The Chemicals Between Us di CleaCassandra (/viewuser.php?uid=24724)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fake Tales Of San Francisco ***
Capitolo 2: *** Tears Don't Fall ***
Capitolo 3: *** Just The Way I'm Feeling ***
Capitolo 4: *** Say Hello To The Angels ***
Capitolo 5: *** Burn, Baby, Burn ***
Capitolo 6: *** Everything Reminds Me Of Her ***
Capitolo 7: *** The Lost Art Of Keeping A Secret ***
Capitolo 8: *** You Stole The Sun From My Heart ***
Capitolo 9: *** Micro Cuts ***
Capitolo 10: *** Sometimes The Line Walks You ***
Capitolo 11: *** Lips Like Morphine ***
Capitolo 12: *** Bullet With Butterfly Wings ***
Capitolo 13: *** Shores Of California ***
Capitolo 14: *** It's a Crime I Never Told You About The Diamonds In Your Eyes ***
Capitolo 15: *** Don't Say No ***
Capitolo 16: *** Unhappy Birthday ***
Capitolo 17: *** Boys Don't Cry ***
Capitolo 18: *** Love Steals Us From Loneliness ***
Capitolo 19: *** On My Own ***
Capitolo 20: *** Your Revolution Is A Joke ***
Capitolo 21: *** Sorry, You're Not A Winner ***
Capitolo 22: *** First Day Of My Life ***
Capitolo 23: *** Read My Mind ***
Capitolo 24: *** You Know I'm No Good ***
Capitolo 25: *** Sillyworld ***
Capitolo 26: *** She's Lost Control ***
Capitolo 27: *** About Leaving ***
Capitolo 28: *** Always All Ways (Apologies, Glances And Messed Up Chances) / Standing On The Ruin Of A Beautiful Empire ***
Capitolo 1 *** Fake Tales Of San Francisco ***
Cap. 1 –Fake
Tales Of San Francisco
C’è chi pensa che la California non sia altro che
il paradiso dei surfisti: sole, mare e bionde da paura, con delle tette
da mozzare il fiato.
Case smisurate, piscine d’ordinanza in giardino e ricche e
annoiate signore che prendono il sole coi cocktail in mano, mentre i
mariti discutono di affari e lavoro giocando a golf.
Sono solo immagini da cartolina, false come l’idea che
s’è diffusa nelle teste delle persone.
Solo i tramonti sono dannatamente veri, e splendidi. Quelli ve li
raccontano per come sono davvero, per fortuna.
Ma il resto no, proprio no.
Prendete me, ad esempio.
Odio il mare, il surf e l’unica bionda che contemplo
è un sonoro boccale di birra. Sono bassa, capelli scuri,
anzi neri, e l’aria di chi ci è finito per caso,
in quel mondo da ricchi.
Abito a San Francisco, circondata da un paesaggio urbano che non ha
eguali al mondo.
La mia è un’abitazione come tutte le altre, niente
a che vedere con le ville megagalattiche di Beverly Hills.
Eppure, ci sto bene qui. Da dio.
È casa mia.
Perché c’è tutto un sottomondo, un
universo parallelo, a cui la gente non pensa mai, quando gli nomini la
California.
Soprattutto qui.
C’è una magia tutta particolare che pervade questa
città, che si diffonde nella nebbia che la ricopre nelle
mattine d’estate, nella baia e nel Golden Gate Bridge che
l’attraversa, nel prendere un tram e percorrere le sue strade
completamente abbandonati ai propri pensieri.
Uno spettacolo a cui assisto ogni giorno, senza che mi venga mai a noia.
E poi…è ricca di cultura.
Non cultura statica, fine a se stessa. Qui tutto ha una funzione, tutto
può portare a qualcosa di nuovo e rivoluzionario. Chiedetelo
a chi ha vissuto la beat generation, o ha visto nascere il movimento
hippie.
Anche la musica gioca un ruolo fondamentale. Da San Francisco
provengono gruppi come Grateful Dead e Jefferson Airplane, pilastri
della psichedelia, e, per andare un po’ più terra
terra, gruppi punk-rock fondamentali, tipo Rancid e Green Day, per non
parlare degli alfieri del lo-fi, i Pavement, che hanno dato origine a
quel movimento che oggi tutti si ostinano a chiamare indie.
La persona comune mica ci pensa a queste cose, quando sente nominare la
California.
Pensa che sia roba da freak, da “alternativo dei miei
coglioni”. E invece per me è assolutamente la
normalità.
Comunque sì, è da quando sto al mondo che mi
nutro di pane e musica.
C’era da aspettarselo, che finissi in un gruppo.
Sapete, quei manipoli scalcagnati di ragazzetti, armati di tutte le
migliori intenzioni del mondo e una sana voglia di fare caciara, che
prendono in prestito il garage da mamma e papà per dare
sfogo alla loro…beh, chiamiamola ‘vena
artistica’.
E dire che ho rischiato grosso.
Ho seriamente corso il rischio di farmi inghiottire dal business
selvaggio, dalla tentazione di vendere a caro prezzo le mie idee, anche
le più idiote, per comprare una villa in riva al mare.
Fino a circa tre anni fa suonavo.
La chitarra.
Sembrava che non dovessimo finire mai di fare musica, e invece
è accaduto.
È stato come se ci stesse per cadere una tegola in testa e
noi ce ne fossimo accorti, ma non ci siamo spostati nemmeno di un
millimetro, perché ormai era inevitabile l’esserne
colpiti.
Ci eravamo arresi a quella fine indecorosa, perché altro non
potevamo fare, e anche il nostro orgoglio, la nostra intelligenza, la
nostra speranza che fosse solo un bluff, ne erano al corrente.
All’apice del successo, ci siamo sciolti.
Mio fratello, il batterista, non sopportava più le pretese
da primadonna della cantante.
A dire il vero nessuno di noi la reggeva più, ma lui fu
l’unico ad avere il coraggio di spiattellarglielo in faccia,
senza paroline dolci ad indorare la pillola.
C’era qualcosa che non andava, e lo si poteva leggere a
chiare lettere sui nostri visi stanchi, nei nostri occhi disincantati,
che avevano visto di tutto, fino a quel momento con sguardo distante e
pronto a giudicare le sventure altrui, spesso con patetico cinismo.
Ma quando certe cose ti vengono a toccare, ti strappano con forza da
quel mondo onirico e quasi irreale in cui ti sei rifugiato, comprendi
quanto possa essere bastarda la vita. Quanto ti remi contro quando
avresti bisogno soltanto di un po’ di pace, quando ti porta
su strade che hai sempre deprecato e che adesso percorri quasi di
corsa, pur di arrivare dove vorresti, e chi se ne frega se questa
intrapresa è la via più lunga e tortuosa che ci
possa essere, e non è nemmeno detto che ti porti fino in
fondo.
Pazienza.
La parola che più di ogni altra sfuggiva dalle mie labbra
pallide, quasi esangui.
Lei se ne andò, e sembrò una liberazione, ma era
solamente il biglietto d’ingresso per l’inferno,
timbrato senza la minima sbavatura.
Se ci ripenso, mi sale una rabbia indescrivibile.
Perché, sinceramente, non sono stata capace di gestirmi. E
d’altronde non potevo lasciare che fossero gli altri ad
occuparsi di me.
Io, Dave e Keith abbiamo provato a cercare un’altra voce, ma
mancava sempre qualcosa, quel valore aggiunto che, in fondo, ci aveva
spinto a suonare come dannati per locali, fino a che un tizio di una
casa discografica non ci aveva notato e fatto firmare un contratto.
Abbiamo deciso che forse era meglio se ci fossimo dedicati a
qualcos’altro.
Gli Unnamed non esistevano più, da un giorno
all’altro.
Era incredibile. Ma terribilmente reale.
Vivo disperatamente aggrappata ai ricordi, lo so. E forse nemmeno
dovrei, ma ho i miei buoni motivi per farlo.
Mi servono per non ricadere negli stessi errori da cui sono
già passata.
Non devo dimenticare chi sono, e cosa ho fatto.
E poi, beh…ci spero ancora.
Ho ancora voglia di suonare a giro, di scatenarmi con la chitarra e di
far vedere al mondo di cosa sono capace.
Nonostante siano tre anni che non tocco la chitarra. Nemmeno per
spolverarla.
Prima che agli introiti, pensavo alla musica.
Scrivevo come una dannata, quasi fossi in preda a un fervore mistico.
Giravo sempre per le strade della mia città, per le strade
di qualsiasi posto in cui suonassimo, munita di blocco e penna.
Mi sentivo in perenne dovere di fermare le impressioni che traevo dai
luoghi che visitavo, la gente con cui camminavo per strada, i pensieri
vaganti che affollavano la mia mente.
Non credo ci sia stato un solo momento, nella mia vita, in cui la mente
sia stata completamente sgombra, vuota.
Mai.
Sembrava che niente potesse fermarmi, e invece c’ha pensato
quella fottuta stronza, a farmi volare basso.
Di più. A farmi proprio precipitare. Come una specie di
Icaro: mi stavo avvicinando troppo al sole, questa palla di fuoco
così ammaliante ha sciolto la cera che teneva insieme le mie
ali, allora ho iniziato a precipitare verso il mare, ma
l’aria umida appesantiva quelle che ormai erano un informe
agglomerato di piume appiccicose, e così ho finito per fare
un bel tonfo in acqua e andare giù, sempre più
giù, senza poter fare niente, immobilizzata dalla mia stessa
debolezza.
Siamo riusciti a incidere due soli album. Il secondo mi piaceva da
morire.
Perché era nato da sudore e sofferenza. Era vissuto, ancor
prima di venire al mondo, e per questo aveva assunto ai miei occhi un
fascino tutto particolare.
C’era tutta la mia anima lì dentro. Tutto il mio
marciume, edulcorato da una certa lucidità di cui, per
fortuna, erano provvisti gli altri. Soprattutto mio fratello.
È un prodotto diretto, crudo, malato. Sì, un
prodotto. Fa schifo come parola, ma non posso farci niente.
Questo era, per la casa discografica.
Ci siamo fermati nel bel mezzo della nostra rabbia, e nel frattempo
è anche aumentata.
Perlomeno dentro me.
Mio fratello Keith non lo vedo mai.
Adesso fa il tecnico del suono, e gira per gli Stati Uniti insieme a
gruppi che hanno avuto più fortuna di noi.
E membri meno teste di cazzo.
Dave, il bassista, ogni tanto trova ingaggi come turnista, e nei tempi
di buco aiuta i suoi nel loro negozio. Una libreria.
Vado spesso a trovarlo. Mi piacciono i libri, e anche i suoi genitori.
Mi trattano come fossi loro figlia.
Quanto a me…beh, nemmeno mi sono presentata.
Frances. 23 anni.
Sì, lo so, ho un nome da principessina rincoglionita.
Mio fratello ha ovviato al disturbo che mi ha sempre provocato
l’essere chiamata per intero, e così mi chiama
Frankie. Decisamente meglio.
Insomma, io…ho aperto un negozio di tatuaggi.
Ormai ci sono dentro, a questo mondo così freak. E non me ne
dispiaccio nemmeno un po’.
È un ambiente sincero, tutto sommato.
Mi hanno sempre detto che ho una mano ottima per questo genere di cose.
Lavori precisi, in cui devi essere bravo a riprodurre ogni minimo
particolare e, se vuoi, sfogare la tua fantasia.
Sono rari quelli che si affidano al tuo estro per un tatuaggio, ma
qualche pazzo ogni tanto capita.
Come quel ragazzo che è venuto un paio di giorni fa.
Un bel viso, devo dire. Tratti dolci, circondati da capelli scurissimi,
che ricadevano distratti sui suoi occhi.
Mi ha dato la sensazione di averlo già rivisto.
È entrato sorridente, chiedendo se poteva farsi un tatuaggio.
“Certo!” ho esclamato. Sono qui per questo, in
fondo.
Ero contagiata dal suo buonumore. Sembrava comunicarmi un invito a
lasciar perdere, almeno per qualche attimo, la ridda di elucubrazioni
che stava affollando la mia testa, come al solito, e a godermi le
piccole gioie della vita.
Come, ad esempio, fissare il suo viso e pensare quanto fosse carino, se
solo si fosse spostato un po’ i capelli dagli occhi.
E soprattutto capire dov’era che l’avessi rivisto.
Mi sono soffermata un attimo ad osservarlo, mentre mi stava spiegando
cosa avrebbe voluto tatuarsi.
Sono rimasta incantata dalle sue braccia.
È estate. Il clima qui non è mai stato
particolarmente torrido. A volte, anzi, fa quasi freddo.
E lui indossava una semplicissima maglietta a mezze maniche, bianca.
Temerario.
Il braccio sinistro era pieno. Non c’era un solo centimetro
di pelle che non fosse tatuato. Colori vividi, immagini variegate e una
voglia incredibile di raccontare qualcosa di sé attraverso
esse.
Ho già visto parecchie persone ricoperte di tatuaggi, ma
nessuno li indossava con tanta naturalezza come lui.
L’altro braccio, invece, era quasi vuoto. Ma vedevo sbucare
timide, dalla manica, alcune immagini, e mi è venuto da
pensare che fosse solo una fase transitoria.
Non era la prima volta che vedevo quei disegni. Ma non stavo tentando
nemmeno di cercare di ricordarmi DOVE, e QUANDO, li avessi notati.
Perché semplicemente, lo avevo rimosso.
A volte, quando pensi troppo a cose che ti occupano la testa e non
vogliono saperne di lasciare sgombro il campo, ti rendi conto di quanto
vengano tralasciati i dettagli.
E in quel momento mi stavo maledicendo per aver archiviato una certa
fetta di ricordi in maniera così grossolana.
Perché io ero più che certa di aver visto quei
tatuaggi, in precedenza.
“E insomma, l’idea sarebbe questa, magari se ci
vuoi mettere del tuo sei liberissima…ehi?”
Cazzo, se c’è una cosa che non ho mai sopportato
di me, è proprio questa.
Perdermi nel mio mondo mentre qualcuno mi parla.
Mi sono ridestata di colpo, ritrovandomi i suoi occhi piantati in
faccia.
Ero rimasta impietrita.
Due bellissimi, profondissimi, occhi.
Un colore indescrivibile, che passava, a seconda della luce, dal
nocciola al verde con una disinvoltura sconcertante.
Quegli occhi…non mi erano nuovi nemmeno loro. Adesso la
curiosità si stava facendo sempre più forte.
‘Chi accidenti sei?’ chiedeva incessantemente una
vocina nel mio cervello.
E insieme a lei, volevo saperlo anche io, con tutta me stessa.
“Uh…ah, sì! Va bene!” ho
esclamato, senza riprendere il respiro.
“Dì la verità” ammiccava
divertito “non mi hai ascoltato, vero?”
“Ehm…” stavo arrossendo copiosamente
“è che mi ero messa a guardare i tuoi tatuaggi,
e…cavolo, sono belli davvero!” sono riuscita solo
a balbettare, grattandomi la testa per l’imbarazzo.
Cretina.
Ha sorriso di nuovo, e mi ha ringraziato per il complimento.
Dopo mi ha spiegato di nuovo cosa voleva.
L’ho fatto accomodare, e mi sono messa a preparare tutto il
necessario per iniziare il lavoro.
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Capitolo 2 *** Tears Don't Fall ***
grazie
per i due commenti, spero ne arrivino anche altri ^^''
Cap.2 – Tears
Don’t Fall
Mentre tratteggiavo i contorni del disegno, abbiamo chiacchierato del
più e del meno.
Diciamo che ho cercato di dirottare la conversazione su determinati
punti. Ormai la curiosità di sapere dove ci eravamo
già incontrati aveva preso il sopravvento, tuttavia riuscivo
a mantenere ancora un certo grado di lucidità,
indispensabile per condurre quella specie di indagine.
Gli ho raccontato cosa facevo in passato, sperando di stuzzicare una
certa voglia repressa di ricambiare la fiducia che stavo riponendo in
lui, e portarlo a raccontarmi di sé.
Chiunque, anche il più reticente e riservato degli
individui, lascia trapelare qualcosa di personale, anche solo con
qualche gesto affrettato e dettato da distrazione, o abitudine.
Il nome, ad esempio, oppure cosa fa per vivere.
A meno che non sia un criminale super ricercato.
Quindi, in ogni casistica da me contemplata, avrei ottenuto la risposta
che mi serviva.
“Ah, suonavi?” ha esclamato stupito.
“Eh, sì…ero la chitarrista degli
Unnamed, non so se conosci…”
“Ommioddio ma sei tu davvero? Frances? E i tuoi riccioloni
dove sono finiti?!”
Ancora. Ancora quel calore ad infiammarmi il viso.
Mi è venuto automatico distogliere per qualche istante
l’ago dal suo braccio.
Anche per la sorpresa. Non avevo fatto un buco nell’acqua,
dunque.
Mi conosceva. La popolarità della band era alta, ma non
credevo ci fosse qualcuno in grado di ricordarsi addirittura il mio
nome.
Quello reale, intendo.
Mi presento così solo in rapporti formali. Per tutti gli
altri, sono, e sarò sempre, Frankie.
Probabilmente suonava anche lui, allora. O era comunque invischiato
nell’ambiente.
La tentazione di smettere questo gioco sottile e sbottare con un
plateale ‘Senti un po’, ma io ti ho già
visto, si può sapere dove e perché?’
era forte, anche perché non sono mai stata dotata di tanta
pazienza. Però trovavo estremamente stuzzicante continuare a
fare finta di non conoscerlo, perché in
fondo…sentivo che anche lui stava giocando.
Era come se ci intendessimo alla grande, ma dovessimo mantenere una
certa immagine di fronte a qualcuno.
Come se stessimo recitando per qualcuno che ci stava guardando.
Ma eravamo completamente soli, in quell’angusto fondo
immobiliare che mi faceva da negozio.
Cos’era dunque? Avevamo paura delle implicazioni che avrebbe
comportato il conoscersi?
O ci stavamo vergognando per esserci dimenticati di qualcosa di
importante che ci riguardava?
Mi sentivo come una che aveva perso la memoria e stava cercando
lentamente di riguadagnarla, e immaginavo che anche lui si dovesse
trovare in quel particolare stato d’animo.
Però, tutto sommato, era quasi divertente.
“Ah quelli…è tanto che non li ho
più…i capelli corti si gestiscono
meglio!” ho risposto, scrollando la testa.
“Parole sante!”
Cazzo, sembrava davvero una recita. Con queste frasi così di
circostanza, poi…
“Beh, però…ormai pensavo nessuno si
ricordasse più di noi…e soprattutto del mio vero
nome!” sghignazzavo.
‘Vediamo, a tornare nel seminato, cosa
risponderà’, pensavo tra me e me.
“Ah, già…tu ti facevi chiamare Frankie!
Comunque…certo che mi ricordo degli Unnamed! Abbiamo suonato
insieme, non ti ricordi?”
Ahaaaaaa! Avevo fatto centro! Era un musicista.
“Oddio, e quando?” ho chiesto, riprendendo a fare i
contorni.
Bene, sono arrivata al dunque.
“Al Vans Warped Tour, tre anni fa...gli ultimi concerti che
avete fatto, prima di sciogliervi...”
Ecco perché non me ne ricordavo minimamente.
Avevo completamente rimosso quei giorni convulsi. Erano
l’anticamera della fine.
“Ah! Ma dunque anche tu sei un musicista!”
“Eh, sì!” poi si è voltato
per un attimo, scrutandomi severamente.
C’era del sano rimprovero nei suoi occhi. Come se si sentisse
vagamente offeso dalla mia disattenzione.
“Ma scusa…non guardi mai MTV?”
“Beh, molto di rado…”
“Ah, ecco…” mormorava, quasi dispiaciuto.
“E Fuse?”
“Poco anche quella…ma finisci spesso su questi
canali?”
Rideva imbarazzato, e annuiva.
“Mamma mia, allora devi essere proprio famoso” mi
sono lasciata scappare a mezza bocca “e…in che
gruppo suoni?”
“Nei My Chemical Romance!”
Un flash improvviso si è acceso nella mia mente.
Avevo capito chi era, cosa faceva, perché mi ero dimenticata
di tutto ciò che era accaduto in quel periodo.
Eppure, come mi sono potuta dimenticare anche di lui?
Era l’unica cosa per cui era valsa la pena aver vissuto, in
quei giorni.
“Massì che mi ricordo! È che
con questi capelli non ti avevo
riconosciuto…scusami…Frank, giusto?”
“Sì!” ha esclamato divertito.
Che gloriosa figura di merda.
Ma era in parte giustificabile, dal momento che ho reciso ogni contatto
con il mondo della musica da quando ci siamo sciolti.
Ho come un rifiuto nei confronti di quell’ambiente.
Mi ricorda troppo quanto eravamo vicino alla vetta e quanto poco
c’è voluto a tornare bruscamente in basso.
Quanto siano capaci di sorriderti fintamente per il successo che stai
avendo e quanto poi ti gettino in un fetido dimenticatoio quando non
riesci più a essere nessuno. A produrre come vorrebbero
loro. Perché hai toccato il fondo, e stai anche iniziando a
scavare. E a loro non piace, non vogliono sporcarsi con il tuo fango.
Abbiamo continuato a parlare, cambiando argomento, perché
ormai ero completamente esaudita, ed è saltato fuori che
adoro i tramonti.
Sono il tipo di persona che, in qualsiasi posto si trovi, si sente in
dovere di immortalare con una fotografia il sole che sparisce
dall’orizzonte.
La maggior parte della gente, quando viaggia, fotografa i monumenti, fa
foto cretine con gli amici o i parenti, cose così.
Io no.
Fotografo i tramonti, e a volte anche le albe.
C’è qualcosa di assolutamente commovente e
suggestivo nel sole che si abbassa lentamente, portandosi dietro il suo
rossore la scia bluastra che preannuncia il calare della notte.
L’alba è più timida. Più
tenue.
Il tramonto è potente. Brillante più di un cielo
stellato.
Portatore di ricordi nostalgici che risalgono al cuore con un piacere
che si fonde con la malinconia.
Momenti irripetibili, che per questa loro peculiarità ti
feriscono come una pugnalata al cuore, e la cicatrice
passerà molto tempo sul petto prima di sparire a poco a
poco, cancellata dalla distrazione e dalla noncuranza.
Amo il tramonto.
Perché mi ricorda, alla fine di ogni giornata, che devo
rallegrarmi delle mie ferite più profonde. È
grazie a loro che sono cresciuta.
Perché nel frattempo mi infonde una sana speranza. Quella
che mi porta ad andare avanti col sorriso sulle labbra.
“Anche a me piacciono i tramonti. Li preferisco di gran lunga
all’alba” ha affermato, con una serietà
decisamente fuori luogo e che, per questo, aveva il sapore
dell’ironia.
Sorridevo.
Perché in fondo sapevamo già entrambi di questa
piccola passione che ci accomunava.
L’avevamo vissuta sulla nostra pelle, insieme e per puro
caso, un pomeriggio di ormai tre anni fa.
Ha sorriso anche lui.
Immagino abbia avuto i suoi buoni motivi, proprio come me, per
dimenticarsene.
Eravamo arrivati in New Jersey col Warped. A casa loro.
Gli Unnamed avevano appena finito di suonare e io, con una birra in
mano e la macchina fotografica nell’altra, ero già
pronta ad immortalare quel momento irripetibile.
Ogni tramonto è diverso dall’altro. Non ce ne sono
due che siano anche solo simili.
Perché, in fondo, anche se affogati dalla routine,
dall'omologazione, anche i giorni dell'anno e gli individui che li
vivono sono estremamente differenti e variegati. E ognuno vive questi
momenti in un modo assolutamente personale, dettato dall'indole e
dall'umore.
Era il tardo pomeriggio di un assolato giorno di piena estate, e il
sole stava salutando il nostro emisfero, andando a portare luce
dall’altra parte del mondo. Ero rimasta fuori dal nostro
tour-bus ad ammirare estasiata quello spettacolo, quando mi dissi che
avrei dovuto cercare un posto migliore per vedere al meglio il tramonto.
Poco distante dal parcheggio per i bus c’era un prato di una
certa estensione. Corsi là, con frenesia, e mi misi a sedere
sull’erba, finalmente, anche se solo per qualche attimo,
felice come una bambina.
Feci un paio di foto, e mi sdraiai, colma di soddisfazione.
Mi guardavo intorno, e nel deserto verde brillante in cui mi ero
immersa notai una figura meditabonda, dall’altra parte
rispetto a me, che stava seduta tenendosi le ginocchia strette al petto.
Mi alzai, perché dentro me si stava facendo strada una
voglia incredibile di vedere chi fosse.
Mi stavo avvicinando, quando si voltò verso di me e mi
fissò per pochi, interminabili istanti.
Quegli occhi tra il nocciola e il verde, lucidi e un po’
arrossati, mi stavano comunicando una tristezza senza limiti.
Avrebbe pianto a dirotto, se avesse potuto. Ma quelle lacrime non
volevano cadere, non volevano rotolare sulle sue guance con sobria
discrezione.
Gli si leggeva in faccia, che si stava sforzando di trattenerle.
Perché erano qualcosa di troppo caotico, anche per lui.
Dei macigni totalmente deleteri.
Mi fece sedere al suo fianco. Senza una parola.
A malapena sapeva chi fossi, e mi fece sistemare lì, con lui.
Doveva essere veramente disperato.
Non credevo che anche altrove, lontano da casa, potessero esistere dei
tramonti così suggestivi.
Ho sempre pensato che non ci fosse niente al mondo migliore di San
Francisco come sfondo per questi piccoli miracoli della natura, e lo
penso tuttora.
Ma ci sono situazioni in cui non importa il paesaggio che ti circonda,
non il cielo sotto cui cammini, ma la persona che hai accanto, e il
caso.
Perché non tutti i tramonti sono uguali.
Percepivo la malinconia dei suoi pensieri, era come se me li stesse
trasmettendo direttamente al cervello, in quel silenzio così
assordante.
Eppure non avrei fatto assolutamente nulla per spezzarlo,
perché era così accogliente…mi sarei
persa in quel vuoto sonoro, che mi stava cullando con così
struggente dolcezza.
Lo ruppe lui.
“Hai mai litigato con qualcuno a cui tieni più
della tua stessa vita?” mormorò, fissando il vuoto
davanti a sé. Dentro di sé.
Rimasi interdetta da quella domanda.
E adesso che c’entra?, pensai. Ma una fitta al cuore mi
riportò con la mente a quel periodo letteralmente di merda.
Suonavamo, sì, ma s’era già incrinato
qualcosa nella nostra armonia. Era come piangere disperatamente, celati
dietro una maschera recante il sorriso più radioso che si
possa immaginare. Fare finta che andasse tutto bene, per tentare di
salvare il salvabile, che ormai era ben irrisorio.
“Sta accadendo adesso…” mi limitai a
sussurrare, sconsolata.
Era vero. Perché, per quanto non sopportassi certe sue
uscite, mi bruciava l’anima litigare con lei. Come acido.
Era un’amica, in fondo. Forse qualcosa di più.
Chissà se era davvero così, o solo una
suggestione prodotta da me per giustificare il rapporto così
speciale che correva tra noi.
Ogni tanto mi capita di pensarci, e non so mai darmi una risposta.
É una di quelle cose a cui non si sa mai cosa rispondere,
forse perché si ha paura della verità.
Mi fa comodo rimanere col dubbio.
E poi, beh, aveva una voce meravigliosa.
Il cielo, che si faceva di fuoco, e rifletteva tutt’intorno
la sua aura magnetica, ci abbracciò, quasi a volerci
consolare.
A un certo punto successe una cosa che mi fece capire che non serve
dire di una persona che la conosci da una vita per capire cos'ha dentro.
A volte basta un solo istante.
Lui mi cinse le spalle col suo braccio, e io, come mossa da un sano
spirito di solidarietà, feci altrettanto.
Due perfetti sconosciuti. Che si spalleggiavano a vicenda, consci di
essere sulla stessa disgraziata barca.
Rimanemmo così, in silenzio, finché il sole non
sparì completamente dall’orizzonte.
Quando, con infinita flemma e le immancabili sigarette tra le labbra,
tornammo ai nostri tour-bus, ci aspettavano tutti preoccupati.
“Frankie, dove cazzo eri?” ci gridarono sette gole
ansiose.
Ci guardammo, come a dire “E questi chi caspita
sono?”.
Poi scoppiammo a ridere.
Era più che evidente la nostra omonimia.
Ci stringemmo la mano con sarcastica professionalità.
“Piacere, Frank” esordì compito.
“Piacere mio, io sono Frances” risposi,
assecondandolo in quel gioco quasi stupido.
Stupido quanto mi pareva, però…era come un porre
ancora più in evidenza la complicità che era nata
tra noi.
Quando ormai il tour volgeva al termine.
E vabbè, il tempismo era quello che era.
Mai avrei pensato di rivederlo a San Francisco, a farsi fare un
tatuaggio nel mio negozio.
Infatti gli ho chiesto che ci facesse da queste parti, e lui mi ha
risposto che sono fermi qui, in California, da qualche giorno, per
lavoro.
Sapete, interviste, trasmissioni radiofoniche e cose così.
“Abbiamo qualche giorno libero, e mi hanno detto che a San
Francisco c’è una tatuatrice bravissima e anche
piuttosto carina, così mi ci sono fiondato!”
“E sarei io?!”
“Beh, penso di sì...la via è
questa…” ha ammiccato, divertito dalla mia
espressione basita.
“Ehm…sai che devo dirti una
cosa…”
“Oddio, che? Ho sbagliato via?” ha chiesto, con un
candore assolutamente autentico.
“Macchè!” mi sono messa a ridere
“devo chiudere, oggi faccio il pomeriggio e basta, e detto
tra noi ho anche un sonno pazzesco, non vorrei sbagliare a farti il
tatuaggio, sai…” gli ho detto, imbarazzata
all'inverosimile.
“Oh…” sembrava dispiaciuto.
“Beh, però puoi tornare domani, o
dopodomani…insomma, appena puoi, così te lo
finisco!”
“Okay! L’ora?”
“Beh, come oggi…penso possa bastarmi il
tempo.”
“Allora va bene!” e mi ha salutato tutto allegro,
incamminandosi tranquillo.
Sono rimasta un pezzo fuori dal negozio a osservarlo allontanarsi. Ogni
tanto si girava verso di me e mi salutava gesticolando con la mano, e
con un sorriso grande così.
Come ho potuto dimenticarmi di lui?
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Capitolo 3 *** Just The Way I'm Feeling ***
Cap. 3 –
Just The Way I’m Feeling
Ieri non s’è presentato, e francamente non me ne
sono dispiaciuta più del dovuto.
“Avrà avuto da fare” ho pensato, e
così ho passato il tempo facendo tatuaggi orribili a persone
orribili, tornando con la mente a quelle sue braccia così
affascinanti.
Ce ne sono tanti a coprirsi di tatuaggi, ma un buon 80% di questi non
ha assolutamente stile, oppure si fa disegnare addosso cose scontate e
senza un concetto intrinseco.
Lui, invece, dona un significato profondo a tutto quello che fa. Me lo
stava raccontando anche l’altro giorno.
Ogni immagine riconduce a qualcosa che lo riguarda. Che parla di lui.
In pratica è il manifesto di se stesso e della sua vita, e
sembra andarne più che orgoglioso.
A volte mi viene da pensare, quando arrivano qui persone che vogliono
tatuarsi qualcosa, se c’è una ragione al
perché lo fanno.
Al perché scelgano un disegno e non un altro.
Se è un qualcosa di puramente ornamentale o
c’è qualcosa dietro.
Devo essere sincera, non provo molta simpatia per coloro che vengono
nel mio negozio solo perché fa figo avere il tatuaggio.
Ormai non è più da alternativi, non ti distingui
dalla massa se ti fai disegnare qualcosa addosso. Farsi bucare la pelle
dagli aghi fa un male cane, più in certe zone che in altre.
Ma provoca comunque dolore. Non deve essere una curiosità
farsi fare un tatuaggio. Deve esserci una ragione, un motivo, e che non
sia soltanto un fattore estetico.
Ogni tanto ringrazio un’ipotetica divinità per
l’esistenza di individui come lui.
Danno un senso al mio lavoro.
Oggi, invece…saranno state, toh, le cinque del pomeriggio?
Poco più tardi, forse.
Oh, non importa.
Vado ad aprire, e me lo ritrovo davanti, che aspetta in tutta
tranquillità e anzi, sta fumando una sigaretta per ingannare
il tempo.
“Già qui?”
“Eh, sì. Dopo ho da fare una cosa
urgente…”
“Per che ore?”
“Mah, diciamo su per giù l’ora di
cena…”
“Va bene, vedrò di farcela. Dai, entra!”
lo esorto.
Ci sistemiamo dove eravamo l’altro giorno, e ricomincio.
Nel frattempo arriva anche Alice.
La ragazza con cui ho aperto il negozio.
Mi saluta, e se ne sta un pezzo a squadrarmi mentre lavoro sul braccio
di Frank.
Alzo lo sguardo, e la vedo che mi guarda sbigottita.
“È lui?” chiede, muovendo solo le
labbra, senza emettere alcun suono.
Beh, in effetti le avevo detto che era venuto qua l’altro
giorno, quasi come fosse una curiosità da riportare, per
dovere di cronaca.
Era totalmente incredula. E mi sono divertita troppo a osservare con
minuziosa ironia le espressioni che si riproducevano una dopo
l’altra sul suo viso.
Annuisco. Si illumina, ma di più non può fare. Al
massimo le presentazioni le farò dopo.
Ebbene sì.
È una fan sfegatata dei My Chemical Romance.
Qua dentro mette sempre i loro dischi. Ma oggi decide di variare, per
non imbarazzare questo cliente così speciale.
“Uh, i Misfits!” esclama lui, alzando la testa.
“Già” rispondo, senza alzare gli occhi
dal tatuaggio, che adesso ha una forma e aspetta solo di essere
colorato del tutto, “li adoro”
“Anche io” si limita a dire.
Dopodichè…cala il silenzio tra noi.
Come fossimo due perfetti estranei, come fossimo solo la tatuatrice e
il suo cliente.
Questo un po’ mi rende triste. A dire il vero non sono poi
così giù di morale, perché ho sempre
pensato che, se due persone sono veramente legate da qualsivoglia
circostanza, il loro rapporto non sfuma nell’aria, non
esplode come una bolla di sapone.
Mi sto godendo questo silenzio. Sembra cullarmi, addolcirmi, come quel
pomeriggio di tre anni fa.
Rende migliore anche la mia perizia. Il lavoro procede bene, e ne sono
assolutamente orgogliosa.
Però lo vedo inquieto.
Io mi faccio cullare dal silenzio, e lui invece sembra esserne agitato,
inquietato.
Si volta di continuo a fissare fuori dal negozio, quasi stesse
aspettando qualcuno.
“Tutto bene?” azzardo a chiedere.
“Uh? Ah, sì, tutto a posto…senti,
ma…che ore sono?”
“Le sette, perché?”
“A che punto è?” chiede, un
po’ nervoso.
“Quasi finito, manca un pezzo piccolissimo, in dieci minuti
ce la faccio…puoi aspettare?”
“Sì, ma non di più…scusa,
sai, ma è importante!”
“Certo, non ti preoccupare!” e mi rimetto al lavoro
senza sosta.
Cazzo, è veramente irrequieto, oggi.
Beh, può capitare, ma rimango comunque allibita.
È che…proprio non mi sembra il tipo che si
scompone per così poco.
Finisco anche un paio di minuti prima. Nonostante la fretta impressami,
è venuto proprio un bel tatuaggio.
Lui si guarda il braccio, ancora arrossato, e leggo la soddisfazione
nei suoi occhi.
Grande, Frankie.
Sei stata brava anche stavolta.
È un istante scorgerlo che mi prende per il braccio e mi
trascina con lui, mentre grida ad Alice: “Pensaci tu qui! Te
la riporto subito!”
È un istante. Non mi rendo nemmeno conto che succede. Sento
solo la sua mano che afferra il mio polso, sento solo le mie gambe
muoversi verso la direzione in cui mi sta portando, sento solo che
c’è qualcosa che non quadra.
E poi, che stupido. Non mi ha fatto nemmeno togliere i guanti.
“Ma dove mi stai portando?”
“Tranquilla, fidati!”
“E il tuo impegno importante?”
“È questo!”
Devo essere sincera? Non ci sto proprio capendo niente.
Non so nemmeno che strade stiamo percorrendo. Non ho il tempo di
rendermene conto.
Alzo gli occhi al cielo.
Sta iniziando a farsi rosato. Presto tonalità di fuoco ci
avvolgeranno completamente e il sole ci incendierà gli occhi.
Improvvisamente capisco tutto. Capisco la sua agitazione, la sua
fretta, il suo guardare continuamente fuori, mentre iniettavo
inchiostro nella sua pelle.
E non posso fare a meno di ridere divertita.
Perché mi ha portato nel posto più bello di San
Francisco.
Il Golden Gate Park.
Ci addentriamo nel parco, mano nella mano, fino ad arrivare alla parte
che prediligo.
Il giardino giapponese.
Ma come fa a sapere…
“Ho notato quegli ideogrammi sulla tua spalla e ho pensato
che ti potevano piacere queste cose così,
orientali…” mi risponde, come se leggesse la mia
domanda nel silenzio che ci avvolge, nonostante a quest’ora
il parco sia ancora piuttosto frequentato.
Ma degli altri non mi curo.
Siamo io e lui. Circondati dalla vegetazione e osservati da una enorme
statua di Buddha, che ci sorride, benevolo e perso nelle sue
meditazioni ascetiche.
“Sì. Adoro questo parco” sussurro.
Ci fermiamo davanti a un prato, quasi sgombro da arbusti, e ci
appoggiamo su uno steccato, estasiati dalla luce che trafigge le foglie
degli alberi intorno a noi.
Può sembrare strano, ma è la prima volta che
guardo il sole tramontare da qui.
È uno spettacolo straordinario, profondamente suggestivo e
capace di catalizzare dentro di sé tutto l’ampio
spettro di emozioni che un essere umano è in grado di
provare, e anche qualcuna in più.
Fa quasi salire le lacrime agli occhi, tanta è la sua
bellezza.
Ho la pelle d’oca.
Ma non è solo per quella visione eccezionale.
Sento le sue dita scorrere sulla mia spalla, tratteggiare la
calligrafia di quegli ideogrammi.
Un gesto che non mi aspetto nemmeno da persone che fanno parte della
mia vita da ben più tempo di lui.
Eppure, nella sua semplicità, riesce a comunicarmi molto di
più di un abbraccio.
È come un bimbo, interessato e ansioso di scoprire il mondo
che lo circonda.
Mondo che, in questo momento, è tutto concentrato in quei
pochi centimetri di pelle che coprono il mio braccio.
“Cosa significano?”
“Sono i quattro elementi” rispondo semplicemente.
Sembra affascinato. Li sfiora più e più volte,
col tocco vellutato e curioso dei suoi polpastrelli.
Ho sempre apprezzato la fugacità del tramonto. Questo suo
durare così poco, nell’arco di una giornata.
È una sorta di valore aggiunto.
Ma mai come in questo momento ho desiderato che il sole restasse
lì, in bilico nel cielo, per sempre.
Ritorna prepotente nel mio cervello il ricordo di quella giornata in
New Jersey, e la tristezza che si era impadronita dei nostri due cuori.
Adesso non c’è più spazio per lei.
Adesso c’è solo la felicità per esserci
ritrovati, per caso.
Non c’è calcolo in tutto quello che è
successo. Ci eravamo anche reciprocamente scordati delle nostre
esistenze.
“Dopo averti rivisto…beh, ho pensato
immediatamente che avrei voluto osservare di nuovo il tramonto con
te” sussurra, imbarazzato, grattandosi un orecchio.
Sì, se ne ricorda. Basta solo questa lieve consapevolezza ad
allargare sul mio volto un sorriso assolutamente sincero.
“Anche io, in effetti…” riesco solo a
dire, testa bassa e occhi piantati al suolo, a contemplare con
insistenza le mie Etnies. Se non mi avesse comunicato il suo proposito
con così tanta naturalezza, io col cavolo che
gliel’avrei confessato.
Niente da fare, ho sempre troppa paura di finire per espormi troppo.
Ma quella complicità che avevamo instaurato senza nemmeno
conoscerci era tutta speciale, e sentivo che prima o poi sarebbe
riemersa, nel momento più inaspettato. E così,
eccoci qui.
Mi sta guardando. Ha distolto gli occhi dal sole e li ha rivolti a me,
che ovviamente sono troppo concentrata sulle mie scarpe per
accorgermene.
“Posso vedere meglio le mani di questa ragazza che mi ha
fatto il tatuaggio più bello che ho addosso?”
chiede, solenne, mentre le racchiude nelle sue.
Divento più rossa della palla di fuoco che si sta abbassando
all’orizzonte.
E maledico di essere così rincoglionita.
Mica me li sono tolti, i guanti.
Sono sempre qui, ad avvolgere le mie mani, come quando ho punzecchiato
la sua pelle con ago e inchiostro.
Me li toglie, prima che possa pensarci da sola.
Con delicatezza.
“Bel colore” dice.
Sono fucsia.
Noi tatuatori siamo un po’ particolari. Alice, ad esempio, li
usa viola.
Li appoggia sullo steccato, quasi fossero una preziosa reliquia.
E mi squadra attentamente le mani, le unghie smaltate di nero, gli
anelli che porto.
“Che mani piccole e carine!” esclama con gioia
infantile.
È sorprendente. La sua carica positiva ha la
capacità di contagiare anche la più cupa delle
persone. La più tormentata.
Ringrazio, lusingata e impacciata allo stesso tempo.
“E questo?” mi fa poi, incuriosito.
Mi sono tatuata, sull’anulare sinistro, una iniziale a
caratteri gotici.
Si dice che dall’anulare sinistro passi un vaso sanguigno che
porta direttamente al cuore, ed è per questo che le fedi e
gli anelli di fidanzamento si mettono a questo dito.
Io non ho anelli qui, ma solo questa iniziale.
È la mia fede personale.
Quando me la disegnai ero ancora una mente debole. Ma adesso la porto
con orgoglio, perché rappresenta il mio errore
più grande.
E la forza che ho tirato fuori per uscirne.
“Un mio ex” mi limito a dire.
“Ah” risponde, mentre giocherella con uno dei
guanti e se lo infila.
Ci penso ancora. E ogni volta fa un po’ meno male. Ma non
è che comunque mi lasci del tutto illesa.
Un velo di malinconia scende sui miei occhi.
Meno male che c’è lui. Che mi risolleva con gesti
apparentemente banali, dettati dall’impulso del momento, ma
così genuini da farti capire che la vita non è
solo tristezza e dolore.
“Ehi, ma è proprio piccola la tua mano!”
mi fa, guardandosela e gesticolando allegro, come un bambino.
C’è una spontaneità nelle sue azioni
che mi risolleva da tutti i brutti pensieri che ogni tanto mi frullano
in testa. Non riesco a stare seria mentre lo guardo divertirsi
così tanto, con così poco.
È una persona estremamente positiva.
Mi piace molto.
È un contrasto abbastanza stridente volare con lo sguardo
dalla sua mano al suo viso, che si è fatto improvvisamente
serio.
“Quello con cui avevi litigato quel giorno?”
Come se si fosse risvegliato dopo essere stato ipnotizzato.
“Sì” rispondo, senza pensarci nemmeno un
attimo. Ma non parliamo di me, almeno per il momento.
“E tu, invece….hai risolto?”
È il suo cellulare a fugare ogni dubbio.
“Ehi amore! Certo, tutto bene qua…non so quando
tornerò a casa, prometto che appena posso faccio una
scappata e vengo da te!...Certo che sì…ti amo
anche io” e riaggancia.
Conversazione breve, stringata, ma intensa. Ammetto di essermi, per un
attimo, sentita di troppo.
Ripone il telefonino nella tasca dei pantaloni e si volta di nuovo
verso di me, sorridente.
Il sole ormai è sceso da un pezzo e sta iniziando a fare
freddo.
Almeno per me che sono in canottiera.
Mi vede rabbrividire, e capisce tutto. Si toglie la felpa e me
l’appoggia sulle spalle.
Non ci riesco a fare la ritrosa, a dire che non importa, che ci sono
abituata al freddo di San Francisco, che cala su di te quando meno te
l’aspetti. La sua gentilezza mi ubriaca. Non ce la faccio a
dire di no.
Durante il tragitto dal parco al negozio mi racconta di Jamia, la sua
ragazza, della litigata atroce che avevano fatto quel giorno di tre
anni fa, di come adesso le cose sembrino andare per il verso giusto,
anche con la band.
Però io ti osservo, mentre mi dici tutte queste cose.
E i tuoi occhi non mi sembrano così felici di quello che ti
succede.
Fuggono da un pensiero scomodo, un tarlo che ti corrode. E non puoi
fare altro che lasciarti divorare lentamente, perché pensi
che così andrà tutto bene e non farai del male a
nessuno.
Ma ne stai facendo a te stesso.
Sembri un leone in gabbia.
Vorrei dirtelo, che stai sbagliando.
Che dovresti essere te stesso, sempre e comunque, ma in fondo chi sono
io per darti dritte sulla tua vita?
Siamo arrivati al negozio. Vedo, dalla vetrina, Alice
all’opera.
Dici che ripartirai domani, e già mi manchi.
“Tornerò a trovarti, adesso che so dove
sei” mi sussurri nell’orecchio, sfiorandomi poi la
guancia con le labbra.
Ho un brivido che preme per uscire, ma lo trattengo con vigore dentro
di me.
Ti saluto con freddezza.
Perché non ti devo mancare. Non posso.
Sono solo una ragazza di San Francisco che fa tatuaggi e ama i tramonti.
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Capitolo 4 *** Say Hello To The Angels ***
ehehe, grazie a tutte
quelle che hanno recensito *_* ely, mi aspetto delle sticazzate da
paura anche qua sopra è_é/ !
Cap. 4
– Say
Hello To The Angels
È inverno. Fa discretamente freddo.
Ma non ho perso il vizio di sedermi in terrazza e guardare il tramonto,
magari con una sigaretta a scaldarmi i polmoni e una birra a distrarmi
dai soliti, ennesimi, brutti pensieri.
Anzi, da un po’ di tempo ho un’idea malsana che
gira nella mia testa.
Perché non ho mai smesso di amare quello che facevo.
Suonare.
Donare un pezzo di me, il più nascosto, a chiunque
ascoltasse le mie schitarrate.
Non l’ho venduta. È sempre qui, a casa mia. Ci
tengo più della mia stessa vita, non permetterei mai che
finisca nelle mani di qualche sconosciuto che non la sa accarezzare
come me.
Gli strumenti sono così: quando li compri è solo
per attrazione visiva e uditiva. Fascino e utilità.
Vedi la chitarra che diventerà tua, appesa
all’espositore in un negozio di strumenti musicali.
Ti piace il suo corpo, e ti piace anche il suono che emana.
Già lì pensi a cosa potresti fare con lei, gli
accordi, gli arpeggi, gli assoli selvaggi e qualsiasi acrobazia sonora
ti venga in mente di sperimentare.
La compri, ebbro di queste sensazioni che si affollano nella tua testa.
Poi ti affezioni, fai di lei la tua compagna inseparabile, la curi con
amore, le cambi le corde quando serve e stai attento a non fare gesti
inconsulti per non rovinarla.
Oppure sei talmente trasportato dalla passione che non ti accorgi
più della sua fragilità, e lei si lascia
maltrattare, docile e fedele.
A me è successo tutto questo. L’ho amata sin dal
primo momento.
Sin da quando i miei genitori, coscienti dell’importanza che
davo alla mia vecchia chitarra acustica, me ne regalarono una elettrica.
Fecero dei sacrifici per comprarla. Ma leggevo la loro soddisfazione
negli occhi, perché era quella giusta.
Gliel’aveva detto Keith. Lui sapeva qual era il mio sogno
proibito.
Il suo l’aveva già esaudito. Lavorava come un
dannato all’epoca, ed era riuscito a comprarsi una batteria
meravigliosa tutto da solo.
E lei mi segue ancora. Ha dato il meglio di sé in quei due
album.
Ma sono tre anni che non la tocco più.
Perché mi promisi che non l’avrei più
suonata.
Proposito alquanto infantile, il mio. Ma in quel momento, quando avevo
preso la mia decisione, non c’era spazio, nel mio cuore, per
altro.
Ero delusa da tutto quello che mi stava succedendo. Da quello che ero
diventata.
Provavo una tristezza infinita per quell’epilogo inevitabile.
Ma credevo che la mia salute mentale ci avrebbe guadagnato, se avessi
chiuso quel capitolo così grigio della mia esistenza.
Avevo deciso di rimuovere anche i ricordi positivi, quelli che
avrebbero meritato un posto nel mio museo personale. Perché
se ci pensavo mi tornava in mente anche il rovescio della medaglia, e
non ne sarei più uscita.
Ne ha presa tanta, di polvere, in tre anni.
Non ho nemmeno pensato di nasconderla da qualche parte. È
ben visibile, in camera mia, nella sua custodia.
Dovevo resisterle.
Era una resistenza simbolica, il feticcio che accorpava in
sé quegli anni disgraziati: dimentica i ricordi, ma non
dimenticare gli errori. Per non ripeterli.
E dovevo starmene ben lontana da lei, dalla musica, da mio fratello e
da Dave.
Ma non ci sono riuscita.
I divieti sono fatti per essere infranti.
Mi ero proibita di toccare la mia chitarra, ma dopo tre anni non ho
più retto.
Stamattina sono andata in libreria.
C’era anche Dave.
È tornato.
“Ehi, stellina!” mi ha accolto. L’ho
abbracciato, piena di gioia per averlo davanti a me dopo tanto tempo.
“Adesso me ne starò qui buono buono per un
po’!” ha esclamato raggiante, raccontandomi poi del
suo ultimo tour. Ha dovuto sostituire il bassista di non mi ricordo che
gruppo per alcune date nella East Coast.
S’è divertito, come sempre.
“Ma è stato veramente massacrante,
cazzo!” ha esclamato spontaneo.
La stanchezza per te non è nulla.
Io…lo so bene che a te basta suonare, e del resto, chi se ne
frega. Anche della fatica, del dover viaggiare continuamente, senza
fermarsi quasi nemmeno ad osservare il paesaggio intorno.
Non t’importa di questi inconvenienti.
Sei la tua passione, vivi per lei, alimentato da lei.
E lei ricambia, facendoti suonare da dio.
Sei uno dei bassisti più capaci che io abbia mai conosciuto.
Mi hai infuso un po’ di energia. Per attuare la mia idea
malsana.
Chissà, forse l’hai fatto apposta, a raccontarmi
la tua vita in tour.
Perché sai benissimo quanto mi manchi.
Come se tu avessi letto nel mio sguardo le intenzioni che mi stanno
animando.
Così sono tornata a casa e…ho spolverato la
custodia della chitarra.
Era praticamente scomparsa sotto la coltre grigiastra e fastidiosa.
Non dovevo toccarla, in nessun modo, mi dicevo.
E così non la pulivo nemmeno. Perlomeno fino a oggi.
La custodia è rovinatissima. La apro, il naso già
in panne per tutto il grigiore che ho smosso. Lascio che la cerniera
scorra e riveli il contenuto di quell’orribile involucro.
Lei, dentro, è intatta.
La mia piccolina.
Una Fender Jaguar.
Nera.
Era la mia vita, fino a tre anni fa.
Adesso tornerà ad esserlo. In barba ai miei giuramenti
idioti.
La prendo, la scruto con attenzione, la imbraccio.
Suono qualche accordo a caso. Poi prendo fiducia, e anche la mano si
riabitua.
Suono tutti i pezzi degli Unnamed, uno dopo l’altro.
Un magone invade la mia gola e preme, strozzandomi il respiro per
pochi, convulsi istanti.
Siamo di nuovo insieme, come ai vecchi tempi.
Ma stavolta è diverso. Saranno più luminosi.
L’unica cosa che non è cambiata è
l’amore infinito che ci lega.
Mi hai aspettato, paziente e devota. I tuoi pick-up, il battipenna, le
corde, la paletta, le chiavi che stringono le tue corde, la presa per
l’amplificazione, gioiscono sotto il tocco paziente delle mie
dita.
Tutto di te sapeva già che sarei tornata.
Rimango, sul terrazzo, in preda a un’emozione fortissima e
devastante, davanti al cielo quasi viola, la Jaguar ancora appoggiata
sulle gambe incrociate.
Dovevo resisterti.
Ma non ci sono riuscita.
Perché io ho ancora una fottuta voglia di suonare. Con te.
Per questo non ti ho venduta, né tolta di mezzo.
Avevo sempre dentro me la speranza di tornare a fare ciò che
più amo.
Le labbra si aprono da sole, la voce esce, con mio sommo stupore,
mentre mi accompagno con le tue corde.
Le nostre canzoni non erano fatte per essere cantate da me. Una voce
sgraziata come la mia le avrebbe rovinate irrimediabilmente.
Troppo profonda. Troppo sincera.
Non svezzata a whisky e sigarette, come potrebbe essere quella di un
Mark Lanegan, ma ugualmente segnata dalla tristezza.
Avrei massacrato la magia che regnava nei nostri testi. Li avrei resi
troppo veri, troppo sofferti. E nessuno vuole soffrire più
di quanto gli sia dato di fare.
La nostra particolarità consisteva proprio in questo
contrasto tra la rabbia che covava nei nostri cuori e la voce di lei,
che la rendeva fruibile per tutti. Quasi piacevole e necessaria.
Una voce cristallina, limpida, pulita.
Che sul palco intonava frasi sporche e malate come mai se ne sono
sentite.
Sto male. Da cani.
Perché ripenso a quelle frasi.
Le avevo scritte io.
Per lei.
Note tristi escono dalla mia chitarra, mentre canto sommessamente.
Sembro essermi spenta di colpo.
“Non mi ricordavo avessi una voce così
bella” sento mormorare alle mie spalle.
Mi volto. Perché sembra un’allucinazione. Un
miraggio.
E invece no.
Vedo due metri di Keith sovrastarmi e farmi ombra.
L’altezza l’ha presa tutta lui, in famiglia.
“Ehi…” gli faccio.
“Quanto entusiasmo! Non mi vedi da mesi e mi accogli
così?” domanda, un sorriso a trentadue denti
stampato in faccia.
È contento di vedermi, e io lo stesso, ma proprio non ci
riesco a sorridere.
Scusami.
“No, scusa, è che…”
“Lascia stare” mi risponde, comprensivo.
Poso la chitarra a terra e lo abbraccio con forza.
“Ma come hai fatto a venire fin qua?”
“Devo ricordarti ogni volta che questa è anche
casa mia?” ride.
“Hai ragione! Scusami” riesco solo a mormorare sul
suo cappotto.
“Dai, sorellina, sei troppo cerimoniosa oggi! Torniamo in
casa, non senti che freddo fa?”
No. Non riesco a sentirlo.
Perché fa molto più freddo nel mio petto,
fratellone, ora che ho avuto il coraggio di far tornare a galla il
passato.
Coraggio o masochismo? Chissà.
Ceniamo insieme. Beh, la cena è quella che è.
Pizza.
L’abbiamo ordinata una mezz’ora fa, ed eccola ora,
fumante, davanti a noi.
Il mio umore si risolleva un po’, davanti al cibo.
“E insomma, che ci fai qui?” chiedo con tono
inquisitorio.
“Sì, sei proprio contenta di vedermi!”
“Ehm, non è per quello…sono un
po’ così ultimamente…”
“Eh, notavo…”
Si accorge sempre se ho qualcosa che non va.
Per questo cambia discorso.
“Ma il negozio? Non dovresti essere là?”
È speciale. Non potrebbe essere altrimenti. È mio
fratello maggiore, in fondo.
“No…ho chiesto a Alice se poteva gestirlo lei per
un paio di giorni…” rispondo, distratta.
“E tu stai in casa a fare la muffa? Però ho visto
che hai ripreso la chitarra in mano…”
“Sì, ma…come mai sei qui, dicevo? Hai
finito il tour?”
“Non proprio…”
“Mica ti sarai licenziato?”
“No, no! Però…sai…”
“Arriva al nocciolo” sorrido, divertita nel vedere
mio fratello così impacciato. E anche parecchio incuriosita.
Chissà che avrà combinato.
E invece…quello che ha da dirmi mi fa mancare quattro o
cinque battiti.
Rimango a bocca aperta, lo spicchio di pizza in una mano e la lattina
di Coca Cola nell’altra.
Beh, la Coca mi cade di mano, atterra sul tavolo e barcolla per alcuni
istanti, finendo per rotolare a terra.
Per fortuna è quasi vuota.
“Ho…parlato con Dave. Rimettiamo su il
gruppo.”
*
“COOOOOOOSA?! E me lo dici così? Mi stava andando
di traverso la pizza Keith!” mi ricordo che sbottai.
Il tono della voce avrebbe potuto trarre in inganno, ma credetemi,
anche ce l’avessi messa tutta non sarei riuscita a incazzarmi
per quello che mi aveva detto.
"Ehi, non accetto rifiuti. Tu sarai con noi, punto!" asserì,
vendendo la mia faccia assumere un’espressione alquanto
dubbiosa.
Keith, ti avrei risposto di sì comunque. Non c'era bisogno
di puntualizzare.
Non so cosa stesse pensando. Magari che credevo fosse uno stupido
scherzo, oppure un’intenzione campata in aria, nulla di
serio.
E invece no, avevo capito benissimo.
Già da quella mattina, quando andai in libreria e trovai
Dave, e mi fece tutto quel discorso sul tour da cui era reduce.
Mi stava instillando una sana voglia di tornare a fare musica.
