Imagine me and you.

di sheishardtohold
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cold, heartless and dead inside. ***
Capitolo 2: *** I've never known a winter so cold. ***
Capitolo 3: *** I need your love. ***
Capitolo 4: *** Dead in the water. ***
Capitolo 5: *** The lovers hold on to anything. ***



Capitolo 1
*** Cold, heartless and dead inside. ***


N.A. Questa può essere considerata una prefazione rispetto all'inizio della raccolta in sè. Anche se non ci sono nomi o riferimenti, chi parla è Callie riferendosi ad Arizona. Consideratela una pagina di diario, una serie di pensieri liberi. Fa lo stesso, l'importante è che passi il messaggio.


Cold, heartless and dead inside.

Che poi, nonostante gli anni buttati via a fumarmi l’anima, questo odore non lo sopporto più. Non che non ne sia abituata, quindi, è solo che questa stanza piena di fumo mi dà il volta stomaco. Forse perché il suo profumo mi brucia ancora la gola e i polmoni; è peggio del catrame. E sa di mare, tanto che quando le sue labbra toccano le mie, mi si apre davanti agli occhi una distesa azzurra, immensa. E allora, uno potrebbe pensare “e perché è proprio mare, e non cielo?”. Semplice. È perché, quando mi bacia, sa di sale. Tutti gli altri sapori alterano la loro consistenza e sanno di sale, come quando piangi e ti bevi le lacrime.
Odio questo odore di fumo, ma soprattutto odio non riuscire più a sopportarlo. È come avere la sua immagine stampata in mente, mentre le sue parole mi tormentano come una ninna nanna dannata.
“C’è sempre puzza di fumo in questa stanza?” parlava il suo sorriso e poi mi sfilava di mano la sigaretta per baciarmi le labbra. Ed io la odiavo quando faceva così, come se le importasse davvero della mia vita. Odiavo quel gesto e lo odio ancora di più ora, che vago in giro stando attenta a non perdere altri pezzi di quest’anima maledetta, e mi abituo all’assenza del suo amore. L’ho già detto, ma lo ripeto. È peggio di una sigaretta: ti lascia l’amaro in bocca, poi si diverte a scendere giù per la tua gola e quando ti prende lo stomaco, quando lo fa, è li che capisci che è finita e che il tuo mondo è distrutto.
 
E mi è successo ancora di immaginarla fra le mie braccia quando a far da testimone al nostro amore era una flebile luce gialla, dolce, quasi gentile, come a chiedere il permesso per accarezzare i nostri corpi che restavano li, immobili, lasciandosi sfiorare. È accaduto non molto tempo fa, credo, che queste lenzuola hanno unito il mio corpo al suo, quasi fosse impregnato di colla. Poi si sono fuse anche le nostre anime. In realtà, non so bene se questo sia avvenuto prima a dopo. Sta di fatto che ad un certo punto, in un attimo non determinato, è successo. E adesso fa male dover ammettere di non essere più una cosa sola. Considerare le nostre vite separate.
È come se quest’anima rumorosa fosse stata zittita; impossessata da un silenzio così tormentoso da sfondarti i timpani e da costringerti a parlare, come se ci fosse ancora qualcosa da dire. E lei riempiva questo vuoto con i suoi “ti amo”, come a dirti “ciao”. Lei cantilenava il suo amore come se questo potesse compensare la sua assenza.
C’è stato un periodo in cui il suo amore era tale e la sua vita ero io. Poi non si sa perché, è finito, lasciando spazio a questo deserto, dove la realtà si rispecchia in un sole cocente, che ti inaridisce dentro, e i ricordi sono come le oasi, che dissetano il tuo male, alimentandolo.

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Capitolo 2
*** I've never known a winter so cold. ***


N.A. Ci terrei a precisare che, se state cercando una one shot allegra, questo non è quello di cui avete bisogno. Poi, vorrei dire che per questa one shot mi sono ispirata alle nuove puntate della nuova stagione di Grey's anatomy (cambiandone ovviamente il corso della storia Calzona) e ad una canzone di Ellie Goulding - anche se, a dirla tutta, vorrei scrivere tutte le storie di questa raccolta ispirandomi alle sue canzoni. Dunque, le parti in corsivo sono dei flash back, mentre le frasi in grassetto sono alcune frasi tratte dalla caznone "I know you care". Buona lettura!

I've never known a winter so cold.

Ferma, immobile, ho speso gli anni a fissare questa porta. Ne ho studiato ogni dettaglio – ogni scheggiatura, ogni variante di colore, la superficie liscia che risplende sotto la luce del sole. Ho speso anni a fissare questa porta aspettandomi ogni volta un risultato diverso – aspettandomi di trovarti li, triste e offesa avvolta nel piumone rosso, nascosta dal mondo. Nascosta da me. Ed ogni volta mi sono ritrovata a fissare un letto vuoto. Guardavo la tua assenza come uno spettatore guarda un film – mi correggo, guardo la tua assenza ogni volta che le mie dita sfiorano incerte quella porta, fredda come il sangue che ti si congela nelle vene. Fredda come il corpo di un cadavere. Fredda come l’inverno. Non importa quanto tempo mi dia, quanta speranza io ci metta nell’aprire quella porta. A certi tipi di assenza non ci si abitua mai.
“Mamma?” è la voce di Sofia che mi richiama, mentre io scuoto la testa come a scrollare via il pensiero di te che mi sorridi e chiudo la finestra. Il freddo dell’inverno mi entra nelle viscere – il freddo della tua assenza mi entra nelle ossa. Il freddo e l’assenza sono le uniche cose che riesco a vivere di te. Il freddo, come il tuo corpo inerme, l’assenza come i tuoi occhi persi in ciò che ti rispecchia meglio – il vuoto.
 
Chiedevo permesso, urlavo di farmi passare tentavo di sovrastare il suono della sirena con quello della mia voce. “Sono un dottore, fatemi passare” ecco le uniche parole che ricordo mentre mi facevo spazio tra la folla e Sofia restava indietro. Mancavano cinque giorni al suo secondo compleanno – cinque, come i minuti che ti restavano di vita quando ancora non lo sapevo. Quando ancora non sapevo che eri tu quella a terra, distesa in una pozza di sangue. Cinque, è diventato il numero che ha segnato la mia vita. “Arizona” ecco cos’altro ricordo – Arizona, mentre tu lasciavi scivolare la tua mano sulla mia. Ricordo la scia sull’asfalto, come un arcobaleno, solo tutto rosso – solo macchiato del tuo sangue. Poi ho iniziato a pregare, quando ormai avevo capito che era troppo tardi. Te l’avevo letto negli occhi il vuoto della tua anima. Te l’avevo letto negli occhi quel tuo modo di fare – o tutto o niente, o bianco o nero. Non c’erano mai sfumature nella tua vita, non c’erano mai seconde chance per te. Se solo l’avessi capito prima che sei umana, se solo l’avessi capito prima che anche tu puoi sbagliare. Invece hai scelto il niente, dopo essere rimasta senza una gamba. Hai scelto il niente ad un corpo mutilato. Ho avuto solo la forza di guardarti con amore, così come ho avuto solo la forza di toccarti con dolcezza. “Riposa amore, riposa in pace” è stata l’unica cosa che ti hanno detto i miei occhi, mentre i tuoi non facevano altro che restituirmi dolore e lacrime. Io ti guardavo con gli occhi dell’amore, con lo sguardo compassionevole di una persona che ama e che si chiede come si fa a diventare così – così vuoti, - mentre i tuoi occhi vacui si perdevano tra la folla e mi restituivano il nulla. Tu eri fredda – il tuo corpo era freddo, la tua anima pure. Ti ho lasciata andare, rassegnata, venendo a patti con me stessa. Ti ho lasciata andare con amore, così come ho provato a proteggerti – a salvarti – con amore. Me lo dicevi sempre tu, l’amore a volte non basta. Ti ho lasciata andare con amore sperando che questo mi avrebbe aiutata a superare la cosa più velocemente – a superarla senza lacrime, senza drammi. C’eri già tu a piangere davanti a nostra figlia, amore, come potevo farle questo anch’io? Ti ho lasciata andare con amore, cercando di passare sopra al fatto che non hai pensato a te, a me, a Sofia e a come ci avresti distrutto andandotene via – andandotene dopo Mark. Ti ho lasciata andare guardandoti come chi perdona quando in realtà ero incazzata nera e avrei voluto prenderti a sberle e piangerti addosso ed urlare e dirti di reagire, perché non si fa così – non si spezzano promesse che si fanno davanti a Dio, non si spezzano cose come “per sempre” o “nel bene e nel male, in salute e in malattia”. Non si spezzano cose del genere, perché io ci credevo davvero a quelle parole.
Non ci sono state parole per noi. Tu non ne avevi bisogno – tu avevi scelto di farla finita proprio perché non ne potevi più di parole. Io invece ne ho dovute usare tante per spiegare a nostra figlia quello che era successo – ne ho dovute usare tante, nonostante la mia voglia di silenzio. Ne ho dovute usare tante più di un giorno. “Va tutto bene” le ho mentito, mentre la stringevo tra le mie braccia e la macchiavo dello stesso sangue di sua madre. “Va tutto bene” ho ripetuto ad alta voce la bugia per convincere me stessa più che Sofia e poi le ho chiuso gli occhi. Certe cose i bambini non dovrebbero vederle.


