Mi hai rovinato la vita.

di MelodramaticFool_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nuvole, una lapide bianca e due pistole. ***
Capitolo 2: *** Il Passato. ***
Capitolo 3: *** Gli Altri. ***
Capitolo 4: *** Il sogno e il litigio. ***
Capitolo 5: *** La villa di Staten Island. ***
Capitolo 6: *** Liam mi sta dando la caccia. ***
Capitolo 7: *** Keyport e le sue sorprese. ***
Capitolo 8: *** Liam, Conan e la storia della mia vita. ***
Capitolo 9: *** Conan. ***
Capitolo 10: *** Semplice semplice. ***
Capitolo 11: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Nuvole, una lapide bianca e due pistole. ***


Il cimitero è silenzioso, deserto, escluse le anime dei poveri diavoli che pure da morti si devono godere lo smog di New York.
Dopo aver girato come una cretina per oltre un'ora, eccola, finalmente. La lapide di pietra bianca, levigata e semplice, splende sopra le ossa dell'uomo che mi ha rovinato la vita e che, ironicamente, vi ha dato pure inizio. 
Crisantemi rossi e gialli ornano la casa eterna di Paul Flemigan, ma io so bene che il suo nome era in realtà Matteo Zaroga. Lui ovviamente non lo sa, che la sua figlia sconosciuta è così vicina, e che al posto di piangere sui suoi resti in questo momento vorrebbe strappargli le interiora con un coltello poco affilato. Questo se fosse ancora vivo, ovviamente; la carne ammuffita mi ha sempre fatto schifo.
Come si fa ad odiare una persona che non hai mai conosciuto? Solo chi si è mai trovato nella mia stessa situazione può capire questo strano sentimento. Odiare senza aver mai conosciuto la causa del tuo odio. Forse è proprio la sua assenza che me lo ha fatto odiare, anche se, se mai me lo fossi trovata davanti da vivo, molto probabilmente lo avrei preso a calci. Anche da morto è riuscito a mettermi nei casini.
Morto il 18 Marzo 2007, colpito da una pallottola vagante mentre faceva jogging a Central Park, così secondo l'incisione. 
So bene che nemmeno questo è vero, e non sono l'unica considerato che un uomo vestito di nero a dieci metri da me mi sta fissando da quando sono arrivata. Stupida, stupida, stupida. 
Venire qua è stata una mossa prevedibile, era ovvio che appena possibile sarei corsa dove le membra di mio padre dormono per sempre. Ma questo posto aveva un'attrattiva troppo forte per me, sentivo che venire mi avrebbe dato le risposte che cerco, sentivo che era qualcosa di necessario, se volevo chiudere il cerchio. 
Il mio istinto ha fatto di nuovo cilecca.
Fingendo di controllare l'ora su un orologio inesistente, sposto la testa leggermente verso sinistra, per riuscire a osservare meglio l'armadio che non ha distolto un secondo lo sguardo da me. Diciamo pure che un confronto corpo a corpo sarebbe ridicolo: quell'essere mi ridurrerebbe ad un rottame. E' esattamente lo stereotipo del killer della criminalità organizzata: rasato, con giacca e pantaloni neri, cravatta dello stesso colore, scarpe lucide e camicia bianca. E' di carnagione chiara, ha un bel naso dritto e proporzionato e labbra nè sottili nè spesse. Nessun neo, nessuna cicatrice. Passerebbe del tutto inosservato, non fosse per i vestiti un po' troppo formali e gli occhiali, che in un 23 Ottobre nuvoloso come questo non sono certo utilissimi; di certo servono per impedire ad eventuali testimoni di descrivere la forma e il colore degli occhi, e, in questo caso, a nascondere un livido enorme e giallastro che fa capolino da sotto le lenti scure. Assolutamente anonimo, perfetto per il suo sporco lavoro. 
Con la coda dell'occhio provo a calcolare la distanza tra me e la strada, conscia dell'inutilità di ciò dato che sicuramente è armato, e con almeno un paio di mesi di prove al poligono di tiro. Nel pensarlo sento il freddo metallo della 7 millimetri automatica dentro la mia tasca destra, che peraltro non servirà a niente in questo caso, dato che non ho mai sparato in vita mia.
Sento che anche lui mi sta valutando, chissà cosa starà pensando. Si chiederà perché il suo capo mi voglia morta, un'innocua ragazzina che viene persino a pregare in cimitero. Incarico semplice, un lavoro pulito. 
Rifletto sulle possibilità che mi restano, consapevole che a secondi il pelatone dietro di me potrebbe decidere di farla finita con questa commedia e piantami una pallottola in mezzo alle scapole. Questo macabro pensiero ha appena attraversato l'anticamera del mio cervello, che vedo l'uomo avvicinare la mano al suo fianco sinistro ed estrarre l'arma con agilità ed esperienza. E' un attimo. 
Mi lancio dietro la grossa lapide e un istante dopo sento il suono ovattato dello sparo, ben attutito dal silenziatore. Il proiettile si va a ficcare sulla dura pietra nel punto esatto in cui ero io fino a due secondi fa. Grazie, 'pà, almeno a qualcosa mi sei servito. Sento i passi del mio futuro assassino che si avvicinano con circospezione. Con un brivido tiro fuori la pistola, uno scatto e ho tolto la sicura. Otto proiettili, non ho avuto il tempo di cercarne altri, meglio non sbagliare. Mi metterei a pregare, non fosse che non mi ricordo nemmeno l'Ave Maria e che nelle ultime settimane ho bestemmiato in almeno trenta lingue diverse. Sento che rallenta, sta controllando che non ci sia nessuno in vista. E' questione di secondi, devo farlo, o sarà lui a farlo. 
Salto in piedi e sparo. 
Il primo arriva alla coscia destra. Urlo straziante. Cade in ginocchio, urla, alza la testa verso il cielo come per mostrare la sua sofferenza ad un Dio inesistente, stringe la gamba e urla, ma nessuno lo aiuterà.
-Piccola bastarda!- urla, cerca di afferrare di nuovo la pistola che ha lasciato cadere. 
La mia mano è più veloce, parte un altro colpo. 
Continuo a sparare, per evitare di sentire il dolore che mi ha preso le reni come un colpo d'ascia, sento il suo dolore, lo sento! 
Due, tre, quattro colpi, tutti a vuoto. Gemiti strazianti. 
Non ce la faccio più, è insopportabile, fatelo smettere! 
Oddio, sta piangendo. 
Appena me ne rendo conto, sento lacrime salate e bollenti che mi annebbiano la vista. Faccio qualche passo avanti, fino a ritrovarmi a tre metri da lui. 
Prendo bene la mira con gli occhi socchiusi. Un secondo prima distolgo lo sguardo, per non vedere la vita scivolare via dalle sue dita sporche di sangue, il suo sangue. 
Le mani mi tremano, stringo la presa. 
Premo il grilletto. 
Non controllo nemmeno se ho centrato il bersaglio, l'ho capito dal fatto che non emmette più alcun suono. 
Abbasso l'arma, lentamente, come nei film. 
Immobile, ansimante, il battito folle del mio cuore nelle tempie.





Nota dell'autrice:
Grazie per aver letto questo primo capitolo!
Non so se ne scriverò altri.. In ogni caso, grazie! :D

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Capitolo 2
*** Il Passato. ***


Perchè tutto questo? Perchè mi sono lasciata trascinare in un'avventura più grande di me? Perchè non ho semplicemente lasciato che il passato restasse sepolto, affogato da una scia di sangue? Forse perchè si tratta del mio passato. E' sempre stata un'ossessione. Covata sotto le ceneri di una tormentata giovinezza, uomo senza volto che appare e scompare dai miei incubi. Attrazione magnetica, fin da quando una bimba paffutella dai biondi boccoli chiedeva dov'era il suo papà sconosciuto. Adesso non biasimo mia madre per aver fatto di tutto purchè io non sapessi ciò che ora so. Io, il sangue del suo sangue contaminato dall'essenza di un'infame. Solo ora mi rendo conto di quanto mi volle bene; avrebbe potuto raccontarmi tutto, dalla prima all'ultima parola, ha avuto tutto il tempo per farlo. Questo mi fa sentire ancora più idiota, se è possibile. Quando mi chiese di giurare che non avrei mai cercato mio padre, non feci in tempo a risponderle. Si starà rivoltando nella tomba, al pensiero che la figlia che ha cercato con tanta ferocia di proteggere per diciannove anni ha appena rischiato la vita, per cosa poi? 
E adesso non posso più tornare indietro. 
E adesso ci sono dentro fino al collo. 
E adesso ho appena ucciso un uomo.
 
