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“Certe ferite rimarranno sempre aperte nel mio animo…ci
sarà qualcuno che vorrà ancora tentare di chiuderle
Ciao a tutti!Sono Ceci, autrice di
questa fanfiction nonché intellettuale completamente dipendente dal mio
dolcissimo principe Vegeta…Eccomi dunque qui con questa nuova storia, che
era pronta da mesi ma che ho deciso di pubblicare solo oggi per effetto di uno
dei miei assurdi attacchi di superstizione…Ma
tralasciamo i resoconti sulla mia penosa demenza, perché tengo molto a
questa drammatica e dolce storia, e spero piacerà anche a voi, miei
carissimi lettori(cosa non si è disposti a fare per delle belle recensioni…)!!!Per
ora ho solo il primo capitolo da pubblicare(se non potreste vivere con
l’angoscia di un possibile seguito ditemelo mantenendo un minimo di
decenza,per favore…),ma sto lavorando come un
proverbiale(oddio,proverbiale solo per me)piccolo manovale giapponese per
sfornare la continuazione…quindi siate fiduciosi,e magari potrei anche
spicciarmi maggiormente se mi lasciaste un commentino…(tentativo di
ricatto penoso,lo so).
In ogni caso, domani parto per il mare e
le vacanze mi fanno venire sempre delle belle ideuzze…se sarete pazienti,
mi ritroverete qui tra due settimane o poco piùcon un altro delizioso parto
della mia mente malata (invitante prospettiva,vero?...)
A parte le battute, che giuro non ho
tratto dal libro delle barzellette di Padre Pio anche se
qualcuno potrebbe pensarlo, sarebbe davvero un gran piacere vedere come me la
cavo ai vostri occhi con una storia un po’ più seria delle
solite;le risposte saranno alla fine dei capitoli(se non mi verrà una
battuta sagace per ognuno di voi arrangiatevi!).
Bene,vi lascio
finalmente alla fic. ,sperando che vi
piaccia,arrivederci al prossimo capitolo,e Ciaociao da Ceci!
PS:D’accordo,
forse ho calcato un po’ la mano coi buonismi da telefilm americano,ma che
ci posso fare se adoro Vegeta tanto che gli perdono praticamente tutto e
continuo a sindacare sul fatto che è solo incompreso anche quando rade
al suolo una città o fa uno dei suoi commenti taaanto carini?Epoi,un po’ di romanticismo e buoni
sentimenti all’americana non hanno mai fatto male,no?(Come mi sono
ridotta,io che brontolo sempre sulla mielosità di praticamente ogni
libro vagamente romantico che leggo…)Dopo questa perla di quella che non
oso chiamare saggezza la smetto davvero di prendere spazio,e cerco di fare
qualcosa di più costruttivo, come terminare la mia nuova
one-shot…Un bacione,e ricordatevi di recensire in tanti!
Ciaociao da Ceci ,
e buone vacanze a tutti!!!
PS: Per colpa del mio vizio di leggere
sempre le spiegazioni a metà,ho segnato questa
storia come a più mani…in verità NON è così, anche se mi dispiace per quelli di
voi che già staranno scrivendo la continuazione,e scusate ancora!
Capitolo 1
-Principe senza patria-
“Certe
ferite rimarranno sempre aperte nel mio animo…ci sarà qualcuno che
vorrà ancora tentare di chiuderle?”
I passi rapidi e marziali riecheggiarono nel lungo
corridoio metallico, semi-illuminato dalla pallida luce azzurra di Nekfös,
simile ad un’enorme zaffiro incastonato nel
cielo trapuntato di stelle.
Il viso spigoloso e duro del giovane, incorniciato da
una massa di capelli corvini tesi verso l’alto era illuminato dai raggi
del corpo celeste, che facevano brillare i profondi occhi neri dal cipiglio
corrucciato e pensoso.
Il mantello rosso rivelava una corta
tunica azzurro polvere, impreziosita da una fascia riccamente decorata
che scendeva sino ai calzoni color notte.
Un paio di guanti di un blu delicato e le due lucenti
corazze sulle spalle completavano l’abbigliamento del ragazzo.
Un’aura di terrore e riverenza sembrava muoversi
insieme a lui.
Le alte porte in ferro si
aprirono cigolando sulla sala circolare, lasciando occhieggiare da oltre le
possenti ante il trono smaltato e la nutrita schiera di sottili schermi al
plasma disposta lungo le pareti d’acciaio.
Comodamente adagiato sul cuscino rosso del sedile,
l’alieno increspò le labbra violacee in un sorriso beffardo alla
vista del suo ospite.
-Principe Vegeta, finalmente sei arrivato…devo
proprio farti i miei complimenti:la “campagna di
collaborazione” su Anderon è stata un vero successo!-si
congratulò Freezer mellifluo; le pupille, due freddi rubini sanguigni,
saettarono sul suo interlocutore.
A quelle parole, lo stomaco del ragazzo si
attorcigliò per il disprezzo: “campagne
di collaborazione”, così quel tiranno chiamava i brutali genocidi
di cui si macchiava costantemente per ottenere il controllo su risorse e paesi,
crimini di cui Vegeta, bene o male, si era già macchiato parecchie
volte…aveva appena compiuto
sedici anni, ma le sue mani erano già imbrattate di sangue innocente,
ei suoi occhi avevano già
conosciuto lo sguardo vuoto dei cadaveri …
-Per cosa mi avete chiamato,
Grande Freezer?-sillabò come se ognuna di quelle parole fosse intrisa di
veleno:odiava rivolgersi a quel dannato dittatore con dei titoli regali, titoli
che dovevano indicare fierezza e coraggio, due doti completamente estranee
all’alieno…
-Ho una nuova missione per te- iniziò
l’interessato, appoggiando gli avambracci sui braccioli spartanamente
decorati del trono e incrociando le dita.
Il saiyan aggrottò le sopracciglia, attendendo
altre spiegazioni –Simile all’ultima? –chiese.
Freezer lanciò una risatina gelida –Oh,
no davvero, non ha niente a che vedere con il combattimento, almeno per
ora…-sfiorò un tasto dell’ampia consolle bianca di fianco a
lui, e uno dei maxi schermi sfrigolò azionandosi. Un pianeta azzurro,
circondato da fioccose nubi bianche, levitava nello spazio stellato del
monitor.
Vegeta si girò verso la parete.
-Vedi- continuò l’alieno –la tua è
la prima fase di una grande campagna che sto per intraprendere riguardo a
questo pianeta. Il suo nome è Terra, nella galassia del Nord,
all’interno del Sistema Solare.
Ora, sembra che, nonostante non sia né molto
grande né molto ricco, parecchipopoli siano interessati a dei
particolari oggetti presenti sul pianeta, dagli oscuri ma grandi poteri.
Io voglio questi misteriosi attrezzi. Ma una semplice
azione militare non servirebbe.- .
-…perché non sapremmo cosa cercare-
ragionò il saiyan, osservando il grande schermo.
-Esattamente. Vedo che sei sveglio, ragazzo.-
sussurrò divertito Freezer, scoccando un’occhiata tra ilcanzonatorio e
l’ammirato al giovane interlocutore.
Vegeta si limitò ad un impercettibile sbuffo.
L’alieno fece finta di niente, tornando a
girarsi verso lo schermo e digitando alcuni comandi sulla tastiera. Una
moltitudine di grafici si sovrappose al pianeta, oscurandolo quasi
completamente.
-Proprio per questo, ho deciso di organizzare
un’azione di ricerca segreta, prima di passare, per così dire,
all’azione…-continuò abbassando la voce.
-E io cosa centro con tutto
questo?-chiese l’altro, cercando di non dar a vedere l’inquietudine
che lo aveva inspiegabilmente preso.
Il tiranno riportò lentamente lo sguardo sul
giovane principe; gli occhi scarlatti lampeggiarono come fredde lame
insanguinate –La tua missione sarà andare sulla Terra e condurre
delle ricerche su questo misterioso tesoro così ambito-iniziò
–ti fingerai un terrestre,e per un certo periodo
vivraie ti comporterai come loro.
-.
Il cuore di Vegeta parve fermarsi per un istante:andare su quel pianeta!?!Confondersi con gli umani!?!Non
era possibile, lui era un guerriero, uno stratega, aveva diretto azioni di
guerra, seminato il panico su una moltitudine di pianeti, combattuto contro gli
esseri più potenti dell’universo! Era un principe,non un ragazzino! I suoi occhi lampeggiarono di ira e
sbigottimento.
-Che cosa!?! Ma grande
Freezer, io…-provò a protestare subito dopo.
-…i nostri tecnici hanno studiato la loro
civiltà, il loro alfabeto e la loro tecnologia; ti istruiranno per
renderti il più possibile simile ad un umano:ti
vestirai come loro, parlerai come loro, insomma tenterai di passare
inosservato, e intanto cercherai di scoprire più cose possibile su
questi misteriosi tesori terrestri- continuò l’alieno, ignorando
completamente le lamentele del ragazzo; sfiorò la tastiera del
computer,sul monitor apparve uno
strano strumento elettronico, simile ad un paio di cuffie –attraverso
questo oggetto, molto comune tra i giovani terrestri, ti terrai in contatto con
noi, e riceverai gli ordini relativi alla missione…- .
Il giovane sbottò, livido di collera:avevano calpestato la sua famiglia, il suo popolo…non
si sarebbe fatto sottrarre anche il suo orgoglio di guerriero-Non è
giusto! Perchè devo occuparmi di una cosa del genere, è una
scelta assurda e sconsiderata e…-.
