostante questo, non provava il desiderio di fuggire.
Dal canto suo, il duca di Larckstein approfittò di quei minuti in cui potevano stare di nuovo vicini e praticamente da soli per ammirare indisturbato i lineamenti di quel volto maschile che tanto lo affascinava.
La linea elegante e decisa del tuo naso è quasi greca e la fronte deve essere ampia e spaziosa sotto le morbide ciocche castane che sempre la ricoprono e che velano in parte anche l’occhio destro. E’ forse per timore di penetrare troppo a fondo nell’animo umano con i tuoi fieri occhi d’aquila che cerchi di adombrarne il potere? Brillano quali stelle nella notte, sono freddi ed impenetrabili come specchi stregati, inquietano più che infondere pace. Eppure, se tu distogliessi da me il tuo sguardo, se non volessi più che i tuoi occhi incrociassero i miei, ciò mi ferirebbe molto più di quanto essi facciano quando mi guardano con rimprovero o sdegno.
Lemort, sentendo che le lacrime gli salivano agli occhi, si girò di nuovo verso la scultura di Antinoo, guardandola senza vederla dietro quel velo che gli aveva offuscato lo sguardo.
Oggi - si disse, lasciandosi condurre liberamente dal corso dei suoi pensieri - il colorito della tua pelle è vivido ed intenso. Hai ancora addosso il velo dorato che il sole dell’estate, trascorsa sui campi di battaglia, ha disteso sul tuo corpo. Ma quella notte, quando sei svenuto nel mio palco, il tuo volto è diventato bianco come la morte, quasi che in te non scorresse più neppure una goccia di sangue: sembrava che ti avessero colpito a morte.
Improvviso, un pensiero, un dubbio balenò nella mente di Lemort, che si voltò a guardare il colonnello, ancora perso nei suoi pensieri, cercando di cogliere una scintilla di verità, la risposta ad una domanda non ancora formulata. Lo trovò impassibile e tranquillo come lo aveva lasciato poco prima e il suo viso così luminoso, ancora abbronzato, contrastò con violenza con il ricordo che era riemerso nella mente del duca.
Stai bene… è stato solo un malore, probabilmente. Non ho motivo d’inquietarmi così.
Il colonnello, sentendo il peso di quello sguardo fisso su di lui, si voltò verso Lemort, facendolo arrossire improvvisamente: il duca temeva infatti che Harlock avesse in qualche modo colto quello che passava nella sua mente.
- Andiamo? - gli chiese invece il colonnello - Siamo rimasti qui abbastanza.
- Sì, forse è vero… ma questa statua è così bella che non mi stancherei mai di guardarla. - Lemort si voltò in fretta verso l’Antinoo per nascondere i suoi turbamenti a quei profondi occhi indagatori che adesso lo fissavano con insistenza.
Non è vero… sto mentendo. L’unica opera d’arte che non mi stancherei mai di guardare sei tu, Harlock...
Il colonnello si alzò senza aggiungere altro, allontanandosi di alcuni passi dal duca di Larckstein e fermandosi in piedi al centro della Galleria, immobile come solo lui sapeva stare, anche per lunghe ore, quand’era immerso in strategie di guerra. Lemort si alzò e gli andò incontro, fermandosi un ultimo istante davanti alla superba scultura romana.
- Però avete certamente una cosa in comune con il giovane Antinoo… - esclamò Lemort, sorridendo con gli occhi ancora lucidi di lacrime.
- Che cosa? - Harlock si aspettava già qualche sproposito, probabilmente lascivo.
- Le vostre labbra sono sinuose e carnose come le sue, così morbide e calde…
Harlock sgranò gli occhi, senza trovare nulla di conveniente da replicare: era difficile allibirlo, ma Lemort c’era riuscito in pieno.
- Morbide… e calde? - replicò - Che ne sapete?
- Sono certo che è così. - rispose il duca, allungando la destra in direzione del volto dell’ufficiale e sfiorando con l’indice la sua bocca.
Harlock gli bloccò il polso, una luce di biasimo nelle scure pupille, le sopracciglia aggrottate.
- Siete molto bello quando restate spiazzato, ma ancor più quando vi arrabbiate. - Lemort sottrasse la mano senza sforzo da quella stretta, che si sciolse dolcemente. L’espressione dura di Harlock rimase immutata - Ma, che voi lo vogliate o no, è la verità: le vostre labbra sono carnose quasi come quelle di Antinoo. Anche se molto più virili.
- Non ci assomigliamo minimamente. - protestò Harlock – Come potete vedere qualcosa in comune tra me e quel giovane efebo dal volto arrotondato e ancora infantile?
- E’ vero, Antinoo è solo un ragazzo, voi siete molto più maturo... Possedete lo lo stesso sguardo di Adriano. - accondiscese Lemort, indicando il busto dell’imperatore collocato accanto alla statua del suo amato. - Avete la stessa espressione corrucciata e volitiva: l’espressione del dominatore.
- Vi sbagliate, duca: io non sono un dominatore. - lo contraddisse Harlock. - Sono un uomo d’armi, so comandare e condurre un esercito, ma non ho mai avuto la pretesa di dominare nessuno.
- Nemmeno in amore? - chiese Lemort, ma poi, abbassando lo sguardo, si corresse - Scusate… non sono affari che mi riguardano.
- Già. - fu la secca risposta.
Il colonnello si allontanò senza aggiungere altro. Il suono dei suoi passi che si facevano sempre più distanti colpì Lemort come un pugno dritto al cuore. Rialzò il volto e fissò quella figura alta e magra che se ne andava.
Aspettami…
Non riuscì a raggiungere subito il colonnello, che non pareva avere la minima intenzione di aspettarlo.
Con l’animo greve, gli fu di nuovo accanto solo quando il conte di Lorckshire aveva già raggiunto l’ultimo gradino in fondo alle scale. Soltanto allora Harlock si voltò, fissandolo con volto impassibile e distante.
- Fatemi sapere per quella serata nei vostri appartamenti. - disse, senza mutare espressione.
Lemort annuì, poi aggiunse:
- Sarete il primo a saperlo.
Il colonnello gli rispose solo con un cenno del capo, si voltò e proseguì da solo lungo il salone. Era chiaro che non voleva essere seguito.
Il duca di Larckstein restò immobile in fondo alle scale, il cuore che gli martellava forte nel petto.
Perché siete sempre così freddo? Eppure sento che dentro di voi brucia un fuoco veemente, fatto di passione, di desiderio, d’ira… E invece serrate le porte della vostra anima, vi rinchiudete in voi stesso e diventate insensibile, proprio come una statua. Una statua che ha un cuore. Quando accetterete di mostrarlo?




Note: La statua dell'Antinoo citata nel capitolo è quella conservata al Museo Archeologico di Napoli.
Il busto di Adriano è quello dei Musei Capitolini di Roma.

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