Quello che so di Matteo Zagora l'ho scoperto negli ultimi mesi. Ad essere sincera, ora che conosco almeno una buona parte di ciò che era, avrei preferito evitare di venire a conoscenza di tutto quello che ha fatto durante il suo soggiorno sulla Terra. La prima volta che mia madre mi parlò di lui, non lo fece con la moderazione e la delicatezza che ci si aspetterebbe in una simile situazione. "Sei come tuo padre, quella merda che mi ha sbattuta in un vicolo, dietro un cassonetto, e li mi ha lasciata!" le sue testuali parole. Mai, mai dimenticate. C'è da dire in sua difesa che al momento era ubriaca fradicia, anche se non è propriamente una scusa. Si era arrabbiata con me perchè le avevo strappato di mano la bottiglia di vodka, e aveva iniziato ad urlarmi contro cose terribili, ma ci ero abituata. Da sobria era la persona più dolce, buona e comprensiva del mondo; due lattine di birra e diventava un mostro. Ma quella volta fu diverso. Non mi aveva mai, mai detto una cosa simile. Rimasi un minuto buono immobile, con gli occhi sbarrati e la bottiglia in mano. Ci guardammo, e non scordai mai quello sguardo. Sapeva, nonostante l'alcool le avesse annebbiato la mente, di aver esagerato. La bottiglia di vodka mi scivolò dalle mani sudate, il suono lontano del vetro infranto non ci scosse, continuammo a guardare una nell'anima dell'altra, della donna martoriata e della bambina dagli occhi blu. Scappai in camera, sbattendo la porta, a piangere tutte le mie lacrime, e per tre giorni stetti a letto, con la febbre a trentanove, la bambina di dodici anni che tremava come una foglia e che delirava la notte, gridava nel sonno. Ricordo che non mi lasciò mai da sola, nemmeno per un istante. Dopo quella frase tremenda non toccò più un goccio, se non un bicchiere a capodanno. Non parlammo mai di quello che mi disse, ma so per certo che non lo scordò.



Nota dell'autrice:
Eccomi qua con un nuovo capitolo.
L'ho scritto a tempo di record, lo so, quindi probabilmente lo troverete un po' approssimativo.
E' che oggi avevo voglia di scrivere, tutto qua.
Spero che lo apprezziate lo stesso. :)

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Capitolo 3
*** Gli Altri. ***


Lo stridio delle gomme sull'asfalto sembra risvegliarmi da un incubo. Uno sguardo al corpo esanime davanti a me mi basta a farmi capire che si tratta di ben più di un brutto sogno.
A cento metri di distanza, sul ciglio della strada, è apparso come per magia un camioncino bianco che conosco fin troppo bene. La porta scorrevole si apre su Conan e Jen. I due saltano giu e corrono verso di me e il mio capolavoro sanguinolento.
-Mari! Grazie al cielo, sei ancora viva!- Jennifer mi abbraccia. 
-Dio santo, non hai idea di quanto ci hai fatti preoccupare!- tende sempre a parlare velocemente quand'è nervosa -Ma che ti è saltato in mente? Potevano ucciderti!- 
La sua preoccupazione mi fa sentire ancor più da schifo.
La stringo più forte.
Una mano delicata si posa sulla mia spalla.
-Portala in macchina.- E' Linda.
-Portala in macchina, Jen, qua ci pensiamo noi.- dice, facendo un cenno con la testa verso il cadavere. Lo guarda con un disprezzo che non avrei mai pensato di vedere nei suoi occhi color nocciola. 
-Quanti colpi?-
Ci metto un po' a capire che era rivolto a me. 
-Marina, quanti colpi hai sparato?- ripete Conan.
-Cinque- gli rispondo, la mia voce che sembra venire da lontano, come se non fossi io a parlare.
-Notevole- commenta -Linn, prendi i bossoli e aiutami- aggiunge, indicando la lapide dietro la quale ero nascosta.
-Mari, vieni, andiamo dai- mi sussurra Jen spingendomi con delicatezza verso il camioncino. Le mie braccia sono rigide come il legno, stringo la pistola fino a farmi male, le nocche bianche per lo sforzo. 
Nel veicolo mi attende un silenzio surreale. Doc, alla guida, mi accoglie con un semplice -Eccoti- per poi non fiatare più. La tensione è palpabile. Il Volkswagen bianco latte visto da fuori sembra un semplice camioncino, ma dentro è un tutt'uno di cavi e monitor e antennine. 
Meno di cinque minuti dopo, Linn e Conan rientrano, trasportando il corpo, lei per i piedi e lui per le braccia. Jen chiude al volo la portiera e un istante dopo stiamo correndo a tutta velocità sulla Clarkson Avenue.
-Abbiamo recuperato tutti i bossoli e i proiettili, tranne quello che è rimasto incastrato nella lapide- spiega Conan -tanto non lo noterà nessuno. Grazie a dio il cimitero era semideserto.-
Noto un'ombra di nervoso nella sua voce, di solito ferma e sempre pronta ad impartire ordini.
-Rallenta!- urla Conan -Non è il momento di farci beccare dagli sbirri, idiota!- 
-Jacob Conan, datti una bella calmata- lo rimprovera Linn, mentre Doc rallenta di botto facendolo cadere dal sedile.
Io non ho smesso un istante di fissare il cadavere. Linda, intercettato il mio sguardo, lo copre con un telo di plastica preso chissà dove. Magari potesse svanire anche la puzza! L'odore acre del sangue ha riempito l'intero abitacolo. Inizio ad avere una nausea tremenda. Jen afferra appena in tempo un sacchetto e me lo mette sotto il mento. Vomito tutto il vomitabile nell'arco di soli tre minuti.
-Che schifo, Dio santo- commenta Linda gettando il sacchetto dal finestrino, dritto dritto nella Wallabout Bay sotto di noi.
-Linn!- esclama Conan, mentre noi tutti iniziamo a ridere.
Ecco, questi sono i momenti in cui adoro Linda Burtock. L'FBI si è fatta sfuggire una profiler incredibile, a nostro vantaggio. Non ho mai conosciuto una persona che come lei sappia dire la cosa giusta al momento giusto, sempre. Solo lei riesce a tenere testa a Conan, e non è una cosa da poco.
Appena riusciamo a smettere di ridere, chiedo: -Dove stiamo andando?-, mi risponde Linn -Beh, dopo la tua bravata di oggi...- si interrompe, e sento gli sguardi di rimprovero di tutti loro -...è necessario portarti in un luogo sicuro, prima di farti espatriare come era in programma. Staremo qualche giorno in un appartamento a Staten Island, poi andremo in barca nel New Jersey e, tra un mesetto o due, appena si saranno calmate le acque, avrai una nuova casa e una nuova vita da qualche parte nella Champagne-Ardenne francese.- concluse.





Nota dell'autrice:
Ecco a voi un nuovo capitolo!
Non so quanto tempo ci metterò a scrivere il prossimo, perchè non ho molte idee su come continuare..
Prima o poi lo pubblicherò ù____ù
Cordialmente,

Neurotic_to_the_Bone
 

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Capitolo 4
*** Il sogno e il litigio. ***


Apro gli occhi, e mi ritrovo su una panchina.
Dove sono? Sembra quasi un parco. Si, è decisamente un parco, anzi, il Parco Sempione di Milano, a quanto sembra.
Mi alzo e inizio a girare per le stradine sterrate.
Non c'è anima viva.
Com'è possibile? E' sempre pieno di gente. I baracchini sono aperti, con tutta la merce ben esposta, eppure sono deserti, senza clienti nè cassieri.
Riflettendo su questo strano fatto, mi avvio verso l'uscita, quando improvvisamente, passando vicino ad un cespuglio, sento un ringhiare sommesso. Mi volto verso il cespuglio e noto un paio di occhi che mi stanno fissando intensamente. Mi avvicino lentamente, scosto un ramo per vedere cosa si nasconde lì dentro, quando improvvisamente sento il rumore inconfondibile di uno sparo attutito da un silenziatore. Mi giro di scatto e mi ritrovo nel cimitero "Holy Cross" di New York, e vedo mia madre crollare a terra davanti ad una lapide bianca, mentre un uomo dal volto sconosciuto si avvicina a lei con la chiara intenzione di finirla. Urlo, più forte che posso, l'uomo si gira, e nello stesso istante mi rendo conto di avere in mano una pistola. Sparo uno, due, tre, quattro, cinque colpi..
 
Mi sveglio improvvisamente.
Era un incubo. Solamente un incubo.
I miei occhi si abituano in fretta all'oscurità della stanza sconosciuta in cui mi trovo. Faccio mente locale: dove sono? Come sono arrivata fin qua?
In un istante mi ritorna tutto in mente. La mia fuga dall'aeroporto, la casa di Zaroga, il cimitero, la sparatoria, il camioncino bianco che mi porta via dal cimitero per portarmi.. In una villetta verde  vicino a Woodrow Road, a Staten Island.
Sento delle voci al piano di sotto. Sono Linn e Conan, e sembra stiano litigando. Apro piano la porta, scendo silenziosamente le scale, raggiungo l'ingresso e mi apposto dietro la porta socchiusa della cucina, dove la luce illumina il volto stanco di Linn, seduta al tavolo, e di Conan, furioso, che continua a camminare avanti e indietro per la stanza.
-..dovremmo solo darle un po' più di fiducia, Conan.- dice Linda -Questa è la sua vita, è più che naturale che lei voglia saperne di più di tutta questa storia. D'altra parte, è più che evidente che le stiamo nascondendo parte della verità.-
-Fiducia? Tu parli di fiducia? Ti rendi almeno conto che, tutte le volte che le abbiamo rivelato qualcosa, quella in qualche modo è finita nei guai?! Quando le abbiamo detto di Liam, è scappata a cercarlo e quelli quasi la ammazzavano di botte. Quando le abbiamo detto che Zaroga era morto e che le aveva lasciato in eredità la casa, lei cosa ha fatto? Alla prima occasione è fuggita, ha rubato una pistola dalla cassaforte di Zaroga e, senza sapere che la casa ovviamente era sorvegliata, è andata a cercare la tomba di quel bastardo, e si è quasi fatta ammazzare di nuovo! Secondo me non merita la nostra fiducia, come dici te.- dice Conan, fissandola intesamente con i suoi sottili occhi verdi -In più, se non te ne sei accorta, Marina non fa che raccontarci menzogne. Come fa una che non ha mai sparato, ad aver centrato un bersaglio al primo colpo da sette metri di distanza? E ad aver ucciso quell'uomo con un colpo in piena fronte da tre metri? Ti ripeto che quella ragazza non fa altro che mentirci!- 
-E' figlia di suo padre.- dice Linn tranquillamente -Tu stesso mi dicesti che Zaroga aveva un vero e proprio talento per le armi, talento che, per quanto ne so, ha tramandato anche a Liam. Ora..- continua, alzandosi e avvincinandosi a Conan -..so che Marina ha fatto una grande, grandissima cazzata oggi. Ma prendersela con lei per questi sciocchi motivi non serve a nulla. Ti ripeto che secondo me dovremmo renderla più partecipe alle nostre indagini. Ma, d'altra parte, qui il capo sei tu.- conclude, sottolineando con cura la parola capo. Si avvia verso le scale, seguita dallo sguardo di Conan. Aspetto che anche Conan vada in al piano di sopra e mi dirigo anch'io, sconsolata, verso la mia camera da letto.





Nota dell'autrice:
Nuovo capitolo, nuovi interrogativi.
Mi piace complicare la vita ai miei lettori :DD

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Capitolo 5
*** La villa di Staten Island. ***


Sono due settimane che sono confinata in questa patetica villetta in una delle vie parallele a Woodrow Road, a Staten Island. E' una piccola villa in stile coloniale, a due piani, con tre camere da letto e due bagni, e con un piccolo giardino sul retro non molto curato e pieno di erbacce. 
Non c'è niente da fare qua; i primi giorni ho cercato in cantina e in soffitta qualcosa con cui combattere la noia, ma ho trovato solo una vecchia scatola piena di manga che, mi hanno detto, appartiene a Jen. Il punto è che io odio i manga, in più questi sono in bianco e nero e scritti in giapponese. 
I membri dell'unità fanno avanti e indietro continuamente, gli unici quasi fissi sono Linda e Conan. 
Dopo la discussione che ho origliato la prima notte, preferirei vederlo il meno possibile. Invece sono costretta a sorbirmi la sua presenza durante quasi tutti i pasti. Cerco di parlarci il meno possibile, e lui sembra voler proseguire per la stessa linea. 
La nostra ostilità reciproca deve essere parecchio evidente. 
L'altro giorno ero in cucina con Jen, e stavamo chiaccherando allegramente, quando Conan è entrato improvvisamente nella stanza.
-Esco, ho un caso di furto tra le mani e ultimamente non mi faccio vedere molto in centrale, potrebbero insospettirsi- disse rivolto a Jen, mentre io me ne stavo in silenzio, con gli occhi rivolti verso la tazza di te che avevo in mano -tornerò domani. Ho già avvisato gli altri. A presto.- concluse, e uscì di fretta dalla porta sul retro, non prima di avermi lanciato una di quelle occhiate di disgusto che riservava a me e a me soltanto.
-Che gelo che c'è qua.- osservò Jennifer
-Non posso farci niente. Mi detesta. Ho fatto una cazzata, lo so. Ma speravo che dopo due settimane..-
-Mari, ascoltami bene- disse Jen guardandomi bene negli occhi -Conan non ti detesta, anzi, lui ti vuole più bene di quanto tu possa immaginare. Per questo è ancora così arrabbiato, anzi, deluso. Pensava che, dopo la tua fuga da Liam, avessi imparato la lezione, e invece sei scappata di nuovo. Dovevi vedere com'era preoccupato quando, in aeroporto, non ti trovavamo più!- le sue parole non mi facevano sentire meglio, anzi.
-Se vuoi sistemare la situazione, e ci scommetto che lo vuoi, prima di tutto dovresti trovare il coraggio di parlargli, faccia a faccia.-
Non le risposi. Dopo un minuto di silenzio, cambiò discorso e tornammo a parlare dell'Italia. 
Jen era nata in Italia da genitori italiani, ma quando lei aveva sei mesi si sono trasferiti a Staten Island, in quella casa. Erano morti cinque anni prima in un incidente d'auto. Jen è figlia unica ed ereditò la villa, ma ha un appartamento in centro a Manhattan, quindi ha reso disponibile questa casa all'unità per nascondere soggetti sensibili, come me.
Nei giorni seguenti cercai di seguire il consiglio di Jen, ma mi arresi in fretta. Ogni volta che mi capitava di restare in una stanza da sola con Conan, lui trovava sempre una scusa per uscire. Le poche volte che interagiamo riesce sempre a trovare il modo per prendersela con me, come oggi: mi avevano chiesto di dare una pulita alla cucina, ma ieri Doc mi ha portato un libro stupendo ed ero talmente presa nel leggerlo che ho completamente scordato gli ordini, e Conan mi ha fatto una sfuriata tremenda e decisamente esagerata.
Non ne posso veramente più di questa situazione del cazzo.
 