Aveva già parlato con mio fratello, e sapeva benissimo che a
toccare certi tasti con me sarebbe andato sul sicuro.
Le cose accadono per caso, o hanno lo strano, inquietante, inebriante
potere di seguire un percorso lineare e preciso?
Avevo deciso di imbracciare di nuovo la chitarra, per rievocare i
vecchi tempi, ed ecco tornare mio fratello, ecco tornare Dave, che
aveva acuito questa mia volontà, ed ecco che gli Unnamed
erano di nuovo in piedi.
Il caso può aiutare, ma siamo noi gli artefici di quello che
siamo, e di come viviamo.
Ero l’unica incognita, nei loro calcoli. Per questo avevano
deliberato di dirmelo alla fine, quando ormai la decisione era
già stata presa. Perché, a quelle condizioni, non
mi sarei certo tirata indietro.
Maledetti.
Vi adoro.
La passione è stata più forte di qualsiasi
ostacolo.
Una settimana dopo eravamo già in sala prove. Di
lì a poco, tramite certi agganci di mio fratello, avremmo
ricominciato a suonare in vari locali della California.
Sì, ammetto che il nostro nome fa ancora un certo effetto.
È un piccolo miracolo, quando un gruppo si riunisce per una
genuina e sana voglia di suonare.
Sì, perché in fondo, almeno parlando per me, di
soldi ne farei di più a imprimere disegni sulla pelle della
gente.
É meno approssimativo. Se suoni e non riesci a ingranare,
non guadagni.
Quello che ci disse nostro padre, quando gli dicemmo che volevamo
mettere su un gruppo. Ci aveva lasciato imparare a suonare chitarra e
batteria, perchè credeva fosse solo un passatempo. Ma io e
Keith sapevamo già cosa volevamo fare nella vita.
E ci era andata di lusso, almeno fino a che non abbiamo preso strade
diverse.
Siamo cambiati molto, in questi anni.
Soprattutto io.
Non so, forse sono più consapevole di me. Meno ragazzina
cresciuta a suon di sani principi e musica di ogni tipo e
più persona adulta, indipendente e totalmente autonoma. Non
nascondo che la faccenda mi soddisfi, però sento di aver
perso un po’ di quell’incanto che illuminava i miei
occhi di diciassettenne.
Adesso che ho quasi ventiquattro anni, lo sento.
Sento che la vita da adulti è disincantata, spigolosa,
sempre piena di doveri e pochi piaceri a risollevarla da un grigiore
quasi inevitabile, prodotto in serie di una società
omologante che ci vuole tutti produttivi al massimo.
Ma voglio fare di tutto affinché la mia rimanga sempre
qualcosa di esaltante e imprevedibile.
Tre lunghi anni, senza dare traccia di noi, della nostra esistenza come
band.
Eppure ci hanno accolto come amici di una vita, tornati da un lungo
viaggio.
Chi, dite? Beh, i nostri fan.
Oddio, mi fa stranissimo chiamarli così.
Abbiamo un rapporto strettissimo con loro, molti li conosciamo
personalmente da anni.
É grazie al loro calore se, tempo un mese, eravamo
già a registrare.
Ho fatto leggere a Keith e Dave dei pezzi che mi è capitato
di scrivere quando non avevo da fare e l’ispirazione volava
nei pressi della mia testa.
Beh, li hanno apprezzati. Così abbiamo deciso di lavorare su
alcuni di quelli.
Abbiamo suonato, come dei forsennati. C'abbiamo perso il sonno, ma
nelle occhiaie, negli sbadigli, nelle sigarette fumate e nei
caffè bevuti a ripetizione per non crollare a dormire, si
poteva leggere la gioia più autentica.
Siamo stati rapidissimi. Ispirati, quasi in preda a un fervore mistico.
Il disco è finito. Quanto ci avremmo messo, due mesi? Forse
un po' meno.
Ora deve passare la trafila necessaria per rendere appetibile un
prodotto grezzo.
È primavera, e il clima si ingentilisce.
Il cielo è sgombro dalle nubi, limpido, quasi accecante.
Perfetto.
I tramonti di primavera hanno una poesia lieve, fluttuante, tutta loro.
Riescono a essere delicati come un'alba, i colori decisi sembrano quasi
annacquarsi.
C'è della bellezza indescrivibile.
Ma non supereranno mai la magnificenza dei tramonti d'estate.
E quest'anno...
Non me ne perderò uno.
Da San Francisco a New York.
Tutti i tramonti estivi degli Stati Uniti.
Siamo in tour.
Ed è un tour speciale.
Ci hanno chiamato a suonare al Vans Warped Tour.
Lo faremo tutto, dal primo all’ultimo giorno. È
quello che ci vuole, per riprenderci. Per far tornare a parlare di noi.
Quando Dave me l'ha detto, non credevo alle mie orecchie.
"Tu stai scherzando! TU STAI SCHERZANDO!" ho ripetuto,
all’infinito, come un disco rotto.
Ma, no, lui non scherza. È vero, è tutto
dannatamente, meravigliosamente reale.
Mi fiondo al computer, cerco il sito ufficiale.
Lo trovo.
Scorro la line-up con rapidità.
I miei occhi si fermano. A circa metà della pagina.
E anche il cuore, anche lui…perde qualche battito.
Ci sono.
I My Chemical Romance.
Solo per un lasso di tempo di per sé risicato, trattasi
infatti di tre o quattro date a fine luglio.
Ma ci sono.
E le mie labbra si allargano in un sorriso che scopre i denti e mi fa
fissare con sospetto e sconcerto da mio fratello e il suo migliore
amico.
“Ehi, che ha tua sorella?” sento Dave mormorare a
Keith.
“Ah, boh, proprio non lo so”.
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Capitolo 5 *** Burn, Baby, Burn ***
@Martunza:
eeeeeeeh... :°D
Cap. 5 – Burn,
Baby, Burn
Mi sto divertendo. Come una pazza.
La cosa che più mi galvanizza non è fare
tatuaggi, e nemmeno starmene a guardare il cielo finché non
diventa nero.
No. Sono cose banali. Felicità surrogate, che avevo sempre
usato come sostitutivi per non pensare a suonare, a imbracciare di
nuovo la mia piccola.
Ma io vivo per godere appieno di lei. E delle parole che sgorgano dal
mio cuore e vengono veicolate sui fogli dalla penna che impugno.
Non deve esserci spazio per la tristezza e i ricordi nel mio cuore.
È il 28 luglio. Siamo a Chicago.
Il Warped è estenuante, stancante, faticoso, soprattutto
sapendo di dover sostenere ogni giorno un live e dover poi ripartire,
alla volta della tappa seguente.
Ti fiacca nel corpo, ma ti esalta nello spirito. Non sei mai stufo di
suonare, ogni volta il pubblico è diverso, ti accoglie
sempre in modo differente, positivo o negativo che sia. E devi fare
appello a tutta la tua volontà per non scontentarlo,
né scontentare te stesso.
Tocca a noi, tra poco. È pomeriggio pieno, il sole picchia
forte sulle teste di tutti.
È un mese che suoniamo a giro, eppure mi sento profondamente
inquieta.
Sarà che da oggi ci sono anche loro…anche lui, a
guardarmi suonare dal backstage.
No, non può essere solo per questo. Ma adesso devo suonare,
non c’è spazio per le riflessioni. Non ci deve
essere.
Meglio non pensarci.
Il primo a salire sul palco è Keith, che si sistema dietro
alla sua amata batteria e inizia a imprimere ritmi nella sua mente,
nelle sue mani, trasmettendoli poi su piatti e tamburi.
Poi Dave, che imbraccia il suo basso e scalda le dita su e
giù per la tastiera.
Trova anche il tempo di fare un po’ il cretino, e si mette a
suonare il motivetto del Tetris, poi Super Mario, infine Zelda.
È abbastanza patito di videogiochi, effettivamente.
E infine, io.
Afferro la mia Jaguar nera e mi avvicino al centro del palco,
ostentando un passo sicuro e assolutamente tranquillo.
Non sono mai stata brava a fingere, ma oggi riesco a dare il meglio di
me.
Non sarà la mia agitazione a rovinare tutto.
Sistemo il microfono all’altezza giusta, dopodichè
faccio un respiro profondo.
Ebbene sì.
Canto io.
C’hanno messo del tempo a convincermi, ma alla fine quei due
terremoti alle mie spalle ce l’hanno fatta.
Ho dovuto mettere da parte tanti “se” e tanti
“ma”, e mi è costato piuttosto caro.
Ma adesso…adesso sento di essere una persona migliore. I
fantasmi del passato stanno dormendo in soffitta.
Sarà meglio che non si sveglino.
Almeno fino a che non ho finito qua sopra. E vorrei non finire mai.
Un potente riff di chitarra dà inizio al primo pezzo che
suoniamo, che è anche uno degli inediti.
Mio fratello mi segue quasi subito e, per ultimo, si unisce anche il
basso.
La voce esce con naturalezza dalla mia gola. È una rabbia
genuina, ma più pacata, rispetto a qualche anno fa.
Non è stanca, no. È solo più
consapevole dei propri limiti.
E pronta ad infrangerli ancora una volta, se necessario.
La gente sotto di noi è fomentata. Salta, urla e poga con
furia selvaggia, e io, che sto a guardare mentre li nutro di energia,
non posso fare altro che sorridere, inebriandomi di un assolo da paura.
Non mi era mai riuscito così bene, nemmeno in studio.
Nemmeno negli altri concerti.
Abbiamo suonato quaranta minuti abbondanti, tirati al massimo e senza
il minimo segno di cedimento.
Stiamo tornando grandi, e quando lasciamo il palco al gruppo che ci
segue nella scaletta, leggo la stessa ferrea convinzione anche negli
occhi di Keith e Dave.
Sorridiamo in sincro, tirando un sospiro di sollievo.
Anche stavolta ce l’abbiamo fatta.
Tornati nel backstage, sento una mano toccarmi la spalla e fermarmi.
“Ehi, ma siete veramente grandi!”
Mi giro.
Quei capelli neri davanti al viso, che si scosta, pronto, di lato.
Che celavano, fino a due istanti fa, quegli occhi, così
luminosi e particolari.
Quel sorriso radioso, inconfondibile.
E poi…quei tatuaggi.
Tra cui spiccava il mio.
Beh, lo ammetto. Sono andata a cercarlo subito, in preda a una sorta di
autocompiacimento per l’ottimo lavoro che avevo fatto.
“Toh, il mio cliente preferito!” esclamo, senza
pensarci, e senza sapere perché.
Ma lui ride e annuisce. E mi abbraccia.
Vedo mio fratello, davanti a me, che lo fissa un po’ torvo.
Tranquillo, Keith.
“Ci siete piaciuti tantissimo, veramente!”
prosegue, distaccandosi e continuando a guardarmi dritta in viso, che
manco a dirlo s’infiamma.
Mi chiedo di chi stia parlando oltre a lui, e mi accorgo solo dopo che
dietro Frank ci sono anche gli altri.
Bob, Ray, Gerard, Mikey.
Ray è letteralmente entusiasta.
“Ma allora siete tornati veramente a suonare! E siete ancora
meglio di prima!” esclama, al colmo della contentezza.
Ringrazio, sorridendo.
Anche gli altri si complimentano con noi, è tutto uno
stringersi le mani e abbracciarsi, e mi stupisco di come un gruppo come
loro, ormai famosissimo, possa ancora conservare questa
semplicità di modi, questa affabilità.
Spero di rimanere sempre così, penso dentro di me.
“Vogliate scusarmi, soprattutto tu, fratello di Frankie, ma
ve la rubo per qualche minuto!” sento dire
all’improvviso, e, altrettanto repentinamente, sento
prendermi il polso e tirare verso una direzione sconosciuta.
Ancora! Ma allora è un vizio, questo di trascinarmi con
sé!
Però…beh, non che mi dispiaccia.
Percorro il breve tratto di strada dietro a lui, mano nella mano,
docile come una bambina che viene portata a passeggio dal padre,
finché non ci fermiamo.
“Oggi non c’è niente di meglio del
parcheggio dei tour-bus…spero vada bene lo stesso”
si giustifica imbarazzato.
Ebbene sì. Il sole sta calando. E i My Chemical Romance
suoneranno stasera. Abbiamo tutto il tempo del mondo.
“Tranquillo, va benissimo!” rispondo, al colmo
dell’entusiasmo.
Siamo in piedi, entrambi con una lattina di birra in mano, e osserviamo
in religioso silenzio il cielo che si dipinge di rosso.
È il nostro piccolo rito, ormai.
Non ci vediamo praticamente mai, ma immaginare che anche lui, come me,
guarda il tramonto ogni giorno, lo fa sentire meno distante dai miei
pensieri.
Dal mio cuore.
Dopo qualche istante, lo sento rivolgermi una domanda.
“E il negozio?”
“L’ho lasciato ad Alice” rispondo
semplicemente.
Però…cavolo, io dovrei cercare di essere fredda,
distante, ma non ci riesco.
Tutto in lui mi dice di lasciarmi andare, di smetterla con questa
recita, di per sé piuttosto ridicola.
Anche lui ha chiuso con le farse. Glielo leggo nello sguardo.
Non sono più gli occhi di una fiera ingabbiata.
C'è una luce diversa, più luminosa.
Quasi accecante.
Ma mi farò del male, sapendo che non potrò
rivederlo.
Ti farà più male il rimpianto di non averci
nemmeno provato, mi rispondo, come in un’ipotetica partita di
ping-pong tra coscienza e istinto.
Così il mio braccio si muove da solo, e va a cercare il suo
corpo. Cerca un abbraccio.
Lui…fa lo stesso movimento, insieme a me.
Questa intesa silenziosa, che non ha il bisogno perenne di emergere.
Che resiste alla distanza, perchè ci siamo visti solo per
tre volte.
Che ci riscalda l'anima.
É un piccolo miracolo. E in sua virtù ci troviamo
legati in una stretta indissolubile, quasi una fusione dei nostri corpi.
“Ho aspettato per troppo questo momento” sussurra
al mio orecchio.
“Anche io…”
Avrei dovuto evitarlo. Ma la felicità va acchiappata al
volo, sennò chissà quando torna.
In questo momento non ci importa di nulla, a parte noi. Nemmeno del
tramonto, nemmeno di Jamia.
Oddio, a me un po’ importerebbe. Mi sento un po’,
come dire…la terza incomoda. Anche se lei è a
chilometri da qui.
Lui sembra non curarsene. Le nostre labbra sono sempre più
vicine ormai.
Stanno per sfiorarsi. Sento il suo respiro.
Quando una voce ci fa separare con violenza.
Perché, sì, è un atto di pura
crudeltà farci staccare proprio ora.
“Ah, però, Frankie…ti lascio per
qualche tempo e ti ritrovo ad appiccicarti agli estranei!”
Quella voce.
No. Ditemi che non è così.
Che ho solo delle allucinazioni spaventose.
Frank mi osserva preoccupato, mi vede tremare come una foglia, bianca
come uno straccio, il sorriso che si spegne in un patetico tentativo di
trattenere le lacrime, che però iniziano a sgorgare dai miei
occhi e rigare le mie guance.
Mi volto.
E non era un’allucinazione.
Ecco cos’era quell’inquietudine che ho provato sul
palco.
Era per colpa sua.
La sentivo entrarmi dentro, come aria impura nei polmoni, mentre
suonavo.
Mentre cantavo.
Parole scritte per una sola persona.
Che sapeva essere dolce come miele e amara come il più
schifoso dei veleni.
Lei.
Lucretia.
|
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Capitolo 6 *** Everything Reminds Me Of Her ***
@
Helena: ettecredo, ho i capitoli pronti fino al 21 :°D
@
Martunza: susu, non fare domande, leggerai ^.^ comunque io ne conosco
una che non è affatto male, di Lucrezia! e tengo a precisare
che non c'entra niente con questa storia, così come tutti
gli altri personaggi.
diciamo
che sono frutto
di invenzione, e se qualcuno ci si ritrova, o si sente
preso in causa, beh, PADELLA COMPLETA! (non si sa mai, e in ogni caso anche le
caratterizzazioni dei Mychem sono a mia discrezione, insomma, questa
storia è pura invenzione, poi non sono capace
a fare disclaimer -avrei dovuto metterlo sin dal primo capitolo, chiedo
venia- e mi secca pure andarne a cercare uno per ricopiarlo, ma
sappiate che
tutto questo è frutto della mia mente malata e non voglio
ledere nessuno, ecco. u_ù)
beh, magari adesso metto il capitolo, forse è
meglio ._.'
Cap. 6 - Everything
Reminds Me Of Her
Ci siamo conosciute alle superiori.
Frequentavamo una scuola molto rigida. Dovevamo portare delle uniformi
orribili e cercare di essere tutti uguali, come dei cloni. Non erano
ammessi piercing, tatuaggi, orecchini, tagli di capelli strani e colori
strani.
Quindi immagino si possa comprendere lo scontento che animava il corpo
docente appena varcavo il portone.
Ma che ci potevo fare, se odiavo quella rigidità.
Odiavo le ballerine, o qualsiasi tipo di scarpa da finta persona a
modo, e così mi presentavo sempre con gli anfibi.
I miei capelli erano sempre di colori innaturali, riccioli e
lunghissimi. Perennemente sciolti.
Un braccialetto con le borchie spuntava timidamente dalla manica della
camicia, che portavo col primo bottone sempre aperto e la cravatta
annodata larga.
Che ci potevo fare, mi dava fastidio quel collo così stretto.
E, soprattutto, ero piena di orecchini.
Davo molto nell’occhio. Ero un cazzotto nello stomaco dei
professori.
Quante volte ero finita in presidenza. Troppe.
Ma il preside mi rimandava in classe, non sapendo mai come trattarmi.
Non mi comportavo da dura. Non era nelle mie abitudini.
Sapevo argomentare molto bene le mie scelte.
Con tono calmo e accomodante, iniziavo la mia arringa di difesa
personale, appellandomi alla libertà d’espressione
dell’individuo e intortando sempre i miei interlocutori, che
si riducevano a meri, increduli, spettatori.
Nessuna ribellione. Nessuna anarchia. Nessuna parola fuori posto.
Sapevo bene quello che facevo.
Alla fine, mi lasciavano stare. Qualche professore c’aveva
provato, ad abbassarmi palesemente i voti, ma avevo la classe intera
dalla mia.
Mi avevano messo nella classe più casinista di tutto
l’istituto.
Le altre sezioni ci odiavano, ma avevamo imparato a spalleggiarci a
vicenda.
Certo, io ero quella che, obiettivamente, dava più
nell’occhio, però eravamo cementatissimi. E
così i prof che misero in atto questa specie di rappresaglia
furono paradossalmente redarguiti.
Non si sarebbe detto, a vedermi, ma ero una dei migliori studenti della
scuola.
Perché studiavo. Ero curiosa. Mi documentavo su tutto.
È così che l’ho conosciuta.
In biblioteca.
Dovevo fare una ricerca d’arte.
E lei stava sfogliando il libro che mi serviva.
Non so nemmeno cosa mi abbia spinto ad andare a chiederglielo. Non sono
il tipo di persona che comunica molto con gli estranei. Ma
c’era qualcosa in lei che mi attraeva, non so, forse il modo
in cui sfogliava le pagine, così svogliato, ostentato, sopra
le righe. Spocchioso.
Come se non stesse leggendo nulla di nuovo, come se avesse sentito
quelle nozioni chissà quante volte, al punto da saperle a
memoria, e stesse maneggiando quel volume per un’assoluta
mancanza di cose da fare, per alimentare una noia terribilmente
fastidiosa, ma nel cui tedio pareva sguazzare con sincera civetteria.
Avevo odiato a pelle quella supponenza, ma al contempo mi affascinava
senza misura.
Mi avvicinai, con molta naturalezza, chiedendole se le servisse ancora
per molto.
Scosse la testa e mi invitò a sedermi di fronte a lei.
Iniziammo a chiacchierare a proposito di quel volume.
Arte contemporanea. Roba per menti sopraffine.
Perché tutti sappiamo apprezzare la magnificenza di un
Raffaello, o di un Tiziano, ma sono davvero pochi quelli che
comprendono appieno il significato che sta dietro alla pipa di
Magritte, o agli squarci sulle tele di Fontana.
La pagina era aperta sulla Gioconda con i baffi di Duchamp: proprio
l’argomento che avrei affrontato nella ricerca.
Era una di quelle relazioni da proporre davanti all’intera
classe, a tema libero. Così avevo deciso di portare uno
studio sulla figura dell’ermafrodito attraverso i secoli e le
arti, anche letterarie.
Era un bel prospetto, ed ero assolutamente orgogliosa di come stava
crescendo sotto i miei occhi. Certo, al solito mi ero andata a cercare
un argomento piuttosto particolare, ma ci stavo mettendo tutta me
stessa.
E mi mancavano proprio studi sulla Gioconda di Duchamp.
Si offrì di aiutarmi. Mi sembrava di approfittarmene, ma
c’era qualcosa, nei suoi occhi scuri e profondi, che mi
spingeva ad accettare senza riserve. E così finii per fare.
“Nemmeno ci siamo presentate! Scusami, io sono
Frances” e le porsi la mano.
“Sì, ti conosco” rispose con
semplicità.
Ah però, ero decisamente popolare. O forse
l’incontrario.
“Lucretia” aggiunse, stringendomi la mano.
Ci mettemmo d’accordo. La prima volta mi invitò da
lei.
Era sola in casa. Particolare che lì per lì non
mi suggerì nulla.
Mi sedetti al tavolo con fare professionale e tirai fuori il pacco di
appunti, che le mostrai.
Apprezzò molto, e si mise a suggerirmi di modificare alcuni
passaggi, per rendere più accattivante la relazione.
“Apprezza molto anche le mie mani” pensavo,
sentendomele sfiorare di continuo. E non erano tocchi casuali. Me ne
accorgevo col passare delle ore.
Ero fortemente a disagio, ma non riuscivo a sottrarmi a quei pomeriggi
passati a riguardare la ricerca con scrupolosa meticolosità,
non riuscivo a sottrarmi a quello sguardo magnetico.
Non riuscivo a sottrarmi a quella voce.
A quelle labbra.
Mi sentivo come Ulisse con le sirene. Io ci provavo, a legarmi
all’albero maestro della mia coscienza, ma puntualmente
l’istinto tagliava le corde, scioglieva i tappi di cera e mi
liberava.
Ma non mi sentivo libera. Il tormento occupava il mio cuore, sempre di
più, col passare del tempo.
Non saprei dire se fosse davvero innamorata di me. Ancora mi sfugge.
Qualcosa che invece non avevo mai perso di vista era il fatto che mi
stava succhiando l’anima.
Non ero più io, quando la proposi come cantante per la band.
Non ero più io.
Cercavamo disperatamente una voce, e glielo dissi. Lei si vergognava, o
perlomeno così diceva. Sono quasi del tutto sicura, adesso,
che fosse una balla colossale, una di quelle uscite pregne di falsa
modestia che si lasciano cadere in qua e là nei discorsi,
per fare le persone preziose. Ma allora, ci credevo ciecamente. Le
chiesi di farmi sentire: lei si schermì, poi cedette.
Era perfetta, e fu la prima cosa che pensai, una volta riordinati i
miei pensieri sconnessi e confusi.
La portai in sala prove. Cantò uno dei pezzi che avevamo
scritto, e rimasero tutti sbalorditi.
Keith accettò, ma era preoccupato.
Mi vedeva cambiare, diventare quella che non sono mai stata.
E sapeva benissimo che dipendeva da lei, dalla sua presenza, ormai
costante, accanto a me.
Mi resi conto di una cosa fondamentale, quando uscii da quella scuola.
Trasgredivamo tutte e due.
Io e lei.
Frances e Lucretia.
Due nomi da principessine rincoglionite.
Io ero sopra le righe, decisamente. La mia era una ribellione aperta,
sincera, schietta. Palese. E a presa di culo, ma mai banale.
La sua era strisciante, subdola, malefica. Viscida. Nascosta da una
parvenza di perbenismo quasi nauseante.
Mi si era appiccicata addosso, insieme al suo profumo.
Ogni volta che me ne allontanavo era come se entrassi in crisi
d’astinenza. Mi mancava come l’aria.
Ma questo non faceva di me una lesbica, no.
Lei era l'unica a farmi sentire così. Nessuna prima, e
nessuna dopo di lei, mi avrebbe fatto capitolare così.
Nessuna.
Nemmeno stavamo insieme.
Ogni volta che ci trovavamo, io e lei, da sole, era come se ci stessero
braccando.
Avevamo paura che ci scoprissero. Perlomeno, la paura proveniva solo ed
unicamente da me, e lei l'assecondava con cupa dolcezza.
Sembravo non sentirla più, dopo un po'. Era diventato
così dannatamente naturale, ormai...così naturale
che mio fratello, un giorno, è tornato a casa, e ci ha viste.
Non ha fatto una grinza. Forse se lo aspettava, ma non deplorava la mia
scelta. La mia presunta identità sessuale, confusa o meno
che fosse.
Deplorava lei.
Solo ora riesco a comprenderlo. A comprendere il suo astio.
Se ci penso, mi chiedo come abbia potuto farmi trascinare in quel modo
cieco e devoto.
Ma non potete capire che carisma trasudasse da quella pelle bianca come
il latte.
Non potete capire.
Io l'avevo capito, invece. E non ne avevo mai abbastanza.
La assaporavo con gola. La divoravo con ingordigia.
Ero l’unica ad essere caduta preda di quel fascino letale.
Keith e Dave non l’hanno mai sopportata.
E mio fratello, un giorno gliel’ha detto, chiaro e tondo.
Perché non era indispensabile per gli Unnamed.
Perché, soprattutto, mi stava buttando via.
Della vera Frankie non era rimasto nulla.
E lui ci aveva visto. Lei, luminosa e concupiscente. Io, spenta e quasi
succube.
Quei capelli rossi, quegli occhi scuri come una notte senza luna mi
avevano spinto sulla via del non ritorno.
Persi la voglia di vivere, quando Keith la cacciò.
L’ho odiato come solo un fratello si può odiare.
Ma solo adesso capisco che l’ha fatto per me.
Non ha pensato a nessun altro, in quei momenti convulsi.
Il suo interesse di fratello maggiore era proiettato solo ed unicamente
su di me, e su come mi ero ridotta.
Certe decisioni sono dure da prendere, soprattutto se sai che dovrai
far stare male una persona a cui vuoi un bene dell'anima.
Ma bisogna scegliere il male minore. E lui preferiva che lo
disprezzassi, piuttosto che vedermi ancora in quel modo.
Adesso vorrei dire tutto ciò a Frank, mentre mi osserva in
tutta la mia vergogna.
Mentre mi chiede, in silenzio, stringendomi la mano, chi sia lei per me.
Quella mano su cui ho tatuato la sua iniziale.
Vorrei solo renderlo partecipe di quello che ero veramente. Glielo
devo, in un certo senso.
Lui mi aveva raccontato tutto, quattro anni fa, solo con i suoi occhi
tristi.
Non sono capace ad essere così eloquente solo fissandolo con
lo sguardo smarrito e disorientato, per cui vorrei poter solo vomitare
tutta questa storia di merda.
Ma non ci riesco. É come se volessi proteggerlo, alla fine.
Come se non volessi farlo stare in pensiero per me. Mi basta sentire il
calore della sua mano a stritolare la mia con dolce angoscia, per
capire che gli farei solo del male.
Non sono una persona forte.
Se lo fossi non avrei reagito così, non mi sarei messa a
piangere appena l'ho vista e non mi sarei tatuata questa stupida L sul
dito.
Ma era bello illudersene.
Lei è andata a cercare Dave e Keith, e io e lui rimaniamo,
di nuovo, soli.
“Frankie…chi è quella?”
chiede con ferma dolcezza.
Non ci riesco. Mi sono asciugata le guance, ma non c'è
niente da fare.
Ricomincio.
Con violenza.
Scoppio a piangere a dirotto.
Sento una stretta soffocarmi il respiro. Mi ha riabbracciato, senza
pensarci un solo istante.
Sento il battito del suo cuore. È accelerato. Come se possa
scoppiare da un momento all’altro.
Anche se sono stata zitta, non sono riuscita a proteggerlo da me, dal
mio schifo.
Ormai c'è dentro fino al collo. CI SIAMO dentro fino al
collo.
Riesco solo a farfugliare tre parole, brucianti come il più
corrosivo degli acidi.
Che non rispecchiano del tutto la verità, ma la semplificano
in maniera devastante.
“La mia ex.”
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Capitolo 7 *** The Lost Art Of Keeping A Secret ***
ma
ancora stragrazie per i complimenti, mamma mia *_*' troppo buone,
valà!
Cap. 7 - The
Lost Art Of Keeping A Secret
Si scosta da me, repentino. E mi fissa, dritto negli occhi.
È incredulo.
Proprio gli si legge in faccia.
“Tu…no, aspetta, eh…mi staresti dicendo
che stavi CON UNA RAGAZZA?”
Improvvisamente le mie lacrime cessano di scendere.
Mi faccio piccola e rossa, e annuisco, gli occhi piantati sui nostri
piedi. Le dita che, automaticamente, vanno a nascondersi tra i miei
capelli.
“Ma…non finisci mai di stupirmi”
commenta, ridendo.
Meno male. Sembra che la cosa lo diverta.
Sorrido anche io, senza farmi vedere.
“Beh, ma questo non fa di me una a cui piacciono le
ragazze” affermo risoluta, rialzando lo sguardo da terra e
facendolo vagare a giro per il cielo.
Mi imbarazza guardarlo negli occhi, come se mi rendessi conto che la
mia sia un'onta irreparabile. Eppure non c'è nulla di male,
lo penso tuttora.
Togliendo il soggetto specifico, amare qualcuno del proprio stesso
sesso non è mica un delitto.
Mi fissa con sguardo interrogativo.
“Beh” mi affretto a precisare
“è l’unica, per ora. E data
l’esperienza, ti assicuro che non lo rifarei…beh,
credo.”
“Oh ma mica te ne stavo facendo una colpa! È
che…proprio non ti ci facevo...” mi dice,
grattandosi la testa, al colmo dell’imbarazzo.
“Dai, non è nulla…” cerco di
svicolare.
Non so perché, ma detesto vederlo così a disagio.
Soprattutto se penso che è un po' colpa mia e della mia
reazione così scomposta..
“No, veramente, ti chiedo scusa! È che sembrava
che…”
“Dai, non arrampicarti sugli specchi! Non sei mica il primo
che me lo dice, sai?” sorrido maliziosa.
Lui arrossisce. Proprio sembra prendere fuoco. É di una
tenerezza che faccio fatica a descrivere a parole.
Non posso argomentare dettagliatamente. Sminuirei la scena, il suo
rossore e l'imbarazzo che, adesso più che mai, lo governa.
Che dolce, penso immediatamente.
Ma il solito, stramaledetto automatismo che sembra sempre imporsi sulle
mie azioni più spontanee mi blocca.
Non mi fa nemmeno mormorare quanto mi piaccia.
Così, per non far cadere la conversazione in modo
così stupido, inizio a sfotterlo bonariamente.
"Ahhhhhhh! Sei paonazzo, Frank!" gli dico, ridacchiando.
"E non guardarmi, no?" borbotta, imbronciato, e a dire il vero anche un
po' sorpreso, volgendo lo sguardo altrove.
Continuiamo la nostra piccola schermaglia ancora per un po’,
quando vediamo una sagoma familiare venirci incontro.
“Ehi, ecco dove sei!” esclama, alzando il
sopracciglio e sorridendo in quel modo tutto particolare, personale.
“Ahm, scusa Mikey, in effetti sono sparito un po’
così…” cerca di giustificarsi lui, che
ha ripreso da poco il suo colorito normale.
“Colpa mia!” faccio io, come ad alleggerire
ulteriormente il clima della conversazione.
In effetti è tardino. Il sole è calato, quella
stronza di Lou mi ha rovinato il tramonto e tra poco meno di
un’ora i ragazzi devono suonare.
Frank mi guarda interdetto.
Si vede benissimo che non vorrebbe andarsene di qui, ma purtroppo deve
farlo.
La sua mano fa una fatica incredibile a staccarsi dalla mia. E lo
stesso vale per me.
Ormai mi ero abituata a quel calore. Mi è arrivato dritto
dritto al cuore.
Che sia merito del famoso vaso sanguigno dell'anulare? Riflessione di
per sé stupida, ma che mi fa sorridere per il suo candore
quasi infantile.
Se non che…sopraggiungono alle nostre orecchie delle voci,
piuttosto concitate.
Dietro di noi.
Mikey fa per tornare dagli altri, ma Frank gli fa cenno di fermarsi un
attimo e mi stringe in un abbraccio ancora più forte di
prima.
Perché lo fa?
Cosa sta succedendo?
Domande che dovrebbero affacciarsi alla mia mente, ma non lo fanno.
Perché per me quegli abbracci sono una droga, e quindi devo
gustarmeli, finché durano.
Sì, una droga. La migliore. L'unica che non possa farmi del
male.
Le voci si alzano nel quasi buio del crepuscolo, e rabbrividisco.
Perché le conosco sin troppo bene.
“Guarda, stasera dormi nel bus con noi, ma domani levi le
tende! Te ne vai!”
“Ma che cavolo, ma sono anni che non ci vediamo e mi tratti
così?”
“Hai anche da chiederne il motivo? Bella faccia tosta che
sei!”
“Grandissimo stronzo…”
“Ah, sarei io lo stronzo? SAREI IO LO STRONZO! Tu ci hai
rovinato, Lucretia! Hai mandato tutto a puttane! Non mi sto
meravigliando, sai, che la tua ragazza ti abbia buttato fuori di
casa!”
“Lascia stare Annie, che non c’entra
nulla!”
“Okay…okay, lasciamo stare Annie. Non
c’entra con noi, non c’entra niente se sei venuta a
abitare a Chicago per stare con lei, va bene. Però
obiettivamente…c’era un’armonia tra noi
tre…”
Meno male. S’è calmato.
E invece no. Sta alzando di nuovo la voce.
“Armonia che tu hai rotto, e sia stramaledetto il giorno in
cui Frankie ti ha portato nel nostro garage e ti ha fatto cantare!
Perché l’hai rovinata, capisci? Hai rovinato mia
sorella! E mi dispiace, ma per te, negli Unnamed, non
c’è più posto! NON
C’È MAI STATO!”
“Ma io voglio cantare con voi! Voglio stare con lei,
ancora!” la voce rotta, incrinata.
“NO! Lei non ha più bisogno di te!”
“E invece sì, appena mi ha visto
s’è messa a piangere! Come una fontana!”
Anche lei sta piangendo, adesso. La sento singhiozzare.
Un po' mi fa pena, se devo essere sincera.
“Sì, e sai perché? Perché si
ricorda di tutto. E le fa male! Ha provato, a voltare pagina, ma non
c’è riuscita fino in fondo! E io non voglio
più vederla in quello stato pietoso! Non voglio
più aprire la porta di casa e vederla farsi le pere insieme
a te!”
Occazzo, no.
Ti prego, fà che non abbia sentito.
Speranza vana, visto che stanno urlando proprio alle nostre spalle.
Le mie mani vanno istintivamente a coprirmi il viso.
Adesso mi faccio pena anche io.
Tutto, ma non quello.
Non ho voglia di fare i conti con i capitoli definitivamente chiusi
della mia vita. Men che meno in questo preciso momento.
Ne sono uscita da tempo ormai, ma che senso avrebbe rassicurarlo?
Non mi crederebbe mai.
E lo sento, lo sento da come si stacca da me di colpo, esterrefatto.
Leggo l’incredulità nei suoi occhi,
un’incredulità che si fa sempre più
rabbiosa e che si volta da me con veemenza.
Keith, ti odio.
Da morire.
Perché gliel’hai rinfacciato così?
Perché hai detto la verità al mondo con questa
insensibilità?
Perché sei stato così schietto?
Maledetto. Ti odio.
Solo questo riesco a pensare, nella confusione che ormai mi governa.
Ma in realtà l’unica persona che dovrei
odiare….sono io.
Volevo illudermi di essere speciale, e invece sono solo una merda.
Anche Mikey mi guarda stupefatto, e senza pensarci due volte emette la
sua sentenza.
Come se sapesse già tutto di me, di quello che successe
ormai quattro anni fa.
Come se comprendesse in che situazione del cazzo sono finita.
“È deciso: tu dormi da noi stasera.”
Secco, conciso.
Non c’è severità nelle sue parole. Solo
una ferma indulgenza che, a vederlo così, non gli si
attribuirebbe.
Eppure riesce ad essere più accogliente e comprensivo di
Frank, che adesso s’è incamminato da solo verso lo
stage. Con l'aria di chi ha appena subito un tradimento e se
n'è reso conto troppo tardi.
Anzi, è proprio incazzato nero.
Mi stai disprezzando, eh?
Non ti biasimo.
Anche io mi faccio schifo per quello che ho fatto, e serve a poco
giustificarsi dando la colpa a certe pessime influenze.
Non mi ha costretto nessuno.
E per questo adesso non riesco a versare una lacrima.
Non per rabbia, né per delusione, e neanche per tristezza o
dolore.
Mi prenderei in giro da sola, se lo facessi.
Quando provi disprezzo per quello che sei, certe volte riesci a essere
di una lucidità disarmante.
Come adesso. Momenti in cui ripercorro con estenuante lentezza tutto
l'iter che mi ha portato a toccare il fondo.
Con masochismo estremo focalizzo nella mia testa ciò che ho
represso per anni. E fa male da morire, soprattutto se penso che le
conseguenze si sono protratte fino a oggi, fino a questo preciso
istante e forse anche in seguito.
Meglio togliere il 'forse'. É solo un'inutile componente
ipocrita.
Odio quei giorni di abbandono.
Odio quella robaccia che mi iniettavo in vena. Che mi illudevo mi
facesse stare bene.
Odio il disperato bisogno che ne avevo. E l’altrettanto
disperato bisogno che avevo di lei.
Di Lou.
Mikey questo lo capisce.
Che mi stavo buttando via da sola.
Ma capisce anche che le menti deboli cadono spesso in questi tranelli.
Come suo fratello.
“Dai, andiamo. Mentre suoniamo tu starai nel backstage con
Brian, ti va bene?” mi dice, accarezzandomi i capelli con
affetto. Un affetto quasi fraterno.
Questi ragazzi sanno a malapena chi sono e mi trattano come se fossi
una di loro.
Uno di loro, quello con cui ho avuto più a che fare,
paradossalmente mi lascia qui come una cretina, e adesso lui mi tratta
come se fossi la sua sorellina.
Non ci credo, ma mi adeguo. In fondo mi fa piacere ricevere le sue
attenzioni, così disinteressate.
Qualsiasi cosa è meglio dell’inferno in cui sono
precipitata di nuovo, Mikey.
Qualsiasi posto.
Qualsiasi persona.
Tu puoi nominarmi chiunque, e mi andrà bene, visto che non
so chi sia.
Ho fiducia in te e in quello che stai facendo per me, se mi affidi a
questo Brian.
Mi sembra anche troppo, abituata come sono a essere trattata a pesci in
faccia.
“Sì” mormoro, spenta.
E ci incamminiamo verso il backstage.
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Capitolo 8 *** You Stole The Sun From My Heart ***
@Martunza:
tranquilla, non replicherò! :°D
Cap. 8 - You
Stole The Sun From My Heart
Brian mi è stato vicino per tutta la durata della loro
performance.
È dotato di una gentilezza disarmante. Quasi mi è
dispiaciuto non averne approfittato, ma ero troppo presa dalla
situazione del cazzo che era venuta fuori per preoccuparmene.
Quando Mikey mi ha portato da lui e gli ha chiesto se, per favore,
potevo stare lì, ha capito subito che c’era
qualcosa che non andava, e non ci ha pensato nemmeno un attimo ad
accettare.
Nemmeno ha chiesto chi fossi. Almeno fino a ora.
“Ehi…io sono Brian, comunque” prova a
dirmi, così, come si lascia cadere nel nulla
un’informazione di poco conto, che non meritava nemmeno di
essere menzionata.
Sono assorta, lo sguardo perso nel vuoto. La musica mi giunge alle
orecchie ovattata, come un’eco lontana. Anche la voce di quel
ragazzo così gentile. E anche piuttosto carino, devo
ammettere. Sto provando a concentrarmi su questo particolare per
tentare di non pensare ad altro, ma è uno sforzo abbastanza
inutile, ora come ora.
Nonostante questa disattenzione che sto nutrendo nei confronti del
mondo, mi sento chiaramente osservata.
Mi giro verso di lui, e lo trovo con l’espressione di chi
aspetta una risposta.
Ancora questo viziaccio di perdermi nelle mie beghe quando qualcuno mi
parla. Credo che non smetterò mai.
“Scusami…dicevi?”
“Io sono Brian!” esclama, speranzoso, porgendomi
una mano da stringere con professionalità.
Troppe formalità da espletare, per la mia testa confusa.
Accontentati del nome, per favore. Almeno per il momento.
“Ah! Oddio, scusami, non mi sono nemmeno
presentata…Frances…” gli faccio,
distratta.
“La chitarrista dei…degli…Unnamed,
giusto?” chiede, ritirando un po' deluso la mano, che non ho
stretto, non certo per cattiveria.
“Eh sì” borbotto, quasi
impercettibilmente.
Ma a lui non sfugge.
Non è una sensazione. Sono decisamente osservata, e con
morbosa curiosità.
Normalmente asseconderei questa sete di conoscenza.
Normalmente racconterei vita, opere e miracoli della sottoscritta a
tutti quelli che vogliono saperne di più, ma
adesso…adesso non ce la faccio, Brian. La mia testa corre
con sfrenato masochismo verso quei momenti, quelle grida, quella frase
che mio fratello non doveva pronunciare, non davanti a lui. Ricerca
quell’abbraccio così caldo e accogliente di cui,
mio malgrado, sono stata costretta a spogliarmi quasi subito,
rimanendo, come un’imbecille, sola ed esposta al
gelo della sua rabbiosa noncuranza.
Non so più come scusarmi. È una negligenza di
poco conto, la mia, eppure mi fa sentire così
colpevole…
“Senti, ma…è successo
qualcosa?” mi chiedi, con una punta di sincera preoccupazione
nella voce.
“N..no, niente, davvero…” dissimulo.
Non voglio tirare anche te in mezzo. Non te lo meriti, nemmeno ti
conosco. È già tanto che ci sia impelagato anche
Mikey. Ha solo avuto la disgraziata sfortuna di essere lì,
presente, quando è successo tutto.
Però…meno male che c’era anche lui,
sennò chissà dove sarei adesso.
Forse sotto il cielo stellato, ubriaca, ad ululare alla luna come un
cane abbandonato a se stesso.
Fingo, ostentando un sorriso che sento tirare da tutte le parti, ma ho
come l’impressione di non essere abbastanza convincente.
Lui mi fissa ancora.
“Beh, immagino tu non ci creda, vero?” chiedo,
sforzandomi di sorridere.
“In effetti poco” sorride, al colmo
dell’imbarazzo “ma non indagherò oltre.
In fondo, nemmeno ti conosco…”
Mi stai quasi facendo sentire in colpa. Sotto quel bel viso si nasconde
una discreta carognetta.
“Hm, beh…ho dei problemi, ma nulla che non si
possa risolvere…”
“Spero per te!” conclude lui, sorridendo e
alzandosi per andare incontro ai ragazzi, che hanno appena finito di
suonare. Me ne rimango lì, in disparte, visto che sono solo
un’ospite, per di più un po’ triste.
Provo a vedere con la coda dell’occhio se qualcuno mi si
avvicina.
Gerard mi sorride imbarazzato. Come a dire “Ehi, e tu che ci
fai qui?”
Ricambio il sorriso, che diventa un’implicita promessa:
‘ti racconto dopo, se avremo tempo e voglia’.
Ray e Bob proprio non mi vedono. Sono troppo impegnati a scambiarsi
impressioni a caldo sulla performance.
Sono elettrizzati. Parlano tra loro con una passione incredibile.
Quello che fanno scorre prepotente nelle loro vene. È amare
il proprio lavoro.
Sono contenta per loro. Perché vivono solo per questo. E ce
la mettono tutta per andare avanti al meglio.
Mikey sta parlando con Brian. Non so di cosa, e non sono nemmeno affari
miei.
Ogni tanto mi buttano un’occhiata, quasi abbiano paura che io
faccia qualche cazzata.
Frank è l’ultimo ad arrivare. È
sorridente, galvanizzato dall’esibizione, lo porta scritto a
chiare lettere sul suo volto così dolce.
Dover osservare i suoi lineamenti così a distanza,
così furtivamente, mi uccide.
Mi sento un po’ morire, in effetti. L’ho deluso,
ancor prima di pensare a quanto mi sia delusa da sola. Ormai questo
è un passaggio che ho già superato e su cui non
intendo affatto tornare, e pensavo di averne pagato per intero le
conseguenze, ma a quanto pare non è così.
Non è così, perché mi scorge, e il suo
sorriso sparisce.
Sparisce anche lui, va via dal backstage.
Veloce.
Rapido.
Senza un apparente motivo, almeno per i suoi colleghi e amici.
Sospiro sconsolata. Ormai il danno è fatto.
Non mi capacito di questo astio. Perché incazzarsi per
qualcosa che è già passato?
Per qualcosa che lui non ha mai provato, non ha mai testato sulla sua
pelle?
La mia storia non lo riguarda, penso piccata. Eppure…mi
sconvolge, il fatto che se la sia presa così male.
Ci sarà pur un motivo. Motivo che, annebbiata dalla
tristezza come sono, non emerge, per quanto sia di
un’intuibilità quasi elementare.
Mikey e Brian mi si avvicinano.
“Allora, come siamo stati?” chiede il primo, forse
per distrarmi.
“Ehm…era tutta immersa nei suoi
pensieri…non so quanto abbia prestato attenzione”
risponde l’altro, prima che io riesca ad aprir bocca. Sorrido
mestamente, come a dare conferma di quello che ha appena detto Brian.
Mikey mi guarda, e sembra un po’ abbattuto dalla mia totale
incapacità di sorridere con sincerità.
Mi dispiace.
Ma lui mi fa alzare e poi mi abbraccia. Quando ci stacchiamo, mi guarda
fisso negli occhi.
Non riesco a sostenere quello sguardo così limpido, pulito.
Perché ti costringe a confessare le tue colpe più
nascoste. E per adesso ne sono emerse anche troppe.
Mi volto da un’altra parte, e lo sento appoggiarmi una mano
sulla testa e spettinarmi con dolcezza i capelli.
“L’ha proprio fatta grossa,
stavolta…” sospira. Più preoccupato per
me che per il suo chitarrista, che è sparito
chissà dove.
Più del male che lui ha fatto a me, e non di quello che ho
fatto io a lui.
Evidentemente se la saprà cavare benissimo da solo.
Ci allontaniamo dal palco, in direzione del loro bus.
A metà strada mi squilla il telefono.
Mi fermo per rispondere.
Il numero lo conosco sin troppo bene.
“Ehi…”
“MA DOVE CAZZO TI SEI CACCIATA! Sono ore che ti
cerchiamo!!!”
“Ah…scusa, Dave…ti stavo per chiamare,
tra l’altro, per dirtelo…” mento,
spudoratamente.
Mi sono dimenticata di loro. Fatto imperdonabile, nella mia logica, ma
preferisco non pensarci, visto quel che è successo oggi.
È come una sorta di meccanismo di autodifesa.
“Dirmi cosa?”
“Che stasera starò coi ragazzi…penso
sia meglio, e a loro va più che bene…”
“Che ragazzi, scusa?!” mi fa, incredulo.
“I My Chemical…”
“Ah, sì” mi interrompe “i tuoi
amici. Sì, è meglio…è
successa una cosa, Frankie…”
“So già tutto, Dave.”
“Ah, ok…mi hai tolto un bell’impiccio,
non sapevo come dirtelo!” ride forzatamente.
È teso, anche lui. Ma è quello che, tutto
sommato, è meno toccato dalla faccenda.
Beato lui.
“Insomma, ci vediamo domattina” cerco di tagliar
corto. Non ho voglia di fare l’autopsia ai miei incubi di un
tempo, e lui lo ha capito al volo.
“Sì. Buona notte, stellina. E non preoccuparti,
tornerà tutto a posto.”
“Spero. Buona notte, Dave” e riattacco.
Mikey mi ha aspettato. A qualche metro di distanza, educato, discreto.
Non vuole entrare nelle mie conversazioni. Ma, in un certo senso,
è entrato nella mia vita, e nemmeno più di tanto
in punta di piedi. É un filino più, come dire,
grave.
Non so se lo sa, se se ne sta rendendo conto. Ma in questo momento
è davvero l’ultimo dei miei problemi.
Ci rincamminiamo, percorrendo quei pochi metri che ci separano dal tour
bus.
Il fatto è che…beh, non so cosa dirgli. Sempre
che sia lì dentro.
Ormai ci siamo. Mi stanno tremando un po’ le gambe, ma cerco
di riprendere il controllo e entro.
È enorme, spazioso e, curiosamente, pulitissimo e
ordinatissimo. Sembra nuovo di zecca.
Ripenso al nostro. Piccolo, impregnato di noi e della nostra vita
sregolata, della nostra gioia e dei piccoli dolori che attraversano la
vita di ogni essere umano. I miei vestiti buttati a caso
nell’unica cuccetta libera, quelli di Dave ammonticchiati sul
suo borsone e quelli di Keith, perfettamente piegati e sistemati nella
valigia, sempre aperta. La macchina del caffé, perennemente
in funzione, al cui ronzio sordo non facciamo neanche più
caso. Un mazzo di carte, sul tavolo. Montagne di cicche nel posacenere.
I miei libri, gettati qua e là, un paio dei quali anche in
bagno, con la stessa disinvoltura con cui un contadino si ritroverebbe
a passeggiare per le strade di una metropoli.
Ossia, prossima allo zero.
Ci sediamo al tavolo di quella che dovrebbe essere la zona della cucina.
L'uno di fronte all'altra.
Bob e Ray sono in fondo al bus, a scherzare tra di loro, come sempre.
Gerard si è messo a disegnare poco distante da noi, e
Frank…non c’è.
“Ma dove si sarà cacciato” mi borbotta.
Oh, zitto, va bene così.
Inconsciamente mi sta risparmiando una bella gatta da pelare.
“Certo che…” inizio a mormorare. A dire
il vero non saprei cosa dire. Però è per far
vedere che magari non sono così disorientata dalla
situazione.
No, non convinco nemmeno lui. Mi fissa un po' scettico.
“È un cretino!” sbotta infine, in preda
a un subitaneo furore, che, tempo due o tre secondi, si affievolisce,
si sgonfia come un materassino lasciato ad agonizzare sulla spiaggia.
“Scusalo,
davvero…ehm…com’è che ti
chiami, scusa?”
Mi metto a ridere, stranamente sollevata dal suo repentino cambiamento,
dettato dalla mia espressione, che deve essere di un basito
indescrivibile.
Non sono abituata a vederlo così colloquiale. E nemmeno
così imbranato.
Beh, per quel poco che l'ho visto finora.
“Frances, ma chiamami pure Frankie” rispondo,
accomodante.
Effettivamente, immagino mi conosca solo come 'la chitarrista di quel
gruppo là...dai, come si chiamano...hm, sì,
quelli.'
“Ecco, Frankie…devi scusarlo
davvero…piuttosto, mi chiedo dove sia finito, spero solo che
torni...”
E io che credevo fosse sicuro che prima o poi sarebbe tornato. Nemmeno
lui lo sa. Inizio a sentirmene un po' in colpa.
Non so cosa rispondere. Dovrei essere io a scusarmi, e questo
è l’unico pensiero che mi balena nella mente.
Ma poi, scusarmi di cosa? Del mio passato? Di quella che non sono
più?
Abbasso gli occhi, fissandomi le gambe con una gran confusione in testa.
Mikey mi osserva per un pezzo.
Silezio assoluto. Non riusciamo più a dire nulla.
Dopo interminabili attimi pieni di nulla, mi augura la buonanotte,
andando a sistemarsi nella sua cuccetta. Io rimango lì, al
tavolo.
Sono stata scortese, ma non avevo la minima voglia di parlarne. O
meglio, più che non sentire la necessità di
affrontare la questione, proprio non sono riuscita a raccattare e
mettere insieme anche solo due argomentazioni minime per scagionare i
miei errori del passato. Perlomeno estrometterli dal presente.
Immagino serva a poco garantirgli che ormai sono anni che non mi buco
più, e questo l'ho pensato da subito. Ma allora, cosa dirgli?
Il sonno non arriva a terminare queste congetture, o almeno a
congelarle fino al mattino dopo. Pare quasi avere paura di me, tanto mi
sta girando alla larga.
Riesco ad addormentarmi solo quando ormai è quasi mattina.
Il sole sta per sorgere, ma non ho assolutamente voglia di starmene a
guardarlo, così chiudo gli occhi e mi appoggio sul tavolo,
sperando in un attacco di narcolessia fulminante, o una bella botta in
testa.
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Capitolo 9 *** Micro Cuts ***
@veve:
mwa grazie!! *_* a me va bene anche se inizi da adesso a commentare,
apprezzo tantissimo le tue parole, e sì, bob che mi sveglia
a bacchettate in testa è una gran bella immagine
:°DDDDDDD comunque per bob , beh, leggi sotto, suvvia!
@blueandyellow:
vedrai a tempo debito u_ù non voglio svelare niente,
sennò non me la leggete più, la fic :°D
@martunza:
sante parole! *O*
Cap. 9
– Micro
Cuts
Stiamo viaggiando in direzione di Minneapolis. Ho dormito fino a due
secondi fa, fino al momento in cui Bob non è venuto a
svegliarmi, picchiettandomi delicatamente sulla spalla.
“Che ore sono?” chiedo, stropicciandomi gli occhi
con veemenza e tentando di aprirli. Ma niente. Deve avermi svegliato
nel pieno del mio sonno, perché mi sento come se avessi gli
occhi cuciti. Non riesco ad aprirli.
“Le dieci. Manca poco.”
La domanda che sto per fargli gli fa strabuzzare gli occhi. Eppure non
è poi così strana, anzi, ha un che di legittimo,
visto quel che è successo ieri sera.
“Ci siete tutti?”
Preoccupazione più che normale, la mia. Frank è
sparito chissà dove, e prima di addormentarmi non
l’ho visto tornare.
Adesso riesco ad aprire del tutto gli occhi, e a farmi ferire dai
già torridi raggi di sole che entrano dai finestrini.
Vedo Bob annuire sconsolato.
“Ma cosa è successo ieri?” mi chiede,
sperando di ottenere qualche nozione più dettagliata sulla
nostra scaramuccia. O forse solo perché non si spiega la mia
presenza qua dentro.
“Niente di che, Bob, ha un po’ di guai nel suo
bus” sento dire alle mie spalle, prima di poter aprire bocca.
Mikey.
Anche lui è sveglio, e si dirige sicuro verso la macchina
del caffé.
“Buongiorno Frankie…vuoi?” mi chiede,
sorridendo.
Faccio sì con la testa. In questo momento non ho bisogno di
niente, ma forse sorseggiare qualcosa può distrarmi. Ho
fatto incubi per tutto il breve lasso di tempo in cui ho sonnecchiato.
Ma il più triste, il più brutto di tutti,
l’ho vissuto prima di addormentarmi.
Ora che ci penso, è stata una giornata proprio da
dimenticare. Togliendo l’esibizione. Almeno quella
è andata per il verso giusto.
“Ma tu sei la ragazza dei tatuaggi!” esclama Bob a
un certo punto, facendomi fare un salto dalla seduta.
E adesso che c’entra, cavolo?!
Poi mi viene in mente il perché di quella specie
di identificazione astrusa. Frank deve aver parlato di me come di
“quella tatuatrice di San Francisco che mi ha fatto questo
tatuaggio, guardate che bello!”
Non faccio molta fatica ad immaginarlo tutto allegro e giulivo, mentre
lo mostra agli altri. Sai che situazione imbarazzante, se fossi stata
presente. Mi sarei sotterrata, penso. Anche perché lui ha
questo modo di farti sentire quasi speciale per le cazzate che fai per
vivere, e le schermaglie di modestia, invece di proteggerti, ti
seppelliscono, perché sono direttamente proporzionali alle
lusinghe e ai complimenti, assolutamente sinceri, che lui ti fa.
E, per inciso, queste esternazioni mi fanno diventare una specie di
orso. Finisco per borbottare burbera che “non ce
n’è bisogno, suvvia” e cose
così.
“Sì.” Mi limito a rispondere. Anche
perché non vedo cos’altro dovrei aggiungere.
Mikey mi porge una tazza gigante, piena quasi fino all’orlo.
Appena l’ha posata sul tavolo, gli sfioro il polso.
È un movimento dettato dall’impulso, ma riesco a
ottenere l’effetto desiderato. Si volta verso di me,
guardandomi negli occhi.
“Dov’è?” sussurro
così piano da non riuscirmi a sentire neanche io.
Con il capo fa cenno alla mia destra. Mi volto in quella direzione,
senza ringraziare, non per sgarbo o maleducazione, ma perché
mi sento come se l’avessi già ringraziato ancora
prima di rivolgergli la domanda, ancora prima di fissarlo con tanta
determinazione per sapere dove fosse quello stupido.
Come se gli mormorassi un ‘grazie’ col pensiero, in
ogni istante, da quando l’ho conosciuto.
Dite che gli sono troppo grata, forse?
Pazienza. Ma ragioniamo un attimo: chi prenderebbe a dormire con
sé una persona, appena conosciuta e di cui sei venuto
immediatamente a sapere che si drogava allegramente in compagna della
sua (in)degna collega, solo perché ha beghe nel proprio tour
bus?