-Ora basta Vegeta!-tuonò l’interlocutore:i suoi occhi abbandonarono per un momento lo scherno,
lasciando intravedere la natura feroce e animale che si nascondeva dietro quei
mari vermigli –questo è un ordine,tu devi rispettarlo!Che ti piaccia o no
tuo padre è morto, non puoi più comportarti come un principe, non
hai più nessuno a cui importi qualcosa di te tranne me, chiaro!?!-
quelle parole fecero a Vegeta più male di cento coltellate.
I pugni del giovane si serrarono, tremando
vistosamente; con un supremo sforzo, il ragazzo abbassò la testa sul
petto, mordendosi il labbro per non riversare sul suo interlocutore tutto
quello che pensava di lui e del suo stupido impero…
-Ho capito, Grande Freezer. Farò come mi ha
ordinato- sussurrò con voce lievemente strozzata dal disgusto e
dall’indignazione.
L’alieno sembrò calmarsi, mentre le sue
iridi sanguigne tornavano a nascondere la vera e mostruosa natura di
quell’essere abominevole -…I tecnici ti aspettano al Laboratorio
Centrale, per darti tutte le istruzioni e gli oggetti utili alla
missione…partirai questa sera stessa,chiaro?-terminò,
scoccando un’occhiata significativa al principe sull’ultima parola.
-Sarà fatto, signore-decretò con voce
ferma e acida l’altro, accennando un inchino e voltandosi per uscire
prima che la rabbia gli giocasse brutti scherzi.
-Bravo ragazzo-sussurrò beffardo Freezer,
socchiudendo gli occhi e increspando le labbra violacee in un sorriso mellifluo.
***
Vegeta sentì la colossale porta di metallo
chiudersi alle sue spalle, mentre prendeva a percorrere a passo spedito il
lungo corridoio della base, nel vano tentativo di calmarsi.
Era agitato. Era indignato. Aveva l’impressione
di stare per scoppiare. Il cuore gli martellava furioso nel petto, la mascella
era serrata tanto da fargli male:ogni centimetro del
suo corpo tremava di rabbia e disperazione. La sorda disperazione della
consapevolezza della propria inferiorità, e della propria
debolezza…quelle parole rivolte a suo padre e al suo popolo gli avevano
fatto molto più male di quello che voleva dare a vedere…e quel che
era peggio, è che era tutto maledettamente vero!
Era solo. Un ragazzo di sedici anni cresciuto troppo
in fretta, l’unico superstite di degno valore di uno dei più fieri
e forti popoli di tutto lo spazio…e che ora era solo polvere fluttuante
nell’universo…
Senza rendersene conto si era messo a correre:i passi rapidi e rabbiosi risuonavano nel corridoio
metallico, il silenzio della base era rotto solo dal suo respiro lievemente
affannato…doveva scaricare la rabbia, scaricare l’emozione, prima
che qualcuno lo vedesse…
Aveva imparato sin da piccolo, sin da
quando suo padre era morto, a non fidarsi di nessuno. Dopo che gli era
stata strappata l’unica persona che, nonostante i modi bruschi, gli
voleva bene, aveva iniziato a congelare i propri sentimenti, a soffocare ogni
emozione nella ferocia del combattimento…quella vita gli dilaniava
l’anima, ma non poteva uscirne…niente e nessuno gli avrebbe ridato
il suo destino…niente e nessuno…
***
La porta automatica scivolò lentamente di lato,
rivelando una figura alta e atletica immersa nella semi-oscurità del
corridoio.
Dremon si voltò lentamente verso l’uscita,
e un lampo di riconoscimento attraversò gli occhi stanchi e incastonati
nelle rughe del suo viso bruno da lucertola –Vegeta- esclamò con
voce cordiale e leggermente arrochita dall’età –come
è andato il colloquio con Freezer?-insieme al dittatore, era
l’unico che in privato lo chiamasse
semplicemente per nome.
-Non sono affari che ti riguardano- rispose scontroso
il ragazzo, lasciandosi pesantemente cadere sul letto spartano della camera.
L’alieno lo scrutò più
attentamente, cercando di scrutare negli occhi appositamente rivolti a terra
del principe:conosceva più di chiunque altro
quel giovane, e dalla sua risposta aveva già capito che era stato un
incontro frustrante e doloroso, e che molto probabilmente stava pensando di
nuovo a suo padre.
Sospirò:quel ragazzo,
dal fisico atletico e l’espressione seria, non aveva avuto una vita
facile; solo lui sapeva quanto dolore, quanti sacrifici e abbandoni aveva
subito, e come la sua ferocia ed efferatezza fossero un modo per annullare
ciò che gli faceva davvero male…Vegeta era un ragazzo
intelligente, molto intelligente, e proprio per questo era pieno di ferite che
rischiavano sempre di aprirsi…
Era stato il suo tutore e maestro da quando era
arrivato alla base di Freezer:organizzava la sua
giornata, passava i suoi ordini al laboratorio, e gli impartiva lezioni di
strategia, scienze, astronomia, medicina basilare e di alcune delle lingue
più usate nella galassia…
Ma soprattutto, era la persona più vicina a lui
in tutto l’universo.
Il vecchio alieno si sedette a sua volta sul letto,
posando una mano nodosa sulla spalla dell’allievo, resa dura dalla
corazza sotto il mantello vermiglio –Sei sicuro che sia andato tutto
bene?-chiese, cercando di aggirare pazientemente la sua barriera scontrosa.
-E a te cosa importa!?!-sbottò
velenoso il giovane saiyan, alzandosidi scatto e scrollandosi rabbiosamente di dosso il tutore.
Il vecchio alieno sospirò, rimanendo in
silenzio e guardando di sottecchi gli occhi rivolti verso lo spazio oltre
l’oblò del tenebroso principe.
Occhi velati da una profonda malinconia.
Occhi di chi non ha ancora dimenticato la persona di
cui aveva più bisogno.
-Ascolta Vegeta- iniziò ancora, alzandosi a sua
volta e costringendo il guerriero a voltarsi verso di lui:gli
occhi stanchi si accesero di determinazione, penetrando nell’animo del
giovane –io non sono tuo padre, e non lo sarò mai; ma tengo a te,
e sappi che non potrai contare sempre esolo su te stesso:avere qualcuno vicino di cui ti puoi fidare, che ti
consola, ti aiuta, si preoccupa per te è l’unico modo per non
perdere la propria anima! -.
Per un attimo,il principe
rimase senza fiato, ma subito dopo un’ondata di emozioni contrastanti
invase la sua mente: rabbia, tristezza, e rimpianto…sì, rimpianto
non per ciò che aveva perso, ma per ciò che avrebbe
perduto…
Perché non avrebbe mai potuto legarsi ancora a
qualcuno.
Perché non voleva più rischiare di
perdere i propri cari.
Perché non voleva soffrire ancora. Non ancora
come quella volta…
Vegeta fece improvvisamente scattare il mento dalla
parte opposta, come per scacciare quei pensieri –Non posso…-sussurrò,
facendo attenzione a non guardare gli occhi tristi e addolorati
dell’alieno -…non di nuovo…-.
La porta si chiuse con un clangore metallico alle sue
spalle.
***
La pista di partenza brulicava, come sempre, di una
folta massa di creature appartenenti a tutte le galassie e a tutti i popoli
dell’universo:guerrieri di Freezer appena
tornati da una missione, tecnici che controllavano le navicelle, venditori di
schiavi che discutevano animatamente con i compratori mentre sparuti gruppetti
di prigionieri aspettavano impauriti il compimento del loro destino, in un
continuo turbinio di vita sotto al complesso metallico dell’astroporto.
Vegeta camminava diritto in mezzo alla folla,
ricevendo occhiate stupite da chiunque incontrasse:tutta
colpa dei terrestri e del loro assurdo modo di vestire! Per una persona
riservata e fiera come lui, vestirsi come un pagliaccio era un vero
affronto…
Cercando di reprimere la rabbia che sentiva salire, si
sforzò di individuare la navicella con la quale sarebbe partito alla
volta della Terra:di fianco a lui, la figura tozza di
Dremon, fasciata dalla lunga veste bianca dei ricercatori, trotterellava
tentando di tenere il passo sostenuto del principe.
Aveva insistito molto per accompagnarlo, e in fondo
anche al giovane faceva piacere:odiava dover partire
attorniato da quei tecnici, viscidi esseri privi di qualsiasi
personalità e per cui lui non era altro che una merce da spedire con il
miglior imballaggio. Ma forse, sarebbe stato meglio diventare
così…una macchina, un oggetto. Un’arma, capace di pensare e
pianificare, ma pur sempre un’arma…
-Eccoli lì Vegeta- esclamò il tutore,
riscuotendolo dai suoi pensieri e indicando una delle navicelle allineate lungo
la pista riservata alle monoposto:piccole capsule
bianche perfettamente ordinate ai due lati del corridoio di vetro trasparente,
proteso sul mare infinito dello spazio come un promontorio.
Era da quando aveva sei anni
che vedeva quel corridoio:era stato quello l’inizio di tutto, il luogo
che l’aveva spedito sul pianeta dove per la prima volta aveva ucciso.
Ormai ne conosceva perfettamente le finiture, i colori metallici e freddi, i
fischi sempre presenti di una qualche riparazione;e
l’onnipresente odore di sangue e bruciato, prove di come le
“campagne di collaborazione” tanto amate da Freezer fossero in
realtà tutt’altro che pacifiche.
Davanti alla navicella a lui destinata, tre esseri
dalla pelle azzurra e fasciati da una lunga tunica argentea sembravano
impegnati in una discussione importante, discussione che terminò
bruscamente all’arrivo del principe.
Mentre il ragazzo si fermava di fronte a loro, lo
sguardo di uno dei tecnici non poté a fare a meno di gravitare sul suo
abbigliamento, e uno dei sottili sopraccigli dell’alieno si inarcò
visibilmente in un’espressione a dir poco scioccata; espressione che
sparì rapidamente una volta incontrati gli
occhi scuri e minacciosi del giovane.
