L'ombra del sole

di Eva Fairwald
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


L'ombra del sole
 
 
 
di
 
Eva Fairwald
 
 
 
 
Genere: urban fantasy, young adult
 
Contatto: evafairwald@gmail.com
             
 
           
 
 
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“L’ombra del sole” di Eva Fairwald
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1

 
 
 
 
 
 
         Zaino rosa, riccioli biondi, auricolari bianchi: l'obiettivo era appena salito sull'autobus come ogni mattina. Ancora mezza addormentata e senza sapere di essere controllata.     
         Andare a scuola di per sé non era mai stato un problema per Dora. Certo che se per raggiungere quell'edificio giallino non avesse dovuto trascorrere venti minuti su un autobus stipato di adolescenti urlanti sarebbe stato meglio… anche perché la compagnia di individui della stessa specie la aspettava già in classe. 
         Almeno quest'anno era stata fortunata: niente distaccamento. Che il quarto anno fosse quello buono? Dora ci sperava.
         Si era iscritta al liceo linguistico perché completamente negata per la matematica, ma il suo spirito curioso e il carattere estroverso l'avevano sempre spinta a cercare di comunicare con tutti. O almeno questo era quello che diceva a chi le chiedeva perché avesse scelto il linguistico e non il classico, come tutti i professori delle scuole medie le avevano suggerito. Lo sapevano tutti no? I ragazzi più promettenti vanno allo scientifico o al classico… tutto il resto non conta. E allora Dora aveva deciso di non contare. Sul serio… in matematica aveva una sufficienza stentata. In compenso aveva voti impeccabili nelle altre materie, per quanto potesse valere nella vita vera.
         Con lo sguardo vuoto e fisso sul vetro guardava senza realmente vedere i campi che scorrevano accanto alla strada che percorreva ogni giorno. Due volte al giorno, per venti minuti, più almeno dieci di ritardo, quindici e a volte venti quando pioveva.
         L'iPod, il suo migliore amico durante questo calvario quotidiano, l'aiutava ad isolarsi dal resto del mondo. Non che fosse asociale, ma quando uno si sveglia alle 6.30 per prendere l'autobus strapieno, sporco e fetido alle 7.15 non è esattamente l'essere più socievole e felice del circondario.
         I suoi amici ormai lo sapevano e cercavano di lasciarla in pace, di solito si riprendeva prima di fare l'ultimo tratto a piedi dalla fermata al cancello della scuola.
         Quella mattina aveva latino alla prima ora. Il suo rapporto con il latino era esattamente di odi et amo, ma quella mattina in particolare era più di odi che non di amo. Per compito avevano venti frasi da tradurre dal latino all'italiano. In classe erano in sedici e se le erano spartite. Aveva circa quindici minuti per copiare dai compagni le frasi mancanti, ormai era un metodo consolidato che funzionava per ogni materia.
         Senza nemmeno accorgersene, guidata dalla forza dell'abitudine e spinta dalla massa di ragazzi che premevano contro le porte, scese al cavalcavia, la sua fermata. Spense l'iPod, si tolse gli auricolari e si avviò verso le strisce pedonali con il resto della folla.
         Simone, che era stato in piedi accanto a lei fin da quando erano saliti insieme su quel carro bestiame camuffato da autobus, si sentì finalmente autorizzato a parlare.
         «Sonno anche oggi?»
         «Sempre.»
         No, Dora quella mattina non aveva proprio voglia di cominciare la giornata, nemmeno facendo due chiacchiere. Era una di quelle giornate già nate storte. Non le andava di fare niente e non vedeva l'ora che la scuola fosse finita.
         Arrivati davanti al cancello della scuola Simone la salutò e proseguì poco più avanti, fino al liceo classico.
         Entrò svogliata nell'atrio, poi attraversò due corridoi e raggiunse la sua classe. Erano già arrivati quasi tutti e nessuno aveva perso tempo, quelle frasi in latino non si sarebbero copiate da sole. Dunque anche lei si mise all'opera e tutto, come sempre, filò liscio.
         Per quasi tutta la prima ora chiacchierò con la sua compagna di banco e, quando la professoressa la chiamò per farle una domanda su quanto aveva appena spiegato, sorrise e rispose correttamente.
         Bastava veramente poco per non farsi sorprendere. Quella professoressa ripeteva sempre le stesse cose, in più, andava matta per le parole straniere o semplicemente ad effetto e Dora si era creata una lista che teneva sempre aggiornata. Ogni volta che la professoressa la vedeva distratta e disattenta  cercava di metterla in difficoltà con una domanda, ma puntualmente falliva.
         Dora non era particolarmente studiosa ma non faceva fatica ad imparare e le bastava poco per ricordarsi qualcosa quando ci si metteva con impegno.
         Il sole che entrava dalla finestra la distraeva dalla lezione e con occhio vigile scrutava le lancette dell'orologio in attesa dell'agognata campanella dell'intervallo.
         Ancora non era riuscita a capire se le ore più difficili fossero le prime tre o le ultime tre, dopo l'intervallo. All'inizio della mattinata era stanca a causa dell'alzataccia, poco disposta a prestare attenzione e ancora meno a partecipare. Andare a dormire presto era inutile, alzarsi a quell'ora improponibile uccideva ogni minimo interesse verso gli argomenti trattati. Dopo l'intervallo, invece, era stanca perché era già rinchiusa in quell'edificio da troppo tempo e aveva voglia di andare a casa a mangiare… a patto di sopravvivere alla corsa disperata verso la fermata e al tragitto su quella prigione di lamiera arancione.
         Le sue accurate osservazioni della lancetta dei minuti e dei secondi vennero premiate e, finalmente, scattò l'intervallo: coda in bagno e poi merenda a parlare con le amiche per cercare di godersi quei quindici minuti scarsi di finta libertà.
         Con merendina al cioccolato in una mano e bottiglietta di tè nell'altra, raggiunse Giorgia e Alessandra che la stavano aspettando alla finestra in corridoio.
         «Muoviti!» le gridò Alessandra.
         «Cosa c'è di così speciale?» rispose appoggiandosi al davanzale, «La Nereni è rimasta ancora bloccata in ascensore?»
         «No, meglio.» disse Giorgia.
         «Fabio ha preso dal cassetto il modello della verifica di francese e l'ha fotocopiato come l'altra volta?»
         «No, ma va.»
         «Allora?»
         «C'è uno nuovo! È appena entrato in bagno, stai qui così lo vedi quando esce!» continuò Alessandra.
         «Uno nuovo adesso? Ma ma mancano meno di due settimane alla fine della scuola, non è un po' tardi?»
         «Ma che ne so, si sarà trasferito, boo.» rispose Giorgia.
         «Ma chissene… sembra figo…»
         «Non è che l'abbiamo visto tanto bene però.»
         «Abbiamo quattro maschi in classe dal primo anno… tutti cessi e uno è gay, ma ancora non lo sa… lasciami un minimo di speranza no?»
         «Va beh Ale, io ormai non ci spero più, le uniche volte che non dobbiamo bendarci gli occhi è quando facciamo gli scambi con l'estero. Te lo ricordi l'anno scorso all'aeroporto?» disse Dora.
         «Ahaha, sì che ridere. Ma anche quelli di quest'anno non erano male, dai che a settembre tocca a noi andare là!»
         «Non vedo l'ora!»
         «Ragazze, non perdete di vista l'obiettivo! Oh, oh, zitte! È quello!» le riprese Giorgia.
         Tutte e tre puntarono gli occhi sul nuovo arrivato, che con le mani infilate nei jeans era uscito dal bagno e stava camminando verso la bacheca.
         «Beh, visto così sembra passabile o quantomeno normale.» disse Dora.
         «Sì, se ti piacciono i semafori!» disse Alessandra.
         Le ragazze risero e lui si voltò verso di loro con un'occhiata talmente torva che quelle scoppiarono a ridere ancora di più.
         «Scusa dai, ma con quei capelli rossi e la maglia verde a me pare un semaforo!» riprese Alessandra.
         «Ma non è che siano così rossi, sono più sul castano con qualche riflesso.» precisò Dora.
         «Oh ma sempre a puntualizzare! Dai era una battuta!»
         «Ci siamo già fatte riconoscere! Con tutta la gente che c'è,  proprio dalla nostra parte si doveva girare!»
         «Ma tanto a te non piacciono mica i semafori, no?»
         Le tre risero ancora e il ragazzo le squadrò con la coda dell'occhio.
         Il suo obbiettivo sembrava ben amalgamato nel gruppo, trovarla da sola sarebbe stato più difficile del previsto. La bacheca era solo un pretesto per stare in quel punto del corridoio, fuori dalla visuale di bidelli e insegnanti concentrati alla macchinetta del caffè, ma vicino alla classe di Dora e al punto in cui abitualmente trascorreva l'intervallo.
         Non solo poteva osservarla, poteva addirittura contare sul fatto che anche Dora cercasse la sua presenza, incuriosita da quell'apparizione così insolita.
         Ormai sapeva tutto di lei, aveva ricevuto informazioni molto specifiche sul suo conto. Era convinto che se si fosse fatto vedere a scuola sarebbe stato più semplice avvicinarla in seguito per via dell'effetto ''volto noto''.
         Quando la campanella che indicava il termine dell'intervallo suonò, fingendo di guardare fuori dalla finestra alla quale stava Dora, si girò verso di lei per lasciarsi vedere bene e farsi riconoscere in futuro. Rimase in quella posizione finché Dora e le sue amiche non tornarono in classe. Poi, assicurandosi che nessuno lo stesse guardando si avvicinò alla finestra, l'aprì e saltò fuori nel giardino, evitando così di passare per l'atrio bloccato dalla guardiola dei bidelli. Era una fortuna che la classe di Dora fosse al piano terra, ciò gli rendeva molto meno difficile il compito di controllarla e di entrare e uscire dall'edificio senza intoppi.