Io non so voi, ma mi sarei lasciata a marcire lì fuori.
Però lui non l’ha fatto, e probabilmente
c’è una ragione per tutto questo, e me la
farò spiegare appena possibile, ma adesso mi importa solo di
quello stupido e basso chitarrista che fa sempre le cose senza pensare,
e questo lo so sin troppo bene. È un impulsivo, come me.
Mi alzo e lo raggiungo. È su una specie di…non
so, a me sembra un divanetto.
Ci sono divanetti nei tour bus? Oh, beh, evidentemente qui dentro
sì.
Sta dormendo, il viso tranquillo e disteso, le labbra socchiuse.
Sorrido senza malizia. Sembra un bimbo.
Mi perderei per ore a osservare i suoi lineamenti. Mi piacciono da
morire.
Ma il mio sguardo, in preda a un fugace narcisismo
dell’ultima ora, corre veloce sul suo braccio, a cercare quel
tatuaggio.
Quello che gli ho impresso io sulla pelle.
Ho un moto di stizza. Come quando vedi un film horror e magari trovano
la vittima orrendamente ammazzata, oppure quando vedi il protagonista
che si volta di scatto e si ritrova faccia a faccia con il killer. Mi
viene sempre da saltare sulla poltrona, quando succedono queste cose. E
anche adesso sussulto e rimango a bocca aperta.
Lì, proprio sopra il mio disegno, la pelle è
arrossata all’inverosimile. Strisciate rossicce, in rilievo
sulla carne, lo percorrono, lo attraversano senza pietà. In
alcuni punti addirittura scorgo piccolissime macche di sangue rappreso.
Porto le mani alla bocca, e non so quanto rimango, immobile, gli occhi
sbarrati, in quella posizione.
Non so se disperarmi o incazzarmi.
Ce la deve avere a morte con me, se ha fatto quel macello. Ha una pelle
piuttosto resistente, motivo per cui ho potuto finirgli il tatuaggio in
soli due giorni, senza aspettare le classiche due settimane per farla
sfiammare. Per averla ridotta a quel modo, ci si deve essere accanito
con una ferocia tremenda.
Anche perché non vedo altre situazioni simili sulle braccia,
o sul collo, o sul viso. Solo lì, in quella porzione di
corpo.
È facile capire. Non sono paranoie, le mie.
Ho l’evidenza davanti agli occhi.
Credeva davvero di eliminarmi dalla sua mente solo cercando
maldestramente di cancellare quel segno?
Dev’essere proprio scemo. Fuori di testa.
O disperato.
Non so perché, forse voglio solo farmi un gran male, ma
pretendo di scrutare con attenzione anche la sua mano sinistra.
L’unica che può aver combinato quel casino.
Sotto le unghie cortissime riesco a scorgere lievissime tracce di
colore rosso scuro, a ulteriore conferma del tutto.
Scuoto il capo. É l'unico movimento che riesco a compiere.
E in questo preciso momento lui apre gli occhi, e mi vede, le mani
sulla bocca, che faccio no con la testa e non riesco a fermarmi.
Mi osserva incredulo qualche secondo, poi si alza, senza dire nemmeno
una parola, e va a chiudersi nella sua cuccetta, tirando la tendina con
violenza.
Le gambe cedono. Mi affloscio a sedere a terra, sconsolata, ma ancora
cosciente.
Mi volto verso lo spazio-cucina, fissando i due
“superstiti” piuttosto smarrita, come se li
implorassi di rassicurarmi che è una stupida suggestione
della mia mente malata.
Bob gira la sua testa bionda verso il finestrino. Mikey invece...chiude
gli occhi, e scuote la testa.
Sa cosa sto pensando, e sa che è meglio non dirmi bugie in
questo momento.
Beh, in un modo o nell’altro mi hanno risposto entrambi.
È già qualcosa.
Riesco a trovare inspiegabilmente la forza di alzarmi in piedi e
muovermi di scatto verso il piccolo bagno.
Mi ci chiudo dentro.
È la rabbia che mi ci porta. Una rabbia incontenibile. Non
credo di essere mai stata così incazzata in vita mia.
Sono disperata? Anche.
Ma soprattutto ho le palle giratissime.
Devo continuare a pagare per i miei errori? Devo continuare a sentirmi
una drogata di merda per il resto dei miei giorni? A farmi cucire
addosso sguardi di disprezzo, come se ancora avessi le braccia
ricoperte di buchi e lividi e il viso bianco, sì, proprio
bianco, non semplicemente pallido, e scavato?
Ma vaffanculo. VAFFANCULO, FRANK.
Non c’hai capito un cazzo.
Rimango a fissare il vuoto, appollaiata sul cesso. Sì, mi
sembrava troppo semplice sedermici sopra e basta.
Non so che pensare, non so cosa dire, non so nemmeno se mi faccia
voglia di uscire da qui e suonare su quel fottuto palco, ma non voglio
nemmeno rimanere sola coi miei pensieri. Tra l'altro, non ho toccato
nemmeno una goccia del caffé che Mikey mi ha preparato.
Forse è meglio. Mi avrebbe innervosito ancora di
più, probabilmente.
Dentro di me prego che Lucretia se ne sia rimasta a Chicago, se non
altro è un problema in meno.
Sento bussare con insistenza.
“Mi servirebbe il bagno, scusami!”
È Gerard.
Ma che cazzo.
Poi però penso che sono ospite, e quindi è meglio
anche solo fare finta di essere educata. Esco di lì
sorridendo e scusandomi con lui, e nel frattempo mi maledico
perché ho lasciato gli occhiali da sole nel mio bus, e mi
farebbe seriamente comodo inforcarli, ora come ora.
In questi frangenti detesto mi si guardi in faccia, negli occhi. Mi
sentirei come se fossi vestita solo delle mutande e mi squadrassero
tutti e cinque con sguardo lubrico. Anche Ray che sta ancora dormendo.
Beh, ma le paranoie non tengono conto del fatto che uno dorma o meno.
Più che altro, cos'altro sto provando?
Rabbia, schifo, disprezzo?
E per cosa?
Per i suoi comportamenti così dannatamente infantili e privi
di logica?
Beh, sicuramente non per i miei. Sono giunta a quella fase in cui non
riesci più a distinguere se quello che fai sia giusto o
sbagliato, quel momento in cui pensi “fanculo, mondo, io ho
ragione e tu fai cagare!”, in cui pensi solo ai torti che gli
altri ti rivolgono, e non a quelli che infliggi te.
Una fase prettamente di presunzione, ma che almeno ti fa riguadagnare
quei punti di autostima che avevi perso miserabilmente.
Adesso, in virtù di questo momento di folle
lucidità, o di lucida follia, vedrò
più tardi, ho prodotto lo sgradevole quanto elettrizzante
effetto di odiare a morte Frank per quello che mi sta facendo.
Lui l’ha messa sul piano personale? Ebbene, anche io lo sto
facendo.
Sento che tutto questo non porterà ad assolutamente nulla di
minimamente positivo, ma mi fa stare bene, mi ha fatto tornare la
voglia di esibirmi, ed è questo quello che conta.
Siamo arrivati, e sono la prima a scendere dal bus. Con lo sguardo
cerco insistentemente il mio, fino a che non lo trovo e mi ci dirigo di
corsa.
Il portello mi si apre davanti. Accidenti a me che sono venuta qui
così di fretta.
Lou è ancora da loro.
Mi scruta con gli occhi ancora abbottonati, e farfuglia un buongiorno
impastato di sonno.
“Che ci fai ancora qui?” le chiedo, a dire il vero
un po' veemente. E anche maleducata. Ma ora come ora posso
permettermelo.
“Non ci siamo svegliati in tempo. Torno a Chicago domani,
ormai”
“Ah…”
“Scusami per il disagio, veramente…è
che…beh, insomma, volevo rivederti.”
Non riesco a portarle rancore. Anche perché è
tutto concentrato altrove.
Forse dormire con lei nel bus non sarebbe stato poi così
pessimo, in confronto alla nottata in bianco passata di là.
É quantomeno grottesco pensare che per fuggire da un guaio
mi sono cacciata in un altro, per di più anche peggiore.
Per come la vedo ora, quello con Frank mi sembra più grave.
Non so in virtù di cosa, ma è così.
“N…non fa niente, tranquilla” sussurro
“è che...è successo così
velocemente, e non me lo aspettavo...comunque sono stata bene da loro
stanotte, tutto sommato” mento.
Così è più facile, in fondo.
Sembra tranquillizzarsi a queste mie parole. Sorride, distesa, e esala
un “meno male” talmente evanescente che persino io
faccio fatica a sentirlo.
Poi si affaccia mio fratello, e esce dal bus. E lui, beh…ho
superato anche la rabbia subitanea verso di lui che mi aveva accecato
ieri sera. Sorrido e lo saluto, più sinceramente che posso.
“Frankie, vieni un attimo con me” e mi prende da
parte.
Ecco. S’è accorto che c’è
qualcosa che non va.
Cos’hai da dirmi? Spero siano scuse per quello che hai
rivelato nel mezzo della vostra lite. Per quello che Frank non doveva
sentire.
“Scusami…”
Cominciamo bene, elucubro tra me e me compiaciuta.
“…ci siamo svegliati che eravamo già a
Minneapolis, e così è venuta con
noi…ha detto che riparte
però…”
“Lo so, me l’ha già detto lei”
sospiro sconsolata.
Non se n’è accorto. Strano. Quando si tratta di
me, in genere riesce sempre a capire se sono nei casini o meno.
“Ehi…dormito bene?”
“Più o meno…” borbotto.
“No, sai, è che ti vedo un po’
sbattuta…”
Nego. Che altro posso fare?
Niente rancori, per adesso. La situazione è già
complessa così.
Penserò a rinfacciarti tutto a tempo debito, Keith. e ti
assicurò che non ti farò sconti.
Chi se ne frega se sei mio fratello.
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Capitolo 10 *** Sometimes The Line Walks You ***
Cap. 10 - Sometimes
The Line Walks You
Beh, non posso lamentarmi, riguardo all’esibizione di oggi.
Non so cosa mi porti a suonare così bene, ma so cosa mi
porta a cantare con così tanta grinta.
Se ne sono accorti anche Dave e Keith. A metà del nostro
live, appena terminata una canzone delle vecchie, mi volto verso di
loro, e sorrido compiaciuta nel vederli totalmente esterrefatti. Hanno
proprio gli occhi strabuzzati, a palla. E, dentro di me, ne godo.
Dovrei incazzarmi più spesso, se mi porta a fare un assolo
come questo di adesso. A momenti non ci credo nemmeno io.
Ci sono anche loro nel backstage, e non faccio fatica a immaginare Ray
completamente preso dalle mie schitarrate. Beninteso, non sono affatto
brava come lui, ma mi so difendere, e vaffanculo alla modestia.
Non credevo che dopo tre anni e mezzo avrei ripreso così
tanta padronanza della mia piccola. Ma forse lo sto facendo per non
pensare ad altro, per cercare, almeno una volta nella vita, di avere la
testa completamente sgombra.
Libera.
Dopo oggi posso dire in tutta tranquillità di aver
oltrepassato il limite. Di aver capito che ci sono troppe parentesi
aperte nella mia vita, e che sarebbe meglio iniziassi a chiuderne
qualcuna, senza correre il rischio che si riapra.
Ho iniziato dalle più spinose. E a una ho posto
definitivamente la parola ‘FINE’ proprio appena
prima di salire su questo palco.
Come dire…l’avevo solo messa da parte, in un certo
senso, lasciato che se ne occupasse qualcun altro al posto mio. Ma devo
tirare le somme da sola, ora. Non sono più una bambina.
Lei invece, in un certo senso, lo è ancora.
Non ha abbandonato i suoi vizi. Li ha solo alleggeriti. Ammesso che
farsi le piste di coca si possa chiamare
‘alleggerimento’.
Almeno non si fa più le pere. Questo in parte mi consola.
Beh, sì, in un certo senso mi sarebbe dispiaciuto se fosse
stata ancora un relitto umano, come allora. Non credevo di esserle
ancora affezionata, però è stata comunque un
pezzo della mia vita, no? E anche piuttosto importante.
Anche se non così tanto da tentare di recuperarlo.
Se n’è preparata una, nel nostro bus, mentre ci
eravamo messe a parlare. Non chiacchiere per passare il tempo.
Ci siamo raccontate cosa ne è stato della nostra vita, dopo
che non ci eravamo più riviste.
Lei ha conosciuto questa Annie, in vacanza a Los Angeles, e non si sono
più lasciate, almeno fino a ieri.
Lei è di Chicago, e così si sono trasferite, ma
ultimamente non andava troppo bene e Annie l’ha buttata fuori
di casa. Non ho fatto fatica a comprendere a che grado di esasperazione
possa essere arrivata questa ragazza, e, anche se non ho la
più pallida idea di chi sia, in quel momento sentivo
già che un po’ mi stava simpatica. Se non altro la
capisco perfettamente, per via della sorte beffarda che ci ha fatto
piombare tra capo e collo, nella nostra esistenza, questo cataclisma di
nome Lucretia.
Quando è toccato a me parlare…beh, se
n’è stupita, ma nemmeno poi tanto.
“Lo sapevo, lo sapevo, il tuo amore per gli aghi è
troppo forte!”
“Lo sapevo, io, che il tuo umorismo del cazzo non
è cambiato di una virgola” le ho risposto,
scocciata.
S’è messa a ridere. Bah, contenta lei.
“Dunque, ti sei ripulita…”
“Sì, e sai come?”
“No”
“Mio fratello, ti ricordi quando ci beccò a casa
mia? Ecco, non so dove abbia trovato il sangue freddo per farlo, ma
è andato a prendere la sua videocamera e mi ha filmato. CI
ha filmato.”
Uno stronzo, si può pensare, visto che non ha fatto niente
per fermarmi in quel momento. Ma quello che ha fatto dopo è
valso più di due o tre sberle ben assestate.
Mi ha salvato, vi pare un affare da stronzi?
Facendomi vedere, in uno dei rari momenti di lucidità che
avevo, come ero conciata.
Si chiama terapia d’urto.
Da quel giorno non ho più avuto il coraggio di toccare una
siringa. E ho smesso anche di odiarlo per aver allontanato Lou.
Finalmente avevo capito chi tra i due fosse la vera carogna.
Una specie di miracolo, qualcuno potrebbe azzardare a dire, ma non
è del tutto esatto.
Se la faccenda è andata a buon fine è stato solo
perché Keith mi conosce meglio di chiunque altro. Diciamo
che così facendo è andato a toccare certi tasti
che personalmente mi fanno molto, molto male.
E insomma a un certo punto, mentre parlavo, l’ho vista tirare
fuori questa bustina con questa polverina bianca dentro e subito ho
pensato “Occazzo, no”, ma non perché
credevo di cadere di nuovo in tentazione, figurarsi. È stato
come se avessi sentito che, anche se ne fossi stata fuori, sarebbe
comunque successo del casino, e direi che non ero affatto nella
posizione di crearmene ad hoc un altro, così, per
movimentare un altro po’ la mia esistenza.
“No, te quella roba non la usi dentro al mio bus!”
mi sono incazzata.
“E dai, chi vuoi che ci veda! Siamo solo io e te qua
dentro…”
No, cara mia. Mi dispiace, ma non ci ricasco.
“Non è di tua proprietà qui,
sai?” ma ormai mica mi ascoltava più. Aveva
già tracciato la linea sul tavolino a cui stavamo sedute e
stava arrotolando una banconota da un dollaro, la prima che ha pescato
dal suo borsello.
Sai come dev’essere stato contento George Washington di
sniffarsi quello schifo insieme a lei. Mi pareva quasi di vederlo, a
storcere la sua paresi in una smorfia di disgusto, o di manifestazione
del bruciore che gli stava intasando le narici. Che fine indegna, per
il primo presidente degli Stati Uniti.
“Vuoi?” mi ha chiesto, prima di iniziare.
“Ehi, ma non ci senti? HO CHIUSO CON QUESTA MERDA!”
le ho gridato.
Nemmeno sarei stata a guardarla, avrei preso, alzato le chiappe da
lì e sarei uscita. Ma fuori faceva troppo caldo, e tutto
sommato lì dentro si stava bene.
Sono rimasta seduta, a fissarla con morbosa curiosità.
Allora è così che funziona, ho pensato. Certo,
non mi piacerebbe affatto una cosa del genere, io detesto persino
tirare su le gocce per il naso, quando sono raffreddata. Per fortuna
capita di rado.
“Non fare il bambino!” sento intanto pronunciare
con voce ferma da fuori.
Nemmeno ho fatto in tempo ad affacciarmi per vedere chi fosse,
perchè ho sentito salire delle persone nel bus. La mia
attenzione è stata spostata altrove.
Minchia, mi ero dimenticata che il portellone era aperto.
Lou, sei doppiamente cretina, ho pensato, ma alla fine di lei me ne
stava importando fino a un certo punto. Cazzi suoi, voglio dire.
Mi sono voltata verso il, o i proprietari dei piedi che hanno solcato i
gradini per entrare, e ho capito che non erano né di Dave,
né di Keith, bensì di altri due ragazzi.
Uno, alto e con l’espressione seria. L’altro,
piuttosto basso, che si nascondeva dietro l’amico, il viso
adombrato da un broncio assolutamente infantile.
E, guarda un po’, li conosco entrambi.
“Ehm, Frankie, scusa l’intrusione ma, beh, abbiamo
incontrato il vostro bassista e ci ha detto che ti avremmo trovato qua
dentro…”
Ho sorriso. Perché ho capito il motivo della
loro….beh, chiamiamola visita.
“Ah, tranquillo Mikey, non disturbate!”
Frank mi stava osservando con sguardo indecifrabile. O forse stava
osservando Lucretia, dietro di me, la quale non
s’è minimamente scomposta e se ne stava ancora col
dollaro arrotolato tra le dita, l’espressione ebete di chi si
sta godendo il suo piccolo sogno chimico. Poi è scoppiata a
ridere.
Ho continuato a studiare le espressioni di Frank per parecchi secondi.
Io stavo seduta davanti a lei, quindi coprivo loro la visuale della
natura morta e decadente che campeggiava sul tavolino. I candidi
granelli sottili che erano scampati al Grande Aspirapolvere, il
portafoglio spanciato poco lontano, la carta di credito con cui il
capitano Lou ha messo tutti i suoi soldatini bianchi in fila. Ma non me
ne fregava nulla, avevo la coscienza perfettamente pulita, per cui non
è che ci avessi fatto molto caso.
Ma tutti e due…beh, se ne sono accorti.
“Frank è venuto per
chiedere…” ha esordito Mikey, col piglio di un
padre rigoroso. Poi ha sentito dei passi allontanarsi alle sue spalle,
e si è interrotto.
“Frank? Dove cazzo stai andando?”
“Vaffanculo, e dovrei chiederle scusa per aver pensato di lei
che sia una drogata? Beh, guardala! Lo è! Lo è
ancora!” ha urlato inviperito, uscendo dal bus.
“Ma che cazz…” ma mi sono interrotta
bruscamente, primo perché in quel momento anche Mikey mi
stava guardando malissimo, proprio con gli occhi a fessura, e poi
perché ho finalmente collegato tutto, ed era di una
chiarezza quasi lampante. Ma ovviamente vivo in un mondo tutto mio, e
quindi non l’ho realizzato in tempo.
“E dire che l’avevo anche
convinto…” si è limitato a bofonchiare,
mentre scendeva le scalette del bus.
A loro due avrei pensato dopo. Nemmeno ho provato a inseguirli.
Capivo sin troppo chiaramente di averli delusi, ma c’era una
questione che mi premeva molto di più.
“Lucretia Applebite.” Ho pronunciato con voce
ferma, scandendo bene il suo nome.
“Sì?” ha risposto lei, ridacchiando.
Ancora bella persa nel suo paradiso polveroso.
“Ieri sei arrivata al tramonto, e me lo hai rovinato, e tu
sai quanto per me sia un momento sacro. Come se non bastasse hai fatto
allontanare da me una persona a cui tengo come l’oro, e
adesso che la stavo per riprendere, me la fai fuggire ancora sotto al
naso. Cosa vuoi da me, ancora? Te lo dico io: niente, perché
ti sei già presa tutto! E adesso vattene, prendi le tue cose
e levati dai coglioni prima che tramonti il sole, PERCHÉ SE
TI RIVEDO IO GIURO CHE TI AMMAZZO!” ho attaccato con voce
fredda, finendo per gridare come una pazza, gli occhi fuori dalle
orbite e una maschera di livore puro sul viso.
Chissà, forse in quel momento la mia lucidità mi
aveva davvero abbandonato, perché era la prima volta che
promettevo la morte a qualcuno. Ma non ci vedevo più, giuro,
ero fuori della grazia divina, ammesso che esista un qualsiasi dio
sopra la mia testa.
Si è presa gli anni migliori della mia vita,
cos’altro vuole portarmi via?
Non smette mai di nutrirsi di me. È peggio di un vampiro.
Ma adesso è finita, adesso basta.
Questi pensieri correvano frenetici e sconclusionati nel mio cranio.
L’ho vista alzarsi con una flemma irritante, prendere le sue
poche cose con mollezza e salutarmi con un “Ti
mancherò, stanne certa” miagolato, che anche
adesso non saprei dire se suonasse come una minaccia o come un
tentativo di illudersi che possa succedere davvero.
“Non credo proprio” ho risposto beffarda.
Schifosa. Melliflua fino all’ultimo.
E pensare che mi stavo quasi fidando di lei, delle sue lacrime, della
sua voglia di rivedermi.
Ehi, Frankie, basta essere deboli.
È con questo pensiero che sto suonando, e finalmente il
sorriso ritrova la strada per tornare sulle mie labbra.
Sto sorridendo, mentre suono.
Mentre canto.
Perché quelle parole non sono più dedicate a lei.
Non se le merita. Non se le è mai meritate. Ma non
è mai troppo tardi per accorgersene.
Adesso sono per qualcun altro, e vanno ad aggiungersi alle ultime che
ho scritto.
Se solo capissi quello che sto provando.
Felicità e dolore insieme. Come scoprire la medicina che
guarirà tutti i tuoi mali, e prenderla, e accorgerti che
stai peggio di prima.
Ecco cosa succede a covare le braci sotto la cenere.
Non si sono mai lasciate andare, sono accese dentro di me. Lo sono
sempre state, da quel pomeriggio di ormai quattro anni fa.
E adesso stanno per esplodere, per un dolore che non si placa con due
semplici accordi suonati alla perfezione.
Mi sembra impossibile, impraticabile. Ciascuno di noi ha la sua vita,
il suo gruppo, eppure solo adesso che ti sei allontanato in modo
così brusco da me riesco a sentire tutto distintamente, a
metterlo a fuoco, come se dovessi farmi una foto. Ma non riesco a
premere il pulsante. Ho bisogno che tu mi assista. Che mi fornisca una
macchina fotografica migliore dei miei occhi.
É una richiesta di aiuto, la mia.
Non mi sono mai sentita così felice di essere disperata.
Sto cercando di trasmettertelo, ma tu non mi starai ascoltando, furioso
per una presa in giro che non è mai esistita. Continuo a
chiedermi il perché di tanto accanimento, anche se una
risposta già la avrei.
Ma è troppo per me. Fantascienza pura.
È triste assistere impotenti a quanto una frase sbagliata
possa compromettere l’equilibrio che esiste tra due persone.
È triste, soprattutto, non riuscire a capirne il motivo.
Ma ancora peggio è comprenderlo e non capacitarsene.
Non crederci.
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Capitolo 11 *** Lips Like Morphine ***
scusate
se aggiorno lentamente, ma momentaneamente non mi funziona internet,
per cui scrocco da lavoro appena posso per postare T___T grazie mille
degli eventuali commenti, continuate a leggere, che mi fa piacere
>_< !
Cap. 11
– Lips
Like Morphine
Appena finiamo di suonare mi precipito nel backstage.
Non ho tempo per gli applausi, i fischi, le grida di approvazione del
pubblico.
Non ho tempo per ringraziare. Ho da fare una cosa ben più
importante.
Lascio la Jaguar a mio fratello, che la afferra appena in tempo, prima
che cada, con espressione basita.
Non ho mai mostrato tanta noncuranza nei confronti della mia piccolina
prima d'ora, e lui lo sa.
Ma non posso fare altrimenti. Devo assolutamente cercare una persona.
Mikey.
È l’unico a cui posso spiegare, l’unico
che possa, sappia ascoltarmi fino in fondo ed emettere la sua sentenza.
Mi sento un po' come se fossi tornata all'adolescenza, quando
lì davvero credi che nessuno ti ascolti, che nessuno prenda
sul serio quello che dici, e c'è solo una persona che ti
capisce e ti appoggia. Generalmente il tuo migliore amico.
Ecco, in questo momento sto considerando Mikey alla stregua di un
migliore amico.
Visione paradossale e alquanto distorta, dal momento che lo conosco da
appena due giorni, eppure...non so, mi infonde serenità,
sicurezza, quasi fosse un fratello maggiore. Teoricamente quello lo
avrei già, ma in questo momento non me la sento di parlarne
con lui. Non so quanto potrebbe capirne, e soprattutto non so quanto
potrebbe aiutarmi a risolvere.
Senza contare che è un po' anche per colpa sua se sono
incastrata in questo ginepraio senza uscita.
Ma voglio uscirne, e l'unico modo è affrontare la questione
con Mikey.
Probabilmente è solo una vigliaccata, la mia, una scusa per
non parlare con Frank.
Ma lui non comprenderebbe, me lo sento. Continuerebbe a fissarmi con
sospetto, il germe del dubbio saldamente ancorato al suo cuore.
Continuerebbe a non credermi. A trattarmi con rabbia, con odio.
Sto affastellando scuse su scuse per evitare di confrontarmi
direttamente con lui, e un po’ me ne vergogno, lo ammetto.
La verità è che ho paura. Sento un vuoto nel
petto, come se lo avessi già perso, ma voglio continuare a
illudermi che lo riprenderò, prima o poi. Che
riuscirò a colmare questo vuoto, pesante più di
un macigno.
Ma non adesso. Adesso non sono pronta.
É come se mi sentissi una completa idiota in sua presenza.
E mi sto sentendo in questo modo anche adesso che, nella foga di
cercare Mikey, non mi accorgo di essere planata addosso a qualcuno.
“E fai attenzione!” sento sbuffare.
“Scusami, scusami veramente, io…” e mi
interrompo di colpo.
I nostri sguardi si incontrano. Un silenzio imbarazzante cala tra di
noi.
Quegli occhi…non è possibile.
Si volta di scatto e fa per andarsene, come se si fosse reso conto di
aver infranto una specie di giuramento a se stesso. Come se avesse
tradito la propria fiducia anche solo rivolgendomi quelle tre parole.
Ho tentato di evitarlo finora, ed ecco che inavvertitamente gli piombo
addosso.
Sono confusa, terribilmente confusa. Cosa devo fare?
Un solo pensiero lucido e schietto mi attraversa il cervello
più e più volte.
“Fermalo.”
Realizzo all'improvviso che a parlarne con Mikey non risolverei un bel
niente.
Devo smuovere le acque, e devo farlo violentemente, per cui nemmeno mi
rendo conto dei pochissimi secondi in cui lo afferro per il braccio
prima che scappi di nuovo. É una decisione immediata, non ha
bisogno di essere ponderata a fondo.
Lo sto perdendo, cazzo.
E non voglio.
Voglio ancora starmene a guardare il tramonto con lui accanto. Voglio
abbracciarlo ancora e sentire il brivido che mi donano le sue braccia
intorno alle mie spalle. Voglio che mi sfiori ancora la pelle con
delicatezza, come quel pomeriggio.
Questa scena non scorre al rallentatore davanti a me, non me la posso
gustare e nemmeno apprezzarne ogni singola sfumatura. No. È
come se mi sia vista ferma davanti a lui, esterrefatta, poi un black
out improvviso che lascia ricomparire le immagini solo quando ormai
l’ho già bloccato.
Squadro con masochismo quel tatuaggio, che adesso è solcato
da graffi profondi e ha perso la bellezza che aveva in principio. Sento
una fitta al cuore.
E provo infinita tristezza, ripensando al suo gesto.
Si gira verso di me, carico di astio e stupore.
“Che cazzo fai?” chiede rabbioso.
Non dico niente. Non riesco neanche a guardarlo dritto in faccia.
Ma so cosa devo fare.
Serro la presa intorno al suo braccio e lo tiro con violenza,
proseguendo in una direzione a me totalmente sconosciuta,
purché sia lontana da qui, dalle persone, da tutto. Se
potessi, emigrerei in pieno deserto, ma mi rendo conto che è
un attimo difficile.
Mi fermo nell’angolo più recondito del parcheggio
dei bus, dietro a delle enormi fioriere, da cui scaturiscono
lussureggianti delle piante che sembrano quasi piccole palme e,
chissà, forse lo sono. Purtroppo non me ne intendo, e
nemmeno mi sto ponendo più di tanto il problema.
“Beh, si può sapere che accidenti vuoi da
me?” incalza, acido.
“Lo sai” riesco solo a dire.
Lo sa?
Boh.
Non sono nella sua testa, altrimenti non avrei bisogno di trascinarlo
in un parcheggio per farlo parlare, per capire cosa c'è
veramente dietro questo astio. Perché c'è
qualcos'altro sotto, e nessuno neghi.
Però fa un certo effetto pronunciarlo con voce profonda e
scandendo ben bene ogni singola lettera. Mi fa prendere tempo.
Non ho preparato niente da dire. So cosa provo, ma non so come
esternarlo, perché dentro di me c’è
solo caos. Non sono riuscita a riordinare i miei pensieri, per cui
potrei dire qualsiasi cosa e passare per pazza.
“No, non so proprio un bel niente” risponde lui.
Un blocco di ghiaccio. Un iceberg, su cui vado a sbattere
prepotentemente la testa.
É una sensazione tremenda. Come se mi stesse strappando la
carne con un rostro consumato dalla ruggine. Ma non posso
impedirglielo. Fa parte del gioco. Ho voluto rischiare, e ne sto
pagando le conseguenze, ma tutto sommato sto affrontando il tutto con
una certa dose di stoicismo.
Non riesco a dire niente, nemmeno a versare una lacrima.
Non era questo quel che volevo. Ma il coraggio è venuto meno
all’improvviso. La mia autonomia quotidiana l’ho
usata tutta per portarlo fin qui.
Mi accorgo di stare tremando, e nient’altro. Lo sto
esasperando, e non vorrei.
Ma dov’è finita tutta la dolcezza, le premure che
mi riservava fino a ieri?
Alzo lo sguardo, perché, sì, sono stata finora a
fissarmi con insistenza il seno, la pancia, i piedi.
Tutto, pur di non incontrare il suo sguardo.
Avevo paura di ritrovarlo freddo, come pochi minuti prima.
La dose di coraggio per domani deve essersi impietosita. Sta correndo
in mio aiuto, e mi sta facendo alzare la testa, piantare i miei occhi
nei suoi quasi con violenza.
Quello che scorgo non mi piace nemmeno un po’.
Uno sguardo da bestia in gabbia, da belva ferita e rinchiusa.
Non mi è nuovo.
Si sta ancora trattenendo. Da cosa, poi?
Non ho parole, non giustificazioni, non argomentazioni solide da
contrapporre al suo malcontento. Solo domande.
Potrei fissare il suo volto e riuscire a scorgerci soltanto un unico,
enorme, punto interrogativo.
In un attimo di follia me lo immagino vestito come l'Enigmista di
Batman.
Tutina verde, piena di punti interrogativi. Una faccia che dice tutto e
non dice nulla, e una voce stridula e petulante che ti pone gli
indovinelli più assurdi.
La voce, beh...quella ce la metto io. Sono io che ho bisogno di
risposte, penso egoisticamente.
Mi chiedo dove trovo la forza di pensare alle cazzate anche in certi
momenti.
Recupero tutta la mia rabbia, per questa situazione totalmente priva di
logica, ma la lucidità…quella ormai è
andata a puttane. Basta vedere a cosa penso.
Se ne sta andando. Sta cercando di fare in modo che io lasci il suo
braccio, ma non ci riesco. Mi sento una bambina che non vuole mollare
il suo giocattolo preferito, e che continua ad amarlo anche se
è rotto o difettoso.
Sì, parlo di te. Ti sto amando anche se mi tratti
così male. Possibile che tu non te ne accorga?
Nella foga con cui le mie elucubrazioni percorrono le sinapsi, lascio
trapelare all'esterno tutto questo gran cataclisma interiore.
Di più: sta letteralmente straripando.
“Frank, io sono innamorata di te! Lo capisci, sì o
no?” mi sento uscire queste parole dalla bocca, come se non
fosse la mia. Come se fossi in disparte ad assistere alla scena.
Ma che cazzo c’entra?! Non era questo che dovevo dirgli.
O perlomeno…non ora.
Avrei dovuto soltanto scusarmi, e raccontarti tutto, se mi avessi
prestato orecchio e attenzione.
Prima o poi lo avrei fatto di mia spontanea volontà, quando
avremmo approfondito la conoscenza, se solo mio fratello non si fosse
immischiato.
Ma comprendi anche tu che non è uno spasso per me raccontare
le mie pagine più nere, quelle dove è caduto
l'inchiostro dalla boccetta e ha fatto un macello assurdo, cancellando
e uniformando in un unico lago tutto quel che ho vissuto, positivo o
negativo che fosse. Il mio passato non è un pettegolezzo da
salone di bellezza, non una curiosità che si cita a caso,
infilandola in un discorso stantio che non andrà molto
lontano. É la mia vita, non posso sminuirla, ridurla a
semplice chiacchiera da bar.
Speravo tu questo lo capissi.
Adesso non serve che tu mi osservi con questo sguardo sconvolto e
incredulo. Non mi stai ancora fornendo alcuna risposta.
Lascio il braccio, pentendomi di averglielo detto in questo modo
così idiota, al momento sbagliato.
Un tempismo di merda. Adesso sì che me lo sono giocato del
tutto.
Attimi di silenzio insostenibile ci avvolgono. Di nuovo abbasso lo
sguardo.
Non ho il coraggio di fissarlo ancora. Ho sempre più paura
delle sue risposte.
Eppure le voglio, ho bisogno di loro.
Ho bisogno di lui.
Poi lo sento che si avvicina.
“È questo quello che vuoi?” domanda con
tono grave.
Lo sento sempre più vicino. Non riesco a spostarmi.
Se vuoi darmi una sberla, fai pure. Anche più
d’una, me le merito tutte.
Invece, niente schiaffi.
Le sue labbra si scontrano rabbiosamente con le mie, la lingua si
insinua e cerca la mia per farci a cazzotti.
Sono troppo sconvolta per reagire, andare contro le sue intenzioni. Mi
limito a seguire passiva i suoi movimenti, come una creatura inanimata,
assolutamente incapace di provare emozioni.
Di sentire dolore.
Una bambola dallo sguardo triste.
Dura pochissimo, ma è peggio di qualsiasi tortura.
“Allora, rispondi. Era questo che volevi?” continua
a ripetermi, come un disco rotto, finendo per urlare.
“ECCOTI ACCONTENTATA! E ORA VATTENE DALLA MIA VITA!”
Vorrei gridare fino a vomitare i polmoni. Ma mi manca l'aria. Una
qualsiasi forza fisica.
Sono inerte, un sacco di patate afflosciato a terra.
Posso morire adesso?
Perché non mi è rimasto altro.
Ho vissuto pericolosamente, fuggendo dall'ordinarietà e
ficcandomi nei guai, mi sono buttata via, tra le braccia di una strega
che mi ha trafitto, trasmettendomi piacere e facendomi precipitare
nell'inferno appena l'effetto della droga era finito.
Keith mi ha acciuffato in tempo. Ormai le mie braccia erano piene di
pustole e lividi. Il mio viso una maschera di morte. La mia voce un
sibilo inquietante.
E adesso non mi sento esattamente meglio. Anzi, se possibile sto
persino peggio. Perché prima avevo l'eroina, a distrarmi.
Prima il malessere fisico aveva la meglio su quello mentale.
Ma adesso?
Adesso niente mi distrae più, adesso ho solo un vuoto nel
petto, e si sta espandendo lentamente ma inesorabilmente nel mio corpo.
Adesso sto morendo dentro, mentre all'esterno continuo a richiamare una
parvenza assolutamente ordinaria, priva di stranezze o di mancanze.
Mi sto trattenendo, e maledico di essermi tagliata i miei riccioli,
anni fa. Perché mi farebbero comodo per coprirmi, fare
sì che nessuno veda la vergogna dipingermisi in volto.
Non voglio piangere. Non adesso. Devo resistere.
Aspettare che se ne vada.
Devo essere forte, è solo questione di qualche minuto.
Avresti voluto addormentare ogni mia velleità di recuperare
quello che c’era tra noi, iniettare col tuo assurdo gesto
morfina nei miei ricordi.
Ma adesso tutto questo fa solo più male di prima. Mi hai
dato il colpo di grazia. E forse non volevi nemmeno. Fatto sta che sono
ancora a secco di risposte.
Mentre ti allontani senza voltarti finalmente riesco a dare sfogo al
mio malessere, e a piangere fino ad annullarmi nelle mie lacrime,
disperata come mai mi era capitato di essere, e
nell’abbraccio di Mikey, che ti ha visto tornare al bus, in
preda a un dolore allucinato, e ha capito tutto.
Ed è corso qui.
Perché tu sai badare a te stesso, o almeno questo pensa lui.
Mi dispiace, non sono d’accordo.
Ma adesso sono troppo debole per rifiutare il suo aiuto, per lasciarlo
tornare da te.
Non lasciarmi sola, Mikey.
Per favore.
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Capitolo 12 *** Bullet With Butterfly Wings ***
No,
questa dovevo dirla...Martunza, sei tremenda! XDDD
Boni
i Pan Di Stelle, comunque XQ________
Cap. 12
– Bullet
With Butterfly Wings
Sono di nuovo nel mio bus.
Mi ci ha accompagnato Mikey.
Il mio sguardo è sempre perso nel vuoto, le parole mi
muoiono tra le labbra, però va un po’ meglio.
Alla fine il mio proposito è andato in porto. Volevo parlare
con lui, e ci sono riuscita. Non che mi abbia risolto in uno schioccare
di dita la situazione, ma almeno mi ha aiutato a fare un po’
chiarezza.
Quando è corso da me ero ancora dietro quella fioriera con
le palmette, talmente disperata da essermi dimenticata della mia
esistenza in quanto essere umano. Ero soltanto le mie lacrime, e
nient’altro.
Non sono riuscita nemmeno a dire una parola quando ho sentito la sua
ombra sovrastarmi e osservarmi sconsolata.
Si è chinato, con movimenti per nulla affrettati, e mi ha
abbracciato. Una stretta dolce, sincera, confortante.
Ma anche allora non riuscivo a smettere di piangere, anzi, se
possibile, ho persino alzato il tiro. Singhiozzavo selvaggiamente e non
riuscivo a fermarmi.
Ci ho provato, però. Restavo in silenzio qualche secondo,
tiravo su col naso e cercavo di ricompormi, di riprendere fiato, poi
tornavo a pensare al motivo della mia disperazione e il fiume rompeva
di nuovo gli argini.
E lui c’era, paziente, devoto. Senza scomporsi minimamente,
né mostrare sentimenti diversi dall’affetto e la
comprensione.
“Che razza di stronzo…” mormorava
ripetutamente, accarezzandomi i capelli. Ma non sentivo odio in quelle
parole, solo un’amara consapevolezza, un qualcosa contro cui
non si poteva fare nulla.
Finalmente, dopo lunghi, estenuanti, minuti, sono riuscita a riprendere
un minimo sindacale di padronanza di me. Mi sono discostata con
lentezza dal suo petto. Era maledettamente confortante, non avrei
voluto più lasciarlo, ma dovevo, se volevo fornirgli delle
spiegazioni.
Si è seduto vicino a me, senza dire una parola. Ma era il
suo sguardo a parlare per lui, a chiedere cosa fosse successo tra me e
Frank per farmi trovare ridotta a quel modo.
“Quando è tornato da noi…aveva uno
sguardo strano…indecifrabile…” ha
sussurrato, poi.
Sconvolto, allucinato, fuori di sé, crudele e allo stesso
tempo colmo di sofferenza.
Quasi come se, più che fare un torto a me, lo stesse facendo
a se stesso.
E probabilmente con quegli stessi occhi, che mi hanno guardato con
disprezzo, è venuto da voi, per cui non ci sarebbe stato
bisogno di descrivermi il suo sguardo, perché l’ho
avuto davanti a me per attimi interminabili, e mi ha bruciato
l’anima. L’ha carbonizzata.
Ho annuito, per confermargli che abbiamo visto la stessa cosa. Eppure
questa lieve certezza non mi sollevava nemmeno un po’.
Così…ho iniziato a raccontargli come fossero
andate le cose.
Lo scontro. Io che gli ho afferrato il braccio e l’ho
trascinato con me.
Il suo astio. Le mie parole.
La sua reazione. Quel bacio che di dolce non aveva nemmeno
l’intenzione.
Violenza allo stato puro.
Poi, le mie lacrime.
E tutto il flusso di pensieri che le ha accompagnate.
Mi sono interrotta spesso, in preda a furiosi accessi di pianto. Mikey
ha aspettato, ogni volta, paziente, in silenzio, che mi passasse.
Niente pacche sulle spalle, niente false rassicurazioni, niente carezze
di compassione sulla testa.
Mi consolava così. Non faceva nulla per tradire la sua
presenza accanto a me.
Eppure lo sentivo esageratamente. Sentivo il tempo scorrere, scandito
dal battito regolare del suo cuore, dal suo respiro pacato che si
confondeva con l'aria circostante.
Dalla timida, discreta curiosità del suo sguardo sincero,
che si posava su di me e scrutava attento ogni minimo particolare.
Facevo finta di niente. Non volevo incontrarlo.
Mi faceva sentire di una sporcizia miserabile.
Però riuscivo a sentirmi in un modo che posso ravvicinare
allo "stare bene", e l'ho capito da come mi aprivo, perfettamente a mio
agio con me stessa.
Sono riuscita anche a ironizzare un paio di volte sul mio passato,
sulla storia con Lucretia.
Però sulla mia dipendenza, no. Non ce l’ho fatta.
É una ferita che brucia più delle altre, visto
che è stata riaperta in modo così brusco. Credevo
si fosse definitivamente cicatrizzata, e invece mi sbagliavo di grosso.
Ho raccontato tutto, fin nei particolari più aberranti, con
precisione quasi giornalistica e senza tradire la minima emozione. Ero
finalmente riuscita a recuperare un barlume di lucidità, e
lui mi ascoltava senza dare mai cenno di distrarsi, sempre attento e
interessato.
“Mikey, io non so cosa hai pensato quando mi hai visto con
Lou sul bus, ma non ho fatto niente. Non voglio più avere a
che fare con quella merda” ho concluso, la mano destra sul
cuore, la voce ancora un po’ incrinata, ma finalmente
più sicura.
E, finalmente, ha preso la parola.
"Quale delle due?" ha sorriso, alzando il sopracciglio.
Mi è sembrato impossibile sorridere in quel frangente,
eppure l'ho fatto.
Anche lui è apparso più disteso, più
sollevato, dopo quella battuta. Magari non era tra le migliori, ma ha
funzionato. Ci stava bene, e non era particolarmente pesante.
É così, è Mikey, anche in quello che
dice, e in come lo dice.
Ha saputo parlare al momento giusto. Non so come, ma ha sentito che
sono il tipo di persona che non riesce ad essere troppo seriosa. A
piangersi troppo addosso. É stato solo un momento. Un
bruttissimo momento. Ma stava già passando.
Non gli avrei mai risposto "sei fuori luogo" o cose simili. Penso
l'abbia capito, in qualche modo, perchè davvero non mi
sembra il tipo che osa abbandonare la sua aura di serietà
per tirare su il morale a una semisconosciuta.
"Tutte e due" ho risposto, ghignando. Senza aggiungere altro, tanto non
ce ne sarebbe stato bisogno.
Ci voleva, questa specie di pausa. Un break alla tensione che avevo
accumulato.
Solo in quel momento mi stavo rendendo conto di quanto fosse ridicolo
tutto questo.
Quanto esagerata la sua reazione, e la mia, a seguire a ruota. Ma,
d'altronde, mi aveva scosso come un fulmine a ciel sereno.
Ho avuto pena di me stessa, quando le sue labbra hanno preso a spintoni
le mie. Perchè con quel bacio pareva dirmi "vergognati, fai
schifo. E poi guardati, ti lasci anche baciare così, senza
amore, con un odio inverecondo! Che merda di persona." e non so cosa
avrei dato per rispondergli con un "Non è vero, non sai un
cazzo di me!", o mandarlo direttamente a fanculo, ma sono innamorata,
INNAMORATA, capite?
E quando è così diventi uno zerbino logoro e
polveroso, e lasci che qualsiasi azione, anche la più
riprovevole, ti venga perpetrata, e quando recuperi un briciolo di amor
proprio ormai è tardi.
É difficile essere se stessi quando si ama qualcuno con
tutta l'anima. Si perde l'identità, per compiacere i
desideri segreti dell'altro.
Mi sentivo un po' un verme, per aver trattato così male la
mia personalità. Dentro di me le stavo chiedendo scusa a
ruota, e forse, chissà, aveva capito e mi stava sorridendo
benevola, mormorandomi: "Non c'è problema Frankie,
è tutto a posto, ora".
Tutto a posto. Neanche per sogno.
Ma ho tempo per mettere tutto in ordine.
No, cazzata.
Domani è la loro ultima data.
Porca puttana.
“Beh, tornando un attimo seri" ha cercato di riprendersi,
assumendo un cipiglio quasi grottesco e distraendomi, per fortuna,
dalle mie selvagge cavalcate mentali, "lo so. L'ho sempre
saputo...voglio dire, che hai smesso” ha risposto, addolcendo
la sua smorfia in un sorriso rassicurante e anche un po' imbarazzato
“però c’è da capire anche
Frank.”
“Cioè?” ho chiesto, interdetta.
Perché avrei dovuto capirlo? Non ci sarei riuscita, sarebbe
stato troppo complicato per la mia povera, ingenua mente.
É stato così che ha iniziato a raccontarmi di
Gerard.
Di come sia facile perdere la strada e illudersi che a gettarsi a
capofitto in certi paradisi artificiali sia la cosa migliore per
fuggire dai problemi. Mi sono sentita una perdente, una fallita, mentre
mi stava descrivendo lo stato pietoso in cui si presentava sul palco,
all'epoca. Perché, fondamentalmente, facevo lo stesso anche
io. Alla fine di ogni live si meravigliavano tutti di come fossi
riuscita a non sbagliare nemmeno un accordo. Pure Keith, da dietro la
videocamera, mi chiedeva come facessi. Ricordo che alzavo sempre le
spallucce, con un sorriso ebete, e dicevo: "E che ne so? Chi se ne
frega, cazzo, sto da dio! Spacco il mondo!"
Altro che mondo. Mi stavo spaccando le vene.
La droga e l’alcool sono un’arma a doppio taglio,
ti fanno stare bene per pochi, brevi, insulsi istanti, e dopo precipiti
nell’inferno in cui già abitavi, e da cui speravi
di fuggire in quel modo sciocco, ma lo senti più vicino a
te, le sue pareti vengono a cercarti e ti avviluppano, ti soffocano con
viscidità appiccicosa. Vorresti liberarti da
quell’abbraccio claustrofobico, e credi che l'unico modo per
farlo sia cedere ancora alle sue lusinghe, lasciarsi stritolare ancora
un po' con passività, ma è solo
un’amara illusione.
Dopo ricomincia tutto esattamente daccapo, e ti senti stringere sempre
di più, finché non inizi a combattere seriamente.
O a soccombere.
E Frank c’era.
Lo rialzava da terra quando collassava per aver bevuto troppo, gli
teneva la testa quando buttava fuori da sé anche
l’anima, lo ascoltava nei suoi deliri.
Insieme a Mikey. Che soffriva terribilmente per la situazione. Gerard
è pur sempre suo fratello. Sono molto affiatati, ombre
reciproche l'uno dell'altro.
Pensavo a mio fratello, a quanto deve avergli fatto male vedermi in
quello stato e filmarmi, ogni volta, sperando che non fosse l'ultima in
cui mi avrebbe visto viva...beh, viva per modo di dire. Che non fosse
troppo tardi per mostrarmi che razza di rifiuto ero diventata.
Lui e Dave per me erano come Mikey e Frank per Gerard.
Definirli angeli custodi mi fa sentire una di quei tizi estremamente
devoti che, dopo giorni estenuanti di privazioni, asserivano di vedere
la madonna e i santi.
Ci credo. Provate anche voi a non mangiare per settimane. Certo, se non
credete, la madonna non la vedete.
Magari siete patiti di videogiochi e vedete, che ne so, Super Mario che
vi fa ciao con la mano, oppure un esercito di blocchetti del tetris
pronti a inseguirvi incazzati come dei caimani perchè per
colpa vostra che li incastrate non riescono a respirare. Oppure siete
drogati di musica e vi vedete apparire Jimi Hendrix che improvvisa una
session solo per voi prendendo a dentate le corde della sua Strato, o
Sid Vicious che pretende di insegnarvi a suonare il basso (mi
raccomando, non accettate). Cose così.
Beh, in ogni caso, alla fine, 'angeli custodi' è l'unica
cosa che mi sia venuta in mente e che renda un minimo di idea di quello
che vorrei dire.
Adesso stavo iniziando a capirci qualcosa.
A comprendere la rabbia così scomposta, stupita, che lo ha
portato ad allontanarmi da sé.
Ha avuto paura che si ripetesse il copione. Che io in realtà
non abbia mai smesso di bucarmi.
Ero sconvolta.
Non sarebbe successo di nuovo, eppure non si è fidato. Mikey
lo aveva convinto a chiedermi scusa, lo aveva fatto ragionare e
c’era quasi riuscito, poi è entrato nel bus, mi ha
visto seduta a un tavolo su cui si consumava cocaina, e
chissà cosa gli sia scattato nel cervello, fatto sta che per
una curiosa associazione di idee che sono nate e morte esclusivamente
nella sua testa io per lui continuo ancora a drogarmi.
Teoricamente il discorso sarebbe anche filato. Voglio dire,
è un costrutto mentale quasi inevitabile. Sei lì,
e anche se nessun elemento ti può incastrare senza diritto
di replica, il tuo solo presenziare e assistere al 'delitto' ti rende
automaticamente impantanato nel misfatto. Probabilmente anche io, nei
suoi panni, avrei ragionato così.
Certo la reazione sarebbe stata meno scomposta.
“Però…adesso mi sembra esagerato. Non
s’è mai comportato così.”
Perfetto. Anche Mikey non se ne capacitava.
In parte mi ha consolato. Avevo paura di sentire da lui una risposta
completamente esauriente, invece mi ha lasciato un angolino buio in cui
affogare tutti i miei dubbi e costruire architetture ardite per fornire
spiegazioni di ogni tipo al suo atteggiamento fuori da ogni logica,
anche per chi lo conosce da una vita.
Non lo accettavo. Non lo accetto nemmeno adesso. Che mi reputi una
tossica, intendo.
Ma devo, perché mi ha buttato fuori dalla sua vita a calci
nel culo e non posso fare niente per rientrare, anche per via di una
certa dignità che spero mi sia rimasta.
É proprio in virtù di quella che non intendo
tornare a cercarlo, né adesso, né domani,
né mai.
Che venga lui. A me sembra di aver fatto anche troppo.
Quando l'ho detto a Mikey, ha scosso la testa, come si fa quando ci si
arrende davanti agli irrecuperabili.
"Siete due orgogliosi del cazzo. Uguali identici" ha asserito.
Sull'orgogliosa del cazzo ho sorvolato, perché tutto sommato
è vero, ma sentirmi dire che sarei uguale a lui mi ha urtato
la sensibilità.
Tuttavia ho evitato di farglielo notare. Per il quieto vivere, diciamo.
E così, vedendo che stavo meglio e che la nostra
conversazione aveva assunto toni decisamente meno cupi, si è
alzato in piedi, mi ha allungato la sua mano per fare sì che
mi alzassi anche io, aiuto che ho gentilmente rifiutato, e ha detto:
"S'è fatto tardi, tra un po' devo suonare. Dai, ti
accompagno al bus."
Abbiamo camminato in silenzio, senza fretta, anche se le circostanze
avrebbero richiesto il contrario. Lì davanti ci siamo
fermati, mi ha guardato negli occhi e mi ha chiesto se avessi avuto
intenzione di dire tutto a Keith.
"Non lo so" è stata la mia laconica risposta, prima di
salire e vederlo allontanarsi verso il palco dal finestrino, seduta al
tavolo, una sigaretta tra le dita, che ripetutamente va a posarsi, col
suo filtro ingiallito dai primi tiri, tra le mie labbra, che ricordano
ancora il sapore più amaro che abbiano mai assaggiato.
Il disprezzo.
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Capitolo 13 *** Shores Of California ***
ehehehe,
vabbè, ma sò boni i pan di stelle, suvvia
u.ù comunque mannaggia, vedo pochi commenti, dove siete
finite, tra tutte??? ehiiiiiii T.T''
Cap. 13
– Shores
Of California
Il giorno dopo non li ho incrociati nemmeno una volta. Non nel
backstage, nemmeno tra i tour bus parcheggiati poco distanti dal palco.
Lì per lì non me ne crucciai più del
dovuto, pensavo anzi che mi avrebbe fatto bene non vederli. Ciascuno di
loro mi portava con la mente a Frank, e non sarebbe stato molto
salutare, visto che stavo recuperando con una certa rapidità
un minimo di coscienza.
La sera prima, poco dopo il mio ritorno, erano rientrati anche Dave e
Keith. Controllai alle loro spalle per vedere se Lucretia si fosse
inventata un’altra scusa per rimanere, ma notai con piacere
che eravamo di nuovo in tre.
Noi, e nessun altro.
Ho un rapporto speciale con loro. In un certo senso sono i miei uomini.
Keith, mio fratello maggiore, con cui ho condiviso gioie e dolori da
quando sto al mondo. Con cui ho condiviso la mia passione, la
più grande: la musica.
Che ho fatto angosciare da matti, quando mi stavo buttando via, del
tutto cosciente di farlo.
È incredibile quanto si possa arrivare ad essere egoisti
quando si sta male.
Quanto si trascuri chi ci sta intorno.
Quanto si possa far soffrire qualcuno che ci vuole davvero bene.
Lui mi sta vicino così, a modo suo.
Suonando con me.
Perché sa che è l’unico modo che
abbiamo per essere felici.
Dave. Il suo migliore amico. Ormai anche il mio. Sa tutto di me, e io
so tutto di lui, e l’affetto che ci lega è
indefinibile. Non è un legame di sangue, non amicizia,
nemmeno amore. È qualcosa che trascende tutto questo.
Qualcosa di più forte.
Siamo cresciuti insieme, noi tre. Da sempre. È questa
l’armonia che Keith accusava Lou di avere infranto, quella
maledetta sera. Perché è vero, dannatamente vero.
Lei non c’entrava niente. Di bello aveva solo la sua voce,
voce che col tempo si è rivelata frivola, debole, stridente.
Era come se la tristezza che riversavo nei testi fosse raccontata come
si può raccontare una barzelletta, un aneddoto di poco
conto. Perdeva di incisività, ma a noi, all’epoca,
andava bene così.
Dolore edulcorato, mercificato, appetibile per le masse.
Dolore che tutti potevano comprendere e fare proprio.
Dolore universale.
Qualunquista.
Mi stavo accusando, in silenzio, davanti a loro che mi osservavano
pieni di interrogativi, di non essere stata abbastanza sincera,
né con me stessa né con il mondo. Non so
perché lo stessi pensando, francamente. Forse avevo voglia
solo di gettare altra benzina sul fuoco, e provocare
un’esplosione senza pari.
“Stellina…è successo
qualcosa?” mi chiese Dave.
I dubbi che covavo sul renderli partecipi o no della bega in cui ero
dentro fino al collo si sciolsero come neve al sole. Raccontai tutto,
senza emozioni, senza ironie, senza niente, svuotata di me. E loro mi
ascoltarono in silenzio, poi mi abbracciarono, e Keith non la smetteva
più di scusarsi per avermi trascinato in quel casino senza
saperlo.
Mi stavo pentendo di aver provato tutta quella rabbia nei suoi
confronti.
Anche lui è umano. Anche lui può sbagliare.
Non può sempre proteggermi, senza pensare a proteggere se
stesso.
Era andata così. E il giorno dopo suonavo quasi spensierata,
come se non fosse successo assolutamente niente. Averli vicino a me,
è stato questo a darmi la forza di sorridere al mondo, che
mi stava mostrando il culo.
Aspetta che mi giro e te lo mostro anche io, stronzo, pensavo tra me e
me.
Non avevo più paura di niente nel momento in cui salivo sul
palco con loro e davo il meglio di me stessa.
Almeno fino a quando non è finito il tour.
Il 25 agosto, a Los Angeles. Città che non amo alla follia,
ma che rientra comunque tra le mie preferite.
Quel giorno ho suonato con la mente proiettata già a San
Francisco. Al piccolo appartamento che condivido con mio fratello. Alla
nostra sala prove. Alla libreria dei genitori di Dave. Al negozio,
ormai totalmente in mano a Alice.
Alla baia. Alle spiagge della California. Al suo cielo, di una
magnificenza indescrivibile.
Mi sei mancata, cazzo.
Dopo quell’esperienza meravigliosa mi sono sentita come se la
mia vita si fosse fermata.
Mi vedevano stanca e provata, i miei due ometti. E hanno pensato di
farmi cosa gradita, dicendomi che ci saremmo presi una pausa.