-Allora?È pronta?- chiese
Vegeta, adottando il tono basso e scocciato che utilizzava con gli
inservienti e praticamente con tuttii suoi sottoposti.
-Certo- rispose prontamente uno degli esseri,
chinandosi verso il mezzo di trasporto –le coordinate sono già
inserite e…- una mano dalla presa ferrea gli si strinse attorno al collo,
sbattendolo contro il muro alla sue spalle –Devi
chiamarmi “Sire”, quando mi parli- la voce fredda e tagliente di
Vegeta fece rabbrividire il povero tecnico –e guardami negli occhi,
chiaro?-.
-Chiaro- sussurrò con voce strozzata il tecnico,
raggelato dallo sguardo implacabile del principe.
Quest’ultimo lasciò la presa, facendo
scivolare a terra l’alieno, che cercò faticosamente di rimettersi
in piedi riunendosi ai compagni, terrorizzati quanto lui.
-Di-dicevo, Sire…-ricominciò l’interpellato,
massaggiandosi il collo su cui campeggiavano rossastri i segni delle dita del
guerriero -…le coordinate per la terra sono già state inserite,
non deve fare altro che azionare la navicella-.
Trasse qualcosa da una tasca della tunica, porgendola
poi al ragazzo:era una piccola scatoletta bianca, al
cui interno erano conservate delle strane bottiglie etichettate.
-Che cosa sono?-chiese il guerriero, rigirandosi tra
le mani i misteriosi oggetti.
-Sono delle speciali capsule, in grado di contenere al
loro interno ogni genere di cosa:abbiamo sistemato
dentro a questi piccoli marchingegni tutto ciò di cui avrà
bisogno durante la missione. Per aprirle e trasformarle nell’oggetto
desiderato, basta schiacciare quel bottone, e per farle tornare così
basta premerlo di nuovo.- spiegò il tecnico, compiaciuto dallo sguardo
curioso del principe –è un manufatto terrestre, così
passerà inosservato.- .
Vegeta restò ancora un momento con la capsula
tra le mani:chissà perché, ma quegli
oggettini apparentemente insignificanti avevano da subito esercitato su di lui
uno strano fascino, come se sapesse in qualche modo che le avrebbe ancora usate
molte volte, un giorno…
Notando improvvisamente lo sguardo stranito del suo
tutore e dei tre alieni, si riscosse, borbottando qualcosa di incomprensibile e
infilandosi in tasca l’astuccio bianco.
-Bene, parto- decretò lapidario, non degnando
di uno sguardo i presenti e apprestandosi a salire sulla navicella.
-Aspetta ,Vegeta-
sussurrò Dremon, fermandolo un attimo prima che entrasse nel velivolo:
il ragazzo si girò, incrociando i propri occhi con quelli scuri e
infossati tra le rughe del vecchio alieno, mossi dalla stessa determinazione
usata neanche un giorno prima nella sua camera.
-…Ricordatiche anche tu hai diritto di
essere felice.- .
-Le persone hanno il diritto di essere felici-
sussurrò Vegeta saltando nell’abitacolo, e un’ombra di
tristezza attraversò i suoi occhi color selce –non le armi.- .
Salute a tutti voi,cari lettori, dalla vostra imperdonabile autrice
Salute a tutti voi,cari
lettori, dalla vostra imperdonabile autrice! Lo so,il
mio ritardo è pressoché indecente,e non ho scuse per la mia
infinita pigrizia…non sapete quanto mi dispiace! ( Non
sono sadica,o almeno non arrivo a questi inenarrabili livelli di
crudeltà,quindi sappiate che ci ho messo tre ere geologiche ad
aggiornare solo perché volevo sfornare qualcosa di veramente carino per
voi!).
Il ogni caso,
come pegno per la vostra pazienza,avete il diritto di punirmi,scegliendo tra le
seguenti modalità:
-Fustigazione
-
Lapidazione
-Crocifissione
- Visione
continua di tutta la serie completa in DVD dei Tele Tabbies
(se volete farmi davvero del male,scegliete questa…ma non potete essere
così malvagi!)
Insomma,potete farmi davvero di tutto,ma per favore,lasciatemi una
recensioncina,anche solo per vedere fino a che estensione arriva il vostro
elenco di epiteti… Grazie comunque a chiunque vorrà leggere la mia
storia, e vi assicurò che tenterò di essere più
veloce…quindi forza,compiacetemi!
Buona
lettura,e Ciaociao da Ceci!
-Fuoco ed ebano-
“Il
fiele che gli avvelena l’anima sono le lacrime che non ha
versato…”
La placida pianura, circondata da un anello di alberi
dalle chiome frondose, era ammantata della fredda e vellutata ombra della
notte.
Lontano, oltre gli intricati e nodosi tronchi del
bosco, il colle su cui si inerpicava il centro della città si stagliava
fosco contro il cielo di un nero profondo e senza stelle.
L’intera foresta era immersa dal silenzio
più assoluto, appena incrinato dal timoroso stormire del vento tra i
rami protesi verso l’alto e dall’urlo lontano di qualche uccello.
Improvvisamente, una lama di luce illuminò la
densa e cupa volta celeste, e un rombo assordante scosse la radura, facendo
fremere gli alberi. Una figura dai riflessi metallici apparve in mezzo alla
pianura, mentre nel cielo si sollevavano contorte volute di fumo opaco e
sibilante.
Uno scoiattolo spaventato saettò
sull’erba, andando a perdersi nei meandri della foresta, e rompendo per
un momento l’innaturale silenzio che era calato sulla scena come una
cappa opprimente.
La porta della navicella si aprì lentamente, proiettando
sulla radura la fredda luce dell’abitacolo. Un calcio stizzito la
sbatté a terra, facendola rimbalzare con un clangore metallico, e una
figura ammantata di nero si erse dall’astronave,stagliandosi contro la metallica luminescenza
lunare.
Vegeta si sollevò lentamente dal cratere ancora
rovente, facendo scorrere lo sguardo sul luogo dove era atterrato: la brezza
leggera gli faceva volteggiare attorno i vestiti, e la
luna accendeva i suoi occhi scuri di riflessi argentei; sotto di lui, la
consolle della monoposto continuava a pulsare mestamente.
Chiuse gli occhi, inspirando profondamente
l’aria fresca della notte: da quanto tempo non sentiva più il
dolce profumo della sera, la carezza del vento, il freddo leggere
che penetra piacevolmente nelle ossa? Da quanto non respirava altro che
l’aria trattata chimicamente della base di Freezer, perennemente intrisa
dell’acre odore del metallo e del sangue?
Sicuramente troppo.
Con un movimento circolare tornò a terra, premendo
sullo scouter il tasto della chiamata:l’apparecchio
gracchiò, e poco dopo una voce burbera gli rispose dall’altra
parte.
-Chi è?- biascicò l’alieno.
Il ragazzo si sforzò di assumere il tono di voce freddo e controllato con cui era conosciuto-Sono il
Principe Vegeta, volevo comunicare al grande Freezer che sono arrivato sul
pianeta e non registro nessun imprevisto. Domani darò inizio alla
missione che mi ha affidato .-.
Gia, la missione:l’ennesimo
compito affidatogli da Freezer, come da dieci anni a quella parte, da quando il
suo mondo gli si era frantumato sotto ai piedi, facendolo scivolare in
quell’inferno che sapeva di morte e solitudine.
-Va bene, il grande Freezer riceverà la
comunicazione. Aspettiamo i tuoi aggiornamenti- rispose burbero l’interlocutore,
con una nota di sufficienza nella voce che fece impercettibilmente fremere
Vegeta.
- Senz’altro- assicurò a denti stretti, chiudendo
con uno schiocco secco la comunicazione.
La radura cadde di nuovo nel silenzio, rotto solo
dall’urlo di qualche uccello notturno.
Cercando di ignorare l’amaro in bocca che lo
attanagliava ogni volta che pensava a Freezer e alla base quando era in un
altro pianeta, il principe sfilò dalla tasca l’astuccio delle
capsule, prendendone una e pigiando sul pulsante bianco:una
tenda simile a quelle dei campi di battaglia apparve davanti a lui, illuminandosi
dei riflessi opachi che mandava una piccola lampada al suo interno.
Il principe non si stupì neppure, e non stette
a chiedersi come fosse possibile: entrò all’interno dell’angusto
rifugiò e si lasciò cadere sul pavimento
sintetizzato, incurante degli insetti, del fatto che non conoscesse nulla di
quel luogo, che il giorno dopo avrebbe dovuto cominciare una recita in un mondo
quasi del tutto sconosciuto.
Era stanco:stanco di quella
vita, stanco di essere l’unico a non aver ancora perso quella dannata e
malsana speranza che rendeva ancora più insopportabile la
staticità della sua situazione, di essere l’ultimo rudere di una
civiltà cancellata dall’universo…e stanco di continuare a
tenere ai limiti della coscienza la sua più grande paura, quell’assillante
domanda che lo logorava da dentro.
E se questa
vita durasse per sempre?
***
Bulma
represse uno sbadiglio, chiedendosi come mai le lancette dell’orologio
avevano improvvisamente deciso di muoversi al rallentatore.
Erano
solo all’iniziò della terza ora, ma
già sentiva la noia sopraffarla completamente.
D’altronde,
doveva ammettere che era da un po’ di tempo che
sentiva una strana sensazione incomberle sopra, come un velo che ricopriva ogni
momento della sua giornata e la soffocava: la noia.
La
sua vita era semplice, con una bella casa, degli amici, la scuola e una
carriera già dischiusa davanti a sé:era
già tutto pronto, tutto scritto, e aveva la brutta sensazione che non ci
fosse lo spazio perché potesse scrivere da sola il proprio
destino…
-Giornata dura anche oggi,eh?-borbottò
Alkmena riemergendo dal suo zaino con il libro di storia in mano.