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Capitolo 2
*** 2 ***


2

 
 
 
 
 
 
         Dora si tolse gli occhiali e prese il panno: non aveva ancora capito come fosse possibile avere sempre le lenti sporche pur continuando a pulirle. Li tenne saldi al centro sulla montatura trasparente e già che c'era diede una passata anche alle stanghette rosse. Portava gli occhiali da quasi due mesi ormai e odiava averli addosso, cercava di farsene una ragione, ma il suo viso deturpato dagli occhiali continuava a non piacerle.
         L'ottico le aveva detto che sarebbe stato come mettere i suoi bellissimi occhi azzurri in una vetrina, come un paio di brillanti da Tiffany… ma Dora non la pensava esattamente allo stesso modo, si sentiva di più come se gli occhiali cercassero di appropriarsi della sua faccia e di nasconderla al mondo.
         Gli avvistamenti del nuovo studente si erano protratti per tutta la settimana, senza tuttavia portare a nuove scoperte. Passava sempre tutto l'intervallo da solo a leggere la bacheca o a passeggiare per il corridoio. A quanto pareva non aveva socializzato con nessuno e neanche chiedendo alle ragazze delle altre classi era riuscita ad avere qualche informazione sul suo conto. La cosa era insolita, la loro scuola era grande, ma non enorme e si trattava pur sempre di una piccola città, non di una grande metropoli. Prima o poi le cose si venivano a sapere e almeno di vista ci si conosceva più o meno tutti. Nonostante le domande ai conoscenti delle altre classi, la provenienza del nuovo arrivato era ancora ignota. Se la scuola fosse stata interessante anche solo la metà di come appariva nei film americani, a quest'ora, grazie alle apparizioni in mensa e alle mille attività extrascolastiche avrebbe già saputo ogni cosa.
         Osservare quel ragazzo era ormai l'attività centrale della mattinata perché era troppo strano per farne a meno. Dora si sarebbe aggrappata a qualunque novità pur di sfuggire alla noia, anche se per pochi minuti.
         Aura di mistero a parte, sembrava un ragazzo normale, contro ogni aspettativa aveva persino risposto ad alcune delle occhiate di Dora. Speriamo non si faccia strane idee… aveva pensato la prima volta. Poi però durante la lezione di filosofia, aveva ripensato all'accaduto, filosofeggiava dopo tutto no? Insomma, alla fine se ne era uscita con un: ma che idee vuoi che si faccia uno così?
         Quando durante l'ora di ginnastica nel giardino della scuola lo sorprese ad una finestra fu addirittura contenta di vederlo e, per timore di essere fraintesa, non disse nemmeno nulla alle sue amiche, che tanto si accorsero della sua presenza poco dopo.
         I commenti nei suoi confronti erano migliorati dal primo giorno. Alessandra non gli aveva più dato del semaforo, sembrava invece essere stata colpita da un certo paio di jeans e Giorgia aveva molto apprezzato una maglietta particolarmente attillata. Dora si limitava a concordare, ma raramente aggiungeva qualche parere personale. Si sentiva in imbarazzo a trattarlo così, anche se tutti i loro commenti erano estremamente positivi. C'era qualcosa che andava oltre l'apparenza, Dora era incuriosita dal suo comportamento, non che l'aspetto non le interessasse, ma parecchie domande le frullavano in testa e non sarebbero stati un paio di bicipiti a fornirle le risposte che cercava.
         Dora pensò di essere pazza quando cominciò a vederlo anche fuori da scuola.
         Era sabato quando lo adocchiò sul suo stesso autobus e, anche se faceva l'indifferente, era sicura di essere stata notata. Rayban Wayfarer neri con lenti a specchio, polo bianca, jeans scuri, cuffie al collo, iPhone in mano, zaino nero su una spalla; si confondeva alla perfezione fra gli altri studenti, ma Dora l'aveva riconosciuto al primo sguardo.
         Non voleva farsi qualche film in testa, ma credeva di essere abbastanza sveglia da accorgersi se qualcuno la stava osservando. Anche perché, da quando qualche mese prima aveva cominciato a ricevere telefonate anonime a casa e i ladri erano stati a rubare nell'appartamento sotto al suo, aveva imparato a stare più attenta e a tenere gli occhi aperti. O almeno così credeva.
         Tirò un sospiro di sollievo quando le porte si chiusero alle sue spalle e l'autobus la lasciò sola alla fermata. Che il nuovo arrivato vivesse nel suo paese le sembrava improbabile, altrimenti l'avrebbe beccato sull'autobus fin dal primo giorno. Si disse che certamente aveva qualcosa di meglio da fare che sorbirsi venti minuti di strada solo per seguire lei.
         Con gli auricolari ben saldi alle orecchie e la musica a tutto volume si avviò verso casa e non fece minimamente caso alla figura sbucata da una via traversa e che aveva adeguato il proprio passo al suo. Poco dopo le figure diventarono due, quella che camminava ad un centinaio di metri da Dora ed una più lontana, ancora in fondo alla via dove c'era la fermata e che correva a gran velocità.
         Dora aveva fame, il suo stomaco brontolava, doveva andare in bagno, lo zaino era pesante e sapeva che in freezer la aspettava anche una vaschetta di gelato al cioccolato, quindi aumentò il passo.
         L'inseguitore di Dora sentì un rumore alle sue spalle e quando si voltò era ormai troppo tardi per salvarsi. Era stato raggiunto, la sua missione era fallita, sentì le mani agguantargli la faccia e con uno scatto violento spezzargli il collo, senza nemmeno lasciargli la possibilità di parlare o in qualche modo difendersi.
         L'assassino diede un'occhiata al cadavere, il tatuaggio a forma di sole che aveva sull'avambraccio svanì. Poi alzò lo sguardo per cercare Dora e il suo zaino rosa. Era quasi arrivata ad una svolta, ma sapeva benissimo dove abitava e non aveva bisogno di pedinarla per rintracciarla. Tuttavia, tenendosi ad una certa distanza le stette dietro fino a quando non entrò in casa.
         Ignara di tutto quello che era appena successo alle sue spalle, Dora arrivò finalmente a casa e il suo pomeriggio di relax cominciò.
         Si era assopita sul divano mentre guardava la TV da pochi minuti quando il telefono squillò. Il suono acuto le perforò i timpani e la svegliò di soprassalto. Con un movimento scattante quanto quello di un bradipo in agonia fece strisciare un braccio verso il tavolino e afferrò il cordless.
         Sul display arancione lampeggiava la scritta ''Sconosciuto''. Non era affatto una novità per Dora. Schiacciò il tasto con la cornetta verde e, come si aspettava, nessuno rispose dall'altro capo, come al solito. Dora scaricò una vagonata di insulti, ma il suo interlocutore riattaccò troppo presto, impedendole di impiegare appieno la sua creatività.
         Ecco, l'integrità del suo pisolino pomeridiano era stata compromessa, il cattivo umore era sulla buona strada. Dora richiuse gli occhi e non ci mise molto per addormentarsi di nuovo.
         Dopo un pomeriggio passato a poltrire, Dora andò con gli amici in birreria, cioè a poltrire da un'altra parte. Non sapeva però che qualcuno curava ogni sua mossa da una Seat Ibiza blu nel parcheggio del palazzo di fronte al suo. Andavano in quella birreria tutte le settimane da mesi ormai e per quanto il posto fosse confortevole, Dora cominciava a stancarsi.
         Si sedette al solito tavolo, con i soliti amici, nella solita birreria. Il solito cameriere servì le solite birre e li rifornì delle solite patatine. Questa volta però si era fatta furba e si era seduta in una posizione strategica, dalla quale poteva vedere discretamente bene chi entrava e chi usciva dal locale. Non che avesse particolari speranze di fare incontri interessanti, ma chissà, non aveva nulla da perdere. In realtà avrebbe voluto fare nuove conoscenze e respirare un po' di novità, ma nonostante il carattere estroverso, fare nuove amicizie era decisamente difficile in un ambiente chiuso come quello in cui abitava.
         Abbassò gli occhi per prendere una patatina e quando li rialzò la birra le andò di traverso. Seduto al bancone, solo naturalmente, c'era lui, il nuovo arrivato! Aveva appena ordinato e si guardava attorno. Che stesse cercando qualcuno? Di certo lo specchio appeso alla parete dietro al bancone l'avrebbe aiutato nel suo intento.
         «Cos'hai? Hai visto un fantasma?» le disse Simone, che era seduto di fianco a lei.
         Che stesse cercando proprio lei? O aspettava degli amici, o una ragazza?
         «No… solo un colpo di tosse.»
         Dora mentì. Non le andava di condividere i suoi pensieri, non in quel momento. Non voleva essere giudicata, non voleva passare per la solita paranoica. Tanto se avesse provato a spiegare la situazione ai suoi amici, si sarebbe sentita dire di smettere di drogarsi di telefilm e libri e di cominciare a frequentare il mondo reale un po' più spesso e, possibilmente, non da sola.
          Il ragazzo si voltò nella sua direzione e i loro sguardi si incrociarono. Dora non aveva intenzione di cedere per prima. Non ne era certa, ma le parve che per una frazione di secondo gli angoli della bocca di quel noto sconosciuto si fossero alzati accennando un sorriso. Era la prima volta che vedeva sul suo viso un'espressione diversa da quella seriosa e quasi preoccupata che sembrava avere stampata in faccia. L'avrebbe voluto vedere da vicino, avrebbe voluto sentire il suono della sua voce.
         Era un bel ragazzo, non poteva fare a meno di ammetterlo; i tanti commenti scambiati nell'intervallo erano pienamente giustificati e  condivisibili. I capelli castano chiaro con riflessi ramati erano una nota insolita e i suoi occhi… beh non erano scuri, ma Dora non era mai stata abbastanza vicina da riuscire a distinguere esattamente il loro colore. Una volta le erano sembrati verdi, ma era ben lontana dall'esserne sicura. La maglietta dell'Hard Rock Café di Dublino lasciava scoperte le braccia scolpite e gli stava quasi aderente contro il petto.
         Dora stava valutando l'idea di ricambiare e persino di andargli a parlare con la scusa di alzarsi per ordinare di nuovo, almeno avrebbe risolto il mistero e già che c'era avrebbe anche scoperto se aveva gli occhi verdi o semplicemente castani. Sarebbe stato carino conoscere almeno il nome della persona che ogni giorno spezzava la monotonia delle sue mattinate. Si era quasi decisa, quando un uomo si sedette al bancone accanto al ragazzo frapponendosi fra loro e costringendoli ad interrompere il contatto.
         Indossava una maglia sbracciata, i raggi del grande sole che aveva tatuato sulla spalla si arrampicavano fino alla base del collo, segnando vistosamente la sua pelle pallida e dall'aspetto quasi malsano. L'uomo la squadrò e Dora, disgustata, distolse lo sguardo e cercò di prestare attenzione alla conversazione in corso al suo tavolo.
         Il ragazzo guardò il tatuaggio, poi fissò l'uomo dritto negli occhi e si mise a ridere.
         «Che hai da ridere?»
         Invece di rispondere, lanciò un'occhiata allo specchio di fronte a loro e poi ripuntò gli occhi verdi in quelli neri dell'uomo. Mentre il suo interlocutore stava imitando i suoi movimenti per cercare di capire, gli appoggiò una mano sul braccio e a bassa voce parlò.
         «Sembra che qualcuno abbia un problema con gli specchi…» fece una pausa e guardò l'orologio, le lancette segnavano le 22.00, «e vista l'ora,  anche con le autorità.»
         «Andiamo, non vorrai denunciarmi solo perché ho aperto la caccia con un paio d'ore di anticipo.»
         Il ragazzo prese il cellulare dalla tasca dei jeans, scese dallo sgabello e si avviò verso l'uscita del locale.
         Se avesse ancora avuto un battito cardiaco la frequenza sarebbe salita fino alle stelle. L'uomo si alzò di scatto per raggiungere il ragazzo: nessuna immagine riflessa seguì i suoi movimenti.
         Quando l'uomo uscì dal campo visivo di Dora, non era il solo ad essere sparito. Anche il ragazzo misterioso si era volatilizzato, sparito nel nulla… lui e la prospettiva di una ventata di novità nella sua vita.
         Dora era furiosa, probabilmente era tutto nella sua testa e non aveva nemmeno il diritto di sentirsi così, ma lo stesso, non poteva farne a meno. Era da giorni che si scambiavano occhiate fugaci, ma mai nessuna era durata così tanto. Doveva pur voler dire qualcosa? Poteva essere interessato a lei? E lei era interessata? Beh ancora non lo sapeva, se solo avesse potuto scambiarci due parole! Forse sperava di potergli leggere negli occhi le risposte che cercava o forse voleva solamente che si schiodasse da quello sgabello e che facesse qualcosa, qualunque cosa, ma che facesse una mossa!
         E la mossa l'aveva fatta, se ne era andato. Non le aveva nemmeno lasciato la possibilità di smettere di aspettare che fosse lui a farsi avanti. Non che volesse davvero fare la prima mossa, ma magari prima o poi avrebbe perso la pazienza e si sarebbe avvicinata. Tanto che aveva da perdere? Al massimo sarebbe stata solo una figuraccia in più da aggiungere alla sua collezione. Era il senso di impotenza, quella certezza dell'occasione sprecata che l'aveva fatta arrabbiare così tanto.
 