"Please don't close your eyes
I don't know where to look without them
Outside the cars speed by
I never heard them until now"


“Mamma?” le manine di Sofia si stringono attorno alla maglia del mio pigiama “Non riesco a dormire” bisbiglia piano mia figlia che a sette anni si sveglia ancora di notte sognando chiazze rosse. La mia mano scivola veloce, lasciando la traccia di una carezza sul suo viso. La prendo in braccio, mentre la porto in salotto. La prendo in braccio pur sapendo che quel contatto fisico riuscirà a calmare me più che mia figlia che sembra essere più forte di sua madre – di entrambe le sue madri. Sul grande divano al centro del salotto è già sistemato il caldo maglione di lana, pronto per essere indossato da Sofia. Come ogni notte, Sofia si siede paziente sul divano passandosi fra le mani il maglione giallo. Ne accarezza la superficie, sente le fibre di lana pizzicarle le dita e poi lo indossa immergendoci dentro il viso per respirarne l’odore. Indossa il suo maglione, più grande di almeno cinque taglie. Indossa il maglione di Arizona lasciandosi accarezzare dal profumo di sua madre. Spengo la luce e mi siedo sulla poltrona, accanto a Sofia, mentre il filmino – quello dell’ultimo Natale passato insieme, come una famiglia – parte e la voce di Arizona inonda la stanza. Come ogni notte, resto ferma immobile ad osservare Sofia, lasciando che le voci del filmato restino solo voci in sottofondo. Cerco di ignorare Mark che scherza con Arizona, cerco di non pensare a quanto io sia gelosa del rapporto che mia figlia aveva con loro – a quanto continui a considerare Arizona sua madre più di quanto abbia mai fatto con me. Cerco anche d’ignorare la frase che Arizona cantilena nella mia testa. “Sono l’unica che riesce a farla riaddormentare di notte”. Mi alzo in segno di sfida – sfido me stessa più che Arizona- e provo a prendere in braccio Sofia che, appena avverte la mia presenza, si tira su. Seduta, le gambe incrociate, mi inchioda coi suoi occhi color ghiaccio – con gli occhi di sua madre. Perché sì, per quanto io razionalmente capisca che Sofia non abbia preso nulla da Arizona, geneticamente parlando, più la guardo, più rivedo il lei mia moglie. Sofia assomiglia così tanto ad Arizona per i suoi modi di fare – come sorride, come ti tocca, come ti guarda. Mi sfiora il braccio per fermarmi e mi guarda come a chiedermi di non spezzare quell’angolo di magia che lei, il suo maglione e la voce di Arizona sono riusciti a creare. Faccio per andarmene, rassegnata più che delusa. Faccio per andarmene non perché io sia ferita, semplicemente perché questo è quello che vorrei fare, sempre – andarmene, quando le cose si fanno difficili. Andarmene, proprio come ha fatto Arizona. Andarmene e basta, ma poi la voce di Sofia mi richiama indietro.
“Mamma?” io mi giro a guardarla senza dire parole, perché tanto so che sarà lei ad aggiungerle. “Non andare via anche tu, ti prego”. Accenno un sorriso – accenno un sorriso d’amore per mia figlia. Non come quello fatto ad Arizona prima di morire – non come a dirle che va tutto bene. Accenno un sorriso come a dirle che io le promesse ho smesso di farle molto tempo fa, ma farò del mio meglio per esserci sempre, per lei – per tutto quello che mi è rimasto. Le mie gambe si muovono lente verso la poltrona. Ritorno a sedermi, fredda, impassibile, nella stessa posizione di prima. Resto a fissare la parete bianca davanti ai miei occhi che i colori violenti delle immagini del video tentano di colpire. Ritorno a sedermi, fredda – fredda dentro - e in silenzio, restando a guardare mia figlia che si addormenta al suono della risata di Arizona, che la culla come una ninna nanna. Vanno a ritmo – la risata di Arizona e il respiro di mia figlia.
“Sono l’unica che riesce a farla riaddormentare di notte” mi ripeto nella testa la frase di Arizona, come una cantilena, mentre il filmato finisce e il salotto cala nel completo silenzio. io mi do un paio di minuti per non scoppiare a piangere, per trovare una ragione per cui andare avanti – anche stanotte. Poi guardo Sofia che dorme serena cercando di colmare il vuoto che ho dentro. Mi avvicino a lei, ad ascoltare il battito del suo cuore, ad ascoltare il suo respiro regolare ed inspiro fino a riempirmi i polmoni l’aria che ci sta attorno – a me, a Sofia, al suo maglione. Sa ancora di Arizona.
 
Sofia aveva appoggiato a terra il suo zaino ed era corsa verso la grande penisola della cucina, salendo a fatica su una delle sedie. Mentre le sue gambe a penzoloni dondolavano, spalmava la Nutella sul pane. Con la lingua incastrata fra le labbra, come a gustarsi già la sua merenda, Sofia restava concentrata nelle sue azioni. Io la guardavo – appoggiata allo stipite della porta la guardavo e basta, ancora col giubbotto addosso e le chiavi in mano. Era stata una bella giornata. Avevo lavorato poco, ero andata a prendere mia figlia a scuola e in tutto quel tempo niente – ne a me, ne a lei - ci aveva ricordato la morta e il dolore che da anni non ci lasciava respirare.
“Cos’hai fatto oggi a scuola, amore?” le ero passata dietro, accarezzandole i lunghi capelli neri e poi mi ero seduta accanto a lei. Sofia mi aveva offerto gentilmente un pezzo del suo pane-Nutella. Io avevo finto di mordere accidentalmente anche il suo dito, insieme alla fetta di pane e lei era scoppiata a ridere. “Ahia” aveva detto stampandosi in faccia quel suo finto broncio e poi era scoppiata a ridere illuminando tutto – la stanza, l’inverno, che per un attimo parve primavera. Anche il sole nascosto dalle nuvole sembrò animarsi sotto la risata di mia figlia.
“Oggi la maestra ci ha fatto scrivere un tema!” aveva esordito esaltata, mentre si dimenava sulla sedia.
“Un tema? Che bello” le avevo risposto aggrottando le sopracciglia. Senza spiegarmi come il tono entusiasta che avevo sentito nella mia mente apparve piatto e freddo, quando le parole presero vita. Sofia alzò lo sguardo verso di me. Restò a guardarmi – ci guardammo per un attimo infinito. Non volevo sembrare menefreghista, non volevo sembrare una di quelle madri che alla domanda “ti piace il mio disegno?” risponde sì, senza neanche averlo guardato. Così avevo provato ancora, con un’altra frase. “Su cos’era il tema, amore?”
“Sulla mamma” pausa “Vuoi leggerlo?”
Era successo tutto così velocemente. Lo so, avrei potuto pensare che quel tema fosse per me, su di me, non per mancanza di modestia o un eccessivo egocentrismo. Avrei potuto pensare che descrivesse me e il colore dei miei capelli o di quando le faccio una sorpresa e la vado a prendere a scuola, invece lo sapevo che quel tema sarebbe stato su Arizona. L’avevo capito dal tono di voce di Sofia, l’avevo capito dai suoi gesti – da com’era rimasta immobile a respirare piano, per paura di fare rumore.
Annuì in silenzio - era l’unica cosa che sapevo fare in quei momenti. Non avevo il coraggio di muovermi o di dire qualcosa. Sarebbe sembrata sbagliata qualsiasi cosa, anche un sì titubante -  il di quando il tono di voce ti tradisce e mostra la tua debolezza agli occhi di chi puoi apparire solo come un forte gigante. Mentre la testa si affollava di pensieri restavo a guardare Sofia che si leccava le dita per pulirle dalla Nutella e correva verso la cartella rosa, rovistando dentro. Ci si immerse completamente con la faccia, fino a ritrovarsi dentro. Mi fece tenerezza e paura, allo stesso tempo. Ero io che dovevo prendermi cura di quell’essere così piccolo e fragile. Ero io – sola, a prendermi cura di un piccolo umano.
Quando il foglio protocollo scivolò dalle sue mani alle mie, cominciai a leggere nella mia mente immaginando l’attenzione che Sofia aveva messo nello scrivere quel tema – immaginando la sua concentrazione nello scriverlo, come quando mangia pane e Nutella; immaginando il suo amore nello scegliere le parole più adatte.
“La mia mamma è bella. La maestra ci dice sempre che non possiamo scrivere solo bella come aggettivo, però la mia mamma è bella. In realtà io non me lo ricordo perché l’ho vista tanto tempo fa, però l’altra mia mamma mi dice sempre che è bella quando me ne parla.”
Leggo solo le prime tre righe, poi resto un paio di minuti a fissare la prima pagina, a sfogliare le altre e poi lo appoggio sul tavolo esordendo con “E’ molto bello, amore. Sei stata brava” senza aggiungere altre parole. Sofia sorride felice per il mio commento positivo, mentre io tento di ricambiare con gli occhi pieni di lacrime. Fingo che siano lacrime di orgoglio per mia figlia, la mia piccola scrittrice, quando in realtà vorrei piangere per le menzogne e per il dolore che sento – che Sofia stessa sente. Le stampo un bacio sulla fronte, stringendola a me così forte da farle mancare il respiro.
“Sono qui amore, la tua mamma è qui. Ci sarò sempre”. Ecco cosa avrei voluto dirle, invece del silenzio. Avrei voluto tenerla stretta a me per sempre, invece che lasciarla sgattaiolare in cortile a giocare con gli altri bambini.

 
Quando prendo in braccio Sofia per riportarla in camera sua, mi porta le mani al collo. Tranquilla nel suo sonno ormai sereno, mi stringe al suo piccolo corpo caldo e mi tiene con lei, anche quando tento di staccarla da me per lasciarla scivolare tra le coperte. Bisbiglia qualcosa di incomprensibile cercandomi con una mano – gli occhi chiusi. “Sht, sono qui amore, sono qui” le dico piano, sedendomi accanto a lei che si rannicchia attorno al mio corpo, circondandomi con le braccia e le gambe. Le passo una mano tra i capelli, fino a quando il suo corpo non si rilassa completamente sotto al mio tocco e si lascia andare nuovamente al sonno profondo. Lascio accesa la luce e la porta socchiusa prima di tornare in camera. L’ondata di gelo che mi travolge puntualmente ogni volta che metto piede qua dentro è sconvolgente quasi quanto il fatto che è una cosa che esiste solo nella mia testa – la tua assenza. Mi sdraio. A pancia in su, allungo una mano verso l’altro lato del letto cercando Arizona e poi mi immergo sotto alle coperte nel tentativo di trovare almeno un briciolo della sua essenza. Niente, solo freddo – il freddo delle lenzuola e della sua assenza. Vuoto, freddo, assenza, sono le parole che ricorrono più frequentemente nella mia testa quando sono sola – quando è notte ed io sono sola nel nostro letto a fissare il grande specchio dell’armadio, mentre do le spalle al tuo posto senza te.
 
Sentivo il suo respiro flebile accanto al mio. La sua presenza, la percepivo appena, come quando guardi la fiamma di una candela spegnersi piano tra la cera stessa, fino a  morire.
“Io non ce la faccio, Arizona” avevo detto piano, mentre la voce mi tremava. Stesa accanto a lei, restavo a sentire il suo corpo lontano dal mio e fissavo il buio. “Io ho bisogno che tu mi stringa, che tu mi dica che mi ami”.
“Ma lo sai, Callie” era sempre questa la sua risposta – lo sai, come se io potessi leggerle nella mente. Come se io fossi ancora in grado di leggere i suoi occhi cupi e tristi.
“No che non lo so” le avevo risposto per la prima volta. “E anche se lo sapessi vorrei che tu me lo dicessi comunque. Magari non oggi o domani, ma vorrei che me lo dicessi - ancora”.
Silenzio. Arizona si era affezionata così tanto al silenzio e al buio e alla tristezza. Non la vedevo, inghiottita dalle ombre della notte – non ne avevo bisogno. Sapevo la sua espressione – la conoscevo a memoria. Lo vedevo sempre, lo vedevo ovunque, il suo volto imbronciato e quella rabbia che si mischiava all’essere stata ferita dalla vita – da me.
Un sospiro. Avevo accesso la luce costringendola ad alzarsi dal letto e a mettersi davanti allo specchio insieme a me.
“Che stai facendo?” mi aveva chiesto mentre mi levavo la maglietta lasciandola scivolare a terra.
“La vedi questa?” e avevo indicato la cicatrice che attraversava gran parte del mio petto. “Questa me l’hanno fatta dopo l’incidente in macchina. Lo sai bene, c’eri anche tu.”
Arizona restava a fissare la mia e la sua immagine riflessa senza capire. Un sospiro – ancora.
“Sto solo cercando di dirti che quando mi è successo, quando sono stata traumatizzata tu c’eri – a ripetermi quanto ero bella, a ripetermi quanto tutto sarebbe andato bene, a tenermi per mano. Tu c’eri” mi era morta in gola la frase dopo – io ci sono, per te. Io voglio esserci. Mi era morta in gola nell’esatto istante in cui, guardandola negli occhi, l’avevo riconosciuta. “Tu sei.. Arizona, tu sei perfetta così e..” e niente, e lei mia aveva baciato, come non faceva da tempo. Lei mi aveva baciato, facendomi sdraiare nuovamente sul letto. Le sue mani restavano ferme sul mio viso, come per assicurarsi che non sarei scappata, le mie invece correvano lungo il suo corpo a sfiorarle il ventre e i fianchi. Quando si era stesa sotto di me, quando avevamo invertito le posizioni e mi ero ritrovata a guardarla ancora negli occhi era di nuovo tutto sparito. Il suo amore, la sua passione, la sua voglia di lottare – tutto. Era stata completamente inghiottita dal nulla. Mi era bastata un’occhiata per capirlo. Cinque secondi per pentirsi – pentirsi di quel bacio, di quello slancio d’amore. Cinque minuti per voltarsi – voltarsi e darmi le spalle, abbracciata al suo cuscino. Cinque giorni per addormentarsi – questa volta addormentarsi per sempre. Io non lo sapevo che quello sarebbe stato il nostro ultimo bacio – che quella sarebbe stata la nostra fine. Non lo sapevo, altrimenti avrei fatto di più – avrei lottato, l’avrei tenuta con me. Per sempre.