- Eh già, oggi sono proprio depressa-
sbadigliò Bulma, aggiustandosi svogliatamente il fiocco rosso dell’uniforme –e certo tutte queste lezioni non
aiutano…-.
- Non posso darti torto-sospirò l’altra, sistemandosi
la massa di capelli biondo miele dietro l’orecchio e fissando i suoi
profondi occhi color muschio in quelli azzurri dell’amica –C’è
qualcosa che non va, Bulma? Normalmente sommergi chiunque di parole, invece
oggi mi sembri molto strana…vuoi parlarmi di
qualcosa?-.
La ragazza mandò un impercettibile sbuffo;era incredibile come Alkmena riuscisse sempre a capire
quando non le aveva detto tutta la verità:ai più dava
l’impressione di essere molto intelligente ma anche molto svagata, ma la
verità era che semplicemente non riteneva di fondamentale importanze
quelle che definiva “incombenze pratiche”, come stare a sentire una
conversazione dall’inizio o controllare che la cioccolata calda non si
rovesci completamente sulle dita.
Per il resto, Alkmena era comunque una ragazza molto
intelligente, e sapeva capire quando la sua migliore
amica rimuginava su qualcosa.
Stava per risponderle con una negazione tanto decisa
quanto poco convincente, quando il professor Newhope fece il suo ingresso in
aula, riportando il silenzio sulla classe.
-Buongiorno ragazzi –salutò l’uomo,
posando la valigetta di pelle nera sulla cattedra di mogano con le bianche dita
nervose.
-Buongiorno professore-salutò il solito coro
svogliato di voci.
Bulma si sistemò meglio sulla sedia, preparandosi
a due inesorabili ore di matematica e cominciando a disporre con lentezza
esasperante i quaderni sul banco.
-Oggi c’è una novità -cominciò
il giovane insegnante, sistemandosi gli occhiali rettangolari sul naso aquilino
e avvicinandosi alla porta – si tratta di un nuovo studente: è
appena arrivato da una piccola cittadina dall’altra parte del paese, e
ancora non conosce nessuno;spero quindi che lo
tratterete con gentilezza e cercherete di farlo sentire a suo agio. Entra pure
– concluse, facendo segno di avanzare a qualcuno oltre la porta.
Il chiacchiericcio, che stava tranquillamente
ricominciando, si fermò di botto quando
un’ombra scura scivolò nella classe.
Con passi lenti e cadenzati, simili a quelli di una
fiera che si aggira in un territorio ostile, lo sconosciuto davanti agli
studenti, mentre un coro di mormorii serpeggiava tra i banchi.
Bulma si fermò improvvisamente, fissando lo
sguardo sul nuovo venuto:c’era qualcosa di
strano in lui, di diverso, come se fosse nel posto sbagliato, come se in lui ci
fosse qualcosa di vibrante e nascosto che ancora non riusciva ad isolare.
Eppure, il suo abbigliamento non aveva niente di
sconcertante: una maglia rossa dai riporti gialli, dalla quale scendevano le
maniche a righe color canarino, fasciava il busto asciutto; Un paio di scarpe
da tennis rosse spiccava sotto gli slavati jeans azzurri, e una borsa a
tracolla blu cobalto poggiata indolentemente sulla spalla attraversava la
sfolgorante V gialla cucita sulla maglia.
Ma i tratti duri e seri,di
una bellezza austera e algida che pareva scolpita nel marmo, la fiamma di capelli corvini, il fisico
minuto e atletico, e gli occhi ,scuri e profondi come mari di letale e
magnetico fascino, lo facevano sembrare fuori posto, una creatura potente e
lontana imprigionata nel corpo di un liceale…
-Vegeta,vuoi dire qualcosa ai
tuoi nuovi compagni di classe?-chiese il professore, riscuotendosi dal timore reverenziale
che sembrava aver soggiogato anche lui.
Il nuovo venuto scoccò un’occhiata
obliqua all’insegnate, e a Bulma sembrò
che per un attimo i suoi occhi insondabili venissero attraversati da un lampo
di gelido rimprovero; subito il ragazzo riportò lo sguardo sulla classe,
mentre quella strana luce veniva nuovamente ingoiata dalle iridi color della
notte –Il mio nome è Vegeta, Principe Vegeta- cominciò, e la
sua voce, seppur alta e soggetta all’irregolarità tipica della
pubertà, aveva una marcata inflessione autoritaria e controllata –
ho sedici anni,e mi sono appena trasferito qui. Vengo da un piccolo paese a
Nord del paese, e non ho ancora visto niente del posto.- Forse fu solo
un’espressione, ma a Bulma sembrò che anche in quel discorso ci
fosse una nota stonata, come se quelle parole appartenessero ad un discorso
rigido e già impostato che non apparteneva minimamente a quel ragazzo
dalle pupille d’ebano.
-“Principe Vegeta”…intendi dire che
di cognome fai Principe, no?-chiese il professore, lanciando una risatina
nervosa .
-Ovviamente- rispose a denti stretti Vegeta, posando nuovamente
sull’uomo uno sguardo obliquo, e quegli occhi sembrarono bruciare di
nuovo di un disprezzo tanto autoritario quanto immotivato.
-Ah…ehm, bene, puoi sederti laggiù in fondo,vicino alla finestra, e sei hai bisogno di qualcosa, chiedi
pure a Bulma,la nostra rappresentante di classe!- si affrettò a spiegare
l’insegnate indicando la ragazza, intimorito dalla prospettiva di incrociare
di nuovo i suoi occhi con quelle fiamme oscure e incandescenti.
Con la stessa camminata flemmatica e guardinga, tenendo
gli occhi alti e fieri sopra le teste dei ragazzi sempre più
esterrefatti e incuriositi, il ragazzo si diresse verso il suo nuovo banco,
ignorando i mille sussurri che arrivavano al suo udito finissimo.
Stava per oltrepassare impunemente Bulma, quando la
ragazza scattò in piedi, tendendo la mano e recuperando la sua solita
disinvoltura – Piacere, io sono Bulma Briefs- si
presentò con un largo sorriso,mentre Vegeta si avvicinava al suo banco
–molto onorata di fare la tua co…-le parole le morirono in gola.
Senza nemmeno elargirle un’occhiata, il ragazzo aveva continuato a
camminare col suo passo regale e cadenzato, come se non fosse abituato ad
ascoltare le persone intorno a sè.
Indignata,mentre le gote le
si tingevano di un rosso furioso, la giovane lo agguantò per una spalla
–Ehi, tu, potresti alme…-.
Lui si girò, catturando le pupille azzurre
della ragazza. E il tempo si fermò.
In un istante, Bulma vide in quei mari neri e
tumultuosi il riflesso di mille battaglie, di ricordi violenti e crudeliche non
appartenevano alla sua età, di un universo oscuro e lontano, e
l’ombra di un potere antico e regale, una forza ancestrale e inumana .
Bulma distolse lo sguardo, trasalendo:era stato un attimo, un battito di ciglia, eppure, guardando
quel ragazzo aveva provato un brivido, le si erano spalancati davanti universi
bui e sconosciuti.
Mentre il giovane andava a sedersi come niente fosse, la ragazza si accasciò sulla sedia tremante, mentre
il silenzio ovattato che aveva circondato in quegli istanti il mondo esterno si
diradava pian piano: in quello sguardo aveva percepito qualcosa, un misto di
forti e contrastanti emozioni, una rabbia e un dolore che ribollivano fameliche
nelle profondità di quelle pupille di selce, in quei ricordi così
vividi e sconosciuti, quasi potesse essere stata scottata da quel contatto.
In
quegli occhi, aveva visto l’inferno.
Ecco
fatto! Allora cosa ne dite del mio nuovo lavoro? (sono
sicura che sarete tutti affascinati ed entusiasti,veroooo?) Io spero proprio di
sì,e se vorrete darmi il vostro parere sono tutta orecchi! Ma a
proposito,ora posso dedicarmi ad un’
attività che rifulgeva nei miei sogni da tempi immemorabili: la risposta
alle recensioni (anche se con due mesi di ritardo…)! Bene,cominciamo subito:
Heleamicachipss: Grazie per i complimenti,ADORO
l’aggettivo intrigante… continua a seguirmi,un bacione!
Bulma_89: Grazie anche a te, ho fatto una ruota dalle dimensioni
immani quando ho visto la tua recensione…davvero
pensi che io scriva bene? Bè,sai che non
c’è complimento migliore da rivolgere ad uno scrittore! Un bacio
anche a te,spero di vedere qualche altra tua
recensione!
Kikka@93: addirittura commossa dalla mia bravura?!? Mamma mia,sto spopolando! A
parte le mie uscite dementi, sul mio viso si è aperto un sorriso a
cinquantadue denti quando ho letto il tuo
commento…se non hai deciso di punirmi con il silenzio,ti prego,dimmi cosa
pensi di questo capitolo! Un abbracciane (oggi vado
con gli alterati,vabbè…)
PS:Ahi ragione,Veggie è
assolutamente impagabile! Lo adoro quando è
tormentato ( è vero che lo adoro anche quando si lava i denti,ma questi
sono particolari…)
BULMA_007: Ah,sono davvero contenta che l’idea
ti piaccia! E che ti piaccia il mio stile! E che abbia scritto tutte quelle
cose carine! Questo è il mio modo a dir poco eccentrico per ringraziarti,la tua recensione mi ha fatto davvero piacere! E se me ne
lascerai un’altra sarò ancora più felice (non è un
ricatto,giuro…) in ogni caso,un bacione,e continua
a seguirmi!
aras: ed eccolo qui,dopo immani fatiche e
terribili prove,il seguito! (sì,vabbè,della
serie “non ci montiamo la testa”,mi raccomando…) In ogni
caso,lasciando perdere i miei diverbi con il subconscio,mi dispiace di averti
fatto aspettare tanto,ma mi piacerebbe molto sapere cosa pensi di questo chap!