Ma io non volevo. Li scongiuravo con lo sguardo, col pensiero, col
silenzio.
Non volevo fermarmi.
Se non suono non vivo.
Mi ero incupita di nuovo, di colpo. Non riuscivano a spiegarsi
perché.
Appena tornata a San Francisco, ho contattato un chirurgo.
Avevo una cosa da fare. Chiudere con il passato. E per toglierselo
completamente di torno mancava la ciliegina sulla torta.
L’atto definitivo.
Mi sono fatta cancellare la L.
Quella che campeggiava sfacciata sul mio anulare sinistro.
Qualche seduta e di lei era rimasta soltanto una lieve traccia. Andava
bene così.
Un po’ mi faceva impressione, vedere il mio dito
così spoglio. Ormai avevo abituato i miei occhi a quella
cifra così sottile, eppure così maledettamente
densa di ricordi. Avevo spazzato via una fetta della mia esistenza,
togliendola.
Non ci sarebbe più stato spazio per nessuno su quel misero
dito. Sarebbe rimasto vuoto, come il mio cuore.
In ogni caso, non riuscivo a darmi pace per questo gesto. Mi sentivo
una persona estremamente superficiale, una a cui basta togliersi un
tatuaggio per eliminare i problemi dalla sua vita. Sapevo benissimo che
non era così, che questa è stata solo
un’azione simbolica, una voglia di togliersi da davanti la
verità, perché faceva troppo male continuare ad
averla sott’occhio ogni giorno. Eppure non mi sentivo bene.
Non mi sentivo libera come credevo. E questo non certo per colpa di
Lucretia.
Avrei voluto che ci fosse un’altra iniziale, al posto di quel
pallido segnetto che è rimasto. Ma l’esperienza mi
ha insegnato una cosa molto importante.
Non tatuarti addosso ciò che non puoi avere. Oppure
ciò che non hai più.
Lo dicevo sempre ai miei clienti. Alcuni mi guardavano storti, come a
dire “fatti i cazzi tuoi e basta, in fondo ti pago apposta,
è il tuo lavoro e non protestare”, altri invece
erano comprensivi e intelligenti, e capivano che forse era troppo
ardito. Altri se ne fregavano, con l’insolenza di chi non ha
paura di nulla, nemmeno del passato.
Adesso ci stavo cascando anche io.
Ma non posso volerlo. Non devo. Me l’ha impedito lui,
sigillando quello che è stato con un bacio rabbioso.
‘Ricordati dei bei momenti passati insieme, ma non
desiderarli di nuovo, perché non li avrai.’
Sentivo questo, dentro di me, ogni pomeriggio, quando camminavo assorta
nei miei pensieri per le strade della mia città e giungevo a
una spiaggetta isolata.
Solo io, Keith e Dave la conoscevamo. Era il nostro luogo segreto, il
nostro angolo di pace appena fuori dal caos della città.
Passeggiate infinite, finché non sentivo i passi affondare
nella sabbia. Mi toglievo le scarpe e iniziavo a proseguire verso il
mare, apprezzando ogni singolo granello che si intrufolava beffardo tra
le dita dei piedi. Poi mi sedevo nei pressi di una duna, la stessa,
ogni giorno.
Non troppo vicina all’acqua, né troppo lontana.
E le lacrime che scendevano sulle mia guance frammentavano il tramonto
nei miei occhi, come a moltiplicare anche la mia sofferenza.
Il cielo si tingeva di un rosso limpido come un rubino, oppure, in
alcuni giorni, le nuvole lo rendevano opaco, grigio. Ma a me non
importava.
Mi recavo alla spiaggia anche se pioveva. Mi sarebbe sembrato di
tradire il sole, se non mi fossi presentata a quel tacito appuntamento.
E ogni volta piangevo.
Perché i ricordi fanno un male atroce.
Soprattutto quelli più belli. Quelli che vorresti tenere con
te, ma non ci riesci perché ti trasportano subito con la
mente agli aspetti negativi che celano dentro di sé.
Quando tornavo a casa così, la testa bassa, gli occhi rossi
nascosti dagli occhiali da sole, mio fratello sapeva cosa andavo a
fare. Ma non diceva nulla, rispettava composto il mio sconforto,
sentendolo come suo dalla prima all'ultima goccia.
Mi uccideva vederlo così. Abbattuto. Scoraggiato.
Preoccupato.
Si sentiva terribilmente in colpa. Perché gli aveva servito
la verità su un piatto scheggiato e sguarnito, con fretta e
incoscienza. Io mi sentivo ancora più in colpa di lui, per
averglielo raccontato. Se solo fossi stata zitta, mi fossi tenuta tutto
dentro…ogni mattina mi alzavo e mi maledicevo, incapace di
sorridere come quando sto su un palco.
Keith voleva portarmi da uno psicologo. Credeva fossi caduta in
depressione, e aveva coinvolto anche Dave nel suo proposito. Stava
cercando di convincermi anche lui a farmi curare.
Ma questa non è depressione, cazzo. Non si cura con i
farmaci, e nemmeno con un buon dottore.
Io avevo solo bisogno di suonare, per non pensare.
Per non piangere ancora.
E li avevo convinti.
Lo avevo compreso il giorno in cui Keith è tornato a casa
con la mia vecchia chitarra acustica.
Quella che suonavo prima che i nostri genitori mi regalassero la Jaguar.
“Sono stato da loro. Ho pensato di portarla qui, almeno non
avrai bisogno di accendere l’amplificatore ogni
volta…” e me l’ha adagiata vicino,
insieme a un pacchetto sottile.
“Ah, ti ho anche comprato le corde nuove. Vanno bene,
vero?”
“Ma la suono sempre senza amplificazione” ho
provato a obiettare, ma senza nascondere un timido sorriso.
Il primo, dopo quasi due mesi.
“Comunque…sì, sono le mie preferite,
queste. Grazie.”
Ha sorriso anche lui. Finalmente. È bellissimo, quando
sorride.
Poi si è fatto di nuovo un po’ serio.
“Sono preoccupati per te, Frankie.”
“Lo so”
“Almeno chiamali, fatti sentire…perlomeno avranno
la certezza che sei sempre viva, sai, a volte ho come
l’impressione che non si fidino delle mie
rassicurazioni” mi ha esortato, ridacchiando.
“Dai, passami il telefono, allora. È lì
vicino a te.”
E proprio in quel momento il telefono ha iniziato a suonare. Il tema
degli Happy Tree Friends si stava diffondendo nella stanza, con grande
disappunto di Keith, che non lo sopporta.
Me ne stavo con la mano tesa, aspettando che me lo porgesse.
“Chissà, magari sono proprio
loro…proprio non si fidano di te, eh?” ho sorriso,
mentre mi perdevo in quella specie di sinfonia stridula, irritante ma
al tempo stesso divertente.
Ho risposto, in preda a una botta di buonumore inaspettata.
“Sìììììììì?”
“Ah, meno male, ti sei ripresa stellina!”
“Ah sei tu?”
“Ebbene sì…perché, ti
dispiace? Guarda che m’offendo eh!”
“Non pensarci nemmeno! È che pensavo fossero i
miei…”
Dave s’è messo a ridere, all’altro capo
del telefono.
“Avrei dovuto dare l’impressione di essere ancora
viva, non so se mi spiego…” ho ghignato.
“Beh, dopo quello che ti sto per dire non avrai
più bisogno di fingere, conoscendoti!”
La sua carica di ottimismo era devastante. Era riuscito a contagiarmi.
“Ah, sì? E che
cos’è?”
“Tra un mese ricominciamo a suonare!”
Il respiro mi si è mozzato nel petto. Sono stata un tre
secondi a boccheggiare come un pesce dallo stupore. Avevo quasi le
lacrime agli occhi.
Poi è subentrata la consapevolezza, la certezza che non
stava scherzando, che era tutto reale, e che sarei tornata su un palco,
con loro, a fare della chitarra un prolungamento naturale di me, della
mia mente, delle mie dita.
Del mio cuore.
Ho iniziato a gridare come una matta, saltellando per casa come un
grillo.
Keith mi fissava sconcertato. Ero divertita anche dalla sua faccia.
“Sì, ma…calmati un attimo stellina, non
hai proprio mezze misure!”
“A…ehm, scusami” ho cercato di
ricompormi.
“È una specie di tour vero?”
“Sì, abbiamo anche il gruppo di supporto e tutto
il resto!”
Grandioso. Proprio quello che ci voleva. Testa impegnata, chitarra in
braccio e voce pronta a volare.
Non desideravo altro.
“E da dove cominciamo?”
“Da New York.”
“EH? E perché?” ho chiesto, interdetta.
Decisamente non me l'aspettavo. Credevo che saremmo partiti da qui, da
San Francisco, da...casa.
“Ma scusa, non sei contenta?”
“No, no, non è per quello…piuttosto,
secondo te potremmo partire qualche giorno prima, così
finalmente riesco a visitarla come si deve?” ho tentato di
sviare.
Anche se, beh, mi sarebbe interessato davvero poterla vedere come una
turista qualsiasi, e non come una musicista sempre impegnata.
Avrei voluto fotografare con la mente e con gli occhi ogni angolo
pronto a destare il mio interesse, e sedermi dentro uno Starbucks
qualsiasi di Manhattan in un giorno di pioggia, e rilassarmi davanti a
un tè caldo insieme a Keith e Dave. Cose piccole, di poco
conto, da persona come tante altre. Chiedevo troppo, forse? Eppure, per
quante volte ci sia finita a suonare, io New York la conosco solo
attraverso i film. Soprattutto quelli di Woody Allen. Non l'ho mai
vissuta davvero, anche solo per un giorno. L'ho sempre scrutata da
lontano, con sacrosanto e reverenziale timore. Come una bambina che
osserva gli adulti intorno a lei e si chiede se riuscirà mai
a essere come loro, un giorno. Se ce la farà ad entrare in
quel mondo.
Tutte queste mie congetture sono state troncate di netto dalla voce del
mio...del nostro bassista.
“Beh, immagino sia fattibile…passami tuo fratello,
và! È in casa, vero?”
“Sì, è qui che mi guarda male, aspetta
che te lo passo…ciao ciao!” e mentre si sono messi
a discutere sugli aspetti organizzativi della faccenda, continuavo a
rimuginare.
New York.
Una delle città più belle al mondo.
Così grande che ti ci perdi, ti senti una
nullità, una innocua e infima gocciolina nel bel mezzo
dell’oceano di vita che brulica nella Grande Mela.
C’è una vitalità diversa da quella che
posso trovare a San Francisco.
Lì è il centro del mondo.
Mentre qui…non è nemmeno il centro della
California. Questo ruolo spetta a Los Angeles.
Ma è lo stesso uno dei posti che amo di più.
É casa mia.
Gesticolavo con veemenza di fronte a mio fratello, per farmi rendere il
telefono. Avevo ancora una cosa da chiedere a Dave.
Finalmente ci sono riuscita, dopo un quarto d'ora abbondante in cui ho
ignorato beatamente la loro conversazione e mi sono messa a ballare
davanti a lui, implorandolo di tanto in tanto per riavere quell'oggetto
così rompicoglioni ma mai prezioso come in quel momento.
"Allora? Quand'è il giorno?" ho chiesto tutta raggiante.
Quando me l'ha detto...non sapevo se sorridere o rattristarmi.
Sorridere per come l'avrei trascorso, o rattristarmi perché
sarebbe mancato un elemento fondamentale per renderlo assolutamente
degno di essere ricordato.
Sarebbe stato un giorno speciale, quello.
E sapevo benissimo di non essere l'unica a pensarla così.
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Capitolo 14 *** It's a Crime I Never Told You About The Diamonds In Your Eyes ***
ringraziamenti
generali, al solito, però voglio più commenti,
susu! u.ù/
Cap. 14
– It’s
A Crime I Never Told You About The Diamonds In Your Eyes
È oggi.
Tra un paio d’ore.
Sono al bancone del bar di questo locale di New York, a sorseggiare
qualcosa con Dave.
Keith sta mettendo a punto la strumentazione insieme ai tecnici, e noi
due abbiamo approfittato per bere, lui una birra, io una vodka alla
menta.
“Stellina, ci vai pesante stasera eh?”
“Lo so. Ma mi mette a mio agio” rispondo,
assaporando quella frescura alcolica.
Non mi aspettavo certo il Madison Square Garden, ma nemmeno
‘sto buco. Eppure è pieno di gente. Pare quasi che
l’edificio possa scoppiare da un momento all’altro,
tanto è zeppo.
Tutte persone venute per passione, curiosità, o forse solo
tanta noia e l’alternativa, ben poco allettante, di passare
una serata in mutande davanti al televisore. Ma venute per sentirci
suonare.
Francamente credevo avessero di meglio da fare. Tranne quelli della
serata in mutande davanti alla tele, ovvio.
Per esempio, vagare per le strade della città, travestiti da
streghe, vampiri o qualcos’altro, oppure regalare qualche
manciata di caramelle ai bambini che vanno a bussare alle loro porte.
Poca stima di me e quello che faccio, dite?
Beh, può darsi benissimo. Ma, seriamente, non pensavo che la
sera di Halloween a tutta questa gente potesse interessare la nostra
musica.
Dave ride.
“Non ti passa mai la voglia di dire cazzate, eh?”
mi punzecchia con affetto.
È vero il mio stupore.
Non ci credo. Stento a realizzare che sia tutto concreto.
In particolar modo non riesco a capacitarmi di essere qui proprio
stasera.
Per come la vedo io, sarei dovuta rimanere a San Francisco a
crogiolarmi nella tristezza, affogando il dispiacere in litri di birra,
montagne di sigarette e secchi immensi di gelato. Oddio, il gelato con
la birra non è un ottimo abbinamento, ma tanto, affranta
come sarei dovuta essere, non me ne sarebbe fregato un emerito
accidente.
E invece…mi sono ripresa alla grande. È bastato
dirmi che avremmo ricominciato a suonare e ogni preoccupazione, ogni
angoscia, è sparita dal mio piccolo, povero cuore
martoriato.
Se possibile, sto persino meglio di prima. E quindi, chi se ne frega
del suo compleanno, mi rassicuro, quasi a volermi convincere che non me
ne importi davvero nulla.
È una preoccupazione come un’altra, a questo punto.
Mi sono anche comprata una chitarra nuova, in preda a questo impeto di
positività.
Una Gibson SG. La ‘Diavoletto’.
Viola.
È un gioiellino.
I primi giorni mi sentivo un po’ in colpa, perché
mi sembrava di tradire la mia piccolina, la Jaguar. Ma non
l’ho tradita, semplicemente le utilizzo entrambe. Mi piace
suonare con tutte e due, sono delle compagne fantastiche. Ciascuna ha
un suono differente dall’altra, e perfettamente congeniale al
mio modo di suonare.
La SG l’ho sentita da subito come un’estensione di
me. Proprio come la Jaguar, quando la provai, per curiosità,
un giorno, in uno dei tanti negozi di strumenti di Frisco.
Mi ricordo ancora di quando mi sedetti su quello sgabello scalcagnato,
col titolare che, gentilissimo, mi fece provare tutte le chitarre che
destavano il mio interesse. Quando imbracciai quella Jaguar nera, ancor
prima di suonare qualche accordo, sentii che era Lei. Che la volevo
sopra ogni cosa. E quando iniziai a strimpellarla, capii che era il mio
sogno proibito.
Costava troppo, e andavo ancora a scuola, all’epoca.
Mi cercai un lavoro, e trovai un posto come cameriera in un bar, ma i
miei me la regalarono dopo qualche mese, e così utilizzai
quei soldi che avevo tenuto da parte con così tanta costanza
per comprarmi un amplificatore.
Adesso, che sono ancora seduta al bancone del bar di questo locale, mi
chiedo come mai mi sia tornato in mente quel periodo, così
solare, della mia vita.
Forse è solo colpa dell’alcool. Sono
già alla terza vodka, e Dave mi fissa un po’
preoccupato.
“Ma ce la farai a stare in piedi?” chiede, con una
punta d’ansia nella voce.
“Boh, si vedrà” rispondo, distratta. In
questo momento vediamo Keith che ci fa cenno di avvicinarci, e
così cerchiamo di farci strada tra la gente per arrivare di
fianco al palco, che non è grandissimo, ma a me pare anche
troppo, viste le dimensioni del locale.
Sistemiamo le ultime cose, aspettando che salga sul palco il gruppo di
supporto. Il nome, ora come ora, mi sfugge, ma mio fratello me ne ha
parlato in termini più che positivi. Sono quattro ragazzi,
tutti con il faccino pulito da ventenni appena usciti dalla
pubertà. Tra l’altro, il cantante non sembrerebbe
neanche malaccio.
Quando iniziano a suonare, inevitabilmente finisco per farmi rapire dal
loro ritmo trascinante. Hanno un sound particolarissimo, ricco di
citazioni pop ma assolutamente incastonato in un contesto puramente
rock. Beh, descritti così, potrebbero sembrare uno dei tanti
gruppi che sono spuntati come funghi negli ultimi anni, ma posso
assicurare che dietro quelle schitarrate selvagge, dietro la batteria
velocissima che non perde un colpo (Keith ha letteralmente gli occhi
fuori dalle orbite in questo preciso istante), dietro il basso che si
insinua con prepotenza e reclama il suo ruolo, dietro la voce ancora
acerba che intona con noncuranza testi semplici eppure mai banali,
c’è tanta, tanta sostanza.
Questi ragazzi mi ricordano noi, agli inizi. La voglia di fare casino,
di divertirsi senza pensare alle preoccupazioni della vita, di
trascorrere serate alternative, a suonare come disperati invece di
marcire in qualsiasi angolo della città.
La ferma e ferrea volontà di dare un senso alla propria
vita, un senso tutto particolare, diverso dalla massa, da quel gregge
di pecoroni che ci circonda.
Perché noi, che ci ammantiamo di un minimo di
velleità artistiche, siamo fatti così.
Vogliamo colorarci in mezzo al grigiore, emergere, elevarci come
persone fatte di carne e sentimenti, in mezzo a tante statue inaridite
dalla routine.
La loro performance è assolutamente esaltante. Tempo un
quarto d’ora, e toccherà a noi.
Andiamo tutti e tre a complimentarci, e loro ci ringraziano,
imbarazzati e dotati di una timidezza così comune, da
risultare una componente assurda nel nostro mondo.
Mi piacciono, veramente. Sembra che non gliene freghi niente del
successo, dei soldi, che gli importi solo della musica.
Non fatevi mai mettere i piedi in testa. Siete già grandi
così.
Ma adesso sono gli Unnamed a dover fare il loro sporco lavoro.
L’alcool che ho ingurgitato selvaggiamente si fa sentire. Le
gambe tremano, gli occhi si posano con vacuità su tutto
ciò che mi circonda, lucidi e sfuggenti. Le mani sono
incerte, si muovono a scatti.
Mi attacco, quasi con disperazione, alla bottiglia d’acqua
che mi porge uno dei tecnici, finendola.
Quando gliela restituisco, la sua espressione vale più di
mille parole, tanto è densa di incredulità,
insulti variegati e un vaffanculo finale come ciliegina sulla torta,
anzi, sulla punta del naso.
Il primo a posizionarsi, al solito, è Keith.
Se ne sta immobile, seduto dietro la sua batteria. L’unico
movimento che compie è rigirarsi divertito le bacchette tra
le dita, mentre lo fisso, da dietro, bonariamente invidiosa.
Non sono mai riuscita a fare quel genere di giochetti.
Poi sposto il mio sguardo con affanno e vedo Dave afferrare sicuro il
suo Stingray e procedere verso la sua postazione. Rimane un
po’ di tempo a fissare sconcertato il pedale per le
distorsioni ai suoi piedi e si volta verso di me, quasi voglia dirmi,
coi suoi occhi spaesati, che forse era meglio tenersi il buon vecchio
overdrive. Sulle mie labbra sorridenti si può leggere a
chiare lettere un “Te l’avevo detto”
grosso così, mentre sollevo con delicatezza la Gibson e la
imbraccio, incamminandomi verso il microfono al centro del palco.
Sento montare dentro me un profondo sentimento di inquietudine, e non
posso evitare che il mio cervello, mentre sono occupata a reggermi in
piedi, inciampi nella tappa di Chicago del Warped.
Una tappa maledetta, per me.
Dove credevo di avere perso tutto. E lo penso tuttora, anche se in
termini ben più ridimensionati. Ma quando sei in preda allo
sconforto, ti riesce difficile fare obiettivamente un qualsiasi punto
della situazione.
Stavolta, però, questo peso strisciante lo
sento…diverso.
Meno cupo, meno sordo. Più schietto e anche, beh, come dire,
più…positivo. Quasi una panacea per i miei mali.
Come se gridasse in ogni singolo neurone, globulo rosso, cellula del
mio corpo, di dare il meglio di me. Di denudare la mia anima qui,
stasera, in questo cazzo di locale. Di prendere per mano ogni singolo
spettatore e portarlo a fare un giro nel mio mondo sconclusionato.
Come se in mezzo a questa folla, pressata come sardine in una
scatoletta di metallo, ci fosse qualcuno di veramente speciale. Ho una
vaga intuizione in proposito, ma dubito che venga proprio qui, a
sentire me, il giorno del suo compleanno.
Magari sta suonando anche lui da qualche parte.
O magari sta solo festeggiando, com’è giusto che
sia.
L’attacco di basso della prima canzone che suoniamo mi
riporta bruscamente alla realtà, facendo atterrare di
schianto le mie inutili e distruttive fantasticherie.
La folla inizia a gridare con trasporto quando Dave inizia a suonare,
se non che quello stupido inchioda di colpo e asserisce, scuotendo la
testa: “No, così non va. Proprio no.”
Mi sento gelare il sangue.
Che cazzo gli passa per la testa?!
Mi volto verso Keith, sperando di trovarlo allarmato, ma non lo
è affatto, anzi. Se la ride di gusto.
Qui stanno impazzendo tutti, ma non faccio in tempo a finire di
pensarlo che sento gridare alla mia sinistra: “DOVETE URLARE
PIU’ FORTEEEEEE!!!” e ricominciare a suonare con
energia, mentre davanti a noi si stende il delirio assoluto.
Ma guarda ‘sto pazzo, sussurro ridacchiando, e attacco anche
io. Probabilmente mio fratello sta ridendo ancora di più,
qua dietro, ma non posso girarmi, adesso.
I primi pezzi scorrono veloci, in un crescendo di urla e applausi.
Qualcuno canta pure.
Ma allora mi sbaglio completamente quando dico che non siamo un
granché.
Quando affermo piena di sicurezza che la nostra musica saprebbe farla
chiunque.
Evidentemente non è così, altrimenti saremmo
marchiati come una delle solite, ennesime ‘next big
things’.
E invece ci rispettano, in questo sporco ambiente. Sanno chi siamo, e
sanno che siamo tre musicisti con le palle, ma a tutto questo non ho
mai pensato. Non ho mai preso in considerazione l’idea di
fare qualcosa di speciale per gli altri, perché ho sempre
pensato che quel qualcosa lo stessi facendo solo per me, per stare
bene, per vivere.
Non è così.
C’è qualcun altro che sta bene, che vive
ascoltandoci.
Giuro, mai avrei creduto che potessero essere così tanti.
I nostri amici di San Francisco.
La gente del Warped.
E adesso, questa scatola di sardine nel bel mezzo di New York.
La mia perfida autocritica crolla come un castello di carte davanti a
tutte queste persone che sanno a memoria i nostri pezzi e li cantano
insieme a me con devozione.
Non siamo delle merde, allora.
E tutto intorno a me, le chitarre, Dave e il suo basso, il suo pedale
nuovo, e anche il vecchio overdrive che giace di fianco al palco,
nell’angolo dove riposano tutte le custodie e le varie
attrezzature, Keith, la batteria e le bacchette, gli amplificatori, le
assi scricchiolanti del palco, la moquette che le ricopre, il
microfono, il pubblico, pare urlarmi un “NO!”
unanime, e allora sorrido, inebriata da questa sensazione positiva, e
con maggiore fiducia e convinzione torno a suonare.
Solo adesso comprendo che i miei sensi non mi hanno fottuto
completamente.
C’è stato uno di quei dissensi al mio pessimismo
che ha rimbombato più forte degli altri nella mia testa.
Che proveniva da una zona precisa.
È lì che adesso sto fissando con insistenza,
nella speranza che non sia solo una sciocca allucinazione.
E li vedo.
Due occhi limpidi come diamanti e nello stesso tempo torbidi come una
palude di cui non si intravede il fondo. Distaccati e impegnati ad
analizzare tutto ciò che incontrano, che ti scrutano
l’anima e la lasciano in mutande in mezzo al freddo
dell’esistenza, ma che sorvolano sulle tue malefatte con
complicità, perché tutti sbagliamo e ne abbiamo
il pieno diritto.
Due occhi che osservano, ma non giudicano.
Che proteggono.
Che sanno diventare pieni di calore e affetto con le persone che ne
sono reputate degne.
E, a giudicare da come mi sta fissando, e sorridendo, sembra proprio
che io rientri in questa schiera di eletti.
Il mio cuore si ferma, per un paio di secondi che sembrano durare
un’eternità. Il respiro si mozza a
metà, lasciandomi boccheggiare.
Per fortuna non sto cantando.
Ricambio il sorriso con espressione ebete, senza nemmeno chiedermi cosa
ci faccia qui, o se con lui ci siano anche gli altri.
In questo momento non me ne frega niente. Ho solo una cosa in testa,
una cosa che devo chiederti.
Ma questo sembri già saperlo, perché alzi il
sopracciglio e mormori qualcosa. Non ho capito cosa, ma sono sicura che
me lo ripeterai appena finirò di suonare.
Non mi è mai successo di non vedere l’ora di
finire, di posare la mia chitarra e aspettarti, per sentire quello che
anche tu hai da dirmi, perché se sei qui è solo
per questo, e riesco a capirlo anche io che non sono certo una da
prendere a esempio per la perspicacia.
Mi illudo che a suonare con tutto questo impegno la serata finisca
prima del dovuto. Ma è uno zelo così impetuoso da
contagiare anche mio fratello, che a un certo punto si lancia in un
assolo da paura, con Dave che scommetto sta pensando che si sente in
difetto perché ancora non è arrivato il suo
momento di gloria, e infatti adesso tocca a lui improvvisare una
sequenza di note così veloce e articolata da far impallidire
chiunque nel locale, lui compreso.
Anche lui ha una ben scarsa fiducia in sé.
Ci somigliamo molto, Keith me lo dice sempre.
Ma di cosa sei capace, Mikey?
Come puoi rivoluzionare la serata a questo punto?
Mi è bastato scorgerti, incontrare il tuo sguardo, per
contagiare il resto della band con la mia gioia indescrivibile.
Sì, decisamente avevo proprio voglia di rivederti.
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Capitolo 15 *** Don't Say No ***
@Greendayana94:
beh, non so, non lo conosco personalmente (sic! ;_;'), quindi
me lo invento, ecco...e comunque dipende dalla giornata, dalle
circostanze...si può essere molto dolci e anche molto
stronzi senza dover necessariamente fingere in uno dei due casi...
@BlueAndYellow:
mi piace descrivere ciò che si prova quando si suona,
perché è quello che provo esattamente io quando
imbraccio il mio basso (Puffo ti amo! <3), oppure quando sento
suonare qualcuno...forse è perchè ci sono un po'
dentro che riesco a cogliere quelle sfumature, non so, però
mi piace, davvero ^^
@Martunza:
se penso che sia Keith che Dave non li ho modellati su nessuno in
particolare!!! :°D oddio, Keith a volte sembra un po' mio
padre, forse è meglio, forse peggio, chi lo sa...
:°D e ovviamente, pandistelle ftw! è_é/
@Sueisfine:
non dirmi così che arrossisco *////*'' anche se vabbè, me lo dici sempre :°D
Cap. 15
– Don’t
Say No
Se ne sono andati tutti.
Lentamente, sciamando come una mandria di vacche al pascolo.
Come formiche che guadagnano il loro posto nella fila per uscire
all’aria aperta, a respirare qualcosa di diverso dalla terra.
Ormai sono rimasti in pochi qua dentro, eppure io me ne sto ancora qui
sul palco, seduta a gambe incrociate, la chitarra appoggiata a terra
accanto a me, mentre sorseggio una lattina di succo di mela. Mi sono
stufata degli alcolici, e poi voglio essere nel pieno delle mie
facoltà. Voglio sapere perché è qui, e
voglio imprimermelo ben bene nella zucca.
Mi guardo intorno, ma non lo vedo. Scorgo Keith al bar, Dave con lui.
Sento le loro risate, e me ne compiaccio, non so perché,
nemmeno so di cosa stiano parlando. Altre persone sono dentro al
locale, ma non mi interessano. I loro visi sono vuoti, insignificanti.
I loro occhi scrutano orizzonti troppo limitati perché io
possa interessarmene. I loro sorrisi sono tanti, e falsi, sintetici
come polistirolo.
Non è di loro che ho bisogno.
Scruto, come se possa darmi un qualche conforto, nell’angolo
in cui, poco fa, ho incontrato quei due diamanti pazzi e scintillanti.
E, con mia enorme sorpresa, li trovo di nuovo lì.
Tornati al punto di partenza.
“Ehi” faccio, alzandomi in piedi. Sto sorridendo.
Lo sento, anche se ancora un po’ intontita, dai miei muscoli
facciali che si contraggono ai lati delle labbra.
Mi viene incontro, ebbro di quella serietà un po’
sorniona che lo contraddistingue. Sorride anche lui, in quella maniera
tutta personale, un boccale di birra stretto nella mano.
“Ciao” si limita a dire.
Il saluto più banale del mondo. Abusato, perché
ormai entrato nella mente umana come un’abitudine. Si saluta
con un ‘ciao’ biascicato anche chi non vorremmo
nemmeno vedere.
Eppure, in questo momento, capisco chiaramente che quel saluto
così sintetico è uscito dalle sue labbra come una
sorta di richiesta di scuse.
Perché non sa cos’altro dire.
Perché non riesce a trovare parole che esprimano la sua
gioia nel vedermi.
E non riesco a trovarne nemmeno io.
Mi fa cenno di rimanere seduta. Lo fisso un attimo stranita, poi mi
accorgo che sale sul palco e si mette a sedere accanto a me,
avvicinando il boccale alle sue labbra come se nulla fosse.
“Allora, come stai? Ti vedo proprio bene” chiede,
voltandosi a guardarmi e catturando con la lingua una sottile striscia
di schiuma lasciata dalla birra sulla sua bocca.
Questo gesto mi ipnotizza. Mi accorgo diversi secondi dopo che lo sto
fissando con insistenza, ma soprattutto che mi ha rivolto una domanda
che, a vedere da come aspetta la risposta, reputa molto importante.
“Uh, sì…tutto bene, direi! E
te?” farfuglio soprappensiero.
Dannazione, odio queste forme dialogiche di circostanza. Odio usarle
soprattutto con persone che reputo meritevoli di discussioni ben
più profonde. Come lui.
Non aspetto la sua risposta. All’improvviso decido che quel
locale mi sta iniziando a stare veramente stretto, così mi
alzo di scatto e gli dico di seguirmi, mentre vado a recuperare la mia
giacca di pelle.
“Sei da solo?” gli chiedo, mentre me la infilo.
“Veramente no…sono con la mia
rag…cioè, mia moglie. Cazzo, ancora non ci sono
abituato” si mette a ridere imbarazzato.
“Ah! Beh, come dire…congratulazioni!”
rispondo, altrettanto in difficoltà. Mi sento un
po’ impacciata, ma d’altronde queste situazioni mi
hanno sempre imbarazzata molto, a prescindere da chi mi trovo davanti.
“E non me la presenti?” riprendo, sfoderando un
broncetto che ho tirato fuori da chissà dove.
“Certo! La stavo appunto cercando…oh, eccola
là!” e mi prende per mano, portandomi da lei, che
sta chiacchierando con un’amica in prossimità
della porta.
Cavolo. È una ragazza meravigliosa. Probabilmente sto
boccheggiando dallo stupore, probabilmente sto anche pensando
‘e bravo Mikey!’, non lo so. Non me ne sto
accorgendo.
Sono troppo contenta che sia qui stasera.
Mi porge la mano, sorridente. Alicia, così si chiama.
Allungo la mia e ce le stringiamo reciprocamente. Poi lui le chiede
cosa vuole fare adesso che il live è finito, e lei risponde
che non lo sa, così propongo di fare un giro nei dintorni,
un altro locale si troverà di sicuro.
Accettano senza riserve.
Per me non è un problema se c’è anche
lei. Sicuramente sa, a grandi linee, come mai io e suo marito ci
conosciamo.
Già, marito…mi suona stranissima come parola,
accostata a lui. Per questo mi scappa un sorrisetto a metà
tra il compiaciuto e il divertito.
“Aspettate che vado a dirlo ai miei due ometti!”
esclamo, dirigendomi al bancone. Dave e Keith sono sempre
lì, e a essere sincera mi sembrano anche
sull’ubriaco andante.
“Ragazzi, devo andare un attimo con Mikey, ve lo ricordate,
no?”
“Ceeeeeeeeerto che me lo ricordo, shtellina!”
esclama Dave, strascicando le lettere che pronuncia.
Okay. È andato.
Mio fratello sembra un po’ più padrone di
sé.
“Non fare tardi, devi tornare per aiutarci a mettere via gli
strumenti” mi avverte, pasticciandomi i capelli con la mano.
Annuisco e corro entusiasta verso la porta del locale, con
un’espressione di felicità pura dipinta in volto.
Mi sento come una bambina che corre attraverso un prato, per inseguire
la farfalla più bella che abbia mai visto.
Camminiamo un po’, raccontandoci del più e del
meno, tipo cosa abbiamo combinato in questi mesi in cui ci siamo persi
di vista.
“Lavoro, lavoro e ancora lavoro” risponde lui.
Io non vorrei raccontargli cosa ho fatto questi mesi, quando andavo in
spiaggia da sola, al tramonto. Preferisco sorvolare, sono dei momenti
che sto rimuovendo lentamente anche dai miei ricordi. Così
rispondo che “ci siamo presi una pausa e mi sono comprata
un’altra chitarra, e ho anche iniziato a buttare
giù qualche pezzo nuovo!”, che in fondo
è vero. Anche se sono tutte cose che ho fatto in
quest’ultimo mese.
Sorridono entrambi.
Lei, poi, che mi sembra una tipa molto spigliata, non parla molto
adesso. Si introduce con discrezione nei nostri discorsi, con battute
divertenti e per niente fuori luogo.
Sì, mi piace. È una a posto.
Ci fermiamo davanti a questo pub dall’aria molto accogliente,
in una stradina secondaria, e lei suggerisce di entrare,
perché “il posto dentro è molto carino
e servono una birra ottima!”
Io e Mikey non ce lo facciamo ripetere due volte, prendiamo ed entriamo
immediatamente. Non c’è molta gente, cosa che mi
rallegra enormemente, ma soprattutto c’è un
tavolino a distanza da tutti gli altri, piccolo e racchiuso in una
specie di divisorio in legno scuro e vetrate multicolori, che sembra
proteggere dal casino che c’è di norma in un posto
del genere, tra gli ubriachi e la musica di sottofondo che ti
rincoglionisce.
È molto facile per me prendere la sbornia in un pub del
genere. Le luci soffuse aiutano molto.
Così mi limito a prendere una Guinness piccola, giusto per
non sembrare l’antipatica di turno.
Qualche sorsata nel silenzio più completo, mentre frugo
dentro di me, alla ricerca del coraggio necessario per affrontare un
eventuale argomento che mi preme molto. Sto per aprire bocca, le gambe
tremanti e la birra che sento scendere lentamente dentro la mia gola,
quando Mikey mi precede.
“Frank non sta bene.”
Inaspettatamente quella sorsata di Guinness che avevo mandato
giù per prendere coraggio segue una traiettoria diversa, e
inizio a tossire come una cretina, sconvolta da quella frase.
Come sarebbe a dire che non sta bene?
Perché me lo dici così?
Ma ora che ci penso, tu non dovresti essere con lui stasera? E con
tutti gli altri, a festeggiare il suo compleanno?
Tutti interrogativi che non osano oltrepassare il confine della mia
scatola cranica.
Mi riprendo, appena per borbottare, in preda a una botta di orgoglio
del tutto fuori luogo: “E a me lo vieni a dire?”
“Beh, in un certo senso sì. È da subito
dopo il vostro…chiamiamolo scambio di opinioni, che
è ridotto così…”
“Già” si intromette Alicia “ha
sempre una faccia da funerale…fa quasi paura.”
“E poi suona da fare
schifo…c’è toccato addirittura farlo
sostituire per alcune date, perché non riesce ad azzeccare
nemmeno un accordo…”
Mi suona come una scusa. Una serie di nozioni affastellate a caso,
nozioni che dovrebbero sconvolgere l’interlocutore medio, ma
non me.
Un sano egoismo mi spinge a mostrarmi profondamente scettica nei suoi
confronti.
Sta sicuramente meglio di me, questo rimbomba, come un’eco
non voluta, dentro di me.
Come se auto-commiserarsi possa servire a mettermi un gradino sopra di
lui. Come se davvero faccia la differenza, mi renda più
interessante agli occhi di chi mi ascolta. Non la fa, e lo so bene,
anzi, probabilmente mi fa sembrare addirittura patetica.
Così come so che Mikey non adotterebbe mai questi mezzi
così bassi per risvegliare ciò che sono riuscita
a malapena ad addormentare in questi mesi, men che meno senza una
motivazione abbastanza forte e, per così dire, grave. Non
è il tipo che viene a cercarmi solo per dirmi come sta
Frank.
C’è dell’altro.
Lui si accorge della mia scarsa convinzione, così cerca di
spiegare meglio, o alzare il tiro, chissà. Preferisco
mantenere ancora un certo margine di dubbio.
“Ti giuro, è totalmente di fuori, beve sempre, ha
anche fatto a botte con della gente alla fine di un nostro
concerto…è diventato seriamente inaffidabile,
persino Jamia l’ha cacciato di casa, adesso dorme sul divano
a casa di mio fratello…”
No, adesso basta. Non voglio più sentire queste stronzate.
“Sei venuto fin qui solo per raccontarmi di un coglione che
non sa che farsene della propria vita, al punto da buttarla via
così?” dico tutto d'un fiato, senza rendermi conto
di essere caduta in una profonda contraddizione.
Ci rimangono male entrambi. Mi fissano con gli occhi fuori dalle
orbite. Poi lui prende la parola. E non mi rimprovera, non cerca di
tenermi a freno con fare paternalista, non mi tira metaforicamente le
orecchie, niente di tutto questo.
“A parte che dovresti essere l’ultima a parlare, e
comunque, no. Sono venuto sin qui per ascoltare della buona musica,
come non ne sentivo da tempo” sorride, sornione. Come a dirmi
che sto cagando fuori dal vaso.
Grazie, ma me ne sono accorta anche io. Tardi, ma me ne sono resa conto.
Ti ha fregato, Frankie, ammettilo. E oltretutto, sei tu a essere in
malafede.
È maledettamente sincero.
Una persona normale riconoscerebbe di avere esagerato con le parole, e
se ne starebbe zitta in un angolo.
Ma io non sono così, purtroppo. O per fortuna,
chissà.
“Sì, ma…come pensi che io possa
risolvere le sue grane?” rispondo, acida.
“Questo non lo so. Volevo solo che tu lo sapessi, tutto
qua” e, proprio mentre termina la frase, squilla il suo
telefono.
Onestamente, a me dispiace che sia così nelle peste. Ora che
ho capito che è tutto vero, intendo. Mi sento anche in colpa
per averne dubitato. Mikey non è un bugiardo, e gli si legge
in faccia. Al massimo può nasconderti le cose, ma non
sconvolgerle per suo tornaconto.
Riesco comunque a pensarci in termini piuttosto lucidi e, se vogliamo,
anche di un cinismo quasi aberrante.
Non ho fatto nulla per provocargli tutto questo.
Ha fatto tutto da solo.
È venuto a sapere in modo alquanto spiazzante certi dettagli
della mia vita passata, e da lì è partito il
grande film, ma francamente adesso mi sembra davvero che si sia
oltrepassato il limite.
Non può ridursi così per ciò che ero,
questo è quello che mi viene immediatamente da pensare.
Tuttavia comprendo che c’è qualcosa di ben
più grosso sotto e, tanto per cambiare, continua a
sfuggirmi. Mentre maledico il mio acume pressoché
inesistente, inizio così ad arrovellarmi per capire cosa
cazzo ha in quel cervello malato, e Alicia, mentre Mikey si
è allontanato per parlare al telefono in
tranquillità, me lo legge in faccia, che non so cosa pensare.
“A cosa servo in tutto questo?” le chiedo, come se
possa fornirmi una risposa più che esauriente.
“Non lo so, Frances, davvero…io so solo quello che
vedo. Ride per niente, piange per tutto…è come se
qualcosa in lui fosse andato in corto circuito, e quando Mikey mi
racconta quello che succede è sconvolto, non si sofferma,
sfugge a qualsiasi domanda. Ha paura, paura che possa finire come lui,
cadere nella depressione…hanno tutti i nervi a pezzi per
questa situazione, credimi…a volte penso che se ti rivedesse
potrebbe stare anche peggio, ma Mikey è convinto del
contrario.”
A questo punto non lo so neanche io cosa sia meglio. Perché,
in fondo, di equilibri precari ce ne sono due, non soltanto il suo.
“Ma, anche se volessi, non potrei comunque fare niente per
lui. Mi ha cacciato dalla sua vita, e lo ha fatto in un modo
assolutamente crudele, non riesco a perdonarlo…”
Bugia. Bugia enorme. Magari non l’avrò perdonato,
ma ho provato a dimenticarmene.
Quel bacio non è mai esistito, è frutto della mia
immaginazione.
Ho cercato, in questi mesi, di vederla sotto questa ottica, ma il
rigagnolo di lacrime che sta scendendo adesso dai miei occhi
è pronto a giurare l’esatto contrario.
Lo sento ancora, di tanto in tanto, quel sapore così dolce e
così crudele che mi tormenta come un incubo da cui non
riesco a svegliarmi. Non c’è birra, non sigaretta
o qualsiasi altra cosa, che riesca a cancellarne le tracce.
È una ferita aperta e sanguinante che brucia orrendamente.
Ho tentato di far finta di niente, ma adesso fa un male tremendo. Come
se avessi davvero il fuoco sulle labbra.
“Tu sarai uscita dalla sua vita, ma lui, a quanto pare, non
è uscito dalla tua…” sussurra,
comprensiva.
Non riesco a piangere a dirotto, a liberarmi una volta per tutte. Il
mio è un dolore sordo, infido, che soffoca la mia
disperazione e permette solo a quelle due gocce d’acqua
terrorizzate di uscire dai miei occhi.
Ho tentato di cacciare la verità dal cuore per mesi, ma
è bastato sentire che sta male per tornare sui miei passi e
implorarla di tornare.
Non posso vivere per sempre nel mondo dei sogni, dove tutto va bene e
le cose filano lisce.
“Stasera dovevamo essere da lui. Però Mikey ha
insistito per venire a New York…ha detto che era
l’unico modo per trovarti a una distanza ragionevole da
Newark…”
“No, non giustificarti, ti prego. È stato un bel
pensiero il vostro…” la tranquillizzo,
asciugandomi gli occhi.
“Mi ha fatto piacere che siate venuti a sentirmi, davvero.
E…”
Cazzo, devo dirlo. Lo sto pensando. Per una volta collega la bocca al
cervello senza fare danni, okay, Frankie?
“E, beh…mi fa piacere anche che vi preoccupiate
così per lui…è…circondato
da persone meravigliose.”
“E tu ne fai parte.” Incalza, sicura di quel che
dice.
“No. Non più.” Ammetto con amarezza.
Perché ho combattuto con questa constatazione, ho cercato in
tutti i modi di pensare che potesse essere una situazione reversibile,
ma ero la prima a rispondermi di no, a distruggere le convinzioni che
stavo costruendo ad arte per preservare un minimo di sanità.
E adesso questa ragazza, che conosco stasera per la prima volta, viene
a fami intendere che in quella schiera di persone il posto per me
c’è ancora, ed è vuoto, in attesa che
torni a rioccuparlo.
Vorrei solo poterci credere senza farmi ancora del male.
Alicia mi sorride, amichevole, e provo a ricambiare, ma penso che il
mio tentativo migliore sia solo una smorfia ben poco rassicurante. Non
riesco a mentire, proprio non ce la faccio, ma lei sembra non
curarsene, e proprio in questo momento Mikey rientra nel locale e,
senza nemmeno sedersi, prende le sue cose con una frenesia che non gli
appartiene.
“Le birre le ho già pagate io. Anche la tua,
Frankie. Come ringraziamento per la bella musica che mi hai fatto
sentire stasera” sorride.
“Però adesso devo chiederti un favore
assolutamente importante.”
“Cosa?” chiedo, preoccupata.
“Dovresti venire a Newark con me e Alicia.”
Lo sapevo, cazzo.
Lo sapevo.
“No, non posso.”
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Capitolo 16 *** Unhappy Birthday ***
Cap. 16
– Unhappy
Birthday
La macchina di Mikey sfreccia nella notte di New York. Stiamo uscendo
dalla metropoli e la sua guida adesso si fa più spigliata e
veloce.
Guida bene, il ragazzo. Ha un’ottima padronanza
dell’auto.
Alicia è seduta accanto a me, dietro. Ha avuto un bel dire
lui, a protestare che così si sarebbe sentito un tassista.
“E la lasci dietro da sola? Bel maleducato che
sei!” l’ha apostrofato, strizzandomi
l’occhio.
Ho declinato la sua gentilezza nel modo più educato
possibile, ma non c’è stato verso.
E così, beh…eccomi. Mi sono lasciata convincere.
Me l’ha chiesto come favore personale. Mi sarei sentita
veramente un’ingrata a rifiutare ancora, dopo tutto
l’aiuto e la comprensione che mi ha elargito senza chiedere
niente in cambio, almeno fino a adesso. Qui, lo ammetto, un pochino
infido lo è stato, ma immagino che mi sarei comportata allo
stesso modo, se avessi avuto bisogno di sbrogliare una situazione
particolarmente delicata come questa.
Lo giustifico, tutto qua. L’ha fatto con le migliori
intenzioni, tutto sommato, e mi è sembrato poco carino stare
a puntualizzare sulle ragioni per cui non sarei voluta essere su questa
macchina, adesso. Motivo per cui taccio nel buio, lasciando che gli
Idlewild, e poi gli Stone Roses, e ancora i Manic Street Preachers, e
chissà chi altro, riempiano questo silenzio con della buona
musica e parlino un po’ al mio posto.
Le mie parole sono inutili, adesso. Come lo sono state prima.
Lui già sapeva che l’avrei seguito. Che avrei
messo in atto delle risibili ritrosie, che sarebbero capitolate dopo
pochi dolcemente irremovibili minuti. Che mi sarei seduta dietro,
sperando di racchiudere nel mio piccolo mondo claustrofobico tutte le
mie ansie, le mie domande, vietando loro di uscire a respirare
l’aria di ‘qua fuori’.
Ecco perché Alicia è qua, accanto a me, e non
davanti. Perché anche a lei è bastato osservarmi
un attimo per capire di che pasta sono fatta.
E sa che quelli come me non vanno lasciati soli coi propri pensieri
distruttivi.
Che poi, onestamente…a me sembra tutto così
assurdo. Così inverosimile, caricato all’eccesso,
fino quasi ad assumere i contorni di un’ignobile
macchietta.
Non è possibile, Frank non può essere caduto
così in basso, per ME poi!
Mi rifiuto di crederci. È un colpo basso, questo,
dall’inizio alla fine.
Mi sono fatta prendere per il culo, ma ormai ci sono dentro fino al
collo.
Prima ho chiamato mio fratello. Per avvisarlo.
Era contrariato, molto.
“Come ti viene in mente di fare queste cazzate?” ha
chiesto, inviperito.
A dire il vero me lo stavo chiedendo anche io. Così,
piuttosto che affastellare scuse su scuse, stronzate su stronzate, ho
preferito fare scena muta.
È stato come accendersi una sigaretta e gettare il
fiammifero, col suo piccolo fuoco agonizzante, ma non ancora estinto,
su un mucchio di sterpaglie secche. Anzi, peggio: su un mucchio di
polvere da sparo.
Ha iniziato ad alzare la voce, a inveire contro di me e la mia
testaccia bacata, e io, lì, zitta, ad assorbire come una
spugna tutto il suo malumore e l’alcool che gli stava girando
in corpo. Ho sopportato anche la più crudele delle frasi che
mi si possano dire, quella che da lui non mi sarei mai aspettata.
“Fai come cazzo ti pare, ma ti avviso: domani, se non sei a
Boston entro le 5 di sera, sei fuori dal gruppo.”
No.
Chiedimi tutto, ma non questo.
“…okay.”
Solo okay sono riuscita a dire. Le parole mi morivano in gola, quelle
che riuscivano a sopravvivere soccombevano sulle labbra. È
stata una carneficina di suoni e lettere.
È ubriaco. È incazzato. Ma soprattutto
preoccupato.
Sa chi è la causa del mio malessere, e non può
sopportare che io vada da lui. È come se una volpe andasse
spontaneamente a cercarsi le tagliole in cui infilerà le
zampe.
Però non doveva lo stesso.
Stronzo. È tutto quello che ho. Non puoi togliermelo.
E io allora? Non ho forse peccato di negligenza a seguire Mikey e
Alicia?
Ho anteposto un problema superficiale, di poco conto, alla
mia vita.
Alla musica.
A Keith e Dave, le due persone più importanti che ho.
Ma quale problema superficiale.
Frances Eleanor Armstrong.
Non dire cazzate.
Non gettarti in improbabili scene madri, dove il palcoscenico
è interamente occupato dalle bugie.
Sai perché sei su questa macchina, con il culo pigramente
stravaccato sul sedile posteriore, circondata da musica che non fa
altro che buttarti nello sconforto e da due neo-coniugi che si sono
messi in testa che tu sei il pezzo che manca per completare il puzzle.
Sai perché stai andando a Newark.
Sei convinta anche tu di essere il pezzo mancante di quel puzzle
chiamato Frank.
E se a un puzzle manca un pezzo, lo puoi anche buttare. Soprattutto se
è un pezzo centrale. Perché, sai, se sei un
angolo, o una briciola di bordo, in pochi si accorgerebbero della tua
assenza ingiustificata.
Dove sei? Hai voluto provare il brivido dell’indipendenza, ti
sei voluto staccare dalla famiglia per fiondarti a capofitto in una
nuova avventura?
Sappi che da solo non sei nulla. E rendi inutili anche quelli che ti
stanno intorno. Li svuoti di significato.
Neanche tu, Frankie, neanche tu vali, se sei da sola.
Hai bisogno di Dave e Keith, per suonare.
Hai bisogno anche di Frank. Perché è la colla che
riparerà il tuo cuore dopo avertelo strappato dal petto e
gettato a terra, facendolo infrangere in mille, piccoli,
irriconoscibili coriandoli di muscolo e sentimento.
O il mortaio che disperderà e polverizzerà quelle
rovine ancora di più, e una volta per tutte.
È per questo che sei qui, è per questo che stai
monologando febbrilmente.
L’istinto e la coscienza per una volta sono
d’accordo, e si stringono la mano, sperando tuttavia di aver
fatto la cosa giusta.
So perché sto facendo tutto questo.
Devo salvarlo, è vero. Ma sostanzialmente è anche
lui che deve salvare me.
La musica non mi basta più.
Ho ancora un bisogno viscerale di lei. Ma ho dovuto chiederle un attimo
di respiro.
Non ho mai creduto nel destino, ma in questo momento sono totalmente
nelle sue mani.
Stanotte deciderà se farmi tornare alla vita o ammazzarmi
come un cane.
Se farmi fluttuare in paradiso o scagliarmi all’inferno come
si getta un foglio di carta appallottolato nel cestino.
Al telefono con Mikey, prima che partissimo, era Gerard.
A quanto pare la situazione è degenerata. Jamia lo ha
lasciato definitivamente.
È arrivata oggi pomeriggio, anzi, ormai è
più preciso dire ieri pomeriggio, visto che sono le due e
passa del mattino del primo novembre, portando un paio di scatoloni con
tutta la roba di Frank che ancora aveva a casa. Lui era sul divano, con
troppo alcool in corpo per potersi rendere conto di quello che stava
succedendo.
“Mio fratello le ha chiesto se fosse davvero convinta di
quello che stava facendo, e lei ha detto che non vuole avere
più a che fare con ‘quel relitto umano’,
così ha detto. Certo, la facevo più
comprensiva” commenta, laconico.
No. Non può essere così crudele con lui.
“Perché?” esalo, esterrefatta.
Continua a essere tutto troppo esagerato per poter sembrare minimamente
reale.
Ma è una soap opera, questa, o la vita?
La verità…il vero, autentico motivo per cui sono
qui, è che sono maledettamente curiosa.
Niente salvataggi, niente distruzioni, niente di niente.
È la curiosità a muovermi.
La morbosità con cui il pensiero di rivederlo, e sapere in
che condizioni versi, si insinua nei miei neuroni.
Ecco il motivo di quella domanda. Un interrogativo che racchiude in
sé tutti i significati possibili e immaginabili che gli si
possono attribuire.
Perché sta così?
Perché l’ha presa come una questione personale?
Perché io dovrei essere quella distrutta, e invece sono
assolutamente tranquilla, mentre lui si macera nell’alcool e
lascia che le cose gli scivolino addosso come olio schifoso?
Perché continuo a raccontare balle anche a me stessa?
Io non lo so.
Non lo so per il semplice motivo che la mia testa sta lavorando a vuoto.
Queste domande non possono avere una risposta che provenga solo da me.
Queste domande sono le risposte a se stesse.
Perché vado là?
Perché è l’unico modo che ho per
comprendere per quale motivo sono con le chiappe adagiate su una
Mercedes nera, con un ragazzo che guida come un pazzo per arrivare il
prima possibile.
E adesso ci siamo.
Stiamo entrando a Newark.
Ora sono gli Smiths a emanare malinconia dalle casse dell'impianto
stereo della macchina.
Unhappy Birthday.
Perfetto. Proprio quello che ci voleva, penso, al colmo dell'ironia.
Non poteva esserci canzone più azzeccata.
Penso a quanto dev'essere terribile passare un compleanno infelice.
Dove la tristezza è troppa, per poter pensare al fatto che
si è più vecchi di uno stupido, inutile anno.
Dove, se ti arrivano regali, li scarti con un'espressione che si regge
in equilibrio precario tra un tenue barlume di gioia, perchè
qualcuno che ti pensa c'è, e una malinconia senza limiti.
Tra un sorriso di gratitudine e una cascata di lacrime disperate.
Dove ti viene da pensare che è solo un giorno, ma cazzo,
proprio quel giorno?
Chissà come si sentirà adesso. Ha un anno in
più, una ragazza in meno, un clamoroso banco di nebbia nel
cervello e una voragine nel petto.
E un fegato grosso così.
É la curiosità che mi fa porre queste domande,
tracciare queste ipotesi. Sempre lei. Posso azzardare un'affermazione
del tipo che è il motore della mia esistenza.
Non è esattamente positivo, ma non me ne importa.
Alicia mi prende la mano, così, dal nulla. È
calda. La mia è un ghiacciolo. Colpa della tensione.
Le gambe tremano, la voce pure, se solo avesse il coraggio di fare
capolino dalla gola. E invece se ne rimane rintanata nel suo antro
oscuro.
Non ho detto nulla in tutto il viaggio.
Solo quel “Perché?”, e nulla
più.
Mikey, invece, sembra aver messo da parte la sua riservatezza, e non si
è zittito un attimo. Non so, forse sperava di riuscire a
sbloccarmi in questo modo. Si è sforzato tanto, e mi sento
un po’ verme a non averlo aiutato in nessun modo.
“Ha detto Gee…che vuole vedermi. Ha chiesto di
me…chissà, forse ha capito.”
“Ma scusa…sapeva che avrebbe suonato stasera a New
York?”
Parlano di me.
“…sì. È stato lui a
dirmelo.”
Penso di nuovo a lui. A quanto gli farà male sentire il mio
nome rimbombargli nelle orecchie, rimanere nei suoi condotti
auricolari, come un’eco bastarda e implacabile, che vuole
portarlo lentamente alla follia. Poi penso a me, al momento in cui lo
rivedrò, e non saprò cosa fare, cosa dire. Non
saprò se sorridere, perché lo avrò
davanti a me, o piangere, per lo stesso motivo, o semplicemente
fregarmene. Non saprò se sarà felice di vedermi,
o se nasconderà il suo disappunto dietro una maschera di
accomodanza, o se non fingerà affatto e mi
manderà via. Se lo troverò ubriaco, o in un raro
attimo di lucidità.
Non so niente.
Chiudo gli occhi. Per svuotare il cervello. O per concentrarmi meglio
su cosa devo fare.
Detesto affidarmi all’improvvisazione in queste circostanze,
ma non posso fare altrimenti. Non ho tempo di prepararmi un discorso
perfetto nella sua inutilità.
L’unica cosa di cui ho piena la zucca sono dubbi, tanti dubbi.
E una sana, fottuta paura.
Non voglio che vada a finire male.
Non voglio nemmeno che finisca tutto bene, forse.
Ero riuscita a dimenticarmi di lui, cazzo. Ce l’avevo quasi
fatta.
Balle.
Ma quante me ne racconto stasera?
Non è possibile rimuovere dal pensiero quel suo viso
così dolcemente crudele.
Oh, adesso non importa. Sento la macchina fermarsi con grazia.