 
 
 
         L'uomo fermò la porta prima che si chiudesse alle spalle di quello sconsiderato. Il gruppo di persone che stava sull'uscio a fumare non si curò di lui, né del ragazzo che con passo sempre più veloce svoltava nel vicolo alla sua destra.
         Il baluginio dei lampioni non arrivava fino alla fine della stradina, lì era l'oscurità a farla da padrona. Gli occhi dell'uomo divennero due globi scarlatti, fissi sulla luce del display del cellulare.
         «Metti via quel coso e non diventerai il mio antipasto.»
         Il ragazzo lo schernì con una risata e finse di comporre un numero.
         Due canini candidi scesero fino ad accarezzare il labbro inferiore dell'uomo e, prima che il ragazzo cliccasse sulla piccola cornetta verde, si lanciò contro di lui.
         Il vampiro non sapeva con chi aveva a che fare e l'idea che lo stesse provocando intenzionalmente non gli venne nemmeno per sbaglio: invece di affondare i denti nel collo del ragazzo, si trovò con le spalle contro il muro. Una mano stringeva la sua gola come una morsa rovente.
         «Quanti altri sicari sono sulle sue tracce?»
         Il vampiro cercò di liberarsi, ma quella mano si fece ancora più calda, il dolore era insopportabile e il lezzo della carne bruciata, della sua carne che si stava lentamente disfacendo lo immobilizzò.
         «Quanti ne vuoi. Aspettano solo l'ordine.» rispose con un filo di voce.
         Il ragazzo frugò nelle tasche del vampiro con la mano libera e prese il suo cellulare. Andò nell'elenco delle chiamate ricevute, le ultime cinque provenivano tutte da un numero salvato come ''X''.
         «Andiamo… nemmeno nei peggiori telefilm in seconda serata salvano il numero del capo con una ''X''.»
         Il vampiro ringhiò e il ragazzo fece partire la chiamata.
         «Fatto?» rispose una voce.
         Il ragazzo guardò il vampiro negli occhi rossi e sorrise.
         «Sì.» disse simulando una voce più profonda e stringendo la presa sulla gola; se fosse stato umano non sarebbe più riuscito a respirare.
         «Il tizio mandato dai ribelli ti ha infastidito?»
         «No.»
         «Bene, troverai il pagamento sul tuo conto appena mi invierai una prova.»
         Il ragazzo chiuse la chiamata e dopo averlo spento mise il cellulare nei propri pantaloni.
         Una cicatrice a forma di ''V'', inclinata su un lato e con l'intersezione rivolta verso l'interno prese improvvisamente vita e si illuminò come fuoco vivo sul polso del ragazzo.
         «Addio.»
         Una fiamma si sprigionò dalla sua mano e il fuoco attecchì subito ai vestiti del vampiro. Mollò la presa solamente quando si ritrovò a stringere un pugno di cenere. Si sfregò una mano contro l'altra per pulirsi dalla cenere e, come se nulla fosse, uscì dal vicolo e rientrò nel locale.
         Dora era ancora seduta a quel tavolo. Quella sera sembrava molto più carina di come era di solito a scuola. Forse era la canotta aderente e scollata  che a scuola non si permetteva di indossare, o forse era il fatto che avesse tolto gli occhiali, oppure i capelli biondi e ricci lasciati sciolti lungo le spalle… o magari un misto di tutti questi particolari.
         Il ragazzo sarebbe rimasto volentieri ad osservare Dora, ma quando lei lo aveva visto entrare si era affrettata ad ignorarlo e lui decise che per quella sera il gioco era finito. Le sorrise e, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, attraversò nuovamente la soglia della birreria.
 