Un bacione,e Ciaociao da Ceci!
E infine,un grazie speciale a tutti
coloro che hanno messo la mia storia tra i preferiti.
E hanno strenuamente aspettato i miei comodi:
grazie
tantissimo!
Bene,ora vi
lascio davvero,ma voi non dimenticatevi di recensire, mentre io cercherò
di sveltirmi con il prossimo chap….anche se devo
ancora decidere bene cosa far succedere esattamente…ehm ehm ehm…Insomma,abbiate
fiducia,e ovviamente Ciaociao da Ceci!
Ebbene sì. Dopo secoli, un nuovo capitolo. Sconvolti , vero? Mi scuso davvero per l'atroce ritardo. Ma spero comunque che possa essere godibile. Ditemi cosa ne pensate.
Capitolo 3
-Luna di Sangue-
“Ishmen, proteggi la mia mano e il mio cuore, illumina la mia mente e la mia strada”*
*Antico detto Sayan
Vegeta aveva solo quattro anni, ma sapeva che non doveva avere paura. Glielo aveva insegnato suo padre mentre si allenvano nei cortili assolati del palazzo, davanti agli occhi ciechi e severi della statua di Ishmen, la Dea della Luna. -Ricorda, figlio mio- ripeteva, la fronte alta e ambrata imperlata di sudore -un vero guerriero non conosce la paura. Certo, sa valutare la forza dell'avversario, e calibrare le proprie; ma non si lascia mai vincere dal terrore, non retrocede mai dal campo di battaglia. E, soprattutto, non deve avere paura il principe. Ricordalo, Vegeta: renditi sempre degno di Ishmen, la nostra Madre di Sangue.-
E anche in quel momento Vegeta cercava di non provare timore per quella nave così insolita e buia, e per la figura pallida e imbevuta di penombra che parlava con il re dei Sayan. Ma in realtà, più che per la dea della sua gente, lo stava facendo per essere degno di suo padre. Conservava gelosamente ogni frammento dei loro pomeriggi di allenamenti, di tutti i graffi e le lacrime, ma anche delle poche e inestimabili risate frammischiate alla fatica. Sua madre era morta poco dopo la sua nascita, e per lui non era che una manciata di riflessi confusi: un lampo di lunghe ciocche nere, una risata profonda, un buon odore di sole e rosmarino. No, il vero fulcro della vita di Vegeta, il perno che illuminava e infondeva energia, era suo padre: non c'era nulla di più nobile della sua mente, di più forte delle sue mani grandi, di più splendente della sua fierezza.
E non c'era nulla di più dolce delle sue carezze brusche, dell'orgoglio austero che suo figlio vedeva nei suoi occhi quando apprendeva una nuova tecnica.
Ma adesso non aver paura era molto difficile.
Vegea si addossò ancora di più allo stipite d'acciaio della porta, sperando che nessuno lo scovasse. Quando erano saliti sulla nave suo padre gli aveva ordinato di rimanere accanto al portello, e di aspettarlo lì; ma la mente acuta e curiosa del piccolo principe non gliela aveva permesso, e così era scivolato tra i volti variopinti e bizzarri dell'equipaggio, fino alla grande sala ombrosa in cui il re dei Sayan stava discutendo animatamente con qualcuno.
Vegeta si accigliò, tentando di distinguere i tratti dell'interlocutore; scorse solo una mano bianca, freddi occhi scarlatti, labbra scure che si arriccivano vezzosamente.
Non era una scena diversa da quella che si era ripetuta con tutti gli altri incontri diplomatici alla reggia: il principe, nella sua pur breve vita, aveva visto avvicendarsi creature dalla mole immensa e il cuore gentile, figure silenti dal volto celato in maschere d'oro, sinuose regine vestite di perle e di sangue; aveva ascoltato ogni lingua della galassia, dallo schiocco aspro dei Klagonon alle parole melodiose e roche della Repubblica di Byannan. Ma questa volta, questa volta un gelo pungente gli formicoava lungo la schiena, come un dito freddo premuto sulla base del collo. C'era qualcosa di sbagliato, di tremendamente sbagliato.
“Va tutto bene” si ripetè per l'ennesima volta, “vedrai, tra poco finirà tutto, tornerete a casa e papà ti porterà un po' nell'arena, e combatterete e riderete e sarà fiero di te.” Ma nonostante tutte le sue rassicurazioni, il cuore di Vegeta rombava nelle orecchi come un tuono.
In quel momento si accorse delle grida. In qualche istante, quella che era stata un'innocua transazione commerciale si era trasformata in un litigio, e ora suo padre stava urlando contro le silenziose figure nelle tenebre. -Avevi detto che sarebbe stato così – ruggì -l'avevi promesso!-
Vegeta si sorse oltre la soglia, mordendosi il labbro. Era giovane, ma conosceva già il valore di un giuramento: la verità scorreva nel sangue del suo popolo quanto il fuoco e la guerra, ripeteva sempre il re dei Sayan: rompere una promessa era infame quanto una resa.
La replica fluttuò nell'oscurità, strascicata, stucchevole come il profumo troppo dolce di una melagrana marcia. -Lo so. Ma ho cambiato idea.-
Qualcosa, d'improvviso, cambiò. Vegeta non avrebbe saputo spiegarlo esattamente, ma fu come un respiro, un sussrro glaciale nella sala. Le spalle di suo padre si irrigidirono, mentre ruotava su se stesso, gli occhi profondi e severi bruciati dalla collera. Fu allora che incontrarono i suoi, e accadde l'evento più inaspettato. Il re dei Sayan, con un buio nello sguardo che il picclo principe non riconobbe, gli rivolse un cenno impercettibile, additando il corridoio. Vegeta agrottò le sopracciglia.Gli stava odinando di andarsene; ma perché? Non dava fastidio a nessuno stando lì. Poi, d'improvviso, capì cosa fosse l'ombra nel volto di suo padre. Era paura.
Paura per lui.
Il freddo divenne più intenso.
-Se questa è la tua decisione- ribattè il re, voltandosi verso la corte nascosta -allora il nostro patto è sciolto.-
-Già- sussurrò la voce, e il mondo parve lento e irrefrenabile come acqua -Credo si possa dire così.-
Fu tutto inaspettato, eppure Vegeta notò ogni dettaglio; il sottile lampo vermiglio che avvampò tra le dita dell'alieno, il grido strozzato di suo padre mentre veniva trafitto, il fruscio del mantello, quel mantello scuro e immenso come la notte, mentre cadeva. Per qualche motivo, però, la sua attenzione si concentrò sul medagione che il re portava al collo; ne osservò le venature rosse mentre precipitava a terra, i giochi di luce sullo smalto, il limpido tintinnio metallico quando toccò il pavimento. Per un momento, non esistette altro che quel tintinnio, e Vegeta seppe che non l'avrebbe mai dimenticato.
Fu solo quando la sala tremolò di fronte ai suoi occhi che si accorse di aver iniziato a piangere.
Due occhi immobili e scarlatti si appuntarono su di lui, con una scintilla di divertimento. -Prendete il bambino- sibilò.
Vegeta rimase immobile, aspettando che suo padre si rialzasse, che gli rivolgesse il suo sguardo intenso e grave, che gli stringesse la spalla assicurandogli che andava tutto bene.
Ma non accadde.
-Papà- sussurrò.
Due uomini, avviluppati nello scafandro di piastre e metallo delle divise, si mossero verso di lui, le mani tese.
Nella mente del piccolo principe scintillò l'ultimo ordine di suo padre, e gli parve quasi di distinguere la sua voce.
“Scappa, figlio mio.”
Vegeta si voltò, e corse.
Corse sempre più forte, il fiato che gli gonfiava il petto, il sangue che ruggiva nelle tempie; corse, accecato dalle lacrime, assordato dai passi e le grida dei suoi inseguitori; corse, perché se si fosse fermato, la voce di suo padre sarebbe scomparsa per sempre.
Per qualche motivo, in quel momento rivide l'ultimo pomeriggio di allenamenti che avevano trascorso insieme, il sole rovente del mezzogiorno, l'odore ricco e dorato dei frutti dei giardini, la stretta accorta e salda delle mani callose sulle sue bracci mentre gli mostrava un nuovo colpo.
“Oh, papà.”
Successe in un attimo. Vegeta non vide il dosso, il piede lo colpì, e il pavimento precipitò verso di lui. Un dolore lancinante gli esplose nella fronte, sciami di luci gli turbinarono di fronte agli occhi.
Il suo ultimo pensiero fu l'abbraccio di suo padre.
Vegeta scattò a sedere, il respiro rappreso nella gola, il cuore che gli sussultava nelle tempie. Si sfregò gli occhi con la mano, serrando le labbra: di nuovo quel sogno. Era da quando era bambino che si ripeteva quell'incubo, ogni volta con la forza una ferita; eppure, i particolari svanivano subito, come riflessi sull'acqua. Tutti, tranne quel tintinnio.
Era inutile, lo sapeva; ormai non sarebbe più riuscito a riaddormentarsi, e sentiva già pulsare lo squarcio nel petto che si era aperto alla morte di suo padre e non si era mai rimarginato. No, l'unico modo per alleviarlo era uscire, sotto il respiro freddo delle stelle, aspettando che il dolore smettesse di bruciare così tanto.
