A misfit

di C h i a r a
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


We say goodbye in the pouring rain
And I break down as you walk away.
Stay, stay.
'Cause all my life I felt this way
But I could never find the words to say
Stay, st…
 

 
«Eleonora, non capisco perché devi sempre stare con le cuffie, se siamo insieme.»
Mia mamma mi interrompe, per l’ennesima volta, dal mio quotidiano viaggio mentale prescuola.
«Per passare il tempo.»
«Ma io sono qui per parlare con te.»
Sospiro. Quante volte glielo dovrò ripetere prima che capisca che non ho voglia di parlare con lei? «Io non ho niente da dirti, te non hai niente da dirmi. Non prendiamoci in giro, facendo finta che non sia così.»
Adesso è lei a sospirare. «Siamo arrivate. Buona giornata.»
Esco dalla macchina sbiascicando un saluto, poi sbatto pesantemente la portella. Non sento la macchina partire. Ovviamente sta osservando se mi unisco a qualche gruppo, è ancora convinta che io abbia qualche amica. Illusa.

Entro nella mia scuola, il favoloso istituto classico “Saverio Bettinelli” di Livorno. La bidella mi vede e mi saluta con lo sguardo d’odio profondo che riserva ad ogni studente che varca quella soglia. Salgo le scale a chiocciola, spalla a spalla con gente che vedo ogni santissimo giorno, e con cui non voglio avere niente a che fare. Entro nella mia solita classe stinta di bianco, dove le ochette ricoperte da 50 strati di trucco con cui mi ritrovo in classe se ne stanno a gruppetti. Mi sentono entrare, mi guardano, e mi liquidano con una scrollatina di spalle. Senza parlare, né salutare vado al mio posto: ultima fila, angolo vicino al termo. La seconda campana suona, tutti ai loro posti, mi accorgo che il mio compagno di banco manca. Poco cambia, non parliamo mai. Entra la mia prof di matematica, la prof Bigo. Dio, se mi odia quella. Ecco, ecco, ha appena guardato nella mia direzione e sollevato lo sguardo al cielo. Non sopporta che non parli mai con gli altri. Lo dice ai miei genitori ad ogni santissimo ricevimento
«Eleonora è una brava ragazza, diligente. Ma non interagisce con la classe.»
Io non interagisco con nessuno perché non mi interessa farlo. Sono perennemente annoiata, e non faccio niente per mascherarlo. Odio fingere di interessarmi alle noiose vite di quei pochi temerari che ancora tentano di parlarmi. Eccone delle altre. Le due ragazze sedute nei banchi davanti al mio si girano in contemporanea, come se si fossero date il via. E sempre in sincrono cinguettano.
«Ehi Ele, come ti va la vita?»
Santo cielo. Io amo, adoro, venero il mio fantastico nome. E-L-E-O-N-O-R-A. Perché la gente deve continuare a storpiarlo? Prendo un respiro profondo.
«Si, veline?»
Il sorrisetto falso sui loro volti sparisce una volta per tutte. Le chiamo sempre così perché sono due amiche, una bionda e una mora, che hanno una relazione letteralmente asfissiante. Loro vivono perché l’altra sia serena: se una si muove anche l’altra lo fa, se una compra qualcosa di nuovo sicuramente lo comprerà anche l’altra. Sono terrificanti, e odiano che le chiami così.
«Volevamo sapere se sabato sera sei andata al Polo.» chiede la bionda, Giulia.
Il Polo. Abbreviazione di Polo Bianco, la discoteca più “in” tra i fighetti di Livorno. Luogo dove gente che pensa che la discoteca sia il posto più figo del mondo si riunisce per ballare, sbronzarsi e, nelle serate buone, riuscire a farsi una o due persone. Il sesso di queste persone varia in base a quanto si è ubriachi.
«No, non ci sono andata.»
«Peccato.» inizia la mora, Cristina «C’era un dj troppo figo. E tipo noi eravamo sul cubo a ballare, e non ci crederai Ele, ma mi ha palpata. Io ero troppo ubriaca per capirci, allora sono scesa dal cubo e sono andata da lui. Ci siamo strusciati un po’ e mi ha lasciato il numero. Troppo figo!»
«Wow.» non tento neanche a mascherare il mio disinteresse «E te Giulia, niente numero?»
«Tre soalfe, là in fondo. Volete anche il tè?»
Bigo all’attacco. Le veline si girano di scatto, non possono compromettersi il ruolo di cocche di tutti i professori. Invece a me non ne frega.
 «Gliene sarei molto grata prof. Con dei biscotti magari? Grazie.»
L’avesse fatta qualcun altro, la battuta, sarebbero scoppiati tutti a ridere, Bigo compresa. Però io sono io, e io odio tutti lì dentro, come tutti odiano me. Quindi il massimo che ottengo sono una ventina di sguardi offesi rivolti verso di me.
«Santi, è la prima ora, non ho intenzione di mandare nessuno dal preside. Ma prova a fare un’altra battuta del genere, e ti ci mando a calci in culo.»
Nessuno sguardo offeso verso la prof per come mi si rivolge, ovvio.
«Come vuole lei.»
Scrollo le spalle e apro il libro, chiudendo la conversazione. La lezione continua nel migliore dei modi. Peccato, adoro litigare con la Bigo, mi da adrenalina.
 
Anche due ore di scienze con un vecchietto che tutto sommato non mi sta neanche troppo antipatico, soprattutto perché mi fa pena, passano. E così arriva l’intervallo. Tutti tornano al gruppo di appartenenza. Gli asociali che fanno gruppo tra di loro se ne stanno in classe, io sono talmente asociale che non faccio gruppo neanche con loro; i pigri se ne stanno al termo proprio davanti la porta; quelli con amici in altri classi vanno da loro; i fumatori escono. Ecco, l’unico gruppo di cui faccio parte. I fumatori. Sì, i miei lo sanno. E non possono farci niente, il corpo è mio, so perfettamente a cosa vado incontro. La comune credenza che, scrivendo nei pacchetti che morirò giovane, sarò spinta a smettere è una sciocchezza, tutti sanno cosa fanno le sigarette, scriverlo in toni intimidatori neri su sfondo bianco non cambierà certo le cose. Così esco, appena scendo il primo scalino fuori dalla scuola per andare in giardino ho già tirato almeno due boccate. Sento il fumo salire e scendere per le vie respiratorie, accendendo quella sensazione di calore eccessivo tanto fastidiosa quanto piacevole. Mi avvicino alla rastrelliera per le bici, e mi siedo sulla parte di marmo, ne sento il freddo attraverso i leggings. Mi sollevo del fatto che è già Aprile, quindi la temperatura è sopportabile. Osservo un po’ di gente intorno a me, i miei compagni di scuola. Così maledettamente legati al gruppo e mentalità a cui appartengo, da sembrare ridicoli. Ridono di battute non divertenti solo perché a dirle è stato il più figo, osservano la gente degli altri gruppi, ne sparlano e poi la osservano ancora. Così fanno tutti con me. Io sono la ragazza sola, parola ben diversa dall’affascinante e tenebrosa parola “solitaria”, della rastrelliera delle bici. Io mi presto ai loro sguardi sprezzanti, o anche divertiti. Quando si fanno troppo evidenti gli alzo il dito medio, giusto per fargli capire che li odio, ma non sono cieca. Basta, mi hanno stancata. Chiudo gli occhi, in modo da isolarmi da loro fisicamente, oltre che spiritualmente. Ho quasi raggiunto il mio nirvana spirituale, quando mi appoggio la sigaretta alle labbra, ma inspirando non sento il calore del fumo nella gola, sento la gelida brezza primaverile. Apro gli occhi e davanti a me vedo una ragazza con in mano la mia sigaretta, è mora, con un pastone arancione di fondotinta, che forma un forte contrasto con il bianco del suo collo, e una linea di eyeliner che svirgola verso l’infinito e oltre.
«Sai che fumare fa venire il cancro, stronza sfigata?»
Mi alzo, è più bassa di me di una spanna, mi faccio avanti facendole notare la differenza. Al mio passo 3 seguaci si avvicinano con fare minaccioso.
«Beh, tutti quelli qui fuori fumano. Anzi, giurerei di averti vista fare un tiro due minuti fa.» dico con fare pacato, ma senza arretrare.
«Si,ma gli altri non sono sfigati come te.»
«Se sono sfigata quanto dici, perché ti importa se prendo il cancro?»
«A me non frega un cazzo quello che fai tu, ma mi dai fastidio con la tua presenza.»
E butta a terra la sigaretta. Una sigaretta mi costa 20 centesimi, non mi va di buttarli nel cesso, mi chino per raccoglierla e quando la mia mano destra è sulla sigaretta la punta della scarpa della mora me la schiaccia a terra. Quindi, sigaretta spenta e mano schiacciata. Mi alzo, è li che mi guarda con un sorrisetto di sfida. La destra farà male, ma la sinistra no. Le tiro una sberla a manrovescio, che non la fa roteare su sé stessa, ma poco ci manca. Le sue amiche le si fanno intorno come  delle crocerossine. Io senza dire niente salgo i scalini e mi dirigo verso la presidenza.
 
