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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Once upon a time *** Capitolo 2: *** Walking in a dark forest *** Capitolo 3: *** Deus ex machina *** Capitolo 4: *** If you want the frog, then comes the prince! *** Capitolo 5: *** To end up in the lion's den *** Capitolo 6: *** Love will tear us apart... do you love somebody now? *** Capitolo 7: *** Enchanted wood *** Capitolo 8: *** Land of wonderland *** Capitolo 9: *** Put a spell on her eyes *** Capitolo 10: *** Din dong the witch is dead *** Capitolo 11: *** A cuban fairy godmather *** Capitolo 12: *** Turquoise&Crimson *** Capitolo 13: *** Old curse and new charm *** Capitolo 14: *** Echoes of past *** Capitolo 15: *** Magic mirror *** Capitolo 16: *** Artemis and Selen *** Capitolo 17: *** Rose cherry flavoured *** Capitolo 18: *** Searching for our dreams *** Capitolo 19: *** Marvellous Tinkerball *** Capitolo 20: *** Promissio gemina *** Capitolo 21: *** Forbidden colours part I - The name of everything *** Capitolo 22: *** Forbidden colours part II - Cerulean eyed girl *** Capitolo 23: *** Forbidden colours part III - She's unreachable *** Capitolo 24: *** A touch of madness in love and a touch of logic in insanity *** Capitolo 25: *** Strangers since yesterday *** Capitolo 26: *** Eternal sunshine of a spotless mind *** Capitolo 27: *** Going toward entropy *** Capitolo 28: *** Words I've never told you *** Capitolo 29: *** Sinners purify sin *** Capitolo 30: *** Love song requiem step one *** Capitolo 31: *** Love song requiem step two *** Capitolo 32: *** Love song requiem step three *** Capitolo 33: *** Rising roses part I *** Capitolo 34: *** Rising roses part II *** Capitolo 35: *** Decaying rosebud *** Capitolo 36: *** The butterfly effect *** Capitolo 37: *** Red string of fate *** Capitolo 38: *** Six degrees of separation *** Capitolo 39: *** Measure for measure *** Capitolo 40: *** You weren't there part 1 *** Capitolo 41: *** You weren't there part 2 *** Capitolo 42: *** Unraveled chains *** Capitolo 43: *** The ballad of silver linings part 1 *** Capitolo 44: *** The ballad of silver linings part 2 *** Capitolo 45: *** No rest for the wicked *** Capitolo 46: *** Disturbia, step one : about happenstance. *** Capitolo 47: *** Disturbia, step two: about serendipity (part I) *** Capitolo 48: *** Disturbia, step two: about serendipity (part II) *** Capitolo 49: *** Disturbia, step three: about touch *** Capitolo 50: *** Disturbia, step four: about what we’ve never had (I) *** Capitolo 51: *** Disturbia, step four: about what we’ve never had (II) ' ***
Le onde battono ritmicamente contro lo scafo, inargentato da una piccola e sorridente falce di luna. L’acqua produce un suono meraviglioso per le orecchie della ragazza, che sorride, sporgendosi per toccare con la punta delle dita la superficie dell’acqua. È fredda, rabbrividisce stringendosi nelle spalle, coperte da un piccolo vestito rosa con delle bretelle sottili di madreperla. Torna a guardare davanti a sé il ragazzo che sta remando con energia. Lui la guarda e le sorride, piegando la testa di lato. Poi le chiede: “Hai freddo?”. Lei nega energicamente con il capo, è tutto così perfetto che le viene da piangere. Non riesce a distinguere bene nel buio il volto del ragazzo, ma sa benissimo di chi si tratta. Il ragazzo, di cui è innamorata; quello che quella stessa sera l’ha praticamente rapita, per farle una sorpresa. Oggi, tredici maggio… il giorno del suo compleanno. Si mette una mano tra i capelli ricci e castani, agitati da una piccola brezza, tipica di un lago montano nel mese di maggio. “Avanti, Hermione, lo vedo che stai gelando!” sorride lui, mentre si sporge su di lei e le appoggia la sua giacca di panno azzurra sulle spalle. Lei sorride dolcemente, guardandolo, mentre lui si ritrae, riprendendo i remi tra le mani: “Sei sempre così orgogliosa… non è mica un reato avere freddo…!” prosegue lui, ridendo leggermente. Una risata innamorata, Hermione lo percepisce chiaramente. Una melodia celestiale nelle sue orecchie, una voce sicura e ferma che riesce a piegarsi in quella magnifica maniera, quando parla di lei oppure la guarda. Distoglie forzatamente lo sguardo da lui, mentre vede avvicinarsi la riva opposta del lago, che hanno iniziato ad attraversare una mezz’oretta prima. Un piccolo pontile di legno li sta aspettando. Raccoglie la sua piccola borsetta, e prende con particolare cura una scatoletta avvolta in una luccicante carta da pacchi celeste chiaro, che risplende luminosa nella notte primaverile. La apre con affetto ed accarezza con un dito i regali che lui le ha dato poco prima: una scatola di caramelle all’amarena di una marca particolare che lei adora, un rametto di fiori d’arancio, i suoi fiori preferiti. Lui la conosce così bene, sa tutto a memoria di lei. Sa i suoi gusti, le sue passioni, le sue esigenze; è la migliore cosa che le sia capitata, la tratta come una principessa. Sorride ancora, nelle narici il profumo di lui, muschio bagnato, lo riconoscerebbe tra mille.
Finalmente la piccola barchetta si ferma, e lui scende, attraccando. Lega la cima di una corda al pontile, poi le porge la mano, aiutandola a scendere. Mano nella mano, si incamminano diretti in un luogo che Hermione non conosce. “Dove mi stai portando?” chiede lei, fiduciosa. Lui sorride: “Sei troppo curiosa!”, si ferma all’improvviso e si guarda attorno. Hermione lo imita, ma vede solamente un piccolo boschetto, attraversato da un piccolo sentierino sterrato. Piccoli versi di animali notturni rompono la quiete notturna, odorosa di pioggia e profumo dei gelsomini notturni. Lui sorride tra sé e sé, e le lascia per un attimo la mano. Si fruga nella tasca dei pantaloni ed estrae una sciarpa di seta bianca. “E quella a che serve?” “Adesso vedrai…” le risponde, mentre la raggiunge alle spalle e gliela lega attorno agli occhi. La bacia sulla guancia, facendola arrossire, e sussurra: “E’ una sorpresa, tesoro…”. La trascina, tenendola per mano, attento che lei non inciampi. Salgono per un bel po’, lungo quelli che Hermione riconosce come piccoli sentieri di montagna. Li immagina bui e pieni di insetti, che lei detesta, e si stringe più forte alla mano di lui. Finalmente lui si ferma. Le lascia la mano, ed Hermione rimane in attesa, attenta ad ogni singolo rumore. Lo sente armeggiare con qualcosa, poi il silenzio viene sostituito da qualcos’altro. Una canzone. La loro canzone. Quasi sobbalza, poi si porta le mani alla bocca, piccole lacrime di gioia negli occhi momentaneamente ciechi. Lui le si avvicina, e le scioglie la benda. Mentre rimane alle sue spalle, stringendola per la vita con il viso al lato della sua guancia, Hermione vede finalmente dove sono, le note che ancora feriscono di dolcissimo dolore le sue orecchie e i suoi ricordi. Lontana, nella vallata, si intravedono le luci luccicanti di Hogwarts, accompagnate a breve distanza da quelle di Hogsmeade. Crede di riconoscere ogni luogo, lo soppesa con affetto, si volta e lo abbraccia forte, baciandolo con foga sulle labbra. Lui sorride ancora, stringendola, e le sposta con affetto un ricciolo dalla guancia, dicendole: “Ti ho portato qui, perché tutto è cominciato qui… e vorrei che anche la nostra nuova vita cominciasse da qui… Hermione, mi vuoi sposare?”. Lei scoppia a piangere, stringendolo ancora, mentre annuisce con il capo, incapace di parlare ancora. Le fa male la gola, e le parole non escono. Lo bacia con tutta la forza di cui è capace, abbracciandolo. Lui estrae dalla tasca una scatolina in velluto, che apre con un piccolo suono metallico. Sotto le stelle, nella notte, splende un altro astro, un piccolo diamante a forma di cuore che provvede ad infilarle all’anulare sinistro, mentre lei continua a piangere, le sue lacrime adamantine compagne delle stelle e del suo anello. Lo bacia ancora, mentre, come per magia, sente i piedi sollevarsi da terra e migliaia di lucciole apparire all’improvviso. Balla con lui la loro canzone, e luci di ogni foggia e natura splendono nei suoi occhi innamorati. E’ la sua fiaba. La sua piccola e stupenda fiaba. “Ti amo Hermione…” le dice lui in un sussurro, mentre ballano sospesi nell’aria. “Ti amo anche io…” si blocca a disagio, sta per dire il suo nome, ma non se lo ricorda. Terrorizzata, si stacca da lui, cadendo a terra. Prova dolore per la caduta, ma non è niente in confronto al suo sguardo ferito. Cerca di sforzarci, ma non c’è niente da fare. Il nome non le esce dalle labbra. All’improvviso, tutto sembra distorcersi in un turbinio di colori. Hogwarts, Hogsmeade, la vallata, le montagne, il bosco… ed alla fine anche lui. Hermione piange disperata, poi urla di dolore, mentre anche lei si sente strappare via.
“Dean!” urlo, sobbalzando dal letto. Madida di sudore, allungo un braccio accanto a me, tra le lenzuola umide, solo per accorgermi che chiaramente lui non c’è.
“Che c’è?!” urla a sua volta lui dalla cucina.
Sospiro di sollievo, mi ha fatto prendere un colpo! Prima mi alzavo sempre io per prima, e adesso si diverte a fare il galletto che si sveglia alle sei e mezzo. E io mi alzo alle sette, non sono decisamente una dormigliona, anzi… se volessi, mi alzerei anche prima! Ma soltanto se volessi… in fondo, se non devo lavorare, essendo da ben tre mesi una disoccupata cronica, un’aspirante al sussidio mensile, un numero nell’ufficio di collocamento, e chi più ne ha più ne metta, che cavolo mi alzo a fare presto? Per girarmi i pollici, o per studiare?! Questo, prima lo facevo abbondantemente! Ma adesso che studio? L’orario dei treni, il ricettario di Suor Germana, o il catalogo di prodotti per la casa di Nonna Acetosella? E, comunque, nel caso ve lo state chiedendo, sì… non lo faccio perché li so già a memoria tutti e tre.
“Si può sapere che vuoi?! Mi hai fatto rovesciare mezza caraffa di succo di frutta!” sbraita ancora Dean dalla cucina. Mugugno nervosa, vai a vedere che l’aveva rovesciato già prima, ed ora dà la colpa a me! Un attimo, un secondo! Il succo di frutta! Quello all’ananas che, se non bevo alla mattina, mi viene una crisi nervosa?! Quello che centellino con sorsi di un millilitro per farlo durare di più?!!! E che tanto per cambiare, avendo finito i soldi, non potrò comprare fino al prossimo sussidio?! Quello, proprio quello?! L’UNICO VIZIO CHE HERMIONE JANE GRANGER SI CONCEDE NELLA SUA PICCOLA VITA??!!! IL SUO SOLO ED UNICO LUSSO?!!
Mi alzo dal letto che sono la brutta copia della strega di Blair. Quella ammazzava solamentequelli che entravano nella sua stupida foresta e si avvicinavano alla sua stupida casa, ma io, se Dean-Cervello-Spento-Thomas ha fatto quello che penso, ammazzo tutto il genere umano, partendo da quella specie di microcefalo che dovrebbe essere il mio fidanzato! Oddio, fidanzato è una parola grossa; come si chiama uno che di sabato si stravacca in poltrona a vedere il Quidditch, lascia in giro i suoi luridi calzini, e pretende che gli cucini la sera pollo fritto tre sere a settimana, considerandolo “alta cucina”? Questa, è la definizione di maiale, giusto. Aggiungiamoci che, giusto una volta al mese, andiamo al cinema assieme, ci baciamo sulle labbra e, a volte ma sempre per puro caso, andiamo leggermente oltre i bacetti, e troviamo una specie di fidanzato. Al massimo, arriviamo al fidanzato a mezzo servizio, se contiamo che dormiamo assieme nella stessa casa.
Mentre entro in cucina, inciampo in una delle sue maledettissime scarpe appositamente venute dall’inferno, quelle con i tacchetti che usa per il calcio. Che, tanto per dovere di cronaca, dovrebbero essere nel ripostiglio, non davanti alla nostra camera da letto in bella mostra di sé. Mi sfracello il piede, ed impreco, zoppicando, mentre raggiungo la cucina. Calma, Hermione, calma.Per la stizza, con il piede sano, prendo a calci la poltrona del soggiorno e Grattastinchi, che era appollaiato sopra, scappa via, soffiandomi contro. Stupido gatto, ci si mette anche lui. Arrivo in cucina, come un sopravvissuto ad un disastro nucleare o come uno che ha fatto un lunghissimo percorso ad ostacoli. Mi siedo stancamente su una sedia, massaggiandomi il piede che sta rapidamente diventando violaceo. Perfetto, non mi potrò neanche mettere le ballerine beige che mi ha regalato Ginny; oggi che è anche uscito il sole, e si sa che a Londra è un vero miracolo! Maledizione! Con lo sguardo rovente di rabbia, cerco l’artefice della mia rovina; e lo trovo intento ad asciugare poco più in là un enorme lago color giallo canarino, sparso per terra davanti al frigorifero. Un giallo canarino che assomiglia molto al succo d’ananas, al miosucco d’ananas! I miei occhi si stanno rapidamente trasformando in due spade e, se potessero, lo infilzerebbero, lasciandolo stecchito come uno spiedino, mentre io godo della mia vittoria, improvvisando una danza tribale.
“Ciao tesoro! Hai dormito bene?” mi fa lui con quell’aria innocente da piccola peste in colpa, che mi dà tanto ai nervi. Nemmeno Grattastinchi, quando si lima le unghie sulle poltrone del salotto, la sa fare così bene.
“Benissimo…” brontolo, alzandomi ed aprendo la credenza alla disperata ricerca di qualcosa di dolce. Se la mattina non mangio qualcosa che fa venire il diabete e che i dentisti mettono nelle liste nere, mi viene l’ulcera per il nervosismo. Deve essere una sorta di reazione inconscia a quando vivevo con i miei, i più pignoli dentisti dell’Inghilterra, che mi costringevano a lavarmi i denti almeno trenta volte dopo aver ingerito mezzo grammo di glucosio. Ora che vivo da sola, mi è venuto l’istinto di strafogarmi di dolcettini, cioccolato e caramelle, che nella mia dispensa non mancano mai. Mai… batto a terra il piede, come una bambina capricciosa, e chiedo innervosita: “Dean, hai mangiato tu la scatola dei miei biscotti al burro?!”. Se mi dice di sì, quant’è vero Iddio che lo getto da una finestra, pregando un tir di passargli sopra…
Si gratta la testa…
Non ci credo…
…prima il succo e adesso i biscotti!
“E io che mangio?!!” chiedo più a me stessa che a lui. Sto decisamente per avere una crisi nervosa… o mi danno una cosa dolce, fosse anche un chiodo di garofano con un po’ di zucchero spolverato sopra, o vado in escandescenze.
“Ieri sera, è avanzata un po’ di pizza…” dice timidamente, indicando il frigo “Io e Seamus non ce l’abbiamo fatta a finirla tutta…”.
Inarco un sopracciglio, in questi momenti so di fargli venire un attacco di panico perché gli ricordo troppo la McGranitt, che lui vedeva spesso in questa particolare espressione, essendo un Troll in Trasfigurazione. Quindi sa perfettamente che ha detto qualcosa di sbagliato. E la cosa sbagliata è che sa perfettamente che odio la pizza fredda. O meglio dovrebbe saperlo perfettamente; infatti, eccolo lì che si lambicca il cervello per cercare di capire che cosa ha detto di male. Nell’attesa, apro un altro paio di cassetti alla ricerca di qualcosa di edulcorato, tanto non è per adesso che ci arriva.
“Hai ragione, io e Seamus non dovevamo prendere la pizza extra gigante…” tenta, mentre io gli do le spalle infilata nell’ultimo cassetto della credenza.
Sospiro rumorosamente: “Dean… anche se costa ben tre sterline e mezzo, non me ne frega niente della tua stupida pizza…”.
“Anche se io e Seamus ci siamo addormentati davanti al televisore, e non siamo potuti andare alla mostra che volevi vedere?”.
“Neanche” borbotto, scavando nel cassetto come un cane da caccia.
“Anche se quando i Cannoni hanno segnato, abbiamo rotto la lampada del soggiorno…” aggiunge, pigolando.
Questa mi mancava, ora capisco quel fragore con il corollario della voce colma di bestemmie della signora Sanchez al piano di sotto, nostra padrona di casa. Per intenderci quella a cui paghiamo l’affitto, che questo mese dovrà pagare uno che evidentemente non abita in questa casa, dato che entrambi i due coinquilini non hanno mezza sterlina in due.
Sospiro ancora, trattenendo l’istinto omicida di scioglierlo nell’acido solforico. Bofonchio qualcosa che può intendere come un no.
“Anche se è venuto anche Ron a vedere la partita…” sussurra terrorizzato.
Che cosa??!!! Ho sentito bene??!! Ronald Bilius Weasley ha messo piede nella miacasa, ha respirato il mio ossigeno, ha calpestato lamiapolvere?! Mi accascio per terra, in ginocchio, credo che sto per sentirmi male. Non ho mangiato nemmeno un po’ di zucchero, ho per fidanzato una rapa secca, e Ronald Maledetto-al-giorno-che-l’ho-incontrato-su-quel-dannato-treno Weasley è entrato a mia insaputa a casa mia??!! Non è possibile, devono avermi fatto il malocchio.
Mi alzo, respirando a fondo. Espirare, inspirare, espirare, inspirare. Questo diceva il mio maestro di yoga al corso per diventare Auror; ma dopo dieci secondi in cui sembro un mantice, non sono neanche lontanamente calma come vorrei, anzi sto diventando color melanzana matura. Il traning autogeno non funziona per niente, e in fondo uno che faceva il maestro di yoga d’estate e vita ascetica d’inverno, che diamine ne può sapere? Non era nemmeno fidanzato, quindi che ne sa di quando ti capita uno che deve avere il cervello in rottamazione?
“F-fammi capire bene…” chiedo, alzandomi ed incrociando le braccia. Mi avvicino minacciosamente a lui, che indietreggia. Poi finisce contro il frigorifero e la sua corsa si arresta qui.
“Ti ho mai impedito di vedere i tuoi amici?” il tono di minaccia mi esce sempre benissimo. Unito poi a quello recriminatorio, è anche meglio.
Lui nega con il capo, balbettando: “N-no…”.
“Anche quando si parlava di Neville, che sporca dappertutto, o di Anthony Goldstein, che beve Whisky Incendiario come acqua? O ancora meglio di Ernie, che fuma quelle orribili sigarette alle violette che mi fanno venire un cerchio alla testa?!” ripeto, piantandogli un dito nello sterno.
Lui soffoca un gemito e nega ancora, terrorizzato.
“Mi sono mai minimamente lamentata che usciamo una sola volta all’anno, e che sabato quando esci dagli allenamenti, non mi porti mai a ballare, o da qualche altra parte?!” .
Nuovo tremante segno di diniego.
Continuo a brandire il mio indice perforante, alternando come obiettivo sensibile le sue costole, lo sterno e l’addome. Lui si ritorce dal dolore come il verme strisciante che è.
“Ti ho spaccato il cranio, quando hai messo la tua maglia rossa del Manchester United nella lavatrice, facendo diventare il mio bellissimo abito di lino bianco rosa shocking?!”.
“N-no, tesoro…”
“E ti ho per caso ucciso, quando ho trovato la pila di riviste pornografiche che tenevi nascoste sotto al letto?!”.
“Ma non erano mie, erano di Seamus!” tenta di ribellarsi lui timidamente, ancorando la mia mano omicida. Ma pensa che sono cretina?!! Mi stacco bruscamente da lui, riprendendo nella mia estenuante operazione di trivella umana.
“E adesso ti ho trucidato, quando hai versato il mio succo di frutta? Quello che dovrei bere solamente io, perché per me è vitale?!!” blatero, alzando la voce in tono melodrammatico. Sembro Violetta della Traviata poco prima che tiri le cuoia. La signora Sanchez non apprezza, perché ricomincia a battere la sua scopa contro il soffitto di casa sua, intimandoci di fare silenzio che suo marito sta dormendo. Che lei non lo svegli con quella sua voce, mi sembra altamente improbabile.
“Scusami, davvero… me ne ero completamente dimenticato!” fa lui, spalancando gli occhi meravigliato. Per un attimo, resto interdetta e rimango immobile, le mani protese verso di lui, adesso praticamente congelate. Possibile che viviamo assieme da un anno e passa, e lui non si ricorda che bevo tutte le mattine il succo di ananas? O peggio… un’ondata di brividi mi travolge in pieno… non lo sa proprio? Non se n’è mai accorto? No, non è possibile… insomma, che cavolo! Lo compro ogni sabato, prendo un brick da tre litri, e lo bevo tutte le mattine! È solamente cretino! Sarebbe il colmo dei colmi, se non lo sapesse! Lo sanno anche Ginny, Lavanda, Luna, Harry, e persino quel celebroleso di Ron… un attimo! Era di quello che stavamo parlando! Il celebroleso!
“Insomma!” urlo, riprendendolo per il collo della camicia azzurra che porta, quella che gli ho regalato io per il suo compleanno “Nonostante il delicato fatto del succo di frutta, non è quello che mi interessa adesso! Ieri, hai invitato qui Ron?! E come te ne sei uscito?! Non ti ricordi che cosa mi ha fatto?! Che cosa ci ha fatto?!!”.
Lo lascio andare, permettendogli di rispondere; se continuavo a stringerlo così, non avrebbe potuto rispondere mai più a nessuna domanda di nessun genere da parte di alcuno.
Lui si porta, esageratamente a mio dire, la mano attorno al collo diventato solo leggermente rosato. Mi dà le spalle, aprendo lo sportello del frigorifero e prendendo una lattina di cola. La apre, strappando la linguetta, e inizia a berla, dopo essersi seduto sul tavolo della cucina. Assume la sua consueta espressione da James Dean, rimanendo a gambe semidivaricate, e torna a guardarmi. E’ in questi momenti che mi ricordo, anche se abbastanza vagamente, perché mi sono messa con lui; capelli color sabbia, occhi castano chiaro con piccole scintille dorate, fisico asciutto e muscoloso, esaltato dalla camicia azzurra e dai pantaloni stretti neri. Insomma, un David Beckham dei poveri. È proprio un bel ragazzo, e lo sa. Mi ricordo una frase che diceva sempre Ginny, dopo che si era lasciata con lui… per trovare il suo cervello, devi scavare un po’. Ma in fondo scavi in un bel figo, quindi non è totalmente tempo perso!
Mi viene da sorridere, ma ricaccio la risata indietro. Stavolta l’ha fatta proprio grossa!
“Ascolta, piccola…” mi dice, prendendomi per il polso e trascinandomi di fronte a lui. Mi trattiene con le mani appoggiate sui miei fianchi, mentre io cerco di restare impassibile, le braccia conserte. D’accordo, non sono totalmente impassibile, ma non importa! L’importante è che lui lo pensi, no?
“So che sia Ron che Lavanda ci hanno fatto male…” mi dice, la voce carezzevole, avvicinandomi di più a lui “Ma ormai sono passati tre anni… e tra altri due, sarà tutto finito, Herm. Tu sarai di nuovo la più brava delle Auror, e ci compreremo una bella casa nel centro di Diagon Alley, proprio accanto alla gelateria di Fortebraccio. Così anche nel cuore della notte, mi comprerò tutto il gelato che voglio. Dobbiamo solo avere un po’ di pazienza…”.
Annuisco leggermente, so che ha ragione, ma mi dà enormemente fastidio ammetterlo.
“E’ solo che…” rispondo, guardandolo finalmente in viso. Deglutisco e porto le mie braccia attorno al suo collo, stringendolo a me. Finalmente mi decido a continuare: “Non voglio che venga a casa nostra… non voglio che invada ancora il mio mondo, questo piccolo mondo che ci siamo ricostruiti a fatica. Lavanda passi, ma lui non lo sopporto a casa mia!”.
Dean chiaramente freme per contraddirmi, ma sa benissimo che non può. Glielo ho detto mille volte che Ron non deve mettere piede dove sono io, già da grande ragazza magnanima che sono, gli concedo di vivere sul mio stesso pianeta e nella mia stessa galassia, non gli basta? Che razza di ingrato…
“So che voi continuate a vedervi…” dico, staccandomi da lui.
“E’ Seamus che continua a vederlo, non io! Se lo porta dietro, io che dovrei fare? Scannare prima lui, e poi Ron??!!” mi risponde, sollevandosi dal tavolo e raggiungendo camera nostra, visibilmente stizzito ed irritato.
Lo seguo, attraversando il piccolo salotto del nostro appartamento. Sospiro ancora tra me e me, non ho voglia di litigare, ma mi sa tanto che stamattina non sarà storia. Come sempre, Dean, per mettere le cose a posto in fretta ed in maniera relativamente indolore, inizia a sparare balle in quantità industriale. E’ un campione in materia e, per questo, lui e Lavlav sono stati assieme per cinque anni, prima di farla finita. Giocavano a chi la sparava più grossa. Peccato che io non sono la Brown, la ritardata che pensa solamente ai trucchi e a vestiti e a come abbinarli tra loro. Sono pure troppo intelligente, a volte vorrei essere più stupida.
Mi fermo davanti alla porta del bagno, mentre lui davanti allo specchio si fa la barba. Ovviamente spargendo schiuma su tutto lo specchio, essendo un imbranato cronico. Ed ovviamente lasciando tutto così… già lo so che pensa…tanto Hermione che fa dalla mattina alla sera? Niente! Io lavoro al Ministero, lei almeno qualcosa deve pur farla. Se mi metto anche a pulire, finisce proprio male. Si impigrisce e non fa più niente di niente!
Decido di prendere il discorso alla larga, tessendo una abile tela per farlo capitolare, l’ingenuo. È peggio di una mosca troppo cresciuta e a me piace troppo fare il ragno della situazione. Ragno… mi faccio paura! Ho sempre idee fin troppo perfette.
“E’ davvero una cosa impossibile che Ron e Seamus continuino a vedersi, non credi?” inizio con tono noncurante “A scuola, non si sopportavano… o meglio facevano finta di sopportarsi per te e per Harry… che cavolo hanno in comune, non lo so… a parte la passione per gli insetti, specie i ragni… ma per il resto…”.
Attendo che il mio piccolo pesce abbocchi all’amo. Tre, due, uno…
“Infatti, Herm…” mi dice il merluzzo con cui vivo “Si vedono perché a entrambi piacciono molto i ragni. Pensa che barba, quando esco con loro! Stanno sempre lì a confrontare esemplari in scatola. È una vera noia mortale!”.
Sorrido tra me e me. Il merluzzo ha abboccato fin troppo facilmente. Che pizza, volevo maggiore soddisfazione, magari un po’ di resistenza! Con Dean, è veramente troppo semplice farlo cadere in trappola.
“Dean…” ribatto seria, appoggiandomi allo stipite della porta “Seamus e Ron non si sopportano da anni”, la mia voce diventa quasi quella di una maestra elementare, mentre soggiungo: “E quel che peggio è, che dire che Ron è aracnofobico, è dire poco!”.
Lui chiaramente sbianca, colto sul fatto. Fa finta di essere tranquillo, mentre si asciuga pensosamente il viso con l’asciugamano, ma so che questi fatali secondi gli servono per elaborare un’altra bugia. Sospiro, è così maledettamente prevedibile… ed altrettanto prevedibilmente, non arrivando una soluzione, si gira rosso in viso, nervoso per lo sgambetto che gli ho fatto.
“E allora perché mi hai detto che avevano tutti e due la passione per i ragni?!” mi urla contro, mentre io rimango passivamente a braccia incrociate, ignorando il suo sfogo di ira repressa. Va sempre su di giri, quando scopro le sue chiacchiere.
“Perché volevo che tu mi dicessi la verità… cosa che chiaramente fai molto di rado…” rispondo per nulla intimidita dal suo tono violento di voce “Preferisco che tu mi dica che vedi Ron, piuttosto che menta in maniera disgustosamente intuibile…”.
“Ma se prima stavi per uccidermi quando ti ho detto che vedo Ron? Le mie costole portano ancora i segni… o me li sono fatti da solo?!” grida ancora, venendomi contro e sovrastandomi con la sua altezza certamente superiore alla mia.
Anche questo è uno spettacolo trito e ritrito. Sto quasi per sbadigliare per dare più senso drammatico alla patetica scenetta quotidiana, ma mi trattengo. Mi verrebbe troppo da ridere.
“Non è mica un buon motivo per raccontarmi una balla colossale, Dean!” urlo anche io, fronteggiandolo. Sinceramente non sono poi così tanto arrabbiata, ma per non deluderlo gli do corda. Lo conosco ormai troppo bene, e so perfettamente che mi mentirà sempre. È un discorso fatalistico, lo so, ma è meglio questo che credere in maniera inutile di poter cambiare un uomo. Le donne che lo pensano sono solo delle povere illuse.
Lui mi sorpassa e raggiunge camera nostra, prendendo dall’armadio la sua giacca e la valigetta di cuoio. Essendo di origini babbane, si veste perfettamente da persona normale, non come Ron che si vestiva in una maniera assurda, quando dovevamo andare in giro per Londra. Ma, dovendosi Smaterializzare e lavorando al Ministero della Magia nell’Ufficio per la Cooperazione Internazionale, mi chiedo sempre perché mai lo faccia. In fondo, chi cavolo lo deve vedere? E poi in Ufficio, sono tutti maghi… vestendosi da babbano, non corre il rischio di essere preso in giro come un povero allocco?
“Ed invece sì… è un buonissimo motivo…” prosegue lui. Per un attimo, lo guardo sconcertata, avevo perso il filo del discorso. Spesso quando parlo con lui, la mia mente vaga ed insegue pensieri non molto razionali. Mi piace spesso passare nella mia mente da una cosa all’altra, la mia maestra delle elementari diceva che era un ottimo metodo di apprendimento fare associazioni di idee, e così non mi sono repressa mai, anzi ho incoraggiato la mia tendenziale capacità di evasione. Poi, con Dean la mia mente può tranquillamente farsi un giro di palazzo, saltellare un po’, prendersi un bel gelato, e tornare giusto in tempo per replicargli qualcosa di acido, senza rischio di essermi persa niente di vitale.
Ritorno malvolentieri alla realtà: “E perché mai sarebbe un buon motivo?”, non mi riesce nemmeno più fingere di essere arrabbiata. Sono mortalmente stanca di queste litigate quotidiane e del loro tono. Mi ricordano enormemente quelle che facevo ad Hogwarts con Ron. E ciò mi dà fastidio: 1) perché pensavo di aver decisamente archiviato quel lato di me 2) perché tutto quello che mi ricorda Ron mi fa venire il nervoso.
“Il buon motivo sarebbe che sei capace di farmi paranoie assurde per ogni cosa…” inizia in tono scocciato “Tutto perché ti fissi sulle cose e non molli più… dovresti essere più elastica, Hermione…”.
“CHE COSA?!!” inizio a gridare come un’ossessa; se anche questa fosse una finta rabbia, sarei veramente un’attrice da Oscar, ma io sono sempre stata fin troppo cristallina, e ADESSO sono veramente arrabbiata! Cioè arrabbiata è un pallido eufemismo, sono incazzata nera! Allora, premettiamo che essendo una persona estremamente razionale, non mi arrabbio così tanto di solito. Spesso mugugno e brontolo, ma cerco di reprimere le mie reazioni eccessive. Una sola persona aveva il dono di farmi completamente le staffe, tale Ronald Weasley che ha frequentato Hogwarts nello mio stesso periodo, è stato un Grifondoro come me, è stato il migliore amico con me di Harry Potter ed è stato assieme a me per tre anni e cinque mesi. Quindi, si può dedurre che, se Dean non mi fa mai incavolare tanto, questa frase doveva essere tipica di Ronald Weasley. Poco prima che ci lasciassimo, lui blaterava sempre sul fatto che io ero troppo poco elastica. Potete dirmi che sono brutta, stupida, persino un’asina nello studio di prima categoria, e nel caso, convocare Draco Lucius Malfoy per avere manforte negli insulti contro la mia persona, ed avrete solo un’alzata di spalle. Ditemi che sono poco elastica e vi siete scavati da soli la fossa.
“Sei pocoelastica, te lo ripeto… non scendi mai a compromessi con te stessa…!” ripete Dean, come se stesse parlando ad una bambina deficiente.
“Io scendo fin troppo a compromessi con me stessa!” urlo ancora, agitando i pugni praticamente lividi, poi colta da un’improvvisa ispirazione, soggiungo: “Se non fossi scesa fin troppo a compromessi con me stessa, ora certamente non starei con te…”.
Ho detto troppo, lo so, e infatti vedo Dean girarsi a guardarmi prima incredulo, poi stupito, infine imbestialito. Ma ha sottovalutato il potere della parola Elastica con avverbio Poco; l’orgoglio mi scorre nelle vene a fiotti.
“Che cosa hai detto?!” mi chiede lui, avvicinandosi a me, rosso in viso. Decisamente non sembra il bel ragazzo di prima, in cucina. Ha le nocche bianche a furia di stringerle.
Senza ombra di esitazione, quasi come se da questo dipendesse la mia stessa vita, ripeto le stesse identiche parole di poco prima.
Lui stringe le labbra con rabbia, poi mi afferra per le spalle, scuotendomi: “Significa forse che tu sei evidentemente troppo per uno come me?! La grande Hermione Jane Granger meriterebbe di stare con il principe d’Inghilterra, ed invece sta solo con il povero e deficiente Dean Thomas!! Stiamo assieme da un anno e mi fai questi discorsi…”, la presa delle sue mani si allenta fino a lasciarmi andare. Le braccia ricadono lungo i suoi fianchi, evita il mio sguardo e poi alla fine dice: “Hermione, non sei costretta da nessuno a stare con me. Ma è ben chiaro che ogni giorno ti imponi questa cosa, per chissà che assurda ragione. Sarò anche troppo stupido per capirla, evidentemente, ma non sono così masochista da continuare a viverla ‘sta sceneggiata. Tu non sei innamorata di me, né mai lo sei stata. Quindi lasciamo perdere che è meglio…”.
La sua voce è stranamente cambiata, si è fatta più dolce ed infinitamente malinconica. Mi fa male dentro, come un’assurda nostalgia che mi imporrebbe quasi di fermarlo, di stringerlo e baciarlo. Ma non lo faccio. Invece, resto immobile, mentre lui raccoglie le sue cose, lascia le sue chiavi in cucina, apre la porta e se ne va.
Solo quando sento i suoi passi sulle scale, sento l’orgoglio di poco prima evaporare come aria.
Come una stupida, sussurro tra le mie labbra nella casa vuota: “Vuoi dire che mi stai lasciando, Dean?”.
Mi porto le mani alla bocca, nauseata sia per quello che ho detto, sia perché praticamente sto parlando da sola. Grattastinchi si viene a strofinare sulle mie ginocchia, ma lo ignoro, sedendosi sul letto, dal lato dove dorme sempre Dean. E, sebbene non me lo aspetti da me stessa, mi porto il viso tra le mani e inizio silenziosamente a piangere.
Parliamoci chiaro, io non sono mai stata innamorata di Dean Thomas.
Questo sembra essere
piuttosto chiaro.
In effetti, è
abbastanza strano che io non riesca a smettere di piangere, che mi senta così
vuota ed, al contempo, così maledettamente sola. Mi sento come una barchetta in
mezzo al mare, abbandonata nei flutti di una tempesta nera e minacciosa di cui
non vedo la fine.
E questo è tremendamente
strano.
Allora, chiariamo una
cosa. Può sembrare enormemente strano che io mi meravigli di essere disperata
perché il mio ragazzo se n’è andato di casa, e soprattutto che ammetta
candidamente di non amarlo, pur vivendo con lui da un anno e mezzo. Le cose
strane, come insegnano tutti gli scienziati e i filosofi, però, hanno sempre
una spiegazione, a volte persino più razionale di quella delle questioni su cui
esistono fior fior di teoremi e di leggi. Quindi
anche questa cosa ha una spiegazione, e la sua spiegazione si comprende
facilmente alla luce di quello che mi è successo in questi anni.
Allora, tutto è
cominciato l’ultimo anno ad Hogwarts. Silente era
morto, ucciso a tradimento da SeverusPiton; l’Ordine della Fenice aveva perso il suo capo
indiscusso e la figura certamente più potente. Silente era stata l’unica
persona di cui effettivamente Voldemort aveva mai
avuto paura, ed ormai non c’era più. Quell’estate, Harry aveva deciso di andare
da solo a cercare gli Horcrux e anche io e Ron avevamo
deciso di aiutarlo. Furono due anni molto difficili, avevamo viaggiato per
tutto il mondo magico, ma alla fine ce l’avevamo fatta. Distrutti gli Horcrux, Harry era riuscito con il mio aiuto e quello di
Ron a battere definitivamente Voldemort. Era stato difficile,
estenuante, e non credo che dimenticherò mai né quel giorno, né quei due anni
passati a vagabondare sulle tracce di minimi indizi dei preziosi pezzi d’anima
di Voldemort. Se distruggere gli Horcrux
era stato qualcosa di nemmeno lontanamente immaginabile come facile,
distruggere Voldemort era stata la parte peggiore;
nonostante avesse perso gli Horcrux, era sempre uno
dei più grandi maghi di tutto il mondo. E io, Ron ed Harry non eravamo
null’altro che tre diciottenni che non avevamo neanche finito, con mio sommo
orrore al pensiero, l’ultimo anno di istruzione magica. C’è anche da ricordare
che per distruggere uno solo di quelli Horcrux,
Silente si era indebolito a tal punto da non opporre resistenza, quando lo
avevano ucciso. A volte, nel cuore della notte, ricordo ancora le prove
terribili che ci sono state imposte, e le loro tracce non se ne andranno mai.
Io e Ron, sebbene non avessimo una profezia alle spalle come Harry, cercavamo
sempre di dividere equamente le cose con lui, in maniera che rimanessimo sempre
tutti e tre vivi e nessuno dovesse sopportare di più rispetto agli altri,
perché quel più poteva essere il piccolo passo da compiere nel cammino
che ci portava alla morte. Insomma, davvero la nostra unione è stata la forza.
Sono stata fino all’anno scorso in cura da una specie di psicologa magica ed
ancora adesso ho una ferita magica sullo stomaco, che riprende a sanguinare
nelle notti di novilunio, ma sono abbastanza razionale per sapere che poteva andare decisamente molto peggio. Harry deve bere
dieci pozioni diverse al giorno per contrastare gli effetti dell’ultima
maledizione di Voldemort e Ron ha ferite sparse come
me, ma l’ho detto, poteva andarci molto peggio. Nell’ultimo scontro, se non
fosse stato per l’Ordine della Fenice, gli Auror, i
membri dell’ES e, stranissimo a pensarci, anche per Draco
Malfoy, che era passato dalla nostra parte, probabilmente non ce l’avremmo
fatta. Ma, proprio come aveva intuito Silente e come al contrario mai aveva
capito Voldemort, l’unione delle persone rendeva
possibile ogni cosa; quello che una persona tenta di fare da sola, non sarà mai
neanche la metà del risultato che si può ottenere, chiedendo aiuto a qualcuno.
Se Harry non si fosse lasciato aiutare da me e da Ron, forse sarebbe morto alla
distruzione del primo Horcrux. E se tutti e tre
fossimo stati troppo tronfi di orgoglio da rifiutare l’aiuto degli altri
nell’ultima battaglia, anche quello per noi quasi aberrante di Draco Malfoy, Voldemort ora
sarebbe il Signore incontrastato del Mondo magico e no. Comunque,
indipendentemente da come erano andate le cose quel giorno, dopo tutte le
nostre vite si sono più o meno separate; ognuno, per fortuna nostra, aveva
ancora in serbo i suoi sogni e i suoi sentimenti e, dopo un periodo di letargo
forzato a causa della guerra e del suo tipico appiattimento nel presente e
nella necessità del sopravvivere, tutti siamo tornati a pensare serenamente al
futuro. Ci sono persone che non vedo da anni, che ne so, Luna Lovegood, CalìPatil o anche lo stesso Draco
Malfoy, anche le persone che vedo sempre sono lontane nelle intenzioni da me;
nessuno è più disposto a sacrificare nessuno dei suoi sogni, anche se dovesse
costare separarsi da chi si è amato di più. Harry, per esempio, dopo una
carriera sfolgorante, è diventato il Ministro della Magia ed ovviamente è
sempre carico di impegni, e chi lo vede? Ron è diventato un Portiere famoso di
una squadra importante, non so come si chiama, ma fa soldi a palate. Ginny è una Medimaga e,
incredibile ma vero, Neville Paciock insegna Erbologia nella rinata Hogwarts.
Sembrerebbe strano pensare a tutto questo, soprattutto considerato quello che
io sono diventata. Ognuno di noi sembrava perfettamente inserito in un
tracciato, in un sentiero preciso, ma poi quello che sembrava dovessimo essere si
è trasformato in un ricordo. Infatti, io, quella che forse ci sarebbe stata
bene ad essere la sostituta ufficiale della McGranitt,
sono invece diventata il capo dell’Ufficio degli Auror.
Certo, ci si aspettava che lo fosse Harry, ma credo
che dopo una vita passata a barcamenarsi tra le forze oscure, il bambino
sopravvissuto ne fosse decisamente stanco. Io, invece, nonostante volessi
diventare un insegnante, ho scelto questa strada, dopo gli anni di battaglie
che mi hanno sì terrorizzata, ma dato una carica ed una forza che prima
certamente non possedevo. Diventare un auror è stato
abbastanza semplice, in fin dei conti dalla guerra ero uscita con una sfilza di
riconoscimenti ed encomi ed avevo più esperienza di molti altri auror più anziani di me. In poco tempo, poi, sono diventata
il capo dell’Ufficio e sono riuscita a sgominare molte azioni dei residui Mangiamorte. Sembra un necrologio, la successione delle
azioni meritevoli di lode nella mia esistenza e nella mia carriera, ed
effettivamente è proprio così. Ora, io non sono niente di tutto questo;
né un Auror, tantomeno il loro capo e, soprattutto,
non sono neanche una strega. E non lo sarò per altri due anni.
Mi alzo dal letto e
raggiungo la cassettiera della mia scrivania; distrattamente, apro un cassetto
e frugo tra le mille cose che ci sono lì, sorrido per una fotografia di me e
Dean l’anno scorso, e finalmente trovo quello che cercavo. Una collana d’oro
giallo con un ciondolo quadrato, smaltato di un bel rosso acceso. Il gancetto,
che serve per chiuderlo, è rotto da anni; cosa perfettamente inutile perché
questa collana non l’ho indossata mai. Non perché non mi piaccia, non perché è
rotta, ma perché non è mia. La giro tra le mie dita e leggo cosa vi è
inciso sul retro del ciondolo… una frase piccola ed apparentemente innocente…
una frase d’amore, però anch’essa non per me. Alla mia Eloise... quando non sarai più parte di me, ritaglierò del
tuo ricordo tante piccole stelle, e il cielo diventerà così bello che tutto il
mondo si innamorerà della notte. La stringo un po’ tra le dita, forte, le
mani che mi fanno male, tese a pugno. Per questa collana, per averla, io ho perso tutto. Una volta, la mostrai a Ginny. Lei mi guardò sconvolta e me la strappò dalle mani
tra le mie proteste, voleva gettarla via, le sembrava inconcepibile che la
conservassi con tanta cura maniacale. Riuscii a riprendermela e le dissi che
non era un gesto di follia, era solo un monito per ricordarmi per sempre quello
che era successo, in modo da non ripetere gli stessi errori una seconda volta.
Ricordo che cosa replicò Ginny drammaticamente. Che
errori avresti fatto Hermione? Non hai sbagliato in
niente, a parte se si deve considerare l’amare un
errore.
Tante volte, tanto
tempo, oserei dire infinite volte, infinito tempo io invece avevo pensato
il contrario.
Io e Ron ci eravamo
messi assieme il giorno successivo al matrimonio di Bill e Fleur
e quello precedente alla partenza assieme ad Harry. L’ultimo giorno normale che
avremmo vissuto per almeno due anni; ancora adesso, lo ricordo come il giorno
più bello della mia vita. Era giugno e faceva ancora fresco, era una serata
piena di stelle cadenti ed io, Harry, Ron e Ginny
eravamo sul tetto della Tana a guardare le stelle. Nessuno, a parte noi tre e Ginny, sapeva che saremmo partiti il giorno dopo all’alba.
Nonostante ci dovessimo alzare presto e fossero già le tre di notte, non
andavamo a letto. Restavamo in silenzio, le scie delle meteore negli occhi,
esprimendo il solo desiderio che tutti avevano nel cuore. Essere ancora vivi
l’anno prossimo per poter guardare ancora le stelle, tutti assieme ovviamente.
Non bastava che fossimo in due o in tre, dovevamo esserci tutti. Dal primo
all’ultimo. Ginny era accoccolata tra le braccia di
Harry e piangeva in silenzio, me lo ricordo come se fosse ieri. Vedevo solo le
sue lacrime scendere e lei non parlava, non diceva niente di niente, neanche
singhiozzava. Io abbracciavo Ron. Non mi disse niente di speciale per tutta la
sera, anche per me e per lui non c’era nessuna parola sufficiente e valente di
significato. Solo all’alba, lui mi disse sottovoce,
accarezzandomi la testa: “Non sopporterò di morire se prima non ti avrò detto
questa cosa. E dato che è molto probabile, è meglio
che te lo dica subito”. Per la prima volta nella mia vita, rimasi in
silenzio, intimamente credo che sapessi perfettamente che cosa stava per
dirmi.Mi voltai verso
di lui, mentre lui sussurrava, la fronte appoggiata sulla mia tempia e il
respiro sulle guance: “Sono innamorato di te, Hermione,
non so nemmeno io da quanto. Vorrei stare con te, ma
se non è possibile, basta che te l’abbia detto stasera… prima che, insomma…”.
Sorrisi ai suoi balbettii, mi era già sembrato strano che non avesse tentennato
nella sua dichiarazione. Io, che sono sempre così prolissa, non dissi
assolutamente nulla, mi appoggiai meglio a lui e rimasi immobile e in silenzio,
con un tenue sorriso sulle labbra. Ron capì e mi strinse più forte, baciandomi
sulla fronte. Mi decisi a baciarlo veramente solo quando mi accorsi che Harry e
Ginny si erano addormentati, la luce dorata che mi
faceva piangere, il mio cuore che si librava senza preoccupazione alcuna.
Siamo stati assieme
tre anni.
Paradossalmente, al
contrario di quello che si possa pensare, il più difficile è stato l’ultimo,
non i primi due, quelli del viaggio. Gli anni del terrore, gli anni della
paura, gli anni di quella ricerca che alcuni momenti sembrava così vana ed
inutile, sono stati per noi due i migliori. Perché? Per paura. Solo per quel
timore che mi ingombrava le viscere tutto il giorno, che stringeva il respiro
la sera quando andavo a letto e mi chiedevo se la mattina mi sarei svegliata,
che mi gelava il sangue quando mi svegliavo la mattina e mi chiedevo
ossessivamente se non era forse l’ultima volta che vedevo il sole… per
quell’angoscia, ogni volta che constatavo che, nonostante tutto, ero ancora
viva, tra me e Ron le cose andavano bene. Non volevo litigare con lui, se
poco dopo dovevamo affrontare un nuovo ostacolo; non volevo rispondergli male,
se subito prima ci eravamo salvati per miracolo da un gruppo di Mangiamorte; non volevo contraddirlo, se si avvicinava
sempre di più la battaglia con Voldemort e sembrava
sempre più insormontabile. Mi bastava essere ancora viva, e che lo fossero
anche Harry e Ron. Il resto non contava; era istinto di sopravvivenza, era
voglia di vivere fino all’ultimo secondo, era terrore, io non lo so. Comunque,
nonostante l’inferno che mi circondava, era come essere sospesi in una bolla
luminosa, che volteggiava sopra quel delirio. Non veniva scalfita, solo
sfiorata. Ho ingoiato dosi per me letali di orgoglio, ho vinto le insicurezze,
ho sconfitto le incertezze solo per un attimo ancora di vita con lui. Quando
lui mi chiese di fare l’amore con lui, non ci pensai nemmeno mezzo secondo.
Stavamo assieme da neanche due settimane, e, quando lui aprì la bocca per farmi
quella domanda, non lo feci nemmeno finire. Mi aprii la camicetta, presi tra le mie la sua mano portandola sul mio seno, facendomi
baciare da lui, avido della vita che moriva attorno a noi sempre di più,
lasciandoti superstiti di un mondo in cancrena. Ogni sera, nonostante fossimo
feriti, nonostante alle volte faceva male, nonostante fossimo stanchissimi,
nonostante Harry potesse sentirci, ripetevamo il nostro rito, quasi come una
danza propiziatoria. Urlavo silenziosamente al cielo, grata che nonostante
tutto fossi davvero ancora viva, riconoscente a lui, e lui riconoscente a me.
Se la morte non aveva toccato i nostri corpi, non toccava ancora la nostra
anima, che non si accartocciava su sé stessa, agghiacciando, ma sapeva ancora
infiammarsi di vita.
Lessi
una volta una frase su qualche libro; una donna innamorata diceva: “Ci sono
solo due giorni a cui non penso: ieri e domani”.
Quando la guerra finì,
improvvisamente esistevano sia l’ieri che il domani.
Li avevo sempre beatamente ignorati, l’ieri perché non
potevo bearmi di quello che avevo già superato, essendoci ancora tanto da fare;
il domani, perché non potevo crogiolarmi in esso, se non sapevo nemmeno se
sarebbe esistito. A poco a poco, invece, non appena arrivammo faticosamente
alla pace, c’erano entrambi ed erano sempre più importanti dell’oggi. Ieri c’era
stata la ricorrenza che avevi scordato, la lezione che avevi saltato, la
bolletta che non avevi pagato, la parola che non avevi sopportato; domani
ci sarebbe stato l’esame per la fine del mio corso, il provino di Ron per la
squadra di Nashville, la convivenza, forse il matrimonio con figli annessi e
connessi.
Iniziammo a litigare
sempre più spesso. Per cose sceme, per cose importanti, per cose sceme per lui
ed importanti per me, e viceversa.
Io dicevo che era
troppo immaturo, lui che ero troppo rigida, troppo poco elastica.
Proprio come accadeva
ad Hogwarts. Ma peggio.
Stavolta non c’era
Harry a fare da paciere. Stavolta eravamo anche fidanzati.
Le cose, se possibile,
peggiorarono quando andammo a vivere assieme. Vivevamo nello stesso
appartamento dove vivo adesso con Dean. Era lontano da dove lavoravo io e
lontanissimo da dove lavorava lui; tornavamo a casa tardissimo, stanchi e
nervosi, pronti a rimbeccarci in qualsivoglia occasione. Guardavamo un po’ di
tv in silenzio, e poi a letto. Ovviamente a dormire.
Ma, davvero, nemmeno
per un attimo, smisi di crederci a me e a lui assieme.
Era il mio destino
stare con lui. Eravamo sopravvissuti a Voldemort, non
potevano spaventarci le liste della spesa, le fatture da pagare e l’affitto.
Lui era il mio principe azzurro da tutta la vita, stare con lui era ogni
giorno una fiaba.
Questo pensavo, da
sciocca allocca quale sono.
Una sera, Ron non
tornò a casa. Lo aspettai tutta la sera fino alle tre del mattino, quando mi
appisolai su una sedia in salotto. Lui tornò poco dopo, aprendo la porta quatto
quatto. Sobbalzai e mi alzai, chiedendogli dove
diamine fosse stato. Esattamente come Dean oggi, mi mentì. Mi disse che era
uscito con Seamus, Neville e Dean con Lavanda, ed
avevano perso la cognizione del tempo; mi baciò mentre andava in camera nostra,
e mi raccontò più o meno che cosa si erano detti. A quanto pareva, Seamus aveva fatto richiesta di trasferimento a Eton per finire gli studi dato che il padre voleva che
prendesse contemporaneamente un titolo di studi babbano
e Lavanda, invece, stava seriamente pensando di iscriversi ad un corso per la Cura delle Creature Magiche,
e quindi aveva chiesto aiuto a Bill. Chiese invece a Ron di aiutarla per gli
scritti.
Quella notte, non
dormii. Pensavo e ripensavo a quello che aveva detto Ron e a come mi sembrasse
strano. C’era qualcosa che non tornava, non sapevo se per Seamus
o per… Lavanda…
La mattina me ne
dimenticai.
La sera, Ron non tornò
ancora. Andava a dare ripetizioni a Lavanda.
Per cinque sere, la
stessa storia.
Lo aspettavo, ma lui
non tornava. La mattina era gentilissimo, mi portava la colazione a letto,
contornata di fiori freschi. Era diventata una sfida, ogni giorno un fiore diverso,
solo perché non ricordava quale fosse il mio preferito.
Ridevo e finalmente
pensavo che le cose andassero meglio.
Fu il giorno che lui
mi portò a letto un mazzo enorme di fresie che accadde tutto.
“Vado con Dean
all’esame di Lavanda. In fondo, l’ho preparata io!”.
Sorrisi, mentre lui mi
baciava e chiudeva la porta. Ma mentre analizzavo una sfilza di documenti
sull’omicidio di una famiglia intera da parte dei Mangiamorte,
mi ricordai una cosa.
Era sabato.
Il sabato non si fanno
esami alla sessione per la Cura
delle Creature Magiche.
Lo sapevo perché, per
caso, lo avevo letto in bacheca un pomeriggio di qualche giorno prima, mentre
aspettavo di vedere il Ministro Potter. Quell’informazione si era infilata come
un serpente tra i miei pensieri, tornando a galla nel momento meno opportuno.
Dov’è andato allora
Ron?
Chiamai Dean e gli
chiesi che giorno c’era l’esame. E lui candidamente ed ingenuamente mi rispose
che era la settimana prossima. Anche lui era così innamorato di Lavanda che non
riuscii a dirgli nulla. Gli chiesi dove era lei, e mi rispose che era andata
con Ginny a fare spese. Ovviamente Ginny era a casa sua, che imprecava per l’esame di Anatomia
elfica.
Non feci nulla, fino
alla sera successiva. Avevo sentito tutti i nostri amici, e sapevo perfettamente
che cosa avrebbero fatto quella sera.
“Herm,
che fai stasera?”.
“Sono stanca, Ron,
credo che andrò a letto presto… ma tu esci pure!”.
“Che pizza, volevo
andare al cinema con te, lo sai che GilderoyAllock si è messo a fare l’attore?”.
“Vagamente…”.
“Vorrà dire che uscirò
con Neville… non aveva niente da fare stasera!”.
Errore. Neville era
dalla nonna per il weekend.
Mi sono sempre stupita
di quanto mi piaccia tendere le trappole alle persone. Che io sia divertita da
questo come faccio spesso con Dean o che invece sia sconvolta come quella
volta, provo sempre un sottile piacere.
Rimasi immobile,
guardando la televisione con gli occhi vuoti e le orecchie
tese, mentre Ron si faceva la doccia, si vestiva, mi salutava ed alla
fine usciva.Quando richiuse la porta
alle sue spalle, scattai come una molla in piedi.
Mi avvicinai al
telefono e composi il numero del capo della mia squadra d’Auror,
Troy Beckwith.
Gli dissi di procedere
con l’operazione.
Per quello, io non
avevo abbastanza coraggio. Strano per un’ex Grifondoro,
lo so.
Due sere prima, avevo
visto Slidingdoorscon Gwyneth Paltrow. Una scena del film si era dipinta di colori accesi nel
mio cervello.
Nel film, lei si
sdoppia. Una sua sé stessa riesce a prendere la metropolitana, l’altra no, e il
regista si diverte a seguire questi due destini paralleli. Quella che riesce a
prendere il treno, torna prima a casa e trova il fidanzato a letto con
un’altra. L’altra vive per troppo tempo nella beata ignoranza della relazione.
Chiaro che io non
potevo essere la seconda. Ma nemmeno la prima.
Solo immaginare di
vedere una scena del genere… mi avrebbe ucciso… ci speravo, in fondo, che non
fosse vero.
E, in caso contrario,
gli occhi di Troy e degli altri sarebbero stati altrettanto adatti allo scopo.
Non c’era nessun
bisogno che vedessi anch’io.
Mi ero appisolata
davanti alla televisione. Erano le undici e mezzo, mi svegliai di soprassalto
al suono del telefono. Alla televisione, lo ricordo ancora, davano un vecchio
film in bianco e nero.
“Beckwith,
allora?” chiesi con un filo di voce.
“Esattamente come ci
aveva detto lei, Comandante… credo che non abbia niente a che fare con i Mangiamorte…” rispose assonnato Troy. Per lui, infatti, le
mie paranoie del suo capo erano relative solo alla convinzione che Lavanda Brown nascondesse il ricercato ed evaso EvanMcKay. Certamente non poteva pensare che le mie
paranoie fossero invece sul fatto che Lavanda si vedesse con il mio ragazzo. E
anche per Troy doveva essere sembrato strano che io chiedessi quel pedinamento.
Lavanda, almeno per quel tipo di sospetto, ne era decisamente al di sopra.
“Questo lo lasci
decidere a me…” replicai acida “Mi dica per filo e per segno che cosa ha fatto
e dove è stata…”.
Sentii Troy sospirare
leggermente, trattenendosi a malapena da uno sbuffo di impazienza, mentre mi
raccontava tutto.
Non sentii molto, a
dirla tutta.
Dopo che mi disse,
scandendo perfettamente l’ora 20 e 22, che Lavanda
aveva incontrato nel suo appartamento Ronald Weasley,
per poi uscirne due ore dopo, non ascoltai più nulla.
I miei sospetti erano
perfettamente fondati.
Con voce gelida, dissi
che non era sufficiente ed ordinai alla mia squadra di fare un sopralluogo
nella sua casa, approfittando del fatto che Lavanda fosse uscita. Con Ron.
Chiusi la
conversazione e appoggiai la cornetta sul ricevitore.
Non ricordo di averci
pianto, allora.
Rimasi immobile,
raggomitolata per terra, le braccia strette attorno alle ginocchia. Appoggiai
la fronte sulla gamba ed aspettai. Aspettai la nuova chiamata di Troy che mi
disse che aveva requisito del materiale.
Gli dissi di
portarmelo immediatamente a casa.
Esaminai le cose prese
a Lavanda e le gettai subito via. Non c’era niente di compromettente in quei
fogli e in quei documenti. Aprii la sua piccola agenda di cuoio rosso e
chiaramente da lì emerse tutto. Date, ricorrenze, compleanni, incontri… tutte
cose che esulavano da me e dalla mia conoscenza. Quelle scritte fiammeggiavano
nel loro rosso acceso tra i miei pensieri, le scrutavo con ingordigia, le
leggevo con insolito masochismo e ad ogni nuovo incontro mi chiedevo dove fossi
io in quel momento, che cosa stessi facendo o pensando. Riscontrando che stavo
lavorando, o che ero uscita con Ginny, o ancora ero
da Harry, un piccolo sorriso mi curvava le labbra, che stringevo a sangue per non
piangere.
Non ci volevo
piangere, davvero. Strinsi i pugni, spaccai un vaso, mi misi ad urlare, ma le
lacrime non scesero dai miei occhi. Tra quelle cose, trovai anche la collana in
questione. All’inizio, non capii che cosa volesse dire la dedica “Alla mia Eloisa”, che era, un soprannome di dubbio gusto di
Lavanda? Io ne avrei suggeriti degli altri con un rating abbastanza alto…
comunque, quando mi ricordai che cosa mi avesse detto Ron solo una settimana
prima, davvero realizzai che quella cosa era davvero
successa.
Ron mi aveva chiesto
di fargli un breve riassunto di un’opera di Jean Jacques Rousseau. Guarda caso,
Giulia o la Nuova Eloisa. Protagonista? Un’allieva che
si innamora del suo precettore. Che lui facesse il precettore di Lavanda, credo
che fosse un debole eufemismo, oppure un’esagerazione presuntuosa, se ci
riferiamo alla sua capacità didattica; insomma, l’aveva chiamata così perché si
erano… non posso dire, innamorati, mi farebbe schifo… insomma, quella
cosa che era successa, ci era stata perché lui le dava ripetizioni.
Gettai le cose di Ron
in un cartone e le recapitai all’indirizzo dell’appartamento di Lavanda,
assieme alle cose che avevano requisito nella sua casa. Tranne la collana,
ovviamente, che ho ancora io. Lavanda non la indossava solo perché aveva il
gancetto di chiusura rotto, che ne so, magari sul suo collo taurino non ci
stava; per questo, l’aveva lasciata a casa. Poi, chiusi casa mia a chiave,
presi le mie cose e salii sul primo aereo che passava.
Non ho mai fatto una
cosa del genere, ne sono cosciente, di solito sono molto razionale, ma allora
non ci capivo decisamente niente. Se avessi visto Londra anche in cartolina, mi
sarei messa ad urlare. Insomma, l’unico posto libero era su un volo per
l’Italia, Firenze precisamente, ed è lì che stetti tre settimane, incurante del cellulare, del portatile e del cercapersone
pieni di messaggi. Fu anche lì che scialacquai tutti i risparmi che avevo.
Tre settimane dopo,
non avevo intenzione di tornare, non avevo ancora pianto e mi rimanevano
trentacinque sterline.
Fu Dean a
raggiungermi. Fu lui a convincermi a tornare indietro. E fu anche con lui che
finalmente piansi.
Era l’unica persona
con cui effettivamente me lo sarei concesso, perché era l’unica persona al
mondo che provava la stessa cosa che provavo io. Piansi per due ore tra le sue
braccia, lui che se ne stava in silenzio, accarezzandomi di tanto in tanto la
testa come si fa con un cucciolo di cane.
Le cose peggiorarono
quando tornai a Londra.
Troy aveva capito che
avevo sfruttato la squadra solo per far pedinare l’amante del mio fidanzato.
Non che fosse difficile… insomma, pensare che Lavanda Brown
fosse in contatto con i Mangiamorte, cretina come è.
Da mesi, Troy ambiva al mio posto, aveva dieci anni più di me, riteneva
disdicevole farsi comandare a bacchetta da una ragazzina. Approfittò
dell’occasione insperata della mia follia per denunciarmi all’Ufficio sull’Uso
Improprio della Magia per abuso di potere. Accolsero la sua richiesta e
indissero una causa giudiziale, in cui avrebbero espresso un responso sul mio
operato. Peccato che la causa si tenne dieci giorni
prima che io decidessi di tornare. Isolata dal mondo, non ne seppi nulla e
ovviamente, per la mia assenza, decisero per il massimo della pena.
Non solo mi revocarono
l’incarico, ma mi spezzarono la bacchetta, togliendomi i poteri magici per
cinque anni. Tre ne sono già passati, ne mancano altri due. Certo per molti
altri maghi, questo poteva essere un dramma maggiore; essendo babbana di
origine, certamente non mi potevano spaventare un paio di anni da vivere come
una normale ragazza. Il problema era che, da babbana, io non sono nulla. Hogwarts non ha mai pensato di convertire il suo titolo di
studio in uno babbano, ciò significa che, anche
avendo delle competenze magiche decisamente superiori alla
media, da babbana sono al pari di un’analfabeta che non è mai andata a
scuola.
Insomma, le cose erano
decisamente gravi. I primi tempi mi aiutarono molto Harry e Ginny,
che mi ospitarono anche a casa loro. Ma io odio dover dipendere da qualcuno,
quindi tornai a casa mia ed inizia tutta una serie di rocamboleschi lavoretti
per pagarmi le spese e l’affitto. Ovviamente la situazione non era per niente
rosea, anzi… quando non avevo i soldi per prendermi da mangiare, me ne andavo
da Ginny, ma per il resto dovevo fare i salti mortali
per far quadrare in qualche modo miracoloso i conti.
E, allo stesso modo,
mi sembrò un miracolo, quando Dean mi disse che, se ero d’accordo, poteva
venire a vivere da me.
Non tutte le donne
sono imbecilli come me, che mi ero fatta tradire per chissà quanto tempo dal
mio ragazzo e non l’avevo ucciso, rifiutandomi solo di vederlo e sentirlo
nominare… Lavanda, che adesso poteva fare coppia fissa con Ron, pensò bene di
cacciare Dean di casa. Lui, che non poteva tenere un appartamento da solo, mi
fece quella proposta.
“Da
amici, ovviamente, Herm! È
un accordo non vincolante!” rise lui nel dirmelo una mattina di dicembre di due
anni fa.
“E’ un accordo anche
molto vantaggioso!” risposi io, accettando.
Questo è il motivo per
cui Dean vive, o perlomeno fino a stamattina, viveva con me. Per
dividere le spese.
Il motivo per cui
stiamo assieme, quello è un po’ più complicato. Un anno fa, la sera di S.Valentino, ci ubriacammo come due spugne; lo so che non è
da me, e di solito a me l’alcol fa arricciare il naso anche solo a sentirne il
fetido odore. Ma quale donna tradita, fosse anche una Grifondoro
di ancestrale memoria ed un’eroina del mondo magico, non si ubriacherebbe la
sera di S.Valentino, se ha come sola compagnia un ragazzo
che è legato da un accordo non vincolante di divisione delle spese, e un gatto
rosso con il muso schiacciato? Bevvi la bellezza di cinque Mojito,
tre Cuba Libre, una Pina colada e qualche bicchiere di sangria. Tutto
nell’arco di tre ore. Dean bevve, se possibile, più di me.
Il risultato fu un’emicrania da panico la mattina seguente. Quando mi
risvegliai nel letto di Dean. Ovviamente con Dean.
Sarebbe stato un episodio isolato e probabilmente ci avremmo anche riso su,
se non mi accorsi con terrore che l’esperienza non mi era affatto dispiaciuta.
Cominciò il periodo più estenuante della mia vita; io e Dean vivevamo assieme,
ma ci ignoravamo per tutto il tempo, salvo ricercare contatti forzati nel
ricordo di quello che era successo tra noi per qualche bicchiere di troppo.
Arrossivamo e scappavamo via in un circolo vizioso ed infinito.
Cedemmo un mese dopo.
Poi ci prendemmo decisamente gusto E ci mettemmo assieme.
Però, come ho già premesso, io non sono innamorata di lui. Il nostro vivere
assieme adesso è un accordo ampiamente vincolante, questo sì, ma per il
resto... è esattamente
come quando vai in gelateria e chiedi una bella coppa con cioccolato e panna, e
il gelataio ti risponde che lo stanno preparando e che ci vuole qualche minuto.
Ti siedi ad un tavolino e, nell’attesa, magari ti prendi un ghiacciolo al
limone. Dean è il mio ghiacciolo al limone, declassato nell’attesa della coppa
dei miei sogni. Sono molto affezionata a lui, gli voglio un bene dell’anima e,
devo ammetterlo, mi piace anche parecchio, ma da qui a quello che provavo per
Ron… c’è un oceano tra le due cose… spesso Ginny mi
dice che, secondo lei, è questione di tempo, che magari sono solo spaventata da
quello che mi è successo ed esito a legarmi con qualcuno in via seria. Le posso
anche dare ragione, considerando quel bastardo di suo fratello; ed è allora che
mi metto mentalmente a battere i piedi in attesa del giorno in cui se ne andrà
questo blocco del cavolo, e mi riuscirò ad innamorare davvero di Dean. In fondo
che cosa gli manca? Ha un fisico da paura, è carino, è dolce, non sarà il
massimo dell’intelligenza, ma quale ragazzo lo è, mi vuole davvero bene e ha un
bel lavoro al Ministero.
Sospiro, è esattamente
questo il problema, sembra che stia facendo la reclame di un aspirapolvere. O
di un ottimo marito, e non so davvero che cosa ci sia di peggio.
Sin da bambina,
sognavo l’amore senza aggettivi, quello passionale, intenso e, per una come me, assolutamente illogico. E non importa se mi
dovesse mandare in corto circuito il cervello, con mia grande ansia ed angoscia, ma basta che sia così grande, bello e meraviglioso
che io non possa rimpiangere nulla di quello che ho fatto o che sto per fare.
L’amore di cui si parla nelle fiabe, tanto per intenderci… lo so che è
estremamente immaturo, ma una potrà sognare no? Dopo Ronald Weasley,
avevo ovviamente interiorizzato l’idea che i principi azzurri fossero una razza
in via d’estinzione da questo pianeta, ma adesso ho maturato anche la
considerazione che la vita non è una bellissima passerella di occasioni
meravigliose e dorate, permeate del tessuto dei sogni e del velluto delle
ambizioni. La vita spesso ti dà poco quanto niente, devi sgomitare per avere un
po’ di più e soprattutto aggrapparti con le unghie e con i denti a quello che
hai. E, al momento, quello che ho è Dean Thomas.
Questo, per ritornare
al principio, è la contemporanea spiegazione al fatto che sto piangendo e al
fatto che non sono però innamorata di Dean. Ed è anche la spiegazione al fatto
che, dopo aver fatto il mio solito giro alla ricerca di un lavoro più
redditizio che non comprenda l’idea di spogliarmi, lo chiamerò e gli chiederò
scusa.
Alcuni dicono che non
possono vivere senza una persona. Bè, io allo stadio
attuale non posso decisamente vivere senza Dean. Chiamatelo convenienza,
opportunismo o comodità nel non voler rimanere da sola… ma adesso le cose
stanno proprio in questa maniera.
Non rilasciamo una nuova versione per correggere gli errori
Capitolo 3 – Deus ex machina
Mi alzo decisa dal letto, passandomi la manica
della vestaglia rosa sulle guance bagnate. Raggiungo il comodino, costatando
che Dean ha lasciato il cellulare a casa. Sorrido, benissimo… almeno sono
sicura che tornerà a casa…
Stasera gli preparò una bella cenetta, anzi…
sospiro, è meglio che gli faccia quel maledetto pollo fritto che gli piace
tanto, accidenti a lui. Mi faccio una doccia, lasciando che l’acqua scrosci sul
mio corpo senza fermarsi, poi mi vesto velocemente per andare a fare la spesa;
è una giornata calda, quindi mi posso permettere una canotta rossa ed un paio
di jeans scuri. Racimolo gli ultimi spiccioli nel barattolo dello zucchero
sopra la credenza, saluto Grattastinchi che miagola
in risposta, prendo le chiavi e mi chiudo silenziosamente la porta alle spalle.
Se mi sente la signora Sanchez, è la fine…
Mi acquatto sulla parete, scendendo le scale un
gradino alla volta ed in punta di piedi. Impreco mentalmente contro la borsa di
plastica trasparente rossa che sbatte contro la parete, producendo un piccolo
rumore, amplificato dall’eco della tromba delle scale. Rimango in attesa,
sospiro di sollievo… meno male che non mi ha sentito…
Supero il suo pianerottolo in completo
silenzio, poi inizio a correre per le scale. Apro il portone con aria
vittoriosa.
“Signorina Granger!!!!” un urlo da mammut mi trafigge le orecchie. Ecco, era
troppo bello per essere vero…
indecisa su
che cosa fare, sosto un po’ con la mano sulla maniglia, poi la mando
mentalmente a quel paese ed apro la porta, fingendo abilmente di non averla
sentita. L’hanno sentita anche in Kosovo a dirla tutta, ma potrò sempre dire
che avevo il lettore mp3 nelle orecchie. Tanto che imprechi per quello o per il
fatto che non abbia ancora pagato l’affitto, non credo che sia molto differenza… imprecherà lo stesso…
Riesco ad agganciare per l’ultimo secondo utile
la metro che mi porterà in centro. Mi siedo nell’unico sedile libero, accanto
ad una decina di uomini in giacca e cravatta diretti alla City. Estraggo il
lettore dalla borsa e mi metto ad ascoltare in silenzio la musica che ci ho
messo solo la sera prima, prevalentemente canzoni struggenti e spezzacuore. Appoggio la testa sul sedile scomodo della
metropolitana, chiudendo gli occhi dietro le lenti scure, cercando di ignorare
il ballonzolare continuo del treno. Un senso di apatia mi avvolge come sempre,
mentre ascolto la mia musica preferita. Una volta, Ginny
mi disse che ascolto solo la musica di quelli che sono prossimi al suicidio.
Non mi interessa.
Di solito, sono dell’opinione che una canzone
d’amore struggente, se ti fa male, è perché hai qualcosa di enorme da
nascondere, che la suddetta canzone è andata a toccare. Quindi, quando esco con
le mie amiche o facciamo una festa, finisco sempre per attaccare un cd a caso
con una che strilla dalla strofa al ritornello sulla fine del suo amore
meraviglioso, mentre loro mi dicono di spegnere, urlando come delle invasate.
“Ci vai venire una depressione, Herm!” sbraitano con le mani premute sulle orecchie. E
stiamo parlando anche di GinnyWeasley,
la famosissima fidanzata del Ministro della Magia, nonché membro del Wizengamot, eroe del mondo magico, paladino del bene e, nel
tempo libero, anche validissimo cercatore di Quidditch.
In una parola, Harry James Potter.
Al che io mi chiedo… se a lei con un
fidanzato come Harry viene la depressione, a me che dovrebbe venire? La faccia
a cui nemmeno un obiettore di coscienza negherebbe l’eutanasia?!! Sono quindi giunta alla conclusione che le canzoni
d’amore ti fanno effetto in due soli casi: o se ti ritieni troppo felice e
quindi pensi che la canzone porti una sfiga pazzesca, oppure se sei infelice
forte e quindi arrivi anche a pensare che potrebbe pure andare peggio. Ergo, se
a me non fanno effetto… non sono in nessuna delle due condizioni esistenziali.
Non è una bella cosa definirsi non-felice e nemmeno propriamente infelice, ma rimando alla spiegazione precedente per
credere; nell’attesa e nella pallida gioia di non detestare le canzoni d’amore,
le ascolto con soddisfazione, compiacendosi della mia superiorità rispetto ai
più comuni sentimenti umani, quali la felicità o l’infelicità. In fondo, che io
lo ammetta almeno con me stessa, sono sempre stata abbastanza al di sopra della
norma della condotta umana.
Nell’intervallo di due secondi netti tra “Myheartwill
go on” di Celine Dion, e “Ihadnothing” di Whitney Houston, apro leggermente
l’occhio sinistro per vedere se sono finalmente arrivata alla mia fermata.
Ovviamente nel buio della metro, non riesco a distinguere niente; sto per
chiudere nuovamente l’occhio, quando la metro si ferma nuovamente. Strizzo gli
occhi per leggere il nome della fermata sul cartello luminoso.Notting Hill. Notting Hill???!!! Ma sono almeno cinque fermate dopo la mia!! Accidenti
a me e a tutte le canzoni d’amore del mondo!
Mi alzo come una furia nel timore di
allontanarmi ancora di più da casa mia e raggiungo la porta automatica, che stava
già per richiudersi. La fermo, mettendoci un piede in mezzo, poi la spalanco
con le mani e le braccia. Il terribile dejavù della
mia situazione e di quella del film Slidingdoorssi fa sgraditamente presente nel mio
cervello, appena metto piede fuori dal treno. Scuoto la testa, ci mancava anche
questa. Io di solito evito accuratamente di cadere nelle trappole dell’intuizione, ma oggi sembra veramente giornata… arrotolo gli
auricolari del dannato lettore mp3, quello che adesso mi farà perdere un casino
di tempo per aspettare la metro nella direzione opposta… e, cosa non
trascurabile, la sterlina per il nuovo biglietto di andata e ritorno… rabbia!
Lo getto con furia nella borsa in mezzo alle mie cose. Percorro in lungo e in
largo la banchina alla ricerca del cartellone con gli orari, evitando uomini
d’affari scontrosi e maleducati, e giovani mamme nevrasteniche con figli che
potrebbero tranquillamente fare concorrenza alle nervose genitrici. Trovato il
cartello, scopro ovviamente che il prossimo treno passa dal binario
cinque tra due ore e mezzo. Ma si può??!!! E questa è
l‘efficiente rete di servizi inglesi?! Maledetti, nell’ordine, Lavanda BarbieBrown, Ronald KenWeasley,
Troy alias LA SPIA,
e poi anche Dean con i sensi di colpa annessi e connessi! Se avessi la magia,
ci impiegherei mezzo secondo a materializzarmi nell’ufficio di Dean per
chiedergli scusa, risparmiando anche i soldi per il maledetto pollo fritto che
gli devo pure cucinare… ovviamente dopo provvederei a smaterializzarmi da quei
due bambolotti di plastica, brucerei il camper delle meraviglie con cui vanno
in vacanza assieme alla casetta rosa stile Nouvelle Cousine,
per poi sgonfiare con uno spillo i loro attributi ritoccati al silicone! Questo
solo per quello che mi fanno passare ogni giorno, non per l’umiliazione, la
rabbia e il dolore, che sono dati trascurabili!
Con il passo di uno
yeti di montagna, quando il gruppo di campeggiatori designati riesce a scappare
incolume dalle sue grinfie, risalgo le scale della fermata, uscendo
all’esterno. L’aria fresca mi sferza il viso e finalmente recupero anche
l’ombra di un semi sorriso. Potrò sempre fare la spesa
in un negozio di qui, poi magari mi guardo un po’ di vetrine, sognando quello
che non mi posso assolutamente comprare.
Cammino un po’, guardandomi avidamente attorno,
la folla colorata e multietnica che scorre vicina a me. I negozi sono pieni di
merce particolare, soppesata con occhio critico dalla clientela. Se non ricordo
male, qui vicino ci dovrebbe essere anche un negozio dell’usato… sì, ci venivo
spesso con l’infame… in effetti non vengo a Notting Hill da allora. Di mattina è sempre troppo caotico
come quartiere, la sera poi è semplicemente troppo romantico. Insomma
dall’infame in poi, ho preferito decisamente non metterci più piede. Poi, figuriamoci,
con Dean ogni occasione è buona per rinviare un’uscita e starcene a casa a poltrire… con Ron, invece, ci venivo spesso, specie
nei primi tempi di pace. Lui aveva la sede del club per cui giocava qui vicino
e io passavo il tempo in quel negozietto di roba usata, giocherellando con
chincaglierie varie e comprando i libri usati. Trovai una copia di “Orgoglio
e pregiudizio” praticamente intatta. Certo mancavano le ultime cinque
pagine, ma tanto la conoscevo a memoria la storia… quasi quasi
ci vado… mi riscuoto violentemente, urlandomi un “NO” gigante nel cervello.
Dobbiamo risparmiare! Altrimenti non arriviamo alla fine del mese! Poi mi
ricordo che stamattina l’unico piacere della mia vita, ossia il succo
all’ananas, è caduto rovinosamente per terra… quindi giustifico alla luce di
quella incolmabile privazione il mio imboccare la strada per arrivare a quel
negozio e poi sciolgo le mie ultime reticenze, dicendomi che, qualora le cose costano troppo, potrò sempre andarmene. L’ultima incertezza
se ne vola via al pensiero che devo comunque aspettare due ore e mezzo da
perfetta imbecille.
Se non ricordo male… percorro un vialetto
principale, dominato da una serie di imponenti alberi di magnolia e una sfilza
di bancarelle all’aperto, che vendono cibi di ogni sorta. Incuriosita da una
bancarella ricolma di trecce d’aglio e spezie odorose, gestita da un francese
dal naso rosso, intravedo il negozio di fiori all’angolo del palazzo, da cui si
girava per trovare il famoso negozio vintage. Do l’ennesimo strappo alla
finanziaria di casa mia, comprando un piccolo mazzo di fiori d’arancio da
mettere sul tavolo stasera, quando mangerò con Dean (e cucinerò lo
stramaledettissimo pollo fritto, non ci voglio pensare…), poi imbocco la
stradina.
Ecco il negozio di musica celtica, la
cartoleria sempre piena di mocciosetti che comprano le penne colorate al sapore
di frutta, e poi ci dovrebbe essere… no!!!
Dove pensavo ci fosse il negozio che ricordavo,
mi appare invece un’insegna in caratteri luminosi che recita beffarda “Petit
peste”. Che delusione, hanno chiuso quel negozio così carino per un altro…
già, e che cosa è? Il locale sembra chiuso, la serranda blu
scuro con il disegno di una bambina sorridente è abbassata fino a metà.
Tipico, deve essere un pub o qualcosa del genere. Sulla saracinesca, sono stati
attaccati una sfilza di volantini di colore fucsia. Uno
recita che di sabato non si entra senza prenotazione; devo dedurre che deve
essere un posto conosciuto. Io non l’ho mai sentito nominare; dimenticavo, con
Dean come sarebbe mai possibile?!!! Deve essere anche
grande, il negozio che ricordavo io, aveva merce di tutti i tipi ed era enorme;
aveva un seminterrato con la roba più vecchia e copriva anche un primo piano
nell’edificio. Il secondo volantino informa che sono in vendita i biglietti per
il Turquoise Party del mese prossimo,
chissà che diamine è… un altro invece dice che sono alla ricerca di una
cameriera a tempo pieno per la zona pub. I colloqui si tengono ogni mattina
dalle 11,00 alle 14,00; si deve chiedere di un certo Danny Ryan. Deve essere il
proprietario… bah… inizio a percorrere il vialetto all’incontrario, ma mentre
sto per girare l’angolo e mi chiedo dove diamine potrei andare adesso per
perdere tempo, ripenso al contenuto dei volantini. Il ritornello prenotazione-turquoise party-cameriera a tempo
pieno, si ripete dodici volte nel mio cervello, prima che lo interiorizzi
del tutto. Sto davvero perdendo colpi… cameriera a tempo pieno?!Cameriera=lavoro=paga=soldi=fine di una vita di
mortificazione economica=fine delle urla della
signora Sanchez e delle fughe mattutine!
Ritorno velocemente indietro, fermandomi
davanti alla saracinesca e rileggendo il volantino come per accertarmi di aver
capito bene. Guardo l’orologio, le undici spaccate… rimango ferma per un po’,
spostando il peso del corpo da un piede all’altro. Mi torco le mani,
imbarazzata, non sapendo che fare, poi decisa raddrizzo la schiena e busso
leggermente alla saracinesca. Che me ne frega, magari hanno già preso qualcuna…
Una voce acuta e sottile mi risponde
dall’interno: “Sì? Chi è?”.
Deglutisco un paio di volte… e se poi questi
per cameriera intendono… insomma, molto più di una semplice cameriera…
“Si può sapere chi cavolo è?!!”
la voce urla, avvicinandosi all’entrata.
Avvertendola più vicina, i miei sensi si
risvegliano: “Chiedo scusa… sarei qui per il posto da cameriera… è ancora
disponibile?”.
Oltre la saracinesca, nella piccola fessura che
la separa dal pavimento, emerge una testa castana. Si sporge un ragazzo dai
ricci capelli scuri e dagli occhi verde acqua. Mi squadra torvo per un po’ dal
basso verso l’alto, mi studia attentamente guardandomi in tutta la mia figura
per un paio di volte. Indugia sulle mie gambe, mentre io mi serro nelle spalle.
Finalmente si apre in un largo sorriso, che
mostra una fila di piccoli denti bianchissimi. Meglio per lui, lo stavo già per
prendere a calci, non prima di essermi maledetta mentalmente per aver bussato.
“Come ti chiami, tesoro?” mi chiede, ancora
accovacciato in quella buffa posizione.
“Hermione… come vedi,
non mi chiamo tesoro…” osservo acida, socchiudendo gli occhi.
Lui si para il viso con le mani: “Chiedo scusa…
se non sapevo il tuo nome, come ti dovevo chiamare, eh?”.
Lascio cadere il discorso, non rispondendo alla
sua domanda retorica: “Sei tu Danny Ryan?”.
“Spiacente…” risponde e sembra veramente
dispiaciuto “Danny è uscito un attimo…”, sembra rianimarsi nel dire: “… ma
torna tra poco!”.
“Ah…” mormoro delusa
“Quindi devo aspettare lui per il colloquio? Non ho molto
tempo…”.
Il ragazzo scrolla il capo: “Non ce n’è
bisogno… nel caso, lo chiameremo… prego entra…”.
Solleva di qualche centimetro la serranda,
fermandola alla mia altezza, consentendomi di entrare. Le mie pupille si
allargano per l’improvvisa mancanza di luce. E’ tutto buio, non vedo niente.
“Sta attenta al gradino…” mi sussurra il
ragazzo alle mie spalle.
“Quale, gradino?!”
chiedo, voltandosi verso la sua voce, ma non faccio in tempo a dirlo che sono
inciampata nel famigerato gradino.
“Quel gradino…” sogghigna il tipo.
“Non potresti accendere la luce, prima che mi
ammazzi?!” borbotto, massaggiandomi la caviglia
dolorante.
Lui annuisce, poi lo sento fare qualche passo,
poi un piccolo clic metallico. Una luce soffusa e rosata illumina una stanza
ingombra di tavolini circolari, disposti a semicerchio. Le sedie sono poste rovesciate
sui tavoli. Solo un tavolo ha le sedie per terra, quello più vicino a noi, dove
è accesa una piccola abatjour rosa carico che illumina una pila di fogli
bianchi, una tazza piena di caffè e un paio di occhiali da vista.
Il ragazzo fa cenno di seguirlo, si siede ad
una delle due sedie e mi fa segno di imitarlo.
Mi siedo, guardandomi le ginocchia a disagio.
Lui inforca gli occhiali e prende un foglio
dalla pila davanti a lui. Estrae una biro dalla tasca ed inizia a scribacchiare
qualcosa, scordandosi di me. Passano dieci minuti buoni in cui continua a
scrivere, mentre io lo osservo nervosa. Mi sta facendo perdere tempo e, tra
l’altro, sembra farlo di proposito! Lo guardo con gli occhi socchiusi, indossa
una camicia rosa perfettamente mimetizzata con la luce dell’ambiente, sopra un
paio di jeans scuri. Sembra jamaicano o una cosa
simile; è molto abbronzato e muscoloso, decisamente un tipo carino. Carino sì,
ma solo perché a me non piacciono questi tipi così eccessivi, ma sono pronta a
scommettere che una come Ginny lo troverebbe, con
buona pace di Harry, un figo da paura! Il mio
cervello scimmiotta la voce della mia migliore amica, come ho detto, non è
certamente il mio di pensiero! A completare il tutto, una collana d’oro bianco
a maglia spessa, che si intravede attraverso i primi due bottoni della camicia
accuratamente sbottonati, e due brillanti per orecchini, uno per ogni orecchio.
“Bè?!”
chiedo, battendo nervosamente il piede per terra.
Lui sbatte gli occhi, sollevando lo sguardo,
come se si fosse dimenticato di me.
“Scusami… dovevo finire delle cose… allora…”
riprende, mettendo a posto il foglio a cui si stava dedicando prima e
prendendone un altro dalla pila. Come faccia a raccapezzarsi in quel disordine,
non lo so…
“Ti chiami…?” chiede.
“Hermione Jane Granger” sospiro.
“Anni?”.
“23”.
“Davvero?” osserva sinceramente stupito “Te ne
davo di più…”.
“Vorrebbe essere una specie di complimento?”
chiedo perplessa, già sul piede di guerra.
“Vorrebbe essere solo una constatazione…” risponde
lui pacato “Dio, quanto sei nervosa!”.
Mi mordo inquieta il labbro inferiore,
prendendomi mentalmente a calci per non ribattere ancora. Non perché sia corto
di argomenti e forse nemmeno perché devo essere carina per ottenere il posto,
ma perché è la seconda persona in meno di un’ora che mi dice che sono troppo
nervosa. Prima Dean, e poi questo qui… e se fosse
vero?
Il ragazzo finalmente prosegue: “Titolo di
studio?”.
Eccola là la parte migliore… Hermione, ora prendi, ringrazia, alzati decorosamente e
vattene…
“Ho finito le superiori…” inizio balbettante,
poi mi assale un’ondata di orgoglio. Ma che ci vorrà la laurea ad honorem per
fare la cameriera, cavolo??!!
“Ho iniziato il college, ma ho lasciato dopo
qualche mese…” mi invento al momento, poi, colta da un’improvvisa ispirazione,
aggiungo: “… per problemi economici…”.
“Capisco…” commenta lui comprensivo “E che cosa
studiavi?”.
Benissimo… e adesso? Divento all’istante
scarlatta, sudando freddo e caldo assieme. Mi torco le mani in grembo alla
ricerca di una risposta plausibile, lontana dalla mia mente anni ed anni luce.
“S-studiavo…” mastico
imbarazzata, sputando la prima cosa che mi viene in mente: “Archeologia…”.
Quello che volevo fare a cinque anni…
“Doveva essere interessante…” risponde lui, soppesandomi
con lo sguardo “Io invece studiavo… giusto! Non mi sono
nemmeno presentato…”.
Certo che questo ragazzo è strano forte… con
tutti quelli che chiedono un posto, racconta la storia della sua vita? Sorrido,
però in fondo sembra simpatico…
Mi porge la mano abbronzata con un gesto
elegante e leggero: “Il mio nome è Seth Green…”.
“Piacere” concedo, stringendogli la mano “Non
sei di qui, vero?”.
“Mia madre era cubana e mio padre è inglese… di
solito non se ne accorgono… che sono metà straniero,
intendo…sei una brava osservatrice…” mi fa affettuosamente l’occhiolino “Hai
mai fatto la cameriera?”. Il suo tono è tornato neutro.
Non potevamo rimanere a parlare della sua multietnicità? Sicuramente avrai avuto più cose da dire
rispetto a quest’ultima domanda. Se gli dico che no, non ho mai fatto la
cameriera, mi metterà alla porta senza tanti complimenti, ma se poi dico sì,
forse mi chiederà delle referenze o cose simili. Bene, meglio di così proprio
non può andare… la scelta è epocale: Hermione
Jane Granger sarà disgustosamente sincera, come
sempre, perdendo di nuovo l’opportunità di avere un lavoro fisso, oppure
mentirà brillantemente, assicurandosi l’agognato posto?
Sento persino il rullo di tamburi nelle
orecchie. Tempo sprecato.
Era assolutamente prevedibile che cosa avrei fatto.
“No, non ho mai fatto la cameriera…” dico a
denti stretti. Sono veramente cretina… sempre e per sempre la retta e nobile Grifondoro… adesso capisco perché tutti quelli di Serpeverde sono ricchi sfondati… la nobiltà d’animo non
paga, meglio fingere e dissimulare, così da starsene perennemente a pancia
all’aria a spendere miliardi. Il colmo quale è? Che mi sono persino pentita di
quest’ultima osservazione. Sono veramente un caso irrecuperabile.
Seth mi guarda ancora comprensivo, poi sospira
tra sé e sé. Si sporge leggermente verso il tavolo e mi fa:
“Ascolta Hermione… la nostra priorità, al momento, è
trovare una cameriera esperta per il Tourquoise
Party, non so se ne hai mai sentito parlare… abbiamo bisogno di una ragazza
che abbia abbastanza esperienza… è un’occasione mondana molto importante e non
possiamo permetterci che niente la possa rovinare, capisci, tesoro? Se mi lasci il tuo numero, magari ti richiamo per un colloquio, non
appena sarà passato il party…”.
Sospiro,eccome se mi chiamerà... lo dicono a
tutti quelli che scartano… ti facciamo sapere… ma che diamine è sto
party, che hanno bisogno di cameriere con esperienza pluridecennale?
Prenderanno la cameriera della vecchietta del Titanic in tal caso…
Per non lasciare nulla di intentato, sillabo lo
stesso il mio numero di telefono. Almeno potrò dire di averci provato.
Mi alzo dalla sedia, salutando Seth con un
sorriso di circostanza, e ringraziandolo. Raccolgo la mia borsa e rifaccio la
strada all’incontrario, attenta al maledetto gradino che prima mi ha fatto
inciampare. Così facendo evidentemente non mi chino abbastanza per uscire fuori, dato che la saracinesca è ancora mezza
abbassata. Qualcosa mi colpisce violentemente sulla fronte e ricado indietro,
seduta sul pavimento, con la testa che mi fa malissimo. Me la massaggio con un
gemito appena trattenuto di dolore.
“Seth, perché diamine non l’alzi questa
saracinesca?!!” urlo al ragazzo alle mie spalle che se
la sta facendo addosso per le risate. Poi il suo volto si fa preoccupato e
corre trafelato verso di me. Fa bene a preoccuparsi, potrei avere un trauma
cranico, la saracinesca è di metallo e ci sono andata a sbattere contro!
Ma Seth mi sorpassa come se non mi avesse
nemmeno visto. Ma è cretino o cosa??!! Lo vedo
abbassarsi poco più lontano di me e sussurrare preoccupato: “Danny, ti sei
fatto male?”.
Danny? Danny… cavolo, Danny! Danny Ryan! Il
proprietario! Non sono andata a sbattere contro la saracinesca,
ma contro il proprietario del locale, quello che tanto per intenderci, dovrebbe
darmi il lavoro! Ma si può avere più sfiga di me? Mi azzardo a guardare oltre
Seth, la figura si sta rialzando. Almeno non l’ho ucciso…
“Seth, perché diamine non l’alzi questa
saracinesca?!!” la figura urla, massaggiandosi la
fronte. Che strano, mi sembra di conoscerla questa voce… lenta e strascicata…
“Scusami, scusami Danny!” frigna Seth con le
mani giunte.
Mi sporgo oltre il vermetto
che chiede perdono, per affrettarmi a porre almeno un pallido rimedio alla mia
sbadataggine.
“Chiedo scusa, signor Ryan, è stata solo colpa
mia… non guardavo mentre stavo uscen…”.
La mia voce si blocca in gola, mentre riconosco
la figura davanti a me.
Ecco perché riconoscevo la voce.
Sollevo il braccio tremante, segnalando con
l’indice la figura che mi guarda con espressione meravigliata.
“Malfoy!” urlo con tutta la voce che ho in
corpo. Forse spero che sia una visione e che, urlando, sparisca dalla mia
vista.
Ma quella rimane lì, squadrandomi con aria
disgustata.
Non va affatto bene se vedo Malfoy davanti a
me.
In questo caso, spero ardentemente di aver
battuto la testa più forte del previsto.
Mi vanno bene anche gli estremi di una
commozione celebrale, purché questo non sia veramente Malfoy!
Non è possibile
leggere che questa storia è la preferita di sei o sette persone e poi
vedere solo una recensione!!! Guardate che non la pubblico più… come sono
perfida!! Scherzo!! Comunque davvero se avete un
pochino di tempo, lasciatemi un piccolo commento…
Sono cose che fanno
davvero piacere… e che aiutano a continuare… intanto ringrazio falalula per la recensione…J
Capitolo 4 *** If you want the frog, then comes the prince! ***
Capitolo 4 – If you want the frog, then comes the prince
Capitolo 4 – If
you want the frog, then comes the prince!
Continuo a guardare a bocca aperta il ragazzo
davanti a me, seduto per terra e che si massaggia la fronte. Certo che
assomiglia parecchio a Malfoy… deve essere il suo fratello gemello, nato
Magonò, e che quindi hanno abbandonato per il disonore che arrecava alla sua
famiglia. Ma lui si è riscattato, diventando proprietario di un famoso locale
londinese, sconfiggendo i pregiudizi del suo mondo, dove un giorno tornerà a
testa alta. Tutto ciò si mostra perfettamente come una bella telenovela quando
il ragazzo biondo che ho di fronte e che avevo escluso categoricamente essere
Draco Lucius Malfoy, sibila guardandomi con espressione di sufficienza:
“Granger, il tuo testone fa sempre danni… dovresti mozzartelo…”.
La stretta allo stomaco, indicatrice della
rabbia caratteristica di sei anni di Hogwarts, tanto per capirci quella da
reazione repressa a parole che definire offensive è un pallido eufemismo, mi fa
capire che questo è veramente Draco Lucius Malfoy, altro che gemello
babbano segreto. Lo guardo ancora, incredula. La gentilezza delle sue
parole è inconfondibile… tra l’altro, mi conosce e mi chiama per cognome,
quindi…ciò non toglie che, se lo avessi incontrato per strada, non l’avrei
minimamente notato. Perché? Perché è vestito da babbano, tra l’altro, un
babbano perfetto, elegante e raffinato, insomma non come Ronald che accoppiava
i pantaloni viola con le maglie rosse e i calzini verdi. Malfoy, invece, con grande senso
dello stile, indossa una camicia bianca su un paio di jeans neri. Pende
allentata al suo colletto una cravatta a righe orizzontali bianche e nere. Se
non sapessi che Malfoy non indosserebbe mai quelle cose, penserei che ci si
trovi persino a suo agio. Nonostante però l’abbigliamento insolito per uno
della sua risma, non è umanamente possibile non vedere in lui quel
diciannovenne che vidi in occasione della battaglia finale contro Voldemort.
Credo effettivamente di non averlo più visto da allora. Il ritratto, però, è
sempre lo stesso: capelli biondi e corti con due ciocche ribelli che gli
accarezzano la fronte spaziosa, colorito pallido anche se leggermente più
rosato, naso arricciato in espressione snob, occhi grigi socchiusi con aria da
nobile decaduto, labbra sottili contratte per la rabbia, fisico asciutto e
scolpito che risalta sotto la camicia bianca. Al massimo, aggiungo qualche
centimetro in più alla sua già notevole altezza ed una punta di maggiore
morbidezza nei lineamenti decisi e strafottenti.
“Adesso
mi dovranno ricoverare per trauma celebrale…” lo sento mormorare con voce
sofferente. In compenso, è sempre irritante. Stringo i pugni, lo shock mi ha
fatto rimanere fin troppo in silenzio.
“Non
fare tragedie come a tuo solito…” mormoro, sfiorandomi la fronte con le dita e
ritraendole coperte da una sottile striatura rossastra. Sbraito isterica: “E io
che dovrei dire, che sto anche sanguinando?!”.
“Perfetto,
anche il sangue della Granger addosso…” ribatte sarcasticamente, strofinandosi
con forza la fronte per levarsi le tracce del mio sangue di dosso rendendo la
sua pelle diafana praticamente violacea. Aggiunge poi con pathos drammatico:
“Devono avermi lanciato una maledizione, non c’è altra spiegazione…”.
“Se
vuoi, te la lancio io una maledizione, Malfoy…” mi sollevo, guardandolo con
aria di sfida. Lo so perfettamente che non posso fare magie, non sono cretina,
ma tanto lui, il cretino della situazione, non lo sa!
“Giusto
per porre fine alla tua vita da patetico furetto rimbalzante… quelle sono cose
che segnano per tutta la vita…” completo con la migliore espressione di donna
comprensiva dei cosiddetti _ casi umani_ o anche dei _casi clinici_. Malfoy
è decisamente sia un caso umano che un caso clinico.
Sorrido
soddisfatta, mentre noto che è impallidito più del consueto. Quanto mi mancava,
vederlo patire! Quando stavo male per Ron, dovevo chiamarlo ed usarlo come
palletta antistress! Peccato che non mi sia venuta prima questa idea
illuminante… avrei risparmiato un bel po’ di sofferenze e trappole psicologiche
al mio povero fidanzato.
Apre la
bocca un paio di volte come un pesce rosso alla ricerca d’ossigeno, per poi
dirmi tagliente: “Che diamine ci fai qui, Granger?”.
Mi serro
nelle spalle, la presenza silenziosa e scioccata di Seth che ci guarda
meravigliato, mi ricorda perfettamente con la lucidità di un fulmine nel cielo,
che cosa ero venuta a fare qui. Il posto da cameriera. Certamente non
glielo posso dire, per nessuna ragione al mondo. Quello si metterebbe a ridere,
tanto da farsi sentire fino all’Indocina meridionale. E poi, tanto per sapere,
non sarebbe più corretto che fossi io a fare questa domanda? Che ci fa lui
qui, e per di più comportandosi da persona normale, quando lui non è
assolutamente una persona normale? Sia nel senso che è un mago, sia in altro
senso, ovviamente… ed poi ora che ci penso, Seth non l’ha chiamato Danny?
Sposto a
disagio il peso del corpo da un piede all’altro, rimanendomene zitta, lo
sguardo fisso sulle travi del soffitto. Interessanti, devono essere di acero
bianco… in quel mentre, lui si alza, sopravanzandomi pienamente in altezza e
guardandomi con espressione minacciosa.
Fa un passo nella mia direzione, portandosi a
poco meno di un metro da me.
“Non voglio ripeterlo una seconda volta… ma
visto che sei talmente imbecille, sono costretto a farlo… Granger, che diamine
vuoi da me??!!”.
“Per prima cosa, modera la lingua, Malfoy…” il
mio sguardo ritorna irato sulla sua persona. Sarò anche dieci centimetri più
bassa di lui e soprattutto sono la più grande non-strega della storia, ma posso
sempre cavargli gli occhi, attenzione!
“E poi figurati che diamine posso volere da
te!!” aggiungo con voce più alta per rendere incisivo il concetto.
“E va bene…” fa lui, una smorfia di nervosismo
rende i suoi occhi più inquieti “Ma ricordami che mi ci hai costretto tu…”.
Non ho ancora capito che cosa ha detto che lui
mi afferra bruscamente per il gomito, trascinandomi con lui.
“Malfoy, lasciami immediatamente!” urlo,
impuntandomi con tutte le scarpe per terra, cercando di resistere. Ma Malfoy
potrà anche avere il colorito di un rachitico, ma tutto è tranne che tale…
infatti, continua a trascinarmi con sé senza alcun apparente sforzo. Si limita
solo a dire a Seth, che è ammutolito e guarda la scena senza fiatare, che deve
risolvere una questione e che tra poco finiranno l’inventario. Seth annuisce,
sorridendo a trentadue denti, e va verso quelle che dovrebbero essere le
cucine, comunque nella direzione opposta a quella che sta prendendo Malfoy.
“Seth, questa è omissione di soccorso! Ci sono
gli estremi della denuncia!” urlo, ma lui si è già dileguato.
Non mi rimane perciò che continuare a scalciare,
mentre Malfoy mi conduce per delle ripide scale a chiocciola al piano
superiore. Quanto vorrei la mia bacchetta! Chissà che diamine ha in mente
questo ex-quasi-Mangiamorte! Potrebbe torturarmi e lanciarmi l’Incanto Imber,
quello che ti fa rimanere attaccato al bagno per dodici cicli lunari. Anche se
quello veniva usato solo dagli stregoni incas per difendersi dai conquistadores
spagnoli… ma sono incorreggibile… ma a che diamine sto pensando in un momento
drammatico come questo?!!
La corsa di Malfoy si arresta in un corridoio
che conduce ad una porta smaltata di rosso acceso. La raggiunge, aprendola e
trascinandomi con un ultimo strattone dietro di sé. La richiude, mentre io
riesco a liberarmi dalla sua presa.
La stanza è in penombra, la serranda è infatti
abbassata e la luce del sole entra dalle minuscole e sottili fessure. Mi
massaggio il braccio indolenzito, guardandomi attorno. Sembra una stanza da
letto… una stanza da letto?! O mio Dio…
Guardo la porta, vedendo se posso raggiungerla,
ma ovviamente Malfoy è stupido, ma non fino a questo punto… infatti, è fermo
davanti all’unica via di fuga, il respiro corto. Sento solo il suo ansimare per
il passo veloce con zavorra a carico, mentre il suo viso resta avvolto nel
buio.
“Malfoy, fammi immediatamente passare…”
mormoro, sperando di risultare minacciosa.
Per un po’, lui mi guarda senza parlare,
riprendendo fiato. Mi
trapassa da parte a parte come se fossi un vetro trasparente. Mi stringo nelle
spalle, mi sta facendo venire i brividi. Sia chiaro, io non ho paura!!!!
Credo di aver scordato quanto l’odiassi e quanto soprattutto lui odiasse me. Il
crepitare dell’aria tra me e lui, il sentire la pelle che brucia, il tremore
incontrollabile… bè, erano sensazioni decisamente dimenticate. Ho odiato anche
Ron e Lavanda, questo è vero, ma non è mai stato come con Malfoy. Così… originario
e naturale…Avete presente il serpente e la mangusta? A loro ha mai detto
qualcuno di odiarsi? O hanno mai litigato, ponendo fine alla loro amicizia?…
ancora? Ma si può sapere a che sto pensando????
“Hai
detto a Seth il mio nome? Intendo a parte ripetere dodici volte Malfoy
come una piccola gallina sgozzata?!” la sua voce è carica di rabbia. Sembra
reprimerla a fatica. Sbatto le palpebre un paio di volte, non riuscendo a
capire.
“Ma se
nemmeno sapevo che c’eri tu qui!” rispondo velocemente, sebbene non ci abbia
capito niente.
“Diamoci
un taglio, Granger” sibila lui, gli occhi che nel buio scintillano ciechi,
mentre assottiglia la nostra distanza con un passo “Non sarai qui per il tuo…
lavoro, eh?”.
Ma è
imbecille?! Ma che diamine dice, adesso?! Il mio lavoro?!! Io lo sto cercando
un lavoro! Un attimo… forse non ha saputo che non sono più il capo degli Auror…
lo guardo, cercando di capire se sia effettivamente come ho capito io. Non
sembra mentire. Deve essere ancora convinto che io sia a capo degli Auror.
Sembra quasi spaventato, sebbene tenti di nasconderlo… vuoi vedere che è di
nuovo immischiato in faccende oscure? E crede che io sia sulle sue tracce e sia
venuta qui per arrestarlo?
“Perché
dovrei essere qui per il mio lavoro?” imito il suo tono di voce,
accentuando l’ultima parola. Incrocio le braccia, rimandando al mittente la
domanda.
“Dimmelo
tu…”. Lui inarca elegantemente un sopracciglio, la sua voce sembra annoiata, ma
riesco ancora a distinguerne un breve tremore: “Potty si è rimangiato la
parola? O vuole togliermi Serenity?”. Nell’ultima frase, distinguo una nota
strana… diversa… sofferente dolcezza.
Forse è
quella che mi rende più calma e che ammorbidisce la mia voce: “Harry non mi ha
mandato qui, Malfoy… e, se questo può consolarti, io non so minimamente chi sia
questa Serenity…”.
“E
allora che ci fai qui?” le sue parole sono stanche. Mi basta la sua voce, anche
se non vedo il suo viso.
Ecco, so
perfettamente dove stiamo arrivando… al fatto che non sono più il capo degli
Auror… non ci penso neanche a dirglielo! Ne va della mia dignità! Mi mordo
inquieta il labbro inferiore,guardando
altrove.
“Si sta
facendo notte, Granger… il tuo silenzio non fa che confermare i miei sospetti…”.
Dannazione,
mi mette anche fretta! Aspetta, ci sto arrivando alla balla del secolo… ho
trovato… eludere il discorso…
“Perché
ti fai chiamare come uno schifoso babbano, eh Danny Ryan?” chiedo, la
voce beffarda. Lo osservo con l’ombra di un sorriso soddisfatto, convinta di
averla avuta vinta.
“Non
attacca Granger…”, se la mia risata era soddisfatta, la sua dovrebbe essere
multata per eccesso di presunzione “Ecco, la prova di che cosa possa produrre
il contatto prolungato con Potty e Lenticchia… la demenza assoluta… e pensare
che eri una strega così dotata…”pronuncia l’ultima parola in tono dolciastro, dimostrando che lui al
contrario di tutti gli altri, non l’ha mai pensato che fossi dotata. Come se
non lo sapessi…
Il suo
ghigno giunge fino alle mie orecchie, per poi diventare una bassa nota di
sottofondo, mentre dice: “Se il caro ministro Potter non ti mai detto nulla, non
vedo perché dovrei farti io una conferenza stampa, Granger… non sono affari
tuoi… ormai il danno è bello che fatto… quindi, quello che risulta ancora
disgustosamente poco chiaro è perché stai ancora respirando la mia stessa aria
e calpestando la mia stessa polvere…”.
Se lo
prendessi a pugni, mi denuncerebbe qualcuno? Ma che dico, la farei franca in un
batter d’occhio… la giuria più inflessibile del mondo mi assolverebbe per
ripetuto comportamento provocatorio contro la mia persona. Non penso che sia
ancora nata la persona che mi possa fare più saltare i nervi come Malfoy! E
poi… il danno è bello che fatto… se c’è qualcuno che ha fatto un danno,
quello è lui! Venendo al mondo! ”Sta tranquillo, non ho intenzione di farlo ancora per molto…” rispondo
a tono, le mani che si rilassano dai pugni in cui si erano contratte “Anzi,
veramente stavo già per andarmene, prima che a qualcuno venisse una crisi di
schizofrenia e mi trascinasse qui…”.
Faccio qualche passo con il mento alzato da donna-sicura-di-sé-che-non-deve-chiedere-niente-a-nessuno-tantomeno-ad-un-malfuretto-rimbalzante.
Mi fermo accanto a lui e gli intimo di aprire immediatamente la porta.
“E’
stata una pena rivederti, Granger… speravo di aver dimenticato la tua faccia…
ed invece adesso dovrò impiegarci altri quattro anni… “ commenta ironico,
facendomi passare.
“Per la
tua di faccia ci sarebbe voluto un triplo incantesimo di memoria… ma, sai, non
me la sentivo di rischiare la vita… è una cosa pericolosa e non volevo fare la
fine di Gilderoy Allock…” ribatto, sorpassandolo “A mai più arrivederci,
Malfoy…”.
“A mai
più arrivederci anche a te, Granger…” risponde a tono in maniera falsamente educata
lui, mentre io scendo le scale. Ripercorro con la schiena dritta la sala piena
di tavolini, ringraziando mentalmente che non ci sia Seth nel caso in cui mi
chieda perché ho chiamato Malfoy il suo Danny. Anche perché non saprei nemmeno
io che dirgli… deve aver pensato che fosse una specie di soprannome… o la
parola usata nel vocabolario di tutte le lingue per indicare uno schifoso
bastardo di quinta categoria, arrogante, presuntuoso, eccetera, eccetera. In
effetti, il nome Malfoy potrebbe essere candidato ad essere il sinonimo
universale agli insulti più spregevoli del linguaggio umano.
Mi chino
con attenzione sotto la serranda abbassata, e respiro a pieni polmoni l’aria
dell’esterno. Mi volgo indietro, guardando l’immagine dipinta sulla saracinesca
della bambina sorridente, poi, presa da chissà che istinto, mi allontano
velocemente, a passo sempre più sostenuto, finché mi ritrovo a correre per le
strade di Notting hill.
Finalmente
mi fermo in un parco, incurante del fatto che lì ci venivo sempre con Ron.
Chissene… mi siedo su una panchina di legno chiaro, il cuore in gola e la milza
che mi punge. Poggio una mano sul petto, tentando di riprendere fiato, il
torace che si alza ed abbassa ritmicamente. Attorno a me, la gente colorata
riempie l’aria di voci gioiose e vivaci, non prestandomi la benché minima
attenzione. Mi appoggio contro lo schienale della panchina, chiudendo gli occhi
e cercando di isolarmi dal mondo esterno. Ma niente non funziona, il gomito
sembra infuocarsi della presa di Malfoy.
Imbecille… ma se io oggi fossi rimasta a
casa!!!
La
percezione che ci sia qualcosa di strano, di profondamente strano non se ne va…
Malfoy che si fa chiamare Danny Ryan e che si comporta da babbano, cosa per lui
assolutamente aberrante. Malfoy che è anche il proprietario di un locale
babbano… qualcosa che io non so e che, invece, Harry conosce… una promessa che
Harry gli deve aver fatto… e poi… Serenity… chi è? La mia mente rincorre
i pezzi di questo puzzle anomalo, come quando ad Hogwarts dovevo scrivere una
relazione e andavo a cercare le parole del professore di turno, assieme alle
nozioni che io naturalmente conoscevo da tempo immemore. Ma, al contrario di
come avveniva quelle volte, stavolta non c’è risoluzione. Le domande restano lì
dove sono, così come la mia curiosità innata e il mio sospetto consueto verso
Malfoy.
Ma in
fondo non me ne importa niente, sarebbe stato importante se Seth mi avesse
preso, ma in questo caso… Malfoy può farsi chiamare Danny quanto gli pare e
piace, magari a fare il babbano impara a rispettare gli altri…
Mi alzo
dalla panchina, estraggo il lettore mp3 e mi incammino verso la stazione,
ascoltando la musica.
One of them has got a gun to shoot the other
one, and together they were friends to school…
Crazy…
Alanis Morissette… anche se poi, in realtà, è una cover di una canzone di Seal
del ’94 o giù di lì… adesso il campo musicale è tutto un arraffare le idee
degli altri, riciclate fino alla noia. Ogni canzone è uguale alle precedenti.
Non ci sono più i grandi artisti di una volta, vedi i Queen o i Guns n’ Roses.
Premo il tasto dell’avanzamento veloce per trovare una canzone di questi ultimi
che amo alla follia, Sweet Child o’ mine, continuando a camminare e mi faccio
assorbire dalla poesia delle sue parole. Finalmente intravedo la stazione e,
con mia grande fortuna, un treno in ritardo di un’ora anticipa invece quello
che io avrei dovuto prendere tra due ore e mezzo. Con soddisfazione, rimango in
piedi accanto alla porta, permettendo ad una signora anziana di prendere
l’unico posto libero. Lei mi sorride grata, carica di buste della spesa. Ci
vorrebbe decisamente più educazione a questo mondo… invece tra il bullismo e le
nulle politiche giovanili, quello che la fa da padrone…
Niente,
maledizione! Non ci riesco a distrarmi!!!
Continuo
a pensare ossessivamente al grande, pfiù, segreto di Malfoy! È
sempre stato così con quel maledetto! Lo incrociavo nei corridoi a scuola, ci
insultavamo a vicenda, trattenevo dalla rissa inevitabile Harry e Ron, fingevo
che fossi superiore e me ne andavo a testa alta, convinta di averlo sempre
battuto. Lui poteva anche essere purosangue, ricco e facoltoso, ma dalla mia io
invece avevo la media stratosferica e l’amicizia con l’eroe del mondo magico.
Nonostante questo, però, quando me ne tornavo in classe e mi sedevo al mio
posto, le sue irritanti parole mi tornavano nel cervello con scadenza regolare,
sovrapponendosi a quelle delle varie spiegazioni. E così mi distraevo, mentre
fantasticavo di scioglierlo nell’acido solforico oppure di trasformarlo
perennemente in un furetto. Chiaramente, mentre discutevo di questi dubbi
amletici, Harry mi diceva qualcosa o il professore mi chiamava, beccandomi
disattenta. Riuscivo sempre a rimediare ovviamente, ma intanto il fastidio mi
faceva torcere le mani dal nervosismo. Volevo fare la superiore e ci riuscivo
perfettamente davanti a lui, ma invece dentro macinavo e macinavo fino allo
spasmo.
Finita
la scuola, almeno per me, al sesto, non lo rividi per moltissimo tempo. Anni,
credo. Salvo poi rincontrarlo, quando il viaggio alla ricerca degli Horcrux
terminò… contenti, ma ancora terrorizzati per l’inevitabile battaglia finale,
tornammo a Grimmuald Place e lui era lì. Aveva i capelli lunghi e l’aria stanca
ed affranta, mi fece pena. O meglio, mi fece quasi pena. Perché, nonostante
tutto, riprese con le solite battutine del cavolo. Granger di qui, Granger di
là, So-tutto-io, castoro… la solita solfa. L’unica eccezione era che non mi
chiamava più Mezzosangue e, in effetti, essendo diventato una spia per
l’Ordine, non era sensato credere ancora alle baggianate di Voldemort. Non so
realmente come accadde che lui passò dalla nostra parte, Lupin parlò con Harry
per due ore e mezzo, e, quando ne uscirono, Harry disse che potevamo fidarci di
Malfoy. Remus garantiva ampiamente per lui. Né io, né Ron ci fidammo
compiutamente, ricordandoci che una cosa simile aveva portato all’omicidio di
Silente da parte di Piton. E solo perché Silente si era fidato troppo di Piton.
Però, dovemmo ricrederci. Malfoy era effettivamente sincero, veniva una volta alla
settimana a portarci i piani dei Mangiamorte e, devo ammetterlo, grazie a lui
abbiamo salvato molte vite, oltre che battere Voldemort. Ma non ho mai capito
perché lo avesse fatto. Seppi solamente che la guerra si era portata via i suoi
genitori, non so né come, né quando e nemmeno ad opera di chi. Lo vidi per
l’ultima volta proprio nel giorno della battaglia. Poi niente. Nessuno ne ha
più parlato tra i miei amici… anche se, a quanto pare, Harry deve invece sapere
qualcosa.
Comunque,
avevo sempre logicamente supposto che lui avesse ereditato l’ingente patrimonio
della sua famiglia e fosse chissà dove a godersi i suoi miliardi, alla faccia
dei poveri disoccupati come me. Ma, queste erano solo supposizioni come ho
detto, non sapevo davvero dov’era e che vita facesse. Fino ad ora… Malfoy
babbano… fatico ancora a crederci. Quando lo dirò a Dean…
Dean!
Mi batto
la mano sulla fronte, me ne ero completamente scordata! Dannato Malfoy!
Alla
prima fermata, scendo subito, infilandomi nel primo negozio di alimentari che
trovo. Compro velocemente un po’ di pollo, le uova e qualche altra cosa,
pescando assurdi centesimi dalle tasche recondite della mia borsa. La mia mente
canticchia come una nenia… maledetto furetto, maledetto furetto,
maledettissimo furetto!. Esco dal supermercato e torno a casa, sgusciando
sempre come una ladra per le scale con il terrore reverenziale che la signora
Sanchez mi senta. Infilo silenziosamente la chiave nella toppa, girando
lentamente, apro la porta e la riaccosto nel più completo silenzio. Sospiro di
sollievo ed entro in casa, cercando di non fare rumore anche con i miei piedi,
nel caso in cui mi senta. Grattastinchi viene a strofinarsi affettuosamente
sulle mie gambe, lo accarezzo dietro l’orecchio e lui fa le fusa, contento.
Appoggio le buste della spesa in cucina, come prevedevo Dean non è tornato.
Vorrà sbollire la rabbia e quindi farà gli straordinari, fermandosi a pranzo.
Tipico, ma questo ritorna decisamente a mio favore. Avrò tutto il tempo per
attuare il mio piano per riprendermi il mio ragazzo. Mangio un panino al volo,
poi inizio l’opera di restauro di casa, riordinando, ramazzando, lavando,
spolverando, cose di cui se ne sentiva l’estremo bisogno.
Poi
inizio i preparativi a me stessa. Doccia, peeling, maschera facciale, pedicure
e manicure.
Mentre
sono in cucina, però, e mi passo lo smalto rosa sulle unghie delle mani, sento
squillare il telefono.
Impreco
tra me e me, ma è possibile che non possa mai starmene tranquilla? Conoscono
solo questo numero di telefono? Mi alzo con l’accappatoio addosso e
l’asciugamano a turbante sui capelli bagnati. Raggiungo il telefono, cercando
di sollevare la cornetta, senza scheggiare lo smalto fresco. Inutilmente.
“Chi
è?!” rispondo nervosamente “Cioè, volevo dire pronto…”.
“Ma
allora è vero che sei sempre nervosa?” una voce trillante ride dall’altra parte
della cornetta.
“Seth?”
“Sì…
sono indelebile, vero?”.
“No, sei
assillante… che c’è?”.
“Ti
chiamo per il tuo colloquio…”.
“Per il
mio colloquio?!” chiedo sconcertata “Vuoi sapere il mio numero di scarpe e
constatare che il 38 è troppo grande, farmi saltellare sul tavolo dei cocktail
con una palletta sul naso o vedere se so servire bibite in caso di terremoto?
Che altro c’è da dire?!”.
“Che sei
perfetta…inizi domani…”.
“CHE
COSA?!!” per il contraccolpo, scivolo su una parte del pavimento rimasta
bagnata, e cado per terra.
“Ci sei
ancora? Herm, tesoro?” Seth mi chiama a gran voce.
Riafferro
la cornetta che mi era scivolata e borbotto: “Si può sapere che hai detto?!”.
“Cosa
non ti è chiaro, esattamente?” fa lui innocentemente “La parte della perfezione
o quella del tuo primo giorno di lavoro?”.
“No,
quella dove penso che tu sia un pazzo…” bofonchio sarcastica “Che cavolo è
cambiato da stamattina?!”.
“Le tue
referenze…”.
“Le mie
referenze? Io non ho refer- “, mi blocco un attimo, mentre la comprensione mi
avvolge.
Poi
sussurro quasi con terrore: “E’ perché conosco Malf-, cioè volevo dire,
Danny?!”.
“Indovinato.
Non credo che ci siano referenze migliori!”.
“Io non
lavorerò mai con lui!” urlo nella cornetta, sperando di rintronarlo.
“E
perché?” chiede lui curioso e sornione “Sembrate andare d’accordo…”.
“EH?! In
quale assurdo universo parallelo io vado d’accordo con Malf… volevo dire, con
Danny?!”. Questa storia del doppio nome sta diventando snervante, quasi quanto
il fatto che sto reggendo il gioco a Malfoy nella sua recita.
“Non lo
so, dimmelo tu… di che avete parlato?” la voce allusiva di Seth mi fa saltare
la mosca al naso.
“DI
NIENTE!!!” urlo di nuovo, Grattastinchi scappa via spaventato.
“E va bene…”
ride lui al telefono “Comunque, non importa… mi ha detto che andavate a scuola
assieme…”.
“Ti ha
detto anche che sono terribilmente allergica alla sua personalità? Se sì,
capirai perfettamente perché non posso lavorare con lui neanche tra duecento
anni…” spiego paziente, cercando di recuperare il controllo di me stessa “Mi
viene l’orticaria e le bolle su tutto il corpo… insomma, non sono un bello
spettacolo…”.
“Non
fare la bambina” il suo tono di voce si fa cavernoso, da persona matura “Non mi
dire che non riusciresti ad ignorare Danny per, quanto, sei o sette ore al
giorno? E per quattro giorni a settimana?”.
Punta
sul vivo, replico velocemente: “Ma certo che ci riuscirei, figurati che mi
frega del furetto… cioè, intendo sempre dire Danny…”.
“E
allora non c’è problema, no?” è tornato gaio e frizzante come prima.
“Sì,
invece… e lui che ha detto?”. Sorrido tra me e me, soddisfatta.
“Che va
bene…” mugugna semplicemente.
“Che va
bene???!!” chiedo sconcertata. Malfoy non può aver mai messo nella stessa frase
il mio nome e l’avverbio “bene”. Mi affretto a chiedere: “Stai scherzando?”.
“Sono
serissimo, invece… scusami, ma adesso vado di fretta… allora, che vuoi fare?”
termina sbrigativo.
Rimango
ferma, Grattastinchi mi osserva pensosamente, mentre io fisso lo sguardo sulla
libreria di fronte a me. Che faccio? Mi torturo mentalmente. Mi farebbe comodo
avere un lavoro, questo è lampante. Ma alle dipendenze di Malfoy? Con lui come
mio capo?! Questa situazione potrebbe facilmente ritorcersi contro di me e poi
gli concederei un vantaggio notevole. Quello mi metterebbe in croce dalla
mattina alla sera! Però intanto… un lavoro, finalmente. Comprarmi un
libro senza sentirmi in colpa, un bel vestito o litri e litri di succo
all’ananas! Inoltre, credo che a Dean farebbe piacere, no? Insomma, sapere che
collaboro anch’io al menage della casa! Mi dico fino alla noia che lo faccio
solo per Dean, prima di pronunciare le fatali parole: “D’accordo, accetto…
quando si comincia?”.
“Davvero?”
fa lui tutto contento e mi fa tenerezza “Va bene, allora… domani mattina alle 8
al locale… entra dall’ingresso nel retro… è quella l’entrata del pub, dove
lavorerai tu… ti presenterò agli altri… anche se penso ci saranno solo Corinne
e Lorna, oltre a me…”.
“Perché?
Cioè, insomma, ci sarebbero anche degli altri?”.
“Certo,
tesoro…” mi spiega lui concitatamente “Il Petite Peste è diviso in tre
zone: il pub che gestisco io e dove lavorerai tu, il ristorante, che è la parte
che hai visto oggi, e lì ci sono Summer, April, Gail e Lawrence, il cuoco; infine
c’è la discoteca, il regno di Trey… comunque, loro non ci saranno… ci sarò solo
io e le altre due cameriere…”.
“Va
bene… allora ci vediamo domani…”.
Lui mi
richiama, dicendomi: “Ed ovviamente, inutile dirti, che ci sarà Danny…”.
“Toh,
che strano… me ne ero dimenticata… ed è stato il minuto più meraviglioso della
mia vita!” borbotto sarcastica.
“Va
bene, va bene… a domani, allora…” commenta, ridendo, per poi riagganciare.
Appoggio
la cornetta sul ricevitore, e per un attimo, ripenso a quello che ho appena
fatto. Devo essere completamente impazzita! No, non posso, non posso
assolutamente farlo! Riafferro il telefono con rabbia, prima di accorgermi che
ovviamente io il numero di Seth non ce l’ho. E che sono davvero una pazza
isterica. Ormai ho accettato…
Con il
passo di una condannata a morte, me ne ritorno in camera da letto, poi
vestendomi, mi viene l’illuminazione. Ritorno velocemente sui miei passi,
raggiungendo il telefono. Apro il cassetto della mensola panciuta su cui è
posto, e ne estraggo una piccola agendina in cuoio rosso. La sfoglio
freneticamente, uscendone infine vittoriosa un biglietto da visita con un
numero scarabocchiato a penna. Lo compongo febbrilmente e attendo in linea che
qualcuno risponda.
Dopo
molti squilli, una voce maschile profonda risponde con uno stanco: “Pronto?”.
“Harry…
sono io, Hermione…” .
“Ciao
Herm!” risponde allegro “Da quanto non ci sentiamo! Come stai? E Dean?”.
Ingoio
un rospo grande come una casa al nome di Dean e sussurro che stiamo entrambi
benissimo.
“Avrei
dovuto immaginare che fossi tu… “ mi dice “Porto il cellulare solo per i miei
amici babbani… anche se ultimamente lo usano
parecchio anche Ron e Neville… i camini del ministero sono un inferno!”.
“Lo
immagino” commento piattamente “Come va il lavoro?”.
“Insomma…”
mormora lui afflitto, in sottofondo delle voci concitate che si attutiscono
all’improvviso “C’è stata una manifestazione dei Medimaghi
del San Mungo perché ritengono di essere sottopagati… sai dopo l’incidente
all’Emporio di Zonko, hanno avuto un sacco da fare…
il peggio qual è? Che hanno imparato cos’è una vertenza
sindacale dai babbani… Blair al mio confronto è un
tranquillo nullafacente… e tu, invece?”.
Noto
subito che la sua voce nel finale si è tinta di una vena di preoccupazione. Sa
benissimo la mia situazione, è stato costretto a firmare la mia sanzione
disciplinare… però non sa che non ho ancora un lavoro… pensa che me la cavi.
Non so perché non gliela abbia fatto sapere, sarà perché sono certa che mi
avrebbe aiutato. E io detesto essere aiutata, sono decisamente troppo
orgogliosa.
“Va
tutto bene… ma volevo chiederti una cosa…”.
“A che
proposito?”.
“A
proposito di Malfoy…” mugugno controvoglia.
“Di
Malfoy?!” chiede lui sinceramente colpito “E cosa vorresti
sapere?”.
“Dov’è
adesso, per esempio”.
“Tu mi
hai chiamato per chiedermi dov’è Malfoy?! Herm, ma sei
sicura di stare bene?!” la voce di Harry trasecola
leggermente; in effetti, sembra troppo strano, quindi mi sento in obbligo di
dover dare una spiegazione qualsiasi.
“L’ho
incontrato stamattina…” rispondo brevemente “A Londra. In un locale babbano… mi
è sembrato strano, ecco. Chiamala pure ex deformazione
professionale, ma non mi ha convinto…”.
Harry
sospira di sollievo ed aggiunge: “Quando tornerai a capo degli Auror, saremo
tutti più tranquilli… sei decisamente la migliore nel tuo campo… comunque posso
assicurarti che ti preoccupi troppo… Malfoy è a posto…”.
“Come fai ad esserne certo? Non è strano che
viva da babbano?” chiedo nervosa.
“No,
Herm” risponde lui sintetico, poi, presagendo nel mio silenzio, una nota di
nervosismo replica: “Lo so perfettamente come vive Malfoy, dato che sono stato
io a dargli quello che ha…”.
“Tu?!”.
“Esattamente…
alla fine della guerra…” prosegue con tono incerto Harry “Sai che hanno ucciso
i suoi genitori? Insomma è stato una specie di risarcimento…”.
“Non
capisco”.
“Non ce
n’è bisogno…” la voce di Harry è ferma e decisa “Malfoy ha collaborato con noi,
ma ha rischiato più di tutti, persino di me, te e Ron,
se mai questo fosse possibile. Ha fatto il doppio gioco, rimanendo dalla parte
di Voldemort… e per poco non è stato scoperto. Credo che non avremmo vinto,
senza il suo aiuto, non ho problemi ad ammetterlo… quando la guerra finì,
chiese a Scrimeogeor di sparire, di poter ricominciare
una nuova vita e di dimenticare tutto. Ma il Ministro non volle, disse che
sarebbe stato meglio che avesse preservato la sua identità e che era al sicuro.
Gli fu dato un posto al Ministero…”, la voce di Harry si blocca per qualche
secondo, lo sento deglutire a disagio e poi sospirare, prima di continuare, il
tono leggermente più roco: “…ma quello cheScrimeogeor non gli aveva detto, era il motivo della sua
opposizione. Se Malfoy avesse cambiato identità, sarebbe stato dichiarato
morto; l’enorme fortuna dei Black e dei Malfoy sarebbe stata ereditata allora
da una loro lontana parente americana. E il ministro non poteva permettere che
quelle preziose ricchezze, tanto utili per la ricostruzione, uscissero dal
paese. Ne sarebbe derivato un danno economico notevole. Quindi, le cose
rimasero come erano, tra mille sospetti cominciò a lavorare al ministero, ma la
cosa durò poco, un anno più o meno. Come prevedevamo, Malfoy fu braccato dai
pochi Mangiamorte rimasti. Era il traditore per eccellenza, l’artefice della
loro sconfitta. Era lampante che gli avrebbero teso
una trappola… e così accadde…”.
Ritrovo
la voce, persa in chissà che momento di quella conversazione, e chiedo: “E
allora?”.
“Non
posso dirtelo, Herm…” rispose laconico Harry, la voce, se possibile ancora più
bassa e profonda “E’ coperto dal segreto di stato e ci sono ancora delle
indagini in corso… posso solo dirti che morirono due persone,
ma Malfoy si salvò. Riuscì a scoprire che cosa era stato teso alle sue
spalle e denunciò Scrimeogeor. Fu il motivo per cui
il ministro perse la carica e potei subentrare io. La prima cosa che ritenni di
dover fare era risarcirlo… sia di ciò che aveva subito in guerra, sia della morte
dei suoi genitori, sia dell’attentato che aveva subito… e l’ho fatto. Ha voluto
lasciare il mondo magico, non appena ho sbloccato parte dei suoi beni. Per questo, vive da babbano, credo si chiami Danny Ryan…”.
Annuisco
solo a me stessa, non credevo che Malfoy ne avesse passate tante.
“Non ha
più contatti con noi da tempo… non ha più voluto nulla da noi…” riprese Harry
malinconico “Avrei voluto fare di più per lui, ma a Malfoy è decisamente
bastato quello che ha avuto. Gestisce un pub che è molto rinomato, evita
accuratamente di farsi vedere in pubblico… insomma, ha la sua vita. Credo che
stia anche abbastanza bene…”.
“Non
l’avrei mai immaginato…” mormoro, uno strano groppo in gola che rende la mia
voce più bassa del normale “Ci si aspetterebbe una cosa del genere da uno come
me e te, ed invece… proprio lui, il principe dei purosangue…”.
“In
effetti, è strano… anni fa, non l’avrei mai immaginato… ma, grazie a Dio, con
la fine dei Voldemort e il ruolo importantissimo giocato da molti mezzosangue
nella guerra, prima tra tutti tu, questi maledetti pregiudizi stanno subendo
una battuta d’arresto… c’è molta più tolleranza nel mondo magico…”.
“A parte
per gli elfi domestici e le altre creature ritenute inferiori…” commento scettica.
“Non
cambierai mai Herm!”
ride Harry e ne sono felice. Almeno io sono rimasta la stessa, sempre. Come
Harry. Fa quasi paura invece come altre persone possano mutare di fronte ai
casi della vita. E chiaramente l’esempio più lampante è lui, Malfoy… so che i
pregiudizi e le opinioni che lui aveva non possono essere morte con la fine di
Voldemort, ma sicuramente per qualcosa di più grave per lui e che, tra l’altro,
era accaduto prima. La morte dei suoi? O quella delle due persone erroneamente
uccise, mentre attentavano alla sua vita? Harry è restio a parlarmene. E se ci
fossero altri motivi, oltre al segreto di stato e alle indagini ancora in
corso?
“Ci sei
ancora?” mi richiama Harry.
“Sì,
certo… adesso mi sento molto più tranquilla…” rispondo, e lo penso davvero.
Almeno adesso sono sicura di non andare a lavorare presso un Mangiamorte
impenitente, ma presso uno snob ed arrogante incallito. Magra consolazione,
sospiro tra me e me.
“E
comunque, tanto per gradire, Beckwith è un autentico
idiota… spero che tu torni quanto prima…” mi dice Harry, riferendosi al mio
vice che ormai siede stabilmente al mio posto. Evidentemente deve aver
frainteso il mio sospiro.
“Grazie
Harry… una sera di queste, dobbiamo fare una rimpatriata…” sorrido.
“Guarda
che ci conto!” mi risponde Harry, per poi riagganciare.
Mi alzo
pigramente dalla sedia, andandomene in camera mia. Scelgo il vestito per
stasera, un corto abito di seta nera, e me lo drappeggio addosso davanti allo
specchio. Lo poggio sul letto e torno in bagno per asciugarmi i capelli. Ma è
inutile, la curiosità non se ne va. Mi rimane sempre ostinatamente attaccata
addosso. Mi sono anche dimenticata di chiedere ad Harry di Serenity, della
ragazza che Malfoy ha nominato. Va sempre così, dannazione! Quello si attacca
sempre ai miei neuroni, sovraccaricandoli, e non posso nemmeno dirmi Chissenefrega, perché domani lo devo
anche rivedere… che rabbia!!!! Con un passo marziale, vado a vestirmi e a
truccarmi, per poi constatare con angoscia che sono già le
sette e mezzo e che Dean tornerà tra poco. Come una scheggia, finisco
velocemente di cucinare, poi apparecchio la tavola con candele rosse e fiori
d’arancio e mi siedo in attesa.
Accendo
la tv dato che Dean non arriva ancora… un film… in bianco e nero… che bello, è
la trasposizione cinematografica di Orgoglio e Pregiudizio. Speriamo che
Dean arrivi almeno dopo la dichiarazione di Darcy, sono anni che lo voglio vedere questo film e non ne ho mai
l’occasione! Mi appoggio con il gomito sul tavolo, tanto chi mi vede, e la
testa sul palmo della mano aperto. Il tavolo sembra così vicino… ed anche…
comodo… non faccio in tempo a vedere la dichiarazione di Darcy, casco dal sonno alla festa dei Bennet.
Esattamente dieci minuti dopo dell’inizio del film.
Il collo
mi fa male da pazzi, mentre mi risollevo dal tavolo, dove mi sono accasciata la
sera prima. Il sole rende lucide le tende del soggiorno, quindi intuisco che
deve essere mattina. Mi stropiccio freneticamente gli occhi assonnati,
ritraendo le dita sporche di rimmel e di ombretto azzurro. Non mi sono nemmeno
struccata… anzi, mi sono addormentata di sasso, senza neanche raggiungere il
mio comodo letto. E adesso ho tutte le vertebre distrutte! Maledizione…
Mi alzo
pigramente dalla sedia, barcollando, mentre ancora semiaddormentata vado in
camera mia per gettarmi sul letto e dormire fino alla prossima glaciazione, ma
distrattamente lo sguardo cade sulla tavola ancora imbandita della sera prima.
Nessuno ha toccato niente. A parte me, ovviamente, che ero nel mondo dei sogni, ma Dean? Non è tornato a casa? Corro in camera nostra
e noto che è tutto come l’ha lasciato ieri mattina. Insomma, non è passato. Disordinato
com’è, i segni del suo passaggio sarebbero visibilissimi e non credo che si sia
fatto ordinato tutto all’improvviso.
E se gli
è successo qualcosa?
Mi
riaggiusto con una mano il vestito nero spiegazzato, poi corro al telefono, i
tacchi che battono sul parquet e che svegliano la signora Sanchez che chiama in
causa la mia settima progenie per bestemmiarmi. Con foga, compongo il numero
del suo cellulare, che risulta spento. Riaggancio e chiamo immediatamente Alex,
un suo collega di origine babbana e di cui ho il numero di cellulare. Gli
chiedo se ieri era al lavoro e se è andato via all’orario solito; lui mi
conferma di sì e aggiunge che è arrivato un’ora fa. Adesso è in riunione.
“Insomma,
non è solamente tornato a casa…” sussurro tra me e me, ancora con la cornetta
in mano.
“Cosa?!”.
“Niente,
Alex… parlavo tra me e me… quando lo vedi, puoi dirmi di richiamarmi… anzi no…
non dirgli nulla, vengo io al Ministero… mi raccomando, non dirgli niente…”.
Appendo
e scappo in camera, stavolta mi sente, mi ha fatto morire di spavento! Ma da
dove l’ha uscito fuori tutto questo orgoglio? Mi
spoglio e mi lavo la faccia, per poi indossare un corto vestito azzurro cielo e
un paio di sandali bianchi. Fa ancora caldo oggi, e poi è l’unico vestito
decente che mi ha regalato lui, quindi non c’è molta scelta… afferro
velocemente la borsa, saluto Grattastinchi e scappo
via.
Mi metto
a correre per strada come un’invasata per raggiungere il ministero, poi i
rintocchi della campana di una chiesa vicina mi fanno sobbalzare. Uno. Due.
Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto. Otto rintocchi. Sono solo le otto…
Le otto???!!!
Dovevo
essere al Petite Peste alle otto!
E
adesso?
Se solo
potessi smaterializzarmi…
Mi fermo
in mezzo al marciapiede, il ministero è da una parte, il locale dall’altra. Che
faccio?
Se non
vado da Dean subito, può darsi che quello non ritorna nemmeno stanotte.
Ma, se
non vado al locale, Malfoy mi licenzia.
Ma
possibile che mi ci debba sempre trovare io in queste situazioni assurde? Tra
l’altro, devo sbrigarmi perché sono già in ritardo, qualora decidessi di andare
al mio nuovo lavoro.
Alla
fine, opto per andare al locale, sperando che ci sia solamente Seth, sembra un
tipo comprensivo e magari posso chiedergli di finire prima, oppure di
cominciare direttamente domani. Così, poi, scappo da Dean.
Decisa,
ricomincio a correre ed arrivo giusto in tempo alla stazione per prendere la
metropolitana che porta a Notting Hill. Il viaggio
dura cinque minuti scarsi, appena il treno si ferma riprendo a correre come una
forsennata.
Finalmente
intravedo la stradina del Petite Peste,
giro l’angolo, ricordandomi che Seth mi aveva detto di entrare dal retro.
Mi fermo
per riprendere fiato e mi guardo attorno. Alla fine, individuo una piccola
porta di metallo con un’ insegna fluorescente che reca
il nome del pub. La porta sembra chiusa. E da dove dovrei entrare?
Mi
guardo attorno nello spiazzo circondato da magazzini e locali apparentemente
vuoti. Scorgo su una scaletta antincendio, a qualche metro dalla porta di
metallo, tre figure appollaiate. Una di queste, almeno da lontano, sembra
vagamente Seth.
Mi
avvicino cautamente, pronta a retrocedere se ho preso un abbaglio e sono degli
sfaccendati criminali, poi con sollievo riconosco Seth. E soprattutto vedo che
Malfoy non c’è. Un po’ di fortuna, e che diamine!
Mi rendo
visibile ai loro occhi, mentre con nonchalance continuano a fumarsi le loro
sigarette. Perfetto, io l’odore delle sigarette lo odio, mi fa venire mal di
stomaco. Quelle dei maghi sono peggio, ma anche quelle babbane
non scherzano.
“Ciao
tesoro…” mi saluta affettuosamente Seth, scendendo dalla scala ed avvicinandosi
a me. Una nube di tabacco mi avvolge, facendomi tossire ripetutamente.
“Allontanati
immediatamente da me…” sibilo, agitando freneticamente la mano per disperdere
la nube “Se vuoi uccidermi, preferirei una morte più veloce ed indolore del
cancro al polmone…”.
“Ma
sentila, la salutista…” una voce bassa e profonda mi interrompe con la mano a
mezz’aria. Mi volto verso chi ha parlato, una ragazza ancora seduta a gambe
divaricate sulla scala di metallo. Mora con lunghissimi capelli neri, legati in
una sola ed unica treccia, mi squadra con i sottili e allungati occhi neri.
Aspira il fumo della sua sigaretta, per poi emetterlo bruscamente fuori in una
nuova nuvoletta che ovviamente prende in pieno me. L’ha fatto apposta. Sorride
beffarda, sfidandomi, mentre si alza in piedi e si pulisce il retro degli short
neri, che porta con una canotta dello stesso colore e un paio di anfibi vecchi
e consunti. Tanto per gradire, ha un orribile, a mio dire,
anello al naso. È piccolo sì, ma io non me lo metterei nemmeno tra mille anni…
piccolo, invece, non è assolutamente il tatuaggio d’aquila con le ali spiegate
che copre entrambe le clavicole e che è perfettamente evidente a causa della maglia
scollata.
“Questa
è Lorna, Hermione…” dice sbrigativamente Seth, indicandola con un’alzata di
capo.
“Piacere”
bofonchio, rimanendo a braccia incrociate. Non ci penso proprio a darle la
mano.
“Lei
invece è Corinne…”. Seth indica l’altra figura accanto a lui. Si tratta di una
ragazza dai corti capelli biondo cenere con delle ciocche
rosso acceso. Mi sorride e mi sta immediatamente più simpatica,
nonostante anche lei sembri strana forte. Oltre ai
capelli bicolori, la cui frangetta copre quasi integralmente i suoi occhi
celesti, porta anche lei un brillantino al naso, ma la cosa strana è che da
esso pende una catenina d’argento che conduce all’orecchio e alla piccola gemma
rossa che splende sul lobo. E comunque, alla catenina, è appeso un ciondolino a
forma di croce anch’essa rossa. Tutto questo sopra una salopette di jeans ed
una maglia a righe colorate, su un paio di Converse anch’esse rosse.
Insomma,
solo io sembro normale.
Ma che
razza di posto è questo?
”E’ vero che conosci Danny?” sorride scioccamente Corinne, battendo le mani.
Alzo gli
occhi al cielo, ancora con questa storia… ma che è un vanto conoscerlo quel decelebrato? Manco fosse uno dei BackstreetBoys! Bleah, i BackstreetBoys… mi faccio schifo
solo a pensarci…
“Sì…”
mormoro velocemente, poi mi ricordo di Dean. Mi volto velocemente verso Seth e
chiedo: “Malfoy, è arrivato?”.
Lui sbatte le palpebre e mi chiede scioccato: “Malfoy? E chi sarebbe?”.
O Dio
santissimo… sta storia del doppio nome mi fa andare di matto… e poi io non lo
voglio chiamare per nome quello là, considerando che lui mi chiama Granger. E
io ho un così bel nome…Hermione… come una poesia di D’Annunzio… altro
che, bleah, Draco… che razza di nome è Draco,
poi… non che sia meglio Danny… alla fine, devo decidere come chiamarlo.
Ecco, un ragionevole compromesso… Ryan… il cognome babbano. Che genio!
“Stavo
pensando ad alta voce…” mi giustifico per il Malfoy, per poi chiedere: “Ryan è
già arrivato?”.
“No” rispose Seth “Perché? Devi parlargli?”.
La sua voce sembra preoccupata.
“Anzi…”
sussurro tra me e me, poi riprendo: “Ascolta, Seth… per che ora prevediamo di
finire? Devo fare una cosa importantissima…”.
“Penso
tra un’oretta… riapriamo domani sera…” snocciola Seth
“Dobbiamo solo finire le ultime cose dell’inventario… in realtà, tu potevi rimanere
a casa, ma volevo farti conoscere a tutti… credo che tra poco arriveranno anche
gli altri…”.
Un’oretta…
bè, tanto Dean non scappa… e poi non voglio che Malfoy abbia una scusa buona
per cacciarmi… meglio non rischiare…
“Va
bene…” sorrido “E’ perfetto…”.
“Allora
che stiamo aspettando, sarà meglio rientrare…” sorride zuccheroso Seth “Gli
altri ci aspettano…”.
Annuisco
con il capo, mentre lui spalanca la porta di metallo, immettendoci in un
ambiente abbastanza grande ed ingombro di tavolini con sedie dalle gambe
altissime. Quei tipici tavolini dove si mangia massimo in quattro e su cui devi
arrampicarti come una scimmia… nel lato destro, emerge un lungo bancone di lego
scuro da cui arriva la luce che illumina malamente la stanza, avvolta da una
pallida luminosità argento. Arriva da alcuni faretti posti sulle mensole dietro
al bancone, che fanno scintillare delle bottiglie di vetro, pieni di liquidi di
vario colore. Non ne ho mai viste così tante. Di fronte a me, invece, c’è una
porta che riconosco uguale a quella che nella zona ristorante portava alle
cucine, quindi deduco che le cucine siano in comune. Invece alla mia sinistra,
intravedo delle scale che portano in un seminterrato. Mi sporgo, ma vedo solo
una corallina fatta di lucenti e glitterate
strisce di carta rossa ed azzurra.
Corinne
si siede su una delle due sedie accanto al bancone, prendendo da una sacca
rossa un quaderno su cui comincia malamente a scarabocchiare, mentre Lorna
raggiunge il bancone, afferra una bottiglia e ne versa buona parte del
contenuto in un bicchiere. Lo beve in una sorsata, strizzando solamente gli
occhi, per poi dire: “Seth, è finito il Jack Daniel’s…”.
Seth sospira, mentre io commento a bassa voce con lui: “Ma
bisogna essere alcolizzati o avere un buco in qualche parte del corpo per
lavorare qui? Non c’era scritto nel mio contratto…”.
“Veramente
il requisito base sarebbe che tu non lo fossi…” risponde Seth “Di due come
quelle, ne abbiamo abbastanza… e poi tu non sarai fissa, sarai una specie di
jolly…”.
“Di
jolly?!” chiedo, senza capire ed iniziando decisamente
a preoccuparmi.
“Se il
ristorante è pieno, vai lì… altrimenti resti qui… dipende da quanta gente c’è
da una parte o dall’altra…” risponde Seth, per poi ridere a mezza voce: “Non
voglio nemmeno sapere che cosa hai pensato quando ho detto jolly…”.
Colta in
flagrante, incrocio le braccia con espressione noncurante: “Io non ho
assolutamente pensato nulla…”.
“Sì, sì,
va bene…” fa con tono accondiscendente, poi si guarda attorno e mi dice di
seguirlo. Lasciamo indietro Corinne e Lorna, la prima totalmente presa dai suoi
scarabocchi, la seconda completamente ubriaca, e passiamo dalle cucine,
tornando nel ristorante dove sono stata la mattina prima.
Anche lì
ci sono delle persone, quattro per l’esattezza, sedute attorno ad un tavolino.
Si
voltano non appena ci sentono arrivare, mi fermo alle spalle di Seth, mentre
lui mi presenta.
Sono due
ragazze più o meno della mia età e due ragazzi che invece sembrano molto più
grandi, almeno una trentina d’anni. La prima ragazza che mi porge la mano è una
brunetta dagli occhi verdi, taglio scalato con ciuffo ribelle, il taglio che
avrei sempre voluto farmi io, se non avessi questi dannati capelli ricci o pseudotali. Si chiama April e mi dice subito di essere
iscritta a Giurisprudenza e che il lavoro da cameriera serve a pagarle gli
studi. Assomiglia alla Barbie che volevo da bambina, prima di capire che le
Barbie sono la peggiore personificazione degli stereotipi sessisti. Ha l’aria
di una cheerleader americana, con il naso a patata e le guance piene su un
corpo invece magro. Constato con sollievo che non è vestita come quelle altre
due tipe strane, porta dei semplici jeans e una maglia verde smeraldo. La
seconda, invece, mi stupisce alquanto, si presenta come Abigail, ma Seth sottolinea
subito di chiamarla Gail. Lei rotea i grandi occhi sporgenti con espressione
meravigliata, ma Seth alza solamente gli occhi al cielo, dicendo di lasciar
perdere. Sembra la copia sputata di Luna Lovegood, a
parte che ha una massa incolta di ricci rossi sulla testa modello Melanie B
delle Spice Girls ed è di colore. Porta due spessi
occhiali da sole, rotondi e di colore rosa, ma dice di averne di tutti i
colori. I capelli sono malamente trattenuti da una fascia rossa, che non fa
altro che far risaltare ancora di più il cespuglio di riccioli. A completare il
tutto, un top nero con delle paillettes e un paio di jeans zebrati su sandali
con zeppa altissima neri. Insomma, sembra uscita dagli anni ’70. Ma qualcuno le
ha detto che sono finiti da secoli?
Poi, si
presentano i due ragazzi. Il primo è Lawrence, il cuoco, un omone dal collo
taurino e capelli lisci e rossicci sul capo. Mi sovrasta in altezza di almeno
venti centimetri buoni e io non sono un tappo! È molto muscoloso e, quando mi
stringe la mano, mi fa decisamente male. Ma sembra anche un tipo a posto. È
gentile e mi dice che se ho bisogno di qualcosa, posso tranquillamente parlarne
con lui. Sorrido ai suoi piccoli ed acquosi occhi celesti, ma che sembrano
sinceri. Il secondo invece mi fa subito innervosire. È Trey, il Dj. Lo so che
sembra una filastrocca, ma c’è anche di peggio. Quando si presenta, si passa
languidamente la mano tra i capelli neri con le punte delle
ciocche biondo platino, che sono sparati in ogni direzione. Poi mi
stringe la mano decisamente per troppo tempo, facendo finta di nulla e
squadrandomi dall’alto in basso, una luce maliziosa negli
occhi castano chiaro. E poi, sempre con enorme nonchalance, mette una
mano in tasca e ne estrae un cartoncino colorato con su
il suo numero di telefono.
“Chiamami, bambolina…” la mano ancora attaccata alla mia,
accompagna il tutto con un occhiolino seducente.
Mi stacco con un violento strattone e sorrido a denti
stretti: “Ne sarei felice! Potrei accompagnarti dal parrucchiere, sai che bello? Tu
ti rifai quei tuoi insulsi capelli bicolori da pseudofigo
che non riesce a rimediare una fidanzata, mentre io… non so… potrei parlarti
del mio ragazzo e delle sue violente crisi di gelosia e del fatto che è già la
terza volta che finisce dentro per lesioni aggravate! Non
sarebbe meraviglioso?”.
Lui impallidisce e dice solamente: “Non hai un ragazzo, vero? Mi volevi solo
far spaventare?”.
“Certo
che ce l’ho…” brontolo offesa “Mi dispiace che tu non ne abbia uno…”.
Tutti
scoppiano a ridere, dandosi di gomito, tranne Gail che rimane con l’espressione
persa nel vuoto. Ora mi ricordo, altro che Luna… questa è identica alla Cooman, quando fingeva di avere le visioni per farci
stramazzare di terrore.
“Ehi,
dolcezza…” Trey si riprende, dopo che finalmente ha capito perché i suoi amici
stavano ridendo “Qui l’unico gay è Seth, non certo io… e se non ci credi, posso
sempre portarti nelle cucine e…”.
“Trey!”
lo interrompe April, scandalizzata.
“E poi
che hai da dire su di me?” chiede Seth innocentemente.
“Perché
non è vero che sei gay?” risponde Trey sulle difensive.
“Certo
che è vero… non credo che sia un problema… no?”.
Ora mi
spiego le movenze femminili… e itesoro stile
vecchia zia, ripetuti continuamente…
“Amico,
per me non c’è problema…” blatera Trey, sollevando le palme delle mani in
difesa “Fin quando sbavi solo dietro a Danny e lasci stare me…”.
“Sei innamorato di Ryan?!” chiedo, scoppiando a ridere ed
indicandolo. Sono immediatamente seguita da April e Lawrence, ed alla fine
anche da Trey e persino Gail.
“NO!!!” urla Seth, mentre noi continuiamo a ridere e lui nega
con energia, paonazzo dalla testa ai piedi.
“NON E’
VERO!!!!” continua ad urlare lui, i pugni chiusi, ma
non riesco a smettere di ridere. Non per lui, ovvio, ma per Malfoy. Mi farebbe
pena chiunque si prenda una cotta per lui.
“Sii
sincero… non lo sogni, quando si fa la doccia?!” ride
ancora Trey, la mano che si asciuga delle lacrime invisibili.
“E non
scodinzoli come un cagnolino, quando lo vedi?” replica April, ridendo anche
lei.
“Allora
questo è vero amore!” soggiungo divertita, una mano sulla bocca per trattenere
le risate.
Poi
improvvisamente le voci si smorzano all’improvviso, sostituite da un rumore di
passi lento e cadenzato. Tutti tacciono in silenzio e si guardano pensosamente
in viso; non capisco, certo che in questo posto la malattia mentale deve essere
un requisito base per essere assunti. In senso lato, sono una persona al di
fuori dell’ordinario, ma, se si intende se faccio uso prolungato di
psicofarmaci, non sono il soggetto clinico giusto.
Mi
sporgo oltre Seth per vedere chi è arrivato, presupponendo che si tratterà del
principe di tutti gli animali che strisciano su questa terra. Ed invece non è
Malfoy. È una ragazza, credo la più bella ragazza che abbia mai visto.
Avanza
verso di noi una giovane donna, altissima, almeno una spanna sopra di me. Ha
capelli lunghissimi e biondo platino, legati in una
coda alta sul capo. Sembrerebbe quasi una Veela e non
me ne stupirei, considerando che le ultime cose che sapevo di Malfoy, era che
usciva con la cugina di FleurDelacour.
I presupposti ci sarebbero: il fascino, la bellezza, i capelli biondi, gli
occhi blu oltremare, circondati da una selva di ciglia nere e
folte ed atteggiati in un espressione di svogliata noncuranza. Insomma,
potrebbe essere tranquillamente la nuova ragazza di Malfoy, considerando che
quello dovrebbe prendersi una che sia nei suoi canoni di perfezione assoluta. E
questa ragazza, sia una Veela, una strega o no, lo è
decisamente. Credo che indossi almeno un paio di centinaia di sterline. Occhiali
da sole tondi Chanel, con strass a forma di fiore su una delle stanghette,
calati sul capo; camicetta smaniata bianca con trine e pizzi carinissimi con il
logo della Blumarine su un polsino; pantaloni gessati
neri sotto il ginocchio; ballerine panna. Come se non
bastasse, una collana extra lunga di perle bianche, annodate in due file
attorno al collo, con l’aggiunta di piccoli fiocchi di raso rosa e un bracciale
orologio con piccoli ciondoli d’oro bianco. Una modella, insomma, non può
essere altrimenti. Cerco di recuperare la mia faccia pseudo-razionale,
la sto guardando (ed invidiando, non ho problema ad ammetterlo!) da almeno
mezz’ora buona.
“Vedo
che ci si diverte…” commenta e la sua voce risuona quasi malevola “Nonostante
ci sia da finire l’inventario e domani si riapra… Danny sarà molto contento di
saperlo…”.
Vedo
Seth irrigidirsi, figuriamoci se desidera che Malfoy sappia della sua
negligenza.
“Stavo
presentando la nuova ragazza agli altri, Summer…” risponde impacciato Seth,
grattandosi con nervosismo il collo “Non stavamo perdendo tempo…”.
“Dove
sono Corinne e Lorna?” la voce resta sempre fredda e monocorde. Non pare
nemmeno averlo sentito, inarca solamente un sopracciglio.
Seth si
limita ad indicare con il capo la porta che conduce al pub.
Summer sorride
freddamente, anzi solleva un poco in su gli angoli
della bocca. La parola sorridere è decisamente esagerata. Mi ricorda per un
attimo Lavanda e Calì, quando lessero sul
“Settimanale delle Streghe” che ridere faceva venire le rughe. Se ne andarono un
mese a fare le sfingi, immobili, con la paura persino di parlare e di dire
qualcosa di minimamente divertente. Per loro, fu uno sforzo enorme,
considerando che passavano metà della loro vita a ridacchiare. Forse per
questo, quando lessero sul “Cavillo” che ridere invece faceva ringiovanire,
ricominciarono beatamente a sghignazzare tra loro. Mai parola di quel giornale
spazzatura fu considerata tanto veritiera. Deduco per la scarsa forza di
volontà di quelle due oche. Ma magari questa qui… questa… Summer… ne
deve avere di più… non sorride nemmeno per sbaglio… e l’aria da sergente
maggiore ce l’ha ampiamente…
“Immagino
che stanno facendo Corinne e Lorna…” risponde lei “Staranno dando fondo alle
riserve etiliche della Gran Bretagna… Seth, se dovesse mancare anche una sola
bottiglia, lo sai che succederà. Danny ne detrarrà il costo
dal tuo stipendio… come vicedirettore, non dovresti permettere che queste cose
accadono… ma puntualmente ogni mese siamo ancora allo stesso punto… la faccenda
sta diventando seccante e non vorrei doverla risolvere… personalmente… e
credo anche… definitivamente…”.
Questa
deve essere assolutamente la ragazza di Malfoy! Che razza di arpia, sorride o
perlomeno finge di farlo tutta soddisfatta e tronfia di sé, e so benissimo dove
l’ho già vista quella faccia! Malfoy! E pensare che credevo
che la regina delle serpi fosse la
Parkinson, ma quella è una ragazza angelica in confronto! La
regina delle serpi… Malfoy deve aver fatto un’audizione per trovarla… bionda
come lui, perfida come lui, presuntuosa come lui. E poi dicono che gli opposti
si attraggono…
Sono
ancora persa in questi pensieri, quando la donna serpente in questione, mi
chiede raggelante: “Sei tu quindi la nuova cameriera?”. La sua smorfia di
disappunto e disgusto deve essere geneticamente collegata a quella dei Malfoy,
non c’è altra spiegazione. In fondo, i maghi purosangue non si sposavano tra
cugini o altri parenti? Questa deve essere la promessa sposa di Malfoy. Summer
Malfoy… suona anche bene. Ormai è certo, Malfoy l’ha fatto decisamente
apposta.
Annuisco
con il capo, limitandomi solo ad aggiungere il mio nome. Sono educata, io.
Lei,
come se niente fosse, prosegue ancora: “Quali sono le tue referenze?”.
E dalle con queste referenze… NON NE HO!!!!! Lo devo mimare
per farlo capire???!!!
Schiocco
la lingua con fastidio e replico a tono, imitando per quanto mi riesca la sua
voce polare: “A quanto pare, solo la mia sfortunata conoscenza del signor Ryan…
è sufficiente o devo conoscere anche la Regina e mezza Camera dei Lords?”.
La guardo con aria di sfida, quanto sono mitica? Da uno a dieci? Undici? Ma
dai, siete troppo generosi… nella mia mente, sono in piedi sulla sua testa ed
improvviso la mazurca di periferia…
La scena
che però mi si para davanti non è quella del Carnevale di Rio de Janeiro, con
la mia faccia su ogni bandierina e su un mega poster sopra ogni carro
allegorico… decisamente, non è quella. Direi che è maggiormente simile a quando
Piton ci annunciava un compito a sorpresa sulla
pozione più difficile di tutto il corso. Ed io ero l’unica che ne avevo
minimamente sentito il nome. Le mie ultime parole, infatti, sono state
accompagnate da una serie di strane scenette. Allora, gli altri si sono stretti
nelle spalle e sono impalliditi, lanciandosi sguardi sibillini tra loro, autenticamente
pieni di terrore; Seth ha assunto un’espressione compiaciuta e mi guarda come
se fossi la sua migliore creazione e contemporaneamente osserva di sottecchi
Summer con l’aria di un gatto che si è appena divorato una razione enorme di
panna montata. Ma quella che mi lascia decisamente più sconcertata è Summer, la
donna bionica. Perché adesso non è affatto bionica, anzi devo averla fatta
arrabbiare anche parecchio, qualsiasi cosa io abbia detto. Il bel viso liscio è
coperto di sottili chiazze rossastre, ha contratto convulsamente i pugni, e gli
occhi oltremare sono stretti in due fessure, oltre ad essere attraversati da
scariche elettriche. Un brivido mi passa lungo la schiena, ora capisco perché
gli altri erano spaventati, deve essere una sua attività consueta.
“Quindi
tu conosci Danny…” constata, vuole essere fredda, ma la sua voce risulta
innaturalmente acuta.
Non
capisco che ci sia di strano e di eclatante a conoscere Malfoy… come se nel mio
curriculum vitae, scrivo sempre Conosco Draco Lucius Malfoy quasi come
se avessi scritto Conosco Benedetto XVI ed avete presente la finestra da cui
si affaccia al Vaticano? Io abito accanto! Manco fosse il signore del
mondo…
Annuisco
controvoglia.
“Come lo
conosci?” mi incalza Summer, la voce ancora più alta e il volto sempre più
nervoso.
“Andavamo a scuola assieme… ma che cos’è questo, un
interrogatorio?
Perché non lo chiedi a Ryan come lo conosco?!” sbotto
seccata. A parte il fastidio, c’è anche il fatto che non so che cosa dire e
cosa no. Che diamine avrà detto Malfoy a tutti come Danny Ryan?
Summer mi ignora platealmente e prosegue, avvicinandosi di
un passo: “Siete amici? Da quanto tempo non vi vedete? Vi sentite spesso? E
siete stati assieme?”.
“STOP!!” urlo nervosa, ponendomi minacciosa davanti a lei “Si può
sapere che vuoi?!”.
“Voglio
sapere in che circostanze hai conosciuto Danny…” risponde lei, tornata fredda
come prima.
“E per
quale ragione di grazia?” chiedo falsamente cerimoniosa.
“Perché
è il mio ragazzo… e lui non mi ha mai parlato di te…”.
“Ti posso
assicurare che nemmeno io parlo volentieri di lui…” mormoro a denti stretti
“Quindi, puoi benissimo chiederlo a Ryan di parlarti di me, così gli farai
venire la stessa ulcera nervosa che stai facendo venire adesso a me…”.
“Perché
lo chiami Ryan?” mi fa gelida, ancora incurante di quello che le ho detto.
“Perché
non si chiama cretino, di cognome…”la mia pazienza se ne sta rapidamente
andando ai pesci. Non la sopporto più. Non capisco perché hanno tutti questa assurda curiosità e venerazione per Malfoy? Che
siano sotto Imperius? Potrebbe essere… in effetti, è
la sola spiegazione plausibile. Guardo di sottecchi Summer per scorgere le
pupille dilatate e le narici frementi da Imperius
prolungato, i segnali ci sono, ma Malfoy dovrebbe averla incantata per bene per
farle una fattura simile. Ne sembra ossessionata, non innamorata. E dubito che
Malfoy abbia un simile talento. Né un simile gusto, snobbavala Parkinson
se si esibiva nella sua migliore imitazione della piovra gigante, figuriamoci
lei… una babbana…
Sono
ancora presa dai quei pensieri, quando nuovamente tutti si ritraggono a disagio
e si stringono nelle spalle. E stavolta so di non potermi sbagliare… infatti,
alle mie spalle, è comparso Malfoy. L’ho capito dallo sguardo di Summer
meravigliato e cuoriforme, da quello di Seth di poco dissimile e da quello
degli altri, anch’essi adoranti. E se ci sia lo zampino dell’Amortentia? No, non sapeva preparare nemmeno quella! Ma che
diamine li ha fatto Malfoy?
“Danny!”
cinguetta Summer, esattamente come Seth che la guarda in cagnesco. Sembra una
scena da commedia napoletana… le due comari che si scontrano per l’uomo dei
loro sogni… incubi, mi correggo… lo guardo in tralice, mentre lui si
avvicina con passo lento e misurato, oltrepassando l’ingresso. Una cosa è vera,
esattamente come accadeva ad Hogwarts, Malfoy ha l’indiscusso talento di
riempire le stanze. Non so come definirlo, è una sensazione particolare, mi
ricordo che l’aveva anche Viktor… come se ti schiacciasse contro le pareti per
fare posto alla sua persona, strano? Abbastanza… allora cerco di spiegarlo
meglio. Quando Malfoy entrava nella Sala Grande, nel bene e nel male ce ne
accorgevamo. Ancora prima che aprisse quella sua sgradevole bocca, ancora prima
che la Parkinson
iniziasse a uggiolare assieme alle altre Serpeverde, ancora prima. Appena
varcava il cancello dell’ingresso, sapevi che era entrato. Il passo
inconfondibile, le movenze leggere, insomma c’era qualcosa di estremamente…
come posso definirlo… elegante, sì, elegante nella sua persona. In
fondo, chi potrebbe negare che Lucius Malfoy e Narcissa
Black non fossero eleganti, pace all’anima loro? Mangiamorte sì, ma sempre
raffinati. Non solo nel vestiario, ma anche nel comportamento,
nell’atteggiamento e nei gesti. Credo che ce l’abbiano nella genetica, e da
bambini evidentemente hanno mangiato pane ed etichetta. Quella fu la prima cosa
che mi colpì di lui, appena lo vidi. Ricordo, non chiedetemi per quale astrusa
ragione, il nostro primo incontro, la mattina del 1° settembre di ormai tredici
anni fa. Ero nel corridoio del treno, accucciata per terra alla ricerca dello
stramaledetto rospo di Neville, scappato per la trecentesima volta. Una ragazza
stava per calpestarmi, avrei saputo solamente dopo che era quella serpe di
Pansy Parkinson. Qualcuno la trattenne per un braccio, evitando che mi
spiaccicasse al suolo. Ed era Malfoy. Incredibile, no? Non tantissimo a
pensarci bene, perché in quel momento non sapeva della mia origine mezzosangue,
non sapeva nulla di me, neanche il nome. E io nemmeno. Le sciocche chiacchiere
sulla purezza della razza erano a miglia e miglia da me e da lui, certo lui già
ci credeva, ma quel discorso era invece una delle poche cose che davvero io non
sapessi. Sollevai lo sguardo su di lui e, non so, mi colpì. Mi colpì veramente
molto, biondo com’era e così elegante ed impettito. Lo guardai senza capire,
mentre lui mi scrutava dall’alto in basso. Lo imputo al fatto che fossi solo
una bimbetta ingenua, ma mi fece ricordare un’illustrazione che c’era su un mio
libro, il Piccolo Principe. Nella mia mente, fu subito accostato ad un
principe, anche se non mi chiese né se mi fossi fatta male e nemmeno mi aiutò a
sollevarmi. Ma era Malfoy, in fondo. Rimase un principe nella mia mente per
ventiquattro ore nette. Alla prima lezione di Trasfigurazione, mi dava
fastidio; alla seconda, mi irritava; alla terza, mi stava antipatico; alla
quarta, avrei ballato sul suo cadavere. E dalla quarta lezione in poi, non ci
furono mutamenti di rilievo. Per tredici anni.
Adesso infatti lo guardo con il medesimo astio di allora, lo
stesso identico odio della bambina di undici anni che cancella il principe
dalla sua testa, quando lo vede prendere in giro Neville o disturbare la
lezione, entrambi crimini passabili della pena capitale per me. L’astio è
uguale, e in fondo credo che uguali lo siamo anche io e lui. No, invece.
Stavolta siamo entrambi due persone normali e, non lo so perché, mi si accosta
anche l’aggettivo inutili. Siamo babbani tutti e due, per costrizione altrui. È la prima
vera cosa che ho in comune con Malfoy; non ci avevo ancora pensato. Forse mi fa
un po’ ribrezzo o magari mi da solamente una
sensazione strana.
Lo
guardo ancora, atteggiando il mio viso ad un’espressione indifferente, mentre
lui ci raggiunge con un’ultima falcata. Stranamente sfuggo dal suo sguardo,
celato da un paio di RayBan dorati. È come se abbia
paura che legga i miei ultimi pensieri… non che siano chissà che, ma mi
infastidiscono alquanto al pari di lui. Mi dà fastidio quella ciocca di capelli
dorati che gli cade sulla fronte, quella piccola ruga d’espressione ai lati
delle labbra, la sua giacca di pelle nera stile TopGun,
i suoi jeans chiari, insomma mi dà fastidio tutto di lui. Malfoy guarda Summer
e gli altri con espressione interrogativa, deve essere strano che se ne stiano
lì, fermi ed immobili. Poi mi vede e la sua espressione cambia, si resetta sul
mio programma personale. Ovviamente disgusto, fastidio
ed odio malcelato.
“Granger…”
constata freddamente, togliendosi gli occhiali da sole “Evidentemente devo aver
usato involontariamente il serpentese…”.
“Tu non
lo parli il serpentese…” mormoro tagliente.
“Nessuno parla lingue inesistenti, Granger… hai sempre una fantasia sfrenata…”
la sua voce si è fermata sulla parola nessuno con forza. Ho
capito. È ovvio che nessuno parli Serpentese. Tra i babbani.
Quant’è idiota… prima lo dice lui e poi rimprovera
me.
“Che ci fai qui, allora? Ci speravo a rivederti per la fine del mondo…” risponde,
incrociando le braccia e guardandomi in attesa. Come che ci faccio qui?! Ma soffre di amnesie in tempi brevi?
“Come che ci faccio qui, Ryan?!”
chiedo, sconcertata e nervosa.
“Ryan?” chiede lui, perplesso, guardandomi come se
fossi una povera pazza.
“Certo, Ryan!”
accentuo con ironia l’ultima parola “E’il tuo cognome, no?!”.
Il tonno non deve aver capito che gli sto praticamente reggendo il gioco da
povera imbecille, quale sono. Infatti, mi guarda ancora perplesso, poi un lampo
di comprensione gli attraversa il volto ed allora mi guarda sospettoso,
sgranando gli occhi grigi. Evidentemente si chiede perché lo
stia facendo. Magari se lo stanno chiedendo tutti… d’accordo, d’accordo, Malfoy
non mi sta improvvisamente simpatico, ma insomma non lo voglio sulla coscienza.
Un Mangiamorte folle lo rintraccia e lo ammazza solo perché l’ho chiamato con
il suo vero nome. Magari quel giorno sarà proclamato festa nazionale, ma forse
mi sentirei un pochino responsabile, nonostante il clima di festeggiamenti. E
ci manca solamente questo nel caos della mia vita. Essere responsabile
dell’orribile fine di Malfoy. Non ci voglio nemmeno pensare. E poi, Harry mi ha
detto di credergli e lui è il Ministro, e quindi è un po’ anche come… insomma,
obbedire a degli ordini… sono l’ex (ancora per due stramaledettissimi anni!)
capo degli Auror, se non lo do io il buon esempio e non ascolto il Ministro,
non lo farà nessuno! Ne va del futuro del mondo magico e della sua
governabilità!
“Granger!” la sgradita voce consueta mi riporta
alla realtà concreta dei fatti “Sto aspettando una risposta”.
“A quale domanda?!” chiedo
ancora decisamente snervata, incrociando nuovamente le braccia in segno
d’impazienza.
“Alla domanda CHE COSA DIAVOLO FAI DI NUOVO, QUI???!!”pronuncia lui con tono lento e cadenzato,
come se fossi una povera deficiente.
“Ryan, guarda che la schizofrenia è una malattia
alquanto comune… non devi vergognarti… puoi anche farti curare una buona
volta…” concedo in tono accondiscendente e comprensivo “Almeno eviterai di fare
una cosa e dimenticartene il giorno dopo…”. Lui inarca elegantemente un
sopracciglio biondo e chiede ancora: “Granger, sei impazzita tra le altre cose
in questi anni?”. Sbatto le palpebre un paio di volte, guardandolo … o mio Dio…
vuoi vedere che…
“SETH!!!” urlo alla figura
informe alle mie spalle “Ma Ryan non sapeva nulla del fatto che mi avevi
assunta?!”.
Lui si accartoccia su sé stesso come un verme e
mugugna un no.
“L’hai assunta?!” chiede a
sua volta Malfoy, l’espressione furente “Non ti avevo forse detto che io non
avrei mai voluto nel mio locale la Granger?!”.
Il vermetto, mentre si
contorce nervosamente le mani, mugugna un sì.
“E allora perché mi hai chiamata? Dicendomi
espressamente che Malf… cioè, Ryan… insomma, questo
qua…” e lo indico con un gesto insofferente della mano destra e uno sbuffo di
nervosismo “… voleva che io lavorassi qui?!”.
“Le hai detto questo?!”
alla mia voce si unisce di nuovo quella di Malfoy. È la seconda volta che trovo
una somiglianza con Malfoy nella stessa giornata. Ci deve essere un enorme cospirazione governativa alle mie spalle, più una
congiunzione astrale decisamente sfavorevole alla mia persona.
“Insomma, è tutto risolto, no?” la voce fredda di
Summer mi ferisce le orecchie come lo stridio di un oggetto appuntito su una
superficie liscia “Danny non è d’accordo con l’assunzione di Seth ed è il
proprietario. Io sono il direttore e non lo sono nemmeno io…
quindi…”, si rivolge melensa a me: “Signorina Granger, grazie, ma provvederemo
diversamente…”.
La vorrei uccidere, davvero, la vorrei uccidere…
guardo alternativamente con la bocca spalancata sia lei che Malfoy, che è
rimasto in silenzio. Cioè, fatemi capire bene… sono venuta qui
stamattina per niente? Ho dovuto rivedere per la seconda volta in due giorni
Malfoy per niente? Non sono corsa da Dean per niente?
“Non ha capito, signorina Granger?” chiede ancora
dolce Summer, sorridendo più ampiamente di quanto non abbia mai fatto fino a
questo momento. Gli altri se ne stanno in silenzio, ho ben capito come stanno
le cose. Malfoy e la regina del male dispongono e loro obbediscono. Che schifo…
forse è meglio che sia andata così… ma a chi la do a bere? Ho bisogno di
lavorare, ci avevo contato su questo posto, nonostante tutto. Trovandomi un
lavoro, sentendomi di nuovo utile, magari le cose tra me e Dean si sarebbero
sistemate… l’umiliazione e la rabbia mi fanno offuscare gli occhi di piccole
lacrime nervose, ma le trattengo con forza, stringendo i pugni convulsamente.
“Avresti dovuto immaginartelo, no?” sento Malfoy
dire con voce scontata. Non sollevo lo sguardo che rimane
ostinatamente abbassato, ho abbastanza paura della mia reazione in questo
momento “Sei stata abbastanza stupida… non che sia una novità, in fondo… ma
andiamo… come hai potuto pensare che io ti avrei assunto? E che avremmo lavorato assieme come due amici di vecchia data?”.
“In effetti come ho potuto
pensarlo?” chiedo più a me stessa che a lui, poi sollevo orgogliosamente lo
sguardo e lo fisso negli occhi, alzando il mento. La mia voce ritorna bassa e
meno tremula, saturandosi della rabbia e del disgusto, come sempre.
“Potrei ingannare loro…” dico sadica, rivolgendomi
alla platea silenziosa che ci osserva “La tua fidanzata papera o anche Harry…
“, un mezzo sorriso cinicamente soddisfatto si dipinge sul mio viso “… ma me no, Malfoy, mai… non sei mai cambiato, né mai cambierai…
che c’è? Mi volevi vederti implorare per avere il posto? Hai saputo della mia
condanna? Bene, fatti due risate… non mi interessa… mi basta sapere che tutti
possono dire quello che vogliono, crederti, ma invece essere sicura sempre e
per sempre del contrario. Mi basta questo. Vedere che mi hai fatto
richiamare solo per avere la soddisfazione perversa di fingere di non sapere
nulla… la cretina sono stata io a tornare…”, sputo fuori le mie ultime parole
con ribrezzo: “Sei esattamente come tuo padre…”.
L’espressione apatica con cui mi guardava prima
muta velocemente in una di collera pura. La pelle diafana del suo volto si
tinge di rosso, mentre contrae le labbra nervosamente, sotto gli occhi
assolutamente sconvolti di Summer e gli altri. Non ci devono essere abituati,
evidentemente stona con il loro perfettissimo Danny,
ma invece questo è solo Malfoy. E io so perfettamente di che cosa è capace.
“Non ti azzardare a nominare mio padre, Granger…”
mormora, muovendo minacciosamente un passo nella mia direzione. Gli scoppio a ridere in faccia con disprezzo: “Lo vedi, non
sei cambiato di una virgola… non ti permetterò di rifarmi quello che mi hai
fatto in sei anni…”, mi volto, dandogli le spalle, per poi rivolgermi ancora a
lui, nonostante il mio sguardo sia ancora fisso davanti a me. Aggiungo
sibillina, anche se so perfettamente che lui mi intenderà benissimo: “Ringrazia
solo Harry… e il fatto che tu abbia fatto quella scelta quattro anni fa…
altrimenti sai che ti sarebbe successo… e avrei pregato ogni giorno perché
potessi farlo io e non un altro…”.
Sento gli sguardi degli altri addosso, sulla porta
scorgo anche Corinne e Lorna, evidentemente attirate dalle urla. Non mi
interessa, anche se a loro sembrerò una povera pazza. Sono loro a non capire,
sono loro a credere in una persona che non esiste, non io, io che non ho a che
vedere né con loro, né tantomeno con lui. Sono l’unica qui dentro che ha la
minima idea di che razza di persona sia Malfoy e mi è sufficientemente bastato.
Non mi interessa che si sia redento alla fine della guerra, né che adesso sia
un babbano, né tutto il resto. Già il fatto che abbia detto a Seth di chiamarmi
e poi… che nervi… mentre ripercorro la strada all’incontrario, nel silenzio
generale, stringo ancora violentemente le mie mani, le nocche sono livide. Apro
la porta, uscendo all’esterno e respirando l’aria fresca (anche se non
propriamente pulita… ma sapete quante polveri sottili ci sono in un centimetro
quadrato a Londra? Insomma, tante, non ricordo la percentuale… ma, perché non
mi faccio ancora ricoverare?). Chiudo gli occhi, cercando
di recuperare la calma e il controllo di me stessa, facendo training autogeno.
Malfoy è solo un demente, io sono superiore; Malfoy è solo un demente, io sono
superiore; Malfoy è solo un demente, io sono superiore; Malfoy è solo un
demente, io sono superiore… col cavolo!!! Ci scommetto
la patetica scenetta che ha organizzato! Qualcuno dei Serpeverde, perché sempre
di serpi si parla, gli avrà detto che sono stata licenziata. Chi può essere
stato? Ma certo, quel pettegolo di Zabini, stava
nell’ufficio proprio di fronte al mio, alla Cooperazione Internazionale.
Dannato! E Malfoy si è fatto una bella risata, per ore, e quindi ha orchestrato
questo bel pianetto! Che altro motivo avrebbe avuto Seth in caso contrario, no?
E poi è perfettamente nella sua natura di Mangiamorte incallito! Lo so che non
è un Mangiamorte, ma chissene… il marcio sempre quello è! Maledetto, tutto solo
per umiliarmi!! E poi faceva l’attore, il candido e il
puro… di che parli, Granger?!…ma quanto vorrei ucciderlo… sarei diventata una Mangiamorte, se
Voldemort mi avesse offerto la sua testa su un piatto.
Batto i piedi con foga, irritata per
l’ingiustificata perdita di tempo. Poi guardo l’orologio al mio polso, le dieci
e mezzo… bene, faccio appena in tempo per la pausa caffè di Dean. Forse è
meglio che passi da Ginny, almeno ci smaterializziamo e mi accompagna, così non
rischio di arrivare in ritardo. Ci mancherebbe anche questa… tra l’altro, il
cielo si è rannuvolato, l’aria si è fatta più fredda e il vento gonfia la gonna
larga del mio vestito azzurro, facendomi rabbrividire e chiudere nelle spalle,
mentre un brivido di freddo mi scorre lungo la schiena. Incrocio le braccia
attorno alle spalle nude ed inizio a camminare per raggiungere la strada
principale e dire finalmente addio a questa alcova (alcova? Alcova?! Ma da dove mi è uscito?!) di
pazzi.
Faccio qualche passo, ma nemmeno riesco ad uscire
dalla strada che qualcosa di pesante mi colpisce sulla testa. Ahia! Ma che
cavolo! Oggi è veramente giornata! I piccioni sono diventati stitici o che
altro? Mi massaggio dolorante la testa, mentre vedo l’autore del misfatto
allontanarsi veloce nel cielo grigio. Le sue ampie ali scure risaltano contro
le nuvole temporalesche… ali scure… lo
guardo bene, strizzando gli occhi a causa della lontananza. Un gufo! Mi guardo
febbrilmente attorno, e vedo ciò che mi aveva colpito prima. Un piccolo
pacchetto circondato da una carta scura e tenuto assieme da uno spago. Lo
prendo esitante tra le mie mani, guardandomi attorno, ma l’unica strega o pseudotale sono io, quindi deve essere per me… l’ultimo
sospetto che potrebbe essere per Malfoy viene fugato dalla piccola etichetta
sul pacco, che reca le parole Per Hermione Jane Granger.
Ed ecco a voi, fresco di giornata, un nuovo
aggiornamento!! Sono davvero cattiva, lascio sempre
nel momento migliore…!!Ahahahha!!! Sono contenta che le recensioni stanno aumentando, olè!! Forse allora sta storia non fa poi così schifo!!Ehehehe!!!
Ringrazio tantissimo giuly94, cy17_love, lunachan62,
francy_hurt_16 (non so davvero da dove mi sia uscito l’incanto imber, insomma Hermione pensa alle cose più assurde quindi
ci può stare… è facile scrivere di lei, perché praticamente per come l’ho resa
sto descrivendo me stessa!) e nefene (Ron è stato
davvero moooolto ingenuo!!).
Capitolo 6 *** Love will tear us apart... do you love somebody now? ***
Capitolo 6 - Love will tear us apart… do you love somebody now
Capitolo 6 - Love will tear us apart… do you love somebody
now?
Lo soppeso tra le mani, a disagio, non mi dà una
bella sensazione e mi sono fin troppo abituata a dar peso al mio istinto. Sono
uscita viva da Voldemort grazie ad esso, quindi, nonostante la mia razionalità strabordante, cerco di accondiscenderlo
quanto più sia possibile. E, tanto per chiarire, adesso non ho assolutamente
una bella sensazione. Chi me lo potrebbe aver mandato? Ginny… no, ci siamo
sentite ieri. Harry? Anche lui l’ho sentito ieri… Ron? Lavanda? In questo caso
lo getto all’aria… Neville? Seamus? Calì? Luna ? Non mi viene in mente nessun’altro
che sia lontano a tal punto da non potermi venire a trovare per consegnarmi
qualcosa. Scarto il pacco con foga, la curiosità che vince sull’analisi. Il
contenuto si rivela essere un ulteriore scatola rossa. La apro e ne osservo
l’interno, restando basita. Mazzetti di banconote. Tantissimi. Per un momento,
li guardo avida, Dio solo sa quanto mi farebbero comodo… magari ho vinto una
qualche lotteria magica, o quel coupon del Settimanale delle Streghe che ho
mandato per un concorso mesi fa… che scema, ma lì si vinceva una piastra Autostirante, non soldi! Non così tanti! Scuoto la testa,
ci deve essere un errore. Forse Harry ha scoperto che non ho ancora un lavoro e
mi vuole aiutare… che schifo, però, così sembra un’elemosina. No, non è da
Harry. Ma allora chi? E se fosse il frutto di qualche traffico illecito? Forse
non è per me, ma per una mia omonima, invischiata in qualche losco giro di
affari e scommesse. O mio Dio, magari quelle due teste calde di Fred e George
si sono messi a scommettere con qualcuno, utilizzando il mio nome come
pseudonimo! E questa è la somma pattuita! Prima di immaginare feroci killer e
un traffico internazionale di scope da corsa, scavo con le mani nella scatola,
cercando qualcos’altro. Ed è allora che ci trovo due chiarissimi indizi
sull’identità del mittente. Non ci sono dubbi, è proprio per me. Trovo una
piccola busta bianca chiusa con il sigillo del Ministero, oltre che uno spesso
braccialetto d’argento. Le mie mani si fanno gelide, mentre lo afferro con le
dita, posando incurante la scatola per terra. Tremante, lo volto per osservarne
l’altro lato, dove c’è una piccola piastrina di metallo piatto e liscio. H.J.G… sospiro, le mie iniziali…
se mai avessi avuto il minimo dubbio…
“Ginny, non so che cosa regalare a
Dean per Natale! Aiutami, ti prego! Devo anche spendere poco… insomma, sono
nella bip fino al collo… hai qualche consiglio?”.
“Il nostro primo Natale assieme, io
gli regalai… una bella nottata!”.
“Smettila! Possibile che tu sia
sempre così poco originale? Che c’è, Harry non ti soddisfa e, per
compensazione, devi sempre ricordare le tue appassionate nottate con il mio
ragazzo??!!”.
“Scusa, scusa, quanto sei puritana!”
“- - - - ”.
“E poi quello sarebbe davvero un
regalo low cost…!”.
“Ginny, insomma smettila!”.
“Quanto sei suscettibile!”.
“E comunque sarebbe anche il regalo che gli
faccio ogni sera…”.
“Ahaha…
Hermione Granger esce allo scoperto… dietro quella facciata da mangialibri, si nasconde un’anima caliente…
e poi sarei io la perversa!”.
“Comunque, mi sono sopravvalutata…
non è ogni sera… cioè, insomma, tre sere no ed una sì… ma che cavolo sto
dicendo? Ti sto anche a raccontare queste cose!”.
“Herm, stai facendo tutto tu…”.
“Quindi, posso smetterla da sola…
allora… che cosa diamine regalo a Dean?”.
“Fammi pensare… sai che cosa
potrebbe essere carino?”.
“No, per questo te l’ho chiesto… a
Ron andava bene sempre un ulteriore pezzo della divisa dei Cannoni…”.
“A Main
Street, c’è un negozio di bigiotteria. Fa braccialetti d’argento con delle incisioni…
sarebbe una bella cosa se ne facessi uno con le tue iniziali, no? O con il
giorno che vi siete messi assieme…”.
“E’ vero! E’ una bella idea! Delle
iniziali, il giorno non lo so proprio… conterà la prima volta, il primo
incontro o quando siamo usciti assieme la prima volta? Insomma è un punto
controverso!”.
“Sei tu la controversa, Herm…”.
“L’idea te l’ha data Ronald, vero?”.
“Ron? E lui che c’entra, scusa?”.
“La collana per Lavanda quella con
l’incisione… quella che io ho a casa… scommetto che l’aveva fatta lì…”.
“Posso dirti una cosa? Alle volte
dovresti essere un po’ più stupida…”.
Stringo forte il braccialetto tra le mani, Dean non
se ne è mai separato da quando glielo ho regalato. Quando glielo diedi,
commentò ironico che Lavanda gli regalava solamente notti di sesso sfrenato.
Sesso a Natale, per il suo compleanno, per il loro anniversario, insomma
sempre… mi baciò dolcemente e io lo abbracciai forte. Mi urlai nel cervello il
perché non mi riuscissi ad innamorare di lui, era una consuetudine della mia
mente nei bei momenti.
Dean non ci avrebbe rinunciato mai… lo teneva anche
quando faceva la doccia… il mio bracciale…
Stringendolo sempre tra le dita, apro con le mani
tremanti la busta di carta bianca. Contiene un piccolo foglio di colore giallo,
poche righe ed una grafia disordinata. La stessa dei post it
sul frigorifero. Herm mi sono dimenticato di
comprare la carne. Ci pensi tu? Grazie, piccola. La
stessa sul contratto della casa, accanto alla mia. Dean Angelus Thomas. E la
sensazione mi suggerisce che sarà l’ultima volta che vedrò questa grafia, che
la sfiorerò con le mie dita e che riuscirò a decifrarla, nonostante a tutti
sembrino geroglifici.
Alex mi ha detto che mi
hai cercato e che eri preoccupata. Non volevo farti stare in pensiero, ma avevo
bisogno di riflettere da solo. Herm, ci ho rimuginato su tutta la notte.
Pensaci sinceramente… mi hai mai amato? In realtà, avevi solo paura di stare
sola e io ci ho marciato su. Magari per lo stesso identico motivo, perlomeno
all’inizio.
Ho preso già la mia roba
da casa… ti sembrerà codardo, ma non avevo voglia di salutarti. Dei due quella
forte sei sempre stata tu, se t’avessi vista, non ce l’avrei fatta. Sto andando
in Francia… ho avuto una promozione,lo sapevo da giorni, ma volevo rifiutare.
Adesso le cose sono cambiate, quindi credo che sia la scelta migliore per
entrambi. Tornerò fra tre mesi. I soldi sono per pagare i prossimi cinque
affitti della casa. Non ha sbagliato nessuno dei due, almeno singolarmente.
Abbiamo sbagliato entrambi, assieme, ognuno a suo modo. La cosa era già
sbagliata dall’inizio. Siamo andati a letto assieme per fare dispetto a Ron e
Lavanda. Io mi sono innamorato di te e tu no, non ne hai che colpa.
Razionalmente mi dico questo, ma al momento ti darei tutte le colpe del mondo, quindi
per un po’ è meglio che non ci sentiamo…
Perdonami. Dean.
Assurdamente cerco qualcos’altro nella busta,
sicura che il messaggio non possa essere solamente questo. Dopo un anno e più,
non può essere solamente questo. Scavo nella busta
convulsamente, fino a romperla e strapparla tra le mie dita per la troppa foga.
Pezzi di carta volano via nel turbine del vento. Non c’è più niente. In tutti i
sensi. Qualcosa mi colpisce sul viso, pioggia. Sta piovendo, l’acqua scende
piano dal cielo grigio, per poi diventare un acquazzone. In pochi secondi, mi
bagna completamente… la gente corre per strada, riparandosi come meglio riesca,
le cartelle e le borse sul capo, ed invece io me ne rimango ferma, incurante
persino della scatola piena di soldi che sta prendendo acqua. Le getto uno
sguardo distratto, poi le do le spalle, continuando a stringere nella mia mano
solo il braccialetto e la lettera. Cammino piano, i piedi zuppi a causa dei
sandali aperti, il vestito che adesso aderisce scomodo alla mia pelle, i capelli
che fanno scivolare lunghi rivoli gelati lungo le mie spalle ed il mio collo.
La scala antincendio… mi ci appollaio sopra, stringendo al petto le mie
ginocchia. Arriva meno acqua, qui. La guancia premuta sulla gamba, piegata in
due, osservo la scatola rossa inzupparsi d’acqua, il rumore dei tuoni che
ingombra le mie orecchie che fischiano. Prego Dio… prego Dio perché mi faccia
piangere, urlare, gridare, arrabbiare, ed invece niente, nulla. Solo un
fastidioso ronzio nelle orecchie, gli occhi che pizzicano un po’ e la gola che
mi fa male. Un buco nero. Possibile che io non senta niente? Poggio la fronte
sulle gambe, mi fa male qualcosa dentro, ma che cosa sia non lo so. Il cuore? O
lo stomaco? Non lo so, non lo so, è orribile che io non lo sappia. È orribile che
mi abbiano lacerato la carne viva e che io veda il sangue, ma che non provi
dolore. La mia mano continua solo a stringere il braccialetto e la lettera, che
adesso scolora bagnata. L’inchiostro violaceo sporca le mie dita, le pulisco
distrattamente sul vestito azzurro, lasciandovi un alone. Impreco tra me e me,
accorgendomene.
Fastidio.
Poi…
Questo vestito me l’ha regalato Dean.
Due anni fa. Glielo consigliò Ginny. Macchie di
vita nella mia retina. Il maglione rosso a collo alto troppo piccolo. il mio compleanno. L’anello con parti in nichel, a cui sono
allergica. Natale. I cioccolatini alla menta che
detesto. Il nostro anniversario. Il
vestito azzurro. Il mio onomastico. Un anno.
Un anno di ricorrenze, un anno di regali.
Torna persino la margherita gialla che mi portò a
Firenze, quando mi venne a prendere.
Nel mare di gocce fredde che mi circonda, nel mare
di pioggia che mi sommerge, una minuscola gocciolina calda accarezza la mia
guancia, morendo nei miei capelli.
Brucia come l’inferno.
Brucia come la consapevolezza che ora, solo ora, mi sono resa conto che tutte queste cose… io le so.
Le ho sempre sapute. Le conosco. Le ho ignorate,
tralasciate, abbandonate, trascurate, lasciate indietro.
Ma c’erano, ci sono sempre state.
Come Dean.
Tutto ora mi colpisce come la risacca di un mare
nero di gennaio.
Mi manca il respiro, ora, mentre quel maremoto mi
scardina dalle mie fondamenta.
E il dolore, ospite non richiesto e molesto, arriva
e mi colpisce il viso. Dolore… il dolore non arriva mai da solo, ha sempre
buona compagnia. Deve essere simpatico, a molti.
Dolcezza. Non volevo farti stare in pensiero…non importa, basta che non ti sia successo
niente.
Angoscia. Mi hai amato? … ti voglio bene… enormemente… non è
sufficiente questo?
Ammissione. Avevi solo paura di stare da sola e
io ci ho marciato su. …lo so, ho
sempre il terrore di restare sola…
Rabbia. Ti sembrerà codardo…non sembra, è codardo… dopo un anno
assieme, come puoi trattarmi così???!!!
Paura.Sto andando in Francia…te ne vai? In Francia? E per
quale ragione? Tu non puoi lasciarmi…
Irritazione. Credo che sia la scelta migliore
per entrambi…che diamine ne puoi
sapere tu?!
Spavento. Tornerò fra tre mesi…tra tre mesi… novanta giorni… sarai sotto un
altro cielo…e io qui…
Umiliazione. I soldi sono per
pagare i prossimi cinque affitti della casa…posso farcela, non sono la tua mantenuta…
Senso di colpa. Io mi sono
innamorato di te e tu no…lo
so quanto ci tieni a me, ma non è stata colpa mia se…
Consenso. Al momento ti darei tutte le colpe del mondo…e
credo che ne avresti ragione…
Una nuova lacrima scivola lungo le mie ciglia,
rotolando per la guancia fino a bagnare inutilmente la stoffa del mio vestito.
Inutilmente, per tutta una serie di ragioni. L’abito è bagnato zuppo, quindi
quella goccia non fa nessuna differenza. Inoltre le mie lacrime hanno sempre la
precipua caratteristica di essere inutili. Una lacrima non è mai utile in
fondo. Sarebbe utile solamente se ora qui ci fosse Dean, se lui mi vedesse
piangere, se questo gli facesse cambiare idea. Ma perché, poi? Se lo
meriterebbe? Si meriterebbe di rimanere ancora con me? Per la prima volta nella
vita, non è perché ritengo di essere superiore a lui e quindi penso che per lui
sarebbe un enorme privilegio anche solo toccarmi, non è questo. Assolutamente.
Per la prima volta, non lo è. Credo che non se lo meriterebbe, perché nessuno
se lo merita.
Soffrire, aspettando che una persona si innamori di
lui. Aspettando che io mi innamori di lui, facendolo continuamente sentire,
nell’improbabile classifica in cui ho catalogato gli uomini della mia vita,
sempre e per sempre agli ultimi posti.
Dopo Ron, ovvio. Dopo Harry, intuibile. E poi dopo
Viktor, dopo Neville, e chissà chi altro.
Gli ho fatto male, giorno dopo giorno, e nemmeno me
ne sono preoccupata. Come ho trascinato avanti per inerzia la mia vita da
quella maledetta condanna, così ho preteso di farlo per la sua. Per la nostra. Soltanto perché, in un minuscolo istante, ci ho
creduto davvero a me e a lui assieme ed ho elevato a valore immutabile quella
scoperta evanescente.
Un giorno ci ho creduto e questo è stato
sufficiente.
E’ stato sufficiente.
Mi passo le mani tra i capelli bagnati, tirandoli
indietro con le dita. Come sempre, merito una bella E per la mia spiegazione
razionale. E questo fa più schifo di tutto il resto, io mi faccio più schifo di
tutto il resto. Tento ancora di cercare delle scuse al mio comportamento, le
confeziono perfette e così perdono me stessa.
Mi perdono…
Stringo forte il bracciale tra le mani,
congiungendole nel mio grembo e piegandomi su di esse. Avverto dolore,
fortissimo, il petto squarciato. La diagnosi è corretta, è il cuore a fare
male. Il mio cuore gelido, il mio cuore fatto di ragionamenti e pensieri, il
mio cuore vecchio, come diceva la
Cooman. Ma è sempre il mio cuore a
fare male. Mi conforta un po’, ma non mi merito sollievo, lo scaccio da me, non
ho bisogno di ristoro. Sono io quella con i problemi, quindi il mio ristoro è
solo uno stupido placebo che la mia mente crea, ma che in realtà è solo
dannoso.
Sono solo io quella con i problemi, nessun’altro ce
li ha invece. Né Dean, né Ron e nemmeno Lavanda.
Sono solo io quella con i problemi, nessun’altro.
Come una manna del cielo, finalmente scoppio a
piangere, affondando il viso nelle mie braccia incrociate.
“Hermione?”.
Sollevo il viso dalle braccia, non so nemmeno io
quanto tempo sono rimasta così. Guardo distrattamente in alto, continua a
piovere, ma i lampioni attorno a me sono accesi. E’ sera. Forse è già notte,
chi lo sa.
Mi passo una mano sulle guance ancora bagnate,
bruciate dal sale delle lacrime. Il mascara sciolto sporca le mie dita, cerco
di pulirmele, ma mi accorgo che stringo ancora il bracciale di Dean. Come se mi
risvegliassi da un’anestesia, mi ricordo tutto, di nuovo, fa tutto di nuovo
male come una botta in testa. Mi manca il fiato. Da pazza visionaria, cerco i
segni che quella cosa sia davvero successa. Il biglietto è affondato in una
pozzanghera, ai piedi della scala, l’acqua è diventata colorata e la scrittura
è sparita. La sua grafia è
sparita. Il labbro inferiore prende a tremarmi e so che non è per il freddo,
almeno non solo per questo. Ora ricordo perché ho sempre detestato piangere,
faccio fatica a cominciare, ma quando inizio, ci prendo gusto e non la smetto
più. Tiro su con il naso, cercando di trattenermi, e volgo il viso altrove.
Ovviamente la scatola è sparita. Come potevo
pensare altrimenti? Era gonfia di soldi, io non me ne sono minimente resa conto
o preoccupata, come sempre. Come altre milioni di cose. Insomma, il solito. Una
lacrima scende ugualmente lungo il mio viso, non riesco a fermarla. Con
ostinazione, mi stringo ferocemente il labbro inferiore tra i denti, facendomi
male e tentando di fermarla con il dolore. Fermare il dolore con il dolore. Che
scema… una forza uguale ma contraria applicata in senso opposto… la fisica
dovrebbe darmi ragione, ma mi sa tanto che invece la vita è completamente
diversa. Guardo il bracciale ancora nelle mie mani, che ne farò? Lo metterò
accanto alla collana sottratta a Lavanda? Un ulteriore monito per un errore
nuovo e vecchio, che puntualmente rifarò? Come una gazza ladra, ammonticchio
oggetti luccicanti nel mio nido, salvo poi rendermi conto che sono mere
patacche da due soldi. Non valgono niente.
“Hermione?”. Allora, la voce non me le ero sognata…
sollevo il viso, incontrando due chiari ed intensi occhi verdi che mi scrutano
preoccupati.
“Seth?” mormoro, la mia voce suona rotta e roca,
nonostante abbia cercato di tenerla ferma.
Lui annuisce e mi guarda ancora preoccupato, è
fermo sulla porta che conduce al pub, riparato dalla tettoia che sta
proteggendo anche me dalla pioggia, credo ormai da diverse ore. Tiene nelle
mani un sacchetto d’immondizia, evidentemente sta uscendo fuori la spazzatura.
Ma che ore saranno?
“Tesoro, che ti è successo?” mi chiede dolcemente,
abbandonando il sacchetto e chiudendo la porta.
Mi serro nelle spalle, chiudendo repentinamente gli
occhi. In quel frangente, lui ne approfitta per sedersi vicino a me.
“Nulla…” sussurro, niente, la mia voce non ne vuole
sapere di tornare ferma.
“Ma guardati, sei completamente zuppa…” sorride
lui, prendendo tra le sue mani una ciocca dei miei capelli “Ti prenderai una
polmonite… vieni dentro…”.
“Non se ne parla nemmeno…” rispondo decisa. La mia
voce sembra leggermente più sicura, quindi mi azzardo anche a guardarlo in viso
“Dopo quello che è successo stamattina, Malfoy voglio vederlo solamente in
cartolina… o in quelle piccole fotografie che danno ai funerali…”. Il sarcasmo
sta tornando, almeno sto ritornando me stessa. Non so se sia propriamente un
bene, comunque. Accenno ad un debole ed inespressivo sorriso, devo almeno darmi
un contegno.
“Danny non c’è… è uscito con Serenity…” risponde
Seth, deve aver capito che Malfoy e Danny sono la stessa persona. L’ho chiamato
tredici volte così, vorrei vedere…
“Non hai da fare con il locale, scusa?” chiedo
ancora, sperando e al contempo quasi temendo che se ne vada.
“Non abbiamo aperto stasera…” mormora Seth
mortificato “Danny, si è arrabbiato per quello che ho fatto… e lui e Summer
hanno discusso… insomma, alla fine se ne sono andati tutti e due. E io ho
pensato bene di non aprire…”.
Sembra un bambino che riporta l’ultima discussione
dei genitori… poi, qualcosa mi colpisce delle sue parole.
“Seth, fammi capire una cosa…” inizio, mentre lui
si volge a guardarmi. Mi sfioro distrattamente le guance, constatando che non
sembrano più bagnate. Almeno esteriormente devo sembrare calma.
“Danny davvero non sapeva nulla della mia
assunzione?” chiedo, la voce inespressiva.
Lui sorride in modo imbarazzato, poi nega con il
capo, distogliendo lo sguardo da me.
Mi sento talmente apatica da non avere nemmeno la
forza di arrabbiarmi, mi limito a mormorare stancamente: “Perché l’hai fatto?
Non ti avevo forse detto che io e Danny non ci sopportiamo? Avevi bisogno della
conferma scritta?”.
“Qualcosa del genere, sì…” mi risponde, la voce
enigmatica, gli occhi ancora rivolti altrove.
“Non penso che lui non te l’avesse anche detto,
no?” chiedo ancora, ignorando il suo silenzio. La verità è che voglio parlare,
solo parlare, parlare anche di Malfoy, purché riesca a non pensare a Dean.
“Certo che me l’aveva detto…” risponde veloce “Ma,
insomma, credevo che fosse solo un’antipatia… non odio puro…”.
Sorrido, per gli altri sembra sempre così strano
che esista un odio tanto puro ed ingiustificato: “E’ sempre stato così… non è
una cosa nuova… ci siamo cordialmente odiati dal primo momento che ci siamo
visti…”.
“Perché?” chiede lui, curioso, voltandosi a
guardarmi.
Mi serro nelle spalle, rimanendomene zitta alla
ricerca della versione migliore. Opto per una versione soft: “Mi prendeva in
giro, spesso, quando eravamo a scuola… a quell’età, quelle cose fanno male. Io
avevo cose che lui non aveva e quindi non trovava modo migliore che prendersela
con me…”.
“Quali cose?!” Seth mi sembra decisamente troppo
curioso. Certo… adesso ricordo… a detta di tutti, sarebbe invaghito di Malfoy…
“Il rispetto degli insegnanti e dei compagni…
amici… cose di questo tipo…” bofonchio velocemente. Non so che altro dire di
meglio, senza nominare qualcosa che ha a che vedere con il mondo della magia.
“Perché Danny non li aveva? Amici, intendo?!” Seth
sgrana gli occhi, guardandomi. Ok, questa conversazione sta decisamente andando
nella direzione sbagliata.
“Certo che li aveva…” mormoro titubante,
giocherellando con una ciocca bagnata di capelli “Ma, insomma, non erano tutto
questo granché…”, poi rendendomi conto della figura pessima che sto facendo,
dico sbrigativa: “Non mi va di parlarne, Seth… queste sono cose che riguardano
Danny, non me… erano suoi amici… e poi potresti chiedergliele tu stesso queste
cose, visto che sei tanto curioso…”.
Lui si ritira a disagio, borbottando qualcosa.
“Ma tu invece queste cose non le hai potute
sapere…” mormoro, sorridendo ironica. Finalmente ho capito. Non che ci volesse
molto, credo che fossi solamente un po’ annebbiata. Non che ora sia lucida, il
dolore strepita come una nota stonata in sottofondo. Ma, se Seth continua a
parlare, se io continuo a parlare, se penso a quello che dice, se penso a
quello che dico, non penso ad altro. Non ne ho la possibilità. Non ho ancora il
dono dell’ubiquità mentale, posso pensare ad una sola cosa per volta. Per
fortuna.
“Che cosa?!” chiede confuso Seth. Sa perfettamente
che l’ho colto in flagrante, le sue mani tremano leggermente.
“Volevi che lavorassi qui per dirti quanto più possibile
su Danny, vero?” chiedo, saccente, schioccando la lingua e sollevando le
sopracciglia.
“Non è vero!” urla lui, alzandosi in piedi.
Sorrido: “Certo che è vero, invece… hai cambiato
idea solo perché hai scoperto che conoscevo Danny… altrimenti mi avresti messo
alla porta… dai Seth, non sono cretina! E poi figurati adesso che cosa importa!
Il tuo piano è fallito miseramente…”.
Lui cerca ancora di negare, balbettando qualcosa,
poi alla fine stringe le spalle, affondando le mani nelle tasche dei jeans e
sospira, prima di lasciarsi andare ad un pallido sorriso.
“E va bene, è la verità!” confessa, sedendosi di
nuovo accanto a me. Lo guardo, sorridendo, appoggiando la guancia sulla mia
mano, e lo scruto qualche secondo, prima di dire: “Certo che sei proprio perso
di lui, eh?”.
“Ancora con questa storia!” replica scocciato, ma
le sue orecchie sono arrossite “Quella è una fissazione di April!”.
“Sì, e dell’intera Via Lattea… ma sta tranquillo,
credo che Alpha Centauri non lo sappia… ancora…”
scoppio a ridere, come una scema. La mia risata è troppo acuta, la sento nelle
mie orecchie e mi infastidisce. Eppure non riesco a fermarmi… continuo a
ridere, finché Seth non mi urla paonazzo di smetterla. Mi fermo, sebbene ne
abbia ancora voglia, di ridere, intendo. Non per gioia, non per divertimento,
non per prendere in giro Seth, non perché la cosa è ovviamente buffa. Solo
perché così non sento le parole della lettera di Dean nella mente.
“Scusami…” sussurro più a me stessa che a Seth.
Lui mi guarda stranito per un attimo, poi volge lo
sguardo altrove e mi chiede: “Si può sapere che ti è successo? Stavi piangendo,
vero? Se è per il lavoro, mi dispiace… scusami…”.
Trasalgo e inconsciamente le mie mani stringono a
sangue il bracciale di Dean, che ho continuato a tormentare per tutta la
conversazione tra le dita. Abbasso lo sguardo, non so che dire. Tra Dean e la
doppia vita di Malfoy, non so mai che dire. Seth deve davvero pensare che io
sia un’imbecille.
“Non è per il lavoro…” pronuncio alla fine, il
labbro che trema incontrollabilmente “Figurati… e poi
sono abbondantemente abituata anche a Danny… pensa, mi dispiace anche di
avergli detto quelle cose… su suo padre… insomma, non avrei dovuto farlo…
conoscendolo, adesso vorrà vedere la mia testa su un’asta…”.
Intravedo il volto di Seth tingersi ancora di
curiosità, si vede che sta morendo per sapere qualcosa su Lucius Malfoy, ma si
trattiene. Evidentemente aspetta che io gli dica perché sono qui fuori a
quest’ora. Apprezzo lo sforzo, ma niente da fare. Quello che è successo tra me
e Dean… non voglio che lo sappia nessuno.
Mi alzo di scatto, lasciandolo con un palmo di
naso: “Adesso sarà meglio che torni a casa…”. Giro il capo verso la strada
buia, guardando la direzione che dovrò prendere. Ha smesso di piovere, per
fortuna. Credo che sarà l’ultimo colpo di fortuna della serata… magari la metro
non passerà prima di qualche ora…
“Ho capito l’antifona, tesoro…” la voce di Seth
sorride alle mie spalle “Non ne vuoi parlare… per me, va bene… in fondo, non mi
conosci affatto…”.
“Già…” rispondo distratta, non guardandolo in viso.
“Ma non se ne parla che adesso io ti faccia tornare
a casa…”.
“Cosa?” chiedo incerta, voltandomi finalmente verso
di lui.
“Resterai qui per stanotte…” risponde lui
cristallino, soppesandomi con lo sguardo vagamente divertito.
“Non se ne parla…” ribatto lapidaria “Io ce l’ho
una casa, che credi… e poi devo per caso ripeterti il discorsetto dell’odio
atavico tra me e Danny?”.
Lui poggia le mani sui fianchi e risponde: “No, no,
per favore… tu sarai mia ospite, mica di Danny. E comunque probabilmente
tornerà domani mattina… spesso quando esce con Serenity, perde la nozione del
tempo e dorme fuori…”. Ancora questa Serenity… mi trattengo dal chiedere che ne
pensi Summer, la sua ragazza. Mi rispondo che non me ne frega assolutamente
nulla della vita sentimentale di Draco Malfoy.
“E perché, di grazia, dovrei essere tua gradita
ospite?” chiedo ironica, incrociando le braccia.
Lui risponde meditabondo: “Bè, per una serie di
motivi… sei bagnata dalla testa ai piedi, è quasi mezzanotte, Londra è
pericolosa, la metro è in sciopero, non ho la macchina, Trey e Lawrence se ne
sono già andati, non ti può accompagnare nessuno a casa, non accetteresti mai
un passaggio da Danny, non lo posso nemmeno chiamare perché ha lasciato qui il
cellulare… ah già… sei sull’orlo di una crisi di pianto ogni mezzo secondo
netto, chiaramente sei a pezzi, ovviamente non vuoi rimanere da sola. Ah, e
credo che ti abbia lasciato il tuo ragazzo, ma questa è solo una
supposizione…”.
Rimango a bocca spalancata per dieci secondi buoni,
poi scrollo il capo e trovo l’assurda forza per qualcosa di più di un falso e
sterile sorriso di circostanza.
“Ci hai preso in tutto…” bisbiglio con un mezzo
sorriso, le lacrime premono sotto le palpebre, ma cerco di ignorarle
“Comprenderai perché non ho alcuna voglia di parlarne, quindi…”.
Seth annuisce con il capo, aggiungendo: “Nella
stessa identica maniera, per cui capisco che adesso è meglio che tu rimanga qui
con me…”.
La sua proposta mi tenta, alquanto. La sola idea di
tornare a casa mi terrorizza, letteralmente… guardare le pareti, il soffitto, i
mobili… cercare qualcosa che forse Dean ha dimenticato, non trovarla o, magari
no, trovarla... ricordare, rimpiangere, ripensare. Tutto assieme in una catena
infinita. Non ne ho la voglia, né tantomeno la forza. E stavolta non c’è un
aereo per Firenze, pronto a portarmi dall’altra parte del cielo, pallido
farmaco per scordarmi tutto. Non ci sono soldi, stavolta. E poi, stavolta, non
ho alcuna certezza che qualcuno mi venga a prendere come allora. Allora ero la
povera vittima, ora sono stata la peggiore dei carnefici.
Alla fine, annuisco, egoista come sono sempre
stata: “Va bene, Seth… resto qui… ma, davvero, non organizzarmi qualche scherzo
idiota per cui, alla fine, vengo chiusa in uno sgabuzzino con Danny…”.
Lui sorride, garantendomi che non ha questo in
mente.
Lo seguo all’interno, dove l’aria più calda e
paradossalmente vengo investita da una furiosa scarica di brividi freddi. La
stanza è esattamente come la mattina prima, evidentemente lo scontro tra Summer
e Malfoy deve averli scioccati un po’ tutti… ci sono persino due bicchieri
ancora appoggiati e semipieni sul bancone, chiaramente quelli che alla mattina
stavano trangugiando Corinne e Lorna. Seguo Seth su per la scala, dove ieri mi
ha trascinato Malfoy, e lo vedo aprire la stessa porta rossa che Malfoy ha
aperto. Devono vivere assieme, evidentemente… devono vivere
assieme??!!
“Seth, scusami…” chiedo, guardandolo in tralice,
mentre lui raggiunge l’interruttore della luce “Ma vivi assieme a Danny?”.
“Certo che vivo assieme a Danny, perché?” fa lui
con espressione innocente.
“Come, perché?! E allora l’antifona che non lo
volevo incontrare dove se ne è andata?!” chiedo con voce stridula. Ma possibile
che ultimamente dico A e la gente capisce B, C e D??!!!