Vegeta scivolò in piedi, sfiorando la serratura a sensore tattile della porta. La parete della tenda si schiuse con un sospiro e il principe avanzò sull'erba gonfia e scura. L'aria gelida e profumata gli accarezzò la pelle nuda delle braccia, affilando la sua mente, scacciando i fantasmi. Respirò profondamente, lasciando che il sapore di ghiaccio e di fiori gli colmasse il petto, consumando le grida dei ricordi, racchiudendo di nuovo i sentimenti nell'incavo profondo e segreto in cui turbinavano. Era un guerriero; una macchina per uccidere, squarciare, dilaniare. In lui, nella sua vita, c'era spazio solo per la rabbia e la fierezza: cose troppo dure e troppo sterili per poter sanguinare. Molto tempo prima, quando era solo un bambino con le lacrime negli occhi e il viso tumefatto dai pugni, aveva promesso a se stesso che sarebbe stato quello, una statua di vetro e pietra, immutabile, intoccabile, vuoto e arido quanto il deserto della sua terra.
Eppure, il tintinnio continuava a risuonare, appena oltre l'orecchio.
Vegeta camminò per la radura, avvicinandosi alle forme dense e ombrose degli alberi; i rami erano un arazzo di castano e di grigio, frammischiati del blu limpido del cielo. D'istinto, come obbedendo ad un istinto inscritto elle ossa, afferrò agilmente il tronco di una quercia, issandosi nel nido delle fronde, ricordando tutte le volte in cui, da piccolo, si nascondeva tra gli alti cedri odorosi del palazzo. Vegeta si affrettò a distogliere la mente dalla memoria, prima che potesse far male. La luna spandeva un chiarore nebbioso, immacolato, e sembrava baciargli la pelle. Chiuse gli occhi, conedendosi un istante di pace, bagnandosi nel candore guerriero della luce. Oh, Ishmen, signora della Luna, pregò, guidami lungo questo sentiero, perché le ombre sono profonde. Sbattè le palpebre, allibito; non ripeteva le parole dell'invcazione da quando aveva quattro anni, ma adesso gli erano affiorate alle labbra come cerchi in uno stagno. Ripensò ai riti nella cappella della reggia, l'odore denso e freddo dell'incenso, il marmo severo delle statue, e una fitta imprevista di nostalgia minacciò di nuovo la sua corazza. Si avvolse le braccia intorno al corpo, come per proteggersi dal passato, come per impedire allo squarcio di schiudersi un poco di più.
Sono stanco, decise, solo questo. E forse era vero. Era stanco di rinnegare ciò che era. Era stanco di combattere senza onore, senza motivo, senza orgoglio. Era stanco di non essere più un principe, e di avere solo una corona di cenere.
Guardò la luna, la pallida, piccola luna di questo mondo; ma il mometo era passato, e non era altro che un altro astro nella trama di stelle.
Il sussurro giuse inaspettato, sfiorandogli la tempia come una carezza, sbocciando dal bagliore stesso della notte.
Non smettere di sperare. Alla fine del viaggio, saprai di nuovo chi sei.
Un attimo, e quelle parole senza voce svanirono nel vento, scintillando. Ma le aveva sentite, e aveva riconosciuto la dea, quella dea che non gli parlava più dagli anni di sole e di verità della sua infanzia. Nn credeva di poterla ancora sentire: Ishmen parlava solo ai veri guerrieri, alle anime rosse dei sayan più nobili. E ora aveva scelto lui. Il principe spezzato, l'erede corrotto.
Non smettere di sperare.
Vegeta si rannicchiò tra le foglie inargentate, e lo squarcio bruciò un po' meno.
“Non sono molti coloro a cui si possano rivelare la propria ira, e la propria ombra”
Bulma si stiracchiò, lasciando schioccare le dita come ogni volta che si dedicava ai suoi esperimenti: si sentiva davvero bene. Era una splendida giornata, il cielo azzurro e croccante come una pastiglia di zucchero, e il sole fiottava fasci d'oro sui banchi e il pavimento dell'aula. Amava quelle giornate di primo autunno, in cui il mondo si trasformva in un arazzo di celeste e ambra e le foglie gialle tremolavano sugli alberi; erano i giorni ideali per camminare a fianco di un ragazzo in lunghe passeggiate, per bere caffè caldo nei locali del centro, per leggere sul divano, magari avvolta dalle braccia tiepide e solide di un uomo. Sospirò, mordicchiando la penna blu. Eppure, erano proprio quelli i momenti in cui sentiva di più la mancanza di un fidanzato. Nei libri che divorava alla sera, l'eroina trovava sempre qualcuno da amare e da baciare, un compagno che la facesse ridere e la proteggesse; ma nella vita era molto più difficile, e più squallido. Per questo non aveva mai apprezzato gli inviti sgraziati dei suoi coetanei, i loro abbracci goffi e umidi. Aveva sedici anni, ma la sua mente era abbastanza pronta e limpida da vedere quanto fossero lievi e fragili quegli amori, tenui quei legami. No, lei aspirava a molto di più: aspirava ad un vincolo profondo, inciso nel corpo quanto nello spirito: un'uninone di anime e di carne che la appagasse e la colmasse di luce e di desideri.
Bulma reclinò indietro la sedia, e in quel momento lo vide entrare: scorse la fiamma nera dei capelli, i tratti pallidi e affilati, la bocca orgogliosa; e quegli occhi, quegli occhi in cui gridavano popoli e vetigini di mondi. Il nuovo ragazzo, con quell'assurdo nome, Vegeta.
Lo osservò, reclinando la testa, nella posa con cui valutava un nuovo ingranaggio. La camicia bianca e la giacca blu della divisa, abbottonati con una sorta di rabbiosa indolenza, sembravano troppo casalinghi e quotidiani per l'aura d'argento e di fuoco che sembrava avvilupparlo. Si muoveva con la grazia severa di un lupo mentre scivolava al suo posto, le braccia incrociate sul petto, diventando immobile e bianco come un austero principe del Medioevo. Ecco che cosa le ricordava: un principe, uno dei cavalieri pallidi e selvaggi che servono le fate dei racconti; creature remote e schive, troppo fiere per avvicinarsi agli uomini.
Il trillo della campanella la distolse dai suoi pensieri. Un istante dopo, il professore di scienze, Mister Dumbnoon, entrò con le sue rapide falcate da gnomo, un largo sorriso rubicondo sul volto. I suoi compagni si affrettarono ai posti in un turbine di casacche e fruscii di gonne. -Buongiorno, ragazzi!- esclamò, appoggiando la cartella sulla cattedra. -Come sapete, oggi ci sarà il compito in classe di Astronomia, quindi tirate fuori la penna e dividet i banchi.-
Il solito coro di mugolii e sospiri fluttuò nell'aria fresca dell'aula.
Mentre il professore distribuiva il plico di fotocopie, Bulma sorrise, tentando di occultare la propria espressione; Scienze era la sua materia preferita, e l'Astronomia la affascinava: i pianeti, le costellazioni, la conca trapunta di luci del cielo sembravano dare sostanza ai suoi sogni. Amava il modo in cui il mondo e i suoi segreti si trasmutavano in cifre e assi, eattamente come nella meccanica. Fin da bambina, i numeri e le loro danze non le avevano mai fatto paura: adorava trascorrere i pomeriggi con suo padre, nella penombra pulita del laboratorio, mntre le spiegava i rudimenti della sua arte, mentre davano vita ai prodigi di molle e metalli della Capsule Corp.
I meccanismi e i congegni erano facili da capire, schietti da comprendere.
Esattamente l'opposto del nuovo ragazzo.
Lanciandogli ancora uno sguardo, si chinò sul suo foglio.
E di fronte lei, quegli occhi parvero ancora bruciare.
Vegeta non lo mostrava, ma era stupefatto. Quei corridoi luminosi, quei grappoli pigri di studenti, quell'universo ordinato e lindo di divise e risate spensierate, era l'opposto di tutto ciò che conosceva. Disciplina, ferocia, ambizione, crudeltà: si era nutrito di tutto questo per così tanto tempo da sentirsi precipitato in un cosmo diverso, e incomprensibile. E le domande formicolavano, come scintille sotto la pelle. Quando era stata l'ultima volta in cui aveva scherzato in quel modo? O camminato senza guardarsi alle spalle? O guardato le castagne dorate sugli alberi? Gli tornarono in mente ricordi lontani, scampoli di memoria di giorni perduti: il sorriso di una donna dai capelli bruni, mentre gli avvicinava alle narici un fascio di fiori violetti come i suoi occhi; il sapore dolce e caldo di un frutto colto dai rami bassi del giardino; la gioia semplice di correre tra i prati, al'ombra familiare delle mura del palazzo. No, non doveva pensarci. I ricordi schiudono fessure nell'anima, e rivelano il cuore; un errore letale per qualsiasi guerriero, una via troppo facile per venire trafitti.
Deglutendo, Vegeta sprofondò il passato di nuovo in basso, nell'incavo buio e palpitante in cui pulsava non visto.
Per distrarsi, si concentrò sul foglio che l'ometto tondo gli aveva poggiato di fronte: con sua sorpresa, vide che richiedeva soltanto i nomi dei pianeti di quel sistema solare. Un orgoglioso compiacimento gli incurvò le labbra: era questo che si insegnava nelle scuole terrestri? Aveva avuto i più spietati precettori della galassia, fin dal giorno in cui aveva smesso di piangere suo padre, e la sua vecchia vita era morta. Si morse il labbro, infuriato con se stesso: come mai quelle debolezze continuavano ad assillarlo? Qul luogo era troppo remoto, troppo diverso da ciò che conosceva e aveva imparato ad accettare. Se fosse rimasto, sussurrò una voce intrappolata nelle ossa, sarebbero arrivate altre memorie, altre pennellate dell'esistenza che aveva perduto tanto tempo prima, e l'avrebbero solo reso vunerabile.
Eppure, sussurrò di nuovo quella voce, Ishmen è tornata, e il suo pensiero non ti rende meno forte.