Entro in presidenza con calma. Quando entro sento un equilibrio estremamente fragile attorno a me. Mi sembra di entrare in una stanza interamente fatta in cristallo, appoggio delicatamente i piedi per evitare di spezzare quest’equilibrio. Il preside è alla scrivania, troppo assorto nelle sue cose per accorgersi della ragazza di quarta palliduccia, biondo platino tinta che cammina in modo strano. Faccio un colpo di tosse sforzato. Alza lo sguardo su di me e sorride.
«Buongiorno. Sono qui per dirle che ho appena tirato una sberla epica a una ragazza che mi ha schiacciato la mano e spento la sigaretta.» dico tutto d’un fiato a con tono estremamente annoiata. Arriccio un po’ la bocca, in attesa della sfuriata.
«Conosci la ragazza?»
«E’ la tipa con l’eyeliner chilometrico.»
Soffoca a malapena una risata. «Questo non aiuta molto.»
«No.»
«Ma sarebbe ingiusto punire te senza punire lei. Non credi?»
«Se lo dice lei.»
«Bene, puoi andare in classe. Ma se succede di nuovo, temo che sarei costretto a punirti in ogni caso.»
«Come vuole. Arrivederci.»
Me ne vado, sempre stando attenta al fragile equilibrio regnante. Tornando in classe incrocio la ragazza con l’eyeliner. Ci guardiamo. Lei mi fa il segno di tagliare la gola. Io le faccio il medio.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Ad accompagnarmi a scuola è mia mamma, ma a lavoro ha 20 minuti di pausa pranzo, non riesce a portarmi a casa. Così, suonata la campanella, mi vesto con la massima calma. Nessuno mi aspetta, e io sono l’ultima ad uscire dalla classe. Fuori scuola vado verso il bar “Jukebox Hero” io amo quel bar. Ci vado un giorno sì e uno no. Ordino sempre tramezzino al tonno, ma la ragazza del bar mi offre sempre due pizzette gratis. Credo che Stephanie, la cameriera, sia ciò che ho di più vicino ad un’amica. Quando il bar è vuoto si siede con me e parliamo. Come ho detto prima, non mi interesso alle vite degli altri, infatti noi non parliamo di banalità come il tempo o com’è andata la giornata. La mia materia preferita è filosofia, lei la studia all’università, ed è proprio di questo che parliamo. Sto pensando all’ultima discussione avuta, mentre gli Hurts si alternano a Lana Del Rey nel mio i-pod. Le cuffiette sbalzano via dalle orecchie quando due mani mi avvolgono le spalle e mi sbattono contro il muro vicino a me. Due occhi verdi mi s’inchiodano addosso.
«Sai che le mani le dovresti tenere a casa tua?» dice con una voce baritonale.
Cerco di liberarmi, ma essendo un ragazzo non mi sposto di un millimetro.
«Sai che dovresti farti i cazzi tuoi?» mi muovo come un pesce fuor d’acqua, ma lui mi sbatte violentemente al muro.
«Io i cazzi miei me li faccio, e per questo ti do una lezioncina, così capirai che la mia ragazza non la devi toccare.»
Finalmente riesco a capire chi è. E’ il ragazzo che vedo ogni giorno pomiciare con la ragazza-eyeliner.
«Wow. E’ talmente coraggiosa che manda un cagnolino ad affrontarmi.» è un ragazzo, ma non credo che arrivi a picchiarmi. Mi farà solo bu.
Mi tira un pugno alla mascella di destro. Evidentemente sbagliavo. Non l’ha tirato alla massima potenza, ma ha fatto male. Devo costringermi a non piangere dal dolore.
«Hai capito che con me non si scherza?»
«Di sicuro ho capito che devi aver preso un corso di virilità per riuscire a picchiare una ragazza.»
Mi sbatte di nuovo contro il muro. «E posso fare di peggio se continui a darle fastidio.»
«Ha iniziato lei, ma credo di aver recepito il messaggio.»
Mi lascia e se ne va senza dire nulla.
 
Arrivo all’Hero senza spargere una lacrima, con la guancia sinistra gonfia come un pallone. Ma appena entro Stephanie mi saluta con un sorriso, che si spegne appena mi guarda bene. Non resisto più, corro in bagno e scoppio a piangere. Odio piangere. Mi rende debole, vulnerabile, ma proprio non riesco a fermare le lacrime. Nella guancia sinistra non le sento nemmeno scorrere sulla pelle, ma so che scendono, ne sento il sapore salato in bocca. Si apre la porta ed entra Stephanie.
«Eleonora, cos’è successo?»
«Non voglio parlarne.» non sono educata neanche quando piango.
«Ti hanno picchiata?»
«No, mi annoiavo e mi ho iniziato a tirarmi pugni alla mascella.» vedo nei suoi occhi la tentazione di lasciarmi qui a sciogliermi nella mia acidità mista a lacrime «Scusa. Non sono mai educata, adesso ancora meno.»
«Non vuoi parlarne, e va bene. Ma se è successo a scuola dovresti parlarne al preside.»
«Non è successo a scuola.»
«Ok. Allora alzati, asciugati le lacrime e vieni fuori. Masticare ti farà male, ti faccio un milkshake, e ti do del ghiaccio da appoggiare sulla guancia mentre parliamo un po’ di Eraclite. Che ne dici?»
«Dico che è un idea fantastica.»
 
Così torno a casa dopo una discussione sulla dottrina dei contrari di Eraclite. Quando torno a casa ovviamente non c’è nessuno, allora passo il mio classico noioso pomeriggio: compiti, musica, twitter. Sono abbastanza popolare su twitter, sono arrivata a 3.000 followers, non sono una di quelle che vengono chiamate “queen” e che non seguono nessuno. Ho altrettanti following, ogni tanto leggo anche quello che scrivono, e mi capita di trovare cose interessanti. Si dice che twitter sia il luogo dei depressi, io trovo che sia il paradiso dei depressi. Dove ognuno può dire quanto schifo faccia la propria vita e capire che non è l’unico a pensarla così. Non faccio amicizia con nessuno, ogni tanto scrivo un tweet a qualcuno, ma molto raramente. Più che altro posto citazioni o pensieri miei. Il mio ultimo tweet:
 
“Se ho visto più lontano è perché ero sulle spalle dei giganti.”
 
Citazione di Isaac Newton, proprio nel momento in cui lo posto sento la porta aprirsi e poi chiudersi. La voce cinguettante di mia mamma risuona nell’appartamento
«Tesoro, sono a casa.»
«Ciao mamma.»
Sento i tacchi dirigersi verso la mia stanza, entra senza bussare, come al solito, e si siede sul mio letto.
«Com’è andata oggi a scuola?»
«Solita noia.»
«Parli strano. Perché hai la guancia gonfia?» la guancia. Mi sono dimenticata che ho il viso che sembra un pallone, non mi guardo spesso allo specchio. «Eleonora. Cosa. E’. successo?”
«Mi è arrivata una gomitata per sbaglio.»
«Davvero?»
«Sì.»
«Ok, preparo la cena.»
Così finalmente mia mamma esce dalla mia camera, ticchettando con i tacchi sul parquet. La sento in cucina, che prepara la cena, ed entra mio papà. Lui non saluta, è da lui che ho preso la mia scontrosità. Mia mamma è la classica donna “filo di perle, filo di tacchi, filo di trucco”, fosse per lei saremmo sempre a prendere il tè con degli amici. Per fortuna che c’è mio papà. Purtroppo ha dovuto vendersi alla società, e diventare un pinguino da ufficio in giacca e cravatta, ma ho visto le foto di quando era giovane. Lui è andato a Woodstock. Da quando ho visto quella foto ho cambiato totalmente opinione su di lui. Noi andiamo d’accordo nel nostro non parlarci. Entra in camera mia, mi sorride, poi richiude la porta. Un secondo e la riapre, mi guarda la guancia. Richiude la porta. Io amo mio papà.
 
Una settimana dopo...
 
Eccomi a scuola. Il mio compagno, Alessio, è mancato tutti i giorni. Ma oggi, quando entro in classe eccolo seduto al suo posto. Io mi siedo senza neanche salutare.
«Ciao.»
è la prima volta che mi parla. Lo fisso per qualche secondo. «Ehi.»
«Sono mancato tutta la settimana.»
«L’ho notato.»
«Ho avuto la febbre.»
Mi chiedo dove voglia arrivare «Va bene?» è un’affermazione, ma mi esce di bocca come una domanda.
Lui soffoca una risata «Non ti interessa se il tuo compagno di banco sta male?» lo fisso senza parlare, ma con sguardo piuttosto eloquente «Certo che no. Di qualcuno ti interessa?» mantengo quello sguardo, stavolta non soffoca la risata «Sai, mi stai simpatica.»
Adesso a ridere sono io. Guardo alcuni miei compagni che mi fissano stupiti. Evidentemente non mi hanno mai vista ridere, questo fa diventare la mia risata ancora più stridula. Quando arriva il professore incrocio le braccia sul tavolo e ci appoggio la testa, per soffocare la mia risata. Non avrei mai creduto possibile di stare simpatica a qualcuno.