“Certo che l’ho capita, tesoro…” mi dice con voce
estremamente scocciata, aprendo una porta alla mia sinistra “Ma, come ti ho
detto, Danny probabilmente non tornerà stanotte… e poi starai nella mia parte
dell’appartamento, no?”.
Dalla porta che ha aperto, intravedo infatti un
piccolo ambiente unico, con cucina e salottino. Entro, preceduta da lui, e noto
nell’angolo una piccola zona notte, delimitata da una specie di basso muretto.
Al lato, una porta che penso porti al bagno. È una specie di loft, arredato in
maniera sobria e curata. Spiccano il bianco e il nero dei mobili, oltre che
l’acciaio. Insomma, una di quelle case ipertecnologiche
che a Dean piacevano tanto, mentre a me piaceva il legno e i mobili antichi…
ecco, ci risiamo… stare con le persone non serve, assolutamente, se me lo
voglio ricordare, la troverò sempre la maniera per farlo. Gli occhi si
annebbiano di nuovo, distolgo lo sguardo e poi chiudo repentinamente gli occhi.
“Adesso vai a farti una bella doccia e poi ti darò
qualcosa per cambiarti…” esordisce Seth, indicandomi la porta del bagno.
Annuisco, sorridendo falsamente, e scappo via in bagno. Chiudo la porta alle
mie spalle, appoggiandomi contro di essa e scivolando lentamente per terra,
fino a sedermi sul pavimento di mattonelle rosa scuro. Le lacrime non richieste
finalmente portano ristoro mite alle mie guance, mentre con le mani nascondo il
mio viso alla vista di chissà che fantasma misterioso che potrebbe vedermi.
Odio piangere, come ho già abbondantemente premesso, ma adesso è l’unica cosa
che riesco a fare. Mi guardo attorno e quel bagno sconosciuto, quel posto che
non è casa mia, casa nostra, mi fa
ricordare ogni momento che cosa è successo, anche se cerco di dimenticarmene.
La sua vista, però, è quasi confortante, credo che se adesso vedessi casa mia con la coscienza che non sia più casa nostra, starei decisamente peggio. Mi tolgo stancamente i
vestiti di dosso, gettandoli disordinatamente all’aria. Una lieve piega
increspa le mie labbra, c’è di bello della mia me stessa sconvolta ed
addolorata che, all’istante, divento un’altra, un’altra che è anche capace di
fregarsene dell’ordine e dell’efficienza, tipiche della mia natura. Il che, a
volte, è decisamente riposante, non posso fare la parte della donna perfetta
ventiquattro ore su ventiquattro. Mi infilo sotto la doccia, aprendo
copiosamente il rubinetto dell’acqua calda, che scorre lungo il mio viso,
confondendosi alle lacrime che mi trovo ancora costretta a versare. Scivolano
assieme ad esse milioni di ricordi, adesso lontani ed evanescenti, sembra quasi
che non li abbia davvero vissuti mai come situazioni concrete e reali. Sembrano
stelle di fumo, sembra che non siano mai esistiti. Sembra quasi che non sia
stata davvero con Dean per un anno. I ricordi evaporano, come il vapore che mi
circonda e che si condensa sul vetro della doccia, e lasciano il posto
solamente a rimorsi e rimpianti. Scostandomi distrattamente i capelli bagnati
dal viso, passo la mano sul vetro davanti a me, lasciando una traccia umida nel
vapore. Incontro i miei occhi, ancora rossi e gonfi, e mi chiedo che cosa starà
facendo lui adesso, se mi sta pensando, se sta male anche solo la metà di
quanto sto io. Ed è egoista, enormemente, lo so, ma in questo preciso momento
vorrei che lui stesse male più di me, anche se so che è impossibile. Non perché
io stia talmente male da non poter vedere il mio dolore paragonato con nessun
altro, ma perché lui lo sapeva, sapeva che mi avrebbe lasciato. Il suo dolore
deriva da una sua scelta, al massimo può rimproverarsi di averla presa troppo
tardi. O magari un giorno potrà rimproverarsi di averla presa, perlomeno lo
spero. Io invece ho da rimproverarmi il motivo della sua di scelta. Un motivo
che ha le fattezze indistinte di un comportamento prolungato per mesi e mesi.
Insomma, decisamente sto peggio io di lui, può dirmi quello che vuole. Non mi
interessa.
Dovrei chiamare Ginny? Dovrei raccontarle tutto? E
perché cavolo poi?! Per farmi rimproverare anche da lei? Adesso non ho proprio
voglia di fare niente, non mi interessa nemmeno questo. So che Ginny mi
consolerebbe, magari mi farebbe sentire anche meglio, ma credo di non volere
nemmeno questo al momento. Credo decisamente che ormai non più che cosa voglio.
Forse niente. Forse tutto.
Quando ormai ho le dita aggrinzite dall’acqua
calda, mi decido ad uscire dalla doccia. Trovo un accappatoio chiaro appoggiato
alla vasca da bagno, che mi affretto ad indossare. Rabbrividendo, mi asciugo
velocemente, ci manca solamente che mi venga anche l’influenza. Davvero completerei
il quadro delle tragedie. Con il cuore spezzato ed ammalata. E disoccupata, me
ne ero dimenticata. La mia vita dovrebbe vincere un Oscar come miglior film
tragicomico.
Sospiro, trovando alla fine degli abiti che Seth
deve avermi lasciato, mentre mi facevo la doccia. Li indosso senza prestare
molta attenzione, finché mio malgrado li guardo, inorridendo. Il motivo? Si
tratta di un paio di innocenti short neri e fin qui tutto bene. Bene, mica
tanto, non mi piacciono affatto, perché mi lasciano le gambe nude e io ho delle
gambe assolutamente inguardabili, nonostante tutti dicano il contrario.
Comunque, potrebbe anche andare peggio. Dato che non devo fare la modella, ma
il capo degli Auror, e al momento nemmeno questo, chissenefrega…
ma per il resto, mi viene quasi voglia di mettermi a gridare. Una maglia da
calcio rossa. Del Manchester United. Ma si può, dico
io???!!! Fosse anche che sia la più grande st****a della faccia della terra, ma
mi merito tutto questo? NO!!!!! Già, mi ero ripromessa che, da quando ad opera
di una maglia come questa, il mio vestito preferito è diventato color zucchero
filato alla fragola, la prossima che avessi visto, sarebbe finita al rogo
assieme a tutti i componenti di quella squadra, se mi giravano. Ma adesso che
il proprietario della maglietta succitata veleggia tranquillo e sereno verso i
lidi gallici dopo avermi scaricato, potrei perlomeno vivere senza l‘assillo
dell’esistenza di queste maledette maglie?! E poi rossa, del Manchester? Ma che
è, un richiamo delle tragedie? Non capisco che razza di differenza ci sia con
un ragazzo gay, se anche loro si mettono a seguire come degli ossessi queste
dannate squadre di calcio rovina-coppie! Insomma, perlomeno i difetti dei
ragazzi non dovrebbero averli, no? ed invece io ho trovato l’unico che ce li
abbia in pieno, compresa la tendenza a non ascoltare quanto parlo e a
collezionare indumenti calcistici. Insomma l’ottavo e il nono peccato capitale
della lista di Hermione Jane Granger, assieme al lasciare i calzini per terra e
al bere il mio succo di frutta. Certo che Dean ce li aveva proprio tutti,
accidenti a lui… sospiro tra me e me, lasciando perdere alla fine il mio
delirio. Tanto anche se lo facessi presente a Seth, giustamente lui potrebbe
dirmi che sono stata io la demente a bagnarmi fino al midollo sotto la pioggia…
in caso contrario, indosserei ancora i miei di vestiti. E, a ripensarci, il mio
vestito era quello azzurro celeberrimo, regalatomi da Dean per il compleanno.
Forse è davvero meglio la maglia del Manchester United…
La indosso per la testa, assieme agli short,
rabbrividendo ancora, i capelli sono ancora bagnati e si attaccano al collo in
lunghe onde. Li friziono solo un po’ con l’asciugamano, per il resto li lascio
come sono. Esco dal bagno, tornando nella stanza principale, Seth sta guardando
la televisione al buio, seduto sul letto a gambe divaricate. Mangiucchia un po’
di patatine. Solleva il capo non appena entro, sorridendomi leggermente.
Rispondo a malapena, sedendomi accanto a lui e rubandogli un po’ di patatine. Sto
decisamente male, di solito non ne sopporto nemmeno la vista, le considero
schifezze, invece adesso ne ho la bocca piena. Fantastico; con il cuore a
pezzi, ad un passo dall’influenza, disoccupata, con i capelli a pesce palla ed
in procinto di diventare piena di brufoli e grasso. Davvero fantastico.
“La maglia non è mia, comunque…” commenta
piattamente Seth, lo sguardo fisso sulla televisione, devo avere davvero
un’espressione inorridita nell’indossarla, se ha indovinato i miei pensieri
“Odio il calcio, non lo posso guardare, è veramente patetico… a parte quando
gioca Beckham…”.
La bocca piena, rispondo: “Ecco, mi sembrava
strano… sia ringraziato il cielo… fosse per me, dovrebbero chiudere tutti gli
stadi e mandare i giocatori a scavare pietre in Cornovaglia…”, sorrido,
guardandolo: “A parte Beckham…”.
Seth sorride a sua volta, al che la domanda (e il
sospetto connesso ad essa) si affaccia alle mie labbra assieme ad una smorfia
di fastidio: “Non mi dire che la maglia è di Malfoy! Perché, davvero, ti prendo
a sassate!”.
“Nemmeno a Danny piace il calcio…” mi risponde Seth
trasognato, poi abbandona la sua espressione di poco prima di rapimento dei
sensi, manco avesse visto Dio in persona davanti agli occhi in una visione
mistica. Mi guarda curiosamente per qualche secondo, per poi chiedermi: “Ma si
può sapere perché lo chiami sempre Malfoy?!”.
Mi serro nelle spalle, sgranando gli occhi, ci
mancava anche la domanda ad effetto sulla maledetta faccenda del nome doppio di
quel malfuretto rimbalzante. Non posso certamente
dire che è un soprannome, che razza di soprannome sarebbe?! Accidenti a me che
me la scordo sempre questa situazione del cavolo! Oddio, potrei anche dire che
è il suo cognome, che Danny è solo una squallida copertura, che lui si chiama
Draco Malfoy, eccetera, eccetera. Raccontare tutta la storia, per farla breve.
Quello stamattina, in fondo, mi ha fatto subire una delle peggiori umiliazioni
della mia vita, quindi se la meriterebbe tutta… ma chi prendo in giro, anche
volendomi sfogare in questa maniera, finirei solamente per stare peggio. Già
non mi sento propriamente a posto per aver fatto quel commento su suo padre,
anche se lo meritava, figuriamoci se spiattello tutta la storia.
Mentre sto già per inventarmi un’altra scusa, ad un
tratto sentiamo il rumore di una porta che sbatte.
Seth scatta in piedi, correndo alla porta. Non mi
dire che…
“Serenity deve essere nata decisamente per rendermi
le serate un inferno!”.
Una voce, lenta e strascicata. E Seth che si
scioglie come un cioccolatino su un termosifone. Se mai avessi avuto il minimo
dubbio… evito anche di arrabbiarmi, considerato che a dire di Seth, Malfoy se
ne doveva rimanere fuori di casa. Medito per qualche secondo la fuga, ma senza
poteri è chiaramente impossibile. E poi ormai Malfoy mi ha ovviamente visto. Se
ne sta fermo sulla porta, con Seth accanto a lui che ci guarda curioso e
divertito. Sospiro, alzando gli occhi al cielo. Certo che questa giornata non
finisce proprio mai… e con questa siamo a tre visioni non richieste di Malfoy
in due giorni. Lo vedevo anche di meno ad Hogwarts, almeno lì facevo finta di
non averlo visto.
Mi basta, però, solamente una nuova occhiata a
Malfoy per accorgermi che c’è qualcosa di strano, o perlomeno di diverso.
Malfoy non deve aver inserito il programma giusto per la mia visione, o, che ne
so, non mi ha riconosciuto. Infatti, non mi guarda con il solito sguardo da
principe di tutti i serpenti e di tutti i purosangue, pronto a rinchiudermi in
un ghetto magico, gettando nel mare la chiave. Lo sguardo solito, tanto per
intenderci, quello del disgusto profondo, della repulsione naturale, dell’odio
insofferente, e bla, bla, bla. Il suo sguardo, invece, è un piglio che su di lui
stona alquanto. Imbarazzo, ecco. È rosso in viso, perlomeno per quanto lo possa
diventare lui, e i suoi occhi saettano veloci da me al resto della stanza, come
a cercare una via di fuga. Lui?! Quello
lo dovrei fare io, non lui che è a casa sua. Quindi, perlomeno nella logica
contorta della sua mente malata, avrebbe ogni motivo di cacciarmi a pedate. Lo
so che è un atto estremamente maleducato, ma questo è Malfoy, no? E io sono
sempre la
Mezzosangue Granger, no? E’ tutto come sempre, no?!!! E allora perché non lo fa, anzi sembra volersene
scappare lui da questa stanza e da questa situazione?
Il motivo mi viene rivelato tre secondi dopo.
Guardo meglio tra le sua braccia. Qualcosa spunta
fuori da un qualcos’altro di colore
verde bottiglia. All’inizio, non riesco a vederlo bene, strabuzzo gli occhi per
metterlo a fuoco. E quando vedo che cosa è, rimango a bocca spalancata.
Ha in braccio una bambina.
La guardo a lungo, senza capire. Deve avere più o
meno un anno e credo che sia la bambina più graziosa che abbia mai visto.
Minuta, dal viso rotondo e paffuto, leggermente rosso per il freddo dell’esterno,
un piccolo nasino a patata. I folti e lisci capelli biondo platino sono legati
in due piccole treccine, che scendono a colorare la piccola giacchetta di panno
verde. Ha due occhi meravigliosi, azzurro cielo, circondati da ciglia
nerissime, occhi vivaci ed allegri che scrutano a turno prima Malfoy, e poi
alla fine me. A completare il tutto, una piccola gonna di velluto bianco in
tinta con i nastri per i capelli e con le scarpe di vernice. Che carina! Dopo
la prima impressione di tenerezza, la guardo ancora meglio. Assomiglia a
Malfoy, abbastanza, vuoi vedere che è… no, non è possibile, sarebbe
semplicemente ridicolo! Non può essere la figlia di Malfoy, siamo seri! E chi
sarebbe la madre? Una poveretta, si capisce, ma a parte questo, non mi sembra
che si sia sposato, no? Harry me l’avrebbe detto… a meno che… Summer! Certo!
Gli occhi della bambina ricordano vagamente i suoi! Forse è sua figlia! Oddio,
mi sta venendo troppo da ridere… non ci riesco… Malfoy padre…
solamente a vederlo con in braccio una bambina, così carina poi… mi mordo le
labbra per non ridere… ora capisco la sua espressione di poco prima. Deve avere
esattamente previsto la mia espressione attuale. Ora più ci penso e più mi
viene da ridere, accidenti a me. Malfoy è pure un babbano, adesso… Malfoy che cambia un pannolino puzzolente, Malfoy che dà il biberon,
Malfoy che si sveglia nel cuore della notte, imprecando, Malfoy che inciampa in
un giocattolo per terra. Sto diventando amaranto, a furia di
trattenermi dalle risate.
Ad interrompere il flusso dei miei pensieri, ci
pensa proprio la bambina in questione, iniziando a piagnucolare e borbottando
qualcosa di vagamente assimilabile alle parole: “Danny! Danny! Fame!!!”. O
mamma, adesso scoppio, lo sento. Un attimo… mi metto a riflettere nel vano tentativo
di distrarre il mio cervello dalle ilari visioni che sta concependo. L’ha
chiamato Danny, non papà. O padre, che ne so se hanno ancora questa usanza
antiquata. Padre, padre, il mio stomaco sta producendo enzimi.
Denota un bisogno di ingerire sostanza nutrienti!! Devo
smetterla! Comunque, l’ha chiamato Danny. Forse non c’entra niente con lui.
“Un attimo, Serenity…” risponde Seth al posto suo,
comprendendo che non è aria.
Un secondo, Serenity? Eccolo lì il mistero! “Potty si è rimangiato la parola? O vuole togliermi
Serenity?”.“Danny non c’è… è uscito con
Serenity…”. Quella che credevo l’amante segreta di Malfoy, è
una bambina! Togliergli Serenity… Harry potrebbe togliergli Serenity… e perché?
Una cosa è certa, sicuramente non è sua figlia. Chi potrebbe mai togliere una
figlia ad un padre? Nessuno, a meno che non sia un padre snaturato, il che con
Malfoy non potrebbe essere totalmente escluso. Ma, mi duole riconoscerlo,
Serenity sembra vestita bene e sembra anche serena. Insomma, Harry non dovrebbe
aver diritto a togliere a Malfoy la sua bambina, anche se stiamo ovviamente
sempre parlando di Malfoy. Sapevo di figli sottratti ai Mangiamorte, ma Harry
mi ha garantito che Malfoy non ha più niente a che vedere con la magia nera.
Con la magia, in generale, a ripensarci. A meno che effettivamente Malfoy non
abbia alcun diritto ad avere questa bambina… forse
l’ha rapita… la cosa sta iniziando decisamente a puzzarmi…
Di fronte al nostro prolungato silenzio, Seth pensa
bene di prendere in braccio la piccola e trascinarsela dietro, chiudendosi la
porta alle spalle. Un attimo! Ma che pensa bene?!!! Seth l’ha capito sì o no
che non ho molto piacere a rimanere da sola con Malfoy?! Possibile che mi
lascia sempre con lui?!! Non dovrebbe essere geloso?!! Maledizione, e adesso
che faccio?!! Ma se io me ne tornavo a casa ad ingozzarmi di cioccolata come
tutte le donne normali che vengono lasciate dai fidanzati!!!
Malfoy sospira vistosamente, poggiando una busta
della spesa sul tavolo della cucina. Oddio, anche le buste della spesa,
adesso davvero stramazzo al suolo per le risate. Un
attimo… ma perché non dice niente? Mi va bene anche che mi insulti o che mi
cacci, ma che non dica niente… è troppo imbarazzante! Raccolgo le ginocchia al
petto, riassettandomi sul letto, non sapendo forse per una delle rare volte
della mia vita che cosa diavolo fare. Alla fine, decido di alzarmi con uno
sbuffo impaziente ed andare a raccogliere le mie cose. L’ho capita l’antifona,
me ne devo andare, non mi sta dando nemmeno la soddisfazione di una risposta.
In effetti, questa mattina, ho nominato suo padre, insomma dovrei ringraziare
di essere ancora in grado di camminare da sola. Quello che non capisco, è
perché se ne stia zitto, lui poi! Quello che è capace di andare avanti ore ed
ore ad insultarti, non è mai a corto d’argomenti in quel senso… boh, mi sono
già scocciata di questa assurda situazione, non avrei dovuto mettere più piede
qua dentro ed invece ci sono già tornata due volte. Raccolgo la mia roba,
pronta ad andarmene, ma all’improvviso i vari rumori di cose sistemate e
riassettate che provenivano dalla cucina, cessano. E, in meno di un
nanosecondo, mi trovo Malfoy davanti ai piedi.
“Che c’è?!” replico nervosa, sollevandomi, mentre
ero intenta a prendere le mie scarpe.
Lui mi guarda di nuovo con l’espressione consueta,
tinta però di una vena di rabbia che prima non c’era, soppesandomi con lo
sguardo in tutta la mia figura. Sembra soffermarsi sulla maglia rossa, spero
davvero che non sia sua. Poi i suoi grigi tornano al mio viso e le sue labbra
si arricciano in una smorfia di repulsione. Roba trita, insomma. Sollevo ancora
gli occhi al cielo, maledicendomi per l’ennesima volta, e riprendo a
raccogliere le mie scarpe. I miei sandali bianchi, però, non fanno in tempo a
staccarsi dal pavimento, che ricadono immediatamente per terra con un piccolo
tonfo di legno su marmo. Mentre sono ancora china, sollevo sorpresa i miei
occhi, Malfoy mi ha fermato per il polso, stringendomi con forza. Mi sta
facendo male, decisamente. Ma non gli darei mai la soddisfazione di farglielo
vedere. Le sue dita fredde si artigliano attorno al mio polso, impedendomi
qualsiasi movimento. L’insofferenza mi fa venire le lacrime agli occhi per la
frustrazione, non per il dolore. Non ce la faccio veramente più, l’unica cosa che
vorrei è andarmene a dormire.
“Malfoy, nel caso in cui la tua ristretta scatola
cranica non l’abbia immagazzinato come concetto, me ne sto andando…” sussurro
tagliente, sebbene la mia voce abbia tremato impercettibilmente. Spero solo che
non se ne sia accorto.
A conti fatti, Malfoy né ha visto quelle piccole
lacrime, né ha sentito quel tremolio nella voce. Sembra profondamente perso in
altre faccende ed in altri pensieri. Continua a tenermi per il polso, finché
con un strattone mi solleva violentemente dalla posizione accovacciata in cui
ero. Mi ritrovo in piedi davanti a lui, che mi trattiene ancora con il braccio
sollevato, guardandomi negli occhi. Cerco di divincolarmi, adesso, mi sta
facendo veramente male.
“Lasciami Malfoy! Ho capito, me ne sto andando!”
urlo, graffiandogli con le unghie la mano che mi stringe ancora. Ancora, è come
se non mi avesse sentito, mi guarda cieco e sordo di qualsiasi cosa, persino
della repulsione che dovrebbe avere per il prolungato contatto fisico con me. I
suoi occhi sembrano due pezzi di granito freddo, sembrano non guardarmi
davvero, sono talmente pieni di odio che mi fanno rabbrividire. Mentirei, se
dicessi che ci sono abituata. Non è vero, Malfoy mi guarda così per la prima
volta. Sento qualsiasi cosa stia pensando sulla mia pelle, mescolarsi
ghiacciata al mio respiro, opprimendo il mio petto. Liquidi e chiari come sono
sempre stati, i suoi occhi sono gli specchidi qualsiasi cosa adesso affolli la sua mente. E non è una bella cosa,
sicuramente. Mi sta facendo male, davvero, adesso, in tutti i sensi. Il polso
pulsa, bianco, credo che me lo romperà alla fine. Sento persino una ventata di
nausea colpirmi la bocca dello stomaco. Cerco di divincolarmi, di distogliere
lo sguardo da lui, ma non ci riesco. È inutile, è come se mi tenesse incollata
ai suoi occhi. Freud diceva che ci sono due istinti nell’uomo, quello alla
vita, Eros, e quello alla morte, Thanatos. Come se fossi convinta che adesso mi
ammazzerà e non facessi nulla per impedirlo, anzi ne fossi quasi attratta. Mi
ucciderà così, come niente, senza nemmeno un urlo, e io me ne andrò, senza fare
assolutamente niente. Non ci posso credere…
Quando ormai sono convinta che stia per farlo, le
sue palpebre sbattono con foga, quasi sorprese. La sua stretta sul mio polso
diventa più debole, i suoi occhi ritornano trasparenti come sempre. Mi guarda
con curiosità, poi con sorpresa, alla fine con sollievo. Alla fine, lascia il
mio polso, che debole ricade lungo il mio fianco. Lo massaggio piano, almeno
non è rotto. Solo allora mi accorgo delle mie guance bagnate, ho pianto alla
fine. Mi asciugo velocemente quella vergogna inconfessabile con le dita,
cercando di non farmi vedere da lui. Nascondo il mio viso nelle palme aperte
per qualche secondo, un tremore incontrollabile che non ne vuole sapere di
lasciare le mie membra.
In quei pochi secondi, lo sento dire: “Davvero non sapevi nulla di Serenity,
Granger…”. La sua non è una domanda, è una constatazione. Una constatazione
meravigliata, me ne rendo conto. Torno a guardarlo, è immobile davanti a me, mi
osserva con espressione indecifrabile.
“Te lo
dovevo dire in ebraico antico, Malfoy?” aggiungo, massaggiandomi ancora il
polso “Non so nulla di Serenity, né tantomeno mi interessa… “, all’improvviso
mi rendo conto di non riuscire più a stare in questa stanza davanti a lui, è
come se la mia intera anima tremasse dentro
al mio corpo. Non avevo così paura dall’ultima volta che ho visto Lord
Voldemort. Mi fa vergognare profondamente di me stessa, mi racconto che era
perché non ero preparata, ma so perfettamente che non è così. Ho avuto davvero
un terrore allucinante di lui, come mai era successo.
Malfoy distoglie lo sguardo da me, guardando
altrove, prima di dire: “Si può sapere perché sei qui allora? Di nuovo,
aggiungo…”.
“Non ti devo alcuna spiegazione, Malfoy…” rispondo,
cercando di rendere la mia voce meno tremula “Me ne sto andando e comunque è
stato Seth a chiedermi di restare…”, guardo ancora il mio polso rosso e butto
fuori maligna: “…e poi non mi venire a dire che non sei come tuo padre…”.
“Lui
t’avrebbe ucciso, Granger… io ho solamente letto i tuoi pensieri…”. La sua voce
mi colpisce come una frustata alla schiena, mentre già gli davo le spalle e
stavo per uscire. Mi fermo sulla soglia della porta, immobile, voltandomi di
nuovo a guardarlo. Il tremore è scomparso all’improvviso. Ma certo… altro che
paura e terrore reverenziale di Malfoy… la Legilimanzia,
era da tempo che non ne subivo gli effetti. Dall’addestramento da Auror, credo.
Per questo, mi ha fatto così male. Il contatto visivo, quello fisico, certo c’è
tutto… ha solamente letto i miei pensieri…
“Perché hai letto i miei pensieri?” chiedo, la voce
che trema ancora, ma non c’entrano niente gli effetti dell’incantesimo. Come
cavolo si è permesso?! A parte lo spavento, il che è una componente
trascurabile, vogliamo mettere la violazione della privacy?! Chissà che diamine
stavo pensando e che cosa è arrivato a leggere, maledizione! Forse di Dean o
della mia condanna! Non ci voglio nemmeno pensare! E tutto perché? Per vedere
se sapevo della bambina! Glielo ho detto dodici volte che non lo so! Vuoi
vedere che davvero non dovrebbe averla lui,
Serenity? E pensa che io gliela voglia portare via? E perché diamine poi? Sta
situazione mi sta facendo venire i nervi, è come stare perennemente in un
vicolo cieco, senza remissione di uscita. Insomma, uno schifo. E volta che ti
rigira la situazione, sempre qui finisco.
“Non sono affari tuoi, Granger…” mi risponde,
freddo come sempre, incrociando le braccia “Quello che non capisco è che
diamine ci fai ancora qui… devi aver maturato uno strano interesse per la mia
persona per esserti stabilita qui in pianta stabile?”, lo vedo aggrottare le
sopracciglia in espressione di finta meditazione, prima che aggiunga: “O magari
sei solo masochista… vuoi che ti ripeta ancora di andartene? O che non ti
assumo? O tutte e due le cose, guarda che lo faccio senza problemi…”.
“Non ho maturato nessun interesse per la tua fetida
persona, Malfoy… ci mancherebbe altro…” mastico a denti stretti, prima di
spiegare la mia presenza in maniera poco corrispondente al vero “Ho perso la
metro e sono rimasta fuori dal locale ad aspettare che mi venissero a prendere.
Ma non sono più potuti venire e quindi Seth ha deciso gentilmente di ospitarmi
per stasera…”.
“Sei fuori dal locale dalle undici di stamattina?!”
commenta lui ironico, evidentemente scettico.
“Perché c’è qualche problema?!” rispondo, la voce
più alta, punta sul vivo nella mia bugia “Quello che invece non è ancora
chiaro, è perché diamine a me dovrebbe importare di quella bambina… me l’hai
detto ieri e me lo ripeti oggi, arrivando anche a leggermi nella mente… hai
qualcosa da nascondere, Malfoy?”. Termino il tutto con la mia migliore
espressione allusiva ed indagatrice, ma lui non si scompone minimamente,
ribattendo con un sorrisino sardonico: “Non te la cavi più tanto bene con la
magia, eh? Sono arrivato fino al tuo subconscio e non mi hai fermato… mi ucciderà così, come niente, senza nemmeno un urlo, e io me ne andrò,
senza fare assolutamente niente…” scimmiotta, imitando una voce pseudo-femminile, riportando i miei pensieri terrorizzati
di poco prima.
Stringo i pugni: “Il giorno in cui ripeterò la
grandiosa esperienza di prenderti a schiaffi, sarà la più grande festività
riportata a memoria d’uomo…”.
“E il giorno in cui finalmente non ti
vedrò più davanti ai miei occhi, passerà una banda con settantasette maledetti
tromboni…” risponde lui a tono.
Sospiro a gran voce, prima di dichiarare risoluta:
“Dato che non siamo mai stati amici del cuore, non mi sentirò in colpa nel non
darti alcuna spiegazione… io smetterò di chiederti di Serenity e tu smetterai
di chiedermi qualsiasi cosa su qualsiasi argomento, ok?”. Tento di usare una
voce ragionevole, sebbene abbia l’enorme sospetto di star perdendo il mio
tempo. Lui fa spallucce, senza darmi la soddisfazione né di un sì, nè di un no. Meno male, almeno questa è risolta. Non ci
speravo, in fondo, ma perlomeno se si impegna, può avvicinarsi al concetto di
persona normale.
“Allora, Granger, quand’è che te ne vai?” ecco, mi
sembrava strano che se ne stesse in silenzio per più di cinque secondi netti.
“Immediatamente, devo solamente trovare la mia
borsa…”. Me ne voglio andare quanto prima da questa casa infernale. Sì, sì, lo
so che sta ancora piovendo, che sono già le undici e tutto quanto, ma se resto
un solo nanosecondo qua dentro, impazzisco. Già il fatto che Malfoy possa
leggere i miei pensieri come niente e che io non possa fare niente per
impedirlo, mi mette l’angoscia. Quando finalmente me ne sarò andata, mi
dimenticherò di tutta questa storia e addio Malfoy, Danny, Ryan o come cavolo
si chiama! Intravedo finalmente la mia borsa appesa alla maniglia della porta
d’ingresso. Con un respiro di sollievo, la afferro, pronta ad andarmene, ma
nello stesso momento la porta si apre, facendola scivolare a terra. Seth. E
Serenity. Fantastico, veramente fantastico.
Seth mi guarda, aggrottando le sopracciglia, con
Serenity in braccio che beve dal suo biberon del latte con dei biscotti. Fingo
un sorriso, sperando che non mi chieda o dica niente. Lo vedo aprire la bocca,
ecco, come volevasi dimostrare…
“Dove stai andando?” mi chiede innocentemente,
gettando un’occhiata alla mia borsa e al mio vestito bagnato, che ho in mano.
“A casa…” getto un’occhiata in tralice a Malfoy,
che se ne sta fermo a braccia conserte appoggiato allo stipite della porta del
bagno. Sospiro: “Lo sai meglio di me che qui non posso restare…”.
“Oh sì, invece che ci resterai…” aggiunge Seth con
un tono di voce quasi minaccioso, sposta Serenity da un lato e mi prende per un
polso. E dalle, ma allora è un vizio! Mi trascina dietro di sé, riluttante lo
seguo, fino a quando si ferma in cucina, mi costringe a sedermi su una sedia,
mettendomi Serenity in braccio.
“Aspetta qui, tesoro…” mi dice, mentre la piccola
mi guarda con espressione incuriosita. Seth esce dalla stanza, raggiunge Malfoy
che lo guarda praticamente nero in viso e gli fa cenno di seguirlo. Malfoy
sembra riluttante, ma alla fine lo segue. Si chiudono la porta
dell’appartamento alle spalle. Impreco a mezza voce tra me e me, riassettandomi
meglio sulla sedia, se Seth spera di convincere Malfoy, ha preso un’enorme
cantonata! Ma magari lui è convinto di convincere Danny, e forse questa come
impresa per lui è facile. Come no, quello sempre Malfoy è, anche se si chiama
Danny. Forse lo scorticherà vivo, se dirà qualcosa… e, alla fine, mi toccherà
anche salvare Seth dalle sue grinfie. Che razza di giornata! Appoggio
stancamente il gomito sul tavolo, la testa sul palmo della mano, sospirando per
la duecentesima volta in un’ora. Gli occhi mi si chiudono, mi sto addormentando
in piedi peggio di un cavallo. Che Malfoy mi faccia stare qui o no, è una
faccenda di poco conto. Basta che si muova.
Ad un tratto, un piccolo gorgheggio mi fa
trasalire. La bambina, me ne ero dimenticata! Sembra che abbia finito il suo
biberon… ha perso quindi l’occupazione che la assorbiva fino ad ora,
permettendole di ignorarmi completamente. Adesso, infatti mi guarda con gli occhioni spalancati, evidentemente cercando nella sua
esigua memoria chi mai io possa essere. Non avendo trovato alcuna faccia
corrispondente alla mia, deduce che mi dovrebbe stare alla larga, perché non mi
conosce. Ragionamento ineccepibile, è una bambina molto intelligente, avrei
fatto anch’io lo stesso alla sua età. I suoi enormi occhi azzurri si riempiono
di lacrime, mentre tira su con il naso e il labbro inferiore trema,
preannunciando la più grande crisi di pianto mai conosciuta in Inghilterra, dai
tempi di Mirtilla Malcontenta.
“No, no, piccola…” cerco di cullarla e farla calmare,
mentre getto occhiate furenti a quella maledetta porta che ancora non si apre.
La faccio dondolare tra le mie braccia, ma lei niente, continua nella sua
progressiva corsa a tappe per l’arrivo al pianto. Mi alzo in piedi, andando
avanti ed indietro e ninnandola sempre tra le mie braccia, ma la situazione non
sembra cambiare di molto. E’ inutile, io con i bambini non ci so proprio fare.
Qualche tempo fa, Kennedy, la sorella venticinquenne di Dean, ci portò a casa
sua figlia, Dawn, una bambina carinissima fino a
quando la madre rimase nelle vicinanze, ma che si trasformò in un mostro
assetato di sangue, non appena lei si fu richiusa la porta alle spalle. Quella
piccola peste distrusse completamente una mia gonna di raso azzurro,
scarabocchiandoci sopra con dei pennarelli colorati. Urlai come un’ossessa,
rimproverandola, e quella prese a piangere come una pazza, emettendo gemiti
degni degli Ippogrifi nella stagione degli amori. Alla fine, Dean se la portò
via e ne aveva ben ragione. Che cavolo, era sua nipote, mica la mia, no? Lui,
invece, è sempre stato bravo con i bambini, ho sempre pensato che sarebbe stato
un ottimo padre. Credo perché, in fondo, sia lui stesso ancora un bambino.
Basta un secondo.
Un minimo secondo.
E ci penso. Ancora.
Basta pensare alla possibilità remota di chiamare Dean per aiutarmi, e tutto torna a
galla. È un pensiero assurdo, dettato da quella forza chiamata dell’abitudine.
Appoggiarmi tanto a lui e pensarlo naturalmente… era questo, amarlo?
Inconcepibile ancora che io non sappia la risposta a questa domanda, ora che,
se lo chiamassi, non basterebbe poco per venire da me, ma il passaggio di un
mare che ci divide. Un mare che mi divide da lui.
Senza volerlo, ancora i miei occhi si eclissano e
si riempiono di lacrime. Non riesco a trattenermi, è come una droga, morire
poco a poco, sapendo perfettamente che lo si sta facendo. Come prima con
Malfoy… non era lui… non era l’effetto della Legilimanzia…
ero… io…
Non ho più forze. Non ho più voglia. Non ho più
niente.
Se cadessi giù, se finisse di provare qualsiasi
cosa, probabilmente non ne avrei coscienza.
Una piccola lacrima rotola giù dai miei occhi. Ne
sento la frescura sulle ciglia, ma si ferma sulle guance. Apro gli occhi
momentaneamente socchiusi, un piccolo palmo paffuto ne ha fermato la discesa.
La bambina. Mi guarda con espressione dispiaciuta, forse nella sua mente
infantile, crede di avermi fatto piangere lei. I suoi occhi sono ancora lucidi,
ma il pianto sembra lontano. Sorrido, almeno l’ho calmata in un maniera
alquanto contorta, cioè piangendo io. Mi sfrego bene gli occhi con la mano,
incurante dei residui del trucco che si spargono per la mia faccia.
“Non ti preoccupare, piccola… com’ha detto Malfoy
che ti chiami? Ah già, Serenity…” mormoro al suo indirizzo, sorridendo debolmente
“Hai proprio un bel nome! Scommetto che non te l’ha dato, Malfoy… figurati con
la sua enorme inventiva è arrivato al nome Danny…”. Faccio una smorfia disgustata,
ripensando sia al soggetto preso in esame, che al suo orrido nome.
Evidentemente questa diverte moltissimo Serenity, che scoppia in una grande
risata, battendo le manine. Le sorrido a mia volta, ripetendo la performance.
In fin dei conti, è l’unica cosa che sembra averla calmata. Ripeto lo show alla
divertita spettatrice per una decina di volte, fino a rischiare la slogatura
della mascella. Dato che Malfoy e Seth non ne vogliono sapere di tornare, mi
vado a sedere nuovamente sul letto, accendendo la televisione con Serenity in
braccio. Non credo che a quest’ora ci sia un programma per lei, ammesso e non
concesso che i bambini di un anno guardino la televisione. Spero di no! Quanto
più tardi, iniziano a guardare quella scatoletta infernale, tanto meglio è!
Alla fine, trovo un documentario sul Medioevo (che tanto per gradire ho già
visto) e non sapendo che fare, mi metto a spiegarlo come una povera demente
alla piccola, condendolo di principesse e fatine varie. In fin dei conti, sono
le undici passate, sta bambina deve dormire prima o poi, no? E io di fiabe non
ne conosco o perlomeno non me le ricordo. E poi, una volta, sentii che, nel
primo anno di vita, i bambini apprendono passivamente un gran numero di
informazioni, vai a vedere che faccio pure un piacere a Malfoy. La piccola
inizia a chiudere ed aprire i suoi piccoli occhi azzurri, certo che è proprio
carina. Evviva, ce la sto facendo! Sono un genio della puericultura! Mi mancava
questa alla sfilza infinita delle mie qualifiche! Magari, mi posso mettere a
fare la babysitter e diventare un gigante nel campo! Filiali sparse per tutto
il mondo con schiere di adolescenti brufolose, pronte a correre in caso
d’evenienza ventiquattro ore su ventiquattro! Ma certo, che maga! Cioè, non
maga in senso stretto… maga in senso metaforico… ma comunque maga sono! Mentre
già cerco lo slogan della mia nuova proficua attività e, nel frattempo, cerco
di ricordare il nome del nono cavaliere della Tavola Rotonda che mi sfugge, la
porta si apre di nuovo. Seth entra per primo, decisamente soddisfatto. Ha il
petto in fuori manco fosse Eisenhower il giorno dopo lo sbarco in Normandia, il
7 giugno 1944… o mio Dio, sono veramente incorreggibile… in compenso, Malfoy è
l’Hitler della situazione. Scuro in volto, le braccia conserte, lo segue
controvoglia, strascinando i piedi come un bambino capriccioso. Seth si para
tronfio di orgoglio, davanti a me, apre la bocca evidentemente per dire
qualcosa, poi si blocca, spalancando la bocca in un espressione di meraviglia
assoluta. Mi ritraggo a disagio, certo che è questo è proprio strano forte…
“Danny…”
lo chiama a denti stretti, prendendolo per una manica della camicia. Lui,
sbuffando, si accosta a Seth, poi mi guarda e anche il suo viso si tinge di
sorpresa. Ma che cavolo hanno tutti e due?!!
“Che
c’è?!!” chiedo nervosa, deve essere il rimmel sparso sulle guance, che ne so!
Ma Seth lo sa che, insomma, mi sono appena lasciata con il mio ragazzo, potrò
piangere quanto mi pare e piace???!!!
Seth
solleva un indice tremante, indicandomi, per poi dirmi sottovoce: “Serenity sta
dormendo…”.
Sto
quasi per cascare dal letto… tutto qui?!!!
“Bè sì,
a volte i bambini dormono… solo poche ore al giorno, ma a volte accade…”
commento, sollevando scettica un sopracciglio e non riuscendo ancora a capire.
Serenity si adagia meglio sul mio petto, respirando tranquillamente.
“Come
hai fatto?” mi chiede ancora Seth, poi vedendo la mia faccia confusa, si
affretta a spiegare: “Serenity vuole almeno un’ora per addormentarsi…
camomilla, conteggio delle pecore, favole… non funziona niente! E tu ci sei
riuscita in un quarto d’ora? Come hai fatto?”.
“Magari
con una magia…” la voce tagliente di Malfoy mi trafigge le orecchie. Dio,
quanto lo odio! E certo, non vuole darmi soddisfazione! Una piccola voce
esitante mi suggerisce che non sa ancora del mio essere una babbana completa,
ma la metto rapidamente a tacere. Decisamente non vuole darmi soddisfazione!!
“Non con
una magia, Danny…” sputo fuori velenosa “Le stavo solamente raccontando
una specie di storia…”.
“Certo
che devi essere veramente noiosa, Granger, per aver fatto addormentare persino
Serenity…” ride Malfoy in modo malevolo.
Simulo
una risata forzata, aggiungendo: “O mio Dio, era una battuta? Perdonami non
l’avevo capito… il tuo senso dell’umorismo è così sottile che a volte non
riesco ad afferrarlo! Deve essere tipico delle foreste dell’Amazzonia, da cui
provieni!”. Malfoy sta decisamente per lanciarmi un’AvadaKedavra all’istante. Mi guarda con gli occhi ridotti
a fessure. Forse è meglio che mi stia zitta, altrimenti è la volta buona che ci
lascio le penne.
“Adesso
basta…” intima Seth, ponendosi significantemente tra me e lui con le palme
alzate “Tregua! Siamo tutti stanchi morti… non sarebbe meglio andarsene a
dormire?”.
“A
dormire?!” chiedo con voce scioccata. Devo essermi persa qualcosa.
Seth si
gonfia di nuovo, mentre Malfoy sbuffa, incrociando le braccia al petto: “Ho
convinto Danny a farti rimanere qui per stanotte, Herm… insomma, puoi dormire
qui…”.
“Davvero?”
chiedo, autenticamente colpita all’indirizzo di Malfoy, sporgendomi con il capo
oltre Seth.
Lui
sbuffa ancora, per poi replicare scocciato: “Ad una sola condizione… che tu
apra quella tua bocca soltanto in caso di vita o di morte…”, aggiunge
borbottando: “Almeno avrò la dolcissima illusione che tu non sia qui…”, poi
illuminato mi guarda e fa: “Anzi, Granger, facciamo una bella cosa… anche
in caso di vita o di morte, sarà meglio che tu non parli… sai, per
l’inquinamento acustico e tutto il resto…”.
Un
giorno, lo ammazzerò, ne brucerò il cadavere e spargerò le ceneri nel Tamigi.
Sarà il crimine perfetto, manco Jack lo Squartatore…
“Certo, Danny…” ribatto con voce mielosa, sperando di
fargli venire un attacco di disgusto tale da farlo stramazzare al suolo
all’istante.
“Allora siamo d’accordo, Hermione…” imita
la mia voce con tono effeminato. Che schifo! Mi ha chiamata per nome! La prima
volta nella sua vita! L’ha fatto apposta, ci giurerei! Quando si tratta di
suscitare disgusto, Malfoy è un maestro! Bleah, il
mio nome sembra così strano detto con la sua voce, come se avesse detto chissà
che altra cosa. Sorrido leggermente, la sua stessa faccia denota la stranezza
della cosa. E’impallidito più del solito e ha fatto una smorfia strana. Ahaha! Vuole strafare e sbaglia! 1 a 0 per me! Seth sospira,
evidentemente deve aver capito il sottotesto della nostra conversazione. Non
che ci voglia molto, comunque… quando siamo nella stessa stanza, io e Malfoy
facciamo crepitare l’aria di elettricità statica. Un atomo di uranio si sarebbe
già spaccato in miliardi di pezzi, fornendo l’energia per illuminare a giorno
l’intero emisfero boreale; credo che, alla fine, useranno me e Malfoy per
risolvere il problema delle risorse energetiche del mondo e troveranno la
soluzione più conveniente dai tempi delle ricerche sulla fusione a freddo.
“Hai fame? Vuoi mangiare qualcosa?” mi chiede Seth
gentilmente, prendendomi Serenity dalle braccia.
“Pure?! Le dobbiamo dare anche da mangiare?!!” la voce acida di Malfoy mi
impedisce di rispondere.
Seth sospira per l’ennesima volta, evitando una
risposta, poi riprende gioviale come se niente fosse: “Se vuoi, possiamo
ordinare una pizza… sei d’accordo?”.
“Va benissimo…” sorrido a trentadue denti, un po’
perché Seth è veramente dolcissimo, un po’ perché in tal modo tolgo
automaticamente ogni potere decisionale a Malfoy. 2 a 0 per me! Hermione Jane Granger rules!
Malfoy continua a borbottare a denti stretti,
mentre Seth va a lasciare Serenity in camera sua, consegnandomi il numero di
telefono della pizzeria più vicina. Arresosi ormai alla situazione, Malfoy
pensa bene di stravaccarsi sul letto a sua volta a guardare la televisione.
Getta la sua cravatta allentata su una poltrona, fa una smorfia disgustata al
documentario che stavo guardando, agguanta il telecomando e si mette a guardare
un canale sportivo.
“Che hai da fissarmi?”.
Sobbalzo, ma che ha gli occhi anche sulla nuca?!
“Sei paranoico, per caso?” chiedo con voce incerta,
componendo il numero della pizzeria.
“Se stamattina mi avessero detto che stanotte avrei
diviso la casa con la Granger,
mi sarei suicidato… davvero…” commenta stancamente, il viso illuminato dalla
luce azzurrina della tv.
“Se vuoi, ti chiamo domattina e ti avviso del mio
arrivo… siamo sempre in tempo, Danny…” rispondo a mia volta più stanca di lui,
mentre una voce metallica mi mette in attesa. Certo che i duelli verbali con
Malfoy alle undici di sera, con lo stomaco che brontola, il sonno che mi chiude
gli occhi e il cuore a pezzi, sono veramente estenuanti.
“Non c’è bisogno che tu mi regga il gioco,
Granger…” la sua voce stavolta più leggera mi fa sobbalzare ancora, la cornetta
che trema impercettibilmente nelle mie mani. Mi volto nella sua direzione e lo
vedo rivolto verso di me, gli occhi grigi fissi sulla mia persona. Mi chiudo
nelle spalle, un brivido freddo che mi attraversa la schiena. La luce della tv
gli fa uno strano effetto addosso, sembra quasi… non lo so… insomma, non sembra
lui, decisamente. Sembra uno… normale… persino
spaurito e spaventato… o mio Dio, mi sta venendo anche da arrossire… ora, non
fraintendiamo. Ho sempre avuto gli occhi per vedere che Malfoy è decisamente un
bel ragazzo e sono abbastanza obiettiva e razionale da ammetterlo. Quindi, non
è che me ne sono accorta adesso… ma, in questo preciso momento, è la prima
volta che ne ho la completa percezione. Del fatto che sia un bel ragazzo,
intendo. Sarà la sua espressione insolita, sarà la maledetta luce della
televisione, sarà che sono fragile psicologicamente… intanto, è la prima volta
che mi rendo conto che è così biondo e che ha
gli occhi così chiari. Credo
che, se solamente volesse, potrebbe obbligare il 99,9% della popolazione
femminile ad adorarlo come una divinità. Lo 0,1%, ovviamente, sono io.
“Non ti sto reggendo nessun gioco…” ribatto
confusa, sbattendo le palpebre un paio di volte così da snebbiare un po’ il mio
cervello.
“Non fare la finta tonta, Granger… sto parlando del
mio nome… scommetto che il caro Potterino ti ha
raccontato tutto, vero?”. Certo, adesso capisco… l’ho chiamato Danny, anche se
non c’era Seth.
Sollevo il mento con espressione noncurante: “Mi ha
solamente detto della questione con Scrimeogeor…
null’altro… dell’aver cambiato identità, insomma…”.
“Questo, l’avevo capito, Granger…” ribatte quasi
annoiato “L’ho visto che non sai niente di Serenity…”, sebbene stia morendo di
curiosità su questa maledetta questione, lo faccio continuare con enorme sforzo
psicologico “… sto parlando del chiamarmi con il mio nome babbano… non ne sei
obbligata… evita di chiamarmi e basta”.
“Non mi sono sentita obbligata in nessuna maniera,
figurati se t’avrei dato questa soddisfazione…” ribatto ancora, distogliendo lo
sguardo. Non so perché, ma mi sta mettendo a disagio, decisamente. Quella sua
maledetta espressione… non può cambiarla, accidenti a lui?!! E’ come se mi
passasse attraverso, guardandomi, sfiorandomi la pelle con i suoi occhi. Che
stia di nuovo usando la Legilimanzia? No, non c’è contatto né
fisico, né visivo. E allora per quale ragione?
“Sei pur sempre sotto un programma di protezione…
non potrei infrangere nessuna di quelle regole, anche se si tratta di te…” mi
giustifico davanti a me stessa e a lui. Lo vedo con la coda dell’occhio aggrottare
leggermente le sopracciglia sottili in espressione di meditazione, i gomiti
appoggiati sulle ginocchia e il mento sulle mani incrociate. Mi sembra persino
di intravedere un piccolo sorriso curvargli le labbra, ma forse mi sono
sbagliata.
“I segreti dei Grifondoro non saranno mai quelli
dei Serpeverde, eh Granger?” la sua voce suona ironica e quasi malinconicamente
divertita. Sembra così strana che mi volto a guardarlo, cercando di indovinarne
l’espressione. Non riesco a scorgerla, lo vedo solo alzarsi dal letto e
stiracchiarsi. Che cosa voleva dire? Lo guardo confusa, mentre lui invece
inizia a camminare verso la porta. Impercettibilmente, indietreggio di un
passo.
“Sei qui solamente per Seth…” aggiunge ad un passo
dalla porta, senza più guardarmi “Domani, te ne andrai e ognuno se ne andrà per
i fatti suoi… non voglio la tua disgustosa attenzione per le regole,
Granger… se ti viene di chiamarmi con il mio vero nome, fa quello che vuoi…
alla fine, non ci sarà nessun ringraziamento per te, comunque mi chiamerai…
quindi…”, torna incolore e piatto, mentre dice: “Vado a farmi una doccia… per
me, panna e speck…”, vedendomi spalancare gli occhi ancora di più, aggiunge
sospirando: “La pizza, Granger…
dannazione, mi ero dimenticato com’era parlare con te…”.
La porta si chiude alle sue spalle.
Scopro la vergogna di un sospiro di sollievo, che
però non sembra fermare il battito folle del mio cuore contro le mie costole.
Mi accascio contro la credenza, gli occhi chiusi e la testa reclinata
all’indietro.
Evidentemente anch’io mi ero
dimenticata com’era parlare con te.
Perché stavolta, è tutta un’altra
cosa. È una cosa completamente diversa.
Perché è lui, stavolta, ad essere
completamente diverso.
Che è successo davvero a Draco
Malfoy?
I segreti dei Grifondoro non saranno
mai quelli dei Serpeverde, eh Granger?
Chissà come cavolo farò a pagare l’affitto della
casa, adesso che non c’è più Dean… 450 sterline non sono poche, assolutamente,
inoltre credo che la signora Sanchez mi ammezzerà la prossima volta che mi vede
senza soldi. Forse, dovrei trovarmi un appartamento più conveniente. Se Ginny
ed Harry non si sposassero, potrei andare a vivere da lei e sarebbe la
soluzione migliore.
Non c’è bisogno che tu mi regga il
gioco, Granger…
Anche se Ginny finiva sempre tutta l’acqua calda e
lo shampoo prima di me, non era certamente una grande compagna di stanza, anzi…
si lavava i capelli tre volte al giorno, come è possibile? O comunque tre volte
alla settimana, sicuramente…
Lui t’avrebbe ucciso, Granger… io ho
solamente letto i tuoi pensieri…
E, adesso che ci penso, che mi metto al matrimonio
di Harry e Ginny? Me ne ero scordata! Si sposano tra un mese e io sono anche la
testimone di Ginny! Ma si può? Non mi posso mica mettere il tailleur bianco, è
diventato corto di maniche. Il vestito rosso, manco a pagare… lo avevo anche al
matrimonio di Hannah Abbott, figuriamoci se l’hanno
dimenticato quelle pettegole.
Mi rigiro nuovamente nel letto, un pallido raggio
di luna che mi trafigge il viso con la potenza di un raggio solare. Mi volto
nervosa dall’altra parte, per finire abbagliata dalla luminescenza della lava-lamp sul comodino. Nascondo la testa sotto il cuscino
e, se le luci smettono di tormentarmi, le parole no. Va bene, va bene, lo
ammetto! Sto continuamente a pensare alle parole di Malfoy, da ore ormai, ossia
da quando mi sono messa a letto. Ho cercato di distrarmi, ma niente! Siete
contenti adesso? Che poi, se dobbiamo essere precisi, la colpa è tutta di
questo letto. Oltre a non essere mio, credo che non sia nemmeno ortopedico.
Quindi, è ovvio che, se uno non riesce a dormire, ripensa alle cose più
sgradevoli, successe durante la giornata. E cosa c’è di più sgradevole nella
mia mente dell’immagine di Draco Lucius Malfoy?
Mi sporgo lentamente oltre il lenzuolo che mi
copre, Seth dorme placidamente sul divano, la bocca semiaperta. L’ho preso in
giro per tre ore per il suo pigiama azzurro con degli smiles
rossi. Malfoy, per mia fortuna, dorme nella sua parte di appartamento assieme a
Serenity, e quindi molto lontano da me.
Vabbè, molto lontano, una decina di metri, l’ideale sarebbe una quindicina di
anni luce, ma non si può avere tutto dalla vita. L’ho imparato a mie spese. E
ora sono qui a dimenarmi come una anguilla, mentre l’orologio di chissà che
posto batte le tre. Sono andata a letto ben due ore fa, quindi… due ore di
sonno perse. E devo anche alzarmi presto, Malfoy ha gentilmente sottolineato
che quanto prima me ne vado, meglio è. Non che non l’avessi capito… anche
perché anch’io vorrei andarmene di qui il prima possibile, giusto per
dimenticarmi tutto quello che è successo in questa assurda serata. Allora, ho
partecipato alla cena più paradossale della mia vita; seduta ad un tavolo
assieme ad un ragazzo che ho conosciuto solamente ieri, ma che mi tratta già
come se fossi la migliore delle sue amiche, e con un altro, che invece conosco
da anni, ma che odio in senso sviscerale. Ho mangiucchiato in silenzio la mia
pizza, mentre Seth parlava senza nemmeno prendere fiato. Sono arrivata persino
a sapere il nome da nubile di sua madre e a quanti anni ha imparato a fare pipì
nel vasino. Tutto questo con me e Malfoy completamente in silenzio, da
premettersi… mi sono sentita così in imbarazzo, già stavo nella stessa stanza
con uno che vorrebbe vedere la mia testa su un palo, ma avevo anche indosso una
ridicola maglia da calcio e mi ero persino presa da vera idiota una pizza ai
quattro formaggi, che definirla filante era un pallido eufemismo. Filante! Era
una cosa assurda, milioni di piccoli filamenti di mozzarella si formavano tra
la fetta di pizza e le mie labbra, costringendo le mie dita ad ardite manovre
di accompagnamento. Che nervoso! Anche perché poi, non è che Malfoy mi
prendesse in giro come sempre, no! Conoscendo per sua viva bocca quello che
pensava, avrei potuto difendermi come sempre, invece quello se ne stava in
silenzio, così potevo solamente immaginare i suoi pensieri. Mi innervosiva
davvero molto, ma non nella maniera di prima, cioè in quella di tutti questi
anni. No, era qualcosa di diverso. Mi innervosiva perché era come se la sua
presenza mi alitasse sul collo, come se mi sforzassi con tutte le forze di
ignorarla e non ci riuscissi. Ci ero sempre riuscita, vivevo tranquilla ad
Hogwarts, fregandomene beatamente di lui. Ora non ci riuscivo più. Perché? Mi
ritrovavo a guardarlo di sottecchi, cercando di indovinare a che cosa stesse
pensando, sebbene fosse abbastanza intuibile che doveva essere qualcosa di
decisamente sgradevole ed offensivo. Mi sembrava assurdo che mi concedesse di
rimanere nella sua stessa stanza, che lo tollerasse e lo accettasse. Insomma,
per tutta la cena, mi ero interrogata come una perfetta idiota sul fatto che
Malfoy non solo aveva cambiato nome, sembrava essere cambiato in tutto il
resto. Alla fine, mi ero risposta che era ovvio tutto ciò, proprio per la
stessa ragione del cambiamento di nome. Quello che avevo davanti agli occhi non era Malfoy, era Danny Ryan, il
comunissimo gestore di locale che aveva molto di Malfoy, ma non tutto. Doveva
perlomeno fingere di essere un po’ più gentile,
altrimenti Seth lo avrebbe preso per pazzo, conoscendo solo Danny. La nostra
cena era stata interrotta dal risveglio brusco di Serenity, che aveva
cominciato a piangere dalla stanza accanto. Malfoy si era alzato senza una
parola, gettandomi un’occhiata alla tipo “Azzardati a ridere e
ti ammazzo…” ed era andato a prendere Serenity. Tornato a
tavola (mentre Seth parlava ancora!), si era seduto con la piccola in braccio,
fino a farla riaddormentare. Incredibile? No! IMPOSSIBILE!!!! Ecco la
definizione giusta! Quello non poteva essere Malfoy, no! Uno che faceva una
cosa del genere (far addormentare una bambina di un anno e mezzo,
ricordiamolo!) con tanta tranquillità e… dolcezza,
persino. Mi ero incantata a guardarlo come un merluzzo. Mi sembrava così
incredibile… Malfoy si era limitato, quando se ne era accorto, a sillabarmi tra
le labbra che, se non l’avessi fatta finita, mi avrebbe gettato per la strada.
Ma era davvero ipnotica quella visione, insomma… chi mai ci avrebbe creduto?
Nessuno, ve lo dico io. Avrei detto più facilmente che Neville sarebbe
diventato il più grande atleta del mondo e contemporaneamente il più grande pozionista mai esistito, invece che una cosa del genere.
Malfoy parlava sottovoce a Serenity, non so nemmeno io che cosa le dicesse, ma
alla fine la piccola si era addormentata, un’espressione serafica sul volto;
non riuscivo a distinguere nemmeno la più piccola parola di quello che Malfoy
le aveva detto, la sua voce era così tenue e tranquilla che avevo avuto persino
l’impressione che la stesse incantando in qualche maniera. Ma, anche se non mi
permetto (mio malgrado!) di confrontarmi con l’enorme conoscenza della magia
della famiglia di Malfoy, se si fosse trattato di una cosa del genere, me ne
sarei sicuramente accorta. E, aggiungo, me ne sarei anche tranquillizzata;
invece no, il fatto che abbia trattato una bambina in quella maniera, è
decisamente qualcosa che mi terrorizza. Nemmeno io so dirne il motivo, ma
questo mi inquieta molto, come una specie di rivoluzione copernicana, aver
messo sempre le cose in una determinata prospettiva e scoprire che era sempre
stato tutto sbagliato. E se fosse così anche per Malfoy? Non ci voglio nemmeno
pensare. Decisamente, se fossi vissuta nel ‘600 con quella sovversiva scoperta,
come minimo mi sarei suicidata. Una cosa per impedirmi ancora di più di
tranquillizzarmi, era arrivata dopo. Quando Malfoy aveva preso Serenity per
tornarsene nel suo appartamento ed io ero rimasta sola con Seth, prima che lui
iniziasse nuovamente con i suoi discorsi assurdi, avevo chiesto chi fosse
Serenity. E lui mi aveva candidamente risposto che era la sorellina di Danny. La sorellina??!! Mi ero urlata nel cervello, sapendo che era
una bugia grande come una casa. Serenity era troppo piccola per essere sua
sorella! Poteva avere massimo diciotto mesi e i genitori di Malfoy erano belli
che morti da anni! Avevo pensato ad una sorella adottiva, ma anche in quel caso
la storia non reggeva. Per prima cosa, i Malfoy non avrebbero mai adottato una
di un’altra famiglia, e per quale motivo, poi? Avevano già un figlio e, nella
loro folle e sconsiderata opinione, era anche perfetto. Aveva sì dato le spalle
al lato oscuro, ma ciò era successo dopo la morte dei Malfoy. E comunque
ritornava sempre il fatto che Serenity era troppo piccola per aver conosciuto in
qualsivoglia maniera Narcissa Black e Lucius Malfoy.
E allora chi era veramente? Assomigliava a Malfoy, ma vagamente, nemmeno
tantissimo. Forse la sola cosa che gli accomunava davvero, erano i capelli
biondi, ma non era mica una prova della loro parentela. I loro tratti somatici
non erano molto simili; i lineamenti di Malfoy erano molto più spigolosi e non
era dovuto al fatto che fosse un ragazzo. Anche Narcissa
era così, aveva un viso affilato ed aspro per quello che riesco a ricordare.
Serenity, invece, aveva un visino rotondo e paffuto; mi ricordava qualcosa o
qualcuno, a cui però non sapevo dare un nome. Comunque, per come era la cosa,
Serenity non poteva essere assolutamente la sorella di Malfoy. E nemmeno la
sorella di Danny Ryan, nel caso potesse sussistere la minima differenza. Se
fosse accaduto qualcosa di particolare inerente alla nascita di Serenity, non
so, un’adozione, un affidamento o altre circostanze speciali, che comunque
rientrasse nella vita di Danny, Seth me l’avrebbe detto. No, Seth aveva detto
in maniera chiara e semplice che Serenity era la sorella naturale di Danny. E
Danny non aveva genitori reali, perché lui stesso non era una persona vera, ma
solo uno schermo all’identità di Malfoy. No, doveva essere qualcosa accaduto
nel nostro mondo, quello della magia. L’accenno alla conoscenza di Harry della
situazione, mi faceva capire che il suo avere Serenity non era qualcosa di
ovvio ed automatico. Doveva aver lottato per
averla, tanto da avere paura che Harry potesse togliergliela. Serenity non era
sua sorella, ma lui voleva averla con sé. Perché? Ed allora dov’erano i suoi
genitori veri?
Mi stropiccio gli occhi con forza, ho veramente
sonno e non riesco ad addormentarmi. Ho troppe domande nella testa.
Per fortuna, domani finirà tutto. In fondo, se
Harry lo sa… e poi la tratta bene… le vuole bene…
Mi addormento lentamente, scivolando in un sonno
confuso e pieno di sogni disordinati con quelle tre parole che mi frullano
nella mente. Tre parole strane e inconsuete per me, che si vanno ad incastrare
nella visione nuova di Draco Lucius Malfoy, diventato Danny Ryan. A quanto
pare, Danny Ryan sa anche voler sinceramente bene a qualcuno, a differenza di
Draco Malfoy. Ed è allora che un’altra domanda fastidiosa mi tiene la mente
ancora occupata, impedendole di cadere nell’incoscienza più completa.
Ma a me, in fondo, chi me l’ha mai
detto che Malfoy non ha voluto bene a nessuno?
Un Capitolo enorme, spero vi faccia piacere!
Non lo volevo spezzare perché concettualmente è legato, quindi l’ho lasciato
unito…spero che non crei problemi… prima di tutto come sempre ringrazio coloro
che recensiscono, le mie fedelissime!! Grazie, grazie, è davvero importante per
me…sono contentissima di aver ritrovato lunachan 62!!:D…
ed ovviamente anche nuovi lettori! Ha riscosso successo Summer, eh? Vi posso
assicurare che è un personaggio assolutamente NON inventato…meglio non
ripensarci!! In questo chappy brutte notizie per
Herm, povera!! Ma le cose andranno meglio in futuro, eheheheeh!!!
Allora a presto, sperando che lo studio mi lasci tempo!! Un bacio, Cassie!!
Stavolta i ringraziamenti e le risposte varie le metto all’inizio così
non passano inosservate
Stavolta i ringraziamenti
e le risposte varie le metto all’inizio così non passano inosservate!! Allora prima di tutto ringrazio le persone che hanno
recensito questa storia, e cioè Lights, Nefene, cy17_love e Francy_hurt_16… per una persona come
me, che vorrebbe in un ipotetico futuro, perlomeno tentare di diventare una
scrittrice, le recensioni sono molto importanti… e non perché sia affamata di
lodi e riconoscimenti, ma perché voglio sapere che c’è che piace nella mia
storia e cosa no, per potermi migliorare ogni giorno; accetto quindi
serenamente critiche e osservazioni. Perché queste storie per me sono un modo
per esercitarmi a quando davvero scriverò qualcosa di solo mio.
Questa premessa è per un’inevitabile
osservazione fatta visitando il mio account… questa storia ha 22 recensioni, ma ben 23persone che la mettono
nei loro preferiti, e 14che
la seguono… inevitabilmente molti l’hanno solo letta e non commentata, e questa
è una cosa che non mi è mai successa con le mie altre storie, in cui perlomeno le
recensioni erano sempre di più dei preferiti, a testimonianza che solo alcune persone,
nonostante mi avessero lasciato un commento, considerassero questa o quella
storia una delle migliori che avevano letto. Ora dove va a parare questo
discorso? Al fatto che mi piacerebbe ricevere anche da queste persone un
minuscolo commento che mi spiegasse perché questa storia è tra le vostre
preferite… a me serve tanto saperlo, e ripeto non voglio complimenti falsi o
lodi… voglio solo che mi dite che ne pensate, visto
che per me è così importante.
Ovviamente io non posso
obbligare nessuno.
E non posso basarmi su
questo. Era solo un appunto.
Ed è anche l’ultima volta
che dico una cosa del genere.
Continuerò a scrivere
questa storia e a ringraziare sia chi la legge solamente che chi, con mia
grande gioia, la recensisce.
Ma non dirlo, se lo
pensavo, non sarebbe stato da me…
Quindi ora vi lascio al
capitolo 7 di questa storia che ha sempre un nome da fiaba…
Stavolta “Foresta
Incantata”…
Grazie a tutti per l’attenzione!!
Cassie…
Capitolo 7 – Enchantedwood
Sobbalzo nel sonno, rizzandomi immediatamente a
sedere, mentre il letto trema dalle sue fondamenta. Un terremoto! O mio Dio!
Casa mia è costruita sull’argilla, devo andare a mettermi sotto l’arco di una
porta! O era nei pressi di un muro portante? O mio Dio, o mio Dio, non me lo
ricordo! Un attimo, non sono a casa mia, ma a casa di Malfoy! Vai a vedere che
quello vive in una trappola sismica!!! Mi stropiccio
velocemente gli occhi, cercando di tornare lucida dalla fase comatosa di sonno
leggero in cui ero, e mi preparo a saltare fuori dal letto come una saetta
impazzita. Poi, in quattro secondi netti, realizzo che
non c’è nessun terremoto.
“Seth, ma perché diamine stai saltando sul mio
letto?!!!” urlo arrabbiata al suo indirizzo.
D’accordo, tecnicamente il letto è suo, ma quella che ci
sta (anzi stava!) dormendo dentro, sono io!!!
Seth smette all’istante di saltellare da seduto sul
materasso, dicendomi con aria infastidita: “Tu non ti svegliavi!”. Sembra un
bambino di 5 anni, la mattina di Natale… è abbastanza inquietante come cosa,
considerando che sarà alto 1m e 85…
“La prossima volta, mettimi un
bomba H sotto il letto… magari farai anche meno danno…” commento scocciata,
proprio come una mamma annoiata e che voleva solamente continuare a dormire. Mi
liscio con le mani i capelli che hanno preso la tangenziale per la sciatteria,
lo avverto passandoci le dita attraverso, sono ispidi ed elettrici come quando
ero ad Hogwarts, ed avevo una specie di pagliaio in testa; come facevo ad
andarmene in giro così, proprio non lo so... guardo distrattamente la finestra,
ancora avvolta dalle mie memorie infantili. Solo allora mi rendo conto che le
tende bianche sono piene di luce e che dalla finestra aperta mi giunge anche il
frastuono del traffico e della gente che cammina per strada. Un attimo,
d’accordo la City
e tutto il resto, il traffico a qualsiasi ora del giorno, ma… che cavolo di ore
sono??
“Che ore sono, Seth?”.
“Le dieci e mezzo…” mi risponde lui disinvolto,
come se mi avesse detto semplicemente che anche stamattina il sole è sorto e
che anche il cielo è rimasto azzurro, come il giorno prima.
“Come, le dieci e mezzo??!!”
sbraito interdetta, non appena metabolizzo effettivamente l’orario. Mi alzo dal letto e inizio furiosamente a raccogliere la mia roba,
cercando al contempo di vestirmi alla bell’e meglio: “Malf,
cioè… Danny aveva detto che dovevo andarmene alle sei! Ora capisco
perché mi hai svegliata! Se mi trova qui, mi squarta, anche se conoscendolo,
sicuramente già mi avrebbe ucciso… forse, liberando qualche mostro da qualche
camera segreta… un bel Basilisco, che so… cioè, insomma, un mostro con un nome
strano… chissà come mi è venuto questo basi-qualche cosa… ma forse Danny non si
è ancora svegliato, eh Seth?! Faccio ancora in tempo
ad andarmene! La prossima volta, hai la piena autorizzazione ad usare anche le
armi batteriologiche! Dovrebbero essere illegali e tutto il resto, ma forse
qualche fornitore iracheno te le fa pagare poco… o iraniano, o siriano, o
quello che è… Bin Laden di che paese è?!”.
“Hermione! Ma che cavolo stai dicendo??!! Stoppati!!”. Seth urla,
esasperato, slanciandosi su di me e mettendomi una mano sulla bocca. Blocca
così il mio fiume di parole, ma anche la mia operazione di vestizione: il mio
vestito azzurro, peraltro spiegazzato dalla sera prima, mi rimane infilato solo
per la testa, circondando il collo come una specie di buffa collana. Sembro
Luna Lovegood il giorno di Halloween, cosa alquanto
terrorizzante. Seth rimane con la mano premuta sulle mie
labbra, mentre prosegue con voce calma: “Adesso rilassati e soprattutto
RESPIRA!… Danny sa perfettamente che sei ancora qui, quindi non c’è di che
preoccuparti… allora, non hai fame? Vuoi fare
colazione?”.
“… omeolaione…?”.
“Eh? Che hai detto?”.
Roteo gli occhi con aria ovvia, facendo ampiamente
intendere che sia il più grande merluzzo della storia, e lui finalmente si
decide a farmi recuperare le mie (peraltro, ineccepibili) doti dialettiche,
staccando la sua mano dalla mia bocca.
“Ho detto, come colazione??!!”
ripeto con le mani poggiate sui fianchi “Guarda che ieri sera ho rischiato la
vita anche più di quanto non abbia fatto con Voldem,
cioè…” balbetto, accidenti a me e alla mia bocca larga! Ma ancora non ho capito
come funzionano queste conversazioni?! Non sono più la
babbana perfetta di prima, ahimè!
“Insomma, non pensare che io possa scendere tutta
tranquilla e fare colazione con Danny… ieri sera è stato solamente un caso…” mi
riprendo in calcio d’angolo. O Dio, adesso penso anche in termini calcistici.
Che schifo, che schifo, che schifo!!! Ormai sto
definitivamente partendo per la follia!
“Il caso, a quanto pare, si ripeterà spesso…”
risponde Seth con espressione gongolante.
Distratta, chiedo: “Che vuoi dire?”.
Lui, tronfio di sé, gonfia il
petto e dice: “Per merito mio, Danny ha deciso di assumerti. Sei la nuova cameriera… non è stato facile, ma, senza falsa
modestia, ho un grande ascendente su Danny molto più di Summer, checché ne dica
lei…”.
Prima che riprenda con le sue ciarle prolisse,
riesco a balbettare, pallida come un fantasma: “C-che
c-cosa h-hai detto?”.
Lui mi guarda con espressione
confusa e ripete, stavolta più calmo: “Danny ha deciso di assumerti, Herm. A quanto pare, non ti odia così tanto…”.
“Sì che mi odia, invece!” inveisco testarda “Non
capisci? Deve essere una trappola! Chissà che cosa vuole da me!!!”.
“Ma dai!!Ma sei veramente paranoica!” brontola Seth, dandomi una piccola
spallata “Forse sei tu che lo odi ancora, ma per Danny deve essere una cosa
superata… è così nobile di cuore!”.
“Sì, nobile di cuore come un’anaconda… ti stritolano, ma almeno non ti fanno agonizzare sotto l’effetto di un
veleno… sì, nobile e misericordioso come un’anaconda…”
dico, soddisfatta del mio calzante paragone e del fatto che l’espressione
cuoriforme di Seth si è dissolta all’istante.
“Pensala come ti pare… ma, intanto, Danny ti ha assunta…”
ribatte lui, meno fiero di sé, ma convinto comunque che con l’ultima battuta,
l’abbia avuta vinta. In effetti, la situazione gli darebbe ragione… ma non ha
mai avuto a che fare con Hermione Jane Granger! E nemmeno con Draco Lucius
Malfoy, dicendola tutta. Insomma, io solamente so che
cosa posso aspettarmi da quel sadico. Tutti sono indifesi contro di lui, tranne
me! E’ una missione vera e propria la mia, salvare il mondo da Malfoy e dalle
sue trovate! Vabbé, non proprio salvare il mondo, ma
insomma almeno l’Inghilterra… sicuramente i membri di questo pub! Devo
assolutamente smascherare la sua trovata di infimo livello strategico… infimo
sì, perché scommetto che smascherarlo sarà di una facilità impressionante. Non
sto sempre parlando del furetto rimbalzante?! E io,
con lui, l’ho sempre avuta vinta… in un modo alquanto contorto e poco evidente,
ma sono sicurissima di questo! Ci manca anche
scoprire che Malfoy, una sola e singola volta, mi abbia battuto in qualcosa…
nella guerra, è anche passato dalla nostra parte, dalla mia parte! Ho vinto anche allora, no?!!
Io, da quella parte, ci sono sempre stata.
Mi calmo, respirando profondamente, per poi
chiedere, ostentando indifferenza: “Mi spieghi come sarebbe andata la cosa?”.
Seth abbandona la sua espressione delusa di poco
prima, causata dalla mia mancanza assoluta di gratitudine per lui, e sorride a
trentadue denti. Credo che, se potesse, inizierebbe di nuovo a saltellare. Mi
viene da sorridere, ma mi trattengo. Devo essere lucida per cogliere ogni
particolare, solo così potrò incastrare Malfoy e il suo piano da quattro soldi.
Anzi, da due soldi! Quattro sono troppi!
“Ieri sera… ricordi quando siamo usciti?” inizia
Seth, sedendosi sul letto.
Lo imito ed annuisco.
“Gli ho chiesto di farti restare per la notte… come
puoi immaginare, non era assolutamente d’accordo. Gli ho chiesto se era perché
non ti sopportava, e lui mi ha risposto che non erano fatti miei… insomma, come
sempre. Al che, gli detto che era un problema suo, se
non si sapeva trattenere in tua presenza… gli ho detto che era una cosa molto
infantile, che comunque ormai i tempi della scuola erano belli che passati, e
che, in ogni caso, tu eri mia ospite… quindi, con o senza il suo consenso,
saresti rimasta… era solo educazione il mio chiedergli se gli andasse bene…”.
“Bravo Seth!” commento, sinceramente colpita. Ci vuole fegato per parlare così a Malfoy,
indossasse anche le vesti del più mite Danny Ryan.
“Lo so, lo so…” riprende lui orgoglioso “A quel
punto, stavo tornando dentro, ma lui mi ha richiamato indietro. Mi ha chiesto
se sapevo perché eri rimasta lì fuori dal locale per tutta la mattinata…”.
“E a lui che gliene importa?!”
sbotto “Non dirmi che gli hai detto tutto!”.
“Certo che no, tesoro…” mi rassicura lui,
poggiandomi fraternamente una mano sul ginocchio “Anche perché formalmente io
no dovrei nemmeno sapere che ti sei lasciata con il tuo ragazzo… non me l’hai
mica detto, no?”, mi strizza l’occhio e io, mio malgrado, mi
ritrovo a sorridere, mentre lui continua:“Quindi mi ha chiesto se era vero che
cercassi un lavoro… e gli ho risposto di sì. Gli ho ribadito che prendere te
sarebbe stata la scelta migliore, visto che ti conosceva. So che, odiandovi
così tanto, la questione poteva diventare controproducente, ma alla fine si
tratta solo di lavoro… e la tua situazione, da quello che mi è sembrato di
intuire, non è tanto rosea da permetterti di buttare all’aria un’occasione del
genere… insomma, ce l’avresti messa tutta, questo gli ho detto. Inoltre, ma questa è solamente una mia impressione, sembri una
ragazza scrupolosa ed attenta, forse un po’ troppo nervosa, ma comunque credo
che faresti un ottimo lavoro…”.
“E lui, Danny intendo, che cosa ha detto?” chiedo
con un filo di voce. So perfettamente come è finita questa conversazione,
Malfoy ha detto di sì, ma non voglio perdermi alcuna piccola sfumatura. Come se
fosse talmente incredibile da non sembrare vero… un autentico miracolo capita
una volta ogni mille anni, quindi chi se lo perderebbe?!
“Mi ha detto che ci avrebbe pensato e mi avrebbe
risposto stamattina…” mi risponde Seth “… e mi ha pregato, intanto, di non
dirti niente fin quando non avesse deciso che cosa fare… poi, stamani, appena
mi sono alzato, mi ha detto che andava bene…”.
“Solo questo? Che
andava… bene?!” chiedo un po’ perplessa. Non è solo
perplessità, me ne rendo conto io stessa mentre sto parlando. E’ anche altro… delusione quasi, anche se sembra incredibile. Sono delusa
che Malfoy non abbia detto altro, che semmai non abbia assentito sul fatto che
io sia scrupolosa ed attenta, per esempio. O che per lui sia una cosa normale,
scontata ed ovvia, come invece non è per me. Sono delusa sì, delusa di sembrare
solamente io quella attaccata al passato, mentre a lui basta dire un: “Va
bene…”. Forse sono più delusa da me stessa che da lui. Delusa dal mio
continuare a cercare una trappola, un qualcosa che non va. E se davvero fosse
tutto a posto? Un brivido di freddo mi attraversa la schiena. No, semplicemente
non può essere così facile. Né per me, né tantomeno per lui.
“Che altro avrebbe dovuto dire, scusa?!” risponde Seth, un po’ stizzito. Comprendo che alla fine
ha perfettamente ragione, perlomeno dal suo punto di vista: “Non ti puoi mica
aspettare i tappeti rossi e i petali di rosa per aria, no?”.
“Certo che no, lo so perfettamente… ma la situazione
non mi quadra…” medito tra me e me, più che con Seth.
“Ti quadri o no, hai bisogno di questo lavoro…” mi
dice sinceramente lui, appoggiando la schiena alla spalliera del letto e
sedendosi a gambe incrociate “Come ti ho detto, sarebbe solamente lavoro… non
devi essere amica di Danny, né fartelo piacere per forza. E
poi ci sarei sempre io, April e gli altri… togli Corinne e Lorna, sono tutti a
posto… ti troveresti bene…”.
Resto in silenzio, mordicchiandomi l’unghia del
pollice e cercando di schiarirmi per quanto possibile la mente. Non può essere
vero… insomma, andiamo! quello arriverebbe ad assumere
un troll piuttosto che me! No, no… deve essere una trappola… chissà che cosa ha
in mente… schiavizzarmi, vendermi come bottino di guerra alla Lega dei Purosangue
sopravvissuti… e chi lo sa! E’ una mente così perversa e deviata! Forse quelli
della sua risma vogliono utilizzarci al posto degli Elfi domestici! Sì, e viene
a rompere proprio a me! E comunque, mi dimentico sempre, per quanto sia
assurdo, che Malfoy è un babbano, adesso. E i
babbani non sanno nemmeno che significa la parola “mezzosangue”. Come
giustificherebbe la mia condanna alla schiavitù nel suo pub? E poi… trappola… a che razza di trappola potrebbe destinarmi? Almeno
per il momento, mi sembra che non voglia niente di particolare da me, era solo
preoccupato che io sapessi di Serenity, cosa, ancora non lo so. Sì, tutto
questo va bene… ma accettare?! Capisco
la forza della disperazione e tutto il resto, ma questa sarebbe la forza della depravazione! Non so forse le infinite
vessazioni che sarò costretta a subire, se lavorerò per lui?!!
Certo che le so, e quelle che non so, le posso facilmente immaginare! Insomma,
accettare equivarrebbe a mettersi a braccia spalancate davanti ad un serpente
ed implorarlo di morderti, pezzo dopo pezzo. Fossi matta! Una volta, ci avevo
pensato, ma due! Uno impara sempre dai propri errori, no? Quindi, non se ne
parla proprio! A costo di finire sotto i ponti e di fare l’elemosina, o anche
tutte e due le cose assieme! No, no, e poi no! Però, intanto, un lavoro finalmente… soldi… affitto pagato… e poi adesso che
non c’è neanche Dean…
Prima che mi ritornino le lacrime agli occhi,
pensando a lui, distolgo la mia mente con la prima domanda che mi viene in
mente: “Quanto sarebbe la paga?”, sperando inconsciamente che sia talmente
bassa da farmi desistere.
Seth mi guarda con una luce tenue entusiasta, prima
di mormorare in risposta alla mia domanda: “La paga della cameriera normale
sarebbe di 700 sterline… “.
700 sterline?! Conoscendo
Malfoy, pensavo una sterlina e mezzo ogni venticinque
anni. Non è tantissimo, ma comunque è una discreta cifra… e comunque passare
dal nulla assoluto ad una qualunque somma di denaro, è comunque un bel
risultato. Certo, devo cambiare casa, ma non è mica una cosa negativa… addio,
signora Sanchez!!!
“Ma per te diventerebbero di più… diciamo sulle
900…” aggiunge titubante Seth, guardandomi di sottecchi.
“900?! E perché?!” chiedo interessata. Magari, in questo, sta la trappola…
perché, in caso contrario, se Malfoy si è anche messo a fare beneficenza, è la
volta buona che chiamo un esorcista.
“Danny ha da tempo un… progetto, chiamiamolo
così…” mi spiega Seth “La clientela del Petite Peste è una
clientela giovane… ragazzi tra i venti e i trenta, perlopiù… il ristorante è
frequentato, ma non tantissimo… dobbiamo cercare di attrarre le persone over40,
quelle che di solito non mettono piede qui perché terrorizzate dal fracasso
della discoteca… fracasso che nemmeno esiste…”.
Immagino perché… farà anche la parte del babbano,
ma con mezzi normali, non si sarebbero mai potuti
mettere assieme un pub, un ristorante ed una discoteca senza l’ovvietà del
frastuono di quest’ultima. Me l’ero già chiesta la prima volta che avevo messo
piede qui. Ma poi, vedendo Malfoy, avevo trovato la risposta: un incantesimo
Insonorizzante. Ne avevo persino avvertito qualche debole traccia, entrando.
Doveva essere molto forte. In fondo, Malfoy non doveva essere stato
completamente idiota da lasciare completamente la magia. Al posto suo, credo
che avrei fatto la stessa cosa, altrimenti questo locale non avrebbe mai fatto
fortuna. In fondo, mantengono parecchio personale… a cui potrei
aggiungermi anch’io… a quest’ultima considerazione, ripresto attenzione
alle parole di Seth.
“L’idea di Danny è quella di inaugurare almeno per
qualche giorno alla settimana, un servizio di colazione e di brunch, in modo da
tenere aperto il locale più a lungo durante la mattinata. Attirare
riunioni d’affari, pranzi veloci, studenti e cose simili… “.
“E me ne dovrei occupare io?”.
“Io e te… il problema è uno solo…”. Seth sta
diventando ancora più titubante di prima, e questo mi
sembra abbastanza sospetto. Che cosa può esserci di peggio dell’offerta di
lavoro in sé? Vuoi vedere che c’ho visto giusto? Altro che chiacchiere… la
trappola c’è e deve essere qui…
“Quale sarebbe il problema?” chiedo con innocenza. Fintissima, ovviamente.
Seth, incoraggiato dalla mia docilità, prosegue con
un profondo sospiro: “Per essere funzionale, il servizio dovrebbe cominciare
presto… verso le sette e mezzo, le otto… insomma,
considera che la sera qui si finisce tardi… almeno alle due… e tu abiti
dall’altra parte della città. Dovresti alzarti presto, alle quattro, almeno. Non andare nemmeno a dormire, quindi…”.
“Arriva al punto, Seth…” sibilo con un atroce
sospetto nella testa. Il sospetto è talmente atroce da non sembrare vero. e quindi automaticamente, diventa talmente reale da farmi
raggelare.
Lui tentenna ancora per un po’, guarda fuori dalla
finestra, si mette ad osservare una mosca che lotta inutilmente contro il vetro
della stessa finestra, poi si decide a dire con voce incerta: “Per rendere la
cosa fattibile, noi due dovremmo essere entrambi qui… iniziare ad aprire già
verso le sette… per fartela breve…”, un nuovo sospiro, oddio deve essere
proprio come ho capito… se è così, lo ammazzo, davvero. Lo ammazzo…
“Dovresti dormire qui… da me e da Danny… per almeno
tre - quattro sere alla settimana… staccheresti prima, verso mezzanotte… e alle
sei ti alzeresti…” sputa alla fine fuori.
Lo ammazzerò. E’esattamente come avevo pensato… ma
che cavolo si è messo in testa quel malato di mente?!!!
Questa me la deve spiegare quella specie di furetto contorto! Prima mi caccia, poi mi ospita, poi mi offre anche un
lavoro, ma con la condizione che io debba vivere per metà di una settimana con
lui! Ma siamo pazzi?!! Tre o persino quattro giorni interi con lui, mattina, pomeriggio, sera e
notte con lui!!! Non se ne parla proprio! Ma comunque
mi deve spiegare il suo scatto cervellotico! Come se ne è uscito???!!! Ormai ne sono certa: Malfoy deve volere qualcosa da
me, qualcosa di veramente assurdo, ma sicuramente qualcosa. E, conoscendolo,
non può essere né il piacere della mia presenza, né la mia efficienza
lavorativa, tantomeno la mia inesistente esperienza nel campo. Quello vuole
qualcosa e, conoscendolo, sarà sicuramente qualcosa per cui rischierò la vita,
la dignità o l’orgoglio. Oppure no… credo tutte e tre le cose assieme in ordine
differenziato.
“Non ci penso neanche!” replico
lapidaria a seguito delle mie riflessioni “Già, l’idea di lavorare qui con lui, mi alletta come una carie ai denti! Ora
dovrei anche vivere con lui! L’hai
avuta tu questa meravigliosa idea?!”. La mia domanda è chiaramente sottointesa ad avere una
risposta positiva; se è stato Seth ad avere questa idea, magari Malfoy lo
prenderà a pedate… in caso contrario… non ci voglio nemmeno pensare… sarà
qualcun altro ad essere preso a pedate.
Seth evidentemente si spaventa per la mia
espressione decisamente truce e si ritrae, spaventato. Meno male… se si è
spaventato, evidentemente l’ha pensata lui sta panzana. Comunque, fa bene a
spaventarsi! Se è stato davvero lui, lo appendo al soffitto per le caviglie,
era una tortura di voga nelle prigioni medioevali della Provenza. E faceva un
male cane, insomma è perfetta allo scopo. Ma anche quelle moderne in stile Abu Ghraib, mi tentano alquanto…
“Non sono stato io…” piagnucola lui, allontanandosi
ancora di più da me “E’ stato Danny… l’idea è stata sua… mi ha anche detto che,
se non avresti accettato questa clausola, non ti avrebbe assunto…”.
“CHE COSA HA DETTO, QUELLA SPECIE DI MENTECATTO??!!!” urlo, gettando
all’aria il vestito che ho ancora attorno al collo e alzandomi con passo
marziale dal letto. Adesso mi sente!!! Oh sì che mi
sente! Io non mi faccio prendere in giro da un borioso arrogante come lui, che
si diverte a giocare con le vite e con il tempo delle persone per suo personale
ed anche discutibile divertimento. Se qui nessuno gli dice quello che pensa, ha
trovato pane per i suoi denti! Mi aveva detto in maniera alquanto chiara e
limpida che stamattina ognuno
sarebbe tornato alla sua vita, lasciando in pace quella dell’altro. Che cosa,
non si è accorto che il sole è sorto? Che aspetta a lasciarmi in pace?!
Apro la porta di scatto, ripercorrendo le scale
all’indietro rispetto alla sera prima. Sono infatti
abbastanza convinta che, a quest’ora, Malfoy sia già di sotto a sistemare i
suoi affari (molto probabilmente loschi!); da quando eravamo ad Hogwarts
infatti, si alza molto presto di mattina. Lo so che stona con la sua immagine
di principe dei lussi e dei agi, ma è proprio così. Mi
fu confermato anche una notte a GrimmualdPlace, quando ormai alle luci dell’alba, mi alzai da letto
dopo una notte insonne. E lo trovai in cucina che mangiucchiava dei cornflakes.
Inutile dire come finì quell’incontro, come sempre talaltro, ci prendemmo ad
insulti e io finii per mangiarmi una mela in giardino, con un’ulcera nervosa di
quinto grado e con le orecchie che fumavano, da sola poi, in barba ai Mangiamorte
in piena libertà. Alle dieci e mezzo passate, deve
essere sicuramente sveglio, a meno che nella sua vita da Danny Ryan, non abbia
cambiato anche questa abitudine. Male che vada, me ne ritorno di sopra,
spalanco la porta di casa sua e gli conficco degli spilli negli occhi. No,
troppo cruento. Sono una ragazza delicata, in fondo, e quello che ho visto in
guerra mi è bastato. Badile in fronte? Troppo stancante. Decapitazione? Bleah, troppo sangue. Topicida? E che faccio fin quando fa
effetto? Ma certo! La soluzione è sempre davanti agli occhi e uno non se ne
accorge… acido solforico! Risolvo anche il problema delle tracce da nascondere!
Se Voldemort mi avesse preso come Mangiamorte, minimo sarebbe durato dodici
secoli in più.
Appena scesa di sotto, mi guardo attorno nella sala ristorante deserta. Deve essere nella zona pub.
Con l’eleganza di un facocero nella giungla amazzonica, mi incammino in quella
direzione. E finalmente lo vedo. Seduto dietro al bancone del pub, con una pila
di fogli davanti agli occhi, già vestito di tutto punto con una felpa azzurra
che fa risaltare i suoi capelli chiari ed un paio di jeans scuri. Stranamente,
porta anche un paio di occhiali dalla montatura di metallo, evidentemente gli
servono per leggere. Ma chissenefrega
della vista dei Malfoy! Se si fossero sposati con dei Mezzosangue, avrebbero
perfezionato il loro Dna, come si fa con i cani! I bastardini sono più
intelligenti e resistenti dei cani di razza! Tié! Non
sembra essersi accorto del mio arrivo, sembra preso dalle sue cose. Meglio,
posso sorprenderlo alle spalle! Vabbé gli arriverò di
fronte, maquesti
sono dettagli. Lo sorprenderò lo stesso!
“Malfoy!” inveisco contro di lui, avvicinandomi al
bancone con aria omicida e battendo le mani su di esso “Si può sapere che
diamine ti è saltato in mente?! Che cosa vuoi da me,
eh? Dillo almeno! Ti ho già detto che di Serenity non so niente, che c’è mi
vuoi controllare a vista?! Come ti è venuta questa
brillante idea del vivere assieme, eh?!! E non mi dire
che è stato Seth! Lui non c’entra niente! E’ una cosa tra me e te, no? E allora, affrontiamola noi due, dannazione!”.
Fermo il vomito di parole, respirando a fatica, una
mano sul torace che si abbassa e si rialza velocemente. Resto qualche secondo
ad aspettare, pronta ad essere sommersa da una sfilza di insulti sottilmente
sussurrati. Che, però, non arrivano. Mi arrischio a sollevare lo sguardo, che
era rimasto basso, come a proteggermi dalla sua probabile aggressività. Ma,
invece, Malfoy non mi risponde per niente. Rimane immobile a fissarmi, come se
non mi vedesse neppure e stesse guardando qualcosa alle sue spalle. Qualcosa
che, per inciso, lo terrorizza. E’ infatti
impallidito, per quanto lui possa impallidire, biancastro com’è, e sembra
persino sudare freddo. Possibile che io l’abbia terrorizzato così tanto?
Sarebbe una cosa stupenda, ovviamente, ma sono abbastanza realistica da capire
che non è una cosa tanto facile e che non sono in uno dei miei meravigliosi
sogni. Quelli, per esempio, dove sono ancora il Capo degli Auror e contemporaneamente
la Preside di
Hogwarts e il Primo Ministro Inglese; nemmeno quelli dove, da qualche notte,
sono tornata ad essere la fidanzata di Dean Thomas. E neanche quelli dove
appendo la testa di Malfoy sul mio caminetto come un trofeo di caccia (questo
l’ho sognato stanotte)… questa è la realtà, quindi… non sono più il Capo degli
Auror, non voglio più essere la
Preside di Hogwarts, non sarò mai il Primo Ministro inglese e
molto probabilmente nemmeno più la fidanzata di Dean Thomas. E, se la mia vista
non mi inganna, qui non c’è nemmeno un caminetto, quindi nemmeno la terza
opzione è corretta. Essendo questa davvero la
realtà, l’unica cosa che può aver terrorizzato Malfoy non sono io. E sarà
dietro di me… mi giro lentamente su me stessa ed assumo in un nanosecondo la
stessa espressione di Malfoy. Ci sono troppe somiglianze tra me e lui,
ultimamente. L’unica differenza è che, non avendo io un colorito cadaverico
come il suo, divento al contrario rosso pomodoro
maturo, ritraendomi su me stessa. E non sono nemmeno terrorizzata, piuttosto… imbarazzata come mai in vita mia!!! Ecco,
l’aggettivo corretto! La mia faccia raggiunge la gradazione cromatica del
cianotico, quando mi ricordo dei capelli a nido di vespa e della maglia da
calcio rossa. Magra consolazione, il vestito azzurro appeso al mio collo
perlomeno l’ho gettato all’aria poco prima. Rimango immobile, cosciente dei tre paia d’occhi che mi stanno fissando, sperando nella
mia mente che spariscano e che me li sia solamente immaginati. Ma Malfoy ha
avuto la stessa reazione, quindi…
A rompere il silenzio di tomba che si è creato,
come è prevedibile, è Summer, battendo sul tempo sia me
che Malfoy, oltre che Trey ed April, gli altri due spettatori della scena.
“Che diamine ci fa lei ancora
qui?!!” erompe con voce acuta e stridula. La vedo
anche stringere i pugni e fare qualche passo. Oddio, questa adesso mi picchia!
Quelle più raffinate e composte, sono sempre le più represse e, quindi, quelle
che fanno più male. Ma perché diamine non ho aspettato prima di scendere?! Nella maggior parte della mia vita, ho il difetto di
pensare troppo ed, invece, quando c’è di mezzo Malfoy, faccio sempre tutto il
contrario, diventando totalmente illogica ed irrazionale. Che strano… un dejà
vu, qualcuno mi ha parlato di qualcosa del genere… ma chissene… sto rischiando
la vita e penso ai mie cortocircuiti mentali?!!
“Smettila, Summer… non è come pensi…” la voce
leggera e quasi casuale di Malfoy genera un involontario ed inatteso brivido di
freddo sulla mia schiena. Non è come pensi… le sue
ultime parole sono come un fuoco d’artificio nel cielo, una sorta di messaggio
subliminale diretto alla mia persona. Che potrebbe pensare Summer? Certo, una
cosa sola. Che ho dormito da Malfoy, cosa vera… ma, soprattutto, che
potrei aver dormito con Malfoy,
cosa falsissima, ma che lei potrebbe invece considerare ampiamente. Siamo stati
compagni di scuola, no? Sono qui alle dieci di mattina, no? Con una maglia da
calcio addosso e con i capelli spettinati, no? Ho appena detto a Malfoy che è una cosa tra me e lui e di affrontarla noi due
assieme, NO???!!!! Insomma, è cristallino
cosa lei pensa… ed, alla fine, non me ne sto anche con lo sguardo basso,
come se mi sentissi in colpa??? Sollevo il viso, riassumendo un’espressione
dignitosa e guardandola dall’alto in basso come mi riesce tanto bene. Ignoro le
bocche ad “o” di April e Trey, le cui mascelle stanno per incontrare il
pavimento, e mi concentro su Summer. Penso a cosa dire prima di aprire bocca e
modulo la voce in un accento naturale e scontato: “Non è come pensi… sarà
possibile come cosa, nella stessa giornata in cui i dinosauri andranno al
centro commerciale e le auto funzioneranno grazie allo zucchero di canna,
quindi, come puoi intuire, non è decisamente come
pensi… a meno che uno stegosauro non ti abbia appena fatto il pieno di zucchero
alla macchina…”.
“Non fare la spiritosa del cavolo… e comunque non
stavo parlando con te…” replica lei, gelida, guardando oltre di me, chiaramente
verso Malfoy.
Prima che apra bocca, un piccolo spostamento d’aria
mi avverte del fatto che Malfoy si è alzato ed è alle mie spalle. Un duello
verbale e lui sembra quasi coprirmi le spalle, che strana coincidenza…
“Sarei il primo a dire alla Granger di non aprire
bocca con gioia e giubilo del mio apparato uditivo…” commenta lui, lo vedo con
la coda dell’occhio incrociare le braccia “Ma ha ragione… non è mia gradita ospite, ma di Seth…”.
“Volesse il cielo…” mugugno io in risposta,
incrociando a mia volta le braccia.
“Di Seth?!” chiede Summer
quasi istupidita “E che c’entra lui adesso?”.
Ecco, e che c’entra Seth adesso, infatti?! E Danny che io conosco, non
Seth…
“In una assurda e contorta
maniera, Seth la trova simpatica…” risponde Malfoy velocemente, sorprendendomi
con la sua prontezza di riflessi, quanto si tratta di mentire è un vero maestro
“Sono usciti assieme ieri sera e si è fatto tardi… quindi lui l’ha ospitata a
casa…”, di fronte alla mia faccia inebetita, mugugna a denti stretti: “… non è
vero, Hermione?”.
“Ma
certo…” simulo un forzato sorriso al suo secondo chiamarmi per nome in due
giorni.
Guardo
Summer con la coda dell’occhio e, perlomeno apparentemente, sembra essersi
calmata. Le narici smettono di fremere e, allo stesso modo, il suo volto torna
limpido e sereno, dopo che le chiazze rosse che lo avevano ricoperto per la
rabbia se ne sono andate così come erano venute. April e Trey, alle sue spalle,
dopo aver ragionevolmente supposto che non ci sia nient’altro sotto, se ne
tornano alle loro faccende, la prima riprende a ramazzare per terra, mentre il
secondo continua a compilare la sua scaletta di canzoni per la serata. Rilascio
un sospiro di sollievo, nello stesso momento in cui sento Malfoy alle mie
spalle respirare a sua volta. Per questa volta, è andata bene.
Trasalgo,
mentre una presa d’acciaio mi stringe violentemente il braccio. L’ho conosciuta
fin troppe volte in questi giorni e ne sto avendo abbastanza. Mi metterei ad
urlare come una pazza di nuovo, ma temo più Summer che Malfoy allo stadio
attuale delle cose. E, dato che lei adesso è occupata con Trey, non voglio
attirare nuovamente la sua attenzione. Quindi, me ne sto zitta e mi faccio
trascinare per l’ennesima volta da Malfoy. Il primo giorno che l’ho rivisto,
era camera sua, e adesso le cucine deserte, il copione è leggermente cambiato,
almeno in quanto ad ambientazione. Evidentemente Lawrence non è ancora
arrivato, è tutto in ordine, dalle pentole perfettamente lucide alle stoviglie
pulite e poste in fila. Sospiro, ritrovandomi Malfoy di fronte.
“Ma che
c’è, Granger, hai qualche problema?! Vuoi forse rovinarmi
la vita?!” inveisce lui contro di me, sbattendomi
decisamente poco gentilmente contro il muro di fronte a lui. Il piccolo ma
comunque percettibile, dolore alla schiena mi fa ritornare in me dallo stato di
passività indotto dal terrore reverenziale per Summer.
“Io ho
qualche problema?! IO?!! E tu?!! Che cos’è questa storia dell’assumermi, eh? E del farmi
vivere qui, poi? Che c’è, ti sei impazzito?!” gli
rispondo a muso duro, ma sottovoce esattamente come lui. E’ quasi comico fare
discussione in questa maniera, senza urlare. Mi ricorda le lezioni della McGranitt, quando gli ringhiavo insulti su insulti,
cercando di non farmi beccare dalla professoressa.
“Lo sapevo! Come sempre, su una cosa hai costruito sopra un intero
film giallo… l’ho detto a Seth, ma lui… niente! Figuriamoci, se mi dà retta…adesso doveva anche
venirgli la mania di aiutare la
Granger…” commenta a denti stretti, malevolo.
“Andiamo
Malfoy… io e te lo sappiamo perfettamente che non sei così… arrendevole…” borbotto accondiscendente con l’ombra di
un piccolo sorriso sul volto, conscia di avere ogni ragione di questo mondo
“Non avresti mai fatto una cosa solamente perché te l’ha chiesto Seth… quindi,
mi darai ragione quando penso che c’è qualcos’altro
sotto, no?”, vedendo che mi guarda ancora insofferente, aggiungo sbuffando:
“Insomma, Malfoy al posto mio, tu ti fideresti se ti offrissi un lavoro?”.
“Assolutamente no…” mi dice lui sfacciatamente,
incrociando di nuovo le braccia e riducendo gli occhi a due fessure, come se
davvero gli stessi facendo una proposta del genere, assolutamente abominevole
per le sue orecchie.
“E allora perché dovrei farlo io, scusa?!” gli rispondo interdetta, aggrottando un sopracciglio.
“Granger, la cosa che ti sfugge è che io non ti ho
chiesto di fidarti di me… e nemmeno mi sembra di averti implorato di accettare
questo lavoro… di cameriere, ne potrei trovare a decine…”.
“E allora perché l’hai proposto a me?!” sbotto insofferente. E’assurda tutta questa situazione,
come sempre quando sono con lui. Lancia il sasso e poi tira indietro la mano.
E’davvero snervante, specie appena svegli e senza una goccia di succo d’ananas
nelle vene.
Lo vedo sospirare e ritrarsi leggermente, incrocio
le braccia aspettando la sua risposta. La quale, tarda ad arrivare per parecchi
secondi, cosa che mi fa innervosire ancora di più, se mai possibile. E,
inoltre, conferma perlomeno alle mie orecchie che ci sia qualcosa sotto.
Dopo aver studiato completamente l’arredo della
cucina e la sua planimetria, lo sguardo plumbeo di Malfoy si decide a ritornare
su di me. E’ calmo, imperturbabile, come sempre. E’ perfettamente capace di non
lasciare trasparire alcun tipo di emozione, non so come, ma lo fa. Eppure, io
lo conosco. Da anni, anche se in una maniera alquanto contorta. Da sua nemica naturale,
ma alla fine credo che i nemici siano quelli che ti conoscono meglio. Un nemico
ti studia a fondo per scorgere ogni tua debolezza; invece un amico è
intimamente terrorizzato dall’idea di trovarne una in te, tale da farlo
desistere dallo starti vicino. Quindi, credo di conoscerlo bene Malfoy, le sue
espressioni, i suoi gesti e i suoi sguardi. Solo quelli di ieri sera erano un
po’ diversi dal solito, ma li imputo al fatto che non sono propriamente suoi,
ma di Danny Ryan, del personaggio che si è costruito in questi anni. Ora,
infatti, so perfettamente che sta per dire qualcosa che gli costa molto. Le sue
mani impercettibilmente sono affondate nelle tasche dei pantaloni, intravedo
solo i pollici sul orlo delle tasche stesse, che
martellano sulla stoffa. E’ nervoso, quindi. Lo sguardo si è fatto più terso,
meno nebbioso del solito; evidentemente sta cercando di essere sincero, o di
darmi comunque questa impressione. A non darmela, però, totalmente a bere, è la
giugulare che vedo pulsare sotto la sua pelle. Per un attimo, mi distraggo,
incantata quasi dal premere della vena contro la barriera della pelle. Una vena
che pulsa, il cuore che batte… forte, il cuore che batte forte.
E’ così strano associare la parola cuore a Malfoy, come dire, che so, inferno e angelo. So
perfettamente che, almeno anatomicamente, Malfoy un cuore deve averlo. Eppure,
mi sembra strano. E rimango immobile a fissare il suo collo, manco fossi un
vampiro affamato di sangue umano. Lo stesso sangue, che rende le sue guance un
po’ più rosee. Forse sta anche arrossendo… Malfoy che arrossisce, sì come no.
Starà solo per scoppiare dalla rabbia, anche la tachicardia ne è un chiaro
segnale. Che scema che sono, e mi ci metto anche a fantasticare. Malfoy può
essere cambiato, ma non così tanto… e bisogna dire che io sono decisamente
paranoica…
Lo vedo deglutire nervosamente un paio di volte,
arricciando le labbra sottili in una smorfia, quasi come se le stesse parole
che sta per dire fossero assenzio nella sua bocca. Dio, e poi quella che non si
lascia alle spalle i conflitti, sarei io a dire di Seth… mentre lui… com’era? il nobile di cuore, già, me ne ero scordata. Bleah…!
“Non credevo che tu veramente cercassi un lavoro…”
inizia con tono di voce quasi sommesso, non decidendosi ancora a guardarmi in
faccia, deve essere davvero tremendo per lui dirmi delle cose civili! Sto
letteralmente andando in brodo di giuggiole! Devo godermi al meglio questo
momento, e poi proiettarmelo nel cervello a scadenze regolari! Credo che sarà
un efficacissimo antidepressivo! Inclino la testa di lato, continuando
attentamente ad ascoltarlo.
“Credevo che fossi qui per chissà quale indagine su
di me e su Serenity… ma, come ho potuto constatare, di lei non sai niente,
quindi… al contempo, però, mi sembrava abbastanza improbabile che la perfettina signorina Granger fosse stata destituita dal suo
perfettissimo impiego…”, finalmente si decide a
guardarmi, scrutandomi con espressione indagatrice, ma io tento di mantenere il
mio viso pulito e tranquillo, non gli dirò nulla nemmeno sotto tortura.
Compresolo, continua:“…
ma, se effettivamente stanno così le cose, se effettivamente sei senza lavoro,
sarei uno stupido a non assumerti. Per prima cosa, se sei veramente così
disperata, prenderai a cuore il lavoro, cosa di cui ho bisogno in questo
periodo. Seconda cosa, sei comunque un’ex Auror, qualcosa la
sai fare, no? E la cameriera, anche per una come te,
non può essere una cosa più difficile…”.
“Troppi complimenti tutti assieme, Malfoy…” dico
caustica. Mi sembrava strano il suo scatto troppo longevo di civiltà, è pur
sempre fermo cerebralmente all’età del bronzo.
“Terza cosa, assumendoti, Seth la smetterà di darmi
il tormento, anche perché ho il serio sospetto che licenzierà ogni cameriera
che metterà piede qui dopo di te, solamente per farmi dispetto…” continua, come
se non mi avesse sentito, il suo viso si inarca in un’espressione gongolante “…
quarta cosa, essere il tuo capo, darti degli ordini con te
che sei costretta a rispettarli… è una cosa che non è nemmeno lontanamente
immaginabile come piacevole…”. Ride trasognato tra sé e sé per un po’. Ora
capisco perché tutti quei Mangiamorte appaiano sempre così soddisfatti… se uno
gli sta sulle scatole, lo uccidono, esattamente come vorrei fare adesso io con
Malfoy, ma poi penso alla legge, alla prigione, a Seth che si impicca, al
rimorso perpetuo...certo che la rettitudine è
decisamente sfiancante. E frustrante, aggiungo. L’avete mai visto un
Mangiamorte depresso? E invece mi ci incammino a grandi passi verso la
depressione… anche perché so quasi perfettamente che sto per accettare, come
una povera idiota. Se la necessità fa l’uomo ladro, credo che la disperazione e
il fatto di essere stata lasciata dal proprio ragazzo, fa una donna decisamente
tendente al suicidio.
Cerco di allontanare dalla
conversazione il momento in cui dovrò dargli la mia risposta, chiedendogli: “Mi
fai capire una cosa? Come mai ti è venuta
questa geniale idea del servizio di
colazione e di brunch con l’altrettanto geniale
clausola che, se non accetto questa condizione, non mi assumi proprio?”.
“Granger, non mi spingo al punto che tu possa
capire le complicate dinamiche manageriali…” mi dice,
guardandomi con insopportabile e falsissima aria di comprensione frammista a
pietà “Ma, dovendo assumere un’altra cameriera, devo ammortizzare i costi… e,
avendone bisogno per quel dannato party, devo comunque rimanere in attivo, no? Se questo posto non è ancora fallito, qualche motivo ci sarà… non
mi piace vantarmi…”, al mio sollevare gli occhi al cielo, corregge il tiro:
“…d’accordo, mi piace alquanto
vantarmi… ma comunque questo posto sta in piedi grazie a me…”.
“E grazie, suppongo, ai vari Incantesimi sparsi per
il locale… oltre a quello Insonorizzante, ce ne sono altri?” commento
noncurante, cercando così di assorbire la sua ammissione di presunzione.
Adesso, si rende anche conto dei suoi difetti… dove arriveremo di questo passo?
“No che non ce sono…” mi
risponde, irritato evidentemente che la sua grande trovata sia stata così
miseramente smascherata “E’ l’unica traccia di magia ed era vitalmente
necessaria…dunque l’eroico capo
degli Auror se n’è immediatamente accorto? Era alquanto
prevedibile…”.
Soprassiedo sul tono disgustato ed, assieme,
ironico con cui ha pronunciato l’aggettivo eroico, e mi
limito ad annuire con il capo, evitando qualsiasi genere di commento malevolo.
In fondo, voglio spicciarmi ad uscire da questa situazione assurda, sono pur
sempre in piedi davanti a lui con questa maledetta maglia da calcio addosso. E
scommetto anche che i miei capelli sono ormai talmente crespi ed elettrici da
assomigliare a Melanie B delle Spice Girls. Insomma,
devo riassumere in tempi brevi un aspetto decente, ho fatto il pieno di
figuracce per almeno quattro o cinque reincarnazioni. Ciò, però, implica
necessariamente velocizzare i tempi sulla mia risposta alla sua offerta di
lavoro. E questo momento sarà da sottoporre ad un potente Incantesimo di
memoria, non appena avrò di nuovo i miei poteri. Tanto, per non correre il
rischio di traumi permanenti ed incubi continui…
“D’accordo, Malfoy…” pronuncio a denti stretti,
guardando altrove.
“D’accordo, che?!”.
E certo! Non potevo dirlo una volta sola, no! Fosse
per lui, lo dovrei ripetere a vita come un carillon rotto. Lo spio con la coda
dell’occhio e lo vedo con la faccia sadicamente soddisfatta. Sono quasi tentata
di dire di no, salvando il mio orgoglio ed andandomene a testa alta, ma ho già
ampiamente notato che l’orgoglio non è un buon sostentamento alimentare.
Quindi, avanti con la crocifissione di me stessa e della mia dignità, abbondantemente
iniziata con il supplizio della mia sanità mentale e con la flagellazione della
mia intelligenza, quando avevo già deciso di accettare nel momento in cui Seth
me l’aveva detto.
Arrossisco da testa a piedi ed abbasso lo sguardo,
mugugnando: “D’accordo, lavorerò qui…”.
“Che cosa hai detto,
Granger? Un raffica di vento mi ha impedito di
sentire…” dice lui con faccia da finto santarellino, mettendosi una mano dietro
l’orecchio e sporgendosi verso di me con aria da vecchio attore compassato.
Ah, è così! Adesso, ti faccio vedere io che
significa scherzare con Hermione Jane Granger!
Mi sporgo a mia volta verso di lui, precisamente
verso il suo orecchio destro inarcato nella mia direzione, e, in meno di un
secondo netto, gli urlo nell’orecchio con tutto il
fiato che ho in gola: “Ho deciso di accettare Malfoy!!!!!”.
Nemmeno la Callas al vertice della sua carriera avrebbe
sparato un acuto del genere. Sono veramente fenomenale! Incrocio soddisfatta le
braccia al petto, mentre osservo soddisfatta Malfoy che, per il contraccolpo, è
finito dall’altra parte della stanza, la schiena contro un tavolo di metallo e
una mano premuta contro l’orecchio frastornato.
“Ma che ti sei impazzita, Granger?!”
mi urla Malfoy, guardandomi storto e stringendo gli occhi in due fessure
malevole.
Mi trattengo dallo scoppiare a ridere, concedendo
alle mie labbra solo una lieve piega ironica in stile “Te la sei cercata,
sottospecie di malfuretto rimbalzante!”. La
soddisfazione soffia leggera nel mio umore, fino a rendermi del tutto appagata
e contenta, nonostante stia sempre indossando una maledetta maglia da calcio ed
abbia sempre i capelli a riccio. Non mi accadeva da tempo di essere così
soddisfatta, certo in una maniera contorta ed alquanto perversa, ma chissene… è
decisamente bello sentirsi così. Avevo scordato come ci si sentiva. E mi sembra
contraddittorio per la mia stessa indole e per quella che è stata la mia vita
fino a questo momento, che questa sensazione benefica mi derivi da Malfoy. Anni
fa, da lui ho avuto paradossalmente la distruzione proprio di quei momenti, e
adesso è stato lui a crearne uno del genere. Sento sulla schiena un brivido
caldo travolgermi e mi stringo nelle spalle, decisamente a disagio con me
stessa. Mi sorprendo del pensiero che io stessa ho avuto e che non avrei
creduto mai di poter avere… non sarà poi tanto male lavorare
qui…scuoto il
capo violentemente, suscitando la sorpresa malcelata di Malfoy, che mi osserva
aggrottando le sopracciglia. Mi ripeto nella mente che l’essere contenta di
lavorare qui, è solo un deviazione perversa della mia
mente che gode a maltrattare Malfoy, in modo da riprendersi delle sue sciagure
presenti. E poi c’è sempre la delicata questione che ho bisogno di questo lavoro, no? In tal modo, mi convinco
della totale innocenza nel mio stato d’animo attuale e il mio passo ritorna
fermo, mentre esco dalla cucina.
“Sarà sempre così da questo momento in poi, vero?”
la voce di Malfoy raggiunge le mie orecchie in modo quasi carezzevole.
Deglutisco rumorosamente senza guardarlo, dandogli ancora le spalle, mentre un
inquietante rossore raggiunge le mie gote. Che cavolo mi prende?! La sua voce, accidenti… la sua voce… nostalgia che, come un’onda, sbatte sulle pareti della mia anima, sulle
stanze del mio cuore, sui muri della mia mente, logorandoli e rendendomi
inerme. Basta, basta, basta!! Com’era? Ecco,
deviazione perversa e sadica della mia mente e bisogno estremo di lavorare,
eccola qua… perfetta ed ineccepibile giustificazione…
La sua forza logica spinge il mio volto, ormai
sereno, a girarsi verso Malfoy e a pronunciare con la voce ferma e tranquilla:
“Sarà anche peggio, Malfoy…”. Trovo dentro di me persino l’ombra di un sorriso.
Sorriso gemello al suo, velato come il mio. Mi chiudo la porta alle spalle, un
magone dentro.
Sarà peggio per tutti e due, vero?
Perché nessuno dei due sa cosa aspettarsi dall’altro.
O meglio, lo sappiamo perfettamente
cosa aspettarci l’uno dall’altra.
E questo la rende la cosa peggiore
del mondo.
Quello che, però, non sappiamo è per
quale assurda ragione entrambi abbiamo accettato la
cosa peggiore del mondo.
“Esisterà mai qualcosa di peggio al mondo che
questo??!!” commento per l’ennesima volta,
asciugandomi la fronte sudata con il dorso della mano.
“Certo che esiste, tesoro…” mi risponde piattamente
annoiata la voce di Seth dal basso “Sei sempre troppo tragica…”.
“Sì, certo che esiste…” rispondo malevola ed
ironica “Potrei essere investita in pieno da un
Cayenne… o contrarre il virus Ebola in un modo ancora sconosciuto alla scienza
occidentale… oppure essere colpita in pieno da un meteorite sfuggito al
controllo della Nasa… in effetti, ci sono delle cose peggiori… dovrei
decisamente sentirmi meglio…”, simulo un sorriso forzato, canticchiando: “Trallalà, trallalà, nella mia
vita va tutto benissimissimo…”.
“Non intendevo tragica fino a questo punto…” spiega
ancora Seth con uno sbadiglio “E non voglio nemmeno dire che questa sia la
massima aspirazione per una ragazza che voleva fare l’archeologa…”.
“Eh?! Ma che cavolo stai
dicendo? Io, l’archeologa?!” blatero soprappensiero,
completamente presa dalle mie faccende.
“Come, che sto dicendo?!
Me l’hai detto tu, al colloquio! Sono parole tue!”.
“Ah sì, sì, lo stramaledettissimo colloquio, a me e
quando l’ho fatto!” rispondo annoiata ed ancora più nervosa, procedendo nella
mia mente ad una serie di maledizioni mentali a quel flashback. Poi mi ricordo
di Seth e chiedo più per educazione che per reale interesse: “E che cos’è che
avrei detto?!”.
“Che volevi fare l’archeologa… perché non è vero?”
mi chiede Seth sospettoso, guardandomi dal basso verso l’alto.
“No che non è vero… me lo sono inventata
Seth!” sbotto infastidita, mentre mi scappa uno starnuto.
“E perché mi hai detto una bugia? Mica ti ho chiesto delle referenze in paleontologia o in cose
simili… mentire per mentire mi dicevi che avevi fatto la cameriera al Ritz e t’avrei assunto pure prima…!” borbotta Seth con tono
indagatorio e solamente allora mi rendo conto
dell’enorme cavolata che ho detto. Presa del nervoso, mi sono dimenticata
di quello che avevo detto a Seth e l’ho smentito con leggerezza. E adesso che
gli dico?! Quanto mi rompe questa situazione, come
babbana ho praticamente un’intera vita da inventarmi, come diamine avrà fatto
Malfoy?! Stasera mi chiudo in camera e mi scrivo una
serie di note sui primi dieci anni della mia vita... almeno mi ricordo le
cavolate che sparo alla velocità di quindici al secondo…
Intanto, cerco di rimediare alla
patacca attuale: “Tecnicamente, ti ho detto che studiavo
archeologia, non che volevo fare l’archeologa…”, la faccia di Seth sfuma nella
confusione totale, quindi mi affretto ad aggiungere il resto della patetica
storiella appena inventata: “I miei volevano che studiassi archeologia…
insomma, mi ci hanno obbligato loro. Io avrei
voluto fare altro… appena ho deciso di cambiare facoltà, ecco che mi hanno
tagliato i viveri… capisci adesso?”. Il volto di Seth si rischiara e
torna sereno, stavolta l’ho scampata bella. Poveri mamma e
papà, se sapessero come parlo di loro… meno male che, dalla pensione di
papà, vivono in Italia, nella vecchia casa siciliana di mia nonna. Almeno tante
cose sulla loro figlia, le loro orecchie se le sono decisamenterisparmiate. Comprese le bugie attuali su una vita che
non ha mai vissuto e che si inventa a fatica giorno dopo giorno.
“Capisco… i genitori sono una brutta bestia…” mi
dice comprensivo Seth, per poi rabbuiarsi nuovamente e chiedermi: “E scusa,
allora perché mi hai detto che mi avevi mentito?”. Lo guardo dall’alto, bianca in volto. Cavolo, questo non si scorda niente!
Accidenti, e adesso che mi invento?!Pensa, Hermione, pensa! Se stasera non scrivo la storia
fasulla della mia vita… per adesso, in fondo, ho detto pochissime cose:
aspirante archeologa fallita con famiglia autoritaria, appena mollata dal
fidanzato. Che quadretto penoso… la cosa diventa anche peggiore, se mai era
possibile, quando penso alla più importante qualifica che ho agli occhi di Seth
e degli altri: compagna di scuola di Danny Ryan.
E’ quest’ultima cosa a farmi
innervosire oltre misura e a farmi esplodere, dicendo: “Insomma, Seth! Mi
prendi sempre troppo alla lettera! Volevo dire che era una
balla che volevo fare l’archeologa… che mi ci hanno costretto…”.
Ritorno, sbuffando alle mie faccende, dandogli le
spalle, mentre lui si affanna a reggere la scala dove mi sono arrampicata ben
mezz’ora fa.
“Tu e Danny
siete uguali…” mormora alla fine lui, la voce quasi rotta e il labbro inferiore
che trema.
Sto quasi per cadere dalla scala, quindi mi reggo
convulsamente all’architrave della porta del locale, che sta proprio di fronte
a me. Avendo scampato la morte certa, mi volto furiosa verso il colpevole del
mio tentato omicidio: “Potresti ripetere, Seth?!”.
“Che tu e Danny siete uguali…” ripete lui con il
medesimo tono e con più coraggio, sollevando gli occhi verde giada verso di me.
E dalle! Sì, siamo uguali come un cerchio ed un quadrato… sì, sì, siamo molto
simili… procedendo ad una fantomatica quadratura del cerchio… traduzione:
facendomi il lavaggio del cervello, della personalità
e del carattere. Una bella centrifuga di neuroni, dei miei ovviamente, dato che
i suoi non esistono, e allora sì che siamo uguali!
“Ed in che cosa saremo uguali?” chiedo, cercando di
stare calma e ridandogli nuovamente le spalle “Nel fatto che apparteniamo tutti
e due alla razza umana? Ed anche in quel caso ci sono seri dubbi riguardo a
Danny ed alla sua evoluzione biologica dubbia…”.
Seth sbuffa rumorosamente e quindi alla fine lo lascio parlare: “Intendo che siete simili, perché tutti e
due fate sempre un sacco di storie per raccontare le vostre faccende personali…
la vostra vita privata…”.
“Se vuoi, ti racconto tutta la mia vita fino ad
ora… dammi solo il tempo…”, di inventarmela! “… di
prendere fiato…”. Se adesso dice sì, è veramente il colmo dei colmi…
“No, non importa…” mi dice inconsolabile, con
l’aria di un bambino che rifiuta un giocattolo perché quello dei suoi sogni è
stato appena venduto. Ecco, meno male… questa faccenda, comunque, è decisamente
da risolvere. In effetti, ho detto veramente poco di me e questo non sta bene.
Passare solo per una compagna di classe di Malfoy, bleah!
Stasera mi ci metto davvero d’impegno, almeno evito inutili imbarazzi… certo
che è difficile trasformare una vita di magia in una vita normale… come faccio?
Comunque, se ce l’ha fatta Malfoy, ce la posso fare anche io. Un attimo…
Malfoy! Ma certo! Devo parlarne con lui! Non perché non ne sia capace da sola,
ma perché molte delle mie reticenze sono dovute al fatto che non so mai che
dire, perché ho troppa paura di contraddire la sua versione dei fatti come
Danny Ryan! Gli chiederò bene che cosa ha detto della sua vita, in modo da: 1-
smetterla di sembrare una latitante che ha cambiato metà della sua vita; 2-
smetterla di fare la figura della cretina e scapicollarmi in una serie di capriole
mentali per uscire dai casini in cui mi metto; 3- sapere di più su Malfoy e
sulla delicata faccenda di Serenity. Che genio, appena finisco lo prendo e lo
metto sotto torchio… sono sempre il capo degli Auror in fondo. Ok, adesso non
lo sono, ma sono dettagli di nessun valore… gli caverò fuori la verità con le
tenaglie!
Ricordandomi della presenza di Seth, cerco di
imbastire un discorso minimamente decente: “Scusami Seth… è solo che in questo
periodo sono veramente tanto nervosa e non mi piace molto parlare di me… mi
sembra di essere passata da un errore all’altro in questi anni…”, bè, questo è
vero “… ma se vuoi, stasera, mi siedo e mi fai tutte le domande che vuoi…”, gli
sorrido dolcemente, tanto fino a stasera ho già torturato Malfoy…
Seth, alla fine, sorride ed annuisce con il capo,
quindi continuo più tranquilla: “E comunque Danny è sempre stato così… anche io
so veramente poco della sua vita prima del liceo…”, che enorme panzana, è
proprio di quella che so quasi tutto. È di quella presente che ho un’enorme
voragine. “E poi io e lui non siamo per niente uguali… io, per esempio, non
avrei lasciato una mia dipendente a crepare di freddo su una scala malferma per
appendere delle maledettissime luci sulla porta del locale… tra l’altro, ad un
gancio che dovrebbe esistere, ma che poi non c’è… se non è perfidia questa…”.
“Ma dai, non essere esagerata…” mormora Seth, contrariato come ogni volta che oso toccare il suo idolo.
“Sì, esagerata…” sbuffo con un nuovo starnuto,
mentre Seth si sposta per l’ennesima volta da sotto alla scala con fastidio
“Questa è violazione di ogni norma dello Statuto dei Lavoratori… e comunque
almeno dell’articolo 15 bis comma 3…”.
“Sei assurda!” ride Seth di gusto, guardandomi
divertito “Ti ricordi persino una cosa del genere? A volte,
non sembri nemmeno vera…”.
Imbarazzata, mi mordicchio il pollice e mugugno:
“Mi piace interessarmi a molte cose…”, poi scaccio il rossore sulle mie guance
e dico: ”… soprattutto a quelle che riguardano i miei diritti… soprattutto se quelli stessi diritti vengono lesi da Ryan… Dio, non ci
posso pensare!!!”. Frugo ancora per qualche minuto
alla ricerca del gancio desaparecido, ma dopo un altro starnuto, deduco che il
gancio doveva essere lì dai tempi della Thatcher ed evidentemente la ruggine
l’ha fatto finire all’altro mondo. Pace all’anima sua… ma siccome alla mia
pelle ci tengo ancora, scendo velocemente dalla scala, dicendo a Seth che mi
sono stancata e che comunque ho da finire delle altre faccende, quindi se
vuole, al prezioso gancio ci pensasse lui. Nella mia mente, spero che il gelido
vento della tundra che soffia stamattina su Londra e gli accenni di pioggia lo
facciano desistere così che Malfoy sarà costretto ad appendere da solo le sue
luci, ma invece, come prevedevo, Seth sospira, borbotta qualcosa e si arrampica
sulla scala al mio posto. Figuriamoci se non fa qualcosa che gli ha ordinato il
suo prezioso Danny… bleah triplo!!!
Con un ultimo sospiro di autentica compassione
verso la sudditanza psicologica di Seth verso Malfoy, rientro nel locale,
abbassando il capo di fronte alla serranda mezza tirata giù. Per stamattina, la Regina dei Ghiacci ha
deciso che sarebbe stato meglio non aprire, in modo da mettere a posto le
ultime cose in vista del Tourquoise party.
Insomma, in breve, trovare la trecentesima tovaglia di quel colore, il
milionesimo festone turchese o un nuovo servizio di flute nella medesima
tonalità di azzurro. Credo di provare una profonda avversione al momento per
questo colore… e non odiavo così tanto un colore dai tempi in cui Lavanda e Calì indissero la settimana del rosa. Da quello che mi è
sembrato di capire dalle scarne parole di Summer e di Malfoy, l’idea di questa
festa l’ha avuta lei. O meglio, ogni anno a Londra la Camera di Commercio, o
qualcosa di simile, indice una festa a tema in una data ricorrenza con le
medesime caratteristiche, che sarà organizzata dai locali della città. Seth per
esempio mi ha parlato di alcune feste degli anni precedenti, quando lavorava in
un altro locale a Carnaby Street: ha partecipato ad
una festa in stile greco, ad una con tema marino e ad un’altra con tematica
polare. Quella sera, poi, i critici di costume di alcuni grossi settimanali
cittadini si dividono i locali allo scopo di vedere chi ha organizzato la festa
più riuscita ed originale. Chi vince, ottiene una speciale menzione sulle
medesime riviste, a cui consegue un’enorme pubblicità. Da quello che mi ha
raccontato Seth, l’anno scorso Malfoy si è rifiutato categoricamente di
prendere parte ad una cosa del genere, perché la considerava una cosa
assolutamente ridicola. Ma Seth ha aggiunto con una punta di nervosismo che allora non c’era ancora Summer. Sembra che lei sia
entrata nello staff e nella vita di Danny Ryan solo da qualche mese, e l’ha
rivoluzionata completamente. Almeno dal punto di vista lavorativo, questo dice
Seth. Perché, da allora, Summer ha fatto di tutto per rendere il Petite Peste un locale alla moda ed in vista. E, persino Seth
l’ha riconosciuto, ci è abbondantemente riuscita, anche se per Seth solamente
perché è una spietata arrivista ed arrampicatrice sociale che mira solamente
alla fortuna economica di Danny. Mentre sono presa da queste riflessioni, mi
rendo conto che sono entrata casualmente in possesso di un’altra informazione
sulla vita di Malfoy-Danny. Anche in questa vita babbana, Malfoy è ricco da fare schifo. Ovvio. Avrà
venduto tutte le sue proprietà magiche e le avrà convertite in sterline. Non ci
vuole certamente un genio per capirlo… non poteva mica aprire il locale dal
nulla…
Starnutendo, entro finalmente nel locale, vuoto ed
al buio. Summer, infatti, si è portata dietro nella sua crociata fashion tutto
il personale, ad eccezione di me, Seth ed ovviamente di Malfoy. Che cosa voglia
comprare da avere bisogno di tanta gente, lo sa solamente lei… comunque, questa
è la buona volta che parlo con Malfoy da sola. Seth è impegnato, così non mi
lancia sguardi curiosamente assassini… Malfoy dovrebbe essere libero, quindi…
Percorro la sala in silenzio, guardando in ogni
anfratto alla ricerca di Malfoy, ma non lo trovo. Entro nella zona pub e
persino nella discoteca, ma non lo trovo ancora. Ma che diamine di fine ha
fatto quella specie di essere?!! Quando non lo voglio
tra i piedi, è sempre presente; una maledetta volta che lo cerco ed è andato in
Mongolia… salgo di sopra, pensando legittimamente che sia in camera sua.
Educatamente, decido di bussare alla porta rossa che è quella della sua parte
d’appartamento. La mia mano si blocca a mezz’aria, mentre rifletto che in effetti non l’ho mai vista. In questi primi tre giorni
di lavoro, in realtà, ho visto Malfoy molto poco. A lavoro, la mattina, si è fatto vedere pochissime volte e
soprattutto non per parlare con me, grazie a Dio… mi avrà detto solamente: “Oggi tocca a te lavare i piatti”, “Vai a comprare del latte, Lawrence non può
andarci” ed infine la frase migliore, quella che mi ha detto appena
stamattina: “Il gancio per le luci c’è,
Granger… sei tu che non lo vedi…”.Insomma,
una conversazione di alto livello. Non che la volessi, anzi… meno mi parla,
meglio è. In effetti, non mi aspettavo nemmeno che fosse così docile ed
arrendevole. Forse sta covando l’influenza… chissà… comunque, in questi giorni,
se ne è quasi sempre stato per i fatti suoi, speciecon Serenity, ignorandoci tutti
palesemente. Di dividere nuovamente l’appartamento con me e con Seth, non se ne
è parlato minimamente da quella celeberrima prima sera. Seth sbuffa un po’,
dice che vorrebbe che lui ci venisse a trovare, io roteo gli occhi benedicendo
invece che se ne stia dove sta. Ma dubito che lo stia
facendo per darmi soddisfazione, assolutamente. Evidentemente ha davvero da
fare. Cosa, lo sa solamente lui. In fondo, della festa se ne sta occupando
totalmente Summer. Boh… chi lo capisce, è bravo. La mia mano esita ancora,
ricade pigramente lungo il fianco, bloccandosi di nuovo, mentre inconsciamente
mi ritrovo a spalancare gli occhi, sorpresa.
Sono qui da tre giorni.
Chissà perché solo adesso l’ho metabolizzato
completamente. Sono qui da tre giorni.
Appoggio la fronte alla porta, chiudendo gli occhi.
Tre giorni lunghissimi, in realtà.
Non mi sono mai sentita così sola in
vita mia.
Quel pensiero si insinua freddo come una lama nella
carne viva, spezzandomi qualcosa dentro. Boccheggio, come se non riuscissi a
respirare, le mani che si reggono convulsamente alla porta, come se avessi
paura di cadere.
E’ la prima volta da tre giorni a questa parte che
riesco a dare forma a questo pensiero, il pensiero che ho dentro sempre, il
pensiero che non smette di tormentarmi. Lavorare fino a notte fonda e
svegliarmi presto la mattina, parlare e scherzare con Seth ed April, sbuffare
palesemente di fronte a Summer, inveire contro Malfoy… mi distrae, ma alla fine non cancella niente. Quello, lo
stesso rimane in me, cresce a dismisura, dandomi la sensazione di essere sulle
montagne russe ogni volta che lo rendo più reale nella mente.
Pareti sconosciute, facce sconosciute, abitudini
sconosciute… una vita da inventare, come se non fossi mai esistita veramente…
mi infilo nel letto alla sera e vorrei solamente piangere, ma poi non ce la
faccio. Respiro a fondo, guardando il soffitto, e mi dico che devo essere
forte. Ma perché, maledizione?! Perché devo essere
sempre forte?!! Perché, eh?!
E’ da tutta la vita che sono forte, avrò diritto ad essere debole un po’
anch’io, o no?! Ogni giorno, mi alzo con l’infinita e
sterminata consapevolezza che mi manca la mia casa, mi manca la mia vita, mi
manca Grattastinchi che adesso è da Ginny, mi manca
lei, a cui ho detto solamente che ho trovato un lavoro che mi impedisce di
tenere il mio gatto e che devo trasferirmi fuori città… Dio, mi manca anche la
signora Sanchez…
… e mi manca Dean. Mi manca soprattutto Dean. Mi
manca solamente Dean.
Mentre lo penso, gli occhi mi pizzicano un po’,
tiro su con il naso e tengo fermo il labbro inferiore che prende a tremare. Lo
tento di scacciare questo pensiero, ad ogni minuto e ad ogni momento del
giorno, ma non ci riesco. Adesso me ne rendo conto davvero. Vorrei urlare a
tutti quella che è la mia vita, ed è stupido, è insensato, è sciocco. Vorrei
smettere di essere una patetica cameriera e tornare ad essere Hermione, il capo
degli Auror, l’amica del cuore del Ministro Potter, e tutto il resto. Vorrei
guardare queste persone con la forza che mi viene dai miei amici e da me
stessa, da quello che sono stata e che sarò per sempre. Ed invece non posso. Ed
invece sono solamente una che finge di essere ciò che non è.
Come sono arrivata a tutto questo?
E’ la sola domanda che ho la forza di farmi nel
silenzio della mia stanza. Io che non volevo dipendere nemmeno dai miei genitori,
o da Harry e Ginny, o da Dean… adesso dipendo da… adesso dipendo completamente
da Malfoy.
Come sono arrivata a tutto questo?
Scintillante come diamante, una lacrima solca il
mio viso, morendo sulle mie labbra.
Nello stesso momento, sento all’improvviso mancarmi
qualcosa e mi sento cadere per terra. Che diamine succede?!!
Accidenti, la porta! Si è aperta! E io ci stavo appoggiata sopra! Ma quanto
sono cretina da uno ad un miliardo?! Un miliardo, vero?! Adesso, come minimo, mi rompo anche il naso…
La mia caduta si interrompe su qualcosa di compatto
e caldo. Inconsciamente, mi ci aggrappo sopra per riacquistare l’equilibrio. Ho
gli occhi chiusi, conseguenza dell’impatto con il pavimento che preannunciavo
già vicino. Quindi non vedo, ma… sento… sotto i
polpastrelli, la consistenza fresca e morbida di un tessuto estivo, forse lino,
l’anulare che invece ne supera i confini e trova qualcosa di liscio,
sorprendentemente bruciante sotto le mie dita, incredibilmente pulsante di vita
e forza. Sento scorrermi dentro un fiume in piena, incandescente, distrugge
tutto quello che trova sulla sua strada, incendiando e rendendo cenere i miei
pensieri, aprendo porte chiuse e illuminando a giorno tutto quello che era in
ombra. Spaventata, terrorizzata persino, stacco la mia mano come se bruciasse,
traducendo però il mio goffo gesto in una frettolosa e esitante carezza.
Arrossisco da capo a piedi, gli occhi ancora serrati, mentre sotto la mia pelle
sento battere qualcosa… un… cuore… una
persona, e chi è? Non riesco a pensare nitidamente, come carta bruciata tutto
mi sfugge e si spezzetta tra le mie mani. Mi allontano velocemente e la schiena
urta contro lo stipite della porta, il profumo dello sconosciuto che mi entra
dentro, spalancando le finestre della mia anima, lasciando passare un alito di
vita a cui non ero più abituata. Sento fremere i miei tessuti, la mia pelle, il
mio cuore, la mia mente, e non so che cosa mi stia prendendo. E’ orribile, è
come essere lanciati in una macchina che va a velocità folle, aggrapparsi disperatamente
a qualcosa con lo stomaco che fa mille capriole. Dio, non mi è mai successa una
cosa del genere…
Apro a fatica gli occhi, restando a bocca aperta
quando vedo chi ho di fronte. La risposta più banale e scontata, in fondo.
E quella che adesso stranamente fa quasi male.
Immaginavo un angelo, un alieno, uno di un altro
mondo, di un altro tempo e di un’altra vita.
Ed invece costui è terribilmente reale. E non è
niente di quello che avevo immaginato.
“Che cavolo fai qui, eh, Granger?!”
mi urla scandalizzato Malfoy “Stavi… origliando, o
cosa?!”.
“Come diamine ti viene in mente una cosa del genere?!!” ribatto ancora rossa in viso.
“Ed allora che facevi, eh, me lo spieghi?! Stavi pure per cadere! E mi stavi anche finendo addosso! Se non è origliare questo ed essere anche beccati…” spiega lui
brevemente, appoggiandosi con la spalla allo stipite della porta.
O mio Dio, o mio Dio… o mio Dio!!!!
Non adesso, non qui!!! Non riesco a guardarlo in
faccia, accidenti! Non ci riesco, mi vergogno troppo! Credo che tra poco si
abbronzerà con il calore che irradia la mia faccia, maledizione! E per
abbronzarsi lui, ce ne vuole… non riesco nemmeno ad alzare la faccia, ma sarò
idiota??Mammamiamammamiamammamia!!! E adesso che faccio???? Calma, calma, Hermione, calmati…
ricordati che lui può anche leggerti nella mente! Certo, fantastico, come meditatrice zen ho davvero un futuro… così mi agito ancora
di più!
“Granger?” mi chiama ancora Malfoy, la voce più
leggera.
Sì, evviva! Adesso si mette anche a fare il
gentile! Non basta la mia di crisi, ora lo perde pure lui il cervello! Che non ha, vabbè, quei tre neuroni in vertenza sindacale per il
sovraccarico di lavoro mal ripartito… respiro profondamente, prima di tentare
nuovamente di sollevare il viso scarlatto. Tutto questo, mentre mi stampo nel
cervello l’immagine di Malfoy undicenne con il pigiama con i boccini e i
capelli spettinati, cioè come lo vidi durante una rappresaglia notturna dei
Grifondoro… bene, sta quasi funzionando, il respiro si regolarizza, il sangue torna
alla pressione normale, il cuore smette di fare il pazzo… il cuore… il cuore di Malfoy. Sotto i polpastrelli delle mie
dita, sembra tornare a battere quel ritmo sconosciuto. Ritraggo la mano dietro
la mia schiena, come se recasse l’onta di una colpa inconfessabile. L’immagine
di Malfoy che mi sono creata ad arte nella mente viene bruscamente sostituita
da quella della persona che ho adesso di fronte e che ho sbirciato poco fa.
Arrossisco ancora, mentre mi sovviene nella mente il ricordo del
parte del petto che la sua camicia bianca lasciava scoperta e su cui io mi sono
artigliata poco fa. Ci conosciamo da tredici anni ed è la prima volta che ho un
contatto del genere con lui, la prima volta che la mia pelle sfiora la sua
senza violenza, che la sfiora e basta, che percepisco quasi quello che pulsa
sotto di essa. Ed è la sensazione più orribile del mondo.
“Granger,
insomma!” mi chiama ancora, la voce insofferente.
Il suo tono di voce tradizionalmente dedicato a me mi fa spazientire, sollevo il viso rapidamente,
trascinandomi dietro la mia vergogna che soccombe sotto il mio orgoglio.
Nascondo bene nelle pieghe del mio cuore quello che ho provato in questo
momento, seppellendolo a fondo assieme ai miei pensieri di poco fa. Sentirmi sola. Avere paura. Essere confusa.
Nascondo tutto a fondo in me, celandolo alla vista
di qualsivoglia persona. E torno me. O perlomeno ci provo, prendendomi a morsi
mentalmente per nascondere la mia debolezza.
“Che diamine vuoi, Malfoy,
eh?!” urlo come una pazza, la frustrazione che diventa rabbia.
“Come, che voglio? Voglio sapere che cosa ci facevi
dietro la porta della mia camera, mi sembra ovvio!”.
“Stavo organizzando un attentato…” mormoro acida “Un’autobomba… poi mi sono accorta che per le
scale non sarebbe passata e stavo valutando le dimensioni della porta per
piazzare una mina anti-uomo… o anti-furetto, vedila come vuoi…”. Malfoy mi
guarda ancora più irritato di prima, quindi alla fine mi decido a dire,
sbuffando: “Secondo te, che cosa potrei volere da te?!Ti devo parlare…”.
“Di cosa?” mi chiede lui scocciato, incrociando le
braccia.
Con terrore, mi accorgo che tra le parole che cosa e parlare, nella mia
mente si è creato un vuoto pari come dimensioni solamente alla fossa delle
Marianne. Che cosa ero venuta a chiedere a Malfoy??!!!
La tempesta emozionale di poco prima ha ridotto ad una pappetta
informe tutti i miei ragionamenti. Balbettando, cerco di trovare una scusa nel
tempo utile che serva per ricordarmi che cosa volevo da Malfoy: “Il gancio… il
maledetto gancio non c’è…”.
Non ascolto minimamente la replica di Malfoy, tanto
già so che sta per dire… il gancio c’è, sei tu che non lo
vedi… eccetera, eccetera… e intanto macino alla velocità della luce che cosa
ero venuta a fare qui… Dio, perché non lo riesco a ricordare?!!
Accidenti, accidenti, la vicinanza di Malfoy mi sta rendendo deficiente! E Seth
non è che aiuta, poi… mi sto esercitando solamente a diventare la funambola
delle bugie con lui… ogni volta mi devo inventare qualcosa di diverso con lui
per nascondere che sono una strega, e che…
Ecco! Ho trovato! Grazie cervello!!!
“In realtà non ero venuta solamente per questo…”
mormoro a bassa voce “Veramente ero venuta a parlarti di un’altra cosa…”.
“Granger, mi stai facendo impazzire… ti potresti
decidere una santa volta?!” inveisce lui, incrociando
rabbiosamente le braccia.
Ignorandolo, replico con voce seria e ferma: “Ero
venuta a parlarti di una cosa importante… ero venuta a parlarti di Danny
Ryan…”.
“Non capisco, Granger…” mi guarda Malfoy,
inclinando la testa di lato e fissandomi come se fossi una povera scema. Dio, quanto mi dà fastidio! Inghiottisco
chili e chili di orgoglio, sforzandomi di continuare: “Seth mi chiede spesso di
parlargli di me, della mia vita, di quello che ho fatto… e io non so che dire.
Devo inventarmi storie continue per nascondere che sono una strega e tutto il
resto. Ma soprattutto le poche volte che mi riesce qualcosa, rischio di mandare
tutto a monte, se quello che ho inventato contraddice quello che tu hai detto
di te stesso… di Danny Ryan, insomma. Quindi voglio sapere
che cosa hai detto come Danny… per regolarmi di conseguenza…”.
Malfoy mi guarda per qualche istante, negli occhi
cinerei passano come scie di luce tutti i suoi pensieri, veloci come saette e
fugaci come meteore, tanto che, nemmeno volendo, potrei interpretarne la loro
corretta natura. Mi innervosisce essere sempre un passo dietro di lui, anche
perché invece, per quanto riguarda me stessa, sono convinta che i miei pensieri
si leggano perfettamente sulla mia faccia. Resto a guardarlo come incantata,
sentendomi una stupida completa, ma non potendo impedirmelo. Mi incuriosisce
come nessun altro al mondo, è sempre stato così, ma adesso me ne sono accorta
compiutamente. Cerco di mantenere la mia faccia su un assetto normale, mentre una
smorfia sulle sue labbra sottili mi avverte che ha finito di riflettere. È
pronto a rispondermi, possibilmente nella maniera più sgradita possibile.
“Non se ne parla, Granger…” sibila con un tono che
non ammette repliche.
“Come, non se ne parla?!! E io come faccio?” mi infurio, stringendo i pugni.
Lui si passa stancamente una mano nei capelli
biondi, per poi dirmi con tono di voce estremamente annoiato: “Si dà il caso,
Granger, che io non sia propriamente nato ieri… pensi che questo stupido piano
possa funzionare?”.
“Quale stupido piano?”.
“Il piano che evidentemente hai
architettato per sapere qualcosa della mia vita… di Serenity e tutto il resto,
no?” risponde ancora con tono ovvio “Potter ti ha messo la pulce nell’orecchio
e, come sempre, da perfetta Grifondoro impicciona quale sei, stai cercando di
venire a capo della vicenda… in effetti, mi sembrava strano che non fossi più
al tuo posto… che c’è? Adesso fai le missioni segrete,
indagando sugli ex Mangiamorte?”.
Mi serro violentemente nelle spalle, mentre lui mi
fissa malevolo. Distolgo lo sguardo da lui e guardo con interesse la tromba
delle scale, accanto a me. Ci vorrebbe così poco per prendere ed andarmene…
eppure, so di non poterlo fare, se non altro perché attualmente a causa delle
avverse circostanze, Malfoy è il mio capo e contemporaneamente anche il mio
padrone di casa. Una cosa davvero fantastica. Al contempo, la mia intelligenza
mi suggerisce che Malfoy non mi dirà mai niente, se non capirà, nei suoi canoni
tarati di giudizio, di potersi fidare un poco di me o comunque di avere bisogno
di me per qualcosa. So che il secondo caso è alquanto difficile, quindi devo
guadagnarmi un poco della sua fiducia. Esattamente come quando interrogavo
coloro che si proponevano come collaboratori di giustizia. Dovevo cercare di
convincerli a fidarsi di me, altrimenti non avrebbero mai collaborato. Malfoy
deve fidarsi di me. E purtroppo c’è una sola maniera. La peggiore delle
maniere. Mi chiedo se ne valga davvero la pena, se vale la pena fare questo
sacrificio solamente per conoscere qualche cavolata sulla vita di Malfoy. In
fondo, che mi interessa? Harry diceva che mi posso fidare, che non è più un
Mangiamorte… eppure, so che la curiosità continuerà a divorarmi se non saprò
qualcosa in più su questa maledetta questione, specialmente su Serenity.
Quindi… la soluzione è una sola.
Sospiro leggermente, prendendo fiato e forza dagli
anfratti di me stessa.
“Malfoy” inizio, la voce mi trema un po’ e tento
senza successo di mantenerla ferma “Non potrei mai fare delle indagini sul tuo
conto… semplicemente perché non sono più né il Capo degli Auror, né tantomeno
un’Auror comune…”, sospiro ancora, eccola la parte difficile “… a dirla tutta,
non sono più nemmeno una strega…”.
“Che cosa?!” mi chiede
Malfoy, visibilmente scioccato. Non ha fatto nemmeno in tempo a scoppiare a
ridere, tanto forte è stata la sorpresa.
“Non sono una strega…” ripeto pazientemente e per
prevenire domande sgradite, aggiungo lapidaria: “Una condanna di interdizione
all’uso della magia per abuso di potere… cinque anni… ne ho scontati già tre,
me ne restano altri due…”.
“Non ci credo…” sbotta sinceramente, passandosi una
mano sulla fronte “Se me l’avessero detto qualche anno fa, credo che avrei dato
fondo alle riserve pirotecniche per il Capodanno cinese… la perfettina
Granger… condannata… assurdo…”. Eccola lì, la risata. Lentamente parte dai suoi
occhi, fino a prendere tutto il viso. Non credo di averlo mai visto ridere così
tanto… maledetto… è praticamente piegato in due dalle risate e si regge convulsamente
allo stipite della porta per non cadere riverso per terra. Magari perde
l’equilibrio e si spacca l’osso del collo, accidenti a lui ed alla mia bocca
larga! Ma come mi è saltato in mente di dirglielo??!!!
Come se potessi aspettarmi una qualsiasi reazione diversa da questa… batto un
piede per terra con impazienza, inducendogli silenziosamente di muoversi.
Lui si risolleva a fatica, continuando a
sghignazzare ed asciugandosi invisibili lacrime dalle ciglia. La voce ancora
piena di ilarità mi chiede: “Per favore, dimmi come è successo… non ci credo…”
e giù ancora a ridere.
Gonfio le guance come tutte le volte che mi
arrabbio enormemente. A questo segnale estremamente infantile,
ma inevitabile almeno per la mia psiche, Dean scappava a gambe levate.
Ma ovviamente Malfoy non lo sa. Ed anche se lo sapesse, dubito che si farebbe minimamente impensierire dalla mia reazione da
pesce palla in posizione di combattimento.
“La smetti?!!” urlo, rossa
in volto per la rabbia e per la vergogna “Basta, mi sono stancata… dirò a Seth
quello che mi pare e piace!”. Mi giro bruscamente su me stessa per scendere le
scale, ma, come era prevedibile, vengo fermata da Malfoy. Mi afferra per il
polso, costringendomi a girarmi di nuovo. Sta ancora ridendo, riduco gli occhi
a due fessure, volendo fulminarlo sul colpo. Non lo guardo in volto, mi farebbe
innervosire troppo, i miei occhi trovano la mano che stringe ancora il mio
polso. Non mi sta facendo male, non mi dà fastidio, è solamente…appoggiata… lui sembra accorgersi del mio sguardo e si stacca
da me, sbattendo per un paio di volte le palpebre.
“D’accordo…” mi dice in un soffio “Ma solo
qualcosa… e niente su Serenity, soprattutto… è solo per Seth, può diventare
davvero asfissiante… ci manca che gli dici qualcosa che non ho detto e quello
fa scoppiare un caso nazionale… e se lo dice a Summer… aspettami alla
caffetteria all’angolo della strada… è meglio stare lontani da tutti e due…”.
Annuisco con il capo, voltandomi e prendendo a
scendere le scale. Evviva! Ce l’ho fatta!!! Non so
come, ma ce l’ho fatta… Malfoy sembrava aver cambiato espressione
all’improvviso, quando mi ha lasciato andare… accidenti, mi fa talmente
innervosire il fatto di non capire che pensa! Si sarà fatto un suo ragionamento
mentale, da cui ovviamente sono esclusa, concludendo che in fondo potrebbe
dirmi qualcosa. Che nervoso… afferro da un tavolino la mia borsa e la mia
giacca di pelle, indossandola. Quando esco, Seth è ancora lì fuori, intento a
sistemare le luci.
“Non hai ancora finito?” chiedo, sorridendo, mentre
libero i capelli dal collo della giacca.
Lui sbuffa e non risponde, è evidentemente
combattuto tra il desiderio di mandare tutto all’aria e quello di compiacere
Malfoy. Poveretto, mi fa tanta pena…
“E tu? Dove vai?” mi chiede, guardandomi dall’alto della scala con
espressione indagatrice.
“Chi?!Io?”.
“No, l’elefante rosa che sta passando adesso… certo
che sto parlando di te, Herm!”.
“Ti ricordi la mia amica Ginevra…” balbetto senza
molta convinzione “…quella che si sta per sposare? Ha bisogno
di me per scegliere la stampa degli inviti… è veramente nevrotica…”.
“Quasi quasi vengo con
te… mi annoio a morte…” mi dice Seth, sbuffando.
Sì, ci manca solamente questa! Adesso che ho
incastrato Malfoy!!!
“Ma forse n-non hai capito quanto è nevrotica!
Insomma non sarebbe un bello spettacolo…” aggiungo annoiata e con una punta di
isteria nella voce “Tu magari immagini fiori d’arancio ed archi romantici, ma
non è così… credo che quel matrimonio sarà più simile alla notte di San
Bartolomeo…”.
“La notte di che?!”.
“Come di che?!! Di san
Bartolomeo! La strage di ugonotti a Parigi nel 1572… Dio, ma quanto sei
ignorante!” sbotto, veramente colpita, lo sanno tutti cos’è
la strage di San Bartolomeo, o no? “Bè, comunque ciao… non farò tardi…”.
In capo a pochi minuti, raggiungo la caffetteria
che mi ha indicato Malfoy. Lui chiaramente non è ancora arrivato, sarebbe
potuto uscire dal retro o perlomeno pensavo che l’avrebbe fatto ed invece è in
ritardo. Cerco un tavolo libero nella grande sala bianca ed azzurra ed una cameriera
seccata mi indica un posto accanto alle enormi vetrate che danno sulla strada.
Declino l’offerta, ci manca anche che mi vedano con Malfoy. La cameriera,
pensando a chissà che tresca o relazione extraconiugale, mi squadra dalla testa
ai piedi con un’attenzione che ha molto di un raggio X. Mi fa un cenno
d’assenso, ammiccando con l’occhio destro ed indicandomi un tavolo nella parte
più remota del locale. Estremamente imbarazzata, ordino un cappuccino ed una
fetta di torta alle mele, le prime due cose che mi vengono in mente, per poi
sedermi al tavolo e nascondermi dietro al menù per la vergogna. Lo so, lo so
maledettamente che ho già ordinato, ed anche la cameriera lo sa, l’ho fatta a
lei l’ordinazione! Per questo, non esita a guardare verso la porta per inquadrare
con sguardo lussurioso Malfoy che fa la sua entrata trionfante proprio in quel
momento. Cielo, quella donna sta praticamente sbavando! D’accordo, è un bel
ragazzo, riempie la stanza, ha ancora quella camicia bianca che… insomma…
quella che… quella che aveva, quando io… cioè… basta! Quella di prima, meglio rimuovere quell’immagine dalla mia mente,
prima che divento di nuovo la perfetta riproduzione di un pomodoro maturo… ma
comunque la reazione di quella pervertita non è giustificata. Anche perché,
poi, Malfoy in questo momento ha anche in braccio quell’angelo di Serenity.
Insomma, potrebbe essere benissimo scambiato per un giovane padre che porta a
spasso la sua piccola, anche se a me fa ancora strano vederlo in questi panni,
nonostante sono tre giorni che lo vedo sempre con quella che dice essere sua
sorella. Chissà, se oggi scoprirò qualcosa sulla piccola… d’accordo, ho sempre
il veto di Malfoy, ma devo cercare di intortarlo in qualche modo. Sono sempre
l’ex Capo degli Auror, in fondo, ne ho fatti di interrogatori, compreso quello
a Nick detto il Facocero. Indovinate il motivo del suo soprannome? Esattamente
quello che avete capito… non lo voglio nemmeno ricordare…
La cameriera risponde alla domanda di Malfoy con un
cenno stizzito del capo nella mia direzione, smettendo immediatamente di
scodinzolare come una vecchia cagnetta in calore. Ha anche i capelli come le
orecchie di un cocker… evidentemente deve aver pensato che io sia la fidanzata
di Malfoy o sua moglie o chissà che altro. Mi guarda infatti
schifata con la tipica faccia alla Ti sei messo con una cozza del
genere, quando c’era in giro una bella pollastra come me??!! Socchiudo
gli occhi, guardandola, mentre Malfoy si avvicina e si siede di fronte a me,
dando le spalle all’arpia. Sta mostra… perché io non potrei stare con un tipo
del genere, l’ha capito solamente lei! Mica sono da buttare, no? E Malfoy non è
mica Apollo, no? Potremmo benissimo stare assieme e Serenity potrebbe essere la
nostra bambina, no? Che cavolo! Quella insiste! Continua a fissarmi con sguardo
di sfida! Se avessi la mia bacchetta, le avrei già lanciato una fattura stile Marietta Norton ai tempi dell’ES…
“Le cameriere di questo posto devono avere dei
gravi scompensi ormonali…” borbotta Malfoy sottovoce, aprendo con stizza il
menù e sistemando meglio Serenity sulla sedia accanto a lui.
Coccolo un po’ la piccola, mentre quella donna
maledetta continua a fissarci… adesso ti faccio vedere io… mai sfidare Hermione
Jane Granger…
“Hai proprio ragione,tesoro…” urlo con voce acuta in perfetto immatricolazione
Patil&Brown production, in modo che metà della sala si volti verso di me,
compresa la cameriera ninfomane.
“Granger, ma che cavolo ti prende?!!
Sei diventata schizofrenica in questi anni?” mi sibila
Malfoy, appiattendosi sul tavolo e guardandomi storto. Sbuffo, mi ha
rovinato tutto l’aspetto drammatico della vicenda… non ci crederebbe mai
nessuno che stiamo assieme, non dopo la sua occhiata allaFreddy Kruger. Ma almeno la cameriera si è
volatilizzata, non fosse altro per il fatto che sembro una scappata da un
manicomio criminale. Non è quello che volevo, ma ho capito abbondantemente che
nella vita non si può mai avere quello che si vuole. Specialmente se c’è di
mezzo Draco Malfoy.
“Non fare quella faccia da tonno” borbotto impietrita,
mentre Malfoy mi squadra ancora malevolo come se si aspetti da un momento all’altro che cominci a vomitare succhi gastrici
verdi come nell’Esorcista “Era per la cameriera… mi stava dando
sui nervi come mi stava fissando…”.
“Forse
fissava me, non te…” commenta lui presuntuoso.
“Fissava
anche me, credo perché fosse convinta che stessi con te…” aggiungo, manifestando disgusto alla sola
idea.
“Che schifo!”.
“Per te… immagina per me… assomigliava a quando
calpesti una cacca di cane a piedi nudi…” sbotto nervosa,
aprendo nervosamente il menù, Serenity scoppia a ridere alla parola cacca. Le sorrido, almeno un
raggio di sole in questa giornata orribile. Come le tre giornate prima di
questa e quella prima ancora. Quattro giornate orribili. Sì, sono proprio
quattro giorni da quando ho rivisto Malfoy.
“Granger, sei veramente rivoltante…” aggiunge lui
gentilmente con una smorfia “Capirai il perché non voglia passare tutto il
tempo qui con te… muoviti… che vuoi sapere?!”.
Poggio il menù sul tavolo, tornando seria, e chiedo
con un filo di voce: “La vita di Danny… dov’è nato, che ha fatto, dove ha
studiato, la sua famiglia… insomma, quello che ti sei inventato…”.
Il suo volto cambia radicalmente espressione alle
mie parole, sembra rabbuiarsi, sembra quasi che un lampo azzurro sia passato
nei suoi occhi, provocandogli un piccolo moto di… sofferenza… sì,
sofferenza, io credo. Forse sto iniziando lentamente a capire le sue
espressioni, il suo viso, i suoi occhi e i pensieri che si celano dietro di
essi. Sofferenza… sofferenza per qualcosa che ho detto. Cosa? Non ho detto
niente di strano o di offensivo… con tutto quello che di solito gli dico,
abbondantemente ricambiata… ma certo… quello che ti sei
inventato… che stupida… è pur sempre la sua vita, fittizia
sì, ma sempre la sua vita. Faccio la sensibile e pretendo considerazione e
rispetto dagli altri, e poi sono la prima che prendo a calci i sentimenti
altrui. D’accordo, i sentimenti di Malfoy non possono essere molto complessi,
ma qualcosa la prova anche lui, no? La bambina bionda che ride accanto a me,
pasticciando in un budino al cioccolato, ne è la dimostrazione. E Serenity non
è qualcosa di inventato.
“Volevo dire…” cerco di correggere il tiro,
affondando nervosamente i canini nel labbro inferiore “Come hai fatto a
cancellare completamente la tua vita precedente e a costruirtene una nuova?”.
Malfoy mi guarda fisso per qualche secondo, come se
cercasse di leggere sulla mia anima nuda. Poi distoglie lo sguardo da me,
guarda Serenity e poi i suoi occhi tornano a me. E tornano a me sereni.
“Non è stato difficile…” inizia,
la voce volutamente bassa “Nel nostro mondo, parlo di quello a cui davvero
apparteniamo entrambi, se chiedi di Draco Lucius Malfoy, ti dicono che è morto. Potty ha
inscenato la mia morte…”.
“Come?”.
“Un incidente con un Ungaro Spinato…” replica lui
con semplicità, sorseggiando piano il suo caffè bollente “L’avrei comprato per
il mio castello, da un ricco eccentrico se lo potevano anche aspettare tutti,
no? Polverizzato dalle fiamme, nemmeno un cadavere da
tumulare… meglio così… meno spese inutili…”.
Un brivido mi passa sulla schiena. Come fa ad
essere così cinico, parlando della fine della sua stessa vita? E’ una
contraddizione vivente, sembra avere mille anime nel suo corpo, tra cui una
capace di sorridere dolcemente ad una bambina ed una che ti fa pensare che
arriverebbe a ridere di gusto davanti ad una lapide.
“Ma lasciamo perdere…” continua con leggerezza,
come se non stesse parlando di sé “In pochi sanno che sono ancora vivo… Blaise, Pansy… alcuni miei parenti… e sono tutti legati da
incantesimi simili a quello che impediva di rivelare il nascondiglio
dell’Ordine della Fenice… e poi Potty…”, solleva lo
sguardo plumbeo, guardandomi come se mi trapassasse da parte a parte,
aggiungendo: “… e adesso tu, Granger… và da sé che non voglio pubblicità…”.
“L’avevo capito…” sussurro con un magone in gola.
“Veniamo a Danny, allora… e di lui che vuoi sapere,
no?”.
Annuisco con il capo e lui
prosegue: “Il Ministero mi ha fornito e continua a fornirmi tutto quello di cui
ho bisogno per supportare la mia falsa identità… documenti, attestati, persino
fotografie ed altro, oltre che ad una somma di denaro periodico proveniente dai
miei beni e convertita in sterline… è tutto regolare… ci sono anche babbani che
in caso di emergenza testimonierebbero una mia assolutamente falsa conoscenza…
“Il mio nome attuale è Daniel Christopher Ryan…
sono nato ventitre anni fa da Laura Bennet e
Christopher Ryan senior a Providence, nel Rhode
Island. Mio padre era il direttore di una fabbrica di armi…”.
“Una fabbrica di armi?! Ed
in America, poi?!” chiedo sconcertata. Certo che
Malfoy se l’è inventata grossa la bugia… e poi… armi… mi si
accappona la pelle solamente a pensarci. Non avrebbe dovuto volere cambiare
radicalmente la sua vita? E si è scelto un destino pari a quello che aveva da
Draco Lucius Malfoy?
Lo vedo sorridere qualche
istante, perso nei suoi pensieri, prima di spiegare: “Sono stati quelli del
Ministero a consigliarmi di
scegliere una vita che avesse qualche attinenza con la mia vera esistenza… un
corrispondente babbano di un Mangiamorte potrebbe essere un fabbricante di
armi, no, Granger? Per loro, non avrei dovuto scegliere una vita
completamente diversa da quella che avevo realmente vissuto. Il mio carattere,
il mio modo di fare, tutto quello che mi appartiene… il mio essere in un
determinato modo piuttosto che in altro, è proprio per quello che sono stato e
che ho vissuto… sarei stato più credibile nella parte, mettiamola
semplicisticamente in questa maniera. Per quanto riguarda la scelta
dell’America e del Rhode Island, è dovuta ai
documenti che potrebbero richiedermi a Londra, e simili… essendo la mia
fittizia terra d’origine lontana abbastanza da Londra, si spiegherebbero i
ritardi nelle varie consegne, oltre che eventualmente il mio non conoscere
determinate cose comuni ai miei coetanei londinesi…”, la sua bocca si atteggia
in una sorta di risata amara e sarcastica, mentre aggiunge, la voce più cupa:
“Capisci, Granger? Sarò anche babbano ed americano, avrò
anche un altro nome…”.
“… ma è sempre tutto uguale…” completo con un filo
di voce. Lui annuisce con il capo, distogliendo ancora lo sguardo, non prima di
avermi nuovamente squadrato con l’espressione indagatrice che ho imparato
tipica di lui. Mi sembra tutto così assurdo, come possono imporre ad una
persona di vivere esattamente la stessa vita, da cui è scappato? E’
incredibile… è come quando una falena sbatte continuamente contro il vetro di
una finestra nel tentativo di uscire. Pensavo che come Danny, Malfoy avesse finalmente
tutto quello che non aveva mai avuto, ed invece… punto e a capo. Tanto valeva
restare com’era…
Dopo qualche attimo di silenzio, lo sento
continuare: “Ho vissuto a Providence per tutta la mia vita… nel caso te lo stia
chiedendo, ho frequentato lì anche il liceo, una scuola privata per ricchi o
roba simile… la Queen Elizabeth’sAcademy… ho una specie di attestato… avendo detto che sei
una mia compagna di scuola, credo che dovrai inventarti che eri a Providence
almeno negli anni di liceo…”.
Questa è bella… mi dovrò inventare una vita da
Golden Globe…
“Sono rimasto in America fino al primo anno di
college…” prosegue, dopo aver finito il suo caffè “Avevo iniziato a frequentare
Harvard, a Boston… volevo diventare medico, ma le cose andarono male. Mio padre fu incriminato per un caso di blooddiamonds, sai che cosa sono?”.
“Non sono i diamanti scambiati con le armi in
Africa e con cui si proseguono le guerre?” chiedo con un filo di voce, mi fa
paura questa storia e questa vita, ma mi fa paura soprattutto la tranquillità
con cui ne parla Malfoy. Lucido e cinico, sembra che sta raccontando la cronaca
di un telegiornale tipo.
“Il processo è stato
lunghissimo…” continua ancora, dopo aver preso in braccio Serenity “Tanto da
permettere a mio padre di concepire mia sorella… ma un anno e mezzo fa è stato
finalmente arrestato. Io avevo già lasciato l’America per Londra,
dove vivevo da alcuni miei amici e dove poi ho aperto il Petite Peste con l’aiuto di mia madre… un anno fa, mia madre è
morta, distrutta dal dolore e dalla vergogna, lasciando Serenity completamente
sola. Sono tornato a Providence solo per prendere mia sorella e per partecipare
al funerale di mia madre. Poi sono subito ripartito per
Londra… qualche mese fa, anche mio padre è morto… suicidato… in galera…”.
Le sue ultime parole mi prendono in pieno, come un auto a fari spenti nella nebbia. E’ stato telegrafico,
rapido, scarno, come se cercasse con precisione chirurgica di rendere indolori
le sue stesse parole alle sue orecchie. Che razza di vita, le armi erano solo
il primo passo… ha ragione, è praticamente la vita di un Draco Malfoy babbano.
Le pratiche illegali, la galera, la morte di tutti e due i suoi genitori, il
tradimento del figlio. La sola cosa diversa è Serenity, la sorella che,
perlomeno su questo sono certa, Draco non ha mai avuto. Ma che è la sola cosa
bella di questa storia. Non ho capito come l’ha avuta, ma sono contenta che ce
l’abbia. E, almeno adesso, non mi interessa sapere da dove sia venuta.
Basta che ce l’abbia, basta che sia una cosa colorata
nel grigiore della sua vita.
“Che c’è, Granger, ti si è mozzata la lingua?” mi
dice arrogante, soppesandomi con lo sguardo. Me ne accorgo
anche se ho gli occhi bassi. “Non volevi sapere la vita di Danny Ryan?
Eccola qua, te l’ho servita su un piatto d’argento… non sei
contenta? Vuoi forse che ti racconto per filo e per
segno come si è ammazzato il mio pseudo-padre?
Non è molto diverso da com’è morto il mio vero padre… solo
che allora non l’ha voluto lui…”.
“Smettila!” urlo, premendo le mani sulle orecchie
ed agitando il capo, non interessandomi che le persone in sala si voltino a
guardarmi. Sollevo gli occhi, resi lucidi da un peso che mi si è fermato sullo
stomaco: “Come diamine fai ad essere così, me lo spieghi?!
A raccontare queste cose come se non te ne fregasse niente?!!
Stai parlando di tua madre e di tuo padre, maledizione!!”.
Lo vedo ridere ancora, mentre
aggiunge tagliente: “Ironico che sia tu a dirlo, Granger… non sei stata forse
una delle prime a considerare i miei null’altro che schifosi assassini? Non mi sembra di essermi comportato in maniera molto diversa da te
e dai tuoi amici, o sbaglio?”.
“Questo non c’entra niente…” sussurro, il sudore
freddo che mi inzuppa la schiena “Tu sei il loro unico figlio, quindi…”.
“Quindi, cosa? Cosa, Granger?” mi interrompe freddamente, la voce che non si alza di mezzo tono, la
rabbia e il dolore visibili solo nel luccichio cieco dei suoi occhi e nel
rossore livido del suo viso “Quindi, che cosa?!! Dovrei difenderli, dovrei giustificarli, dovrei onorare la loro memoria?!Hanno
cambiato nome, ma sono sempre quello che erano, assassini, nulla di diverso da
questo… e io non sono nulla di diverso da questo, figlio di assassini, figlio
del sangue che hanno versato per sopravvivere, del sangue che ho fatto versare
anch’io per sopravvivere… è tutto qui. Cosa dovrei fare, raccontare di quando
mio padre mi portava a cavalcioni sulla schiena o di quando mia madre mi
cantava le ninnananna, ammesso che l’abbiano fatto?!
Potrebbero anche averlo fatto, ma cinque secondi prima avevano ordinato la fine
di bambini della mia stessa età, della stessa età di Serenity…”, i suoi occhi
vagano inquieti per la stanza, ostaggi di purpurei ricordi lontani, prima di
ritornare a me e di guardarmi con una sorta di ironia quasi cattiva: “…ma
certo, per voi, la forma è tutto…
l’ipocrisia dei vostri ragionamenti è rivoltante… siete stati i primi a volermi
dalla vostra parte. A mettermi contro di loro… e adesso che sono… sincero… nemmeno questo vi va bene… mi vorreste ipocrita
esattamente come voi, no?!Mi dispiace, ma questo non posso
davvero farlo…”.
“Voi, chi? Voi,
chi? Si può sapere di che diamine stai parlando, Malfoy?!”
dico a voce bassa, trattenendomi per quanto sia possibile e sporgendomi sul
tavolo, adesso non più spaventata, ma quasi furiosa.
“Certo, lei non sta
di che cosa sto parlando…” sorride lui, ancora, l’espressione malevola come
prima. Continuo a guardarlo in attesa e qualcosa del mio viso evidentemente lo
induce a parlare. Ma non a credere che io effettivamente non sappia di che sta
parlando. Se prima cercava di mantenere un certo distacco e di non ostentare la
sua rabbia, adesso invece sembra perdere il controllo. Lo vedo appoggiare
delicatamente Serenity sulla sedia accanto a lui e poi guardarmi con odio puro,
gli occhi socchiusi e il viso paonazzo. Rabbrividisco, pentendomi della mia
domanda e della mia sciocca ostinazione, arrivando anche a temere che da un
momento all’altro mi ammazzerà su due piedi.
“Non sai di che cosa sto
parlando, certo…” soggiunge, la risatina luciferina ancora intatta, poi mi si
avvicina e, con tono confabulatorio, prosegue, facendomi tremare dalla testa ai
piedi, sebbene cerchi di ostentare un controllo che non ho: “Tu sei più
intelligente di me, eh, Granger? Non diceva sempre così quella
vecchia megera della Mc Granitt o il bacucco Silente?!
Certo che dicevano così, no? La Mezzosangue Granger era la migliore tra noi, la
più intelligente, la più dotata… eppure adesso non capisce le più piccole cose…
è una piccola cosa l’ipocrisia, no? Una
piccola cosa, di cui hai una grandissima esperienza quotidiana e lo stesso non
la capisci… non capisci di che voi sto
parlando… quelli come te, gli Auror, i bravi ragazzi, quelli che si immolano
per la causa… per l’onore, per il bene, per la salvezza degli innocenti. Certo…
proprio loro… gli eroi…
“E adesso dimmi, Granger… chiameresti eroe uno che ammazza
senza pietà, che uccide chi gli pare e piace? D’accordo, si percuote il petto
per cinque secondi, dolendosi dell’anima prava che ha destinato al Creatore, ma
comunque l’ha fatto o no? Ma l’ideale fa la differenza, quello giusto e quello
sbagliato, quello buono e quello malvagio… e così continuate, celando dietro lo
splendore delle vostre vesti nivee, dietro il luccichio dell’oro delle armi,
dietro lo sfavillio dell’avorio dei templi, il nero del sangue che vi sporca le
mani esattamente come per i Mangiamorte… non c’è nessuna differenza… un niente
di differenza… una linea talmente sottile… ma voi continuate a chiamare le cose
con nomi diversi e così vi scaricate la coscienza… vi fate un segno sulla
fronte e siete a posto… ci sarà sempre un paradiso per voi ed un inferno per
quelli che non sono come voi… eppure, sai che c’è, Granger? La linea per me
nemmeno esiste. Non la vedo. E forse sarà per sempre questa la mia colpa. Ma tu
non capisci ancora, vero? Ok, d’accordo, cercherò di essere più chiaro…
“I Paciock… sono stati resi folli
dalla tortura… pazzi… chiusi dentro il San Mungo a delirare e a parlare con i
morti… nella mia mente, le sento ancora le loro grida. Ero piccolo, avevo qualche mese e
mio padre mi portò al loro martirio. Mia zia Bella rideva come una pazza, una
povera pazza… un Pensatoio mi ha fatto rivivere tutta la scena… tirava capelli,
strappava unghie, lanciava fatture… fu quello a non farmi essere un Mangiamorte,
quel ricordo. Le urla che sentivo quando chiudevo gli occhi… non volevo essere
uno di quelli che facevano quelle cose. E venni dalla vostra parte…
“Un giorno, a guerra finita, dopo che erano passati anni
dalla morte dei miei, strappai un ricordo da uno che avevo assistito alla loro
morte. Un Auror,
Anthony Goldstein. Mi avevano detto che erano morti,
combattendo contro l’Ordine, ma io non ci credevo. Li conoscevo bene, non
avrebbero mai lottato se questo avrebbe comportato il rischio serio di perdere la
vita… quando vidi quel ricordo, ebbi un enorme dejà vu. Sì, Granger, erano
cambiati i colori, sostituite le maschere, modificate le armi… ma era la stessa
cosa. Uccisero i miei, torturandoli fino alla morte, e solo per sapere dov’era
Voldemort. Violentarono mia madre, massacrarono mio padre, ma era lo stesso. La
stessa fottuta cosa. C’erano solo due differenze… i Mangiamorte si fermarono,
quando i Paciock impazzirono. Gli Auror, no. Non lo
so, forse perché sono loro gli eroi e loro sanno sempre che cosa fare. Mia
madre e mio padre erano solo assassini in fondo, come mia zia. E forse queste
cose non le capivano…
“La vostra ipocrisia fa chiamare i Paciock
eroi, fa piangere a sentire il loro nome, fa ergere statue e fa affiggere
medaglie. E poi
fa chiamare mia madre puttana e mio padre bastardo, fa ridere a sentire il loro
nome, fa scoperchiare tombe e profanare reliquie… e riserva il primo
trattamento agli Auror.
“Ma
forse, proprio come i miei, non le capisco queste differenze. E per me sono assassini e mostri i miei genitori, anche se mi hanno
dato la vita; ed assassini e mostri sono quelli come te, anche se siete i
buoni…ora, spiegamela tu la differenza, Granger, se ci riesci… spiegamela…
riempila di parole bellissime e vuote e spiegamela tu… sicuramente, avrai
ragione tu, non io…”.
Non so
esattamente in che punto esatto del suo discorso, ho iniziato a piangere.
Adesso l’unica cosa di cui sono cosciente sono le lacrime che cadono lungo il
mio viso e la voragine che mi si è aperta al posto del cuore. Non può essere
vero… non ci credo… gli Auror, quelli che comandavo fino a qualche anno fa…
hanno ucciso i genitori di Malfoy… se c’era Anthony Goldstein,
molti di loro dovevano essere ancora al mio servizio. Nella mia mente, scorrono
veloci i mille visi amichevoli e sereni degli uomini e delle donne che ho
guidato e che ho diretto nelle varie azioni, cercando una minima traccia che mi
possa mostrare in uno di loro le tracce di quell’abominevole assassinio. Ma non
ne trovo, nemmeno in Anthony che Malfoy ha nominato direttamente. Un ragazzo
allegro e tranquillo, così lo ricordo, che si spaventava al minimo accenno di
rissa e che correva a nascondersi dietro il capo della sua squadra. Fu uno dei
pochi a dispiacersi, quando fui mandata via, e lui sarebbe… no, non è possibile…
Malfoy mente, sta mentendo, è solamente per ferirmi che dice queste cose… in
fondo, è sempre di lui che stiamo parlando… no, gli Auror non sarebbero mai
capaci di una cosa del genere… se loro facessero delle cose del genere, loro…
i… buoni… i Mangiamorte che cosa dovrebbero fare, allora? Non avrebbe
senso che io abbia scelto di stare da una parte piuttosto che dall’altra… non
avrebbe senso essere diventata un’Auror… non avrebbe senso più nulla…
“Non è
vero…” balbetto sottovoce, singhiozzando senza ritegno.
Malfoy mi guarda per qualche secondo, per poi dire quasi
sgomento: “Non mi dire che non sapevi nemmeno questo? Ma che razza di capo degli Auror
sei?!”.
“Non è
vero…” ripeto, sollevando gli occhi rossi e guardandolo con odio. In pochi
secondi, ha praticamente distrutto quel poco che rimaneva della mia vita.
Il
momento di smarrimento di Malfoy passa rapidamente, ritornando alla rabbia:
“Certo, lei non sa nulla di dove lavora, non sa un cavolo di quello che fa, di
quello che fanno quelli che lavorano per lei, e sono io quello che mente?!! Se non ci credi, se pensi che sia una bugia, perché non
lo chiedi a Potty? Perché non lo chiedi al Ministro?
A lui, ci crederai, no? Chiedilo a lui, Granger!”.
“E’
esattamente quello che farò…” urlo, alzandomi in piedi e continuando a
singhiozzare “E lui mi dirà che è una schifosa bugia! E allora, Malfoy, ti
giuro che ti farò passare tutto quello che sto passando io adesso per colpa
delle tue orribili bugie!”.
Lui ride
ancora: “Sei ancora qui, Granger? Guarda
che il Ministro riceve fino alle 3…”.
Come
tanti anni prima, mi scaglio con violenza su di lui, schiaffeggiandolo in pieno
viso. Lui barcolla, quasi cadendo dalla sedia, mentre tutte le persone attorno
a noi ci guardano attoniti, compresa la cameriera di
prima che finalmente metabolizza che non stiamo assolutamente assieme. Al
momento, credo che non vorrei più nemmeno stare nella stessa stanza dove c’è
lui, una schifosissima serpe come lui. Resto immobile, la mano che mi brucia
orribilmente, lo sguardo di sfida negli occhi, pronta a qualsiasi reazione da
parte sua, le lacrime che non ne vogliono sapere di smettere di cadere. Lui si
limita a rimettersi dritto, a lanciarmi uno sguardo di traverso,
per poi dire tagliente: “Non ci sarà una terza volta, Granger… fai quello che
vuoi, parla con Potter, non farlo, pensa che ti abbia mentito… non mi
interessa… ma stasera ti voglio fuori dalla mia vita… sono stato abbastanza
chiaro? Nel caso tu non abbia capito, come per molte altre cose, te lo
rispiego: sei licenziata…”.
“Benissimo…”
soggiungo, raccogliendo la mia borsa e mettendomela sulla spalla “Finalmente
questa pagliacciata è finita…”. Esco, praticamente correndo, non prima di aver
lanciato uno sguardo a Serenity. Povera piccola, non la rivedrò mai più… e
nemmeno Seth… ma ormai è dannatamente chiaro che non posso più rimanere in
questo posto, assieme a Malfoy. E’ crudele, cattivo, perfido… è giunto ad
inventarsi una cosa del genere sui suoi genitori,
solamente per ferirmi. E come parlava di loro, Dio mio… come se fossero delle
persone come altre, come se non fossero i suoi genitori… fosse anche che i miei
fossero stati delle persone del genere, non avrei mai smesso di amarli e, se
non proprio di difenderli, di intimare a chiunque di non parlare male di loro
in mia presenza. Ma lui invece è il primo ad offenderli gratuitamente… e poi la
storia che sarebbero stati gli Auror ad ucciderli… assurdo… come se fosse
successa una cosa così, il Ministero li avrebbe tranquillamente lasciati al
loro posto. Sarebbero stati destituiti, puniti, forse anche imprigionati. Hanno
punito me per abuso di potere, e in quel caso che avrebbero dovuto fare?
Condannarli a morte? E’ solamente una orribile ed
infamante bugia…
L’impatto
con l’aria dell’esterno, mi spinge curiosamente a piangere ancora di più. Mi
fermo sul marciapiede, gettando un’occhiata al Petite Peste, dove posso
ancora intravedere la scala e Seth arrampicato inutilmente sopra. Sorrido, mi
mancherà… quando tornerò a prendere le mie cose, li spiegherò tutto. Inizio
pigramente a camminare per strada, asciugandomi le lacrime con il dorso della
mano, non sapendo dove andare. Mi fermo a guardare le vetrine con aria
annoiata, la vista resa cieca e disinteressata dalla miriade di pensieri che
affollano la mia mente. Dopo essere rimasta mezz’ora davanti ad un’agenzia
d’assicurazione, dove non c’è proprio niente da guardare, cerco di fare mente
locale su dove andare. A casa mia? O da Ginny? Ma i miei pensieri mi scivolano
dalle mani come l’acqua di un ruscello, contaminati dalle irragionevoli parole
di Malfoy e dal volantino dell’assicurazione che pubblicizzava la nuova polizza
contro gli incendi.
Assassini
e mostri sono quelli come te, anche se siete i buoni…
Risarcimento
completo anche di mobili antichi danneggiati!!
All’improvviso,
una voce tenue e flebile si insinua tra queste parole sconnesse. Cerco di
afferrarla nella mia mente, mentre anch’essa scappa via, e cinque secondi dopo,
vorrei già averla cancellata dalla mia testa.
La voce
di Harry.
La
telefonata di quattro giorni fa.
La mia
domanda. Non è strano che viva da babbano?
La sua
risposta. Il tono di voce prudente ed esitante. No, Herm. L’esitazione
che, di fronte alla mia insistenza, diventava nervosismo. Lo so
perfettamente come vive Malfoy, dato che sono stato io a dargli quello che ha…
Il mio
sconcerto. E l’incertezza della sua risposta. Esattamente… alla fine della
guerra… sai che hanno ucciso i suoi genitori?
E quella
risposta… quella parola sfuggita per caso… è stato una specie di
risarcimento…
Le
lacrime ricominciano a cadere dai miei occhi, mentre quella singola parola
rimbalza nella mia testa.
“Insomma,
è stato una specie di risarcimento…”.
“Non
capisco”.
“Non
ce n’è bisogno…”.
Il
Ministero ha risarcito Draco Malfoy, facendogli cambiare identità, sbloccando i
suoi beni, dandogli quello che ha. È stato Harry a dargli quello che ha. Per
risarcirlo, risarcirlo della morte dei suoi genitori. Decine di Mangiamorte
sono morti, ma nessuno dei loro figli è stato risarcito. Il Ministero sarebbe
andato in fallimento in quel caso. E poi c’era sempre la guerra… nessuno
sarebbe stato così folle da chiedere un risarcimento, se il proprio congiunto
aveva deciso di essere un Mangiamorte, al massimo era proprio il Ministero a
dover chiedere un risarcimento. Non il contrario. Ed invece Harry ha risarcito
Draco Malfoy… per la morte dei suoi genitori…
L’ha
risarcito perché gli Auror hanno ucciso volontariamente e con deliberata
crudeltà i suoi genitori.
Quella
frase nel cervello, inizio a correre per strada, urtando persone, facendomi
mancare il fiato, il vento che gela le lacrime sul mio viso. Non so quanti
metri o forse chilometri ho percorso, quando vedo un palazzo dalla forma
vagamente circolare con un portone di colore azzurro. Lo spalanco con forza,
suscitando le ire del portiere. Non gli rispondo, urlando solamente se Ginny
Weasley è in casa. Intimorito dalle mie lacrime e dal mio viso stravolto, mi
dice di no. Salgo le scale a due a due, incurante che
mi richiami indietro, arrivo al terzo piano, scorgo la sua porta, alzo lo
zerbino e prendo la chiave d’ingresso. Apro la porta, sbatte con un tonfo sordo
contro la parete del corridoio, il frastuono rimbalza per la tromba delle scale
con un eco prolungato. Il portiere continua a gridare, mi insegue, chiudo la
porta, la sbatto alle mie spalle. L’appartamento è in penombra, le persiane
sono chiuse, a tastoni trovo il salotto. Accendo il
camino, usando la bacchetta di Ginny che lei ha lasciato sul tavolo. Sarà
andata a fare spese per il matrimonio, dice che preferisce gli atelier babbani.
Accendo anche le luci della stanza con un secco colpo di bacchetta, non
fregandomene niente della condanna. Non risaliranno mai a me, la magia risulta
fatta nell’appartamento di Ginny Weasley, mica nel mio. Folle, mi metto a
cercare il vaso da fiori con il disegno rosso, dove Ginny nasconde la Polvere Volante.
Lo trovo e ne prendo una manciata. Mi manca il respiro, ormai, mi duole la
milza e mi sento morire. Le mie ultime forze credo di
perderle, mentre urlo nel camino: “Ministero della Magia. Ufficio di Harry Potter”.
Taddadà, ecco a voi un nuovo capitoletto!!
Il titolo significa IL PAESE DELLE MERAVIGLIE, anche
se non siano state propriamente delle belle meraviglie, anzi… è iniziato comico
il capitolo, ma è finito tragico! Eheheh… ed anche
stavolta ho interrotto il capitolo nella parte migliore!!
Passo subito ai ringraziamenti:
Feffe_Cullen_Blast:
evviva, una nuova lettrice!! Grazie dei tuoi
complimenti… Seth insomma prende vita da solo, è po’ una sommatoria di tanti miei
amici… chissà che risate allora con il tuo amico Luca! Summer anche lei
purtroppo per la mia salute mentale esiste!! Spero che
anche questo capitolo ti sia piaciuto!! Un bacio!!
elly 91: grazie!! Certo che Seth è davvero amato!! Mi fa piacere…!! Purtroppo per
lui il suo amore per Danny dovrà essere immolato alla nobile causa di questa fic!!Eheheh!!
Lunachan62 : ma quanti complimenti!! Ma me li merito davvero??!! O_O!!!
Francy_hurt_16 : ebbene sì, nella mia fic Herm è
una psicopatica, insomma ho cercato di far uscire tutte le caratteristiche che
secondo me la Rowling
non ha messo in luce!! Sono presuntuosa, lo so… parlare di lei è facile perché praticamente
sono identica a lei, insomma alla fine sto descrivendo me stessa!!:D grazie dei tuoi complimenti!!
Lights: grazie graziegrazie!!! Sono davvero contenta, perché solo ora mi
sono resa conto che hai recensito capitolo per capitolo!! Sei il sogno di ogni
scrittrice!! Un mega bacione e grazie dei tuoi
complimenti!! Spero che anche oggi Herm ti abbia
sfiancato!!
Un saluto anche a tutti coloro che leggono soltanto!!
Che non
sono abituata più alla Polvere Volante, credo di averlo capito subito.
Negli
anni, ero riuscita a mettere a punto un’uscita perfetta dai camini che dovevo
passare. Atterravo in piedi, come un’acrobata che aveva appena finito una
complicata evoluzione e tutto questo senza nessuna sensazione sgradevole
successiva allo spostamento. Al corso per Auror, mi avevano insegnato una
tecnica che riducesse al minimo i disagi di quegli spostamenti, soprattutto nel
caso si doveva affrontare una battaglia immediatamente dopo. Bisognava
affrontare il viaggio ad occhi chiusi, concentrando la propria mente su
un’immagine predefinita, possibilmente del posto dove ci si stava recando. E io
ero stata la prima a capire la cosa e ad impadronirmi della tecnica. Ma sono
tre anni che non viaggio più in questo modo; nelle mie rare visite al
Ministero, ho sempre usato la cabina telefonica a Londra e mai i camini. E poi
credo che in questo momento, con la mente così in subbuglio, qualsiasi cosa
abbia imparato nella mia vita, mi giungerebbe a fatica. Specialmente se sia
qualcosa che ho imparato per il mio essere un’Auror.
Crollo
per terra, un dolore sordo su per le ginocchia, il viso che rovina giù coperto
dai miei capelli. Incrocio il mio riflesso sul marmo del pavimento, gli occhi
rossi che grondano ancora lacrime, il viso pallido coperto di cenere vagamente
lavata via dal mio pianto inesauribile, i capelli in disordine ed arruffati. Mi
viene quasi da sorridere, sono veramente spaventosa. Sembro un uccellino caduto
da un nido in una giornata di vento. E dentro… bè, la situazione non è
molto differente. Sono a pezzi.
“Hermione?”
una voce dolcissima mi raggiunge le orecchie, il tono soffice della sorpresa e
della domanda. Dio, quanto mi è mancata questa voce, o comunque una voce come
questa… la voce di una persona che mi ama. Seth forse già mi vuole bene,
April e Trey sono simpatici, ma… una persona che mi ama… è tutta un’altra cosa…
per un attimo, sollevando il viso, dimentico il dubbio atroce che sono venuta a
sciogliere qui.
“Harry…”
sussurro, scoppiando ancora a piangere. Lui mi guarda preoccupato, alzandosi
velocemente dalla sedia ed inginocchiandosi vicino a me. Mi accarezza il viso,
chiedendomi che cosa sia successo e perché sia lì. Il labbro che mi trema incontrollabilmente, mi getto tra le sue braccia, piangendo
senza ritegno come una bambina.
Lui mi
fa sfogare, accarezzandomi piano la schiena, evidentemente non riuscendo a
capire che cosa mi sia preso. Alla fine, controvoglia, mi stacco da lui per non
fare la figura di una povera pazza e mi faccio portare sul divano nel suo
studio. Mi siedo, respirando a fondo e cercando di calmarmi, mi sembra quasi
che tutto quello che sia successo negli ultimi giorni, abbia rotto adesso gli
argini e mi stia facendo soffrire adesso a distanza di così tanto tempo.
Harry si
siede accanto a me, stringendomi la mano e dicendomi teneramente: “Non ci
vediamo per mesi e poi piombi qui in lacrime… è una bella consolazione…”.
Mio
malgrado, sorrido per poi prendere dalle sue mani una
tazza di tè fumante che ha fatto apparire con la magia. Lo ringrazio e lo
sorseggio lentamente. La calda bevanda e la vicinanza di Harry mi fanno calmare
all’istante. Cerco di recuperare il filo dei miei pensieri e, sebbene le prime
immagini che mi vengono in mente sono quelle che hanno
creato le parole di Malfoy, mi impongo di rimanere zitta almeno per il momento.
“Scusami…”
sussurro, la mia voce che trema ancora, ma almeno le mie lacrime si sono
finalmente fermate.
“Non
dirlo nemmeno per scherzo…” sorride lui, lasciando la mia mano ed appoggiandosi
allo schienale del divano “Una pausa ci vuole sempre… speravo solamente in una
pausa un pochino più allegra…”.
“Stavi lavorando? Allora scusami anche per questo…” chiedo
ancora, finendo il mio tè.
“Non ti
preoccupare… stranamente, oggi non c’è molto da fare…” mi risponde lui,
chiaramente stanchissimo “Stavo per staccare… dovevo incontrare il
rappresentante dei Lepricani della Cornovaglia
occidentale, ma ha detto che oggi non ce la faceva. Insomma, mi si è liberato
il pomeriggio… o meglio, mi si era liberato prima che Ginny decidesse che oggi
è il giorno perfetto per scegliere i fiori per la cerimonia. Ma
devo vederla solo tra tre ore… per adesso, sono libero… allora, mi dici che
cosa ti è successo?”.
Mi serro
nelle spalle, all’improvviso non ho più tanta voglia di parlare. Forse avrei
dovuto aspettare che Harry tornasse a casa… il suo ufficio è il posto peggiore
dove parlare di questa cosa. Era qui che, una volta alla settimana, facevo la
relazione delle attività oscure al Ministro. Venivo qui
di sabato mattina, verso le undici, con un vassoio pieno di cornetti e io ed
Harry ci mettevamo a mangiarli, voraci come pochi. Io borbottavo qualcosa sul
lavoro tra un morso e l’altro, parlando dei problemi che mi davano le reclute,
o delle attrezzature sempre troppo scarse o troppo costose; giusto per parlare
di qualcosa che avesse una minima attinenza con il lavoro. Tutto sembrava
andare ottimamente. Ed allora, dopo qualche minuto di formalità, io ed Harry ci
mettevamo a discutere sul programma per la serata, scambiandoci le opinioni
assurde che avevano Ron e Ginny. Risate su risate, alla fine decidevamo
qualcosa, e puntualmente la sera andavamo in un posto che con quello
programmato non c’entrava assolutamente nulla.
Mi
guardo attorno, gli occhi che si velano ancora. Vorrei
disperatamente ritornare a quel tempo, a quei giorni, alla me stessa che ero,
quella che non era stata ancora tradita da Ron, quella che non era stata ancora
lasciata da Dean, quella che non aveva ancora lavorato come cameriera per
Malfoy. Guardo l’enorme finestra che dà sulla strada, la libreria di frassino,
il dipinto con l’effige di un’enorme fenice fiammeggiante che Harry fece
realizzare per onorare Silente, la foto sulla scrivania dei vecchi membri
dell’Ordine ai tempi della Prima Guerra, quella accanto ad essa con la cornice
dello stesso colore e con la foto dei nuovi membri ai tempi della Seconda
Guerra. Qualcosa mi fa male dentro ogni volta che le vedo accostate l’una all’altra,
mentre rifletto che ci sono morti nella prima e morti nella seconda. Quanti
morti… sempre troppi… e quanti morti, invece, non sono in nessuna foto. Perché
non si sa che fine abbiano fatto, persi nel vortice del sangue e della
violenza. Perché non sono mai stati trovati come cadaveri e vengono onorati
nell’attesa di un ritorno che non si compirà mai. O perché, invece, nessuno gli
onorerà mai. Tutti spereranno nella mancanza di un
forma qualsiasi di ritorno, fosse anche il ritorno solo della memoria.
Nessuno
si ricorderà di loro, se non per disprezzarli ed odiarli.
Nemmeno
il loro unico figlio.
Gli
occhi mi pizzicano, mentre le parole di Malfoy mi ritornano nella mente.
Sollevo lo sguardo verso Harry che mi guarda in attesa, ancora
preoccupato. La sua immagine attuale si sovrappone a quella del
ragazzino ai tempi della scuola, quello che soffriva in silenzio, quello che
veniva tormentato da incubi, quello che seppe di dover essere il solo ad
uccidere Voldemort. E’ rimasto molto di lui nella persona che ho davanti oggi,
gli occhi verdi sempre coperti dalle lenti sono sempre così maledettamente
tristi. Mi chiedo se sia giusto parlargli di quello che mi ha detto Malfoy. Se
non fosse vero, perché dovrei farlo soffrire inutilmente? Ma… se lo fosse…?
“Quattro
giorni fa, ho iniziato a lavorare come cameriera in un locale di Londra… il Petite peste…” sputo fuori come veleno
dalla mia bocca, tentando di estirpare il dolore da me stessa “E’ difficile da
spiegare come le cose siano andate di preciso… ma è comunque lì che vivo
adesso, dopo che Dean se ne è andato di casa… mi ha lasciato, Harry…”.
“Non lo
sapevo…” soggiunge lui triste, stringendomi forte la mano “Dov’è adesso, lo
sai? L’hai più sentito?”.
“E’ in Francia… ha avuto una promozione…” proseguo, asciugandomi
una lacrima solitaria che mi sfiora la guancia “E comunque, no, non l’ho più
sentito da allora… ma credo che, in fondo, sia giusto così. Meritava di
meglio di una persona che non lo amasse totalmente… è un ragazzo meraviglioso e
credo che non resterà solo a lungo… a parte questo, non ti ho detto una cosa
importante… il locale… il locale dove ho trovato lavoro… è quello di Danny
Ryan… insomma, è Malfoy che mi ha assunto…”.
“Malfoy
ti ha assunto?!” mi chiede Harry, autenticamente
scioccato, lasciando la mia mano come se scottasse.
Annuisco con il capo: “Non so perché l’abbia fatto… ma credo
che sia stato solamente per un suo amico che mi ha preso in simpatia… ha fatto
pressione su di lui ed alla fine ha accettato. È lì che lavoro
e dove vivo, divido l’appartamento con Malfoy, Seth, il ragazzo di cui ti ho
parlato… e Serenity, quella che Malfoy dice essere sua sorella…”.
Sollevo
lo sguardo su Harry che per tutto il tempo per cui ho parlato ha ripetuto “Non ci credo…”, e che adesso al nome di Serenity si serra
nelle spalle, distogliendo lo sguardo da me. Sorrido tra me e me, ogni volta
che Harry mi doveva dire una bugia non mi guardava in faccia, temeva che io lo
smascherassi.
“Non c’è bisogno che tu mi parli di lei, se non
puoi… di Serenity, intendo…” gli dico, rassicurandolo “Al momento, quella
bambina è l’ultimo dei miei pensieri… mi basta sapere che Malfoy ha diritto ad
averla e che non l’ha sottratta ai suoi veri genitori…”, alle mie parole, Harry
si gira ed annuisce in silenzio, così da indurmi a continuare: “… allora, è
tutto a posto… le vuole bene, la tratta bene e Serenity è una bambina sana e
bellissima, oltre che allegra e vivace…”.
“Se non è questo che ti preoccupa…” mi interrompe
Harry pensieroso “… se non ti crea problemi lavorare per lui… che cosa c’è che
non va?”.
“Stamattina ho chiesto a Malfoy di parlarmi della
sua vita come Danny Ryan…” sospiro, decidendo di lasciar perdere i dettagli e
di arrivare subito al dunque prima che mi manchi di nuovo il coraggio “Mi ha
detto qualcosa… ma, nella conversazione, ha aggiunto qualcosa… mi ha detto che
sono stati gli Auror ad uccidere i suoi genitori… a torturarli fino ad
ucciderli, solo per avere informazioni su Voldemort… mi ha anche detto che tu
lo sai benissimo… e ho ricollegato questa cosa alle parole che mi hai detto al
telefono un paio di giorni fa… che il Ministero l’avrebbe risarcito. Gli ho detto che non gli credo, lui sa persino chi
sono stati… mi ha fatto il nome di Goldstein… e lui è
un Auror ancora adesso…”, riprendo fiato e proseguo, senza guardarlo in viso:
“… non mi interessa se è un segreto di stato o simile, Harry. Voglio sapere se è vero… voglio sapere se gli uomini e le donne che
erano al mio servizio c’entrano con questa storia…”.
Torno a guardarlo, sperando di cogliere un minimo segnale
di incredulità o di sconcerto.
Un suo levare di sopracciglio, una sua risata
nervosa, un suo sbottare assolutamente sconvolto.
Ci spero con tutte le mie forze.
Ed invece lo vedo alzarsi e fermarsi davanti alla
finestra, dandomi le spalle.
L’unica cosa che riesco a fare è chiudere gli
occhi.
Appoggio stancamente la fronte sulle ginocchia,
raggomitolandomi su me stessa per non sentire freddo. Non che lo senta, ma si
sa… le notti di primavera a Londra sono insidiose, sembra non fare freddo ed
invece la temperatura è scesa anche di parecchio. Tu te ne rimani fuori,
tranquillo e contento, e poi alla mattina hai una faringite assurda. Se non una
polmonite assurda… per questo, mi stringo ancora meglio addosso
il piumone, cercando di coprirmi completamente.
Ho scoperto questo posto per caso, un giorno che
Summer era particolarmente nervosa perché non avevo messo correttamente in
ordine le sedie nella sala ristorante. Scappai di
sopra, oltre l’appartamento di Seth fino sul tetto, e mi accucciai in un piccolo
spazio tra la caldaia e la ringhiera del tetto. Se qualcuno entra, non vede
dove sono nascosta, ma io lo vedo perfettamente e quindi ho il tempo di uscire
allo scoperto, di prepararmi psicologicamente o di rimanere al mio posto. Da
allora, è diventato il mio rifugio segreto. Quando non dormivo la notte, quando
Summer inveiva contro di me, quando mi sentivo sola, sono sempre venuta qui, restando muta a guardare le case lontane di Londra e i
parchi di Notting Hill, fin quando le luci e i suoni
mi affollavano dentro l’anima e il vuoto nel petto se ne andava.
So che non dovrei essere qui.
Malfoy è stato chiaro.
Sono stata licenziata.
Eppure, appena ho lasciato Harry, sono corsa qui.
Erano le cinque del pomeriggio, sapevo che oggi sarebbero stati tutti fuori,
perché giorno di chiusura, e mi sono ritrovata qui. Summer voleva trascinare
Malfoy ad una mostra e Seth avrebbe approfittato della giornata libera per
andare a trovare sua madre, mi aveva chiesto anche di andare con lui ed io
avevo accettato, chissà se se l’è presa perché non ci
sono più andata… sono sgattaiolata dentro come una ladra, ho raccolto le mie
cose in un borsone e mi stavo preparando ad uscire. Poi ho cambiato idea, ho
preso un piumone dall’armadio e sono salita sul tetto con il mio borsone. Mi
sono detta che avrei visto solamente il tramonto ed invece no… è calata la sera
e adesso si avvicina la notte, eppure non riesco a muovere un passo. Ho pianto,
molto, ma adesso non ce la faccio nemmeno a piangere. Quindi mi crogiolo nella
non urgenza di dover fare qualcosa. Quando mi capita, ed è davvero molto raro,
è meglio che me lo goda fino in fondo. Mi aspettano parecchie giornate così.
Distrattamente, afferro il cellulare dalla tasca,
aprendo lo sportello e guardando il display per vedere che ore sono. Le 22,57…
ci sono dei messaggi, ci sono parecchi messaggi, ma non li leggo. So di chi
sono. Harry. Ginny. Forse persino Ron, Lavanda e magari anche Dean. Ma non mi
interessa. Ormai non mi interessa davvero più niente.
Avrebbero dovuto mandarmi un messaggio il giorno in
cui dicevo di voler sacrificare tutto per diventare un’Auror.
Il giorno in cui ho creduto in qualcosa più grande
di me, estremamente eroico e giusto.
Il giorno in cui dicevo che volevo fare la cosa
giusta, che volevo ripulire il mondo. Il giorno in cui facevo spedizioni contro
i mulini a vento, tanto per fare qualcosa, ed avevo i peggiori mostri proprio
accanto a me.
Poche righe, non chiedevo molto… Herm, pensaci bene. Le cose non sono proprio come sembrano. Anche
quelli che sembrano buoni ne combinano di grosse. Mi raccomando, facci sapere.
Non è esattamente molto, no?
“Hai parlato con Potter, quindi…”.
Riconosco immediatamente la voce, ovvio. La conosco
da tutta la vita o perlomeno così sembra. So che è un’impressione, generata dal
fatto che questa voce mi perseguita con le sue scarne
e crudeli parole da stamattina. Non alzo la testa, il torpore che ha preso i
miei pensieri sembra aver contagiato anche le mie membra. Resto con la testa
china sulle ginocchia.
“Perché farebbe qualche differenza?” chiedo più per
rompere questo odioso silenzio che per reale interesse.
“Credo che sia rilevante per me sapere se sono
ancora il più grande bugiardo della storia del mondo magico… ho appena liberato
uno spazio per la targa sul camino… Potter me la deve da tempo…”.
“Non credi di sopravvalutarti troppo?” aggiungo
scettica, rimanendo con il viso sulle ginocchia “In fondo, c’è sempre Peter Minus in lizza… Zabini, la Parkinson e mezza casata
Serpeverde… un sacco di Mangiamorte… la concorrenza è notevole, non sono
affatto certa che tu sia il migliore…”.
“Invece io ne sono sicurissimo… sarebbe un duro
colpo per la mia immagine… e comunque non c’è nessuno abbastanza abile come me…
la targa la vincerei più e più volte… il sangue conterà qualcosa, no? Sono sempre il figlio di Lucius Malfoy e quella è una polizza sulla
vita…bè, ripensandoci, non è esattamente una polizza sulla vita, credo più su un’orribile morte
e su tormenti eterni, ma nel
multiforme mondo della menzogna è indubbiamente una garanzia…”.
“Questo si chiama nepotismo, Malfoy…”
obietto, contrariata.
“Questo veramente si chiama DNA, Granger…” mi risponde convinta la sua voce, mentre
sembra farsi più vicina.
“Credo di essermi persa nel sottotesto della
conversazione…” chiedo sconcertata, un’ombra di sorriso mentre finalmente
sollevo gli occhi, anche se sfuggo dal guardarlo “Stiamo per caso parlando in
maniera civile? Anche se comunque in un modo alquanto contorto?”.
Malfoy si siede accanto a me, gli occhi grigi che
guardano di fronte a lui. Scrolla le spalle, per poi dire: “Assolutamente no,
Granger, sarà una tua impressione… stiamo parlando solo in modo
contorto…”.
“Credo che questo sia al massimo che ci possiamo
aspettare l’uno dall’altra, no?” mi ritrovo a sorridere ancora, qualcosa che mi
si scioglie dentro, scivolando nella mia gola come latte caldo. Mi stringo
nelle spalle, a disagio, una strana sensazione che mi prende lo stomaco. Lui
inarca un sopracciglio, mormorando quasi offeso: “Sicuramente è il massimo
possibile… e ti informo che è già stato un enorme sforzo…
ne potrebbe andare della mia salute fisica e mentale…”.
“Lo capisco…” sospiro, guardando a mia volta
davanti a me, fingendo un’espressione seriamente preoccupata. Preoccupazione
che ovviamente non provo, sia per il fatto che sta decisamente scherzando, sia
per il fatto che non mi preoccuperei mai per Malfoy. Ci manca anche questo,
oggi. Ma credo che qualsiasi cosa sia buona, pur di avere una minima scusa per
non guardarlo. E’ diventato troppo difficile guardarlo in faccia adesso. Non so
perché. Forse perché ormai non posso più guardarlo dall’alto in basso, con la
forza che solo la mia nobile missione riusciva a darmi. Ma davvero non lo so…
non ci riesco… mi sembra di trovarmi su una rupe scoscesa, a picco sul mare.
Sul mare in tempesta dei suoi occhi. E sapere che, se mi faccio catturare dal
ritmo ipnotico delle onde, non saprò più tornare a casa. Non saprò più tornare
indietro. Accettando anche di farmi trascinare via dalla tempesta, dalla
tempesta che ha scagliato con violenza sulla mia intera esistenza. Eppure…
nemmeno lui riesce a guardarmi. Lo vedo che cerca anche lui di guardare davanti
a sé, e non me, nemmeno di sfuggita. Perché? Solamente io ho qualcosa di cui
vergognarmi, lui no. Stavolta, no. Ed allora perché? Che cosa è cambiato?
“Deduco che adesso sia al momento per me di fare l’enorme sforzo…” sussurro, stringendomi ancora nel
piumone, cercando di rimandare al mittente le mie domande. Mi ritrovo a
bisbigliare piano: “Scordati la targa per quest’anno, Malfoy… penso che la vincerà
il Ministro Potter…sì, Harry Potter… il Ministro della Magia e il più grande
bugiardo del mondo…”.
“Il Ministro?!!! No, non è
possibile!” mormora autenticamente scioccato, anche se so benissimo che sta
solamente recitando. Mi fa sorridere ancora e Dio solo lo sa quanto ne abbia
bisogno, dopo questa giornata orribile. Ma mi mordo le labbra, cercando di
essere seria. Deve capirlo anche lui a suo modo perché lo intravedo con la coda
dell’occhio cambiare espressione, mentre poggia il braccio piegato sul
ginocchio. Un sospiro gli sfugge dalle labbra, lo odo distintamente nelle mie
orecchie… è così vicino, se allungassi una mano potrei sfiorargli la guancia… non è mai stato così vicino a me… so che non è vero, so che
è stato anche più vicino di così… non so spiegarlo… ecco, magari il suo corpo è
stato anche più vicino di così a me, ma la sua… anima… no,
quella mai. Ed ho anche l’inspiegabile certezza che non sia stata mai davvero vicina a qualcuno. Una certezza assurda ed ancestrale.
“Nel suo caso, si dovrebbe parlare di omissione,
non di bugia vera e propria…” mi dice, la voce
leggera, quasi noncurante. Dopo qualche attimo di silenzio, la sua voce sembra
curvarsi in accenti diversi, quasi più dolci e soffici nelle mie orecchie,
mentre dice piano: “Non pensavo davvero che non lo sapessi… ero convinto,
insomma, che il Capo degli Auror le sapesse queste cose…”.
“Teoricamente sì…” rispondo senza esitazione,
decisa a restituire la sua apertura nei miei confronti “Ma Harry mi ha spiegato
che Scrimeogeor ne ha combinate molte per mettere
tutto a tacere. Nessuno ne ha mai parlato, nonostante alla fine della guerra di
cose simili ne venivano fuori ogni giorno. Abusi di potere, violenze, razzie.
Ma mai sugli Auror… soprattutto per quanto riguardava loro, il Ministro fu
molto prudente. Seppellì ogni cosa, voleva che la gente avesse fiducia negli
Auror e nella loro rettitudine. Una cosa del genere avrebbe tolto anche questo
alla gente, anche quella residua fiducia. Quando Harry l’ha scoperto, ha deciso
che sarebbe stato meglio lasciare le cose com’erano per evitare ulteriori
scandali… ormai era passato del tempo ed alla fine Harry la pensava come Scrimeogeor. Mi ha detto che c’era la guerra e, se
dovessimo condannare ogni persona per ogni tipo di crimine, bè non la finiremmo
più… tutti sanno che gli Auror hanno ucciso i tuoi, non è accusare qualcun
altro, questo ha detto… e ha aggiunto che non è propriamente utile in questo momento che tutti sappiano come li hanno uccisi… quindi, gli Auror sono rimasti al
loro posto e nessuno ha più parlato di questa storia. Quando
sono subentrata io nella carica di Capo degli Auror, hanno logicamente supposto
che non sarei stata d’accordo con la decisione del Ministero, quindi non mi
hanno detto nulla in modo da impedire che creassi problemi o avessi remore
verso i responsabili…”.
“E’ quello che avresti fatto?” mi chiede,
finalmente voltandosi verso di me, gli occhi fissi nei miei. Mi sento morire,
mentre mi rendo conto con terrore che non riesco a smettere di guardarlo, come
se un filo mi tenesse unita ai suoi occhi. Mi sento l’anima sferzata dal vento,
come se fossi davvero su una rupe sospesa sul mare. Mi ero sempre detta di non
riuscire mai a capire che cosa passasse per la mente a Malfoy, che i suoi occhi
mi sembravano specchi opachi che mi rimandavano eternamente la mia immagine.
Sbagliavo. Enormemente. La verità non è che
lui cela le sue emozioni, non lasciandole trasparire mai, a meno che lui stesso
non lo voglia. La verità è che nei suoi occhi passano talmente tanti sentimenti
che non fai in tempo ad afferrarne uno che ne è già comparso un altro più
intenso e sconvolgente del primo. E l’unica cosa che ti rimane da fare è
restare attonito a cercare di fermare un secondo di lui, mentre sei
completamente travolto da quell’incessante turbinio che è Draco Malfoy. E
improvvisamente è come essere febbricitante, è come essere ubriaco e non avere
più il controllo di sé stessi, essere terrorizzati al punto di essere
estasiati. Esattamente quello che sta accadendo a me in questo momento.
Che diamine mi stai facendo, Draco Malfoy?
Deglutisco, per poi dire seria, reggendo il suo
insopportabile sguardo: “Non sarei nemmeno diventata un’Auror, se avessi saputo
una cosa del genere…”.
“Non è vero…” mi risponde lui, distogliendo di
nuovo lo sguardo da me. Il sollievo mi travolge ad ondate, sento quasi l’aria
tornare nei miei polmoni, libera da quelle due lame d’acciaio puntate sul mio
viso. Finalmente… un solo secondo e non so come avrei fatto a reggere ancora,
non sarei più tornata indietro… da cosa, poi, non lo so… ancora…
“E’ verissimo, invece…” mi acciglio severa,
ritornando a lui e alle sue parole precedenti “Ho deciso di essere un’Auror per
impedire che tutto quello che avevo passato durante la Guerra capitasse a qualcun
altro… volevo disperatamente che tutto quello che Voldemort e i Mangiamorte
hanno fatto, fosse solamente un ricordo. Se un Auror è capace
di fare cose del genere, se è tenuto al suo posto perché in fondo non ha fatto
niente di così grave, se tutti hanno pensato che si poteva chiudere un occhio,
se persino Harry ha concluso che a creare problemi potevo essere solamente io e
non tutti gli altri… bè, allora vuol dire che non era decisamente la mia
strada…”.