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Capitolo 3
*** 3 ***


3

 
 
 
 
 
 
         Era inutile, Dora non riusciva più a toglierselo dalla testa. Per la prima volta da quando aveva iniziato ad andare a scuola non vedeva l'ora che arrivasse il lunedì. Come era potuto succedere? Non si era mai interessata così tanto ai movimenti di un'altra persona. All'improvviso avrebbe voluto sapere tutto di quello sconosciuto, ma allo stesso tempo si sentiva stupida per l'importanza che gli dava, dopotutto non si erano mai parlati e per quanto ne sapeva poteva anche essere uno stalker o uno psicopatico.
         Fu così che fra i compiti di inglese e quelli di matematica, Dora cominciò ad elaborare un piano o qualcosa di simile per cercare di entrare in contatto con il nuovo arrivato. Prima di tutto, questo significava trovare un momento in cui non ci fossero anche le altre ad osservarla. Inscenare un teatrino non era il suo obiettivo e poi voleva evitare di essere assillata dalle domande e di essere presa in giro in caso di figuracce. Quindi: no testimoni. L'unico momento possibile rimaneva comunque l'intervallo, ma trovare qualcosa per distrarre le altre ed indirizzarle verso un altro punto del corridoio non sarebbe stato facile. Pensò ad un sacco di scuse, ma nessuna le sembrava abbastanza plausibile e si ripromise di continuare a pensarci l'indomani mattina sull'autobus.
         Il lunedì finalmente arrivò, l'ultimo lunedì di quell'anno. I programmi per la mattinata non servirono di certo a renderle il risveglio all'alba meno traumatico, né le prime tre ore meno noiose. Il tempo sembrava essersi cristallizzato e le lancette dell'orologio parevano immobili sul quadrante.
         La campanella dell'intervallo suonò con ben due minuti di ritardo. Di sicuro la bidella stava facendo il cruciverba e si era dimenticata che qualcuno, o meglio tutti, aspettavano quel suono con un'angoscia pressante, chi per andare in bagno, chi per mangiare e chi per scattare fuori dall'aula in cerca di azione. Dora non aveva ancora trovato una soluzione vincente, ma sperava ancora in un'illuminazione dell'ultimo minuto.
         Le tre si piazzarono al loro osservatorio e il disappunto nello scoprire che lo sconosciuto non si era presentato schiacciò tutte le congetture di Dora come un'incudine. Si trattenne, non voleva di certo che le sue amiche si accorgessero di quanto avesse aspettato quel momento, ma appena la campanella annunciò la fine dell'intervallo, schizzò in classe al suo posto. Appena la conversatrice di francese cominciò a blaterare qualcosa in quella sua lingua nasale si rituffò nel proprio universo di supposizioni, piani e probabilità.
         Federica, notando che guardava pensierosa fuori dalla finestra, le scrisse un bigliettino dove le chiedeva se fosse tutto ok. Dora odiava scrivere i bigliettini, ma non poteva di certo sottrarsi al sacro mezzo di comunicazione. Si inventò la scusa di essere preoccupata per la verifica di matematica di mercoledì e la conversazione si interruppe poco dopo.
         Alla fine delle lezioni, Dora corse alla fermata, arrabbiata e delusa e ancora una volta senza essere sicura di averne il diritto. Si appoggiò alla ringhiera del cavalcavia in attesa dell'autobus sovraffollato e, con la coda dell'occhio, le sembrò di vederlo attraversare la strada. Si voltò di scatto, ma la folla di studenti in movimento le copriva la visuale e non seppe mai se stesse cominciando a diventare paranoica veramente o se lo sconosciuto avesse davvero camminato su quelle strisce pedonali.
         Dora non se l'era immaginato, il ragazzo l'aveva seguita fino alla fermata e si era posizionato dietro un albero dall'altra parte della strada. Dopo aver controllato che Dora avesse smesso di guardarsi attorno, aprì la portiera della Seat Ibiza blu parcheggiata accanto all'albero e si mise al volante. Guardò l'ora sul display dell'orologio del cruscotto, l'autobus era in ritardo… non esattamente una novità.
         Mentre aspettava di vedere arrivare il mostro di lamiera, accese il cellulare del vampiro che aveva ucciso sabato e trovò ben otto messaggi lasciati in segreteria. Era ormai ovvio che l'individuo nascosto dietro al numero ''X'' avesse intuito che qualcosa era andato storto. Ciò significava che le probabilità che avesse inviato qualcun altro sulle sue tracce erano molto alte. Stava per mettere via il telefono quando un sms lo fece vibrare: ''Sei un incapace, preparati a diventare un mucchio di cenere.''. Il ragazzo sorrise, ormai era un po' tardi per quel tipo di minacce.
         I momenti per trovare Dora da sola scarseggiavano e ormai non poteva più permettersi di indugiare oltre e di provocare un incontro naturale e casuale, era ora di cambiare strategia e di passare all'azione.
         L'autobus continuava a non arrivare e Dora si stava spazientendo, non ne poteva più di quella vita, sempre in balia degli eventi e con possibilità di cambiare pari a zero. Non vedeva l'ora di finire la scuola e di cominciare l'università. Ancora un po' di giorni e poi un altro anno, continuava a ripetersi, poi è finita. Con l'inizio dell'università si aspettava di incontrare persone con interessi più simili ai suoi, persone con cui avrebbe potuto evitare di fingersi interessata a cose che non le importavano solamente per sentirsi parte di un gruppo. Per quanto ci provasse e per quanto all'apparenza tutto fosse perfetto, Dora non si sentiva affatto capita da quelli che erano i suoi amici. Certo, si divertiva abbastanza, ma si era resa conto che ancora non aveva incontrato le persone adatte a lei, per non parlare del fronte amoroso, lì la situazione era proprio di tabula rasa.
         Dora sbuffò. Odiava l'attesa. Quando aspettava qualcosa la sua mente vagava e non riusciva in alcun modo a tenerla a freno, il problema erano i luoghi verso i quali vagava, perché gira e rigira il punto centrale era sempre il fatto di essere stanca della sua vita sempre uguale e sempre prevedibile. Non che volesse apportare chissà quali grandi cambiamenti. Dora era di base insoddisfatta per la maggior parte del tempo, non perché non ottenesse ciò che desiderava o ciò per cui lavorava, ma perché era sempre alla ricerca di quel qualcosa in più e quello che già aveva non le bastava mai.
         Aspettò altri dieci minuti, ma era ormai chiaro che l'autobus non sarebbe passato. Evviva, un ottimo inizio di settimana. Dora inviò un sms a casa per avvisare di non preparare il pranzo perché non sarebbe tornata prima delle tre. Poi si avviò verso il centro per prendersi un gelato e andare ad aspettare l'autobus successivo a qualche fermata più indietro.
         Il ragazzo scese dall'auto e la seguì avvicinandosi sempre di più.
         Nonostante fosse l'ora di pranzo, il centro non era molto affollato, complice la giornata grigia, molti avevano forse preferito rimanere in ufficio. Dora prese un gelato, ma invece di sedersi continuò a camminare fino a raggiungere il parco. Mancava ancora mezzora al prossimo autobus e la fermata alla quale era diretta era dall'altro lato del parco. Decise di occupare il tempo passeggiando in mezzo al verde ascoltando qualche canzone rilassante, possibilmente evitando le panchine con le coppiette e gli angoli più riparati, dove facce poco raccomandabili erano impegnate in attività che di legale avevano ben poco.