Serrando i denti, sollevò la penna, scrivendo con impazienza i nomi richiesti. La sua mente rapida e tagliente solcò i fogli, completandoli, riempiendo senza sforzo le informazioni, e prima che se ne rendesse conto, aveva finito. Si guardò furtivamente intorno: le teste degli altri ragazzi erano ancora chine; alcuni mugolavano imprecazioni, altri tamburellavano furiosamente il piede. Bene, sarebbe stata una buona occasione per cominciare a osservare l'ambiente e raccogliere indizi.
Rallentando volutamente il movimento perché non apparisse troppo fulmineo, si alzò, avvicinandosi alla cattedra. Con una mano in tasca, gettò il foglio sul ripiano di legno lucido, attirando lo sguardo raddoppiato dagli occhiali dell'ometto. -Ho finito- mormorò, la voce comunque troppo severa e controllata per un sedicenne. -Posso uscire?-.
L'ometto sbattè le palpebre. -Così presto?Ah, sì, certo, Vegeta. Esci pure se hai finito.-
Ignorando il coro di bisbigli sorpresi alle sue spalle, il principe si diresse verso la porta.
Quando l'uscio si chiuse dietro di lui, emise un impercettibile sospiro, godendo della quiete bianca del corridoio: non era abituato a parlare con gli altri. Ad ordinare, ad obbedire, sì, ma non a conversare, non alla gentilezza inconsapevole di quegli uomini. Il silenzio, lo sguardo muto e imparziale dello spazio e delle foreste, era la sua casa: senza giudizi, senza pietà, senza lacrime. Mai. Inspirò profondamente, i passi che riecheggiavano contro le pareti.
-Ehi!- giunse ua voce squillante, dietro di lui. -Aspetta!-
In un riflesso condizionato, il corpo di Vegeta si voltò in un fascio di nervi e movimento, le gambe flesse, le braccia pronte a tendersi nell'attacco. Di fronte a lui, gli occhi di acquamarina immersi nel rossore del viso, c'era la ragazza dai capelli azzurri che aveva incontrato il giorno prima.
Bulma l'aveva visto alzarsi dopo un tempo ridicolmente breve, e, per un lungo istante, non aveva saputo se sentirsi più sorpresa o più irritata. Di solito, nessuno consegnava i compiti prima di lei; ma non era questo a stuprila. Semmai, era l'esatto opposto: lei si aspettava che accadesse. Perchè, in qualche profondità inscritta nel sangue e nella pelle, negli occhi del ragazzo aveva visto un'intelligenza potente, una mente vasta e agguerrita come la sua.
Per la prima volta da anni, Bulma non si era sentita sola.
Oh, certo, aveva molte amiche, e qualche amico: ma erano compagni di qualche risata, delle parole leggere e vivide che si scambiavano e svanivano all'uscita da scuola, come uno scintillio sull'acqua. Ma, a parte suo padre, nessuno sembrava avere il coraggio e il desiderio di scavare sotto la carne, di conoscere il cuore pulsante e luminoso che animava ciò che era; nessuno sembrava poter, o voler, addentrarsi nella foresta del suo spirito, accettandolo con tutte le sue ombre e tutto il suo fango.
Quegli occhi, invece, non avrebbero distolto lo sguardo.
Fu per questo che, senza quasi rendersene conto, si ritrovò in piedi, a marciare con il suo passo risoluto e goffo fino alla cattedra; con una punta di invidia, ripensò alle falcate furtive da gatto di Vegeta. -Ho finito- abbaiò al povero professore, che sollevò su di lei le sue tonde lenti da cucciolo spaventato -posso uscire?-
-Ah...certo, Bulma. Esci pure anche tu...-
Stringendo i pugni, guadagnò rapidamente la porta, senza dare peso ai borbotti masticati del signor Dumbnoon sui giovani e le loro intemperanze ormonali.
Così Bulma si ritrovò in corridoio, senza sapere esattmente perché, senza avere un piano preciso. Come sempre quando l'ambito esulava dalla costruzione di un meccanismo o da un principio fisico, si era lasciata trascinare dal suo folle e deplorevole istinto.
Osservò per un attimo la schiena nervosa e ben fatta che si allontanava di fronte a lei, e, prima che il suo cervello potesse gridare quasiasi avvertimento, agì.
-Ehi, aspetta!-
Con deliberata e insolente lentezza, il ragazzo si voltò, trafiggendola con il suo cipiglio. -Che diavolo vuoi, tu?- mormorò, o per meglio dire ringhiò.
Bulma serrò le labbra, il cuore che pulsava contro il petto. Già, che cosa voleva?
In ogni caso, non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederla come una timida vergine pudebonda.
-Ecco, io...- mugolò, deglutendo -io...mi chiedevo se volessi fare un giro per la scuola, visto che sei arrivato solo ieri. Sai, dove sono i laboatori, la biblioteca, tutto quanto. Sì, è per questo.-
Tentò un sorriso che sperava risultasse maturo e incoraggiante. A giudicare dal volto del suo interlocutore, fallì miseramente. -Non ho bisogno di una balia, sai?-
Il sorriso di Bulma si tramutò in una smorfia d'insofferenza. -Stavo solo cercando di essere gentile.-
Vegeta stirò le labbra sottili in un ghigno; per qualche motivo, le parve troppo adulto, troppo amaro per un ragazzo della sua età. Di nuovo, quello sconosciuto le parve incomprensibile come un mosaico sbreccato. -Nessuno te l'ha chiesto.-
Lei incassò la testa tra le spalle. Aspettò che la sua indole impacciata, quell'istinto insicuro che si rapprendeva nella sua maschera di ragazza spensierata e frivola, affiorasse, e la inghiottisse. Ma non accadde. Dentro il suo stomaco, invece, si accese qualcosa di più caldo, in qualche modo di più vero. Una rabbia pulita e forte che le avvampò sulle guance.
-In effetti nessuno avrebbe osato chiedermi di passare del tempo in compagnia di un pollo brontolone!-
Il silenzio fu lungo, e diede tutto il tempo a Bulma di comprendere l'idiozia del suo commento.
Alla fine, Vegeta si voltò, la bocca dura. -Vattene, ragazza. Non ho tempo da perdere con questi giochi.-
Lei spalancò gli occhi, e una parte di lei, la fibra che si risvegliava e si stirava di fronte ad una nuova invenzione, formicolò: ancora una volta, quelle parole parevano adatte ad un uomo più vecchio, a qualcuno che l'esperienza e le ferite di una vita avessero già marchiato. E di sicuro non poteva essere il caso di quel sedicenne.
Vero? Vero?
-Io non me ne vado solo perché l'hai deciso tu, principino.- Sbagliava, o a quella parola si era improvvisamente irrigidito? -Ho diritto quanto e più di te a stare qui.-
Quegli occhi di fuoco freddo la valutarono di nuovo, ardendo fino alle ossa, fino al cuore. Quando parlò, lo fece lentamente. -Sei testarda, ragazza. Da dove vengo io, saresti già stata punita da tempo.-
Il sussulto di rabbia tornò, infondendole una sicurezza bizzarra. Curiosamente, non si era mai sentita tanto irritata pima. E forse, tanto libera. -Bè, dovrai abituarti alle abitudini di qui, se vuoi restare, direi.-
L'ombra, quel riflesso di mondi spezzati, sfarfallò ancora nello sguardo del ragazzo. -Non credo, ragazza, non credo.-
Di nuovo calò il silenzio: ma era un silenzio solenne, maturo, come il silenzio dopo un grido, o una preghiera. Poi Bulma udì uno scalpiccio alle sue spalle, e si girò.
Il professore la fissava dall'uscio, gli occhi lucidi e curiosi. -Tutto bene, Bulma? Ho sentito delle grida, e...-
Battè le palpebre, e quei pianeti perduti svanirono come polvere. -Ah, sì, niente...stavamo...discutendo.-
Gli occhi lucidi si spalancarono ancora. - “Stavamo”?-
-Sì, io e...- cominciò Bulma, voltandosi. E rimase a bocca aperta.
Eccomi con il quinto capitolo. Bulma riflette, e forze segrete congiurano contro di lei...o forse, con lei. Confusi? Leggete e capirete.
Capitolo 5
-L'occhio della luna-
“Alla luce della notte può esistere tutto, anche il destino”
Stava correndo, ma non sapeva perchè. L'abito argenteo, di una foggia sinuosa ed arcaica che non conosceva, le frustava le caviglie, avvinghandosi ai cespugli di rovi che orlavano il sentiero. Il bosco intorno a lei respirava, tremava, profumava di vita e di notte e di materia che muore e si trasforma. Ma Bulma non poteva fermarsi: questo era tutto ciò che ricordava, tutto ciò che importava. Doveva correre, perché qualcosa di più grande e terribile di ogni gioia e di ogni bacio la stava aspettando. Il suo destino, il suo significato, la sua meta, tutto si raggrumava in un punto di luce, alla fine della strada.
Se fosse arrivata in tempo.
Bulma si slanciò in avanti, i piedi graffiati dalle spine, il sangue che ruggiva nelle tempie, una preghiera spezzata sulla lingua. Finchè sbucò in una radura, nella luce fredda e immacolata della luna, e lo vide.
Le dava le spalle, ma non avrebbe potuto sbagliarsi. Quei capelli, simili a una fiammata d'ebano, quella schiena snella e pronta, quella posa austera e orgogliosa non potevano appartenere a nessun altro. Il pesante mantello aveva riflessi scarlatti, frammischiati alle luce delle stelle. La corazza, candida e dorata, era appena più bianca dello scorcio di volto che coglieva; le mani affusolate svanivano in guanti pallidi come neve.