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Capitolo 3
*** 3 ***


Oggi mia mamma è a casa da lavoro, quindi passa l’intera giornata in casa a rompermi le scatole per ogni minima cosa. “Eleonora, hai sentito che Belen è incinta?” “Eleonora, hai visto dov’è lo scolapasta?” “Eleonora, mi gratti un attimino la schiena?”. Ho appena finito di studiare, e mi sto scervellando per scrivere qualcosa di interessante su twitter quando entra in camera mia.
«Eleonora! Stai sempre attaccata a quel computer! Esci a trovare i tuoi amici! Come hai detto che si chiamano?»
Ancora questa storia. “IO NON HO E NON VOGLIO AMICI” le urlo dentro la mia testa, ma dalla mia bocca non esce nulla. «Alice e Sara.» i primi nomi che mi sono venuti in mente, ma poi mi viene un’idea subdola per far eccitare mia mamma proprio mentre sta bevendo un bicchiere d’acqua «Ma oggi a scuola ho fatto amicizia con un ragazzo. Alessio.»
Mia mamma spalanca gli occhi, e poi sputa con poca eleganza tutta l’acqua. Io scoppio a ridere, mentre mia mamma farfuglia scusa.
«Oddio, Eleonora mi dispiace. Ho bagnato il computer? Oddio, scusa. Oddio. Ma veramente hai fatto amicizia con un ragazzo?»
«Sì mamma, è il mio compagno di banco. Gli ho appena scritto, così ci troviamo a fare un giro in centro.» provo a dire fra le risate.
«Sono così felice Eleonora! E pensare che volevo portarti dallo psicologo perché pensavo non sapessi relazionarti con gli altri. E adesso hai un amico! Vai, esci con lui.»
Non ho ascoltato niente dopo la parola psicologo. «Davvero pensavi di mandarmi da uno strizzacervelli?» le chiedo scioccata.
«Amore, era solo perché non ti vedo mai con i tuoi amici. Ero seriamente preoccupata per te.» dice tentando di accarezzarmi.
Io mi alzo, prendo la mia borsa e la felpa, ed esco di casa.
Mia mamma è convinta che sia uscita a incontrare Alessio, il mio “amico”. Come no. Però in centro ci vado. Prendo la bici, pedalo più forte che posso verso la piazza centrale. Una volta arrivata incateno la mia bici ad un paletto, e poi faccio la via pedonale con tutti i negozi. Ignoro le vetrine con i manichini anoressici a mostrare gonne inguinali e top che sarebbero attillati a una modella. Arrivata a metà di questa via, svolto per un vicolo a sinistra. Seguo il vicolo stretto per una ventina di metri, poi entro nell’edificio che mi si presenta davanti. All’interno sembra quasi di essere in un ospedale. Il marmo lucido del pavimento, i perfetti muri bianchi, il silenzio tombale. Salgo le scale e mi trovo in una stanza dove il marmo è sostituito dal parquet, con un bancone dietro il quale siedono due donne impegnate a scrivere qualcosa a computer. Le pareti sono ricoperte da scaffali contenenti libri, e so già che lo stesso spettacolo mi si ripresenterà  nelle altre dieci stanze. Saluto le impiegate dietro il bancone e vado nella stanza più lontana dall’entrata, quella quasi sempre vuota, perché contiene le enciclopedia, ormai usate da nessuno, e perché è l’ultima stanza da visitare, quindi se vuoi sederti trovi un tavolo in una delle stanze prima. Mi siedo su una sedia e poggio il mio mattone di Tolstoj, Anna Karenina, apro a pagina 560 e inizio a leggere:
Stava già per uscire, dopo aver baciato la mano alla moglie, quando ella lo fermò.

— Kostja, lo sai che mi son rimasti soltanto cinquanta rubli?
— Va bene, passerò a prenderne in banca. Quanto? — egli disse con un’espressione di scontento a lei nota.
— No, aspetta. — Ella lo trattenne per mano. — Parliamo un po’, ciò mi preoccupa. Io, mi pare, non pago nulla più caro di quel che dovrei, e i denari se ne vanno a fiumi. C’è qualcosa che non va.
— Per nulla — disse lui, tossendo e guardandola...


La biblioteca, mio rifugio ogni volta che mia mamma crede che io esca con i miei amici. Unico posto in cui io posso essere semplicemente me stessa, dove la gente che mi circonda non mi guarda male perché sono sola, ma mi ammira per come io sia capace di non fare rumore sfogliando le pagine, trascinando la sedia, camminando. Mi ringraziano senza parlare quando li ignoro, e li lascio nel loro mondo di studio o di fantasia. Non vengo mai qui per studiare, non sarei in grado di associare un luogo paradisiaco ad un’azione infernale. Così io vengo qui, nel posto che amo di più, per l’attività che amo di più: leggere. Non sono una divoratrice di libri, non leggo un libro in tre giorni. Io i libri li voglio assaporare, voglio percepirne le più piccole sfaccettature, voglio capire il personaggio, amarlo e odiarlo. E sia mai leggere più libri in contemporanea. Mentre leggi fai l’amore con il libro. Quando accarezzi le righe con l’indice, quando chiudi delicatamente la copertina, quando immagini i luoghi e i protagonisti proprio davanti a te. Quello è fare l’amore con un libro. Leggendone più di uno in contemporanea questi sentimenti li hai, ma sono molto meno intensi. Così so perfettamente di essere nella biblioteca di Livorno al momento, ma leggendo vengo catapultata in Russia, posso contare le gocce di sudore sulla schiena di Lev a lavoro, posso accarezzare i bei capelli di Anna. Insomma, vado in un viaggio che solo una canna eccellente potrebbe farmi fare. Ma forse anche quella non sarebbe in grado di darmi un’esperienza del genere.
Vengo interrotta di colpo da questo mio trip, dall’ingresso di un uomo nella stanza. L’uomo in completo elegante accarezza i dorsi delle enciclopedie con quattro dita, e cammina, cercando l’enciclopedia giusta. Mi da le spalle, quindi non riesco a vederlo in faccia. A dir la verità non mi interessa molto vederlo, quindi potrei comodamente tornare in Russia, ma qualcosa di quell’uomo trattiene il mio sguardo sulla sua schiena. Quell’uomo ha qualcosa di familiare. Di conosciuto. Ma non capisco cosa. Quando lo capisco chiudo il libro di colpo per alzarmi ed andarmene, ma è troppo tardi. Mio papà si è già girato e mi guarda sorridendo. Io mi blocco, non osando alzarmi, non osando sbattere le palpebre. Lui si siede nella sedia di fronte la mia, apre l’enciclopedia e legge. Senza alzare la testa chiede
« Hai detto a tua mamma che uscivi con gli amici?»
Ormai è inutile mentire «Si.»
«So da un bel po’ che vieni qui quando dici così.» lo guardo terrorizzata «No. Non l’ho detto a tua mamma.»
Tiro un sospiro di sollievo «Mi volete mandare da uno strizzacervelli?»
«Lei vorrebbe. E non ha tutti i torti.»
«Cosa?» dico a voce troppo alta. Non posso crederci, credevo di poter contare su di lui.
«Potrebbe aiutarti a relazionarti con gli altri.»
«Ma io non voglio farlo. Lo capisci? Non voglio.»
Mi prende la mano, credo sia la prima volta che parliamo veramente da padre a figlia. «Anch’io non volevo farlo alla tua età. Ma crescendo si è costretti a farlo.»
«Quando arriverà il momento lo farò. Da sola!»
«è una tua scelta. E io sosterrò sempre le tue scelte.» stringe appena la mia mano, poi va a riporre nello scaffale l’enciclopedia. Mi dà un bacio in fronte e poi esce.
Torno a casa per ora di cena. Una volta seduti tutti a tavola mia mamma mi fissa, e poi, con il tono che usa quando scopre che ho combinato un guaio, dice:
«Oggi ho fatto un giro in centro. Non ti ho vista con il tuo amico.» “Oh cazzo.” penso «Eleonora? Dov’eri oggi pomeriggio?»
Guardo mio papà chiedendogli aiuto, ma lui non solleva lo sguardo dal piatto. «Te l’ho detto. Con Alessio.»
«E io ti ho detto che sono stata in centro e non ti ho vista.» sbatte la mano sul tavolo «Ora pretendo di sapere dove sei stata.»
«Siamo stati in bar.»
Si tranquillizza. «Quale?»
«Il Jukebox Hero, dove vado sempre.»
«Va bene.»
Non è la prima bugia che dico a mia mamma, ma non è neanche l’ultima. La cosa che mi stupisce è che mi crede sempre. Ha troppa fiducia nei miei confronti.