Vista la guida spericolata di Mikey pensavo che si sarebbe prodotto in
un’inchiodata degna di finire negli annali. Come al solito ho
fabbricato ideali distorti, ma anche di questo non mi frega niente.
La casa di Gerard è la classica villetta a due piani
circondata da un giardino che dovrebbe essere curato, ma non lo
è. Ciuffi d’erba neanche poi tanto timidi svettano
sugli altri, in un’accozzaglia confusa e arruffata, ma
proprio per questo più affascinante di quegli asettici prati
tenuti alacremente sotto controllo da zelanti giardinieri, che
percepiscono come stipendio extra le grazie della moglie del padrone di
casa.
È un’abitazione che sa di vissuto, a cominciare
dall’esterno.
Percorro titubante il breve percorso di lastre di pietra che conduce
alla porta. Siamo in fila indiana.
Davanti Alicia, poi io, poi Mikey. Stretta in un’amorevole
protezione formato sandwich.
È proprio Alicia a bussare alla porta, e ci aprono gli occhi
stanchi di Gerard. Ha la forza appena per salutare con un flebile cenno
del capo.
“Stanotte mi tocca il divano. S’è chiuso
in camera mia e non vuole saperne di uscire” spiega, col
sonno che ormai ha preso il quasi totale controllo delle sue membra. Si
accascia sulla poltrona, esausto. Ray e Bob, che sono qui dal tardo
pomeriggio, lo fissano, preoccupati e sconsolati. Dopo un paio di
secondi sentiamo un grido lamentoso nominarlo.
Rotea gli occhi, sbuffa e rantola un “Che
situazione…” a metà tra il rassegnato e
lo scocciato, e fa le scale di malavoglia. Lo vediamo tornare
giù dopo un po’.
“Gli ho detto che sei tornato, Mikey. Ha chiesto di te. sei
l’unico che voglia vedere adesso…non riesco a
capire perché…”
“Io, invece, penso di averlo capito” risponde lui,
posando il suo sguardo su di me.
Anche io ho compreso.
Un’occhiata di intesa. Prendo coraggio e mi alzo dal divano
su cui mi sono accomodata.
La circolazione nelle mie gambe è pressoché
nulla. Non mi stupirei di alzare i pantaloni e trovarle cianotiche.
Rimango un paio di secondi ferma, come a testare la
stabilità dei miei arti locomotori.
Okay. In piedi ci sto. Vediamo se riesco a muovermi.
Qualche passo tremante e mi avvicino alle scale. Vedo Bob alzarsi e
dirmi “Ti faccio strada, vieni”, mentre Gerard si
sistema nuovamente sulla poltrona.
Saliamo, e mi ritrovo in questo piccolo corridoio. Ci sono tre porte, e
una di queste è aperta.
Il bagno.
Mi indica con il mento la porta che devo aprire, poi si fa in disparte,
osservandomi con apprensione.
Rimango un minuto buono qui davanti, la mano stretta in un pugno che
non vuole saperne di bussare. Mi volto verso le scale, cercando lo
sguardo di Bob, ma vedo solo le sue spalle, e una leggiadra voluta di
fumo che si alza.
Cazzo, sta facendo venire voglia di fumare anche a me.
Non posso.
Busso, nella speranza di poter entrare il più presto
possibile e dimenticare quell’odore così
fastidioso e al contempo drogante.
Non sento rispondere. Apro timidamente la porta, ed entro, in
virtù di non so quale coraggio.
Eccolo.
È alla finestra, a osservare la luna, che ormai ha poco
tempo a disposizione per farsi ammirare. Non si volta.
Ma la voce è debole, sfiancata. Priva di speranze.
“Mikey?”
Chiudo la porta alle mie spalle, e no, non ci riesco.
Devo accendermi una sigaretta.
Sente l’accendino scattare, e ha un sussulto.
Si gira verso di me.
“No, non sono Mikey.”
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Capitolo 17 *** Boys Don't Cry ***
ecco
che aggiorno di nuovo! *_* pandistelle will rule the world, please
remember! è_é
Cap. 17
– Boys
Don’t Cry
Non sembra molto stupito di vedermi. O forse è soltanto una
sensazione che riesco a trarre io da questa schermaglia silenziosa.
Sì, perché rimaniamo per minuti in completo
silenzio, studiandoci a vicenda, a distanza.
È veramente un relitto umano. Inizio a comprendere le
parole, così apparentemente dure, di Jamia. Non riuscivo a
concepire tanta crudeltà, ma ora che ce l’ho di
fronte, e lo vedo in questo stato, non riesco a biasimarla
più di tanto per quello che ha avuto il coraggio di dire.
La barba incolta, le occhiaie che gli incorniciano malamente quegli
occhi di cui mi ero innamorata, e che adesso sono opachi, spenti,
più vuoti del suo petto. E del mio.
Due piccole paludi di distruzione fisica che vorrebbero non fissarmi,
ma che sento morbose su di me, nel buio di questa stanza.
Mi fanno male. Come se emanassero davvero scosse elettriche in
direzione del mio corpo.
Ho come l’impressione di aver sofferto troppo poco, mentre lo
osservo. È il ritratto del grado massimo di decadenza a cui
può giungere l’essere umano.
Non ho niente, addosso, di quello che porta lui. Tutta la mia tristezza
finiva in un tramonto sulla spiaggia, o una confezione formato famiglia
di gelato.
Mi sento un po’ cane per questo. Sento affievolirsi di colpo
tutta l’importanza che ho sempre dato a questo ignobile peso
nel petto, chiedendomi quanto ne deve aver avuto lui da portarsi sulle
spalle, senza voler chiedere aiuto a nessuno.
Aveva ragione Mikey.
È identico a me.
Siamo ‘due orgogliosi del cazzo’. È
inutile che neghi l’evidenza, o che mi incazzi
perché la verità mi è stata detta in
modo così brusco e diretto.
Anche io non ho chiesto aiuto, almeno non esplicitamente.
Per discrezione, paura di essere di troppo, di chiedere troppo.
Solo la mia chitarra sa. Solo lei è stata la depositaria dei
miei umori più neri, dei miei attimi di smarrimento, dei
momenti in cui avrei preferito affogare nel vino e nelle sigarette,
piuttosto che rimanere sobria e guardare in faccia la realtà
senza schermi protettivi. E chissà che non sia lo stesso
anche per lui.
Il tempo scorre così lento e solenne che sento quasi la
vecchiaia avanzare dentro di me, come se qualche minuto di questo
stillicidio possa contribuire in maniera determinante ad avvicinarmi al
mio ultimo giorno.
Poi, le sue labbra si schiudono.
Rimane così un paio di secondi, prima di prendere la parola.
Sentirlo sussurrare, anche se a denti stretti, in questo silenzio
assordante mi riporta alla vita.
“Che ci fai qua?”
Ma sì, continuiamo a recitare, come all’inizio di
tutto.
Lo sai cosa ci faccio qua. Soprattutto, in qualche modo, te
l’aspettavi, che ci fossi.
Non rispondo. Perché io, a differenza sua, davvero non so
perché sono qui. Le motivazioni che ho raccolto finora mi
sembrano tutte così vaghe, prive di senso. Assolutamente
idiote.
“Tu dovresti essere fuori dalla mia vita” prosegue.
Ha un tono di voce strano. A metà tra la supplica e la
certezza che quello che sta dicendo sia vero. È come se mi
stesse chiedendo di assecondarlo, di rassicurarlo che, in effetti, non
faccio più parte della sua esistenza. Ma se è lui
il primo a non crederci, non mi facilita certo il compito.
“…lo so…”
“E allora se lo sai esci dalla mia vita per favore,
esci!” e mi indica, sempre più carico di un astio
disperato, la porta.
Mi giro, la fisso, poi torno a squadrare lui, quasi con rabbia.
È evidente la sua ubriachezza, ma non credevo potesse
arrivare ad assimilare la sua vita con una semplice stanza da letto.
È una metafora piuttosto degradante.
Ti servirà veramente a qualcosa vedermi uscire da qui? Ti
farà sentire meglio?
O tornerai a disfarti, come hai fatto in questi mesi?
Questo dovrai dirmelo tu, e ho bisogno che tu sia lucido.
Continui a gridarmi di andarmene, mentre io rimango ferma, in silenzio,
quasi fossi in un altro mondo, estraniata da questi cinque minuti di
follia che ti stanno alle costole, senza manifestare la minima
intenzione di abbandonarti.
Ma adesso stai diventando veramente fastidioso, Frank.
Taci.
TACI, PERDIO.
Non mi accorgo nemmeno del movimento che sta compiendo il mio braccio.
Dei muscoli che lavorano per farlo salire, all’altezza del
tuo viso, il ritratto della disfatta. Delle dita della mano che si
stendono con una flemma inquietante, quasi abbiano capito anche loro
cosa si accingono a fare.
Ma lo sento, lo schiaffo che ti mollo.
Sento il rumore, secco.
Sento le dita prudere, informicolite.
Sento di nuovo il silenzio calare nella stanza.
Dura poco, però. Perché adesso sono io a prendere
la parola.
“È veramente questo quello che vuoi?”
Ricordati di quando mi hai strappato la vita in quel parcheggio.
Ricordati delle tue parole di allora. E imprimitele bene in testa,
perché sto per usarle contro di te.
Per risvegliarti dallo stupido letargo che ti sei imposto.
“Allora, rispondi. Lo vuoi veramente?…o vuoi
qualcos’altro?”
E tu rimani impietrito, basito, mentre mi avvicino, ti porto sul letto
e ti faccio sdraiare con veemenza, poi mi ritrovo sopra di te, e
avvicino con impeto la mia bocca alla tua.
E ti bacio.
Senza rancore, senza rabbia. Perché appena sento il sapore
delle tue labbra mi ricordo di quanto le abbia bramate, e di come sia
riuscita a ottenerle nel momento meno adatto e più crudele.
E la tristezza mi invade, ti raggiunge, si tramuta nel gusto
più dolce di questo mondo ed entra dentro di te come una
preghiera disperata.
Ti prego, non buttarti via.
Faccio fatica a staccarmi, perché non ne ho mai abbastanza,
perché vorrei nutrirmi di te ogni momento della mia folle
esistenza, ma devo farlo. Devo separare le nostre vite, anche se solo
per qualche istante, spero.
Ti guardo. La luce della luna è l’unica nostra
complice, e illumina il tuo viso, che riesce ancora a essere di una
dolcezza sconvolgente. Anche se è indurito dalla
disperazione.
I tuoi occhi sono smarriti, come quelli di un cucciolo indifeso. Ma
adesso c’è qualcosa, dentro di loro. Non sono
più vuoti.
Ci sono le lacrime.
Cerchi di trattenerti, ma non ce la fai. Due sottili rigagnoli si fanno
strada sulle tue guance, e diventano in pochi secondi due fiumi in
piena. Vorresti soffocare i singhiozzi, ma sono così
prepotenti da soffocarti loro.
Ed è allora che ti liberi. Che butti via mesi di tortura
auto-inflitta, di bugie raccontate a te stesso e agli altri, per farti
sentire migliore, per convincere il mondo che la colpa è
stata solo mia, che sono riuscita a fare del male a due persone, me e
te, con un solo gesto, una sola mossa infelice. Ma adesso non sembri
pensarla così, mentre nel pianto farfugli mille scuse che io
non voglio.
Perché non devi scusarti.
Abbiamo sbagliato entrambi.
È un automatismo farti alzare a sedere, e prenderti
dolcemente il capo e appoggiarlo sul mio petto, nella speranza che il
battito del mio cuore ti tranquillizzi. Ma come può farlo,
se va così veloce da rischiare di schizzare fuori come una
scheggia impazzita?
Ti accarezzo i capelli, rimandando indietro delle lacrime che non
voglio che escano adesso.
Non riesco a pensare a niente. Il cervello è pieno di te.
“Coraggio, è tutto a posto, adesso” ti
sussurro, la voce spezzata.
Ti calmi, lentamente. Il tuo respiro torna regolare. Alzi la testa dal
mio seno e mi osservi, gli occhi rossi e lucidi.
Non dire niente, per favore.
Lascia che sia il silenzio a parlare per te.
E nel silenzio mi porti con delicatezza a sdraiarmi, e tiri
giù la zip della mia felpa con gesti controllati, come se la
calma fosse l’unico modo per arginare la tempesta che ti si
agita in corpo. Capisco le tue intenzioni, e mi irrigidisco,
domandandomi se sia la cosa giusta. Ti fermi, e mi fissi titubante,
chiedendomi con gli occhi se voglio.
Stupida me, che ci sto anche a pensare.
Certo che voglio.
Annuisco, e mi alzo un poco, iniziando a toglierti la maglietta, e poi
i pantaloni, e tu slacci la mia cintura, e poi i bottoni dei miei
Levi’s, mentre mi compiaccio della mia destrezza nel
togliermi scarpe e calzini solo aiutandomi con i piedi. Sfili via anche
la mia maglietta con la perizia con cui si maneggiano gli oggetti
più fragili, quelli che parrebbero infrangersi solo a
guardarli, poi il reggiseno, e infine ci ritroviamo nudi, i nostri
vestiti ammucchiati a caso intorno al letto, ma che ce ne frega.
Non ci importa di niente e di nessuno adesso, né di quello
che è stato fino a qualche minuti fa, né di Bob,
che chissà se è sempre sulle scale a fumare,
neanche degli altri giù, al piano di sotto, gli occhi
cerchiati dalla stanchezza e troppe bottiglie di birra vuote accasciate
sul parquet. Siamo solo io e te, su questo letto, vinti dalla passione
e allo stesso tempo in preda a una sorta di soglia ultima di controllo,
che ci fa unire con attenzione e timore, quasi avessimo paura di
sbagliare qualcosa, di rovinare tutto con un gesto di troppo.
Quasi fossimo due ragazzini alle prese con la loro ‘prima
volta’.
Per noi lo è, in un certo senso. Siamo rinati dalle nostre
stesse ceneri, decisi a non nasconderci più, a fidarci
l’uno dell’altra, ad essere davvero noi stessi, coi
nostri troppi vizi, ma altrettante virtù che fanno capolino,
timide, ma determinate a reclamare il loro posto nel mondo.
Ci divoriamo a vicenda, come se dovesse essere la prima e ultima volta
che facciamo l’amore. Non una briciola d’energia va
persa, non un sussulto, non un bacio o una carezza. Siamo una cosa
sola, e intendiamo rimanerlo per molto tempo, ma la stanchezza
è troppa, così abbassiamo il tiro, e decidiamo
che almeno per stanotte può bastare.
La luna ci ha abbandonato. È ficcanaso, tremendamente
curiosa, si insinua nelle notti di tutti gli amanti della terra col
fare confidenziale di chi ti conosce da sempre, perché ti
osserva da quando sei al mondo, ma con noi non ce l’ha fatta.
Siamo troppo per lei.
Per lei, che gode delle vittorie e delle sconfitte, che illumina di
luce riflessa tutto quello che succede al di sotto del suo regno, che
sa di essere inutile, ma anche che senza lei ci sentiremmo persi nel
buio.
Luna, impallidisci.
Perché stanotte siamo noi gli imperatori del tuo frivolo
universo.
E tu scappi, la gobba ondeggiante, e lasci il campo al sole, che
lentamente annuncia la sua reggenza tingendo il cielo di colori tenui e
rosati.
È con questo sfondo, ancora violaceo, che inizio a
raccontare una storia.
Quella che tengo dentro da mesi, che pesa più di un macigno.
Quella che avrei voluto raccontare con calma, ma che uno stupido
malinteso ha fatto emergere troppo presto, senza darti nemmeno il tempo
di chiederti perché.
“C’era una volta una ragazza dai lunghi riccioli
scuri…” esordisco, sottovoce. Proseguo raccontando
della mia vita scolastica, dell’amore per la musica, la mia
prima chitarra, e poi il regalo dei miei genitori, la band, con mio
fratello e il suo amico, l’arrivo di Lucretia nella mia vita,
la disperazione che provavo nel costante terrore di perderla e la
decisione infelice di provare quel nettare velenoso, che lei stessa mi
aveva presentato.
Poi, la dipendenza. L’espediente di mio fratello, che ha
avuto il fegato di sprecare tempo, energia e cassette filmandomi in
quello stato pietoso. La lucidità che ho recuperato tutta in
un colpo, e che mi ha salvato la vita. Perché ero appesa a
un filo, e non me ne rendevo minimamente conto, ma gli altri
sì, mi vedevano, e sapevano.
E infine, arrivo alla fine della band, alle nostre vite sparpagliate a
giro per il mondo. Solo la mia è rimasta ancorata a casa, in
quella piccola bottega di tatuaggi, prima che lui entrasse, quel
giorno. Prima che Keith e Dave tornassero per volermi di nuovo con
loro, nella band.
Mentre racconto non chiede spiegazioni, non fa battute, né
sbadigli. Mi ascolta, senza segni di cedimento.
E gliene sono profondamente grata.
“Il resto della storia lo sai anche tu. Quello che vorrei
dirti, e che potrei riassumere come ‘morale della
favola’, è che quella ragazza…beh, si
capisce, sono io, e che non ho davvero più toccato niente di
quella roba. Sono pulita, lo sono sempre stata, da quando mi conosci.
Ti chiedo di fidarti di me, per favore” e finisco il racconto
della mia vita, una sigaretta tra le labbra, nuda, nel letto, accanto a
lui, con il tono non di chi supplica, non di chi tenta di convincere
con ogni mezzo il proprio interlocutore, non di chi mente.
Ma di chi ha l’impulso irresistibile e incontrollabile di
esporre la verità, senza fronzoli o addobbi che la rendano
più appetibile.
E lui sorride. Ha la stanchezza sul viso, ma è una
stanchezza finalmente felice, libera da ogni preoccupazione.
Inizia a parlarmi di come sia rimasto sconvolto dal mio passato, della
paura che aveva di dover ricominciare tutto daccapo, di dover reggere
il corpo stremato di qualcun altro a cui tiene, dopo Gerard.
“Ho avuto paura, soltanto paura” sussurra, affranto
dalla spietata lucidità con cui si sta ritrovando a riaprire
il suo armadio, pieno zeppo di scheletri.
“E di cosa?” chiedo ingenuamente.
“Di…di tante cose. Non ho pensato razionalmente,
non ho nemmeno contemplato la possibilità che tu fossi
pulita. Avevo solo questo pensiero fisso nella mente, ‘lei si
droga’, e non riuscivo più a ragionare con
lucidità. Avevo paura di stare di nuovo male al pensiero di
avere accanto a me qualcuno che si stava facendo del male, paura di
perdere questo qualcuno, paura anche di perdere me stesso,
così mi sono detto che forse il modo migliore che avevo per
soffrire meno era allontanarti. Sono stato un egoista imperdonabile, me
ne rendo conto, ma non riuscivo a trovare soluzione
migliore…ti prego, scusami se puoi…”
Gli si legge una tacita e radicata supplica, negli occhi.
Si sente in colpa, soprattutto dopo che gli ho urlato di essere
innamorata di lui, e non gli passerà presto, nemmeno se lo
scuso senza indugio.
Non sapeva cosa fare.
Gli avevo appena gridato in faccia che lo amavo.
Era paralizzato, diviso a metà tra l’orgoglio e
l’amore. Si sentiva lacerare, come se da una parte e
dall’altra ciascuno dei due lo stesse tirando a sé.
Avrebbe voluto rispondere “Anche io, cazzo,
Frankie!”, e dirmi che non mi avrebbe lasciata mai, che ci
sarebbe sempre stato, per non farmi cadere di nuovo in tentazione, per
rendermi un po’ meno fragile di quanto le apparenze dessero a
vedere, ma non c’è riuscito.
Quel bacio.
Un atto di violenza. Per me, ma anche per lui. Non avrebbe voluto che
fosse così duro, cattivo, distruttivo.
Avrebbe voluto riversarvi tutto l’amore di cui fosse stato
capace, ma non ce l’ha fatta.
E mentre si allontanava, sentiva il mio pianto disperato lacerarlo fin
dentro l’anima. Avrebbe voluto fare qualsiasi cosa per
fermare quella piena di lacrime e dolore, ma “avevo questa
voce stridula che martellava nelle mie orecchie e mi rassicurava che
stavo facendo la cosa giusta, che dovevo tornare da
Jamia…non sono stato capace di spiegare niente, quando sono
tornato al nostro bus, ma Mikey aveva capito, perché
l’ho visto schizzare fuori, nel parcheggio. Dentro di me lo
stavo ringraziando, pregando che si prendesse cura di te al mio posto.
Avevo da ricucire i frammenti della mia vita, ma ho come
l’impressione di averla polverizzata del tutto, agendo in
questo modo.”
Il senso di colpa aveva invaso ogni singola cellula del suo corpo. Non
se ne dava pace, e più tentava di scacciare quel pensiero
scomodo, più esso si affacciava beffardo alla sua mente,
gettandolo nel caos. Non riusciva a fare più nulla.
Non suonava.
Non mangiava.
Non amava.
Non viveva.
Pensava e basta, attorniato da lattine di birra e mozziconi di
sigarette che non avrebbe voluto più fumare.
Ma non aveva il coraggio di venirmi a cercare. Non avrebbe voluto
provocarmi altro male, facendosi risentire.
Questa decadenza era diventata intollerabile per gli altri.
Jamia l’ha lasciato. In un certo senso
s’è fatto lasciare, perché era
diventato tutto troppo insostenibile per il suo cervello, indebolito da
quel tarlo malefico.
Gli altri lo avevano momentaneamente sostituito nella band. Non
azzeccava più un accordo, nemmeno il più stupido.
S’era ritrovato a dormire sul divano di Gerard da un giorno
all’altro.
Ma nella pazzia, persino in quella più buia e abissale,
c’è sempre una luce che non si spegne mai. E per
lui quella luce è stata Mikey.
“Sai…il 31 gli Unnamed suonano a New
York…mi ricordo che ti piacevano
tanto…” gli aveva detto. E lui aveva capito.
Era una richiesta d’aiuto, quella. Goffa, impacciata,
dozzinale nel suo tentativo di risultare mimetica, ma era pur sempre un
modo come un altro per chiedere qualcosa di apparentemente
irraggiungibile.
Ha avuto un attimo di coraggio spudorato, e ha tentato il tutto per
tutto.
Fatta la mossa, c’era solo da sperare.
Ed è andata bene. Me lo confessa in un alito di voce sul
collo, mentre è intento a cospargerlo di dolci baci.
Vorrei che questi momenti non finissero mai, vorrei che durassero per
sempre, ma ormai il sole è alto. Sto pensando che devo
andarmene, per recuperare un altro pezzo importante della mia
esistenza.
E poi, ancora non gli ho fatto gli auguri.
E nemmeno un regalo.
Oh, ma per quello avrò tempo. Ho giusto un’idea
che mi saltella nella testa…
“So che è troppo tardi, ma…buon
compleanno, Frank” gli sussurro, avvicinando il mio viso al
suo.
A lungo le nostre lingue parlano tra loro, senza dare un minimo accenno
di voler terminare la conversazione, ma purtroppo il tempo è
tiranno.
Alle 17 devo essere a Boston. Stasera suoneremo là.
Scatto fuori dal letto e recupero i miei vestiti, chiedendo
immensamente scusa. Lui ride, divertito.
“Non c’è problema, davvero!
Piuttosto…chissà Gerard, poverino, gli
sarà toccato dormire sul divano…”
“Vabbè, è stato per una buona
causa!” ironizzo, prendendo le mie cose e dirigendomi a razzo
verso la porta.
“Ehi, dove credi di andare?”
“Beh, all’aeroporto, che domande!”
“Aspetta, ti accompagno.”
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Capitolo 18 *** Love Steals Us From Loneliness ***
uahhhhh,
che belli i commenti *_* grazie mille, mi fa piacere che quello che
scrivo piaccia a voi che leggete !
e,
sì, martù, pandistelle will save us all
u_ù/
Cap. 18
– Love
Steals Us From Loneliness
Ma dove volevo andare, da sola.
Mi sono accorta di non avere praticamente un dollaro, in tasca.
Pochissimi, a dire la verità.
Nel mio mondo meraviglioso sognavo di prendere un taxi per arrivare
all’aeroporto, e prendere l’aereo così,
senza biglietto.
Meno male che mi ha fermato. E che mi sta accompagnando. E che mi
pagherà il biglietto.
Non li rivuole indietro, i soldi.
“È fuori discussione!” sbotta,
indispettito. Mi metto a ridere, vedendo il broncetto che mette su,
quasi fosse offeso da tanta formalità.
“Ah, allora…beh, grazie” rispondo,
imbarazzata.
Adesso sono in macchina con lui, più o meno a
metà del tragitto, e i Black Flag che urlano dalle casse
dell’impianto radio.
È diversa. Rispetto a quella di Mikey, dico. Oltre a essere
più piccola, e di un rosso fiammante, è piena di
cose sue. Oggetti che hanno qualcosa da raccontare.
Cd sparsi sui sedili posteriori. Bottigliette d’acqua e
lattine di Coca Cola vuote a giro. Un ombrello. Un paio di occhiali da
sole addormentati sul cruscotto.
La Mercedes nera di Mikey è asettica, ordinata, elegante.
La Mini di Frank è allegra, incasinata, vissuta.
È Frank. Ed è incredibile come qualsiasi cosa gli
appartenga parli a voce alta di lui.
“Scusami, avrei dovuto darle una
pulita…” mormora, a disagio, mentre mi vede posare
lo sguardo, curiosa e avida di sapere, su ogni angolo, anche il
più nascosto e insignificante, di quel microcosmo.
“Tu non hai visto la mia. Altro che dischi e
lattine!” replico, mettendomi di nuovo a ridere, e
contagiandolo. Così inizia a farmi un sacco di domande sulla
mia macchina, un maggiolone originale degli anni ’70 rimesso
a nuovo e, che, purtroppo, ho sempre un po’ trascurato: il
posacenere sempre pieno, accendini ovunque, giornali dimenticati nei
vani portaoggetti, la radio, che appena viene accesa gracchia come un
corvo. Il motore, che ha provato ad abbandonarmi plurime volte, e che
sembra lavorare quasi controvoglia, facendo per di più un
rumore infernale, quando giro la chiave nel quadrante.
“Eppure non riesco ad abbandonarla. Sai quante volte mi sono
detta ‘adesso basta, devo comprarmi una macchina
nuova’? Però, ormai, è parte di
me” confido, sospirante, mentre lui ascolta divertito.
Qualche attimo di silenzio, poi mi dice: “Ma dove la ritrovo
una come te?”
Rimango interdetta.
“Eh?”
Nel silenzio, sorride, e spegne la radio. Sono un po’
irritata da questo gesto, perché odio i lunghi silenzi in
macchina. Mi piace quando c’è la musica a creare
un sottofondo piacevole, e adesso non c’è
più nemmeno lei, invece.
Storco la bocca in una smorfia di disappunto, e al tempo stesso
curiosità.
Voglio sapere.
Quindi ribadisco la domanda.
“Una come me IN CHE SENSO?” chiedo, scandendo ben
bene le ultime parole, distillando in ogni singola sillaba la profonda
sensazione di disagio che sta prendendo a poco a poco possesso di me.
Lui, incurante, continua a guidare con quel ghigno beffardo piantato in
faccia, finché non si inizia a scorgere la sagoma
dell’aeroporto farsi sempre più vicina.
Entriamo nel parcheggio, sempre in silenzio, alla ricerca di un posto.
Sto cercando di trattenermi, ma la curiosità mi ha sempre
fregato. Però so che non è uno stupido (sebbene
alla luce degli ultimi fatti qualcosa mi abbia portato a pensare
l’esatto contrario), e so che non è nemmeno sordo,
per cui ha sentito benissimo la mia domanda, e ha sentito anche il tono
piccato. E forse è per questo che tace. Per farmi
innervosire ancora di più.
Trova il posto agognato.
Vi si sistema con perizia. Non avrei saputo fare meglio.
Tutto sommato guida bene, più prudentemente di Mikey, il che
mi fa stranissimo. All'inizio avrei detto completamente l'opposto.
Mikey, così calmo e posato.
Frank, così allegro e spigliato.
Entrambi dotati di un modo di guidare che superficialmente non li
rispecchia.
Ma, mi azzardo a elucubrare, nel profondo li identifica senza alcun
margine di sbaglio.
Spegne il motore.
E si volta a guardarmi, sempre sorridendo.
Spero solo non sia una cazzata colossale delle sue, penso.
“Sei speciale."
Prego?
Questo pare dire la mia faccia.
Incredulità, stupore, sorpresa? Il mio sopracciglio alzato
la pensa diversamente.
Non c'è incanto sul mio viso. C'è solo un grosso
punto interrogativo, e una scritta che parte dalla fronte e, riga dopo
riga, arriva al mento.
Mi stai prendendo per il culo?
Sembra capire, per un momento. E solo dopo che ha parlato, mi accorgo
che ha davvero afferrato il senso della mia espressione.
"Nessun’altra è come te, e sono felice che tu sia
mia.” chiosa. Niente sguardo sognante, né voce
melensa. É sicuro di quel che sta dicendo, e la
determinazione gli si legge negli occhi, si sente nella sua voce,
ferma, eppure piena di calore.
A questo punto spalanco gli occhi, e anche la bocca.
Effettivamente, no, non è affatto una cazzata.
Indovinate un po’?
Arrossisco.
Sento il fuoco sulle guance, e lui si mette a ridere, vedendomi.
Poi si avvicina, e mi tira un pizzicotto.
“Ma quanto sei carina quando arrossisci!”
Non trovo niente di meglio, come risposta, che fargli una sonora
pernacchia, con strafottenza. Ma non se la prende a male, anzi, ride
ancora di più.
“Vedi cosa intendo? Nessuna mi avrebbe risposto a pernacchie,
tranne te!”
“Non ti piace? Guarda che ne so fare di meglio
eh…”
“Naaaaaaaaaah, non intendevo quello. Mi piaci così
come sei, a improvvisazione, senza copioni definiti. Tu sei bella
perché sei spontanea, sei capace di cominciare a ridere a
crepapelle per un’infima cazzata, o di scoppiare a piangere
come una bambina se c’è qualcosa che ti turba, e
vai bene così, non devi controllarti!
Sei…sei…oh, cavolo, adesso inizierò ad
incartarmi e non sapere più cosa dire, dannato
me!” conclude, strizzando gli occhi, le dita che scorrono
frenetiche e nervose tra i capelli, scompigliandoglieli tutti.
Il mio dito si posa tranquillo sulle sue labbra.
“E allora taci, o rovinerai tutto” mormoro, ancora
imbarazzata da quell’esternazione così sincera.
Grazie. Se prima avevo tutti i motivi di questo mondo per pensare che
mi stessi dicendo una cazzata, adesso ne ho altrettanti per partire
sempre più controvoglia.
Perché vorrei stare con te, e godere appieno di tutto
l'amore che ti ribolle nel petto, e che non riesci nemmeno a comunicare
a parole, tanto è grande.
Ma non ti sto lasciando per senso del dovere. Quello mi è
sempre mancato.
Se mi sono decisa a partire è perchè non voglio
perdere la mia prima, vera, ragione di vita. L'unica a farmi
sopravvivere, prima che arrivassi tu.
É grazie al mio sogno e alla mia passione se ti ho
incontrato. Ed è per colpa loro, se adesso devo abbandonarti
un'altra volta.
Perché mi stanno sfuggendo di mano, stanno scappando via da
me, e devo correre a riprenderli, se non voglio maledire il mio egoismo
fino alla fine dei miei giorni.
Se non voglio mandare alla malora anche il sogno e la passione di due
ragazzi che mi hanno aiutato, senza chiedere mai nulla in cambio. Sarei
veramente una stronza.
Ma almeno, mi consola lasciarti qui con la nostra scaramuccia
finalmente conclusa, con un bel cartello gigante, che reca la parola
'FINE', davanti.
Lasciarti qui sapendo che sei finalmente mio, e che non c'è
più nulla a turbarti, a sconvolgere il tuo sonno.
Un bacio fugace, quello che ci unisce adesso.
Altrimenti perderò l’aereo.
“Dai, muoviamoci!” mi esorta, uscendo dalla
macchina.
"Cos'è, ti vuoi liberare di me?" rispondo, ridendo.
“Hai avvisato qualcuno?”
“Beh, no, vorrei prima sapere a che ore partirò,
sai com’è…” replico, saccente.
“…giusta osservazione. Su, su, una
mossa!” esclama, spingendomi verso l’ingresso.
Mentre cammino la mia testa si fa teatro di una ridda incontrollabile
di pensieri.
Mi chiedo se Keith sia sempre alterato come stanotte. Mi ha fatto
paura, devo ammetterlo. E chissà se anche Dave ce l'ha con
me perché li ho piantati in asso così,
all'improvviso, senza un motivo apparente.
Frank mi vede soprappensiero, ed è così gentile e
premuroso da lasciarmi travolgere dalle mie cavalcate mentali per
chiedere quale sia il primo volo per Boston, e se ci siano ancora posti
liberi.
A un certo punto è come se mi risvegliassi nel mezzo di un
sogno. Mi sento intontita, ma una cosa scorre lucida nei miei neuroni,
e gliela grido, perché voglio che mi senta, che mi
assecondi, che mi dica di sì.
"FRANK! PARTI CON ME!"
Non mi dire no, ti prego, non mi mostrare la verità
così schiettamente. Non voglio più stare senza di
te.
Si volta, e mi osserva sconsolato, anche un po' triste.
"Lo farei anche subito, ma non posso. Devo riprendermi, abbiamo anche
noi dei concerti da fare...mi dispiace. E poi, sei fortunata.
È rimasto un solo posto libero."
No, non dispiacerti. Hai soltanto ragione, non è colpa tua,
né mia, né di nessun'altro. Sono solo stata
egoista a chiedertelo, a pensare, anche solo per un fuggevole attimo,
di essere per te più importante della tua band.
Sorrido, triste ma consapevole.
Il peggio è passato per tutti e due. Adesso dobbiamo
soltanto raccogliere i cocci e incollarli pazientemente, cercando di
non sbagliare a sistemare i pezzi e aspettando con flemma che la colla
si asciughi e lasci che stiano insieme senza essere tenuti dalle nostre
mani maldestre.
Mi accompagni al gate, e ti congedi da me con un bacio che ha il sapore
della malinconia e che sembra rassicurarmi, senza soluzione di
continuità, che ci rivedremo presto, e che riusciremo ad
avere un po' di tempo per stare veramente insieme, come due persone
qualsiasi che si amano.
Prima di salire sull'aereo però chiamo Dave, e gli chiedo se
può venirmi a prendere alle quattro e mezzo.
Risponde di sì, ma ha un tono che mi preoccupa: è
come se volesse camuffare un qualcosa di negativo con l'euforia e la
felicità di risentirmi. Mi chiama persino per nome. Erano
anni, tanti anni, che non lo faceva. Io per lui sono sempre stata
‘stellina’, e nessuno, a parte lui, doveva, e deve,
permettersi di chiamarmi così. Quindi ho tutte le ragioni
del mondo per crucciarmi.
"...Dave, stai bene?"
"Massì, massì! É tutto a posto! Dai,
allora ti aspetto all'aeroporto alle quattro e mezzo!"
"Ok...grazie" concludo, meditabonda. Spengo il telefono e mi giro
indietro, per vedere se c'è sempre. Ed è
lì, dietro un vetro, che mi guarda e, imbarazzato, come uno
scolaro delle elementari, fa per alzare la mano e salutarmi, indugiando
per lunghi istanti, finché non ci riesce, sorridendo
timidamente. Ricambio il sorriso e il saluto, poi salgo sull'aereo e
prendo posto.
Appena mi siedo, frugo convulsamente nella tasca del giaccone, alla
ricerca del lettore mp3. No, niente iPod per me, va troppo di moda.
È un ragionamento che ha fatto storcere la bocca a molti, in
primis a Alice, che mi ha regalato questo, e invece avrebbe voluto
prendermi un iPod fucsia. Ma sono più contenta
così, con le mie convinzioni del cazzo, che mi aiutano ad
andare avanti senza troppi intoppi. Ma stavolta, la convinzione che
ascoltare la musica riduca al minimo l’attività
paranoide del mio cervello è del tutto errata e fuori posto.
Mi rode averlo sentito così giù di morale. In
realtà non ho smesso di pensarci un attimo,
perché non è da lui. Dave è sempre
quello che porta una ventata di buonumore nella band, quello che
suscita un sorriso anche solo dicendo la più immane delle
stronzate, quello che, se attacca a ridere, contagia tutti gli altri.
Non l’ho mai sentito con quel tono di voce, e nemmeno ridere
così nervosamente, così stizzosamente.
Così fintamente.
Perché non ho chiamato Keith? Almeno mi sarei risparmiata
tutta questa fila di seghe mentali. È incazzato, e lo so sin
troppo bene. Magari mi avrebbe sorpreso in positivo, mostrandosi
tranquillo. Magari.
In realtà il motivo per cui mi sono buttata a pesce sul
numero di Dave, senza pensarci nemmeno un attimo, è stato
proprio questo.
Non volevo sentire mio fratello ancora alterato con me. Che ci crediate
o no, fa male più di una rasoiata maldestra. Quelle in cui
ti tagli senza cognizione di causa, per sbaglio, e quindi non
c’è precisione nel colpo, e il dolore diventa un
affare dispersivo, bruciante, il sangue esce e vorresti che si
fermasse, e invece no, non ti ascolta e prosegue nella sua corsa verso
l’infinito e oltre.
Confidavo nella consueta allegria del nostro bassista, e invece ci sono
rimasta fregata. Perché adesso è solo
affabilità, e nient’altro. Una
cordialità affettata che mette profondamente a disagio
chiunque abbia a che fare con colui che la usa.
Frank è passato in secondo piano rispetto a tutto questo.
È tutto a posto con lui, per fortuna. Ma anche questo non
faccio che ripetermelo come un mantra, quasi dovessi convincermene,
quasi non fosse vero.
Probabilmente l’unica cosa che non va in tutto questo sono
io.
Io che non riesco a gestire a dovere la mia vita, che per inseguire un
amore perduto metto da parte senza troppi complimenti chi, di affetto,
me ne ha dato da sempre, che risolvo costantemente problemi che
fondamentalmente mi creo da sola, e soprattutto che mi faccio delle
paranoie assurde, finendo per pensare troppo a tutto quel che mi
riguarda.
Dovrei spegnere il cervello e agire d’istinto, qualche volta.
La sa lunga al riguardo.
Adesso sia lui che la ragione mi stanno guardando e ridono. Uno ride
perché ha pietà di me e dei miei cavilli,
l’altra perché è isterica, nervosa,
abusata, e mai con buoni esiti. Perché, diciamolo, la
verità è che sono ridicola. Non ho capito proprio
niente della vita, e lo dimostra il fatto che sono qui, seduta in un
aereo che sta per atterrare, con le cinture slacciate e il bambino
vicino a me che mi dice, esitante per la paura di disturbarmi (questa
dannata paura andrebbe abolita. Non può pietrificare anche i
bambini.): “Signorina, devi allacciarti le
cinture…”, per il fatto che non lo sento,
perché adesso Iggy Pop urla come un cretino nelle mie
orecchie che vuole essere il mio cane, e io gli rispondo, e tutto
questo si svolge nel mini-mondo idilliaco che ho costruito nel mio
cervello, che non ho bisogno di animali da portare fuori a pisciare, ma
solo di un po’ di sana, fottuta, tranquillità, e
finisco per mandarlo a fanculo, e poco ci manca che ci mando anche la
hostess che viene a picchiettarmi gentilmente, ma con odio, visto che
sono un grumo nell’impasto perfetto del suo lavoro qua sopra
per oggi, sulla spalla, invitandomi a togliere le cuffiette e ad
ascoltarla, e io vorrei dirglielo, che preferisco Iggy, ma non credo
che capirebbe, e allora mi tocca assecondarla, a questa schifosa vacca
rompicoglioni. Comincio a stancarmi di tutto questo, comincio a
diventare insofferente verso tutto e tutti e non vorrei, vorrei che la
vita fosse davvero un idillio, un pensare solo alle stronzate, a
suonare, a sfondarmi di gelato e birra, che sì, è
un accostamento osceno, ma ha il suo perché, ai regali da
fare agli amici e a…oh, cazzo.
Ho giustappunto un regalo in sospeso. E mi sono dimenticata di
parlargliene. Chissà quando lo rivedo…io voglio
dirglielo ora, subito, immediatamente! Ma naturalmente non siamo ancora
atterrati, non posso ancora accendere il cellulare e soprattutto adesso
che scendo devo subito cercare Dave, che è talmente di
aspetto ordinario, e io sono così rincoglionita da tutto
quello che mi è successo nelle ultime
ventiquattr’ore, che già so che farò
una fatica immane per trovarlo.
Per fortuna lui trova me. E ovviamente ha su un muso che mi spaventa.
Mi saluta cordiale, ma freddo.
“Cos’hai?”
“Eh…ero preoccupato per te…e anche per
Keith. è da ieri sera che si comporta come un
orso.”
”Non faccio fatica a indovinarne il
motivo…” concludo lapidaria, con una feroce ironia
che non mi appartiene.
Ma d’altronde, mi sembra di non essere l’unica a
prestarmi a questa buffonata. E allora facciamo le cose per bene.
E, per favore, andiamocene da qui.
Odio gli aeroporti.
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Capitolo 19 *** On My Own ***
aggiorno ancora, prima
di andare a vedere sto famigerato film dei simpson :Q____
vi
adorooooooooooooooooooh!!! >o
Cap. 19
– On My
Own
Il silenzio non è sempre così bello e
tranquillizzante come si può pensare.
Nei film dell’orrore è sempre presagio di un bel
casino. È odioso se te ne stai seduto con la chitarra in
braccio e non riesci a trovare nemmeno una nota per cominciare a
comporre qualcosa, avvilente se suoni su un palco e la gente che
è intorno tace, immobile, senza scomporsi, ieratica come
solo le sconfitte sanno essere.
Ma, soprattutto, il silenzio sa essere di una cattiveria inconcepibile.
Quando non si sa cosa dire, esterrefatti da una visione che non avremmo
voluto passasse davanti agli occhi, quando si ha la ferma
volontà di fare del male a qualcuno, non importa se per
indifferenza, odio, o soltanto un insano istinto di sopravvivenza che
porta a dimenticarsi degli altri, quando la rabbia è
talmente tanta che piuttosto che esplodere si preferisce implodere,
farsi schiacciare da se stessi e dalle proprie umane, fottute paure.
Il silenzio è una maledizione per me. Sopraggiunge sempre
nei momenti peggiori, quasi la mia esistenza fosse il copione di un
horror. Niente budella a giro e cuori pulsanti che giacciono indolenti
a terra, per fortuna, ma il senno a brandelli, quello si che
è sparso ovunque.
È tutto il giorno che questo mutismo mi assorda. Prima
Frank, che poi, per fortuna, risolve la situazione con un colpo di coda
assolutamente piacevole (penso sia un caso più unico che
raro, in cui il silenzio mi porta a qualcosa di positivo), poi Dave,
che nemmeno mi chiede cosa sia successo, come sia andata, niente.
Abbiamo taciuto, dentro a quel taxi, come due scolari messi in
punizione. Senza nemmeno guardarci negli occhi. Sfuggente lui,
imbarazzata io.
Perché avrei dovuto farmi imbarazzare dalla sua presenza?
Non lo so, giuro non riesco a comprenderlo. Però lo ero, e
la mancanza di una spiegazione razionale raddoppiava il disagio.
E poi, stasera. È stata una scena surreale.
Un soundcheck muto.
Niente scambi di opinioni, niente imprecazioni, niente di niente. Solo
gli strumenti rantolavano sommessamente, tra i brontolii
dell’impianto di amplificazione, quasi a chiedersi che cazzo
stesse succedendo. Tutto lo staff era profondamente a disagio, e io a
scusarmi con tutti loro, come se la colpa fosse solo mia. Beh, in un
certo senso sì, lo è. Mi sorridevano, senza
biasimarmi per essere sparita nel nulla ieri sera. Almeno loro.
Dave continuava a tacere e fuggire, e Keith mi rivolgeva occhiate torve
e colme di disappunto, senza proferire nemmeno il minimo grugnito. E
invece io avevo una schifosa voglia di parlare, di sapere il
perché di questa pantomima così ridicola, di
raccontare cosa è successo e di indurli a fidarsi di me e di
quello che faccio, perché non sono più una
bambina. Purtroppo tutto questo mi sono dovuta accontentare di dirlo a
me stessa, per l’ennesima volta. Quando inizi a ripeterti
dentro le solite cose, finisci per venirti a noia.
I minuti scorrevano lentamente, le sigarette però si
accumulavano tristi e sbrigative nel posacenere. Un paradosso
temporale. Come in quei video, in cui un personaggio scorre lentamente,
e un altro a velocità raddoppiata. Non so, mi vengono in
mente i Radiohead di Street Spirits, o American Idiot dei Green Day.
Mi sfugge la ragione per cui stia pensando a queste cazzate.
Perché, suvvia, ricordarmi di un video dei Radiohead non
servirà a farmi suonare decentemente stasera.
E parto, parto a ragionare, in solitudine, a chiedermi cosa avrebbe
fatto Thom Yorke nella mia situazione, a chiederglielo proprio, in un
ridicolo dialogo tra me e me travestita da lui, e mi sembra di giocare
a poker col morto, perché effettivamente lui non
è qui ad ascoltarmi, e anche se ci fosse non credo
considererebbe più di tanto le mie folli elucubrazioni.
Sono sola, no?
E in quanto tale devo rimboccarmi le maniche e risolvere tutto by
myself, perché tanto non c’è nessun
Thom Yorke, nessun Billie Joe Armstrong, nessun Billy Corgan, o Lou
Reed, o chiunque altro a caso, qui, a dirmi che sto sbagliando a stare
zitta, che devo perlomeno passare un dito sulla polvere e mostrarlo
grigio, che è sempre più prudente che creare ad
arte una nuvola malefica che faccia pizzicare i nasi altrui.
Me lo sto dicendo da sola. Lo sto sussurrando, ormai. Riesco a
distinguere la mia voce tra il clangore dei piatti, i colpi secchi
delle percussioni, il borbottare, quasi rassegnato, del basso e le
sporadiche note emesse dalla mia chitarra. Sì, ho
praticamente smesso di suonare, e adesso me ne sto seduta a terra, la
chitarra sulle gambe, l’espressione da ebete. Potrei giurare
di avere anche la bocca semiaperta, il che non migliora certo la mia
situazione.
Il mio sguardo si ridesta di colpo, smettendo di fissare il nulla, e
vede davanti a sé un paio di tecnici a metà tra
lo sbigottito e l’allarmato, mentre tuttavia se la ridono, e
due paia di occhi familiari, che osservano la scena inviperiti, ma
preoccupati.
Ah, finalmente l’avete inteso, che c’è
qualcosa che non va.
Serro le labbra, mi acciglio, guardo tutti male e mi giro di spalle a
suonare.
Sto pensando, non rompetemi i coglioni.
E mentre penso un nome riaffiora, e vorrei che non lo facesse mentre
sono impelagata in situazioni così critiche,
perché ho l’impulso quasi istantaneo di afferrare
il telefono e chiamarlo, e sentirmi confortare. Come se potesse
risolvere sempre tutto, lui.
E, tanto per smentire chi non crede nella telepatia, si propaga
nell’ambiente quella terribile sigla degli Happy Tree
Friends, che mio fratello non sopporta.
Vorrei che suonasse all’infinito, solo perché gli
dà fastidio. Vorrei vederlo triturarsi le orecchie dalla
disperazione, come nel peggiore degli incubi, in cui sei davanti a
qualcosa che non vorresti vedere, ma la luce non si spegne, le tue
gambe si sono vulcanizzate con il pavimento e, ovviamente, la cosa non
accenna a togliersi dal tuo campo visivo.
Una piccola vendetta, la mia. Talmente piccola che dura pochi, irrisori
secondi.
“Rispondi a quel cazzo di telefono!” sento sbottare
alle mie spalle. L’ordine è talmente perentorio
che mi sento quasi in dovere di ubbidirgli.
E, nemmeno a farlo apposta, è proprio la persona che avrei
voluto chiamare.
“Pronto?”
“Ehi, sei arrivata? Tutto a posto?” mi sento
chiedere a raffica con tono allegro.
“Hm, immagino di sì…”
biascico, titubante.
“Successo qualcosa?”
“Dunque…sì e no. Ti dispiace se ti
spiego più tardi? Stiamo facendo il
soundcheck…”
“…ah.”
Cazzo, sembra dispiaciuto.
“Dio, scusami, Frank, è che…uff,
aspetta” e mi alzo, mollando la chitarra a terra e uscendo
fuori dal locale, sul retro.
Mi ha dato retta. Ha aspettato.
“Ci sei adesso?” mi chiede, premuroso.
“Sì, eccomi…io non so cosa stia
succedendo, ma ti faccio una domanda…ti è mai
capitato di fare un soundcheck completamente in silenzio?”
Ha capito. Rimane in silenzio dei secondi, poi mormora:
“Cazzo, mi dispiace…è colpa mia se
adesso non ti parlano…”
“Macchè colpa tua! Sono loro a essere degli
imbecilli, soprattutto quel cretino di mio fratello!” sbotto,
esasperata.
“Comunque, sto bene…mi faccio risentire io stasera
dopo il concerto, ok?” riprendo, pacando i toni.
Fottuto orgoglio. Non sono riuscita a dirgli come stanno le cose.
Non posso certo aspirare nell’aiuto di qualcuno se sono la
prima a precludermi questa possibilità. È anche
vero che non mi va di tirarlo nei miei problemi, sarebbe soltanto da
egoisti e incapaci, senza un minimo di spina dorsale.
“Va bene! Allora a stasera!” esclama, di nuovo
raggiante.
Attacchiamo in sincro, ancora incapaci di dirci quanto contiamo
l’uno per l’altra.
Sembriamo davvero due adolescenti al loro primo amore.
Torno dentro, e capisco che hanno capito.
Keith è ancora più torvo di prima, e
Dave…non so perché faccia così.
È letteralmente sconsolato.
Oh, al diavolo. La mia massima preoccupazione adesso
dev’essere solo la chitarra.
La imbraccio di nuovo e mi metto a suonare con foga, scordandomi di
tutto il marcio che ho intorno, di tutte le delusioni che sto dando e
sto, per contro, ricevendo, di tutto quello che vorrei andasse per il
verso giusto e invece non ci sta andando, e chissà quante
altre cose, che si rincorrono frenetiche nella mia testa senza nemmeno
pensare ad acquisire una forma vagamente riconoscibile.
Sento che stasera suonerò bene. È nel pieno della
rabbia che riesco a dare il meglio.
Oramai manca poco. Tra una mezz’oretta suonerà il
gruppo di apertura, poi toccherà a noi.
*
Mediocri.
Questo siamo stati stasera.
La tensione tra noi era palpabilissima. Si sarebbe potuta fare a fette
con un coltello.
E si sentiva. Cioè, tecnicamente non abbiamo sbagliato
nulla, no stecche, no perdite di passaggi, nemmeno dissonanze tra gli
strumenti.
Ma siamo stati freddi. Profondamente professionali. Come se questo
fosse uno sporco lavoro, e noi fossimo stati gli unici disposti a
farlo, per di più controvoglia.
E la gente non si divertiva, e s’è visto.
È stato come se avessero assistito alla performance di tre
sbarbatelli alla loro prima occasione di suonare live. O di tre vecchie
rockstar annoiate.
Nemmeno agli esordi eravamo così. Sbagliavamo, ci fermavamo
a metà canzone, nella sala prove, se a Dave partiva una nota
di troppo (e succedeva piuttosto spesso), oppure se io partorivo un
accordo che sembrava il rantolo di un gatto morente ricominciavamo
daccapo, suonavamo seduti, anche sdraiati, ridevamo e ci prendevamo
anche a parolacce, ma eravamo schietti, sinceri, spontanei. Quello che
non siamo stati stasera, troppo occupati a seppellire sotto note a
casaccio le nostre rispettive incazzature.
Mi sono accorta dello schifo che stavamo facendo. Ho guardato Dave,
come a chiedergli spiegazioni ovvie, che già sapevo, ma lui
ha rivolto lo sguardo altrove, e Keith, bontà sua, era perso
dietro la sua batteria, sforzandosi, come mai ha fatto, di suonare
decentemente. Quello che per lui è sempre stato un
divertimento, l’ho visto assumere la forma di un onere da
compiere, un qualcosa di forzato. Lui non era lì, non tra i
suoi amati piatti e tamburi, ma provava a rimanerci, per un innato
senso del dovere.
Se non possiamo salvare l’alchimia, almeno per stasera
salviamo la tecnica.
Questo pensiero correva da un cervello all’altro su quel
palco, che improvvisamente era diventato troppo piccolo per poter
ospitare tre teste di cazzo di proporzioni mitologiche come noi.
In ogni caso, questo non ci giustifica: abbiamo fatto schifo. Solo che
non troviamo il coraggio di dircelo, nemmeno in albergo, quando siamo
solo noi.
Tre coglioni, che mettono da parte l’amicizia, la musica e
tutto quello che hanno condiviso fino ad ora, per guardarsi nelle palle
degli occhi e finalmente gridarsi contro che c’è
qualcosa che non va, e che va risolto al più presto, senza
spargimenti di sangue.
Tre coglioni. Solo tre coglioni. In silenzio, per giunta.
Ecco quello che siamo.
Adesso basta.
“Che cazzo sta succedendo?” chiedo, infine.
“Questo dovresti dircelo te” risponde, finalmente,
uno dei due.
Keith.
Alla buon’ora.
“Beh? Perché io?” incalzo, alzando un
sopracciglio, con l’aria più stralunata del mondo.
Meglio far finta di niente.
“E lo chiedi anche? Pigli, te ne vai
all’improvviso, sparisci e ce lo dici quando sei
già sulla macchina e si vede il cartello
‘BENVENUTI IN…’ hm,
dov’è che eri?”
“New Jersey…” sospiro.
“Ecco, sì, ‘BENVENUTI IN NEW
JERSEY’, fai i tuoi porci comodi là e torni
così, per suonare e basta, perché ti senti la
coscienza più sporca di una discarica, e hai il coraggio di
chiedere perché ce l’ho con te?”
Taccio. Perché in fondo ha ragione. Sorvolo con eleganza
sulla coscienza sporca come una discarica, perché
è un colpo basso. Di quelli che ogni tanto snocciola per far
sentire in colpa il prossimo.
Ma so benissimo di essere a posto con me stessa. Non mi freghi,
stavolta.
“Dì la verità,
Frances…”
No, che cazzo. Non chiamarmi per intero.
Questa non la passi liscia.
“…ma tu hai capito vagamente come si sta al
mondo?!”
“Beh, ovvio. Sennò non sarei sempre qui,
viva…” ribatto ironicamente.
Errore. Errore grosso, quando si ha a che fare con Keith.
Il sarcasmo lo infastidisce. E oltretutto è anche il doppio
di me. Se gli scappa di mollarmi anche solo un buffetto, si ritrova
né più né meno con una sorella
cadavere, e gli anni di risse fuori dalla scuola non mi serviranno a
niente. È pur sempre mio fratello. Quello che mi bloccava
sempre, quando davo in escandescenze.
Mentre mi maledico, scorgo con la coda dell’occhio Dave, in
silenzio in un angolino. Mi ero scordata di lui, ma lui, come
biasimarlo, d’altronde, non può scordarsi di noi,
visto l’acceso scambio di battute cui sta assistendo. Il suo
sguardo smarrito rimbalza da me a mio fratello, poi di nuovo su di me,
poi su di lui, come se stesse seguendo una partita di ping-pong e non
riuscisse a vedere bene dove va la pallina ogni volta.
Mi fa un po’ pena. Potrebbe anche uscire e andare a bersi una
birretta, invece di stare a guardare maniacalmente lo spettacolo
increscioso che io e Keith stiamo offrendo. Invece rimane
lì, nell’angolino, nemmeno avesse una colpa da
espiare.
Mio fratello incassa il colpo, ma lo vedo, che sta affilando le armi.
E parte. Provocazioni stupide, che da lui non mi sarei mai aspettata.
Vi dirò, l’ho sempre creduto più
intelligente. Probabilmente lo sopravvalutavo, perché uno
che proferisce certe cattiverie così innocue non
può essere tanto sveglio. Mi sembra il minimo starmene in
perfetto silenzio, quasi come un gesto di solidarietà nei
confronti del povero Dave, che mi sembra sempre più perso
nella nostra idiozia.
Almeno finché l’imbecille non partorisce la cagata
più infelice,
più…più…cazzo, ma siamo
sicuri di essere figli degli stessi genitori?
“Almeno ti ha scopata bene, quella mezza sega?”
Detto con un tono che lascia intendere di tutto. Malizioso, viscido,
sporco.
No, questo non è mio fratello.
Frankie, resta calma.
“Prego?”
“Mi hai sentito benissimo.”
Ah, perfetto. Non smentisce.
“Ma lo sai che non capisci un cazzo?” rincaro la
dose.
“No, TU non capisci un cazzo, a confonderti con
quello!”
“Vaffanculo” borbotto. Non ho voglia di litigare.
Però adesso sta esagerando.
Continua, non capisce che c’è un limite a tutto,
non capisce che e provocazioni non portano ad aggiustare le
circostanze, ma spargono solo del sale in più su ferite che
fanno già da sole un male atroce.
Vorrei pregarlo di smetterla, ammettere tutte le mie colpe, anche
quelle che non ho commesso, ma non ci riesco, forse perché
so di non avere così torto.
Che c’è di male a fare quel che ho fatto?
Stava male.
Per colpa mia.
E io stavo male.
Sempre per colpa mia.