         Prese un sentiero sterrato che conduceva ad un laghetto artificiale e notò soddisfatta che nessuno sembrava avere avuto la stessa idea: niente ragazzini appiccicati presi da manie di esibizionismo e niente presunti spacciatori. Ottimo. Almeno non si sarebbe dovuta preoccupare di interrompere qualcosa, né di tenersi stretta la triade iPod, soldi e cellulare.
         Ma Dora non era sola. Alle sue spalle qualcosa si mosse e dal nulla una mano si avvinghiò alla sua gola, così stretta da toglierle il respiro e così violenta da sbatterla contro l'albero più vicino senza che riuscisse a reagire, in nessun modo. Gli auricolari le caddero e attorno alla mano si materializzò un'intera figura con un lungo coltello in pugno.
         Occhi verdissimi e innaturalmente grandi la scrutarono per un attimo, crudi e senza un velo di pietà, incastonati in un viso di rara bellezza storpiato da un tatuaggio a forma di sole sulla fronte. Le unghie affilate come artigli graffiavano il collo di Dora lasciando che piccole gocce rosse scendessero a macchiare la pelle violacea di quelle dita ossute. Percependo l'odore del sangue, quell'essere si leccò le labbra e alzò il pugnale, pronto a colpire.
         Dora non capiva più nulla. Avrebbe voluto gridare ma si sentiva soffocare, non poteva muoversi e non aveva il coraggio di guardare la lama calare sul suo petto. Chiuse gli occhi, si preparò a morire e non vide che qualcuno aveva strappato quel pugnale dalle mani della creatura, non vide la lama squarciare il collo di quel mostro e macchiarsi di un liquido nero e pastoso. Improvvisamente, sentì però l'aria affluire libera ai suoi polmoni e si accorse che quelle unghie non si stavano più aprendo una via attraverso la sua  pelle.
         Aprì gli occhi, cominciò a scivolare lungo il tronco dell'albero e vide il corpo di quella creatura avvolto dalle fiamme e, intento a chinarsi verso di lei, il grande assente della giornata. Le stava tendendo un braccio per aiutarla ad alzarsi, ma Dora non ce la faceva. Non riusciva nemmeno a parlare, figuriamoci a rimettersi in piedi.
         Aveva appena rischiato di morire. Lo guardò con un'aria sconvolta e poi riabbassò gli occhi verso quel corpo che bruciava. Era talmente scossa che nemmeno le lacrime avevano avuto il tempo formarsi.
         Il ragazzo si abbassò insieme a Dora, si sedette accanto a lei e le passò un braccio attorno alle spalle.
         Non era esattamente così che stava programmando il loro incontro, ma almeno l'attesa era finita.
         «Calmati, non può succederti nulla adesso. Non se io sono con te.»
         Quel braccio che la cingeva era incredibilmente caldo, una sensazione piacevole dopo quell'incontro che le aveva fatto raggelare il sangue. Il ragazzo la prese per mano e quel calore così rassicurante si diffuse ancora più velocemente.
         Dora cercò di riprendere il controllo, raccolse le proprie forze e si voltò verso quel ragazzo che le aveva salvato la vita. Finalmente era abbastanza vicina da distinguere con esattezza il colore dei suoi occhi: erano verdi, verdi con delle pagliuzze dorate attorno alla pupilla.
         «Grazie.» disse infine abbozzando un sorriso. «Mi hai salvata da quel… quel…»
         «Demone. Beh era un Deviato in realtà, ma immagino tu non sappia ancora che cos'è.»
         Prima che Dora potesse dire qualcos'altro, il ragazzo continuò.
         «Mi chiamo Connor. Connor O'Carrol. E quello non era il primo sicario che ho eliminato prima che potesse farti del male e dubito che sarà l'ultimo.»
         «Tu… cosa?»
         «Andiamo, ti accompagno a casa così potrai prendere le tue cose, dobbiamo andare via di qui.»
         «Allora non sono pazza, mi stavi davvero pedinando e sabato sera non eri là per caso.»
         «No.»
         «Perché te ne sei andato prima che…  volevo conoscerti.»
         «L'uomo seduto accanto a me era un altro sicario sulle tue tracce, dovevo occuparmene il prima possibile.»
         Dora stentava a credere alle sue parole, ma quella cosa che l'aveva attaccata non era chiaramente umana, l'aveva vista materializzarsi davanti a lei dal nulla e poi quella pelle viola e quegli occhi così grandi e crudeli.
         «Sicari sulle mie tracce? Tu che mi segui, un… ah non riesco nemmeno a dirlo ad alta voce, è uno scherzo vero?»
         «Assolutamente no.» le rispose aiutandola ad alzarsi.
         Dora si ricompose e bevve un sorso d'acqua dalla bottiglietta che aveva nello zaino. Mentre cercava di mettere insieme le informazioni appena raccolte si rese conto di non essersi presentata.
         «Comunque, io mi chiamo Dora.» disse imbarazzata.
         «Lo so, so molto più di quanto tu creda, incluse cose di vitale importanza che tu ancora ignori.»
         Quel tono così saccente irritò Dora, che per quanto fosse riconoscente, non riuscì a fare a meno di rispondergli male.
         «Ma chi cavolo sei e perché mi seguivi?»
         «Non è questo il posto per parlarne, ti dirò tutto in macchina mentre ti accompagno a casa. D'accordo?»
         «Non salgo in macchina con gli sconosciuti.»
         «Ma che brava bimba, allora te la cavi da sola se un altro Deviato ti aggredisce, giusto?»
         «Non parlarmi come se fossi stupida, perché non lo sono. Mi segui da giorni e sei evidentemente capace di uccidere, come posso fidarmi e sapere che non mi accadrà niente?»
         «Ti accadrà di certo qualcosa se starai troppo lontana da me. Ti ho seguita per proteggerti e aspettavo il momento giusto per presentarmi in maniera più soft. L'attacco ha solo accelerato i tempi. A proposito, c'è da disinfettare quei graffi, non vorrei che ci fosse del veleno o altre tossine pericolose.»
         Dora non sapeva che cosa rispondere. Connor aprì la borsa che aveva a tracolla e prese un piccolo flacone blu. Tolse il tappo e senza troppi complimenti costrinse Dora ad alzare il mento.
         «Brucerà. Resisti.»
         Dora non ebbe il tempo di opporsi, Connor aveva cominciato a spruzzare il contenuto del flacone sui graffi e aveva perfettamente ragione: bruciava.
         «È un disinfettante speciale, tiene a bada i batteri portati dalla maggior parte dei demoni e previene le infiammazioni. Però dato che sei cresciuta insieme agli umani sarà meglio portarti da un medico e farti vaccinare non appena arriveremo ad Airlinden.»
         «Eh?»
         «Airlinden, la città sospesa. È dove siamo diretti. Hai anche picchiato la testa?»
         Questa volta era indecisa, non sapeva se Connor volesse prenderla in giro o se fosse serio.
         «Il tuo nome non mi basta, ho bisogno di sapere chi sei prima di decidere se fidarmi di te o no.»
         «Nel tuo file l'irriconoscenza e la testardaggine non erano menzionate.»
         «Tu hai un file su di me?»
         «Sei il mio incarico, so anche quale libro tieni sul comodino e che cosa mangi per colazione se è per questo. Proteggerti è il mio lavoro, se c'è una persona della quale non solo puoi, ma devi fidarti senza esitare, beh ce l'hai di fronte. Senti, ti dirò tutto guidando verso casa tua, non è prudente rimanere qui.»
         Dora scrutò la sua espressione, gli occhi magnetici, la bocca incurvata in un sorriso lieve… irresistibile.
         «Ok.» disse infine.
         «Andiamo.»
         Connor la prese per mano e cominciò a tornare indietro lungo il sentiero. Dora stava ancora tremando per lo spavento.
          