“Anche se hanno ucciso due persone che, se ne
avessero avuto la possibilità, ti avrebbero fatto fuori senza tanti
complimenti?” replica lui quasi arrogante, guardandomi ancora. Stavolta il suo
sguardo è odio puro, ma per la prima volta non per me.
Attraverso di me, passa l’odio per i
suoi genitori…
“Soprattutto in quel caso…”
mormoro, qualcosa che mi fa male dentro “Volevo dimostrare che non sono come
loro… ed invece alla fine non c’è nessuna differenza… uccidere una persona fa
parte del pacchetto. E sembra quasi che non ci
si possa tirare indietro, nemmeno volendolo… quindi, se è così, è chiaro che
non è più quello che posso fare… non voglio uccidere nessuno, né ora né mai…
chiunque egli sia…”.
“E adesso? Che cosa farai?” mi chiede lui, ancora, tornando a guardarmi in
viso.
Inarco un sopracciglio,
guardandolo con espressione assolutamente sconvolta: “Ma stai bene, Malfoy? Non è
che hai contratto qualche rarissima malattia infettiva? Ti
stai davvero interessando a che cosa ho intenzione di fare?”.
“Non mi sto assolutamente interessando a te,
Granger…” dice calmo e freddo, incrociando le braccia e distogliendo ancora lo
sguardo da me “Mi sto interessando alla mia cameriera, non ad altro… e alla mia
salute, se Seth dovesse scoprire che ti ho licenziato di nuovo…”.
“Vuol dire che lavoro ancora qui?” chiedo
meravigliata, spalancando gli occhi “Ma non avevi detto che…”.
“Ricordo perfettamente che cosa ho detto…” mi
interrompe lui, quasi imbarazzato. Certo, non vuole ammettere che sta
ritrattando quello che aveva deciso. Ma, solo per stavolta, gliela faccio
passare. Sono troppo sollevata per tendergli un tranello di qualsiasi tipo o
natura.
“Almeno per il momento, la decisione è sospesa,
Granger… è solo per il party, sia chiaro… è tra pochi giorni e non farei mai in
tempo a trovare un’altra cameriera, ammesso che Seth non mi ammazzi prima…”
aggiunge risoluto e deciso con la tipica voce da uomo-che-non-deve-chiedere-mai.
“Non avevo pensato a nulla di diverso da questo”
sorrido più a me stessa che a lui. Stranamente è la prima volta che vorrei
davvero sorridere a lui, sorridere e basta. Senza nulla dietro, solo sorridere.
“Ecco, appunto…” ribatte, prima di alzarsi in piedi
ed incamminarsi verso la porta della terrazza. Poco prima di girarsi, mi sembra
quasi di distinguere una piega diversa sulle sue labbra, un… sorriso. Non un ghigno, un vero e proprio sorriso. Sì come
no. Deve essere un inizio di retinite pigmentosa… starò diventando cieca. E’
più probabile che Malfoy, all’improvviso, si metta a
sorridere. E a me, tra l’altro.
“E comunque, Granger…” mi chiama a mezza voce,
dandomi le spalle. Sollevo ancora il viso: “Cosa?”.
“Ero davvero convinto che tu lo sapessi…” lo sento
dirmi, la voce talmente flebile e sottile che sembra perdersi nel vento.
Non so perché, ma mi viene ancora da arrossire.
Ringrazio il Cielo che sia di spalle.
“Non importa…” sussurro.
“Smetterai di essere un’Auror?”.
“Non lo so… in fondo, ho due anni per decidere… la
condanna finirà allora… finalmente qualcosa di positivo in questa storia…”.
“Fai come vuoi, sei libera
di farlo, ma…” la sua voce esita, lo sento prendere profondamente fiato, prima
di continuare: “… ma non farlo per questa storia… non se lo meritano…”. Con una
fitta allo stomaco, mi rendo conto che sta parlando dei suoi genitori.
“Sarò io a giudicarlo questo, Malfoy…” replico
fredda, la mia voce riflesso della sua “So solamente una cosa… se dovessi
tornare, non avrò pace finché non avrò gettato ad Azkaban
i responsabili della fine dei tuoi… e questa è una promessa…”.
“Non è necessario…” mi dice, per poi voltarsi nella
mia direzione, sibilando gelido come il vento che gli scompiglia i capelli
biondi: “A me non interessa che siano morti, non mi interessa come sia
successo, né chi sia stato a farli fuori… meritavano quello che gli è successo
ed è giusto che sia finita così… non me ne frega nulla di questa storia… e tu non
mi devi niente… come non mi doveva nulla il Ministero… ho accettato quello che
mi stavano dando perché mi conveniva, non per altro… non voglio essere
risarcito per qualcosa che forse avrei finito per fare io stesso se le cose
fossero andate avanti… e comunque non voglio essere in debito con nessuno,
tantomeno con te… spero che questo sia chiaro…”.
“Cristallino, Malfoy…” ribadisco a mia volta,
guardandolo dal basso “Con una sola obiezione… anche a me non interessa nulla,
ma di quello che potrai dirne tu… lo farò per me, non per te. Tu non mi dovrai
nulla, mai… perché lo farò soltanto per me e per quello che dovrebbero essere
gli Auror… non per te. Questo, scordatelo, Malfoy…”.
“Fai come ti pare…” mi risponde acido, prima di
voltarmi le spalle e sparire.
Chiudo gli occhi, appoggiandomi alla ringhiera
della terrazza. La conversazione più assurda e nervosa della mia vita. Dio, mi
sento tremare le gambe e non so nemmeno il perché. Sì, decisamente la
conversazione più assurda e nervosa della mia vita. E l’ho anche terminata con
un’enorme bugia…
Lo farò, se mai lo farò, per me,
certo. Perché ne va della mia vita e di tutto ciò che sono.
Lo farò, se mai lo farò, per i tuoi
genitori, probabile. Perché mi fa star male che siano morti in quella maniera
tra gli sberleffi generali. E perché meritano la giustizia che non hanno mai
pensato di dare e perseguire in vita.
Ma poi… ed mi odierà ancora di più,
per questo… lo farò anche per lui.
Per l’arroganza e la rabbia che
mette ogni volta che parla di loro. Perché gli tremano le mani ogni volta che
lo fa. E perché nei suoi occhi, anche se solamente per un istante, per un istante minuscolo ed evanescente, passa dolore… tanto
dolore.
Ed ecco a voi un
altro capitolo!!Uao!! Lo scorso capitolo vi è piaciuto tanto tanto!! Sono commossa!!! Spero che molte delle domande che erano emerse nello
scorso capitolo siano state chiarite, ovviamente se qualcosa non vi risulta
chiaro non avete che da chiedere, sono a disposizione!! Questo è sicuramente
uno dei capitoli che preferisco, poi ovviamente mi direte voi che ne pensate,
ma a me piace perché è il primo passo che porterà Draco ed Hermione ad
avvicinarsi… ehehehe!! Purtroppo
la strada è lunga ma siamo iniziando a muoverci vero? Oggi purtroppo ho
pochissimo tempo, e se voglio aggiornare, non posso ringraziarvi uno per uno!! Rimando al prossimo capitolo!! Grazie
tantissimo, davvero, mi state dando la forza per continuare!!
Grazie soprattutto a chi leggendo sta commentando capitolo per capitolo, sono
davvero commossa!!
Prometto al prossimo chappy ringraziamenti più esaurienti!!!
(Una piccola precisazione, il titolo del capitolo è preso
da “IL MAGO DI OZ”… leggendo capirete il perché… J
Buona lettura…Cassie…)
Mi chino, imprecando tra me e me
a mezza voce, mentre il temperino scivola via, finendo sotto il lavandino e
dietro il tappeto celeste del bagno. Appoggio le palme sul pavimento,
cercandolo freneticamente finché lo trovo e lo afferro con la punta delle dita.
Starnutisco per un po’ di polvere, dannati acari e dannato
riscaldamento acceso ad ogni ora del giorno e della notte che li fa
proliferare!!!!, e ritorno su, riprendendo a
temperare la matita nera stemperata che ho appena uscito dal mio borsellino del
trucco. Termino l’opera, compresa quella sul mio viso, descrivendo sotto
l’occhio una lunga e spessa linea nera che renda i miei occhi più allungati di
quello che in realtà sono. Il trucco, in fondo, serve a questo, a rendere le
persone diverse da quello che in realtà sono. Oggi sono alquanto filosofica, me
ne sono già resa conto… deve essere il nervosismo per
la festa di stasera, o l’esasperazione di vivere con Seth, cosa che non
immaginavo assolutamente come tale. Dio, è stato capace di riprendermi perché
avevo aperto la finestra per far cambiare l’aria e lui dice di non poter
restare alla luce diretta del sole per più di quindici minuti e trenta secondi
al giorno. Non ci sono motivi del tipo che il sole fa male, che c’è l’effetto
serra e il buco dell’ozono, no. Magari fosse stato così, l’avrei appoggiato,
intonando slogan ambientalisti! Ed invece no! Essendo già scuro di carnagione,
trova abbronzarsi ulteriormente dannoso per la sua pelle e volgare per la sua
estetica. Quindi, ha fatto un rapido calcolo del tempo che gli consente di non
abbronzarsi troppo… deve essere il terzo figlio segreto della famiglia Patil, stupidaggini del genere sono uscite solamente dai
membri di quella schiera… e da Lavanda Brown, come
potevo dimenticare l’oca che mi ha fregato il ragazzo?!!
Ma se fosse così… Seth si ritroverebbe morto nell’arco di un nanosecondo… un
parente della Brown… che orrore…
Mi riavvio con le dita i capelli, lisciando
invisibili pieghe sulla mia uniforme da cameriera, camicia bianca e gonna
stretta nera, quella che per fortuna, sarà la mia stessa mise per la festa di
stasera. Le cameriere si limitano ad indossare un farfallino di raso turchese
sulla camicia e basta, meno male… ci mancava anche dover mettermi un vestito
costoso, che avrei poi gettato nell’armadio e non mi sarei più messa, e delle
scarpe con il tacco scomodissime che avrebbero peggiorato la condizione fisica
dei miei piedi, vessati dalle lunghe ore di lavoro… meno male che almeno
stamattina non si apre, ma ci limitiamo a sistemare tutto per stasera. Credo di
non sopportare più la clientela di questo pub… o, meglio, credo di non
sopportare più la gente in generale. Specie quando è troppa. Come succede sempre, qui. Prima di uscire, mi
lego i capelli in una coda alta, non li sopporto, oggi sono insopportabilmente
ispidi e, se Summer se ne accorge, non la smette più di rompere. Che gliene
freghi a lei dei miei capelli, resta un enorme mistero, ma nella sua ottica
malata di perfezione della festa, per qualche assurdo e contorto piano
rientrano anch’essi. Quindi, è meglio che mi veda perfetta stamattina, ad ore
ed ore dalla festa, in modo che anche se trova qualcosa di cui lamentarsi, avrò
tutto il tempo di porvi rimedio.
“Granger, sei affogata?!”
la voce irritante di Malfoy mi raggiunge, nonostante la porta chiusa.
“Sì, è il mio spirito che parla! Ma quant’è idiota…” mormoro acidamente, mettendomi il lucidalabbra.
Che, tanto per intenderci, avevo deciso di non mettere, ma che adesso, dopo
l’elegante e gentile interloquire di Malfoy, ho ritenuto invece vitalmente
necessario.
“Muoviti! Mi devo ancora fare la doccia e Dio solo sa Seth che cosa deve
fare!” lo sento sbuffare ancora, mentre martella sulla porta. Seth, da
lontano, urla che deve depilarsi le sopracciglia. Rabbrividisco, guardandomi
ancora allo specchio. Se vi hanno detto che vivendo con due ragazzi, non avrete
mai problemi con il bagno, mandatelo a quel paese… è una gigantesca bugia. Ho
più problemi adesso a stare due minuti in bagno, che quando abitavo con Ginny.
Ed è sempre di Ginny Weasley che stiamo parlando. A quanto pare, invece, Seth
Green e Draco Lucius Malfoy la battono ampiamente.
Alla fine, non trovando più nulla da fare a meno
che non rifarmi di nuovo la doccia con il serio rischio che Malfoy mi scortichi
viva, esco sbuffando dal bagno, trovandomelo davanti
che se ne sta appoggiato allo stipite della porta.
“Spostati…” gli ingiungo immediatamente,
scansandolo.
“Dio, Granger, se sei nervosa a quest’ora, non
voglio immaginare stasera… alla festa… con cosìtanta gente…” ghigna lui, chiudendo la porta del bagno, dopo
una lunga occhiata di traverso, colma di perfidia. A volte, penso seriamente
che mi legga nel pensiero… se almeno avessi la mia bella bacchetta… me la sogno
ancora la notte… dodici pollici,legno di vite con l'anima di corda di cuore di drago… quanto mi manca la magia, uffa!! Specialmente da quando vivo qui… a casa, Dean aveva
l’accortezza di non usarla mai davanti a me, ma qui la vicinanza continua di
Malfoy me la ricorda sempre… nemmeno lui la usa, questo lo so, ma… vederlo me
la fa sempre ricordare… cosa non darei per fare un piccolissimo incantesimo, un
Evanesco o persino un banalissimo Incantesimo di
Appello… e da ex-e-forse-mai-più-in-carica
Capo degli Auror ne conoscevo di Incantesimi… Malfoy sarebbe già a pancia
all’aria, rimpiangendo un Maledizione senza Perdono…
Mi getto stancamente sul letto, chiudendo gli occhi
e continuando a fantasticare sui mille modi di tortura di Draco Malfoy, mentre
Seth sbraita, correndo da una stanza all’altra, cercando i suoi boxer di Dolce&Gabbana. Dio, meno male che stasera facciamo
quella maledetta festa, almeno finisce questa isteria collettiva…
“Mione…” una piccola
vocina soffice mi fa trasalire. Sollevo la testa, incrociando gli occhi azzurro
oltremare di Serenity. Povera piccolina, ieri non stava molto bene e il medico
ha detto che ha preso la varicella. Infatti, ieri sera le è salita la febbre
molto alta e il suo visino tenero si è ricoperto di tante piccole bolle rosse.
Meno male che sia io che Seth che Malfoy l’avevamo già presa. Corinne e Lorna
sono fuggite a gambe levate, appena l’hanno saputo. Evidentemente, Malfoy deve
averla lasciata sul letto quando è andato in bagno e io, gettandomi di esso,
non mi sono accorta di lei. Meno male che non l’ho spiaccicata…
Mi sollevo, gattonando sul letto ed avvicinandomi a
lei, che mi guarda avvolta nella sua copertina rosa con il ditino in bocca e le
guance rosse. Le metto una mano sulla fronte, ha ancora la febbre, ma almeno
sembra che la temperatura sia calata da ieri sera. Stanotte, avrei
voluto starle vicina, ma ovviamente il fatto che le fosse vicino anche
Malfoy, ha pregiudicato la mia intenzione. Non sarei mai rimasta da sola con
lui in una stanza, per di più in una stanza da letto. Non che lui abbia
intenzioni nei miei confronti e viceversa… insomma ce l’ha una fidanzata, no?
Dovrebbe essere abbastanza soddisfatto da quel punto di vista… specie
con una come Summer che, praticamente, gli fa da geisha.
Ma a che cavolo sto pensando???!!!
Alla vita sessuale di Malfoy!!!
Sto davvero impazzendo… scuoto violentemente il
capo, tornando a concentrarmi su Serenity. Sorrido piano, accarezzandole il
capo; però mi è davvero dispiaciuto non poter stare con lei, mi sono molto
affezionata a questa bambina, la cui origine resta ancora un mistero, e lei
sembra essersi molto legata a me. Ci credo, sono l’unica figura femminile in
questa casa! Summer, nonostante sia la fidanzata di Malfoy, la tiene alla
larga, cercando di essere scostante solamente quando il suo Danny non c’è.
Insomma, credo che alla fine Serenity mi veda quasi come una sorella maggiore o
una mamma… lo so, ho già chiarito che i bambini piccoli non mi fanno impazzire,
ma Serenity sì. Quindi, accetto anche di farle da pseudo-mamma,
se questo la rende felice.
La vedo allungare le braccia verso di me, gli occhioni lucidi per la febbre, e sorrido. Vuole che la
prenda in braccio, povera piccolina… la prendo per i fianchi, facendola sedere
sulle mie ginocchia e lei ride contenta. Le accarezzo la testa, baciandole i
riccioli biondi, mentre afferro la sua bambola preferita, pensando a che gioco
mi posso inventare.
“Ha ancora la febbre?”. Sobbalzo, spaventandomi a morte per
la voce giunta all’improvviso, mentre ero distratta.
Una mano
sul petto, bofonchio: “Un giorno di questi, mi farai morire,Danny… “.
“DeoGratias… ogni
giorno, ci sono sempre più vicino…” mormora annoiato,
sedendosi sul letto di fronte a me ed abbottonandosi con nonchalance il polsino
della camicia azzurra che indossa “Allora, come sta Serenity?”.
“Non mi
sembra che abbia la febbre… ma fino a stasera potrebbe anche salirle di nuovo…”
rispondo preoccupata, accarezzando la testa della piccola che sorride, battendo
le mani. Sorrido a mia volta, almeno la sua allegria
non la perde mai. È una bambina meravigliosa, se dovessi avere una figlia, la
vorrei del tutto uguale a lei. Credo di aver inquadrato che i bambini non mi
fanno impazzire perché sono troppo lacrimevoli… mi mandano nel panico! Ma con
una bambina così… accetterei di diventare madre anche domani… vabbè, forse
dopodomani…
Sollevo
lo sguardo, ancora sorridente, ritrovandomi improvvisamente lo sguardo di
Malfoy addosso. Che diamine vuole adesso?! Il suo
volto è serio, ma sereno, e la sua espressione, come
sempre, è indecifrabile. Mi guarda e basta, senza dire nulla, né fare nulla.
Che ho fatto adesso? La sua espressione mi mette mortalmente a disagio, mi fa
sentire in imbarazzo e, con il protrarsi dei secondi, mi rendo conto di avere
il cuore in gola. Rimango immobile a fissare una goccia d’acqua che, dai suoi
capelli bagnati, scivola lentamente lungo la sua guancia fino al suo collo,
come l’eco di mille lacrime mai versate. Ma insomma che diamine vuole?!! Fantastico, sto anche arrossendo e quel che è peggio, se
mai ci fosse, è che mi rendo conto che non riesco nemmeno a parlare, ho la
bocca impastata dalla mancanza di salivazione. È orribile, ma perché diamine mi
sento così? Così, come poi? Non lo so dire… forse… persa, eccolo
di nuovo l’aggettivo giusto.
Persa,
come la strada di casa in una foresta… persa, come la rotta in una tempesta in
mezzo al mare… persa, come la direzione del nord, cercando la stella polare… ecco come… mi sento… persa…
ed è una cosa odiosa. Non mi sono sentita mai in questo modo. E non so nemmeno
il perché, come tantomeno non lo so perché non la smetta di guardarmi con
quella strana espressione. Mi ritrovo solamente a fluttuare nel
oceano plumbeo dei suoi occhi, l’anima delle dimensioni di una noce e il
cuore che si allarga e mi frastorna con il suo battito.
“Ma a
volte te ne ricordi almeno?” la sua voce spezza la malia letale dei suoi occhi,
come uno specchio che va in frantumi. Ne sento il rimbombo nella mia testa,
come un tuono nel cielo silenzioso di una notte d’estate. Il tremore che aveva
preso le mie membra cessa anch’esso, lasciandomi vuota dentro, vuota di questo
strano terrore, ma vuota anche di tutto il resto. Respiro come se uscissi fuori
dall’acqua, in uno spasmo che assieme è di vita e di morte. Ed ancora mi
chiedo… ma che diamine mi stai facendo, Draco Malfoy?
“C-che cosa mi dovrei ricordare?” balbetto incerta,
distogliendo lo sguardo da lui e facendolo tornare sulla piccola tra le mie
braccia, unica e silente testimone del palpitare convulso del mio cuore.
Da
qualche parte di sé stesso, lui sembra recuperare un sorriso che non ho mai
visto, perlomeno su di lui. Un sorriso che riempie di calore i suoi occhi, che
scioglie quelle fredde lame argentate come acqua sorgiva. L’ho visto sì… non
tante volte, ma l’ho visto. E non è mai stato per me, mai. Un sorriso così
bello non è mai stato per me.
Era
il sorriso di Harry, quando parlava dell’acconciatura di Ginny per il
matrimonio.
Era
il sorriso di Arthur Weasley, quando parlava della dieta assurda della moglie.
Era
il sorriso di FleurDelacour,
quando medicava le ferite di Bill.
Ed
era il sorriso di James e Lily Potter in una fotografia bruciata.
Ed
era il sorriso che accomunava anche i miei di genitori, che di magico non
avevano nulla.
Il
sorriso di chi ama incondizionatamente. Un sorriso così bello non è mai stato
per me, mai.
Ed anche
adesso non era per me.
Era per
Serenity.
“Che
Serenity è mia sorella… te lo ricordi qualche volta?” mi chiede con tono solo
lievemente sarcastico.
“Certo
che me lo ricordo…” borbotto, senza capire, ancora mezza sconvolta. Sotto la
mia pelle, sento scoppiare fiori di fuoco sotto l’acciaio dei suoi occhi.
“Eppure
non sembrerebbe…” sussurra lui noncurante, quasi offeso “Le vuoi bene, persino…
no?”.
Annuisco
ancora senza capire.
“E
invece odi me… è un controsenso… Serenity è sempre mia sorella…”.
Lo
guardo ancora, senza capire.
E, per
la prima volta nella mia vita, la mia bocca si apre senza che io abbia pensato
a che cosa stavo per dire.
“A parte
il fatto che non ho mai detto di odiarti… e poi comunque Serenity è un’altra
persona, mica sei tu…”.
La sua
espressione cambia ancora, all’improvviso, un arco di luce che sembra passare
rapido e fugace sul suo viso. Sbatte le palpebre un paio di volte, guardandomi
frastornato e confuso. O perlomeno questo è quel poco che riesco a cogliere nel
succedersi rapido delle sue espressioni. Alla fine, quasi mi dedica un altro
sorriso, diverso ancora da quello precedente. Mi odio
per averne colto la differenza, per non aver pensato che un sorriso sia
solamente un sorriso. Per averne trovati mille sul suo viso, per averne trovato
uno che non fosse solo un ghigno, per aver trovato questo che era solamente per
me. Per conservarlo adesso dentro, guardandolo da ogni angolatura.
Un
sorriso come una contraddizione vivente. Ombra di piacere, sotto il velo di
ironia. Stupore sfumato dall’arroganza.
Un
sorriso che sembra dolce ed è solo amaro. Come tutto ciò che lo riguarda.
Ribalta costantemente il modo comune di comportarsi.
Quello
che con gli altri è dolcezza, con lui è prepotenza.
E la
sua arroganza, invece, per chi lo ama, come per magia, è la più piacevole e
delicata delle carezze.
“Tu non
mi odi… Granger?” mi dice lieve, ignorando palesemente la seconda parte della
mia risposta. Avverto stranamente la sua presenza farsi quasi più vicina, come
un’aura che non è solamente il suo profumo che conosco a memoria, ma
qualcos’altro che si allarga inglobando anche me. Eppure non si è spostato di
un centimetro…
Arrossisco
ancora, distogliendo rapidamente il volto da lui, mentre mormoro: “Non vedo
questo che cosa c’entri adesso…”.
“L’hai
detto tu, non io… per quanto mi riguarda, non l’avrei minimamente concepito
come una cosa possibile…”.
“Cosa? Che io non ti odi?” chiedo, guardandolo di
sottecchi, il cuore che va giù e su nel petto.
“Dipende
se è vero o no…” mi chiede ancora, sorridendo, un braccio sul ginocchio e gli
occhi liquidi su tutta la mia persona.
Come
una mosca nella tela di un ragno.
Mi
concentro su me stessa, sul mio cuore, su quello che c’è dentro, alla ricerca
di quella piccola macchiolina nera che è sempre stato il mio odio per Malfoy.
Il mio cuore è cambiato molto, non trovo più il senso di colpa per Dean che era
immenso fino a poco fa, al suo posto c’è frustrazione e rabbia per quello che
mi ha nascosto Harry. C’è sempre la mia consueta paura per ogni cosa, nascosta
dietro il coraggio, ed il nervoso malcelato per Lavanda e Ron. C’è il nuovo
affetto per Seth e Serenity, c’è la simpatia per April, Trey e Lawrence,
l’avversione per Summer, la diffidenza per Corinne e Lorna… ma la
macchiolina, nera come pece a sporcare la mia anima, non c’è più.
Dio,
non odio più Draco Malfoy…
Che
diavolo mi sta succedendo?!! Ecco, puff,
che all’improvviso non odio più Malfoy… certo, non lo amo, ma intanto NON LO
ODIO!!!!
Sto
male, sto veramente male, sì, sì, deve essere un cancro al cervello in stadio
terminale, sì non può essere altrimenti… una rarissima malattia infettiva
forse, ma certo! La varicella! Ho il sistema immunitario andato e mi sono presa
di nuovo la varicella da Serenity! Lo so che accade solo in tre casi su 10000
di averla due volte nella vita, ma io DEVO essere in questi… è molto più
razionale che tutto il resto… soprattutto l’opinione contorta e bacata che io
non odi più Malfoy… il mio nemico, la mia nemesi, la mia eclissi, la mia
negazione…o meglio il mio ex nemico, la mia ex nemesi, la mia
ex eclissi, la mia ex negazione… perché, come la metto e la metto la
cosa, sempre lì torniamo… al momento, io non odio più Draco Malfoy…
Sospiro,
non vorrei dargli questa risposta per nulla al mondo.
“Allora,
Granger?” mi incalza ancora lui, sporgendosi quasi verso di me, complice e
divertito come se stessi per dirgli chissà che segreto.
“C’è
troppo interesse in te, Malfoy… decisamente troppo interesse…” commento,
cercando disperatamente di eludere la risposta.
“Non c’è
interesse in me, Granger…” mi dice lui in un soffio leggero “C’è… curiosità…
l’interesse presupporrebbe che io non sappia la risposta a questa domanda, ma
la conosco… me l’hai appena detto. Sto solo cercando di
capire come sia accaduto…”.
Mi serro
nelle spalle, restando in silenzio, la mente piena
della sua domanda. Non lo so nemmeno io come sia successo.
Stringo
forte Serenity a me, chiedendomi il motivo astruso per cui mi sta mettendo così
in imbarazzo. Perché è perfido, è la risposta più ovvia, accompagnata dal
corollario del teorema… lui mi odia. Hermione, stupida… ho permesso a me
stessa di liberarmi di quella difesa, dell’odio che provavo per lui,
lasciandomi scoperta contro il suo di odio.
“Basta,
lasciami in pace…” commento a bassa voce, lasciando Serenity sul letto e
sollevandomi in piedi “Se questo ti fa piacere, adesso credo di odiarti più che
in tutti gli altri giorni della mia vita…”.
Gli do
le spalle, sfuggendogli e spostandomi quel che basta a non essere nemmeno a
tiro della sua mano che possa tirarmi indietro. Per non guardarlo, concentro i
miei occhi su Serenity che ci guarda alternativamente, come se stesse per
scoppiare a piangere. Tira su con il nasino rosso e si mordicchia il pugnetto. Deve aver capito che c’è qualcosa che non va… i
bambini sono sempre così intuitivi… il problema è che sono io a non esserlo… mi
sento qualcosa dentro che frana e le membra che si sono fatte d’argilla. Potrei
cadere a pezzi anche solo se qualcuno mi guardasse un po’ più intensamente.
Una
leggera inflessione strana nella voce più acuta, e poi, alle mie spalle, lui
che si alza in piedi: “Non mi interessa, Granger… volevo solamente prenderti un
po’ in giro… figurati che mi frega se mi odi oppure no… e comunque…”.
Evidentemente
deve essere qualcosa di troppo strano a livello cosmico se, nell’arco di poco
tempo, io e Malfoy parliamo civilmente senza venire ad insultarci. Infatti non riesco a sentire che cosa avrebbe detto dopo il comunque,
perché improvvisamente entrambi sobbalziamo per un frastuono proveniente
dal piano di sotto, dal locale insomma. Un grido acuto, quasi come quello di
una bestia ferita, e poi qualcosa che è stato rovesciato pesantemente. Serenity
inizia a piagnucolare, la prendo in braccio, ninnandola leggermente, mentre
Seth arriva dall’angolo della cucina, ancora vestito a metà e reggendo un
calzino spaiato. Le sue condizioni mi inducono tranquillamente a pensare che
stesse origliando cosa stessimo facendo io e Malfoy fino a cinque secondi
prima; mi sembrava strano che non fosse passato casualmente facendo
commenti e battute maliziose…
“Ci deve
essere qualcuno al piano di sotto…” commenta Seth, avvicinandosi furtivamente a
me e a Malfoy.
“Saranno
April e gli altri, no?” rispondo, cercando di calmare Serenity che piange
ancora.
“Non è possibile…
loro arriveranno tardi stamattina… non era necessario che venissero presto…”
sussurra Seth.
“La
porta d’ingresso è chiusa, vero?” sento la voce di Malfoy alle mie spalle, per
poi affiancarmi, parlando con Seth.
“Certo,
Danny” cinguetta Seth, quasi saltellando.
“Allora,
deve essere qualcun altro…” mormora Malfoy, la voce più bassa di tono e
lo sguardo che raggiunge me. Mi volto verso di lui, sentendo che mi sta
fissando, e la mia reazione mentale è ancora quella di pensare che cosa diamine
voglia ancora, mentre il cuore si scapicolla in un volo folle contro le mie
costole. Ma poi noto che il suo sguardo è diverso da prima… non l’ho mai visto
così preoccupato, il viso è pallido, gli occhi scrigni di luce morta. Gli tiene
alti, puntati verso i miei occhi, e sembra che stia cercando di dirmi qualcosa.
Impercettibilmente
il suo sguardo va a Serenity, colmandosi di terrore fugace, poi ritorna a me,
l’espressione un po’ più calma ma ancora preoccupata e nervosa. La sua
espressione non mi piace, affatto… ma certo… sgrano gli occhi,
guardandolo, e lui annuisce leggermente con il capo. Teme che sia qualcuno
venuto a cercare lui… un Mangiamorte…
Abbraccio
Serenity, cercando di calmarla e di farla smettere di piangere, se è davvero un
Mangiamorte… bè, sarebbe la fine… un babbano effeminato, una bambina di un
anno, un ex mago che vive da babbano da anni ed, ovviamente, la più grande
non-strega della storia… la strage più semplice della storia della Magia…
deglutisco, cercando di controllare il tremore che mi prende repentinamente le
gambe.
“Allora…”
dice Malfoy sottovoce, passandosi nervosamente una mano sulla fronte e
sorpassandomi “Seth, prendi Serenity e chiudetevi dentro… se non ci vedi
tornare, preparati a chiamare la polizia, ok?”,si volta verso di me, alzando
leggermente il capo nella mia direzione, così mi affretto a passare Serenity a
Seth.
“E voi
due, invece?” geme Seth terrorizzato, prendendo la bambina in braccio.
“Io ed
Hermione scendiamo di sotto…” fa lui, continuando a guardarmi come se cercasse
conferma nel mio viso. Annuisco con il capo grevemente. Lo so, non vorrei, ma
siamo gli unici che possiamo fare qualcosa… e poi, se Malfoy si mette
spontaneamente a chiamarmi Hermione, la cosa è veramente seria. Spero solo non
così seria da contemplare la mia prematura fine…
“Ma non
sarebbe meglio che scendessi io con te?” obietta Seth, mettendo il muso.
“No”
risponde secco e crudele Malfoy, al che io cerco di restringere il tiro con più
tatto:“Io mi
so difendere da sola, Seth… non ricordi che ho fatto quel corso al liceo di
difesa personale? So badare a me stessa…”. Gli sorrido
ed alla fine Seth si convince. Ovviamente. Per spiegare nella mia vita babbana
le mie conoscenze belliche e la mia perizia nelle arti marziali elementari, ho
inventato un fantomatico corso al liceo di difesa personale che poi ho
perfezionato negli anni. Questa è solo una delle enormi balle su cui reggo la
mia vita, ma tralasciamo… Malfoy capisce la cosa e lo vedo sorridere
leggermente, nonostante sia ancora pallido e con lo sguardo perso. Mi invita a
seguirlo, mentre Seth chiude la porta a chiave.
Fermi sul pianerottolo, mi volto bruscamente verso Malfoy,
incrociando le braccia: “Che cosa hai in mente? Ti ricordo che
sono più inutile di Seth in questo momento…”. Le parole escono dalla mia bocca flebili e leggere, perdendosi nell’aria. Non
mi ha nemmeno ascoltato, deve essere autenticamente terrorizzato. Una sola
volta l’ho visto così… quella notte a GrimmualdPlace, quando mi svegliai e lo trovai in cucina. Tremava
dalla testa ai piedi, sudava freddo ed era pallido. Piangeva
anche, se non ricordo male. Dubito che il Malfoy attuale sappia ancora
piangere, non lo so, è una sensazione… mi sembra che non ne sia più capace.
Come se il dolore gli abbia tolto anche quest’ultimo di conforto. Mi serro
nelle spalle, non sapendo bene né che dire né che cosa fare. Alla fine, non
vedendolo reagire, mi avvicino a lui, chiamandolo. Lui solleva il viso, cerca
di simulare un’espressione serena, ma non gli riesce bene. Per niente.
Non
me lo devi. Non mi devi una calma che non hai. Non mi devi una sicurezza che
non possiedi. Nemmeno io la ho.
Solo
due che non hanno visto quello che abbiamo visto noi fingerebbero ancora la
calma e la sicurezza.
“Hai
solamente una bacchetta?” chiedo velocemente, prendendolo per il braccio e
scrollandolo leggermente.
“Ho
quella che usavo a scuola… e la mia…”.
“Prendile
entrambe… qualcosa ci inventeremo…”. Lui annuisce e rientra in casa. Torna dopo
un po’, portando due bacchette in mano. L’espressione sconvolta si è leggermente
rischiarata, forse valuta adesso quasi nella dimensione dell’utilità avere
un’ex Auror per casa.
“E
adesso?” mi chiede, quasi come un bambino spaventato.
“Ce la
caveremo…” soggiungo con voce quasi tenera”…ricordati che abbiamo passato di
peggio… e ne siamo usciti… entrambi…”.
Lo sento
sospirare profondamente, prima di aggiungere con un tono di voce velato di
ironia e di residua preoccupazione: “E’ proprio vero che non mi odi, Granger,
allora… eviteresti persino la mia morte… è quasi commovente…”.
“Di
commovente, c’è solo il fatto che sono sempre io la prima della lista dei tuoi
assassini… non mi farei soffiare il posto da nessuno…”.
“La cosa
è reciproca”.
“Una
maniera contorta per dire che non mi odi più nemmeno tu?” sorrido, incrociando
le braccia con espressione saputa, quasi dimentica della situazione pericolosa
in cui potremmo trovarci da lì a poco.
“Una
maniera contorta per dire che l’unico che può farti fuori sono io ed io
solamente…” ripete lui con voce atona, quasi rassegnata.
Una
maniera contorta per dire che non mi odia più nemmeno lui…
“Andiamo,
adesso…” mi dice, simulando una sicurezza solo apparente e friabile. Iniziamo a
scendere lentamente le scale, cercando di non fare nessun rumore e di procedere
con lentezza silenziosa. Lui procede davanti a me, la bacchetta sguainata e
l’aria guardinga, io lo seguo, attenta a qualsiasi rumore venga dal basso.
Perlomeno per il momento, non si sente nulla, solo silenzio. Arriviamo nella sala ristorante, rimango sempre alle spalle di Malfoy,
la mano che regge la bacchetta che mi trema tra le dita. La sala è al buio,
l’unica luce flebile ed incerta proviene dalle cucine. Malfoy me le indica con
il capo, annuisco e ci incamminiamo in quella direzione. Evito i tavolini,
contorcendomi di lato, fino ad arrivare davanti alla porta delle cucine dove
Malfoy mi sta aspettando.
“Nel
bagno” mi sento nel
dire nel cervello. Sta usando la telepatia per non fare ulteriore rumore. Come
sempre, provo la solita sensazione di intromissione nei miei pensieri e tento,
per quanto sia possibile, di chiudere il resto della mia mente a lui.
“Che
diamine ci farà nel bagno?”.
“Non
lo so… comunque, la porta del bagno è stretta… lo possiamo bloccare
facilmente…”.
“Se è
uno solo…”.
“E’
anche abbastanza stretto perché sia una persona sola…”.
Non del
tutto convinta, lo seguo fino nelle cucine, anch’esse al buio. La luce proviene
dalla porta del bagno, da cui giungono suoni soffocati, oltre a dei lamenti. Ma
chi diamine può essere?! Ormai sono quasi del tutto
certa che non si tratti di un Mangiamorte… che avrebbe da lamentarsi? Ci
avrebbe già fatto fuori da ore… un ladro comune sarebbe già scappato… ed allora
chi? L’adrenalina accumulata però nel frattempo, mi suggerisce di non abbassare
lo stesso la guardia. Ce n’è di gente strana a Londra… potrebbe essere uno
qualsiasi dei criminali sparsi nelle strade della città…
Ci
fermiamo ad un metro dalla porta del bagno, Malfoy mi ferma ponendosi davanti a
me e dicendo di aspettare.
“Al
tre, ci sporgiamo e lo sorprendiamo… sei pronta?” mi dice, persino nella mia mente
colgo il suo terrore.
Annuisco,
ancora non del tutto convinta.
“Uno…”.
Deglutisco
e chiudo gli occhi.
“Due…”.
Li
riapro e stringo forte la bacchetta, cercando di ricordarmi un Incantesimo
potente.
“Tre…”.
Mi
scaglio fuori, seguendo Malfoy che mi ha preceduto di pochi secondi, ma non
riesco a fare nulla di quello che avevo programmato, avevo pensato ad una bella
maledizione di Disarmo unita ad una Immobilizzante, ma
evidentemente era destino che le mie infinite competenze di Auror non venissero
sfruttate. Non riesco bene a capire che cosa sia successo, mi sembra solo di
aver sentito un urlo poderoso ed acuto che mi ha ucciso entrambi i timpani. Poi
un rumore secco e netto, come di qualcosa di sottile che cadeva per terra. La
bacchetta di Malfoy che cadeva per terra. Ed infine lo stesso Malfoy che mi
afferrava per la vita, mentre io lo avevo già sorpassato, mi tirava indietro,
costringendomi ad un assurdo balletto, e mi spingeva fuori dal bagno, oltre il
cono di luce del bagno stesso.
Mi
appoggio al muro, non capendo che diamine sia successo e cercando di
ricostruirlo nella mia testa, la sola cosa che mi dice che non ci fosse niente
di grave, è che è stato Malfoy a spingermi fuori dal bagno. Volente o nolente,
ormai il suo profumo lo riconosco anche ad occhi chiusi, l’erba bagnata nel
mese di settembre, e adesso lo sento addosso a me. Sto quasi per sporgermi
nel bagno per capire che cosa sia successo, quando sento la voce trafelata ed
incerta di Malfoy dire: “Summer, si può sapere che diamine stai facendo?!”.
Summer! Era Summer, altro che
Mangiamorte assettato di vendetta o serial killer psicotico… comunque, siamo
vicini a tutti e due i concetti…o mio Dio, Summer! Summer = babbana = fine
della copertura di Danny Ryan = fine della carriera da cameriera di Hermione
Granger!!
Prendo la bacchetta e la getto distrattamente in
una pentola, chiudendola poi con un coperchio per celarla alla vista di tutti.
Spero dopo di ricordarmi di venirla a prendere… con angoscia, mi accorgo di
quella di Malfoy a qualche passo da me, anche se nella luce del bagno. Come faccio?! Come faccio?!
Come faccio?! Come faccio?!
“Ciao
Summer!” allungo il piede, pestandola sotto di esso e la calcio fuori
dall’angolo visivo di Summer. Malfoy osserva la mia manovra e finalmente
riprende a respirare normalmente.
Non la
vedo in viso, dato che è seduta per terra, la testa abbandonata ed i
lunghissimi capelli biondi che le coprono il viso. La voce chiaramente colma di
pianto le fa dire in tono acuto e nervoso: “Tu che diamine chi fai qua?!”. Ovviamente sta parlando con me.
“Come
che ci faccio qua?! Ci lavoro, lo ricordi? E, grazie
al tuo fidanzato, ci vivo anche…” commento stizzita,
gettando un’occhiata in tralice a Malfoy. L’angoscia accumulata mi fa tremare
ancora, ma inizio a sentire il mio respiro calmarsi e il cuore tornare a
battere in maniera regolare. Anche Malfoy sembra essersi calmato, ma credo che
sia abbastanza curioso di sapere che cosa abbia spinto la sua fidanzata a
fargli indirettamente ricordare l’incubo peggiore della sua breve vita. Summer
non sta decisamente bene; a parte la voce innaturalmente acuta anche per
un’aquila reale come lei, ha i vestiti stropicciati e i capelli spettinati,
tenuti malamente fermi in una treccia scomposta. Inoltre, sembra anche respirare
a fatica, il petto sotto una polo azzurra si abbassa e si rialza velocemente,
mentre piccole gocce di sudore le cadono lungo il collo.
“Cos’era
quel rumore?” le chiedo, sporgendomi verso di lei per guardarla in faccia. Ma
lei si ritrae velocemente, spingendosi con i piedi verso il muro e coprendosi
la faccia con la mano destra. Sbuffo, non si sarà truccata stamattina… capirai,
che dramma…
“Non era
un rumore… era un fracasso infernale…” soffia rabbiosamente Malfoy. Non
è gentile nemmeno con la sua ragazza, che razza di personaggio… certo deve
essere un bel colpo pensare di avere i Mangiamorte per casa, ma può anche
essere più delicato! In fondo, è chiaro che a Summer sia successo qualcosa!
“La tua
è davvero un’interessante, ma soprattutto inutile precisazione,
Danny…” borbotto con tono di sufficienza.
“La mia
è una necessaria precisazione…” blatera lui nervosamente, guardandomi
fisso negli occhi “Necessaria a far capire a Summer che la prossima
volta che osa rifarlo, si ritroverà alla porta…”.
Un piccolo
singulto giunge dal fagotto per terra.
“Non
essere melodrammatico…” mormoro, alzando gli occhi al cielo “Hai visto che non
era nessuno?”.
“Ma
poteva essere qualcuno, Granger…” sussurra lui con tono quasi sofferto
“E questo rende la mia precisazione ancora più calzante…”.
Non lo
capirò mai, è questa la verità. Io temo i Mangiamorte, temo la guerra, ne temo
il suo violento soffiare sulla mia pelle. Eppure, so di potercela fare, so di
poterne uscire. Ma Malfoy, no. Lui si sente un miracolato per avercela fatta
una volta. Crede quasi che sia stato un errore che sia rimasto in vita… e teme
il giorno in cui verranno a chiedergli il conto di quello che non ha pagato.
“D’accordo,
lasciamo perdere…” dico accondiscendente, cercando di calmarmi a mia volta, ce lo
si aspetta dalla sola persona normale in questa stanza. Mi inginocchio per
terra, mormorando: “Summer, si può sapere che cosa è successo? Non dovevi essere qui alle undici, tra l’altro?”.
“Io sono
la socia di Danny e vengo qui quando mi pare e piace…”
risponde lei presuntuosa, ma sempre senza alzare il capo “Il fatto che tu viva
qui, non significa che sei alla mia altezza… sei una cameriera come le altre…”.
Dio,
dammi la forza!!!
“Decisamente
non sono alla tua altezza… tanto per cominciare non sono seduta per terra come
una povera pazza delirante…” borbotto acida. E pensare che avevo
iniziato così bene, così gentile, e già me ne sono pentita!
“Ed
arrivò anche il giorno in cui diedi ragione alla Granger…” sento Malfoy
mormorare afflitto “Deve essere il primo dei sette sigilli che si apre… tra
poco ci sarà l’Apocalisse…”.
“Decisamente…”
rispondo, roteando nervosa gli occhi per poi alzare la voce: “Insomma, Summer!
Se te ne vuoi stare seduta per terra, sei libera di
farlo, non me ne frega niente! Ma se almeno devi farlo, non
fare quel… insomma, quel fracasso infernale!”.
“E la Granger diede ragione a
me… secondo sigillo andato… -5 all’Apocalisse…”.
“Ryan,
la smetti?!” urlo, sollevandomi da terra. Mi tolgo la
polvere dalla mia gonna, prima di dire a Malfoy: “Basta, mi sono stancata…è la
tua fidanzata, non la mia… e, se la sua è una malattia mentale ereditaria,
interesserà i tuoi figli, non i miei…”.
“Questo
per dire…?” mi interrompe Malfoy, guardandomi dalla testa ai piedi.
“Veditela
tu…” dico e faccio per uscire. Malfoy, per nulla turbato, risponde: “Se la vede
da sola… fidanzato sì, ma non balia, tantomeno psicanalista… ci sono troppe
cose a cui pensare oggi…”.
“Aspettate!”
sento la voce di Summer richiamarci indietro, mentre già io e Malfoy eravamo
fuori dal bagno.
Mi
fermo, come Malfoy, prima di indietreggiare di qualche passo, esattamente come
fa lui, non appena Summer si alza da terra e ci volge il viso. Lo stesso viso
che, fino alla sera prima, era perfettamente liscio e roseo e che adesso invece
è pieno di macchie e bolle rosse, alcune persino grattate, così da grondare
anche un po’ di sangue. Io e Malfoy restiamo immobili, a bocca spalancata,
mentre Summer regge il nostro sguardo fieramente, gli occhi blu pieni di
lacrime di stizza.
“Hai
preso la varicella…” commento stupidamente.
“Ma non
mi dire!” urla lei come un’invasata, la voce come quella di una sirena. Non la
leggiadra creatura marina… assolutamente no! Sto parlando del leggiadro
suono dell’antifurto di un auto nel cuore della notte!
Di quella sirena!
La vedo
con il labbro inferiore tremante, mentre volge il viso verso Malfoy con
espressione terrorizzata. “Danny…” lo chiama piano.
Malfoy è
ancora impassibile, non proferisce parola, né tantomeno grugnisce. Cosa strana
per lui.
“Danny…”
lo chiamo, scuotendolo per il braccio.
“Non lo
toccare…” intima Summer, recuperando un po’ della sua voce solita.
E poi,
alla fine, succede l’incredibile. Malfoy scoppia a ridere come un autentico
imbecille, piegandosi in due dalle risate, e reggendosi allo stipite della
porta. Questo è pazzo! penso preoccupata,
guardandolo storta. Draco Malfoy non rideva mai, se non per ghignare. Ma
piangeva, sapeva piangere in una maniera assurda e disperata. Ed invece, da
quando conosco Danny Ryan, sembra aver completamente rimosso come si faccia a
piangere, anche nel momento in cui il dolore e la paura minacciano di ucciderti
per overdose. In compenso, l’ho visto ridere in questa maniera già due volte.
Insomma, in una maniera sincera ed autentica. Come se si stesse davvero divertendo…
… o
come uno che sta solamente cercando di allentare il nervosismo di aver pensato
di morire…
“Insomma, Malfoy!” lo riprendo con rabbia “Smettila di
ridere come un’imbecille! Ti ho dato uno schiaffo al terzo anno e posso rifarlo!!”.
Lui non
accenna a smettere, continua a ridere come un folle, mentre cerca invano di
parlare. L’unica che invece dovrebbe starsene zitta che è Summer, colpita
nell’orgoglio di ragazza decisamente sopra la media nei canoni estetici comuni
per essere oggetto di tanta ilarità da parte del suo ragazzo, pensa bene di
sfogare adesso la sua ira repressa, urlando come un’aquila frasi sconnesse del
tipo: “Come ti sei permessa di picchiare il mio Danny?!”,
o “Danny, ti prego, dimmi che mi vuoi ancora!”, oppure “L’avevo detto a Seth di
tenermi lontana quella pustola ambulante!”.
Insomma,
l’inferno. Quasi preferivo che ci fosse stato davvero un Mangiamorte al posto
di Summer… due secondi di terrore, un’AvadaKedavra sparato all’istante e via verso l’alto dei cieli.
Invece, con questi ho anche la tortura mentale…
“Basta!!!!” urlo con tutto il fiato che ho in gola, aggiungendomi
all’allegro coretto, ma suscitando talmente tanto sgomento nei due psicolabili
da farli tacere all’istante.
“Che c’è?!” urlo ancora a Malfoy che mi chiama, grugnendo come al
solito, mentre cerca di ricomporsi.
“Tra
poco ti farai anche tu quattro risate, Granger…” aggiunge con tono sibillino,
prima di dire: “Summer è quella che parla con i giornalisti… Seth si blocca…
gli altri non sanno gli aspetti dirigenziali… e, come puoi immaginare, io con i
giornalisti non parlo… o meglio io non posso vedere i giornalisti…”,
sbianco mentre aggiunge queste ultime parole.
Malfoy
non si fa vedere in pubblico per non farsi riconoscere come Danny Ryan.
Seth,
a quanto pare, si blocca.
Gli
altri… e Summer sta così…
E adesso?? Stasera c’è il party… e nessuno di noi sa la metà delle
cose che sa Summer… e soprattutto nessuno di noi è Summer, l’aspetto
visibile del Petite Peste.
Rischio
di svenire e di cadere riversa per terra, ma per fortuna lo evito alle parole
di Malfoy. Come sempre, mi dà la rabbia giusta per non lasciarmi andare mai.
“Non ti
viene enormemente da ridere?!!” . Ecco che dice
l’idiota. Per sapere quello che dico io… bè, l’età di 55 anni non dovrebbe
essere ancora sufficiente a non scioccare nessun giovane cervello…
Capitolo scritto a velocità super come
potete vedere, non è lunghissimo, ma è un capitolo di transizione, quindi forse
non è granchè…L; anche se a me piace particolarmente specie nella parte
con Summer. Come avete potuto capire, non è che mi piaccia particolarmente quindi
ci godo a maltrattarla! Poi le ho fatto venire anche la varicella, insomma sono
davvero perfida… che dire? Ci avviciniamo al party che sarà MOLTO IMPORTANTE
per lo svolgimento di questa storia, sotto molteplici punti di vista. Draco ed
Hermione si stanno avvicinando piano, piano, credo che così sia naturale, ma
nei prossimi capitoli già ne succederanno parecchie tra tutti e due!! Ora come sempre passo ai ringraziamenti!!
Falalula: grazie
dei complimenti, specie dello struggevolmente
coinvolgente, mi ha fatto quasi commuovere!! Un bacio!
Marygenoana: benvenuta
alla mia storia! Grazie dei tuoi complimenti e grazie anche della recensione,
come avrai avuto modo di capire, sono una donna affamata di recensioni! Spero che
anche questo chappy ti sia piaciuto! Un bacio!
Seven: ciao!!! Come sempre grazie dei tuoi complimenti; allora la
vicenda di Harry era abbastanza necessaria, nel senso che credo che Hermione
sia una persona molto inquadrata, per come la intendo io, quindi so che solo
facendole capitare un vero e proprio terremoto emotivo e ideale, la si può
smuovere dalle sue considerazioni. Come vedi, solo così, solo levandole le
certezze dietro cui si nasconde, potrà capire che
Draco effettivamente non è la persona che pensa… o perlomeno io la vedo così…J; Harry comunque avrà modo di rifarsi, credo che uno con
le sue responsabilità debba scegliere di sacrificare qualcosa per il “bene
comune”, mettiamola così. Sono contenta che ti sia piaciuta la parte sulla
terrazza, in fondo Draco si sentiva abbastanza in colpa, e ci mancherebbe!! Spero che anche questo chappy
ti sia piaciuto!! Un bacione!
Whitney: mamma
mia, quanti complimenti!! Addirittura è la tua fic preferita!! Me commossa!!! Finalmente le acque si smuovono anche se sarà ancora una
cosa lunga, considerando il carattere di Hermione, ma piano arriveremo alla
meta!! Grazie ancora, un bacio!!
Nefene:
la mia cara Chiara!! Ancora una volta grazie dei
complimenti e grazie del contatto che ho prontamente aggiunto!!Eheheh!!! Ma me li meriterò
tutti? Speriamo che anche questo chappy sia stato all’altezza
delle aspettative!! Sono felice che il personaggio di
Hermione ti piaccia, ho cercato di mantenere inalterato il suo senso di lealtà made in Rowling, ed insomma è piuttosto semplice, perché come
ti ho detto, è abbastanza simile a me in questo; spesso proprio per seguire le
mie idee, mi sono messa contro tante persone, quindi è facile vedere Hermione
che si contrappone ad Harry per questo. Harry avrà modo di riscattarsi, anche
se credo che più che nelle apparenze, lui voglia la pace e la tranquillità ad
ogni costo, dopo quello che ha vissuto da ragazzo,
quindi abbia scelto questo sacrificio. Effettivamente questo è il primo
avvicinamento tra Draco ed Herm, e sono contenta che ti piaccia come li ho
descritti. Sempre così me li sono immaginati… in questo chappy
siamo tornati alla commedia, anche se nei prossimi ritorneremo a toni un po’
più tristi! Piccola anticipazione, eheheheh!! Summer sta mezza morta quindi sei stata quasi esaudita, e
per Serenity è ancora presto, saprete qualcosa di lei molto in là… grazie
ancora dei tuoi complimenti!! Se poi vuoi dirmi altro,
contattami tranquillamente!! Un Bacione!!!
Cygnus Malfoy: grazie graziegrazie!! Mmm, primo bacio? È ancora un po’ presto… diciamo che manca
qualche capitolo, perlomeno lì, mentalmente ci son arrivata!!
Un bacione!!
FraFri95: grazie
del WOW, mi ha fatto sorridere, spero di avertelo strappato anche con questo
capitolo!! Un bacio!
Non ho
fatto in tempo a finire questa frase che Seth è già sgusciato fuori dalla
stanza, chiudendosi in bagno. Nonostante la porta chiusa, lo sento lo stesso
ridere come un folle, accompagnando tutto ciò con sordi e secchi rumori. Sospiro, sta battendo persino il pugno sul muro per la
grande ilarità. Ritorno a guardare Summer che se ne sta distesa con faccia
scura (o meglio a pois rossi) sul letto della stanza di Malfoy, dove siamo
riuniti con Seth, Serenity e gli altri (ovviamente ad eccezione di Corinne e
Lorna, credo che siano in partenza per Timbuctu, pur
di evitare il doppio pericolo congiunto di Summer e Serenity e delle loro
letali bolle). Stiamo cercando di decidere che cosa fare per stasera,
considerando l’enorme emergenza che dobbiamo affrontare in tempi così brevi, ma
oltre la difficoltà intrinseca, ci si mette anche Seth che scoppia a ridere
ogni secondo, quando per caso incrocia la vista di Summer. Deve essere la
realizzazione delle sue più perverse e malefiche fantasie vedere la sua più
acerrima rivale conciata in quella maniera… vivo in una casa di pazzi…
“C’è
solamente una soluzione…” sospira alla fine Summer con perfetta aria
melodrammatica, allontanando dalla fronte un fazzoletto bagnato che vorrebbe
ovviare alla febbre che le sta salendo. Mamma mia, sembra un’attrice tragica in
procinto di morire nella maniera più orribile possibile…
“Quale?”
chiede Malfoy, che se ne sta in disparte, tenendo in braccio Serenity che
giocherella con un sonaglio.
“Cancellare
la festa…”.
Sale un
silenzio strano, come se effettivamente tutti stessero contemplando
l’ipotesi.
“E
perché non organizziamo un suicidio collettivo?!”
aggiungo malevola ed assolutamente incredula “Avremo persino la prima pagina su
metà dei quotidiani di Londra, senza il minimo sforzo… è decisamente un’opzione
da considerare… ovviamente se rimaniamo sull’assetto tragico andante…”.
Una
piccola risata trattenuta aleggia sui volti di tutti, tranne su quelli di
Summer e Malfoy.
Sospiro
tra me e me… quelli sul tragico andante…
“Perché
che cosa avresti in mente tu, Granger?!” mi chiede
nervosamente Malfoy, come se avessi pronunciato la più grande delle eresie mai
sentite al mondo.
Mi stringo nelle spalle: “Tutto… e niente… ma comunque non
se ne parla che, dopo la faticaccia che abbiamo fatto, cancelliamo tutto… e
solo perché Summer sta male…”, distolgo lo sguardo da lei, puntandolo sugli altri:
“… in fondo, Summer è sempre una sola persona…”.
“Ma indispensabile!”
blatera la sola persona con tono di voce accorato e tragico.
“Mi
dispiace contraddirti, ma credo che tu sia… utile, necessaria, fondamentale…
e potrei continuare per ore con i sinonimi, date le mie infinite capacità
dialettiche, ma tra questi non ci sarà mai indispensabile…”.
“E
dovrebbe esserci, invece…” aggiunge sconsolato Malfoy. Sbuffo ancora, sembra la
fiera del cataclisma… voglio proprio vedere se una di noi si fosse rotta una
gamba, mentre portavamo a termine uno degli assurdi lavori che ci ha sempre
dato Summer in questi giorni! Figurati se avrebbero cancellato la festa, ma
quando mai! Avrebbero chiamato una povera scema da qualche parte ed avanti
tutta! Ed invece solo perché la perfetta e sublime Summer sta male, va
tutto per aria! Che nervi, questa situazione mi innervosisce fino al
paradossale! Mi innervosisce l’aria compunta ed affranta di Malfoy e quella iper-soddisfatta di Summer a vederlo così… sono davvero
fatti per stare assieme, due egocentrici del genere non li ho ancora
conosciuti! Che cavolo ci vorrà a parlare con i giornalisti, dico io! A
presentare la festa, ad accogliere gli ospiti, a fare quello che fa Summer, in
fondo?!! Io lo farei mille volte meglio…
“Potrebbe
farlo Hermione…e mille volte meglio…”.
Che
cavolo?!! L’ho pensato e l’ho detto! Ma sono cretina?!! Adesso quella mi squarta! Un attimo… ma, a parte che io
non mi do del lei, non ho una voce da ragazzo… ci manca anche questa alla serie
di tragedie presenti… chi cavolo ha parlato? Sgrano gli occhi colpita,
guardando la persona accanto a me. Seth assume la posizione da dittatore
cileno, mentre fa un discorso alla patria, inarcando la schiena in avanti ed
incrociando le braccia. Lo guardo con gli occhi sbarrati, si può sapere che
diamine ha in mente?!! I suoi schemi mentali sono
ancora un fitto mistero per me…
“La Granger?” blatera Malfoy,
assolutamente sconvolto, riaggiustandosi sulla sedia su cui è stravaccato.
“Io,
Seth?! Ma non ho assolutamente esperienza di quel
tipo! Lo potrebbe fare April… o, che ne so…”, analizzo con la mia mente le
altre figure femminili del Petite peste, e la
mia frase si blocca in gola per mancanza di alternative. Decisamente le uniche
ragazze normali siamo io ed April, ovviamente esclusa Summer. Lorna è
decisamente inaffidabile, Corinne è decisamente stupida e Gail è decisamente
strana. Non a caso, in questo momento, le prime due sono disperse, si spera che
arrivino per l’inizio della festa, mentre Gail è seduta dietro la finestra e guarda
una mosca che lotta contro il vetro con uno stupido sorriso assente,
apparentemente disinteressata a tutto quello che le accade intorno. Guardo
April, che è in piedi davanti a me, appoggiata alla porta del bagno, con
espressione rassegnata, a cui lei risponde nella stessa maniera, emettendo
persino un debole sospiro. Sembriamo le uniche due donne sopravvissute ad un
disastro nucleare ed investite dell’esclusiva responsabilità di proseguire la
specie umana... la specie umana, o meglio la specie animale, guardando i
soggetti presenti… Summer sembra meditare di portarmi al rogo solo per non
averla ritenuta indispensabile, Malfoy ninna distrattamente Serenity, scoccando
ogni tanto delle occhiate truci a Seth, mentre quest’ultimo continua nella sua
posa plastica, cercando ogni tanto il suo riflesso nello specchio. Trey si
mangia le unghie e Lawrence… bè, Lawrence continua a leggere il suo ricettario.
Sorrido, che mito… non perde mai la calma, nemmeno se fossimo in piena Terza
Guerra Mondiale…
“Non se
ne parla proprio che due come voi gestiscano questa cosa da sole…”
tossisce Summer con tono lugubre, guardandoci storto ed accentuando con
disgusto le parole due come voi. Incrocio lo sguardo di April e sembro
intuire i miei stessi pensieri. Certo, la principessa dei Ghiacci pensa che noi
siamo troppo poco per le cose che lei fa di solito… e certo, siamo due povere
cretine, due povere cameriere fallite… mai sfidare una donna, specialmente se
la sfida viene lanciata da un’altra donna… nel 90% dei casi, lo spirito di
contraddizione renderà un banale conflitto, una guerra senza quartiere ed
all’ultimo sangue. Fino a cinque secondi prima, sarei morta all’idea di fare
una cosa del genere, certo l’avevo pensato, ma solo per non rendere Summer così
disgustosamente sicura di sé. E per togliere quell’espressione afflitta da
cane bastonato sul volto di Malfoy… eppure, mi conosce e sa che perfezionista
nata sono… ma adesso è diventata una cosa seria… è la battaglia di tutte le
cameriere del mondo contro tutte le datrici di lavoro stronze! I libri di
storia ricorderanno questo momento, accanto alle rivendicazioni delle
suffragette e alle vittorie di Giovanna d’Arco, sì!
“Io ed
Hermione ce la possiamo fare benissimo da sole, invece…” accentua con
ironia April, guardando me per l’assenso definitivo e Summer per la stoccata
finale “In fondo, non è poi così difficile, no, Herm?”.
“Già”
commento a mia volta con leggerezza “Di che dobbiamo parlare? Delle
decorazioni, della stoffa delle tovaglie o della ditta che ha fornito i fiori?
E che ci vuole una specializzazione in Scienze della superficialità
applicate alle feste per ricchi annoiati al punto di perdere il tempo in cose
imbecilli come una festa totalmente in colore turchese?!!!”.
Il viso
di Summer, mentre pronuncio queste parole, cambia gradualmente tonalità,
passando dal rosso febbre al viola melanzana. Sì,
credo proprio che mi voglia uccidere… me ne frego! Certo, la sua espressione mi
ricorda vagamente una Banshee che ipnotizzava la
gente con lo sguardo e che ho dovuto catturare circa cinque volte, prima di
gettarla ad Azkaban, dato che incantava e
terrorizzava persino i miei uomini. Ed anche me, se dobbiamo essere onesti… ma
Summer non può essere una Banshee, insomma me ne
sarei accorta! È abbastanza inquietante, ma deve essere solamente umana,
perlomeno che io sappia. Serrandomi nelle spalle, guardo di sottecchi Malfoy
con una punta di terrore e un sospiro di rassegnazione… quello è
perfettamente il tipo da stare con una Banshee e
tenersela appresso, come se niente fosse…
April mi
guarda leggermente spaventata, in fondo non si aspettava le mie parole, piene
di livore. Si aspettava una reazione più soft, cosa che magari avevo già
pianificato nella mia testa, ma che al momento di uscire dalle labbra si è
fermata e si è dissolta misteriosamente. Mi è venuta fuori una rabbia che non
mi aspettavo da me stessa… e perché, poi? Certo che Summer mi irrita davvero
tanto, se me la prendo così tanto… non me ne ero accorta prima… pazienza, ormai
il danno è fatto. Mi sono ficcata in questa situazione assurda e adesso ne devo
uscire da sola! Che cavolo ci vorrà ad organizzare una festa stupida come
questa? Ho guidato intere legioni di Auror e non posso fare questo?! Che stupidaggine…
Dopo
qualche minuto (che sembra qualche secolo…) di silenzio, finalmente qualcuno
rompe quest’opprimente cappa di tensione sui nostri respiri.
“D’accordo…”
sento Malfoy dire, mentre si alza in piedi, dando Serenity in braccio a Seth.
“Come,
d’accordo?!” chiede Summer, assolutamente sconvolta,
sporgendosi oltre il letto per fissare in viso Malfoy “Non puoi davvero pensare
di voler affidare tutto a…”, una piccola pausa utilizzata per guardare me ed
April come se fossimo due SchiopodiSparacoda, e lei è babbana e non li conosce… e non mi viene
nessuna creatura babbana altrettanto rivoltante… tutto questo solo per
concludere con un: “… voler affidare tutto a… queste due…”.
Lo
sguardo di Malfoy supera Summer, fermandosi contro il mio viso, dritto nei miei
occhi. Esattamente come stamattina, mi sento persa e vorrei solamente che la
smettesse di guardarmi. Mi manda al manicomio, quando fa così, mi fa persino
male lo stomaco e mi sento la testa vuota e leggera, come se non avesse peso. E
stiamo sempre parlando di un cervello come il mio, insomma dimenticarsi che
esiste, è oggettivamente difficile, data la sua mole… continua a fissarmi e so
che sono pochi secondi tra questo e quando si decide a parlare, ma sembrano
vite intere che si sono srotolate e trascorse nel mio respiro caldo ed
affannoso.
“Ed
invece voglio fare proprio così, Summer…” dice Malfoy sereno, distogliendo il
viso da me e tornando a guardare in volto la contrariata fidanzata “… l’ho
notato che… usiamo un piccolo eufemismo… non vi trovate simpatiche…”.
“Infatti,
Danny…” aggiungo io, quando sono più che certa che la mia voce funzioni di
nuovo a dovere “Non mi sembra che nel mio contratto ci fosse una clausola
inespressa di amore e simpatia per la mia datrice di lavoro… anzi, ti dirò, la
più grande fantasia dell’impiegato medio è di ammazzare il suo diretto
superiore… insomma, sono nella norma… forse un po’ eccessiva, dato che voglio
ammazzare entrambi i miei datori di lavoro, ma non è colpa mia se ne ho
due…”.
“E di
questo che parlo, Granger…” commenta Malfoy con un tono di ovvietà che mi
irrita “Non la darai mai vinta a Summer, no?”.
“In che
senso?”. Mi sta parlando come se ci fossimo solamente due in questa stanza. Sta
palesemente ignorando tutti gli altri.
“Nel
senso…” spiega pazientemente, chiudendo gli occhi e riaprendogli qualche attimo
dopo “Che non rischieresti mai che la festa andasse a rotoli, se questo
significasse dare ragione a Summer che si riteneva indispensabile per la sua
buona riuscita. Soprattutto dopo averla definita… com’era? ah
già… pressappoco festa imbecille per ricchi annoiati…”.
Cavolo, ha ragione! Mi sta quasi cadendo la mascella a terra per la
sorpresa… senza volerlo, sono caduta in trappola… il mio orgoglio mi
impedirebbe di lasciare le cose andare male, perché saprei di essermi assunta
un impegno di fronte a quella supponente… senza contare che qualsiasi impegno
io mi assuma, difficilmente lo lascerei andare a rotoli. Perché ne andrebbe
della mia persona e della mia perfezione, che vado sbandierando ai quattro
venti. Sono troppo orgogliosa per dare ragione a chi diceva che non ce l’avrei
fatta. Malfoy ha ragione… mi conosce, come ogni nemico conosce il suo
avversario… cioè, fino all’ultima parte di me… conosce il mio orgoglio e il mio
perfezionismo… lo conosce e ci ha fatto leva per ottenere quello che voleva… è
bastato lasciarmi a scannare con Summer per ottenere che mi gettassi da sola in
questo macello…
Notando
la sua espressione soddisfatta e sorniona, capisco davvero di essere caduta
nella sua trappola come una cretina.
Non
ha mai davvero pensato di cancellare la festa. Aspettava solo che mi proponessi
da sola.
Che
grandissimo bastardo…
Stringo
gli occhi per la rabbia, mentre lui continua a sogghignare tra sé e sé,
rendendomi evidenti i suoi pensieri e le sue intenzioni, se mai avessi avuto il
minimo dubbio. È ovvio, è tipico di lui, si sta compiacendo di sé stesso…
quanto vorrei ucciderlo…
È
inutile che indossiamo altri panni ed altri nomi.
Per
sempre, saremo quello che siamo.
Hermione
Granger e Draco Malfoy. Una Grifondoro ed un Serpeverde.
Per
sempre, saranno il mio essere orgogliosa e il suo
essere infido le cause alterne della nostra rovina.
Come
componente della razza femminile, sono sempre stata un elemento decisamente
particolare.
Come
posso spiegarlo in termini semplici?
Avere
sempre dato la priorità allo sviluppo delle mie capacità intellettive, mi ha
fatto considerare la mia femminilità un dato abbastanza trascurabile, a volte
persino invalidante. Insomma, spesso proprio per il fatto di essere una donna,
alcune cariche mi erano precluse o dovevo faticare il doppio per arrivarci,
specie nel mondo magico, dove perlomeno nei primi tempi dovevo remare contro
anche il fatto di essere una Mezzosangue. Ora, la mancanza della sbandierata
purezza di sangue non mi impedisce più di fare quello che voglio, ma intanto
sono ancora una donna e questo spesso porta a dei pregiudizi difficilmente
eliminabili.
Quante
professioni chiedono ancora la bella presenza? Tante, troppe, ve lo dico
io.
Ma,
tralasciando questi discorsi, alla fine credo che, se fossi nata maschio e mi
fossi chiamata Robert, per me sarebbe stata la stessa cosa. Anzi, forse c’avrei
messo la metà del tempo a diventare Capo degli Auror o a farmi riconoscere come
una componente attiva e pienamente efficiente dell’Ordine della Fenice.
Non sono
mai stata vanitosa, né ci ho messo troppa attenzione nel vestirmi o
nell’acconciarmi i capelli, come la maggior parte delle mie coetanee. Per me,
era una perdita di tempo.
Certo,
le cose sono cambiate quando hanno iniziato a piacermi i ragazzi. E allora per
farmi notare, inghiottivo un magone di irritazione e fastidio, e accettavo di
mettermi quella gonna un po’ più corta, quel vestito un po’ più appariscente,
quella camicia un po’ più aderente.
Non sono
una brutta ragazza, questo lo so, non sono nemmeno bellissima, ma, se mi ci
metto, sono decisamente carina.
Ma,
perlomeno in questo, sono pigra. Odio vestirmi elegante. Odio i ferri caldi tra
i capelli a renderli ricci. Odio le scarpe alte che sono cinque numeri più
piccoli del tuo solo perché erano praticamente perfette per quel vestito. Odio
restare congelata per paura che un boccolo cada dall’acconciatura o che una
piega si formi sul mio vestito. Il Ballo del Ceppo, per esempio, fu veramente
una tortura. Insomma, detesto profondamente tutte quelle pratiche femminili,
fatte per rendersi più belle di quello che si è, e che invece i maschi non
conoscono.
Non
fraintendetemi! Mi trucco, mi acconcio i capelli, scelgo i vestiti anche con
una certa cura ed attenzione. Ma non sono una maniaca dell’aspetto e
dell’estetica, specialmente adesso che non sono fidanzata e che vivo con due
ragazzi, di cui uno gay e l’altro che non si farebbe
un pensiero romantico e/o sessuale su di me nemmeno se lo pagassi…
Quindi,
potete ben capire come sia sentita quando, deciso che saremmo state io e April
ad occuparci della festa, stranamente Malfoy, Lawrence e Gail hanno lasciato la
stanza e ci siamo rimasti nella stanza solo io, la Regina dei Ghiacci, April e
Seth. Nemmeno tre secondi dopo, Summer e Seth hanno iniziato a blaterare in
modo strano, sicuramente utilizzavano un codice criptico della CIA. Io ed April
ci siamo guardate in faccia con espressione confusa, cercando di decodificare
le loro urla starnazzanti, ma nemmeno lei riusciva a capirne una parola.
Alla
fine, credo che abbia vinto Seth nel loro diverbio incomprensibile. Infatti,
Summer ha taciuto all’improvviso, scura in volto, mentre Seth si è voltato
trionfante verso di me, mugugnando qualcosa.
“Eh? Che diamine dici, Seth?! Scandisci
le parole!” sussurro.
“La 42,
vero?” mi chiede ancora, tutto rosso in viso e felice
come un bambino davanti ad una coppa super size di
gelato.
“Seth,
sento che stai cercando di dirmi qualcosa, ma ti ripeto… non capisco che cosa
diamine tu voglia da me…”.
Seth
sbuffa con il naso, perdendo un po’ della sua espressione orgogliosa, e mi
guarda come se fossi una povera deficiente. Tutto questo,
prima di chiedermi ironico: “La tua taglia, Herm… gli abiti… sai, quei numerini che mettono sui cartellini, proprio accanto al
prezzo? Quella si chiama taglia… serve a farti capire se il
vestito ti va o meno…”.
“La mia
taglia?” chiedo scioccata “E a che diamine ti servirebbe, scusa?”.
“A
mettere il mio costosissimo e pertanto preziosissimo vestito…” borbotta Summer
con tono di voce funereo.
“A
mettere, che cosa?!!” chiedo, gli occhi decisamente
fuori dalle orbite, so perfettamente come si veste Summer e so altrettanto
perfettamente che un suo calzino deve costare svariate decine di sterline.
Ossia, io una cosa sua non la metterò mai nemmeno morta.
“Non
vorrai andare alla festa, in qualità di mia sostituta, vestita in quella
assurda maniera??!!” tossisce Summer nella sua febbre,
ma incutendomi lo stesso il terrore giusto.
“Perché
che cosa c’è che non va?!” chiedo nervosa, guardando
la mia camicia bianca e la gonna nera.
“Prima
di tutto, non sei vestita di turchese…” risponde ovvio Seth, soppesandomi con
lo sguardo come se fossi un pezzo di carne da esaminare prima di mandare in
tavola.
Lo guardo con gli occhi ridotti a fessure, sibilando come un
serpente in procinto di attaccare: “Sottospecie di Giuda Iscariota, non ti ci
metterai anche tu, vero? Guarda che so esattamente come fartela pagare, poi…”.
Lui si
ritrae leggermente terrorizzato ed allora la tiritera la continua Summer. Se
non sapessi che quei due si odiano a morte, penserei automaticamente che
abbiano programmato ogni momento di questa conversazione per giocare alla parte
del poliziotto buono e di quello cattivo.
“Ascolta,
Granger…” inizia Summer con quell’aria da Vergine dei Ghiacci che le riesce
tanto bene “Non voglio nemmeno soffermarmi troppo sulla spiegazione per cui non
puoi indossare quella…”, e qui scocca la sua altrettanto collaudata espressione
di disgusto profondo per tutto quello che costa meno di cento sterline “… mise,
mettiamola così… sarai la rappresentante del locale, quella che dovrà
parlare con i giornalisti ed illustrare al meglio il nostro lavoro… pertanto,
dovresti essere al meglio…e possibilmente non sembrare la pubblicità di
un rimedio contro lo stress… insomma, i tuoi capelli… sono alquanto… da
persona stressata…”. Chiude queste sue gentili paroline con un sorriso
melenso e fintamente comprensivo. Uno che non conosce bene Summer la troverebbe
una persona gradevole e ammodo, che ha dolcemente sottolineato che la
condizione dei miei capelli riflette la mia situazione psichica di grande
agitazione.
NON
FATEVI TRARRE IN INGANNO!!!!!
Il
messaggio subliminale della conversazione è un altro! Ed esattamente che ho i
capelli come una che ha appena preso la scossa e che da essi, come dal mio look
di stasera, dipenderà tutta la buona riuscita della serata, oltre al destino
del locale, alla vita lavorativa di tutti loro e alla possibilità che si
mantenga un tenore di vita soddisfacente per mandare Serenity in un college
privato.
Sospiro,
sapendo che la mia sarà una battaglia persa. Potrò farmi schiumare la bocca ed
improvvisare l’arrivo del dono delle lingue, parlando in aramaico antico e
contorcendomi per terra, e mi infilerebbero a forza in un involto di tessuto
azzurro e mi butterebbero tra i giornalisti, giustificando la mia reazione come
la manifestazione di gioia degli Aborigeni australiani che considerano il
turchese il simbolo dell’amore universale. Cosa che, so perfettamente, sarebbe
una panzana colossale.
Mai però
capitolare senza conservare l’onore!
Incrocio
le braccia con nervosismo e pronuncio con voce perentoria: “D’accordo… ma
niente scarpe con il tacco, vestiti troppo scollati e capelli che mi si brucino
per la messa in piega…!”.
Inutile
dire che il mio decalogo crolla nell’acro di trenta minuti netti. Che abbia
precisato quei limiti fondamentali, è assolutamente influente per quelle due
specie di piovre acconcia-capelli-prova-vestiti.
Con le loro scuse da atelier della moda parigina, “I tacchi slanciano e ti
danno un’andatura più sinuosa”… oppure, “I capelli così ti starebbero
praticamente perfetti…!”, o anche il ben poco ortodosso “Se non mostri
un po’ di mercanzia, da qua non se ne esce!”, alla fine fanno di me quello
che vogliono. Cosa che, tanto per intenderci, non è nemmeno facile da
ostacolare se, nello stesso momento in cui io cerco di togliermi le scarpe da
tortura medievale che mi stanno calzando a forza, sono contemporaneamente
impegnata ad imparare, sotto la voce agitata e nervosa di April, ogni
informazione esistente sugli invitati alla festa, il loro cognome da nubile e
celibe e sordide relazioni extraconiugali che dovrebbero impedirmi di chiamare “la
sua deliziosa moglie” quella che in realtà è una sgualdrina di quinta categoria.
Del tutto ignara chiaramente che il suo uomo abbia una moglie e ben tre
pargoli. E tutto questo, poi, sono costretta a farlo con un’assillante domanda
nella testa… continuando a leggere sui fogli che April mi sventola davanti agli
occhi la data di oggi, prende a tornarmi in testa l’atroce sospetto di essermi
dimenticata una cosa importante che doveva accadere oggi. Forse un compleanno…
una ricorrenza… non lo so, ma alla fine lascio perdere. Non ho bisogno di
ulteriori pensieri, se è qualcosa di importante sicuramente fino alla fine
della giornata me ne ricorderò… sempre se non sarò morta prima… e su questo non
posso essere abbastanza convinta…
In capo
a due lunghissime ore, mi ritrovo finalmente pronta per quella che sarà
una delle serate storiche della mia vita. Nel senso che, alla fine di questa
serata, se tutto sarà andato al meglio, avrò ancora un decoroso stile di vita…
altrimenti probabilmente inizierò a mangiare residui di mozzarella sui cartoni
di pizza vecchi dai bidoni della spazzatura. Quando hanno finito di acconciarmi
e prepararmi, Summer fa una strana smorfia, borbottando qualcosa, per poi
andarsene dalla stanza, barcollando sulle ginocchia a causa della febbre. Seth
batte le mani entusiasta ed April mi riempie di complimenti. Sorrido a mia
volta, a disagio, anche perché non mi sono ancora guardata allo specchio.
Finalmente riesco a raggiungerlo e mi guardo a lungo, stentando a riconoscermi.
Summer aveva comprato cinque vestiti per sé, indecisa su quale fosse il più
adatto; inutile dire che ho fatto una serie di cenni disgustati a sentire
questa cosa… per la serie, uno schiaffo alla povertà. Di questi cinque vestiti,
ne aveva presi tre decisamente assurdi, uno di lurex turchese, uno di raso
cortissimo che sembrava una sottoveste ed un altro con la gonna a palloncino
che mi faceva sembrare un enorme meringa. Il quarto
non mi piaceva lo stesso e nemmeno mi andava bene, quindi la scelta si era
rivelata abbastanza semplice e si era diretta verso quello che indosso adesso.
Con lo scollo all’americana, sul modello dei pepli greci, si chiude con una
fibbia gioiello dietro al mio collo per poi scendere morbido in una lunga gonna
plissettata. Il tutto di un tessuto leggerissimo, tulle di organza. Per
completare, una meravigliosa parure di collana, bracciale e fermaglio per
capelli di gocce d’opali, che Summer mi ha fatto gentilmente notare
essere veri… quindi, se ne perdo anche mezzo, gli dovrò lo stipendio per
quindicimila anni. Mi tocco stupefatta i capelli, Seth li ha resi morbidi e
lucenti e soprattutto ordinati!!! Scendono come oro
colato in eleganti boccoli, trattenuti lievemente da un sottile nastro turchese
a mo di fascia.
Lo
guardo commossa, considerando che ci ha messo solo due ore a pensarci
bene, mentre per il Ballo del Ceppo io ci misi quasi sette ore di Pozione Lisciariccio.A
volte i babbani ne conoscono molto di più di noi maghi!!
O meglio le babbane… basta vedere mia madre che ha sempre avuto un aspetto
perfetto, nonostante non fosse una strega. Sorrido a quel ricordo, mia mamma che si spazzolava i capelli lunghi e lucidi
davanti allo specchio, sorridendo, e io appoggiata al lavandino che la
guardavo, quasi ipnotizzata. Ad ogni tocco di mascara, ad ogni ombreggiatura di
rossetto e ad ogni colpo di spazzola, lei diventava sempre più bella, quasi
come una principessa. E io la guardavo fissa fissa, cercando di capire come facesse, quale fosse
il suo segreto. Lei rideva e mi sussurrava qualcosa, poi si avvicinava a me e
furtivamente mi spruzzava con un goccio del suo
profumo, che sapeva di buono e di fresco, come quello di una bambina. Io mi
sentivo fiera ed orgogliosa di me stessa, grande nei pochi anni, e camminavo
impettita nelle mie scarpette lucide color confetto.
Mia mamma… solo ora mi rendo conto di quanto mi manchi…
Da
quando sono diventata una strega, ho trascorso pochissimo tempo con i miei; e
da quando c’è stata quella condanna, ancora meno. Intimamente mi ricordavano il
mondo dal quale ero fuggita che, allora, in assenza assoluta di magia, mi
sembrava piccolo e stupido… perso in ragionamenti mentali e problemi che i
maghi non avrebbero mai avuto. E che ora avrei dovuto avere anche io.
Oggi,
invece, con queste persone… Seth, April… Serenity e, perché no, anche Malfoy…
mi sento di nuovo vicina a quel mondo.
Vicina
come se lo toccassi con mano, e intanto mi sembra assurdo non sentire mia madre
da tanto tempo.
Sorrido
tra me e me, magari perché questo è il germe di una famiglia, babbana stavolta.
E quindi rivoglio la mia, vicina.
O magari
perché sento, per la prima volta da mesi, di avere un posto. Un posto nel
mondo. Piccolo e incasinato. Ma un posto tutto mio. Mi sembra un miracolo; la
calma e la serenità che percepisco dentro, mentre guardo Seth ridere
dell’acconciatura di April e lei arrabbiarsi come una pazza. Gli occhi si
annebbiano un po’, una nebbia confusa di lacrime, e le ricaccio indietro,
orgogliosa.
Le odio
comunque le lacrime, anche se sono di gioia.
“Allora,
tesoro, credi di essere pronta?” mi dice Seth, guardandomi di sbieco.
Sollevo
il capo e annuisco, le parole bloccate in gola. Ho la bocca impastata da quanto
mi sento nervosa, mamma mia!! L’ultima volta che mi
sono sentita così, ero sotto Pietrificus Totalus.
“Ricordi
tutto?” mi incalza April, preoccupata “Anche il nome dell’adorato cane
dell’avvocato Piers?”.
Mugugno:
“Archimbald…”.
“Che
c’è?” mi chiede Seth, preoccupato, guardandomi in tralice.
“Bah,
giusto un pochino di ansia..” balbetto nervosa.
Incredibile, mi sentivo più tranquilla la settimana prima dei GUFO… eppure si
tratta solamente di una stupida festa, in fondo ne ho passate di cose peggiori.
Voldemort, per esempio. E ne sono uscita viva. Ed invece ora sono paralizzata
dalla paura…
“Dimmi
una cosa, Seth…” sussurro, balbettando “Ma se qualcosa va storto stasera,
esattamente che succede?”.
April si
volta a guardarmi, mentre era intenta a sistemarsi le scarpe, e così fa Seth
che invece osservava il suo riflesso nello specchio, alla ricerca di minuscole
imperfezioni da debellare. Resto con il capo basso, mentre lo vedo avvicinarsi
e mettermi la mano sotto il mento, fino a sollevarmi il viso. Mi guarda negli
occhi e poi sorride, dolcemente, e dopo tanto tempo, forse dopo una vita, mi
sento… al sicuro, anche in mezzo
all’inferno.
Come in
un ricordo, lontano lontano…
Perché negli occhi verdi di questo
ragazzo… questo pazzo ragazzo cubano ed inglese… anche solo per un attimo, ne
ho visto un altro…
Sempre con gli occhi verdi, solo
leggermente più scuri…
Harry…
Quando mi guardava ancora con quella
luce dolce e spensierata che lo rendeva così grato per ogni secondo della vita
che stava vivendo… e che, ora, chissà, se torna qualche volta a lambire il suo
sguardo…
“Non
succede niente di che, Herm…” mi dice, con voce calma e serafica “Domani apriamo come sempre il locale, e riprendiamo il nostro
lavoro…”. Gli sorrido grata, calma che mi riempie il cuore, come l’onda lunga
di un mare al tramonto, immerso nel silenzio del mondo.
Anche
April si avvicina e mi fa l’occhiolino, prima di dire: “Non devi sentirti
responsabile di tutto… e lascia decisamente perdere quello che dice Summer… se
la festa va male, sarà colpa di tutti… e non solo tua… fai quello che puoi… e
andrà bene…”.
Sorrido
anche a lei e annuisco con il capo.
“Mi
preoccupo solo per Summer domani mattina…” mormora April, quasi affranta “Se
stasera non ce la facciamo, domani dovremmo fare un travaso del suo ego al
piano terra per evitare di morire soffocati…”.
Scoppiamo
tutti e tre a ridere nello stesso momento, piegandoci in due all’idea di una
Summer enorme come una mongolfiera.
Un’enorme
ondata di sollievo mi travolge e con quella risata forte e contagiosa, mi sento
scivolare via di dosso come gocce di pioggia su una finestra tutte le tensioni
di questi giorni.
Come andrà e andrà stasera… il più
bel regalo che potessi avere, l’ho avuto ora, in questo momento.
Questa sensazione… questo sollievo…
la consapevolezza che ho qualcuno con cui ridere e scherzare, e che mi sosterrà anche se le cose andranno male… vale come la cosa
più preziosa fra tutte…
E non
riesco ad impedirmi di pensare, mentre continuo a ridere.
Senza accorgermene e senza volerlo…
sono diventata parte di un nuovo Trio dei Miracoli…
I primi miei minuti al Tourquoise
Party, credo che siano stati i peggiori e più imbarazzanti della mia vita.
Credo che vengano dopo solo al giorno in cui uno stramaledetto Serpeverde mi
trasformò in una specie di castoro. Ovviamente Draco Lucius Malfoy, lo stesso
che oggi ha pensato bene di farmi rivivere la sensazione dell’imbarazzo più
totale in cui si possa mettere un essere umano. Con la differenza che stavolta
non avevo il pubblico abbastanza limitato del quarto anno di Hogwarts, ma una folla sterminata.
Perché a
questo maledetto party, che io consideravo la più grande cavolata della storia,
è venuta un sacco di gente.
Dai
giornalisti alle varie starlette, da gente comune desiderosa solo di
divertirsi, fino ai nostri clienti più affezionati, curiosi di vederci magari
in una veste diversa dalle nostre solite uniformi. E quella che ovviamente ha fatto più scalpore in
questo, sono stata io.
Dalla
mia solita divisa da cameriera, stasera io sono la vice Principessa dei
Ghiacci.
Cosa
talmente schifosa da farmi arricciare il naso ad ogni passo, quando sono certa
che un fotografo non mi abbia puntato.
Insomma,
l’imbarazzo è questo… centinaia di
occhi puntati addosso.
E tutti
intenti a squadrare ogni centimetro quadrato della mia pelle con malcelata
approvazione, oltre che il sorriso asettico e formale che sono costretta ad
indossare, peggio di un costoso pezzo di stoffa. Il bilancio alla fine sembra
positivo; o perlomeno così credo. Seth, l’esperto mondiale delle pubbliche
relazioni e dei rapporti umani, ha giustamente detto in perfetto stile Ginny
Weasley: “Herm, se gli uomini hanno la
faccia da licantropi in calore… e le donne da arpie frustrate sessualmente…
vuol dire che abbiamo fatto centro…”. Ho fatto una smorfia, disgustata,
chiedendogli se sta faccia l’avessero, dato che io non la riuscivo a decifrare.
Lui ha semplicemente sospirato, chiedendosi come facevamo io e il mio ex a
comunicare i nostri reciproci desideri fisici, data la
mia ottusaggine.
Bah,
ottusa io… perverso e pettegolo lui, piuttosto. Vabbè basta che lui dica che ste facce strane sono presenti… anche se, ovviamente al
pensiero, il mio imbarazzo si è triplicato.
Mi
accascio per un momento contro una colonna, dato che i piedi mi fanno male da
matti, ma ovviamente non posso pensare di sfilarmi le scarpe nemmeno per un
attimo. Accidenti alla miseria… la parte peggiore, che mi sembrava parlare con
i giornalisti e le varie autorità, oltre che con il rappresentante della Camera
di Commercio per illustrare il nostro lavoro, si era rivelata semplicissima.
Cavolo, alla fine io sono sempre l’ex Capo degli Auror, l’unico nella storia
che abbia costretto i suoi sottoposti a compilare giornalmente un resoconto di
tutte le loro azioni e movimenti, in maniera da essere sempre aggiornata! Me ne
frego che non volevano scrivere il nome della loro amante segreta o rivelare al
mondo che soffrivano di stitichezza cronica, tanto da dover svaligiare un
fruttivendolo ogni mattina, alla ricerca di prugne… chissene, dovevano fare
come dicevo io! Sono io il capo… o meglio lo ero… ma stasera, qui, il mio ruolo
era questo, coordinare il lavoro degli altri e parlare con gli ospiti. E
ripeto, in questo nessuna difficoltà, nonostante le mie paure. Tutti erano
pronti a fare il loro lavoro, da April alle altre che corrono da una parte
all’altra del locale con le parrucche azzurre che alla fine Summer, nel suo
ultimo rigurgito di potere, li ha costrette ad indossare. Ero un po’
preoccupata per Corinne, Lorna e Gail, ma anche loro si stanno comportando
bene… vabbè, ho scoperto Gail a parlare con una delle piante dell’ingresso del
disboscamento della foresta amazzonica, ma l’ho trascinata via in tempo, prima
che qualcuno la vedesse. Già, Corinne ci stava provando con uno che se aveva
sedici anni, era anche assai… ma anche lei l’ho strigliata di testa e
ricondotta al lavoro… e ovviamente Lorna ha cercato più volte di imboscarsi per
fumare, ma pure lei l’ho riportata al lavoro, sottolineando gentilmente che la prossima volta che desidera così
ardentemente morire per aneurisma polmonare causa fumo, l’ammazzo io prima,
risparmiandole tanto tempo. Seth naturalmente è irrecuperabile, ogni mezzo
secondo mi prende a gomitate nelle costole, indicandomi ora il sosia perfetto
di Tom Cruise o di Richard Gere o di George Clooney. Poco importa se in quel
momento sto parlando con qualcuno, specie se di molto importante. Gli unici che
non mi danno preoccupazione, sono Lawrence, rintanato in cucina, e Trey, che
mette musica in un angolo della stanza. Ora che non siamo ancora nella fase di
ballare, ha messo musica soft. E quando attacca con Sagi rei e le sue dolci
note ipnotiche, al limite tra la dance e il jazz, che mi concedo una pausa,
sedendomi al bancone del pub, dopo aver controllato che nessuno abbia bisogno
di me nell’immediato.
“Vuoi
qualcosa da bere?” mi chiede in un accesso di gentilezza Lorna, dopo aver
servito un altro cliente accanto a me.
Annuisco
con il capo, con un inespressivo sorriso, e lei mi serve un Bellini. Lo guardo
con sospetto, prima di mandarmi mentalmente a quel paese. Cavolo un po’ di
prosecco e di succo di frutta, non mi faranno crollare
a terra ubriaca…
Il tipo
accanto a me continua a guardarmi ossessivamente, mentre sorseggio la mia
bevanda, facendomi arrossire e distogliere il capo dall’altra parte. Ecco, la
sensazione imbarazzante dei primi minuti che si ripresenta con tutta la sua
forza… detesto essere guardata e dare troppo nell’occhio, specie quello
maschile… cosa non darei per svicolare e mettermi in un angolino.
Cercando
di apparire disinvolta, mi guardo attorno. Certo che Summer ha fatto un lavoro
meraviglioso con le decorazioni… difficile negarlo, anche se mi costa parecchio
ammetterlo. La sala del ristorante è un sogno turchese,
cosa che mi sta facendo persino apprezzare questo colore. Tutto coordinato
perfettamente nella gradazione giusta, dai bicchieri alle tovaglie, alle
ortensie negli angoli fino alle rose azzurre che si arrampicano lungo le
colonne. Come abbia fatto ad ottenerle così azzurre, è un mistero. Ma la parte
migliore, e quella che sicuramente le deve essere costata di più, è l’enorme
lampadario decorato di cristalli trasparenti e turchesi veri, che avvolgono la
sala in un turbinio di riflessi iridescenti. E chissà per quale strano effetto
speciale, la stanza spesso è invasa da bolle di sapone che compaiono
improvvisamente, volteggiando tra gli abiti degli invitati che hanno declinato
il turchese in ogni gradazione possibile, toccando spesso il ceruleo e il ciano
(colori ben diversi come direbbe Summer,
che credo avrebbe un infarto se fosse qui, per la mancanza di stile che
sarebbero costretti a subire i suoi occhi). Le bolle di sapone azzurre, quando
scoppiano, liberano una sottile polvere luccicante che inebria l’aria
dell’odore del dolce profumo del nontiscordardime. Come cavolo ha fatto a
creare un effetto simile? E da dove vengono le bolle? Non vedo nessuna macchina
in giro. Boh, certo che questo odore è proprio forte… mamma mia, sembra dare
alla testa. È questo che mi fa sentire confusa, più che l’alcol di uno stupido
Bellini. Eppure Seth dice che non è poi così forte… tipico di Summer, fare na cosa che a me dà fastidio!!
Ovviamente con la collaborazione di quel furetto maledetto…a proposito del
furetto, ma che fine ha fatto??
Presa
dalle mie faccende, non ci ho badato. Possibile che non sia manco sceso?
D’accordo che non volesse farsi vedere, ma nemmeno controllare la situazione?
Boh… vabbè, ora che ci penso, sia Serenity che Summer stavano ancora male,
quindi può darsi che stia con loro. E poi non è mai stato tipo da feste… anche
se… mi stringo nelle spalle, a disagio, per il pensiero che inconsapevolmente
la mia mente ha formulato. Volevo che ci
fosse. Poi mi calmo mentalmente; ovviamente non per godere della sua esimia
compagnia, ci mancherebbe, quanto più lontano sta da me, meglio è. Ma perché si
doveva mangiare le mani a pensare a come ero stata brava e a come lui fosse
sempre il solito maledetto idiota! Ah, aha! Avrei imitato l’incidere elegante
della principessa Grace di Monaco, dirigendomi verso di lui con passo felpato.
Lui con quella sua aria malaticcia mi avrebbe guardato con odio, non trovando
alcun insulto da potermi rivolgere visto il mio schiacciante successo. Al che,
lo avrei guardato dall’altro in basso, come si guarda una macchia sul tappeto,
e gli avrei detto con tono di sufficienza: “Malfoy, con il tuo colorito da
morto vivente, stai rovinando la mia scenografia… ti prego di sparire, per il
bene di tutti noi…”.
Alla
facciaccia sua!!
Ed
invece no, quello non c’è. Ma quanto lo odio!! Una volta
che potevo fare la superiore, lui non c’è.
Non mi ha nemmeno visto con questo
vestito addosso…
Ma a che
cavolo penso???!!! Se mi avesse vista, si sarebbe
fatto quattro risate, già me lo sento nelle orecchie, quella sottospecie di
iena ridens… odioso… forse è davvero meglio che se ne stia di sopra, almeno non
rischio di ucciderlo e macchiare il vestito di sangue.
Summer
chi se la sente, poi…
Afferro
il mio bicchiere, ingurgitandone il contenuto in pochi sorsi, pronta a
ritornare al lavoro. Corinne sta di nuovo flirtando con un tipo, stavolta
over65… certo che non si butta nulla… e Lorna è troppo vicina alla finestra per
i miei gusti…
Mi alzo
dalla sedia, quando mi sento chiamare leggermente. È il tipo che era accanto a
me, che mi stava squadrando dalla testa ai piedi. Che diamine vuole? Sospiro
imbarazzata, stringendomi nelle spalle.
“Mi
dica... ha bisogno di qualcosa?” mormoro professionalmente.
“Posso
offrirle qualcosa da bere?” sussurra lui suadente, cercando di superare il
volume della musica. Lo guardo, inarcando un sopracciglio; carino è carino,
alto, capelli nerissimi ed occhi chiari, un corpo atletico coperto da una
camicia, ovviamente turchese, ed un paio di jeans neri. Ma io sono al lavoro,
per prima cosa. Seconda cosa, non mi piace l’espressione che hanno i suoi occhi, del tipo Questa
me la faccio quando voglio. E terzo… bè, dopo Dean e Ron, gli unici due
ragazzi che abbia mai avuto e i più grossi fallimenti della mia vita, voglio
sentire parlare di ragazzi solo il giorno in cui avrò deciso di volere per casa
uno scimmione ammaestrato come compagno. E conoscendo la mia psiche e la mia
intelligenza, non penso che questo accadrà mai.
“La
ringrazio…” rispondo educatamente. In fin dei conti, è sempre un nostro cliente
“Ma non credo che sia il caso…” e faccio per andarmene. Ma lui mi ferma ancora,
trattenendomi per il braccio. Brivido. La
pelle fresca della sua mano sul calore convulso del mio polso. Una sottile e
sinuosa memoria tattile piano si rivela nella mia mente.
Mi volto
leggermente, e lui è ancora seduto sulla sua sedia, un lieve sorriso di scherno
sulle labbra sottili e un braccio appoggiato sul bancone del bar, come se non
facesse alcuno sforzo a trattenermi con una mano sola. I suoi occhi si
spalancano appena, quando mi volto, mentre passano mille lampi di luce che poi
muoiono nelle profondità del suo sguardo, per poi restringersi nuovamente e
fissarmi con aria ilare.
“Cosa c’è? E’ fidanzata?” mi dice ancora,
guardandomi con aria strafottente.
“Non
potrebbe essere semplicemente che non mi piace?” rispondo malevola e, con uno
strattone, mi libero della sua stretta “O è così pieno di sé da credere che
tutte le donne dovrebbero caderle ai piedi?”.
Ok, lo
so che è un cliente e che dovrei sforzarmi di essere più gentile, ma che ne so?
Mi dà fastidio solo guardarlo in faccia… mi tocco il polso con l’altra mano,
stringendolo al petto. Un fastidio assurdo, ecco che mi dà.
Lui mi guarda, piccato nell’orgoglio, poi preso da
un’improvvisa ispirazione, replica a tono, guardandomi di sottecchi: “La
conosce la massima del cliente che ha sempre ragione? Potrei
rivolgermi al suo capo per la sua mancanza di gentilezza…”. Socchiudo
gli occhi, mentre sghignazza senza ritegno… sto tipo mi ha definitivamente
rotto le scatole! Adesso è la volta buona che lo sbatto fuori a calci, oppure
lo getto nelle grinfie di Corinne che è una cosa ancora peggiore. Riscriverebbe
con lui il Kamasutra ed anche il Diario di una Ninfomane, ve lo dico io,
lasciando anche abbastanza materiale per l’edizione riveduta e corretta di
Madame Bovary.
Un
attimo, taddadà! Ecco la soluzione…
“Mi
spiace informarla che, al momento, il mio capo sono io…” affermo decisa, con un
enorme sorriso sulla faccia, la mia coscienza a posto nel formulare il pensiero
che stasera la Principessa
dei Ghiacci sono io. Ci sarà qualcosa di buono in questa vicenda o no?
Simulando
una faccia comprensiva e melensa, soggiungo: “… quindi, se vorrà porgere delle
lamentele, dovrà farle alla sottoscritta.. che sarà
lieta di ignorarle…”. Aggiungo un
sorriso gentile alla sua faccia rabbiosa, mentre mi allontano con la canzone Do the conga di Gloria Estefan nel cervello, una piccola Hermione vestita di rosso
luccicante che balla tra i miei neuroni con un paio di maracas in mano.
“Chiedo umilmente scusa…” fa lui con tono
mellifluo che vagamente nasconde l’irritazione, mentre io gli do le spalle “Ma
sapevo che il capo fosse un uomo… tale Danny Ryan… non è lui il padrone, qui?”.
Che
palle, ma lo conoscono tutti a quel demente?
“Si sarà
sbagliato…” mormoro velocemente, per non dargli ulteriore soddisfazione, anche
perché ho abbastanza fretta di ritornare al lavoro. Ci manca solo che il vero
Danny Ryan si degna di scendere dalle sue stanze e mi becca in piena
conversazione. Come minimo, mi licenzia… e come massimo… bè, semplice. Dimentica
le sue migliori intenzioni di babbano redento e si trasforma di nuovo in
Mangiamorte.
Meglio
non rischiare.
“Capita
anche alle menti migliori di sbagliare” aggiungo indulgente, un lieve sorriso
che vorrebbe essere dolce, poi alla faccia perplessa del tipo, cancello subito
la mia faccia buona e mostro nuovamente quella irritata: “…dubito che la sua
entri nel novero, ma forse sono solamente molto superficiale…”. Io, superficiale… sì come no. Sono superficiale
come le relazioni che Piton chiedeva per pozioni.
“Credo
anche di averlo conosciuto…” insiste lui, con tono quasi sognante “Un uomo di
un gusto ed intelligenza superiori alla norma…”.
Un altro
Seth, o mio Dio… non ne bastava uno, no due! Vai a vedere che ora si
sdilinquisce nel ricordo del platino dei capelli di Malfoy e del plumbeo dei
suoi occhi. Addio, davvero che mi metto a vomitare. E ripeto, ho sempre un
abito da migliaia di sterline addosso. Non me lo posso permettere… o meglio non
se lo possono permettere le mie tasche
di risarcire Summer…
Mi giro
con espressione sarcastica, per poi tagliare corto: “Se le somiglia anche solo
la metà, dubito che sia un soggetto dotato di molta intelligenza…”. Quello
sbianca ancora di più, poi diventa rosso e mi guarda con odio puro che passa
negli occhi chiari. Memoria visiva,
stavolta. Occhi chiari… occhi chiari… che credo di aver già visto…
Li
guardo attentamente per qualche secondo, seguendo il filo rosso della matassa
che si srotola lenta davanti ai miei occhi.
I miei occhi… che non saranno mai
come i suoi… in cui passano mille emozioni al secondo, come meteore di luce…
È un
attimo tra il distinguere meglio il colore chiaro di quegli occhi e… capire.
“Mi
sembrava strano che ci fosse un soggetto capace di riconoscere gusto ed
intelligenza in Danny Ryan…” dico con un sorriso tirato, per poi affermare
sicura: “Malfoy, liberami subito dal Confundus prima che ti spacchi la
faccia…”.
Il
ragazzo moro davanti a me, sbatte per qualche secondo le ciglia, guardandomi
profondamente, ma poi, vedendo la mia espressione, quella tanto per intenderci
che riservo ai propositi di genocidio degli ultimi membri rimasti in vita delle
storiche casate dei Black e dei Malfoy, sorride leggermente e mormora qualcosa,
sicuramente un incantesimo. Vedo i suoi lineamenti sparire leggermente, tremuli
davanti ai miei occhi, come immagini nell’acqua. Sento un distinto pop nella
mia testa, e improvvisamente vedo persino in modo più nitido, l’odore dei
nontiscordardime che diventa più lieve, come l’eco di un ricordo nella mia
mente. Ovvio. Ha usato l’effetto scenico delle bolle di sapone profumate per
incantare la gente qui presente; ecco perché non vedevo nessuna macchina e
sentivo il profumo più forte. Evidentemente era diretto solo ai maghi e alle
streghe che fossero entrati; in fondo Seth non era poi così preoccupato di non
vedere il suo Danny.
E ciò
conoscendo Seth, può significare solo una cosa. Lui vedeva distintamente il suo
Danny.
Come se
non bastasse, Seth mi aveva detto che il profumo dei fiori non era così forte
come dicevo io.
Ovvio.
Lo
sentivo solo io, come strega.
Quando
mi volto, terminate le mie riflessioni, ovviamente Malfoy è lì davanti ai miei
occhi, vestito esattamente come lo sconosciuto di poco fa. Distinguo una nota
di divertimento nei suoi occhi… tipico. Mi ha preso in giro per mezz’ora con il
falso spasimante.
Stringo
le mani a pugno, sussurrando: “Incantesimo raffinato, Malfoy… dovevi vedere se
funzionava ed avevi bisogno di me?”.
Lui fa
la faccia da povero ragazzo innocente, assolutamente ignaro delle trame di un
mondo crudele e spietato, abitato da donne perfide e maligne come me. E stiamo
sempre parlando di un ex Mangiamorte, non quindi di un’anima pura ed eletta
della Rosa dei beati.
“Ma cosa vai a pensare, Granger…” sussurra dolcemente con
aria autenticamente scioccata, poi recupera la sua solita espressione di
disgusto, prima di dire: “Non avrai davvero pensato che un essere umano ti
stesse facendo il filo, Granger, eh? Ormai alla tua veneranda età dovresti
aver perso le tue illusioni adolescenziali…”, beve un sorso della sua bibita,
prima di dire malevolo, con tono di rimprovero: “E poi, era pur sempre un
cliente, Granger… non è da offendere un cliente… fosse anche uno che avesse il
cattivo gusto di pensare a te in termini minimamente somiglianti al concetto di genere femminile…”. Sghignazza tra sé e sé, sicuramente
fiero della sua battuta, e riprende a bere come se niente fosse. Che nervoso…mi
torco le mani nervosamente in grembo, pensando alla tecnica giusta per farlo
sparire dalla faccia della terra, ponendo fine a metà dell’inquinamento
acustico del globo. Magari avrò anche una medaglia e simili… sospiro, pensando
che stasera la mia prima priorità è essere professionale. Quindi, decido di
lasciar perdere, almeno per stasera, considerando che stiamo sempre in mezzo ad
un centinaio e passa di persone. Insomma se lo sgozzassi, iniziando a decantare
i versetti del Corano, millantando il mio omicidio premeditato come bislacca applicazione
della shari’a islamica, credo che darei un pochino
nell’occhio.
Sospiro
per la decima volta e mi riavvicino al bancone, appoggiandomi con la schiena ad
esso, Malfoy che mi guarda per qualche secondo, forse colpito dal mio silenzio,
ma che poi torna a pensare ai fatti suoi, lo sguardo fisso sulla gente che ora
inizia a ballare. Senza accorgermene, infatti, Trey ha cambiato musica. È
diventata più veloce e ritmata, mi sembra che sia Ne-yo. Anche le luci si sono
abbassate, diventando fasci di luce azzurra che
splendono ad intermittenza. Tulle e raso di microabiti si sposano con il panno
dei completi eleganti, tutti impegnati nella danza. Meno male che, almeno,
posso evitare di ballare. Ci mancherebbe anche questa…
Chiedo a
Lorna un bicchiere di succo di frutta, che prendo a sorseggiare piano, rapita
dalla visione dei ballerini.
Malfoy è
ancora accanto a me, il braccio indolentemente appoggiato sul bancone del bar,
seduto in maniera elegantemente scomposta sul suo sgabello. Lo guardo di
sottecchi, per poi riscuotermi mentalmente alla visione di altre decine di
ragazze che stanno facendo lo stesso. Con annessa lingua fuori dalla bocca,
bava grondante e occhi saettanti di desiderio, tipico dei satiri dell’antica
Grecia. E siccome non sono come quelle assatanate, mi volto dall’altra parte in
maniera indifferente, continuando nella mia supervisione visiva della sala.
È
strano, però, che se ne stia zitto. Strano, sì. Quando ci si mette con gli
insulti, è davvero logorroico. Ed invece ora se ne sta zitto? Lo spio con la
coda dell’occhio, mentre è ancora nella medesima posa, gli occhi grigi resi color
acquamarina ad ogni fascio di luce colorata. Sembra… assente, profondamente
perso nei suoi pensieri.
Chissà a
che sta pensando… forse è preoccupato per Serenity. Ma mi sembra che stesse
bene, quando l’abbiamo lasciata. E comunque c’è Summer con lei. Ok, non è
proprio la migliore delle puericultrici, ma almeno impedirà che Serenity infili
le dita nella presa della corrente, e soprattutto credo che, dovendosi misurare
ogni tanto lei la febbre, per pura cortesia lo farà anche con la bambina.
Distrattamente
si scompiglia i capelli biondi con una mano, per poi sospirare vigorosamente.
Boh,
ripeto, strano è strano.
Continuo
a bere il mio succo, forse dovrei dire io qualcosa. Sì, e cosa? Insultarlo? Ho
deciso di lasciar perdere, almeno per oggi.
Parlare
del più e del meno? Non me lo vedo intento a dire ovvietà.
Ricordare
i bei tempi andati, tipo il Ballo del Ceppo? Ancora peggio. Primo, non erano bei tempi, specie per me e per lui,
considerati in un assioma unico. Secondo, aveva come dama Pansy Parkinson… decisamente,
vorrà dimenticare alla svelta l’esperienza.
Con uno
strano brivido sulla schiena, mentre sento il gelo di questo silenzio addosso,
come il respiro di un animale malato sulla nuca, mi rendo conto che io non ho argomenti di conversazione con
Draco Malfoy.
Abbiamo
avuto, e intimamente abbiamo ancora, una vita così diversa che non servirebbe
alcuna parola a colmare questo vuoto tra me e lui. Che io non lo odi, e che
probabilmente lui faccia lo stesso, questo non cambia la cosa fondamentale: tra
me e lui c’è ancora la distanza di mille e mille anni luce. Un qualcosa di così
enorme e sterminato, che nessun discorso o chiarimento potrebbe sanare.
Io, che
con i discorsi e le parole, ho messo le fondamenta a tutta me stessa. Lui, che
me le scardina passo dopo passo.
Intimamente,
credo che sia questo… a farmi sentire sempre… così… con lui.
Confusa,
disorientata… ripeto, persa. Con lui,
ogni trucco ed ogni strategia che ho adottato nella mia vita per avere un
minimo di rapporti umani, non vale. Assolutamente. Come, credo,
ogni regola del mondo civile che con lui se ne va all’aria.
Lo
guardo ancora di nascosto, nascondendomi quasi dietro il mio bicchiere.
Eppure
ha una fidanzata… di che parla con Summer? Non li vedo mai parlare molto, né
tantomeno in atteggiamenti troppo affettuosi. Eppure, stanno assieme… e
qualcosa in comune devono averla, no?
Mi
stringo nelle spalle, avvertendo una vaga sensazione di imbarazzo, ad averlo
vicino, senza niente che rompa questo insopportabile silenzio. Che poi silenzio
non è, con Ne-yo che gorgheggia le note di Miss
Independent. In fondo, che mi interessa?
Il fatto
che Malfoy sia il mio capo e il mio padrone di casa, non è sintomo automatico
di un rapporto di qualsiasi natura con lui. Come desideravo, in ultima analisi,
quando ho accettato questo lavoro. Volevo indifferenza e la rassicurante
certezza di poterlo ignorare bellamente per tutto il mio tempo lavorativo, in
modo da non dovermi rammentare ogni minuto che ero una dipendente di Draco
Lucius Malfoy.
E lui mi
ha pienamente accontentato.
Dovrei
essere contenta… godere dell’amicizia di Seth e degli altri… ed invece…
Un senso quasi di insoddisfazione.
Dentro, in un angolino della mia anima. Come un cucciolo in castigo in un
cantone.
E un vago terrore… che cosa voglio
io da Draco Malfoy?
Abbasso
lo sguardo, sentendo un magone dentro, forte e pesante come un macigno. Mi
causa un nodo in gola, una nebbia nei miei occhi. E come sempre, la mia mente
me ne dà spiegazione… mi sono liberata
dell’odio per Malfoy, sono priva di qualsiasi difesa davanti ad una persona che
di me non se ne frega assolutamente nulla… e quel che è peggio, è che vorrei
con tutte le mie forze che a lui importasse qualcosa di me. Qualcosa… qualsiasi
cosa…
Improvvisamente,
quell’enorme stanza mi sta stretta. Sulla pelle, come un abito stretto di tre
taglie. E non c’entra niente l’abito di Summer, il mio ruolo di Principessa dei
Ghiacci e i gioielli che devo toccare ogni minuto con paura.
Claustrofobia.
Vorrei solo andare via…
Il
labbro inferiore che mi trema, mi stacco dal bancone come se fosse
incandescente. Sento il suo sguardo liquido su di me, ma lo ignoro. Ricaccio le
lacrime che minacciano di premere sotto i miei occhi, un senso acuto di
oppressione dentro, e lo guardo fingendo un sorriso: “Vado a vedere se c’è
bisogno di me…”. Lui mi guarda fisso, evidentemente insospettendosi del mio
sorriso. Me ne frego, basta… devo imparare a fregarmene di tutto quello che fa,
cosa che effettivamente nella vita io non ho mai fatto. Prima l’odio, ora
questo interesse…non so come altro
definirlo. Basta, davvero. Da questo momento in avanti, basta qualsiasi tipi di
curiosità o pensiero su Draco Lucius Malfoy o Danny Ryan o come cavolo si
chiama. Sarò professionale come vuole lui, e lo ignorerò.
Edignorerò prima
di tutto me stessa… e questa mia ansia continua di
analizzare ogni suo comportamento.
Non sono la sua psicanalista. E non
lo risolverò io il mistero di Draco Malfoy.
Non voglio, sono finiti i tempi
delle indagini di Hogwarts. E ne sono così stanca…ora, basta.
Mi volto
su me stessa, pronta ad andarmene, ma evidentemente stasera non è destino che
io lo faccia.
Mentre
mi volto su me stessa, i boccoli dei miei capelli che April e Seth hanno
pazientemente acconciato per ore, mi sbattono in faccia e mi chiedo stupidamente
se sono a prova di shock. La mia barbara consolazione è che il tumulto
precedente si seda all’improvviso; e capisco quanto me ne frego in realtà di
Draco Malfoy.
Perché
ci sono invece cose che riescono a lasciarmi senza fiato… o meglio, persone.
Cosa che
Malfoy non fa, per fortuna. Lui mi rende solo…persa, ecco.
Devo
solo recuperare me stessa dai reconditi della mia anima, darmi un paio di
colpetti sul viso e tornerò normale.
Con loro, no. Loro che sono stati la mia più
grande forza, e che ora mi hanno sradicato da tutto e da tutti.
Come una
pianta con le radici nude, che, dopo una tempesta, giace abbandonata e morta
sul ciglio di una strada polverosa e vuota.
Ognuno,
a suo modo, l’ha fatto.
Hanno
scavato il terreno attorno ai miei piedi, così piano e subdolamente che, quando
mi sono trovata priva di qualsiasi sostegno, me ne sono persino meravigliata.
Non me l’aspettavo, da stupida che sono. Ed invece galleggiavo sul vuoto da
anni.
E ora…le
persone che mi sono mancate di più,
quelle che sentivo dentro come una spina nella carne, quelle che qui ero certa non sarebbero mai venute,
che non avrei mai incontrato… chiudo gli occhi, piano, un senso di terribile
spossatezza che mi prende le membra.
Ora… sono
davanti a me. A guardarmi nel mio stupido vestito azzurro. Ad osservarmi nel
mio ruolo da Principessa dei Ghiacci.
E sembra
ancora più assurda la mia situazione, ora, guardando i loro visi che ricordo a
memoria.
E dopo
che mi ero convinta a non chiedermelo più, la domanda sgradita sul cosa ci faccia qui, mi colpisce con la forza di una
stilettata precisa dentro. Un colpo sordo che rimbomba nelle mie orecchie. Sento
una vertigine colpirmi sleale e farmi fare un passo indietro.
Il mio
piccolo mancamento viene subito assorbito da
qualcosa alle mie spalle.
Mi volto
leggermente con il viso, fino ad incontrare inaspettatamente gli occhi di Draco
Malfoy.
Quando
si è avvicinato? Mi chiedo con sgomento, lo sguardo fisso sulla distanza quasi
nulla che esiste tra me e lui al momento. Ed è quasi naturale, come l’onda del
mare al richiamo della marea, abbandonarmi piano con la schiena contro di lui,
stanca, esausta come dopo una lunga camminata che mi ha succhiato via ogni
energia. E credo che sia naturale anche per lui, semplicemente lasciarmi lì, a sentire contro le mie
spalle il suo respiro che accelera sempre di più ad ogni secondo.
Ovvio.
Naturale.
Se possono mettere sottosopra la mia
vita, figuriamoci cosa possono fare per la tua…
È solo
un secondo in cui entrambi distogliamo lo sguardo da loro, e troviamo gli occhi
dell’altro. È solo un attimo, ma vale come mille anni.
Non lo permetterò questo… Draco…
E mentre
ritorno a guardare Ginny, Harry, Ron e Lavanda, in questo infinito gioco di
specchi e di parti capovolte, capisco che davvero tutto è cambiato.
Un capitolo enorme,
spero di non avervi annoiato…!! Ma spesso io me li
divido mentalmente a livello concettuale, quindi possono uscire lunghissimi o
cortissimi, spero che non sia un problema… Jin questo capitolo ne sono successe di cose, anche se
alcune abbastanza sottintese, e nel prossimo ne succederanno ancora di più…
specie considerando il ritorno dei nostri amici magici…!!! Si prevedono
scintille… eheheh!!! Ma come vedete, piano piano si avvicinano i nostri eroi… !!!
Piccoli chiarimenti:
il titolo significa “UNA FATA MADRINA CUBANA” e avrete capito a chi si
riferisce!! Ovviamente a Seth…!!!
Mi diverte troppo scrivere di lui, è una persona troppo particolare!! E soprattutto
come avrete modo di vedere ci vede lungo!!J Fata madrina perché ovviamente
se non era per lui, Hermione ci andava in tuta alla festa!!
Altro chiarimento,
mai come in questo capitolo mi ha aiutato molto la musica a scrivere… insomma
per ricreare l’atmosfera della festa, specie Sagi rei! Quindi grazie Sagi!!Eheheh… nel caso vorreste
sentire la canzone che mi ha ispirato per la scena tra Draco ed Hermione, quella
dove lui indossa i panni dello sconosciuto, è questa…http://www.youtube.com/watch?v=D6iyglKWh1k...
Oggi purtroppo ho i minuti contati, e
rivedere il capitolo è stato qualcosa di ENORME… quindi ringrazio tutti coloro
che hanno letto e recensito la mia storia, siete la mia forza, non continuerei
senza di voi!!
Non so
esattamente quanto tempo sono rimasta immobile, ferma. Quanti secondi
esattamente sono trascorsi tra l’essermi accorta dell’arrivo dei miei amici e
l’aver parlato. Non lo so, forse pochissimo, o forse tantissimo. Quale che sia
stato il tempo preciso, ho sentito ogni secondo ed ogni momento cadenzato
leggero dal respiro di Draco contro la mia schiena. Respiri sempre più veloci,
e poi lenti e tranquilli.
Lui si è
calmato, io no.
Assolutamente,
anzi va sempre peggio.
Quando
cavolo ho iniziato a chiamare Malfoy, Draco?
È quel
nervoso malcelato a farmi staccare bruscamente da lui, insicurezza alla mancanza di appoggio, e a farmi aprire finalmente
bocca.
“Si può
sapere che diamine ci fate qui?” chiedo nervosa, le braccia conserte in petto.
Tutti e
quattro sbattono gli occhi, riprendendosi anche loro dallo shock. Brillano in
modo innaturale i loro occhi di scintille azzurre.
“Sono
sotto Confundus…” sussurro a mezza bocca, voltandomi verso Malfoy “Il tuo
incantesimo funziona… puoi stare tranquillo…”.
Lui mi
guarda dritto negli occhi, un’espressione confusa che sparisce immediatamente,
traducendosi in uno sguardo quasi offeso: “Lo so perfettamente, Granger…”
bisbiglia anche lui “Non sono poi del tutto arrugginito a compiere incantesimi,
contrariamente a quanto pensi Miss So-tutto-io…”.
“E
allora che diamine stai a fare qui??!” chiedo
irritata. Già ora devo affrontare sta situazione del tutto imprevista, ci manca
anche lui che sghignazza ad ogni piè sospinto, fiero di aver condotto la Regina dei Grifondoro dalla
sua parte. Cosa non vera, ovviamente, non credo che esistano ormai ruoli così
definiti nelle nostre vite. Ma intanto, se devo riflettere in modo estremamente
oggettivo, Malfoy al momento tra queste cinque persone, è quella che ho più
vicina. Ed è il paradosso più fastidioso della mia esistenza.
Lui mi
guarda con odio puro, prima di allontanarsi dicendo: “Veditela tu, allora, con
i tuoi amichetti… una cosa, ovviamente che sia chiara… se la tua lingua disgustosamente lunga, dovesse iniziare
a dilungarsi sulla nostra, assolutamente non voluta e non richiesta, frequentazione… bè, insomma, fattela
passare come idea…”.
“Ci
mancherebbe…” borbotto sarcastica, inarcando un sopracciglio “Non credo ancora
di essere così idiota… e poi non è tantomeno una qualifica meritevole di
attenzione ed invidia… né tantomeno uno dei classici spunti alla conversazione…anzi, credo che la chiudano
definitivamente con una persona dotata di buon senso…”.
“Divertente
come un enfisema, Granger…” mormora lui, allontanandosi “Fai alla svelta… tra
poco, ci dovrebbero essere le foto dello staff…”.
Annuisco,
mentre si allontana, fendendo elegantemente la folla, una sola domanda nel
cervello. Chissà che cavolo voleva…
Ma che
cavolo me ne frega? Ho problemi più seri, al momento!
Torno a
guardare i miei amici, che sono rimasti in silenzio ad assistere al mio
parlottato scambio di gentilezze con
Malfoy, anche se ovviamente non sanno che si tratta del principe delle serpi.
Incrocio di nuovo le braccia, inarcando un sopracciglio e battendo un piede per
terra, nella mia nota imitazione perfetta della Mc Granitt, che ha sempre
suscitato timore reverenziale in tutti i Grifondoro.
Infatti,
al ricordo i quattro si riscuotono, e finalmente si degnano di aprire la bocca.
“Che grande pezzo di figo!” la prima ovviamente a parlare è Ginny, seguendo con
sguardo affamato la traiettoria di Malfoy. Se sapesse di chi si tratta… Harry
la guarda di sbieco, tossicchiando leggermente e richiamando la sua attenzione
sul trascurabile dato che lui sarebbe
perlomeno presente al momento.
Ma
Ginny, completamente indifferente, mi chiede con la bava alla bocca di chi si
tratta.
Con un
sorriso a mezza bocca, replico, guardando Harry dritto negli occhi: “Si tratta
del mio capo… che io adoro enormemente…
ma è molto timido e riservato… quindi comprenderai che non si vorrà far vedere…”.
Harry
sgrana gli occhi, in fondo è l’unico che dovrebbe sapere che lavoro per Malfoy.
E infatti la cosa che mi si conferma mentalmente allo
sguardo che Harry lancia alle bolle che circondano la sala, evidentemente
comprendendo dell’esistenza di un Incantesimo di Confundus, e alla completa
inerzia degli altri.
Sospiro
di sollievo, almeno questo lo sa solo lui, ci mancava solo dover anche spiegare
perché ho accettato di lavorare per Malfoy. Alle volte, quella domanda ritorna
nella mia mente, risuona enorme e mi rimbalza contro, e sembra davvero
gigantesca … e io, come sempre, non so rispondere. Alla fine dei fatti, la
necessità ha fatto molto, ma non tutto.
Il resto, che cosa l’ha fatto? Io non lo so, è la prima… la sola, forse… domanda della mia vita a
cui non riesco a rispondere. E so che per loro, sembrerebbe ancora più enorme
di quanto già non sia. Per loro anche la necessità non giustificherebbe quello
che sto facendo, e l’Hermione di Hogwarts avrebbe detto lo stesso, preferendo
la strada dell’accattonaggio a questo. Credo che allora avrei anche preferito
diventare la segretaria personale delle gemelle Patil
e segnare sulla mia agenda ogni possibile probabilità di sconto nei negozi
dell’intera City londinese, pur di non lavorare per Malfoy.
Eppure,
ora le cose stanno così.
E, in
una quasi tiepida morsa sulla bocca dello stomaco, mi va bene così… quasi… ma ancora, se penso a che parole
usare per spiegare questo, non ne trovo. Volano via
nel cielo della mia mente come pipistrelli neri, annebbiando la luce sottile e
perlacea della luna.
Io,
questa risposta non la ho. E ciò mi lacera dentro, dal primo giorno che ho
messo piede qui.
Ma non
ho bisogno di alcuno che lo sottolinei e salga in cattedra a giudicarmi.
Oramai, allo stadio attuale delle cose, non accetto alcun genere di consiglio
sulla mia vita. Non dopo la storia di Dean, non dopo le bugie sul mio lavoro,
non dopo aver arrancato per mesi da sola. E non dopo la storia di questi due
idioti che ho di fronte e che solo ora mi rendo conto, non ho ancora guardato
in faccia.
Con
orgoglio, sollevo il mento con espressione insofferente, guardandoli dall’alto
in basso, come mi può essere tipico in tanti momenti. Ron sbianca nel
guardarmi, evidentemente se la ricorda ancora quella mia particolare
espressione; vedo persino oltre la pelle sottile della fronte splendere
l’allarme rosso Granger sul piede di
guerra. Altrettanto ovviamente, le sue orecchie diventano rosse.
Non è
cambiato per niente. E, se un giorno non ci fosse stato sesso ed amore tra me e
lui, questo lo commenterei con un sorriso sollevato.
Invece
no, mi dà insofferenza fino alla punta dei piedi, scariche elettriche che
corrono lungo i miei arti, caricandomi di rabbia e fastidio. Una risacca di
ricordi e sofferenza che si infrange sul mio cuore fragile e malconcio da ere
innumerabili ormai.
Perché
questa è la prima volta che lo rivedo da anni.
E fa
ancora un male cane.
Perché
contrariamente a quel piccolo gesto dettato da un’abitudine radicata, avere paura di me ed arrossire, tra noi
non c’è più niente di uguale a prima. In questo silenzio rotto da mille voci e
note musicali, ma che è più pesante ed indigesto di
qualsiasi cosa abbia mai provato prima, scorre il tempo che è appassito, giorno
per giorno, separandoci. Io sto per difendere un mondo che non mi apparteneva e
che forse ancora non mi appartiene, ma che adesso è la sola cosa che ho.
E lui… e
lui, a guardarlo meglio, non è più nemmeno lui. Perché, in realtà, nonostante
abbia affogato la mia testa in narcotici pensieri, alla fine l’avevo guardato
attentamente tanto da stamparmi ogni suo dettaglio nella mente.
La
faccia che ha fatto appena mi ha visto, sicuramente incuriosito dal mio
abbigliamento.
L’espressione
corrucciata che ha assunto quando parlavo con Malfoy.
La
smorfia alla gomitata che gli ha rifilato Lavanda nello sterno.
E poi il
suo aspetto che prosciuga il fiume di rabbia che mi scorreva dentro, rendendolo
un rigagnolo maleodorante e sporco.
Il suo aspetto
che mi stringe il cuore, e che mi suggerisce quanto sia sempre stato debole
Ronald Bilius Weasley.
Mi
stringo nelle spalle, debolmente, una foschia che prende la mia vista,
rendendola annebbiata. Il mio Ron
effettivamente non c’è più.
Come se
fosse morto.
Si è
lasciato plagiare da Lavanda fino a diventare la perfetta copia di un Ken dai
capelli rossi.
Abbigliamento
curato ed ovviamente turchese, sopracciglia perfettamente depilate e scolpite,
mani fresche di manicure.
Peggio
di Seth, sospiro. E non mi viene per niente da ridere.
Del
ragazzo che ho amato tanti anni fa, non c’è traccia. E lei, Lavanda, sembra
esserne perfettamente conscia, come se avesse compiuto un prodigio da mostrare
quasi in una fiera di stato. Gli tiene il braccio possessivamente attorno alla
vita, una mano a sfiorare nemmeno tanto delicatamente il fondoschiena. Scrollo
il capo tra me e me, lei ovviamente mi guarda con fastidio e posso immaginare
che l’idea di venire qui non è stata sua. Mi squadra
dalla testa ai piedi, analizzando il mio abbigliamento e non trattenendo
un’espressione di sorpresa.
Ovvio,
indosso centinaia di migliaia di sterline. Non posso crederci di stare
ringraziando mentalmente Summer e la sua varicella.
Decisamente
meglio questo che l’abbigliamento da cameriera. Dio, la parrucca turchina… me
ne ero scordata. Mi sarei nascosta dietro una pianta se li avessi visti, in
quel caso.
È forse
il mio ruolo che mi fa recuperare un po’ della mia forza e della mia tenacia,
stasera la padrona qua sono io, e Malfoy è lontano abbastanza da non potermi
contraddire.
“Sono
felice di rivedervi…” commento con una smorfia, guardando con disgusto i due
coniugi Mattel, per poi tornare ai futuri coniugi Potter “… ma sapete com’è? Quando si è babbana, si fanno anche cose tipo… faticare per guadagnarsi il pane senza magia…e attualmente ero
dedita a questa pratica anacronistica…”.
“Quindi,
alla fine, è qui che lavori?” mi chiede Ron, forse in un impeto di coraggio e
con un tono accusatorio che non mi piace affatto. Lo guardo di sbieco, non
degnandolo di risposta, manco avesse parlato un insetto stercorario della
Cornovaglia. Un essere orribile, puzzolente e dedito a lauti pasti a base di
letame…insomma, nel caso non sappiate che sia, credo di aver reso perfettamente
l’idea.
“Eh,
Herm?? Quindi… fai la cameriera??!!”
ripete con insistenza Ginny, superando con il suo piglio severo persino il
volume della musica, tanto per persino Seth dall’altra parte della stanza si
gira incuriosito nella nostra direzione. Sorrido a lui, cercando di sembrare
tranquillizzante, quando invece ilcameriera sputato fuori da Ginny mi fa
sentire ancora più cretina di quando già non mi senta.
È solo
una frase quella che mi si forma nel cervello, una steppa bruciata della mia
calma di poco fa.
Non hanno nessun diritto di parlarmi
così.
“Che io
sappia l’Inquisizione spagnola l’hanno abolita nel 1834…” biascico
nervosamente, le guance che mi bruciano e le mani strette a pugno “Quindi, non
ho intenzione di rispondere a questo interrogatorio… in fondo, ma solamente infondo,
si tratta della mia di vita, non della vostra…”.
“Ma
Herm…” inizia subito Ginny, ma l’interrompo subito, la voce che scende di un
tono: “Ginny, sei la mia migliore amica e tutto il resto… ti voglio bene, e
questo lo sai…ma questa è la mia vita, ho deciso io come viverla… e sì, faccio
la cameriera, ma al momento va bene così… lo so, magari per te, o meglio per
voi, può sembrare una qualifica non proprio esaltante per il Capo degli Auror. Ma ora io non sono questo…”, la mia voce si abbassa ancora mentre aggiungo
con una patina di tristezza: “… e probabilmente non lo sarò più…”.
Tutti e
quattro sobbalzano e mi guardano preoccupati ed intimoriti, so che nelle loro
menti qualcosa irrimediabilmente si è incrinato a queste mie ultime parole.
Immaginare Hermione Granger e il Capo degli Auror come due persone distinte,
per loro, deve essere stato oggettivamente difficile. Specie per Ron, che ha
vissuto con me. Specie per Harry, che era il mio referente lavorativo
privilegiato. E infatti sono loro due a guardarmi nel
modo più scioccato e, al contempo, triste. Sì, triste… perché un enorme fossato
si sta scavando tra me e loro due, e nessuno può fare niente per impedirlo.
Come rovi acuminati, i giorni che stanno passando in questa maniera così
peculiare e strana per me, mi feriscono le mani e mi fermano mentre cerco di
arrivare a loro. Si avviluppano attorno alle mie membra, facendomi sanguinare,
eppure… io non sento dolore. Forse per rassegnazione… o per stanchezza… o
magari è solo fatalismo.
La
verità è che il giorno stesso in cui io ho accettato di lavorare qui, ho
scritto sulla pietra la sequela ordinata di passi che stavo facendo
nell’allontanarmi da loro. Perché lavoravo per Malfoy, certo. Ma soprattutto
perché finalmente ho accettato un modo che mi facesse ritornare a vivere. Un
modo per sentirmi utile. Un modo per riprendere quella esistenza che avevo
condotto per inerzia, trascinandomi lungo le giornate con svogliatezza e
stanchezza, appoggiandomi come un’ameba sulle spalle di Dean e sospirando
instancabilmente il dissidio di essere stata strappata dalla mia vera vita.
Essere di nuovo babbana, era non essere più io, non essere più me stessa.
Perché io sono la magia.
Se non
posso fare magie, io non servo a nulla. Questo mi dicevo.
E l’ho
pensato per due anni.
Vedevo
me stessa come una bambola di pezza, poggiata su una libreria impolverata, da
una bambina diventata donna. Ero come… un ricordo, ecco. Bello, semmai, e anche
divertente. Ma sempre come una stella di fumo che si dirada alla luce di un
mattino pigro.
Ero… inutile.
I miei
amici erano sempre tali, ma erano lontani,
perché la loro quotidianità non era più la mia. Ed anche Dean era terribilmente
lontano…
Per
questo, io non mi ero innamorata di lui. Dean apparteneva a quel mondo, da cui
ero stata cacciata.
Dean,
senza volerlo chiaramente, mi faceva sentire inutile.
Il
giorno in cui ci siamo lasciati, il giorno in cui ho accettato questo lavoro… e
non c’entra Malfoy, perché poteva essere qualsiasi tipo di lavoro, purché fosse
più dell’occupazione di una mezza giornata in modo da proiettarmi davvero nel
mondo dei babbani… io ho ricominciato a vivere. E a sentirmi utile.
Il posto
nel mondo, è la coscienza che ciò che fai serve a qualcosa o a qualcuno.
Preoccuparmi
per il Tourquoise Party, essere attenta che tutto andasse bene al Petite peste, fare il mio lavoro al meglio possibile… e
poi intenerirmi per Serenity, ridere con April e Seth, arrabbiarmi con Summer e
Malfoy… mi avevano ridato una dimensione. Un tempo e uno spazio mio, solo e
soltanto mio.
E che non
aveva nulla a che fare con la magia.
E con
loro, fa male ammetterlo ma è così.
Posso
ora dire loro che sono preoccupata che gli ospiti non si divertano? O che
facciano una foto a Malfoy? O che Serenity peggiori improvvisamente? No, è la
secca risposta. Loro mi risponderebbero scrollando le spalle, perché hanno
problemi diversi. E questi per loro sono piccoli e stupidi. Piccoli e stupidi,
come i babbani. Perché, dentro,
questo è quello che pensano.
E ora,
con i loro visi sconvolti, con la domanda tacita che leggo sulle loro fronti,
sul perché io preferisca questo
piuttosto che essere il Capo degli Auror, loro continuano a portare quei due
aggettivi attaccati a questa situazione.
Solo che
faticosamente, ora, si rendono conto di dover attaccare anche a me le parole piccola e stupida.
Cosa
perfettamente leggibile in faccia, mentre Harry mi dice, la voce assolutamente
sgomenta: “E’ per la vicenda di Malfoy, vero?”.
“Cosa è,
la vicenda di Malfoy?” chiede arrogante Ron, guardando Harry in cagnesco. Se
sapesse che Malfoy è persino in questa stanza adesso…
“Nulla
che ti riguardi…” mormoro tagliente, orgogliosa di non
dover spiattellare tutta la storia, poi proseguo soddisfatta dalla faccia
piccata di Ronald: “… e comunque, Egregio Ministro, la risposta è sì…”.
“Non ci
credo che stai facendo tutto questo per… lui…”. La voce di Harry accentua con
disgusto l’ultima parola, il suo volto che si gira ostinato da una parte all’altra della sala quasi lo stesse cercando nella folla
sterminata di persone che ci circondano e che ballano allegre. E persino nel
buio illuminato a tratti dai fasci di luce azzurra,
vedo i suoi occhi fiammeggiare e, solo per un attimo, sto per dargli ragione,
riavverto l’odio atavico per Malfoy nelle sue iridi e quella molla più forte
del sangue che mi spingeva a volerlo vedere soffrire in modo lancinante ogni
volta che lo incontravo. Ma, strano a dirsi, mi si spacca dentro qualcosa a
ripensare così di Malfoy, e mi provoca nausea al cuore, l’immagine di lui che
culla piano Serenity nella mia testa che stride con quell’odio. Che ormai non è
più mio.
“Non lo
faccio per lui…” sussurro piano, il volto basso e le lacrime che mi offuscano
la vista, mentre ancora mi sento miglia e miglia da loro. Non condivido più
nemmeno i loro sentimenti.
Cosa resta allora?
Sollevo
di nuovo il viso: “… lo faccio solo per me… e semmai un giorno tornerò, gli
assassini di Narcissa e Lucius Malfoy saranno i primi a fare i conti con me…”.
“Auror,
come te… stai parlando forse anche di tuoi amici, lo sai?” mi chiede Harry
furibondo, le mani che si stringono convulsamente, un’espressione cattiva.
Ginny ammutolita li preme un mano sull’avambraccio,
guardandomi scioccata ed inorridita. Ron tace e Lavanda ovviamente annoiata,
guarda i ballerini nella sala, forse smaniosa di unirsi a loro.
“Lo so
perfettamente e non mi interessa…” la mia voce mi sembra quella di un’altra
persona. Mai è stata così dura e lapidaria nel parlare con Harry… mai… la mia
voce si addolciva senza che lo volessi, anche quando lo rimproveravo per i
compiti non fatti oppure per la sua imprudenza. Guardavo i suoi occhi e mi si
stringeva il cuore, e la mia voce calava di tono e diventava più soffusa e
calda, meno fredda e arrabbiata. Qualsiasi cosa avesse fatto, io lo perdonavo
sempre. Ma ora… no… perché stavolta lui mi
ha tradito… davvero… e stavolta mi ha portato via la sola cosa che, nonostante
tutto, quando ero nulla, polvere che reclamava l’universo da cui era bandita,
mi aiutava a non perdermi nel vento…
Soggiungo
velenosa: “Forse per alcuni sarà anche un bene che io non ritorni mai… perché
se dovessi farlo, quella sarebbe davvero la prima cosa che farei…”.
“Non ci
credo che stai dicendo cose del genere…” commenta alla
fine Harry, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi con aria rassegnata
“Non sembri più tu… ma alla fine, la vita è tua… e se vuoi rovinartela, sei
liberissima di farlo…”.
Trattenendo le lacrime alla durezza delle sue parole,
annuisco con un: “Infatti… lieta che tu l’abbia capito…”, i miei occhi vagano
anche sugli altri, escludendo ovviamente Lavanda che tutto sta facendo tranne
che badare a me, e bisbiglio leggermente, tentando di tenere la mia voce ferma
e immobile: “E la cosa vale anche per voi…”.
Fa male…
un male atroce… i loro visi che mi guardano come se fossi un’estranea. E mi
sento sola, terribilmente.
Ma la
mia forza è sempre stata questa, andare contro tutto e
tutti pur di seguire le mie idee e i miei pensieri.
E questa
non sarà sicuramente l’ultima volta.
Soffrirò,
starò male, piangerò sulle cose perdute, ma almeno i conti con me stessa
torneranno sempre. Per una persona come me, affamata di coerenza, verità e
giustizia, questa è sempre la cosa più importante. Scrollate le spalle, andrò
avanti lo stesso.
Anche se
stavolta sarà maledettamente difficile, anche se stavolta sarò più sola delle
altre volte… e ripensandoci, quasi vorrei tornare indietro, chiedere davvero
che ci fanno qui, che cosa hanno fatto in questi mesi, quante volte hanno riso
senza di me e hanno pianto lacrime fuggevoli e rapide. Perché stare con sé
stessi non è poi mai una grande compagnia.
E so che
mi mancheranno come l’aria, in questo momento che ora ha solo l’aria e il
sapore dell’addio.
O
dell’arrivederci.
Ma di un
qualcosa così logorante e straziante che darei di tutto per non viverlo… ma lo
vivrò, e purtroppo so già che non dipende da me.
Perché
Harry è già andato via, prendendo a spallate la folla e aprendosi un varco.
Perché Ron ovviamente l’ha seguito con una sollevata Lavanda. L’unica che resta
di fronte a me, come sempre, è Ginny. Si stringe nelle spalle e si mordicchia
incerta il labbro inferiore, lei che è sempre stata la più forte di tutti noi.
Tra i due aneliti che la spingono in direzioni opposte, per ora sceglie me.
E le
sono eternamente grata.
Mi si
avvicina e mi abbraccia di slancio, il mio cuore che si fa piccolo
piccolo mentre mi dice: “Spero che tu sia
felice, Herm… non volevo intromettermi…davvero… siamo solo venuti per vedere
come stavi, e per dirti che forse esisteva una possibilità di lavoro anche
senza magia, al Ministero…”. Non ribatto, perché chiederle di che cosa si
tratti sarebbe molto incoerente al momento, nonostante sia molto curiosa. Ma
alla fine non mi interessa… un’altra mia precipua caratteristica è che se
decido una cosa, quella è.
Si
stacca da me con un sorriso triste, per poi dirmi: “Non ti capisco fino in
fondo…e lo sai… ma mi sforzerò… so che alla fine lo farà anche Harry… se questo
ti rende serena, segui il tuo cuore… io ti appoggerò sempre…”.
“Grazie
Ginny…” riesco a mormorare, una lacrima solitaria che mi scende dagli occhi,
imbevendosi di mascara.
Lei
sospira e sorride, per poi dirmi con un occhiolino: “Non piangere… altrimenti,
tutti gli ospiti penseranno che sei una pessima padrona di
casa…”.
Rido
leggermente, asciugandomi gli occhi, sospirando: “Magari fossi io la padrona di
casa…”.
“In
effetti, le decorazioni non mi sembravano molto da te…”.
“Troppo
raffinate?” chiedo con un sorriso, inarcando un sopracciglio.
“No,
credo che le decorazioni in generale
non siano da te…” ride lei, trascinandomi nella sua allegria e costringendomi a
ridere a mia volta “Hermione Jane Granger… e le feste… sono due assiomi ben
distinti…”, la sua risata si spegne repentina assieme alla mia, mentre
soggiunge triste: “… ma alla fine sembra che tutto sia destinato a cambiare…”.
Annuisco
con il capo, non riuscendo a dire altro. Le parole mi si sono impastate in
bocca, un sapore così sgradito e dolceamaro da lasciarmi stordita. Un sapore
che sa solo di rimpianto e di ricordi perlacei, che splendono baluginanti nel
buio della mia mente. Quando ogni cosa è conclusa, quando tutto sembra essere
finito, ti resta sempre un minimo istinto di sopravvivenza quasi… e non
vorresti aver detto quello che hai detto, fatto quello che hai fatto, pensato
quello che hai pensato. Ti dici che non interessa nulla, basta che tutto torni
come prima, basta poter tornare indietro, basta questo… e, nonostante tra le
dita, vedi il tempo passato che ti scivola come sabbia scura, davvero tenti di riafferrarlo.
Ma se
liberi certe parole e certi pensieri, essi non ritorneranno mai indietro.
Anelata
la libertà per millenni, non si faranno mai più catturare da te.
Mentre
abbraccio ancora Ginny e la vedo andare via tra la folla, una pesante
sensazione di freddo tra le membra, mi chiedo davvero lo scotto di ogni mia
azione nel corso degli anni. Forse, se talvolta fossi stata zitta, se avessi
fatto buon viso a cattivo gioco, forse…
Ora
sarei più felice.
Non
lavorerei qui, per dirne una. Non è una tragedia, alla fine, ma averlo evitato
sarebbe stato meglio.
Starei
ancora con Dean e, che lo amassi o no, ora questo mi sembrerebbe un miracolo…
Dio, quanto ancora mi manca… alla fine, due anni uno non li scorda così, ed è
uno stillicidio continuo di ricordi, gesti, sensazioni, particolari che, senza
nemmeno accorgermene, sono diventati miei ma che in origine erano suoi… anche
se, qualora fossi stata diversa, forse ora starei ancora con Ron, altro che
Dean.
Non ci
sarebbe stata Lavanda accanto a lui, a toccargli il sedere con prepotenza… ma
io, forse a ridere e a scherzare come non ho più fatto in vita mia… sarebbe
bastato chiudere gli occhi alla sua scappatella, fare finta di nulla, oppure
perdonarlo… e magari quella storia sarebbe finita com’era nata, e lui sarebbe
rimasto con me.
Sarei
ancora una strega, lo stimato ed integerrimo capo degli Auror, e io e Draco
Lucius Malfoy saremmo ancora due illustri sconosciuti.
Sospiro,
e Ron non sarebbe quella sottospecie di caricatura di Men’sHealth che ho appena visto…
Chissà
come sarebbero andate le cose, allora… forse la parte migliore, alla fine, è che
io non lo saprò mai.
Senza
nemmeno accorgermene, ho attraversato la sala piena, intenta a ballare in modo
convulso, almeno qualcuno si diverte stasera… bah, alla fine non era una
clausola espressa che io mi divertissi, anzi… mi sembra che vada tutto bene,
quindi posso eclissarmi per qualche istante. In fondo, Malfoy non lo vedo, Seth
sta ballando come un pazzo con April, Lorna e Corinne sono a loro posto… e
Gail, bè, sembra perlomeno intenta a servire un cliente. Preferisco non sapere
che sta pensando quel pover’uomo.
Devo
solo prendere un po’ d’aria e mi sentirò meglio, effettivamente fa troppo caldo
qui…
Attraverso
la sala a lunghi passi, fino alla terrazza, la cui porta finestra è coperta da
una tenda leggera di tulle azzurro, mossa come una medusa dal vento di questa
sera fresca di inizio estate. L’impatto con l’aria fresca mi fa rinsavire
subito, come acqua ghiacciata sul viso, e chiudendomi alla fine la porta alle
spalle, faccio qualche passo incerto, prima di appoggiarmi con sollievo alla
ringhiera. Chiudo gli occhi, la carezza del vento sulla pelle, concentrando
ogni fibra del mio essere per trattenere il pianto che mi sta già venendo fuori
a singhiozzi. Mi mordo il labbro inferiore con ferocia, come facevo durante gli
addestramenti contro il Cruciatus, anche se quel
dolore mi sembra persino piacevole al confronto con questo. Sento il petto
squarciato, come se avessi una ferita che mi dilania la carne viva e
vulnerabile, lasciandola esposta alla caduta di migliaia di cristalli di sale
che l’infettano e imputridiscono costantemente.
Respiro
ancora, cercando di calmarmi, ma la mia operazione si rivela perfettamente
inutile alle parole che giungono alle mie orecchie dopo nemmeno cinque secondi
scarsi. Il travaso di bile riprende esattamente dove l’avevo lasciato.
“Granger, che c’è? Batti la fiacca?” mi dice Malfoy con la
sua solita voce delicata ed affabile. Lo squadro con aria truce, è appoggiato con la schienaalla balaustra, e mi fissa con un sorriso di
scherno. Ovvio, deve avermi visto parlare con i miei amici, per lui deve essere
stato come Natale, San Patrizio e GuyFawkes arrotolati in una serie di pochi minuti. Quanto non
lo sopporto, vorrei ucciderlo davvero con le mie mani, scommetto che mi ha
seguito apposta. Oddio, la mia mente mi soggiunge timida che la sua posa è
evidentemente di una persona che ci stava qui prima di me e che non ho sentito
nessuno riaprire la porta, ma me ne frego!! Ci manca
solo che anche il mio cervello si metta a fare l’avvocato del diavolo! E Malfoy
con quel personaggio c’ha molto in comune; un paio di corna, un forcone e odore
di uova marce, e siamo a posto!
Non mi dò pena di rispondere, cavolo una pausa me la posso
prendere da questa vita di schiavismo appresso a lui! Ma nemmeno lui insiste, e
ciò mi sorprende parecchio, lo guardo con la coda dell’occhio, mentre si volta
e continua a guardare fisso lo scenario di Londra illuminata dalle luci
artificiali di quella notte chiara e trasparente. Una notte buia, le stelle che
splendono luminose, e la luna che invece non c’è. Forse non è ancora sorta.
Un brivido.
Ancora…
mi stringo nelle spalle, eppure non è che faccia freddissimo, ma sto
praticamente tremando.
“Granger,
se ti ammali, io la malattia non te la pago…” mi soffia contro, anche se
stranamente non mi sembra malevolo come sempre, ma quasi… gentile… bah, chi lo capisce è bravo… deve davvero servirgli una
cameriera, altrimenti non si preoccuperebbe mai per la mia salute… odio
ammetterlo, ma credo che alla fine seguirò persino il suo consiglio. Forse sarà
meglio rientrare, ho un gelo dannato… i denti mi battono furiosamente in bocca,
e mi strofino le mani sulle braccia, cercando di riscaldarmi. Ma che diamine,
d’accordo che il vestito è leggero, ma tutto sto freddo…?!
A Malfoy le mie manovre ovviamente non sfuggono, e mi guarda
incuriosito, inarcando un sopracciglio in chiara espressione di disappunto, per
poi dirmi con voce insofferente: “Cavolo, Granger… non è dicembre… vattene
dentro, no?”, poi guarda casualmente in basso e ribatte, sghignazzando: “… ma
forse non è freddo, è per… loro,
no?”. Indica con
il capo in basso, dove si intravedono ancora nel buio di questa notte le sagome
dei miei amici.
Le
parole di Malfoy mi feriscono mortalmente.
È un
attimo, come un cascata gelida che mi cade addosso.
Sgrano
gli occhi, autenticamente terrorizzata, risentendo sensazioni che ormai non
sentivo da anni. Guardo il cielo con terrore, lo scruto attentamente, mentre il
dolore aumenta ad ogni minuto sempre di più. Lancinante mi fa gemere ed
iniziare a piangere, le lacrime che scorrono veloci sul mio viso ghiacciato di
sudore. Malfoy mi guarda, senza capire, ma non osa ancora fare un passo nella
mia direzione.
È inutile che cerchi… la luna non c’è.
È una
notte di luna nuova.
Continuo
a tremare sotto lo sguardo esterrefatto di Malfoy, mentre la vista inizia ad
annebbiarsi, come era prevedibile. Piangendo mi porto la mano sul ventre, le
ginocchia che mi cedono e mi fanno cadere per terra.
Nella
notte scura, il sangue che tinge il mio vestito e la mia mano sembra nero.
Come ho
potuto…dimenticare… il novilunio?
I
capelli zuppi mi ricadono a ciocche dalla mia acconciatura elaborata, finendomi
in faccia, mentre continuo ad osservare immobile il sangue che continua a
scorrere per terra. Forse Malfoy ora s’è n’è accorto, non lo so.
Sento
l’eco di un “Granger?” nelle mie orecchie, ma viene coperto da un ronzio
indistinto. E non so se è stato Malfoy o… lui…
Quando
sento un dito innaturalmente lungo e freddo sollevarmi il mento, e mi ritrovo
gli occhi rossi di Voldemort addosso, capisco che è ricominciata ed è tutta
colpa mia.
La mia
maledizione…
Piango
senza ritegno, mentre Voldemort mi squadra, leccandosi le labbra con la lingua
da serpente.
“Ti sono
mancato, eh, Mezzosangue?”.
Taddadà, ecco a voi un nuovo capitoletto… come
vedete, è rimasto in sospeso in un punto assolutamente tragico… infatti il titolo che ho dato a questo capitolo, significa
proprio “Turchese&Cremisi” ed è preso dal titolo
di un album del gruppo Vast…insomma, giusto per
specificare che non è un accostamento mio originale, ma che con la mia storia
ci stava a pennello, come avete visto!!… Che sarà successo? Ebbene la risposta
l’avrete nel prossimo capitolo!! In realtà, forse
potreste sapere che è successo, perché l’ho accennato… vi lascio alle vostre
deduzioni!!!J
Il prossimo capitolo sarà davvero importante, ve lo
anticipo da ora… in quanto accadrà qualcosa che tutti stavate aspettando…
chissà che cosa???!!! Anche in questo sono una tomba,
quindi resto zitta!! Potrebbe essere qualsiasi cosa… lallalà,
come mi piace essere perfida!!!
Prima dei ringraziamenti, ci tengo a fare un ANNUNCIO
MOLTO IMPORTANTE!!!
Qualche giorno fa una delle mie fedeli lettrici, Cygnus Malfoy, ha creato un forum su questa storia, cosa
che ovviamente mi ha fatto un enorme piacere e mi ha inorgoglito parecchio…!! Il suo indirizzo è http: // havealittlefairytale.forumcommunity.net ; siamo ancora agli inizi, ma ce la metteremo tutta;
ovviamente tutti i lettori di questa storia, compresi coloro che non hanno mai
recensito, sono invitati, anche solo per dirmi che ne pensano della storia
oppure per formulare ipotesi sullo svolgimento della stessa, o ancora solo per
chiacchierare un pochino!! Sarebbe anche gradito un aiuto nella gestione dello
stesso, soprattutto per l’aspetto grafico! Mettete la mano sul vostro cuore…
informatico!!:-)
Chiedo scusa di aver usufruito di questo spazio per
parlarne, ma non sapevo come altro fare!!
Passo ai ringraziamenti:
Giuly 94 :ciao
carissima!! Grazie dei tuoi complimenti!! Riguardo al
motivo per cui Draco ci ha “provato” con la nostra streghetta,
credo che la motivazione sia una somma di cose; Hermione, a mio dire, lo
diverte con le sue reazioni assurde quindi ci ha provato gusto a provocarla un
pochino, ma per come me lo sono immaginato io, lui nasconde gli interessi più
puri dietro delle cose estremamente utilitaristiche. Quindi credo che, anche se
ci godeva non poco a stuzzicare Hermione, si sarà detto che lo faceva per vedere
se svolgeva al meglio il suo lavoro anche con un cliente molesto!! La canzone di Sagi è la mia preferita al momento…!! Quindi dovevo inserirla per forza… i nostri maghetti dovevano essere presenti!!
Anche se come avrai letto, spero, questa volta, non è stato proprio un incontro
idilliaco!! Un Bacio!!!
Nefene: la mia cara Chiara!! Non ti
ho più trovato su msn, quindi spero che il tuo esame
sia andato bene!!J Seth è un personaggio vitale in questa storia e nei
prossimi capitoli, lo vedrai ancora di più, specie nel prossimo… eheheh!!! Come avrai letto,
Hermione fa un passo avanti ed uno indietro, ammette che è legata a Draco e poi
lo nega… così sta più tranquilla!! Ma ben presto finirà di scappare!! Davvero ti sono venuta in mente per un concorso di
racconti? Me felice!!!Jne sono molto onorata…!!! Vorrà
dire che mi dirai meglio i particolari!! Anche se ho qualche problema con le
storie originali… eheheh!!! Un
Bacio!!
Baby_san: grazie dei complimenti, ne sono davvero felice!! Il pensiero di Draco è sempre abbastanza cervellotico, ma
un giorno saprete anche lui che ne pensa di tutto quello che sta succedendo!! Un bacio!!
Fra fri 95: wow, wow e
super wow!!!!!grazie dei tuoi complimenti… !! il primo
bacio, dici??? Chissà… J Hermione è facile da affrontare, perché davvero è
simile a me per come l’ho concepita!! Quindi parlo di
me e il gioco è fatto!! Un bacio!!
Seven: ciao
carissima!!addirittura un capolavoro?? Me onorata!! Hermione effettivamente si scava spesso la fossa da sola
e ci si getta allegramente dentro…! Nonostante tutto, è un periodo molto
difficile per lei, quindi è normale che senta la mancanza di una persona
importante come la mamma!! Chissà a chi stava pensando
Draco??!! Ma ovviamente non lo avrebbe mai detto!! Seth è il mio eroe, anche perché è un personaggio solo
mio, quindi gli voglio proprio bene!!! Per un giorno l’ho
pubblicata a luglio! Spero che tu lo possa leggere!!! Un
bacio!!
Cygnus Malfoy: ovviamente un bacio enorme alla mia
amministratrice preferita!!! Grazie dei complimenti!! E
grazie del duro lavoro che stai facendo con il forum!!:-D
Un bacio anche a Liven che
mi ha lasciato un commento via mail!!
Dedico questo capitolo alle
amministratrici del mio forum!! Grazie davvero di
tutto il lavoro che state facendo!! Siete uniche!!
(nota
dell’autrice: la parte iniziale, in corsivo, sono ricordi)
“La ferita è sicuramente grave,
Hermione… non è una cosa da sottovalutare…”.
“L’avevo capitoquando non ha smesso di sanguinare,
Ginny…”.
“Mamma mia, come sei suscettibile!”.
“Non sono suscettibile… sto
semplicemente sottolineando una cosa…”.
“Allora visto che sei in vena di sottolineare…
mi sottolinei come te la sei fatta?”.
“Ancora? Ma che
palle!”.
“Quante più informazioni mi dai,
meglio sarà…”.
“Ok… anche se mi sembra di avertelo
già detto mille volte… stavamo distruggendo un Horcrux, si trovava sulla
sommità di una statua enorme a forma di serpente… era uno dei rubini che
facevano da occhi al serpente… non ricordo bene tutto, ma mi offrii di farlo
io… perlomeno cercare di prenderlo. Harry e Ron chiaramente non volevano, si
trattava di arrampicarsi lungo le spire di questa statua che alla fine credo
che fosse alta una decina di metri, e riempiva tutta una caverna. Ma io fui
irremovibile e dissi che lo volevo fare io… insomma, Harry ne aveva passate
troppe ultimamente e Ron era stato appena ferito da un Mangiamorte… io ero quella
che stava meglio…”.
“Ok, fino a qui ci siamo…”.
“Mi arrampico e arrivo alla testa,
non so nemmeno io come, visto che sono sempre stata una schiappa in ginnastica…
intanto ci arrivo… allungo la mano verso gli occhi, considerando che sono in
equilibrio sulla bocca aperta del serpente non è un’operazione facile… appena
li tocco, il serpente si anima e si scuote… non so effettivamente come mi venne
in mente di non usare la magia per arrivarci, ma non so… pensai che Voldemort era uno dei più grandi maghi al mondo, sicuramente aveva
previsto una serie di contro incantesimi… ma forse, come sempre, aveva ignorato
i sistemi più semplici, quelli dei babbani… ma, evidentemente mi sbagliavo…”.
“Sei stata molto imprudente…”.
“Lo so,
Ginny… ma che ci vuoi fare? Le avevamo provate tutte per far schizzare via quel
rubino, stanchi come eravamo, non sembraval’idea stupida che sembra adesso… e poi, fossi stata un
pochino prudente, forse quel viaggio nemmeno l’avrei intrapreso…”.
“Vero… quindi il serpente si anima,
e poi?”.
“Ovviamente credo di precipitare, e
forse sarebbe stato anche meglio… ero in equilibrio sulla bocca, e mi artigliai
ad una delle narici piatte del mostro. Continuava ad essere di gelida pietra,
ma rantolava e era scosso da tremori. Harry e Ron cercarono di tirarmi giù con
degli incantesimi, ma erano troppo lontani, e io non riuscivo a prendere la mia
bacchetta. Furono solo pochi secondi e il mostro divenne un autentico serpente.
Sotto le mie dita, la pelle era diventata ancora più gelida,
ma squamosa e ruvida. Il suo respiro maleodorante e
umido mi fece mollare la presa… stavo per cadere, ma…”.
“Ti afferrò con la bocca?”.
“Già… decisamente non un’esperienza
piacevole… nemmeno fossi stata un topo…”.
“E allora?”.
“Riuscii ad evitare che mi facesse
troppo male, lanciandogli una fattura agli occhi, ora che avevo le mani libere…
ma mentre cercavo di saltare giù, nella follia dell’accecamento, mi colpì allo
stomaco con uno dei suoi denti, pieni sicuramente di qualche veleno… mi colpì
di striscio. Persi lo stesso molto sangue,, ma credo
che così uscì anche la maggior parte del veleno… e da lì questa ferita. Sono
stata fortunata, lo so… con il Signore Oscuro non si scherza. Dubito che, semi avesse preso più
profondamente, sarei ancora qui a raccontarlo… riuscimmo a scappare, ma la
ferita era grave. Non smetteva di sanguinare, e quel che
peggio è che avevo terribili visioni…”.
“Cosa, vedevi? Voldemort?”.
“Sì… cercava di ferirmi o di…
insomma, di farmi cose non belle … e il peggio era che ero sempre presente a me
stessa… diceva che dovevo arrivare a maledire la mia mente, quella che aveva
sempre fatto fallire i suoi piani contro Harry… quindi ero sempre cosciente e
sentivo il dolore triplicato…”.
“Non piangere, su…”.
“…”.
“Quando smise di sanguinare, poi?”.
“Non ha mai smesso… si attenuò
leggermente, grazie alle cure di Lupin… ma continuava sempre… come le visioni…
ora, le visioni sono quasi passate, solo qualche residuo nei sogni… ma perdo
sempre sangue…”.
“Capito… allora ne ho parlato con
Lupin… è una maledizione potentissima, fatta con il veleno modificato del
Basilisco… l’effetto è quello di provocare una ferita perenne e di scatenare
delle tossine nell’organismo che mandano in cortocircuito il sistema nervoso,
aumentando l’adrenalina e la sensazione di paura…”.
“Consolante”.
“Il problema è che non ha cura… nel
senso, tu dovresti essere già bella che morta…”.
“Consolante, di nuovo…”.
“La tua fortuna è stata che il
veleno non è penetrato troppo profondamente, quindi la portata dell’emorragia
non è letale come sarebbe dovuta essere. E le visioni sono
ridotte per lo stesso motivo… ovviamente l’andamento sarebbe sempre ciclico… e
alla fine dopo anni e anni, avrebbe sempre lo stesso effetto… indebolirebbe il
tuo fisico e la tua mente al punto di ucciderti…”.
“Ginny, una delle tue migliori
qualità è quella di essere sempre molto consolante…”.
“Smettila… se sto così tranquilla, è
perché abbiamo trovato una soluzione…!”.
“Grande…! Sei una Medimaga
eccellente!”.
“Con tutte le ferite che in guerra
ho dovuto curare, sarebbe diventata tale anche CalìPatil…”.
“Calì? Sì
come no… avrebbe messo delle bende rosa fluorescenti a tutti i pazienti…”.
“Possiamo tornare alle cose serie?!!”.
“Con molto piacere… Calì che cura le ferite non è una visione affascinante per
la mia psiche…”.
“Lasciamo perdere… allora con delle
analisi abbiamo scoperto che questa maledizione non funziona con i lupi
mannari… il meccanismo di trasformazione di questi esseri arresta il veleno e
le tossine, basandosi sulla produzione di una proteina che blocca la produzione
eccessiva di adrenalina dalla midollare del surrene... questa proteina, per
fartela breve insomma, blocca l’eccesso di adrenalina nella trasformazione in
lupi mannari, impedendo che l’organismo ne sia intossicato e danneggiato; in
tal modo, ferma anche il veleno del Basilisco o di tutte quelle tossine che
producono un incremento adrenalinico… mi segui?”.
“Sì, sì…”.
“Questa proteina reagisce alla luce
della luna, cioè alla causa della trasformazione in lupo mannaro… assumendola
costantemente, tu dovresti riuscire a bloccare quel meccanismo… non sarà
necessario assumerla sempre, ma farai solo un trattamento per qualche settimana
in modo che il tuo corpo la produca da sola…”.
“Che bello, anche mezza
lupo mannara devo diventare…”.
“Ma non dire sciocchezze… è una
proteina che nel corpo umano esiste già, ma che non è prodotta in così grandi
quantità… noi ne indurremmo solo una produzione maggiore… c’è solo un incognita… è dipendente dalla luna, quindi può darsi che
nel novilunio tu abbia un calo notevole di questa… e quindi il veleno
riprenderebbe tutta la sua pericolosità…”.
“Muoio di luna nuova, quindi?”.
“No che non muori di luna nuova… ma
dovrai assumere una pozione con quella proteina…in funzione preventiva, la
dovrai prendere di mattina nel primo giorno del novilunio, altrimenti il veleno
riprende ad agire… è molto importante, Herm… se ci fosse un calo troppo
importante, il veleno agirebbe in maniera troppo potente da poterlo fermare… ci
sarebbe un’emorragia tale da farti morire in pochissimo tempo, probabilmente
riprenderebbero le visioni… ed anche darti la pozione allora, sarebbe inutile…
l’organismo non farebbe in tempo ad arginare la recrudescenza improvvisa del
veleno… dispererei di salvarti, allora…”.
“Capisco…”.
“Nessun altra battutina?”.
“Pensavo ad una cosa…”.
“Cosa?”.
“Esisterà qualcosa a questo mondo
che Voldemort non ha avvelenato con la sua sola esistenza?”.
Oggi c’è
il novilunio. E la ferita ha ripreso a sanguinare.
Ma in
maniera maggiore, perché chiaramente io oggi non ho difese.
La luna
non c’è… come ho fatto a dimenticarlo?
La data
che vedevo su quei fogli, la sensazione di stare dimenticando qualcosa… era la
pozione. Possibile che, per la prima volta da anni, avessi la mente occupata al
punto tale da scordare l’unica cosa da cui dipende la mia stessa vita?
No, non
è così. E io lo so.
È che mi
ero scordata di essere pur sempre una strega, nelle profondità di me stessa.
Di avere
una ferita magica sull’addome.
Di poter
avere delle visioni dove un mostro dalle fattezze serpentine tenta di farmi il
peggio possibile.
Mi sono
sentita, per pochi e leggerissimi istanti, una babbana.
E ciò
esulava quindi da qualsiasi connessione logica con la magia e quello che di
negativo ha portato nella mia vita.
Sono
inginocchiata per terra, tentando di tenere questi pensieri razionali nella mia
mente, per impedire che le visioni prendano il sopravvento. Accasciata come
sono, però, già mi rendo conto che non sento più le voci concitate degli
invitati, né la musica, né tantomeno la voce di Malfoy, che dovrebbe essere
nelle vicinanze. Non sento nulla, se non un respiro affannoso. So che è solo
un’allucinazione, ma è più reale di ogni altra cosa mai esistita. Attorno a me,
un manto buio di silenzio e tenebra.
Solo il
baluginare sinistro di occhi rossi… ed un respiro affannoso.
Non ho
mai detto a nessuno che mi faceva Voldemort, in quelle visioni. Non era
necessario.
Erano
visioni orribili causate dal veleno, ma non erano reali. E tanto bastava.
Solo io
so che cosa accadeva, e il terrore che provavo, perché, anche se non erano
reali, la tangibilità delle stesse era inquietante. Il
cuore che mi batteva feroce in petto, il dolore che non andava più solo dalla
ferita, ma mi prendeva i capelli, le dita, le unghie. Come se tutto il corpo
bruciasse, e la mia mente, sempre presente, aveva tutto il tempo di capire che
stavo per morire. Avvertivo l’agonia e il futuro che marciva con me. Ma fosse
stato solo questo… sarebbe andato anche bene…
Voldemort,
con quel veleno, materializzava le tue peggiori paure. Ti metteva in balia delle
stesse, lasciando che fossi tu da solo ad impazzire.
Io
temevo di restare sola. Quindi, il silenzio.
Io avevo
paura di non avere più alcuna certezza. Quindi, il buio.
Io
temevo che Voldemort non mi lasciasse mai in pace. Quindi, lui c’era.
Ma io
temevo, sopra ogni cosa, il giorno in cui mi avrebbe potuto catturare. Mi
avrebbe ucciso? Certamente… ma stranamente, a me la morte mi
ha fatto sempre paura sì, ma mai come altro.
Come…come…
la mancanza di amore.
Strano a
dirsi, per me, che sembro così cinica, disillusa e assolutamente indifferente
all’amore.
Ma io di
esso ci vivo, dell’amore per la mia famiglia, per i miei amici e per il mondo
tutto. Io, nonostante tutto, ho sempre fiducia nell’uomo e nella vita.
E
nell’amore, in quell’amore che è una legge universale, più grande di qualunque altra…L’amore che impietosisce e che muove il
mondo.
L’assoluta
mancanza dello stesso, della passione che muoveva i miei piedi e le braccia, della molla a fare qualsiasi cosa… io la temevo
sopra ogni cosa. Temevo la mancanza dell’amore nella mia vita.
Temevo
il giorno in cui i miei occhi sarebbero stati a contatto con quelli dell’essere
che non ha mai amato nessuno nella sua vita. Che non sa cosa sia quel
sentimento. E la sola cosa che in quella concezione lui avrebbe potuto farmi,
peggio della morte, era solo una.
Singhiozzando,
sento le sue dita lunghe afferrarmi i polsi e spingerli indietro, artigliandomi
al pavimento. Non di nuovo, non di
nuovo…!
Ride, ma
io non lo vedo, solo occhi rossi affamati come di belve che si scagliano su di
me.
Il suo
peso addosso mi leva il fiato, e la ferita brucia ancora più forte; piango
ostinatamente, cercando di divincolarmi, mentre la sua lingua raschia sul mio
collo. Sento un morso ledermi la pelle della spalla, e so che è un’illusione,
ma sento la testa spaccata a metà dal dolore.
Tremo
con tutte le mie forze, mentre mi solleva con foga la gonna di tulle,
continuando a leccarmi ovunque.
La paura
mi uccide peggio del dolore.
Non
posso sopportarlo un’altra volta.
I
pensieri mi sfuggono come carta bruciata dalle mani, solo se li tenessi fermi,
forse, potrei escludere almeno le visioni. Ma sono anni che non sono colpita da
questa… cosa… e non ci riesco, non ci
riesco. La disperazione mi fa solo piangere, e alla fine abbandonare alla violenza
che quella bestia sta per usare su di me… ancora una volta… e, con una punta
quasi di allegria, penso che tra poco sarò morta… quindi sarà tutto finito…
perlomeno, questo… dovrebbe finire…
Un lampo.
Squarcia
le tenebre attorno a me, assieme al silenzio ovattato che non mi faceva sentire
nemmeno i miei singhiozzi, ma solo l’ansimare di Voldemort. Sparisce anche lui,
il mostro, in una nuvola di fumo iraconda. Sento di nuovo freddo sul viso, e il
bruciare del sangue sulla mia pelle.
Il lampo
illumina a giorno la mia testa, quasi con dolore, e mi sento ritornare alla
vita, e fa male, terribilmente.
Poi la
luce si dissolve, e sono di nuovo nella notte buia di Londra. Il dolore
all’addome non ha mai smesso, e sento la debolezza chiudermi gli occhi. Qualcosa
mi solleva dai fianchi… mani…calde… mani
calde e salde, che mi sollevano senza sforzo alcuno.
In un
lampo di lucidità, mi rendo conto che non mi è mai successa una cosa simile.
Che
qualcuno… o qualcosa… mi salvasse… cosa è?
Apro gli
occhi piano, e penso un angelo?
“Granger?”
la voce di Malfoy suona dolcissima nelle mie orecchie, dopo il sibilo affannoso
di Voldemort.
È lui
che mi tiene tra le braccia. Le sue mani le sento sulla mia schiena nuda, mi
tiene ferma e salda, le braccia che mi cingono dolcemente sui fianchi. Sento
che potrei cadere all’indietro, ma lui mi tiene ferma… e non mi sento più persa…
“Come
hai fatto?” chiedo con un sussurro, non sapendo bene che sto dicendo. I suoi
occhi nei miei scintillano per un attimo, poi li vedo più calmi, una tempesta
che si placa all’improvviso.
Sento
qualcosa impadronirsi delle mie membra, pesantezza che minaccia di farmi
schiantare al suolo, e gli occhi…non riesco a tenerli aperti.
Posso riposarmi un po’, adesso?
Sento la sua mano calda sul mio viso gelido darmi un
colpetto: “Granger, cavolo, svegliati…! Questo sangue… da dove viene? Guardami,
dannazione! Granger, mi devi guardare, adesso, chiaro?”.
Non
rispondo, sono così stanca…
La sua
mano risale dietro la mia nuca, tenendomi più vicina al suo volto, o perlomeno
io, con gli occhi chiusi, sento il suo respiro bollente sul mio viso. È mai stato così vicino a me? Un
sospiro, un solo minuscolo sospiro, per lui che mi regge con una forza che non
sapevo potesse esistere.
Un
sospiro… prima di dire…
“Hermione…”
ed è un brivido lunghissimo, incandescente, che sembra quasi svegliarmi. Hermione.... il mio
nome… mi hai chiamata per nome… sto morendo, davvero, allora?
Spalanco
gli occhi, e lui è ancora lì, e mi chiedo se sia una visione o se sia vero, ma
so che Voldemort non mi punirebbe mai con questo.
Perché
è… bello, il suo viso che è così
vicino al mio, il mio naso che quasi sfiora il suo. Il suo viso è… bellissimo, cielo, Draco è bellissimo.
Siamo
qui in una terrazza, e se non fosse per il sangue che continua a gocciolare,
sembrerebbe che stiamo ballando e ora siamo impegnati in un complicato casquè, lui che mi cinge tra le braccia e io che scivolo
indietro, i nostri visi che si toccano quasi.
E vedo
per la prima volta tutti i particolari che il nostro odio mi ha impedito sempre
di mettere a fuoco.
Una
cicatrice sul sopracciglio sinistro. Una fossetta quasi buffa sul mento.
L’attaccatura dei capelli alta. Il ciuffo di capelli biondi che costantemente
gli copre la fronte. Gli occhi grigi, che sono sempre un po’ tristi, e che
guardano sempre con un velo di malinconia ciò che lo circonda, come se temesse
sempre di perderlo. E ora la sua espressione è preoccupata e triste, e non so
perché mi stringe il cuore in una morsa più dolorosa di quella che questa
dannata ferita mi sta provocando.
Sei preoccupato per me?
“Hermione…” ripete ancora, guardandomi fisso negli occhi,
argento fuso che mi avvolge in una malia senza sosta “Cos’è questo sangue? Perché chiamavi Colui che non deve
essere nominato? Guardami… rispondimi… per favore…”.
Una preghiera, ecco cos’è.
Nei suoi occhi, eco di morti che ha
già visto… non so
come faccio a saperlo, da dove mi viene questa consapevolezza, come distinguo
la tempesta del suo sguardo imperversare furiosa di una sinistra abitudine.
Ha visto tanta gente morire… chi hai
tenuto tra le braccia, mentre moriva? Chi ancora muore ogni giorno nelle
tenebre dei tuoi occhi?
Apro la
bocca e la mia voce suona come un pigolio incerto: “Una ferita di guerra… non
ho preso la pozione… Ginny, devi chiamare Ginny…”, uno spasmo mi fa trasalire e
tremare, e mi sento svenire. Lui mi stringe più forte.
“Dannazione…”
mormora, stringendomi e tenendomi in piedi per quanto ci riesca “Dov’è cavolo è
la Weasley?!”.
Senza
forze, appoggio la fronte sulla sua spalla e mi sento calma, nonostante so che
sto per morire. Il suo profumo è così dolce e intenso che mi
sento ubriaca, oltre che moribonda.
Mi stacca bruscamente il viso da lui, tenendolo tra le mani,
e mi dice, un’onda di panico nella voce: “Hermione, devi restare sveglia,
capito? Non ti addormentare…”.
“Sono
stanca… tanto…” sospiro distrutta, poi soggiungo con
un sorriso “Sarà che tu mi tratti come una serva…”.
Sorride tristemente, sussurrando con un filo di voce:
“Esagerata come sempre… ora cerca di stare sveglia, ok? Trovo quella
piattola e ti sistemo…”.
“Non
sono una bambola rotta, Malfoy…” sorrido quasi arrabbiata. Ad un passo
dall’inferno, ne ho ancora la forza.
Non ha
nemmeno il tempo di fare un passo che sento un tramestio di passi alle nostre
spalle. Malfoy mi stringe stretta a sé, e capisco che sta cercando di
nascondere il davanti del mio vestito, completamente ricoperto di sangue. Il
tremore negli occhi mi impedisce di vedere chi si tratta, e nemmeno potrei dato
che Malfoy è più alto di me e non riesco a vedere oltre la sua spalla. Vedo
solamente la tenda muoversi piano, e la portafinestra restare aperta. Le voci e
la musica, nelle mie orecchie, mi sembrano innaturalmente forti, serro gli
occhi per il fastidio.
“Danny! Sai dov’è Herm?”. Eccolo là,
dovevo immaginarlo…Seth… se mi vede, è la fine… nessun medico babbano può
guarire questa ferita e a questo punto dubito anche che possa un mago. Ma si
scatenerebbe il panico, penserebbero ad un omicidio o a chissà che cosa… alzo
lentamente lo sguardo sul viso di Malfoy, leggermente pallido, e che dà volutamente di spalle alla porta.
Non mi
interessa cosa penserebbero di me. Se mi scoprissero. Ma… lui…
Lui… lui sarebbe finito… attirerei
troppo l’attenzione su di lui…
Chiudo
ancora gli occhi con un gemito, cercando di nascondermi.
La sto facendo a pezzi la tua vita…
giorno per giorno… perché sono venuta qui?
E perché sono rimasta?
Scende
piano una lacrima dai miei occhi, mentre mi sento tremendamente in colpa;
Malfoy ovviamente non risponde, sento solo la presa sulle mie braccia farsi più
stretta, quasi violenta.
“Maledizione…”
mormora a bassa voce, guardando dritto davanti a sé, quasi con cautela “Mai che
capisce che sono occupato…”. Sorrido, nonostante tutto, e stranamente in pochi
secondi vedo passare nelle sue iridi chiare un fascio di luce, come di
consapevolezza e risoluzione. Abbassa lo sguardo su di me, tento di tenere
ancora gli occhi aperti, sonno incombente che mi grava le palpebre.
Mi
guarda quasi con curiosità, come se mi vedesse dentro, peggio di un foglio di
carta bianca messo in controluce. Il suo sguardo lo sento fin dentro alla
testa, intento a scrutare ogni mio pensiero.
Sto per
chiedergli che ha, improvvisamente la presa delle sue mani si fa feroce sulla
mia schiena.
Mi fa
male, ma gli sono quasi grata perché mi distrae dal dolore della ferita, che
ogni tanto mi assale e mi tramortisce.
Ormai
dispero di potercela fare. Stiamo perdendo troppo tempo.
Ma è
consolante stare in questo abbraccio che non è un abbraccio, che non ha amore o affetto… ma che almeno non mi spezzerà il cuore quando
finirà… vorrei solo non causargli troppo, ecco, fastidio…
Bisbiglio
piano, recuperando forze dagli anfratti di me stessa, il dolore che minaccia di
farmi perdere ogni capacità cognitiva… darei tutto perché finisse…quindi questa
domanda non è per me, ma è solo per lui, per difendere quella vita finta e
spensierata che si costruisce passo dopo passo.
“Che
facciamo?”.
Mi
stringe ancora più forte, se possibile, la voce di Seth che lo chiama ancora.
Una luce
quasi cattiva negli occhi, aggiunge: “Semplice… fingo di essere occupato…”.
Non
capisco che cosa vuole dire, evidentemente sto davvero morendo… ma credo che
non l’avrei capito nemmeno in possesso di tutte le mie facoltà celebrali. È
difficile capire che cosa passi nella sua testa, e questo l’abbiamo bello che
appurato…
Quello
che so, è che sento le sue braccia attirarmi forte a sé, tirarmi con una
violenza tale che per il contraccolpo la fascia di raso che mi teneva i
capelli, scivola via. Gli opali che ho per orecchini, mi sbattono sulle guance
con forza, e per un attimo temo che si siano rotti.
Ma…
subito… la mia mente si svuota.
Perché
Draco Lucius Malfoy mi sta baciando.
E non
come si bacia una vecchia zia in visita o una nipotina diligente… no… anche
allora mi sarei decisamente scioccata, ma non sarebbe mai come adesso. Perché
mi sta baciando come un uomo bacia una donna, ed è così assurdo che sento ogni
mio pensiero scivolarmi via da sotto il naso. Se qualcuno me l’avesse detto
anni fa, probabilmente sarei corsa nel bagno più vicino a rimettere tutto il porridge mangiato a cena. Mi avrebbe fatto schifo… e ora
che mi fa provare? Che sento?
La vista
annebbiata, vedo i suoi occhi chiusi, le unghie che affondano nel tulle del mio
vestito in quello che è un bacio senza amore e senza senso. Un bacio violento,
fatto solo per difendere sé stesso. Un bacio muto e doloroso.
Sto
piangendo. Ogni lacrima è uno sforzo enorme per il mio fisico debilitato, ma
non posso impedirmelo. Questo bacio che sa solo di lacrime e basta, il sapore
del sale in bocca che copre quello di Malfoy che non riesco nemmeno a sentire,
le labbra premute sulle mie con una prepotenza tale da farmi solamente male.
Vorrei correre, piangere e gridare, ma non ci riesco, la sua forza è mille volte maggiore della mia, sono pur sempre una ragazza,
senza bacchetta e con uno squarcio sanguinante nell’addome.
Mi sento
debole, ed è orribile.
Non ho
più alcun potere su me stessa e sulla mia vita.
Lo odio
come non mai adesso, vorrei scansarlo e non ci riesco; lo odio come tutte le
cose che mi vengono imposte e che non scelgo. Lo odio come questa ferita che
continua a sanguinare, lo odio come il tradimento di Ron, lo odio come la
partenza di Dean, lo odio come l’immagine di Voldemort nel mio cervello che si
ostina a non andare via. Ed è un odio diverso da quello che ho sempre provato
per lui… un odio strano, irrazionale, come io non sono
mai.
Razionale,
era odiarlo perché lui mi chiamava Mezzosangue.
Irrazionale,
è odiarlo perché mi sta baciando e perché così vuole allontanare Seth.
Ma
Malfoy ha la capacità di rendermi molto irrazionale.
Tocca parti di me stessa così sepolte che non sapevo nemmeno che esistessero,
come un doppio fondo di un cassetto che scopri quando possiedi quel mobile da
anni.
Ti
chiedi se è sempre stato lì… e sai che è così… oppure se è stato qualcuno a
crearlo all’improvviso… ora io ho scoperto, senza ombra di dubbio, che
nonostante il suo abbraccio mi andasse bene, il suo bacio invece mi spezza il
cuore.
Il bacio
per me è amore.
E ora
amore non c’è. C’è solo uno squallido mezzuccio pieno di tracotanza. E che non
ho nemmeno scelto.
Dopo quello
che stava facendo per me… se avesse pensato di baciarmi… probabilmente gli
avrei anche detto di sì…
Draco
Malfoy è abituato a prendersi le cose che vuole o che mira ad ottenere, con la
forza, non se ne fa scrupoli.
E anche
con le donne deve essere lo stesso.
Summer alla fine fa tutto quello che
lui desidera…
Ma non con me… dannazione, non con
me…
Cerco di
liberarmi della sua stretta, senza risultato, intravedo ancora la presenza di
Seth sulla soglia. Vattene via, accidenti
a te… l’unico risultato che riesco ad ottenere è che Malfoy apra gli occhi.
È sorpreso nel vedermi con le mani premute contro il suo petto, mentre tento di
staccarlo da me. I suoi occhi si allargano con espressione colpita, poi li
socchiude fissando attentamente il mio viso.
Inconsciamente
serro gli occhi, mentre, continuando a premere insistentemente le labbra contro
le mie, allunga una mano verso di me e sfiora piano la mia guancia bagnata con
il dorso della mano. Nelle sue iridi così inaspettatamente vicine ai miei
occhi, vedo stupore e sorpresa, e alla fine ancora malinconia. O forse è solo
una mia impressione… non so…
All’improvviso,
la pressione ostinata contro la mia bocca termina. Non perché si stacca da me,
no…
Il bacio
cambia, diventa... diverso…
Ora le
nostre labbra sono solo appoggiate le une sulle altre, si accarezzano piano
quasi con dolcezza e la mano di lui affonda nei miei capelli sciolti e liberi
da qualsiasi acconciatura. L’altro mano è solamente
posata sul mio fianco sinistro a trattenermi leggermente.
Ora potrei scacciarlo se volessi…
Le mie
mani serrate sul suo torace si rilasciano piano dalla tensione precedente, si
aprono e restano lì a sentire sotto le mie dita il battito del suo cuore. Qualcosa mi punge dentro con un vago
senso di insoddisfazione e di sconfitta, ora; ogni fibra del mio corpo, persino
questa maledetta ferita, è concentrata sulle mia bocca
e su questo bacio a stampo. Un desiderio convulso mi sconquassa dentro, ogni
cellula del mio corpo brucia e ne sono sconvolta. Possibile che sia diventata
così volubile? Possibile che lui renda polvere ogni mio desiderio e volizione?
Un secondo voglio una cosa, un secondo un’altra… come
avere il cuore trafitto da un raggio di sole, come aspettare in una giornata
afosa la prossima onda che venga dal mare e che ti sorprenda sul bagnasciuga…
attesa inesausta ed inesauribile, snervante e poi appagante, e poi ancora, ed
ancora. Questo mi fa Malfoy… mi fa desiderare che la sua bocca si schiuda tra
le mie labbra, mi fa volere il suo sapore che sento solo accennato, mi fa
desiderare le sue dita sulla pelle fresca e tenera della mia nuca, mi fa
desiderare un sorriso soffocato sotto le mie labbra. E mi fa disperare perché
lui non mi vuole, invece.
E subito
dopo, come un lampo, mi fa rendere conto di che cosa sto pensando.
Sono a
brandelli, raccolgo frammenti di quella che ero, lungo una strada che non
conosco e che non volevo intraprendere. Ma che adesso sono costretta a
percorrere fino alla fine… che cosa resterà di me al termine di questo viaggio?
La sua
mano tra i miei capelli si muove in una carezza affrettata, scorrendo leggera e
provocandomi un brivido lungo la schiena, l’altra mano invece lentamente sfiora
la mia schiena, di secondo in secondo che mi attira
più vicina. Le sue labbra sanno del sale delle mie lacrime, eppure… è il bacio più dolce della mia vita…
Con
impacciata timidezza, incurante oramai di Seth e della ferita, mi sollevo in
punta di piedi nelle mie scarpette che non sono di cristallo, ma che adesso mi
fanno sentire davvero la principessa che ha conquistato il principe azzurro.
Diamine, in fondo sto morendo…
Allungo
le braccia cingendolo alle spalle e lo sento sussultare, evidentemente non se
l’aspettava.
Riapre
gli occhi, a tiro ormai dei miei, le pupille dilatate, l’espressione quasi
spaventata, e sento la mia mente andare in frantumi.
Si
stacca bruscamente da me, respirando a fatica, mentre io ritorno alla mia
altezza solita. Mi cinge ancora con il braccio, la fronte appoggiata sulla mia,
lui che non credevo si potesse mai piegare a qualcuno.
Le mie
labbra si aprono senza che io lo voglia, e sento l’ultimo mio soffio di vita
che ne sta per uscire, diretto unicamente a dirgli una cosa sicuramente
stupida, probabilmente pericolosa, ma che non mi posso evitare.
Per la
prima volta nella vita, non so che sto seguendo… se il mio corpo, il mio
sangue, o il mio… cuore… fatto sta
che non sto seguendo la mia ragione, e so già che questa cosa mi porterà dei
guai.
Ma mentre
lo guardo, so ancora che è come un anelito indispensabile, che non mi posso
evitare, anche se mi ammazzerà peggio della ferita fisica che mi fa barcollare.
Non so nemmeno che sto per dire, ma so che sto per dire qualcosa che non
tornerà più indietro.
Ed
invece lui a parlare, a battermi sul tempo…
Un
sorriso sulle labbra sottili di cui ora so perfettamente il contorno, e che
sento come una linea incandescente sulle mie. Guizzano lontani gli occhi,
saettano alle sue spalle. Un sospiro appena trattenuto.
E poi…
“Seth, è
andato via vero?”.
La
ferita vecchia fa malissimo tutto ad un tratto. Una ferita nuova mi si apre nel
petto, lacerandomi. Una ferita che non perde sangue, ma che mi uccide l’anima.
Come se si fosse rotto uno specchio che rifletteva un’immagine illusoria di me
stessa, ma che mi aveva fatto sentire per pochi leggerissimi attimi… libera da me stessa.
“Stavi
solo recitando?” mormoro con le lacrime agli occhi, l’orgoglio che riprende il
suo vecchio posto e mi fa sperare che non mi abbia sentito. Quella nuova magia
che non ha nulla a che fare con l’uso di una bacchetta, abbandona come la
risacca di un mare di gennaio le mie membra.
Non vedo
che fanno i suoi occhi. Non sento che fa la sua voce. Non tocco che fanno le
sue mani.
Ricado
all’indietro, abbandonandomi alla morte.
Decisamente il mio capitolo preferito!! Chissà per quale motivo…J Ammetto che è stato un capitolo di una difficoltà
assurda, perché volevo che fosse perfetto e poi perché allo stadio attuale,
Hermione non è che prova ancora nulla di fortissimo per Draco, quindi doveva
essere particolare come bacio… insomma all’inizio Hermione lo rifiuta pure, è
solo perché è senza forza che non ci riesce… ma dopo… eheheh!! E vi anticipo che è da qui che le cose inizieranno
decisamente a cambiare!!! Anche se ne succederanno
ancora molte…
Passo subito ai ringraziamenti e alle risposte di
rito:
Cygnus Malfoy: la mia cara Helder
che ovviamente meriterebbe una sfilza di ringraziamenti!!
Considerando quanto sono imbranata con il computer e quanto mi aiuta! Tu questo
capitolo l’hai letto in esclusiva quindi so che ne pensi e già ti ringrazio!! Draco più gentile di così non lo si può immaginare e
certamente non sarà mai un ragazzo dolce e gentile, anzi!!
Ma è per questo che ci piace tanto!! Un bacio, tesoro!!
Liven: ciao!! Non ti preoccupare del
tuo errore, capita a tutti e poi ti sei rifatta con questa bellissima
recensione!! Grazie dei tuoi meravigliosi complimenti!! Sono contenta che le mie riflessioni ti
sono piaciute, sinceramente erano delle riflessioni mie attuali quindi è
stato facile scriverle!! Non voglio che la mia storia sia troppo “veloce”, ecco…
quindi cerco sempre di fare evolvere le cose piano! Insomma sono sempre due che
per anni si sono odiati!! Sei stata una delle poche
che si è ricordata del mio accenno al novilunio, brava!!
Nefene: la mia carissima Chiara!! Grazie,
grazie dei tuoi complimenti, sono contentissima che i miei capitoli non ti
deludano! Cerco sempre di essere all’altezza delle vostre aspettative…Jche dire di più che già non sai? Un bacio!!
Ginsan89: una nuova
lettrice!! Evviva!! Grazie tantissimo,
Ginny è sempre la migliore amica di Herm, quindi ci stava che rimanesse dalla
sua parte, anche se non la capisce fino in fondo; Harry si rifarà, ma ora è un
pochino cieco di fronte alle responsabilità che ha come Ministro… la tua tesi
del mezzo licantropo alla fine non era del tutto sbagliata, visto che la
pozione che prende Herm è a base lupo mannaro!! Un bacio!!
Seven: grazie grazie, non so che altro dire!! Le tue
recensioni sono sempre le mie preferite perché svisceri tutto il capitolo e mi
dici esattamente che ne pensi di ogni parte!! Il ravvedimento
di Harry ci sarà, sicuramente, e Ginny avrà un ruolo importante, anche se un po’
meno di Seth come hai potuto leggere in questo chappy!! Un bacio!!
Lights: ebbene sì, sono una donna perfida e una scrittrice
implacabile!! E scommetto che questa volta mi vorrai
uccidere ancora più di prima!! Baci!
Baby_San: il Turquoise Party è stato
un successo, perlomeno nella parte in cui Herm non stava morendo
dissanguata, ma è stato anche un successo per i nostri due eroi! Un bacio!
Un saluto anche a coloro che leggono e non
recensiscono, anche se un commento sarebbe sempre gradito :p!!ai 52 lettori che mettono questa storia tra i
preferiti e ai 37 che la seguono!! Oltre a chi ha visitato il forum, specie
Anna 96!! È grazie a voi che questa storia esiste!! Approfitto anche per ringraziare Piccola_star
che ha recensito THE BLOWER’s Daughter!!!
Voci…
tante voci… acqua salata sul mio viso e vento che mi accarezza delicatamente i
capelli.
Qualcosa
che mi solleva e mi attira a sé.
Erba bagnata nel mese di settembre.
Sensazione
di oggetto duro contro la mia fronte, oggetto duro e sottile, dalla punta
vagamente tonda.
Una bacchetta.
Luce
fiorita dietro le mie palpebre chiuse. Una lacerazione nel tessuto della mia
mente.
Poi più
nulla…
“Herm, Herm!!,
rispondi!!”.
“Il mio nome è Danny Ryan… sono il proprietario
del locale dove lavora Hermione…”.
“Spostatevi!!
Le togliete ossigeno!!”.
“Speriamo che questo
funzioni…”.
Parole come
gabbiani nel cielo… frecce bianche in un mare di azzurro che non riesco ad
afferrare.
Qualcosa
di morbido sotto la mia schiena, calore liquido che mi sfiora la pelle.
“E’ sperimentale, ma è la sola
soluzione…”
“Non ci credo che sia accaduto…”.
Calore
ovunque, fuoco sottile che mi avvolge, bruciandomi piano fino alle ossa.
“Mi
dispiace come sono andate le cose, davvero, Herm… ed è assurdo dirtelo così…
non riesco ancora a perdonarmi il male che ti ho fatto… per favore, ritorna…”.
Una mano
fresca sulla mia fronte, un’ombra di ricordo sulle mie labbra.
“Speravo che fosse passata, amore
mio… ma niente passa davvero… e mettere chilometri tra me e te, non cambia
nulla. So che devisentirti
di vivere come meglio preferisci… ma per favore, prenditi cura di te stessa,
ora che io non posso più farlo…”.
Emergere
dalle acque nere, respirando a fatica. Un soffio di brezza sulla mia pelle.
“Adesso, bisogna solo cancellare i
ricordi dei Babbani…”.
“Inizio con Danny Ryan… dovrebbe
essere fuori da qualche parte…”.
“A Danny Ryan penso io…”.
Mi fanno
male gli occhi, tantissimo. Mamma mia, sono pesanti
come lastre di cemento. Perché non riesco ad aprirli?
Ma in
fondo che mi interessa, potrò dormire un po’ di più per una miserrima volta,
cavolo!
Fa
fresco, però, sento il soffiare di un vento freddo sulla pelle. Sotto le mie
palpebre chiuse intravedo una luce tenue ma decisa, e capto delle voci lontane
giungere da chissà dove. Mi rigiro meglio, cercando di riaddormentarmi,
raggomitolandomi a riccio nel tessuto leggero e liscio che indosso. Non faccio
in tempo, però, a riaddormentarmi che vengo colpita da una scossa di pensieri.
Vedere
una luce? Sentire delle voci? Avvertire un vento freddo?
Ma non
dovevo essere morta? E per quel poco che so, la morte è la mancanza delle
sensazioni… questo significa…
Che sono viva… oppure che la morte è davvero
strana… come faccio a capirlo?
Accidenti,
accidenti!!
Faticosamente
riapro gli occhi, le pupille che si richiudono subito per la troppa luce che
c’è nella stanza. Mi guardo distrattamente attorno, dopo aver sollevato il
busto ed essere scivolata ancora indietro a causa di un giramento di testa.
Serro gli occhi repentinamente, non c’è dubbio, sono nella mia stanza al Petite
Peste.
Ma come
ci sono finita qui?
Ricordo
solo che la ferita si era riaperta, ho chiesto aiuto a Malfoy… e lui… boh, lui
ha fatto qualcosa… ma cosa?? Ricordo solo il suo viso
vicino al mio, e poi??? Che diamine ha fatto?? E che
ci faccio qui??? Maledizione… ma sono trapassata o no,
poi?
Allungo
la mia mano verso il soffitto e mi sembra sempre quella solita, anche se il
braccio è coperto dalla manica di qualcosa di bianco e lucido. Mi guardo meglio
addosso, e distinguo nettamente che indosso qualcosa di diverso dal vestito
azzurro.
Un
pigiama di raso bianco, completo di casacca e pantaloni.
Devo
essere morta… decisamente… figuriamoci se io mi metto un pigiama del genere,
specialmente considerando che non me lo posso permettere. E considerando che il
raso mi ha sempre dato l’impressione di essere adatto solo alle
escort impenitenti.
No, no…
decisamente sono morta…
Anche
se… aggrotto le sopracciglia in posa riflessiva… in quale paradiso, gli angeli
se ne vanno in giro in pigiama di raso??? Non ho mai
visto una tale immagine in giro, d’accordo l’escatologia non è una scelta
esatta, e magari il raso è un tessuto paradisiaco,
che ne so… io non l’ho mai indossato… magari provoca meno allergie… ma
figuriamoci se gli angeli hanno allergie, non me li vedo che starnutiscono per
la presenza dei cumulonembi… e poi chi me l’ha detto che sono un angelo??
Magari questo è inferno, e il fatto che sia al Petite Peste ne può essere una
chiara prova!! Sicuramente ora vedo Malfoy che
attorciglia una coda enorme e mi spedisce al mio girone, e poi…
Un
attimo…
Stop!
Lo
sproloquiare è tipico di me. Tipico della mia mente. Che c’è ancora, quindi…
Sospiro, mi sa che sono viva.
Ma se
sono viva, esattamente… come faccio ad esserlo?
Ricordo
distintamente di essere stata abbastanza vicina alla morte… e allora, come? Tra
l’altro, non vedo maghi o streghe nelle vicinanze, e sono ancora al Petite
Peste. Sicuramente nessun babbano poteva salvarmi… accidenti!!
Cerco
ancora di sollevarmi seduta, ma la testa riprende a vorticarmi, quindi trovo
più intuitivo guardarmi l’addome alla ricerca della ferita piuttosto che
alzarmi per capire qualcosa. Scosto la maglia del pigiama, ma incontro solo la
pelle perfettamente rimarginata e integra.
Cosa
ancora più strana, non c’è nemmeno la cicatrice che avevo prima, un piccolo
segno rosso abbastanza lungo.
Questo
depone per la tesi che sono decisamente
morta.
La mia
tesi si smonta quattro secondi dopo, quando la porta si apre e vedo entrare due
persone. Con la vista annebbiata, dapprima, non riesco a riconoscerle, poi
metto a fuoco nella luce del sole e distinguo le sagome di Ginny ed Harry.
Lo
sguardo di Ginny, da triste e preoccupato che era, incontrando il mio, si
riempie di lacrime e diventa radioso. La guardo, senza capire, per poi fissare
Harry, che anche lui mi guarda abbastanza commosso.
Evidentemente mi davano abbastanza
morta…
Ginny,
in capo ad un secondo, mi corre incontro, abbracciandomi forte e lasciandomi
senza fiato, dice qualcosa ma non riesco a sentirla, la testa che ancora mi
pulsa da matti. Harry si ferma a breve distanza, sorridendo anche lui e
guardandomi dolcemente.
Quando
apro la bocca, sento la mia voce quasi metallica, non ero più abituata a
sentirla.
“Ginny,
non capisco… per favore, potresti parlare un po’ più piano…e soprattutto non
urlarmi nelle orecchie??!!” chiedo gentilmente
innervosita.
Lei si
stacca da me e si asciuga le lacrime con il palmo della mano, per poi dirmi
duramente: “Ci è mancato poco… la prossima volta, cerca di non avvicinarti così
tanto al concetto di defunta… perlomeno,
fino a quando io non sarò la signora Potter… dopo di te come testimone, ho
Lavanda in lizza… e non vorrei doverla scorticare sull’altare, insomma, il
viaggio di nozze è già prenotato…sarebbe un peccato passarlo ad Azkaban per lesioni aggravate!”.
Sorrido
leggermente alle sue parole, con un enorme sforzo mi sollevo seduta e freno il
giramento di testa, appoggiando la schiena contro la sponda del letto.
“Mi
dispiace…” rispondo contrita, accarezzandole leggermente la testa “Non so come
sia potuto succedere…”.
“E’
quello che ci chiediamo anche noi…” sorride sollevato Harry, sedendosi accanto
a Ginny. Se penso che potevo morire, rimanendo così
arrabbiata con lui, mi viene da piangere… abbasso lo sguardo e pigolo: “Credo
che vivere qui… insomma, tra i babbani…”.
“…
l’avevi rimosso?” completa Ginny, comprensiva, venendomi in aiuto.
Distolgo lo sguardo umido da lei, guardando la finestra, il
cielo azzurro che mi risponde infondendomi un vago senso di pace, e poi torno
cautamente a guardarli: “Qualcosa del genere, credo… ecco, brava… non
dimenticato, rimosso… mi vedevo troppo babbana per ricordarmi una cosa così…”,
sospiro, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio: “Ma non lo sono… e
questo ormai mi sembra evidente… “.
“Ed è un
peccato?” mi chiede Harry a bruciapelo, guardandomi quasi severamente.
Resto basita dalla schiettezza della sua domanda, ma poi
sorrido piano: “Sì e no… e tu, Harry, lo sai meglio di me. Hai vissuto con i babbani, no? Ed è una vita completamente diversa… non migliore, non peggiore…
solo diversa, ecco…”.
Harry annuisce, per poi sussurrare: “E vorresti tornare a
quella vita? Intendo a quella babbana?”.
“Vuoi la
verità?” bisbiglio piano, chiudendo gli occhi “A volte sarebbe bello… sarebbe
bello pensare ad un mondo dove Voldemort non è mai esistito… dove ogni cosa non
è da ricostruire… dove la mia vita, nel bene e nel male, è da inventare… non da
ricomporre, come tutto il resto… non è decisamente da me dirlo e lo capisco… ma
è la verità… sarebbe bello fuggire, ma è dannatamente evidente che non posso
farlo, in nessuna ragionevole maniera… la mia vita, il mio passato, la mia me stessa
più intima… mi verrebbero dietro senza pace…”.
Non ci
credo di essere stata così sincera con loro, la morte imminente mi ha fatto
bene, decisamente. Era da tempo che volevo dire queste cose, specie ad Harry,
volevo che capissero ma non trovavo né la forza né le parole. Ora sono uscite e
vedo i loro visi sconvolti quasi, mi scrutano con curiosità come a cercare nel
mio viso le tracce di quel tormento celato e nascosto.
So che
probabilmente li sto facendo del male, ma non è che prima, mentendo, gliene
facessi di meno… a questo punto meglio essere sincera. L’ho metabolizzato
nell’agonia? Probabilmente sì… che senso ha fingere di essere perfetta, se non
lo sono? E che senso ha non dare mai alle cose il loro nome? E perché non dire
quanto ho sofferto, almeno a loro due? Solo così, potrebbero capirmi… e se non
lo dicessi, non vedo perché dovrei aggiungere a quel dolore la sofferenza di
non essere compresa e di essere malgiudicata.
Ora che
ci penso… è davvero idiota…
“Davvero, Herm? Davvero sei stata così male?” mi chiede
sgomento Harry, avvicinandosi a me.
Annuisco senza allegria per poi aggiungere: “Non è colpa
vostra, davvero… non sono la tipica persona che se sta male chiede aiuto… o
anche se ne fa accorgere… quindi credo che sia normale che non ve ne siate
accorti…”, sorrido alle loro espressioni colpevoli: “… davvero, ragazzi su! Non ce l’ho con
voi…”.
“Immagino
che quindi la storia di Malfoy sia stata solo la goccia che ha fatto traboccare
il vaso?” mi chiede Harry preoccupato, sotto lo sguardo curioso ma comunque
silente di Ginny.
“Esattamente…”
mormoro piano, un nodo che mi impedisce di parlare normalmente “Aggiungi questo
al resto… Ron che si mette con Lavanda, la condanna, la disoccupazione… e poi
Dean che se ne va… non voglio autocommiserarmi, diciamo solo che non era
decisamente un buon momento per saperlo…”.
Sorrido,
mentre Ginny si stringe nelle spalle, poi mi dice timorosa: “Sono stati
entrambi qui, lo sai?”.
“Chi?” .
“Ron… e
Dean”.
La
guardo autenticamente scioccata, qualcosa che mi si spezza dentro con il
fragore di un maremoto… la prendo per un braccio, stringendola forte, la mia
voce che diventa più acuta mentre chiedo quasi disperata: “Anche Dean?”.
Lei mi
sorride e annuisce con il capo: “E’ stato qui, fino a quando ha saputo che eri
fuori pericolo… poi se n’è andato…”.
“L’avevi
avvisato tu?”.
Ginny
annuisce piano, poi dice: “Ce la siamo visti brutta…
diciamo che volevo che ti vedesse prima che…”, la sua voce si spezza e non
continua, mentre abbassa lo sguardo. Intuisco che sta per dire, prima che morissi… Harry le mette una
mano sulla spalla, sussurrando che adesso è tutto finito. Mi dispiace averli
fatto stare così male, mi ritrovo ancora ad abbassare gli occhi. Dean,
lui… era venuto a dirmi addio…
Di tutte
le voci che ho sentito nel dormiveglia dell’agonia, una mi raggiunge soffice e
morbida le orecchie, assieme al ricordo di un bacio leggero sulle mie labbra.
Era… lui… la mano che stringe la
maglia del pigiama convulsamente, mi ricordo che cosa mi ha detto, e fa un male
atroce. Che mi ama ancora. Che non mi ha
dimenticato… e mi ha chiesto di prendermi cura di me.
Una lacrima
solitaria, scende lungo la mia guancia, morendo contro il mio collo; me la
asciugo piano, smetterò mai di piangere per lui?
D’un
tratto, ho l’impulso di alzarmi dal letto, di correre per le strade e di
arrivare da lui… abbracciarlo forte e promettergli quel ti amo che non gli ho
mai detto. E che non so nemmeno adesso se lo penso, davvero. È la domanda da
migliaia di dollari che non riesco mai a sciogliere.
E le mie
membra, che tremavano dalla voglia di correre da lui, fremono per un po’ e poi
si rilassano contro quella consapevolezza.
Ancora
non si merita questo da me, un contratto sentimento a cui non so dare un nome.
E non
devo andare da lui, solo perché mi manca da morire. O solo perché nelle labbra
l’ombra lieve del suo calore mi ha raggiunto anche attraverso il miasma oscuro
della morte. Dovrei andare da lui, perché lo amo. E io non lo so, se è così.
Anzi… se
devo essere sincera, mi spezza il cuore che lui mi ami ancora.
Una
nuova lacrima, che fa compagnia alla prima e poi ad un paio di seguenti.
Dimenticati di me, Dean, piccolo
amore mio… vivi la tua vita come preferisci… e trova l’amore che io non ti ho
saputo dare.
Ginny mi abbraccia forte, sussurrandomi di non piangere, per
poi dirmi: “Lo sai che ti ama ancora, no? Potresti tornare da lui se lo
volessi…”.
Annuisco
contro la sua spalla, asciugandomi velocemente le lacrime, e poi fingo un
sorriso: “Lo so, Gin… ma davvero, credimi… va bene così…”, non riesco a dire
altro, le parole che mi muoiono in gola, soffocandomi i pensieri. Vorrei spiegarmi,
dire che penso sul serio, che non voglio più farlo soffrire. Ma non ne ho la
forza, davvero… e poi credo che Ginny capisca, infatti
acconsente solidale, e mi accarezza piano la schiena, mentre Harry guarda
altrove, evidentemente in imbarazzo dalle nostre chiacchiere femminili. Mi
viene da ridere, poi mi ricordo che mi ha detto che anche Ron è stato qui.
“Quindi
anche Ronald è stato qui?” chiedo senza allegria, cercando di cambiare pensieri
con un tono di voce neutro… la voce resta ancora astiosa, nonostante tutto,
nonostante la morte che ancora mi alita addosso, rabbiosa per esserle sfuggita.
È davvero più forte di me.
Stavolta è Harry a rispondere, mentre Ginny ride alla mia
faccia: “Sì, è stato qui fin quando ha potuto… o meglio fin quando Lavanda l’ha
voluto… ti stava vicino nel sonno, e
credo che ti abbia anche fatto delle scuse, o roba simile. L’ho sentito da
dietro la porta…”.
“Bravo,
origli!!” lo riprende Ginny.
Lui si
gratta la nuca timidamente, e mi ricorda il ragazzo di tanti anni fa di Hogwarts.
“Tipico
di lui…” commento acidamente “Per chiedermi scusa, doveva aspettare che fossi
quasi morta…”.
Harry
ride di cuore, forse rincuorato dalla mia espressione… la morte ha il vantaggio
di rendere il rancore polvere bruciata sul tuo respiro. E al momento, non
riesco nemmeno a pensare perché ce l’avessi tanto con Ron. Cioè me lo ricordo,
ovvio… e mi dà fastidio. Ma mi fa sorridere stranamente… come se non avesse più
importanza. Certo, resto acida e nervosa, ma ormai è
come se lo facessi per abitudine e per gioco.
Mi
diverte denigrarlo verbalmente, o sbuffare al pensiero di Lavanda.
Ma,
dentro… non so, sembra tutto evaporato. Oramai non mi interessa davvero più
nulla.
Ed è
doloroso, perché so che vuol dire che non mi importa più nemmeno della sua felicità.
In ogni caso, credo di preferirlo all’odio paralizzante che avevo fino a
qualche tempo fa.
Perlomeno…
è più riposante, ecco. Ci mettevo più
energia ad odiarlo.
“Inutile
dirti che anche nel suo caso, se volessi, te lo potresti riprendere…” aggiunge
Ginny con aria saputa, guardandomi di sottecchi, ovviamente fregandosene
altamente della seconda testimone in linea di successione. Ossia la cara LavLav.
Mi stringo nelle spalle, ancora, poi le rispondo con voce
dura, anche se non vorrei: “Gin, la cosa con Dean è diversa… io non posso permettere più al mio
egoismo di farlo soffrire. Al contempo non posso permettere più a
me stessa di soffrire per Ron… ora
basta…”.
Ginny
stavolta non annuisce, in fondo sto sempre parlando di suo fratello, e so anche
che senza troppe allusioni velate, lei ci ha sempre sperato che tornassimo
assieme. La vedo solo sospirare, ed ancora sono contenta di aver finalmente
detto anche questa verità. Piano, sento le barriere che avevo messo tra me e
loro due, crollare grazie alla mia ritrovata sincerità. Ed è bellissimo, perché
mi accoglie un dolce senso di serenità che non provavo da tempo. Se deve andare
così, sempre, allora anche il mese prossimo non prendo la pozione… un attimo,
presa dai miei soliti deliri romantici, mi sono dimenticata la cosa più
importante!! Ma io come faccio ad essere ancora viva??!!!
Alla mia
domanda assolutamente scioccata, Ginny cambia faccia di colpo. Oddio, mi sa di
aver capito… perché non me ne sono stata zitta? In pochi fuggevoli secondi,
Ginny Weasley diventa la personificazione umana di una Strillettera,
recuperando dagli anfratti del suo corredo cromosomico i geni della madre
Molly. Harry si appiattisce contro la parete, presagendo lo scoppio del
fortunale diretto nella mia direzione.
Evito di
riferire la sequela di urla e bestemmie che Ginny mi vomita addosso per non
aver preso la pozione, brandendo persino una spazzola presa dal mio comodino
come un’arma. Nell’ordine sono un’incosciente, una pazza criminale, una ragazza
con gravi disturbi comportamentali ed una che dovrebbe pensare di più alla sua
vita piuttosto che organizzare feste.
“Capito,
mamma!!” urlo quando mi consente di nuovo di aprire
bocca e si adagia contro la sua sedia, respirando affannosamente “Ma tanto per
sapere, come ho fatto a sopravvivere? Mi avevi detto che
sarei morta se non avessi preso la pozione…”.
“Ed era
così, razza di testa di rapa…!”, dopo gli altri gentili appellativi mi spiega
che hanno usato una pozione sperimentale, di sua invenzione, che non sapeva che
effetti poteva avere. Era stato un grosso rischio, ma era la sola maniera per
provare a salvarmi. La cura aveva funzionato, addirittura eliminando del tutto
la ferita. Il problema era che, essendo ricavata dal veleno del Basilisco
stesso, aveva avuto una recrudescenza che aveva rischiato seriamente di
uccidermi; insomma, ero stata in coma per quindici giorni.
Per
fortuna, il mio fisico aveva reagito adeguatamente e mi ero ripresa. Adesso non
avrei avuto nemmeno più la ferita.
Insomma,
avevo finito di assumere pozioni mensili e di preoccuparmi. Ero stata
decisamente fortunata.
Finalmente, anche l’ultima traccia
di Voldemort sparisce da me…
Non mi farà più del male…
Piango
ancora, piegandomi su me stessa, la fronte sulle mie ginocchia, grata al cielo
che, oltre a salvarmi, mi ha concesso di dimenticare finalmente questo incubo.
Dopo anni, davvero, per me… Tom Riddle è
morto.
Il
sollievo che si impadronisce di me, evapora in un attimo al ricordo vago e
confuso della serata che, adesso so, è lontana da me quindici giorni. Una fitta
al cuore, forte, intensa, da spaccare il fiato. Nel contorno di stelle di
quella notte, nel dolore diffuso che si spandeva come nebbia attorno a me,
nella disperazione della fine dei miei giorni che immaginavo vicina… in quel
ricordo straziante e straziato che adesso è alle mie spalle, pregno delle albe
e dei tramonti che vedrò ancora, una cosa si staglia nel velluto nero e cremisi
di quella notte.
Malfoy.
Ed è
urgenza sapere dov’è, quanto sappiano Seth e gli altri della mia condizione,
come mi abbiano coperto e se davvero l’abbiano fatto.
Io non
ricordo bene che sia successo, anzi… ricordo davvero poco. Ma una cosa ricordo
per certo… erba bagnata nel mese di
settembre… vicinissima a me, come se la potessi sfiorare ed inebriarmi di essa…
Sono certa
che mi abbia aiutato. E sono certa che si poteva mettere nei casini per questo.
Afferro
la manica della giacca di Ginny e sussurro: “Gli altri… i miei amici babbani…
che sanno di questa storia?”.
“Tranquilla,
Herm… sanno solo che hai avuto una forte febbre…” mi calma Ginny, sorridendo
“Abbiamo dovuto usare degli Incantesimi, ovviamente… ma purtroppo è stato
necessario…”.
“Capisco…”
mi mordo le labbra, per poi chiedere dispiaciuta: “E chi avete dovuto
incantare?”.
Ginny
conta sulle dita i nomi di Seth, quello
che non sta zitto un attimo, Summer, l’oca
giuliva che sbraitava sullo stato del suo vestito azzurro e Trey, quello che ci proverebbe anche con un palo
della luce, se fosse disponibile.
Sospiro, non ha risposto alla mia domanda.
E come potrebbe se non ho il
coraggio di farla?
Abbasso
gli occhi, torcendomi le mani in grembo, poi mi dò
mentalmente della stupida e sollevo gli occhi, decisa, puntandoli in quelli di
Harry.
Basta finzioni…
“Harry, come sta il mio capo? Come sta Danny?” chiedo senza preamboli, una
sensazione oscura di calore che si irradia per il mio viso. Oddio, sto
arrossendo… ma perché, poi?? Cerco di mantenere il mio
sguardo limpido, guardando Harry ed ignorando l’espressione curiosa di Ginny.
“Ci
tieni molto a lui, vero?” mi chiede Harry con un sorriso tra il triste e il
preoccupato, che poi si stempera quasi in divertimento.
Aggrotto
le sopracciglia con espressione confusa: “Io ci tengo al mio lavoro, mica a lui…”.
“A ok…”
fa Harry perplesso, con voce atona, mentre Ginny interviene: “Io ho nominato
quelli che ho incantato io… al tuo capo, con mio sommo dispiacere, ci ha
pensato Harry… è proprio un tipo interessante…”
conclude trasognata.
“Interessante?!!” scoppio a ridere, piegandomi letteralmente in due alla
faccia nervosa di Harry. Bè credo che dopo anni abbia capito che l’aggettivo interessante usato da Ginny nel
descrivere soggetti maschili, sia un palliativo giustificato dalla sua
presenza. Nel vocabolario Ginny Weasley- Inglese, l’aggettivo interessante trova la
seguente nomenclatura agg. che desta interesse. Utilizzato nei confronti di soggetti
maschili, in presenza di Harry James Potter. Sinonimi: affascinante, attraente,
seducente, sexy, erotico, provocante, eccitante, irresistibile, bonazzo, figo, etc…
Smetto
di ridere, ripensando che lo avrebbe incantato Harry. Sì, come no… come se
Malfoy subisce docilmente un Incantesimo di Memoria, o simili… specie se
comunque lui di me sa tutto…
Guardo
ancora Harry, preoccupata, e lui sorride: “Sta bene, Herm… basta sguardi
corrucciati…”. Il fatto che non mi fornisca altri particolari, invece, mi
inquieta ancora di più. Non me li immagino proprio quei due che parlano
tranquillamente in una stanza, disquisendo sul clima in continuo mutamento o
sulla teoria dell’anello mancante tra uomo e scimmia. Anzi, essendo due ragazzi
e soprattutto essendo sempre Draco Malfoy ed Harry Potter, è più probabile che
abbiano fatto i babbuini in crisi evolutiva e se ne siano date di santa
ragione. Ginny non mi sembra allarmata, quindi deduco che non sappia niente ed
Harry non sembra tumefatto… forse è stato Malfoy a prenderle? Sì, certo… come
se quello le prendesse davvero. Bah, nonostante tutto, nonostante che Harry sia
mio amico da anni e lo leggo in faccia, credo che sarà molto più sensato
osservare lo stato emotivo di Malfoy per intuire qualcosa. Tipo, non so… intuirò che è successo qualcosa se lo
vedo imprecare a ripetizione, spaccare la tazza del caffè a furia di mescolare
lo zucchero con il cucchiaino oppure menare calci alle sedie di mezza casa.
Sì, decisamente
meglio andare da Malfoy. Da qua, non tirerò fuori un ragno dal buco.
Giusto!! Avevo dimenticato qualcun altro… Seth e figuriamoci!! Il gazzettino del Petite Peste… se è successo qualcosa a
Danny, figuriamoci se lui non lo ha magicamente captato con le sue antenne.
Dopo, chiederò a lui… e chiederò anche come è finita la festa, non vorrei
averli lasciati nei guai. Ma soprattutto
farò bene a chiedere se Danny brama la mia morte per aver rischiato di
smascherarlo con la mia dimenticanza suicida.
Decisamente meglio andare da Seth, prima.
Insomma
sono appena scampata alla morte, non ho voglia di incontrare ancora la Vecchia Signora con la falce,
la veste nera e tutto il resto. Si annoierebbe a rivedermi e stavolta mi
prenderebbe davvero. In fondo, le scappo dalle dita da anni… che poi dita, falangi… o come si chiamano le
ossa della mano… quelle del piede sono diverse? O sono uguali?
Ma a che
diamine penso!!! Accidenti a me!!
“HERM!!” mi urla Ginny nell’orecchio, strappandomi dalle mie
riflessioni metafisiche.
“EH!!!” urlo a mia volta, rintronandole le orecchie a mia volta,
mentre Harry ride come un pazzo.
“Hai
capito cosa ho detto???!!” mi tramortisce ancora lei
localmente, mi gratto il mento, negando con il capo.
“Ecco,
appunto… allora, noi andiamo dato che sei fuori pericolo… quindi pensi di
restare qui?”.
“Penso
di sì…”.
“Non sei
per nulla interessata a quel lavoro di cui ti dicevo allora?” mi chiede
affranta e speranzosa.
Al
momento, non so che rispondere. Tornare
nel mio mondo… in fondo, lo so che questo… il Petite Peste è solo una “vacanza”
dalla mia vera vita… mi sono detta che mi andava bene lavorare qui, perché,
in fondo, c’era sempre la condanna e io dovevo comunque trovarmi da mangiare in
qualche modo. Poi che la storia di Malfoy mi aveva messo in crisi e volevo
tempo per pensare.
Ma, alle
parole di Ginny su questo tipo di lavoro, capisco che queste due scuse non
reggono più.
Le ho
chiesto delucidazioni e lei entusiasta mi spiega che si tratta di un concorso
per uditore giudiziario al Wizengamot. Che come premesso non c’entra nulla con
gli Auror, anzi se facessi carriera, potrei persino arrivare ad intraprendere
delle cause nei loro confronti. Non sono vitali, perlomeno nei primi tempi,
delle competenze magiche, sarebbero necessarie solo se
facessi carriera. L’uditore, alla fine, è alla stregua di un segretario e
quindi molti Magonò tentano questa strada e io, al momento, sono loro pari. Nei
due anni della condanna, potrei assolvere a queste
funzioni, facendomi conoscere e apprezzare; terminata la pena, poi, è altamente
probabile che io diventi un membro effettivo.
Inoltre,
essendo stato proprio il Wizengamot ad aver pronunciato la mia condanna,
probabilmente essa sarebbe ridotta in virtù del fatto che io lavoro per loro.
Riprenderei i contatti con i miei amici, lavorerei ancora con Harry, dato che
lui è membro permanente del tribunale essendo il Ministro della Magia, potrei
punire gli assassini dei Malfoy senza tornare ad essere un’Auror. E come loro,
anche altri.
L’unico
problema, se mai per me lo fosse, commenta ridendo Ginny, è che l’esame è molto
difficile e dovrò studiare praticamente ogni legge del mondo magico. E che ci
sarà molta concorrenza.
Sorrido,
mentre lei ne parla ed Harry annuisce vigorosamente con il capo. Harry
ovviamente controbatte un po’ mentre dico che potrei punire anche gli assassini
di Lucius e Narcissa, ma poi aggiunge che a questo punto sa che non mi farà
cambiare idea, e che allora, se sarà ancora così importante per me, lui mi
sosterrà. Lo guardo con gli occhi umidi e annuisco, dicendo che ci penserò.
Con un
bacio per ognuna delle mie guance, i gesti e le parole cariche di speranza, si
congedano alla fine da me.
Harry
deve tornare al lavoro, che ha profondamente trascurato in questi quindici
giorni, ed è in ritardo per l’incontro con il nuovo direttore della Gringott.
Ginny deve ancora fare le valigie per andare a tenere una conferenza a
Beauxbatons sulle tecnologie babbane applicate nel mondo della Magia. Li saluto
con un gesto pigro della mano, che poi ricade sul lenzuolo bianco, non appena
la porta si richiude alle loro spalle.
Hanno
detto che andranno ad avvisare Seth, che dorme in camera sua, che finalmente mi
sono svegliata.
Quindi,
in definitiva, ho solo pochissimi secondi
per pensare…
La mia
mente, allo stadio attuale, è un mare in repentino moto ondoso. Penso a questa
proposta e capisco che effettivamente sarei una stupida a non provare questo
esame, penso ad Harry e Ginny e sono contenta di averli ritrovati, penso a Ron
e mi chiedo se sarò capace di accettare le sue scuse, penso a Dean e mi chiedo
che farò se dovessi capire che lo amo davvero, penso ai miei amici babbani e mi
chiedo come stiano, penso al mio futuro che al momento oscilla in due direzioni
opposte…
… e poi
l’onda lunga che sbatte contro la mia anima e la mia resistenza…
L’onda lunga che si chiama Draco
Malfoy.
Anche se
come sempre censuro i miei pensieri, essi si liberano dalle loro catene per
suggerirmi solo una cosa, ricorrente come la nenia di un carillon rotto. Voglio andare da lui… voglio vedere come
sta…
Anche se
probabilmente mi odia, perché ho messo in pericolo lui e Serenity. Voglio andare da lui… voglio vedere come
sta…
Anche se
probabilmente accetterò di fare questo concorso e non lo vedrò più. Voglio andare da lui… voglio vedere come sta…
Anche
se, nonostante tutto, io non capisco perché ho questa voglia di vederlo. Voglio andare da lui… voglio vedere come
sta…
Anche se
so che non sarà una passeggiata parlare con lui. Voglio andare da lui… voglio vedere come sta…
…
perché, in questo mare pieno di parole a cui non so trovare un nome, brilla
qualcosa di tremulo ed incerto.
Un
ricordo strappato alla mia agonia. A quella sera di cui non ricordo ormai quasi
più nulla.
Voglio andare da lui… voglio vedere
come sta… perché
l’unica cosa che ricordo, a parte il suo profumo, è una sola.
Hermione...
… ed è lui che chiama il mio nome…
Ed ecco a voi il 14 capitolo…!!
Oggi purtroppo sono di corsa quindi ringrazio tutti coloro che hanno recensito
lo scorso chappy, ben 11 persone!!
Un record e prometto ringraziamenti più profusi nel prossimo!!
Scusate… un grazie particolare va alla mamma di Fra Fri 95, incredibile che sia appassionata anche lei alla mia
storia, ne sono onorata!!! J E come
sempre un grazie speciale al mio forum e ai suoi utenti registrati che leggono
in anteprima il nuovo chappy!!
Grazie davvero… mi raccomando se volete anche voi darmi suggerimenti prima che
pubblichi il capitolo, leggendolo in esclusiva, oppure vedere le schede dei
personaggi e discutere sulla mia storia, registratevi nel mio forum http://havealittlefairytale.forumcommunity.net Siete tutti invitati!! Un bacio… Cassie
Dedico questo capitolo a due persone che, ovviamente a
loro modo, mi hanno aiutato a scriverlo.
La prima è la mia carissima Helder
che con la sua frase sull’ispirazione mi ha aiutato a proseguire, quando mi ero
bloccata.
La seconda è Mia Martini, strano a dirsi. Ero bloccata
sulla parte finale di questo chappy ed abbastanza in
crisi. Poi ho ascoltato la canzone “Notturno” di Mia Martini e le parole sono
sgorgate da sole, riempiendomi di serenità e calma.
Al di là della mia storia e del suo valore abbastanza
piccolo, questa cantante è sempre in grado di dare emozione a chi la ascolta.
Grazie, Mia.
Per chi volesse sentire la canzone…
http://www.youtube.com/watch?v=W851tHVRTrk
Avevo
detto di avere pochissimi secondi?
Niente
di più errato! Di secondi, ne avevo soltanto uno…
infatti passa un secondo netto da quando Harry e Ginny chiudono la porta, io
faccio un minuscolo respiro e Seth entra, correndo nella mia stanza, con
Serenity in braccio.
“Piccolina!”
chiamo la bimba che cerca di arrampicarsi sulle gambe del mio letto per raggiungermi.
Sorridendo, mi sporgo verso di lei e la prendo in braccio, facendola sedere
sulle mie ginocchia. Le accarezzo i capelli biondi, annodati in due codini
alti, e lei batte le manine contenta, mugugnando il mio nome. La osservo
attentamente, baciandole il visino tondo, e noto che ogni traccia di varicella
è scomparsa. Effettivamente sono passati quindici giorni, quindi è normale che
ora stia bene… lei ride contenta delle mie coccole, e
mi sento tranquilla nel vederla serena. Ero preoccupata per lei, ma sembra che
sia tornata la stessa. Non ha nemmeno cicatrici, quindi dovrebbero averle
impedito di grattarsi, per fortuna. Come sempre, è la solita bimba felice e stilosa, nel suo vestito bianco con piccoli nastrini blu.
Stesso blu anche per le scarpette di vernice e i nastri nei capelli. Quant’è
tenera!! Forse la stavano portando da qualche parte…
Non
faccio in tempo a sollevare lo sguardo che vengo travolta dal solito fiume di
parole e squittii vari che risponde al nome di Seth Green.
Ovviamente non ci capisco
nulla, e chiudo gli occhi rassegnata, poi mi rendo orrendamente conto di una
cosa, quindi riapro gli occhi e li spalanco contro la sua figura.
“Seth!
CAVOLO! Hai il mio stesso pigiama??!!!” urlo, indicandolo con l’indice.
Lui
finalmente smette di biascicare qualsiasi cosa stesse dicendo, e si tronfia di
sé stesso, spingendo il petto in avanti e mostrandomi la sua veste notturna, un
pigiama di raso identico al mio, solo di colore nero.
“Le
120 sterline meglio spese della mia vita…” dice
sorridendo, facendo una piccola piroetta.
“Quindi,
anche…questo… “ blatero disgustata, afferrando con due dita un
lembo del mio pigiama “… viene dalle centoventi sterline in questione?!”. Lui
annuisce entusiasta, chiedendomi con aria da cucciolo bisognoso di coccole: “Ti
piace? Era una mega offerta, insomma… due pigiami di
raso a così poco! Uno da donna e uno da uomo… ma come
sai, io la fidanzata non ce l’ho, quindi potevo darlo solo a te… che tra l’altro hai passato tanto tempo a letto! Con
tanti ospiti, poi…il tuo ex, quello che se ne è
andato in Francia, quello ancora prima, che ti ha cornificato, l’amante del tuo
ex, insomma, eri imbarazzante con
quel pigiama con i coniglietti rosa… dovevi essere presentabile…e
poi April non lo voleva, che ci potevo fare??!! Lo dovevo buttare, darlo ad un
barbone? Che diamine! Sarebbe stato un enorme spreco! E non mi devi niente,
tranquilla! È un regalo!! Sono troppo contento per chiederti una sola
sterlina!!”.
Fiaccata
dal suo fiume di parole incomprensibili, gli rispondo solo con un cenno del
capo, massaggiandomi le tempie con le dita, mentre Serenity gioca sulle mie
ginocchia. In tre secondi, mi ha fornito un minimo pressoché infinito di
informazioni, di cui quelle più o meno importanti sono che ha incontrato Dean,
Ron e Lavanda.
Spero
che si sentano in colpa, vedendo che pazzi sono costretta a frequentare per merito loro.
“E’
bello che tu sia così elettrizzato
per la mia guarigione, ma…” inizio ma vengo subito
interrotta dalla sua voce gracchiante.
“Chissenefrega che sei guarita!! Io sono felice perché
adesso sei la donna di Danny!!” sorride lui, prendendomi le mani con gli occhi
lucidi di lacrime.
Le
cinque parole Sei la donna di Danny mi
perforano il cervello come una trivella alla ricerca di petrolio, mentre lui
continua a blaterare che certo che è contento che mi sono ripresa ma che in
fondo avevo solo la febbre, non è che stessi morendo…
poi dice qualcosa di incomprensibile a proposito dell’armadietto di Summer che
è grande il doppio di quello degli altri e che lui è il primo nella lista per
averlo.
Io… la donna di Danny!! Ma che diamine sta
dicendo??!!!
Divento
color melanzana matura e gli stringo convulsamente la manica del pigiama; forse
ho sentito male, quindi gli chiedo educatamente di ripetere che cosa ha appena
detto. In fondo sono stata in coma per quindici giorni, può darsi che sono
diventata sorda… ok, va bene, so di aver perfettamente
sentito tutto fino a questo momento, ma può darsi che la pozione di Ginny abbia
avuto un’altra reazione strana… o, che ne so, si è
creata una distorsione temporale che mi ha impedito
di sentire bene che cosa stesse dicendo, che doveva essere una cosa sicuramente diversa da…
insomma, da quella che ha appena
detto.
Tutto
può essere, tranne che abbia effettivamente detto quelleinconcepibili cinque
paroline.
Ma
è quando lui ripete esattamente le stesse identiche parole di prima che salto
in piedi sul letto, gettandogli contro un cuscino e poi afferrando la lampada
del comodino.
“Ma
che cavolo dici??!!! Ti sei impazzito del tutto??!!” continuo a ripetere per
circa dieci minuti, tentando contemporaneamente di prenderlo a calci,
spaccargli il cranio con la lampada e prenderlo a pizzichi con l’altra mano.
Ogni parte del mio corpo è occupata a tentare di inferirgli più male possibile,
ed è quando sto considerando l’idea di utilizzare anche i miei denti che April
apre la porta, spaventata dalle nostre urla e poi terrorizzata dalla scena che
si ritrova davanti. Seth, supino sul letto, che piange implorando pietà e
blaterando che, altro che febbre, dovrei essere curata per la schizofrenia, io seduta sopra di lui con
la lampada in mano e le gambe artigliate attorno al suo bacino, che lo minaccio
di morte se non smette di dire cose inammissibili per una mente logica e
razionale come la mia, per scopi poi che solamente lui sa, e Serenity che
contenta mi aiuta nella mia opera di distruzione dell’essere vermiforme ai miei
piedi, accecandoli gli occhi con i ditini. Piccola bimba geniale!! Mi ha dato
un’idea fantastica!! Devo solo procurarmi degli spilli appuntiti, un braciere
incandescente e dell’urtica dioica… e poi gli farò passare definitivamente la
voglia di dire cose simili!!! Come senso di irritazione, questa frase orribile si colloca a pari merito nella mia hit parade
con le frasi Sei poco elastica e Assomigli molto a Lavanda Brown… anzi,
ora che ci penso, diamine!!! Il primo posto incontrastato se lo prende
altroché!! Che schifo, la donna di Malfoy!!! Mamma mia…
come se mi chiedessero se voglio accoppiarmi con una tigre con i denti a
sciabola, ammesso che riescano a riesumarne qualche fossile ammuffito. E pure
allora, magari ci penserei, per amore della scienza! Ma Malfoy, diamine!! Se si
estingue fa un favore alla società umana e anche quelle marziane, venusiane,
eccetera, eccetera…
“Si
può sapere che sta succedendo??!” chiede sconcertata April, guardandoci interrogativa.
Ecco,
vediamo che ne pensa lei… un po’ più normale è, no?
“Questa
sottospecie di essere umano… “inizio con il fiatone, continuando a pestare Seth
con il peso del mio gentile e leggero corpicino, per poi indicarlo con il mio
indice accusatore “… ha appena detto che io sono la donna di Ryan!!”.
Ecco,
adesso anche April vomita! D’accordo, magari non vomita, perché lei almeno
Malfoy lo vede…
bellissimo, cielo, Draco è bellissimo…
…
e questo cosa era? È la miavoce… cioè nel senso… è un mio
pensiero, lo sento, un…ricordo... ma quando l’ho pensato??!! No, no, devo essere impazzita… quando mai ho detto o solo pensato una cosa simile??!! Deve essere stato Seth…
o April che lo vede abbastanza accettabile… ma io, io
no… non è possibile…
Un
attimo…solo io
so che Danny Ryan si chiama Draco Malfoy…
Ma
che cosa sta succedendo, maledizione??!!!
Il
fatto che sia successo qualcosa di strano, trova conferma cinque secondi dopo.
Ed
inizio decisamente a preoccuparmi.
Forse sono ancora in coma…
April
non vomita, non scoppia a ridere e nemmeno guarda Seth con aria interrogativa,
sorpresa o perlomeno colpita.
Guarda
me con espressione interrogativa,
sorpresa o perlomeno colpita!!
E
poi dice con estrema naturalezza: “Ma perché, scusa, non è vero?”.
“Visto??!”
mugugna Seth, cercando di liberarsi, e ci riesce data la mia espressione da tonno
in salmì e il fatto che sono diventata un pezzo di ghiaccio. Guardo ad occhi
sbarrati prima Seth stesso, che si massaggia con aria sofferta la schiena, e
poi April, che mi fissa preoccupata appoggiata alla porta. Qua, decisamente c’è
qualcosa che non va…calmiamoci…
ora con un po’ di sano raziocinio ne verremo fuori…
“SETH!!!
CHE DIAMINE E’ SUCCESSO!!!!!!” grido con tutto il fiato che ho in corpo. Il
sano raziocinio, con gli occhioni lucidi per il dolore, si carica il suo bel fagottino
sulle spalle e parte alla ricerca di forme di vita nella galassia di Andromeda.
Serenity
si spaventa ed inizia a piagnucolare, quindi cerco di calmarmi un pochino e di
respirare profondamente. Accarezzo il viso della piccola e poi sibilo con un finto
sorriso: “Ora, o mi spiegate che diamine è successo, oppure faccio una strage
degli innocenti…”.
Seth,
spaventato dalla mia espressione, si affretta a rimettersi seduto con April
accanto che mi guarda a sua volta sconvolta, forse aspettandosi che la mia
testa inizi a ruotare di 360° come nei film dell’orrore.
“Herm…”
inizia Seth con aria accondiscendente e cospiratrice “Insomma…
io, vi ho visti…
alla festa… non so, magari lo volevate tenere
nascosto, in fondo Summer c’è sempre, ma adesso che ti sei svegliata, magari…”.
“Ci
hai visti fare cosa, Seth??!” chiedo, quasi terrorizzata con un filo di voce.
Più mi sforzo e più non ricordo niente di quella sera. Cerchiamo di mettere ordine:
sono uscita in terrazza e c’era Malfoy, mi sono accorta che la luna non c’era e
la ferita ha iniziato a sanguinare, ho visto Voldemort…
non so come, la visione è finita, c’era Malfoy, ma da quel momento in poi sono
solo frammenti confusi. Il dolore, l’odore del sangue, il vento freddo… il profumo
dell’erba bagnata… e vabbè,
d’accordo, il dannato profumo di Malfoy! E poi basta…
Seth
prende fiato con terrore, prima di aprire bocca, lapidario, con il tono di chi
teme lo scoppio di una bombola di gas.
“Herm…
io vi ho visto sulla terrazza… e vi stavate baciando…”.
Guardo
Seth come se fosse una specie di animale strano che se ne stesse in piedi su
tre zampe.
“Baciarci?!”
chiedo sconcertata, aggrottando la fronte “Avrai sognato, no? Ti sarai
abbioccato alla festa… può succedere…”.
Sorrido con aria comprensiva, mettendogli una mano sulla spalla.
“Non
mi sono addormentato!!” mi contraddice lui con cipiglio ostinato “E se anche
avessi sognato, avrei sognato me che
baciavo Danny, non te… senza offesa, ma non sei una
mia fantasia erotica ricorrente…”.
Respingo
il conato di vomito che mi è uscito a pensare a quei due che si baciano e
continuo imperterrita: “E allora avrai visto male…
forse eravamo vicini e ti sei sbagliato… perché non
ricordo nulla del genere…”.
“Davvero,
Herm? Non ricordi nulla?” mi fa April, forse iniziando a capire che non sono
pazza del tutto, e guardando con tale faccia invece Seth, che continua stoico:
“Io so che cosa ho visto… ed era voi due che facevate
fare alle vostre lingue stretching…”.
“Ma
che schifo!!” urlo inorridita, tappando le orecchie a Serenity.
“Bè dai a me così schifo non farebbe…”
ride April, appoggiandosi al muro accanto al mio letto con espressione sognante.
“A
me sì… da morire…” borbotto
facendo una smorfia “Dopo che vedi un ragazzo ad undici anni con i capelli
impomatati di gel, ti passa qualsiasi pensiero su di lui da adulto!!”.
“Lo
conoscevi così piccolo? Ma non avevate fatto solo il liceo assieme?!” chiede
colpita April, guardandomi con curiosità.
Sono
peggio della rana dalla bocca larga, accidenti a me!
“Una
fotografia…” spiego sinteticamente, sperando di
cavarmela.
Per
fortuna Seth riprende con i suoi deliri, distogliendo l’attenzione di April:
“Io vi ho visti baciarvi, ne sono sicuro!”.
Finalmente
April guarda lui come un pazzo malato di mente, e gli dice con tono di voce
ovvio: “Ma, scusa Seth, non credi che Hermione se ne ricorderebbe?”.
“E
non credi che Hermione si sarebbe già suicidata?” completo io, roteando gli
occhi. Baciare Malfoy, sì come no… come baciare un
boa costrinctor, ma non diciamo idiozie. Chissà che idea si è fatto Seth per
cui gli converrebbe mettere in giro una voce del genere…
forse vuole liberarsi definitivamente di Summer, o chissà cosa…
e poi dubito fortemente che a Malfoy venga qualsiasi pensiero di quel tipo nei
miei confronti. Lui non mi vuole, invece.
Trasalgo, mentre Seth continua ad inveire contro le argomentazioni di
April; mi stringo ferocemente la mano in petto, ancora il ricordo di un
pensiero che non so quando ho avuto. Indubbiamente, sento nella mia mente i
residui di un mare feroce di pensieri e di sensazioni che devo aver provato la
sera della festa; ma sono sepolti, come braci ardenti sotto la cenere. Non
riesco a ricordare nulla, per quanto mi sforzi… e se davvero…? Naaah, figuriamoci, Malfoy mi avrebbe già sbattuto fuori a
calci.
“E
questa brillante storiella a chi l’avresti raccontata?” chiedo, con un sospiro,
a Seth.
“Questa
verità! Non storiella!” piagnucola lui, afferrandomi il braccio e stringendolo
forte.
“D’accordo… questa brillante
verità a quante persone l’avresti raccontata?!” concedo con un sospiro,
presagendo il resto.
Lui
conta sulle dita April, ovviamente; Trey, che secondo lui si sarebbe messo a
piangere; Lawrence, che avrebbe alzato le spalle in modo insensibile, dicendo che doveva spinare il salmone; Gail,
che ha iniziato a fornirgli le statistiche di distruzione delle spore dei
funghi ad opera di baci troppo appassionati; Corinne che è esplosa in gridolini
invidiosi e Lorna che ha subito chiesto se poteva avere l’armadietto di Summer.
Prima
che mi dica che razza di battibecco ha avuto con quest’ultima per sto
stramaledetto armadietto, erompo nervosa: “Insomma, l’hai detto a tutti?! E con
che razza di faccia io dovrei scendere, dopo?!”.
Lui
fa spallucce e risponde: “Non è che hai baciato Freddy la Pustolaumana…!”.
“E
chi è?” chiede curiosa April.
“Uno
che veniva con me alle medie…orribile…
un ragazzino lebbroso, secondo me… pensa che alla
festa di Sharon Tingle, quella della 3° A, ebbe il
coraggio di…”.
“Stavamo parlando della mia vita??!! O mi sbaglio??!” interrompo educatamente,
menandogli uno scappellotto nelle costole.
“Ahia!”
piagnucola lui, per poi riprendere ostinato: “E dalle! Hai baciato Danny Ryan,
metà della popolazione mondiale vorrebbe essere al tuo posto, e tu te la prendi!
Sei assurda! Magari c’ero io al tuo posto! L’esemplare maschile più attizzante
della Terra e ti lamenti!”.
“Mi
lamento perché non è vero che l’ho baciato!! E poi che diamine, attizzante…”
rispondo disgustata, lasciando cadere le braccia “E poi, scusa, se ti
piacerebbe così tanto baciarlo, che interesse hai a fare tanta pubblicità al
fatto che lui avrebbe baciato me? Ammesso e non concesso che sia vero…”.
L’espressione
di Seth cambia all’improvviso, da scanzonata e piena di luce com’era prima,
diventa malinconica e triste, e lo vedo stringersi nelle spalle con impaccio,
quasi come si vergognasse tutt’un tratto. Mi sento in colpa per quello che ho
detto, e mi porto la mano alla bocca, abbassando lo sguardo. April mi lancia
uno sguardo d’intesa, evidentemente ho passato il limite. In fondo, lo so che
Seth è innamorato di Malfoy… non deve essere bello
essere logorati dal desiderio per una persona che non ti vorrà mai. Deve essere
terribile… ma allora perché vuole così tanto che io stia
con lui? È un controsenso, no? L’amore alla fine diventa possesso, e tu vuoi
tutta per te una determinata persona. Perché lui invece, no?
“Scusami
Seth…” mormoro alla fine “Ho esagerato…”.
Lui
scuote il capo con un sorriso, poi mi poggia una mano sul ginocchio e mi guarda
intensamente, prima di dire: “Non hai esagerato, hai detto solo la verità… sai
cosa, Hermione? Credo che, quando vuoi davvero bene a qualcuno, vuoi solo che
lui sia felice… anche se non dovesse essere con te.
Io voglio molto bene a Danny… e so che non è felice.
Lo vedo, lo percepisco nei suoi silenzi, nelle sue parole mozzicate, nei suoi
gesti affrettati. Danny non è felice, non è felice con Summer…
lo è solo con Serenity…”.
Getta
uno sguardo alla bambina tra le mie braccia, e sorride con malinconia, prima di
continuare. Io stringo più forte la piccola, incapace anche solo di respirare,
mentre lui parla ancora: “Ma Serenity è una bambina…
non può dargli quello che cerca. Ed un giorno, nemmeno tanto lontano, avrà
bisogno di una mamma… e Summer non può esserlo. Lo
sai meglio di me, no? Ma al di là di Serenity… Danny
ha bisogno di qualcuno che curi il suo cuore; credi che non veda quanto dolore
porta dentro? Quanta rabbia? Quanto rancore? Che non racconti la sua vita, non
cambia nulla… il suo dolore è tangibile, quando lo
guardi negli occhi ti sembra di toccarlo… e ne resti
travolto, sembra che prenda in pieno anche te…”.
Annuisco
senza volere, stringendomi nelle spalle. Gli occhi di Danny…gli occhi di Draco…
la malinconia di perdere qualcuno che amano, il dolore per chi ha già perso,
l’odio per sé stesso… come scordarli? Restano nei
tuoi, incastonati come diamanti morti.
“E
io sogno solo il momento in cui il suo sguardo torni leggero, Herm…” sorride
lui “Anche se non fosse con me… per me… plaudirei a quel miracolo e sarei solo felice…”.
“E
io che c’entro con tutto questo?” bisbiglio sottovoce “Io non ho questo potere…”.
Lui
sorride con aria saputa, e mi accarezza i capelli come se fossi un cucciolo
spaventato.
E
lo sono…spaventata…
Terrorizzata,
le mie membra tremano di una paura che non so spiegarmi e che non so
controllare. E che discende dall’arcano segreto ancora sigillato nella mia
mente. Improvvisamente, non so come, so che Seth non stava scherzando. Sul
bacio.
Non
poteva star scherzando.
Non
poteva star scherzando, mentre mi
guarda e mi bacia dolcemente la guancia. Quando torna a guardarmi, sento
distintamente oltre lo schermo della sua pelle il fragore cristallino del suo
cuore che si è spezzato. Quel cuore che continua ad amare, non corrisposto, il
suo Danny.
Quel
cuore, che ora, non so come e non so perché, affida la salvezza dell’anima di
Danny a me.
Quel
cuore che apre la sua bocca in un bisbiglio doloroso e, nonostante tutto,
luminoso di calore.
Quel
cuore che fa sgorgare un sorriso che finge la felicità che vorrebbe avesse
Danny.
Quel
cuore puro che gli fa dire con semplicità delle parole che mi sconvolgono.
Delle parole che sono persino peggio de La
donna di Danny.
“Hermione, piccola… se ti ricordassi quel bacio, sapresti che quel
meraviglioso potere ti è stato destinato da tutta la vita…”
Mi
sporgo oltre il comodino per guardare l’orologio, appeso al muro della mia
camera. Nella penombra della notte, distinguo con fatica le lancette segnare le
due e un quarto del mattino. Mi accascio nuovamente sul letto, un braccio
piegato sugli occhi insonni, e mi volto sul fianco, gettando lo sguardo alla
finestra, da cui filtra la tenue luce ambrata dei lampioni in strada. Un
piccolo soffio di vento fresco mi raggiunge il viso e rabbrividisco nel mio
pigiama di raso, allungo una mano alla ricerca del lenzuolo; sospiro e alla
fine lo lascio dove sta. Se non riesco a prendere sonno, a che cosa mi serve la
coperta come se stessi placidamente per rimettermi a dormire?
Mi
stendo ancora, stiracchiandomi.
In
fin dei conti, sono giorni che dormo ed è normale che ora io non abbia sonno. E
Ginny comunque mi ha detto che come effetto collaterale della sua pozione, per
i primi giorni, avrei avuto difficoltà a dormire. Niente di preoccupante e
nemmeno di così invalidante, poi; ho il forte sospetto che, se dormissi, potrei
avere degli incubi. Voldemort, le cose che mi faceva,
insomma… è da parecchio che non mi accadeva ed è
chiaro adesso che mi tengano sveglia…all’allerta, insomma.
Sospiro.
Balle…colossali…
Almeno
posso essere sincera con me stessa.
Queste
motivazioni saranno anche vere ed incontrovertibili, ma non è per questo che mi
rigiro nel letto da ore.
Non
dormo perché sto pensando alle parole di Seth.
“Hermione, piccola… se ti ricordassi quel bacio, sapresti che quel
meraviglioso potere ti è stato destinato da tutta la vita…”
Si
sono incastrate nella mia testa e non vanno più via, ripetendosi a ciclo
continuo come un disco rotto. Il potere di far sorridere Danny…
il potere di rendere il suo sguardo leggero… un
potere a cui, inconsciamente, forse ho anche pensato, ma che vedevo come un
qualcosa di talmente lontano da non apparirmi nemmeno per un momento nella mia
sfera di riflessione.
Quando
Malfoy mi ha raccontato la sua storia, quando mi ha detto dei suoi… io ero stata contenta che almeno avesse Serenity.
E
magari, vedendolo nei giorni successivi, mi ero sempre ritrovata senza
accorgermene a chiedermi se mai, un giorno, si sarebbe liberato da quei
fantasmi che lo circondavano, se mai avesse avuto di nuovo una voglia di vivere
diversa dall’inerzia che sembrava contraddistinguerlo.
Seth
ha ragione.
Malfoy
non è felice, ed è evidente in ogni cosa che fa.
Non
fa mai programmi oltre i due giorni. Si chiude nella sua stanza per ore. Non
dedica mai attenzione a nulla di nuovo.
Vive
solo per Serenity.
E
Summer… non è d’aiuto. Qualche volta, la bacia, ma
mai con eccessiva attenzione… come se lo dovesse fare
per un qualche dovere che si è imposto.
Naturalmente,
posso aver pensato al potere di renderlo
felice, se non altro per pura comprensione umana. Credo, o spero, che sia normale…
ma sicuramente esso non è nelle mie mani. Io posso rendere Malfoy irritato,
arrabbiato, smanioso di innescare una strage, ma non…
Felice…
Insomma,
lui con me tutto è tranne che tale.
Ma
Seth, invece, dice il contrario. E su che basi, poi?
Un
bacio. Un dannato bacio che io non ricordo. E che chissà se c’è stato.
Seth
non è nuovo ad inventare piani del genere. Se si è convinto che io ho questa
capacità, potrebbe anche essersi inventato di sana pianta della faccenda per
darmi una prova concreta.
Ma
era così serio… possibile che si sia inventato questa
storia perché vuole convincermi che sono io ad avere questo potere di cui parla?
Non
lo so, ormai non so più nulla.
Non
appena Seth ha lasciato la mia camera, mio malgrado, non ho più smesso di
pensare a questa storia.
La
mia mente si è completamente paralizzata in questa riflessione continua,
lasciandomi assente alle parole di Lorna, Corinne e Gail che sono venute a
trovarmi. Non riuscivo a sentire che cosa avessero da dirmi, specie dopo aver
negato che il famoso bacio con Danny ci fosse stato.
Ammesso
e non concesso che ci sia stato, non voglio certamente che lo sappia mezzo
mondo.
Anche
perché dubito che sia stato così romantico e tenero…
forse mi hanno sedata… o comunque io stavo morendo,
cosa difficile da spiegare a Seth, qualora la cosa si rivelasse vera.
Ovviamente
le ragazze, vista la mia smentita, hanno perso interesse per me e hanno
continuato a ripetere le loro lamentele lavorative; ho annuito con il capo di
tanto in tanto, fingendo che stessi ascoltando. Ma non ho ascoltato nulla in realtà… mi sono persa nel seguire il mosaico che la mia
memoria faticosamente ricostruiva.
Andate
via loro, chiusi gli occhi, migliaia di particolari vividi sono fioriti sotto
le mie palpebre chiuse a ingarbugliare ulteriormente la mia mente.
E
tutti riguardano Malfoy.
Una cicatrice sul
sopracciglio sinistro.
Una fossetta quasi
buffa sul mento.
L’attaccatura dei
capelli alta.
Il ciuffo di capelli
biondi che costantemente gli copre la fronte.
Gli occhi grigi…quegliocchi… che sono sempre un po’ tristi, e che
guardano sempre con un velo di malinconia ciò che lo circonda, come se temesse
sempre di perderlo.
Ogni
particolare è netto, distinto, chiaro. Come qualcosa vista da vicino. Come il viso di qualcuno che effettivamente
mi stava baciando.
Sospiro,
non ho nemmeno la forza di negare mentalmente. Anche perché, al di là del
bacio, se ci sia stato o no, esso sarebbe facilmente liquidabile:
1.Malfoy
mi ha preso in giro.
2.Era
ubriaco.
3.Ero
ubriaca, io.
4.L’ho
scambiato per Dean.
5.Ero
in agonia.
6.eccetera,
eccetera…
Sì,
insomma… un bacio non è necessariamente un atto
d’amore. Può essere fatto per migliaia di motivi, anche se è difficile attribuirne
uno a me e Malfoy. La cosa mi sconvolgerebbe, certo, ma sicuramente avrebbe una
spiegazione logica.
Non
deve essere stata nemmeno un’esperienza piacevole, tant’è che l’ho rimossa. Eppure…Seth… che cosa avrà
potuto equivocare? Al punto di dire una frase simile? Una frase così forte, poi… pensa addirittura che io sia la donna giusta per
Malfoy e che lo sia da tutta la vita… così potente è
stato sto bacio, se mai c’è stato? E allora perché io non lo ricordo?
Sospiro,
come mezz’ora fa, un’ora prima e le dodici ore precedenti, non c’è risposta a
queste domande. So solo che, nel silenzio della mia stanza, io continuo a
vedere gli occhi di Malfoy che si avvicinano a me e nelle mie orecchie passa il
solo frammento che la mia mente mi ha lasciato… lui che
mi chiama per nome…Hermione…ancora nella mia schiena
passa un brivido freddo, e poi caldo, a quel pensiero.
Mi
alzo dal letto, decidendo di andarmi a preparare qualcosa che mi aiuti a
dormire. Ginny mi ha lasciato un po’ di valeriana in gocce, per contrastare gli
effetti collaterali della pozione; se la prendo con un po’ di latte caldo,
sicuramente non dovrò più avere problemi ad addormentarmi. E in quanto a Malfoy… non ci cavo un ragno dal buco, continuando a
ripensarci. Domani mattina si vedrà. Non appena lo vedrò, capirò immediatamente
che cosa è successo sia con Harry, che tra me e lui; se mi ha baciato, la sua
faccia sarà inequivocabile. Forse sarà anche coperto di piaghe…
rido mentalmente a quel pensiero, respirando profondamente, anche se il fremito
del mio cuore continua a frastornarmi le orecchie e a darmi le vertigini.
Attraverso
la mia camera e apro cautamente la porta, il salotto è avvolto nel più profondo
silenzio. Dalla porta socchiusa della camera di Seth, mi giunge il suo elegante russare. Sorrido e mi incammino
verso la porta silenziosamente, ci manca solo che si svegli e che inizi a
blaterare altre teorie assurde, tipo che Serenity in realtà è figlia mia e di
Malfoy e che non ne sono cosciente.
Apro
la porta d’ingresso al nostro appartamento, accostandola subito dopo. Faccio
solo un passo, prima di fermarmi immobile sul pianerottolo, una mano artigliata
sul pomello della porta. Nell’oscurità, stringo gli occhi a guardare la porta
dell’appartamento di Malfoy. Per un attimo, lo immagino oltre quella soglia; in
quella stanza che io non ho mai visto. Lo immagino dormire... e già un attimo
dopo, quella visione cambia. Il ricordo dei suoi occhi, me lo fa immaginare
sveglio, lo sguardo perso su Serenity addormentata oppure fisso nelle luci
della notte, il silenzioso buio che lo avvolge e cattura.
Da
quello che mi è sembrato di capire dalle parole di Seth e di April, non
permette a nessuno di entrare nella sua camera, tranne ovviamente a Serenity.
Nemmeno Summer può entrarvi… chissà perché…
Come in ogni cosa
della sua vita, non permette a nessuno di entrare.
Non
l’ho ancora visto, da quando mi sono svegliata…
magari è arrabbiato con me e aspetta solo di licenziarmi. Non che mi importi
molto, in fondo… probabilmente tornerò a lavorare nel
mondo della Magia, no?
Già,
chissene… però, avrei voluto perlomeno scusarmi, se l’ho
messo nei guai.
Seth
mi ha detto che non lo vede da giorni, ha passato qualche giorno fuori città
per lavoro ed è tornato solo ieri sera.
Grande considerazione… io stavo lì a morire e lui se n’è andato… ma di che mi sorprendo in fondo? Sempre di Malfoy
stiamo parlando…
Ora
che ci penso, quanto prima me ne vado da qua, meglio è…
Seth ed April posso vederli anche indipendentemente da questo lavoro, e la presenza
di Malfoy è diventata decisamente tossica. Alzo il mento altezzosa rivolta alla
porta chiusa, figuriamoci, scusarmi con Malfoy, ma andasse a quel paese… mi incammino verso le scale, scendendole cautamente,
appoggiandomi al corrimano. Attraverso la sala ristorante che è vuota,
ovviamente, e buia, e riesco a tentoni a raggiungere la cucina. Trovo
l’interruttore e accendo la luce, preparandomi un po’ di latte e sciogliendoci
dopo qualche goccia di valeriana. La sorseggio piano, appoggiata allo stipite della
porta; così vuota la stanza mi fa quasi paura, sono abituata a vederla sempre
piena di gente affaccendata, con Lawrence che impartisce ordini a destra e
sinistra, ed ora mi fa quasi impressione. Inoltre fa un caldo qui dentro… mamma mia… mi asciugo la fronte
con fastidio, poi penso che posso sempre andare sul tetto. Almeno prendo un po’
di fresco… persuasa dalla mia decisione, spengo la
luce e risalgo la scala all’incontrario, superando il piano dei nostri
appartamenti per arrivare sul tetto.
Apro
la porta piano e la socchiudo subito dopo; lo spettacolo delle luci di Londra
mi accoglie meraviglioso come lo ricordavo, assieme ad un fresco venticello
notturno che mi dà ristoro. La luna è tornata piena dall’oblio dei miei giorni,
sembra il viso di una bambina felice, e ricopre d’argento tutta la città; a me
la luna piena mi ha sempre dato una sensazione di calma e di serenità
meravigliosa.
Mi
sento tranquilla, nella certezza che non possa accadermi nulla.
Era
con la luna piena che i Mangiamorte non ci attaccavano perché erano troppo
visibili.
Era
con la luna piena che Ron restava accanto a me di notte, perché temeva che
qualcuno lo vedesse, mentre andava da Lavanda.
Era
con la luna piena che Dean si metteva sulla terrazza a guardare il cielo e
cianciava sul fatto che fosse imparentato con Neil Armstrong, facendomi
sbellicare dalle risate.
Era
con la luna piena che io guardavo il cielo e mi tranquillizzavo, perché la
ferita non avrebbe sanguinato.
Socchiudo
gli occhi, pregustandomi quel piacere e quei ricordi lontani. Oggi, sotto
questa luna chiara, improvvisamente fanno anche meno male. Danno solo uno
strazio dolce nel cuore, ovattato dalla luce bianca e nebulosa, dolore di
sottofondo che vibra della vita che comunque sono grata di avere, dopo aver
rischiato seriamente di aver perso ricordi e sogni futuri.
Il
silenzio assoluto è rotto solo dal frinire delle cicale e dall’eco della musica
dance di qualche locale lontano, portato dal vento. Un aereo notturno scivola
nel velluto nero, e penso a quante vite sono su questa terra, correndo e
affaccendandosi per dare un senso a sé stessi. Vite che amano, sognano, odiano
e ridono, e piangono, e si arrabbiano, e mi dà una sensazione sconfinata di
piacevole tristezza.
Sempre
con gli occhi chiusi, faccio qualche passo, poi mi fermo immobile nel centro della
terrazza, rabbrividendo per il fresco nel mio pigiama leggero; tengo stretta la
tazza calda tra le mani ed essa mi dà un piacevole calore.
Mi
ritrovo a sorridere come una scema, sempre con gli occhi chiusi, la meraviglia
di questo sogno.
Apparentemente
stasera è tutto a posto.
Riapro
lentamente gli occhi, sempre sorridendo, incapace di farne a meno.
E
gelo su me stessa, interrogativa.
Occhi
di ghiaccio nei miei.
Draco.
Quando
cavolo è arrivato????
È
fermo immobile davanti a me, ad un solo minuscolo passo da me. Ha l’aria
stanca, i capelli biondi spettinati dal vento e la camicia bianca che si gonfia
un po’. Mi scruta il viso alla ricerca di chissà che cosa.È…diverso… il suo
sguardo è diverso. Non so in cosa, ma lo è… mi
stringo le spalle, a disagio, cosciente di non riuscire ad aprire bocca e dire
qualsiasi cosa. Mi guarda e basta, le labbra semisocchiuse, in attesa. In
attesa, di cosa? Persino la sua mano è leggermente tesa, come se la stesse
sollevando, ma poi si fosse fermato ed essa si fosse congelata. La seguo con
gli occhi ricadere lungo il suo fianco, come il vessillo di una nave che batte
bandiera bianca.
Che si arrende.
Lo
guardo, senza capire. Che cosa vuole? Brividi come cascate di gocce minuscole e
roventi sfuggono sulla mia schiena.
E
ciò che è più grave, se mai ce fosse bisogno, è che non riesco a smettere di
guardarlo.
Sono
immobile su questa terrazza, la tazza che diventa bollente nelle mie dita
ghiacciate, il vento che mi agita il viso e un calore assurdo che mi travolge
come un’onda calda; e la sola cosa che so fare è non smettere di guardarlo.
Perché?
E
lui… e lui, lo
stesso. Perché?
Distogliere
lo sguardo dai suoi occhi, che mi guardano quasi curiosi, mi sembra al momento
il peggiore peccato di cui si può macchiare un essere umano.
Resto
anche io nell’attesa che qualcosa si compia, anche se non so che cosa.
Saranno
pochi secondi, lo so, ma sembrano eterni. Dannatamente eterni.
Basta,
mi devo riprendere! Non posso lasciare che sia lui per primo a parlare,
dannazione! Farei la figura della scema!
Che
posso dire?! L’ho già chiarito mentalmente che non ho grandi argomenti di
conversazione con lui…
Bah…
devo dire qualcosa, accidenti! Quanto tempo sarà passato??! Forse troppo… e ora magari mi prende in giro e scoppia a ridere!!
Non
posso permetterlo, no, no!!!
Fatemi
pensare, maledetti occhi grigi, se
davvero devo parlare, vorrà dire che gli dirò naturalmente qualcosa di cattivo e sgradevole.
Come
consuetudine, no? No? NO???!!!!
Gli
dirò qualcosa tipo…
Non smettere di baciarmi…mai…Draco…
Ti prego… non farlo…
Sgrano
gli occhi, terrorizzata, ed istintivamente faccio un passo indietro, e poi un
altro ancora, ed un altro. Mi allontano, incespicando, le mani che fanno
tremare innaturalmente la tazza che ho tra le dita.
“Granger
che hai?” mi chiama lui, piano, riscuotendosi e guardandomi con la testa
inclinata di lato.
Ad
ogni passo indietro, ad ogni centimetro che metto tra me e lui in questa mia
ritirata assurda, qualcosa mi colpisce al cuore come un calcio bel calibrato.
Ogni cosa perde definizione, come i contorni di un quadro bagnati dalla
pioggia, e non so se sono io che sto piangendo, o è il mondo che se ne va
assieme a me.
Non sono qui.
Sono
a giorni fa, sotto un cielo nero come la pece, preparandomi a morire.
Sono
il sangue che impregna il mio vestito. Sono la lacrima che scende dalla mia
guancia e muore lungo il mio collo. Sono il grido che fende l’aria mentre Voldemort cerca di violentarmi.
Sono
la luce che mi porta indietro.
Un
altro passo indietro, mentre mi ritrovo a piangere, schiacciata sotto
un’emozione che ogni secondo diventa più intensa e mozzafiato.
Come
una scarica elettrica, ad ogni passo indietro, ricordo qualcosa.
Seth
sulla porta.
Il terrore per lui… per Draco…
Lui
che si finge… che si finge…occupato.
Il
bacio…
Il bacio…ora ricordo il bacio. La
violenza che vi sentivo, il senso di impotenza… io
che cerco di liberarmi…
Un
altro passo indietro, mentre lo guardo carica di rabbia, le lacrime che
scintillano nei miei occhi.
Mi
ha costretto a baciarlo… e dove cavolo la vedeva Seth
quella…cosa?
Lui
mi guarda, senza capire, le sopracciglia sottili aggrottate, forse pensando che
sono impazzita.
So
che sto per dirgli.
Ti odio Malfoy.
Un
altro passo.
Un
altro ricordo.
Una
lacrima che scende.
Come
il guizzo di un pesce argenteo nell’acqua trasparente, scompaiono e ricompaiono
come la marea i suoi occhi che mi guardano tristi. La sua mano che sfiora la
mia guancia bagnata, come adesso.
Lui
che diventa triste… e non c’è bisogno di un manuale
d’istruzioni per capirlo. È l’espressione che ha sempre quando, per un secondo,
si incanta a guardare Serenity. Scuote il capo, poi, e torna ad indossare la
sua maschera.
Quel
giorno… lui mi guarda meravigliato di tristezza. Capisce che sto piangendo.
E
poi… mi si spezza il cuore, ne sento il vuoto
espandersi nel mio petto. Sono di nuovo lì, nel nostro bacio che cambia…
Le
sue mani su di me, le labbra calde e posate leggermente sulle mie… ed io che lo voglio, da impazzire.
Un
altro passo, e sono in trappola. Trovo la porta della terrazza sulla mia
schiena.
Ho finito di
scappare.
Sotto
i suoi occhi che ancora mi fissano sconcertati, ogni pezzo torna a posto. Per
così dire. Assieme ad ogni ricordo.
Io
che lo voglio… io che mi ritrovo a desiderarlo come
non ho mai desiderato niente nella mia vita.
Essere Auror. Tornare con Ron. Amare Dean. Tornare una strega.
Non
valgono niente, sono tutte paccottiglie di poco valore. Sono tutta disciolta
nel senso di averlo ancora tra le mie braccia.
Tutta
la mia anima è avviluppata come un nastro rosso attorno a questo desiderio.
Tutta
la mia mente brucia come carta, disperdendosi nel vento, nel fuoco di questo
pensiero.
La
tazza cade rovinosamente dalle mie mani, frantumandosi in mille pezzi.
Voglio
che continui a baciarmi per tutta l’esistenza, che finisca il tempo e lo
spazio, ma che lui non smetta. Che bruci la città ed anneghi il mondo, ma che
lui non smetta. Nelle mie vene, il ricordo del fuoco, un’arsura che lui
rinfresca per un attimo, illudendomi di essermi assetata ma che mi uccide poco
a poco, lasciandomi riarsa e svuotata.
Lo
sento qui, dentro di me, come se avessimo fatto l’amore e ora sapessi ogni
particolare di lui, a memoria. E ci siamo solo dati un bacio a stampo… tremo, mentre brucia come carta Malfoy, il piccolo
principe che incontro nel treno per Hogwarts, il
ragazzino arrogante che disturba la lezione, il purosangue che mi insulta sul
campo da Quidditch, l’individuo insensibile e
maleducato che schiaffeggio al terzo anno, il ragazzo elegante che balla con Pansy Parkinson, l’aspirante assassino che geme sulla Torre
d’Astronomia, il Mangiamorte che passa dalla nostra parte, il pentito che
piange nella nostra cucina a GrimmualdPlace.
Come
una lingua di fiamma sottile, penetra nei miei ricordi, incenerendoli passo
dopo passo.
Non resta più nulla.
Perché…io…ormai… se lo guardo, vedo solo Draco. E non vedo più
Malfoy. Non riuscirò nemmeno più a pronunciare a voce alta il nome Malfoy, mi
sembrerà sempre così maledettamente strano nelle mie labbra, mentre lo associo
al suo viso, alle sue labbra… e ai suoi occhi. Anche
ora che lo guardo in questi suoi occhi quasi spaventati, io so pensare solo… Draco.
E
io… che cosa sono, oggi?
Sono
una donna babbana come tante, come quelle che volano
nel cielo su un aereo, dando un senso alla propria vita.
Non
so nemmeno se sono ancora Hermione Jane Granger.
Non
so che cosa sia rimasto di me stessa mentre l’ultimo segreto si scioglie,
l’ultimo che la mia mente aveva celato.
Io… io stavo per dirgli di baciarmi ancora,
quella sera, quando lui si è fermato.
Come
un qualsiasi donna stupida che implora un amante.
Questo,
io stavo per dirgli.
Singhiozzo,
cadendo in ginocchio, sotto il suo sguardo, sotto questo mistero profondo che
sono i suoi occhi che continuano solo a poggiarsi su di me, tristi e
meravigliati.
Io
stavo per dirgli…Non
smettere di baciarmi…mai…Draco… ti prego… non farlo…
E
sollevando piano lo sguardo, sotto questa sera, dove la luna è ricomparsa piena
dall’oscurità dei giorni che mi hanno sedato la memoria altrimenti arroventata,
mi rendo conto che… io lo voglio ancora.
Che ora direi solamente… se non avessi il mio orgoglio che mi chiude la bocca…
Gli
direi solamente che ha lasciato tutto sé stesso dentro di me, riempiendomi al
punto tale che io non so più dove sono finita. Come se mi schiacciasse contro
le pareti con la sua sola presenza.
Ancora aprirei la
bocca solo per dirgli quanto lo voglio.
Quando
mai, io, proprio io, ho pensato una cosa del genere? Quando mai sono stata presa
da una passione così forte che prendesse ed imbavagliasse la mia mente? Quando?
Viktor, Ron, Dean? Chi, dannazione?
Mai.
Nessuno.
Mai…nessuno… e
mai nemmeno lui…
Per
salvare me stessa… se sarà necessario…
io andrò via questa sera stessa.
Rieccomi, dopo un periodo di assenza forzata causa studio!
Che ne dite di questo
capitolo? Vi piace? Ovviamente non avete che da farmelo sapere!! Una piccola
precisazione per coloro che abbiano eventualmente frequentato il mio forum; non
sono riuscita a postarlo in anteprima lì causa difficoltà del mio nuovo
computer, ma riprenderò al più presto. Per coloro che volessero avere accesso
alla sezione protetta delle anteprime, ricordo che è necessario presentarsi
nella sezione BENVENUTI e magari indicare perché vi piace la storia e simili… chiedo venia per aver ancora usufruito di questo spazio…J
Passo ai
ringraziamenti:
Sabbry: grazie tantissimo
della recensione, specie se la prima, mi fa molto piacere! Stai tranquilla,
questa, nonostante momenti di alterna follia, è sempre una Draco/Herm, quindi
il lieto fine è sempre dietro l’angolo! Continua a seguirmi! Baci!
Nyappy: grazie tantissimo dei tuoi complimenti, è
sempre bello avere nuovi lettori! Spero che anche questo capitolo ti sia
piaciuto e sia stato anche lungo a sufficienza!:P Baci!!
Seven:
la mia carissima Seven! Le tue recensioni mi fanno sempre impazzire, perché sono
sempre lunghe ed accurate, proprio come piacciono a me! L’assenza di Draco
purtroppo era inevitabile, ma come vedi ho già rimediato e rimedierò ancora
meglio nel prossimo capitolo! La riappacificazione con Harry e Ginny era già
nei patti, diciamo che era necessario un evento drammatico per farla avvenire a
cui ho prontamente rimediato; e credo anche io che comunque Hermione sia molto
legata a loro e che comunque bisognava recuperare…
Ron invece si stesse dove sta! :D Hermione e Draco sicuramente un giorno
torneranno nel loro mondo, non si sa come, ma avverrà! Grazie dei tuoi
complimenti e non mi annoi affatto, anzi!! Baci!!
FraFri95:
la mia lettrice che vale per due!! Eheheh!! Grazie
della recensione e come sempre saluti alla mamma... ! A Dean sono
particolarmente affezionata, mentre Ron seeeh, lo
ammazzerei sotto i piedi per questo non lo faccio comparire mai, mi scuso con
le sue fan!! Un bacio!!
Baby_San: ciao tesoro!! L’assenza di Draco sarà
spiegata, tranquilla, un giorno tutto avrà risposta! E poi davvero te lo vedi
Draco stile crocerossina??!! Baci!!
Nefene: la mia tesora!! Ma
come farei senza di te che recensisci due capitoli alla volta!! E che mi
dedichi i capitoli della tua storia e mi fai gli auguri!!! Sei unica!!:D Grazie
come sempre dei tuoi complimenti, non so se me li merito tutti!! Sono sempre
molto contenta perché ci tengo che a te piaccia la mia storia più che a tutti
gli altri, senza offesa!! Sei la mia prima vera lettrice!! Quindi grazie,
grazie ancora!!!
Ne approfitto
per fare un’operazione pubblicitaria!! Da qualche giorno è on line una bellissima storia, tradotta dalla mia cara Nefene!!
Si chiama
“DELICATE” ed è una Rose/Scorpius carina e fresca,
oltre che originale e ben scritta!! L’antefatto è semplice, la nostra Rose è
incinta!! Vi ho incuriosito??!! E allora correte a leggere!! ecco il link…http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=404211
UN
saluto a tutti coloro anche che leggono e non recensiscono!!!
“Voldemort…”
sussurro, piano, il labbro inferiore che trema senza sosta.
“Che
cosa?”.
“Voldemort…”
ripeto pazientemente, asciugandomi le lacrime che mi bagnano il viso e
impegnando ogni fibra di me stessa nel tenere ferma e salda la mia voce. Prendo
fiato e riprendo: “Scusami… è solo che ho avuto una visione di Voldemort,
insomma… mi sono spaventata… Ginny, però, ha detto che è normale… passerà…”.
Nella
mia enorme bugia, invento persino un sorriso di circostanza che vorrebbe
rendere il mio volto una maschera di placida
rassegnazione. Dentro, sento un enorme incendio che mi distrugge passo passo,
ma cerco di metterlo a tacere.
Adesso,
è necessario che faccia finta di
niente.
Draco mi
guarda, annuendo, avvicinandosi a me per aiutarmi ad alzarmi. La mano che si
allunga verso il mio gomito, mi fa ritrarre terrorizzata verso il muro. Per favore, non sfiorarmi più… sorrido
lievemente, puntellandomi sulle mani e alzandomi in piedi: “Tranquillo, ce la
faccio…”.
Lui
guarda stranito la mia manovra, evidentemente intuendo che c’è qualcosa che non
va. La testa leggermente piegata di lato, mi osserva per qualche secondo,
cercando di capire, ma dopo qualche secondo lascia perdere.
Credo che etichetti la mia espressione sconvolta come una conseguenza della
visione frottola che mi sono inventata. Quindi non si pone
troppi problemi.
“Certo,
Granger che, da quando vivi qui, ho bisogno di un
elettrocardiogramma una volta all’ora…” borbotta lui, incrociando le braccia.
“Scusami…”.
Questa è la mia voce?! Possibile che io invece di
parlare, pigoli semplicemente, peggio di un pulcino in
gabbia?? Calma, calma… devo cercare di calmarmi e di
essere tranquilla. Il fatto che improvvisamente
e inopportunamente io abbia
scoperto di essere attratta fisicamente da Draco Malfoy, non significa che
questo mi si sia stampato in faccia, come la lettera scarlatta del romanzo di
Hawthorne. D’accordo, a me al momento sembra di essere investita di una colpa
enorme, di essere diventata una donna indegna di continuare ad esistere e che
davvero ho un segno incandescente che brucia sul mio viso… ma in realtà, io
esteriormente sono uguale a prima, no? Insomma non è che
Malfoy improvvisamente mi legge in testa, quindi posso perlomeno fingere che tutto sia come sempre.
Quando poi tornerò sola, rifletterò bene sulle cose, ci macinerò su, troverò
una soluzione, dopo innumerevoli percosse, testate al muro e una tentata
lobotomia.
Ma adesso… io devo essere sempre la
stessa…
“Intendevo…”
dico, sollevando orgogliosamente la testa e fissando attentamente il suo naso,
l’unica parte poco interessante del suo viso. Non ci posso pensare che trovo
meravigliosi i suoi occhi e irresistibili le sue labbra!!
Com’era? Com’era, accidenti!! Ah già… fuori io per lui sono sempre la stessa, fuori io per lui sono
sempre la stessa… ok, ci sono… proseguo con voce ferma, fissando sempre
l’appendice nasale: “Intendevo dire, scusami… per Serenity, capisco che,
insomma, ho messo a rischio lei e… te…”,
deglutisco rumorosamente prima di continuare: “… è stata un’imprudenza…
ingiustificabile… e capirei se volessi licenziarmi, insomma io mi licenzierei
per molto meno. Cioè se fossi te, io avrei licenziato me per molto meno… me, nel senso Hermione, quella che non prende la
pozione e rischia di morire e di svelare la tua identità… quindi capisco se mi
vuoi licenziare, anzi sai che c’è? Mi dimetto… si dirà
così? Vabbè, prendila per buona… il party è passato, tutti siamo sani e vivi,
nessuno è stato scoperto e io me ne torno alla mia
vita, eh? Che ne pensi? Una bella idea… una bella idea corroborante…corroborante, come mi è
uscito!”, mentre ridacchio scioccamente della scelta della mia ultima parola
che non so che nesso abbia con il resto, mi sento incredibilmente stupida e mi
rendo tremendamente conto di aver sproloquiato per tipo un’ora.
Draco mi
guarda con gli occhi annacquati, evidentemente cercando di rimettere assieme i
pezzi dell’assurda conversazione, e io mi stringo
nelle spalle in imbarazzo; devo dire qualcosa, accidenti, questo silenzio non
lo sopporto.
È come
uno specchio che mi mostra per come sono; nervosa, agitata ed
imbarazzata. Le parole sono sempre la calda coperta dietro cui
nascondo me stessa. Apro la bocca, ma vengo subito
interrotta da Draco che inizia a parlare al posto mio.
“Allora, Granger…ora ti dai una bella calmata…” inizia con tono di voce ovvio,
passandosi una mano nei capelli pensosamente, poi torna a guardarmi,
riprendendo: “… ti siedi, parli come una persona civile, come presupporrebbe
che tu sia, e, se non è troppo fastidio, la
smetti anche di fissarmi il naso…”.
Colpita nel vivo, arrossisco: “Io non ti stavo per niente
fissando il naso!
Ma che sei scemo?!Non sono mica
feticista!”.
Lui
sospira, alzando gli occhi al cielo: “Non sei feticista e
io sono pazzo… anzi sono iper-orgoglioso del mio naso
e penso che tutti me lo guardino, avidi… adesso ti siedi?!”.
Sospiro
a mia volta e mi siedo per terra, subito imitata da
lui, la schiena appoggiata alla ringhiera della terrazza. Stringo le ginocchia
al petto, rabbrividendo, e guardo dritta davanti a me, cercando di non
incontrare i suoi occhi. Ovviamente metto anche quanta più distanza possibile
tra me e lui per impedirmi anche solo di sentire lievemente il calore del suo
corpo. Lui ancora osserva le mie manovre, sento i suoi occhi su di me, ma non
dice nulla. Siccome continua a non dire nulla, cosa che mi dà
i nervi, penso bene di iniziare di nuovo io.
“Mi
dispiace…” sussurro, il mento appoggiato sulle ginocchia “Quello che volevo
dire, prima, era questo… non mi sarei mai perdonata, se per colpa mia, avessero
scoperto di te… o di Serenity… mi dispiace molto…”.
Lo sento
ridacchiare e me ne chiedo il motivo, ma non oso aprire bocca.
“Granger,
lo sai che non è Serenity il problema…” sorride lui, guardando lontano
“Serenity non ha colpa… io sono il problema… ma siccome non hai mai avuto
lo spirito alla Bellatrix, i tuoi amici sono bietoloni insipidamente buoni…
anche se mi avessero riconosciuto, per me i problemi vengono dai Mangiamorte…
non dai tuoi amici…”, lo guardo di sottecchi mentre lui si distende meglio:
“Certo, Potter, Lenticchia… la
Piattola… e la
Brown, santo cielo, la Brown… mi danno acidità di
stomaco, ma un digestivo e tutto passa…”.
Sorrido
leggermente, scuotendo il capo quasi incredula, poi mi azzardo a chiedere: “Hai
parlato con Harry, quindi?”.
“Hai mai
provato ad evitare Potter? È impossibile…” sospira
lui, chiudendo gli occhi “E’ come le tasse… o come la
morte… se decide di avere a che fare con te, trova il modo di arrivare…”, si
volta nella mia direzione e mi fissa dritto negli occhi, mentre trattengo il
fiato: “E… no… Granger… risparmiati la domanda su che cosa ci siamo detti, sono
fatti miei e di Potty… ti basti sapere che siamo vivi entrambi…”.
Distolgo
lo sguardo da lui, il viso in fiamme, e pensosamente non mi trattengo dal dire:
“Un giorno lo capirò che diamine avete da dirvi tu e lui… non avete niente in
comune, alla fine… e state sempre lì a bisbigliare come due vecchie comari…”.
Lo sento
sorridere, piano, ed è ancora un’onda di tristezza mista a divertimento che
vela la sua voce. Un’onda lunga che si propaga da lui e che, alla fine, ingloba
anche me, lui che è tutto e io che sono niente. Un
brivido lungo la schiena, mentre lui bisbiglia: “Al momento, per la prima volta
nella vita, io e Potter una cosa in comune ce l’abbiamo…
te…”.
Per un
attimo, mi sembra quasi di non aver capito, lo guardo scioccamente sbattendo le
ciglia. Subito dopo, è un carezzevole pensiero nella mia mente sentirmi il
ponte tra due persone così diverse e che, nel bene e nel male, ora contano così tanto per me. Ricordo le parole di Seth sul potere
misterioso che, per lui, io dovrei avere su Draco e per un attimo
me ne sento quasi investita, indorata come una sacerdotessa su un altare di
pietra inaccessibile e irraggiungibile. Mi sento superiore a Summer e a
chiunque altro sia entrato anche solo per un istante nella vita di Draco Malfoy
e Danny Ryan. Poi, mi rendo conto che è un’illusione, alquanto stupida, e mi
affretto a tornare in me, ancora l’anelito oscuro della sopravvivenza di me
stessa che mi fa desiderare e al contempo temere la fine di questa
conversazione.
Respiro
piano, cercando di darmi coraggio, per poi chiedere: “Quindi, è di me che avete
parlato?”.
Lui
sogghigna in un modo diverso, semplicemente diverso. Non è mai stato così,
con me, perlomeno. L’eco di quel bacio lontano prende anche lui?
“No,
piccola presuntuosa…”.
“E
scommetto che, anche se fosse, non me lo diresti, vero?”.
“Bingo!”.
“Quindi
farti queste domande, alla fine, è inutile?!”
borbotto, mettendo il broncio.
“Brava”
sorride lui, guardandomi di sbieco “Alla fine l’hai capita…”.
“Bah…
allora mi chiedo che ci sto a fare a parlare con te…”
biascico, appoggiando la testa sulla mia mano.
“Non che io abbia un estremo bisogno di interloquire con te,
Granger… ma credo che sia perché sono la sola persona sveglia alle due e mezzo
del mattino? Potrebbe essere?” fa lui sarcastico, appoggiando le mani dietro di
sé. Annuisco con il capo per non dargli troppa soddisfazione.
Un
bisbiglio appena accennato.
“Perché
sei sveglia?”. Abbasso il capo fissandomi i piedi, coperti da
un paio di sciocche ciabatte rosa con la stampa di due cani abbracciati.
Ridicole e penose, davvero. Mi avevano fatto tenerezza, però… le avevo viste
mesi prima, quando stavo ancora con Dean. Occhieggiavano in una vetrina e le
avevo comprate, senza riflettere; morbide e imbottite, quando le mettevo, mi facevano sentire a casa. Ed era stata l’unica cosa che avevo avuto il coraggio di portarmi dietro da casa mia. Casa
mia… chissà se ci dovrò tornare, se accetto la proposta di Ginny…
Casa mia… già, ora è un posto come
tanti altri… stranamente ora è questa casa mia, questa terrazza, questo cielo…
Basta
questi pensieri, mi dico, scuotendo il capo. Ho deciso di andarmene, e basta. A
stare qui, non ci sto capendo più niente di quella che sono.
Improvvisamente in un poco più di un mese, sono talmente cambiata da credere
che ci sia un'altra ad indossare la mia pelle e a
muoversi nei miei pensieri. Spesso la vecchia Hermione la guarda dall’esterno,
come se fosse uno strano fenomeno da baraccone, un cane equilibrista oppure un
funambolo della peggiore specie, e fatica a riconoscersi in essa.
Io la
guardo e mi chiedo chi sia.
Ama fare
la cameriera.
Si
prende cura con affetto di una bambina piccola.
Ha per
amico un pazzo scatenato.
… ed è attratta quasi da svenire da
Draco Malfoy…
Dio,
nonostante la mia mente ancora mi scolpisce a
caratteri di fuoco i ricordi di quella sera, tutto questo mi sembra sempre
assurdo. Come se fossi posseduta da un’altra. Un’altra donna che smania per
avere il giovane uomo che ha accanto, e che lo ricorda solo con desiderio.
Sebbene sono lontana da lui e lo guardo solo lo stretto
indispensabile, io saprei disegnare su una tela il profilo dei suoi occhi e il
loro colore preciso. Che non è né grigio né azzurro, ma una sfumatura
intermedia, come il cielo di primavera che ancora non è pronto per diventare
estate.
Le sue
labbra sottili che sono sempre arricciate in una smorfia di fastidio elegante.
Il biondo preciso dei suoi capelli, così chiaro da sembrare bianco, ma che poi si illumina d’argento alla luce della luna. La luna che
sembra stargli così bene addosso nella sua luce… sorrido tristemente, saprei
persino disegnare quel suo stramaledetto naso…
Non c’è
dubbio che sto impazzendo, come non c’è dubbio che ogni secondo io mi perdo in questi pensieri. E non c’è dubbio che
imbarcarsi in un amore tormentato e non corrisposto, non è una cosa che si
addice ad una come me, specie ora che ho ventitre
anni. Specie ora che le cose sono così confuse e strane, dopo la rottura con
Dean.
Non c’è
dubbio che questa…cosa… deve finire.
“Pensieri…”
rispondo malinconica alla sua domanda sul perché sono sveglia.
“Pensieri? Non pensi abbastanza di giorno?” ghigna
lui, guardandomi divertito.
Sorrido sarcastica, inarcando un sopracciglio: “Hai ragione…
quasi… l’attività celebrale umana non
puoi comprenderla, da bravo furetto che sei… quindi non mi stupisce che non
comprendi il pensare notturno. Sei molto legato al tramontare del sole…
come tutte le bestioline, vai in letargo…”.
“Mamma
mia, Granger… sei divertentissima! Un vero animale da
palcoscenico!” fa lui con voce sarcastica, portandosi melodrammaticamente le
mani al petto “Effettivamente il tuo talento non va sprecato… dovrei metterti
sul bancone e farti esibire… che ne pensi?”.
La sua
risata echeggia nelle mie orecchie, una risata
allegra. Mi spezza il cuore.
Adesso… o mai più…
Con
tutta la forza che credo di possedere, volto il capo verso di lui. Vorrei fingere
un sorriso, ma non ci riesco. Sfioro con gli occhi i suoi e avverto anche la
sua allegria disperdersi nel vento, gli occhi che si velano di preoccupata
curiosità al mio sguardo serio. Cerca di capire che sia successo, perché sia
cambiata all’improvviso, io lo guardo e basta, stampandomi nella mente la sua
immagine. Parte di me che vuole che ancora mi stringa, parte di me che sta per
dirgli che fuggo da lui. E il cuore, in mezzo, che si spezza a metà…
Tiro su
con il naso e sospiro, abbassando lo sguardo; lo rialzo indossando decisione e
risolutezza, velandomi gli occhi di un sorriso. Le parole sfuggono dalle mie
labbra, leggere e veloci, per fare meno male. Sfugge assieme a loro anche il
suo nome.
Io non riesco più a dire Malfoy.
“Non mi
avrai più né come fenomeno da circo né come cameriera… Harry mi ha offerto un
lavoro e penso che accetterò, Draco...”.
“Che
cosa hai detto?”.
Sbatto
le palpebre un paio di volte, guardandolo. Il suo viso
è così…strano… il suo sguardo si
perde nel vuoto, mentre mi guarda. Di solito, i suoi occhi sono sempre presenti
a sé stesso, ora sembra che sia stato trasportato via
da qui, da questo momento, da questo luogo. Gli serra piano, in uno spasmo che
non capisco. Sembra… dolore…
Perché?
Diamine, perché sta soffrendo? Che cosa ho detto?
Al
momento darei tutta la mia anima per leggere anche parte dei suoi pensieri.
Il viso
contratto, l’aria triste, la mano serrata in un pugno poggiato sul pavimento
sul quale ancora siamo seduti, la luna che lascia il suo viso in una penombra
profonda. Oramai so leggere il suo sguardo, so leggere i suoi gesti e non sono
così stupida da pensare che questa reazione sia per me, sia per la notizia che sto per andare via. Lo so e basta. Mi dispiace ma è
così.
Non è
vero.
Non è
che mi dispiace… mi uccide dentro,
come sapere che non ho argomenti di conversazione con
lui, come sapere che per lui sono meno di niente… come volerlo quando lui
invece non mi vuole.
Ma è così. Ed ogni secondo che scorre, è
consapevolezza come veleno che avvolge i miei pensieri. Razionalità omicida
della mia fantasia.
Quando
non si trattiene, quando lascia uscire i suoi sentimenti… quando soffre…
È sempre
per il passato, mai per il presente. Un passato avvolto ancora nelle tenebre e
che io non conoscerò mai.
I suoi
occhi si aprono piano, ricordandosi di me, saturandosi di mille immagini veloci
come saette che scorrono le une sulle altre, riempiendosi di ricordi da cui
sono esclusa. Li ricaccia indietro con un respiro profondo, e torna a
guardarmi, la voce piena di affanno doloroso.
“Erano
due anni che qualcuno non mi chiamava Draco…”
sussurra, una mano nei capelli. Sotto il mio sguardo sconvolto, stringe forte i
capelli biondi tra le dita, come a strapparli via, come a darsi un dolore che
superi quello che ancora alberga nei suoi occhi.
Mi porto
velocemente le mani alla bocca, scioccata da me stessa, nella mia gola brucia
ancora il suo vero nome che, ora, mi sembra quasi di aver urlato alle stelle
fino a pochi secondi fa. Oddio, il suo vero nome… come mi è saltato in mente?
Potevo solo pensarlo… perché l’ho anche detto? Ogni freno inibitore di me
stessa, ogni paletto che dovrebbe difendermi, si sgretola come niente.
“Sc-scusami…” balbetto imbarazzata “L’ho fatto senza
pensare… mi dispiace…”.
Lui non
risponde nulla, resta con il viso basso, una mano sul petto, gli occhi ancora
ostaggi di un tempo lontano.
Le
lacrime che si formano nei miei occhi a quella vista, sono quanto di più doloroso sia mai esistito in me. E ormai quella maledetta
consapevolezza mi fa desiderare solo di andare via. Andarmene via da quel
potere che ho su di lui… non di rendere il suo sguardo leggero, come diceva
Seth, ma di dargli sempre e solo sofferenza.
Fargli
ricordare cose che gli fanno male.
Forse io
e lui… siamo come la rana e lo scorpione… che, quando cercano di rinnegare la
loro natura, che vorrebbe che si odino, finiscono solo per farsi del male a
vicenda… e per morirne… evidentemente, per sempre, io e Draco Malfoy ci
causeremo dolore a vicenda.
Non c’è spazio per altro.
Mi alzo
velocemente, le palme sul pavimento, il desiderio di correre via che lo sento
fino nelle ossa.
Un solo
passo, prima che mi fermi. E dentro…
oltre la mia mente, non so dove… nel cuore…
sapevo che mi avresti fermata…
la speranza si confonde con il saperlo. Speravo che mi fermasse, ma come sempre
non osavo esprimerlo a me stessa.
Le sue
dita si stringono come mille altre volte attorno al mio polso e mi costringono
dolcemente a girarmi su me stessa, il vento che gela le lacrime che scorrono
sul mio viso. Si è alzato in un secondo in piedi e mi ha afferrata
per fermarmi.
Lo
guardo piangendo, incapace anche solo per orgoglio di fermarmi. Ogni colpa del
mondo la sento in me, la sento nelle mille
caratteristiche che mi rendono come sono. L’essere così tremendamente sbagliata davanti a lui. Sbagliata sì…
perché ogni cosa di me stona accanto a lui.
Donna,
babbana, mezzosangue, povera, castana... Lui è il
contrario di tutto questo.
La
nebbia negli occhi è andata via, me ne accorgo subito. Ora sono di nuovo
trasparenti come prima.
“Granger…”
un sussurro, poi sospira e sorride: “Hermione…”.
Sgrano
gli occhi e resto immobile, il suono del mio nome nelle orecchie che si ripete
come una dolce canzone.
“Non mi
dà fastidio…” prosegue, la mano che si stringe piano attorno al mio polso per
poi scendere lungo la mia mano. La stringe e mi manca il fiato, rifuggo i suoi occhi.
“Non ci sono abituato… ma non mi dà fastidio…” la voce più
serena per un secondo, poi si colma di tristezza: “Dopo la morte dei miei,
pochi mi hanno chiamato così… anzi, forse… nessuno…con gli altri, poi… sono
Danny… però io sono Draco, alla fine, dentro sono Draco, non Danny…”, lo sento
sorridere piano: “Ogni tanto fa piacere ricordarmi che sono sempre me stesso…
mi fa anche bene, credo… non è bello nascondersi per sempre dietro una persona
che non si è… e che nemmeno esiste…”.
Sollevo
gli occhi: “Ma… prima… sembravi… soffrire…”.
Sorride
piano, lasciando la mia mano: “Sei disgustosamente
buona, Hermione… ripeto… è solo che non ci sono abituato…”.
Apro la
bocca per obiettare, lui nega con il capo: “Abitudine… o mancanza della stessa…
basta così…”.
Mi
asciugo le lacrime con la manica del pigiama, annuendo, oramai convinta che non
potrò più chiedergli nulla, anche se sono certa che non era solo la mancanza
dell’utilizzo del suo nome a dargli quella reazione, ma… altro…
“E non
piangere, per piacere…” aggiunge, sedendosi daccapo “Cavolo, un’Auror che
piange come una mocciosa…”.
Lo
imito, sedendomi di nuovo, stringendo le ginocchia al petto. Ripercorro gli
ultimi momenti nella mente e sorrido, le sue dita che ancora la mia mano
riconosce sulla mia pelle, il calore che si irradia
lungo il braccio.
“Da
quando mi chiami per nome?” sorrido, guardandolo di lato.
“Credo
da quando mi chiami tu per nome…”, la
sua voce si tinge di malizia mentre aggiunge, avvicinandosi al mio viso: “O
forse da quando ti ho baciato… non sono abituato a chiamare per cognome le
donne che bacio…”.
Arrossisco violentemente, allontanandomi con il sedere per
quanto sia possibile, urlando: “Se è questo il motivo, da questo momento in poi
voglio essere chiamata signorina Hermione Jane Granger! Se non fosse che stavo per morire,
t’avrei castrato! Come diamine ti è saltato in mente…??!”.
“Avanti,
non fare come sempre la novizia in crisi mistica…” fa lui noncurante, le braccia
incrociate dietro la nuca “Non è stata un’esperienza
piacevole, te lo assicuro… ma era per Seth… se non stessi sanguinando come un
agnello il giorno di Pasqua, figurati se ti avessi baciato…”.
“Potevi
trovare un’altra scusa…” obietto.
“Con
Seth…? Sì come no…” bercia rassegnato “Potevo anche fingere che mi fosse venuta
una qualche malattia fulminante, e avanti tutta… solo,
baciandoti, non si sarebbe avvicinato… nonostante tutto, è discreto… e
comunque, in qualche logica perversa, gli farebbe anche piacere se stessi con
te…”.
Arrossisco
ancora al ricordo della conversazione che ho avuto con Seth questo pomeriggio e
ringrazio il buio che mi avvolge: “Logica perversa e illogica…”.
“Ecco,
appunto… e allora stattene tranquilla e ringrazia che nessuno si è accorto che
stavi morendo dissanguata…” termina con espressione
ovvia, gli occhi socchiusi.
Una domanda che non so fermare: “Non hai pensato a Summer? Se ti avesse
visto?”.
Sussulta leggermente, colpito sicuramente dalla mia domanda
diretta, e abbassa lo sguardo pensieroso. Sospira piano per poi dire in tono sofferto: “No…
non ci ho pensato…”.
“Non è
un’esperienza edificante essere traditi…”.
“Weasley
ti ha tradito?” mi chiede a bruciapelo, guardandomi. Distolgo lo sguardo,
interdetta. Come cavolo ha fatto a capirlo?
“Non
c’entra adesso… non stavo parlando di me… ma io la parte dell’amante non la
avrei fatta, nemmeno per salvarmi la vita… o per proteggere te e Serenity…
spero che questo sia chiaro…”
Lui
resta in silenzio, non rispondendo più, mentre dico: “E anche se si tratta
Summer, che non è la persona più adorabile del mondo nella mia modesta
opinione, non l’avrei tollerato…”.
Lo sento
sospirare piano, la sua voce decisa che raggiunge le mie orecchie, velata di
malcelato fastidio: “Se Summer ci avesse visto, le avrei dato una spiegazione,
probabilmente sarebbe stata una bugia, ma sarebbe stato affare mio… la parte
dell’amante non l’avresti mai fatta… credo che esuli dai tuoi desideri come
dalle mie ambizioni… quindi non ti parare dietro queste cose…”.
Mi avvolge un gelo che solo quello dell’inferno potrebbe
essere minimamente somigliante: “Che significa, pararsi dietro a queste cose? Non mi sto nascondendo proprio
dietro a niente…”, ed è già una bugia mentre la frase
ancora non ha lasciato le mie labbra.
I suoi
occhi ritornano bruscamente nei miei, senza allegria o ironia, freddi come il
ghiaccio. Sembra il Malfoy di tanti anni fa… mi terrorizza… nello sguardo come
di un serpente, leggo un rancore che come sempre passa attraverso me, ma di cui
non sono l’originale destinatario. Come se la prendesse con Dio, con il destino
o chissà con che cosa, e veicolasse tale odio tramite
me.
Le
labbra sottili, arricciate in tracce solo di sentimenti negativi, si aprono per
dirmi: “Non rendere immorale una cosa che ti è piaciuta, Granger… rendere un
bacio sbagliato
non lo fa diventare improvvisamente disgustoso… se ti è piaciuto baciarmi, non
usare Summer come schermo per farlo diventare una colpa. È
tipico di te… di voi…”.
Prima
del terrore di essere scoperta, prima che senta il segno della mia passione
trafiggermi il viso rendendosi evidente, mi colpisce solo la rabbia. Ancora
quel voi… lo odio… odio che per lui io sia solamente
una dei rappresentanti dell’altra barricata. Di quegli ideali schieramenti in
cui ha diviso la sua vita. Dove io sono sempre una dei suoi nemici.
Mentire
se si è furibondi, è tremendamente facile.
“Penso
sinceramente quello che ho detto, Malfoy…” sibilo
gelida “E non sono qui a strapparmi i capelli perché tu mi baci ancora… ma puoi
pensarla come vuoi, credo che non sarà né la prima né l’ultima volta in cui
saremo ai due lati opposti di un’argomentazione…”, mi alzo in piedi e gli dò le spalle, calcolando già la distanza che mi separa
dalla porta.
Nel mio ultimo sussurro, gli dico, non guardandolo in viso:
“Ma questo voi… questo voi che ripeti sempre… come tu sei lieto
di essere Draco, io sono lieta di essere Hermione. Me stessa con le
mie idee e i miei pensieri... e sono davvero stanca che tu sconti su di me
colpe altrui…”.
Lo sento
distintamente trasalire e alzarsi in piedi, un passo solo a separarlo da me.
“Hermione…”
sussurra, meraviglia e dolore nella voce “Aspetta…”.
Mi fermo ad un passo da lui, ancora di spalle, trattenendo le lacrime che
minacciano di scorrere subito sul mio viso. Incerto mentre mi chiede con un
filo di voce: “Va via perché ti ho baciato, vero?”.
“No”
dico solamente, dandogli ancora le spalle.
“E per
che cosa?”.
“E’ una
grande occasione per me…” replico asettica e fredda, cosciente solo del vento
freddo che mi percuote il viso senza sosta, svuotata
di tutto il resto.
“Guardami
in faccia, maledizione!” sento distante come in un altro mondo la sua voce dire
irata e in un rapido spostamento d’aria la sua mano giungere ad afferrarmi per
il fianco, facendomi girare verso di lui. Lo guardo negli occhi, senza alcuna
emozione, fredda come ghiaccio. È già come l’eco di una era passata il lieve
incedere del mio cuore che accelera a sentire la pressione calda della sua mano
sul mio fianco, il raso del pigiama che diventa tiepido. Ma già… io non sento
più nulla… come se improvvisamente quel tumulto si fosse gelato su sé stesso, così come era nato. Sapevo che era tutto
impossibile tra me e lui, sapevo tutto… ma credevo che almeno per lui, io ora
fossi qualcosa di diverso da quel maledetto voi.
Ed invece lui me lo vede ancora dannatamente stampato
in fronte.
Non lo
sopporto. Non credo di poterlo più sopportare.
La sua
mano indugia sul mio fianco, lieve scorre sulla mia schiena, aprendosi e
fermandosi su di essa. Mi sta solo trattenendo lì, non mi abbraccia, tra me e
lui c’è ancora la distanza di tutto il suo braccio teso. Questa distanza fa
male più di tutto il resto.
“Rispondimi…”
mi chiede quasi implorante “Perché vai via?”.
Con
decisione, sposto la sua mano dal mio fianco, la tengo stretta per un solo
secondo per poi lasciarla andare. I suoi occhi si socchiudono appena, uno
spasmo che gli prende qualcosa sul viso, lo fa contrarre in una smorfia
dolorosa.
Mi
complimento con me stessa per sapere resistere. Plaudo al mio raziocinio, al
mio sangue freddo, alla mia intelligenza, alla mia forza di volontà. Come
faccio sempre. Ma è la prima volta che non provo gioia
per questo.
È la
prima volta nella mia vita che il mio istinto fa più male del
essere coerente.
I suoi
occhi… dannazione, ai suoi occhi da angelo maledetto…
resta lì, immobile a guardarmi, la mano che ha lasciato il mio fianco contratta
in un pugno inutile e silenzioso.
La
vecchia Hermione applaude soddisfatta. La nuova donna in me geme nel buio di
quegli occhi. Ma credo che entrambe, nonostante tutto, vogliano solo andare via
da qui… e, ad entrambe manca un battito, mentre di
nuovo apro bocca.
La prima
per orgoglio. La seconda per dolore.
L’ultima
frase che chiude questa conversazione la pronuncio io, andando via.
Senza
che stavolta lui mi fermi.
I passi
mi riportano indietro alla porta della terrazza, la trovano e se la chiudono
alle spalle. Lo lascio lì attonito, gli occhi spalancati come quelli di un
cucciolo sorpreso sull’autostrada dai fari di un auto
assassina.
Lo
lascio, sicuramente con l’eco delle mie parole nella testa.
“Non hai
risposte da chiedermi, Draco… ce l’hai tu la risposta
al perché vado via. Ed è la risposta ad un’altra
domanda…”.
Mi sono
concessa solo un sospiro, per guardarlo un’ultima volta in viso.
Perché,
nonostante tutto, lo trovo sempre così maledettamente bello da svenire. E
questo non lo cambia nemmeno il fatto che la rana e lo scorpione non dovrebbero
nemmeno guardarsi in viso, troppo a lungo.
Ma tu, Draco, sei troppo bello per non chiedere a qualsiasi luna di
guardarti solo un’altra volta…
La mia
voce crudele poi aveva finito il lavoro. Con lui. E con il mio cuore.
Dicendo
solamente a lui che non avrebbe risposto: “Domandati perché dopo tutto quello che sta accadendo tra me e te, io sono sempre
una di quei voi… e perché lo sarò per
sempre…”.
Taddadà, ecco pronto il nuovo capitoletto!! Anche questo
mi è costato na faticaccia che non avete idea: se per
me risulta abbastanza facile calarmi nei pensieri e
nelle sensazioni di Hermione, infatti non a caso la storia è in prima persona,
quando si tratta di Draco, addio! Entro in crisi, davvero! Il mio Draco, poi,
credo che sia una persona molto particolare, insomma per ogni cosa che accade
si capisce bene che, nella sua testa, accade altro. Come in questo caso. Ricorda
cose, persone. Ben presto i misteri inizieranno a svelarsi tranquilli!
Alcune piccole precisazioni!
Il titolo di questo chappy è,
tradotto, Artemide e Selene.
Il motivo è semplice ma credo debba
essere spiegato. Artemide è la dea greca della luna nuova, Selene di quella
piena; le ho volutamente accostate perché, sotto la prima, la luna nuova, Hermione
e Draco si sono baciati. Sotto quella piena, Hermione sembra dire addio a Draco
stesso.
Sempre la luna diciamo
che è coinvolta! J
Seconda cosa; in questo, come nel
capitolo precedente, Hermione non ha scoperto di essere innamorata di Draco!
Hermione ha solamente capito che, a
seguito di quel bacio, è attratta da Draco, lo trova un bel ragazzo e così via.
Mettiamola così, in maniera abbastanza semplicistica, se Hermione non avesse la
sua tempra morale e Draco le facesse una “proposta” di segno evidentemente solo
fisico, lei ci starebbe, ecco!
Nella mia opinione, personale quindi
anche discutibile, l’amore è una cosa ben più complessa e tra due persone che
si odiano da tutta una vita, è difficile che sorga, specie poi all’improvviso. Ha
bisogno di tempo, delle occasioni giuste, passa per il recupero della stima,
per l’attrazione fisica certamente, per un certo grado di fiducia e complicità.
Quindi Hermione non è assolutamente innamorata; anche perché
pensateci bene, la vera Hermione, quella della Rowling, rivela qualcosa dei
suoi sentimenti per Ron (bleah!) dopo molti anni. Se la
mia deve restare come voglio assolutamente IC, è chiaro che anche lei seguirà
le stesse tappe, per Draco, considerando poi che lo odiava, che lui nasconde
evidentemente qualcosa e che la mia Hermione è rimasta scottata dalle esperienze
con Ron e con Dean.
Era una precisazione che ho mancato
fare l’altra volta, ma ci tenevo!
Capirete subito quando Hermione è
innamorata, tranquilli!!J
Diciamo che, per come
è lei, già scoprirsi attratta dal furetto, è qualcosa di aberrante. Quindi, penso che in questo, lei scelga di andare via. Per rifuggire
ad un sentimento che insomma non tollera. Con questo,
spero, di aver risposto a tutte le vostre domande. Purtroppo mi mancava davvero
il tempo di rispondere uno per uno, quindi ho fatto
questa premessa!!
Ringrazio ovviamente tutti coloro che recensiscono e i loro meravigliosi complimenti
che mi riempiono d’orgoglio, quindi Rorothejoy, Baby_san, Nyappy, Seven, Nefene, Lights, FraFri95 (con la
sua mitica mamma!).
Ringrazio anche coloro
che hanno solo letto, messo la loro storia tra i preferiti e le seguite!
Spero che un giorno portino HALFT nelle storie scelte!
J
“Cioè,
alla fine, se davvero ci pensi... è proprio assurdo…”.
Silenzio
prevedibile dall’altra parte, socchiudo gli occhi appoggiando la testa al muro.
Riaprendoli, trovo la forza di continuare.
“Insomma,
una settimana… è passata una settimana buona… ma niente…”.
Sospiro,
allontanando con uno sbuffo la ciocca di capelli bagnata che mi è caduta sugli
occhi.
“Non che
mi aspettassi qualcosa…” proseguo, la mia mano che compie lenti movimenti
circolari nell’acqua “Mi ci sono anche rassegnata… e il senso del mio discorso
era anche abbastanza chiaro… ma non credi che qualcosa avrebbe dovuto
dirmela?”.
Solo un
gorgheggio di risposta.
“Già, lo
penso anche io…” borbotto sconsolata “Volevo proprio che non mi dicesse più
niente… di che mi lamento? E poi tra qualche settimana nemmeno lo vedrò più…
eppure…”, mi sistemo meglio e continuo: “Eppure, comunque mi sembra sempre che
ci sia qualcosa di strano sotto…”.
Sospiro
nuovamente, abbandonando la testa all’indietro, per poi implorare: “Tu che ne
pensi?”.
Serenity
solleva leggermente il capo e mi guarda, sorridendo. Batte le mani paffute
nell’acqua della vasca da bagno, ridendo gioiosa della schiuma che le accarezza
il naso, facendole il solletico. Sorrido a mia volta, spostandomi indietro e
stringendola più forte. La piccola si adagia contro il mio seno, i capelli
bagnati che mi sfiorano piano. Non pensavo che fosse così bello e rilassante
fare il bagno con una bambina piccola; vabbè, rilassante… ho sempre paura che
se mi sfugge, affoga, ma la tengo stretta mentre gioca, quindi insomma non
dovrebbe esserci questo pericolo, spero… e poi cavolo! Se Seth non le voleva
fare il bagno e io ero in ritardo, come diamine dovevo fare?! Almeno ho
accorpato la sua pulizia alla mia…
E poi il
bagnoschiuma dei bambini è proprio buono… ciliegia…
fa quasi venire fame…
Dolcemente,
inizio a frizionare i capelli di Serenity, cercando di distrarre la mia mente
dai miei inevitabili pensieri. Sospiro nuovamente, certo che essermi ridotta a
confidarmi con una bambina di un anno… santo cielo, sono proprio da ricoverare.
Non che
io non abbia confidenti, ma credo che a nessuno di essi parlerei in maniera agevole ed indolore della mia colpevole e assolutamente sgradita nuova
attrazione per Draco Lucius Malfoy.
Insomma,
andiamo… Ginny? Mi caverebbe gli occhi. Ron? Lavanda? Luna? Il centauro
Fiorenzo???!!
Decisamente
ogni componente del mondo magico è escluso: a parte l’assurdità della mia
situazione, ci si metterebbe anche dover spiegare come sia diventata
improvvisamente necrofila. Cavolo, per loro, Draco è morto.
E se
anche mi improvvisassi kamikaze e facessi harakiri parlandone con Harry…
diciamo che avrei anche la vita di un valente Ministro della Magia sulla
coscienza… Harry avrebbe quattro infarti contemporaneamente… già non credo che
abbia accettato che lavori qui e ci sia rimasta in attesa dell’esame,
figuriamoci questo…
Se, poi,
vado ad enumerare nella mia mente i personaggi che compongono il mio mondo
babbano… le cose procedono diversamente,
ma non meglio. Danny Ryan è vivo e vegeto e per molti non sarebbe il peccato
originale, considerarlo un bel ragazzo. Anzi, per uno come Seth, sarebbe
l’ammissione tardiva che ho gli occhi in faccia e gli ormoni a posto.
Ma anche
parlarne con Seth non risolverebbe molto… probabilmente mi direbbe anche di
provarci, in barba a Summer, che comunque esiste ed è un fatto. Sorrido tra me
e me, probabilmente mi ipnotizzerebbe anche… ma, a parte la presenza di Summer,
non saprei come spiegarli come questa mia scoperta sia così negativa per me.
Dovrei
raccontare degli Auror, di Voldemort e di come la vita mia e di Draco siano
così indiscutibilmente divise da un fossato, scavato dalla storia di parti
opposte, decise da centinaia di persone prima di noi. Dovrei dire di come certe
cose non cambiano mai. E di come sarebbe stato meglio che io e lui non ci
fossimo mai rincontrati… e, solo a quel punto, con una punta di disperazione
nella voce, potrei chiedere se esiste una maniera miracolosa, sia essa magica o
babbana, per smettere di provare determinate cose per una persona.
Non è
amore. E questo lo so… non ne sono innamorata… ma, per me, è già sufficiente
aver sentito dentro quella dolorosa insoddisfazione prettamente fisica del non averlo più. Mi è bastata… mi basta, insomma… eppure, la continuo a
sentire, folle la mente e pazzo il cuore.
Tiro su
con il naso quasi in modo feroce per evitarmi di piangere, non ci sto proprio a
piangere per Draco Malfoy.
Che
diamine… un po’ di dignità ce l’ho ancora…
Ed, in
fondo, chissenefrega che non mi parla da una
settimana… si chiudesse pure nel suo silenzio, popolato di fantasmi, e gettasse
anche la chiave in fondo all’oceano. Ci può anche affogare, per quello che mi
importa.
Non
credo di avergli detto niente di così offensivo o assurdo, no?
Gli ho semplicemente
detto la verità. Che me ne vado perché non ho motivi sufficienti per restare.
La sintesi del mio discorso era questa… non ho con lui un rapporto così fatale
ed esclusivo da rinunciare a tutto, per lui, fosse anche per amicizia. Specie
se, per lui, io continuo sempre ad essere la solita Hermione di sempre,
asservita a quel voi di cui parla
sempre… quindi, anche se tornassi nel mondo della magia, non mi farebbe poi
così male troncare ogni contatto con lui, visto che comunque lui nel nostro
ambiente originario, non ci può mettere più piede.
Per gli
altri, poi, il caso depone nella stessa direzione.
Seth lo
posso continuare a vedere, ed anzi in questa ultima settimana, l’ho presentato
con April ad Harry e Ginny come garanzia che diventassimo un gruppo unico,
quando io avessi smesso di lavorare al Petite Peste.
L’esperienza
è stata piacevole e i miei amici si sono integrati perfettamente: Ginny ha
trovato una nuova alleata in April nell’organizzazione del matrimonio perfetto,
con buona pace del mio apparato uditivo. Seth ed Harry vanno molto d’accordo,
ridendosela di me e delle mie assurdità. E, se mettiamo assieme che qualche
volta sono riuscita a trascinarmi dietro anche Trey e Corinne, gli unici che mi
erano sembrati interessati all’idea, il quadro risulta del tutto positivo.
Seth,
all’inizio, mi ha messo il muso per due giorni, sapendo che me ne sarei andata
da casa, in quanto ho deciso anche di tornare nel mio appartamento, trascorse
queste quattro settimane prima dell’esame. Decisione che ho preso
indipendentemente da come andrà l’esame; qualora non sarò ammessa, Harry mi ha
già detto che si impegnerà personalmente per darmi un altro posto, fosse anche
solo quello della sua segretaria.
Un’altra
cosa decisamente positiva, ma che ovviamente a Seth non andava giù.
Poi ne
ho parlato con lui, un pomeriggio, esponendo tutte le mie ragioni: il fatto che
fare la cameriera a vita non fa per me, che ho bisogno di rinsaldare i rapporti
con i miei vecchi amici e che li devo questo tentativo, oltre che comunque la
mia vita, prima o poi, finirà inevitabilmente per portarmi in una direzione
diversa. Potrei anche lavorare qui per altri due anni, ma a che pro? Non appena
la condanna finirà e sarò tornata una strega, che farò? I miei amici, intendo
quelli magici, mi accetteranno ancora, dopo che avrò rifiutato deliberatamente
ed ingiustificatamente ogni loro sforzo per farmi tornare alla mia solita vita?
Sono
nata per essere una strega. Non per essere una babbana in incognito.
Insomma,
a conti fatti, ogni cosa depone in quella direzione, inutile negarlo.
Ogni
cosa comporta solamente conseguenze positive.
Quando
Seth ha capito che per me era una grande occasione (ovviamente celata in
termini babbani), si è rassegnato, e mi ha detto che
devo seguire la mia strada. Non appena poi ha visto che, comunque, io ero
intenzionata a continuare a frequentare sia lui che April che gli altri del
Petite Peste, non si è fatto più problemi e ha continuato a trattarmi come
sempre.
Seth non
ha più parlato con me di Draco.
Ed ho capito
che le parole di quel giorno gli erano costate tanto, nonostante non ne recasse
traccia nei gesti e nelle parole.
Forse è
anche per questo che non gli parlo di lui. Seth è la tipica persona che fodera
la sua anima di colori sgargianti e di frivolezze, pur di non mostrare a
nessuno che dentro… dentro è tutto
diverso.
Lui ci
crede a quello che mi ha detto, lo vedo negli occhi che seguono me e Draco
evitarci in ogni stanza, in quegli occhi che si abbassano repentinamente quando
ho bisogno che Draco sappia qualcosa e la grido a voce alta, rivolgendomi a
lui, in modo che anche l’altro senta.
Ma non
mi ha chiesto il motivo di questo silenzio.
Credo…
perché gli faccia male… forse immagina che sia successo qualcosa tra me e lui…
non so… e pensare che io sia la persona giusta per Draco, anche se non so
davvero come faccia, non esula comunque dal avvertire questa sua consapevolezza
come dolorosa.
Magari
pensa che, dopo quel bacio, continuiamo una meravigliosa quanto proibita
relazione clandestina e, davanti a loro, facciamo finta di non guardarci in
faccia per celarla.
Vorrei
smentirlo, ma non credo che, allo stadio attuale delle cose, riuscirei a
parlare serenamente di Draco, senza vomitare tutto quello che sento dentro.
Quindi mi glorio della normalità con cui Seth, nonostante tutto, mi tratti.
E dentro, come lui, come Seth, sotto le
risate indifferenti e il gioioso menefreghismo… come quadratini di celluloide,
rivivo la serata del mio bacio con Draco e quella in cui gli ho detto
intimamente addio.
Perché,
nonostante tutto il senso di questo discorso, il fatto che io sia qui, a mollo,
a parlare a Serenity di lui, è una prova più che sufficiente.
Una
prova che va anche oltre il fatto di aver capito che, per lui, io sono rimasta
quella della scuola, quella che faceva parte dell’Ordine della Fenice, quella
che è stata il capo della gente che si è macchiata dell’omicidio dei suoi.
Quella
che gli ricorda ogni giorno la gente che odia e la gente che ha amato e perso.
E questa
prova che va oltre tutto… è che non riesco a smettere di pensare a lui.
Sospiro
rumorosamente, accarezzando il capo di Serenity. Non ci siamo più parlati da
quella sera, ci evitiamo come la peste, lui cerca di uscire sempre quando io
sono in casa e io faccio lo stesso.
Il solo
contatto che abbiamo avuto, è stato quando mi ha consegnato la mia richiesta di
dimissioni, dicendomi solamente: “Non avevo ancora avuto il tempo di fare il
contratto… non ce n’è bisogno…”. Ed anche allora ha evitato accuratamente di
guardarmi in viso.
Non mi
aspettavo che reagisse così, assolutamente.
Certo mi
sono adeguata al suo silenzio, intimamente contenta che le mie ultime settimane
qui non sarebbero state così meravigliose da farmelo rimpiangere in seguito.
Non che tra me e Draco, l’aggettivo meraviglioso aggiunto a convivenza si
potesse mai aggiungere, anzi… ma comunque io non lo capisco.
“Domandati perché dopo tutto quello
che sta accadendo tra me e te, io sono sempre una di quei voi… e perché lo sarò
per sempre…”.
Cosa c’è
stato di così assurdo in questa frase? Per lui, intendo, da non potermi nemmeno
più guardare in faccia? Ed anche se avessi detto qualcosa di così terribile,
perché allora non mi ha contraddetto?
Come
sempre, non ho risposte a queste domande e, come sempre, anche oggi mi dico che
spero che queste quattro settimane passino in fretta. E come sempre mi dico che
devo pensare a studiare e che ci sono un sacco di leggi da memorizzare per il
concorso, anche se molte di esse già le conoscessi per sommi capi.
Ma come
sempre… io so che, tra qualche ora, starò ancora qui a pensarci.
“Herm,
devo entrare! Se sapevo che ci avresti messo tanto a fare il bagno a Serenity,
glielo avrei fatto io!!” la voce di Seth mi raggiunge attraverso la porta
chiusa.
“Ok,
adesso esco!” urlo al suo indirizzo. Con attenzione, prendo in braccio la
piccola che sta giocherellando con una papera di gomma e la poggio sul
fasciatoio, attaccato alla vasca. Esco a mia volta io, avvolgendo Serenity in
un asciugamano e indossando io l’accappatoio.
La
asciugo piano, lei che ride contenta, facendo sorridere anche me. Quanto mi
mancherà, quando sarò andata via… dubito che riuscirò a vederla, contrariamente
agli altri. Specie se le cose tra me e Draco restassero così… lui è sempre con
Serenity, in fondo. Se ora non c’è, è solo perché è uscito con Summer; quando
me ne andrò, difficilmente potrò vederla.
Accarezzo
piano la guancia paffuta della piccola, che prende tra le sue la mia mano,
stringendola forte. Mi mordo il labbro inferiore per impedirmi di piangere, chi
l’avrebbe mai detto che mi sarei affezionata tanto a questa bambina?
E chi l’avrebbe detto che mi sarei
affezionata tanto anche a suo fratello, in fondo…
“Tranquilla
piccola mia…” dico con un sorriso, stringendo il pugno “Scoprirò la maniera per
venirti a trovare… non me lo potrà impedire, stanne certa!”. Lei quasi come se
mi avesse capito, scoppia a ridere allungando le braccia, volendomi venire in
braccio.
La
prendo e stringo forte, l’odore di ciliegia che mi avvolge come una carezza
calda.
Accidenti,
i vestiti di Serenity… li ho dimenticati fuori… vabbè tanto in ogni caso devo
uscire, sennò Seth sfonda la porta. E poi è una giornata calda, non si
raffredderà per pochi secondi fuori.
Allaccio
la cintura dell’accappatoio e prendo la piccola in braccio, per poi aprire la
porta.
L’ombra
di Seth davanti a me mi fa spazientire: “Sono uscita, dannazione! Cinque
secondi in meno per depilarti l’addome non saranno na
tragedia! Ormai potresti battere tutti i record per come sei efficiente…
dovresti fare decisamente l’estetista…”.
“Veramente
mi sto depilando di là!” urla Seth dalla cucina.
Non
c’entrano niente i capelli bagnati con la sensazione di gelo che avverto dietro
il collo.
Sollevo
timidamente gli occhi, sperando con tutto il cuore che sia April, Trey, Corinne
o chiunque altro. Mi andrebbe bene anche Ron, Dean, Lavanda o Calì. Ma che dico, mi andrebbe bene anche Lord Voldemort in
persona.
Non sono
stata mai fortunata con le preghiere.
I suoi occhi mi scrutano freddamente,
soggiunge solamente un: “Granger…”.
Sussulto,
rabbrividendo, ed impercettibilmente stringo Serenity per ricavarne il calore
che ora mi manca e che mi scivola dal corpo, disperdendosi come in una rovinosa
entropia. Gli occhi mi si annebbiano in un secondo, il mio cognome che rimbomba
nelle orecchie, permeato dell’odio che ci ha calcato sopra con decisione.
Non è la
prima volta, no? Già, ma è la prima volta che fa male.
Alzo il
mento, guardandolo fisso negli occhi. Il suo volto cambia espressione solo per
un secondo, bruma confusa negli occhi, poi ritorna una maschera indurita dal
risentimento.
“Draco…”
sussurro, superandolo.
Con la
coda dell’occhio, lo vedo restare immobile per qualche attimo, la mano incerta
poggiata sulla maniglia della porta del bagno. Io mi siedo sul letto, pronta a
vestire Serenity, silenzio ovattato dai miei pensieri.
Qualsiasi
cosa accada, io, mio malgrado, non saprò dire più null’altro che… Draco…
Guardo
la sua schiena, mentre mi dà ancora le spalle, ancora immobile.
Ti prego, dimmi qualcosa… qualsiasi
cosa, Draco… io non voglio andarmene così. Quattro settimane sono così lunghe…
ma in realtà saranno brevissime. Passeranno come un soffio, e non ci vedremo
mai più.
Mi eviterai ancora se verrò a vedere
Serenity?
Ti eviterò ancora se passerò a
prendere Seth?
Ci eviteremo per sempre? Codardi,
non sapremo mai risolvere questo nodo tra di noi? Io non voglio amore, non lo
voglio.
Voglio solo che ti giri e mi chiami
Hermione. È la sola cosa che desidero al mondo. È la sola cosa che ho davvero
desiderato nella vita.
Ti prego, girati… e chiama il mio
nome… è così… bello… quando lo dici tu…
La sua
mano indugia sulla maniglia, poi la spinge con risolutezza, entrando.
Abbasso
gli occhi.
Non sono
stata mai fortunata con le preghiere.
“Wonderland?”
chiedo con una punta di disappunto, arricciando il naso “Originale come nome
per un parco divertimenti…”.
Poggio
l’evidenziatore giallo con cui stavo studiando il paragrafo del giorno, la Legge contro lo sfruttamento
delle creature marine a scopo di lucro, e guardo Seth con nervosismo. Ho un
sacco di pagine da studiare oggi, e lui ciancia su giostre e montagne russe.
“Non è
che lo devi pubblicizzare e lanciare oltreoceano…” mugugna Seth “Dovremmo solo
andarci… oggi, per precisione…”.
“Fossi
matta, ho un macello da studiare…”.
“EDDAI!!”.
“Ma non
sarai un po’ cresciutello per i parchi
divertimento?!” borbotto innervosita, guardandolo storto.
“E tu
non sarai un po’ troppo acida per avere solo ventitre anni?!” mi risponde a
tono Seth, incrociando le braccia.
“Andiamo
Seth…” imploro con un sospiro “Ho già ringraziato mentalmente Dio che oggi non
abbiamo tanto da fare…” e getto un’occhiata eloquente alla sala deserta.
“Ma dai,
studierai domani! E poi è per Serenity, mica per me!” mugugna quella
sottospecie di animale lamentoso “Si annoia, povera piccola…”. Ed ovviamente mi
lancia uno di quegli sguardi tipici di un cucciolo abbandonato sotto la pioggia
che ti fissa mentre stai mangiando un succulento hamburger.
Già so
di essere pronta a cedere, in fondo non ci stavo comunque capendo nulla del
paragrafo in questione. E so che domani, essendo mercoledì, il giorno di
chiusura, ho tempo per rifarmi.
Va bene
tutto… ma ci sarebbe un punto da chiarire…
“Seth…”
esordisco, guardandolo fisso negli occhi “C’è una cosa che mi preme chiarire…”.
Lui,
incuriosito dal mio tono, si avvicina, sedendosi accanto a me e sporgendosi
verso il mio viso: “Dimmi”.
Respiro
profondamente per poi dire tutto d’un fiato: “Io non posso venire se c’è Danny…
ti prego, Seth, non mentirmi, dicendomi che non c’è per poi farmelo trovare…”.
Seth
sgrana gli occhi, colpito, per poi distogliere bruscamente gli occhi da me. È
la prima volta, da quella volta in camera mia, che parlo di Draco con lui.
Quando
Seth torna a guardarmi, come sempre, ha nascosto sotto mari di luce opalina la
tristezza che solo per un attimo gli aveva velato lo sguardo. Con un sorriso,
mi chiede in un sussurro: “Che è successo, Herm? Ne vuoi parlare?”.
Sorrido,
so quanto gli costa chiedermi di parlarne. Ma mi vuole bene e l’ha fatto lo
stesso… grazie Seth…
“Non
tantissimo…” dico sinceramente, anche perché sarei davvero una sadica bastarda.
Lo vedo rilassare la tensione che gli aveva preso le spalle, e guardarmi
intensamente.
Gli
occhi bassi, ho solo la forza di aggiungere: “Tra me e Danny le cose vanno
male… molto… e dubito che miglioreranno. Forse peggioreranno ancora… quindi,
preferisco non restare con lui più del dovuto… spero che tu capisca…”.
“Certo,
tesoro… figurati…” mi dice comprensivo, accarezzandomi la schiena “Danny e
Summer sono fuori… non so dove siano andati, ma non torneranno mai in tempo per
accompagnarci… saremo solo io, te e Serenity… ti va?”.
Annuisco
con il capo, sollevata. Se si tratta solo di loro due, allora non ci sono
problemi.
“Ok,
allora nessun problema…” sorride Seth, poi il suo sguardo si rannuvola per un attimo,
giada grigia. Abbassando lo sguardo, mi chiede se può chiedermi una cosa.
Annuisco sospettosa.
“Non
voglio spiegazioni… e dopo questa domanda, non ce ne saranno altre, Herm…” mi
dice, guardandomi seriamente. Stona così tanto quell’espressione con il suo
viso che mi costringo al silenzio, acconsentendo solo con il capo.
Poggia
la sua mano sulla mia, sospirando: “E’ per questa cosa con Danny che vai via?”.
Sgrano
gli occhi, colpita dalla schiettezza della sua domanda, ed immediatamente il
mio cuore manca un battito. Certo che è per questo, vorrei rispondere… l’odio era così maledettamente rassicurante,
Seth. Odiavo Draco e tutto mi sembrava facile, anche lavorare con lui. Allora
probabilmente non mi sembrava così… ma ora so che vivevo in uno stato di grazia…
ora che invece non solo non lo odio, ma addirittura sento qualcosa per lui…
qualsiasi cosa sia… io… non posso permettermela…
Questo
vorrei dire.
Confessare
come sulle pagine di un diario il mio tormento nascosto, riversare lacrime che
non verso e spasmi che non ammetto.
Ma Seth
non è un foglio di quaderno, non ha l’anima di carta stampata a caratteri in
rilievo.
Seth è
un ragazzo. Seth è un mio amico. Seth è innamorato del ragazzo che io, a mio
modo, disperatamente vorrei. Anche solo per uno stupido bacio. Ed urlare il mio
dolore a lui, sarebbe come prendere il suo cuore e calpestarlo.
Strano a
dirsi, ma tra noi la fortunata sono io.
Di
questo strano sentimento, io almeno un bacio l’ho avuto. Un bacio maledetto che
mi ha strappato l’anima in mille coriandoli di velluto.
Ma l’ho
avuto.
Mentre
Seth… quella dolceamara soddisfazione non l’avrà mai…
Quindi,
come quasi sempre quando c’è di mezzo l’amore e tutto quello che c’è attorno,
una bugia vale più di mille verità.
“Certo
che no…” sbotto scandalizzata, guardandolo storto “Ti pare che gli darei questa
vittoria a quell’idiota?!”.
Lui mi
guarda con un sorriso tra il rassegnato ed il sollevato, e so di aver detto la
cosa giusta. In fondo, tra poco, questa maledetta storia sarà terminata e con
Seth non ci saranno più segreti o cose non dette.
Seth mi
dice che dobbiamo prendere la navetta per Wonderland alle undici precise alla
fermata della metropolitana e quindi mi ingiunge di andare immediatamente a
prepararmi, penserà lui a vestire Serenity. Poi, mentre mi sto per alzare, dice
una frase strana che mi fa voltare, storcendo le labbra: “Che hai detto?”.
“Ho
detto solamente…” esordisce lui alzando gli occhi al cielo “… che è meglio che
mi prenda io i rimproveri di Danny per la cura di Serenity che tu… con la
situazione tra voi, un nonnulla può far rimpiangere un bel fungo atomico su
tutto il Petite Peste…”.
“Perché,
scusa, mi avrebbe rimproverato per come curo Serenity?!” urlo arrabbiata,
quest’altra ci manca e lo prendo a testate!
Seth si
gratta la testa interdetto e mi chiede se non avessi sentito nulla stamattina.
Nego con
il capo, incrociando le braccia, e lui mi spiega che Draco ha iniziato ad
urlare per l’orribile odore del bagnoschiuma che avevo usato per Serenity,
dicendo che faceva vomitare e che solo abbracciare la piccola gli faceva venire
mal di testa.
Sospiro
disgustata: “Cavolo un bagnoschiuma alla ciliegia era! Mamma mia… che idiota…
d’accordo, vestila tu Serenity!”.
Ringrazio
Dio che almeno io, per evitare il casino del locale di mattina e le voci
starnazzanti di Summer e Seth che litigavano per qualche motivo, mi ero sparata
i Linkin Park a palla nelle orecchie, mentre
studiavo, preferendo la voce del cantante ai loro gentili colloqui.
Altrimenti
era la volta buona che lo uccidevo… pure Serenity mi vuole togliere, accidenti
a lui!
E poi
che cavolo c’è da lamentarsi di uno stramaledetto bagnoschiuma alla ciliegia?!
È da bambina! Insomma che la dovevo lavare con il suo invitante bagnoschiuma al
pino silvestre?!! La prossima volta chiederò quello di Summer, made in Christian Dior, per compiacere il suo delicato
olfatto… ma andasse a quel paese…
Salgo
decisamente innervosita al piano di sopra, spalancando con un calcio la porta
dell’appartamento, e mi affretto a cambiarmi, gettando i miei vestiti sul letto
ed indossando di malagrazia quelli nuovi, una semplice camicia azzurra ed un
paio di short kaki.
Sì, da
quello che avete capito precisamente, so diventare molto disordinata se molto nervosa!
E Draco
Malfoy ha la capacità di rendermi una furia, quindi insomma un concetto
abbastanza più ampio del mero nervosismo.
Mi
spazzolo i capelli, completando il tutto con una fascia che trattenga la mia
zazzera incolta, e usando solo un velo di cipria e di mascara. Chissene, tanto
oggi più che fare la babysitter a Serenity e Seth non farò, mio malgrado. E poi
i parchi divertimento, cavolo… ragazzini con le mani sporche di zucchero filato
che corrono come tarantolati, mascotte cretine che tratterebbero anche un
novantacinquenne come un moccioso desideroso di avere uno stupido cane
palloncino e famiglie esaurite che non fanno altro che urlare, per non parlare
di attrazioni acquatiche dove ti inzuppi dalla testa ai piedi, riducendoti ad
una candidata perfetta per il concorso di Miss Maglietta Bagnata.
Sai che
divertimento!
Dean li
adorava quei posti, ma io mi ero sempre erta insormontabile, dicendogli che non
se ne parlava. Lui faceva l’aria da cucciolo ed allora mi piegavo semmai a
vedere una maledetta partita di calcio, ma sempre meglio di un odioso parco
divertimenti.
Lui
metteva il muso, diceva che ero poco
elasticae poi accettava, facendomi
un largo sorriso e stringendomi in un abbraccio.
Dean… che strano che ogni tanto ci
continui di nuovo a pensare… probabilmente perché, di fronte a questi nuovi… sentimenti… maledico sempre
quell’errore, fatto in metropolitana, che mi portò qui… qui, lontano da lui…
Ora
magari, sarei con lui in Francia, avrei trovato un lavoro e mi sarei anche
innamorata di lui.
Sì come
no… sveglia Hermione… ancora ci credi a sta favoletta?
Mi siedo
sul letto, la testa piegata a fissarmi le ginocchia.
Chissà
che fa adesso, in Francia… lo immagino che cammina impettito come sempre, nelle
strade di Parigi, per le mani buste griffate, un perenne sorriso sul viso.
Guarda il cielo, pensa un secondo a me, abbassa lo sguardo e poi accende gli
occhi luminosi alla ragazza bionda che lo ha appena fissato languidamente. Mi
viene curiosamente da ridere, immaginandomelo con quell’aria da playboy che
assumeva sempre.
Per favore, prenditi cura di te
stessa, ora che io non posso più farlo…
Questo
mi ha detto… mi sollevo piano, raggiungendo il mio comodino. Apro un cassetto
e, sotto qualche maglietta, compare luccicante, come l’avevo lasciato, il
braccialetto di Dean, quello con le mie iniziali. Lo soppeso tra le dita per
qualche istante, prima di indossarlo. In fondo le iniziali sono le mie… ed in
fondo Dean, nonostante tutto, è rimasto un bel ricordo. Effettivamente, è come
indossare un bel ricordo.
Mi
stendo sul letto nuovamente, un braccio piegato sugli occhi a proteggermi dalla
luce del sole.
“Dean… “
sussurro con un filo di voce alle pareti della mia stanza “Vorrei tanto sapere
se prima o poi potrò smettere di farlo… di prendermi cura di me stessa… un
giorno, vorrei tanto che qualcuno lo facesse per me…”.
Io mi
sono presa cura di Ron. E di Dean. E a loro modo anche di Harry e Ginny.
Qualcuno, un giorno… si prenderà
cura di me?
Sono
così stramaledettamente stanca di… essere
forte…
Ma fino
a quel giorno, io, nel bene e nel male, mi dovrò alzare sempre. Continuare ad
andare avanti, sorridendo.
Nonostante
riconosca che non so quanta forza sia rimasta in questo corpo, nonostante
sembra che il mio cuore si sia fatto di pastafrolla…
Nonostante
questo… andrò avanti. Come sempre. Fosse anche per forza d’inerzia.
Perché
non sopporterei l’onta di cadere. E forse anche perché non so vivere in modo
diverso.
Non saper vivere in modo diverso.
Non saper pensare a cose diverse. Non saper dare cose diverse.
Il mio
cuore si ferma.
Stringo
il lenzuolo tra le dita, spalancando gli occhi contro il sole. Draco…
Si
sovrappone il mio pensiero al suo. Ricordo le mie parole crudeli di quella
sera, le sue spalle serrate, i suoi occhi sconvolti. Stamattina il sussulto al
suo nome…
…lui… forse, non mi può dare quello
che cerco. Qualsiasi cosa essa sia.
Ed è
così assurdo che mi sia venuto in mente solamente adesso.
Quello
che cerco… in fondo… è… che lui smetta di
essere forte… e che lasci che mi prenda cura di lui…
Qualcosa
che rivolterebbe dalle fondamenta tutto quel mondo che, nonostante tutto, lui
deve continuare a difendere.
Perché è
la sola cosa che ha.
La sola
cosa che gli consente di restare in piedi.
Ed
appoggiarsi a me, anche solo per un istante, ammettere di essere fragile… non
potrebbe più tornare indietro.
Mi porto
le mani scioccata alla bocca, chiudendole in un soffio, una lacrima che si
affaccia a rimirare la mia stupidità.
La
stupidità che si riflette anche nel mio ultimo scioccato pensiero… possibile che… anche per lui… sia lo stesso
che per me?
“Fammi
capire…” dico arrabbiata, tamburellando le dita in modo isterico sullo stipite
della porta “… io nella tua testa bacata ora che cosa dovrei fare?! Mutilarti,
no?!”.
Seth si
contorce su sé stesso, mugugnando: “Non è una tragedia, insomma…”.
“Infatti…”
accondiscendo con tono materno, sorridendo in modo mellifluo “Effettivamente
questa situazione assume maggiormente la connotazione di catastrofe…”.
“Ma dai!
Non esagerare come sempre!” cerca di difendersi Seth, guardandomi persino
scioccato, ma la sua faccia testimonia l’esatto contrario del suo ostentato
disinteresse. Se la sta facendo sotto. Ed ovviamente ora cerca di scaricare la
cosa su di me.
Sospiro
stancamente, guardando l’orologio. Le undici meno venti. Serenity, ignara di
tutto, nel passeggino batte le manine continuamente, sicuramente contenta della
prospettiva di andare nel “paese delle favole”, come le ho descritto il parco
divertimenti. Peccato che poco prima di uscire, Seth si sia accorto che non
aveva i biglietti… e, fin qui, la cosa potrebbe anche essere accettabile. Nel
senso, l’avrei riempito di male parole, l’avrei preso a sberle ed avrei
consolato Serenity, portandola al parco giochi a giocare con quegli orribili
animali di plastica colorata che si possono cavalcare, cosa che lei tutto
sommato avrebbe anche adorato, che avrebbe portato via solo un’oretta,
consentendomi anche di tornare a studiare, anticipandomi molto della mia mole
di lavoro.
Ma
invece no… Seth non li ha dimenticati, non li ha lasciati nei pantaloni che ha
messo in lavatrice, tantomeno li ha gettati per sbaglio.
No… li
ha lasciati sulla scrivania della camera di Draco…
Come
noi, lui non può entrare nella camera del supremo signore del Petite peste.
Eppure, l’altro giorno, era entrato per una questione
di vita o di morte… non so che cosa sia ovviamente, e dubito che i concetti
di urgenza di Seth saranno mai i miei.
Fatto
sta che è entrato, ha detto sta dubbia cosa a Draco e gli ha anche chiesto, già
che c’era, se voleva venire a Wonderland.
Li ha
mostrato i biglietti, ma Draco ha detto di no, dicendo che aveva da fare con
Summer, ma mentre ficcanasava su cosa dovessero fare Malfoy e la sua fidanzata,
aveva dimenticato di farsi ridare i biglietti. Ora suppone che siano ancora lì.
Ma il
peggio è che, ora, invece di flagellarsi con una frusta a nove code ed
implorare perdono dalle schiere angeliche, lui sostiene che dovrei andarci io in camera di Malfoy!
“Tu sei
scemo…!” urlo con tutto il fiato che ho in gola “Come cavolo te ne esci?!
Contrariamente a te, io non sono un’autolesionista… non mi piace il masochismo…
e nemmeno bramo suicidarmi!”.
“Ma dai,
Danny non c’è nemmeno in casa…” piagnucola lui “E se capisce che ci sono stato
io daccapo in camera sua, davvero che mi licenzia… tu almeno te ne vai in ogni
caso…”.
“E
certo!” lo contraddico “Per questa ragione, io dovrei prendermi tutti i suoi
rimproveri! Non volevi che mi occupassi di Serenity e ora mi vuoi spingere
nelle fauci del lupo?!”.
“Ma è
una questione di vita o di morte!”.
“E
dalle!”.
“Non mi
dire che non sei curiosa di vedere la camera di Danny?” cerca di allettarmi con
una lieve gomitata insinuatrice.
Ovvio
che sono curiosa… ma non sono poi così curiosa tanto da affrontare la morte per
direttissima.
“No”
nego incrociando le braccia.
“Bugiarda!”
si lamenta lui, poi decide di sfruttare un’altra carta: “Io non ci vado… quindi
nessuno ci andrà… quindi Serenity resterà mortalmente delusa…guarda che bel
faccino!” e prende in braccio la piccola dal passeggino, mostrandomela con aria
afflitta. La bambina continua a ridere contenta, divertita dal nostro
battibecco, mentre ballonzola nelle mani di Seth.
Gliela
strappo di mano, rimettendola nel passeggino, urlando ancora che non se ne
parla nemmeno.
“Uffa!
Ma insomma… ti lasci dare ordini da lui?!” tenta Seth per l’ultima volta.
“Io non
mi faccio dare proprio ordini da nessuno, che dici!”.
“Invece
sì!” urla ancora, agitando le braccia, poi, imitando goffamente una voce
femminile, inizia a squittire: “Danny mi ha detto di non entrare quindi io me
ne sto buona buonina a cuccia. Sì, così un giorno
Danny mi sposerà e vivremo nella casetta delle Barbie… io ho tanta paura di
Danny! Mi metto lo smalto rosa shocking sulle unghie dei piedi!”.
“Dannazione!”
mi metto ad urlare, gettandogli contro il volantino della serata in stile
Michael Jackson delle settimane prossime. Lui frigna ancora un po’ con quella
orribile voce da sorcio, quindi mi affretto a replicare: “Va bene, accidenti a
te!”.
Ritorna
normale in quattro secondi netti: “Grazie, sapevo di poter contare su di te!
Stai tranquilla, Danny non se ne accorgerà mai…”.
“E se
non se ne accorgerà mai, allora, non potevi farlo tu?!” inveisco nervosa,
guardandolo storto. Lui si limita semplicemente a sorridere sornione, fingendo
di non aver sentito, mentre fa giocherellare Serenity.
Ma tutte
a me dovevano capitare!
Persino
il Protocollo 3 bis di riforma dell’Uso della Magia per legittima difesa
sarebbe stato meglio! Ma se io me ne stavo bella tranquilla a studiare!
Salgo le
scale con il passo di un serial killer, la faccia scura e le mani artigliate
attorno al corrimano, continuando a borbottare improperi all’indirizzo di Seth,
fino a quando arrivo davanti alla tanto temuta porta. Deglutisco un paio di
volte, se Draco mi vedesse altro che licenziarmi… ingoio l’amaro boccone della
paura.
Da
Auror, so di aver affrontato cose peggiori, che diamine! Ed infatti la mia
mente ed il mio orgoglio mi dicono che non dovrei spaventarmi per una
sciocchezza simile ed anzi dovrei spalancare la porta della camera di Malfoy
con dispetto e farne risuonare il rumore fino a dove si trova lui, sfidandolo
poi a farmi qualcosa.
Tanto
quello più che sibilare insulti che altro mi potrebbe fare?
Ma,
invece, dentro davvero provo paura
all’idea di aprire quella porta. Non per la reazione di Draco… ma per quello
che c’è dietro quella porta.
Come se
mi trovassi ad aprire un vaso di Pandora che non so che cosa contiene. Ok,
d’accordo, non penso che ci sia niente di così strano, se anche Seth è entrato
senza problemi… e non penso nemmeno che, qualunque cosa ci potrebbe essere da
nascondere, Draco la terrebbe in bella vista. Inoltre, il suo divieto potrebbe
solo per privacy, per restarsene da solo a pensare ai fatti suoi…è
perfettamente il tipo da trascorrere ore in solitudine e di intimare divieti
per non vedere infranta la sua tranquillità.
E poi
con Seth nei paraggi, innamorato perso di lui, probabilmente anche io avrei
fatto lo stesso.
Eppure
non riesco a scrollarmi di dosso questa sensazione.
Resto
per qualche istante con la mano bloccata sulla maniglia della porta, il sudore
gelido che mi inzuppa la schiena. Resterò solo qualche secondo, non mi devo
preoccupare, non toccherò nulla a parte i biglietti e non mi guarderò nemmeno
attorno; Draco non se ne accorgerà mai. In fondo sono sempre un’ex Auror, no?
Di perquisizioni in incognito, ne ho fatte a decine. Sono anche abbastanza
cauta ed agile se mi ci metto. Mi chiamavano il felino di Worcester… Worcester perché, quando mi addestravo,
avevo sempre la fissa di mangiare le patatine con la salsa Worcester,
contrariamente a quanto ci era prescritto, ed un giorno poi che ce l’avevano
vietata espressamente, io… ma a che cavolo sto pensando?!
Deglutendo
ancora, abbasso la mano sulla maniglia della porta che si apre immediatamente
con un cigolio, tipo film dell’orrore.
Iniziamo
bene, quasi quasi mi auguravo che fosse chiusa a
chiave invece… effettivamente è un po’ contradditorio che la lasci anche
aperta, poi. Bah…
Faccio
qualche passo, la stanza è completamente avvolta nella penombra, rotta
solamente da qualche raggio di luce proveniente dalla serranda abbassata,
esattamente come la prima ed unica volta che ci ho messo piede, quando Draco mi
trascinò per le scale quando ci rivedemmo, pensando che fossi venuta per
un’indagine su di lui.
Sembrano
passati secoli… quasi come se temessi che la porta si chiuda alle mie spalle,
non lasciandomi più uscire, la accosto solamente, rendendo la stanza ancora più
buia di quanto già non fosse. Mi muovo piano, tenendomi attaccata al muro, alla
ricerca dell’interruttore della luce ma non lo trovo.
Maledizione!!!
Le mie maledizioni
aumentano quando urto qualcosa, causandomi un dolore lancinante al piede, cosa
anche trascurabile alla luce dell’enorme fracasso che ho provocato. Qualcosa
sembra essere caduto e rovesciato, ho avvertito un tonfo e altri rumori.
All’anima di Seth!! E pure alla salsa Worcester!
Per
fortuna, perlomeno, nella mia enorme sbadataggine ho urtato proprio la
scrivania di Draco, quindi adesso sono in grado di avanzare a tentoni alla
ricerca di una lampada che mi sembra di ricordare sia su di essa. Trovo con
sollievo l’interruttore e lo premo, una lieve luce bluastra avvolge le ombre
della stanza che si fanno più minacciose attorno a me.
La
stanza semi-illuminata non mi fa vedere granché dei grandi misteri di Draco
Lucius Malfoy, sembra una stanza come tante altre. Mura bianche che sembrano
appena stuccate, lampadario bombato di ferro e vetro, un letto singolo con una
trapunta vagamente rossa, la culla di Serenity avvolta da tulle rosa e giallo.
Niente
di strano, quindi.
Nessun
quadro alle pareti, nessuna fotografia incorniciata, nessun segno effettivo che
questa stanza sia viva… non morta.
Getto
uno sguardo distrattamente curioso alla scrivania; a parte i biglietti per
Wonderland, lasciati qui da Seth e che subito mi affretto a mettere in tasca,
non c’è nient’altro di particolare. Fogli di carta che riportano colonne di
dati e cifre, un portapenne, un block notes verde.
Niente,
insomma… deduco che sia la privacy a far vivere Draco come un segregato.
Qualsiasi
cosa nasconda, non è nella sua stanza.
Sto già
per uscire, quasi sollevata, quando urto qualcosa con il piede. Abbasso lo
sguardo, intuendo che deve essere la cosa che ho fatto cadere prima
involontariamente.
Una scatola rossa. Una scatola rossa
di cartone.
Doveva
stare sulla scrivania, evidentemente. Meglio rimetterla a posto. Alla faccia
del felino di Worcester! Assomiglio più al pagliaccio di McDonald’s…
Mi chino
a raccoglierla, il coperchio è scivolato di lato, ma non riesco a vedere il suo
contenuto. Nell’oscurità sembra un enorme buco nero e mi fa quasi paura; non ne
sono incuriosita, la rimetto a posto e basta. E me ne vado di qui.
Sollevandomi,
lo spostamento d’aria dà alito a qualcosa,
dolce come l’eco di un ricordo. Un… profumo
che, all’inizio, fatico a riconoscere.
Lo
sguardo vigile come quando ci si concentra, cerco di ricordarmi dove l’ho
sentito.
Poi… il
cuore mi salta in gola…
Ciliegia.
L’odore
penetrante ed intenso della ciliegia, solo leggermente soffuso dalla scatola
chiusa. Lo sento espandersi leggero, ostaggio di un tempo lontano, e quasi
stagnare sulle pareti, come se respirasse tutto attorno a me.
“Cavolo un bagnoschiuma alla
ciliegia era! Mamma mia… che idiota… d’accordo, vestila tu Serenity!”
Sgrano
gli occhi, la scatola ancora nelle mani. La scena inspiegabile di stamattina…
l’odore della ciliegia che ha sentito su Serenity... gli ha dato fastidio…
Forse gli ricordava questo…
È più
forte di me poggiare la scatola sotto il cono di luce della lampada e guardarci
dentro, il buco nero che ormai avviluppa la sua oscurità attorno alle mie
membra, impedendomi di andare via, catturando ogni raggio di luce attorno a me.
Imponendomi di restare… e di guardare…
Le mani
sono fredde e mi tremano, anche se non capisco perché. Dentroalla scatola, il profumo della ciliegia
che quasi mi fa impazzire, ci sono solo pochi oggetti.
Tutti
diligentemente conservati e riposti con cura.
Tocco la
superficie liscia di un qualcosa di morbido ma compatto, ed estraggo una
piccola agenda rossa. La soppeso nelle mani, la data impressa in copertina a
caratteri dorati è di tre anni fa. Perché conservare un’agenda di tre anni
prima?
A
disagio, spostando il peso da un piede all’altro, alla fine la apro, sfogliando
le pagine delicatamente, quasi come si trattasse di una reliquia.
La prima
pagina reca una scritta in rosso brillante… il nome del proprietario. Come
immaginavo, non è né Danny Ryan, né tantomeno Draco Malfoy.
Ed è una
fitta dolorosa che avverto dentro, la nego immediatamente, anche se comunque
non posso smettere di provarla.
Rachel Leigh.
Rachel
Leigh… l’agenda è di una tale Rachel Leigh. Non è un nome magico, decisamente.
Non ho mai sentito parlare di una famiglia, purosangue o no, che si chiami
Leigh. Ed insomma tra maghi, più o meno si sa a che famiglia si appartenga.
Quindi
una babbana…
Razionalmente
questo riesco a pensare, il mio spirito pratico che tenta di prendere il
sopravvento.
Eppure,
l’eco di quel nome si ripete nella mia testa, facendo crepitare un pensiero che
diventa sempre più grande, minuto dopo minuto.
Un
pensiero tutto sommato ovvio, ma che mi sento in dovere quasi di chiarire a me
stessa.
È il nome di una donna.
E già,
questo dovrebbe bastare a farmi fermare.
Ogni
uomo che conserva un’agenda di tre anni prima di una donna, potrebbe farlo
solamente per un motivo.
Eppure,
la stessa smania di sapere che spesso
mi è tipica, mi rende quasi feroce. Mi sento come quel giorno di tanti anni fa,
mentre leggevo il rapporto sulla fuga notturna di Ron da Lavanda. So che
probabilmente leggere equivale a soffrire, e potrei evitarlo, facendo finta di
niente.
Ma so
che non lo farò mai.
E mi
rassegno al fatto che inevitabilmente finirò a breve per maledire questa foga.
Sfoglio
le pagine velocemente, quasi maltrattandole, trovando solo impegni annotati
dalla stessa mano femminile. Ci sono molti nomi di riviste di moda, Vogue,
Vanity Fair, Cosmopolitan, accompagnati dal nome del fotografo e del truccatore
del giorno.
Una modella… babbana, ovviamente.
E quel qualcosa dentro continua a sbriciolarsi,
inesorabilmente, polvere rosso sangue che si disperde come in una tempesta di
sabbia, annebbiandomi gli occhi.
Non so
cosa sia… terremoto che mi scuote i sensi sapere che, nella vita del purosangue
Draco Malfoy, c’è stata un’altra babbana.
D’accordo,
ora c’è Summer.
Ma lei
non mi ha mai dato di una persona che, nella vita di Draco, poi, conti così
tanto, nonostante tutto.
Questa
donna, invece… questa… Rachel…
Appartiene
a quelle categoria di donne di cui conservare un’agenda a tre anni di distanza,
una categoria che, per un uomo, conterà in tutta la vita al massimo un
componente.
E, da
quest’agenda, emerge solo che donna impegnata e bellissima dovesse essere.
Mi mordo
inquietamente il labbro inferiore, con nervosismo, immaginandone il volto. Se
già Summer è bellissima, figuriamoci questa Rachel che troneggia in una scatola
indimenticata ed indimenticabile. Goffamente, incrocio il mio riflesso
disordinato e poco curato nel vetro della lampada da tavolo.
Come se avessi bisogno di guardarmi
per sapere che…
Dio,
stava con una modella… me la raffiguro nella mente con lunghissimi capelli
biondi, occhi azzurri circondati da ciglia nerissime, sorriso angelico, corpo
da favola. Tutto il contrario di quella che sono io… intimamente sento quasi
una spina di vergogna per ogni momento in cui mi ha guardato, in questi
lunghissimi giorni.
Deve
avermi soppesato con lo sguardo, notando solamente tutti i miei difetti, enormi
in confronto a quelli inesistenti di Rachel o di Summer.
Io che esco dal bagno, senza
asciugarmi i capelli.
Io che vado a passeggiare, sempre con
gli stessi jeans.
Io che mi mangiucchio le unghie,
senza lo straccio di una manicure.
E potrei
continuare… la scena della maglietta da calcio, la prima sera che sono stata
qui; il coma di quindici giorni; la sera in terrazza con le ciabatte rosa.
Non ci
posso pensare… per non parlare poi del giorno in cui mi ha baciato… doveva
avere una paura matta per osare farlo.
Ancora
sono così dannatamente sbagliata che vorrei non aver mai lasciato traccia nei
suoi occhi.
Vorrei che non mi avesse mai
guardata, nemmeno per un attimo…
Scivolo
senza volere a sedere per terra, le gambe che non mi reggono più in piedi, ogni
cosa che scopro di lui è un ulteriore argine a me, un monito a restare lontana,
un campanello d’allarme che trilla senza sosta.
Sempre di più… devo andarmene via da
qui… prima che davvero io non possa più tornare indietro…
Ora
posso ancora farlo. Tra poco… quando sarò…
innamorata… non potrò più. Quando un altro particolare di lui si sarà
conficcato nella mia anima, aprendomi un ancora più profonda crepa nel cuore,
io accetterò qualsiasi compromesso, umiliazione, mediazione, sofferenza, bugia
o dolore per restare un solo secondo, ancora qui.
Con lui.
Che sarà
sempre lontano da me, anni luce.
Quasi
per darmi ancora quel necessario dolore, continuo a frugare nella scatola
rossa, ciliegia amara che mi annebbia la testa. Poggio l’agenda dentro,
estraendo poi una serie di fotografie legate assieme da un nastro rosso. Ancora rosso. Rosso come la scatola. Rosso come ciliegia. Rosso come l’amore dannato
che mi sbatti in faccia.
Non
tolgo il nastro per non rischiare di lasciare tracce.
Ma è una
bugia… in realtà una foto basta ed avanza.
Eccola,
Rachel.
Eccola,
e già so che come sempre la mia mente aveva ragione.
Rachel
sorride nella foto, ferma, immobile, come nelle foto babbane. Guarda fisso
l’obiettivo, come se dietro di esso ci fosse la persona più importante del
mondo, e non credo che c’entri il fatto che probabilmente è abituata ad essere
fotografata.
Dietro
l’obiettivo, c’è sicuramente Draco. Non so come, ma credo di saperlo da quando
ho visto la foto.
I suoi
occhi azzurri sono sereni, dolcissimi e chiari. E, curiosamente, ancora, io so
che il loro colore preciso l’ho già visto.
Come
sapevo che la loro sfumatura deriva dal guardare Draco.
Perché,
quelli stessi occhi io li vedo da giorni. E so che diventano di quel colore,
quando incrociano gli occhi grigi di Draco.
Sono gli occhi di Serenity.
Rachel
deve essere la mamma di Serenity, della bimba dolcissima che tenevo poco fa tra
le braccia, che mi chiama Mione e che ho ricoperto di
ciliegia poco fa.
Questi
occhi, gli occhi di Rachel, hanno avuto tutto quello che io non avrò mai.
Hanno
trattenuto nei propri quelli di Draco, riempiendoli della luce che Seth
erroneamente attribuisce a me.
Ed hanno
plasmato quelli di una bambina meravigliosa.
Deve
avere solo qualche anno più di me, credo sui ventotto o ventinove; indossa un
vestito scuro che le lascia scoperte le spalle sottili ed abbronzate, appena
celate dai capelli castano chiaro, lasciati sciolti e liberi, ma comunque
assolutamente lisci. Non è truccata, eppure è permeata di quella perfezione che
io non credo che conoscerò mai.
Una
perfezione interiore, oltre che esteriore, ecco.
Serenità… come il nome che ha dato a sua
figlia.
Sono
sicura che Serenity sia sua figlia. Non so perché, ma lo so. Anche se avevo il
sospetto che Serenity fosse una strega, visto il coinvolgimento di Harry, ora
so che la normalissima Rachel sia sua mamma.
E
l’altra cosa che, guardandola, non so perché suppongo, sia la connessione anche
con Summer.
La forma
degli occhi, le linee del volto, la regalità ed eleganza dei modi che traspare
anche da una semplice foto… non sono cose comuni. Sono cose particolari che in
pochi hanno. Tipo io no… e tutto di
Rachel, mi dice di Summer. Forse sono parenti… e così Draco ha conosciuto
Summer. Tramite Rachel.
Sono
molto simili. Tranne per il sorriso.
Summer
non ride nemmeno per sbaglio. Ed è fredda come il ghiaccio.
Rachel è
un sorriso incarnato. Ed è rossa come
il fuoco che spesso passa repentino negli occhi di Draco.
Sarai stata tu l’ultima che l’ha
chiamato Draco? Vero? Ti ha raccontato tutto di sé, Rachel?
Scusami allora se, chiamandolo io
così, ho tolto quella traccia di te.
Chissà
dov’è adesso… se è davvero la mamma di Serenity, perché non è con lei? Con
Draco?
Si
saranno… lasciati? E perché allora non viene nemmeno a trovare la bambina? E
con Draco, poi… perché sarà finita?
E…allora… Draco… è davvero il papà
di Serenity?
Sono
centinaia le domande che solo la visione di questa donna può provocarmi.
Domande che, lo so, resteranno senza alcuna risoluzione, enigmi che lei, quasi
come la sfinge, ha messo in me, lasciandoli a marcire irrisolti.
Mi porto
stancamente la mano nei capelli, fiaccata dentro, come se avessi studiato mille
pagine da assimilare e memorizzare. Appoggio stancamente la testa sulla
cassettiera della scrivania, artigliandomi ad essa, le nocche che diventano
bianche a furia di stringere.
Sollevo
il viso, cercando la forza per finire questa perquisizione stupida che mi sono
trovata a fare. Sotto le foto, legate assieme, c’è solo un'altra cosa.
Una
cartolina di carta lucida che reca l’illustrazione di tanti piccoli fiori
bianchi con la corolla aperta, il nettare giallo.
Curiosa,
la volto ancora. La stessa mano dell’agenda, le stesse lettere allegramente
cicciottelle, i stessi puntini accentuati su ogni i.
Solo
poche righe, scritte ancora di rosso. Come
se non si fossero già stampate a fuoco nella mia testa ed avesse bisogno di
accentuarle.
Le leggo
freneticamente: So che non sopporti le cartoline e che le trovi odiose ed inutili,
ma insomma a questa non potevo resistere, non credi? Vienna è bellissima… ma
con te sarebbe stata più bella ancora. Cerca di stare attento. Ci vediamo a
casa. Rachel.
Nella
parte dell’indirizzo, il destinatario è ovviamente Danny Ryan. Mordendomi il
labbro, cerco di concentrarmi solo sull’indirizzo, che non è quello del locale.
Lancaster Road n76.
Non è
lontano da qui. Draco viveva lì tre anni fa? Lei… Rachel… sarà ancora lì? Ha
scritto, ci vediamo a casa, quindi
forse vivevano assieme.
Ha
scritto Danny… e allora non sapeva che lui, in realtà, è un mago?
E poi,
facendomi un po’ di calcoli… se non ricordo male, ciò che mi disse Harry
settimane fa, quando mi parlò di Draco… lui, alla fine della guerra, aveva
vissuto un po’ come sé stesso, tanto che gli era stato teso un agguato. Aveva
un posto al Ministero dove era rimasto per ben un anno e mezzo.
Quindi…
tre anni fa, quando Rachel scrisse questa cartolina…
Danny
Ryan ancora non esisteva.
Esisteva
solo Draco Malfoy.
E allora
perché c’è scritto Danny Ryan?
Possibile
che Draco, per stare con lei, vivesse già una doppia vita?
Quasi
posseduta, mi sollevo, rimettendo tutto nella scatola e risistemandola sulla
scrivania, poi strappo un foglio dal block notes, annotandomi l’indirizzo che
metto in tasca.
Non mi
importa che sia strano, non mi importa. Io questa donna, la… devo trovare…
Liberarmi
dell’ossessione di vederla, da oggi, per sempre, negli occhi di Serenity. E poi
in quelli di Draco.
Se sei la chiave che Draco ha
gettato in fondo al suo cuore, io ti afferrerò Rachel. Fosse anche per darmi un
po’ di pace, fosse anche per scordarlo, per capire che pensa ancora a te… io lo
farò.
Al momento farei di tutto per stare
solo un po’ meglio.
E tu, questo, dall’alto del tuo
paradiso dorato, popolato di tutto ciò che luccicante bramo con ogni fibra del
mio essere, questo non me lo puoi negare.
No, dannazione…almeno questo non mi sia negato.
Spengo
repentinamente la luce e scappo fuori da quella maledetta stanza. La porta
sbatte alle mie spalle, quasi intimandomi di tornare più.
Scendo
le scale, correndo, la voglia nei piedi di mettere quanta più distanza tra me e
la Rachel che
ancora respira nella stanza di Draco, ma sento l’odore della ciliegia che mi
prende persino i capelli, impregnandomi come un’esalazione nociva.
“Ce
l’hai fatta!” mi urla Seth, appena mi vede, stringendo Serenity in braccio.
Respirando
a fatica, distolgo lo sguardo dalla bambina, la cui immagine si sovrappone a
quella di Rachel. Mi sento colpevole, ma non riesco a evitarmelo.
“Che è
successo?” mi chiede Seth, preoccupato, avvicinandosi a me e poggiando una mano
sulla mia guancia gelida.
“Nulla”
mento, poi sollevo lo sguardo, puntandolo nel suo: “Seth, conosci Lancaster
Road? Dov’è precisamente?”.
Lui
sbatte le ciglia senza capire e mormora che è qui vicino, poi mi chiede
curioso: “Devi andare da Summer?”.
“Cosa?
No… che c’entra Summer, scusa?!”.
“Bè,
Summer abita lì, no? È per lei?”.
Sgrano
gli occhi. Il collegamento tra Summer e
Rachel esiste davvero allora.
“Al
civico 76?” chiedo con un filo di voce. Non faccio nemmeno finire Seth di
annuire con il capo.
“Ascoltami,
Seth…” dico trafelata, afferrando la giacca dall’attaccapanni ed infilandola
alla bell’e meglio “Io devo fare una cosa prima… aspettami alla fermata della
metropolitana… ok?”.
“Ma che
cosa devi fare adesso?!” piagnucola Seth.
“Tornerò
presto, te lo prometto…” sorrido, poi scappo via, spalancando la porta prima
che mi dica qualcos’altro.
Corro
fuori, il vento freddo che mi sferza il viso.
Sto arrivando, Rachel.
Taddadà, il nuovo capitolo! Questo può essere
decisamente definito come un capitolo di transizione, in attesa che succedano
delle cose molto più interessanti nei prossimi, quindi spero che non vi
deluda…! Questo personaggio, come forse avrete intuito, sarà molto importante,
anche se diciamo che è venuto fuori quando la mia storia era già bella che
cominciata… quindi nel caso dovreste trovare o ricordare delle contraddizioni
con quello che ho detto poi in seguito, non esitatelo a farmelo sapere,
cercherò di risolvere!
Il titolo significa
press’a poco “Rosa al sapore di ciliegia”.
Passo ai
ringraziamenti:
Cygnus Malfoy: la mia cara Helder! Non ti preoccupare per i capitoli precedenti e per
le mancate recensioni con questa ti sei abbondantemente rifatta! Ti ringrazio
per i complimenti ed anche per avermi rassicurato sull’essere o meno IC dei
miei personaggi, cosa di cui mi preoccupo spesso. La mia storia deve essere su Draco
ed Hermione, non su due che hanno lo stesso nome ma poi non c’entrano nulla con
loro! Quindi grazie!! Le risposte di Draco, al momento, sono il silenzio ma nel
prossimo capitolo si muoverà qualcosa, promesso!! Un bacio!!
Nyappy: ciao!! Grazie dei tuoi
complimenti! La differenza su attrazione ed amore era una cosa che mi premeva
molto chiarire… e spero che anche in questo sia evidente che Hermione sì prova
qualcosa, ma non è ancora amore! Grazie ancora!!
Seven: quanto aspetto le tue recensioni! Sono autentici
capolavori!! Eheheh!! Allora partiamo dall’inizio;
come hai giustamente sottolineato tu, Hermione è sempre lei, quindi è chiaro
che ci metta molto per capire le cose. Per come la immagino io, è una che tende
sempre a razionalizzare, a voler tenere le cose in ordine nella sua testa e,
quando una cosa fa saltare quell’equilibrio, la teme e cerca di tenerla fuori,
come sta facendo ora con Draco. Ma è anche chiaro che, nonostante lei lo neghi
e cerchi di metterlo a tacere, sa perfettamente che ormai il biondino non le
sta più indifferente… nei primi capitoli, basta che apriva bocca e si
scannavano, ora le cose lentamente stanno cambiando… per Draco le cose sono
meno evidenti, nel senso che lui non è così cristallino come Hermione, ma anche
per lui le cose stanno cambiando, e quel voi che frappone tra sé e lei, è quasi
l’ultima roccaforte che mette per difendere sé stesso, come se dicesse “Ma tu
guarda io che penso ad una che è un’Auror, un membro dell’Ordine, eccetera!”. Cosa
che, però, chiaramente la ferisce perché lei, proprio grazie a lui e al
racconto della fine dei suoi, ormai non crede più in queste divisioni… per l’attrazione
di Hermione per Draco, diciamo, che effettivamente anche essa è peculiare: non
è che lei guarda all’involucro, ma ricorda quel bacio e notare come le sia
piaciuto, la fa sentire confusa. I loro caratteri credo che si scontreranno
sempre, alla fine, non sono persone fatte per andare d’accordo, ma si spera che
si trovi un compromesso!! Eheheh!! Grazie ancora dei
tuoi complimenti, davvero aspetto sempre le tue recensioni con ansia!! Un bacio!!
Baby_ san: ciao!! Tranquilla, basta che alla fine hai recensito!!:D
grazie delle tue rassicurazioni su Draco, ne avevo davvero bisogno!! Un bacio!!
Vesper: evviva una nuova lettrice!!
Grazie dei tuoi complimenti, mi hanno riempita d’orgoglio!! benedico il caso
che ti ha portato a leggere la mia fic!! Eheheh!! I titoli dei capitoli cerco sempre di farli meno
scontati possibili… e non ti sto a dire questo che fatica m’è costato!! Eheheh!! Spero che recensirai ancora la mia storia!! Un bacio!!
Emmettì: la mia cara MT!! Compagna di
scorribande su L&L!! poveretta, che si è dovuta
sorbire 16 capitoli tutti d’un fiato!! Effettivamente, quando ho riletto tempo
fa i capitoli iniziali, mi sono accorta che la mia Hermione è un po’
nevrastenica e, come caratteristica, non credo che la perda mai… me lo
giustifico mentalmente, dicendomi che un po’ anche l’Hermione originale sia
tanto dolce di sale, anzi… e un po’ perché alla mia davvero è successo di
tutto. Sono contenta che non ti sei fermata, comunque nel leggere, un’altra
persona lo avrebbe fatto quindi un grazie triplo!! Ormai tutto il Petite peste
è quasi un mio figlio adottivo, specie Seth…e tranne Summer… il suo rapporto
con Draco sarà uno dei nodi di questa vicenda! E scoperto quello, tutto verrà
di conseguenza!!:D anche se premetto che non sarà un bellissimo momento per Hermione!!
Ti ringrazio davvero tanto!! Un bacio!!
saluti anche a chi legge e non recensisce!!
Quando
arrivo al 76 di Lancaster Road, so razionalmente di non aver fatto molti
metri dal locale, eppure ho il cuore in gola e il viso in fiamme.
Il
respiro mi manca e mi appoggio stancamente al muro, cercando di riprendere
fiato; sollevo lo sguardo e il numero 76, scritto in
eleganti lettere dorate, brilla beffardo nella luce del primo mattino. Una
parte della mia mente è ancora cosciente e non anestetizzata dalla corsa folle
che ho appena fatto, e mi chiede in tono ovvio ma necessario che diamine ci
faccia qui, alla ricerca di una donna che non ho mai visto e che nemmeno
conosco.
Anche se
trovassi Rachel, lei non potrebbe mai rispondermi alle domande che davvero mi
stanno a cuore.
Fosse
anche una donna estremamente indiscreta ed indelicata,
e mi raccontasse tutta la sua storia con Draco, lei non potrebbe mai darmi
quella pace che cerco.
Perché
la verità è che io voglio che Rachel mi svuoti
dentro.
Prenda
tutto questo bell’incendio che mi corrode l’anima e me lo geli su sé stesso, magicamente, dicendomi una qualsiasi cosa che mi
faccia smettere di pensare a Draco. Lei mi occhieggia da ogni vetrina, da ogni
passante, da ogni riflesso, e pretende che io sciolga questo mistero. E io corro alla ricerca di una medicina a questa stupida
follia che sembra avermi preso in questi ultimi giorni. Lei… mi sembra la sola
che possa darmela.
Mostrandomi
ciò che non ho avuto… e che non avrò mai…la mia mente ritornerà in sé e mi
prenderà di peso, per farmi tornare sulla retta via.
Tornerò quella di sempre, no? È sempre andata così, non mi sono mai
crogiolata in amori impossibili e storie tormentate.
Sapevo
di poter avere Ron e l’ho avuto. Stessa cosa con Dean.
Innamorata
o meno, quando capivo che un determinato ragazzo non mi era indifferente,
valutavo le possibilità che potevo avere, e, se ragionevoli, andavo avanti.
Anche se sembrava difficile, anche se le cose andavano male, anche se tutti mi
dicevano di lasciar perdere… dentro di me, quel
sillogismo perfetto reggeva sempre.
Avevo
prove, teoremi, dimostrazioni logiche ed
incontrovertibili. Avrei potuto filosofeggiare per ore, sorda a qualsiasi
richiamo ad essere realistica.
Ero
fatta per stare con Ron. Avrei imparato ad amare Dean.
E niente
mi poteva far cambiare idea.
Con Draco,
no.
La mia
mente fa corto circuito da settimane ormai. Io so che non posso averlo, eppure
il mio cuore o qualsiasi cosa sia imbavaglia la mia
mente… e non smetto di pensare a lui. A conti fatti, anche se sembra assurdo,
la sola che mi possa davvero salvare è Rachel Leigh.
Raccontami del vostro amore grande,
immenso, incomparabile, e dammi la prova che lui non
proverà mai niente di simile, per nessuna, tantomeno per me.
Mostrami come sei bella, Rachel,
compari ai miei occhi come una dea su uno scranno dorato; fammi sentire che
lui, al tuo confronto, mi guarderà sempre con disprezzo.
Dammi il sollievo di un teorema ineccepibile. Una cosa che imparerò con un po’ di lacrime,
ma di cui riconoscerò sempre l’inoppugnabilità.
Come quando andavo a scuola… faticherò,
suderò, mi dispererò, ma alla fine ne sarò persino soddisfatta. Mi glorierò di
me stessa. E sarà tutto dannatamente facile.
Dammi questo, Rachel, per
favore.
Il
portone del numero 76 è un raffinato portale di legno
rossiccio, con vetri colorati di verde e giallo, per maniglia un grifone
intrecciato. Sorrido, che sia di buon auspicio?
Un
palazzo elegante, insomma, adatto ad essere la casa di
una modella. O di Summer Layton.
Effettivamente
lei e Rachel non hanno lo stesso cognome… saranno lo stesso
parenti? O solo amiche? Compagne di casa?
Spio
discreta attraverso i vetri che, oscurati, però non permettono di vedere
all’interno. Maledizione… che, poi, che cosa volevo vedere? Non penso che
Rachel se ne stia nell’atrio ad aspettarmi… ammesso che abiti ancora qui…
sinceramente, ora che ci penso, ne dubito.
Una cosa
è che la sua casa, forse, è la stessa di Summer… una cosa è pensare che Rachel
effettivamente sia ancora qui. In fin dei conti, non ho mai sentito nemmeno
parlare di una coinquilina di Summer… quindi una cosa esclude l’altra. O qui ci
abita Rachel o ci abita Summer.
E sulla
seconda tesi sono sicura… inoltre, se ci rifletto su, se abitasse qui, perché
non è mai venuta al Petite Peste, anche se è ad un passo, a trovare Draco?
D’accordo,
questo ci può anche stare… potrebbero aver litigato o
miriadi di altre cose.
Ma, se davvero la mia supposizione è esatta e lei è la mamma di Serenity,
perché non viene mai da lei?
Evidentemente
non è più qui, che abita. Forse si è trasferita per
lavoro… facendo la modella è altamente probabile, e ha
lasciato il suo appartamento a Summer, forse una sua parente. Ed ha affidato
Serenity a Draco, che la cura in sua assenza. Cosa logica se Draco è il papà di
Serenity.
Ma allora perché non dirlo, fingere che sia sua sorella?
Che
senso avrebbe? E poi perché Harry, il Ministro della Magia, avrebbe il potere
di togliergli Serenity?
Le cose,
come sempre, non tornano… paradossalmente, la sola cosa che torna
è che Rachel, ragionandoci bene, quasi sicuramente non è qui.
Scorro
velocemente il citofono dorato e le targhette dei nomi dei condomini. Al numero
dell’interno 15, come immaginavo, c’è scritto solo Summer B. Layton.
Nessuna
traccia di Rachel.
E se poi
non avesse mai vissuto qui? In fondo la cartolina era per Danny…
Ora che
ci penso, è stato davvero idiota venire qui… che
diamine mi è preso? Sono venuta solamente a vedere un portone a vetri,
probabilmente ottocentesco, e a farmi paranoie. Sospiro, sto davvero perdendo
il cervello. Ora ci manca solo che esca anche Summer così faccio una doppia
figuraccia.
Anche
se… già che sono qui… potrei chiedere di Rachel a qualcuno… in ogni caso, sia
per Summer o per Draco, può darsi che comunque sia venuta qui
qualche volta.
Magari
c’è un portinaio o qualche vicino che se la ricorda… se poi davvero viveva qui,
è altamente probabile che sappia chi sia.
Almeno
non ho perso del tutto tempo. Forse mi sanno dire dove posso trovarla.
Con un
profondo sospiro, apro la porta spingendola piano ed
accostandola subito dopo. Mi accoglie un grande androne, che conduce ad una monumentale scala di marmo nero e bianco, corredata
di corrimano dorato. Proprio di fronte a me, una scrivania color ebano dove una
donna anziana in livrea verde legge distrattamente una rivista.
Appena
sente la porta aprirsi, solleva lo sguardo e mi guarda curiosa, inclinando la
testa di lato.
Mi
avvicino, appoggiandomi alla scrivania, sussurrando per paura che qualcuno,
tipo Summer, mi senta.
“Chiedo
scusa…” domando educatamente, schiarendomi la voce “Vorrei sapere se per caso
conosceste una ragazza di nome Rachel Leigh… non sono sicura che abitasse qui,
ma penso che ci venisse spesso…”. Fatta così, la mia domanda sembra ancora più
stupida di quanto non lo fosse già nella mia testa.
Per
fortuna, la signora sorride calorosamente e mi guarda tranquillamente,
sgranando i grandi occhi azzurri: “Certo, la signorina Leigh… siete una sua
amica?”.
“Diciamo
di sì…” sorrido un po’ triste “Abbiamo degli amici comuni e mi piacerebbe
rintracciarla… abita qui?”.
La
signora nega con il capo: “No, signorina… o almeno non abita più qui da qualche
anno… viveva all’interno 15…”.
Come immaginavo… lo stesso di
Summer…
“Capisco…
e non saprebbe dirmi dove posso rintracciarla?” chiedo ansiosamente.
Lei ci riflette un pochino, grattandosi pensosamente la
guancia sinistra, poi dice incerta: “Non saprei, la signorina Leigh se ne andò
all’improvviso… non ci salutò nemmeno, da un giorno all’altro prese e se ne
andò… venne un camion a prendere le sue cose… io non la rividi più. Mi disse tutto il signor Ryan…”,
la signora si illumina per poi dirmi: “Ecco potrebbe
chiedere a lui…!”.
Ecco,
ovviamente. Come volevasi dimostrare, Draco frequentava molto questo posto. Evidentemente veniva a trovare Rachel… come tuttora sicuramente fa
con Summer. Ovvio che Danny Ryan sappia tutto di Rachel. Peccato che sia
l’ultima persona con cui vorrei parlare al momento.
Fingo indifferenza: “Il signor Ryan? Come mai la
conosce?”. Non preciso se io lo conosco a mia volta, sperando che lei ci
caschi, smaniosa di parlare.
Per
fortuna ci prendo.
“Il
signor Ryan era il fidanzato della signorina…” dice lei, ammiccando “Mai vista
coppia più bella… lui, poi, è un bellissimo giovane. Biondo,
occhi azzurri, un principe da favola… e lei, Rachel… una modella, figurarsi.
Erano bellissimi assieme…”.
Anche
questa mia supposizione, era corretta. “Erano? Non stanno più assieme?”
chiedo con un filo di voce.
“No,
signorina… quando Rachel andò via, non vidi il signor Ryan per parecchio tempo,
credo che sia stata una brutta rottura. Ritornò mesi dopo con un’altra ragazza,
la signorina Layton, l’attuale affittuaria dell’appartamento 15… ma non rimane
mai qui, come prima. Insomma, signorina, detto in confidenza, non credo che sia
la stessa cosa. Con Rachel, rimanevano qui giorni e giorni,
senza uscire mai… con la signorina Layton, va sempre via poco prima dell’alba…”.
“Capisco…”
mormoro a bassa voce “Quindi lui veniva spesso da Rachel?”.
“Spessissimo…”
sorride lei, e io mi sento sempre peggio “Se mi lascia
il suo nome, posso dire al signor Ryan che è passata… dovrebbe scendere tra
poco…”.
Sgrano
gli occhi terrorizzata: “E’ qui?!”.
La donna
annuisce, dicendo che è di sopra con la signorina Layton.
Stupida!
È vero, Draco era uscito con Summer… perché non mi è venuto in mente che
potevano anche essere qui?
Dannazione…
Non ho
cavato granché da questa conversazione, solo che effettivamente Rachel era la
fidanzata di Draco e che si sono lasciati in maniera
improvvisa e prevedibilmente dolorosa. Rachel non vive da
tempo qui e il suo appartamento è quello di Summer. Cose che insomma
avevo già abbondantemente intuito.
Adesso è decisamente
meglio che me ne vado.
Faccio
per salutare la signora, ma una voce interrompe il mio intento.
Non è la
voce che temevo di sentire, ma diciamo che è lo stesso
una voce che avrei preferito non sentire.
“Che ci
fai qui, tu?!”
mi ferisce le orecchie una vocetta stridula, amplificata dall’eco dell’androne.
Ovviamente Summer. Sollevo leggermente lo sguardo per guardarla scendere
regalmente le scale, come se ci fosse nata sopra. Quell’eleganza innata, di cui
parlavo, Summer la manifesta in ogni cosa che fa; eppure ha l’espressione del
viso aggrottata in una smorfia arrabbiata. Questa espressione è comunque
precedente ad avermi visto.
Si sa
che lei non è che salti di gioia quando mi vede, ma generalmente, qualora sia
per me, ci vuole un bel po’ per farle assumere quella
faccia.
Ci deve essere stato un riferimento alla festa, che è andata bene anche
senza di lei, oppure una risatina trattenuta di qualcuno che evidentemente
crede a Seth e al bacio tra me e Draco. Cosa che, penso, nonostante tutto, sia
arrivata alle sue orecchie.
Ma, se
questi accenni non ci sono stati, di solito tende ad
ignorarmi per non darmi troppa soddisfazione. Ciò, con mia somma gioia,
ovviamente.
Perciò,
credo fermamente che adesso non sia direttamente arrabbiata con me solo perché
le sono capitata di fronte.
E la
cosa mi si conferma, quando vedo scendere Draco.
Senza
volere, mi incanto come sempre a guardarlo, lui che è
sempre così dannatamente bello che vorrei cavarmi gli occhi pur di smettere di
fissarlo.
Sempre
con quel viso annoiato in modo elegante, sempre con i capelli biondi spettinati
in modo raffinato, sempre con quel fisico da nuotatore che non so come faccia a
mantenere, sempre con gli abiti studiati per farlo apparire perfetto. È ovvio che doveva essere
bellissimo vederti accanto a Rachel…
Ancora
mi sento, al pari di quella ragazza sconosciuta e di Summer, che comunque ho di
fronte, maledettamente sbagliata in qualsiasi contesto
che riguardi lui.
Mi
stringo timidamente nelle spalle, abbassando gli occhi e sfuggendo dalla sua
vista, l’eco del profumo della ciliegia che sento fino nelle ossa e che quasi
temo lui possa sentire.
Mentre
lo guardo scendere e fermarsi sullo stesso gradino di Summer, mi chiedo
distrattamente perché la portinaia non ha pensato che fosse bellissimo anche vederlo accanto alla
sua attuale fidanzata: sono biondi tutti e due,
eleganti tutti e due, bellissimi tutti e due, e fanno decisamente un bel
quadretto.
In cima
a quella scala, adesso, immobili, con la stessa
espressione sul volto di disgusto, mentre guardano me, sembrano due altolocati
nobili di qualche prestigioso casato perduto.
Eppure…
Arriccio
il naso quasi con fastidio a quel pensiero.
Non so
come e non so perché, ma effettivamente per loro due userei la parola quadretto, non coppia.
Qualcosa
tra Draco e Summer sembra sempre sbagliato, come se fossero attaccati assieme e
costretti a stare vicino. Mi danno sempre l’idea di una cosa che sta assieme
solo per una costrizione, eppure sono così belli… ma è come se, dentro, questa bellezza loro non la condividessero.
Quella
bellezza che, invece, sembrava trasparire come un’aura luminosa da Rachel e
che, dalle parole della portinaia, desumo avvolgesse anche Draco.
Draco,
già… appena è sceso, sembrava annoiato, tremendamente stanco. Come uno che
avesse appena finito di litigare e si rassegnasse che non potrà mai essere
diverso da così… e vedendo come sta Summer, probabilmente hanno litigato
davvero.
Poi ha
sollevato lo sguardo e mi ha visto. Sgrana gli occhi, forse non capacitandosi
di vedermi lì, in quello che deve essere adesso, come tre anni fa, il suo nido d’amore.“Granger…” sibila scontroso, finendo di
scendere le scale “Lo stalking è perseguibile penalmente, spero che tu lo
sappia, visti anche gli studi che stai conducendo…”. Fa un sorriso melenso,
guardandomi di sbieco, alludendo ovviamente all’esame di legge che dovrò
sostenere a breve.
Sembra
quasi temere la mia presenza qui, in questo palazzo dove riposano parte dei
suoi ricordi con Rachel.
Mi vede
estranea a tali ricordi e magari vuole che me ne vada per non profanarli
ulteriormente.
Vorrei
farlo, andarmene, ma resto bloccata come un’idiota. Pensa, Hermione, pensa…non posso nemmeno inventare granché balle con la
portinaia che ascolta avida e curiosa, ora che ha anche visto che stranamente
il ragazzo di cui fingevo un’assoluta non conoscenza, si è appena rivolto a me.
“Eccoti!
Accidenti!”.
Mi volto
verso la direzione della voce, che sembra provenire dal portone d’ingresso.
Seth.
Con Serenity.
Al
momento non mi soffermo sul motivo per cui sia qui, mi sembra soltanto di
sentire un coro celestiale accogliere il suo arrivo. Qualcosa tipo “Alleluiaaaa…”.
“Ti ho detto che non era qui che si fermava la navetta! Ma no… dovevi
chiedere per forza!” mi urla con voce arrabbiata.
Ma che
diamine dice?! Boh, questo è scemo forte… poi, mentre
avanza verso di me, dando le spalle alla scala e quindi a Draco e Summer, mi
strizza l’occhio.
Sorrido,
ma certo… sta fingendo per reggermi il gioco. Non voglio sapere perché mi abbia
seguito, ma, santo cielo, meno male che l’ha fatto.
Anche la
portinaia deve aver inteso qualcosa, forse intravedendo il cenno di Seth,
perché dice compita a Draco: “La signorina mi ha chiesto delle informazioni,
signor Ryan… ma stava andando via adesso… le serviva qualcosa?”.
La
vorrei baciare questa signora! Sorrido anche a lei a trentadue denti,
affrettandomi a replicare: “La ringrazio, signora… davvero…”.
“Si
figuri, per così poco” mi dice lei, facendomi un largo sorriso.
Non so
questa donna che abbia capito di sta faccenda, ma al
momento poco importa.
“Navetta?”
chiede Summer, scendendo le scale ed avvicinandosi a
Seth. Stranamente, la vedo anche chinarsi all’altezza di Serenity ed accarezzarle distrattamente la guancia. La piccola si
ritrae confusa, esattamente come diventiamo anche io e
Seth.
Insomma,
lo sappiamo che Summer e Serenity non si incrociano
mai, se non per lo stretto necessario: io e Seth, oltre Draco ovviamente, ci
occupiamo di lei, Summer declina sempre elegantemente l’invito, scappando nella
direzione opposta. E non parliamo solo di cambiarle il pannolino o cose simili,
altrettanto disgustose, ma anche di coccolarla, uscirci assieme, portarla in
giro a fare spese, cosa che forse potrebbe anche piacerle.
Summer
di solito non degna Serenity di uno sguardo, se non quando Draco è presente.
Ma anche allora, fa lo stretto necessario e poi se ne scappa.
Che
adesso le faccia da sola una carezza, è una cosa alquanto strana… decisamente, deve
essere successo qualcosa tra quei due. Getto un’occhiata in tralice a Draco e
lo vedo sospirare lievemente… boh… evidentemente devono aver litigato sulla
cura della bambina. Forse ha rimproverato Summer perché non la cura abbastanza
e lei sta cercando di rimediare. Forse Rachel voleva
che anche Summer si occupasse della piccola, in sua assenza, chissà…
Di
malavoglia, Seth spiega a Summer che stavamo per prendere la navetta per Wonderland.
“Ok,
allora veniamo anche noi…” replica Summer, convinta, rialzandosi in piedi.
“Che
cosa?!” chiediamo io e Seth, sconvolti, guardandola
male. Deve essere uno scherzo… ok, stiamo calmi… ma che stiamo calmi e stiamo
calmi!! Ho fatto di tutto per evitare Malfoy e adesso
per colpa di questa sciroccata, che chissà che diamine ha oggi, io ci devo
passare tutta una giornata assieme!!
Ma siamo
matti?!
Non
esiste al mondo, che diamine!
Loro
andranno a Wonderland, ma io me ne tornerò a casa… a
studiare, a fare supposizioni su Rachel, a contare quanti cereali ci sono in
una scatola, a pomiciare appassionatamente con Trey, qualsiasi cosa tranne che
stare lì con Draco Lucius Malfoy! Mi gettassi anche per terra a piangere come
una bambina di cinque anni o mi strappassi le vesti in preda ad una crisi
mistica improvvisata, IO NON CI ANDRO’ MAI!!! Me ne strafrego!! No, no e no…
“Mi
sembra una buona idea…” sento Draco dire, scendendo le scale a sua volta ed avvicinandosi con Summer all’ingresso. Mi getta
un’occhiata storta, evidentemente aspettandosi che io dica che non ci vado più.
Idiota, non che non ci va lui! Io devo inventarmi una scusa su due piedi!!
“Ehm…”
inizio, schiarendomi la voce “A questo punto, visto che
siete così tanti a controllare Serenity, penso che me ne tornerò a casa…”.
“Dov’è
che te ne torni tu?!” mi minaccia Seth, prendendomi
per un braccio, per poi mugugnare nel mio orecchio: “Io non ci resto con questi
due a fare la parte del terzo incomodo! Mi devi un favore, ricordi?!Ora saresti nel pieno
dell’interrogatorio sulla violazione della dimora della divina Summer se non
fossi intervenuto…!”.
“… e non
mi avessi seguito…” borbotto a bassa voce, mentre Summer e Draco prendono in
braccio Serenity.
La
portinaia alle nostre spalle continua ad ascoltare avida, per lei questa
scenetta deve essere meglio di una puntata di Beautiful. Mi allontano con
discrezione, afferrando Seth per un braccio, poi insisto: “Mi hai seguita! Cosa che fa crollare la bontà del
tuo intervento!”.
“Inezia
di poco conto! Ora mi devi sto favore!”.
“Ma
scusami non puoi farli andare da soli?!”.
“No! L’idea
è la mia! E poi non voglio lasciare Summer a Danny!”.
“Ma Danny è di
Summer!”.
“Fin
quando non hanno la fede al dito, gli uomini sono del demanio pubblico!”.
“All’animaccia
tua!” commento menandogli una gomitata nelle costole “Ti ricordo che io sono entrata
nella camera di Danny al posto tuo!”.
“E io adesso ti ho letteralmente salvato la vita, quindi
zitta, oppure dico a Summer di te e Danny e del vostro bacio appassionato!”.
“Non
oseresti…” sibilo arrabbiata, guardandolo male, gli
occhi ridotti a fessure. Mamma mia, se Summer ha la
conferma di quello che pensa, credo che mi ammazzerebbe nel sonno per poi
tagliare a pezzi il mio corpo e metterlo in una valigia. E credo che, al
momento, Draco Lucius Malfoy non la denuncerebbe nemmeno per occultamento di cadavere…
alzerebbe un sopracciglio, chiedendole soltanto di seppellirmi abbastanza
lontano per non essere disturbato dal fetore del mio corpo in decomposizione.
“Oh sì
che lo farei…” replica Seth deciso, sogghignando “Sottovaluti quanto odi quell’arpia di Summer…”.
Sbuffo
calorosamente con il naso: “Me la pagherai, atrocemente, Green… la prossima
volta che ti verrà il complesso del tuo alluce troppo grosso alle cinque del
mattino, non ci sarà nessuno a consolarti…” concludo
minacciosa e soddisfatta.
Lui sbianca
un po’, poi tenta di farsi coraggio e dice: “Sopravvivrò…”.
“Farai
bene a ricordartene…” lo minaccio con una spallata “I traditori finiscono
dritti nelle fauci di Lucifero! Accanto a Giuda, Bruto e Cassio!”.
“Non sono un traditore…” mugugna lui “Sta cosa è capitata! E poi tu
stamattina mi hai detto solo che non volevi stare troppo con Danny, non con
Danny & Summer…”.
“E
giustamente!!C’è un’enorme
differenza…!” replico sarcastica e gli pesto il piede, per poi allontanarmi
elegantemente.
Pure sto
pazzo ci voleva!
Mi
avvicino cautamente alla coppia bionda. Entrambi inarcano un sopracciglio, nel
vedermi riavvicinarmi, mentre Serenity ride felice, divincolandosi da Summer
per venirmi in braccio. Che tenera… in fondo non è tutto così male. Malfoy o
no, questa forse è una delle ultime giornate che posso passare con Serenity. Quindi chissene di lui e di Summer… quest’ultima mi sta
guardando con odio puro, evidentemente irritata dalle manovre della bambina che
dimostra di non adorare la sua compagnia. Draco, invece, guarda
entrambe con espressione indecifrabile, poi lo vedo alzare gli occhi e prendere
Serenity dalle braccia di Summer che lo guarda contrariata.
Si
avvicina a me e mi porge la bambina: “Devi venire
anche tu…” mormora con voce insofferente “E’ troppo piccola per capire chi
conviene frequentare e chi no…”.
Lo odio decisamente. Lo odio.
Prendo
in braccio Serenity ed annuisco con il capo, poi mi
allontano con Seth alle calcagna.
Almeno
non ho dovuto dire io che venivo, una soddisfazione almeno l’ho avuta!
Serenity
mi guarda dubbiosa, mentre usciamo dal portone, e tento di rassicurarla con un
sorriso, sta bambina ha peggio di due antenne in testa…
“Tranquilla,
piccola…” le sussurro in un orecchio “La mia promessa è sempre valida…”.
Lei
sorride ancora, quasi come se avesse capito, anche se ne dubito.
Getto
un’ultima occhiata al palazzo, mentre anche gli altri escono. Sento lo sguardo
di Draco addosso, quindi mi affretto a riprendere a camminare.
Ma è come se ormai gli occhi di Rachel li avessi sempre addosso.
Da
dovunque ella sia, ne sento quasi la presenza
asfissiante tutto attorno a me. E, sebbene non lo capissi prima, anche attorno
a Draco, Summer e Serenity.
Chiunque tu sia, Rachel… e dovunque
tu sia… ora sembra quasi che ti diverti a giocare con le nostre quattro vite.
A giocare con gli occhi di Serenity
per renderli uguali ai tuoi. Con i gesti di
Summer per farli assomigliare ai tuoi. Con i ricordi di Draco
per renderli solo tuoi.
E con i miei pensieri… perché sei tu
la chiave di questo mistero. Ed
ora essi, i miei pensieri, sono stranamente tutti tuoi.
“Non
vuole che tu te ne vada, comunque…”.
“Scusami,
Seth, non ti stavo ascoltando…” borbotto, asciugandomi il sudore dalla fronte
“Sto jingle è davvero irritante…”.
Cavolo,
sono venti minuti che sono a Wonderland, e già la
odio! Sta musica demente che fa da colonna sonora al parco, la ripetono
trecento volte al secondo. Mi dà davvero la nausea… e
poi la gente! La gente, dannazione! È tutto pieno! Credo di star diventando
misantropa a furia di stare con Malfoy…
Siamo in
coda già da dieci minuti per salire sulla giostra dei cavalli. Lo ammetto, è
uno splendido carosello dorato a due piani che i più piccoli guardano
avidamente, compresa Serenity che è muta da quando ci siamo avvicinati. Sorrido
mentre vedo le luci colorate inseguirsi pazze nei suoi occhi azzurri, e tento
di ignorare che sono sempre stramaledettamente uguali a quelli di Rachel.
Sto
cercando di non rovinarmi la giornata. E la vita, insomma.
Perché,
comunque, questa faccenda non mi riguarda.
Ora… e
tra un po’… perché, tra qualche settimana, per fortuna, la mia vita e quella di
Draco si separeranno ancora, come sempre doveva essere.
E credo
che saperne quanto meno possibile anche di questa
donna, sia la cosa migliore.
“Stavo
dicendo…” ripete lui pazientemente, gettando un’occhiata discreta alle nostre
spalle, dove Draco e Summer sono seduti su una panchina, dato
che non ne volevano sapere di salire su questa giostra “… che Danny non
vuole che tu te ne vada…”.
Sussulto,
restando immobile per qualche secondo, basta che nomini quel nome e già io mi
scollego completamente dal reale. È come se mi prendesse in pieno una folata di
vento, riducendomi gli occhi a due fessure, annebbiandomi la mente della
polvere di mille pensieri e ricordi. Quel nome, sia esso Draco o sia esso
Danny, è così piccolo… eppure, mi riporta a centinaia di migliaia di cose
diverse. Odio, rancore, rabbia, fastidio, rimorso, compassione, tenerezza,
meraviglia… ed infine questa cosa dentro che non mi
lascia mai in pace, qualsiasi cosa essa sia.
“E da
dove avresti ricavato questa tua tesi?” chiedo, fingendo il disinteresse che
non ho.
“Per
cominciare, sono giorni che se ne sta zitto e per conto suo…” inizia Seth ad enumerare mentalmente, contando sulle dita “E stamattina
davvero era intrattabile… la scena del bagnoschiuma non è stata normale…”.
Abbasso
gli occhi e mormoro: “Non era per me, Seth… stai proprio tranquillo su
questo…”.
Lui mi
guarda curioso, senza capire, ma non mi chiede nulla e gli sono abbastanza
grata mentalmente. Distraggo la mia mente dal pensiero di Rachel, guardando
ancora quanta gente manchi per quando tocchi a noi salire.
Intanto
Seth prosegue: “Comunque al di là di questo, è
diverso, Danny è diverso… e credo che
c’entri con il fatto che tu te ne vada, non l’ho mai visto così… e credo che
anche Summer se ne sia resa conto…”.
“Summer?”
chiedo perplessa “Queste cose le vedi solamente tu… perché io non le vedo,
scusa?”.
“Perché
tu sei tu…” risponde Seth ovvio, roteando gli occhi “Non mi dire che non ti sei
accorta che Summer è strana oggi? Troppo attaccata a Serenity
per esempio…”.
Annuisco
con il capo, fin qui c’ero arrivata. Non vedo che c’entri io, però.
“E non
ti chiedi il motivo?” mi chiede, mettendomi una mano sulla schiena e
sospingendomi leggermente, dato che è arrivato il
nostro turno.
Meditabonda,
salgo su un cavallo di legno, completamente ricoperto di fermagli dorati,
fiocchi rosa ed argento. Serenity gorgheggia felice e
distrattamente la sistemo davanti a me, mentre poggia le manine sulla testa del
cavallo, saltellando quasi come una vera cavallerizza. Seth invece rimane in
piedi, accanto a me, poggiandosi con un fianco al collo dell’animale finto.
Dopo un
po’, rispondo dubbiosa: “Me ne posso anche chiedere il motivo, ma non lo
immagino…”.
Mentre
il giro inizia, Serenity ride ancora contenta, aggrappandosi al collo del
cavallo, ed anche io mi sistemo meglio ascoltando
Seth.
Seth
guarda distrattamente attorno a sé e, quando la rotazione ci riporta al punto
di partenza, dice con un sorriso: “Guarda…” e con il capo indica il punto dove abbiamo lasciato Draco e Summer. Mi volto e lo
vedo con lo sguardo puntato verso di noi, sparisce nella girandola colorata del
mondo fuori da questo carosello.
Seth
scrolla il capo, ripetendo: “Non sta guardando Serenity… sta
guardando te con Serenity…”.
“Perché?”
sussurro, l’assurda melodia che ci circonda che assorbe le mie parole, ma lui
le sente lo stesso.
Mi dice
semplicemente: “Lo sai perfettamente, Herm… la sola donna che potrà mai
avvicinarsi a lui, dovrà sempre passare per Serenity… e la prima sei tu…”.
La
giostra gira ancora e sono ancora lì davanti a lui, curiosamente mi viene da
sorridere. La magia di questa giostra è che posso tornare sempre a guardarlo
senza sentirmi di colpa, senza doverlo negare. Mi riservo la sua immagine negli
occhi, prima che mi diventi ancora estraneo il suo volto. Poi passano ancora
altri colori, e poi di nuovo lui.
E quasi
le parole di Seth mi convincono davvero, quasi davvero sento che sta guardando
me con Serenity.
Quasi
distinguo un sorriso sulle sue labbra sottili, quasi vedo i suoi occhi
rischiararsi.
E quasi,
suicida, mi dico convinta che vorrei stare per sempre qui, sospesa in questo
momento, per sentire sempre i suoi occhi come velluto sulla mia pelle.
Fosse
per qualsiasi motivo del mondo.
Fosse
anche perché, semplicemente, io voglio bene a Serenity e lui non la vuole
privare di me.
Come ha
fatto prima.
Non mi importa… come questi colori che vorticano attorno a me,
io mi sento splendente di sfumature che sono state disegnate solo su di me.
Splendente
di quello che Seth mi dipinge.
Poi il
giro finisce… la testa smette di vorticare. E Draco viene a prendersi Serenity
e la porge a Summer che la prende in braccio, possessiva.
Lui
ancora non mi guarda nemmeno in faccia.
E resto sola con Seth, spogliandomi ancora della carta color
caramella di un’illusione che lui mi ha plasmato addosso.
“Seth…”
bisbiglio mentre Summer e Draco si allontanano “Non farlo mai più… ti prego…”.
Lui si
preoccupa e mi si avvicina premuroso, toccandomi una guancia. Si spaventa
quando la ritrae bagnata.
“Herm,
cosa c’è?”.
Sollevo gli occhi, cercando di frenare le lacrime che cadono
a precipizio, e lo fisso negli occhi con decisione: “Non dirmi più queste cose,
Seth… io, non posso più sopportarlo…”, abbasso gli occhi mentre lui mi guarda
dispiaciuto e dice: “Perché? Lo odi a tal punto da non sopportare
qualche mia riflessione innocente?”.
Mi
sembra quasi arrabbiato, e a quel punto so che non posso più trattenermi. Come
se mi stessi disgregando in mille briciole inconsistenti, il mio proposito
della mattina è andato a farsi benedire, lo so mentre già penso la risposta che
sto per dargli, mentre mi auguro di odiare Draco, quando ormai non lo faccio
più.
Lo
sorpasso bruscamente, mettendo qualche passo tra me e lui e dandogli le spalle.
Non ho
il coraggio di guardarlo in faccia, non voglio leggere dolore o rabbia o
qualsiasi altra cosa a ciò che sto per dire.
Una
parte di me, una estremamente codarda, mi dice che
l’ha voluto lui. Ed una parte di me… Bè credo che mi
stia maledicendo… ma è già tutto maledettamente difficile, senza che ci si
metta anche lui. E deve capirlo.
In un
sussurro, dico solamente: “Stamattina mi ha chiesto la verità, Seth… sul perché
vado via… e io ti ho mentito. Avrei continuato a farlo
se tu non mi avessi detto queste cose adesso, perché non voglio perderti come
amico. Ma la verità è diversa…”, sospiro profondamente prima
di proseguire: “…non me ne vado perché odio Danny… me ne vado proprio perché ho
smesso di farlo…”.
“Nel
senso che…?” mi chiede allora lui, dopo qualche attimo di silenzio.
“Nel
senso che… non lo so, Seth…” rido amaramente, girandomi alla fine. La sua
faccia non è straziata dal dolore, è solo curiosa e scioccata.
“Ti sei
innamorata di lui?” sussurra lui, guardandomi in viso.
“Certo
che no!” erompo scandalizzata, facendo un passo indietro, asciugandomi le
lacrime con la manica della camicia.
“Ma non ti è indifferente…” mormora Seth, avvicinandosi a me
“E questo, per te, è così terribile?”.
Rifuggo il suo sguardo, guardando altrove, apparentemente
ipnotizzata da un bambino che si dimena per avere dello zucchero filato.
Annuisco
con il capo, semplicemente: “Non volevo che tu lo sapessi… ma diciamo che mi ci
hai costretto…”.
“Herm,
tesoro…” mi fa lui, avvicinandosi ed abbracciandomi
“Non ti devi preoccupare, piccola… puoi parlarmi liberamente… e comunque il mio
pensiero lo sai… ma se questo ti fa male o ti impedisce di essere serena, non
ne parlerò più…”.
“Grazie”
lo abbraccio a mia volta, è meraviglioso avere un amico come lui. Davvero, non
so come facessi prima di incontrarlo.
Non che
Ginny o Harry non fossero stati mai degli amici fantastici, anzi… ma Seth è
davvero una persona speciale.
È una persona
così pura e semplice che davvero… non so come faccia a vivere…
Io non
sono come lui, non sono una di quelle persone meravigliose, capaci di donare il
proprio cuore in modo disinteressato, come fa lui, tanto da volere solo il bene
della persona amata e cercarlo in qualsiasi forma sia possibile.
Tempo
fa, io avrei detto solamente che lui mi faceva pena, perché dare il proprio
cuore a qualcuno in modo così totalitario, è la garanzia assoluta ed incrollabile di riaverlo indietro a pezzi. Ora invece…
io… lo invidio da morire…
Vorrei
essere io così… ed invece io conto tutti gli slanci
affettivi che ho e quelli che ricevo, aspettandomi sempre che si bilancino in
modo totale, come una perfetta economa del cuore. Quando sono innamorata, il
risultato che ottengo è solo diventare egoista. Ed anche adesso, con Draco,
qualsiasi cosa essa sia, alla fine non ce l’ho fatta a
starmene zitta, perlomeno con Seth.
Sono
proprio irrecuperabile…
Mi stacco da lui con un sorriso e dico: “Senti, Seth, posso
lasciarti solo un pochino? Voglio giusto riprendermi un po’… mi
prendo un caffè e vi raggiungo…”.
“Tranquilla…
ci vediamo tra poco…” sorride Seth e corre per raggiungere Draco e Summer che
si sono fermati poco più avanti.
Vedo
Seth dire qualcosa a loro e Draco voltarsi verso di me, per poi distogliere
subito lo sguardo.
Sospiro
ancora e raggiungo la porta del bar lì vicino, evito un paio di mocciosi
indemoniati e mi siedo al bancone. Chiamo il barista, un uomo sulla cinquantina
che indossa una divisa arancione carota, e mi faccio servire un caffè nero
bollente, sperando che mi rischiari la mente.
Lo
sorseggio piano, facendo susseguire immediatamente una smorfia; io odio il
caffè, è troppo amaro! E come già chiarito, nel corso degli anni, ho sviluppato
una strana predilezione per le cose dolcissime. Inoltre, essendo già abbastanza
nervosa di carattere, se posso evitarlo come bevanda lo faccio, considerando
che, quando termino di berlo, nelle vene ho solo una goccia di sangue che nuota
nell’adrenalina. Il caffè inglese, poi… Dio santo, acqua sporca… essendo mia mamma di origini italiane, lei l’ha sempre fatto con la
moka e tutto il resto, abituandomi ad un sapore pieno, intenso. Quello, invece,
inglese ti lascia un retrogusto sporco e nauseante.
Insomma,
per bere caffè, devo stare proprio a pezzi…
E ciò mi
dà un fastidio assurdo…
Sbuffo,
continuando a bere con fastidio, almeno mi darà coraggio in caffeina per
affrontare ancora delle estenuanti ore accanto a Draco.
Improvvisamente,
un brivido caldo. Qualcosa mi sta toccando sul polso, all’altezza del
braccialetto di Dean che non ho tolto da stamattina. Un ladro!!
Maledetto,
anche nei parchi per bambini, vengono! Tutto per colpa dell’ultima amnistia
governativa, non c’è più sicurezza nelle strade… ma non avrai questo bracciale,
senza combattere! L’ho pagato ben 75 sterline! Con l’incisione, poi, non lo
puoi nemmeno rivendere, idiota… e comunque non penso nemmeno che lo puoi fondere… secondo me ci saranno anche dei frammenti
di argento e nichel, altro che oro bianco purissimo…
Mi giro,
impugnando la prima cosa che trovo sul bancone e cioè un
portatovaglioli, pronta a scagliarlo sulla fronte dell’ignoto predone, e
mi blocco con la mano a mezz’aria.
Mamma
mia, magari tutti i ladri fossero così… mi ritrovo a tu per tu con la copia
carbone di Shane West, un attore che, tanto per gradire, ho sempre adorato.
Quando ho visto “A walktoremember” ho pianto come una
bambina per ore, mentre Dean sbuffava che voleva vedere Manchester United – Liverpool. E ci litigai anche pesantemente tanto
che non ci parlammo per una settimana, me ne stavo zitta a guardare il vuoto e
lui, povero illuso, pensava che fosse perché ero straziata dal dolore per la
nostra lite.
Come no!
Io
fantasticavo su Landon!
Insomma
se l’ho avuta una cotta per un attore, quello è proprio lui… poi, come tutte le
mie cose, mi è passata quando ho razionalizzato che mi piaceva il personaggio,
più che l’attore: dove lo trovi uno che ti sposa sul serio
anche se tu stai crepando per una malattia?! Da nessuna parte… quindi
avevo fatto pace con Dean, gettando maledizioni mentali, nell’ordine, agli
sceneggiatori hollywoodiani che non si ispiravano mai
alla vita vera per i loro film, a Nicholas Sparks che
aveva scritto un libro assurdamente irreale e a Mandy
Moore che se lo sbaciucchiava per mezzo film sulle note di musica
strappalacrime.
Ma, diciamo, che comunque non potevo negare che, come attore, fosse
proprio un bel tipo…
E sto
ladro è identico… occhi di colore verde intenso, capelli castani spettinati sul
capo, un sorriso caloroso ed aperto, fisico scolpito,
look casual.
Quasi quasi glielo do da sola il braccialetto… assieme a
qualsiasi altra cosa mi chieda…
Ma a che
cavolo sto pensando?! Mi riscuoto da sola, prendendomi
a calci mentalmente, non ho un ragazzo da parecchio ed evidentemente me ne sto
andando in scompenso da estrogeni. Stacco bruscamente il braccio dalla mano del
tipo in questione, guardandolo con espressione perlomeno interrogativa ed affrettandomi a poggiare nuovamente il portatovaglioli
sul bancone.
Lui mi
sorride ancora, facendomi tremare le ginocchia, poi si siede accanto a me che
continuo a guardarlo, in attesa.
“Scusami…”
mi dice alla fine, guardandomi ancora con un sorriso “Mi aveva
incuriosito il tuo bracciale… non volevo spaventarti…”.
Deglutisco
un paio di volte, decisamente in imbarazzo, prima di
chiedere: “Il mio bracciale? Non mi sembra poi così
particolare…”.
“Le
iniziali lo sono sicuramente…” sorride ancora lui, per poi chiedere al barista
una limonata. Poi torna a guardarmi, dicendo: “Sono le mie stesse iniziali,
quindi la cosa mi ha colpito…”.
“Ah,
capisco…” sussurro più sollevata, portandomi una
ciocca di capelli dietro l’orecchio, un tipo bellissimo attacca bottone proprio
con me e non so fare altro che squittire! Riprenditi,
Granger! Non che sia facile con questi fanali verdi puntati addosso che
soppesano tutta la mia figura, sicuramente sciatta e disordinata, anche dopo il
bel pianto che mi sono fatta poco fa con Seth. Ma almeno devo cercare di compensare con la personalità…!
“E’
particolare come cosa…” sorrido a mia volta, bevendo il mio caffè “Ma non così
rara, no?”.
“No” ammette il ragazzo con un altro incantevole sorriso
“Diciamo che era una buona scusa per parlarti, no? Mettiamola in questo modo...”. Mamma mia, ma quanto è carino da uno a dieci?!! E voleva parlare proprio con me!
Sorrido
imbarazzata, armeggiando ancora con i miei capelli: “Deduco che sia una
bugia…”.
“Le iniziali? Ah no, diciamo che mi sono capitate a
fagiolo…” ride lui, bevendo la sua bibita.
“Quindi sei…?”.
“Hayden
James Griffith…”.
“Nome
impegnativo…” rido, portando la testa all’indietro “Spero che non lo usi per
intero!”.
Anche
lui ride, chiedendomi quale sia invece il mio nome.
Sorrido
maliziosamente, riscoprendo un po’ di civetteria che forse il mio cromosoma XX
si è ricordato, dopo secoli, di possedere: “Vediamo un po’… prova ad indovinare…”.
Lui ci
pensa un po’, mordicchiandosi il dito piano, provocandomi un nuovo e diffuso
rossore sulle guance. Sembra uno di quei tipici ragazzi che, qualsiasi cosa facciano, sono terribilmente seducenti, ma non ne sono
minimamente consapevoli. Anzi… non lo fanno nemmeno apposta, non si accorgono
degli sguardi voraci che vengono lanciati nei loro
confronti e spesso se ne sorprendono. Intimamente sono insicuri e fragili,
anche se lo celano.
Insomma,
il tipico ragazzo che a me fa decisamente impazzire.
Odio quelli che sono belli e lo sanno, e fanno di tutto per mettersi in mostra.
Invece
questo ragazzo ha uno sguardo dolcissimo, pochi secondi sono stati sufficienti
per inquadrarlo pienamente.
“Vediamo
un po’… un nome con la H…
fammi pensare… mi dai di… Henrietta!”
ride alla fine, sputando fuori il nome che pensa che io abbia.
Henrietta?!Mia zia materna si chiama così!
Ed è una donna leziosa, si veste sempre di rosa confetto e, quando ero bambina,
mi dava dei bacioni sulle guance che mi lasciavano dei segni rossi per
settimane. Tanto per gradire, è anche sovrappeso.
Forse
questo meraviglioso ragazzo, non mi vuole proprio abbordare… anzi… forse vuole solo prendermi in giro…
“Henrietta?”
borbotto disgustata, inarcando un sopracciglio e guardandolo storto “Santo cielo!”.
“Non ti
chiami così?” fa con aria innocente, sbattendo le palpebre, anche se sorride
ancora “Avrei giurato che ti chiamassi così…”.
“Ma è terribile come nome! Sembra quello di
una nonna!”.
“Ma no!”
sorride, agitando la mano “Al massimo di una ragazza molto seria che, appena
qualcuno la tocca, brandisce un portatovaglioli come
un’arma…”.
Arrossisco
bruscamente, stringendomi nelle spalle ed abbassando
lo sguardo, imbarazzata dalla mia reazione esagerata.
“Oppure,
sei semplicemente seria perché sei fidanzata…” sussurra, sporgendomi verso di
me e guardandomi fisso.
Nego con
il capo, poi ribatto ironicamente: “Credo di essere nata seria… e comunque non sono fidanzata…”.
“Ecco,
ora sono più sollevato!”.
Rido, ha
un tono di voce caldo e sicuro, mi fa sentire protetta. La sua voce mi ricorda
molto quella di Dean… e, stranamente, è una bella sensazione.
“In
fondo, Henrietta non è male come nome…” ci rifletto su, girando pensosamente il
cucchiaino nella tazza vuota del caffè, rimestando lo zucchero marroncino
rimasto “E’ anche il titolo di una canzone dei Fratellis…”.
Lui ci
pensa un po’ su, poi lo sento canticchiare, un’espressione seria e posata da
cantante degli anni 50: “Henrietta wegot no flowersforyou…”.
Scoppio
a ridere come una scema, la mente sgombra, la sua faccia che mi
ispira curiosamente a ridere, ed anche lui mi segue nel ridere. Alla
fine, mi asciugo le lacrime con il dorso della mano e lui si abbandona contro
lo schienale della sedia.
Guardandolo,
alla fine gli porgo la mano dicendo: “Hermione Jane Granger… mi dispiace di non
chiamarmi Henrietta, sarei stata la donna della tua vita…”.
Lui mi
stringe la mano, provocandomi un brivido lungo la schiena, dicendo con finta
tristezza: “Pazienza, mi farò bastare Hermione,
allora…”.
Stacco
la mia mano dalla sua, portandomela sotto il mento, poi chiedo divertita:
“Bambino troppo cresciuto che trascorre le mattine sulle giostre?”.
“Diciamo
di più, fratello maggiore mollato dalla baby sitter…e
tu? Trovi le montagne russe un antistress?”.
“Incastrata
da un amico ricattatore, da una coppia in crisi e da una bambina bionda…” mi fa
quasi scoppiare a ridere il quadro di Serenity, Draco e Summer.
Ora, per
la prima volta da giorni, mi sembrano lontanissimi. Ed è una boccata
d’ossigeno, anche se mi dispiace.
“Prospettiva
interessante…” sorride lui e io annuisco con il capo
“Quindi nessun fidanzato?”.
Nego con
il capo: “Nemmeno tu, a quanto pare…”.
Hayden
nega a sua volta, spiegandomi che ha chiuso da qualche mese una relazione
importante con una ragazza che l’ha cornificato più e più volte.
Scoppio
a ridere, dicendo che anche per me è stata la stessa cosa e racconto brevemente
la mia storia con Ron, ovviamente spuria di particolari magici.
“Una cosa
in comune ce l’abbiamo almeno, attitudine ad essere traditi!” ride ancora lui, ha un sorriso
contagioso e fa ridere anche me.
Cavolo,
avevo scordato quanto avessi bisogno di ridere… sono giorni che piango e basta…
“E
adesso?” mi chiede Hayden in un soffio, guardandomi.
“Adesso,
cosa?”.
“Sei innamorata?” mi chiede ancora con un sorriso.
Draco… e il sorriso evapora dalle mie
labbra.
Nego con
il capo energicamente, cercando di togliermi la sua immagine dagli occhi che si
confonde con quella del ragazzo che ho di fronte.
Sospiro
aggiungendo: “Non innamorata… mettiamola così… sono incasinata sentimentalmente…”.
Hayden
inclina pensosamente il capo, poi afferma convinto: “Mi piacciono le incasinate sentimentalmente… vuol dire
che sono persone complesse… altrimenti non sarebbe tutto così difficile… e ciò
le rende anche interessanti…”.
Sorrido, stringendomi nelle spalle, uno strano senso di
tranquillità che mi accarezza dentro, quasi come una camomilla calda che mi
scivola nella gola.
Passa
un’ora senza nemmeno che me ne accorga.
Hayden
si dimostra una persona clamorosamente interessante, oltre che bellissimo, e
parlare con lui mi distrae la mente, davvero. Fa ridere in un modo puro ed innocente, come un bambino con le sue smorfie
inconsapevoli e buffe, ma è anche una persona colta, tanto da farti venire il
dubbio che stia recitando. Ma le cose che dice, sono
indiscutibilmente vere, come quando ricorda distintamente la poesia di
D’Annunzio di cui porto il nome e ne recita qualche verso.
Incredibile
che esista un ragazzo del genere…
Me ne
ero quasi scordata, persa nel mistero meraviglioso di leggere negli occhi di
Draco.
Ce ne
sono ancora delle vite al mondo, interessanti quasi al pari suo.
Hayden
studia Lettere classiche ed ha vinto una borsa di studio per l’Italia, alla
Normale di Pisa, e lì vive da qualche anno. Ma adesso
per le vacanze è tornato a casa, a Londra, dove vive la mamma e il suo
fratellino minore, Nathan, di sette anni.
Lo
ascolto rapita parlarmi dell’Italia, oppure dell’America, da cui è appena tornato,
dove ha fatto delle ricerche per conto della Smithsonian Institution,
e mi sembra un altro mondo… ci ho fantasticato tutta la vita su queste cose, e
ora sentire qualcuno che davvero le vive, mi sembra un sogno. Non è che poi le
descriva in modo presuntuoso, non lasciandomi parlare, anzi… ascolta le mie
domande, risponde in modo vivace ed esaustivo ed
ascolta cosa io possa saperne anche a proposito.
Mamma
mia, ma da dove è piombato?! Forse dovevo andare in
giro con il bracciale di Dean molto prima…
“Pensa
che stavo lì, davanti alla teca con il Diamond Hope a Washington...” mi sta
dicendo adesso, accaldandosi e ridendo come un pazzo “E io pensavo a tutti
quelli che l’hanno posseduto e ci sono morti… ed insomma un po’ di strizza ti
viene…”.
Scoppio
a ridere, sorseggiando l’ennesima bevanda che mi sono presa per giustificare la
mia sosta prolungata al bancone, mentre prosegue: “Pensavo al vaiolo di Luigi
XV, all’esecuzione di Maria Antonietta, alla pazzia di Jacques Colot… e mi azzardo solo a dire che è incredibile quanta
storia ci possa essere in un gioiello, anche se così bello… e sai che ha il
coraggio di dire Nancy, quella di cui ti dicevo
prima?”.
“No,
cosa?” chiedo già ridendo.
“Che
effettivamente Rose del Titanic ne ha passate parecchie appresso a sto coso…” termina, scoppiando a ridere, subito seguito da
me.
Non
riesco a smettere di ridere, seguita da lui, non so davvero se sia lui che è divertente oppure sono io che ne avevo un disperato bisogno.
Come
farfalle di luce, sento i miei pensieri rischiararsi e volare via leggeri,
permeandosi di una speranza che avevo perso dai miei gesti e dalle mie
emozioni. Vorticante e luminoso come è sempre stato,
mi sembra che, dalle parole di Hayden, io riafferri incerta il mio futuro e lo
contempli ancora come una gemma preziosa, da limare e rendere ancora più
perfetta e luminosa. E, considerando come sto quasi
sempre, mi sembra un miracolo.
Ormai
non so nemmeno più che significasse pensare al futuro… e non che questo
sconosciuto me l’abbia restituito come prospettiva, ma pensarci ancora come
qualcosa di bello, dopo tanto tempo, fosse anche per pochissimi attimi, è
dolce, bello, incantevole. Non credevo che mi mancasse tanto.
Sollevo
gli occhi, apprestandomi a chiedere al barista un altro succo di frutta, assieme
stavolta a qualcosa da mangiare, mentre anche Hayden mi dice che tra poco anche
suo fratello Nathan dovrebbe tornare dallo spettacolino organizzato dagli
animatori.
“Te lo
posso presentare…se vorrai mangiare con noi…” mi sussurra speranzoso,
avvicinandosi a me.
Ripenso
a Seth, mamma mia, mi darà per dispersa… poi sorrido ed
annuisco ad Hayden, quando vedrà il motivo per cui gli do buca, credo che mi
farà una statua d’oro.
Hayden
sorride contento, chiedendo il menù: “Che cosa vuoi mangiare?”.
Alzo lo
sguardo per sentire il cameriere elencare i vari piatti, distrattamente gli
occhi trovano il vetro trasparente alle spalle dell’uomo. Incrocio i miei occhi
e quelli di Hayden, e poi più nulla, il cuore mi salta in gola. Gelido il viso,
ruoto su me stessa.
Draco…
Alle mie
spalle.
I capelli spettinati e l’aria sconvolta, gli occhi persi nel
vuoto. Repentino
e fugace, balena una saetta nel suo sguardo mentre guarda me ed
Hayden che, incuriosito, si è girato anche lui. Rimane lì Draco a guardare
entrambi, in modo alternativo, lento, studiato, e io
mi sento in colpa, assurdamente ed illogicamente.
È così
strano… senza dire una parola, si gira su sé stesso ed
inizia ad allontanarsi.
La mia
mano, il mio intero corpo si muove da solo, senza che io l’abbia voluto o premeditato,
se ne va per conto suo.
Mi alzo
bruscamente dalla sedia, tanto che essa per il contraccolpo ricade all’indietro
con un tonfo sordo, assorbito dai rumori della stanza. Ignoro lo sguardo
curioso di Hayden e faccio veloce quei passi che mi dividono da Draco. Lo
afferro per la manica della camicia, fermandolo.
Lui
resta di spalle, non girandosi, ed allora lo rompo io
il voto del silenzio con lui, tanto ormai ci sono.
“Draco…
che è successo?” stringo la mano sul suo braccio.
Lui non
mi risponde ancora, quindi lo scuoto leggermente, incitandolo.
Ed è a
quel punto che si gira, gli occhi lucidi, il labbro contratto in una smorfia
preoccupata e tesa, la pelle innaturalmente bianca, sussulto a vederlo così.
Mi
avvicino di qualche passo, ancora, ormai sono ad un
soffio da lui, come la luna che attira la marea argentata dalle profondità
amene del cielo, non so fermarmi. Delicatamente gli poggio una mano sulla
guancia, sollevandomi in punta di piedi, cercando di farlo riprendere.
Sbatte
gli occhi al contatto ed anche io avverto una spina
bollente nel petto a toccarlo di nuovo, dopo tanto tempo; come riprendere
esattamente da dove l’avevo lasciato quella sera sulla terrazza, il tempo
svolto in mezzo che non ha il benché minimo senso.
Chiude
gli occhi, una lacrima che scende dall’occhio destro,
infrangendosi contro le mie dita, goccia salata che brucia come il mare
d’inverno.
Quando
gli riapre, prende la mia mano e la stringe nella sua, forte, quasi facendomi
male.
Quasi,
già… perché è il colore dei suoi occhi, opaco come un pezzo di roccia, che mi
fa più male.
Ma, mai
come le sue parole, taglienti, dure, mozzicate: “Non
riusciamo più a trovare Serenity, Hermione…”.
Finito, e come sempre nel momento
migliore! Che cosa succederà adesso? Premetto che questo capitolo era parte di
uno molto più lungo, comprensivo anche del prossimo, ma ho preferito dividerlo
in due parti. Il motivo è semplice, al momento sono molto impegnata con lo
studio quindi ho davvero poco tempo sia per scrivere che
per aggiornare; quindi preferisco scrivere capitoli più brevi, ma assicurarvi
una costanza negli aggiornamenti, piuttosto che lasciarvi a bocca asciutta per
anni. Comunque, il prossimo capitolo è già pronto quindi non credo che dovrete
aspettare moltissimo per leggerlo.
Passo immediatamente ai
ringraziamenti e alle risposte di rito!
Vesper: grazie tantissimo dei tuoi
complimenti ed anche grazie della tua piccola critica! Per come sono fatta io,
sono cose che mi fanno un grande bene quindi non lesinare, sii onesta!! Effettivamente spesso con le riflessioni ci prendo molto
la mano, mi accade perché la storia è in prima persona quindi molte volte non
mi accorgo di allungare troppo con i pensieri. Il capitolo scorso, poi, essendo
tutto basato sul ritrovamento della scatola di Rachel, mi era purtroppo
necessario farlo così… comunque, cercherò di essere più snella con i pensieri!
Grazie ancora! Spero che questo capitolo ti piaccia! Ah una piccola domanda, in
che senso la mia storia è inedita? J
Cygnus Malfoy: la mia carissima Helder
che faccio morire di ansia anche su msn, e che mi
preserverà in vita fino a quando finirò la mia storia! Per sapere chi sia
Rachel, dovrai aspettare ancora MOOOOLTOOOO tempo, faccio più
o meno una stima… almeno altri 3 o 4 capitoli! Diciamo che è il nodo
della vicenda, quindi insomma ci sta che mi prenda più tempo! Però almeno adesso sai che è l’ex di Draco! Un bacio tesoro!
Nyappy: è la mia specialità lasciarvi sulle
spine! Spero di riuscirci sempre, altrimenti non leggereste più la mia storia!
Grazie!!
Seven: la mia lettrice preferita con le sue
mega recensioni!!Prima o poi
ti contatterò in qualche modo!!! Iniziamo con calma, effettivamente Hermione
come ex auror ha una certa esperienza nel risolvere
grane, quindi una in più una in meno!:D raccolgo le tue supposizioni e le tengo
da parte, su qualcosa hai azzeccato, ma sono una tomba! Non dirò mai su cosa…!!Eheheheh!!!
Serenity effettivamente vede Hermione un po’ come una mamma, anche perché non
ha grandissime figure femminili nella sua vita, Summer la evita come la peste…
ed anche la tua analisi su Draco, in larga parte, è corretta. Draco è
palesemente ancora legato a delle cose passate che gli impediscono di avere un
rapporto sereno con la nostra Hermione, ma piano le supererà!!
Stanne certa!! Grazie del capolavoro, addirittura!! Ne sono onorata!! Un bacione!!
FraFri95: la lettrice che mi
inorgoglisce di più perché c’è anche una mamma dietro le recensioni!! Me
felice!! Grazie davvero, mi fa piacere che pensi che
sia migliorata! Cerco sempre di mettercela tutta e spesso non so se questo arrivi… ma le vostre recensioni mi rassicurano!! Un
bacio!!
BriBry85: continua a leggere e lo saprai! :P
Emmetti: compagna di violazioni di regole su L&L!!! grazie dei complimenti,
cara!! Ma davvero io miglioro??? A me sembro sempre la
stessa!!:D Seth è il mio eroe ormai, anche in questo capitolo ha dato il meglio
di sé; essendo poi un personaggio tutto mio, insomma gli sono anche
affezionata! Lieta che ti piaccia anche il “mio” Draco, sono sempre
ossessionata dall’idea di tenerlo IC!! La ciliegia è
presa, scusate lo spot, dallo shampoo per bambine della Garnier
alla ciliegia che è quello che uso io, quasi sempre.
Appena lo usai, mi venne in mente Serenity e quindi taddadà!! Avevo la scena iniziale del chappy!!Hihihi!! A presto carissima!!
Ginsan89: ciao!!
Allora prima di tutto grazie per la recensione!! La
mia Hermione è MOLTO masochista!! Ma anche la Herm
della Rowling lo è secondo me, sta con Ron, ahahahah!!
Tante domande che come vedi dall’inizio di questo capitolo sono le stesse che
si fa anche Hermione! Prometto che cercherò di aggiornare quanto prima… un
bacio!!
CoquelicotRousse: grazie prima di tutto
di aver recensito, ne sono felice!! Sentiti libera di
scrivermi quando vuoi!! Sono felice che i miei Draco ed Herm ti piacciano, è un punto su cui sono molto
sensibile!! Grazie anche per la piccola critica, ho cercato di rimediare in
questo capitolo, effettivamente di punti di sospensione ne metto davvero tanti,
chiedo scusa se danno fastidio!! Un bacio!!
Haley James: una nuova lettrice, immagino fan di Onetreehill,
cosa che già ti rende simpatica ai miei occhi!! Grazie
mille dei tuoi complimenti, spero che continuerai a seguirmi!!
Baci!!
Un saluto anche a coloro
che leggono e non recensiscono!!
Le parole
che sono uscite dalla bocca di Draco, per un attimo, mi sembrano assurde e
prive di senso. Non riusciamo più
a trovare Serenity, Hermione…
Come non
la riuscite a trovare? Era con voi, no?
Poi,
recupero la connessione con la mia mente e mi porto nervosamente la mano alla
bocca, coprendola nel suo aprirsi meravigliato e terrorizzato.
“Che cosa?” riesco solo a dire, iniziando a
tremare per l’angoscia. Oddio, Serenity…
La mano
di Draco nella mia diventa ancora più gelida, contraendosi nervosamente:
“Summer… l’aveva lei… io e Seth eravamo andati a
prendere da mangiare… lei… l’ha persa di vista…”.
Non
riesco ad evitarmi di tremare, la mano ancora sulla bocca, spaventata e
preoccupata per la bambina. Ne sento ancora il peso caldo e soffice tra le
braccia fino a quando l’ho tenuta io, stretta a me, e adesso la sento
evanescente come una nebbia di fumo. L’altra mano, invece, la tengo
ancora stretta in quella di Draco, cercando di darle il calore che ha perso.
Devo
stare calma… almeno per tranquillizzare lui…
Non
è difficile capire che cosa passi adesso nella sua mente, sta pensando
ai Mangiamorte superstiti che vogliono la sua morte, e che potrebbero aver
rapito Serenity per arrivare a lui; oppure a qualche altro rischio babbano su
cui comunque non c’è da stare allegri. Di notizie di bambine
bellissime che scompaiono all’improvviso, ne è piena la cronaca.
Eppure, devo cercare di essere positiva…
“Ascoltami
Draco…” inizio, tenendo la mia voce più ferma possibile
“Sta tranquillo, la troveremo… non sa nemmeno camminare bene,
quindi non sarà andata lontano… la troveremo, tranquillo…
Seth e Summer dove sono?”.
Solleva
gli occhi e mugugna triste: “Seth è all’ingresso, ce
n’è solamente uno… nel caso in cui intercetti qualcuno che
l’ha presa… per impedirgli di andare via…”, la sua voce
diventa più dura mentre ringhia che Summer invece è andata a
parlare con la direzione di Wonderland.
Annuisco
con il capo, dicendo decisa, tenendo a bada l’angoscia: “Ora
andiamo a cercarla… sarà qui da qualche parte…”.
I suoi
occhi rifuggono lontani, guardando dritto, alle mie spalle, il suo volto si
indurisce e la sua mano nella mia sembra bloccarmi in una stretta possessiva.
Non capisco che abbia, inarco un sopracciglio guardandolo e lo chiamo
leggermente.
Tornando
a guardarmi, sibila duramente, la mano violentemente attaccata alla mia:
“E lui?”.
Sgrano
gli occhi, guardandolo, i suoi occhi che si incatenano ai miei, fissandomi. Eco
di onde plumbee che si infrangono, rovinose, nella mia mente, mentre mi guarda.
All’improvviso,
come se mi svegliassi da uno stato di sonno pesante, mi ricordo di Hayden.
Mi volto
verso di lui che sta fissando sia me che Draco con espressione confusa, mi
sembra una vita fa che stavo parlando con lui, la spensieratezza nei miei sensi
già lontana mille anni luce.
Mi mordo
il labbro inferiore, imbarazzata, poi mi dico risoluta che non devo sentirmi in
colpa o altro. Che cavolo, io ed Hayden stavamo solo parlando… e poi che
diamine gliene ne frega a lui?!! Questa emergenza non nega d’un tratto
tutto quello che è successo in questa settimana, lui che non mi parla e
io che comunque tra poco non lo vedrò più. Non lo nega nemmeno questa mano nella mia.
E io,
Hayden, lo devo, perlomeno, salutare.
Sollevo
gli occhi decisa, guardandolo fisso: “Faccio in un attimo…”. Scivola
la mia mano dalla sua, come se bruciasse tutt’un tratto, e, per un solo
attimo insensato, ho come l’impressione che lui la stia trattenendo a
sé. Girandomi, però, credo di essermelo immaginato. Draco
già mi dà le spalle e sta uscendo dal bar.
Mi avvicino
velocemente ad Hayden che mi stava guardando da prima e che, appena mi
riavvicino, mi dice con un sorriso: “Immagino che sia lui la causa del casinosentimentale…”. Sorrido a mia volta, guardando fuori
Draco passeggiare nervosamente avanti ed indietro.
“Sì…”
mi ritrovo a dire con voce tenera, anche se avrei preferito non farne accenno,
ma Hayden mi ispira fiducia e non so come le parole escono da sole.
“Capisco…”
sussurra lui in un tenue soffio, poi afferma deciso: “Ma non è il
tuo ragazzo e non ne sei innamorata… quindi c’è ancora
speranza…”.
Sorrido
a mia volta: “Mi ha fatto piacere parlare con te…”,
imbarazzata, mi ritrovo a dire in un attimo, grattandomi la guancia:
“Vorrei vederti qualche volta…”.
“Anche
io, Hermione…” bisbiglia anche lui, alzandosi in piedi. È
notevolmente più alto di me e devo alzare leggermente la testa per
guardarlo in viso.
“Vuoi
darmi il tuo numero?” mi chiede con un sorriso, ma nego con il capo,
c’è l’altissima probabilità che al Petite Peste
risponda qualcun altro al posto mio e a me non arrivi mai la chiamata:
“Piuttosto, vuoi darmi tu il tuo? Abito con altre persone… e
potrebbero non riferirmi il messaggio…”.
Non
trovando carta o altro, non mi resta che scribacchiare il suo numero sulla
mano.
“Allora
aspetto la tua chiamata, Hermione…” mi dice con un altro sorriso
che mi scioglie, poi guarda oltre il vetro del bar in direzione di Draco e
ammicca verso di me, facendomi l’occhiolino. Non capisco che voglia,
finché si sporge lievemente verso di me, sfiorando leggermente le mie
labbra con le proprie.
Un bacio
delicato come il battere delle ali di una farfalla. Si estingue velocemente,
nemmeno un secondo e si è già allontanato.
Arrossisco
furiosamente, abbassando gli occhi, lo sento ridere e poi mormorare:
“Prendila come una licenza che mi prendo, prima che mi chiami di
nuovo… e se non mi chiamerai mai, è un regalo per te… e per lui…”, non capisco che cosa
vuole dire, lo guardo scioccata, un dito sulle mie labbra ancora tiepide del
suo bacio leggero.
Hayden
fa un semplice cenno del capo verso la porta, seguo il suo sguardo e vedo Draco
che guarda nella nostra direzione.
“Che
vuoi dire?” balbetto imbarazzata.
Hayden
ride e mi dà un buffetto sulla guancia: “Vai da lui… su, ti
sta aspettando…”.
Mi volto
ancora verso Draco ed annuisco, vero… appresso ai miei deliri
sentimentali, mi stavo dimenticando di Serenity.
Saluto
ancora Hayden e corro fuori, la porta del bar che sbatte alle mie spalle. Draco
è lì immobile, l’aria seria ed apparentemente tranquilla, e
mi fissa intensamente.
“Andiamo,
dai…” dico decisa, cercando di celare l’imbarazzo per il
bacio di Hayden e la preoccupazione al pensiero di Serenity.
Lui mi
segue, docile, poi ironizza, guardandomi di lato: “Almeno, qualsiasi cosa
accada, fosse anche che venissimo uccisi dai Mangiamorte, avrai la consolazione
che non sono stato proprio io l’ultimo
ad averti baciato…doveva essere un pensiero
insopportabile…”.
Insopportabile…
già, proprio una cosa insopportabile…
Insopportabile è che,
nonostante tutto, ora, sei solo tu la persona da cui vorrei essere baciata
ancora ed ancora…
“Già…”
mormoro distratta “Mi sono tolta un bel peso…”.
“Sono
contento per te…” replica Draco con voce lugubre. Stride
enormemente con l’aggettivo contento.
Il
silenzio cade come una pesante coltre nera sui nostri respiri, gelandoci ogni
parola in gola e schiacciandola contro l’ansia crescente per Serenity.
Mentre
corriamo per il parco, alla ricerca della bambina, che sembra davvero essersi
volatilizzata, chiediamo a chiunque incontriamo se l’abbiano vista. Chiamo
anche Summer e Seth ma nessuno sembra saperne nulla: Seth mi dice al telefono
che dall’ingresso non è passata e Summer, invece, garantisce che
il servizio di sicurezza la sta cercando.
Dopo
mezz’ora in cui battiamo il parco senza sosta, sono ormai più che
sicura che la bambina non si sia allontanata volontariamente, ma che qualcuno
l’abbia presa; di minuto in minuto, una mano gelida e agghiacciante mi si
posa sulla nuca. Pensavo che si fosse solo persa e che l’avremmo
ritrovata presto, ma adesso sta passando troppo tempo. Corro accanto a Draco e
vedo sempre davanti agli occhi il suo visino, immaginandolo spaventato e
triste, lo sguardo azzurro pieno di lacrime.
Mi trema
ferocemente tutto il corpo, le lacrime che mi coprono la vista. Forse se non mi
fossi fermata a parlare con Hayden, Summer non avrebbe preso Serenity, lei
sarebbe rimasta con me…io
l’avrei controllata sicuramente meglio… ed anche qualora si tratti
dell’azione dei Mangiamorte, l’avrei sicuramente potuta difendere
meglio di Summer.
Anzi…
sarei morta, pur di non lascare che la portassero via.
La
preoccupazione si alimenta di secondo in secondo d’odio per Summer.
Se non usasse sempre quella bambina
per arrivare a Draco, ora Serenity sarebbe ancora con noi.
Draco
è sconvolto, livido, sudato, autenticamente terrorizzato. Corre senza
sosta, fruga in ogni angolo, la chiama a gran voce. Non ce la faccio a
guardarlo così… gli sta scivolando dalle dita la sola cosa a cui
davvero tiene… forse… il solo
ricordo rimasto di Rachel…
“Se
hai una bacchetta, potremmo cercarla con la magia…” azzardo,
fermandolo, il respiro corto.
Draco
non risponde, nega con il capo, dicendo che ci aveva già pensato ma sono
anni che non esce con la bacchetta. Avrebbe, poi, troppa tentazione di usarla
per ogni cosa. Abbandono le braccia lungo i fianchi, stancamente, il petto che
si alza ed abbassa velocemente per l’affanno della corsa.
Davanti
a noi, c’è solo il cancello che delimita Wonderland, separandolo
da un vicino maneggio.
Draco si
appoggia contro l’inferriata, stringendo le sbarre metalliche tra le
dita, poi, folle, prende a pugni furiosamente il cancello, il viso stravolto,
gli occhi rossi, completamente fuori di sé e disperato. Non riesco a
frenarmi ed inizio a piangere, mentre lui urla: “Sono un idiota! Un
idiota! Glielo avevo promesso… sarebbe stata sempre al sicuro… ed
invece ho perso anche lei!”.
Con un
brivido gelido addosso, mi rendo conto con terrore che molto probabilmente sta
parlando di Rachel.
E, per
la prima volta, da quando so della sua esistenza, penso anche che Rachel sia
morta.
Draco
parla della sua perdita in un modo così disperato che può averli
separati solo la morte.
Scrollo
il capo, le lacrime che rovinano sulle mie ciglia, offuscandomi la sua visuale
piegata su sé stesso.
Quella
vista, non so come, mi riempie di qualcosa simile alla… rabbia… perché? Fatto sta
che, davvero, io non lo so quale delle due cose mi faccia stare peggio, se
sentirlo accennare a Rachel, oppure è proprio il suo dolore ad
accartocciarmi la pelle, come mai prima d’ora.
Come
qualcosa di vischioso che mi impregna la gola, avverto la mia voce farsi
crudele, fredda, asettica, e dire senza ombra di emozione: “Tra gli
aggettivi che ti avrei attaccato addosso nel corso degli anni, c’è
sempre stato sicuramente idiota…
e non pensare che perderei tempo a contraddirti… ma non serve un idiota
al momento per ritrovare Serenity…”, concentro ogni fibra del mio
essere scomposto e folle, come una delle Erinni che cerca vendetta, per rendere
il mio tono più dolce e tenue: “… ora come ora a Serenity
serve suofratello…”. Abbasso gli occhi con un sospiro, la mia
rabbia, assolutamente inspiegabile, si sgonfia nella mia ennesima attestazione
di fiducia alla patetica storiella del fratello; come se non immaginassi,
adesso, che Serenity non sia sua sorella… ma qualcosa di ben
diverso… anche se non so ancora cosa di preciso. La verità è che penso continuamente che sia sua
figlia… ma, se non lo ammetto compiutamente a me stessa, mi sembra meno
probabile…
Draco si
stringe prima nelle spalle che ancora mi dà, in un moto quasi di difesa
e che mi intenerisce per un secondo; mi sembra piccolo, come se si pieghi sotto
il peso di un carico enorme e soffocante. Temo le parole dure che mi sono
uscite dalle labbra e la rabbia che le ha velate, e lo chiamo lievemente.
Lui si
riscuote e si volta su sé stesso, facendomi solo un cenno del capo, lo
sguardo lucido e rosso di lacrime represse.
Distolgo
gli occhi da lui, cercando di non imprimermi dentro i suoi occhi, e mi guardo
attorno: “Se dobbiamo ancora pensare all’allontanamento volontario,
deve essere nelle vicinanze… ed un allontanamento forzato, credo che
avrebbe dato nell’occhio… sia magico che babbano…”.
Vado
avanti ed indietro, riflettendo, poi mi volto a guardarlo, cercando di
illuminare il mio volto di speranza, ed aggiungo con un sorriso: “Quindi,
cerchiamo di essere positivi…!”.
Draco mi
guarda per qualche secondo, socchiude gli occhi. Nei suoi tratti, vedo un lieve
irrigidirsi, dopo riapre gli occhi lentamente e simula un sorriso tirato, la
pelle diafana del suo volto però ancora lucida di sudore freddo e di
preoccupazione.
Mi
guardo avanti ed indietro, chiudendo gli occhi per concentrarmi meglio, come
quando ero a scuola. Pensiamo… allora, a Wonderland è sicuro che
non ci sia… tra noi, Seth, Summer e lo staff del parco l’avremmo
trovata sicuramente. Mettiamo che io creda ancora che Serenity si sia
allontanata da sola, sebbene non lo dica a Draco…allora,dove potrebbe essere…?
È
un flash rapido e fugace che mi folgora in un secondo, vividi colori fulgidi
che disegnano un pensiero sotto le mie palpebre.
Il
maneggio!
Certo!
Potrebbe essere lì!
“Draco!”
urlo trionfante, lui che mi guarda stranito, evidentemente chiedendosi il
motivo di tanto entusiasmo in un momento simile “Il maneggio!”.
“Cosa?”.
“Il
maneggio…” ripeto paziente “Serenity potrebbe essere
lì, no? Non ricordi come era felice sul cavallo della giostra?!”,
ad entrambi passa nella memoria il riflesso degli occhi azzurri, felici, della
piccola. Più lo dico e più mi sembra vero… anche se
assurdo, mi sembra assolutamente sensato. Non so se sia il potere della
speranza che, di fronte alle altre alternative, sicuramente peggiori, mi fa
credere questa come veritiera. Ma, del resto, come si dice, la speranza
è l’ultima dea… e noi, in sua balia, non possiamo fare altro
che credere a lei e alle colorate immagini che ci mette davanti al naso.
“Non
penso che sia lì… come diamine ci sarebbe arrivata, scusa?”
obietta, anche giustamente, Draco, guardandomi incerto.
“Non
lo so…” mormoro sommessamente “Ma se davvero fosse
lì…non varrebbe la pena provare?”.
Draco mi
guarda ancora dubbioso: “Perché sei così sicura?”.
Sento un lieve tremore nelle mie mani, il suo tono è particolare, sembra
che stia parlando di Serenity ma anche di altro, come se mi chiedesse
perché sono sempre così
sicura in tutto. Quasi una domanda
curiosa, un anelito di conoscenza che esula dalla situazione in questione.
Scuoto
il capo, cercando di concentrarmi solo sulle cose vere, non sulle paranoie che
mi faccio sempre.
Eppure,
qualcosa di questa intuizione mi esce lo stesso, mentre rispondo:
“Perché lo sento dentro,
Draco… sempre…”.
Arrossisco
e giro il capo, guardando altrove: “Allora, andiamo? Sennò ci vado
da sola…”.
“Ok…”
sorride lievemente la sua voce.
Ci
incamminiamo velocemente verso l’uscita che conduce al maneggio vicino,
superando la folla che deve aver saputo della scomparsa di una bambina, dato
che è isterica, elettrica. Incespico in una stupida mascotte vestita da
orso fucsia e finalmente, seguita da Draco, arrivo all’uscita. La strada
che conduce al maneggio è sterrata e, ad ogni passo, specie se di corsa,
solleviamo polvere con le scarpe; attorno solo prati verdi, l’eco della
musica di Wonderland nelle orecchie.
Accanto
ad una piccola casetta di legno scuro, dove intravedo dei fantini, ci sono le
stalle.
Più
mi avvicino e più sento che Serenity sia lì.
“Andiamo
a chiedere ai fantini…” dice Draco con il fiatone.
“No”
lo contraddico io ottusa, poi mi rendo conto di ciò che ho detto e
restringo il tiro: “Cioè, sì, ok… io intanto vado a
dare un’occhiata nelle stalle…”.
Lui mi
guarda ancora con espressione dubbia, poi scrolla le spalle e corre verso i
fantini.
Io corro
nella direzione opposta.
Le
stalle sono ovviamente piene di decine di cavalli, ognuno di loro intento a
brucare fieno, apparentemente disinteressati alla mia presenza. Non
c’è nessun’altra persona.
Ce ne
sono circa otto nei box, e tutti sembrano tranquilli. C’è un
silenzio assurdo, nemmeno rotto da nitriti o versi… nulla…
Percorro
silenziosamente i corridoi che dividono i box, acquattandomi per quanto
possibile per vedere anche sotto le zampe dei cavalli, ma nulla, Serenity non
sembra essere qui. Come credo che fosse naturale…
Chissà
che diamine mi è saltato in mente…
L’ultimo
cavallo, un purosangue dal manto immacolato, è stranamente irrequieto. O
meglio, è il solo che non sta mangiando e che nitrisce continuamente. Ma
non sembra minaccioso… mi avvicino cautamente, la sua visuale
parzialmente coperta da una balla di fieno.
“Mione!”
una vocina trillante mi fa trasalire. Serenity.
È lei, ovviamente, che saltella felice come poco prima sulla
giostra, sulla groppa del cavallo.
Come
diamine ha fatto ad arrivare qui? Penso, ma pervasa dal sollievo, ho solo la
forza di scoppiare a piangere, assieme al ridere contenta. Il terrore per
ciò che poteva esserle successo e l’ansia enorme fino a qualche
tempo fa, evaporano nella luce del suo sorriso contagioso.
Lei
batte le manine contenta, è un autentico mistero come sia arrivata
qui… ma, poco importa come sia successo, basta che adesso sia qui.
Davanti a me.
Ancora
mi sembra incredibile che mi sia tanto affezionata a questa bambina, di cui non
so praticamente nulla… è come un dolce dolore che avverto dentro,
costantemente. Perché lei, Serenity, è sempre una connessione con
Rachel e non so davvero se voglio sapere ora come ora chi sia. Né che
fine abbia fatto.
Ma
è anche una connessione con Draco… ed anche questo, non so fino a
che punto sia un bene per me.
Eppure
non posso fare a meno di volerle ugualmente bene…
Riscuotendomi,
mi avvicino velocemente per prenderla in braccio, anche perché temo che
il cavallo la disarcioni da un momento all’altro, e lei fa qualche
resistenza a lasciare il suo nuovo compagno di giochi. Le accarezzo piano i
capelli cercando di rassicurarla.
Lei
mette un piccolo broncio, guardandomi storto, succhiandosi il pollice, gli
occhioni lucidi, ma poi si convince e lascia andare il pelo del cavallo che
stringeva nell’altra manina. Le sorrido, stringendola, il suo peso
leggero lo sento tra le braccia, soffice, caldo, reale, quando pensavo di
averlo perso per sempre. Checché cercassi di consolare Draco, temevo
anche io di averla persa questa piccolina.
La
abbraccio forte, ritrovandomi ancora a piangere di gioia senza nemmeno
accorgermene.
Ma come
cavolo sarà arrivata qui?!
Magari
qualcuno l’ha portata qui… ma chi, poi? E poi come avrebbe fatto
lei, che non sa nemmeno parlare, ad esternare
che voleva essere portata qui? Inoltre il chiosco ristoro è molto
lontano da qui, specie per una bimba, quindi nemmeno gattonando ci sarebbe mai
arrivata… e poi salire sul cavallo… come, se non c’è
nessuno?
Boh,
alla fine basta averla trovata… penserò più tardi al
resto…
Ho come
il vago sospetto che, conoscendomi,
non riuscirò a smettere di pensarci fino a quando non ne verrò a
capo. Effettivamente, a mente lucida, mi sembrerà ancora più
strano di quanto già non mi sembri adesso… cosa che si aggiunge al
quadretto Draco/Serenity/Summer/Rachel che tutto mi è tranne che chiaro…
Santo
cielo, Draco… me ne ero dimenticata! Starà ancora morendo di
angoscia…
Corro
immediatamente fuori, Serenity in braccio, e lo vedo da lontano, intento a
parlare ancora con i fantini che negano con il capo.
“Draco!”
lo chiamo a gran voce, fregandomene del suo vero nome e di tutto il resto.
Nelle mie corde vocali, sotto la mia pelle, nel mio respiro, avverto come
ricoperta di ambrosia la notizia che sto per dargli, quella che Serenity sta
bene e che è con me. La sola notizia che, credo, lui consideri davvero
bella nella sua vita.
E, della
stessa ambrosia dorata, mi sento ricoperta io stessa, come se per la prima
volta potessi davvero comparire davanti ai suoi occhi finalmente degna del suo
sguardo.
Felice oltre ogni ragionevole misura, ecco come mi sento.
Ed
è ovvio che non sia solo perché ho ritrovato Serenity…
ovviamente… e, maledettamente,
oso aggiungere, non è solo questo…
Lui si
volta lentamente, quasi come con il rallentatore di una scena da film, dandomi
tutto il tempo di guardarlo attentamente in viso e di studiarne ogni
particolare. Mi si stringe un nodo in gola, come se volessi piangere dalla
troppa gioia che mi straborda dal cuore, mentre i miei occhi si imbevono
letteralmente della luce fiorita improvvisamente sul suo volto, una luce calda,
purissima, che non credevo sarebbe mai appartenuta a lui. Lui, a cui si erano
sempre acclimatati perfettamente solo tenebre e buchi neri che risucchiassero
la sua voglia di vivere… e credevo fino ad ora che fosse persino perfetto così, un angelo dannato
che non può essere altro che tale, un bellissimo Lucifero condannato per
sempre a maledire Dio.
Ma ora
io…
…ora,
che lo vedo con questi colori nuovi, fatti di luce, plasmati nel chiarore di
una gioia infinita, mi rendo conto che non credo sia mai stato così
bello.
I suoi
stessi occhi sorridono, ogni cosa diventa accecante del suo sorriso, e mi fa
sciogliere il cuore mentre si avvicina correndo, prende Serenity tra le braccia
stringendola forte e affondando il volto nella spalla della bambina.
Gelo su
me stessa, il nodo che si scioglie in lacrime spontanee ed inevitabili,
scendono sulle mie guance, portando ristoro alla pelle bollente.
La ama così tanto… come Seth, anche Draco è
capace di un amore puro, disinteressato, che non pretende nulla: questo
è il primo pensiero che mi sfiora la coscienza, per poi nascondersi
dietro le mie riflessioni. E mi sento tremendamente a disagio nel mio sentirmi
quasi invidiosa di Serenity che viene amata così tanto, in una misura
sconfinata che io non ho mai sentito su di me. Se non almeno da Draco… almeno qualcun altro, un giorno, ci
sarà…?
Mi
stringo nelle spalle, asciugandomi le lacrime, istintivamente faccio un passo
indietro, paura a restare qui anche un altro secondo a riempirmi la mente e il
cuore di nostalgia di cose mai avute e mai vissute.
Trasalgo
a sentire di nuovo la sua voce, un po’ più chiara e cristallina
del solito. Dice solamente in un sussurro: “L’hai
trovata…”.
Sollevo
lo sguardo, Serenity si è accucciata tra le sue braccia e lui sorride,
ancora di quel meraviglioso sorriso. Su di lui sembra così strano…
ma non strano brutto… ecco non so articolare come sempre le parole,
quando si tratta di lui. Maledizione! Uno strano
bello, anzi bellissimo…
mettiamola così, come quando guardi l’aurora boreale.
È
il cielo che conosci da tutta la vita, ma improvvisamente si distorce in mille
nastri di colore e di luce. Ed è meraviglioso, ma anche strano… e
forse anche questo lo rende anche meglio di quanto già non sia.
Perché non accade spesso, anzi… devi essere a particolari latitudini,
in particolari momenti, ci sono milioni di leggi sul vento solare, sulla
geometria del campo magnetico terrestre e sulla presenza o meno degli
elettroni, leggi che devono incastrarsi perfettamente per fartela vedere.
Ecco, il
sorriso di Draco è come l’aurora boreale.
Un
miracolo sbocciato in un viso che conosco da tutta la vita.
Arrossisco,
il prodigio del suo sorriso che ora è rivolto a me mi fa distogliere lo
sguardo, balbettando imbarazzata: “Credo che fosse ovvio che
l’avrei trovata… tendi spesso a dimenticare che sono sempre
un’ex Auror, in fondo…”.
“Già…”
concede lui, sistemando meglio Serenity nelle sue braccia “Credo
inconsciamente di essermi abituato al fatto che tu sia una mia cameriera…”.
Questo mia mi fa saltare il cuore in gola e
sentire accaldata, perché, diamine? Ovvio che intende mia nel senso di sua dipendente,
eppure… mi dà un caldo senso di appartenenza come un qualcosa
nascosto nelle tasche per portarlo sempre con sé.
Improvvisamente,
come il soffio di un vento d’estate, sento la sua mano arrivare a
prendere la mia e stringerla forte, è un tocco deciso, forte, saldo.
Lo
guardo senza capire, la sua espressione è indecifrabile. Con un piccolo
mio sobbalzo, mi tira forte verso di lui, sempre tenendomi la mano. Cerco di
opporre resistenza, ma non ci riesco ovviamente, è sempre maledettamente
più forte di me, altrimenti non farebbe sempre il suo comodo. Anche con il mio cuore.
Alla fine, la mano me l’ha
lasciata però… precauzione perfettamente inutile, se già ero a ridosso del suo
petto, la fronte che sfiora la sua camicia, il viso in fiamme e una decisa
tendenza all’ipertermia. Forse ho la febbre… sì ed
improvvisamente mi è salita?!
Sono di nuovo nelle sue braccia,
come quella sera, non ci posso credere. Come nel vento di un giorno di settembre, colmo di premesse
appena dischiuse nella nebbia, sale adagio il suo profumo attorno a me, il
cuore che pulsa prepotente di vita nel mio petto, come se non avesse mai
battuto prima. Serenity accanto a me sonnecchia, sento il suo respiro pacato e
tranquillo, come quello di Draco. La mano che non regge Serenity, è
stretta saldamente attorno alla mia vita.
Sono
più bassa di lui, quindi il mio sguardo resta fisso sul suo collo. Cerco
di liberarmi la mente, tentando di fingere perlomeno indifferenza ma non ci
riesco, mi sento svenire, come se perdessi la nozione di me stessa. Quasi come
un moto di ultima difesa, la mia mano si aggrappa alla sua camicia, annaspo
come se cercassi di respirare sott’acqua. Non vedo i suoi occhi, nemmeno
il suo volto che è ancora rivolto davanti a noi e non trovo nemmeno il
coraggio di alzare io gli occhi.
Probabilmente leggerebbe nel mio
sguardo quanto desideri che mi baci ancora...
Si muove
piano, rabbrividendo sento le sue labbra vicino al mio orecchio. Sfiora la mia
pelle, tutto il mondo attorno inizia a tremare. Ma lui si limita a sussurrare
lieve nei miei capelli: “Non posso darti i motivi per farti
restare… lo sai vero?”.
Rabbrividisco
ancora, gelando su me stessa. Come non credo di essere di nuovo nelle sue
braccia, non credo nemmeno che mi abbia appena detto quello che ho sentito. La
mia mano stringe più forte la sua camicia.
Brucia
sopra il mio leggero indumento estivo il suo braccio che mi tiene stretta, ed
ancora mi ritrovo a piangere, ancora, non prevedendo minimamente che cosa posso
stare per dire. Alzo lo sguardo, nemmeno so io come, ritrovando coraggio. E,
ritrovando i suoi occhi, di nuovo maledettamente tristi, già evaporata
come niente la luce di poco fa. Mi osserva sorpreso nel viso, espressione che
trovo anche io mentre sento la mia voce dire: “E se fossi io a voler
restare?”.
Lui
sbatte le palpebre per qualche secondo, autenticamente meravigliato, poi chiude
gli occhi con un lieve sospiro, la sua mano che si stacca da me.
Le
lacrime diventano ancora più pressanti sotto i miei occhi, ti prego, non allontanarti da me…
La sua
mano, però, non si allontana da me, sale solo lungo il mio viso,
portando via le lacrime dai miei occhi, accarezzandomi piano gli zigomi, le
guance, fino al collo. Risale poggiandosi sui miei capelli, che continua ad
accarezzare. Chiudo gli occhi, nonostante tutto, quasi estasiata… morissi
adesso, non avrei nessun rimpianto. Forse quello di non averlo baciato di
nuovo… ma in fondo, se può stare così vicino a me, allora
anche un bacio potrebbe essere sacrificabile.
Quando
riapro gli occhi, ha l’espressione triste, ancora, ma decisa:
“Maledirei questa tua convinzione e farei di tutto per mandarti
via…”, mi stringo nelle spalle, sentendo freddo. Con lui è
sempre così, un momento è paradiso, quello dopo è inferno.
E io, continuamente, in queste montagne russe emotive.
Mi
stacco leggermente da lui, facendo un passo indietro, movimento che non gli
sfugge, tanto che il suo braccio mi cinge daccapo, stringendomi più
forte a sé, mentre continua: “Hermione, io non posso permettermelo.
Credici… e fidati se puoi.
È così… non posso permettermi te, e non posso permettermi di trattenerti qui. Non posso e basta,
fosse anche che volessi tu restare…”, la sua voce scende di tono
mentre aggiunge qualcosa che mi fa gelare su me stessa: “… tu stai
bene per qualche attimo… e io non sono più me stesso per tanti
anni…”. So che sta pensando a Rachel, ma caccio la sua immagine da
me, non posso permetterlo a me stessa, a quest’unico momento che
sarà mio e di Draco.
Lo
ascolto ancora mentre prosegue: “… ma se fossi tu a voler restare,
se non potessi fare nulla per impedirlo, se tu davvero volessi buttare tutta la
vita all’aria… se fossi così maledettamente pazza e
suicida…”, sollevo timidamente gli occhi e il suo volto sorride
ancora, mentre mi guarda, un altro sorriso diverso dal primo, meno luminoso
ovviamente, come un’alba timida, ma che stavolta è solo mio. Il primo sorriso di Draco che è
solamente mio.
Mi
poggia una mano sulla guancia, dicendo: “… se fosse così,
Hermione… se un giorno sarà così… fosse anche solo
per Serenity, per come ti vuole bene…”, prende fiato prima di
continuare e capisco che sta facendo uno sforzo immenso. Per me.
“…
io lotterei per diventare il motivo che cerchi…” sussurra alla
fine, accarezzandomi il viso.
Non ci
credo che l’abbia detto. Non ci credo e basta…ma l’ha
fatto… non mi ha promesso amore, né affetto. Né
altro… in fondo mi ha promesso solamente che, qualora lo volessi, potrei
restare nella vita sua e di Serenity. E questo so che potrei farlo, restando,
andando via, partendo per un lungo viaggio o non spostandomi mai di un metro.
Ma non
potevo farlo, se lui non mi dava questo, se non mi diceva queste parole, se non
dimostrava che, forse anche solamente un pochino, ci tiene a me.
È
una cosa minuscola e mi sento come un’adolescente inebetita, ma so che
con Draco, invece, questa è una cosa enorme.
Tutto
ciò che è minuscolo e stupido con altri, con lui invece, diventa
grandissimo e sterminato.
Sorrido
leggermente, nascondendo alla fine il viso nella sua camicia, vergognandomi del
rossore che mi ha preso le guance, proprio come una bambina timida.
“Soffrivi
per questa cosa?” mi chiede con un filo di voce.
“Un
pochino sì…” ammetto, risollevando il viso, mentre lui si
stacca da me. Siamo vicini, ma non più abbracciati.
“Non
lo immaginavo”.
“Lo
so” sorrido ancora “… mi sembra sempre assurdo essere qui,
davanti a te, a dirti cose del genere…”.
“Credo
che mio padre si stia rivoltando nella tomba…” ghigna lui “Io
e la Granger
legati da una specie di amicizia…”.
Rido
leggermente, lui assieme a me.
Poi il
suo volto diventa di nuovo il solito, malizioso, insinuante, mentre sogghigna:
“Credo con la mano di aver cancellato il numero del bel tomo del
bar…”.
“Che
cosa?” sobbalzo, guardando scioccamente la mia mano, sporca di inchiostro
blu sbavato. Nessun numero si riesce a distinguere.
Lo
guardo di sbieco: “Scommetto che l’hai fatto apposta…”.
“Vaneggi,
Granger…” replica assorto “Tu e il tuo fidanzatino potete
anche sbaciucchiarvi tutto il giorno per quello che mi importa… basta che
evitiate di farlo in mia presenza…”.
“Perché?
Ti dà fastidio?” chiedo innocente, sbattendo gli occhi.
“Diciamo
che dà fastidio al mio intestino…”
replica lui con voce ovvia, sistemandosi meglio Serenity sulla spalla “Potrei
soffrire di colite spastica ad immaginare proprio te come una
ragazza…”.
Odioso,
decisamente odioso.
Lo
prenderei a sberle altroché.
Metto il
muso, nella mia solita conclamata imitazione di un pesce palla, ed inizio a
camminare, dandogli le spalle. Lui ride un po’, poi si incammina dietro
di me.
Sono
talmente nervosa che, senza accorgermene, metto persino il piede in una
pozzanghera, all’anima di Malfoy!
Lui ride
ancora e io mi volto, stringendo i denti ed intimandogli di stare zitto, mentre
tento alla bell’e meglio di pulirmi la scarpa sporca. Che strana
pozzanghera, proprio qua doveva stare! Nemmeno ha piovuto!
Stringo
gli occhi curiosamente, quando mi accorgo che, nonostante il fragore
d’acqua e la sensazione di freddo, io
non sono affatto bagnata.
Mi chino
in ginocchio e guardo la pozzanghera, una macchia trasparente dai contorni
tremolanti… e resto immobile.
“Granger?”
mi chiama Draco, alle mie spalle.
Ci vuole
poco a fare due più due.
Pochissimo,
come sempre, per una come me.
E,
davvero, come sempre da giorni, maledico la mia mente che non mi permette di
ignorare le risposte alle mie domande.
Nella
pozzanghera, un riflesso scarlatto ed azzurro di un chiosco che nelle vicinanze
non c’è assolutamente. Attorno a noi, c’è solo erba
verde.
Il chiosco dove hanno perso di vista
Serenity.
Cado
seduta per terra, sconvolta. Serenity l’ha usato come passaggio per
arrivare qui.
Ed
è una cosa che può fare solo una strega… solo una strega,
anche se di un anno.
Ed, inoltre,
una strega purosangue. Ginny mi ha spiegato una volta, la sola differenza tra
purosangue e mezzosangue: la loro infanzia.
In
termini medici, si sa che solo i bimbi purosangue sono in grado di fare
incantesimi consapevolmente, cioè decidere una cosa, volerla, trovare il
potere in loro ed attuarla.
I
mezzosangue, invece, fanno delle magie, ma assolutamente involontarie.
Questo,
ovviamente, solo da piccoli. Poi le differenze diventano nulle.
Ginny me
l’ha spiegato, una volta… per questo, so che Serenity è
voluta venire qui e ha aperto un passaggio.
Quindi,
oltre ad essere una strega, è una purosangue. Ciò significa che
è figlia di un mago e di una strega.
Ed anche
se sembra assurdo, ora, ripensandoci, vista la loro somiglianza… non
è figlia di Rachel che era sicuramente babbana.
Quel
bandolo di matassa che tenevo nelle mani, così sicura di me stessa, mi
sfugge dalle dita.
Chi
è Rachel allora? E Serenity?
Sollevo
lo sguardo su Draco che ora anche lui guarda il passaggio nella pozzanghera, il
volto livido, gli occhi che sfuggono rapidi i miei.
Cosa ti lega a loro?
E a me?
Tu… adesso… saprai
rispondermi?
In un
alito confuso e tremolo d’aria, ostaggio di una fiducia che mi ha appena
consegnato e che ora rischio di ridurre a brandelli, chiedo sommessamente al
suo volto sconvolto: “Draco… adesso… vuoi dirmi chi è
questa bambina?”.
Nuovo capitolo concluso a
velocità razzica!! Nella sua stesura ho avuto
anche un incidente con la macchina quindi sono anche un po’ dolorante!! E
ho anche tantissimo da studiare…quindi ringrazio brevemente tutti coloro che hanno recensito lo scorso
capitolo, sperando che leggano anche questo, dato che mi piace
particolarmente!! Baci!!!
Nel
momento stesso in cui quella domanda è uscita dalla mia bocca, sento
distintamente di aver sbagliato a farla.
Sebbene
la curiosità mi laceri dentro, sebbene ogni mio pensiero e convinzione mi sia
sfuggito dalle mani e sebbene so che Draco è il solo che davvero potrebbe
rispondere, so anche che questa domanda io non avrei dovuto farla.
La
fiducia a cui Draco raramente si abbandona, è come un
castello friabile di carte, pronto a crollare per una cosa qualsiasi che possa
minarlo.
E ora la
mia domanda è stata come puntare un cannone contro quel castello e sparare.
I suoi
occhi già sono cambiati, sensibilmente, lame d’acciaio fredde e dure, occhi da…
Mangiamorte. Purtroppo non mi posso
negare questa similitudine, perlomeno mentalmente: la luce è scomparsa e il
diavolo è tornato sul suo viso, impietrendomi nelle sue iridi che mi trapassano
da parte a parte, come se nemmeno esistessi, come se fossi solamente una folata
fastidiosa di vento, aria inconsistente e passeggera che, a malapena, lo sfiora.
Ultimo
retaggio di un’umanità ancora preservata, sono le sue braccia che stringono
ancora in modo quasi isterico Serenity.
Abbasso
gli occhi, paura e rimorso nell’aver aperto bocca.
Lui,
senza nemmeno una parola, mi sorpassa davvero come se non mi vedesse nemmeno,
allunga la mano verso la pozzanghera e, in un fascio di luce opalina, la fa
esplodere in milioni di gocce argentate, dense come mercurio. I capelli mi si
drizzano sulla nuca, elettricità pura che crepita nell’aria, non lo ricordavo
così potente… per un attimo assurdo, mi è sembrato di rivedere davanti agli
occhi Lucius Abraxas Malfoy.
E non è
stata una bella sensazione, per inciso.
Sei uguale a tuo padre… una volta, ormai tantissimo tempo
fa, glielo ho detto, ma effettivamente io non ci ho mai creduto davvero,
nemmeno quando eravamo a scuola.
Per
motivi diversi, ma non l’ho mai pensato.
Prima
per il potere di Lucius, che Draco non aveva. Poi, nonostante tutto, per il
coraggio di Draco di fare il doppiogioco con Voldemort, coraggio che il padre
non aveva mai avuto.
E poi
per il suo… cuore. Strano a dirsi, ma
da quando sono qui, credo che sia quello il maggior tratto distintivo tra Draco
e suo padre.
Serenity
ne è un esempio.
Eppure,
ora quasi mi sento di escluderlo questo suo cuore, come se davvero fosse una
bestia priva di esso, pronta a calpestare chiunque intralci la sua vita o
sollevi minimamente polvere attorno a sé. Infatti, Serenity inizia a piangere,
ma lui non la rassicura, resta in silenzio, continuando a camminare con finta
nonchalance.
Finta,
perché i suoi passi non sono lunghi, distesi, sicuri, come sempre.
Esita
nel camminare, volge spesso il viso a destra e sinistra e non degna Serenity
della benché minima cura o attenzione.
Scrollo
il capo dai quei pensieri, per poi sollevarmi da terra di scatto. Con voce
timida e tremula, lo chiamo, ma lui non mi fa nemmeno finire di pronunciare il
suo nome: “Farai bene a non continuare nemmeno la tua domanda, Granger…”.
Tremo su
me stessa, mentre si volta e mi minaccia solamente con quella voce
agghiacciante, accompagnata dalla mascella indurita e dall’espressione di un
uomo incattivito e pieno di odio, pronto a farmi qualsiasi cosa, qualora avessi
la suicida idea di continuare a parlare.
Ecco… ancora… Lucius Malfoy… non l’ho
mai visto così… mi fa quasi… paura…
Non ho
mai avuto paura di lui, sia chiaro… nemmeno la magia che ha usato davanti a me
e che ho percepito come molto più potente di come mi ricordassi i poteri di
Malfoy, mi ha davvero impensierito. La magia, anche forte
che sia, non mi ha mai preoccupato; insomma anche io
posso ricorrere a incantesimi che non richiedano l’uso di una bacchetta, senza
nemmeno violare la mia condanna, perché si tratterebbe di una questione di
sopravvivenza. E un ipotetico scontro tra me e lui, non mi renderebbe
certamente una facile vittima. Anzi… dovrebbe essere lui a preoccuparsi, in
quel caso…
È quel Granger, di nuovo, a preoccuparmi.
È di
nuovo il muro che mette per tenermi lontana. Prima lo fa crollare e poi lo erge
daccapo, ancora più alto ed insormontabile del
precedente.
Con una
punta di frustrazione, penso di non farcela più, penso che sarebbe tutto
maledettamente meno incasinato se lo lasciassi perdere,
iniziassi a correre ed arrivassi a nuoto sulle coste della Florida. Aprirei un
bel chiostro sulla spiaggia, inventerei dei cocktail innovativi e mi sposerei
con uno che fa la pubblicità delle attrezzature da palestra. Oppure, chissà,
chiamerei Hayden e faremmo sesso sfrenato sulla spiaggia fino alla prossima
glaciazione.
Sospiro,
anche i pensieri lussuriosi sullo sconosciuto che mi ha baciato poche ore fa
non mi distraggono dall’idiota che ho di fronte.
Sono
davvero irrecuperabile, oramai…
Probabilmente
dovrei decidermi a fare una bella chiacchierata con Zabini o anche con la Parkinson, e chiedere
come abbiano fatto tanti anni adinteragire con Draco Malfoy, ma credo che mi risponderebbero
abbastanza piccati, sia per come mi azzardi a chiamarli, considerando che ai
loro occhi sono sempre una Mezzosangue della peggior razza, una Grifondoro,
eccetera, eccetera… sia perché gli chiederei del loro rapporto con un uomo
seppellito da anni e con cui in vita non ho mai avuto a che fare.
Insomma,
come minimo, ipotizzerebbero un mio discutibile senso del macabro.
Magari,
faccio una seduta spiritica ed invoco l’anima di
Narcissa Malfoy, e le chiedo delucidazioni sul loro genoma, anche se dubito che
ammetterebbe che sono affetti da personalità multiple. Anche se Draco sembra
invece chiaramente schizofrenico in certe cose… cinque secondi fa, mi ha
promesso di darmi un motivo per restare, qualora lo volessi, tutto poi
abbracciandomi… ed ora, solo perché ho nominato
Serenity e ho chiesto chi sia, siamo tornati al Granger e alle minacce
sibilate.
Paradossalmente e stranamente, mi ci sono quasi abituata.
Non è
vero, non mi sono abituata, mi sono rassegnata…
che è ben diverso. E che è una cosa che mi provoca fremiti d’irritazione in
tutto il corpo.
Serro le
mani a pugno, guardandolo fisso, lui che regge il mio sguardo con ostinazione,
poi riapro la bocca impastata solo per dire: “Non perderò più il mio tempo a
farti domande di alcun genere, Malfoy… anzi, dato che
ci siamo, scordati proprio della mia esistenza…”.
So che
non è da me, so anche che probabilmente è strano
uscirmene all’improvviso con frasi del genere, così estremiste, ma davvero… sono così stanca.
Mi sento
sempre più vuota… e sempre più sola…
Magari
esisterà un giorno una persona che è capace di reggere, che è così forte da
farcela… o magari lo era Rachel o la mamma di Serenity, dato
che ora mi sembra chiaro che siano due persone diverse… ma io non lo
sono. Non posso fingere nemmeno di esserlo.
Meglio
che lo accetti in fretta come cosa, e vada avanti. Prima che sia troppo tardi.
Lo
sorpasso in silenzio, continuando a camminare, non concentrandomi nemmeno sulla
sua faccia, me ne frego di quello che pensa. O meglio, non me ne frego, ma diciamo che voglio fingere che me ne freghi,
d’accordo? Non sopporto più che scelga ad intervalli
alterni se sono una nemica, una conoscente, una dipendente, un’amica o altro…
Basta così, non sono mai stata masochista e non lo diventerò appresso a lui.
Lui non
replica nulla e lo sento camminare alle mie spalle, brucia il suo sguardo
contro la mia nuca.
Mi fermo
all’improvviso su me stessa, prima di dire spazientita: “Tornerò a casa da
sola… avvisa tu Seth…”.
Senza
voltarmi, inizio a correre come una pazza fuori dal maneggio, le scarpe che
sollevano polvere al mio passaggio.
Ok,
d’accordo, ora sembro io la
schizofrenica… ma davvero credo ormai di essere arrivata al colmo della remissività.
Non sono una persona paziente, questo mi sembra che sia abbastanza chiaro,
quindi comprendo che, per una donna votata al sacrificio, semmai il mio limite
di sopportazione sia decisamente basso.
Ma posso
ammettere con certezza che la pazienza che sto avendo con Draco, non l’ho avuta per nessun altro nella vita.
Senza
nemmeno granché in cambio, tranne un bacio che era solo per difendersi, un
abbraccio che non so ora fino a che punto avesse senso e delle parole che già
si rimangia. Che razza di fiducia ha in me, se ancora mi tace questa cosa di
Serenity? E poi in quel modo?
Accetterei
che non me lo dica per motivi personali, ma che mi
risponda così, ormai mi dà troppo fastidio.
Falso.
Mi fa troppo male, non è fastidio.
Come mi
fa male che non abbia fatto nemmeno un passo per
cercare di fermarmi… se n’è fregato.
D’accordo
che Serenity sia importante, ma possibile che lo sia a
tal punto da cancellare ogni sua parola, volizione o pensiero precedente, se
pensa minimamente che il suo segreto sia in pericolo? E poi, ancora crede che
io potrei mettere in pericolo Serenity?
Questo,
se possibile, mi ferisce più del resto.
Dopo una
corsa smodata che mi ha riportato dentro Wonderland,
mi abbandono stancamente su una panchina, respirando affannosamente. Per
fortuna almeno hanno tolto il jingle del parco,
sostituendolo con una ballata pop da primo posto in classifica. Release me, release my
body, I know it's wrong, so why am I with you now.
Perfetto, odio decisamente quando le
canzoni si adattano al mio stato d’animo e ai miei sentimenti. Era meglio
quello stupido jingle idiota.
Scavo nella mia borsa alla ricerca dell’i pod,
almeno adesso mi sparo nelle orecchie i Queen o i Depeche Mode, e non sento più
sto strazio…
Ma invece dell’i pod, trovo il mio cellulare che
sta vibrando.
Lo tiro fuori con fatica, accidenti alla mia abitudine di riempire
le borse di mille cose che penso mi serviranno e poi
non uso. Scanso la bottiglietta d’acqua, l’Amuchina
gel e la scatoletta portatile per il cucito, ed estraggo l’oggetto trillante.
Sul display, compare il nome Ginny.
“Pronto?” biascico, un dito nell’orecchio
per non sentire la maledetta canzone empatica.
“Ciao Herm! Ma si può
sapere dove sei? Si sente un casino!” urla lei, spaccandomi
il timpano.
“Sono a Wonderland, il parco
divertimenti… Seth voleva portarci Serenity…”.
“Tu, in un parco divertimenti?!” replica
lei scioccata nella voce, scommetto che se la vedessi starebbe con la mascella
spalancata fino a terra.
“Lasciamo stare! Che c’è?!” borbotto nervosa.
“Senti, avrei bisogno di parlarti per delle cose…! Quanto ne hai ancora al parco?”.
“Ho finito! Prendo un taxi e
torno a casa… vuoi raggiungermi lì?” chiedo preoccupata. Se Ginny mi
vuole parlare, allora vuol dire che è successo
qualcosa, probabilmente una lite con Harry. La sua voce è calma, ma sembrava
che si stia trattenendo dal piangere.
Mi gratto pensosamente la testa, mentre esco dal parco. Su quale
delle innumerevoli cose potrebbero aver litigato?
Sospiro, come se non lo sapessi, sicuramente c’entra qualcosa che
inizia con matrie finisce con monio. E paradossalmente oggi mi va anche bene sentirla cianciare di
pizzi e merletti, piuttosto che sopportare ancora Draco Lucius Malfoy. Inoltre
sono giorni che non la vedo… un po’ l’amica del cuore devo farla anche io, se non altro per contraltare a Lavanda… altrimenti
quel matrimonio diventerà una specie di notte degli Oscar londinese.
“Ok, allora ti raggiungo tra una mezz’oretta…” dice e riaggancia
con un piccolo singhiozzo trattenuto.
Ripongo il cellulare in tasca, chiamando un taxi. In una
mezz’oretta, dovrei avere anche tempo di farmi una breve doccia… sperando che
non me la faccia lei con le lacrime, sospiro. Mi abbandono contro lo schienale
del sedile del taxi, guardando Wonderland che si allontana
alle mie spalle. Con Draco.
Avevo dimenticato per un attimo di lui. E
di Serenity.
Una strega. Purosangue.
Ma di chi diamine può essere figlia allora? Di
Draco? E se sì, chi è la sua mamma, se non è Rachel?
Cerco di farmi una lista mentale della gente del mondo magico che
conosco, ma non mi viene in mente nessuno che possa rispondere a quelle
caratteristiche, anche perché di Purosangue ne conosco pochissimi, considerando
che non è che siano persone che tendenzialmente
abbiano mai voluto avere granché rapporti con me e con la gente che frequento.
Forse, se parlo con Ginny, in uno dei suoi momenti di lucidità,
potrei avere delle chiarificazioni, certamente conosce più Purosangue di me.
Ora che Draco mi ha di nuovo negato di venire finalmente a conoscenza
dell’identità di Serenity, mi è venuta ancora più
voglia di scoprirla! Soprattutto non tramite lui, ma da sola…farò delle
indagini e lo fregherò, alla faccia sua che non mi vuole dire nulla! Gliela
sbatterò in faccia la verità che non mi vuole dire…
E poi… ora che so che non c’entra Rachel, sono quasi sollevata.
Con lei, non potevo
competere assolutamente.
Sospiro, guardando fuori dal finestrino, sono felice che Rachel
non c’entri, non posso negarlo. Da quando l’ho vista in foto, non riesco a scordare
il suo viso, ed esso mi suggerisce sempre che meno ne so di lei, meglio è. È un po’ contradditorio, considerando che
stamattina sono corsa a casa sua proprio per incontrarla, ma cosa non è
contradditorio in me in questi giorni?
La verità è che sapere che stava con Draco mi ha fatto congelare
ogni curiosità nei suoi confronti.
Perché, già in poche ore, una parte di me ora non vuole che lei,
con la sua presenza fisica, davanti ai miei occhi, non mi permetta di pensare
più a Draco.
Anche se è suicida e terribilmente sbagliato.
Stamattina lo volevo. Ed ora non lo
voglio più.
Mi è bastato che mi
abbracciasse per farmi cambiare idea.
Sospiro ancora, appoggiando la fronte al finestrino freddo, una
piccola lacrima che cade giù. Continua,
nonostante tutto, a fare di me quello che vuole.
Allungo la mano, ancora leggermente sporca di inchiostro,
e la guardo, almeno avresti potuto chiamare Hayden… solo con lui, oggi, mi sono
dimenticata di Draco.
Ed invece ho anche perso il suo numero… e non
ricordo nemmeno un altro recapito a cui potrei trovarlo. Era troppo strano che
un tipo meraviglioso si fosse interessato a me, quindi per bilanciare a livello
di karma dovevo perdere il suo numero, giustamente… incrocio le braccia,
sbuffando.
Finalmente arrivo al Petite Peste, entro dal retro, dove
ovviamente giace l’immondizia che Lorna e Corinne, prive del controllo mio, di
Draco, Seth o Summer, hanno pensato bene di non gettare. Saluto con un sorriso
Lawrence e Trey ed abbraccio April, dicendole che sto
aspettando Ginny e che vado a farmi una doccia.
Lei annuisce, dicendo di stare tranquilla, tanto per oggi non si
sono visti molti clienti quindi basta ed avanza lei.
Poi ovviamente mi chiede degli altri, ma eludo la domanda dicendo che sono
molto stanca e che devo sbrigarmi, prima che arrivi Ginny.
April mi guarda un po’ stranita ma poi mi lascia andare per
fortuna. Salgo, correndo le scale, e gettando tutto per aria, mi scapicollo
sotto la doccia.
Preferisco affrontare Ginny rilassata, perlomeno esteriormente,
piuttosto che sudata, trasandata e terribilmente distratta dal pensiero di
Draco. Forse l’acqua calda laverà via un po’ di lui da me, ma persino il suo
profumo deve essere waterproof dato che acqua, bagnoschiuma mio alle mandorle,
bagnoschiuma di Seth alla cannella (terribile!!)
seguiti da crema idratante alla mela, lo fanno andare via.
In compenso, ora sembro nell’odore che emano una specie di piatto
di dubbio gusto, probabilmente simile al condimento di un pollo tandoori innovativo.
Ma il profumo di Draco, oramai, lo sento dovunque
vado, come un’ossessione assurda del mio olfatto.
Mi spazzolo distrattamente i capelli, quando sento fuori dalla
porta Ginny chiamarmi, la voce abbastanza acuta ed
isterica. Con un sospiro, le urlo che esco subito e lei sembra riprendere a
singhiozzare. Eccola là… se mai avessi avuto il minimo dubbio che la sua non
fosse una semplice visita di piacere…
Mi asciugo la faccia in maniera
distratta, mentre continuo a sentire provenire dall’altra parte della porta
urla strazianti. Sospiro stanca davanti allo specchio e faccio traning autogeno, come sempre in questi particolari
momenti, cercando di prepararmi all’inevitabile. Il maestro di yoga diceva
sempre di respirare e, soprattutto, di ripetersi quanto si è belli,
intelligenti ed importanti per gli altri. Nonostante
però me lo sia ripetuto, non ha avuto decisamente
l’effetto sperato: sono molto più scoraggiata di prima. Ok, d’accordo, so che
comunque me la sono cercata, rispondendo al telefono e facendola venire qui… ma ripeto, non sono del tutto masochista, quindi non è
che sprizzo gioia da tutti i pori al pensiero di incontrare Ginny, modello
salice piangente.
Ne avrei io
di motivi per piangere…
Qualora glielo raccontassi,
scommetto che alla prospettiva di pensare costantemente a Draco Malfoy, anche
lei riconoscerebbe che qualsiasi cosa di catastrofica, fosse anche un terremoto
del nono grado della scala Richter, non ha paragoni…
Mollo il phon sulla mensola del
bagno, tanto non riuscirò a finire di asciugarmi i capelli, e, sospirando ancora,
decido che è meglio togliersi questo dente prima che sia troppo tardi. Lascio
stare anche i vestiti che ho preso dall’armadio, e rimango in vestaglia. La
vestaglia assorbe meglio l’umidità. E poi, nonostante non si veda, ci tengo al
mio paio di jeans e alla mia maglietta rossa. Ritorno in salotto, dopo la doccia i miei capelli si arricciano attorno al mio collo in
piccole onde sottili. Le onde crespe, tanto per intenderci, che odio. Ma che puntualmente si formeranno, dandomi l’aria di un
barboncino. Il traning autogeno non funziona per
niente, e in fondo uno che faceva il maestro di yoga d’estate e vita ascetica
d’inverno, che diamine ne può sapere? Nulla! Specialmente non può sapere nulla
della regola numero trentacinque del codice A.L.S.. Codice “Abbasso-La-Sciatezza”
made in Patil&Brown
Production. Regola numero trentacinque: quando devi farti la messa in piega,
isolati dal mondo civilizzato. Ogni cosa deve passare in secondo piano, in quei
fatali quindici minuti di presa dei tuoi capelli. Un minuto di piega in più, e
sei una ragazza che può tranquillamente ambire ad una
posizione sociale decorosa. Un minuto in meno, perso a fare qualcosa che, per
inciso, non voglio fare assolutamente, e diventerai un perfetto cane da
competizione. Categoria: PELO-CHE-SFIDA-LE-LEGGI-FISICHE.
Io, a Calì e a Lavanda, non ho mai prestato troppa
attenzione, e ci mancherebbe anche, così come al loro fantomatico codice che
sfida per rigidità le leggi di appartenenza alle caste indiane. Che Calì, pur essendo indiana, ignora apertamente, preferendo decisamente il suo Codice di vita. Ma
la regola trentacinque è sacrosanta! E il mio maestro di yoga era anche calvo,
quindi non ne sapeva proprio niente!
Batto il piede con foga per
terra, unico segnale di impazienza, mentre il mio viso
si atteggia ad angelo sceso dal paradiso, con una punta di spirito martire.
“Allora che è successo stavolta?”
tento di tagliare corto, sedendomi anch’io sul divano. Ho sette minuti e
quarantacinque secondi, prima che i capelli si asciughino in maniera irreparabile.
Mi arriva in
risposta solamente un singhiozzo soffocato.
La cosa va per le lunghe, bene!
Stelle a quattro zampe sto arrivando!
“Dai Ginny!” dico con una leggera
punta di insofferenza, certamente percepibile al mio
solo orecchio “Che cosa è successo? Hai litigato di nuovo con
Harry?”.
Al nome fatale, la ragazza dai
capelli rossi si irrigidisce e mi guarda gelida. Mai
figlia fu più identica alla genitrice. Mi sembra di parlare, come altre volte,
con Molly Weasley. Decisamente un brutto segno… ovviamente
me ne sto zitta, le dicessi una cosa del genere e probabilmente finirei in
giornata tra i cadaveri che sezionano i suoi studenti di Anatomia.
Passano alcuni secondi di
completo e totale silenzio rotto solo dal ticchettare della pendola della cucina,
dal suo respiro gemente e dal mio, decisamente
affrettato. Mancano cinque minuti e dodici secondi.
Non posso andare ad asciugarmi i
capelli e poi ritorno?!!!
Finalmente Ginny scoppia a
piangere in maniera alquanto isterica, gettandosi sul mio braccio. Mai scelta
di una vestaglia al posto di una maglietta rossa fu più azzeccata. Le accarezzo
la testa, sussurrandole di calmarsi, anche se so benissimo che non sortirà
alcun tipo di effetto. Ma in fondo è la mia migliore
amica, no? E quindi le devo anche questo.
“Herm, non hai idea di che cosa
ha fatto!” urla, sollevando il viso rigato dalle lacrime. La incoraggio a
continuare, toccandole la spalla. Forse stavolta è davvero qualcosa di grave…
non che lo speri, considerando che si sposano tra due mesi e quindi il mio
vestito da testimone di nozze da centododici sterline se ne andrebbe ai pesci.
E poi non credo di riuscire a sopportarli, mentre litigano ancora, ancora ed ancora. Ora capisco perché Ronald li manda sempre da me,
per lui e Lavanda deve essere uno strazio vivere accanto a loro. Non ho il
tempo materiale, però, di maledirlo ancora mentalmente, che Ginny inizia a
raccontare l’ultimo capitolo della soap: “STO PER SPOSARE IL BAMBINO CHE E’
SOPRAVVISSUTO”, dopo aver tirato rumorosamente su con il naso.
“Stamattina avevo appuntamento
con il tipo del catering… quello che deve occuparsi del rinfresco…” inizia
accalorandosi ad ogni parola “Un fissato, non ti sto
neanche a dire… avevamo deciso per un antipasto di salmone, una cosa molto chic
ed anche la più economica tra le cose che c’erano. Stamattina però mi chiama e
ciancia sull’ottima scelta, su come aveva erroneamente pensato che fossimo
delle persone superficiali e provinciali, e si congratula con me. Non ho capito
niente finché non ho saputo che quell’essere che dovrei sposare aveva cambiato
tutto il menù., che IO avevo scelto, mettendone un
altro che costerà almeno il triplo! Gli ho chiesto spiegazioni, e sai che mi ha
risposto? Lo sai?!”.
Evito di commentare che è
alquanto ovvio che io non lo sappia, perché altrimenti lei non me lo direbbe. Ma Ginny aggrotta le sopracciglia ed evidentemente si
aspetta proprio questa risposta.
“No” dico rassegnata, infondendo
il tono più curioso che mi venga fuori.
Ginny sembra
soddisfatta e quindi riprende: “Mi ha detto che il nostro matrimonio deve
essere una cosa di classe, che verrà un sacco di gente importante e che non può
permettersi di fare brutte figure! Hai capito?! Brutte Figure! Come se io gli facessi
fare brutte figure!”.
“E allora?” chiedo ancora,
soppesando quanti altri minuti mi manchino all’effetto barboncino. Un minuto e
cinquantuno. Sospiro, non ce la farò mai.
“Gli ho detto che si poteva
sposare un’altra, una che non gli facesse fare brutte figure…” conclude in tono melodrammatico, poi aggiunge con un filo di
voce: “Gli ho gettato dietro i cuscini del divano e sono uscita, sbattendo la
porta… ed ho anche rotto lo scacciapensieri che mi ha regalato Charlie… era
tutto di vetro veneziano, mi viene un nervoso a pensarci! Tutta
colpa di quell’imbecille…”. E dà di nuovo vita alla serie di lamenti,
mugugni e lacrime infinite.
Ormai ho fatto trenta, è meglio
che faccia anche trentuno.
“Ascolta Ginny…” inizio con tono
comprensivo, quello made in Hermione Jane Granger che
nemmeno Madre Teresa di Calcutta aveva così affinato “Harry è una persona
importante, è il Ministro, e lo sai meglio di me che al vostro matrimonio verrà
un’infinità di gente, a cui è da aggiungere almeno la
metà dei giornalisti del Profeta. Ricameranno pagine e pagine sopra ogni errore
o mancanza, ed anche se non accadrà niente, il
matrimonio del RAGAZZO-CHE-HA-SCONFITTO-LORD-VOLDEMORT sarà l’evento dell’anno.
Harry è in quel mondo da molto più di te e sa benissimo come prenderle certe
cose. Non sarà delicato, ma sicuramente ha ragione. E soprattutto lo fa per
proteggerti da eventuali critiche, che non sa come prenderesti…”, la sto per
convincere, lo noto dai suoi occhi azzurri che si sono schiariti e quindi
rincaro la dose: “E poi non hai sempre desiderato un matrimonio da sogno? Se
Harry dice che potete permettervelo, che ti frega, se spendete di più? Ci si sposa solo una volta nella vita!”.
Nella mia mente, a questa ultima frase, si aggiunge un “Per fortuna”, ma
chiaramente me lo soffoco in gola.
Passano ancora qualche minuto in
cui lei soppesa il peso delle mie parole, poi le sue spalle si rilassano così
come il suo sguardo e alla fine, sospirando, conclude:
“Come sempre, hai ragione. Sono veramente nevrastenica in
questo periodo!”.
Sorrido e nego con il capo: “Sei
solo… concentrata, ecco… e vuoi che tutto vada bene… è perfettamente normale…”.
“A volte mi chiedo che cavolo ci
trovi Harry in me…”.
Ecco me l’aspettavo
anche questa di frase. Dopo la fase rabbia con le fiammate consuete, arriva
l’altrettanto consueta fase della autocommiserazione e
della depressione. Non so quale delle due sia la peggiore. A vederla,
Ginny tutto sembra tranne che una dei più conosciuti Medimago
del san Mungo. Piuttosto, sembrerebbe la compagna di stanza dei coniugi Paciock.
Per fortuna, la brava e
comprensiva Hermione ha anche la frase giusta per risolvere questa nuova crisi.
“Harry ti ama… e questo quello che ci trova in te…” dico con voce pacata,
accarezzandole la testa, mentre lei annuisce. Meno male, stavolta è finita
anche prima del previsto, sono stata più rapida e concisa del solito. Ed anche
molto più efficace. Peccato che non sia stata sufficientemente veloce da
salvare anche i miei capelli. Incrocio per un attimo il mio riflesso nel vetro
della finestra di fronte a me, da cui si vede il panorama grigio di Londra, ha
anche iniziato a piovere. Tipico, nuova umidità nell’aria per rendermi un
fantastico fenomeno elettrostatico.
E, come
se non bastasse, se adesso inizia a piovere, Draco tornerà anche prima a casa…
Sospiro ancora, doppiamente
tipico.
L’anno cinese del Bufalo mi porta
proprio male.
Ginny si alza dal divano e
finalmente sorride, dicendo con la sua voce da bambina in colpa e colta in
fallo: “Sarà meglio che vada a casa… prima che Harry davvero si trovi qualche
altra da sposare…”, poi all’improvviso il suo viso si illumina
di un’espressione autenticamente ilare e mi fa, sedendosi di nuovo vicino a me:
“Lo sai che quando ero piccola e vidi Harry per la prima volta pensai una cosa
stranissima?”.
“Che cosa stranissima?” chiedo,
alquanto terrorizzata dalle sue cose stranissime.
Lei schiocca le labbra, coperte
da un velo di rossetto perlato, in tinta perfetta con la canotta rosa confetto.
Crea un’atmosfera di attesa di qualche secondo, che sarebbe assolutamente
perfetta con un rullo di tamburi come in tv. Poi scoppia a
ridere e riprende: “Ho sempre pensato che tu saresti finita con Harry. Sei assolutamente quella che va più d’accordo con lui…”, un velo di
malinconia e dice: “Sareste benissimo assieme…”.
“Nel mondo delle favole, Gin…”
replico sarcasticamente, scuotendo decisamente il
capo.
Lei scoppia a ridere, stavolta
più di gusto, evidentemente rincuorata dalla mia reazione. Credo che si sia
spaventata lei stessa da quella remota possibilità. Come se in qualche universo
parallelo potrebbe essere vero…
“Ma dai
Herm! Non mi dire che Harry non ti è mai piaciuto nemmeno un po’?!” ride ancora lei.
Mi alzo stizzita dal divano e mi
fermo davanti alla finestra, il viso rosso mentre rispondo tagliente: “Avevo
qualcun altro per la testa, Gin…”.
La sento zittirsi all’istante, le
sue risatine acute che si smorzano all’improvviso e non posso evitarmi di
pensare che se l’è cercata e non mi interessa che
adesso si senta in colpa. D’accordo, non è colpa sua, sono io
che sono nevrotica, ma in fondo che per una volta Hermione Granger non abbia
detto: “Sì, sì, smanio dalla voglia di fare il vostro tappetino!
Calpestatemi!” non dovrebbe essere qualcosa di estremamente
negativo. È anche normale che pure io reagisca male e che mi arrabbi, e devo
dire che è abbastanza liberatorio. Lo so, lo so, sono arrabbiata più per Draco
che per lei e le sto scaricando addosso colpe non sue,
ma ogni tanto potrò essere irrazionale anche io? No? No? NO?!!
Il silenzio prolungato di Ginny mi suggerisce la risposta.
“Scusami Gin…” dico, sinceramente
pentita, voltandomi verso di lei “Oggi sono solamente un po’ nervosa…
perdonami, non volevo prendermela con te…”.
Lei solleva lo sguardo e sorride,
negando con il capo, mugugnando un: “Non ti preoccupare…”, poi pigola qualcosa che all’inizio non riesco a percepire.
“Eh? Che hai detto?” .
“TI
SERVIREBBE UN RAGAZZO!” urla Ginny, rossa in viso.
Mi massaggio le orecchie, è
veramente la donna degli eccessi.
“Non ci volevi tu per dirmelo,
Gin…” rispondo ironica, chiudendomi la vestaglia “Ma adesso non ne ho davvero
il tempo…”.
Tipico, anche questo. Mi invento una scusa… specie se alla sua affermazione, ho
pensato subito ad una persona in particolare che vorrei solamente veder
sprofondare nel Tartaro, a fare compagnia ai vermi.
“Ma
Herm! Non hai un ragazzo, da quando… insomma, da quando hai
chiuso con Dean…!”.
“Non mi sembra che siano
propriamente passati ventinove anni…” commento piccata “Almeno raffreddiamo le lenzuola…”.
Espressione tipica questa della
mia cara zietta Henrietta. Cosa che mi riporta a pensare ad
Hayden.
Almeno avrei potuto sbandierarle
questo, ma no! Anche il suo numero dovevo perdere!!.
“Ormai le tue di lenzuola hanno
una temperatura pari allo zero assoluto…!” commenta lei sarcastica, per poi
aggiungere entusiasta, stringendomi le mani… anzi non stringendomi
le mani… fracassandomi le mani! : “Dai Herm! Dovresti
riprovarci! Ci sono un sacco di ragazzi che ti vengono
dietro!”.
Uno ce n’era ed ho anche perso il
numero…!!!!!
Cosa che poi lei non sa… quindi
dove stanno tutti sti spasimanti??!!!
“Certo, tantissimi!” mi libero
della sua stretta d’acciaio e agito la mano indolenzita “Talmente tanti che
sono tutti dietro la porta che bramano solo di vedermi uscire…”, abbandono il
mio tono ironico per concludere stizzita in una alzata
di sopracciglio: “Avanti Gin, e chi sarebbero? Neville, Neville oppure Neville?!”.
Lei si irrigidisce
e tace, evidentemente ci ho preso in pieno. Mi alzo ancora più nervosa di prima ed ancora mi dirigo verso la finestra. Appoggio la
mano sul vetro gelido ed osservo senza reale interesse
il panorama di fronte a me, sento pizzicarmi gli occhi dalla voglia di
piangere, mentre ancora, come un disco rotto, rivedo nel riflesso il bacio di
Draco. Non ce la faccio più… davvero…
“E poi, Ginny, ignorando la tua
presunta onniscienza…” aggiungo piccata, voltandomi verso di lei, reflusso di parole che
non intendo finché non le pronuncio: “… ma chi ti dice che io non sia già
innamorata?”.
Ginny mi guarda senza parole,
aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso, e
io… io non lo so.
Non sento di aver mentito per far
tacere Ginny, sento di essere stata onesta… sento di
aver usato la parola giusta. Innamorata. Chi prova amore per qualcuno.
Io…provo… amore… per
Draco?
No, no, non è così. Che cavolo…
amore, addirittura?!Ma no…
attratta, ok, incuriosita, d’accordo, magari anche affezionata, ma innamorata
proprio no.
Insomma… se penso a com’era con
Ron… per Draco non è così. E di Ron ero innamorata, ne sono certa.
Con Ron, ero disposta a tutto pur
di stare con lui. Anche
se non gli ho perdonato che mi abbia tradito.
Con Draco, invece, non mi faccio
passare una mosca sotto il naso. Anzi, non lo sopporto la maggior parte del
tempo. Anche se lascio
sempre che faccia di me ciò che vuole.
IO NON sono innamorata di Draco!
Potrei stare ore ad elencare tutti i corollari di
questo teorema, giungendo sempre alla medesima soluzione. Io non sono
innamorata di Draco, punto e basta.
È un ex Mangiamorte, un
Serpeverde, un Purosangue, uno stronzo della peggior specie, un datore di
lavoro sadico, un egoista e un egocentrico…!
Ed è anche…
Insomma, qualche altra cosa di insopportabile in lui, sta… ah ecco!! È biondo, io i
biondi non li sopporto, mi danno fastidio!
I loro capelli dorati, il modo
che si riflette al sole, il difetto della melanina… cose insopportabili,
chiariamo! Ok, ora sto esagerando… ma nulla cambia che NON SONO INNAMORATA di
Draco!!!! Accetto anche ossessionata, ma non
innamorata!!!!!
È stato semplicemente un lapsus… freudiano? No, un lapsus e basta, causato da Ginny che mi fa innervosire.
Io non sono innamorata di Draco…
e non lo sarò mai…
Dopo le mie elucubrazioni
mentali, torno ancora un po’ sconvolta ad occuparmi di
lei, di Ginny che mi sta guardando con una strana luce negli occhi. Mamma mia,
sembra posseduta… ma che vuole?!
“Intendevo dire…” inizio con voce
convincente, ma lei mi interrompe subito, urlando: “Lo
sapevo! Lo sapevo! Ti sei innamorata, Herm?!!”.
“NO!” urlo a mia volta,
rabbrividendo. Accidenti alla mia boccaccia larga…
“Ma sì!!
Me l’hai detto chiaramente adesso!!” continua lei
cocciuta, alzandosi e venendomi incontro con le braccia spalancate, quasi come
se mi volesse abbracciare. Sembra una mamma che ha appena saputo che la figlia,
zitella da decenni, abbia deciso di sposarsi, tipo “Il mio grosso grasso
matrimonio greco”, tranne che lei è un’acciuga.
“Non volevo dire quello che ho detto! NON SONO INNAMORATA!!!”.
“Scommetto che è quel gran figo
del tuo capo…!” aggiunge convinta, all’anima sua, ma che è diventata sensitiva?!Ma che sensitiva e sensitiva, ha
sbagliato della grossa… infatti, io NON sono innamorata del mio capo!
“Ma lo
sai che il mio capo è bello che fidanzato?” le dico cercando di farla
rinsavire.
“Ma di chi
parli? Della biondina acida?” replica lei, per
nulla intimorita, agitando la mano avanti ed indietro
“Ma va và… una volta li ho visti e già mi è bastata, non è per niente preso da
lei infatti, mentre eri in coma, lui…”. Ginny tace ad
un certo punto, lo sguardo perso nel vuoto. Si porta la mano alla bocca,
pallida, quasi come se avesse un conato di vomito.
“Gin!” mi avvicino preoccupata,
una mano sul volto freddo.
Lei rinviene subito, accusando
una nausea improvvisa, al che le chiedo maliziosa: “Non sarai incinta?!”.
“Non dire fesserie!” ribatte lei
con energia “Ho iniziato a prendere anche la pillola per impedire di rimanere
incinta, prima del matrimonio… mia madre ha dei radar per queste cose e
sverrebbe se sapesse che non mi sposo vergine… per non parlare poi del vestito
che non mi andrebbe bene…”.
Inarco un sopracciglio, almeno si
è distratta dalla mia questione: “Forse ti fa effetto collaterale…”.
“Chi, mia madre? Ma non credo che sia una cosa di oggi… anzi… più di vent’anni di
effetto collaterale…”.
“Parlavo della pillola, Gin!”
ribatto esasperata, ma lei nega con il capo, dicendo che come Medimago, sa perfettamente quali sono le controindicazioni,
e non ci sono nausee improvvise.
“Sarà lo stress…” ipotizzo,
porgendole un bicchiere d’acqua, che lei beve annuendo: “Il peggio è che ti
stavo dicendo qualcosa di importante… e me ne sono
dimenticata…”.
Mai nausea fu più provvidenziale…
Poi si sbatte
la testa con una mano, dicendo: “Stavamo parlando del tuo capo…! Giusto!”.
Maledizione alle sue sinapsi
ancora funzionanti!
“Già, vero…” borbotto inacidita
“Ti stavo ribadendo che lui non è minimamente
interessato a me…”.
“Dunque
il problema è solo che non sei corrisposta?” insinua Ginny, dandomi una lieve
gomitata, alla quale mi scanso nervosa. Non ci credo che ne
sto parlando proprio con lei, anche se in questi termini scherzosi.
Soprattutto considerando che lei non sa che NONsono
innamorata proprio di Draco Malfoy.
“Ginny, stai facendo un castello
sul niente…” replico ancora, dandole le spalle “Io e Danny
non siamo nemmeno amici… è un bel ragazzo, sicuramente, ma non sono innamorata
di lui…”, mi siedo stancamente sul divano incrociando le braccia, per poi
proseguire: “Credo anche io che Danny non sia innamorato di Summer, ma non
cambia le cose. Nel senso che credo sia innamorato ancora
della sua ex…”.
“Che palle ste
ex!” borbotta Ginny, accalorandosi “Sono la rovina della società… il crescente
numero di divorzi deve essere dovuto a loro…”.
“Harry non ha delle ex vere e
proprie… di che ti lamenti?!” la contraddico, alla
fine, a parte ChoChang,
Harry ha avuto solamente lei.
“Lasciamo
perdere, decisamente!!” si infervora, cambiando discorso. Questa, poi,
un giorno me la dovrà spiegare.
“Quindi non è del tuo capo che
sei innamorata? E di chi allora?”.
“Ma di
nessuno, Gin…” ribatto scocciata, già mi basta il mio lapsus a farmi sentire
confusa, non mi devo sorbire anche lei adesso.
Ginny sospira scettica, poi mi
dice: “Sarà… in ogni caso un po’ di amore non potrebbe che farti bene…oltre che
un po’ di sano sesso…”.
“GIN!” urlo
scandalizzata, mettendomi le mani sulle orecchie.
“Ma dai,
non fare la moralista… scommetto che ci stai pensando anche tu…”.
“Assolutamente
no” replico convinta, anche se sto mentendo spudoratamente. Arrossisco, ricordando il bacio con Draco e le sue braccia attorno a
me, solo poche ore fa. A quel ricordo, sento un fremito intenso scuotermi
dall’interno di me stessa, e non è una bella sensazione. Assolutamente.
Sta
diventando quasi un’esigenza che lui mi stia così vicino, che mi stringa, che
mi sfiori… mi fa paura, Gin… sta diventando così forte il desiderarlo che oramai temo di non riuscire a stare zitta ancora per molto,
anche con te… lo voglio così tanto che mi sembra di impazzire…
“Allora te lo dovrò trovare io un
bel fidanzato!” esclama Ginny convinta, estraendo dalla sua borsa un enorme
librone rettangolare. Ma che si porta la lista degli scapoli d’oro del mondo
magico sempre dietro?! Mi ritraggo su me stessa,
spaventata da questa donna.
Quando lo apre, però, noto che
invece c’è disegnata una planimetria della sala da pranzo, dove si terrà il
ricevimento del loro matrimonio, con tanto di disegni dei vari tavoli
comprensivi di post it rettangolari e sottili che
indicano in colori vivaci ed accesi i nomi degli
ospiti.
Inutile precisare che ci sono
almeno trenta tavoli con dieci persone ciascuno. Ed è anche inutile precisare
che Ginny mi ha detto di aver notevolmente ristretto la rosa.
Praticamente mezzo mondo magico è qui rappresentato, stilizzato da delle
strisciette di carta colorata.
Il peggio è che sembra che anche
Harry sia incline a dare un ricevimento in grande stile,
d’accordo che è il Ministro, ma… bah… se mai un giorno mi sposerò, volerò su
un’isola del Pacifico con il mio ragazzo e i miei testimoni, avrò una
bellissima cerimonia sulla spiaggia al tramonto, con tanti fiori bianchi e
rosa. E se mi verrà in mente, non inviterò nessuno dei miei parenti, altroché…
credo che invece Harry abbia accorpato il suo ricevimento di nozze al
censimento del mondo magico, stile Galilea del I secolo.
Altrimenti non mi spiego come ci
sia tanta gente che… un attimo!!
Ecco qui come trovare una
Purosangue, candidata ad essere la mamma di Serenity!
Ce ne sono di nomi di famiglie
che non conosco assolutamente… la mamma di Serenity deve essere tra queste… e
magari indirizzando Ginny, capirò anche chi è.
Scommetto che sa vita, morte e miracoli di tutte queste persone.
Con nonchalance, indico il mio
bigliettino tanto per iniziare: “Con chi sono io al tavolo, fammi capire…”.
Ginny con un cenno della mano, fa
illuminare di perlata luce rosa gli altri cartoncini, su cui leggo
distintamente il nome suo e quello di Harry, quello di Ron e di Lavanda. Ovvio…
essendo io e Ron i testimoni, è chiaro che siamo allo
stesso tavolo degli sposi.
“E come sempre farò la parte della single, condannata a fare sempre la damigella d’onore,
e mai la sposa…” borbotto melodrammatica “Non posso chiedere a Seth di venire
con me? Posso sempre pagarlo per fingere che mi trovi
sessualmente appetibile…”.
“Quello è il piano B…” borbotta
lei concentrata, guardando gli altri tavoli “Seth te lo puoi portare dietro in
ogni caso, ma accompagnato da un altro bel tipo… con cui magari non condividi
la passione sviscerata per Shane West…”. Eccola là, ancora? Ce
l’avevo il sosia di Shane West sottomano e un imbecille mi ha anche
cancellato il suo numero! Ma che ho fatto di male nella mia vita precedente!! Sono la reincarnazione di Stalin, Hitler o Mussolini?!!
“E magari adesso lo trovo anche
uno per Seth…” sta continuando Ginny a biascicare “Zabini non me la conta
giusta…”.
“Hai invitato Zabini alla
tua festa di matrimonio?” chiedo autenticamente scioccata.
Serpeverde della peggiore risma… ma anche Purosangue, meglio stare attenta.
Lei annuisce
con un sorriso: “E’ un tipo simpatico, ovviamente se preso a piccole dosi…
stava alla Cooperazione Internazione, ricordi? Insomma lo incontrai una volta che…” e via ad
una serie di racconti infiniti su Zabini e sulla loro conoscenza. In mezzo alle
altre molteplici informazioni che mi dà, tra cui la sua allergia alle noci
messicane, la passione per le cravatte viola del pensiero e il fatto che soffra
spesso di calcoli renali, vengo anche a sapere che ha
una sorella, poco più piccola di me.
Opportunamente indirizzata, Ginny
mi dice che l’ha invitata ma aveva da fare, e che è una tipa un pochino
arrogante. Si chiama Dorilys Annie Zabini.
Prima
candidata.
Ovviamente io non la ricordo,
anche se Ginny dice che veniva a scuola ai nostri tempi. Me la faccio
descrivere, fingendo che voglio cercare di ricordarmela, e lei mi parla di una
tipa alta, raffinata con lunghissimi capelli neri.
Decisamente non assomiglia a Serenity, ma chissà…Serenity potrebbe anche aver
preso da suo padre… e, se fosse Draco, i capelli biondi e gli occhi azzurri
sarebbero pienamente giustificabili.
Mi annoto il nome mentalmente e,
nell’ora seguente, mentre Ginny cerca di trovarmi un fidanzato, io invece cerco
di trovare la mamma di Serenity. Come prevedevo, interrogare Ginny è stato
molto proficuo: anche se non ci sono molti Purosangue alla sua festa, lei
comunque mi ha dato molte informazioni utili.
Quando va via, infatti,
rassegnata all’idea che alla sua festa sia io che Seth verremo
da single (“Domani metto una foto di Seth nella scrivania di Zabini… dalla sua
reazione, vedo se almeno lui lo accoppio!”), corro alla scrivania e inizio ad
annotare tutta una serie di nomi femminili, che potrebbero portarmi alla
soluzione del mistero.
Ovviamente devo recuperarli dal
pantano di dati, notizie e gossip veri e presunti che Ginny mi ha dato nel suo
fiume incessante di parole.
Mordicchio la matita per qualche
secondo, iniziando a scrivere.
Dorilys
Annie Zabini.
Lo sai
che Hannah Abbott ha divorziato? Hanno beccato il
marito a letto con una delle commesse di Fortebraccio. Ricordi quella che
portava sempre le calze spaiate?
AmaryllisDavies
Marietta Norton si è messa a fare la giornalista de “Il Cavillo”… le
manderò un bambù della fortuna per aver fatto lasciare Choed Harry.
DestinyMontague
Ieri, ho
letto che è morto Amos Diggory con la moglie. Un incidente,
mi sa. E dire che, da quando è morto Cedric, lo trovavo anche simpatico… meno
presuntuoso…
Accidenti a Ginny e quanto parla!!C’ho una confusione nel
cervello… continuo a scribacchiare nomi per un’ora circa, fino a quando le luci
si accendono su Londra e la notte cala. Guardo distrattamente l’orologio, le 20, 15, forse è meglio che smetta. Ho una ventina di nomi da
esaminare a cui ovviamente devo aggiungere quelli
delle Purosangue che conosco io, come la Parkinson, la Greengrass… certo che
se continua così, sta storia la risolvo al prossimo Big Bang. Come sempre, un
angolino della mia mente mi suggerisce che potrei anche fregarmene ed andare dritta per la mia strada, sorridendo nella luce
dell’aurora.
Sospirando, mi alzo dalla
scrivania, raggiungendo la porta, quella vocina oramai si fa sempre più
piccolina, flebile, non la sento nemmeno più.
Oramai è
diventato impossibile fregarmene, o fare finta di fregarmene…
Sbuffo chissà se Draco e gli
altri sono già tornati. Non faccio nemmeno in tempo ad aprire la porta che
qualcosa mi prende in pieno, qualcosa che urla in modo concitato: “Bagno,
bagno, bagnooooo!!!”.
Sono tornati.
“Seth!” parlo con la porta del
bagno chiusa “Allora com’è andata? Serenity sta bene?”.
“Sì, sì… ne potremmo parlare
dopo, please??!!!” mi parla
Seth dalla porta, inveendo.
Promemoria per me, quando sta in bagno non vuole parlare… cosa abbastanza intuibile, ma nel
caso di Seth assolutamente scioccante, visto che, quando ci si mette, è
logorroico. La prossima volta che mi stressa, li metto dei lassativi nel caffè…
“Ok, allora
scendo di sotto! Vedo se April ha bisogno di una
mano…” parlo sempre con la porta chiusa, ottenendo un muggito in risposta.
Sorrido per poi legarmi i
capelli, e scendere nel locale, dove, come April mi aveva già preannunciato, non c’è molta gente, ma Corinne e Lorna hanno
appena staccato quindi è meglio che mi muova ad aiutarla. E magari, lavorando
un po’, mi distrarrò da tutti questi pensieri. Di studiare non se ne parla,
vedrei sempre Draco tra i caratteri del libro… speriamo che domani mi alzi con
un’altra mente, sennò questo esame non lo passerò mai.
Chissà se
davvero, poi, lo voglio ancora fare questo esame… sospiro, sparecchiando un tavolo con aria insofferente. Le priorità
della mia vita ormai sono completamente capovolte… la cosa più importante sta
diventando Draco con Serenity, Seth ed April. Al momento,
il pensiero di separarmi da loro, da lui, mi mozza il fiato.
“Herm!” mi chiama leggermente
April “Potresti andare a gettare la spazzatura? Quelle
due celebrolese l’hanno lasciata fuori, ed alcuni
clienti si sono lamentati…”.
“Certo, figurati…”.
Esco dalla sala
ristorante, passando per la porta sul retro, trovando gli stessi sacchi
che avevo visto prima, accompagnati da un altro. Sono enormi! Mai che facciano
qualcosa… sbuffando per lo sforzo e per il caldo, raggiungo a fatica i bidoni
della spazzatura poco distanti, gettando con foga i sacchi neri.
Mi asciugo il sudore dalla
fronte, giuro, in vita mia non ho mai lavorato tanto come
da quando sono qui… come se non bastasse, stasera fa caldissimo… ci saranno
almeno 28 gradi, sembra la
Sicilia di quando stavo in vacanza da mia nonna, altro che
Londra. In compenso, il cielo è terso e carico di stelle, stranamente limpido e
privo di foschia, dopo la pioggia lieve e leggera di oggi pomeriggio. Mi fermo
un po’ a guardare il cielo, rapita, quando è così luminoso
ti illudi quasi di poter toccare le stelle, farle scivolare tra le tue dita
come se fossero sfolgoranti diamanti e rimirarti del loro riflesso. Come se
potessi toccare tutti i tuoi sogni… già, i miei sogni…
non so nemmeno che fine abbiano fatto, è come se fossero diventati incolori e
sbiaditi nella luce piena e prepotente di una luna d’argento. Draco.
Torno indietro sui miei passi, la
porta del magazzino è aperta. Vuoi vedere che quelle due alcolizzate di Lorna e
Corinne hanno dato via al loro dopolavoro etilico là dentro?!
Summer chi se la sente, l’altra volta mancavano ben
dodici bottiglie di vino rosso, e loro spiegarono candidamente che li servivano
per un sangria party.
Casa loro deve essere una specie
di taverna, non che ci tenga a saperlo o a vederla.
E nemmeno ci tengo a sapere o a
vedere in che attività sono occupate, ma oggi, nella mia situazione emotiva e
psicofisica, non sono proprio in vena di sentire Summer che inizi a strillare
con delle frequenze così acute da poter essere captate distintamente solo dai
pipistrelli, mentre per noi esseri umani risulteranno essere
simili allo stridere del gesso sulla lavagna. Già, me lo vedo che inizia a
gridare…
“NON PUOI FARE QUESTO!!!”.
Ecco, così, infatti… ma un
attimo, questo l’ho solo pensato o l’ho anche sentito?
Un attimo, no, no, l’ho davvero
sentito… dal magazzino… allora non ci sono quelle due spugne,
ma Summer… il cuore mi balza in petto…
Draco. Ci
deve essere anche lui… e da stamattina che litigano in fondo…
Lo so che non si origlia e tutto
il resto, ma un’occasione del genere non mi capiterà mai più, al diavolo lo
spirito Grifondoro! Scommetto che anche Godric in
persona, se mi vedesse, non farebbe che appoggiarmi… in fondo si tratta di dare
un bello smacco ad uno dei più illustri membri della
casata di Salazar…
Mi avvicino in punta di piedi,
quando vuole Draco ha gli occhi e le orecchie
sensibili come quelli di un gatto, e se mi becca, mi infilza su un palo, specie
dopo l’illuminante conversazione di questo pomeriggio.
Mi accosto alla porta del
magazzino, da cui proviene adesso un bisbiglio concitato che ha sostituito le
urla di Summer, nascondendomi dietro la pila di casse d’acqua, in modo che, se
anche escano, non riescano a vedermi celata da quell’intercapedine. Nella lama
di luce che intravedo dalla porta semiaccostata, vedo solamente Draco. Indolentemente appoggiato alla parete, gli occhi chiusi,
apparentemente indifferente. Mi appiattisco contro il muro, celandomi al
suo sguardo. Nonostante non lo veda benissimo, ho inteso perfettamente. Non è
indifferente. Assolutamente. È furioso.
Le palpebre fremono leggermente,
il petto mostra un respiro affannoso ed irato, le
braccia conserte sono contratte nervosamente, le spalle sono serrate e piegate
su sé stesse. Quando riapre gli occhi, è energia di diamante e ghiaccio che
agghiaccia la persona che ha di fronte. Peggio di come ha fatto con me oggi… ma
che dico, molto peggio… ora sì che anche a me fa paura in un senso oggettivo,
non vorrei essere nei panni di Summer adesso. Quegli occhi potrebbero anche
uccidere.
Apre lievemente le labbra
increspate, come se avesse in bocca un limone acerbo, solo per dire: “Lo sai
meglio di me che era così che doveva andare a finire… non credo che non fossi
stato chiaro, in fondo credo che fosse un concetto semplice anche per te…”.
“Sì, ma la bambina è scappata
senza che me ne accorgessi, ed io…” tenta di opporsi Summer, la voce rotta
dall’isteria e dal pianto. La vedo avvicinarsi a Draco, dando a me le spalle,
ed evidentemente cercare di toccarlo in qualche modo, ma con uno strattone,
Draco si libera violentemente.
Stanno
litigando perché Serenity è scappata… ma… Draco ha detto che era così che
doveva andare a finire… si stanno lasciando? Addirittura? Come poteva Summer
impedire ad una piccola strega di fuggire? Non lo
capisce?
Quasi mi dispiace per lei, povera
Summer. Possibile che sia così… crudele?
Non le vuole nemmeno un po’ di
bene, diamine? Che razza di persona è?
Stringo i pugni con rabbia,
chiamatela anche solidarietà femminile, ma mi fa venire dei nervi. Vorrei
persino uscire a prenderlo a schiaffi…
“La cosa era chiara… dall’inizio…
se sei qui, è sempre stato quello il motivo… non fare l’ingenua, almeno questo
risparmiamelo…” sibila Draco, girando attorno a lei come un avvoltoio, poi le
prende un braccio stringendolo forte. Sto quasi per
intervenire, quando dice irato: “Sei sempre stata qui solo per lei, l’hai
sempre saputo e ti è sempre andato bene, no? Sapevi che non ti avrei mai
amato, lo sapevi… eppure sei rimasta. Ti ho lasciato fare… ma
c’era una condizione… e oggi l’hai fatta a pezzi…”.
Ma di che diamine stanno
parlando… e pensare che credevo di assistere ad una
semplice litigata tra innamorati, magari utile per capire qualcosa di più di
Draco. Ma qui c’è qualcosa sotto di grosso… come fa a dire così tranquillamente
che non la ama e nemmeno avrebbe mai potuto farlo?!
Non che non l’avessi intuito che non provasse nulla per Summer, ma insomma lei
invece è cotta di lui. Poteva essere meno diretto… e poi perché l’ha lasciata
qui allora? Che è successo oggi di diverso? È bastata la distrazione con
Serenity a decretare il suo destino?
I miei pensieri si bloccano nel
loro corso, provocandomi un brivido lungo la schiena, quando sento Summer
chiamarlo, piangendo: “Ti prego, Draco… non puoi farmi questo… sai che non posso tornare a casa…”.
L’ha
chiamato Draco… allora… lo conosce… come?
Dannazione non ci sto capendo nulla…
“Non chiamarmi così…” soffia
Draco freddamente, allontanandola da sé, con un altro strattone. Summer allora
strilla istericamente, sempre piangendo : “Alla
Granger però consenti che ti chiami Draco, no? È per lei, vero? Non è così?! Non è così?!” Summer prende a
pugni la sua schiena, mentre io mi porto una mano alla bocca per impedire che
un qualsiasi respiro lasci le mie labbra. Se mi scoprono
sono dolori… ora stanno parlando anche di me… e, a quanto pare, Summer sa anche
che io chiamo Draco per nome… quindi sa chi sono… chi diavolo è, allora?
Draco le blocca i polsi, urlando
a sua volta, facendomi rabbrividire: “Lei non c’entra con questa storia, non ti
azzardare a metterla in mezzo… se non era per lei, oggi Serenity non l’avremmo
mai trovata…”.
Santo cielo, Draco…
mi sta difendendo davanti a lei, alla sua ragazza…
“Che c’è?!”
ride rabbiosamente Summer, schernendolo “Ti sei innamorato di lei? Ti vuoi fare
la Granger?
Tuo padre ti avrebbe diseredato se lo avesse saputo,
Draco…”.
Il cuore prende a battermi
furiosamente nel petto, serro gli occhi quasi come se servissero a rendermi
invisibile, ogni parte di me tesa spasmodicamente ad ascoltare. Credo che sia
il secondo più lungo della mia vita aspettare che Draco risponda… il sudore mi
gela la schiena, improvvisamente mi sembra che si sia fatto inverno e tutto
attorno a me stia ghiacciando su sé stesso,
riempiendosi di crepe. Ancora stringo la mano sulla mia bocca, cercando di
tenerla ferma dal tremore che l’ha presa.
“Non dire sciocchezze…” dice lui con ovvietà, la voce dura.
Riapro gli occhi, come se non mi
aspettassi che cosa avrebbe risposto… sono una stupida… mi sfrego energicamente
gli occhi, tenendo a bada il mio respiro accelerato. Figuriamoci se Draco
avrebbe mai detto di sì…
Che avevo bisogno della conferma
scritta? Della copia autenticata dal comune?! Sono
solamente un’idiota, ecco cosa. Mi mordo il labbro inferiore con rabbia, sapore
ferrigno del sangue in bocca che mi scivola in gola, irritandola, tutto attorno
offuscato delle lacrime che sono comparse nei miei occhi.
E poi che diamine me ne importa,
no?
Invece sì che importa…
Importa più di tutto il resto.
Perché mi dico una bugia, lo so solamente io.
“Ma mettiti in testa che non
c’entra niente…” continua Draco, la voce annoiata “La Granger non ha niente a
che fare con questo… lasciala fuori…”, il tono si abbassa diventando quasi un
sussurro mentre aggiunge lapidario: “Non sono più obbligato nei tuoi confronti,
come è ovvio che sia… se hai bisogno di una conferma,
puoi anche chiamare Potter, credo che sarà un enorme sollievo anche per
lui...”, Harry? Che
c’entra Harry? “…me ne frego
di quello che farai da domani… ti ci sei messa da sola in questa situazione. Sei stata tu a cercarmi, sempre tua l’idea della Promissio Gemina…
ora anche io sono libero da qualsiasi legame nei tuoi
confronti…”, Promissio
gemina? O mio Dio… ora qualcosa la sto iniziando a
capire… ho studiato la Promissio Gemina
qualche giorno fa. È un contratto vincolante, un Incantesimo di Volontà che
lega due persone che vogliono scambievolmente qualcosa l’uno dall’altra. Non
porta alla morte, come il Voto Infrangibile, ma nel caso della violazione degli
obblighi di una delle due parti, la controparte viene
automaticamente liberata dai suoi oneri… ecco, a cosa si riferiva Draco, quando
diceva di essere libero…
Evidentemente Summer ha violato
una delle clausole… facile che sia la cura di Serenity, se l’ha persa di vista
stamattina. Ma allora Draco da lei che cosa voleva? E
perché hanno fatto questo patto? Dunque, Summer è una
strega… e come mai si cela da babbana? Chi è allora, in realtà? E che c’entra
Harry?
Altrettanto facile che sia il
garante della Promissio Gemina, la terza figura del patto, una persona che
conserva l’atto della promessa gemella e vigila sulla sua osservanza.
Ma perché proprio lui? E perché a me non ha detto nulla?
Ho una confusione in testa che la
metà basta…
“Credo che tu sappia
perfettamente che cosa accadrà, se torno a casa…”
minaccia Summer, perdendo improvvisamente tutta la malinconia e il tono
lamentoso che aveva fino a questo momento “E’ finita, Malfoy… anche il Ministro
sarà dalla mia parte, se aprirò bocca…”.
Draco improvvisamente sembra aver
perso tutto il suo coraggio, tutta la sua forza. Il volto impallidisce, gli
occhi perdono colore e sembra davvero spaventato, le mani strette a pugno.
Eppure dice solamente, la voce tremula: “Fallo… nel tempo che ci metteranno i
tuoi a riaccoglierti in casa e a perdonarti per quello che hai fatto, io avrò
portato a termine quello che sono venuto a fare qui…”.
Continuo a non capirci nulla,
osservo in religioso silenzio Summer accusare il colpo, tacere e stringere le
labbra sottili in una smorfia di impotenza.
Draco,
ostentando sicurezza e disinvoltura, aggiunge stoico: “La Promissio Gemina
è rotta… quindi non affannarti a raccogliere le tue cose. E vattene, da qui, dall’appartamento e da dovunque tu abbia messo
piede… era facile ciò che dovevi fare, eppure sei riuscita a fallire. Tipico…”,
la sua voce si vela di avvertimento stentoreo mentre conclude:
“… fatti passare anche l’idea di vendicarti… scommetto che l’hai già avuta,
patetica come sei… se accade qualcosa a Serenity, ti ricorderai ben presto di
che razza marcia sono fatti i Malfoy…”, mentre rabbrividisco, spaventata, Draco
chiude gli occhi per un secondo.
Quando li riapre, ha
l’espressione ancora più truce di prima, fa un passo verso Summer e la sfida a
muso duro, sovrastandola in altezza. Per un attimo, quando solleva la mano e la
afferra per un braccio, credo che voglia ucciderla. Ma si limita solo a
stringere forte la presa sul suo gomito e a sibilare: “… stesso effetto se
succede qualcosa ad Hermione… fino a quando lasci lei
e Serenity fuori da questa storia, tu puoi considerarti ancora una donna con
una vita lunga…”.
Summer piagnucola ed annuisce tra le lacrime.
Che diamine mi potrebbe fare lei?
Perché è così preoccupato?
Nonostante però i suoi modi duri,
una carezza calda mi avvolge al pensiero che ci tenga così
tanto anche a me, oltre che a Serenity. Nonostante la discussione di
stamattina… e
nonostante non sia innamorato di me…
Stacca violentemente la presa da
lei, per poi dire, una risata sardonica sul volto: “A mai più rivederci, Astoria…”.
Una fitta violenta mi colpisce
alla testa, mi accascio a terra per il dolore, come se si stesse spaccando a
metà, nettamente, distintamente, come una mela. Boccheggio come se mi mancasse
davvero l’aria, il dolore che mi impedisce anche di
pensare a qualsiasi cosa razionale… non credo di aver mai provato nulla di
simile, nemmeno sotto Crucio, oppure quando pativo della maledizione di
Voldemort. Accasciata su me stessa, sento come se accadesse in un'altra
dimensione qualcuno uscire correndo della stanza e sorpassare il mio
nascondiglio. Come se fossi agonizzante, mi ritrovo ad
implorare che si fermi, che mi aiuti, mentre tutti i miei pensieri si
rovesciano gli uni sugli altri, uno squarcio profondo e lacerante che strappa
la mia memoria. Avverto un conato di vomito e rimetto anche l’anima, piegata in
due per terra.
Poi, improvvisamente, passa.
Anche se è durato solo qualche secondo, mi è sembrato di morire. Tutto, al nome Astoria.
Mi rialzo a fatica, reggendomi
alle casse dell’acqua, appiattendomi mentre anche Draco esce, non vedendomi per
fortuna.
Improvvisamente, so, come se me
ne accorgessi solamente adesso, che Summer Breeze Layton ed
Astoria Greengrass sono la stessa persona.
Riconosco nelle fattezze di
Summer la ragazzina bionda con le trecce che vedevo qualche volta tra i
Serpeverde, che rimproverai una volta perché era uscita con uno più grande,
appartandosi nelle cucine a notte fonda, e che mi aveva guardato schioccando la
lingua con fastidio. Quella che stava sempre attaccata a Daphne e che rideva
con lei in modo idiota.
Summer è
sempre stata Astoria.
E il mio malore… rottura di un
Incantesimo di memoria. Ne riconosco i sintomi. Ho ritrovato la memoria, quando
ho sentito il nome Astoria, associato a lei.
In modo nebuloso, ricordo persino
il momento in cui mi ha incantato: il giorno che la incontrai per la prima
volta, ero con gli altri e ridevamo su Seth e sul fatto che fosse innamorato di
Danny. Gli altri tacquero, Summer era alle mie spalle… qualche attimo di buio e
poi lei che si rivolge al personale, intimando di tornare al lavoro.
In quell’attimo di buio, a cui prima chiaramente non avevo fatto caso, ora ricordo
una bacchetta puntata verso di me.
Mi ha tenuto sotto incantesimo
tutto questo tempo… e io non me ne sono accorta.
Summer è sempre stata al di fuori dei miei sospetti.
La scena della varicella, le sue
sceneggiate al fatto che conoscessi Danny…stava solamente recitando.
Lei mi ha sempre conosciuto.
Ha sempre saputo chi ero e come
conoscessi Danny, o meglio Draco… con un brivido, mi
rendo conto che ha usato un Incantesimo così potente su di me da non farmene
minimamente rendere conto. Se non avessi sentito ora il suo nome, non si
sarebbe mai rotto.
E, per come si è rotto, mi rendo
distintamente conto che mi avrebbe aggiogato per sempre.
Mi affloscio su me stessa,
improvvisamente anche il volermi tenere al di fuori di Draco ha un senso…
Summer/Astoria non si è minimamente preoccupata che
potesse causarmi dei danni seri al cervello, manipolando la mia memoria così.
Per difendere la sua identità.
E se sulla strada per arrivare a
Draco, trovasse come ostacoli me e Serenity…
probabilmente non esiterebbe un momento a farci fuori.
Perché, poi? Che segreto
terribile nascondono tutti e due?
Ne ho paura, me ne vergogno, ma la Regina dei Grifondoro, per
la prima volta, da quando ha messo piede qui, ha paura davvero.
La mano nei capelli, ricordo
anche il malore di Ginny del pomeriggio… la nausea improvvisa ed ingiustificata, proprio mentre parlava di Summer. Mi
stava dicendo una cosa e si è interrotta, non riuscendo a continuare.
Quel giorno, al mio risveglio dal
coma, mi aveva detto di aver incantato lei Summer, aveva raccontato della
biondina acida che continuava a sbraitare sullo stato del suo vestito azzurro.
Evidentemente, non era stata Ginny ad incantare
Summer, ma il contrario. E l’inconscio della mia amica continuava a suggerirle
di dovermi dire qualcosa…
Che
Summer era Astoria Greengrass.
Anche Ginny… anche lei… che
diamine c’entrava lei? Come ha potuto Harry lasciarglielo fare?
Più vado avanti in questa storia,
più ne scopro e peggio è… spero che almeno la rottura tra Draco ed Astoria sia definitiva. Come potrei fingere di non
conoscerla ancora?
E lui, Draco… come ha potuto
lasciare che mi facesse questo?
Forse
sarebbe davvero meglio per me andarmene da qui, stasera stessa.
E non
metterci piede mai più…
Appoggio la fronte sul ginocchio,
seduta per terra come ancora come sono, e mi ritrovo a singhiozzare senza
nemmeno accorgermene. Rimmel sciolto che sporca i miei jeans, lacrime che
annacquano i miei pensieri, rendendoli ancora più labili e confusi di come già
non fossero.
“Hermione?” qualcuno mi chiama e
sollevo il viso, ancora bagnato di lacrime.
Sussulto quando mi rendo conto di
chi si tratta e mi asciugo la faccia con la manica della camicia,
frettolosamente, convinta di spargere il trucco sciolto per le mie guance.
Accidenti a me, mi rialzo velocemente e simulo un sorriso tirato, il migliore
che posso fingere: “Hayden…!”.
Mamma mia, devo avere un aspetto
orrendo… non a caso, lui mi guarda tra lo spaventato e il preoccupato. Ma non
sarà un miraggio?! In fondo, perché altrimenti sarebbe
qui, quasi come un angelo provvidenziale? Scioccamente, allungo la mano
toccandogli il braccio, accertandomi che sia vero.
Lui sgrana gli
occhi giada e sorride: “Che c’è? Pensi che sia un’allucinazione?”.
Arrossisco, ritraendomi su me
stessa, la mano piegata in petto, la mente ancora sferzata da confusione e
dolore: “Mi sembra così strano… come mai sei qui?”. Mi schiarisco la voce,
ancora velata di pianto, e sollevo lo sguardo.
Lui si gratta la testa
imbarazzato, prima di dire: “Ammetto di aver violato ogni regola del
corteggiamento… insomma dovrebbero passare almeno tre giorni prima di
risentirsi, no?”.
Sorrido, miele caldo nella gola:
“Non lo chiedere a me… credo di aver sempre ignorato quella tipologia di
regole…”.
“Ecco, almeno posso dirti una bugia e dire che, in realtà, ci si rivede dopo
poche ore…”.
Sorrido ancora, piegando la testa
di lato: “Diciamo che non sei molto convincente… ma sono davvero contenta che
tu sia passato…”.
E lo sono davvero, santo Cielo… Hayden ha la pregevole dote di farmi scordare
di Draco. Al momento è la cosa migliore che mi possa accadere… come se non
bastasse, poi, almeno così posso chiedergli nuovamente il numero. Giuro,
stavolta lo incido nella pietra.
“Tra quanto
stacchi?” mi chiede velocemente Hayden.
“Credo tra un’oretta… non c’è
tantissima gente, oggi…”.
“Bene…” commenta lui con un nuovo
sorriso “Ho due biglietti per il cinema all’aperto del parco di Notting Hill…ti
piacerebbe?”.
Mi ostino a chiedere che cosa
facciano, anche se ho già deciso di andarci, nello stesso momento in cui è
comparso qui, davvero come un angelo.
Mi dice che danno I GRANDI
CLASSICI e che, stasera, è la volta di “Orgoglio e pregiudizio”, quello del 1940
con GreerGarson e Laurence Olivier… che,
per intenderci, è quello che vidi la sera che Dean non tornò a casa,
addormentandomi subito dopo.
Decisamente un segno del destino.
Di solito, non cedo
alle trappole dell’intuizione… si sa.
Ma, di solito, non vengo nemmeno incantata da una strega per mesi.
Di solito, capisco
subito chi ho di fronte, mi basta solo un’occhiata.
Di solito, non
origlio conversazioni private, ricavandone segreti inconfessabili.
Di solito, non mento
alla mia migliore amica sui miei sentimenti per il mio capo, qualsiasi essi
siano.
… e di solito, non
penso a Draco Malfoy per tutto il tempo che passo da sveglia, non soffro perché
lui sembra non accorgersi di me se non per una superficiale e stupida amicizia,
non mi sento schiacciare dall’idea di non vederlo più… e non mi si spezza il
cuore se non impedisce ad una Purosangue come lui di
giocare con la mia mente.
Di solito, tutto
questo non accade.
E di solito, io ora
direi ad Hayden che ho da fare, che sono stanca e che
sarà meglio fare un’altra volta, celando il mio imbarazzo e la mia timidezza
sotto una maschera insofferente e impegnata.
Già, di solito… ma
ormai la mia vita è tutta un’eccezione alla regola dei miei di solito… ed ora farei
qualsiasi cosa, pur di stare un po’ meglio.
Qualsiasi cosa, pur
di smettere di pensare.
Sfodero uno dei miei
migliori sorrisi, facendo l’occhiolino ad Hayden: “Sai
che c’è? Ora chiedo a Seth se può sostituirmi… ti va di
mangiare qualcosa?”.
“Pensavo che non me
l’avresti mai chiesto…”.
Sorrido ancora,
incamminandomi davanti a noi e rientrando nel Petite Peste.
Draco è a pochi passi
da me.
Al bancone che
parlotta con Seth.
E, mentre mi
avvicino, con Hayden alle mie spalle, e chiedo il permesso a Seth di andare
via, ricevendolo in tono entusiasta da quest’ultimo, Draco mi guarda con la sua
solita espressione, cristalli di sale lucenti negli occhi
plumbei e silenziosi, domande e risposte che non avrà mai.
Mi volto senza
guardarlo ancora e vado a cambiarmi.
Lapidaria, ferrea,
scolpita, mi si staglia nella mente una sola frase.
Qualsiasi
cosa sia, Draco, tra me e te… finisce oggi.
Ecco il nuovo
capitolo, premetto che sto attraversando un periodo di cacca, anche se solo dal
punto di vista solamente della scrittura per fortuna! Sono abbastanza demoralizzata
nello svolgimento di questa storia, non so se davvero sia bella oppure se poi
non sia sto granché quindi spero davvero di riuscire a
continuarla e a finirla! Intanto ecco il nuovo capitolo di cui sono
parzialmente convinta e che non mi piace tantissimo! Quindi se avete delle critiche mi raccomando, FATELE, mi fanno un sacco bene per
migliorarmi!
Passo ai
ringraziamenti e alle risposte di rito:
Cygnus Malfoy: la mia carissima e
fedelissima Helder! Chissà se lo leggerai questo
capitolo, persa nelle colline toscane! J Grazie come sempre dei
tuoi commenti, il tuo lui deve essere davvero un bel tipo, specie se assomiglia
al mio Draco che è abbastanza lunatico, come hai potuto vedere in questo
capitolo! Spero che ti piaccia anche questo capitolo… un bacio!
Rorothejoy: grazie
dei complimenti, al momento ci sto per finire anche io
dall’analista, considerando quanta carne ci ho messo a fuoco e ora per
sistemare tutti gli intrighi, mi sto abbastanza scervellando! Grazie ancora, un
bacione!
Giusetta91: chiedo sommamente scusa per il ritardo, ho cercato di
aggiornare il prima possibile! Grazie ancora, baci!
Haley_ James: mamma mia,grazie dei tuoi complimenti, anche su L&L!
purtroppo non so per quale motivo astruso del mio
computer non riesco più ad accedere al forum quindi non ti ho potuto rispondere
lì, ma davvero ti ringrazio tantissimo! J
Ti do una grande anticipazione (sempre se l’ispirazione mi torna… sob!) nel prossimo capitolo ogni domanda che mi hai fatto
troverà risposta! Spero che mi seguirai ancora! Baci!
Seven: la mia carissima Seven; anche a te purtroppo ribadisco la mia incapacità attuale di entrare anche nel mio
forum, non so esattamente che cosa sia successo quindi al momento non posso
rispondere nemmeno lì! Quindi ti ringrazio qui anche per la recensione che hai
fatto all’altra mia Dramione, “The blower’sdaughter”, grazie grazie tanto!! Comunque nel
caso mi volessi contattare, puoi farlo tranquillamente
via EFP e poi provvederò a darti la mia mail! Veniamo come sempre alla tua
meravigliosa recensione che, premetto, aspetto sempre con ansia, dato che mi piace molto come scrivi e come mi scrivi! J Credo che dopo gli
ultimi eventi il tuo infarto sia notevolmente
arrivato…Jil
momento dello scorso capitolo l’ho riscritto almeno quindici volte, quindi sono
contenta che ti sia piaciuto! Draco non lo voglio mai troppo sdolcinato, anzi…
in fondo stiamo sempre parlando di uno che ha tormentato la nostra povera
Hermione per anni quindi non credo di doverlo mai rendere troppo gentile. Ma
sicuramente siamo arrivati ad una sua “capitolazione”,
come hai ammesso tu, diciamo che è laprima volta che
ammette compiutamente di tenerci ad Hermione, cosa che, se hai letto qui, ha
ribadito in questo capitolo nel dialogo con Summer. Però,
ecco, non si può permettere di avere Hermione vicina… e questo lo scoprirete
nel prossimo capitolo! Infatti, ispirazione ed esami permettendo, nel prossimo
chappy saprete tutto, insomma ogni mistero sarà
svelato! Jspero
che mi seguirai ancora in questo turbine di follia! Un bacione enorme!!
Gargi89: grazie enormemente dei tuoi complimenti, spero che anche
questo capitolo ti sia piaciuto! Un bacio!
Vesper: evviva, che bello
ritrovarti ancora a recensirmi! Ammetto che amo molto anche le tue recensioni,
anche se ogni tanto mi viene il panico di essere effettivamente poco originale
nelle mie storie tanto da far intuire tutto, spero che almeno con questo ti
abbia sorpreso un pochino! Jti ringrazio dei tuoi complimenti, come delle tue
critiche passate, mi raccomando non esitare a farmele se trovassi altre cose
che non ti convincono! Il rapporto di parentela tra Draco e Serenity sarà
svelato nel prossimo chappy, speriamo che non lo intuisca tu prima!
Grazie ancora
tantissimo della recensione, mi ha fatto davvero piacere!
FraFRi95: la mia lettrice doppia! Prima o poi
mi farai conoscere la tua mamma! Jgrazie come sempre dei complimenti, davvero sembra un
giallo la mia storia? Eheheh!!
Allora con questo capitolo l’ho ingarbugliata ancora di più! Seth è il mio eroe
come sempre, tutto il rispetto per Draco ma se non ci fosse Seth, quei due non
starebbero ancora a nulla! Sono felice che la mia storia non vi annoi, ce la
metto tutta per inserire sempre più colpi di scena quindi per me è davvero una
cosa importante! Baci !!
Ginsan89:ciao!
Non ti preoccupare assolutamente per il ritardo, oramai avrai fatto i quiz per
la patente! Spero che sia andato tutto bene… ti invidio
profondamente dato che ancora non sono riuscita a prenderla! L Draco effettivamente è
circondato di donne, ma diciamolo, se lo può permettere! Sbavsbav!!! Di Summer, oggi ho
rivelato (parzialmente) l’enigma… restano solo Rachel e la mamma di Serenity,
ma nel prossimo capirete tutto! Promesso! Non so esattamente quando arriverà,
dato che è abbastanza lungo… e ho anche un esame abbastanza tosto! Spero che
avrai pazienza! Jun bacio!!
Allora un piccolo spoiler,
considerando come ho scritto in alcune risposte, che il prossimo capitolo è
quello (non finale, però!:P) in cui rivelerò tutta la faccenda che sta dietro a
Rachel, Draco, Summer, eccetera, ma non so esattamente quando arriverà essendo
abbastanza lungo da scrivere ed avendo anche un esame
enorme in mezzo, vi lascio una specie di piccola anticipazione.
Il prossimo capitolo si chiamerà
“Forbidden Colours” e prende il nome da una melodia di un pianista, se non
erro, giapponese di nome Sakamoto.
È una melodia per pianoforte
abbastanza celebre che avrà un ruolo FONDAMENTALE nella risoluzione di questa
vicenda. Vi lascio il link qualora vogliate ascoltarla
su you tube!
Capitolo 21 *** Forbidden colours part I - The name of everything ***
Capitolo 21 – Forbidden colours part I
Capitolo 21 – Forbidden colours part I- The name of everything
Nota preliminare dell’autrice: questo capitolo lo
dedico a tutte le persone che hanno recensito lo scorso capitolo, specialmente
coloro che mi hanno incoraggiato a continuare questa storia, nonostante il mio
periodo di “crisi creativa”. È stato grazie a voi che questo capitolo esiste,
un capitolo di una difficoltà assurda, ma che mi rende
molto fiera di me stessa, per il fatto di averlo portato a termine. Quindi
grazie… purtroppo oggi non posso rispondervi uno ad
uno, causa studio che mi ha fatto aggiornare in un solo attimo libero, ma
davvero ringrazio tutti coloro che hanno recensito, coloro che ancora
inseriscono questa storia tra le preferite o le seguite, chi si è iscritto al forum di questa storia e chi ha
risposto alla mia discussione, sempre su HAFT, sul forum Dramione
per eccellenza, Leather &Libraries.
È grazie a voi che
questa storia continua ad esistere e a vivere, grazie a tutti coloro che si prendono una pausa e la leggono, e che mi
lasciano anche dei commenti meravigliosi… quindi grazie, davvero, di cuore. Per
una persona come me, che si abbatte abbastanza facilmente, è una cosa molto
importante… e mi scuso davvero per non poter oggi rispondere a tutti, ma spero
almeno di farmi un po’ perdonare con il nuovo chappy, terminato a velocità razzica!
Purtroppo, prevedo
che il prossimo aggiornamento dovrebbe arrivare, se tutto va bene, solo per la
fine di febbraio. Questo, perché alla fine del mese, ho un esame
particolarmente difficile (diritto commerciale, vi ho detto tutto!) e quindi
non penso di poter scrivere molto… ma sono nuovamente entusiasta del mio lavoro
e di questo devo ringraziare solamente voi…!!!!
Quindi, con qualche difficoltà e momento di crisi, continuerò a scrivere questa
storia…!!
Premetto una cosa!
NON E’ QUESTO IL CAPITOLO NEL QUALE SCOPRIRETE
TUTTO IL MISTERO!
Ve lo premetto in modo che non restiate delusi!
Sarà il prossimo, come avrete capito… di questo
chappy, precedentemente avevo in mente solo la fine,
quindi credevo di poter tranquillamente spiegare tutto già in questo. Invece mi
sono venute delle altre idee e quindi questo si è particolarmente allungato.
Specialmente la parte centrale, è nata da sé… spero che vi piaccia lo stesso,
sebbene vi faccia penare un altro po’! Ribadisco poi che questo capitolo si
chiama “Forbidden Colours” dal nome di una famosa melodia per pianoforte che fa
da colonna sonora al film “Merry Christmas Mr Lawrence”. Io non ho mai visto il
film, ma conosco questo brano… il link per ascoltarlo è
http://www.youtube.com/watch?v=cOX8FhUiw1k
Buon ascolto e buona
lettura!
Il cielo è
chiaramente strano oggi.
Sebbene siano già le
sei del mattino, il sole non si decide a sorgere, l’aria rimane sospesa, un
colore azzurro chiaro e un freddo piacevolmente frizzante, insolito per il mese
di giugno. Dalla terrazza di casa mia, osservo indolente i palazzi grigi che mi
circondano, le finestre chiuse, le serrande abbassate, le luci delle strade
che, lentamente, una dopo l’altra, si spengono, baluginando nei timer di
regolazione che prevedono che alle sei precise debbano spegnersi, mettendo a
dormire quei solitari abitanti della notte. Poco importa se il sole sia sorto
davvero o meno.
Nelle mie lunghissime
notti insonni, da quando da tre giorni sono tornata a dormire a casa mia, ho imparato
con la stessa facilità con cui imparavo gli elementi di una difficilissima
pozione, che il primo ad alzarsi da letto è il proprietario della pasticceria,
all’angolo della strada. Si vede una piccola lucina tremolante, che brilla
nell’aurora chiarissima, ad una finestra al piano di
sopra, poi essa scende nelle cantine, compagna delle mille delizie che il suo
portatore inizia a preparare con dovizia e cura. Quando si spegne, so che il
sole è sorto, nonostante da dove sono, non lo si veda
perché ancora celato dai palazzoni di cemento.
Invece, oggi, il sole
non sorge ancora, rimane un’ostinata nebbia che sembra entrare nelle ossa,
pronta a frantumarle per l’eccessiva umidità.
Mi chiudo nelle
spalle, stringendo tra le mani il mio bicchiere di succo d’ananas, ancora gelido dopo averlo uscito dal frigorifero… dovrei
levarmi questa abitudine, specie in giornate fresche come questa. Inoltre, mi ricorda ancora maledettamente Dean.
Ora, nonostante il
mio odio innato per il caffè, ne avrei davvero bisogno. Se non altro perché
sarebbe caldo, almeno.
Stringo il cardigan
rosso di lana leggera, che porto sulla vestaglia bianca di lino, troppo sottile
per questa mattinata, e mi passo una mano sugli occhi, stropicciandomeli. Ho sonno,
ovviamente, ma come sempre non sono riuscita a dormire, non dormo
molto ultimamente.
Probabilmente, non
sono più abituata al mio letto. In fondo, dormivo da parecchio al Petite Peste…
e quel letto quasi sfondato, con Seth che russa in sottofondo, ora, mi fa
sentire il mio come una lastra di cemento. Inoltre, è ancora il vecchio letto a
due piazze che dividevo con Dean.
Ora mi sembra enorme
e mi fa rigirare come un’indemoniata, innervosendomi.
Ma, chiaramente, non credo che sia solo per questo.
Gratto l’orecchio di
Grattastinchi, spuntato da sotto la mia sedia, Ginny me l’ha restituito con
sollievo quando le ho detto che tornavo a dormire a casa. Quando, poi, sono al
Petite Peste durante il giorno, per adempiere ai miei
turni, al mio gatto non dispiace restare a casa da solo, anzi.
Credo che sia una
bella novità rispetto a quando viveva con Ginny.
E poi non torno mai
troppo tardi… quando ho detto a Seth che era meglio che iniziavo il trasloco
delle mie cose dal locale a casa mia, lui ovviamente se l’è presa, obiettando
che mancano ancora tre settimane al mio esame. Mettendo il muso, ha detto che,
finalmente, ora che Summer e Danny si sono lasciati, avremmo potuto divertirci
senza il controllo di quell’arpia.
Gli ho risposto male,
dicendo che avevo vissuto anche troppo lì.
Poi, ho ristretto il
tiro dicendo che comunque sarei rimasta tutto il giorno e che, a qualunque ora
avessimo finito, sarebbe stato meglio iniziare nuovamente ad abituarmi a
dormire da sola, a casa mia. Seth, a quel punto, ha accettato mugugnando,
sistemando i miei turni in modo tale da avere solo le ore centrali del giorno, preoccupato che tornassi troppo tardi a casa, quindi vado al
Petite Peste alle dieci e stacco alle venti.
Seth, poi, mi ha
anche aiutato a portare le mie cose a casa, sistemate in ingombranti cartoni
che giacciono ammonticchiati nell’ingresso. Li ho lasciati lì, senza disfarli completamente: li apro, esco quello che mi serve e
poi li richiudo.
Posso spacchettare
tutto ormai.
Ma non lo faccio, chissà perché.
In realtà, penso di
traslocare quanto prima. Voglio andare a vivere a Notting Hill.
Indipendentemente
dalla vicinanza con il Petite Peste, di cui poco mi importerà
di qui a poco, se non nei limiti di andare a trovare Seth e gli altri, è un bel
quartiere, abbastanza vicino a casa di Ginny ed Harry, abbastanza vicino al
Ministero, abbastanza vicino anche a casa di Hayden.
Io ed
Hayden usciamo assieme da una settimana.
Esattamente ogni sera
dopo il lavoro.
Come avevo già avuto
modo di intuire, è una persona meravigliosa; davvero non credevo che ancora
esistessero di persone così, lo stampo deve essere andato perduto dopo aver
messo sulla piazza ragazzi come lui. Siamo usciti
assieme ogni sera, ed ogni sera mi ha portato a fare qualcosa di differente:
dopo il cinema, è toccato ad uno spettacolo teatrale, ad un ristorante
pakistano, ad una fiera di prodotti tipici, ad un osservatorio astronomico.
Tutto meraviglioso,
certo, ma mai come stare con lui.
Di ogni argomento, ne
sa quanto, se non più di me. Gli piace spiegare le cose, te le espone
lentamente, con pazienza, senza un’ombra di supponenza. È così evidente che
voglia fare l’insegnante nella vita… eppure lo fa, facendoti
schiantare dal ridere.
Mi fa sorridere in un
modo quasi scemo, perché inizio quando viene a prendermi
da casa e termino quando chiudo il portone.
Mi ha presentato suo
fratello Nathan, una peste di prima scelta che mi ha imbrattato le scarpe di
gelato alla fragola, ma stranamente, con Hayden vicino, sono stata calma e
paziente, e non ho messo quel piccolo satanasso su una forca improvvisata, come
mi sarebbe stato tipico.
Hayden mi calma dentro.
E solo quando sono
con lui, ultimamente, davvero non penso a nulla. E davvero mi sento, perlomeno,
serena.
Non ha più provato a
baciarmi, ma ha ribadito in diverse occasioni che gli
piaccio molto.
Alla mia domanda
curiosa sul perché allora non provasse di nuovo a baciarmi, mi ha detto
solamente, un velo sugli occhi chiari: “Ti bacerò di nuovo il giorno in cui non
avrai sempre il riflesso di un altro negli occhi…”.
Io ho sussultato e me
ne sono rimasta zitta.
Io e Draco non ci
parliamo da una settimana buona.
Stavolta, sono stata
io ad evitare di parlare con lui; credo che abbia
anche cercato di venirmi a parlare, ma sono fuggita prima che ne avesse il
tempo. Lui non sa che so di Astoria, o perlomeno credo
che non lo sappia. Penso che sia ancora convinto che ce l’abbia
con lui, perché non mi parla di Serenity.
Oramai non me ne
frega più nulla di questa storia.
E non ne voglio
nemmeno sapere più niente.
Il vaso di Pandora,
di cui ho visto solamente un decimo, sembra così profondo ed
agghiacciante che oramai non ne voglio più sapere nemmeno una virgola; mio
malgrado, mi sono ritrovata anche ad evitare Serenity per lo stesso motivo. So
che lei non c’entra nulla, ma ora come ora, starle lontana mi fa soffrire, mi
rende triste, ma almeno non alimenta nuove domande. Accompagnate da nuova
rabbia e da nuovo dolore.
La rabbia è l’essere
stata manipolata da Astoria, non essermene accorta, non essere stata
sufficientemente protetta da Draco, non aver impedito che facesse la stessa
cosa anche a Ginny… ed ovviamente non sapere ancora
nulla di questa storia, nulla di certo, se non supposizioni.
In un attimo di
follia, mentre ancora ci ripensavo, mi sono fatta la lecita domanda se, a
questo punto, la Purosangue
mamma di Serenity non sia Astoria stessa.
A questo punto, nulla
mi meraviglierebbe più, ma non credo che arriverebbe a far del male
volontariamente alla sua bambina, come paventava Draco stesso. Oltre che molti
altri punti crollerebbero… non capirei perché, andandosene, Astoria non l’abbia
portata con sé, fosse anche per tenersi ancora Draco; perché l’abbia sempre
ignorata; perché non si facesse chiamare allora mamma dalla piccola e non vivessero tutti e tre
come una famiglia felice.
Ammesso e non
concesso che Draco sia davvero il papà di Serenity.
E che contenuto
avrebbe allora la Promissio
gemina?
Se avevano già
Serenity ad unirli, a cosa serviva vincolare
ulteriormente le loro volontà?
Ovviamente non lo so…
ovviamente ci ho anche ripensato, specie quando, entrando in casa la prima
volta da settimane, ho trovato la pila di numeri della Gazzetta del Profeta arretrati, di cui avevo l’abbonamento e che
erano stati diligentemente consegnati.
Li avevo guardati
distrattamente, ricavandone notizie più o meno
interessanti, come i particolari della morte di Amos Diggory a causa di un
incidente con delle Pozioni non messe in sicurezza, oppure la candidatura di
Charlie Weasley ad insegnante di Cura delle Creature Magiche ad Hogwarts;
insomma notizie che, bene o male, già avevo saputo da Ginny.
Tranne una.
Mio malgrado, mi ero seduta per terra ed avevo afferrato con due dita la
prima pagina della cronaca mondana. In una foto sfavillante e dai contorni
luccicanti, sorrideva agitando la mano con eleganza, una bellissima e
biondissima Astoria Greengrass. Teneva la mano stretta sul braccio di un’altra
mia vecchia conoscenza, Theodore Nott.
Avevo guardato la
data del quotidiano e risaliva a qualche settimana prima, quando Summer/ Astoria
era ancora saldamente al suo posto al Petite Peste.
Quindi, chiunque fosse la donna del giornale, non era la vera
Astoria.
Evidentemente
dovevano aver trovato una specie di sostituta, magari una donna compiacente ad
assumere Pozione Polisucco per chissà quanto tempo.
L’articolo parlava
del matrimonio dei due, a quanto pare, imminente, delle passate noie sia dei
Nott che dei Greengrass per il fatto di essere stati
dei seguaci del Signore Oscuro e del loro assoluto ravvedimento. Sì, come no.
Avevo combattuto una
volta con Lara Greengrass, la madre di Astoria e di Daphne, durante una retata,
a causa di una segnalazione su presunta detenzione di materiale sottratto
illecitamente, durante le razzie dei Mangiamorte. Ovviamente lo possedevano.
Loro se l’erano cavata con la restituzione del maltolto, una piccola ammenda
a causa della reazione violenta, ma il Ministero era stato molto indulgente.
L’ammenda, se l’avevano data, era stato solo perché la reazione dei Greengrass
aveva mandato me al San Mungo, anche se per soli cinque giorni.
Quindi, tutto potevo credere, tranne che fossero Mangiamorte redenti.
Erano i tipici personaggi su cui aleggiava una netta linea d’ombra, fatta di
leggende metropolitane, indizi non risolutivi e prove mai sufficienti; quindi continuavano
a vivere tranquillamente, come se non fosse successo niente.
Stessa
cosa per la famiglia Nott, con l’arresto e la detenzione dell’unico vero
Mangiamorte, cioè l’anziano padre di Theodore.
Avevo cercato di
condurre diverse indagini su di loro, cercando di dimostrare che anche Theodore
e i coniugi Greengrass fossero Mangiamorte, ma non avevo mai trovato prove
sufficienti; alla fine, avevo disposto che fossero sempre controllati, ma avevo
abbandonato l’attività investigativa.
Quindi, mi sembra ovvio che sentire che l’innocua Summer Breeze
Layton fosse Astoria Greengrass non mi aveva lasciato del tutto tranquilla,
specie vedendo che cosa era stata capace di fare a me e a Ginny, senza che ce
ne accorgessimo. Dato non trascurabile, era poi che ci aveva incantato solo per
non far saltare la sua copertura, non perché avessimo
scoperto chissà che cosa. O almeno lo suppongo… insomma, credo che,
ricordandomi di lei, se mi avesse cancellato dei ricordi importanti su qualcosa
che aveva fatto, sicuramente adesso li avrei recuperati. Invece, al momento,
dopo la rottura dell’incantesimo di memoria, sono solamente conscia che sono
sempre state la stessa persona, lei e Summer.
Deduco che sia
successa la stessa cosa anche con Ginny. Evidentemente, quando la mia amica,
convinta che Summer fosse babbana, cercò di incantarla per farle dimenticare la
mia emorragia magica, l’algida Principessa dei Ghiacci reagì solo perché Ginny
poteva riconoscere in lei Astoria.
Non faccio
fatica a pensare che, se avessimo scoperto qualcosa di grosso, probabilmente ci
avrebbe uccise e basta.
Mi ero
tranquillizzata pensando che comunque adesso era andata via e che, in ogni
caso, lasciando perdere l’Incantesimo di Memoria con
cui evidentemente era d’accordo, Draco sembrava in grado di tenerla a bada.
Chiudo stancamente
gli occhi, forse a tranquillizzarmi è stato maggiormente il decidere di non
avere nulla a che vedere con lui.
Non ho paura di
Astoria, figuriamoci… ora che so chi è, posso fronteggiarla, ovviamente,
qualora ce ne sia la necessità.
Ma credo che questa storia sia stata la cosiddetta goccia che
ha fatto traboccare il vaso. Sapere che Draco non è del tutto fuori da delle
vicende oscure, da legami con famiglie magiche non propriamente virtuose e
inappuntabili, ecco… mi ha fatto ricordare chi è davvero.
Il figlio di Lucius
Malfoy e di Narcissa Black, un Serpeverde, un Ex Mangiamorte, eccetera…
insomma, tutto il pacchetto mi è di nuovo vivido in testa.
Tutto, assieme alla consapevolezza di non
volerci avere nulla a che fare.
Ingenuamente, pensavo
che lui fosse cambiato… il fatto di avere una vita babbana, una sorellina,
amici… lo vedevo diverso dal Draco che ho sempre conosciuto.
Ora… ricordare come
ha cacciato Astoria, la circostanza dell’utilitaristica promessa con lei, i legami
ancora stretti con ex Mangiamorte…
È sempre lui, è
sempre stato lui.
Io con Malfoy non
voglio averci nulla a che fare.
Appoggio la testa
sulle ginocchia, era con
Draco che volevo averci a che fare.
Mentre formulo quel
pensiero, la luce dei sotterranei della pasticceria, all’angolo della strada, finalmente
si spegne. Sorrido, vuol dire che il sole è sorto, anche se io non lo vedo. Alcune
cose non cambiano mai, come il sole che sorge.
Peccato che
sia lo stesso per la vita delle persone. Non si cambia mai.
Distendo pigramente
le braccia davanti a me, un trillo familiare che giunge dalle mie spalle. Mi
sporgo verso la sdraio, raccogliendo il mio cellulare,
un messaggio.
Guardo l’orologio, le
sei e mezzo, chi diamine sarà…? Il numero non lo conosco, boh. Sarà quella cavolo di Vodafone con le sue offerte bislacche. Vuole cambiare piano tariffario? Vuole attivare l’opzioneYOU&ME? Ma sono single! E vabbè, ce l’avrà
una madre, un padre, un fratello, un amico, un conoscente, un vicino di casa,
una scimmia centralinista??!!
Giuro che, se è la Vodafone, la mando male,
faccio una ClassAction e
la mando a gambe all’aria!!
Premo il tasto
centrale nervosamente, aprendo il messaggio.
Non puoi evitarmi per sempre. Penso che la cosa sia
chiara anche a te, qualsiasi sia il motivo per cui lo stai facendo, perlomeno
fino a quando sei una mia dipendente... non mi importa
il motivo, sei libera di fare quello che vuoi, ma hai un contratto ancora da
rispettare, quindi oggi ti voglio al lavoro. Anche stasera se dovesse essere
necessario. Spero di essere stato chiaro. Danny.
Getto il cellulare in
un angolo, fregandomene che si rompa, anzi magari è la volta buona che me ne
compro un altro, getto questa sim, cambio numero di telefono ed anche
operatore, in barba alla Vodafone. Firmati anche Danny, tanto sempre Malfoy sei.
Sono tentata di
rispondergli con una sequela di parolacce, dicendogli in modo carino e cortese
che stasera non se ne parla proprio che resti lì, a costo di prendere la metro
alle quattro del mattino. Ma sarebbe dargli troppa
soddisfazione, quindi decido di non rispondergli proprio.
Raccolgo il
cellulare, il cui lancio ha fatto scappare Grattastinchi terrorizzato, e decido
di studiare un po’ prima di andare al lavoro; la cosa buona di questi giorni è
che almeno ho quasi finito il programma. Sono abbastanza sicura che almeno
questo esame riuscirò a superarlo, brillantemente.
Non ho nemmeno sottolineato una riga che il cellulare forgiato direttamente
nelle fiamme dell’inferno, inizia di nuovo a suonare.
Maledizione, ma tutti
svegli sono alle sei e mezzo?!!
Premo il tastino verde e borbotto: “Pronto???”.
“Hai avuto il
messaggio?” una voce lenta e strascicata, terribilmente annoiata da tutto e da
tutti. Immagino persino la piega arricciata delle labbra, il disgusto malcelato
per tutto ciò che non ha direttamente a che vedere con la sua persona. I capelli biondi leggermente spettinati, la mano sotto il mento,
gli occhi freddi come un eterno inverno. La penombra della sua stanza,
non rischiarata da alcun sole mattutino, ma dalla luce onnipresente della luna,
anche se è già andata via dal cielo.
Ghermita la
mente da scatole di ricordi di donne assenti che profumano di ciliegia.
Mi coglie un brivido
lungo la schiena, mi aggrappo allo spigolo del tavolo quasi come se temessi di
cadere.
“Sì…” ribatto semplicemente, cercando di
sembrare più fredda possibile.
“Si risponde,
solitamente…”.
“Credo che fosse un
silenzio assenso, Malfoy…” sento soddisfatta la mia voce farsi gelida, come non
credevo sarebbe mai stata nel parlare con lui.
“Malfoy…” lo sento constatare asciutto, e il mio cuore manca un colpo.
Alla
Granger però consenti che ti chiami Draco, no???
L’ho chiamato Malfoy, senza
nemmeno rendermene conto. È stato naturale, come era
prima chiamarlo Draco.
Lui, però, se n’è
accorto invece.
E chissà come e
perché, sento che gli ha fatto male.
Mi mordo il labbro
inferiore, mentre il silenzio dall’altro capo del telefono
continua, sento soltanto il suo respiro lento, cadenzato.
“Volevo solo sapere
se ti era arrivato… odio le cose babbane…” mi congeda velocemente “A stasera,
allora, Granger…” e riaggancia.
Resto a fissare il
cellulare, oramai muto nella mia mano, la luce arancio che si spegne dopo
qualche secondo.
Sarai sempre
te… non importa come io ti chiami…
Che tu sia Draco,
Malfoy o Danny, non importa… sono solo parole con cui prendo a chiamare
l’enorme mistero che sei, sempre, per me…
Ed un nome non
fa la differenza, sei sempre la stessa cosa per me…
Sei sempre
la stessa cosa sconvolgente e meravigliosa a cui,
nonostante tutto, ancora non so dare un nome…
Che Draco Lucius
Malfoy sia sempre stato un sadico bastardo, credo che sia risaputo e noto a
tutti.
Ma che lo sia anche il suo alter ego Danny Ryan, è una novità.
Quando arrivo,
infatti, al Petite Peste, mi trovo davanti ad una scena alquanto inusuale. Tutti i dipendenti sono nella sala ristorante, la
quale è ingombra di cellophane che ricopre le sedie, i tavoli, il pianoforte ed ogni altra mobilia. Per terra, fogli di
giornale vecchi, diligentemente posti a ricoprire tutto il pavimento di marmo
rosa. Intravedo vicino alla porta dei secchi di vernice e dei pennelli,
oggetto di sguardi indecifrabili da parte dei miei colleghi.
Il pub e la discoteca
sono chiusi, ed ovviamente non c’è l’ombra di un
cliente.
Mi fermo perplessa
davanti alla porta dell’ingresso secondario, osservando la scena con una punta
di nervosismo frammisto ad isteria.
Non avrà
intenzione di…?!!
Seth, che mi sembra
l’unico allegro in questa stanza, mi vede e mi raggiunge sorridendo: “Herm!”.
Indossa una tuta, modello meccanico, e ha una specie di bandana rossa che gli
copre i capelli. Assomiglia vagamente a David Hodo,
quello dei Village People che si vestiva da operaio.
Cosa che non mi piace affatto, premetto.
“Che sta succedendo,
direttore?!” chiedo con sarcasmo, guardandolo storto,
alludendo al suo avanzamento di carriera dopo l’addio di Summer/Astoria. Non
pensate che sia diventato più responsabile, oppure più attento al lavoro, o più
scrupoloso. No. Ha rotto l’anima per diventare direttore solo perché voleva
l’armadietto di Summer.
Tipico della sua
mente bacata.
Per il resto, si
comporta esattamente come prima.
“Sidipinge!”
trilla lui tutto felice, guardandomi con espressione cuoriforme, a cui corrisponde una scrollata di spalle di April e una
mano nei capelli di Trey “Danny ha avuto la meravigliosa idea di ridipingere
tutta la sala ristorante! Questo stupido bianco ormai ha scocciato! Ci vuole un nuovo colore… tipo… LILLA!”.
“Che cosa hai detto che ha detto Danny?!” bisbiglio, già
torcendomi le mani, una vena che pulsa incontrollabile sulla mia tempia.
Ecco perché
mi voleva al lavoro anche stasera… sicuramente sta cosa andrà per le lunghe,
stramaledettissimo Malfoy!
Capisco che
le donne cambino colore di capelli quando chiudono una storia, ma lui che scusa
ha???!!
Non amava
Summer, i suoi capelli sono sempre biondi che io sappia, e le pareti del locale
sono più dispendiose dell’idea di tingersi color rosso Weasley!!
Maledetto!! Maledetto furetto!!!
Getterò una
maledizione sulla sua stirpe… una gonorrea ereditaria dovrebbe essere
sufficientemente dolorosa ed umiliante… per
avvicinarsi nuovamente ad una donna, ci vorrà una molteplicità di Voti
Infrangibili, altro che la Promissio Gemina
con Astoria… non esiste al mondo che io, Hermione Jane Granger, ex Capo degli
Auror, eroina del mondo magico, aspirante al Wizengamot, e per ultimo, una
semplice cameriera, si metta a fare l’imbianchino! Ce ne ha di soldi, perché
non paga una squadra?!!
E poi questa è una
chiara violazione dei miei diritti, un destinarmi a mansioni inferiori, non
previste nel mio contratto, come recita l’art2103 dello Statuto dei Lavoratori!! Lo
trascinerò in tribunale e lo ridurrò in mutande! Mi pagherà un vitalizio
enorme, fino a quando campo! E allora sì, che trascorrerò ogni giorno della mia
vita, ricoperta d’oro zecchino, stesa a bordo di un lussuoso yacht,
sorseggiando champagne e agitando la mano alla gente accalcata nei porti per
vedermi!
Magari, organizzo
anche dei tour nella mia villa, non prima di aver stampato dei francobolli con
la mia foto… quella del Ballo del Ceppo è la più decente, ma anche una stile DAMA DELL’ERMELLINO di Leonardo andrebbe bene…
ovviamente con Malfoy come furetto…
Vengo strappata dai miei deliri di onnipotenza dallo squittio di
Seth che blatera come un indemoniato: “Ma stai scherzando?!! Un ristorante lo
vuoi fare giallo?!!
A sto punto,
scriviamo davanti alla porta, Ludoteca,
mettiamo anche dei festoni e diamoci al
baby sitting!”.
Gail, per nulla
intimorita dalla faccia di Seth che tende al violaceo, sentenzia spiritata: “Il
giallo porta buone vibrazioni… se vuoi sfruttare l’energia cosmica del sole
fino a quando è nella casa dell’Acquario, il giallo è la scelta giusta…
altrimenti Sedna scatenerà i suoi tremendi flutti su
di noi…” ed agita le braccia verso il cielo, imitando
una specie di movimento tribale ed intonando canti propriziatori.
“Sento che sta
dicendo qualcosa…” fa Trey, massaggiandosi la tempia con aria drammatica “Ma
per quanto mi sforzi, non riesco a capirla…”.
“Idem” asserisce April
convinta, per poi completare sarcastica: “Sarà che ho la luna in opposizione…”.
Gail la guarda
colpita, sgranando gli occhi enormi e luccicanti, e si avvicina a lei,
stringendole le mani: “La senti anche tu, vero?!”.
April, terrorizzata, annuisce cercando di compiacerla e contemporaneamente di
liberarsi dalla sua stretta.
Vivo in un ospedale
psichiatrico, non c’è altra spiegazione.
E in tutto questo
marasma, dove sta Malfoy?!!
Ovviamente non è qui!
Almeno fino a quando
c’era Astoria, quella incuteva abbastanza timore da farli stare tutti zitti… e
alla fine si faceva quello che diceva lei. Avrebbe già abbondantemente ordinato
la gradazione giusta di colore, obbligandoci ad
imitarla alla perfezione, assoldando anche degli ex gendarmi nazisti per farci
eseguire il lavoro meglio di Michelangelo Buonarroti. E poi dicono che la
democrazia è una gran bella cosa… la dittatura è la risposta!
E, ora, dato che
Astoria è dispersa, la veste del comandante in capo la devo assumere io.
Altrimenti da qui non
ne usciamo… il mio primo comando sarà insorgere contro Malfoy, il tiranno, lo
schiavista, il despota!
Sarò come la libertà
che guida il popolo del quadro di Delacroix!
“Scusate…” inizio,
cercando di apparire razionale e decisa “Ma vi sembra normale che dobbiamo essere
noi a fare questo lavoro?!”.
Tutti, comprese Lorna
che stava fumando bellamente una sigaretta ed April
che stava cercando di convincere Gail di non essere la reincarnazione della
sacerdotessa Elena di Avalon, mi guardano con aria
interrogativa. Dimenticavo…! Il tiranno, lo schiavista, il despota ha plagiato
le loro fragili ed inermi menti per convincerli che il
solo scopo nella loro miserrima vita, sia quello di servirlo e riverirlo. Come
diamine fanno ad adorarlo così tanto da acconsentire
persino a ridipingere tutta la sala ristorante?!
D’accordo, le
ragazze… lo vedo anche io che… insomma, si sa che…
almeno mentalmente me lo posso concedere?!!! Dicevo, si sa che Draco è
bellissimo… ma io non lo servirei mai fino a questo punto… ma ammettendo anche
la libidine pura per le ragazze e per Seth, ovviamente, che cosa spinge invece
i maschi?
Guardo Lawrence e Trey, entrambi che mi fissano quasi scioccati,
come se avessi iniziato a sostenere che il sole tramonta sempre ad est e che la Siberia è un caldo ed accogliente
paese tropicale.
Una sola parola,
credo, riassume perfettamente il loro status mentale: ammirazione maschile.
Già,
le sento le loro menti, plasmate dal cromosoma XY, pensare: “Danny è un grande! Guarda che razza di bonazza
ha come fidanzata!”, oppure, in tempi
successivi: “Come cavolo fa a far sbavare
tutte per lui?!” e
credo che ora pensino: “E’ un mito!
Ha persino dato il benservito a quella st****a di
Summer! E’ un grande, io l’ho sempre detto!”.
Insomma, sempre
libido alla base… libido per le donne di Draco.
E non hanno
visto Rachel…
Prima che mi torni il
malumore, seguito dalla sfilza di domande consuete (Perché Astoria era qui? Che c’entra Harry con la Promissio Gemina?
Di chi è figlia Serenity? E Rachel perché la vedevo così simile a Summer? Cosa
c’era da nascondere? Draco è ancora innamorato di Rachel, della mamma di
Serenity o di chiunque altra donna che gli vela sempre lo sguardo?) scatto nervosamente
dicendo: “Se voi lo fate, non è detto che lo faccio io!”.
Io sono anche in fase
di chiusura di rapporto di lavoro, quindi non è
nemmeno etico dal punto di vista giuridico!
E poi l’odore della
vernice è anche cancerogeno…! Non me lo prendo sto rischio per Malfoy!
“Che succede qui?” quella voce...
quella dannata voce…
… stesso
effetto se succede qualcosa ad Hermione…
… io
lotterei per diventare il motivo che cerchi…
Va via
perché ti ho baciato, vero?
Semplice…
fingo di essere occupato…
Ricordo
ogni dannata volta in cui mi ha rivolto la parola. Ogni volta.
Non riesco nemmeno a girarmi e a
guardarlo. Non ce la faccio. Abbasso lo sguardo ed
ogni mia ombra di decisione che aveva assunto il viso, evapora come nebbia.
Per Seth, April, Lorna, Corinne e
persino Gail, si chiama libidine.
Per Trey e Lawrence, si chiama ammirazione.
Per me… non so come si chiama. Ha il nome del batticuore. Ha il
nome di un bacio rubato. Ha il nome di un abbraccio che mi mozza il respiro.
Ha il
nome di ogni cosa che ora mi rende viva.
Non ha un nome… o, perlomeno,
tutti mi direbbero che ne ha uno, ma continuo a pensare che non sia quello
giusto.
… ma chi ti dice che io non sia già innamorata? Le parole che
ho detto a Ginny.
Amore…
essere innamorata… non lo è.
Credo.
Ma, comunque si chiami, esiste, oramai non riesco nemmeno a convincermi
del contrario. Vorrei solo che mi lasciasse in pace, che la smettesse questa
cosa assurda di stringermi il cuore, ogni volta che lo vedo.
“C’è qualche problema?” lo sento
dire, dietro di me, mentre non riesco ancora a girarmi.
Seth si affanna immediatamente a
rispondere: “Nulla, Danny… ci stavamo solamente accordando sul colore da
usare…”. Anche gli altri, forse anche per proteggere me, annuiscono convinti.
“Avevo sentito delle rimostranze,
no, Granger?” la sua voce diventa più dura e tagliente mentre si rivolge a me. Granger.
Hai ragione,
fa male. Molto male. Forse se non avessi mai saputo che cosa significava
sentirmi chiamare per nome da te, non avrei mai saputo che male facesse.
Rassegnata, sono costretta a
girarmi per guardarlo in faccia.
Bellissimo.
Oggi è stranamente più bello del
solito, santo cielo, sarà che quando mette qualcosa di
azzurro, i suoi occhi risaltano come luci opalescenti, saranno i capelli che
lascia liberi e spettinati sul viso, sarà il torace scolpito che risalta sotto
la camicia aperta per i primi tre bottoni, sarà qualsiasi cosa… ma non riesco a
smettere di guardarlo.
Cosciente, però, di stare facendo
decisamente una pessima figura, mi affretto a
ritornare in me.
“Non ho fatto rimostranze…”
mormoro in un sussurro sotto lo sguardo scioccato degli altri, Seth per primo,
che credevano che avrei dato vita ad un siparietto
comico degno di Gianni e Pinotto. Ed
invece li ho sorpresi con questo stupido silenzio imbarazzato.
Draco sbatte gli occhi un paio di volte, poi dice solamente: “Bene… credevo
di aver capito il contrario, Granger…”.
“Non preoccuparti…” sussurro
ancora, voltandomi e dandogli le spalle fino a quando lo sento uscire.
Sospiro, stringendo i pugni, qui
non si può andare avanti così.
“Herm” mi chiama gentilmente
Seth, toccandomi la spalla “Come va? Tutto bene con Danny? O
meglio… va peggio del solito?”.
Sorrido, cercando di
tranquillizzarlo, ma non riesco a dire null’altro, come se mi avessero
sigillato le labbra cucendole assieme. Nemmeno se mi puntassero un’arma contro,
riuscirei a dire qualcosa. Le parole sono diventate così vane, inconsistenti,
inutili, quando si tratta di Draco.
È come tentare di spiegare ad un cieco cos’è il mare, utilizzando solo parole. È
impossibile.
Fossi anche Emily Dickinson,
comunque non ci riuscirei. Fiorirebbero metafore, similitudini ed ogni sorta di figura retorica, ma sarebbero sempre false
e riduttive.
Ed anche se quelle parole, per pura genialità, fossero giuste e perfette
per quello che voglio dire… non sono in grado di metterle una dietro l’altra,
per formare un senso compiuto… che non c’è, mai, tra me e Draco.
Ed anche qualora ci fosse, non mi
sento di condividerlo con nessuno.
Non ho bisogno delle definizioni
altrui che mettano nella loro giusta prospettiva quello che sento dentro.
Ho bisogno solamente di non
pensarci, nella frustrazione di una cosa ineffabile e inesprimibile.
Strano per me, che ho sempre
diligentemente categorizzato la mia vita, le mie sensazioni, i miei sentimenti,
in classi ben precise… non nego che lo sia, strano intendo.
Ma oramai non mi sembra più tale, sono rassegnata a questo sentirmi
sempre impotente davanti a questa… cosa.
Cerco di andare avanti
ugualmente, un passo davanti all’altro, senza fretta, sperando che passi.
Sperando
che passi… le unghie delle mani, strette a pugno, si
conficcano nella carne tenera, quasi lacerandola.
“Sto bene, Seth…” mormoro alla
fine, guardando il mio amico preoccupato “Alla fine, imbiancare questo posto
sarà una bella distrazione da quella massa di mocciosi urlanti che escono da
scuola… oggi è l’ultimo giorno, no? Starebbero tutti qui, a
bere frullati… quindi meglio tenere chiuso e fare qualche altra cosa…”.
Seth non mi sembra ancora del
tutto convinto, ovviamente. La mia è un’ingiustificata resa su tutti i fronti.
Che diventa giustificata solo se la si collega all’entrata di Draco.
Questa è una
cosa che ovviamente sconcerta tutti, da Gail che rotea gli occhi scuri,
mormorando frasi incomprensibili a Trey che assume un’aria compassata,
accompagnata da borbottii, orrendamente simili a: “E’ un grande! Non c’è niente da fare…”, per arrivare a Lawrence
che scrolla il capo incredulo.
Accidenti a loro!
Alzo la voce, dicendo: “Il lilla
e il giallo sono fuori questione, comunque…” e, per fortuna, la mia obiezione
distrae le loro menti da me, dato che iniziano a
battibeccare come bambini del asilo, urlando tutti i colori dello spettro della
luce.
“Io direi un
bel rosso fragola…” biascica Corinne, agitando le braccia “Fa molto
effetto, locale di
Parigi…”.
“Vuoi dire postribolo di Parigi…” sputo fuori avvelenata, guardandola storto, è la volta buona che
mette su una bella attività redditizia.
“Nero… e disegni argento…”
asserisce convinta Lorna, stiracchiandosi sullo sgabello e ravviandosi i
capelli scuri “Almeno la smettiamo con questa finta aria ipocrita da borghesia
arricchita…”.
Sbuffo:
“Infatti… basta borghesia arricchita… diamoci agli spacciatori! Gente di alto borgo che avrà sempre soldi per pagare… quel mercato
non va mai in crisi, vero, Lorna?!”. Lei incrocia le
braccia con noncuranza, tacendo finalmente.
“Di fronte a queste alternative, ammetterai
che il lilla è la scelta migliore…!” rimugina Seth, guardandomi con espressione
afflitta “Ma cedo anche se parliamo di un bel rosa cipria…”.
“Ma non ne conosci di colori
normali?!” chiedo infastidita, le mani sui fianchi
“Secondo me, nonostante tutto, il bianco è la soluzione migliore…”.
“Anche per me…” borbotta
Lawrence, scuotendo il testone.
“Idem per me…” annuisce Trey,
scrollando le spalle “La bambolina ha ragione…” e mi scocca la solita occhiata
da pseudo Casanova dei poveri.
Simulo un
falsissimo sorriso e replico: “Grazie Trey…! Non dimenticare questo tuo enorme affetto
per me il giorno in cui ti castrerò con delle cesoie arrugginite…”.
Trey si porta le mani sui
gioielli di famiglia, presagendo il dolore: “Non parlo più, bambol…
volevo dire Hermione!”.
Sorrido benevola: “E tu, April?”.
Lei alza gli occhi al cielo:
“Avevo pensato al verde acido, ma mi rassegno al beneamato bianco,
portatore del silenzio di Seth…”.
Sorrido complice, a volte la democrazia funziona allora!
“Quattro voti!” esclamo allegra,
agitando la mano “Quindi vince il bianco… al massimo ti concedo una tenue
sfumatura di beige, Seth…”.
“Monotono…” mormora lui
inconsolabile “Il lilla poteva essere la botta di stile di questo locale…”.
“Come no… la botta finale
all’immagine di questo posto, già abbastanza in decadenza…” mugugno, legandomi
i capelli ed infilandomi sopra i vestiti una delle
tute da lavoro che giacciono ammonticchiate in un angolo. Completo il tutto con
una bandana, ricavata da una mia vecchia sciarpa rossa che avevo lasciato di
sopra.
Ovviamente la questione non
finisce qui…
Avete idea di quanti tipi di bianco esistano?! No, ovviamente… voi gente normale
veleggiate nella vostra esistenza, senza aver bisogno di questa superflua
informazione.
Seth Green, invece, le conosce perfettamente! Tutte! Inizia infatti a sventagliare una vasta scelta di opzioni tra bianco perla, bianco crema, bianco-grigio, bianco segnale,
bianco alluminio, bianco puro, bianco traffico, bianco papiro… non ho parole, e
io che avevo detto bianco per far finire le sue discussioni!
Dopo aver finalmente
scelto il bianco crema, non prima di una serie infinite
di discussioni, finalmente iniziamo a dipingere, ma anche questa operazione si
rivela abbastanza difficile: non soltanto non siamo degli imbianchini, non
soltanto abbiamo una sola scala scassata, non soltanto fa caldo, cosa che alla
fine ci fa gettare le tute all’aria e lavorare con i nostri vestiti consueti,
no. Aggiungiamo anche Lorna che fa tre pennellate ed
inizia ad accusare un feroce mal di testa e se ne scappa fuori, Corinne che
inizia a litigare con il suo fidanzato tatuato via cellulare e Gail che erge un
altare di fortuna alla dea Sedna per propiziare la
scelta del bianco invece del rituale giallo.
Quindi il vero
lavoro, oggettivamente, lo stanno facendo Trey e Lawrence, dato
che per Seth ogni scusa è buona per abbandonare, tirando anche in causa
la cromoterapia e la connessione con il divino, a cui si arriva con la
gradazione violetta. Quando Gail giustamente, e per la prima volta vorrei
baciarla, dice che lo stesso risultato si raggiunge anche con il bianco, Seth
riprende a pitturare ma con aria moscia, quindi ogni sua pennellata deve essere
ripassata da me ed April.
E, a parte lo sforzo,
siamo entrambe abbastanza basse per non raggiungere ogni punto.
Dopo un’ora, quindi,
non siamo ancora a nulla, mentre iniziano a farsi sentire i morsi della fame,
considerando che è l’una passata. Io, April e Gail ci
accasciamo sul pavimento, mentre Seth borbotta assieme a Trey e Lawrence. Lorna
e Corinne, ovviamente, sono fuori a fumare, accusando un’improvvisa
claustrofobia.
Stramaledetto Malfoy!
Ma adesso lo chiamo e ci viene ad aiutare, me ne frego! L’avuta lui questa bella idea ed adesso lo tiro dentro, al
diavolo! Mi violento psicologicamente e ci parlo, anzi… che parlo, alla fine è
ininfluente parlarci… lo scotenno…
ecco, così nemmeno mi imbarazzo…!
Attraverso la sala
con passo marziale, diretta di sopra, ma mi fermo ai piedi della scala,
attirata da un’ombra nell’ingresso principale.
“Hayden!” sorrido,
riconoscendolo e correndogli incontro.
Lui, finalmente, mi intravede nella semioscurità e mi viene incontro, il
solito sorriso meraviglioso sul volto abbronzato. Come sempre, mi tremano le
ginocchia e mi chiedo che diamine ci trovi in una come
me, basta che accenda gli occhi verdi e potrebbe sciogliere anche una distesa
artica.
Eppure, ha un’aria
così serena e rilassata che non incute alcun genere di timore reverenziale
oppure imbarazzo, cosa che tendenzialmente capita con i bei ragazzi, tranne che
con lui. La mia prima impressione su di lui, effettivamente, si è rivelata
corretta, non è minimamente consapevole di quanto è carino, quindi non vi dà
peso. Non a caso è sempre vestito in modo semplice;
infatti, oggi porta una T-shirt verde smeraldo ed un paio di comodi jeans
larghi. Nella mano destra, regge un busta di plastica
bianca.
“Ciao Herm!” mi
saluta, dandomi un buffetto sulla guancia, poi nota che ho
il viso sporco di vernice e ride: “Ma non eri una cameriera tu?”.
“Non mi far parlare,
per favore…” ringhio tra i denti, poi chiedo, inclinando la testa: “Che ci fai
qui?”.
“Ero venuto a
trovarti… e a proporti una pausa pranzo a base di panini con tacchino e salsa
Worcester… non la adoravi tu?!” e scoppia a ridere,
ricordandosi la mia storia del felino di Worcester. Ovviamente non con
particolari magici, credo che allora avrebbe riso anche di più.
“Smettila!” rido a
mia volta, dandogli una lieve gomitata nelle costole “Accidenti a me che te
l’ho raccontata! E comunque non posso! Adesso devo…”.
“… adesso Hermione
deve lavorare…”, sobbalzo, una voce dalla sommità delle scale. Quella voce.
La sola voce
che ha il potere di bloccare il mio cuore, di gelarlo e di intrappolarlo tra le
mie costole, come un uccello in gabbia, a cui nega
crudele l’ossigeno.
La sua voce.
Solo la sua voce.
Se poi mi
guardasse, lo soffocherebbe il mio cuore… e se mi toccasse, semplicemente lo
ucciderebbe.
Miucciderebbe, centinaia di
schegge perse nel vuoto.
Draco. Solo
lui.
Lo guardo scendere le
scale piano, con lentezza, lo sguardo puntato su Hayden. La mano scorre leggera
sul corrimano, lui, sempre il Principe delle serpi, il nobile, il sovrano di
tutta la terra che lo circonda, che guarda sempre noi come servi indegni. Sono
dardi in fiamme i suoi occhi su di me e Hayden, come sempre, saturi del rancore
e dell’odio che ha sempre nel sottofondo delle sue iridi, quando mi guarda. Si
socchiudono in due fessure, mentre si avvicina, e si ferma sull’ultimo gradino,
le braccia conserte, in attesa di una spiegazione.
Ed ancora… io non riesco nemmeno a guardarlo. Cosciente solo della
sua presenza, mi sgretolo, sabbia forgiata nelle
fattezze di una persona.
Ha calcato il mio
nome con decisione, forte, staccandolo dal resto della frase, come se non
stesse parlando con Hayden… ma solo con me.
Sebbene mi costi ogni
cellula del mio corpo, impegnata ad urlare dentro di
me perché non lo faccia, finalmente riesco ad alzare il viso e a sibilare, gli
occhi nei suoi: “Lo so, Danny… infatti, non stavo andando via…”.
“Mi era sembrato…”
commenta ovvio, scendendo l’ultimo gradino e fermandosi accanto a me. Ancora
non degna Hayden di uno sguardo.
Lui, accanto a me, si
agita a disagio, probabilmente sentendosi di troppo.
Hayden sa di
Draco, ed è un pensiero che mi tramortisce in
un attimo, come una botta in testa che mi annebbia la vista e la capacità di
connettere.
Sa che provo
qualcosa per lui… anche se non so
cosa.
Ti bacerò di
nuovo il giorno in cui non avrai sempre il riflesso di un altro negli occhi…
Come un’onda di insperato coraggio, mi colpisce quella frase, sferzandomi
d’energia e di forza, assieme a residuo orgoglio.
Io non sono quella
che se ne sta qui di fronte a lui, abbassando gli occhi e mugugnando, in preda
alle tempeste emotive.
Non sono questa
persona… mai… qualunque cosa io provi per Draco e per Hayden, non sono questa
persona.
Non sono proprietà di
Malfoy, ma tantomeno sono la ragazza di Hayden. Eppure, oggi la parte che
abbraccio, è chiara.
Non voglio
che Hayden stia qui… davanti a me e Draco…
Non voglio
che stia qui, a pensare chissà che… non se lo merita. Non si merita che Draco gli faccia pensare chissà che.
Sollevo lo sguardo,
ostinatamente rivolto verso il basso fino ad ora, e guardo esclusivamente
Hayden: “Ma se non hai nulla da fare, potresti anche darci una mano… te ne
intendi di pittura?”. Draco, accanto a me, si muove leggermente, forse trasale,
ma non lo vedo in viso, gli do ostinatamente le spalle.
“Non ne capisco
nulla…” sorride Hayden, un sorriso chiaro ed aperto,
credo più per il fatto che abbia finalmente aperto bocca e per invitare lui,
che per la prospettiva di passare una mattinata estiva a pitturare un
ristorante “Ma credo di essere meglio di te… non che ci voglia molto,
comunque…”.
Sorrido a mia volta,
ignorando ancora Draco: “Ok, allora la prendo come una sfida…”.
Stringo la mano
attorno al polso di Hayden, gettando un’occhiata in tralice a Draco che se ne
sta praticamente immobile a fissarmi, per poi
sorridergli fintamente: “Vedi, Danny? Tutto a posto… la mia etica professionale è ineccepibile, non solo resto a lavorare, ma rimedio anche un
aiutante…”.
Lui non risponde, il
viso pallido più del solito, chiazzato di rosso sugli zigomi, le labbra
contratte in una smorfia infastidita, mentre io mi trascino Hayden dietro per
il polso.
Credo che, se fossi
fatta di carta, mi avrebbe già incendiato solamente con lo sguardo.
Eppure, resta
indietro, non mi segue prendendomi ad insulti… lo
sento salire le scale, a due a due, allontanandosi furibondo.
Strano, decisamente strano.
Appena varco la porta
della sala ristorante, sento un applauso scrosciante,
mi ritraggo quasi spaventata.
I miei colleghi di
lavoro applaudono a tutto spiano, Seth per primo, che ha quasi le mani
dell’amato color lilla.
Hayden mi guarda
ancora, non capendo, inarcando un sopracciglio, e nemmeno io ci capisco
granché, persino Lorna e Corinne sono rientrate e battono le mani sorridendo. Ma saranno scemi? Che hanno da applaudire?!
Poi, un pensiero. Hanno
sentito tutto.
Scoppio a ridere, la
mano ancora in quella di Hayden, questi sono proprio pazzi.
Faccio un buffo
inchino, immediatamente seguita da Hayden che, alla fine, ride anche lui.
Trey, in piedi sulla
scala, sbracciandosi in modo decisamente pericoloso,
urla: “L’ho sempre detto che la bambolina è una grande!”.
“E’oro puro… non te
lo far scappare…” mi sussurra complice April nell’orecchio, fingendo di star
prendendo un tovagliolo nel nostro picnic improvvisato. Le sorrido velocemente,
arrossendo lievemente, calore diffuso che mi prende le guance: “Non è come
pensi comunque, April… insomma, mica stiamo assieme…”.
Lei sorride ancora,
sussurrandomi ancora per non essere sentita dagli altri: “Vero… ma è un bel
tipo, no?”.
“Decisamente…”
sorrido come una cretina, guardando Hayden, impegnato in una conversazione
epica con Lawrence sulle quesilladas messicane e su
come perdano un botto, se non ci metti il chili originale messicano. È la
quinta conversazione di tenore completamente diverso che sostiene nella
mattinata, ed è arrivato all’una e mezzo.
In un’ora, ha aiutato
enormemente nel lavoro di pittura, riuscendo anche ad
elaborare una soluzione per conciliare le velleità artistiche di Gail e Seth
rispetto al progetto immacolato della parete. Ha pensato di fare dei disegni
stilizzati di farfalle, piccole, dal corpo giallo e dalle ali
lilla che rompessero ogni tanto la evidente monocromia della superficie
bianca. Per il lavoro che abbiamo già portato a termine, circa metà del
ristorante, ne sta uscendo una cosa spiritosa, in accordo con tutto lo stile del
Petite Peste.
Ma, cosa decisamente più importante, almeno Seth e Gail stanno
lavorando, allegramente.
Dipingendo, Hayden ha
intrattenuto una conversazione sul movimento punk e su CidVicious con Lorna, costringendo anche lei a
dipingere, per ascoltarlo meglio.
Con Trey, ha
intavolato una lunga discussione sulla musica dance anni 80 e su come sia la
capostipite della nostra musica.
Poi è stato il turno
di April e della legge per la conservazione dei beni culturali che i laburisti
hanno approvato a marzo.
Ha persino scambiato
banalità con Gail sulla orbita di Nettuno e con Seth
sui danni da lampade solari.
Ovviamente, con
Corinne non ha spiccicato parola, cosa al contempo consolante, perché
avrebbe determinato una sua evidente affinità con la stupidità di quell’oca, edimpossibile,
se lei lo guardava con la bava alla bocca,
anche se non capiva una parola di quello che diceva.
Alla fine, ora, ci
siamo seduti per terra e stiamo mangiucchiando panini come pausa.
È decisamente
perfetto. Non c’è nulla da fare.
Mentre ascolta
Lawrence e le sue rimostranze culinarie, mi getta un’occhiata per poi farmi un
occhiolino, a mo di saluto. Sorrido, arrossendo.
È troppo
carino! Mamma mia!!!
Seth gattona nella
mia direzione, eccolo là… sollevo gli occhi al cielo, ovviamente qualcosa deve dirmela
anche lui. Si accomoda vicino a me, sbocconcellando distrattamente un
tramezzino e facendo l’indifferente. Si aspetta che dica io qualcosa,
ovviamente.
“Che c’è?” chiedo
nervosa, guardandolo di sbieco. Non mi piace questo mio stare tra lui ed April, come in un silenzioso e sussurrato interrogatorio.
“Decisamente
carino, brava Herm!” sussurra ancora mangiando, spargendomi briciole addosso
che scuoto con energia: “Finisci di mangiare almeno, potevi anche rimandare la
rassegna stampa…non mi sarei offesa, mica!”.
Seth finisce
diligentemente di masticare, per poi bisbigliare ancora, la faccia atteggiata ad una smorfia: “Ma Danny è meglio!”.
Rischio di strozzarmi
con il panino, attirando l’attenzione di tutti, compresa quella di Hayden che si interrompe dal parlare, per dire: “Piano Herm! Non sapevo che avessi così fame!”.
Arrossisco
furiosamente, stavolta di rabbia, e fingo un’espressione colpevole di fronte al
mio inesistente accesso di voracità, fino a quando Hayden riprende a parlare
con Lawrence. Inesorabile, la mia mano raggiunge il fianco di Seth,
scoccandogli un pizzicotto talmente forte che credo di avergli rotto qualche
capillare.
“AHIA!” urla Seth,
interrompendo ancora le altre conversazioni. Rido nervosamente verso Hayden che
credo che a breve lascerà la stanza, preoccupato dalla mia salute psicofisica,
e roteo l’indice sulla tempia, facendo chiaramente intendere che è della salute
psicofisica di Seth che dovremmo preoccuparci tutti.
Hayden sorride ancora
e riprende a parlare.
“Ma sei proprio
fissato con Danny, Seth!” farfuglia April, abbassando la testa per coprirsi
mezza faccia con la frangia “Arrivasse qui Antonio
Banderas e ti proponesse una serata di sesso in equilibrio su un pianoforte, e
te comunque frigneresti dicendo che Danny è meglio!”.
“Perché proprio il
pianoforte?!” chiedo ridendo.
“Ce
l’ho davanti e quello mi è venuto in mente…” scrolla le spalle April,
soggiungendo ispirata: “Anche se deve essere scomodo…”.
“E rumoroso…”.
“Ma
in Pretty Woman lo fanno!” medito io, ricordandomi la
scena del famoso film “E premono solo qualche tasto…”.
“Per come lo farebbe
Seth specie con Danny, si romperebbe tutto il pianoforte, altro che qualche
tasto…”. April scoppia a ridere, subito imitata da me, e alla fine anche da un
contrariato (e trasognato alla fantasia del pianoforte) Seth.
Gli altri ormai
rinunciano a dedicarci attenzione, comprendendo che siamo irrecuperabili,
Hayden scrolla la testa sorridendo ancora.
“Comunque, pianoforte
a parte, non puoi negare che il mio teorema sia esatto…” riprende Seth con
espressione compita “Insomma, Hayden ha sicuramente quell’aria da cucciolo
indifeso che…”.
“… che ti fa venire
voglia di immergerlo in una vasca da bagno, ricoprirlo di schiuma, e poi…”
fantastica April, in una serie di bisbigli sovraeccitati.
“April!” inveisco
scandalizzata, arrossendo e portandomi le mani inconsciamente sul viso.
“Sì, sì, qualcosa di
simile…” continua Seth, per nulla sconvolto, come se
April avesse degnamente finito il suo pensiero “Ma insomma… Danny è Danny…”. E stavolta l’aria di chi si sta facendo fantasie a tutto spiano l’assume lui.
“Interessante
teorema, Seth…Danny è Danny… come ho fatto a non arrivarci io?” commento,
roteando gli occhi.
“Intendo dire, se mi
facessi finire…” sbotta Seth, guardandomi male e distendendo le braccia dietro
di sé “… che non puoi negare che Danny ti dà proprio l’idea di maschio… quello
che ti sbatte al muro, insomma…”.
“Seth!” mi tappo le
orecchie, ma come stanno perversi oggi?!!
“Bisogna ammettere
che ha ragione, comunque…” asserisce convinta April, addentando un pezzo di
mela “Danny ti dà proprio quell’idea, deve essere uno molto passionale…”. Li
guardo entrambi scandalizzata, ma che razza di pensieri si fanno?!!
“E poi adesso che
Summer ha preso il volo è anche libero!!” batte le
mani entusiasta Seth “Potresti sempre farci quel benedetto pensierino che ti
suggerisco di fare da mesi, Herm…”.
“E dalle, Seth! Io non mi faccio nessun pensierino! E non bramo
nemmeno essere sbattuta al muro! Non è una mia fantasia ricorrente… meglio la
vasca da bagno piena di schiuma…!!” sbuffo
infastidita, alzandomi in piedi e chiudendo la conversazione con un sorriso
malizioso, o finto tale, dato che dubito di farne uscire uno decente.
Annuncio di andare in
bagno a lavarmi le mani e percorro la sala con passo cadenzato e sicuro, da
donna che sa esattamente cosa e chi vuole, specie dopo la conversazione alla
Sex and The City che ho appena avuto con quella specie di erotomani. Quella
stessa andatura, alla CarrieBradshaw
a spasso per la Grande Mela
mentre ammicca ad ogni uomo minimamente vicino a lei,
diventa una mezza corsa alla Hermione Jane Granger, sempre così bambina da fare
la disinibita a parole, mentre poi mi imbarazzo come una quindicenne davanti ad
un film a luci rosse.
Appena uscita dal
ristorante, vogliosa di acqua fredda che mi rinfreschi il viso in fiamme, corro
quindi in bagno.
Non vado di sopra per
paura di incontrare Draco, al momento non so come stia dopo aver invitato
Hayden a fermarsi. Probabilmente sta fabbricando una bambola voodoo con le mie
sembianze, sembrava abbastanza arrabbiato…chissene…
Ma diciamo se lo evito è meglio, almeno fino a quando la mia fantasia,
liberata dalle parole di Seth ed April, se ne ritorna a cuccia.
Corro quindi nel
bagno di sotto, apro il rubinetto e vi porto le mani chiuse a coppa, gettandomi
l’acqua ghiacciata sul viso. Mi sento immediatamente più calma e ritemprata di
prima, almeno potrò affrontare le prossime ore senza la faccia sconvolta da
pensieri lussuriosi. Accidenti a loro, sempre alla mia vita sentimentale stanno
pensando!
Raccolgo
l’asciugamano, passandomelo sul viso con energia.
Muschio
bagnato nel mese di settembre.
“Non pensare di poter
fare questi giochetti con me, Granger… ti ricordo chi sono… tu ne avresti
sempre la parte peggiore…”.
Rabbrividisco su me
stessa, forse la mia mente mi sta giocando brutti scherzi, a furia di
fantasticare in modo poco pudico.
Sollevo gli occhi
verso lo specchio di fronte a me e vedo distintamente dietro di me lo
scintillio irato e furioso degli occhi di Draco. È dietro di me.
È fermo alle mie
spalle, le mani chiuse a pugno lungo i suoi fianchi, furioso. Le labbra sono
ormai ridotte ad una fessura minuscola, contratte e
strette. Ha ancora le guance stranamente rosse, e i suoi occhi sono come due
spade puntate alla mia gola, acciaio fuso dall’ira.
Poggio l’asciugamani a posto e ribatto, girandomi, con voce
assolutamente incolore: “Non capisco di che stai parlando…”.
“Lo sai perfettamente
di che cosa sto parlando!” inveisce lui, allora, la sua voce che mi fa
accapponare la pelle, mi ha praticamente urlato
contro.
Non aveva urlato
nemmeno quando aveva rotto con Astoria, nemmeno allora. La sua voce era rimasta
un flebile sussurro d’odio, era calmo, serafico, come se stesse parlando del
meteo. Ora no… come se
avesse perso il controllo… rido
amaramente nella mia mente… come dimenticare? La sola che gli fa questo
particolare effetto, voler
gettare l’intero universo nell’inferno, sono
io.
L’odio, che spesso
gli rievoco dal nostro passato, facendo qualcosa che lo infastidisce, è più
forte di ogni cosa che provi. È atavico, puro, senza ragione. È dirsi
probabilmente nella sua mente: “Che
cosa mi aspetto dalla Granger, in fondo?!”.
È anche facile.
Perché, di fronte al
nostro presente legame incomprensibile, la suprema certezza dell’odio che ci ha
sempre unito, è come un salvagente in mezzo alla tempesta.
In fondo, sarebbe più facile così, anche per me.
Sospiro, ritrovando
un incomprensibile tremore delle mie labbra, incomprensibile
alla facilità dell’odio… ma che diventa ovvio nella tempesta che mi
scuote dentro.
“Davvero… non lo so…”
rispondo senza energia, guardando altrove, sfuggendo ai suoi occhi.
Odio i suoi
occhi, li odio quando mi guarda così… cieco di furia,
come se non mi vedesse nemmeno.
Un spostamento repentino d’aria, un dolore fulmineo e
bruciante alla schiena. Sbatto le palpebre un paio di
volte, sono contro la parete. La
tipica persona che ti sbatte al muro. E’ ad un respiro da me, le mani sul muro alle mie spalle, poco
sopra la mia testa, bloccandomi.
Resta a testa bassa,
i capelli che gli coprono gli occhi, il suo corpo vicino al punto tale che ne percepisco il calore, irato e nervoso. Se allungassi una
mano, arriverei agevolmente a toccargli il torace, compatto, liscio, sotto la
camicia azzurra. Scrollo il capo a quel pensiero, cercando di apparire calma e
padrona di me.
Ma quando solleva il viso e mi ritrovo i suoi occhi addosso,
non riesco a sostenere il suo sguardo senza arrossire. Volgo ancora il capo a
destra, sfuggendogli.
Una mano fredda, la sua mano, mi afferra per il mento, costringendomi a guardarlo in viso:
“Guardami in faccia, Granger…” mi minaccia nella voce tornata calma.
Alzo il mento altezzosa, per quanto me lo consenta la sua presa
d’acciaio, piccole lacrime di impotenza che pizzicano nei miei occhi.
La sua mano ricade
lungo il fianco, si allontana per quanto lo consenta la lunghezza del suo
braccio teso, la mano ancora appoggiata sul muro ai lati del mio viso.
Per un attimo, mi
perdo ascoltando il suo respiro veloce che mi accarezza tiepido il viso,
ipnotizzata come la vittima di un serpente.
Guardo il ciuffo
solito di capelli che gli sfiora la fronte, e mi chiedo arrossendo come sarebbe
spostarglielo con le dita, mentre dorme vicino a me, esausto, dopo aver fatto l’amore.
Dischiudo quasi senza accorgermene le labbra, non accadrà mai, ed è un cupo rumore
sordo nelle mie orecchie, un tonfo nel cuore, uno spasimo inconsapevole nel
petto, come un vuoto d’aria. Con violenza, un groppo in gola, cerco di
mantenere gli occhi asciutti.
Sento le sue mani
chiudersi a pugno, mentre riprende a parlare tagliente: “Posso sopportare che
non mi parli… che non mi guardi… posso anche sopportare quella maledetta aria
da regina che hai sempre…la superba regina di ogni cosa che tocca con lo sguardo e per cui
sono meno di niente… sai questo, posso anche sopportarlo… in fondo, anche se
non hai motivo alcuno per fare l’altezzosa, non me ne frega niente…” la testa
reclinata in basso, si alza, portandosi a tiro dei miei occhi, ancora più vicino
a me, mentre continua: “… ma che tu faccia stare quel tipo qua, giusto per
punirmi in qualche contorta maniera, bè… questo è
davvero idiota…”.
Autenticamente
sorpresa, sgrano gli occhi per qualche istante. Cerco
immediatamente di riprendermi, rispondendogli: “E’ talmente idiota come cosa,
che non hai nulla di meglio da fare che stare qui a rompermi le scatole…”,
incrocio le braccia, sbuffando: “Inoltre, potresti anche lasciarmi, invece di
tenermi bloccata così… ti sento lo stesso, mio malgrado…”.È decisamente meglio che
si allontani.
“Mi dispiace,
Granger… hai la leggera tendenza a sfuggirmi di mano… cosa alquanto irritante…
quindi molto meglio che ti tengo così, almeno finoa quando finisco di parlare…” aggiunge ovvio,
abbassando lo sguardo su di me, poi si illumina per un
secondo e sorride malizioso, arrossisco ancora non capendo, finché bisbiglia:
“Anzi… se lo voglio davvero finire questo discorso, devo trattenerti di più di
così…”.
Piega verso l’interno le braccia, ancora appoggiate al muro, e così
facendo, si avvicina ancora di più a me, se mai era possibile. Ormai sfioro il
suo viso con il naso, il suo respiro mi brucia le labbra. Cerco di
indietreggiare di più, ma non ce la faccio ovviamente. Il cuore mi rimbomba
nelle orecchie, impazzito, frastornandomi. Basta che mi muovi anche di un solo
centimetro e le mie labbra sfiorerebbero le sue. Resto con il viso basso,
sperando che non me lo sollevi ancora.
“Adesso va meglio…
non devo nemmeno alzare la voce…” sussurra ancora sulle mie labbra, un fremito
incontrollabile mi mozza il fiato, non facendomi nemmeno intendere che cosa
stia dicendo, come se stessi traducendo una lingua
sconosciuta e avessi bisogno di qualche secondo per capire le sue parole.
Nella testa, grido
che mi baci ancora. Grida il cuore, grida la pelle, gridano gli occhi, gridano
le mani, tutto di me stessa grida e si contorce.
Riprende, la voce ora
soffice, soffusa, roca: “Hai fallito miseramente se credevi di suscitare in me,
che so, gelosia… la sola cosa che mi provocano i tuoi giochetti imbecilli, è
fastidio… improvvisamente, oggi che non ci parliamo, arriva il tuo
bambolotto… chissà, come mai, forse per sbattermi in faccia che stai bene con
lui, e non con me… ammesso che mi interessi… ma
insomma, Granger, sono giochetti idioti… dopo una vita tra i Serpeverde e i
Mangiamorte, non li sopporto… e tu non sei nemmeno brava a farli…”.
“Questa al mio paese
si chiama gelosia…” commento fiocamente, sfiancata,
anche se non ci credo nemmeno io.
Credo davvero che sia
infastidito che lo renda oggetto di giochetti, cosa a cui
non ho pensato nemmeno per un momento, anche se lui ne è convinto.
“Sempre fastidio… non
gelosia… non dire sciocchezze…” bisbiglia ancora, muovendo leggermente una mano
nervosa. Inavvertitamente mi sfiora i capelli, scarica gelata lungo la colonna
vertebrale. Rabbrividendo, alzo gli occhi, trovando prima le
sue labbra e poi i suoi occhi, racchiusi nei miei, improvvisamente scrigni di
nuvole, socchiusi, foschi, inaccessibili. Sbatte le palpebre
un paio di volte, la mano contratta che piano si distende in un attesa
infinita. Ogni parte di me è un ponte per le sue dita, ancora lievemente
accostate ai miei capelli, fremo dalla voglia che mi accarezzi
anche solo per sbaglio.
Quando riapre la
bocca, la sua voce è affannata come se avesse corso per chilometri, le labbra
umide sfuggono incandescenti le parole, in un respiro arrivano alle mie labbra
che sfiorano le sue, i miei occhi prigionieri soggiogati dei suoi: “…se fossi mia, potrei essere
geloso, ma non così…”.
“…tua…”
sussurro, concentrata sulle sue labbra, tutto attorno è un mare vischioso di
silenzio.
“…mia…”
ripete lui, la voce più bassa, le labbra dischiuse. Come in un sogno, vedo la
mia mano arrivare a lui, lambire con le dita i tratti del suo viso
delicatamente, leggermente, come se davvero temessi che sparisse. Assorta e
concentrata, terrorizzata all’idea che mi fermi, scorro le dita sul suo viso
caldo, lui che prima sussulta, vedendo la mia mano alzarsi, e poi che mi
osserva attonito, immobile, per un attimo spaventato. Gli manca il fiato,
quando arrivo a toccarlo, lo sento rabbrividire sotto le mie dita, sebbene
siano più calde le mie mani che il suo viso. Chiude
piano gli occhi, quasi esortandomi silenziosamente a continuare, le mie dita
che accarezzano la sua pelle come se stessi suonando con morbida esperienza le
corde di un’arpa. I capelli spettinati sono serici tra le mie dita, come li
avevo immaginati, guardandoli prima, mi mordo il labbro inferiore, rapita. La
fronte spaziosa e lievemente corrugata che mi fa sorridere buffamente, lui che
è sempre corrucciato con il mondo intero. Gli occhi, ora chiusi, ma le cui
palpebre fremono leggermente ad ogni mio movimento.
Gli zigomi, le guance e infine le labbra, ancora dischiuse.
Resto lì immobile,
congelata, l’indice che corre sul suo labbro superiore, seguendone il profilo
sottile. Quando piano riapre gli occhi annebbiati, sollevo come inebetita il mio viso, guardandolo fisso negli occhi e
ritrovandomi a ripetere senza rendermene conto: “…tua…” .
Finalmente, la sua
mano si poggia sui miei capelli, scorrono le sue dita
leggere tra i boccoli sotto la bandana, quasi ravviandoli, mentre lentamente mi
avvicina a lui, attirandomi per il fianco con l’altro braccio, ora anch’esso
libero. Mi accolgono le sue braccia, il suo cuore ora contro il mio, diviso
solo da inconsistente tessuto. Non riesco a smettere di guardarlo in viso,
mentre mi accarezza con dolcezza i capelli e il viso. Stringe forte il braccio
attorno alla mia vita, possessivo, mentre ripete, gli
occhi seri e decisi, in un sussurro fioco: “… mia…”.
Sussulto a mia volta, il tono con cui l’ha detto… e questo braccio…
davvero mi senti tua?
Impercettibilmente
chiudo gli occhi, lui che lentamente mi porta vicino al suo viso,
solleticandomi con il suo respiro.
“Piccola Hermione…”
sussurra ancora, le labbra ormai sulle mie, ne sento il calore e la linea che
ho disegnato sotto le dita “Le mie donne non hanno avuto mai bisogno di giochetti
per tenermi incatenato a loro…”.
Apro bruscamente gli
occhi, un brivido leggero che mi ha ucciso come un terremoto. Improvvisamente,
la dimensione di ciò che sta accadendo mi frastorna senza sosta. Tutto continua
a gridare dentro di me, ma già i miei piedi che si erano alzati sulle punte per
arrivare al suo volto, mi riportano alla mia solita altezza, sfuggendo al suo
viso e alla sua mano che resta immobile a mezz’aria. Meravigliosamente sbagliato. Meravigliosamente sì,
ma sempre sbagliato. Perché? È quello che voglio… e allora…?
Mentre vedo i suoi
occhi chiusi riaprirsi di scatto, sentendomi irrigidita, e guardarmi come per
chiedermi che cosa sia successo, tremo di rabbia, ricordando.
Inizio a piangere,
silenziosamente, guardandolo. Draco sembra non capire, eppure già si allontana
di un po’ da me, trattenendomi solo per il fianco.
Finalmente sputo
fuori con rabbia: “Invece Astoria aveva bisogno di giochetti per stare con te?!Doveva tenermi sotto incantesimo senza
che tu muovessi un dito, vero?”.
I suoi occhi si
sgranano ferocemente, si stacca da me come se fossi un pezzo di lava: “Come…”.
“Come lo so??! Questo vorrei sapere?!” urlo
furiosa, spingendolo lontano con le mani. Per il contraccolpo imprevisto,
finisce abbastanza lontano da me per farmi ritornare in sé. Si porta sconvolto,
le mani sul petto, guardandomi senza fiato.
Mi
ritrovo a singhiozzare senza accorgermene, mentre grido senza controllo: “Me ne
frego del tuo stupido segreto, della tua stupida vita, di tutto! Di tutto quello che sei, me ne frego, ma come diamine hai
potuto permettere che facesse questo a Ginny, a me, per settimane?!! Come hai fatto??!!”.
“Hermione, adesso
devi farmi parlare, aspetta…” cerca di afferrarmi per il gomito, trattenendomi,
ma scatto allontanandomi.
“Deve essere stato
meraviglioso per te che quella lì si prendesse gioco della mia mente, dei
mie ricordi, così, no? NO??” urlo ancora, ormai senza
controllo, il bacio non dato che diventa un incentivo incandescente alle mie
parole irrazionali“Deve essere stato un
momento meraviglioso, vedermi completamente in suo potere?! Non hai nemmeno
pensato a fermarla, anche se sapevi che poteva costarmi caro, che poteva
rovinarmi la vita, cancellarmi ed annullarmi la
mente!”, riprendo fiato, la sua espressione sconvolta che mi dà solo ulteriore
energia per continuare ad urlare: “Come diamine ho fatto a dimenticare chi sei,
che cosa sei… e adesso stavo anche per…” piangendo disperata, mi porto le mani
nei capelli, appoggiandomi stancamente al muro.
“Hermione, ci sono
delle cose che devi sapere, il fatto che Astoria fosse qui…” tenta ancora di
avvicinarsi a me, ma mi allontano ancora, arrivando sulla soglia della porta.
“Non mi interessa! Hai capito che non mi interessa??!!”
ripeto ancora, la voce sempre più alta, fregandomene che mi senta qualcuno,
asciugandomi le lacrime con il dorso della mano “Non ti devi più avvicinare a
me, non ti azzardare mai più anche solo a rivolgermi la parola o a guardarmi…
facciamo durare questa sceneggiata fino a quando sia strettamente necessario…”,
abbasso lo sguardo riprendendo a piangere, poi lo guardo cercando di mantenere
la mia voce ferma e decisa, anche se il labbro continua a tremarmi
innaturalmente: “…questo… questo che stava per succedere, non accadrà mai più… non
sono il tuo giocattolino…”.
La sua espressione,
da sconvolta che era, improvvisamente si indurisce,
diventando fredda, gelida, pietra scolpita: “Mi sembra che tu non sia stata
propriamente immobile… o che ti sei messa a scalciare per divincolarti…”,
sussurra: “Lo volevi esattamente come me…”.
“Che cosa era?”
chiedo, ignorandolo e tornando a guardarlo “Che cosa era, rispondi…”.
Senza nemmeno
prendere fiato, risponde sicuro, affondando le mani nelle tasche: “Un impulso e
basta… sono un uomo e mi eri vicina… questo credo che spieghi tutto…”.
Non ci posso
credere.
La rabbia mi offusca
gli occhi, mentre dico raggelata: “Tieniti gli impulsi nei tuoi pantaloni, fino
a quando sei in mia presenza, Malfoy… non ti avvicinare mai più a me…”.
“Tranquilla, Granger…
qualsiasi cosa fosse, è passata…” sibila ferocemente, poi solleva il mento
ripetendo: “Ora, visto che non abbiamo più nulla da dirci e non c’è più niente
di me che ti interessi, ti lascio ritornare alle tue
incombenze…”.
Senza dire
nient’altro, esce silenziosamente, senza nemmeno guardarmi in faccia.
I pugni chiusi, resto
immobile al centro del bagno, il mento alzato, l’espressione fiera di una
leonessa, gli occhi asciutti.
È solo quando sento
chiudere la porta che cado sulle mie ginocchia, ricominciando silenziosamente a
piangere.
“Sei sicura di stare
bene?” mi domanda per l’ennesima Hayden, mettendomi una mano sulla guancia e
guardandomi preoccupato.
Fingo un inespressivo
sorriso e annuisco, senza trovare la forza di aggiungere altro.
Lui sospira
stancamente, appoggiandosi allo stipite della porta d’ingresso del locale.
Fuori ha iniziato a cadere una pioggia leggera, dall’odore frizzante, e la
gente nella strada ha preso a correre per evitare di bagnare i vestiti leggeri,
adatti alla serata estiva, ma non alla pioggia che ha preso improvvisamente a
scendere. Alcuni guardano speranzosi verso il nostro locale, ma, quando leggono
la scritta “Chiuso”, si ritirano in buon’ordine, sbuffando un po’, storcendo il naso per l’odore
di vernice fresca.
Ma almeno domani, quando riapriremo, sarà tutto perfettamente
a posto. Abbiamo finito una mezz’oretta fa ed adesso
sto salutando Hayden.
O meglio si
sta salutando da solo… io non riesco
nemmeno ad aprire la bocca, per il groppone che ho in gola da questo
pomeriggio.
“Non stai bene,
Hermione… penso che sia evidente, no?” mi sorride teneramente, mettendomi una
mano sulla spalla “Improvvisamente, questo pomeriggio inizi a dipingere in
silenzio, ogni tanto scappi via e, quando torni, ha gli occhi rossi…Seth ti
punzecchia e non rispondi, ti cade una lattina di vernice sul piede e non
reagisci… ammetterai che è strano…”, sorrido ascoltandolo, mio malgrado,
appoggiando la testa alla porta, piegandola poco di lato, mentre continua: “…e
c’è anche un’altra cosa…”.
“Cosa?” chiedo,
muovendo leggermente le labbra, non credo nemmeno di averle aperte, ma un po’
di voce è uscita, a quanto pare.
Hayden sorride
teneramente, mentre mi bisbiglia, gli occhi quasi velati e un po’ socchiusi: “L’ombra…
nei tuoi occhi… il suo riflesso… oggi credo che sia diventato più pesante ed
evidente del solito…”. Trasalgo e mi stringo nelle spalle, a disagio. Sfuggo
dal suo sguardo che legge dentro me e cerco di
concentrarmi per rendere i miei occhi meno dannatamente sinceri.
“Non
me ne devi parlare, se non vuoi…” riprende a bassa voce “L’ho capito che è una
cosa complicata tra voi… molto più di quanto non sembri. Ma non vorrei che ti ferisse, che ti
facessi fare del male solo perché non sai rinunciare a lui…”, la sua voce si è
tinta di seria e determinata preoccupazione, dolce come miele vischioso nella
mia gola. Rompe gli argini che ho messo faticosamente alle mie lacrime,
cerco di nasconderle alla sua vista mentre riprende: “Tu sei forte, sei
determinata, intelligente… e sei bellissima…”. Un brivido caldo
e mi volto verso di lui, incurante delle mie guance bagnate.
Hayden sorride
ancora, poi mi prende per il polso attirandomi verso di lui e stringendomi
forte. Quel miele in gola, diventa improvvisamente così soffocante che mi
sembra di morire dalla tenerezza che provo, soffice, intensa, straziante. Lo
abbraccio a mia volta, non riuscendo a smettere di singhiozzare.
“Meriti di sorridere
ogni giorno della vita… meriti un principe azzurro, uno che potrebbe diventare
re, e regalarti il castello da fiaba dei tuoi sogni…” continua lui, la voce
come una ninna nanna che mi culla tra le sue braccia “E questo non credo di
dovertelo dire io… lo sai, Herm, che non fa per te. Forse non faccio nemmeno io
per te, ma non importa… eppure, qualsiasi cosa sia quello che
mi lega a te, io ci sarò per sempre per te… qualsiasi cosa succeda, quando
riuscirai a parlare, quando vorrai parlare, quando avrai solo bisogno di non restare da
sola…corri da me…io ti aspetterò…”.
Annuisco, continuando
a piangere, affondando il viso nel suo petto e stringendo le dita attorno alla
sua maglietta.
Gentilmente, Hayden
mi dà dei colpetti affettuosi sulla schiena, cercando di farmi calmare, fino a
quando riesco a dire con voce sufficientemente ferma: “Grazie”.
Mi stacco da lui,
cercando di sistemarmi come meglio posso, lui sorride ancora salutandomi, prima
di correre via sotto la pioggia.
Resto immobile per
qualche secondo, le scie della pioggia argentata nei miei occhi e nei miei
pensieri, un tuono che rompe il silenzio, facendo scattare un antifurto
lontano. Tendo la mano sotto la pioggia, si bagna velocemente mentre la guardo,
completamente svuotata di ogni cosa.
Il pensiero c’è
sempre, sotto le ceneri di me stessa, che arde inesauribile, e c’è anche il
cuore, che batte di ricordo stupido di mani calde su di
me, occhi grigi chiusi e labbra sottili, tinte di corallo. Ma,
se non mi muovo, se non faccio niente, se mi concentro sulla pioggia, o sulla
pittura, o su una cosa che ho davanti agli occhi, fino a far finta io stessa di
essere un bicchiere, un pennello, una bottiglia… almeno sento meno male, come
se fossi anestetizzata.
Non afferro nemmeno
le parole di Hayden, le faccio scivolare via come tutto il resto, per paura di
ricordarmi che cosa le ha provocate.
La mia
reazione di oggi pomeriggio, dopo che Draco…
Serro la mano bagnata
sotto la pioggia, morsicandomi le labbra, ancora, ancora, come tutto il pomeriggio,
il suo sapore lieve come un’eco in una vallata che scompare ad ogni morso che mi do, portandomi pietoso sollievo. Prima
o dopo, sparirà del tutto, se continuo a mordermi le labbra. Se ne andrà del
tutto…
Mi siedo per terra,
appoggiando la fronte sulle ginocchia, miriadi di voci nelle orecchie come
stormi neri nel cielo del crepuscolo.
“Herm…” mi sento
chiamare alle mie spalle.
“Dimmi Seth…”
rispondo pigramente, sollevando il viso e riprendendo ad
osservare la pioggia. Almeno la mia voce sembra ritornata la stessa.
“Stai bene?” mi
chiede lui gentilmente, sedendosi accanto a me e guardandomi.
“A meraviglia…”.
“Devi tornare a casa
adesso?”.
A casa… Io non posso tornare a casa.
Lo vedrei in
ogni dannata parete vuota.
Lo
avvertirei negli spot assordanti in televisione.
Lo sentirei
nella carezza dell’accappatoio sulla mia pelle, dopo la doccia.
Lo
respirerei nel profumo della pioggia, entrato dalla finestra della mia camera,
lasciata aperta.
Ovunque… se
restassi da sola, lui s’impossesserebbe del vuoto
attorno a me.
Nemmeno Astoria
poteva tornare a casa, così aveva detto. Forse, è una sua caratteristica
tagliarti fuori dal mondo, crearti una cupola attorno che ti tiene sotto vetro
impedendoti di respirare e di avere a che fare con qualsiasi cosa che non sia lui, il ricordo di lui o
il pensiero di lui.
Un’ossessione.
“No, Seth… posso
anche restare qui se vuoi…” aggiungo senza ombra di allegria, constatando che almeno la vicinanza di Seth riuscirà a
distrarre i miei pensieri. Lui è sempre così maledettamente rumoroso che metterà a tacere ogni altra voce nella mia testa. Anche se
questo significa restare più vicina a Draco… non importa.
Mi tocco
inavvertibilmente il petto, una fitta che mi fa annaspare, tanto è sempre qui dentro… poco importa
dove sia realmente.
“Vuoi vedere un
film?” mi chiede ancora Seth, prendendomi per un
braccio ed aiutandomi ad alzarmi, come se fossi davvero incapace di farlo. Sono
sempre così maledettamente cristallina che si accorgono tutti di ciò che ho… mi
metto in piedi orgogliosamente, puntellandomi sulle ginocchia, rifiutando
l’aiuto di Seth orgogliosamente. Lui sembra quasi rassicurarsi e mi dice un po’
più allegro: “Se ti va, ho un film che muoio dalla voglia di rivedere…”.
“Rivedere?” chiedo,
inarcando un sopracciglio “Non possiamo vedere un film nuovo… minimo l’ho già
visto anche io…”.
“E’ importante, un
film importante per me…” asserisce convinto,
mettendomi una mano sulla testa “Quindi voglio che lo veda anche tu…”.
“Ah vabbè…” commento,
incrociando le braccia “Se non è una cosa tipo Mr
Bean, ok… non lo sopporto…”.
Lui storce il naso,
evidentemente a lui piace, ma non aggiunge altro, quindi probabilmente non si
tratta di quello.
“E niente commedie
romantiche… non sopporto nemmeno quelle…” chiarisco preliminarmente.
“Sei più positiva del
solito…” sibila sarcastico Seth, iniziando a salire le scale, seguito a breve
distanza da me “Sai che se me ne vuoi parlare sono qui…”.
“Non c’è granché da
dire…” getto la bandana che ancora portavo in testa in un angolo della stanza
di Seth, dita sottili che spostano il
tessuto leggero passando nei miei capelli come se li volessero ravviare, e mi getto distrattamente sul letto, un braccio piegato
sugli occhi umidi.
“C’entra Danny,
vero?” mi chiede in un sussurro Seth, sedendosi accanto a me. Il mio corpo va
su e giù per il contraccolpo, mentre serro gli occhi in una stretta dolorosa.
“E’ un bastardo…”
bisbiglio, spostando il braccio e guardando il soffitto bianco “Non voglio che
abbia mai più a che fare con me…”.
“Lo so… o meglio, con te lo
è particolarmente…” continua Seth, stendendosi accanto
a me. Lo osservo di sottecchi, è la prima volta che dice una cosa minimamente
negativa sul suo eroe personale.
Deglutisco un paio di
volte, prima di dire velocemente, come se le parole bruciassero nella mia gola:
“Ci siamo quasi baciati Seth…”.
Lo guardo preoccupata
dalla mia rivelazione, ma lui sorride leggermente e si gira verso di me, la
testa poggiata sul braccio piegato: “Quasi, perché?”.
Arrossisco,
poi poggio la fronte sul suo braccio, lui mi accarezza leggermente la guancia,
le dita fredde sulla mia pelle bollente: “Perché non fa per me Seth… e me ne
sono accorta appena in tempo…”, prendo fiato prima di continuare: “Queste
settimane… stando qui… con voi… e con lui… vedendolo ogni giorno, mi ero illusa che
fosse diverso dalla persona che conoscevo… che fosse cambiato… ma lui è sempre
lo stesso… non è mai cambiato…”.
Abbasso ancora di più
il viso mentre riprendo a piangere, Seth che non smette un secondo di
accarezzarmi, come un’onda calda che avvolge il mio cuore in un abbraccio
stretto che mi ridà ossigeno.
Finalmente
riprende a parlare, la sua voce seria non sembra nemmeno la sua: “Hermione… è
ovvio che non sia mai cambiato… la gente non cambia mai, siamo per sempre
quelli che eravamo da bambini, da ragazzini… il passato di una persona non si
può cancellare. Mai. Lo sai, no?”.
Annuisco contro la
sua spalla.
“… tu non hai
conosciuto un altro Danny… hai conosciuto solo il Danny
che non ti aveva mai dato occasione di vedere… quello celato dietro la persona che detesti. E
quest’ultima non può smettere di esistere all’improvviso…” continua Seth con
voce roca “…perché fa parte di lui, è la persona che è sempre stato… la sola
cosa che ha per andare avanti...”. Lo
guardo continuare a parlare, offuscato dalle lacrime celate nei miei occhi: “…
io non so nulla di Danny. Non so che vita abbia fatto, chi abbia
conosciuto e chi abbia amato… non so perché sia così. Crudele, cattivo,
insensibile, menefreghista… la lista potresti farla
meglio di me. So solamente che sono quei lati che mette sempre a difesa di sé stesso… e so che, quando li abbassa, non è così. È la persona migliore del mondo…”, la sua voce si abbassa ancora mentre soggiunge triste:
“Non potrei fare a meno di quei lati, quegli buoni… l’attimo miracoloso in cui
abbassa la guardia ed è sé stesso. Non tutti siamo in
grado di essere sempre noi stessi, semplicemente non possiamo, non vogliamo… o
che ne so che altro. Tu sei sempre te stessa, fino all’inverosimile. Perché sei forte… lui… io…
no… eppure c’è chi ci ama anche per i momenti in cui siamo così chiusi da
ferire volutamente per non farci del male… o così frivoli da rompere le scatole
con uno stupido color lilla per tutto un pomeriggio… perché hanno visto l’altro e sono disposti ad aspettare anche
tutta la vita per rivederlo anche solo un istante… e continuare ad amarlo…”.
Resto immobile a
fissarlo, le sue parole come una coperta calda sulle mie spalle, mormoro
guardandolo: “Tu lo continui ad amare anche se ti
tratta male?”.
Seth si gratta pensosamente
la testa: “Non credo di amare Danny… sono troppo narcisista per innamorarmi di
lui… diciamo che il fatto che sia un gran bel pezzo di selvaggina
complica le cose, ma credo solo di volergli bene come
amico… e me l’hai fatto capire tu…”.
“Io?” chiedo
incredula, ancora una traccia di risata alla definizione gran bel pezzo di selvaggina.
“Tu, Herm, sì… so che
non ti piace esageratamente sentirlo, ma non posso esimermi dal dirtelo…”
prende fiato sotto il mio sguardo lievemente preoccupato, per poi affermare
sicuro: “…sono sempre più convinto che Danny sia
follemente innamorato di te…”.
La
sua voce si ferma, mentre soppesa la mia reazione, ma osservandomi
relativamente tranquilla perché non gli credo proprio, scambia il mio silenzio
per assenso o speranza o chissà che cosa, e riprende più sereno: “…e credo
anche che lo sappia, se ne sia accorto. Insomma è palesemente geloso di Hayden, ti ha già
baciato una volta, anche se sembra per scherzo o chissà che…oggi cerca di farlo
daccapo… se vuole una che gli riscaldi il letto, esce e la trova, non ha
bisogno di rompere le scatole a te... considerando anche il tuo carattere
impossibile…”.
“Carattere
impossibile?!” inveisco, dandogli un piccolo pugno
sulla spalla.
“Sì, sì, vabbè… possibile e meraviglioso…va meglio così?” ride lui, stendendosi meglio sul letto,
poi riprende la voce più profonda: “Potrebbe anche non essere come dico, in
fondo tu lo conosci meglio di me e, se non vuoi rischiare, evidentemente senti
che è una cosa impossibile, lo senti meglio di quanto possa fare io
dall’esterno... o magari ti piace davvero Hayden… non lo so…eppure per quanto mi
riguarda, una cosa è certa, Danny
sta cambiando… lentamente, ma ogni giorno di più…ha
avuto anche il coraggio di lasciare Summer finalmente… anche se era palese che non l’ha mai amata…”.
“Non l’ha fatto mica
per me…” obietto con un filo di voce.
“Lo so, ovviamente…”
ribatte Seth sicuro, come se stessi dicendo un’ovvietà gigantesca “Ma ha avuto
il coraggio di farlo solo quando sei arrivata tu… coincidenza strana, no? Si
cambia perché si ama. Decidi tu in che senso lui ti ama… si ama nel senso che conosciamo bene, ma si ama anche per
amicizia, per nostalgia, credo che si ami persino per odio. Odio per sé stessi, per il proprio passato… mettila come vuoi,
insomma. Ma solo quando si ama, per qualsiasi motivo, si cambia… ritornando al
mio discorso iniziale, credo che sia anche per quello che hai
avuto la percezione di vedere un nuovo Danny. Ti vede in modo diverso e
si rapporta con te in modo diverso… e allo stesso modo, ho capito che, se sono anni che Danny
è sempre allo stesso modo con me e viceversa, evidentemente non abbiamo un
sentimento così forte ad unirci… sia da parte mia che
da parte sua… so che Danny mi vuole bene, in fondo, come gliene voglio anche
io. Ma è un amore piccolo che non ci hai mai cambiati…
quindi non credo che sia così importante… come quello che invece ha per te, ti
ripeto, sia quello che sia. Il legame con te, sebbene lo logori dentro e si
vede, è così importante che lo spinge a muoversi, ad
agire, a cambiare appunto, pur di non rinunciare a te…”.
Soppeso le sue parole
nella mente, sono come sempre un caldo alito di vento
che mi danno respiro e ristoro dal gelo che mi prende a tratti. E mi rendo
conto che, da qualche tempo, sono completamente in balia di tre ragazzi che
governano la mia mente e il mio cuore: Draco che, come ghiaccio bollente,
spazza via tutto in me, rendendomi steppa bruciata ed
annerita, riarsa poi da un freddo pungente e incessante che mi congela,
rendendomi morta al mondo; poi dopo Draco, arriva sempre Hayden, come un
tiepido sole di aprile che rischiara le rovine di me stessa, riempiendole di
luce, di calore, di speranza tenue, facendomi risentire forte e coraggiosa; ed
infine Seth, l’acqua che cade copiosa dal cielo in gocce argentine, alleviando
il vuoto, facendomi risorgere del tutto, rendendomi fresca di vita e di
fervore.
Eppure, ad ogni resurrezione,
Draco mi toglie qualcosa.
Ogni volta so che, al di là delle parole di Seth ed Hayden, io inevitabilmente
perdo qualcosa per strada. Un po’ di coraggio, un po’ di orgoglio, un pizzico
di forza, una manciata di speranza. Ogni volta,
nonostante il sole e la pioggia, qualcosa smette per sempre di esistere.
Più penetro il
mistero di Draco e più non sono me stessa.
E sapere di Astoria… il quasi bacio, il sentirmi sua… mi hanno talmente congelato e sedato che avverto il calore
delle parole di Hayden e la freschezza di quelle di Seth, mi ci abbandono, mi
sento rincuorata e persino un po’ di lacrime tendono a sparire, ma non ci credo più.
Sono palliativi,
placebo che mi danno un po’ di sollievo. Vitali, necessari, indispensabili, ma
purtroppo non risolutivi di questa mia malattia.
La totale guarigione,
forse, sarebbe fare un bel incidente e perdere
completamente la memoria.
Credo che sarebbe
quella la sola strada.
Ma, intanto, recupero un po’ sensibilità al mondo,
ricominciando a sentire qualcosa… o perlomeno mi distraggo un po’.
“Grazie Seth…” mormoro convinta, anche se ovviamente non può sapere quanto
sia contenta solo del fatto che sia rimasto con me, piuttosto che di quello che
abbia detto.
“Di nulla…” sorride
lui, sollevandosi seduto sul letto “Allora, una bella doccia e dopo film?”.
Annuisco: “Ma si può
sapere che film sei tanto smanioso di rivedere?”.
Seth mi fa un sorriso
strano, prima di aggiungere: “Merry Christmas Mr Lawrence… l’hai mai visto?”.
“Ne ho sentito
parlare, ma no… di che parla?”.
Seth mi parla
sommamente della trama, parlando di una storia ambientata nel 1942 inun
campo prigionieri giapponese, scenario della passione quasi morbosa di
un giovane capitano giapponese per un ufficiale inglese. Ora capisco perché gli
piace… mi spiega anche, sebbene in modo molto riluttante, che è un film molto
importante per lui perché, vedendolo, quando aveva circa un
decina di anni, capì di essere omosessuale. Lo rivede in momenti alterni della
sua vita, specie quando chiude una storia, credo per darsi coraggio. Aggiunge
con gli occhi quasi lucidi che ora deve dare l’addio anche a Danny, e vuole che
ci sia anche io nel caso gli venga da piangere.
Sorrido, mettendogli
affettuosamente una mano sulla spalla, lui sorride, si alza velocemente e dice
che mi precede sotto la doccia.
Quando chiude la
porta, mi stendo di nuovo sul letto, lo sguardo fisso sul soffitto. Il silenzio
totale che mi circonda, è rotto solo dai lievi rumori provenienti dalla camera
accanto alla mia, quella di Draco. Sento un piccolo pianto di Serenity e la sua
voce leggera, di cui non intendo le parole, cercare forse di calmarla.
Calpestio di passi mentre va avanti ed indietro,
cullandola. Un cassetto aperto e richiuso velocemente. Qualcosa poggiato sulla
scrivania. Ancora passi.
Mi alzo come se fossi
in trance, faccio qualche passo, arrivando alla parete che divide le nostre
stanze. Allungo la mano senza accorgermene, poggiandola sul muro, come se così
facendo, potessi toccarlo di nuovo come ho fatto questo pomeriggio. Sotto i
polpastrelli, la superficie liscia e fredda del muro immacolato diventa ricordo
ardente del suo volto sotto le mie dita, che si irrigidisce
e si distende, linee dure che diventano morbide. Chiudo gli occhi, poggiando la
fronte sul muro.
Alla fine,
dovunque io sia, non mi lascia mai in pace… l’orgoglio e la rabbia sono solo
deboli paletti che reggeranno fino a quando non l’avrò di nuovo…
Forse era meglio che
tornavo a casa…
Sento Seth uscire dal
bagno e mi affretto a fingere di star facendo qualcosa, prima di correre in
bagno a farmi la doccia. Cerco di fare più velocemente possibile, accendo anche
la radio mettendo sull’emittente caraibica per distrarmi la mente, mentre Seth
apprezza la mia scelta musicale e lo sento ballare fuori dalla porta. Che
scemo… sorrido bagnandomi il viso. Ora so perfettamente che questa persona
gioiosa e vivace, è solo uno schermo, non è sé stesso.
Dietro il sorriso, ora mi sembra sempre di sentirlo gridare che non ha la forza di
essere sempre sé stesso. Deduco che la persona che
nasconde ostinatamente, sia quella con cui ho parlato fino a poco fa. Il suo
vero io, insomma, un ragazzo estremamente sensibile e
fragile che ora ha capito di non essere ricambiato dal ragazzo che ama. Ha
foderato il suo discorso di riflessioni argute e sagaci, ha finto disinteresse
e rassegnazione, ma era evidente che ci sta male. Ed è anche evidente che, se
vuole rivedere quel film, è perché crede che gli darà la forza che non ha… magari ne desse un po’ anche a me…
Esco dal bagno,
asciugandomi i capelli alla bell’e meglio, mentre Seth si siede sul letto in
pigiama, accendendo la tv. Mi siedo silenziosamente accanto a lui ed iniziamo a vedere il film che si dimostra essere davvero
bello. Seth singhiozza un paio di volte e allora lo abbraccio, sorridendo e
cercando di consolarlo. Sebbene la tematica non era
certamente così delicata per me come per Seth, effettivamente anche io, alla
fine, sono abbastanza commossa. Inoltre, credo anche di essermi ricordata
perché il nome del film mi era conosciuto. È la colonna sonora che conoscevo,
non il film in sé.
Mentre Seth si alza,
spegnendo la tv, chiedo infatti: “La colonna sonora…
il tema, insomma… come si chiama Seth?”.
Lui, asciugandosi
ancora qualche lacrima con la manica del pigiama nero di raso uguale a quello
che indosso io adesso, ci pensa un po’ su e poi risponde sicuro: “Forbidden
colours di RyuichiSakamoto…
è un brano per pianoforte abbastanza famoso…”.
“Ecco perché mi
sembrava conosciuta…” sorrido illuminandomi di comprensione “Mia
mamma quando ero piccola, mi fece prendere lezioni di pianoforte per
qualche anno... e in un saggio, ricordo che feci proprio questo pezzo…”. Mi
viene curiosamente da ridere, ricordando quel momento.
Ricordo solo le mie
scarpette nere di vernice con cui non arrivavo nemmeno al pianoforte, dato che a dieci anni ero ancora abbastanza bassa, e la
maestra che mi prendeva in braccio per farmi arrivare allo sgabello. Lucide
tele dorate di note si intrecciano nella mia mente, a
quel ricordo. Il saggio non andò benissimo, ricordo che c’era una posizione
particolare con il pollice che non riuscivo mai a fare bene, e nemmeno allora
mi riuscì. Iniziai a piangere, mentre cercavo comunque di portare a termine
l’esecuzione, finché la mia mamma mi venne a prendere dal palco e mi prese per mano, facendomi scendere.
Lei lo sapeva sempre
con estrema esattezza che, se una cosa non mi viene perfetta, non ne voglio
nemmeno sentire parlare più.
Piuttosto ricomincio
dal principio, ma mai la lascerei volutamente imperfetta.
Mi fece piangere,
andammo a prendere un gelato al cioccolato e menta, cosa che allora mi faceva
impazzire, e poi mi aiutò a mettere a punto quel pezzo
alla perfezione, assieme con papà. E la settimana dopo, andarono
a parlare con la maestra e pretesero che rifacessi la mia esibizione davanti a
lei, a loro e ad alcuni amici.
E allora mi venne
perfetta.
Non me ne ricordavo
più.
Credo perché,
solamente qualche giorno dopo, ebbi la lettera di ammissione di Hogwarts. E
tutto quello che era stato fino a quel momento, smise improvvisamente di
esistere. Compresi i miei genitori che, con il mio nuovo mondo, non avevano più
niente a che fare… e dimenticai persino il pianoforte, la mia grande passione
infantile.
Abbracciai la magia
con tutta me stessa.
Credevo che
fosse la sola cosa che mi rendesse speciale.
“Davvero? E ricordi ancora come fa?”mi chiede speranzoso Seth, sedendosi
accanto a me.
Annuisco quasi
malinconicamente, ovvio che me la ricordi. Fino a qualche attimo fa, nemmeno ci
pensavo e ora invece ricordo perfettamente ogni posizione delle mie dita sui
tasti.
“La suoneresti per
me?” mi chiede Seth ancora. Se fosse un cane, credo che starebbe scodinzolando.
“Sperando che me la
ricordi tutta, sì…” sorrido, è da tantissimo tempo che non suono e mi fa
discretamente piacere. Quando ero piccola, ricordo che mi dava una pace ed una serenità assurda suonare. Mi sedevo per ore dietro la
finestra, e passavo il tempo a strimpellare, mia mamma
che mi correggeva qualcosa e mio papà che mi scompigliava i capelli con
affetto, pulendosi gli occhiali sul maglione rosso. Mamma e papà.
Seguo Seth giù per le
scale, in punta di piedi, nel caso dovessimo svegliare Draco o Serenity che probabilmente
staranno già dormendo, essendo mezzanotte passata. La porta della sua stanza è
socchiusa, spero solo che non sia andato di sotto. Seth avanza davanti a me,
cercando a tentoni l’interruttore generale, poi, quasi
saltellando, raggiunge il pianoforte nero, ancora coperto da un telo per
impedire che si sporcasse di vernice.
Poi mi fa segno di
sedermi.
Come un dejà vu di
ere fa, ricordo perfettamente di sistemare lo sgabello alla mia altezza, di
controllare che il piano sia perfettamente accordato e di mettermi nella
posizione perfettamente dritta che mi imponeva sempre
la maestra di piano. Ed anche quando inizio a suonare, è come un flutto di
ricordi che si riversa sulle mie dita… ecco, il punto che mamma mi sistemò quel giorno che pioveva e si allagò
lo scantinato… l’incertezza sul do, con papà che batteva il piede ritmicamente
sul pavimento… alla fine della
melodia, mi scappa persino da piangere, Seth ovviamente mi batte e se ne scappa
di sopra in lacrime, accusando un’allergia improvvisa.
Che scemo…
Resto seduta per
qualche istante, sicuramente scenderà subito, imponendomi di suonare per altre
ventinove volte.
Scorro leggera le
dita sui tasti, ancora caldi dopo che ci ho suonato, e sorrido, è strano,
nostalgia mista ad una strana malinconia allegra. È
come se avessi ritrovato un vecchio amico. Forse dovrei riprendere davvero a
suonare, mi sento anche un po’ più calma.
Siccome Seth tarda a
tornare ed evidentemente sta allagando camera nostra, mi alzo per tornare di
sopra. Se mi inzuppa il cuscino, lo prendo a sberle.
Mi volto ed immediatamente faccio un passo indietro per la sorpresa,
finendo contro lo sgabello e scivolandoci di nuovo seduta. Resto immobile per
qualche istante, arrossendo, poi cosciente della situazione, cerco di
riprendermi alzandomi in piedi: “Non volevo svegliarti… mi dispiace… torno a
dormire…”.
Eppure, nonostante
sento ancora l’eco di questo pomeriggio, nonostante io sappia di dovermene
andare quanto prima da qui, nonostante io sappia tutto questo… e nonostante,
forse, mai come ora, sono consapevole che dovremmo stare divisi e nemmeno
guardarci un attimo di più… io non riesco nemmeno a pensare di fare un passo, quel passo, che mi allontani adesso da lui. Dentro, è come se sapessi
che non posso farlo.
Come se sapessi
perfettamente che ora è questo il mio posto.
È la stessa
consapevolezza che avevo, quando incontrai Harry e Ron sul treno, e seppi che
sarei stata loro amica.
È la stessa
consapevolezza che sentivo, quando intravedevo Ginny da bambina, e sapevo che
sarebbe finita con Harry.
… è la stessa consapevolezza di questo pomeriggio…
di essere nata solo per essere tua.
È questo il
mio posto. Assurdo, illogico, ma così naturale e scontato che mi chiedo che
cosa mi spinge a dirmi sempre il contrario.
Il fuoco
brucia. Il mare non si ferma mai. Il cielo non è mai uguale a sé stesso. La terra fiorisce di primavera e muore d’inverno.
E io sono
nata per stare qui.
L’orgoglio,
ovviamente, geme in me, irritazione nei miei piedi immobili, e la rabbia,
naturalmente, mi fa serrare le mani a pugno per l’impotenza e la frustrazione.
Ma il cuore, no…
saldo, sicuro, determinato, palpitante… trema
dell’attesa che lui parli.
Quando mi decido a
guardarlo in viso, capisco e non so come diamine succeda, che siamo alla resa
dei conti.
Perché Draco non
sembra nemmeno avermi sentito.
E il suo viso… io non
credo di averlo mai visto in nessun altro al mondo.
Immobile, livido, le
labbra bianche, l’espressione sconvolta, mi guarda
come se stesse cercando disperatamente di dirmi qualcosa, solamente
guardandomi… qualcosa che assomiglia ad una supplica, una preghiera, una
richiesta d’aiuto. E stona sul suo viso così enormemente che, per un attimo, mi
sembra di non stare guardando lui, ma un’altra persona. Come sempre, poi, sono
i suoi occhi a non tradirlo mai, a non ingannarmi mai. Solo gli occhi del mio
angelo dannato, sono di quel colore. E di occhi grigi so che ne esistono a
decine di milioni nel mondo. Eppure, i suoi li riconoscerei sempre, anche se li
vedessi un istante in un mare di gente.
Sanno di ghiaccio, di
mare d’inverno, di distese prive di vita. Ma sanno
anche di fuoco che mi brucia, consumandomi.
E ora il fuoco si
avviluppa attorno al mio cuore, brutale, facendolo a pezzi. I suoi occhi, la
cosa più bella che io abbia mai visto… sono… lucidi.
Per la prima volta,
da quando sono qui, Draco Lucius Malfoy sta piangendo. Sono rivoli argentati
quelli che scendono lungo le sue guance, rovinando sulle sue labbra, rendendole
quasi rosse del loro colore perduto. Singhiozza Draco, con i capelli spettinati,
un pigiama che sembra più piccolo del solito, addosso a lui. Sembra un bambino,
quel bambino che non è mai stato, stretto nella favola
del piccolo principe delle serpi che ha solo un funesto castello di morte da
ereditare.
Mi intenerisce come non ho mai pensato che potesse fare, e il
mio cuore è cera che si scioglie in un rogo inestinguibile.
Stringe le labbra
come se tentasse di smettere, come se volesse davvero fermarsi dal piangere, ma
non ci riuscisse, non ce la facesse.
Il ragazzino
nella cucina a GrimmualdPlace…
in realtà non ha mai smesso di esistere… come sempre, Seth ti conosce meglio di
me, anche se tento sempre di convincermi del contrario e del fatto che sono la
sola depositaria dei segreti reconditi di Draco Malfoy.
Seth aveva
ragione… tu sei sempre tu.
Il rampollo
dei Malfoy che è abituato a prendere tutto quello che vuole, anche con i mezzi
più abbietti.
L’ex
Mangiamorte che ucciderebbe chi lo ostacola con ferocia e disumanità.
Il traditore
di ogni parte che avrebbe ucciso i suoi genitori, se non l’avesse fatto qualcun
altro.
E poi sei il
ragazzo che piange di un ruolo più grande di lui in una cucina sconosciuta, che
teme che qualcuno gli porti via sua sorella…
… e che
difenderebbe me da una donna a cui, in qualche modo,
era legato… che mi bacia in una terrazza al novilunio per proteggere il nostro
comune segreto… che mi abbraccia perché resti qui… che vuole baciarmi e mi dice
che non ho bisogno di giochetti per tenerlo legato a me…
Possibile che tutto
quello che mi abbia detto, io l’abbia sempre capito come volevo?
Possibile che solo ora
capisca quello che davvero voleva dirmi?
Mi si stringe il
cuore in una morsa ghiacciata e faccio quasi di corsa quei pochi passi che mi
dividono da lui, afferrandolo per la manica del pigiama. Un volo folle e
disperato, dove ogni cosa mi sembra possibile.
Posso curare
le tue ferite, medicarle, fare in modo che tu senta meno male e che possa
riprendere a sorridere. Sorridere di quel sorriso obliquo e
imperscrutabile, eppure più sincero di quello facile di Ron o di quello
prevedibile di Dean.
Posso starti
vicino anche in silenzio, senza dire nulla, anche se sai
quanto vorrei farti tante domande e avere tante risposte. Ma mi
imporrò il silenzio se a te piacerà e ammanterò tutto il mondo di
silenzio, se me lo dovessi chiedere.
Posso
continuare tutta la vita a non pretendere niente di più che avere te accanto,
nemmeno averti vicino se per te sia troppo, posso vivere così per
sempre, anche avendo solamente te e Serenity e
considerarmi comunque la donna più felice del mondo.
Posso
prometterti tutto questo, oggi, adesso, domani, per sempre.
Ma ti prego,
Draco, non piangere più… ti prego… stavolta ti capirò. Oppure lo stesso non ti
capirò, ma ci sarò lo stesso.
Ti prego non
piangere più…
“Draco...” lo chiamo piano, lui che resta a testa bassa, i suoi
singhiozzi amplificati dal silenzio del ristorante.
Lo scrollo piano,
cercando di richiamare la sua attenzione, ed è allora che, in un secondo
velocissimo, che mi afferra a sua volta per il pigiama, aggrappandosi
saldamente a me, ma con troppa forza. Infatti, scivola in ginocchio e io assieme a lui.
Mi ritrovo seduta per
terra, lui che piange su di me, la testa china sulla mia spalla. Lo abbraccio
di slancio, allacciandogli le braccia attorno alle spalle, sentendo che sto
piangendo anche io, senza un perché, per il solo fatto
che stia piangendo anche lui. Le sue lacrime scivolano sul raso del mio pigiama
e vorrei che invece le assorbisse, le trattenesse fino a farle sparire, fino a
cancellarle, fino a quando lui stesso non le senta più sue e torni ad insultarmi, a prendermi in giro, a fare qualsiasi cosa
purché sia più felice, allegro di come è adesso. Non posso sopportarlo. Non riesco nemmeno a respirare se stai così. Ti prego, Draco…
Non so quanto sia
passato, quando finalmente apre la bocca e pronuncia delle scarne,
sintetiche parole.
Eppure, i singhiozzi
che le velano mi fanno sembrare che siano durate una
vita intera.
“Lei… lei la suonava
sempre… e io pensavo che fosse una melodia magica.
L’ho cercata…tanto… ed invece era babbana…”.
Siamo alla
resa dei conti.
Un ronzio nelle
orecchie, come se si addensasse un temporale lontano, oltre l’orizzonte mentale
dei miei pensieri. Veloce, rapido, implacabile, oscura ogni mio ragionamento.
Se sono ancora qui, io non sono più io.
Non
chiedergli niente. Non dirgli più nulla.
Quella che
non sono più io chiede con un filo di
voce, stringendolo più forte: “Lei, chi?”.
Le sue dita si
stringono attorno al tessuto leggero del mio pigiama, una presa d’acciaio che
temo mi strapperà anche la carne di dosso.
Non sono
fatti suoi, io odio la Granger,
mi fa schifo. Non voglio risponderle.
Non
rispondermi.
Dice solamente:
“Helena Jasmine Greengrass… la sola donna che abbia mai amato e che mai amerò… la mamma di Serenity…”.
Non era un
temporale.
Non poteva
esserlo.
Anche se il
lampo c’è stato ed ha illuminato tutto, a giorno, dentro di me. Tutto. Tutto.
Tutto.
E tutto…
tutto era distrutto con la forza di un maremoto, non di un temporale.
Rovesciato,
sconvolto, rivoltato da sopra a sotto. E poi distrutto, polverizzato,
incenerito, annientato, annullato, cancellato.
Io stessa…
sono stata cancellata.
Nel silenzio
del nulla, prego che arrivi qualcosa che mi distragga dal dolore. Che mi uccida
e mi levi questo posto designato, maledetto da chissà chi.
Ditemi che
mi sbaglio, ditemi che non è il mio posto… ditemi, vi
prego, che non è così che…
Draco ovviamente non mi sente urlare, forse sente
solo che mi aggrappo a lui come se temessi di affogare.
E lui fa lo stesso con me.
La sola cosa che ci unisce, è questo. Aggrapparci l’uno all’altra,
come se temessimo di morirne, come se queste parole fossero spade fiammeggianti
sulle nostre teste, pronte a squartarci, a farci a pezzi.
Ci accomuna anche il perché di questo aggrapparci… anche se va
in direzioni opposte.
Perché, nel secondo esatto che trascorre tra le sue parole e le mie
lacrime, in quel secondo esatto… lui probabilmente ricorda la donna che ancora
ama più di sé stesso.
…ed io, nel mio cielo sconvolto e polverizzato da un lampo feroce e
spietato, trovo il pezzo che mi mancava. Il nome. E capisco che lo sono anche io.
Come te… che
non lo sei di me.
In un secondo passeggero come il vento, capisco la cosa, al contempo,
più facile e più difficile tra tutte.
Sono follemente innamorata dell’uomo che piange per un’altra,
aggrappandosi a me, come se stesse annegando.
Sono follemente innamorata di Draco Lucius Malfoy.
Capitolo 22 *** Forbidden colours part II - Cerulean eyed girl ***
Capitolo 22 – Forbidden colours part II – Cerulean eyed girl
Capitolo 22 – Forbidden colours part II – Cerulean eyed
girl
Ho sempre creduto nel principe azzurro.
Nessuno lo direbbe, guardandomi, no?
Sotto l’algida razionalità e il disincantato cinismo, quella infantile consapevolezza è sempre esistita. O
meglio, è sempre rimasta, da quando mi è stata istillata.
Quando ero bambina, se mia mamma aveva da
fare, faceva la cosa più naturale del mondo per una genitrice con una figlia
rompiscatole da accudire e un lavoro che reclamava attenzione, al pari e,
forse, più di me. Mi preparava un panino con burro e marmellata di albicocche,
mi metteva un tovagliolo bianco sulle ginocchia per impedirmi di sporcarmi e mi
parcheggiava davanti alla tv, lasciandomi alla blanda custodia di una vicina.
Sbocconcellando la mia merenda, sedevo incantata a guardare i classici
della Disney, gli occhi spalancati nel rimirare principesse meravigliose,
vestite di velluto e broccato, gli occhi luccicanti di zaffiro e i capelli
rifulgenti d’oro. Aurora, Biancaneve, Cenerentola, Ariel… tutte, tutte,
alla fine della fiaba, incontravano un principe
bellissimo, biondo anch’esso, dai modi gentili ed affabili che rompeva
l’incantesimo che le imprigionava e le conduceva in un castello d’avorio fino
alla fine dei loro felici e rifulgenti giorni.
E io ci credevo ciecamente, mi rimiravo nello specchio facendo mille
giravolte e piroette, abbracciando un grande cuscino scozzese come se fosse il
torace saldo e possente del mio principe azzurro. Eppure… anche allora…
quando ero solo una bambina, io avevo sempre una domanda curiosa e pressante
nel cervello.
All’inizio, era una nebbiolina confusa che si insinuava
lenta nel mio pensare, mentre mi drappeggiavo addosso la lunga tenda di pizzo
avorio del salone, fingendo che fosse un vestito elegante. Poi, divenne sempre
più grande ed avvolgente, mentre guardavo ancora altri
film, colmandomi di indorate fantasie.
Una sera, quando mia mamma, tornò a casa e mi
abbracciò forte, cercando di darmi quell’affetto colpevole che mi aveva negato
per il lavoro, io storsi il naso per l’odore del disinfettante che
l’accompagnava sempre, dopo una giornata di ambulatorio, poi le chiesi
serissima: “Mamma, ma se Cenerella sposa il principe
azzurro, le altre ragazze che erano andate alla festa che fine fanno? Chi sposano?”.
Mia mamma mi osservò meravigliata, poi rise e mi scompigliò i capelli,
spaventata per un attimo dalla mia espressione compita che le aveva fatto
pensare chissà che.
Da allora, non vidi più quei film.
Era come se non ci credessi più. Avevo solo sei anni e già la mia
mente uccise la mia fantasia.
Ma una parte di me… non so come… aveva continuato ostinatamente a
pensare che, in fondo, per ognuna di quelle ragazze chiamate a partecipare ad un ballo in cui non sarebbero state guardate nemmeno per
sbaglio, esisteva, fuori dalla porta scintillante del castello, un principe che
le stava aspettando.
In fondo, la terra è grande e posto per altri castelli, ce n’era
sempre.
Mi feci comprare da mia mamma “Il piccolo
principe” di Antoine de Saint-Exupéry, convinta che fosse quasi una sorta di manuale
per riconoscere questa persona leggendaria. Io non ero bionda, né bella, né
gentile, l’avrei trovato lo stesso? E che succedeva se non lo
si trovava? Se era di un’altra principessa che ancora non era apparsa e
che magari dormiva ancora in una foresta?
Non c’entrava nulla ovviamente quel libro con il mio ragionamento
cretino, mi piacque molto, lo rilessi anche più volte, ma non era stato di
ausilio al mio teorema.
Eppure, l’immagine in copertina mi diede il modello che dovevo cercare.
Un bambino elegante ed impettito, dai vestiti
raffinati e seriosi, con intensi occhi chiari e capigliatura color del grano.
Draco Malfoy
sul treno di Hogwarts tredici anni fa.
Poi mi convinsi che non doveva essere per forza biondo… insomma, anche con
i capelli rossi andava bene. Diamine, erano sempre capelli, il contenuto
non cambiava. Poteva anche avere un sorriso contagioso, un aria
perennemente imbarazzata e vestiti non propriamente di prima mano.
La
guancia di Ron sotto le mie labbra, prima di una partita di Quidditch.
Poi, dopo, mi dissi che anche uno che non era nato per essere un
principe, poteva andare bene. Io non assomigliavo molto ad
una principessa, quindi ci poteva anche stare che non dovessi trovare un
principe… non mi risulta che ai balli andassero anche quelle normali.
Evidentemente, il principe azzurro era fuori dalla mia portata.
Un
bicchiere di sangria accostato con forza a quello colmo di Dean.
Poi… basta.
Improvvisamente, avevo smesso di pensarci. Perché, insomma, una si fa
film fino ad un certo punto.
Se avessi aperto la cassetta della posta ed
avessi trovato l’invito ad un ballo, l’avrei gettato nell’immondizia. Qualsiasi
principe si fosse palesato ai miei occhi, si sarebbe rivelato sempre come il
freddo e greve rospo che era, per quanto fosse vestito elegante, gentile,
ammodo edinnamorato.
In fondo, io con quella tonta di Cenerentola non avevo mai avuto niente
a che fare, a ben vedere. Fossi andata al ballo, fosse anche per pura
curiosità, non mi sarei nemmeno sprecata a mettermi in abito lungo, ma
schioccando la lingua, sarei rimasta appoggiata al portone del castello,
ridendo sotto i baffi.
Poteva
sussurrarle quello che voleva nell’orecchio mentre volteggiavano nel salone
addobbato, ma, appena le porte si sarebbero chiuse e tutti gli invitati fossero
usciti, lui sarebbe tornato quello di sempre… lei l’avrebbe visto senza
mantello, senza spada, senza uniforme.
E sarebbe stata
una sconfitta.
Non era un
principe, si divertiva solamente a fingere di esserlo.
Era una scenetta anche abbastanza patetica, quindi, io ormai nel
castello non ci entravo proprio. Non era posto per me.
Poi, in un lampo livido di giugno, in ginocchio per terra, con accanto un pianoforte a coda che vibrava ancora di note
maledette, mi ero resa conto che invece io, in un austero castello da fiaba,
c’ero entrata, eccome. Vestita di tutto punto, perfetta, con gli occhi
smaglianti di illusioni. Infrante.
… perché questo castello, aperto ed
illuminato, non stava aspettando me. Non sono io la principessa di questa
fiaba.
Sono una di
quelle che aspettano e sperano, avvolte nei loro vestiti inutilmente abbelliti
da fiocchi e trine.
Sono una di
quelle che non saranno mai scelte e che guarderanno ballare i due protagonisti,
sognando quell’amore grande che non avranno.
E magari ameranno
pure, lo ameranno vedendolo danzare, perso negli occhi
di una donna che non sono loro. Resteranno silenti testimoni di un amore eterno
ed inestinguibile di cui non hanno conoscenza.
Feriranno le mani guantate di raso, morderanno le labbra riflesse di corallo,
lisceranno inutilmente la gonna di seta da inesistenti piegoline.
Ma
lui passerà sempre oltre, non guardandole neppure. Non guardandomi neppure.
Era un
principe, allora, non mi ero sbagliata. Ed aveva anche
una principessa.
Quindi,
Hermione può anche uscire da questo castello sterminato e maestoso. Non è mai
stata la sua di fiaba.
Che succede a
quelle che vanno al ballo e non vengono scelte? Che
cosa fanno, dopo, quando escono nell’aria crudele della notte? Quando sono…
sole?
Fuori il mondo può anche essersi fermato.
E probabilmente nemmeno me ne sono accorta. O
magari, in fondo, non si è fermato niente. Tutto ha continuato a girare come
sempre, sono nati bambini, sono morte persone che probabilmente non lo
meritavano, risate sono scoppiate con fragore, pianti evanescenti ed isterici si sono riversati su spalle amiche.
Certo che tutto è continuato come sempre. Ovvio. Necessario e giusto al
tempo stesso.
Con l’eco della mia mente ancora in piedi, ho sentito che ha iniziato a
piovere forte fuori da questa stanza, un tenue eco di terra bagnata mi ha
urtato dentro come un calcio ben piazzato, armato da struggente malinconia. Poi
è passato. Lo amo. Niente può fare male dopo quello.
Non è vero. Ama un’altra.
È qui tra le
mie braccia, piange e ama un’altra.
È qui… e ama
un’altra.
Io lo amo… e ama un’altra.
Che succede a
quelle che vanno al ballo e non vengono scelte? Che
cosa fanno, dopo, quando escono nell’aria crudele della notte? Quando sono…
sole?
Credo di essere semplicemente rimasta cosciente di
me stessa per quel movimento incredibilmente lento, ripetitivo, costante, di
accarezzargli
piano la spalla, cercando di calmarlo. Rassicurante nel suo ripetersi come
l’onda del mare, lambisce lieve la terra, poi va via.
E io, uguale… ma non così piena di forza come un’onda, non così viva e
gorgogliante di energia da poter ripetere lo stesso gesto anche per l’eternità.
No.
Sono un’onda che si ripete, perché non posso fare nient’altro.
Come se fossi una specie di manichino, morto dentro, ma perlomeno somigliante ad una cosa che è stata viva, vista da fuori. Come
quelle ballerine nei carillon, congelate per sempre, in un
elegante arabesque.
La musica finirà ed inizierà daccapo, e loro
saranno sempre ferme lì, con la gamba alzata e il braccio teso, gli occhi fissi
nel nulla.
E, ora, sono utile fino a quando la mia mano non si fermerà dall’accarezzarlo, dal tentare di calmarlo, da darmi un
senso inutile. Poi smetterò di averne.
Smetterò di servire a qualcosa.
Smetterò di fare qualcosa.
Ricomincerò a
sentire… e smetterò
di esistere come me stessa, probabilmente.
Cadrò a pezzi, dilaniata in milioni di miliardi di schegge. Con quel
senso consapevole che ogni minuscolo frammento continuerà ad
urlare, a gridare, a piangere, a disperarsi, moltiplicando infinite volte ciò
che sento dentro. Il mio amore stupido. Il mio dolore stupido. Il mio cuore
stupido. Il mio essere una maledetta idiota stupida.
Dopo un po’, Draco sembra calmarsi, i suoi singhiozzi diventano più
tenui, non sento più le lacrime bagnarmi il pigiama, spegnendosi dopo essere
scivolate lungo il mio collo. La mia mano continua i suoi colpetti, non potrei
fermarla nemmeno se volessi, va per conto proprio come se avesse un senso tutto
suo, staccato dal resto del corpo, un impreciso senso di necessità che non so
cogliere nemmeno io.
Io non la potrei fermare.
Infatti, se si ferma, non è per me.
È costretta a fermarsi, quando Draco si stacca da me, poggiando le mani
sulle mie spalle, la fronte sulla mia, gli occhi rossi, il respiro corto. Una
vicinanza che è solo una lontananza continua, solo il preambolo di una
separazione, come una specie di commiato, un saluto affrettato ed un’ultima occasione per ricordare ciò che non siamo mai
stati, io e lui. Terra e mare. È un’illusione il pallido momento in cui ci
unisce un’onda.
Poi, saremo
solo granelli di sabbia dispersi nel vento.
Dio mio, fammi
andare via, accada qualsiasi cosa… ma fammi andare via… ti prego, non chiederò
mai più nulla in tutta la mia vita…
Fammi andare
via, allontanalo da me…
La mano immobile e gelata a mezz’aria non si muove più, i pensieri
ricominciano come un fiume in piena a cui avevo solo
messo un tronco come diga, mi investono in pieno e… ne sono travolta ed asfissiata.
Draco si accorge del mio labbro che trema, si accorge che sto piangendo
e mi guarda piangendo a sua volta, incredulo, gli
occhi spalancati da bambino, come se tentasse di capire, di leggere oltre il
mio viso umido, stravolto, sconvolto, incredibilmente lontano da quello che
era, fino a qualche attimo fa. C’è una tenerezza nei suoi occhi che non c’è mai
stata prima, una morbidezza triste ed inquieta che mi
sorprende, tra le mie mille lacrime nuove, una delicatezza che fonde l’argento
dei suoi occhi, rendendolo liquido, vivido, lucente. So che mi ha abbandonato
l’orgoglio, la sola cosa che mi tenesse in piedi, e so che, se non lo imploro
di lasciarmi andare, è solo perché credo di aver anche perso la capacità di
parlare.
Non mi fido di nulla di me stessa in questo momento.
Né della bocca, né della testa e soprattutto del cuore.
Se sto ferma, se sto immobile, se non parlo…
se non faccio assolutamente nulla… magari, scivolerò via da questo momento
senza nemmeno accorgermene.
In fondo, se
non avessi chiesto chi fosse la lei di cui parlava… e se non avessi suonato il
pianoforte… sarei ancora così bellamente arrabbiata con lui solo perché ha
tentato di baciarmi… Dio, magari fossi stata per sempre piena di quella rabbia,
invece che di questo amore maledetto…
Amore.
Amore.
Abbasso gli occhi, singhiozzando, mentre quella parola minuscola mi
risuona dentro, vibrando come una nota lugubre e stonata, lunghissima,
rimbombante, trattenuta, che echeggia in un silenzio così perfetto da sembrare
irreale. Dentro, è tutto silenzio, tranne che per quella parola insopportabile.
Il nome.
Amore.
Improvvisamente, sento la mano di Draco sotto il mio gomito, mi
trascina di peso, in piedi, trattenendomi appena. Resto con la testa bassa,
facendomi trascinare passivamente di sopra, su per le scale, non chiedendomi
nemmeno che cosa abbia in mente, non interessandomi neppure.
Si ferma davanti alla porta della sua stanza ed è solo allora che alzo
la testa, curiosa e meravigliata, scorgendo la soglia che aprii di nascosto da
lui, ma che non mi ha mai fatto varcare di sua iniziativa in tutto questo tempo.
Gli occhi annebbiati di lacrime, lo scorgo spalancarla con il piede, ancora
tenendomi per il gomito di malagrazia, trascinarmi dietro di lui e poi
chiudersela alle spalle. È tutto buio, tranne per una
piccola luce accanto alla culla di Serenity.
Sento il respiro della piccola che dorme profondamente, ed istintivamente mi chiedo quanto abbia di sua mamma. Helena
Jasmine Greengrass.
Non la guarderò
più quella bambina.
E mi uccide. Ma non lo farò. Cercherei sempre di trovare quella donna in
lei.
Pur non volendo
e pur non cercandola esplicitamente, cercherei sempre
di vederla. E se la trovassi, non potrei sopportarlo. Nemmeno per un secondo.
Draco mi lascia un attimo nel buio, allontanandosi, non mi chiedo
nemmeno che stia facendo, mentre lo sento armeggiare con qualcosa nascosto in
un armadio.
La curiosità mi ha portato a questo, a stare qui con il cuore a pezzi,
in una stanza buia, dove dorme la figlia della sola donna che Draco abbia mai
amato.
La curiosità…è stata lei, piccola e bastarda, a farmi restare qui. A
farmi chiedere perché Malfoy vivesse da babbano. A farmi accettare la sua
proposta di lavoro assolutamente imprevista. A farmi chiedere dei suoi
genitori. A farmi correre a casa di Rachel. A farmi
ascoltare lui che rompeva con Astoria.
E, alla fine, come pegno per questa verità che volevo assolutamente,
come se avessi un diritto sovrannaturale di dover assolutamente sapere tutto,
la curiosità si è presa la mia anima.
Per sapere la verità, ho venduto la mia anima a questo diavolo dagli
occhi chiari.
Per sapere la verità, io gli ho donato la sola cosa che mi restasse,
senza che nemmeno lo sapessi.
Ho svenduto il mio cuore.
Mi sono
innamorata di lui.
Perché non sono
andata via, quando potevo?
Quando mi si riavvicina, sembra che non abbia mai pianto, gli occhi
sono asciutti, l’espressione seriamente consapevole di sé
stesso, le spalle contratte. Si ferma davanti a me e mi
guarda a lungo, senza dire una parola, serio, impassibile, come se mi
stesse soppesando, come se fossi un certo quantitativo di merce da valutare.
Basta, per
favore…
Mi serro nelle spalle, abbassando gli occhi, cosciente
che non ho mai smesso di piangere silenziosamente, cosciente di non aver mai
sentito le mie guance asciutte da quando ha pronunciato il suo nome.
“Hai ragione…” la sua voce reca tracce di quel pianto appena trascorso,
ma le cela in modo convincente. Suona freddo,
distaccato, sicuro, come sempre.
Come diamine
fa? Come ci riesce?
“Che cosa?” chiedo, non riuscendo a capire, alzando lo sguardo nella
penombra che lo rende invisibile ai miei occhi colpevolmente innamorati.
“Hai ragione…” ripete lui con pazienza, come se davvero non avessi
sentito “Questa storia deve finire… oggi, adesso…”.
“Non capisco…” mormoro ancora, un cinguettio tremante che esce dalle
mie labbra ancora inumidite di lacrime.
Immagino persino il suo viso nel buio, quando dice lapidario: “Devi
sapere tutto… di me e di Helena…”.
Espressione accigliata
e labbra strette. Occhi chiarissimi e limpidi. Necessità ed
impossibilità che non sia come dice lui.
Deve essere che
prego il Dio sbagliato… non c’è altra spiegazione…
Istinto di sopravvivenza, forse, mi rende improvvisamente la voce: “No…
non devo sapere niente… credo di avertelo già spiegato… non mi
interessa…”. Rincuorata dal tono sicuro e deciso, e
dal fatto che perlomeno l’urgenza del momento mi ha reso più calma, rincaro la
dose: “Non ho mai voluto sapere nulla, né di te, né di Astoria, né di…”, una
fitta intollerabile al petto, ringrazio il buio che mi consente di riprendere
fiato senza che se ne accorga: “… né tantomeno di Helena, chiunque lei sia… non
ti ho chiesto mai niente e non capisco che cosa mi devi adesso…”.
“A te magari non interessa…” riprende lui stoico, dandomi le spalle “Ma
a me sì…in un modo contorto, ma è così, è necessario che tu sappia tutto
di questa storia…”.
“Necessario, per cosa, scusa?! Che cosa deve
finire oggi? Puoi spiegarmelo?” chiedo ancora, ignorandolo e
cercando di prendere tempo. Sento il sudore freddo inzupparmi la
schiena, un impreciso senso di puro terrore al pensiero di sentirlo parlare di
lei.
“Dopo… dopo che avrai visto…” risponde lui sibillino, voltandosi
verso di me.
“Visto?”. Non capisco fino a quando non vedo alle sue spalle, poggiato
sulla scrivania, qualcosa di vagamente circolare. Emana un lieve bagliore
perlaceo, insufficiente ad illuminare la stanza, si
riflette solo nei suoi occhi grigi, rendendoli ritagli di luna.
Un pensatoio.
Non soltanto
sentirlo parlare di lei… no… anche vederlo con lei… non se ne parla neppure. Non ce la faccio. Non
ce la posso fare.
Scuoto il capo con energia, negando quella possibilità. Ma non faccio nemmeno in tempo a farlo che Draco mi afferra
per un polso, trascinandomi dietro di lui. Mi puntello con i piedi per terra,
cercando di ostacolarlo, mi ritrovo persino a gridare, ma come sempre è più
forte di me. Serro gli occhi, un fragore d’acqua nelle orecchie, mentre cadiamo
entrambi nel pensatoio.
Poi più nulla.
(NDA: da questo momento in avanti, chiaramente avremo a
che fare con i ricordi di Draco. Sono in terza persona e, dal punto di vista di
Draco stesso, ovviamente. Per distinguerli da quando invece a parlare è
Hermione, uso un carattere diverso. Ecco una piccola leggenda:
Draco ed Hermione =
Hermione che parla.
Draco
ed Hermione = come sempre,
sono i pensieri più intimi di Hermione stessa.
Draco ed
Hermione = sono i ricordi di Draco).
La mente di Draco è un inferno di porte chiuse.
Corridoi immacolati e deserti, pieni di voce attutite da porte chiuse.
Alcune sono enormi, imponenti portoni dall’aria antica, di legno massiccio e
scuro, chiusi da ferri e lucchetti sigillati. Altre sono piccole, minuscole,
non ci passerebbe nemmeno un mio piede. Altre ancora, sono spalancate, ma al
loro interno, c’è poco o nulla.
Scale a chiocciola, si arrampicano in altezza dove
nemmeno la mia immaginazione riesce ad arrivare, tutto è un eco di voci,
rumori, odori sconosciuti che si mescolano in vario modo. È tutto così bianco
da sembrare accecante, eppure così asettico e freddo… sento la mano di Draco
stringere la mia, guida silente per ciò che mi vuole far vedere, come un
Caronte ineluttabile che mi conduce all’inferno.
Il polso mi fa male, per dove mi ha stretta
prima, per la forza che ci ha messo per trascinarmi qui. Alle mie spalle, vedo
il gorgo d’acqua che è l’ingresso del pensatoio.
Se corressi, magari ci arriverei… e lui mi riporterebbe qui. Non c’è
altra soluzione.
Che diamine vuole ancora da me?
Girandomi a guardarlo, lo vedo immobile e fermo, rilucente d’argento
come un pensiero, esattamente come me. Sono dello stesso splendore opalino
anche le mie mani che allungo oltre il mio corpo. Draco è serio, impassibile,
la sua mano nella mia invece è di ghiaccio. Inizia a
camminare, velocemente, sapendo perfettamente dove portarmi.
Mi chiedo ancora perché sta facendo tutto questo.
Non lo vuole fare, è evidente, ci sta soffrendo, la sento la tensione
nella sua mano… eppure, pensa che sia necessario. A cosa?
Perché dover condannare entrambi a questo inutile dolore che poteva
risparmiarci?
Mentre camminiamo velocemente, riesco a gettare solo brevi occhiate
nelle stanze attorno a noi, mentre superiamo corridoi e saliamo scale.
Una luce calda ed ambrata da una camera
socchiusa. Porta di ciliegio dai riflessi dolcemente rossi.
Ci guardo fugacemente dentro.
Narcissa Black Malfoy guardò
delicatamente il figlio, i suoi occhi azzurri scintillarono per un attimo dal
riflesso dello specchio di fronte a lei.
Poi si spensero così come si erano accesi
e volse lo sguardo altrove, riprendendo a spruzzarsi del profumo. Odore di
rosa. Passò una mano nei lunghi capelli biondi, annodandoli poi in una crocchia
severa sulla nuca.
Sembrava molto più grande dei suoi pochi
anni, sguardo vecchio dietro le palpebre lisce come petali di fiori.
Draco la chiamò leggermente, le guance
rosse per l’indignazione, il viso infantile buffamente piegato in una smorfia
di disappunto: “Madre, mi stai ascoltando?!”.
“Anche se Potter non è voluto diventare
tuo amico…” commentò con voce strascicata Lady Narcissa, voltandosi verso il
figlio “Non vuol dire che tu ti debba eccessivamente dolere per questo. Sarà anche una… celebrità…ma, in fondo, Potter è sempre un
Mezzosangue, e certa gente dovrebbe solo sentirsi onorata di poter camminare
dove noi passiamo…”, la sua voce eterea assunse un tono stentoreo mentre
aggiunse grave: “Vedi che non se lo scordi mai, Draco…”.
Il bambino biondo assunse un cipiglio molto più serio dei suoi undici anni scarsi e si
erse nel suo abito di velluto verde bottiglia, sicuro di cose che non conosceva
e non capiva fino in fondo, ma che erano dogmi inscindibili dalla sua persona,
incontestabili e incontrovertibili.
“Non accadrà
mai più, madre…”.
Credevo di aver
anche dimenticato che Draco aveva tentato di essere amico di Harry, al primo
anno, attirato dalla sua fama. E stranamente doveva anche esserci rimasto male
per il rifiuto subito da lui, incredibile. Continuiamo a camminare velocemente,
la smania di Draco di farmi conoscere la storia di Helena mi sconvolge e mi
rende nervosamente curiosa di guardarmi attorno. La mente di Draco è così piena
di cose che non conosco e che vorrei conoscere… ma è
soprattutto l’assoluta consapevolezza di non volerne sapere nulla di lui e di
Helena, e di esserci invece costretta, che mi fa indugiare oltre queste porte,
osservando con lentezza studiata i ricordi di Draco.
Una
porta scura, massiccia, di legno nodoso, con una maniglia avviluppata nelle
forme di un serpente d’oro.
Anch’essa
socchiusa, ne filtra una luce che potrei definire solamente… buia.
Stavolta non
riesco a vedere al suo interno, sento solamente delle voci.
“Padre, ma è bellissima!!”
una voce entusiasta ed acuta di gioia.
“Vedi di non farti soffiare la Coppa da Potter, adesso…”
una voce adulta e scorbutica, che cela con fatica orgoglio smisurato.
La voce di
Lucius Malfoy.
Lo ricorda
ancora, allora. Ricorda ancora i suoi genitori, sebbene dica sempre il
contrario. Sono sempre qui dentro, nel suo cuore. Come potrebbe essere
altrimenti, in fondo? Per buona parte della sua vita, ha avuto solamente loro.
Spio il suo viso con la coda dell’occhio, i suoi occhi
sono pieni di ombre minacciose, procede velocemente come se cercasse di tenere
lontani quei ricordi, palesemente contradditorio nel fatto di averli poi
conservati.
Accelera ancora
di più il passo, quando improvvisamente scorge una porta stavolta serrata,
piccola come la mano di un bambino. I suoi occhi si stringono rabbiosi e la sua
mano mi trascina con furia, eppure, passandole davanti, sento ugualmente delle
urla provenire dall’interno.
Mi si drizzano
i capelli sulla nuca, mentre riconosco una delle due voci.
Una voce femminile, resa acuta dalla
rabbia e dal livore. Odio filtra dalle sue parole, rendendole unte di
risentimento e di acredine. Eppure, non sembra colpita da questo, sembra… abituata.
“Sei davvero un idiota colossale, Malfoy!
Un idiota! Ti vedo piangere e non ti dovrei chiedere che diamine hai?! Fosse anche perché adesso per chissà quale discutibile
ragione, sei dalla mia parte…?!”.
“Io sarò da molte parti, Granger, ma non
sarò mai dalla tua, spero che questo ti sia chiaro…”. Velata da lacrime celate
e vergognosamente negate, la voce del ragazzo sputa fuori quelle parole con
astio.
Un tonfo di qualcosa che cade per terra.
“Cristallino, Malfoy… spero davvero che
ci lasci le penne in questa stramaledetta guerra!”. Porta sbattuta.
Un sospiro, colmo di angoscia. Parole
bisbigliate ad una stanza adesso vuota.
“Tranquilla, Granger… probabilmente sarà
così…”.
Eravamo… noi…
Draco si ferma,
improvvisamente, voltandosi verso di me. Lo guardo, sconvolta, stringendo la
sua mano nella mia e portandomi l’altra alle labbra.
“La notte a
Grimmuald Place…” mormoro più a me stessa che a lui “Quando ti trovai lì, da
solo… non ricordavo di averti detto quelle cose…”.
Sorride piano:
“Non importa… quello che c’è adesso, non cancella quello che siamo stati fino a
qualche anno fa…”.
“Mi dispiace…” mormoro autenticamente pentita, abbassando gli occhi.
La sua mano mi
risolleva il viso e, guardandolo, per un attimo, dimentico tutto quello che è
successo fino ad ora. Che sono nella sua mente, che sto per vederlo con Helena,
che ha lasciato che Astoria mi controllasse… che sono innamorata persa di lui… e mi perdo nei suoi occhi
meravigliosi.
“Non importa,
Hermione…davvero…” aggiunge convinto, trattenendo una mano sul mio viso
“Probabilmente ricorderai anche tu cose del genere, no?”.
Annuisco,
figuriamoci se non le ricordo…
“E
probabilmente saranno anche di più, conoscendomi…”. Sorrido leggermente, non staccarti mai da me.
Improvvisamente,
i suoi occhi, sereni, serafici e tranquilli, tornano specchi torbidi e si
stacca da me come se scottassi. Mi stringe di nuovo il polso con forza e
riprende a camminare, dopo aver detto frettoloso: “Non pensarci più…”.
Incespico,
seguendolo, chiedendomi ancora perché abbia tutta questa fretta.
Quello che c’è adesso… sapessi fino a che punto cosa c’è per
me, adesso…
Dopo qualche
passo, finalmente si ferma. Respira a fatica, ma non credo che sia per lo
sforzo, in fondo non ho fatto alcuna resistenza, convinta ormai come fossi che non
avrebbe fatto alcuna differenza. Tornano anche le lacrime nei suoi occhi, tira
su con il naso, cercando di fermarle. E allora capisco. Siamo arrivati.
Davanti a me,
c’è un portone immenso, devo alzare la testa per guardarlo fino alla sua
sommità. Decorato con dei motivi di rose, incise ed
intagliate nel legno chiarissimo, splendono di luce propria. Come molte altre
porte di ricordi nella mente di Draco, questo mastodontico portone sembra
inaccessibile, ma lo sembra molto più degli altri.
Prima di tutto,
per la sua dimensione… e poi per chiavistelli infiniti che ne chiudono la
serratura, grande come un mio braccio.
Lo soppeso con
lo sguardo in ogni particolare, accanto alla sua serratura, le rose si intrecciano in vario modo, formando in caratteri eleganti
le lettere H.J.G.
Sobbalzo, le mie iniziali… poi, con una punta di
delusione angosciosa, mi ricordo che sono anche quelle di Helena. Helena Jasmine Greengrass.
Una Greengrass…
ancora non ci avevo pensato… ma non erano solo in due? Astoria e Daphne? Chi è
allora questa terza Greengrass? Penso sempre che abbia a che fare con quel ramo
della famiglia, se non altro perché questo giustificherebbe la presenza di
Astoria, qui.
Ma,
allora, perché non ho mai sentito parlare di lei? E come me, nessun altro?
Magra
consolazione è che, tra poco, mio malgrado, saprò vita, morte e miracoli su
questa donna.
Draco fa un
solo incerto cenno del capo, e il portone enorme si apre cigolando. Mi trascina
ancora dietro di sé, stavolta cerco anche di fare resistenza e di chiamarlo per
fermarlo, ma senza successo. Ormai ha deciso e io,
poco, ci posso fare. Sì, come no.
“Malfoy!” urlo
con tutta la voce che mi ritrovo in gola, facendolo voltare ed
ansimando per lo sforzo di continuare ad ostacolarlo, puntando i piedi per
terra “Quale parte, esattamente, del mio discorso non ti è chiara?! Te l’ho
detto anche questo pomeriggio… non me ne frega nulla della tua vita, sono stata
chiara? O devo ripetermi ancora in modo che i tuoi neuroni recepiscano
il messaggio e facciano finalmente contatto?!”. Il respiro corto, lo guardo con
furia, sperando che interpreti i miei occhi lucidi come rabbia, e non per
quello che sono realmente. Sono dura, lo so, ma è davvero il solo modo che mi è
rimasto per salvare me stessa.
“Ti ho già
detto, Granger…” riprende lui con la mia stessa intonazione severa ed inflessibile “… che non lo sto facendo per te… ma solo ed
esclusivamente per me stesso. E che, dopo che avrai visto tutto, ti spiegherò
il motivo per cui lo sto facendo… sei sempre quella che ambisce alla verità, al
verbo assoluto, e ora ti tiri indietro?!Cosa c’è che non ti va esattamente?”, abbassa la voce e, per un
attimo, credo che voglia usare un tono di voce soffuso e malizioso.
Credo che fosse anche la sua di intenzione, mentre
socchiudeva gli occhi e mi guardava intensamente, accendendo gli occhi grigi. Ma invece, la voce che gli esce, è diversa.
Bassa, roca,
profonda e… triste. Gli occhi
continuano ad essere lucidi specchi di dolore.
“Che
c’è? Non riusciresti a
vedermi con un’altra donna?” mi sussurra.
Ci ha preso perfettamente.
Punta sul vivo,
ribatto sicura: “Non dire sciocchezze… non ne vedo solo l’utilità…”.
“Ce la vedo io l’utilità…tranquilla, le mie azioni
hanno sempre una motivazione, per quanto tu ne possa
dubitare…”.
Rassegnata, mi lascio
condurre passivamente oltre la soglia, convinta di aver esaurito gli argomenti
che potevo portare a sostegno della mia teoria. Spero solamente che non sia
stata una storia lunga, perlomeno nel tempo, e che non abbiano troppi ricordi
assieme. Che è la storia più importante
della sua vita, già lo so.
Oltre la
soglia, contrariamente alle premesse, non c’è niente di eccezionale. Un enorme
spazio bianco, delimitato da uno specchio sconfinato che si estende a perdita
d’occhio su un lato della stanza. Draco mi conduce davanti ad esso e,
sofferente, poggia una mano sul vetro freddo.
Lo specchio
reagisce al suo tocco, turbinando di luci, colori ed
ombre sconosciute, che iniziano a sbocciare in ricordi lontani davanti ai miei
occhi, socchiusi, inutilmente, per tentare di soffrire il meno possibile, da
quello che sto per vedere.
La guerra aveva avuto il pregevole dono di tirare fuori la
vera natura delle persone.
A quello, non riusciva a smettere di pensare Draco Malfoy,
mentre se ne stava seduto nell’ufficio deserto del Ministro, apparentemente
ipnotizzato da un arazzo che rappresentava, in colori accesi e in filigrana
d’oro, i nomi degli Auror che avevano perso la vita in quella guerra. Come ex
Capo del Dipartimento degli Auror, doveva essere sembrato doveroso per
Scrimgeour farlo realizzare; evidentemente conosceva molte di quelle persone i
cui nomi erano solamente tratti di fili colorati, pallida traccia di vita
dispersa nella cenere di quei giorni spezzati.
Draco chiuse le mani in grembo a pugno, chiedendosi se
poteva esistere, in chissà che luogo dimenticato da Dio, qualcosa di simile per
gli “altri”.
Chiamava sempre così i Mangiamorte, quelli che erano
dall’altra parte… come Tiger, Goyle, Nott, Zabini… i suoi vecchi amici… e come
sua madre e suo padre.
Come se, con quell’appellativo generico che definiva
lontananza ed estraneità rispetto a sé stessi, poteva
effettivamente chiuderli fuori dalla sua mente e dalla sua memoria.
E diventare finalmente il traditore che avevano
plasmato dalla sua carne e dal suo spirito.
Draco sollevò gli occhi umidi, guardandosi ancora attorno
con espressione impaziente, aspettando che il Ministro tornasse, dopo che lo
aveva lasciato nel suo ufficio da solo. I suoi occhi pigri si poggiarono sui
libri antichi, sui quadri sonnecchianti, sulle pile di fogli di carta sulla
scrivania, senza guardarli veramente. Aveva una sola cosa nella mente.
Quella guerra aveva avuto il pregevole dono di tirare fuori
la vera natura delle persone, Draco se lo ripeteva ostinatamente nella testa,
come un mantra.
Lui si era scoperto un traditore.
Del suo sangue puro, della sua famiglia, del suo stesso
essere che ribolliva ancora nelle profondità del suo spirito.
Perché lo aveva fatto? Era la prima volta che ci pensava
compiutamente.
Se glielo avesse chiesto un nome su quell’arazzo, avrebbe
risposto con una sequela di ridondanti parole come “giustizia”, “bene” e “coraggio”.
Ne avrebbe sentito il sapore pieno e avvolgente nella bocca, come latte caldo,
e se ne sarebbe saziato e dissetato. Avrebbe indorato ogni suo discorso del
loro gusto sconosciuto ed, in parte, ancora ostile. E
tutti ci avrebbero creduto.
Ma, se glielo avesse chiesto uno di loro,
degli “altri”? Che avrebbe detto?
Non avrebbe nemmeno risposto. Erano stati loro a
costringerlo a questo. Quindi, non aveva senso che glielo chiedessero.
Questa domanda, da loro, non sarebbe mai arrivata. Lo avrebbero ucciso, senza
parlare, era questa la sola cosa che avrebbero potuto
fare. E, per quello, non c’era vitale necessità di parlare. A
meno che non si volesse costringere la vittima anche alla tortura
mentale.
Ma, se anche glielo avessero chiesto e lui
avrebbe risposto, che cosa avrebbe detto?
E finalmente, con qualcuno, sarebbe stato sincero.
Solo pochi, in fondo, sapevano la verità su di lui… solo
pochi sapevano dell’origine del suo ravvedimento. Pochi. Gli altri si erano
limitati ad accettarlo con un’alzata sarcastica di sopracciglio.
Di stranezze ce ne erano anche troppe in quella guerra. E,
in fondo, forse tutti sapevano che la guerra mostrava la vera indole delle
persone. E la sua, bontà d’animo discutibile a parte, doveva essere lontana da
quella del Mangiamorte. Basta. Non c’era bisogno di complicate spiegazioni.
Ma essa, la spiegazione, invece c’era.
Sì, che c’era. E gli faceva schifo solo a ripensarci.
Quando era scappato da Hogwarts con Piton, dopo l’omicidio
di Silente, quando aveva visto la vita dei Mangiamorte da vicino, quando aveva
capito che cosa era…
Repulsione. Ecco cosa aveva sentito.
Sentiva sempre il sangue sulle mani, non si staccava mai,
sebbene le lavasse, sebbene non l’avesse versato lui.
Ancora.
Era secco, dolciastro, appiccicoso.
Nei ricoveri di fortuna con il suo professore di Pozioni,
mentre fuggivano, le sfregava con foga fino a renderle viola, nel suo giaciglio
umido e sporco. Ma quella sensazione non passava mai,
e lo disgustava. Immaginava ori ed incensi, ed invece
non riusciva a scordare gli occhi di Silente. Erano un tormento. Continuo,
eterno, inestinguibile. Una febbre.
Lo portarono a Malfoy Manor, in fin di vita, ormai, dopo
giorni passati alla diaccio, con quella febbre che nemmeno le cure di Piton
sembravano sanare. Continuava a salire, diventava fuoco progressivamente, lo
ardeva dall’interno, sciogliendolo come burro fuso. Nell’agonia, i pianti dei
suoi genitori, le parole di Silente “Uccidere non è nemmeno facile come credono
gli innocenti…” e grida e risa che lo tormentavano da quando era
bambino, incubo infantile a cui non aveva mai dato peso. Stava per morire e lo
sapeva, ma Piton trovò la cura. E fu peggio della
morte stessa.
Estrasse dei suoi pensieri dalla sua mente, in un barlume
di lucidità glieli mostrò. Il martirio dei Paciock a cui
aveva assistito quando aveva pochi mesi. Ad esso, ora
si era aggiunto il ricordo dell’omicidio di Silente.
Non era una febbre fisica, era una febbre
mentale, causata dal rimorso che nemmeno lui sapeva riconoscere come tale.
La cura era semplice. Draco non poteva essere un
Mangiamorte. Doveva essere libero. Probabilmente sarebbe morto, in caso
contrario. Piton lo sentenziò con serafica calma alle sue orecchie incredule.
Quella era una condanna, la medicina che, come malefico
assenzio, gli era stata prescritta.
Draco obiettò con voce flebile che sarebbe passata, che forse
era solo debilitato per il viaggio, che lui se ne fregava dei Paciock e di
Silente. Non gli credettero. Credettero a Piton.
Potevano proteggerlo, potevano nasconderlo a Voldemort,
potevano semplicemente farlo stare lì e, sebbene ora fosse inutile, usare la
sua salute cagionevole come spiegazione ineccepibile
per la sua mancata partecipazione alle missioni dei Mangiamorte. Invece no…
Lo vendettero. Al nemico.
Fu Piton a suggerirlo, servivano Mangiamorte esperti e lo
barattarono con gli Auror, convincendoli che Draco fosse il vero assassino di
Silente, e quindi una preda d’eccellenza. In fondo, senza Potter, nessuno
poteva smentire quella versione; fino a quando, poi, avessero violato la sua
mente, sarebbe passato del tempo. E ormai la proficua transazione sarebbe già
avvenuta.
I suoi genitori non fecero nulla, forse pensando che
sarebbe stato più al sicuro così. Il silenzio pesò come una lapide su di lui.
Volevano salvarsi, e quindi lo dovevano sacrificare. Il Signore Oscuro, convinto dal discorso di Piton, lo trovò un
modo assai efficace per rendere utile uno che era così debole da non servire a
nulla.
Febbricitante, morente, fu consegnato ad
un Dissennatore che lo portò su un lago deserto. Al largo, in mezzo alla
superficie liscia come petrolio dello specchio d’acqua, avvenne lo scambio.
I suoi non erano venuti, c’era
solo Piton. Lo gettò di malagrazia su quella bagnarola e gli disse solamente,
freddo: “Sentiti di vivere come meglio preferisci… è
il solo modo per restare in vita, per te…”.
Inutile. Bollato come tale e condannato. Non serviva più a
niente. Nemmeno ai suoi.
Gli Auror lo torturarono, per farlo confessare. Ovviamente
nella sua mente non c’era la confessione dell’omicidio. C’era solo il ricordo
dell’AvadaKedavra di
Piton.
Ulularono come lupi feriti quando capirono l’inganno, lo
abbandonarono in una cella polverosa a Grimmuald Place. Marciva lì, sempre più
debole, ormai prossimo alla morte.
Quando tornò Potter, Lupin, il solo che lo aveva trattato
decentemente, ricordandosi ogni tanto di dargli da mangiare, parlò con il
Prescelto. Di lui.
Gli proposero di fare il doppio gioco, quando si fosserimesso. Era il
soggetto ideale. Pieno di livore e odio per la parte che lo aveva rifiutato.
Non voleva. Aveva paura, sentiva che era prossimo a morire,
e ne era terrorizzato. Ma il pensiero di passare dalla parte di coloro che,
nella sua mente, lo tormentavano ed alimentavano la
febbre, iniziò a guarirlo.
Accettò.
Confusamente, capì che era il solo modo per restare in
vita. Come gli aveva detto Piton.
Tornò dai Mangiamorte ed era un altro. Forte, freddo,
severo, implacabile. Recitava. Nel cuore, portava il tradimento, come un frutto
acerbo ed immangiabile.
Andava alle riunioni, li sentiva parlare, li vedeva
distruggere ed uccidere… e si chiedeva sempre, nel
fondo dell’anima, perché non era stato degno di tutto quello. E, non trovandone
risposta, odiava.
Li odiava, odiava i suoi che non capivano il suo evitarli, odiava Voldemort. E quell’odio era la linfa del suo agire,
era la spinta a sapere e rivelare. Voleva
distruggerli. Dimostrarli che avevano sbagliato a sottovalutarlo.
Ricordava lo scambio, la cella, la fame, le torture, la
febbre continua… ed odiava sempre di più.
Era vendetta di un ragazzino viziato, ora lo sapeva. Dopo,
aveva anche pianto quando erano morti i suoi, in una notte a Grimmuald Place.
Anche se era inevitabile che morissero, e lo sapeva.
Anzi doveva anche ringraziare di non essere stato costretto
a farlo lui stesso… se le cose si fossero messe in altro modo…
Quel pensiero era stato come una rivelazione.
Solo in quel momento, aveva capito quanto fosse stato
inevitabile, quanto era entrato in una storia più grande di lui, quanto aveva
contribuito alla loro fine. Non se ne era nemmeno reso conto, preso dall’idea
della vendetta, come se le sue azioni non avessero dirette
conseguenze, come se le informazioni che passava non avessero aiutato poi
effettivamente gli Auror.
Lo aveva fatto per il suo scopo. Ferirli e colpirli. Ferire
e colpire coloro che lo avevano ripudiato.
E gli eroi lo avevano usato per i loro di scopi.
La guerra aveva avuto il pregevole dono di tirare fuori la
vera natura delle persone.
I suoi, per non incorrere nell’ira di Voldemort, lo avevano
abbandonato, augurandosi con un segno sulla fronte che si salvasse in qualche
modo, ma non preoccupandosi di come ciò potesse avvenire.
Gli Auror, Lupin, Potter, avevano scordato chi era, per
potersi garantire un’entrata privilegiata nei segreti del nemico.
E lui… traditore di sé stesso e
del suo sangue, per degli ideali che non avrebbe mai assimilato appieno.
Dopo poco, la guerra era finita.
Era sempre più confuso e disorientato e, ora come ora, anche consapevole che non aveva una vita lunga. I
Mangiamorte sopravvissuti lo avrebbero braccato ed,
infine, ucciso. Doveva sparire, cambiare vita.
In fondo, era come si sentiva di vivere… ed era il solo
modo di restare in vita, per uno come lui.
Ora, la mina vagante di quella guerra, il vero fautore
nascosto della sconfitta di Lord Voldemort, Draco Lucius Malfoy, aspettava di
avere il beneplacito del Ministero per ricominciare una nuova vita.
Per dimenticare. O perlomeno per provare a farlo.
Il Ministro tardava a tornare, mancava già da un’ora buona
e Draco era sul punto di andare via, scordare la burocrazia e fare di testa
sua, quando la porta si aprì con un cigolio metallico.
Nella stanza, entrarono tre persone: il Ministro, uno
scintillio ambizioso sul viso burbero e leonino, immediatamente seguito da
Potter, stanco e con i capelli spettinati, ed un uomo
alto, sulla sessantina, dalla barba castana ed occhi malinconici. A Draco
sembrava di conoscere quest’ultimo, eppure non riusciva a ricordare chi fosse.
Il Ministro si sedette alla scrivania, spostando le pile di
documenti per guardare Draco in viso, mentre Potter e l’altro si sistemarono ai
lati della scrivania. Potter sembrava esausto e, di tanto in tanto, sbadigliava
senza pudore; Draco presagì che doveva essere con lui che il Ministro aveva
parlato fino ad ora e si chiese che cosa lo aveva annoiato tanto.
Sperava solo, per la sua salute mentale e per la mascella
di Potter che rischiava di slogarsi a furia di sbadigli, che il colloquio si concludesse presto. Sospirò, aveva come la vaga impressione
che non sarebbe andata così.
Già, la posa plastica di quei tre glielo suggeriva,
evidentemente dovevano dissertare per ore sull’annosa
questione “Il destino del traditore Malfoy”.
Fu il Ministro a prendere la parola, per
primo: “Bene, Draco… abbiamo parlato a lungo della tua…”, si fermò a disagio,
schiarendosi la voce, prima di proseguire: “… della tua situazione…
comprendiamo che essa, al momento, sia abbastanza… difficile…”.
“Curioso eufemismo, la parola difficile…”
commentò sarcastico Draco, schioccando la lingua “Credo che sarebbe più
corretta la parola mortale… decisamente…”.
Per un attimo, Draco ebbe la sensazione che Potter avesse
trattenuto un risolino, ma, quando si voltò verso di lui, aveva ripreso a
sbadigliare come prima.
“Non essere esagerato, Draco…!” rise forzatamente
Scrimgeour, guardandolo con espressione di derisione “I Mangiamorte
sopravvissuti sono disperati e soli… non avrebbero nemmeno la forza di venire
ad attaccare proprio te… e comunque saresti protetto con tutte le cautele del
caso…”.
Draco inarcò un sopracciglio, scettico: “Ero convinto che,
alla fine della guerra, io avrei cambiato identità…
insomma, non sarei più stato più Draco Malfoy, o avevo capito male?”. Non aveva
capito male, assolutamente, i patti erano sempre stati quelli. Ora, per chissà
quale motivo, il Ministro doveva aver cambiato idea. Getto un’occhiata confusa
a Potter, prima di riscuotersi e mormorare sommessamente: “A questo punto,
potreste anche consegnarmi ad uno dei Mangiamorte e vi
liberereste in fretta del problema, no?”.
“Non essere esagerato, Malfoy…” ribadì
Potter, con aria di sufficienza, guardandolo dagli occhiali tondi “Saranno
prese tutte le precauzioni, gli Auror ti proteggeranno giorno e notte. Non vedo
perché dovresti cambiare identità… sarebbe un inutile
scocciatura anche per te, non credi?”.
“Questi sarebbero problemi miei, al massimo, non penso che
vi dobbiate curare delle mie noie eventuali…” la voce di Draco crebbe di tono e
di acidità, mentre rispondeva alla frecciata di Potter. Non capiva
dove voleva andare a parare il loro ragionamento e, soprattutto, che
utilità potesse avere per loro non fargli cambiare identità. Perché, di utilità
si parlava. Non poteva essere ovviamente il piacere della sua compagnia.
Evidentemente, serviva ancora a qualche misteriosa ragione
che lui restasse Draco Lucius Malfoy.
Il Ministro spostò a disagio il peso da una gamba
all’altra: “Amos ha garantito che ti darà un lavoro… e ti aiuterà a reinserirti
nella società… non vorresti fare almeno un tentativo?”. Il suo tono appariva
quasi implorante, e Draco si chiese ancora il motivo della sua insistenza.
Amos? Ma Amos chi? Improvvisamente, ricordò chi era
l’uomo accanto a Scrimgeour. Era Amos Diggory.
Non lo vedeva da quella notte, alla Coppa Tremaghi, quando
aveva pianto sul corpo del figlio Cedric, appena assassinato da Voldemort.
Era vistosamente invecchiato e
dimagrito, e ora lo guardava con una sorta di strana tenerezza e malinconia.
Gli diede quasi sicurezza quello sguardo, e si disse che
forse un tentativo lo poteva anche fare. In fondo, erano loro che dovevano
buttare soldi per proteggerlo, peggio per loro.
E, in fondo, restare Draco poteva anche avere i suoi
vantaggi. Non doveva di nuovo farsi un nome, una ricchezza, una casa.
Non era molto, ma almeno poteva ricominciare con una
posizione di vantaggio.
E, poi, nonostante tutto, sapeva che quello di cui voleva
liberarsi… la memoria… i ricordi… lo avrebbero seguito, anche se avesse
cambiato nome.
Alla fine, poteva anche farlo un tentativo... a conti
fatti, non aveva nemmeno la certezza che non lo avrebbero
scovato, anche sotto altra identità, e almeno così avrebbe sfruttato gli uomini
del ministero.
Orgoglioso come sempre, non disse sì, né a Potter, né al
Ministro.
Annuì silenzioso al solo indirizzo di Amos Diggory.
Natale era arrivato così velocemente che Draco nemmeno se
ne era reso conto. Guardando fuori dalla finestra innevata del suo ufficio,
quasi si sorprese di vedere le decorazioni natalizie, appese per le strade
della Londra magica. Sembravano inappropriate e inadatte, soprattutto
considerando che metà della città era ancora ridotta a macerie e cumuli di
polvere. Londra sembrava un pacchetto natalizio che andava in contro alla morte.
La gente ancora piangeva i suoi morti e seppelliva gli
scomparsi, e non aveva alcuna voglia di festeggiare; passava silente nelle vie
illuminate, indifferente al fulgore delle luci trillanti di festa dimenticata.
La guerra era finita da soli sei mesi, eppure sembrano già
passati due decenni. Draco sentiva addosso il peso dei
suoi pochi anni, come se fosse un centenario, e si chiese se sarebbe stato
sempre così.
Certo che sarà sempre così, si disse crudo ed onesto, distogliendo lo sguardo dai documenti su cui
stava lavorando e gettando uno sguardo in tralice all’Auror che stava davanti
alla sua porta, come guardia. Gli altri impiegati dell’Ufficio Regolazione e
Controllo delle Creature Magiche, passando, gettavano occhiate volutamente
distratte verso di lui, in realtà curiose rispetto all’uomo che godesse di una così forte protezione.
Come se non sapessero chi fosse… lavorava lì da mesi, oramai,
e perlomeno il suo nome dovevano saperlo.
A Draco, ogni momento, veniva in mente di alzarsi in piedi,
fare un inchino e di dire con espressione canzonatoria: “Eccomi, sono io, il
doppiogiochista Draco Malfoy…!”.
Ma dubitava che, anche in quel caso, avrebbero
smesso di fissarlo, cosa che lo mandava ai pazzi.
Voleva una vita quanto più isolata e solitaria possibile, ma invece il Ministro aveva trovato sommamente giusto per
lui che fosse costantemente posto su un palcoscenico ed osservato in ogni
angolazione.
Oddio, ad essere sinceri, avrebbe
potuto anche fregarsene di quello che gli aveva ordinato in modo così
supplichevole ed andarsene per la sua strada, rifiutando la proposta di lavoro
di Diggory e facendo come credeva, specie perché aveva capito che non era al
suo bene che il ministro aveva pensato con quella decisione, ma a qualcos’altro
che però ancora gli sfuggiva.
Insomma, era stato usato per l’ennesima volta, e per l’ennesima volta, aveva lasciato correre. Incrociò i suoi
occhi madreperla nel riflesso della finestra, si faceva schifo profondamente,
da un po’ di tempo.
Una sensazione nuova, decisamente.
Era sempre stato fin troppo orgoglioso di sé stesso.
Ora non ricordava che motivazione vi aveva trovato allora.
Era come se, da un po’ di tempo, avesse uno specchio
davanti a sé che lo mostrava per come appariva dall’esterno, dalla prospettiva
degli altri. Ma non altri qualsiasi… loro.
La guerra gli aveva reso più vicino il punto di vista di
persone come Potter, Lupin, Weasley o la Granger, e ora non riusciva a smettere di
guardarsi dai loro occhi.
Codardo.
Così, lo avrebbero dipinto, mentre ridevano nelle loro case
ornate d’oro e di rubino, scartando regali inutili e pulciosi.
Anche prima era così… anzi, non c’era stato un solo momento
in cui non fosse stato così, ma non gli era mai interessato. Figuriamoci,
l’interesse sarebbe stato un’onta incancellabile sul suo onore. Ed anche ora,
non era interesse… ma… qualcosa di diverso…
Inconsciamente, forse, aveva iniziato a pensare come loro,
a voler essere come loro. Schifo. Ancora. Essere dalla loro parte, gli aveva
fatto maturare la convinzione friabile ed assurda che
doveva essere come loro.
Era così, no, che doveva andare? Era uno dei buoni, adesso,
no? Doveva essere come loro? Ma non lo era. E non
voleva neppure esserlo.
Si dibatteva nel ribrezzo per quel desiderio e nel disgusto
per non riuscire ad attuarlo. Era nauseato da sé
stesso. Sempre alla ricerca spasmodica e continua di qualcuno che gli dicesse
cosa fare, in modo che, se avesse sofferto, se si fosse trovato male, poteva dare la colpa a qualcun altro, ma mai a sé stesso. Sempre
alla ricerca della patetica approvazione altrui, anche se proveniva da persone
che né stimava né apprezzava.
Sospirò leggermente, le luci colorate che si inseguivano nei suoi occhi sterminati, e ricordò con un
sorrido mesto l’enorme albero di Natale a casa Malfoy, che torreggiava in un
angolo del salotto, colmo di addobbi argentei e verdi, come era sempre piaciuto
a sua madre Narcissa, in ricordo di Hogwarts e della casata Serpeverde.
“E’ lì che mi sono sentita a casa, per la prima volta nella
vita…” aveva detto con un sorriso dolcissimo, l’unica volta che glielo aveva
chiesto.
Ora, gli addobbi giacevano nei sotterranei assieme
all’albero. Draco non li avrebbe mai usciti fuori.
Mai. Dubitava persino di passare il Natale a Malfoy Manor.
Forse, sarebbe andato adHogsmeade, a mescolarsi con la gente, bevendo fino allo
stremo con l’Auror che non gli avrebbe mai dato degli affettuosi auguri a
mezzanotte.
Aveva perso tutto, amici, familiari, tutto… mancava solo
perdere sé stesso. Esisteva per inerzia, faceva quello
che andava fatto, lavorava, mangiava e dormiva. Aveva persino una specie di
fidanzata, una ragazza bellissima e biondissima come lui, di nome Denise
Delacour, la cugina di Fleur. Ma, era solo sesso, un
modo urgente di rinfrescare la febbre che il corpo, ovviamente, dava.
Ma, anche con lei, non sentiva più. Non
amore, in fondo non aveva mai saputo compiutamente come fosse amare una donna,
e non ne sentiva nemmeno la mancanza.
Ma anche il sesso puro e semplice aveva
perso ogni attrattiva. Anche il piacere puro e semplice aveva perso ogni
valore.
Cosa restava, quindi? Nulla. Quindi, in definitiva,
forse aveva davvero perso anche sé stesso.
Una voce austera, ma al contempo gentile, lo riscosse dai
suoi pensieri: “Draco, sei ancora qui?”. Sulla sua soglia, in una lunga tunica blu scuro, sostava Amos Diggory, un sorriso
aperto e sincero sul volto.
Draco annuì, mentre l’uomo entrava nell’ufficio, salutando
distrattamente l’Auror che replicò con un cenno del capo.
“Pensavo che fossi già andato via…” mormorò l’uomo,
sedendosi alla scrivania con espressione assorta. Sembrava sul punto di andare
via, infatti era vestito e bardato di tutto punto per
affrontare la nevosa sera dicembrina, eppure se ne stava lì a chiacchierare del
nulla. Draco lesse nei suoi occhi castani, piccoli ed
acquosi, la voglia di parlare di… altro. Qualcosa di non
meglio identificato, ma di diverso dal semplice scambio di convenevoli tra
colleghi. Quell’uomo, stranamente, lo aveva preso in simpatia e Draco ne
era abbastanza sorpreso. Non era mai stato un ragazzo eccessivamente aperto e
socievole e, in questa nuova carriera, non si comportava in modo diverso.
Faceva il suo lavoro alla perfezione, sebbene non lo entusiasmasse, ma non
parlava mai con nessuno dei suoi colleghi, trascorreva le pause pranzo nel suo
ufficio, arrivava prima di tutti e tornava a casa più tardi degli altri, per
evitare di stare troppo nel suo maniero deserto. Il suo solo compagno era
Anthony Goldstein, la sua guardia personale. Ma
nemmeno con lui parlava.
Figuriamoci… si erano trovati antipatici anche ad Hogwarts, lui era anche un patetico Corvonero… e ora
nulla della loro frequentazione forzata, poteva suggerire che tra loro si
instaurasse un rapporto diverso.
Eppure, Amos Diggory ostinatamente cercava un contatto con
lui, nella maggior parte delle volte, respinto con decisa cortesia.
Draco rifletté che forse gli ricordava suo figlio, Cedric,
e il fatto che lui adesso fosse orfano, magari suscitava in lui un moto di
affetto. Chissà, tutto poteva essere… a Draco tutto sommato,
nemmeno stava antipatico.
Era un uomo burbero, autoritario, ma
onesto e diretto nei modi. Aveva anche quella patina di nobiltà, datagli dalla
purezza del suo sangue e dall’orgoglio per la sua casata, ma non la ostentava,
se non in particolari occasioni. Ed, anche allora,
sembrava così profondamente ferito dall’idea che non ci fosse nessuno a
continuare la sua stirpe, dopo la morte del suo unico figlio, che il suo amor
proprio ripiegava su sé stesso, afflosciandosi senza forze. Il contrario di suo
padre Lucius, insomma. Se mai questo possa essere considerato un difetto, si
disse mentalmente Draco con sincerità.
Lucius aveva venduto suo figlio, perché inadatto a reggere
il fardello del suo cognome. Amos aveva perso un figlio che era in grado di
portare quel peso in modo impeccabile.
Ironia della sorte.
Draco scrollò le spalle in silenzio, spostando senza
attenzione particolare una boccetta d’inchiostro sulla sua scrivania, evitando
lo sguardo di Amos.
Poi, visto che il silenzio
proseguiva e che stranamente oggi lo metteva a disagio, replicò annoiato: “Non
mi ero accorto dell’ora…”.
Amos annuì pensosamente, guardandolo ancora, poi, in un
sussurro quasi imbarazzato, chiese: “Cosa farai a
Natale, Draco?”.
Draco si sorprese della sincerità della domanda e di come
gli era stata posta senza preamboli. Tipica caratteristica di Amos, andava dritto al sodo. Ancora, al contrario di suo
padre, che macchinava per ore prima di palesare le sue reali intenzioni.
Spalancò gli occhi per un secondo, un attimo fugace ed
impercettibile che nemmeno l’uomo di fronte a lui colse, per come era stato
repentino.
Diffidenza manifesta socchiuse ancora il suo sguardo, era arrivato a fare così pena il giovane rampollo dei Malfoy?
Tra poco, anche Potter gli avrebbe fatto l’elemosina?
Schifo.
Ancora.
Con orgoglio, sollevò il mento appuntito e disse fiero:
“Non lo so, non credo che il Natale sia mai stato una delle mie somme
preoccupazioni, ed ora, meno che mai… sa, quando
rischi di morire ogni giorno, queste cose passano in secondo piano…”. Aveva
sputato fuori quelle parole come veleno, guardando Amos dritto negli occhi con
una durezza che non era destinata a lui, ma che da lui passava per il solo
fatto di essergli davanti in quel momento. L’urgenza di fare qualcosa e di
placare il nervosismo nelle mani, lo spinse a spostare ancora la boccetta
d’inchiostro, senza un motivo apparente.
“Capisco…” disse pensosamente Amos, non turbato dalle parole
del ragazzo e tantomeno dal suo tono. Appariva solo… concentrato.
Alla fine, parlò con voce leggera e apparentemente casuale,
anche se i suoi occhi si erano velati per un secondo. Ma anche quell’attimo, come era successo prima per Draco, fu così rapido che il suo
interlocutore non se ne accorse neppure: “Anche per me, il Natale non è una
grande occasione… anzi… credo di odiarlo profondamente…”. La sua voce si era
fatta dura, come pietra, e Draco imbarazzato si chiese perché tutta quell’ansia
di sfogarsi gli fosse venuta proprio con lui.
Si sentì in dovere di dire qualcosa, anche se non si sapeva
spiegare questa urgenza. Aggiunse
ovvio, in tono casuale: “Ma lei ha ancora una moglie, no? Immagino che almeno a lei piaccia il Natale…”, deglutì prima di
continuare: “A mia madre, piaceva il Natale…”. Era la prima volta dalla
loro morte che nominava i suoi genitori.
Amos parve accorgersene e sobbalzò lievemente, poi proseguì
con un sorriso mesto: “Certo, Draco, alle donne il Natale piace molto… sembrano
punte da un’ape all’inizio di Dicembre, ed iniziano ad
infiocchettare, impacchettare, incartare, ornare… una donna in casa aiuta a
sentire l’atmosfera, ecco… a mia moglie piaceva molto…”. Ancora i suoi occhi si
velarono e stavolta Draco, con una fitta di nervosismo, se ne accorse.
Si mosse sulla sedia, ancora chiedendosi perché stava
sostenendo quella conversazione assurda proprio con lui, e chiese
titubante: “Non le piace più il Natale adesso?”.
Amos sorrise tristemente, voltando il capo e guardando
oltre la finestra. Quando parlò ancora, la sua voce era un tremulo sussurro,
sembrava che non provenisse da lui per come stonava con il suo aspetto fiero e
caparbio.
“Credo che a mia moglie piaccia ancora, dovunque ella sia… e scommetto che fa l’albero con Cedric, aspettando
che io un giorno li raggiunga…”.
Draco tremò a disagio, ricordandosi improvvisamente che
aveva sempre saputo che Daisy Diggory era morta qualche anno prima, consumata
dal dolore per la perdita del figlio.
Un’altra cosa che non avevano in
comune i Diggory con la sua di famiglia, annotò mentalmente con uno spasmo.
Eppure, aveva sempre sentito i colleghi di Diggory fare
sempre delle battute su sua moglie che lo aspettava a casa, sul fatto che Amos
fosse molto fortunato, dandosi di gomito, alludendo al fatto insomma che fosse
indiscutibilmente viva… avevano un raccapricciante senso dell’umorismo o cosa?
“Pensavo che sua moglie fosse viva, mi scusi…” replicò
Draco con voce flebile “Devo aver capito male…”.
Solo allora Amos sembrò ricordarsi di
qualcosa e si grattò la guancia con espressione distratta: “Ma certo, sì, sì…
mia moglie è viva…”, vedendo l’espressione confusa e disorientata di Draco,
replicò quasi divertito: “Ho un’altra moglie, adesso, mi sono risposato qualche
anno fa… per questo devi aver capito male, Draco…”.
Draco annuì, comprendendo infine, mentre Amos proseguiva:
“Diciamo che però la mia seconda moglie non ha la vocazione della brava donna
di casa… quindi l’albero era l’ultimo dei suoi pensieri… quando glielo ho fatto
notare, ha scrollato le spalle e l’ha fatto fare ad un
elfo domestico…”.
A Draco venne curiosamente da sorridere, di cuore, come non
faceva da tempo, all’idea dei battibecchi tra Diggory
senior e la sua nuova moglie. Se ne sorprese alquanto, specialmente perché non
ricordava più il momento in cui aveva davvero riso, sembravano passati secoli…
come quello in cui aveva pianto, per dirne una. Esattamente come se fosse
morto.
Anche Amos sorrise a sua volta, aveva una risata sempre
malinconica, mai eccessivamente ilare o spensierata.
“Se stasera sei libero, potresti cenare a casa nostra…”
proseguì Amos con voce più chiara “Mi farebbe piacere presentarti mia moglie…”.
Draco fu ancora colpito dalla schiettezza della domanda.
Per un attimo, pensò di rifiutare, l’apatia di quei giorni che si era attaccata
come una patina ostinata alla sua voglia di fare qualsiasi cosa. Se avesse
accettato l’invito di Amos, avrebbe dovuto fare conversazione, sorridere in
modo sciocco ai commenti della moglie, mangiare con appetito quello che era stato
preparato e mantenere un aspetto decoroso ed elegante.
E lui non aveva intenzione di fare niente del genere.
Immaginava già il suo letto, la calda vestaglia di seta
nera, il bicchiere di Firewhisky che lo aiutava a dormire, lo scenario cupo e
sinistro che si vedeva dalla sua camera del Malfoy Manor.
Poi, ripensò che in fondo, anche domani sera, il letto, la
vestaglia, il bicchiere e la finestra sarebbero stati al loro solito posto. Ed
anche la sera dopo. E la sera dopo, ancora. Schifo.
Quindi, un po’ di diversità poteva anche
concedersela.
Annuì silenziosamente, accettando così la proposta, ed Amos ne parve oltremodo contento e sollevato.
Uscirono entrambi nell’aria fredda della sera, aveva
iniziato di nuovo a fioccare, e la neve cadeva silenziosamente, avvolgendo
tutto in una quiete che donava pace. Draco ed Amos
continuavano a camminare in silenzio, ognuno profondamente perso nei suoi
pensieri e ragionamenti. Non erano realmente soli, attorno a Draco si vedevano
chiaramente Auror appostati dietro ogni angolo, oltre ad Anthony Goldstein che
li seguiva a breve distanza. Ad un tratto, Draco si
fermò, suscitando la curiosità di Amos che lo guardò senza capire, fermandosi a
sua volta.
I sensi acuiti dalla guerra ed
attutiti dalla pace, tornarono vivi a farsi sentire in Draco. Sentiva
distintamente di essere seguito, e non dall’Auror. Ma…
da qualcun altro. Le sue orecchie sensibili avevano captato un rumore nella
neve fresca, un passo insolito che non era tipico degli Auror. Si guardò
attorno, eppure la strada era deserta.
Goldstein raggiunse Draco velocemente, la bacchetta
sguainata, dando un segnale a qualcuno degli altri Auror che li circondavano:
“Malfoy, cosa c’è?”.
Draco scosse il capo, doveva esserselo immaginato. Dovevano
essere stati gli Auror.
“Nulla” negò, riprendendo a camminare “Devo essermelo
immaginato…”.
“Cosa?” insistettero sia Amos che
Anthony, seguendolo di gran carriera, ma Draco non rispose. Se Amos smise di
parlare, Goldstein insistette: “Se hai questa sensazione, magari c’è davvero
qualcuno…forse dovremmo avvisare il Capo…”.
Draco rise leggermente, divertito: “La Granger? Ma per favore…
come minimo, me la ritrovo alle costole… sei già abbastanza insopportabile da
solo, Goldstein senza che si aggiunga anchela Granger…”.
Il ragazzo, offeso per il commento fatto nei confronti del
suo superiore, tacque innervosito, suggerendo solo ai due di Smaterializzarsi e
di non continuare la loro “passeggiata” per maggiore sicurezza. Draco con un
lieve sospiro, afferrò il polso di Diggory mentre quest’ultimo scompariva in un
piccolo “pop”.
Si ritrovarono in un salotto, abbastanza grande,
completamente illuminato da un lampadario di cristallo enorme che scintillava
di luce, creando riflessi arcobaleno sulle pareti, sui quadri, sui mobili,
sulla libreria piena zeppa di libri antichi. Sia Draco che
Goldstein, smaterializzatosi subito dopo di lui, guardarono la stanza rapiti.
Non era uguale al salotto del Malfoy Manor che era di
dimensione doppia, rispetto a quello, eppure aveva qualcosa in più che Draco non
riusciva bene ad identificare.
Amos, non appena entrò, accarezzò distrattamente la tela di
un ritratto che rappresentava una donna sulla cinquantina, seduta in una
poltrona, con un vestito cremisi. Accanto a lei, in piedi, un giovane alto,
dalle spalle larghe e dagli occhi chiari ed aperti. Amos disse solo con voce fioca: “Ciao Daisy. Ciao Cedric. Sono tornato a casa…”. I due sorrisero ed
agitarono la mano calorosamente.
Draco si strinse nelle spalle, quasi a disagio. Si chiese
come facesse la moglie attuale di Diggory a vivere con quel ritratto in casa…
curiosamente, gli venne da sorridere, ricordando quel libro babbano “Rebecca,
la prima moglie”, dove la nuova compagna di un ricco facoltoso doveva convivere
con il ricordo asfissiante della prima consorte del marito.
“Helena!” chiamò Diggory a gran voce, evidentemente
all’indirizzo della moglie che non era in salotto. Poi proseguì, spazientito,
verso Draco: “Chiedo scusa per mia moglie…credo che sia di sopra, ma scenderà
tra poco…”.
Draco agitò la mano per dire che non importava. Helena… che
strano, sembrava di aver già sentito il suo nome…
Come se Amos l’avesse letto nel pensiero, disse con voce
casuale, sedendosi su una poltrona ed invitando i suoi
due ospiti a fare altrettanto: “Dimentico quanto io sia vecchio… e quanto
Helena invece sia giovane… siete quasi coetanei, probabilmente la conoscete…”.
Coetanei? Si chiese Draco meravigliato. Si era aspettato una donna abbastanza
grande, più o meno sulla cinquantina. Hai capito, Diggory…
“Come si chiama? Sua moglie,
intendo?” chiese Draco curioso.
“Helena Jasmine Greengrass…” rispose Amos, sistemandosi
meglio sulla sedia e chiamando un elfo domestico per far servire da bere.
“Greengrass?” si interrogò Draco
“Pensavo che le Greengrass fossero due… Daphne ed Astoria… a meno che non sia
di un altro ramo della famiglia…”.
Amos negò con il capo: “No, Helena è proprio la sorella di
Daphne ed Astoria, la primogenita dei Greengrass…
immagino che non l’abbiate mai incontrata ad Hogwarts, effettivamente portate
qualche anno di differenza…”. Draco annuì, effettivamente non
ricordava assolutamente una terza Greengrass. E due erano più che
sufficienti: Daphne era acida come un limone ed
Astoria era appiccicosa come la colla.
Era innamorata di lui dal terzo minuto in cui aveva messo
piede ad Hogwarts. Ed era decisamente
seccante.
Non c’è due, senza tre… Draco, con
un roco sospiro, rimpianse il letto, il bicchiere, la vestaglia e la finestra
che aveva sconsideratamente rifiutato, ignaro della prospettiva di conoscere
una nuova Greengrass.
“Eccola…” disse Amos, alzandosi ed
indicando la scala che portava al piano superiore.
Anche Draco si alzò, osservando a lungo la donna che stava
entrando. E rimase a bocca aperta. Era la donna più bella che avesse mai visto.
Helena doveva avere sui
ventisette, ventotto anni, ed era alta come tutte le Greengrass. Anche le linee
del volto, sottili ed eleganti, assomigliavano molto a quelle di Daphne ed Astoria, compresi gli occhi azzurro cielo e i capelli
chiari. Eppure, dopo un esame superficiale, Helena appariva molto diversa dalle
sorelle.
Daphne aveva un volto affilato, duro, spigoloso,
esattamente come il suo carattere. Gli occhi erano allungati, come quelli di un
felino, e di un colore frammisto tra il verde e l’azzurro. Sembravano un mare
in perpetuo moto ondoso, una tempesta capace di annegarti ed
ucciderti all’istante. Aveva inoltre lunghissimi capelli biondo platino, lisci,
ed incuteva timore con la sua sola presenza. Si curava
fino allo stremo, indossava vestiti raffinati e si truccava molto. Astoria era
molto simile a Daphne, forse solamente gli occhi erano diversi, più intensi,
sul blu oltremare. Ma per il resto, sembrava la sua
sorella gemella.
Helena invece non assomigliava a nessuna delle due. I suoi
capelli erano ondulati e di un colore più caldo dell’algido biondo delle
sorelle, castano dorato. Gli occhi splendevano come due turchesi sul bel volto
a forma di cuore, ed assomigliavano ad un chiaro cielo
primaverile. Nonostante inoltre un elegante vestito di broccato color glicine ed una parure di gioielli di ametista, non era
eccessivamente truccata.
Possedeva una perfezione che non aveva bisogno di ulteriori artifici per metterla in mostra.
E contrariamente alle sorelle, aveva anche un meraviglioso
sorriso. Partiva dagli occhi, insolente, e poi riempiva di luce le labbra rosa.
E, ora, quel sorriso era tutto per Draco Malfoy.
Draco si accorse di essere rimasto a bocca aperta, mentre
lei vezzosa aveva allungato la sottile mano affusolata verso
di lui per presentarsi. Su di essa, brillava molesto un anello con un diamante ed una piccola fede di platino. La moglie di Amos Diggory.
Draco si affannò a prendere la mano nella sua, un brivido
sulla schiena, e a replicare affrettato: “Sono Draco Lucius Malfoy…”.
Lei sorrise ancora e rispose: “Helena Jasmine Greengrass”.
Mi stacco dal vetro come se
scottasse.
La donna che sorride dall’altra
parte del vetro, ha appena detto di chiamarsi Helena Jasmine Greengrass. Non dovrei averla mai vista.
Ed invece io
conosco il suo volto a memoria.
La donna che sorride dall’altra
parte del vetro, indimenticato ed indimenticabile
ricordo, è stampata a fuoco anche nella mia mente.
La
donna che sorride dall’altra parte del vetro è Rachel Leigh.
Cassie is back again!
Chissà se con vostra gioia o dispiacere! Reduce da un esame che mi ha fatto
anche perdere la salute, oltre che quel poco di sanità mentale che possedevo,
posto un nuovo chappy! Non so se vi piacerà oppure no… nel senso che è la prima
volta che mi cimento con i pensieri di Draco ed
insomma è abbastanza complicato gestirlo! Il mio intento è sempre quello di
cercare di lasciare un Draco fedele all’originale della Rowling, e non di
renderlo un superuomo, come appare in molte fic,
nessuno me ne voglia a male… Draco non è propriamente un uomo coraggioso, è un uomo che subisce passivamente gli eventi e questo l’ha
fatto, per buona parte della sua vita. Quindi anche la
circostanza del suo tradimento, non volevo che risuonasse forzata. Non me lo
vedo proprio uno che improvvisamente si ribella e cambia le idee che aveva per anni… mi suonava più convincente, conoscendolo,
che le avesse subite. Poi ovviamente cambierà ancora, diventando il Draco che
adesso state conoscendo… ma per quello credo che
avrete già intuito, che avrà una grande parte Helena.
Poi, ovviamente, questa è la mia esclusiva interpretazione…
fatemi sapere che cosa ne pensate!
Come avrete notato, il flash back non è finito… il capitolo
stava venendo troppo lungo e quindi ho preferito spezzarlo per aggiornare prima…
sennò avreste dovuto aspettare altri tre mesi!:D
Inoltre, si è aggiunto un sottotitolo… per lo scorso chappy, “The nameofeverything”.
Per questo, avete letto invece “Ceruleaneyed girl” e si riferisce ovviamente ad Helena. Significa,
press’a poco, “Ragazza occhi cielo” e in questo mi ha
ispirato la meravigliosa canzone di Loredana Errore di Amici che si chiama
appunto così… e che insomma mi ha fatto pensare ad Helena.
Come sempre, vi metto il link
qualora la voleste ascoltare…
http://www.youtube.com/watch?v=ecZaGq09c0A
Colgo anche l’occasione per ringraziare il forum Neverending story awards!
Have a littlefairy tale, infatti, nell’ottavo
turno ha vinto ben sei awards come Miglior
Personaggio Originale per Seth Green, Miglior Commedia, Miglior Storia
Incompleta, Miglior storia scritta esclusivamente dal punto di vista di un solo
personaggio e Miglior Personaggio Femminile per Hermione Granger… più Miglior storia in assoluto! Una cosa che mi ha decisamente commosso e sorpreso…quindi ringrazio ancora per
questo onore!!:D
Ringrazio ovviamente anche chi legge la mia storia, chi
visita il forum (in cui, ahimé, non riesco ad entrare per problemi tecnici…L) e chi la inserisce
nei preferiti o nei seguiti! Grazie!!!
Ringrazio anche in questa sede la mia amica Vittoria che si
è letta tutta la mia storia e che ora mi tormenta perché continui! :P
E un grazie particolare e
preliminare va a Seven, una persona meravigliosa, davvero, e che sono contenta
di aver conosciuto tramite HALFT…
In breve, purtroppo come sempre, ringrazio come sempre chi
ha recensito la mia storia: Haley James (grazie davvero tantissimo dei complimenti! Spero di
emozionarti sempre così! Baci), Liven (eheheheh! Sono contenta che la mia crisi a posteriori sia
stata apprezzata! Il dna dei Malfoy lo sto effettivamente subendo molto!! Purtroppo non sono riuscita ad aggiornare prima,
maledetto esame, almeno puoi comprendere il mio dolore profondo… ma diciamo
prima di quanto pensassi!! Baci), Seven (ovviamente
come ben sai, le tue recensioni sono sempre le mie preferite, davvero! Poverina
ci metterai delle ore…! Grazie ancora!!Ma tanto adesso comunichiamo internos, quindi mi dirai a
breve che ne pensi! Baci), Lights (mamma mia, grazie!
Effettivamente c’è molto di me dentro Hermione, ripeto la gente che mi conosce,
continua a dirmi che sono io… nevrosi comprese! Hai ragione perfettamente,
spesso mi dilungo troppo… mi raccomando quando sbaglio
fammelo sempre notare! Sul serio! Kiss!), Corvetta
(grazie, grazie, grazie! Spero che Draco ti abbia trafitto il cuore anche in
questo chappy!), Cygnus Malfoy (la mia cara Helder che sopporta le mie paranoie su come non sopporti Helena!
grazie! Baci), Rorothejoy
(bravissima, hai azzeccato parte dell’identità di Helena! Riceverai un enorme
cesto di frutta dono! Scherzo! Bravissima! Grazie!! Baci!!), Lunachan 62 (grazie dell’in
bocca al lupo per l’esame, per fortuna è andato molto bene! Kiss!),
Eruanne (grazie infinito! Anche
tu hai azzeccato la parentela di Helena con Astoria! E spartirai il cesto con rorothejoy! Eheheh!! Baci!!), Only
V (scrivimi tutti i poemi che vuoi! Scherzi??!! Io adoro
le recensioni lunghissime, vedere seven per credere! Hai fatto tante supposizioni, molte di esse esatte, ma
ovviamente visto che sto prendendo il dna dei Malfoy, non ti dirò quali!! Hai però
perfettamente inquadrato che Helena e Rachel fossero la stessa persona! Bravissima
e io che credevo di essere stata imperscrutabile…Lscherzo!!
E hai inquadrato un’altra cosa importante, e cioè la somiglianza tra Helena ed Hermione! Ora non è ancora venuta fuori, ma sarà un punto
importante! Come premio per la tua intuizione, ti ho dato questa bella
anticipazione!! E ho fatto anche la rima!! Baci!! E grazie!!!), TullyDomy
(benvenuta!!! Grazie dei tuoi complimenti, è uno dei miei intenti primari
rendere la mia storia non banale… di dramione ne
esistono a iosa quindi non è un’impresa facile! La frase finale di Draco è
effettivamente MOLTO cattiva, specie per Hermione, ma tranquilla! Poi recupererà!! Baci!!!), Baby Fairy (grazie, un’altra nuova lettrice, me felice!!! Anche tu
hai indovinato che Rachel ed Helena sono la stessa persona!!! Bravissima!!! Scrivimi
pure quanto vuoi, adoro ricevere delle recensioni anche lunghe!! Per vedere se
ci hai preso con la tua teoria, devi solo aspettare i prossimi chappy!! Grazie ancora!! Baci).
Capitolo 23 *** Forbidden colours part III - She's unreachable ***
NDA: In modo preliminare, stavolta procedo a ringraziamenti ed avvisi
vari
NDA:
In modo preliminare, stavolta procedo a ringraziamenti ed
avvisi vari!! IMPORTANTEEEE!!!!
Il primo di essi è un enorme scusa che chiedo a tutti per il ritardo di questo capitolo. So
che spesso lo dico, ma chi ha modo di contattarmi
via msn o tramite il forum, sa che questo è
stato davvero il capitolo più difficile che abbia mai scritto. Non a caso
è abbastanza lungo, e non a caso è arrivato dopo due mesi. La verità è che
il personaggio di Helena mi è stato ostico sin dall’inizio, non lo
sopporto e questo è strano, considerando che l’ho “creato” io e che,
invece, per altri personaggi originali come Hayden e Seth ho un’autentica
adorazione. Quindi scrivere di lei è stato una
pena assurda, non lo dico tanto per dire!
Il secondo di essi è un enorme grazie per chi segue ancora questa storia, chi la commenta e
chi mi segue costantemente aiutandomi e dandomi consigli. Mi riferisco a SevenedHelder, due
persone meravigliose che mi hanno aiutato in modo incredibile e che potete
considerare a tutti gli effetti, gli “editor” di
questa storia sgangherata. A voi, dedico questo capitolo per avermi
sopportato e supportato nella scrittura di questo capitolo, specialmente nei
miei scatti omicidi verso Helena. J Grazie, Grazie, grazie.
Il terzo di essi è una precisazione. Mi sono accorta, con mia somma preoccupazione,
di aver messo nella storia una serie di riferimenti
temporali spesso contradditori. Mi spiego… questa storia l’ho
iniziata a scrivere molto tempo fa, il settimo libro della saga non era
nemmeno uscito, per questo non mi è stato possibile nemmeno riscattare il
personaggio di Severus Piton. Questo ha
provocato che in molte parti ci siano delle contraddizioni:parlo per
esempio di Hermione, che era ancora Capo degli Auror, quando Harry divenne
ministro, mentre successivamente altri riferimenti temporali (specie in
questo capitolo) vadano a negare tutto questo. Dovrei sostanzialmente
cancellare tutta la storia, rivederla dall’inizio ed eliminare queste
contraddizioni tipiche di una storia che, come avrete capito, è in
continuo divenire, sebbene esista tutta nella mia testa (visto gli spoiler
che do sempre in giro specie alle mie editor!). Ma per ovvi motivi, questo richiederebbe troppo tempo e
procrastinerebbe la fine di questa storia. Non credo che sia un vostro
desiderio!!Quindi prendete
per buone queste contraddizioni, e non mancate eventualmente di farmele
notare. A breve, quando mi sarà possibile, metterò sul forum una tabella
temporale corretta che vi possa fare comprendere meglio tutto. Ed intanto cercherò di correggere e di ovviare come
posso. Chiedo sommamente scusa.
il quarto di essi è una specie di pubblicità che mi auto faccio a
questo punto! Allora, c’era qualcuno (al momento non ricordo chi) che mi
aveva espresso il desiderio di far inserire questa storia tra le scelte
del sito, ma non sapeva bene come fare… al momento esiste un metodo più
semplice che è quello di cliccare la voce Segnala per le scelte nel riquadro a sinistra, quarta riga,
della pagina di ogni capitolo, e di scrivere una recensione sul motivo per
cui questa storia dovrebbe essere inserita, a vostro parere, tra le
scelte. Ho avuto modo di dire a molti che è una cosa che io vorrei
fermamente che mi accadesse un giorno (me
speranzosa!!) ma ovviamente non posso costringere nessuno e sarò felice lo
stesso, anche se non accadrà!! Ma siccome mi era stato chiesto, almeno
rispondo così!! Stessa cosa se la vorreste
segnalare per il concorso del sito, aperto fino al 30 aprile, che vuole premiare
la storia con i migliori personaggi nuovi. La procedura è sempre la
stessa, ma si clicca sulla riga Vota questa storia per il concorso di EFP, 'Storia coi migliori personaggi originali (nuovi)'
[entro il 30/04]
A questo
punto vi lascio alla storia, non prima di aver ringraziato tutti coloro che leggono, commentano e recensiscono questa
storia!! Purtroppo oggi non posso ringraziarvi uno per uno, visto quanto tempo ho perso in questi avvisi!! Ma davvero
grazie, grazie, grazie.!!!
Un enorme bacio da Cassie chan!!
Capitolo
23 – Forbidden colours part III – She’sunreachable
Alle mie
personalissime e specialissime “editor” Helder e Seven con tantissimo affetto J
Semplicemente grazie…J
Draco ha la mano poggiata sul
vetro in un modo così delicato che è come se lo accarezzasse.
Mentre l’immagine di Helena,
dall’altro lato di questo specchio immaginario, è bloccata in questo raggiante e,
a suo modo, raggelante sorriso, Draco resta con quella mano aperta, sofferente,
freneticamente contratta sul volto di quella donna. E mi ricordi me, che accarezzo la tua spalla, colmandomi di un senso
che non mi darai mai.
Non sta piangendo, non più, e
forse per me sarebbe stato anche meglio che lo facesse.
Versare delle lacrime sembra
un’emozione così banale, umana, normale, attaccata al suo di dolore. Un dolore
che semplicemente non può piangere.
Si esprime solo nella sua testa
china, nei capelli biondi che gli coprono gli occhi chiusi, nella fronte
appoggiata al vetro, in quella mano che trema come se il suo stesso sangue
stesse gelando progressivamente, mentre cinge di effimero calore lo sguardo
ceruleo di Helena.
O di Rachel, o di come diamine si
chiama.
E io… nemmeno
io riesco a piangere. Come se fossi diventata come lui. Incapace di farlo. Dentro, mi sento implodere dal dolore, eppure
non riesco a piangere.
Riesco solo a fissare gli occhi
di Helena. Gli occhi di Rachel. Gli occhi di Serenity.
Quando credevo che lei non fosse
la mamma di Serenity, per il fatto che fosse babbana,
ero sollevata. Con lei non potevo
competere.
Ora, ce l’ho
di nuovo davanti agli occhi. Irraggiungibile.
La dea, ricoperta d’avorio, che sfavilla nel tempio del cuore di Draco.
…
e io sono quella che, supplice, arranco su una
scalinata infinita, chiedendo l’elemosina dell’amore che ha per lei.
Mi odio profondamente.
Sono disgustata da me stessa, una
schiava alla mercé di quest’amore esecrabile, per il quale oramai farei
qualsiasi cosa.
E, in questo, rientra anche
mettergli fraternamente una mano sulla schiena per cercare di calmarlo.
Come una sorella.
Mi si riempiono gli occhi di
lacrime.
Draco sgrana gli occhi, come se
tornasse di colpo da un pensiero tutto suo, e mi guarda come se mi vedesse
solamente adesso, come se si fosse scordato che c’ero. Tipico. Ora c’eravate solo te e lei. Lo
guardo sofferente, come se improvvisamente, in modo repentino, io abbia
compreso tutto.
Credo
che lei… non ti abbia lasciato. Non è una cosa umana a separarvi… credo che sia
la morte a tenervi divisi.
Lei…
Rachel, Helena… deve essere morta.
Draco si risolleva in piedi,
ergendosi in tutta la sua altezza, dandomi ancora le spalle. Lascio cadere la
mia mano lungo il corpo, mentre si volta, mormorandomi: “Scusami…”.
Come se
effettivamente avesse qualche valore chiedermi scusa, come se effettivamente
gli importasse. Solo un mero scambio di convenevoli e di educate banalità.
Chiudo gli occhi, respirando
profondamente.
Calma. Devo stare calma.
Quando gli riapro, replico senza
partecipazione: “Non è nulla…”.
Per qualche attimo, ho come
l’impressione che mi stia per dire qualcosa, il suo volto diventa più roseo e
sembra qualcosa di importante, i suoi occhi si velano
d’urgenza mentre mi fissa. Sbatto le palpebre, guardandolo a disagio. Non è
rabbia. Che cosa è? Sembra…triste. E
sembra… in colpa.
La sua mano si alza, come se mi
volesse afferrare… come se mi volesse portare via da
qui. Come se non mi volesse far vedere più altro.
Una smorfia, poi, gli contrae
dolorosamente il viso, ed è come se improvvisamente si ricordasse qualcosa. Il
senso di stare qui, credo. Che solo lui sa.
E l’attimo passa così come era arrivato. E scrolla il capo, affannandosi a dirmi
di avvicinarmi per continuare questo viaggio nei suoi ricordi.
“Perché?” chiedo con un filo di
voce, avvicinandomi a lui, cercando di mantenere gli occhi asciutti “Draco, io
non ho bisogno di sapere tutto questo… perché? Davvero… ti
prego…spiegamelo…adesso…”. Prendo fiato, sgomento ed
incertezza nei suoi occhi, prima che riprenda, la voce più sicura: “Continuerò,
se tu lo vorrai… ma spiegami…”.
Evapora la lieve tensione nei
suoi occhi, diventa di nuovo fredda raffica di vento che mi taglia il respiro.
“Ne ho bisogno
io.
E questo, per il momento, deve bastarti…” replica duramente, sollevando il
mento, e io mi irrigidisco sotto quello sguardo
gelato.
Poi la sua
espressione si ammorbidisce e mi sussurra: “Capirai… per favore, Hermione. Credici… e fidati se puoi…”.
Un brivido mi attraversa la schiena, scivolando sulla mia pelle, fino
alle gambe, e risvegliandomi per un attimo dal torpore che mi aveva preso.
Ansia convulsa nelle dita, mentre sento che qualcosa sta sfuggendo dalla
mia comprensione, una bolla di sapone che vola lontana da me, mentre cerco di
afferrarla. Iridescente nella luce del sole, la osservo andare via. Questa
frase… credici e fidati, se puoi… me
l’ha già detta una volta.
A Wonderland.
Non è un caso che l’abbia ripetuta, lo sento. Come non è un caso che mi
sia tornato in mente quel momento… mi abbracciò e mi disse che… cosa mi disse?
Credici… e fidati se puoi. È così… non
posso permettermi te, e non posso permettermi di
trattenerti qui. Non posso e basta, fosse anche che volessi tu
restare….
Mi porto stancamente una mano nei capelli, spossata, perché quella frase
mi è tornata in mente proprio adesso?
Mi sta sfuggendo qualcosa… lo sento. Come sento che, se mi sono
ricordata questa cosa adesso, vuol dire che aveva un qualche senso…
Diventa improvvisamente troppo tardi per una risposta.
Draco non aspetta che io dica niente, mi prende
per mano e mi trascina di nuovo davanti a quello specchio.
Davanti ai miei occhi, ora di nuovo liquidi di lacrime, fioriscono nuove immagini.
Draco Lucius Malfoy non aveva mai avuto niente di babbano. Mai.
Fino a quel momento. O forse no… non lo ricordava con esattezza.
Forse, fino a quel momento, Draco Malfoy non aveva mai effettivamente realizzato che c’era un mondo, un universo… come dire…
diverso… da quello in cui viveva e respirava quotidianamente.
Un mondo senza magia.
Non che non avesse mai saputo che cosa fossero i babbani, ci
mancherebbe. Ne era stato abbondantemente indottrinato. La prima volta che
gliene avevano parlato, era stato quando aveva sette
anni ed era stata sua madre.
Lo aveva guardato dall’alto della sua poltrona, nella luce vermiglia e
liquida del caminetto, aveva storto il naso sottile alla sua domanda. Poi aveva
preso fiato e gli aveva parlato del mondo dei babbani.
Con profondo disgusto, questo è chiaro, e chi mai non avrebbe potuto averne?
Certo, già sua madre gli disse che c’era chi non aveva disgusto per i babbani,
ma nel loro mondo era così.
Vigevano delle regole.
Ed era il disgusto che si provava davanti a quelle infime creature della
scala evolutiva.
Sua madre ne parlò poco, velocemente, lasciando sfuggire le parole come se bruciassero. E dopo capì il perché. Suo padre
la incenerì con lo sguardo, quando la sentì dirgli certe cose.
Draco, sollevando lo sguardo al cielo terso di quel giorno d’estate,
fissò gli occhi su un gabbiano che librava nell’aria salmastra e carica di
iodio. Era ancora troppo presto perché le spiagge aprissero, era poco dopo
l’alba e la sabbia era ancora ricovero di bivacchi e fuochi notturni che si
erano spenti al sole che sorgeva. Lontano, in un lido, solo un babbano
sistemava degli oggetti che, Dio solo sapeva, a che cosa servissero.
Draco poteva ammettere, almeno con sé stesso, che
quella volta, davanti a quel camino, mentre nevicava fuori, fu lui curioso, fui
lui che ne volle sapere di più da sua madre.
E lei gli aveva detto qualcosa sì, ma quella… donna… Narcissa, sua
madre… aveva sempre avuto la caratteristica di dire tutto e non dire niente in realtà. E la curiosità in lui cresceva.
Poi suo padre lo aveva preso come sempre da parte gli aveva parlato di
che consisteva davvero la vile razza dei babbani e dei mezzosangue.
E lui, sciocco bambino chiuso in un castello a guardare le montagne, aveva
sbagliato tutto. Aveva pensato a loro, ai babbani, in maniera assolutamente
anormale, pensava che fossero delle creature superlative perché riuscivano a
fare tutto senza magia. Non erano superlative, ma
patetiche, arrancavano nel deserto della vita costruendo cose che poi
arrivavano persino a danneggiarli.
In realtà, nemmeno suo padre fu così preciso nelle sue descrizioni, ma
le sue parole, il tono di esse, fu sufficiente a far
capire bene a Draco la portata della cosa.
Non ci aveva ripensato, non avendone nemmeno motivo, fino a quando non
vide i babbani ad Hogwarts e capì che erano
effettivamente diversi.
Vedere accanto, la
Granger e Daphne, per credere… era facile capire dove fossero
cresciute.
Quella che nella sua mente era una idea lieve
come una foglia, divenne del peso di una roccia, quando compì dodici anni.
Quando chiese dell’apertura della camera dei segreti,
durante le vacanze estive. Chiese la verità su quella camera e su chi aveva
avuto la meravigliosa, a suo dire, idea di aprirla per eliminare quella feccia
che contaminava Hogwarts. E suo padre, per la prima volta, gli parlò
dell’Oscuro signore.
Gli brillavano gli occhi.
Non aveva mai avuto quell’espressione, quegli occhi, quel viso, colmo
contemporaneamente di rabbia, di dolore e di trionfo, sembrava…
rifulgere… lo invidiò. Non lui, non suo padre che amava così
tanto quell’uomo che gli aveva promesso anni prima di oltrepassare i
limiti di ogni morte, ma quell’uomo stesso. Che aveva quell’ammirazione da
parte di suo padre, che guardava sempre lui con sufficienza.
E chissà quante altre ammirazioni di padri aveva…
Tornato in camera sua, aveva preso da sotto il letto
un libro. Lo aveva comprato un giorno, per caso, al Ghirigoro, a DiagonAlley.
Era un libro che gli ricordava
la sua infanzia, non lo aveva mai letto, lo aveva sempre attirato la semplice
immagine sulla copertina.
Un bambino
elegante ed impettito, dai vestiti raffinati e
seriosi, con intensi occhi chiari e capigliatura color del grano.
Anche… tu…
Gli somigliava, ne era stato colpito e lo
aveva acquistato.
Ma non l’aveva mai letto… la sola
volta che aveva provato a farlo… era arrivato uno schiaffo di suo padre. Prima
al libro che era volato dall’altra parte della stanza, e poi alla sua faccia.
Il primo gli aveva fatto decisamente più male.
Non ebbe il coraggio di raccogliere il libro per giorni, poi, tremante,
lo raccolse e lo nascose sotto il letto, come una reliquia preziosa. Giorni
dopo, balbettando, bussò alla porta della camera di
sua madre, con delicatezza. Entrò senza aspettare che lei
rispondesse, visto che anche lei era arrabbiata con lui, e le chiese: “E’ di un
babbano? Madre, quella storia… il Piccolo Principe… è
di un babbano?”.
Lei annuì leggermente, abbassando lo sguardo, terrorizzata da quelle
pagine inermi.
La abbracciò e le chiese scusa.
Eppure, il libro rimase lì. Sotto quel letto. Avvolto dalla polvere e
circondato di cianfrusaglie, ma sempre lì.
Quel giorno, a dodici anni, lo aveva ripreso. E bruciato.
Quando intimamente abbracciò anche lui la causa di Voldemort, non
servivano tatuaggi spaventosi, maschere argentate e mantelli neri. Ma solo quello. Il desiderio di essere anche lui il principe
di qualcun altro.
Essere considerato per qualcuno anche soltanto la metà di come suo padre
considerava il Signore Oscuro. E avrebbe potuto darglielo, lui, Voldemort. Dargli schiere di persone che
l’avrebbero davvero pensata così, che lo avrebbero idolatrato, che gli
avrebbero dato potere.
Questo, quando aveva dodici anni.
Prima che Voldemort tornasse, quando era ancora un fantasma rilucente
nelle memorie, non carne che bramava sangue e morte.
Quando la sua vita era cambiata.
Per sempre.
Ormai nemmeno se la ricordava più, la sua vita
prima di quel momento. Nonostante questo, nonostante il loro peso, quelle ere
glaciali adesso erano finite. Come ghiaccio che si ritirava, anche la parentesi
di vita di Voldemort recedeva dal tempo presente, lasciando artigli gelati
sulle loro vite. Sulla sua vita, che beninteso, non sarebbe stata mai più la
stessa.
Nell’alba, brillò improvvisamente un vestito celeste di raso, capelli dai
riflessi d’oro e una collana di perle chiare. Profumo di ciliegia, quel giorno
più intenso. Gli raggiunse il viso, soffiando nel fresco vento di tramontana.
Draco sorrise, agitando la mano lentamente verso la donna che veniva verso
di lui correndo. Un sorriso spontaneo, che partiva
dalla sua anima.
Un sorriso che aveva addosso da quando l’aveva conosciuta… a dicembre
sarebbero stati due anni.
Eppure… Draco si portò stancamente una mano al petto, cercando quasi di
serrare il cuore in una morsa che lo proteggesse. La sentiva ancora palpitare
quell’ombra nera, quella che si era insinuata in tutto quello che faceva e in
quello che faceva lei, che aveva raggiunto il respiro
e l’anima, entrando nel cibo, nell’aria, nei sogni, ristagnando sulle pareti,
trovando riparo negli arazzi ricamati, dormendo nei camini spenti.
La vedeva persino negli occhi dell’Auror, sempre Anthony Goldstein, che
sbuffava per quella levataccia mattiniera, poco distante da lui.
Era sempre lì. Gettò lo sguardo su Helena che si avvicinava. Lei,
ingenua, credeva davvero che se ne fosse andata? Credeva davvero che non avesse
già legato la loro vita, il loro destino?
Credeva davvero che d’ora in poi sarebbe tutto diverso per lei? Forse
anche per lui?
Sorrise ancora, mentre Helena si
sedette accanto a lui, sistemando il vestito celeste sulla sabbia, aprendolo
come se fosse una principessa, come faceva sempre. Sì. Già lo sa che lei lo
crede davvero.
Ed in fondo,
lei dalla guerra non era mai stata sporcata. Quindi,
le lasciava la sua illusione e sperava di godere un po’ del suo riflesso.
Helena guardò divertita,
ridendo, il gelato che Draco aveva nelle mani e che si stava inesorabilmente
sciogliendo, non ancora toccato da lui: “Guarda Draco che, anche se babbano,
non morde mica!”.
La sua voce, campanelle
d’argento.
Draco storse
il naso, guardandolo come se davvero potesse mordere: “Ma non potevamo andare a
DiagonAlley, scusami? Vai a vedere che queste cose babbane sono anche tossiche…”.
“Ma che
dici, Draco?” rise lei, dandogli una lieve gomitata nelle costole e mangiando
di gusto il suo gelato “Vivi troppo nel tuo maniero isolato dal mondo…
lasciatelo dire…”.
“E a me sembra che tu viva
troppo nel mondo dei babbani per essere una Greengrass…” commentò caustico
Draco, guardandola di sbieco. Lo aveva sempre pensato, sembrava sempre troppo
informata sul mondo dei babbani, ma non aveva mai espresso il suo dubbio a voce
alta. Helena, spesso, sembrava… strana, da questo punto di vista.
Le voleva bene, come non si
aspettava, ormai era come una sorella. Eppure, difficile negare che
quell’aspetto spesso lo inquietava.
Si aspettava che lei sbottasse
nervosa ed inorridita, ma Helena si limitò a sorridere
in un modo quasi triste, per poi replicare: “Hai ragione… i miei direbbero la
stessa cosa…”.
Draco si ritrasse a disagio,
mormorando sommesso: “Insomma, è un pochino… strana… come cosa…”. Gli sembrava
così ovvio.
“Se le cose le vedi sempre e
solo da un punto di vista, è chiaro che tutto ti sembri ovvio…” replicò lei
seria, fissandolo con i suoi infiniti occhi azzurri, come se lo avesse letto
nel pensiero. Come faceva sempre. A vederla, sembrava una deliziosa bambolina,
dalle guance rosee e dagli occhi circondati da ciglia nerissime e lunghissime.
Invece in lei, c’era un’altra anima, una donna profonda e riflessiva. Emergeva
di rado, illuminava i suoi occhi chiarissimi di sfumature cobalto di tristezza
e poi annegava nel suo sorriso luminoso ed accecante.
Improvvisamente ispirata,
allungò l’indice, attirando la sua attenzione su una casa sulla scogliera.
Draco seguì il suo dito, scorgendola.
La vedeva appena, era
completamente bianca e spiccava sulla scogliera in modo quasi insolente. A
spegnere un po’ quel nitore, provvedevano delle siepi di rampicanti dai fiori violetto.
Helena parlò
con voce sommessa: “Quella casa, per esempio… a me sembra bellissima, molto più
di quella di qualsiasi mago io abbia mai conosciuto…!”, lo disse con voce
argentea, allegra, come se fosse una cosa… ovvia… poi, abbassò la voce,
puntando i suoi occhi in quelli di Draco con franchezza: “… eppure è babbana…
cosa dovrei fare? Negare la verità? Essa è sempre la stessa… anche
se la neghi, Draco…”.
Il ragazzo improvvisamente si
sentì a disagio, sapeva di avere mille argomenti per obiettare alla sua
affermazione, permeati delle teorie ancestrali che i
suoi gli avevano sempre inculcato. Eppure, ora, l’assurdità della situazione
gli impediva di ricordarle degnamente… o forse… era solo
lei che gli faceva quell’effetto.
Era una bella donna… inutile
negarlo… ma non era solo questo…
In lei, c’era qualcosa… Che gli
faceva scordare tutto quello che era stato. Un tempo, l’avrebbe temuto… ora gli
faceva quasi piacere.
Poteva essere tutto quello che
voleva. E persino quelle cose che erano rimaste delle certezze in lui, si
sgretolavano come sabbia nel vento.
Addentò con sospetto il gelato,
sporcandosi anche il naso di fragola, mentre Helena rideva indicandolo. Evitò
di risponderle male, e se ne sorprese ancora.
Guardandola da vicino,
stranamente gli provocava una calda sensazione di tenerezza, come un formicolio
caldo dietro la nuca.
Sembrava una bambina. Aveva la
pelle liscia e profumata di ciliegia, sembrava un frutto invitante, da mordere…
Draco scosse il capo, ma che
diamine pensava???!! Helena lo guardò non capendo,
inarcando un sopracciglio, e quindi Draco si affrettò a riprendere a mangiare.
Lei era solo una sua amica…
certo, era strano per lui avere un’amica. Ma si erano
subito presi in simpatia, da quella sera di ormai quasi due anni prima.
Dopo averla conosciuta, aveva
preso a frequentare più assiduamente la casa dei Diggory, inizialmente solo per
avere una compagnia che gli impedisse di impazzire, anche se lo avrebbe sempre negato,
indipendentemente da chi fosse e da chi si trattasse. Poi per Amos, che si era
rivelato un uomo straordinario ed ormai un padre per
lui. Infine per lei.
Lei che rendeva zucchero ogni
cosa che lo circondava.
Ed ogni verità,
disarmante nella sua evidenza, la rendeva una bugia nello stesso momento in cui
la toccava.
Alla fine, come sempre con lei,
si gustò persino quel “gelato” e ne rimase soddisfatto. Gli venne da sorridere.
Che cosa assurda. Per lui, la vita era sempre stata assurda. Ma
almeno ora era assurda, in un modo quasi bello.
“Cosa farai
quest’estate?” chiese Draco, guardandola di lato.
Helena agitò la mano con fare
noncurante: “Probabilmente andremo in Scozia… Amos ed io… e poi dai miei…”, a
quell’ultima affermazione il viso le si tinse di una
vena di sarcasmo, poi disse felice: “Ma potresti venite tu con noi! O hai da fare?”.
Draco fece una smorfia: “Dovrei
vedermi con Denise… alla fine questa storia deve finire in qualche modo…”.
“Capisco” mormorò Helena,
mordicchiandosi un pollice “La lascerai?”.
Draco annuì, guardando il sole
che iniziava a sorgere, rendendo rosa il cielo: “E’ inutile... più ci vediamo e
più aumenta il fastidio che provo per lei… mi dispiace, ma è così…”.
“Un tempo, non ti sarebbe
dispiaciuto per lei…” annotò Helena, abbracciandosi le ginocchia.
“Un tempo, non conoscevo te…”
replicò sinceramente Draco, guardandola “Scommetto che ti dispiace anche per
lei… anche se la conosci appena…”. Helena sorrise ancora,
piegando la testa di lato.
Era così bella… probabilmente
non fosse stata una sua amica, ci avrebbe già provato. Draco si riprese
mentalmente, chissenefrega dell’amicizia, non ci provava perché era la moglie
di Amos. Altrimenti, probabilmente già l’avrebbe presa su quella stessa sabbia,
fino a quando il sole non fosse sorto di nuovo. Scosse ancora il capo, vedere
Denise almeno gli calmava gli ormoni… ora gli aveva decisamente
in subbuglio.
“Forse è anche meglio che io non
venga in fondo…” rise Draco, cercando di distrarsi “Tu ed
Amos avete molto da recuperare…”.
Helena sorrise, ma di un sorriso
diverso. Sembrava… triste: “Eh già… siamo sposati da parecchio, ma non sono
ancora riuscita a dargli un figlio…”.
Draco smise di ridere, aveva
fatto quella battuta solo per ricordarsi con estremo dispiacere, che il solo
uomo che poteva avere Helena, era suo marito. Invece l’aveva solo ferita.
“Scusami…” replicò compito,
Helena agitò la mano per dire che non importava: “Hai ragione… abbiamo
parecchio da recuperare…”.
“Un giorno sarai
una brava madre…” replicò Draco convinto.
Helena sorrise ancora: “Forse…
la verità è che non mi ci vedo proprio come madre… entrerei in crisi già per
scegliere il nome…”.
“Addirittura?!”.
“Sì, insomma… pensaci… il nome è
ciò che ci rende quello che siamo per tutta la vita…” asserì lei infervorata,
poi si addolcì guardandolo: “Io non ti riesco ad
immaginare con un altro nome…”.
Draco distolse lo sguardo
imbarazzato e lei rise ancora: “Come chiameresti tuo figlio?”.
“Non ci penso proprio per ora ad
avere un figlio…”.
“Ma, se
fosse? Come lo chiameresti?” insistette Helena, gli occhi che
le brillavano. Sembrava dannatamente importante per lei avere una
risposta, quindi Draco si sforzò di risponderle: “Non so… nella mia famiglia,
c’è la tradizione di chiamarsi con i nomi delle stelle, costellazioni o simili…
o perlomeno era così per i Black, per questo mi hanno chiamato Draco… è il nome
di una costellazione… quindi, forse un nome simile…”.
Draco ci rifletté un attimo, poi
rispose abbastanza sicuro: “Chiamerei mio figlio o Scorpius o Leo… sono i due
nomi su cui era in dubbio mia madre, quando sono nato…”.
Lei riusciva anche a fargli
parlare di sua madre, quasi con tenerezza. A Draco venne di
nuovo da ridere, in modo assolutamente incomprensibile.
“Sono bei nomi… nella mia
famiglia, non abbiamo delle tradizioni simili…” commentò lei, socchiudendo gli
occhi nella luce del sole che sorgeva “Io, per esempio, il mio di nome non lo
sopporto proprio…”.
Mise un broncio da bambina
viziata, il labbro inferiore sporgente e gli occhi quasi lucidi di fastidio.
E Draco fece la sola cosa che
gli venne in mente. Rise ancora, estrasse dalla tasca la bacchetta e disse in
un sussurro: “Floresco”.
Nelle mani di Helena, comparve
una meravigliosa rosa bianca, molto profumata, dalla corolla gialla.
Helena la guardò senza capire, e
Draco sorrise: “Si chiama Rosa Helenae… la rosa di Helena… come vedi, non sei
solo tu che porti questo nome…”.
La ragazza la tenne tra le mani,
poi d’impulso abbracciò Draco, sussurrando nel suo orecchio e causandogli un
brivido sulla schiena: “Grazie”.
Draco la strinse a sua volta,
rosa al sapore di ciliegia come una tela di profumo che si annodava nei suoi
pensieri.
Nel buio, il corpo disteso di
Anthony Goldstein, riverso sul pavimento, non era distinguibile in nessuno dei
suoi tratti. Sembrava un fantoccio, liberato dei fili che lo sospendevano su un
palcoscenico.
Draco respirava a fatica, si
pulì con il dorso della mano del sangue che gli colava dal naso, dove lo aveva
colpito un pugno dell’Auror, la cartilagine aveva ceduto, lo sentiva. Ma se ne fregava… per la prima volta, nella vita da ragazzo
viziato che aveva sempre fatto, non provava dolore fisico insopportabile. Per
la prima volta, sopportava il dolore perché c’era qualcosa di più importante.
“Non avresti dovuto colpirlo…”
una tenera voce femminile, spaventata, interruppe il silenzio.
Fuori, scendeva una pioggia che
attutiva ogni rumore ed ogni voce, eppure lui la udì
lo stesso: “Non mi interessa… per me, potrebbe anche morire…”.
“Draco…” la voce lo ammonì
dolcemente, cercando di farlo ragionare.
Il ragazzo si voltò verso di
lei, le mani contratte, e sferrò un violento pugno contro il muro. Ancora,
nessun dolore fisico. Sangue sulle dita imbrattò il muro candido.
Helena sobbalzò e distolse lo
sguardo da lui, puntandolo involontariamente nel Pensatoio, alle loro spalle,
dove avevano appena rivissuto la morte di Lucius e Narcissa Malfoy.
Argento ed
acquamarina, come un oceano d’estate i suoi occhi. Attorno a loro, silenzio,
l’eco del pugno che si ripeteva contro le pareti vuote, le grida dei genitori
di Draco ancora nelle orecchie.
Draco sentiva che non se ne
sarebbero mai andate. Come quelle dei Paciock? Cosa c’era di diverso tra Alice
Paciock e Narcissa Black?
Il nome… solo quello.
Un nome, fatto di vite intessute
secoli prima, che le condannava come santa la prima e
puttana la seconda.
Chiuse gli occhi, stanco, un
lieve bruciore dall’osso della mano. Lo guardò distrattamente, doveva essere
rotto, ma non sentiva nulla. Helena gli prese la mano ferita nelle sue, la
strinse e Draco sentì finalmente qualcosa.
Non sapeva cosa… ma qualcosa… ed
era insopportabile.
Cadde in ginocchio, piangendo,
Helena si abbassò subito alla sua altezza per stringerlo a sua volta. Piangeva
anche lei, che non conosceva Narcissa Black né Lucius Malfoy.
Lei conosceva solamente la madre,
riflessa in quel Pensatoio, che aveva chiamato il figlio mentre moriva.
“Tutto quello che ho fatto fino
ad ora… non aveva senso… è sempre la stessa cosa…” mormorò sconnessamente,
Helena che lo cullava tra le sue braccia come un bambino, la gonna rosa antico
che si sporcava del sangue di Draco. Il ragazzo si abbandonò nel suo profumo,
chiudendo gli occhi, sua madre che chiamava il suo nome sempre nelle orecchie,
suo padre che esalava un ultimo respiro pesante come l’anima stessa del mondo,
sempre negli occhi.
“Li ho uccisi io…” disse alla
fine Draco, risollevandosi e guardando Helena che continuava a piangere e si
limitava a scrollare il capo, facendo segno di no.
“Non avresti dovuto strappargli
quel ricordo…” mormorò lei tra le lacrime “Sapevi già chi li aveva uccisi…”.
“Ma non sapevo perché… e come…”
disse Draco freddo, sollevandosi in piedi ed aiutando
lei ad alzarsi “E questo oggi fa tutta la differenza del mondo…”.
Helena rabbrividì. Un’ombra si
era rappresa nello sguardo di Draco. Qualcosa… in lui… era morto per sempre.
La scarsa fiducia nel mondo e
nella giustizia… ormai non erano più nulla.
“Ma
oggi anche questo finisce…” ripeté sibillino, prese il mantello e corse fuori,
sotto la pioggia. Helena cercò invano di chiamarlo, preoccupata, si fermò sulla
soglia, ma lui scomparve nella pioggia che scrosciava.
Correva, incurante dell’acqua
che si mischiava al sangue delle sue ferite, schizzi che si sollevavano al suo
passaggio, grigio negli occhi come se non esistesse altro colore. Altro colore,
a parte il rosso.
Sangue.
Ovunque. Su ogni cosa che
guardava, c’era il sangue dei suoi genitori che lui stesso aveva ucciso. Come
poteva vivere un secondo di più?
Sapeva che poteva vivere, lo sapeva. Perché lo aveva già fatto. Sapeva che la vita
sarebbe continuata, se lui non avesse avuto il coraggio di farla finita,
piantarsi un coltello in gola o gettarsi nel vuoto o... altro.
La vita, come una punizione,
sarebbe continuata.
Sarebbe stato il ricordo di
sempre, che non l’aveva mai lasciato. Il mondo fuori dalla finestra che brucia
e lui intrappolato, chiuso dentro una casa divorata dalle fiamme. A guardare fuori le lingue di fuoco.
Sperando, tremando, piangendo? Magari un tempo… ora, solo aspettando… di morire. Perché
sapeva che il fuoco avrebbe preso anche lui, un giorno.
Correva Draco, suscitando
reazioni scandalizzate nei babbani che urtava nella sua corsa, ma non se ne
curava. Per la prima volta, pensò che, se fosse nato babbano, forse sarebbe
stato felice.
Beatamente ignaro dei fenomeni
strani, a cui il nome magia sarebbe stato accostato
solo per gioco.
Lacrime e pioggia.
Sua madre avrebbe preparato
torte in una cucina bianca, con la finestra sempre aperta su montagne di
smeraldo. Suo padre avrebbe fumato pipe in una poltrona
cremisi, i piedi appoggiati su uno sgabello panciuto.
Corse fino al Ministero Draco,
se ne fregava che probabilmente così facendo, sarebbe morto. Rinunciando alla
protezione degli Auror, sarebbe morto.
Gli facevano troppo schifo per
continuare a sentirli respirare vicino a lui dell’aria troncata nei polmoni nei
suoi, a sentirli parlare attorno a lui delle parole negate ai suoi, a sentirli
ridere delle stesse risate con cui avevano deriso e schernito i suoi. Ricordava
tutti i loro nomi. Tutti.
Goldstein che rideva,
calpestando i capelli di sua madre. Steeval che
bruciava sigarette sulla fronte di suo padre. Ogni nome. Altri nomi. Un giorno,
l’avrebbero pagata. Bruciati in una casa sprangata, al centro
esatto dell’inferno. Assieme a lui. Assieme a Draco
Malfoy, traditore di ogni parte del mondo.
Entrò nel Ministero, non ricordandosi
subito dove fosse l’Ufficio del Capo degli Auror. Agitazione che confondeva e
rendeva ruggine la sua memoria. Dove diamine è?
Girò in tondo per un bel po’,
poi qualcosa attirò la sua attenzione, scuotendo i suoi sensi, violentandoli
persino. Una risata. Risata di donna. Istintivamente si nascose dietro una
colonna.
Una risata conosciuta. Troppo
conosciuta. Miele di presente e sale di passato… tutto
assieme. Mescolati in quel solo suono.
Non arrivò, però, la dolce
ciliegia del profumo che si aspettava. No. Arrivò un profumo intenso, forte,
penetrante. Tè nero e vaniglia. Contraddizione nella sua stessa esistenza.
Si sporse oltre la colonna. I
suoi occhi si sgranarono, persero delle lacrime incagliate nelle ciglia e
divennero asciutti. Non poteva essere.
La Granger, il Capo
degli Auror rideva piegata in due, indicando Lenticchia Weasley che era appena caduto per terra. Rideva la Mezzosangue della
risata di Helena.
Uguali, identiche, come sorelle.
A Draco mancò la salivazione, si
sentì soffocare, mentre lei lo superava ridendo ancora: “Sei un imbranato cronico…!”.
“Smettila,
Hermione! Potevo farmi male!”.
“Almeno avresti imparato a non
camminare come un satiro in calore, guardando ogni essere minimamente
somigliante ad una donna…”. Il sorriso era evaporato
ed era diventato una smorfia ironica, mentre usciva dal palazzo, riparandosi
dalla pioggia, sollevando il colletto della giacca che portava. Weasley cercò
di difendersi e lei rise ancora, le campane dell’inferno nelle orecchie di
Draco.
Possibile che vedesse Helena
dovunque, ormai? Anche nella Granger? Si era innamorato di lei, della moglie di
Amos?
Forse era arrivata anche l’ora
che a quell’inferno, lui ci andasse per davvero. Non poteva sopportare anche
questo…
… poteva persino sopportare quell’amore,
imprevisto e non richiesto, ma non che l’assassina dei suoi avesse la stessa
risata della donna che ogni giorno, fosse come fosse, era la sua salvezza.
E si disse che amava Helena…
andava anche bene, tanto lei non l’avrebbe mai saputo. Amando Helena, vederla
nella Granger aveva un’ineccepibile spiegazione.
Trovò il vice della Granger nel
suo studio, un incapace di nome Beckwith. Comunicò la sua decisione e fu lieto
che non fosse lei, la Granger. Probabilmentela Regina dei
Grifondoro avrebbe fatto molte più storie.
Invece, ci furono proteste, ma,
sfoderando un contegno da perfetto Mangiamorte, Draco disse che avrebbe ucciso
tutti gli Auror che si sarebbero avvicinati a lui.
Nessun Auror avrebbe mosso un
solo dito per proteggerlo, se fosse stato attaccato. Questo, disse alla fine
Beckwith con voce lapidaria.
“Mi va benissimo… premuratevi anzi che non siano loro vicino a me… potrebbe
finire decisamente male… per loro…”.
Uscì dal Ministero, pioveva
ancora.
Corse di nuovo. Voleva risentire
il profumo di Helena. Disperatamente. Voleva cancellare quello del sangue,
dolciastro nei suoi pensieri. E voleva cancellare quello della Granger che non
se ne andava più via, sottofondo del massacro che lei aveva fatto nella sua
vita. Un giorno, l’avrebbe pagata anche lei. Bruciata in una
casa sprangata, al centro esatto dell’inferno.
Assieme a lui, Draco Malfoy,
traditore di ogni parte del mondo.
“La cosa peggiore di tutto questo, è sentire anche quello che provavi…
anche quello che pensavi dentro…” dico, senza emozione, guardandolo negli occhi
“Non vedo che cosa ci sia di utile
nel farmi vedere tutto questo… mi devo gettare per terra e ripeterti ancora che
non sapevo nulla dei tuoi?”. Sentire il nascente amore per Helena permeare i
suoi ricordi e i suoi pensieri… e, nel contempo,
l’odio per me fondersi assieme, mi riduce in cenere ogni secondo che passa.
Non credo di averlo mai meritato, tutto questo.
Non risponde, contrae nervosamente la mano, un pugno stretto poggiato
sullo specchio. Fallo a pezzi. Per favore.
Non mi attende una risposta, se non alla fine di questo percorso… le
immagini ricominciano.
“Me ne vado…”.
“Devo farti vedere una cosa
prima…”.
Draco socchiuse gli occhi, la
sabbia turbinata nel freddo vento di novembre che lo infastidiva. Attorno, un
cielo grigio carico di pioggia, tuoni che lo rendevano simile ad un’enorme e pulsante bestia ferita. Iniziarono anche a
cadere delle gocce d’acqua, prima lievi, poi sempre più intense, fino a che
iniziò un vero e proprio acquazzone. Ma Draco non si
mosse, bagnato fino al midollo, i capelli che si appiccicavano sulla fronte, le
ciglia gravate da quell’umido peso. Non erano lacrime, anche se sapeva di
volerci piangere… ma erano fredde gocce d’acqua quelle che gli cadevano sulle
guance e sugli zigomi.
Fredde. Come la pioggia. Non
erano lacrime. Era solo pioggia. La pioggia che, chissà come, c’era sempre nei
suoi ricordi e nei suoi pensieri.
Una pioggia che aveva il solo
effetto di inzuppare i suoi ragionamenti e di renderli tutti dannatamente
uguali. Privi di senso.
Draco spostò distrattamente lo
sguardo attorno a sé, un barlume di rosso negli occhi, il rosso
del mantello di Helena che vorticava nel vento. Il respiro di
lei si condensava in piccoli sbuffi di vapore, e tremava.
Ma non era
freddo… era urgenza che lui vedesse ciò che lei voleva. Prima di andarsene.
Dopo aver guardato la spiaggia
attorno a lui, il mare minaccioso che schiumava contro gli scogli, la casa bianca ormai davvero un miraggio nel grigiore
attorno, priva dei fiori che l’adornavano e probabilmente deserta, rivolse
nuovamente lo sguardo verso Helena. I capelli le si
attaccavano in lunghe onde attorno al collo, sbatteva le palpebre
cercando di vedere ed aveva le guance rosse. Si portò una mano al viso,
mettendosi i capelli dietro le orecchie e cercando ancora con lo sguardo di
implorarlo quasi, di fare quello che lei diceva.
Draco chiuse gli occhi in un
sospiro doloroso, l’immagine di lei impressa nella
retina che nasceva e moriva dietro le sue palpebre chiuse.
Se la sarebbe scordata mai?
Sarebbe arrivato un giorno, in cui il suo stesso sangue non avrebbe reclamato
di lei, bruciando?
Quanta distanza poteva mettere
un cuore innamorato per stare tranquillo?
Riaprì gli occhi ed annuì, lei che riacquistò lo scintillio blu zaffiro
tipico del suo sguardo, e poi sorrise mesta. Lo prese per un polso, tiepido
zefiro nel suo respiro che si mosse distintamente per i sensi di Draco nel
vento freddo, e poi si Smaterializzarono. Si ritrovarono in una trafficata
strada della Londra babbana, piena di confusione e gente che correva per
ripararsi dalla pioggia.
Draco stranamente non se ne
sorprese, inconsciamente nei mesi passati aveva accostato Helena e i babbani
con una facilità che lo sorprese un po’. Lei sapeva troppe cose dei babbani per
non pensare distintamente che ci avesse qualcosa a che fare. Eppure, questo a
Draco rendeva l’immagine di Helena solo un mistero inspiegabile, meraviglioso
come un’aurora fiorita in un cielo d’inverno.
Non lo inorridiva o gli faceva
aborrire la compagnia di lei. Ad di
là di questo, Helena era sempre la creatura più incantevole che avesse mai
conosciuto.
Se ne andava per quello… perché
la amava e perché la desiderava. E lui non sapeva amare in modo pulito, perché
non lo era nemmeno lui pulito. Basta pensare che il suo grande amore, nasceva dal tradimento di Amos.
Ridicolo.
Del suo amore, sporco ed unto come petrolio, avrebbe sporcato anche lei, bianca
come il latte.
E non se lo poteva permettere.
Draco sarebbe morto. Il suo nome
avrebbe cessato di esistere. Lui sarebbe diventato un’altra persona, negandosi
per sempre a lei che era il pericolo maggiore. Al di là dei
Mangiamorte che ancora volevano la sua testa.
Tutto, pur di non toccarla con
il suo amore torbido.
Helena si fermò davanti ad un
portone di legno rossiccio, dai vetri verde e giallo,
la maniglia un grifone intrecciato. Accanto al portone, un numero e il nome di
una strada.
Il 76 di Lancaster Road.
Helena si frugò nelle tasche del
mantello, uscendone una chiave piccola e rotonda. La infilò nella toppa, che si
aprì con uno scatto metallico.
Un grande androne,
una monumentale scala di marmo nero e bianco, corredata di un corrimano dorato. Una scrivania color ebano dove una donna anziana in livrea verde
sonnecchiava e trasalì al loro ingresso.
Helena sorrise e fece un cenno del capo, a mo di
saluto. La donna rispose al saluto con un nome che Draco non conosceva e, in
quel momento, non intese.
Sempre più curioso ed esterrefatto, Draco la seguì
su per le scale, fino ad un appartamento, il numero…
L’interno 15.
Un’altra
chiave. Ed Helena aprì la porta con decisione.
Odore
di ciliegia. E Draco capì subito, ancora prima che parlasse. Quella era casa
sua.
Non
guardò la stanza, non voleva, quasi come se quella sua sé
stessa che palpitava in quelle pareti, gli fosse stata celata in modo colpevole
da lei e non meritasse alcuna attenzione. Pensava solo a questo, ad un senso di possesso su Helena, sui suoi pensieri e sulla
stessa vita, più che pensare che era sempre in una casa evidentemente babbana.
C’era un pianoforte, utensili tipicamente babbani,
cose insomma di cui lui non sapeva assolutamente il significato e che non
doveva sapere nemmeno Helena. Cos’era un hobby ridicolo il suo? Che senso
aveva? Perché lo aveva portato lì?
Lei si sedette tranquillamente, sistemandosi la gonna come faceva sempre, non
preoccupandosi di asciugarsi, gocce sul parquet e sul tappeto cremisi.
Non
invitò Draco a sedersi, nemmeno si preoccupò del fatto che fosse bagnato, come
in altre situazioni forse avrebbe fatto. E lui rimase immobile, la schiena
appoggiata allo stipite della porta, le braccia incrociate, lo sguardo freddo e
scostante che, dalla vista della morte dei suoi, si era acclimatato
perfettamente a lui e non lo aveva più lasciato. Lo sguardo quasi di un riccio,
spaventato, ma pieno di aculei che lo potessero
difendere.
Helena
iniziò a parlare con voce netta e chiara, da adulta, gli accenti da bambina
evaporarono come aria condensata. Draco si riscosse quasi dal suo tepore,
mentre lei parlava, ogni parola del suo discorso l’avrebbe ricordata per tutta
la vita… ogni parola del suo discorso era una freccia nel suo cammino che
avrebbe seguito, da quel momento in avanti.
Helena
non portò mai i suoi occhi in quelli di lui, come faceva sempre. Restarono
bassi, in tutto il tempo in cui parlò.
“Il valore di una donna si vede dall’anello che
porta, questo diceva sempre mio padre. Non c’era altro per
lui che valesse la pena di essere considerato in una donna… quando io e le mie
sorelle eravamo bambine, i miei genitori fecero realizzare per noi tre anelli
perfettamente identici a quello di mia madre, l’anello di fidanzamento che
l’aveva unita a mio padre. Tre anelli, piccoli, delle
semplici fasce d’oro con una pietra in sommità. Un
rubino per me, uno smeraldo per Daphne, uno zaffiro per Astoria. Niente
a che vedere con il diamante che torreggiava sull’anulare di mia madre Lara. Io
e le mie sorelle, avvolte nei nostri vestitini di tulle e velluto, unite da
quel luccicante legame, sfoggiavano quell’anello come un tesoro, ambendo contemporaneamente
alla gemma più preziosa tra tutte. La pietra bianca che catturava l’arcobaleno.
Il diamante che portava mia madre. Ma eravamo solo
delle bambine… e allora io non capì che quell’anello era solo un giogo che mi
si era stato imposto. Niente di più.
“Non portai per sempre quell’anello. Divenne piccolo ed un giorno lo riposi in un cassetto. Non l’ho più
ritrovato e, come me, nemmeno Daphne ed Astoria, ma
loro hanno sempre finto di non vedere e probabilmente non se ne preoccuparono
nemmeno. Lentamente di giorno in giorno, nella mia casa, sparivano delle cose. Un quadro antico di un mio antenato, porcellane finemente cesellate
d’oro, arazzi ricamati d’argento, statuette di cristallo colorato e lucente.
Ogni giorno, la ricchezza diventava opulenza mostrata ad arte, coprendo spazi
sempre più vuoti in modo studiato e non casuale. Abbassavo il capo e facevo
come Astoria e Daphne, dicendomi che ci doveva essere un motivo. Ma purtroppo non lo riuscii a fare per sempre… sparì un
giorno, come una stella nascosta dalle nuvole, anche l’anello di mia madre. E
allora le chiesi la verità…
“Mio padre aveva il vizio del gioco. Galeoni,
milioni di galeoni, fuoriusciti dalle nostre tasche in un’emorragia
inarrestabile. Vendette tutto quello che aveva,
compreso l’orgoglio, la dignità, l’amore di sua moglie che ormai lo guardava
con odio e disgusto e che non lo lasciava solo per quella morte sociale che
sarebbe stata la condanna peggiore che potesse ricevere una donna come lei.
Alla fine gli rimase solo una cosa da vendere, la sola
merce che potesse essere una garanzia per i suoi debiti. Le sue figlie, a cui aveva dato la sola cosa che possedeva ancora e che
avesse un benché minimo valore economico, il suo cognome.
“Forse fu per questo che avvertii sin
dall’inizio una somiglianza tra me e te, Draco. Entrambi siamo stati venduti dai nostri genitori… quel dolore, di
essere stato rifiutato, ti resta dentro per sempre. È come una macchia sulla
tua anima che, ostinata, non va mai via, è l’infamia di chi avrebbe dovuto
amarti ed, invece, ha barattato quell’adorazione
infinita che avresti avuto eternamente per chi ti ha dato la vita, in virtù di
vantaggi più immediati. Quella macchia… si attacca a tutto e a chiunque amerai
da quel momento in avanti… questo è successo a me… ma lo vedo anche in te,
Draco. E forse siamo i soli su questa terra che possiamo sapere che cosa si
prova e, per questo, non inorridiamo di quell’untuoso affetto che ci riversiamo
addosso. Sappiamo che è la sola cosa che potremmo darci vicendevolmente,
macchiandoci reciprocamente, ma non essendone toccati, essendo
già sudici di nostro, nel nostro profondo.
“Mio
padre aveva moltissimi debiti, alcuni di essi riuscì a
coprirli con operazioni più o meno legali, spesso fiancheggiando i Mangiamorte
e facendo da ricettatore con i beni che sottraevano nelle loro razzie nelle
case delle vittime… alla fine, restarono solo tre conti da chiudere. Tre, come
me, Daphne ed Astoria. Tre conti con tre famiglie
importanti, che si potevano tranquillamente sanare con tre matrimoni, considerando
che le famiglie in questione avevano anche tre figli maschi. Una era la tua,
Draco, erano i Malfoy…”, Helena si interruppe,
soppesando la reazione di Draco, ma alle sue orecchie giunse solo un sospiro
soffocato, nemmeno malinconico, triste, nervoso o sconcertato. Solo un sospiro
di evidente rassegnazione, divenne solo tiepida curiosità, quando Draco chiese,
temendo la risposta: “Chi mi sarebbe toccata?”.
Helena
rispose abbastanza velocemente: “So che avevano già siglato un accordo… ora,
ovviamente, è invalido dalla morte dei tuoi… tu avresti sposato Astoria…”.
Perfetto,
la Greengrass
che sopportava meno… Daphne almeno aveva il contegno di starsene per i fatti
suoi e, se non la irritavi in una delle molteplici maniere in cui si poteva
tangere la sua regalità, non aveva niente a che fare con te. La terza
Greengrass, invece… era meglio che se la scordava… peggio di Pansy adolescente,
il che era tutto dire. Come una domanda assolutamente insensata e una rivalsa
inconcepibilmente presente, provò astio ulteriore per
i suoi. Perché non avevano scelto per lui Helena? Forse poteva essere suo
marito… ogni suo problema sarebbe sparito, avendola accanto. Sua. Solamente
sua.
Ma, ovviamente, i suoi non avevano mai
contemplato nulla che gli rendesse la vita più facile.
Helena proseguì, ignara dei suoi pensieri: “L’altra
famiglia erano gli Zabini, e Daphne credo che sposerà Blaise. A me, invece,
toccarono i Diggory. Avrei sposato Cedric Diggory. Quando lo seppi, avevo
solamente diciassette anni, avevo appena finito Hogwarts, avrei voluto fare la Medimaga.Ma,
ovviamente, questo non avrebbe portato alcun giovamento alla mia famiglia. Quindi
mi ordinarono di lasciar perdere… avrei dovuto sposare
Cedric al più presto, anche se lui era di qualche anno più piccolo di me. Non
volevo che decidessero al mio posto, mi ribellai, piansi, mi chiusi nella mia
camera. Ma non valse a nulla… me lo fecero conoscere qualche
giorno prima di…”.
Fu
l’unico momento in tutto quel discorso in cui la voce di Helena si incrinò, pianse, nascondendosi il viso tra le mani.
Mentre parlava di sé, non aveva mostrato alcuna emozione, ora invece piangeva.
Draco, che ancora faticava ad assorbire tutto ciò che le stava dicendo, le si sedette accanto, mettendole una mano sulla spalla. Non
fece altro, non si fidava molto delle sue pulsioni mentre la vedeva piangere.
Helena si calmò, respirò profondamente e riprese.
“Lo vidi qualche giorno prima che morisse… era
il campione di Hogwarts, aveva una fidanzata, era felice. Rimanemmo da soli, su
quella spiaggia dove andiamo spesso io e te. Mi disse
che mi voleva parlare, iniziammo a correre e seminammo i nostri genitori. Mi
portò lì, su quella spiaggia. Lo ricordo come se fosse ieri, aveva solo
diciassette anni… io ne avevo ventuno, eppure era lui quello maturo, quello
serio e sereno. Mi disse che ne saremmo usciti e che non mi dovevo preoccupare.
Che aveva una ragazza, Cho, e che ne era innamorato. L’avrebbe presentata a suo
padre a torneo concluso, l’avrebbe convinto a cancellare quel debito. Mi
avrebbe reso libera. Ho ripensato spesso a Cedric in questi anni, c’è molto di
Amos in lui… quel giorno, per un attimo folle, pensai che, forse, non mi era andata poi così male e che, se anche l’avessi
sposato, forse mi avrebbe reso felice. Ma Cedric è
morto… e la mia speranza morì con lui… qualche anno dopo, morì anche la mamma
di Cedric. Ma quel debito continuava ad esistere… mio
padre fece la cosa più ovvia, mi propose in moglie ad Amos Diggory. Lui non
voleva, si rifiutava, diceva che ero troppo giovane e che, dalla morte dei suoi
cari, questioni come il denaro e la ricchezza, ormai, per lui non avevano più importanza.
Ma mio padre, invece, aveva riscoperto onore ed
orgoglio e mi costrinse a sposarlo. Anche quella volta feci tutto quello che
era in mio potere per evitarlo, ma senza risultato alcuno. Amos alla fine
accettò, spaventato dalla solitudine, ci sposammo in un giorno di dicembre,
faceva tanto freddo… forse mi incantarono, non lo so,
ma non ricordo nulla di quei momenti. Solo che mi barricai nella mia stanza,
rifiutando di mangiare… e poi, apparentemente la mattina dopo, mi svegliai nel
letto con Amos. E basta. Lui l’aveva capito, capì che
mi avevano costretto e che mi avevano forse anche messo sotto Imperius, non mi
ha mai toccato fino a quando non l’ho voluto io… in fondo, il suo dolore era
così forte che nessuno avrebbe potuto sanarlo, tantomeno io e il mio amore
riottoso e rancoroso… vivevamo come estranei nella stessa casa, parlandoci a
malapena. Lo odiavo… pensavo persino di ucciderlo. Lui che nemmeno pensava a
me… lo avrei voluto uccidere per quella sua incolpevole e lacerante
indifferenza… ero sola. Le mie sorelle mi venivano a trovare, ma raramente.
Inoltre, vedendomi piangere in una casa per loro così bella e sfarzosa, si irritavano profondamente… alla fine non vennero più…
“Trovai
consolazione nel gioco estremamente appagante e
soddisfacente di tradire Amos. Non so quanti uomini ho avuto in quegli anni,
non lo so davvero, molti nemmeno li ricordo, nemmeno il primo, quello che si
prese la mia verginità. Scrivevo i lori nomi in un quaderno e mi gloriavo
sadicamente di quanti fossero e di come ognuno di essi fosse una spina nel
cuore di mio marito. Lui lo sapeva, credo che lo abbia sempre saputo, ma l’inerzia che lo contraddistingueva in quegli
anni, gli impediva di fare qualsiasi cosa, anche ripudiarmi. La mia rabbia
cresceva, e lo tradivo ancora, desiderosa che lui si accorgesse di me, che mi
odiasse, che facesse qualsiasi cosa. E lui più lo tradivo e più mi ignorava, ergendosi quasi come un dio, immobile e lontano
che non guardava i miei peccati, preso dal compito superiore di portare da solo
il peso del mondo. Non cerco giustificazioni, Draco. Non ne voglio… e
raccontandoti queste cose, non vado alla ricerca di parole che possano
consolare o alleviare il mio senso di colpa verso Amos. E non le voglio nemmeno
da te, Draco, tu sei il mio migliore amico, io voglio solo che tu sappia chi
sono davvero prima di andare via… essere stata me stessa e non averti nascosto
nulla, come invece ho fatto in questi anni… sempre e costantemente…
“Un uomo durò più degli altri. Lo avevo conosciuto
per caso, avevo preso l’abitudine di camminare per la Londra babbana, dove ero
sicura di non incontrare nessuno che conoscessi. In un bar, sorseggiando un
caffè, incontrai un uomo… era un Mago, ma era anche un babbano, aveva rinnegato
la sua vecchia vita per vivere in modo semplice e normale e rifiutare degli
obblighi che gli erano stati imposti. Non sono così poche le persone che
scelgono di vivere come lui, ne ho conosciute molte, ma semplicemente, di loro
non si parla mai. Li si disprezza e basta, perché si
ritiene che abbiano scelto una vita inferiore a quella che avevano… ma chi
abbia vissuto la vita babbana, poi, non ne sarebbe così sicuro, specie se fosse
nato in una famiglia come la mia, o come quella che intuivo dovesse aver avuto
lui… o come la tua, Draco.
“Quell’uomo…
lui non mi disse mai il suo vero nome, si faceva chiamare Daniel Ryan… mi disse
di avermi vista da bambina, poteva avere qualche anno più di me… non seppi mai
molto di lui, mi portò nel suo mondo, diceva solo che voleva che mi liberassi come era accaduto a lui. Faceva il fotografo,
di fotografia babbana… Danny mi diceva sempre che adorava la fotografia
babbana, quella magica prende molteplicità di attimi, nessuno dei quali davvero
significativo, se non pochissimi. La tensione, invece, della foto babbana era
quella di catturare un singolo frammento di luce, quello giusto, e di
impressionarlo per sempre. Mi insegnò tutto quello che
c’era da sapere sul mondo dei babbani, mi fece vivere una realtà alternativa,
mi diede persino un lavoro babbano… iniziai a fare la modella, dopo che alcune
sue foto, che mi aveva fatto, iniziarono a circolare nell’ambiente della moda.
Mi chiamavano Rachel Leigh. Mi diede quest’appartamento, mi insegnò
a suonare il pianoforte e ci amammo profondamente… mi lasciò, alla fine, un
giorno di qualche anno fa. Lui aveva guarito il mio cuore, liberandolo
dall’astio e dal rancore, dandomi una leggerezza che non assaporavo da anni.
Eppure, quando mi chiese di lasciarmi tutto alle spalle, come aveva fatto lui,
non ce la feci. E lui se ne andò…la vita da Rachel era un gioco…
bellissimo, mi faceva sentire viva. Ma non potevo
abbandonarmi tutto alle spalle, come aveva fatto Danny. Non ce la facevo, non
riuscivo nonostante tutto, a lasciare Amos, specie dopo quello
che gli avevo fatto. Il valore di una donna si vede dall’anello che porta… e io, al mio di anello, la fede di Amos, non avevo mai reso
giustizia. Non l’avevo mai amato, mai, lo avevo odiato… ma non era colpa sua.
Io ora ero sua moglie… e nulla, nemmeno la vita di Rachel, poteva cancellare
tutto quello…
“Tornai da Amos… lui mi accolse come sempre,
come una scomoda ospite, venuta solo a riempire di sgradita vita la sua casa
piena di cose morte e putrefatte di Daisy e di Cedric… avevo bisogno ancora di
respirare, fuori da quella casa, mio malgrado. Non ero ancora così
fedele ad Amos, come avrei voluto, avevo bisogno di riempirmi di quella luce
che, necessariamente, avrei dovuto poi portare a lui per impedirgli di
annegare… ho continuato la mia doppia vita come la babbana Rachel Leigh, perché
mi rende felice e mi rende me stessa, anche se con un
altro nome. Ma non l’ho più tradito… mai più, da quando
è finita con Danny. Ho aspettato pazientemente di espiare le mie colpe,
dandogli qualcosa in cambio. Non so se sia amore, io non so cosa sia… non credo
di essere in grado di amare, credo che sia riconoscenza, Draco, o affetto, o devozione, non lo so… ma quel giorno è
arrivato, un giorno sono riuscita a farmi volere da lui e finalmente mi ha
presa, mio marito mi ha avuto per la prima volta. Ora sono davvero Helena
Greengrass in Diggory… ma a darmi la forza di continuare ad
essere Helena, è contemporaneamente continuare ad essere Rachel… è assurdo, lo
so… ma se ho smesso di tradirlo, se inizio persino a dire di provare qualcosa,
se non annego nella mia rabbia, è solo perché a volte sono anche Rachel. Anche
tu, Draco, hai conosciuto solamente Rachel fino ad ora… Helena, non credo che l’hai mai vista… probabilmente se la vedessi, non sapresti
nemmeno chi è…”.
Draco
sentiva la bocca impastata, eppure quando parlò, la sua voce non recava tracce
di quel sconvolgimento intimo: “Helena è quella che
compare quando abbassi gli occhi e non sai che rispondere, quando la tua voce
diventa più grave e perde i suoi accenti soliti, Helena è la sfumatura che
prendono i tuoi occhi quando ti perdi in pensieri tutti tuoi, Helena è quando
parli di avere un figlio da Amos…”, sotto gli occhi lucidi di lei, Draco disse
quasi duro: “L’ho sempre vista Helena… so chi sono entrambe… ed amo entrambe…”.
Quelle ultime parole gli sfuggirono dalle labbra e se ne pentì immediatamente,
ma per fortuna gli occhi di Helena non mutarono la loro espressione
riconoscente e grata. Aveva capito che l’amore di cui Draco parlava, era solo
l’amicizia che li legava. Ovviamente. Ringraziò Dio per questo.
Helena
si strinse nelle spalle e sorrise: “Ora che te ne ho parlato, mi sento meglio… so che, magari, per te è assurdo pensare di vivere
una vita babbana, ma…”.
“Non
stavo pensando a questo…” ammise Draco, sistemandosi meglio sul divano
“Effettivamente, non stavo pensando a questo… avevo già notato che avevi una
strana familiarità con le cose babbane, non sapevo perché, ma conoscendoti, non
mi è mai sembrato un problema, forse solo un comportamento un po’ eccentrico,
ma stranamente non mi ha mai inquietato quanto forse avrebbe dovuto…”.
“E
questo cosa vorrebbe dire?”.
Draco
pronunciò quelle parole come se scottassero nella sua bocca, come se fossero
fuoco liquido sulla sua lingua: “E’una riflessione che ho da
tempo in mente… se fossi nato babbano, metà dei miei problemi non
sarebbero mai esistiti. Niente Signore Oscuro, niente Mangiamorte, niente
Auror… avrei ancora i miei… e non si sarebbero corrotti come è
successo…”, Draco sentì quasi di doversi giustificare, dicendo che sapeva che
un pensiero del genere avrebbe dovuto fargli schifo, ma ormai ogni suo
sentimento gli sembrava drasticamente capovolto rispetto al passato.
Aveva
una migliore amica. Ne era innamorato.
Era
disgustato dal suo nome. Da sé stesso. Dai suoi.
Odiava
gli Auror, e voleva vendetta.
Tutto
oramai era cambiato. Ma non era ancora sufficiente.
Seppe che la sua vita stava ancora per capovolgersi totalmente, quando Helena
gli prese le mani e le strinse forte.
Disse solo cinque parole. Cinque parole che
gli cambiarono l’esistenza e il destino.
“Draco,
diventa tu Danny Ryan…”.
Improvvisamente lo specchio inizia a
turbinare, diventa quasi vivo sotto la mia mano. Velocissime, passano tantissime
immagini, frammenti di ricordi e sensazioni, labili ed evanescenti come nebbie
mattutine che non mi è dato guardare compiutamente.
Sono la vita di Helena e Draco nell’appartamento di Lancaster Road, dopo che Draco ha evidentemente accettato di diventare
Danny Ryan. Anche quel nome viene da lei.
Cerco di afferrarle mentre corrono via, segreti attimi di felicità che
almeno mi sta risparmiando.
Helena
guardò Draco, inarcando un sopracciglio: “Secondo me fai bene a non abbandonare
del tutto il tuo nome… hai ancora discreti vantaggi da esso… e poi, qualora
diventi troppo pericoloso, tronchi del tutto…”, un sorriso dolce, di latte e
miele, Draco arrossì stringendosi nelle spalle: “Tanto in ogni caso ci vedremo
lo stesso, sia che tu sia Draco sia che tu sia Danny…”.
Ed
ancora…
Helena
suonava al pianoforte, la luce del sole penetrò dalla finestra, riempiendo i
suoi capelli castani di riflessi di bronzo. Perdutamente assente nel suo mondo,
chiuse gli occhi, non guardando nemmeno i tasti che stava
premendo, conosceva quella melodia a memoria, non le serviva guardare.Forbidden
colours, i colori proibiti …
Draco
la osservava, senza riuscire a parlare, senza riuscire
a dire una parola, incantato da quel silenzio magico che non era silenzio, era
lei stessa che vibrava in quelle note che aumentavano ogni secondo d’intensità.
Ogni
nota si conficcò nella sua memoria, ferite che sanguinavano di nostalgia
triste.
“Trova
qualcosa da amare allo stesso modo, Draco…” disse lei, gli occhi ancora chiusi,
continuando a suonare “Ti riempirà la vita…”.
Non
vide le labbra di lui disegnare le parole: “Io l’ho
già trovata…”.
Come
ha potuto ricordare lei, sentendomi suonare? Come? Io non c’entro nulla. Lei… è
irraggiungibile. Lo… sarà… per sempre…
E ancora…
Correva
Helena, Draco la inseguiva per le stanze dell’appartamento di Lancaster Road. Sole di un’altra estate che finiva dalle finestre. Lui
cercava di sporcarla con della tempera, aveva preso a dipingere, un qualcosa
che amava da sempre… ma che lei gli aveva fatto ricordare. Su una tela,
nascosta nella sua camera, splendevano gli occhi di Helena, ma lei ancora non
lo sapeva.
E ancora…
Helena dormiva placidamente,
serena, distesa sul divano, Draco le poggiò una coperta sulle spalle. Sorrise, guardandola muoversi e fare una piccola smorfia da bambina
infastidita. Nella luce della luna, i suoi capelli sembravano più
lucenti del solito, e le ciglia placide fremevano del rumore dei suoi sogni.
Draco si sedette accanto a lei e le accarezzò piano la
guancia, sembrava vivere di soli respiri come un fiore.
Era come quelle principesse
delle fiabe addormentate in una foresta.
I contorni diventano meno
nitidi… come un quadro bagnato dall’acqua che si dissolve in un turbinio di
colori…
Draco… basta per favore… che altro ti è venuto
in mente?
Un secondo velocissimo, un’immagine che nemmeno sono certa di vedere
davvero. Sgrano gli occhi, poggiando di nuovo la mano sul vetro, e guardo Draco
smarrita.
Ma lui non mi guarda in risposta, non reagisce,
sembra solamente spazientito. Sospira in un gemito di evidente esasperazione.
Sembra non essersi accorto di nulla. L’immagine di Helena, per un solo
attimo, è sparita, sostituita da un’altra. Fremito. Non un’altra immagine qualsiasi.
La ragazza dormiva scomposta,
agitata, muovendosi continuamente nel letto che non gli apparteneva. Draco si
avvicinò sospettoso, guardandola con astio anche se
lei non poteva accorgersene. Trasalì, una fitta improvvisa al cuore, quando lei
si mosse e fece una piccola smorfia da bambina infastidita, spostando la
coperta con un piede. Nella luce della luna, i capelli spettinati gli parvero
più cespugliosi del solito in evidente contrasto con la maglia rossa da calcio
che portava, e le ciglia recavano tracce di lacrime lontane che doveva aver
pianto. Draco si sedette accanto, non riuscendo a smettere di guardarla, un dejà
vu continuo nei sensi che lo frastornava. Sembrava… era del tutto identica a…
lampo di consapevolezza.
Ancora.
Era la seconda volta che gli
accadeva… perché?
Sembravo io… la maglia rossa
da calcio… la prima sera che dormii al Petite Peste. Eppure, ero anche
differente, non so come, diversa da come mi ero vista nel ricordo di Draco al
ministero… percepivo qualcosa di insolito rispetto a
prima, attraverso i suoi occhi. Ma forse non ero io… o
forse era un pensiero senza forma.
I ricordi riprendono e quella piccola immagine sbiadita, già, sparisce
sotto strati di desolazione per quello che devo ancora vedere.
Aveva detto quelle parole, come
se avesse detto che l’avevano condannata da innocente
alla pena capitale, e l’ultimo appello si fosse risolto in una mera conferma
della pena precedente.
“Sono incinta”.
A Draco, nonostante la
schioppettata sorda che aveva sentito all’altezza del cuore, era sembrata una
notizia meravigliosa, specie considerando che uno dei desideri di Helena era
sempre stato quello di rendere padre Amos. Invece lei, tutto sembrava tranne
che felice. Davanti alla finestra dell’appartamento di Lancaster Road, quello che Draco quasi inconsciamente ormai chiamava
casa loro, teneva tra le dita in modo convulso l’intelaiatura della tenda e il
suo sguardo si perdeva lontano nel tappeto di palazzi che potevano guardare
alle loro spalle, un panorama che Draco non avrebbe mai pensato di chiamare
casa e che, nella sua mente, si era sempre appellato come qualcosa di
estremamente sgradito e molesto, la cui sola esistenza poteva essere di danno
alla sua persona. Ed invece, ora, era casa.
Anni dopo, Draco avrebbe ammesso
con estrema chiarezza che fu in quel momento preciso
che qualcosa si creò tra lui ed Helena, ma contemporaneamente si dissolse per
sempre.
Inerzia.
Non abbandonare il loro nome, ma
farsi chiamare Rachel e Danny. Quel bambino che cresceva e respirava già nella pancia
di Helena, era il coltello alla gola. Scegliere. In quel momento. Chi siamo?
Helena e Draco. Rachel e Danny.
L’inerzia che lo aveva
caratterizzato, che aveva contraddistinto anche lei, ora stava per finire,
Draco lo sapeva. Alla nascita di quel bambino, Helena avrebbe dovuto scegliere
se continuare ad essere babbana o ritornare mente e
cuore da Amos. Per quello, per lei era così difficile… e lui? Lui anche. Non poteva, logicamente, continuare ad andare in
ufficio ogni mattina, parlare con Amos, sopportare il magone
che sentiva quando lui parlava di Helena, ascoltarlo compito quando ancora
ricordava Daisy e Cedric, fare incantesimi per sedare creature più o meno
pericolose… e poi rientrare a casa, nella Londra babbana, usare cose che
nemmeno avrebbe mai saputo in una vita passata come si chiamassero e perché esistessero,
giocare in un ruolo che non era suo, ma che ipocritamente motivava innocuo con
il fatto che la donna che lo aspettava tra quelle mura, si chiamasse Rachel.
Quel giorno, stava per finire
tutto.
“Capisco...”
disse Draco, arrivandole alle spalle “Devo farti vedere una cosa, Helena…”. Lei
annuì e lo seguì nella sua camera da letto. Nella
penombra, distinguibili appena erano i suoi tratti di tela, ancora
incompleti.
Una donna con i suoi occhi che
dormiva di tempera e di carta, non era ancora lei… ma i suoi occhi, quelli sì.
Un cielo turchino di primavera. Draco ci aveva lavorato per giorni, per
renderli proprio loro.
Fumosa come in un sogno, si
distingueva persino la loro venatura cobalto di alcuni momenti.
Helena non fece nulla, quasi se
lo fosse sempre aspettato, si aggrappò solo al braccio di Draco come se temesse
di cadere. Lui, davanti a lei, continuò a darle alle spalle in modo ostinato.
“Che cosa significa?” pigolò lei, in un sussurro spezzato.
Draco deglutì, era arrivato il
momento. Non poteva più tornare indietro.
“Quello che amo… la cosa che mi
riempie la vita… me l’avevi detto tu… di trovarla…”, Draco sospirò, voltandosi
finalmente verso di lei: “Eccola…”.
Lei si morse il labbro in modo
inquieto, lacrime già caligine azzurra dei suoi occhi: “Io non posso…”.
Draco fu colpito da quella sua
frase, non posso… cosa?
“Io non ti sto chiedendo niente,
Helena…” disse sincero, guardandola e poggiando le sue mani sulle sue spalle
“Volevo avere qualcosa di tuo, per sempre… un giorno tu andrai via da me, o
sarò io, non lo so. Questa vita… essere Rachel e Danny, non può continuare, lo
sai meglio di me… e io volevo avere un modo per
ricordarmi di te… Danny, il tuo Danny, aveva ragione…”, sospirò guardandola, le
si stava spezzando il cuore, lo sentiva dalla tensione nelle sue spalle
contratte: “Dobbiamo scegliere, tu devi scegliere… specialmente ora che aspetti
un bambino… e so che probabilmente la tua strada ti porterà lontano da me…”.
“Io non posso…” ripeté lei, la testa fra le mani, le lacrime che le
bagnavano le mani.
Perché ripeteva sempre quelle
parole? Possibile che non capisse che quel gioco da bambina doveva finire? Era
così importante per lei essere Rachel? Possibile che fosse così… infantile?
Draco si pentì immediatamente
del suo pensiero e, quasi in colpa, si affrettò ad abbracciarla, sussurrandole
tra i capelli: “Lo sapevi che non sarebbe stato possibile per te restare Rachel
per sempre…”.
Era come consolare una bimba da
un brutto sogno, il suo petto assorbiva i singhiozzi di lei,
facendoli suoi.
Ma non era una
bambina che stava piangendo… le sue parole successive fecero tremare il mondo
di Draco, dalle sue fondamenta.
“Non è la scelta tra Rachel ed Helena a terrorizzarmi… quella la potrei sopportare…”,
Helena riprese fiato, guardandolo e poggiando una mano sul suo viso, Draco
rabbrividì stringendosi nelle spalle.
Quando lei parlò ancora, si
sentì perdere la forza e il coraggio, soggiogate da un’onda devastante che
avrebbe distrutto ogni cosa nel suo percorso. Ogni cosa che negli anni aveva costruito, paletto e colonna di sé stesso, limiti e confini
che lei avrebbe portato un po’ più in là. Lontano da lui.
“Io non posso scegliere tra te ed Amos, Draco… perché la mia risposta mi rovinerebbe la
vita, la rovinerebbe anche a te, ad Amos e a mio figlio… e la risposta sei
sempre stato tu…”.
L’avrebbe ricordato per sempre
quel momento…
L’hai ricordato per sempre quel momento…
Ogni cosa poteva morire, fuori
da quella stanza, poteva continuare l’inerzia, vivere,
galleggiando nella sola certezza di averla accanto.
E, se l’inferno si sarebbe spalancato attraverso le labbra di Helena, lui ci
si sarebbe gettato a viva forza, senza temerlo, bruciando assieme a lei.
La baciò con foga e disperazione
e lei rispose allo stesso modo. Ogni pensiero fatalmente rinviato.
Di soli nove mesi.
Draco prende a pugni lo specchio, con impeto, piangendo, e io spero che si rompa, spero che lo distrugga. Ma dimentico che qui, nulla è reale, e, se quello specchio,
Draco non lo vuole distruggere, non si romperà. Continuerà a stare lì, un demone
ingordo che si vuole prendere la mia anima, dopo aver rapito la sua.
Vederli baciarsi… non ce la faccio, davvero. Non posso. Basta, devo
andare via da qui.
Mi volto disperatamente in quell’enorme spazio bianco, cercando quasi
una via di fuga da qui, una strada che so che non c’è, i suoi singhiozzi nelle
orecchie che mi dilaniano ma che so di non poter consolare.
Non trovandola, come è ovvio, mi avvicino,
disperazione nella mia voce: “Draco, ti prego… andiamo via…”. Non ci credo di
essere arrivata anche ad implorarlo.
“Devi ancora vedere…” replica lui, piangendo ancora e sollevando lo
sguardo disperato verso di me.
“Smettila!” urlo, facendolo sobbalzare, eco infinito della mia voce
nelle pareti immacolate della sua mente che ci circondano. Mi guarda senza
capire, le lacrime prosciugate e le mie che riprendono a scorrere, dandomi un
po’ di sollievo. In quell’urlo, ogni goccia del mio amore umiliato.
Ok, d’accordo, so che non mi amerà mai, ma in
cosa mi sarebbe utile questo supplizio continuo? Una tortura e basta… lo guardo
sconvolta dal mio stesso urlo, stringendomi nelle spalle. So che non sa nulla di me, non sa che sono innamorata di lui… ma
perché? Perché non mi lascia stare?
“Ti prego, Draco… lasciami in pace…” sussurro alla fine, senza vergogna,
abbandonandomi del tutto e sedendomi per terra, le ginocchia piegate da questo assurdo martellare di ricordi e sentimenti che
dovevano restare solamente suoi.
Lui si china alla mia altezza, mi ritraggo nel vederlo avvicinarsi a me,
ne resta colpito e quasi addolorato. Ma non ci posso
fare nulla, non voglio che mi tocchi mai più…
Non vorrei nemmeno essere guardata dai
suoi stessi occhi che hanno guardato in quel modo Helena. E che, invece, hanno
guardato così me…
“Non posso… lasciarti in pace…” mi sussurra piano, sedendosi accanto a
me “Non ci siamo lasciati in pace a vicenda… e questo ora è diventato
necessario, Hermione…”.
“Necessario a cosa? A chi?” inveisco
nuovamente, la rabbia che mi prende ancora “A te, che ci soffri terribilmente?
O a me? che…”, la mia voce si spezza e ricomincio a
piangere, mentre pronuncio l’estrema bugia: “O a me a cui non importa nulla di
tutto questo?!”. Parole che vanno in una direzione e lacrime che vanno in
un’altra.
“E allora perché stai piangendo?” mi dice lui, guardandomi, dolore
insopprimibile e inesauribile nella sua voce.
Sussurro la sola cosa che mi metterà al riparo dal segreto che mi porto
dentro: “Nonostante tutto, non voglio vederti soffrire…”.
“Lo so…” bisbiglia lui, nessuna partecipazione nella voce, solo un’evidente
rassegnazione “Ti ringrazio…”.
“Non ce n’è bisogno, come non c’è bisogno di
tutto questo, adesso…”.
“E’ quasi finito, manca poco…” sussurra lui in
risposta, come se non mi avesse nemmeno udito.
Si alza in piedi, porgendomi la mano, e so ancora con estrema chiarezza
che, da questa storia non uscirò fino a quando non avrò visto tutto quello che
chiede.
Non prendendogli la mano, mi alzo con le mie forze.
Un solo sussurro e le immagini riprendono.
“Facciamo in fretta…”.
Sembra avermi evidentemente ascoltato, anche se ovviamente in parte,
perché come poco fa, le immagini scorrono velocemente, sono frammenti di
ricordi assieme e di baci, lotte tra le lenzuola, la pancia di Helena che
cresce di giorno in giorno di più. Una parte di me, a parte
la delusione e il dolore, non riesce a provare nemmeno risentimento per il loro
tradimento nei confronti di Amos Diggory. Sono così felici… mi mordo le labbra
ansiosamente…
Lui
continua a vivere a Lancaster Road, rinvia il momento
fatidico della sua decisione alla nascita del figlio di Helena, e lei fa lo
stesso.
Annegano i loro sensi di colpa per Amos l’uno nell’altra.
Lui le
chiede di sposarla come Rachel e Danny, dato che
avranno solamente quello dalla vita, e lei è titubante, ma alla fine accetta.
Le
regala un anello meraviglioso, un diamante che era appartenuto a sua madre, e
lei commenta tra le lacrime che non potrà mai indossarlo.
Draco
continua a vedere Amos Diggory e, di volta in volta, la pressione del tempo che
scorre, lo schiaccia profondamente, l’amore per Helena veleno nei suoi
pensieri.
Lei
suona ancora il pianoforte e gli dice che avrà una bambina.
E la
chiamerà Serenity Hope Diggory, perché crede ancora nella speranza di un futuro
sereno sia per loro, che per sua figlia ed Amos.
Draco
pensa per la prima volta al rapporto che dovrà avere con la figlia di Helena. Eppure,
rinvia ancora…
Draco viene attaccato a sorpresa da due Mangiamorte, a cui scampa
per miracolo, mentre torna nel suo appartamento.
Non ne
fa parola con nessuno, stringe tra le mani la cartolina di Helena da Vienna che
trovai anche io… le rose Helenae sul retro…
So
che non sopporti le cartoline e che le trovi odiose ed
inutili, ma insomma a questa non potevo resistere, non credi? Vienna è
bellissima… ma con te sarebbe stata più bella ancora. Cerca di stare attento.
Ci vediamo a casa. Rachel…
L’epilogo
di questa storia, non so perché, mi si palesa davanti agli occhi passo passo: qualcosa deve essere successa. Non potevano
evidentemente continuare così… io non avrei potuto vivere un solo secondo così,
ma io sono io. E per questo non potrei
mai stare con Draco… ma anche per loro, qualcosa
deve essere successa… semplicemente perché vivono su una nuvola, senza
pensieri, e qualcosa ti riporta sempre sulla terra ad affrontare quello che hai
lasciato sotto di te.
E
capisco che l’epilogo si avvicina, quando Draco inizia a tremare accanto a me. Davanti
a noi, turbina oltre lo specchio il ricordo di una
gelida notte di Natale di poco più di un anno prima.
“Sono felice che tu sia venuto, Draco…” la voce di
Amos Diggory, per la prima volta da quando Draco lo conosceva bene, suonava
autenticamente felice. Nessun retrogusto amaro o malinconico,
nessun evidente ricordo di persone morte nelle sue parole e nei suoi gesti.
Amos Diggory era felice.
E Draco Malfoy sentiva la sua gioia come una colpa
sulla sua persona. Il suo riso aperto, i suoi occhi scintillanti d’orgoglio,
erano un peso sul suo respiro che minacciava di ucciderlo ogni secondo di più.
“Quindi è nata?” chiese
Draco malinconicamente, seguendo l’uomo nel salotto della sua grande casa. In
un angolo, torreggiava un enorme albero di Natale, decorato di stelle d’argento
e d’oro. Quest’anno, Helena aveva deciso di farlo finalmente, forse intenerita
dall’imminente nascita di sua figlia, e vi aveva aggiunto una serie infinita di
vezzosi fiocchi rosa.
Amos guardò l’albero con un altro esasperante
sorriso, annuendo ed aggiungendo: “Sì, mia figlia è
nata, Serenity… è bellissima…”.
Draco si chiese che cosa ci facesse lì, così d’un
tratto e in modo così disperatamente sincero che si chiese come mai non se lo
fosse chiesto prima di uscire, prima di lasciare l’appartamento di Lancaster Road, quando aveva ricevuto un messaggio di Helena.
Semplicemente, gli aveva scritto che la sua bambina era nata. E lui si era
sentito in dovere di uscire nell’aria fredda e di andare ad
incontrare quella che solo per una maledetta fatalità, era figlia di Amos
Diggory e non sua. Perché di occasioni, pesanti come macigni nel ricordo e
leggiadri come piume nel corpo, ne avevano avute a decine. Ma
Serenity, per pochi fatali giorni, era indiscutibilmente figlia di Amos.
Sarebbe cambiato qualcosa, se poi fosse stata sua?
Draco se lo chiese ancora, seguendo Amos su per le scale. Forse niente… forse
tutto…
Quando Amos aprì la porta della loro camera da letto, Draco ebbe una vaga vertigine, il sudore
che gli inzuppava la schiena. Sapeva nascondere le sue emozioni e sapeva che nessuno se ne sarebbe accorto, ma ancora un’altra
constatazione ovvia gli aveva raggiunto la coscienza, causandogli un conato di
vomito. Si strinse la camicia, all’altezza della bocca dello stomaco, mentre
Amos continuava a chiacchierare.
Quella era la camera di letto di Helena ed Amos. La camera dove ogni notte, quando fuggiva da lui
leggera come una farfalla di seta, lei tornava a dormire.
Era sempre stata categorica. La mattina, lei si
sarebbe sempre svegliata accanto ad Amos. Nessuna scusa da inventare o bugia da
raccontare, come faceva in altri casi. No. Lei doveva tornare accanto ad Amos ad ogni alba, lui che era al massimo la luna incastonata nel
cielo che restava sempre presente, ma che aveva solo di che impallidire al
sorgere del sole.
Anche in altri casi, era stata categorica Helena.
L’anello
di Narcissa lo teneva sempre a Lancaster Road, chiuso
in un cassetto. Non lo indossava mai. Nemmeno quando era certa che Amos non
l’avrebbe mai vista.
Aveva
accettato di sposarlo, ma non aveva mai nemmeno parlato del giorno o del
periodo preciso in cui farlo, anzi non ne aveva parlato più.
Non
smetteva mai di portare l’anello di fidanzamento e la fede con le quali Amos le aveva cinto l’anulare.
Non
lo lascerà mai… fu il pensiero con cui Draco Malfoy accolse la vista di
Serenity Hope Diggory. Helena era distesa sul letto, ancora dolorante e rossa
in viso, ma incredibilmente felice. I suoi occhi luccicavano di gioia a stento
repressa e, quando Amos si chinò a baciarla sulle labbra, lei lo abbracciò di
slancio, sobbalzando solo qualche secondo dopo quando si accorse della presenza
di Draco.
Era
la prima volta che si scambiavano un gesto d’affetto
davanti a lui, erano sempre stati freddi e formali. Draco avvertì la nebbia
della gelosia chiudergli la gola, serrargli il respiro, come se, ancora, solo
ora si rendesse conto che lei era effettivamente sempre sposata con Amos. La
vista offuscata, si avvicinò al letto di Helena,
fissando in mancanza di altro, la bambina tra le braccia di Helena.
Amos
continuava a parlare entusiasta, il sorriso di Helena si era congelato sulle
sue labbra ghiacciate e Draco continuava a guardare Serenity.
Avvolta
in una copertina azzurra, era la bambina più bella che avesse mai visto.
Dormiva placidamente tra le braccia di Helena, non emettendo nemmeno un gemito,
aveva guance rotonde e rosee, capelli radi e soffici di un colore già tendente
al biondo. I lineamenti erano molto simili a quelli di Helena, eppure aveva
molto anche dell’aspetto gioviale di Amos. Il miracolo più bello fu, quando si
svegliò, e rivelò già dei chiarissimi occhi celesti, in tutto e per tutto
uguali a quelli della madre. Amos si sedette accanto ad Helena, accarezzando
allegramente Serenity, mentre Helena lo guardava in evidente apprensione.
Alla
fine, la donna finalmente parò, rivolgendosi a Draco e sorridendo
malinconicamente: “Le dovrai insegnare a giocare a Quidditch un giorno… Amos
non sa nemmeno che cosa vuol dire giocare a Quidditch…!”. Amos si ribellò con
lievi motti scherzosi all’indirizzo della moglie.
Draco
deglutì un paio di volte, prima di dire le parole più difficili che avrebbe mai
pronunciato.
Tutto
poteva continuare. Per sempre. Così. Questo lo sapeva.
Lui
ed Helena per sempre assieme, ogni momento della vita
di Serenity come un ulteriore traguardo nella loro corsa piena di bugie, mentre
ambivano al tanto desiderato premio di essere sinceri con sé stessi e con Amos.
Avrebbero
usato il primo compleanno della piccola come momento limite per parlare ad Amos…
e poi si sarebbero detti che era troppo piccola.
Allora
avrebbero aspettato che andasse ad Hogwarts. Poi che
finisse la scuola. E così, per sempre.
E
lui, Draco, avrebbe sempre avuto la metà oscura di Helena, come la luna che non
mostra mai un lato di sé stessa. Poteva sopportarlo?
Certamente.
L’avrebbe
avuta e tanto sarebbe bastato, per tanti giorni e per tanti
notti.
Sarebbe
stato l’eco del tempo immobile a schiacciarli entrambi. Un tempo che scorreva
circolare, in tondo, non procedendo mai in avanti, ma nemmeno indietro perché
indietro non si poteva tornare.
Perennemente
in quell’oggi eterno.
Con
Serenity che invece cresceva. Con Amos che invece invecchiava. E con loro che
invece vedevano il loro amore trasformarsi alla fine in un’abitudine
necessaria, senza futuro alcuno.
Lei
sarebbe stata libera. L’avrebbe liberata dall’onere di dover scegliere.
Togliendosi di mezzo.
Pensando
a quello e certo che lei avrebbe capito tutto, disse in un soffio doloroso:
“Sarà suo padre ad insegnarle il Quidditch e qualsiasi
cosa per lei sarà giusta… così come, da sempre, deve essere in una famiglia…”.
Helena
ovviamente comprese che stava dicendo. I suoi occhi si riempirono di lacrime,
tirò su con il naso cercando di calmarsi ed abbassò il
viso, nascondendo il suo volto ad Amos. Eppure, annuì senza una parola.
Draco
si scusò con Amos, dicendo che doveva andare via, ma non fece nemmeno in tempo ad uscire che qualcosa ruppe quella quiete che non era una
quiete, ma uno sbriciolarsi silenzioso di due cuori.
Improvvisamente,
Draco, senza nemmeno rendersi conto di come ciò fosse avvenuto, si ritrovò per
terra, carponi sul pavimento, le mani sulla nuca e un enorme ronzio nelle
orecchie. Attorno a lui, l’eco di un’esplosione immane ed
una nube di polvere. Il tetto era parzialmente crollato, per fortuna lontano da
Helena ed Amos, che si erano chinati a proteggere
Serenity. La piccola aveva iniziato a piangere.
Draco
si alzò velocemente, constatando superficialmente che
non era ferito, dallo squarcio aperto sopra le loro teste filtrava un freddo e
gelido vento invernale, oltre che qualche fiocco di neve. Raggiunse Amos, aveva
un profondo taglio sulla fronte che grondava sangue, dove era stato colpito da
una pietra. Aveva protetto Helena e Serenity con il suo corpo e, infatti, le
due non mostravano alcuna ferita.
Amos
si appoggiò stancamente al muro, ancora integro, una mano a trattenere il
sangue che scorreva copioso, guardò il tetto distrutto e la stanza da letto
completamente sconvolta: “Ma cosa…?!”.
“Stai
bene?” chiese preoccupata Helena a Draco, il quale
annuì distrattamente, scuotendosi la polvere dai vestiti. La aiutò ad alzarsi
da letto, circondandole la vita con un braccio, momentaneamente non memore
delle loro disavventure amorose; Helena infatti non si
reggeva ancora in piedi dopo il parto, le mise distrattamente una coperta sulle
spalle, mentre lei rabbrividiva nella camicia da notte di seta leggera, stringendo
Serenity.
Imbarazzata,
distolse lo sguardo da lui, guardando Amos: “Che è successo?”.
“Il
tetto… aveva alcune assi marce, probabilmente… il freddo di questi giorni deve
aver peggiorato la situazione, meno male che almeno non ci siamo…”.
Amos
fu interrotto da una nuova esplosione, stavolta proveniente dai piani
inferiori. La casa tremò dalle fondamenta, e si udirono urla e strepiti di elfi
domestici. Draco si chinò istintivamente su Helena, stringendola, un terribile
sospetto che prendeva forma nella sua testa. Divenne certezza in pochissimi
secondi. Grida, risate e bestemmie provenienti dall’esterno.
E poi quell’urlo: “Malfoy! Vieni
fuori a giocare!”.
Tremando,
si affacciò alla finestra che sembrava galleggiare nell’enorme voragine che era
stata aperta tra il tetto e le cantine. Nel buio, le luci di
bacchette sguainate. Maschere d’argento di vetusta memoria, su mantelli
neri. Erano solamente in due… ma dovevano essere in due particolarmente
pericolosi, specie se lo attaccavano da soli. Inoltre, dalla fisionomia,
sembravano abbastanza simili a quei due che lo avevano attaccato qualche giorno
prima. Draco chiuse gli occhi, risentendo le loro urla nelle orecchie… voci
familiari… Serpeverde… immediatamente collegò a due visi conosciuti. Riaprì gli
occhi. Pucey e Montague.
Terrore,
come un formicolio sulla nuca. Pucey… aveva fatto arrestare sua sorella, era
morta ad Azkaban qualche mese prima. Montague… aveva portato al nascondiglio di
suo padre, gli Auror lo avevano ucciso.
Vendetta.
Pura vendetta ora guidava il loro agire. Non si sarebbero fermati fino a quando
non fosse morto. Anzi, no… non si sarebbero fermati fino a quando non gli
avessero inflitto lo stesso dolore subito.
E,
solo allora, lo avrebbero ucciso.
Lui
aveva solo tre persone al mondo, adesso. Amos, Helena e Serenity. Avrebbero
iniziato da loro.
Con
rabbia impotente, si rese conto che gli Auror probabilmente non sarebbero
intervenuti nemmeno per loro, orgoglio ferito di essere stati ripudiati dal
traditore di ogni parte del mondo.
Non
avrebbero mosso un dito nemmeno per salvare i Diggory.
Possibile
che solo ora si rendesse conto di quanto fosse stato pazzo e suicida?
Di
quanto poteva buttare anche all’aria la sua vita, ma aveva anche direttamente
legato al suo destino di sangue e morte anche loro tre,
innocenti ed incolpevoli?
Avrebbe
dovuto fare come sempre, come il suo stesso sangue Malfoy gli avrebbe sempre
imposto di fare…sfruttare la protezione degli Auror… lasciare che morissero per
lui, per loro tre… invece aveva fatto l’idealista, come mai prima. Ma la guerra, sia come sia, non concede mai repliche
all’idealismo.
Lascia
in vita i cinici. Ed uccide senza pietà gli utopisti.
Ora,
quel destino sarebbe toccato a lui. E, prima di lui, ad Amos,
Helena e Serenity.
Non
poteva permetterlo, questo si disse. Idealista, ok…
allora eroe fino in fondo. Gli avrebbe difesi, fino
alla morte, lasciando che fuggissero. Si sarebbero salvati.
Uno
solo doveva morire quella notte. Ed era lui.
Ma non sapeva Draco Malfoy, in quella fredda
notte di Natale che avrebbe cambiato la sua vita per sempre, che il coraggio
non è degli agnelli che indossano le spoglie del leone, dei serpenti solo
costretti a diventare grifoni.
Probabilmente,
un giorno avrebbe conosciuto quella spinta dentro, il
calore del cuore che, di fronte alla prospettiva di perdere qualcosa di amato,
diventa mobilità del corpo, slancio dell’azione e velocità del pensiero.
Draco,
un giorno, avrebbe conosciuto il coraggio. Difendendo una persona che ama.
Questi pensieri… non sono
ricordi… sono pensieri di adesso…
Ma, invece, quel giorno, Draco era solo
desideroso di morire per sanare le sue colpe. Per liberarsi dell’amore
maledetto per Helena. Per avere il perdono per la morte dei
suoi. Per sanare l’odioso tradimento.
Voleva morire
solo per paura e per stanchezza della vita. Non per coraggio.
Per questo,
non seppe affrontare quello, invece, purissimo e niveo di Amos Diggory.
Alle sue
spalle, aveva visto dalla finestra i due Mangiamorte, ed
aveva subito saputo che cosa fare: “Draco, porta via di qui Helena e
Serenity…”.
“Che cosa?!” si voltò quasi irato Draco, incontrando gli occhi seri e
pur sereni di Amos. Alle sue spalle, Helena livida in volto stringeva con foga maniacale Serenity al petto.
Amos poggiò
con affetto paterno una mano sulla spalla di Draco, il ragazzo che rabbrividì
leggermente. Solo Helena seppe leggere nei suoi occhi
grigi commozione e lacrime represse.
“Draco,
figliolo…” iniziò Amos con voce pacata “Hai ancora
tanto da vivere e da amare… per me, non è così… il mio cuore aveva già amato e
perduto quando sono morti mia moglie e mio figlio…e quel giorno sono morto
anche io…”, era la prima volta che alludeva esplicitamente a loro, Helena cadde
in ginocchio, piangendo.
“Helena… è
sempre stata per me come una figlia e un colpevole tentazione
a cui non sono riuscito a non cedere…” parlava di lei come se non ci fosse, le
voci dei Mangiamorte lontani echi di morte nell’aria che vibrava delle sue
parole “Non avrei dovuto sposarmi… mai… sarei dovuto morire con il ricordo di
Daisy nel cuore e nel corpo. Ma ho ceduto e ho reso
prigioniera Helena… per sempre… ma ora sono in tempo per riparare ai miei
errori e liberarla finalmente. Liberarla da questo matrimonio che non ha mai
voluto. E liberarla anche dal peso di scegliere tra me… e
te…”.
Sapeva tutto.
Aveva sempre saputo tutto.
Draco cadde
anch’egli in ginocchio, aggrappandosi al mantello di Amos, Helena poco distante
da lui nella stessa posizione, il volto chino e i capelli sparsi sul suo viso.
Due figli che chiedono perdono al loro padre.
“Io non
posso…” mormorò Draco, guardando supplice Amos dal basso verso l’alto, gli occhi una nebbia di lacrime che non sapeva più piangere.
“Vai con lei…
“ordinò Amos con voce perentoria, guardandolo severamente “Ripara al tuo
errore, proteggendola ed amandola per sempre… e
proteggendo ed amando anche mia figlia… non è morendo che potrai espiare le tue
colpe... ma solo stando con Helena e con Serenity… andatevene adesso…”.
Draco si
sollevò in piedi, ergendosi in tutta la sua altezza, chiuse gli occhi pieni di
lacrime: “Non posso farlo, Amos…”.
Amos si
avvicinò a lui e, senza alcun preavviso, lo strinse forte,
un braccio attorno alle spalle piegate. Draco trasalì, deglutendo a fatica,
piangendo finalmente nella stretta dell’uomo che non era suo padre ma che gli
faceva ricordare un gesto che mancava dalla sua memoria da anni.
“Lo devi
fare, Draco…” sussurrò Amos al ragazzo che piangeva “Rendila felice come non ho
mai potuto fare… guadagnerò il tempo che vi serve…”.
Si staccò da
Draco con un sorriso mesto, prendendo per i polsi Helena e facendola rialzare
in piedi come una bambolina di stracci. Il capo della ragazza andò giù proprio
come quello di un giocattolo inanimato, solo il braccio che reggeva Serenity
era saldo. Le accarezzò i capelli ricci e le baciò la fronte, ripeté lo stesso
gesto con maggiore cura e malinconia con la neonata figlia.
“Sii felice,
Helena… perdonami, se puoi…”.
A
quelle parole, Helena alzò lo sguardo, piangendo, e si gettò tra le sue
braccia: “Non hai niente da farti perdonare! Nulla! Nulla! Perdonami tu! Io ti ho tradito tante di quelle volte che… ti volevo solo fare del
male… e tu invece… perdonami Amos!”. L’uomo annuì, accarezzandole ancora
il capo, poi la sospinse delicatamente verso Draco: “Andate via adesso!”.
Un nuovo
scoppio fece tremare la casa dalle fondamenta.
“Passate dai
sotterranei… vi porteranno fuori di qui…” furono le ultime parole che disse
Amos prima di Smaterializzarsi fuori, sparendo con un leggero pop.
Pochi secondi
dopo, mentre Draco si caricava Helena sulle spalle e prendeva Serenity in
braccio, Amos Diggory moriva nella neve fresca, a pochi passi dai resti
dell’albero di Natale di sua moglie Daisy. Negli occhi
spenti per sempre, quell’ultima luce che sarebbe stata come un faro per
ritrovare i suoi cari.
Draco correva
nei sotterranei, l’umidità nel suo respiro affannato e terrorizzato, un barlume
di quel coraggio nella sua folle corsa, Helena continuava a piangere sulla sua
schiena.
Era dolorante
per il parto e ferita nell’anima, le esplosioni fuori erano sempre più forti e
più vicine.
E Draco fece
la cosa più ovvia per proteggere la sua famiglia.
La depose
delicatamente per terra, la fece nascondere in una nicchia ben protetta e le
disse di aspettarlo lì.
Lei lo guardò
piangendo, mormorando solamente con una voce che aveva solo del perentorio
ordine: “Devi tornare… da me e da Serenity… sono stata chiara?”.
Lui annuì,
baciandola, e corse fuori.
Era appena
uscito e si ritrovò nell’aria fredda della notte, pronto ad affrontare i
Mangiamorte, ora per vivere accanto ad Helena e Serenity.
Era appena
uscito che Pucey e Montague fecero esplodere la casa
dalle fondamenta.
Era appena
uscito che il castello dei Diggory fu avvolto dalle fiamme, non risparmiando
nulla.
Era appena
uscito che Helena Jasmine Greengrass, che sarebbe sempre stata in Diggory e mai
in Malfoy, moriva senza lasciare traccia, senza nemmeno un corpo da piangere,
arso mentre proteggeva la sua bambina.
Era appena
uscito che un urlo di dolore, come quello di un animale ferito, squarciò l’aria
colma di neve, mentre i Mangiamorte ruggivano di trionfo smaterializzandosi
lontano.
Sotto quella
neve, in quelle lingue di fuoco, bruciò la sola cosa rimasta ancora in vita di
Draco Lucius Malfoy.
Il suo cuore.
Non ce la faccio, non posso
trattenermi. Dimentico ogni cosa, correndo verso di lui che si accascia per
terra, la mano che scivola lentamente sulla superficie fredda dello specchio,
con uno stridio sordo e fastidioso. Cado per terra davanti a lui e lo abbraccio
forte, stringendolo forte tra le mie braccia, le lacrime di un lutto che avevo intuito
e di cui, sebbene non possa provarne il dolore, sento la lacerazione che prova Draco,
dentro di me, come se mi appartenesse da sempre. Le sue braccia mi stringono
alla vita, io ancora in ginocchio e lui seduto per terra, mi attira forte verso
di sé, aggrappandosi con tutte le sue forze residue a me, come se fossi il solo
vessillo rimasto nel suo mondo che si arrende e mostra bandiera bianca al
dolore di cui è piena la sua vita.
“Non è stata colpa tua…”
sussurro, stringendolo ed indovinando quello che deve
essere il suo tormento costante, le sue mani sulla mia schiena sussultano e
tremano, aprendosi piano. Nella sola occasione che, forse, in tutta la mia e la
sua vita mi sarà data di toccarlo ancora, appoggio la mano sulla sua testa,
accarezzandogli delicatamente i capelli biondi.
Solo nel mio cuore, so esistente
un fremito ricolmo di passione nefasta, ma da fuori so che sembra che lo stia consolando come si fa con un bambino.
Semplicemente con tenerezza. Non
con amore.
Amore. Non con enorme amore che si deflagra implacabile
tra i miei organi, incatenando il respiro, sciogliendo il pensiero e invadendo
il cuore.
“Hermione… io avrei potuto
salvarla… Amos… io… glielo avevo promesso…” bisbiglia dolorosamente, le parole
soffocate contro il mio petto, il suo respiro caldo che si insinua
sotto i miei vestiti, facendomi rabbrividire.
Stacco faticosamente il suo viso
da me, prendendolo tra le mie mani e guardandolo in viso con feroce decisione:
“Guardami, Draco…”.
I suoi occhi, lucidi eppure
asciutti, come chi ormai non sa nemmeno che senso abbia piangere ancora, mi
guardano con doloroso rimorso.
“Pucey e Montague l’hanno uccisa…
non tu…” ripeto con voce decisa, tirando su con il naso. Il suo dolore è
un’overdose, che mi hanno iniettato direttamente nelle vene e che si è
sostituita al mio stesso sangue, lasciandomi nell’agonia lenta di sapere la mia
morte vicina. Non credo di essere mai stata così male per una cosa che non mi
riguardasse da vicino… è come se oramai tra i sentimenti di Draco e i miei, ci
fosse una specie di rovinosa osmosi, una parete sottilissima e piccolissima che
si frappone tra me e lui, confini nel tempo scolpiti e delimitati con selvaggia
ostinazione, e che oggi sono meno che nulla.
Sono lui e lui è
me… o forse sono solo io che sono diventata meno che niente, e lui che ha
assorbito il mio cuore.
Lui esiste sempre per intero.
Sono io che non esisto più.
“Mi sono fuggiti… quella notte…”
continua Draco con un filo di voce “Ed anche altre volte… tante volte… non sono riuscito nemmeno…”.
La Hermione che
conoscevo, lo avrebbe dissuaso, dicendo che la vendetta è inutile e che ti
sporca solamente l’anima.
Assomiglia alla giustizia, ma in
realtà ne è solo una copia malriuscita.
Ma oggi, più che
mai, non so nemmeno io chi sono. Sono semplicemente nelle parole che vanno
dalla mia bocca al suo orecchio.
“Ce la farai… un giorno… li
troverai…”.
“Non ci credo che tu l’abbia
detto…” commenta quasi con un sorriso, le mie ginocchia che si piegano, ricado
alla sua stessa altezza, i suoi occhi, velluto soffice di nuvola.
“Nemmeno io…”.
“Ho una cattiva influenza su di
te, Granger…”.
“Lo credo anche
io…”.
“Saresti stata una perfetta
Serpeverde, in fondo…” mi dice con malinconia, e trovo
che sia il più grande complimento che mi avrebbe potuto fare nella vita.
“Sono infida, meschina e
doppiogiochista?” blatero sarcasticamente, cercando di mantenere il mio
contegno solito che mi imporrebbe di vedere solo con
disprezzo l’aggettivo “Serpeverde” associato alla mia persona. E lui è come se
capisse che non ci credo nemmeno io… non mi segue nel mio moto ironico,
rispondendomi a tono.
Sembra persino pensarci un po’,
mentre si alza in piedi e ritorna in sé, invitandomi silenziosamente a fare
altrettanto.
È solo quando tocca lo specchio
che riprende a vorticare di immagini sconosciute che
mi arriva la sua risposta.
“Non saresti mai in grado di
essere infida, meschina e doppiogiochista… saresti stata semplicemente
l’orgoglio di essere quella che sei, come ogni Serpeverde… anche quando questo
vada contro ogni sentimento comune… non sei l’incarnata ed
inquadrata virtù dei Grifondoro…tu sei la forza caparbia e testarda di essere
sempre quella che sei… e questo non è dei Grifondoro… è dei Serpeverde… nostra… o meglio, mia…”.
“Vuoi dire che non siamo mai
stati così diversi come abbiamo sempre creduto?” commento fiocamente.
La sua risposta si perde nei suoi
occhi che ora guardano solamente lo specchio.
La sua risposta è solo un accenno
all’insù delle sue labbra, subito sedato da un’ombra scura nella sua
espressione.
La sua risposta viene soffocata immediatamente dall’esigenza cupa che io
continui a vedere.
E, improvvisamente, mentre le
immagini riprendono, afferro solo per un attimo quanto terrore abbia di quella
risposta.
Tac.
Tac. Tac.
Sempre
quel rumore nelle orecchie, consolazione del suo ripetersi ed
ossessione del desiderio di risentirlo.
Draco
potrebbe riassumere le sue ultime tre settimane dalla morte di Amos ed Helena, in quel suono metallico. Ci avrebbe aggiunto, al
massimo, il respiro di Serenity, la bambina bionda che dormiva accanto a lui,
disteso sul letto dell’appartamento di Lancaster Road.
Serenity aveva paura di piangere, così sembrava… da quella notte in cui per
poco aveva scampato la morte, Serenity non piangeva mai.
Come
se sapesse… come se anche Serenity, con la sua esperienza di vita di sole tre
settimane, breve eppure già pesantissima, sapesse che non valesse la pena
piangere per nulla, se non per la morte dei suoi genitori.
Ma,
siccome la sua mente era ancora troppo piccola ed
ingenua per ricordarli, nella mancanza di quel dolore, non piangeva affatto.
Tac.
Tac. Tac.
Il
fermaglio a forma di libellula, si aprì ancora con quel suono freddo, liberando
solo per qualche secondo la voce di Helena, impressa per sempre lì nell’ultimo
spasmo di vita che le era rimasto.
Lo
gettò lontano, con rabbioso dolore, e quello si aprì lo stesso. Tac.
Non
fece in tempo a correre per richiuderlo. Lei parlò di nuovo. Solo parole. Le
ultime. Nemmeno profumo o occhi o labbra o mani. Solo
parole di una voce che stava morendo.
Si
bloccò, ed Helena parlò di nuovo da quel fermaglio che
era rimasto stretto nella manina di Serenity, quando l’aveva ritrovata illesa,
mentre di sua madre non c’era traccia.
Volata
nella morte, come la farfalla che era stata in vita… lasciando alle sue spalle
solo quel messaggio silente, per lui, nella mano di sua figlia.
Draco
si accasciò piangendo, ascoltando ancora il testamento di Helena che risuonò
nelle pareti della sua stanza.
Tac.
Draco, io ti amo. Ti ho sempre amato, probabilmente dal primo giorno
in cui ti ho visto, quella sera di dicembre che Amos ti portò a casa nostra.
Non so se te l’ho mai dimostrato pienamente, se il
mio essere così maledettamente egoista e codarda non ti abbia sempre
privato dell’amore di cui davvero avresti dovuto avere bisogno. Non mi hai mai avuta del tutto, sono sempre stata in bilico tra te ed
Amos.E mai, mai, mai…ti ho fatto pensare di essere davvero
la scelta tra te e lui. Ma lo sei. Lo sei, Draco,
amore mio. Lo sei sempre stato.
Per questo, Draco, vivi, vivi anche
per me. Ed ama anche per me. Questa è la prima
cosa che riesco a dirti e che riesco a pensare.
Draco, ama, non c’è niente che valga la pena di fare a questo mondo,
davvero, se non amare con tutto il cuore qualcuno. Nemmeno il nostro odio, la
nostra rabbia, il nostro rancore e il nostro dolore, che sadicamente ci siamo
sempre inflitti dentro, credendo di meritarli davvero, valgono
quanto amare qualcuno con tutte le forze, proteggerlo, sostenerlo e renderlo fiero
di noi. Apri il tuo cuore all’amore, Draco, aprilo alla donna che è destinata a
possederlo. So che esiste. So che c’è. Non
ero io, Draco. Se lo fossi stata, ti avrei reso la vita e la gioia che ti sono state negate, non ti avrei gettato ulteriore dolore e
tormento, provenienti solo da me. Lei, invece, la donna della tua vita,cancellerà quel
dolore e tormento dentro di te, semplicemente… e tu lasciala fare, non avere
paura.
Sii quello che sei, non
mentire più, non nasconderti più. Non c’è amore più puro e perfetto di amare chi siamo davvero, e non ombre sotto falso nome,
come abbiamo fatto noi. Amala Draco… e
più di quanto tu abbia fatto con me. Anzi, non di più o di meno… ma in un modo
così unico e speciale che lei non debba mai pensare a me e soffrirne.
Non farla soffrire per me, Draco, non riversarle addosso
qualcosa di cui non ha colpa. Non essere me. Per quanto tu ci riesca, Draco, dimenticati di me. O perlomeno
dimenticati dell’amore che provavamo.
Vivi e vai avanti, scordandolo. Perché solo così andrai avanti,
amore mio… io ti proteggerò da ogni parte dell’Universo dove
finirò. Per sempre.
Proteggerò per sempre te, lei… e Serenity, ovviamente. La mia
bambina. Mia figlia.
Dio mio, è così ingiusto… la mia bambina… non la vedrò crescere,
mai. Non saprà nemmeno chi sono… no, non ce la posso fare… mio Dio, non ce la
posso fare…
…
…
Sto per morire, Draco, lo so… quindi per favore, ascolta le mie
parole.
Proteggi mia figlia e fai che sia la serenità di cui porta il nome.
Sono certa che troverai una donna che sia anche una mamma per lei, fai che la
ami come io non ho mai potuto fare e che non le faccia
mai rimpiangere di non avermi avuto. Draco,
parla a Serenity di me quando sarà il momento, quando potrà capire… non
omettere nulla, dille e raccontale tutta la verità. Chi sono stata davvero e il
bene che volevo a suo padre… e l’amore che provavo per te. E dille che la amo,
da morire, che l’ho sempre amata e che sempre la amerò.
Che si fidi sempre di sé stessa, che sappia di poter
essere sempre quella che vuole e che crede, e che possa essere la donna
migliore del mondo quando crescerà… e che abbia sogni, Draco. Immensi, grandi,
colorati, e che lotti tutta la vita per realizzarli come io
non ho mai avuto il coraggio di fare. Sia forte nella strada della vita, che
abbia sempre amici che la sostengono ed aiutano… e che
ami, Draco, ami anche lei con tutta la forza che ci vuole vivendo. Perché amare
è vivere, Draco, mai come ora ne sono certa.
Vorrei che fossi per lei un padre, Draco, ma so di non potertelo
chiedere. Ho solo una cosa da chiederti.
Che sia babbana, Draco, che non cresca nel nostro mondo… ti prego,
Draco, che non sia mai una strega. Le faranno quello che hanno fatto a me. I Greengrass non la lascerebbero mai in pace, ed
io non voglio che accada. Loro non sapevano che ero incinta, avevo detto ad
Amos che volevo aspettare che Serenity nascesse, avevo finto una scaramanzia
assurda nell’ipotesi che la gravidanza andasse male, ma in realtà cercavo di
prendere tempo. Sapevo che avrebbero avanzato delle pretese su di lei…specie, dopo che
hanno scoperto della mia doppia vita. Non so come abbiano fatto, e non te l’ho
detto perché in fondo non era importante… ma mi hanno cancellato dalla famiglia.
Ma Serenity… lei è una Purosangue, figlia di Amos Diggory, destinata
ad una rendita e patrimonio inimmaginabili. Si
cumuleranno su di lei i patrimoni di quel casato che ormai, dopo Amos, è
estinto.
La sfrutteranno… Draco, che non lo sappiano mai… non avendo Amos dei
parenti ancora in vita, la affideranno a loro. Tu per
lei, non sei un parente, anche se, dopo Amos, sei forse la persona più vicina ad un padre che lei abbia.
Solo per poco, lo sappiamo entrambi, Serenity non è tua, nostra
figlia.
Ti prego Draco... rendila
babbana, bloccale i poteri, qualsiasi cosa… ma che sia babbana. Che sia libera.
In quel mondo, con te, io ho vissuto i momenti più belli della mia vita… e
voglio che anche Serenity conosca questa gioia…
Ti prego, Draco, è la sola cosa che ti chiedo davvero.
Il
testamento di Helena terminava così. Con un respiro un po’
più forte. L’ultimo.
Helena
moriva così. E lui non sapeva nemmeno che altre parole avrebbe voluto, in fondo
c’era tutto… ma era solo quel pesante respiro che sentiva nelle orecchie. Sempre.
Ogni giorno, ogni notte, sempre.
Tac.
E
quel respiro.
Soli,
a riempire quel vuoto in testa. Assieme alle parole su Serenity. Ora sapeva
solo pensare alla parte su di lei… a quella su sé
stesso, Draco non prestava la benché attenzione, considerandola assurda. Lei
parlava di amare ancora… e lui invece ora viveva solo per Serenity. Che spazio
ci sarebbe stato per l’amore in tutto questo? Nulla. E nemmeno lo voleva.
Ora
capiva Amos che sorrideva ad un dipinto animato in
salotto con le fattezze di Daisy Diggory… un giorno, avrebbe finito anche lui
il quadro di Helena di cui ora aveva solo gli occhi, rendendolo vivo.
Rendendolo
la sola cosa viva, dopo Serenity, rimasta nella sua vita, si sarebbe perso per
sempre in esso, finendo di morire e restando sufficientemente esistente nella
parte in cui doveva.
Solo,
per proteggere Serenity, garantire che restasse babbana e che i Greengrass non
sapessero di lei.
E
poi, appena avesse affidato Serenity a qualcuno che lo meritasse dato che era più che mai convinto che uno come lui non
avrebbe mai potuto farle da padre, restava una sola cosa nella lista.
Pucey.
Montague.
E,
allora, finalmente poteva morire.
Chiuse
gli occhi, stanco, prese da terra il fermaglio di Helena richiudendolo ancora.
Tac.
Lo
nascose in un cassetto della sua scrivania, chiudendolo a chiave, in modo che
Serenity non lo potesse trovare quando fosse diventata abbastanza grande da
capirne il contenuto ma troppo piccola per comprenderne
l’autentico significato. Si avvicinò a lei, che dormiva ancora sul suo letto,
pancia in giù, e le accarezzò la testa con un sorriso lieve.
La
sua vita, mai come in quel momento, era Serenity. Fin quando la piccola avesse
avuto bisogno di lui, Draco sarebbe rimasto vivo, o perlomeno vivo da
camminare, muoversi e parlare.
Per
il resto, Draco oramai era un essere putrefatto dal dolore, dall’odio e dalla
colpa.
Stava
per mettere Serenity nella sua culla, quando un rumore nel soggiorno attirò la
sua attenzione. Pop. Qualcuno si era Smaterializzato.
Draco
sospirò profondamente, prese Serenity e la poggiò nella sua culla. Considerando
gli incantesimi che c’erano nella stanza e che impedivano qualsiasi
Smaterializzazione, poteva essere solo una persona.
La
sola che non voleva vedere in quel momento. E la più assurda che, anni fa,
avrebbe immaginato come soggetto privilegiato nel poterlo raggiungere in
qualsiasi momento.
“Malfoy!”
urlò la voce con tono autoritario e severo “So che sei in casa, quindi non fare
finta che non ci sei!”.
Draco
sospirò ancora rumorosamente e si trascinò pigramente in salotto, era solo per
quella patina di tristezza, che oramai gli era tipica,
che non strascinò i piedi per terra ironicamente, come un bambino dispettoso.
Potter
era in piedi, le spalle alla finestra e le braccia conserte, in attesa. Era
palesemente spazientito. Aveva l’aria stanca, come ogni volta che lo vedeva, la
tipica espressione da Potter, quello che aveva sempre dovuto portare da solo il
peso dell’umanità come Eroe del Mondo Magico. A questo si era aggiunta la
stanchezza di essere adesso anche il Ministro della Magia, oltre che essere il
solo depositario dei grandi segreti di Draco Malfoy. Se Draco lo avesse pensato anni prima, probabilmente si sarebbe messo a
ridere… ma ora quel misto di ammirazione e di invidia che aveva sempre provato
per lui, lo aveva reso dipendente da Potter più che da ogni altra persona al
mondo. Certo, anche Blaise e Pansy sapevano che era vivo… ma il solo che
sapesse di Serenity, era lui.
Perché?
Si chiese Draco. Perché si era fidato di lui?
Semplice.
Aveva messo la sua vita e quella di Serenity nelle mani di Harry, perché le
considerava le più adatte allo scopo.
Era
rimasto ore nei sotterranei anneriti dall’esplosione, nelle fondamenta del
castello distrutto dei Diggory, Serenity in braccio che piangeva e il fermaglio
di Helena nelle mani.
Alle
prime luci dell’alba, si era stagliata nell’aurora la sagoma di Harry Potter,
apparentemente solo, anche se fuori si sentiva il vociare degli Auror, cosa che
mai come in quel momento, feriva le orecchie di Draco.
Lo
aveva preso per un braccio, aiutandolo ad alzarsi, e
lui come un automa aveva obbedito, poi lo aveva condotto lontano, in un
appartamento che non conosceva.
Aveva
fatto chiamare una donna che si prendesse cura di Serenity, e che portasse a
lui di mangiare. Gli aveva intimato di restare nascosto, e
lui, senza forze, aveva obbedito, trascorrendo le ore a letto e ignorando
persino la vista ormai insopportabile di Serenity per la somiglianza con sua
madre.
Si
era persino occupato, dopo suo esplicito consenso, di inscenare la sua morte,
nel rogo di Malfoy Manor, causato da un incidente con un drago, oltre a
tumulare in gran segreto Amos ed Helena.
Aveva
preferito fare in questo modo, per depistare i Mangiamorte ancora sulle sue
tracce, decidendo di dare l’annuncio della loro morte solo qualche mese dopo,
in modo che fosse escluso qualsiasi collegamento tra loro e la sua “presunta”
morte. In fondo, solo i Greengrass avevano interesse a sapere ciò… ma non
parlavano con la primogenita da tempo, quindi una sua
mancanza di contatti non avrebbe destato sospetti.
Potter
aveva anche accettato che Draco tenesse con sé Serenity. Lo aveva chiamato un
“risarcimento” per la fine dei suoi, e Draco, sebbene non ne volesse e nemmeno
sentisse di meritarlo appieno, accettò di buon grado.
Harry
si impegnò quindi a tenere nascosti entrambi, dai
Greengrass e dal resto del mondo magico.
Inoltre,
e di questo Draco era maggiormente grato anche se non
l’avrebbe mai ammesso, Harry, al momento, semplicemente “pensava” al posto suo.
Lui
era incapace di farlo. Era incapace di fare qualsiasi cosa.
Si
sedette stancamente sul divano ed Harry lo imitò,
senza aspettare un suo invito, mentre Draco guardava in modo malinconico fuori
dalla finestra. Gli occhi grigi si eclissarono per un attimo, ricordando
Helena.
Cercando
di non ripensare ancora a lei, chiese sgarbatamente al Ministro che cosa
volesse, visto che non parlava ma sembrava smanioso di
dirgli qualcosa. Semplicemente sembrava che non sapesse da dove iniziare.
Potter sospirò e chiese: “Hai sistemato le cose? Stai mettendo a punto la tua identità babbana?”.
Draco
annuì, senza troppa convinzione, ed aggiunse
solamente: “Il Petite Peste… il locale che aveva rilevato Helena due anni fa e
che voleva gestire, una volta finita la carriera di modella... lo avevamo
affidato ad un ragazzo fino a quando era incinta, Seth Green… riprenderò
semplicemente la mia qualifica e ci andrò più volte di quanto facessi prima…”.
“Ottimo”.
“Probabilmente
venderò anche quest’appartamento…” commentò laconicamente Draco, guardando le
pareti “Ed andrò a vivere lì… non credo di sopportarne
più la vista…”.
“Capisco…”
soggiunse Harry a disagio, incrociando le braccia al petto “Sbloccherò parte
dei tuoi beni e la convertirò mensilmente in sterline… così non dovresti avere
problemi…”.
“Queste
cose le so già Potter… cosa c’è di nuovo che non
riesci a dire?” lo interruppe Draco bruscamente.
Harry
trasalì, spalancando i grandi occhi verdi. Sorrise tra sé e sé, anche lui
vagamente sorpreso del legame inconcepibile che ora legava i loro destini.
Ricordò
gli anni di scuola e quanto lo aveva odiato, e si chiese, in fondo, che cosa
fosse cambiato. Lui, Harry, era sempre lo stesso.
Preso
da mille problemi e pensieri, forse più grandi di lui. Sempre innamorato della
stessa donna. Sempre gli stessi amici, sebbene di uno oramai non avesse quasi
più notizie. Lei, Hermione.
Ma, nello sguardo di Harry Potter, dopo quei
pensieri si lesse la verità innegabile. Lui era sempre lo stesso.
Tecnicamente
e praticamente, invece, Draco Malfoy, il suo acerrimo
nemico non esisteva più. Davanti a lui, sedeva un manichino con le sue
fattezze, ma vuoto dentro di ogni pensiero, ricordo o volizione.
Finalmente,
Harry si decise con un sospiro seccato a raccontare la spiacevole novità
accadutagli.
Astoria
Greengrass aveva scoperto tutto di lui, di Serenity e del fatto che vivesse da
babbano.
Non
si sa in quale modo ci fosse riuscita, probabilmente collegando la vita babbana
della sorella e lui… evidentemente nelle rare volte in cui si erano visti,
aveva intuito che tra lui ed Helena c’era qualcosa. Ed aveva scoperto tutto. Voleva che lui onorasse la vecchia
promessa tra le loro famiglie e che la sposasse… altrimenti avrebbe rivelato
l’esistenza di Serenity ai suoi. Voleva che si legassero con una Promissio
Gemina con Potter come garante, in modo da legare il patto alla figura di
maggiore autorità del mondo magico.
Draco
chiuse gli occhi per un attimo, se ne fregava ovviamente di tutto, anche di
sposare Astoria. La sciocca non capiva che, facendolo ritornare nel mondo della
Magia, probabilmente i Mangiamorte l’avrebbero cercato ed
ucciso, assieme a lei. La sua cotta idiota per lui, l’avrebbe messa in pericolo
al pari di Helena. Ma se non lo capiva, erano solo
affari suoi.
A
lui importava solo di difendere Serenity. Era la sola promessa ad Helena che era rimasta in piedi e che non avrebbe mai
infranto.
Accettò,
ma chiese tempo.
Sette
anni.
Da
vivere come Danny Ryan. Da babbano, sarebbe stato più facile trovare Pucey e
Montague se erano convinti che era morto. Ed ucciderli.
Intanto,
Serenity sarebbe cresciuta, sarebbe stata in grado di conoscere la verità e
allora l’avrebbe affidata ad una famiglia babbana che
meritasse di averla.
E,
magari, avrebbe trovato anche un modo per sbarazzarsi di Astoria, una volta
nascosta Serenity.
Altrimenti,
l’avrebbe sposata, sarebbe stato seccante, ma sapeva che in quel caso avrebbero
avuto vita breve assieme.
Astoria,
inorgoglita dalla possibilità di diventare una Malfoy, accettò senza pensieri,
anche con le clausole aberranti di essere una babbana per sette anni.
Anche
con la clausola di diventare Summer Breeze Layton e di vivere al 76 di Lancaster Road. Anche con la clausola che Serenity
doveva essere protetta anche da lei, in modo che non mostrasse mai i segni
della magia.
Ad
Astoria, interessava solo diventare la signora Malfoy e sposare Draco, il suo
unico amore. Il suo era un sentimento effimero ed
utilitaristico come pochi, ma si era aggrappata ad esso con tutte le sue forze,
nello sfacelo della sua famiglia e della ricchezza e del prestigio, nemmeno
riparati dal matrimonio di Helena o da quello previsto di Daphne.
In
fondo, nessuno era i Malfoy.
Ed in fondo, il valore di una donna si vede
dall’anello che porta.
Celebrarono
la Promissio Gemina,
alla presenza di Potter. Quella sarebbe stata l’ultima volta che Draco
l’avrebbe visto prima che…
Improvvisamente Draco, in curioso
controsenso con tutto quello che ha fatto fino ad ora e che mi ha fatto
soffrire enormemente, cerca di strapparmi dallo specchio e da un nuovo ricordo
che sta affiorando, assolutamente involontario. Perché? Non mi ha già fatto
vedere tutto quello che di peggio potesse esistere per me?
Mi artiglio allo specchio con tutte le
mie forze, curiosa, con una speranza assurda che quel ricordo celato
goffamente, sia qualcosa che mi porti almeno un po’ di
ristoro dal peso che avverto dentro.
L’immagine resta ferma, sono Harry e
Draco nella sua stanza al Petite Peste. I loro abiti, il loro
comportamento… la data sul calendario…
Una settimana dopo la luna nuova. Io
quindi sono ancora in coma nella stanza accanto… il
momento del loro incontro, quando Ginny ha pensato che Harry fosse andato a
cancellare la memoria a Danny Ryan. Ma in cui invece
dovevano aver parlato di qualcos’altro… erano stati sempre stati sibillini, non
mi avevano mai detto nulla, nessuno dei due. Anzi, solo una cosa…
Al
momento, per la prima volta nella vita, io e Potter una cosa in comune ce l’abbiamo… te…
Io…
hanno parlato di me… per quello non vuole che veda questo ricordo…
Faccio forza sullo specchio con tutta la mia
volontà, so che, se fossimo fuori da questo Pensatoio, lui sarebbe più forte di
me. Ma qui, conta solo la volontà e la mia ora è
evidentemente più forte della sua. Riesce ad
escludermi le immagini, restano fisse in quel flash di loro due che parlano, ma
le parole no… quelle no…
Quelle no… le intendo benissimo…
Ed è lì che mi si spezza il cuore, davvero, anche
se credevo che si fosse spezzato prima, mentre lo guardavo con Helena.
Capitolo 24 *** A touch of madness in love and a touch of logic in insanity ***
Capitolo 24 – A touch of madness in love and a touch of logic in
insanity
Capitolo 24 – A touch of madness in love and a touch
of logic in insanity
Si arrende.
Alla fine, Draco Malfoy si arrende. Ed oltre alle parole, anche le immagini riprendono. Me le
mostra volontariamente.
E, in questo, non c’è nessuna generosità.
Evidentemente c’è solo il crudele e malsano desiderio che sia umiliata e derisa
del tutto. Mi porto le mani alla bocca, non riuscendo a frenare le mie lacrime,
mentre lui ed Harry parlano.
Tutto
quello che avevo creduto… tutto quello che scioccamente avevo pensato… non è
mai realmente esistito.
“Malfoy…”.
Harry Potter, il viso profondamente cerchiato, aprì con un cigolio la porta
della camera, richiudendosela immediatamente alle spalle in modo furtivo. Socchiuse gli occhi, abituandosi alla penombra della stanza,
individuando nel cono di luce scarso di una lampada sulla scrivania, la figura di
Draco Lucius Malfoy. Accanto a lui, nella culla, Serenity Hope Diggory giocava
allegramente con un peluche, emettendo gridolini festosi. Riconobbe
immediatamente il Ministro, ma non fece le solite scene di evidente
dimostrazione di simpatia.
Forse
Serenity era davvero intuitiva… o forse semplicemente era quell’aria ad essere così pesante da poter essere riconosciuta persino
da una bambina.
“Potter…”
lo salutò freddamente Draco, sollevando appena lo sguardo da una pila di fogli
di carta sulla scrivania.
“Ufficialmente,
sarei qui per cancellarti la memoria…” commentò Potter, stancamente,
abbandonandosi su una sedia e passandosi una mano infiacchita sulla fronte.
“Ed ufficiosamente?” chiese Draco, continuando a dargli le
spalle, apparentemente preso in modo assoluto dalle sue faccende. Le sue spalle
si erano, però, contratte in un moto spontaneo ed
involontario.
Harry
prese a pulirsi gli occhiali con un lembo della camicia, in modo incerto, prima
di dire: “Ufficiosamente sarei qui per portarti informazioni… avrei mandato il
solito gufo, ma credo che sarebbe stato inutile,
trovandomi già qui. Inoltre con tutta questa gente nei paraggi, credo che un
gufo che si mette a svolazzare vicino alla tua finestra, avrebbe creato
sospetti… e sarebbe stato anche pericoloso…”, la sua voce si tinse di irata preoccupazione, mentre soggiunse: “… anche se forse
più per loro, che per te…”.
Draco
sospirò rumorosamente, voltandosi infine, e dicendo con voce sgraditamente
ovvia: “I Confundus e gli Incantesimi di Memoria sono necessari, Potter, per
proteggere me e Serenity… lo sai meglio di me… potrei persino fidarmi di quella
piattola della tua donna, ma Weasley, Thomas e la Brown sono davvero troppo…
non terrebbero un’informazione del genere per sé, nemmeno sotto Crucio. Ed immagino che sarebbe un bel gossip raccontare a tutti che
Draco Malfoy è vivo e che, per giunta, vive da babbano…”.
“Ed Hermione?” mormorò Potter con voce atona, guardandolo in
modo duro ed ignorando le sue parole, era evidente che Potter nascondeva
qualcosa che andava al di là del senso precipuo della loro conversazione.
Il
Ministro chiuse le mani a pugno, e tornò a guardare Malfoy, giada gelata negli
occhi: “Era necessario?”.
“Cosa?”.
“La Greengrass mi ha detto
che lei non sa chi è… che è sotto incantesimo da settimane… pensa anche lei che
si chiami Summer… ha riso come una povera imbecille, quando me l’ha detto, le è
passata la voglia solo quando le ho detto di non permettersi più di incantare
Ginevra, senza che gliel’abbia detto io, o la sua Promissio Gemina diventerà
improvvisamente carta straccia…” riprese Harry, la
voce scura, alzandosi in piedi ed avvicinandosi pericolosamente a Draco.
Draco roteò gli occhi, dandogli nuovamente le
spalle: “Non ho potuto evitarlo… quando l’ha fatto, non ero presente… e pensavo
che la Granger
si sarebbe fermata solo poche ore. Dopo, non ho ritenuto vitale che lo sapesse…
anzi era meglio che non lo sapesse. Era già abbastanza insospettita che ci
fossi io qui, figuriamoci se avesse visto Astoria… quest’ultima in fondo risulta viva e vegeta, a casa sua, e questo poteva mettere la Granger sul chi vive,
qualora l’avesse scoperto… a proposito, come sta quella brava donna? Avrà la nausea a furia di ingerire Pozione Polisucco…”.
“Sta
bene, si sta per sposare… ma non cambiare discorso,
Malfoy…” lo ammonì rudemente Potter, fronteggiandolo ancora “Perché hai
lasciato che Hermione rimanesse qui?”.
“Se
sono settimane che me lo chiedi, e sono settimane che non ti rispondo, ci sarà
un motivo… e non mi sembra nemmeno che sia cambiato qualcosa oggi…”.
“Invece
sì che è cambiato qualcosa!” urlò Harry, dimenticando ogni premura ed ogni buonsenso, afferrando una spalla di Malfoy in modo
violente e costringendolo a voltarsi. Respirava a fatica ed
aveva gli occhi lucidi di ira e di dolore: “Hermione potrebbe morire da un
momento all’altro, ecco che è cambiato! Ne ho le palle
piene dei tuoi giochetti, mi hai capito, Malfoy?!”.
Draco
si divincolò dalla sua stretta bruscamente, alzandosi e dandogli le spalle,
prima di sibilare gelido : “La colpa in questo caso, è
stata solamente sua, si è dimenticata lei di prendere la pozione, ed
aggiungerei che mi ha messo nel maggior rischio che potessi aver mai avuto
negli ultimi mesi… quindi non giocare a – Diamo la colpa a Malfoy! – che non attacca…”.
“Non
capisco come sia potuto succedere…” commentò affranto Harry, abbandonandosi su
una sedia e nascondendo il viso tra le mani “Lei di solito non è così…”.
“Quando
si vive da babbani, per anni, si hanno queste dimenticanze… dimentichi
letteralmente chi sei… e credo che sia successo anche alla Granger…” commentò
con tono piatto Draco, camminando per la stanza e chinandosi su Serenity per
vedere come stava. Harry sembrò rassicurato maggiormente da questo, dalla invincibilità della sua migliore amica, che dalla
prospettiva della lontananza che si stava scavando tra loro.
“Pucey
e Montague sono stati avvistati dalle parti di Hogsmeade…” riprese Harry,
quando la sua voce non risultò alle sue orecchie più
incrinata come era prima, Draco prestò la sua massima attenzione a quelle
parole, stringendo le nocche forte fino a farle diventare bianche. Annuì
brevemente con il capo, senza dire altro, senza sottolineare
altro.
“E Danny? Non mi dire che brama
ardentemente licenziarmi, perché mi sono ammalata alla sua preziosa festa, Seth?!”.
“Non lo so… è fuori città per
lavoro… manca da qualche giorno…”.
Quella
volta… era andato a cercare gli assassini di Helena…
“Inutile
che ti dica di stare attento o simili…” borbottò Harry, guardandolo da sopra le
lenti rotonde in un modo che a Draco ricordò spaventosamente il compianto
Silente “Credo che, nonostante tutto, non mi importi
granché che tu faccia una brutta fine… ma credo che lo sai anche tu di non
poter lasciare sola… tua sorella…”. Accentuò quella parola con forza, come una
bugia che bruciasse in gola dalla voglia di diventare verità.
Draco
annuì con un sorriso sarcastico: “E’ lo stesso motivo per cui
io stesso preservo ancora una traccia di interesse nel non fare una brutta
fine, Potter…”.
“Lo
so…” asserì Harry convinto e rassegnato con un breve sospiro “Ed è anche
inutile che ti ribadisca che lei deve restare fuori da
questa storia…”.
“Ci
mancherebbe che mi porto Serenity dietro… hai perso la testa?!”.
“Non
sto parlando della bambina…” borbottò lapidario Harry, non muovendo un passo,
però facendo quasi sentire una decisione e forza che fendeva
l’aria tra loro due “Sto parlando di Hermione…”.
Draco
sospirò con espressione annoiata, prima di dire: “Ovvio, Potter… sono il primo
a non voler subire le paturnie della Granger…”.
“Non
sto parlando solo della tua noia, Malfoy” ribadì
Harry, guardandolo con il primo autentico odio che avesse verso di lui da
quando avevano lasciato quella Torre, la sera della morte di Silente. Da
allora, per Harry Potter, Draco Lucius Malfoy era sempre stato una vittima di
un sistema che lo aveva autenticamente stritolato in un meccanismo più grande
di lui.
Uno
che diventa cattivo, solo per paura o per ingordigia dei privilegi che ha raggiunto negli anni da una posizione sopraelevata.
Eppure,
Harry era sempre stato convinto che la sua anima non fosse corrotta del tutto.
E la storia con Helena e il nuovo profondo affetto per Serenity, ne erano la
prova tangibile.
Ma,
ora, ad Harry Potter premeva chiarire un’altra cosa.
Il suo ruolo in un’altra questione. Molto più spinosa ed
annosa per il giovane Ministro.
Per
un attimo, un bagliore dorato oscurò ed ottenebrò il
verde degli occhi di Potter, lampo vivido e liquido come bronzo colato, al
ricordo delle parole che gli sconvolgevano la mente da quella sera della festa,
una settimana prima.
Lei.
La
regina dei Grifondoro.
Semplicemente
la sua migliore amica, Hermione.
Lei
che difendeva la sua intenzione di trovare gli assassini dei genitori del ragazzo biondo davanti a lui, con una caparbietà che
aveva poco a che vedere con il mero desiderio di giustizia. C’era qualcosa… in
lei…
Quello
stesso ragazzo, destinatario di tale impeto, in pochissimi secondi, capì che
cosa passasse per la testa al nemico di sempre, all’amico di oggi.
Chiuse
gli occhi Draco, riaprendoli subito dopo.
Colori più vividi, improvvisamente.
I colori di questo ricordo… sono permeati di rabbia… infinita, immensa. Rabbia.
La
sua voce suonò acida e scontata, in netto contrasto a com’era stata fino a quel
momento.
“So
che stai per dire, Potter… e per favore, taci, prima di dire sciocchezze… ho
già pensato a tutto… se la
Granger si sveglierà, se si salverà… potrai portartela dove vuoi… basta che me la levi dagli occhi…”.
Harry
parve autenticamente meravigliato, mormorò delle parole scollegate prima di
rendersene effettivamente conto, come se nemmeno lui sapesse collegare quello
che aveva sempre pensato e quello che sentiva adesso. Improvvisamente anche le
sue intenzioni cambiarono… voleva difendere Hermione da un affetto distruttivo
per Malfoy, ed ora? Che cosa invece c’era, se lui
parlava così?
Bisbigliò
scioccamente: “Pensavo che le cose… andassero meglio tra voi… lei, alla festa…
ci tiene davvero a te… quello sguardo, lo conosco…”.
Draco
lo interruppe bruscamente, dandogli le spalle e replicando con voce scocciata:
“Appunto, Potter… sta diventando seccante questa storia… credo anche che si
stia innamorando di me…”.
“Non
è possibile…” ripeté Harry, negando con il capo, anche se forse egli stesso
aveva pensato la stessa cosa, tacendola persino ai
suoi stessi ragionamenti, per quanto gli sembrasse assurda.
“Sia
o non sia possibile, non sono affari miei ma tuoi… è amica tua, non mia…”
ripeté Draco, schioccando la lingua con fare noncurante ed
affondando le mani nelle tasche, aveva la stessa espressione indifferente e
menefreghista di tanti anni prima “…e
non credo che le faccia bene il masochismo… ammesso che Helena non fosse mai
esistita, io non mi potrei innamorare di una come lei…”.
Harry sospirò brevemente: “Lo so, o meglio,
immagino che per te non sia mai cambiato nulla… ma per lei evidentemente sì…
non voglio che soffra… ma perché l’hai lasciata qui, allora? Non potevi mandarla
prima allora?!”. La voce di Harry, al pensiero della
sofferenza della sua migliore amica, si alzò di tono e di rabbia nell’ultima
domanda.
Draco parve quasi divertito dalla sua reazione,
sadicamente divertito: “All’inizio, ho pensato che mi facesse comodo un’Auror
per casa… se lei voleva davvero lavorare qui, che diamine me ne fregava di
farle cambiare idea? Avrebbe protetto anche lei Serenity… e alla prima
occasione, probabilmente sarebbe morta nella sua nobile missione, come si
addice ad un’Eroina del mondo magico come lei…”.
La
sua voce era amara ed acida, ignorò la rabbia palese
nelle mani contratte di Harry, e proseguì: “Ed è sempre stato per Serenity che
l’ho lasciata qui… lei si è affezionata alla Granger… e Dio solo sa come abbia
fatto…ma non avrei mai fatto nulla per farla soffrire… quindi ho pensato che in
fondo poteva anche stare qui… anche perché nemmeno sapeva dei miei, quindi era
stata almeno assolta per la sua colpa peggiore e non era nemmeno più un’Auror
quando morì Helena… ci poteva anche stare … stavolta non sarei nemmeno stato
così egoista da togliere una protezione a Serenity, solo perché dava fastidio a
me… l’ho fatto con Amos ed Helena e vedi che cosa è successo… avrei anche
sopportato la Granger
se significava poter proteggere meglio Serenity… ma lei sta iniziando a
fraintendere Potter, dimostrarle interesse anche solo per Serenity sta facendo
che lei pensi chissà che cosa… inutile dirti che mi fa schifo anche solo a
pensarci…”.
“Non
ti ha fatto così schifo baciarla però, alla festa, no?” ribatté irato Harry, la
rabbia per come era stata trattata Hermione era
visibile nei suoi occhi lucidi di livore “Seth mi ha detto che vi ha visto
baciarvi e…”.
“… ed è stata la cosa peggiore che abbia mai
fatto…” replicò Draco disgustato, una smorfia sui tratti induriti del viso “Ma
avevo bisogno di distrarre Seth… e poi lei… la Granger…”, la sua voce
divenne un filo leggero d’aria mentre sputava fuori una verità che gli deformò
il viso di dolorosa nausea emotiva per quello che sentiva e vedeva, ma che
sapeva essere solo un’illusione: “… lei, talvolta, mi ricorda Helena… non so
come sia possibile… ma… lei, la
Granger… ride come Helena…”.
L’espressione
mutò in un secondo, ritornando fredda e cinica, mentre aggiunse le sue ultime
parole, a cui Harry avrebbe solo ribattuto che avrebbe
trovato un lavoro per Hermione, che non gli facesse incontrare più.
Le
sue ultime parole. Epigrafiche come una condanna.
“Ma
la Granger…
non sarà mai Helena…
e io non proverò per lei nulla di più diverso da
quello che provavo per Helena…”.
Raffiche
di vento nei miei sensi.
Ricordi
di parole, dette in questi mesi.
Fosse
anche solo per Serenity, per come ti vuole bene… io lotterei per diventare il
motivo che cerchi…
Novelli pensieri che non ho bisogno di sentire, per
indovinare e conoscere a memoria.
È
solo per Serenity che ti trattengo qui, Granger. Solo
per lei… fosse anche qualche altro giorno, ma sarà sufficiente per rendere la
mia bambina felice, per un altro po’. Lotterei per non darle motivo di soffrire
ancora. Anche se provenisse da una come te.
Ancora ricordi.
Farai bene a non continuare
nemmeno la tua domanda, Granger…
E
pensieri solo suoi.
Se saprà la verità,
probabilmente nemmeno la proposta di Potter la farà schiodare da qui… non me la
leverò più dalle scatole. In fondo, basta che pensi posso
tenere a lei… e verrà solo per Serenity.
Ad ogni ricordo, velocissimo, di parole che passa
nello specchio, credo di esserne colpita come se mi stessero sparando dritto al
cuore.
La Granger
non ha niente a che fare con questo… lasciala fuori…
Pensiero
nascosto.
Ci manca solamente che
Astoria la faccia fuori… Potter non mi aiuterebbe più… e mi toglierebbe
Serenity… perché diamine l’ho lasciata qui?
Il
ricordo più doloroso tra tutti… e quello che, fino ad ora, era il più bello.
Sporcato anch’esso.
…se fossi mia, potrei
essere geloso, ma non così…
In
realtà… lui… ha solamente pensato…
… se Helena fosse stata
mia… mia davvero…nemmeno
Amos l’avrebbe mai avuta…
Cado
per terra, per quello era… un impulso e basta...
Ed infine, mentre usciamo dal Pensatoio, l’ultimo
pensiero.
A te magari non interessa… ma
a me sì… in un modo contorto, ma è così, è necessario che tu sappia tutto di
questa storia…
Sono le sue
parole dal vero, mentre ci ritroviamo di nuovo nella sua camera, a palesarmi i
suoi pensieri.
Di fronte a
me, gli occhi grigi lucidi di ira, vero come forse non
è mai stato. Vero e bello sempre, ma ora vero…
perché il Draco che ho amato in questi mesi… non è mai esistito… mai… mai… mai…
Coloratemi la vita di bugie, menzogne,
illusioni e falsità. Ridatemi tutto quello che, a mio modo, ho sempre creduto essere il vero.
Al di là del
loro caleidoscopio, riflessa nei loro riflessi d’inganno, ero perlomeno in
vita… ora, io… che sono sempre stata la fautrice della verità assoluta… annego
come se essa fosse diventata il mio veleno… ed anelassi vivere per sempre di
frottole.
Eppure, non è possibile più. È’ un suicidio solo continuare a pensarlo.
Non è possibile.
“Era
necessario che tu sapessi, Granger, di come amassi Helena, era solo il modo per
cui tu forse capissi…” borbotta stoico, freddo e lontano come un Dio pagano,
guardandomi dall’alto in basso come se fossi solamente un insetto da
schiacciare, incredibilmente molesto con la sua sola esistenza. Abbassa gli
occhi, per poi risollevarli nuovamente e fissarli crudeli nei miei, biglie di
perla dura come se appunto nemmeno esistessi, solidi, stentorei, potenti, nel
loro ultimo messaggio risolutore.
L’angelo che
possiede il Verbo e lo comunica agli umani, scendendo dal cielo. Il diavolo che
ghigna del Giudizio indelebile e lo sputa fuori, spalancando l’inferno.
Entrambi. In
lui.
“Amerò per
sempre lei… lei e solamente lei… a parte i motivi che conosci, mi ha ingannato la tua superficiale somiglianza con lei… l’ho
capito mentre ti guardavo suonare, le assomigli persino in questo… ma non
basta, non basterà mai…”.
Non ci credo. Non sta succedendo
davvero.
“Helena è
sempre qui, nel mio cuore, a farmi sentire il divario inesauribile che c’è tra
te e lei… e, se il mio bisogno di lei, potrebbe farmi accontentare anche della
sua immagine malriuscita che vedo in te, non può invece farlo quello che ancora
provo per lei…”.
Non ci credo. Non sta succedendo
davvero.
“Nonostante
tutto, non posso autenticamente ancora desiderare, come semmai mi è accaduto in
passato, che tu soffra per me… non sai niente dei miei e nemmeno di Helena, non
è stata colpa tua… e non sei mai stata nella mia lista. Forse
davvero nemmeno ti odio più… ma devi capire che tutto quello che è accaduto
fino ad ora… è stato solo per questi motivi…”.
Non ci credo. Non sta succedendo
davvero.
“Quindi, adesso, Granger… vattene via… davvero… Serenity se
ne farà una ragione… e tu magari te ne andrai con Hayden o come diamine si
chiama… e mi scorderai facilmente… ogni solo secondo che resti qui, ti fa
soffrire inutilmente, e senza senso. E mi ricorda lei, senza poterla avere mai
più. … vattene via…”.
Non ci credo. Non sta succedendo
davvero.
È stata tutta una menzogna…
Nonostante
le sue ultime parole, è lui a sparire e ad andare via, allontanandosi da me,
correndo fuori, impossibile forse anche sopportare la mia stessa presenza dove
lui vive e respira. Il suo ultimo sguardo… scintille sulla
mia pelle. Ne rabbrividisco, perché non riscaldano più, gelano il sangue
nelle vene e corrono dalla nuca alla schiena come ghiaccio che fonde. Come un
pesce rosso, apro e richiudo le labbra, potevo parlare, negare fino alla morte… in passato, lo avrei fatto… ma ora…
Inorridita,
mi accorgo che non avrei saputo che parole usare, che espressione mascherare,
che repulsione fingere.
Inorridita,
so di aver messo la mia sola anima come scudo e spada per difendermi. Niente orgoglio, niente dignità, nulla di nulla. Solo essa.
E lui… lui
l’ha distrutta velocemente, senza pensarci su. Ora…
più nulla…
Annullati
tutti i pensieri e rattrappita la mente, le ginocchia tremano sotto il mio
peso, non cedono per chissà che moto assolutamente inutile di conservazione della
mia persona. Mi fischiano le orecchie, sento solo un tonfo lontano e poi più
nulla… forse passano decenni in un secondo. O magari ne passa davvero solo uno,
di secondo. Potrebbe anche essere passato tutto il tempo rimasto della mia
vita, e non lo saprei. Non lo sentirei.
Il rumore
della pioggia continua e diventa sempre più fastidioso, come qualcosa
che mi richiama al momento che sto vivendo, come quella realtà che
oggettivamente esiste ancora… ma dovrei pensare, per arrivare a questa
conclusione… ma non credo in fondo di sentirlo davvero.
Non credo,
in fondo, di sentire davvero qualcosa.
Qualsiasi
cosa.
Buco.
Solo un buco
dentro, dove prima c’ero ancora io. Respirando con il nulla dentro, sapendo di
non essere viva ma condannata ad esserlo fino al
giorno prestabilito.
Come te.
Dolore.
Enorme. Immenso. Da perderci il fiato. Le ginocchia cedono alla fine.
Non come te,
mai come te. Io non come te. Nulla ci accomuna meno di ora, persino il tempo e
lo spazio stessi si ripiegano inorriditi su sé stessi,
separandoci. Come mura altissime fatte di fuoco che si ergono, inespugnabili,
rendendomi lontana miglia da te.
E la mente
riprende a funzionare, non ha mai smesso. Ogni cosa disgustosamente torna al
posto che ha sempre avuto, togliendomi dignità ed
orgoglio e imbrattando il mio sentimento rivelato, come un siparietto comico di
cui ridere un minuto e provarne pena il minuto successivo.
Non
riuscendo a sentire nulla di diverso dalla mera stanchezza, mi accascio
per terra, chiudendo gli occhi e raggomitolandomi sul pavimento freddo, in
posizione fetale.
Il cuore… se
la mente funziona ancora… il cuore non funzionerà mai
più.
Il cuore, il
mio cuore oramai, è perso nelle parole che hai detto.
E, se passo
dopo passo, chiudendomi in me stessa, quella sensazione ovattata passerà… e se
lentamente capirò che posso muovere ancora le dita della mano, posso
faticosamente serrare gli occhi, posso allargare le
narici in un respiro un po’ più intenso, posso persino alzarmi in piedi, posso
mettere un piede davanti all’altro…
Quella cosa
dentro che, un giorno aveva un nome e che ora non ne ha più…
Cuore.
Esso non
funzionerà mai più.
Sono rimasta
sensibile nella misura in cui potessi sentire i passi di Draco riportarlo nella
sua camera.
Perché sì, ora,
riconosco anche la sua particolare camminata. Lenta, misurata, dai passi
ampi ed aperti.
Ed, appena
avessi sentito i suoi passi su per le scale, sapevo che quel tonfo sordo che
avverto dentro, mi avrebbe caricato al punto da dare impulso alle mie gambe e
farmi correre via. Dall’altra parte del mondo.
Ma per il
resto, nessun gesto era necessario. La guancia premuta contro
il pavimento, la bocca leggermente dischiusa e gli occhi ostinatamente fissi
nel vuoto.
Silenzio
dentro e fuori, affollato di parole remote e di ricordi che ora hanno dimensione
diversa, come gemme dischiuse su alberi spogli per cui non arriverà nessuna
primavera, ma solo un ostinato inverno. Aspettando solo di morire gelando.
Sento così
male dentro, che, solo annullandomi, riesco a non impazzire e a non mettermi ad urlare.
Un altro
passo. Non è lui. Quindi non mi interessa.
Seth entra
silenziosamente nella stanza, aprendo la porta, lo intravedo nel riflesso della
finestra. Non dice nulla, si china semplicemente e mi prende dolcemente per i
fianchi, mettendomi dapprima seduta come una bambola, e poi prendendomi in
braccio.
Dovrei dire
qualcosa… ma è come se sapesse… quindi evito qualsiasi parola, chiudo
gli occhi, accoccolandomi contro il suo petto che sa di sapone e di pulito.
Seth esce
fuori dalla camera di Draco, dallo scenario dove si è
consumato l’ultimo atto di questo sciocco amore, portandomi sempre in braccio,
e mi porta in camera sua. Delicatamente, come se davvero fossi una bambina, mi
fa stendere sul suo letto di fianco, mi mette una coperta sulle spalle per poi
sdraiarsi accanto a me.
“Ho sentito
che cosa ha detto…” mi sussurra nel buio della stanza “Non volevo… ero solo
salito a vedere dov’eri…”.
Un piccolo
crack nelle orecchie, il labbro che trema e vorrei dire: “Non importa, Seth…” e
vorrei preoccuparmi del fatto che forse ha sentito
delle cose che c’entrano con la magia, e vorrei inventare delle scuse, e vorrei
rimproverarlo perché non si fa mai i fatti suoi, e vorrei riderne quando si
offenderà ancora.
Vorrei
davvero fare tutto questo… ma invece è solo un crack
nelle orecchie. E io che ritorno tutt’un tratto, da
dove mi ero confinata in un angolino sperduto della mia mente.
Nella foga
di abbracciarlo e di scoppiare in singhiozzi contro di lui, lo sposto di poco
nel letto troppo piccolo per tenerci entrambi. Lui mi
abbraccia solamente, non dicendo nemmeno una parola, e nessun orgoglio e
nessuna forza prosciuga le mie lacrime… nulla di
nulla, come se fossi davvero vuota dentro, di tutto ciò che mi ha sgraziatamente
tenuto in piedi in questi mesi. È rimasto solo nelle maledizioni del tempo
trascorso, la benedizione di avere Seth accanto.
E vorrei poter dire che ogni lacrima, ogni singhiozzo, ogni parola
mozzicata, ogni urlo represso solo per paura di non riuscire a smettere più, mi
abbia liberato un pochino, mi abbia sfogato, lo abbia mandato via da me, lo
abbia lavato via, come una macchia sporca dentro… ma è inutile, ogni lacrima,
ogni singhiozzo, ogni parola mozzicata, ogni urlo represso solo per paura di
non riuscire a smettere più, dà sempre maggiore forza a lui, è un paradosso
che, credendo di farlo uscire fuori, lui entra sempre di più come una freccia
acuminata, come un ago sotto le dita, come una lama nel collo. Solamente lui a percuotermi il cuore.
È come se
credendo di respirare, io mi trovassi ad inalare anidride
carbonica che mi uccide e basta, eppure sapessi di non poter smettere di farla
entrare nei miei polmoni…
Morirne
sempre e comunque.
Disperazione.
Mi aggrappo
ferocemente alla maglia di Seth, sperando che mi aiuti lui e sapendo che non
potrà farlo nemmeno lui, l’amico più vero che la vita mi abbia donato in questo
delirio, e che ora piange assieme a me, piange solo
perché mi sente e vede piangere, perché lui, le sue lacrime per Draco, chissà
quando le ha piante, da solo, senza che nemmeno io lo consolassi. Io che ero persa
nel mio vaneggiamento febbricitante di amare Draco e nel mio sogno farneticante
di farmi perlomeno voler bene da lui.
Prendo a
pugni il petto di Seth come se fosse lui, urlando quanto sono stata stupida ed altre parole che forse nemmeno la mia stessa bocca sa che
cosa sono.
Lui
semplicemente me lo lascia fare, stringendomi solo più forte tra le sue braccia
e piangendo ancora assieme a me.
E sono
anatemi e maledizioni di donna innamorata, inutili perché nessun Dio
misericordioso le ascolterà mai, e sono parole che feriscono l’aria che sa di
lui, come se aleggiasse su di me, per sempre, attorno a me. Ma
sempre aria… mai più lui, davvero… mai più lui dal vero.
Perché il vero Draco non è mai stato il
mio Draco.
E perché il mio Draco semplicemente non
è mai esistito.
E ora è un lutto che io piango.
Lui che muore in una casa sprangata al
centro esatto dell’inferno. Lui, il traditore di ogni parte
del mondo.Assieme ad Hermione
Jane Granger.
Alla fine, lì, davvero mi ci hai
portato, come mi avevi promesso senza che io lo sapessi.
E ora, ti resta solo una cosa da fare
con me.
Guardarmi bruciare.
Quando vai a
letto piangendo, gli occhi pesanti hanno il pregevole e rinfrancante dono di
farti addormentare quasi subito. Piegati dalla stanchezza e dal dolore, essi si
chiudono senza che nemmeno te ne accorgi… ma è solo
una falsa tregua.
Nello spazio
che intercorre tra la veglia e il riposo, si confondono tutte le cose,
mescolandosi come tempere annacquate, le parole che ti fanno soffrire assieme a
quelle che ti hanno fatto gioire, diventando qualcosa di nuovo e distante dal
reale.
Quando ti
risvegli, saresti pronta a spergiurare che le cose sono andate in tutt’altro
modo, per poi renderti conto, quando si sveglia anche il ricordo, che sono andate esattamente come temevi e pensavi…. ed è di nuovo una stoccata precisa e fatale, persino
peggiore della precedente, perché per un attimo avevi dimenticato che
significasse soffrirne, e ti eri illuso che tutto invece andasse bene. Il
brutto sogno è la realtà, e non c’è cosa che possa fare più male.
Mentre
scivolo mio malgrado nel sonno, dopo una giornata il
cui inizio mi sembra trascorso da vent’anni, gli occhi verdi di Seth, che
scintillano nel buio, mi sembrano diventare quelli di Harry… e lentamente,
chiudendo gli occhi, i sensi vengono rapiti da un profumo fin troppo
conosciuto.
L’odore dei nontiscordardime.
Che esista o
non esista davvero, è solo un ricordo che può portare.
Il peggiore.
Semplice… fingo di essere occupato…
Non smettere di baciarmi…mai…Draco…
ti prego…
non farlo…
Riapro gli
occhi bruscamente, o almeno credo di averlo fatto, cercando di svegliarmi e
riprendendo a piangere ancora, l’ossessione di quel ricordo che vorrei soltanto
che sparisse. Ma capisco che, invece, mi sono
addormentata… gli occhi verdi che ho davanti, non sono più quelli di Seth.
Sono quelli di
Harry, ma non è nemmeno corretto questo.
Sono di Harry…
ma in realtà sono i suoi.
Lily Evans Potter.
La guardo senza
capire, ed ovviamente mi sembra chiaro che io stia
sognando. Lei mi sorride calorosamente, con quel suo sorriso familiare che in
realtà non ho mai visto, ma che conosco a memoria, da ogni fotografia che Harry
conserva gelosamente. I suoi capelli splendono come un fuoco d’autunno e gli occhi verde chiaro hanno molto di quelli di Harry, lo
stesso calore, lo stesso fondo un po’ triste, la stessa luce che sanno donare
spontaneamente. È vestita di bianco e sorride in modo così sincero ed autentico che persino quel buco che ho dentro, sembra
quasi un po’ meno sterminato adesso. Sorrido a mia volta, almeno se è un sogno,
mi farà stare per qualche istante un pochino meglio… un senso di pace e di
tranquillità assoluta mi assale guardandola, e mi porta ancora alle lacrime,
anche se nemmeno so perché sto piangendo.
Ora, almeno.
Lei mi si
avvicina, rapida e leggiadra come una colomba, e mi abbraccia forte, come una
mamma: “Hermione, piccola… non devi piangere…”.
Annuisco,
profumo di nontiscordardime ancora attorno a me, e mi stacco di lei,
asciugandomi le lacrime con il dorso della mano: “Signora Potter…”.
“Lily” sorride
lei, guardandomi ancora.
“Lily…” concedo
con un lieve sorriso, lei te lo strappa automaticamente anche
se non vorresti “Che cosa ci fa qui?”.
“Sono venuta
per te, Hermione…” sorride ancora, iniziando a camminare ed
invitandomi a fare altrettanto, la seguo velocemente “So che stai soffrendo
molto… e so anche che non è giusto che tu stia così male… non te lo meriti…”.
Trasalgo,
guardando la cascata di capelli rossi di lei che mi precede, ed
abbasso lo sguardo, quel buco dentro che ritorna improvvisamente in tutta la
sua forza, anche se siamo solo in un sogno.
“Hai aiutato
tante volte mio figlio…” sorride lei, e piange assieme, fermandosi e
guardandomi “Harry… lui… come sta?”.
“Sta bene…” sorrido a mia volta “Credo che sentirà per sempre la sua
mancanza e le sarà per sempre grato per averlo salvato e per averlo reso l’uomo
che è… anche se siete stati assieme davvero molto poco…”.
“Esattamente
tre mesi… solo tre mesi…” piange ancora lei, ma poi scrolla
il capo e mi sorride ancora: “Ma in realtà sono sempre rimasta con lui…”.
Mi chiudo nelle
spalle: “Lo immaginavo…”.
Lily Potter mi
sorride ancora e mi chiedo se davvero questo sia ancora un sogno, è così
maledettamente reale… non ho mai creduto che i defunti potessero parlarci in
questo modo, persino quando ho iniziato a sognare, ero scettica. Ma adesso… lei non può essere altro che Lily Potter… perché
sta parlando proprio con me?
Lei è come se
avesse intuito i miei pensieri, mi guarda ancora, inclinando la testa di lato: “Ascoltami,
Hermione… io posso aiutarti… so che stai soffrendo molto… per Draco Malfoy… lo
ami, vero?”.
Sobbalzo e
sfuggo dai suoi occhi, come se quest’amore fosse un’onta vergognosa sul mio
viso. Annuisco semplicemente con il capo e lei stavolta non mi consola con
alcuna parola gentile, come se davvero avessi compiuto
un peccato imperdonabile.
“Andrà sempre
peggio…” mi minaccia velatamente, sollevo il capo e il sorriso è scomparso, è
seria, imperturbabile, occhi freddi come quelli di una statua “Hermione, andrà
sempre peggio… questo non è che il primo passo di un destino di autodistruzione
che oramai ti sei scelta… amare una persona del genere non potrà che portarti alla follia…”. Mi verrebbe quasi da ridere amaramente,
dicendo che io la follia credo oramai di essere già arrivata, ma invece resto in silenzio, immobile, ascoltandola.
“Bisogna che tu
intervenga prima che sia troppo tardi…” mi sussurra, avvicinandomi “Se ti
avessi conosciuta, tu saresti stata come una figlia
per me… ho vegliato tanto su di te e Ron… ed ora non voglio che ti succeda
qualcosa…”.
“Non so che
cosa fare…” bisbiglio al limite della disperazione, abbandonandomi
al suolo.
Lei sorride
ancora, ma in modo diverso, enormemente diverso. Non
sembra nemmeno più lei, mentre dice: “Io invece sì…”.
Per un attimo,
mi ha ricordato qualcun altro… ma non sono riuscita a focalizzare chi, perché è
immediatamente scomparsa.
Tutto attorno a
me cambia forma, diventando qualcosa che conosco perfettamente…
Hogwarts. La Sala Grande.
Mi guardo
attorno meravigliata, ma ogni particolare è esattamente come lo ricordo. Il tavolo rialzato dei professori, tutti impegnati a mangiare e a
parlare sommessamente, con il trono dorato del Preside. Su di esso,
siede ancora Silente, è sorridente ma anche sofferente… la mano pende bruciata,
sul pomo della sedia.
Il sesto anno. Siamo al sesto anno.
Per il resto,
non mi sembra una giornata particolare, di cui debba ricordare effettivamente
qualcosa. Mi guardo ancora curiosamente attorno, ma tutto mi sembra normale.
Le lunghe tavolate delle Case, ingombre di ragazzi ridanciani. Le finestre dallo stile gotico, da cui penetra la
luce tenue di una mattinata pigra d’autunno. Il soffitto incantato, ritagli di
cielo tra macchie di sole. Il solito cicaleccio tipico delle mattinate, prima
delle lezioni, così familiare ed ormai lontano nella
memoria, ma che mi viene ancora con nostalgia da chiamare casa.
Mi muovo
lentamente, i ragazzi correndo mi passano attraverso, senza vedermi, sono
evidentemente inconsistente come un fantasma. Cerco con lo sguardo impaziente l’ultimo
tavolo partendo dalla porta, quello dei Grifondoro, e con un tuffo al cuore, mi
vedo seduta tranquillamente lì, impegnata a leggere un libro, Harry che scherza
con Ginny e Ron che si sbaciucchia con Lavanda. Si erano già messi assieme
allora… infatti, dopo qualche secondo, mi vedo chiudere furiosamente il libro ed alzarmi, uscendo fuori dalla sala. Mi seguo con lo
sguardo attraversare velocemente la sala piena di gente, stringendomi al petto
il mio libro come un caro amico che mi ascolterà sempre, ma che non risponderà
mai. Lo sguardo basso, gli occhi lucidi, e come sempre, il labbro che trema…
eppure so già, anche se non ricordo questo particolare momento, che cosa mi sto
ripetendo nella testa. Non devo piangere. Non devo piangere.
Avessi invece
fatto il contrario, perlomeno per una volta, chissà se qualcosa davvero sarebbe
cambiata nella mia vita.
Ora, per
esempio, non sarei in questa situazione, a scrutare con ossessione un ricordo,
mandatomi dall’aldilà, per cercare di salvarmi dalla rovina di un amore folle.
C’è qualcosa di
vagamente ironico in tutto questo… come anche nel fatto che la mia me stessa
del passato, uscendo dalla sala, ha appena urtato qualcuno.
Non qualcuno.
Lui.
Corro verso di
loro, il cuore in gola, sperando e temendo che sia successo qualcosa allora.
Immobile e
fredda come un pezzo di ghiaccio, mi vedo sollevare timidamente gli occhi
biascicando delle scuse, che si fermano così come erano
nate, quando vedo chi ho di fronte. Scintillano i miei occhi e si chiudono le
mie labbra.
Come fa l’amore di un giorno a cancellare l’odio di anni?
Lui… lo deve aver sempre saputo…
Un Draco
sedicenne, accompagnato dai soliti Tiger e Goyle, guarda la mia me stessa
passata con freddezza e repulsione, lo stesso sguardo che aveva poco fa,
insomma.
Vuoto smisurato dentro, anche nel sogno.
Erano i giorni
in cui tentava di uccidere Silente… e sono certa che, se allora non me ne sono resa conto, ora invece è evidente che era a pezzi.
Ha gli occhi
profondamente cerchiati, le occhiaie e un colorito ancora più pallido del solito; sembra stanco, esausto, lontano migliaia
di pensieri da qui. E’ evidentemente diverso da come è
adesso, più piccolo, più basso, meno sicuro nel portamento e con un fisico più
gracile. Eppure… è già tutto lui… era già lui… la persona che avrei
amato perdutamente qualche anno dopo…
Eppure… allora…
Mi avvicino a
loro, tremando tra me e me, e noi ci fronteggiamo come abbiamo già fatto decine
di volte e come faremo altre centinaia di volte, crepita
l’aria come per un temporale. Poi, come ho sempre fatto, mi vedo scrollare le
spalle, sospirare e proseguire per la mia strada. E Draco, dopo qualche
secondo, fare esattamente lo stesso.
Sospiro a mia
volta, il sesto anno fu così duro e difficile, per entrambi, che nemmeno ci
parlavamo più, per quanto potevamo parlare prima.
Nemmeno ci insultavamo, ecco.
Eravamo troppo
stanchi, come due cinquantenni nel corpo di ragazzini.
Draco prosegue,
chiamando Zabini e Nott, per andare a lezione di Pozioni, tutti
e due bestemmiano per averla in comune con i Grifondoro.
Dopo poco,
infatti, anche Harry, Ron e Lavanda si alzano trafelati dal loro posto,
salutando Ginny e correndo fuori dalla sala Grande in direzione dei
sotterranei.
Una lezione di Piton.
Perché Lily Potter vuole che la riviva?
Mi precipito anche io dietro di loro, scansando studenti che corrono nei
corridoi, anche se ovviamente nessuno mi vede. A poca distanza, intravedo la
mia testa, colma di capelli ricci indomabili, prendere anch’essa la direzione
per l’Aula di Pozioni.
Quando arrivo,
Piton è ovviamente già in aula. La mia me stessa passata è seduta in prima
fila, ma noto subito che, nonostante i fogli di pergamena diligentemente
ordinati, le boccette d’inchiostro allineate secondo colore e le penne
perfettamente appuntite, sono abbastanza distratta.
Volto, infatti, bruscamente il capo quando vedo entrare Harry, Ron e Lavanda,
arrossendo di collera e sdegno e lasciando il posto solo ad
Harry accanto a me. Ron e Lavlav si siedono leggermente contrariati, nei posti
in fondo, a poca distanza dai Serpeverde. Harry mi sussurra qualcosa, ma io
agito la mano con noncuranza mugugnando qualcosa a labbra serrate.
Sicuramente ho detto che non me ne frega nulla di Ron…
tipico di me…
Anche Draco è a
miglia da qui. Si siede pigramente nell’ultimo banco, stravaccandosi alla
bell’è meglio, e giocherella con una penna, tracciando
linee e segni su un foglio di pergamena. Piton ovviamente non lo riprende,
credo che abbia sempre saputo tutto di lui, anche in quel momento. Lo guarda
solo per qualche istante, sospira in modo furtivo e poi assume la sua solita
espressione arcigna, specie rivolgendo lo sguardo verso i non appartenenti alla
sua Casa.
“Oggi parleremo
di Pozioni Antiche…” inizia a spiegare con la sua solita voce melliflua,
guardandoci in cagnesco, io mi accoccolo per terra accanto al mio alter ego,
ascoltando attentamente, anche se davvero non ricordo nulla di questa lezione.
Sarà perché nemmeno mi vedo prendere appunti, con mio sommo dispiacere… deve
essere stata l’unica volta nella storia che non l’ho fatto, ed ecco che è
successo!
Piton prosegue
ironicamente nella sua spiegazione, misurando la stanza con ampie falcate:
“Sono cosciente che parlare di questi argomenti, è più o meno
come dare galeoni ad un Troll, visto le vostre menti deviate da beghe
ormonali…”, e qui lo sguardo cade su Ron e Lavanda che sono impegnati in una
melensa scenetta su chi presta prima le cose a chi “… o dal Quidditch…”, e qui
ovviamente la stoccata è per Harry che disegna schemi di gioco su un angolo del
libro, con sommo orrore dell’Hermione sedicenne ed anche di quella ventitreenne.
Infatti mi vedo dargli una gomitata e lui si arresta
subito, spaventato più da me che da Piton.
“… e data la
loro difficoltà di realizzazione e la lacunosità delle fonti, non saranno
nemmeno argomento di esame…”, tutta la classe rilascia un sospiro di sollievo
evidente e quei pochi temerari dell’appunto cessano immediatamente le loro
manovre “Ma il Preside è convinto che la vostra cultura generale ne trarrebbe beneficio… e quindi si presuppone che debba
fare questo sforzo titanico… iniziamo subito con quella che la Pozione più difficile del
nostro Mondo… ed anche quella che è meno conosciuta…”.
Fa una pausa ad effetto, per poi agitare la bacchetta, facendo comparire
sulla lavagna alle nostre spalle una scritta in caratteri fiammeggianti.
Zahir.
Non mi ricorda assolutamente nulla.
Evidentemente, visto che non sarebbe stata chiesta per
gli esami e visto come stavo in questa giornata, non devo averla memorizzata. Piton riprende la sua spiegazione, lo ascolto attentamente cercando
di non perdermi nessuna parola: “L’idea dello Zahir viene dalla tradizione
islamica, Zahir in arabo significa visibile, presente, incapace di passare
inosservato. In terra musulmana, la gente usa questo termine per riferirsi agli
esseri e alle cose che hanno la virtù di essere
indimenticabili e la cui immagine finisce col rendere folli gli uomini che la
pensano. Qualcosa o qualcuno che, una volta
che si è stabilito il contatto, finisce per occupare a poco a poco il nostro
pensiero, fino al punto che non riusciamo più a concentrarsi su nient’altro… e
questo può portare alla santità o alla follia…”.
Sobbalzo, rivolgendo lo sguardo verso il ragazzo biondo in fondo alla
sala.
Draco. Ecco, cosa voleva dire Lily…
Il mio Zahir… è lui…
Ascolto, concentrata, mordendomi in modo nervoso un pollice. Possibile che davvero non ricordi nulla di questa
lezione?
Piton fa una
pausa, sospira ancora, gli occhi neri persi in pensieri tutti suoi, e quasi
penso che ce l’abbia anche lui uno Zahir.
Una persona indimenticabile.
Poi si
schiarisce la voce e riprende annoiato: “Per esempio, possiamo trovarlo nella paura ossessiva per la perdita di una persona amata, o nel vuoto lasciato
da un lutto improvviso, ma anche in molte altre tipologie di situazioni, dove
la sola cosa in comune è un’autentica spirale autodistruttiva di sensazioni,
emozioni e ricordi che inevitabilmente le parole, i luoghi del vissuto comune e
le esperienze condivise riportano ad ogni momento alla
mente. Rievoca nell'individuo la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco, di
aver imboccato una strada senza uscita.Lo
Zahir si può risolvere solo con il raggiungimento della pace ritrovata in
seguito alla ricongiunzione ovvero, allo stato di quiete dato dalla
consapevolezza perenne di impossibilità del
raggiungimento del proprio fine…”.
Liberarmi di lui… accettare
consapevolmente che non mi amerà mai… non amarlo più…
“Questo per quello che deriva dalla
tradizione babbana, che lo usa semplicemente come un concetto di natura
psicologica. Nel nostro mondo, è l’idea base per una delle Pozioni più antiche
della storia, probabilmente di origine greca, visto il desiderio degli antichi
Maghi ellenici di liberarsi dalle catene delle passioni in ossequio all’ideale
di una razionalità superiore… il suo fine e scopo è quello di
liberare dai pensieri e dai sentimenti ossessivi, molesti e sgraditi, dandone
forma in un oggetto che assorbe tale emozione, liberando l’anima e sanandola. È
una pozione più instabile che propriamente difficile,che
prevede la preparazione della pozione e il recitare di una particolare litania
che assicura il suo fine. La formula completa dello Zahir è contenuta solo
all’Ufficio Misteri, di sola conoscenza pertanto degli Indicibili… la causa di
tale segretezza è la sua pericolosità. Lo Zahir assorbe il sentimento,
neutralizzandolo, ma, se esso continua ad essere
alimentato, lo trasforma nel suo contrario. L’amore diventa odio, il dolore
euforia, la speranza disperazione, e così via. E questo è deleterio per lo
spirito e per il corpo, potendo causare anche la morte, anche perché una volta
creato, lo Zahir non può essere distrutto. Continua nel suo lavoro, indipendentemente
dalla volontà del creatore. Abbiamo pochissimi casi di Zahir distrutti, ed
erano tutti di grado inferiore. Essi sono infatti
diversificati in cinque categorie, di potere diverso; maggiore il potere,
minore è la possibilità di distruggerlo. Il meno potente è lo Zahir che nasce
per l’ossessione della Libertà; di
seguito, abbiamo lo Zahir d’Odio,
di Potere, di Doloreed infine quello
più potente ed instabile… lo Zahir d’Amore.
Mentre infatti abbiamo conoscenza di Zahir di grado
inferiore distrutti, per il primo non se ne conosce nessuno, esiste solo una
leggenda anche riguardo alla effettiva creazione di tale Zahir…”.
Piton si interrompe,
convinto di non essere più seguito, ma nota con un ghigno disgustato che la
classe femminile, alla parola Amore, si è ridestata quindi magnanimo prosegue
nel suo racconto: “Di Zahir delle quattro categorie inferiori, Dolore, Potere,
Odio e Libertà, abbiamo testimonianze storiche certe… si parla del Cuore di
Ametista della Maga Medea, della Collana di Zaffiro della Regina Maria
Antonietta di Francia, del Calice di Smeraldo di Cesare Borgia, tutti distrutti
e tutti egualmente portatori di sventure, basta rileggere la storia di questi
tre personaggi. Ma le leggende raccontano del primo
Zahir, l’originale, creato per un sentimento ossessivo di amore. La Stella di Corallo della
Regina Artemisia, regina dell’isola di Atlantide… senza scendere troppo nei
particolari di una storia permeata, qualora fosse vera, solo della volubilità
di una donna non corrisposta che distrugge un grande impero, è evidente che lo
Zahir d’amore è molto pericoloso. Se la storia fosse infatti
vera, esso avrebbe causato la fine del popolo di Atlantide… per questo, lo
Zahir è illegale al pari di una Maledizione senza perdono ed è custodito
all’Ufficio Misteri, di sola conoscenza degli Indicibili...”.
I contorni dell’immagine sfuocano
improvvisamente, diventando meno nitidi, ed anche io
mi sento strappare via.
Ora sai che cosa devi fare…
La voce di Lily Potter…
Mi sveglio di soprassalto,
sudata ed accaldata, nella stanza buia di Seth. Lui è ancora vicino a me, si è
addormentato. Lo guardo per qualche attimo, come per accertarmi davvero di aver
sognato fino ad ora. Respirando a fatica, mi porto una mano al petto che si
alza e si abbassa velocemente.
L’odore dei nontiscordardime è ancora così
forte nella mia testa che mi sento stordita… non ci sono dubbi. Non era un
sogno come tanti altri… era un segno del
cielo.
Respirando ancora affannosamente, mi alzo
e vado in bagno, il mio passo è ancora incerto e tremante, ma la voragine
dentro si è quasi attenuata.
Apro la porta con cautela, attenta a non
svegliare Seth, e me la chiudo alle spalle. Mi lavo il viso con energia,
cercando di riprendermi, e, mentre mi asciugo il viso, incontro il mio riflesso
nello specchio. Capelli spettinati, occhi rossi, occhiaie di
notti insonni, aria stravolta e sconvolta.
Eppure, i miei occhi sono quasi ritornati
quelli di prima. Quasi, perché il mio amore per Draco è sempre dentro di me,
pronto a sobbalzare ad ogni minimo rumore proveniente
dalla stanza accanto, a gemere nel ricordo di ciò che siamo appena detti, a
degenerare in una follia insana.
Lui non mi ama. Ci manca poco che
mi odi… mi ha solamente usato.
Mi ripeto nella testa come un mantra, a
quella prospettiva qualsiasi altro pericolo sarebbe solo un sorso di tè
piacevolmente tiepido.
E magari essere impulsiva per una volta,
non potrà che farmi bene… e, se Lily Potter me l’ha suggerito, vuol dire solo
che è la strada giusta. Tutto questo per convincermi di una cosa che ho già
deciso di fare. La sola cosa che potrà darmi la pace.
Per dimenticarlo.
Ora so che cosa devo fare.
Per dimenticarlo.
Nella mente, compare il solo nome che in
questo momento so potermi essere minimamente utile. Il solo nome che potrà
darmi quello che cerco.
Faccio un sospiro profondo, speravo di non
doverlo mai fare. Eppure, so che nemmeno il Ministro in persona potrebbe
aiutarmi adesso.
La sola è lei.
Helder Cassidy Bode.
Come richiamato solo dai miei pensieri, si
materializza improvvisamente tra le mani un mantello di colore azzurro polvere,
chiuso da una rosa dello stesso colore. Sobbalzo leggermente, prendendolo tra
le mani prima che mi scivoli via tra le dita.
Lo soppeso pensosamente, come se
scottasse, il tessuto è morbido e leggero come un sogno. Ovvio. Si è già accorta che ho pensato a lei.
Con un lieve sospiro, stacco il biglietto
sottile attaccato al mantello.
Una grafia elegante.
Dice solo:
E’
da parecchio che non vieni a Diagon Alley, e questo scommetto
che ti potrà servire se non vorrai essere riconosciuta.
Ci
vediamo all’alba, davanti alla Gringott. Salderò il mio debito, Hermione,
dandoti la sola cosa che vuoi.
So
che è il tuo destino. H. C. B.
Sospiro tra me e
me.
Quindi…
è davvero il mio destino… potermi salvare solo in questo modo…
Eccomi qui!! Chiedo come sempre scusa per il
ritardo, ma oramai sapete che se i miei capitoli arrivassero dopo poco tempo ci
sarebbe qualche problema serio della mia psiche quindi rassicuratevi dei miei
ritardi!! Allora come sempre, ho tantissimo da dire e
pochissimo tempo per farlo, approfitto del fatto che l’occhio mi si è gonfiato
in modo pauroso stamattina quindi non posso studiare, ma aggiornare sì!!
1.La prima cosa che ho da dire è un
enorme GRAZIE!!!Have a littlefairy tale è stata inserita
nelle storie scelte del sito, il mio sogno si è avverato!! E di questo non
posso fare altro che ringraziare coloro che hanno
segnalato la storia, e cioè Seven, Helder e Haley
James… grazie davvero, era un obiettivo che mi ero segretamente prefissata, ma
che ovviamente non poteva dipendere da me, quindi davvero grazie… avete scritto
delle recensioni meravigliose che non so nemmeno se meritare appieno! Prometto che
vi ricompenserò cercando di scrivere la migliore storia che abbia mai scritto!! Grazie ancora! Ringrazio anche chi ha segnalato la storia
per il concorso del sito, anche se non è passata alla seconda fase… grazie in
ogni caso, mi ha fatto davvero piacere, Eruanne ed Emmetti, grazie davvero!!
2.La seconda cosa è NON UCCIDETEMI E
NON ABBANDONATE QUESTA STORIA DOPO QUESTO CAPITOLO!!! Non
è una storia con un finale triste, ve lo assicuro, e questo capitolo anche
sembra la fine di ogni speranza, non lo è assolutamente, anzi… e da qui che
finalmente inizieranno a muoversi le cose. All’interno del chappy, infatti,
anche se ora è abbastanza difficile da capirlo, ci sono tutte le risposte per i
capitoli successivi, anche nello stesso titolo che non ho scelto a caso. Ci sono
tanti piccolissimi segnali che saranno svelati solo alla fine della storia…
quindi non mi abbandonate!!!J Draco purtroppo
è sempre Draco, lo amate anche per questo, quindi prima di capitolare, doveva
far riemergere il solito bastardo che è… e la rabbia per quelle cose dette ad Hermione, prende anche me!! Ma riscatterò tutto,
tranquilli!!
3.Ora passo ai ringraziamenti e alle
risposte di rito:
·LIVEN: tranquilla, puoi lapidare Helena quanto vuoi,
io non la sopporto proprio quindi vi fai cosa gradita!!
All’inizio anche io avevo deciso di rendere Helena la “donna
angelo” di cui parli tu, una donna che calmasse il cuore di Draco e che lui
amasse non corrisposto, fino alla morte di lei… poi, non so come è diventata
così, è rimasta la donna che hai visto, sospesa per sempre tra due uomini, che
condanna entrambi a vivere sospesi come lei. Cosa alquanto da viziata ed immatura, cosa che quindi me l’ha resa antipatica sin
dall’inizio. Ma per renderla vera ed autentica, non
era necessario che mi piacesse quindi ho continuato su questa strada… stessa
cosa per Amos, anche se in positivo, personaggio che mi piace davvero tanto. Draco
in questo capitolo è stato peggio che nello scorso, ma c’è una spiegazione. Purtroppo
lui è una testa di rapa quindi se non si comporta in modo contorto
non è contento!! Grazie dei complimenti, mi hai detto una cosa bellissima, dicendo
che questa ormai è la “mia” storia, mi ha fatto tantissimo piacere… ti mando un
enorme Bacio!!
·HALEY JAMES: ribadisco il
grazie per la segnalazione, mi hai fatto un grandissimo regalo, sono davvero
felicissima!! Purtroppo non riesco più ad entrare nel
forum, non so per quale problema tecnico del mio computer, ma se vuoi puoi
contattarmi con la funzione CONTATTA L’AUTORE in modo che io ti possa anche
mandare la mia mail o contatto msn se vuoi!! Jgrazie davvero tantissimo, davvero ti sei commossa nello
scorso capitolo? Ne son felice!! Penso che questo
invece ti farà arrabbiare parecchio, ma tranquilla!! Poi
ritornerai a commuoverti!!(si
spera!) bacio!!
·ROROTHEJOY: penso che mi maledirai sempre, povera!! È una delle mie più grandi doti lasciare i capitoli in
punto in bianco!! Se non facessi così, poi, non mi
leggereste più!!! Grazie dei complimenti, un bacio!!
·ERUANNE: addirittura nobile scrittrice???? Mamma mia grazie!! Sei stata
davvero carinissima, grazie anche della segnalazione, ci tengo che i miei
personaggi escano un po’ dalla patina irreale di mamma Rowling e diventino un
po’ più vicini a noi, anche se con una marcia in più!!
Quindi grazie davvero!! Un mega Bacio!!
·EMMETTI: carissima, grazie anche a te della
segnalazione per il concorso!! Seth ringrazia e
concorda con te sul fatto che sia meraviglioso!! In questo
capitolo, effettivamente, ha fatto parecchio!! Sono felice
che tu sia innamorata del mio Draco, anche se specie in questo capitolo è stato proprio crudele e malefico!! Ti piacerà lo stesso??!! sobsob!!! Grazie tantissimo dei tuoi complimenti!! Un bacio!!
·SUNLIGHT_GIRL: visto? Ci
ho messo solo un mese!!:P
scherzo, ci ho messo pure troppo!! Grazie ancora tantissimo dei complimenti, mi
piacerebbe davvero fare la scrittrice quindi spero di riuscirci un giorno!! Grazie ancora!! Un Bacio!!
·PUNKINETTA: poverina, mi hai
fatto tanta tenerezza!! ç_ç ma la mia anima bastarda
da pseudo scrittrice e quella dannata di studentessa, mi hanno
fatto prendere un mese di tempo!! Ora scommetto che maledici Draco e cosa ha
detto ad Harry, ma abbi fede!!! Bacio!!
·CYGNUS MALFOY: la mia Helder!!
Che sta per comparire con il suo alter ego nella mia storia!!
Premetto che se ti dovessi ringraziare, dovrei scrivere trentamila righe quindi
concludo con quello che è un grande motto: Helena al Rogo, Draco all'altare
a Herm con l'anello all'anulare!!!! Evvai!!!
·SEVEN: ovviamente anche per te, valgono ringraziamenti
mega infiniti, per le tue recensioni sempre più meravigliose e per la pazienza
che hai nel supportarmi e sopportarmi!! Quindi ti
saluto e ti mando come sempre tanti baci!!:D
·VALAUS: grazie tantissimo dei tuoi complimenti, specie
per avermi rassicurato su un altro punto, quello per cui questa storia sia poco
o per nulla magica, ma molto babbana, e questo spesso è il mio cruccio!! Anche la magia comparirà, specie nel prossimo capitolo,
ma è sempre molto soft… grazie per le lodi per i miei Draco ed
Hermione, ho sempre amato questi due personaggi, e mamma Row
non li ha valorizzati molto, quindi spero di riuscirci io! Ancora grazie!! Baci!!
·PRINCESS DARK: grazie tantissimo!!
Mi piace soprattutto la definizione di personaggi rompiscatole!! Effettivamente lo sono!! Baci!!
·STELLALE: mamma mia, grazie! Addirittura un libro
vero? Mi piacerebbe molto scriverne uno!! Anche se non
credo di essere ancora così brava da poterlo fare…!! Mi
hai fatto un grandissimo complimento altroché, dicendo che la storia sembra
piena di piccoli segni che poi vengono recuperati e
spiegati, vorrei poter dire che è sempre merito mio, ma molte volte vado anche
a fortuna, riuscendo a riprendere qualcosa prima che me ne sfugga il filo!! :D Helena è un personaggio piuttosto strano, effettivamente,
ma almeno non le difetta l’essere verosimile e il fatto che tu abbia colto
qualcosa che non sia totalmente da condannare, per me è già un grande
risultato! Mi hai messo persino in un tuo olimpo di scrittori, mammamiaaaa! Sono onorata!!! Grazie
davvero!! Un enorme bacio!!
·LOTTI: grazie tantissimo dei tuoi complimenti!! Pensiamo sempre che lo scotto di tanta sofferenza per Hermione
è pur sempre quel gran pezzo di ragazzo di Draco Malfoy,
quindi insomma non le va tanto male!! BACIO!!
·ANGI81: mamma mia, se io ho il dono di toccare il
cuore con le mie storie, tu non sei da meno!! Mi hai
fatto quasi commuovere!!! Hai analizzato tutti i miei
personaggi con grande attenzione!! Lo ammetto, di Hermione c’è molto di mio, l’ho
sempre trovata molto simile a me, per come la descriveva la Row
e quindi è stato facile con questa storia “forzare” forse un po’ la cosa, per
renderla una parte di me… i pensieri suoi hanno molto dei miei, come molti
atteggiamenti!! Ora avrai capito con che razza di
persona hai a che fare…!! Ancora grazie!!un bacione!!!
·SERE85: evvai, una nuova lettrice!! Grazie tantissimo anche a te!!Anche io detesto le storie con Draco
ed Hermione che si innamorano al 2° capitolo, possono essere scritte benissimo
ma le trovo così assurde ed inverosimili che smetto di leggerle… hai riassunto
tutta la mia storia benissimo e spero che continuerai a seguirla!! Mi sforzo
molto a mettere sempre dei riferimenti storici e letterari perché credo che
facciano onore ad Hermione!! Sì sono una studentessa
di giurisprudenza!! Si vede proprio, eh? Grazie ancora
tantissimo!! Bacio!!
·PAYTONSAWYER: un’altra nuova lettrice!! Fan di onetreehill, vero??:) anche io lo
sono quindi mi piaci già ad istinto!!:D mi piaci anche perché non ti sei
appiattita solo nell’adorazione per Draco che, ovviamente, adoro anche io, ma
hai riservato belle parole anche per Dean e soprattutto per Hayden, che ammetto
mi piace molto!! Come avrai letto, Draco ha detto in questo capitolo
chiaramente di essere attratto da Hermione proprio per quella somiglianza… ma è
una bugia, come puoi capire! Quindi abbi fede!! Grazie
dei complimenti e grazie anche degli appunti sugli errori, mi sono utilissimi e
non mi offendo assolutamente!! Quindi dimmi quello che
pensi, tranquilla!!!un grande bacio!!
Grazie anche a chi legge soltanto!!!
Un enorme bacio anche alla mia amica Chloe che si è
letta anche lei tutta questa storia!!poverina!!! Tvb!!!
Quando arrivo a Diagon Alley, alle prime
luci dell’alba, mi rendo conto di aver infranto un altro dei sacri precetti di
Hermione Jane Granger.
Mi ero ripromessa di non rivedere mai più
Helder.
Probabilmente perché non volevo da lei
nulla, non volevo che saldasse il suo debito. Dio, è una cosa così assurda che
senta ancora un debito nei miei confronti…
O chissà per che altro motivo.
Probabilmente perché Helder mi ha sempre, ecco, reso inquieta.
È una di quelle tipiche persone che non
sono destinate ad avere qualcosa a che fare con me.
Io sono un continuo nascondermi dietro
qualcosa.
Dietro il coraggio, dietro l’ironia,
dietro una smorfia, dietro un discorso perfetto, dietro una nuova risoluzione,
dietro un sogno impossibile per tutti e verosimilmente fattibile per me.
E, invece, lei è una di quelle persone che
notano il muro dietro cui ti trinceri e lo fanno a pezzi in pochi secondi,
facendo venire fuori tutto quello che c’è dietro, senza scrupoli e remore.
Come… Draco…
Tiro su con il naso, cercando di fermare
il fiume di lacrime che rischia di nuovo di riprendere a scavare il buco dentro
di me.
Tra la roccia, anche la più dura,
e il fiume, si sa che vincerà sempre il fiume.
Mi stringo più forte nel mantello mandatomi
da Helder, calandomi meglio il cappuccio sugli occhi. Ci manca anche che
qualcuno mi riconosca… sostenere una conversazione su come vivo la mia condanna
a NON strega, mentre mi appresto ad infrangerla con una pozione proibita da
millenni e potenzialmente letale, non è una cosa di cui ho estrema necessità.
Inoltre, non credo di essere mai stata in
grado di scambiare convenevoli e banalità, con persone a cui frega solo
spettegolare un po’ di te all’angolo successivo, con il prossimo passante… ed
ora lo sono meno che mai.
L’edificio della Gringott mi compare, dopo
qualche passo, e, per un attimo, mi fermo a fissarlo, la gente che mi continua
a passare attorno, urtandomi nella folla di questa fresca mattinata di giugno.
Bianco come sempre, splende nella luce dell’aurora, mandando riflessi dorati
dal portone di bronzo brunito, come sempre guardato a vista da un folletto
sonnecchiante. Lo guardo senza vederlo davvero, la mia mente ospite sgradita
del mio corpo che brama continuare a camminare.
Starò davvero facendo la cosa
giusta?
Abbasso lo sguardo, chiedendomelo davvero.
E poi…è solo un attimo, come il battito d’ali di una farfalla che però mi
rovescia la mente e la volontà, ed il buco dentro
riprende ad inglobare quel poco rimasto in vita di me.
E so che rispetto ad aspettare
che finisca di divorarmi, non ci può essere nulla di peggio…
Nulla di peggio. Nemmeno morire
davvero.
I miei passi tornano sicuri, il corpo che
reclama la volontà, la mente che sparisce, e finalmente intravedo Helder, da
lontano. La soppeso lentamente, esaminando la sua figura che non trovo molto
cambiata, cosa come sempre rincuorante, le cose che restano identiche mi fanno
sempre sentire bene.
E poi mi ricordo che nulla resta sempre
identico, come non ci si può immergere due volte nell’acqua dello stesso fiume.
Panta rei. Tutto scorre. Io stessa scorro via, non essendo mai uguale a
quella di due minuti prima.
So che è cambiata per forza, ma è ovvio
che, ad un esame superficiale, lei mi sembri sempre la stessa di tanti anni fa.
Esattamente dalla fine della guerra… dal
corso per diventare Auror.
Lei che poi un’Auror, non lo è mai
diventata.
Conobbi Helder il giorno della mia prima
lezione, avevamo un insegnante goffo e buffo, si chiamava signor Murray,
vestiva sempre con una vecchia tunica logora bordeaux e sbagliava sempre i
nostri nomi, storpiandoli in maniera assurda. Per non parlare, poi, delle varie
nozioni, gettate a casaccio e contraddette sempre cinque secondi dopo.
A me, la perfettina del mondo civilizzato,
faceva innervosire per il tempo che perdevamo. Ad Helder, faceva sommamente
ridere.
Era la mia compagna di banco, e passava
tutta la lezione a ridacchiare, una mano sotto il mento, gli occhi allegri.
Io la guardavo storta, innervosendomi
sempre di più, finché un giorno le dissi in modo chiaro e netto che, se non
aveva da fare nulla se non ridere, poteva restarsene tranquillamente a casa sua
a ridere tutto il giorno, invece che cercare di diventare un’Auror. Con uno
spirito del genere, non penso che ci sarebbe mai riuscita.
Per fare l’Auror, tutto ci voleva tranne
che allegria… anzi, non c’era proprio nulla da essere allegri.
La guerra e il suo carico di sofferenze,
erano una ferita ancora così dolorosa che avrei cancellato l’allegria da tutto
il mondo.
Lei non si scompose minimamente e mi
guardò fisso negli occhi, mormorando solo con voce seriamente flautata: “A lui
fa piacere che io rida… si sente… divertente,
ecco… e non un vecchio che insegna cose che gli hanno provocato solo dolore…
quindi va anche bene imparare così…”.
Restai di sale, come è ovvio che fosse.
Lei sorrise e basta, continuando a seguire
alla sua maniera la lezione, e solo allora mi resi conto che il signor Murray
curvava impercettibilmente le labbra verso l’alto ogni volta che guardava
Helder, illuminandosi in volto. Lei sapeva
cosa il professore intimamente pensasse.
Helder era un’Empatica. Me lo disse
qualche giorno dopo, quando le chiesi spiegazioni. Sentiva le emozioni degli altri, come fossero le
proprie. Bastava che guardasse anche una fotografia e si concentrasse per
avvertire l’energia mistica di quella persona, e sarebbe arrivata a sentire il
suo cuore, anche a chilometri di distanza.
Questo, intendevo, dicendo che lei legge
dentro ed elimina i muri che uno si mette per difendersi.
Lo fa davvero.
Credo che anche stanotte abbia sentito che
avevo bisogno di lei e come stessi. E ha subito deciso di aiutarmi.
Draco invece non è un Empatico.
Non ha nessuna dote magica… Draco ha quel particolare effetto solo su di me.
Deglutendo, mi avvicino ancora di qualche
passo. Lei mi nota e si gira nella mia direzione, sorridendo. I capelli, che
ricordavo corti fino alle spalle, sono cresciuti e si agitano nel vento di
questa mattinata estiva, catturando la luce del sole, gli occhi cervoni sono
sempre luminosi come li ricordavo, agita la mano per attirare la mia
attenzione, salutandomi.
E meno male che aveva mandato il
mantello per impedire che mi riconoscessero…
Sospiro e sorrido a mia volta
avvicinandomi, ha un mantello simile al mio, ma glicine, e il cappuccio le
copre solo parzialmente la testa, sta quasi scivolando nell’impeto del suo
saluto, rivelando le cuffie di un i pod nelle orecchie.
Tipico anche questo. Lei che è una
Purosangue, ma usa cose babbane.
Un controsenso continuo come è lei… ora, infatti,
mi intrattiene in un’amabile conversazione su come, una volta sentita “Don’t
cry” dei Guns n’ Roses, uno non è che possa tornare allegramente ad ascoltare
le Sorelle Stravagarie, noterebbe l’abisso.
Sorrido, annuendo leggermente e
lasciandola parlare.
Il suo aspetto suggerisce che sia una
ragazza attiva, vitale e vivace. E, a suo modo, lo è.
Ma è anche fin troppo abituata a soffrire,
con il dono che la Natura
le ha riservato. E, come se non bastasse, di dolore nella vita ne ha già avuto
tanto. E, stavolta, solo proprio.
Helder, infatti, è l’unica figlia di
Broderick Bode, un Indicibile, cioè un impiegato
nell'Ufficio Misteri. Lo conobbi alla finale della Coppa del Mondo di
Quidditch, lo ricordo come un uomo dalla pelle olivastra e dall'aria lugubre e
misteriosa, tipica peraltro di ogni Indicibile, data la clausola di estrema
segretezza nel loro lavoro che impedisce a chiunque di sapere compiutamente la
mansione a cui sono preposti. Bode morì qualche anno fa, lo ricordo bene, fu
una delle prime indagini che mi sottoposero da Capo degli Auror. Era stato
tenuto sotto Imperius per settimane da Lucius Malfoy che tentava di fargli
prendere la profezia su Voldemort e Harry. Bode però sapeva che toccandola, e
non essendoci scritto il suo nome sulla profezia, sarebbe impazzito: è per
questo che riuscì a resistere tanto alla Maledizione Imperius. Tuttavia alla
fine dovette cedere e, toccando la
profezia, subì gravissime lesioni al cervello. Venne quindi ricoverato al San
Mungo, nonostante ancora parlasse in lingue incomprensibili e fosse in stato
confusionale, stava migliorando. E per impedire che si riprendesse e parlasse
che, pochi giorni dopo, venne ucciso dai Mangiamorte, che gli inviarono una
piantina di Tranello del Diavolo travestita da regalo: non appena il
convalescente Bode la toccò, la pianta lo strangolò all'istante
Helder entrò nel corpo degli Auror proprio
per sapere chi aveva ucciso suo padre.
Ma non era il solo motivo.
Helder aveva anche subito, qualche anno
dopo, anche la perdita del suo ragazzo, Christopher Latimore, ucciso anch’egli
dai Mangiamorte.
Erano amici da quando erano piccoli, anche
se lui aveva qualche anno più di lei, e si erano dichiarati vicendevolmente
solo una settimana prima che lui morisse, ucciso a tradimento. Lei, che, dopo
la morte del padre, si era appoggiata in tutto e per tutto a Chris, come lo
chiamava, ne era rimasta devastata… il particolare legame poi con Chris, aveva
fatto sì che, con il suo potere, lei sentisse esattamente tutto quello che
aveva provato mentre moriva, non riuscendo però a fare nulla per salvarlo.
Sembrava che una sorte crudele e
misteriosa si fosse accanita su di lei per toglierle tutto quello che di caro
aveva, questo diceva sempre.
Le era rimasta solo la mamma che, però, si
era abbandonata al dolore e all’inerzia, lasciandola sostanzialmente sola.
Sola compagna del desiderio di vendetta.
Legammo abbastanza ai tempi del corso per
Auror, lei era brava e capace, spesso anche più di me; infatti, molti dicevano
che era sprecata come Auror. Avrebbe dovuto fare l’Indicibile come suo padre,
ma lei non ne voleva sapere, almeno fino a quando non avesse trovato gli
assassini di Bode e di Chris.
Come per Draco.
Riuscì anche a farsi affidare
quell’indagine, non so nemmeno come, visto il legame stretto con le vittime, e
chiese la mia collaborazione.
Fu la mia prima indagine.
In qualche mese, venimmo a capo di tutto.
E per Helder fu il dolore peggiore della sua vita.
Ad uccidere suo padre, era stato lo stesso
Chris. Era un Mangiamorte.
Per motivi ancora oscuri, poi, era stato
ucciso lui stesso, forse perché si era rifiutato di fare qualcosa che gli era
stato ordinato, o altro.
Helder si spense lentamente, giorno dopo
giorno, e alla fine lasciò gli Auror, diventando un Indicibile. Io divenni il
capo degli Auror qualche settimana dopo.
Mi chiese solo una cosa, per me
incomprensibile.
Non voleva che nessuno toccasse la memoria
di Chris. Mi chiese di non rivelare a nessuno la verità. Lei doveva essere la
sola a saperla.
E io accettai, secretai l’indagine e finsi
che eravamo arrivate ad un punto morto.
Questo è il debito a cui allude.
Non so perché lo feci, non la capivo, per
me era assurdo che lo facesse, che difendesse l’assassino di suo padre. L’avevo
aiutata solo perché era una mia amica.
E potevo solo immaginare quanto ne
soffrisse.
Non l’ho mai capito.
Ma, ora che la vedo come sempre annegare
nel chiarore accecante di un sorriso finto tutta la pena che ha dentro,
parlando di musica babbana e di musica magica… per la prima volta, credo di
capire.
E fa male, perché so che la capisco perché
siamo unite dalla stessa colpa. Amare un
Mangiamorte.
O meglio un Ex Mangiamorte…loro sono i peggiori.
Rinnegano sé stessi, ma mai del
tutto, restando in bilico sulla bilancia del mondo. Come Draco. Come Chris.
Lui… è morto perché volevano
uccidere anche te, vero Helder?
È per questo che non lo lascerai
mai andare nello sfacelo di una memoria profanata.
Grata, nonostante tutto. Lo ami
lo stesso.
E io… invece, non sono come te.
Non vedo l’ora di liberarmi di questo amore.
E so che mi capisci… ed, in
fondo, Chris ti amava… Draco, invece…
Trattengo il fiato, ondate di lacrime non
piante su di me, e lei si interrompe mentre parla, lasciando cadere il discorso.
Sono tornati spenti i suoi occhi, mentre mi guardava fisso. Stringe le labbra e
sfugge le parole.
“Innamorata di un ex Mangiamorte…”
sussurra solamente, chiara e precisa l’intonazione, nonostante il vociare
circostante.
“Sei diventata anche sensitiva, oltre che
empatica?” chiedo amaramente, guardandola da sotto il mio cappuccio.
Lei sorride tristemente e nega con il
capo: “E’ una sensazione abbastanza netta quella di essere innamorati di una
persona che si è votata al male… assomiglia ad un soffocamento, ad un vicolo cieco… più ami lui, e più
odi te stessa…”.
Sussulto leggermente, come sempre ha azzeccato tutto. Di che mi sorprendo, in
fondo? È il suo potere.
“Meno chiaro, invece, risulta chi sia…”
commenta in tono neutro, incrociando le braccia, una folata di vento le scopre
i capelli scuri. Si porta pensosamente un dito sotto il mento, prima di
replicare: “In fondo non hai più contatti con la comunità magica… e gli ex
Mangiamorte non figuravano tra i tuoi amici di vecchia data…”.
Probabilmente non dovrei dirle chi è…
insomma il fatto che Draco è vivo, è pur sempre un segreto.
Sospiro. Al di là di potermi fidare di
Helder o meno, dato su cui non discuto sennò non sarei nemmeno qui, c’è il suo nome che mi arde in gola, dalla voglia di
essere pronunciato ad alta voce. Ammettere a qualcuno, a parte me stessa, che
sono innamorata di Draco Malfoy. Sfogarmi, ecco.
Seth sa tutto e niente. Ed anche se
sapesse, sa che parlo di Danny.
Ma Danny non è Draco.
Con gli
altri, poi… sono Danny… però io sono Draco, alla fine, dentro sono Draco, non
Danny…
Già, in fondo, lo pensa anche lui… ed io,
mai come ora, sono cosciente dell’abisso incommensurabile esistente tra quei
due nomi che in fondo appellano la stessa persona, ma che la descrivono e
rappresentano in nozioni ed anime completamente diverse.
Prendo un respiro profondo, prima di dire
con un tono di voce incerto: “Sono innamorata di Draco Malfoy, Helder…”.
Lei non trasale, né mostra alcun segno di
evidente sorpresa. Evidentemente sapeva, in qualche modo, che Draco era vivo,
cosa che mi consola alquanto. Colgo però un impercettibile guizzo sinistro
nella sua espressione, come un sordo tonfo dietro la sua placida calma.
Improvvisamente comprendo e mi maledico per averle detto di chi si tratta. In fondo, Draco è pur sempre il figlio dell’uomo che ha torturato suo
padre fino alla follia.
Come se indovinasse esattamente i miei
pensieri, Helder solleva lo sguardo e agita una mano in segno di noncuranza:
“Non sono io da compiangere, Herm… al massimo lo sei tu… Draco Malfoy… non ci
posso pensare…”.
Sorrido, mio malgrado, e mi stringo nelle
spalle.
Sono contenta, ora come non mai, che
Helder sia un’Empatica.
Un altro non saprebbe cosa mi è costato
dire ad alta voce che sono innamorata di Draco, non capirebbe perché la mia
voce si è incrinata, perché mi sembra di averci messo trent’anni a dire quelle
sei paroline, perché, sentendone l’eco nelle orecchie, mi sembri quasi che non
sono giuste.
Sono troppo… piccole.
Come se nemmeno la parola innamorata
bastasse. Come dire mare, e sapere che in quella parola ci può essere al
massimo l’eco di una goccia d’acqua salata.
Non gli abissi inesplorati, non
la vita brulicante, non le onde eterne, non la spuma vivace… e, ad ogni
ulteriore aggettivazione, trovarne sempre un’altra, mai sufficiente.
Ecco... io… se dico innamorata e
basta, credo quasi di dimenticare qualcosa.
E credo che, se iniziassi ad
enumerare tutto mentalmente o a voce, probabilmente non finirei mai più.
Ma dagli occhi di Helder, tristi e
partecipi, capisco che quel mare lei
lo sente, senza bisogno che
glielo descriva.
Lo sente ruggire affamato in me,
erodendomi come una scogliera esposta alle intemperie.
Lei lo sente.
Non ha bisogno che glielo descriva.
Sussurra qualcosa che non riesco a
distinguere, distogliendo lo sguardo da me e fissando gli occhi altrove.
Le iridi sembrano diventare quasi più
chiare, tingendosi di tenui toni opalini. Gli occhi
di Draco… come potrei sbagliarmi?
Quando torna a guardarmi, preserva ancora
una traccia di quella luce perlacea negli occhi, che però ritornano subito del
loro colore consueto.
Deve aver sentito Draco, anche da qui.
Chissà che cosa sta sentendo adesso… probabilmente
soddisfazione per essersi finalmente liberato di me…
mi mordo il labbro inferiore con foga, cercando di stare calma, sapendo che
Helder può sentire tutto di me, persino quell’ansia masochistica di sapere che
cosa intimamente stia pensando Draco. Non voglio mostrare fino a che punto mi
sono ridotta.
Helder torna a dedicarmi attenzione, non
senza che mi sia accorta che di nuovo i suoi occhi sono cambiati. Sono diventati come i miei.
Mi ha sempre affascinato questo degli
Empatici… cambiare colore degli occhi a seconda della persona di cui sentono i
sentimenti.
Vedere con i loro occhi.
Camminavo accanto ad Helder per strada, e
i suoi occhi erano azzurri, poi verdi, poi neri... ed era come guardare un
pavone che mette nuove piume variopinte.
Eppure, mi chiedevo sempre quanto male le
facesse dentro, come facesse a non morirne.
Mi spiegò che potrebbe escludere quei
sentimenti, sentire solo i suoi, ma lo fa raramente. Perché fa parte di lei, ed
oramai ci è abituata.
Non so davvero come ci riesca. I
miei sentimenti bastano già a farmi impazzire per mio conto.
Lei sorride ed immagino che abbia sentito
che cosa sto pensando, mi stringo nelle spalle imbarazzata e guardo altrove.
Torna seria, mentre mi dice con voce
atona: “So che cosa vuoi da me, Hermione… e so anche che un altro Indicibile ti
avrebbe già consegnato ad Azkaban…”.
“E tu invece?” chiedo con un filo di voce,
per la prima volta qualsiasi sanzione non riesce a farmi desistere di un solo
passo.
Solo infrangendo questa regola,
io avrò la pace…
“Io invece… invece lo so…” bisbiglia Helder, guardando altrove,
apparentemente rapita dalla facciata immacolata della Gringott, come se la
vedesse per la prima volta.
Ma gli occhi sono tornati i suoi e si sono
fatti lucidi.
Lei sente il mare che mi ruggisce
dentro. È lo stesso che ulula dentro di lei.
“Probabilmente, tanto tempo fa, lo avrei
fatto anche io…” acconsente con un sorriso caloroso, simulacro di una gioia che
non può provare “Ma allora credo che mi trattenesse la paura… ma tu invece non
la provi, lo sento, quindi credo che sia la cosa giusta… inoltre, sei una
strega capace, quindi credo che saprai almeno limitare i danni agli altri, se
non a te stessa…”.
Annuisco con il capo, sempre più convinta
che sia la cosa più giusta che abbia fatto nella vita.
Lei mi invita a sedersi su un gradino
della scalinata che porta alla Gringott, dopo averlo fatto lei stessa. Esce
dalla falda del mantello una scatoletta di legno laccata di blu, abbastanza
scrostata e dall’aspetto antico. Mi fa cenno di nasconderla e di non aprirla
fino a quando non sarò da sola.
“C’è tutto l’occorrente, la formula, gli
ingredienti per la pozione… alcuni di essi non esistono nemmeno più…” commenta
sibillina, rimettendosi il cappuccio sugli occhi “Ne avevo qualche residuo
nascosto a casa… quindi fai attenzione, non hai altri tentativi…”.
Prende fiato prima di riprendere, la
ascolto attentamente, brividi gelati sulla schiena: “Come ovviamente non ti
dico di fare attenzione al resto, a morire e a tutto quello che ne potrebbe
conseguire, perché penso che tu abbia intuito che non sarà una passeggiata… né
per te, né per la gente che ti circonda, quindi fallo da sola… ci saranno meno
rischi per chi ti è vicino… me lo prometti?”.
Annuisco con il capo, devo aver perso la
voce qualche attimo prima, senza rendermene conto.
Helder torna a guardare la gente che ci
cammina vicino allegramente, persa nelle proprie faccende, infinito arcobaleno
i suoi occhi.
Poi sospira ancora e riprende, facendo
attenzione a non nominare nemmeno una volta la parola Zahir, ma alludendoci
solamente.
“Ti farà addormentare, probabilmente per
giorni… e potresti non svegliarti più. Vagherà nella tua anima alla ricerca del
sentimento ossessivo. Questa cosa,
Herm… è come un animale affamato. Fiuta la tua anima alla ricerca il sentimento
di cui nutrirsi, lo braccherà cercando di stanarlo e di saziarsi di esso. Ma,
se non sarà abbastanza forte e definito, si nutrirà di altro… altri sentimenti,
altre emozioni, ciò che di più forte c’è in te… sei disposta a rischiare per
questo?”.
La paura che non mi aiuti più, la
disperazione di dover convivere allora con l’amore per Draco, mi fa ritrovare
la voce perduta: “Sai già la risposta a questa domanda, Helder…”, abbasso la
voce, aggiungendo: “Non mi hai appena detto che avresti fatto lo stesso?”.
Lei sorride piano: “Ovviamente…”. Faccio
un cenno con il capo, tornando a guardare davanti a me il viavai per le strade:
“Non chiedermelo più quindi…”.
Helder riprende, la voce più bassa:
“Durante questo periodo di sonno indotto, userà il tuo cuore per vedere la
gente che ti circonda, anche se tu non ne avrai coscienza, né ricordo, e
sentirà tutto quello che provi nei confronti delle persone che ti circondano.
Solo allora troverà probabilmente il sentimento ossessivo, e lo renderà
ghiaccio, freddo. Se dovesse funzionare, tu ricorderai tutto di Draco, quello
che vi è successo, cose che vi siete detti, tutto. Ma senza più emozione. Sarà
come se fossero successe ad un’altra persona, anche se sarai cosciente di
essere tu. Eppure, l’amore che provi per lui sarà come un tenue ricordo che non
ti provoca più nessuna sensazione. Quando e se ti sveglierai, indosserai
qualcosa di diverso, probabilmente un bracciale, un monile, un anello, qualcosa
di simile. Sono così gli Zahir d’amore… non provare a sfilarlo, a farlo venire
via. Non se ne verrà mai, resterà sempre lì e, più diventerà forte l’amore che
deve distruggere, e più ti cingerà forte, probabilmente facendoti anche male. I
primi tempi resta accanto a Draco, ha bisogno di essere nutrito dall’amore che
deve distruggere, altrimenti cerca altro nella tua anima… trascorsi tre giorni,
vai via. Dimenticalo per sempre. Alimentandolo troppo, non riuscirebbe più a
sanarlo, a renderlo indifferenza…
diventerebbe odio, Hermione…”.
“Non sarebbe un problema odiarlo…”
aggiungo con tristezza “Tornerebbe tutto come prima…”.
Helder non aggiunge altro e capisco che
ricorda perfettamente quello che c’è sempre stato tra me e Draco.
“Lo so…” commenta tristemente “Ma
inizieresti a cambiare… il tuo aspetto, per prima cosa… e poi tutto il resto.
L’odio non rimane mai circoscritto, è come un cancro… contaminerebbe tutto
quello che rimane di te… quindi vai via, davvero, appena dovessi accorgerti di
qualcosa di simile… potresti morirne a quel punto, come se ti avesse
avvelenato. Solo l’amore ti salverebbe ancora… ma se lo hai distrutto, creando
lo Zahir, è impossibile che torni ancora…”. Capisco in parte quello che dice,
la ascolto silenziosamente.
“Un’altra cosa…” aggiunge con un altro
sospiro, i suoi occhi diventano di nuovo quelli di Draco per un secondo.
Rabbrividisco come se stessi parlando con lui.
“So che questo è il tuo destino… e so che
solo così questa storia finirà…” commenta con un sorriso, i suoi occhi tornano
del loro colore consueto mentre mi parla “Ed è solo per questo che ti aiuto…
non c’entra niente il mio debito…”.
“Quindi perché lo fai? Non capisco…”
chiedo attonita.
Gli occhi di Helder diventano prima d’oro
e poi d’argento, fondendo come metallo liquido e prezioso, forgiato da due cose
così diverse e distanti da essere assolutamente inconciliabili, ma che lei sola
vede miracolosamente e misteriosamente… unite.
Riflessa in quelle iridi magiche, mentre
Helder si alza e si smaterializza, dicendomi solo di stare attenta prima di
sparire, con un formicolio diffuso, sento che c’è qualcosa che non mi ha detto.
Qualcosa…
… e non è stata necessaria alcuna empatia
per capirlo…
La pozione brucia in gola, mentre la bevo
stesa sul letto, a casa mia.
Ha un sapore come di fuoco liquido, come
se mi ardesse dall’interno, e credo di non farcela a finire di leggere la
formula magica. O di sbagliarne le parole.
Divento subito anche meno lucida, mi sento
fluttuare nel pensiero nullo e nel sentire inesistente. La testa mi ricade
all’indietro, piegata dal sonno.
Eppure, mi aggrappo a quelle parole come
se ne andasse della mia vita, reprimendo la tosse ed ignorando Grattastinchi
che mi guarda curiosamente, inclinando la testa di lato dal basso del mio
letto. Lo sguardo mi muore fissando la finestra da cui filtra forse l’ultima
luce che vedrò in vita mia.
Le parole nel cervello si fanno meno
nette, finendo di pronunciarle. Le labbra si spaccano, sanguinando, come se
fosse un dolore inesprimibile, un peccato solo averle dette quelle parole
magiche. Tutti i miei organi è come se morissero, putrefacendosi. Tutto di me
sta morendo.
Eppure, le parole della formula continuano
nella loro litania.
Omnibus nobisanimimotuspraeest. Amorislaetitiae, odiiperspicuitatis, dolorisstuporisfons est. Noloobtemperare, volopacem, haudcruciatum, fluentemvenis et intercludentemmihispiritum. Nolohancundam,
quae intra me percutit et allidit.
Omniaflagrat et solumcoloresimberrestinguit. In vostromunere, non satisfortis sum, diicaeli, et sciite me meumanimumsubigereconari. Sedtempus
est sic serum. Sciam dulcis
mortisinanem.
(La passione ci comanda tutti. È
fonte della gioia dell’amore, della chiarezza dell’odio e dell’estasi del
dolore. Non voglio obbedire, io voglio pace e non dolore che scorre nelle vene
e mi soffoca il respiro. Non voglio quest’onda che batte e sbatte dentro di me;
tutto brucia e la pioggia spegne solo i colori. Non sono abbastanza forte nel
vostro dono, dei del cielo, e sapete che cerco di domare il mio animo. Ma il
tempo è così lento. Che io conosca il vuoto di una dolce morte.)
Solo, dopo aver finito di recitare la
formula in latino, finalmente mi abbandono al sonno.
Harry
aprì la bocca per ribattere, ma rimase curiosamente in silenzio come un buffo
pesce d’acquario.
Non
valeva la pena contraddirla, tanto lei avrebbe trovato un altro modo per avere
ragione. Ormai l’aveva capito.
Quindi
scrollò il capo e disse con voce rassegnata: “Sai che c’è Gin? Hai davvero
ragione! Dare una cornice d’argento come bomboniera, è il più vecchio dei
cliché… ci vuole qualcosa di meglio…”.
“Mi
stai prendendo in giro??!” borbottò Ginny, guardandolo torva e misurando a
lunghi passi il salotto, gli occhi che mandavano lampi “O mi stai solo assecondando
il che sarebbe anche peggio??!”.
“Ma
come la faccio e la faccio hai sempre ragione tu??”.
“Non
è vero! Quando ho ragione è chiaro che io abbia ragione… ma se tu avessi
ragione nel dire che io non ho ragione, allora sarebbe normale che tu hai ragione
e io non ce l’ho più la ragione!!”.
“Eh?”
chiese Harry, con gli occhi annacquati, cercando il bandolo della matassa.
Ginny,
alla sua vista, scoppiò a ridere, dimenticando per un attimo quello che stavano
dicendo. Si sedette accanto a lui, poggiando la testa sul suo braccio.
Harry
chiuse gli occhi, sorridendo. Anche stavolta, non sapeva ancora come, l’aveva
scampata.
Seth sfogliò le pagine con fare distratto,
profondamente perso nei suoi pensieri.
“Che hai?” chiese April, sedendosi accanto a
lui, mentre continuava ad asciugare con uno strofinaccio un bicchiere “Sei
strano oggi…”.
“Non ho niente…” borbottò Seth con voce
monocorde “Chi ti dice che io abbia qualcosa?”.
“Bah, la vaga sensazione che tu abbia sfogliato
il giornale senza guardarlo…”.
“L’ho guardato, invece…”.
“Anche Taylor Lautner a torso nudo, a
cavalcioni di una motocicletta?” sogghignò April, guardandolo storto.
“Dove? DOVE??!!” urlò Seth, sfogliando come un
ossesso le pagine in senso contrario, arrivando quasi a strapparle pur di
ritrovare il suo attore preferito.
Perso nel suo delirio ormonale, non si accorse
di April che, caduta per terra, inveiva contro di lui per il suo slancio troppo
impetuoso che l’aveva fatta ruzzolare dalla sedia.
“Allora oggi dobbiamo assolutamente andare a
comprare delle scarpe nuove…”.
Sospiro.
“Vorrei ricordarti che le Hogan blu sono
assolutamente inadatte… insomma, diamine… oramai ce le hanno tutte…”.
Sbuffo irritato con la bocca. Mano ad
asciugarsi la fronte, imperlata di sudore.
“Persino Shirley…! Ma dico, ha due fette al
posto dei piedi, porterà come minimo il 45… pensa che lei a scuola, si vantava
che gliele facessero su misura, le scarpe… ovvio! Non le troverà mai da nessuna
parte!!”.
Cenno con il capo, che vuole fingersi
divertito. Occhiate attorno alle donne circostanti.
“Poi, una volta con Calì la beccai che si
tentava di infilare delle scarpe minuscole…! Che risate…! È assurdo quando una
non è conscia di quello che è!”.
Ron fa un gutturale verso di gola, che vorrebbe
corrispondere ad un assenso incondizionato. Lavanda comunque non l’ha sentito,
presa com’è dal suo racconto sui leggendari piedi di Shirley Danes.
Il ragazzo torna a guardarsi attorno, con
espressione spaesata, mentre la fidanzata continua a parlare.
Ha una sola domanda in testa. La solita.
Ma non l’ascolta e la lascia andare… anche
perché sa che lei ormai non c’è più. In tutti i sensi. Harry glielo ha detto
ieri sera.
Gli è semplicemente crollato il mondo. E
cammina per strada, cosciente di avere il vuoto dentro. Cosciente che fa più
male di quanto dovrebbe.
Hermione, la sua Hermione, si è innamorata
davvero stavolta.
Ricordo. Rabbia.
Dolore. Inadeguatezza. Voglia di dimenticare.
Non è questo.
Correva per strada, era in ritardo come sempre.
Quella dannata partita doveva anche finire ai
supplementari?
E dovevano perdere pure??
E doveva anche essere collega di un gruppo di
tifosi sfegatati del Paris Saint Germain??
Ed essere il solo che teneva per il
Manchester???
Dean urtò una signora che veniva nella
direzione opposta, si affrettò a replicare con voce frettolosa: “Jesuisdèsolè,
c’ètait un accident!”. La
signora lo guardò in cagnesco, per niente intenerita dalle sue scuse. Gli
ricordava terribilmente la signora Sanchez…
Fu un attimo…
Hermione…
Stava bene, Hermione, glielo aveva detto Ginny
qualche giorno prima. Si era ripresa dal coma, stava anche per riavere un
lavoro nella comunità magica.
E, a detta dell’amica, si era anche innamorata.
Del suo capo, qualcosa del genere.
Era contento, sinceramente. Lei si meritava
tutto il meglio del mondo.
E lui… bé, lui si era ricordato che la
monogamia era una cosa che nuoceva terribilmente all’evoluzione della specie.
Con Hermione, andava bene essere fedele, probabilmente se lei lo avesse amato,
l’avrebbe fatto anche per tutta la vita… ma visto com’era andata a finire,
allora ritornava alla sua vecchia teoria.
Si fermò davanti a Place de Sorbonne,
dove aveva appuntamento con Laetitia.
O era Charlotte?
O Frances?
Appena la vide arrivare da lontano, ancora
immemore del nome, capì che evidentemente la poligamia era stata abolita per
l’alto tasso di omicidi.
Deglutì.
Omicidi di uomini che scordavano i nomi delle
loro innumerevoli fidanzate.
Tenerezza. Rimpianto.
Rimorso. Gratitudine. Senso di colpa.
Non è questo.
Stese la mano davanti a sé, faceva ancora male,
ma almeno meno di prima.
Un paio di giorni e sarebbe guarito del tutto…
chissà, se poi sarebbe stato un bene.
Draco Lucius Malfoy si guardò distrattamente la
mano destra fasciata, al centro dello studio dove dipingeva, nelle cantine del
Petite Peste. Accolse la vista di quella ferita con un fremito negli occhi
chiari, un fremito che era assieme rabbia e dolore. Debolezza. Il segno della
sua infinita debolezza.
Su di lui, si sentivano i passi dei clienti e
le urla divertite di Seth ed April.
Chiuse gli occhi quasi infastidito.
Ma gli occhi si chiudono per non vedere
qualcosa. Non per smettere di ascoltare.
E Draco la cosa, che non voleva vedere, ce
l’aveva davanti agli occhi.
Sospirò, riaprendoli, ringraziando la ferita
che si era scioccamente procurato alla mano e che gli impediva di finire quello
per cui lavorava da anni.
Almeno non aveva per qualche giorno ulteriori
spettri a tormentarlo.
Diede le spalle al quadro non terminato con una
smorfia, e tornò indietro sui suoi passi.
In un quadro, nato anni prima, che solo di un
sentimento profondo avrebbe tratto vita, un sorriso di donna restava sospeso,
forse per sempre.
Oltre a quello, solo gli occhi.
Occhi azzurri.
Occhi azzurri sbiaditi, trasformati in lucenti
stelle d’oro.
Occhi che lentamente, giorno dopo giorno,
stavano cambiando. Ed era un colpo continuo all’anima vedere adesso le cose
capovolte.
Non era lei che somigliava ad Helena… era
Helena che somigliava a lei.
Lo sapeva, lo vedeva. L’azzurro stava
scomparendo. Presto sarebbero diventati i suoi.
Gli occhi sarebbero diventati i suoi. Occhi
castano dorato come bruno miele dolce.
Un bambino biondo che corre, inseguendo un cagnolino.
Un uomo che lo chiama a gran voce.
Una ragazza che sorride.
Una donna in una terrazza dai lunghi capelli castani.
Cinque anni nel futuro.
Scrive una pagina di diario e sorride, agitando una mano, salutando la
sua famiglia. Abbassa gli occhi e nasconde la solita lacrima.
La penna scorre ancora sulla pagina immacolata. Sa che lei la sta
vedendo, ma che non la ricorderà. Non la ricorderà fino all’impulso di scrivere
un diario da quella… prigionia… per poter ricordare tutto, per non perdere più niente.
Sperando che un giorno serva.
Rilegge la pagina, cancella qualcosa e scrive altro.
Nella luce di quel sole estivo, luccicano come gabbiani le sue parole.
Volevo qualcosa che mi
distraesse dal dolore. Persino un dolore maggiore… ma che non fosse quel
dolore.
Ora…che sono passati cinque
anni da quel giorno, ora che so quanto sia stato inutile, ho ricordato persino
quel momento. Tutto quello che provai.
All’inizio, fu solo un lieve
formicolio, poi come un pizzicotto, infine come se mi strappassero il cuore.
Sanguinava tutto, dentro di
me, come un pezzo di corallo strappato dal fondo del mare e che tingesse di
rubino l’acqua trasparente.
Si tingeva tutto il resto.
Sentivo il mio corpo
contorcerci, sentivo la gola seccarsi, sentivo anche che mi mancava il fiato,
mentre lo Zahir mi portava via l’amore per Draco. E desiderai morire. Perché,
ora che stava funzionando, come il solito paradosso della maledizione che vuole
gli uomini venire puniti dai loro stessi desideri, io trattenevo per le unghie il
mio amore, lacerandomi l’anima, lasciandola gemere, graffiando e mordendo come
una bestia ferita, che conserva la forza titanica della disperazione.
Non volevo che me lo portasse
via. Sarebbe stato il mio caldo sole intessuto nell’anima, poco importa se ne
sarei morta bruciata.
Ma almeno… sarei stata… viva…
Lo Zahir mi stava uccidendo
una parte del cuore, la stessa parte che aveva visto Draco in quello studio
guardare i miei occhi su una tela.
E si era ribellata, troppo
tardi, a quella carneficina.
Lentamente, il corpo si
assopì, la coscienza sparì, la memoria si annullò… e l’amore volò via.
E quando riaprì gli occhi,
era come se fossi tornata in vita. Perché non sapevo cosa avevo appena
distrutto.
Non sapevo della mano ferita
di Draco e dello spasmo negli occhi grigi.
E ricordavo solo ricordi
freddi, senza emozione.
Mi svegliai cinque giorni
dopo.
E semplicemente io non amavo
più Draco Malfoy.
Rieccomi!! Dopo decisamente meno tempo del solito, ecco il nuovo chappy!! Un pochino
breve ma dove sicuramente vi ho dato dei segnali importanti e dove sono sorte
tante domande, specie nella parte finale… ebbene sì, è proprio uno sguardo sul
futuro della nostra cara Hermione, una specie di spoiler…! Ma perlomeno stiamo
riemergendo dal baratro della desolazione dove eravamo annegati!! Baratro che
invece colpisce me in modo determinante sia per gli esami imminenti, sia perché
la scheda video del mio adorato pc si è rotta, cosa
che mi costringerà a cambiarlo e ad utilizzarne un altro con cui non vivo lo
stesso rapporto… ebbene sì, mi affeziono anche alle cose, io! Per gli stessi
motivi, oggi il mio spazio è molto breve, ringrazio tutti coloro che hanno
recensito lo scorso capitolo e VI Do UNA
COMUNICAZIONE DI SERVIZIO:
Sia io come Cassie Chan Efp sia la
storia stessa sono sbarcati su FB!! Il forum purtroppo era di difficile gestione
sia per me che per Helder che non avevamo modo di curarlo molto, quindi abbiamo
trasferito l’attività su FB, siete ovviamente tutti invitati, qualora vogliate
condividere le vostre impressioni sulla storia, ed anche altro!!
Questo è il link della mia pagina, dove potete quindi
contattarmi, chiedermi amicizia e simili:
chiedo ancora scusa per la brevità delle mie risposte di
oggi, ma davvero, la depressione causa trauma del pc,
è una cosa troppo invalidante!!ç_ç Un Bacio Cassie!!
Capitolo 26 *** Eternal sunshine of a spotless mind ***
Capitolo 25 – Strangers since yesterday
Capitolo 26-Eternal sunshine of a spotless mind
Mi sentii onnipotente,
invincibile, certa che nulla mi avrebbe più scalfito, quella lontana mattina di
cinque anni fa.
Ripenso spesso a quel giorno,
come se davvero tutto fosse iniziato e finito lì, e non prima, il giorno che
per esempio misi piede al Petite peste.
Ci sono momenti, attimi, in
cui la tristezza prende il sopravvento e vorrei non essermi mai svegliata, quel
giorno.
Essere rimasta addormentata,
per sempre, come una principessa. Non avrei causato danno e fastidio a nessuno,
e soprattutto molto del dolore che provo mi sarebbe stato risparmiato. Non è da
me, ne sono perfettamente cosciente, infatti è solo una carezza nefasta. Come
l’anelito oscuro di abbandonarsi all’oblio, stanchi di lottare.
Inoltre, tutta questa storia
maledetta è nata dalla mia incapacità di accettare il dolore, quindi è
abbastanza suicida pensarla ancora in questo modo.
Fa meno male vivere ogni
giorno questo inferno, che provare anche solo ad evitarlo.
È terribile da dire, ed anche
solo da pensare. Quando appello la mia vita come un inferno, dimentico mio
figlio e quello che dovrei chiamare mio marito, loro sono così lontani da me.
Alex nel fulgore dorato della sua infanzia. E invece lui nella speranza liquida
che un giorno tutto sarà diverso. Non lo dice mai, ma ci spera sempre, quando
mi lancia quello sguardo sofferto e si corica nella brandina accanto al mio
letto. E mi strazia il cuore che lui sia qui, vorrei che fosse libero almeno
lui.
Non è giusto nemmeno verso Helder
e verso i miei. Ovviamente. Ma, per forza di cose, penso sempre che non sia
giusto soprattutto verso la mia famiglia più stretta.
Mio marito e mio figlio.
Poi, invece, ci sono giorni
che ringrazio di essermi svegliata, sono persino felice, e ringrazio per quello
che, nonostante tutto, ho. Anche se non richiesto, ed anche se non voluto.
Un figlio non voluto. Ed un
marito non cercato.
Dura sempre così poco,
stemperato dal senso di colpa l’essere felice, se penso a chi non è accanto a
me, ma è dall’altra parte della terra, del mare, del tempo e del ricordo.
Resto in piedi per la
speranza, quella che in fondo oltre l’effimera felicità e la perdurante
tristezza, rimane sempre con me, dopo ogni marea.
Quella speranza. Ha sempre lo stesso nome, lo stesso suono nelle
mie orecchie, la stessa vista negli occhi.
Ha sempre i colori di quella
mattina tiepida di giugno. La mattina più bella della mia vita e di cui oggi
cerco di ricordare solo oro e perla.
È sempre il solo motivo per
andare avanti.
La speranza di rivedere te
ancora una volta.
Oro e perla.
Solo una volta mi basterebbe
per tutta la vita. Sarebbe il sole nel cuore per mille anni.
Rivederti un solo secondo…
Draco.
Lo
Zahir non poteva avere altro che questo aspetto.
Mentre
lo guardo splendere attorno al mio polso destro, nella luce sonnacchiosa che
filtra dalla finestra, mi rendo conto che effettivamente, se non fosse per il
suo particolare aspetto, penserei tranquillamente che l’incantesimo non abbia
funzionato e che quello che in realtà indosso non è che un semplice bracciale.
Ma,
a parte che, come mi aveva detto Helder, non riesco ovviamente a sfilarlo, è esattamente come avrei pensato
che sarebbe stato.
Un serpente.
Attorno
al mio polso, la mia colpa inconfessabile si attorciglia nelle forme sinuose di
un serpente d’oro giallo, ricoperto di lucide pietre opache di colore verde e
nero, a simulare le scaglie dell’insidioso animale. La testa, che si poggia
indolente su una vena bluastra del mio polso, quasi come un vampiro smanioso
del mio sangue, è triangolare, dai ciechi occhi neri.
Eppure,
non mi
fa paura.
Nonostante sia così terrorizzante che io non riesca nemmeno a muoverlo dal mio braccio, nonostante sia
anche abbastanza stretto e, ad ogni mio frettoloso respiro, mi sembra persino
che stringa più forte, come se fosse un animale vivo, affamato di nutrirsi
della mia anima… non mi fa paura. E il motivo è solo uno.
Ha
funzionato.
Con
un senso di eccitazione nelle punte delle dita, mi rendo conto che io ricordo
tutto. Tutto.
Draco
che mi bacia. Draco che mi abbraccia. Le sue parole, le sue espressioni, i suoi
silenzi…persino il colore preciso dei suoi occhi e il loro modo assolutamente
unico di turbinare in preda alle sue emozioni molteplici…
Ma…
ora… è come se non fosse successo a me.
Cioè
è ovvio che sia successo a me, ma sento solo nulla, se ci ripenso. Come se mi proiettassero nel cervello la
scena di un film, ecco.
Può
avermi dato emozione in quel preciso momento, ma poi è stata come rendersi
conto di una finzione.
Non ci credo. È meraviglioso…
Trattenendo
contemporaneamente le lacrime e le risate isteriche, e l’istinto di mettermi a
saltellare urlando che non sono più innamorata di Draco Malfoy, mi chiedo come
mai non rendano legale questa meravigliosa pozione… insomma, sai quanti patemi
d’animo si risparmierebbero? Uno Zahir per il tradimento di Ron, uno per
l’abbandono di Dean, uno per l’amore per Draco… e io sarei stata la donna più
felice e realizzata di questa terra! Lo proporrò al Wizengamot, se mai ci
entrerò.
Una parte di me mi suggerisce quello che mi direi sempre in questa occasione.
Che
il dolore è necessario per fare esperienza, per crescere, per diventare una
persona migliore. Ma la metto a tacere con stizza.
Questa parte di me… è piccola, minuscola, ininfluente.
Come
no. Saturiamoci la vita di dolore con la vaga promessa che sia utile e
necessario, certo. Fino a quando esso inquinerà tutti i ricordi e giureremmo di
non aver vissuto un solo giorno felice in tutta la nostra vita.
Mi
torna in mente un insegnamento che ci dettero al Corso per diventare Auror.
Quando
e se mai fossimo finiti sotto Crucio, sotto il dolore estremo, puro, netto,
come una bomba che deflagra nell’organismo fendendo ogni punto… allora la
nostra resistenza sarebbe dovuta partire da una frase, quasi un dogma
filosofico.
È innaturale per l’uomo cercare il dolore.
Da
lì, aperta una breccia per la razionalità, cercare di resistere sarebbe stato
più semplice. O perlomeno meno complicato.
Mi
ripeto quella frase di fronte alla parte di me che ancora nega che abbia fatto
uno Zahir per liberarmi del mio amore per Draco.
Non
ci credo di non averla sempre pensata così, persino quando Harry soffriva per
la sua cicatrice e per il suo ruolo di Eroe del mondo magico… che stupida…
bisognava che arrivassi all’overdose del dolore, per capire che bisognava darci
un taglio, anche se in modo decisamente poco convenzionale. Bè, come si dice,
meglio tardi che mai.
Almeno
non ho ottant’anni e non sono bloccata in un letto. Posso ancora ricominciare a
vivere. Senza Draco, finalmente.
Eppure,
nonostante questa nuova meravigliosa sensazione di vuoto dentro, c’è qualcosa
che non riesco a focalizzare.
La
parte di me, piccola e molesta, mi suggerisce che ho lasciato indietro
qualcosa… come… un ricordo.
Mi
suggerisce anche che, con una strana ansia e calore alla bocca dello stomaco,
che ho lottato strenuamente per trattenerlo.
Un
ricordo che non ha confini, né contenuto… solo un senso di ricongiunzione. Una parola che la mia mente mi infila tra
i pensieri in modo automatico e assolutamente non causale. Come contrario di
ciò che, invece, mi ha portato alla creazione dello Zahir.
Stato di quiete dato dalla
consapevolezza perenne di impossibilità del raggiungimento del proprio fine… o…
ricongiunzione con l’oggetto amato.
Quelle erano le due alternative,
per cui incontra una persona indimenticabile.
Cerco
di focalizzare la mia attenzione solo su cose prettamente razionali. Quasi con
sollievo, mi porto la mano sotto il mento ricordando. Helder mi aveva detto
che, nel mio sonno, avrei visto cose di persone che mi circondavano, ma che non
avrei ricordato. Evidentemente è qualcosa di simile… ma ha dei contorni così
sfumati che non potrei ricostruirlo nemmeno se volessi. E non lo voglio
nemmeno, quindi chissene…
In fondo, io ricordo solo odore di tempera fresca… e questo è un
particolare così avulso da me e dai miei amici che credo che sia assolutamente
poco importante…
Ora
basta rimuginare. Ci sono decine di cose che devo fare!
Non
mi ero resa conto, nei miei giorni di catalessi post traumatica da sentimento
non corrisposto, che la casa fosse nel macello completo, per non parlare poi
della mia persona… alzandomi bruscamente dal letto, mi avvicino quasi con
cautela allo specchio.
Dall’esame
dei miei capelli, che appena presi la pozione erano lavati di fresco e che ora
invece sono opachi, deduco che devono essere passati alcuni giorni da quando mi
sono addormentata. La conferma mi giunge dalla radio che accendo velocemente,
mentre c’è il notiziario. Sono passati ben cinque giorni.
Questo
mi fa ricordare di andare subito a controllare la segreteria telefonica. Avevo
avvisato Seth, Harry e Ginny che sarei mancata per un po’ con la scusa che
sarei andata dai miei, in Italia, ma non dubito che ci siano comunque dei
messaggi. Ed infatti ce ne sono tre.
Uno
è di Seth ed è il più recente. Preoccupato, mi chiede se sono tornata, perché
non rispondo al cellulare e che decidere di suicidarmi in Italia, fa troppo
Twilight. Riferimento che sa perfettamente che mi fa imbestialire, considerando
quanto odi la saga dei vampiri.
Il
secondo è di Hayden. Sorrido come un ebete ascoltando la sua voce cristallina,
mentre mi chiede come sto. All’inizio non collego, poi come se emergesse da una
lanugine vaporosa, ricordo che l’ultima volta che ci siamo visti, fu quel
pomeriggio in cui ci aiutò a ridipingere il Petite Peste.
E
in cui io e Draco ci siamo quasi baciati… assurdo che non provi assolutamente più nulla,
ricordando quel momento…
Sorrido
alla voce di Hayden che si spegne, prima del bip che annuncia il successivo
messaggio. Adesso mi sento anche più tranquilla nei suoi confronti, non con la
costante sensazione di tradire il mio cuore innamorato in modo disperato,
dandomi solo sollievo con la sua compagnia. Ora potrei anche seriamente
innamorarmi di lui. Più tardi, devo assolutamente chiamarlo.
Il
terzo è quello più strano fra tutti. Harry. E, in questo, non c’è ovviamente nulla di così insolito,
nonostante mi abbia contattato con dei mezzi babbani e tendenzialmente lui
utilizzi più quelli magici. Ma la prima stranezza è il suo tono di voce,
incerto, insicuro, come se mi stesse rivelando chissà che segreto. Persa
nell’analisi dell’inflessione della sua voce, fatico a recepire ciò che sta
dicendo e sono costretta, al termine della registrazione, a premere nuovamente
il tasto play per riascoltarla.
Ciao Herm… sono Harry… sì, sì, proprio io, Harry… ecco, insomma, so che
sei in Italia… dai tuoi, in Sicilia, o qualcosa del genere… mi avevi detto che
abitano in campagna, poco fuori Siracusa… bene, bene, spero che non faccia
troppo caldo… eheheh… ecco insomma, Herm, quando torni, avrei bisogno di
parlarti di una cosa… importante… su… su, ecco, su Malfoy… ma, ecco, sarebbe
una cosa diciamo segreta, quindi sarebbe meglio che non gli dicessi nulla di
questa mia intenzione, penso che mi ammazzerebbe se lo sapesse… vabbè dai
quando torni fammi uno squillo. Preferirei la via magica, sai che odio le
segreterie telefoniche, ma è il solo modo con cui Ginny non ci ascolti per
caso… ci sentiamo, allora, ciao…
Resto
con la mano sospesa a mezz’aria, scrollo le spalle e decido di occuparmi delle
mie cose.
In
fondo, credo che Harry voglia solo parlarmi prima che io mi leghi sul serio a
Malfoy, magari vuole mettermi in guardia o cose simili.mi
sembrava strano che non avesse già agito, prima… fatica sprecata Harry!
Ho
già bello che sistemato tutto.
Un
taglio netto… zac! Quindi non lo chiamerò affatto…
Sarebbe
un’inutile noia, soprattutto doverlo rassicurare sul fatto che non me ne freghi
nulla di Malfoy. Come doveva essere sempre… ma so che, senza nominare lo Zahir,
a tutti sembrerà strano che improvvisamente io mi disinteressi di lui.
Immagino
che quindi devo essere abbastanza prudente… e forse dovrei anche chiamarlo
Harry…
Ma
non adesso…! Ora devo pensare solo a me stessa!
Per
prima cosa, mi dedico allo studio, cosa che avevo tralasciato in questi giorni.
Nonostante la proposta di lavoro di Harry mi sia giunta solamente per tenermi
lontana da Draco e liberare lui della mia molesta presenza, ora sono
perfettamente in grado di valutarla con adeguata lucidità, senza la sgradita
intromissione dei sentimenti per Malfoy. Quindi comprendo ancora che è una
grande occasione per tornare nel mio mondo… dove ancora di più, sarò finalmente
divisa da Draco per sempre.
Avevo
avuto delle enormi difficoltà nello studiare nei giorni passati, restavo
immobile a guardare la pagina piena di parole incomprensibili ed ogni singolo
concetto, fosse anche il più semplice, mi scivolava come acqua tra le dita.
Tutto per Draco.
Riflettevo
che passare quell’esame, significava separarmi da lui. E mi mancava forza e
determinazione nel compiere quel passo.
Ora,
invece, riesco a finire la parte che mi mancava in poche ore. Euforica, mi
rendo conto che avrò persino il tempo di fare un paio di ripassi, cosa
assolutamente vitale, dato che non ricordo nulla di quanto ho studiato nelle
scorse settimane. Sempre per Draco.
Riposto
il librone che finalmente ho finito, mi dedico alle pulizie di casa mia,
pratica anch’essa divenutami avulsa nelle scorse settimane. La casa mi era
diventata estranea, non la sentivo più mia… il meglio che poteva capitarmi era
ricordarmi di Dean, mentre la pulivo da cima a fondo. Ed il peggio… ancora
Draco… pensavo che ormai casa mia era dove c’era lui. Piuttosto patetico che
oramai fosse presente in ogni cosa. Come diamine abbia fatto, ancora non so…
Dopo
aver fatto il bucato, lavato i pavimenti, le tende, le lenzuola, le finestre,
ed aver spolverato ogni centimetro libero della casa, ammiro il risultato con
soddisfazione. Certo, ho ancora pensato a Dean e ha fatto anche male, molto più
di quanto facesse prima, dato che non ha trovato la resistenza granitica del
nuovo sentimento per Draco, ma ci posso convivere. Infondo, non sono ancora
Wonderwoman.
Quindi
ci sta che abbia ancora delle questioni irrisolte.
Sistemando
la mia camera, ricordo di aver lasciato a metà un libro, che trovo abbandonato
sulla scrivania. Anche per esso, Draco.
Le parole che non ti ho detto. Figuriamoci se leggevo dei romanzetti del genere, io. Ma
Ginny me lo aveva regalato e non leggere un libro mi è sempre sembrato un
crimine atroce, oltre che uno spreco di carta. Ebbene, lo avevo posato
definitivamente quando avevo iniziato a chiedermi con insistenza crescente se
Draco avrebbe potuto amare ancora dopo Rachel, o meglio dopo Helena Jasmine
Greengrass, come succedeva a Garrett, il protagonista del libro.
Possibile
che lui si fosse insinuato in ogni cosa?
In
tutto?
Gli
avevo lasciato tanto posto dentro me? Avevo lasciato che scavasse crepe
profonde nel mio essere, senza fermarlo, facendogli varcare senza sforzo e
senza resistenza alcuna, persino la mia quotidianità, il mio insieme di
abitudini scomposte, le mie manie sciocche, le mie passioni nascoste, i miei
vizi inconfessati? Tutto…era diventato il mio tutto.
Meno
male che è finita. Non mi sono nemmeno occupata del mio aspetto, convinta che
non sarebbe servito a rendermi degna dei suoi occhi di perla, degna del
confronto con Rachel. Che idiota.
Per
riprendermi, mi faccio un lungo bagno, immergendomi nella vasca da bagno, afferrando
il cordless e chiamando tutte le persone che non sento da settimane. Inutile
dire che anche questo era dovuto a Draco.
Nessuno
poteva capirmi e nessuno era degno di essere paragonato a lui.
Tutto
mi sembra così cristallino della turba di pensieri puntinati di confusione
delle settimane precedenti, da far quasi male agli occhi.
Alla
fine, dopo Ginny, Neville, Calì, qualche amica del corso per Auror e qualche
mia amica babbana, riesco anche a chiamare mia mamma. Dio quanto mi mancasse…
lei è quasi sorpresa, meravigliata, ma poi è così felice da stringermi il
cuore. Mi dice che si trasferiscono in Toscana la settimana prossima, che papà
ha voluto mettersi in società con un suo amico per aprire un agriturismo e che
ora vivranno lì. Mi invita da lei per quando sono libera ed accetto volentieri.
Chiudo
il telefono con un sorriso. Mamma. Almeno nel tuo caso, ero solo io ad essere
strana. Draco non c’entra.
Anche se lui… è stato così… totalizzante… assoluto… fosse andata
diversamente, non fosse stato lui… avrei giurato che fosse l’uomo della mia
vita… che fosse il mio destino…
Sposto
distrattamente la schiuma della vasca da bagno con una mano, sospirando. Ora
che sono libera, posso anche ammetterlo senza imbarazzo, vergogna e paura. Ho
pensato spesso, negli ultimi tempi, che fosse Draco la mia strada.
Insomma,
il Grande
Amore. Con
tanto di maiuscole. Una cosa che provi una volta e poi non sentirai mai più,
per nessuno.
E, forse, lo penso ancora, constato con un brivido. Un sentimento del genere doveva essere
per forza il più assoluto che potessi provare.
Ma
spesso bisogna imparare ad amare ciò che ci fa bene. E Draco, a me, ha fatto
solo del male.
Quindi,
anche se era l’uomo della mia vita, non ho mai creduto ciecamente al destino.
Me l’hanno messo sulla strada? Benissimo.
Tornerò
indietro con pazienza e ne imboccherò un’altra.
Non
ci sono mai stata a cadere in queste trappole assurde. Il destino, il fato, le
anime gemelle e cose simili.
Si
può sempre recidere un filo rosso che collega il tuo mignolo a quello di
un’altra persona.
Se
può farlo la morte, può farlo anche la volontà. E lui, in fondo, credo che abbia
sempre visto quel filo rosso collegarlo ad Helena.
E la morte l’ha tagliato di netto.
Ora… se mai sia esistito qualcosa che mi collegasse a lui… lo Zahir lo
farà a pezzi per me.
Sollevo
il polso, guardando il bracciale che mi incatena il braccio in quella stretta
quasi mortale. Sotto il metallo luccicante, la pelle è striata di rosso, fa
quasi male, il mio viso si curva in una smorfia. Probabilmente, pensando a
Draco, è costretto a fare maggiore lavoro.
Credo
che anche Helder mi avesse detto qualcosa del genere.
Non
ho bisogno di nessuna supposizione per sapere che sarà ancora peggio, quando
Draco sarà davanti a me.
Mi
romperà l’osso, probabilmente.
Ma
non ho paura…
… ancora una volta, tutto… è tutto…
lui… stavolta è tutto il mio desiderio che quel filo rosso, fragile e delicato,
si rompa per sempre.
Non
mi ero sbagliata. Figuriamoci se poteva succedere, una santissima volta nella
mia vita.
Mi
mordo il labbro inferiore con i denti, cercando di resistere, ma il dolore
sembra persino annebbiarmi la vista. Il buco dentro, però, tace, i lembi quasi
accostati, cicatrizzati, come se mi avessero chiuso quella ferita con dei punti
di sutura appena in tempo, prima che facesse infezione, intaccando qualche
organo vitale. E, questo, è in fondo l’importante.
Sollevo
lo sguardo, asciugandomi la fronte sudata per il caldo e per il dolore che si
irradia dal mio polso. Lo Zahir mi spezzerà davvero l’osso probabilmente. Ormai
aderisce completamente alla mia pelle, stringendola. E, ad ogni passo, la sua
stretta è aumentata sempre di più, fino a diventare lacerante quando mi sono
fermata davanti alla saracinesca del Petite Peste.
Lui è dietro questa parete.
Apro
la borsa, respirando a fatica, e cerco con le dita il foulard rosso che ci
avevo cacciato dentro a forza prima di uscire. Lo lego stretto attorno al polso
che porta lo Zahir, ci manca solamente che Draco se ne accorga. Non penso che
sappia che cosa sia, ma è pur sempre l’ultimo rampollo di una famiglia dedita
alle arti oscure. Se lo conosce… bé, sarebbe la fine. Non che gliene freghi
granché, di me e della mia vita, ma forse mi butterebbe fuori a calci, temendo
per Serenity e per gli altri. Cosa a cui devo stare ovviamente molto attenta
anche io, ma non necessito dei suoi consigli.
L’animale,
attorno al mio braccio, sembra stringere ancora più forte, se mai era
possibile. Quasi come se non volesse essere coperto.
Sospiro
lievemente. E ora si va in scena.
Mi
ravvivo distrattamente i capelli, legati in una coda alta sul capo, e sistemo
anche il vestito rosso che ho indossato, per l’occasione.
Oggi,
comunque vada, io dico addio a Draco. Quindi c’è solo da festeggiare.
Peccato che il polso mi faccia così male… sembra che l’osso stia
bruciando come carta…
Indosso
il migliore dei sorrisi e busso con delicatezza alla saracinesca. È lunedì
mattina, quindi è sicuro che ci sia solo Seth.
Infatti,
dopo qualche secondo, la bambina sorridente su sfondo blu sparisce davanti ai
miei occhi, risucchiata dall’alto.
E
Seth compare davanti ai miei occhi: “Tesoro!”, urla e mi abbraccia forte,
girando su sé stesso, io che volteggio come una bambola.
Manco
non mi vedesse da un anno… che scemo… ma mi fa un piacere così grande che mi
viene quasi da piangere.
“Seth!”
sorrido a mia volta, quando finalmente mi fa scendere e, prendendomi per un
gomito, mi trascina dentro il locale.
“Stai
benissimo…!” commenta, facendomi fare una piroetta “L’Italia ti ha fatto
proprio bene, la prossima volta porti anche me!”.
“Ma
certo…” sorrido alla mia bugia “I miei ne sarebbero felici…”.
“Come
stanno?” mi chiede, appoggiandosi allo stipite della porta, e passo qualche
minuto a raccontare dei miei. Non ho nulla da inventare, sono le stesse cose
che mi ha detto mia mamma al telefono, quindi sono tutte sacrosantamente vere.
Ma capisco perfettamente che tutto questo interesse di Seth, ha solo una
motivazione.
Sebbene
ora per me sia quasi un ricordo sfuocato, deve ancora ricordare con estrema
chiarezza l’ultima volta che ci siamo visti.
Quella sera.
Draco
che dice quelle cose. Io che crollo. Lui che mi trova. E le lacrime, le urla,
le parole sconnesse… e lui accanto a me.
Chissà
come si è preoccupato. Per un attimo, sono quasi certa di avere persino una sua immagine negli
occhi. Di lui, di Seth. Della sua preoccupazione. Come se… lo avessi visto…
La
mia immaginazione è davvero molto vivida, sembra quasi reale…
Seth
sospira, quando finisco di raccontare della mia famiglia, e rimane a guardarmi
qualche secondo in silenzio, la testa inclinata di lato, quasi in attesa che
sia io a rompere quella quiete.
Sorrido
in modo caldo, cercando di rassicurarlo, prima di mormorare con voce netta e
chiara: “Sto bene, Seth… non ti devi preoccupare… lo dico sul serio, non sto
facendo la forte o simili…!”.
“Non
ci sarebbe nulla di male…” aggiunge sottovoce, inarcando un sopracciglio
scettico “… dopo quello che hai passato, se stessi ancora male…”.
“Lo
so” mi affretto a replicare con foga, sollevando le palme. Mi fermo a
riflettere qualche secondo, guardandolo. Seth mi ha visto piangere e disperarmi
solo qualche giorno fa. Non crederebbe mai che la cosa mi sia passata così
velocemente. Penserebbe sempre che fingo per non farlo preoccupare. O che
faccio la forte come mio solito. Cambierebbe idea solo se… un guizzo di
consapevolezza mi trapassa da parte a parte, dandomi i brividi sulla schiena.
Sospiro,
smetterò mai di mentirgli?
Ma,
come diceva mia nonna, una bugia a fin di bene, certe volte, vale più di mille
verità.
Sorrido,
stringendomi nelle spalle, quasi come una bambina colta in fallo.
“Credo
di aver esagerato un pochino…” dico a denti stretti, distogliendo lo sguardo da
lui “Quella sera, insomma… quando Danny mi ha detto quelle cose… il mio
orgoglio si è ribellato e ho reagito in quel modo, ero disperata…”, mi
interrompo alla ricerca d’ispirazione e sospiro: “Non sono mai andata dai miei…
sono stata con…”, la mia voce si piega, roca ed incerta: “…con Hayden…”.
“Con
Hayden?” mi chiede quasi scioccato, staccandomi dalle mie spalle che aveva
stretto per consolarmi, come se scottassero.
Gli
racconto di aver visto Hayden per caso, snocciolo la storia di come mi abbia
consolata e di come sia stata bene assieme a lui, lasciando in sospeso il
discorso in modo che possa eventualmente intendere che sia successo qualcosa di
più. In un respiro più intenso, dico di avergli mentito perché temevo che
potesse malgiudicarmi. Ma, con mia enorme fortuna, Seth è stato sempre un
grande fautore della tesi del chiodo scaccia chiodo. E più semplicemente, mi vuole davvero
bene. Quindi, per lui, vedermi stare meglio è la sola cosa che davvero conta. E
questo mi consola. Poco importa che sia per un ragazzo, oppure per un bracciale
che mi sega il polso.
Forse
con l’ultima cosa, non sarebbe stato molto d’accordo, se lo avesse saputo, mi
stringo nelle spalle, pensandoci.
Se
non altro, perché mi ha messo seriamente in pericolo. E dubito, anche adesso,
di essere al sicuro.
Ma
una piccola ed oscura sensazione, mi dice che anche lui, come Helder, avrebbe
trovato dentro la
motivazione per capirmi.
Una
motivazione tutta sua, certo, ma forgiata sullo stesso dolore che mi scolpisce
lo Zahir addosso.
Seth avrebbe capito, alla fine.
Sorrido
al suo fiume di parole, mentre mi chiede cose assolutamente personali e poco
consone del tipo come bacia Hayden e simili. Alzo gli occhi al cielo di fronte
alla sua mancanza di discrezione, ripromettendomi di cercare di saperlo quanto
prima possibile.
Lo
chiamerò quanto prima posso.
Seth,
all’improvviso, si irrigidisce, assume un colorito terreo e mi guarda
preoccupato. E, all’istante, lo Zahir preme violentemente sulla mia pelle, mi
sembra quasi che spalanchi le fauci e mi morda, lasciandomi due segni
indelebili addosso.
So
perfettamente che cosa c’è alle mie spalle, senza nemmeno bisogno di voltarmi.
Il cuore se ne sta fermo al suo posto, ovviamente.
Gelido,
immobile, non fa nemmeno il minimo sforzo a mantenersi normale.
Sospiro
di sollievo, rassicurata, sebbene la mia pelle si sia fatta gelida, come quella
di un serpente.
Mi
volto lentamente su me stessa, e lui è lì, come mi aspettavo, come era ovvio.
In piedi davanti alla scala che conduce al piano di sopra, la mano sospesa sul
corrimano, ferma. L’altra pende contro il suo fianco, noto subito che è fasciata.
Fasciata.
Una mano fasciata.
Lo
Zahir si stringe più forte attorno al polso, fermandomi il respiro. La piccola
parte dentro di me, che non so come, sembra immune allo Zahir, urla di strazio
e dolore, dentro. La metto a tacere con foga, una mano sul petto che si solleva
e riabbassa ritmicamente.
Cosa
mai ci sarà di strano, poi, in una mano fasciata…
Seth
al mio fianco, lo guarda come se fosse la mia guardia del corpo, pronto a
proteggermi, e mi fa sorridere curiosamente. Non credevo che l’avrebbe mai
fatto, prendere le difese di qualcuno a scapito di quelle di Draco. Dura, però,
pochissimi secondi. D’un tratto, Seth sembra aver colto qualcosa che io non
vedo, spalanca gli occhi, guardando prima lui e poi me, leggendo nel suo
sguardo come io non ho mai saputo fare. Ci vede qualcosa che sa solo lui,
scrolla il capo e si allontana in silenzio. Lo seguo con lo sguardo, non
capendo.
“Che
ci fai qui?”, la sua
voce mi fa sobbalzare, e ritorno a guardarlo. Ha sceso gli ultimi scalini che
lo separavano da me.
È
sempre bellissimo, come è sempre stato, come era anche prima, come sempre sarà.
Lo guardo attentamente.
Ma
il cuore resta muto e il mio grande amore resta dissolto. I miei occhi cercano
in lui qualcosa che risvegli il sentimento immenso che provavo per lui,
qualcosa che crudelmente riapra la voragine dentro, la spalanchi come un
inferno, pronto ad inghiottirmi. Ma non succede nulla, ad eccezione dello Zahir
che continua a stringere la sua morsa letale. Nulla… come se fossi morta… il
prezzo della pace era la morte, l’ho sempre saputo.
Una dolce morte, come recitava persino la formula magica.
I
miei occhi lo guardano attentamente, come se davvero ancora cercassi qualcosa.
E vedono tutto, come sempre. I capelli biondi spettinati sul viso, che li coprono
leggermente gli occhi chiari, grigi, riflessi iridescenti di luna e di perla.
Sembra sorpreso, quasi. Ovvio. Era evidentemente convinto di non vedermi mai
più, con sua somma gioia. La mano sana stringe forte il corrimano della scala.
“Ci
lavoro, o te ne sei scordato?” commento freddamente, schioccando la lingua e
dandogli le spalle. È un sollievo dolce potermi comportare così con lui, non
essere legata ai suoi occhi, staccarmene quando voglio e credo. Meraviglioso.
In
un repentino spostamento d’aria, elegante come è sempre stato, mi afferra per
il gomito, costringendomi a voltarmi. Nulla. Ancora.
Nemmeno
al tocco della sua mano, nemmeno alle sue dita, nemmeno alla sua pelle.
“Mi
sembrava di essere stato abbastanza chiaro, o ti sei persa qualcosa?” sibila,
guardandomi. Qualcosa, però, non mi sfugge, ora che lo guardo con così forte
chiarezza, dato che non ho sempre il terrore di essere imbarazzata. Ora che non
lo amo più.
Qualcosa
in lui… è cambiato.
Decisamente. Non riesco a focalizzare cosa, magari il mio vecchio amore avrebbe
potuto, e poi nemmeno sento di volerlo compiutamente. Non me ne frega nulla.
Sbatto le palpebre, sempre il nulla. Consolante.
Eppure,
non posso fare a meno di notare che la presa sul mio gomito non è salda e forte
come sempre. Anzi… sembra… tremare.
Tremare… sta tremando… trema alla prospettiva che io sia ancora qui.
Scuoto
il capo mentre la piccola parte si chiede il perché. Io preferisco
soprassedere.
Guardandolo
bene, mi accorgo che ha un’aria semplicemente stravolta. Esausta, come se non
dormisse da giorni.
Gli
occhi sono profondamente cerchiati, appesantiti dalle palpebre violacee, e
hanno perso tutto il loro argenteo splendore che tanto mi incantava, non so se
mille anni fa, oramai. Le labbra sono strette in una fessura, le narici
fremono, ed un’ombra scura sembra che si sia rappresa ancora di più nel suo
sguardo, rendendolo quasi cieco. È come guardare le orbite vuote di un teschio.
Mi
farebbe quasi paura, in circostanze normali, ma lo Zahir seda ogni emozione in
sua presenza. Non sento paura, né amore, né tantomeno il così sconveniente ed
imbarazzante desiderio che avevo di lui. Nulla, davvero. Come se mi stringesse
il vento.
“Non
mi sono persa nulla del tuo patetico discorsetto, Malfoy…” sputo fuori con
astio, divincolandomi dalla sua stretta, lo vedo quasi trasalire al contatto
con i miei occhi freddi. Ora tremano anche gli occhi, ma sembra sempre una
statua di pietra. Riprendo come se niente fosse: “Mio malgrado, aggiungerei...
perché mi hai riempito le orecchie di sciocchezze per ore, senza nemmeno farmi
parlare…”.
Mi
guarda come guarderebbe una persona che ha visto per la prima volta, questo è
il suo sguardo. Scioccato e quasi inorridito. Per un attimo, la mia mano corre
sul polso destro, a celare lo Zahir che pulsa come una creatura viva, come se
lui potesse davvero accorgersi, solo guardandomi, di ciò che ho fatto e del
fatto che sia lì.
Tutto
però, per pochissimi istanti.
Poi,
come sempre, è bravissimo a celare quella sorpresa sotto strati di
menefreghismo. Inarca un sopracciglio e mi guarda, incrociando le braccia:
“Cosa avresti voluto dire, allora?” commenta malevolo. Ancora noto però
qualcosa che stride con la sua espressione. È strano, non saprei come
spiegarlo. Le parole vanno in una direzione, la tensione del corpo eretto e
immobile in un’altra.
Le parole… e il corpo… come… un dipinto… e la sua… intenzione…
Lo
Zahir si avviluppa meglio attorno al mio polso, mentre cerco di ricordare
ancora quel frammento di tempera che mi è tornato in mente.
Vedo
che mi sta ancora guardando, quindi mi affretto a replicare tagliente: “Non
puoi prendere e cacciarmi così… se sono qui, sono sempre stata per tre motivi.
Seth, Serenity ed April… come puoi notare non figuri nell’elenco… potrei anche
nominare Trey, Lawrence e Corinne, sforzarmi di considerare anche Lorna e Gail,
per finire con quello che ci consegna i giornali e la pianta nell’ingresso… ma
tu, Malfoy, non sei mai stato uno dei miei motivi… quindi fattene una ragione,
se scelgo di rimanere ancora per dei motivi che non riguardano minimamente te…
sei sempre stato un po’ troppo egocentrico…”. Mi volto di schiena, dandogli
ancora le spalle.
“Vuoi
dire forse che non sei innamorata di me?” la sua voce tenta di deridermi, come
se volesse umiliarmi, ma ancora qualcosa stride.
Cosa,
dannazione?
Perché
ora mi è così difficile capire? È qualcosa… che anche Seth ha visto… qualcosa
che ad un cuore narcotizzato non arriva.
Non
mi interessa, ovvio, ma cosa è… che…ora non colgo?
Dura,
replico con ovvietà, senza nemmeno voltarmi: “Non dire sciocchezze… mi avessi
fatto parlare, avresti saputo anche questo…”.
“Cosa?”
la sua voce è flebile, è come se nemmeno l’avessi sentita. Mi volto
sconcertata, sperando che il mio cuore torni in vita solo per capire quella
contraddizione che sento nelle orecchie, ma che non so spiegare. Quella
contraddizione che sono anche i suoi occhi che, sono certa, essere stati
diversi fino a qualche secondo prima, ma che ora sono di nuovo inaccessibili.
Ha rimesso la maschera al suo solito posto. Una maschera che cela qualcosa.
Quasi… urgenza.
Urgenza che io vada via.
Gli
sono così insopportabile? Bene, la cosa è reciproca.
“Non
sono mai stata innamorata di te…” sussurro atona, guardandolo male, lasciando i
suoi occhi a splendere di misteri che non voglio più conoscere “Non so nemmeno
come hai potuto pensarlo…”.
Mi
volto ancora, senza concedergli replica, lasciando la stanza.
Il filo rosso è reciso.
Un
piccolo sobbalzo mi fa aprire repentinamente gli occhi, che si erano chiusi
senza che nemmeno me ne accorgessi.
“Scusa”
una voce soffice e dolce mi raggiunge le orecchie, dalla mia destra.
Mi
stropiccio gli occhi velocemente, mettendo a fuoco l’immagine che ho davanti,
riemergendo dai miei sogni confusi, ancora l’odore della tempera, il senso quasi di uno strappo
all’altezza del cuore.
Mi
guardo attorno. Una macchina rossa, su un’autostrada deserta che corre sul
mare. Il sole che si tuffa nell’acqua, tingendo il cielo di riflessi corallo.
Lontano, verso Londra, alcune nuvole si addensano minacciose, qualche lampo
sembra brillare nel grigio spezzato di rosso.
Mi
volto leggermente, sorridendo: “Mica è stata colpa tua… anzi scusami se mi sono
addormentata…”.
Hayden
sorride, continuando a guidare e non distogliendo lo sguardo dalla strada: “Non
dire sciocchezze… anche a me il sole fa lo stesso effetto…”.
“Non
è che ti fai prendere dal sonno e ci schiantiamo contro un albero?!” borbotto,
incrociando le braccia.
Hayden
alza gli occhi al cielo, mormorando: “Piuttosto controlla se la bambina sta
dormendo… sinceramente è di lei che mi preoccupo maggiormente… se non altro,
per suo fratello…”.
Mi
sporgo oltre il mio sedile, verso il seggiolino sistemato dietro. Serenity
sonnecchia tranquillamente, la testa leggermente piegata sul collo, il piccolo
cappello di paglia con un fiore azzurro ben calato sulla fronte. Si è così
divertita da stamattina. Se mi avessero detto che avrei avuto la possibilità di
trascorrere una bellissima giornata al mare con Hayden e Serenity, bé
probabilmente sarei scoppiata a ridere. Con Hayden, l’idea non era certamente
così improbabile come si potrebbe pensare, avevo deciso di chiamarlo e l’ho
fatto. E lui mi ha proposto di trascorrere una giornata sulla spiaggia di
Southened-on-the-sea, a un’ora da Londra. Ho accettato volentieri, lui è sempre
pieno di idee e di proposte, ed anche il mare, devo ammetterlo, mi mancava
molto.
Quello
che, invece, è stato meno ovvio, è che stamattina nessuno poteva occuparsi di
Serenity.
Draco,
dopo l’illuminante conversazione con me, se ne è andato senza dire a nessuno
quando sarebbe tornato. Probabilmente, aspettando semplicemente da qualche
parte che io me ne tornassi a casa. Seth aveva delle cose importanti da fare,
mi sa che veniva sua madre a trovarlo e quindi doveva rivoluzionare il suo
appartamento, non si sa per quale balzana ragione.
Ed
April aveva un esame. Quindi insomma, Serenity sarebbe rimasta sola.
Quindi
l’ho portata con me. E, devo dire, di aver fatto benissimo.
Draco
continua a vivere la vita come una specie di dovere, verso Helena. Non fa mai
niente più del necessario, quindi nemmeno Serenity si diverte moltissimo quando
è con lui. O perlomeno credo. Che io sappia, la porta al parco, se è di buon
umore, sennò la tiene in camera sua e, se non fosse per me, Seth ed April,
quella bambina diventerebbe fotofobica a furia di trascorrere le sue giornate
al buio.
Invece
al mare, con Hayden, si è divertita tantissimo. Credo che non avesse visto
nemmeno il mare. Batteva i suoi piedini sulla sabbia, mentre io la tenevo ferma
per le braccia, ridendo ad ogni onda che la bagnava. A mia volta, mi sono
sentita felice e serena, guardandola.
Ed
ancora una volta, la promessa di non lasciarla nonostante tra me e Draco sia
finita, si è fatta sempre più forte.
Con
Hayden, poi, come sempre, è stato tutto meraviglioso. Mi calma dentro, come
sempre, ed ora di più grazie allo Zahir.
Vederlo
in costume di bagno, è stato già un colpo troppo forte per i miei ormoni
impazziti; mezza spiaggia si è girata nel guardarlo mentre avanzava verso di
me, tipo modello Dolce e Gabbana, sorridendo ed accendendo lo sguardo di
lucciole giada. Devo aver perso la saliva una quarantina di volte nel
guardarlo, specie chiedendomi che razza di fortuna mi sia capitata nell’avere
vicino un ragazzo del genere. Non che essa non mi sia evidentemente dovuta,
considerando che ho passato con Draco, ma insomma, è decisamente troppo per me.
Per non parlare del mio meraviglioso aspetto in costume da bagno, circondata da una
sfilza di ragazze che dovevano sicuramente far parte del campionario di Vanity
Fair e che ronzavano tutte attorno ad Hayden, mentre io cercavo
contemporaneamente di stare dritta per non mostrare la mia pancetta e di
inarcare la schiena per mostrare un seno che, ovviamente, non è all’altezza
della schiera di arpie siliconate. Le tipe si sono, ovviamente, sciolte quando
Hayden ha mostrato di saperci anche fare con Serenity, cosa abbastanza
intuibile visto che Nathan, suo fratello, non è molto più grande di lei. Non
avevano inserito Hayden nel loro radar di caccia, con l’etichetta: “Ottimo
partito” solo perché lui stava con me. E, ad un certo punto, ha dato la netta
impressione di stare anche fidanzato con me. Mi porto le mani sul volto surriscaldato, cercando
di non farmi vedere da lui, ma per fortuna è impegnato nella guida. La musica
bassa di Alanis Morissette riempie l’auto, quindi non sta nemmeno parlando.
Posso tranquillamente tuffarmi nelle mie fantasie.
Stavamo
per mangiare ed avevo preso Serenity in braccio per portarla all’ombra, visto
che aveva già preso decisamente troppo sole. E ci mancava solo che Draco mi
rimproverasse anche per quello, visto che nemmeno credo che prenderà bene che
io abbia rapito Serenity, peraltro per farle trascorrere una giornata con
Hayden. Improvvisamente, mi ha fermato con la voce, facendomi voltare su me
stessa. Rapido, la brezza marina che gli scompigliava i capelli, mi ha preso il
viso tra le mani calde e mi ha sussurrato dolcemente: “Oggi l’ombra non l’ho
vista nemmeno una volta… la sua ombra… sai che significa?”.
Ho
scrollato il capo, cercando di non andare in iperventilazione, mentre Serenity
metteva su un capriccio assurdo. Cosa strana, considerando che era stata
tranquilla fino a cinque secondi prima.
Si
è avvicinato di più, sfiorandomi le labbra con le sue, bruciandomi la pelle con
il suo respiro fresco, prima di sussurrare morbidamente: “Significa che devi
stare molto attenta… perché potrei baciarti ancora… e stavolta, per bene… non
mi sognerei più di fare altri regali a Danny Ryan, dopo che ti ha lasciato
andare via da lui…”.
Ho
deglutito un paio di volte, prima di sussurrare: “Credo che correrò il
rischio…”, poi la mia voce si è piegata mentre bisbigliavo: “Non mi ha lasciato
andare via da lui… è difficile con una cosa che non è mai stata sua, Hayden…”.
“Non
sei mai stata sua?” mi ha chiesto con l’ombra di un sorriso triste, staccandosi
da me.
Mi
sono irrigidita, mentre la risposta sincera che avrei voluto dargli, riempiva
la mia mente.
Sono sempre stata sua e lo sarei ancora se non fosse per lo Zahir. Lo
sarei stata per sempre.
Anzi, il per sempre sarebbe stato un tempo irragionevolmente
breve per descrivere quell’appartenenza…
Invece,
ho solo sorriso dicendo di no con il capo.
La
piccola parte, la solita piccola parte, quella briciola di cuore che lo Zahir
non tocca e che lo fa stringere forte sul mio polso, aveva echeggiato un
ricordo ormai stantio e sbiadito.
… se fossi mia, potrei essere geloso, ma non così…
E mi sono detta che aveva ragione. Io non
sono mai stata sua. Nemmeno quando ero innamorata di lui.
E quella che mi era sembrata una bugia o
almeno un’omissione, mentre parlavo con Hayden, è diventata la verità. Lo è la
verità.
Ora, mentre mi porto le ginocchia al
petto, gettando un’occhiata in tralice ad Hayden che so già che sta sbuffando
perché odia che metta i piedi sul sedile, aspetto la prova del nove. Lui mi
bacerà quando arriveremo a Londra. E, probabilmente, allora, davvero capirò se
lo Zahir ha cancellato del tutto Draco dalla mia mente e dal mio cuore. Poggio
il mento sulle ginocchia, chiudendo gli occhi.
Non sono mai stata una persona
promiscua nei sentimenti. So che nel mio cuore c’è posto per una persona alla
volta.
Se riuscirò ad essere felice
baciando Hayden, Draco sarà del tutto fuori da me.
Improvvisamente, ad interrompere le mie
riflessioni, giunge come sempre in questi momenti il suono del mio cellulare.
Mi scuoto come una tarantolata, visto che l’avevo messo in tasca con la
vibrazione per non far svegliare Serenity, e lo estraggo a fatica. Hayden ride
delle mie manovre buffe, faccio una smorfia e lui abbassa il volume della
musica, già basso per non svegliare la piccola, per consentirmi di parlare. Sul
display compare il nome Harry. Ma
poteva anche comparire anche il nome Draco. Tanto è di lui che mi vuole
parlare.
Mi mordo il labbro inferiore, iniziando già
ad innervosirmi. Il fatto che non provi più nulla per lui, non significa che
adori parlare di lui.
Sospiro, lo Zahir alla fine mi dà la forza
sufficiente di non ignorare la chiamata, anche perché non saprei come spiegarlo
ad Hayden. Inoltre, non penso di schiodarmi così facilmente Harry di dosso, se
non togliendomi il dente adesso.
Con un sospiro, premo il tasto verde e
dico scocciata: “Pronto? Harry? Dimmi…”.
“Ciao Herm!” la sua voce trilla allegra ma
al contempo incerta, e mi chiedo chi diamine glielo faccia fare di parlarmi di
Draco se non ne ha voglia nemmeno lui. Mi lasciava tranquilla e nessuno se ne
sarebbe rattristato.
“Hai trovato il mio messaggio?” mi chiede
senza troppi giri di parole, evidentemente vuole arrivare subito al punto, o
forse c’è Ginny nei paraggi e quindi non è del tutto libero di parlare.
“Sì…” schiocco la lingua ancora
infastidita, guardando fuori dal finestrino ed attorcigliandomi nervosamente
una ciocca di capelli attorno alle dita. Hayden mi guarda preoccupato, ma gli
sorrido cercando di rassicurarlo.
“E come mai non mi hai chiamato?” mi
chiede velocemente, quasi stizzito, come se stesse facendo uno sforzo immenso e
io non fossi sufficientemente grata “Pensavo che Draco Malfoy fosse, insomma, un tuo tasto dolente…”.
“Una voragine
di desolazione è Draco Malfoy, non un tasto dolente…”
commento sarcastica, alzando gli occhi al cielo. Mi rendo conto di aver usato
davanti ad Hayden il suo vero nome, ma forse è anche meglio così. Crede che
stia parlando di una persona diversa da Danny Ryan ed almeno evita di
preoccuparsi inutilmente per lui o pensare che, in qualche modo, gli sia ancora
legata.
Continuo con voce annoiata: “E questo
dovrebbe deporre per la tesi che, se non ti chiamo per non sentire parlare di
lui, sono perfettamente normale… più che se avessi la smania di infliggermi una
noia simile, per non dire altro… comunque dimmi…”, mi interrompo mentre mi si
accende una lampadina nel cervello. Mi darei anche una manata sul capo, ma
sarei troppo teatrale.
Ecco che vuole Harry.
La conversazione che ebbe con Draco quel
giorno, mentre io ero, diciamo, in coma.
Quella che lui puntualmente mi ha
mostrato. Evidentemente Harry si sente in colpa e vuole vuotare il sacco. Che
cosa inutile, l’avesse fatto qualche giorno fa, avrebbe anche avuto effetto, se
almeno mi avesse risparmiato quella scena. Ma, conoscendomi, non avrei mai
lasciato perdere Draco, se non fosse accaduto quello che è accaduto.
Avrei lottato fino all’ultimo secondo per
lui, considerando quanto fossi follemente e disperatamente innamorata di lui.
Ma ora, è davvero tutto inutile. Per molti
sensi. Il primo dei quali è che quelle dannate parole, oramai, le ricordo una
per una.
Ora fa male solo l’orgoglio. E prima… bé, credo che fosse più facile dire che
cosa non mi facesse male a
quel pensiero.
Quindi tutto quello che poteva fare, per
evitarmi quel pensiero, è dannatamente inutile. Avrebbe dovuto pensarci prima
di allearsi con quella serpe per avvelenarmi il cuore e la vita, fino a
metterla nelle fauci spaventose, eppure rassicuranti, del serpente aureo che mi
cinge il polso con sempre maggiore bramosia del mio sentimento malato.
So che non è colpa di Harry, razionalmente
lo so. Ma avrebbe dovuto portarmi via da lì, anche con la forza, con quello che
sapeva.
Non permettermi che mi innamorassi di lui,
no. Ma che dico… innamorarmi…
lo uso come verbo per schermare quello che era quel sentimento per me. Mi
sembra più leggero parlare di innamoramento.
Ma io non ero innamorata di Draco Malfoy.
No, troppo semplice.
Io, se lo avessi visto e ci avessi
parlato, non gli avrei detto, in una paradossale ed impossibile conversazione,
che ero innamorata di lui.
No.
Avrei piegato la voce in un
accento più roco, per nascondere l’inevitabile imbarazzo, mentre lui avrebbe
piegato la testa di lato, guardandomi, come faceva sempre, cercando di leggere
l’intricato corso dei miei pensieri, senza poterci riuscire. Forse mi avrebbe anche
messo una mano sul viso, accarezzandomi la guancia, chiedendomi che cosa stessi
per dire. E io, senza alcuna esitazione, nascondendo il viso rosso, avrei detto
solo una cosa. Una. Semplice e limpida come un’alba.
Ti amo Draco.
È una scena, una fantasia che, non so
come, mi perseguita ancora, il residuo di un sogno che un brusco risveglio non
ha portato via.
Forse mi verrà dietro per sempre, come
un’ombra.
Dopo questo, dopo la facilità con cui quel
ti amo si era formato
nel mio cuore per Draco, quando non era mai nato per Dean o era sempre riottoso
per Ron, Harry davvero non ha più niente da fare per potermi aiutare.
Mi sono aiutata da sola, suicidandomi nel
creare un oggetto proibito da generazioni. Chiudo gli occhi oberati dalle
solite lacrime che neppure il potere dello Zahir potrebbe evitare, lo sento
pulsare sopra il mio polso con foga come se avesse un cuore anche lui.
Intanto Harry ha iniziato il suo discorso,
senza che me ne accorgessi: “Quando eri in coma, io e Malfoy abbiamo parlato…
di te… non credevo minimamente che fosse possibile una cosa del genere… che un
giorno avrei parlato con lui di te… ma ad un certo punto si era fatto
inevitabile con te che vivevi anche a casa sua, sotto lo stesso tetto,
ammetterai che è strano…”.
Annuisco, senza riaprire gli occhi. Ho
decisamente pochi secondi di sopportazione, prima di interromperlo.
“E lui… aveva un’idea ben precisa di come
si dovessero mettere le cose con te…” sussurra Harry con voce spezzata “Doveva
chiuderle, prima possibile… per quello… insomma, è stato per quello che ti ho
offerto quel lavoro… ma ora mi sembra così assurdo, insomma, te ne dovevo parlare
Herm…alla fine ha deciso per tutti e due… e, so che mi fa senso anche pensarlo,
ma se sei innamorata di lui, insomma…”. Riapro gli occhi stancamente, che
diamine sta dicendo?
“Harry, ascolta…” comincio,
interrompendolo “Draco mi ha già detto tutto… e non ti devi preoccupare, va
bene così…”.
“Ti ha detto tutto?!” mi chiede
autenticamente sconvolto, come se fosse stato punto da un insetto, devo anche
staccare il telefono dall’orecchio per come ha gridato. Stare con Ginny, da
questo punto di vista, gli sta facendo decisamente male.
Ancora più scioccato, bercia con voce
affrettata: “E tu sei d’accordo? Insomma… che ti mandi via e tutto il resto?”.
“Ho qualche alternativa?” commento
acidamente. Non capisco che cosa diamine pretenda da me. Mi agito sul sedile
per il nervosismo, lo Zahir prende quasi a muoversi, la sua presa sempre più
forte che mi ferma la circolazione nelle vene. Hayden mi fissa preoccupato.
“Solitamente non avresti reagito così…
insomma lui ti dice che è… ancora non ci posso pensare… e tu lasci perdere…”
riprende Harry, dandomi ancora più i nervi, lo ascolto a fatica oramai, poi
quasi come se parlasse a sé stesso, chiede: “… ma sei innamorata di lui
almeno?”.
Mi stringo nelle spalle, a disagio, prima
di sputare con veleno fuori: “No… né mai lo sarò… puoi anche ribadirlo a lui…”.
Lo sento sospirare prima di dire: “Ah
capisco… quindi alla fine… sta facendo una cosa inutile…”.
“Bravo, esattamente…” mi congratulo con
sarcasmo, lui continua a cianciare per un altro po’ fino a quando la sua voce
sembra diventare persino comprensiva nei confronti di Draco. Ed è esattamente
allora con le mani che mi tremano, che dico che ho da fare e riaggancio.
Mi porto le mani nei capelli sudati,
respirando a fatica, lo Zahir che finalmente molla un po’ della sua presa.
“Tutto bene, Herm?” mi chiede Hayden, con
voce preoccupata, distogliendo l’attenzione dalla strada. Sul vetro, iniziano a
cadere delle pesanti gocce di pioggia con tonfi sordi, mentre si avvicinano le
prime costruzioni di Londra.
Sorrido, nascondendo il viso dietro i miei
capelli: “Certo, tutto benissimo… solo un mio amico…”.
“Anche Draco Malfoy è un tuo amico?” mi
chiede con voce monocorde “Ci sono un po’ troppi amici nella tua vita…”.
“No, Draco Malfoy non è decisamente un mio
amico…” sussurro inespressiva, guardando fuori dal finestrino “Non è
decisamente nulla per me…”.
Nulla di diverso da una condanna
a morte che mi porto costantemente dietro.
Nulla di diverso da questo.
Per arrivare al Petite Peste, ovviamente
ci mettiamo un’altra ora abbondante, visto il traffico e la pioggia che ha
iniziato a cadere in modo imprevisto. Serenity inizia anche a piagnucolare per
i tuoni, quindi mi sporgo dietro per liberarla dal seggiolino e prenderla in
braccio.
Lei si accoccola, poggiando la testa sul mio
petto, e dopo qualche secondo, si riaddormenta.
La telefonata di Harry mi ha fatto
completamente dimenticare l’eccitazione per il mio, forse, imminente bacio con
Hayden, caricandomi di pensieri negativi e nervosismo, oltre che di un
formicolio diffuso che mi fa sentire un’avversione innaturale per Malfoy, ben
diversa dalla placida calma che avvertivo prima. Al momento, credo quasi di
odiarlo per il solo fatto che esiste e non mi lascia in pace.
Quindi, passo il tempo restante del
viaggio, in silenzio, accarezzando distrattamente la testa di Serenity e
cercando di liberarmi di questa sensazione negativa, amplificata dallo Zahir
che, sebbene non stia direttamente pensando a Draco, mi cinge senza sosta.
Con la coda dell’occhio, vedo Hayden
fissarmi di tanto in tanto, evidentemente convinto che la telefonata di poco
prima mi deve aver sconvolto in qualche modo. Vorrei rassicurarlo, ma
probabilmente mi chiederebbe troppe spiegazioni che, al momento, non sono in
grado di fornire a chicchessia. La prima sarebbe perché Draco Malfoy anche
indirettamente, non mi lascia mai in pace, perché esiste e perché, quella sera
di quasi ventiquattro anni fa, Lucius e Narcissa Malfoy non siano andati ad una
partita di Quidditch o a fare una caccia al babbano, invece che mettersi a
generare quello che oramai per me, è alla stregua dell’Anticristo.
La seconda è perché quello che si
presuppone essere uno dei miei più cari amici, esprima comprensione per
l’Anticristo in questione e non per me, specie se tale nobile sentimento viene
manifestato per il fatto di aver scelto di mandarmi via, dopo aver candidamente
ammesso di avermi sempre usata, sfruttata e soprattutto umiliata, visto il mio
essere un individuo estremamente masochista e deviato per essermi andata ad
innamorare proprio di un tipo del genere. Davvero, non capisco. Mi mordicchio
con ansia il pollice della mano.
Harry deve essere impazzito del tutto… non
che lo abbia ascoltato bene, anzi…
Ma visto il tono con cui lo diceva, sono
anche contenta di non averlo ascoltato. Mi avrebbe fatto venire voglia di
ucciderlo seduta stante.
Sobbalzo quando l’auto si ferma
improvvisamente. Sollevo lo sguardo, il Petite Peste… non mi ero accorta che ci
eravamo già arrivati.
“Sei sulle nuvole?” mi chiede Hayden,
spegnendo il motore e guardandomi.
“Un pochino sì… scusami…” ammetto,
stringendomi nelle spalle.
Hayden agita la mano destra con
noncuranza: “Non importa… tranquilla…”.
“No, davvero, scusami… è che Harry… un mio
amico…insomma mi ha fatto innervosire…” biascico, sbuffando. Avrei anche
incrociato le braccia se non avessi avuto Serenity.
Hayden ride, divertito dalla mia
espressione: “E cosa, al mondo, esattamente non
ti fa innervosire?! Da quando ti conosco, ti sarai così casualmente innervosita
per almeno ottomila trecento cose diverse…”.
“Non è vero!” sbuffo, con aria infantile.
Vorrei potergli dire che l’argomento di cui mi ha parlato Harry, è quello che
mi fa imbestialire di più al mondo, ma mi trattengo. Mi farebbe troppe domande.
Dove finiremmo inevitabilmente per giungere al punto che Draco e Danny sono la
stessa dannata ed infame persona.
Lui mi tocca la punta del naso con un
dito, prima di suggerirmi di portare prima dentro Serenity, per poi scaricare
la nostra roba dal portabagagli, in modo che la piccola non si bagni.
“Hai così terrore di suo fratello?” chiedo
con un mezzo sorriso, guardandolo, mentre cerco di coprire Serenity con la mia
giacca.
“Intendi di Danny?”.
Annuisco con il capo, sembra sempre
preoccupato che qualcosa lo faccia arrabbiare specie per Serenity.
“Non voglio che se la prenda con te,
ecco…” mormora con un sorriso.
“Guarda che lo metterei a posto in cinque
secondi, forse tre…”.
“Lo so perfettamente, Hermione…” sorride,
aprendo lo sportello e riparandosi alla bell’e meglio “Ti ho già detto che non
voglio dargli occasioni di riavvicinarsi a te, non per altro…”, la sua voce si
abbassa di tono mentre mi guarda fisso, dicendomi: “… mi sembra ancora così
assurdo che ti abbia allontanato da te… e forse, se capitasse la giusta
occasione, se ti avesse di nuovo davanti agli occhi… bé, lo capirebbe…”.
“E’ la cosa più logica invece che abbia
fatto…” mormoro con voce incolore, fissandomi le unghie della mano “Avrebbe
dovuto farlo prima… e non penso che capirebbe nulla, se mai ci fosse da capire
qualcosa…”.
Hayden improvvisamente tace, sento che
vorrebbe dire ancora qualcosa, ma mi esorta a portare dentro Serenity.
Annuisco ed esco dalla macchina, correndo
sotto la pioggia. Busso la porta con forza, ma nessuno mi apre. Vero, non ci
dovrebbe essere nessuno. Per fortuna che, dopo qualche colpo, si apre da sola,
quindi riesco ad entrare. Sistemo delicatamente Serenity sul divanetto
dell’ingresso, coprendola con la mia giacca, per fortuna è asciutta mentre io
sono bagnata fino al midollo.
Già che ci sono, ovviamente, torno
indietro per aiutare Hayden, il portabagagli si è incastrato e quindi, in capo
a pochi minuti, siamo entrambi colati. Scoppio a ridere, guardandolo, mentre
cerca inutilmente di aprirlo e contemporaneamente cerca di ripararsi dalla
pioggia. Lui mi guarda con gli occhi ridotti a due fessure, per poi scoppiare a
ridere anche lui, probabilmente a causa dei miei capelli, che somiglieranno ad
una specie di balla di fieno. Sbatto le palpebre sotto la pioggia battente,
cercando di vedere, prima di dirgli di lasciare perdere il portabagagli e che
cercheremo di riaprirlo dopo. Corriamo nuovamente sotto la pioggia, fino a
rifugiarsi dentro il Petite Peste.
Serenity, per fortuna, dorme ancora.
Accendo la luce sulla scrivania di Draco, appena dopo l’ingresso, e vado a
cercare un asciugamani al piano di sopra per asciugare almeno un pochino
Hayden. Lui mi aspetta di sotto, fermo sulla soglia per evitare di bagnare
ulteriormente il pavimento. Dopo averlo preso, torno velocemente giù. Lui si
guarda attorno e mi fa sorridere ancora.
“Dai, vieni qui, sei zuppo…” sorrido,
avvicinandomi.
“Sì, mamma…”
borbotta lui, piegandosi leggermente sulle ginocchia per arrivare alla mia
altezza. Friziono con foga i suoi capelli bagnati in modo che si asciughino, e
lui continua a borbottare perché lo sto facendo con troppa energia.
“Neanche fossi una specie di cane…”
mormora, da sotto di me.
“Smettila! Ti prenderai un raffreddore!”.
“Se è per questo anche tu…” commenta,
sollevando un lembo bagnato della mia maglietta. Un brivido mi scuote dalla
testa ai piedi, e non c’entra assolutamente nulla il freddo. Concentrata,
continuo ad asciugare i suoi capelli.
Improvvisamente la sua mano calda si
chiude sul mio polso, per fortuna non su quello che ancora cela dietro il
foulard rosso lo Zahir, costringendomi a fermarmi. I suoi occhi verdi
ricompaiono sotto l’asciugamano.
“Dimmi…” sussurro, mentre lui ritorna alla
sua solita altezza, sollevo leggermente il capo.
Il suo sguardo è assorto, concentrato,
come se stesse guardando ogni singolo pensiero, per studiarlo e ricavarne
implicito assenso a ciò che sta per fare. Mi stringo nelle spalle, imbarazzata,
l’asciugamano scivola sulle sue spalle, fino a cadere dalle mie dita, sfiorando
il pavimento. La mia mano resta sospesa a mezz’aria, la sua mano libera la
stringe poggiandola sul suo petto.
Il suo cuore batte forte sotto la stoffa
della maglia bagnata, mi si riscalda la pelle, nonostante quel freddo e
quell’acqua.
La apro lentamente, i miei occhi fissi su
di essa per sfuggire ai suoi che mi metterebbero in troppa soggezione ed
imbarazzo.
Se sapesse che cosa c’è in ballo,
per me, in questo momento… praticamente tutto…
Risollevo gli occhi timidamente, si sono
fatti di nuovo umidi, anche se non vorrei. La sua mano si poggia sul mio
fianco, anch’essa mi riscalda come se lui fosse fatto di fuoco e io mi fossi
fatta ghiaccio, tutto attorno mi sembra che il tempo stesso abbia smesso di
respirare.
In attesa.
Mi attira piano contro di sé, ogni
movimento è uno sguardo che cerca consenso, come se temesse di spezzarmi da un
momento all’altro.
Eppure, nonostante tutto, mi sento pronta,
tranquilla, serena, anche se il cuore mi batte furioso nel petto, come un
passerotto in gabbia che spiega inutilmente le ali piccole e fragili. Persino
l’acqua che mi bagna ancora, la sento come se si fosse fatta tiepida,
procurandomi una serie di piccoli brividi sulla schiena. Si ferma la sua mano
sulla mia schiena, quando oramai il mio corpo aderisce perfettamente al suo, il
mio e il suo cuore già si baciano dolcemente, infondendo calore il suo e
perdendo gelo il mio.
L’altra mano lascia il mio polso,
raggiungendo l’altro mio fianco, sfiorando la pelle nuda che la maglietta
lascia scoperta, mentre mi alzo in punta di piedi. La mia stessa mano, senza
controllo, raggiunge la sua nuca mentre lo avvicino di più a me.
Chiudo gli occhi, un attimo prima che il
mio viso raggiunga il suo. Sento sotto le mie le sue labbra calde, morbide, un
sapore che mi sembra quasi conosciuto, eppure che so di non aver mai sentito.
La frescura di una lacrima bagna la mia guancia rovente, scivolando tra le
nostre labbra unite. Sale e miele nello stesso momento.
Timido, dolce, leggero, come un’alba di
settembre.
Le mie labbra si adattano velocemente alle
sue e, prima che me ne rendo conto, già si schiudono piano, pronte ad
accogliere le sue con maggiore intensità. La sua stretta si fa più salda contro
la mia schiena, mentre anche le sue labbra si aprono dolcemente, ogni passo è
lungo quasi come un anno, come se si rendesse conto di toccare un qualcosa di
così evanescente che potrebbe sparire tutt’un tratto.
E gli sono così grata che altre lacrime
rotolano ancora, dai miei occhi chiusi.
Lentamente, il bacio cresce d’intensità,
la mia mano corre tra i suoi capelli, stringendolo ed avvicinandolo di più a me,
le sue mani che corrono lungo la mia schiena, velocemente, ormai non più timide
o incerte. Sfiorano i miei fianchi, ritornano al mio viso, come una marea in
cui flutto senza accorgermene. Finché anche la mia lingua cerca e trova la sua,
finché danzano assieme, ritrovandosi e perdendosi l’una vicino all’altra,
finché il suo sapore si fa il mio. Inarco la schiena, annebbiata, fremente,
pronta a qualsiasi cosa che possa venire dopo questo. Lo sento sussultare di
fronte al mio impeto improvviso, ma lo sento volermi come lo voglio io adesso.
Tremano le sue mani contro la mia schiena e tremano le mie attorno al suo
collo, i piedi che sembra che non mi sostengano più.
Calcolo mentalmente la distanza tra qui e
il piano di sopra, sperando che mi segua, i pensieri inceneriti come carta. Mi
stacco leggermente da lui e chiudo la mia mano sul suo polso, affannata,
respirando a stento, ed apro le labbra torturate e ruvide per dirgli di andare
di sopra, senza nemmeno accorgermene. Senza nemmeno capire davvero che cosa sento.
Basta averlo ancora attorno a me, a bruciare ogni cosa e a cancellarmi la
memoria e il pensiero.
E poi riapro lentamente gli occhi.
Non è come sarebbe stato con te.
Baciare Hayden non è come sarebbe
stato baciare te.
Sopra la spalla di Hayden, infiniti occhi
grigi mi scrutano come se non mi vedessero nemmeno, trapassandomi quasi come se
fossi fatta di burro. Fermo, sulla soglia, alle spalle di Hayden che mi cinge
ancora, la mano fasciata stretta attorno all’intelaiatura della porta, i
capelli bagnati che liberano delle gocce fredde sul suo viso, come se
piangesse. La bocca socchiusa, non so per cosa, se si chiama sorpresa quella
piega nei suoi occhi che li rende tristi, o semplice disagio nel vivere come lo
caratterizza sempre. Le labbra bianche sono le stesse che hanno toccato le mie,
secoli fa, e che ho desiderato così tanto da perdere la ragione.
Non è come sarebbe stato con te.
Baciare Hayden non è come sarebbe
stato baciare te.
Un pensiero senza amore, solo prepotente,
solo soffocante come lo Zahir che mi chiude il polso, ora come non aveva mai
fatto prima. Brucia l’osso, lo sento quasi incrinato, mi porto la mano al petto
respirando a fatica. Inorridita, vedo il foulard bagnarsi di sangue.
Hayden si accorge di qualcosa e riapre
anche lui gli occhi. Coglie la sofferenza nei miei, ne cerca l’origine e la
fraintende.
Occhi di demone, velati da acciaio duro
come diamante, mentre guardano Hayden, mentre indugiano sul mio braccio attorno
alle sue spalle, mentre sfuggono i miei occhi ancora appannati di passione.
Nascondo il viso nel petto di Hayden,
mentre Draco ci sorpassa in silenzio, dopo aver preso Serenity dal divano.
Hayden non smette di accarezzarmi
lentamente la spalla, mentre Draco sparisce, salendo di sopra. Non mi stacco da
Hayden, dando ostinatamente le spalle a lui che non smette di perseguitarmi,
che non mi lascia mai in pace. Come una condanna, peggio di quella a non usare
la magia, peggio di una condanna a morte perché è la colpa stessa nell’essere
felice, è la colpa stessa del continuare a vivere senza di lui, è la colpa
stessa di cercare di sopravvivere, nonostante mi abbia spezzato ed annientato
il cuore.
Lo odio.
Quel pensiero è come un fiume in piena
nelle mie vene, oleoso, viscido, sporco, che si insinua nel mio sangue, inzuppandomi
di sudore freddo, rendendo il mio respiro ghiacciato anch’esso, congelando
nella stasi del disgusto per me stessa ogni mia azione. È come se mi fossi
rintanata in un cantuccio di me stessa, terrorizzata da quell’ondata di odio
che mi sporca dentro, e mi guardassi agire dall’esterno. La ferita che, sono
certa, lo Zahir ha aperto sul mio polso, brucia la carne viva e non smette di
sanguinare, lo sento il liquido caldo e viscoso che tinge il foulard di un
rosso più intenso di quello che aveva naturalmente. Ma non sento male. Magari
lo sentissi…
… improvvisamente è come se fossi morta
dentro, come se mi stessi putrefacendo io stessa, come se mi reggessi in piedi
per una cosa sola. L’odio per Draco Malfoy.
Acuto, intenso, bruciante, totalizzante, annientante. Ho perso persino
interesse in Hayden, mi danno fastidio le sue braccia calde che cingono il mio
corpo gelido come pochi secondi prima, le avevo adorate. Lo guardo solo nella
prospettiva che possa aiutarmi a ferire Draco. Spalanco gli occhi, scuotendo il
capo e cercando di riprendermi.
Quel bozzolo che mi aveva rinchiuso,
prigioniera nel mio stesso corpo e testimone silente del mio stesso agire,
senza che lo potessi controllare, si riapre leggermente. L’odio si ritira su sé
stesso, pronto a colpirmi ancora, se lo lasciassi fare.
Respiro profondamente, cercando di
liberarmi i polmoni, quasi come se davvero lo avessi respirato per un attimo e
mi avesse intossicato.
Le braccia di Hayden tornano piacevoli
sulla mia pelle fredda.
E la ragione mi riporta un ricordo. Le parole di Helder.
L’odio non rimane mai circoscritto, è come un
cancro… contaminerebbe tutto quello che rimane di te… quindi vai via, davvero,
appena dovessi accorgerti di qualcosa di simile… potresti morirne a quel punto,
come se ti avesse avvelenato. Solo l’amore ti salverebbe ancora… ma se lo hai
distrutto, creando lo Zahir, è impossibile che torni ancora…
Un
cancro. Una metastasi distruttiva. Ecco cosa era… ed è successo prima del
previsto. Dovevano passare tre giorni ed invece non sono passate nemmeno
ventiquattro ore… devo andarmene prima di morirne io stessa, prima di fare del
male a Draco.
Rabbrividisco,
nonostante tutto, ora che sono più lucida, so che non è questo che voglio. Me
ne frego di lui e so che probabilmente lo Zahir non mi farebbe nemmeno provare
nulla… ma non posso fare questo a Serenity. Almeno per lei, devo tenere fuori
l’odio da me.
Devo
andarmene, quanto prima possibile.
Sollevo
nuovamente gli occhi verso Hayden, il suo sguardo è ferito, evidentemente ha
pensato che ho reagito male vedendo Draco e mi sono pentita di averlo baciato.
“Mi
dispiace…” dico, le labbra che mi tremano “Credo che per te sarebbe enormemente
più facile se mi lasciassi perdere… da quando ci frequentiamo… ho reso… la tua
vita… un inferno…”. Abbasso lo sguardo, gli occhi che mi si riempiono di
lacrime. Cerco di concentrarmi su Hayden per escludere l’odio per Draco da me
stessa, prima che mi sopraffaccia di nuovo. Lo sento sempre in agguato, ai
margini di me stessa, pronto a graffiarmi se abbasso la guardia.
“Non
dire sciocchezze…” risponde Hayden con un sorriso leggero, prendendomi il viso
tra le mani e cancellando le mie lacrime con le dita “Ripeto, non avrei voluto
fargli un altro regalo…”. Di fronte al mio sguardo interrogativo,
completa ancora con un sorriso triste, accarezzandomi la guancia: “Quando mi
vede baciarti… viene preso dall’insano piacere di procurarmi la morte… non
dirmi che non te ne sei accorta?”.
“No…”
nego, ricacciando indietro la soddisfazione per la sofferenza di Draco “E non
credo nemmeno che sia poi come dici tu…e comunque non mi importerebbe…”,
sorrido, piegando la testa di lato, accolta dal palmo della sua mano: “…
ovviamente tranne per la parte della tua morte…”.
Lui
ride leggermente, per poi tornare serio, mentre mi accarezza ancora il viso:
“Davvero?”.
Distolgo il viso dai suoi occhi, la belva
dentro risponde che certo che mi interessa, che vuole che Draco soffra tanto
quanto ho sofferto io.
Annuisco con il capo semplicemente,
guardandolo: “Davvero… ti ho baciato solo per me stessa… lui non c’entra
nulla…”.
Si avvicina piano, baciandomi a fior di
labbra, delicato, come poco prima. Non faccio in tempo a rispondere che già si
è allontanato.
“Adesso sarà meglio che vada…” mi
sussurra, guardandomi.
“Così presto?”.
“Domani devo lavorare… e tra due settimane
devo ritornare in Italia…”.
“Vero, l’avevo dimenticato…” mi mordo il
labbro inferiore. Senza di lui, chi mi impedirà di
perdermi?
“Se andrà bene tra noi, sai perfettamente
che sarò più qui che lì, no?” mi dice con un sorriso, baciandomi ancora.
“O sarò più io lì che qui…” sorrido,
bisbigliando. Sarebbe la soluzione migliore,
decisamente.
“Non te lo chiederai mai, se avessi anche
il minimo sospetto che stai scappando da lui…” mi dice quasi duro, ma sempre
con quel sorriso che ora vorrei solo baciare ed annullare, per quanto mi spezza
il cuore.
Abbasso lo sguardo, lui mi risolleva il
mento con una mano: “Ma il giorno in cui sarai sincera… e il giorno in cui per
te lui non sarà più nulla… sarà la prima domanda che ti farò…”.
Sorrido ancora, prima di abbracciarlo di
slancio, lasciando che mi stringa forte. Se sapesse quello che sta facendo per
me… ricaccio indietro le lacrime, mentre si stacca da me, baciandomi ancora,
prima di correre via sotto la pioggia.
Resto immobile, la fronte poggiata sulla
parete accanto alla porta, la pioggia che cade fuori ancora, i tuoni che
rimbombano nel cielo.
Devo salire di sopra, prendere le mie cose
ed andarmene, prima possibile. Mi tolgo il foulard dal braccio destro,
constatando che la ferita sembra quasi chiusa, non sanguina più, ma il metallo
del bracciale si sta scurendo, cosa che non può essere sicuramente un buon
segno.
“Non ti azzardare mai più…” un sibilo e la
ferita si riapre, veloce, crudele, annaspo mentre riprende a gocciare.
Mi volto terrorizzata su me stessa ed è
ovviamente lì davanti a me, i pugni chiusi, il respiro ansante, stravolto.
Ed è un attimo, il fiume riprende come
prima, vincendo facilmente la debole resistenza del calore di Hayden.
Ed io sparisco, perdo possesso di me
stessa, mi vedo muovere e parlare senza che possa impedirlo, senza che abbia il
controllo di me stessa, il cancro che mi inquina dentro. Maledico la sua
esistenza e il suo vivere, cerco l’annichilimento che cancelli Draco dalla
storia della mia vita e dalla storia di qualsiasi persona al mondo. Sento dai
miei stessi occhi il desiderio di morderlo, di ferirlo, di vederlo sanguinare,
di ucciderlo quasi, se non fisicamente, almeno di uccidere il suo cuore. Come
quando Harry guardava Silente attraverso gli occhi di Voldemort… la stessa
cosa. Uguale. Ma io non sono così pura come lui… e l’amore che diventa odio è
una cosa che deve essere così potente che probabilmente attecchirà così bene
dentro di me, da spezzarmi come un fiore.
Constato con terrore che non voglio più
andare via. No. Non me ne andrò di qui.
Fino a quando lui non brucerà assieme a
me, in una casa sprangata, al centro esatto dell’inferno.
Il traditore di ogni parte del
mondo. E la folle traditrice del suo stesso cuore.
Ah rieccomi!! Un capitolo non molto lungo e che a me non piace
nemmeno particolarmente, ma che diciamo era abbastanza necessario per come si
deve evolvere la storia successivamente… avrete presto a che fare con una nuova
Hermione, che a me piace chiamare Dark Hermione, quindi non vi spaventate! Sotto
il piccolo sondaggio che ho lanciato su fb,
ho deciso di iniziare ogni chappy con uno sguardo sul
futuro, dove Hermione a cinque anni di distanza scrive un diario sulla sua
situazione attuale, riguardando anche al suo passato e a quello che le è
successo prima… il futuro non è molto roseo, ma tranquille, cambierà!!:D passo
come sempre ai ringraziamenti di rito e alle varie risposte, ringraziando
anticipatamente tutti coloro che frequentano le pagine su fb,
che leggono la storia e la inseriscono nei preferiti o nelle seguite o nelle
storie da ricordare, e che non smettono mai di farmi sentire il loro sostegno
ed affetto. Grazie davvero tanto!:D
Liven: carissima!! Come sempre, poverina,
ti ho angosciato per tutto il capitolo, non credo che con questo sia andata
meglio!:( purtroppo siamo in una fase di discesa necessaria all’inferno, poi
inizieremo piano a risalire, all’insegna sempre del lieto fine che assicuro
sempre!! Effettivamente l’idea che Draco la fermasse prima che riuscisse a
compiere lo Zahir, non era male!! Al massimo faccio una oneshot dove la sfrutto!!:D Ma per ora ci dobbiamo
tenere la Dark Hermione!! Almeno ti sorprendo un pochino!! Non sprofondare nei
pensieri negativi, mi raccomando! Io purtroppo per mia natura, vedo Draco ed Hermione
come una coppia estremamente complicata, quindi mi sento di doverli mettere enormemente
i bastoni tra le ruote per farli stare assieme!! Ma alla fine ce la faremo!! Grazie
di avermi aggiunta su fb!! Tanti Baci!!:D
CoquelicotRousse: ciao!! Grazie
davvero dei complimenti, sto scrivendo dei capitoli di una tristezza assoluta
che mi meraviglio ancora come non mi lasciate perdere!! Sono contenta che il
personaggio di Helder ti sia piaciuto, le sono affezionata come ogni mia
creatura originale! Draco ed Hermione sono sempre gli stessi, fanno sempre il
contrario di quanto dovrebbero… credo che la sola cosa che li accomuna è fare
sempre delle cose assurde, convinti di essere nel giusto… ma prima o poi li
faccio rinsavire!! Un bacio!!
PaytonSawyer: ciao cara!! Ebbene
sì, sono una donna di un sadismo estremo!! Anche se, come penso avrai capito da
questo chappy, il futuro non è affatto bello come pensi…J Hermione non
sta con Draco, ha un figlio e un marito, ma quest’ultimo non è Draco!! rigarantisco il lieto fine e rigarantisco
che le cose spesso non sono esattamente come sembrano, quindi abbiate fiducia!!:D
spero di averti rassicurato con il piccolo spoiler di questo capitolo, Hermione
lo ama ancora Draco tranquilla… :D ed Helder effettivamente vede molto meglio
di quelle due teste di rapa, diciamo che lei sa ciò che io so (ora sì che sono
sadica…), ed anche per lei sono stata proprio cattiva, le ho dato una storia
proprio pesante, ma prometto di riscattarmi anche con lei!! grazie mille dei
tuoi complimenti!!:) baci !!
Haley_James: la mia cara Deny!!
Compagna di canzoni condivise da OTH!! J spero che
tu abbia finito con lo studio, ti faccio distrarre troppo…L Forse è un
pochino più positivo questo di spoiler che l’altro, almeno sai per certo che Hermione
ama ancora Draco!!:D grazie davvero, sei davvero dolcissima!! Un bacio!!
Stellale: carissima!! Non ti sono più
riuscita a mandare mail, causa pc in paranoia, ma ti
ringrazio davvero!! Ora posso di nuovo, quindi quando vuoi, sono qui!!:D
effettivamente non avevo notato la somiglianza di fondo tra Draco e DorianGray, è una cosa che fa
riflettere… ho letto il libro qualche anno fa, e devo dire che mi ha angosciato
un po’, quindi se lo rileggo forse mi faccio venire lo spirito giusto per
descriverlo!!:D tranquilla adoro i riferimenti ai libri, sono il mio pane!! (non
da quando mi sono impelagata nella Meyer, e la
bestemmio ogni minuto, ma lasciamo perdere che sennò inizio a delirare!) grazie
davvero per tutto!! Baci!!
Dalia91: io ti devo delle scuse grosse come
una casa!! Ho cercato di concentrarmi sul nuovo capitolo quindi non ho potuto
adempiere alla nostra missione, diciamo così!! Scusami….ç_ç
la sensazione da amore non corrisposto, specie in quel modo, è una cosa che
purtroppo conosco bene e da lì, mi è nata l’idea dello Zahir… insomma, la
proviamo tutti la sensazione di volerci strappare il cuore pur di non provare
più quello che proviamo. Effettivamente la vita di Helder non è facilissima, ma
lei, dalla sua, ha il fatto di essere una ragazza con molta voglia di vivere
quindi riesce a gestire la cosa… anche io sono una lupacchiotta!!
Eheheh… non sto leggendo il 4° libro della saga proprio perché oramai Jacob è
fuori dai giochi! Grazie ancora di tutto quello che stai facendo per me e
scusami ancora se non ti sto aiutando molto!! L
Cygnus Malfoy: la mia Helder in carne ed ossa!! Grazie
davvero di tutto… sono contenta che il tuo alter ego ti sia piaciuto, volevo
che fosse quanto più simile a te!! Sono contenta anche che il lieto fine
scontato non faccia per te, io non li sopporto e continuo ad infarcire la
storia di ulteriori ostacoli!! Poveri voi che mi sopportate!! Baci!!
Seven: la mia cara Nadia che un giorno mi
scriverà le recensioni per i giornali, se farò la scrittrice!!:D non ti
ringrazierò mai a sufficienza per l’aiuto che mi hai dato con questo chappy!!:)
mi ha incoraggiato tantissimo e hai lottato contro le mie crisi di insicurezza,
quindi davvero dovrei scrivere un grazie grosso come una casa!! Grazie anche
delle tue recensioni meravigliose che aspetto sempre con ansia!!:D un enorme
abbraccio!!!
Emmetti: tu mi fai sempre troppi
complimenti!! Scrivere di Helder ed inventarmi la sua empatia, mi è piaciuto
molto anche perché Helder tornerà ancora successivamente e come avrai capito,
sarà molto utile perché sa molto più di quanto non sembri!!:D mi sono divertita
anche con i flashback, adoro Harry e Ginny, li vedo come una coppia molto vera
e reale, anche se canon, e certamente non hanno nulla
a che vedere con Ron ed Herm made in Row; sai che la mia adorazione per Seth, oramai rasenta il
ridicolo, lo sto lasciando molto in ombra ultimamente, e me ne dispiace!!ç_ç Ron e Dean ci stava, che soffrissero ancora per Herm, Dean
mi sta abbastanza simpatico, è uno fiero di essere superficiale e playboy, ma
Ron l’ho sempre visto debole e senza spina dorsale, e continua ad esserlo anche
con LavLav, la parishilton del mondo magico!! E dracuccio,
caro, resta sempre tale… ma ci hai visto giusto, è l’ “inizio” di qualcosa per
lui… anche se poi capirete che anche per lui è iniziata molto prima!!:D da
questo spoiler, avrai capito che non va tutto bene… ma si sistemerà!! Ancora Baci!!
Veracruz: la tua recensione mi ha
particolarmente colpito, davvero! Non capita di frequente di leggere cose
simili, nel senso che ti sei davvero emozionata per la mia storia e questo, per
una pseudo scrittrice come me, è una cosa bellissima! Diciamo che ne sei
rimasta particolarmente coinvolta, e spero di non averti fatto stare troppo
male. tendenzialmente sono una persona molto romantica, ma mi sono sempre
convinta che bisogna sudarsi molto la propria bella favola. E per questo credo
che scrivo così… scusami se ti ho fatto del male in qualche modo! Spero di
ritrovarti al prossimo chappy!:) baci e grazie per la recensione così onesta e
particolare!
DracoTheBest: grazie tantissimo dei tuoi
complimenti, magari li perdessi io 10kg a scriverla la storia!!:) ma ci perdo
solo il sonno, la ragione e la capacità di connettere!! Grazie davvero molto!! Baci!!
Alethewriter: ciao!! Mamma mia, ora ho anche tua
mamma sulla coscienza…ç_ç posso comunque assicurarti
che scrivendo questa storia mi sta venendo una voglia pazza di trovarmi un Seth
da qualche parte, miracoli della fantasia!! Mi hai fatto sbellicare quando hai
scritto che secondo te Draco ha dei disturbi della personalità, ma credo che
quando uno sia così incoerente, è perchè sta facendo
qualcosa che gli costa… o che non vuole fare… ecco ho detto troppo!! Anche la
decisione di Hermione di creare lo Zahir, è na
decisione strana, ma anch’essa verrà spiegata! Un piccolo segnale l’ho dato, ma
davvero capirete tutto alla fine!! Ancora baci!!
Goldgriff: ciao e benvenuta!! Non ti
preoccupare, non dovevi recensire per forza ogni capitolo!!:D ti ringrazio per
il complimento sulla mia simpatia!! Spesso con Hermione mi sbizzarrisco pure
troppo…!! Dubbi su Hayden?? Azzarda teorie, tranquilla!!:D ancora grazie!!
Quando ero incinta di Alex, facevo sempre lo
stesso sogno.
Ogni notte, sognavo di partorire un serpente.
Mi risvegliavo sudata, accaldata, piangendo e
gridando. E mio marito correva a consolarmi, mi abbracciava e mi diceva che
andava tutto bene. Gli dicevo che avevo paura che lo Zahir mi fosse entrato nel
sangue, che avesse ucciso il mio bambino e che quella sarebbe stata la mia
punizione. Lui semplicemente mi diceva che era ridicolo, che non c’era nulla da
punire in me e che mio figlio sarebbe nato, come tutti gli altri bambini prima
di lui. Quando lo guardavo, ancora poco convinta, lui mi allungava il polso, mi
passava un dito sulla pelle integra e mi diceva: “Guarda? Vedi qualcosa?
Cicatrici? Segni? Ferite? Non c’è più nulla…”. Spesso, singhiozzando, ostinata
come una bambina, dicevo che quel serpente era dentro di me. E lui, paziente e
dolce come è sempre stato, mi sussurrava che avevo il cuore di una leonessa.
Il mio cuore l’avrebbe spaventato e sarebbe
scappato via.
Lui ha sempre cercato di consolarmi così, e ha
sempre avuto effetto, non so nemmeno io come, anche se alludeva ad un cuore che
non amava lui.
Ma, per lui, non è mai stato un problema… o
perlomeno ha sempre finto che non fosse un problema.
Non so come ce l’abbia fatta, come ce la faccia
ancora, come riesca a vivere con la certezza che, nel momento in cui dovesse
mai arrivare la notizia che aspetto da cinque anni, io me ne andrò via da qui,
lontana dalla nostra vita. Forse, è in quei momenti che ricordo il serpente che
mi cingeva il polso, che mi era entrato nel sangue, infiammandolo d’odio e
rendendomi una preda delle più facili, e credo che non se ne sia mai andato
davvero, anche se so che non è così.
Mi viene da credere in modo automatico di
vivere ancora di odio e di egoismo, perché spesso, in modo più o meno palese e
cosciente, costringo mio marito a subire tutto questo.
Sarebbe la giusta punizione che fossi
condannata a questo, a non conoscere mai più la purezza di me stessa, a vivere
per sempre con il ricordo di quel odio atroce che mi ha avvelenato l’anima, che
è stata l’arma micidiale, forgiata per distruggerci. Sarebbe la punizione
giusta, lo penso spesso.
Poi arriva Alex e so che io la mia punizione
l’ho già abbondantemente avuta, quando è nato lui.
Quando l’ho visto per la prima volta.
Quando il mio cuore si è fermato, sciolto
dall’amore e dal dolore. Ed ogni volta che lui mi guarda, o ride, o mi indica
qualcosa che l’ha colpito, mi spezza sempre il cuore. Certo, subito arriva
l’amore sconfinato per lui, per il mio bambino. Ma, quando lui non vede, io
chiudo gli occhi, prendo un respiro e mi faccio forza, cancellando la
somiglianza inevitabile che i suoi tratti mi comunicano. Perché di lui, tutto,
è una condanna, per me.
Perché, quando mio figlio mi guarda… io rivedo
l’oro e la perla.
Perché, quando mio figlio mi guarda… io rivedo
sempre suo padre.
E quando penso al suo nome, mi dico che avrei
dovuto sceglierne un altro, perché non so tutto questo quanto potrà durare.
Forse per anni. Forse per sempre.
E quel nome sarà stato inutile. C’è Alexander,
il nome di mio padre. Ma non è tutto il suo nome.
Esso resta sempre sepolto. Ma scriverlo mi fa
bene, non mi fa dimenticare tutto quello che quel serpente si è portato
via.
Perché si è portato via tutto… tranne una cosa.
Il nome di mio figlio.
Alexander Leo Malfoy.
Il mio corpo… il mio
cuore…il mio stesso pensiero… io non
riesco più nemmeno a controllarlo…
L’odio è una forza potente, immensa, quasi quanto
l’amore. Forse anche di più dell’amore.
Quando guardavo Draco, io sentivo sempre che ero
troppo poco per lui, che non ero mai degna dei suoi occhi e del suo sguardo,
specie se, in modo più o meno conscio, mi paragonavo ad Helena.
Ora, invece, io sono una regina, una stella nel cielo che lui
non potrà mai eclissare. Mai più. Bella, desiderabile, lui ha solo da temermi
adesso. Ha da temere il mio assurdo desiderio di fargli del male, come prima mi
aveva terrorizzato causargli ancora altro dolore.
Come direbbe mia nonna, tutto torna indietro.
Specie il male. Ora Draco Malfoy avrà un assaggio di ciò che ha fatto a me.
O mio Dio… che cosa
sto per fargli?
Mi siedo sul bancone del bar, issandomi su con una
leggerezza ed una grazia che non ho mai posseduto.
Incrocio le gambe in modo volutamente ammiccante,
prima di sbuffare con voce monocorde: “Si può sapere che diamine vuoi,
esattamente? Mi stai annoiando Malfoy…”.
Il suo volto, da irato com’era, si fa sorpreso,
assolutamente sconvolto. I suoi occhi luccicano di stupore, come se volesse
chiedermi chi sia io adesso. Ogni cosa di me gli sembra strana, diversa, tipica
delle donne pessime che ha sempre frequentato. Le movenze da gatta morta di
Summer… e magari anche di Helena. Anche se lei era il tipico angelo del
paradiso, giusto… come scordarlo… ed invece ora io sono all’inferno. È qui che
mi volevi condurre Malfoy? Ora vedrai quanto può bruciare il fuoco.
Si avvicina di qualche passo, gli occhi grigi
ancora incerti e quasi addolorati, prima di sputare fuori con il solito astio
che oramai non fa minimamente presa su di me: “Serenity… non ti azzardare mai
più a portarla con te… e con quell’altra specie di bambolotto che ti porti
dietro, sono stato chiaro?”. La sua voce, un tempo, mi avrebbe terrorizzato. Mi
sarei spaventata, temendo che mi facesse del male. Ma che dico… non ho mai
temuto che lui mi facesse del male, come quanto invece di fargliene io a lui.
Ed infatti gli ho consegnato il mio cuore, lasciando che me lo riducesse a
brandelli sanguinanti.
Ora, invece, non la sento neppure la sua voce, anzi
sbadiglio rumorosamente coprendomi la bocca con la mano, attenta solo che i
suoi occhi mantengano quella precisa espressione. Di dolore. Sorrido, che
raccontasse e dicesse quello che vuole, ma credo che sentirà la mancanza della
sua piccola e fragile Hermione.
Draco… vattene,
dannazione, finché sei in tempo.
Riesco ad essere me
stessa solo qui, in questa parte del mio cuore… come sfugge allo Zahir, non lo
so…
Vattene, accidenti…
Al mio teatrale sbadiglio, i suoi occhi si riducono
in due fenditure colme d’odio, freme come sempre. L’odio degli uomini è sempre
così patetico, non sanno nemmeno che cosa significa. Non suscitare mai l’odio
in una donna, invece.
“Cosa, esattamente, ti dà tanto fastidio?” sussurro
con voce calda, guardandomi le unghie, prima di distendere il palmo davanti a
me e tornare a guardarlo “Il fatto che Hayden sia migliore di te, praticamente
in tutto, e che Serenity se ne possa rendere conto, anche se è ancora una
bambina?”. Il suo sguardo si fa di diamante, duro, inaccessibile, mentre ancora
una parte del suo sguardo cerca di fugare il mistero che gli sembra palese
scorgere in me, dato che, per una volta sola, non mi sono gettata ai suoi piedi
per farmi martirizzare.
“Giusto…” replico quasi come se avessi avuto
un’ispirazione improvvisa e batto una volta le mani, guardandolo “Non dovrei
dirlo, per non ferirti…! In fondo, Serenity è la tua sola ragione di vita…”, mi
gratto pensosamente la guancia: “… anche se al momento, non capisco perché non
dovrei dirlo… l’ho colto per un momento e mi è sfuggito daccapo…”, scoppio a
ridere di fronte ai suoi pugni chiusi, incrociando le braccia al petto: “… in
fondo, cavolo, Malfoy, è dallo stesso momento in cui ho messo piede qui che mi
hai, letteralmente non in senso lato, rovinato
la vita… quindi insomma ci sta che non sia masochista, fino
a questo punto…”.
“Rovinato la vita?” ripete lui atono, facendo un
passo avanti “Te la sarai rovinata tu da sola la
vita… fosse stato per me saresti stata fuori di qui dal momento stesso in cui
ci eri entrata…”.
“Certo, certo…” sbuffo ironicamente, distogliendo
lo sguardo da lui come se improvvisamente mi ripugnasse anche solo la sua vista
“Sai cosa? Andiamoci sotto con le confessioni, visto che tu mi ha ustionato le
orecchie e gli occhi con i tuoi ricordi, vuoi? Cinque minuti di mie innocenti
paroline non ti faranno male a lungo…”.
Dio mio… ora lo farò
a pezzi…
“Hai ragione…” commento falsamente, alzandomi dal
bancone con passo leggero e tornando ai suoi occhi, osserva le mie movenze
senza parlare, ancora alla ricerca del particolare che gli sfugge. Quando mi
porto la mano nei capelli, scostandoli dal mio viso, e il serpente che mi
intreccia il polso luccica nel neon del bancone, stringe le iridi, ma non fa
nulla. Euforica, mi rendo conto che non lo conosce. Era la mia sola possibilità che lo conoscesse. Dannazione.
“La vita me la sono rovinata da sola… decisamente,
come una povera imbecille…” continuo, muovendomi verso di lui come un serpente
che ammira la sua preda. E devo dire che è decisamente una preda di alto livello.
“Ti ho rivisto e mi sono autonomamente convinta che tu fossi diverso, cambiato…
hai degli amici che ti vogliono bene, una sorellina adorabile, una fidanzata,
bionda manco a dirlo… e mi dico, sai che c’è, Malfoy non deve essere stato così
male se ha tutto questo… ma la tua vita è un’invenzione continua. Ripetitiva,
come sempre è stata…”, schiocco la lingua con espressione annoiata, contando
sulle dita sotto il suo sguardo furioso: “… la fidanzata è Astoria, la sorella
non è una sorella, gli amici non sanno nulla di te… bella vita, davvero… ma in
fondo credo che sia il massimo a cui può ambire una persona come te, no?”.
“Che diamine vuoi dire?” commenta fioco, quasi
ambendo il colpo mortale che gli sto per infliggere. Mi invita decisamente a
nozze.
Non ha ancora capito bene dove sto arrivando,
continua in quell’atteggiamento che, da stamattina, non ho capito, ma che ora
riesco ad inquadrare meglio, ora che provo qualcosa per lui. Odio. Piena di odio al punto di volerlo fare a pezzi. Stringo gli
occhi, inclinando la testa di lato, guardandolo.
Mi scappa da ridere che prima non lo capissi.
Era così chiaro… così evidente che… un groppo in gola… sbatto le palpebre un paio di
volte, mentre il fiume che mi scorre dentro, ruggisce e si arresta, come se si
fosse fermato, placcato da un argine immenso come una montagna che lo tiene
facilmente a freno. Disorientata, lo guardo, gli occhi che si riempiono di
lacrime che non so perché dovrei piangere, adesso, che sono così vicina a
vendicarmi. Anche i suoi occhi cambiano, in un momento, ritornano gli occhi che
amavo tanto, lucidi, intensi, pieni di luce e di dolore, stelle cadenti e
meteore i suoi pensieri e i suoi sentimenti che ora potrei leggere uno per uno.
Gli occhi che amavo tanto… no… gli
occhi che amo tanto… uno spasmo ancora più forte, mi prende il
respiro, bloccandolo, la presa dello Zahir che si fa sempre più forte, riprendo
a sanguinare senza posa, con una fitta nascondo il polso dietro la schiena.
Abbasso lo sguardo, i suoi dannati occhi… come diamine fa? L’odio mi ha
mostrato netto il suo limite, ora lo vedo perfettamente che cosa c’era in lui
da stamattina. L’odio ci vede meglio sia dell’indifferenza che dell’amore,
strano a dirsi ma è così, perché cerca solo difetti da sfruttare a suo
vantaggio. E ora io so quello che non vedevo. Quello che non vedevo, anche
quando mi raccontava di Helena. Il
limite.
I suoi gesti, le sue azioni, le sue parole.. il
corpo… vuole che io vada avanti compiendo quell’ultimo passo finale che mi
separi da lui. Vuole tenermi lontano da lui.
Ma poi gli occhi… i suoi occhi... sono ammantati
dalla speranza timida e decisamente suicida che io ritorni sui miei passi.
Vuole che… torni… da lui… perché? Perché
pensa entrambe le cose? Sarebbe sempre il vincitore, sia che io dica queste
ultime parole, sia che non lo faccia. Perché? La nausea mi prende la bocca
dello stomaco, mi sento svenire, il fiume che abbandona il mio corpo come una
risacca gelida, lasciandomi senza forze. La mano sul petto, respiro a fatica,
l’odio che sembra abbandonare il mio cuore martoriato per un attimo, lasciando
il posto all’… amore.
Ma certo, Helder me
l’aveva detto, l’amore avrebbe spezzato lo Zahir… è quella la mia sola
speranza…
L’amore è la mia sola
speranza per tornare me stessa.
“Granger, ti sei incantata?” nella sua lotta ha
vinto il desiderio di mandarmi via. Trema la sua voce di fronte all’altro
desiderio, ma ha deciso come prima che sia quello il più forte. Che io vada
via. Per sempre. Decretando la vittoria del mio odio.
Ora, però, ho capito…
mi devo aggrappare a quel ricordo per non perdermi, i suoi occhi… ora lo so…
una piccola parte di lui ha sempre voluto che restassi con lui… una parte della
stessa dimensione di quella che, in me, è ancora me stessa e lo ama, in questo
corpo posseduto dall’odio…
Mi sollevo lentamente, tornando a sorridere, il
senso di perdizione sparito, il desiderio di fargli del male triplicato e quel
fiume in piena di nuovo pronto a darmi la forza sufficiente.
“Scusami…” sorrido, risollevandomi in piedi e non
dando il benché minimo peso al cedimento che ho avuto, in modo che non lo dia
nemmeno lui. Per fortuna, il desiderio di mandarmi via in lui è più forte di
qualsiasi cosa, lo leggo nei suoi occhi ed ancora mi chiedo il perché. Ma
ricaccio indietro quella domanda perché la risposta…
… mi farebbe tornare
me stessa…
“Dicevo che è il massimo a cui può ambire una
persona come te…” continuo con un sorriso che si finge comprensivo.
“Avanti Granger… finisci la frase, non averne paura…
dillo…” mi provoca lui, un bagliore maligno negli occhi. Probabilmente si
aspetta che mi fermi al momento giusto. Non ha ancora capito nulla, Draco
Malfoy.
O sta ancora cercando
di mandarmi definitivamente via… ma non ha senso continuare a ferirmi, l’ha già
fatto in tutti i modi immaginabili…
In fondo, se gli do
solo fastidio, dovrebbe essere semplice ignorarmi? Invece vuole davvero che io
vada via.
Mi avvicino in punta di piedi, quasi danzando, come
non avrei mai potuto fare prima, prendendo fiato: “Dicevi che ero innamorata di
te… ma pensaci, chi mai potrebbe innamorarsi di uno come te? Seriamente, sarà
stato un tuo desiderio perverso di avermi tua, non il contrario… e ora magari
mi replicherai che di te si sono innamorate le due sorelle Greengrass, se mai
possa essere un motivo di vanto. Astoria la tralascio decisamente, ed Helena…
vanesia e viziosa, una donna così non so davvero a chi augurarla… se non a
te…”.
Apre la bocca, semplicemente furibondo, i suoi
occhi perdono quel desiderio, fino a qualche minuto fa, ancora febbrile di
trattenermi qui, e diventano acciaio fuso, il vortice e l’uragano che mi
spazzerebbe via. Ora che ho toccato Helena, ovviamente, ogni sua minima
resistenza è svanita, ora è un tutt’uno con il corpo e con il volermi mandare
via.
Sorrido e, con grazia, allaccio le mie braccia
attorno al suo collo, lo sento irrigidirsi ma non lo farei spostare nemmeno se
volesse. Il colpo che gli ho inferto, è bastato ad annullare tutte le sue
difese e ad impedirgli di dire qualsiasi cosa. L’ira si spegne così come era
nata, mentre ancora scruta nel mio viso la risposta, il tassello che gli sfugge
e che mi luccica al polso. Non sa che la risposta che cerca, il motivo per cui
ora sono così, ce l’ha a due centimetri dal collo. Pulsa lo Zahir al contatto
con la sua pelle, quasi come se riconoscesse la sua origine, e Draco sembra
quasi rabbrividirne, anche se penso che imputi il tutto al contatto con il
metallo freddo.
Gli accarezzo suadente la nuca, facendo aderire il
mio corpo al suo, prima di riprendere ad un respiro dalle sue labbra: “Io sarei
stata quella diversa… l’avrai pensato chissà tante di quelle volte, no? Per
questo non mi hai voluto mandare via, sul serio, per questo sono ancora qui…”.
Mi avvicino alle sue labbra, cercando quella sua confessione che mi
consentirebbe di prendere il suo cuore di ghiaccio tra le dita, e spezzarlo
infine, come ha fatto con il mio. Chiudo gli occhi, già sicura della sua
risposta.
Ma, improvvisamente, è come se anche lui avesse
raggiunto una nuova e diversa consapevolezza. Spero
che abbia capito, Dio mio. il suo corpo si fa più rigido e
la presa delle mie braccia viene sciolta bruscamente. Mi afferra per le spalle,
mi allontana e mi scuote, gli occhi due gelidi laghi montani illuminati dalla
luna.
Lo guardo senza capire, sbattendo le ciglia,
incassando il colpo. Sarebbe stato quello a cui tenevo di più, ristabilire le
cose…fargli ammettere che è sempre stato lui a volermi e a non potermi avere,
non il contrario… ma non mi ha voluto. Ancora.
“Granger, non so che diamine ti stia prendendo…”
mormora, staccandosi da me, prima di darmi le spalle “Ma fatti soddisfare dal
tuo ragazzo, invece di rompere le scatole a me…”. La rabbia e il livore
infiammano il mio odio, imporporandomi le guance di sdegno, facendomi chiudere
le mani fino a sanguinare, togliendomi il respiro. Sfuggono le parole, senza
che nemmeno le controlli, infrangendosi contro le sue spalle serrate: “Si
trattava solo di un impulso, Malfoy… perché
io ti odio, Malfoy, e non avrei mai potuto amare una persona patetica come te…
patetico sì, e me lo sarei dovuto ricordare prima, ma invece mi sono fatta
prendere dalla compassione… ed invece sarebbe dovuto essere come sempre è
stato, io e te che non ci siamo mai potuti vedere, come se mi fossi il rosso negli
occhi. Ma guardati, un ex Mangiamorte che ha amato una sola donna nella sua
vita, che non ha nemmeno saputo proteggere… grande affare per Helena affidarsi
a te, certo che era una donna furba… traditore dei suoi genitori, ma che poi ne
piangeva la morte… ti sei fatto anche ricattare da un’oca come Astoria… e ora
investi tutta la tua vita su Serenity. Ottima mossa, fino a quando non capirà
anche lei, come sua madre, che persona sei… non a caso lei, Helena, non ha mai
lasciato suo padre, no?”, sorrido di soddisfazione alle sue spalle che si
piegano come sotto il peso delle mie parole, e continuo divertita, ad ogni
parola quasi un ulteriore piacere, come una catarsi: “Avanti, non dirmi che hai
davvero creduto che fossi innamorata di te? Non puoi averlo seriamente pensato…
sei l’ultima persona al mondo di cui mi sarei potuta innamorare…”. Inclino la
testa di lato, aspettandomi la sua reazione, mentre si volta lentamente,
tornando a guardarmi. Ma, sgomenta, mi rendo conto che è rimasto immobile,
assolutamente indifferente. I suoi occhi sono di nuovo foschi, irraggiungibili
come sempre. Le mie parole non l’hanno ferito, o meglio hanno smesso di
toccarlo in un punto preciso della nostra conversazione.
…quando ho tentato di
baciarlo…
Fa un sorrisino ironico, prima di scrollare le
spalle e dire con voce annoiata: “Ora che mi hai esposto a sufficienza le tue
teorie, possiamo tornare al punto fondamentale?”.
“Cosa?” chiedo con un filo di voce, svuotata del
mio senso profondo di giustizia che volevo ristabilire e che mi aveva saturato
fino a poco prima.
“Serenity… non avvicinarla mai più…” soffia fuori
con risentimento, guardandomi dall’alto in basso, prima di voltarsi e sparire.
Resto immobile e ferma, finché esce, poi mi porto
le mani alla bocca, sedando la nausea improvvisa che mi prende allo stomaco.
L’odio e l’amore hanno lo stesso effetto, in fondo,
non danno mai pace. Nulla mi dà la pace. Mi stanno solo uccidendo.
Ma l’odio non posso metterlo a sopire come l’amore.
E questo è qualcosa che lo distingue nettamente dall’amore.
Lo rende più forte e lo rende la catena che ancora
mi lega a Draco Malfoy. Un filo rosso, ora dannato come sangue sporco, che
ancora mi rende sua schiava.
E, quando incrocio il mio riflesso nello specchio,
dopo qualche ora, capisco che d’amore magari non sarei morta. Ma di odio sì.
Perché esso oramai è nel mio sangue.
Tocco il riflesso freddo che mi rimanda lo
specchio.
Un’altra Hermione occhieggia dall’altra parte.
Adesso, ha i capelli e gli occhi dello stesso colore.
Neri.
Infantilmente,
ho pensato che una doccia mi avrebbe fatto sentire meglio, avrebbe lavato via
quel fiume nauseabondo che ancora sento dentro, pronto a pungermi al minimo ricordo
di Draco. O avrebbe almeno cancellato quell’onta dal mio aspetto. Ma l’acqua è
scivolata sui miei capelli, ora liscissimi e neri, come se li temesse, e,
quando sono uscita dalla doccia e mi sono guardata allo specchio, anche i miei
occhi sono rimasti uguali. Niente più il castano caldo a cui sono abituata da
quasi ventiquattro anni… dall’altra parte del vetro, vedo gli occhi di un
corvo, neri, perfettamente compatibili con i miei capelli, ad ogni respiro
splendono di luttuosa ardesia. Helder me l’aveva detto che anche il mio aspetto
sarebbe cambiato, ma non immaginavo così tanto. Allora, quando Helder parlava,
ogni sua parola era stata zucchero, perché pensavo che mi sarei sbarazzata del
mio cuore. Ed è successo. Ma, guardandomi, so che oramai c’è qualcosa di più in
ballo rispetto al mio solo ed unico amore. C’è in ballo tutta me stessa.
So
di non essere stata più bella in vita mia, i capelli sono finalmente ordinati,
lisci come se li avessi appena stirati anche se sono ancora umidi, le labbra
risaltano rosse di corallo sulla pelle candida, gli occhi scintillano vivaci,
senza segni di stanchezza o tristezza.
Ma
ogni demone è bellissimo, chi non lo sa.
Sono
fatti apposta per attirare le persone, per poi cibarsi delle loro anime.
E,
mentre guardo le mie labbra curvarsi di un sorriso senza allegria, so
perfettamente che ormai io sono un demone. Non ho più nulla di quello che ero prima. C’è sempre il
bracciale al polso a ricordarmelo, ora anch’esso nero, gli occhi di rubino,
vipera pericolosa ed infida. Mi asciugo la fronte e il viso dalle gocce d’acqua
che ancora la ricoprono, mi lego un asciugamano sotto le spalle ed esco dal bagno.
Seth deve essere rientrato senza che me ne accorgessi, ora contempla una serie
di camicie che ha messo diligentemente sul letto, una accanto all’altra. Una
mano sotto il mento, pensoso come il Mosè di Michelangelo.
Ma
non mi fa ridere. Ovviamente. Non c’è nulla che possa suscitare oramai ilarità
in me.
Pablo
Neruda diceva che ridere è il linguaggio dell’anima. E io l’anima, non ce l’ho
più.
L’ho
venduta, per una falsa pace ed un’amara morte.
Quando
Seth si accorge di me, naturalmente trasale. Alzo gli occhi al cielo, ci manca
che mi faccia la paternale. Dico solo che avevo voglia di cambiare immagine e
look. Mi siedo sul letto, aprendo l’armadio e ricordandomi che stasera c’è una
festa al locale, per quello Seth è così preoccupato del suo aspetto.
Gli
abiti mi sembrano tutti troppo colorati e troppo da educanda, ovviamente. Mi
ricordo di una busta di roba che Ginny mi aveva dato tempo prima, quando
credeva che facessi la fame e che lei non usava più. Non l’avevo mai toccata,
sapendo come si veste lei e meditando di portarla in qualche postribolo di alto
borgo che ne avesse bisogno. La trovo per caso ed, improvvisamente, tutto mi
appare perfetto. Esco una canotta striminzita bianca, a costine, un paio di leggings di pelle nera e un paio di scarpe lucide di
vernice rossa, con un tacco quadrato e di almeno dodici centimetri.
Tutto,
perfetto.
Non sono decisamente io… se penso che ora mi vestirò anche con quella
roba…
“Persino
gli occhi sembrano cambiati…” commenta Seth, avvicinandosi e guardandomi,
mentre si chiude i bottoni della camicia “Non stai affatto bene…”.
Schiocco
la lingua con fastidio, replicando frustrata: “Ho la faccia troppo da
cretina?”.
Lui
mi accarezza dolcemente la testa in un moto tenero, ma che mi dà solo fastidio.
Mi mordo il labbro inferiore, sapendo che è solo lo Zahir a farmi sentire così,
e che Seth non c’entra nulla. Gli occhi mi si annebbiano mentre rifletto sul
fatto che probabilmente la malattia che mi scava il cuore non si sazierà di
odiare Draco, ma prenderà a detestare ogni persona che conosco e che mi ama. La
cosa migliore sarebbe sparire per sempre, senza lasciare traccia. Specie ora
che ho compreso che non posso fare nulla per ferire Draco, per vendicarmi. È
come una parete di gomma, logorata da anni di odio persino più penetrante del
mio, che rimbalza ogni tentativo di ferirlo ancora. Non come me, che ho venduto
l’anima per liberarmi di lui. Draco… e lo odio ancora di più mentre lo penso… è
adesso molto più puro di
quanto non sarò io. E non c’entrano nulla le parole Mezzosangue e Purosangue. Oramai
non si fa toccare più da nulla, compreso l’odio, come una rosa bianca in una
piana di neve fresca.
Ora,
che so di non poter ferire Draco… la sola cosa che l’odio reclama a gran voce… il
senso di ogni cosa, è slegato da me, come se mi fossi fatta un burattino dai
fili spezzati ed annodati, in modo da non poterli tendere mai più..
Ora
voglio solo stordirmi. Con qualsiasi cosa. Il dolore che mi ha spinto a creare
lo Zahir… aveva una consistenza, era qualcosa.
Una
lastra sul petto, come se fossi sepolta viva e non potessi respirare,
insopportabile, certo, ma era qualcosa, ero viva almeno.
Ora…
vuoto, mancanza di una prospettiva alcuna del futuro, assenza di un qualsiasi
volere o desiderio… apatia… come quella che descrivevano e volevano i greci, la
mancanza di passione, qualsiasi essa sia. Esattamente come se fossi sette
dannati metri sottoterra.
Sul
serio. Adesso.
Voglio
sentire qualcosa. Voglio perdermi in qualcosa. Intontirmi al punto tale da non
sapere più chi sono.
Intuisco
in modo frammentario che starò bene solo allora, perdendo me stessa ed il mio
intollerabile cuore imputridito.
Indosso
silenziosamente i miei vestiti mentre Seth continua a parlare, non lo riesco
nemmeno ad ascoltare, mondo di gelatina che mi circonda, dove galleggio e dove
nulla mi riporta alla densità delle cose vere e reali.
Per
intorpidirmi, come sotto un’anestesia, ci sono solo due strade. Le strade che
mi portarono a Dean, all’inizio di questo cerchio che ora necessariamente si
deve chiudere, come un gatto che si morde la coda. Se non sono capace di altro.
Dannazione, se sto ripensando a Dean, le strade possono essere
solamente...
Afferro
il cellulare dalla mia borsa, componendo il numero di Hayden, Seth mi guarda
stranito, rendendosi conto che non lo sto degnando di alcuna attenzione. Parlo
con voce soffusa, invitandolo alla festa di stasera. Chiudo il telefono con un
freddo sorriso, scrollando le spalle alle rimostranze di Seth perché non lo
stavo ascoltando. Aspetto solamente di staccarmi da me, da Hermione Jane
Granger, di bruciare in un lampo fulgido di fiamma e poi perire nelle mie
ceneri.
Le due strade…
Di
sotto, troverò tutto l’alcol che mi occorre. Come quella sera con Dean.
E,
come allora, avrò anche il sesso a finirmi il pensiero. Con Hayden.
Sarebbero
bastate le luci stroboscopiche e la musica spaccatimpani a rintontire
normalmente il mio cervello.
Non
a caso, nonostante lavori qui da parecchio tempo, non ho mai messo piede
nemmeno per sbaglio nella discoteca del Petite Peste. Ringraziavo mentalmente
Malfoy per averla resa insonorizzata dal resto del locale e, quindi, quando
c’era una festa, mi rintanavo al piano di sopra con Serenity, giocando con lei
fino a quando non si addormentava e passando il successivo tempo da sveglia
studiando.
Patetica.
Davvero patetica.
Le
mie orecchie poco allenate ai rumori forti, dato che per tutta la vita li ho
sempre evitati accuratamente, fischiano un po’, ed i miei occhi non distinguono
realmente nulla sotto le lame di luce psichedeliche, ma la mia andatura è
comunque disinvolta, tanto da attirare gli sguardi di parecchi ragazzi. Sorrido
compiaciuta, cercando con lo sguardo Hayden, tinta di quel rossore scarlatto
che è solo un vessillo falso di fragilità, fatto apposta per attirarlo. Alcuni
ragazzi iniziano a ballarmi attorno, strusciandosi su di me in modo esplicito,
li gelo con lo sguardo e si allontanano come se si fossero scottati. Di un uomo
solo ho voglia stasera, non sono certo diventata una che va con tutti… ancora.
Fino a quando anche Hayden sarà diventato inutile per sedarmi l’odio
insaziabile dentro, che mi mangiucchia come se fossi un cibo succulento, per
poi risputarmi fuori con disgusto, oramai ridotta ad avanzi di quella di prima.
Mi muovo ritmicamente, inarcando la schiena come una gatta, muovendo la testa
in modo che i miei capelli catturino tutta la luce colorata. Tutti accorgimenti
maliziosi che prima, nemmeno sapevo che esistessero, sono diventata il fiore
carnivoro che chiama la sua vittima.
Fluttuano
le mie mani attorno a me, carezzevoli sguardi sorpresi sulla mia pelle.
Da
lontano, appoggiati alla postazione del Dj, vedo Seth ed April, mi guardano
come se non mi riconoscessero. I loro sguardi sono stravolti e sconvolti, c’è
qualcosa che mi irrita enormemente del loro silenzioso rimprovero, e mi volto
dall’altra parte.
Potrei
cercare di soffocare la mente anche solo con questo, con questa overdose di
sensi, lasciare perdere Hayden che ancora non si vede e non toccare nemmeno una
goccia di alcol, ma improvvisamente mi assale l’odore dei nontiscordardime, del
Confundus, segno tangibile che Draco sta per entrare. Non lo vedo, ancora, ma i
miei occhi, come bersagli, già lo cercano, pronti a renderlo schiavo del
desiderio di vedermi e non potermi avere. Alla fine, con un groppo, lo
intravedo avvicinarsi a Seth ed April, restare lì immobile accanto a loro e
scambiare qualche parola. Seth fa un cenno nella mia direzione ma Draco non
solleva nemmeno lo sguardo.
Inutile,
dannatamente inutile. È tutto dannatamente inutile. Mi infilassi nel suo letto
e lo implorassi di violentarmi, e lui non alzerebbe nemmeno un sopracciglio.
Non mi vorrà mai. E io non potrò mai spezzargli il cuore.
La
gola raschia di frustrazione e gli occhi pungono di insoddisfazione, mentre
fendo la folla, spostandola a gomitate, lo Zahir che prende letteralmente a
bruciare sulla pelle nuda, è come se ormai fossi avvolta da un rogo, fuoco nel
sangue e fuoco negli occhi, arso dell’odio di non suscitare alcuna reazione in
Draco Malfoy. La mia pelle brucia come se avessi preso il sole per tutto il
giorno, sento la gente che si sposta da me come se fossi un lapillo
incandescente. La mia vista è come offuscata da una nebbia rosso sangue che mi
cala sugli occhi, impendendomi di vedere bene, sbatto le palpebre per schiarire
ciò che vedo, ma essa non accenna ad andare via, mentre il rogo progressivo che
si dipana dal mio polso si fa sempre più forte, come se fossi di carta e
danzassi in una lingua di fuoco.
Arrivata
al bancone, sono senza respiro e, probabilmente, sono rossa in viso come una
fiamma viva. Luccicano gli occhi come se avessi la febbre e l’alcol che mi
viene servito, non brucia nella faringe, bicchiere dopo bicchiere, sembra quasi
freddo, dandomi pavido sollievo dall’arsura progressiva che mi consuma
dall’interno, come se avessi ingerito uno stoppino e un litro di benzina.
L’annebbiamento che bramo, però, non arriva, mi sembra solo di avere mille mani
e mille occhi tutti attorno a me, pronti a scrutarmi e a rimproverarmi
silenziosamente. Le guance bollenti si raffreddano di lacrime odiose, mentre
corro fuori a cercare refrigerio nell’aria fredda della sera. Scivolo tra la
gente che, quasi come se avesse capito di che cosa sono fatta adesso, mi evita
senza nemmeno toccarmi.
L’aria
esterna, satura di umidità e di pioggia che continua a cadere in scrosci
rumorosi e copiosi, mi colpisce in viso, dandomi la nausea, cado in ginocchio,
reggendomi il polso che continua ininterrotto a bruciare come un tizzone
ardente. Se me lo strappassi via a morsi, finirebbe il dolore? O si
propagherebbe per tutto il corpo, come un veleno?
Il
mio riflesso corvino nella pozzanghera ai miei piedi, mi suggerisce la seconda
ipotesi.
Non
finirà mai, a meno che non morirò io.
Batto
il pugno furiosa sull’asfalto bagnato, il dolore della lieve escoriazione come
un pallido segno contro la mia coscienza, arsa nel mio polso spezzato dal
fuoco. L’alcol inizia a fare effetto solo nella mia andatura che diventa
incerta, come se camminassi su una trave di sughero sospesa sul mare. La
cortina di fumo rossastro non si dirada dai miei occhi, nemmeno sotto la
pioggia, e mi ritrovo ad entrare nei sotterranei del Petite Peste, invece che
dall’ingresso principale. Imprecando, inciampo su delle pile di cartoni
impolverati, tossendo per l’aria di chiuso e di stantio. A tentoni, cerco un
interruttore, lo Zahir che preme sulla mia pelle, come se avesse trovato la sua
preda. Cosa, dannazione?
Quando
la luce si accende, il fuoco mi toglie il fiato per come diventa intenso. E
l’odio trova il modo di venire fuori, di sfogarsi prima di uccidermi. Rido
sguaiata, folle come Bellatrix Lestrange, folle nel ricordo impolverato che
emerge improvviso e vivido, mentre l’ultimo pezzo del mio mosaico mi si rivela
con perfetta chiarezza. Ed è improvvisamente come spingere il fuoco, lontano da
me, fuori da me. Con forza sovraumana, lo tendo fuori da me, come una freccia
da scoccare, tenendolo in tensione, cacciandolo dalle mie membra fiaccate, fino
a raggiungere il solo Zahir. Tutto il calore, tutta l’arsura che mi stava
uccidendo, si concentra in quel solo punto, avviluppando di tremore il resto
del corpo, ora freddo.
Il
senso di ferire Draco ritorna. Posso farlo.
È
facile come lasciar andare un elastico teso troppo a lungo. Schizza lontano e
non puoi fermarlo, nemmeno se volessi.
Il
fuoco, che avevo sempre percepito come una specie di febbre, ma solo ed
esclusivamente mia, scoppia invece come una bomba dal mio polso, diventando
reale, bruciando tutto il sotterraneo, mentre continuo a ridere.
Bruciando
tutto ciò che ho davanti a me. La carta. I ritratti.
Helena
di carta e pittura. Hermione di carta e matita.
La
carta si annerisce in pochi secondi, aggrovigliandosi in forme surreali,
allungate, brucia di nuovo Helena Jasmine Greengrass, come il giorno in cui è
morta, ma stavolta assieme ad Hermione Jane Granger. Le due donne che sono
state la rovina di Draco Malfoy.
Ora capisco… ora è tutto chiaro… perché… mi ha fatto restare qui.
Il sotterraneo pieno di schizzi miei e di Helena. Il quadro di lei che
stava terminando, quello che aveva iniziato tanti anni prima, come ho visto nei
suoi ricordi.
Draco ricordava sempre il quadro di Daisy Diggory che Amos aveva in
salotto. Parlava con esso, quando tornava dal lavoro, come se la moglie fosse
ancora viva, fosse ancora con lui.
Aveva deciso di dipingere Helena, aveva iniziato con i suoi occhi e,
quando lei era morta, aveva deciso di renderlo un dipinto vivo, animato, per
avere sempre un ricordo di lei. Per farlo, credeva che bastasse il forte
sentimento per lei, come dicono tutti i libri.
Un quadro si anima perché richiama un pezzo di anima di quella persona,
dal mondo dei Morti. E solo un sentimento forte può farlo.
Ma evidentemente l’immagine di lei iniziava a sbiadire con il tempo e
non riusciva a finire il quadro.
Poi sono arrivata io… con la mia strana somiglianza con Helena. Mi ha
visto dormire quella prima sera che sono rimasta qui.
Quel ricordo… io con la maglia da calcio. Lui che non riusciva a
capire. E poi afferrava il tutto.
Guardando me, ricordava lei.
E la mattina dopo, mi ha fatto restare qui. Con la clausola che vivessi
qui.
Era il solo modo per guardarmi senza che me ne accorgessi… guardarmi
dormire…
È sempre stato… solo… questo…
Rido
con soddisfazione mentre il ritratto di Helena sparisce nelle fiamme, assieme
agli schizzi che invece mi rappresentano, poco abbozzati, come era giusto per
lui, essendo solo la copia malriuscita di Helena. Servivano solo da guida per continuare l’opera di
lei.
Tutto
torna al suo posto, ogni mistero svelato. Ogni minima parola adesso ha un senso
diverso, ulteriore, chiaro, preciso.
Ora
di Helena non resta davvero più nulla… ora saprà cosa ho provato io. Dovrà
soffrire per forza adesso.
Calpesto
con soddisfazione la cenere del ritratto, ridendo ancora, non ne è rimasto che
qualche frammento sparso. Qualche frammento sparso. Li guardo distrattamente, l’odore di
carta bruciata che mi annebbia l’olfatto, la cortina di sangue ancora sugli
occhi. Una fitta improvvisa al cuore. Dolorosa, più del fuoco. Annaspo senza
respiro.
Il ricordo. La tempera fresca.
Sebbene
lo Zahir mi stringa forte, quasi impedendomi di muovermi, mi chino a
raccogliere il frammento del ritratto bruciato. Piccolo, minuscolo, si
spezzetta tra le mie dita, eppure è chiaro anche nella nebbia di rubino. Lo
guardo un paio di volte, il respiro accelerato, il fuoco che ritorna ma gela su
sé stesso, una cascata che lo mette a tacere, come se non avesse nemmeno motivo
di esistere e di aprire bocca nel mio corpo.
Quel
minuscolo frammento… piccolo… di occhi. Di Helena.
Gli occhi.
Ma
non sono azzurri. Non sono quelli di Helena.
Nostalgia,
lacrime sulle labbra riarse dal fuoco.
Occhi
color cioccolato… come erano i miei. Luccicanti, pieni di luce. Un castano
intenso, definito, senza alcuna traccia di azzurro.
Un
altro spasmo. Scricchiola lo Zahir, liberando altro fuoco indifferente nel mio
corpo.
Il ricordo… era reale. Quando ero addormentata… io ho davvero visto
Draco e questo posto.
La mano fasciata. Lo spasmo negli occhi grigi. Il pensiero di Draco.
Helena somiglia ad Hermione.
Nel ricordo, c’era ancora dell’azzurro. Ora… non ce n’era più.
Il quadro… gli occhi… stavo diventando io.
La tensione nel suo corpo. Mandarmi via e volermi disperatamente
trattenere qui.
Era vero. Mi ha sempre voluto trattenere qui.
Draco… mi hai voluto sempre trattenere qui, al punto che… ancora non ci
posso pensare…
Al punto da confondere il ricordo di lei. Al punto da offuscare l’amore
che doveva animare il quadro e richiamarla.
Al punto che gli occhi di lei… diventassero i miei.
Non ci posso credere… e io… ora… ho distrutto tutto…
Improvvisamente,
un conato di vomito mi impedisce di respirare, crollo supina, piegandosi sul
peso del mio corpo che si fa gelido, mentre una risacca di fuoco liquido lo
abbandona, così come era nata, bruciando tutto al suo passaggio, come un
esercito sconfitto che, battendo in ritirata, si vendica dei più deboli. Esce
dal mio corpo, lentamente, facendomi sentire punte ed aghi di dolore, persino
sotto le unghie.
Un
attimo di pace, prima che un’altra onda torni al suo posto. Fredda eppure
calda, mi scava dentro la voragine che aveva lasciato quando se ne era andata
via. Riprende il suo posto con prepotenza come un imperatore legittimo che
torna sul trono.
L’amore
riprende possesso di me. Doloroso, inquieto, curvato dal senso di colpa. Ma
enorme come era prima, salvandomi almeno dal fuoco eterno. Lo Zahir geme e si
spezza, riducendosi ad una nera polvere di vento che vola via dal mio polso.
L’amore.
Sono di nuovo me stessa.
Guardo
il polso, libero dal bracciale di morte che lo cingeva, lo segna una cicatrice
scura, come una bocca deformata, ma non mi interessa. Finalmente… sono libera.
Il senso
di felicità che mi pervade non dura che pochi secondi.
Pioggia nel mese di settembre.
Ancora
in ginocchio, nella cenere, non lo vedo in viso. Sibila le parole che mi
aspetto e che non sono nulla, rispetto al senso assurdo di colpa che mi
sconquassa dentro, rovesciandomi, dopo aver distrutto tutti i ricordi della
persona che amo di più al mondo.
Ora
che lo so. Ora che lo sento daccapo. Ora che amo Draco come sempre. Come sento
adesso che doveva essere da sempre, per quanto sia giusto e naturale per me.
Nessuno Zahir al mondo avrebbe potuto davvero farmelo scordare. Ne sarei morta,
prima.
E
ci sono quasi morta.
Non
mi sarei mai fermata. Mai. Dopo i ritratti, avrei ucciso lui, e poi me stessa.
Ma
io ho già ucciso me stessa, l’Hermione che, senza che io lo potessi minimamente
immaginare, gli era cara fino a cinque secondi fa e che brillava di tela
innocente. Innocente come mi credeva e come ora sa che non sono mai stata.
Quella Hermione, anche se ora è di nuovo qui…
“Per
me, da oggi, Hermione Jane Granger…non esisti più…”.
… per lui, è morta davvero.
Non so che le sia successo… anche questi capelli, sembra così diversa…
e credo anche che tu la conosca meglio di me, per poterlo dire… ma una cosa non
è mai cambiata… lei… Hermione… è sempre stata solamente tua…
Terra bagnata come un eco che scompare.
Nel
dormiveglia, indotto dall’alcol e dalla stanchezza, la voce che sento soffice e
soffusa vicino a me, mi sembra quella di un angelo. Si accompagna ad una
tiepida carezza sui miei capelli e ad un sospiro appena trattenuto.
La
testa mi scoppia di mille voci. È come se dall’altra stanza ne provenissero altre,
concitate, agitate, frettolose… ma sono così lontane… che non sembrano essere
davvero nell’altra stanza.
Bisogna agire, adesso, subito. Anche stanotte, se necessario.
Una
voce familiare. Acuta, sottile, dolciastra.
Le
altre, invece, non mi sembra di riconoscerle, mi giungono lievi ed impalpabili,
come se si trattasse di un sogno.
Forse sarà del tutto inutile… l’avessimo saputo che sarebbe andata
così, avremmo agito prima.
Non è tutto perduto, comunque… basta poco per…
Le
voci si spengono così come erano nate, diventando sommessi bisbigli che non
riesco più a distinguere. Faticosamente riapro gli occhi. La voce dell’angelo…
sorrido. Ovviamente era la sua.
“Hermione,
tesoro…” Seth, preoccupato, mi accarezza la fronte madida di sudore. Contro la
mia pelle bollente, la sua mano sembra dolcemente fresca. Eppure, la prima cosa
che sento distintamente attorno a me, è il profumo di Draco.
Come
potrei confonderlo con qualcos’altro che esista al mondo… perché era qui?
Non
merito nemmeno di restare nella sua stessa casa ancora per un minuto, dopo quello
che ho fatto.
Non
ero in me, d’accordo, ma lui non lo sa. E soprattutto non conta.
Era
una parte di me. Io ho creato lo
Zahir. Io non me ne sono andata,
quando ho visto che le cose iniziavano ad andare male. Io sentivo quella feroce soddisfazione al pensiero di infliggergli
quanto più male possibile. Ed io ho
bruciato il quadro di Helena.
Sono stata io. Non lo Zahir.
Distendo
lentamente il polso davanti a me, lo Zahir non c’è più, la lunga e sottile
cicatrice rossastra pulsa di dolore, riempiendomi il braccio di scariche
elettriche. Devo considerarmi fortunata ad essere ancora viva. Decisamente
fortunata.
Nel
riflesso dello specchio, accanto al letto, intravedo anche il mio attuale
aspetto. Ancora nero, ma quasi sbiadito. I miei colori lentamente torneranno,
lo so, l’odio abbandonerà del tutto il mio corpo, le scariche elettriche
passeranno, il tremore pure, forse anche la cicatrice un giorno si rimarginerà
del tutto, smettendo di fare male. Ma il pensiero di quell’odio che mi ha
posseduto… quello… non credo che andrà mai più via. Resterà sempre l’onta di un
ricordo inconfessabile, salvato in extremis solo dall’amore per lui.
Come
il peccatore che si pente in punto di morte. Ecco, così.
E,
ora, devo solo ringraziare di non essere all’inferno. Di non bruciare. E mi
devo preparare al mio lungo purgatorio, all’espiazione del peccato. Primo
passo, non vedere Draco mai più. Andarmene via. Lasciarlo libero finalmente.
Smettere di rovinagli la vita.
Accusavo
lui di averlo fatto con la mia.
Invece,
sono io che lo faccio da settimane con le sua, specie dopo che mi ha detto in
tutti i modi di andare via.
Non
ci credo di essere stata così egoista e sconsiderata… arrivando al punto di
distruggere, stringo il lenzuolo tra le dita… se anche un giorno mi perdonasse,
io non perdonerò mai me stessa. Mai. Per avergli fatto deliberatamente così
male… ed è la persona che amo di più al mondo… figuriamoci se davvero l’avessi
odiato.
Un
brivido di freddo mi scuote, attirando l’attenzione di Seth che si precipita a
mettermi un’altra coperta addosso.
“Herm,
stai bene?” mi chiama ancora, scuotendomi leggermente. Guarda il mio polso,
scorgendo la ferita che marchia la pelle chiara, e a disagio, la nascondo
immediatamente sotto il lenzuolo.
Faccio
un cenno affermativo con il capo, chiedendo che cosa sia successo. Seth mi
spiega che ho bevuto troppo e che ho perso i sensi, non fa nessun accenno al
fuoco nei sotterranei. Evidentemente Draco ha messo tutto a posto, per quanto
sia possibile.
Gli
occhi mi si riempiono di lacrime, pensando che ho distrutto anche la sola cosa
che dimostrasse che ci teneva a me.
La
sola cosa che avrebbe potuto darmi forza.
Quindi,
forse, è anche meglio che quel frammento non esista più. Non finirebbe mai con
quel frammento sempre negli occhi. Un giorno, lontano chissà quanto, mi
dimenticherò persino che è esistito. Quando anche io sarò lontana chissà
quanto…
“Forse è meglio che ti lascio riposare…”
suggerisce cauto Seth, studiando il mio viso, evidentemente stravolto.
Sollevo
gli occhi, poverino, quante gliene faccio passare…
Sorrido:
“Tranquillo Seth, sto bene… anzi, ti chiedo scusa per prima… credo di essere
affetta da qualche forma di schizofrenia…”.
“Me
ne ero accorto…” sospira lui sedendosi sul letto accanto a me “Ma credo che non
sia una novità… l’ho capito dal primo giorno che ti ho conosciuta… e come se
non bastasse, sei terribile quando ti innamori…”.
“Decisamente…”.
“Quindi…”
replica Seth con voce sorniona e ammiccante, guardandomi di lato e attendendo
finalmente la mia confessione finale. Crede di avermi gettato una trappola
perfetta in cui sono cascata, sorrido. Chiaro che l’avessi subodorata, mi ci
sono tuffata apposta.
“Niente,
Seth…” sospiro, torturando il lenzuolo tra le mani, le scariche che continuano
lungo il braccio “Credo che tu lo abbia sempre saputo no?”, la mia voce si
smorza, mentre aggiungo: “Sono dannatamente innamorata persa di Danny Ryan…”.
“E
Hayden? Cosa è cambiato da stamattina?” mi chiede con voce incolore, nessuna
ombra di rimprovero o di giudizio nella sua domanda. Vorrei dirgli che non è
cambiato nulla, che il mio cuore era solo anestetizzato da un incantesimo
ancestrale, ma ovviamente non posso. Quindi respiro a fondo, prima di
rispondere: “Nulla… o meglio, credo che mi volessi convincere che Danny non
contasse nulla per me… e per farlo, ho usato Hayden. A pensarci, mi faccio
abbastanza schifo… eppure, adesso, mi sento quasi meglio, ora che sono almeno
sincera con me stessa… certo con Hayden sarà dura, dovrò parlargli e chiarire
le cose, e sicuramente non vorrà più avere nulla a che fare con me… cosa che
non posso biasimare… ma sono innamorata di lui… di Danny…”.
Distolgo
gli occhi, è così difficile dire Danny e non Draco. Rende la cosa diversa da
come è in realtà.
Relega
tutto in una dimensione onirica e lontana. Danny non ha mai amato Helena, non
ha mai stretto una Promissio Gemina con Astoria Greengrass, non ha la figlia
della sua ex da accudire, non ha mai ritratto una donna che amava con i miei
occhi.
Danny
non è Draco. E io sono innamorata di Draco Malfoy, non di Danny Ryan. Ed è un
concetto profondamente diverso.
Perché
richiama alla mente il binario 9 e ¾ e un bambino biondo che teneva il libro
del Piccolo Principe, nascosto sotto il letto; mi fa pensare ad un campo da
Quidditch e al ragazzo che mi chiamava Mezzosangue, per la prima volta nella
mia vita; mi fa ricordare la Sala Grande illuminata a giorno, al Ballo del
Ceppo, ed il giovane uomo che mi lanciò un’occhiata senza poter dire
null’altro.
Mi
fa ricordare chi sono davvero. E mi riporta la dimensione enorme del mio amore,
per cui ho lasciato indietro chi ero davvero.
“Mi
ha detto di parlarti…” esordisce Seth con un filo di voce, richiamandomi dai
miei pensieri. Mi stringo nelle spalle, presagendo il resto.
“Domani
mattina… ha detto che ti accompagnerà nella località dove avrai l’esame…”.
Ovvio. Stavolta vuole essere davvero sicuro che io vada via sul serio…
Hogsmeade. È lì… mi accompagnerà lì.
Seth continua con la voce flebile, dicendomi che non ha capito il
motivo di tanta risoluzione improvvisa in Danny, sembrava spiritato e asserisce
convinto che, da quando lo conosce, è la prima volta che non gli ha concesso
nemmeno di replicare e di opporsi a quello che stava dicendo. Deglutisco,
immagino perfettamente il tenore della conversazione e lo sguardo che deve aver
avuto, ne sono stata la destinataria così tante volte che oramai non mi
spaventa più, anzi, da povera pazza, mi sono innamorata anche di quello
sguardo. Certo per Seth, invece, è diverso. Ed è ancora la sottile differenza
esistente tra Danny e Draco a fare tutto.
Quello sguardo è tipico di Draco e non di Danny. E Seth, con Draco, non
ha mai avuto a che fare. Ma io sì.
Il limite che ho sempre sfiorato e sfidato, ora è superato.
Dico a Seth che voglio riposare ed invece inizio ad ammonticchiare roba
sul letto, uscendola da armadi e cassetti, per poi riporla con eccessiva
lentezza nella mia borsa da viaggio. Non ho tantissima roba da portare via dal
Petite Peste. Non ne avevo mai portata molta.
Sono sempre stata terrorizzata dall’idea che quella diventasse in tutto
e per tutto casa mia.
Ma lo è diventata lo stesso, senza che nemmeno me ne rendessi conto. O
meglio lo è diventato Draco.
Draco ora è casa mia.
Ed è una morsa calda alla bocca dello stomaco, che mi mozza il fiato,
sapere che ho lottato così duramente per evitarlo ed è comunque successo.
Forse, poi, sarebbe anche andata bene così, forse sarei riuscita a restare qui,
nonostante tutto, ma io dovuto rovinare tutto.
Il braccio formicola in preda alle scosse elettriche che non mi
lasciano in pace, la ferita aperta dello Zahir pizzica come se fosse infetta e
le ginocchia cessano di reggere il mio peso, facendomi scivolare a terra come
una supplice, incapace persino di mettermi a piangere.
È in quella posa che accolgo l’alba, ovattata da rimpianti, rimorsi e
ricordi.
Credo di essermi addormentata e di non essermene accorta, infatti il
tempo sembra passato in un solo secondo. Un momento prima, il braccio
formicolava ed era notte… ed ora c’è il sole. Mi alzo in piedi, quasi per
sincerarmi che davvero sia l’alba. Sorge un sole strano, freddo, attraverso la
nebbia che non si dirada, come una coltre di nubi scesa apposta per rendere
tutto meno visibile. Il braccio continua a tremare, senza controllo, lo tengo
fermo con l’altra mano. Chissà per quanto tempo dovrà durare, constato
sospirando. Dubito anche che esista un modo per frenare questa cosa. In fondo è
l’effetto collaterale di una pozione proibita.
Con la coda dell’occhio, guardo il mio riflesso nello specchio. Sbatto
le palpebre un paio di volte, incredula, avvicinandomi ad esaminare meglio la
mia immagine. Impossibile.
Ho i capelli perfettamente pettinati e legati in una treccia, ancora
neri, come i miei occhi, ma che si stanno piano riempiendo di riflessi color
cioccolato. Sono anche vestita in modo diverso, con un paio di jeans e una
camicia a scacchi verdi ed azzurri.
E quando mi sono cambiata??
Inoltre, da un esame veloce del bagno, sembra anche che mi sono fatta
la doccia. Eppure, non me lo ricordo proprio… sarò diventata anche sonnambula?
Tra le altre stranezze, quella maggiore però risulta essere il fatto
che, nella tasca dei miei pantaloni, c’è una bacchetta.
Sembra quella che Draco mi diede il giorno in cui tememmo l’attacco dei
Mangiamorte, quella che lui diceva avere di riserva e che usava a scuola. E
quando l’ho presa?? E perché? Più scavo nella mia memoria, e più non me lo
ricordo, dannazione.
Speriamo che sto maledetto Zahir non mi abbia anche fuso il cervello…
sospiro, cosa di cui non potrei nemmeno essere completamente sicura.
Esco di soppiatto, sperando di poterla riportare nella stanza di Draco,
senza che lui se ne accorga. Liquido tutto mentalmente con il fatto di aver
sognato di dovermi difendere da qualcosa, e quindi mi sono preparata e ho preso
anche la bacchetta, anche se la spiegazione non mi convince del tutto,
perlomeno il sogno dovrei ricordarlo.
Ma, mentre esco, quella questione passa ovviamente in secondo piano.
Lui è già lì ad aspettarmi, fermo sul pianerottolo tra le due parti
dell’appartamento, le braccia conserte e gli occhi chiusi, la schiena
appoggiata alla porta della sua camera.
Faccio appena in tempo a nascondere la bacchetta sotto la mia maglia
che inizia a parlare:“Sei pronta?” .
La voce sottile per paura di svegliare Serenity ha solo le parole di
una carina cortesia. Il suo tono è stentoreo e potente come una condanna a
morte. Non apre nemmeno gli occhi.
Annuisco senza sollevare il viso da terra, porgendogli la mia valigia
che recupero dall’interno. In fondo, non ha alcun senso aspettare ancora. Mi
concedo il lusso proibito di conservare il calore lieve della mia mano che
sfiora la sua, per l’ultima volta, mentre prende in mano il mio bagaglio. Quel
secondo di pelle accarezzata lo terrò nel cuore come un addio, anche se è un
suicidio cercare ancora, a questo punto, cose del genere. Mi concede il dono
anche di poter arricchire quel contatto con un ultimo sguardo, mentre ci
sfioriamo. La luna dei suoi occhi compare dietro la coltre della sua
indifferenza e rabbia, poi scompare, lasciando il posto alla mia notte eterna.
Ora, nulla potrà rischiarla. Mai più.
Prima
di incamminarmi alle sue spalle, il braccio mi prende a tremare così forte che
mi sembra che si debba staccare dal corpo. Spaventata, tento di tenerlo fermo
ancora con l’altra mano, ma le scariche sembrano quasi trasmettersi anche al
braccio sano.
Sembra
quasi che stia sfuggendo dal mio controllo.
Pochi
secondi, e sembra passare. Dovessi sopportare solo questo per quello che ho fatto…
andrebbe anche bene così.
Ma
la condanna non è quella, ovviamente. È scendere queste scale, cosciente che è
l’ultima volta.
È
guardare le pareti con sgradito affetto, ricordando episodi e momenti.
È
trattenere le lacrime di fronte a Seth che ovviamente è giù ad aspettarmi.
Ed
è lo strano formicolio sotto le dita, che non c’entra nulla con le scariche
elettriche, che non lo rivedrò… per anni.
E
mi sembra che quella strana percezione e certezza abbia preso anche lui,
rendendolo immobile come una statua mentre Draco esce per accendere la
macchina. Spalanca le braccia e, come una bambina, corro ad abbracciarlo.
Sembra
un addio… e non dovrebbe esserlo… ed invece lo è.
D’ora
in poi, tutto sarà diverso… forse è questo. Forse è la nostalgia perché non
vivremo più assieme.
Non è questo.
Io sento che Seth non lo rivedrò più.
Cerco
di tenere a freno questa componente fortemente irrazionale, che non so nemmeno
da dove mi sia uscita, e mi stacco da Seth a malincuore, accarezzandogli la
guancia bagnata: “Smettila, scemo… non me ne vado certo dall’altra parte del
mondo…”.
“Lo
so…” aggiunge con un singhiozzo “Ma… avrei voluto fare di più per trattenerti
qui…”.
“Non
dire sciocchezze… io e Draco non possiamo più vivere assieme, lo sai meglio di
me…”sorrido, prima di rendermi conto di
come ho chiamato Draco davanti a lui. Spalanco gli occhi, portandomi le mani
alla bocca, prima di mentire in modo automatico, come ho sempre fatto da quando
ci conosciamo. Ma Seth non trasale e nemmeno mi guarda interrogativo. Nulla di
tutto questo.
Sorride
mestamente, e poi sussurra: “Spero solo che questo passato che vi separa
adesso, un giorno vi unirà finalmente… sai cosa, Hermione? Voglio continuare a
credere che sia il vostro destino… non sarebbe così difficile per voi, se non
fosse così…”.
“Se
sarà così, quel giorno sarai il primo a saperlo…” sorrido, nonostante tutto.
“E
voglio anche i particolari piccanti… visto che io non ne ho potuto godere…”
scherza tra le lacrime, dandomi un buffetto sulla guancia.
“Quelli
te li sogni, razza di satiro in calore…” aggiungo con la mia solita voce
autoritaria e saccente, piegata ed incrinata dalle lacrime, prima di correre
fuori e scappare via da lui. Apro velocemente lo sportello della macchina di
Draco, non lasciando che nemmeno l’aria del primo mattino mi pizzichi il viso
bagnato. Lui entra velocemente dall’altra parte, mettendo in moto.
Le
lacrime non smettono di scendere dai miei occhi, eppure resto a testa alta,
guardando dritto davanti a me il parabrezza e la Londra sonnacchiosa che
lentamente mi lascio alle spalle per un futuro sconosciuto. Tutto è nebuloso, e
non è solo colpa delle lacrime o del nodo in gola che mi impedisce di
respirare.
È
la presenza di Draco, silenziosa come un macigno, ad offuscare ogni cosa.
Senza
di lui, il mio futuro è solo una pagina bianca che non posso scrivere, come se
non avessi nemmeno un pezzo di carbone per provare a segnare qualcosa. So che
strapperò pagine su pagine, illudendomi di poter essere nuova e diversa e di
poter cancellare ricordi e sentimenti. Ad ogni pagina strappata, mi
riprometterò che quella sarà la mia ultima volta e che stavolta non resterà
bianca, ma avrò la forza di iniziare di nuovo qualcosa. Ma il cimitero delle
mie pagine strappate e dei mie giorni bruciati sarà sempre troppo esteso.
Non
avrò nemmeno la consolazione di colpe da dare, se non a me stessa.
Avrò
il macabro conto dei giorni che lo separano dalla donna che davvero lo farà
innamorare, come spero che accada.
Oppure
conterò i frammenti del suo cuore, ancora sanguinante per Helena, e mi dirò che
sto meglio perché soffre anche lui. Ed poi mi ritroverò a maledire quel
pensiero nelle mie lacrime, perché penserò sempre che il suo dolore sarà sempre
peggio di qualsiasi cosa che possa succedere a me.
Sicuramente,
un giorno, avrò anche amanti e fidanzati.
Li cercherò
in chiunque con così poca stima di sé stesso da prendere una con il cuore
difettoso.
Nelle
lenzuola riscaldate da precario calore, cercherò la traccia delle labbra di Draco
sulle mie, che mi hanno marchiato come se davvero fossi sua. E sarà
disperazione non trovare più i suoi occhi e sognarli sempre, più reali di
qualsiasi cosa davvero esistente.
Ed
un giorno, so che arriveranno anche dei bambini, figli di qualcosa che ho
avvicinato idealmente all’amore per lui, per cercare di darmi sollievo nella
pietosa bugia di averlo dimenticato. Il tempo darà conforto, levigherà il
dolore e la mia perdita, riempiendomi di inutili e futili scadenze ed impegni
che forgeranno la voragine dentro ad immagine e somiglianza di una vita piena e
felice.
E
lui sarà quella scatola in soffitta che tirerò fuori il giorno in cui sono
particolarmente triste, o in cui ho litigato con mio marito, o a Natale quando
penserò ancora a lui e pregherò per un dono indirizzato a lui, sotto un
qualsiasi albero illuminato.
Ma
non se ne andrà via mai. Questo lo so. Diventerà rimpianto per un qualcosa mai
avuto ed inconsapevolmente consumato.
Diventerà
freddezza dei gesti e delle emozioni, congelate per sempre in questa mattina
fredda di giugno.
Diventerà
pretesto per litigi e distanze frapposte tra me e chi mi ama.
Diventerà
malinconia nei giorni dei pioggia e fastidio nei giorni di sole.
Diventerà
una cosa senza nome, attaccata dentro, che alla fine nemmeno saprò identificare
più, ma che saprò sempre essere lì.
E io cosa diventerò per te?
La
mia mano poggiata sul sedile dista solo venti centimetri dalla sua, stretta con
rabbia sul cambio. Studio per qualche istante la sua mano contratta, le dita
affusolate che, ora, mi sembra incredibile che mi abbiano stretto a sé, mi abbiano
accarezzato il viso e mi abbiano trattenuto mentre cercavo di scappare via.
Mi
mordo il labbro, le lacrime che non hanno smesso un secondo di scendere dai
miei occhi, in silenzio, senza che se ne accorgesse.
“So
che non ha senso adesso…” sussurro, voglio almeno che ricordi questo di me, e
non il demone di ieri sera. Sono delle scuse inutili e stantie, ma almeno sono
diverse dalle parole di ieri: “… ma non avrei voluto… fare… quello che ho
fatto…”.
Sollevo
gli occhi bagnati, cercando per un’ultima volta i suoi, anche se lontani e
fissi davanti a sé. Godrò solo del loro riflesso, illuminato a tratti dai fari
delle auto, ma andrà bene così. Davvero. Oramai va bene tutto, anche il
silenzio.
Ma
non li trovo dove mi aspettavo i suoi occhi.
Sono
nei miei, la strada solo una magra distrazione. Sussulto, in preda ai brividi,
come se avessi la febbre.
I
suoi occhi diventano scintillanti di diamante, mentre sussurra il mio nome, che
non credevo di sentire più dalle sue labbra. Lo assaporo come una caramella
dolcissima ed imprevista, come la parola gentile che ti illumina la giornata,
come il miracolo che non avresti mai nemmeno osato chiedere. La mano sul
volante trema, la stringe forte, tornando a guardare la strada con rabbia e dice
qualcosa che intendo a fatica, il braccio che riprende a formicolare forte, la mia
mano che corre, inconsapevolmente, alla bacchetta nella mia tasca.
Lo
sento fermare la macchina, tirare bruscamente il freno a mano e spegnere il
motore, ma vedo il tutto come se fossi lontana mille miglia, come se vedessi la
scena dall’esterno.
Quando
lo sento parlare, mi sembra quasi di non essere più qui.
“E
io vorrei essere cambiato, Granger… al punto di fare la cosa giusta…” la sua
voce è lontana chilometri ed anni assieme.
Trema
tutto il mio corpo assieme al mio braccio.
Mi
sento intorpidita, come se mi stessi addormentando, la mano che estrae la
bacchetta dalla mia tasca.
Non
capisco che cosa stia succedendo al mio braccio, perché si muova senza il mio
controllo, perché abbia preso la bacchetta, ma è un rimasuglio della mia mente
a farsi quelle domande, apatia e sonnolenza nel corpo. Resto cosciente solo
perché il mio cuore continua a guardare gli occhi di Draco nei miei e continua
ad aspettare che finisca di parlare.
Il
mio corpo, pesante come cemento, non lo sento più mio.
So
che il mio corpo è sempre uguale.
Sono
sempre immobile a sentirlo, ho gli occhi sempre aperti… ma è come se… non mi
appartenesse più.
“Ed
invece, Hermione, io non sono mai cambiato… mai… sono sempre così dannatamente
egoista, così come ero con Helena…e così sono rimasto anche con te…”.
Violento
il mio corpo perché riesca a parlare, ma niente. Resto fredda come il ghiaccio,
il denso torpore che continua ad avanzare. Il suo volto, illuminato lievemente
dalla luce di un lampione, rimasto acceso nella nebbia, si solleva guardandomi.
È distrutto, a pezzi, come se si stesse spezzando a metà. Di nuovo. Ma stavolta
sono gli occhi a vincere. Stavolta… che sento di non poter rispondere.
“… io…
non posso sopportarlo, Hermione… ho fatto di tutto, ma non posso sopportarlo… non
vederti mai più…”.
Scoppia
il cuore, nello stesso momento in cui il torpore arriva a lambirmi
completamente.
E,
mentre vorrei solo gettarmi tra le sue braccia e piangere, mi ritrovo a
sollevare la bacchetta contro i suoi occhi atterriti.
E,
mentre vorrei solo urlargli quanto lo amo, mi ritrovo a sussurrare due parole
che mi ha sempre terrorizzato pronunciare e che ho evitato sempre di dire
compiutamente.
Proprio
come ti
amo.
Solo
che queste non potrebbero essere la fine per me e per il mio desiderio di non
farmi ferire da nessuno. Non sono ti amo.
Sono
parole agghiaccianti, specie perché significheranno la sua di fine. Senza alcuna metafora.
Avadakedavra.
E dopo questo capitolo scommetto che bramerete ancora di più
la mia morte!! Come sempre sono di corsa, quindi non ce la faccio a rispondere
alle vostre recensioni, ma prometto di farlo domani via FB per quelle dello
scorso capitolo!!:D chiedo davvero scusa…L grazie a tutti!! Per chiarimenti e domande, sono sempre disponibile
via FB!! Un bacio!!
Abitando sulla costa, mi sono
resa conto che, senza accorgertene, il mare diventa una calamita.
Ti abitui all’orizzonte pieno
e sconfinato, al di là delle case e dei palazzi, e l’occhio si completa di
apparente quiete azzurra.
Il mare spesso mi chiama,
specie nelle giornate di tramontana, e io mi allontano silenziosamente,
percorro le strade sterrate vicino a casa e scendo in spiaggia, sedendomi sulla
sabbia calda, turbini di polvere nel vento fresco.
L’aria, in quelle giornate,
ha una nettezza così abbacinante che sembra il primo giorno della Creazione e
ti sembra di vedere nella mente stessa di Dio.
La tramontana pulisce sempre
l’aria e ha l’odore della salsedine e dello iodio di un mare lontano, a cui il
mio è collegato da correnti sottomarine e da flutti immortali.
Chiudendo gli occhi, evitando
di guardare direttamente il mare che continua a farmi paura come qualsiasi
superficie acquatica, sento come se mi portasse l’eco del nord, soffiando
feroce su di me e riempiendomi la pelle di brividi.
Sempre ad occhi chiusi, tocco
la superficie dell’acqua, quasi concentrando il mio calore per farlo viaggiare
nella distanza inimmaginabile che mi separa dall’Inghilterra.
Mi immagino, con un sorriso,
Draco dall’altra parte del mare che fa la stessa cosa, anche se so
perfettamente che, probabilmente, non è nemmeno vicino al mare. Forse è ancora
a Londra. O magari da dove vive adesso, il mare nemmeno si vede. Ha le montagne
a circondarlo e sorreggerlo.
Non ho mai finito quel libro.
Le parole che non ti ho detto. Lo porto sempre dietro, quando vengo in
spiaggia, volendomi concentrare su esso piuttosto che guardare le onde che mi
terrorizzano, ma poi chiudo gli occhi, toccandone la superficie cartacea con le
dita, lasciandolo chiuso.
Ma so perfettamente che il
protagonista affidava alle onde le lettere d’amore per la moglie defunta.
Io non ho un marito morto a
cui dedicare parole d’amore. Ne ho uno vivo a cui so dare solo un sorriso
aperto, se sono in vena.
Eppure, ho, oltre le onde,
l’amore di tutta la vita.
Alcuni parlano di esperienze
uterine per indicare dei ricordi che il bambino acquisisce nella pancia della
mamma. Alex ha paura dell’acqua, esattamente come me.
Ed è difficile evitare il
mare, abitando qui, quando d’estate l’aria si riempie di strilli felici di
bambini che fanno il bagno, e d’inverno, comunque, il mare lo senti sempre,
ruggisce come un animale e sembra volerti ghermire. Ma Alex, nulla. Il mare
l’ha sempre evitato. Si stringeva a me e diceva che ne aveva paura.
Aggrottava le sopracciglia,
come suo padre, e diceva: “Mamma, ma non sta mai fermo!”.
Sapevo che non poteva averne
paura come me, anche perché io non lo avevo concepito nemmeno quel giorno,
quindi insomma, era una cosa al di là del possibile.
Quindi, anche mio marito,
cercava di forzarlo in qualche modo, ma Alex lo guardava come ha sempre fatto
Draco. In modo corrucciato ed altezzoso, come il principe del mondo che guarda
un suo infimo suddito. Mi è sempre scappato da ridere in quei frangenti, ma se
lui, mio marito, se ne fosse accorto, avrebbe immediatamente collegato tutto a
Draco. Non gli avrebbe fatto piacere, chiaramente, ma questo è il segreto di
Pulcinella che io ami ancora Draco Malfoy, credo che lo infastidirebbe di più
il fatto che mi faccia ridere che mio figlio, quello che non chiama lui papà
perché io glielo ho impedito con tutte le mie forze, lo tratti come lo ha
sempre trattato Draco stesso.
Alex vuole bene a mio marito,
per carità. Ma come un amico. Non come un padre.
Ha solo cinque anni, eppure
non ne ha mai voluto sapere di considerarlo tale. Come non ne voleva sapere del
mare.
Restavamo sulla spiaggia in
silenzio, lui che si abbracciava a me e sporgeva il labbro inferiore con
fastidio.
Ora, invece, fa il bagno con
gioia nell’acqua poco profonda, assieme a mio marito.
Bastarono le parole che non
gli ho mai detto. Bastò dire ad Alex che suo padre e sua sorella Serenity sono
al di là di quel mare. Sua sorella… curioso che io la chiami così, in modo così
spontaneo… eppure, anche se siamo una famiglia spezzata, io, Draco, Alex e
Serenity lo siamo. Lo saremo per sempre.
Quelle parole, ad Alex,
bastarono. La verità, a mio figlio, è bastata. È volata nel vento, l’ha
assimilata e ha finto di dimenticarsene.
Le parole che non ho mai
detto a te, invece, sono tutte qui, nel mare che ci divide, Draco.
In questo mare, che ci
divide, si perpetua la mia assenza che, chissà, come ti sei spiegato negli
anni.
In questo mare, che ci
divide, si perpetua l’esistenza di Alex, che è solo un’altra parola che non ti
ho detto.
Nella testa, il mio
urlo mi ha bruciato i neuroni, per come mi ha straziato dall’interno.
Non sono sotto
Imperius, me ne sarei accorta, nessuno mi ha puntato una bacchetta contro, non
ne riconosco alcuno dei segnali esteriori e l’Imperius me l’hanno scagliato
tante di quelle volte in addestramento che oramai lo conosco a memoria.
E so anche come
contrastarlo, sebbene con difficoltà enorme.
L’Imperius ti dà la
sensazione di fluttuare, ti senti persino liberato da ogni pensiero… è come
galleggiare.
Questo no, … il corpo
impantanato nelle sabbie mobili… è diverso, profondamente diverso.
E… non so… che fare…
Ma non l’ucciderò
mai. No, questo mai… l’osmosi è compiuta. Se muore lui, muoio anche io. E non
ci sto a morire oggi.
Non adesso. Non qui.
Sono troppe le parole
che non gli ho detto. Sono troppe quelle che lui non ha detto a me.
L’urlo prosegue,
perché tanto non lo deve sostenere la voce, ma solo il pensiero. La bacchetta
trema nella mia mano, i suoi occhi si velano di una rassegnazione che non
vorrei che avesse. Vorrei che fosse disperato perché vorrebbe dire che ci tiene
enormemente a vivere.
Di carta il pensiero,
l’urlo viaggia per i miei nervi, fino alle mie mani.
Si piega la
bacchetta.
L’onda d’urto.
Volo via, come una
bambola di pezza.
Nulla più.
“Che cosa si prova sapendo che sarà la seconda
volta che vedrai morire la tua donna, per mano mia?”.
Sento quelle parole con una parte remota della mia
mente, non intendendole davvero, non carpendone il significato. Le parole mi
sembra che non esistano più, non esiste la sintassi, la grammatica, il loro
fluire costanti una dietro all’altra per dire qualcosa.
Non esistono sinonimi e contrari, non esiste la
punteggiatura, non esiste il modo di coniugare un verbo ed un aggettivo.
Non esiste.
Esiste solo che questa
non è la voce di Draco. Lenta, roca, strascicata sulle finali come se
fosse sempre convinto che non stai mai capendo che cosa sta dicendo e ciò lo
irritasse enormemente. Dal timbro chiaro, preciso, come una campana ridondante
che impone attenzione e riverenza. Dall’accento inesistente, plasmato da una
imposta dizione aristocratica e nobile.
Non è la voce di Draco. E tanto basta.
Non voglio aprire gli occhi. Non voglio, non ne ho
bisogno. Perché, aprendoli, vedrei qualcosa che non posso sopportare e, fin
quando li ho chiusi, io posso ancora accettare di stare dentro il mio corpo. Lo
stesso che lo ha ucciso.
Posso tollerare il sangue che scivola stupido nelle
mie vene.
Posso sopportare le ossa che reggono il peso di
questi ventitre anni.
Posso convivere con la pelle che contiene e
delimita quella che sono.
Fino a quando non
apro gli occhi…
La mente, che è ancora libera da questa prigionia
incomprensibile, ordinerà al mio corpo paralizzato di morire, se lui dovesse
essere morto. Il corpo fa sempre quello che vuole la mente, sempre. Ed anche il
mio corpo dovrà morire allora.
Punto e basta.
Senza nulla a trattenermi qua, in questo ritaglio
di tempo. Ogni secondo senza di lui… il pensiero di averlo ucciso, io… posso
sopportare che non mi ami, posso sopportare che ami Helena, posso sopportare
che mi odi, che mi disprezzi, che gli faccia ribrezzo, che si auguri
costantemente la mia morte… ma posso sopportarlo se è vivo. Non, se è morto.
Mi rendo conto con terrore che io, gli occhi, li ho
sempre tenuti aperti e che era solo la coscienza a mancarmi fino a qualche
attimo fa.
Ho perso i sensi, ma gli occhi sono sempre rimasti
aperti.
Sono la sola cosa che posso controllare, riesco
stranamente a muoverli, ma non riesco a chiuderli.
Un’altra crudeltà gratuita… ma di chi, dannazione?
Confusamente, mi guardo attorno, per quanto me lo
consenta la mia testa immobile.
Una terrazza, una veranda enorme, retta da colonne
di vago stile dorico. Sembra una costruzione antica, fatiscente, edere
rampicanti sono avviluppate attorno alle colonne, rese di colore rosa dalla
luce del sole che sta morendo.
Il tramonto… è passato così tanto tempo?
Possono anche essere
passati milioni di miliardi di secoli, assieme a tutta l’eternità, se lui non
c’è più.
Oltre una ringhiera bianca che sta cedendo in più
punti, placido un lago gode di sfumature rossicce. Non un lago qualsiasi,
sobbalzo mentalmente nella mia acquiescenza mentale e nel mio torpore fisico.
Nell’angolo destro della mia ristretta visione,
adagiata in una valle, Hogwarts si sta progressivamente accendendo di piccole
luci tremolanti nella penombra del crepuscolo.
Perché, dannazione, sono proprio qui?
E perché non mi hanno uccisa subito? Volevano che
lo uccidessi, l’ho capito, hanno trovato il modo di controllarmi e volevano che
fossi io ad uccidere Draco. Probabilmente vogliono che muoia io, a mia volta.
Ma allora perché hanno aspettato?
Ora, che non posso nemmeno piangere, ora che il
dolore e la sofferenza rischiano di farmi scoppiare come in un’overdose,
riducendomi a pezzettini minuscoli...
Abbasso gli occhi e noto una serie di particolari
assurdi, del tipo che non indosso più i miei vestiti, ma un ampio abito di seta
viola che accarezza le mie gambe tumefatte e ferite. In modo confuso, sento
anche altri punti del mio corpo doloranti, probabilmente coperti di
escoriazioni e lividi. Uno, in modo particolare, mi fa male più degli altri,
sulla fronte. La tensione che avverto tra i capelli, mi suggerisce che ho anche
un’elaborata acconciatura, una crocchia sulla nuca, probabilmente ornata con
dei fermagli. A completare il mio aspetto da principessa, intravedo al mio
collo una pesante collana di ametiste e diamanti. Inoltre sembro anche
mollemente seduta su una poltrona cremisi.
Una bambola abbigliata e preparata, devo essere
finita nelle mani di un maniaco.
Non ho paura, nessuna paura. Anzi… tremo
dall’eccitazione che mi ammazzi quanto prima.
Lo cerco con gli occhi, intuendo che si tratti di
un mago potente se mi ha fatto tutto questo senza che me accorgessi,
atteggiando il mio sguardo alla preghiera che la faccia finita quanto prima.
La colonna di fronte a me, era seminascosta da
un’ombra, una nuvola era passata davanti al sole. Essa improvvisamente scivola
via nell’alito di vento che mi scuote i capelli neri. Uno scoppio dentro il
cuore, e milioni di coriandoli di luce e fuoco nello stomaco.
Piangerei dal sollievo e dalla ritrovata voglia di
vivere, ma ovviamente non posso, i miei occhi diventano solo un po’ più lucidi
mentre guardo Draco, legato alla colonna, sospeso nell’aria a qualche
centimetro di altezza, ferito, che perde sangue dalla testa, ma
indiscutibilmente ancora vivo. È vivo… vivo, vivo, vivo.
Ancora lì, con quelle sue labbra che si aprono
sempre a sproposito.
Ancora lì, con quelle sue braccia che incrocia al
petto sempre troppo spesso.
Ancora lì, con quel sopracciglio che va aggrottando
ogni santissimo minuto.
Ancora lì, con quel maledetto naso di cui,
scommetto, va fiero come se l’avesse disegnato lui stesso.
Ancora lì, con quegli occhi che ora mi fissano,
notando immediatamente che i miei si sono mossi e puntati nei suoi. E che mi
sembrano chiedermi scusa, anche se non ce n’è alcun bisogno e necessità. E che
scrutano attentamente il mio viso, socchiudendosi di fronte alle ferite ed
ematomi, per poi ritornare freddi ed imperscrutabili come prima.
Il sollievo e la gioia mi fanno maledire la
terribile maledizione che mi ghermisce, in gola il groppo che grattava le mie
corde vocali si scioglie velocemente e vorrei scoppiare a piangere, ma la mia
enorme emozione si traduce solo in un goffo gemito impercettibile.
Non so in che mani siamo finiti, e probabilmente
siamo vicini a morire… e, anche se dovessimo cavarcela, probabilmente lui mi
manderà ugualmente via… ma, per il momento, mi basta solo che lui sia vivo.
Solo quello.
Se guardo indietro, alla vecchia me stessa, so che
lei avrebbe considerato questa solo un’elemosina. Mi avrebbe chiesto con fare
saccente, umettando le labbra dal fastidio, se non mi trovassi davvero patetica
nel gioire per una cosa così stupida, specie in una situazione del genere, dove
nella migliore delle ipotesi, avrò probabilmente la consolazione di morire
prima di lui.
Ma, ora come ora, dopo tutto quello per cui sono
passata…Draco, con la sua sola esistenza e con il solo fatto inconsapevole di
avermi provocato tali sentimenti così insopprimibili da distruggere persino uno
Zahir, è il mio miracolo.
E, quando ad un mortale è concesso un miracolo, è
peccato mortale renderlo vano.
Un senso di urgenza, oltre la coltre nebbiosa che
mi avvolge, mi coglie improvvisamente. No, non è solo un miracolo. È molto di
più.
… non posso sopportarlo… non vederti mai più…
Non ho sognato. Ha detto davvero quelle cose, ne
cerco traccia nei suoi occhi, rivolti alle mie spalle.
No, non ci sto a morire oggi e non ci sto che muoia
nemmeno lui oggi.
Come un pesce nell’acqua che guizza, il mio stomaco
fa una capriola, deve spiegarmi tante cose… troppe cose. E da
morta, non mi risulta che io possa parlare. Quindi, chiunque sia che ci tiene
prigionieri, dovrà cambiare i suoi piani.
Devo trovare il modo
di liberarmi… forse se…
Improvvisamente, un dolore intenso brucia il mio
cuoio capelluto, la testa scivola indietro mentre qualcuno mi tira per i
capelli. Il mio corpo risponde come quello di una bambola strattonata da una
bambina viziata, assecondando il movimento e facendomi inarcare la schiena
indietro. Draco sfugge dalla mia visuale, gli occhi mi si riempiono di lacrime,
miste alle luci indifferenti delle stelle che stanno sorgendo nel cielo bianco
del crepuscolo. Quando sento che ne sto per essere straziata e quando quel
dolore si trasmette ad ogni fibra del mio corpo, la presa viene meno e scivolo
per terra, a faccia in giù, il naso che si arriccia involontariamente per la
polvere. Il dolore lascia artigli gelati sul mio capo, ma resto con la fronte
premuta al suolo, preoccupata stupidamente che il mio vestito si sia sollevato,
ma che non posso nemmeno sistemarlo con la mano, bloccata dal peso del mio
corpo. La stessa mano forte che mi ha afferrato per i capelli, mi stringe con
violenza il polso, sollevandomi di forza, per poi gettarmi con malagrazia di
nuovo per terra, ai piedi della sedia cremisi.
Scivolo distesa su un fianco, ancora come un cumulo
di stracci, e dalla mia prospettiva non riesco a girare gli occhi al punto tale
da inquadrare il mio aggressore, né tantomeno Draco.
Una serie di gesti inutilmente cattivi e crudeli…ci
vogliono morti e, nella maniera peggiore possibile.
Altrimenti non avrebbero cercato di farmi uccidere
Draco.
Cerco di non concentrarmi sul dolore e sulla paura
che sta inevitabilmente affiorando, sia per me che per Draco, e cerco di capire
di chi si possa trattare. E soprattutto cerco di capire come abbiano fatto a
ridurmi in queste condizioni. Non è un Imperius, l’ho già notato.
Quello riuscirei a riconoscerlo e ad oppormi,
almeno parzialmente.
Inoltre, esso annulla anche il pensiero, che invece
mi è rimasto. E i movimenti inconsci mi riescono, come gemere o provare
fastidio per la polvere, come poco fa. Che diamine è? E quando me l’hanno
lanciato soprattutto?
Il polso, dove c’era lo Zahir, prende di nuovo a
bruciare improvvisamente, apparentemente senza causa apparente, mi si torce
letteralmente come se qualcuno lo stesse girando con forza inaudita come per
romperlo. Prego di riuscire almeno a piangere, ma invece resto così, immobile,
come se non mi stesse accadendo assolutamente nulla, mentre dentro sto
scoppiando.
La causa è solo una voce.
Una voce.
Acuta come quella di un’aquila.
Ferma nella mia posa, la pelle mi si accartoccia,
riconoscendola. Non ne ho mai avuto davvero paura, mai. Figuriamoci.
Ma, adesso, invece, mi terrorizza. E tutto per un
atroce sospetto che mi ha raggiunto oltre lo stato di immobilità del corpo,
facendomi sentire le punta delle dita infreddolite e la gola secca. Ad ogni mia
riflessione, il sospetto diventa nitido e pesante come un macigno, saturandomi
di brividi invisibili e camminando sulla mia colonna vertebrale come una
colonna di formiche rosse. Il sudore mi inzuppa la fronte, mentre acquista
sempre maggiore consistenza… la
voce… dovrei averla sentita l’ultima volta, tantissimo tempo fa.
Esattamente… allora…
E’
finita, Malfoy… anche il Ministro sarà dalla mia parte, se aprirò bocca…
Attonita, seguo lo svolgersi dei
miei pensieri e dei miei ricordi. Come se una cortina di fumo si diradasse
all’improvviso, ma quello che aveva celato era talmente spaventoso che avrei
preferito che non fosse mai andata via.
Con la vista inutile, dalla
posizione in cui mi trovo, le iridi fisse su Hogwarts e sul lago che vanno
imbrunendosi, quella voce riecheggia nella mia mente così forte da darmi la
nausea. E la sua perfetta chiarezza mi irrita al punto tale che le mie dita, da
gelide, si fanno bollenti. Se potessi muovermi, le stringerei forte, ferendomi
il palmo delle mani. Ma non posso. E l’irritazione, non sfogata, si traduce in
un blocco pesante sui polmoni che mi fa soffocare di paura disperata e furente.
Se è
davvero come penso… se fosse così… io stessa mi sono consegnata nelle sue mani,
da sola.
Io stessa
le ho dato la chiave per distruggere me e Draco.
Evito di articolare ulteriormente
i miei pensieri, nel farlo non sarei più capace di fare alcunché, fosse anche
pensare ad un modo per uscire da questa situazione.
Se è
stata lei… a farmi creare lo Zahir… vuol dire che avrei dovuto davvero temerla
come invece non ho mai fatto.
E come
dovrò fare adesso…
Astoria Greengrass mi supera con
arroganza, calpestandomi deliberatamente ed assestandomi un calcio in un fianco.
Rotolo di lato e finalmente la vedo chiaramente, anche se non avevo dubbio su
chi fosse da quando ho sentito la sua voce. I capelli biondi sciolti sulle
spalle, acconciati in dolci e morbide onde setose, tenute composte da una serie
di fermagli di rubino; il viso truccato come quello di una bambola di
porcellana, perfetto e privo di qualsiasi imperfezione. Ogni ciglia a posto, a
celare e coprire il fuoco insensibile degli occhi azzurri, resi quasi viola dal
riflesso sfolgorante del broccato cremisi che la veste. Non sembra più la
fragile e nevrastenica Summer che ho conosciuto per mesi, ma un’imperatrice
romana. Persino il passo è cambiato, incede lenta e sicura, nonostante i tacchi
che porta.
Mi guarda con sdegno, un sorriso
cattivo sulle labbra rosse, mentre sussurra a qualcuno alle mie spalle: “Non
ucciderla… ci serve… ancora…”. Rabbrividisco, anche se le sue intenzioni mi
sono sembrate oltremodo chiare dal primo momento.
Se
davvero è andata come penso… se davvero è stata lei…
Dalla mia prospettiva, finalmente
rivedo Draco, punta solo qualche secondo lo sguardo su di me per poi guardare
Astoria con livore. I suoi occhi restano freddi come granito, ma le sue mani
strette a pugno mi testimoniano chiaramente che cosa farebbe se fosse slegato.
Non è sorpreso, quindi deduco che
l’ha vista prima, quando ero incosciente.
“Ti ho già detto…” bisbiglia
Astoria all’indirizzo di Draco con voce suadente “… di non guardarla così… è
una cosa che mi disgusta profondamente, Malfoy…”. Estrae una bacchetta dal
mantello e la punta contro Draco. “Crucio!” urla e Draco si contorce dal dolore
dei mille pugnali arroventati che gli si conficcano in corpo. Maledico la mia
intollerabile paralisi e la mano di qualcuno alle mie spalle che mi afferra,
facendomi rialzare come una marionetta e tenendomi fermo il viso affinché io
assista alla scena. L’impotenza mi gonfia il petto di dolore ed umiliazione e
l’oceano di lacrime che non posso piangere, preme contro i miei occhi.
Astoria pone fine all’incantesimo
con una risata sottile, Draco ricade con la testa sul petto, gli occhi coperti
dai capelli biondi, il respiro corto ed affannato, il sangue che gli cola dal
labbro. Lo guardo ansiosamente, cercando di capire come stia, aspettando che
sollevi gli occhi, ma non lo fa. Quando alza lo sguardo, non mi guarda, guarda
altrove, sfuggendo apposta i miei occhi.
Non
guardarla così…
“L’idea che tu possa amare una
lercia Mezzosangue è una cosa abbastanza disgustosa per i miei occhi…” commenta
malevola Astoria, guardandolo con aria di sfida e sollevando il mento “… ma che
tu possa amare proprio la Granger… bé, questo è decisamente nauseabondo…”. Che diamine sta dicendo? È convinta che… ma come
diamine fa? Se potessi parlare, le direi che si sbaglia, decisamente. E magari,
lei ci lascerebbe stare… è un moto insensato già mentre lo penso, ma ancora più
paradossale è rendermi conto che Astoria è certa che Draco sia innamorato di
me. Se leggesse la mia mente, magari, vedrebbe tutto quello che mi ha fatto per
mandarmi via e lo capirebbe. Cerco di concentrarmi per farle arrivare in
qualche modo i miei pensieri, se è stata lei a farmi questo, dovrebbe riuscire
ad essere in contatto con me. In un brivido freddo, desisto immediatamente dal
mio proposito.
Non ha senso cercare di farle
cambiare idea sul perché ci dovrebbe uccidere… dubito che se le mostrassi tutti
i miei pensieri, ci lascerebbe andare con tante scuse e due bacetti sulle
guance.
E poi… se davvero è come penso…
lei, i miei pensieri dovrebbe anche conoscerli… probabilmente…
Draco la guarda, stringendo le
labbra con ripugnanza, prima di replicare monotono: “E’ una cosa che disgusta
anche me… e non vedo come dannazione tu possa averlo pensato…”, sputa del
sangue, sospirando profondamente.
Mi si gela il cervello, come
volevasi dimostrare.
Ormai l’ha detto talmente tante
di quelle volte che il mio cuore non trasale nemmeno più, ci è abituato.
Sì come no… si ferma sempre. È la mente che conosce quel dolore e lo sottovaluta. Il cuore fa
sempre quello che vuole e che crede.
Ma, se persino io ormai conosco
quel dolore del non essere né corrisposta né minimamente avvicinabile a lui,
perché lei, Astoria, ancora non lo capisce? Possibile che sia così stupida?
Possibile che non consideri Helena, che pure era sua sorella? Possibile che lei
sola non ricordi o non sappia che cosa unisse Draco ed Helena?
Qualcosa che nessuna morte ha
potuto sciogliere… figuriamoci se avrei potuto farlo, io.
“… ed in ogni caso non sarebbe
nemmeno lontanamente rivoltante, quanto te che ti allei con gli assassini di
tua sorella…” completa Draco con astio, trasfigurato in viso dall’ira e dal
dolore, reso bestiale demone che si dibatte nelle catene che lo tengono fermo
alla colonna. Producono un rumore metallico, freddo, amplificato dal silenzio
ovattato che ci circonda.
Echeggia nell’ombra fresca della
sera che scende quietamente indifferente.
Inorridisco, la pelle
agghiacciata, mentre capisco chi mi sta tenendo fermo. Pucey. Montague. Gli
assassini di Helena.
Pucey e
Montague sono stati avvistati dalle parti di Hogsmeade.
Harry
l’aveva detto a Draco, mentre ero in coma.
Erano
davvero qui…
Solo quelle catene impediscono a
Draco di scagliarsi come una bestia ferita contro gli uomini che cerca da tutta
la vita e che devono esserli sfuggiti per un soffio, quando è stato qui, nei
fatali giorni in cui non ero cosciente.
Come se lo avessi invocato,
Adrian Pucey compare alla mia destra, quindi deduco che quello che mi tiene
ferma, è Montague, cosa abbastanza intuibile dal fatto che i miei piedi non
toccano il suolo per come lui mi tiene immobile, alla sua mastodontica altezza.
Roteo gli occhi fino a guardare Pucey, non c’è traccia del ragazzo dai capelli
neri spettinati che giocava come Cacciatore nella squadra dei Serpeverde. È
dimagrito, hai capelli lunghi e sporchi, le mani e le braccia sono coperte di
graffi e cicatrici: una spaventosa di colore bruno gli taglia a metà il viso,
deformando il labbro inferiore in una risata perenne e priva della benché
minima allegria. Gli abiti lerci pendono troppo grandi, il corpo scheletrico ci
balla dentro. Guarda verso di me con risentimento e disgusto, visibili solo
negli occhi.
Le labbra sottili, congelate per
sempre in quel sorriso inutile, restano immobili per la parte sana.
Inorridita, cerco di comandare i
miei occhi di non guardarlo, ma essi restano fermi come sono, affascinati in
modo macabro.
“Sapevo che l’avresti detto…”
chiarisce seccata Astoria, gettando uno sguardo in tralice ai suoi alleati “…
ma sai che c’è? Io, mia sorella l’ho sempre detestata, quindi non mi è mai
importato granché di lei e della sua morte…”, scuote i riccioli biondi
liberando un’ondata di profumo simile alla vaniglia che mi fa salire un conato
di vomito, e continua: “Era sempre lì a lamentarsi, lei a cui era andata meglio
di tutte noi… meglio di me e di Daphne che non sapevamo nemmeno se saremmo
arrivate, un giorno, a poter sposare quelli che ci erano stati destinati,
considerando come ci impoverissimo giorno dopo giorno. Si era sposata con
Diggory, un grande idiota che le faceva fare tutto quello che voleva… non
l’avrebbe nemmeno toccata se lei non avesse voluto… ed era ricca da fare
spavento…”. La sua voce diventa frettolosa e stridula, ferendomi le orecchie:
“… ma lei no. Lei, poverina, aveva fatto qualcosa che non voleva, era andata
contro sé stessa, voleva fare la Medimago…”.Sospira profondamente, guardando Draco con odio profondo, un odio che
può essere soltanto la cenere di un amore calpestato e non corrisposto: “…
poverina, lei amava quello che sarebbe dovuto essere mio marito…”.
Lo stesso
sguardo che avevo io, quando ero posseduta dallo Zahir.
Ma, dalla mia, avevo il controllo
di una pozione ancestrale… lei, invece, è proprio così di natura.
Draco regge il suo sguardo con
tenacia, orgoglio nelle sue iridi per non averla mai amata, nemmeno per un secondo.
Lo sguardo, evidentemente, irrita
di nuovo Astoria che stringe le dita attorno alla bacchetta, scagliandogli un
nuovo Crucio. Draco urla e si contorce violentemente, il mio stomaco guizza nel
mio addome immobile, la mano di Montague che odora di sangue che mi nausea,
mentre prego ogni santo che lo lasci stare e che si concentri su di me. Ma
Astoria non lo fa, continua ridendo sguaiatamente, specchio della principessa
che credevo che fosse, trasformata in una strega dalla pelle d’alabastro e dal
cuore di drago. Dopo secondi interminabili, lascia cadere la bacchetta lungo il
fianco e riprende a parlare come se niente fosse: “Non so come tu possa aver
pensato, anche solo per un istante, che avrei accettato di crescere sua figlia…
quella mocciosa insopportabile…”.
“… e non so come tu possa aver
pensato, anche solo per un istante, che io ti avrei sposata sul serio…”
bisbiglia flebilmente Draco, risollevandosi in piedi, un tono di voce soffuso
che non riesce comunque a velare la sua risolutezza e decisione “Serviva ad
entrambi la Promissio Gemina… ma era solo questo… convenienza ed opportunità…”.
“Non chiedevo nulla di diverso…”
replica lei tediata, sbadigliando con malagrazia “Diventare la signora Malfoy…
mi sarebbe bastato… con la figlia di mia sorella persa chissà dove, con qualche
babbano idiota…”, i suoi occhi si tingono di lucciole colorate come se stesse
rievocando una magnifica visione, lontana ormai per sempre. Come possa esserlo,
specie per come l’ha dipinta, assolutamente priva di qualsiasi sentimento,
anche se è palese ed evidente che è innamorata di Draco, lo sa solamente lei.
Gli occhi tornano improvvisamente
freddi zaffiri morti e Draco sembra raggelare, non riesce a nasconderlo, le
nocche bianche attorno alle catene che lo tengono fermo e il respiro fermo ed
immobile. Ma lei non guarda verso di lui. Non se ne accorge.
Guarda verso di me.
Tremo solo con il pensiero, nel
mio corpo immobile.
“Tutto sarebbe stato perfetto…
tutto…” bisbiglia con voce incerta e gelida, facendo un passo nella mia direzione
“Ma poi è arrivata lei… e tutto è andato a farsi benedire…”. Il volto chiazzato
dall’odio, mi schiaffeggia con tutta la forza di cui è capace, ricado a terra
come un corpo morto, sfuggendo dalla presa eppure ferrea di Montague.
Per terra, bocconi, sento il
sapore del sangue in bocca e il naso che mi punge di dolore fino agli occhi.
“Anche se non fosse arrivata
quella Mezzosangue…” replica affrettato Draco, mentre Montague mi solleva di
nuovo in piedi, afferrandomi per il polso “Io non ti avrei sposato lo stesso…”.
Mi guarda velocemente, cercando di non farsi vedere da Astoria, le mani strette
convulsamente attorno alle catene. La sua voce è più acuta del solito, sebbene
è evidente che faccia ogni sforzo possibile per tenerla ferma. Non guardarla così.
Qualsiasi minimo interesse che
lei scorgerà in lui, destinato a me, la farà diventare inesorabilmente peggio.
Dimmi che
ti faccio schifo… fallo… e vattene da qui…
Astoria continua a trapassarmi da
parte a parte, come se non l’avesse nemmeno sentito: “L’avevo capito subito,
che c’era qualcosa che vi univa al di là di quello che dicessi… il fatto che
l’avessi fatta restare al Petite Peste, credi che non abbia notato anche io la
sua somiglianza con Helena? Ma era una cosa superficiale, dopo che la conosci
non puoi scambiarle… Helena era una Purosangue, e questa… era sempre una
Mezzosangue, era sempre la Granger… che cosa poteva succedere?”, abbassa gli
occhi nel primo segno di debolezza che testimonia da quando siamo qui, e
capisco che cosa debba provare per questa sua presunta distrazione nel non aver
considerato il ruolo che avrei avuto nella vita di Draco. Almeno per quello che
pensa lei, che lui sia innamorato di me, la cosa insensata che la fa agire di
vendetta e rancore. La gelosia imbruttisce i tratti del suo volto.
“… ed invece no…” continua con
voce incolore, fremendo di rabbia ad ogni parola, come un qualcosa che aumenta
passo dopo passo, sospingendosi verso un’inevitabile esplosione ed un
altrettanto indubbio annichilimento “Ogni giorno, è andata sempre peggio… ogni
giorno… fino a quando ho capito che non si poteva più tornare indietro… ti
conosco troppo bene per non capire che stavi dando a lei, quello che mi avevi
sempre negato…”, la rabbia si frena così come era nata e ritorna la principessa
di prima, la voce zuccherosa e fintamente comprensiva: “… ma ora siamo qui per
mettere tutto in ordine… tempo al tempo, e tempo alle spiegazioni…sai che c’è
Draco? Oggi comando io… quindi seguiamo la scaletta che ho scelto io, non tu,
tesoro… concedimelo, dopo tutto quello che ho dovuto fare… ne vado alquanto
fiera… ed allearmi con Adrian e Kain è la punta dell’iceberg… saranno anche gli
assassini di mia sorella, ma loro l’hanno uccisa per arrivare a te…quindi, come
puoi effettivamente comprendere e capire, chiunque ti si avvicini fa una brutta
fine… e la prossima è la Granger…”.
Tremo sotto quegli occhi
ghiacciati, mentre Draco continua a ripetere con voce persuasiva: “Per me puoi
fare quello che vuoi di lei, non mi interessa… ma lo sai meglio di me che Potter
ti darà la caccia fino alla morte se le torci un capello…”.
Astoria scoppia a ridere,
inarcando un sopracciglio: “Potter? Ti stai preoccupando per Potter?! Ma per
favore… tu mi darai la caccia fino alla morte… come hai fatto con Helena… ma anche
a questo possiamo rimediare…”.
“Io?” ride senza allegria Draco,
prendendola in giro “Ma figuriamoci che me ne importa…”.
Probabilmente, è lui che si sta
preoccupando per Harry.
Sa che, se io morissi per
qualcosa che riguardava lui, Harry non se lo perdonerebbe mai. E lui non
vorrebbe subirlo, qualora si salvasse. Me l’ha già detto una volta, o perlomeno
ricordo che era il motivo per cui minacciò Astoria di non farmi del male,
sentii i suoi pensieri quando mi mostrò il suo passato. Ma la cosa, anche se è
così chiara, inasprisce ancora di più Astoria, come non essere supportata nella
sua teoria. Stringe le labbra in una smorfia seccata, prima di fare un cenno a
Pucey accanto a me che sparisce improvvisamente.
“Trovo alquanto snervante che tu
continui con questa recita…” sussurra Astoria, andando avanti ed indietro per
tutta la veranda, il rumore dei tacchi quadrati rimbomba dieci, cento, mille
volte sulla pietra fredda. Fermandosi accanto a Draco, gli punta un’unghia
laccata di rosso sul petto, mentre lui si ritrae schifato, divincolandosi: “Se
devo spiegarti tutto, devi sapere tutto… ed anche la Granger deve sapere tutto… in fondo, vi devo un
regalo prima di morire, no? E il regalo migliore sarà farvi morire nella
disperazione di sapere che cosa avete fatto entrambi, tutto da soli… prima
ancora che intervenissi io… sarebbe stato così facile tra voi… ed invece…”, si
avvicina ad un respiro da Draco, sussurrando sulle sue labbra: “…morirete nella
consapevolezza di quanto siate stati innamorati, l’uno dell’altra… te lo devo,
no?”. La mano di Montague impedisce che io cada per terra, dubito che
l’incantesimo me l’avrebbe comunque concesso, ma la debolezza che mi coglie
alle sue parole, mi lascia sfinita. Gli dirà tutto, prima di… ucciderci.
Anche
dello Zahir…
Draco sorride ancora, guardandola
con compassione: “Stai vaneggiando, Greengrass… capisco che essere stata
ripudiata dai tuoi deve essere stata una brutta esperienza, ma fino ad
impazzire, ce ne corre…”.
Astoria perde tutta la sua
angelica calma, ribollendo come un serpente ingabbiato ed affamato, afferra di
nuovo la bacchetta puntandola sul petto di Draco: “Non dire nemmeno un’altra
parola…”. Draco scoppia ancora a ridere, stavolta di autentico divertimento:
“Non ci vuole molto a fare due più due… se sei qui, è perché non ti hanno
accettato di nuovo in famiglia, no? Non penso che ti saresti presa la briga di
fare tutto questo solo per vendicarti di me, se avessi avuto un contraltare…
meno che mai della Granger… fammi indovinare, hanno accettato quella che ha
fatto la tua parte per mesi, quella che ingeriva Pozione Polisucco… e quella
che, anche se era una puttana della peggiore specie raccattata per strada, con
il tuo aspetto e con un utero ancora in grado di generare figli, vale sempre
più di te… tipico… scommetto che è andata così…”.
“Sta zitto!” urla Astoria, e
comprendo che Draco ci ha preso in pieno.
Astoria
non può avere figli…
La
discendenza per i Purosangue è così importante che deve essere stata una grazia
scoprire che avevano una sostituta perfetta, in grado invece di generare.
Persino le sue nozze con un redivivo Draco non sarebbero mai valse tanto.
Astoria, arsa dalla rabbia,
lancia un Crucio più potente dei precedenti contro Draco, che continua a ridere
in modo crudele ed assente. La colonna si sbriciola in mille pezzi, rovinando
per terra. Terrorizzata, la vedo franare su di lui, che riesce a scansarsi di
lato all’ultimo momento, libero dalle catene, rotolando per terra. Non lo
lasciano libero, ovviamente.
Montague lascia cadere a terra
me, tanto sa che io in ogni caso, non posso scappare, né fare nulla per aiutare
Draco, e corre nella sua direzione, superando un’affannata Astoria. Sbatto
violentemente la spalla contro la sedia cremisi, restando immobile, seduta in
modo scomposto. Montague raggiunge Draco, lo afferra con forza per un braccio,
colpendolo ripetutamente. Pugni, calci, schiaffi, la sua mole lo aiuta, sembra
diventato ancora più enorme e Draco sembra così piccolo al suo confronto. La
vista del suo sangue mi annebbia gli occhi e, non so come, riesco persino a
piangere, anche se immobile ancora come una statua.
“Ma tu guarda!” urla Montague,
guardandomi, mentre con un ultimo calcio, si affretta a legare nuovamente
Draco, stavolta lasciandolo seduto per terra “La tua Mezzosangue si è ricordata
come si piange…! Tranquillo, Malfoy, avrai ancora l’onore delle sue lacrime
prima di morire…quelle della moglie di Diggory non te le ho fatte vedere, ma
queste te le gusterai tutte fino all’ultima!”. Draco non solleva lo sguardo, ha
la fronte impastata di sangue e polvere, replica ancora in un sospiro doloroso:
“Potete farla piangere quanto volete… non mi interessa…”.
È in quel momento che mi sento
gelare letteralmente, dalla testa ai piedi. Tutto si ricopre di una patina
ghiacciata attorno a me, mentre dalle punte delle bacchette di Astoria e
Montague, esce una fitta nebbia luccicante. Assumono la forma rispettivamente
di una farfalla, e di un orso. Il gelo mi fa tremare come una foglia secca
d’autunno, sono dei Patronus… quindi…
Il Dissennatore mi sorpassa senza
vedermi, rizzandomi i capelli sulla nuca, appena seguito da Pucey che mi
sistema meglio sulla sedia, aspettando che io mi goda lo spettacolo. L’eco
della magia di quel mostro mi riduce più debole di quanto già non fossi,
portandomi via ogni speranza di salvarci e di sopravvivere. Mi concentro
sull’amore che ho per Draco, sulla speranza che lui almeno mi sopravviva, non è
un pensiero felice, assolutamente, ma riesce almeno a mantenermi in me.
Il Dissennatore si avvicina a
Draco, fluttuando nero nella notte, sembra la nuvola che porta un temporale.
Aleggia sopra di lui.
I suoi capelli biondi si
riempiono di brina ghiacciata, batte i denti sotto le labbra viola.
Quanti pensieri felici possono
davvero portarli via? Non ne ha nemmeno uno, se non Serenity. Che cosa altro
possono fargli? Ha solo ricordi tristi… e non credo che serva un Dissennatore
per farglieli rivivere. Ma Draco sembra aver capito che cosa gli vogliono fare,
e si dimena furiosamente, cercando di allontanarsi dal mostro, il sangue che gli
copre la fronte.
Tremo ancora, improvvisamente
intuendo. E se volessero farlo baciare dal Dissennatore? Qualcosa di peggio della morte
stessa… no, non possono farlo… non possono… cerco
disperatamente di liberarmi dal mio incantesimo, il polso brucia ancora di più
come se fosse in fiamme, ma non mi muovo di un centimetro. Unico segno della
mia ribellione, sono le lacrime che ormai sono in grado di piangere, e che mi
confondono la vista. Il Dissennatore, però, rimane immobile a qualche metro da
Draco che tenta ancora di allontanarsi.
Lui ha
capito… che cosa vogliono fargli… non è il Bacio, è…
“E adesso vediamo il tuo ricordo
peggiore, Malfoy…” sorride melensa Astoria, colpendo Draco con un raggio di
luce violetta. Al contatto con lui, si crea una sfera tremolante simile ad una
bolla di sapone che volteggia sinistra nell’aria, allargandosi
progressivamente. Draco la guarda atterrito e terrorizzato, per la prima volta
autenticamente spaventato, gli occhi luccicano, iniettati di sangue, mentre la
fissa.
Perché vogliono rivedere la morte
di Helena? O quella dei genitori di Draco? A che diamine li serve, se non a
farlo soffrire inutilmente?
Forse, solo a quello, in effetti…
Draco ne è così terrorizzato… vogliono togliergli altra forza ed energia,
evidentemente.
Vogliono rendergli la morte più
dolorosa e più crudele possibile, in modo da potersi vendicare di lui.
Fisso la sfera a mia volta, nella
mia prospettiva non potrei evitare comunque di guardarla, ed un brivido mi
corre sulla schiena, come una valanga di neve gelida, mentre essa acquista
maggiore definizione.
Non è la casa dei Diggory.
Non è un covo dei Mangiamorte.
È la camera di Draco, al Petite
Peste.
Lo guardo senza capire, lui
finalmente risponde al mio sguardo, libero dalla costrizione che si era
imposto.
Come se
ormai non servisse più…
Ha lo stesso sguardo di poco fa,
in macchina. Carezzevole, dolce, come se mi guardasse direttamente nella mente,
oltre la pastoia che mi imbalsama il corpo. Ne acquista luce il viso, si
curvano le labbra quasi di un sorriso colpevole, prima di essere nuovamente
irrigidite in quella posa di terrore che aveva prima. Non capisco… il ricordo
peggiore di Draco… è nella sua stanza al Petite Peste.
Quando vedo anche me stessa in
quel riflesso violaceo, inizio lentamente e faticosamente a comprendere.
Non può
essere… il suo ricordo peggiore…
Sembrava
così piccola adesso.
Con
le sue spalle piegate, come se reggesse il peso del mondo da sola, come aveva
sempre fatto da quando la conosceva. Restava immobile, le labbra rosa
socchiuse, gli occhi color cioccolato spalancati come quelli di un cucciolo di
cane sorpreso su una strada deserta da una macchina guidata a velocità folle,
che sta per investirlo.
Ed
era lui che stava per investirla.
Hermione
era tenera a suo modo, come sempre, ed era buffa come sempre, a suo modo. E ci
impazziva di secondo in secondo. Non poteva smettere di guardarla, lo sapeva,
per parlare avrebbe anche dovuto guardarla. Ma, guardarla, significava non
riuscire ad articolare nessuna parola. Significava non riuscire ad irrigidirsi
al punto tale da riuscire a finire il suo lavoro. Significava saturarsi dei
colori del suo viso, senza avere la forza di fare alcunché.
Nessuno
gli aveva mai detto che sarebbe stato facile, ma nessuno gli aveva mai detto che
sarebbe stato così difficile.
Sapeva
recitare, eccome se lo sapeva fare... e il ricordo di ciò che era successo ad
Helena, gli dava la rabbia sufficiente per mentirle.
Per
questo, era facile. Enormemente facile guardarla come un insetto, facendole
capire quanto la detestasse. Era sempre stato facile il disgusto, l’odio, la
repulsione, la rabbia, il rancore, l’astio, l’orgoglio. Facili come respirare.
O come sarebbe dovuto essere facile respirare.
Perché
anche respirare era difficile, sotto i suoi occhi, adesso. Come se fosse
sott’acqua, come se qualcuno gli spingesse con forza la testa in un liquido
vischioso che, entrando nei polmoni, li immobilizzava come il veleno di una
bestia mortale.
Ma
respirare non era nemmeno lontanamente difficile come guardarla. Come cogliere
i particolari del suo volto, uno per uno, pregustarli e conoscerli persino, ma
non completamente. Era il tormento dell’inferno sapere la consistenza dei suoi
capelli, ma in un modo così rapido e fugace da averne la memoria tattile di un secondo.
Sapere che la pelle dietro le orecchie era tenera come quella di una bambina,
ma averla solo sfiorata lievemente, non averla toccata, baciata. Sapere che le
sue labbra sapevano di fragola, ma ricordarne una sfumatura leggera,
impercettibile, come un eco indistinto in una folla senza nome.
Difficile
era guardarla, ma impossibile era pensare che, dopo questo, quei particolari
non sarebbero davvero stati mai più suoi.
Lei,
davvero, non sarebbe stata mai più sua. Lui poteva essere geloso, se lei fosse
stata sua. Glielo aveva anche detto.
In
realtà, inconsciamente, l’aveva sempre considerata tale.
La
sua cameriera, che girava per casa a piedi nudi, perché dimenticava sempre dove
metteva le pantofole.
La
sua Auror, che si era tormentata perché i suoi colleghi avevano ucciso i suoi
genitori.
E,
poi, semplicemente… la sua Hermione.
Ma
lei era sua, fino a quel momento. Fino a quel secondo in cui era difficile
guardarla e respirarla, lei era ancora sua.
Dopo,
non lo sarebbe stata più. Dopo, ed era una crocifissione anche solo
immaginarlo, sarebbe stata di un altro. Di quel Hayden, probabilmente.
Lui
avrebbe scoperto che i suoi capelli sono come un oceano caldo, che non sono né
lisci né ricci e che, se ci passi le dita attraverso, ti si stringono dolcemente
attorno.
Avrebbe
scoperto che la pelle dietro le sue orecchie profuma di talco, davvero come una
bambina. Ed avrebbe scoperto che le sue labbra sono dolci davvero come una
caramella.
Hermione
restava immobile, aspettando il colpo finale, temendo ed aspettandolo assieme,
ormai mettendo tra lei e lui solo il suo cuore come scudo, come sempre aveva
fatto.
Quel
cuore di roccia… lo aveva già fatto a pezzi. Tante di quelle volte che si
stupiva che lei fosse ancora lì.
Ma
ora era l’ultimo colpo, l’ultimo strale che scagliava contro di lei che sperava
la riducesse a brandelli. Sperava che l’allontanasse definitivamente da lui,
salvandole la vita.
Perché
di questo, si trattava. Salvarle la vita. Allontanarla al punto che lei se ne
sarebbe andata via, da lui.
Lo
avrebbe bestemmiato, odiato, maledetto, ma sarebbe stata viva, salva, al
sicuro.
Oggi
era il giorno in cui tutto finiva. Anche quello. Non ci stava che somigliasse
ad Helena anche in quello. No. Lei… no. Hermione, la sua Hermione… no.
“Era
necessario che tu sapessi, Granger, di come amassi Helena, era solo il modo per
cui tu forse capissi…” iniziò Draco con voce lapidaria, Hermione continuava a
guardarlo e, ad ogni battito delle sue ciglia, il coraggio da lui svaniva,
evaporava, desiderava solamente stringerla, far cessare quelle parole che
l’avrebbero uccisa.
Chissà
se davvero era innamorata di lui… non l’avrebbe mai davvero saputo… ed in fondo
nemmeno importava… ci teneva a lui, tanto bastava.
A
quel pensiero, abbassò gli occhi, chiunque gli volesse bene, o faceva una
brutta fine o finiva per odiarlo. Per lei, aveva scelto con risolutezza la
seconda strada. A tempo debito, sarebbe toccato anche a Serenity e a Seth.
Sollevò gli occhi, riprendendo a parlare, il buio della stanza e la luce dei
lampioni in strada creavano sulla pelle terrea di Hermione dei riflessi
sconosciuti, delle ombre che sembravano volerla divorare.
“Amerò
per sempre lei… lei e solamente lei… a parte i motivi che conosci, mi ha
ingannato la tua superficiale somiglianza con lei… l’ho capito mentre ti
guardavo suonare, le assomigli persino in questo… ma non basta, non basterà
mai…”. Lei impallidiva ogni secondo che passava, dietro i suoi occhi cercava un
qualcosa che li tenesse assieme, si sarebbe accontentata di una sfumatura qualsiasi
della voce o di un sinonimo sfuggitogli senza che se ne accorgesse. Era tenace
come il giunco che si piega, ma non si spezza mai. Lui, invece, andava
recidendo ogni legame, scegliendo con cura le parole e modulando la voce perché
fosse perfetta.
La
colpiva, sferzava e feriva con la somiglianza con Helena, sapendo quanto le
avrebbe fatto male, sperando che un atto di sopravvivenza qualsiasi scattasse
in Hermione, facendole prendere la decisione definitiva di lasciarlo perdere,
andandosene via.
Ormai,
era indiscutibilmente ovvio e scontato che Hermione non era Helena. Erano
diverse come può esserlo il giorno e la notte.
Helena
era una bellissima menzogna, una bugia incantevole.
Hermione
era una fastidiosa verità, un dogma insopportabile.
Era
sempre sé stessa, sempre, colma delle sue parole e colma dei suoi perché per
ogni cosa. Insopportabile… e meravigliosa.
Se
l’avesse capito prima, se l’avesse conosciuta davvero ad Hogwarts, se fosse
stata una Serpeverde, se… e quanti se sarebbero arrivati a questo punto.
La
rabbia, sotto quelle ipotetiche constatazioni, crebbe ancora di più con
l’inutilità di quesiti senza risposta. Riuscì quella rabbia, a fargli tingere
gli occhi di cinerea consapevolezza, di disgusto ben esibito e crudeltà
perfettamente cesellata.
“Helena
è sempre qui, nel mio cuore, a farmi sentire il divario inesauribile che c’è
tra te e lei… e, se il mio bisogno di lei, potrebbe farmi accontentare anche
della sua immagine malriuscita che vedo in te, non può invece farlo quello che
ancora provo per lei…”.
Immagine
malriuscita, perfetta come parola. Le avrebbe spezzato il cuore in due,
ovviamente. Il suo lo aveva fatto in milioni di frammenti.
Lei
continuava a guardarlo, incredula, sbatteva le palpebre, gli occhi erano
cristallo color dell’oro. Si tratteneva dal piangere, come sempre.
Draco
era contento che non piangesse, probabilmente se lo avesse fatto, non ce
l’avrebbe fatta più. Ma sapeva che era troppo orgogliosa per piangere.
Sapeva
che, poi, dopo, quando l’avrebbe fatto, sarebbe stato un pianto inestinguibile,
proprio perché l’aveva trattenuto fino a quel punto.
Strinse
i pugni violentemente.
“Nonostante
tutto, non posso autenticamente ancora desiderare, come semmai mi è accaduto in
passato, che tu soffra per me… non sai niente dei miei e nemmeno di Helena, non
è stata colpa tua… e non sei mai stata nella mia lista. Forse davvero nemmeno
ti odio più… ma devi capire che tutto quello che è accaduto fino ad ora… è
stato solo per questi motivi…”.
Non
odiarla più… tremò sotto il peso di quelle parole. Traballò il suo coraggio,
mentre concludeva: “Quindi, adesso, Granger… vattene via… davvero… Serenity se
ne farà una ragione… e tu magari te ne andrai con Hayden o come diamine si
chiama… e mi scorderai facilmente… ogni solo secondo che resti qui, ti fa
soffrire inutilmente, e senza senso. E mi ricorda lei, senza poterla avere mai
più. … vattene via…”.
Era
stata una preghiera, vattene via e non tornare più… e lei restava immobile,
ferma, grondava sangue dalla ferita che gli aveva inferto, ma restava lì. Come
sempre aveva fatto. Lui le aveva fatto di tutto… aveva fatto di tutto… ma lei
era sempre rimasta lì. Accanto a lui.
Piccola
adorabile testaccia dura…
Scappò
lui fuori da quella stanza. Lontano dai suoi occhi e lontano da quel dolore.
Diede
un calcio violento alla porta d’ingresso ed uscì nella pioggia che cadeva
fuori, urlando con quanto fiato avesse in gola.
Corse
per la strada, bagnandosi dalla testa ai piedi, fino a fermarsi senza respiro,
appoggiandosi ad un palo della luce.
Ricordo
di lei, tra le sue braccia. Gli aveva detto… e se fossi io a voler restare?
Colpì
ferocemente il palo con un pugno. La mano indiscutibilmente rotta, prese a
sanguinare.
Rise
di quel dolore piacevole e rise di quel vuoto dentro, del buco, dove prima
c’era Hermione.
Adesso…
era finita. Adesso… lei era salva.
Adesso,
lei non era davvero più come Helena… adesso non c’era più niente che le unisse.
Helena
era morta. Hermione era viva.
La
pioggia sugli occhi, le lacrime mai piante che erano solo pioggia, guardò la
mano e le nocche sanguinanti.
Adesso
non c’era più niente che le unisse. Nemmeno lui. Nemmeno quell’amore.
Quello,
per Helena, era stato egoista, insensibile, sordo, cieco.
E
l’aveva uccisa.
Quello,
per Hermione, era stato supremo, inconfessabile, nascosto, luminoso.
E
l’aveva salvata.
Sussurrò
alla pioggia e al vento il suo segreto, lo sussurrò al passante distratto che
passava velocemente, non degnandolo di uno sguardo.
Lo
sussurrò a sé stesso e si impose di dimenticarlo subito dopo.
“Ti
amo Hermione Jane Granger… e cercherò di amarti il più a lungo possibile… fino
a quando sarai lontana da me…”.
Il ricordo svanisce
in un lampo di luce violetta.
Il suo sguardo è
ancora su di me, lo sento addosso, crepitano i miei occhi a contatto con i
suoi.
Non ci
credo…questo deve essere un sogno…
Non posso atteggiare
il mio sguardo a nulla di diverso, l’immobilità che mi rende una statua di sale
mi aiuta a non dovermi sforzare di rendere i miei occhi specchio di una cosa
qualsiasi. So che, se anche potessi muovermi o parlare, probabilmente non
riuscirei a fare lo stesso nulla. La gola secca, sento le labbra come se si
spaccassero per una sete perpetua, bramando la goccia d’acqua in mezzo al
deserto. La rivoluzione copernicana, ecco che mi sembra.
Il sole al centro, e
io che ci giro attorno, gravitata come un pianetino impazzito.
Non ci
credo. Non può essere vero.
Mi ha
sempre… non riesco nemmeno a pensarlo, per quanto
mi sembri assurdo ed impossibile.
Ed è assurdo
ed impossibile… devono averlo
incantato in qualche modo, per mostrarmi questa scena che, in realtà, non è mai
esistita.
Sì, deve essere così,
deve essere per forza così.
Vogliono farmi
impazzire, decisamente.
Distolgo i miei
occhi, per quanto me lo conceda la mia prolungata stasi, da quelli di Draco,
eco nelle mie iridi di lui che mi guarda preoccupato, stringe le labbra,
cercando di interpretare i miei occhi assenti e probabilmente lontani.
No, no, stanno solo
cercando di farmi impazzire… non
può essere vero.
Muto il mondo e muta
la vita stessa, la mia mente si capovolge, confondendosi e diventando polvere.
Turbinano i mesi come frazioni di secondo, e gli attimi stessi come scaglie di
tempo fugace, mulinano nei miei pensieri come carta straccia, sospinta da un
vento sudicio e fastidioso. Per qualche secondo, non mi sembra nemmeno di
vedere, come se i miei occhi nemmeno vedessero, appannati dalla quantità
abnorme di pensieri che si assiepano dentro la mia mente.
Le orecchie, sempre
attente, nonostante il rombo sordo che sembra averle colpite e che viene
direttamente dal mio petto, non sentono Astoria ridere, e nemmeno Pucey e
Montague. Sono tutti in silenzio in questo secondo che sembra non passare mai.
Nel rumoroso silenzio
che mi circonda, colgo solo un respiro un po’ più forte, come se fosse stato
trattenuto per qualche istante e poi rilasciato all’improvviso, tutto assieme.
Ed è quello di Draco, non so come riesco persino a riconoscerlo. Ne sento quasi
l’odore, impercettibile, fugace, velocissimo, il respiro di menta che ha
lambito il mio viso in una sera di maggio, in una veranda priva della salvifica
luna, per poi mescolarsi caldo ed umido con il mio, scivolando nelle mie labbra
serrate.
Piano, come una crepa
nel muro, qualcosa si sbriciola lentamente nel fango che mi contamina i pensieri.
Ad ogni passo, ad
ogni moto di quell’alluvione progressiva di ricordi e di emozioni, qualcosa
viene lasciato niveo e pulito, con una nuova e perfetta nitidezza, fino a
quando ogni cosa è come se fosse illuminata dalla luce del sole, sorto con
prepotenza dopo ere di nuvole.
Torno a guardarlo,
senza nemmeno accorgermene, come un magnete che mi spingesse inesorabilmente
verso di lui.
Draco è ancora lì, a
cercare i miei occhi, senza trovarli, aspettando, attendendo, una speranza
timida e tremula sotto le palpebre insanguinate. Ha le labbra dischiuse, come
se delle parole si fossero gelate nella sua gola, sembra che abbia aspettato
persino per respirare. Una folata di vento improvviso, freddo, gli sposta i
capelli dagli occhi, rendendomi visibili i suoi occhi ed, improvvisamente, ne
sono investita completamente, sono catturata dalla potenza di quegli occhi,
madreperla di una conchiglia che chiama il mare. Fluttuo lieve, proprio come
un’onda capricciosa, mi infrango contro qualcosa, provo un dolore lacerante al
petto, si allarga a dismisura una voragine allo stomaco, eppure non riesco a
smettere di guardarlo. Sentirmi
persa.
Non ci siamo mai
guardati così, perfetta chiarezza, dolce consapevolezza, un dolore assurdo che
frinisce come un pianto che muore, sotto le lacrime che non posso piangere e
sotto quelle che lui non sa piangere.
Il suo sguardo sono
risposte alle mie domande. Al perché della mano fasciata, al perché della
tensione continua del suo corpo, alle sue parole in macchina, al suo volermi
mandare via e al suo non averlo mai davvero fatto compiutamente.
Il suo sguardo è una
risposta semplice e chiara, diretta, sincera, cristallina, così luminosa da
bruciarmi gli occhi.
Ed è una risposta che
io conosco da sempre, perché conosco quei suoi occhi. Sono velluto di nuvola,
tenera, soffice, morbida.
Li ho sognati, ogni
notte, mordendomi le labbra a sangue, rotolandomi nelle mie lenzuola fresche,
impazzendo come se fossi febbricitante.
Li ho desiderati,
spasimati, cercati, amati, idolatrati quasi.
Li ho visti
sfiorarmi, per dirigersi altrove, rifuggire la mia pelle, farmi sentire
sbagliata accanto a lui mentre andavano cercando il loro autentico
destinatario. Ne ho goduto di un riflesso sfuggito per caso, mai diretto
davvero a me, ma sempre rifratto in un gioco di specchi dall’elemosina di chi
da lui era guardato così, e poi, per pura carità, decideva di guardare me.
Inondandomi
dell’amore che aveva per loro… inconsapevolmente, mi mettevano davanti ciò da
cui ero esclusa. Per sempre.
Sono gli occhi che accarezzano
Serenity. Gli occhi che baciavano Helena.
E sono miei.
Oggi sono tutti miei.
Ma sono
anche diversi, da come guarda Serenity… affetto di padre mancato…
E da come
guardava Helena… amore di marito negato…
Sono unici…
ora che li vedo davvero… ora che me li mostra davvero…
Perfetta
completezza… non è più un pezzo incompleto di qualcosa.
È
interamente combaciante con me.
Tutto cessa
all’istante di essere assurdo, il sole è effettivamente al centro dell’Universo
e a me non resta che girarci, placida, attorno.
Sembra assurda la
vita di prima. Sembra una clamorosa bugia.
Vedermi attraverso i
suoi occhi, attraverso i suoi pensieri, sentire l’affetto prima, la tenerezza,
la dolcezza con cui mi guardava, e poi sentire dirompente il desiderio che
aveva di me… il mio viso, nonostante l’incantesimo, arrossisce senza difficoltà
e vorrei distogliere lo sguardo da lui, evitare che mi veda in queste
condizioni, come un’adolescente qualunque alla prima cotta. Ed, invece, sono i
suoi occhi stessi che mi reclamano, mi chiamano ed impediscono che me ne
allontani.
E nemmeno me ne
voglio allontanare, anche se mi fanno scoppiare il cuore, anche se mi tolgono
il fiato, anche se non si può essere così felici in una vita sola e in un corpo
solo da non implodere improvvisamente.
Come se
improvvisamente i miei occhi indossassero la veste candida di questa nuova
rivelazione, potente come un prodigio che trasforma il mare in una strada
asciutta dove è possibile camminare, anche i suoi occhi tornano sereni, sorride
quasi, guardandomi, come se non fossimo qui, legati, vicini alla morte,
prigionieri. Come se si vergognasse di non averlo mai detto, come il bambino a
cui è stato estorto un segreto. Le mie gambe formicolano nella loro immobilità,
bruciando dalla voglia di muoversi e di correre verso di lui, perché è la sola
cosa che vorrei. Averlo tra le mie braccia, stringerlo e baciarlo, ora so che
posso farlo. Ora, riconosco la dipendenza dal suo profumo, l’assoluta
friabilità di me stessa al suo viso, l’inconcepibile voglia che mi sfiori e mi
faccia sua.
Erano sempre qui,
ovviamente, ma legate, tenute sottovuoto, per impedire che facessero male.
Ora, libere,
sono deflagrate con forza inaudita, tanto da farmi tremare, anche se in teoria
nemmeno dovrei poterlo fare. E non oso immaginare, se fossi libera di muovermi,
che cosa mi sarebbe successo.
Forse, ora, se non fossi immobilizzata, scoppierei
a ridere senza senso e senza perché.
Canterei, persino, e troverei nei passi una danza
che non so nemmeno se sia aggraziata o meno.
Mi incepperei nel ballarla, imbranata come sono, ma
stavolta tu saresti accanto a me, a darmi un buffetto sulla guancia.
Perché non sono più sola ai margini di questo amore
impossibile.
Esso non è mai stato impossibile.
È sempre stato ad un passo da me.
Sei sempre stato ad
un passo da me.
Tremano le sue labbra, come se si ricordasse
improvvisamente di dove siamo, la magia si interrompe e il suo sguardo vaga sui
nostri carnefici. Tornando a me, piange quasi, perché di quel segreto, sa che presto io ne pagherò il
prezzo.
Morendo.
Non voglio che perda quegli occhi. Non posso
perderli adesso. Non adesso… che sono solamente miei.
Voglio che li abbia, per sempre, per tutta la vita.
O forse anche solo per un secondo, che mi ami anche solo per un secondo.
Dio, se mi basterebbe anche per mille
reincarnazioni…
Con acuta disperazione, mi rendo conto che è questo che Astoria vuole portarci via.
Prima di ucciderci.
Farci rendere conto di che cosa avevamo tra le mani
e di che cosa abbiamo sprecato.
L’angoscia di Draco si trasmette immediatamente
anche a me. Questo è niente… è ancora niente.
Lo Zahir… adesso, nella
sua improbabile scaletta, tocca a questo. Ne sono certa.
Astoria, infatti, senza una parola, sorpassa Pucey
e Montague, avvicinandosi a me. Con un’alzata del capo, fa allontanare il
Dissennatore che, evidentemente, non serve più. Il ghiaccio si scioglie, così
come era nato, e la sera scura, senza luna, torna tiepida di colpo, lasciandomi
un calore furibondo sulle braccia. Draco ha perso ogni traccia di calma ben
esibita, furiosamente cerca di liberarsi mentre Pucey e Montague lo tengono
fermo, sghignazzando: “Certo, ora, non fingi più che non te ne importi nulla di
lei… te l’ho già detto, Malfoy, sarà la seconda volta che vedi morire la donna
che ami per mano nostra...”.
Draco urla con quanta voce ha in corpo di lasciarmi
andare, Montague gli assesta un altro calcio, ma lui non cessa di gridare.
“Non la toccare!” ringhia all’indirizzo di Astoria,
che, fredda come il ghiaccio, mi si avvicina.
Vorrei aver paura di lei, lo vorrei davvero… ma non
ci riesco.
Draco… sentire la sua
voce, adesso, fosse anche l’ultima volta che accade… sentirla così… sentire che
mi ama…
… è comunque il paradiso al centro esatto
dell’inferno. Fosse anche che ne sarò scacciata a breve.
“Malfoy, se avessi voluto ucciderla… o perlomeno se
avessi voluto ucciderla subito… l’avrei già
fatto, non credi?”sussurra Astoria, chinandosi su di me e puntandomi contro la
bacchetta, si ferma all’altezza del mio petto. Lo stomaco si contorce.
“Potrei ordinare adesso al suo cuore di non battere
più… lo sai?”.
Potrebbe davvero
farlo, ne sono sicura…
Draco ammutolisce, sbiancando, seguendo i movimenti
della sua bacchetta come un serpente incantato da un domatore.
“Già… lei
è mia… non tua, Malfoy… rassegnati all’idea…” bisbiglia Astoria, guardandomi
e facendo scorrere la punta della bacchetta sul mio polso, la cicatrice dello
Zahir sembra riaprirsi. Sanguina come se l’avesse aperta lei stessa, obbedisce
la mia carne a lei. Persino il mio stesso sangue, sembra doverle cieca ed
assoluta fedeltà, mentre gli comanda di riversarsi sulla seta viola del mio
vestito.
Pucey e Montague continuano a ridere.
“Tu hai cercato di salvarla… encomiabile da parte
tua…” continua Astoria, facendo scorrere la bacchetta su tutto il mio braccio,
sembra che si stia spezzando in due, il respiro mi aumenta come dopo una lunga
corsa mentre impazzisco dal dolore “… ma anche lei ha cercato di salvare sé
stessa… magari, se le avessi detto che eri innamorato di lei, non sarebbe in queste
condizioni, non credi? Non ti sei chiesto perché non ci ha deliziato con la sua
adorabile voce da quando
è qui?”. Sorride acidamente, guardandolo.
“Tu…” Draco serra la mascella, anche se dubito che
non si fosse accorto che non riuscissi a fare assolutamente nulla. Mi guarda
con espressione sofferente, dando strattoni alle catene che lo imprigionano.
Pucey gli assesta un altro calcio nello stomaco.
“Vabbè, certo, non riesce a fare nulla…” prosegue
ovvia Astoria, agitando la mano con noncuranza “Ma era la voce, quella che mi dava più fastidio… era
sempre pronta a dire la sua, in ogni dannato momento. E tu pendevi dalle sue
labbra… quanto mi hai disgustato… lei parlava e tu ti tormentavi per tutto
quello che diceva… facevi finta di nulla, fingevi davanti a lei e davanti a me
che non te ne importasse, ma qualsiasi cosa dicesse, ecco qua che ti cambiava l’umore… quindi ecco il primo motivo per
cui, ora, invece, non ci sta tediando con le sue inutili parole…”. La guardo
con odio puro, sperando che lo riesca a percepire, ma lei mi dà le spalle,
fissando Draco.
È stata davvero lei…
“Non è un’Imperius…” prosegue lei, poggiando il
braccio sullo schienale della mia sedia “E’ pur sempre il capo degli Auror,
anche se Dio solo sa come ci sia riuscita… lo avrebbe sciolto facilmente, e, in
più, mi sarei anche dovuta avvicinare a lei… e tu, nonostante tutto, eri sempre
nei paraggi… anche se lei fosse effettivamente andata via dopo le tue parole,
ci scommettevo che avresti trovato il modo di tenerla sotto controllo… specie
dopo che ti avevo fatto capire che avrei trovato il modo per farla pagare a te
e a lei…”.
Lo aveva minacciato.
Ecco perché aveva cercato di mandarmi via…
Draco ascolta imperturbabile, senza la benché
minima emozione sul viso, solo le mani serrate testimoniano che è ancora vivo.
“E quindi mi sono messa a cercare… un modo per
controllarla… il mio sommo desiderio era che fosse lei ad ucciderti…”.
Sussulto, ogni mio sospetto che diventa
incommensurabile certezza. Draco gela, rabbrividendo e guardandomi.
“Era difficile, ma non impossibile… e, alla fine,
l’ho trovato… ti dice nulla la parola Zahir?” completa con
un sorriso ovvio Astoria, dall’espressione di Draco mi rendo conto che lui lo
conosce perfettamente, anche se pensavo che invece non gli fosse noto.
Mi guarda con un dolore così insopprimibile che
vorrei essere schiantata piuttosto che continuare a subirlo.
“Zahir, sì, Malfoy…” mi accarezza con finta
dolcezza i capelli come se fossi una bambina da compatire “Le era così
insopportabile l’idea di amarti che, alla fine, ha scelto questo… ed il bello è
stato che sei stato tu a spingerla a farlo, non io… io le ho solo indicato la
via…”.
Non guardarmi così…
per favore…
“In ogni caso, avrei vinto…” prosegue, contando
sulle dita “Non ci fosse riuscita, sarebbe morta nel tentativo… e tu ne saresti
stato devastato. E se ci fosse riuscita… ero perfettamente in grado di rendermi
conto che lo Zahir non sarebbe riuscito a sedare del tutto il suo sentimento
per te… lo avrebbe trasformato nel suo opposto… avrei vinto lo stesso, lei ti
avrebbe odiato…”, prende una ciocca dei miei capelli tra le dita, tirandola e
portandola all’attenzione di Draco, ridendo: “Vedi i suoi capelli? Sono neri… è
l’odio… lei ti
odia…”.
Non è vero. Non è
vero.
Non guardarmi così…
non è vero. Io ti amo, Draco.
Indipendentemente dal fatto che lei sappia o meno
che non odio più Draco, glielo sta dicendo apposta per fargli del male.
E ci sta riuscendo, perfettamente. Impietrito
peggio di come sono io, ha lo sguardo fisso nel vuoto.
Se tornerò mai
libera… le farò pagare tutto quello che ci sta facendo…
Vorrei mettermi a gridare, interrompere le parole
di Astoria, sostituirle con le mie, frenare con un sobbalzo il silenzio
sconvolto di Draco e vedere i suoi occhi tornare quelli di prima. Farmi accarezzare
da quello sguardo, di cui già sento la mancanza come il respiro nei polmoni. Ed
invece pigolo solo come un pulcino, sovrastata dalla voce di Astoria.
“Ho studiato come funziona lo Zahir… quello d’amore
della Regina di Atlantide ne causò la fine… perché lei, alla fine, posseduta
dall’odio, uccise il suo amato… e si suicidò a sua volta…” enumera Astoria
senza partecipazione “L’amore non si può sedare con uno Zahir… a meno che non
sia un sentimento di poco conto, ma dubito che allora porterebbe alla creazione
dello Zahir stesso, no? Lei invece ti
amava così tanto…”, scimmiotta con voce trillante, Pucey e Montague
ridono senza ritegno, lui invece è come se lo avesse direttamente
schiaffeggiato in viso: “… quindi ovviamente ti avrebbe odiato altrettanto
intensamente…sono entrata nei suoi sogni, la sera stessa in cui le dicesti
quelle parole… piangeva come una fontana con quel idiota di Seth… avresti
dovuto vederla… era così debole che non si è nemmeno accorta che c’era qualcosa
di enormemente strano, in quel
sogno… l’ho persino Confusa, senza che se ne accorgesse… ”.
L’odore dei
nontiscordardime.
Come ho fatto a non
accorgermene?
Draco, immobile, continua ad ascoltarla senza un
parola, gargoyle incapace di parlare, dalle fattezze di essere umano.
“Nel sogno le sono sembrata Lily Potter… e ci ha
creduto come una povera imbecille… le ho mostrato Piton che ci parlava dello
Zahir… l’aveva effettivamente fatto, una volta, ma alla mia classe, non alla
vostra… è stato così facile farle credere che fosse stata semplicemente
distratta e se ne fosse scordata… ci ha messo pochissimo a trovare il modo per
fare la pozione, mi affidavo alle sue conoscenze al Ministero, e lei
addirittura conosceva un’Indicibile, Helder Cassidy Bode… l’ho seguita, l’ha
incontrata ed ha ottenuto la pozione… dopo dieci giorni, era apparentemente
libera dal suo sentimento… ma è durata poco, vero, Granger?” la gelo con lo
sguardo, lei ride senza ritegno rendendosene conto e non facendosi minimamente
impensierire.
“Ben presto, ha preso ad odiarti… ha cambiato
persino aspetto… te ne sei anche accorto, scommetto, ma avrai pensato che
volesse solo darci un taglio con te, che avesse reagito d’orgoglio come
speravi, scommetto che ne sei stato anche felice, vero, Draco? Ed invece, lei,
non era assolutamente in sé…”, fa una pausa ad effetto prima di continuare con
voce colma di gioia: “… ti avrebbe ucciso. Lo sentivo. Il suo odio lo percepivo
fino alla mia pelle, mi teneva compagnia… era persino peggio del mio, scommetto
che è ancora così…”.
Non è vero. Sta
mentendo… non la ascoltare, Draco…
Lui non sembra vederla neppure la mia preghiera
negli occhi. È cieco, perso nei suoi pensieri.
Astoria improvvisamente cambia espressione, torna
gelida e mi fissa con ribrezzo: “Ma la Mezzosangue ha rotto lo Zahir, prima di
ucciderti… non so come diamine abbia fatto, ma ha rotto lo Zahir…”, seda
immediatamente il tenue calore che ha acceso gli occhi di Draco, mordendosi le
labbra e continuando: “… l’odio non ha abbandonato il suo corpo, li vedi i suoi
capelli, no? Ma ora, probabilmente, non ti avrebbe ucciso lei, di sua spontanea
volontà… dovevo agire, altrimenti tutto quello che avevo fatto sarebbe stato
inutile… ed è qui che ho scoperto che potevo usare quella macchia dentro che
ancora aveva, per controllarla… io l’avevo indotta a creare lo Zahir, quindi
già ero riuscita ad aprire un varco con la sua mente… se lo avessi sfruttato
meglio, sarei riuscita a cancellare ogni sua volizione e controllo su sé
stessa… e, per sfruttarlo, ho sincronizzato il mio odio con quello che ancora
restava in lei. Erano diretti contro la stessa persona, creavano quasi
risonanza l’uno con l’altro… ed, alla fine, era come se dovessi controllare me
stessa, e non più lei. Ho fatto diversi tentativi, da lontano lei perdeva
coscienza e non si rendeva conto di ciò che stava facendo. Ma le ho ordinato di
vestirsi, di prendere una bacchetta e l’ha fatto… e le ho ordinato di ucciderti
in macchina. È riuscita a ribellarsi, però, credo perché tu le abbia detto
qualcosa che l’ha toccata… l’odio si è incrinato e ha evitato di ucciderti. Ma
era lontana da me… ora è vicinissima… e posso controllarla come voglio…”. La
sua spiegazione si conclude con un sorriso falso e con un ironico applauso di
Pucey e Montague.
Draco non si muove di un millimetro. Diafano,
sembra non guardarla neppure.
“La tua condanna sarà averla avuta tra le mani, ed
averla condotta a questo… lei ti amava e l’hai costretta ad odiarti…” ride
ancora Astoria, guardando Draco, poi guarda me, reggo il suo sguardo con foga:
“… e la tua, schifosa Mezzosangue, sarà aver vanificato ogni sforzo di lui per
renderti libera…”, abbassa la voce con crudeltà: “… ma non sarà solo questo.
Ovviamente. Se sei vestita così, è perché lui ti doveva desiderare da
impazzire, cosa che mi schifa ancora… la mia teoria è che si sia innamorato di
te, la sera del Tourquoise Party, e casualmente indossavi il mio vestito… quindi credo che con uno dei miei,
ti avrebbe di nuovo voluta come allora… diamogli questo contentino prima di
morire…e prima di morire, per mano tua…”.
Sgrano gli occhi, terrorizzata, il sudore mi
inzuppa la schiena nuda, mentre lei mi guarda dolcemente, come un’amica del
cuore comprensiva e fedele. Solo le sue narici fremono come quelle di un
rettile.
Ora, davvero, ne sono terrorizzata. Perché riuscirà a farmelo fare,
ne sono certa.
Il corpo, ancora immobile, mi suggerisce l’infausta
conclusione a cui sono destinata.
Draco, abbandonato al suolo, l’ha finito Astoria
con le sue ultime parole. Non solleva più gli occhi dal suolo, ha perso ogni
speranza.
La fronte, coperta di sangue aggrumato, si piega
sulle sue ginocchia, si piega lui stesso, come se non avesse più la benché
minima traccia di forza nel corpo. Mi si offusca la vista, guardandolo. Se mi
guardasse, solo un’altra volta, magari riuscirei a fargli capire che Astoria ha
mentito, che io invece sono innamorata di lui e che non è vero che lo odio.
Magari, riuscirebbe a reagire.
Ma lui evita di guardarmi, ovviamente. Credo che
eviterei anche di guardarlo, se fosse successo il contrario.
Ma che dico, è
già successo il contrario… temendo di vedere l’odio nei
suoi occhi, non l’ho guardato per mesi.
Non ha mai avuto grandi motivi per vivere, solo
Serenity… e poi salvare me.
I pensieri di quel giorno, mentre rievocava la
morte di Helena… che non mi erano sembrati ricordi, ma pensieri di adesso.
… il coraggio non è degli agnelli che
indossano le spoglie del leone, dei serpenti solo costretti a diventare
grifoni.
Probabilmente, un giorno avrebbe
conosciuto quella spinta dentro, il calore del cuore che, di fronte alla
prospettiva di perdere qualcosa di amato, diventa mobilità del corpo, slancio
dell’azione e velocità del pensiero.
Draco, un giorno, avrebbe conosciuto il
coraggio. Difendendo una persona che ama.
… era la sua
molla per agire. Era la sua ragione di vita. Proteggere me e Serenity.
Ma, ora che
sa che tutto è perduto, ora che anche io lo penso, ora che è sicuro di aver
fallito, ora che persino pensa che lo odi e non ha nemmeno la consolazione di
sapermi al sicuro, ora… per lui davvero ha perso tutto senso.
Un calore
assurdo mi raggiunge le mani, formicolando inconcepibilmente.
Devi smetterla di arrenderti, ogni
dannata volta che le cose vanno male. Smettila…!
Hai diritto di vivere come tutti,
smettila di portare questa maledetta croce addosso.
Non hai tradito i tuoi: ti hanno
tradito per primi loro.
Non hai ucciso Helena: Pucey e Montague
l’hanno fatto.
Non hai condannato me: io sono ancora
viva, dannazione, Malfoy!
Non posso farcela da sola. Sono stanca
di essere sola. Se ci sei tu, dall’altra parte, ce la possiamo fare. Ce la
faremo.
E ti dirò anche io il mio segreto
inconfessabile, che sono pazzamente e follemente innamorata di te.
Ma, alzati, maledizione. Guardami…stramaledetto furetto che non sei altro!
Ti giuro che, se usciamo vivi da questa
storia, sarò io ad ammazzarti personalmente, dopo quello che mi hai fatto
passare…!
Solo io posso avere l’onore di
ucciderti, te lo ricordi?
Guardami… per favore… Draco…
Si sciolgono
di lacrime i miei occhi a quest’ultima preghiera, sento le guance bagnate
mentre Astoria mi punta la bacchetta contro, ordinandomi di alzarmi in piedi e
porgendomi un’altra bacchetta.
Un attimo…
le lacrime… io sto piangendo… lei non me l’ha ordinato… sto piangendo,
di mia spontanea volontà. L’ho fatto anche prima.
Con un
brivido, mi rendo conto che il suo controllo non è così assoluto, come potevo
pensare, qualcosa può sfuggire da questa cosa…
Come posso
sfruttare gli occhi a mio vantaggio, specie se Draco non si decide a guardarmi?
Guardami, dannazione…
Frustrata,
mi rendo conto che lui non mi guarderà mai, fino a quando non sarà morto. E
sarà stato tutto inutile.
Come posso
fare, maledizione? Astoria mi guarda, ridendo e urlando altre cose che non
capisco e non mi sforzo di capire. Probabilmente insulti soddisfatti
all’indirizzo mio e di Draco…
Spalanco gli
occhi, mentre mi rendo conto la sola cosa che posso fare per farmi guardare da
lui.
…
era la voce, quella che mi dava più fastidio…
La
mia voce. Devo riuscire a
parlare… anche solo per un secondo. Basta che mi senta e capisca che sono
ancora qui dentro.
Più facile a dirsi
che a farsi, ma ci devo riuscire in qualche modo.
Mi sforzo con tutte
le mie forze, ma come prima ne esce fuori solo un pigolio incerto,
impercettibile. La faringe brucia, graffiata, come se la stessi lacerando,
sotto sollecitazione. Draco non mi guarda, come prima, resta a testa bassa,
aspettando che lo uccida.
Dio,
quanto lo odio… quando fa così…
Il fiume che mi ha
contaminata, quando ero a contatto con lo Zahir, echeggia nelle profondità di
me stessa. È ancora lì, arenato nei miei capelli ed occhi neri. Sussulto,
mentre Astoria sta per formulare il suo ordine. Ma certo… lo devo assecondare…
Prima che Astoria se
ne renda conto e prima che riesca ad impedirmelo con la sua connessione ancora
aperta con la mia mente, la gola mi esplode di un fiotto d’aria incandescente,
le parole danzano su per la mia laringe, sospinte dal fiume in piena di rabbia
e di dolore. Con tutto il fiato che ho nei polmoni, riesco ad aprire la bocca
ed a urlare: “Svegliati, dannazione, Draco!”.
Lo sforzo mi fa
cascare in ginocchio, mentre cado dalla sedia. Astoria, atterrita, smette di
ridere e mi punta la bacchetta sul polso, riprendendo il controllo del mio
corpo. La gelatina che immobilizza il mio corpo, diventa di nuovo cemento
armato.
Pucey e Montague si
affrettano a raggiungerla, mentre blatera qualcosa, sussurrano che bisogna
sbrigarsi perché l’effetto dello Zahir sta svanendo. Quindi sanno anche loro
che sta cessando di fare effetto… sanno che sono innamorata di Draco, che sono
perfettamente in me… hanno mentito per ferirlo. Ma, sorrido con gli occhi,
ormai non importa più.
Lui
è tornato.
Il viso, che aveva
sollevato repentinamente appena aveva sentito la mia voce, si irrigidisce,
diventa duro, si guarda le mani insanguinate come se si fosse davvero
risvegliato da un lungo sogno. Poi guarda me, annuendo leggermente con il capo
e sorride piano, come se mi stesse silenziosamente rimbrottando come al suo
solito. Socchiudo gli occhi, se non ci
stavo io, eri già morto, furetto.
Draco assume
un’espressione annoiata, il volto terreo ed una strana luce negli occhi:
“Greengrass, nella tua opinione contorta e malata, io devo combattere con la
Granger, vero? E ci dobbiamo anche scannare o roba simile, vero? Quindi, se non
ti dispiace, io devo sentirmi anche a mio
agio… ti ha mai detto nessuno che Draco Lucius Malfoy è il maestro degli incantesimi senza
bacchetta?”.
Astoria lo fissa
terrorizzata, mentre diventa improvvisamente livido in volto, sudando come se
fosse in fiamme. Le catene scivolano dai suoi polsi, cadendo inermi al suolo.
Con il respiro corto, si risolleva faticosamente in piedi, asciugandosi la
fronte imbrattata di sangue e sudore. Lo guardo scettica, li conosco quegli
incantesimi, non li ho mai imparati compiutamente, ma so anche che non si
possono eseguire tante volte. La bacchetta è un coadiuvante del potere magico
del mago o della strega, questo è vero, ma è necessaria.
Usare tutta la propria
energia magica, senza bacchetta, significa perderla del tutto, prima o poi.
Dubito che ne possa
fare molti.
Intanto, comunque, è
libero.
Poteva
anche farlo prima… dal fiato
corto e dal suo barcollare, mi rendo conto che l’aveva lasciata come ultima possibilità.
L’ha lasciato
praticamente senza energie. Astoria, presa dal panico, non si rende conto di
questo e mi punta contro la bacchetta, il polso geme sotto la fiamma che lo
avvolge come sempre e il mio corpo si riempie di scariche elettriche.
“Uccidilo!” mi urla
contro, e non riesco ad impedirmi di alzarmi e di sguainare la bacchetta.
Draco mi si para di
fronte, apparentemente sicuro e tranquillo, solo la sua mano trema leggermente,
mentre la serra in un pugno doloroso. Investita dal suo rigido sguardo grigio,
carico di scintille lucenti, lo vedo concentrarsi mentre mi guarda, fino a
quando i capelli mi si drizzano sulla testa, mentre libera il suo potere. Per
fare, cosa? La mia pelle geme di brividi.
Non
ha la bacchetta, possibile che non se ne renda conto? Che cosa altro vuole
fare? Vuole morire per mano sua, invece che mia?
Lieve e leggera,
improvvisamente distinguo appena la sua voce nella mia testa, come quella volta
al Petite Peste, quando pensavamo di essere attaccati dai Mangiamorte. È come
se parlasse sottovoce e devo sforzarmi per intendere quello che dice. La mia
mente è paralizzata da Astoria, difficile non rendersene conto. L’ha resa
impermeabile a qualsiasi intromissione.
Draco forza, però,
quella resistenza, anche se in modo debole, lo vedo portarsi una mano sul petto
ansante per lo sforzo.
Rabbrividisco per
quell’intrusione, eppure è quasi un sollievo sentirlo di nuovo così vicino. Dentro di me.
Magari
non puoi rispondere… ti tiene così in pugno che forse nemmeno mi senti.
Gli
occhi…li puoi muovere. Chiudili quando
stai per attaccarmi, credi di riuscirci?
Con enorme sforzo,
cercando di concentrarmi come prima, ma senza agitarmi troppo in modo da non
attirare l’attenzione di Astoria, li chiudo faticosamente. Mi manca il fiato,
la milza mi punge come se avessi corso per chilometri, ma ci sono riuscita,
anche se non so davvero per quanto tempo possa farlo. Le labbra di Draco si
piegano leggermente all’insù.
Basta
questo, Hermione… fai solo questo…
Non capisco come
possa salvarci tutto questo. Ma mi resta solo fidarmi di lui.
Una pausa lieve nella
mia mente, ed è come se indovinassi un’esitazione, un respiro trattenuto, un
pensiero pronto a sfuggire.
Ce
la caveremo… non permetterò che ti facciano del male…
Un brivido sulla
schiena sentirlo parlare così, di me. Non riesco ad abituarmi ancora a quel
pensiero. Lo tengo impacchettato come un regalo di Natale, in una carta
luccicante, con un fiocco rosso in cima. È
innamorato di me.
Lo guardo, cercando
di sorridergli con gli occhi, ma lui volta il viso dall’altra parte, prima che
io possa farlo, irrigidendosi e dedicando ogni barlume di luce che ha nelle
pupille, per concentrarsi su Astoria, Pucey e Montague. Sfugge i miei occhi
come se lo scottassero.
Certo, come
dimenticare…
È
convinto che io lo odi.
Ne
è stramaledettamente convinto.
“Uccidilo!” mi urla
di nuovo Astoria, e stavolta la sua voce la sento fino nei nervi, come un
impulso elettrico che comanda le mie braccia e impone alla mano che regge la
bacchetta di stenderla dritta davanti a me. Un ultimo, vano, disperato ed
inutile tentativo di bloccarmi, poi la mia voce, divenuta metallica e
gutturale, recita stentorea: “Avada Kedavra”. Le parole mai dette.
Chiudo disperatamente
gli occhi, un attimo prima che un fiotto di luce verde sgorghi dalla punta
della mia bacchetta, attraversando con un sibilo l’aria, che si carica di
elettricità statica, mentre cerca il cuore dell’uomo che amo. La caccia è
aperta.
Il mio cuore trema
nel mio petto, il torace lo trattiene appena mentre quasi schizza via, batte
alla velocità della luce, mentre ho gli occhi chiusi. Riesco però a tenerli,
per poco, così. L’istinto di combattere che Astoria mi impone, ovviamente,
vuole che li apra.
Sospiro di sollievo,
Draco scarta di lato, puntando alla balaustra della veranda dove ci troviamo.
L’incantesimo si infrange contro un angolo della balconata, facendo esplodere
una parte della ringhiera, già abbondantemente consumata dal tempo. Il
contraccolpo mi sferza il viso, odore di bruciato e di polvere. Astoria e gli
altri si coprono il volto, mentre lei, tossendo, mi urla di attaccare ancora.
La scossa nei
muscoli, stavolta, è più forte, è come se me li stesse tirando a viva forza,
distendendoli fino al limite massimo. Anche la voce diventa ancora più roca,
come se non fosse la mia.
“Avada Kedavra!”, prima che il braccio si tenda, chiudo gli occhi.
Ad ogni tentativo, il cuore reclama ossigeno.
Ancora Draco, in modo
insperato, evita la maledizione, slanciandosi dalla parte opposta rispetto a
prima.
Ed ancora, ancora.
Ancora.
Astoria, Pucey e
Montague gemono innervositi, come fiere codarde ed indispettite, Draco danza
agile come una gazzella inespugnabile, si piega all’indietro, facendo forza con
le braccia, salta, corre. L’ho sempre saputo di che cosa era capace, dai tempi
dei duelli ad Hogwarts. È sempre stato agile come un leopardo, veloce, dai
riflessi pronti ed attenti. È talmente rapido che, di lui, poco prima di
chiudere gli occhi, riesco solo a focalizzare la chioma bionda balenare veloce,
e poi più nulla. Ecco, perché liberarsi delle catene.
Difficilmente
riuscirebbero a prenderlo, adesso, con o senza bacchetta.
Mentre lancio un
altro anatema, mi chiedo che diamine abbia in mente. Agile sì, ma prima o poi,
rinunceranno ad affidarmi esclusivamente il suo omicidio. E lo colpiranno anche
loro, non può scappare per sempre.
Chiudendo ancora gli
occhi, che stanno per cedere, come se mi stessi addormentando, per via dello
sforzo che ci sto mettendo, noto però che, quando si accorge che sto per
colpirlo, scarta sempre di lato. Perché? Improvvisamente, ad un nuovo schianto
dell’anatema contro gli angoli della veranda, comprendo: sta cercando
deliberatamente di far rimbalzare l’incantesimo contro gli angoli della
veranda, che oramai sono crollati e che, dal rumore di pietre che sento, stanno
continuando a franare. Sotto, scommetto, ci sono le colonne portanti.
È questo il suo
piano.
Vuole
fare crollare il balcone.
Saremo liberi così… anche se chissà come ci salveremo allora, se
crollasse tutto.
Ma effettivamente, forse
è l’unica cosa da fare. Nella migliore delle ipotesi, li distrarremmo al punto
tale da poter tentare di fuggire.
E,
nella peggiore, almeno non ci ammazzano loro.
La veranda è sospesa
sul lago, a circa tre metri d’altezza. Non ce la faremmo mai.
Potrebbe
salvarsi da solo. Ed invece sta facendo tutto questo, per salvare anche me.
Di
fronte all’assenza assoluta di possibilità, sta scegliendo quella che ne ha
anche solo una su un miliardo di salvarci entrambi.
Sono
stata davvero io, la sua rovina.
Chiudo ancora gli
occhi, mentre lo colpisco. Il granito, sotto i miei piedi, sembra vacillare.
Draco salta ancora, verso il limite opposto. Ma, quando li riapro, Astoria è ad
un centimetro dal mio volto, mi stringe il braccio dietro la schiena, facendomi
male.
Guarda prima me, e
poi lui, con gli occhi socchiusi. Poi li sgrana furiosa. E capisce.
“Puttana!” urla con
tutta la voce che ha in corpo, sguainando la bacchetta e puntandomela contro.
“Stupeficium!”. Il
potere che richiama a sé, prima della Maledizione, è così potente che
probabilmente mi ucciderà semplicemente con quello. Il lampo di luce rossa mi
colpisce in pieno alla schiena, ne avverto il dolore solo per un istante, prima
di sentire i sensi venire meno. Cerco di restare vigile, ma il dolore è così
forte da farmi chiudere gli occhi, specie dopo l’enorme sforzo che ho
fatto.
La potenza
dell’incantesimo mi fa volare dalla parte opposta.
“NOOOOOOO!!” sento la
voce di Draco urlare, mentre cado oltre la ringhiera. Lo vedo slanciarsi
repentino verso di me, correre per la breve distanza che ci separa, il mio
polso scivola dalla sua mano, mentre la forza di gravità mi richiama giù. Nei
miei occhi socchiusi, vedo Hogwarts scivolare veloce, le luci confondersi negli
occhi, il rombo sordo del vento nelle orecchie, mentre la superficie dell’acqua
nera si avvicina. Il vento, assurdamente, cerca quasi di trattenermi nel mio
volo disperato, ma la legge che mi attira verso il basso è più forte di tutto
il resto. Il vento riesce solo a farmi ruotare su me stessa, come se fossi una
bambola di pezza. La testa mi scivola all’indietro, guardo le stelle per
l’ultima volta, sapendo che la pastoia che mi gela il corpo, mi impedirà
persino di nuotare. Draco è lì, sospeso nel cielo muto di stelle, appoggiato
alla balaustra, la mano inutilmente protesa verso di me, il volto una maschera
di cera.
La paura di morire,
che si insinua rapida come il vento nel mio sangue, non mi impedisce comunque
di sperare che perlomeno lui si salvi da questo folle delirio.
Devi
tornare da Serenity. E crescerla come tua figlia. Non darla a nessuno, non
allontanare chi ti ama, specialmente lei.
E
non allontanare nemmeno Seth. Non hai mai avuto un fratello, fa che sia lui.
Vorrei
averti potuto dire… prima di… che ti amo.
Dio,
se ti amo Draco Malfoy…
Chiudo gli occhi,
presagendo l’impatto imminente con l’acqua ghiacciata, li riapro ad un metro
dall’acqua, solo per guardarlo per un’ultima volta.
Non lo vedo.
Non lo vedo più.
Terrorizzata, lo
cerco, il vento negli occhi che mi impedisce di mettere a fuoco la balaustra.
Poi, improvvisamente,
di nuovo un baluginare biondo.
Draco, in piedi sulla
balaustra, flessuoso come un nuotatore professionista, si tuffa dietro di me.
Astoria tenta inutilmente di fermarlo, urla di frustrazione. Draco vola come un
angelo, a pochi metri da me. Agghiacciata, lo vedo seguirmi.
Dimmi
che non lo stai facendo… ti prego…
L’acqua gelida inonda
le mie orecchie, arriva ai miei polmoni. Cerco di trattenere il fiato, mentre
il tonfo di Draco mi raggiunge pochi secondi dopo. Il buio che mi circonda è
totale, non vedo ad un palmo da me. Urto contro qualcosa, il poco fiato che
avevo preservato, scivola fuori dalle mie labbra serrate, disperdendosi in
piccole bolle argentate. I polmoni bruciano per lo sforzo, poi non sento più nulla.
Nulla.
Quando
si muore, dicono che ti passa tutta la vita davanti.
La
rivedi, pezzo per pezzo, secondo dopo secondo, affannarsi nel cervello che
muore.
Bambina
il primo giorno di scuola, ragazzina con il primo reggiseno, donna con il primo
ragazzo.
Tutto
si mescola in quei pochi, fatali secondi.
Ho
rischiato di morire tante volte, forse troppe per una persona sola.
E
mi è sempre accaduto. In un modo rapido e veloce, d’accordo. Ma ogni volta, ho
rivisto tutta la mia breve vita.
Tutta.
Davvero.
Non
sto scherzando.
Mi
si scolpivano a fuoco, però, pochissime cose. Sempre le stesse. Come se la mia
vita, in fondo, si riassumesse solo in quelle.
Harry
che mi abbraccia alla fine della guerra. Odore di sangue e di speranza.
Ron
che mi sposta i capelli dal viso, dopo aver fatto l’amore per la prima volta.
Odore di resina e ancora di speranza.
Ginny
che mi dice che sarò la sua testimone. Odore di lavanda e di gioia trattenuta.
Solo
queste.
Oggi…
solo una cosa. Solo una. Come se la mia vita avesse perso improvvisamente ogni
dimensione e si fosse riassunta solo in questo.
L’attimo
più bello della mia vita.
La
luce del sole.
Io
che affondo il viso nella sua camicia, imbarazzata, arrossendo. Serenity che
sonnecchia accanto a me.
E
lui che mi stringe dopo avermi detto che lotterebbe per diventare il motivo che
cerco. Il motivo per farmi restare.
Quello
è stato il momento più bello della mia vita.
E
ora, so che stai lottando per esserlo. Stai lottando per farmi restare nella
tua vita.
Ti
sei buttato in acqua per questo.
Ma
tu lo sei già, Draco.
Sei
il motivo per restare io stessa in vita.
Ed ecco qua, il nuovo
capitoletto!! E premetto che come sempre è stato un parto plurigemellare!! Il
motivo è evidente se l’avete letto, succede una cosa così importante che dovevo
assolutamente descriverla in modo perfetto o quasi!! Finalmente dopo la
bellezza di 28 capitoli, Draco è uscito dal suo gelo perpetuo ed ha finalmente
ammesso, anche se praticamente sotto tortura, di essere innamorato di Hermione,
evvaiiiii!!! Ma siccome nulla è facile in HALFT,
chiaramente non siamo ancora a nulla… nel senso che i problemi iniziano adesso…muahahaahh!!!
Allora prima di tutto
io devo fare una menzione particolare!! E cioè per Ginsan89 che ha
praticamente azzeccato tutto quello che stava per succedere!! Io sono rimasta a
bocca spalancata, quindi d’ora in poi chiedete a lei così vi dice praticamente
tutta la trama…:D:D:D:D scherzo, comunque volevo sottolineare questa cosa e
soprattutto volevo comunque scusarmi con te se non ho potuto darti conferma dei
tuoi sospetti, perché altrimenti ti avrei spoilerato
tutto…:D comunque davvero sei stata bravissima!! Sono rimasta attonita!!:D
Chiedo anche scusa se
per lo scorso capitolo non ho inserito i ringraziamenti, nemmeno su FB, ma
purtroppo il mio pc dà da tempo i numeri, come sanno
coloro che mi sentono via msn, quindi spesso sono
costretta a sparire causa connessione assente!! Quindi ringrazio tutti coloro
che mi seguono, sia che leggano solamente, sia che mi contattino su Fb, sia per altre vie, sia coloro che mi stanno aiutando a
rendere questa storia più bella di quanto già non sia… come avrete forse
notato, dal primo capitolo ora stanno anche comparendo delle immagini, tutto
merito di Dalia 91 che ringrazio ancora… e forse tra poco potrete vedere anche
un video!!:D bene, prima di iniziare a delirare procedo ai ringraziamenti
consueti!!
Grazie davvero a Punkinetta (ho cercato di fare prima possibile, ma con gli
esami spesso è davvero difficile raccogliere le idee e scrivere…L grazie dei
complimenti!!), Helder Black (la mia cara Helder!! Non ti sento da parecchissimo!!:D spero che tu abbia desistito dal tuo
proposito di uccidere la povera Herm, alla fine si è ripresa!! Un grande bacio
e grazie!!), Rorothejoy (con mia somma fortuna non
esiste un sindacato a difesa dei lettori…J
altrimenti sarei morta più e più volte!! Per il concepimento del pupetto che premetto io già adoro in modo sviscerale, ci
vuole molta pazienza!! Ma come puoi vedere, Dracuccio
è vivo e vegeto!! Solo che se mi tieni in vita fino a quando finisce la storia,
allora la aggiorno tra settant’anni!! scherzo!! Ancora grazie!), Vanilla_sky (tesoro!! Ti prego non piangere!! Sono davvero
felice, e non è crudeltà, che tu abbia provato queste cose leggendo il chappy!
Spero che almeno questo ti abbia fatto provare cose più positive, anche se
stiamo sempre nella tragedia andante… :D tranquilla, come hai visto, Draco è
vivo e vegeto… non sono ancora così deviata da far concepire Alex per opera
dello spirito santo!!:D grazie davvero per i complimenti!! Se hai qualche
dubbio o mi vuoi contattare anche se non hai fb usa
pure la funzione contatta autori di EFP, e ti rispondo volentieri!! Un
bacio!!), Haley James (anche tu mi vuoi uccidere!!!ç_ç come vedi ho sistemato tutto, con una serie di capriole
mentali, ma ce l’ho fatta!! Seth purtroppo sarà assente per un bel po’… e già
mi manca!! Un bacione!!), Herm26 (ciao tesora! Ho
cercato di aggiornare prima possibile, sono felice che tu abbia sentito così
tanto la parte dello Zahir, cercavo di renderla realistica ma non sapevo fino a
quanto ci fossi riuscita!! Davvero grazie grazie!! Un
bacione), Valaus (la mia compagna di depressioni facebookiane!! Che è bravissima e dice che non è vero!! Ci
hai visto stragiusto che la faccenda dello Zahir non si poteva risolvere così
facilmente, eh no!! Se quella testaccia dura non l’avesse fatto!!! il momento
languido e strappalacrime l’ho recuperato qui, ma siccome non hanno capacità di
muoversi, alla fine è stato quello che è stato!! Ma spero che ti abbia fatto
riprendere dallo shock dello scorso capitolo!! Grazie davvero di tutti i tuoi
complimenti, sono arrossita!!) Liven (ho rischiato
uno strangolamento!!!:( spero che tu abbia cambiato idea con questo chappy!! Un
grande bacio e grazie!!!), Seven (la mia cara compagna di anticipazioni e di
domande nevrasteniche, ma va bene, secondo te va bene??? Tu sei unica, come
sempre quindi nemmeno mi prodigo in ringraziamenti sennò ci metto mezza
giornata!! Un bacio, tvb!!), Danino
(tu vinci il premio dell’ipotesi più tragica, addirittura Draco voleva farsi
uccidere? No, per fortuna le cose stavano in modo leggermente più semplice!! Ma
solo leggermente… sono abbastanza tragica anche io!!Grazie tantissimo!!),
Stellale (mamma mia, grazie davvero!! Sono commossa…ç_ç
magari mi cogli su questo capitolo il passo falso, visto che sono stra in dubbio di come sia venuto!! Effettivamente quando
ho pensato allo Zahir, non ho necessariamente pensato a qualcosa di magico, in
senso stretto. Mi ha successo parecchie volte di vivere la situazione di
Hermione, non essere corrisposta e covare un odio simile, anche se non con
quegli effetti, ovviamente… quindi era una cosa facile da immaginarmi… sono
diventata decisamente pessima in quei momenti…L
Draco è un maledetto, perché ha taciuto tutto questo tempo!! Ma non sa che cosa
lo aspetta…:D:D:D un bacio e grazie!!) Giulia Malfoy (anche tu mi vuoi morta!!ç_ç questa storia mi sta creando tanti nemici…ç_ç un po’ della perplessità su Draco te l’ho sciolta oggi,
spero!! Poi un giorno saprete tutto quello che pensa!! E Seth io lo amo… anche
se penso che lui mi preferirebbe Beckham!!:D un bacio!! Grazie!!), Eldariel (grazie tantissimo!! Purtroppo i miei tempi
restano sempre lunghi, sorry!), Ginsan
89 (io con te non ci parlo!! Profetessa della mia storia, tutta l’hai
azzeccata!! Scherzo, tesoro, scusami ancora se non ti ho risposto su fb!! Baci), Only V (ciao tesora! Tranquilla, io sono una donna contorta, ma non
crudele… e anche le pagine del diario di cinque anni in avanti sono anche fatte
apposta… :D e mo mi sto zitta…:D La tua teoria numero uno si è rivelata
corretta, Hermione alla fine non ha ucciso Draco e tutto per la frase che lui
le ha detto. E la sua schizofrenia è Astoria che gliela sta facendo venire!!
Quindi in questo ci hai preso!! La seconda teoria invece con nostra enorme
fortuna, non era corretta, vi posso assicurare, e questo davvero lo faccio
senza problemi, che Alex è davvero davvero il figlio
di Draco… !! Draco diciamo che allora non ci ha capito molto, ma ora penso che
abbia capito che è stata tutta colpa di quella brava donna di Astoria… e tra
Hermione e Seth è solo un arrivederci, tranquilla, lo amo troppo per farlo
sparire di scena così!! Un bacio), Lady Sly (tu hai
bramato la mia morte più di tutti!!! Devi avere fiducia nella Cassie tua!!:D
no, non sono congetture strampalate: Draco tecnicamente deve restare in vita
fino a concepire Alex… poi al massimo lo uccido… scherzo, ho troppa paura di
te!!ç_ç un bacio!!), Eruanne
(mi è piaciuta molto la tesi di Draco, terrorizzato da Hermione che la sposa
per calmarla!! La userò prima o poi!! Ahahahah!!
Povero Draco, davvero… ç_ç un bacio!! Grazie!!), PaytonSawyer (tesoro!! Voglio
anche io lo Zahir per avere i capelli neri e dritti!!:D Tu dunque pensi che il
marito di Hermione sia Hayden!! E chissà… mamma mia poverina, alla fine davvero
che mi ammazzi!! Un bacio)
Ricordo di aver letto una volta che il diamante
è la pietra dei matrimoni, perché è quella più dura e solida. Quella che, si
presuppone, non si dovrebbe scheggiare mai.
Non si dovrebbe incrinare, piegare, rompere in
alcuna ragionevole maniera.
La realtà, però, non è un reticolo cristallino
di atomi di carbonio. Non che questa sia una novità, anzi.
L’ho sempre saputo, non l’ho ignorato nemmeno
per un attimo della mia vita. O meglio, la vita stessa non mi ha permesso di
ignorare questa cosa.
È fatto di carne e sangue, un matrimonio.
Pertanto, è debole, friabile, attaccabile da qualsiasi morbo che attenti alla
sua funzionalità fisiologica.
Si insinuano presto le malattie, in un
matrimonio. All’inizio, sono deboli ed isteriche come un raffreddore, poi si
cronicizzano, accompagnate da un endemico silenzio.
E diventano incurabili.
Ci si convive, come con qualunque cosa. Si va
avanti, si assumono palliativi, ci si riempie delle cure del caso. Si urla al
miracolo e alla risoluzione di ogni problema, quando una nuova medicina,
corroborata da medici dell’ultima ora, viene immessa sul mercato.
Si spia lo stato di salute delle altre coppie,
ci si dice che non si è in quelle condizioni, ci si dà di gomito, guardando le metastasi
degli altri, mentre si dissolve un altro diamante, sigillo di un amore eterno
finché dura.
Ho sempre odiato tutto questo sfacelo, lo
vedevo nei miei, che pure si amavano. Mi ero progressivamente convinta che fosse
una cosa naturale, un decorso sistematico ed inevitabile, e, testarda, dicevo
che non ne avrei mai fatto parte. Non mi sarei mai sposata.
Che senso mai avrebbe avuto?
Pranzi di Natale ipocriti, coperti dalla
polvere di rapporti formali. Stessa cosa per decine di altre ricorrenze.
Il matrimonio mi ha sempre terrorizzato, anche
se, come qualsiasi altra donna sulla faccia della Terra, ci ho sempre
fantasticato sopra. Ma forse, più su quel giorno da vivere come una
principessa, piuttosto che su quello che sarebbe successo dopo. Perché, scrollati
di dosso i chicchi di riso e deposti i confetti, la sposa veniva deposta dalle
braccia del suo sposo e si trovava davanti la vista di una nuova casa, pregna
dell’odore di vernice fresca e foriera di promesse presto dissolte.
La fantasia del mio giorno ideale, includeva
me, il mio futuro marito, i miei testimoni, ed una spiaggia al tramonto, come
quella dove trascorro le mie attuali giornate.
Niente pranzi luculliani tra parenti serpenti e
falsi amici.
Quando è arrivato il mio momento, anche solo per
un attimo, io ho sognato quel giorno. Vorticava come all’interno di una sfera
di cristallo, tipica di una fattucchiera.
E vedevo chiaramente chi volevo che ci fosse. I
miei, Harry, Ginny, Seth e il personale del Petite Peste, Helder, ovviamente
Serenity.
Ma è stata una fantasia fugace, repentina, come
se temessi di guardare in quella sfera come quando andavo a Divinazione… ed è
stato il più grande errore della mia vita.
La vita ha sempre un senso dell’ironia sottile
e perverso. E mi ha concesso il matrimonio intimo che volevo.
Mi ha concesso Helder ed Harry… e ha escluso
gli altri invitati.
Mi ha concesso l’aria tranquilla che volevo… ma
ha escluso la spiaggia al tramonto. Mi ha dato una chiesa gotica in una notte piovosa
di febbraio.
E mi ha concesso anche di avere un figlio alla
cerimonia… ma un figlio non nato, ancora nel mio ventre per pochi giorni. Ed ha
escluso la figlia nata da un’altra madre.
Ma soprattutto ha escluso il solo che avrei
visto al mio fianco come marito, sebbene lo avessi negato fino alla morte.
Il mio matrimonio, oggi, è una macchina
perfetta. Oliata, rodata, ben funzionante.
Fa invidia, desta stupore, ha l’odore di
biscotti fatti in casa e di risate trattenute alla vista di estranei.
Scorre nelle mani unite mie e di mio marito che
fanno volteggiare Alex che ride contento.
Mi guardo l’anulare sinistro, dove sottile
luccica nel sole del primo mattino il cerchio d’oro giallo che mi candida come
moglie.
Sopra di esso, un altro cerchio dello stesso
colore regge una pietra piccola di colore rosso. Non un diamante.
Lo scelse mio marito, oramai cinque anni fa.
Disse che era perfetta per me e, forse, oggettivamente gli diedi anche ragione.
Ma sapevo che era il solito modo per legarmi a lui tramite un colore, un suono,
un odore. Un qualsiasi cosa che stabilisse il filo rosso spezzato.
Difatti, non fece cenno ai diamanti. Forse
disse che costavano troppo, o forse disse che erano antiquati. O forse non
disse davvero nulla.
E, forse, quel suo silenzio fu, come sempre,
manna dal cielo, perché meno parole cercava, più cose potevo ignorare. O
fingere di ignorare.
E lui lo stesso.
È il regalo più bello che ci siamo fatti, in
questi cinque anni. Parole luccicanti e sterili, silenzi pesanti e vitali.
Guardo il suo anello, luccica come una goccia
di sangue, resa di cristallo scarlatto. Lo sfilo, trattenendolo nella mia mano.
Cerco nelle mie tasche e trovo il compagno
della mia fede nuziale. O meglio quello che sarebbe dovuto essere il suo
compagno e che, chissà per quale astruso motivo, ho ancora io.
O meglio per chissà che ironia della mia vita,
ho ancora io.
Ci ho pensato spesso a questa cosa, specie quel
giorno, quando, dopo quasi un anno dal giorno che mi ha rovinato la vita, mi
decisi a fare il cambio di stagione, cercando indumenti più chiari e leggeri
per l’estate che iniziava, sperando che avessi ancora qualcosa che mi andasse
dopo essere diventata mamma di Alex.
E l’anello era esattamente dove l’avevo
lasciato. Dopo tutto quel tempo e dopo tutto quello che era successo… era ancora
nella tasca del mio cardigan azzurro.
Lo stesso che, nella fretta, avevo indossato
quel giorno.
Chissà se Draco l’ha mai cercato… e chissà se
avrebbe voluto trovarlo, perché aveva un’altra mano più docile della mia, a cui
farlo indossare.
Quel giorno, quando lo ritrovai… il dolore mi
ottenebrava ancora la mente, e ferivo mio marito di rancore inconscio, e mio
figlio di malinconica cura negletta.
Con rabbia, pensai che ce l’avevo ancora io,
semplicemente perché mi era destinato. Era il mio destino averlo.
Ora, dopo cinque anni, in cui il mio
fantomatico destino ha perso la strada di casa, penso solo che sia un caso.
È così labile la linea tra destino e caso, tra
fato e coincidenza, che ne sposto spesso l’argine a seconda della giornata e
del momento.
Protetta dal silenzio della spiaggia e dalla
mancanza di persone, infilo l’anello al dito delle promesse. Anulare sinistro.
Poco sopra la fede.
Scintilla il diamante, come se fosse una stella
nel primo sbocciare della sera. E, per un momento, penso quasi che c’entri
ancora il destino.
È un anello sfortunato, è un anello destinato
ad essere sempre nascosto… l’anello dei matrimoni che sarebbero perfetti, ma a
cui manca qualcosa.
L’anello dei matrimoni che non sono reali.
L’anello del matrimonio tra Narcissa e Lucius
Malfoy. Forse falso, e comunque finito prematuramente.
L’anello del matrimonio tra Danny Ryan e Rachel
Leigh. Falso, perché di due persone mai realmente esistite.
… ed infine l’anello del matrimonio tra
Hermione Jane Granger e Draco Lucius Malfoy.
E non ho nemmeno alcun aggettivo da poterci
aggiungere.
E questa, se possibile, è la cosa peggiore tra
tutte.
L’acqua
è nera, scura, vischiosa. Qualcosa mi tocca la caviglia, mentre affondo ancora
più in profondità. Anche se l’incantesimo mi consentisse di fare qualcosa, probabilmente
non potrei nemmeno… troppo densa l’acqua per essere tale, troppo gelida, troppo
scura.
Il
vestito zuppo che si apre come una medusa, il ghiaccio prima nelle vene e poi
nei polmoni, le mani inutilmente tese verso qualcosa. L’asfissia.
Morire.
Fluttuare
in quel pensiero, stanca di qualsiasi cosa. Inutile respirare… ed inutile ed
impossibile ogni altra cosa.
Dolce
naufragare in questo mare… chi era che lo diceva?
Non
importa. Chiudo gli occhi.
Il
sapore della torta alla fragola.
Il
colore del mare di gennaio.
L’odore
di un libro appena comprato.
Il
graffiare di una penna su una pergamena.
La
leggerezza cartacea delle ali di una farfalla.
Serenity. Seth. April. Harry. Ginny. Helder. Mia madre.
Mio padre.
…
ciò che amo…
Draco…
Draco… Draco…
Caldo
alla mano, strattone, dolore alle braccia attraversate da fitte. Acqua scorre
nelle orecchie, mentre scivolo in direzione opposta.
Qualcos’altro
che mi tocca velocemente, mentre è come se sfuggissi via.
Impatto
violento con l’aria. Ancora più gelo, dita ghiacciate tamburellano sulla mia
testa.
Scroscio
d’acqua. Strattoni.
Vento,
ancora più freddo, pelle d’oca e brividi.
Qualcosa
di compatto sotto la schiena. Gli occhi chiusi, riesco a tossire acqua.
Ossigeno cercato riprende a circolare nei polmoni.
La
gola raschia come se ci strofinassi sopra carta vetrata. Rischio di soffocare
adesso, più che prima. Forse sanguina.
Vengo
sollevata di peso. Calore, lieve, lontano, soffuso come quello prodotto da una
tremula candela.
Braccia
che mi cingono…. Il profumo di
Draco.
Altre
voci. Concitazione.
Cado
dolcemente nel velluto nero di un sonno profondo cento anni.
La prima cosa che
sento, appena sento di essere di nuovo cosciente, è il freddo.
Intenso, pungente, anche
se mi sembra di non sentire più i miei vestiti bagnati. È come se fosse… interno. Un gelo interno.
I miei capelli li
sento ancora umidi, si attaccano al collo, asciugandosi. Sicuramente, per
essere oramai quasi asciutti, deve essere passato un bel po’ di tempo… cerco di
ragionare, ma il freddo è così forte che a fatica mi trattengo dal battere i
denti.
Le labbra mi
bruciano, come se fossero scottate. Cerco disperatamente una fonte qualsiasi di
calore, ma le mie mani, mollemente abbandonate, non sono ancora in grado di
muoversi da sole. Primo, perché sembrano anche esse dei pezzi di ghiaccio,
secondo perché sono ancora sotto effetto del maledetto controllo di Astoria,
terzo, credo di essere così debole che se anche lo facessi, ci morirei sul
colpo. Sotto la schiena, non avverto più il pietrisco come prima… anche se non so
esattamente quanto tempo fa… ma la sensazione di una superficie liscia,
morbida, contro la schiena, probabilmente un letto, considerando che sono distesa
e che sento con una parte della mia pelle ancora in grado di sentire qualcosa,
il fresco di un lenzuolo poggiato sul mio corpo, che però comunque non riesce a
riscaldarmi.
Le mie riflessioni
riprendono, come un fiume in piena, mentre, inspirando profondamente, sento il
curioso ed inconsueto odore che mi circonda. Un profumo di donna, forte,
carico, impossibile da ignorare. Sembra il profumo alla violetta che metteva
sempre mia mamma.
Non sembra quello di
Astoria… ed è a quel nome che i miei sensi ritornano improvvisamente vigili,
anche se i miei occhi restano chiusi, come se fossero incollati e non riuscissi
a forzarli per aprirli.
Una scossa elettrica.
Nulla a che vedere
con lei, ma ugualmente forte.
Draco.
Con le mie forze
residue, faccio forza sui miei occhi per aprirli, ma riesco solamente a
socchiuderli, non riuscendo ad identificare praticamente nulla dalla minuscola
lama di luce che filtra alle mie pupille. Dietro le mie palpebre chiuse, non si
è affacciata alcuna luce aranciata quindi penso che sia ancora notte. Dalla mia
esigua prospettiva, non riesco a vedere nulla, il panico mi avvolge come un
manto pesante e soffocante. Il pensiero che non ce l’abbia fatta, mi serra la
gola, gemo silenziosamente, deglutendo. Posso fare solo questo, altrimenti
urlerei e mi alzerei per cercarlo, dovunque mi trovo. L’insofferenza alla mia
prigione silenziosa, mi fa tremare di frustrazione e dolore, il gelo che
penetra ancora più profondamente nelle mie ossa.
Mi sembra evidente di
essere al coperto, non sento rumori di qualunque tipo, solo qualche suono
attutito dalle pareti.
E, probabilmente,
sono anche al sicuro. Ma non posso ragionevolmente sentirmi al sicuro, se non
lo sento, se non lo vedo. Dov’è Draco?
Improvvisamente, un
bruciore inaudito sulla fronte, come se mi avessero messo del sale sulla ferita
che ho poco sopra l’occhio, tranne che sembra provenire da qualcosa di morbido
e contemporaneamente di bagnato che preme alternativamente sull’escoriazione. Sembra…
l’odore di un disinfettante… facendo
forza sugli occhi, cerco di aprirli del tutto, ma non c’è nulla da fare. A
parte l’oramai ben nota sensazione che il mio corpo non mi appartenga e che
galleggi in una collosa immensità, sento le membra così deboli e fiacche che
persino il respiro è diventato doloroso e faticoso. Ogni volta che il torace si
abbassa e rialza, fitte acute mi raggiungono al cuore.
Forse sono in un
ospedale… o al San Mungo… ma non sarebbe così silenzioso.
Non
mi interessa dove sono, perché continuo a chiedermelo?
Draco… dove è,
maledizione? Il ricordo di tutto ciò che ci è successo, non so esattamente
quanto tempo fa, mi sommerge ad ondate. I particolari sono chiari, netti,
vividi nei loro colori ed odori, ma sembra… tutto… così assurdo… forse ho sognato tutto…la scoperta del suo sentimento per
me, le bugie di Astoria, il suo piano per farci capitolare… rabbrividisco,
possibile che sia stato tutto reale?
Possibile
che mi sia stato mostrato che Draco Lucius Malfoy è innamorato di me, Hermione
Jane Granger?
Come
diamine può essere successo? È impossibile…
Il resto, stranamente,
mi sembra più reale, più possibile… il volo oltre la ringhiera, il lago,
l’acqua nei polmoni… il freddo ritorna prepotente attorno a me, come se ci
fossi ancora dentro quel lago. Tremo a quel ricordo… l’acqua… al solo pensiero,
mi assalgono le vertigini e il panico. E
poi… faccio fatica a ricordare… ma certo, l’angelo biondo… lui che si tuffa.
Sono certa di averlo
sentito… sono certa che è stato lui a salvarmi. Con un brivido, ricordo il
calore del suo corpo contro il mio.
Il suo profumo era
penetrante come non è mai stato prima… ero certa… di essere morta. E di essere
finita in Paradiso, anche se non potevo nemmeno muovermi o aprire gli occhi.
Ero certa che fosse lui… mi ha stretto e portato in salvo. E poi? Dov’è andato?
Possibile che mi
abbia abbandonato qui, dovunque sono, e se ne sia andato?
La paura che sia
andata davvero così, mi stringe il cuore in una morsa.
I gesti dell’ignota
persona che mi sta disinfettando la ferita, cessano all’improvviso, sento
gettare lontano la garza che mi stava medicando e sento anche distintamente
sbuffare la suddetta persona, mentre borbotta qualcosa a mezza bocca. Non
riesco ad intendere che cosa stia dicendo, ma non sembrano cose molto gentili e
carine. Che darei per aprire gli occhi, anche mezzo secondo, ma, nonostante non
smetta di sforzarmi, non c’è modo che si decidano ad aprirsi. È come sbattere
ripetutamente la testa contro un muro di cemento armato. Con il risultato che
sono frastornata esattamente come se lo avessi fatto sul serio.
Improvvisamente, sento
il rumore distinto di una porta che si apre cigolando, e la persona che è
accanto a me, seduta sul letto, si alza. Il materasso infatti va su e giù,
tornando al suo volume originario. La sento sbuffare ancora, ma la mia
attenzione non è già più rivolta nei suoi confronti.
Draco.
Sono diventata peggio
di un cane da tartufo, quando si tratta di lui.
La
pioggia nel mese di settembre, la terra che langue un’intera stagione per il
caldo e ritrova l’abbraccio umido dell’acqua, rifiorita vivifica dal cielo.
Non lo posso vedere,
non ha nemmeno parlato, eppure so che è lui. Ne sento l’incomparabile pienezza
che avvolge già la stanza, comprendendo anche me. Il nodo in gola che non mi
faceva respirare, si disfà, ispirandomi curiosamente a piangere per il sollievo
di sentire che è vivo, libero, accanto a me. E’ una sensazione così primordiale
ed appagante che adombra tutto il resto, ogni domanda ed ogni pensiero. Mi fa
sentire come sempre una ragazzina al primo batticuore, ma, come sempre, non ci
posso fare assolutamente nulla.
Oramai, non ci voglio
nemmeno fare nulla. Sia anche sconveniente, assurdo ed umiliante…
Come una botta in
testa, ricordo qualcosa. Un pensiero. Un mio
pensiero. Di tanto tempo fa… quando Dean mi lasciò.
Sin
da bambina, sognavo l’amore senza aggettivi, quello passionale, intenso e, per
una come me, assolutamente illogico. E non importa se mi dovesse mandare in
corto circuito il cervello, con mia grande ansia ed angoscia, ma basta che sia
così grande, bello e meraviglioso che io non possa rimpiangere nulla di quello
che ho fatto o che sto per fare.
Se potessi sorridere,
lo farei… a pieni polmoni.
L’amore per Draco è
sempre stato illogico al punto tale da farmi creare uno Zahir per liberarmi del
suo pensiero.
Ed ora, oggi, dopo
tanto tempo e dopo tante negazioni, non mi interessa di lui. Davvero.
Fosse stato anche un
meraviglioso sogno sentirlo dire che mi ama, non mi importerebbe.
Sono solo felice di
sentirmi viva, per questo sentimento che mi squarcia il petto. Felice, sul
serio. Di amarlo e che lui sia vivo.
Soffrire
è sempre meglio del niente.
E
forse c’è chi ha ragione a dire che è meglio amare e perdere, che non amare
affatto. Ora ne capisco appieno il senso.
Vale
davvero la pena essere innamorata di Draco Malfoy.
“Come sta?” come prevedevo,
è la sua voce a raggiungermi. È vistosamente stanca e vibrante. Mi chiedo
angosciosamente come stia.
Quando l’altra
persona, quella che mi stava disinfettando le ferite, parla, ne riconosco la
voce, ma non riesco di primo acchito a distinguere distintamente a chi
appartenga. È una voce pastosa, di donna, abbastanza isterica nel tono.
“Quando esattamente ho detto che mi interessa
del suo stato di salute?”. Ecco… è una che non mi sopporta. Chi diamine è? La
voce… la conosco… ma non mi viene in mente dove l’ho sentita.
I passi di Draco
risuonano cupamente nella stanza silenziosa, si siede sul letto accanto a me,
sospirando. Sento il peso del suo corpo sul materasso ed arrossisco nel
sentirlo così vicino, il calore del suo corpo è così percettibile che mi sembra
di non sentire più freddo, rovente il sangue che il cuore impazzito pompa nelle
vene.
“Credo, quando ti sei
ricordata che mi vuoi tanto bene…”
risponde a tono Draco, la stanchezza non cancella l’ironia della sua risposta.
“Anche questo l’ho fatto,
quando?!!”.
“Quella è una tua
amara consuetudine, Pansy…”.
Trasalgo nella mia
immobilità. Se fossi in grado di muovermi, lo picchierei a sangue con una
vanga… mi ha portato a casa di Pansy Parkinson??? Ecco chi diamine era… ed ecco
anche perché non mi sopporta… ampiamente ricambiata, ovviamente.
Faticosamente ricordo
che cosa Draco mi disse, quando mi raccontò della sua copertura come Danny
Ryan.
In
pochi sanno che sono ancora vivo… Blaise, Pansy…
Perché diamine se
aveva bisogno di nasconderci, non mi ha portato da Harry? Là, saremmo davvero
stati al sicuro… e in compenso avremmo anche potuto denunciare Astoria, Pucey e
Montague… perché, invece, è venuto qui?
L’odierna esperienza
con Astoria mi ha però insegnato che l’agire di Draco Malfoy, anche se
apparentemente criptico, ha sempre una sua intrinseca motivazione. Quindi,
probabilmente, anche questa volta ce l’ha.
O
realisticamente sono arrivata al punto di fidarmi completamente di lui.
In ogni caso, appena
torno in possesso delle mie capacità fisiche, questa me la spiega… eufemismo
per dire che se non ce l’ha una spiegazione, finisco il lavoro che ha iniziato
Astoria.
“Allora… come sta?”
chiede di nuovo Draco con un filo di voce, lo sento improvvisamente più vicino,
anche se non mi sembra che si sia mosso. Ringrazio, per la prima volta, la
maledizione che mi rende una statua di sale… è davvero imbarazzante stare qui,
mentre parla di me, e, se dovessi solo fingere di essere addormentata, mi sarei
sicuramente tradita. Ma, se il mio corpo non può reagire in alcun modo, nemmeno
alla sua vicinanza, allora posso chiaramente diventare un’attrice da Oscar.
“Credo… bene…”
replica controvoglia la Parkinson, schioccando la lingua “Le ferite sono
superficiali, niente di serio… e, per l’immobilità, chiaramente non so nulla,
sembra una cosa potente, oscura… qualsiasi cosa sia, sicuramente non sarà
facile da sciogliere… comunque, ha ragione… alla fine, è lei la persona più esperta a riguardo… o perlomeno la più esperta a riguardo, che non abbia avuto
rapporti tali con il Signore Oscuro da ammazzarti, appena ti dovesse vedere….”.
Draco annuisce, senza
partecipazione.
Chi,
esattamente, hanno chiamato? Una persona esperta, a riguardo… dello Zahir,
ovviamente, e forse di faccende oscure… ma non direttamente legata a Voldemort…
chi diamine è?
Che razza di nervoso…
“Si è solo lamentata
poco fa…” conclude atona Pansy, la sento stiracchiarsi come un gatto annoiato
“Forse per il freddo…”.
“Metterle una coperta
addosso, no, eh?”.
Pansy Parkinson
sospira noncurante, prima di replicare piccata: “Non penso che me l’avessi
detto… e il pensiero che le mie preziose lenzuola di damasco la stiano
toccando, è già qualcosa di aberrante per me…”.
Giuro che, se un
giorno dannato mi riprendo da sta storia, l’ammazzo con le mie mani.
“Non crederai ancora
alle sciocchezze dei Mezzosangue e simili?” chiede con un vistoso sospiro
Draco.
“No, ma credo ancora
al potere fortemente infettivo delle Grifondoro saccenti e che fanno di cognome
Granger…”.
Draco,
inaspettatamente, ride leggermente. La sua risata costringe anche Pansy ad
imitarlo e, sebbene lo stiano facendo di me, sento il cuore più leggero.
Sentirlo ridere… non mi accadeva da tanto.
Certamente
la Parkinson può farlo stare decine di volte meglio di quanto faccia io…
Tra me e lui, invece,
è sempre tutto così dannatamente difficile… forse è davvero così… che io e lui
non siamo destinati a starci accanto…con
una come la Parkinson, sembra facile come respirare… e forse magari lei lo
ama ancora, per questo lo sta aiutando.
Mentre,
per me e per lui… è come… se forzassimo il destino…
Quel pensiero, vero
come non c’è mai stato nulla e razionale come solo un sillogismo potrebbe
essere, mi fa annaspare, facendo salire le lacrime ai miei occhi morti, che non
le liberano, lasciandole incagliate lì. Le ricaccio indietro a fatica.
Quando Pansy riprende
a parlare, ha la voce più calma e serena, meno isterica.
“E la bambina?”.
“E’ di là…sta
dormendo… c’è Blaise con lei…”.
La
bambina? Serenity… ha portato qui anche lei…
Ma certo, sarebbe
stato abbastanza semplice per Astoria prenderla e ricattare Draco per farci uscire
allo scoperto, se effettivamente, come sembra, siamo riusciti a sfuggirle.
Dubito che si sia arresa all’idea di ucciderci entrambi, constato con un
fremito.
Spero che Draco abbia
pensato anche a Seth e agli altri.
Blaise… quindi anche Zabini è qui… di bene in meglio…
È la voce di Pansy a
rompere nuovamente il silenzio. La voce scende di tono, diventando bassa e
roca: “Sembra così assurdo…”.
“Cosa? Che Astoria
voglia uccidermi?”.
“Anche…” replica
Pansy, si siede anche lei sul letto, la sua voce mi arriva più vicina “Ma
soprattutto credo che sia assurdo che sia tu a non voler uccidere lei…”. Questa me la spiega… credo che
Draco se avesse Astoria tra le mani, altro che ucciderla. Non penso che la
perdonerebbe per pura bontà divina… ed, anche se lo facesse, mi trasformerei io
nella peggiore delle serial killer.
Se penso a come
diamine mi ha ridotta… anche se mi
consente di stare qui a sentirli parlare, senza problemi…
Capisco che non
stanno parlando di Astoria, solo quando Draco riapre bocca.
“Già… è assurdo…” la sua voce sembra sorridere
in modo quasi doloroso. Il suo eco è straziante come il canto di milioni di
dolori sconosciuti, mi allarga il cuore, vinto dalla tenerezza e da uno strano
calore dalle parti dello stomaco.
Sta
parlando di me… non ho sognato… è davvero… ancora, non riesco nemmeno a pensarlo. Ancora, la parola innamorato, anche se la ripetessi mille
e mille volte nel cervello, non renderebbe davvero quello che sento al pensiero
che lui provi anche solo la metà di quello che io provo per lui. E’ solo
gettare un sasso in un lago limaccioso e torbido.
Ringrazio Dio di aver
creato le orecchie in modo che funzionassero in modo completamente autonomo
dalla volontà, e continuo ad ascoltare, il cuore in gola, il respiro corto.
Cerco di calmarmi in modo che non capiscano che sono cosciente.
“Ma sai qual è la
cosa più assurda?” chiede Draco, quasi più che parlasse con sé stesso che con
Pansy. La voce è assente e persa nei suoi pensieri, distratta. Lei rimane in
silenzio, esortandolo a continuare.
Delicatamente come se fossi una bambola di
porcellana, sento una mano sul viso che mi accarezza piano gli zigomi, le
guance, fino alle labbra. Sotto le sue dita, la pelle del mio viso fiorisce di
brividi freddi e caldi, assieme. Lungo il collo, scivola ghiaccio e lava.
Mi chiedo come faccia a non accorgersene, come
faccia a non rendersi conto di come mi riduca ogni volta che mi sfiora.
La pelle delle sue dita è calda, sembra lasciare tracce
e solchi incandescenti sulla mia, come guide luminose per la prossima volta in
cui si approprierà di nuovo del mio viso. Sfiora le mie labbra, per poi
fermarsi all’improvviso come se si ricordasse solo allora di Pansy.
Riprendo a respirare, quando si stacca da me. Ma
non è un anelito di vita… no. È solo morte non sentire
più la sua pelle sulla mia.
“La cosa più assurda è che lei è insopportabile… te la ricordi no?”, una piccola
pausa quasi divertita, ostaggio di memorie lontane. Dovrei sentirmi offesa, ma
quel insopportabile, il tono con
cui l’ha detto… è come se mi avesse ricoperta di lodi e onori per secoli.
Basta davvero così poco, se lo fa lui… basta sempre
anche una briciola di pane, lasciata distrattamente per terra.
Mi sfama per mille e mille anni.
Il singhiozzo che mi
preme per uscire, diventa come sempre un solo minuscolo sospiro che, nel
silenzio, rimbomba come un tuono. Eppure non credo che l’abbiano sentito. Draco
riprende a parlare di nuovo, senza apparentemente accorgersene.
Un piccolo movimento
impercettibile.
E solo qualche
parola.
“… eppure, se non
tornasse più quella di prima, io sarei pronto a togliermi la vita…”.
Tum.
Un solo rombante,
cupo e potente battito del cuore. Un
colpo al cuore. Riecheggia nelle orecchie come l’eco in una valle deserta,
si ripete all’infinito ed anche oltre. Tum.
Perdere un battito… e questo per sempre. Sistole e diastole che si
susseguono, asimmetriche, disuguali, disarmoniche, perché hanno perso quel solo
ed unico battito. Milioni di secondi dopo, quando si fermerà del tutto il mio
cuore, ricordarne la melodia a partire da quel momento. Tum.
Il cuore accelera,
impazzisce, esplode nel petto, ma è quel battito che io continuo a sentire
nelle orecchie. Come uno schioppo che esplode sordo, come il grilletto che
cambia la vita di una persona, o forse di due. E che si preme in un secondo.
Le sue parole
scivolano lungo le mie spalle, come un vestito di seta che sfugge leggero,
scorrendo sulle braccia, fermandosi alle mani, che iniziano a tremare, senza che
me ne accorga. Sulla pelle, scaglie gelate che bruciano come l’inferno.
La dolcezza mi stringe un nodo in gola, pesante,
opprimente, soffocante, gli occhi sempre chiusi, a malapena riesco ancora a
distinguere la presenza di Draco accanto a me, persa nella dimensione
fantastica dove le sue parole mi hanno portato.
Quel contrasto tra il significato delle sue parole,
e il tono indiscutibilmente suo della voce, è ancora un miracolo per me.
Parole dolci, parole tenere, parole… innamorate… fatte di iperboliche
dichiarazioni di morte prematura, di promesse ridondanti eppure meravigliose… e
poi la sua voce, sempre roca, dura, graffiata, solo più triste, tremula e
sospesa. Il mio Draco. Sempre lui,
sempre odioso e saccente, sempre arrogante e indisponente… ma innamorato.
Di me.
È come se un paio di mani calde e leggere avessero
preso il mio cuore e lo tenessero assieme, raccogliendo e facendone combaciare
i pezzi, creatisi dopo anni di delusioni e fallimenti. Quel calore si irradia
per tutto il mio corpo, lo riscalda, infiamma il mio viso, brucia i miei occhi,
mi gonfia il petto di un dolore piacevole e struggente come una canzone colma
di nascosta nostalgia.
La mano si contrae nervosamente, stringendo un
lembo del lenzuolo.
“Me ne sono resa conto… se penso che vuoi… per la
Granger… assurdo…” inveisce
Pansy disgustata e quasi arrabbiata.
Lui continua a parlare, come se fosse un fiume in
piena a cui hanno tolto adesso un argine scomodo e fastidioso.
“E’ stata colpa mia, quello che le è successo… io
l’ho portata a questo… la volevo proteggere e…”, lo sento deglutire
pesantemente, fremere e colpire piano, forse con il pugno, la spalliera del
letto. Trema la mia schiena.
Trema tutto, come se crollasse su sé stesso.
“Lei aveva ragione, Astoria aveva ragione… la mia
condanna… sarà… questa… sapere di averla avuta, sempre, e aver permesso che mi
sfuggisse dalle dita, e solo per colpa mia… ma non importa…”, la sua voce si
spezza ancora, lasciando sfuggire un debole quanto silenzioso singhiozzo. Non
sono nemmeno certa di averlo sentito davvero.
Le mie dita tamburellano nervose, il cuore minaccia
di uscirmi dal petto.
“Se mi odia… se l’ho persa…va bene … finché sia al
sicuro… è il mio solo pensiero, vivo
solo perché lei e Serenity siano al sicuro…”, si lascia scappare una risata
nervosa, greve, pesante, finta: “… mi dispiace di averti dovuto coinvolgere, ma
come ben ricorderai, non avrei mai dimenticato che mi devi circa cinquanta
milioni di favori… e per lei li avrei anche sfruttati…”.
Gli occhi pizzicano ancora, la mano supera il lenzuolo
e gratta il materasso.
Odiarti… l’ottavo
peccato capitale… e pensare che l’ho fatto per una vita…
Dio… se un giorno
potessi parlarti ancora… anche solo una volta…
Poi accetterei anche
di essere un vegetale per tutta la vita… basta che sia accanto a te…
Si muove ancora, lo sento spostare il peso da una
gamba all’altra e riprendere ancora, la voce adesso di nuovo rauca e strozzata:
“Mi va bene che mi odi… va bene… in fondo, l’abbiamo fatto per una vita…”, e
qui ancora una pausa sofferta, prolungata, piena zeppa di ricordi che aleggiano
come pipistrelli nello spazio che ci separa.
Ricordi di insulti che le parole odierne riescono a
dissipare a fatica, come raggi di sole in un cielo plumbeo.
“… e non
sarebbe così inconsueto che continuasse così per lei… anzi, come mi dimostri
pienamente tu, sarebbe anormale il contrario… probabilmente Potter la
rinchiuderebbe in manicomio, se… scegliesse me…”.
Stringo la mano a pugno, le unghie feriscono il
palmo ghiacciato. Fremono le narici ed accelera il respiro.
“Non gliene farei una colpa… mai… mi basta solo una
cosa…”.
Un’altra pausa, più lunga stavolta. La mia mano
rilascia la sua tensione, rimane appoggiata sulla gonna del vestito.
“Deve tornare da me,
Pansy…” aggiunge con un filo di voce “Hermione deve tornare com’era… insopportabile, odiosa,
saccente, presuntuosa, acida, arrogante… ma lei, come è sempre
stata… rivoglio la donna che amo detestare… poi,
lei sarà libera di fare quello che vuole…”, quasi come tentasse disperatamente
di convincere sé stesso, prosegue con tono deciso e caparbio: “… ho perso
Helena e tu sai quanto l’amassi… e ho perso anche i miei… ma sono sempre
sopravvissuto… se perdessi anche lei, se lei restasse per sempre così, so che
potrei sopravvivere ancora. Ci sarebbe sempre Serenity, Seth… te e Blaise…
potrei vivere per la vendetta, per uccidere Pucey e Montague… ed Astoria, a
questo punto… potrei vivere per milioni di motivi, persino per non infastidire
Potter con la mia morte…”, le sue parole sono fredde e aride, eppure mi
spingono ancora più inspiegabilmente ad avvertirne il vuoto lacerante dentro “Ma
il problema è che non so se lo vorrei ancora… non so se davvero sarei ancora
così codardo da vivere in un mondo dove lei non c’è più, anche se fosse
presente fisicamente, ma non più con l’anima… ci vorrebbe troppa energia…e,
ora, dopo tanti anni… sono troppo stanco per farlo
ancora…”. Trema ancora tutto il mio corpo, sotto il peso di quelle parole,
sotto il tono rassegnato con cui le sta pronunciando, sotto il silenzio della Parkinson.
Come se guardassi dal buco della serratura, come se leggessi una pagina di
diario… la cosa più intima di lui che potessi mai udire… e il cuore mi sembra
esplodere dall’emozione di sentirlo.
Specie, per come sta parlando di me… specie, per
come, al di là di quel ricordo che gli è stato strappato e mi è stato mostrato,
percepisco la dimensione del suo sentimento per me… puro, disinteressato, come è sempre stato… come non avrei
mai pensato sarebbe stato…
Respira a pieni polmoni, lo sento sistemarsi meglio
sul letto accanto a me, un suo fianco sfiora distrattamente il mio.
La mia mano sussulta, aprendosi piano.
“Ho quasi ventiquattro anni… ma è come se ne avessi
trecento…” sussurra fiaccamente, così debole e stanco da sembrare assolutamente
incurante di me o di Pansy “… e se lei morisse, sarebbe facilissimo per me
morire a mia volta… finalmente…”.
Il tono assolutamente serio delle sue parole, mi fa
rabbrividire di paura ed angoscia, improvvisamente presa in modo spasmodico dal
ritmo del mio respiro cadenzato e doloroso come sola garanzia del suo permanere
in vita.
Si muove ancora, nervoso, riprende a parlare con
più energia: “… ma a questo non voglio pensare… oggi non ci voglio pensare… sai
quando è capito di essere innamorato di lei?”. Pansy, che è rimasta in muto
silenzio da quando ha iniziato a parlare, erompe con tono di voce caustico: “Se
ti dicessi di sì, mi risparmieresti il resto? Sono già abbastanza nauseata…”.
“Probabilmente no…” commenta lui, una lieve
increspatura ilare della voce.
“E allora prosegui, caro amico…” scimmiotta lei, fingendo
partecipazione. Muto il cuore, aspetto che prosegua.
“Quando l’ho vista con un altro…” sussurra lui con
malinconia, mi si spezza ancora il cuore al ricordo del suo sguardo, il giorno
in cui baciai Hayden. La gola mi sembra che voglia andare a fuoco, per le
lacrime trattenute a stento dalla magia che mi imprigiona.
“E sembrerebbe la trama di uno schifoso romanzetto…
ma non è stato perché ero geloso… ok, d’accordo, lo volevo ammazzare solo
perché si azzardava a respirarle vicino… ma alla fine non era solo questo…”, si
ferma a disagio, schiarendosi la voce prima di continuare: “… ero invidioso di quel patetico babbano… era un
idiota, ma intanto poteva starle vicino. Ripensavo a lei, a lui e mi sembrava
di impazzire, non riuscivo a sopportarlo… perché lui viveva e lei anche. Il babbano non era un cadavere che cammina… come me… la portava in giro e
lei stava bene… e io non avrei mai potuto farlo. E non solo perché era
rischioso, perché stando con me rischiava la vita… o perché magari nemmeno
l’avrebbe voluto… no. Perché non sapevo farlo… perché non so da anni che cosa
significa vivere… esisto… non vivo… peggio di una fottuta
pianta ornamentale…”. Lo sento contrarre il pugno nervosamente, poggiandolo sul
materasso, il suo dolore satura l’aria come un miasma tossico e velenoso.
“Per la prima volta, da quando ebbi a che fare con
il Signore Oscuro… ho desiderato vivere… prima che per
lei, per me stesso… e per Serenity…” lo sento esitare, cercare le parole “… e
so che non sarà facile… ma lo farò… sono convinto che cercherò sempre la morte…
ormai è per me come un’amica, come una consolazione, sapere che esiste la
possibilità di fuggire, quasi come un’uscita di sicurezza, ma voglio cercare di
non farlo più, voglio chiudere questa storia una volta per tutte. Prima di
tutto, con Pucey, Montague e la Greengrass… e poi con me stesso. Lo devo prima
di tutto ad Helena… lei che voleva disperatamente vivere, è morta, e io ho
sprecato tutto questo tempo. Lo devo a Serenity, perché si merita la vita
colorata che non ha avuto sua madre… e non gliela devo negare io, perché sono
mortalmente ferito dalla vita stessa. E, poi, lo devo ad Hermione… per esserne
stata l’artefice… ed, se andrà via, cercherò solo di esserle grato per aver messo
piede al Petite Peste quel giorno… anche se chissà se saprò essere sempre così
razionale…”.
Bisogno. Uno scomodo, urgente e
sconveniente bisogno.
Un nodo
di ansiosa apprensione mi serra la gola, cerco quasi un anelito di respiro,
come se stessi ancora annegando, la sua disperazione che si confonde con la
mia, diventando una sola. Grande, immensa, sconfinata, rappresa sulle sue
parole come sangue aggrumato su una ferita. Mi manca il respiro, forse sto
soffocando davvero…
Ma il
bisogno di respirare… e il bisogno di lui…
non sono minimamente comparabili.
Spilli
sotto il palmo della mia mano, come se mi stessero conficcando milioni di
piccoli aghi invisibili…vorrei accarezzarlo, vorrei che la mia mano lo
attirasse vicino a me, vorrei che le mie labbra si schiudessero, vorrei parlare
e dirgli che lo amo…vorrei…
Ogni
cosa, pur di sentirlo vicino. Come un bisogno, come mangiare, bere, respirare,
dormire, avere amici, provare gioia, essere lodati.
Un
bisogno, più grande di tutto il resto.
Il mio
corpo brucia nella sua inerzia, gli arti sono come rami secchi arsi vivi dalle
fiamme, ogni articolazione mi duole come se avessi la febbre. Persino le ossa
le sento consumarsi, diventare cenere. Le corde invisibili
che tengono ferme le mie braccia lungo il corpo, si tendono impercettibilmente,
trattenendomi, mentre cerco di forzarle con tutta l’energia possibile. Si
tendono come elastici allungabili, arrivando quasi al punto di rottura e
costringendomi a perdere il fiato nello sforzo di tirare ancora. Il sudore mi
inzuppa la schiena.
“Non potrò esserci quando Raissa arriverà… glielo ho detto…”
riprende Draco, dopo aver respirato profondamente, la voce che torna asettica,
Raissa deve essere la persona che hanno chiamato per guarirmi “Devono restare
qui, il Ministero non è sicuro, anche Potter lo sa… e mi ha detto che, qualora
fosse successo qualcosa, perlomeno nei primi giorni, non sarei dovuto andare da
lui…Pucey e Montague forse hanno dei contatti lì… anche se allora parlava solo
di me e di Serenity, non di Hermione… comunque qui sono più al sicuro…”,
registro le sue parole con una parte cosciente della mia mente, piccola,
minuscola.
Tutto il resto va a fuoco come il mio corpo. Rogo di silenzio fermo.
“… non sapevo dove portarle… per questo sono qui, so che vi
sto mettendo in pericolo… ma ho fatto il patetico Grifondoro fino ad ora, poi
posso tornare anche il solito Serpeverde e ricattarti in qualche modo…”, una
risata fatta solo per abitudine.
Pansy sbuffa per abitudine.
“Per favore, prenditi cura di loro…” aggiunge alla fine con
un sospiro “So che sarà difficile per te…”.
“Difficile non è minimamente comparabile a quello che
davvero sarà avere la Granger per casa…” sbuffa ancora Pansy, poi sospira
preoccupata: “E pensi di tornare?”. Sussulto impercettibilmente, statica
nell’incendio che mi mette a soqquadro.
Dove sta andando?
Lui annuisce sovrappensiero, biascicando: “Non dipende da
me, ma ho la volontà di tornare… e
questa, al momento, è la sola cosa che posso sinceramente promettere…”. Pansy
non replica nulla.
Dove diamine sta andando,
dannazione?
Le corde cedono di qualche millimetro, nervosamente mi rendo
conto di poter muovere le dita del piede. Cerco di fare forza per quanto mi sia
possibile, ma sembra non avere effetto. Dietro le palpebre chiuse, le lacrime premono
per uscire.
“Non mi dire che la vuoi salutare!
Guarda che vomito sul serio!!” urla arrabbiata Pansy, alzandosi dal letto.
Draco sussurra con un sospiro, spaccandomi dentro: “Dopo averla avuta una volta, non ne
potrei più fare a meno…fin quando sono forte a sufficienza da tenerla lontana,
devo continuare a farlo…”.
“Sei
diventato troppo melodrammatico, lasciatelo dire… un tempo avresti persino
approfittato che era incosciente per toglierti lo sfizio…” dice convinta Pansy,
ma la sua voce trema in modo impercettibile.
“Hai
ragione… non sarebbe una cattiva idea…”.
“Basta
che lo fai lontano da me… quindi possibilmente quando non è in casa mia...”, un
debole ed inespressivo bisbiglio: “Stai facendo una cosa davvero idiota…e
meriteresti di morire per questo…ma vedi di tornare… Blaise non me lo devo
sorbire io, se crepi…”.
Gli occhi, forzati fino ad essere rossi, riescono
faticosamente ad aprirsi. Ma Draco mi dà le spalle e non se ne accorge. