Look into my eyes if you can't remember

di _myhappyending
(/viewuser.php?uid=200131)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** If you get lost you can always be found. ***
Capitolo 3: *** This is how you remind me ***
Capitolo 4: *** If I forgot who I am... ***
Capitolo 5: *** Life is all about moments of impact ***
Capitolo 6: *** Another first time. ***
Capitolo 7: *** So what about a training? ***
Capitolo 8: *** Long live the Queen ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Partiamo dal presupposto che non so da dove mi sia venuta in mente, LOL, ma dopo la 5x13 sono davvero caduta in depressione e non ne esco più.
Ecco, qui posso finalmente sfogare la mia frustazione e vi racconto come vedrei io un ritorno di Artù, includendo nel mezzo un nuovo - e a mio parere meraviglioso - personaggio.

----------------------------------------

Prologo.

 
Ginevra tossì di nuovo. La sua mano passò sul petto come per placarlo mentre, con tutto il rigore che una regina può avere, teneva la schiena dritta e ascoltava con fare attento l’uomo di fronte a lei. Era un uomo sulla cinquantina, trasandato e sporco, che era stato trovato dalle guardie nel bosco mentre praticava la magia.
«Per favore». Pronunciò l’uomo, con le ginocchia e i palmi premuti per terra. «Ho una famiglia, dei bambini. Non facevo nulla di male se non lasciar crescere del frumento per sfamarci. Vi prego, mia regina, non condannatemi!».
In quel momento – come in ogni istante da quando era morto Artù – Ginevra si voltò automaticamente verso la sedia rossa al suo fianco. La delusione che traspariva dai suoi occhi ogni volta che la vedeva irrimediabilmente vuota fece rabbrividire per un attimo tutti i presenti in sala.
Uno in particolare, sempre al fianco della regina da cinque lunghi anni, abbassò gli occhi verso la muratura del pavimento. Chiunque incontrasse Merlino per i corridoi del castello, raccontava di non aver più visto un sorriso da cinque anni, ovvero dalla morte di Artù. Il suo sguardo da giovane indifeso si era trasformato in uno più maturo e esperto, triste, come se avesse vissuto già dieci vite. Lo sguardo di chi porta sulle spalle il peso di un fardello enorme, dicevano in molti. Eppure è un semplice servo, continuavano altri. È al servizio della regina solo perché era il servo del re, interrompevano alcuni.
E Merlino le udiva tutte, quelle sentenze, ma continuava a camminare per i corridoi con lo sguardo dritto di fronte a sé, spento e vuoto.
 «Merlino?». La regina si voltò verso il ragazzo, desiderosa di un consiglio. Nessuno ancora sapeva l’identità di Merlino, avevano concordato insieme di mantenere il segreto.
«Non è un atto per il quale venir condannati, mia signora. Opterei per l’indulgenza.» Tutti in sala si chiedevano come mai la regina chiedesse ogni volta consiglio a quel povero servitore. In realtà, Ginevra sapeva benissimo che Merlino l’avrebbe consigliata secondo i dettami di Artù. Chiedendo consiglio a Merlino, Ginevra non avrebbe mai sbagliato.
Un altro colpo di tosse interruppe la regina, e Gaius fece istintivamente un passo avanti. Da pochi giorni, le era stata diagnosticata la polmonite.
«Ti diamo una possibilità, buon uomo. La magia a Camelot non è tollerata, ma se le tue condizioni sono così disperate, possiamo garantirti l’indulgenza. Ma, se sarai trovato di nuovo a praticare la magia, verrai giustiziato.»
L’uomo si inchinò più volte, ringraziando ad alta voce la regina. Tutti rimasero a bocca aperta: re Uther l’avrebbe fatto bruciare sul rogo. Ma dopo tutto ciò che aveva fatto Merlino per Camelot, Ginevra non si sentiva in grado di condannare qualsiasi tipo di magia.
Le guardie tirarono su l’uomo e lo trascinarono fuori dalla sala. Merlino li seguì, Ginevra gli aveva dato l’ordine di scoprire se le sue intenzioni fossero buone, se la sua fosse la verità.
«Me ne occupo io» disse ai due uomini, e le due guardie si guardarono come a chiedersi se fosse matto. «Per ordine della regina» e subito lasciarono l’uomo, poco convinti se ne andarono.
Merlino indicò con un cenno della testa la strada da percorrere, ed entrambi cominciarono a camminare per il lungo corridoio che portava all’uscita del castello. «Dove abiti?» domandò Merlino, senza guardarlo. L’uomo non rispose. «Mi hai sentito?» Merlino si fermò e si girò. L’uomo era ancora dietro di lui, ma lo guardava con uno sguardo un po’ divertito, quasi inquietante. «Qual è il tuo nome?»
«Edgar, mio signore» rispose, finalmente.
«Mio signore..?» Merlino lo guardò confuso.
«O dovrei chiamarti Emrys?» a quel punto, lo sguardo dell’uomo divenne serio e spento. Afferrò il braccio di Merlino e se lo spinse addosso, affinché potessero essere faccia a faccia. «La tua vita, Emrys, è una profezia dopo l’altra»
«Che cosa vuoi? Chi sei?» Merlino non si fece intimorire, sorreggeva il suo sguardo esattamente come un mago del suo calibro doveva fare.
«Trovala, Emrys»
«Chi devo trovare?»
«Di mito è il suo nome, oro colato i suoi capelli, le onde del mare negli occhi.
Nobile cuore del più valoroso cavaliere le è stato dato, animo coraggioso e puro.
Trovala, Emrys, e ti porterà al tuo completo destino.
Ma attento, la sua persona è la tua gioia e la tua pena. Solo lei, però, può portarti al tuo re, solo lei è la chiave perché il solo e futuro re rinasca. Ascolta le mie parole, Emrys.»

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** If you get lost you can always be found. ***


Chapter 1.
If you get lost you can always be found.

 
Altri cinque anni erano passati dalla morte di Artù e Merlino non aveva dimenticato le parole dell’uomo. Aveva già sentito una simile profezia dal drago, quando lo aveva avvertito di togliere di mezzo Morgana. Stavolta non se lo sarebbe fatto ripetere due volte, non avrebbe rischiato di nuovo di far cadere il regno in mani sbagliate.
Perché era così che si sentiva Merlino, ogni giorno della sua vita. In colpa. Si svegliava la mattina con fare triste, preparava la colazione a un Gaius ormai fin troppo vecchio, si dirigeva nelle camere di Artù e vedeva la regina malata dormire da sola, a volte anche piangendo, e pensava solamente “Se avessi fatto…  Artù sarebbe ancora qui”, “Se avessi potuto…  Artù sarebbe ancora vivo”, “Se fossi stato in grado di…  Artù vivrebbe ancora”.
Aveva girato in lungo e in largo tutto il regno di Camelot, la cittadella e la periferia, senza incontrare nessuna donna che corrispondesse all’indicazione del profeta. Ogni tanto cedeva, si demoralizzava, ma poi osservava Ginevra distrutta dalla polmonite. Che cosa sarebbe successo se fosse morta senza eredi? Camelot sarebbe stata in pericolo.
E poi, quell’uomo aveva detto “solo lei è la chiave perché il solo e futuro re rinasca”. Artù sarebbe rinato, Artù sarebbe tornato a Camelot, non importava quanto Merlino avrebbe dovuto cercare. Per sempre, anche.
 