 

"I know you care, I know it is always been there
But there is trouble ahead I can feel it
You are just saving yourself when you hide it"

 

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Capitolo 3
*** I need your love. ***


N.A. E' una what if, ovvero cosa sarebbe successo se Erica fosse rimasta con Callie e Arizona fosse diventata la migliore amica di Erica? Come sempre ricordo che l'ispirazione è stata tratta dalla canzone di Ellie Goulding "I need your love" e che la citazione sui "sorrisi" è stata presa dal film "Appuntamento da sogno". Credo di non avere altro da aggiungere o spiegare. Capirete tutto solo leggendo! :)

I need your love.

“Arizona? Ti sta squillando il telefono!” mi urla Callie in cucina, alle prese coi fornelli, mentre io corro dal bagno al salotto per prendere la chiamata.
“Erica?” rispondo al telefono dopo aver letto il suo nome sullo schermo.
“Arizona, ciao. Senti..” Mi tappo l’orecchio libero con la mano libera nel tentativo di capire. Le chiedo di parlare più piano e di ripetere un paio di volte, mentre la linea va e viene, poi mi avvicino con fare furtivo alla pentola di ragù nel tentativo di assaggiarlo. Quando Callie mi sorprende col dito immerso nella pentola, mi tira il mestolo sulle nocche facendomi esplodere in un’esclamazione tutt’altro che signorile.
“Mi stai ascoltando?” sento dall’altro capo del telefono la voce di Erica infastidita dalle risate e dalla mia scarsa attenzione.
“Si, ti sto ascoltando” le rispondo vaga, restando in silenzio a fissare Callie che ride di gusto di me e della situazione. Anch’io rido di rimando – di rimando a quella sua risata cristallina.
“Arizona? Arizona ci sei?” il tono di Erica si fa sempre più indispettito.
“Si, scusa è che..” è che cosa? È che sono innamorata del modo in cui ride la tua ragazza? È che è da più di un mese che continui a rimandare questa cena a causa di un “intervento improvviso”? È che passo più tempo io con la tua ragazza di quanto ne passi tu? Cos’è, Erica?
“Fa niente” dice prima di richiamarmi al telefono “Arizona?”
“Dimmi.”
“Prenditi cura di lei.”
Sempre.

 
Lascio scivolare il mento tra le dita, fino a trovare la posizione giusta, una volta incastrato nel palmo della mano. Socchiudo gli occhi nel tentativo di affievolire lo sguardo e guardare più lontano possibile. Mi stampo in faccia la tipica espressione tra lo schifato e il pensieroso, mentre inarco le sopracciglia e lascio che la forchetta nell’altra mano si muova meccanicamente nel piatto, creando cerchi di riso, ormai freddo.
Callie passa dietro alla sedia di Erica prima di prendere posto accanto a me. Sinuosa, le accarezza con una mano le spalle e con le dita dell’altra porta alla bocca un paio di patatine fritte. Io seguo entrambi i movimenti. Prima, quelli delle dita che si muovono sulle sue labbra, sulla sua lingua, poi quelli dell’altra mano che toccano sensualmente Erica, che ride, seguita da Callie. Erica allunga una mano verso la fidanzata, lasciandole una pacca sul sedere, prima di afferrarla per il camice e stamparle un bacio. A quel punto sono più che sicura che la mia faccia pensierosa si sia completamente tramutata in un’espressione di schifo – schifo per Erica che dà per scontata Callie, schifo per il loro amore, quando in realtà vorrei che quelle labbra restassero appiccicate solo alle mie.
“Arizona, è tutto okay?” mi chiede Erica, distogliendomi dai miei pensieri. Io accenno un gesto veloce col capo, tornando a fissare il piatto. Porto alla bocca un ultimo boccone di riso, mentre Callie mi si siede accanto, urtando per sbaglio con la sua gamba la mia. Mando giù senza nemmeno masticare, irrigidendo la schiena – percorsa da un brivido. Quando comincio a tossire, la mano di Callie batte piano sul mio petto e i suoi occhi si perdono nei miei.
“Erica, dammi un po’ d’acqua” impartisce ordini, continuando a fissarmi. Io resto completamente bloccata in quella morsa, senza più riuscire a respirare e a pensare ad altro se non al nero dei suoi occhi. A me quel buio non fa paura, non mi mette nemmeno a disagio. Crea solo quell’attimo di sospensione in cui mi dimentico di tutto – in cui mi dimentico che Callie è la ragazza della mia migliore amica, in cui mi dimentico che il respiro mi manca perché sto soffocando, in cui mi dimentico che l’intera caffetteria mi sta guardando, mentre io riesco solo a pensare a quanto voglio quelle labbra e quegli occhi solo per me.

"I try to fight this but I know I'm not that strong
and I feel so helplessly
Watch my eyes are filled with fear
Tell me do you feel the same"


“Bevi” dice piano, lasciando scivolare dolcemente il bicchiere dalle sue mani alle mie.
Tossisco ancora un paio di volte dopo aver bevuto e poi torno ad assumere un’espressione quasi normale. Sono sicura che Erica stia per fare una battuta delle sue, quando viene interrotta dal cercapersone.
“Emergenza!” esclama entusiasta dandoci le spalle. Callie le strappa di mano il cercapersone trattenendola per una manica.
“Erica, ricordati la cena di stasera”
“Si” risponde strafottente.
“L’hai promesso” le rinfaccia Callie, mentre Erica le si avvicina e la bacia, com’è solita fare per convincerla. Callie ci casca ripetutamente in quel tranello – ci casca anche sta volta. Glielo leggo dal sorriso sulle labbra, quando si staccano dal bacio e dal modo in cui le accarezza il dorso della mano ridandole il cercapersone.
 
Cammino a passi lenti tra i corridoi dell’ospedale. Guardo a terra, fisso i piedi che si muovono meccanicamente e toccano il pavimento freddo. Li conto, nel tentativo di distogliere l’attenzione da quegli occhi. Li sento sempre, mi fissano ovunque – anche quando non ci sono, anche quando non me ne accorgo.
“Arizona” la voce di Erica mi chiama da lontano. Eccoci, ci siamo, glielo leggo in faccia. Non verrà neanche sta volta e mi pregherà di prendermi cura di Callie, di inventarmi una buona scusa, di trovare un modo per farsi perdonare, perché è così che si fa – è così che fanno le migliori amiche.
Resto immobile a guardarla, mentre mi viene in contro. “Non ce la faccio, non ce la faccio” continuo a ripetermi nella mia mente, mentre lei mi guarda con quello sguardo ed io non riesco a fare altro che pensare alla bocca di Callie e al suo corpo e a come l’aria cambia quando mi sta intorno – cambia la consistenza e l’odore e il sapore. Tutto magicamente sa di Callie.
“Non ce la faccio” mi dico un’ultima volta. Prendo fiato. Respiro lentamente. Poi mi giro dall’altra parte dandole le spalle, come a dirle che ho bisogno di tempo, come a dirle che non posso metabolizzare tutto questo in un attimo, che ho bisogno di spazio e di aria – aria per respirare un veleno che non sia il suo, un profumo che non sia quello di Callie.
Callie, lì, anche lei, dalla parte opposta del corridoio. Questa volta il mio sguardo scivola dai miei piedi ai suoi occhi. Scuoto la testa senza dire nulla – senza pensare a nulla. Un paio di passi per poi chiudermi alle spalle la porta del medico di guardia come a reclamare una tana, un posto sicuro dove potermi nascondere da ciò che voglio, da ciò che bramo, ma che non posso avere.
Il braccio di Callie si intrufola veloce tra l’uscio e la porta, mentre io indietreggio fino a ritrovarmi con le spalle al muro. Solo a quel punto Callie chiude la porta alle spalle facendo scattare la serratura. Ansimo, lo sento – è evidente. Ansimo, mentre le mi chiede cosa significa – il mio silenzio, la mia fuga, quegli occhi terrorizzati.
“Non ce la faccio” do fiato alle parole che parevano bloccate nel mio cervello, pronte solo a martellarmi la mente e ad occuparmi ogni pensiero. “Non posso”.
“Non puoi cosa, Arizona?” le sue mani stringono le mie, mi accarezzano le braccia, tengono le mie spalle. Io tremo, mentre la lascio fare. Tremo, mentre lei mi accarezza nel tentativo di curarmi le ferite che nemmeno conosce. Tremo mentre mi apre nuove voragini – sulle mie braccia, sulle mie mani, sul mio cuore.
“Callie, io..” ritraggo le mani mettendomele letteralmente tra i capelli. Le lascio scivolare lungo le tempie fino a coprirmi il viso e dopo un respiro profondo, tento di organizzare le idee. “Credo mi piaccia una persona” concludo nel modo più semplice e lineare che esista.
“Ok, questo è un bene, no?” lei mi sorride, spostandomi dietro all’orecchio una ciocca di capelli.
“No” urlo, mentre mi allontano da lei – dalle sue mani che stanno ovunque. “No” poi ripeto piano. “È tutto molto complicato. Lei è impegnata e io..”
“Ferma, ferma, ferma” mi mette un dito sulle labbra, mentre io comincio a morderle tentando di catturare tutta l’essenza di Callie – tutta l’essenza di quel contatto. “Non mi interessa sapere se è fidanzata, sposata o qualsiasi altra cosa, ti sto chiedendo come ti senti quando ti sta intorno”.
“Come mi sento quando mi stai intorno”, mi ripeto nella testa, mentre il mio sguardo si posa inevitabilmente su di lei e studia i tratti – l’arricciatura dei capelli neri, il riflesso di luce nei suoi occhi, i muscoli del suo viso contratti in un sorriso. Il mio sguardo si posa su di lei e la studia ancora e ancora e ancora, come se non bastasse mai – come se ogni volta fosse la prima.
“Non c’è nulla quando mi sta intorno. Tutto perde senso e forma e colore. Tutto perde consistenza e sa del suo odore – non del suo profumo, del suo odore. Ha un buon odore la sua pelle, ti fa venire voglia di starle accanto. E poi è bellissima quando sorride. Non è un cliché, non è come dicono tutti. Lei è proprio bella quando sorride, perché il suo sorriso è lo specchio della sua anima. Ho passato talmente tanti anni a guardarla sorridere che ho imparato a distinguerli – i suoi sorrisi. Non ne ha uno. Ne ha sei - uno quando qualcosa la fa ridere davvero, uno quando sorride solo per educazione, uno quando è imbarazzata, uno quando si prende un po' in giro, uno quando sta facendo dei progetti e uno quando parla dei suoi amici.”
Callie resta in silenzio a fissarmi – le mani lungo i fianchi. Entro in panico nell’esatto momento in cui credo che abbia capito tutto – da come mi guarda, da come apre la bocca e la muove senza emettere suoni. Resta così, un po’, a cercare le parole.
“È davvero quello che senti per lei? È .. mio Dio, Arizona, è.. è una cosa bellissima. È bellissimo” “Davvero pensi che sia bellissimo? Perché questo è quello che sento per te, quello che vedo in te. Sei tu, sei sempre stata tu” è l’unica cosa che mi verrebbe da dirle – l’unica cosa che riesco a malapena a zittire nella mia testa, nella mia gola.
“Dovresti dirglielo sai? Dovresti dirle che l’ami” le sue mani tornano ad appoggiarsi sulle mie spalle, come fossero due calamite che si attraggono. “Nessuno potrebbe mai resistere ad una dichiarazione del genere”.
Io abbozzo un sorriso forzato, mentre prendo le sue mani tra le mie. Col pollice le accarezzo il dorso della mani prima di lasciarle cadere delicatamente lungo i suoi fianchi. Mi dirigo verso la porta, faccio scattare la serratura. Esco. Passa un istante, quel breve momento in cui trovo il coraggio che non ho mai avuto. Rientro nella stanza del medico di guardia, mentre Callie si volta a guardarmi. Ed eccoli lì, ancora una volta i suoi occhi ad aspettarmi.
“Ti amo” e poi mi richiudo la porta alle spalle.
“L’ho fatto”, penso. “Ormai è fatta”, realizzo quanto sia inutile scappare ora – ora che ci saranno solo conseguenze d’affrontare. Così, per l’ultima volta riapro la porta. Questa volta non sono gli occhi di Callie ad aspettarmi, ma le sue labbra – le sue labbra che pongono fine a questo stupido gioco.
Le mani di Callie stringono tra i pugni il colletto del mio camice, mentre le gambe – le sue gambe che s’intrecciano con le mie – mi guidano verso il letto. Mi muovo a rallentatore, mentre lei mi spoglia con foga e reclama ogni millimetro della mia pelle e delle mie labbra. Con le mani, le labbra le sfioro le spalle nude, soffermandomi più a lungo nell’incavo del suo collo. Respiro a fondo il suo odore, mentre Callie guida le mie gambe attorno alla sua vita. D’istinto le poggio una mano sul petto, come a chiederle di fermarsi.
“Arizona” mi chiama dolcemente, sistemandomi i capelli ormai sciolti dalla coda dietro alle orecchie. “Arizona” ripete, mentre io scoppio a piangere tra le sue braccia.
Il senso di colpa mi divora, mentre il mio corpo nudo ed inerme si stringe al suo.
“Possiamo fermarci sei vuoi” mi chiede, mentre l’indice e il pollice prendono il mio mento facendomi alzare il volto. “Non è successo niente. Possiamo fermarci” lo dice anche lei con le lacrime agli occhi.
Come può essere niente questo, mi chiedo. Come può essere niente il tuo corpo perfetto incastrato col mio e la tua bocca che cerca la mia. E quello sguardo.
“Io non posso fermarmi. Non posso tornare indietro e fare come se non fosse successo nulla – come se non ci tenessi, come se non ti amassi. Lo vorrei – vorrei non amarti,- ma ti amo” il profilo del mio naso sfiora il suo. “Quindi mi lascerò amare da te, Callie. Mi lascerò amare”.
Le mie labbra si posano sulle sue, ancora – per l’ennesima volta. La foga dell’aversi, l’agitazione, il senso di colpa – soprattutto il senso di colpa – scivolano via dai loro corpi, veloci, come i loro vestiti. I baci si trasformano in carezze – carezze fatte di lingue e labbra che si mordono.
 
“Callie sei sveglia?” bisbiglio appena, dandole le spalle, mentre le sue braccia mi cingono la vita e le lenzuola accarezzano i nostri corpi.
“Sì” risponde piano, la voce soffocata dai miei capelli che le pungono il viso facendole il solletico. Ma a lei non importa – lei resta ferma a tenermi stretta, ad assicurarsi che non scappi e ricominci il mio gioco con la porta. Dentro, fuori. Via da lei.
“Ti batte forte il cuore” mi giro per guardarla negli occhi. “Sei agitata anche tu?”
“No, Arizona. Credo si tratti di un’altra cosa” sorride. Sorride del suo settimo sorriso – sorride come quando guarda me. Solo me. Nient’altro che me. “È amore.”

 
"I need your love
I need your time
When everything's wrong
You make it right"
 

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Capitolo 4
*** Dead in the water. ***


Premetto che questa one shot è nata grazie ad un'immagine che avevo nella mia testa - un'immagine di cui volevo scrivere. Premetto che questa one shot parla di Callie e Arizona nella settima stagione - di Arizona che decide di andarsene in Malawi e di non tornare (diciamo). Premetto che questa one shot è nata sotto le note di "Dead in the water" di Ellie Goulding (quale ovvietà!). Come sempre, buona lettura.

Dead in the water.

“Due anni” si ripeteva nella mente. “Due anni”, cantilenava la voce di Callie, immersa nella vasca. Più dava retta a quelle parole, più si immergeva – il seno, le spalle, la bocca – nel tentativo disperato di scaldarsi il cuore e le ossa fredde con l’acqua bollente.
Due anni, da quando Arizona era partita per il Malawi. “Tu sta’ qui e sii felice. Ed io andrò lì e sarò felice”. Ecco come si era chiusa la loro storia. “Felice”, era stata l’ultima parola detta – l’ultima, prima delle urla e degli ultimatum e delle minacce.
Nella sua testa, continuavano a ripetersi le scene del film che un tempo era stata la sua storia con Arizona. Come il più attento direttore cinematografico ne studiava i dettagli e vedeva il mutarsi delle scene sotto ai suoi occhi, tra le sue mani impotenti – ne studiava i dettagli per capirne la dinamica, per capire dove aveva sbagliato. Che poi, era stata davvero tutta una questione di errori?
Arizona se n’era andata. Non aveva spiegato nulla, non aveva aggiunto una parola – non una in più, rispetto a quella dell’ultima lite in aeroporto. Silenzio. Dopo tutto quello che Callie aveva dato a lei e al loro rapporto – dopo tutto quello che Arizona aveva dato a lei e al loro rapporto, dopo tutto che si erano date e basta. Ecco cos’aveva lasciato Arizona - l’ultimo souvenir prima del suo viaggio. Silenzio. C’era solo silenzio – dopo quelle parole, nella casa buia che accoglieva Callie al suo ritorno, in quel bagno dalla luce soffusa e le piastrelle gialle sbiadite, consumate dal tempo, come si era consumata Callie a quel pensiero.
Arizona se n’era andata, senza l’esitazione di un istante, di un sentimento – se n’era andata come se non gliene importasse, come se non gliene fosse mai importato, come se Callie non avesse mai fatto parte della sua vita. Un buco nero, una voragine, si era inghiottita tutto il loro amore – l’amore di Arizona, non quello di Callie. Lei continuava ad amarla, lei continuava a ricordare – Arizona che danzava sotto la pioggia, la sua sciarpa per terra, i suoi capelli.
Come si fa a far cambiare idea ad una persona? Come si fa a convincerla che, come l’ami – come l’amerai per sempre tu, nessun altro lo farà mai? Come glielo fai capire che non sono solo parole?

"If I was not myself
And you were someone else
I'd say so much to you
And I would tell the truth

Cause I can hardly breathe
When your hands let go of me
The ice is thinning out
And my feat brace themselves"

Callie, in quell’aeroporto, era rimasta impotente a farsi travolgere dalle cinque fasi del dolore, sperando solo che l’accettazione arrivasse nel giro di pochi istanti. Niente negazione, rabbia, contrattazione, depressione – non avrebbe raccontato nessuna bugia a se stessa, non avrebbe sentito alcun dolore, Callie. Voleva solo accettare il suo mondo che si sbriciolava lento sotto ai suoi occhi ed andare avanti – e fare un passo avanti verso una nuova vita, nuovi piani da condividere con qualcun altro che non fosse Arizona. Con altre mani, altri occhi, un altro odore.
Callie, in quella vasca da bagno, era rimasta impotente a farsi travolgere dalla sue idee – pensieri confusi. In tutta quell’indecisione, in tutta quell’insicurezza, l’unica cosa certa era l’amore e l’odio che provava per Arizona – l’unica cosa certa era che un giorno, non importa quando, solo un giorno, si sarebbero incontrate e Callie le avrebbe detto “ti sono cresciuti i capelli”, dando per scontato che sarebbe stata lei quella coi capelli corti e non Arizona. Sarebbe rimasta a guardarla – a guardare il suo cambiamento fisico – e l’avrebbe riconosciuta. Era lei, era sempre stata lei. E quei capelli lunghi sarebbero stati solo capelli lunghi pronti a coprire gli sbagli e l’imbarazzo sul volto di Arizona – l’imbarazzo della consapevolezza dei suoi sbagli.
“Tu invece li hai tagliati” e Callie le avrebbe risposto di sì – sì e basta. Non avrebbe aggiunto che l’aveva fatto per non sentire più le sue mani tra i capelli - lei, che si ricordava bene quella giornata al parco quando le aveva detto “credo che mi taglierò i capelli, sono stufa di averli così lunghi” ed Arizona le aveva risposto di non farlo. “A me piacciono. Poi come faccio a passarci le mani se li tagli?”. Non le avrebbe detto che l’aveva fatto per dispetto o per ferirla. Avevano speso così tanto tempo a farsi del male – con le parole, con le assenze, coi silenzi – che non serviva aggiungere altro.
Perché Callie era sempre lei, col suo amore e col suo odio.
Perché Arizona era sempre l’amore della sua vita.
Callie lo sapeva bene. Non importava il passare del tempo – non importavano i legami di sangue. Callie e Arizona si appartenevano, come fossero due metà perfette di un unico intero.
I legami non erano un fatto – il tempo non era un fatto. L’amore lo era.

"I'm dead in the water
Still looking for ya"

Callie era riuscita a mettere piede fuori dalla vasca solo a seguito del suono del campanello. Guardò l’orologio della cucina segnare le cinque e quaranta, stringendosi nell’accappatoio blu scuro. Con un gesto meccanico fece scattare la chiave nella serratura, sporgendosi appena dalla porta con la testa – e i capelli bagnati. Non furono gli occhi azzurri la prima cosa che vide, ne tanto meno il sorriso di Arizona che si distendeva sul suo volto, segnandole le guance dalle fossette. La prima cosa che vide furono le scarpe di chi ha danzato tra le pozzanghere – tra la pioggia, - poi vide la sciarpa rossa strisciare a terra e i lunghi capelli biondi accarezzarle le spalle coperte dal lungo cappotto nero. Callie spalancò la porta uscendo dal suo nascondiglio. Rimase immobile, inerme, a guardarla, mentre il freddo dell’autunno saliva le scale invase dall’odore di Arizona e la colpiva in faccia, sui fianchi – ovunque. Rimasero in silenzio – Arizona ad aspettare Callie, Callie ad aspettare le sue parole. “Ti sono cresciuti i capelli” disse, e poi iniziò il suo discorso.

"I'm dead in the water
Can't you see?"

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Capitolo 5
*** The lovers hold on to anything. ***


Potrei piangere per aver aggiornato. Davvero.
Non svelo nulla sulla storia, ricordo solo che le parti in grassetto sono tratte da una canzone di Ellie Goulding "Figure 8".
Buona lettura.

The lovers hold on to anything.

“Arizona” risuonò la voce di Callie nell’aria. “Arizona”, lo ripeteva spasmodicamente ad alta voce, come se questo l’avrebbe riportata da lei più in fretta – o l’avrebbe riportata da lei e basta.
Restò immobile – gli occhi spalancati a fissare la parete bianca. Li tenne aperti tanto a lungo da sentire le palpebre bruciare. Non ebbe neanche la forza di piangere.
“Arizona”, rigirò tra le mani il post-it giallo. “Arizona”, ripeté flebilmente, un’ultima volta.
Restò immobile per ore in compagnia dell’eco della sua voce, della sua assenza e delle sue parole scritte. “Me ne vado, non mi aspettare”.
 
“Manca appena un mese a Natale” la voce di Callie arrivò lontana alle orecchie di Arizona, nascosta dal freddo dell’inverno sotto un ampio strato di coperte. Nascondeva sé stessa e la lunga cicatrice lungo la sua gamba.
Callie si era fatta piccola. Rannicchiata sulle sue ginocchia, restava in equilibrio di fronte ad Arizona a sorriderle. “Potremmo andare in un posto caldo quest’anno – un’isola tropicale. Che ne pensi?” Arizona restava immobile a sfogliare la sua rivista, come se non fosse stata interpellata – come se Callie non le avesse rivolto la parola.

“Oppure potremmo andare a sciare come l’anno scorso” Arizona puntò i suoi occhi in quelli di Callie, un istante, il tempo di fulminarla con lo sguardo e poi tornare a sfogliare il giornale. “Sciare”, diceva Callie. “Sciare”, quando lei a malapena riusciva a stare in piedi. Callie rimase inerme ad imprimersi nella mente quello sguardo – gli occhi, quegli occhi pieni di rancore e gelidi come il ghiaccio.
“Se ti va potremmo andare in Spagna”. Solo a quella frase Arizona ebbe una reazione esplicita. Sorrise cattiva - sorrise in modo sarcastico, scuotendo la testa. Poi prese un lungo respiro, come per reprimere il senso di rabbia in una piccola parte del suo corpo e lasciarlo lì, ad esplodere da solo.
“Cose c’è, Arizona? Ti prego, puoi spiegarmi cosa c’è? Perché io ci sto provando, davvero. Ci sto mettendo tutta me stessa. Quindi, ti chiedo, cosa c’è che non va?” Callie rimase a fissare Arizona che tremava di rabbia, accecata dai suoi pensieri.
“Cosa c’è che non va, dici?” sibilò tra i denti, prima di alzarsi e sbattersi la porta della camera da letto alle spalle.
“Arizona..” Callie irruppe nella stanza tentando invano di rimangiarsi le parole ormai dette – tentando di rimangiarsi quel tono di voce.
“No, Callie. No. Fai sempre tutto te, vero? Io sono solo la moglie ingrata che non capisce, che non vede.”
“Non ho detto questo” tentò di afferrarla per un braccio, quando Arizona lasciò cadere la coperta sul letto e si girò a fissarla ancora gelida – il mare negli occhi.
“Sono stanca, Callie. Stanca nel farti notare le cose che sbagli, stanca delle liti, stanca del rinfacciarsi le cose. Sono stremata” bisbigliò flebilmente sistemandosi sotto le coperte – e Callie accanto a lei. La strinse, nonostante il suo corpo restasse come un peso morto – un cadavere tra le sue braccia. La strinse forte. Aveva bisogno di calore, di amore umano – voleva darle tutto l’amore umano che aveva, se solo avesse cicatrizzato le sue ferite.
“A cosa ci stiamo aggrappando, Callie?”
“Al per sempre – alla promessa che ci siamo fatte” le sussurrò dolcemente all’orecchio quelle parole, Callie – lei che credeva che tutto si sarebbe sistemato. Lei che credeva si sarebbero amate all’infinito.
“Anche il per sempre ha i suoi limiti – anche noi ne abbiamo”.

I chased your love around a figure 8
I need you more than I can take
You promised forever and a day
And then you take it all away