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Capitolo 4
*** 4 ***


Il giorno dopo, Mercoledì: Alessio prova a iniziare una conversazione. Con un’occhiataccia lo stronco sul nascere.
Giovedì: Alessio mi racconta degli allenamenti di calcio del giorno prima. Sorrido e annuisco. Dico a mia mamma che esco con lui, chiede dove vado, rispondo in modo confuso. Ovviamente sono in biblioteca.
Venerdì:  mamma sembra sempre più strana. Continua a chiedere di Alessio, a pranzo chiede informazioni sulla sua famiglia e sulla sua vita. Riesco a rispondere grazie ai dettegli non chiesti che lui mi dà sempre su sé stesso.
Sabato: “Esco con Alessio” subito dopo aver mangiato. La biblioteca è chiusa di sabato pomeriggio, vado all’Hero, e leggo. Sabato è il giorno libero di Stephanie.
Domenica: La mattina messa, il pomeriggio guardo il mio film preferito “Inception” sarà la quindicesima volta che lo vedo, e non capisco il finale.
Lunedì: Alessio mi chiede del mio fine settimana, stranamente gli rispondo. Anche a lui piace Inception, e nemmeno lui capisce il finale.
Martedì:
Sono a cena con i miei, oggi pizza. A un certo punto mia mamma, senza introdurre il discorso o altro, fa una proposta, se si può chiamare così  una cosa già decisa.
«Invita a cena Alessio, Alice e Sara. Sabato. Mangiate la pizza in mansarda e poi guardate un film.»
La pizza mi si incastra in gola «Come scusa?»
«Hai capito bene. Sabato. I tuoi amici qui.»
Faccio una risata forzata «Vuoi controllare se esistono vero?»
Il suo volto è impassibile «Si.»
«Ti sembra che io possa inventare della persone? Ti rendi conto di cosa stai dicendo?»
Finge di non aver sentito. «Che film volete vedere?»
«Ok.» sospiro «Invito Alessio.» almeno lui esiste. Le altre due non saprei chi invitare.
«Alice e Sara?»
«Abbiamo litigato.»
«Posso sapere perché?»
«Dicono che da quando esco con Alessio non sto più con loro. Ora posso finire la mia pizza senza dovere subire un interrogatorio su chi è mio amico e chi non lo è?» quando si mente è meglio troncare la discussione, per evitare che la bugia si ingigantisca sempre di più.
«Si.»
Riprendo a mangiare la mia pizza, e nel frattempo cerco il modo per dire ad Alessio che è costretto a mangiare la pizza e vedere un film con me.
Il giorno dopo arrivo a scuola, lui è già al posto, come al solito mi saluta con il sorriso. Oggi lo saluto anch’io. Aspetto la fine della scuola? Meglio di no. Via il dente via il dolore, glielo dico, mi ride in faccia e la chiudiamo qui.
«Alessio, devo chiederti una cosa.»
Si gira con tutto il corpo verso di me, e mi sorride a 32 denti. «Dimmi tutto.»
«Sabato vieni a casa mia? Mangiamo la pizza e guardiamo un film.» inizio a tormentarmi l’interno della guancia destra, come sempre quando sono ansiosa.
Lui resta senza parole per qualche istante, ma poi fa un altro dei suoi ampi sorrisi «Certo. A che ora?»
Rimango a bocca aperta, non mi ha riso in faccia. «Davvero? Sei sicuro?»
«Sicurissimo.»
«Vieni per le 7, ecco l’indirizzo.»
Scarabocchio l’indirizzo su un foglio di carta e glielo passo.
«Vai sempre al Jukebox Hero, vero?»
«Come fai a saperlo?»
«Anch’io faccio quella strada per andare a casa, ti vedo ogni giorno.»
«Quindi tu finita scuola mi segui sempre? Inquietante, non credi?»
«È l’unica strada che posso fare per andare a casa.»
«Mmmm... Vabbè.»
Finita scuola vado verso l’Hero come al solito. Ma mi sento afferrare il braccio, mi giro e mi trovo davanti Alessio.
«Facciamo la strada insieme? Così nessuno penserà che io sia uno stalker.»
«OK. Ma sappi che non ho niente da dire, se hai intenzione di parlare.»
«Non ho intenzione di farlo.»
Così per la prima volta Alessio mi accompagna all’Hero, non parliamo, ci salutiamo e mi augura buon pranzo. Il giorno dopo mi accompagna di nuovo, anche quello dopo, e quello dopo ancora.
Sabato...
Sto seduta sul divano a gambe incrociate. Oggi per la prima volta nella mia vita ho dovuto pensare a cosa mettermi, alla fine ho scelto dei leggings neri e una maglia grigia oversize, ai piedi ho le mie pantofolone a forma di birra. Anche se non voglio ammetterlo sono agitata, è la prima volta che presento qualcuno ai miei genitori, e sono estremamente in imbarazzo. Dentro la mia testa si ripetono all’infinito tutti i modi in cui la serata può andar male. Sto guardando la tv senza realmente vederla quando suona il campanello. Mi precipito alla porta, prima che abbia il tempo di farlo mia mamma. Ed ecco Alessio, è un ragazzo di statura e corporatura media, ha la carnagione olivastra, i capelli corvini ricciolini spettinati, gli occhi color nocciola. Ha la camicia di jeans con le maniche arrotolate a 3/4, i pantaloni neri con il risvolto appena sopra le Nike. Il suo sguardo cade sulle mie pantofole, e ride. Lo faccio entrare sussurrando un saluto, entra sorridendo e porgendomi un bellissimo mazzo di fiori. Lo sto per prendere, quando si infiltra mia mamma.
«Quindi tu sei Alessio?»
Lui le sfoggia uno dei suoi migliori sorrisi «A quanto pare.»
«Finalmente ti conosco. Mia figlia parla spesso di te.»
Mi guarda con uno sguardo sorpreso e un po’ divertito, sento il sangue salirmi alle guance. «Davvero?»
«Sì. Con tutte quelle volte che siete usciti. Come si chiama il bar?»
Sto per rispondere io, ma lui mi parla sopra «Jukebox Hero.»
Mia mamma annuisce. Pensava, e sperava di coglierlo impreparato. Ancora non crede che sia mio amico.
«Andiamo in camera mia.»
Prima che abbia il tempo di dire qualcosa afferro Alessio per il polso e lo porto in camera.
«Però. Mi porti subito in camera tua. Non sei timida come pensavo.» dice alzando un sopracciglio.
Gli tiro un pugno al braccio. «Taci. Era per liberarti da mia mamma. Fosse per lei saresti rimasto lì tutta la sera a rispondere a domande.»
Sorride. «Adesso che facciamo?»
«Tu fai quello che vuoi. Come fossi a casa tua. Lì c’è il computer, lì la tv e lì lo stereo. Divertiti.»
Mi sdraio sul letto, in posizione fetale, praticamente in bilico sul lato destro, dandogli le spalle. Come dormo di solito. Aspetto di sentire qualcosa accendersi, invece sento le molle cigolare, poi percepisco il suo braccio contro la mia schiena. Mi faccio appena più in là, in modo che non ci sia contatto fisico.
«Perché ti faccio così schifo?» chiede dopo qualche secondo di silenzio.
«Non sei te. Sono i ragazzi in generale. Pensate solo al sesso.»
«Non tutti siamo così.»
Mi viene un’idea. Giusto per prenderlo in giro, ma dovrei andare contro ogni mio principio. Spero nessuno entri in camera nel prossimo minuto.
Prendo un respiro, poi di scatto mi giro. Prima che possa avere una qualunque reazione, mi metto a cavalcioni su di lui e lo bacio. Il mio primo bacio l’ho dato, quindi non mi interessa se questo non è fatto con sentimento. Mi aspetto che mia spinga via, invece la sue mani iniziano a scorrere lungo la schiena senza sapere dove fermarsi. Ripeto tre volte dentro di me “Mississippi” e poi stacco le labbra dalle sue.
«Vedi che voi ragazzi pensate solo al sesso?»
«Sei tu che mi sei saltata addosso.»
«Sei tu quello che sta cercando di slacciarmi il reggiseno.»
Sembra accorgersi solo in quel momento di avere le dite che giocano con i miei ferretti. Le toglie da lì e la alza in segno di resa. «Touchè»
Mi rimetto al mio posto «Sai vero che questo non significa nulla?» grugnisce in segno di assenso. E stiamo lì, sullo stesso letto, ma nettamente separati da una linea immaginaria.
Dopo un po’ arrivano le pizze, finito di mangiare guardiamo un ESP-fenomeni paranormali, horror che non fa realmente paura a nessuno dei due. Verso le 11 lo accompagno alla porta. Mia mamma è lì che ci osserva di nascosto. Ringrazia della bella serate e ci diamo due baci sulle guance. Ovviamente non faccio in tempo a tornare in camera che sono placcata da mia mamma, chiede com’è andata la serata e cose varie. Il suo sguardo si sofferma un po’ sul letto disordinato.
«No mamma, non abbiamo fatto niente.»

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Capitolo 5
*** 5 ***


«Domenica mia mamma andava in giro per la casa continuando a chiedermi di te “Che ne pensa Alessio?” “Ad Alessio piace?” “Certo che è proprio un bel ragazzo.” Non riuscivo più a sopportarla, così le ho detto che uscivo con te. Come al solito»
Alessio mi guarda ridendo, è l’intervallo e sono rimasta in classe a parlare con lui. Solo perché devo raccontargli di mia mamma. Non per altro.
«Quindi per tua mamma io e te siamo usciti una decina di volte nelle ultime settimane?» chiede.
«Esatto.»
Esita un attimo prima di parlare «Ti andrebbe se uscissimo davvero insieme?»
In quel momento suona la campana, ma non la sento. Il tempo attorno a me si è fermato. Ecco, immaginavo di avergli dato troppe illusioni. Non dovevo rimanere all’intervallo. Anzi, non dovevo baciarlo Sabato. Meglio ancora, non dovevo proprio invitarlo a casa mia! Avrei dovuto inventare una stupida scusa con mia mamma! Ormai è troppo tardi.
«Non hai altri amici con cui uscire?» il suo sorriso si affievolisce.
«Mmm... Si, un paio. Ma non se la prenderanno.»
«Sicuro?»
Vedo nei suoi occhi che l’ho ferito «Se non vuoi basta dirlo.»
«Non voglio. I miei pomeriggi sono fatti di lettura solitaria in biblioteca, non voglio nessuno con me.» dico, forse con un po’ troppa veemenza.
«Ok.»
Tutti tornano in classe ed inizia la lezione. Alessio si piega sui libri e non mi parla più per il resto della giornata. Alla fine della scuola non mi accompagna all’Hero.

Sono seduta con Stephanie, a non ascoltare il suo monologo filosofico. Stacco e appoggio sul piatto pezzi del mio tramezzino. Improvvisamente Stephanie si blocca, la guardo e scoppia a ridere.
«Wohoo! L’insensibile Eleonora alle prese con problemi di cuore.»
«Io non ho nessun problema.» dico, tornando a martoriare il tramezzino.
«Conosco quello sguardo. Racconta.»
«Uno vuole essere mio amico. Io non voglio, gliel’ho detto e c’è rimasto male.»
«La sintesi è sempre stata il tuo forte. Al contrario del tatto.»
«Senti, io quello che devo dire lo dico.»
«Sì si. Nessun dubbio, ma se non gli dai l’opportunità di esserti amico non saprai mai se ne vale la pena.»
«Fidati, so che non ne vale la pena.»
«Sei proprio una causa persa.» dice sconsolata.

Nei due giorni successivi Alessio non mi parla, e decido di non dire a mia mamma che esco con lui. Così sto a casa, su twitter, dove i tweet si fanno più depressi del solito.
È Giovedì, neanche oggi Alessio mi ha parlato. Non capisco come possa essere così offeso per una cavolata del genere. Sa come sono fatta, vede che non cerco nessun amico. Gliel’ho ripetuto tante di quelle volte la settimana scorsa. Si vede che non l’ha capito, ma non volevo illuderlo più di quanto avessi già fatto. Meglio così, se mi deve fare queste scenate, è meglio che non siamo diventati amici. La seconda cosa che odio di più, dopo puttane e fighetti, sono le scenate. Invece mia mamma le ama, ogni volta che io o mio papà facciamo qualcosa inizia a sbraitare con voce stridula, a gesticolare, sbattere mani su ogni superficie che le è vicina. Quando fa così me ne vado dalla stanza, peggiorando la situazione. Mia mamma mi sta proprio urlando contro, sbattendo il palmo sulla mia scrivania, al momento. Annuisco.
«Esco con Alessio.»
E me ne vado. Non mi blocca solo perché si è presa una cotta per Alessio. Non volevo usare questa scusa, per rispetto verso di lui. Non volevo usarlo, mentre è arrabbiato con me. Ma proprio non ce la facevo più a sopportarla.
Solita strada, ed entro nella solita biblioteca. Solita stanza, come al solito vuota. Solita sedia, e solita posizione da lettura: libro appoggiato al tavolo, gambe composte, palmo destro che sorregge la testa, mano sinistra che sfoglia le pagine. Noto che la mia vita è fatta di cose solite. Io amo la routine, ed odio i cambiamenti. Forse è per questo che non voglio essere amica di Alessio, sarebbe un cambiamento. E non di quelli piccoli. Sono le cinque circa, e sento qualcuno che entra nella mia stanza. Ancora mio papà? Quante volte deve leggere quella maledetta enciclopedia? Non stacco gli occhi dal libro per non distrarmi. La persona entrata si siede nella sedia davanti la mia e poggia un libro sul tavolo. Trattengo lo sguardo abbassato. Non sono una persona curiosa, ma vedo una sagoma davanti al mia, ed attrae spesso il mio sguardo, che cerco di controllare. Dopo la terza volta che cerco di vedere questa persona senza guardarla chiudo il libro e alzo gli occhi. Rimango immobile nel ritrovarmi davanti Alessio, chino su un libro. Gli tiro un pugno sulla spalla.
«Cosa ci fai qui?» sussurro arrabbiata.
«Leggo.»
«L’ho visto. Ma non dovresti essere qui!»
«Perché no?»
«Ti avevo detto che non volevo nessuno!»
«E io me ne sono fregato di quello che hai detto. Come tu fai sempre con me.»
«Non è...» rifletto un attimo, e un sorriso mi compare involontariamente «Touchè.»
Anche lui sorride «Questo vuol dire che possiamo uscire?»
«No. Io ti scrivo un messaggio quando esco di casa per venire qui. Se vuoi mi raggiungi, se non vuoi fa lo stesso.»
«E dopo ci facciamo un giro in centro.»
«No.»
«E invece sì.»
«Vedremo.»
Riprende a leggere, soddisfatto. Gli alzo la copertina e vedo che sta leggendo “Cime tempestose”, avevo intenzione di leggerlo anch’io. «Me lo presti quando hai finito?» annuisce, senza alzare gli occhi dal libro «Come facevi a sapere che sarei venuta?»
Alzò la testa «Ma non ero io quello che non doveva disturbare? Comunque da lunedì mattina, quando mi hai detto che venivi qui sono venuto ogni pomeriggio, e ti ho cercata.»
“Oh, che cosa dolce.” Penso dentro di me. No aspetta, ho appena associato dolce a un ragazzo? Oddio. Rido sforzatamente «Stalker.»
Entrambi torniamo ai nostri libri. A un quarto alle sei chiude il libro «Andiamo a farci un giro.»
«Perché?»
«Perché devi vedere un po’ di mondo.»
«Il mondo fa schifo.»
«È vero, ma è l’unico che abbiamo.»
Oltre ad essere il primo a parlarmi, il primo a voler essere il mio amico, è anche il primo che mi lascia senza parole.
Nonostante mi lamenti più di una volta mi prende per mano e mi trascina fuori dalla porta. Usciti mi sembra voglia lasciarmi la mano, così mollo la presa. Invece la gira per intrecciare le dita come fanno i fidanzati, allora la stringo con forza per tenerla com’era prima. Mi guarda e io mi mordo il labbro facendo spallucce. Così camminiamo per la via pedonale tenendoci per mano come fanno i bambini che stanno in fila per due all’uscita dalle elementari. Alla prima occasione stacco la mano, per andare a vedere la vetrina dell’unico negozio in cui compro roba da vestire in tutta Livorno: Bershka. Lo guardo, scuotendo la testa verso il negozio. Lui senza dire nulla apre la porta, facendomi entrare. Immagino mi stia dietro, seguendomi e senza toccare i vestiti. Invece mentre io scorro i vestiti che stanno a destra lui scorre a sinistra. Ogni tanto mi chiama per mostrarmi delle cose fantastiche. Una volta una camicia semi trasparente con borchie nel colletto, un’altra una canottiera larga nera con una stampa degli iron maiden, un’altra ancora mostra una gonna a fascia con una zip sul davanti. Mi stupisco di come sia riuscito a capire il mio stile così velocemente, e come riesca a trovare tutte cose che mi piacciono.
«Hai dei soldi?» chiede ad un certo punto
«Sì, perché?»
«Perché ti compri questo.»
Si gira verso di me, mostrandomi un bellissimo vestito, ma attillato e corto.
«E io quello quando dovrei metterlo?» chiedo scioccata.
«Boh. Al polo, per esempio. O anche per andare a mangiare un pizza.»
«Io non esco praticamente mai la sera.»
«Bene. Recupererai il tempo perso.»
«No.»
«Almeno provalo.» mi allunga la stampella, senza perdere il suo sorriso speranzoso. La afferro.
«Che taglia è?» Guardo l’etichetta, 42. «Hai preso quella giusta. Come facevi a saperlo?»
Tossisce «Ehmm... Sono andato a occhio.»
Vado verso i camerini, metto il vestito ed esco. Alessio è davanti la tenda, quando esco rimane a bocca aperta.
«Sono ridicola. Sapevo di non doverlo mettere.»
Faccio per rientrare nel camerino, ma Alessio mi blocca per il polso e mi obbliga a girarmi verso lo specchio. Guardo il mio riflesso e per la prima volta nella mia vita mi sento davvero bella. Il rosa antico del vestito si mescola delicatamente alla mia pelle pallida, i capelli biondo platino cadono lunghi sulla spalla sinistra, dandomi l’aria di una bambola di porcellana. Le fasce di cui è fatto il vestito mi avvolgono, senza segnare i fianchi per me troppo larghi e la pancia per me troppo pronunciata. Arriva a metà cosce, mostrando le gambe che fino a quel momento ho sempre avuto paura di scoprire, perché mi sembravano storte.
«Ti rendi conto di quanto sei bella?»
Non rispondo. Mi avvicino allo specchio, appoggiando un dito sulla superficie fredda e liscia. Ancora non riesco ancora a credere che stia riflettendo me.
«Lo prendo.» dico ridendo.
Sto per entrare nel camerino, quando mi blocco. Torno allo specchio e mi guardo i piedi. La magia svanisce quando vedo i vecchi e logori Dc Martens, che fanno a pugni con il vestito.
«Che c’è?» chiede Alessio
«Non ho scarpe da mettere.»
Alessio ride «Porremmo rimedio anche a questo.»
«No. Non posso prenderlo.»
«Ok.» lo guardo stupita, pensavo avrebbe insistito «Lo compro io.» continua, serio.
«Scherzi?»
La sua espressione non cambia minimamente «No. So la taglia e il modello. Prendo io.»
«Per favore.  Mi sentirei in debito.»
«Tu compri le scarpe. Io il vestito.»
«Ho altra scelta forse?»
«No.»
Ridiamo tutti e due, quando ci siamo calmati lo ringrazio. Andiamo alla cassa e compro il vestito. Poi andiamo in un negozietto di scarpe lì vicino. Mi compro un paio di stivaletti in camoscio con tacco 10 cm. Non sono le prime scarpe col tacco che metto. In occasione come cresime e comunioni di famiglia ne rubavo un paio a mia mamma, avendo lo stesso numero. Quindi riesco  camminarci, in modo più o meno stabile. Quando usciamo ci troviamo davanti mia mamma. Si avvicina, nonostante io cerchi di scappare. Fruga nelle borse e si eccita per i miei nuovi acquisti. Lei ama fare shopping, mentre a me non fa né caldo né freddo. Si illude che io abbia imparato l’importanza dei vestiti. Scambia qualche parola cinguettando con Alessio, e poi va alla macchina. Alessio mi accompagna fino allo scooter, lui abita lì vicino, quindi va a casa a piedi. Quando è il momento di salutarci mi abbraccia, io ricambio, un po’ impacciata. Forse alla fin fine, nonostante mia sia opposta, un po’ amici lo stiamo diventando.