- - - -

 
Aveva appena finito di piovere sulla strada che giungeva verso Camelot. Il sentiero era diventato scosceso, instabile e fangoso. Le foglie bagnate si attaccavano agli stivali della giovane donna bionda che si apprestava a raggiungere il regno, mentre un pungente odore di muschio le pizzicava il naso all’insù.
Teneva per le briglie un cavallo magro, nero, rubato da un allevamento poco distante poiché troppo stanca per continuare il viaggio a piedi.
La prossima volta viene a prendermi lui, se proprio vuole fare il bravo padre e tenermi con sé. Pensò sborbottando. Medea, questo era il suo nome, era una giovane donna di venti anni, capelli color paglia e occhi color del mare. Era rimasta orfana di madre da poco, e suo padre Roland, fabbro famoso del regno di Camelot, le aveva inviato una lettera in cui le ordinava di andare a vivere con lui, poiché troppo giovane per sostentarsi da sola.
Non ero troppo piccola quando invece ci hai lasciate da sole, vero? Aveva pensato subito dopo aver stracciato la lettera.
Ed eccola lì, tre giorni dopo, in viaggio verso la famosa cittadina. Aveva sentito tante storie su quel regno glorioso, che fin dagli antipodi era stato uno dei più forti e valorosi dei Cinque Regni.
Ma aveva anche sentito storie paurose su quel re cattivo che aveva ucciso in massa streghe, druidi e qualsiasi altra creatura magica. Le voci di tale brutalità erano arrivate fino ai villaggi più lontani, ma la tradizione orale comportava sempre l’aggiunta di qualche leggenda non sempre fondata.
Poi, dalle storie di re Uther, si era passati alle storie di re Artù, completamente diverse da quelle del padre. Chiunque avesse avuto l’onore di parlargli, ne aveva il ricordo di un uomo buono, un re giusto e pacifico, coraggioso e leale, disposto a morire per il suo regno più e più volte.
Pareva fosse morto dieci anni prima a causa di una terribile guerra a Camlann, dove aveva dimostrato il suo valore, il suo coraggio, ed era morto con onore, aveva vinto la sua guerra per Camelot, per far risplendere il suo regno.
Medea non ci credeva molto, a queste cose. Nel villaggio dove abitava, la gente era sempre prepotente, i cavalieri del re saccheggiavano le case, stupravano le donne. Non era possibile, per la concezione di cavaliere nella sua mente, che uno di loro potesse essere così valoroso.
Giunse all’inizio di un lago grande, al cui centro, in lontananza, si poteva scorgere un’isola. Tutt’intorno, la nebbiolina e la mancanza di sole pitturavano tutto di grigiastro. «Ci riposiamo, Lyon?» Aveva dato a quel cavallo anche un nome, solo per ringraziarlo del trasporto senza cibo.
Per farlo riposare, tirò giù i sacchi dalla schiena del cavallo e li posò sotto un albero, legò le briglie allo stesso tronco e poi si avvicinò al lago. L’acqua era cristallina, limpida. Mettendo le mani a coppetta, prese un po’ d’acqua e si bagnò il viso, rinfrescandosi. Si chiedeva come sarebbe stata la sua nuova vita a Camelot, cosa avrebbe fatto? La sua vita sarebbe stata monotona, ma se proprio i cavalieri erano così nobili come si narrava, allora almeno avrebbe potuto camminare per le strade senza preoccuparsi di esser rapita.
Sorrise a quel pensiero, ma mentre si tirava su, venne distratta da un mugolio. Sembrava un lamento, una richiesta di aiuto. Si guardò in giro velocemente e si accorse di un uomo sdraiato per terra, metà corpo nell’acqua, metà fuori. Medea corse verso di lui, lo fece voltare e si accorse di una ferita sul fianco. L’uomo non parlava, ma era completamente bagnato. Di fronte a lui, a qualche metro di distanza, vi era una specie di barca. Aveva viaggiato per mare e si era ferito? «Signore, mi sentite?»
Il ragazzo aprì gli occhi azzurri e guardò quelli di Medea, indicando con il dito la sua gola. «A.. Acqua..» sussurrò. Medea prese la sua borraccia e fece bere il ragazzo. Non sapeva cosa fare per la ferita, così provò a toccarla con la mano, ma, stranamente, si accorse che non c’era ferita. La pelle sotto la ferraglia era intatta, ma la retina era strappata e sanguinante, doveva essersi rimarginata, forse. «Signore, come vi sentite?»
«Do.. Dove sono?» domandò, tirandosi su con il busto. Sembrava confuso, e si toccò i capelli biondi per spostarli dal viso.
«Siamo quasi arrivati a Camelot, mio signore». Rispose lei, in rispetto all’armatura che portava. Bene, un cavaliere. Pensò, ironicamente.
«E tu chi sei?»
«Medea, mio signore»
«E io… Io chi sono?»
Medea sussultò un attimo e corrugò la fronte, alzando poi gli occhi al cielo. Bene, ci mancava anche questa. 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** This is how you remind me ***


Sono veramente contenta delle recensioni positive della storia, nonostante almeno agli inizi i capitoli saranno un po' così, corti e sintetici. Tutti aspettano la parte in cui Merlino e Artù si rincontrano, ci sarà tempo per far venir fuori storia e carattere di Medea e a cosa serve la sua comparsa!
Un bacio **

----

Chapter 2.
This is how you remind me.

 
Viaggiavano l’uno affianco all’altra, col cavallo che portava i sacchi con un po’ di fatica. «Non ricordate proprio nulla?»
«No, niente» rispose il giovane.
«Nemmeno il vostro nome?»
«Nemmeno»
Medea sospirò, osservando il modo impacciato con cui il ragazzo camminava con l’armatura. «Non riconosci nemmeno lo stemma sul mantello?»
«No» rispose, guardando il drago dorato sullo sfondo rosso. «Posso toglierlo? È ingombrante»
«Non dovete chiedermi il permesso» Medea sorrise, scuotendo la testa. Si voltò verso il cavallo e prese un sacco vuoto, porgendolo al giovane.
Lui cominciò prima a togliere il mantello, ma non sapeva proprio come fare. Ci riuscì dopo molteplici tentativi, poi tolse l’armatura dalle spalle e mise tutto nel sacco.
Rimase con la retina addosso, e si accorse anche lui dello strappo insanguinato su di essa. «Sono ferito?»
«A quanto pare lo eravate, ma deve esser guarita. Chissà da quanto tempo siete lì, svenuto»
«Vi ringrazio, allora»
Medea alzò un sopracciglio, era la prima volta che qualcuno le dava del ‘voi’. «Certo. Va bene, siamo quasi arrivati alle porte di Camelot»
«Camelot?» domandò il biondo, sentendo un brivido lungo la schiena.
«Mio padre abita lì» rispose lei. «Non lo vedo da tanto, ci vado solo perché mia madre è morta»
Il giovane ragazzo la guardò un attimo, non sapendo bene cosa fare. Era molto confuso, lo si leggeva in faccia, specialmente perché Medea non lo guardava mai in viso e lui non sapeva cosa dire, si sentiva un po’ un peso in realtà. «Perché mi porti con te?»
Medea ci pensò un attimo su, e per un attimo i suoi occhi incontrarono quelli del biondo. Azzurro cielo contro azzurro mare. Nonostante Medea non si fidasse per niente dei cavalieri –men che meno di quello di fronte a lei – non poteva non ammettere che in quegli occhi non vedeva proprio nulla di cattivo, se non un ragazzo spaesato, solo e triste. Chissà come ci si doveva sentire a guardarsi allo specchio senza sapere chi è la persona di fronte a te. «Vuoi che ti lasci qui?»
«No, no!» il biondo subito deglutì al pensiero di rimanere lì, da solo, al buio.
«Bene, allora possiamo riposarci qui per la notte. Domani ripartiremo»
«Qui?» Chiese lui, osservandosi intorno. Erano, forse, nel bel mezzo di un bosco, al buio. Era pieno di alberi, non c’era un posto al riparo e faceva anche freddo.
«Si, signorina, qui» lo schernì Medea, scuotendo la testa. Tirò fuori dai sacchi due coperte pesanti, una la sistemò per terra e l’altra la lanciò al ragazzo. «Sdraiati e copriti» ordinò, e poi si sedette su un masso poco distante, affondando la punta della spada nella terra bagnata.
Il ragazzo la guardò confuso. «E tu non dormi?»
«Rimango a fare la guardia» Rispose, guardando di fronte a lei. «So brandire la spada meglio di quanto tu possa lontanamente ricordare di poter fare»
 
Era notte fonda quando i due ragazzi giunsero a Camelot. Non avevano dormito per più di tre ore, faceva troppo freddo per rimanere fermi nella stessa posizione.
Per le strade non vi era anima viva e si udivano solo i passi ritmati delle sentinelle in lontananza.
Medea seguì le indicazioni inviatele dal padre nella lettera. Doveva arrivare alla taverna, svoltare a sinistra e proseguire per tre case. La quarta casa era la sua.
Superò la taverna piena di uomini che ridevano e bevevano a quell’ora della notte, girò a sinistra e  oltrepassò  le tre case. «Deve essere quella» la indicò.
Il biondo annuì e cominciò a camminare verso quella direzione. Era una casa modesta, piccola, proprio tipica di un fabbro.
Medea bussò alla porta e subito dallo spiraglio trasparì un raggio di luce, probabilmente della candela che si avvicinava insieme al padre per aprire.
Quando la porta si aprì, apparì un uomo alto, muscoloso e moro. Il biondo guardò Medea, chiedendosi come fosse possibile anche lontanamente che quei due fossero parenti.
«Padre» il tono di Medea era freddo, era molto rancorosa nei suoi confronti.
«Ciao, figliola» aprì di più la porta e lasciò entrare la figlia, senza quasi notare il giovane dietro di loro che li seguiva. «E’ stato un viaggio faticoso?» l’imbarazzo nel tono di voce di uomo era palese, in fondo aveva abbandonato lei e la madre molto tempo prima.
«Se avessi avuto un cavallo normale sarebbe stato meno… avventuroso, ecco» Medea si prese del tempo per guardarsi attorno. La casa era semplice, distinta da colori chiari, un paio di porte che nascondevano altre stanze, un tavolo vecchio al centro e alcune piccole finestre.
«Mi dispiace, ho avuto molto da fare, non potevo proprio chiedere un giorno per venire a prenderti. Ma ho preparato la tua stanza, è dietro quella porta. Se sei stan…» un tonfo sordo interruppe la chiacchierata.
Al biondo dietro di loro, ancora in silenzio fino a quel momento, erano caduti i sacchi che, molto gentilmente, si era offerto di portare per Medea mentre, durante il viaggio, Lyon aveva esalato l’ultimo respiro. «Oh, ehm… Scusate»
Roland sgranò gli occhi e la sua bocca formò una O perfetta. Boccheggiò come un pesce, rivolto alla figlia, e fece dei passi indietro fino a che non arrivò a scontrarsi col tavolo. Lo stupore sul suo viso era palese, tanto da far spaventare un po’ Medea. «C… Come è… Come è mai possibile…»
«Cosa?» Medea fece un passo verso il ragazzo, come per cercare di capire lo stupore del padre.
«Com… No. Devo… Devo avere le allucinazioni, per forza»
«Padre?»
«Medea, è solo che il tuo amico è molto simile a… Al re Artù»
Medea alzò un sopracciglio, scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo. Quel ragazzo, re Artù? Il favoloso re Artù di cui aveva sentito parlare con gloria e onore e che, tra l’altro, era morto?
Se avesse potuto avrebbe volentieri cancellato quel legame di parentela. «Padre, seriamente, sono stanca. Credo che andrò a dormire» tirò fuori il mantello dal sacco del giovane e glielo porse. «Dormi per terra. Copriti con questo, adesso ti prendo un’altra coperta»
«Med… Medea?»
«Sì, padre?» aveva di nuovo quell’espressione sbalordita, impressionata, come se avesse visto un fantasma.
«Quello è lo stemma dei cavalieri di Camelot. Quello è Artù. Quello è il re».