 
- - -
 
Rannicchiata su se stessa, Arizona si nascondeva tra la parete fredda e le gambe di un lettino in ferro. Teneva le mani sul volto, per non mostrarsi così – fragile. Per non mostrare gli occhi lucidi.
Alzò la testa sentendo l’eco di passi che si avvicinavano rimbombando nel sotterraneo. Calliope.
“Sei venuta qui ad umiliarmi ancora – a rendermi la giornata un inferno?” le mani le erano scivolate ai lati del viso – tra i capelli. Controllò il tono di voce, si sforzò di non cedere al pianto – con gli occhi gonfi e il groppo alla gola. “È già un inferno” e Callie non capì se si riferisse solo alla giornata o a com’era andata fra loro.
Un sospiro lungo e profondo. Arizona si lasciò cadere, senza forza – la schiena appoggiata alla parete, le gambe distese lungo il pavimento. Si era arresa – dopo una giornata sfiancante, dopo le frecciatine di Callie, dopo una storia così. Callie – gli occhi di Callie, la bocca di Callie, il modo in cui si mordeva le labbra. Callie. Era sempre stata Callie? Come poteva essere Callie – dopo nove anni?
“Ero venuta a chiederti se ti andava una cioccolata” sussurrò flebilmente la voce di Callie, mentre nella sua testa la frase rimbombò come una necessità di perdono – di essere perdonata. “Guardami, Arizona. Guardami e capisci questo sguardo – lo sguardo di nove anni fa. Ero venuta a chiederti scusa – per come ti ho trattato oggi, per non aver lottato abbastanza, per averti permesso di andare via. In fondo il per sempre l’avevamo giurato insieme, non solo tu.”
Arizona addolcì il suo sguardo, puntando gli occhi in quelli di Callie. Schiuse appena la bocca, mosse le labbra come per pronunciare qualcosa che le restò in gola – le uscì solo un mugugno, una melodia silenziosa. “Arizona, è Natale. A Natale si è tutti più buoni” aggiunse Callie, come per spiegarle il senso del suo gesto.
“Non è il Natale, sei tu – buona” pensò Arizona, stringendo le dita attorno a quelle di Callie. Le afferrò la mano, così, saldamente, come qualcuno che si tiene aggrappato ad uno scoglio per salvarsi dalla bufera. Tentennò qualche istante prima di lasciarla andare - sentì il palmo di Callie scivolare dal suo, sentì l’odore della sua pelle. Poi corse fuori.
“Arizona” la richiamò Callie affaticata, non riuscendo a tenere il passo. La guardò allontanarsi, correre verso l’uscita – la guardò scappare.
“Callie” urlò di rimando Arizona, fermandosi a sorriderle prima di varcare la soglia della porta.
Quando Callie riuscì a raggiungerla fu colpita da una luce bianca accecante – e dalla risata limpida e cristallina di Arizona che risuonava nel piazzale delle ambulanze. “Callie, nevica”, gridò col poco fiato che le restava in gola dopo la corsa – gridò entusiasta come una bambina il giorno del suo primo Natale in bianco. “Nevica”, le ripeté piano, avvicinando dolcemente il suo profilo a quello di Callie – dondolando avanti e indietro coi piedi.
Sorrise. Sorrise ancora e ancora – e ancora. Callie rimase a guardarla estasiata, mentre correva in tondo, con le mani e il viso alzati verso il cielo, mentre con la lingua catturava fiocchi di neve. Guardò le sue guance passare dal rosa chiaro e pallido, ad un rosso acceso – guance rosse per il freddo, rosse per il Natale.
Callie la guardò e ricordò quella sensazione precisa di Natale che aveva perso. Ricordò il grande albero in mezzo al salotto, ricordò gli addobbi – i baci e le carezze rubate. Ricordò persino il puntale d’oro - il peso di Arizona e i suoi fianchi morbidi. Arizona – gli occhi di Arizona, la bocca di Arizona, il modo in cui si portava i capelli dietro alle orecchie. Arizona. Era sempre stata Arizona? Come poteva essere Arizona – dopo nove anni?
Senza nemmeno riflettere, Callie prese Arizona per un braccio – così, d’istinto. Posò la sua mano sul braccio di Arizona. Restò senza fiato – restarono senza fiato. Poi Arizona la prese per mano e cominciarono a correre – vicine, lontane, in tondo, dovunque. Corsero via, insieme, a giocare segretamente un gioco fatto di sguardi e carezze nascoste. Un gioco solo loro.
Arizona inciampò nella sciarpa di Callie, tirandosi dietro il suo peso e quello dell’altra. Scoppiarono a ridere – di quella situazione, del divorzio, del dolore. Scoppiarono a ridere, poco prima di restare in silenzio, l’una opposta all’altra. Callie, con la testa rivolta verso gli alberi spogli - Arizona con gli occhi puntati dritti al cielo. Sentivano l’una il calore dell’altra, mentre le loro teste si sfioravano appena.
“Mi manchi” Callie fu la prima che ebbe il coraggio di dirlo a voce alta – perché era ovvio che Arizona fosse tornata solo per lei, solo per riprendersela.
“Anche tu, sai? Mi manchi – mi manchi sempre. La sera prima di dormire, la mattina appena mi sveglio – mi manca sapere che sarai l’ultima o la prima che vedrò appena chiuderò gli occhi, appena li aprirò. Mi mancano le chiamate inopportune nel bel mezzo di un intervento. Mi manca chiederti cosa vuoi per cena, preparati una sorpresa. Mi manca persino il tuo modo di respirarmi accanto – e tu sai bene quanto lo odi”. Arizona girò la testa nella direzione di Callie. L’altra rimase immobile. “Anche tu – mi manchi anche tu”. Pausa. “Chiedimelo, Callie. Tanto lo so che muori dalla voglia di chiedermelo”.
“Cosa muoio dalla voglia di chiederti? Perché te ne sei andata? Perché hai preferito cosa, poi – rabbia, paura, rancore? Arizona ti stavi salvando – stavi tentando di salvare te, me, noi.”
Callie scosse la testa allontanando i pensieri, insieme alla neve che le era rimasta attaccata al cappotto. Voltò la testa per guardare i lineamenti di Arizona, che continuava a fissarla imperterrita.
 “Mi sembra che l’unica che voglia chiedere qualcosa, qui, sia tu” disse Callie nel tentativo di attirare Arizona nella sua provocazione che, tuttavia, fu subito accolta.
“Perché Reily? Perché con lui – dopo che me ne sono andata?” Arizona si lasciò scappare tutto da quelle labbra – parole, gelosia, tutto.
“Mi stai veramente chiedendo perché lui, o mi stai chiedendo perché sono andata avanti – oltre a te? Perché dal tuo post-it mi era sembrato tutto molto chiaro. Me ne vado, non mi aspettare. Ed io non ti ho aspettata, Arizona. Cosa pensavi? Cosa potevi pretendere – che sarei rimasta a piangermi addosso, ad auto-commiserarmi?”.
“No” rispose nel tentativo di difendersi.
“Sì, invece” le urlò contro Callie – per rabbia, per nascondere le bugie e far salire la verità a galla. “Pensavi che ti avrei aspettata per sempre Arizona, ma io non lo so come si fa - non so come si conta fino a per sempre” bisbigliò piano, trascinando le gambe al petto.
“Almeno ti rende felice?” Arizona parlò piano, timida nella sua domanda – nel suo amore.
Callie sorrise flebile, coperta dal cappotto. Sorrise, senza rimproverarla per la domanda inadeguata – sorrise e le rispose. “A volte – a volte mi fa felice”.
“Tipo?”
“Tipo quando mi porta al cinema a vedere uno di quei film romantici che a me piace tanto. Tipo quando mi porta un dolce al mattino. Tipo quando mi regala i fiori”.
“E ti chiede sempre prima, qual è il film che vuoi vedere? E sbaglia sempre il dolce, e ti prende quelli al cioccolato che non ti piacciono? E ti regala le rose rosse, pensando di andare sul sicuro – quando i tuoi fiori preferiti sono i girasoli?”
“Sì”
“E ti stringe mai così, Callie? La notte, quando tremi, quando fa caldo che anche all’ombra ti sembra di morire – ti stringe mai così?” Arizona appoggiò la sua testa sulla spalla di Callie, circondandola dolcemente con le sue braccia. Sentì i muscoli di Callie irrigidirsi sotto al suo tocco e il fiato corto, quando le rispose un “no” – semplice, onesto.
“E ti guarda mai così, Callie? Come se ci fossi solo tu, da sempre. Come se fossi sempre tu la causa – gioia, amore e, perché no, anche di rancore?”
“No, Arizona” sussurrò appena Callie – la fronte appoggiata a quella di Arizona, persa nei suoi occhi. I loro profili si sfiorarono – le punte dei loro nasi, le guance, i bordi delle loro bocche. Lembi di pelle, piccoli frammenti che si restituivano l’uno all’altro, come se da sempre si fossero appartenuti.
“E ti bacia mai, Callie? Come l’ultima volta che ci siamo baciate – te la ricordi l’ultima volta che ti ho baciata? Ti bacia mai come se fosse una rivoluzione – sì, ogni tuo bacio una rivoluzione nel mio stomaco e nella testa e nella mia bocca?”
“Arizona”. Era tutto quello che le labbra di Callie avevano pronunciato prima di toccare quelle di Arizona. “La sento – la rivoluzione”, ecco l’unico cosa che avrebbe voluto risponderle.
Non fu un bacio speciale – non risvegliò sentimenti nascosti, non risvegliò sensazioni nuove. Era già tutto lì – sulle loro bocche, nelle loro teste. Quel bacio era sempre stato lì. Per Callie, ogni volta che le sue labbra toccavano quelle di Reily – e la sua immagine si confondeva con quella di Arizona. Per Arizona, ogni volta che sfuggiva ad un nuovo amore.

Place a kiss on my cheekbone
Then you vanish me
I'm buried in the snow


“Lo ami, Callie?”
“Ci tengo” rispose abbassando lo sguardo.
“No, Callie. Ti ho chiesto se lo ami”, ripeté Arizona tentando di mettere nel suo tono di voce tutta la dolcezza di cui era capace.
“Lui mi ama, sai? Credo mi chiederà di sposarlo. Mi ama perché lo faccio felice. Io..” le mani di Arizona incontrarono prima il volto di Callie e poi le sue labbra, per zittirla. Non aggiunse altro – lasciò a Callie il tempo di ammettere a se stessa tutta la verità, nient’altro che la verità. “No” disse infine sospirando.
“Mi ami, Callie?” chiese Arizona con quel tono di voce così pieno di speranza che una risposta negativa l’avrebbe fatta morire di crepacuore.
“Sì”. Un “sì” così, limpido e pulito. Un “sì” onesto e sacro, come la liberazione da un peccato.
“Anch’io ti amo, Calliope” Arizona disse il nome per intero, come per rendere ufficiale quel momento.
Callie si asciugò le lacrime del suo senso di colpa e tirò su col naso. Sorrise – sorrise alla bocca di Arizona che stava davanti alla sua. Sorrise anche un po’ malinconica.
“Sposami, Callie” le prese il volto tra le mani e poi lo scandì di nuovo. “Sposami”.
“Arizona, ci siamo già sposate”
“E abbiamo divorziato” la corresse. “Risposami, Callie. Devi solo dire di sì”.
“Tu la fai semplice, vero? Devi solo dire di sì. Questa volta sarà diverso – questa volta ci basterà davvero per sempre? Chi mi da la certezza che questa volta basterà? Cos’è cambiato, Arizona?”
“Niente” disse con semplicità. “Niente, è per questo che so che funzionerà. Perché io ti amo e tu mi ami, nonostante tutto – nonostante il divorzio, nonostante i nove anni, nonostante la tua nuova storia. Questo non ti basta?”
“Per sempre?”
“Per sempre”
“Sì” la sua voce risuonò come un ruggito. L’eco di Callie trafisse l’aria e la neve. “Per sempre”, ripeté con una luce strana negli occhi – la luce di chi ama. Prese il volto di Arizona tra le sue mani e la baciò – con le sue mani rosse e congelate, con le sue labbra viola e i denti che battevano. La baciò, quando tutto intorno sapeva di Natale, di neve - di speranza, dopo nove anni.
 

 The lovers hold on to everything
And lovers hold on to anything

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