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** 4 ***


 

4

 
 
 
 
 
 
         Connor non aveva nemmeno fatto in tempo a chiudere la portiera, che Dora lo stava già sommergendo di domande.
         «Con calma. Mettiti comoda e non interrompermi.» inserì la chiave, accese la macchina e imboccò la strada per scendere dal cavalcavia. «Il tuo nome completo è Dora Lucilla da Rocca Astrea e sei cresciuta in una famiglia adottiva umana.»
         «Famiglia adottiva umana
         «Ti ho detto di non interrompermi, lasciami continuare. Il mondo che vedi è solamente una parte di quello che è in realtà, tutte le creature fantastiche di cui si parla nei libri esistono e convivono ogni giorno fra gli esseri umani, ma hanno anche una propria dimensione. È da lì che vengono ed è da lì che vieni anche tu. Alcuni la chiamano la Terra dei Sogni, perché effettivamente alcuni umani riescono ad entrare nella nostra dimensione quando sognano… per noi è semplicemente la nostra casa, con le nostre città e tutto il resto. Ovviamente ci sono diverse popolazioni e molte razze in ogni popolazione. Tutti i popoli provengono da un elemento naturale, nel tuo caso si tratta delle stelle. La tua razza è quella dei Creatori, gli unici in grado di manipolare la polvere e la luce delle stelle per creare alcuni dei manufatti più potenti e preziosi che si conoscano. Mi segui? Tutto chiaro fin qui?»
         «Sembri un'enciclopedia. Io dico che mi stai raccontando un mucchio di storie. Non ho cinque anni eh…»
         Connor sterzò improvvisamente e, fra gli insulti dell'automobilista dietro di lui, accostò sul ciglio della strada.
         «Sei impazzito?»
         «Apri bene le orecchie e mettiti in testa che tutto quello che dico è vero.»
         Connor levò la mano destra dal cambio e la tenne aperta con il palmo rivolto verso l'alto. La cicatrice a forma di ''V'' che aveva sul polso divenne rossa. Una palla di fuoco prese forma al di sopra della sua mano. Dora non credeva ai propri occhi, ma poteva sentire il calore delle fiamme anche senza avvicinarsi e non osava allungare un dito per verificare.
         «Ti credo.»
         Connor chiuse la mano e la rimise sul cambio.
         «Se adesso mi fai il piacere di stare zitta e ascoltare, c'è altro che devi sapere.»
         Dora annuì e Connor riprese a guidare, si schiarì la voce e continuò.
         «Da diciassette anni abbiamo un problema: il Popolo del Sole. In nome della superiorità del proprio elemento ha deciso di conquistare e sottomettere tutti gli altri. Ci è riuscito, adesso siamo dominati dall'Imperatore del Sole. Lui è il responsabile dello sterminio di molte razze, fra le quali anche la tua. Il Popolo delle Stelle è stato il suo maggiore opponente ed è stato decimato. Prima che la principale città, Rocca Astrea, venisse rasa al suolo due guerrieri sono riusciti ad oltrepassare le linee nemiche e a mettere in salvo due bambini affidandoli a famiglie umane affinché crescessero al sicuro dall'ombra dell'Impero del Sole.»
         «Dimmi anche che la Forza è con me, già che ci sei.»
         Connor la colpì con un'occhiataccia ma si trattenne dal rimproverarla di nuovo. D'altra parte accettare di punto in bianco una storia simile non doveva essere semplice.
         «A volte la realtà non è così distante dalla fantasia. Gli abitanti di Rocca Astrea hanno provato ad allontanare più di due bambini, ma gli altri non ce l'hanno fatta. Ad ogni modo, con il tempo si sono formate delle forze ribelli per ribaltare il despota, l'Unione Segreta è forte e presente in ogni strato della società, ma ci serve il vostro dono per poter eliminare l'Imperatore del Sole. La ricomparsa dei due bambini ormai cresciuti diverrà il simbolo della rivolta.»
         «Ma la mia famiglia sa di tutto questo?»
         «I tuoi genitori adottivi sanno da dove vieni. Come ti ho detto prima, ci sono alcuni umani in grado di raggiungere la nostra dimensione durante il sonno e loro fanno parte di questa categoria. Sanno tutto, ma hanno avuto l'ordine di tenerti all'oscuro di ogni cosa per evitare che ti mettessi in pericolo cercando altre informazioni. Quindi non te la prendere con loro.»
         «E i miei veri genitori invece…»
         «Morti, come tutti gli abitanti di Rocca Astrea. L'Impero del Sole ha distrutto la città e non ha lasciato superstiti.»
         «Hai detto che c'è qualcun altro.»
         «Sì, si chiama Riccardo. È cresciuto non molto lontano da qui, in un paesino al confine con la Svizzera, dubito che vi siate già incontrati. Fra gli amici di Facebook non ce l'hai. Carina però la foto del tuo profilo.»
         «Tu sei disturbato sai? Il mio profilo è privato, come hai fatto a vedere la foto?»
         «Te l'ho detto, controllarti è il mio lavoro. L'altra settimana, quando hai accettato l'amicizia del tuo vicino di casa… beh, hai accettato me in realtà.»
         «Venirmi a parlare a scuola, invece di fare il bel tenebroso che impara a memoria la bacheca degli annunci, no eh? Troppo normale?»
         «Ah, andiamo, non mi avresti dato nemmeno una possibilità con le tue amiche a fare da pubblico.»
         Dora sbuffò. Aveva avuto ciò che voleva alla fine, no? Era uscita di casa quella mattina con l'obiettivo di conoscere il nuovo arrivato e lo scopo era stato ampiamente raggiunto. Voleva dei cambiamenti nella sua vita? Eccoli.
         Il racconto di Connor l'aveva spiazzata, le sembrava di vivere in un film, ma a dirla tutta non era dispiaciuta. In fondo, aveva sempre voluto che le succedesse qualcosa di strano, come nei libri che leggeva, come nei film che avevano segnato la sua infanzia. In quel momento si sentiva un po' come Bastian, trascinato nella ''Storia infinita'' per salvare il mondo divorato dal Nulla. Quella sensazione, quella consapevolezza che molti ora contavano su di lei e che il suo agire, una volta tanto, avrebbe davvero fatto la differenza le dava una certa carica. Non vedeva l'ora di partire per questa fantomatica città sospesa, voleva scoprire le meraviglie di questa altra dimensione, voleva fare di tutto per svolgere al meglio il suo dovere.
         Però… c'era sempre un ''però'' anche fra i migliori propositi. Dora, anzi, Dora Lucilla da Rocca Astrea non aveva la più pallida idea di come utilizzare questo suo potere. Nei libri che aveva letto, di solito bastava pronunciare delle formule magiche, ma lei non aveva ricevuto un'educazione in proposito. Non voleva deludere nessuno, né destinare al fallimento una missione così importante. Avrebbe voluto chiederlo a Connor, ma si sentiva stupida a porgli una domanda simile anche se d'altra parte non aveva molta scelta.
         «Però io non so come usare questo potere che vi serve.»
         «Abbiamo parecchi libri in proposito. La biblioteca del Popolo delle Stelle era stata interamente digitalizzata prima dell'attacco dell'Impero del Sole. Con la dovuta pratica ci riuscirai.»
         «Ah, bene.»
         Questa volta era Connor ad essere contrariato. Il passaggio dallo spavento all'incredulità e all'indisponenza era chiaro, ma la transizione repentina da quello stato alla calma piatta non riusciva a comprenderla. Per la prima volta era sorpreso dal comportamento di Dora, questo non l'aveva previsto, eppure, dopo averla osservata e con tutte le informazioni che aveva sul suo conto pensava di conoscerla piuttosto bene.
         «Dovresti dirmi che clima c'è in questo posto, altrimenti non so che cosa mettere in valigia.»
         Connor si mise a ridere.
         «È questa la tua maggiore preoccupazione?»
         L'insegna della pizzeria non lontana dalla casa di Dora sfrecciò quasi invisibile fuori dal finestrino.
         «No, a dire il vero non sono certa che tu abbia preso la patente in maniera regolare visto che stai andando a 90 all'ora in pieno centro.»
         «Preferisci andare a passo d'uomo come sull'autobus?»
         «No, ma vorrei arrivare a casa tutta intera.»
         Connor svoltò a destra e parcheggiò.
         «Missione compiuta.»
        
        
 
 

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Capitolo 5
*** 5 ***


5

 
 
 
 
 
 
         Carlotta, la madre adottiva di Dora stava piangendo.
         «Sapevo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato. Solo… speravo sarebbe passato ancora del tempo.»
         Dora abbracciò la donna che l'aveva cresciuta come se fosse stata sua figlia e non una trovatella scampata ad un massacro.
         «Sono passati diciassette anni.» si intromise Connor.
         Carlotta lo ignorò.
         «Mi ricordo ancora quella notte come se fosse ieri.»
         Nonostante lo sguardo supplicante di Connor, Carlotta cominciò a rievocare quella notte, quando diciassette anni prima Dora era entrata nella sua vita.
         Era la fine di settembre e lei e suo marito Edoardo stavano dormendo già da alcune ore. Un sogno, ancora più reale di quelli che faceva abitualmente, aveva turbato il suo sonno. Vedeva una città bruciare, gli edifici crollare e centinaia di persone rimanere intrappolate sotto le macerie. Poi, ad un tratto, la scena era cambiata. Vedeva un uomo arrancare fra la vegetazione con un fagotto saldamente stretto fra le braccia. Il suono di uno sparo l'aveva fatta trasalire, l'uomo era stato colpito ad una gamba. Carlotta non se ne era resa conto subito, ma era entrata a fare parte del sogno, riusciva a sentire il profumo dell'erba bagnata e anche i vagiti provenienti da quel fagotto. Di fronte a lei, sopportando il dolore alla gamba ferita, l'uomo le stava porgendo il suo fardello.
         ''Salvala, si chiama Dora Lucilla, è una Creatrice del Popolo delle Stelle, viene da Rocca Astrea, la città che vedi in fiamme.'' le aveva detto prima di venire colpito al petto da un altro proiettile.
         Lei aveva cominciato a correre per allontanarsi, anche se non aveva idea di dove andare, quando ad un certo punto si era svegliata nel proprio letto con la bambina fra le braccia. Era stato difficile credere di essere realmente sveglia, ma quale prova più convincente della bambina? Lei e il marito le si erano subito affezionati e attraverso altri sogni erano venuti a sapere di più sul suo conto e sul perché fosse stata affidata a loro. In tempi più recenti erano stati messi al corrente del fatto che Dora Lucilla era destinata a tornare a casa un giorno non troppo lontano.
         «Sono uscita da un sogno?»
         «Sì ed è stato un sogno averti qui.»
         Carlotta si mise a piangere e le lacrime bagnarono anche gli occhi di Dora quando la madre adottiva la abbracciò.
         Connor si voltò per dare loro un minimo di intimità, ma questo non gli impedì di guardare l'orologio spazientito. Il suo atteggiamento tornò a farsi più amichevole solamente quando Carlotta si decise ad aiutare Dora a fare le valigie.
         «Portati un po' di tutto, non è detto che staremo sempre ad Airlinden.»
         «Come si arriva lì?»
         «Dai non perdere tempo a farmi domande stupide, lo vedrai.»
         «Mi stavi più simpatico quando leggevi la bacheca.»
         Connor non le prestò attenzione, stava armeggiando con il cellulare e appena sentì partire la suoneria del telefono di Dora, prima ancora che lei potesse allungare la mano per rispondere, parlò.
         «Ti ho appena fatto uno squillo, salva il mio numero. Non dovresti avere bisogno di chiamarmi perché sarò sempre con te, ma non si sa mai.»
         «Avevi già anche il mio numero? Ma si può sapere come hai avuto tutte queste informazioni?»
         «No, non sono autorizzato a rivelarti le mie fonti.»
         «Beh allora saprai anche che non mi sposto senza il mio portatile, invece di stare lì impalato a guardarmi, sistemalo nella sua borsa e renditi utile.»
         «Era ora.»
         «Cosa?»
         «Che cominciassi a dire qualcosa di sensato invece di farmi domande inutili.»
         Dora chiuse la valigia e alzandola posizionò di proposito una rotella sul piede di Connor, o almeno questo era quello che avrebbe fatto se lui non si fosse spostato in tempo con un sorriso di scherno sulla faccia.
         Ancora non riusciva a capacitarsi di essere riuscita a fare la valigia in meno di mezzora, ma soprattutto non poteva credere di essere finalmente giunta ad un punto di svolta. La sua vita stava per cambiare. Se in meglio o in peggio ancora non l'aveva capito, però dato che questa partenza improvvisa la esonerava dal presenziare a scuola per l'ultima verifica di matematica, supponeva che il vento soffiasse in suo favore.
         Carlotta si era un po' ripresa e anche se ancora scossa dai singhiozzi era al telefono con il marito Edoardo, che era al lavoro e non avrebbe fatto in tempo a salutare Dora. Chissà se l'avrebbero mai più rivista. La loro bambina stava per partire verso luoghi sconosciuti per immischiarsi in quello che sembrava essere il principio di una guerra. Avrebbero voluto fermarla, ma purtroppo non era possibile, non era in loro potere fare una cosa simile. Un destino importante attendeva Dora, qualcuno era morto per salvarla dalla distruzione affinché potesse tornare indietro al momento opportuno. No, Dora doveva andare e loro non potevano fare altro che supportarla e non essere d'intralcio.
         Mentre Connor caricava i bagagli in macchina, Dora salutò il padre adottivo per telefono e abbracciò per l'ultima volta Carlotta.
         Di più non le fu concesso. Connor era già al volante e la sua espressione lasciava intendere che non avrebbe tollerato ulteriori ritardi.
         Dora un po' si sentiva in colpa. Le spiaceva che la sua partenza avrebbe fatto soffrire i suoi genitori, ma allo stesso tempo non poteva fare a meno di sentirsi elettrizzata dalla prospettiva di avventura che la trascinava in un mondo sconosciuto.
         Chiuse la portiera, Connor la bloccò con la chiusura centralizzata e prima ancora che Dora potesse abbassare il finestrino, partì lasciandosi alle spalle il cancello elettrico che lentamente si stava chiudendo.
         Connor imboccò una strada che portava al paese successivo e Dora ne fu abbastanza sorpresa. Per qualche motivo si era immaginata che si sarebbero diretti verso un luogo sperduto, in qualche bosco o radura dove avrebbero fatto un incantesimo strano per raggiungere questa città sospesa.
         Il ragazzo guidava per le stradine senza la minima esitazione e siccome sembrava tranquillo e il silenzio stava diventando opprimente, Dora si fece coraggio e lo disturbò con un delle sue domande.
         «Quella ''V'' che hai sul braccio…»
         «Non è una ''V''. È la runa del fuoco. Sono un Marchiato del Fuoco, ho la capacità di dominare questo elemento a mio piacimento.
         «Quindi saresti una specie di stregone?»
         «Una specie di stregone? Direi di no.»
         «Cosa sei di preciso allora?»
         «Faccio parte del Popolo del Fuoco, la nostra pelle è immune alle scottature. Ma come ti ho già detto io sono un Marchiato. L'anno scorso, quando ho compiuto diciotto anni, la runa del fuoco è affiorata sulla mia pelle e mi ha reso ciò che sono. È un privilegio che capita a pochi, per questo motivo mi hanno spedito immediatamente in addestramento e hanno fatto di me un Sorvegliante.»
         «Sarebbe?»
         «Un cacciatore di demoni e di chiunque sia fuori dalla portata delle forze ordinarie dell'Impero del Sole. Anche prima dell'Impero esistevano i Sorveglianti, ma agivano in maniera indipendente, adesso siamo servitori del Sole.»
         Dora era impressionata. C'erano poche altre cose che Connor avrebbe potuto dirle per fare colpo su di lei in maniera così decisiva. Le ore spese davanti alla tv ad assistere impotente all'eterno duello fra cacciatori e vampiri, streghe e demoni e annessi e connessi le avevano fornito una certa cultura sull'argomento. La rivelazione di Connor non aveva potuto evitare di suscitare in lei un sentimento di ammirazione infinita.
         «Wow!» esclamò.
         «Sì, lo direi anch'io se non fossi al servizio dell'Impero.»
         Una tempesta di domande stava per riempire la bocca di Dora, ma Connor parcheggiò con una delle sue manovre brusche e, prima che lei potesse anche solo cercare di dare voce ai suoi dubbi, lui era già sceso dall'auto e aveva in mano la sua valigia e la borsa con il suo computer.
         Si trovavano nel parcheggio di fronte ad un Irish Pub, con la classica insegna verde con le scritte dorate e la porta di legno con inserti in ottone. Le grandi lettere un po' sbiadite dalle intemperie sbandieravano il nome del locale: O'Carrol.
         Dora non sapeva spiegarsi perché mai Connor l'avesse portata lì. Aveva intuito dal nome che avesse origini irlandesi, ma non le era venuto in mente che potesse avere qualche legame con quel pub che aveva visto qualche volta di sfuggita passando in macchina.
         «Prima che tu me lo chieda…» la anticipò, «sì, sono irlandese. No, sono nato qui e sì, questo locale appartiene alla mia famiglia.»
         Dora sbuffò e si affrettò a seguirlo su per gli scalini che conducevano alla porta.
         Connor farfugliò qualcosa in una lingua incomprensibile e la porta si aprì.
         «Non dirmi che parli anche gaelico!»
         «Se ti dico di sì, appendi una mia gigantografia in camera e la guardi prima di addormentarti?»
         Normalmente Dora avrebbe reagito molto male ad una risposta simile, ma quel sorriso che le aveva rivolto aveva fugato ogni ombra di risentimento. Tuttavia, non voleva essere da meno e cercò di rispondere di conseguenza.
         «No, credo sia impossibile creare una riproduzione della tua immagine abbastanza grande da contenere il tuo ego smisurato e se ciò fosse possibile, poi non rimarrebbe più nessuno spazio per altre forme di vita. No, grazie.»
         «Peccato, esco bene in foto.»
         Connor le tenne aperta la porta e Dora lo precedette oltre la soglia.
 
 
 

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Capitolo 6
*** 6 ***


6

 
 
 
 
 
 