Ma a lui, che importa. Prosegue nella sua opera di distruzione della
sorella, colpevole di chissà quali atroci misfatti. E io non
ci vedo più, non sopporto più le sue frecciate
velenose, le sue secchiate di vetriolo. E ribatto, crudele, rabbiosa,
senza tuttavia far sfociare il tutto in qualcosa di più
viscerale. È sorda, inodore, inconsistente, la mia rabbia,
anche se ho qualcosa, qualcuno, da difendere.
E Dave, in tutto questo, Dave…si alza in piedi. E noi non ci
accorgiamo di lui, non della furia che gli esce persino dagli occhi,
non dei pugni serrati e nemmeno della sua esasperazione.
“BASTA!”
Silenzio.
Ci voltiamo a fissarlo, gli occhi spalancati.
“Mi avete rotto le palle con le vostre bambinate!”
sbotta, livido. Poi attraversa la stanza, passando in mezzo alle nostre
scintille di odio puro, apre la porta e se ne va, sbattendola dietro di
sé.
E in fondo questo siamo, io e Keith.
Bambini.
Perché non trovo altro di migliore da dire, se non:
“Hai visto? Sei un’idiota! Ammettilo, di aver
esagerato! Hai pisciato di fuori!” e corro via da quella
stanza, sbattendo a mia volta la porta, e inseguendo Dave.
|
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Capitolo 20 *** Your Revolution Is A Joke ***
e
qui iniziano a saltare fuori le magagne, dico solo questo...buona
lettura e sempre grazie per i commentini e le recensioncine ♥
!!!
Cap. 20
– Your
Revolution Is A Joke
“Lasciami stare!”
“Ma anche no!” rispondo, risoluta, in non so che
strada di Boston.
Ho seguito Dave, pregandolo di tornare indietro, di risolvere insieme a
noi la questione.
“Non ho proprio niente da risolvere io!”
è stata la sua risposta.
Forse sono idiota, a pensare di poter risolvere qualcosa. Forse non
c’è davvero nulla su cui mettere le mani.
Forse siamo finiti.
Ancora una volta.
Solo a pensarci sento chiaramente un magone stringermi la gola.
No, non voglio, stavolta. Non voglio che tocchi a me essere
l’elemento di disturbo, il pomo della discordia della
situazione. Non voglio che Dave se ne vada per colpa mia e di mio
fratello. Non voglio che Dave vaghi per le strade di Boston senza
prestarmi minimamente ascolto, anche se finora ho detto soltanto
stronzate, e quindi ben venga la sua sordità volontaria, la
refrattarietà a tutto ciò che sto blaterando
senza ormai averne nemmeno la minima cognizione. Non voglio che Dave
adocchi quel pub e vi entri, mentre io cicalo che con
l’alcool non si risolve niente. Chi era che cercava di
risolvere i suoi problemi con l’eroina, in fondo? E allora
stà zitta, Frankie, stà zitta. Chiudi quella
boccaccia, almeno una volta nella vita.
“Ti do dieci dollari se riesci a stare zitta per
più di dieci minuti di seguito!” diceva mia madre,
quando la esasperavo, quando le chiedevo insistentemente una chitarra,
delle lezioni, quando le raccontavo nei minimi dettagli cosa facevo a
scuola, compreso far rizzare i capelli ai prof. Lei era sconvolta.
Invece mio padre, dietro, se la rideva. Anche quando tornavo con
qualche nota.
“Ha personalità, mica come quella bietola di
Keith!” diceva. E un po’ mi irritava che lo
dicesse.
Non era vero. È solo che lui sapeva discernere gli affari di
famiglia dai cazzi suoi, a differenza mia.
Ma adesso che faccio, mi prometto di elargirmi dei soldi per stare
zitta e non pensare agli infiniti paradossi della vita? Recito la parte
di mia madre e la mia insieme? Che cretinata. Non ci guadagnerei
nemmeno.
Ma almeno mi distrae, pensarci, e non riesco a fare a meno di stirare
le labbra in un sorriso un po’ nervoso.
Però…non voglio che Dave beva come una spugna,
non voglio, cavolo.
Ma soprattutto, non voglio che Frank mi chiami adesso.
Posso non volere quel che mi pare, fatto sta che il telefono sta
squillando, e insiste, insiste fastidioso come una zanzara che si
è improvvisamente resa conto che il tuo orecchio, ma
soprattutto il tuo sangue, sono i grandi e irripetibili amori della sua
pur breve esistenza.
Rimango dei secondi a fissare lo schermo, quel nome che vi campeggia
sopra, intermittente, mentre la risibile suoneria fa girare mezzo
locale nella mia direzione.
Le dita, quando sono nervosa, sono le prime a dare segni di cedimento.
Strano. Da ubriaca, o drogata, riuscivo a suonare lo stesso da dio.
Mi basta avere anche solo un attimo la luna storta per dire addio a una
buona performance.
Non è questione di rabbia, perché, anzi, grazie a
lei riesco a carburare come una pazza furiosa. Il nervoso è
una sensazione strisciante, subdola, che non esplode ma rimane a
covare, e cova, cova, cova, e può scoppiare in un boato
assordante, ma può anche tornare indietro, e allora
sì che ti girano le palle più di prima.
Perché non l’hai reso produttivo, ma solo un
ignobile fastidio.
Insomma, sembra che, invece di aprire un telefono, stia tentando di
scassinare un’ostrica particolarmente riottosa e di
estirparla dalla sua privacy domestica, magari mentre sta tentando di
spolverare, di levare di mezzo quel fastidioso granello di sabbia. Cosa
credete, le perle sono soltanto la manifestazione
dell’incapacità di spolverare delle ostriche.
Finalmente lo apro, lo avvicino all’orecchio e rimango in
silenzio un secondo, o forse due.
“Ho detto che ti chiamo io!” grido poi nel povero,
innocente apparecchio, riattaccando di colpo. Un raptus, né
più né meno.
Non ora, Frank. Non ora.
Ti prego.
Entro nel pub. Dave mi sta evitando, ancora. Ordina una birra rossa.
“Per me una Guinness” mi intrometto nella
schermaglia tra lui e il cameriere.
“Senti, te lo dico per l’ultima volta per bene,
alla prossima non garantisco per la mia gentilezza: voglio stare da
solo, levati dai coglioni!”
“Alla faccia della gentilezza!” sbotto, mentre il
boccale arriva e affondo il naso nella schiuma.
“Non me ne vado. È tutto il giorno che mi eviti, e
adesso voglio che tu mi dica chiaro e tondo
perché!”
“Frankie. Lasciami. Stare.”
Taccio.
Ora tace anche lui. S’è accorto che non me ne
andrò, e forse, alla fine…mi piacerebbe pensare
che tutto sommato la mia presenza non sia poi così
fastidiosa.
Cosa spero di ottenere, standogli alle costole?
Provo a fornirmi qualche risposta, a snocciolarle senza fretta
né convinzione, passivamente, come se fosse un giochino da
fare per ingannare il tempo che non scorre. Quella più
plausibile è che, in questo momento, mio fratello mi fa
talmente schifo che non riesco a sostenere la sua vista, e allora
preferisco vedere Dave che si ubriaca, birra dopo birra, piuttosto.
I boccali si affastellano veloci davanti a lui, così come
davanti a me piccoli bicchieri, fino a qualche istante fa pieni di
vodka, o rum. Finalmente riesco a capire il significato della frase
“bere per dimenticare”. La sto comprendendo
lentamente, come si conviene a un ubriaco, d’altronde. E
altrettanto lentamente realizzo che il mio telefono sta squillando. Da
chissà quanto.
Nemmeno guardo chi possa essere. Schizzo fuori dal locale e rispondo,
tutta allegra.
“Prrrrrrrrrrrronto!”
“…beh, volevo solo sentire se stai bene, e mi
sembra tu stia benissimo.”
Clic. Riattacca.
“Chi cazzo era?” mi domando, completamente
rincoglionita. Scorro con le dita sui tasti, alla ricerca delle
chiamate.
Ecco, benissimo, anche lui, adesso. Prima sbotto rabbiosa, poi, tra i
fumi dell’alcool, la rabbia si annacqua, si incupisce e
promette nubifragi. Pioggia a catinelle. Un’alluvione.
Ricompongo il suo numero, lentamente, per non sbagliare, mentre la
schiena scorre sul muro, appena di lato alla porta del pub. Mi ritrovo
seduta a terra, non so come, e intanto il telefono squilla,
dall’altra parte, senza che nessuno se ne preoccupi.
Alla fine, quando sto per attaccare, risponde.
“Che c’è?”
È freddo. Crudele.
Vorrei trattenermi, ma non ci riesco. Scoppio in un pianto
alcool-isterico così furioso che non riesco nemmeno ad
articolare un suono compiuto, poi, quando finalmente riprendo un minimo
di padronanza, farfuglio mille “Scusami, scusami, ti
prego…” a ripetizione, senza dargli nemmeno il
tempo di replicare.
“Ehi, calmati, stellina…che succede?”
Stellina.
Stellina.
Stellina.
Non rimbombarmi nella testa, per favore. Non ripetendo come
un’eco quella voce così calda e dolce. Voglio che
sia un’altra voce a chiamarmi così, una voce
sempre allegra, che si è dimenticata cosa
c’è tra noi.
“Non chiamarmi stellina, può solo Dave!”
strido.
Ma non lo fa più.
Non mi chiama più con quell’appellativo speciale.
Come se non fossimo, adesso, null’altro che semplici
conoscenti.
Ricomincio a singhiozzare convulsamente. Il solo pensiero mi manda ai
matti.
Un paio di ubriachi più ubriachi di me si voltano a
fissarmi, dall’altra parte della strada.
“Toglietevi dalle palle e andate a guardare qualcun altro,
stronzi!” grido, disperata.
Beh, però. Si allontanano. Ha funzionato.
“Hai…hai…bevuto?”
Sembra allarmato.
“Pochiiiiiiiiino…non ti arrabbiare, ti
prego…” balbetto, asciugandomi le lacrime.
“Ah, ecco, mi sembrava…” risponde. Ma lo
sento ancora freddo.
Stai mantenendo ancora le distanze dallo schifo che sono? Non ti
biasimo.
Ma non farlo adesso. Rimanda di qualche ora, o di qualche giorno.
Quante volte lo avrò ripetuto nella mia testa, stasera?
Non adesso.
Rimandare il colpo di grazia e prolungare l’agonia.
È da perfetti stronzi.
Stronzi con se stessi.
Lo so.
Non si può voler bene a comando. Ma adesso ne ho bisogno,
anche se fosse tutta una finta, una farsa.
Perché nemmeno l’ultimo uomo rimasto sulla terra
si sentirebbe come mi sto sentendo io ora.
Sola.
“Frank, non lasciarmi…” lo imploro,
ricominciando a sussultare con violenza.
“Non voglio lasciarti, piccola…come ti
è venuto in mente?” cerca di tranquillizzarmi,
finalmente rabbonito. Eppure la sento, la sua preoccupazione. Brucia
come acido sulla mia pelle martoriata dalle lacrime. Avrei voluto
tenerlo all’oscuro di tutto questo, costruire un piccolo
castello felice con lui, un posto in cui rifugiarmi quando sento
crollarmi il mondo addosso, ma è da egoisti.
Lui non è solo il porto sicuro, in cui approdare quando si
è vessati da una bufera, e non è nemmeno il mondo
delle favole, in cui tutto va schifosamente bene e tutti sorridono, si
ammantano di dolci maschere dall’espressione di plastica,
mentre dietro covano odio, disprezzo, disperazione, invidia.
Volevo indossarla anche io quella maschera, davanti a lui.
Perché abbiamo visto troppe brutture in questo mondo storto,
e volevo risparmiargliene di ulteriori. Ma lui sa meglio di me come va
la vita, e io so solo di essere una superficiale del cazzo.
Così l’ho tirato nel mio inferno personale,
piccolo, ma pieno, come una soffitta, di un’accozzaglia di
oggetti inutili, polverosi e distrutti dai tarli della memoria
ottimista, che si ostina a lavorare indipendentemente dal resto del mio
cervello per non darmi l’impressione di essere una sorta di
disgrazia vivente.
Non riesco a spiegargli cosa sia effettivamente successo,
perché non riesco a realizzarlo anche io. Mi sembra
così astruso ritrovarmi contro mio fratello e il suo
migliore amico insieme. Balbetto un sacco di nozioni tutte insieme, e
giustamente, tra un singhiozzo e l'altro. Di per sè,
è abbastanza prevedibile che Frank non ci stia capendo
nulla.
"Cioè...sei atterrata a Boston e da lì sono
iniziati i guai?"
"Praticamente."
E ancora, lui, a dispiacersi, scusarsi, perché secondo una
logica nemmeno poi distorta, crede che sia solo colpa sua.
A poco a poco sto recuperando lucidità. A dire la
verità non l'ho mai persa, ma era soltanto stordita e
incapace di riprendere la sua posizione.
Divento seria, il tono di voce nuovamente asciutto, mentre glielo dico
a chiare lettere.
"Non c'entri niente, sono stata io a voler seguire Mikey e Alicia. Se
non avessi voluto, avrei detto di no, e più di una volta,
quindi non preoccuparti, che non è colpa tua, ma solo mia.
Però, credevo che avrebbero compreso il mio gesto, almeno
Dave..." sospiro. É il suo voltarmi le spalle la cosa che mi
fa più male.
Chi se ne frega di mio fratello.
Chi se ne frega.
Stronzo.
Quando si è incazzati a morte con qualcuno non si pensa mai
al bene che ci ha fatto in precedenza, e io adesso mi sto comportando
esattamente così nei confronti di Keith, perché a
quanto pare anche lui s'è dimenticato di tutte le volte che
lo difendevo davanti a nostro padre, quando lo mandavo a cagare ogni
volta che lo chiamava 'bietolone', 'patata lessa', e altri epiteti di
stampo affine, s'è scordato che Alice, la sua ragazza da una
vita, gliel'ho fatta conoscere io, s'è scordato del
tatuaggio che voleva da chissà quanto, ma che non
s'è mai potuto fare perché doveva risparmiare per
comprarsi la batteria, e che gli ho fatto io, come regalo di
compleanno, s'è scordato che, anche quando sembrava che non
me ne fottesse un accidente del mondo intorno a me, lui rimaneva
comunque il mio punto di riferimento. E devo sentirmi chiedere certe
cose, dal mio punto di riferimento? Farmi umiliare così?
Meno male che Lui non era presente, altrimenti avrei potuto benissimo
prendere un badile, scavarmi una fossa nel pavimento e sparirci dentro,
per mai più sortire.
Cazzo, è tutto così assurdo.
"...è assurdo, Frank." mormoro, quasi senza accorgermene.
"Cosa?"
"Tutto."
"E non si salva niente?"
"Non lo so. Anche stare con te mi sembra così
improbabile..."
"Un po' hai ragione..." ammette, una punta di delusione che vibra nelle
sue corde vocali.
"Ma non me ne importa. Mi stai salvando, lo sai?"
"E dai, non attribuirmi questi ruoli così importanti!"
ridacchia. Chissà, forse pensa che sono ancora in totale
balia dell'alcool. Magari mi farebbe anche comodo farglielo credere,
dato che mi sto davvero compromettendo, ma non sono mai stata capace a
raccontare balle.
"No, ti assicuro, non sto esagerando..." e qui mi viene spontaneo
chiedermi se sia normale che ogni volta debba arrivare qualcuno a
'salvarmi', a tirarmi fuori dal fanghiglio in cui sguazzo come un
porcellino giocherellone.
Sono un'immatura. Non posso spiegarla altrimenti.
"Forse dovresti imparare ad affrancarti dalle persone che hai intorno,
a renderti meno dipendente" mi sprona, con dolcezza. Come a dire "non
dipingermi come l'artefice delle gioie della tua vita, ma dimmi che mi
vuoi bene davvero".
E te ne voglio, che tu ci creda o no, te ne voglio veramente tanto,
perché quando penso a te non è come quando sono
con Dave, o Keith, o Alice, no. A loro voglio bene per abitudine, come
una piacevole routine, e anche all'inizio era così,
perché qualcosa nella mia testa mi diceva di affezionarmi a
loro, non c'era uno slancio entusiastico, c'era solo affetto
tranquillo, pacato, sicuro, come se non potessero abbandonarmi mai. E
invece con te è tutto diverso, è un volo in
picchiata, sento l'euforia, l'ebbrezza, la felicità, mi vedo
saltellare a giro per la stanza, le canzoni messe su e canticchiate con
allegria, anche se sono di una tristezza indefinibile, sento la voglia
di gridare al mondo "io sono felice, cazzo! FELICE!", sento le farfalle
nello stomaco, un esercito di volatili intorno alla testa, il cuore che
rimbalza come fosse al suo primo amore, la sua prima cotta di sapore
adolescenziale, e forse questo è. Non c'è nulla
di insano tra me e te, non come quando conobbi Lucretia, qui
è tutto completamente diverso. É brillante,
acuto, dà dipendenza, ma una dipendenza che non
può fare altro che bene, e che fa del male solo quando sei
lontano. E te lo direi, se non sentissi un messaggio poco piacevole.
Credito esaurito. La chiamata è stata terminata.
Che palle.
Intanto lui è davanti a me, in piedi. Sento il suo sguardo
accusatore, ebbro, sento disapprovazione innaffiata con abbondante
Budweiser e l’eco lontana della McFarland con cui ha iniziato
il valzer delle pinte, sento la sua voce impastata che mi dice che devo
smetterla di nascondermi dietro un dito, di scappare, che lui non lo
farà più, eccetera.
Ma che me ne frega?
Questo è quel che penso, almeno finché non
biascica delle parole sconnesse.
"La tua rivoluzione è uno scherzo. Una cazzata. Non
è nemmeno una rivoluzione, cosa vuoi cambiare, me lo
spieghi? Testa di cazzo sei e testa di cazzo rimarrai, e l'unico che ti
può tenere testa non è certo quel Frank!"
"Ah sì?" replico in tono canzonatorio "E chi sarebbe, questo
EROE davanti cui devo prostrarmi riconoscente?"
Fanculo, fanculo, Dave. Sbagliano tutti, vai a fare il processo a
qualcun altro, sicuramente se lo meriterà quanto e
più di me. Ecco, ecco...vai a prendere quei due ubriaconi di
prima, e dillo a loro, che hanno sbagliato tutto, che continueranno a
sbagliare. Sai cosa ti risponderanno? Che è vero, ma che
ormai è andata, non si può tornare indietro, si
può solo andare avanti, e per loro è giusto
andare avanti bevendo, ma non per me. Non ti manderanno a cagare
perchè non sono le tue stelline. O forse sì, un
'vaffanculo' e via.
Ma io, io lo sono. Sono la tua stellina. E te ne sei scordato, e in
ogni caso questo non mi esenta dal riderti in faccia, dal mostrarti i
denti digrignati in un ghigno isterico, che riflette tutta la tua
ridicolaggine.
"Avanti, chi è?" incalzo, godendo del tuo silenzio ostinato.
Ormai non fa più male. Adesso mi fa solo pena. Come te. Che
volti lo sguardo lontano da me, quasi avessi paura di quello che stai
per proclamare.
"Non te lo dico."
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Capitolo 21 *** Sorry, You're Not A Winner ***
Cap. 21
– Sorry,
You’re Not A Winner
“Non te lo dico.”
E che cos’è, ora, questa sparata da bambino
dell’asilo?
Ci ho pensato tutta la notte. L’ho passata a dormire in
bagno. Beh, dormire è un parolone. Il piatto della doccia
è uno dei giacigli più scomodi e proibitivi che
esistano, ma ieri sera ero disposta a farmi venire anche due o tre
gobbe e qualche ernia, pur di non dividere la stanza con quei due matti.
Sono tutta indolenzita, ho mal di testa e una sana intolleranza mi
anima. Ci siamo permessi una stanza d’albergo
perché il prossimo concerto è domani, almeno
possiamo ripartire con calma, ma rimpiango il bus, la mia cuccetta, in
cui posso rinchiudermi quando voglio. Per stanotte è stato
il bagno, la mia cuccetta.
Mi chiedo quanto andremo avanti così. Quante notti a dormire
nel gabinetto, quanto silenzio nel tour bus, quante esibizioni fredde e
senz’anima.
Ovviamente non so rispondermi. Da una parte mi sembra meglio. Cercare
risposte a tutti i costi, a volte, può essere molto
stancante.
Il mio flusso di coscienza viene interrotto da un rumore soffuso,
felpato. Accomodante.
Mi accomodo a sedere nella doccia, stringendo il cuscino che avevo
razziato via dal mio letto, coprendomi inconsciamente con la coperta,
anche quella strappata senza pietà al suo naturale
ecosistema, e rimango un pezzo a cercare di realizzare da dove provenga
quel rumore, quando mi accorgo che è molto più
vicino di quanto pensi.
“Frankie, me la sto facendo addosso,
apri…” implora, dall’altra parte della
porta.
Punto uno: mi sta chiamando Frankie. Siamo già a buon punto.
Punto due: si sta comportando come se non fosse successo niente, e per
una volta mi dico che l’orgoglio è meglio che se
ne stia al suo posto.
Sì, voglio risolvere. Per cui mi alzo, apro, lo faccio
entrare ed esco, tutto questo senza mollare un attimo il cuscino,
stretto tra le mie braccia, quasi fosse l’ultimo appiglio, il
baluardo inespugnabile che protegge il mio sonno maltrattato, e anche
un po’ spiegazzato.
Mi siedo, in punta di chiappe, sul suo letto, completamente sfatto.
Deve aver dormito malissimo, non è da lui fare questo
casino. Sembra che ci sia passato un uragano, piuttosto che mio
fratello.
Sorrido, formulando questo pensiero, mentre mi scorgo allo specchio,
proprio davanti al giaciglio, con dei capelli che farebbero concorrenza
a uno spaventapasseri e l’espressione di chi non chiude
occhio da giorni, e pensa che sarebbe anche l’ora di
interrompere questo sciopero del sonno.
Mi fisso, torva, finché non lo vedo fare capolino dal bagno
e squadrarmi con aria interrogativa.
“Che…che c’è?”
chiedo, timorosa.
“Niente, stavo cercando di vedere che ora fosse”.
Mi volto. Dietro di me, una sveglia stava appoggiata sul tavolino.
“Le nove meno un quarto”
“Ah, bene, non ho dormito un accidente, allora!”
cinguetta, con un’evidente vena di sarcasmo nella sua vocina
garrula.
“E senti, ti…ti andrebbe se andassimo a fare
colazione?” riprende, riassumendo un tono definibile
‘normale’.
“Boh, per me va bene” borbotto, confusa
“quanto tempo abbiamo?”
“Diverse orette, prima di ripartire” risponde,
allegro, dirigendosi verso il letto di Dave, con la precisa intenzione
di svegliarlo.
“Fermo, lascialo dormire!” sibilo di colpo, a voce
più che bassa. Keith si gira, mi guarda.
“Hai detto qualcosa?”
“Sì. Lascialo dormire” ribadisco, secca.
Annuisce, sbigottito, poi prende le sue cose e va in bagno a lavarsi.
Ha voglia di parlare. Di dirmi qualcosa.
E io ho voglia di ascoltarlo. Lui solo.
Non voglio Dave nei paraggi. Ed è strano, perché
alla fine noi tre siamo sempre insieme, e nessuno prescinde dagli altri
due, ma stavolta è diverso. Qualcosa si è
incrinato e minaccia di rompersi, e non voglio peggiorare la situazione.
Non voglio avere a che fare con lui, almeno per il momento.
Ripercorro mentalmente, una volta che mio fratello ha finito e mi
concede il gigantesco bagno che abbiamo in stanza, il suo sproloquio di
stanotte.
Parole senza senso, accostate a caso, in virtù di una
riproduzione casuale dei brandelli di pensiero contenuti nel suo
cervello affogato dalla birra.
O forse no.
L’ipotesi che mi sta frullando insistentemente nei neuroni
non mi piace neanche un po’. Leggo delle lettere, accanto a
lei, e accostate insieme significano un solo concetto, la cosa che
vorrei non accadesse mai più.
Casino allucinante.
Scuoto più e più volte la testa davanti allo
specchio, nella speranza che queste lettere si mescolino e formino
qualsiasi altra parola, anche senza accezione, come tessere dello
Scarabeo che saltellano allegramente nel sacchetto che le contiene.
Ecco. La mia testa è il sacchetto che contiene le letterine
dello Scarabeo, e si agita, salta, si muove, si contorce, nella
speranza che le nozioni di senso compiuto si disperdano. Nella
fattispecie, se mi vedesse qualcuno in questo momento, mi prenderebbe
per matta, così finisco di lavarmi, mi vesto ed esco dal
bagno con l’aria più innocente di questo mondo,
pronta per sentire le scuse di Keith davanti a una tazza fumante di
cappuccino. Lui mi sorride, come se il vedermi pronta gli stia dando la
conferma delle mie buone intenzioni di ascoltarlo, e Dave ronfa,
ancora, e rumorosamente.
Siano benedette le sbornie, quelle che ti fanno stramazzare sul letto e
che non ti fanno svegliare nemmeno se c’è una
guerra nucleare in corso intorno a te. Quelle che ti fanno alzare con
lo stomaco sottosopra e le budella pronte alla secessione, che ti fanno
dire “cazzo se sto male, non lo farò mai
più”, ma sai già di mentire,
perché la prossima volta che avrai un problema che non vuoi
affrontare, o semplicemente voglia di bere, l’alcool
sarà lì, ostentato e malizioso, pronto a predare
le tue ultime facoltà intellettive della serata e a farti
sentire un’altra persona, sta a te decidere se migliore o
peggiore di quello che già sei.
Sia benedetta la birra, Budweiser, McFarland, Corona, Heineken,
Guinness, Tennent’s, Asahi, o chi per loro, che ha fatto
stramazzare quest’individuo a dormire come un sasso.
Sia maledetta, invece, per quello che gli ha fatto dire stanotte,
perché ancora non riesco a togliermi dalla testa nemmeno una
delle frasi che ha pronunciato. Anche le virgole sono lì, al
loro legittimo posto. E persino il mio disgusto. E il dubbio. E
l’espressione corrucciata, che mio fratello scorge
immediatamente.
“Allora, andiamo?” mi esorta.
“Direi” taglio corto, dirigendomi a passo marziale
verso la porta.
Percorriamo le vie di Boston in silenzio, fumando entrambi.
“Ehi, ma tu non dovevi smettere?”
“Ma ti pare…c’ho provato, ma avere
intorno te, Gerard, Bob, Frank che aveva smesso e poi invece ha
ricominciato…non è mica facile!”
esclamo, quasi senza pensarci. Senza riflettere sul fatto di avergli
appena nominato l’oggetto della nostra discussione di ieri
sera.
Ma non s’adombra, non s’intristisce, né
si altera.
“Già…beh, a proposito di Frank, proprio
di lui volevo parlarti, se posso…” mormora, quasi
imbarazzato.
“Certo che puoi” rispondo, tranquilla, mentre
adocchio una piccola caffetteria dall’altra parte della
strada e gliela indico, con un cenno del capo.
Keith prende un caffè e un toast. Io un cappuccino. Non ho
molta fame.
“Senti, mi…” farfuglia mentre divora
quel panino. Poi si rende conto che il tono di ciò che sta
per dirmi e il contesto non sono esattamente affini, e allora finisce
il boccone, lo accompagna con una sorsata di caffè, e si
ferma, la mano che ancora stringe il manico della tazza, ormai poggiata
sul tavolo.
“Stavo dicendo, mi dispiace per quello che ti ho detto ieri
sera. In realtà non penso davvero certe cose su di lui, e
non mi importa nemmeno di come ti…oh beh, che caspita
dico…” parla a raffica, arrossendo.
Mi strappa una risata quasi divertita.
“Sai, immaginavo che me l’avresti detto, prima o
poi, il fatto è che…beh, non mi è
piaciuto come l’hai detto. Eri nervoso, la colpa era mia, e
in effetti ti chiedo davvero scusa per i disagi che ho arrecato, ma era
l’unica occasione…”
“Cioè?” chiede, interessato e
improvvisamente, e di nuovo, comprensivo.
E allora inizio a spiegargli del concerto dell’altra sera,
quello di New York, la sera del suo compleanno, e di Mikey e Alicia che
mi hanno informato sul suo pessimo stato, la convinzione che se
l’avessi rivisto sarei precipitata di nuovo e allo stesso
tempo il desiderio impellente di vedere come stava, riabbracciarlo, la
corsa a Newark, il riavvicinamento. La nottata più intensa
della mia vita, quella in cui sono riuscita a capire le
priorità che dovrebbero farmi muovere.
La band, certo.
Ma anche, e soprattutto, lui.
E tutto quello che provo, anche se non riusciremo a vederci per
più di qualche giorno, ogni manciata di mesi.
Parole che scorrono fluide, lucide, dalla mia bocca alle sue orecchie,
che le catturano con attenzione, le distillano, le elaborano e le fanno
arrivare dritte al cervello, per fargli capire che questa non
è una sbandata come tante, non è un colpo di
testa e nemmeno di coda, non l’ultimo capriccio per sfuggire
alla monotonia, niente di tutto questo.
Frank non è Lucretia.
Non è stranezza a tutti i costi, non un tentativo rassegnato
di darmi completamente a qualcuno che non mi ama, non un esperimento, e
nemmeno un legame disperato e infelice.
“Ehi, non sarà come…”
“No, Keith.”
Sono in pace con me stessa, non ho bisogno di incubi chimici per
sentirmi viva.
Mi bastano sogni reali e tangibili.
È disteso, finalmente. I lineamenti del viso abbandonano
completamente la durezza che si era impadronita di loro ieri, e che
stava lasciando posto, già da stamattina, a movimenti
muscolari ben più benevoli.
"Beh...sembra un bravo ragazzo, effettivamente."
Sorride. Sorrido anche io, di rimando.
Non pensavo fosse così facile ritrovare
l’equilibrio.
Una parte di esso.
Sono ben lontana dall’essere del tutto a posto, e me ne rendo
perfettamente conto, ma l’aver almeno sistemato le beghe con
mio fratello mi sta facendo capire che posso rendere la mia esistenza
migliore, che posso smetterla di piangermi addosso, passando poi, come
una schizzata, a credermi completamente dalla parte della ragione.
Potrei sistemare, allo stesso modo, con Dave, il problema è
che riconosco di essere veramente ai ferri corti con lui. La ragione?
Non c’è una ragione, non c’è
niente, assolutamente niente. Solo un sospetto che si fa strada nel mio
cervello malato, che tento di scacciare, bollandolo come
l’ennesima paranoia.
Eppure…se fosse davvero così, addio a tutto.
Brami l’affetto di persone per anni, poi quando questo arriva
è un’onda anomala, uno tsunami che devasta tutte
le poche certezze che avevi raccattato fino a quel momento, che
sconquassa i piccoli, fragili castelli di sabbia che avevi messo su con
fatica e devozione, ricostruendone pazientemente le fondamenta ogni
qualvolta l’acqua arrivava a lambirle.
Ma queste sono solo paranoie. Piccole, povere, stupide paranoie, create
ad arte per complicare i già strani percorsi
dell’encefalo che ti rimbalza nella scatola cranica.
Guardo Keith. Fisso. Intensamente. Quasi possa darmi una risposta che
smentisca tutti i miei dubbi.
E invece niente.
“Ma perché non volevi che svegliassi Dave,
prima?” mi chiede.
Rimango ammutolita, a boccheggiare come un pesce.
Già, perché?
Non vuoi vederlo? Eppure devi, divide i palchi con te.
Non vuoi sentirlo? Spiacente, è il bassista nella tua band.
DEVI sentirlo, necessariamente.
Non vuoi toccarlo? Beh, questo sarebbe fattibile.
Non vuoi parlargli? È discretamente facile, per te, togliere
il saluto. Ma come fai a toglierlo a uno con cui sei a stretto contatto
ogni giorno, a ogni ora? Cos’è, vi scambiate punti
di vista tecnici e di arrangiamento con una lavagnetta? O usando Keith,
che in questo momento sta maledicendo di essere l’ago della
bilancia tra te e lui, l'intermediario della situazione?
Povera illusa, Frankie. Povera illusa.
Keith aveva ragione, ieri sera. L’ha detto male, malissimo,
ma la sa lunga.
È vero…io della vita non ho capito proprio un
cazzo.
“Non…non lo so, esattamente. Cioè, lo
so, ma non saprei come spiegartelo con poche
parole…”
“È strano, ultimamente.”
“Soprattutto dice cose strane.”
“Del tipo?”
Del tipo, caro fratellone, che non sopporta Frank. Ma non lo sopporta
proprio. Gli sta letteralmente sui coglioni, e per
transitività anche io, a questo punto. Non mi voleva
intorno, voleva sbronzarsi nel chiuso della sua testa bacata, in
solitudine.
Del tipo che afferma che non è lui quello giusto per me,
quello che mi terrà al riparo dalle disgrazie del mondo,
quello che mi riscalda coi suoi abbracci.
Del tipo che sarebbe meglio si facesse un po’ i cazzi suoi.
Ma questo non lo esterno, non te lo rendo noto. Non sarebbe giusto.
“E chi sarebbe, allora?”
“Non te lo dico. Così ha risposto.”
“…ma che deficiente. Sto iniziando a pensare che
proprio non ci sappia fare, povero Dave…”
conclude, sghignazzando. Qui immagino abbia raggiunto anche lui la
stessa conclusione mia, e in parte mi solleva, perché vuol
dire che, in un certo senso, non ho volato troppo di fantasia. Allo
stesso tempo la faccenda mi inquieta, perché una grana del
genere tra i piedi non sono pronta ad affrontarla, così, per
non pensarci, ritorno a parlare a mio fratello di Frank.
Per la precisione, Frank e tatuaggi, visto che gli sto raccontando
com’è che ci siamo rincontrati. È
inevitabile per me tracciargli, passo per passo, tutta la storia di
quel disegno che gli ho impresso sulla pelle, il significato, e il
seguito, la sensazione che a deturparlo potesse eliminare il pensiero
di me dalla sua testa, e la mia volontà di farlo tornare
bello come quando glielo marchiai sul braccio a suon di aghi e
inchiostro. Keith mi ascolta, senza abbassare mai la soglia di
attenzione, e annuisce convinto.
Guardo l’orologio, e gli comunico che forse sarebbe ora di
tornare all’ovile. Paghiamo e usciamo, incamminandoci verso
l’albergo col sorriso sulle labbra e la volontà di
non infrangere mai più il tacito legame che scorre tra di
noi.
Fratelli. Ma soprattutto amici, pronti a spalleggiarsi nel momento del
bisogno, e a dirsi in faccia tutto quello che non va, senza peli sulla
lingua.
*
Sono passati due mesi. Concerti in tutti gli Stati Uniti, e
l’ipotesi di un tour europeo.
Dovrei essere galvanizzata dal successo, e invece sono sempre qui a
rimuginare su quelle parole.
Due mesi di silenzio ostinato, di spiegazioni non fornite, di Keith che
alza le spalle, perché non riesce a venirne a capo nemmeno
lui.
Tra me e mio fratello, almeno, è tornato tutto a posto.
Tra me e Frank va tutto a gonfie vele, se non che….non ci
vediamo praticamente mai. In compenso siamo sempre al telefono,
soprattutto adesso che gli Unnamed sono in pausa pre-Europa e i My Chem
in sala di registrazione. I nostri telefonini sono roventi quasi quanto
le nostre orecchie, ormai.
Il mio suona così spesso che una notte ho addirittura
beccato mio fratello ad armeggiarci, esasperato.
“La tua suoneria mi dà ai nervi, non ti stupire se
entro domattina sarò riuscito a cambiartela!” ha
esclamato, spazientito. Mi sono messa a ridere, rischiando di svegliare
il vicinato.
Siamo nella nostra casa, a Frisco. Dave è tornato dai suoi,
e vediamo se questa separazione gli farà tornare un
po’ di lume della ragione.
Oggi è il 27 dicembre. Anche i ragazzi sono in pausa dalle
registrazioni, me lo sta dicendo proprio adesso Frank.
Il telefono ha squillato, sempre la solita suoneria degli Happy Tree
Friends. Ma mio fratello, invece di fare lo scocciato e inveirle
contro, come fa di solito, se ne è stato tutto tranquillo,
spaparanzato sul divano, e non ho saputo se prendere per allucinazione
o realtà quel lieve ghigno che gli ha attraversato il volto
per un attimo. Ho risposto, ed è una decina di minuti che
siamo al telefono, a parlare di come scorrono le nostre vite. Anche se
è dall'inizio che sta tentando di dirmi qualcosa.
“Hm, senti…”
“Dimmi! Però ti sento malissimo,
cos’è questo casino? Dove sei?”
“Ecco, appunto questo volevo dirti…sono
all’aeroporto di San Francisco, mi vieni a prendere, per
favore?”
|
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Capitolo 22 *** First Day Of My Life ***
ok,
probabilmente posterò settimana prossima, perchè
tra poco più di un'ora parto per siena, per
l'università, e non avrò un computer tutto per me
a ogni ora del giorno... ;__; grazie a tutte quelle che commentano,
continuate (e magari aumentate :°DDD) e strafogatevi di
pandistelle alla faccia mia ;_; !
(tanto
su c'ho le gocciole, gnegnè! :°D)
Cap. 22
– First
Day Of My Life
Per poco non faccio cadere il telefono a terra.
È qui.
Sento sogghignare alle mie spalle, mi giro e vedo Keith che mi guarda e
sorride. Non era un’allucinazione, allora.
“Arrivo subito, aspettami all’uscita”
rispondo, riprendendo in mano la situazione.
"E vedi di non farti beccare da qualche fan, o fotografo!" mi
raccomando, sentendomi rispondere con una risatina divertita. Chiudo la
chiamata, e riprendo a guardare mio fratello.
“Tu sai qualcosa che io non so!”
“Chi, io? Naaaaah, forse ti sbagli…”
finge di fare l'indifferente, fischiettando e roteando gli occhi qua e
là per la stanza.
“No che non mi sbaglio, ti conosco troppo bene, signorino!
Cos'era che stavi facendo l'altra notte, mi stavi cambiando la
suoneria, vero?" lo fisso, con sguardo indagatore e un ghigno
soddisfatto stampato nel bel mezzo della faccia.
Sospira, quasi sbuffando, ma non perde il buonumore, e quel suo sorriso
a metà tra l’allegro e il beffardo.
“Dai, vai a prenderlo, non farlo aspettare! Piuttosto, Alice
mi ha detto di darti queste.”
Prende la mia mano sinistra, si fruga in una tasca dei jeans e ne tira
fuori qualcosa, che racchiude nel mio palmo.
Lo apro, e ne scruto il contenuto.
Due chiavi, tenute unite da un portachiavi a forma di Badtz Maru.
Le chiavi del negozio. Quelle che le riconsegnai, annunciandole che
sarei partita per il Warped. Il suo sguardo valeva più di
mille parole: felice per noi, preoccupata di badare alle sorti dello
studio da sola.
"Beh, volevi fargli un certo regalo, no?" ammicca.
Arrossisco.
“Ma…oddio, siete pazzi!” riesco solo a
balbettare.
“Macchè pazzi! In fondo te lo devo…su,
vai, devi anche far partire la macchina!” mi esorta,
scompigliandomi i capelli.
“E non puoi prestarmi la tua, scusa? Già che ci
sei, potresti completare l’opera…”
borbotto, imbronciata.
“Volentieri, se non fosse dal meccanico.”
“Ah, già” farfuglio, dirigendomi a testa
bassa verso il mio vecchio maggiolone. Salgo, infilo la chiave nel
quadrante, giro, e stranamente parte subito, senza intoppi.
La strada verso l’aeroporto non mi è mai sembrata
così breve, al punto che controllo di continuo se sto
andando troppo veloce, diciamo che non vorrei avere grane proprio
adesso. Percorro l’asfalto col sorriso sulle labbra, e i
Pixies a palla nella radio, ammettendo a me stessa, stupita, che la
macchina, per la prima volta da quando l’ho comprata, non
dà segni di ribellione, quasi come se si fosse accorta che
oggi è una giornata speciale. A coronare il tutto, un
tiepido sole, di quelli che, normalmente, si vedono spuntare
timidamente solo verso marzo.
San Francisco è dalla mia parte, decisamente.
Il parcheggio dell’aeroporto un po’ meno.
Vago in cerca di un posto per minuti interminabili, e senza la
benché minima possibilità di fermarmi da qualche
parte, finché non mi viene un’idea. Frugo nella
borsa con frenesia, e quando trovo il telefonino inizio a premere
vorticosamente i tasti, finché non ottengo quello che sto
cercando.
“Ehi…”
“Senti, hai valigie o cose pesanti con te?”
“Beh, no, ho solo uno zaino…”
“Allora fatti una corsetta verso il parcheggio, io
verrò il più vicino possibile
all’ingresso e ti caricherò al volo!”
“Ma…”
“Niente ma! La macchina la riconosci sicuramente, sono
l’unico maggiolone arancione nel parcheggio!” e
attacco, senza dargli tempo di replicare, premendo
l’acceleratore e avvicinandomi all’edificio. Lo
scorgo inforcare gli occhiali scuri e guardarsi intorno circospetto,
allargando poi le sue labbra in un sorriso, mentre si dirige verso di
me a passo svelto e sale in macchina così veloce che nemmeno
me ne accorgerei, se non fosse per il bacio che mi schiocca sulla
guancia.
“Bella macchina! Molto sobria,
soprattutto…” esclama, sghignazzando, mentre
riparto di gran carriera.
“Te l’avevo detto…” replico,
fingendo disappunto.
“Allora, ti piace? Ti avevo pur promesso che ti avrei portato
a farci un giro…”
“Adatta a te, direi!” risponde, sorridendo.
“Ti dirò…non so se prenderlo come un
complimento o un’offesa!”
“A tua completa discrezione” riprende a
ridacchiare.
Siamo a metà strada da casa mia, ormai, e stiamo passando
davanti al negozio di tatuaggi di Alice, quando lo vedo rabbuiarsi di
colpo. Finora abbiamo chiacchierato di tutto e scherzato come
ragazzini, ma adesso tace.
Un silenzio totale e assordante avvolge la vettura.
Mi sta trapanando le orecchie, fa quasi più male di una
nottata passata con gli Slipknot sparati a tutto volume dalle cuffie
dritti nelle orecchie.
“Tutto bene?” azzardo a chiedere, accendendo la
radio, che sembra essersi ricordata su che razza di macchina sia stata
montata, e quindi torna immediatamente a comportarsi di conseguenza.
“E CHE È!” sbotto di colpo, infastidita
dal gracchiare selvaggio, e senza aspettare una risposta alla domanda
di prima. Spengo, riaccendo e forse l’impianto stereo si
decide a funzionare.
“Ti piacciono i Pixies?” continuo a incalzare.
“Boh, sembrano carini…” borbotta. Non
è risposta che possa uscire dalla sua bocca, decisamente.
Anzi, io pensavo che li conoscesse già. Che inguaribile
ottimismo.
“Se non ti piacciono metto qualcos’altro,
eh…”
“No, lascia, lascia pure…”
Ancora silenzio. Decido di cambiare un po' aria, togliendo Surfer Rosa
e mettendo prima Nick Drake, poi Bright Eyes. Il buonumore dei Pixies
iniziava ad essere clamorosamente fuori luogo, ma anche la malinconia
che prima Nick, e poi Conor diffondono nel mio abitacolo diventa greve
già dopo un paio di canzoni, così, senza trovare
pace, tolgo Cassadaga con stizza dalla radio, lo lancio a caso sui
sedili posteriori e indico a Frank il porta-cd, intimandogli, secca:
"Scegli te."
Tanto metterà, che ne so, i Gallows, o qualcosa di
particolarmente rumoroso e che incontri il suo gusto, per riportare
l'atmosfera di questa macchina a livelli respirabili.
E invece no. Mette David Bowie. Uno dei pochi che ho, Hunky Dory.
"Ziggy Stardust non ce l'hai?"
"É in casa" borbotto, spiazzata.
Ci rimango di sasso, e subito penso a un fatto che m'è
sempre sfuggito, sino ad ora, e cioè che non mi sono mai
premurata abbastanza di conoscerlo meglio. Intendo dire che sono tanto
brava a intuire gli stati d'animo di quelli che ho intorno da pensare
che basti soltanto quello per sapere chi siano.
Cazzata colossale. Perché c'è tutta una serie di
dati che sfugge a questa specie di catalogazione. Cose che sembrano
futili, tipo, che ne so, il colore preferito, oppure il disco che ti ha
aperto un mondo nuovo, o cosa mangi, piatti preferiti e quelli che odi,
e altre curiosità del genere. Curiosità, per
l'appunto, o perlomeno questo risultano essere, per un superficiale.
Entità senza sapere le quali, a proposito di qualcun altro
al di fuori di se stessi, si vive comunque, magari meno bene, ma
l'importante è portare a casa la pellaccia, sbaglio?
Sì, sbaglio.
Non credevo gli potesse piacere David Bowie, ero più che
convinta che lui fosse il tipo di persona che va ai concerti di gente
tipo i Black Flag, o i Bouncing Souls, ma anche i Green Day vecchio
stampo potrebbero andare bene, e fa un casino della madonna,
più di tutto il resto della folla messa insieme, e si
diverte come un matto, perché quello è il suo
mondo: pogare, urlare e spassarsela, innaffiando il tutto con pinte su
pinte di birra, che può essere roba sopraffina come
pisciazza scadente (più facile la seconda). Stupidi luoghi
comuni, insomma, dettati da un'estrema facilità a trarre
conclusioni affrettate e con una logica tutta loro.E invece ho toppato
alla grande, e si può vedere piuttosto nitidamente
dall'espressione che assume la mia faccia appena sento partire quelle
note dallo stereo.
"Ti piace?" chiedo, stupita. Ma molto probabilmente devo aver prodotto
un effetto tipo disgusto. Come se quel disco non fosse nemmeno mio.
"Non può non piacere" afferma, vacuo e risoluto.
"Conosco gente che avrebbe da ridire su quest'affermazione..." ribatto,
nella speranza di accendere un piccolo dibattito e risvegliarlo
così da questa mestizia inopportuna. Che cazzo, ti sei preso
l'aereo per venire fin qua, da me, e hai anche il coraggio di fare
questa faccia? Non sei contento di vedermi? Eppure prima sorridevi. Bah.
"Magari non l'hanno ascoltato attentamente"
"Su questo credo di essere d'accordo" concludo, quasi lapidaria. Questo
perché siamo giunti a destinazione.
Casa mia. Dove c'è un caldo tropicale. Colpa di Keith, che
non sopporta il freddo e attacca il riscaldamento a palla. Dagli
Armstrong si può star certi di non morire di freddo, e a
quanto pare se ne sta rendendo conto anche Frank, che inizia a
svestirsi senza tanti complimenti mentre io getto il cappotto sul
divano e sgattaiolo in cucina e trovo un messaggio di mio fratello
scritto sulla lavagnetta sopra il frigo.
"Spero tu gradisca! Apri qua, su...buon divertimento, eh!" corredato da
una faccina che è semplicemente il ritratto della malizia.
Cancello tutto meglio che posso, e apro il frigo.
E rido. É la mia reazione a qualcosa di bello e insperato.
Tanti si commuovono, più o meno copiosamente, io no. Io
rido. Per felicità, immagino.
Ci hanno preparato il pranzo. Lui e Alice. Tutto vegetariano, manco a
dirlo. E Keith, lo so, cucina divinamente, al contrario della
sottoscritta. Se non ci fosse lui, probabilmente andrei avanti a pizza
e gelato senza troppi complimenti.
Lo adoro. Ma me lo merito davvero un fratello così?
Metto l'acqua per la pasta. Okay, cucinerò male, ma almeno
la pasta so cuocerla a dovere. Mi ha insegnato una ex di Dave, che era
di origini italiane. Lì sì che sanno cucinare,
cacchio.
Intanto filo in camera a togliermi il maglione e a cercare una
maglietta a mezze maniche decente per riemergere dinanzi al mio ospite.
L'unica che trovo mi fa sorridere, ma la indosso lo stesso, e torno in
sala, dove lui ormai è a mezze maniche e si volta sbottando:
"Ma che accidenti che caldo c'è qua dentro!" in mia
direzione.
É inutile che dissimuli. Lo vedo che c'è un buco.
una zona vuota, che prima non era tale.
"Ah, e così ami i Fall Out Boy, eh?" sghignazza,
evidentemente teso.
Ebbene sì, sulla maglietta c'è scritto a
caratteri cubitali "I love Fall Out Boy", con un cuore in bella mostra
sul petto, rosso in mezzo al nero.
Ma non è di questo che voglio discutere.
"Sì, soprattutto Joe!" ammicco. Mi sfugge se la mia battuta
l'abbia pronunciata per rimandare il momento della verità o
qualsiasi altra cosa. Tipo, per esempio, rincoglionirlo con quattro
cazzate sparate a dovere e poi spiazzarlo con la domanda seria.
Così almeno risponderà come si deve.
E adesso, a rincarare la dose, lo sto fissando con un senso di sfida
che mi pervade persino i capillari, le mani saldamente piantate sui
fianchi.
Ma che diavolo mi prende?
Beh, che domanda idiota, lo so benissimo, invece. Sfido chiunque a non
alterarsi nemmeno un po', nel vedere che qualcosa che si è
fatto con tanto impegno è stato abilmente occultato e
gettato come si fa con le cose vecchie, che non servono più.
"Devo essere geloso?" sorride.
"Oh, no, tranquillo, non è niente di serio...piuttosto,
cos'è successo al braccio?"
Smette di sorridere. Mah, chissà perché.
"Quale braccio?" si guarda intorno, mimando confusione. Sì,
la mima. Non è capace nemmeno a fare finta per bene.
"Beh, ne hai due, tutti e due ben tatuati, direi...ma uno è,
come dire, più vuoto dell'altro..." incalzo. Finalmente si
rende conto di cosa sto parlando, e lo vedo diventare dello stesso
colore del cuore sulla mia maglietta.
"Eh, sai, s'era rovinato, così lo sto facendo cancellare..."
balbetta, vagamente confuso.
"Ma potevi dirmelo subito, te l'avrei rifatto! E in effetti" e sento il
mio vocione farsi sempre più esile, fino a ridursi in un
flebile sussurro, "era quella, la mia intenzione..."
"Dai, non c'è problema, davvero..." si avvicina, finalmente
con un po' di dolcezza nella sua voce.
"Sta bollendo l'acqua per la pasta!" annuncio, stentorea, scomparendo
in cucina ed evitando così un qualsivoglia contatto con lui.
E che cazzo, non posso rimanere male per una cosa del genere? Per il
sentirmi dire, e il vedere, che il tatuaggio che gli avevo fatto sta
scomparendo a poco a poco, prima sotto una serie di graffi allucinanti,
e adesso per mano di qualche chirurgo del cavolo che non capisce
l'impegno che ci avevo messo, a prescindere dal significato, su cui
nemmeno ero stata più di tanto a indagare?
Certo che posso. Per cui lo faccio, senza versare lacrime o provare
dispiacere. No, niente di tutto questo.
Nemmeno sono incazzata.
Solo delusa.
Mangiamo in silenzio, imbarazzato per lui, astioso per me. Beh, magari
sto esagerando, ma mi sento proprio offesa dal suo gesto. Perlomeno
poteva dirmelo prima. Cioè, prima che passasse alle vie di
fatto, intendo. A me sarebbe bastato anche un "senti, voglio togliermi
quel tatuaggio per una ragione random. Non mi farai cambiare idea, ma
almeno ci tenevo ad avvertirti". Ecco, credo che ci sarei rimasta meno
male. Credo.
"S...scusami se non te l'ho detto" lo sento sussurrare, tra una
forchettata e l'altra. Dal canto mio, continuo a tacere e mangiare.
"Il fatto è che, ecco...quel tatuaggio rappresentava una
promessa che ormai è infranta, non aveva senso tenerlo"
prosegue, ancora a voce bassissima.
"E allora perché te lo sei fatto fare?" lo rimbecco, quasi
acida.
"Perché quando sono entrato nel tuo studio credevo che
sarebbe durata per sempre" mormora, sempre più triste.
"Beh, in questo caso..."
É piuttosto evidente che ci sia qualcosa che non vada per il
verso giusto, ma mi sentirei un mostro di indelicatezza a chiedere.
Anche se un sospetto ce l'avrei.
"Non sapevo come dirtelo, mi dispiace..."
"Dai, è tutto a posto, tranquillo. E mangia, che
è buonissima tutta questa roba!" esclamo, quasi ruggendo per
l'entusiasmo di pubblicizzare l'ottima cucina di mio fratello.
"Hai ragione, è ottima" risponde, finalmente sorridendo
"complimenti a chi ha cucinato!"
"Quel bastardo di Keith mi ha preparato proprio una sorpresa coi
fiocchi..." biascico, compiaciuta.
"Sono d'accordo" dichiara solennemente, addentando poi una patata al
forno.
Finito di mangiare, si offre di aiutarmi a lavare i piatti. Accetto, a
dire il vero un po' interdetta, poi divertita appena lo vedo indossare
il grembiule.
"Allora? Che te ne pare?" mi fa, mettendosi in posa.
"Una perfetta donnina di casa!" rispondo, scoppiando a ridere
fragorosamente.
Ed è mentre asciuga i piatti che mi espone la sua idea.
L'avrà formulata solo per farsi perdonare?
Ma chi se ne frega. Non mi deve importare delle ragioni dietro ai suoi
pensieri.
Sostanzialmente perché è un'idea che piace anche
a me.
"Ci sto! Però ho in mente una cosa che potrebbe risultare
piuttosto divertente..."
"Hm, okay."
|
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Capitolo 23 *** Read My Mind ***
ho
un sonno troppo...troppo sonnoloso per ringraziarvi una per una (anche
se siete solo tre XD ma imparate che la sottoscritta è di
una pigrizia esasperante), così posto direttamente, ergo
buona lettura *_*
Cap. 23
– Read
My Mind
Ho sempre maledetto la mia curiosità.
Il motivo è di per sè, piuttosto intuibile.
Quante volte ci si caccia nei guai per essersi addentrati troppo negli
altrui panni sporchi?
Non c'è da credere che io sia immune a questa tendenza.
Anzi, si potrebbe dire l'esatto contrario. Bastava anche che venissi a
spere un infimo particolare, e questo faceva automaticamente di me una
che sapeva troppo. Non che per me fosse un problema, diciamo che
piuttosto lo era per gli altri, soprattutto i diretti interessati. E,
che ci crediate o no, sta succedendo anche adesso.
Sono il problema di me stessa. Perché sto stritolando tra le
mani questo bigliettino, in preda al desiderio impellente di aprirlo e
leggere cosa ci possa essere scritto, ma me lo sto impedendo
praticamente da sola.
Mi consola solo vedere che anche Frank è nelle stesse
condizioni mie. Lui, anzi, curioso com'è, sta letteralmente
friggendo.
Abbiamo preferito coinvolgere degli estranei, ed è per
questo che stiamo aspettando il nostro turno, qui, seduti su questo
divanetto scomodo, ma di design, invece di affondare nelle poltroncine
così accoglienti, e così orgogliosamente fuori
moda, dello studio di Alice.
"Pensavo...facciamoci un tatuaggio insieme! Non so, qualcosa di
speciale per entrambi, o un segno uguale, che abbiamo in comune..."
"Io ho un'idea migliore"
"Dimmi, dimmi!" è saltato su, allegro come un bambino che sa
di stare per fare una scoperta assolutamente esaltante.
"Diamoci una mezz'oretta per pensare a una frase da dedicare l'uno
all'altra, e che non sia un'idiozia...non so, un pezzo di una canzone,
una poesia, qualsiasi cosa. Basta non sia un poema, ecco. E che non sia
una delle nostre...insomma, attingiamo all'esterno."
"Sì, mi piace, decisamente!"
"Però pongo una condizione."
"E sarebbe?"
Eccola, la condizione. Porgere il biglietto al tatuatore di turno,
rigorosamente chiuso, e scoprire di cosa si tratta solo alla fine,
quando ormai il tatuaggio è fatto.
Sì, lo so. É un'operazione rischiosa, ardita. Ma
ne vale la pena, e poi aggiunge quel pizzico di mistero in
più, insomma, per farla breve Frank era più
entusiasta di me, ma adesso che sa di non poter aprire il mio
bigliettino sta iniziando a pentirsene.
E chi l'ha detto che la curiosità è donna?
Personalmente, in confronto a lui, mi ritengo sicura e discreta quasi
quanto una banca svizzera.
"Oh, vedrai, ti piacerà" mi diverto a punzecchiarlo,
intanto.
Gesticola, tarantolato, mentre risponde: "Anche a te
piacerà, credimi, con quanto c'ho messo a pensarci..."
In pratica, ci stiamo solleticando a vicenda. Devo dire che siamo un
po' stronzi.
Obiettivamente, tornando alle mie condizioni, mezz'ora era davvero un
tempo troppo ristretto per pensare a qualcosa di sensato. Mi sono
chiusa in camera a spulciare tutti i cd che ho, alla ricerca di qualche
frase ad effetto e che esprimesse esaurientemente quello che provo per
lui, ma non è stato affatto facile. Nel frattempo lui era in
sala, che non sapeva da che parte rifarsi. Gli ho dato la
possibilità di esaminare da cima a fondo i dischi di mio
fratello, che pure non sono pochi, ma evidentemente non gli sono
serviti a molto, perché a un certo punto, quando ormai la
mezz'ora stava per scadere, sono uscita da camera mia per dirgli che
avrei prolungato di altri venti minuti, e l'ho trovato al telefonino
che confabulava fitto con qualcuno e prendeva nota su un foglietto
scalcinato. Ho provato a sbirciare, ma lui s'è accorto della
mia presenza e mi ha rivolto un'espressione più che truce.