Stasera siamo solo io, lui e Linda. Conan ha passato tutto il pomeriggio a borbottare che non sono degna di fiducia, che non riesco nemmeno a portare a termine le mansioni più semplici e cagate simili. Io sono veramente veramente arrabbiata con lui, e ogni proposito di fare pace è andato a farsi benedire. 
Stiamo cenando, e io e lui non facciamo che guardarci in cagnesco, al tavolo non vola una mosca. 
Arrivati al secondo, Linda esplode.
-Finitela! Non ne posso più del vostro stupido modo di comportarvi.- dice irata, buttando le posate sul piatto -Adesso io vado di là, e voi fate il piacere di riappacificarvi.- esce dalla stanza, lasciandoci da soli in un silenzio imbarazzante e carico di tensione.
-Senti, Conan, io..- provo a dire
-Ascoltami, Marina- dice lui in tono sommesso, le mani che strofinano gli occhi -devi perdonarmi. Sono stato stupido e infantile a comportarmi in questo modo nelle ultime settimane. Ma, cerca di capirmi.. Quando tua madre si unì alla squadra per dare la caccia a tuo padre e al tuo fratellastro, tutti noi fecimo subito amicizia con lei. Era una donna.. straordinaria, veramente intelligente, buona e gentile. E, soprattutto, ti voleva un bene incredibile. Sapeva che, lavorando con noi, la sua vita sarebbe stata in pericolo, eppure voleva lo stesso collaborare. Ora, te hai deciso di proseguire lungo la sua strada, e lo capisco, ma mi da un fastidio tremendo il fatto che rischi la tua vita in maniera tanto stupida, quando tua madre è morta per dare a te un'esistenza migliore. Ha cercato di proteggerti in ogni modo, fin dalla tua nascita. Ricordatelo Mari, ricordatelo sempre.- 
I suoi occhi luccicano mentre dice queste parole.
-Conan, mi dispiace. Hai ragione, non devo rischiare la mia vita, dato che mia madre, e tutti voi vi impegnate tanto per proteggermi. Ti giuro che d'ora e in poi non farò mai più simili cazzate. Te lo giuro!- gli dico, riuscendo finalmente, dopo settimane, a guardarlo negli occhi.






Nota dell'autrice:
Hello! Rieccomi qua con un nuovo capitolo di "Mi hai rovinato la vita.", spero che lo gradiate; ci ho lavorato parecchio. :33

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Capitolo 6
*** Liam mi sta dando la caccia. ***


Dopo che io e Conan ci fummo riappacificati, la situazione nella villa si ridistese, e l'aria tornò a riempirsi delle battute idiote di Doc.
Ma la pace durò per poco. 
Era stata denunciata la scomparsa del killer che avevo ucciso a Holy Cross. Lo scoprimmo una sera, guardando il telegiornale della sera. Era stata la madre a fare la denuncia; William Butler, così si chiamava, sarebbe dovuto andare a festeggiare il suo compleanno nella casa dei genitori, che vivevano in Florida. Ma il ragazzo non aveva chiamato nemmeno una volta per organizzare il viaggio. Sullo schermo apparvero diverse immagini che lo ritraevano sorridente, prima appoggiato ad un muretto, poi a braccetto con una ragazza bionda che gli assomigliava tantissimo. Nella sequeza successiva la stessa ragazza scoppiava a piangere davanti alle telecamere della CNN. Era la sorella. 
Non facevano nessun riferimento a Liam o a me, quindi probabilmente erano anni luce alla risoluzione del caso. 
Doc e Conan avevano nascosto il cadavere in una vecchia cassaforte e lo avevano gettato nell'Hudson il giorno dopo l'omicidio, quindi difficilmente lo avrebbero rinvenuto. 
E tutti noi eravamo preparati a ciò; sapevamo che prima o poi qualcuno si sarebbe accorto della sua scomparsa. 
Eppure vedere il suo volto sullo schermo della TV ci colse un po' tutti alla sprovvista, me per prima. Cominciai ad avere degli incubi, simili a quello che avevo avuto la notte del mio arrivo a Staten Island, dove ogni notte veniva ucciso a turno qualcuno che mi era caro: mia madre, Jen, Doc, Linn, Conan..
 
Si avvicina il giorno del mio trasferimento nel New Jersey. In teoria il mio soggiorno nella villa non doveva durare più di una decina di giorni, ma vari problemi tecnici (non per ultimo l'annuncio della scomparsa di Butler) la data è stata posticipata un bel paio di volte. Dovevamo trovare una barca per il trasporto e, soprattutto, un'albergo adatto alle nostre esigenze. Ieri ne stavo appunto parlando con Doc:
-Perché andiamo in questo albergo?-
-Tuo fratello Liam..-
-Fratellastro.- lo corressi
-.. fratellastro Liam, ti sta dando la caccia. Quindi la scelta dell'albergo è essenziale per nasconderti bene. In molti sceglierebbero un motel da quattro soldi per nascondersi meglio, ma probabilmente Liam ha previsto una mossa banale come questa.-
-Quindi perché non andiamo in un hotel stralusso? Lui non se lo aspetterebbe, no?-
-Invece ci scommetto quel che vuoi che è proprio quello che lui immagina. Per questo abbiamo scelto una via di mezzo tra le due alternative. Di hotel come questi a South Amboy ne è pieno.-
-Perché invece non affittiamo una casa per qualche giorno?-
-Liam ci troverebbe più facilmente. Andrebbe a bussare a tutte le case affittate di recente, fino a scovarci.-
-Quel che non capisco è perché dobbiamo per forza cambiare stato. Tanto tra poche settimane parto per la Francia, o sbaglio?-
-Sempre per colpa di Liam, cara. Ora come ora starà setacciando tutta New York per trovarti, e non è il caso restare in questo stato per così tanto tempo.-
Liam mi vuole morta, non c'è che dire.



Nota dell'autrice:

Lo so.. E' un po' che non pubblico capitoli, e questo è un po' banale.
Ma vi assicuro che il prossimo sarà più curato!
Bacioni,

Neurotic_to_the_Bone

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Capitolo 7
*** Keyport e le sue sorprese. ***


Il sole accarezza l'acqua non proprio limpida della Rantan Bay e dona mille riflessi al grigio metallo del traghetto su cui siamo imbarcati.
Tra una decina di minuti attraccheremo nel porto di Keyport e raggiungeremo un anonimo hotel nel centro della cittadina.
Il contatto con l'aria fresca mi provoca una felicità indescrivibile.
Ogni problema sembra lontano, mandato via dal forte vento che spira sulla baia. 
Sono tranquilla, dubito fortemente che Liam sia tanto sciocco da cercare di attaccarmi in un luogo pubblico, con così tanti testimoni e tutti i membri dell'Unità che mi controllano a vista. Purtroppo non tutti la prendono così alla leggera. Mentre io sono sul pontile a godermi l'aria fresca, Conan è al riparo, sotto coperta, a tediare Jennifer e Linda con la sua ansia e il suo nervosismo.
Negli ultimi giorni non ha fatto altro che ripetermi il piano mille volte in ogni minimo dettaglio, che in fondo può essere facilmente riassunto: abbandonare la villetta di Staten Island, raggiungere con il camioncino le banchine di Tottenville e da lì prendere il traghetto per Keyport, infine sbarcare e arrivare sani e salvi all'albergo. Il tutto ovviamente evitando di dare nell'occhio. 
Conan mi ha riempita di consigli su come comportarmi per il tragitto e il soggiorno nel New Jersey. La cosa alla lunga mi ha infastidita parecchio, ma l'ho lasciato fare perché era talmente teso che poteva esplodere da un momento all'altro, e non volevo provocare l'ennesimo litigio.
Fuori, qui con me, c'è Doc. Capisco perfettamente che è qua per controllarmi, per evitare una nuova fuga (non si fidano di me così in fondo), ma sembra abbastanza contento di sfuggire a Conan.
Mi ha detto che ha l'ordine di tenere d'occhio gli altri passeggeri, quindi si è messo a scrutare con finto piglio investigativo la gente attorno a noi. Condendo il tutto con commenti uno più idiota dell'altro. Sto facendo di tutto per evitare di ridere, ma Doc mi sta rendendo la vita difficile insistendo sul fatto che la donna accanto a noi gli ricorda un elefante marino. 
Meno male che dovevamo evitare di dare nell'occhio.
 
Io che sono abituata agli allegri porti italiani, con i loro baracchini dai mille colori e profumi e la vista meravigliosa in qualsiasi angolo, resto parecchio delusa da Keyport. La cittadina brulica di vita e di turisti, ma a me pare parecchio triste. E' uno strano contrasto con la vicina New York, dove ogni millimetro della costa risplende.
Per lo meno il nostro alberghetto si apre su un panorama accettabile. La mia stanza si trova all'ultimo piano. Jen e Linn si trovano nella stanza in fondo al corridoio, e Doc e Conan stanno nella camera davanti. 
La mia finestra mi offre lo spettacolo della costa costellata dalle mille luci della città e delle barche che dondolano piano sul mare calmo.
Vado a dormire ben dopo mezzanotte, il letto è comodissimo e in un attimo il sonno mi travolge..
 
Il rumore di una porta che si chiude mi strappa dalle docili braccia di Morfeo.
Saranno le due o le tre di notte.
Riappoggio la testa sul cuscino, maledendo i vicini nottambuli.
Ci metto un poco a rendermi conto che qualcosa non va.
Il rumore era troppo vicino per provenire dal corridoio o da una camera vicina.
Era la mia porta.
C'è qualcuno in camera mia.
Riesco appena a formulare il pensiero che la luce si accende con uno schiocco dell'interruttore.
-'Sera, sorellina.-
Mi metto rapidamente a sedere sul letto.
Liam mi guarda, divertito, seduto sulla poltrona accanto alla porta, il gelido sguardo puntato su di me.





Nota dell'autrice:
Beh, non c'è molto da dire in realtà..
Al prossimo capitolo! :))

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Capitolo 8
*** Liam, Conan e la storia della mia vita. ***


Sono pietrificata.
Liam mi guarda trionfale dalla poltrona rossa vicino alla porta.
Ce l'ha fatta. Ha braccato la sua preda.
-Contenta di vedermi? No, ne dubito. Sai perché sono qui, no?-
-Per uccidermi.- dico con un tono tranquillo che è l'esatto contrario di come mi sento in questo momento.
-Si, per ucciderti. Prima, però, devi rispondere ad un paio di mie domande.-
-Fossi in te non perderei tempo, sai? I ragazzi potrebbero arrivare da un momento all'altro, e sai bene che non sono particolarmente pacifici.- gli rispondo proseguendo con lo stesso tono coraggioso. Non voglio dargli la soddisfazione di vedermi tremare.
-I tuoi compagni di merende? Loro non ci disturberanno, stanotte.-
Silenzio.
Che diavolo gli ha fatto quel maledetto bastardo?
-Tranquilla, non gli ho torto un capello, per ora. Vuoi sapere come ho fatto ad entrare? Facile. Ho passato un paio di centoni al portiere dell'hotel. Quelli del New Jersey sono così facili da corrompere!- conclude con una risata sprezzante.
Ritorno a respirare.
Per un attimo ho pensato che avesse fatto del male ai ragazzi.
Finchè non fa del male a loro, posso morire tranquilla.
-Torniamo a noi. Ascoltami attentamente, perché voglio che tu mi risponda il meglio possibile. Come hai incontrato i tuoi amichetti? Come cazzo hai fatto a finire in tutto questo casino?-
 
Come sono finita in tutto questo casino?
Non è una storia breve, nè semplice.
Cominciò tutto il giorno del funerale di mia madre. 
Era stata investita da un'auto, una notte, mentre tornava a casa da una cena con degli amici. Mi chiamarono dall'ospedale, dicendomi che era molto grave e che forse non avrebbe superato la notte, ma che era ancora cosciente. Mi precipitai al pronto soccorso, e le tenni la mano tutta la notte. 
Ricordo come se fosse ieri la sua faccia scorticata dall'asfalto, i tubicini che uscivano dalle sue braccia e tutte le bende, e quell'odore di disinfettante. Faceva fatica ad articolare le frasi, quindi a dire il vero non disse molto, ma ricordo ogni singola parola di quel monologo durato quasi un'intera notte, interrotto solo dai suoi lunghi e affaticati sospiri. Poco prima dell'alba mi strinse forte la mano, e mi chiese di non andare mai alla ricerca di mio padre. Il battito accellerava, l'infermiera mi mandò via e mia madre spirò prima che io riuscissi a risponderle.
Piansi a lungo per lei. Erano anni che aveva perso il vizio del bere, e tutte le sue migliori qualità avevano ripagato gli errori del passato. 
Era una donna forte e dolce, e io le volevo un gran bene.
Il colpevole non fu' individuato, pensavo che fosse uno di quei codardi ubriaconi che prima ti tirano sotto e poi scappano, in Italia ne è pieno.
Quando tornai a casa dopo il funerale, una sorpresa mi attendeva sul divano del salotto. Quella sorpresa si chiamava Jacob Conan e mi fece quasi venire un infarto.
-Chi cazzo sei tu?! Che ci fai in casa mia?!!-
-Sono un vecchio amico di tua madre. Non aver paura, Marina. Siediti qui, ti devo parlare.-
Mi sedetti sul divano, davanti a lui, docile. Qualcosa in lui mi rassicurava, forse quegli occhi verde mela o la calma nella sua voce.
-Lascia che mi presenti. Mi chiamo Jacob Conan, sono un poliziotto di New York. Scusa per l'intrusione, so che per te non è un periodo facile. Conoscevo tua madre da tre anni. Collaboravamo per dare la caccia ad una persona. Tuo padre, Marina.-




Nota dell'autrice:
CAZZO SII.
Finalmente ce l'ho fatta a pubblicare un nuovo capitolo.
Come avrete capito, questo e il seguente sono molto importanti, sono, diciamo, il vero succo della storia.
Spero che vi sia piaciuto, dato che ci ho messo un mese a scriverlo :3

