The Chemicals Between Us

di CleaCassandra
(/viewuser.php?uid=24724)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fake Tales Of San Francisco ***
Capitolo 2: *** Tears Don't Fall ***
Capitolo 3: *** Just The Way I'm Feeling ***
Capitolo 4: *** Say Hello To The Angels ***
Capitolo 5: *** Burn, Baby, Burn ***
Capitolo 6: *** Everything Reminds Me Of Her ***
Capitolo 7: *** The Lost Art Of Keeping A Secret ***
Capitolo 8: *** You Stole The Sun From My Heart ***
Capitolo 9: *** Micro Cuts ***
Capitolo 10: *** Sometimes The Line Walks You ***
Capitolo 11: *** Lips Like Morphine ***
Capitolo 12: *** Bullet With Butterfly Wings ***
Capitolo 13: *** Shores Of California ***
Capitolo 14: *** It's a Crime I Never Told You About The Diamonds In Your Eyes ***
Capitolo 15: *** Don't Say No ***
Capitolo 16: *** Unhappy Birthday ***
Capitolo 17: *** Boys Don't Cry ***
Capitolo 18: *** Love Steals Us From Loneliness ***
Capitolo 19: *** On My Own ***
Capitolo 20: *** Your Revolution Is A Joke ***
Capitolo 21: *** Sorry, You're Not A Winner ***
Capitolo 22: *** First Day Of My Life ***
Capitolo 23: *** Read My Mind ***
Capitolo 24: *** You Know I'm No Good ***
Capitolo 25: *** Sillyworld ***
Capitolo 26: *** She's Lost Control ***
Capitolo 27: *** About Leaving ***
Capitolo 28: *** Always All Ways (Apologies, Glances And Messed Up Chances) / Standing On The Ruin Of A Beautiful Empire ***



Capitolo 1
*** Fake Tales Of San Francisco ***


Cap. 1 –Fake Tales Of San Francisco

C’è chi pensa che la California non sia altro che il paradiso dei surfisti: sole, mare e bionde da paura, con delle tette da mozzare il fiato.
Case smisurate, piscine d’ordinanza in giardino e ricche e annoiate signore che prendono il sole coi cocktail in mano, mentre i mariti discutono di affari e lavoro giocando a golf.
Sono solo immagini da cartolina, false come l’idea che s’è diffusa nelle teste delle persone.
Solo i tramonti sono dannatamente veri, e splendidi. Quelli ve li raccontano per come sono davvero, per fortuna.
Ma il resto no, proprio no.
Prendete me, ad esempio.
Odio il mare, il surf e l’unica bionda che contemplo è un sonoro boccale di birra. Sono bassa, capelli scuri, anzi neri, e l’aria di chi ci è finito per caso, in quel mondo da ricchi.
Abito a San Francisco, circondata da un paesaggio urbano che non ha eguali al mondo.
La mia è un’abitazione come tutte le altre, niente a che vedere con le ville megagalattiche di Beverly Hills.
Eppure, ci sto bene qui. Da dio.
È casa mia.
Perché c’è tutto un sottomondo, un universo parallelo, a cui la gente non pensa mai, quando gli nomini la California.
Soprattutto qui.
C’è una magia tutta particolare che pervade questa città, che si diffonde nella nebbia che la ricopre nelle mattine d’estate, nella baia e nel Golden Gate Bridge che l’attraversa, nel prendere un tram e percorrere le sue strade completamente abbandonati ai propri pensieri.
Uno spettacolo a cui assisto ogni giorno, senza che mi venga mai a noia.
E poi…è ricca di cultura.
Non cultura statica, fine a se stessa. Qui tutto ha una funzione, tutto può portare a qualcosa di nuovo e rivoluzionario. Chiedetelo a chi ha vissuto la beat generation, o ha visto nascere il movimento hippie.
Anche la musica gioca un ruolo fondamentale. Da San Francisco provengono gruppi come Grateful Dead e Jefferson Airplane, pilastri della psichedelia, e, per andare un po’ più terra terra, gruppi punk-rock fondamentali, tipo Rancid e Green Day, per non parlare degli alfieri del lo-fi, i Pavement, che hanno dato origine a quel movimento che oggi tutti si ostinano a chiamare indie.
La persona comune mica ci pensa a queste cose, quando sente nominare la California.
Pensa che sia roba da freak, da “alternativo dei miei coglioni”. E invece per me è assolutamente la normalità.
Comunque sì, è da quando sto al mondo che mi nutro di pane e musica.
C’era da aspettarselo, che finissi in un gruppo.
Sapete, quei manipoli scalcagnati di ragazzetti, armati di tutte le migliori intenzioni del mondo e una sana voglia di fare caciara, che prendono in prestito il garage da mamma e papà per dare sfogo alla loro…beh, chiamiamola ‘vena artistica’.
E dire che ho rischiato grosso.
Ho seriamente corso il rischio di farmi inghiottire dal business selvaggio, dalla tentazione di vendere a caro prezzo le mie idee, anche le più idiote, per comprare una villa in riva al mare.
Fino a circa tre anni fa suonavo.
La chitarra.
Sembrava che non dovessimo finire mai di fare musica, e invece è accaduto.
È stato come se ci stesse per cadere una tegola in testa e noi ce ne fossimo accorti, ma non ci siamo spostati nemmeno di un millimetro, perché ormai era inevitabile l’esserne colpiti.
Ci eravamo arresi a quella fine indecorosa, perché altro non potevamo fare, e anche il nostro orgoglio, la nostra intelligenza, la nostra speranza che fosse solo un bluff, ne erano al corrente.
All’apice del successo, ci siamo sciolti.
Mio fratello, il batterista, non sopportava più le pretese da primadonna della cantante.
A dire il vero nessuno di noi la reggeva più, ma lui fu l’unico ad avere il coraggio di spiattellarglielo in faccia, senza paroline dolci ad indorare la pillola.
C’era qualcosa che non andava, e lo si poteva leggere a chiare lettere sui nostri visi stanchi, nei nostri occhi disincantati, che avevano visto di tutto, fino a quel momento con sguardo distante e pronto a giudicare le sventure altrui, spesso con patetico cinismo.
Ma quando certe cose ti vengono a toccare, ti strappano con forza da quel mondo onirico e quasi irreale in cui ti sei rifugiato, comprendi quanto possa essere bastarda la vita. Quanto ti remi contro quando avresti bisogno soltanto di un po’ di pace, quando ti porta su strade che hai sempre deprecato e che adesso percorri quasi di corsa, pur di arrivare dove vorresti, e chi se ne frega se questa intrapresa è la via più lunga e tortuosa che ci possa essere, e non è nemmeno detto che ti porti fino in fondo.
Pazienza.
La parola che più di ogni altra sfuggiva dalle mie labbra pallide, quasi esangui.
Lei se ne andò, e sembrò una liberazione, ma era solamente il biglietto d’ingresso per l’inferno, timbrato senza la minima sbavatura.
Se ci ripenso, mi sale una rabbia indescrivibile.
Perché, sinceramente, non sono stata capace di gestirmi. E d’altronde non potevo lasciare che fossero gli altri ad occuparsi di me.
Io, Dave e Keith abbiamo provato a cercare un’altra voce, ma mancava sempre qualcosa, quel valore aggiunto che, in fondo, ci aveva spinto a suonare come dannati per locali, fino a che un tizio di una casa discografica non ci aveva notato e fatto firmare un contratto.
Abbiamo deciso che forse era meglio se ci fossimo dedicati a qualcos’altro.
Gli Unnamed non esistevano più, da un giorno all’altro.
Era incredibile. Ma terribilmente reale.
Vivo disperatamente aggrappata ai ricordi, lo so. E forse nemmeno dovrei, ma ho i miei buoni motivi per farlo.
Mi servono per non ricadere negli stessi errori da cui sono già passata.
Non devo dimenticare chi sono, e cosa ho fatto.
E poi, beh…ci spero ancora.
Ho ancora voglia di suonare a giro, di scatenarmi con la chitarra e di far vedere al mondo di cosa sono capace.
Nonostante siano tre anni che non tocco la chitarra. Nemmeno per spolverarla.
Prima che agli introiti, pensavo alla musica.
Scrivevo come una dannata, quasi fossi in preda a un fervore mistico.
Giravo sempre per le strade della mia città, per le strade di qualsiasi posto in cui suonassimo, munita di blocco e penna.
Mi sentivo in perenne dovere di fermare le impressioni che traevo dai luoghi che visitavo, la gente con cui camminavo per strada, i pensieri vaganti che affollavano la mia mente.
Non credo ci sia stato un solo momento, nella mia vita, in cui la mente sia stata completamente sgombra, vuota.
Mai.
Sembrava che niente potesse fermarmi, e invece c’ha pensato quella fottuta stronza, a farmi volare basso.
Di più. A farmi proprio precipitare. Come una specie di Icaro: mi stavo avvicinando troppo al sole, questa palla di fuoco così ammaliante ha sciolto la cera che teneva insieme le mie ali, allora ho iniziato a precipitare verso il mare, ma l’aria umida appesantiva quelle che ormai erano un informe agglomerato di piume appiccicose, e così ho finito per fare un bel tonfo in acqua e andare giù, sempre più giù, senza poter fare niente, immobilizzata dalla mia stessa debolezza.
Siamo riusciti a incidere due soli album. Il secondo mi piaceva da morire.
Perché era nato da sudore e sofferenza. Era vissuto, ancor prima di venire al mondo, e per questo aveva assunto ai miei occhi un fascino tutto particolare.
C’era tutta la mia anima lì dentro. Tutto il mio marciume, edulcorato da una certa lucidità di cui, per fortuna, erano provvisti gli altri. Soprattutto mio fratello.
È un prodotto diretto, crudo, malato. Sì, un prodotto. Fa schifo come parola, ma non posso farci niente.
Questo era, per la casa discografica.
Ci siamo fermati nel bel mezzo della nostra rabbia, e nel frattempo è anche aumentata.
Perlomeno dentro me.
Mio fratello Keith non lo vedo mai.
Adesso fa il tecnico del suono, e gira per gli Stati Uniti insieme a gruppi che hanno avuto più fortuna di noi.
E membri meno teste di cazzo.
Dave, il bassista, ogni tanto trova ingaggi come turnista, e nei tempi di buco aiuta i suoi nel loro negozio. Una libreria.
Vado spesso a trovarlo. Mi piacciono i libri, e anche i suoi genitori. Mi trattano come fossi loro figlia.
Quanto a me…beh, nemmeno mi sono presentata.
Frances. 23 anni.
Sì, lo so, ho un nome da principessina rincoglionita.
Mio fratello ha ovviato al disturbo che mi ha sempre provocato l’essere chiamata per intero, e così mi chiama Frankie. Decisamente meglio.
Insomma, io…ho aperto un negozio di tatuaggi.
Ormai ci sono dentro, a questo mondo così freak. E non me ne dispiaccio nemmeno un po’.
È un ambiente sincero, tutto sommato.
Mi hanno sempre detto che ho una mano ottima per questo genere di cose. Lavori precisi, in cui devi essere bravo a riprodurre ogni minimo particolare e, se vuoi, sfogare la tua fantasia.
Sono rari quelli che si affidano al tuo estro per un tatuaggio, ma qualche pazzo ogni tanto capita.
Come quel ragazzo che è venuto un paio di giorni fa.
Un bel viso, devo dire. Tratti dolci, circondati da capelli scurissimi, che ricadevano distratti sui suoi occhi.
Mi ha dato la sensazione di averlo già rivisto.
È entrato sorridente, chiedendo se poteva farsi un tatuaggio.
“Certo!” ho esclamato. Sono qui per questo, in fondo.
Ero contagiata dal suo buonumore. Sembrava comunicarmi un invito a lasciar perdere, almeno per qualche attimo, la ridda di elucubrazioni che stava affollando la mia testa, come al solito, e a godermi le piccole gioie della vita.
Come, ad esempio, fissare il suo viso e pensare quanto fosse carino, se solo si fosse spostato un po’ i capelli dagli occhi.
E soprattutto capire dov’era che l’avessi rivisto.
Mi sono soffermata un attimo ad osservarlo, mentre mi stava spiegando cosa avrebbe voluto tatuarsi.
Sono rimasta incantata dalle sue braccia.
È estate. Il clima qui non è mai stato particolarmente torrido. A volte, anzi, fa quasi freddo.
E lui indossava una semplicissima maglietta a mezze maniche, bianca.
Temerario.
Il braccio sinistro era pieno. Non c’era un solo centimetro di pelle che non fosse tatuato. Colori vividi, immagini variegate e una voglia incredibile di raccontare qualcosa di sé attraverso esse.
Ho già visto parecchie persone ricoperte di tatuaggi, ma nessuno li indossava con tanta naturalezza come lui.
L’altro braccio, invece, era quasi vuoto. Ma vedevo sbucare timide, dalla manica, alcune immagini, e mi è venuto da pensare che fosse solo una fase transitoria.
Non era la prima volta che vedevo quei disegni. Ma non stavo tentando nemmeno di cercare di ricordarmi DOVE, e QUANDO, li avessi notati. Perché semplicemente, lo avevo rimosso.
A volte, quando pensi troppo a cose che ti occupano la testa e non vogliono saperne di lasciare sgombro il campo, ti rendi conto di quanto vengano tralasciati i dettagli.
E in quel momento mi stavo maledicendo per aver archiviato una certa fetta di ricordi in maniera così grossolana. Perché io ero più che certa di aver visto quei tatuaggi, in precedenza.
“E insomma, l’idea sarebbe questa, magari se ci vuoi mettere del tuo sei liberissima…ehi?”
Cazzo, se c’è una cosa che non ho mai sopportato di me, è proprio questa.
Perdermi nel mio mondo mentre qualcuno mi parla.
Mi sono ridestata di colpo, ritrovandomi i suoi occhi piantati in faccia.
Ero rimasta impietrita.
Due bellissimi, profondissimi, occhi.
Un colore indescrivibile, che passava, a seconda della luce, dal nocciola al verde con una disinvoltura sconcertante.
Quegli occhi…non mi erano nuovi nemmeno loro. Adesso la curiosità si stava facendo sempre più forte.
‘Chi accidenti sei?’ chiedeva incessantemente una vocina nel mio cervello.
E insieme a lei, volevo saperlo anche io, con tutta me stessa.
“Uh…ah, sì! Va bene!” ho esclamato, senza riprendere il respiro.
“Dì la verità” ammiccava divertito “non mi hai ascoltato, vero?”
“Ehm…” stavo arrossendo copiosamente “è che mi ero messa a guardare i tuoi tatuaggi, e…cavolo, sono belli davvero!” sono riuscita solo a balbettare, grattandomi la testa per l’imbarazzo.
Cretina.
Ha sorriso di nuovo, e mi ha ringraziato per il complimento.
Dopo mi ha spiegato di nuovo cosa voleva.
L’ho fatto accomodare, e mi sono messa a preparare tutto il necessario per iniziare il lavoro.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Tears Don't Fall ***


grazie per i due commenti, spero ne arrivino anche altri ^^''

Cap.2 –
Tears Don’t Fall


Mentre tratteggiavo i contorni del disegno, abbiamo chiacchierato del più e del meno.
Diciamo che ho cercato di dirottare la conversazione su determinati punti. Ormai la curiosità di sapere dove ci eravamo già incontrati aveva preso il sopravvento, tuttavia riuscivo a mantenere ancora un certo grado di lucidità, indispensabile per condurre quella specie di indagine.
Gli ho raccontato cosa facevo in passato, sperando di stuzzicare una certa voglia repressa di ricambiare la fiducia che stavo riponendo in lui, e portarlo a raccontarmi di sé.
Chiunque, anche il più reticente e riservato degli individui, lascia trapelare qualcosa di personale, anche solo con qualche gesto affrettato e dettato da distrazione, o abitudine.
Il nome, ad esempio, oppure cosa fa per vivere.
A meno che non sia un criminale super ricercato.
Quindi, in ogni casistica da me contemplata, avrei ottenuto la risposta che mi serviva.
“Ah, suonavi?” ha esclamato stupito.
“Eh, sì…ero la chitarrista degli Unnamed, non so se conosci…”
“Ommioddio ma sei tu davvero? Frances? E i tuoi riccioloni dove sono finiti?!”
Ancora. Ancora quel calore ad infiammarmi il viso.
Mi è venuto automatico distogliere per qualche istante l’ago dal suo braccio.
Anche per la sorpresa. Non avevo fatto un buco nell’acqua, dunque.
Mi conosceva. La popolarità della band era alta, ma non credevo ci fosse qualcuno in grado di ricordarsi addirittura il mio nome.
Quello reale, intendo.
Mi presento così solo in rapporti formali. Per tutti gli altri, sono, e sarò sempre, Frankie.
Probabilmente suonava anche lui, allora. O era comunque invischiato nell’ambiente.
La tentazione di smettere questo gioco sottile e sbottare con un plateale ‘Senti un po’, ma io ti ho già visto, si può sapere dove e perché?’ era forte, anche perché non sono mai stata dotata di tanta pazienza. Però trovavo estremamente stuzzicante continuare a fare finta di non conoscerlo, perché in fondo…sentivo che anche lui stava giocando.
Era come se ci intendessimo alla grande, ma dovessimo mantenere una certa immagine di fronte a qualcuno.
Come se stessimo recitando per qualcuno che ci stava guardando.
Ma eravamo completamente soli, in quell’angusto fondo immobiliare che mi faceva da negozio.
Cos’era dunque? Avevamo paura delle implicazioni che avrebbe comportato il conoscersi?
O ci stavamo vergognando per esserci dimenticati di qualcosa di importante che ci riguardava?
Mi sentivo come una che aveva perso la memoria e stava cercando lentamente di riguadagnarla, e immaginavo che anche lui si dovesse trovare in quel particolare stato d’animo.
Però, tutto sommato, era quasi divertente.
“Ah quelli…è tanto che non li ho più…i capelli corti si gestiscono meglio!” ho risposto, scrollando la testa.
“Parole sante!”
Cazzo, sembrava davvero una recita. Con queste frasi così di circostanza, poi…
“Beh, però…ormai pensavo nessuno si ricordasse più di noi…e soprattutto del mio vero nome!” sghignazzavo.
‘Vediamo, a tornare nel seminato, cosa risponderà’, pensavo tra me e me.
“Ah, già…tu ti facevi chiamare Frankie! Comunque…certo che mi ricordo degli Unnamed! Abbiamo suonato insieme, non ti ricordi?”
Ahaaaaaa! Avevo fatto centro! Era un musicista.
“Oddio, e quando?” ho chiesto, riprendendo a fare i contorni.
Bene, sono arrivata al dunque.
“Al Vans Warped Tour, tre anni fa...gli ultimi concerti che avete fatto, prima di sciogliervi...”
Ecco perché non me ne ricordavo minimamente.
Avevo completamente rimosso quei giorni convulsi. Erano l’anticamera della fine.
“Ah! Ma dunque anche tu sei un musicista!”
“Eh, sì!” poi si è voltato per un attimo, scrutandomi severamente.
C’era del sano rimprovero nei suoi occhi. Come se si sentisse vagamente offeso dalla mia disattenzione.
“Ma scusa…non guardi mai MTV?”
“Beh, molto di rado…”
“Ah, ecco…” mormorava, quasi dispiaciuto.
“E Fuse?”
“Poco anche quella…ma finisci spesso su questi canali?”
Rideva imbarazzato, e annuiva.
“Mamma mia, allora devi essere proprio famoso” mi sono lasciata scappare a mezza bocca “e…in che gruppo suoni?”
“Nei My Chemical Romance!”
Un flash improvviso si è acceso nella mia mente.
Avevo capito chi era, cosa faceva, perché mi ero dimenticata di tutto ciò che era accaduto in quel periodo.
Eppure, come mi sono potuta dimenticare anche di lui?
Era l’unica cosa per cui era valsa la pena aver vissuto, in quei giorni.
“Massì che mi ricordo! È che con questi capelli non ti avevo riconosciuto…scusami…Frank, giusto?”
“Sì!” ha esclamato divertito.
Che gloriosa figura di merda.
Ma era in parte giustificabile, dal momento che ho reciso ogni contatto con il mondo della musica da quando ci siamo sciolti.
Ho come un rifiuto nei confronti di quell’ambiente.
Mi ricorda troppo quanto eravamo vicino alla vetta e quanto poco c’è voluto a tornare bruscamente in basso.
Quanto siano capaci di sorriderti fintamente per il successo che stai avendo e quanto poi ti gettino in un fetido dimenticatoio quando non riesci più a essere nessuno. A produrre come vorrebbero loro. Perché hai toccato il fondo, e stai anche iniziando a scavare. E a loro non piace, non vogliono sporcarsi con il tuo fango.
Abbiamo continuato a parlare, cambiando argomento, perché ormai ero completamente esaudita, ed è saltato fuori che adoro i tramonti.
Sono il tipo di persona che, in qualsiasi posto si trovi, si sente in dovere di immortalare con una fotografia il sole che sparisce dall’orizzonte.
La maggior parte della gente, quando viaggia, fotografa i monumenti, fa foto cretine con gli amici o i parenti, cose così.
Io no.
Fotografo i tramonti, e a volte anche le albe.
C’è qualcosa di assolutamente commovente e suggestivo nel sole che si abbassa lentamente, portandosi dietro il suo rossore la scia bluastra che preannuncia il calare della notte.
L’alba è più timida. Più tenue.
Il tramonto è potente. Brillante più di un cielo stellato.
Portatore di ricordi nostalgici che risalgono al cuore con un piacere che si fonde con la malinconia.
Momenti irripetibili, che per questa loro peculiarità ti feriscono come una pugnalata al cuore, e la cicatrice passerà molto tempo sul petto prima di sparire a poco a poco, cancellata dalla distrazione e dalla noncuranza.
Amo il tramonto.
Perché mi ricorda, alla fine di ogni giornata, che devo rallegrarmi delle mie ferite più profonde. È grazie a loro che sono cresciuta.
Perché nel frattempo mi infonde una sana speranza. Quella che mi porta ad andare avanti col sorriso sulle labbra.
“Anche a me piacciono i tramonti. Li preferisco di gran lunga all’alba” ha affermato, con una serietà decisamente fuori luogo e che, per questo, aveva il sapore dell’ironia.
Sorridevo.
Perché in fondo sapevamo già entrambi di questa piccola passione che ci accomunava.
L’avevamo vissuta sulla nostra pelle, insieme e per puro caso, un pomeriggio di ormai tre anni fa.
Ha sorriso anche lui.
Immagino abbia avuto i suoi buoni motivi, proprio come me, per dimenticarsene.
Eravamo arrivati in New Jersey col Warped. A casa loro.
Gli Unnamed avevano appena finito di suonare e io, con una birra in mano e la macchina fotografica nell’altra, ero già pronta ad immortalare quel momento irripetibile.
Ogni tramonto è diverso dall’altro. Non ce ne sono due che siano anche solo simili.
Perché, in fondo, anche se affogati dalla routine, dall'omologazione, anche i giorni dell'anno e gli individui che li vivono sono estremamente differenti e variegati. E ognuno vive questi momenti in un modo assolutamente personale, dettato dall'indole e dall'umore.
Era il tardo pomeriggio di un assolato giorno di piena estate, e il sole stava salutando il nostro emisfero, andando a portare luce dall’altra parte del mondo. Ero rimasta fuori dal nostro tour-bus ad ammirare estasiata quello spettacolo, quando mi dissi che avrei dovuto cercare un posto migliore per vedere al meglio il tramonto.
Poco distante dal parcheggio per i bus c’era un prato di una certa estensione. Corsi là, con frenesia, e mi misi a sedere sull’erba, finalmente, anche se solo per qualche attimo, felice come una bambina.
Feci un paio di foto, e mi sdraiai, colma di soddisfazione.
Mi guardavo intorno, e nel deserto verde brillante in cui mi ero immersa notai una figura meditabonda, dall’altra parte rispetto a me, che stava seduta tenendosi le ginocchia strette al petto.
Mi alzai, perché dentro me si stava facendo strada una voglia incredibile di vedere chi fosse.
Mi stavo avvicinando, quando si voltò verso di me e mi fissò per pochi, interminabili istanti.
Quegli occhi tra il nocciola e il verde, lucidi e un po’ arrossati, mi stavano comunicando una tristezza senza limiti.
Avrebbe pianto a dirotto, se avesse potuto. Ma quelle lacrime non volevano cadere, non volevano rotolare sulle sue guance con sobria discrezione.
Gli si leggeva in faccia, che si stava sforzando di trattenerle. Perché erano qualcosa di troppo caotico, anche per lui.
Dei macigni totalmente deleteri.
Mi fece sedere al suo fianco. Senza una parola.
A malapena sapeva chi fossi, e mi fece sistemare lì, con lui.
Doveva essere veramente disperato.
Non credevo che anche altrove, lontano da casa, potessero esistere dei tramonti così suggestivi.
Ho sempre pensato che non ci fosse niente al mondo migliore di San Francisco come sfondo per questi piccoli miracoli della natura, e lo penso tuttora.
Ma ci sono situazioni in cui non importa il paesaggio che ti circonda, non il cielo sotto cui cammini, ma la persona che hai accanto, e il caso.
Perché non tutti i tramonti sono uguali.
Percepivo la malinconia dei suoi pensieri, era come se me li stesse trasmettendo direttamente al cervello, in quel silenzio così assordante.
Eppure non avrei fatto assolutamente nulla per spezzarlo, perché era così accogliente…mi sarei persa in quel vuoto sonoro, che mi stava cullando con così struggente dolcezza.
Lo ruppe lui.
“Hai mai litigato con qualcuno a cui tieni più della tua stessa vita?” mormorò, fissando il vuoto davanti a sé. Dentro di sé.
Rimasi interdetta da quella domanda.
E adesso che c’entra?, pensai. Ma una fitta al cuore mi riportò con la mente a quel periodo letteralmente di merda.
Suonavamo, sì, ma s’era già incrinato qualcosa nella nostra armonia. Era come piangere disperatamente, celati dietro una maschera recante il sorriso più radioso che si possa immaginare. Fare finta che andasse tutto bene, per tentare di salvare il salvabile, che ormai era ben irrisorio.
“Sta accadendo adesso…” mi limitai a sussurrare, sconsolata.
Era vero. Perché, per quanto non sopportassi certe sue uscite, mi bruciava l’anima litigare con lei. Come acido.
Era un’amica, in fondo. Forse qualcosa di più. Chissà se era davvero così, o solo una suggestione prodotta da me per giustificare il rapporto così speciale che correva tra noi.
Ogni tanto mi capita di pensarci, e non so mai darmi una risposta. É una di quelle cose a cui non si sa mai cosa rispondere, forse perché si ha paura della verità.
Mi fa comodo rimanere col dubbio.
E poi, beh, aveva una voce meravigliosa.
Il cielo, che si faceva di fuoco, e rifletteva tutt’intorno la sua aura magnetica, ci abbracciò, quasi a volerci consolare.
A un certo punto successe una cosa che mi fece capire che non serve dire di una persona che la conosci da una vita per capire cos'ha dentro.
A volte basta un solo istante.
Lui mi cinse le spalle col suo braccio, e io, come mossa da un sano spirito di solidarietà, feci altrettanto.
Due perfetti sconosciuti. Che si spalleggiavano a vicenda, consci di essere sulla stessa disgraziata barca.
Rimanemmo così, in silenzio, finché il sole non sparì completamente dall’orizzonte.
Quando, con infinita flemma e le immancabili sigarette tra le labbra, tornammo ai nostri tour-bus, ci aspettavano tutti preoccupati.
“Frankie, dove cazzo eri?” ci gridarono sette gole ansiose.
Ci guardammo, come a dire “E questi chi caspita sono?”.
Poi scoppiammo a ridere.
Era più che evidente la nostra omonimia.
Ci stringemmo la mano con sarcastica professionalità.
“Piacere, Frank” esordì compito.
“Piacere mio, io sono Frances” risposi, assecondandolo in quel gioco quasi stupido.
Stupido quanto mi pareva, però…era come un porre ancora più in evidenza la complicità che era nata tra noi.
Quando ormai il tour volgeva al termine.
E vabbè, il tempismo era quello che era.
Mai avrei pensato di rivederlo a San Francisco, a farsi fare un tatuaggio nel mio negozio.
Infatti gli ho chiesto che ci facesse da queste parti, e lui mi ha risposto che sono fermi qui, in California, da qualche giorno, per lavoro.
Sapete, interviste, trasmissioni radiofoniche e cose così.
“Abbiamo qualche giorno libero, e mi hanno detto che a San Francisco c’è una tatuatrice bravissima e anche piuttosto carina, così mi ci sono fiondato!”
“E sarei io?!”
“Beh, penso di sì...la via è questa…” ha ammiccato, divertito dalla mia espressione basita.
“Ehm…sai che devo dirti una cosa…”
“Oddio, che? Ho sbagliato via?” ha chiesto, con un candore assolutamente autentico.
“Macchè!” mi sono messa a ridere “devo chiudere, oggi faccio il pomeriggio e basta, e detto tra noi ho anche un sonno pazzesco, non vorrei sbagliare a farti il tatuaggio, sai…” gli ho detto, imbarazzata all'inverosimile.
“Oh…” sembrava dispiaciuto.
“Beh, però puoi tornare domani, o dopodomani…insomma, appena puoi, così te lo finisco!”
“Okay! L’ora?”
“Beh, come oggi…penso possa bastarmi il tempo.”
“Allora va bene!” e mi ha salutato tutto allegro, incamminandosi tranquillo.
Sono rimasta un pezzo fuori dal negozio a osservarlo allontanarsi. Ogni tanto si girava verso di me e mi salutava gesticolando con la mano, e con un sorriso grande così.
Come ho potuto dimenticarmi di lui?

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Just The Way I'm Feeling ***


Cap. 3 – Just The Way I’m Feeling

Ieri non s’è presentato, e francamente non me ne sono dispiaciuta più del dovuto.
“Avrà avuto da fare” ho pensato, e così ho passato il tempo facendo tatuaggi orribili a persone orribili, tornando con la mente a quelle sue braccia così affascinanti.
Ce ne sono tanti a coprirsi di tatuaggi, ma un buon 80% di questi non ha assolutamente stile, oppure si fa disegnare addosso cose scontate e senza un concetto intrinseco.
Lui, invece, dona un significato profondo a tutto quello che fa. Me lo stava raccontando anche l’altro giorno.
Ogni immagine riconduce a qualcosa che lo riguarda. Che parla di lui.
In pratica è il manifesto di se stesso e della sua vita, e sembra andarne più che orgoglioso.
A volte mi viene da pensare, quando arrivano qui persone che vogliono tatuarsi qualcosa, se c’è una ragione al perché lo fanno.
Al perché scelgano un disegno e non un altro.
Se è un qualcosa di puramente ornamentale o c’è qualcosa dietro.
Devo essere sincera, non provo molta simpatia per coloro che vengono nel mio negozio solo perché fa figo avere il tatuaggio. Ormai non è più da alternativi, non ti distingui dalla massa se ti fai disegnare qualcosa addosso. Farsi bucare la pelle dagli aghi fa un male cane, più in certe zone che in altre. Ma provoca comunque dolore. Non deve essere una curiosità farsi fare un tatuaggio. Deve esserci una ragione, un motivo, e che non sia soltanto un fattore estetico.
Ogni tanto ringrazio un’ipotetica divinità per l’esistenza di individui come lui.
Danno un senso al mio lavoro.
Oggi, invece…saranno state, toh, le cinque del pomeriggio? Poco più tardi, forse.
Oh, non importa.
Vado ad aprire, e me lo ritrovo davanti, che aspetta in tutta tranquillità e anzi, sta fumando una sigaretta per ingannare il tempo.
“Già qui?”
“Eh, sì. Dopo ho da fare una cosa urgente…”
“Per che ore?”
“Mah, diciamo su per giù l’ora di cena…”
“Va bene, vedrò di farcela. Dai, entra!” lo esorto.
Ci sistemiamo dove eravamo l’altro giorno, e ricomincio.
Nel frattempo arriva anche Alice.
La ragazza con cui ho aperto il negozio.
Mi saluta, e se ne sta un pezzo a squadrarmi mentre lavoro sul braccio di Frank.
Alzo lo sguardo, e la vedo che mi guarda sbigottita.
“È lui?” chiede, muovendo solo le labbra, senza emettere alcun suono.
Beh, in effetti le avevo detto che era venuto qua l’altro giorno, quasi come fosse una curiosità da riportare, per dovere di cronaca.
Era totalmente incredula. E mi sono divertita troppo a osservare con minuziosa ironia le espressioni che si riproducevano una dopo l’altra sul suo viso.
Annuisco. Si illumina, ma di più non può fare. Al massimo le presentazioni le farò dopo.
Ebbene sì.
È una fan sfegatata dei My Chemical Romance.
Qua dentro mette sempre i loro dischi. Ma oggi decide di variare, per non imbarazzare questo cliente così speciale.
“Uh, i Misfits!” esclama lui, alzando la testa.
“Già” rispondo, senza alzare gli occhi dal tatuaggio, che adesso ha una forma e aspetta solo di essere colorato del tutto, “li adoro”
“Anche io” si limita a dire.
Dopodichè…cala il silenzio tra noi.
Come fossimo due perfetti estranei, come fossimo solo la tatuatrice e il suo cliente.
Questo un po’ mi rende triste. A dire il vero non sono poi così giù di morale, perché ho sempre pensato che, se due persone sono veramente legate da qualsivoglia circostanza, il loro rapporto non sfuma nell’aria, non esplode come una bolla di sapone.
Mi sto godendo questo silenzio. Sembra cullarmi, addolcirmi, come quel pomeriggio di tre anni fa.
Rende migliore anche la mia perizia. Il lavoro procede bene, e ne sono assolutamente orgogliosa.
Però lo vedo inquieto.
Io mi faccio cullare dal silenzio, e lui invece sembra esserne agitato, inquietato.
Si volta di continuo a fissare fuori dal negozio, quasi stesse aspettando qualcuno.
“Tutto bene?” azzardo a chiedere.
“Uh? Ah, sì, tutto a posto…senti, ma…che ore sono?”
“Le sette, perché?”
“A che punto è?” chiede, un po’ nervoso.
“Quasi finito, manca un pezzo piccolissimo, in dieci minuti ce la faccio…puoi aspettare?”
“Sì, ma non di più…scusa, sai, ma è importante!”
“Certo, non ti preoccupare!” e mi rimetto al lavoro senza sosta.
Cazzo, è veramente irrequieto, oggi.
Beh, può capitare, ma rimango comunque allibita. È che…proprio non mi sembra il tipo che si scompone per così poco.
Finisco anche un paio di minuti prima. Nonostante la fretta impressami, è venuto proprio un bel tatuaggio.
Lui si guarda il braccio, ancora arrossato, e leggo la soddisfazione nei suoi occhi.
Grande, Frankie.
Sei stata brava anche stavolta.
È un istante scorgerlo che mi prende per il braccio e mi trascina con lui, mentre grida ad Alice: “Pensaci tu qui! Te la riporto subito!”
È un istante. Non mi rendo nemmeno conto che succede. Sento solo la sua mano che afferra il mio polso, sento solo le mie gambe muoversi verso la direzione in cui mi sta portando, sento solo che c’è qualcosa che non quadra.
E poi, che stupido. Non mi ha fatto nemmeno togliere i guanti.
“Ma dove mi stai portando?”
“Tranquilla, fidati!”
“E il tuo impegno importante?”
“È questo!”
Devo essere sincera? Non ci sto proprio capendo niente.
Non so nemmeno che strade stiamo percorrendo. Non ho il tempo di rendermene conto.
Alzo gli occhi al cielo.
Sta iniziando a farsi rosato. Presto tonalità di fuoco ci avvolgeranno completamente e il sole ci incendierà gli occhi.
Improvvisamente capisco tutto. Capisco la sua agitazione, la sua fretta, il suo guardare continuamente fuori, mentre iniettavo inchiostro nella sua pelle.
E non posso fare a meno di ridere divertita.
Perché mi ha portato nel posto più bello di San Francisco.
Il Golden Gate Park.
Ci addentriamo nel parco, mano nella mano, fino ad arrivare alla parte che prediligo.
Il giardino giapponese.
Ma come fa a sapere…
“Ho notato quegli ideogrammi sulla tua spalla e ho pensato che ti potevano piacere queste cose così, orientali…” mi risponde, come se leggesse la mia domanda nel silenzio che ci avvolge, nonostante a quest’ora il parco sia ancora piuttosto frequentato.
Ma degli altri non mi curo.
Siamo io e lui. Circondati dalla vegetazione e osservati da una enorme statua di Buddha, che ci sorride, benevolo e perso nelle sue meditazioni ascetiche.
“Sì. Adoro questo parco” sussurro.
Ci fermiamo davanti a un prato, quasi sgombro da arbusti, e ci appoggiamo su uno steccato, estasiati dalla luce che trafigge le foglie degli alberi intorno a noi.
Può sembrare strano, ma è la prima volta che guardo il sole tramontare da qui.
È uno spettacolo straordinario, profondamente suggestivo e capace di catalizzare dentro di sé tutto l’ampio spettro di emozioni che un essere umano è in grado di provare, e anche qualcuna in più.
Fa quasi salire le lacrime agli occhi, tanta è la sua bellezza.
Ho la pelle d’oca.
Ma non è solo per quella visione eccezionale.
Sento le sue dita scorrere sulla mia spalla, tratteggiare la calligrafia di quegli ideogrammi.
Un gesto che non mi aspetto nemmeno da persone che fanno parte della mia vita da ben più tempo di lui.
Eppure, nella sua semplicità, riesce a comunicarmi molto di più di un abbraccio.
È come un bimbo, interessato e ansioso di scoprire il mondo che lo circonda.
Mondo che, in questo momento, è tutto concentrato in quei pochi centimetri di pelle che coprono il mio braccio.
“Cosa significano?”
“Sono i quattro elementi” rispondo semplicemente.
Sembra affascinato. Li sfiora più e più volte, col tocco vellutato e curioso dei suoi polpastrelli.
Ho sempre apprezzato la fugacità del tramonto. Questo suo durare così poco, nell’arco di una giornata. È una sorta di valore aggiunto.
Ma mai come in questo momento ho desiderato che il sole restasse lì, in bilico nel cielo, per sempre.
Ritorna prepotente nel mio cervello il ricordo di quella giornata in New Jersey, e la tristezza che si era impadronita dei nostri due cuori.
Adesso non c’è più spazio per lei. Adesso c’è solo la felicità per esserci ritrovati, per caso.
Non c’è calcolo in tutto quello che è successo. Ci eravamo anche reciprocamente scordati delle nostre esistenze.
“Dopo averti rivisto…beh, ho pensato immediatamente che avrei voluto osservare di nuovo il tramonto con te” sussurra, imbarazzato, grattandosi un orecchio.
Sì, se ne ricorda. Basta solo questa lieve consapevolezza ad allargare sul mio volto un sorriso assolutamente sincero.
“Anche io, in effetti…” riesco solo a dire, testa bassa e occhi piantati al suolo, a contemplare con insistenza le mie Etnies. Se non mi avesse comunicato il suo proposito con così tanta naturalezza, io col cavolo che gliel’avrei confessato.
Niente da fare, ho sempre troppa paura di finire per espormi troppo.
Ma quella complicità che avevamo instaurato senza nemmeno conoscerci era tutta speciale, e sentivo che prima o poi sarebbe riemersa, nel momento più inaspettato. E così, eccoci qui.
Mi sta guardando. Ha distolto gli occhi dal sole e li ha rivolti a me, che ovviamente sono troppo concentrata sulle mie scarpe per accorgermene.
“Posso vedere meglio le mani di questa ragazza che mi ha fatto il tatuaggio più bello che ho addosso?” chiede, solenne, mentre le racchiude nelle sue.
Divento più rossa della palla di fuoco che si sta abbassando all’orizzonte.
E maledico di essere così rincoglionita.
Mica me li sono tolti, i guanti.
Sono sempre qui, ad avvolgere le mie mani, come quando ho punzecchiato la sua pelle con ago e inchiostro.
Me li toglie, prima che possa pensarci da sola.
Con delicatezza.
“Bel colore” dice.
Sono fucsia.
Noi tatuatori siamo un po’ particolari. Alice, ad esempio, li usa viola.
Li appoggia sullo steccato, quasi fossero una preziosa reliquia.
E mi squadra attentamente le mani, le unghie smaltate di nero, gli anelli che porto.
“Che mani piccole e carine!” esclama con gioia infantile.
È sorprendente. La sua carica positiva ha la capacità di contagiare anche la più cupa delle persone. La più tormentata.
Ringrazio, lusingata e impacciata allo stesso tempo.
“E questo?” mi fa poi, incuriosito.
Mi sono tatuata, sull’anulare sinistro, una iniziale a caratteri gotici.
Si dice che dall’anulare sinistro passi un vaso sanguigno che porta direttamente al cuore, ed è per questo che le fedi e gli anelli di fidanzamento si mettono a questo dito.
Io non ho anelli qui, ma solo questa iniziale.
È la mia fede personale.
Quando me la disegnai ero ancora una mente debole. Ma adesso la porto con orgoglio, perché rappresenta il mio errore più grande.
E la forza che ho tirato fuori per uscirne.
“Un mio ex” mi limito a dire.
“Ah” risponde, mentre giocherella con uno dei guanti e se lo infila.
Ci penso ancora. E ogni volta fa un po’ meno male. Ma non è che comunque mi lasci del tutto illesa.
Un velo di malinconia scende sui miei occhi.
Meno male che c’è lui. Che mi risolleva con gesti apparentemente banali, dettati dall’impulso del momento, ma così genuini da farti capire che la vita non è solo tristezza e dolore.
“Ehi, ma è proprio piccola la tua mano!” mi fa, guardandosela e gesticolando allegro, come un bambino.
C’è una spontaneità nelle sue azioni che mi risolleva da tutti i brutti pensieri che ogni tanto mi frullano in testa. Non riesco a stare seria mentre lo guardo divertirsi così tanto, con così poco.
È una persona estremamente positiva.
Mi piace molto.
È un contrasto abbastanza stridente volare con lo sguardo dalla sua mano al suo viso, che si è fatto improvvisamente serio.
“Quello con cui avevi litigato quel giorno?”
Come se si fosse risvegliato dopo essere stato ipnotizzato.
“Sì” rispondo, senza pensarci nemmeno un attimo. Ma non parliamo di me, almeno per il momento.
“E tu, invece….hai risolto?”
È il suo cellulare a fugare ogni dubbio.
“Ehi amore! Certo, tutto bene qua…non so quando tornerò a casa, prometto che appena posso faccio una scappata e vengo da te!...Certo che sì…ti amo anche io” e riaggancia.
Conversazione breve, stringata, ma intensa. Ammetto di essermi, per un attimo, sentita di troppo.
Ripone il telefonino nella tasca dei pantaloni e si volta di nuovo verso di me, sorridente.
Il sole ormai è sceso da un pezzo e sta iniziando a fare freddo.
Almeno per me che sono in canottiera.
Mi vede rabbrividire, e capisce tutto. Si toglie la felpa e me l’appoggia sulle spalle.
Non ci riesco a fare la ritrosa, a dire che non importa, che ci sono abituata al freddo di San Francisco, che cala su di te quando meno te l’aspetti. La sua gentilezza mi ubriaca. Non ce la faccio a dire di no.
Durante il tragitto dal parco al negozio mi racconta di Jamia, la sua ragazza, della litigata atroce che avevano fatto quel giorno di tre anni fa, di come adesso le cose sembrino andare per il verso giusto, anche con la band.
Però io ti osservo, mentre mi dici tutte queste cose.
E i tuoi occhi non mi sembrano così felici di quello che ti succede.
Fuggono da un pensiero scomodo, un tarlo che ti corrode. E non puoi fare altro che lasciarti divorare lentamente, perché pensi che così andrà tutto bene e non farai del male a nessuno.
Ma ne stai facendo a te stesso.
Sembri un leone in gabbia.
Vorrei dirtelo, che stai sbagliando.
Che dovresti essere te stesso, sempre e comunque, ma in fondo chi sono io per darti dritte sulla tua vita?
Siamo arrivati al negozio. Vedo, dalla vetrina, Alice all’opera.
Dici che ripartirai domani, e già mi manchi.
“Tornerò a trovarti, adesso che so dove sei” mi sussurri nell’orecchio, sfiorandomi poi la guancia con le labbra.
Ho un brivido che preme per uscire, ma lo trattengo con vigore dentro di me.
Ti saluto con freddezza.
Perché non ti devo mancare. Non posso.
Sono solo una ragazza di San Francisco che fa tatuaggi e ama i tramonti.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Say Hello To The Angels ***


ehehe, grazie a tutte quelle che hanno recensito *_* ely, mi aspetto delle sticazzate da paura anche qua sopra è_é/ !

Cap. 4 – Say Hello To The Angels


È inverno. Fa discretamente freddo.
Ma non ho perso il vizio di sedermi in terrazza e guardare il tramonto, magari con una sigaretta a scaldarmi i polmoni e una birra a distrarmi dai soliti, ennesimi, brutti pensieri.
Anzi, da un po’ di tempo ho un’idea malsana che gira nella mia testa.
Perché non ho mai smesso di amare quello che facevo.
Suonare.
Donare un pezzo di me, il più nascosto, a chiunque ascoltasse le mie schitarrate.
Non l’ho venduta. È sempre qui, a casa mia. Ci tengo più della mia stessa vita, non permetterei mai che finisca nelle mani di qualche sconosciuto che non la sa accarezzare come me.
Gli strumenti sono così: quando li compri è solo per attrazione visiva e uditiva. Fascino e utilità.
Vedi la chitarra che diventerà tua, appesa all’espositore in un negozio di strumenti musicali.
Ti piace il suo corpo, e ti piace anche il suono che emana. Già lì pensi a cosa potresti fare con lei, gli accordi, gli arpeggi, gli assoli selvaggi e qualsiasi acrobazia sonora ti venga in mente di sperimentare.
La compri, ebbro di queste sensazioni che si affollano nella tua testa.
Poi ti affezioni, fai di lei la tua compagna inseparabile, la curi con amore, le cambi le corde quando serve e stai attento a non fare gesti inconsulti per non rovinarla.
Oppure sei talmente trasportato dalla passione che non ti accorgi più della sua fragilità, e lei si lascia maltrattare, docile e fedele.
A me è successo tutto questo. L’ho amata sin dal primo momento.
Sin da quando i miei genitori, coscienti dell’importanza che davo alla mia vecchia chitarra acustica, me ne regalarono una elettrica.
Fecero dei sacrifici per comprarla. Ma leggevo la loro soddisfazione negli occhi, perché era quella giusta.
Gliel’aveva detto Keith. Lui sapeva qual era il mio sogno proibito.
Il suo l’aveva già esaudito. Lavorava come un dannato all’epoca, ed era riuscito a comprarsi una batteria meravigliosa tutto da solo.
E lei mi segue ancora. Ha dato il meglio di sé in quei due album.
Ma sono tre anni che non la tocco più.
Perché mi promisi che non l’avrei più suonata.
Proposito alquanto infantile, il mio. Ma in quel momento, quando avevo preso la mia decisione, non c’era spazio, nel mio cuore, per altro.
Ero delusa da tutto quello che mi stava succedendo. Da quello che ero diventata.
Provavo una tristezza infinita per quell’epilogo inevitabile. Ma credevo che la mia salute mentale ci avrebbe guadagnato, se avessi chiuso quel capitolo così grigio della mia esistenza.
Avevo deciso di rimuovere anche i ricordi positivi, quelli che avrebbero meritato un posto nel mio museo personale. Perché se ci pensavo mi tornava in mente anche il rovescio della medaglia, e non ne sarei più uscita.
Ne ha presa tanta, di polvere, in tre anni.
Non ho nemmeno pensato di nasconderla da qualche parte. È ben visibile, in camera mia, nella sua custodia.
Dovevo resisterle.
Era una resistenza simbolica, il feticcio che accorpava in sé quegli anni disgraziati: dimentica i ricordi, ma non dimenticare gli errori. Per non ripeterli.
E dovevo starmene ben lontana da lei, dalla musica, da mio fratello e da Dave.
Ma non ci sono riuscita.
I divieti sono fatti per essere infranti.
Mi ero proibita di toccare la mia chitarra, ma dopo tre anni non ho più retto.
Stamattina sono andata in libreria.
C’era anche Dave.
È tornato.
“Ehi, stellina!” mi ha accolto. L’ho abbracciato, piena di gioia per averlo davanti a me dopo tanto tempo.
“Adesso me ne starò qui buono buono per un po’!” ha esclamato raggiante, raccontandomi poi del suo ultimo tour. Ha dovuto sostituire il bassista di non mi ricordo che gruppo per alcune date nella East Coast.
S’è divertito, come sempre.
“Ma è stato veramente massacrante, cazzo!” ha esclamato spontaneo.
La stanchezza per te non è nulla.
Io…lo so bene che a te basta suonare, e del resto, chi se ne frega. Anche della fatica, del dover viaggiare continuamente, senza fermarsi quasi nemmeno ad osservare il paesaggio intorno.
Non t’importa di questi inconvenienti.
Sei la tua passione, vivi per lei, alimentato da lei.
E lei ricambia, facendoti suonare da dio.
Sei uno dei bassisti più capaci che io abbia mai conosciuto.
Mi hai infuso un po’ di energia. Per attuare la mia idea malsana.
Chissà, forse l’hai fatto apposta, a raccontarmi la tua vita in tour.
Perché sai benissimo quanto mi manchi.
Come se tu avessi letto nel mio sguardo le intenzioni che mi stanno animando.
Così sono tornata a casa e…ho spolverato la custodia della chitarra.
Era praticamente scomparsa sotto la coltre grigiastra e fastidiosa.
Non dovevo toccarla, in nessun modo, mi dicevo.
E così non la pulivo nemmeno. Perlomeno fino a oggi.
La custodia è rovinatissima. La apro, il naso già in panne per tutto il grigiore che ho smosso. Lascio che la cerniera scorra e riveli il contenuto di quell’orribile involucro.
Lei, dentro, è intatta.
La mia piccolina.
Una Fender Jaguar.
Nera.
Era la mia vita, fino a tre anni fa.
Adesso tornerà ad esserlo. In barba ai miei giuramenti idioti.
La prendo, la scruto con attenzione, la imbraccio.
Suono qualche accordo a caso. Poi prendo fiducia, e anche la mano si riabitua.
Suono tutti i pezzi degli Unnamed, uno dopo l’altro.
Un magone invade la mia gola e preme, strozzandomi il respiro per pochi, convulsi istanti.
Siamo di nuovo insieme, come ai vecchi tempi.
Ma stavolta è diverso. Saranno più luminosi.
L’unica cosa che non è cambiata è l’amore infinito che ci lega.
Mi hai aspettato, paziente e devota. I tuoi pick-up, il battipenna, le corde, la paletta, le chiavi che stringono le tue corde, la presa per l’amplificazione, gioiscono sotto il tocco paziente delle mie dita.
Tutto di te sapeva già che sarei tornata.
Rimango, sul terrazzo, in preda a un’emozione fortissima e devastante, davanti al cielo quasi viola, la Jaguar ancora appoggiata sulle gambe incrociate.
Dovevo resisterti.
Ma non ci sono riuscita.
Perché io ho ancora una fottuta voglia di suonare. Con te.
Per questo non ti ho venduta, né tolta di mezzo.
Avevo sempre dentro me la speranza di tornare a fare ciò che più amo.
Le labbra si aprono da sole, la voce esce, con mio sommo stupore, mentre mi accompagno con le tue corde.
Le nostre canzoni non erano fatte per essere cantate da me. Una voce sgraziata come la mia le avrebbe rovinate irrimediabilmente.
Troppo profonda. Troppo sincera.
Non svezzata a whisky e sigarette, come potrebbe essere quella di un Mark Lanegan, ma ugualmente segnata dalla tristezza.
Avrei massacrato la magia che regnava nei nostri testi. Li avrei resi troppo veri, troppo sofferti. E nessuno vuole soffrire più di quanto gli sia dato di fare.
La nostra particolarità consisteva proprio in questo contrasto tra la rabbia che covava nei nostri cuori e la voce di lei, che la rendeva fruibile per tutti. Quasi piacevole e necessaria.
Una voce cristallina, limpida, pulita.
Che sul palco intonava frasi sporche e malate come mai se ne sono sentite.
Sto male. Da cani.
Perché ripenso a quelle frasi.
Le avevo scritte io.
Per lei.
Note tristi escono dalla mia chitarra, mentre canto sommessamente.
Sembro essermi spenta di colpo.
“Non mi ricordavo avessi una voce così bella” sento mormorare alle mie spalle.
Mi volto. Perché sembra un’allucinazione. Un miraggio.
E invece no.
Vedo due metri di Keith sovrastarmi e farmi ombra.
L’altezza l’ha presa tutta lui, in famiglia.
“Ehi…” gli faccio.
“Quanto entusiasmo! Non mi vedi da mesi e mi accogli così?” domanda, un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
È contento di vedermi, e io lo stesso, ma proprio non ci riesco a sorridere.
Scusami.
“No, scusa, è che…”
“Lascia stare” mi risponde, comprensivo.
Poso la chitarra a terra e lo abbraccio con forza.
“Ma come hai fatto a venire fin qua?”
“Devo ricordarti ogni volta che questa è anche casa mia?” ride.
“Hai ragione! Scusami” riesco solo a mormorare sul suo cappotto.
“Dai, sorellina, sei troppo cerimoniosa oggi! Torniamo in casa, non senti che freddo fa?”
No. Non riesco a sentirlo.
Perché fa molto più freddo nel mio petto, fratellone, ora che ho avuto il coraggio di far tornare a galla il passato.
Coraggio o masochismo? Chissà.
Ceniamo insieme. Beh, la cena è quella che è. Pizza.
L’abbiamo ordinata una mezz’ora fa, ed eccola ora, fumante, davanti a noi.
Il mio umore si risolleva un po’, davanti al cibo.
“E insomma, che ci fai qui?” chiedo con tono inquisitorio.
“Sì, sei proprio contenta di vedermi!”
“Ehm, non è per quello…sono un po’ così ultimamente…”
“Eh, notavo…”
Si accorge sempre se ho qualcosa che non va.
Per questo cambia discorso.
“Ma il negozio? Non dovresti essere là?”
È speciale. Non potrebbe essere altrimenti. È mio fratello maggiore, in fondo.
“No…ho chiesto a Alice se poteva gestirlo lei per un paio di giorni…” rispondo, distratta.
“E tu stai in casa a fare la muffa? Però ho visto che hai ripreso la chitarra in mano…”
“Sì, ma…come mai sei qui, dicevo? Hai finito il tour?”
“Non proprio…”
“Mica ti sarai licenziato?”
“No, no! Però…sai…”
“Arriva al nocciolo” sorrido, divertita nel vedere mio fratello così impacciato. E anche parecchio incuriosita.
Chissà che avrà combinato.
E invece…quello che ha da dirmi mi fa mancare quattro o cinque battiti.
Rimango a bocca aperta, lo spicchio di pizza in una mano e la lattina di Coca Cola nell’altra.
Beh, la Coca mi cade di mano, atterra sul tavolo e barcolla per alcuni istanti, finendo per rotolare a terra.
Per fortuna è quasi vuota.
“Ho…parlato con Dave. Rimettiamo su il gruppo.”
*
“COOOOOOOSA?! E me lo dici così? Mi stava andando di traverso la pizza Keith!” mi ricordo che sbottai.
Il tono della voce avrebbe potuto trarre in inganno, ma credetemi, anche ce l’avessi messa tutta non sarei riuscita a incazzarmi per quello che mi aveva detto.
"Ehi, non accetto rifiuti. Tu sarai con noi, punto!" asserì, vendendo la mia faccia assumere un’espressione alquanto dubbiosa.
Keith, ti avrei risposto di sì comunque. Non c'era bisogno di puntualizzare.
Non so cosa stesse pensando. Magari che credevo fosse uno stupido scherzo, oppure un’intenzione campata in aria, nulla di serio.
E invece no, avevo capito benissimo.
Già da quella mattina, quando andai in libreria e trovai Dave, e mi fece tutto quel discorso sul tour da cui era reduce.
Mi stava instillando una sana voglia di tornare a fare musica.
Aveva già parlato con mio fratello, e sapeva benissimo che a toccare certi tasti con me sarebbe andato sul sicuro.
Le cose accadono per caso, o hanno lo strano, inquietante, inebriante potere di seguire un percorso lineare e preciso?
Avevo deciso di imbracciare di nuovo la chitarra, per rievocare i vecchi tempi, ed ecco tornare mio fratello, ecco tornare Dave, che aveva acuito questa mia volontà, ed ecco che gli Unnamed erano di nuovo in piedi.
Il caso può aiutare, ma siamo noi gli artefici di quello che siamo, e di come viviamo.
Ero l’unica incognita, nei loro calcoli. Per questo avevano deliberato di dirmelo alla fine, quando ormai la decisione era già stata presa. Perché, a quelle condizioni, non mi sarei certo tirata indietro.
Maledetti.
Vi adoro.
La passione è stata più forte di qualsiasi ostacolo.
Una settimana dopo eravamo già in sala prove. Di lì a poco, tramite certi agganci di mio fratello, avremmo ricominciato a suonare in vari locali della California.
Sì, ammetto che il nostro nome fa ancora un certo effetto. È un piccolo miracolo, quando un gruppo si riunisce per una genuina e sana voglia di suonare.
Sì, perché in fondo, almeno parlando per me, di soldi ne farei di più a imprimere disegni sulla pelle della gente.
É meno approssimativo. Se suoni e non riesci a ingranare, non guadagni.
Quello che ci disse nostro padre, quando gli dicemmo che volevamo mettere su un gruppo. Ci aveva lasciato imparare a suonare chitarra e batteria, perchè credeva fosse solo un passatempo. Ma io e Keith sapevamo già cosa volevamo fare nella vita.
E ci era andata di lusso, almeno fino a che non abbiamo preso strade diverse.
Siamo cambiati molto, in questi anni.
Soprattutto io.
Non so, forse sono più consapevole di me. Meno ragazzina cresciuta a suon di sani principi e musica di ogni tipo e più persona adulta, indipendente e totalmente autonoma. Non nascondo che la faccenda mi soddisfi, però sento di aver perso un po’ di quell’incanto che illuminava i miei occhi di diciassettenne.
Adesso che ho quasi ventiquattro anni, lo sento.
Sento che la vita da adulti è disincantata, spigolosa, sempre piena di doveri e pochi piaceri a risollevarla da un grigiore quasi inevitabile, prodotto in serie di una società omologante che ci vuole tutti produttivi al massimo.
Ma voglio fare di tutto affinché la mia rimanga sempre qualcosa di esaltante e imprevedibile.
Tre lunghi anni, senza dare traccia di noi, della nostra esistenza come band.
Eppure ci hanno accolto come amici di una vita, tornati da un lungo viaggio.
Chi, dite? Beh, i nostri fan.
Oddio, mi fa stranissimo chiamarli così.
Abbiamo un rapporto strettissimo con loro, molti li conosciamo personalmente da anni.
É grazie al loro calore se, tempo un mese, eravamo già a registrare.
Ho fatto leggere a Keith e Dave dei pezzi che mi è capitato di scrivere quando non avevo da fare e l’ispirazione volava nei pressi della mia testa.
Beh, li hanno apprezzati. Così abbiamo deciso di lavorare su alcuni di quelli.
Abbiamo suonato, come dei forsennati. C'abbiamo perso il sonno, ma nelle occhiaie, negli sbadigli, nelle sigarette fumate e nei caffè bevuti a ripetizione per non crollare a dormire, si poteva leggere la gioia più autentica.
Siamo stati rapidissimi. Ispirati, quasi in preda a un fervore mistico.
Il disco è finito. Quanto ci avremmo messo, due mesi? Forse un po' meno.
Ora deve passare la trafila necessaria per rendere appetibile un prodotto grezzo.
È primavera, e il clima si ingentilisce.
Il cielo è sgombro dalle nubi, limpido, quasi accecante.
Perfetto.
I tramonti di primavera hanno una poesia lieve, fluttuante, tutta loro.
Riescono a essere delicati come un'alba, i colori decisi sembrano quasi annacquarsi.
C'è della bellezza indescrivibile.
Ma non supereranno mai la magnificenza dei tramonti d'estate.
E quest'anno...
Non me ne perderò uno.
Da San Francisco a New York.
Tutti i tramonti estivi degli Stati Uniti.
Siamo in tour.
Ed è un tour speciale.
Ci hanno chiamato a suonare al Vans Warped Tour.
Lo faremo tutto, dal primo all’ultimo giorno. È quello che ci vuole, per riprenderci. Per far tornare a parlare di noi.
Quando Dave me l'ha detto, non credevo alle mie orecchie.
"Tu stai scherzando! TU STAI SCHERZANDO!" ho ripetuto, all’infinito, come un disco rotto.
Ma, no, lui non scherza. È vero, è tutto dannatamente, meravigliosamente reale.
Mi fiondo al computer, cerco il sito ufficiale.
Lo trovo.
Scorro la line-up con rapidità.
I miei occhi si fermano. A circa metà della pagina.
E anche il cuore, anche lui…perde qualche battito.
Ci sono.
I My Chemical Romance.
Solo per un lasso di tempo di per sé risicato, trattasi infatti di tre o quattro date a fine luglio.
Ma ci sono.
E le mie labbra si allargano in un sorriso che scopre i denti e mi fa fissare con sospetto e sconcerto da mio fratello e il suo migliore amico.
“Ehi, che ha tua sorella?” sento Dave mormorare a Keith.
“Ah, boh, proprio non lo so”.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Burn, Baby, Burn ***


@Martunza: eeeeeeeh... :°D

Cap. 5 – Burn, Baby, Burn

Mi sto divertendo. Come una pazza.
La cosa che più mi galvanizza non è fare tatuaggi, e nemmeno starmene a guardare il cielo finché non diventa nero.
No. Sono cose banali. Felicità surrogate, che avevo sempre usato come sostitutivi per non pensare a suonare, a imbracciare di nuovo la mia piccola.
Ma io vivo per godere appieno di lei. E delle parole che sgorgano dal mio cuore e vengono veicolate sui fogli dalla penna che impugno.
Non deve esserci spazio per la tristezza e i ricordi nel mio cuore.
È il 28 luglio. Siamo a Chicago.
Il Warped è estenuante, stancante, faticoso, soprattutto sapendo di dover sostenere ogni giorno un live e dover poi ripartire, alla volta della tappa seguente.
Ti fiacca nel corpo, ma ti esalta nello spirito. Non sei mai stufo di suonare, ogni volta il pubblico è diverso, ti accoglie sempre in modo differente, positivo o negativo che sia. E devi fare appello a tutta la tua volontà per non scontentarlo, né scontentare te stesso.
Tocca a noi, tra poco. È pomeriggio pieno, il sole picchia forte sulle teste di tutti.
È un mese che suoniamo a giro, eppure mi sento profondamente inquieta.
Sarà che da oggi ci sono anche loro…anche lui, a guardarmi suonare dal backstage.
No, non può essere solo per questo. Ma adesso devo suonare, non c’è spazio per le riflessioni. Non ci deve essere.
Meglio non pensarci.
Il primo a salire sul palco è Keith, che si sistema dietro alla sua amata batteria e inizia a imprimere ritmi nella sua mente, nelle sue mani, trasmettendoli poi su piatti e tamburi.
Poi Dave, che imbraccia il suo basso e scalda le dita su e giù per la tastiera.
Trova anche il tempo di fare un po’ il cretino, e si mette a suonare il motivetto del Tetris, poi Super Mario, infine Zelda.
È abbastanza patito di videogiochi, effettivamente.
E infine, io.
Afferro la mia Jaguar nera e mi avvicino al centro del palco, ostentando un passo sicuro e assolutamente tranquillo.
Non sono mai stata brava a fingere, ma oggi riesco a dare il meglio di me.
Non sarà la mia agitazione a rovinare tutto.
Sistemo il microfono all’altezza giusta, dopodichè faccio un respiro profondo.
Ebbene sì.
Canto io.
C’hanno messo del tempo a convincermi, ma alla fine quei due terremoti alle mie spalle ce l’hanno fatta.
Ho dovuto mettere da parte tanti “se” e tanti “ma”, e mi è costato piuttosto caro.
Ma adesso…adesso sento di essere una persona migliore. I fantasmi del passato stanno dormendo in soffitta.
Sarà meglio che non si sveglino.
Almeno fino a che non ho finito qua sopra. E vorrei non finire mai.
Un potente riff di chitarra dà inizio al primo pezzo che suoniamo, che è anche uno degli inediti.
Mio fratello mi segue quasi subito e, per ultimo, si unisce anche il basso.
La voce esce con naturalezza dalla mia gola. È una rabbia genuina, ma più pacata, rispetto a qualche anno fa.
Non è stanca, no. È solo più consapevole dei propri limiti.
E pronta ad infrangerli ancora una volta, se necessario.
La gente sotto di noi è fomentata. Salta, urla e poga con furia selvaggia, e io, che sto a guardare mentre li nutro di energia, non posso fare altro che sorridere, inebriandomi di un assolo da paura.
Non mi era mai riuscito così bene, nemmeno in studio. Nemmeno negli altri concerti.
Abbiamo suonato quaranta minuti abbondanti, tirati al massimo e senza il minimo segno di cedimento.
Stiamo tornando grandi, e quando lasciamo il palco al gruppo che ci segue nella scaletta, leggo la stessa ferrea convinzione anche negli occhi di Keith e Dave.
Sorridiamo in sincro, tirando un sospiro di sollievo.
Anche stavolta ce l’abbiamo fatta.
Tornati nel backstage, sento una mano toccarmi la spalla e fermarmi.
“Ehi, ma siete veramente grandi!”
Mi giro.
Quei capelli neri davanti al viso, che si scosta, pronto, di lato.
Che celavano, fino a due istanti fa, quegli occhi, così luminosi e particolari.
Quel sorriso radioso, inconfondibile.
E poi…quei tatuaggi.
Tra cui spiccava il mio.
Beh, lo ammetto. Sono andata a cercarlo subito, in preda a una sorta di autocompiacimento per l’ottimo lavoro che avevo fatto.
“Toh, il mio cliente preferito!” esclamo, senza pensarci, e senza sapere perché.
Ma lui ride e annuisce. E mi abbraccia.
Vedo mio fratello, davanti a me, che lo fissa un po’ torvo.
Tranquillo, Keith.
“Ci siete piaciuti tantissimo, veramente!” prosegue, distaccandosi e continuando a guardarmi dritta in viso, che manco a dirlo s’infiamma.
Mi chiedo di chi stia parlando oltre a lui, e mi accorgo solo dopo che dietro Frank ci sono anche gli altri.
Bob, Ray, Gerard, Mikey.
Ray è letteralmente entusiasta.
“Ma allora siete tornati veramente a suonare! E siete ancora meglio di prima!” esclama, al colmo della contentezza.
Ringrazio, sorridendo.
Anche gli altri si complimentano con noi, è tutto uno stringersi le mani e abbracciarsi, e mi stupisco di come un gruppo come loro, ormai famosissimo, possa ancora conservare questa semplicità di modi, questa affabilità.
Spero di rimanere sempre così, penso dentro di me.
“Vogliate scusarmi, soprattutto tu, fratello di Frankie, ma ve la rubo per qualche minuto!” sento dire all’improvviso, e, altrettanto repentinamente, sento prendermi il polso e tirare verso una direzione sconosciuta.
Ancora! Ma allora è un vizio, questo di trascinarmi con sé!
Però…beh, non che mi dispiaccia.
Percorro il breve tratto di strada dietro a lui, mano nella mano, docile come una bambina che viene portata a passeggio dal padre, finché non ci fermiamo.
“Oggi non c’è niente di meglio del parcheggio dei tour-bus…spero vada bene lo stesso” si giustifica imbarazzato.
Ebbene sì. Il sole sta calando. E i My Chemical Romance suoneranno stasera. Abbiamo tutto il tempo del mondo.
“Tranquillo, va benissimo!” rispondo, al colmo dell’entusiasmo.
Siamo in piedi, entrambi con una lattina di birra in mano, e osserviamo in religioso silenzio il cielo che si dipinge di rosso.
È il nostro piccolo rito, ormai.
Non ci vediamo praticamente mai, ma immaginare che anche lui, come me, guarda il tramonto ogni giorno, lo fa sentire meno distante dai miei pensieri.
Dal mio cuore.
Dopo qualche istante, lo sento rivolgermi una domanda.
“E il negozio?”
“L’ho lasciato ad Alice” rispondo semplicemente.
Però…cavolo, io dovrei cercare di essere fredda, distante, ma non ci riesco.
Tutto in lui mi dice di lasciarmi andare, di smetterla con questa recita, di per sé piuttosto ridicola.
Anche lui ha chiuso con le farse. Glielo leggo nello sguardo.
Non sono più gli occhi di una fiera ingabbiata. C'è una luce diversa, più luminosa.
Quasi accecante.
Ma mi farò del male, sapendo che non potrò rivederlo.
Ti farà più male il rimpianto di non averci nemmeno provato, mi rispondo, come in un’ipotetica partita di ping-pong tra coscienza e istinto.
Così il mio braccio si muove da solo, e va a cercare il suo corpo. Cerca un abbraccio.
Lui…fa lo stesso movimento, insieme a me.
Questa intesa silenziosa, che non ha il bisogno perenne di emergere. Che resiste alla distanza, perchè ci siamo visti solo per tre volte.
Che ci riscalda l'anima.
É un piccolo miracolo. E in sua virtù ci troviamo legati in una stretta indissolubile, quasi una fusione dei nostri corpi.
“Ho aspettato per troppo questo momento” sussurra al mio orecchio.
“Anche io…”
Avrei dovuto evitarlo. Ma la felicità va acchiappata al volo, sennò chissà quando torna.
In questo momento non ci importa di nulla, a parte noi. Nemmeno del tramonto, nemmeno di Jamia.
Oddio, a me un po’ importerebbe. Mi sento un po’, come dire…la terza incomoda. Anche se lei è a chilometri da qui.
Lui sembra non curarsene. Le nostre labbra sono sempre più vicine ormai.
Stanno per sfiorarsi. Sento il suo respiro.
Quando una voce ci fa separare con violenza.
Perché, sì, è un atto di pura crudeltà farci staccare proprio ora.
“Ah, però, Frankie…ti lascio per qualche tempo e ti ritrovo ad appiccicarti agli estranei!”
Quella voce.
No. Ditemi che non è così.
Che ho solo delle allucinazioni spaventose.
Frank mi osserva preoccupato, mi vede tremare come una foglia, bianca come uno straccio, il sorriso che si spegne in un patetico tentativo di trattenere le lacrime, che però iniziano a sgorgare dai miei occhi e rigare le mie guance.
Mi volto.
E non era un’allucinazione.
Ecco cos’era quell’inquietudine che ho provato sul palco.
Era per colpa sua.
La sentivo entrarmi dentro, come aria impura nei polmoni, mentre suonavo.
Mentre cantavo.
Parole scritte per una sola persona.
Che sapeva essere dolce come miele e amara come il più schifoso dei veleni.
Lei.
Lucretia.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Everything Reminds Me Of Her ***


@ Helena: ettecredo, ho i capitoli pronti fino al 21 :°D
@ Martunza: susu, non fare domande, leggerai ^.^ comunque io ne conosco una che non è affatto male, di Lucrezia! e tengo a precisare che non c'entra niente con questa storia, così come tutti gli altri personaggi.

diciamo che sono frutto di invenzione, e se qualcuno ci si ritrova, o si sente preso in causa, beh, PADELLA COMPLETA! (non si sa mai, e in ogni caso anche le caratterizzazioni dei Mychem sono a mia discrezione, insomma, questa storia è pura invenzione, poi non sono capace a fare disclaimer -avrei dovuto metterlo sin dal primo capitolo, chiedo venia- e mi secca pure andarne a cercare uno per ricopiarlo, ma sappiate che tutto questo è frutto della mia mente malata e non voglio ledere nessuno, ecco. u_ù)
beh, magari adesso metto il capitolo, forse è meglio ._.'

Cap. 6 - Everything Reminds Me Of Her

Ci siamo conosciute alle superiori.
Frequentavamo una scuola molto rigida. Dovevamo portare delle uniformi orribili e cercare di essere tutti uguali, come dei cloni. Non erano ammessi piercing, tatuaggi, orecchini, tagli di capelli strani e colori strani.
Quindi immagino si possa comprendere lo scontento che animava il corpo docente appena varcavo il portone.
Ma che ci potevo fare, se odiavo quella rigidità.
Odiavo le ballerine, o qualsiasi tipo di scarpa da finta persona a modo, e così mi presentavo sempre con gli anfibi.
I miei capelli erano sempre di colori innaturali, riccioli e lunghissimi. Perennemente sciolti.
Un braccialetto con le borchie spuntava timidamente dalla manica della camicia, che portavo col primo bottone sempre aperto e la cravatta annodata larga.
Che ci potevo fare, mi dava fastidio quel collo così stretto.
E, soprattutto, ero piena di orecchini.
Davo molto nell’occhio. Ero un cazzotto nello stomaco dei professori.
Quante volte ero finita in presidenza. Troppe.
Ma il preside mi rimandava in classe, non sapendo mai come trattarmi.
Non mi comportavo da dura. Non era nelle mie abitudini.
Sapevo argomentare molto bene le mie scelte.
Con tono calmo e accomodante, iniziavo la mia arringa di difesa personale, appellandomi alla libertà d’espressione dell’individuo e intortando sempre i miei interlocutori, che si riducevano a meri, increduli, spettatori.
Nessuna ribellione. Nessuna anarchia. Nessuna parola fuori posto.
Sapevo bene quello che facevo.
Alla fine, mi lasciavano stare. Qualche professore c’aveva provato, ad abbassarmi palesemente i voti, ma avevo la classe intera dalla mia.
Mi avevano messo nella classe più casinista di tutto l’istituto.
Le altre sezioni ci odiavano, ma avevamo imparato a spalleggiarci a vicenda.
Certo, io ero quella che, obiettivamente, dava più nell’occhio, però eravamo cementatissimi. E così i prof che misero in atto questa specie di rappresaglia furono paradossalmente redarguiti.
Non si sarebbe detto, a vedermi, ma ero una dei migliori studenti della scuola.
Perché studiavo. Ero curiosa. Mi documentavo su tutto.
È così che l’ho conosciuta.
In biblioteca.
Dovevo fare una ricerca d’arte.
E lei stava sfogliando il libro che mi serviva.
Non so nemmeno cosa mi abbia spinto ad andare a chiederglielo. Non sono il tipo di persona che comunica molto con gli estranei. Ma c’era qualcosa in lei che mi attraeva, non so, forse il modo in cui sfogliava le pagine, così svogliato, ostentato, sopra le righe. Spocchioso.
Come se non stesse leggendo nulla di nuovo, come se avesse sentito quelle nozioni chissà quante volte, al punto da saperle a memoria, e stesse maneggiando quel volume per un’assoluta mancanza di cose da fare, per alimentare una noia terribilmente fastidiosa, ma nel cui tedio pareva sguazzare con sincera civetteria.
Avevo odiato a pelle quella supponenza, ma al contempo mi affascinava senza misura.
Mi avvicinai, con molta naturalezza, chiedendole se le servisse ancora per molto.
Scosse la testa e mi invitò a sedermi di fronte a lei.
Iniziammo a chiacchierare a proposito di quel volume.
Arte contemporanea. Roba per menti sopraffine.
Perché tutti sappiamo apprezzare la magnificenza di un Raffaello, o di un Tiziano, ma sono davvero pochi quelli che comprendono appieno il significato che sta dietro alla pipa di Magritte, o agli squarci sulle tele di Fontana.
La pagina era aperta sulla Gioconda con i baffi di Duchamp: proprio l’argomento che avrei affrontato nella ricerca.
Era una di quelle relazioni da proporre davanti all’intera classe, a tema libero. Così avevo deciso di portare uno studio sulla figura dell’ermafrodito attraverso i secoli e le arti, anche letterarie.
Era un bel prospetto, ed ero assolutamente orgogliosa di come stava crescendo sotto i miei occhi. Certo, al solito mi ero andata a cercare un argomento piuttosto particolare, ma ci stavo mettendo tutta me stessa.
E mi mancavano proprio studi sulla Gioconda di Duchamp.
Si offrì di aiutarmi. Mi sembrava di approfittarmene, ma c’era qualcosa, nei suoi occhi scuri e profondi, che mi spingeva ad accettare senza riserve. E così finii per fare.
“Nemmeno ci siamo presentate! Scusami, io sono Frances” e le porsi la mano.
“Sì, ti conosco” rispose con semplicità.
Ah però, ero decisamente popolare. O forse l’incontrario.
“Lucretia” aggiunse, stringendomi la mano.
Ci mettemmo d’accordo. La prima volta mi invitò da lei.
Era sola in casa. Particolare che lì per lì non mi suggerì nulla.
Mi sedetti al tavolo con fare professionale e tirai fuori il pacco di appunti, che le mostrai.
Apprezzò molto, e si mise a suggerirmi di modificare alcuni passaggi, per rendere più accattivante la relazione.
“Apprezza molto anche le mie mani” pensavo, sentendomele sfiorare di continuo. E non erano tocchi casuali. Me ne accorgevo col passare delle ore.
Ero fortemente a disagio, ma non riuscivo a sottrarmi a quei pomeriggi passati a riguardare la ricerca con scrupolosa meticolosità, non riuscivo a sottrarmi a quello sguardo magnetico.
Non riuscivo a sottrarmi a quella voce.
A quelle labbra.
Mi sentivo come Ulisse con le sirene. Io ci provavo, a legarmi all’albero maestro della mia coscienza, ma puntualmente l’istinto tagliava le corde, scioglieva i tappi di cera e mi liberava.
Ma non mi sentivo libera. Il tormento occupava il mio cuore, sempre di più, col passare del tempo.
Non saprei dire se fosse davvero innamorata di me. Ancora mi sfugge.
Qualcosa che invece non avevo mai perso di vista era il fatto che mi stava succhiando l’anima.
Non ero più io, quando la proposi come cantante per la band. Non ero più io.
Cercavamo disperatamente una voce, e glielo dissi. Lei si vergognava, o perlomeno così diceva. Sono quasi del tutto sicura, adesso, che fosse una balla colossale, una di quelle uscite pregne di falsa modestia che si lasciano cadere in qua e là nei discorsi, per fare le persone preziose. Ma allora, ci credevo ciecamente. Le chiesi di farmi sentire: lei si schermì, poi cedette.
Era perfetta, e fu la prima cosa che pensai, una volta riordinati i miei pensieri sconnessi e confusi.
La portai in sala prove. Cantò uno dei pezzi che avevamo scritto, e rimasero tutti sbalorditi.
Keith accettò, ma era preoccupato.
Mi vedeva cambiare, diventare quella che non sono mai stata.
E sapeva benissimo che dipendeva da lei, dalla sua presenza, ormai costante, accanto a me.
Mi resi conto di una cosa fondamentale, quando uscii da quella scuola.
Trasgredivamo tutte e due.
Io e lei.
Frances e Lucretia.
Due nomi da principessine rincoglionite.
Io ero sopra le righe, decisamente. La mia era una ribellione aperta, sincera, schietta. Palese. E a presa di culo, ma mai banale.
La sua era strisciante, subdola, malefica. Viscida. Nascosta da una parvenza di perbenismo quasi nauseante.
Mi si era appiccicata addosso, insieme al suo profumo.
Ogni volta che me ne allontanavo era come se entrassi in crisi d’astinenza. Mi mancava come l’aria.
Ma questo non faceva di me una lesbica, no.
Lei era l'unica a farmi sentire così. Nessuna prima, e nessuna dopo di lei, mi avrebbe fatto capitolare così. Nessuna.
Nemmeno stavamo insieme.
Ogni volta che ci trovavamo, io e lei, da sole, era come se ci stessero braccando.
Avevamo paura che ci scoprissero. Perlomeno, la paura proveniva solo ed unicamente da me, e lei l'assecondava con cupa dolcezza.
Sembravo non sentirla più, dopo un po'. Era diventato così dannatamente naturale, ormai...così naturale che mio fratello, un giorno, è tornato a casa, e ci ha viste.
Non ha fatto una grinza. Forse se lo aspettava, ma non deplorava la mia scelta. La mia presunta identità sessuale, confusa o meno che fosse.
Deplorava lei.
Solo ora riesco a comprenderlo. A comprendere il suo astio.
Se ci penso, mi chiedo come abbia potuto farmi trascinare in quel modo cieco e devoto.
Ma non potete capire che carisma trasudasse da quella pelle bianca come il latte.
Non potete capire.
Io l'avevo capito, invece. E non ne avevo mai abbastanza.
La assaporavo con gola. La divoravo con ingordigia.
Ero l’unica ad essere caduta preda di quel fascino letale.
Keith e Dave non l’hanno mai sopportata.
E mio fratello, un giorno gliel’ha detto, chiaro e tondo.
Perché non era indispensabile per gli Unnamed.
Perché, soprattutto, mi stava buttando via.
Della vera Frankie non era rimasto nulla.
E lui ci aveva visto. Lei, luminosa e concupiscente. Io, spenta e quasi succube.
Quei capelli rossi, quegli occhi scuri come una notte senza luna mi avevano spinto sulla via del non ritorno.
Persi la voglia di vivere, quando Keith la cacciò.
L’ho odiato come solo un fratello si può odiare.
Ma solo adesso capisco che l’ha fatto per me.
Non ha pensato a nessun altro, in quei momenti convulsi.
Il suo interesse di fratello maggiore era proiettato solo ed unicamente su di me, e su come mi ero ridotta.
Certe decisioni sono dure da prendere, soprattutto se sai che dovrai far stare male una persona a cui vuoi un bene dell'anima.
Ma bisogna scegliere il male minore. E lui preferiva che lo disprezzassi, piuttosto che vedermi ancora in quel modo.
Adesso vorrei dire tutto ciò a Frank, mentre mi osserva in tutta la mia vergogna.
Mentre mi chiede, in silenzio, stringendomi la mano, chi sia lei per me.
Quella mano su cui ho tatuato la sua iniziale.
Vorrei solo renderlo partecipe di quello che ero veramente. Glielo devo, in un certo senso.
Lui mi aveva raccontato tutto, quattro anni fa, solo con i suoi occhi tristi.
Non sono capace ad essere così eloquente solo fissandolo con lo sguardo smarrito e disorientato, per cui vorrei poter solo vomitare tutta questa storia di merda.
Ma non ci riesco. É come se volessi proteggerlo, alla fine.
Come se non volessi farlo stare in pensiero per me. Mi basta sentire il calore della sua mano a stritolare la mia con dolce angoscia, per capire che gli farei solo del male.
Non sono una persona forte.
Se lo fossi non avrei reagito così, non mi sarei messa a piangere appena l'ho vista e non mi sarei tatuata questa stupida L sul dito.
Ma era bello illudersene.
Lei è andata a cercare Dave e Keith, e io e lui rimaniamo, di nuovo, soli.
“Frankie…chi è quella?” chiede con ferma dolcezza.
Non ci riesco. Mi sono asciugata le guance, ma non c'è niente da fare.
Ricomincio.
Con violenza.
Scoppio a piangere a dirotto.
Sento una stretta soffocarmi il respiro. Mi ha riabbracciato, senza pensarci un solo istante.
Sento il battito del suo cuore. È accelerato. Come se possa scoppiare da un momento all’altro.
Anche se sono stata zitta, non sono riuscita a proteggerlo da me, dal mio schifo.
Ormai c'è dentro fino al collo. CI SIAMO dentro fino al collo.
Riesco solo a farfugliare tre parole, brucianti come il più corrosivo degli acidi.
Che non rispecchiano del tutto la verità, ma la semplificano in maniera devastante.
“La mia ex.”


Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** The Lost Art Of Keeping A Secret ***


ma ancora stragrazie per i complimenti, mamma mia *_*' troppo buone, valà!

Cap. 7 - The Lost Art Of Keeping A Secret

Si scosta da me, repentino. E mi fissa, dritto negli occhi.
È incredulo.
Proprio gli si legge in faccia.
“Tu…no, aspetta, eh…mi staresti dicendo che stavi CON UNA RAGAZZA?”
Improvvisamente le mie lacrime cessano di scendere.
Mi faccio piccola e rossa, e annuisco, gli occhi piantati sui nostri piedi. Le dita che, automaticamente, vanno a nascondersi tra i miei capelli.
“Ma…non finisci mai di stupirmi” commenta, ridendo.
Meno male. Sembra che la cosa lo diverta.
Sorrido anche io, senza farmi vedere.
“Beh, ma questo non fa di me una a cui piacciono le ragazze” affermo risoluta, rialzando lo sguardo da terra e facendolo vagare a giro per il cielo.
Mi imbarazza guardarlo negli occhi, come se mi rendessi conto che la mia sia un'onta irreparabile. Eppure non c'è nulla di male, lo penso tuttora.
Togliendo il soggetto specifico, amare qualcuno del proprio stesso sesso non è mica un delitto.
Mi fissa con sguardo interrogativo.
“Beh” mi affretto a precisare “è l’unica, per ora. E data l’esperienza, ti assicuro che non lo rifarei…beh, credo.”
“Oh ma mica te ne stavo facendo una colpa! È che…proprio non ti ci facevo...” mi dice, grattandosi la testa, al colmo dell’imbarazzo.
“Dai, non è nulla…” cerco di svicolare.
Non so perché, ma detesto vederlo così a disagio. Soprattutto se penso che è un po' colpa mia e della mia reazione così scomposta..
“No, veramente, ti chiedo scusa! È che sembrava che…”
“Dai, non arrampicarti sugli specchi! Non sei mica il primo che me lo dice, sai?” sorrido maliziosa.
Lui arrossisce. Proprio sembra prendere fuoco. É di una tenerezza che faccio fatica a descrivere a parole.
Non posso argomentare dettagliatamente. Sminuirei la scena, il suo rossore e l'imbarazzo che, adesso più che mai, lo governa.
Che dolce, penso immediatamente.
Ma il solito, stramaledetto automatismo che sembra sempre imporsi sulle mie azioni più spontanee mi blocca.
Non mi fa nemmeno mormorare quanto mi piaccia.
Così, per non far cadere la conversazione in modo così stupido, inizio a sfotterlo bonariamente.
"Ahhhhhhh! Sei paonazzo, Frank!" gli dico, ridacchiando.
"E non guardarmi, no?" borbotta, imbronciato, e a dire il vero anche un po' sorpreso, volgendo lo sguardo altrove.
Continuiamo la nostra piccola schermaglia ancora per un po’, quando vediamo una sagoma familiare venirci incontro.
“Ehi, ecco dove sei!” esclama, alzando il sopracciglio e sorridendo in quel modo tutto particolare, personale.
“Ahm, scusa Mikey, in effetti sono sparito un po’ così…” cerca di giustificarsi lui, che ha ripreso da poco il suo colorito normale.
“Colpa mia!” faccio io, come ad alleggerire ulteriormente il clima della conversazione.
In effetti è tardino. Il sole è calato, quella stronza di Lou mi ha rovinato il tramonto e tra poco meno di un’ora i ragazzi devono suonare.
Frank mi guarda interdetto.
Si vede benissimo che non vorrebbe andarsene di qui, ma purtroppo deve farlo.
La sua mano fa una fatica incredibile a staccarsi dalla mia. E lo stesso vale per me.
Ormai mi ero abituata a quel calore. Mi è arrivato dritto dritto al cuore.
Che sia merito del famoso vaso sanguigno dell'anulare? Riflessione di per sé stupida, ma che mi fa sorridere per il suo candore quasi infantile.
Se non che…sopraggiungono alle nostre orecchie delle voci, piuttosto concitate.
Dietro di noi.
Mikey fa per tornare dagli altri, ma Frank gli fa cenno di fermarsi un attimo e mi stringe in un abbraccio ancora più forte di prima.
Perché lo fa?
Cosa sta succedendo?
Domande che dovrebbero affacciarsi alla mia mente, ma non lo fanno.
Perché per me quegli abbracci sono una droga, e quindi devo gustarmeli, finché durano.
Sì, una droga. La migliore. L'unica che non possa farmi del male.
Le voci si alzano nel quasi buio del crepuscolo, e rabbrividisco.
Perché le conosco sin troppo bene.
“Guarda, stasera dormi nel bus con noi, ma domani levi le tende! Te ne vai!”
“Ma che cavolo, ma sono anni che non ci vediamo e mi tratti così?”
“Hai anche da chiederne il motivo? Bella faccia tosta che sei!”
“Grandissimo stronzo…”
“Ah, sarei io lo stronzo? SAREI IO LO STRONZO! Tu ci hai rovinato, Lucretia! Hai mandato tutto a puttane! Non mi sto meravigliando, sai, che la tua ragazza ti abbia buttato fuori di casa!”
“Lascia stare Annie, che non c’entra nulla!”
“Okay…okay, lasciamo stare Annie. Non c’entra con noi, non c’entra niente se sei venuta a abitare a Chicago per stare con lei, va bene. Però obiettivamente…c’era un’armonia tra noi tre…”
Meno male. S’è calmato.
E invece no. Sta alzando di nuovo la voce.
“Armonia che tu hai rotto, e sia stramaledetto il giorno in cui Frankie ti ha portato nel nostro garage e ti ha fatto cantare! Perché l’hai rovinata, capisci? Hai rovinato mia sorella! E mi dispiace, ma per te, negli Unnamed, non c’è più posto! NON C’È MAI STATO!”
“Ma io voglio cantare con voi! Voglio stare con lei, ancora!” la voce rotta, incrinata.
“NO! Lei non ha più bisogno di te!”
“E invece sì, appena mi ha visto s’è messa a piangere! Come una fontana!”
Anche lei sta piangendo, adesso. La sento singhiozzare.
Un po' mi fa pena, se devo essere sincera.
“Sì, e sai perché? Perché si ricorda di tutto. E le fa male! Ha provato, a voltare pagina, ma non c’è riuscita fino in fondo! E io non voglio più vederla in quello stato pietoso! Non voglio più aprire la porta di casa e vederla farsi le pere insieme a te!”
Occazzo, no.
Ti prego, fà che non abbia sentito.
Speranza vana, visto che stanno urlando proprio alle nostre spalle.
Le mie mani vanno istintivamente a coprirmi il viso.
Adesso mi faccio pena anche io.
Tutto, ma non quello.
Non ho voglia di fare i conti con i capitoli definitivamente chiusi della mia vita. Men che meno in questo preciso momento.
Ne sono uscita da tempo ormai, ma che senso avrebbe rassicurarlo?
Non mi crederebbe mai.
E lo sento, lo sento da come si stacca da me di colpo, esterrefatto.
Leggo l’incredulità nei suoi occhi, un’incredulità che si fa sempre più rabbiosa e che si volta da me con veemenza.
Keith, ti odio.
Da morire.
Perché gliel’hai rinfacciato così?
Perché hai detto la verità al mondo con questa insensibilità?
Perché sei stato così schietto?
Maledetto. Ti odio.
Solo questo riesco a pensare, nella confusione che ormai mi governa.
Ma in realtà l’unica persona che dovrei odiare….sono io.
Volevo illudermi di essere speciale, e invece sono solo una merda.
Anche Mikey mi guarda stupefatto, e senza pensarci due volte emette la sua sentenza.
Come se sapesse già tutto di me, di quello che successe ormai quattro anni fa.
Come se comprendesse in che situazione del cazzo sono finita.
“È deciso: tu dormi da noi stasera.”
Secco, conciso.
Non c’è severità nelle sue parole. Solo una ferma indulgenza che, a vederlo così, non gli si attribuirebbe.
Eppure riesce ad essere più accogliente e comprensivo di Frank, che adesso s’è incamminato da solo verso lo stage. Con l'aria di chi ha appena subito un tradimento e se n'è reso conto troppo tardi.
Anzi, è proprio incazzato nero.
Mi stai disprezzando, eh?
Non ti biasimo.
Anche io mi faccio schifo per quello che ho fatto, e serve a poco giustificarsi dando la colpa a certe pessime influenze.
Non mi ha costretto nessuno.
E per questo adesso non riesco a versare una lacrima.
Non per rabbia, né per delusione, e neanche per tristezza o dolore.
Mi prenderei in giro da sola, se lo facessi.
Quando provi disprezzo per quello che sei, certe volte riesci a essere di una lucidità disarmante.
Come adesso. Momenti in cui ripercorro con estenuante lentezza tutto l'iter che mi ha portato a toccare il fondo.
Con masochismo estremo focalizzo nella mia testa ciò che ho represso per anni. E fa male da morire, soprattutto se penso che le conseguenze si sono protratte fino a oggi, fino a questo preciso istante e forse anche in seguito.
Meglio togliere il 'forse'. É solo un'inutile componente ipocrita.
Odio quei giorni di abbandono.
Odio quella robaccia che mi iniettavo in vena. Che mi illudevo mi facesse stare bene.
Odio il disperato bisogno che ne avevo. E l’altrettanto disperato bisogno che avevo di lei.
Di Lou.
Mikey questo lo capisce.
Che mi stavo buttando via da sola.
Ma capisce anche che le menti deboli cadono spesso in questi tranelli.
Come suo fratello.
“Dai, andiamo. Mentre suoniamo tu starai nel backstage con Brian, ti va bene?” mi dice, accarezzandomi i capelli con affetto. Un affetto quasi fraterno.
Questi ragazzi sanno a malapena chi sono e mi trattano come se fossi una di loro.
Uno di loro, quello con cui ho avuto più a che fare, paradossalmente mi lascia qui come una cretina, e adesso lui mi tratta come se fossi la sua sorellina.
Non ci credo, ma mi adeguo. In fondo mi fa piacere ricevere le sue attenzioni, così disinteressate.
Qualsiasi cosa è meglio dell’inferno in cui sono precipitata di nuovo, Mikey.
Qualsiasi posto.
Qualsiasi persona.
Tu puoi nominarmi chiunque, e mi andrà bene, visto che non so chi sia.
Ho fiducia in te e in quello che stai facendo per me, se mi affidi a questo Brian.
Mi sembra anche troppo, abituata come sono a essere trattata a pesci in faccia.
“Sì” mormoro, spenta.
E ci incamminiamo verso il backstage.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** You Stole The Sun From My Heart ***


@Martunza: tranquilla, non replicherò! :°D

Cap. 8 - You Stole The Sun From My Heart

Brian mi è stato vicino per tutta la durata della loro performance.
È dotato di una gentilezza disarmante. Quasi mi è dispiaciuto non averne approfittato, ma ero troppo presa dalla situazione del cazzo che era venuta fuori per preoccuparmene.
Quando Mikey mi ha portato da lui e gli ha chiesto se, per favore, potevo stare lì, ha capito subito che c’era qualcosa che non andava, e non ci ha pensato nemmeno un attimo ad accettare.
Nemmeno ha chiesto chi fossi. Almeno fino a ora.
“Ehi…io sono Brian, comunque” prova a dirmi, così, come si lascia cadere nel nulla un’informazione di poco conto, che non meritava nemmeno di essere menzionata.
Sono assorta, lo sguardo perso nel vuoto. La musica mi giunge alle orecchie ovattata, come un’eco lontana. Anche la voce di quel ragazzo così gentile. E anche piuttosto carino, devo ammettere. Sto provando a concentrarmi su questo particolare per tentare di non pensare ad altro, ma è uno sforzo abbastanza inutile, ora come ora.
Nonostante questa disattenzione che sto nutrendo nei confronti del mondo, mi sento chiaramente osservata.
Mi giro verso di lui, e lo trovo con l’espressione di chi aspetta una risposta.
Ancora questo viziaccio di perdermi nelle mie beghe quando qualcuno mi parla. Credo che non smetterò mai.
“Scusami…dicevi?”
“Io sono Brian!” esclama, speranzoso, porgendomi una mano da stringere con professionalità.
Troppe formalità da espletare, per la mia testa confusa.
Accontentati del nome, per favore. Almeno per il momento.
“Ah! Oddio, scusami, non mi sono nemmeno presentata…Frances…” gli faccio, distratta.
“La chitarrista dei…degli…Unnamed, giusto?” chiede, ritirando un po' deluso la mano, che non ho stretto, non certo per cattiveria.
“Eh sì” borbotto, quasi impercettibilmente.
Ma a lui non sfugge.
Non è una sensazione. Sono decisamente osservata, e con morbosa curiosità.
Normalmente asseconderei questa sete di conoscenza.
Normalmente racconterei vita, opere e miracoli della sottoscritta a tutti quelli che vogliono saperne di più, ma adesso…adesso non ce la faccio, Brian. La mia testa corre con sfrenato masochismo verso quei momenti, quelle grida, quella frase che mio fratello non doveva pronunciare, non davanti a lui. Ricerca quell’abbraccio così caldo e accogliente di cui, mio malgrado, sono stata costretta a spogliarmi quasi subito, rimanendo, come un’imbecille, sola ed esposta al gelo della sua rabbiosa noncuranza.
Non so più come scusarmi. È una negligenza di poco conto, la mia, eppure mi fa sentire così colpevole…
“Senti, ma…è successo qualcosa?” mi chiedi, con una punta di sincera preoccupazione nella voce.
“N..no, niente, davvero…” dissimulo.
Non voglio tirare anche te in mezzo. Non te lo meriti, nemmeno ti conosco. È già tanto che ci sia impelagato anche Mikey. Ha solo avuto la disgraziata sfortuna di essere lì, presente, quando è successo tutto. Però…meno male che c’era anche lui, sennò chissà dove sarei adesso.
Forse sotto il cielo stellato, ubriaca, ad ululare alla luna come un cane abbandonato a se stesso.
Fingo, ostentando un sorriso che sento tirare da tutte le parti, ma ho come l’impressione di non essere abbastanza convincente.
Lui mi fissa ancora.
“Beh, immagino tu non ci creda, vero?” chiedo, sforzandomi di sorridere.
“In effetti poco” sorride, al colmo dell’imbarazzo “ma non indagherò oltre. In fondo, nemmeno ti conosco…”
Mi stai quasi facendo sentire in colpa. Sotto quel bel viso si nasconde una discreta carognetta.
“Hm, beh…ho dei problemi, ma nulla che non si possa risolvere…”
“Spero per te!” conclude lui, sorridendo e alzandosi per andare incontro ai ragazzi, che hanno appena finito di suonare. Me ne rimango lì, in disparte, visto che sono solo un’ospite, per di più un po’ triste.
Provo a vedere con la coda dell’occhio se qualcuno mi si avvicina.
Gerard mi sorride imbarazzato. Come a dire “Ehi, e tu che ci fai qui?”
Ricambio il sorriso, che diventa un’implicita promessa: ‘ti racconto dopo, se avremo tempo e voglia’.
Ray e Bob proprio non mi vedono. Sono troppo impegnati a scambiarsi impressioni a caldo sulla performance.
Sono elettrizzati. Parlano tra loro con una passione incredibile.
Quello che fanno scorre prepotente nelle loro vene. È amare il proprio lavoro.
Sono contenta per loro. Perché vivono solo per questo. E ce la mettono tutta per andare avanti al meglio.
Mikey sta parlando con Brian. Non so di cosa, e non sono nemmeno affari miei.
Ogni tanto mi buttano un’occhiata, quasi abbiano paura che io faccia qualche cazzata.
Frank è l’ultimo ad arrivare. È sorridente, galvanizzato dall’esibizione, lo porta scritto a chiare lettere sul suo volto così dolce.
Dover osservare i suoi lineamenti così a distanza, così furtivamente, mi uccide.
Mi sento un po’ morire, in effetti. L’ho deluso, ancor prima di pensare a quanto mi sia delusa da sola. Ormai questo è un passaggio che ho già superato e su cui non intendo affatto tornare, e pensavo di averne pagato per intero le conseguenze, ma a quanto pare non è così.
Non è così, perché mi scorge, e il suo sorriso sparisce.
Sparisce anche lui, va via dal backstage.
Veloce.
Rapido.
Senza un apparente motivo, almeno per i suoi colleghi e amici.
Sospiro sconsolata. Ormai il danno è fatto.
Non mi capacito di questo astio. Perché incazzarsi per qualcosa che è già passato?
Per qualcosa che lui non ha mai provato, non ha mai testato sulla sua pelle?
La mia storia non lo riguarda, penso piccata. Eppure…mi sconvolge, il fatto che se la sia presa così male.
Ci sarà pur un motivo. Motivo che, annebbiata dalla tristezza come sono, non emerge, per quanto sia di un’intuibilità quasi elementare.
Mikey e Brian mi si avvicinano.
“Allora, come siamo stati?” chiede il primo, forse per distrarmi.
“Ehm…era tutta immersa nei suoi pensieri…non so quanto abbia prestato attenzione” risponde l’altro, prima che io riesca ad aprir bocca. Sorrido mestamente, come a dare conferma di quello che ha appena detto Brian. Mikey mi guarda, e sembra un po’ abbattuto dalla mia totale incapacità di sorridere con sincerità.
Mi dispiace.
Ma lui mi fa alzare e poi mi abbraccia. Quando ci stacchiamo, mi guarda fisso negli occhi.
Non riesco a sostenere quello sguardo così limpido, pulito.
Perché ti costringe a confessare le tue colpe più nascoste. E per adesso ne sono emerse anche troppe.
Mi volto da un’altra parte, e lo sento appoggiarmi una mano sulla testa e spettinarmi con dolcezza i capelli.
“L’ha proprio fatta grossa, stavolta…” sospira. Più preoccupato per me che per il suo chitarrista, che è sparito chissà dove.
Più del male che lui ha fatto a me, e non di quello che ho fatto io a lui.
Evidentemente se la saprà cavare benissimo da solo.
Ci allontaniamo dal palco, in direzione del loro bus.
A metà strada mi squilla il telefono.
Mi fermo per rispondere.
Il numero lo conosco sin troppo bene.
“Ehi…”
“MA DOVE CAZZO TI SEI CACCIATA! Sono ore che ti cerchiamo!!!”
“Ah…scusa, Dave…ti stavo per chiamare, tra l’altro, per dirtelo…” mento, spudoratamente.
Mi sono dimenticata di loro. Fatto imperdonabile, nella mia logica, ma preferisco non pensarci, visto quel che è successo oggi. È come una sorta di meccanismo di autodifesa.
“Dirmi cosa?”
“Che stasera starò coi ragazzi…penso sia meglio, e a loro va più che bene…”
“Che ragazzi, scusa?!” mi fa, incredulo.
“I My Chemical…”
“Ah, sì” mi interrompe “i tuoi amici. Sì, è meglio…è successa una cosa, Frankie…”
“So già tutto, Dave.”
“Ah, ok…mi hai tolto un bell’impiccio, non sapevo come dirtelo!” ride forzatamente.
È teso, anche lui. Ma è quello che, tutto sommato, è meno toccato dalla faccenda.
Beato lui.
“Insomma, ci vediamo domattina” cerco di tagliar corto. Non ho voglia di fare l’autopsia ai miei incubi di un tempo, e lui lo ha capito al volo.
“Sì. Buona notte, stellina. E non preoccuparti, tornerà tutto a posto.”
“Spero. Buona notte, Dave” e riattacco.
Mikey mi ha aspettato. A qualche metro di distanza, educato, discreto. Non vuole entrare nelle mie conversazioni. Ma, in un certo senso, è entrato nella mia vita, e nemmeno più di tanto in punta di piedi. É un filino più, come dire, grave.
Non so se lo sa, se se ne sta rendendo conto. Ma in questo momento è davvero l’ultimo dei miei problemi.
Ci rincamminiamo, percorrendo quei pochi metri che ci separano dal tour bus.
Il fatto è che…beh, non so cosa dirgli. Sempre che sia lì dentro.
Ormai ci siamo. Mi stanno tremando un po’ le gambe, ma cerco di riprendere il controllo e entro.
È enorme, spazioso e, curiosamente, pulitissimo e ordinatissimo. Sembra nuovo di zecca.
Ripenso al nostro. Piccolo, impregnato di noi e della nostra vita sregolata, della nostra gioia e dei piccoli dolori che attraversano la vita di ogni essere umano. I miei vestiti buttati a caso nell’unica cuccetta libera, quelli di Dave ammonticchiati sul suo borsone e quelli di Keith, perfettamente piegati e sistemati nella valigia, sempre aperta. La macchina del caffé, perennemente in funzione, al cui ronzio sordo non facciamo neanche più caso. Un mazzo di carte, sul tavolo. Montagne di cicche nel posacenere. I miei libri, gettati qua e là, un paio dei quali anche in bagno, con la stessa disinvoltura con cui un contadino si ritroverebbe a passeggiare per le strade di una metropoli.
Ossia, prossima allo zero.
Ci sediamo al tavolo di quella che dovrebbe essere la zona della cucina.
L'uno di fronte all'altra.
Bob e Ray sono in fondo al bus, a scherzare tra di loro, come sempre.
Gerard si è messo a disegnare poco distante da noi, e Frank…non c’è.
“Ma dove si sarà cacciato” mi borbotta.
Oh, zitto, va bene così.
Inconsciamente mi sta risparmiando una bella gatta da pelare.
“Certo che…” inizio a mormorare. A dire il vero non saprei cosa dire. Però è per far vedere che magari non sono così disorientata dalla situazione.
No, non convinco nemmeno lui. Mi fissa un po' scettico.
“È un cretino!” sbotta infine, in preda a un subitaneo furore, che, tempo due o tre secondi, si affievolisce, si sgonfia come un materassino lasciato ad agonizzare sulla spiaggia.
“Scusalo, davvero…ehm…com’è che ti chiami, scusa?”
Mi metto a ridere, stranamente sollevata dal suo repentino cambiamento, dettato dalla mia espressione, che deve essere di un basito indescrivibile.
Non sono abituata a vederlo così colloquiale. E nemmeno così imbranato.
Beh, per quel poco che l'ho visto finora.
“Frances, ma chiamami pure Frankie” rispondo, accomodante.
Effettivamente, immagino mi conosca solo come 'la chitarrista di quel gruppo là...dai, come si chiamano...hm, sì, quelli.'
“Ecco, Frankie…devi scusarlo davvero…piuttosto, mi chiedo dove sia finito, spero solo che torni...”
E io che credevo fosse sicuro che prima o poi sarebbe tornato. Nemmeno lui lo sa. Inizio a sentirmene un po' in colpa.
Non so cosa rispondere. Dovrei essere io a scusarmi, e questo è l’unico pensiero che mi balena nella mente.
Ma poi, scusarmi di cosa? Del mio passato? Di quella che non sono più?
Abbasso gli occhi, fissandomi le gambe con una gran confusione in testa.
Mikey mi osserva per un pezzo.
Silezio assoluto. Non riusciamo più a dire nulla.
Dopo interminabili attimi pieni di nulla, mi augura la buonanotte, andando a sistemarsi nella sua cuccetta. Io rimango lì, al tavolo.
Sono stata scortese, ma non avevo la minima voglia di parlarne. O meglio, più che non sentire la necessità di affrontare la questione, proprio non sono riuscita a raccattare e mettere insieme anche solo due argomentazioni minime per scagionare i miei errori del passato. Perlomeno estrometterli dal presente.
Immagino serva a poco garantirgli che ormai sono anni che non mi buco più, e questo l'ho pensato da subito. Ma allora, cosa dirgli?
Il sonno non arriva a terminare queste congetture, o almeno a congelarle fino al mattino dopo. Pare quasi avere paura di me, tanto mi sta girando alla larga.
Riesco ad addormentarmi solo quando ormai è quasi mattina. Il sole sta per sorgere, ma non ho assolutamente voglia di starmene a guardarlo, così chiudo gli occhi e mi appoggio sul tavolo, sperando in un attacco di narcolessia fulminante, o una bella botta in testa.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Micro Cuts ***


@veve: mwa grazie!! *_* a me va bene anche se inizi da adesso a commentare, apprezzo tantissimo le tue parole, e sì, bob che mi sveglia a bacchettate in testa è una gran bella immagine :°DDDDDDD comunque per bob , beh, leggi sotto, suvvia!
@blueandyellow: vedrai a tempo debito u_ù non voglio svelare niente, sennò non me la leggete più, la fic :°D
@martunza: sante parole! *O*

Cap. 9 – Micro Cuts

Stiamo viaggiando in direzione di Minneapolis. Ho dormito fino a due secondi fa, fino al momento in cui Bob non è venuto a svegliarmi, picchiettandomi delicatamente sulla spalla.
“Che ore sono?” chiedo, stropicciandomi gli occhi con veemenza e tentando di aprirli. Ma niente. Deve avermi svegliato nel pieno del mio sonno, perché mi sento come se avessi gli occhi cuciti. Non riesco ad aprirli.
“Le dieci. Manca poco.”
La domanda che sto per fargli gli fa strabuzzare gli occhi. Eppure non è poi così strana, anzi, ha un che di legittimo, visto quel che è successo ieri sera.
“Ci siete tutti?”
Preoccupazione più che normale, la mia. Frank è sparito chissà dove, e prima di addormentarmi non l’ho visto tornare.
Adesso riesco ad aprire del tutto gli occhi, e a farmi ferire dai già torridi raggi di sole che entrano dai finestrini.
Vedo Bob annuire sconsolato.
“Ma cosa è successo ieri?” mi chiede, sperando di ottenere qualche nozione più dettagliata sulla nostra scaramuccia. O forse solo perché non si spiega la mia presenza qua dentro.
“Niente di che, Bob, ha un po’ di guai nel suo bus” sento dire alle mie spalle, prima di poter aprire bocca.
Mikey.
Anche lui è sveglio, e si dirige sicuro verso la macchina del caffé.
“Buongiorno Frankie…vuoi?” mi chiede, sorridendo.
Faccio sì con la testa. In questo momento non ho bisogno di niente, ma forse sorseggiare qualcosa può distrarmi. Ho fatto incubi per tutto il breve lasso di tempo in cui ho sonnecchiato. Ma il più triste, il più brutto di tutti, l’ho vissuto prima di addormentarmi.
Ora che ci penso, è stata una giornata proprio da dimenticare. Togliendo l’esibizione. Almeno quella è andata per il verso giusto.
“Ma tu sei la ragazza dei tatuaggi!” esclama Bob a un certo punto, facendomi fare un salto dalla seduta.
E adesso che c’entra, cavolo?!
Poi mi viene in mente il perché di quella specie di identificazione astrusa. Frank deve aver parlato di me come di “quella tatuatrice di San Francisco che mi ha fatto questo tatuaggio, guardate che bello!”
Non faccio molta fatica ad immaginarlo tutto allegro e giulivo, mentre lo mostra agli altri. Sai che situazione imbarazzante, se fossi stata presente. Mi sarei sotterrata, penso. Anche perché lui ha questo modo di farti sentire quasi speciale per le cazzate che fai per vivere, e le schermaglie di modestia, invece di proteggerti, ti seppelliscono, perché sono direttamente proporzionali alle lusinghe e ai complimenti, assolutamente sinceri, che lui ti fa.
E, per inciso, queste esternazioni mi fanno diventare una specie di orso. Finisco per borbottare burbera che “non ce n’è bisogno, suvvia” e cose così.
“Sì.” Mi limito a rispondere. Anche perché non vedo cos’altro dovrei aggiungere.
Mikey mi porge una tazza gigante, piena quasi fino all’orlo.
Appena l’ha posata sul tavolo, gli sfioro il polso. È un movimento dettato dall’impulso, ma riesco a ottenere l’effetto desiderato. Si volta verso di me, guardandomi negli occhi.
“Dov’è?” sussurro così piano da non riuscirmi a sentire neanche io.
Con il capo fa cenno alla mia destra. Mi volto in quella direzione, senza ringraziare, non per sgarbo o maleducazione, ma perché mi sento come se l’avessi già ringraziato ancora prima di rivolgergli la domanda, ancora prima di fissarlo con tanta determinazione per sapere dove fosse quello stupido.
Come se gli mormorassi un ‘grazie’ col pensiero, in ogni istante, da quando l’ho conosciuto.
Dite che gli sono troppo grata, forse?
Pazienza. Ma ragioniamo un attimo: chi prenderebbe a dormire con sé una persona, appena conosciuta e di cui sei venuto immediatamente a sapere che si drogava allegramente in compagna della sua (in)degna collega, solo perché ha beghe nel proprio tour bus?
Io non so voi, ma mi sarei lasciata a marcire lì fuori. Però lui non l’ha fatto, e probabilmente c’è una ragione per tutto questo, e me la farò spiegare appena possibile, ma adesso mi importa solo di quello stupido e basso chitarrista che fa sempre le cose senza pensare, e questo lo so sin troppo bene. È un impulsivo, come me.
Mi alzo e lo raggiungo. È su una specie di…non so, a me sembra un divanetto.
Ci sono divanetti nei tour bus? Oh, beh, evidentemente qui dentro sì.
Sta dormendo, il viso tranquillo e disteso, le labbra socchiuse.
Sorrido senza malizia. Sembra un bimbo.
Mi perderei per ore a osservare i suoi lineamenti. Mi piacciono da morire.
Ma il mio sguardo, in preda a un fugace narcisismo dell’ultima ora, corre veloce sul suo braccio, a cercare quel tatuaggio.
Quello che gli ho impresso io sulla pelle.
Ho un moto di stizza. Come quando vedi un film horror e magari trovano la vittima orrendamente ammazzata, oppure quando vedi il protagonista che si volta di scatto e si ritrova faccia a faccia con il killer. Mi viene sempre da saltare sulla poltrona, quando succedono queste cose. E anche adesso sussulto e rimango a bocca aperta.
Lì, proprio sopra il mio disegno, la pelle è arrossata all’inverosimile. Strisciate rossicce, in rilievo sulla carne, lo percorrono, lo attraversano senza pietà. In alcuni punti addirittura scorgo piccolissime macche di sangue rappreso.
Porto le mani alla bocca, e non so quanto rimango, immobile, gli occhi sbarrati, in quella posizione.
Non so se disperarmi o incazzarmi.
Ce la deve avere a morte con me, se ha fatto quel macello. Ha una pelle piuttosto resistente, motivo per cui ho potuto finirgli il tatuaggio in soli due giorni, senza aspettare le classiche due settimane per farla sfiammare. Per averla ridotta a quel modo, ci si deve essere accanito con una ferocia tremenda.
Anche perché non vedo altre situazioni simili sulle braccia, o sul collo, o sul viso. Solo lì, in quella porzione di corpo.
È facile capire. Non sono paranoie, le mie.
Ho l’evidenza davanti agli occhi.
Credeva davvero di eliminarmi dalla sua mente solo cercando maldestramente di cancellare quel segno?
Dev’essere proprio scemo. Fuori di testa.
O disperato.
Non so perché, forse voglio solo farmi un gran male, ma pretendo di scrutare con attenzione anche la sua mano sinistra. L’unica che può aver combinato quel casino.
Sotto le unghie cortissime riesco a scorgere lievissime tracce di colore rosso scuro, a ulteriore conferma del tutto.
Scuoto il capo. É l'unico movimento che riesco a compiere.
E in questo preciso momento lui apre gli occhi, e mi vede, le mani sulla bocca, che faccio no con la testa e non riesco a fermarmi.
Mi osserva incredulo qualche secondo, poi si alza, senza dire nemmeno una parola, e va a chiudersi nella sua cuccetta, tirando la tendina con violenza.
Le gambe cedono. Mi affloscio a sedere a terra, sconsolata, ma ancora cosciente.
Mi volto verso lo spazio-cucina, fissando i due “superstiti” piuttosto smarrita, come se li implorassi di rassicurarmi che è una stupida suggestione della mia mente malata.
Bob gira la sua testa bionda verso il finestrino. Mikey invece...chiude gli occhi, e scuote la testa.
Sa cosa sto pensando, e sa che è meglio non dirmi bugie in questo momento.
Beh, in un modo o nell’altro mi hanno risposto entrambi. È già qualcosa.
Riesco a trovare inspiegabilmente la forza di alzarmi in piedi e muovermi di scatto verso il piccolo bagno.
Mi ci chiudo dentro.
È la rabbia che mi ci porta. Una rabbia incontenibile. Non credo di essere mai stata così incazzata in vita mia.
Sono disperata? Anche.
Ma soprattutto ho le palle giratissime.
Devo continuare a pagare per i miei errori? Devo continuare a sentirmi una drogata di merda per il resto dei miei giorni? A farmi cucire addosso sguardi di disprezzo, come se ancora avessi le braccia ricoperte di buchi e lividi e il viso bianco, sì, proprio bianco, non semplicemente pallido, e scavato?
Ma vaffanculo. VAFFANCULO, FRANK.
Non c’hai capito un cazzo.
Rimango a fissare il vuoto, appollaiata sul cesso. Sì, mi sembrava troppo semplice sedermici sopra e basta.
Non so che pensare, non so cosa dire, non so nemmeno se mi faccia voglia di uscire da qui e suonare su quel fottuto palco, ma non voglio nemmeno rimanere sola coi miei pensieri. Tra l'altro, non ho toccato nemmeno una goccia del caffé che Mikey mi ha preparato.
Forse è meglio. Mi avrebbe innervosito ancora di più, probabilmente.
Dentro di me prego che Lucretia se ne sia rimasta a Chicago, se non altro è un problema in meno.
Sento bussare con insistenza.
“Mi servirebbe il bagno, scusami!”
È Gerard.
Ma che cazzo.
Poi però penso che sono ospite, e quindi è meglio anche solo fare finta di essere educata. Esco di lì sorridendo e scusandomi con lui, e nel frattempo mi maledico perché ho lasciato gli occhiali da sole nel mio bus, e mi farebbe seriamente comodo inforcarli, ora come ora.
In questi frangenti detesto mi si guardi in faccia, negli occhi. Mi sentirei come se fossi vestita solo delle mutande e mi squadrassero tutti e cinque con sguardo lubrico. Anche Ray che sta ancora dormendo.
Beh, ma le paranoie non tengono conto del fatto che uno dorma o meno.
Più che altro, cos'altro sto provando?
Rabbia, schifo, disprezzo?
E per cosa?
Per i suoi comportamenti così dannatamente infantili e privi di logica?
Beh, sicuramente non per i miei. Sono giunta a quella fase in cui non riesci più a distinguere se quello che fai sia giusto o sbagliato, quel momento in cui pensi “fanculo, mondo, io ho ragione e tu fai cagare!”, in cui pensi solo ai torti che gli altri ti rivolgono, e non a quelli che infliggi te.
Una fase prettamente di presunzione, ma che almeno ti fa riguadagnare quei punti di autostima che avevi perso miserabilmente.
Adesso, in virtù di questo momento di folle lucidità, o di lucida follia, vedrò più tardi, ho prodotto lo sgradevole quanto elettrizzante effetto di odiare a morte Frank per quello che mi sta facendo.
Lui l’ha messa sul piano personale? Ebbene, anche io lo sto facendo.
Sento che tutto questo non porterà ad assolutamente nulla di minimamente positivo, ma mi fa stare bene, mi ha fatto tornare la voglia di esibirmi, ed è questo quello che conta.
Siamo arrivati, e sono la prima a scendere dal bus. Con lo sguardo cerco insistentemente il mio, fino a che non lo trovo e mi ci dirigo di corsa.
Il portello mi si apre davanti. Accidenti a me che sono venuta qui così di fretta.
Lou è ancora da loro.
Mi scruta con gli occhi ancora abbottonati, e farfuglia un buongiorno impastato di sonno.
“Che ci fai ancora qui?” le chiedo, a dire il vero un po' veemente. E anche maleducata. Ma ora come ora posso permettermelo.
“Non ci siamo svegliati in tempo. Torno a Chicago domani, ormai”
“Ah…”
“Scusami per il disagio, veramente…è che…beh, insomma, volevo rivederti.”
Non riesco a portarle rancore. Anche perché è tutto concentrato altrove.
Forse dormire con lei nel bus non sarebbe stato poi così pessimo, in confronto alla nottata in bianco passata di là.
É quantomeno grottesco pensare che per fuggire da un guaio mi sono cacciata in un altro, per di più anche peggiore.
Per come la vedo ora, quello con Frank mi sembra più grave. Non so in virtù di cosa, ma è così.
“N…non fa niente, tranquilla” sussurro “è che...è successo così velocemente, e non me lo aspettavo...comunque sono stata bene da loro stanotte, tutto sommato” mento.
Così è più facile, in fondo.
Sembra tranquillizzarsi a queste mie parole. Sorride, distesa, e esala un “meno male” talmente evanescente che persino io faccio fatica a sentirlo.
Poi si affaccia mio fratello, e esce dal bus. E lui, beh…ho superato anche la rabbia subitanea verso di lui che mi aveva accecato ieri sera. Sorrido e lo saluto, più sinceramente che posso.
“Frankie, vieni un attimo con me” e mi prende da parte.
Ecco. S’è accorto che c’è qualcosa che non va.
Cos’hai da dirmi? Spero siano scuse per quello che hai rivelato nel mezzo della vostra lite. Per quello che Frank non doveva sentire.
“Scusami…”
Cominciamo bene, elucubro tra me e me compiaciuta.
“…ci siamo svegliati che eravamo già a Minneapolis, e così è venuta con noi…ha detto che riparte però…”
“Lo so, me l’ha già detto lei” sospiro sconsolata.
Non se n’è accorto. Strano. Quando si tratta di me, in genere riesce sempre a capire se sono nei casini o meno.
“Ehi…dormito bene?”
“Più o meno…” borbotto.
“No, sai, è che ti vedo un po’ sbattuta…”
Nego. Che altro posso fare?
Niente rancori, per adesso. La situazione è già complessa così.
Penserò a rinfacciarti tutto a tempo debito, Keith. e ti assicurò che non ti farò sconti.
Chi se ne frega se sei mio fratello.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Sometimes The Line Walks You ***


Cap. 10 - Sometimes The Line Walks You

Beh, non posso lamentarmi, riguardo all’esibizione di oggi.
Non so cosa mi porti a suonare così bene, ma so cosa mi porta a cantare con così tanta grinta.
Se ne sono accorti anche Dave e Keith. A metà del nostro live, appena terminata una canzone delle vecchie, mi volto verso di loro, e sorrido compiaciuta nel vederli totalmente esterrefatti. Hanno proprio gli occhi strabuzzati, a palla. E, dentro di me, ne godo.
Dovrei incazzarmi più spesso, se mi porta a fare un assolo come questo di adesso. A momenti non ci credo nemmeno io.
Ci sono anche loro nel backstage, e non faccio fatica a immaginare Ray completamente preso dalle mie schitarrate. Beninteso, non sono affatto brava come lui, ma mi so difendere, e vaffanculo alla modestia.
Non credevo che dopo tre anni e mezzo avrei ripreso così tanta padronanza della mia piccola. Ma forse lo sto facendo per non pensare ad altro, per cercare, almeno una volta nella vita, di avere la testa completamente sgombra.
Libera.
Dopo oggi posso dire in tutta tranquillità di aver oltrepassato il limite. Di aver capito che ci sono troppe parentesi aperte nella mia vita, e che sarebbe meglio iniziassi a chiuderne qualcuna, senza correre il rischio che si riapra.
Ho iniziato dalle più spinose. E a una ho posto definitivamente la parola ‘FINE’ proprio appena prima di salire su questo palco.
Come dire…l’avevo solo messa da parte, in un certo senso, lasciato che se ne occupasse qualcun altro al posto mio. Ma devo tirare le somme da sola, ora. Non sono più una bambina.
Lei invece, in un certo senso, lo è ancora.
Non ha abbandonato i suoi vizi. Li ha solo alleggeriti. Ammesso che farsi le piste di coca si possa chiamare ‘alleggerimento’.
Almeno non si fa più le pere. Questo in parte mi consola.
Beh, sì, in un certo senso mi sarebbe dispiaciuto se fosse stata ancora un relitto umano, come allora. Non credevo di esserle ancora affezionata, però è stata comunque un pezzo della mia vita, no? E anche piuttosto importante.
Anche se non così tanto da tentare di recuperarlo.
Se n’è preparata una, nel nostro bus, mentre ci eravamo messe a parlare. Non chiacchiere per passare il tempo.
Ci siamo raccontate cosa ne è stato della nostra vita, dopo che non ci eravamo più riviste.
Lei ha conosciuto questa Annie, in vacanza a Los Angeles, e non si sono più lasciate, almeno fino a ieri.
Lei è di Chicago, e così si sono trasferite, ma ultimamente non andava troppo bene e Annie l’ha buttata fuori di casa. Non ho fatto fatica a comprendere a che grado di esasperazione possa essere arrivata questa ragazza, e, anche se non ho la più pallida idea di chi sia, in quel momento sentivo già che un po’ mi stava simpatica. Se non altro la capisco perfettamente, per via della sorte beffarda che ci ha fatto piombare tra capo e collo, nella nostra esistenza, questo cataclisma di nome Lucretia.
Quando è toccato a me parlare…beh, se n’è stupita, ma nemmeno poi tanto.
“Lo sapevo, lo sapevo, il tuo amore per gli aghi è troppo forte!”
“Lo sapevo, io, che il tuo umorismo del cazzo non è cambiato di una virgola” le ho risposto, scocciata.
S’è messa a ridere. Bah, contenta lei.
“Dunque, ti sei ripulita…”
“Sì, e sai come?”
“No”
“Mio fratello, ti ricordi quando ci beccò a casa mia? Ecco, non so dove abbia trovato il sangue freddo per farlo, ma è andato a prendere la sua videocamera e mi ha filmato. CI ha filmato.”
Uno stronzo, si può pensare, visto che non ha fatto niente per fermarmi in quel momento. Ma quello che ha fatto dopo è valso più di due o tre sberle ben assestate.
Mi ha salvato, vi pare un affare da stronzi?
Facendomi vedere, in uno dei rari momenti di lucidità che avevo, come ero conciata.
Si chiama terapia d’urto.
Da quel giorno non ho più avuto il coraggio di toccare una siringa. E ho smesso anche di odiarlo per aver allontanato Lou. Finalmente avevo capito chi tra i due fosse la vera carogna.
Una specie di miracolo, qualcuno potrebbe azzardare a dire, ma non è del tutto esatto.
Se la faccenda è andata a buon fine è stato solo perché Keith mi conosce meglio di chiunque altro. Diciamo che così facendo è andato a toccare certi tasti che personalmente mi fanno molto, molto male.
E insomma a un certo punto, mentre parlavo, l’ho vista tirare fuori questa bustina con questa polverina bianca dentro e subito ho pensato “Occazzo, no”, ma non perché credevo di cadere di nuovo in tentazione, figurarsi. È stato come se avessi sentito che, anche se ne fossi stata fuori, sarebbe comunque successo del casino, e direi che non ero affatto nella posizione di crearmene ad hoc un altro, così, per movimentare un altro po’ la mia esistenza.
“No, te quella roba non la usi dentro al mio bus!” mi sono incazzata.
“E dai, chi vuoi che ci veda! Siamo solo io e te qua dentro…”
No, cara mia. Mi dispiace, ma non ci ricasco.
“Non è di tua proprietà qui, sai?” ma ormai mica mi ascoltava più. Aveva già tracciato la linea sul tavolino a cui stavamo sedute e stava arrotolando una banconota da un dollaro, la prima che ha pescato dal suo borsello.
Sai come dev’essere stato contento George Washington di sniffarsi quello schifo insieme a lei. Mi pareva quasi di vederlo, a storcere la sua paresi in una smorfia di disgusto, o di manifestazione del bruciore che gli stava intasando le narici. Che fine indegna, per il primo presidente degli Stati Uniti.
“Vuoi?” mi ha chiesto, prima di iniziare.
“Ehi, ma non ci senti? HO CHIUSO CON QUESTA MERDA!” le ho gridato.
Nemmeno sarei stata a guardarla, avrei preso, alzato le chiappe da lì e sarei uscita. Ma fuori faceva troppo caldo, e tutto sommato lì dentro si stava bene.
Sono rimasta seduta, a fissarla con morbosa curiosità.
Allora è così che funziona, ho pensato. Certo, non mi piacerebbe affatto una cosa del genere, io detesto persino tirare su le gocce per il naso, quando sono raffreddata. Per fortuna capita di rado.
“Non fare il bambino!” sento intanto pronunciare con voce ferma da fuori.
Nemmeno ho fatto in tempo ad affacciarmi per vedere chi fosse, perchè ho sentito salire delle persone nel bus. La mia attenzione è stata spostata altrove.
Minchia, mi ero dimenticata che il portellone era aperto.
Lou, sei doppiamente cretina, ho pensato, ma alla fine di lei me ne stava importando fino a un certo punto. Cazzi suoi, voglio dire.
Mi sono voltata verso il, o i proprietari dei piedi che hanno solcato i gradini per entrare, e ho capito che non erano né di Dave, né di Keith, bensì di altri due ragazzi.
Uno, alto e con l’espressione seria. L’altro, piuttosto basso, che si nascondeva dietro l’amico, il viso adombrato da un broncio assolutamente infantile.
E, guarda un po’, li conosco entrambi.
“Ehm, Frankie, scusa l’intrusione ma, beh, abbiamo incontrato il vostro bassista e ci ha detto che ti avremmo trovato qua dentro…”
Ho sorriso. Perché ho capito il motivo della loro….beh, chiamiamola visita.
“Ah, tranquillo Mikey, non disturbate!”
Frank mi stava osservando con sguardo indecifrabile. O forse stava osservando Lucretia, dietro di me, la quale non s’è minimamente scomposta e se ne stava ancora col dollaro arrotolato tra le dita, l’espressione ebete di chi si sta godendo il suo piccolo sogno chimico. Poi è scoppiata a ridere.
Ho continuato a studiare le espressioni di Frank per parecchi secondi. Io stavo seduta davanti a lei, quindi coprivo loro la visuale della natura morta e decadente che campeggiava sul tavolino. I candidi granelli sottili che erano scampati al Grande Aspirapolvere, il portafoglio spanciato poco lontano, la carta di credito con cui il capitano Lou ha messo tutti i suoi soldatini bianchi in fila. Ma non me ne fregava nulla, avevo la coscienza perfettamente pulita, per cui non è che ci avessi fatto molto caso.
Ma tutti e due…beh, se ne sono accorti.
“Frank è venuto per chiedere…” ha esordito Mikey, col piglio di un padre rigoroso. Poi ha sentito dei passi allontanarsi alle sue spalle, e si è interrotto.
“Frank? Dove cazzo stai andando?”
“Vaffanculo, e dovrei chiederle scusa per aver pensato di lei che sia una drogata? Beh, guardala! Lo è! Lo è ancora!” ha urlato inviperito, uscendo dal bus.
“Ma che cazz…” ma mi sono interrotta bruscamente, primo perché in quel momento anche Mikey mi stava guardando malissimo, proprio con gli occhi a fessura, e poi perché ho finalmente collegato tutto, ed era di una chiarezza quasi lampante. Ma ovviamente vivo in un mondo tutto mio, e quindi non l’ho realizzato in tempo.
“E dire che l’avevo anche convinto…” si è limitato a bofonchiare, mentre scendeva le scalette del bus.
A loro due avrei pensato dopo. Nemmeno ho provato a inseguirli.
Capivo sin troppo chiaramente di averli delusi, ma c’era una questione che mi premeva molto di più.
“Lucretia Applebite.” Ho pronunciato con voce ferma, scandendo bene il suo nome.
“Sì?” ha risposto lei, ridacchiando. Ancora bella persa nel suo paradiso polveroso.
“Ieri sei arrivata al tramonto, e me lo hai rovinato, e tu sai quanto per me sia un momento sacro. Come se non bastasse hai fatto allontanare da me una persona a cui tengo come l’oro, e adesso che la stavo per riprendere, me la fai fuggire ancora sotto al naso. Cosa vuoi da me, ancora? Te lo dico io: niente, perché ti sei già presa tutto! E adesso vattene, prendi le tue cose e levati dai coglioni prima che tramonti il sole, PERCHÉ SE TI RIVEDO IO GIURO CHE TI AMMAZZO!” ho attaccato con voce fredda, finendo per gridare come una pazza, gli occhi fuori dalle orbite e una maschera di livore puro sul viso.
Chissà, forse in quel momento la mia lucidità mi aveva davvero abbandonato, perché era la prima volta che promettevo la morte a qualcuno. Ma non ci vedevo più, giuro, ero fuori della grazia divina, ammesso che esista un qualsiasi dio sopra la mia testa.
Si è presa gli anni migliori della mia vita, cos’altro vuole portarmi via?
Non smette mai di nutrirsi di me. È peggio di un vampiro.
Ma adesso è finita, adesso basta.
Questi pensieri correvano frenetici e sconclusionati nel mio cranio.
L’ho vista alzarsi con una flemma irritante, prendere le sue poche cose con mollezza e salutarmi con un “Ti mancherò, stanne certa” miagolato, che anche adesso non saprei dire se suonasse come una minaccia o come un tentativo di illudersi che possa succedere davvero.
“Non credo proprio” ho risposto beffarda.
Schifosa. Melliflua fino all’ultimo.
E pensare che mi stavo quasi fidando di lei, delle sue lacrime, della sua voglia di rivedermi.
Ehi, Frankie, basta essere deboli.
È con questo pensiero che sto suonando, e finalmente il sorriso ritrova la strada per tornare sulle mie labbra.
Sto sorridendo, mentre suono.
Mentre canto.
Perché quelle parole non sono più dedicate a lei.
Non se le merita. Non se le è mai meritate. Ma non è mai troppo tardi per accorgersene.
Adesso sono per qualcun altro, e vanno ad aggiungersi alle ultime che ho scritto.
Se solo capissi quello che sto provando.
Felicità e dolore insieme. Come scoprire la medicina che guarirà tutti i tuoi mali, e prenderla, e accorgerti che stai peggio di prima.
Ecco cosa succede a covare le braci sotto la cenere.
Non si sono mai lasciate andare, sono accese dentro di me. Lo sono sempre state, da quel pomeriggio di ormai quattro anni fa.
E adesso stanno per esplodere, per un dolore che non si placa con due semplici accordi suonati alla perfezione.
Mi sembra impossibile, impraticabile. Ciascuno di noi ha la sua vita, il suo gruppo, eppure solo adesso che ti sei allontanato in modo così brusco da me riesco a sentire tutto distintamente, a metterlo a fuoco, come se dovessi farmi una foto. Ma non riesco a premere il pulsante. Ho bisogno che tu mi assista. Che mi fornisca una macchina fotografica migliore dei miei occhi.
É una richiesta di aiuto, la mia.
Non mi sono mai sentita così felice di essere disperata.
Sto cercando di trasmettertelo, ma tu non mi starai ascoltando, furioso per una presa in giro che non è mai esistita. Continuo a chiedermi il perché di tanto accanimento, anche se una risposta già la avrei.
Ma è troppo per me. Fantascienza pura.
È triste assistere impotenti a quanto una frase sbagliata possa compromettere l’equilibrio che esiste tra due persone. È triste, soprattutto, non riuscire a capirne il motivo.
Ma ancora peggio è comprenderlo e non capacitarsene.
Non crederci.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Lips Like Morphine ***


scusate se aggiorno lentamente, ma momentaneamente non mi funziona internet, per cui scrocco da lavoro appena posso per postare T___T grazie mille degli eventuali commenti, continuate a leggere, che mi fa piacere >_< !

Cap. 11 – Lips Like Morphine

Appena finiamo di suonare mi precipito nel backstage.
Non ho tempo per gli applausi, i fischi, le grida di approvazione del pubblico.
Non ho tempo per ringraziare. Ho da fare una cosa ben più importante.
Lascio la Jaguar a mio fratello, che la afferra appena in tempo, prima che cada, con espressione basita.
Non ho mai mostrato tanta noncuranza nei confronti della mia piccolina prima d'ora, e lui lo sa.
Ma non posso fare altrimenti. Devo assolutamente cercare una persona.
Mikey.
È l’unico a cui posso spiegare, l’unico che possa, sappia ascoltarmi fino in fondo ed emettere la sua sentenza. Mi sento un po' come se fossi tornata all'adolescenza, quando lì davvero credi che nessuno ti ascolti, che nessuno prenda sul serio quello che dici, e c'è solo una persona che ti capisce e ti appoggia. Generalmente il tuo migliore amico.
Ecco, in questo momento sto considerando Mikey alla stregua di un migliore amico.
Visione paradossale e alquanto distorta, dal momento che lo conosco da appena due giorni, eppure...non so, mi infonde serenità, sicurezza, quasi fosse un fratello maggiore. Teoricamente quello lo avrei già, ma in questo momento non me la sento di parlarne con lui. Non so quanto potrebbe capirne, e soprattutto non so quanto potrebbe aiutarmi a risolvere.
Senza contare che è un po' anche per colpa sua se sono incastrata in questo ginepraio senza uscita.
Ma voglio uscirne, e l'unico modo è affrontare la questione con Mikey.
Probabilmente è solo una vigliaccata, la mia, una scusa per non parlare con Frank.
Ma lui non comprenderebbe, me lo sento. Continuerebbe a fissarmi con sospetto, il germe del dubbio saldamente ancorato al suo cuore.
Continuerebbe a non credermi. A trattarmi con rabbia, con odio.
Sto affastellando scuse su scuse per evitare di confrontarmi direttamente con lui, e un po’ me ne vergogno, lo ammetto.
La verità è che ho paura. Sento un vuoto nel petto, come se lo avessi già perso, ma voglio continuare a illudermi che lo riprenderò, prima o poi. Che riuscirò a colmare questo vuoto, pesante più di un macigno.
Ma non adesso. Adesso non sono pronta.
É come se mi sentissi una completa idiota in sua presenza.
E mi sto sentendo in questo modo anche adesso che, nella foga di cercare Mikey, non mi accorgo di essere planata addosso a qualcuno.
“E fai attenzione!” sento sbuffare.
“Scusami, scusami veramente, io…” e mi interrompo di colpo.
I nostri sguardi si incontrano. Un silenzio imbarazzante cala tra di noi.
Quegli occhi…non è possibile.
Si volta di scatto e fa per andarsene, come se si fosse reso conto di aver infranto una specie di giuramento a se stesso. Come se avesse tradito la propria fiducia anche solo rivolgendomi quelle tre parole.
Ho tentato di evitarlo finora, ed ecco che inavvertitamente gli piombo addosso.
Sono confusa, terribilmente confusa. Cosa devo fare?
Un solo pensiero lucido e schietto mi attraversa il cervello più e più volte.
“Fermalo.”
Realizzo all'improvviso che a parlarne con Mikey non risolverei un bel niente.
Devo smuovere le acque, e devo farlo violentemente, per cui nemmeno mi rendo conto dei pochissimi secondi in cui lo afferro per il braccio prima che scappi di nuovo. É una decisione immediata, non ha bisogno di essere ponderata a fondo.
Lo sto perdendo, cazzo.
E non voglio.
Voglio ancora starmene a guardare il tramonto con lui accanto. Voglio abbracciarlo ancora e sentire il brivido che mi donano le sue braccia intorno alle mie spalle. Voglio che mi sfiori ancora la pelle con delicatezza, come quel pomeriggio.
Questa scena non scorre al rallentatore davanti a me, non me la posso gustare e nemmeno apprezzarne ogni singola sfumatura. No. È come se mi sia vista ferma davanti a lui, esterrefatta, poi un black out improvviso che lascia ricomparire le immagini solo quando ormai l’ho già bloccato.
Squadro con masochismo quel tatuaggio, che adesso è solcato da graffi profondi e ha perso la bellezza che aveva in principio. Sento una fitta al cuore.
E provo infinita tristezza, ripensando al suo gesto.
Si gira verso di me, carico di astio e stupore.
“Che cazzo fai?” chiede rabbioso.
Non dico niente. Non riesco neanche a guardarlo dritto in faccia.
Ma so cosa devo fare.
Serro la presa intorno al suo braccio e lo tiro con violenza, proseguendo in una direzione a me totalmente sconosciuta, purché sia lontana da qui, dalle persone, da tutto. Se potessi, emigrerei in pieno deserto, ma mi rendo conto che è un attimo difficile.
Mi fermo nell’angolo più recondito del parcheggio dei bus, dietro a delle enormi fioriere, da cui scaturiscono lussureggianti delle piante che sembrano quasi piccole palme e, chissà, forse lo sono. Purtroppo non me ne intendo, e nemmeno mi sto ponendo più di tanto il problema.
“Beh, si può sapere che accidenti vuoi da me?” incalza, acido.
“Lo sai” riesco solo a dire.
Lo sa?
Boh.
Non sono nella sua testa, altrimenti non avrei bisogno di trascinarlo in un parcheggio per farlo parlare, per capire cosa c'è veramente dietro questo astio. Perché c'è qualcos'altro sotto, e nessuno neghi.
Però fa un certo effetto pronunciarlo con voce profonda e scandendo ben bene ogni singola lettera. Mi fa prendere tempo.
Non ho preparato niente da dire. So cosa provo, ma non so come esternarlo, perché dentro di me c’è solo caos. Non sono riuscita a riordinare i miei pensieri, per cui potrei dire qualsiasi cosa e passare per pazza.
“No, non so proprio un bel niente” risponde lui.
Un blocco di ghiaccio. Un iceberg, su cui vado a sbattere prepotentemente la testa.
É una sensazione tremenda. Come se mi stesse strappando la carne con un rostro consumato dalla ruggine. Ma non posso impedirglielo. Fa parte del gioco. Ho voluto rischiare, e ne sto pagando le conseguenze, ma tutto sommato sto affrontando il tutto con una certa dose di stoicismo.
Non riesco a dire niente, nemmeno a versare una lacrima.
Non era questo quel che volevo. Ma il coraggio è venuto meno all’improvviso. La mia autonomia quotidiana l’ho usata tutta per portarlo fin qui.
Mi accorgo di stare tremando, e nient’altro. Lo sto esasperando, e non vorrei.
Ma dov’è finita tutta la dolcezza, le premure che mi riservava fino a ieri?
Alzo lo sguardo, perché, sì, sono stata finora a fissarmi con insistenza il seno, la pancia, i piedi.
Tutto, pur di non incontrare il suo sguardo.
Avevo paura di ritrovarlo freddo, come pochi minuti prima.
La dose di coraggio per domani deve essersi impietosita. Sta correndo in mio aiuto, e mi sta facendo alzare la testa, piantare i miei occhi nei suoi quasi con violenza.
Quello che scorgo non mi piace nemmeno un po’.
Uno sguardo da bestia in gabbia, da belva ferita e rinchiusa.
Non mi è nuovo.
Si sta ancora trattenendo. Da cosa, poi?
Non ho parole, non giustificazioni, non argomentazioni solide da contrapporre al suo malcontento. Solo domande.
Potrei fissare il suo volto e riuscire a scorgerci soltanto un unico, enorme, punto interrogativo.
In un attimo di follia me lo immagino vestito come l'Enigmista di Batman.
Tutina verde, piena di punti interrogativi. Una faccia che dice tutto e non dice nulla, e una voce stridula e petulante che ti pone gli indovinelli più assurdi.
La voce, beh...quella ce la metto io. Sono io che ho bisogno di risposte, penso egoisticamente.
Mi chiedo dove trovo la forza di pensare alle cazzate anche in certi momenti.
Recupero tutta la mia rabbia, per questa situazione totalmente priva di logica, ma la lucidità…quella ormai è andata a puttane. Basta vedere a cosa penso.
Se ne sta andando. Sta cercando di fare in modo che io lasci il suo braccio, ma non ci riesco. Mi sento una bambina che non vuole mollare il suo giocattolo preferito, e che continua ad amarlo anche se è rotto o difettoso.
Sì, parlo di te. Ti sto amando anche se mi tratti così male. Possibile che tu non te ne accorga?
Nella foga con cui le mie elucubrazioni percorrono le sinapsi, lascio trapelare all'esterno tutto questo gran cataclisma interiore.
Di più: sta letteralmente straripando.
“Frank, io sono innamorata di te! Lo capisci, sì o no?” mi sento uscire queste parole dalla bocca, come se non fosse la mia. Come se fossi in disparte ad assistere alla scena.
Ma che cazzo c’entra?! Non era questo che dovevo dirgli.
O perlomeno…non ora.
Avrei dovuto soltanto scusarmi, e raccontarti tutto, se mi avessi prestato orecchio e attenzione.
Prima o poi lo avrei fatto di mia spontanea volontà, quando avremmo approfondito la conoscenza, se solo mio fratello non si fosse immischiato.
Ma comprendi anche tu che non è uno spasso per me raccontare le mie pagine più nere, quelle dove è caduto l'inchiostro dalla boccetta e ha fatto un macello assurdo, cancellando e uniformando in un unico lago tutto quel che ho vissuto, positivo o negativo che fosse. Il mio passato non è un pettegolezzo da salone di bellezza, non una curiosità che si cita a caso, infilandola in un discorso stantio che non andrà molto lontano. É la mia vita, non posso sminuirla, ridurla a semplice chiacchiera da bar.
Speravo tu questo lo capissi.
Adesso non serve che tu mi osservi con questo sguardo sconvolto e incredulo. Non mi stai ancora fornendo alcuna risposta.
Lascio il braccio, pentendomi di averglielo detto in questo modo così idiota, al momento sbagliato.
Un tempismo di merda. Adesso sì che me lo sono giocato del tutto.
Attimi di silenzio insostenibile ci avvolgono. Di nuovo abbasso lo sguardo.
Non ho il coraggio di fissarlo ancora. Ho sempre più paura delle sue risposte.
Eppure le voglio, ho bisogno di loro.
Ho bisogno di lui.
Poi lo sento che si avvicina.
“È questo quello che vuoi?” domanda con tono grave.
Lo sento sempre più vicino. Non riesco a spostarmi.
Se vuoi darmi una sberla, fai pure. Anche più d’una, me le merito tutte.
Invece, niente schiaffi.
Le sue labbra si scontrano rabbiosamente con le mie, la lingua si insinua e cerca la mia per farci a cazzotti.
Sono troppo sconvolta per reagire, andare contro le sue intenzioni. Mi limito a seguire passiva i suoi movimenti, come una creatura inanimata, assolutamente incapace di provare emozioni.
Di sentire dolore.
Una bambola dallo sguardo triste.
Dura pochissimo, ma è peggio di qualsiasi tortura.
“Allora, rispondi. Era questo che volevi?” continua a ripetermi, come un disco rotto, finendo per urlare.
“ECCOTI ACCONTENTATA! E ORA VATTENE DALLA MIA VITA!”
Vorrei gridare fino a vomitare i polmoni. Ma mi manca l'aria. Una qualsiasi forza fisica.
Sono inerte, un sacco di patate afflosciato a terra.
Posso morire adesso?
Perché non mi è rimasto altro.
Ho vissuto pericolosamente, fuggendo dall'ordinarietà e ficcandomi nei guai, mi sono buttata via, tra le braccia di una strega che mi ha trafitto, trasmettendomi piacere e facendomi precipitare nell'inferno appena l'effetto della droga era finito.
Keith mi ha acciuffato in tempo. Ormai le mie braccia erano piene di pustole e lividi. Il mio viso una maschera di morte. La mia voce un sibilo inquietante.
E adesso non mi sento esattamente meglio. Anzi, se possibile sto persino peggio. Perché prima avevo l'eroina, a distrarmi. Prima il malessere fisico aveva la meglio su quello mentale.
Ma adesso?
Adesso niente mi distrae più, adesso ho solo un vuoto nel petto, e si sta espandendo lentamente ma inesorabilmente nel mio corpo.
Adesso sto morendo dentro, mentre all'esterno continuo a richiamare una parvenza assolutamente ordinaria, priva di stranezze o di mancanze.
Mi sto trattenendo, e maledico di essermi tagliata i miei riccioli, anni fa. Perché mi farebbero comodo per coprirmi, fare sì che nessuno veda la vergogna dipingermisi in volto.
Non voglio piangere. Non adesso. Devo resistere.
Aspettare che se ne vada.
Devo essere forte, è solo questione di qualche minuto.
Avresti voluto addormentare ogni mia velleità di recuperare quello che c’era tra noi, iniettare col tuo assurdo gesto morfina nei miei ricordi.
Ma adesso tutto questo fa solo più male di prima. Mi hai dato il colpo di grazia. E forse non volevi nemmeno. Fatto sta che sono ancora a secco di risposte.
Mentre ti allontani senza voltarti finalmente riesco a dare sfogo al mio malessere, e a piangere fino ad annullarmi nelle mie lacrime, disperata come mai mi era capitato di essere, e nell’abbraccio di Mikey, che ti ha visto tornare al bus, in preda a un dolore allucinato, e ha capito tutto.
Ed è corso qui.
Perché tu sai badare a te stesso, o almeno questo pensa lui.
Mi dispiace, non sono d’accordo.
Ma adesso sono troppo debole per rifiutare il suo aiuto, per lasciarlo tornare da te.
Non lasciarmi sola, Mikey.
Per favore.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Bullet With Butterfly Wings ***


No, questa dovevo dirla...Martunza, sei tremenda! XDDD
Boni i Pan Di Stelle, comunque XQ________

Cap. 12 – Bullet With Butterfly Wings

Sono di nuovo nel mio bus.
Mi ci ha accompagnato Mikey.
Il mio sguardo è sempre perso nel vuoto, le parole mi muoiono tra le labbra, però va un po’ meglio.
Alla fine il mio proposito è andato in porto. Volevo parlare con lui, e ci sono riuscita. Non che mi abbia risolto in uno schioccare di dita la situazione, ma almeno mi ha aiutato a fare un po’ chiarezza.
Quando è corso da me ero ancora dietro quella fioriera con le palmette, talmente disperata da essermi dimenticata della mia esistenza in quanto essere umano. Ero soltanto le mie lacrime, e nient’altro.
Non sono riuscita nemmeno a dire una parola quando ho sentito la sua ombra sovrastarmi e osservarmi sconsolata.
Si è chinato, con movimenti per nulla affrettati, e mi ha abbracciato. Una stretta dolce, sincera, confortante.
Ma anche allora non riuscivo a smettere di piangere, anzi, se possibile, ho persino alzato il tiro. Singhiozzavo selvaggiamente e non riuscivo a fermarmi.
Ci ho provato, però. Restavo in silenzio qualche secondo, tiravo su col naso e cercavo di ricompormi, di riprendere fiato, poi tornavo a pensare al motivo della mia disperazione e il fiume rompeva di nuovo gli argini.
E lui c’era, paziente, devoto. Senza scomporsi minimamente, né mostrare sentimenti diversi dall’affetto e la comprensione.
“Che razza di stronzo…” mormorava ripetutamente, accarezzandomi i capelli. Ma non sentivo odio in quelle parole, solo un’amara consapevolezza, un qualcosa contro cui non si poteva fare nulla.
Finalmente, dopo lunghi, estenuanti, minuti, sono riuscita a riprendere un minimo sindacale di padronanza di me. Mi sono discostata con lentezza dal suo petto. Era maledettamente confortante, non avrei voluto più lasciarlo, ma dovevo, se volevo fornirgli delle spiegazioni.
Si è seduto vicino a me, senza dire una parola. Ma era il suo sguardo a parlare per lui, a chiedere cosa fosse successo tra me e Frank per farmi trovare ridotta a quel modo.
“Quando è tornato da noi…aveva uno sguardo strano…indecifrabile…” ha sussurrato, poi.
Sconvolto, allucinato, fuori di sé, crudele e allo stesso tempo colmo di sofferenza.
Quasi come se, più che fare un torto a me, lo stesse facendo a se stesso.
E probabilmente con quegli stessi occhi, che mi hanno guardato con disprezzo, è venuto da voi, per cui non ci sarebbe stato bisogno di descrivermi il suo sguardo, perché l’ho avuto davanti a me per attimi interminabili, e mi ha bruciato l’anima. L’ha carbonizzata.
Ho annuito, per confermargli che abbiamo visto la stessa cosa. Eppure questa lieve certezza non mi sollevava nemmeno un po’.
Così…ho iniziato a raccontargli come fossero andate le cose.
Lo scontro. Io che gli ho afferrato il braccio e l’ho trascinato con me.
Il suo astio. Le mie parole.
La sua reazione. Quel bacio che di dolce non aveva nemmeno l’intenzione.
Violenza allo stato puro.
Poi, le mie lacrime.
E tutto il flusso di pensieri che le ha accompagnate.
Mi sono interrotta spesso, in preda a furiosi accessi di pianto. Mikey ha aspettato, ogni volta, paziente, in silenzio, che mi passasse.
Niente pacche sulle spalle, niente false rassicurazioni, niente carezze di compassione sulla testa.
Mi consolava così. Non faceva nulla per tradire la sua presenza accanto a me.
Eppure lo sentivo esageratamente. Sentivo il tempo scorrere, scandito dal battito regolare del suo cuore, dal suo respiro pacato che si confondeva con l'aria circostante.
Dalla timida, discreta curiosità del suo sguardo sincero, che si posava su di me e scrutava attento ogni minimo particolare.
Facevo finta di niente. Non volevo incontrarlo.
Mi faceva sentire di una sporcizia miserabile.
Però riuscivo a sentirmi in un modo che posso ravvicinare allo "stare bene", e l'ho capito da come mi aprivo, perfettamente a mio agio con me stessa.
Sono riuscita anche a ironizzare un paio di volte sul mio passato, sulla storia con Lucretia.
Però sulla mia dipendenza, no. Non ce l’ho fatta. É una ferita che brucia più delle altre, visto che è stata riaperta in modo così brusco. Credevo si fosse definitivamente cicatrizzata, e invece mi sbagliavo di grosso.
Ho raccontato tutto, fin nei particolari più aberranti, con precisione quasi giornalistica e senza tradire la minima emozione. Ero finalmente riuscita a recuperare un barlume di lucidità, e lui mi ascoltava senza dare mai cenno di distrarsi, sempre attento e interessato.
“Mikey, io non so cosa hai pensato quando mi hai visto con Lou sul bus, ma non ho fatto niente. Non voglio più avere a che fare con quella merda” ho concluso, la mano destra sul cuore, la voce ancora un po’ incrinata, ma finalmente più sicura.
E, finalmente, ha preso la parola.
"Quale delle due?" ha sorriso, alzando il sopracciglio.
Mi è sembrato impossibile sorridere in quel frangente, eppure l'ho fatto.
Anche lui è apparso più disteso, più sollevato, dopo quella battuta. Magari non era tra le migliori, ma ha funzionato. Ci stava bene, e non era particolarmente pesante. É così, è Mikey, anche in quello che dice, e in come lo dice.
Ha saputo parlare al momento giusto. Non so come, ma ha sentito che sono il tipo di persona che non riesce ad essere troppo seriosa. A piangersi troppo addosso. É stato solo un momento. Un bruttissimo momento. Ma stava già passando.
Non gli avrei mai risposto "sei fuori luogo" o cose simili. Penso l'abbia capito, in qualche modo, perchè davvero non mi sembra il tipo che osa abbandonare la sua aura di serietà per tirare su il morale a una semisconosciuta.
"Tutte e due" ho risposto, ghignando. Senza aggiungere altro, tanto non ce ne sarebbe stato bisogno.
Ci voleva, questa specie di pausa. Un break alla tensione che avevo accumulato.
Solo in quel momento mi stavo rendendo conto di quanto fosse ridicolo tutto questo.
Quanto esagerata la sua reazione, e la mia, a seguire a ruota. Ma, d'altronde, mi aveva scosso come un fulmine a ciel sereno.
Ho avuto pena di me stessa, quando le sue labbra hanno preso a spintoni le mie. Perchè con quel bacio pareva dirmi "vergognati, fai schifo. E poi guardati, ti lasci anche baciare così, senza amore, con un odio inverecondo! Che merda di persona." e non so cosa avrei dato per rispondergli con un "Non è vero, non sai un cazzo di me!", o mandarlo direttamente a fanculo, ma sono innamorata, INNAMORATA, capite?
E quando è così diventi uno zerbino logoro e polveroso, e lasci che qualsiasi azione, anche la più riprovevole, ti venga perpetrata, e quando recuperi un briciolo di amor proprio ormai è tardi.
É difficile essere se stessi quando si ama qualcuno con tutta l'anima. Si perde l'identità, per compiacere i desideri segreti dell'altro.
Mi sentivo un po' un verme, per aver trattato così male la mia personalità. Dentro di me le stavo chiedendo scusa a ruota, e forse, chissà, aveva capito e mi stava sorridendo benevola, mormorandomi: "Non c'è problema Frankie, è tutto a posto, ora".
Tutto a posto. Neanche per sogno.
Ma ho tempo per mettere tutto in ordine.
No, cazzata.
Domani è la loro ultima data.
Porca puttana.
“Beh, tornando un attimo seri" ha cercato di riprendersi, assumendo un cipiglio quasi grottesco e distraendomi, per fortuna, dalle mie selvagge cavalcate mentali, "lo so. L'ho sempre saputo...voglio dire, che hai smesso” ha risposto, addolcendo la sua smorfia in un sorriso rassicurante e anche un po' imbarazzato “però c’è da capire anche Frank.”
“Cioè?” ho chiesto, interdetta. Perché avrei dovuto capirlo? Non ci sarei riuscita, sarebbe stato troppo complicato per la mia povera, ingenua mente.
É stato così che ha iniziato a raccontarmi di Gerard.
Di come sia facile perdere la strada e illudersi che a gettarsi a capofitto in certi paradisi artificiali sia la cosa migliore per fuggire dai problemi. Mi sono sentita una perdente, una fallita, mentre mi stava descrivendo lo stato pietoso in cui si presentava sul palco, all'epoca. Perché, fondamentalmente, facevo lo stesso anche io. Alla fine di ogni live si meravigliavano tutti di come fossi riuscita a non sbagliare nemmeno un accordo. Pure Keith, da dietro la videocamera, mi chiedeva come facessi. Ricordo che alzavo sempre le spallucce, con un sorriso ebete, e dicevo: "E che ne so? Chi se ne frega, cazzo, sto da dio! Spacco il mondo!"
Altro che mondo. Mi stavo spaccando le vene.
La droga e l’alcool sono un’arma a doppio taglio, ti fanno stare bene per pochi, brevi, insulsi istanti, e dopo precipiti nell’inferno in cui già abitavi, e da cui speravi di fuggire in quel modo sciocco, ma lo senti più vicino a te, le sue pareti vengono a cercarti e ti avviluppano, ti soffocano con viscidità appiccicosa. Vorresti liberarti da quell’abbraccio claustrofobico, e credi che l'unico modo per farlo sia cedere ancora alle sue lusinghe, lasciarsi stritolare ancora un po' con passività, ma è solo un’amara illusione.
Dopo ricomincia tutto esattamente daccapo, e ti senti stringere sempre di più, finché non inizi a combattere seriamente.
O a soccombere.
E Frank c’era.
Lo rialzava da terra quando collassava per aver bevuto troppo, gli teneva la testa quando buttava fuori da sé anche l’anima, lo ascoltava nei suoi deliri.
Insieme a Mikey. Che soffriva terribilmente per la situazione. Gerard è pur sempre suo fratello. Sono molto affiatati, ombre reciproche l'uno dell'altro.
Pensavo a mio fratello, a quanto deve avergli fatto male vedermi in quello stato e filmarmi, ogni volta, sperando che non fosse l'ultima in cui mi avrebbe visto viva...beh, viva per modo di dire. Che non fosse troppo tardi per mostrarmi che razza di rifiuto ero diventata.
Lui e Dave per me erano come Mikey e Frank per Gerard.
Definirli angeli custodi mi fa sentire una di quei tizi estremamente devoti che, dopo giorni estenuanti di privazioni, asserivano di vedere la madonna e i santi.
Ci credo. Provate anche voi a non mangiare per settimane. Certo, se non credete, la madonna non la vedete.
Magari siete patiti di videogiochi e vedete, che ne so, Super Mario che vi fa ciao con la mano, oppure un esercito di blocchetti del tetris pronti a inseguirvi incazzati come dei caimani perchè per colpa vostra che li incastrate non riescono a respirare. Oppure siete drogati di musica e vi vedete apparire Jimi Hendrix che improvvisa una session solo per voi prendendo a dentate le corde della sua Strato, o Sid Vicious che pretende di insegnarvi a suonare il basso (mi raccomando, non accettate). Cose così.
Beh, in ogni caso, alla fine, 'angeli custodi' è l'unica cosa che mi sia venuta in mente e che renda un minimo di idea di quello che vorrei dire.
Adesso stavo iniziando a capirci qualcosa.
A comprendere la rabbia così scomposta, stupita, che lo ha portato ad allontanarmi da sé.
Ha avuto paura che si ripetesse il copione. Che io in realtà non abbia mai smesso di bucarmi.
Ero sconvolta.
Non sarebbe successo di nuovo, eppure non si è fidato. Mikey lo aveva convinto a chiedermi scusa, lo aveva fatto ragionare e c’era quasi riuscito, poi è entrato nel bus, mi ha visto seduta a un tavolo su cui si consumava cocaina, e chissà cosa gli sia scattato nel cervello, fatto sta che per una curiosa associazione di idee che sono nate e morte esclusivamente nella sua testa io per lui continuo ancora a drogarmi.
Teoricamente il discorso sarebbe anche filato. Voglio dire, è un costrutto mentale quasi inevitabile. Sei lì, e anche se nessun elemento ti può incastrare senza diritto di replica, il tuo solo presenziare e assistere al 'delitto' ti rende automaticamente impantanato nel misfatto. Probabilmente anche io, nei suoi panni, avrei ragionato così.
Certo la reazione sarebbe stata meno scomposta.
“Però…adesso mi sembra esagerato. Non s’è mai comportato così.”
Perfetto. Anche Mikey non se ne capacitava.
In parte mi ha consolato. Avevo paura di sentire da lui una risposta completamente esauriente, invece mi ha lasciato un angolino buio in cui affogare tutti i miei dubbi e costruire architetture ardite per fornire spiegazioni di ogni tipo al suo atteggiamento fuori da ogni logica, anche per chi lo conosce da una vita.
Non lo accettavo. Non lo accetto nemmeno adesso. Che mi reputi una tossica, intendo.
Ma devo, perché mi ha buttato fuori dalla sua vita a calci nel culo e non posso fare niente per rientrare, anche per via di una certa dignità che spero mi sia rimasta.
É proprio in virtù di quella che non intendo tornare a cercarlo, né adesso, né domani, né mai.
Che venga lui. A me sembra di aver fatto anche troppo.
Quando l'ho detto a Mikey, ha scosso la testa, come si fa quando ci si arrende davanti agli irrecuperabili.
"Siete due orgogliosi del cazzo. Uguali identici" ha asserito.
Sull'orgogliosa del cazzo ho sorvolato, perché tutto sommato è vero, ma sentirmi dire che sarei uguale a lui mi ha urtato la sensibilità.
Tuttavia ho evitato di farglielo notare. Per il quieto vivere, diciamo.
E così, vedendo che stavo meglio e che la nostra conversazione aveva assunto toni decisamente meno cupi, si è alzato in piedi, mi ha allungato la sua mano per fare sì che mi alzassi anche io, aiuto che ho gentilmente rifiutato, e ha detto: "S'è fatto tardi, tra un po' devo suonare. Dai, ti accompagno al bus."
Abbiamo camminato in silenzio, senza fretta, anche se le circostanze avrebbero richiesto il contrario. Lì davanti ci siamo fermati, mi ha guardato negli occhi e mi ha chiesto se avessi avuto intenzione di dire tutto a Keith.
"Non lo so" è stata la mia laconica risposta, prima di salire e vederlo allontanarsi verso il palco dal finestrino, seduta al tavolo, una sigaretta tra le dita, che ripetutamente va a posarsi, col suo filtro ingiallito dai primi tiri, tra le mie labbra, che ricordano ancora il sapore più amaro che abbiano mai assaggiato.
Il disprezzo.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Shores Of California ***


ehehehe, vabbè, ma sò boni i pan di stelle, suvvia u.ù comunque mannaggia, vedo pochi commenti, dove siete finite, tra tutte??? ehiiiiiii T.T''

Cap. 13 – Shores Of California

Il giorno dopo non li ho incrociati nemmeno una volta. Non nel backstage, nemmeno tra i tour bus parcheggiati poco distanti dal palco. Lì per lì non me ne crucciai più del dovuto, pensavo anzi che mi avrebbe fatto bene non vederli. Ciascuno di loro mi portava con la mente a Frank, e non sarebbe stato molto salutare, visto che stavo recuperando con una certa rapidità un minimo di coscienza.
La sera prima, poco dopo il mio ritorno, erano rientrati anche Dave e Keith. Controllai alle loro spalle per vedere se Lucretia si fosse inventata un’altra scusa per rimanere, ma notai con piacere che eravamo di nuovo in tre.
Noi, e nessun altro.
Ho un rapporto speciale con loro. In un certo senso sono i miei uomini.
Keith, mio fratello maggiore, con cui ho condiviso gioie e dolori da quando sto al mondo. Con cui ho condiviso la mia passione, la più grande: la musica.
Che ho fatto angosciare da matti, quando mi stavo buttando via, del tutto cosciente di farlo.
È incredibile quanto si possa arrivare ad essere egoisti quando si sta male.
Quanto si trascuri chi ci sta intorno.
Quanto si possa far soffrire qualcuno che ci vuole davvero bene.
Lui mi sta vicino così, a modo suo.
Suonando con me.
Perché sa che è l’unico modo che abbiamo per essere felici.
Dave. Il suo migliore amico. Ormai anche il mio. Sa tutto di me, e io so tutto di lui, e l’affetto che ci lega è indefinibile. Non è un legame di sangue, non amicizia, nemmeno amore. È qualcosa che trascende tutto questo. Qualcosa di più forte.
Siamo cresciuti insieme, noi tre. Da sempre. È questa l’armonia che Keith accusava Lou di avere infranto, quella maledetta sera. Perché è vero, dannatamente vero.
Lei non c’entrava niente. Di bello aveva solo la sua voce, voce che col tempo si è rivelata frivola, debole, stridente.
Era come se la tristezza che riversavo nei testi fosse raccontata come si può raccontare una barzelletta, un aneddoto di poco conto. Perdeva di incisività, ma a noi, all’epoca, andava bene così.
Dolore edulcorato, mercificato, appetibile per le masse.
Dolore che tutti potevano comprendere e fare proprio.
Dolore universale.
Qualunquista.
Mi stavo accusando, in silenzio, davanti a loro che mi osservavano pieni di interrogativi, di non essere stata abbastanza sincera, né con me stessa né con il mondo. Non so perché lo stessi pensando, francamente. Forse avevo voglia solo di gettare altra benzina sul fuoco, e provocare un’esplosione senza pari.
“Stellina…è successo qualcosa?” mi chiese Dave.
I dubbi che covavo sul renderli partecipi o no della bega in cui ero dentro fino al collo si sciolsero come neve al sole. Raccontai tutto, senza emozioni, senza ironie, senza niente, svuotata di me. E loro mi ascoltarono in silenzio, poi mi abbracciarono, e Keith non la smetteva più di scusarsi per avermi trascinato in quel casino senza saperlo.
Mi stavo pentendo di aver provato tutta quella rabbia nei suoi confronti.
Anche lui è umano. Anche lui può sbagliare.
Non può sempre proteggermi, senza pensare a proteggere se stesso.
Era andata così. E il giorno dopo suonavo quasi spensierata, come se non fosse successo assolutamente niente. Averli vicino a me, è stato questo a darmi la forza di sorridere al mondo, che mi stava mostrando il culo.
Aspetta che mi giro e te lo mostro anche io, stronzo, pensavo tra me e me.
Non avevo più paura di niente nel momento in cui salivo sul palco con loro e davo il meglio di me stessa.
Almeno fino a quando non è finito il tour.
Il 25 agosto, a Los Angeles. Città che non amo alla follia, ma che rientra comunque tra le mie preferite.
Quel giorno ho suonato con la mente proiettata già a San Francisco. Al piccolo appartamento che condivido con mio fratello. Alla nostra sala prove. Alla libreria dei genitori di Dave. Al negozio, ormai totalmente in mano a Alice.
Alla baia. Alle spiagge della California. Al suo cielo, di una magnificenza indescrivibile.
Mi sei mancata, cazzo.
Dopo quell’esperienza meravigliosa mi sono sentita come se la mia vita si fosse fermata.
Mi vedevano stanca e provata, i miei due ometti. E hanno pensato di farmi cosa gradita, dicendomi che ci saremmo presi una pausa.
Ma io non volevo. Li scongiuravo con lo sguardo, col pensiero, col silenzio.
Non volevo fermarmi.
Se non suono non vivo.
Mi ero incupita di nuovo, di colpo. Non riuscivano a spiegarsi perché.
Appena tornata a San Francisco, ho contattato un chirurgo.
Avevo una cosa da fare. Chiudere con il passato. E per toglierselo completamente di torno mancava la ciliegina sulla torta. L’atto definitivo.
Mi sono fatta cancellare la L.
Quella che campeggiava sfacciata sul mio anulare sinistro.
Qualche seduta e di lei era rimasta soltanto una lieve traccia. Andava bene così.
Un po’ mi faceva impressione, vedere il mio dito così spoglio. Ormai avevo abituato i miei occhi a quella cifra così sottile, eppure così maledettamente densa di ricordi. Avevo spazzato via una fetta della mia esistenza, togliendola.
Non ci sarebbe più stato spazio per nessuno su quel misero dito. Sarebbe rimasto vuoto, come il mio cuore.
In ogni caso, non riuscivo a darmi pace per questo gesto. Mi sentivo una persona estremamente superficiale, una a cui basta togliersi un tatuaggio per eliminare i problemi dalla sua vita. Sapevo benissimo che non era così, che questa è stata solo un’azione simbolica, una voglia di togliersi da davanti la verità, perché faceva troppo male continuare ad averla sott’occhio ogni giorno. Eppure non mi sentivo bene. Non mi sentivo libera come credevo. E questo non certo per colpa di Lucretia.
Avrei voluto che ci fosse un’altra iniziale, al posto di quel pallido segnetto che è rimasto. Ma l’esperienza mi ha insegnato una cosa molto importante.
Non tatuarti addosso ciò che non puoi avere. Oppure ciò che non hai più.
Lo dicevo sempre ai miei clienti. Alcuni mi guardavano storti, come a dire “fatti i cazzi tuoi e basta, in fondo ti pago apposta, è il tuo lavoro e non protestare”, altri invece erano comprensivi e intelligenti, e capivano che forse era troppo ardito. Altri se ne fregavano, con l’insolenza di chi non ha paura di nulla, nemmeno del passato.
Adesso ci stavo cascando anche io.
Ma non posso volerlo. Non devo. Me l’ha impedito lui, sigillando quello che è stato con un bacio rabbioso.
‘Ricordati dei bei momenti passati insieme, ma non desiderarli di nuovo, perché non li avrai.’
Sentivo questo, dentro di me, ogni pomeriggio, quando camminavo assorta nei miei pensieri per le strade della mia città e giungevo a una spiaggetta isolata.
Solo io, Keith e Dave la conoscevamo. Era il nostro luogo segreto, il nostro angolo di pace appena fuori dal caos della città.
Passeggiate infinite, finché non sentivo i passi affondare nella sabbia. Mi toglievo le scarpe e iniziavo a proseguire verso il mare, apprezzando ogni singolo granello che si intrufolava beffardo tra le dita dei piedi. Poi mi sedevo nei pressi di una duna, la stessa, ogni giorno.
Non troppo vicina all’acqua, né troppo lontana.
E le lacrime che scendevano sulle mia guance frammentavano il tramonto nei miei occhi, come a moltiplicare anche la mia sofferenza.
Il cielo si tingeva di un rosso limpido come un rubino, oppure, in alcuni giorni, le nuvole lo rendevano opaco, grigio. Ma a me non importava.
Mi recavo alla spiaggia anche se pioveva. Mi sarebbe sembrato di tradire il sole, se non mi fossi presentata a quel tacito appuntamento.
E ogni volta piangevo.
Perché i ricordi fanno un male atroce.
Soprattutto quelli più belli. Quelli che vorresti tenere con te, ma non ci riesci perché ti trasportano subito con la mente agli aspetti negativi che celano dentro di sé.
Quando tornavo a casa così, la testa bassa, gli occhi rossi nascosti dagli occhiali da sole, mio fratello sapeva cosa andavo a fare. Ma non diceva nulla, rispettava composto il mio sconforto, sentendolo come suo dalla prima all'ultima goccia.
Mi uccideva vederlo così. Abbattuto. Scoraggiato. Preoccupato.
Si sentiva terribilmente in colpa. Perché gli aveva servito la verità su un piatto scheggiato e sguarnito, con fretta e incoscienza. Io mi sentivo ancora più in colpa di lui, per averglielo raccontato. Se solo fossi stata zitta, mi fossi tenuta tutto dentro…ogni mattina mi alzavo e mi maledicevo, incapace di sorridere come quando sto su un palco.
Keith voleva portarmi da uno psicologo. Credeva fossi caduta in depressione, e aveva coinvolto anche Dave nel suo proposito. Stava cercando di convincermi anche lui a farmi curare.
Ma questa non è depressione, cazzo. Non si cura con i farmaci, e nemmeno con un buon dottore.
Io avevo solo bisogno di suonare, per non pensare.
Per non piangere ancora.
E li avevo convinti.
Lo avevo compreso il giorno in cui Keith è tornato a casa con la mia vecchia chitarra acustica.
Quella che suonavo prima che i nostri genitori mi regalassero la Jaguar.
“Sono stato da loro. Ho pensato di portarla qui, almeno non avrai bisogno di accendere l’amplificatore ogni volta…” e me l’ha adagiata vicino, insieme a un pacchetto sottile.
“Ah, ti ho anche comprato le corde nuove. Vanno bene, vero?”
“Ma la suono sempre senza amplificazione” ho provato a obiettare, ma senza nascondere un timido sorriso.
Il primo, dopo quasi due mesi.
“Comunque…sì, sono le mie preferite, queste. Grazie.”
Ha sorriso anche lui. Finalmente. È bellissimo, quando sorride.
Poi si è fatto di nuovo un po’ serio.
“Sono preoccupati per te, Frankie.”
“Lo so”
“Almeno chiamali, fatti sentire…perlomeno avranno la certezza che sei sempre viva, sai, a volte ho come l’impressione che non si fidino delle mie rassicurazioni” mi ha esortato, ridacchiando.
“Dai, passami il telefono, allora. È lì vicino a te.”
E proprio in quel momento il telefono ha iniziato a suonare. Il tema degli Happy Tree Friends si stava diffondendo nella stanza, con grande disappunto di Keith, che non lo sopporta.
Me ne stavo con la mano tesa, aspettando che me lo porgesse.
“Chissà, magari sono proprio loro…proprio non si fidano di te, eh?” ho sorriso, mentre mi perdevo in quella specie di sinfonia stridula, irritante ma al tempo stesso divertente.
Ho risposto, in preda a una botta di buonumore inaspettata.
“Sìììììììì?”
“Ah, meno male, ti sei ripresa stellina!”
“Ah sei tu?”
“Ebbene sì…perché, ti dispiace? Guarda che m’offendo eh!”
“Non pensarci nemmeno! È che pensavo fossero i miei…”
Dave s’è messo a ridere, all’altro capo del telefono.
“Avrei dovuto dare l’impressione di essere ancora viva, non so se mi spiego…” ho ghignato.
“Beh, dopo quello che ti sto per dire non avrai più bisogno di fingere, conoscendoti!”
La sua carica di ottimismo era devastante. Era riuscito a contagiarmi.
“Ah, sì? E che cos’è?”
“Tra un mese ricominciamo a suonare!”
Il respiro mi si è mozzato nel petto. Sono stata un tre secondi a boccheggiare come un pesce dallo stupore. Avevo quasi le lacrime agli occhi.
Poi è subentrata la consapevolezza, la certezza che non stava scherzando, che era tutto reale, e che sarei tornata su un palco, con loro, a fare della chitarra un prolungamento naturale di me, della mia mente, delle mie dita.
Del mio cuore.
Ho iniziato a gridare come una matta, saltellando per casa come un grillo.
Keith mi fissava sconcertato. Ero divertita anche dalla sua faccia.
“Sì, ma…calmati un attimo stellina, non hai proprio mezze misure!”
“A…ehm, scusami” ho cercato di ricompormi.
“È una specie di tour vero?”
“Sì, abbiamo anche il gruppo di supporto e tutto il resto!”
Grandioso. Proprio quello che ci voleva. Testa impegnata, chitarra in braccio e voce pronta a volare.
Non desideravo altro.
“E da dove cominciamo?”
“Da New York.”
“EH? E perché?” ho chiesto, interdetta.
Decisamente non me l'aspettavo. Credevo che saremmo partiti da qui, da San Francisco, da...casa.
“Ma scusa, non sei contenta?”
“No, no, non è per quello…piuttosto, secondo te potremmo partire qualche giorno prima, così finalmente riesco a visitarla come si deve?” ho tentato di sviare.
Anche se, beh, mi sarebbe interessato davvero poterla vedere come una turista qualsiasi, e non come una musicista sempre impegnata.
Avrei voluto fotografare con la mente e con gli occhi ogni angolo pronto a destare il mio interesse, e sedermi dentro uno Starbucks qualsiasi di Manhattan in un giorno di pioggia, e rilassarmi davanti a un tè caldo insieme a Keith e Dave. Cose piccole, di poco conto, da persona come tante altre. Chiedevo troppo, forse? Eppure, per quante volte ci sia finita a suonare, io New York la conosco solo attraverso i film. Soprattutto quelli di Woody Allen. Non l'ho mai vissuta davvero, anche solo per un giorno. L'ho sempre scrutata da lontano, con sacrosanto e reverenziale timore. Come una bambina che osserva gli adulti intorno a lei e si chiede se riuscirà mai a essere come loro, un giorno. Se ce la farà ad entrare in quel mondo.
Tutte queste mie congetture sono state troncate di netto dalla voce del mio...del nostro bassista.
“Beh, immagino sia fattibile…passami tuo fratello, và! È in casa, vero?”
“Sì, è qui che mi guarda male, aspetta che te lo passo…ciao ciao!” e mentre si sono messi a discutere sugli aspetti organizzativi della faccenda, continuavo a rimuginare.
New York.
Una delle città più belle al mondo.
Così grande che ti ci perdi, ti senti una nullità, una innocua e infima gocciolina nel bel mezzo dell’oceano di vita che brulica nella Grande Mela.
C’è una vitalità diversa da quella che posso trovare a San Francisco.
Lì è il centro del mondo.
Mentre qui…non è nemmeno il centro della California. Questo ruolo spetta a Los Angeles.
Ma è lo stesso uno dei posti che amo di più.
É casa mia.
Gesticolavo con veemenza di fronte a mio fratello, per farmi rendere il telefono. Avevo ancora una cosa da chiedere a Dave.
Finalmente ci sono riuscita, dopo un quarto d'ora abbondante in cui ho ignorato beatamente la loro conversazione e mi sono messa a ballare davanti a lui, implorandolo di tanto in tanto per riavere quell'oggetto così rompicoglioni ma mai prezioso come in quel momento.
"Allora? Quand'è il giorno?" ho chiesto tutta raggiante.
Quando me l'ha detto...non sapevo se sorridere o rattristarmi. Sorridere per come l'avrei trascorso, o rattristarmi perché sarebbe mancato un elemento fondamentale per renderlo assolutamente degno di essere ricordato.
Sarebbe stato un giorno speciale, quello.
E sapevo benissimo di non essere l'unica a pensarla così.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** It's a Crime I Never Told You About The Diamonds In Your Eyes ***


ringraziamenti generali, al solito, però voglio più commenti, susu! u.ù/

Cap. 14 – It’s A Crime I Never Told You About The Diamonds In Your Eyes

È oggi.
Tra un paio d’ore.
Sono al bancone del bar di questo locale di New York, a sorseggiare qualcosa con Dave.
Keith sta mettendo a punto la strumentazione insieme ai tecnici, e noi due abbiamo approfittato per bere, lui una birra, io una vodka alla menta.
“Stellina, ci vai pesante stasera eh?”
“Lo so. Ma mi mette a mio agio” rispondo, assaporando quella frescura alcolica.
Non mi aspettavo certo il Madison Square Garden, ma nemmeno ‘sto buco. Eppure è pieno di gente. Pare quasi che l’edificio possa scoppiare da un momento all’altro, tanto è zeppo.
Tutte persone venute per passione, curiosità, o forse solo tanta noia e l’alternativa, ben poco allettante, di passare una serata in mutande davanti al televisore. Ma venute per sentirci suonare.
Francamente credevo avessero di meglio da fare. Tranne quelli della serata in mutande davanti alla tele, ovvio.
Per esempio, vagare per le strade della città, travestiti da streghe, vampiri o qualcos’altro, oppure regalare qualche manciata di caramelle ai bambini che vanno a bussare alle loro porte.
Poca stima di me e quello che faccio, dite?
Beh, può darsi benissimo. Ma, seriamente, non pensavo che la sera di Halloween a tutta questa gente potesse interessare la nostra musica.
Dave ride.
“Non ti passa mai la voglia di dire cazzate, eh?” mi punzecchia con affetto.
È vero il mio stupore.
Non ci credo. Stento a realizzare che sia tutto concreto.
In particolar modo non riesco a capacitarmi di essere qui proprio stasera.
Per come la vedo io, sarei dovuta rimanere a San Francisco a crogiolarmi nella tristezza, affogando il dispiacere in litri di birra, montagne di sigarette e secchi immensi di gelato. Oddio, il gelato con la birra non è un ottimo abbinamento, ma tanto, affranta come sarei dovuta essere, non me ne sarebbe fregato un emerito accidente.
E invece…mi sono ripresa alla grande. È bastato dirmi che avremmo ricominciato a suonare e ogni preoccupazione, ogni angoscia, è sparita dal mio piccolo, povero cuore martoriato.
Se possibile, sto persino meglio di prima. E quindi, chi se ne frega del suo compleanno, mi rassicuro, quasi a volermi convincere che non me ne importi davvero nulla.
È una preoccupazione come un’altra, a questo punto.
Mi sono anche comprata una chitarra nuova, in preda a questo impeto di positività.
Una Gibson SG. La ‘Diavoletto’.
Viola.
È un gioiellino.
I primi giorni mi sentivo un po’ in colpa, perché mi sembrava di tradire la mia piccolina, la Jaguar. Ma non l’ho tradita, semplicemente le utilizzo entrambe. Mi piace suonare con tutte e due, sono delle compagne fantastiche. Ciascuna ha un suono differente dall’altra, e perfettamente congeniale al mio modo di suonare.
La SG l’ho sentita da subito come un’estensione di me. Proprio come la Jaguar, quando la provai, per curiosità, un giorno, in uno dei tanti negozi di strumenti di Frisco.
Mi ricordo ancora di quando mi sedetti su quello sgabello scalcagnato, col titolare che, gentilissimo, mi fece provare tutte le chitarre che destavano il mio interesse. Quando imbracciai quella Jaguar nera, ancor prima di suonare qualche accordo, sentii che era Lei. Che la volevo sopra ogni cosa. E quando iniziai a strimpellarla, capii che era il mio sogno proibito.
Costava troppo, e andavo ancora a scuola, all’epoca.
Mi cercai un lavoro, e trovai un posto come cameriera in un bar, ma i miei me la regalarono dopo qualche mese, e così utilizzai quei soldi che avevo tenuto da parte con così tanta costanza per comprarmi un amplificatore.
Adesso, che sono ancora seduta al bancone del bar di questo locale, mi chiedo come mai mi sia tornato in mente quel periodo, così solare, della mia vita.
Forse è solo colpa dell’alcool. Sono già alla terza vodka, e Dave mi fissa un po’ preoccupato.
“Ma ce la farai a stare in piedi?” chiede, con una punta d’ansia nella voce.
“Boh, si vedrà” rispondo, distratta. In questo momento vediamo Keith che ci fa cenno di avvicinarci, e così cerchiamo di farci strada tra la gente per arrivare di fianco al palco, che non è grandissimo, ma a me pare anche troppo, viste le dimensioni del locale.
Sistemiamo le ultime cose, aspettando che salga sul palco il gruppo di supporto. Il nome, ora come ora, mi sfugge, ma mio fratello me ne ha parlato in termini più che positivi. Sono quattro ragazzi, tutti con il faccino pulito da ventenni appena usciti dalla pubertà. Tra l’altro, il cantante non sembrerebbe neanche malaccio.
Quando iniziano a suonare, inevitabilmente finisco per farmi rapire dal loro ritmo trascinante. Hanno un sound particolarissimo, ricco di citazioni pop ma assolutamente incastonato in un contesto puramente rock. Beh, descritti così, potrebbero sembrare uno dei tanti gruppi che sono spuntati come funghi negli ultimi anni, ma posso assicurare che dietro quelle schitarrate selvagge, dietro la batteria velocissima che non perde un colpo (Keith ha letteralmente gli occhi fuori dalle orbite in questo preciso istante), dietro il basso che si insinua con prepotenza e reclama il suo ruolo, dietro la voce ancora acerba che intona con noncuranza testi semplici eppure mai banali, c’è tanta, tanta sostanza.
Questi ragazzi mi ricordano noi, agli inizi. La voglia di fare casino, di divertirsi senza pensare alle preoccupazioni della vita, di trascorrere serate alternative, a suonare come disperati invece di marcire in qualsiasi angolo della città.
La ferma e ferrea volontà di dare un senso alla propria vita, un senso tutto particolare, diverso dalla massa, da quel gregge di pecoroni che ci circonda.
Perché noi, che ci ammantiamo di un minimo di velleità artistiche, siamo fatti così.
Vogliamo colorarci in mezzo al grigiore, emergere, elevarci come persone fatte di carne e sentimenti, in mezzo a tante statue inaridite dalla routine.
La loro performance è assolutamente esaltante. Tempo un quarto d’ora, e toccherà a noi.
Andiamo tutti e tre a complimentarci, e loro ci ringraziano, imbarazzati e dotati di una timidezza così comune, da risultare una componente assurda nel nostro mondo.
Mi piacciono, veramente. Sembra che non gliene freghi niente del successo, dei soldi, che gli importi solo della musica.
Non fatevi mai mettere i piedi in testa. Siete già grandi così.
Ma adesso sono gli Unnamed a dover fare il loro sporco lavoro.
L’alcool che ho ingurgitato selvaggiamente si fa sentire. Le gambe tremano, gli occhi si posano con vacuità su tutto ciò che mi circonda, lucidi e sfuggenti. Le mani sono incerte, si muovono a scatti.
Mi attacco, quasi con disperazione, alla bottiglia d’acqua che mi porge uno dei tecnici, finendola.
Quando gliela restituisco, la sua espressione vale più di mille parole, tanto è densa di incredulità, insulti variegati e un vaffanculo finale come ciliegina sulla torta, anzi, sulla punta del naso.
Il primo a posizionarsi, al solito, è Keith.
Se ne sta immobile, seduto dietro la sua batteria. L’unico movimento che compie è rigirarsi divertito le bacchette tra le dita, mentre lo fisso, da dietro, bonariamente invidiosa.
Non sono mai riuscita a fare quel genere di giochetti.
Poi sposto il mio sguardo con affanno e vedo Dave afferrare sicuro il suo Stingray e procedere verso la sua postazione. Rimane un po’ di tempo a fissare sconcertato il pedale per le distorsioni ai suoi piedi e si volta verso di me, quasi voglia dirmi, coi suoi occhi spaesati, che forse era meglio tenersi il buon vecchio overdrive. Sulle mie labbra sorridenti si può leggere a chiare lettere un “Te l’avevo detto” grosso così, mentre sollevo con delicatezza la Gibson e la imbraccio, incamminandomi verso il microfono al centro del palco.
Sento montare dentro me un profondo sentimento di inquietudine, e non posso evitare che il mio cervello, mentre sono occupata a reggermi in piedi, inciampi nella tappa di Chicago del Warped.
Una tappa maledetta, per me.
Dove credevo di avere perso tutto. E lo penso tuttora, anche se in termini ben più ridimensionati. Ma quando sei in preda allo sconforto, ti riesce difficile fare obiettivamente un qualsiasi punto della situazione.
Stavolta, però, questo peso strisciante lo sento…diverso.
Meno cupo, meno sordo. Più schietto e anche, beh, come dire, più…positivo. Quasi una panacea per i miei mali.
Come se gridasse in ogni singolo neurone, globulo rosso, cellula del mio corpo, di dare il meglio di me. Di denudare la mia anima qui, stasera, in questo cazzo di locale. Di prendere per mano ogni singolo spettatore e portarlo a fare un giro nel mio mondo sconclusionato.
Come se in mezzo a questa folla, pressata come sardine in una scatoletta di metallo, ci fosse qualcuno di veramente speciale. Ho una vaga intuizione in proposito, ma dubito che venga proprio qui, a sentire me, il giorno del suo compleanno.
Magari sta suonando anche lui da qualche parte.
O magari sta solo festeggiando, com’è giusto che sia.
L’attacco di basso della prima canzone che suoniamo mi riporta bruscamente alla realtà, facendo atterrare di schianto le mie inutili e distruttive fantasticherie.
La folla inizia a gridare con trasporto quando Dave inizia a suonare, se non che quello stupido inchioda di colpo e asserisce, scuotendo la testa: “No, così non va. Proprio no.”
Mi sento gelare il sangue.
Che cazzo gli passa per la testa?!
Mi volto verso Keith, sperando di trovarlo allarmato, ma non lo è affatto, anzi. Se la ride di gusto.
Qui stanno impazzendo tutti, ma non faccio in tempo a finire di pensarlo che sento gridare alla mia sinistra: “DOVETE URLARE PIU’ FORTEEEEEE!!!” e ricominciare a suonare con energia, mentre davanti a noi si stende il delirio assoluto.
Ma guarda ‘sto pazzo, sussurro ridacchiando, e attacco anche io. Probabilmente mio fratello sta ridendo ancora di più, qua dietro, ma non posso girarmi, adesso.
I primi pezzi scorrono veloci, in un crescendo di urla e applausi. Qualcuno canta pure.
Ma allora mi sbaglio completamente quando dico che non siamo un granché.
Quando affermo piena di sicurezza che la nostra musica saprebbe farla chiunque.
Evidentemente non è così, altrimenti saremmo marchiati come una delle solite, ennesime ‘next big things’.
E invece ci rispettano, in questo sporco ambiente. Sanno chi siamo, e sanno che siamo tre musicisti con le palle, ma a tutto questo non ho mai pensato. Non ho mai preso in considerazione l’idea di fare qualcosa di speciale per gli altri, perché ho sempre pensato che quel qualcosa lo stessi facendo solo per me, per stare bene, per vivere.
Non è così.
C’è qualcun altro che sta bene, che vive ascoltandoci.
Giuro, mai avrei creduto che potessero essere così tanti.
I nostri amici di San Francisco.
La gente del Warped.
E adesso, questa scatola di sardine nel bel mezzo di New York.
La mia perfida autocritica crolla come un castello di carte davanti a tutte queste persone che sanno a memoria i nostri pezzi e li cantano insieme a me con devozione.
Non siamo delle merde, allora.
E tutto intorno a me, le chitarre, Dave e il suo basso, il suo pedale nuovo, e anche il vecchio overdrive che giace di fianco al palco, nell’angolo dove riposano tutte le custodie e le varie attrezzature, Keith, la batteria e le bacchette, gli amplificatori, le assi scricchiolanti del palco, la moquette che le ricopre, il microfono, il pubblico, pare urlarmi un “NO!” unanime, e allora sorrido, inebriata da questa sensazione positiva, e con maggiore fiducia e convinzione torno a suonare.
Solo adesso comprendo che i miei sensi non mi hanno fottuto completamente.
C’è stato uno di quei dissensi al mio pessimismo che ha rimbombato più forte degli altri nella mia testa.
Che proveniva da una zona precisa.
È lì che adesso sto fissando con insistenza, nella speranza che non sia solo una sciocca allucinazione.
E li vedo.
Due occhi limpidi come diamanti e nello stesso tempo torbidi come una palude di cui non si intravede il fondo. Distaccati e impegnati ad analizzare tutto ciò che incontrano, che ti scrutano l’anima e la lasciano in mutande in mezzo al freddo dell’esistenza, ma che sorvolano sulle tue malefatte con complicità, perché tutti sbagliamo e ne abbiamo il pieno diritto.
Due occhi che osservano, ma non giudicano.
Che proteggono.
Che sanno diventare pieni di calore e affetto con le persone che ne sono reputate degne.
E, a giudicare da come mi sta fissando, e sorridendo, sembra proprio che io rientri in questa schiera di eletti.
Il mio cuore si ferma, per un paio di secondi che sembrano durare un’eternità. Il respiro si mozza a metà, lasciandomi boccheggiare.
Per fortuna non sto cantando.
Ricambio il sorriso con espressione ebete, senza nemmeno chiedermi cosa ci faccia qui, o se con lui ci siano anche gli altri.
In questo momento non me ne frega niente. Ho solo una cosa in testa, una cosa che devo chiederti.
Ma questo sembri già saperlo, perché alzi il sopracciglio e mormori qualcosa. Non ho capito cosa, ma sono sicura che me lo ripeterai appena finirò di suonare.
Non mi è mai successo di non vedere l’ora di finire, di posare la mia chitarra e aspettarti, per sentire quello che anche tu hai da dirmi, perché se sei qui è solo per questo, e riesco a capirlo anche io che non sono certo una da prendere a esempio per la perspicacia.
Mi illudo che a suonare con tutto questo impegno la serata finisca prima del dovuto. Ma è uno zelo così impetuoso da contagiare anche mio fratello, che a un certo punto si lancia in un assolo da paura, con Dave che scommetto sta pensando che si sente in difetto perché ancora non è arrivato il suo momento di gloria, e infatti adesso tocca a lui improvvisare una sequenza di note così veloce e articolata da far impallidire chiunque nel locale, lui compreso.
Anche lui ha una ben scarsa fiducia in sé.
Ci somigliamo molto, Keith me lo dice sempre.
Ma di cosa sei capace, Mikey?
Come puoi rivoluzionare la serata a questo punto?
Mi è bastato scorgerti, incontrare il tuo sguardo, per contagiare il resto della band con la mia gioia indescrivibile.
Sì, decisamente avevo proprio voglia di rivederti.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Don't Say No ***


@Greendayana94: beh, non so, non lo conosco personalmente (sic! ;_;'), quindi me lo invento, ecco...e comunque dipende dalla giornata, dalle circostanze...si può essere molto dolci e anche molto stronzi senza dover necessariamente fingere in uno dei due casi...
@BlueAndYellow: mi piace descrivere ciò che si prova quando si suona, perché è quello che provo esattamente io quando imbraccio il mio basso (Puffo ti amo! <3), oppure quando sento suonare qualcuno...forse è perchè ci sono un po' dentro che riesco a cogliere quelle sfumature, non so, però mi piace, davvero ^^
@Martunza: se penso che sia Keith che Dave non li ho modellati su nessuno in particolare!!! :°D oddio, Keith a volte sembra un po' mio padre, forse è meglio, forse peggio, chi lo sa... :°D e ovviamente, pandistelle ftw! è_é/
@Sueisfine: non dirmi così che arrossisco *////*'' anche se vabbè, me lo dici sempre :°D

Cap. 15 – Don’t Say No

Se ne sono andati tutti.
Lentamente, sciamando come una mandria di vacche al pascolo.
Come formiche che guadagnano il loro posto nella fila per uscire all’aria aperta, a respirare qualcosa di diverso dalla terra.
Ormai sono rimasti in pochi qua dentro, eppure io me ne sto ancora qui sul palco, seduta a gambe incrociate, la chitarra appoggiata a terra accanto a me, mentre sorseggio una lattina di succo di mela. Mi sono stufata degli alcolici, e poi voglio essere nel pieno delle mie facoltà. Voglio sapere perché è qui, e voglio imprimermelo ben bene nella zucca.
Mi guardo intorno, ma non lo vedo. Scorgo Keith al bar, Dave con lui. Sento le loro risate, e me ne compiaccio, non so perché, nemmeno so di cosa stiano parlando. Altre persone sono dentro al locale, ma non mi interessano. I loro visi sono vuoti, insignificanti. I loro occhi scrutano orizzonti troppo limitati perché io possa interessarmene. I loro sorrisi sono tanti, e falsi, sintetici come polistirolo.
Non è di loro che ho bisogno.
Scruto, come se possa darmi un qualche conforto, nell’angolo in cui, poco fa, ho incontrato quei due diamanti pazzi e scintillanti. E, con mia enorme sorpresa, li trovo di nuovo lì.
Tornati al punto di partenza.
“Ehi” faccio, alzandomi in piedi. Sto sorridendo. Lo sento, anche se ancora un po’ intontita, dai miei muscoli facciali che si contraggono ai lati delle labbra.
Mi viene incontro, ebbro di quella serietà un po’ sorniona che lo contraddistingue. Sorride anche lui, in quella maniera tutta personale, un boccale di birra stretto nella mano.
“Ciao” si limita a dire.
Il saluto più banale del mondo. Abusato, perché ormai entrato nella mente umana come un’abitudine. Si saluta con un ‘ciao’ biascicato anche chi non vorremmo nemmeno vedere.
Eppure, in questo momento, capisco chiaramente che quel saluto così sintetico è uscito dalle sue labbra come una sorta di richiesta di scuse.
Perché non sa cos’altro dire.
Perché non riesce a trovare parole che esprimano la sua gioia nel vedermi.
E non riesco a trovarne nemmeno io.
Mi fa cenno di rimanere seduta. Lo fisso un attimo stranita, poi mi accorgo che sale sul palco e si mette a sedere accanto a me, avvicinando il boccale alle sue labbra come se nulla fosse.
“Allora, come stai? Ti vedo proprio bene” chiede, voltandosi a guardarmi e catturando con la lingua una sottile striscia di schiuma lasciata dalla birra sulla sua bocca.
Questo gesto mi ipnotizza. Mi accorgo diversi secondi dopo che lo sto fissando con insistenza, ma soprattutto che mi ha rivolto una domanda che, a vedere da come aspetta la risposta, reputa molto importante.
“Uh, sì…tutto bene, direi! E te?” farfuglio soprappensiero.
Dannazione, odio queste forme dialogiche di circostanza. Odio usarle soprattutto con persone che reputo meritevoli di discussioni ben più profonde. Come lui.
Non aspetto la sua risposta. All’improvviso decido che quel locale mi sta iniziando a stare veramente stretto, così mi alzo di scatto e gli dico di seguirmi, mentre vado a recuperare la mia giacca di pelle.
“Sei da solo?” gli chiedo, mentre me la infilo.
“Veramente no…sono con la mia rag…cioè, mia moglie. Cazzo, ancora non ci sono abituato” si mette a ridere imbarazzato.
“Ah! Beh, come dire…congratulazioni!” rispondo, altrettanto in difficoltà. Mi sento un po’ impacciata, ma d’altronde queste situazioni mi hanno sempre imbarazzata molto, a prescindere da chi mi trovo davanti.
“E non me la presenti?” riprendo, sfoderando un broncetto che ho tirato fuori da chissà dove.
“Certo! La stavo appunto cercando…oh, eccola là!” e mi prende per mano, portandomi da lei, che sta chiacchierando con un’amica in prossimità della porta.
Cavolo. È una ragazza meravigliosa. Probabilmente sto boccheggiando dallo stupore, probabilmente sto anche pensando ‘e bravo Mikey!’, non lo so. Non me ne sto accorgendo.
Sono troppo contenta che sia qui stasera.
Mi porge la mano, sorridente. Alicia, così si chiama.
Allungo la mia e ce le stringiamo reciprocamente. Poi lui le chiede cosa vuole fare adesso che il live è finito, e lei risponde che non lo sa, così propongo di fare un giro nei dintorni, un altro locale si troverà di sicuro.
Accettano senza riserve.
Per me non è un problema se c’è anche lei. Sicuramente sa, a grandi linee, come mai io e suo marito ci conosciamo.
Già, marito…mi suona stranissima come parola, accostata a lui. Per questo mi scappa un sorrisetto a metà tra il compiaciuto e il divertito.
“Aspettate che vado a dirlo ai miei due ometti!” esclamo, dirigendomi al bancone. Dave e Keith sono sempre lì, e a essere sincera mi sembrano anche sull’ubriaco andante.
“Ragazzi, devo andare un attimo con Mikey, ve lo ricordate, no?”
“Ceeeeeeeeerto che me lo ricordo, shtellina!” esclama Dave, strascicando le lettere che pronuncia.
Okay. È andato.
Mio fratello sembra un po’ più padrone di sé.
“Non fare tardi, devi tornare per aiutarci a mettere via gli strumenti” mi avverte, pasticciandomi i capelli con la mano. Annuisco e corro entusiasta verso la porta del locale, con un’espressione di felicità pura dipinta in volto. Mi sento come una bambina che corre attraverso un prato, per inseguire la farfalla più bella che abbia mai visto.
Camminiamo un po’, raccontandoci del più e del meno, tipo cosa abbiamo combinato in questi mesi in cui ci siamo persi di vista.
“Lavoro, lavoro e ancora lavoro” risponde lui.
Io non vorrei raccontargli cosa ho fatto questi mesi, quando andavo in spiaggia da sola, al tramonto. Preferisco sorvolare, sono dei momenti che sto rimuovendo lentamente anche dai miei ricordi. Così rispondo che “ci siamo presi una pausa e mi sono comprata un’altra chitarra, e ho anche iniziato a buttare giù qualche pezzo nuovo!”, che in fondo è vero. Anche se sono tutte cose che ho fatto in quest’ultimo mese.
Sorridono entrambi.
Lei, poi, che mi sembra una tipa molto spigliata, non parla molto adesso. Si introduce con discrezione nei nostri discorsi, con battute divertenti e per niente fuori luogo.
Sì, mi piace. È una a posto.
Ci fermiamo davanti a questo pub dall’aria molto accogliente, in una stradina secondaria, e lei suggerisce di entrare, perché “il posto dentro è molto carino e servono una birra ottima!”
Io e Mikey non ce lo facciamo ripetere due volte, prendiamo ed entriamo immediatamente. Non c’è molta gente, cosa che mi rallegra enormemente, ma soprattutto c’è un tavolino a distanza da tutti gli altri, piccolo e racchiuso in una specie di divisorio in legno scuro e vetrate multicolori, che sembra proteggere dal casino che c’è di norma in un posto del genere, tra gli ubriachi e la musica di sottofondo che ti rincoglionisce.
È molto facile per me prendere la sbornia in un pub del genere. Le luci soffuse aiutano molto.
Così mi limito a prendere una Guinness piccola, giusto per non sembrare l’antipatica di turno.
Qualche sorsata nel silenzio più completo, mentre frugo dentro di me, alla ricerca del coraggio necessario per affrontare un eventuale argomento che mi preme molto. Sto per aprire bocca, le gambe tremanti e la birra che sento scendere lentamente dentro la mia gola, quando Mikey mi precede.
“Frank non sta bene.”
Inaspettatamente quella sorsata di Guinness che avevo mandato giù per prendere coraggio segue una traiettoria diversa, e inizio a tossire come una cretina, sconvolta da quella frase.
Come sarebbe a dire che non sta bene?
Perché me lo dici così?
Ma ora che ci penso, tu non dovresti essere con lui stasera? E con tutti gli altri, a festeggiare il suo compleanno?
Tutti interrogativi che non osano oltrepassare il confine della mia scatola cranica.
Mi riprendo, appena per borbottare, in preda a una botta di orgoglio del tutto fuori luogo: “E a me lo vieni a dire?”
“Beh, in un certo senso sì. È da subito dopo il vostro…chiamiamolo scambio di opinioni, che è ridotto così…”
“Già” si intromette Alicia “ha sempre una faccia da funerale…fa quasi paura.”
“E poi suona da fare schifo…c’è toccato addirittura farlo sostituire per alcune date, perché non riesce ad azzeccare nemmeno un accordo…”
Mi suona come una scusa. Una serie di nozioni affastellate a caso, nozioni che dovrebbero sconvolgere l’interlocutore medio, ma non me.
Un sano egoismo mi spinge a mostrarmi profondamente scettica nei suoi confronti.
Sta sicuramente meglio di me, questo rimbomba, come un’eco non voluta, dentro di me.
Come se auto-commiserarsi possa servire a mettermi un gradino sopra di lui. Come se davvero faccia la differenza, mi renda più interessante agli occhi di chi mi ascolta. Non la fa, e lo so bene, anzi, probabilmente mi fa sembrare addirittura patetica. Così come so che Mikey non adotterebbe mai questi mezzi così bassi per risvegliare ciò che sono riuscita a malapena ad addormentare in questi mesi, men che meno senza una motivazione abbastanza forte e, per così dire, grave. Non è il tipo che viene a cercarmi solo per dirmi come sta Frank.
C’è dell’altro.
Lui si accorge della mia scarsa convinzione, così cerca di spiegare meglio, o alzare il tiro, chissà. Preferisco mantenere ancora un certo margine di dubbio.
“Ti giuro, è totalmente di fuori, beve sempre, ha anche fatto a botte con della gente alla fine di un nostro concerto…è diventato seriamente inaffidabile, persino Jamia l’ha cacciato di casa, adesso dorme sul divano a casa di mio fratello…”
No, adesso basta. Non voglio più sentire queste stronzate.
“Sei venuto fin qui solo per raccontarmi di un coglione che non sa che farsene della propria vita, al punto da buttarla via così?” dico tutto d'un fiato, senza rendermi conto di essere caduta in una profonda contraddizione.
Ci rimangono male entrambi. Mi fissano con gli occhi fuori dalle orbite. Poi lui prende la parola. E non mi rimprovera, non cerca di tenermi a freno con fare paternalista, non mi tira metaforicamente le orecchie, niente di tutto questo.
“A parte che dovresti essere l’ultima a parlare, e comunque, no. Sono venuto sin qui per ascoltare della buona musica, come non ne sentivo da tempo” sorride, sornione. Come a dirmi che sto cagando fuori dal vaso.
Grazie, ma me ne sono accorta anche io. Tardi, ma me ne sono resa conto.
Ti ha fregato, Frankie, ammettilo. E oltretutto, sei tu a essere in malafede.
È maledettamente sincero.
Una persona normale riconoscerebbe di avere esagerato con le parole, e se ne starebbe zitta in un angolo.
Ma io non sono così, purtroppo. O per fortuna, chissà.
“Sì, ma…come pensi che io possa risolvere le sue grane?” rispondo, acida.
“Questo non lo so. Volevo solo che tu lo sapessi, tutto qua” e, proprio mentre termina la frase, squilla il suo telefono.
Onestamente, a me dispiace che sia così nelle peste. Ora che ho capito che è tutto vero, intendo. Mi sento anche in colpa per averne dubitato. Mikey non è un bugiardo, e gli si legge in faccia. Al massimo può nasconderti le cose, ma non sconvolgerle per suo tornaconto.
Riesco comunque a pensarci in termini piuttosto lucidi e, se vogliamo, anche di un cinismo quasi aberrante.
Non ho fatto nulla per provocargli tutto questo.
Ha fatto tutto da solo.
È venuto a sapere in modo alquanto spiazzante certi dettagli della mia vita passata, e da lì è partito il grande film, ma francamente adesso mi sembra davvero che si sia oltrepassato il limite.
Non può ridursi così per ciò che ero, questo è quello che mi viene immediatamente da pensare.
Tuttavia comprendo che c’è qualcosa di ben più grosso sotto e, tanto per cambiare, continua a sfuggirmi. Mentre maledico il mio acume pressoché inesistente, inizio così ad arrovellarmi per capire cosa cazzo ha in quel cervello malato, e Alicia, mentre Mikey si è allontanato per parlare al telefono in tranquillità, me lo legge in faccia, che non so cosa pensare.
“A cosa servo in tutto questo?” le chiedo, come se possa fornirmi una risposa più che esauriente.
“Non lo so, Frances, davvero…io so solo quello che vedo. Ride per niente, piange per tutto…è come se qualcosa in lui fosse andato in corto circuito, e quando Mikey mi racconta quello che succede è sconvolto, non si sofferma, sfugge a qualsiasi domanda. Ha paura, paura che possa finire come lui, cadere nella depressione…hanno tutti i nervi a pezzi per questa situazione, credimi…a volte penso che se ti rivedesse potrebbe stare anche peggio, ma Mikey è convinto del contrario.”
A questo punto non lo so neanche io cosa sia meglio. Perché, in fondo, di equilibri precari ce ne sono due, non soltanto il suo.
“Ma, anche se volessi, non potrei comunque fare niente per lui. Mi ha cacciato dalla sua vita, e lo ha fatto in un modo assolutamente crudele, non riesco a perdonarlo…”
Bugia. Bugia enorme. Magari non l’avrò perdonato, ma ho provato a dimenticarmene.
Quel bacio non è mai esistito, è frutto della mia immaginazione.
Ho cercato, in questi mesi, di vederla sotto questa ottica, ma il rigagnolo di lacrime che sta scendendo adesso dai miei occhi è pronto a giurare l’esatto contrario.
Lo sento ancora, di tanto in tanto, quel sapore così dolce e così crudele che mi tormenta come un incubo da cui non riesco a svegliarmi. Non c’è birra, non sigaretta o qualsiasi altra cosa, che riesca a cancellarne le tracce.
È una ferita aperta e sanguinante che brucia orrendamente.
Ho tentato di far finta di niente, ma adesso fa un male tremendo. Come se avessi davvero il fuoco sulle labbra.
“Tu sarai uscita dalla sua vita, ma lui, a quanto pare, non è uscito dalla tua…” sussurra, comprensiva.
Non riesco a piangere a dirotto, a liberarmi una volta per tutte. Il mio è un dolore sordo, infido, che soffoca la mia disperazione e permette solo a quelle due gocce d’acqua terrorizzate di uscire dai miei occhi.
Ho tentato di cacciare la verità dal cuore per mesi, ma è bastato sentire che sta male per tornare sui miei passi e implorarla di tornare.
Non posso vivere per sempre nel mondo dei sogni, dove tutto va bene e le cose filano lisce.
“Stasera dovevamo essere da lui. Però Mikey ha insistito per venire a New York…ha detto che era l’unico modo per trovarti a una distanza ragionevole da Newark…”
“No, non giustificarti, ti prego. È stato un bel pensiero il vostro…” la tranquillizzo, asciugandomi gli occhi.
“Mi ha fatto piacere che siate venuti a sentirmi, davvero. E…”
Cazzo, devo dirlo. Lo sto pensando. Per una volta collega la bocca al cervello senza fare danni, okay, Frankie?
“E, beh…mi fa piacere anche che vi preoccupiate così per lui…è…circondato da persone meravigliose.”
“E tu ne fai parte.” Incalza, sicura di quel che dice.
“No. Non più.” Ammetto con amarezza. Perché ho combattuto con questa constatazione, ho cercato in tutti i modi di pensare che potesse essere una situazione reversibile, ma ero la prima a rispondermi di no, a distruggere le convinzioni che stavo costruendo ad arte per preservare un minimo di sanità. E adesso questa ragazza, che conosco stasera per la prima volta, viene a fami intendere che in quella schiera di persone il posto per me c’è ancora, ed è vuoto, in attesa che torni a rioccuparlo.
Vorrei solo poterci credere senza farmi ancora del male.
Alicia mi sorride, amichevole, e provo a ricambiare, ma penso che il mio tentativo migliore sia solo una smorfia ben poco rassicurante. Non riesco a mentire, proprio non ce la faccio, ma lei sembra non curarsene, e proprio in questo momento Mikey rientra nel locale e, senza nemmeno sedersi, prende le sue cose con una frenesia che non gli appartiene.
“Le birre le ho già pagate io. Anche la tua, Frankie. Come ringraziamento per la bella musica che mi hai fatto sentire stasera” sorride.
“Però adesso devo chiederti un favore assolutamente importante.”
“Cosa?” chiedo, preoccupata.
“Dovresti venire a Newark con me e Alicia.”
Lo sapevo, cazzo.
Lo sapevo.
“No, non posso.”

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Unhappy Birthday ***


Cap. 16 – Unhappy Birthday

La macchina di Mikey sfreccia nella notte di New York. Stiamo uscendo dalla metropoli e la sua guida adesso si fa più spigliata e veloce.
Guida bene, il ragazzo. Ha un’ottima padronanza dell’auto.
Alicia è seduta accanto a me, dietro. Ha avuto un bel dire lui, a protestare che così si sarebbe sentito un tassista.
“E la lasci dietro da sola? Bel maleducato che sei!” l’ha apostrofato, strizzandomi l’occhio.
Ho declinato la sua gentilezza nel modo più educato possibile, ma non c’è stato verso.
E così, beh…eccomi. Mi sono lasciata convincere.
Me l’ha chiesto come favore personale. Mi sarei sentita veramente un’ingrata a rifiutare ancora, dopo tutto l’aiuto e la comprensione che mi ha elargito senza chiedere niente in cambio, almeno fino a adesso. Qui, lo ammetto, un pochino infido lo è stato, ma immagino che mi sarei comportata allo stesso modo, se avessi avuto bisogno di sbrogliare una situazione particolarmente delicata come questa.
Lo giustifico, tutto qua. L’ha fatto con le migliori intenzioni, tutto sommato, e mi è sembrato poco carino stare a puntualizzare sulle ragioni per cui non sarei voluta essere su questa macchina, adesso. Motivo per cui taccio nel buio, lasciando che gli Idlewild, e poi gli Stone Roses, e ancora i Manic Street Preachers, e chissà chi altro, riempiano questo silenzio con della buona musica e parlino un po’ al mio posto.
Le mie parole sono inutili, adesso. Come lo sono state prima.
Lui già sapeva che l’avrei seguito. Che avrei messo in atto delle risibili ritrosie, che sarebbero capitolate dopo pochi dolcemente irremovibili minuti. Che mi sarei seduta dietro, sperando di racchiudere nel mio piccolo mondo claustrofobico tutte le mie ansie, le mie domande, vietando loro di uscire a respirare l’aria di ‘qua fuori’.
Ecco perché Alicia è qua, accanto a me, e non davanti. Perché anche a lei è bastato osservarmi un attimo per capire di che pasta sono fatta.
E sa che quelli come me non vanno lasciati soli coi propri pensieri distruttivi.
Che poi, onestamente…a me sembra tutto così assurdo. Così inverosimile, caricato all’eccesso, fino quasi ad assumere i contorni di un’ignobile macchietta.
Non è possibile, Frank non può essere caduto così in basso, per ME poi!
Mi rifiuto di crederci. È un colpo basso, questo, dall’inizio alla fine.
Mi sono fatta prendere per il culo, ma ormai ci sono dentro fino al collo.
Prima ho chiamato mio fratello. Per avvisarlo.
Era contrariato, molto.
“Come ti viene in mente di fare queste cazzate?” ha chiesto, inviperito.
A dire il vero me lo stavo chiedendo anche io. Così, piuttosto che affastellare scuse su scuse, stronzate su stronzate, ho preferito fare scena muta.
È stato come accendersi una sigaretta e gettare il fiammifero, col suo piccolo fuoco agonizzante, ma non ancora estinto, su un mucchio di sterpaglie secche. Anzi, peggio: su un mucchio di polvere da sparo.
Ha iniziato ad alzare la voce, a inveire contro di me e la mia testaccia bacata, e io, lì, zitta, ad assorbire come una spugna tutto il suo malumore e l’alcool che gli stava girando in corpo. Ho sopportato anche la più crudele delle frasi che mi si possano dire, quella che da lui non mi sarei mai aspettata.
“Fai come cazzo ti pare, ma ti avviso: domani, se non sei a Boston entro le 5 di sera, sei fuori dal gruppo.”
No.
Chiedimi tutto, ma non questo.
“…okay.”
Solo okay sono riuscita a dire. Le parole mi morivano in gola, quelle che riuscivano a sopravvivere soccombevano sulle labbra. È stata una carneficina di suoni e lettere.
È ubriaco. È incazzato. Ma soprattutto preoccupato.
Sa chi è la causa del mio malessere, e non può sopportare che io vada da lui. È come se una volpe andasse spontaneamente a cercarsi le tagliole in cui infilerà le zampe.
Però non doveva lo stesso.
Stronzo. È tutto quello che ho. Non puoi togliermelo.
E io allora? Non ho forse peccato di negligenza a seguire Mikey e Alicia?
Ho anteposto un problema superficiale, di poco conto, alla mia vita.
Alla musica.
A Keith e Dave, le due persone più importanti che ho.
Ma quale problema superficiale.
Frances Eleanor Armstrong.
Non dire cazzate.
Non gettarti in improbabili scene madri, dove il palcoscenico è interamente occupato dalle bugie.
Sai perché sei su questa macchina, con il culo pigramente stravaccato sul sedile posteriore, circondata da musica che non fa altro che buttarti nello sconforto e da due neo-coniugi che si sono messi in testa che tu sei il pezzo che manca per completare il puzzle.
Sai perché stai andando a Newark.
Sei convinta anche tu di essere il pezzo mancante di quel puzzle chiamato Frank.
E se a un puzzle manca un pezzo, lo puoi anche buttare. Soprattutto se è un pezzo centrale. Perché, sai, se sei un angolo, o una briciola di bordo, in pochi si accorgerebbero della tua assenza ingiustificata.
Dove sei? Hai voluto provare il brivido dell’indipendenza, ti sei voluto staccare dalla famiglia per fiondarti a capofitto in una nuova avventura?
Sappi che da solo non sei nulla. E rendi inutili anche quelli che ti stanno intorno. Li svuoti di significato.
Neanche tu, Frankie, neanche tu vali, se sei da sola.
Hai bisogno di Dave e Keith, per suonare.
Hai bisogno anche di Frank. Perché è la colla che riparerà il tuo cuore dopo avertelo strappato dal petto e gettato a terra, facendolo infrangere in mille, piccoli, irriconoscibili coriandoli di muscolo e sentimento.
O il mortaio che disperderà e polverizzerà quelle rovine ancora di più, e una volta per tutte.
È per questo che sei qui, è per questo che stai monologando febbrilmente.
L’istinto e la coscienza per una volta sono d’accordo, e si stringono la mano, sperando tuttavia di aver fatto la cosa giusta.
So perché sto facendo tutto questo.
Devo salvarlo, è vero. Ma sostanzialmente è anche lui che deve salvare me.
La musica non mi basta più.
Ho ancora un bisogno viscerale di lei. Ma ho dovuto chiederle un attimo di respiro.
Non ho mai creduto nel destino, ma in questo momento sono totalmente nelle sue mani.
Stanotte deciderà se farmi tornare alla vita o ammazzarmi come un cane.
Se farmi fluttuare in paradiso o scagliarmi all’inferno come si getta un foglio di carta appallottolato nel cestino.
Al telefono con Mikey, prima che partissimo, era Gerard.
A quanto pare la situazione è degenerata. Jamia lo ha lasciato definitivamente.
È arrivata oggi pomeriggio, anzi, ormai è più preciso dire ieri pomeriggio, visto che sono le due e passa del mattino del primo novembre, portando un paio di scatoloni con tutta la roba di Frank che ancora aveva a casa. Lui era sul divano, con troppo alcool in corpo per potersi rendere conto di quello che stava succedendo.
“Mio fratello le ha chiesto se fosse davvero convinta di quello che stava facendo, e lei ha detto che non vuole avere più a che fare con ‘quel relitto umano’, così ha detto. Certo, la facevo più comprensiva” commenta, laconico.
No. Non può essere così crudele con lui.
“Perché?” esalo, esterrefatta.
Continua a essere tutto troppo esagerato per poter sembrare minimamente reale.
Ma è una soap opera, questa, o la vita?
La verità…il vero, autentico motivo per cui sono qui, è che sono maledettamente curiosa.
Niente salvataggi, niente distruzioni, niente di niente.
È la curiosità a muovermi.
La morbosità con cui il pensiero di rivederlo, e sapere in che condizioni versi, si insinua nei miei neuroni.
Ecco il motivo di quella domanda. Un interrogativo che racchiude in sé tutti i significati possibili e immaginabili che gli si possono attribuire.
Perché sta così?
Perché l’ha presa come una questione personale?
Perché io dovrei essere quella distrutta, e invece sono assolutamente tranquilla, mentre lui si macera nell’alcool e lascia che le cose gli scivolino addosso come olio schifoso?
Perché continuo a raccontare balle anche a me stessa?
Io non lo so.
Non lo so per il semplice motivo che la mia testa sta lavorando a vuoto.
Queste domande non possono avere una risposta che provenga solo da me.
Queste domande sono le risposte a se stesse.
Perché vado là?
Perché è l’unico modo che ho per comprendere per quale motivo sono con le chiappe adagiate su una Mercedes nera, con un ragazzo che guida come un pazzo per arrivare il prima possibile.
E adesso ci siamo.
Stiamo entrando a Newark.
Ora sono gli Smiths a emanare malinconia dalle casse dell'impianto stereo della macchina.
Unhappy Birthday.
Perfetto. Proprio quello che ci voleva, penso, al colmo dell'ironia. Non poteva esserci canzone più azzeccata.
Penso a quanto dev'essere terribile passare un compleanno infelice.
Dove la tristezza è troppa, per poter pensare al fatto che si è più vecchi di uno stupido, inutile anno.
Dove, se ti arrivano regali, li scarti con un'espressione che si regge in equilibrio precario tra un tenue barlume di gioia, perchè qualcuno che ti pensa c'è, e una malinconia senza limiti. Tra un sorriso di gratitudine e una cascata di lacrime disperate.
Dove ti viene da pensare che è solo un giorno, ma cazzo, proprio quel giorno?
Chissà come si sentirà adesso. Ha un anno in più, una ragazza in meno, un clamoroso banco di nebbia nel cervello e una voragine nel petto.
E un fegato grosso così.
É la curiosità che mi fa porre queste domande, tracciare queste ipotesi. Sempre lei. Posso azzardare un'affermazione del tipo che è il motore della mia esistenza.
Non è esattamente positivo, ma non me ne importa.
Alicia mi prende la mano, così, dal nulla. È calda. La mia è un ghiacciolo. Colpa della tensione.
Le gambe tremano, la voce pure, se solo avesse il coraggio di fare capolino dalla gola. E invece se ne rimane rintanata nel suo antro oscuro.
Non ho detto nulla in tutto il viaggio.
Solo quel “Perché?”, e nulla più.
Mikey, invece, sembra aver messo da parte la sua riservatezza, e non si è zittito un attimo. Non so, forse sperava di riuscire a sbloccarmi in questo modo. Si è sforzato tanto, e mi sento un po’ verme a non averlo aiutato in nessun modo.
“Ha detto Gee…che vuole vedermi. Ha chiesto di me…chissà, forse ha capito.”
“Ma scusa…sapeva che avrebbe suonato stasera a New York?”
Parlano di me.
“…sì. È stato lui a dirmelo.”
Penso di nuovo a lui. A quanto gli farà male sentire il mio nome rimbombargli nelle orecchie, rimanere nei suoi condotti auricolari, come un’eco bastarda e implacabile, che vuole portarlo lentamente alla follia. Poi penso a me, al momento in cui lo rivedrò, e non saprò cosa fare, cosa dire. Non saprò se sorridere, perché lo avrò davanti a me, o piangere, per lo stesso motivo, o semplicemente fregarmene. Non saprò se sarà felice di vedermi, o se nasconderà il suo disappunto dietro una maschera di accomodanza, o se non fingerà affatto e mi manderà via. Se lo troverò ubriaco, o in un raro attimo di lucidità.
Non so niente.
Chiudo gli occhi. Per svuotare il cervello. O per concentrarmi meglio su cosa devo fare.
Detesto affidarmi all’improvvisazione in queste circostanze, ma non posso fare altrimenti. Non ho tempo di prepararmi un discorso perfetto nella sua inutilità.
L’unica cosa di cui ho piena la zucca sono dubbi, tanti dubbi.
E una sana, fottuta paura.
Non voglio che vada a finire male.
Non voglio nemmeno che finisca tutto bene, forse.
Ero riuscita a dimenticarmi di lui, cazzo. Ce l’avevo quasi fatta.
Balle.
Ma quante me ne racconto stasera?
Non è possibile rimuovere dal pensiero quel suo viso così dolcemente crudele.
Oh, adesso non importa. Sento la macchina fermarsi con grazia.
Vista la guida spericolata di Mikey pensavo che si sarebbe prodotto in un’inchiodata degna di finire negli annali. Come al solito ho fabbricato ideali distorti, ma anche di questo non mi frega niente.
La casa di Gerard è la classica villetta a due piani circondata da un giardino che dovrebbe essere curato, ma non lo è. Ciuffi d’erba neanche poi tanto timidi svettano sugli altri, in un’accozzaglia confusa e arruffata, ma proprio per questo più affascinante di quegli asettici prati tenuti alacremente sotto controllo da zelanti giardinieri, che percepiscono come stipendio extra le grazie della moglie del padrone di casa.
È un’abitazione che sa di vissuto, a cominciare dall’esterno.
Percorro titubante il breve percorso di lastre di pietra che conduce alla porta. Siamo in fila indiana.
Davanti Alicia, poi io, poi Mikey. Stretta in un’amorevole protezione formato sandwich.
È proprio Alicia a bussare alla porta, e ci aprono gli occhi stanchi di Gerard. Ha la forza appena per salutare con un flebile cenno del capo.
“Stanotte mi tocca il divano. S’è chiuso in camera mia e non vuole saperne di uscire” spiega, col sonno che ormai ha preso il quasi totale controllo delle sue membra. Si accascia sulla poltrona, esausto. Ray e Bob, che sono qui dal tardo pomeriggio, lo fissano, preoccupati e sconsolati. Dopo un paio di secondi sentiamo un grido lamentoso nominarlo.
Rotea gli occhi, sbuffa e rantola un “Che situazione…” a metà tra il rassegnato e lo scocciato, e fa le scale di malavoglia. Lo vediamo tornare giù dopo un po’.
“Gli ho detto che sei tornato, Mikey. Ha chiesto di te. sei l’unico che voglia vedere adesso…non riesco a capire perché…”
“Io, invece, penso di averlo capito” risponde lui, posando il suo sguardo su di me.
Anche io ho compreso.
Un’occhiata di intesa. Prendo coraggio e mi alzo dal divano su cui mi sono accomodata.
La circolazione nelle mie gambe è pressoché nulla. Non mi stupirei di alzare i pantaloni e trovarle cianotiche.
Rimango un paio di secondi ferma, come a testare la stabilità dei miei arti locomotori.
Okay. In piedi ci sto. Vediamo se riesco a muovermi.
Qualche passo tremante e mi avvicino alle scale. Vedo Bob alzarsi e dirmi “Ti faccio strada, vieni”, mentre Gerard si sistema nuovamente sulla poltrona.
Saliamo, e mi ritrovo in questo piccolo corridoio. Ci sono tre porte, e una di queste è aperta.
Il bagno.
Mi indica con il mento la porta che devo aprire, poi si fa in disparte, osservandomi con apprensione.
Rimango un minuto buono qui davanti, la mano stretta in un pugno che non vuole saperne di bussare. Mi volto verso le scale, cercando lo sguardo di Bob, ma vedo solo le sue spalle, e una leggiadra voluta di fumo che si alza.
Cazzo, sta facendo venire voglia di fumare anche a me.
Non posso.
Busso, nella speranza di poter entrare il più presto possibile e dimenticare quell’odore così fastidioso e al contempo drogante.
Non sento rispondere. Apro timidamente la porta, ed entro, in virtù di non so quale coraggio.
Eccolo.
È alla finestra, a osservare la luna, che ormai ha poco tempo a disposizione per farsi ammirare. Non si volta.
Ma la voce è debole, sfiancata. Priva di speranze.
“Mikey?”
Chiudo la porta alle mie spalle, e no, non ci riesco.
Devo accendermi una sigaretta.
Sente l’accendino scattare, e ha un sussulto.
Si gira verso di me.
“No, non sono Mikey.”

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Boys Don't Cry ***


ecco che aggiorno di nuovo! *_* pandistelle will rule the world, please remember! è_é

Cap. 17 – Boys Don’t Cry

Non sembra molto stupito di vedermi. O forse è soltanto una sensazione che riesco a trarre io da questa schermaglia silenziosa. Sì, perché rimaniamo per minuti in completo silenzio, studiandoci a vicenda, a distanza.
È veramente un relitto umano. Inizio a comprendere le parole, così apparentemente dure, di Jamia. Non riuscivo a concepire tanta crudeltà, ma ora che ce l’ho di fronte, e lo vedo in questo stato, non riesco a biasimarla più di tanto per quello che ha avuto il coraggio di dire.
La barba incolta, le occhiaie che gli incorniciano malamente quegli occhi di cui mi ero innamorata, e che adesso sono opachi, spenti, più vuoti del suo petto. E del mio.
Due piccole paludi di distruzione fisica che vorrebbero non fissarmi, ma che sento morbose su di me, nel buio di questa stanza.
Mi fanno male. Come se emanassero davvero scosse elettriche in direzione del mio corpo.
Ho come l’impressione di aver sofferto troppo poco, mentre lo osservo. È il ritratto del grado massimo di decadenza a cui può giungere l’essere umano.
Non ho niente, addosso, di quello che porta lui. Tutta la mia tristezza finiva in un tramonto sulla spiaggia, o una confezione formato famiglia di gelato.
Mi sento un po’ cane per questo. Sento affievolirsi di colpo tutta l’importanza che ho sempre dato a questo ignobile peso nel petto, chiedendomi quanto ne deve aver avuto lui da portarsi sulle spalle, senza voler chiedere aiuto a nessuno.
Aveva ragione Mikey.
È identico a me.
Siamo ‘due orgogliosi del cazzo’. È inutile che neghi l’evidenza, o che mi incazzi perché la verità mi è stata detta in modo così brusco e diretto.
Anche io non ho chiesto aiuto, almeno non esplicitamente.
Per discrezione, paura di essere di troppo, di chiedere troppo.
Solo la mia chitarra sa. Solo lei è stata la depositaria dei miei umori più neri, dei miei attimi di smarrimento, dei momenti in cui avrei preferito affogare nel vino e nelle sigarette, piuttosto che rimanere sobria e guardare in faccia la realtà senza schermi protettivi. E chissà che non sia lo stesso anche per lui.
Il tempo scorre così lento e solenne che sento quasi la vecchiaia avanzare dentro di me, come se qualche minuto di questo stillicidio possa contribuire in maniera determinante ad avvicinarmi al mio ultimo giorno.
Poi, le sue labbra si schiudono.
Rimane così un paio di secondi, prima di prendere la parola.
Sentirlo sussurrare, anche se a denti stretti, in questo silenzio assordante mi riporta alla vita.
“Che ci fai qua?”
Ma sì, continuiamo a recitare, come all’inizio di tutto.
Lo sai cosa ci faccio qua. Soprattutto, in qualche modo, te l’aspettavi, che ci fossi.
Non rispondo. Perché io, a differenza sua, davvero non so perché sono qui. Le motivazioni che ho raccolto finora mi sembrano tutte così vaghe, prive di senso. Assolutamente idiote.
“Tu dovresti essere fuori dalla mia vita” prosegue.
Ha un tono di voce strano. A metà tra la supplica e la certezza che quello che sta dicendo sia vero. È come se mi stesse chiedendo di assecondarlo, di rassicurarlo che, in effetti, non faccio più parte della sua esistenza. Ma se è lui il primo a non crederci, non mi facilita certo il compito.
“…lo so…”
“E allora se lo sai esci dalla mia vita per favore, esci!” e mi indica, sempre più carico di un astio disperato, la porta.
Mi giro, la fisso, poi torno a squadrare lui, quasi con rabbia.
È evidente la sua ubriachezza, ma non credevo potesse arrivare ad assimilare la sua vita con una semplice stanza da letto. È una metafora piuttosto degradante.
Ti servirà veramente a qualcosa vedermi uscire da qui? Ti farà sentire meglio?
O tornerai a disfarti, come hai fatto in questi mesi?
Questo dovrai dirmelo tu, e ho bisogno che tu sia lucido.
Continui a gridarmi di andarmene, mentre io rimango ferma, in silenzio, quasi fossi in un altro mondo, estraniata da questi cinque minuti di follia che ti stanno alle costole, senza manifestare la minima intenzione di abbandonarti.
Ma adesso stai diventando veramente fastidioso, Frank.
Taci.
TACI, PERDIO.
Non mi accorgo nemmeno del movimento che sta compiendo il mio braccio. Dei muscoli che lavorano per farlo salire, all’altezza del tuo viso, il ritratto della disfatta. Delle dita della mano che si stendono con una flemma inquietante, quasi abbiano capito anche loro cosa si accingono a fare.
Ma lo sento, lo schiaffo che ti mollo.
Sento il rumore, secco.
Sento le dita prudere, informicolite.
Sento di nuovo il silenzio calare nella stanza.
Dura poco, però. Perché adesso sono io a prendere la parola.
“È veramente questo quello che vuoi?”
Ricordati di quando mi hai strappato la vita in quel parcheggio. Ricordati delle tue parole di allora. E imprimitele bene in testa, perché sto per usarle contro di te.
Per risvegliarti dallo stupido letargo che ti sei imposto.
“Allora, rispondi. Lo vuoi veramente?…o vuoi qualcos’altro?”
E tu rimani impietrito, basito, mentre mi avvicino, ti porto sul letto e ti faccio sdraiare con veemenza, poi mi ritrovo sopra di te, e avvicino con impeto la mia bocca alla tua.
E ti bacio.
Senza rancore, senza rabbia. Perché appena sento il sapore delle tue labbra mi ricordo di quanto le abbia bramate, e di come sia riuscita a ottenerle nel momento meno adatto e più crudele.
E la tristezza mi invade, ti raggiunge, si tramuta nel gusto più dolce di questo mondo ed entra dentro di te come una preghiera disperata.
Ti prego, non buttarti via.
Faccio fatica a staccarmi, perché non ne ho mai abbastanza, perché vorrei nutrirmi di te ogni momento della mia folle esistenza, ma devo farlo. Devo separare le nostre vite, anche se solo per qualche istante, spero.
Ti guardo. La luce della luna è l’unica nostra complice, e illumina il tuo viso, che riesce ancora a essere di una dolcezza sconvolgente. Anche se è indurito dalla disperazione.
I tuoi occhi sono smarriti, come quelli di un cucciolo indifeso. Ma adesso c’è qualcosa, dentro di loro. Non sono più vuoti.
Ci sono le lacrime.
Cerchi di trattenerti, ma non ce la fai. Due sottili rigagnoli si fanno strada sulle tue guance, e diventano in pochi secondi due fiumi in piena. Vorresti soffocare i singhiozzi, ma sono così prepotenti da soffocarti loro.
Ed è allora che ti liberi. Che butti via mesi di tortura auto-inflitta, di bugie raccontate a te stesso e agli altri, per farti sentire migliore, per convincere il mondo che la colpa è stata solo mia, che sono riuscita a fare del male a due persone, me e te, con un solo gesto, una sola mossa infelice. Ma adesso non sembri pensarla così, mentre nel pianto farfugli mille scuse che io non voglio.
Perché non devi scusarti.
Abbiamo sbagliato entrambi.
È un automatismo farti alzare a sedere, e prenderti dolcemente il capo e appoggiarlo sul mio petto, nella speranza che il battito del mio cuore ti tranquillizzi. Ma come può farlo, se va così veloce da rischiare di schizzare fuori come una scheggia impazzita?
Ti accarezzo i capelli, rimandando indietro delle lacrime che non voglio che escano adesso.
Non riesco a pensare a niente. Il cervello è pieno di te.
“Coraggio, è tutto a posto, adesso” ti sussurro, la voce spezzata.
Ti calmi, lentamente. Il tuo respiro torna regolare. Alzi la testa dal mio seno e mi osservi, gli occhi rossi e lucidi.
Non dire niente, per favore.
Lascia che sia il silenzio a parlare per te.
E nel silenzio mi porti con delicatezza a sdraiarmi, e tiri giù la zip della mia felpa con gesti controllati, come se la calma fosse l’unico modo per arginare la tempesta che ti si agita in corpo. Capisco le tue intenzioni, e mi irrigidisco, domandandomi se sia la cosa giusta. Ti fermi, e mi fissi titubante, chiedendomi con gli occhi se voglio.
Stupida me, che ci sto anche a pensare.
Certo che voglio.
Annuisco, e mi alzo un poco, iniziando a toglierti la maglietta, e poi i pantaloni, e tu slacci la mia cintura, e poi i bottoni dei miei Levi’s, mentre mi compiaccio della mia destrezza nel togliermi scarpe e calzini solo aiutandomi con i piedi. Sfili via anche la mia maglietta con la perizia con cui si maneggiano gli oggetti più fragili, quelli che parrebbero infrangersi solo a guardarli, poi il reggiseno, e infine ci ritroviamo nudi, i nostri vestiti ammucchiati a caso intorno al letto, ma che ce ne frega.
Non ci importa di niente e di nessuno adesso, né di quello che è stato fino a qualche minuti fa, né di Bob, che chissà se è sempre sulle scale a fumare, neanche degli altri giù, al piano di sotto, gli occhi cerchiati dalla stanchezza e troppe bottiglie di birra vuote accasciate sul parquet. Siamo solo io e te, su questo letto, vinti dalla passione e allo stesso tempo in preda a una sorta di soglia ultima di controllo, che ci fa unire con attenzione e timore, quasi avessimo paura di sbagliare qualcosa, di rovinare tutto con un gesto di troppo.
Quasi fossimo due ragazzini alle prese con la loro ‘prima volta’.
Per noi lo è, in un certo senso. Siamo rinati dalle nostre stesse ceneri, decisi a non nasconderci più, a fidarci l’uno dell’altra, ad essere davvero noi stessi, coi nostri troppi vizi, ma altrettante virtù che fanno capolino, timide, ma determinate a reclamare il loro posto nel mondo.
Ci divoriamo a vicenda, come se dovesse essere la prima e ultima volta che facciamo l’amore. Non una briciola d’energia va persa, non un sussulto, non un bacio o una carezza. Siamo una cosa sola, e intendiamo rimanerlo per molto tempo, ma la stanchezza è troppa, così abbassiamo il tiro, e decidiamo che almeno per stanotte può bastare.
La luna ci ha abbandonato. È ficcanaso, tremendamente curiosa, si insinua nelle notti di tutti gli amanti della terra col fare confidenziale di chi ti conosce da sempre, perché ti osserva da quando sei al mondo, ma con noi non ce l’ha fatta. Siamo troppo per lei.
Per lei, che gode delle vittorie e delle sconfitte, che illumina di luce riflessa tutto quello che succede al di sotto del suo regno, che sa di essere inutile, ma anche che senza lei ci sentiremmo persi nel buio.
Luna, impallidisci.
Perché stanotte siamo noi gli imperatori del tuo frivolo universo.
E tu scappi, la gobba ondeggiante, e lasci il campo al sole, che lentamente annuncia la sua reggenza tingendo il cielo di colori tenui e rosati.
È con questo sfondo, ancora violaceo, che inizio a raccontare una storia.
Quella che tengo dentro da mesi, che pesa più di un macigno.
Quella che avrei voluto raccontare con calma, ma che uno stupido malinteso ha fatto emergere troppo presto, senza darti nemmeno il tempo di chiederti perché.
“C’era una volta una ragazza dai lunghi riccioli scuri…” esordisco, sottovoce. Proseguo raccontando della mia vita scolastica, dell’amore per la musica, la mia prima chitarra, e poi il regalo dei miei genitori, la band, con mio fratello e il suo amico, l’arrivo di Lucretia nella mia vita, la disperazione che provavo nel costante terrore di perderla e la decisione infelice di provare quel nettare velenoso, che lei stessa mi aveva presentato.
Poi, la dipendenza. L’espediente di mio fratello, che ha avuto il fegato di sprecare tempo, energia e cassette filmandomi in quello stato pietoso. La lucidità che ho recuperato tutta in un colpo, e che mi ha salvato la vita. Perché ero appesa a un filo, e non me ne rendevo minimamente conto, ma gli altri sì, mi vedevano, e sapevano.
E infine, arrivo alla fine della band, alle nostre vite sparpagliate a giro per il mondo. Solo la mia è rimasta ancorata a casa, in quella piccola bottega di tatuaggi, prima che lui entrasse, quel giorno. Prima che Keith e Dave tornassero per volermi di nuovo con loro, nella band.
Mentre racconto non chiede spiegazioni, non fa battute, né sbadigli. Mi ascolta, senza segni di cedimento.
E gliene sono profondamente grata.
“Il resto della storia lo sai anche tu. Quello che vorrei dirti, e che potrei riassumere come ‘morale della favola’, è che quella ragazza…beh, si capisce, sono io, e che non ho davvero più toccato niente di quella roba. Sono pulita, lo sono sempre stata, da quando mi conosci. Ti chiedo di fidarti di me, per favore” e finisco il racconto della mia vita, una sigaretta tra le labbra, nuda, nel letto, accanto a lui, con il tono non di chi supplica, non di chi tenta di convincere con ogni mezzo il proprio interlocutore, non di chi mente.
Ma di chi ha l’impulso irresistibile e incontrollabile di esporre la verità, senza fronzoli o addobbi che la rendano più appetibile.
E lui sorride. Ha la stanchezza sul viso, ma è una stanchezza finalmente felice, libera da ogni preoccupazione.
Inizia a parlarmi di come sia rimasto sconvolto dal mio passato, della paura che aveva di dover ricominciare tutto daccapo, di dover reggere il corpo stremato di qualcun altro a cui tiene, dopo Gerard.
“Ho avuto paura, soltanto paura” sussurra, affranto dalla spietata lucidità con cui si sta ritrovando a riaprire il suo armadio, pieno zeppo di scheletri.
“E di cosa?” chiedo ingenuamente.
“Di…di tante cose. Non ho pensato razionalmente, non ho nemmeno contemplato la possibilità che tu fossi pulita. Avevo solo questo pensiero fisso nella mente, ‘lei si droga’, e non riuscivo più a ragionare con lucidità. Avevo paura di stare di nuovo male al pensiero di avere accanto a me qualcuno che si stava facendo del male, paura di perdere questo qualcuno, paura anche di perdere me stesso, così mi sono detto che forse il modo migliore che avevo per soffrire meno era allontanarti. Sono stato un egoista imperdonabile, me ne rendo conto, ma non riuscivo a trovare soluzione migliore…ti prego, scusami se puoi…”
Gli si legge una tacita e radicata supplica, negli occhi.
Si sente in colpa, soprattutto dopo che gli ho urlato di essere innamorata di lui, e non gli passerà presto, nemmeno se lo scuso senza indugio.
Non sapeva cosa fare.
Gli avevo appena gridato in faccia che lo amavo.
Era paralizzato, diviso a metà tra l’orgoglio e l’amore. Si sentiva lacerare, come se da una parte e dall’altra ciascuno dei due lo stesse tirando a sé.
Avrebbe voluto rispondere “Anche io, cazzo, Frankie!”, e dirmi che non mi avrebbe lasciata mai, che ci sarebbe sempre stato, per non farmi cadere di nuovo in tentazione, per rendermi un po’ meno fragile di quanto le apparenze dessero a vedere, ma non c’è riuscito.
Quel bacio.
Un atto di violenza. Per me, ma anche per lui. Non avrebbe voluto che fosse così duro, cattivo, distruttivo.
Avrebbe voluto riversarvi tutto l’amore di cui fosse stato capace, ma non ce l’ha fatta.
E mentre si allontanava, sentiva il mio pianto disperato lacerarlo fin dentro l’anima. Avrebbe voluto fare qualsiasi cosa per fermare quella piena di lacrime e dolore, ma “avevo questa voce stridula che martellava nelle mie orecchie e mi rassicurava che stavo facendo la cosa giusta, che dovevo tornare da Jamia…non sono stato capace di spiegare niente, quando sono tornato al nostro bus, ma Mikey aveva capito, perché l’ho visto schizzare fuori, nel parcheggio. Dentro di me lo stavo ringraziando, pregando che si prendesse cura di te al mio posto. Avevo da ricucire i frammenti della mia vita, ma ho come l’impressione di averla polverizzata del tutto, agendo in questo modo.”
Il senso di colpa aveva invaso ogni singola cellula del suo corpo. Non se ne dava pace, e più tentava di scacciare quel pensiero scomodo, più esso si affacciava beffardo alla sua mente, gettandolo nel caos. Non riusciva a fare più nulla.
Non suonava.
Non mangiava.
Non amava.
Non viveva.
Pensava e basta, attorniato da lattine di birra e mozziconi di sigarette che non avrebbe voluto più fumare.
Ma non aveva il coraggio di venirmi a cercare. Non avrebbe voluto provocarmi altro male, facendosi risentire.
Questa decadenza era diventata intollerabile per gli altri.
Jamia l’ha lasciato. In un certo senso s’è fatto lasciare, perché era diventato tutto troppo insostenibile per il suo cervello, indebolito da quel tarlo malefico.
Gli altri lo avevano momentaneamente sostituito nella band. Non azzeccava più un accordo, nemmeno il più stupido.
S’era ritrovato a dormire sul divano di Gerard da un giorno all’altro.
Ma nella pazzia, persino in quella più buia e abissale, c’è sempre una luce che non si spegne mai. E per lui quella luce è stata Mikey.
“Sai…il 31 gli Unnamed suonano a New York…mi ricordo che ti piacevano tanto…” gli aveva detto. E lui aveva capito.
Era una richiesta d’aiuto, quella. Goffa, impacciata, dozzinale nel suo tentativo di risultare mimetica, ma era pur sempre un modo come un altro per chiedere qualcosa di apparentemente irraggiungibile.
Ha avuto un attimo di coraggio spudorato, e ha tentato il tutto per tutto.
Fatta la mossa, c’era solo da sperare.
Ed è andata bene. Me lo confessa in un alito di voce sul collo, mentre è intento a cospargerlo di dolci baci.
Vorrei che questi momenti non finissero mai, vorrei che durassero per sempre, ma ormai il sole è alto. Sto pensando che devo andarmene, per recuperare un altro pezzo importante della mia esistenza.
E poi, ancora non gli ho fatto gli auguri.
E nemmeno un regalo.
Oh, ma per quello avrò tempo. Ho giusto un’idea che mi saltella nella testa…
“So che è troppo tardi, ma…buon compleanno, Frank” gli sussurro, avvicinando il mio viso al suo.
A lungo le nostre lingue parlano tra loro, senza dare un minimo accenno di voler terminare la conversazione, ma purtroppo il tempo è tiranno.
Alle 17 devo essere a Boston. Stasera suoneremo là.
Scatto fuori dal letto e recupero i miei vestiti, chiedendo immensamente scusa. Lui ride, divertito.
“Non c’è problema, davvero! Piuttosto…chissà Gerard, poverino, gli sarà toccato dormire sul divano…”
“Vabbè, è stato per una buona causa!” ironizzo, prendendo le mie cose e dirigendomi a razzo verso la porta.
“Ehi, dove credi di andare?”
“Beh, all’aeroporto, che domande!”
“Aspetta, ti accompagno.”

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Love Steals Us From Loneliness ***


uahhhhh, che belli i commenti *_* grazie mille, mi fa piacere che quello che scrivo piaccia a voi che leggete !
e, sì, martù, pandistelle will save us all u_ù/

Cap. 18 – Love Steals Us From Loneliness

Ma dove volevo andare, da sola.
Mi sono accorta di non avere praticamente un dollaro, in tasca. Pochissimi, a dire la verità.
Nel mio mondo meraviglioso sognavo di prendere un taxi per arrivare all’aeroporto, e prendere l’aereo così, senza biglietto.
Meno male che mi ha fermato. E che mi sta accompagnando. E che mi pagherà il biglietto.
Non li rivuole indietro, i soldi.
“È fuori discussione!” sbotta, indispettito. Mi metto a ridere, vedendo il broncetto che mette su, quasi fosse offeso da tanta formalità.
“Ah, allora…beh, grazie” rispondo, imbarazzata.
Adesso sono in macchina con lui, più o meno a metà del tragitto, e i Black Flag che urlano dalle casse dell’impianto radio.
È diversa. Rispetto a quella di Mikey, dico. Oltre a essere più piccola, e di un rosso fiammante, è piena di cose sue. Oggetti che hanno qualcosa da raccontare.
Cd sparsi sui sedili posteriori. Bottigliette d’acqua e lattine di Coca Cola vuote a giro. Un ombrello. Un paio di occhiali da sole addormentati sul cruscotto.
La Mercedes nera di Mikey è asettica, ordinata, elegante.
La Mini di Frank è allegra, incasinata, vissuta.
È Frank. Ed è incredibile come qualsiasi cosa gli appartenga parli a voce alta di lui.
“Scusami, avrei dovuto darle una pulita…” mormora, a disagio, mentre mi vede posare lo sguardo, curiosa e avida di sapere, su ogni angolo, anche il più nascosto e insignificante, di quel microcosmo.
“Tu non hai visto la mia. Altro che dischi e lattine!” replico, mettendomi di nuovo a ridere, e contagiandolo. Così inizia a farmi un sacco di domande sulla mia macchina, un maggiolone originale degli anni ’70 rimesso a nuovo e, che, purtroppo, ho sempre un po’ trascurato: il posacenere sempre pieno, accendini ovunque, giornali dimenticati nei vani portaoggetti, la radio, che appena viene accesa gracchia come un corvo. Il motore, che ha provato ad abbandonarmi plurime volte, e che sembra lavorare quasi controvoglia, facendo per di più un rumore infernale, quando giro la chiave nel quadrante.
“Eppure non riesco ad abbandonarla. Sai quante volte mi sono detta ‘adesso basta, devo comprarmi una macchina nuova’? Però, ormai, è parte di me” confido, sospirante, mentre lui ascolta divertito.
Qualche attimo di silenzio, poi mi dice: “Ma dove la ritrovo una come te?”
Rimango interdetta.
“Eh?”
Nel silenzio, sorride, e spegne la radio. Sono un po’ irritata da questo gesto, perché odio i lunghi silenzi in macchina. Mi piace quando c’è la musica a creare un sottofondo piacevole, e adesso non c’è più nemmeno lei, invece.
Storco la bocca in una smorfia di disappunto, e al tempo stesso curiosità.
Voglio sapere.
Quindi ribadisco la domanda.
“Una come me IN CHE SENSO?” chiedo, scandendo ben bene le ultime parole, distillando in ogni singola sillaba la profonda sensazione di disagio che sta prendendo a poco a poco possesso di me. Lui, incurante, continua a guidare con quel ghigno beffardo piantato in faccia, finché non si inizia a scorgere la sagoma dell’aeroporto farsi sempre più vicina.
Entriamo nel parcheggio, sempre in silenzio, alla ricerca di un posto.
Sto cercando di trattenermi, ma la curiosità mi ha sempre fregato. Però so che non è uno stupido (sebbene alla luce degli ultimi fatti qualcosa mi abbia portato a pensare l’esatto contrario), e so che non è nemmeno sordo, per cui ha sentito benissimo la mia domanda, e ha sentito anche il tono piccato. E forse è per questo che tace. Per farmi innervosire ancora di più.
Trova il posto agognato.
Vi si sistema con perizia. Non avrei saputo fare meglio.
Tutto sommato guida bene, più prudentemente di Mikey, il che mi fa stranissimo. All'inizio avrei detto completamente l'opposto.
Mikey, così calmo e posato.
Frank, così allegro e spigliato.
Entrambi dotati di un modo di guidare che superficialmente non li rispecchia.
Ma, mi azzardo a elucubrare, nel profondo li identifica senza alcun margine di sbaglio.
Spegne il motore.
E si volta a guardarmi, sempre sorridendo.
Spero solo non sia una cazzata colossale delle sue, penso.
“Sei speciale."
Prego?
Questo pare dire la mia faccia.
Incredulità, stupore, sorpresa? Il mio sopracciglio alzato la pensa diversamente.
Non c'è incanto sul mio viso. C'è solo un grosso punto interrogativo, e una scritta che parte dalla fronte e, riga dopo riga, arriva al mento.
Mi stai prendendo per il culo?
Sembra capire, per un momento. E solo dopo che ha parlato, mi accorgo che ha davvero afferrato il senso della mia espressione.
"Nessun’altra è come te, e sono felice che tu sia mia.” chiosa. Niente sguardo sognante, né voce melensa. É sicuro di quel che sta dicendo, e la determinazione gli si legge negli occhi, si sente nella sua voce, ferma, eppure piena di calore.
A questo punto spalanco gli occhi, e anche la bocca.
Effettivamente, no, non è affatto una cazzata.
Indovinate un po’?
Arrossisco.
Sento il fuoco sulle guance, e lui si mette a ridere, vedendomi.
Poi si avvicina, e mi tira un pizzicotto.
“Ma quanto sei carina quando arrossisci!”
Non trovo niente di meglio, come risposta, che fargli una sonora pernacchia, con strafottenza. Ma non se la prende a male, anzi, ride ancora di più.
“Vedi cosa intendo? Nessuna mi avrebbe risposto a pernacchie, tranne te!”
“Non ti piace? Guarda che ne so fare di meglio eh…”
“Naaaaaaaaaah, non intendevo quello. Mi piaci così come sei, a improvvisazione, senza copioni definiti. Tu sei bella perché sei spontanea, sei capace di cominciare a ridere a crepapelle per un’infima cazzata, o di scoppiare a piangere come una bambina se c’è qualcosa che ti turba, e vai bene così, non devi controllarti! Sei…sei…oh, cavolo, adesso inizierò ad incartarmi e non sapere più cosa dire, dannato me!” conclude, strizzando gli occhi, le dita che scorrono frenetiche e nervose tra i capelli, scompigliandoglieli tutti.
Il mio dito si posa tranquillo sulle sue labbra.
“E allora taci, o rovinerai tutto” mormoro, ancora imbarazzata da quell’esternazione così sincera.
Grazie. Se prima avevo tutti i motivi di questo mondo per pensare che mi stessi dicendo una cazzata, adesso ne ho altrettanti per partire sempre più controvoglia.
Perché vorrei stare con te, e godere appieno di tutto l'amore che ti ribolle nel petto, e che non riesci nemmeno a comunicare a parole, tanto è grande.
Ma non ti sto lasciando per senso del dovere. Quello mi è sempre mancato.
Se mi sono decisa a partire è perchè non voglio perdere la mia prima, vera, ragione di vita. L'unica a farmi sopravvivere, prima che arrivassi tu.
É grazie al mio sogno e alla mia passione se ti ho incontrato. Ed è per colpa loro, se adesso devo abbandonarti un'altra volta.
Perché mi stanno sfuggendo di mano, stanno scappando via da me, e devo correre a riprenderli, se non voglio maledire il mio egoismo fino alla fine dei miei giorni.
Se non voglio mandare alla malora anche il sogno e la passione di due ragazzi che mi hanno aiutato, senza chiedere mai nulla in cambio. Sarei veramente una stronza.
Ma almeno, mi consola lasciarti qui con la nostra scaramuccia finalmente conclusa, con un bel cartello gigante, che reca la parola 'FINE', davanti.
Lasciarti qui sapendo che sei finalmente mio, e che non c'è più nulla a turbarti, a sconvolgere il tuo sonno.
Un bacio fugace, quello che ci unisce adesso.
Altrimenti perderò l’aereo.
“Dai, muoviamoci!” mi esorta, uscendo dalla macchina.
"Cos'è, ti vuoi liberare di me?" rispondo, ridendo.
“Hai avvisato qualcuno?”
“Beh, no, vorrei prima sapere a che ore partirò, sai com’è…” replico, saccente.
“…giusta osservazione. Su, su, una mossa!” esclama, spingendomi verso l’ingresso.
Mentre cammino la mia testa si fa teatro di una ridda incontrollabile di pensieri.
Mi chiedo se Keith sia sempre alterato come stanotte. Mi ha fatto paura, devo ammetterlo. E chissà se anche Dave ce l'ha con me perché li ho piantati in asso così, all'improvviso, senza un motivo apparente.
Frank mi vede soprappensiero, ed è così gentile e premuroso da lasciarmi travolgere dalle mie cavalcate mentali per chiedere quale sia il primo volo per Boston, e se ci siano ancora posti liberi.
A un certo punto è come se mi risvegliassi nel mezzo di un sogno. Mi sento intontita, ma una cosa scorre lucida nei miei neuroni, e gliela grido, perché voglio che mi senta, che mi assecondi, che mi dica di sì.
"FRANK! PARTI CON ME!"
Non mi dire no, ti prego, non mi mostrare la verità così schiettamente. Non voglio più stare senza di te.
Si volta, e mi osserva sconsolato, anche un po' triste.
"Lo farei anche subito, ma non posso. Devo riprendermi, abbiamo anche noi dei concerti da fare...mi dispiace. E poi, sei fortunata. È rimasto un solo posto libero."
No, non dispiacerti. Hai soltanto ragione, non è colpa tua, né mia, né di nessun'altro. Sono solo stata egoista a chiedertelo, a pensare, anche solo per un fuggevole attimo, di essere per te più importante della tua band.
Sorrido, triste ma consapevole.
Il peggio è passato per tutti e due. Adesso dobbiamo soltanto raccogliere i cocci e incollarli pazientemente, cercando di non sbagliare a sistemare i pezzi e aspettando con flemma che la colla si asciughi e lasci che stiano insieme senza essere tenuti dalle nostre mani maldestre.
Mi accompagni al gate, e ti congedi da me con un bacio che ha il sapore della malinconia e che sembra rassicurarmi, senza soluzione di continuità, che ci rivedremo presto, e che riusciremo ad avere un po' di tempo per stare veramente insieme, come due persone qualsiasi che si amano.
Prima di salire sull'aereo però chiamo Dave, e gli chiedo se può venirmi a prendere alle quattro e mezzo.
Risponde di sì, ma ha un tono che mi preoccupa: è come se volesse camuffare un qualcosa di negativo con l'euforia e la felicità di risentirmi. Mi chiama persino per nome. Erano anni, tanti anni, che non lo faceva. Io per lui sono sempre stata ‘stellina’, e nessuno, a parte lui, doveva, e deve, permettersi di chiamarmi così. Quindi ho tutte le ragioni del mondo per crucciarmi.
"...Dave, stai bene?"
"Massì, massì! É tutto a posto! Dai, allora ti aspetto all'aeroporto alle quattro e mezzo!"
"Ok...grazie" concludo, meditabonda. Spengo il telefono e mi giro indietro, per vedere se c'è sempre. Ed è lì, dietro un vetro, che mi guarda e, imbarazzato, come uno scolaro delle elementari, fa per alzare la mano e salutarmi, indugiando per lunghi istanti, finché non ci riesce, sorridendo timidamente. Ricambio il sorriso e il saluto, poi salgo sull'aereo e prendo posto.
Appena mi siedo, frugo convulsamente nella tasca del giaccone, alla ricerca del lettore mp3. No, niente iPod per me, va troppo di moda. È un ragionamento che ha fatto storcere la bocca a molti, in primis a Alice, che mi ha regalato questo, e invece avrebbe voluto prendermi un iPod fucsia. Ma sono più contenta così, con le mie convinzioni del cazzo, che mi aiutano ad andare avanti senza troppi intoppi. Ma stavolta, la convinzione che ascoltare la musica riduca al minimo l’attività paranoide del mio cervello è del tutto errata e fuori posto.
Mi rode averlo sentito così giù di morale. In realtà non ho smesso di pensarci un attimo, perché non è da lui. Dave è sempre quello che porta una ventata di buonumore nella band, quello che suscita un sorriso anche solo dicendo la più immane delle stronzate, quello che, se attacca a ridere, contagia tutti gli altri.
Non l’ho mai sentito con quel tono di voce, e nemmeno ridere così nervosamente, così stizzosamente.
Così fintamente.
Perché non ho chiamato Keith? Almeno mi sarei risparmiata tutta questa fila di seghe mentali. È incazzato, e lo so sin troppo bene. Magari mi avrebbe sorpreso in positivo, mostrandosi tranquillo. Magari.
In realtà il motivo per cui mi sono buttata a pesce sul numero di Dave, senza pensarci nemmeno un attimo, è stato proprio questo.
Non volevo sentire mio fratello ancora alterato con me. Che ci crediate o no, fa male più di una rasoiata maldestra. Quelle in cui ti tagli senza cognizione di causa, per sbaglio, e quindi non c’è precisione nel colpo, e il dolore diventa un affare dispersivo, bruciante, il sangue esce e vorresti che si fermasse, e invece no, non ti ascolta e prosegue nella sua corsa verso l’infinito e oltre.
Confidavo nella consueta allegria del nostro bassista, e invece ci sono rimasta fregata. Perché adesso è solo affabilità, e nient’altro. Una cordialità affettata che mette profondamente a disagio chiunque abbia a che fare con colui che la usa.
Frank è passato in secondo piano rispetto a tutto questo. È tutto a posto con lui, per fortuna. Ma anche questo non faccio che ripetermelo come un mantra, quasi dovessi convincermene, quasi non fosse vero.
Probabilmente l’unica cosa che non va in tutto questo sono io.
Io che non riesco a gestire a dovere la mia vita, che per inseguire un amore perduto metto da parte senza troppi complimenti chi, di affetto, me ne ha dato da sempre, che risolvo costantemente problemi che fondamentalmente mi creo da sola, e soprattutto che mi faccio delle paranoie assurde, finendo per pensare troppo a tutto quel che mi riguarda.
Dovrei spegnere il cervello e agire d’istinto, qualche volta. La sa lunga al riguardo.
Adesso sia lui che la ragione mi stanno guardando e ridono. Uno ride perché ha pietà di me e dei miei cavilli, l’altra perché è isterica, nervosa, abusata, e mai con buoni esiti. Perché, diciamolo, la verità è che sono ridicola. Non ho capito proprio niente della vita, e lo dimostra il fatto che sono qui, seduta in un aereo che sta per atterrare, con le cinture slacciate e il bambino vicino a me che mi dice, esitante per la paura di disturbarmi (questa dannata paura andrebbe abolita. Non può pietrificare anche i bambini.): “Signorina, devi allacciarti le cinture…”, per il fatto che non lo sento, perché adesso Iggy Pop urla come un cretino nelle mie orecchie che vuole essere il mio cane, e io gli rispondo, e tutto questo si svolge nel mini-mondo idilliaco che ho costruito nel mio cervello, che non ho bisogno di animali da portare fuori a pisciare, ma solo di un po’ di sana, fottuta, tranquillità, e finisco per mandarlo a fanculo, e poco ci manca che ci mando anche la hostess che viene a picchiettarmi gentilmente, ma con odio, visto che sono un grumo nell’impasto perfetto del suo lavoro qua sopra per oggi, sulla spalla, invitandomi a togliere le cuffiette e ad ascoltarla, e io vorrei dirglielo, che preferisco Iggy, ma non credo che capirebbe, e allora mi tocca assecondarla, a questa schifosa vacca rompicoglioni. Comincio a stancarmi di tutto questo, comincio a diventare insofferente verso tutto e tutti e non vorrei, vorrei che la vita fosse davvero un idillio, un pensare solo alle stronzate, a suonare, a sfondarmi di gelato e birra, che sì, è un accostamento osceno, ma ha il suo perché, ai regali da fare agli amici e a…oh, cazzo.
Ho giustappunto un regalo in sospeso. E mi sono dimenticata di parlargliene. Chissà quando lo rivedo…io voglio dirglielo ora, subito, immediatamente! Ma naturalmente non siamo ancora atterrati, non posso ancora accendere il cellulare e soprattutto adesso che scendo devo subito cercare Dave, che è talmente di aspetto ordinario, e io sono così rincoglionita da tutto quello che mi è successo nelle ultime ventiquattr’ore, che già so che farò una fatica immane per trovarlo.
Per fortuna lui trova me. E ovviamente ha su un muso che mi spaventa. Mi saluta cordiale, ma freddo.
“Cos’hai?”
“Eh…ero preoccupato per te…e anche per Keith. è da ieri sera che si comporta come un orso.”
”Non faccio fatica a indovinarne il motivo…” concludo lapidaria, con una feroce ironia che non mi appartiene.
Ma d’altronde, mi sembra di non essere l’unica a prestarmi a questa buffonata. E allora facciamo le cose per bene.
E, per favore, andiamocene da qui.
Odio gli aeroporti.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** On My Own ***


aggiorno ancora, prima di andare a vedere sto famigerato film dei simpson :Q____
vi adorooooooooooooooooooh!!! >o

Cap. 19 – On My Own

Il silenzio non è sempre così bello e tranquillizzante come si può pensare.
Nei film dell’orrore è sempre presagio di un bel casino. È odioso se te ne stai seduto con la chitarra in braccio e non riesci a trovare nemmeno una nota per cominciare a comporre qualcosa, avvilente se suoni su un palco e la gente che è intorno tace, immobile, senza scomporsi, ieratica come solo le sconfitte sanno essere.
Ma, soprattutto, il silenzio sa essere di una cattiveria inconcepibile.
Quando non si sa cosa dire, esterrefatti da una visione che non avremmo voluto passasse davanti agli occhi, quando si ha la ferma volontà di fare del male a qualcuno, non importa se per indifferenza, odio, o soltanto un insano istinto di sopravvivenza che porta a dimenticarsi degli altri, quando la rabbia è talmente tanta che piuttosto che esplodere si preferisce implodere, farsi schiacciare da se stessi e dalle proprie umane, fottute paure.
Il silenzio è una maledizione per me. Sopraggiunge sempre nei momenti peggiori, quasi la mia esistenza fosse il copione di un horror. Niente budella a giro e cuori pulsanti che giacciono indolenti a terra, per fortuna, ma il senno a brandelli, quello si che è sparso ovunque.
È tutto il giorno che questo mutismo mi assorda. Prima Frank, che poi, per fortuna, risolve la situazione con un colpo di coda assolutamente piacevole (penso sia un caso più unico che raro, in cui il silenzio mi porta a qualcosa di positivo), poi Dave, che nemmeno mi chiede cosa sia successo, come sia andata, niente.
Abbiamo taciuto, dentro a quel taxi, come due scolari messi in punizione. Senza nemmeno guardarci negli occhi. Sfuggente lui, imbarazzata io.
Perché avrei dovuto farmi imbarazzare dalla sua presenza? Non lo so, giuro non riesco a comprenderlo. Però lo ero, e la mancanza di una spiegazione razionale raddoppiava il disagio.
E poi, stasera. È stata una scena surreale.
Un soundcheck muto.
Niente scambi di opinioni, niente imprecazioni, niente di niente. Solo gli strumenti rantolavano sommessamente, tra i brontolii dell’impianto di amplificazione, quasi a chiedersi che cazzo stesse succedendo. Tutto lo staff era profondamente a disagio, e io a scusarmi con tutti loro, come se la colpa fosse solo mia. Beh, in un certo senso sì, lo è. Mi sorridevano, senza biasimarmi per essere sparita nel nulla ieri sera. Almeno loro.
Dave continuava a tacere e fuggire, e Keith mi rivolgeva occhiate torve e colme di disappunto, senza proferire nemmeno il minimo grugnito. E invece io avevo una schifosa voglia di parlare, di sapere il perché di questa pantomima così ridicola, di raccontare cosa è successo e di indurli a fidarsi di me e di quello che faccio, perché non sono più una bambina. Purtroppo tutto questo mi sono dovuta accontentare di dirlo a me stessa, per l’ennesima volta. Quando inizi a ripeterti dentro le solite cose, finisci per venirti a noia.
I minuti scorrevano lentamente, le sigarette però si accumulavano tristi e sbrigative nel posacenere. Un paradosso temporale. Come in quei video, in cui un personaggio scorre lentamente, e un altro a velocità raddoppiata. Non so, mi vengono in mente i Radiohead di Street Spirits, o American Idiot dei Green Day.
Mi sfugge la ragione per cui stia pensando a queste cazzate. Perché, suvvia, ricordarmi di un video dei Radiohead non servirà a farmi suonare decentemente stasera.
E parto, parto a ragionare, in solitudine, a chiedermi cosa avrebbe fatto Thom Yorke nella mia situazione, a chiederglielo proprio, in un ridicolo dialogo tra me e me travestita da lui, e mi sembra di giocare a poker col morto, perché effettivamente lui non è qui ad ascoltarmi, e anche se ci fosse non credo considererebbe più di tanto le mie folli elucubrazioni.
Sono sola, no?
E in quanto tale devo rimboccarmi le maniche e risolvere tutto by myself, perché tanto non c’è nessun Thom Yorke, nessun Billie Joe Armstrong, nessun Billy Corgan, o Lou Reed, o chiunque altro a caso, qui, a dirmi che sto sbagliando a stare zitta, che devo perlomeno passare un dito sulla polvere e mostrarlo grigio, che è sempre più prudente che creare ad arte una nuvola malefica che faccia pizzicare i nasi altrui.
Me lo sto dicendo da sola. Lo sto sussurrando, ormai. Riesco a distinguere la mia voce tra il clangore dei piatti, i colpi secchi delle percussioni, il borbottare, quasi rassegnato, del basso e le sporadiche note emesse dalla mia chitarra. Sì, ho praticamente smesso di suonare, e adesso me ne sto seduta a terra, la chitarra sulle gambe, l’espressione da ebete. Potrei giurare di avere anche la bocca semiaperta, il che non migliora certo la mia situazione.
Il mio sguardo si ridesta di colpo, smettendo di fissare il nulla, e vede davanti a sé un paio di tecnici a metà tra lo sbigottito e l’allarmato, mentre tuttavia se la ridono, e due paia di occhi familiari, che osservano la scena inviperiti, ma preoccupati.
Ah, finalmente l’avete inteso, che c’è qualcosa che non va.
Serro le labbra, mi acciglio, guardo tutti male e mi giro di spalle a suonare.
Sto pensando, non rompetemi i coglioni.
E mentre penso un nome riaffiora, e vorrei che non lo facesse mentre sono impelagata in situazioni così critiche, perché ho l’impulso quasi istantaneo di afferrare il telefono e chiamarlo, e sentirmi confortare. Come se potesse risolvere sempre tutto, lui.
E, tanto per smentire chi non crede nella telepatia, si propaga nell’ambiente quella terribile sigla degli Happy Tree Friends, che mio fratello non sopporta.
Vorrei che suonasse all’infinito, solo perché gli dà fastidio. Vorrei vederlo triturarsi le orecchie dalla disperazione, come nel peggiore degli incubi, in cui sei davanti a qualcosa che non vorresti vedere, ma la luce non si spegne, le tue gambe si sono vulcanizzate con il pavimento e, ovviamente, la cosa non accenna a togliersi dal tuo campo visivo.
Una piccola vendetta, la mia. Talmente piccola che dura pochi, irrisori secondi.
“Rispondi a quel cazzo di telefono!” sento sbottare alle mie spalle. L’ordine è talmente perentorio che mi sento quasi in dovere di ubbidirgli.
E, nemmeno a farlo apposta, è proprio la persona che avrei voluto chiamare.
“Pronto?”
“Ehi, sei arrivata? Tutto a posto?” mi sento chiedere a raffica con tono allegro.
“Hm, immagino di sì…” biascico, titubante.
“Successo qualcosa?”
“Dunque…sì e no. Ti dispiace se ti spiego più tardi? Stiamo facendo il soundcheck…”
“…ah.”
Cazzo, sembra dispiaciuto.
“Dio, scusami, Frank, è che…uff, aspetta” e mi alzo, mollando la chitarra a terra e uscendo fuori dal locale, sul retro.
Mi ha dato retta. Ha aspettato.
“Ci sei adesso?” mi chiede, premuroso.
“Sì, eccomi…io non so cosa stia succedendo, ma ti faccio una domanda…ti è mai capitato di fare un soundcheck completamente in silenzio?”
Ha capito. Rimane in silenzio dei secondi, poi mormora: “Cazzo, mi dispiace…è colpa mia se adesso non ti parlano…”
“Macchè colpa tua! Sono loro a essere degli imbecilli, soprattutto quel cretino di mio fratello!” sbotto, esasperata.
“Comunque, sto bene…mi faccio risentire io stasera dopo il concerto, ok?” riprendo, pacando i toni.
Fottuto orgoglio. Non sono riuscita a dirgli come stanno le cose.
Non posso certo aspirare nell’aiuto di qualcuno se sono la prima a precludermi questa possibilità. È anche vero che non mi va di tirarlo nei miei problemi, sarebbe soltanto da egoisti e incapaci, senza un minimo di spina dorsale.
“Va bene! Allora a stasera!” esclama, di nuovo raggiante.
Attacchiamo in sincro, ancora incapaci di dirci quanto contiamo l’uno per l’altra.
Sembriamo davvero due adolescenti al loro primo amore.
Torno dentro, e capisco che hanno capito.
Keith è ancora più torvo di prima, e Dave…non so perché faccia così. È letteralmente sconsolato.
Oh, al diavolo. La mia massima preoccupazione adesso dev’essere solo la chitarra.
La imbraccio di nuovo e mi metto a suonare con foga, scordandomi di tutto il marcio che ho intorno, di tutte le delusioni che sto dando e sto, per contro, ricevendo, di tutto quello che vorrei andasse per il verso giusto e invece non ci sta andando, e chissà quante altre cose, che si rincorrono frenetiche nella mia testa senza nemmeno pensare ad acquisire una forma vagamente riconoscibile.
Sento che stasera suonerò bene. È nel pieno della rabbia che riesco a dare il meglio.
Oramai manca poco. Tra una mezz’oretta suonerà il gruppo di apertura, poi toccherà a noi.
*
Mediocri.
Questo siamo stati stasera.
La tensione tra noi era palpabilissima. Si sarebbe potuta fare a fette con un coltello.
E si sentiva. Cioè, tecnicamente non abbiamo sbagliato nulla, no stecche, no perdite di passaggi, nemmeno dissonanze tra gli strumenti.
Ma siamo stati freddi. Profondamente professionali. Come se questo fosse uno sporco lavoro, e noi fossimo stati gli unici disposti a farlo, per di più controvoglia.
E la gente non si divertiva, e s’è visto. È stato come se avessero assistito alla performance di tre sbarbatelli alla loro prima occasione di suonare live. O di tre vecchie rockstar annoiate.
Nemmeno agli esordi eravamo così. Sbagliavamo, ci fermavamo a metà canzone, nella sala prove, se a Dave partiva una nota di troppo (e succedeva piuttosto spesso), oppure se io partorivo un accordo che sembrava il rantolo di un gatto morente ricominciavamo daccapo, suonavamo seduti, anche sdraiati, ridevamo e ci prendevamo anche a parolacce, ma eravamo schietti, sinceri, spontanei. Quello che non siamo stati stasera, troppo occupati a seppellire sotto note a casaccio le nostre rispettive incazzature.
Mi sono accorta dello schifo che stavamo facendo. Ho guardato Dave, come a chiedergli spiegazioni ovvie, che già sapevo, ma lui ha rivolto lo sguardo altrove, e Keith, bontà sua, era perso dietro la sua batteria, sforzandosi, come mai ha fatto, di suonare decentemente. Quello che per lui è sempre stato un divertimento, l’ho visto assumere la forma di un onere da compiere, un qualcosa di forzato. Lui non era lì, non tra i suoi amati piatti e tamburi, ma provava a rimanerci, per un innato senso del dovere.
Se non possiamo salvare l’alchimia, almeno per stasera salviamo la tecnica.
Questo pensiero correva da un cervello all’altro su quel palco, che improvvisamente era diventato troppo piccolo per poter ospitare tre teste di cazzo di proporzioni mitologiche come noi.
In ogni caso, questo non ci giustifica: abbiamo fatto schifo. Solo che non troviamo il coraggio di dircelo, nemmeno in albergo, quando siamo solo noi.
Tre coglioni, che mettono da parte l’amicizia, la musica e tutto quello che hanno condiviso fino ad ora, per guardarsi nelle palle degli occhi e finalmente gridarsi contro che c’è qualcosa che non va, e che va risolto al più presto, senza spargimenti di sangue.
Tre coglioni. Solo tre coglioni. In silenzio, per giunta.
Ecco quello che siamo.
Adesso basta.
“Che cazzo sta succedendo?” chiedo, infine.
“Questo dovresti dircelo te” risponde, finalmente, uno dei due.
Keith.
Alla buon’ora.
“Beh? Perché io?” incalzo, alzando un sopracciglio, con l’aria più stralunata del mondo. Meglio far finta di niente.
“E lo chiedi anche? Pigli, te ne vai all’improvviso, sparisci e ce lo dici quando sei già sulla macchina e si vede il cartello ‘BENVENUTI IN…’ hm, dov’è che eri?”
“New Jersey…” sospiro.
“Ecco, sì, ‘BENVENUTI IN NEW JERSEY’, fai i tuoi porci comodi là e torni così, per suonare e basta, perché ti senti la coscienza più sporca di una discarica, e hai il coraggio di chiedere perché ce l’ho con te?”
Taccio. Perché in fondo ha ragione. Sorvolo con eleganza sulla coscienza sporca come una discarica, perché è un colpo basso. Di quelli che ogni tanto snocciola per far sentire in colpa il prossimo.
Ma so benissimo di essere a posto con me stessa. Non mi freghi, stavolta.
“Dì la verità, Frances…”
No, che cazzo. Non chiamarmi per intero.
Questa non la passi liscia.
“…ma tu hai capito vagamente come si sta al mondo?!”
“Beh, ovvio. Sennò non sarei sempre qui, viva…” ribatto ironicamente.
Errore. Errore grosso, quando si ha a che fare con Keith.
Il sarcasmo lo infastidisce. E oltretutto è anche il doppio di me. Se gli scappa di mollarmi anche solo un buffetto, si ritrova né più né meno con una sorella cadavere, e gli anni di risse fuori dalla scuola non mi serviranno a niente. È pur sempre mio fratello. Quello che mi bloccava sempre, quando davo in escandescenze.
Mentre mi maledico, scorgo con la coda dell’occhio Dave, in silenzio in un angolino. Mi ero scordata di lui, ma lui, come biasimarlo, d’altronde, non può scordarsi di noi, visto l’acceso scambio di battute cui sta assistendo. Il suo sguardo smarrito rimbalza da me a mio fratello, poi di nuovo su di me, poi su di lui, come se stesse seguendo una partita di ping-pong e non riuscisse a vedere bene dove va la pallina ogni volta.
Mi fa un po’ pena. Potrebbe anche uscire e andare a bersi una birretta, invece di stare a guardare maniacalmente lo spettacolo increscioso che io e Keith stiamo offrendo. Invece rimane lì, nell’angolino, nemmeno avesse una colpa da espiare.
Mio fratello incassa il colpo, ma lo vedo, che sta affilando le armi.
E parte. Provocazioni stupide, che da lui non mi sarei mai aspettata. Vi dirò, l’ho sempre creduto più intelligente. Probabilmente lo sopravvalutavo, perché uno che proferisce certe cattiverie così innocue non può essere tanto sveglio. Mi sembra il minimo starmene in perfetto silenzio, quasi come un gesto di solidarietà nei confronti del povero Dave, che mi sembra sempre più perso nella nostra idiozia.
Almeno finché l’imbecille non partorisce la cagata più infelice, più…più…cazzo, ma siamo sicuri di essere figli degli stessi genitori?
“Almeno ti ha scopata bene, quella mezza sega?”
Detto con un tono che lascia intendere di tutto. Malizioso, viscido, sporco.
No, questo non è mio fratello.
Frankie, resta calma.
“Prego?”
“Mi hai sentito benissimo.”
Ah, perfetto. Non smentisce.
“Ma lo sai che non capisci un cazzo?” rincaro la dose.
“No, TU non capisci un cazzo, a confonderti con quello!”
“Vaffanculo” borbotto. Non ho voglia di litigare.
Però adesso sta esagerando.
Continua, non capisce che c’è un limite a tutto, non capisce che e provocazioni non portano ad aggiustare le circostanze, ma spargono solo del sale in più su ferite che fanno già da sole un male atroce.
Vorrei pregarlo di smetterla, ammettere tutte le mie colpe, anche quelle che non ho commesso, ma non ci riesco, forse perché so di non avere così torto.
Che c’è di male a fare quel che ho fatto?
Stava male.
Per colpa mia.
E io stavo male.
Sempre per colpa mia.
Ma a lui, che importa. Prosegue nella sua opera di distruzione della sorella, colpevole di chissà quali atroci misfatti. E io non ci vedo più, non sopporto più le sue frecciate velenose, le sue secchiate di vetriolo. E ribatto, crudele, rabbiosa, senza tuttavia far sfociare il tutto in qualcosa di più viscerale. È sorda, inodore, inconsistente, la mia rabbia, anche se ho qualcosa, qualcuno, da difendere.
E Dave, in tutto questo, Dave…si alza in piedi. E noi non ci accorgiamo di lui, non della furia che gli esce persino dagli occhi, non dei pugni serrati e nemmeno della sua esasperazione.
“BASTA!”
Silenzio.
Ci voltiamo a fissarlo, gli occhi spalancati.
“Mi avete rotto le palle con le vostre bambinate!” sbotta, livido. Poi attraversa la stanza, passando in mezzo alle nostre scintille di odio puro, apre la porta e se ne va, sbattendola dietro di sé.
E in fondo questo siamo, io e Keith.
Bambini.
Perché non trovo altro di migliore da dire, se non: “Hai visto? Sei un’idiota! Ammettilo, di aver esagerato! Hai pisciato di fuori!” e corro via da quella stanza, sbattendo a mia volta la porta, e inseguendo Dave.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Your Revolution Is A Joke ***


e qui iniziano a saltare fuori le magagne, dico solo questo...buona lettura e sempre grazie per i commentini e le recensioncine !!!