"Scusami, Gee..." poi, rivolto a me, ha sibilato: "Tu tornatene di
là, che devo finire!"
"Devo finire anche io, ero solo venuta a dirti che hai altri venti
minuti" ho replicato, pacata, tornando in camera.
E così chiedeva aiuto a Gerard, eh? Effettivamente non
gliel'ho vietato.
Insomma, stavo per appellarmi a un ausilio esterno anche io e chiamare
mio fratello per chiedergli lumi, quando l'occhio mi si è
posato su un album che in un primo momento ho snobbato,
perchè ritenevo non avesse testi adatti a quel che mi
serviva, ma poi mi sono ricordata di una frase che mi aveva colpito, e
allora ho preso un foglietto anche io, e l'ho scritta al meglio che
potessi, firmandola con un mio pseudonimo. Anche questo faceva parte
delle condizioni: firmarsi con un soprannome a cui si è
particolarmente legati, per svariate ragioni.
"Diciamo 'con quanto c'ha messo a pensarci Gerard', mi sembra
più indicato..." lo rimbecco, sarcastica.
"Macchè, lui mi ha solo dato l'input" replica, piccato e
anche un po' ferito nell'orgoglio, il che provoca a me un risolino
isterico, e a lui un broncio che intendeva essere truce, e invece
risulta quasi esilarante. Non può ribattere, semplicemente
perché arriva il suo turno. Si alza, e la tensione si
affievolisce nei suoi occhi, sapendo che il segreto sta per essere
svelato, ma aumenta nei miei, scossi dall'incertezza del suo consenso.
Gli piacerà? Apprezzerà? O si limiterà
a liquidarmi con un falsissimo "Mi piace", solo perché ormai
ce l'avrà marchiato addosso, o per non darmi un dispiacere?
Ed ecco che, come al solito, mille dubbi e paranoie iniziano ad
assalirmi, tant'è che la ragazza che mi farà il
tatuaggio, e che viene a dire proprio adesso che tocca a me, chiede,
gentile: "Sei tesa? É il primo che fai?"
"Ma no, li faccio anche io, siamo colleghe" rispondo, sorridendo e
facendo spallucce. Imbacuccata come sono, per via del freddo, nemmeno
può vedere quelli che ho già.
"Dai, allora vieni!"
Mi alzo, stringendo il foglietto tra le mie mani.
Speriamo mi piaccia.
*
Ho deciso che aspetterò a leggere cosa mi ha scritto. Tricia
lo sa, e rispetta la mia decisione, anche se "Beh, teoricamente
dovresti vedere se ti va bene come l'ho fatto...la grafia è
molto bella, però, questo spero di potertelo anticipare!"
"Già...cioè, so che lui scrive piuttosto bene, al
contrario della sottoscritta..."
Tricia ride. È la ragazza che mi ha impresso il tatuaggio
sulla pelle. Ha un bel sorriso radioso, metterebbe di buonumore anche
l'essere più depresso al mondo. Mi piace quella fila di
denti color avorio e ordinati, le labbra sottili, il piercing che le
adorna, e mi piace ciò che trasmette l'insieme quando si
amplia in quell'espressione così pacifica e lievemente
divertita. É piuttosto simpatica e, come me, quando tatuavo
a tempo pieno, non sta molto dietro al mondo della musica di questi
ultimi anni, per cui le sfugge completamente che faccia possa avere
Frank. Anche se conosce vagamente il suo nome.
"Ma per caso è il chitarrista di quella band...quelli che
vestono sempre di nero..."
"Ce ne son parecchi che vestono di nero, ultimamente" rido.
"Ma sì, ma che fanno i live in uniforme ci sono solo loro,
credo...me l'ha detto mia cugina, è andata a vederli mesi
fa...mi ci fa una testa così, con quei quattro matti..."
"Cinque. Comunque, sì, allora sono loro!"
"E anche tu suoni, dicevi? Per questo lo conosci..."
"Beh, sì, ho ricostituito il gruppo con mio fratello e un
nostro amico d'infanzia" ammetto timidamente, omettendo volutamente
quale sia il vero ruolo di "quel ragazzo così carino che si
sta facendo tatuare di là, da Chris!"
Sì, l'ha definito così, all'inizio. Mi stava
chiedendo se fossi insieme a lui, e ho risposto di sì, che
è un amico. La risposta più semplice del mondo da
formulare, se fosse la verità. Ormai siamo in una condizione
per cui è sempre meglio omettere particolari della vita che
svolgiamo su questo pianeta, piuttosto che renderli noti a cani e
porci, e farsi quindi da soli una frusta per le proprie terga. Quindi
quelle frasi sono opera delle nostre rispettive metà e nulla
più, che poi, beh, in fondo è realmente
così, ma, come concetto, formulato in questo senso assume
tutta un'altra sfumatura. E pazienza se non starà in piedi,
come balla. Certe bugie non reggono mai come dovrebbero.
D'altro canto, parlare di Dave, anche se solo nella veste di bassista
della mia band, mi fa un effetto strano, adesso. Come se fossi sotto
anestesia e vedessi tutto annebbiato, un attimo prima di addormentarmi.
So che esiste, che è presente nella mia vita, ma non me ne
curo più del dovuto, tanto le domande che ancora mi ronzano
in testa una risposta precisa non ce l'hanno, per cui non ha senso che
ci pensi continuamente. Mi farei solo del male.
Esco, e trovo Frank ad aspettarmi sul divanetto. Il suo sorriso
pienamente soddisfatto e lo sguardo pieno di gratitudine che mi rivolge
mi fa capire che non ha resistito e ha sbirciato la frase. Gli si legge
la sincerità più pura in viso, per cui mi
rilasso, perché vuol dire che gli piace davvero. Sorrido a
mia volta, e insieme paghiamo e ce ne andiamo.
Anzi, paga lui.
"Adesso basta, mi stai viziando!" protesto, senza riuscire a nascondere
la contentezza per quel piccolo gesto che abbiamo compiuto insieme.
Non stiamo facendo altro che consolidare il nostro rapporto, senza
inutili paranoie, il che è un gran bel traguardo,
considerando che non ci vediamo praticamente mai. Sentiamo
reciprocamente di poterci fidare l’uno dell’altra,
senza stare a fare troppe domande.
Sì, mi fido anche dopo la piccola defaillance di stamani. Un
modo l’avrebbe trovato comunque, per dirmelo. Lo so, lo sento.
"Sì, è bello viziarti" risponde, facendomi
l'occhiolino. Scuoto la testa in segno di resa.
"Piuttosto, com'è che la tua espressione è
così neutra?" chiede, con fare indagatore.
"Beh, ho deciso di guardarlo quando saremo soli, così
potrò ringraziarti come si deve" taglio corto, maliziosa.
"E poi sarei io a viziare te, eh?"
*
Vagare per le strade di San Francisco e fare spese selvagge non
è mai stato così divertente. Nemmeno con Alice.
Abbiamo rincasato carichi di buste e pacchi, ridendo come dei matti.
Lui ha comprato un sacco di cose, scompariva letteralmente dietro quel
carico, e pretendeva anche di voler portare le mie buste.
"Ma passane tu qualcuna a me, sei pieno!"
"Non ci penso nemmeno" ha risposto, con una linguaccia.
"Gné, spendaccione!" l'ho rimbeccato, proseguendo per i
fatti miei. Poi l'ho sentito implorarmi di prendergli qualche pacco.
Vocina flebile, dolce, da bimbo che supplica la mamma di comprargli le
caramelle.
Come facevo a dirgli di no?
E così, eccoci a casa, tutti i nostri acquisti sparsi per la
sala, e noi sul divano, una sigaretta tra le dita e una lattina di
Coca-Cola nell'altra mano.
"Certo, è agghiacciante fare caso a quanto siamo simili..."
ragiona, a voce sommessa, appoggiandomi la sua testa sulla spalla.
"In che senso?" chiedo, incuriosita.
"Beh, suoniamo tutti e due la chitarra, ci piace la stessa musica, i
tatuaggi che abbiano un vero significato dietro, andiamo avanti a
sigarette e Coca-Cola, quasi come se al mondo non ci fosse
altro...anche oggi pomeriggio, mentre facevamo spese, ho notato che
puntavamo del vestiario simile..."
"Non me ne ero accorta...beh comunque abbiamo anche tante cose non in
comune..." minimizzo.
Questo genere di discorsi l’ho sempre affrontato, ma solo nel
chiuso della mia testa, tra me e me. Mi sembrava un’idiozia
parlarne con qualcun altro, e solo adesso mi sto rendendo conto che si
tratta semplicemente di un modo per confrontarsi col mondo. Nella
fattispecie, della persona con cui ne discuti. Alla fine, a pensarci e
basta, senza rendere partecipe nessun altro, avevo finito per
trascurare certi aspetti e accettare il tutto in maniera molto
naturale, senza pensare ad affinità o divergenze tra le
persone con cui ho avuto a che fare nella mia vita.
Per esempio, io e Lucretia non avevamo decisamente niente in comune, ma
non me ne importava. Forse quello sarebbe stato il momento giusto per
ricominciare a pensarci, invece.
Va bene anche adesso. Sento di avere davvero tanto in comune con lui,
ma non tutto.
"Del tipo?"
"Beh, ad esempio tu sei vegetariano, e io no, anzi, adoro il pesce,
soprattutto il sushi, credimi mangerei tanto sushi quanto peso..."
"Ahia, questa l'ho già sentita" mormora, ridacchiando.
"...poi non fumiamo le stesse sigarette, mi piacciono i film d'autore e
quelli un po' vecchi, mentre invece gli horror mi
inquietano…oddio, non tutti, lo ammetto, Hellraiser ha il
suo perché, poi, vediamo…odio il colore rosa, e
Stephen King, e invece amo Daniel Pennac, anche se è
più conosciuto in Europa, e penso che i cicli di romanzi
migliori non siano Il Signore Degli Anelli, nè tantomeno
Harry Potter, cioè, belli, per carità, ma la saga
dei Malaussène e la Guida Galattica per Autostoppisti
rimarranno sempre nel mio cuore...e poi, beh, tu sei ricco e famoso, a
differenza mia..." ammetto infine, con una punta d'amarezza nella voce
e un ghigno spento. Come se mi importasse realmente qualcosa della fama
e dei soldi. Oh, beh, sono dei discreti incentivi, ma è fare
musica la cosa che mi fa sentire più realizzata. Sono ancora
un'idealista che affoga in mezzo a un mare di ipocriti, probabilmente.
Però è un ruolo che mi piace, su questo non ho
mai avuto dubbi. Vivo per fare musica, non faccio musica per vivere, o
perlomeno, non è quella l'intenzione primigenia.
"Sì, cioè, suvvia, non così famoso,
dai…ma tu suoni infinitamente meglio di me."
"Non dire cazzate, per favore"
"Non ne sto dicendo! La prima volta che ti ho sentito suonare nel
backstage pensavo fosse Toro!"
Arrossisco di botto. Eccolo che ricomincia coi complimenti, eccomi che
ricomincio a seppellirmi di schermaglie. Il copione si ripete
inesorabile, eppure ancora non mi ha mai sfiorato l'inconfondibile
sentore della noia, del dejà-vu.
Le sue parole possono farmi solo bene.
"Ma povero Ray! Perché lo chiamate sempre tutti per
cognome?!"
Ridacchia. “Non so, non sono mai stato troppo a
chiedermelo…forse è qualcosa di reverenziale, un,
non so, mi sembra teatrale da dire, ma...un tributo alla sua
genialità, ecco.”
“Appunto. E osi paragonarmi a lui? Mi sa che non hai tutte le
rotelle a posto, io non ho neanche un decimo del suo
talento…”
“Taci e fidati, lo dico sinceramente. Magari, okay, non sarai
al suo livello, ma una tacca sotto sì. E non più
giù” conclude, quasi minaccioso, schioccandomi un
bacio.
“Solo una tacca? Mi sopravvaluti.”
“Ehi, ti avevo detto di non protestare!” ribatte
“Piuttosto, ancora non hai guardato il
tatuaggio…”
“Ah, già, hai ragione…intanto dimmi del
tuo, ti piace?”
“Da morire” e sulle sue labbra torna quel sorriso
colmo di riconoscenza che aveva oggi pomeriggio “avrei
pensato a chiunque, tranne che ai LostAlone…”
Gli ho scritto una frase da Blood Is Sharp.
Be still my heart, alleviate the pain.
All’inizio e alla fine due piccole stelle.
Per ricordargli che mi ha fatto un male indicibile, ma che l'ha anche
curato. Per ringraziarlo di esserci sempre. Perché
è la mia medicina per la vita, quella che sai che un giorno
potrebbe scatenare tutti i suoi effetti collaterali, e tutti insieme,
ma in questo preciso momento della storia del mondo non te ne frega un
emerito accidente, e continui a prenderne insaziabilmente
perché sai che non puoi farne a meno, e nemmeno vuoi. Quella
che ti fa stare bene adesso, e anche l'istante dopo, e quello dopo
ancora, senza soluzione di continuità, senza interruzione,
senza fine, perché non riesci a scorgerne una, e il solo
averne la consapevolezza ti riempie di vibrazioni positive.
Me lo mostra, là dove prima c’era
l’altro.
È venuto stupendo. La mia scrittura sembra persino migliore
del solito.
“Ti ho spiazzato, eh?” chiedo, mentre mi tolgo la
felpa e inizio ad alzarmi la manica della maglietta.
“Forse è meglio se tolgo anche questa”
mormoro a denti stretti, vedendo che non riesco ad andare
più su del gomito. Mi sono fatta tatuare la sua frase sotto
gli ideogrammi giapponesi.
“Sì, mi hai spiazzato, anche per come ti sei
firmata…Stellina.”
“Non ha più senso che mi chiami solo lui,
così” bofonchio, improvvisamente adombrata.
Rimane in silenzio, serio, mentre sicuramente sta tentando di dare un
senso alle mie parole. Poi sorride, vedendo il mio stupore.
Believe in me, as I believe in you.
Firmato, Frankenstein.
Gli Smashing Pumpkins.
“Il ‘tonight’ non ce l’ho
messo, mi sembrava una cosa troppo limitante…non vorrei che
fosse per stanotte e basta, ecco…” balbetta, al
colmo dell’imbarazzo, le mani saldamente piantate sulle
ginocchia e lo sguardo vagante lungo il perimetro della stanza.
“Grazie” riesco solo a mormorare, sorridendo.
Chiudo gli occhi, un po' lucidi, e rimango così, qualche
minuto, a scrutare il nulla buio delle palpebre, mentre lui mi
abbraccia e mi culla con delicatezza.
|
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Capitolo 24 *** You Know I'm No Good ***
ormai
c'ho fissi tre commenti a capitolo.... :°DDD bauahuhauah!
Cap. 24
– You
Know I’m No Good
Non è fatto frequente vedermi fumare a notte fonda, seduta
in cucina e quasi completamente al buio.
C'è una ragione per tutto ciò, ed è
quanto di più banale si possa immaginare: non riesco a
dormire.
Le luci dei lampioni giungono alla finestra annebbiate dalla coltre di
fumo che ho innalzato standomene qui a rimuginare; il silenzio mi
avvolge, talmente possente che riesco a sentire il respiro lieve di
Frank tra le lenzuola, nella mia camera.
Non è che non voglio stare con lui, dormire accoccolandomi
sulla sua schiena come fossi uno zaino, o rannicchiandomi in posizione
fetale sul suo petto, in cerca di calore e protezione. Non è
per questo, che sono qui. C'è qualcosa che mi turba, e solo
adesso, alla quinta sigaretta, riesco a dargli una forma.
Non è stato solo un incontro di corpi, stanotte. Ogni volta
sono le nostre menti che si sintonizzano tra di loro, e si comunicano
qualcosa. Sentivo chiaramente di trasmettergli inquietudine e un senso
di dubbio che mi porto dietro da mesi, ormai, e che si è
cristallizzato, ma non si è fatto da parte, anzi, reclama
prepotente di essere ascoltato ogni istante della mia esistenza.
É un peso insopportabile, e altrettanto insopportabile
è l'idea di averlo condiviso con lui, di averlo trascinato
nel bel mezzo delle mie beghe senza nemmeno essermi premurata di
fornirgli un nome per invocarle insieme a me.
D'altro canto, anche lui non se la passa benissimo: malinconia e
nostalgia lo invadono, e lui cerca di liberarsene come può,
ma non ci riesce. L'ho sentita, la sua richiesta d'aiuto, ma l'ho come
trascurata, corrotta come sono dal possibile perché
dell'esistenza di quei sentimenti, fatti di materia vischiosa e dura ad
estinguersi.
Non basta certo una notte per dimenticarsene, e non basta una notte per
sorvolare, passarci sopra come se niente fosse.
In fondo, prima di me c'era Lei.
Da una vita.
Non è facile per nessuno, affrontare certe scelte.
Mentre ci penso, ecco che vado ad accendermene un'altra. Contro le vane
proteste dei miei bronchi alimento il banco di nebbia che ormai ho nel
petto.
E penso un po' anche a me.
A volte mi chiedo se sia davvero questo, ciò che voglio.
Me lo sono chiesto con Lucretia.
Col gruppo.
Con Dave, da sempre.
E adesso anche con Frank.
Ormai certi sentimenti sono sepolti sotto l'inesorabile scorrere del
tempo, il variare delle idee. Sotto altri sentimenti che sono
sopraggiunti nei confronti di altre persone. É inevitabile,
e non serve a niente stare a rimuginarci con insistenza,
perché a me va bene così, non intendo tornare
indietro, cambiare quella che sono e tutto quello che ha concorso a
farmi essere così.
Solo che ho paura di perdere tutto. Non del momento in sé,
ma è la convinzione che niente duri per sempre che mi
angoscia, che rende tutto più difficile. Saperlo mi fa stare
coi piedi ben saldati a terra, quando invece avrei bisogno di sognare
un po' a occhi aperti, di credere che la realtà sia migliore
di come la vedo effettivamente.
É un tutt'uno spegnere la sigaretta, ormai arrivata a
bruciare il filtro, nel posacenere, e alzare la testa nella penombra. E
scorgere Frank, in piedi davanti a me, sulla porta della cucina.
"Ehi..."
"Non riesco a dormire" mormoro, mesta.
"Me ne sono accorto."
Sorride, lo vedo. I miei occhi si sono abituati al buio, ormai. E alla
nebbia. Il suo è un sorriso benevolo, gentile. Comprensivo.
Si siede di fronte a me, fregandomi una sigaretta e accendendosela.
"Ma sono pesantissime!"
"Eh..." mi stringo nelle spalle "Marlboro..."
"Alla faccia, e hai il coraggio di fumarti..." conta le cicche nel
posacenere, mentre nell'altra mano tiene il pacchetto "quattro, cinque,
SEI Marlboro ROSSE a fila?"
Annuisco, con la stessa reticenza di una bambina che deve confessare
alla mamma di aver rubato la marmellata, e non vorrebbe, vorrebbe che
non se ne fosse mai accorta, ma sa che contro l'evidenza dei fatti
c'è ben poco a cui aggrapparsi per fare finta che non sia
successo nulla.
"Pazza." sussurra, sconcertato.
"Scusami..."
"Non devi scusarti con me, ma con i tuoi polmoni" mi esorta, con
dolcezza, accarezzandomi i capelli, e poi la guancia, con quelle sue
mani così rassicuranti, finendo per tirarmi un lieve
pizzicotto pieno d'affetto.
"Okay...allora, scusate, polmoni" bofonchio, alzandomi per aprire la
finestra e far sparire quella nebbia abominevole.
"Ma sei veramente pazza, tu! Apri la finestra a dicembre?! A fine
dicembre, tengo a specificare!"
"Ma se fa un caldo infernale qua dentro!" ribatto, stizzita. Scuote la
testa, senza dire niente.
Silenzio. E freddo.
Lo sento starnutire, così chiudo di nuovo, ammettendo a me
stessa che aprire la finestra in piena notte, a dicembre, a San
Francisco, mentre siamo praticamente nudi, non è una mossa
del tutto scaltra.
"Che...che ti succede, Frances?"
L'incertezza all'inizio, il tono con cui me lo chiede, triste e
avvilito, il modo in cui mi chiama, col mio nome intero, mi fanno
capire che se n'è accorto, che ho qualcosa che non va. Vuole
sapere da me cosa sia, ma non lo so con precisione nemmeno io.
"N...niente. Sul serio."
Niente, per modo di dire. È difficile condensare in frasi di
senso compiuto quello che ho dentro, e so di avere qualcosa che mi
turba, qualcosa nel petto. Non sono vuota, ma in questo momento
preferirei di gran lunga esserlo, se non altro avrei un paio di
preoccupazioni in meno. O forse troverei il modo di lamentarmi anche
del vuoto, conoscendomi. Il fatto, fondamentalmente, è che
se non trovo qualcosa di negativo in tutto quello che mi scorre
davanti, non sono contenta. Un po’ come Marvin,
l’androide paranoico della Guida Galattica per Autostoppisti.
Paranoid Android.
Chissà, forse i Radiohead si sono ispirati proprio a lui per
la loro canzone. E forse, anzi, senza forse, mi sto ispirando a lui per
la mia condotta esistenziale. Che, nemmeno a dirlo, sta facendo acqua
da tutte le parti.
Non dovrei preoccuparmi, perché ho tutto.
Ho una band.
Ho un ragazzo meraviglioso accanto a me.
Ho un fratello che è un piccolo miracolo. Anzi, proprio
piccolo no. È un metro e novanta per…oddio,
quanto peserà mai? Oh, non importa, dicevo, un metro e
novanta di miracolo, ecco, credo sia una definizione migliore.
E ho un problema che è grandioso quanto tutto ciò
che ho appena elencato, al colmo della gratitudine.
Il problema del problema, sì, lo so, è brutto a
dirsi così, ma è anche piuttosto efficace come
immagine, è che non so che nome porti, perché non
vuole dirmelo.
Maledetto, fottuto problema, ti chiami FRANCES
O DAVE?
Avanti, dimmelo, una volta per tutte, dannato bastardo!
E, nel frattempo, Frank mi fissa, in attesa di una risposta migliore di
“niente, davvero”, e, in confidenza, ne ha tutto il
diritto.
“Giuro, va tutto bene!” mi sforzo di sorridere,
prendendo però un’altra sigaretta,
perché quando sei un fascio di nervi pulsanti puoi
nasconderti dietro a tutte le paresi che vuoi, ma è come se
fossero perfettamente trasparenti, perciò sembri davvero
perfettamente imbecille. Se accendi una sigaretta, che nel mio caso
è la settima a fila, diciamo che il sospetto si fa sempre
più consistente, ammesso che fino a quel momento fosse
sempre e soltanto un sospetto.
Ci rinuncia.
“Bah, sarà…piuttosto, avrei dovuto
dirtelo oggi, ma mi è passato di mente…”
“Cosa?” rimbalzo su me stessa, elettrica.
“Su, mettiti comoda…mettiamoci comodi”
esorta, pacatamente, e mi conduce al divano “così
ti calmi un attimo, okay?”
“Uh, va bene…” rispondo, interdetta.
“Innanzitutto esigo che tu spenga quella sigaretta”
parte, con tono solenne. Intimorita da quell'incipit, la premo con
forza nel fondo di vetro, poi: “Sono tutta
orecchie.”
“Bene, allora…è il
ventisette…no, ormai ventotto, sono le tre e mezza del
mattino, dicembre…”
“Eh, lo so, e allora?” incalzo,
impaziente.
“E fammici arrivare! Insomma, stavo dicendo, capodanno si
avvicina…” e il suo incedere
nell’argomento si fa sempre più pomposo, per
finire con una richiesta che pare formulata da un adolescente alla sua
prima cotta, che invita la ragazza dei suoi sogni al ballo di fine
anno: “…se non hai niente da fare, vuoi passarlo
con me e gli altri ragazzi?” chiede, gli occhi piantati nei
miei. Nella penombra non riesco a vedere se sia anche arrossito, ma
penso che sarebbe una nota di colore piuttosto tenera, se
così fosse. Ci starebbe a pennello.
Rimango completamente spiazzata a questa domanda. Non ci pensavo
nemmeno, che tra tre giorni sarà l’ultimo
dell’anno, ed effettivamente non avrei niente da fare,
cioè, la prospettiva di passarlo con Keith, Alice e Dave, e
qualcuno dei loro amici, non mi eccita più di tanto, a
essere sincera.
“Beh, naturalmente dillo subito a tuo fratello,
domattina…sai, non vorrei pensasse di nuovo che ti abbia
rapita, o cose del genere...” riprende tutto serio, finendo
poi per farsi scappare una risatina a metà tra il
compiaciuto e il divertito. Lo seguo a ruota, e scuoto la testa.
“No, tranquillo, non lo penserà davvero,
stavolta”
“Beh, magari potrebbe venire anche lui, e il bassista,
e…”
“NONONONONO!!!” lo interrompo, con impeto. Rimane
un attimo scosso.
“Cambiare aria mi farà bene, e poi loro si sono
già organizzati!” spiego.
Decisamente, averli tra i piedi ancora un po' potrebbe minare
seriamente la mia salute mentale. Ho bisogno di respirare aria nuova, e
poi ho voglia di rivedere gli altri, stavolta in un contesto
più felice rispetto all'ultima volta.
“Ah…okay, allora, mi raccomando, avvisalo
però, eh!”
“Tranquillo!” confermo, lasciandomi scappare un
grosso sbadiglio.
“Vedo che ti è pure tornato sonno, sono riuscito
nell’intento di calmarti, allora!”
“Hm, diciamo di sì…”
strascico le parole una dietro l’altra, dissimulando scarsa
convinzione. In realtà ha centrato in pieno, e glielo
confermo con un altro sbadiglio e una sana stropicciata d'occhi.
“Scommetto che manca la ciliegina sulla torta,
vero?” ammicca, malizioso.
“Su, poche storie, andiamo a dormire!” cerco di
dirottare la conversazione, ma lui mi scompiglia i capelli con la mano,
e bisbiglia al mio orecchio: “Appunto, andiamo,
andiamo…” spingendomi verso la stanza,
ridacchiante.
“Ma ho sonno sul serio! Voglio dormire!” protesto,
buttandomi a peso morto sul letto. Si posiziona accanto a me, supino,
le braccia conserte in segno di protesta.
“BUONANOTTE” scandisco sul suo viso imbronciato,
accarezzandogli le labbra con le mie.
Poi mi butto su un fianco, e finalmente trovo pace. E lui, rabbonitosi,
mi cinge la vita con un braccio, appoggiando la fronte sulla mia
schiena, e sussurrandomi la buonanotte più dolce che abbia
mai sentito in vita mia.
Alla faccia tua, Problema. Tiè.
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Capitolo 25 *** Sillyworld ***
woah,
sono aumentati *___* al solito, la mia pigrizia non mi consente di
rispondere a tutte le recensioni una per una, quindi grazie *_*
Cap. 25
– Sillyworld
Però non mi aveva detto dove lo avremmo passato, il
capodanno.
Sapevo solo che ci sarebbe stato un aereo da prendere, e ne ho scoperto
la destinazione solo all’aeroporto, perché non ne
ha voluto sapere di dirmelo di persona.
Ma me l’aspettavo. Voglio dire, la destinazione. Avevo
sentore che saremmo atterrati a New York.
Mio fratello è al corrente di tutto e ne è
felice, "così almeno ti diverti come si deve!" ha esclamato,
al telefono.
Non ho potuto fare a meno di ridere per come l'ha detto.
"Mi raccomando, tieni d'occhio Dave"
"Ma che carina, sentila come si preoccupa! Tranquilla, non lo
farò ubriacare..."
"Ecco, invece è proprio quello che dovrai fare. Voglio
sapere cosa gli passa per la testa!"
Ha riso lui, stavolta.
"Ah, per quella faccenda...va bene, lo farò ubriacare..."
"Chi è che devi far ubriacare?" ho sentito Alice chiedere.
"Storia lunga, ti spiego con calma..."
"É tua sorella? Passamela, passamela!!! Allora, dolcezza,
come stai?"
"Tutto bene, direi! Mi raccomando, aiuta Keith a far ubriacare Dave!"
"Sì, va bene, ma perché?" ha sghignazzato.
"Perché in vino veritas" mi sono limitata a risponderle.
Direi che le è bastato, o forse mio fratello le stava
dicendo in qualche modo che le avrebbe spiegato tutto per bene, ma
dopo. Ci siamo salutati, e quindi...beh, era soltanto ieri, adesso sono
già a giro per la Grande Mela a fare shopping con Alicia.
Mi ci ha trascinato lei.
"Così lasciamo i nostri noiosi ometti a parlare di lavoro"
ha detto, imitando un attacco di nausea. Mikey, seduto sul divano, ha
sentito e ha roteato gli occhi, mentre Frank ci ha fatto una
pernacchia. L'ho guardato fisso negli occhi, con aria di sfida, e poi
gli ho mostrato il medio, dopodiché siamo uscite
dall'appartamento ridendo. Mentre ci chiudevamo la porta alle spalle
abbiamo sentito Frank borbottare qualcosa tipo "dovremmo stare
più attenti alle nostre donne", e Gerard soffocare un
risolino divertito.
Non l'avrei mai detto, ma è divertente vagare per i negozi
del centro insieme a lei. I nostri gusti non sono propriamente affini,
ma mi sta portando in negozi decisamente anche alla mia portata.
Adesso siamo chiuse in uno Starbucks, circondate dai nostri acquisti,
lei a sorseggiare un caffè, io a fissare il mio
tè.
"Uh, non lo bevi?" mi chiede, alzando lo sguardo dalla sua tazza.
"Sì, aspettavo si raffreddasse un po'" rispondo, il tono di
voce decisamente basso rispetto ai miei standard.
"Mi sembri pensierosa..."
"Beh, in effetti sì. Pensavo a dopodomani, a...beh, a dire
il vero è il primo capodanno che passo lontana da mio
fratello..."
"Siete molto attaccati l'uno all'altra, vero?"
"Beh, sì. Ne abbiamo passate di tutti i colori..." sorrido,
con espressione quasi colpevole. Forse perché sono sempre
stata io, quella che combinava disastri.
Ci pensa lei, a distrarmi da pensieri ad alto rischio di malinconia
fulminante.
"E...cosa ti metterai?"
"Come mi vestirò, dici?" farfuglio, finalmente attaccata con
foga al bicchiere di tè.
Annuisce, alzando il sopracciglio e increspando le labbra.
"Bella domanda, proprio non lo so...beh, ma non sono mai stata troppo
attenta a certe cose..." ammetto, un po' a disagio. E in effetti
è realmente così. Io sarei capace di presentarmi
in jeans e felpa, anzi, una volta l'ho pure fatto. Saranno stati
quattro anni fa, o forse cinque.
Glielo racconto, adducendo anche la ben poco edificante scusa che ero
fatta come un melone, e quindi non me ne stava fregando niente di
vestirmi in un certo modo, anche perché ero tra amici.
Alicia si mette a ridere, anche perché ho narrato il tutto
in maniera piuttosto leggera e ironica. Non mi sembra davvero capace di
ridere delle disgrazie altrui, seppur ormai morte e sepolte.
"Frankie, mi fai morire!" dice, riuscendo nel mentre nell'impossibile
acrobazia di non spruzzare il caffè ovunque. Finisco per
ridere anche io delle cazzate che racconto, e passiamo una mezz'ora
così, a scambiarci aneddoti che non ci sogneremmo mai di
dire in giro, tanto metterebbero a rischio le nostre reputazioni. Ma
tra noi va bene. É un qualcosa di implicito, un tacito
scambio di fiducia, qualcosa di piacevole e che spezza la routine. Una
specie di amicizia, peraltro insperata, avendola sempre vista come una
lontana anni luce da me e il mio piccolo, riservato universo. Alicia
conosce un sacco di gente, perché tra me e lei
c'è una sostanziale differenza: pur appartenendo allo stesso
mondo, lei vi si trova perfettamente a suo agio, mentre io mi muovo con
la grazia dell'adolescente impacciato al suo primo giorno di liceo.
"Somigli molto a Mikey, infatti" confessa.
"Beh, ma lui mi sembra molto più inserito" affermo, sicura
di quello che sto dicendo.
"É solo questione di tempo. Comunque, non credo di dovertelo
dire, ma questo mondo è terribile. Essere giudicati per come
si appare risulta molto facile, e purtroppo è una
circostanza che ha rovinato un casino di persone. Anche lui, in un
certo senso."
"Già, lo so. Sono una di quelli, alla fine" ammetto. Ed
inizio a raccontarle tutto.
Adesso è molto più facile, adesso che ho capito
di essere un'altra, adesso che anche Frank ha capito.
Non fece il giro delle riviste di settore, e nemmeno di quelle di
gossip. All'epoca eravamo ancora uno dei tanti gruppi della scena
californiana, e quindi non godevamo certo di tutto l'ascendente che,
giustamente, meritavano ben altri gruppi. Il fatto è che non
sarebbe stato un problema, la mia dipendenza. Cioè, nella
band era una gran bella gatta da pelare, e chiunque potrebbe chiedere a
mio fratello (tanto non vi risponderà.), ma all'esterno
sembrava quasi divertente. Insomma, mi lanciavo in discrete cazzate
durante i live, cose che da sobria o comunque 'pulita' non sarei mai
riuscita a fare, forse per vergogna, chi lo sa. I miei freni inibitori
erano completamente andati, e questo mi permetteva di creare sempre
delle situazioni da fomento generale, che rendevano qualsiasi nostro
concerto indimenticabile. Vedevo la gente uscire soddisfatta dai posti
in cui suonavamo, sentivo commenti tipo "Ma hai visto la chitarrista?
Un fenomeno!" oppure "A me sembra matta, però è
una che ci sa fare", e mi beavo del mio essere totalmente un'idiota. Ma
alla casa discografica piaceva meno quest'atteggiamento. Avevamo
firmato da poco per una major, e ovviamente sussistono dei criteri
più restrittivi, rispetto a quando sei sotto una indie
label. Il gioco s'era fatto serio, Dave me lo ripeteva fino alla
nausea, ma per me, appunto, sempre di un gioco si trattava, e mi sarei
tuffata con un doppio carpiato nel baratro, se non fossero intervenuti
due eventi fondamentali:
1) il tour estivo, quello in cui ho conosciuto Frank;
2) la casa discografica ci aveva posto un ultimatum, senza troppi
complimenti: "O rigate dritto, o siete fuori".
Venne da sè che provai a darmi una calmata, ma fino a che
non intervenne Keith, non ci riuscii completamente. E ancora adesso mi
stupisco di come non sia più riuscita a farmi nemmeno una
canna, da quel giorno.
"Hai una gran bella forza di volontà" dice Alicia, alla fine
del mio racconto.
"No, io credo sia soltanto un insano istinto di sopravvivenza."
"Comunque, penso che dovresti uscire dal guscio. Se hai intelligenza, e
si vede che a te non manca, riesci a galleggiare senza perderti in
droghe, alcool o patologie psichiche."
"Dici?"
"Sì. Il tuo sarà anche istinto di sopravvivenza,
ma hai dentro di te una forza incredibile. Me ne sono accorta quando ti
ho conosciuta."
"Ahm, grazie" arrossisco, compiaciuta da un complimento
così, gratuito e disinteressato.
"Adesso ti dico una cosa, non so se Frank ti ha accennato qualcosa..."
"Dimmi pure!"
"Questo capodanno, purtroppo, è un altro giorno di lavoro
per i ragazzi...insomma, casino a Times Square, interviste, cose del
genere..."
"Fiuuu, meno male che queste cose ancora non ce le chiedono" sospiro,
sollevata dai piccoli privilegi di fare parte di una rock band come
tante altre.
"Ah, non te l'aveva detto, quindi."
"No."
"E non sei arrabbiata..."
"Dovrei? Anzi, sai che ti dico...devo andare a comprarmi qualcosa di
decente, non si sa mai mi riprendano" dico, serissima.
Riesco ancora a farla ridere di cuore. Annuisce, così ci
alziamo e torniamo a fare spese nel cuore di New York.
Sono frivolezze, nulla più. Un piccolo mondo sciocco che mi
sono ritagliata senza stare troppo attenta ai contorni, ma è
giusto così. Mi fa stare bene, pensare a pormi domande
stupide, tipo il vestito che mi metterò, se
piacerò a Frank, cose del genere. Cose che fanno gli
adolescenti, cose a cui non ho mai badato, nemmeno in
quell'età.
Ma meglio tardi che mai, no?
E Alicia mi guida, in questo mondo frivolo, aiutandomi a scegliere gli
indumenti giusti da abbinare insieme, a cercare di mantenere la mia
personalità in quello che indosserò dopodomani. E
stranamente mi piaccio.
Sì, mi piaccio, forse per la prima volta in modo sincero, da
quando vivo.
*
Ieri e oggi sono passati veloci, insignificanti, come un alito di
brezza talmente debole che nemmeno riesce a scompigliarti i capelli.
Sono stata sempre in compagnia di Alicia e Christa, la ragazza di Ray.
I ragazzi, ovviamente, sono oberati inverosimilmente di lavoro, e
quindi li abbiamo visti per pochi attimi convulsi e racchiusi sempre in
fugaci e rassegnati sguardi all'orologio e alle sue lancette, che si
muovono inesorabili, ma con loro due riesco comunque a trascorrere
delle ore piacevoli e allegre.
I miei tatuaggi sono stati un po' l'attrazione del giorno. Christa mi
ha chiesto come ho conosciuto Frank, e Alicia ha risposto per me.
"Veramente, c'è dell'altro..." ho mormorato, lo sguardo
fisso a terra.
"Mio dio, ma sei sempre così timida?"
"No, Kri, deve solo rompere il ghiaccio, è una forza questa
ragazza!"
"E dai, Ali, non rispondere sempre al suo posto..."
"Sono d'accordo" mi sono intromessa, alzando un poco la voce.
Ecco, il ghiaccio s'è rotto.
Ho raccontato di quel giorno a San Francisco, i tatuaggi, e tutto il
resto.
"Dai? Sei una tatuatrice professionista?"
"Ebbene sì!" ho esclamato, gonfia d'orgoglio, alzando un
sopracciglio in segno di compiacimento.
"E quindi ne avrai anche addosso, non esiste un tatuatore senza nemmeno
un tatuaggio" hanno proclamato, quasi in coro, l'espressione di chi la
sa lunga. E così m'è toccato farglieli vedere
tutti, dal primo all'ultimo. Non che siano poi molti, conosco colleghi
molto più 'imbrattati' di me, ma ad ognuno è
stata un'esplosione di "Che bello!", oppure "E questo, che significato
ha?", il tutto coronato da una fila impressionante di complimenti e
considerazioni sui disegni. Mi stavo sentendo un po' una cavia, per cui
è stata quasi una liberazione quando l'appartamento di
Manhattan di Mikey e Alicia si è riempito di nuovo delle
loro cinque presenze.
Sono corsa alla porta, come una bambina, e appena ho visto entrare
Frank, subito dietro a Mikey e Gerard, gli sono saltata al collo e l'ho
abbracciato, carica di entusiasmo.
"E fammi entrare in casa, almeno!" ha protestato, ridendo e
accarezzandomi i capelli.
Adesso siamo sul letto, nella stanza concessaci dai coniugi Way nel
loro appartamento. Gli altri sono tutti in albergo, ma noi abbiamo
preferito scroccare ospitalità da Mikey e Alicia. Anche
perché sono stati loro a proporcelo.
"É carino, qui" azzardo, guardandomi intorno. Le pareti, di
un verde brillante, sono coperte da locandine di film, racchiuse in
sobrie cornici a giorno. Sopra la testata del letto, due riproduzioni
della Campbell Soup di Andy Warhol.
"Già" si limita a rispondere, lo sguardo lanciato in
contemplazione del soffitto.
Credo di sapere a cosa stia pensando. A quando anche lui condivideva un
appartamento 'carino' con una persona importante, con cui era pronto a
trascorrere una vita intera.
Credo anche che sia molto stanco, per cui tronco le sue congetture, e
anche le mie, proponendogli di schiacciare un pisolino, prima di
stasera.
"Non sarebbe una cattiva idea" risponde, volgendo il suo sguardo dal
candore del soffitto al pallore del mio viso.
Mi perdo nei suoi occhi, mentre sorride. C'è un'ombra, a
incupire quel loro colore così particolare, ma non sono
più gli occhi di una bestia in gabbia. Sono specchio di una
libertà consapevole, adesso. Di una felicità che
dura, a dispetto della sua caducità e della sua
brevità.
Ogni volta è come ricominciare daccapo, come resettare tutto
quello che c'è stato fino a quel momento, perché
è l'unico modo per non soffrire, dovendo stare separati per
settimane. Ma sappiamo entrambi che è un legame forte, il
nostro, un legame che se ne frega di ripartire da zero ogni volta,
perché sa di esistere comunque, indipendentemente da
qualsiasi fattore avverso.
"Forse un Lichtenstein ci sarebbe stato meglio" mormoro, rendendomi
preda di un sonno lieve sulla sua spalla, in attesa delle diciotto.
*
Sono appena uscita dalla doccia. Lascio il bagno a Frank, è
l'ultimo a prepararsi. Mikey e Alicia sono già pronti, e lei
approfitta per darmi le ultime dritte estetiche per la serata.
Mi trucca, confessandomi che è una cosa che la diverte
molto, e mi guarda mentre mi vesto e non faccio altro che osservarmi
incuriosita allo specchio.
É una sensazione particolare. Sono io, Frankie Armstrong,
però è come se nel contempo fossi un'altra
persona, un'altra Frankie che non sapevo di essere.
In questo vestito cortissimo, che sembra uscito dagli anni '70, su cui
divertenti fantasie optical in bianco e nero si rincorrono, in questi
aderentissimi pantaloni neri che porto sotto, in questi anfibi, i miei
anfibi, e in questo cappotto che sembra uscito dal guardaroba di un
membro qualsiasi di un altrettanto qualsiasi gruppo brit-pop, ci sono
io. Ma sono un'altra io, che non avevo mai visto fino ad ora, e che
tenevo nascosta nei più profondi recessi dell'armadio,
insieme agli indumenti che non metto più. Ecco, insieme ad
essi ci sono anche quelli che non ho mai messo, quelli che ho sempre
snobbato, a torto, pensando non mi fossero congeniali, e che invece
Alicia ha dimostrato che sono parte di me, una parte meno conosciuta,
ma appunto per questo più intrigante.
Frank sta a studiarmi un pezzo, mentre si veste, interessato dai
curiosi abbinamenti che ho approntato.
"Posso dirti una cosa?" chiede, mentre si annoda la cravatta.
"Certo" rispondo, curiosa di sapere di cosa si tratti.
"Sei più bella del solito, stasera."
Tanto per cambiare, divento rossa come un peperone. E boccheggio, tipo
pesce rosso che ha tentato il suicidio e si agita sul pavimento, dopo
un tuffo nel nulla.
"G...grazie...anche tu, beh, sì...quella camicia e quella
cravatta ti stanno...beh, da dio..." balbetto, imbarazzata.
"Grazie" risponde, compiaciuto. Rimaniamo in silenzio, mentre lui
finisce di prepararsi. Mi avvicino alla finestra e la apro, estraendo
da una tasca del cappotto, che avevo abbandonato prima sul letto,
sigarette e accendino.
"Ma fa freddo!" gracida, con una voce stridula che non gli ho mai
sentito finora.
"E dai, una sigaretta..." piagnucolo, imbronciata.
"Ma se mi avessi aspettato ti avrei fatto compagnia..." mormora,
modulando il registro vocale su una tonalità da bambino
triste. Ridacchio, riponendo la sigaretta, per fortuna ancora spenta,
nel pacchetto, e sospiro.
"E va bene, ti aspetto..."
"Grazie" sorride "però magari chiudi la finestra, che
è freddo anche ora, eh!"
"Ops, hai ragione!" e la serro di scatto, rimanendo ad osservare il
panorama dietro il vetro.
Manhattan.
Specchio in continua evoluzione di ciò che è
davvero in, paradiso di ricchi impegnati, quasi al pari di Los Angeles.
Più intellettuale, anzi. Un universo diametralmente opposto,
interessante, ma da cui mi discosto quasi con repulsione.
Perché la sua è un'intellettualità
fredda, funzionale solo a fare notizia. La vera cultura è
qualcosa di più fuori dagli schemi, underground, spontaneo.
Non c'è niente di spontaneo qui, è tutto
dannatamente chic, e dannatamente statico, ieratico nel suo continuo e
perpetuo movimento, là dove il vento tira più
forte. Una contraddizione in termini, in pratica. Sempre e comunque
più sincera e schietta della plastica che popola Los
Angeles. Apprezzo molto di più la Grande Mela, senza dubbio,
ma continuo a sentirmici a disagio, quasi come un vermino indesiderato,
che la guarda da una posizione di privilegio. Dall'interno.
Da parassita.
Distolgo lo sguardo, girando con violenza la testa verso l'interno
della stanza. Frank è pericolosamente vicino a me, talmente
vicino che, se non mi fermassi in tempo, scontrerei il mio naso col suo.
"Che c'è?"
"No, niente, tranquillo...allora, sei pronto? Possiamo andare?"
domando, esaltata da un insolito fervore, mentre mi sposto vicino al
letto e prendo il cappotto.
Ci chiudiamo la porta alle spalle, e Alicia mi sorride.
Mikey mi sorride.
Anche Frank.
E forse lo faranno anche gli altri, che ci aspettano
quaggiù, sulla strada.
Sembra che ve ne siate accorti tutti. Devo avere una luce strana negli
occhi, un misto di timore del nuovo e voglia di esplorarlo sin nelle
fondamenta.
New York, preparati. Non lascerò che tu mi assoggetti
così. Saprò fare in modo da amarti, e lasciare
che la tua benevolenza illumini anche me, questa piccola ragazza
californiana, abituata al sole della sua terra, e non alla tua
algidità.
Sarò il tuo vermetto preferito, te lo assicuro.
|
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Capitolo 26 *** She's Lost Control ***
altro
capitolo...ormai manca poco (ma forse non avrei dovuto dirvelo
:°D)
Cap. 26 – She’s
Lost Control
Mi sveglio in preda a un mal di testa senza limiti, rincoglionita come
un bradipo in letargo. La vista è annebbiata, ma riesco a
distinguere una giornata di pioggia fuori dalla finestra, e una sagoma
seduta sulla poltroncina verde scuro nell'angolo della stanza, sotto i
poster di Arancia Meccanica e Metropolis. Due film che non c'entrano un
benemerito accidente l'uno con l'altro, ma non sto certo a discutere
l'ordine e l'armonia voluti da chi ha affisso le locandine in questa
camera.
"Ah, finalmente ti sei svegliata!"
Una voce femminile.
Mi stropiccio gli occhi, confusa dal dolore che scuote le mie tempie
pulsanti.
"Ciao, Alicia" bofonchio, senza nemmeno pensarci.
Alicia? Cosa ci fa qui?
Ah, già. Sono a casa sua, insieme a Frank.
Ma nel letto ci sono solo io, spalmata su entrambe le piazze a
mò di stella marina. Mi ricompongo, mi alzo a sedere, e noto
che lenzuola e coperte sono raffazzonate e sistemate entro i ranghi del
letto qua e là, ma sembrano comunque reduci da un terremoto,
o qualsiasi altro cataclisma.
"Sei sempre così agitata quando dormi?"
"Beh, non so, dormo..." mi giustifico, stringendomi nelle spalle.
"Non hai dormito quasi per niente. Sei riuscita ad addormentarti verso
mezzogiorno..." mormora, e il suo viso assume un'espressione, non so,
sembra dispiaciuta.
"E adesso che ore sono?"
"Le tre."
"Cazzo! Oh, beh, giustamente era l'ultimo dell'anno ieri,
avrò fatto follie..." rispondo, trovando la forza per un
sorriso tirato. Mi costa caro: una fitta in più alla testa,
e una sensazione strana. Non fisica, ma mentale. Un senso di vuoto.
"...Frankie..."
"Sì?"
"Ma proprio non ti ricordi niente? Cristo quanto dovevi essere fatta
stanotte..."
"Fatta?"
"Sì."
"Ma dai, non esagerare, avrò bevuto qualche birra, vodka,
cose così..."
"No, eri proprio fatta, 'come un melone', tanto per citarti" taglia
netto, la gravità della sua voce che pesa come un macigno
sulla mia testa, già malandata di suo.
Devo farmelo ripetere un paio di volte. E conferma, sempre,
incrollabile, irremovibile, seria e preoccupata.
"O porca merda" riesco solo a dire, tenendomi la fronte. Rimango a
bocca aperta per svariati minuti, cercando di realizzare cosa sia
successo, di ricordare qualcosa.
"Perché?" chiedo.
"Non lo so...quando ti ho trovato avevi una bottiglia vuota di vodka in
mano, e stavi per farti un acido."
Sì, ricordo quei momenti. La mia mente li ripercorre con
passo felpato e accomodante, facendomi rivivere come un'eco lontana la
furia di Alicia, che mi strappa di mano bottiglia e acido, e li getta a
terra con rabbia, strattonandomi per il braccio e portandomi via da
quel covo di disadattati in cui mi ero infiltrata. Il resto,
però, è buio.
"Meno male che ti ho trovata in tempo...a giudicare dal tuo stato,
quello non sarebbe stato certo il primo."
Cerco di alzarmi. Le gambe sono malferme, ho addosso una maglietta che
riesco a realizzare non essere mia, e continuo ad avere una cefalea
clamorosa e le orecchie che fischiano, e chissà cos'altro.
"No, credo fosse il primo acido...è il resto che...hm, dove
trovo uno specchio?" faccio, aprendo la porta di camera.
"Il resto cosa?" chiede, dura.
"Alicia, uno specchio, per favore..." la imploro.
Apre l'armadio, ribadendo la sua domanda.
"Beh, alcool, quello di sicuro..."
"E poi?"
"Ali, non mi ricordo!" gemo, disperata. Non è la sua
insistenza a sfiancarmi, quanto la sensazione di voragine nel cervello
che ho da quando mi sono svegliata. Sto praticamente navigando
nell'incoscienza, ma qualcosa, a tratti, mi ricordo. Ad esempio, la
causa scatenante di tutto questo macello, la ragione del
perché abbia tutta questa merda in corpo. E il fatto che,
bene o male, non è stato solo l'alcool a rendermi
così.
Mi squadro, dalla testa ai piedi. E faccio schifo. Le occhiaie sono
accentuate dal trucco sbavato e dall'incarnato pallido, che sa un po'
di malaticcio, il tremore scuote le mie mani.
"Puoi chiudere la finestra, per favore?"
"É chiusa. E il riscaldamento è acceso. A
manetta."
"...ah. Devo fumare!" grido all'improvviso, risoluta. Ho bisogno di un
diversivo, qualcosa che mi permetta di non pensare.
"NON SE NE PARLA PROPRIO!" sbotta di colpo.
"Ma..."
"Niente ma! Dovresti solo ringraziarmi di averti parato il culo con
Frank e gli altri! Che altro ti sei fatta?"
Niente, qui devo dirle quel poco che so. Per forza.
"Coca..."
"Quanta?"
"Cielo, questo davvero non me lo ricordo!" strido, sull'orlo del pianto.
Si prende la testa tra le mani, sconvolta.
"Lo sapevo...non avrei dovuto lasciarti da sola, dopo che abbiamo visto
Jamia..."
Già, sono d'accordo con te.
L'ho vista, c'era anche lei.
Il pensiero che potessero incontrarsi si è impossessato di
me, facendomi precipitare come una cretina. Soprattutto dopo aver
notato che nessuno di noi riusciva a trovarlo, a un certo punto della
serata. Sparito chissà dove, per chissà quanto,
in ogni caso troppo, per me.
E non c'ho visto più, ho perso qualsiasi forma di
autocontrollo che mi sono imposta per tutti questi anni.
Rompo il silenzio, pesante come una cappa di piombo sopra le nostre
teste.
"E...e dopo?"
"Dopo cosa?"
"Dopo...dopo che mi hai trovata. Cosa è successo?"
"Ti sei sentita male. Hai vomitato anche l'anima, penso, poi sei
svenuta. Mi hai fatto preoccupare davvero..."
"Scusa..."
É tutto qui, quello che riesco a dire.
"N...non scusarti. Ti sei ripresa, poi, per fortuna. Altrimenti adesso
saresti in una stanza d'ospedale"
Taccio. Per senso di colpa, è vero.
Ma anche per la vergogna. L'avventatezza con cui mi sono ritrovata ad
agire, sopraffatta da una gelosia che da troppo tempo non assaporavo.
Francamente ne avrei fatto volentieri a meno. Ma visto che era tornata,
e non aveva la benché minima intenzione di andarsene, dovevo
metterla a tacere con qualcosa di più forte, più
potente della sua eco ossessiva e fastidiosa.
Qualcosa che, se fosse andato tutto storto, non avrebbe spedito solo la
gelosia all'altro mondo, ma anche me. E, tra l'altro, è
ancora qui che incombe alle mie spalle, pronta a saltare fuori in
qualsiasi momento, ingiustificata, illegittima, ma soprattutto
istintiva, e pronta a provocare chissà quali casini.
Scuoto la testa, incredula per quel che sono riuscita a fare.
"Nessuno sa niente?"
"No. Ho solo detto a Mikey che avevi esagerato un po' nel bere, e che
quindi saremmo tornate un po' prima, null'altro."
"Sì, ma tuo marito la sa lunga, non è scemo..."
"Non farà domande, fidati."
"Se lo dici te" bofonchio, rimettendomi di nuovo a letto.
Ancora non riesco a dare una forma alla serata di ieri. Nozioni confuse
si ammucchiano senza logica nel mio cervello, creando ancora
più casino di quanto già non ce ne sia.
"Vuoi mangiare qualcosa?"
"No, grazie, mi sento come se non avessi nemmeno uno stomaco..."
ridacchio, amara.
"Okay...adesso dovrei riposarmi un po' anche io...anzi, se non ti
dispiace, approfitto e mi riposo qua, posso?" chiede, per la prima
volta sorridente, da quando mi sono svegliata.
"No, vieni pure" rispondo, facendole spazio nell'enorme letto.
"Dove sono loro?" chiedo poi, come se non fosse successo nulla.
"Riunione di lavoro da Gerard...così me l'hanno descritta"
"Ah, ma anche il primo dell'anno, uffa..."
"No, è solo una scusa, cosa credi! Dovranno mettere a punto
tre quattro cose, il resto del tempo è birra, sigarette e
cazzate!"
"Capito!" esclamo, mettendomi a ridere.
Mi sento un po' meglio, se non nel fisico, almeno nello spirito.
Certe volte mi chiedo dove potrei andare a finire, con le mie
debolezze, se fossi completamente sola al mondo. Se non fossi
circondata da queste persone. Sono una bambina turbolenta e difficile,
e ho bisogno di qualche baby-sitter, a quanto pare. Faccio qualcosa di
cui poi potrei pentirmi, e c'è sempre qualcuno che accorre e
mi toglie dai pasticci, per cui ho tutte le ragioni per chiedermi cosa
sarebbe di me se non avessi intorno Keith, Dave, Frank, Alicia,
eccetera. A volte, per inciso, coloro che mi salvano sono anche quelli
che mi fanno recitare la parte della piccola ribelle e scapestrata,
quelli che mi inducono a pensare che fare certe bravate mi possa far
sentire meglio. Mi sento di un'incoerenza assoluta, pensando a quando,
appena un paio di giorni fa, raccontavo ad Alicia che non ero riuscita
a toccare più nemmeno una stupida canna. Ho contravvenuto ai
miei principi, alle ferree regole che mi ero imposta, ma soprattutto al
mio fisico, che ormai non richiedeva più di farsi reggere in
piedi dalla droga.
Uno spinello poteva starci. Ma non la quantità di righe di
coca che avevo tirato su col naso la scorsa notte, numero di cui
nemmeno io sono a conoscenza. Avevo tanto criticato Lou per la sua
sfacciataggine nell'abusare delle sue banconote, arrotolandole per
aspirare quella sottile polverina bianca, e ho finito per mettermi al
suo livello, ma non è questo il problema, non questo.
La questione è che, anche se non ne verranno mai a
conoscenza, mi sento comunque in colpa verso Keith e Frank, e
dovrò sfoderare tutta la mia sfacciataggine per poterli
guardare dritti negli occhi, da ora in poi. Ma sono cose di cui mi
occuperò più tardi. Adesso voglio solo
riaddormentarmi, e non pensare a nulla.
*
"Frank, calmati..."
"COL CAZZO! Dov'è quella stronza, dov'è?"
"Cos'è questo baccano in casa mia!" sbotta Alicia, che,
già sentendo aprire la porta, è schizzata fuori
dal letto.
"Dov'è? Eh? Dove la nascondi?"
"Ma di cosa stai parlando, Frank?"
"Di Frankie, Ali...è successo un casino" Mikey spiega,
paziente. Beato lui, che riesce a stare calmo in questi frangenti.
Quanto a me...beh, non avevo il coraggio di guardare Frank negli occhi,
e adesso che lo sento così, incazzato come un cobra, ne ho
ancora meno. Tuttavia decido di alzarmi, se non altro non rischio di
essere tacciata di vigliaccheria. Nemmeno a torto, per inciso.
"Che vuoi?" bofonchio, ancora sbalestrata dal cocktail di schifezze
della sera prima.
"E LO CHIEDI ANCHE!"
"Non urlare, non siamo mica a casa tua, eh" lo apostrofo, sprezzante.
"Chi se ne frega!"
"Frank, stai calmo..." riprova Mikey.
"Dimmelo un'altra volta e ce ne sarà anche per te!" poi mi
fissa, schifato, "Quanto a te, sarà meglio che prenda le tue
cose e te ne vada immediatamente."
Lo osservo come si osserverebbe un matto, insomma, lo sto tenendo
d'occhio, in attesa che vengano a prenderlo per internarlo. Lo sguardo
è quello, nè più nè meno.
So per cosa sbraita. Me lo immagino, perlomeno. Non so come abbia fatto
a scoprirmi, ma è per quello, non c'è proprio
ombra di dubbio.
"Mi avevi detto che avevi smesso. Bugiarda." dice solo, in tono grave,
assistendo alla mia scena muta.
No, non sono bugiarda. Avevo smesso davvero.
"Frank, porca puttana, che ne sai che sia vero? Come fai a sapere che
Jamia non si sia sbagliata? E poi, non credevo sapesse di lei..." Mikey
sta iniziando ad alterarsi.
Ah, Jamia. Ecco, tutto si spiega.
"Evidentemente lo sa, invece!"
Ma cosa vuoi che sappia, lei.
Ovviamente, anche se ti spiegassi, non mi crederesti, perché
vedi solo quello che ti fa comodo, ti costruisci la verità a
tuo esclusivo uso e consumo e non ti fidi di altro, solo delle tue
ridicole e faziose impressioni. E allora sai che ti dico?
"Vaffanculo."
"Prego?"
"Mi hai sentito benissimo, vaffanculo! TU vieni a fare il processo a
ME, tu che sei sparito all'improvviso ieri! Ecco dov'eri finito, eri da
lei! E hai il coraggio di venire a criticare me? Non te ne deve fregare
un cazzo di quello che faccio, visto che mi escludi dalla tua vita e da
quello che fai, quindi io posso fare esattamente lo stesso, e per
inciso anche mandarti a fanculo, grandissima testa di cazzo!" urlo,
radunando le mie cose a casaccio e trascinando la valigia lungo il
corridoio.
Mentre apro la porta, sento una mano sulla spalla.
"Frankie..."
"Che cazzo c'è ancora!" mi volto di scatto "Ah, sei tu."
"Dove vorresti andare in mutande e con la mia maglietta dei Pantera
addosso?" sorride, comprensiva, sminuendo la tensione che ho in corpo.
"Hai ragione, scusami" mi tolgo la maglietta e gliela porgo, rimanendo
in mutande e reggiseno "ora che ci penso i Pantera nemmeno mi
piacciono..."
Ride. Poi mi abbraccia. Un abbraccio sincero, caldo. Vorrei scoppiare a
piangere a dirotto, ma lui è ancora di là, e il
fianco, finora, gliel'ho mostrato anche troppe volte.
"Dai, andiamo in bagno."
Entriamo, mi lavo il viso, poi le chiedo se posso farmi una doccia
veloce.
"Certo" ed esce "ti aspetto qua fuori."
Sotto la doccia mi sfogo. Non ho più spazio per la codardia,
adesso ho solo rabbia che mi scorre nelle vene, e la rabbia che ho in
corpo ha come unica via d'uscita un fiume di lacrime e cazzotti al
muro. Quando esco, e apro la porta del bagno, la vedo preoccupata che
mi chiede se vada tutto bene, e io annuisco.
"Diciamo che sto meglio" spiego.
"Allora posso raccontarti come stanno le cose" azzarda.
"Certo."
Insomma, mentre erano tutti insieme da Gerard, oggi pomeriggio, a Frank
arriva un messaggio di Jamia, lapidario: una cosa del tipo "ma bravo,
adesso te la fai anche con le tossiche, complimenti", e ovviamente lui
fa due più due, e vede davanti a sè un quattro
grosso come una casa apparire dal nulla. Ecco la spiegazione, semplice
e assurda allo stesso tempo.
"Mikey ha tentato di calmarlo, ma non c'è riuscito. Tra
l'altro ci stiamo tutti chiedendo come faccia lei a sapere di te e
Frank. La cosa buffa è stata che tu gli hai rinfacciato di
essere sparito con lei e mentre te ne andavi verso la porta lui ha
protestato dicendo che non era con lei, e Mikey gli ha fatto 'e allora,
per lo stesso motivo, che ne sai che lei fosse chissà dove a
farsi di chissà cosa?' e lui 'ma non l'hai sentita? L'ha
praticamente ammesso!' 'Frank, sei un imbecille! Sei quasi vecchio e
ancora non riesci a distinguere una provocazione da una confessione? Ti
stava provocando, non ha detto chiaramente di essersi fatta l'altra
notte! Arrivaci da solo, cazzo, non aspettare sempre che ti spieghiamo
tutto io, o Gerard, o chiunque altro!' e lui è rimasto a
boccheggiare come un pesce, poi ha preso ed è uscito
sbattendo la porta!"
"Grandioso" sospiro.
"Tanto di cappello a Mikey per avergli dato dell'imbecille, in ogni
caso" mi sento in dovere di aggiungere.
Okay, la situazione sta volgendo a mio favore, ma ciò non mi
impedisce di continuare a stare male. Almeno, adesso, lavata e pulita,
vestita con la mia roba e con, finalmente, la possibilità di
fumare una sigaretta, distratta dal caos di Manhattan sotto i miei
piedi, e soprattutto sotto i miei gomiti saldamente appoggiati al
davanzale, riesco a sentirmi meno ridicola e idiota rispetto a prima,
quando sbraitavo in faccia al mio ragazzo con addosso solo la maglietta
di Alicia e un paio di mutande zebrate.
"Ahm, ma...mi è venuto in mente adesso" mormoro, tra una
boccata di fumo e l'altra "i miei vestiti?"
Mi indica la lavatrice, che lavora a pieno regime.
"Meno male che t'è venuto improvvisamente caldo e il
cappotto te lo sei tolto prima" ammette "quello sarebbe stato un po'
più difficoltoso da lavare, avresti dovuto mandarlo in una
lavanderia..."
"Vabbè, in mezzo alle disgrazie qualcosa di positivo
c'è sempre" sorrido.
"Tutto bene?" sento chiedere da Mikey, alle mie spalle. Annuisco,
convinta, senza voltarmi.
"Adesso sto meglio, grazie."
"Sarà anche mio amico, ma certe scenate in casa mia non deve
più azzardarsi nemmeno a pensare di farle!" sbotta.
"Mi dispiace, è colpa mia..." tento di scusarmi, voltandomi.
"Macchè colpa tua, non hai fatto niente!"
Silenzio.
"....o sì?"
Ancora silenzio.
"Okay, io non so niente e non dico niente."
"Ecco, bravo" lo apostrofa Alicia.
"Io...voglio dire, se non l'avessi vista, non l'avrei mai fatto...mi
sono lasciata prendere dalla gelosia, sono impazzita..."
"Ma rimarrà un episodio isolato, voglio sperare!"
"Sì. Non mi ricordavo più di quanto ci possa
sentir male dopo" ridacchio. Mikey e Alicia appaiono sollevati, e lui
mi accarezza la testa, mormorando che si sistemerà tutto.
Già. Speriamo. Il fatto è che io l'ho mandato
amorevolmente a cagare, ma non lo pensavo sul serio.
Se va a fanculo lui, purtroppo ci vado anche io.
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Capitolo 27 *** About Leaving ***
chiedo
perdono, quest'università mi sta succhiando via il cervello
;__;'' e poi son stata due settimane via da casa, comunque
adesso c'è un capitolo nuovo tutto per voi che leggete *O*
Cap. 27 - About
Leaving
Sono partita per il nostro tour europeo senza nemmeno chiarire con
Frank. Una vigliaccata, la mia, visto che inconsapevolmente aveva
ragione lui, però non riuscivo, e non riesco a mandare
giù tuttora, il fatto che mi abbia rivolto delle parole
così cariche di odio per una cosa che nemmeno ha visto.
Ancora una volta non c'era, a toccare con mano il mio disagio. A
osservare bene il grado di decadenza a cui può giungere un
essere umano. Non pretendo che mi capisca, perché spesso
faccio fatica anche io a stare dietro a questi ragionamenti pregni di
autocommiserazione e debolezza, ma che almeno, ecco, non mi venga a
dare della stronza così, a casaccio. Oddio, non molto a
casaccio...insomma, anche il mio astio non regge, e Keith se la ride,
vedendomi così, a vaneggiare su chissà cosa e
insultarmi da sola a voce alta nel bus, mentre Dave bofonchia che vuole
dormire, e che non devo rompere i coglioni. Parole testuali.
Io non devo mai rompere, secondo la sua logica. La cosa, se prima mi
infastidiva, adesso mi fa solo ridere. Un riso amaro e rassegnato
all'idea di non sapere mai cosa gli stia passando per la testa,
perché anche in preda ai fumi dell'alcool non s'è
minimamente sbottonato, la notte di capodanno. Confermatomi a due voci,
in coro, con mille scuse, sia da Keith che da Alice.
Ha suonato una padella, scambiandola per il suo basso, ha ballato sui
tavoli e iniziato a imprecare in uno stentatissimo, quanto comico
italiano (reminiscenze di quando stava con quella tizia, sì,
insomma, quella che mi ha insegnato a cucinare la pasta. Sempre lei.),
ma non ha detto niente di quella faccenda.
Niente di niente.
In vino veritas. Ma andate a fanculo, latini del cazzo.
O forse non ha davvero nulla da dire. O forse non era ubriaco, ha fatto
soltanto finta. O forse...o forse basta, Frankie.
Sono passati diversi giorni ormai, da quando sono partita. Dal tre
gennaio. Nemmeno ci penso, a telefonargli. Che ci pensi lui, mi dico,
in preda all'orgoglio più cieco e stupido. Nel frattempo
suono, e suono come mai in questi ultimi mesi ho fatto.
Bene. Fottutamente bene.
La chitarra è un prolungamento del mio corpo, e le mie dita
scorrono, a volte armoniose, altre rabbiose, altre ancora malinconiche,
ora decise e ora delicate, come il tocco di un vetraio con le sue
creature. Minuzioso e colmo di amore.
Io amo le mie chitarre. Le amo come la cosa più preziosa di
cui sono in possesso, come i tramiti tra il talento e la sua messa in
pratica, come le artefici di quello che sono, e quello che faccio per
vivere. Quello che vivo per fare.
Suonare, e non mi importa se tra pochi amici o davanti a una folla
oceanica, non mi importa, giuro. É la musica, quella che
conta.
Sto imparando ad amare anche la mia voce, a curarla come si fa con una
piantina debole, a portarla il più in là
possibile, a farle esplorare mondi che mai ha visitato.
La amo, perché è debole anche lei, sfiancata, ma
stoica, a volte flebile, e a volte così profonda da far
venire la pelle d'oca alta due dita anche a me che la tiro fuori
sforzandomi come in un parto.
É l'anima, che straripa all'esterno.
Quello che ho da dire al mondo, serio o meno che sia, doloroso o
faceto, amaro o ironico.
O tutte queste cose insieme.
Sono io, in definitiva, sul palco. Niente personaggi, niente maschere
da indossare con grazia e disinvoltura, niente movenze da istrione
d'altri tempi. Quelle sono cose che lascio fare volentieri a gente che
ne ha bisogno per non impazzire, o per affermare un ego che ha paura di
calcare un fottuto mucchio di assi e cavi nella sua completa
nudità, come le persone comuni di tutti i giorni, quelle che
non hanno il bisogno nè l'obbligo di mostrarsi a una folla.
Ma io non sono normale.
Io sono fatta per stare qua sopra a urlare al mondo che fa schifo, e
che un po' faccio schifo anche io. Per un fatto di adattamento,
immagino.
E la gente, beh, viene ad ascoltarmi, e sembra persino essere
d'accordo. Un gran bel traguardo da raggiungere, direi.
C'è solo una cosa che può cambiare il mio modo di
vedere le cose, e guarda il caso, quella cosa sta emanando una
stupidissima sigla di un abominevole cartone animato.
Keith sta già sfoderando lo sguardo assassino che accompagna
alla classica frase "Rispondi, o cambia suoneria!", frase in cui
l'unica variabile è determinata dalla quantità e
varietà di improperi che riesce a proferire a gola spianata
prima che riesca a interrompere quello stillicidio.
"Pronto" borbotto.
"Ehm...ehi, Frankie, sono io...Frank."
La sua titubanza, da bambino timoroso, riesce a strapparmi un sorriso.
E a farmi uscire dal bus, in piena notte, una di quelle in cui non
suoniamo, una di quelle in cui la luna è lì,
appesa nel cielo, rotonda e materna, che ti osserva e approva
quell'oscuro sentimento che è il motore della tua vaga
esistenza, a prescindere da dove ti porti.
"Ehi, ciao" farfuglio, in evidente disagio.
"Beh, volevo sapere come stai, non ci siamo nemmeno salutati, prima che
tu partissi..."
Faccia tosta. Perché hai aspettato così tanto a
farti sentire?
Mi sei mancato come l'aria, ma sono troppo orgogliosa per ammetterlo, o
per decidere di prendere e chiamarti.
"Sta andando tutto a gonfie vele!" esclamo, cercando di mostrarmi
entusiasta solo per il tour. Solo per quello, non montarti la testa.
Anzi, montatela pure, perché è una balla. I
concerti sono passati in secondo, terzo, ultimo piano, da quando la tua
voce è tornata ad accarezzarmi le orecchie.
Silenzio. Starà aspettando qualcosa? Io aspetto che dica
qualche cazzata delle sue.
Ah, ma sono io che devo parlare.
"E...e tu? Le registrazioni procedono bene?"
"Sì...sto bene, anche il disco sta bene, il lavoro grezzo
sta per essere inciso, stiamo provando come dannati...sono
stanchissimo" risponde, trascinando la sua verbosità come
una fila di lumache sotto la pioggia. Riesco a sentire tutta la fatica
che lo assale, nel modo insolito in cui dosa le parole. Di solito
è un fiume in piena di frasi e movenze; credo che invece, se
potessi vederlo adesso, probabilmente gesticolerebbe molto meno dello
standard, quasi in un tentativo di risparmiare energie per suonare al
meglio.
"E... beh, diciamo che ti ho chiamato anche per un altro motivo..."
"Quale?" chiedo, stupita.
"Ho esagerato, l'ultima volta. Ti ho accusato senza ascoltarti, e non
avrei dovuto. Scusami, davvero."
"Ah, no, tranquillo, non c'è problema, credimi! Scusami tu,
per averti dato della testa di cazzo e, uh, poi non ricordo
più..." rispondo, ridacchiando.
Ride anche lui: "No, direi che non hai calcato la mano più
di tanto, con gli insulti..."
Siamo troppo formali, questa telefonata sta assumendo una piega
grottesca.
"...uhm, ecco, non dovrei prendermela così, ma ci tengo a
te, e lo sai...insomma, non mi importa, cioè, non so se
fosse la verità o meno, se sto davvero con una tossica come
dice qualcuno, ma se così fosse, ti prego di smetterla..."
"Non posso." rispondo, decisa, senza farti nemmeno finire.
"Come non puoi?" chiedi, stranito.
Aspetta, ti ribadisco il concetto.
"Hai sentito bene. Non posso smettere."
"Mi hai mentito tutto questo tempo, allora?" salti su inviperito.
No, vedi, non ti ho mai detto bugie. Vabbè, meglio esser
chiari, QUASI mai.
La questione è un'altra. E tu sei sempre pronto a vederne il
lato peggiore, suscettibile come sei.
"No. O meglio, sì. In un certo senso sì, ti ho
mentito..."
Taci, poi riagganci.
Frank, accidenti a te e alla tua impulsività! Non avevo
finito il discorso.
Ricompongo il tuo numero, e mi rispondi, secco, freddo, bastardo.
Ma stavolta non mi spaventi, non ho la sensazione di stare per
perderti, perché non hai ascoltato la parte più
importante.
"Sei tu la mia droga, adesso capisci perché non posso
smettere?"
Un silenzio sepolcrale riecheggia nell'auricolare.
"Sì, in un certo senso stai con una tossica, una che si
farebbe di te fino a farsi scoppiare le vene, e chissà
quante altre cazzate potrei dire, ma rovinerei tutto, come al solito,
quindi fermami, per favore, o potrei continuare all'infin..."
"Allora siamo due drogati del cazzo, credo."
E ridi, ridi come non ti sentivo ridere da giorni, ormai, felice come
un bimbo davanti a ciò che desidera più di ogni
altra cosa esistente, e finisci per contagiarmi, e ridiamo assieme,
ebbri di quella pura gioia che credevo esistesse solo nei film, o nei
libri, in mondi non percorribili fisicamente, che rimangono
così, nella testa, come piacevoli idealizzazioni fini a se
stesse. Ma ci siamo dentro fino al collo, e forse anche un po'
più su, perché è la realtà,
e per una volta mi sento di porgere delle tacite scuse al mondo,
mormorando nel cervello che non fa poi così schifo, che
tutto sommato è un bel posto per viverci, ogni tanto.
Alzo gli occhi al cielo, e la luna è sempre lì,
sempre nostra complice silenziosa, sempre presente quando ci
riavviciniamo dopo una burrasca, sempre pronta a farsi da parte,
riflettendo una luce non sua sui nostri visi provati dal lavoro e da
sterili litigi. Da te è giorno, ma non importa. Il cielo
è dalla nostra parte, qui col suo scuro splendore,
là con la limpida rincorsa delle nuvole nel cielo, bagnate
dal calore del sole.
"Sai, qua piove..." mi comunichi, così, dal nulla.
Okay, niente nuvolette bianche spostate dal vento e lambite dal sole.
Scherzavo.
"Qui invece il 'soffitto' è sgombro, si vedono un sacco di
stelle!"
"Soffitto?!"
"Ma sì, il cielo! Non mi va di chiamarlo sempre con lo
stesso nome"
Sento sghignazzare.
"Non è male, come metafora..."
"Eh già" dico, poi sento aprire la porta alle mie spalle, e
mio fratello mi scompiglia i capelli con affetto e sussurra di
interrompere la telefonata e rientrare a riposarmi, perché
domani ci aspetta un concerto denso di aspettative.
"Devo rientrare, scusami! Ci sentiremo ancora, mentre sarò a
zonzo per l'Europa?"
"Spero di sì...ma non mi hai detto dove sei adesso."
"Parigi. Ed è meravigliosa, dovremmo farci un giro, sai? Io
e te. Da soli."
"Perché no? É davvero bella! Buonanotte,
stellina, salutami le tue sorelline lassù sul soffitto!"
sussurra, con dolcezza.
"Lo farò senz'altro" rido "buon lavoro, drogato!"
"Ma come, io faccio il carino, ti chiamo stellina, e tu mi dai del
drogato?!"
"Per tua stessa ammissione, ti ho solo citato, signor Frankenstein!"
"Okay, okay..."
"Dici che dovrei chiamarti anche io stellina? Anzi, stellino!" rido
"Allora, vuoi essere chiamato stellino?"
"No, grazie, meglio tossico, piuttosto...riposati bene, mi raccomando,
mia piccola droga..."
"Ti amo." mormoro, quasi senza accorgermene.
"Scusa, scusa, cos'hai detto? Non ho sentito" incalza, sarcastico.
In effetti è la prima volta che me lo sente dire.
Cioè, un attimo, rettifico: è proprio la prima
volta che lo pronuncio. Non so se riuscirò a dirlo ancora,
tanto mi pesano queste due piccole, stupide parole, ma adesso
è successo, e non me ne pento. Lui se le merita tutte, dalla
prima all'ultima lettera.
"Buona la prima, mi dispiace per te, ma non ripeto!"
"Tanto ti ho sentita!" e fa una pernacchia.
"E allora cosa vuoi che ripeta!"
"Niente, mi piaceva l'idea che me lo ribadissi..." bofonchia, un po'
deluso.
"Comunque...anche io..." sussurra, quasi con pudore.
"Ciao" e attacchiamo in sincro, o almeno, mi piace immaginare che possa
essere così.
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Capitolo 28 *** Always All Ways (Apologies, Glances And Messed Up Chances) / Standing On The Ruin Of A Beautiful Empire ***
per
questo voglio una caterva di commenti, capito? u_ù
Cap. 28
– Always
All Ways (Apologies, Glances And Messed Up Chances) / Standing
On The Ruin Of A Beautiful Empire
L'ho lasciato. Ormai è più di un anno.
Beh, mi ha lasciato,
all'incirca un anno e mezzo fa. Mese più, mese meno. Non ho
controllato il calendario, non voglio che diventi un'abitudine
stillicida.
Di ragioni....beh, cito a mio personale uso e consumo il titolo di un
romanzo che vidi anni fa su uno scaffale di libreria, reparto
letteratura italiana.
Una, nessuna e centomila.
So che ce ne sono, ma non so qualificarle, e così
è come se non ce ne fosse neppure una. Ho provato a dire
qualcosa, a ripeterle, davanti allo specchio, pensato a qualche modo
per renderle più convincenti, ma prese una ad una perdevano
completamente un senso, ammesso che ce l'abbiano mai avuto. E
così, meglio una sana e schietta scena muta. Probabilmente
sarò apparsa come una stronza, ma che qualcuno mi creda, per
favore. Non sono stronza.
Ero solo confusa. Lo ero, e lo sono tuttora.
Il motivo?
Non lo sa con precisione
nemmeno lei. Uno, nessuno e centomila, così mi ha detto.
Non so perché, ma questa frase mi sa di citazione.
É troppo...troppo, per essere stata pensata da lei. Senza
offesa, intendiamoci, ma è una che legge parecchio, non mi
stupirebbe se provenisse da qualche libro. Tutto quello che dice o fa
è una citazione, un vivere secondo dettami imposti dagli
altri, e anche questo tatuaggio che continuo a portare sul braccio ne
è una dimostrazione lampante. Non so perché ce
l'abbia ancora, forse mi sembrava davvero di infierire, a farmi
cancellare anche questo.
O forse
perché spero ancora di essere l'antidolorifico per il suo
cuore tormentato e incosciente.
Eppure mi sembra sempre di prendere per il culo qualcuno. Ho questa
sensazione che mi striscia nelle vene ogni volta che ci penso, ogni
volta che provo a darmi un perché per tutto questo. I primi
a farne le spese, a sorbirsi il mio mutismo ostinato, sono stati coloro
che mi ponevano la fatidica domanda, sgomenti perché fino a
qualche giorno prima avevo la faccia di quella innamorata alla follia.
Mio fratello.
Alice.
Dave.
Mikey.
Alicia.
Gerard.
Bob.
Ray.
Persino Brian.
Ma soprattutto lui.
E non sapevo mai cosa dire. Bocca serrata, espressione costernata,
quasi volessi provare a dire solo con lo sguardo "mi dispiace, non lo
so, ma doveva andare così".
Lo confesso: a questo punto non sono nemmeno più
così sicura che dovesse andare così,
però è successo troppo in fretta, troppo
velocemente, e la fiducia reciproca è crollata quella
fottuta notte di capodanno, senza avere più la forza di
rialzarsi.
Non credevamo più l'uno nell'altro. Ci abbiamo creduto solo
qualche giorno.
Avremmo dovuto promettercelo a vicenda quella sera.
Credi in me, così come io credo in te, stanotte.
Ma è successo quello che Billy Corgan cantava in un altro
verso.
Impossible is possible,
tonight.
É successo l'impensabile, l'imprevedibile, l'impossibile. E
non siamo riusciti a sottrarcene nemmeno all'ultimo momento.
É difficile credere in qualcuno, se hai anche il minimo
sospetto che possa tornare sui suoi passi e abbandonare tutte le
promesse che, implicitamente o meno, aveva fatto.
E ormai non credevamo più in niente. I nostri incubi erano
tornati, più se n'era aggiunto qualcun altro, qualche
disgraziata new entry.
Non siamo più
gli stessi, da quel capodanno. Il germe del dubbio s'è
risvegliato e non è più andato a dormire, e
potevamo scambiarci le promesse più grandi di questo mondo,
ma inconsciamente sapevamo che era un tentativo disperato di non farsi
sfuggire la terra da sotto i piedi.
Quell'unico 'ti amo' ne
era il segno inequivocabile. Mi amava davvero, e dentro di me sono
più che sicuro che mi ami ancora, anche solo un po', che un
angolo minuto della sua mente si ricordi di me e di quello che eravamo,
ma non aveva mai avuto bisogno di dirmelo. Lo sapevamo e basta. Ci
scherzai su, ma sentii chiaramente che qualcosa stava iniziando ad
incrinarsi. Ed era successa soltanto una minuscola percentuale di
fatti. Era solo la punta dell'iceberg, e non lo sapevamo.
Non è facile
assistere a una ricaduta, e pensare che sia l'ultima. Ancora mi rimane
il dubbio, perché non so se si fosse davvero fatta di
qualcosa o se era soltanto uno stupido rumour.
Ma Jamia non
è una stronza, no. Non può avermi detto una
cazzata così, tanto per fare qualcosa.
Però...se
avesse visto male? Se le avessero riferito la notizia errata? Insomma,
non riesco a venirne a capo, e nemmeno Frankie mi ha mai dato
l'occasione di capirci qualcosa. Avrei dei motivi per non fidarmi,
allora, ma ormai è talmente irrilevante che non ci penso
nemmeno più.
Non ho mai pensato di essere stata una specie di ruota di scorta, un
tappabuchi per riempire le sue giornate senza di lei, e avevo
l'evidenza dei fatti dalla mia: c'ero anche prima che il loro rapporto
s'infrangesse, e quando lei lo ha cacciato di casa, beh...sono stata io
ad andare a cercarlo, non l'opposto. Oddio, se proprio devo essere
sincera la questione è ben più complicata di come
la si dipinge: lui stava male per colpa mia, ed era arrivato a un grado
di distruzione tale da esasperare e allontanare chiunque.
Stava lanciando un messaggio. Non
è di voi che ho bisogno, non adesso.
Era me che voleva. E la cosa paradossale, ma nemmeno così
tanto, era che io stavo facendo lo stesso.
Incosciamente speravo che, ogni pomeriggio, al tramonto, quando andavo
da sola su quella piccola spiaggia e davo fondo a tutte le mie lacrime,
lui comparisse dal nulla e venisse a rassicurarmi che sarebbe andato
tutto bene, che non ci saremmo più separati. Sì,
lo so, probabilmente qualche rotella se n'era andata in vacanza premio,
ma la speranza, ci insegnano da piccoli, è l'ultima a
morire, e io cercavo di alimentarla con quel piccolo rito, come se
potesse davvero servire a qualcosa, e anche perché, in
fondo, non avevo nulla da fare, visto che eravamo in pausa forzata.
Poi è arrivato Mikey, ed è cambiato tutto. Ancora
mi chiedo, se non ci fosse stato lui, come sarebbe andata a finire.
Ho temuto il peggio, in quella stanza, a casa di Gerard. Avevo una
fottuta paura che andasse tutto a ramengo, che lui non volesse
più vedermi, ma non era così. Anche lui sperava
che, ogni volta che mandava il suo senno a farsi un giretto da solo,
arrivassi alle sue spalle e lo abbracciassi, sussurrandogli che era
solo un incubo, che si sarebbe svegliato presto. Me l'ha confessato lui
stesso.
Era innamorato perso.
Io lo stesso.
E allora perché è finita?
Con Jamia abbiamo
ricominciato a sentirci, per gradi, da qualche mese dopo la fine della
storia con Frances.
Sono stato un vigliacco,
lo so, ma sentivo che avrei dovuto sistemare anche con lei, e
dimostrare al mondo che non ne ero ancora innamorato, ma mi sono reso
conto praticamente subito che stavo prendendo in giro tutti e tre.
Ero innamorato di
Frances.
Ed ero innamorato,
ancora, di Jamia.
In fondo, avrei dovuto
sposarla. Glielo avevo chiesto, prima di rincontrare Frankie, e quel
tatuaggio, quello che ormai non ho più, rappresentava
proprio la nostra promessa di matrimonio. Una promessa infrantasi con
la banalità con cui un vaso può cadere a terra e
fare la medesima fine.
Lei...beh, è
stata sempre piuttosto gentile, con me, ma continuava a dire che non
saremmo mai tornati insieme. Non voleva, non più.
"Come posso stare con
una persona che ho allontanato nel peggiore dei modi proprio quando
stava male e aveva bisogno di aiuto?" ripeteva in continuazione. Eppure
lo sapeva meglio di chiunque altro che ero io che la stavo
allontanando, agendo in quel modo, diventando la persona più
sgradevole sulla faccia della terra. Come a dirle che lei non avrebbe
mai risolto la situazione, che questo compito sarebbe toccato a qualcun
altro.
A Frankie.
Aspettavo solo lei, ma
non avevo il coraggio di rivederla, avevo paura che si frantumasse come
una statua di cristallo solo ad avermi davanti. Non mi preoccupavo per
me, ero già a pezzi per come l'avevo trattata, e tutto
questo solo perché avevo creduto a determinate cose,
elementi che nella mia testa si incastravano in un certo ordine, ma che
nella realtà avevano tutt'altra collocazione.
Se solo l'avessi
ascoltata a fondo. Se solo non fossi stato così bastardo, e
le avessi dato tempo di spiegarmi che non può certo andare
in giro a raccontare a tutti della sua tossicodipendenza, men che meno
a gente che conosce da qualche giorno, tipo me, all'epoca. E invece
l'avevo solo inibita, in quel modo, e lei era
così....così impaurita, che non riusciva a dirmi
niente, così disperata da quel suo mutismo inatteso, da
giungere ad urlare il suo amore per me, pentendosene immediatamente. A
quel punto non sapevo che fare. Avrei voluto gridarglielo, dirle che
anche io, sì, anche io ero innamorato di lei, per questo non
riuscivo ad accettare il suo passato. Avevo paura che potesse
ripetersi, e non riuscivo a concepire di dover, per una qualsiasi
ragione, fare a meno di lei, del suo sorriso e della sua voce
inconfondibile. Dio, se solo avessi una voce come la sua...è
meravigliosa. Sembra avvolgerti e scaldarti, dirti che almeno un posto
sicuro c'è, in questo mondo.
Ma non ci riuscii,
perché avevo stampata a fuoco nel cuore la cocente delusione
di avere scoperto quello che era. Non doveva esserci nulla di male,
anche Gerard, in fondo...e Mikey...ma da parte sua, inspiegabilmente,
non lo accettavo.
Però, se ci
penso...in fin dei conti non ho mai veramente avuto fiducia in lei.
E allora come ho potuto
chiederle di fidarsi di me, con quella frase?
Eppure ogni tanto mi
capita di vederla, magari a qualche live. Il tatuaggio è
sempre lì, anzi, adesso tutto intorno ha come un cartiglio,
che lo mette ancora più in evidenza. É solo
grazie a questo ridicolo particolare che continuo a sperare.
Lei crede ancora in me,
nonostante quel giorno sia venuta lì? Me lo starà
facendo capire? Non lo so, ma averne l'illusione mi fa sentire meglio.
Ho sempre avuto la
sensazione che non avesse il coraggio di muovere un passo senza
qualcuno, o qualcosa, a sostenerla, ma posso criticare qualcuno per i
miei stessi difetti? Se non ci fosse stato Mikey, come avremmo fatto a
rivederci?
É solo lui
che dovrei ringraziare. E Ray, sì, anche lui. Grazie a lei,
non lo chiamo più per cognome, e anche lui si è
abituato all'idea, e forse, chissà, me ne è anche
grato. Insomma, io devo ringraziarlo, perché dopo mesi di
cazzate, di giullarate da cretino, sul palco e fuori, avevo sentito il
bisogno di staccare la spina, di cambiare per un attimo.
"Prestami qualche disco
che mi distragga, per favore." Mi aveva guardato stranito, e d'altronde
anche io, in un primo momento, mi chiedevo perché fossi
andato proprio da lui. Sì, insomma, era l'unico che non
aveva ancora detto la sua su tutta la faccenda, e mi sarebbe piaciuto
sapere cosa ne pensasse.
Mi allungò Vol
3: The Subliminal Verses
degli Slipknot.
"Occhio alla traccia 11"
si raccomandò. Non aveva aggiunto altro, e così
sentivo crescere la curiosità, ma mi ero promesso di
ascoltare tutto il disco, senza saltare subito a quella canzone.
Era perfetto, pensavo,
intanto. Con le orecchie trapanate da quei nove pazzi avrei avuto il
tempo di non pensare a nulla, come se potesse essere la cosa migliore.
Ma non avevo tenuto
conto dei testi.
Traccia dopo traccia
sentivo dentro di me crescere la rabbia, per aver lasciato andare tutto
così, e un peso nel petto che si faceva sempre
più insostenibile, sempre più gravoso da portar
dietro. Le canzoni scorrevano nelle mie orecchie come preludio a quella
famigerata traccia numero undici, come antipasto all'apoteosi di
incazzatura con il mondo, ma soprattutto con me stesso.
E invece delle note,
emanate da una chitarra acustica, mi spiazzarono.
Tristi, malinconiche,
dense di dolore.
Guardai con stupore la
custodia del cd, in cerca del titolo: Vermilion, part 2.
Le parole, a tratti,
somigliavano a quelle di Vermilion, la prima. La voce di Corey era
profonda come sempre, pacata, ma intrisa di una dolcezza terribile, di
quelle che ti spezzano il cuore.
She is everything to me. The unrequited dream. A song that no one sings.
Piansi, piansi come
avrei dovuto fare sin dal primo momento, senza sosta, senza vergogna,
mettendo a ripetizione quella traccia, col preciso intento di cullarmi
nella mia disperazione.
L'avevo persa.
Ed era tutto per me,
solo in quel momento me ne resi conto.
Jamia passava
irrimediabilmente in secondo piano, scompariva come neve al sole,
mentre ripensavo a Frances.
E non sapevo cosa fare,
non sapevo come poterla riavere. Mi mancava come l'aria che respiro,
l'aria che soffocavo nella nebbia di mille sigarette, fumate nel
tentativo di arginare quella piena di lacrime che aspettavo da troppo
tempo, ma che non ero mai riuscito a tirare fuori, pensando che la cosa
migliore fosse dimenticare, fare sì che quella fosse una
pagina ormai voltata, su cui non tornare più. E, in
disparte, Ray assisteva alla mia disperazione, silenzioso, comprensivo,
discreto.
Fu quello il suo
commento alla mia situazione. Il silenzio. E quella traccia,
consigliata cripticamente.
Mi conosce, sa quanto la
mia curiosità possa diventare un impiccio, ma quella volta
era stata provvidenziale, perché mi aveva fatto capire che
era così che stavo, in realtà. Che 'Frank il
Cretino' era solo la prescelta, tra le tante maschere che avrei potuto
indossare per nascondermi, e che quelle parole avrei potuto benissimo
scriverle io, in quel momento, se solo non fossi stato così
alacremente impegnato a fare di me una macchietta, un personaggio
mediocre.
Dentro di me non smetto
di ringraziarlo nemmeno ora. Perché mi ha aperto gli occhi.
I don't know what to do.
Anche adesso sono
paralizzato dall'indecisione, ma almeno so cosa voglio.
Keith si prese cura di me come ci si prenderebbe cura di un bambino
nato da poco.
Con delicatezza, dolcezza e affetto sconfinato. Con devozione.
Non chiedeva perché avessi lasciato Frank, chiedeva solo
perché gli avessi anteposto lui e Dave. Gli risposi che sono
sempre stati la mia vita, non potevo buttarmi ad occhi chiusi tra le
braccia dell'ultimo arrivato. Rimaneva sempre spiazzato dal cinismo
estremo della mia visione, ma io sapevo che era tutto finto, che mi
sarei abbandonata volentieri a lui, ma non potevo, perché
avevo dei doveri verso me stessa, ma soprattutto verso la mia band.
Già, Anche nei confronti di Dave.
David Griffith. Il migliore amico di mio fratello. Quello che ormai non
mi parlava da mesi.
Alla fine si sbottonò.
Eravamo dalle parti di Amsterdam, o Rotterdam, non ricordo. In ogni
caso, eravamo in Olanda, per il tour europeo, ed era all'incirca la
fine di gennaio, questo lo ricordo bene. Stavamo barricati in questo
locale, perché fuori faceva un freddo boia, noi tre, Alice,
che ci aveva seguito, e tutta la crew, tecnici del suono, manager,
turnisti, questo tipo di gente qua. Keith aveva riprovato a farlo bere
come si deve, seduti a un tavolo un po' isolato, cercando anche di
dirottare la conversazione sui punti giusti, ma io giustamente non
potevo accorgermene, visto che ero con Alice a bere e fare amicizia con
la barista, una tipa veramente simpatica. Purtroppo mi sono dimenticata
il suo nome, ma credo che comunque non sia indispensabile ai fini della
storia, giusto?
Insomma, con Alice finimmo a discutere su quei tatuaggi che ci eravamo
fatti fare, le frasi a sorpresa. Lei mi stava criticando,
perché a suo parere era stata una mossa un po' troppo
avventata. "E se poi non vi fossero piaciuti?" chiese, e io a spiegarle
che la faccenda era più complessa di così, e a un
certo punto questa ragazza mormorò che l'idea invece era
carina e originale, e così finì che s'era
introdotta nella conversazione, e devo dire che creò dei
buoni diversivi per non far discutere ancora più aspramente
me e Alice, cosa di cui le sono grata tuttora.
In effetti, ancora sento soddisfazione per la mia idea. Nonostante
tutto quello che è successo, non riesco a pensare che
continuare a portare questa frase, che oltretutto ho fatto circondare
da una specie di cornice, una spessa riga scura, al cui interno si
ritagliano piccole stelline e farfalle stilizzate, sia uno sbaglio.
Forse lo sto illudendo, così, perché so che mi
vede, lo so. E anche io vedo lui, ai concerti, nei filmati e le foto
che i fans gli scattano durante i live, e vedo ciò che lui
vede guardando me.
Vedo ancora la mia richiesta di alleggerire il mio dolore, di essere il
mio muscolo cardiaco, ancora per un po'.
Vale sempre.
Per entrambi.
Ma facciamo finta di niente, continuiamo a condurre le nostre vite su
binari paralleli. Possiamo vederci l'un l'altro, ma non scontrarci,
come successe quel giorno.
"Andiamo dai ragazzi?" aveva proposto lei.
"No, dai, non vedi che stanno parlando tra loro...magari saremmo solo
d'intralcio..."
"E a cosa?"
"Beh, alla loro, uhm...conversazione..." stavo tentando di arrampicarmi
sugli specchi. La verità era che avevo questa sensazione,
che se mi fossi tenuta a distanza avrei evitato qualche situazione,
come dire, spiacevole, ma Alice non sentì ragioni, e
così ci avvicinammo.
Sentii distintamente uscire dalla bocca di un Dave ormai ubriaco
fradicio le seguenti parole, testuali: "Io mi sono rotto veramente le
palle, sono stufo di stare zitto e sentirla cinguettare al telefono con
quella mezza sega! E tu che gli organizzi anche la vacanzina di qualche
giorno per andarla a trovare, poi! Keith, seriamente, sei un fratello
per me, ma lì ti ho odiato...odiato, beh, come si
può odiare un fratello, cazzo! M'è rimasto sui
coglioni da subito, quel pivellino, cosa crede, di essere figo ad
andare a giro con tutti quei tatuaggi? A dire di essere il chitarrista
di quella band di froci...che schifo, porca troia!"
Qualcuno si chiederà come faccio a ricordarmi le parole a
memoria. Beh, gli insulti di Dave sono sempre molto incisivi, e la
faccia...ehi, quella era da oscar. La tipica espressione dell'ubriaco
devastato dal mal di stomaco, che sembra dirti con gli occhi 'sto per
vomitare anche l'anima, togliti da davanti, se vuoi rimanere incolume'.
Il suo mal di stomaco, oltretutto, aveva un nome ben preciso.
Frank
Anthony
Thomas
Iero.
Mio fratello cercava di placarlo, "e dai, Dave, stai pisciando di
fuori, è il ragazzo di mia sorella, non me ne frega che sei
innamorato di lei, insomma, potevi deciderti prima, invece di spalargli
merda addosso, anche perché poi lo sommergi, piccoletto
com'è..." ridacchiava.
E qui mi scappò un "E CHE CAZZO!" piuttosto ben scandito.
Beh, poteva assumere diverse sfumature, dipendeva solo dal lato in cui
lo si fosse guardato. Sconvolgimento per quella specie di rivelazione
attesa per mesi, anche se già abbondantemente ipotizzata
nella mia testa, oppure Dave che si sfogava su Frank, o ancora, e forse
soprattutto, mio fratello che gli stava dando corda, insomma, il tutto
si prestava ad infinite interpretazioni.
Si voltarono entrambi, Keith sorpreso di vederci così
lontane dal bancone e così vicine a loro e ai loro bei
discorsi 'da uomini', Dave assolutamente dotato del suo aplomb da
sbronzo, e proprio così, senza fare una piega, mi si
rivolse, biascicando che "lui, sì, quel tappo, quel LURIDO
tappo, tengo a specificare, non ti renderà affatto
felice...io invece posso!"
Alice aveva le mani davanti alla bocca, poi se le portò in
mezzo a quella giungla di liane rosse che ha il coraggio di chiamare
capelli e si mise a fissarmi, come in attesa di una risposta per tutta
quella trafila di provocazioni.
Cos'avrei dovuto dire? Buon per lui, che aveva scoperto di essere
attratto da me, quando ormai erano anni che non pensavo più
a lui in quelle vesti (credo sia una tappa quasi inevitabile,
innamorarsi del migliore amico del proprio fratello maggiore, durante
l'adolescenza.), buon per lui, che stava infamando Frank, e
chissà quante altre volte lo aveva fatto. Buon per lui,
insomma, ma non me ne fregava proprio un accidente.
"Tu? Ma vaffanculo, và!" esclamai, alzando il sopracciglio,
poi tornai verso il bancone a cercare di credere che fosse solo
un'orrida allucinazione, magari anche aiutata da una vodka ghiacciata
come si deve. Però, non solo non avevo le traveggole, ma
soprattutto non feci altro che pensarci per tutto il tour. Avevamo da
arrivare fino in Russia, ne avremmo avuto per un altro mese almeno, ed
ero terrorizzata solo dal pensiero di passare i tempi morti a pensare a
Dave, e a come fargli capire, una volta sobrio, che non era proprio il
caso.
A Frank non accennai minimamente la questione, e forse fu un po' questo
l'inizio della fine. Non s'è mai fidato troppo di me, e
questo lo capivo benissimo anche da sola, quindi a tacere ostinatamente
sul perché gli apparissi così strana, sul
perché, ogni volta che nominava la mia band, lo fulminassi
con lo sguardo, e su tanti altri perché, beh, avevo soltanto
gettato benzina sul fuoco.
Iniziarono le accuse. Non so se per reazione, o perché lo
pensasse seriamente, continuava a ripetermi che Jamia aveva ragione,
che gli avevo sempre mentito riguardo alla mia vita, e che gli stavo
nascondendo chissà cosa. Insomma, ogni pretesto era buono,
ma che dico, ottimo, per iniziare a litigare come due imbecilli, e lui
tirava sempre fuori Jamia, e non ce la facevo più a sentirla
nominare sempre e comunque, era diventata una pratica di sadismo puro.
Sapeva che non volevo sentire il suo nome, sapeva che contro di lei non
avevo nulla, ma che non ne potevo più, e quindi andava
avanti, provocandomi, istigandomi ad incazzarmi e andarmene, sbattendo
porte e finestre. Una delle ultime volte mi ricordo che sbottai una
cosa tipo: "Visto che Jamia ha sempre ragione, perché non te
ne torni da lei, invece di stare tra i piedi a questa cogliona che fa
sempre un mucchio di stronzate?" e lui non rispose, non disse niente,
prese solo le sue cose e se ne andò, forse da Gerard, o da
Ray, salvo tornare dopo un paio di giorni a chiedere scusa. Era sempre
così, ormai, sempre un oscillare convulso tra lo scannarsi e
il tornare pateticamente smielosi come ai primi tempi.
Però non era per questo che sono andata ad annunciargli che
"mi dispiace, è finita". Eravamo solo un fascio di nervi
pulsanti, in quel periodo, e quello era il modo che avevamo per
sfogarci l'uno contro l'altro, invece di aiutarci ad andare avanti.
S'era incrinato
qualcosa. Jamia non voleva più stare con me, è
vero, ma non perché mi avesse allontanato nel momento
più critico. Cioè, alla fine quello è
stato l'epilogo di tutta una serie di situazioni che erano iniziate da
quando ero a San Francisco ed ebbi l'idea di entrare nel suo studio a
farmi quel tatuaggio.
Il grottesco, in tutta
la faccenda, è stato che il copione si è ripetuto
quasi del tutto identico con Frankie, tornata dal tour europeo.
Ho un modo strano di
reagire alle difficoltà. Mi nascondo dietro a un dito. E
quel dito si chiama 'fare il cretino'.
Ecco perché
litigavamo così spesso. Lei ci metteva del suo, era sempre
vaga, nascondeva tutto, o quasi, di sè, e io non riuscivo a
fare altro che provocarla. Soprattutto nominandole Jamia.
Perché effettivamente la mia mente tornava sempre a pensare
a lei. Come se lei e Frankie stessero giocando a tennis, con la mia
testa come pallina.
E lei andava fuori di
senno. Ero la goccia che faceva traboccare il suo vaso, ogni volta.
Immaginavo avesse dei problemi con il gruppo, ma non mi diceva mai
nulla, e se provavo a chiamare Keith, mi diceva sempre che "se non te
l'ha raccontato lei, non vedo perché dovrei io.
Evidentemente non vuole tirarti nei suoi casini."
Ma io volevo farmici
trascinare dentro! Ero il suo ragazzo, in fondo, non un soprammobile.
Dave era rimasto talmente schiacciato dal mio rifiuto, che non sembrava
più lui.
Non rideva, non scherzava, se possibile era ancora più muto
rispetto al periodo precedente.
In un certo senso non riuscivo a darmene pace. Mi dispiaceva, in fondo,
perché è un amico e, insomma, gli ho sempre
voluto molto bene.
"E di che ti lamenti, era ubriaco, ma mica scemo. Il tuo bel vaffanculo
se lo ricorda, sai?" mi rispose Keith, il giorno che gli chiesi
perché non si riprendesse.
Insomma, Dave voleva buttarsi. Dal ponte. Sì, il Golden
Gate. É piuttosto famoso per via di tutta la gente che ci si
suicida.
Eravamo tornati da qualche mese dall'Europa, e continuava ad avere
quella faccia da funerale, da cane bastonato. Stranamente, nemmeno la
notizia che stavo rompendo con Frank lo risollevava.
Un giorno, durante le prove, era saltato fuori dicendo che si sarebbe
fatto una passeggiata, ma uno non va a fare passeggiate in auto, questo
doveva aver pensato Keith appena aveva sentito rombare il motore della
sua, così uscì di fretta, deciso a seguirlo, e si
mise alla guida del mio maggiolone, che stranamente, sotto di lui parte
sempre subito. Prodigi della tecnica.
Ero riluttante, soprattutto dopo il silenzio ostinato che era calato,
ancora più pesante di prima, tra me e Dave. Però
vedere mio fratello così preoccupato mi aveva fatto
impressione, e così stavamo andandogli dietro, e quando
abbiamo visto la sagoma arancione del ponte iniziare a stagliarsi
all'orizzonte, mi sentii spalmare sul sedile da un'accelerata brusca.
Se devo essere sincera, lì per lì non mi ero
scomposta più del dovuto.
Okay, lo ammetto, proprio non c'ero arrivata, a pensare al suo gesto.
Keith sì, però. Quando vide, con la coda
dell'occhio, la macchina accostata da una parte, fuori dalle corsie
stradali, per poco non rimaneva lì, secco. Qualche secondo a
boccheggiare, poi lo vidi letteralmente schizzare fuori dall'auto e
gridargli qualcosa.
Ci misi un bel po' di coraggio a uscire anche io dalla macchina, e la
scena che mi si parò davanti aveva seriamente del surreale.
Dave era già sistemato per il suo tuffetto, e Keith lo stava
praticamente raggiungendo.
"Pezzo d'imbecille, non hai bisogno di toglierti dal mondo! Torna qui e
smettila di giocare a fare l'Harold della situazione, perché
io non ti salverò davvero, ho forse l'aria da Maude?"
Okay, passi per la citazione cinematografica un po' riadattata a tuo
uso e consumo, fratellone, e passi anche il fatto che tutto sommato non
somigli a una simpatica vecchietta che ha una voglia incontenibile di
vivere, ma cosa credi di essere andato a fare lì,
raccogliere una banconota da cento dollari?! Su, avanti, meno cazzate,
non fare il duro e riporta quel cretino qua!
Ma la cosa ancora più assurda fu la risposta di Dave, che
piagnucolante, farfugliava: "Ma Harold faceva finta, io no...", sempre
meno convinto di fare quel che aveva intenzione di fare. E io assistevo
a tutto questo a distanza, terrorizzata e col cervello in pieno moto, e
ragionavo, elucubravo, riflettevo che, forse, l'unica persona che
avrebbe fatto un piacere al mondo a togliersi di torno ero io.
Stavo facendo naufragare una relazione meravigliosa per i miei nervi
del cazzo, e uno dei migliori amici che abbia mai avuto si vuole
buttare dal Golden Gate Bridge per colpa mia.
'Direi di aver fatto abbastanza danni' conclusi, nel chiuso della mia
scatola cranica (vuota). Era già tanto che non mi fossi
prodotta in una ridicola scena madre in cui supplicare tra ignobili
piagnistei quei due imbecilli, che nel frattempo si erano messi a
parlare di film, di ritornare sulla terraferma, ma, ecco, diciamo che
tutta questa situazione mi stava facendo rivalutare alcuni concetti.
Per esempio, le priorità della mia vita.
Mi misi a tracciare un elenco, mentre Keith finalmente aveva convinto
Dave a cambiare idea e stavano tornando verso le macchine.
Al primo posto, la band.
Al secondo, mio fratello.
Al terzo, tutto il resto.
E Frank rientrava in 'tutto il resto', il che era da interpretarsi come
segnale inquietante, sicuramente influenzato dalle circostanze, ma da
qualche parte doveva pur essere uscito.
Insomma, ero già sull'orlo della rottura, con lui, ma non
riuscivo a farmene una ragione. Non ci riuscivo per un motivo ben
preciso: litigavamo sempre, è vero, ma dentro di me avevo la
consapevolezza che il discuterci sempre volesse dire che continuavo a
tenere a lui, a considerarlo importante, in un certo senso.
Ma dovevo fare una scelta.
Non so ancora se sia stata giusta. Ogni giorno che passa mi sento come
se avessi fatto la cazzata più grande della mia vita, ma non
credo di essere ancora pronta per tornare indietro. E il fatto che non
ci vediamo, nè ci sentiamo, da un anno e passa, è
un fattore che peggiora ulteriormente la situazione.
Ogni giorno, da quando
siamo in tour, al tramonto, mi allontano dal bus per fare una
passeggiata, completamente solo.
Io, una Coca-cola, e le
sigarette. Ammetto solo la loro compagnia, perché questo
momento della giornata è speciale.
Mi ricorda una persona.
In una canzone dei
Leathermouth urlo che i tramonti sono per i rapinatori, gli aggressori.
Sunsets are for muggers.
Ma ormai lei l'aveva interpretata in un altro senso, a tratti intriso
di una comicità disperata e grottesca, ed era difficile
toglierglielo dalla testa.
Lei aveva capito che i
tramonti fossero per i mug. Gli sciocchi.
O per le tazze, come
diceva sempre. Mi prendeva in giro con questo gioco di parole, e mi
diceva che allora ero una tazza da té. L'ho sempre trovato
un modo carino di darmi dello stupido, da parte sua, ma mi piaceva,
perché adesso mi sento di darle ragione.
Io sono uno scemo,
dunque. E non certo perché conservo questo piccolo rito dei
tramonti.
Sono scemo
perché non ho più il coraggio di prendere e fare
una pazzia per lei, solo per lei, fregandomene se possa servire a
qualcosa o no.
Sono scemo
perché me ne sto qui, su questo spiazzo, davanti a questo
palazzetto di Atlanta, aspettando di suonare e guardando un tramonto,
la cosa più effimera di questo mondo. Perché non
ce n'è uno uguale a un altro, eppure mi ostino ad
accomunarli tutti allo stesso ricordo.
Sono scemo
perché lei è qui, gli Unnamed sono in tour con i
My Chemical Romance, e altre band, e ancora non ci siamo avvicinati. Ci
siamo evitati, finora, come la peste, per paura di qualcosa.
Paura di capire che
forse le cose si possono sistemare, con pazienza e perseveranza.
Sono scemo, soprattutto,
perché è a una decina di metri da me, di spalle,
che fuma, e guarda il tramonto.
Come me.
Allora è vero, sono una tazza.
Ho ripreso l'abitudine di starmene a guardare il sole che si congeda
dall'emisfero in cui vivo. Abitudine da scemi, secondo lui, e io che lo
smontavo sempre, dicendogli che è più carino
pensare che 'mug', lì, nel titolo di quel pezzo dei
Leathermouth che avevo storpiato volutamente, stia per 'tazza', e non
'sciocco'.
Rideva sempre, quando glielo ricordavo.
Tazza era la nostra parola in codice, per dire che eravamo due
inguaribili imbecilli, e direi che sull'"inguaribili" avevamo
pienamente ragione. Anche per quanto riguarda la parte degli imbecilli,
in effetti.
Ho appena suonato, e sono felice. Perché Dave sta bene,
adesso. Inciucia con la batterista di un gruppo in tour con noi, e lei
è veramente carina, una a posto. Sono felice anche
perché mi piace suonare a giro, mi piace pensare alla
musica, e solo a quella. E mi piace pensare che ci sia anche lui, con i
suoi Chem, in tour.
Sono una tazza, decisamente.
Perché non sono sola in questo spiazzo davanti a questo
palazzetto. Non sono l'unica che sta fumando una sigaretta dietro
l'altra, sorseggiando una Coca-cola.
Due delle azioni più deleterie che si possano compiere. Se
potesse parlare, il mio fisico mi manderebbe a cagare senza tanti
complimenti.
Mi giro, e alle mie spalle c'è qualcuno che sta compiendo le
mie stesse azioni, inavvertitamente. Subito penso che anche il suo
fisico dovrebbe inveirgli contro, ma stranamente è molto
resistente, molto più del mio, che pure ne ha passate di
tutti i colori.
Come faccio a saperlo, dite?
Lo conosco sin troppo bene, quel corpo.
Aveva ragione. Siamo più simili di quanto pensassi.
Non riesco ad essere fredda. Sento gli occhi annaspare in un mare di
lacrime, ma non voglio versarne nemmeno una.
Il motivo è semplice e disarmante: non sono triste, o
dispiaciuta, di vederti, quindi perché dovrei piangere?
Io non piango, quando sono felice.
E allora ti sorrido, con sincerità. Perché, lo
voglio ammettere, gridarlo al mondo, dandomi dell'irriducibile tazza
ancora una volta, mi sei mancato più dell'aria che si fa
strada nei miei polmoni, tra un'autostrada e l'altra, di quelle che ho
spianato nei bronchi a forza di fumare quelle Marlboro rosse che ti
sembrano così pesanti. Ormai per me sono come una boccata di
ossigeno.
C'è tempo per le scuse, e anche per fugaci sguardi, o per le
occasioni che abbiamo perso dietro a inutili cavilli.
In fondo, il tour è appena iniziato.
C'è tempo.
Sorride. E getta la
cicca a terra, schiacciandola con il piede.
L'odore inconfondibile
delle sue Marlboro arriva fino alle mie narici, si insinua nei miei
condotti respiratori, insieme al fumo della Camel light che stringo tra
le dita. Immagino che per lei fumarne una sia come respirare una
ventata d'aria fresca.
Il suo sorriso
è la conferma ai miei dubbi, ma non la risposta definitiva.
Per ora mi basta.
Mi basta sapere che non
mi odi, che sei sempre quella che ho conosciuto quattro o cinque anni
fa, quella che aveva problemi con la sua cantante, e che vagava su un
prato del New Jersey con una macchina fotografica in una mano e una
lattina di birra nell'altra, cercando di non pensare, di percorrere una
via possibile per addormentare il dolore, perché era quello
che provavi, nel tuo petto, quello che ti provocava quella tipa, di cui
nemmeno mi ricordo il nome.
Sei quella che tre anni
dopo mi tatuò una promessa che ormai non sento nemmeno
più mia, quella che ritrovai un anno dopo in tour, quella
che ho amato incondizionatamente, nel bene e nel male, sin dal primo
momento in cui l'ho vista, con quell'aria così fragile,
eppure dotata di una forza decisamente non comune, capace di
ricostruire dal nulla le macerie della sua vita sregolata. Forse
è per questo, perché pensavo a te come a una
creatura invulnerabile, che non ti ho mai fatto sconti, quando cadevi.
Avrei dovuto solo aiutarti a rialzarti, senza dire una parola.
Ed è
salutandoti, alzando timidamente la mano, che mi rendo conto che forse
non è cambiato nulla, che la speranza stavolta non solo non
è morta, ma gode di ottima salute, che riesco a stare in
equilibrio sopra le rovine di un meraviglioso impero.
E che questo impero
è fatto di noi, in ogni mattone, in ogni colata di cemento,
finestra, porta, cancello, in ogni respiro, muscolo, articolazione,
centimetro di pelle, la nostra pelle, la mia, e la tua, fuse come una
cosa sola, e in ogni sigaretta fumata insieme, ogni film guardato sul
divano, ogni disco ascoltato sdraiati sul letto dopo una notte passata
a fare l'amore, e di ogni alba che ha illuminato i nostri visi distesi
nel sonno, ogni goccia di pioggia che ha lavato via le magagne che
inevitabilmente abbiamo avuto, e continuiamo ad avere, anche nella
solitudine.
Tutto è
perfetto, nella sua infinita imperfezione.
The End(?)
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