Se avete apprezzato o no, lasciatemi una recensione!
Bacioni,

Neurotic_to_the_Bone

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Capitolo 9
*** Conan. ***


-.. Mio padre?-
-Proprio lui. Non lo hai mai conosciuto, vero? Devi sapere che.. lui.. è un criminale conosciuto a livello internazionale. Si è immischiato in vari traffici non particolarmente puliti. Droga, armi, prostitute.. Sono anni che lavoro a questo caso, con l'aiuto di alcuni colleghi di fiducia. Per la polizia è chiuso, ma noi non ci siamo mai arresi. Quando siamo venuti a conoscienza di quello che è successo a tua madre, ovvero all'incirca tre anni fa, l'abbiamo subito contattata. Lei ovviamente ha deciso subito di collaborare, voleva dare un volto all'uomo che l'aveva fatta soffrire tanto.-
-Come si chiama?- chiesi con un brivido
-Il suo nome italiano è Matteo Zaroga. Da quando la polizia lo cerca, però, ha usato diversi nomi falsi. L'ultimo noto è Paul Flemigan. Vedi.. Io conoscevo personalmente Zaroga. Era un mio collega, oltre che un mio amico. L'ho sempre visto come una persona amante della giustizia.. Evidentemente, non tutti riescono a non cedere alla tentazione offerta dalle vie più semplici..- disse Conan amaramente.
Un silenzio carico di parole non dette attraversò l'aria tra noi due.
-Raccontami tutto.- dissi improvvisamente -Tutto. Voglio sapere tutto quello che sai su di me, su mia madre, e su Matteo Zaroga o Paul Flemigan o come diavolo si chiama.- 
Conan mi fissò negli occhi con un'intensità incredibile, come se volesse scrutare fin dentro la mia anima, ma non disse nulla. 
-Ho il diritto di sapere.- aggiunsi, ricambiando lo stesso sguardo.
-Sei esattamente come tua madre. La stessa forza, la stessa testardaggine.- sorrise -Però non posso raccontarti tutto quello che sappiamo, poichè la maggior parte delle nostre informazioni sono solo congetture, ipotesi non del tutto confermate. Però farò uno sforzo.
Tua madre non ti ha mai raccontato nulla di quello che accadde la sera in cui fosti concepita. Voleva risparmiarti fino a che non avessimo rintracciato Zaroga, fino a che il cerchio non si fosse chiuso. Me lo disse lei stessa. Ma mi sembra inutile, a questo punto, nasconderti il tuo passato. Matteo Zaroga era un agente dell'Interpol di stanza a Milano. Lo conoscevo abbastanza bene, eravamo stati assegnati alla stessa missione, e non era la prima volta che lavoravamo insieme. Eravamo amici, per quanto fosse possibile esserlo in una simile situazione. L'obbiettivo era stanare il capo di una serie di traffici internazionali, e per fare questo Zaroga dovette infiltrarsi nel complesso sistema di favori che costituiva l'organizzazione criminale di cui ci stavamo occupando. Era un uomo intelligente, e dopo un anno e mezzo riuscì nell'intento. Mancava poco ormai al completamento della missione, quando qualcosa cominciò ad andare storto. Ricetrasmittenti che funzionavano male, telefonate senza risposta, richieste sempre più strane. Quando fù evidente la vera natura di questi piccoli problemi, era oramai troppo tardi. Zaroga era stato scoperto da alcuni esponenti dell'organizzazione criminale, che lo avevano minacciato di morte se non avesse iniziato a fare il doppio gioco. Tutti noi saremmo morti piuttosto che accettare una proposta simile, ma lui decise di salvarsi la pelle e tradire il suo distintivo. Dopo un paio di mesi di bugie, Zaroga capì che gli conveniva di più stare dalla parte dei cattivi. Vedendo il suo impegno i suoi capi decisero di premiarlo con una richiesta a sua scelta. Zaroga fece una scelta a dir poco incredibile- e qui Conan non potè fare a meno di inserire una pausa teatrale -disse ai capi che avrebbe violentato una ragazza. Una a caso, quello non importava. Loro avrebbero solo dovuto coprirlo, cancellare le tracce, farlo espatriare in caso di necessità. Il resto te lo lascio immaginare.-
Rimasi letteralmente scioccata dalle parole di Conan. Avevo sempre pensato a mio padre come un maledetto idiota, un fallito in carenza di sesso che aveva assaggiato la violenza per una notte. Oppure, come un ossessivo-compunsivo pieno di rabbia repressa. Tutto, tranne che questo. Una cosa programmata a tavolino da un agente corrotto e un mafioso. Ecco come ero nata.
Visto che non dicevo nulla, Conan mi prese le mani nelle sue, calde e rassicuranti, e mi disse piano: -Non mi perderò in dettagli su quello che accadde quella sera. Fui l'unico a cui tua madre rivelò le atrocità che Zaroga commise, e non tradirò la sua fiducia. Inoltre, dubito che la cosa ti interessi, giusto? Perché, se assomigli davvero a tua madre come immagino, é all'azione, alla vendetta, a cui pensi.-
Era questo che volevo? La vendetta? Riflettei a lungo sulle parole di Conan: vendetta voleva dire la morte di mio padre, di colui che aveva rovinato tante vite. Aveva tradito i suoi princìpi, i suoi amici. Il fascino del crimine lo aveva attirato in modo così irreversibile? Evidentemente, si. In quel momento, un dubbio atroce si affacciò nella mia mente. Una domanda a cui forse il mio interlocutore avrebbe potuto dare una risposta.
-Mia madre è stata uccisa, non è così? Non è stato un incidente, vero?- dissi, piantando i miei occhi in quelli dell'uomo davanti a me. Lo sguardo che mi ricambiò confermò il mio dubbio.
-Di questo siamo più che sicuri. A quanto abbiamo scoperto, Zaroga si è creato una vasta rete di conoscenze non proprio.. pulite, oltreoceano. Pensiamo che l'incidente che ha ucciso tua madre sia stato provocato da uno dei suoi uomini. Come ti ho detto prima, avevamo fatto seri progressi da quando lei aveva cominciato a collaborare. Evidentemente ha avuto la necessità di.. eliminarla.- disse amareggiato.
-Bene, allora hai ragione: è la vendetta, quella che voglio.- dissi gelida. Conan rimase spiazzato dal tono duro con cui dissi quelle parole; la determinazione doveva essere ben leggibile sul mio viso. Mi guardò qualche secondo con una strana curiosità, poi disse, alzandosi dal divano: -Allora prepara le valigie: si parte domattina.-
-Cosa?- dissi io, spiazzata dalla richiesta.
-Se ci abbiamo visto giusto, allora cercheranno di fare fuori anche te. Dobbiamo partire subito, il prima possibile.- spiegò con tono pratico e deciso.
-Perché mio padre mi vuole morta?-
-Il motivo lo conoscerai a tempo debito, Marina.-
-E, soprattutto, per dove partiamo?- chiesi esasperata.
-New York, ragazza mia!- disse trionfale -Io dormirò sul divano, non voglio correre il rischio di lasciarti qui da sola. Ora vai a dormire, domani ci aspetta una giornata impegnativa.-





Nota dell'autrice:
NON MI UCCIDETE PERFAVORE.
Lo so, sono pessima. Sono settimane che non aggiorno la storia e il frutto del mio lavoro fa veramente piangere.
So che questo capitolo fa tanto schifo, ma vi prego ugualmente di recensire.
Tra l'altro, stiamo arrivando alla fine della storia. Mancano al massimo due o tre capitoli. Vi prego di sopportarmi ancora un pochino :3
A presto,

MelodramaticFool_ (si, intanto ho pure cambiato il nickname)

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Capitolo 10
*** Semplice semplice. ***


All'uscita dall'aeroporto l'aria soffocante di New York mi colpì in pieno petto.
Il volo era durato più di dieci ore, ed era stato molto stressante per me, visto che non ero abituata a viaggi tanto lunghi.
In aereo avevo dormito quasi tutto il tempo. Avevo passato l'intera nottata a riflettere sull'entrata in scena di Conan, sulla morte di mia madre e sull'avventura in cui mi ero appena imbarcata.
Nelle ore di veglia, Conan mi aveva chiesto varie cose sulla mia vita.
-Sai che dopo questo viaggio probabilmente non vedrai più i tuoi amici, vero?-
-Lo immagino- dissi sospirando -Ma di amici non ne ho molti, in Italia. Nessuno si accorgerà della mia scomparsa.-
Io, dal canto mio, cercai di togliermi qualche piccola curiosità che mi era sorta nei miei trip mentali notturni.
-Come fai a parlare così bene l'italiano, se sei americano?-
-Sono figlio di un'inglese e di una svizzera, conosco italiano e inglese da quando sono nato. E, se vuoi lavorare per l'Interpol, qualche lingua la devi conoscere. Tu parli bene inglese, devo dire.- dopo una breve pausa di silenzio, aggiunse -Anche Zaroga se la cava bene con le lingue. Mi chiedo quali altre abilità tu abbia ereditato da lui. Hai mai sparato in vita tua?-
La domanda mi colse un po' di sorpresa.
-Non ho mai impugnato un'arma in vita mia.-
-Mi auguro che tu non abbia mai la necessità di farlo.-
 
Usciti dalla porta principale dell'aeroporto, Conan allungò gli occhi alla ricerca di qualcosa. 
Quel qualcosa era parcheggiato a pochi metri da noi. 
Si diresse verso il camioncino bianco con rapidità, io che lo seguivo, lo zaino in spalla e la testa piena di domande. 
Senza una parola, aprì la portiera ed entrò con decisione. 
Il mio ingresso fù accolto da mormorii indistinti e sorrisi a trentadue denti.
-Loro sono i miei collaboratori, Marina.- mi spiegò. Poi disse, rivolto all'autista del veicolo, -Doc, vai.- 
All'esterno il camioncino aveva un'aspetto comune, normale. Ma all'interno era un tutt'uno di monitor, pulsanti, cavi e lucine.
Due donne erano sedute sui sedili sistemati alla bell'e meglio lungo i lati.
Si presentarono rapidamente.
Jennifer Locchi, la più giovane, era un'agente operativo della Narcotici di New York. Bionda e di bassa statura, si era interessata alla "missione" di Conan dopo essersi imbattuta più volte nell'organizzazione di Zaroga. Adesso si divideva tra il lavoro nel suo distretto e quello con i ragazzi.
L'altra, Linda Bucket, era un'ex profiler dell'FBI. Aveva due grandi occhi color nocciola, seri e profondi, che incorniciavano un viso da bambola di porcellana in netto contrasto con il suo carattere forte e deciso. Si era licenziata dal suo precedente impiego dopo alcuni conflitti di interessi con il suo capo, secondo lei troppo impegnato nella sua scalata verso il potere per interessarsi a cose banali come la moralità e i più semplici principi umani.
Doc Grabble, alla guida, era invece un hacker senza scrupoli dall'acceleratore facile, come diceva lui scherzando. Conan lo aveva scoperto mentre curiosava nel database centrale della polizia di New York, e, al posto di denunciarlo, lo aveva assunto come esperto di informatica. Se uno è capace di infiltrarsi in un server così ben protetto, chissà cos'altro è in grado di fare.
Una cosa che mi incuriosì fin dal primo momento era la differenza tra i vari personaggi che componevano quella piccola squadra. Doc e Jen erano allegri, facili alla chiacchera, mentre Lin e Conan erano molto più riflessivi, posati. Le qualità dell'uno equilibravano quello dell'altro.
 
Passammo un mese o poco più a girovagare per tutto il paese alla ricerca di informazioni.
Non ci fermavamo mai in un posto per più di cinque giorni, e dovevamo spesso ricorrere a vari travestimenti per evitare di farci riconoscere. Un giorno mi toccò persino travestirmi da puttana per raccogliere testimonianze di alcune ragazzine coinvolte nei traffici dell'organizzazione di mio padre.
Mio padre.
In quel periodo mi soffermai spesso su quelle due parole così ricche di significato.
Quella semplice espressione indicava un legame affettivo che io non avevo mai avuto l'occasione di assaporare.
Quante notti avevo perso, immaginando di poter un giorno definire qualcuno come Mio Padre.
Adesso, quelle due brevi parole per me non volevano dire nulla.
Mio padre era un maledetto bastardo.
Punto.
 
Dopo un paio di mesi divvene evidente che i ragazzi mi tenevano nascoste molte cose.
Lo capivo dal modo in cui si zittivano quando io entravo in una stanza durante una discussione.
Questo mi turbava moltissimo. Mi sembrava di aver dimostrato loro più e più volte di meritare fiducia.
Presi l'abitudine di frugare nei loro documenti e origliare le loro conversazioni.
Fu' così che scoprii dell'esistenza di Liam.
Una sera, Jen tornò da una lunga missione con una notizia bomba. In quei giorni ci trovavamo in un residence alle porte della cittadina di Erskine. I ragazzi si misero a parlare delle nuove informazioni appena acquisite. Io mi ero nascosta dietro una porta, nell'ombra, e ascoltavo, in silenzio.
-Ho scoperto dove si trova Liam.- esordì Jen.
-Dove?- chiese Conan senza troppi giri di parole.
-Vive in una villa a pochi chilometri da qua, a Ringhood, al 107 di Bear Mountain Road.- 
La notizia doveva essere grossa, a giudicare dai volti dei quattro.
-Dobbiamo dire a Marina di Liam.- asserì Linn.
-Non ne sono sicuro, sai?- disse invece Conan, in disaccordo.
-Ragazzi, è suo fratello. Non sarà una bella cosa spiegarglielo, ma, cavoli, non potremo tenerlo nascosto per sempre.- fece Doc, trovando conferma della sua opinione negli sguardi delle due ragazze. Solo Conan sembrava non essere del tutto convinto.
Mi rifugiai silenziosamente in camera ad assimilare quello che avevo appena scoperto. 
Avevo un fratello.
Liam.
Feci rotolare quel nome tra le labbra.
Liam.
Non mi concessi a lunghe riflessioni.
Avevo già deciso cosa fare.
Dovevo andare là, subito.
Presi lo zaino, una ventina di dollari e la giacca.
Alle due di notte ero fuori dal residence.
Passeggiai lungo la via, il braccio disteso e il pollice verso l'alto.
 
-Da qui in poi la storia mi è più o meno chiara.- mi interrompe Liam -Apparvi una notte davanti alla mia villa. Non sapevi che ero un maledetto farabutto, vero?- ridacchia -Non credevo nemmeno che fossi veramente una mia sorellastra, all'inizio. Poi notai la somiglianza con quella puttana di tua madre, e tutto mi fù più chiaro.-
-Mia madre non era una puttana.- dico gelida. 
La durezza del mio tono di voce lo fa sogghignare ancora di più.
-Comunque, mi stupisco ancora del modo in cui tu sia riuscita a sfuggirmi, durante quel nostro primo incontro. I tuoi amici sono coraggiosi.- Questo commento mi fa infuriare ancora di più. Quella notte Liam era quasi riuscito a farmi ammazzare, ma i ragazzi sono riusciti ad intervenire in tempo, salvandomi la pelle. Mi brucia ancora, a pensarci. Lui continua.
-Quello che non capisco è cosa ti abbia spinta ad andare nella vecchia casa di nostro padre.-
-Eravamo all'aeroporto, stavo per partire. All'imbarco, ho sentito i ragazzi che discutevano a proposito di una perquisizione della casa, programmata per dopo la mia partenza. Sono fuggita e ho raggiunto l'appartamento, e lì ho capito che Zaroga era morto. Ho preso la sua pistola da un cassetto della scrivania e..-
-Sei andata nel cimitero dove era stato sepolto.- conclude Liam -La lapide, per la cronaca, l'ho scelta io.-
-Molto interessante.-
-Nostro padre mi ha dato tutto: ho fatto tesoro dei suoi racconti, della sua esperienza. E' grazie a lui che la nostra società ha fondamenta così solide. Ho pianto, al suo funerale.-
Mi confida queste cose con un'orgoglio che mi fà letteralmente infuriare.
E' pazzo, penso, pazzo fino al midollo.
Pensare che questo ragazzo dallo sguardo folle ha ordinato l'assassinio di mia madre accende la miccia dentro di me.
Esplodo.
-Matteo Zaroga era un figlio di puttana. Non è nostro padre. E' tuo padre. E tu sei pazzo.- dico con coraggio estremo, gli occhi piantati in quelli del mio fratellastro. Vedo la rabbia montare dentro di lui.
Con un movimento rapido e deciso estraggo la pistola da sotto il cuscino.
Lui fa appena in tempo ad accorgersene.
Lo sparo risuona nella notte.
Un unico colpo, preciso, in mezzo alla fronte.
Semplice semplice, eppure complicato.




Nota dell'autrice:
Eccomi.
Spero di aver messo a tacere molti degli interrogativi che erano sorti nei precedenti capitoli.
E, sicuramente, ne ho accesi altri, uno, in particolare.
Il prossimo capitolo sarà quello finale, l'epilogo.
A presto,

MelodramaticFool_
 

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Capitolo 11
*** Epilogo. ***


 
Parigi è bella, come sempre.
Una leggera foschia aleggia nelle vie strette della capitale, e un fresco sapore di montagna mi riempie i polmoni.
-Fa freddo oggi.- osserva il cameriere baffuto davanti a me mentre porta via la tazzina vuota.
-Decisamente.- asserisco io, stringendomi ancor di più nel mio cappotto grigio.
-Nient'altro..?- mi chiede, con il suo tipico accento parigino.
-No, grazie.- gli rispondo sorridendo -Sto aspettando un paio di amici.-
Resto a fissare qualche secondo la sua schiena mentre scompare all'interno del locale. Il mio sguardo si perde in alto, verso le nuvole grigiobianche che ricoprono il cielo sopra di me.
Sono seduta ad un tavolino di un bar sperduto in quel labirinto di viette che circondano l'area attorno al centro storico.
Se giri l'angolo, in fondo a sinistra, ti trovi davanti la Tour Eiffel, in tutta la sua ferrosa maestosità.
Ho detto ai ragazzi di presentarsi per le tre e mezzo, ma sono oramai le tre e quaranta e ancora non si sono fatti vivi. 
Vivo qui in Francia da diversi tempo e non li vedo dal giorno della mia partenza, all'aeroporto di New York, cinque anni fa. L'unico a prendersi la briga di accompagnarmi nel viaggio in aereo fù Conan, che all'arrivo mi salutò con un semplice saluto con la mano, da lontano, prima di scomparire dalla mia vista e prendere il volo di ritorno. Non ci siamo più visti, non perché adesso mi odiano o chissà cosa, semplicemente per una questione di mia sicurezza; numerosi viaggi in Europa rischiavano di attirare l'attenzione dei simpatici amichetti di Liam.
Tante cose sono cambiate. 
A cominciare dal mio nome. 
I ragazzi mi hanno costruito un'identità fittizia, un'infanzia che non mi è mai appartenuta e un aspetto ben differente dal mio originario. Addio per sempre alla vecchia Marina dai capelli lunghi e chiari. Adesso sono René Devol, originaria della Svizzera Francese, dai capelli corvini tenuti ordinatamente in un caschetto. L'unico vezzo che mi sono concessa è stato quello delle lenti colorate. Non riuscivo a svegliarmi ogni mattina e guardare allo specchio il riflesso dei miei occhi verdi, così simili a quelli di Liam. Renè Devol ha due grandi occhi azzurri, come quelli di mia madre. Quello sguardo che mi ha accompagnata per tutta l'infanzia, e il cui ricordo mi ha aiutata ad andare avanti tutto questo tempo.
Ogni tanto sento la mancanza della mia madrepatria. La Francia, però, mi piace. E' insieme diversa e molto simile all'Italia. C'è la stessa passione per la buona cucina che tanto mi era mancata durante il mio soggiorno in America (il cibo statunitense fa veramente schifo), e le persone sono dotate anche qui di un certo umorismo, forse più sottile rispetto a quello italiano. C'è la stessa cura per l'arte, e qui a Parigi si vive bene. Come mi disse Conan anni fa, ho ereditato l'abilità di Zaroga per le lingue; parlare il francese non è mai stato un problema, lo avevo studiato pure al liceo e avevo il massimo dei voti. Per i pochi amici e conoscenti che adesso si staranno chiedendo dove diavolo sono finita, nel cimitero del mio paesino d'origine c'è una lapide con il mio nome, che sovrasta una bara di legno accuratamente vuota. Il funerale è stato celebrato poco dopo la mia scomparsa, ci sono andati solo una decina di vecchi conoscenti di famiglia. Tutti mi credono morta, adesso.

Mi soffermo spesso a pensare alle sconsiderate avventure della mia vita precedente. 
Alle volte i ricordi spuntano all'improvviso, durante le mie giornate. Gli occhi di Conan, la voce di Linn, la risata argentina di Doc. 
Alle volte mi sembrava di riconoscere uno di loro in mezzo alla strada, prima di rendermi conto di salutare un perfetto sconosciuto.
In certi casi i miei ricordi sono limpidi, come se tutto fosse successo appena il giorno prima. Vedo una prostituta e sorrido, pensando a una serata passata con Doc, in un circolo, lui che faceva il pappone ed io che interpretavo il ruolo della sua protetta. E' stato maledettamente divertente, anche se pericoloso.
In altri casi, invece, sono sfocati, sfuggevoli, mi scivolano via dalle mani come acqua.
Uno di questi è il ricordo della notte in cui ho ucciso Liam.
Ho ben impresso in mente il lungo racconto che gli propinai, ma mi sfugge il motivo per cui gli raccontai così tanto della mia vita, delle mie emozioni. Ci penso spesso, ma non riesco ad arrivare ad alcuna conclusione soddisfacente. Sempre che lo avessi davvero avuto, un vero motivo. Il punto è che, in quel lungo monologo da me intrattenuto, non spiegai i fatti tanto quanto le emozioni, le mie sensazioni, nell'incontrare per la prima volta Conan, nello scoprire dell'esistenza di un fratellastro, nell'essere frustrata perché i ragazzi mi nascondevano molte cose. Forse il mio subconscio mi diceva di tenere banco, per guadagnare tempo, o forse il sottile legame di sangue che avevamo in comune si era fatto sentire proprio in quegli attimi, spingendomi a raccontagli della mia vita in modo così profondo.
Un'altra immagine impressa orridamente nei meadri del mio cervello, come una fotografia, sono i suoi occhi quando tirai fuori la pistola, quando sparai quell'unico colpo preciso in mezzo alla sua fronte, quando capì che per lui era innegabilmente finita. Il suoi occhi verdi mi guardarono prima con sorpresa, poi con terrore, e infine, con rassegnazione, semplice e volgare rassegnazione. Mi stupì più di qualsiasi cosa, quella rassegnazione, perché Liam non era il tipo da arrendersi, da lasciarsi andare al suo destino. Lui combatteva, era esattamente come me, un guerriero. L'evidenza della fine, della morte più che prossima, con tutto quello che comportava, aveva ribaltato il suo carattere in quell'atto finale. Ciao ciao, Liam.
Di tutto quello che successe dopo, non ricordo granché, a dire il vero. Subito dopo lo sparo Conan apparve nella stanza sfondando la porta. Scoppiai quasi a ridere nel vedere la sua faccia contorcersi nella sorpresa, appena notò l'anomala presenza di un cadavere sulla poltrona della mia camera da letto. Subito dopo ci raggiunsero anche gli altri, ancor più stupefatti. Jen e Doc mi inondarono di domande, prima tra tutte Perché hai una pistola?, finché Linn non li fece desistere, dicendo loro che ero in stato di shock e che potevo avere un accesso di rabbia violenta e che ci sarebbe stato un tempo per avere le risposte ai numerosi interrogativi in quella faccenda.
E prima ancora di riuscire a dire Bah mi ritrovai sul diretto per Parigi, con Conan accanto a me che mi teneva la mano con fare paterno, e che sussurrava un nome, nel sonno, un nome che riuscii a malapena a cogliere, tanto era distorto dalla voce sonnolenta di Jacob Conan, un nome che mi fece sobbalzare e che mi fece capire tutto quanto.
Il nome di mia madre, sussurrato nel sonno seguito dalle due magiche paroline "Ti Amo".
Tutto mi fù chiaro, il perché Conan mi avesse contattata, mesi prima, e il disprezzo che metteva ogni volta nel parlare di Zaroga.
Tutto chiaro, finalmente, nella mia mente, come un'equazione dalle troppe incognite, la cui ultima mi era stata appena rivelata.

Mi sono chiesta, più di una volta, come Conan abbia spiagato ai ragazzi di essere stato lui a darmi quella pistola.
Prima di salire sul traghetto per Keyport, mi prese da parte, mi infilò un sacchetto di carta in tasca e mi sussurrò nell'orecchio: -Spero che tu non debba mai usarla.-, dirigendosi poi verso l'imbarcazione e lasciandomi sul molo inebetita.
E io tenni le mani in tasca durante tutto il viaggio, preoccupata e al tempo stesso esaltata dall'avere con me una pistola e pure il permesso di usarla. In camera, da sola, la rigirai più volte tra le mani, in soggezione. Carica, otto proiettili in canna. Prima di andare a dormire sfilai la sicura e la misi sotto il cuscino, schiacciata contro la testata del letto. E durante tutto il mio colloquio con Liam pensai a come tirarla fuori con la massima rapidità possibile, per sparargli quel benedetto colpo in testa che avrebbe messo la parola fine a tutti i miei problemi.
 
Persa in queste mie elocubrazioni, in queste funamboliche contorsioni tra un ricordo e l'altro, quasi non mi accorgo delle quattro figure apparse 
nella stretta via che ora indicano il bar dove mi sono appostata. Mi raggiungono.
-Ciao, René.- mi saluta Doc, sottolineando accuratamente la parola René con un sorrisetto.
Si è fatto crescere un pizzetto rado ed è dimagrito.
Per il resto non sono cambiati molto.
Sorrido.
Questo potrebbe essere un buon epilogo.




Nota dell'autrice:
Finisce così l'avventura di Marina, una ragazza che moriva dalla voglia di sapere chi fosse suo padre e che, per ironia della sorte, è quasi morta per questo.
E' la prima volta che finisco un'intera storia e non so bene cosa dire.
Volevo per prima cosa ringraziare 
The Edge per aver letto e recensito con ostinazione tutti i maledetti capitoli. Grazie, Nao, è anche grazie a te che sono riuscita a proseguire. Grazie mille anche a WestboundSign_ per avermi sopportata tutte le volte che dicevo di fare schifo e di essere negata a scrivere :3
Un piccolo saluto anche a una certa Saracca, che nonostante non ami più di tanto leggere, ogni volta che pubblico qualcosa lo legge con piacere. Grazie, veramente! Grazie anche a tutti voi lettori nascosti e a tutti i miei amici che ho costretto a leggere la storia, tra cui G. e M., che mi sa sono pure rimasti indietro con la pubblicazione, teheheh.
Che dire d'altro?
Mi mancherà tantissimo questa storia. E' nata così, per caso, quasi per gioco; ci sono stati dei momenti in cui l'ho odiata perché non riuscivo ad andare avanti, ma alla fine, ogni volta che partivo in quarta a scrivere, provavo sempre un immenso piacere.
Grazie, grazie a tutti voi lettori!
A presto con una nuova storia,
Vostra,
MelodramaticFool_

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