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** If I forgot who I am... ***


Adoro adoro adoro il fatto che la FF vi piaccia e che siate impazienti di leggere! E io sono impaziente di farvela leggere!
Il personaggio di Medea verrà descritto meglio in futuro, per adesso vi lascio con un mio fotomontaggio, per farvi vedere com'è nella mia testa la bella Medea:

 





 
Chapter 3.
If I forgot who I am, would you please remind me?
 

Nessuno dei tre aveva dormito decentemente, quella notte. Tante domande affollavano la mente di Medea e di Artù stesso. Come aveva fatto a perdere la memoria? Lui era il re, cosa era successo?
A Medea era stato raccontato che il servo fedele di Artù l’aveva visto morire, aveva perso la vita tra le sue braccia, ma perché in quel momento era lì, vivo e vegeto? E soprattutto, a chi doveva dirlo?
Avrebbe dovuto chiedere udienza alla regina, avrebbe portato con sé Artù.
Roland, invece, aveva paura che accusassero la figlia di stregoneria. Se il servitore di Artù l’aveva visto morire, allora qualcuno l’aveva fatto tornare. Artù invece ricordava solamente di essersi svegliato su una barca, si era trascinato fino alla riva e lì era rimasto fino a quanto Medea non l’aveva trovato.
«Devo parlare con la regina» iniziò Medea, sospirando. Sentiva di doverlo fare non solo per quel ragazzo che non sapeva più chi fosse guardandosi allo specchio, ma anche per restituire a Camelot il re che aveva perduto.
«Non farlo, ti accuseranno» Roland, seduto a capotavola, non era d’accordo con le intenzioni della figlia. Non voleva essere sgarbato nei confronti del re, ma non voleva perdere di certo Medea.
La ragazza, di tutta risposta, gli lanciò uno sguardo truce. «Se anche fosse, padre, la regina dovrebbe essermi riconoscente di averle riportato indietro il marito»
«E dopo ti taglierà la testa!»
«O mi ergerà una statua!»
«Non lo farà!»
Cominciarono ad urlare l’uno sull’altra per parecchi minuti, con Artù di fronte a loro che, a capo chino, stringeva la mascella e sopportava il doloroso mal di testa. Era confuso, si sentiva inutile e vulnerabile. Non ricordava nulla, non sapeva nemmeno se quello fosse il suo vero nome.
Da un giorno all’altro si era ritrovato dall’essere nessuno all’essere il re di Camelot, che lui non ricordava nemmeno dove si trovasse.
Cosa avrebbe fatto se lui fosse stato davvero il re di Camelot? Con quale coraggio sarebbe ritornato dalla donna che lui avrebbe dovuto amare, ma non amava? Non sapeva nemmeno che aspetto avesse, questa regina. Avrebbe deluso lei, le aspettative che tutti avevano riguardo la sua persona. Era una responsabilità troppo grande che quell’ingenuo Artù non era in grado di farsi carico.
Lentamente si alzò dalla sedia, placando di poco e quasi per nulla le urla dei due tipi strani in cucina. Si intrufolò dentro quella che doveva essere la camera di Medea, rassettata per bene ma poco luminosa.
Non sapeva cosa fare, quale fosse la scelta giusta per lui, per il regno, per la figura di grande uomo e re che tutti stimavano nel regno. Non ricordava nemmeno come si lottasse con la spada, corpo a corpo, a mani nude o con la lancia, quando invece probabilmente il re aveva avuto quelle basi fin da piccolo. Un re che non sa brandire la spada, proprio il meglio per Camelot, insomma, pensò ironicamente, sbuffando.
Dalla piccola porticina, sbucò il faccino dispiaciuto e mortificato di Medea. Aveva un viso bellissimo, pallido, incorniciato da una folta chioma biondissima e un paio di occhi che parevano gemme azzurre. Poteva essere benissimo scambiata per una principessa e nessuno si sarebbe accorto che non lo era.
Da quando l’aveva incontrata, Artù aveva colto pochi tratti di lei, ma ben definiti: odiava i cavalieri, odiava essere trattata come una dama qualsiasi, amava avere il controllo della situazione ed era molto indipendente e orgogliosa.
«E’ permesso?»
«Beh, è casa tua» sussurrò il re, sorridendo appena.
«Non è casa mia» rispose la bionda, avvicinandosi un po’ di più al re, fino a sedersi affianco a lui sul letto duro. «Sei sgattaiolato via…»
«Perdonami, avevo mal di testa. Urlate sempre così?»
La domanda fece ridacchiare Medea, ma allo stesso tempo la fece rattristare. No, non urlavano mai così, perché Medea non gli parlava da ben oltre undici anni. «Comunque sia, ho davvero intenzione di parlare con la regina. Credo… Credo che sia la cosa giusta da fare. Voglio dire, quando ero al mio villaggio, la gente mi narrava di questo valoroso, grande re che avrebbe unito i Cinque Regni in un unico pacifico impero, portandolo a uno splendore mai visto prima. Nel mio villaggio, pochi erano coloro che potevano rispecchiarsi in quella descrizione: stupravano donne e saccheggiavano le locande, le case. La gente viveva con la paura di essere uccisa o di morire di fame, per colpa di quei delinquenti»
Artù poté benissimo scorgere la rabbia e l’amarezza negli occhi e nel tono di voce di Medea. «E’ per quello che hai imparato a combattere così bene con la spada?»
«E’ uno dei motivi, sì»
«E gli altri quali sono?»
«Un giorno li scoprirai» Medea concluse così lo scambio repentino di battute, sistemandosi meglio sul letto e portando le mani sulle ginocchia. Lei non indossava quelle enormi e lunghe gonne da dame, indossava un pellicciotto sulle spalle, una semplice maglietta color panna e dei calzoni lunghi e grigi, abbinati a stivali dello stesso colore. Osservò le pieghe di questi ultimi, che parvero imitare quelle della sua fronte corrucciata. «Ho davvero intenzione di andare dalla regina»
Artù sospirò, abbassando lo sguardo. Medea non sapeva effettivamente cosa pensare. Perché non voleva che andasse a parlarle? Doveva essere il sogno di tutti quello di diventare re, governare un grande regno ed essere l'uomo più ricco di questo.  «Non posso prendermi questa responsabilità, Medea. Guardati, guarda i tuoi occhi mente parli di questo re. Brillano. Ma non sono io, non sono quell’uomo. Cosa credi che dirà il popolo quando, di fronte a loro, non saprò nemmeno come mi chiamo, come si chiamava mio padre, la storia di Camelot. Senza contare il fatto che governare un regno non è come fare una cavalcata. Non sono in grado di maneggiare una spada, come credi possa comandare un esercito?»
Medea rimase in silenzio ad ascoltare le angosce del re, senza sapere bene cosa dire. Poteva solamente mordicchiarsi il labbro, sospirando. Era così forte con la spada, quando si trattava di combattere, ma in situazioni come quelle – quando c’era bisogno di tirar fuori i sentimenti in generale – rimaneva bloccata. «La regina deve sapere, Artù. Ci sono grandi medici a corte, sicuramente uno di loro potrà ridarvi la memoria! C’è ancora speranza!»
«Perché hai così tanta fiducia?» domandò lui, leggermente confuso. Medea aveva un atteggiamento ambiguo la maggior parte delle volte, diceva di odiare i cavalieri ma a lui dava appoggio.
«Perché ho visto quanto la gente tenga a voi, al vostro regno. Quanto abbiano bisogno di un re così. Non ho mai creduto alle leggende che mi sono giunte all’orecchio, ma dal momento in cui vi ho incontrato, non ho visto alcun male nei vostri occhi. Non siete come gli altri cavalieri, siete diverso. Prometto che parlerò con la regina, e se non verrete con me ci andrò da sola. Riavrete la vostra memoria, mio signore»

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Life is all about moments of impact ***


Chapter 4.
Life is all about moments of impact.