Cap. 20 – Your Revolution Is A Joke

“Lasciami stare!”
“Ma anche no!” rispondo, risoluta, in non so che strada di Boston.
Ho seguito Dave, pregandolo di tornare indietro, di risolvere insieme a noi la questione.
“Non ho proprio niente da risolvere io!” è stata la sua risposta.
Forse sono idiota, a pensare di poter risolvere qualcosa. Forse non c’è davvero nulla su cui mettere le mani.
Forse siamo finiti.
Ancora una volta.
Solo a pensarci sento chiaramente un magone stringermi la gola.
No, non voglio, stavolta. Non voglio che tocchi a me essere l’elemento di disturbo, il pomo della discordia della situazione. Non voglio che Dave se ne vada per colpa mia e di mio fratello. Non voglio che Dave vaghi per le strade di Boston senza prestarmi minimamente ascolto, anche se finora ho detto soltanto stronzate, e quindi ben venga la sua sordità volontaria, la refrattarietà a tutto ciò che sto blaterando senza ormai averne nemmeno la minima cognizione. Non voglio che Dave adocchi quel pub e vi entri, mentre io cicalo che con l’alcool non si risolve niente. Chi era che cercava di risolvere i suoi problemi con l’eroina, in fondo? E allora stà zitta, Frankie, stà zitta. Chiudi quella boccaccia, almeno una volta nella vita.
“Ti do dieci dollari se riesci a stare zitta per più di dieci minuti di seguito!” diceva mia madre, quando la esasperavo, quando le chiedevo insistentemente una chitarra, delle lezioni, quando le raccontavo nei minimi dettagli cosa facevo a scuola, compreso far rizzare i capelli ai prof. Lei era sconvolta. Invece mio padre, dietro, se la rideva. Anche quando tornavo con qualche nota.
“Ha personalità, mica come quella bietola di Keith!” diceva. E un po’ mi irritava che lo dicesse.
Non era vero. È solo che lui sapeva discernere gli affari di famiglia dai cazzi suoi, a differenza mia.
Ma adesso che faccio, mi prometto di elargirmi dei soldi per stare zitta e non pensare agli infiniti paradossi della vita? Recito la parte di mia madre e la mia insieme? Che cretinata. Non ci guadagnerei nemmeno.
Ma almeno mi distrae, pensarci, e non riesco a fare a meno di stirare le labbra in un sorriso un po’ nervoso.
Però…non voglio che Dave beva come una spugna, non voglio, cavolo.
Ma soprattutto, non voglio che Frank mi chiami adesso.
Posso non volere quel che mi pare, fatto sta che il telefono sta squillando, e insiste, insiste fastidioso come una zanzara che si è improvvisamente resa conto che il tuo orecchio, ma soprattutto il tuo sangue, sono i grandi e irripetibili amori della sua pur breve esistenza.
Rimango dei secondi a fissare lo schermo, quel nome che vi campeggia sopra, intermittente, mentre la risibile suoneria fa girare mezzo locale nella mia direzione.
Le dita, quando sono nervosa, sono le prime a dare segni di cedimento.
Strano. Da ubriaca, o drogata, riuscivo a suonare lo stesso da dio.
Mi basta avere anche solo un attimo la luna storta per dire addio a una buona performance.
Non è questione di rabbia, perché, anzi, grazie a lei riesco a carburare come una pazza furiosa. Il nervoso è una sensazione strisciante, subdola, che non esplode ma rimane a covare, e cova, cova, cova, e può scoppiare in un boato assordante, ma può anche tornare indietro, e allora sì che ti girano le palle più di prima. Perché non l’hai reso produttivo, ma solo un ignobile fastidio.
Insomma, sembra che, invece di aprire un telefono, stia tentando di scassinare un’ostrica particolarmente riottosa e di estirparla dalla sua privacy domestica, magari mentre sta tentando di spolverare, di levare di mezzo quel fastidioso granello di sabbia. Cosa credete, le perle sono soltanto la manifestazione dell’incapacità di spolverare delle ostriche.
Finalmente lo apro, lo avvicino all’orecchio e rimango in silenzio un secondo, o forse due.
“Ho detto che ti chiamo io!” grido poi nel povero, innocente apparecchio, riattaccando di colpo. Un raptus, né più né meno.
Non ora, Frank. Non ora.
Ti prego.
Entro nel pub. Dave mi sta evitando, ancora. Ordina una birra rossa.
“Per me una Guinness” mi intrometto nella schermaglia tra lui e il cameriere.
“Senti, te lo dico per l’ultima volta per bene, alla prossima non garantisco per la mia gentilezza: voglio stare da solo, levati dai coglioni!”
“Alla faccia della gentilezza!” sbotto, mentre il boccale arriva e affondo il naso nella schiuma.
“Non me ne vado. È tutto il giorno che mi eviti, e adesso voglio che tu mi dica chiaro e tondo perché!”
“Frankie. Lasciami. Stare.”
Taccio.
Ora tace anche lui. S’è accorto che non me ne andrò, e forse, alla fine…mi piacerebbe pensare che tutto sommato la mia presenza non sia poi così fastidiosa.
Cosa spero di ottenere, standogli alle costole?
Provo a fornirmi qualche risposta, a snocciolarle senza fretta né convinzione, passivamente, come se fosse un giochino da fare per ingannare il tempo che non scorre. Quella più plausibile è che, in questo momento, mio fratello mi fa talmente schifo che non riesco a sostenere la sua vista, e allora preferisco vedere Dave che si ubriaca, birra dopo birra, piuttosto.
I boccali si affastellano veloci davanti a lui, così come davanti a me piccoli bicchieri, fino a qualche istante fa pieni di vodka, o rum. Finalmente riesco a capire il significato della frase “bere per dimenticare”. La sto comprendendo lentamente, come si conviene a un ubriaco, d’altronde. E altrettanto lentamente realizzo che il mio telefono sta squillando. Da chissà quanto.
Nemmeno guardo chi possa essere. Schizzo fuori dal locale e rispondo, tutta allegra.
“Prrrrrrrrrrrronto!”
“…beh, volevo solo sentire se stai bene, e mi sembra tu stia benissimo.”
Clic. Riattacca.
“Chi cazzo era?” mi domando, completamente rincoglionita. Scorro con le dita sui tasti, alla ricerca delle chiamate.
Ecco, benissimo, anche lui, adesso. Prima sbotto rabbiosa, poi, tra i fumi dell’alcool, la rabbia si annacqua, si incupisce e promette nubifragi. Pioggia a catinelle. Un’alluvione.
Ricompongo il suo numero, lentamente, per non sbagliare, mentre la schiena scorre sul muro, appena di lato alla porta del pub. Mi ritrovo seduta a terra, non so come, e intanto il telefono squilla, dall’altra parte, senza che nessuno se ne preoccupi.
Alla fine, quando sto per attaccare, risponde.
“Che c’è?”
È freddo. Crudele.
Vorrei trattenermi, ma non ci riesco. Scoppio in un pianto alcool-isterico così furioso che non riesco nemmeno ad articolare un suono compiuto, poi, quando finalmente riprendo un minimo di padronanza, farfuglio mille “Scusami, scusami, ti prego…” a ripetizione, senza dargli nemmeno il tempo di replicare.
“Ehi, calmati, stellina…che succede?”
Stellina.
Stellina.
Stellina.
Non rimbombarmi nella testa, per favore. Non ripetendo come un’eco quella voce così calda e dolce. Voglio che sia un’altra voce a chiamarmi così, una voce sempre allegra, che si è dimenticata cosa c’è tra noi.
“Non chiamarmi stellina, può solo Dave!” strido.
Ma non lo fa più.
Non mi chiama più con quell’appellativo speciale. Come se non fossimo, adesso, null’altro che semplici conoscenti.
Ricomincio a singhiozzare convulsamente. Il solo pensiero mi manda ai matti.
Un paio di ubriachi più ubriachi di me si voltano a fissarmi, dall’altra parte della strada.
“Toglietevi dalle palle e andate a guardare qualcun altro, stronzi!” grido, disperata.
Beh, però. Si allontanano. Ha funzionato.
“Hai…hai…bevuto?”
Sembra allarmato.
“Pochiiiiiiiiino…non ti arrabbiare, ti prego…” balbetto, asciugandomi le lacrime.
“Ah, ecco, mi sembrava…” risponde. Ma lo sento ancora freddo.
Stai mantenendo ancora le distanze dallo schifo che sono? Non ti biasimo.
Ma non farlo adesso. Rimanda di qualche ora, o di qualche giorno.
Quante volte lo avrò ripetuto nella mia testa, stasera?
Non adesso.
Rimandare il colpo di grazia e prolungare l’agonia.
È da perfetti stronzi.
Stronzi con se stessi.
Lo so.
Non si può voler bene a comando. Ma adesso ne ho bisogno, anche se fosse tutta una finta, una farsa.
Perché nemmeno l’ultimo uomo rimasto sulla terra si sentirebbe come mi sto sentendo io ora.
Sola.
“Frank, non lasciarmi…” lo imploro, ricominciando a sussultare con violenza.
“Non voglio lasciarti, piccola…come ti è venuto in mente?” cerca di tranquillizzarmi, finalmente rabbonito. Eppure la sento, la sua preoccupazione. Brucia come acido sulla mia pelle martoriata dalle lacrime. Avrei voluto tenerlo all’oscuro di tutto questo, costruire un piccolo castello felice con lui, un posto in cui rifugiarmi quando sento crollarmi il mondo addosso, ma è da egoisti.
Lui non è solo il porto sicuro, in cui approdare quando si è vessati da una bufera, e non è nemmeno il mondo delle favole, in cui tutto va schifosamente bene e tutti sorridono, si ammantano di dolci maschere dall’espressione di plastica, mentre dietro covano odio, disprezzo, disperazione, invidia.
Volevo indossarla anche io quella maschera, davanti a lui. Perché abbiamo visto troppe brutture in questo mondo storto, e volevo risparmiargliene di ulteriori. Ma lui sa meglio di me come va la vita, e io so solo di essere una superficiale del cazzo.
Così l’ho tirato nel mio inferno personale, piccolo, ma pieno, come una soffitta, di un’accozzaglia di oggetti inutili, polverosi e distrutti dai tarli della memoria ottimista, che si ostina a lavorare indipendentemente dal resto del mio cervello per non darmi l’impressione di essere una sorta di disgrazia vivente.
Non riesco a spiegargli cosa sia effettivamente successo, perché non riesco a realizzarlo anche io. Mi sembra così astruso ritrovarmi contro mio fratello e il suo migliore amico insieme. Balbetto un sacco di nozioni tutte insieme, e giustamente, tra un singhiozzo e l'altro. Di per sè, è abbastanza prevedibile che Frank non ci stia capendo nulla.
"Cioè...sei atterrata a Boston e da lì sono iniziati i guai?"
"Praticamente."
E ancora, lui, a dispiacersi, scusarsi, perché secondo una logica nemmeno poi distorta, crede che sia solo colpa sua.
A poco a poco sto recuperando lucidità. A dire la verità non l'ho mai persa, ma era soltanto stordita e incapace di riprendere la sua posizione.
Divento seria, il tono di voce nuovamente asciutto, mentre glielo dico a chiare lettere.
"Non c'entri niente, sono stata io a voler seguire Mikey e Alicia. Se non avessi voluto, avrei detto di no, e più di una volta, quindi non preoccuparti, che non è colpa tua, ma solo mia. Però, credevo che avrebbero compreso il mio gesto, almeno Dave..." sospiro. É il suo voltarmi le spalle la cosa che mi fa più male.
Chi se ne frega di mio fratello.
Chi se ne frega.
Stronzo.
Quando si è incazzati a morte con qualcuno non si pensa mai al bene che ci ha fatto in precedenza, e io adesso mi sto comportando esattamente così nei confronti di Keith, perché a quanto pare anche lui s'è dimenticato di tutte le volte che lo difendevo davanti a nostro padre, quando lo mandavo a cagare ogni volta che lo chiamava 'bietolone', 'patata lessa', e altri epiteti di stampo affine, s'è scordato che Alice, la sua ragazza da una vita, gliel'ho fatta conoscere io, s'è scordato del tatuaggio che voleva da chissà quanto, ma che non s'è mai potuto fare perché doveva risparmiare per comprarsi la batteria, e che gli ho fatto io, come regalo di compleanno, s'è scordato che, anche quando sembrava che non me ne fottesse un accidente del mondo intorno a me, lui rimaneva comunque il mio punto di riferimento. E devo sentirmi chiedere certe cose, dal mio punto di riferimento? Farmi umiliare così? Meno male che Lui non era presente, altrimenti avrei potuto benissimo prendere un badile, scavarmi una fossa nel pavimento e sparirci dentro, per mai più sortire.
Cazzo, è tutto così assurdo.
"...è assurdo, Frank." mormoro, quasi senza accorgermene.
"Cosa?"
"Tutto."
"E non si salva niente?"
"Non lo so. Anche stare con te mi sembra così improbabile..."
"Un po' hai ragione..." ammette, una punta di delusione che vibra nelle sue corde vocali.
"Ma non me ne importa. Mi stai salvando, lo sai?"
"E dai, non attribuirmi questi ruoli così importanti!" ridacchia. Chissà, forse pensa che sono ancora in totale balia dell'alcool. Magari mi farebbe anche comodo farglielo credere, dato che mi sto davvero compromettendo, ma non sono mai stata capace a raccontare balle.
"No, ti assicuro, non sto esagerando..." e qui mi viene spontaneo chiedermi se sia normale che ogni volta debba arrivare qualcuno a 'salvarmi', a tirarmi fuori dal fanghiglio in cui sguazzo come un porcellino giocherellone.
Sono un'immatura. Non posso spiegarla altrimenti.
"Forse dovresti imparare ad affrancarti dalle persone che hai intorno, a renderti meno dipendente" mi sprona, con dolcezza. Come a dire "non dipingermi come l'artefice delle gioie della tua vita, ma dimmi che mi vuoi bene davvero".
E te ne voglio, che tu ci creda o no, te ne voglio veramente tanto, perché quando penso a te non è come quando sono con Dave, o Keith, o Alice, no. A loro voglio bene per abitudine, come una piacevole routine, e anche all'inizio era così, perché qualcosa nella mia testa mi diceva di affezionarmi a loro, non c'era uno slancio entusiastico, c'era solo affetto tranquillo, pacato, sicuro, come se non potessero abbandonarmi mai. E invece con te è tutto diverso, è un volo in picchiata, sento l'euforia, l'ebbrezza, la felicità, mi vedo saltellare a giro per la stanza, le canzoni messe su e canticchiate con allegria, anche se sono di una tristezza indefinibile, sento la voglia di gridare al mondo "io sono felice, cazzo! FELICE!", sento le farfalle nello stomaco, un esercito di volatili intorno alla testa, il cuore che rimbalza come fosse al suo primo amore, la sua prima cotta di sapore adolescenziale, e forse questo è. Non c'è nulla di insano tra me e te, non come quando conobbi Lucretia, qui è tutto completamente diverso. É brillante, acuto, dà dipendenza, ma una dipendenza che non può fare altro che bene, e che fa del male solo quando sei lontano. E te lo direi, se non sentissi un messaggio poco piacevole.
Credito esaurito. La chiamata è stata terminata.
Che palle.
Intanto lui è davanti a me, in piedi. Sento il suo sguardo accusatore, ebbro, sento disapprovazione innaffiata con abbondante Budweiser e l’eco lontana della McFarland con cui ha iniziato il valzer delle pinte, sento la sua voce impastata che mi dice che devo smetterla di nascondermi dietro un dito, di scappare, che lui non lo farà più, eccetera.
Ma che me ne frega?
Questo è quel che penso, almeno finché non biascica delle parole sconnesse.
"La tua rivoluzione è uno scherzo. Una cazzata. Non è nemmeno una rivoluzione, cosa vuoi cambiare, me lo spieghi? Testa di cazzo sei e testa di cazzo rimarrai, e l'unico che ti può tenere testa non è certo quel Frank!"
"Ah sì?" replico in tono canzonatorio "E chi sarebbe, questo EROE davanti cui devo prostrarmi riconoscente?"
Fanculo, fanculo, Dave. Sbagliano tutti, vai a fare il processo a qualcun altro, sicuramente se lo meriterà quanto e più di me. Ecco, ecco...vai a prendere quei due ubriaconi di prima, e dillo a loro, che hanno sbagliato tutto, che continueranno a sbagliare. Sai cosa ti risponderanno? Che è vero, ma che ormai è andata, non si può tornare indietro, si può solo andare avanti, e per loro è giusto andare avanti bevendo, ma non per me. Non ti manderanno a cagare perchè non sono le tue stelline. O forse sì, un 'vaffanculo' e via.
Ma io, io lo sono. Sono la tua stellina. E te ne sei scordato, e in ogni caso questo non mi esenta dal riderti in faccia, dal mostrarti i denti digrignati in un ghigno isterico, che riflette tutta la tua ridicolaggine.
"Avanti, chi è?" incalzo, godendo del tuo silenzio ostinato.
Ormai non fa più male. Adesso mi fa solo pena. Come te. Che volti lo sguardo lontano da me, quasi avessi paura di quello che stai per proclamare.
"Non te lo dico."

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Sorry, You're Not A Winner ***


Cap. 21 – Sorry, You’re Not A Winner

“Non te lo dico.”
E che cos’è, ora, questa sparata da bambino dell’asilo?
Ci ho pensato tutta la notte. L’ho passata a dormire in bagno. Beh, dormire è un parolone. Il piatto della doccia è uno dei giacigli più scomodi e proibitivi che esistano, ma ieri sera ero disposta a farmi venire anche due o tre gobbe e qualche ernia, pur di non dividere la stanza con quei due matti.
Sono tutta indolenzita, ho mal di testa e una sana intolleranza mi anima. Ci siamo permessi una stanza d’albergo perché il prossimo concerto è domani, almeno possiamo ripartire con calma, ma rimpiango il bus, la mia cuccetta, in cui posso rinchiudermi quando voglio. Per stanotte è stato il bagno, la mia cuccetta.
Mi chiedo quanto andremo avanti così. Quante notti a dormire nel gabinetto, quanto silenzio nel tour bus, quante esibizioni fredde e senz’anima.
Ovviamente non so rispondermi. Da una parte mi sembra meglio. Cercare risposte a tutti i costi, a volte, può essere molto stancante.
Il mio flusso di coscienza viene interrotto da un rumore soffuso, felpato. Accomodante.
Mi accomodo a sedere nella doccia, stringendo il cuscino che avevo razziato via dal mio letto, coprendomi inconsciamente con la coperta, anche quella strappata senza pietà al suo naturale ecosistema, e rimango un pezzo a cercare di realizzare da dove provenga quel rumore, quando mi accorgo che è molto più vicino di quanto pensi.
“Frankie, me la sto facendo addosso, apri…” implora, dall’altra parte della porta.
Punto uno: mi sta chiamando Frankie. Siamo già a buon punto.
Punto due: si sta comportando come se non fosse successo niente, e per una volta mi dico che l’orgoglio è meglio che se ne stia al suo posto.
Sì, voglio risolvere. Per cui mi alzo, apro, lo faccio entrare ed esco, tutto questo senza mollare un attimo il cuscino, stretto tra le mie braccia, quasi fosse l’ultimo appiglio, il baluardo inespugnabile che protegge il mio sonno maltrattato, e anche un po’ spiegazzato.
Mi siedo, in punta di chiappe, sul suo letto, completamente sfatto.
Deve aver dormito malissimo, non è da lui fare questo casino. Sembra che ci sia passato un uragano, piuttosto che mio fratello.
Sorrido, formulando questo pensiero, mentre mi scorgo allo specchio, proprio davanti al giaciglio, con dei capelli che farebbero concorrenza a uno spaventapasseri e l’espressione di chi non chiude occhio da giorni, e pensa che sarebbe anche l’ora di interrompere questo sciopero del sonno.
Mi fisso, torva, finché non lo vedo fare capolino dal bagno e squadrarmi con aria interrogativa.
“Che…che c’è?” chiedo, timorosa.
“Niente, stavo cercando di vedere che ora fosse”.
Mi volto. Dietro di me, una sveglia stava appoggiata sul tavolino.
“Le nove meno un quarto”
“Ah, bene, non ho dormito un accidente, allora!” cinguetta, con un’evidente vena di sarcasmo nella sua vocina garrula.
“E senti, ti…ti andrebbe se andassimo a fare colazione?” riprende, riassumendo un tono definibile ‘normale’.
“Boh, per me va bene” borbotto, confusa “quanto tempo abbiamo?”
“Diverse orette, prima di ripartire” risponde, allegro, dirigendosi verso il letto di Dave, con la precisa intenzione di svegliarlo.
“Fermo, lascialo dormire!” sibilo di colpo, a voce più che bassa. Keith si gira, mi guarda.
“Hai detto qualcosa?”
“Sì. Lascialo dormire” ribadisco, secca. Annuisce, sbigottito, poi prende le sue cose e va in bagno a lavarsi.
Ha voglia di parlare. Di dirmi qualcosa.
E io ho voglia di ascoltarlo. Lui solo.
Non voglio Dave nei paraggi. Ed è strano, perché alla fine noi tre siamo sempre insieme, e nessuno prescinde dagli altri due, ma stavolta è diverso. Qualcosa si è incrinato e minaccia di rompersi, e non voglio peggiorare la situazione.
Non voglio avere a che fare con lui, almeno per il momento.
Ripercorro mentalmente, una volta che mio fratello ha finito e mi concede il gigantesco bagno che abbiamo in stanza, il suo sproloquio di stanotte.
Parole senza senso, accostate a caso, in virtù di una riproduzione casuale dei brandelli di pensiero contenuti nel suo cervello affogato dalla birra.
O forse no.
L’ipotesi che mi sta frullando insistentemente nei neuroni non mi piace neanche un po’. Leggo delle lettere, accanto a lei, e accostate insieme significano un solo concetto, la cosa che vorrei non accadesse mai più.
Casino allucinante.
Scuoto più e più volte la testa davanti allo specchio, nella speranza che queste lettere si mescolino e formino qualsiasi altra parola, anche senza accezione, come tessere dello Scarabeo che saltellano allegramente nel sacchetto che le contiene.
Ecco. La mia testa è il sacchetto che contiene le letterine dello Scarabeo, e si agita, salta, si muove, si contorce, nella speranza che le nozioni di senso compiuto si disperdano. Nella fattispecie, se mi vedesse qualcuno in questo momento, mi prenderebbe per matta, così finisco di lavarmi, mi vesto ed esco dal bagno con l’aria più innocente di questo mondo, pronta per sentire le scuse di Keith davanti a una tazza fumante di cappuccino. Lui mi sorride, come se il vedermi pronta gli stia dando la conferma delle mie buone intenzioni di ascoltarlo, e Dave ronfa, ancora, e rumorosamente.
Siano benedette le sbornie, quelle che ti fanno stramazzare sul letto e che non ti fanno svegliare nemmeno se c’è una guerra nucleare in corso intorno a te. Quelle che ti fanno alzare con lo stomaco sottosopra e le budella pronte alla secessione, che ti fanno dire “cazzo se sto male, non lo farò mai più”, ma sai già di mentire, perché la prossima volta che avrai un problema che non vuoi affrontare, o semplicemente voglia di bere, l’alcool sarà lì, ostentato e malizioso, pronto a predare le tue ultime facoltà intellettive della serata e a farti sentire un’altra persona, sta a te decidere se migliore o peggiore di quello che già sei.
Sia benedetta la birra, Budweiser, McFarland, Corona, Heineken, Guinness, Tennent’s, Asahi, o chi per loro, che ha fatto stramazzare quest’individuo a dormire come un sasso.
Sia maledetta, invece, per quello che gli ha fatto dire stanotte, perché ancora non riesco a togliermi dalla testa nemmeno una delle frasi che ha pronunciato. Anche le virgole sono lì, al loro legittimo posto. E persino il mio disgusto. E il dubbio. E l’espressione corrucciata, che mio fratello scorge immediatamente.
“Allora, andiamo?” mi esorta.
“Direi” taglio corto, dirigendomi a passo marziale verso la porta.
Percorriamo le vie di Boston in silenzio, fumando entrambi.
“Ehi, ma tu non dovevi smettere?”
“Ma ti pare…c’ho provato, ma avere intorno te, Gerard, Bob, Frank che aveva smesso e poi invece ha ricominciato…non è mica facile!” esclamo, quasi senza pensarci. Senza riflettere sul fatto di avergli appena nominato l’oggetto della nostra discussione di ieri sera.
Ma non s’adombra, non s’intristisce, né si altera.
“Già…beh, a proposito di Frank, proprio di lui volevo parlarti, se posso…” mormora, quasi imbarazzato.
“Certo che puoi” rispondo, tranquilla, mentre adocchio una piccola caffetteria dall’altra parte della strada e gliela indico, con un cenno del capo.
Keith prende un caffè e un toast. Io un cappuccino. Non ho molta fame.
“Senti, mi…” farfuglia mentre divora quel panino. Poi si rende conto che il tono di ciò che sta per dirmi e il contesto non sono esattamente affini, e allora finisce il boccone, lo accompagna con una sorsata di caffè, e si ferma, la mano che ancora stringe il manico della tazza, ormai poggiata sul tavolo.
“Stavo dicendo, mi dispiace per quello che ti ho detto ieri sera. In realtà non penso davvero certe cose su di lui, e non mi importa nemmeno di come ti…oh beh, che caspita dico…” parla a raffica, arrossendo.
Mi strappa una risata quasi divertita.
“Sai, immaginavo che me l’avresti detto, prima o poi, il fatto è che…beh, non mi è piaciuto come l’hai detto. Eri nervoso, la colpa era mia, e in effetti ti chiedo davvero scusa per i disagi che ho arrecato, ma era l’unica occasione…”
“Cioè?” chiede, interessato e improvvisamente, e di nuovo, comprensivo.
E allora inizio a spiegargli del concerto dell’altra sera, quello di New York, la sera del suo compleanno, e di Mikey e Alicia che mi hanno informato sul suo pessimo stato, la convinzione che se l’avessi rivisto sarei precipitata di nuovo e allo stesso tempo il desiderio impellente di vedere come stava, riabbracciarlo, la corsa a Newark, il riavvicinamento. La nottata più intensa della mia vita, quella in cui sono riuscita a capire le priorità che dovrebbero farmi muovere.
La band, certo.
Ma anche, e soprattutto, lui.
E tutto quello che provo, anche se non riusciremo a vederci per più di qualche giorno, ogni manciata di mesi.
Parole che scorrono fluide, lucide, dalla mia bocca alle sue orecchie, che le catturano con attenzione, le distillano, le elaborano e le fanno arrivare dritte al cervello, per fargli capire che questa non è una sbandata come tante, non è un colpo di testa e nemmeno di coda, non l’ultimo capriccio per sfuggire alla monotonia, niente di tutto questo.
Frank non è Lucretia.
Non è stranezza a tutti i costi, non un tentativo rassegnato di darmi completamente a qualcuno che non mi ama, non un esperimento, e nemmeno un legame disperato e infelice.
“Ehi, non sarà come…”
“No, Keith.”
Sono in pace con me stessa, non ho bisogno di incubi chimici per sentirmi viva.
Mi bastano sogni reali e tangibili.
È disteso, finalmente. I lineamenti del viso abbandonano completamente la durezza che si era impadronita di loro ieri, e che stava lasciando posto, già da stamattina, a movimenti muscolari ben più benevoli.
"Beh...sembra un bravo ragazzo, effettivamente."
Sorride. Sorrido anche io, di rimando.
Non pensavo fosse così facile ritrovare l’equilibrio.
Una parte di esso.
Sono ben lontana dall’essere del tutto a posto, e me ne rendo perfettamente conto, ma l’aver almeno sistemato le beghe con mio fratello mi sta facendo capire che posso rendere la mia esistenza migliore, che posso smetterla di piangermi addosso, passando poi, come una schizzata, a credermi completamente dalla parte della ragione.
Potrei sistemare, allo stesso modo, con Dave, il problema è che riconosco di essere veramente ai ferri corti con lui. La ragione?
Non c’è una ragione, non c’è niente, assolutamente niente. Solo un sospetto che si fa strada nel mio cervello malato, che tento di scacciare, bollandolo come l’ennesima paranoia.
Eppure…se fosse davvero così, addio a tutto.
Brami l’affetto di persone per anni, poi quando questo arriva è un’onda anomala, uno tsunami che devasta tutte le poche certezze che avevi raccattato fino a quel momento, che sconquassa i piccoli, fragili castelli di sabbia che avevi messo su con fatica e devozione, ricostruendone pazientemente le fondamenta ogni qualvolta l’acqua arrivava a lambirle.
Ma queste sono solo paranoie. Piccole, povere, stupide paranoie, create ad arte per complicare i già strani percorsi dell’encefalo che ti rimbalza nella scatola cranica.
Guardo Keith. Fisso. Intensamente. Quasi possa darmi una risposta che smentisca tutti i miei dubbi.
E invece niente.
“Ma perché non volevi che svegliassi Dave, prima?” mi chiede.
Rimango ammutolita, a boccheggiare come un pesce.
Già, perché?
Non vuoi vederlo? Eppure devi, divide i palchi con te.
Non vuoi sentirlo? Spiacente, è il bassista nella tua band. DEVI sentirlo, necessariamente.
Non vuoi toccarlo? Beh, questo sarebbe fattibile.
Non vuoi parlargli? È discretamente facile, per te, togliere il saluto. Ma come fai a toglierlo a uno con cui sei a stretto contatto ogni giorno, a ogni ora? Cos’è, vi scambiate punti di vista tecnici e di arrangiamento con una lavagnetta? O usando Keith, che in questo momento sta maledicendo di essere l’ago della bilancia tra te e lui, l'intermediario della situazione?
Povera illusa, Frankie. Povera illusa.
Keith aveva ragione, ieri sera. L’ha detto male, malissimo, ma la sa lunga.
È vero…io della vita non ho capito proprio un cazzo.
“Non…non lo so, esattamente. Cioè, lo so, ma non saprei come spiegartelo con poche parole…”
“È strano, ultimamente.”
“Soprattutto dice cose strane.”
“Del tipo?”
Del tipo, caro fratellone, che non sopporta Frank. Ma non lo sopporta proprio. Gli sta letteralmente sui coglioni, e per transitività anche io, a questo punto. Non mi voleva intorno, voleva sbronzarsi nel chiuso della sua testa bacata, in solitudine.
Del tipo che afferma che non è lui quello giusto per me, quello che mi terrà al riparo dalle disgrazie del mondo, quello che mi riscalda coi suoi abbracci.
Del tipo che sarebbe meglio si facesse un po’ i cazzi suoi. Ma questo non lo esterno, non te lo rendo noto. Non sarebbe giusto.
“E chi sarebbe, allora?”
“Non te lo dico. Così ha risposto.”
“…ma che deficiente. Sto iniziando a pensare che proprio non ci sappia fare, povero Dave…” conclude, sghignazzando. Qui immagino abbia raggiunto anche lui la stessa conclusione mia, e in parte mi solleva, perché vuol dire che, in un certo senso, non ho volato troppo di fantasia. Allo stesso tempo la faccenda mi inquieta, perché una grana del genere tra i piedi non sono pronta ad affrontarla, così, per non pensarci, ritorno a parlare a mio fratello di Frank.
Per la precisione, Frank e tatuaggi, visto che gli sto raccontando com’è che ci siamo rincontrati. È inevitabile per me tracciargli, passo per passo, tutta la storia di quel disegno che gli ho impresso sulla pelle, il significato, e il seguito, la sensazione che a deturparlo potesse eliminare il pensiero di me dalla sua testa, e la mia volontà di farlo tornare bello come quando glielo marchiai sul braccio a suon di aghi e inchiostro. Keith mi ascolta, senza abbassare mai la soglia di attenzione, e annuisce convinto.
Guardo l’orologio, e gli comunico che forse sarebbe ora di tornare all’ovile. Paghiamo e usciamo, incamminandoci verso l’albergo col sorriso sulle labbra e la volontà di non infrangere mai più il tacito legame che scorre tra di noi.
Fratelli. Ma soprattutto amici, pronti a spalleggiarsi nel momento del bisogno, e a dirsi in faccia tutto quello che non va, senza peli sulla lingua.
*
Sono passati due mesi. Concerti in tutti gli Stati Uniti, e l’ipotesi di un tour europeo.
Dovrei essere galvanizzata dal successo, e invece sono sempre qui a rimuginare su quelle parole.
Due mesi di silenzio ostinato, di spiegazioni non fornite, di Keith che alza le spalle, perché non riesce a venirne a capo nemmeno lui.
Tra me e mio fratello, almeno, è tornato tutto a posto.
Tra me e Frank va tutto a gonfie vele, se non che….non ci vediamo praticamente mai. In compenso siamo sempre al telefono, soprattutto adesso che gli Unnamed sono in pausa pre-Europa e i My Chem in sala di registrazione. I nostri telefonini sono roventi quasi quanto le nostre orecchie, ormai.
Il mio suona così spesso che una notte ho addirittura beccato mio fratello ad armeggiarci, esasperato.
“La tua suoneria mi dà ai nervi, non ti stupire se entro domattina sarò riuscito a cambiartela!” ha esclamato, spazientito. Mi sono messa a ridere, rischiando di svegliare il vicinato.
Siamo nella nostra casa, a Frisco. Dave è tornato dai suoi, e vediamo se questa separazione gli farà tornare un po’ di lume della ragione.
Oggi è il 27 dicembre. Anche i ragazzi sono in pausa dalle registrazioni, me lo sta dicendo proprio adesso Frank.
Il telefono ha squillato, sempre la solita suoneria degli Happy Tree Friends. Ma mio fratello, invece di fare lo scocciato e inveirle contro, come fa di solito, se ne è stato tutto tranquillo, spaparanzato sul divano, e non ho saputo se prendere per allucinazione o realtà quel lieve ghigno che gli ha attraversato il volto per un attimo. Ho risposto, ed è una decina di minuti che siamo al telefono, a parlare di come scorrono le nostre vite. Anche se è dall'inizio che sta tentando di dirmi qualcosa.
“Hm, senti…”
“Dimmi! Però ti sento malissimo, cos’è questo casino? Dove sei?”
“Ecco, appunto questo volevo dirti…sono all’aeroporto di San Francisco, mi vieni a prendere, per favore?”

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** First Day Of My Life ***


ok, probabilmente posterò settimana prossima, perchè tra poco più di un'ora parto per siena, per l'università, e non avrò un computer tutto per me a ogni ora del giorno... ;__; grazie a tutte quelle che commentano, continuate (e magari aumentate :°DDD) e strafogatevi di pandistelle alla faccia mia ;_; !
(tanto su c'ho le gocciole, gnegnè! :°D)

Cap. 22 – First Day Of My Life

Per poco non faccio cadere il telefono a terra.
È qui.
Sento sogghignare alle mie spalle, mi giro e vedo Keith che mi guarda e sorride. Non era un’allucinazione, allora.
“Arrivo subito, aspettami all’uscita” rispondo, riprendendo in mano la situazione.
"E vedi di non farti beccare da qualche fan, o fotografo!" mi raccomando, sentendomi rispondere con una risatina divertita. Chiudo la chiamata, e riprendo a guardare mio fratello.
“Tu sai qualcosa che io non so!”
“Chi, io? Naaaaah, forse ti sbagli…” finge di fare l'indifferente, fischiettando e roteando gli occhi qua e là per la stanza.
“No che non mi sbaglio, ti conosco troppo bene, signorino! Cos'era che stavi facendo l'altra notte, mi stavi cambiando la suoneria, vero?" lo fisso, con sguardo indagatore e un ghigno soddisfatto stampato nel bel mezzo della faccia.
Sospira, quasi sbuffando, ma non perde il buonumore, e quel suo sorriso a metà tra l’allegro e il beffardo.
“Dai, vai a prenderlo, non farlo aspettare! Piuttosto, Alice mi ha detto di darti queste.”
Prende la mia mano sinistra, si fruga in una tasca dei jeans e ne tira fuori qualcosa, che racchiude nel mio palmo.
Lo apro, e ne scruto il contenuto.
Due chiavi, tenute unite da un portachiavi a forma di Badtz Maru.
Le chiavi del negozio. Quelle che le riconsegnai, annunciandole che sarei partita per il Warped. Il suo sguardo valeva più di mille parole: felice per noi, preoccupata di badare alle sorti dello studio da sola.
"Beh, volevi fargli un certo regalo, no?" ammicca.
Arrossisco.
“Ma…oddio, siete pazzi!” riesco solo a balbettare.
“Macchè pazzi! In fondo te lo devo…su, vai, devi anche far partire la macchina!” mi esorta, scompigliandomi i capelli.
“E non puoi prestarmi la tua, scusa? Già che ci sei, potresti completare l’opera…” borbotto, imbronciata.
“Volentieri, se non fosse dal meccanico.”
“Ah, già” farfuglio, dirigendomi a testa bassa verso il mio vecchio maggiolone. Salgo, infilo la chiave nel quadrante, giro, e stranamente parte subito, senza intoppi.
La strada verso l’aeroporto non mi è mai sembrata così breve, al punto che controllo di continuo se sto andando troppo veloce, diciamo che non vorrei avere grane proprio adesso. Percorro l’asfalto col sorriso sulle labbra, e i Pixies a palla nella radio, ammettendo a me stessa, stupita, che la macchina, per la prima volta da quando l’ho comprata, non dà segni di ribellione, quasi come se si fosse accorta che oggi è una giornata speciale. A coronare il tutto, un tiepido sole, di quelli che, normalmente, si vedono spuntare timidamente solo verso marzo.
San Francisco è dalla mia parte, decisamente.
Il parcheggio dell’aeroporto un po’ meno.
Vago in cerca di un posto per minuti interminabili, e senza la benché minima possibilità di fermarmi da qualche parte, finché non mi viene un’idea. Frugo nella borsa con frenesia, e quando trovo il telefonino inizio a premere vorticosamente i tasti, finché non ottengo quello che sto cercando.
“Ehi…”
“Senti, hai valigie o cose pesanti con te?”
“Beh, no, ho solo uno zaino…”
“Allora fatti una corsetta verso il parcheggio, io verrò il più vicino possibile all’ingresso e ti caricherò al volo!”
“Ma…”
“Niente ma! La macchina la riconosci sicuramente, sono l’unico maggiolone arancione nel parcheggio!” e attacco, senza dargli tempo di replicare, premendo l’acceleratore e avvicinandomi all’edificio. Lo scorgo inforcare gli occhiali scuri e guardarsi intorno circospetto, allargando poi le sue labbra in un sorriso, mentre si dirige verso di me a passo svelto e sale in macchina così veloce che nemmeno me ne accorgerei, se non fosse per il bacio che mi schiocca sulla guancia.
“Bella macchina! Molto sobria, soprattutto…” esclama, sghignazzando, mentre riparto di gran carriera.
“Te l’avevo detto…” replico, fingendo disappunto.
“Allora, ti piace? Ti avevo pur promesso che ti avrei portato a farci un giro…”
“Adatta a te, direi!” risponde, sorridendo.
“Ti dirò…non so se prenderlo come un complimento o un’offesa!”
“A tua completa discrezione” riprende a ridacchiare.
Siamo a metà strada da casa mia, ormai, e stiamo passando davanti al negozio di tatuaggi di Alice, quando lo vedo rabbuiarsi di colpo. Finora abbiamo chiacchierato di tutto e scherzato come ragazzini, ma adesso tace.
Un silenzio totale e assordante avvolge la vettura.
Mi sta trapanando le orecchie, fa quasi più male di una nottata passata con gli Slipknot sparati a tutto volume dalle cuffie dritti nelle orecchie.
“Tutto bene?” azzardo a chiedere, accendendo la radio, che sembra essersi ricordata su che razza di macchina sia stata montata, e quindi torna immediatamente a comportarsi di conseguenza.
“E CHE È!” sbotto di colpo, infastidita dal gracchiare selvaggio, e senza aspettare una risposta alla domanda di prima. Spengo, riaccendo e forse l’impianto stereo si decide a funzionare.
“Ti piacciono i Pixies?” continuo a incalzare.
“Boh, sembrano carini…” borbotta. Non è risposta che possa uscire dalla sua bocca, decisamente. Anzi, io pensavo che li conoscesse già. Che inguaribile ottimismo.
“Se non ti piacciono metto qualcos’altro, eh…”
“No, lascia, lascia pure…”
Ancora silenzio. Decido di cambiare un po' aria, togliendo Surfer Rosa e mettendo prima Nick Drake, poi Bright Eyes. Il buonumore dei Pixies iniziava ad essere clamorosamente fuori luogo, ma anche la malinconia che prima Nick, e poi Conor diffondono nel mio abitacolo diventa greve già dopo un paio di canzoni, così, senza trovare pace, tolgo Cassadaga con stizza dalla radio, lo lancio a caso sui sedili posteriori e indico a Frank il porta-cd, intimandogli, secca: "Scegli te."
Tanto metterà, che ne so, i Gallows, o qualcosa di particolarmente rumoroso e che incontri il suo gusto, per riportare l'atmosfera di questa macchina a livelli respirabili.
E invece no. Mette David Bowie. Uno dei pochi che ho, Hunky Dory.
"Ziggy Stardust non ce l'hai?"
"É in casa" borbotto, spiazzata.
Ci rimango di sasso, e subito penso a un fatto che m'è sempre sfuggito, sino ad ora, e cioè che non mi sono mai premurata abbastanza di conoscerlo meglio. Intendo dire che sono tanto brava a intuire gli stati d'animo di quelli che ho intorno da pensare che basti soltanto quello per sapere chi siano.
Cazzata colossale. Perché c'è tutta una serie di dati che sfugge a questa specie di catalogazione. Cose che sembrano futili, tipo, che ne so, il colore preferito, oppure il disco che ti ha aperto un mondo nuovo, o cosa mangi, piatti preferiti e quelli che odi, e altre curiosità del genere. Curiosità, per l'appunto, o perlomeno questo risultano essere, per un superficiale. Entità senza sapere le quali, a proposito di qualcun altro al di fuori di se stessi, si vive comunque, magari meno bene, ma l'importante è portare a casa la pellaccia, sbaglio?
Sì, sbaglio.
Non credevo gli potesse piacere David Bowie, ero più che convinta che lui fosse il tipo di persona che va ai concerti di gente tipo i Black Flag, o i Bouncing Souls, ma anche i Green Day vecchio stampo potrebbero andare bene, e fa un casino della madonna, più di tutto il resto della folla messa insieme, e si diverte come un matto, perché quello è il suo mondo: pogare, urlare e spassarsela, innaffiando il tutto con pinte su pinte di birra, che può essere roba sopraffina come pisciazza scadente (più facile la seconda). Stupidi luoghi comuni, insomma, dettati da un'estrema facilità a trarre conclusioni affrettate e con una logica tutta loro.E invece ho toppato alla grande, e si può vedere piuttosto nitidamente dall'espressione che assume la mia faccia appena sento partire quelle note dallo stereo.
"Ti piace?" chiedo, stupita. Ma molto probabilmente devo aver prodotto un effetto tipo disgusto. Come se quel disco non fosse nemmeno mio.
"Non può non piacere" afferma, vacuo e risoluto.
"Conosco gente che avrebbe da ridire su quest'affermazione..." ribatto, nella speranza di accendere un piccolo dibattito e risvegliarlo così da questa mestizia inopportuna. Che cazzo, ti sei preso l'aereo per venire fin qua, da me, e hai anche il coraggio di fare questa faccia? Non sei contento di vedermi? Eppure prima sorridevi. Bah.
"Magari non l'hanno ascoltato attentamente"
"Su questo credo di essere d'accordo" concludo, quasi lapidaria. Questo perché siamo giunti a destinazione.
Casa mia. Dove c'è un caldo tropicale. Colpa di Keith, che non sopporta il freddo e attacca il riscaldamento a palla. Dagli Armstrong si può star certi di non morire di freddo, e a quanto pare se ne sta rendendo conto anche Frank, che inizia a svestirsi senza tanti complimenti mentre io getto il cappotto sul divano e sgattaiolo in cucina e trovo un messaggio di mio fratello scritto sulla lavagnetta sopra il frigo.
"Spero tu gradisca! Apri qua, su...buon divertimento, eh!" corredato da una faccina che è semplicemente il ritratto della malizia. Cancello tutto meglio che posso, e apro il frigo.
E rido. É la mia reazione a qualcosa di bello e insperato. Tanti si commuovono, più o meno copiosamente, io no. Io rido. Per felicità, immagino.
Ci hanno preparato il pranzo. Lui e Alice. Tutto vegetariano, manco a dirlo. E Keith, lo so, cucina divinamente, al contrario della sottoscritta. Se non ci fosse lui, probabilmente andrei avanti a pizza e gelato senza troppi complimenti.
Lo adoro. Ma me lo merito davvero un fratello così?
Metto l'acqua per la pasta. Okay, cucinerò male, ma almeno la pasta so cuocerla a dovere. Mi ha insegnato una ex di Dave, che era di origini italiane. Lì sì che sanno cucinare, cacchio.
Intanto filo in camera a togliermi il maglione e a cercare una maglietta a mezze maniche decente per riemergere dinanzi al mio ospite. L'unica che trovo mi fa sorridere, ma la indosso lo stesso, e torno in sala, dove lui ormai è a mezze maniche e si volta sbottando: "Ma che accidenti che caldo c'è qua dentro!" in mia direzione.
É inutile che dissimuli. Lo vedo che c'è un buco. una zona vuota, che prima non era tale.
"Ah, e così ami i Fall Out Boy, eh?" sghignazza, evidentemente teso.
Ebbene sì, sulla maglietta c'è scritto a caratteri cubitali "I love Fall Out Boy", con un cuore in bella mostra sul petto, rosso in mezzo al nero.
Ma non è di questo che voglio discutere.
"Sì, soprattutto Joe!" ammicco. Mi sfugge se la mia battuta l'abbia pronunciata per rimandare il momento della verità o qualsiasi altra cosa. Tipo, per esempio, rincoglionirlo con quattro cazzate sparate a dovere e poi spiazzarlo con la domanda seria. Così almeno risponderà come si deve.
E adesso, a rincarare la dose, lo sto fissando con un senso di sfida che mi pervade persino i capillari, le mani saldamente piantate sui fianchi.
Ma che diavolo mi prende?
Beh, che domanda idiota, lo so benissimo, invece. Sfido chiunque a non alterarsi nemmeno un po', nel vedere che qualcosa che si è fatto con tanto impegno è stato abilmente occultato e gettato come si fa con le cose vecchie, che non servono più.
"Devo essere geloso?" sorride.
"Oh, no, tranquillo, non è niente di serio...piuttosto, cos'è successo al braccio?"
Smette di sorridere. Mah, chissà perché.
"Quale braccio?" si guarda intorno, mimando confusione. Sì, la mima. Non è capace nemmeno a fare finta per bene.
"Beh, ne hai due, tutti e due ben tatuati, direi...ma uno è, come dire, più vuoto dell'altro..." incalzo. Finalmente si rende conto di cosa sto parlando, e lo vedo diventare dello stesso colore del cuore sulla mia maglietta.
"Eh, sai, s'era rovinato, così lo sto facendo cancellare..." balbetta, vagamente confuso.
"Ma potevi dirmelo subito, te l'avrei rifatto! E in effetti" e sento il mio vocione farsi sempre più esile, fino a ridursi in un flebile sussurro, "era quella, la mia intenzione..."
"Dai, non c'è problema, davvero..." si avvicina, finalmente con un po' di dolcezza nella sua voce.
"Sta bollendo l'acqua per la pasta!" annuncio, stentorea, scomparendo in cucina ed evitando così un qualsivoglia contatto con lui.
E che cazzo, non posso rimanere male per una cosa del genere? Per il sentirmi dire, e il vedere, che il tatuaggio che gli avevo fatto sta scomparendo a poco a poco, prima sotto una serie di graffi allucinanti, e adesso per mano di qualche chirurgo del cavolo che non capisce l'impegno che ci avevo messo, a prescindere dal significato, su cui nemmeno ero stata più di tanto a indagare?
Certo che posso. Per cui lo faccio, senza versare lacrime o provare dispiacere. No, niente di tutto questo.
Nemmeno sono incazzata.
Solo delusa.
Mangiamo in silenzio, imbarazzato per lui, astioso per me. Beh, magari sto esagerando, ma mi sento proprio offesa dal suo gesto. Perlomeno poteva dirmelo prima. Cioè, prima che passasse alle vie di fatto, intendo. A me sarebbe bastato anche un "senti, voglio togliermi quel tatuaggio per una ragione random. Non mi farai cambiare idea, ma almeno ci tenevo ad avvertirti". Ecco, credo che ci sarei rimasta meno male. Credo.
"S...scusami se non te l'ho detto" lo sento sussurrare, tra una forchettata e l'altra. Dal canto mio, continuo a tacere e mangiare.
"Il fatto è che, ecco...quel tatuaggio rappresentava una promessa che ormai è infranta, non aveva senso tenerlo" prosegue, ancora a voce bassissima.
"E allora perché te lo sei fatto fare?" lo rimbecco, quasi acida.
"Perché quando sono entrato nel tuo studio credevo che sarebbe durata per sempre" mormora, sempre più triste.
"Beh, in questo caso..."
É piuttosto evidente che ci sia qualcosa che non vada per il verso giusto, ma mi sentirei un mostro di indelicatezza a chiedere. Anche se un sospetto ce l'avrei.
"Non sapevo come dirtelo, mi dispiace..."
"Dai, è tutto a posto, tranquillo. E mangia, che è buonissima tutta questa roba!" esclamo, quasi ruggendo per l'entusiasmo di pubblicizzare l'ottima cucina di mio fratello.
"Hai ragione, è ottima" risponde, finalmente sorridendo "complimenti a chi ha cucinato!"
"Quel bastardo di Keith mi ha preparato proprio una sorpresa coi fiocchi..." biascico, compiaciuta.
"Sono d'accordo" dichiara solennemente, addentando poi una patata al forno.
Finito di mangiare, si offre di aiutarmi a lavare i piatti. Accetto, a dire il vero un po' interdetta, poi divertita appena lo vedo indossare il grembiule.
"Allora? Che te ne pare?" mi fa, mettendosi in posa.
"Una perfetta donnina di casa!" rispondo, scoppiando a ridere fragorosamente.
Ed è mentre asciuga i piatti che mi espone la sua idea.
L'avrà formulata solo per farsi perdonare?
Ma chi se ne frega. Non mi deve importare delle ragioni dietro ai suoi pensieri.
Sostanzialmente perché è un'idea che piace anche a me.
"Ci sto! Però ho in mente una cosa che potrebbe risultare piuttosto divertente..."
"Hm, okay."

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Read My Mind ***


ho un sonno troppo...troppo sonnoloso per ringraziarvi una per una (anche se siete solo tre XD ma imparate che la sottoscritta è di una pigrizia esasperante), così posto direttamente, ergo buona lettura *_*

Cap. 23 – Read My Mind

Ho sempre maledetto la mia curiosità.
Il motivo è di per sè, piuttosto intuibile. Quante volte ci si caccia nei guai per essersi addentrati troppo negli altrui panni sporchi?
Non c'è da credere che io sia immune a questa tendenza. Anzi, si potrebbe dire l'esatto contrario. Bastava anche che venissi a spere un infimo particolare, e questo faceva automaticamente di me una che sapeva troppo. Non che per me fosse un problema, diciamo che piuttosto lo era per gli altri, soprattutto i diretti interessati. E, che ci crediate o no, sta succedendo anche adesso.
Sono il problema di me stessa. Perché sto stritolando tra le mani questo bigliettino, in preda al desiderio impellente di aprirlo e leggere cosa ci possa essere scritto, ma me lo sto impedendo praticamente da sola.
Mi consola solo vedere che anche Frank è nelle stesse condizioni mie. Lui, anzi, curioso com'è, sta letteralmente friggendo.
Abbiamo preferito coinvolgere degli estranei, ed è per questo che stiamo aspettando il nostro turno, qui, seduti su questo divanetto scomodo, ma di design, invece di affondare nelle poltroncine così accoglienti, e così orgogliosamente fuori moda, dello studio di Alice.
"Pensavo...facciamoci un tatuaggio insieme! Non so, qualcosa di speciale per entrambi, o un segno uguale, che abbiamo in comune..."
"Io ho un'idea migliore"
"Dimmi, dimmi!" è saltato su, allegro come un bambino che sa di stare per fare una scoperta assolutamente esaltante.
"Diamoci una mezz'oretta per pensare a una frase da dedicare l'uno all'altra, e che non sia un'idiozia...non so, un pezzo di una canzone, una poesia, qualsiasi cosa. Basta non sia un poema, ecco. E che non sia una delle nostre...insomma, attingiamo all'esterno."
"Sì, mi piace, decisamente!"
"Però pongo una condizione."
"E sarebbe?"
Eccola, la condizione. Porgere il biglietto al tatuatore di turno, rigorosamente chiuso, e scoprire di cosa si tratta solo alla fine, quando ormai il tatuaggio è fatto.
Sì, lo so. É un'operazione rischiosa, ardita. Ma ne vale la pena, e poi aggiunge quel pizzico di mistero in più, insomma, per farla breve Frank era più entusiasta di me, ma adesso che sa di non poter aprire il mio bigliettino sta iniziando a pentirsene.
E chi l'ha detto che la curiosità è donna?
Personalmente, in confronto a lui, mi ritengo sicura e discreta quasi quanto una banca svizzera.
"Oh, vedrai, ti piacerà" mi diverto a punzecchiarlo, intanto.
Gesticola, tarantolato, mentre risponde: "Anche a te piacerà, credimi, con quanto c'ho messo a pensarci..."
In pratica, ci stiamo solleticando a vicenda. Devo dire che siamo un po' stronzi.
Obiettivamente, tornando alle mie condizioni, mezz'ora era davvero un tempo troppo ristretto per pensare a qualcosa di sensato. Mi sono chiusa in camera a spulciare tutti i cd che ho, alla ricerca di qualche frase ad effetto e che esprimesse esaurientemente quello che provo per lui, ma non è stato affatto facile. Nel frattempo lui era in sala, che non sapeva da che parte rifarsi. Gli ho dato la possibilità di esaminare da cima a fondo i dischi di mio fratello, che pure non sono pochi, ma evidentemente non gli sono serviti a molto, perché a un certo punto, quando ormai la mezz'ora stava per scadere, sono uscita da camera mia per dirgli che avrei prolungato di altri venti minuti, e l'ho trovato al telefonino che confabulava fitto con qualcuno e prendeva nota su un foglietto scalcinato. Ho provato a sbirciare, ma lui s'è accorto della mia presenza e mi ha rivolto un'espressione più che truce.
"Scusami, Gee..." poi, rivolto a me, ha sibilato: "Tu tornatene di là, che devo finire!"
"Devo finire anche io, ero solo venuta a dirti che hai altri venti minuti" ho replicato, pacata, tornando in camera.
E così chiedeva aiuto a Gerard, eh? Effettivamente non gliel'ho vietato.
Insomma, stavo per appellarmi a un ausilio esterno anche io e chiamare mio fratello per chiedergli lumi, quando l'occhio mi si è posato su un album che in un primo momento ho snobbato, perchè ritenevo non avesse testi adatti a quel che mi serviva, ma poi mi sono ricordata di una frase che mi aveva colpito, e allora ho preso un foglietto anche io, e l'ho scritta al meglio che potessi, firmandola con un mio pseudonimo. Anche questo faceva parte delle condizioni: firmarsi con un soprannome a cui si è particolarmente legati, per svariate ragioni.
"Diciamo 'con quanto c'ha messo a pensarci Gerard', mi sembra più indicato..." lo rimbecco, sarcastica.
"Macchè, lui mi ha solo dato l'input" replica, piccato e anche un po' ferito nell'orgoglio, il che provoca a me un risolino isterico, e a lui un broncio che intendeva essere truce, e invece risulta quasi esilarante. Non può ribattere, semplicemente perché arriva il suo turno. Si alza, e la tensione si affievolisce nei suoi occhi, sapendo che il segreto sta per essere svelato, ma aumenta nei miei, scossi dall'incertezza del suo consenso.
Gli piacerà? Apprezzerà? O si limiterà a liquidarmi con un falsissimo "Mi piace", solo perché ormai ce l'avrà marchiato addosso, o per non darmi un dispiacere?
Ed ecco che, come al solito, mille dubbi e paranoie iniziano ad assalirmi, tant'è che la ragazza che mi farà il tatuaggio, e che viene a dire proprio adesso che tocca a me, chiede, gentile: "Sei tesa? É il primo che fai?"
"Ma no, li faccio anche io, siamo colleghe" rispondo, sorridendo e facendo spallucce. Imbacuccata come sono, per via del freddo, nemmeno può vedere quelli che ho già.
"Dai, allora vieni!"
Mi alzo, stringendo il foglietto tra le mie mani.
Speriamo mi piaccia.
*
Ho deciso che aspetterò a leggere cosa mi ha scritto. Tricia lo sa, e rispetta la mia decisione, anche se "Beh, teoricamente dovresti vedere se ti va bene come l'ho fatto...la grafia è molto bella, però, questo spero di potertelo anticipare!"
"Già...cioè, so che lui scrive piuttosto bene, al contrario della sottoscritta..."
Tricia ride. È la ragazza che mi ha impresso il tatuaggio sulla pelle. Ha un bel sorriso radioso, metterebbe di buonumore anche l'essere più depresso al mondo. Mi piace quella fila di denti color avorio e ordinati, le labbra sottili, il piercing che le adorna, e mi piace ciò che trasmette l'insieme quando si amplia in quell'espressione così pacifica e lievemente divertita. É piuttosto simpatica e, come me, quando tatuavo a tempo pieno, non sta molto dietro al mondo della musica di questi ultimi anni, per cui le sfugge completamente che faccia possa avere Frank. Anche se conosce vagamente il suo nome.
"Ma per caso è il chitarrista di quella band...quelli che vestono sempre di nero..."
"Ce ne son parecchi che vestono di nero, ultimamente" rido.
"Ma sì, ma che fanno i live in uniforme ci sono solo loro, credo...me l'ha detto mia cugina, è andata a vederli mesi fa...mi ci fa una testa così, con quei quattro matti..."
"Cinque. Comunque, sì, allora sono loro!"
"E anche tu suoni, dicevi? Per questo lo conosci..."
"Beh, sì, ho ricostituito il gruppo con mio fratello e un nostro amico d'infanzia" ammetto timidamente, omettendo volutamente quale sia il vero ruolo di "quel ragazzo così carino che si sta facendo tatuare di là, da Chris!"
Sì, l'ha definito così, all'inizio. Mi stava chiedendo se fossi insieme a lui, e ho risposto di sì, che è un amico. La risposta più semplice del mondo da formulare, se fosse la verità. Ormai siamo in una condizione per cui è sempre meglio omettere particolari della vita che svolgiamo su questo pianeta, piuttosto che renderli noti a cani e porci, e farsi quindi da soli una frusta per le proprie terga. Quindi quelle frasi sono opera delle nostre rispettive metà e nulla più, che poi, beh, in fondo è realmente così, ma, come concetto, formulato in questo senso assume tutta un'altra sfumatura. E pazienza se non starà in piedi, come balla. Certe bugie non reggono mai come dovrebbero.
D'altro canto, parlare di Dave, anche se solo nella veste di bassista della mia band, mi fa un effetto strano, adesso. Come se fossi sotto anestesia e vedessi tutto annebbiato, un attimo prima di addormentarmi. So che esiste, che è presente nella mia vita, ma non me ne curo più del dovuto, tanto le domande che ancora mi ronzano in testa una risposta precisa non ce l'hanno, per cui non ha senso che ci pensi continuamente. Mi farei solo del male.
Esco, e trovo Frank ad aspettarmi sul divanetto. Il suo sorriso pienamente soddisfatto e lo sguardo pieno di gratitudine che mi rivolge mi fa capire che non ha resistito e ha sbirciato la frase. Gli si legge la sincerità più pura in viso, per cui mi rilasso, perché vuol dire che gli piace davvero. Sorrido a mia volta, e insieme paghiamo e ce ne andiamo.
Anzi, paga lui.
"Adesso basta, mi stai viziando!" protesto, senza riuscire a nascondere la contentezza per quel piccolo gesto che abbiamo compiuto insieme.
Non stiamo facendo altro che consolidare il nostro rapporto, senza inutili paranoie, il che è un gran bel traguardo, considerando che non ci vediamo praticamente mai. Sentiamo reciprocamente di poterci fidare l’uno dell’altra, senza stare a fare troppe domande.
Sì, mi fido anche dopo la piccola defaillance di stamani. Un modo l’avrebbe trovato comunque, per dirmelo. Lo so, lo sento.
"Sì, è bello viziarti" risponde, facendomi l'occhiolino. Scuoto la testa in segno di resa.
"Piuttosto, com'è che la tua espressione è così neutra?" chiede, con fare indagatore.
"Beh, ho deciso di guardarlo quando saremo soli, così potrò ringraziarti come si deve" taglio corto, maliziosa.
"E poi sarei io a viziare te, eh?"
*
Vagare per le strade di San Francisco e fare spese selvagge non è mai stato così divertente. Nemmeno con Alice.
Abbiamo rincasato carichi di buste e pacchi, ridendo come dei matti. Lui ha comprato un sacco di cose, scompariva letteralmente dietro quel carico, e pretendeva anche di voler portare le mie buste.
"Ma passane tu qualcuna a me, sei pieno!"
"Non ci penso nemmeno" ha risposto, con una linguaccia.
"Gné, spendaccione!" l'ho rimbeccato, proseguendo per i fatti miei. Poi l'ho sentito implorarmi di prendergli qualche pacco.
Vocina flebile, dolce, da bimbo che supplica la mamma di comprargli le caramelle.
Come facevo a dirgli di no?
E così, eccoci a casa, tutti i nostri acquisti sparsi per la sala, e noi sul divano, una sigaretta tra le dita e una lattina di Coca-Cola nell'altra mano.
"Certo, è agghiacciante fare caso a quanto siamo simili..." ragiona, a voce sommessa, appoggiandomi la sua testa sulla spalla.
"In che senso?" chiedo, incuriosita.
"Beh, suoniamo tutti e due la chitarra, ci piace la stessa musica, i tatuaggi che abbiano un vero significato dietro, andiamo avanti a sigarette e Coca-Cola, quasi come se al mondo non ci fosse altro...anche oggi pomeriggio, mentre facevamo spese, ho notato che puntavamo del vestiario simile..."
"Non me ne ero accorta...beh comunque abbiamo anche tante cose non in comune..." minimizzo.
Questo genere di discorsi l’ho sempre affrontato, ma solo nel chiuso della mia testa, tra me e me. Mi sembrava un’idiozia parlarne con qualcun altro, e solo adesso mi sto rendendo conto che si tratta semplicemente di un modo per confrontarsi col mondo. Nella fattispecie, della persona con cui ne discuti. Alla fine, a pensarci e basta, senza rendere partecipe nessun altro, avevo finito per trascurare certi aspetti e accettare il tutto in maniera molto naturale, senza pensare ad affinità o divergenze tra le persone con cui ho avuto a che fare nella mia vita.
Per esempio, io e Lucretia non avevamo decisamente niente in comune, ma non me ne importava. Forse quello sarebbe stato il momento giusto per ricominciare a pensarci, invece.
Va bene anche adesso. Sento di avere davvero tanto in comune con lui, ma non tutto.
"Del tipo?"
"Beh, ad esempio tu sei vegetariano, e io no, anzi, adoro il pesce, soprattutto il sushi, credimi mangerei tanto sushi quanto peso..."
"Ahia, questa l'ho già sentita" mormora, ridacchiando.
"...poi non fumiamo le stesse sigarette, mi piacciono i film d'autore e quelli un po' vecchi, mentre invece gli horror mi inquietano…oddio, non tutti, lo ammetto, Hellraiser ha il suo perché, poi, vediamo…odio il colore rosa, e Stephen King, e invece amo Daniel Pennac, anche se è più conosciuto in Europa, e penso che i cicli di romanzi migliori non siano Il Signore Degli Anelli, nè tantomeno Harry Potter, cioè, belli, per carità, ma la saga dei Malaussène e la Guida Galattica per Autostoppisti rimarranno sempre nel mio cuore...e poi, beh, tu sei ricco e famoso, a differenza mia..." ammetto infine, con una punta d'amarezza nella voce e un ghigno spento. Come se mi importasse realmente qualcosa della fama e dei soldi. Oh, beh, sono dei discreti incentivi, ma è fare musica la cosa che mi fa sentire più realizzata. Sono ancora un'idealista che affoga in mezzo a un mare di ipocriti, probabilmente. Però è un ruolo che mi piace, su questo non ho mai avuto dubbi. Vivo per fare musica, non faccio musica per vivere, o perlomeno, non è quella l'intenzione primigenia.
"Sì, cioè, suvvia, non così famoso, dai…ma tu suoni infinitamente meglio di me."
"Non dire cazzate, per favore"
"Non ne sto dicendo! La prima volta che ti ho sentito suonare nel backstage pensavo fosse Toro!"
Arrossisco di botto. Eccolo che ricomincia coi complimenti, eccomi che ricomincio a seppellirmi di schermaglie. Il copione si ripete inesorabile, eppure ancora non mi ha mai sfiorato l'inconfondibile sentore della noia, del dejà-vu.
Le sue parole possono farmi solo bene.
"Ma povero Ray! Perché lo chiamate sempre tutti per cognome?!"
Ridacchia. “Non so, non sono mai stato troppo a chiedermelo…forse è qualcosa di reverenziale, un, non so, mi sembra teatrale da dire, ma...un tributo alla sua genialità, ecco.”
“Appunto. E osi paragonarmi a lui? Mi sa che non hai tutte le rotelle a posto, io non ho neanche un decimo del suo talento…”
“Taci e fidati, lo dico sinceramente. Magari, okay, non sarai al suo livello, ma una tacca sotto sì. E non più giù” conclude, quasi minaccioso, schioccandomi un bacio.
“Solo una tacca? Mi sopravvaluti.”
“Ehi, ti avevo detto di non protestare!” ribatte “Piuttosto, ancora non hai guardato il tatuaggio…”
“Ah, già, hai ragione…intanto dimmi del tuo, ti piace?”
“Da morire” e sulle sue labbra torna quel sorriso colmo di riconoscenza che aveva oggi pomeriggio “avrei pensato a chiunque, tranne che ai LostAlone…”
Gli ho scritto una frase da Blood Is Sharp.
Be still my heart, alleviate the pain.
All’inizio e alla fine due piccole stelle.
Per ricordargli che mi ha fatto un male indicibile, ma che l'ha anche curato. Per ringraziarlo di esserci sempre. Perché è la mia medicina per la vita, quella che sai che un giorno potrebbe scatenare tutti i suoi effetti collaterali, e tutti insieme, ma in questo preciso momento della storia del mondo non te ne frega un emerito accidente, e continui a prenderne insaziabilmente perché sai che non puoi farne a meno, e nemmeno vuoi. Quella che ti fa stare bene adesso, e anche l'istante dopo, e quello dopo ancora, senza soluzione di continuità, senza interruzione, senza fine, perché non riesci a scorgerne una, e il solo averne la consapevolezza ti riempie di vibrazioni positive.
Me lo mostra, là dove prima c’era l’altro.
È venuto stupendo. La mia scrittura sembra persino migliore del solito.
“Ti ho spiazzato, eh?” chiedo, mentre mi tolgo la felpa e inizio ad alzarmi la manica della maglietta.
“Forse è meglio se tolgo anche questa” mormoro a denti stretti, vedendo che non riesco ad andare più su del gomito. Mi sono fatta tatuare la sua frase sotto gli ideogrammi giapponesi.
“Sì, mi hai spiazzato, anche per come ti sei firmata…Stellina.”
“Non ha più senso che mi chiami solo lui, così” bofonchio, improvvisamente adombrata.
Rimane in silenzio, serio, mentre sicuramente sta tentando di dare un senso alle mie parole. Poi sorride, vedendo il mio stupore.
Believe in me, as I believe in you.
Firmato, Frankenstein.
Gli Smashing Pumpkins.
“Il ‘tonight’ non ce l’ho messo, mi sembrava una cosa troppo limitante…non vorrei che fosse per stanotte e basta, ecco…” balbetta, al colmo dell’imbarazzo, le mani saldamente piantate sulle ginocchia e lo sguardo vagante lungo il perimetro della stanza.
“Grazie” riesco solo a mormorare, sorridendo. Chiudo gli occhi, un po' lucidi, e rimango così, qualche minuto, a scrutare il nulla buio delle palpebre, mentre lui mi abbraccia e mi culla con delicatezza.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** You Know I'm No Good ***


ormai c'ho fissi tre commenti a capitolo.... :°DDD bauahuhauah!

Cap. 24 – You Know I’m No Good

Non è fatto frequente vedermi fumare a notte fonda, seduta in cucina e quasi completamente al buio.
C'è una ragione per tutto ciò, ed è quanto di più banale si possa immaginare: non riesco a dormire.
Le luci dei lampioni giungono alla finestra annebbiate dalla coltre di fumo che ho innalzato standomene qui a rimuginare; il silenzio mi avvolge, talmente possente che riesco a sentire il respiro lieve di Frank tra le lenzuola, nella mia camera.
Non è che non voglio stare con lui, dormire accoccolandomi sulla sua schiena come fossi uno zaino, o rannicchiandomi in posizione fetale sul suo petto, in cerca di calore e protezione. Non è per questo, che sono qui. C'è qualcosa che mi turba, e solo adesso, alla quinta sigaretta, riesco a dargli una forma.
Non è stato solo un incontro di corpi, stanotte. Ogni volta sono le nostre menti che si sintonizzano tra di loro, e si comunicano qualcosa. Sentivo chiaramente di trasmettergli inquietudine e un senso di dubbio che mi porto dietro da mesi, ormai, e che si è cristallizzato, ma non si è fatto da parte, anzi, reclama prepotente di essere ascoltato ogni istante della mia esistenza. É un peso insopportabile, e altrettanto insopportabile è l'idea di averlo condiviso con lui, di averlo trascinato nel bel mezzo delle mie beghe senza nemmeno essermi premurata di fornirgli un nome per invocarle insieme a me.
D'altro canto, anche lui non se la passa benissimo: malinconia e nostalgia lo invadono, e lui cerca di liberarsene come può, ma non ci riesce. L'ho sentita, la sua richiesta d'aiuto, ma l'ho come trascurata, corrotta come sono dal possibile perché dell'esistenza di quei sentimenti, fatti di materia vischiosa e dura ad estinguersi.
Non basta certo una notte per dimenticarsene, e non basta una notte per sorvolare, passarci sopra come se niente fosse.
In fondo, prima di me c'era Lei.
Da una vita.
Non è facile per nessuno, affrontare certe scelte.
Mentre ci penso, ecco che vado ad accendermene un'altra. Contro le vane proteste dei miei bronchi alimento il banco di nebbia che ormai ho nel petto.
E penso un po' anche a me.
A volte mi chiedo se sia davvero questo, ciò che voglio.
Me lo sono chiesto con Lucretia.
Col gruppo.
Con Dave, da sempre.
E adesso anche con Frank.
Ormai certi sentimenti sono sepolti sotto l'inesorabile scorrere del tempo, il variare delle idee. Sotto altri sentimenti che sono sopraggiunti nei confronti di altre persone. É inevitabile, e non serve a niente stare a rimuginarci con insistenza, perché a me va bene così, non intendo tornare indietro, cambiare quella che sono e tutto quello che ha concorso a farmi essere così.
Solo che ho paura di perdere tutto. Non del momento in sé, ma è la convinzione che niente duri per sempre che mi angoscia, che rende tutto più difficile. Saperlo mi fa stare coi piedi ben saldati a terra, quando invece avrei bisogno di sognare un po' a occhi aperti, di credere che la realtà sia migliore di come la vedo effettivamente.
É un tutt'uno spegnere la sigaretta, ormai arrivata a bruciare il filtro, nel posacenere, e alzare la testa nella penombra. E scorgere Frank, in piedi davanti a me, sulla porta della cucina.
"Ehi..."
"Non riesco a dormire" mormoro, mesta.
"Me ne sono accorto."
Sorride, lo vedo. I miei occhi si sono abituati al buio, ormai. E alla nebbia. Il suo è un sorriso benevolo, gentile. Comprensivo.
Si siede di fronte a me, fregandomi una sigaretta e accendendosela.
"Ma sono pesantissime!"
"Eh..." mi stringo nelle spalle "Marlboro..."
"Alla faccia, e hai il coraggio di fumarti..." conta le cicche nel posacenere, mentre nell'altra mano tiene il pacchetto "quattro, cinque, SEI Marlboro ROSSE a fila?"
Annuisco, con la stessa reticenza di una bambina che deve confessare alla mamma di aver rubato la marmellata, e non vorrebbe, vorrebbe che non se ne fosse mai accorta, ma sa che contro l'evidenza dei fatti c'è ben poco a cui aggrapparsi per fare finta che non sia successo nulla.
"Pazza." sussurra, sconcertato.
"Scusami..."
"Non devi scusarti con me, ma con i tuoi polmoni" mi esorta, con dolcezza, accarezzandomi i capelli, e poi la guancia, con quelle sue mani così rassicuranti, finendo per tirarmi un lieve pizzicotto pieno d'affetto.
"Okay...allora, scusate, polmoni" bofonchio, alzandomi per aprire la finestra e far sparire quella nebbia abominevole.
"Ma sei veramente pazza, tu! Apri la finestra a dicembre?! A fine dicembre, tengo a specificare!"
"Ma se fa un caldo infernale qua dentro!" ribatto, stizzita. Scuote la testa, senza dire niente.
Silenzio. E freddo.
Lo sento starnutire, così chiudo di nuovo, ammettendo a me stessa che aprire la finestra in piena notte, a dicembre, a San Francisco, mentre siamo praticamente nudi, non è una mossa del tutto scaltra.
"Che...che ti succede, Frances?"
L'incertezza all'inizio, il tono con cui me lo chiede, triste e avvilito, il modo in cui mi chiama, col mio nome intero, mi fanno capire che se n'è accorto, che ho qualcosa che non va. Vuole sapere da me cosa sia, ma non lo so con precisione nemmeno io.
"N...niente. Sul serio."
Niente, per modo di dire. È difficile condensare in frasi di senso compiuto quello che ho dentro, e so di avere qualcosa che mi turba, qualcosa nel petto. Non sono vuota, ma in questo momento preferirei di gran lunga esserlo, se non altro avrei un paio di preoccupazioni in meno. O forse troverei il modo di lamentarmi anche del vuoto, conoscendomi. Il fatto, fondamentalmente, è che se non trovo qualcosa di negativo in tutto quello che mi scorre davanti, non sono contenta. Un po’ come Marvin, l’androide paranoico della Guida Galattica per Autostoppisti.
Paranoid Android.
Chissà, forse i Radiohead si sono ispirati proprio a lui per la loro canzone. E forse, anzi, senza forse, mi sto ispirando a lui per la mia condotta esistenziale. Che, nemmeno a dirlo, sta facendo acqua da tutte le parti.
Non dovrei preoccuparmi, perché ho tutto.
Ho una band.
Ho un ragazzo meraviglioso accanto a me.
Ho un fratello che è un piccolo miracolo. Anzi, proprio piccolo no. È un metro e novanta per…oddio, quanto peserà mai? Oh, non importa, dicevo, un metro e novanta di miracolo, ecco, credo sia una definizione migliore.
E ho un problema che è grandioso quanto tutto ciò che ho appena elencato, al colmo della gratitudine.
Il problema del problema, sì, lo so, è brutto a dirsi così, ma è anche piuttosto efficace come immagine, è che non so che nome porti, perché non vuole dirmelo.
Maledetto, fottuto problema, ti chiami FRANCES
O DAVE?
Avanti, dimmelo, una volta per tutte, dannato bastardo!
E, nel frattempo, Frank mi fissa, in attesa di una risposta migliore di “niente, davvero”, e, in confidenza, ne ha tutto il diritto.
“Giuro, va tutto bene!” mi sforzo di sorridere, prendendo però un’altra sigaretta, perché quando sei un fascio di nervi pulsanti puoi nasconderti dietro a tutte le paresi che vuoi, ma è come se fossero perfettamente trasparenti, perciò sembri davvero perfettamente imbecille. Se accendi una sigaretta, che nel mio caso è la settima a fila, diciamo che il sospetto si fa sempre più consistente, ammesso che fino a quel momento fosse sempre e soltanto un sospetto.
Ci rinuncia.
“Bah, sarà…piuttosto, avrei dovuto dirtelo oggi, ma mi è passato di mente…”
“Cosa?” rimbalzo su me stessa, elettrica.
“Su, mettiti comoda…mettiamoci comodi” esorta, pacatamente, e mi conduce al divano “così ti calmi un attimo, okay?”
“Uh, va bene…” rispondo, interdetta.
“Innanzitutto esigo che tu spenga quella sigaretta” parte, con tono solenne. Intimorita da quell'incipit, la premo con forza nel fondo di vetro, poi: “Sono tutta orecchie.”
“Bene, allora…è il ventisette…no, ormai ventotto, sono le tre e mezza del mattino, dicembre…”
“Eh, lo so, e allora?” incalzo, impaziente.
“E fammici arrivare! Insomma, stavo dicendo, capodanno si avvicina…” e il suo incedere nell’argomento si fa sempre più pomposo, per finire con una richiesta che pare formulata da un adolescente alla sua prima cotta, che invita la ragazza dei suoi sogni al ballo di fine anno: “…se non hai niente da fare, vuoi passarlo con me e gli altri ragazzi?” chiede, gli occhi piantati nei miei. Nella penombra non riesco a vedere se sia anche arrossito, ma penso che sarebbe una nota di colore piuttosto tenera, se così fosse. Ci starebbe a pennello.
Rimango completamente spiazzata a questa domanda. Non ci pensavo nemmeno, che tra tre giorni sarà l’ultimo dell’anno, ed effettivamente non avrei niente da fare, cioè, la prospettiva di passarlo con Keith, Alice e Dave, e qualcuno dei loro amici, non mi eccita più di tanto, a essere sincera.
“Beh, naturalmente dillo subito a tuo fratello, domattina…sai, non vorrei pensasse di nuovo che ti abbia rapita, o cose del genere...” riprende tutto serio, finendo poi per farsi scappare una risatina a metà tra il compiaciuto e il divertito. Lo seguo a ruota, e scuoto la testa.
“No, tranquillo, non lo penserà davvero, stavolta”
“Beh, magari potrebbe venire anche lui, e il bassista, e…”
“NONONONONO!!!” lo interrompo, con impeto. Rimane un attimo scosso.
“Cambiare aria mi farà bene, e poi loro si sono già organizzati!” spiego.
Decisamente, averli tra i piedi ancora un po' potrebbe minare seriamente la mia salute mentale. Ho bisogno di respirare aria nuova, e poi ho voglia di rivedere gli altri, stavolta in un contesto più felice rispetto all'ultima volta.
“Ah…okay, allora, mi raccomando, avvisalo però, eh!”
“Tranquillo!” confermo, lasciandomi scappare un grosso sbadiglio.
“Vedo che ti è pure tornato sonno, sono riuscito nell’intento di calmarti, allora!”
“Hm, diciamo di sì…” strascico le parole una dietro l’altra, dissimulando scarsa convinzione. In realtà ha centrato in pieno, e glielo confermo con un altro sbadiglio e una sana stropicciata d'occhi.
“Scommetto che manca la ciliegina sulla torta, vero?” ammicca, malizioso.
“Su, poche storie, andiamo a dormire!” cerco di dirottare la conversazione, ma lui mi scompiglia i capelli con la mano, e bisbiglia al mio orecchio: “Appunto, andiamo, andiamo…” spingendomi verso la stanza, ridacchiante.
“Ma ho sonno sul serio! Voglio dormire!” protesto, buttandomi a peso morto sul letto. Si posiziona accanto a me, supino, le braccia conserte in segno di protesta.
“BUONANOTTE” scandisco sul suo viso imbronciato, accarezzandogli le labbra con le mie.
Poi mi butto su un fianco, e finalmente trovo pace. E lui, rabbonitosi, mi cinge la vita con un braccio, appoggiando la fronte sulla mia schiena, e sussurrandomi la buonanotte più dolce che abbia mai sentito in vita mia.
Alla faccia tua, Problema. Tiè.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Sillyworld ***


woah, sono aumentati *___* al solito, la mia pigrizia non mi consente di rispondere a tutte le recensioni una per una, quindi grazie *_*

Cap. 25 – Sillyworld

Però non mi aveva detto dove lo avremmo passato, il capodanno.
Sapevo solo che ci sarebbe stato un aereo da prendere, e ne ho scoperto la destinazione solo all’aeroporto, perché non ne ha voluto sapere di dirmelo di persona.
Ma me l’aspettavo. Voglio dire, la destinazione. Avevo sentore che saremmo atterrati a New York.
Mio fratello è al corrente di tutto e ne è felice, "così almeno ti diverti come si deve!" ha esclamato, al telefono.
Non ho potuto fare a meno di ridere per come l'ha detto.
"Mi raccomando, tieni d'occhio Dave"
"Ma che carina, sentila come si preoccupa! Tranquilla, non lo farò ubriacare..."
"Ecco, invece è proprio quello che dovrai fare. Voglio sapere cosa gli passa per la testa!"
Ha riso lui, stavolta.
"Ah, per quella faccenda...va bene, lo farò ubriacare..."
"Chi è che devi far ubriacare?" ho sentito Alice chiedere.
"Storia lunga, ti spiego con calma..."
"É tua sorella? Passamela, passamela!!! Allora, dolcezza, come stai?"
"Tutto bene, direi! Mi raccomando, aiuta Keith a far ubriacare Dave!"
"Sì, va bene, ma perché?" ha sghignazzato.
"Perché in vino veritas" mi sono limitata a risponderle. Direi che le è bastato, o forse mio fratello le stava dicendo in qualche modo che le avrebbe spiegato tutto per bene, ma dopo. Ci siamo salutati, e quindi...beh, era soltanto ieri, adesso sono già a giro per la Grande Mela a fare shopping con Alicia.
Mi ci ha trascinato lei.
"Così lasciamo i nostri noiosi ometti a parlare di lavoro" ha detto, imitando un attacco di nausea. Mikey, seduto sul divano, ha sentito e ha roteato gli occhi, mentre Frank ci ha fatto una pernacchia. L'ho guardato fisso negli occhi, con aria di sfida, e poi gli ho mostrato il medio, dopodiché siamo uscite dall'appartamento ridendo. Mentre ci chiudevamo la porta alle spalle abbiamo sentito Frank borbottare qualcosa tipo "dovremmo stare più attenti alle nostre donne", e Gerard soffocare un risolino divertito.
Non l'avrei mai detto, ma è divertente vagare per i negozi del centro insieme a lei. I nostri gusti non sono propriamente affini, ma mi sta portando in negozi decisamente anche alla mia portata.
Adesso siamo chiuse in uno Starbucks, circondate dai nostri acquisti, lei a sorseggiare un caffè, io a fissare il mio tè.
"Uh, non lo bevi?" mi chiede, alzando lo sguardo dalla sua tazza.
"Sì, aspettavo si raffreddasse un po'" rispondo, il tono di voce decisamente basso rispetto ai miei standard.
"Mi sembri pensierosa..."
"Beh, in effetti sì. Pensavo a dopodomani, a...beh, a dire il vero è il primo capodanno che passo lontana da mio fratello..."
"Siete molto attaccati l'uno all'altra, vero?"
"Beh, sì. Ne abbiamo passate di tutti i colori..." sorrido, con espressione quasi colpevole. Forse perché sono sempre stata io, quella che combinava disastri.
Ci pensa lei, a distrarmi da pensieri ad alto rischio di malinconia fulminante.
"E...cosa ti metterai?"
"Come mi vestirò, dici?" farfuglio, finalmente attaccata con foga al bicchiere di tè.
Annuisce, alzando il sopracciglio e increspando le labbra.
"Bella domanda, proprio non lo so...beh, ma non sono mai stata troppo attenta a certe cose..." ammetto, un po' a disagio. E in effetti è realmente così. Io sarei capace di presentarmi in jeans e felpa, anzi, una volta l'ho pure fatto. Saranno stati quattro anni fa, o forse cinque.
Glielo racconto, adducendo anche la ben poco edificante scusa che ero fatta come un melone, e quindi non me ne stava fregando niente di vestirmi in un certo modo, anche perché ero tra amici.
Alicia si mette a ridere, anche perché ho narrato il tutto in maniera piuttosto leggera e ironica. Non mi sembra davvero capace di ridere delle disgrazie altrui, seppur ormai morte e sepolte.
"Frankie, mi fai morire!" dice, riuscendo nel mentre nell'impossibile acrobazia di non spruzzare il caffè ovunque. Finisco per ridere anche io delle cazzate che racconto, e passiamo una mezz'ora così, a scambiarci aneddoti che non ci sogneremmo mai di dire in giro, tanto metterebbero a rischio le nostre reputazioni. Ma tra noi va bene. É un qualcosa di implicito, un tacito scambio di fiducia, qualcosa di piacevole e che spezza la routine. Una specie di amicizia, peraltro insperata, avendola sempre vista come una lontana anni luce da me e il mio piccolo, riservato universo. Alicia conosce un sacco di gente, perché tra me e lei c'è una sostanziale differenza: pur appartenendo allo stesso mondo, lei vi si trova perfettamente a suo agio, mentre io mi muovo con la grazia dell'adolescente impacciato al suo primo giorno di liceo.
"Somigli molto a Mikey, infatti" confessa.
"Beh, ma lui mi sembra molto più inserito" affermo, sicura di quello che sto dicendo.
"É solo questione di tempo. Comunque, non credo di dovertelo dire, ma questo mondo è terribile. Essere giudicati per come si appare risulta molto facile, e purtroppo è una circostanza che ha rovinato un casino di persone. Anche lui, in un certo senso."
"Già, lo so. Sono una di quelli, alla fine" ammetto. Ed inizio a raccontarle tutto.
Adesso è molto più facile, adesso che ho capito di essere un'altra, adesso che anche Frank ha capito.
Non fece il giro delle riviste di settore, e nemmeno di quelle di gossip. All'epoca eravamo ancora uno dei tanti gruppi della scena californiana, e quindi non godevamo certo di tutto l'ascendente che, giustamente, meritavano ben altri gruppi. Il fatto è che non sarebbe stato un problema, la mia dipendenza. Cioè, nella band era una gran bella gatta da pelare, e chiunque potrebbe chiedere a mio fratello (tanto non vi risponderà.), ma all'esterno sembrava quasi divertente. Insomma, mi lanciavo in discrete cazzate durante i live, cose che da sobria o comunque 'pulita' non sarei mai riuscita a fare, forse per vergogna, chi lo sa. I miei freni inibitori erano completamente andati, e questo mi permetteva di creare sempre delle situazioni da fomento generale, che rendevano qualsiasi nostro concerto indimenticabile. Vedevo la gente uscire soddisfatta dai posti in cui suonavamo, sentivo commenti tipo "Ma hai visto la chitarrista? Un fenomeno!" oppure "A me sembra matta, però è una che ci sa fare", e mi beavo del mio essere totalmente un'idiota. Ma alla casa discografica piaceva meno quest'atteggiamento. Avevamo firmato da poco per una major, e ovviamente sussistono dei criteri più restrittivi, rispetto a quando sei sotto una indie label. Il gioco s'era fatto serio, Dave me lo ripeteva fino alla nausea, ma per me, appunto, sempre di un gioco si trattava, e mi sarei tuffata con un doppio carpiato nel baratro, se non fossero intervenuti due eventi fondamentali:
1) il tour estivo, quello in cui ho conosciuto Frank;
2) la casa discografica ci aveva posto un ultimatum, senza troppi complimenti: "O rigate dritto, o siete fuori".
Venne da sè che provai a darmi una calmata, ma fino a che non intervenne Keith, non ci riuscii completamente. E ancora adesso mi stupisco di come non sia più riuscita a farmi nemmeno una canna, da quel giorno.
"Hai una gran bella forza di volontà" dice Alicia, alla fine del mio racconto.
"No, io credo sia soltanto un insano istinto di sopravvivenza."
"Comunque, penso che dovresti uscire dal guscio. Se hai intelligenza, e si vede che a te non manca, riesci a galleggiare senza perderti in droghe, alcool o patologie psichiche."
"Dici?"
"Sì. Il tuo sarà anche istinto di sopravvivenza, ma hai dentro di te una forza incredibile. Me ne sono accorta quando ti ho conosciuta."
"Ahm, grazie" arrossisco, compiaciuta da un complimento così, gratuito e disinteressato.
"Adesso ti dico una cosa, non so se Frank ti ha accennato qualcosa..."
"Dimmi pure!"
"Questo capodanno, purtroppo, è un altro giorno di lavoro per i ragazzi...insomma, casino a Times Square, interviste, cose del genere..."
"Fiuuu, meno male che queste cose ancora non ce le chiedono" sospiro, sollevata dai piccoli privilegi di fare parte di una rock band come tante altre.
"Ah, non te l'aveva detto, quindi."
"No."
"E non sei arrabbiata..."
"Dovrei? Anzi, sai che ti dico...devo andare a comprarmi qualcosa di decente, non si sa mai mi riprendano" dico, serissima.
Riesco ancora a farla ridere di cuore. Annuisce, così ci alziamo e torniamo a fare spese nel cuore di New York.
Sono frivolezze, nulla più. Un piccolo mondo sciocco che mi sono ritagliata senza stare troppo attenta ai contorni, ma è giusto così. Mi fa stare bene, pensare a pormi domande stupide, tipo il vestito che mi metterò, se piacerò a Frank, cose del genere. Cose che fanno gli adolescenti, cose a cui non ho mai badato, nemmeno in quell'età.
Ma meglio tardi che mai, no?
E Alicia mi guida, in questo mondo frivolo, aiutandomi a scegliere gli indumenti giusti da abbinare insieme, a cercare di mantenere la mia personalità in quello che indosserò dopodomani. E stranamente mi piaccio.
Sì, mi piaccio, forse per la prima volta in modo sincero, da quando vivo.
*
Ieri e oggi sono passati veloci, insignificanti, come un alito di brezza talmente debole che nemmeno riesce a scompigliarti i capelli.
Sono stata sempre in compagnia di Alicia e Christa, la ragazza di Ray. I ragazzi, ovviamente, sono oberati inverosimilmente di lavoro, e quindi li abbiamo visti per pochi attimi convulsi e racchiusi sempre in fugaci e rassegnati sguardi all'orologio e alle sue lancette, che si muovono inesorabili, ma con loro due riesco comunque a trascorrere delle ore piacevoli e allegre.
I miei tatuaggi sono stati un po' l'attrazione del giorno. Christa mi ha chiesto come ho conosciuto Frank, e Alicia ha risposto per me.
"Veramente, c'è dell'altro..." ho mormorato, lo sguardo fisso a terra.
"Mio dio, ma sei sempre così timida?"
"No, Kri, deve solo rompere il ghiaccio, è una forza questa ragazza!"
"E dai, Ali, non rispondere sempre al suo posto..."
"Sono d'accordo" mi sono intromessa, alzando un poco la voce.
Ecco, il ghiaccio s'è rotto.
Ho raccontato di quel giorno a San Francisco, i tatuaggi, e tutto il resto.
"Dai? Sei una tatuatrice professionista?"
"Ebbene sì!" ho esclamato, gonfia d'orgoglio, alzando un sopracciglio in segno di compiacimento.
"E quindi ne avrai anche addosso, non esiste un tatuatore senza nemmeno un tatuaggio" hanno proclamato, quasi in coro, l'espressione di chi la sa lunga. E così m'è toccato farglieli vedere tutti, dal primo all'ultimo. Non che siano poi molti, conosco colleghi molto più 'imbrattati' di me, ma ad ognuno è stata un'esplosione di "Che bello!", oppure "E questo, che significato ha?", il tutto coronato da una fila impressionante di complimenti e considerazioni sui disegni. Mi stavo sentendo un po' una cavia, per cui è stata quasi una liberazione quando l'appartamento di Manhattan di Mikey e Alicia si è riempito di nuovo delle loro cinque presenze.
Sono corsa alla porta, come una bambina, e appena ho visto entrare Frank, subito dietro a Mikey e Gerard, gli sono saltata al collo e l'ho abbracciato, carica di entusiasmo.
"E fammi entrare in casa, almeno!" ha protestato, ridendo e accarezzandomi i capelli.
Adesso siamo sul letto, nella stanza concessaci dai coniugi Way nel loro appartamento. Gli altri sono tutti in albergo, ma noi abbiamo preferito scroccare ospitalità da Mikey e Alicia. Anche perché sono stati loro a proporcelo.
"É carino, qui" azzardo, guardandomi intorno. Le pareti, di un verde brillante, sono coperte da locandine di film, racchiuse in sobrie cornici a giorno. Sopra la testata del letto, due riproduzioni della Campbell Soup di Andy Warhol.
"Già" si limita a rispondere, lo sguardo lanciato in contemplazione del soffitto.
Credo di sapere a cosa stia pensando. A quando anche lui condivideva un appartamento 'carino' con una persona importante, con cui era pronto a trascorrere una vita intera.
Credo anche che sia molto stanco, per cui tronco le sue congetture, e anche le mie, proponendogli di schiacciare un pisolino, prima di stasera.
"Non sarebbe una cattiva idea" risponde, volgendo il suo sguardo dal candore del soffitto al pallore del mio viso.
Mi perdo nei suoi occhi, mentre sorride. C'è un'ombra, a incupire quel loro colore così particolare, ma non sono più gli occhi di una bestia in gabbia. Sono specchio di una libertà consapevole, adesso. Di una felicità che dura, a dispetto della sua caducità e della sua brevità.
Ogni volta è come ricominciare daccapo, come resettare tutto quello che c'è stato fino a quel momento, perché è l'unico modo per non soffrire, dovendo stare separati per settimane. Ma sappiamo entrambi che è un legame forte, il nostro, un legame che se ne frega di ripartire da zero ogni volta, perché sa di esistere comunque, indipendentemente da qualsiasi fattore avverso.
"Forse un Lichtenstein ci sarebbe stato meglio" mormoro, rendendomi preda di un sonno lieve sulla sua spalla, in attesa delle diciotto.
*
Sono appena uscita dalla doccia. Lascio il bagno a Frank, è l'ultimo a prepararsi. Mikey e Alicia sono già pronti, e lei approfitta per darmi le ultime dritte estetiche per la serata.
Mi trucca, confessandomi che è una cosa che la diverte molto, e mi guarda mentre mi vesto e non faccio altro che osservarmi incuriosita allo specchio.
É una sensazione particolare. Sono io, Frankie Armstrong, però è come se nel contempo fossi un'altra persona, un'altra Frankie che non sapevo di essere.
In questo vestito cortissimo, che sembra uscito dagli anni '70, su cui divertenti fantasie optical in bianco e nero si rincorrono, in questi aderentissimi pantaloni neri che porto sotto, in questi anfibi, i miei anfibi, e in questo cappotto che sembra uscito dal guardaroba di un membro qualsiasi di un altrettanto qualsiasi gruppo brit-pop, ci sono io. Ma sono un'altra io, che non avevo mai visto fino ad ora, e che tenevo nascosta nei più profondi recessi dell'armadio, insieme agli indumenti che non metto più. Ecco, insieme ad essi ci sono anche quelli che non ho mai messo, quelli che ho sempre snobbato, a torto, pensando non mi fossero congeniali, e che invece Alicia ha dimostrato che sono parte di me, una parte meno conosciuta, ma appunto per questo più intrigante.
Frank sta a studiarmi un pezzo, mentre si veste, interessato dai curiosi abbinamenti che ho approntato.
"Posso dirti una cosa?" chiede, mentre si annoda la cravatta.
"Certo" rispondo, curiosa di sapere di cosa si tratti.
"Sei più bella del solito, stasera."
Tanto per cambiare, divento rossa come un peperone. E boccheggio, tipo pesce rosso che ha tentato il suicidio e si agita sul pavimento, dopo un tuffo nel nulla.
"G...grazie...anche tu, beh, sì...quella camicia e quella cravatta ti stanno...beh, da dio..." balbetto, imbarazzata.
"Grazie" risponde, compiaciuto. Rimaniamo in silenzio, mentre lui finisce di prepararsi. Mi avvicino alla finestra e la apro, estraendo da una tasca del cappotto, che avevo abbandonato prima sul letto, sigarette e accendino.
"Ma fa freddo!" gracida, con una voce stridula che non gli ho mai sentito finora.
"E dai, una sigaretta..." piagnucolo, imbronciata.
"Ma se mi avessi aspettato ti avrei fatto compagnia..." mormora, modulando il registro vocale su una tonalità da bambino triste. Ridacchio, riponendo la sigaretta, per fortuna ancora spenta, nel pacchetto, e sospiro.
"E va bene, ti aspetto..."
"Grazie" sorride "però magari chiudi la finestra, che è freddo anche ora, eh!"
"Ops, hai ragione!" e la serro di scatto, rimanendo ad osservare il panorama dietro il vetro.
Manhattan.
Specchio in continua evoluzione di ciò che è davvero in, paradiso di ricchi impegnati, quasi al pari di Los Angeles. Più intellettuale, anzi. Un universo diametralmente opposto, interessante, ma da cui mi discosto quasi con repulsione.
Perché la sua è un'intellettualità fredda, funzionale solo a fare notizia. La vera cultura è qualcosa di più fuori dagli schemi, underground, spontaneo. Non c'è niente di spontaneo qui, è tutto dannatamente chic, e dannatamente statico, ieratico nel suo continuo e perpetuo movimento, là dove il vento tira più forte. Una contraddizione in termini, in pratica. Sempre e comunque più sincera e schietta della plastica che popola Los Angeles. Apprezzo molto di più la Grande Mela, senza dubbio, ma continuo a sentirmici a disagio, quasi come un vermino indesiderato, che la guarda da una posizione di privilegio. Dall'interno.
Da parassita.
Distolgo lo sguardo, girando con violenza la testa verso l'interno della stanza. Frank è pericolosamente vicino a me, talmente vicino che, se non mi fermassi in tempo, scontrerei il mio naso col suo.
"Che c'è?"
"No, niente, tranquillo...allora, sei pronto? Possiamo andare?" domando, esaltata da un insolito fervore, mentre mi sposto vicino al letto e prendo il cappotto.
Ci chiudiamo la porta alle spalle, e Alicia mi sorride.
Mikey mi sorride.
Anche Frank.
E forse lo faranno anche gli altri, che ci aspettano quaggiù, sulla strada.
Sembra che ve ne siate accorti tutti. Devo avere una luce strana negli occhi, un misto di timore del nuovo e voglia di esplorarlo sin nelle fondamenta.
New York, preparati. Non lascerò che tu mi assoggetti così. Saprò fare in modo da amarti, e lasciare che la tua benevolenza illumini anche me, questa piccola ragazza californiana, abituata al sole della sua terra, e non alla tua algidità.
Sarò il tuo vermetto preferito, te lo assicuro.

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** She's Lost Control ***


altro capitolo...ormai manca poco (ma forse non avrei dovuto dirvelo :°D)

Cap. 26 – She’s Lost Control

Mi sveglio in preda a un mal di testa senza limiti, rincoglionita come un bradipo in letargo. La vista è annebbiata, ma riesco a distinguere una giornata di pioggia fuori dalla finestra, e una sagoma seduta sulla poltroncina verde scuro nell'angolo della stanza, sotto i poster di Arancia Meccanica e Metropolis. Due film che non c'entrano un benemerito accidente l'uno con l'altro, ma non sto certo a discutere l'ordine e l'armonia voluti da chi ha affisso le locandine in questa camera.
"Ah, finalmente ti sei svegliata!"
Una voce femminile.
Mi stropiccio gli occhi, confusa dal dolore che scuote le mie tempie pulsanti.
"Ciao, Alicia" bofonchio, senza nemmeno pensarci.
Alicia? Cosa ci fa qui?
Ah, già. Sono a casa sua, insieme a Frank.
Ma nel letto ci sono solo io, spalmata su entrambe le piazze a mò di stella marina. Mi ricompongo, mi alzo a sedere, e noto che lenzuola e coperte sono raffazzonate e sistemate entro i ranghi del letto qua e là, ma sembrano comunque reduci da un terremoto, o qualsiasi altro cataclisma.
"Sei sempre così agitata quando dormi?"
"Beh, non so, dormo..." mi giustifico, stringendomi nelle spalle.
"Non hai dormito quasi per niente. Sei riuscita ad addormentarti verso mezzogiorno..." mormora, e il suo viso assume un'espressione, non so, sembra dispiaciuta.
"E adesso che ore sono?"
"Le tre."
"Cazzo! Oh, beh, giustamente era l'ultimo dell'anno ieri, avrò fatto follie..." rispondo, trovando la forza per un sorriso tirato. Mi costa caro: una fitta in più alla testa, e una sensazione strana. Non fisica, ma mentale. Un senso di vuoto.
"...Frankie..."
"Sì?"
"Ma proprio non ti ricordi niente? Cristo quanto dovevi essere fatta stanotte..."
"Fatta?"
"Sì."
"Ma dai, non esagerare, avrò bevuto qualche birra, vodka, cose così..."
"No, eri proprio fatta, 'come un melone', tanto per citarti" taglia netto, la gravità della sua voce che pesa come un macigno sulla mia testa, già malandata di suo.
Devo farmelo ripetere un paio di volte. E conferma, sempre, incrollabile, irremovibile, seria e preoccupata.
"O porca merda" riesco solo a dire, tenendomi la fronte. Rimango a bocca aperta per svariati minuti, cercando di realizzare cosa sia successo, di ricordare qualcosa.
"Perché?" chiedo.
"Non lo so...quando ti ho trovato avevi una bottiglia vuota di vodka in mano, e stavi per farti un acido."
Sì, ricordo quei momenti. La mia mente li ripercorre con passo felpato e accomodante, facendomi rivivere come un'eco lontana la furia di Alicia, che mi strappa di mano bottiglia e acido, e li getta a terra con rabbia, strattonandomi per il braccio e portandomi via da quel covo di disadattati in cui mi ero infiltrata. Il resto, però, è buio.
"Meno male che ti ho trovata in tempo...a giudicare dal tuo stato, quello non sarebbe stato certo il primo."
Cerco di alzarmi. Le gambe sono malferme, ho addosso una maglietta che riesco a realizzare non essere mia, e continuo ad avere una cefalea clamorosa e le orecchie che fischiano, e chissà cos'altro.
"No, credo fosse il primo acido...è il resto che...hm, dove trovo uno specchio?" faccio, aprendo la porta di camera.
"Il resto cosa?" chiede, dura.
"Alicia, uno specchio, per favore..." la imploro.
Apre l'armadio, ribadendo la sua domanda.
"Beh, alcool, quello di sicuro..."
"E poi?"
"Ali, non mi ricordo!" gemo, disperata. Non è la sua insistenza a sfiancarmi, quanto la sensazione di voragine nel cervello che ho da quando mi sono svegliata. Sto praticamente navigando nell'incoscienza, ma qualcosa, a tratti, mi ricordo. Ad esempio, la causa scatenante di tutto questo macello, la ragione del perché abbia tutta questa merda in corpo. E il fatto che, bene o male, non è stato solo l'alcool a rendermi così.
Mi squadro, dalla testa ai piedi. E faccio schifo. Le occhiaie sono accentuate dal trucco sbavato e dall'incarnato pallido, che sa un po' di malaticcio, il tremore scuote le mie mani.
"Puoi chiudere la finestra, per favore?"
"É chiusa. E il riscaldamento è acceso. A manetta."
"...ah. Devo fumare!" grido all'improvviso, risoluta. Ho bisogno di un diversivo, qualcosa che mi permetta di non pensare.
"NON SE NE PARLA PROPRIO!" sbotta di colpo.
"Ma..."
"Niente ma! Dovresti solo ringraziarmi di averti parato il culo con Frank e gli altri! Che altro ti sei fatta?"
Niente, qui devo dirle quel poco che so. Per forza.
"Coca..."
"Quanta?"
"Cielo, questo davvero non me lo ricordo!" strido, sull'orlo del pianto.
Si prende la testa tra le mani, sconvolta.
"Lo sapevo...non avrei dovuto lasciarti da sola, dopo che abbiamo visto Jamia..."
Già, sono d'accordo con te.
L'ho vista, c'era anche lei.
Il pensiero che potessero incontrarsi si è impossessato di me, facendomi precipitare come una cretina. Soprattutto dopo aver notato che nessuno di noi riusciva a trovarlo, a un certo punto della serata. Sparito chissà dove, per chissà quanto, in ogni caso troppo, per me.
E non c'ho visto più, ho perso qualsiasi forma di autocontrollo che mi sono imposta per tutti questi anni.
Rompo il silenzio, pesante come una cappa di piombo sopra le nostre teste.
"E...e dopo?"
"Dopo cosa?"
"Dopo...dopo che mi hai trovata. Cosa è successo?"
"Ti sei sentita male. Hai vomitato anche l'anima, penso, poi sei svenuta. Mi hai fatto preoccupare davvero..."
"Scusa..."
É tutto qui, quello che riesco a dire.
"N...non scusarti. Ti sei ripresa, poi, per fortuna. Altrimenti adesso saresti in una stanza d'ospedale"
Taccio. Per senso di colpa, è vero.
Ma anche per la vergogna. L'avventatezza con cui mi sono ritrovata ad agire, sopraffatta da una gelosia che da troppo tempo non assaporavo.
Francamente ne avrei fatto volentieri a meno. Ma visto che era tornata, e non aveva la benché minima intenzione di andarsene, dovevo metterla a tacere con qualcosa di più forte, più potente della sua eco ossessiva e fastidiosa.
Qualcosa che, se fosse andato tutto storto, non avrebbe spedito solo la gelosia all'altro mondo, ma anche me. E, tra l'altro, è ancora qui che incombe alle mie spalle, pronta a saltare fuori in qualsiasi momento, ingiustificata, illegittima, ma soprattutto istintiva, e pronta a provocare chissà quali casini.
Scuoto la testa, incredula per quel che sono riuscita a fare.
"Nessuno sa niente?"
"No. Ho solo detto a Mikey che avevi esagerato un po' nel bere, e che quindi saremmo tornate un po' prima, null'altro."
"Sì, ma tuo marito la sa lunga, non è scemo..."
"Non farà domande, fidati."
"Se lo dici te" bofonchio, rimettendomi di nuovo a letto.
Ancora non riesco a dare una forma alla serata di ieri. Nozioni confuse si ammucchiano senza logica nel mio cervello, creando ancora più casino di quanto già non ce ne sia.
"Vuoi mangiare qualcosa?"
"No, grazie, mi sento come se non avessi nemmeno uno stomaco..." ridacchio, amara.
"Okay...adesso dovrei riposarmi un po' anche io...anzi, se non ti dispiace, approfitto e mi riposo qua, posso?" chiede, per la prima volta sorridente, da quando mi sono svegliata.
"No, vieni pure" rispondo, facendole spazio nell'enorme letto.
"Dove sono loro?" chiedo poi, come se non fosse successo nulla.
"Riunione di lavoro da Gerard...così me l'hanno descritta"
"Ah, ma anche il primo dell'anno, uffa..."
"No, è solo una scusa, cosa credi! Dovranno mettere a punto tre quattro cose, il resto del tempo è birra, sigarette e cazzate!"
"Capito!" esclamo, mettendomi a ridere.
Mi sento un po' meglio, se non nel fisico, almeno nello spirito.
Certe volte mi chiedo dove potrei andare a finire, con le mie debolezze, se fossi completamente sola al mondo. Se non fossi circondata da queste persone. Sono una bambina turbolenta e difficile, e ho bisogno di qualche baby-sitter, a quanto pare. Faccio qualcosa di cui poi potrei pentirmi, e c'è sempre qualcuno che accorre e mi toglie dai pasticci, per cui ho tutte le ragioni per chiedermi cosa sarebbe di me se non avessi intorno Keith, Dave, Frank, Alicia, eccetera. A volte, per inciso, coloro che mi salvano sono anche quelli che mi fanno recitare la parte della piccola ribelle e scapestrata, quelli che mi inducono a pensare che fare certe bravate mi possa far sentire meglio. Mi sento di un'incoerenza assoluta, pensando a quando, appena un paio di giorni fa, raccontavo ad Alicia che non ero riuscita a toccare più nemmeno una stupida canna. Ho contravvenuto ai miei principi, alle ferree regole che mi ero imposta, ma soprattutto al mio fisico, che ormai non richiedeva più di farsi reggere in piedi dalla droga.
Uno spinello poteva starci. Ma non la quantità di righe di coca che avevo tirato su col naso la scorsa notte, numero di cui nemmeno io sono a conoscenza. Avevo tanto criticato Lou per la sua sfacciataggine nell'abusare delle sue banconote, arrotolandole per aspirare quella sottile polverina bianca, e ho finito per mettermi al suo livello, ma non è questo il problema, non questo.
La questione è che, anche se non ne verranno mai a conoscenza, mi sento comunque in colpa verso Keith e Frank, e dovrò sfoderare tutta la mia sfacciataggine per poterli guardare dritti negli occhi, da ora in poi. Ma sono cose di cui mi occuperò più tardi. Adesso voglio solo riaddormentarmi, e non pensare a nulla.
*
"Frank, calmati..."
"COL CAZZO! Dov'è quella stronza, dov'è?"
"Cos'è questo baccano in casa mia!" sbotta Alicia, che, già sentendo aprire la porta, è schizzata fuori dal letto.
"Dov'è? Eh? Dove la nascondi?"
"Ma di cosa stai parlando, Frank?"
"Di Frankie, Ali...è successo un casino" Mikey spiega, paziente. Beato lui, che riesce a stare calmo in questi frangenti.
Quanto a me...beh, non avevo il coraggio di guardare Frank negli occhi, e adesso che lo sento così, incazzato come un cobra, ne ho ancora meno. Tuttavia decido di alzarmi, se non altro non rischio di essere tacciata di vigliaccheria. Nemmeno a torto, per inciso.
"Che vuoi?" bofonchio, ancora sbalestrata dal cocktail di schifezze della sera prima.
"E LO CHIEDI ANCHE!"
"Non urlare, non siamo mica a casa tua, eh" lo apostrofo, sprezzante.
"Chi se ne frega!"
"Frank, stai calmo..." riprova Mikey.
"Dimmelo un'altra volta e ce ne sarà anche per te!" poi mi fissa, schifato, "Quanto a te, sarà meglio che prenda le tue cose e te ne vada immediatamente."
Lo osservo come si osserverebbe un matto, insomma, lo sto tenendo d'occhio, in attesa che vengano a prenderlo per internarlo. Lo sguardo è quello, nè più nè meno.
So per cosa sbraita. Me lo immagino, perlomeno. Non so come abbia fatto a scoprirmi, ma è per quello, non c'è proprio ombra di dubbio.
"Mi avevi detto che avevi smesso. Bugiarda." dice solo, in tono grave, assistendo alla mia scena muta.
No, non sono bugiarda. Avevo smesso davvero.
"Frank, porca puttana, che ne sai che sia vero? Come fai a sapere che Jamia non si sia sbagliata? E poi, non credevo sapesse di lei..." Mikey sta iniziando ad alterarsi.
Ah, Jamia. Ecco, tutto si spiega.
"Evidentemente lo sa, invece!"
Ma cosa vuoi che sappia, lei.
Ovviamente, anche se ti spiegassi, non mi crederesti, perché vedi solo quello che ti fa comodo, ti costruisci la verità a tuo esclusivo uso e consumo e non ti fidi di altro, solo delle tue ridicole e faziose impressioni. E allora sai che ti dico?
"Vaffanculo."
"Prego?"
"Mi hai sentito benissimo, vaffanculo! TU vieni a fare il processo a ME, tu che sei sparito all'improvviso ieri! Ecco dov'eri finito, eri da lei! E hai il coraggio di venire a criticare me? Non te ne deve fregare un cazzo di quello che faccio, visto che mi escludi dalla tua vita e da quello che fai, quindi io posso fare esattamente lo stesso, e per inciso anche mandarti a fanculo, grandissima testa di cazzo!" urlo, radunando le mie cose a casaccio e trascinando la valigia lungo il corridoio.
Mentre apro la porta, sento una mano sulla spalla.
"Frankie..."
"Che cazzo c'è ancora!" mi volto di scatto "Ah, sei tu."
"Dove vorresti andare in mutande e con la mia maglietta dei Pantera addosso?" sorride, comprensiva, sminuendo la tensione che ho in corpo.
"Hai ragione, scusami" mi tolgo la maglietta e gliela porgo, rimanendo in mutande e reggiseno "ora che ci penso i Pantera nemmeno mi piacciono..."
Ride. Poi mi abbraccia. Un abbraccio sincero, caldo. Vorrei scoppiare a piangere a dirotto, ma lui è ancora di là, e il fianco, finora, gliel'ho mostrato anche troppe volte.
"Dai, andiamo in bagno."
Entriamo, mi lavo il viso, poi le chiedo se posso farmi una doccia veloce.
"Certo" ed esce "ti aspetto qua fuori."
Sotto la doccia mi sfogo. Non ho più spazio per la codardia, adesso ho solo rabbia che mi scorre nelle vene, e la rabbia che ho in corpo ha come unica via d'uscita un fiume di lacrime e cazzotti al muro. Quando esco, e apro la porta del bagno, la vedo preoccupata che mi chiede se vada tutto bene, e io annuisco.
"Diciamo che sto meglio" spiego.
"Allora posso raccontarti come stanno le cose" azzarda.
"Certo."
Insomma, mentre erano tutti insieme da Gerard, oggi pomeriggio, a Frank arriva un messaggio di Jamia, lapidario: una cosa del tipo "ma bravo, adesso te la fai anche con le tossiche, complimenti", e ovviamente lui fa due più due, e vede davanti a sè un quattro grosso come una casa apparire dal nulla. Ecco la spiegazione, semplice e assurda allo stesso tempo.
"Mikey ha tentato di calmarlo, ma non c'è riuscito. Tra l'altro ci stiamo tutti chiedendo come faccia lei a sapere di te e Frank. La cosa buffa è stata che tu gli hai rinfacciato di essere sparito con lei e mentre te ne andavi verso la porta lui ha protestato dicendo che non era con lei, e Mikey gli ha fatto 'e allora, per lo stesso motivo, che ne sai che lei fosse chissà dove a farsi di chissà cosa?' e lui 'ma non l'hai sentita? L'ha praticamente ammesso!' 'Frank, sei un imbecille! Sei quasi vecchio e ancora non riesci a distinguere una provocazione da una confessione? Ti stava provocando, non ha detto chiaramente di essersi fatta l'altra notte! Arrivaci da solo, cazzo, non aspettare sempre che ti spieghiamo tutto io, o Gerard, o chiunque altro!' e lui è rimasto a boccheggiare come un pesce, poi ha preso ed è uscito sbattendo la porta!"
"Grandioso" sospiro.
"Tanto di cappello a Mikey per avergli dato dell'imbecille, in ogni caso" mi sento in dovere di aggiungere.
Okay, la situazione sta volgendo a mio favore, ma ciò non mi impedisce di continuare a stare male. Almeno, adesso, lavata e pulita, vestita con la mia roba e con, finalmente, la possibilità di fumare una sigaretta, distratta dal caos di Manhattan sotto i miei piedi, e soprattutto sotto i miei gomiti saldamente appoggiati al davanzale, riesco a sentirmi meno ridicola e idiota rispetto a prima, quando sbraitavo in faccia al mio ragazzo con addosso solo la maglietta di Alicia e un paio di mutande zebrate.
"Ahm, ma...mi è venuto in mente adesso" mormoro, tra una boccata di fumo e l'altra "i miei vestiti?"
Mi indica la lavatrice, che lavora a pieno regime.
"Meno male che t'è venuto improvvisamente caldo e il cappotto te lo sei tolto prima" ammette "quello sarebbe stato un po' più difficoltoso da lavare, avresti dovuto mandarlo in una lavanderia..."
"Vabbè, in mezzo alle disgrazie qualcosa di positivo c'è sempre" sorrido.
"Tutto bene?" sento chiedere da Mikey, alle mie spalle. Annuisco, convinta, senza voltarmi.
"Adesso sto meglio, grazie."
"Sarà anche mio amico, ma certe scenate in casa mia non deve più azzardarsi nemmeno a pensare di farle!" sbotta.
"Mi dispiace, è colpa mia..." tento di scusarmi, voltandomi.
"Macchè colpa tua, non hai fatto niente!"
Silenzio.
"....o sì?"
Ancora silenzio.
"Okay, io non so niente e non dico niente."
"Ecco, bravo" lo apostrofa Alicia.
"Io...voglio dire, se non l'avessi vista, non l'avrei mai fatto...mi sono lasciata prendere dalla gelosia, sono impazzita..."
"Ma rimarrà un episodio isolato, voglio sperare!"
"Sì. Non mi ricordavo più di quanto ci possa sentir male dopo" ridacchio. Mikey e Alicia appaiono sollevati, e lui mi accarezza la testa, mormorando che si sistemerà tutto.
Già. Speriamo. Il fatto è che io l'ho mandato amorevolmente a cagare, ma non lo pensavo sul serio.
Se va a fanculo lui, purtroppo ci vado anche io.