Si voltò, e Vegeta avanzò verso di lei. -Ti stavo aspettando.-
Per un attimo, tra loro cadde d nuovo il silenzio, quel silenzio fatto di attese e bagliori d'oro e gesti invisibili. Poi Bulma mosse un passo sulla brina del prato, i piedi nudi. -Eccomi. Alla fine, sono venuta.-
Vegeta annuì, sfilandosi pianno un guanto; quando la tese verso di lei, la mano riluceva di un chiarore perlaceo, e Bulma pensò che non aveva mai visto nulla di più alieno e più fragile. -Avvicinati, Figlia degli Uomini. Lascia che stringa la tua mano, sotto la luna.-
Con un gesto solenne, e tuttavia sorprendentemente naturale, lei sollevò le dita, intrecciandole a quelle del giovane: nonostante il loro aspetto, erano calde e ruvide, mani che avevano molto lavorato e molto combattuto. Eppure, non la stupirono affatto. La luna del cielo bruciava d'argento, avvampando sulle loro braccia, trasformandole nell'anello di una catena, inesorabile e indivisibile come la perla di una collana. Gli sorrise, e anche nelle ombre frastagliate scorse sul suo volto l'impronta di un sorriso.
Fu allora che lo sentì: un tremito, un fiotto viscoso sui polpastrelli, rovente. Bulma aggrottò la fronte, incerta; poi abbassò lo sguardo sulle loro mani allacciate, e iniziò a gridare.
Le dita di Vegeta erano intrise di sangue.
Bulma cominciò ad urlare prima ancora di svegliarsi.
Il cuore le ruggiva nelle tempie, il respiro intrappolato in gola; con un tocco tremante, cercò a tentoni l'interruttore della lampada sul comodino, e un istante dopo una luce di un azzurro delicato inondò le forme familiari della stanza. Quando il sangue cessò di pulsarle nelle orecchie, si lasciò cadere sulle coperte, deglutendo.
Un sogno. È stato solo un sogno.
Si passò una mano tra i capelli, e represse un brivido: era l'incubo più incomprensibile e ambiguo che avesse mai avuto. Vedeva ancora le dita insanguinate, il grumo scuro delle loro braccia legate, senza poter sciogliersi, senza poter sfuggire. No, non senza poter sfuggire: senza volerlo. Quel sogno la invischiava, come una ragnatela di scintille che pungevano e illuminavano ad un tempo. Perchè diavolo immaginava scene insensate con un perfetto sconosciuto? Pur non volendolo, ricordò i riflessi della luna nei suoi occhi, bianchi come lacrime, il modo in cui la sua testa si inclinava verso di lei. E tuttavia, era proprio qesto l'aspetto più bizzarro. Non era stato una delle fantasie rosse e confuse che accendevano il suo corpo, né uno dei sogni di dolcezza e romanticismo cui si abbandonava prima di dormire. No, tutt'altro: in quella visione c'era invece qualcosa di severo e di profondamente potente, come un rituale perduto nel tempo, intessuto a corde nascoste del mondo. Si guardò la mano, e la sorprese non vederla tremare. Che cosa significava tutto questo?
Bulma emise un basso ringhio. Ah, dannazione, pensò, mordendosi il labbro, quel tipo deve tormentarmi anche la notte?
Sospirò, scivolando in piedi e infilando le sue pantofoline di peluche rosa. Sapeva di cosa aveva bisogno: una tazza di latte caldo, qualche biscotto e un bel libro di Jane Austen. E forse le dita avrebbero smesso di formicolarle in quel modo.
Si avviò per il corridoio, le tende di mussola della finestra che danzavano al vento. Si avvicinò al davanzale, inspirando l'aria della notte. Il giardino della Capsule Corp era un arazzo di bianco e celeste; un pulviscolo di stelle crepitava nel cielo. E poi c'era lei, la luna. Eccola, un disco d'argento immobile, pulito, come un occhio sgranato nel buio. Per un attimo, le parve davvero di sentire il suo sguardo.
Il pensiero affiorò, naturale, inevitabile come il respiro. Chissà se la sta guardando anche lui, si chiese, chissà se la luna osserva anche lui.
Arricciò il naso, ritraendosi: che idee le venivano in mente? Aveva proprio bisogno di rilassarsi un poco, e quelle immaginazioni assurde sarebbero scomparse. Davvero.
Risoluta, si diresse in cucina, sotto il grande occhio candido della luna
Seduta sullo schienale della panchina nel cortile, Bulma masticò pigramente la gomma, prestando una vaga attenzione al cicaleccio delle sue amiche. Jennifer, gli occhi verdi che splendevano sul naso lentigginoso, stava ridendo ad una battuta, il corpo minuto che guizzava come una lontra. -Davvero ha detto così? Non ci posso credere!- gridò con la sua voce troppo rumorosa. -Te lo stai inventando!-
-No, è vero!- sussurrò Greta, la fronte alta e bianca incorniciata dalle trecce nere. -L'ho sentito da fonti sicure.-
-Lei è stata con Brad? Con quel Brad?-
-Me l'ha detto Mary stessa...-
Stava per cominciare a dibattere sulla veridicità delle affermazioni di Greta, quando lo vide: Vegeta, la fiamma di capelli scuri e la giacca gettata sulla spalla, incedeva sotto il sole di Settembre con la grazia imperiosa di un re tra i corridoi del proprio palazzo. Ripensando al sogno della notte prima, attese il brivido di repulsione.
Che non venne.
In quel momento, il ragazzo voltò gli occhi e, con la sicurezza innocente di una calamita, li posò su di lei: dopo che il suo sguardo le bruciò il volto un attimo, si distolse di nuovo.
Prima che potesse capire cosa fosse successo, le labbra sottili di Greta si incurvarono in un sorriso compiaciuto. A Bulma ricordò sgradevolmente un gatto di fronte ad un topo intrappolato. -Mmm- mugolò, inarcando un sopracciglio -sbaglio o qualcuno ha messo gli occhi su un certo straniero?-
Jen spalancò le palpebre, voltando la testa così in fretta da far sussultare tutti i riccioli rossi. -Come come? E non ci hai detto niente? A noi, le tue migliori amiche?-
Il suo tono ferito non sarebbe mai stato convincente.
Bulma scrollò le spalle, giocherellando con l'orlo del fiocco rosso della divisa. -Non c'è niente da dire. So solo che quel tipo è davvero strano, e simpatico come un riccio di mare. Senza offesa per i ricci.-
-Suvvia, vi siete guardati come i migliori innamorati da romanzo. Non può non interessarti almeno un po'.-
Lei si strinse nelle spalle, seguendo, quasi senza accorgersene, il percorso di Vegeta: era arrivato al piccolo fazzoletto di giardino, orlato dalle rose rampicanti, e si stava sedendo sotto la quercia al termine del sentiero. Cosa faceva? A cosa stava pensando?
-Bulma?- la richiamò Greta -sei ancora con noi?-
-Eh?- bofonchiò, voltandosi di scatto, un rossore colpevole sulle guance: perché doveva arrossire così facilmente? -Ah, sì...bè, ecco, no, non direi che mi interessa. Diciamo piuttosto che mi incuriosisce.-
D'improvviso, si rese conto che era proprio così: voleva sapere qualcosa di più di quel ragazzo, che sembrava penetrarle sotto la pelle come un respiro, come un veleno. Un veleno però che purificava, e bruciava la debolezza. -Anzi, voi ne sapete qualcosa, ragazze?- domandò, sentendosi d'un tratto più forte -da dove venga, perchè sia qui...cose così.-
Jen scompigliò di nuovo la criniera color rame. -No, assolutamente no. Insomma, non ho ancora fatto ricerche...- la rete di conoscenze di Jennifer era semplicemente impressionante. -...ma potrebbe essere sbucato da un altro pianeta, per quanto ne sappia.-
Greta si accoccolò sulla panchina, gli occhi violetti socchiusi. -In ogni caso, non mi pare che giustifichi tanto interesse. È loquace quanto una pietra, e altrettanto rigido. Non so cosa puoi trovarci in uno così.-
Bulma serrò le labbra, concentrandosi sulla gomma, e osservando le due ragazze sedute sotto di lei: erano le sue più care amiche da quando sapevano a malapena parlare, e sapeva che l'affetto che le legava era sincero e solido come un albero. Ma sapeva anche che le radici di quell'albero non arrivavano a toccare le sue profondità più vere, né le potevano riscaldare. No, aveva bisogno di qualcuno che potesse penetrare nella terra, giù nelle vene, giù nel cuore.
Da quando sono così lirica? Pensò, aggrottando la fronte. Di nuovo, si rese conto di aver completamente perso il filo della conversazione. -Scusa, Gre. Mi ero distratta. Cosa dicevi?-
-Terra chiama Bulma- borbottò Jen, ripiegando le lunghe gambe sotto di sé.
-Dicevo che non vedo cosa tu possa trovarci in lui.-
Le parole caddero, ovvie e semplici come foglie d'autunno. -C'è qualcosa di duro, in lui, ma anche di fragile. Anzi, è proprio la parte dura a essere fragile.-
Le sue amiche la guardarono con lo stesso cipiglio che avrebbero mostrato se le fosse spuntata un'altra testa. -E che cosa diamine vorrebbe dire?-
Bulma battè le palpebre,come risvegliandosi da un sogno. -Non ne ho la minima idea.-
-È ufficiale- bofonchiò Jen -l'abbiamo persa.-
-Francamente, amica mia, non posso che dirmi d'accordo.-
Bulma le ignorò, stringendosi nelle spalle.
Forse è vero. Forse sono impazzita.
Sapeva dove sarebbe caduto il suo sguardo. Vegeta era ancora sotto la quercia, l'ombra verde delle foglie che gli tremolava sul viso, gli occhi chiusi.
Le sue parole le tornarono alla mente, risuonando come voci, come un presentimento.