 
Non ci poteva credere che avrebbe dovuto indossare un vestito per andare a parlare con la regina.
Quella mattina, il padre di Medea era andato al mercato appunto per comprargliene uno. Era azzurro, non molto decorato, e scendeva morbido lungo i fianchi seguendo le curve del corpo di Medea. Le stava d’incanto, questo era certo, ma la ragazza non era abituata ad indossare quel genere di abiti, anzi.
Artù era irremovibile: non si era alzato nemmeno dalla brandina, quella mattina. Era rimasto sdraiato con la faccia contro il muro, facendo finta di dormire, ma Medea aveva capito che era sveglio. Non voleva forzarlo, la sera precedente le aveva fatto così pena che non aveva più insistito, più che altro sperava che a corte ci fosse davvero qualcuno abbastanza bravo da fargli ritornare i ricordi, altrimenti Camelot si sarebbe ritrovata con un re che non era in grado di assumere quel ruolo. Chissà come sarebbe stato difficile per il popolo, per la regina e per tutti coloro che tenevano affettivamente al re, accettare quella situazione. Persino per Artù stesso era stato difficile accettare quella situazione.
 
Superò l’ultimo angolo prima di ritrovarsi di fronte l’immenso palazzo di Camelot. Medea boccheggiò più volte prima di riprendere il senno, e voltò il capo per osservare in lungo e in largo il castello. Non ne aveva mai visto uno poiché raramente lasciava il suo villaggio, e quando lo faceva era solamente per andare nei boschi.
Ovunque volgesse lo sguardo trovava uomini in armature e la cosa cominciò a farle venire l’orticaria. Doveva ammettere, però, che quei cavalieri erano molto diversi. Le loro armature erano rifinite e lucidate alla perfezione, la loro postura era impeccabile, come se portare quello stemma sul petto fosse l’unica cosa per cui valesse la pena vivere. Medea, ad un certo punto, si rese conto che quello stemma era lo stesso che aveva visto sul mantello di Artù. 
Proseguì verso la grande scalinata che portava all’entrata del castello, ma volgendo di nuovo lo sguardo a sinistra, si accorse di un’enorme statua in bronzo che padroneggiava più in là.
Si avvicinò appena, giusto per identificare la scritta sotto la scultura. In memoria di Arthur Pendragon, re del passato e del futuro. Ai lati del simulacro, più in basso, due piccole colonne bronzee riportavano la scritta: In onore di Sir Gwaine, nobile e coraggioso cavaliere.
Medea alzò lo sguardo verso la statua. Il cavallo sul quale sedeva il biondo impennava le zampe superiori, mentre il re aveva la spada puntata verso il cielo e lo sguardo dritto di fronte a sé, come se puntasse a un obiettivo preciso. Medea azzardò ad ipotizzare che potesse essere la pace di Camelot.
Il cavaliere su quel cavallo era così simile al ragazzo che ospitava dentro casa sua, ma così… diverso. Il fuoco che illuminava lo sguardo del giovane era pieno di vita, pieno di coraggio, di ambizione, pronto a fare qualunque cosa pur di raggiungere un obiettivo.
Più guardava il monumento, più si rendeva conto che doveva parlare con la regina, doveva farlo.
Superò forzatamente il grande cortile del palazzo, sistemandosi il mantello e il cappuccio sulla testa, dello stesso colore del vestito. Si ritrovò nuovamente altre guardie di fronte a lei, e sentì nuovamente quel prurito per tutto il corpo. «Desiderate?» domandò uno di questi, avvicinando la lancia alla porta per evitarle il passaggio.
Medea alzò un sopracciglio, reprimendo l’istinto di afferrare la spada ed infilzarlo – e doveva farlo per forza, poiché non aveva la spada con sé – e sorrise. «Ho bisogno di un’udienza urgente con la regina. Si tratta di una cosa importante, di vita o di morte»
La guardia corrucciò la fronte, ma sentendo le parole della giovane spostò la lancia e annuì. «Ti accompagno» asserì, e cominciò a camminare attraverso i corridoi del palazzo.
Ogni passo in più, era un passo verso un mondo che Medea non credeva possibile esistesse. Vi erano immense finestre colorate e grandi colonne decorate.
Si fermarono dopo un bel po’ di cammino di fronte ad una grande porta in legno, ai lati della quale troneggiavano immobili due sentinelle. «Udienza con la regina» iniziò la guardia che accompagnava Medea.
«Sala del trono» rispose uno di quei due, senza spostare lo sguardo.
La guardia di Medea annuì e, voltandosi verso la bionda, le fece cenno di continuare il cammino.
Oltrepassarono, probabilmente, altri tre o quattro corridoi, ricchi di quadri e di colonne che fecero rimanere di sasso Medea.
E di nuovo si fermarono. Stavolta il portone era due volte più grande del primo, e vi erano nuovamente due sentinelle ai suoi lati. «Udienza con la regina» ripeté la guardia.
Una delle sentinelle annuì, si mosse e si avvicinò al portone, spingendolo e sparendo dietro di esso.
Non fece entrare Medea, e lei non proferì parola. Si limitò a rimanere buona buona dietro la sua guardia, nascosta dal cappuccio azzurro.
Dopo poco, la sentinella uscì dalla stanza e aprì completamente la porta, lasciando libero il passaggio. «Udienza accolta» 
A quel punto, la guardia indicò l’entrata a Medea, e lei cominciò a sentir le gambe tremare. Effettivamente non aveva nemmeno preparato un discorso o qualche parola di incoraggiamento o comprensione per la regina. E se si fosse messa a piangere? Come avrebbe reagito alla scoperta del re vivo?
A quel punto, anche la paura cominciò a invaderla, perché non era sicura al cento per cento che la regina avrebbe creduto.
Sospirò prendendo coraggio e avanzò, entrando nella sala. Era immensa, grande abbastanza per ospitare un intero villaggio. La lunga fila di colonne segnava il passaggio verso il trono, proprio di fronte a lei.
Tutto intorno era pieno di gente, probabilmente funzionari di corte che assistevano la regina.
Ed eccola, proprio lei, la regina, di fronte a lei. Era bellissima, più bella di quanto le leggende narrassero. Aveva lunghi capelli scuri che le cadevano sulle spalle, e quel vestito turchese contrastava alla perfezione con la carnagione olivastra. Per la prima volta in tutta la sua vita, Medea provava invidia per la bellezza di un’altra donna.
Ma più si avvicinava ad ella, più si accorgeva che non vi era niente ad animare il suo sguardo. Era accasciata da un lato, con il braccio che la sorreggeva sul bracciolo e l’altra mano che cercava di placare i colpi di tosse che provenivano dal petto. Aveva l’aspetto stanco e anche due profonde occhiaie sotto gli occhi. Ma rimaneva bellissima, in ogni caso.
Non appena gli occhi di Medea piombarono sulla sedia rossa, vuota, affianco a lei, capì perfettamente il rammarico della regina. Governare il regno da sola non doveva essere una passeggiata.
In rispetto alla corona che Ginevra portava sul capo, Medea si inchinò. «Mia signora»
«Hai chiesto udienza alla corte per una ragione importante, per quale motivo?» la voce di Ginevra echeggiò nella sala, sollevando la curiosità di tutti.
«Ho un’importante questione da raccontarle, mia signora, ma credo che non sia argomento da trattare in pubblico. Se potete concederla, io vorrei un’udienza privata» Medea parlò chiaramente, ad alta voce ma col viso basso, senza guardare negli occhi la regina.
Ci fu, per pochi secondi, un rumore diffuso di chiacchiericci e brusii che fecero temere il peggio alla ragazza. Non aveva mai parlato di fronte a una figura così importante come un nobile, e se avesse sbagliato?
«Se le ragioni che ti hanno portato ad essere qui e a chiedere un’udienza privata sono così importanti, non posso far altro che accettarla. Tutti fuori» asserì Ginevra, in un tono prima pacato e poi più alterato, per far rispettare la sua volontà, ma di nuovo un colpo di tosse la interruppe. Tutti erano andati via, tranne Merlino, sempre al fianco della regina.
Quando sentì il portone chiudersi per l’ultima volta e i brusii farsi sempre minori, Medea alzò finalmente gli occhi verso la regina. «Alzati pure e spiega le tue ragioni»
Medea annuì, si tirò su e portò le mani al cappuccio, tirandolo indietro per mostrare la lunga chioma bionda.
Intanto, affianco alla regina, il corpo di Merlino si irrigidì. Bionda, occhi azzurri. Doveva rimanere calmo, doveva razionalizzare il tutto. Magari non era niente, magari era una ragazza normale.
«Sono qui, mia signora, per un evento straordinario capitatomi ieri. Provengo da un modesto villaggio non molto lontano da Camelot, alla morte della mia buona madre, mio padre ha ritenuto necessario ospitarmi in casa sua, che è appunto in questo nobile regno.
So per certo che ciò che sto per dirvi può costare la mia testa, ma se ciò non fosse vero credetemi, non turberei mai la vostra quiete. Durante il mio viaggio verso Camelot ho incontrato un giovane. Secondo mio padre, quest’uomo risponde al nome di… Arthur Pendragon»
A quel punto, Medea non poté far altro se non guardare la faccia delle due persone di fronte a lei. La faccia della regina era incredula, confusa. Lo sguardo stralunato, gli occhi lucidi, il corpo e i nervi del collo completamente in tensione. Si tirò leggermente in avanti col busto, cercando di indurre Medea a parlare ancora visto che, probabilmente, la parte razionale del suo cervello era andata in tilt. Lo si poteva vedere dal mondo convulso in cui muoveva le labbra e sbatteva le palpebre.
Mandò un occhiata a Merlino, visibilmente sotto shock affianco a lei. Aveva lo sguardo fisso, freddo e glaciale, sulla ragazza. La mascella contratta, le labbra serrate, le sopracciglia corrugate.
Ginevra non ci fece molto caso, persa com’era nella notizia.
«Non sapevo chi fosse, mia signora, lo giuro! Non conosco la magia, i miei genitori sono umani, non ho fatto niente, questo posso giurarlo su qualsiasi cosa!» Medea continuò a giustificarsi, senza sapere che in quel momento, alle due persone di fronte a lei, interessava solamente sapere di Artù, di come stesse, di dove fosse.
«Dov’è?» la voce di Merlino risuonò chiara nella sala vuota. «Perché non è con te?»
«Non voleva venire, mi dispiace. Non ricorda niente della sua vita, non sa chi è, non conosce Camelot, non ricorda nulla. E io non so che fare, ho ritenuto giusto venire a confessarlo nonostante… Beh, nonostante la paura di non esser creduta mi assalga ancora adesso. Ma potete venire a vederlo! E’ a casa mia, sono io a scongiurarvi, mia signora! Venite.»
Ginevra annuì alle parole della ragazza e cercò di alzarsi, ma traballò appena e Merlino riuscì in tempo a sorreggerla. A quel punto, Medea capì che non era solo il peso di un regno sulle spalle a ridurre così la regina, ma una vera e propria malattia.
«Merlino…»
«Ci vado io, tranquilla. Torna nelle stanze»
«Voglio venire, voglio vederlo. Ti prego, per favore» la regina aveva cominciato a piangere e singhiozzare. Medea l’aveva immaginato, e si limitò a torturarsi le dita.
«Non puoi» cominciò il mago, trascinandola indietro fino a farla risedere sul trono. «Tornerò presto, troverò qualche…» Merlino diede un’occhiata alla ragazza prima di continuare, e poi riprese sussurrando appena. «…soluzione. Lo prometto, riposa, Gwen»
Medea corrucciò la fronte. Perché quel servitore non dava del voi alla regina? E perché la chiamava con soprannomi? Assottigliò gli occhi, osservando Merlino che lentamente si voltava e le mandava uno sguardo truce.
Quello sguardo fece rabbrividire Medea. Perché la guardava così? Che aveva fatto? Sembrava uno sguardo di sfida, uno sguardo di guerra.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Another first time. ***




chapter 5.

Another first time.

 
Camminava a passo svelto, Merlino. Dietro di lui, Medea lo scrutava cercando di capire perché quel ragazzo ce l’avesse tanto con lei. Probabilmente non le credeva, e quello era concepibile. Era sicura che non tutti le avrebbero creduto, eppure quel ragazzo pareva avere qualcos’altro da nascondere, come se non fosse solo quella la ragione del suo odio.
Ma tanto stavano andando a casa della ragazza, e quindi a quel punto Merlino non avrebbe potuto far altro se non scusarsi.
In realtà, nella mente del mago, viaggiavano ben altri pensieri. Il primo fra tutti, però, era Artù. Era così… felice del fatto che fosse di nuovo fra di loro, che fosse di nuovo vivo. Contava i secondi che lo separavano da quello che sarebbe stato il loro primo incontro dopo dieci lunghi anni; anni in cui Merlino aveva sperato con tutto sé stesso di rivedere il re sbucare fuori dalle sue coperte, impartendogli qualsiasi tipo di ordine. Agognava quasi di ricevere nuovi insulti dal suo padrone, qualunque parola in quei lunghi dieci anni sarebbe stata okay, se pronunciata dalla bocca di Artù.
Ma di certo non aveva dimenticato la profezia. La ragazza di cui parlava l’uomo era lei, su questo non c’erano più dubbi. Tutto coincideva, i capelli, gli occhi, il fatto che fosse legata ad Artù. Tranne per… «Qual è il vostro nome?» domandò d’un tratto Merlino.
Medea, che per tutto il tempo aveva camminato in silenzio dietro le spalle del mago, rispose stupita. «Medea. E il vostro?»
Merlino si fermò, si girò e osservò per un attimo il viso di Medea. Cercò di fare mente locale, la stanza di Gaius era piena di libri e quel nome non gli era sconosciuto. L’aveva già sentito, o letto. Doveva solo ricordare. «Come la maga greca…» Mitologia, pensò il mago. Proprio come nella profezia. Non c’erano più dubbi che quella fosse la ragazza di cui  la profezia parlava. Eppure, guardandola in quegli occhi tanto grandi, non c’era traccia di malvagità. Ma ci era già passato con Morgana, non avrebbe commesso lo stesso errore. Non si sarebbe fatto abbindolare da un paio di occhi buoni, quelli potevano nascondere il peggior nemico. L’esperienza l’aveva fatto crescere, chiunque a Camelot poteva confermare che non era più il ragazzino gioioso di un tempo, ma un uomo sempre accigliato e solcato da una profonda ferita, che lo accompagnava in ogni momento della sua vita.
Medea storse il naso. Che maleducato era, quel ragazzo. Non le aveva nemmeno risposto, e continuava a guardarla anche male. «Vi giuro che io non ho fatto niente al vostro re, non possiedo la magia» iniziò, vedendo che Merlino le stava dando di nuovo le spalle per ricominciare a camminare.
Merlino non si fermò, continuò a camminare sospirando. Non era una strega, quello lo avrebbe percepito. «Lo so»
«Perché tu ce l’hai» mormorò lei, immobile dov’era prima.  A quel punto anche Merlino si fermò. Come aveva fatto a sentirlo? Se non era una strega, allora era qualcos’altro. Si voltò verso di lei, senza scomporsi, e aspettò che continuasse senza proferire parola. «Un semplice servo senza armi piuttosto che un esercito? Poco furba questa regina, non credi?» Medea piegò un lato del labbro in un sorriso tirato, di certo Merlino non aveva dei gran muscoli e non aveva una spada, quindi doveva possedere per forza qualcos’altro per difendersi. «La regina si fida così tanto delle persone? E se avessi solamente voluto attirarla in una trappola?»
«Sei intelligente» osservò il mago, incrociando le braccia al petto. «Ora che tu sai di me, io posso sapere di te? Cosa sei? Cosa vuoi? Che hai fatto ad Artù?» non vi era ombra di un sorriso, nemmeno di una nota ironica nel viso e nella voce di Merlino.
Per Medea era iniziata come una piccola provocazione, per Merlino stava diventando una vera e propria lite. «Non gli ho fatto niente, te l’ho già detto! Se non mi credi, muoviamoci a tornare a casa, così lo vedrai tu stesso. Puoi riportartelo a palazzo, se vorrà venire, per quel che mi riguarda il capitolo si conclude qui. Non voglio oro, non voglio denaro o ricompense. Voglio che quel ragazzo “senza vita” accasciato sul mio letto si alzi, riprenda la sua memoria e governi Camelot così come le leggende hanno sempre narrato fino al mio villaggio. Ecco ciò che voglio, quindi prima che tu mi dia di nuovo della bugiarda o dell’approfittatrice, riprendiamo il cammino» concluse lei, calmandosi dopo aver avuto un tono leggermente più irrequieto.
Dalla vita Medea non aveva mai avuto niente, ma non era una cattiva persona. Continuava ad aiutare gli altri nonostante il ringraziamento fosse minimo o non ci fosse per niente. Era una di quelle persone che si chiedeva “Perché lo faccio? Non ha senso, nessuno se ne accorge”, ma poi lo fa comunque, solo per vedere gli altri sorridere.
Merlino serrò le labbra dopo il piccolo sfogo di Medea. Di nuovo non vedeva nulla che potesse far pensare a un pericolo per lui, per Artù o per Camelot, ma sarebbe stato in allerta. Ogni volta che si ricordava dell’errore che aveva fatto con Morgana, la cicatrice che segnava il suo dolore gli premeva due volte di più.
 
Giunsero a casa di Medea pochi minuti dopo. Avevano tardato un po’ perché al mercato, quella mattina, c’era stranamente molta confusione.
Appena giunti di fronte alla porta di casa, Medea si voltò a guardare il ragazzo. Aveva cominciato ad agitarsi, lo si poteva vedere dal pomo d’Adamo che faceva su e giù all’impazzata, o dal modo in cui muoveva le dita sulla ringhiera in legno. Era come impaziente di vedere Artù, e tutto ciò le sembrava parecchio assurdo. Doveva significare molto per lui il re. «Non è solo il re, per te, vero?»
Merlino voltò di scatto il viso verso di lei. Era proprio così palese la sua impazienza di riabbracciarlo?
Medea non insistette vedendo che il ragazzo non le rispondeva, l’aveva proprio presa in antipatia. Spinse la porta e la aprì, entrò in casa e lasciò che Merlino passasse.
Artù e Roland erano seduti al tavolo e parlavano fra di loro, quando videro i due ragazzi entrare si alzarono. Tutti gli sguardi erano fissi su Artù, che invece scrutava il ragazzo di fronte a lui.
Merlino era lì, immobile, lo sguardo piantato in quello di Artù, nei suoi occhi azzurri e grandi, che in quel momento non esprimevano nulla se non confusione. Erano tante le cose che il mago avrebbe voluto fare. In primo luogo piangere, piangere per tutti quegli anni in cui non l’aveva fatto perché non avrebbe avuto senso. In quel momento ne avrebbe avuto, perché finalmente Artù era tornato. Era lì, in carne ed ossa. In secondo luogo avrebbe voluto abbracciarlo per sentire di nuovo il suo profumo, di nuovo il corpo contro il suo, non importava che fosse per un abbraccio o per uno scappellotto, voleva sentirlo vicino.
«Lui è…» Medea cercò di presentare il ragazzo, ma lui non le aveva detto come si chiamava. Nello sguardo di Artù però non c’era ombra di un’emozione, probabilmente non lo ricordava. Medea allora scrutò Merlino, pareva in trance, come se non ci fosse nessun’altro nella stanza se non Artù stesso.
«Io… Io non mi ricordo di voi, scusatemi» il tono di voce di Artù era basso e leggero, come se si vergognasse.
In un primo momento, a Merlino mancò un battito. Quella era la prima volta dopo dieci anni che sentiva di nuovo la sua voce. Ma dopo aver realizzato il significato della frase, Merlino sgranò gli occhi. Non lo credeva possibile. Artù aveva seriamente detto “scusatemi”, dandogli del voi? «Sono Merlino, ero il vostro servitore» anche il tono di Merlino era basso, un sibilo. Quasi involontariamente fece un passo avanti, e poi un altro, e un altro ancora, finché non si ritrovò a un palmo di naso da lui. Le braccia magre del mago circondarono le spalle del re, mentre una mano si infilava tra i capelli morbidi e il naso affondava nell’incavo del collo. A quel punto, le lacrime erano già scese copiose, liberando tutto il dolore che era rimasto incastrato nel cuore di Merlino per tutti quegli anni, rendendolo freddo, schivo e di mal umore. Non aveva avuto più nessun altro amico, dopo Artù, se non Ginevra.
Artù non sapeva cosa fare, ma di certo non l’avrebbe mandato via. Era consapevole di avere un passato anche se non lo ricordava, era consapevole che al mondo ci fossero persone che tenevano a lui. Il fatto che lui non ricordasse non gli dava l’autorizzazione di ferire quelle persone.
Il biondo strinse in un pugno la giacca di Merlino, mentre con l’altra gli batteva sulla spalla. Gli dispiaceva un sacco vederlo piangere e nemmeno sapeva perché, ma quegli occhi azzurri erano troppo belli perché piangessero.
Artù alzò lo sguardo solamente quando le figure di Medea e Roland che uscivano dalla stanza attirarono la sua attenzione.
Sospirò e sciolse l’abbraccio, osservando il piccolo uomo di fronte a lui che si asciugava le lacrime. Apparve sul suo viso un istintivo sorriso, e così gli poggiò le mani sulle spalle. «Non ricordo che tipo di rapporto avessimo, di certo non ti trattavo poi così male se queste lacrime sono di gioia. Ma posso dirti che farò di tutto per riavere indietro la mia memoria, consulteremo qualche medico, va bene?»
Fra i due, in passato, era stato solito un certo rapporto di confidenza in cui entrambi si tiravano su l’un l’altro nei momenti di difficoltà. In quel momento, tutti e due avevano bisogno di affetto e conforto: Merlino aveva bisogno di averlo accanto, Artù aveva bisogno di ritrovare il suo ‘io’ perduto, aveva bisogno di sentirsi dire che tutto sarebbe andato bene.
Ma in quel momento, di fronte a quel ragazzo semi sconosciuto, Artù non se la sentì di mettersi a piagnucolare sulla sua situazione, il fatto di essere così importante per qualcuno lo rincuorava abbastanza.
Merlino annuì, mostrando finalmente un enorme sorriso sereno, felice. Da anni non lo si vedeva così, da anni non aveva più riso di gusto, come solo una persona contenta sa fare. In quell’istante, la vita di Merlino poteva dirsi completa. «Consulterò Gaius! Sicuramente lui troverà una soluzione, ci deve essere, per forza. La troveremo, sire, promesso» Merlino strinse la mano sulla spalla di Artù, come era solito fare il re con lui nei pochi momenti intimi fra i due.
Artù sorrise di sbieco, annuendo. Poi indicò le sedie attorno al tavolo e si sedette, aspettando che il giovane lo imitasse. «Raccontami tutto» iniziò il biondo, sorridendo. «Raccontami… Come sono, cosa ho fatto. Magari… Come sono morto, come sta la regina? Chi è? E’ bella? La amo?»
Il re cominciò a porre tante domande, all’inizio Merlino le seguì tutte, poi cominciò a perdersi sperando che qualcuno non andasse lì a tirargli un pizzicotto per svegliarlo da quel meraviglioso sogno. Perché sì, da quando Artù era morto, ogni notte sognava di rivederlo di nuovo vivo e vegeto, al comando di Camelot.
Merlino, ripresosi dal momento di nostalgia, si sedette di fronte al suo re e sorrise. «Beh, voi siete il più grande re che Camelot abbia mai conosciuto, il più grande re di tutta la storia, Artù. Per quanto ne so, il vostro nome è scritto nelle stelle e verrà tramandato nel corso della storia, delle ere. Il vostro coraggio e il vostro onore sono grandi quanto Camelot stessa, il vostro buon cuore è conosciuto in tutti i villaggi vicini» Merlino si fermò un attimo, osservando lo sguardo concentrato di Artù, che piano piano stava costruendo nella sua testa una figura così onorevole come quella che il mago gli stava descrivendo. «Comunque sia, è tutto documentato nelle librerie di corte»
«Librerie di corte?» domandò Artù, corrucciando la fronte. «La mia storia è stata scritta nei libri?»
Merlino sorrise di sbieco. «Non mentivo, mio signore, quando ho detto che la vostra storia verrà ricordata nel corso delle ere»
«E la regina, invece? Come sta portando avanti il regno?»
Merlino, a quel punto, spense il sorriso – benchè la cosa fu parecchio difficile da fare: ne aveva uno stampato in faccia che non si sarebbe tolto per parecchio tempo – e abbassò lo sguardo verso l’anello che il re portava all’indica. «L’amavate, sire. Sareste morto per lei. L’amore che vi lega è profondo, va oltre qualsiasi tipo di altro amore io abbia mai visto nel corso della mia breve vita. Siete stato voi a incoronarla regina e a darle il sigillo che l’avrebbe fatta regnare in vostra assenza. E’ intelligente, pura d’animo e di buon cuore. Ha regnato come avreste fatto sicuramente voi, cercando di non far mai dimenticare al popolo le vostre memorie. Ma adesso, purtroppo… Lei è malata, accusa una grave polmonite da svariati anni. Il nostro fidato medico di corte, Gaius, sta cercando alcuni rimedi validi ma riesce solamente a “rallentare” il processo…»
Artù non conosceva quella donna, ma poteva solamente portarle un gran rispetto e sicuramente darle la sua completa stima per ciò che aveva fatto per il suo regno. Quando sentì l’ultima frase, inarcò un sopracciglio «Quale processo?»
«Di morte, mio signore. La regina sta morendo.»

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** So what about a training? ***




Chapter 6

So what about a training?

 
Merlino non era sicuro che Artù avesse preso bene la notizia di una probabile morte della regina, l’aveva visto parecchio scosso, tanto che si era alzato dal tavolo e si era messo ad osservare il suo mantello rosso, piegato diligentemente da Roland, e dalla quale veniva fuori il drago dorato tanto amato da Camelot.
Artù era rimasto ad osservarlo per una buona mezz’ora, valutando i pro e i contro di quella situazione. A fine concentrazione, i contro battevano alla lunga i pro.
Merlino avrebbe voluto essergli di qualche aiuto, ma se in quegli anni in cui erano stati insieme aveva imparato qualcosa di Artù, certamente l’avrebbe lasciato perdere nei suoi pensieri per tutta la notte. Aveva bisogno di meditare, di pensare, e lui doveva tornare ad avvertire Ginevra, che certamente era preoccupatissima al castello.
Si guardò in giro, sospirando, e notando che il re si strofinava il braccio, si alzò in cerca di una coperta. Non la trovava e perciò, cercando di fare il minimo rumore, sgattaiolò fino all’altra stanza, dove un paio di voci lo dissuasero dal bussare.
«Sei stata molto coraggiosa» stava dicendo Roland, seduto accanto alla figlia.
«E’ ciò che qualsiasi persona di buon senso avrebbe fatto»
«Non necessariamente. Io non l’avrei fatto»
«E avreste lasciato un pover’uomo a un destino che non è il proprio, a soffrire eternamente ricercando il suo vero io? Questo avreste fatto, padre?» la voce di Medea si alterò appena, e le sue sopracciglia si incurvarono in un’espressione misero-arrabbiata. Dall’uomo non giunse risposta, si limitò ad incurvare il capo verso il basso, e allora Medea continuò. «Farò di tutto per far riavere la memoria ad Artù. So come ci si sente a vivere in un luogo che non ti appartiene»
Merlino si morse un labbro. Le intenzioni di Medea parevano vere, non sembrava avere alcun tipo di doppio fine. Magari sarebbe stato il caso di darle un’opportunità, e il mago voleva cogliere l’occasione al volo.
Aprì piano piano la porta, ritrovandosi i due che si lanciavano occhiate miste a rabbia e delusione, tanto che in un primo momento Merlino si sentì in imbarazzo. «Oh, ehm… Scusate, non volevo disturbare. Artù ha bisogno di una coperta»
«Gliela porto subito» asserì Medea sicura, staccando immediatamente lo sguardo dal padre. Non era sicura di poter sorreggere il suo sguardo per molto altro tempo senza picchiarlo. Roland, sentendo un gran peso sul cuore, se ne andò dalla stanza col viso basso.
Si avvicinò ad un armadio in legno, molto vecchio e con qualche buco, e ne tirò fuori una coperta marrone. «Una basta?» domandò infine, rivolta a Merlino.
«Sì, dovrebbe bastare!»
«Ne prendo un’altra, non si sa mai» aggiunse poi, come se non avesse nemmeno sentito la risposta del mago. Non le era andata molto giù come l’aveva trattata prima.
Lui sorrise fra sé e sé: Medea stava superando la prova. «Sai, credo che non voglia ritornare a palazzo»
«E’ normale. Ci sarebbero tante cose da fare, lì. Funzioni che lui non sa svolgere. Sarebbe una responsabilità troppo grande, pensa se sbagliasse qualcosa!» Medea fece spalline, immaginandosi chissà quale catastrofe.
«Beh, dovrà abituarcisi prima o poi. Piano piano dobbiamo fargli riprendere il ritmo. Sai com’è, indossare l’armatura, gestire le finanze, le truppe… Maneggiare la spada!» Merlino sbuffò, ma in realtà la cosa non gli pesava minimamente: avrebbe finalmente potuto passare del tempo con Artù, come un tempo. Finalmente lui era tornato, non importava quanto avrebbe sudato per lui, l’avrebbe fatto in eterno.
Medea lasciò le coperte sul letto e si voltò verso Merlino. Sul volto aveva l’espressione tipica di chi ha appena avuto un’idea straordinaria. «Che ne dici di un allenamento? Io so brandire la spada da quando avevo dieci anni, ho dovuto imparare per difendermi. Posso insegnargli!»
Merlino sorrise e annuì. «Ad ogni modo, il mio nome è Merlino» La vera prova cominciava in quel momento.
 
Avevano deciso di allenarsi in un campo aperto, ma per far ciò dovevano far uscire Artù dalla casa di Roland senza che nessuno della cittadella lo vedesse.
Roland gli aveva prestato alcuni abiti che gli andavano un po’ larghi, ma si sarebbero accontentati. Medea gli aveva legato sulle spalle il suo mantello azzurro e gli aveva coperto il capo col cappuccio, raccomandandogli di tenere sempre la testa bassa e di non guardare negli occhi nessuno.
«Sei sicuro di superare la cittadella senza ostacoli?» aveva domandato Medea, appoggiando la mano sulla maniglia.
«Sicuro. Mi conoscono a corte, le sentinelle ci lasceranno passare» aveva risposto il mago sicuro di sé, e così erano usciti.
Il viaggio non era stato difficile: come previsto, Artù non aveva alzato gli occhi nemmeno una volta, Medea e Merlino erano rimasti al suo fianco sorridendo indifferenti e comportandosi da persone ‘normali’, che non nascondevano il re sotto il mantello.
Le sentinelle non avevano fatto domande su quello strano uomo, Merlino le aveva salutate con un cenno del capo e loro erano passate oltre, distratte da un carro di frutta che il mago aveva fatto rovesciare con la magia.
E finalmente erano arrivati. Il luogo era grande, una specie di radura circondata da un sacco di alberi secolari. L’erba era secca e bassa e tutto era illuminato dal sole splendente di quella mattina.
Finalmente Artù si sentì libero di togliere il mantello e di mostrarsi. Si sgranchì le ossa delle braccia, prima di guardarsi intorno colpito dal luogo.
Merlino tirò giù il sacco che portava in spalla e ne estrasse una spada chiusa nella federa di pelle nera, sulla cui sommità era inciso lo stemma dei Pendragon. Si avvicinò al re e gliela porse, sorridendo. Era da così tanto che non lo faceva. Ogni piccolo gesto che aveva compiuto in precedenza gli sembrava così speciale, raro e prezioso in quel momento. Era in quel momento, appunto, che Merlino capiva di appartenere completamente ad Artù. Il suo destino era Artù, la sua vita era servirlo, non aveva altro scopo nella vita. Avrebbe passato tutta la vita a sistemargli l’armatura, a dargli la spada prima dell’incontro, a lucidargli gli stivali. Dopo averlo perso la prima volta, Merlino non lo avrebbe più lasciato andare.
«E’ mia?» domandò ingenuamente il re, e Merlino annuì.
Artù estrasse la spada dalla federa, rimanendo leggermente colpito. Non era un granché, ma Artù non conosceva di meglio, perciò tutto gli sembrava speciale. Osservò i suoi occhi nella lama e per un attimo tutto parve prender senso, la sua speranza aumentava. Doveva avere fiducia in sé stesso, in quel ragazzo che pareva tenere a lui più della sua vita e quella fanciulla che si stava dando da fare per salvarlo.
Alzò gli occhi verso Medea. Lei aveva già la spada in mano e la agitava abilmente, intagliando con la lama cerchi immaginari nell’aria, ma l’unico vero scopo era quello di dimostrare la sua destrezza con l’arma, e ci riuscì bene, perché Artù guardò Merlino leggermente spaventato.
Merlino, seduto su un pezzo di roccia, ridacchiò prima e ritornò serio facendogli l’occhiolino poi.
Medea si avvicinò al rivale, impugnò per bene la spada con entrambe le mani e poi lo fece vedere ad Artù, che la imitò. «Uno… Due…» Medea iniziò a contare e Artù si abbassò sulle ginocchia, non sapeva nemmeno perché, gli era solo venuto spontaneamente. «Tre!» Medea colpì per prima, incontrando la spada di Artù. I movimenti della bionda erano agili ed esperti, sapeva esattamente come muoversi, eppure lo scontro procedeva lentamente per via dell’inesperienza del re, che riusciva solamente a parare i colpi senza trovare l’occasione giusta per passare all’attacco.
Alla fine, tutto accadde velocemente. Medea disarmò il re, lo afferrò per le spalle e lo fece rotolare al suolo. Lo fermò con un piede e gli poggiò la lama della spada sul petto.
Merlino, che per tutto il tempo aveva riso di quell’adorabile nuova goffaggine di Artù, si era alzato velocemente. La paura che Medea potesse fargli del male, che qualcuno potesse togliergli di nuovo quella fonte di felicità estrema, lo portò a formulare un incantesimo nella mente, ignorando completamente il fatto che il sorriso che Medea aveva in faccia era del tutto bonario e scherzoso.
Ma, con sua grande sorpresa, l’incantesimo non funzionò. Non era uno difficile, semplicemente doveva far volare via Medea da Artù, lo faceva sempre, l’aveva sempre fatto. Perché con Medea non funzionava?
Di nuovo, la sensazione di pericolo si riaccese in lui e gli fece completamente dimenticare di aver dato una possibilità a Medea. La ragazza stava cercando di aiutare Artù ad alzarsi, ma Merlino si intromise fra i due. «Adesso basta!» Esclamò, deglutendo e con un tono irato e autoritario, tanto che sia Artù che Medea smisero di sorridere.
Il mago si avvicinò alla bionda, la afferrò per il braccio e la trascinò via. Artù fece per commentare, ma Merlino lo ammonì con il dito. Il re non osò contestare, lo sguardo del mago era fin troppo eloquente.
Medea cercò di liberarsi dalla presa di Merlino, che cominciava anche a farle male. «Che diamine ti prende?!»
Quando furono abbastanza lontani dalle orecchie di Artù, Merlino si avvicinò al viso della ragazza, mantenendo lo sguardo freddo e distaccato unito ad una voca inquietante, quasi un sibilo. «Chi sei? Perché la mia magia non funziona su di te?»
Medea nemmeno capiva di cosa stesse parlando, sentiva il dolore delle dita di Merlino conficcate nel braccio e un formicolio salire verso la spalla. «Io… Non lo so! Lasciami! Non sono niente!»
«Dimmelo!» insistette. «Dimmi cosa sai della profezia!»
Medea pareva sempre più confusa, finché alla fine non ne poté più: per tutta la vita aveva cercato d difendersi da quel genere di soprusi, non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa un vecchio pazzo, ossessionato da qualcosa che nemmeno lui conosceva. Estrasse di nuovo la spada e Merlino, per riflesso, mollò il braccio di Medea e fece un passo indietro. «Non so tu, Merlino, ma io sono stata addestrata a proteggermi, non a colpire, perciò prova di nuovo a toccarmi e giuro su tutto ciò che vuoi che la tua testa penzolerà sul mio letto» lo minacciò, e poi abbassò la spada, cambiando del tutto espressione. Le veniva da piangere, ma non lo fece, non voleva mostrarsi debole. «Sai cosa, Merlino? Che ho seriamente creduto che questo fosse un po’ il mio destino. Io credo a queste cose. Deve esserci un motivo per cui non mi sia mai sentita a casa nel mio villaggio, deve esserci un motivo per cui io abbia dovuto trasferirmi a Camelot, o per cui io abbia incontrato Artù. Magari il mio destino è aiutarlo, ed ero contenta di ciò. Artù è tutto ciò che ho sempre voluto per il mio villaggio: un re buono, un cavaliere coraggioso, un animo buono. Ma a questo punto no, non mi piace. Sono stata trattata così per tutta la vita, adesso non mi va più bene. Buona fortuna col tuo re, Merlino, spero tu sia in grado di farlo diventare ciò di cui tutto il popolo ha bisogno» concluse la giovane, e si voltò per tornare a casa sua, almeno lì avrebbe potuto piangere liberamente.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Long live the Queen ***


Chapter 7

 
Per tutto il viaggio del ritorno a casa, Artù e Merlino non avevano proferito parola. Lo sguardo di Merlino era serio, ma di certo non ce l’aveva con il re. Era silenzioso e allo stesso tempo preoccupato, quella situazione lo metteva a disagio, gli faceva dubitare di tutto ciò che aveva compiuto in passato. Aveva già parecchi rimorsi e rammarichi, non voleva aggiungerne altri. Ma il punto era che ormai la sua ossessione per Artù non lo faceva ragionare, non sapeva più distinguere il bene dal male, non riusciva a fidarsi più di nessuno. Non gli si poteva di certo dar torto, visti gli esiti delle sue scelte. Morgana gli si era rivoltata contro nonostante avesse cercato più volte di ignorare il Drago e di farla ragionare, ogni giorno si chiedeva se nel caso in cui le avesse detto dei suoi poteri magari la strega si sarebbe comportata in modo diverso. Il suo punto debole era sempre stata la bontà, la troppa fiducia nella gente. Tutto ciò lo aveva portato a perdere Artù. Non sarebbe successo di nuovo, aveva imparato da quegli errori.
«Okay, so che non sono affari miei» iniziò il re, senza un briciolo di autorità nella voce. Calmo, pacato e con le mani che gesticolavano. «Ma non ti sembra di averla trattata un po’ male?»
Artù era molto ingenuo in quel momento. Non parlava a Merlino come faceva il vecchio Artù, lui avrebbe cercato in ogni modo di estorcere informazioni sulla conversazione misteriosa tra i due, quel re invece cercava in ogni modo di prendere la discussione dai margini.
In quel momento, Merlino si rese conto che si stava affacciando un nuovo bivio. Avrebbe dovuto dire o no ad Artù dei suoi poteri? Come l’avrebbe presa? Non ricordandosi di Uther e del suo odio, l’avrebbe presa di buon grado oppure l’avrebbe visto come un mostro? Che fosse morto o vivo, Merlino non voleva perderlo per niente al mondo.
«Forse» ammise il mago, sincero. «Ci sono davvero tante cose che non ricordate, Artù. Devo agire per il vostro bene, per il bene di Camelot» allora si fermò, stoppando il cammino di Artù con una mano. I loro occhi si scontrarono di nuovo: azzurro cielo e azzurro mare brillavano insieme di perfezione pura. «Tutto ciò che ho fatto, che faccio e che farò fino al giorno della mia morte è stato, è e sarà solamente per voi, Artù. Non esiste nessun altro per il quale morirei seduta stante, non esiste nessun altro che io abbia mai… amato tanto da aspettarlo per anni e anni. Credetemi quando dico che ciò che faccio è necessario, sono l’unica persona di cui potete fidarvi, sono il vostro unico, migliore e più fidato amico, mio signore» concluse quella piccola dichiarazione con un sorriso appena accennato, che faceva trasparire un po’ di imbarazzo e di commozione.
Artù rimase colpito: la devozione che Merlino aveva nei suoi confronti era sconfinata, ed era anche l’unica cosa che in quel momento lo spingeva a tornare ad essere un re. Non Camelot, non Medea, nemmeno la regina morente, ma la speranza e la scintilla negli occhi dell’uomo di fronte a lui.
Poteva avere sì e no trent’anni, eppure la sua espressione sempre accigliata, le sopracciglia quasi sempre contratte, la linea dritta delle labbra che raramente si rilassavano in un sorriso, lo dipingevano come un uomo più anziano, solcato da una profonda cicatrice e dal grosso peso di enormi responsabilità. Artù non si spiegava tutto quel mistero intorno a Merlino ma non fece domande, era sicuro che prima o poi tutti i nodi sarebbero venuti al pettine. «Vorrei davvero, davvero, davvero ricordare, essere abbastanza per te, per il popolo, per tutto il regno. »
«Per me lo siete già. Per il resto c’è tempo. Troveremo un modo», concluse il moro, e poi ripresero a camminare verso il paese.
 
La sentinella spalancò la porta della sala riunioni, dove la regina solitamente si sedeva a firmare le carte più importanti.
Ginevra sobbalzò appena al tonfo sordo della porta, ma quando vide comparire Merlino si rasserenò appena. Gaius, seduto affianco alla regina, si illuminò di un intenso sorriso.
«Merlino? Merlino!» La regina si alzò di scatto, lasciando che l’enorme coperta che l’avvolgeva per proteggerla dal freddo cadesse per terra. Gaius, di tutto rimando, si alzò per aiutarla: debole com’era non poteva permettersi di comportarsi come se stesse bene. «Dov’è? Come sta? E’ lui?»
La regina dondolò appena, e Merlino si avvicinò a lei per evitarle altri passi. Lasciò che si sedesse di nuovo sulla sedia, e poi lui fece lo stesso. «E’ vivo, ed è lui» proferì con un leggero sorriso. «Ma è vero, non ricorda nulla»
«Perché non è con te? Dov’è?» gli occhi di Ginevra cominciarono ad inumidirsi. In tutti quegli anni senza Artù tutto era stato vuoto. Persino il suo posto sul trono era senza senso, lei voleva essere la moglie di Artù, non la regina di Camelot. Non le interessava di quel posto, ma regnava su Camelot dignitosamente e umilmente, ed era diventata per il popolo il simbolo della pace, della prosperità e della bontà. Ginevra era vista da tutto il regno come la fedele erede di Artù, il giusto re.
«Alloggia in paese, da una nostra amica. Non vuole tornare, almeno non finché non recupererà la memoria» soffiò il mago, e poi si voltò verso Gaius. «C’è qualcosa che puoi fare, Gaius?»
L’anziano smise di reggersi al suo bastone e si sedette affianco ai due, subito nella sua mente sorsero molte idee. «Ci sono parecchie ipotesi, Merlino. Potrebbe aver sbattuto la testa, potrebbe essere caduto. Ma ricordiamoci che Artù era morto, e se adesso è tornato in vita deve esserci per forza la magia di mezzo. In questo caso, è ben poco l’aiuto che posso darti, ma possiamo consultare i libri»
Merlino annuì e si alzò di scatto dalla sedia, correndo verso la porta. «Merlino!» E di colpo si fermò, chiamato dalla regina. «Voglio andare da Artù, portami da lui, per favore!» le suppliche di Ginevra erano strazianti. In lei Merlino poteva riconoscere se stesso negli anni precedenti, quando l’unico desiderio per anni e anni era stato quello di rivedere il sorriso di Artù. E ricordava perfettamente la sensazione del giorno prima, quando l’aveva finalmente rivisto e tutta l’angoscia, la tristezza, il dolore, erano andati via come spazzati da un vento fortissimo.
Gaius accennò un lieve no con la testa. Ginevra era troppo debole per muoversi dal palazzo, a malapena riusciva a camminare sulle sue gambe dalle sue stanze alla sala del trono.
«Mi dispiace, Gwen. Non posso farlo, ma posso portare lui qui. Promesso.» E così si dileguò per non vedere lo sguardo addolorato e disperato della sua regina.
 
Quando Gaius rientrò nelle sue stanze, il pavimento non esisteva più. Il suo posto era stato preso da una pila di libri sparsi e aperti. Gaius non ricordava nemmeno l’ultima volta che Merlino aveva cercato qualcosa da un libro di magia. In tutti quegli anni era diventato forse più potente di quanto lo fosse stato in precedenza. «Trovato qualcosa?»
Il verso che uscì dalla bocca di Merlino non fu felice, perciò doveva essere un no. «Com’è possibile che non ci sia niente? Dobbiamo provare ogni strada, Gaius!»
«Merlino, siediti vicino a me» iniziò Gaius, battendo la mano sulla sedia di fronte alla sua.
«Non posso, devo sbrigarmi»
«Merlino..» eccolo, il solito tono canzonatorio di Gaius.
Merlino sospirò e si alzò, seguendo gli ordini del vecchio. «Che succede?»
«In tutti questi anni, ogni notte, ti ho sentito bisbigliare una frase che, se non erro, ti è stata detta dal Grande Drago. Qualcosa come… “Quando Albion…”»
«Quando Albion avrà bisogno del migliore, Artù rinascerà» interruppe il mago, citando la frase del Drago che lo aveva tormentato per tutti questi anni. «Quindi?»
«Re Lorkah sta muovendo il suo esercito verso Camelot, Merlino. Se ciò è collegato alla rinascita di Artù, il re deve tornare a casa»
«Non capisco, il regno è protetto. Ginevra, le guardie. Anche noi abbiamo un esercito» riflettè il mago ad alta voce.
«Se Artù è risorto per salvare Camelot, Merlino, significa che nessuno può proteggerla adesso. Forse, la morte della regina è più vicina di quanto pensiamo» concluse, e i duesi guardarono. Il silenzio che ne seguì fu piuttosto eloquente per entrambi. 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1496342