         Il pavimento di legno scricchiolò sotto i loro piedi nella semi oscurità del locale. Alcune lampade diffondevano un baluginio giallastro che sembrava venire inghiottito dal legno scuro prima di poter illuminare l'ambiente.
         Gli occhi di Dora impiegarono qualche attimo per abituarsi alla carenza di luce e, quando non si sentì più come se stesse giocando a mosca cieca, cominciò a scorgere i tavoli e gli spillatori ancorati al bancone, i poster alle pareti e le file di bottiglie ordinate dietro al bancone.
         Il locale era vuoto e quando una porta cigolò, Dora, impegnata a cercare qualche marca nota fra le etichette, si spaventò. Il suo primo istinto fu quello di voltarsi a sinistra verso Connor, ma al suo posto trovò solo una parete di legno. Avrebbe voluto chiamarlo, ma l'agitazione l'aveva completamente bloccata e il panico le impediva di tornare sui propri passi e fuggire all'esterno. Cercando di riprendere il controllo, si guardò attorno e si sentì sollevata quando notò una grande botola aperta nel pavimento. Una luce bianca e quasi accecante proveniva dall'apertura e una scala occupava gran parte dello spazio.
         «Stai aspettando un invito ufficiale o cosa?»
         La voce di Connor la scosse. Respirò profondamente per essere certa di essere tornata in sé e poi cominciò a scendere lungo la scala. Dopo l'oscurità del pub quella luce la infastidiva, ma tenendosi al corrimano riuscì a scendere tutti gli scalini senza problemi. Quando arrivò alla fine della scala i suoi occhi si erano adattati di nuovo, ma ora pensava di avere un problema alle orecchie, perché sentiva una moltitudine di voci provenire dal basso.
         Una folla di persone e di esseri non meglio identificati attendeva in lunghe file, dividendosi seguendo grandi cartelli che pendevano dal soffitto. Dora era sconcertata, si trovava in quella che aveva tutta l'aria di essere una stazione. Cercò, spinta dall'abitudine, dei treni o dei pullman, ma non ce n'era alcuna traccia. Guardando meglio e seguendo con lo sguardo i cartelli segnaletici, scoprì che erano tutti diretti verso delle grandi porte, diverse per stile e colore per ogni destinazione. Sul muro, appena sopra ad ogni porta, troneggiava a caratteri cubitali un cartello con uno stemma ed una scritta. Completamente catturata dal luogo e dalle persone che si aggiravano attorno a lei, non si rese nemmeno conto di non avere idea di dove andare.
         Assorta nei propri pensieri, o meglio, assillata da mille domande Dora aveva mosso qualche passo, ma trovandosi davanti a quella che sembrava essere una fata uscita da qualche libro per bambini, si bloccò in contemplazione.
         All'improvviso, una mano la afferrò per un braccio. L'incanto si ruppe e qualcuno la strattonò in un angolo, dove non correva il rischio di essere travolta dalla calca in movimento. Ancora una volta si voltò credendo di vedere Connor e invece si trovò a faccia a faccia con una creatura che non aveva mai visto in vita sua.
         «Documenti, prego.»
         La sua mano ricoperta di squame verdi si staccò dal braccio di Dora e due occhi nerissimi la scrutarono sospettosi.
         «Eh?»
         «Non fare la finta tonta,» disse la creatura mettendosi le mani nelle tasche dell'uniforme blu, «la legge è chiara, bisogna essere maggiorenni per utilizzare da soli i portali e tu non hai la faccia di avere almeno diciotto anni.»
         «Io non…»
         Prima che Dora riuscisse a finire la frase, la voce di Connor sovrastò la sua e una mano si appoggiò sulla sua spalla.
         «È con me, non è da sola.»
         «D'accordo. Favorisca i documenti, grazie.»
         L'essere in divisa sembrava irremovibile.
         Dora guardò Connor con aria interrogativa mentre estraeva il portafogli dalla tasca dei pantaloni e le faceva segno di non muoversi.
         «Ecco.»
         Connor gli porse una tessera scarlatta al centro della quale luccicava un grande sole stilizzato. Sulla sinistra c'era una foto e a destra alcune scritte. La creatura lesse con attenzione e poi strisciò la tessera in un congegno elettronico. Subito apparvero sullo schermo informazioni più complete e una proiezione tridimensionale di Connor.
         «Ah, bene signor O'Carrol, lei è in regola.»
         L'essere gli restituì la tessera e guardò Dora in attesa che anche lei gli fornisse un documento, ma Connor parlò al posto suo prima che facesse qualche sciocchezza.
         Fingendo di guardarsi attorno in maniera circospetta prima di parlare,  si avvicinò all'orecchio della creatura e bisbigliò.
         «È un'informazione strettamente confidenziale, signore. La ragazzina è minorenne ma è sotto la mia responsabilità non in quanto maggiorenne, ma per la mia funzione di Sorvegliante al servizio dell'Impero del Sole. Non sono autorizzato a fornire ulteriori delucidazioni, ma spero non voglia disturbare i miei superiori e che il mio distintivo sia sufficiente.»
         La creatura annuì.
         «Potete andare.»
         Questa volta fu davvero Connor a prenderla per un braccio e a trascinarla via. La sua stretta sembrava una morsa e Dora non poteva fare nulla se non affrettarsi per evitare di perdere il ritmo e cadere. Aveva l'impressione che tutti la stessero guardando, ma in realtà era lei ad osservare attentamente tutte le creature che aveva attorno.
         Quando finalmente Connor si fermò e si mise in fila, Dora lesse il cartello con la loro destinazione: Airlinden. Lo stemma rappresentava due grandi alberi collegati con delle funi ad una torre sospesa in cielo.
         «Devo metterti un guinzaglio?»
         «Sei tu che non mi hai aspettata e di punto in bianco sei scomparso!» cercò di difendersi Dora.
         «Non pensavo fossi così lenta, con tutte le corse che ti fai per prendere il bus ogni giorno.»
         Dora sbuffò e cambiò argomento.
         «Hai intenzione di spiegarmi dove siamo di tua spontanea volontà o devo annoiarti con domande che già conosci?»
         «Siamo in una stazione. Quelle porte che vedi sono in realtà dei portali magici che conducono in svariati posti.»
         «Ce ne sono altre?»
         «Sì, sono sparse ovunque, molto spesso nel sottosuolo perché è più facile che gli umani non le scoprano.»
         «E quello là che cosa voleva da me?»
         «È un controllore, fa il suo lavoro. L'uso dei portali è gratuito, ma è necessario essere maggiorenni o accompagnati per spostarsi dalla nostra realtà al mondo umano.»
         Dora annuì. Almeno in parte la sua curiosità era stata soddisfatta.
         Molti dei passeggeri in attesa nella loro fila aveva un aspetto perfettamente umano e Dora si chiese che cosa li avesse spinti a venire dall'altra parte della barricata.
         Connor si accorse che Dora era impaziente, in fondo ricevere un po' di informazioni era anche un suo diritto, ma erano così tante le cose che ignorava, che non avrebbe saputo da che parte cominciare se avesse deciso di istruirla, senza contare che ancora non potevano dirsi al sicuro.
         «Ti concedo ancora una domanda.» disse infine.
         Dora gli chiese perché tutte quelle creature avessero bisogno di spostarsi dal proprio mondo e lui spiegò che esattamente come gli umani, anche le altre creature avevano un lavoro e molti avevano scelto di cercare fortuna nel mondo umano.
         Le code di passeggeri in attesa erano decine e con creature di ogni tipo e misura, ma fra quelle che aveva attorno, Dora fu colpita in particolare dalle persone della coda di fianco. Era una delle destinazioni meno affollate e chi era diretto lì sembrava essere uscito da una rivista di moda. Non c'era una sola di quelle persone che non sembrasse perfetta. Tutti erano incredibilmente e quasi innaturalmente belli, una bellezza talmente evidente da essere soffocante. Chi aveva i capelli biondi, aveva occhi nerissimi; chi aveva i capelli neri, aveva gli occhi color ghiaccio, quasi trasparenti. Nessuna via di mezzo. Chi sosteneva che la perfezione non esiste, di certo non si era mai imbattuto in uno di loro.
         Dora li stava fissando in maniera così insistente che uno se ne accorse e la rimise al suo posto squadrandola dall'alto in basso. Tuttavia, non poteva fare a meno di continuare a guardarli e riempirsi gli occhi con la loro perfezione. Quello che in un primo momento l'aveva sferzata con quello sguardo stizzito stava ora continuando a ricambiare le sue occhiate. I capelli neri e lucenti facevano risaltare gli occhi chiari, fissi in quelli di Dora come calamite. Una sensazione di freddo si fece lentamente strada nel suo corpo, accompagnata da un desiderio irrefrenabile di scavalcare i cordoni rossi che delimitavano le code e di farsi strada fra le altre persone fino a raggiungerlo.
         Connor seguì il suo sguardo fisso e, appena capì perché Dora fosse così piacevolmente silenziosa, entrò in stato di allarme e le si piazzò davanti per interrompere quel contatto.
         «Non ce la fai proprio a non cacciarti in qualche casino eh…»
         Dora si riscosse come se fosse appena stata strappata da un sogno e cominciò a tremare di freddo. Connor l'abbracciò, la runa si fece più nitida sul suo braccio e presto Dora smise di tremare. Il ragazzo perfetto si era messo a ridere insieme ai suoi amici perfetti.
         «Ma che cosa è successo?»
         «Hai provocato uno dei Decaduti e lui ha deciso di divertirsi con te. Sono angeli caduti, privati dell'immortalità. Sono fra le creature più pericolose che puoi incontrare, sono sempre in cerca di un modo per prolungare la propria giovinezza e ci riescono nutrendosi delle anime altrui. Sono angeli oscuri, tormentati e dall'animo perverso.»
         «Ma è terribile! Nessuno li ferma?»
         «Non nel mondo umano, sono fuori dalla nostra giurisdizione, a meno che tu non ti rivolga a tue spese a cacciatori che lavorano in proprio.»
         Questa volta fu Dora ad attaccarsi al braccio di Connor. Era spaventata, si era messa nei guai già due volte nel giro di cinque minuti, senza di lui sarebbe stata completamente persa e probabilmente anche morta. Era decisa a non perderlo di vista nemmeno per un attimo, visto che riusciva a mettere a repentaglio la propria vita anche solo guardandosi in giro.
         La fila avanzava rapidamente e presto fu il loro turno. Una grande porta azzurra si aprì automaticamente permettendogli di accedere a quello che sembrava l'interno di un ascensore. Altre sei persone entrarono e la porta si richiuse alle loro spalle con uno scatto secco. La clessidra fissata alla parete si capovolse e il denso liquido rosa contenuto al suo interno cominciò a scivolare verso il basso. In pochi secondi la transizione fu completa e mentre Dora cercava di capire che sostanza fosse quella nella clessidra, la porta si aprì di nuovo e fu costretta ad uscire.
         Si ritrovarono in un ambiente del tutto simile al precedente, presero una scala mobile e finalmente raggiunsero l'esterno. Una foresta di edifici altissimi e lucenti come specchi li circondava su ogni lato e automobili sospese ad un metro da terra sfrecciavano per le vie.
         «Wow!»
         «Aspetta di vedere la città dall'esterno. C'è un motivo se la chiamano la ''città sospesa''.»
         Connor la condusse verso una serie di cabine trasparenti allineate di fianco all'uscita della scala mobile. Dora lo seguì ancora meravigliata da ogni cosa che la circondava e si dovette sforzare per non commentare tutto ciò che vedeva. Attraverso quelle cabine era un continuo andare e venire di persone che apparivano dal nulla e scomparivano in maniera altrettanto repentina. Entrarono nella prima cabina. Connor diede uno sguardo al percorso appeso al vetro e schiacciò il tasto posto in corrispondenza della scritta: ''Biblioteca Storica''. Anche in questa cabina era presente una piccola clessidra, ma il fluido era azzurro e l'attivazione era avvenuta appena Connor aveva premuto il bottone della destinazione. Lo spostamento era stato ancora più rapido del precedente e in un batter d'occhio il panorama era cambiato drasticamente.
         Davanti a loro s’innalzava una torre altissima, immersa in un parco punteggiato di fiori colorati e alberi secolari. Una spirale di marmo avvolgeva la torre dalla base fino alla punta, sulla quale si attorcigliava così stretta da sembrare un corno proteso verso il cielo. Centinaia di finestre si aprivano come grandi occhi e un portone di legno spalancato li invitava ad entrare.
 
 
 
 
 
 
 
 
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