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** About Leaving ***


chiedo perdono, quest'università mi sta succhiando via il cervello ;__;'' e poi son stata due settimane via da casa, comunque adesso c'è un capitolo nuovo tutto per voi che leggete *O*

Cap. 27 - About Leaving

Sono partita per il nostro tour europeo senza nemmeno chiarire con Frank. Una vigliaccata, la mia, visto che inconsapevolmente aveva ragione lui, però non riuscivo, e non riesco a mandare giù tuttora, il fatto che mi abbia rivolto delle parole così cariche di odio per una cosa che nemmeno ha visto.
Ancora una volta non c'era, a toccare con mano il mio disagio. A osservare bene il grado di decadenza a cui può giungere un essere umano. Non pretendo che mi capisca, perché spesso faccio fatica anche io a stare dietro a questi ragionamenti pregni di autocommiserazione e debolezza, ma che almeno, ecco, non mi venga a dare della stronza così, a casaccio. Oddio, non molto a casaccio...insomma, anche il mio astio non regge, e Keith se la ride, vedendomi così, a vaneggiare su chissà cosa e insultarmi da sola a voce alta nel bus, mentre Dave bofonchia che vuole dormire, e che non devo rompere i coglioni. Parole testuali.
Io non devo mai rompere, secondo la sua logica. La cosa, se prima mi infastidiva, adesso mi fa solo ridere. Un riso amaro e rassegnato all'idea di non sapere mai cosa gli stia passando per la testa, perché anche in preda ai fumi dell'alcool non s'è minimamente sbottonato, la notte di capodanno. Confermatomi a due voci, in coro, con mille scuse, sia da Keith che da Alice.
Ha suonato una padella, scambiandola per il suo basso, ha ballato sui tavoli e iniziato a imprecare in uno stentatissimo, quanto comico italiano (reminiscenze di quando stava con quella tizia, sì, insomma, quella che mi ha insegnato a cucinare la pasta. Sempre lei.), ma non ha detto niente di quella faccenda.
Niente di niente.
In vino veritas. Ma andate a fanculo, latini del cazzo.
O forse non ha davvero nulla da dire. O forse non era ubriaco, ha fatto soltanto finta. O forse...o forse basta, Frankie.
Sono passati diversi giorni ormai, da quando sono partita. Dal tre gennaio. Nemmeno ci penso, a telefonargli. Che ci pensi lui, mi dico, in preda all'orgoglio più cieco e stupido. Nel frattempo suono, e suono come mai in questi ultimi mesi ho fatto.
Bene. Fottutamente bene.
La chitarra è un prolungamento del mio corpo, e le mie dita scorrono, a volte armoniose, altre rabbiose, altre ancora malinconiche, ora decise e ora delicate, come il tocco di un vetraio con le sue creature. Minuzioso e colmo di amore.
Io amo le mie chitarre. Le amo come la cosa più preziosa di cui sono in possesso, come i tramiti tra il talento e la sua messa in pratica, come le artefici di quello che sono, e quello che faccio per vivere. Quello che vivo per fare.
Suonare, e non mi importa se tra pochi amici o davanti a una folla oceanica, non mi importa, giuro. É la musica, quella che conta.
Sto imparando ad amare anche la mia voce, a curarla come si fa con una piantina debole, a portarla il più in là possibile, a farle esplorare mondi che mai ha visitato.
La amo, perché è debole anche lei, sfiancata, ma stoica, a volte flebile, e a volte così profonda da far venire la pelle d'oca alta due dita anche a me che la tiro fuori sforzandomi come in un parto.
É l'anima, che straripa all'esterno.
Quello che ho da dire al mondo, serio o meno che sia, doloroso o faceto, amaro o ironico.
O tutte queste cose insieme.
Sono io, in definitiva, sul palco. Niente personaggi, niente maschere da indossare con grazia e disinvoltura, niente movenze da istrione d'altri tempi. Quelle sono cose che lascio fare volentieri a gente che ne ha bisogno per non impazzire, o per affermare un ego che ha paura di calcare un fottuto mucchio di assi e cavi nella sua completa nudità, come le persone comuni di tutti i giorni, quelle che non hanno il bisogno nè l'obbligo di mostrarsi a una folla.
Ma io non sono normale.
Io sono fatta per stare qua sopra a urlare al mondo che fa schifo, e che un po' faccio schifo anche io. Per un fatto di adattamento, immagino.
E la gente, beh, viene ad ascoltarmi, e sembra persino essere d'accordo. Un gran bel traguardo da raggiungere, direi.
C'è solo una cosa che può cambiare il mio modo di vedere le cose, e guarda il caso, quella cosa sta emanando una stupidissima sigla di un abominevole cartone animato.
Keith sta già sfoderando lo sguardo assassino che accompagna alla classica frase "Rispondi, o cambia suoneria!", frase in cui l'unica variabile è determinata dalla quantità e varietà di improperi che riesce a proferire a gola spianata prima che riesca a interrompere quello stillicidio.
"Pronto" borbotto.
"Ehm...ehi, Frankie, sono io...Frank."
La sua titubanza, da bambino timoroso, riesce a strapparmi un sorriso. E a farmi uscire dal bus, in piena notte, una di quelle in cui non suoniamo, una di quelle in cui la luna è lì, appesa nel cielo, rotonda e materna, che ti osserva e approva quell'oscuro sentimento che è il motore della tua vaga esistenza, a prescindere da dove ti porti.
"Ehi, ciao" farfuglio, in evidente disagio.
"Beh, volevo sapere come stai, non ci siamo nemmeno salutati, prima che tu partissi..."
Faccia tosta. Perché hai aspettato così tanto a farti sentire?
Mi sei mancato come l'aria, ma sono troppo orgogliosa per ammetterlo, o per decidere di prendere e chiamarti.
"Sta andando tutto a gonfie vele!" esclamo, cercando di mostrarmi entusiasta solo per il tour. Solo per quello, non montarti la testa.
Anzi, montatela pure, perché è una balla. I concerti sono passati in secondo, terzo, ultimo piano, da quando la tua voce è tornata ad accarezzarmi le orecchie.
Silenzio. Starà aspettando qualcosa? Io aspetto che dica qualche cazzata delle sue.
Ah, ma sono io che devo parlare.
"E...e tu? Le registrazioni procedono bene?"
"Sì...sto bene, anche il disco sta bene, il lavoro grezzo sta per essere inciso, stiamo provando come dannati...sono stanchissimo" risponde, trascinando la sua verbosità come una fila di lumache sotto la pioggia. Riesco a sentire tutta la fatica che lo assale, nel modo insolito in cui dosa le parole. Di solito è un fiume in piena di frasi e movenze; credo che invece, se potessi vederlo adesso, probabilmente gesticolerebbe molto meno dello standard, quasi in un tentativo di risparmiare energie per suonare al meglio.
"E... beh, diciamo che ti ho chiamato anche per un altro motivo..."
"Quale?" chiedo, stupita.
"Ho esagerato, l'ultima volta. Ti ho accusato senza ascoltarti, e non avrei dovuto. Scusami, davvero."
"Ah, no, tranquillo, non c'è problema, credimi! Scusami tu, per averti dato della testa di cazzo e, uh, poi non ricordo più..." rispondo, ridacchiando.
Ride anche lui: "No, direi che non hai calcato la mano più di tanto, con gli insulti..."
Siamo troppo formali, questa telefonata sta assumendo una piega grottesca.
"...uhm, ecco, non dovrei prendermela così, ma ci tengo a te, e lo sai...insomma, non mi importa, cioè, non so se fosse la verità o meno, se sto davvero con una tossica come dice qualcuno, ma se così fosse, ti prego di smetterla..."
"Non posso." rispondo, decisa, senza farti nemmeno finire.
"Come non puoi?" chiedi, stranito.
Aspetta, ti ribadisco il concetto.
"Hai sentito bene. Non posso smettere."
"Mi hai mentito tutto questo tempo, allora?" salti su inviperito.
No, vedi, non ti ho mai detto bugie. Vabbè, meglio esser chiari, QUASI mai.
La questione è un'altra. E tu sei sempre pronto a vederne il lato peggiore, suscettibile come sei.
"No. O meglio, sì. In un certo senso sì, ti ho mentito..."
Taci, poi riagganci.
Frank, accidenti a te e alla tua impulsività! Non avevo finito il discorso.
Ricompongo il tuo numero, e mi rispondi, secco, freddo, bastardo.
Ma stavolta non mi spaventi, non ho la sensazione di stare per perderti, perché non hai ascoltato la parte più importante.
"Sei tu la mia droga, adesso capisci perché non posso smettere?"
Un silenzio sepolcrale riecheggia nell'auricolare.
"Sì, in un certo senso stai con una tossica, una che si farebbe di te fino a farsi scoppiare le vene, e chissà quante altre cazzate potrei dire, ma rovinerei tutto, come al solito, quindi fermami, per favore, o potrei continuare all'infin..."
"Allora siamo due drogati del cazzo, credo."
E ridi, ridi come non ti sentivo ridere da giorni, ormai, felice come un bimbo davanti a ciò che desidera più di ogni altra cosa esistente, e finisci per contagiarmi, e ridiamo assieme, ebbri di quella pura gioia che credevo esistesse solo nei film, o nei libri, in mondi non percorribili fisicamente, che rimangono così, nella testa, come piacevoli idealizzazioni fini a se stesse. Ma ci siamo dentro fino al collo, e forse anche un po' più su, perché è la realtà, e per una volta mi sento di porgere delle tacite scuse al mondo, mormorando nel cervello che non fa poi così schifo, che tutto sommato è un bel posto per viverci, ogni tanto.
Alzo gli occhi al cielo, e la luna è sempre lì, sempre nostra complice silenziosa, sempre presente quando ci riavviciniamo dopo una burrasca, sempre pronta a farsi da parte, riflettendo una luce non sua sui nostri visi provati dal lavoro e da sterili litigi. Da te è giorno, ma non importa. Il cielo è dalla nostra parte, qui col suo scuro splendore, là con la limpida rincorsa delle nuvole nel cielo, bagnate dal calore del sole.
"Sai, qua piove..." mi comunichi, così, dal nulla.
Okay, niente nuvolette bianche spostate dal vento e lambite dal sole. Scherzavo.
"Qui invece il 'soffitto' è sgombro, si vedono un sacco di stelle!"
"Soffitto?!"
"Ma sì, il cielo! Non mi va di chiamarlo sempre con lo stesso nome"
Sento sghignazzare.
"Non è male, come metafora..."
"Eh già" dico, poi sento aprire la porta alle mie spalle, e mio fratello mi scompiglia i capelli con affetto e sussurra di interrompere la telefonata e rientrare a riposarmi, perché domani ci aspetta un concerto denso di aspettative.
"Devo rientrare, scusami! Ci sentiremo ancora, mentre sarò a zonzo per l'Europa?"
"Spero di sì...ma non mi hai detto dove sei adesso."
"Parigi. Ed è meravigliosa, dovremmo farci un giro, sai? Io e te. Da soli."
"Perché no? É davvero bella! Buonanotte, stellina, salutami le tue sorelline lassù sul soffitto!" sussurra, con dolcezza.
"Lo farò senz'altro" rido "buon lavoro, drogato!"
"Ma come, io faccio il carino, ti chiamo stellina, e tu mi dai del drogato?!"
"Per tua stessa ammissione, ti ho solo citato, signor Frankenstein!"
"Okay, okay..."
"Dici che dovrei chiamarti anche io stellina? Anzi, stellino!" rido "Allora, vuoi essere chiamato stellino?"
"No, grazie, meglio tossico, piuttosto...riposati bene, mi raccomando, mia piccola droga..."
"Ti amo." mormoro, quasi senza accorgermene.
"Scusa, scusa, cos'hai detto? Non ho sentito" incalza, sarcastico.
In effetti è la prima volta che me lo sente dire. Cioè, un attimo, rettifico: è proprio la prima volta che lo pronuncio. Non so se riuscirò a dirlo ancora, tanto mi pesano queste due piccole, stupide parole, ma adesso è successo, e non me ne pento. Lui se le merita tutte, dalla prima all'ultima lettera.
"Buona la prima, mi dispiace per te, ma non ripeto!"
"Tanto ti ho sentita!" e fa una pernacchia.
"E allora cosa vuoi che ripeta!"
"Niente, mi piaceva l'idea che me lo ribadissi..." bofonchia, un po' deluso.
"Comunque...anche io..." sussurra, quasi con pudore.
"Ciao" e attacchiamo in sincro, o almeno, mi piace immaginare che possa essere così.

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Always All Ways (Apologies, Glances And Messed Up Chances) / Standing On The Ruin Of A Beautiful Empire ***


per questo voglio una caterva di commenti, capito? u_ù

Cap. 28 – Always All Ways (Apologies, Glances And Messed Up Chances) / Standing On The Ruin Of A Beautiful Empire

L'ho lasciato. Ormai è più di un anno.

Beh, mi ha lasciato, all'incirca un anno e mezzo fa. Mese più, mese meno. Non ho controllato il calendario, non voglio che diventi un'abitudine stillicida.

Di ragioni....beh, cito a mio personale uso e consumo il titolo di un romanzo che vidi anni fa su uno scaffale di libreria, reparto letteratura italiana.
Una, nessuna e centomila.
So che ce ne sono, ma non so qualificarle, e così è come se non ce ne fosse neppure una. Ho provato a dire qualcosa, a ripeterle, davanti allo specchio, pensato a qualche modo per renderle più convincenti, ma prese una ad una perdevano completamente un senso, ammesso che ce l'abbiano mai avuto. E così, meglio una sana e schietta scena muta. Probabilmente sarò apparsa come una stronza, ma che qualcuno mi creda, per favore. Non sono stronza.
Ero solo confusa. Lo ero, e lo sono tuttora.

Il motivo?
Non lo sa con precisione nemmeno lei. Uno, nessuno e centomila, così mi ha detto. Non so perché, ma questa frase mi sa di citazione. É troppo...troppo, per essere stata pensata da lei. Senza offesa, intendiamoci, ma è una che legge parecchio, non mi stupirebbe se provenisse da qualche libro. Tutto quello che dice o fa è una citazione, un vivere secondo dettami imposti dagli altri, e anche questo tatuaggio che continuo a portare sul braccio ne è una dimostrazione lampante. Non so perché ce l'abbia ancora, forse mi sembrava davvero di infierire, a farmi cancellare anche questo.
O forse perché spero ancora di essere l'antidolorifico per il suo cuore tormentato e incosciente.

Eppure mi sembra sempre di prendere per il culo qualcuno. Ho questa sensazione che mi striscia nelle vene ogni volta che ci penso, ogni volta che provo a darmi un perché per tutto questo. I primi a farne le spese, a sorbirsi il mio mutismo ostinato, sono stati coloro che mi ponevano la fatidica domanda, sgomenti perché fino a qualche giorno prima avevo la faccia di quella innamorata alla follia.
Mio fratello.
Alice.
Dave.
Mikey.
Alicia.
Gerard.
Bob.
Ray.
Persino Brian.
Ma soprattutto lui.
E non sapevo mai cosa dire. Bocca serrata, espressione costernata, quasi volessi provare a dire solo con lo sguardo "mi dispiace, non lo so, ma doveva andare così".
Lo confesso: a questo punto non sono nemmeno più così sicura che dovesse andare così, però è successo troppo in fretta, troppo velocemente, e la fiducia reciproca è crollata quella fottuta notte di capodanno, senza avere più la forza di rialzarsi.
Non credevamo più l'uno nell'altro. Ci abbiamo creduto solo qualche giorno.
Avremmo dovuto promettercelo a vicenda quella sera.
Credi in me, così come io credo in te, stanotte.
Ma è successo quello che Billy Corgan cantava in un altro verso.
Impossible is possible, tonight.
É successo l'impensabile, l'imprevedibile, l'impossibile. E non siamo riusciti a sottrarcene nemmeno all'ultimo momento.
É difficile credere in qualcuno, se hai anche il minimo sospetto che possa tornare sui suoi passi e abbandonare tutte le promesse che, implicitamente o meno, aveva fatto.
E ormai non credevamo più in niente. I nostri incubi erano tornati, più se n'era aggiunto qualcun altro, qualche disgraziata new entry.

Non siamo più gli stessi, da quel capodanno. Il germe del dubbio s'è risvegliato e non è più andato a dormire, e potevamo scambiarci le promesse più grandi di questo mondo, ma inconsciamente sapevamo che era un tentativo disperato di non farsi sfuggire la terra da sotto i piedi.
Quell'unico 'ti amo' ne era il segno inequivocabile. Mi amava davvero, e dentro di me sono più che sicuro che mi ami ancora, anche solo un po', che un angolo minuto della sua mente si ricordi di me e di quello che eravamo, ma non aveva mai avuto bisogno di dirmelo. Lo sapevamo e basta. Ci scherzai su, ma sentii chiaramente che qualcosa stava iniziando ad incrinarsi. Ed era successa soltanto una minuscola percentuale di fatti. Era solo la punta dell'iceberg, e non lo sapevamo.
Non è facile assistere a una ricaduta, e pensare che sia l'ultima. Ancora mi rimane il dubbio, perché non so se si fosse davvero fatta di qualcosa o se era soltanto uno stupido rumour.
Ma Jamia non è una stronza, no. Non può avermi detto una cazzata così, tanto per fare qualcosa.
Però...se avesse visto male? Se le avessero riferito la notizia errata? Insomma, non riesco a venirne a capo, e nemmeno Frankie mi ha mai dato l'occasione di capirci qualcosa. Avrei dei motivi per non fidarmi, allora, ma ormai è talmente irrilevante che non ci penso nemmeno più.

Non ho mai pensato di essere stata una specie di ruota di scorta, un tappabuchi per riempire le sue giornate senza di lei, e avevo l'evidenza dei fatti dalla mia: c'ero anche prima che il loro rapporto s'infrangesse, e quando lei lo ha cacciato di casa, beh...sono stata io ad andare a cercarlo, non l'opposto. Oddio, se proprio devo essere sincera la questione è ben più complicata di come la si dipinge: lui stava male per colpa mia, ed era arrivato a un grado di distruzione tale da esasperare e allontanare chiunque.
Stava lanciando un messaggio. Non è di voi che ho bisogno, non adesso.
Era me che voleva. E la cosa paradossale, ma nemmeno così tanto, era che io stavo facendo lo stesso.
Incosciamente speravo che, ogni pomeriggio, al tramonto, quando andavo da sola su quella piccola spiaggia e davo fondo a tutte le mie lacrime, lui comparisse dal nulla e venisse a rassicurarmi che sarebbe andato tutto bene, che non ci saremmo più separati. Sì, lo so, probabilmente qualche rotella se n'era andata in vacanza premio, ma la speranza, ci insegnano da piccoli, è l'ultima a morire, e io cercavo di alimentarla con quel piccolo rito, come se potesse davvero servire a qualcosa, e anche perché, in fondo, non avevo nulla da fare, visto che eravamo in pausa forzata.
Poi è arrivato Mikey, ed è cambiato tutto. Ancora mi chiedo, se non ci fosse stato lui, come sarebbe andata a finire.
Ho temuto il peggio, in quella stanza, a casa di Gerard. Avevo una fottuta paura che andasse tutto a ramengo, che lui non volesse più vedermi, ma non era così. Anche lui sperava che, ogni volta che mandava il suo senno a farsi un giretto da solo, arrivassi alle sue spalle e lo abbracciassi, sussurrandogli che era solo un incubo, che si sarebbe svegliato presto. Me l'ha confessato lui stesso.
Era innamorato perso.
Io lo stesso.
E allora perché è finita?

Con Jamia abbiamo ricominciato a sentirci, per gradi, da qualche mese dopo la fine della storia con Frances.
Sono stato un vigliacco, lo so, ma sentivo che avrei dovuto sistemare anche con lei, e dimostrare al mondo che non ne ero ancora innamorato, ma mi sono reso conto praticamente subito che stavo prendendo in giro tutti e tre.
Ero innamorato di Frances.
Ed ero innamorato, ancora, di Jamia.
In fondo, avrei dovuto sposarla. Glielo avevo chiesto, prima di rincontrare Frankie, e quel tatuaggio, quello che ormai non ho più, rappresentava proprio la nostra promessa di matrimonio. Una promessa infrantasi con la banalità con cui un vaso può cadere a terra e fare la medesima fine.
Lei...beh, è stata sempre piuttosto gentile, con me, ma continuava a dire che non saremmo mai tornati insieme. Non voleva, non più.
"Come posso stare con una persona che ho allontanato nel peggiore dei modi proprio quando stava male e aveva bisogno di aiuto?" ripeteva in continuazione. Eppure lo sapeva meglio di chiunque altro che ero io che la stavo allontanando, agendo in quel modo, diventando la persona più sgradevole sulla faccia della terra. Come a dirle che lei non avrebbe mai risolto la situazione, che questo compito sarebbe toccato a qualcun altro.
A Frankie.
Aspettavo solo lei, ma non avevo il coraggio di rivederla, avevo paura che si frantumasse come una statua di cristallo solo ad avermi davanti. Non mi preoccupavo per me, ero già a pezzi per come l'avevo trattata, e tutto questo solo perché avevo creduto a determinate cose, elementi che nella mia testa si incastravano in un certo ordine, ma che nella realtà avevano tutt'altra collocazione.
Se solo l'avessi ascoltata a fondo. Se solo non fossi stato così bastardo, e le avessi dato tempo di spiegarmi che non può certo andare in giro a raccontare a tutti della sua tossicodipendenza, men che meno a gente che conosce da qualche giorno, tipo me, all'epoca. E invece l'avevo solo inibita, in quel modo, e lei era così....così impaurita, che non riusciva a dirmi niente, così disperata da quel suo mutismo inatteso, da giungere ad urlare il suo amore per me, pentendosene immediatamente. A quel punto non sapevo che fare. Avrei voluto gridarglielo, dirle che anche io, sì, anche io ero innamorato di lei, per questo non riuscivo ad accettare il suo passato. Avevo paura che potesse ripetersi, e non riuscivo a concepire di dover, per una qualsiasi ragione, fare a meno di lei, del suo sorriso e della sua voce inconfondibile. Dio, se solo avessi una voce come la sua...è meravigliosa. Sembra avvolgerti e scaldarti, dirti che almeno un posto sicuro c'è, in questo mondo.
Ma non ci riuscii, perché avevo stampata a fuoco nel cuore la cocente delusione di avere scoperto quello che era. Non doveva esserci nulla di male, anche Gerard, in fondo...e Mikey...ma da parte sua, inspiegabilmente, non lo accettavo.
Però, se ci penso...in fin dei conti non ho mai veramente avuto fiducia in lei.
E allora come ho potuto chiederle di fidarsi di me, con quella frase?
Eppure ogni tanto mi capita di vederla, magari a qualche live. Il tatuaggio è sempre lì, anzi, adesso tutto intorno ha come un cartiglio, che lo mette ancora più in evidenza. É solo grazie a questo ridicolo particolare che continuo a sperare.
Lei crede ancora in me, nonostante quel giorno sia venuta lì? Me lo starà facendo capire? Non lo so, ma averne l'illusione mi fa sentire meglio.
Ho sempre avuto la sensazione che non avesse il coraggio di muovere un passo senza qualcuno, o qualcosa, a sostenerla, ma posso criticare qualcuno per i miei stessi difetti? Se non ci fosse stato Mikey, come avremmo fatto a rivederci?
É solo lui che dovrei ringraziare. E Ray, sì, anche lui. Grazie a lei, non lo chiamo più per cognome, e anche lui si è abituato all'idea, e forse, chissà, me ne è anche grato. Insomma, io devo ringraziarlo, perché dopo mesi di cazzate, di giullarate da cretino, sul palco e fuori, avevo sentito il bisogno di staccare la spina, di cambiare per un attimo.
"Prestami qualche disco che mi distragga, per favore." Mi aveva guardato stranito, e d'altronde anche io, in un primo momento, mi chiedevo perché fossi andato proprio da lui. Sì, insomma, era l'unico che non aveva ancora detto la sua su tutta la faccenda, e mi sarebbe piaciuto sapere cosa ne pensasse.
Mi allungò Vol 3: The Subliminal Verses degli Slipknot.
"Occhio alla traccia 11" si raccomandò. Non aveva aggiunto altro, e così sentivo crescere la curiosità, ma mi ero promesso di ascoltare tutto il disco, senza saltare subito a quella canzone.
Era perfetto, pensavo, intanto. Con le orecchie trapanate da quei nove pazzi avrei avuto il tempo di non pensare a nulla, come se potesse essere la cosa migliore.
Ma non avevo tenuto conto dei testi.
Traccia dopo traccia sentivo dentro di me crescere la rabbia, per aver lasciato andare tutto così, e un peso nel petto che si faceva sempre più insostenibile, sempre più gravoso da portar dietro. Le canzoni scorrevano nelle mie orecchie come preludio a quella famigerata traccia numero undici, come antipasto all'apoteosi di incazzatura con il mondo, ma soprattutto con me stesso.
E invece delle note, emanate da una chitarra acustica, mi spiazzarono.
Tristi, malinconiche, dense di dolore.
Guardai con stupore la custodia del cd, in cerca del titolo: Vermilion, part 2.
Le parole, a tratti, somigliavano a quelle di Vermilion, la prima. La voce di Corey era profonda come sempre, pacata, ma intrisa di una dolcezza terribile, di quelle che ti spezzano il cuore.
She is everything to me. The unrequited dream. A song that no one sings.
Piansi, piansi come avrei dovuto fare sin dal primo momento, senza sosta, senza vergogna, mettendo a ripetizione quella traccia, col preciso intento di cullarmi nella mia disperazione.
L'avevo persa.
Ed era tutto per me, solo in quel momento me ne resi conto.
Jamia passava irrimediabilmente in secondo piano, scompariva come neve al sole, mentre ripensavo a Frances.
E non sapevo cosa fare, non sapevo come poterla riavere. Mi mancava come l'aria che respiro, l'aria che soffocavo nella nebbia di mille sigarette, fumate nel tentativo di arginare quella piena di lacrime che aspettavo da troppo tempo, ma che non ero mai riuscito a tirare fuori, pensando che la cosa migliore fosse dimenticare, fare sì che quella fosse una pagina ormai voltata, su cui non tornare più. E, in disparte, Ray assisteva alla mia disperazione, silenzioso, comprensivo, discreto.
Fu quello il suo commento alla mia situazione. Il silenzio. E quella traccia, consigliata cripticamente.
Mi conosce, sa quanto la mia curiosità possa diventare un impiccio, ma quella volta era stata provvidenziale, perché mi aveva fatto capire che era così che stavo, in realtà. Che 'Frank il Cretino' era solo la prescelta, tra le tante maschere che avrei potuto indossare per nascondermi, e che quelle parole avrei potuto benissimo scriverle io, in quel momento, se solo non fossi stato così alacremente impegnato a fare di me una macchietta, un personaggio mediocre.
Dentro di me non smetto di ringraziarlo nemmeno ora. Perché mi ha aperto gli occhi.
I don't know what to do.
Anche adesso sono paralizzato dall'indecisione, ma almeno so cosa voglio.

Keith si prese cura di me come ci si prenderebbe cura di un bambino nato da poco.
Con delicatezza, dolcezza e affetto sconfinato. Con devozione.
Non chiedeva perché avessi lasciato Frank, chiedeva solo perché gli avessi anteposto lui e Dave. Gli risposi che sono sempre stati la mia vita, non potevo buttarmi ad occhi chiusi tra le braccia dell'ultimo arrivato. Rimaneva sempre spiazzato dal cinismo estremo della mia visione, ma io sapevo che era tutto finto, che mi sarei abbandonata volentieri a lui, ma non potevo, perché avevo dei doveri verso me stessa, ma soprattutto verso la mia band.
Già, Anche nei confronti di Dave.
David Griffith. Il migliore amico di mio fratello. Quello che ormai non mi parlava da mesi.
Alla fine si sbottonò.
Eravamo dalle parti di Amsterdam, o Rotterdam, non ricordo. In ogni caso, eravamo in Olanda, per il tour europeo, ed era all'incirca la fine di gennaio, questo lo ricordo bene. Stavamo barricati in questo locale, perché fuori faceva un freddo boia, noi tre, Alice, che ci aveva seguito, e tutta la crew, tecnici del suono, manager, turnisti, questo tipo di gente qua. Keith aveva riprovato a farlo bere come si deve, seduti a un tavolo un po' isolato, cercando anche di dirottare la conversazione sui punti giusti, ma io giustamente non potevo accorgermene, visto che ero con Alice a bere e fare amicizia con la barista, una tipa veramente simpatica. Purtroppo mi sono dimenticata il suo nome, ma credo che comunque non sia indispensabile ai fini della storia, giusto?
Insomma, con Alice finimmo a discutere su quei tatuaggi che ci eravamo fatti fare, le frasi a sorpresa. Lei mi stava criticando, perché a suo parere era stata una mossa un po' troppo avventata. "E se poi non vi fossero piaciuti?" chiese, e io a spiegarle che la faccenda era più complessa di così, e a un certo punto questa ragazza mormorò che l'idea invece era carina e originale, e così finì che s'era introdotta nella conversazione, e devo dire che creò dei buoni diversivi per non far discutere ancora più aspramente me e Alice, cosa di cui le sono grata tuttora.
In effetti, ancora sento soddisfazione per la mia idea. Nonostante tutto quello che è successo, non riesco a pensare che continuare a portare questa frase, che oltretutto ho fatto circondare da una specie di cornice, una spessa riga scura, al cui interno si ritagliano piccole stelline e farfalle stilizzate, sia uno sbaglio. Forse lo sto illudendo, così, perché so che mi vede, lo so. E anche io vedo lui, ai concerti, nei filmati e le foto che i fans gli scattano durante i live, e vedo ciò che lui vede guardando me.
Vedo ancora la mia richiesta di alleggerire il mio dolore, di essere il mio muscolo cardiaco, ancora per un po'.
Vale sempre.
Per entrambi.
Ma facciamo finta di niente, continuiamo a condurre le nostre vite su binari paralleli. Possiamo vederci l'un l'altro, ma non scontrarci, come successe quel giorno.
"Andiamo dai ragazzi?" aveva proposto lei.
"No, dai, non vedi che stanno parlando tra loro...magari saremmo solo d'intralcio..."
"E a cosa?"
"Beh, alla loro, uhm...conversazione..." stavo tentando di arrampicarmi sugli specchi. La verità era che avevo questa sensazione, che se mi fossi tenuta a distanza avrei evitato qualche situazione, come dire, spiacevole, ma Alice non sentì ragioni, e così ci avvicinammo.
Sentii distintamente uscire dalla bocca di un Dave ormai ubriaco fradicio le seguenti parole, testuali: "Io mi sono rotto veramente le palle, sono stufo di stare zitto e sentirla cinguettare al telefono con quella mezza sega! E tu che gli organizzi anche la vacanzina di qualche giorno per andarla a trovare, poi! Keith, seriamente, sei un fratello per me, ma lì ti ho odiato...odiato, beh, come si può odiare un fratello, cazzo! M'è rimasto sui coglioni da subito, quel pivellino, cosa crede, di essere figo ad andare a giro con tutti quei tatuaggi? A dire di essere il chitarrista di quella band di froci...che schifo, porca troia!"
Qualcuno si chiederà come faccio a ricordarmi le parole a memoria. Beh, gli insulti di Dave sono sempre molto incisivi, e la faccia...ehi, quella era da oscar. La tipica espressione dell'ubriaco devastato dal mal di stomaco, che sembra dirti con gli occhi 'sto per vomitare anche l'anima, togliti da davanti, se vuoi rimanere incolume'. Il suo mal di stomaco, oltretutto, aveva un nome ben preciso.
Frank
Anthony
Thomas
Iero.
Mio fratello cercava di placarlo, "e dai, Dave, stai pisciando di fuori, è il ragazzo di mia sorella, non me ne frega che sei innamorato di lei, insomma, potevi deciderti prima, invece di spalargli merda addosso, anche perché poi lo sommergi, piccoletto com'è..." ridacchiava.
E qui mi scappò un "E CHE CAZZO!" piuttosto ben scandito. Beh, poteva assumere diverse sfumature, dipendeva solo dal lato in cui lo si fosse guardato. Sconvolgimento per quella specie di rivelazione attesa per mesi, anche se già abbondantemente ipotizzata nella mia testa, oppure Dave che si sfogava su Frank, o ancora, e forse soprattutto, mio fratello che gli stava dando corda, insomma, il tutto si prestava ad infinite interpretazioni.
Si voltarono entrambi, Keith sorpreso di vederci così lontane dal bancone e così vicine a loro e ai loro bei discorsi 'da uomini', Dave assolutamente dotato del suo aplomb da sbronzo, e proprio così, senza fare una piega, mi si rivolse, biascicando che "lui, sì, quel tappo, quel LURIDO tappo, tengo a specificare, non ti renderà affatto felice...io invece posso!"
Alice aveva le mani davanti alla bocca, poi se le portò in mezzo a quella giungla di liane rosse che ha il coraggio di chiamare capelli e si mise a fissarmi, come in attesa di una risposta per tutta quella trafila di provocazioni.
Cos'avrei dovuto dire? Buon per lui, che aveva scoperto di essere attratto da me, quando ormai erano anni che non pensavo più a lui in quelle vesti (credo sia una tappa quasi inevitabile, innamorarsi del migliore amico del proprio fratello maggiore, durante l'adolescenza.), buon per lui, che stava infamando Frank, e chissà quante altre volte lo aveva fatto. Buon per lui, insomma, ma non me ne fregava proprio un accidente.
"Tu? Ma vaffanculo, và!" esclamai, alzando il sopracciglio, poi tornai verso il bancone a cercare di credere che fosse solo un'orrida allucinazione, magari anche aiutata da una vodka ghiacciata come si deve. Però, non solo non avevo le traveggole, ma soprattutto non feci altro che pensarci per tutto il tour. Avevamo da arrivare fino in Russia, ne avremmo avuto per un altro mese almeno, ed ero terrorizzata solo dal pensiero di passare i tempi morti a pensare a Dave, e a come fargli capire, una volta sobrio, che non era proprio il caso.
A Frank non accennai minimamente la questione, e forse fu un po' questo l'inizio della fine. Non s'è mai fidato troppo di me, e questo lo capivo benissimo anche da sola, quindi a tacere ostinatamente sul perché gli apparissi così strana, sul perché, ogni volta che nominava la mia band, lo fulminassi con lo sguardo, e su tanti altri perché, beh, avevo soltanto gettato benzina sul fuoco.
Iniziarono le accuse. Non so se per reazione, o perché lo pensasse seriamente, continuava a ripetermi che Jamia aveva ragione, che gli avevo sempre mentito riguardo alla mia vita, e che gli stavo nascondendo chissà cosa. Insomma, ogni pretesto era buono, ma che dico, ottimo, per iniziare a litigare come due imbecilli, e lui tirava sempre fuori Jamia, e non ce la facevo più a sentirla nominare sempre e comunque, era diventata una pratica di sadismo puro. Sapeva che non volevo sentire il suo nome, sapeva che contro di lei non avevo nulla, ma che non ne potevo più, e quindi andava avanti, provocandomi, istigandomi ad incazzarmi e andarmene, sbattendo porte e finestre. Una delle ultime volte mi ricordo che sbottai una cosa tipo: "Visto che Jamia ha sempre ragione, perché non te ne torni da lei, invece di stare tra i piedi a questa cogliona che fa sempre un mucchio di stronzate?" e lui non rispose, non disse niente, prese solo le sue cose e se ne andò, forse da Gerard, o da Ray, salvo tornare dopo un paio di giorni a chiedere scusa. Era sempre così, ormai, sempre un oscillare convulso tra lo scannarsi e il tornare pateticamente smielosi come ai primi tempi.
Però non era per questo che sono andata ad annunciargli che "mi dispiace, è finita". Eravamo solo un fascio di nervi pulsanti, in quel periodo, e quello era il modo che avevamo per sfogarci l'uno contro l'altro, invece di aiutarci ad andare avanti.

S'era incrinato qualcosa. Jamia non voleva più stare con me, è vero, ma non perché mi avesse allontanato nel momento più critico. Cioè, alla fine quello è stato l'epilogo di tutta una serie di situazioni che erano iniziate da quando ero a San Francisco ed ebbi l'idea di entrare nel suo studio a farmi quel tatuaggio.
Il grottesco, in tutta la faccenda, è stato che il copione si è ripetuto quasi del tutto identico con Frankie, tornata dal tour europeo.
Ho un modo strano di reagire alle difficoltà. Mi nascondo dietro a un dito. E quel dito si chiama 'fare il cretino'.
Ecco perché litigavamo così spesso. Lei ci metteva del suo, era sempre vaga, nascondeva tutto, o quasi, di sè, e io non riuscivo a fare altro che provocarla. Soprattutto nominandole Jamia. Perché effettivamente la mia mente tornava sempre a pensare a lei. Come se lei e Frankie stessero giocando a tennis, con la mia testa come pallina.
E lei andava fuori di senno. Ero la goccia che faceva traboccare il suo vaso, ogni volta. Immaginavo avesse dei problemi con il gruppo, ma non mi diceva mai nulla, e se provavo a chiamare Keith, mi diceva sempre che "se non te l'ha raccontato lei, non vedo perché dovrei io. Evidentemente non vuole tirarti nei suoi casini."
Ma io volevo farmici trascinare dentro! Ero il suo ragazzo, in fondo, non un soprammobile.

Dave era rimasto talmente schiacciato dal mio rifiuto, che non sembrava più lui.
Non rideva, non scherzava, se possibile era ancora più muto rispetto al periodo precedente.
In un certo senso non riuscivo a darmene pace. Mi dispiaceva, in fondo, perché è un amico e, insomma, gli ho sempre voluto molto bene.
"E di che ti lamenti, era ubriaco, ma mica scemo. Il tuo bel vaffanculo se lo ricorda, sai?" mi rispose Keith, il giorno che gli chiesi perché non si riprendesse.
Insomma, Dave voleva buttarsi. Dal ponte. Sì, il Golden Gate. É piuttosto famoso per via di tutta la gente che ci si suicida.
Eravamo tornati da qualche mese dall'Europa, e continuava ad avere quella faccia da funerale, da cane bastonato. Stranamente, nemmeno la notizia che stavo rompendo con Frank lo risollevava.
Un giorno, durante le prove, era saltato fuori dicendo che si sarebbe fatto una passeggiata, ma uno non va a fare passeggiate in auto, questo doveva aver pensato Keith appena aveva sentito rombare il motore della sua, così uscì di fretta, deciso a seguirlo, e si mise alla guida del mio maggiolone, che stranamente, sotto di lui parte sempre subito. Prodigi della tecnica.
Ero riluttante, soprattutto dopo il silenzio ostinato che era calato, ancora più pesante di prima, tra me e Dave. Però vedere mio fratello così preoccupato mi aveva fatto impressione, e così stavamo andandogli dietro, e quando abbiamo visto la sagoma arancione del ponte iniziare a stagliarsi all'orizzonte, mi sentii spalmare sul sedile da un'accelerata brusca.
Se devo essere sincera, lì per lì non mi ero scomposta più del dovuto.
Okay, lo ammetto, proprio non c'ero arrivata, a pensare al suo gesto. Keith sì, però. Quando vide, con la coda dell'occhio, la macchina accostata da una parte, fuori dalle corsie stradali, per poco non rimaneva lì, secco. Qualche secondo a boccheggiare, poi lo vidi letteralmente schizzare fuori dall'auto e gridargli qualcosa.
Ci misi un bel po' di coraggio a uscire anche io dalla macchina, e la scena che mi si parò davanti aveva seriamente del surreale.
Dave era già sistemato per il suo tuffetto, e Keith lo stava praticamente raggiungendo.
"Pezzo d'imbecille, non hai bisogno di toglierti dal mondo! Torna qui e smettila di giocare a fare l'Harold della situazione, perché io non ti salverò davvero, ho forse l'aria da Maude?"
Okay, passi per la citazione cinematografica un po' riadattata a tuo uso e consumo, fratellone, e passi anche il fatto che tutto sommato non somigli a una simpatica vecchietta che ha una voglia incontenibile di vivere, ma cosa credi di essere andato a fare lì, raccogliere una banconota da cento dollari?! Su, avanti, meno cazzate, non fare il duro e riporta quel cretino qua!
Ma la cosa ancora più assurda fu la risposta di Dave, che piagnucolante, farfugliava: "Ma Harold faceva finta, io no...", sempre meno convinto di fare quel che aveva intenzione di fare. E io assistevo a tutto questo a distanza, terrorizzata e col cervello in pieno moto, e ragionavo, elucubravo, riflettevo che, forse, l'unica persona che avrebbe fatto un piacere al mondo a togliersi di torno ero io.
Stavo facendo naufragare una relazione meravigliosa per i miei nervi del cazzo, e uno dei migliori amici che abbia mai avuto si vuole buttare dal Golden Gate Bridge per colpa mia.
'Direi di aver fatto abbastanza danni' conclusi, nel chiuso della mia scatola cranica (vuota). Era già tanto che non mi fossi prodotta in una ridicola scena madre in cui supplicare tra ignobili piagnistei quei due imbecilli, che nel frattempo si erano messi a parlare di film, di ritornare sulla terraferma, ma, ecco, diciamo che tutta questa situazione mi stava facendo rivalutare alcuni concetti.
Per esempio, le priorità della mia vita.
Mi misi a tracciare un elenco, mentre Keith finalmente aveva convinto Dave a cambiare idea e stavano tornando verso le macchine.
Al primo posto, la band.
Al secondo, mio fratello.
Al terzo, tutto il resto.
E Frank rientrava in 'tutto il resto', il che era da interpretarsi come segnale inquietante, sicuramente influenzato dalle circostanze, ma da qualche parte doveva pur essere uscito.
Insomma, ero già sull'orlo della rottura, con lui, ma non riuscivo a farmene una ragione. Non ci riuscivo per un motivo ben preciso: litigavamo sempre, è vero, ma dentro di me avevo la consapevolezza che il discuterci sempre volesse dire che continuavo a tenere a lui, a considerarlo importante, in un certo senso.
Ma dovevo fare una scelta.
Non so ancora se sia stata giusta. Ogni giorno che passa mi sento come se avessi fatto la cazzata più grande della mia vita, ma non credo di essere ancora pronta per tornare indietro. E il fatto che non ci vediamo, nè ci sentiamo, da un anno e passa, è un fattore che peggiora ulteriormente la situazione.

Ogni giorno, da quando siamo in tour, al tramonto, mi allontano dal bus per fare una passeggiata, completamente solo.
Io, una Coca-cola, e le sigarette. Ammetto solo la loro compagnia, perché questo momento della giornata è speciale.
Mi ricorda una persona.
In una canzone dei Leathermouth urlo che i tramonti sono per i rapinatori, gli aggressori. Sunsets are for muggers. Ma ormai lei l'aveva interpretata in un altro senso, a tratti intriso di una comicità disperata e grottesca, ed era difficile toglierglielo dalla testa.
Lei aveva capito che i tramonti fossero per i mug. Gli sciocchi.
O per le tazze, come diceva sempre. Mi prendeva in giro con questo gioco di parole, e mi diceva che allora ero una tazza da té. L'ho sempre trovato un modo carino di darmi dello stupido, da parte sua, ma mi piaceva, perché adesso mi sento di darle ragione.
Io sono uno scemo, dunque. E non certo perché conservo questo piccolo rito dei tramonti.
Sono scemo perché non ho più il coraggio di prendere e fare una pazzia per lei, solo per lei, fregandomene se possa servire a qualcosa o no.
Sono scemo perché me ne sto qui, su questo spiazzo, davanti a questo palazzetto di Atlanta, aspettando di suonare e guardando un tramonto, la cosa più effimera di questo mondo. Perché non ce n'è uno uguale a un altro, eppure mi ostino ad accomunarli tutti allo stesso ricordo.
Sono scemo perché lei è qui, gli Unnamed sono in tour con i My Chemical Romance, e altre band, e ancora non ci siamo avvicinati. Ci siamo evitati, finora, come la peste, per paura di qualcosa.
Paura di capire che forse le cose si possono sistemare, con pazienza e perseveranza.
Sono scemo, soprattutto, perché è a una decina di metri da me, di spalle, che fuma, e guarda il tramonto.
Come me.

Allora è vero, sono una tazza.
Ho ripreso l'abitudine di starmene a guardare il sole che si congeda dall'emisfero in cui vivo. Abitudine da scemi, secondo lui, e io che lo smontavo sempre, dicendogli che è più carino pensare che 'mug', lì, nel titolo di quel pezzo dei Leathermouth che avevo storpiato volutamente, stia per 'tazza', e non 'sciocco'.
Rideva sempre, quando glielo ricordavo.
Tazza era la nostra parola in codice, per dire che eravamo due inguaribili imbecilli, e direi che sull'"inguaribili" avevamo pienamente ragione. Anche per quanto riguarda la parte degli imbecilli, in effetti.
Ho appena suonato, e sono felice. Perché Dave sta bene, adesso. Inciucia con la batterista di un gruppo in tour con noi, e lei è veramente carina, una a posto. Sono felice anche perché mi piace suonare a giro, mi piace pensare alla musica, e solo a quella. E mi piace pensare che ci sia anche lui, con i suoi Chem, in tour.
Sono una tazza, decisamente.
Perché non sono sola in questo spiazzo davanti a questo palazzetto. Non sono l'unica che sta fumando una sigaretta dietro l'altra, sorseggiando una Coca-cola.
Due delle azioni più deleterie che si possano compiere. Se potesse parlare, il mio fisico mi manderebbe a cagare senza tanti complimenti.
Mi giro, e alle mie spalle c'è qualcuno che sta compiendo le mie stesse azioni, inavvertitamente. Subito penso che anche il suo fisico dovrebbe inveirgli contro, ma stranamente è molto resistente, molto più del mio, che pure ne ha passate di tutti i colori.
Come faccio a saperlo, dite?
Lo conosco sin troppo bene, quel corpo.
Aveva ragione. Siamo più simili di quanto pensassi.
Non riesco ad essere fredda. Sento gli occhi annaspare in un mare di lacrime, ma non voglio versarne nemmeno una.
Il motivo è semplice e disarmante: non sono triste, o dispiaciuta, di vederti, quindi perché dovrei piangere?
Io non piango, quando sono felice.
E allora ti sorrido, con sincerità. Perché, lo voglio ammettere, gridarlo al mondo, dandomi dell'irriducibile tazza ancora una volta, mi sei mancato più dell'aria che si fa strada nei miei polmoni, tra un'autostrada e l'altra, di quelle che ho spianato nei bronchi a forza di fumare quelle Marlboro rosse che ti sembrano così pesanti. Ormai per me sono come una boccata di ossigeno.
C'è tempo per le scuse, e anche per fugaci sguardi, o per le occasioni che abbiamo perso dietro a inutili cavilli.
In fondo, il tour è appena iniziato.
C'è tempo.

Sorride. E getta la cicca a terra, schiacciandola con il piede.
L'odore inconfondibile delle sue Marlboro arriva fino alle mie narici, si insinua nei miei condotti respiratori, insieme al fumo della Camel light che stringo tra le dita. Immagino che per lei fumarne una sia come respirare una ventata d'aria fresca.
Il suo sorriso è la conferma ai miei dubbi, ma non la risposta definitiva.
Per ora mi basta.
Mi basta sapere che non mi odi, che sei sempre quella che ho conosciuto quattro o cinque anni fa, quella che aveva problemi con la sua cantante, e che vagava su un prato del New Jersey con una macchina fotografica in una mano e una lattina di birra nell'altra, cercando di non pensare, di percorrere una via possibile per addormentare il dolore, perché era quello che provavi, nel tuo petto, quello che ti provocava quella tipa, di cui nemmeno mi ricordo il nome.
Sei quella che tre anni dopo mi tatuò una promessa che ormai non sento nemmeno più mia, quella che ritrovai un anno dopo in tour, quella che ho amato incondizionatamente, nel bene e nel male, sin dal primo momento in cui l'ho vista, con quell'aria così fragile, eppure dotata di una forza decisamente non comune, capace di ricostruire dal nulla le macerie della sua vita sregolata. Forse è per questo, perché pensavo a te come a una creatura invulnerabile, che non ti ho mai fatto sconti, quando cadevi. Avrei dovuto solo aiutarti a rialzarti, senza dire una parola.
Ed è salutandoti, alzando timidamente la mano, che mi rendo conto che forse non è cambiato nulla, che la speranza stavolta non solo non è morta, ma gode di ottima salute, che riesco a stare in equilibrio sopra le rovine di un meraviglioso impero.
E che questo impero è fatto di noi, in ogni mattone, in ogni colata di cemento, finestra, porta, cancello, in ogni respiro, muscolo, articolazione, centimetro di pelle, la nostra pelle, la mia, e la tua, fuse come una cosa sola, e in ogni sigaretta fumata insieme, ogni film guardato sul divano, ogni disco ascoltato sdraiati sul letto dopo una notte passata a fare l'amore, e di ogni alba che ha illuminato i nostri visi distesi nel sonno, ogni goccia di pioggia che ha lavato via le magagne che inevitabilmente abbiamo avuto, e continuiamo ad avere, anche nella solitudine.
Tutto è perfetto, nella sua infinita imperfezione.

The End(?)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=149354