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Capitolo 6
*** 6 ***


Nell’ultimo periodo io ed Alessio abbiamo parlato molto. Alcuni in classe ogni tanto mi guarda strano, vedendo che interagisco con qualcuno. Persino la Bigo ha dovuto riprendermi perché parlavo.
«Sono tre anni che insegno in questa classe, adesso ti svegli e chiacchieri di continuo con Longari. La vuoi smettere?» ha chiesto, infastidita.
«La smetterò quando avrò finito il discorso.» le ho risposto.
Mi ha guardata offesa e poi ha ricominciato a spiegare. Le sue minacce sono sempre a vuoto.
È appena suonata la campana. Di solito Alessio all’intervallo sta in classe, a parlare con qualcuno. Mi sto alzando per uscire quando mi viene in mente una cosa.
«Ti va di venire fuori?»
Sorride e annuendo e mi segue in cortile. Mi accendo la sigaretta , e inizio a fumare, seduta come al solito sulla rastrelliera delle bici. Alessio è in piedi davanti a me, mentre mangia in silenzio il suo panino. Quando ha finito gli mostro il pacchetto di sigarette aperto, lui lo osserva e poi ne prende una appoggiandola alla bocca. Senza chiedere prendo il mio zippo e gliel’accendo.
«Non pensavo fumassi.» gli dico.
«Una sigaretta di tanto in tanto.» annuisco «dove hai comprato lo zippo? È fighissimo.»
«Tieni.» e gli lancio l’accendino argentato. Dalla tasca sinistra ne tiro fuori uno uguale «Ne ho sempre uno di scorta.»
Ride facendo sbuffare fuori il fumo. Subito dopo sento una vocina stridula.
«Alessiooooooooooooooo!»
Ci giriamo entrambi verso la voce, e vedo la ragazza-eyeliner avvicinarsi a noi. Abbraccia Alessio spalancando il braccio destro e sfiorandomi il naso con la sigaretta tra indice e medio. Si scambiano tre baci sulla guance.
«Alessio, tesoro! È da tantissimo che non ti vedo. Dov’eri finito? Hai trovato la ragazza, eh?» chiede facendo l’occhiolino.
«No no. È solo un amica.» farfuglia a testa bassa.
Si gira verso di me, porta la sigaretta nella mano sinistra e mi allunga la destra «Piacere, Sofia.»
«Eleonora» dico, stringendole appena la mano.
«È la ragazza del mio migliore amico» mi spiega Alessio.
Sofia mi guarda, tentando di nascondere un sorrisetto da sfottere. Si gira e urla.
«Amore. Vieni.»
Arriva il ragazzo che tempo fa mi aveva tirato un pugno dopo scuola. Batte il cinque ad Alessio e si abbracciano.
«YO! È da troppo che non ci vediamo, zio.» gli dice l’amico. La sua voce è più odiosa di quanto ricordassi.
«Da quando non sei più single scompari sempre.»
«Eh sì, mi ha rapito.» mette un braccio attorno alla vita della ragazza. Ogni tanto il braccio scivola lentamente verso il basso fino a toccarle il sedere.
Alessio mi presenta il suo amico, che scopro chiamarsi Omar.
«Ci conosciamo già.» dico, Alessio mi guarda stupito.
«Davvero?»
«Sì. Lei» indico Sofia «mi ha spento una sigaretta pestandomi la mano. Lui» indico Omar «mi ha presa a pugni per avere sfidato il suo amore.» dico l’ultima frase con voce stridula, per imitare Sofia.
Alessio li guarda con uno sguardo furioso. Proprio in quel momento suona la campana. Prima di poter avere una qualunque reazione i due fidanzati sono scomparsi dentro la scuola. Torniamo in classe. Alessio non parla, vedo i muscoli della sua mascella squadrata tendersi, quando ci sediamo al nostro posto.
«È vero?» chiede bruscamente.
«Avrei qualche ragione per mentire?»
«No, direi di no.» il tono della voce si addolcisce «Mi dispiace per quello che ti hanno fatto. Sono due cretini.»
Faccio spallucce sorridendo, poi entra il prof e inizia la lezione.


Sono su youtube, ad ascoltarmi qualche canzone, tra le schede aperte ho le interazioni di twitter. Improvvisamente un “uno” tra parentesi compare. Aggiorno la pagina e scopro di avere un nuovo follower, lo seguo, senza guardare chi è. Torno al video di “Evelyn”, ma non appena finisco compare di nuovo il numerino. Il mio ultimo follower mi ha menzionata, quando però leggo il nome mi blocco qualche istante: Alessio Longari. “Ehi ciao.” Scrive, rispondo dicendogli che non l’avevo riconosciuto.  Sono stupita,  è la prima persona che conosco nella realtà che mi segue su twitter. “Ci troviamo?” mi chiede. Guardo sulla scrivania le chiavi che mia mamma si è dimenticata. “Non posso uscire, mia mamma si è dimenticata le chiavi.” Non riapro il video, è inutile, non faccio in tempo a vederne qualche secondo che ha già risposto. “Posso venire lì. Se vuoi.” Gli rispondo di venire. Dopo 20 minuti al massimo, suona il campanello. Apro, e solo in quel momento mi accorgo di essere vestita con una vecchia tutona anni ’80 di mia mamma. Alessio mi guarda ridendo.
«Legami ad un palo. Potrei saltarti addosso.»
Gli tiro una sberla sul braccio.
«Taci ed entra.» andiamo in camera mia. «Perché volevi vedermi?»
«Così...» risponde, facendo spallucce
«Ok, che vuoi fare?»
Si guarda intorno, poi vede la xbox vicina la tv.
«Giochi con la xbox?» annuisco e gli indico i giochi sullo scaffale.
Si avvicina e li scorre con l’indice, tira fuori FIFA 2013 e mi mostra la copertina con sguardo interrogativo. Dopo che ho annuito inserisce il cd nella console, prende i due joystick e si siede vicino a me sul letto.
«Sai quanti ragazzi vorrebbero avere vicino una bella ragazza che gioca a FIFA?»
«Solo per portarsela a letto dopo aver giocato.» rispondo scegliendo il Chealsea.
«Ma perché odi così tanto i ragazzi?» sceglie il Manchester United.
«Io non odio i ragazzi. Io odio tutti.»
«Anche me?»
«Se ti odiassi non saresti qui.»
Vedo un sorrisino di soddisfazione nelle sue labbra, e mi accorgo che involontariamente anche le mie fanno lo stesso. La prima partita la vinco 2-0, allora mi chiede una rivincita, e una ancora, e una ancora. Tutte vinte da me. Finita la quarta partita mette il broncio.
«Stupido gioco.»
«Fai sempre così quando perdi?»
Ride. «No. Adesso che facciamo?»
Non faccio in tempo a rispondere, che la porta della stanza si spalanca. Mia mamma entra come una furia.
«Cosa state facendo?» sbraita.
Io la guardo confusa, e senza parlare le mostro il joystick. Chiude gli occhi, inspira sonoramente, e poi con tono melodrammatico.
«Alessio. Devo chiederti di andartene.»
Mi saluta, e prima di andarsene mi da un bacio sulla guancia. Io però quasi non lo noto. Ho lo sguardo che non si stacca dagli occhi di mia mamma.
Quando sento la porta chiudersi le chiedo «Che problema c’è?»
«Non voglio che tu rimanga in camera tua con un ragazzo quando non c’è nessuno in casa.»
«Ah, quindi è questo il problema? Beh, non c’è niente tra di noi. Quindi non ti devi preoccupare.»
«Non mi interessa se c’è qualcosa oppure no. Ho detto che non voglio ragazzi in casa quando non ci siamo io o tuo papà. E questo è tutto.»
Non le rispondo, le indico solo la porta, e sto immobile fino a quando non esce. Io non capisco quella donna, se non si fida di me non so che farci. Ricevo un tweet da Alessio, dove si scusa se ha fatto un casino. Da lì iniziamo una conversazione che si interrompe all’ora di cena, ma poi va avanti fino alle 11 e mezza, parlando del più e del meno. Sento mio papà e mia mamma litigare in sala per quello che è successo prima. Mio papà è ancora una volta dalla mia parte. Almeno qualcuno di sano in questa famiglia c’è.


È metà Maggio. Ormai è un mese che io ed Alessio ci siamo parlati la prima volta. Dalla sfuriata di mia mamma non ci troviamo più a casa mia, nonostante lei sia venuta a chiedermi scusa. Il più delle volte ci troviamo in biblioteca, leggiamo un po’ e poi mi costringe a fare un giro in centro.
Sono in biblioteca anche adesso, leggo le prime pagine di “Cime tempestose”, prestatomi proprio da Alessio, lui deve ancora arrivare. Mi accorgo che sì, sono contenta di avere qualcuno con cui passare un po’ di tempo, ma mi mancano i bei pomeriggi passati da sola, con i miei pensieri. Non che mi disturbi, quando siamo soli spesso lo costringo a stare in silenzio. Però non lo ritengo ancora un amico al 100%, forse con il fatto che non ne ho mai avuto uno faccio fatica ad accettarlo. Ma non sono ancora convinta.
Eccolo arrivato. Gli sorrido e poi si siede a leggere il giornale. Dopo un’oretta usciamo, e lo porto all’Hero. È la prima volta che ci andiamo insieme. Stephanie chiede spesso di lui, ma io riporto sempre l’argomento alla filosofia. Quando entriamo, non facciamo in tempo a sederci che è già da noi con un blocchetto, chiedendoci che ordiniamo. Quando torna, invece di due spritz ne ha tre. Dopo averci serviti si siede e beve con noi. Alessio mi guarda strano, allora faccio le presentazioni.
«Stephanie, questo è Alessio. Alessio, Stephanie.»
Si stringono la mano. «Eleonora mi ha parlato molto di te.» dice Stephanie.
«Davvero?» chiede Alessio, stupito.
«No. Ho cercato di farla parlare, ma lei cambia sempre argomento. Sono contenta che il ragazzo misterioso abbia finalmente un volto.»
Così iniziano a chiacchierare amichevolmente. Io invece sto in silenzio, a sorseggiare il mio spritz, non ascoltandoli, pensando al nulla. Questo è quello che non mi convince della nostra amicizia. Dovrei tenerci a entrare nella conversazione, essere offesa dal fatto che mi stanno totalmente ignorando. Invece sono contenta che lo facciano, così posso starmene sulle mie, evitando silenzi imbarazzati. Dopo un po’ Stephanie deve andare a servire altri tavoli.
«Tutto bene?» chiede Alessio.
«Sì.»
«Sei libera sabato sera?»
Non mi serve fare mente locale, non ho mai da fare. «Sì.» non gli chiedo perché, immagino già cosa mi voglia chiedere.
«Ti va di venire al Polo con me?»
Lo spritz mi va di traverso. Mi aspettavo mi invitasse a mangiare la pizza. Non certo la discoteca!
«Non ci sono mai stata.» mi esce la scusa più stupida che mi passa per la testa.
«Beh, una ragione in più per andare.»
«Ok.» esce dalle mie labbra, ancora prima che io possa fermarmi.
Alessio mi guarda stupito.  «Vuol dire che andiamo?»
Ormai è troppo tardi per tirarmi indietro. «Sì.»
«Fantastico!» dice, emozionato «Passo a prenderti per le otto e andiamo a piedi. Tanto è lì vicino.»
Faccio un sorriso tirato, per fingere di essere emozionata. Io detesto quel posto. Vabbè, se mi fa tanto schifo mi ubriaco, almeno non mi renderò conto di niente.

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Capitolo 7
*** 7 ***


Sabato sera...

Sono le otto, mi sto facendo delle onde ai capelli con la piastra. Mi piace tenerli così, tutti sulla spalla sinistra, mossi e lunghi, sono contenta di essermi tinta i miei banali capelli biondo cenere in un bel biondo platino. Non c’è il minimo contrasto con la mia pelle pallida, sembro una dai paesi nordici. Metto il vestito e le scarpe comprate con Alessio, poi vado a truccarmi: una semplice linea di eyeliner nero “svirgolato”; fondotinta chiarissimo; blush rosa; rossetto bordeaux. Prendo la pochette di mia mamma, quando sento la sua vocina.
«Dio, Eleonora, sei bellissima! Se uscire con lui ti fa questo effetto, approvo la vostra relazione.»
Mi siedo sul divano vicina a mio papà. «Sappi che allora approvi il nulla. Non c’è nessuna relazione.»
Torna  in cucina con un sorrisetto furbo che non mi piace. Mio papà mi guarda.
«Sei bellissima. Ma la gonna è troppo corta.» dice.
«Non serve che fai il papà geloso.»
Mi sorride. «Bene, perché non lo sono.»
Metto i piedi sul divano, fregandomene se ho le scarpe, e appoggio la testa sulla sua spalla. Stiamo così, in silenzio, finché non suona il campanello.
Vado ad aprire e mi trovo Alessio vestito come la volta che è venuto a casa mia. La prima volta che siamo stati insieme, fuori da scuola. Cerca di entrare, ma io lo spingo indietro gentilmente. Saluto i miei, e ce ne andiamo. Lui fa per scendere le scale, ma io gli fischio e gli indico le scarpe. Ride. Quando ride mi dimentico dei miei dubbi, e mi sembra di essergli amica da una vita. Chiamo l’ascensore, prima che si possa rendere conto di come lo fissavo.
«Sei bellissima.» dice, rompendo il silenzio.
«Grazie. Quanto si paga?»
«Con questi entriamo gratis.» dice, mostrandomi dei volantini. «Però dobbiamo pagarci tutte le consumazioni.»
«Che fregatura!»
«Hai intenzione di bere tanto?»
«Il più possibile.»
«Non pensavo fossi un’alcolizzata.» Ride. Perché deve ridere così spesso?
«Non lo sono. Però mi piace bere, e oggi ho intenzione di farlo.»
«Perfetto.»
Usciamo dal palazzo, e andiamo verso il locale, vicino a casa mia. Dall’esterno sembra un grande capannone bianco. Non c’è fila, ma solo perché siamo arrivati presto, ho sentito che dalle nove si forma una fila lunghissima.
«Ci sei già stato?» gli chiedo.
«Un paio di volte. Con Omar.»
Diamo i volantini all’omone all’entrata. L’interno è completamente bianco, dei faretti blu sul tetto fanno sembrare le pareti di ghiaccio. Percorriamo un lungo corridoio, poi il bianco cede posto al buio. Ci sono dei pilastri e stalattiti trasparenti, per fingere il ghiaccio, il pavimento è trasparente. Scalini dovunque. Mi viene già male a i piedi. La cosa che mi stupisce è che sia praticamente vuoto, e la musica è bassa, senza nessun dj. Alessio vede che ho uno sguardo stupito.
«La gente inizia ad arrivare per le nove. Siamo venuti prima così vedi un po’ il posto.»
Al centro della sala c’è una grande pista da ballo, accerchiata da dei divanetti. Facciamo il perimetro del locale: ci sono sei posti bar, qualche divanetto qua e là, scale ogni due passi. Mi mostra dove sono i bagni, poi mi porta al “piano” di sopra. Più che un vero e proprio piano è una passerella che corre per tutto il perimetro, con un parapetto, trasparente. Guardo se anche il pavimento è trasparente. Grazie al cielo non lo è. Sembra di essere in una bottiglia di plastica più che in un igloo.
Scendiamo. «Si può iniziare?» chiedo.
Per un attimo mi guarda senza capire, poi vede il mio sorrisetto e mi accompagna al bar. Ordiniamo un angelo azzurro per me e una vodka lemon per lui. Il barista fa un buco alla sua tessera, quando usciremo la dobbiamo dare alla guardarobista e pagare. Io gli do la mia, ma la rifiuta.
«Il primo giro offro io bella.» dice squadrandomi.
Io gli mostro il medio, facendogli l’occhiolino. Risponde mandandomi un bacio in aria. Andiamo a sederci in un divanetto, io assaggio un po’ del suo e lui assaggia un po’ del mio. L’angelo azzurro è pesante, ma mi piace tantissimo. Quando abbiamo finito i nostri cocktail il posto è già pieno, il dj è arrivato e la musica a volume massimo riempie le nostre orecchie. Mi fa segno verso la pista. Adesso che ho bevuto sono un po’ più sciolta, quindi accetto. Andiamo nella pista, a spintoni ci mettiamo vicini alla console del dj. Siamo praticamente abbracciati, da quanta gente c’è. Solo adesso che sento il suo corpo contro il mio mi rendo conto di quanto sia fatto bene. Ha i muscoli nel posto giusto, il ragazzo. Guardo nel cubo e trovo le “veline” a strusciarsi con due ragazzi. Batto il dito sulla spalla di Alessio e gliele indico, lui alza le spalle e poi si fa ancora più vicino. Gli metto le mani attorno al collo, lui mette le sue attorno i miei fianchi. Non farei mai una cosa del genere, perché la sto facendo? Bah, ho passato tutta la vita a preoccuparmi. Chissene. Oggi faccio quello che voglio. Stiamo a ballare ancora per quattro o cinque canzoni. Ci muoviamo insieme a ritmo, nei momenti più “gasanti” alziamo il pugno e lo scuotiamo al tempo dei bassi. Mi piace ballare, perché odiavo questo posto? Dopo un po’ sono veramente stanca allora faccio ad Alessio il gesto di bere. Allora andiamo al bar di prima, stavolta ordino solo io, prendo un caipiroska alla fragola. Un altro bello pesante. Quando l’ho finito però non sono ancora contenta. Alessandro mi dice di fermarmi, ma non ho voglia. Così ordino un sex on the beach. Questo è un po’ più leggero, avrei voglia di un altro. Ma perfino da mezza ubriaca mi accorgo che basta così. Alessio continua a dirmi che dovrei stare qui seduta. Gli rido in faccia.
«Scemo! Ti pare che stia seduta qui? No.» mi alzo, ma poi barcollo, e mi risiedo sul divanetto «Vedi quel pezzo di figo laggiù?» gli dico, indicandogli un ragazzo con un bicchiere in mano, in piedi vicino al bar con i suoi amici. «Quello lì è Marco Oliveri. Mi piace da un anno.»
«Mi sembrava avessi detto che odi i ragazzi.»urla nell’orecchio per passare la musica.
«È vero, ma sono pur sempre umana. Adesso vado là e ci provo.»
Mi alzo, stavolta riesco a reggermi in piedi. Alessio mi afferra. «Non mi sembra un ottima idea.»
Ma io me ne frego. Di tutto e di tutti. Alessio può fare quello che vuole. Io adesso vado da Marco. Lo raggiungo e mi presento.
«Ciao Marco. Sono Eleonora, quarta A.»
«An si. Ti ho vista all’intervallo. Vieni con me, ti offro da bere.»
Sto per dirgli che non è il caso, ma poi ripenso “chissene frega.” Ecco, questo sarà il motto della serata. Prendo la vodka lemon che mi sta offrendo e la bevo velocemente. Poi andiamo sul cubo e ci strusciamo un po’. Vedo con la coda dell’occhio Alessio, ai margini della pista. Finché se ne sta lì buono buono e non mi rompe, a me va bene. Marco mi sussurra, per quanto sia possibile sussurrare in discoteca, all’orecchio.
«Ti va di andare in bagno a...» non capisco il resto, ma non mi importa.
Scendiamo dal cubo e mi faccio guidare verso il bagno. Entriamo tutti e due nella stessa “cabina”, come le chiamo io, si abbassa la zip, poi i pantaloni e poi le mutande. Non so cosa devo fare, ma sento le mie ginocchia che automaticamente si piegano. E poi gli faccio un pompino. Quando abbiamo finito mi viene il vomito. Mi piego sul water e vomito tutto l’alcol che avevo in corpo.
«Ha fatto così schifo, piccola?» dice, ridendo di me.
Usciamo, io sto per tornare in pista, a cercare Alessio, voglio tornare a casa. Ma mi sento tirare dal braccio. Non c’è nessuno in bagno. Solo quello delle ragazze è sempre pieno. Marco mi blocca, e poi mi fa sedere sul lavandino, a gambe aperte.
«Ti andrebbe di andare oltre?»
Ovviamente è una domanda retorica, perché nonostante io stia cercando di spingerlo e continui a dirgli no, lui mi bacia il collo. È un ragazzo forte, non riesco a spostarlo di un centimetro, neanche mettendoci tutte le mie forze. Le sue mani mi alzano il vestito fino a sopra l’orlo delle mutande. Sento la porta del bagno che si apre. Finalmente qualcuno che mi può aiutare. Chiamo questo ragazzo, ma lui entra nella “cabina”, facendo finta niente. Sta per abbassarmi le mutande, quando la porta si apre di nuovo. Stavolta però il ragazzo non fa finta di niente. Infatti Marco viene finalmente staccato da me. Non riesco neanche ad accorgermi che Alessio gli sta tirando un pugno, perché le lacrime mi offuscano la vista.
«Che cazzo fai? È stata lei a venire da me!» urla Marco.
«E ora lei ti ha detto di andartene.» lo prende per le spalle e lo spinge fuori dalla porta «Come stai?» mi chiede, nonostante il suo tono sia dolce, il suo sguardo è durissimo.
«Bene, adesso. Scusa.»
«Non preoccuparti. Dai andiamo.»
Scendo dal lavandino, mi sistemo la gonna. Poi lo abbraccio. Probabilmente gli sto sporcando la camicia con il rimmel colato. Quando ci separiamo prende il mio volto fra le mani e mi bacia. Mi rendo conto che era una cosa che avrei voluto fare da un po’ di tempo, quindi rispondo al bacio. Dimentico del mondo che mi sta intorno. Chiudo gli occhi e non esisto più io. Non esiste più lui. Non esiste più il mondo. Mi sento come se fluttuassi nell’aria, è una bellissima sensazione. Usciamo mano nella mano, ma il suo sguardo è stranamente vuoto. Ho sbagliato qualcosa? Non ho mai dato un vero bacio, magari non sono stata brava. Solo in questo momento mi accorgo che siamo migliori amici. È un peccato che me ne accorga solo ora, perché è anche il momento in cui inizio a desiderare di essere più che amici.

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Capitolo 8
*** 8 ***


Lunedì vado a scuola, sono emozionata. Oggi vedrò di nuovo Alessio dopo il Polo. Dio, sono stata così scema ad andare da Marco. Ma ero ubriaca, che potevo farci? Beh, lui mi ha baciata, vuol dire che gli importa di me, che forse anche lui prova quello che inizio a provare io. Corro per le scale, voglio andare da lui, parlargli, chiarire tutto. Ma quando entro in classe la mia emozione svanisce. Il banco vicino al mio è vuoto. Magari arriva tardi. Mi siedo, e per tutte le cinque ore fisso la porta, aspettando che si apra, che Alessio si affacci, sorridendo. Ma non succede. Ignoro le persone che mi fissano sghignazzando. La voce di cos’è successo con marco si è sparsa, ma io me ne frego. La stessa scena si ripete Martedì, Mercoledì, Giovedì. Non risponde ai miei messaggi, né alle mie chiamate, né ai miei tweet. Tutti i pomeriggi vado in biblioteca, sperando che si presenti, ma non lo fa. Sono triste. Non capisco cosa sia successo. Non vado a mangiare all’Hero, preferisco stare sola, a guardare il piatto di pasta scaldato al microonde, senza aver fame.
Sabato ho perso ogni speranza, ma ecco che quando entro in classe Alessio è lì, seduto al suo banco. Ma qualcosa non va in lui. Sembra pallido, direi che pure lui non ha mangiato molto ultimamente. Non sorride, come fa di solito, il suo sguardo è perso nel vuoto. Mi siedo e non saluta.
«Alessio, stai bene?» gli chiedo.
Fa cenno di sì con la testa, intanto prende il libro di latino e inizia a leggere. «Perché sei mancato tutti questi giorni?» insisto io.
Scrolla la testa, senza rispondere. Gli prendo il viso fra le mani e lo costringo a girarsi verso di me, però i suoi occhi vagano per la stanza, senza mai incontrare i miei. «Guardami. Credo tu mi debba delle spiegazioni.»
«Io non ti devo proprio niente.» dice con una voce vuota, tenendo lo sguardo basso. Non c’è rabbia nella sua voce, forse sarebbe stato meglio. Nella sua voce non c’è proprio nulla.
Rimango spiazzata, e torno sul mio libro di latino. Sento gli sguardi della classe incollati su di noi. Per il resto del giorno non ci parliamo.

Passo il pomeriggio stesa sul mio letto, a lanciare in aria una pallina e riprenderla in mano. Lanciare e prendere. Lanciare e prendere. Lanciare e... Mi vibra il cellulare, sul cuscino, mi giro e vedo che è Alessio. La pallina mi cade dritta sul naso.
«Porca puttana.»
Sento mia mamma sforzare la tosse. Odia che dica le parolacce. Prendo in mano il cellulare, nel messaggio ci sono solo due parole: “In piazza.”
Mi precipito fuori, salutando in fretta mia mamma, prendo lo scooter e volo fino in piazza. Alessio è lì, nell’esatto centro. Dritto in piedi come un fuso, le braccia lasciate a penzoloni lungo i fianchi. Mi avvicino da dietro.
«Ehi.»
Nonostante lo dica a voce bassa, e col tono più dolce possibile, fa un salto. «Mi hai spaventato.»
«Scusa.» i suoi occhi ancora non hanno il coraggio di fermarsi sui miei.
Prima che possa dire qualunque cosa lo abbraccio. Mi aspetto di sentire le sue braccia stringermi la vita. È proprio ciò di cui ho bisogno ora. Ma non le sento. Stringo appena di più. «Abbracciami.» sussurro «Ti prego.»
Allora sento le sue braccia avvolgermi, incerte.
Quando ci separiamo sento il bisogno di baciarlo. Sto per avvicinarmi a lui, quando si gira. Camminiamo silenziosamente lungo la via pedonale. Dopo un po’ entriamo in un bar, prendiamo il tavolo nell’angolo più distante dall’entrata. Dopo aver ordinato non c’è più via di fuga, deve per forza darmi delle spiegazioni.
«Cosa ti sta succedendo?» gli chiedo.
«Non sto bene.»
«Di quello me ne ero accorta.»
«Non so come dirlo.»
«Parti dall’inizio, continua, e quando arrivi alla fine, fermati.» dico, sorridendo, per far capire che non era detto con cattiveria.
Per la prima volta quasi riconosco Alessio, mi guarda, e fa un sorriso. Non di quei suoi bei sorrisi che mi fanno sciogliere, ma è un inizio.
«Beh, non c’è un vero e proprio inizio. Mi sono sempre sentito così... diverso. Ma non capivo cosa non andava in me. Ho una buona salute, sempre avuto qualche amico, mai avuto problemi di bullismo, problemi alimentari o altro. Eppure, sentivo di non essere come gli altri. Non ho mai saputo, anzi non so tuttora se sono migliore o peggiore. Ma so che non sono uguale, o almeno non lo sarò quando ammetterò di essere ciò che sono. Per questo nonostante avessi qualche idea non l’ho mai ammesso, nemmeno a me stesso.  Perché so, che una volta fatto, niente sarà più come prima. La gente mormorerà, mi guarderà male, forse inizieranno a prendermi in giro, sarò preso di mira dai bulli. Forse l’ammettere la mia diversità non migliorerà le cose. Forse le peggiorerà. Forse è meglio tenermi tutto dentro, sentire di non apparire come ciò che sono realmente piuttosto di dover affrontare tutto.»
Si interrompe, le lacrime gli salgono agli occhi. Ormai ho capito. Gli afferro la mano.
«Essere diverso non è un problema. Il problema è non essere se stessi. E tu al momento non lo sei.»
«Da quando l’hai capito?»
«Vorrei dirti dalla prima volta che ti ho baciato, ma non è così. Non sono brava a leggere le persone, nemmeno quando sono dei libri aperti. Perché mi hai baciata sabato sera?»
«Ti arrabbi se ti dico che volevo provare?»
«No, ti capisco. Però io ho provato qualcosa durante quel bacio. Ora sono ferita, ma non mi importa. L’unica cosa che mi importa, sei tu.» soffoco una risata «Non avrei mai pensato di dire una cosa del genere.»
Anche lui sorride. «Ma ho capito male o ti piaccio?»
«Non hai capito male.» lo vedo deglutire a fatica, gli stringo più forte la mano «Ma me la farò passare. Ti starò vicina, come amica. Come migliore amica.»
Si rilassa un po’, ma io non sono soddisfatta. «Dillo.» gli ordino.
Mi guarda stupito, ma poi capisce. Spalanca gli occhi e scuote la testa. «Dillo.» continua a scuotere «Non ce ne andiamo finché non lo avrai detto. »
«Non posso, Eleonora.»
«Una volta detto sarà tutto più facile, ti starò vicina io. Dillo.»
Deglutisce molto faticosamente. Prende un respiro profondo. «Sono gay.»
Gli do un bacio sulla fronte, soddisfatta.

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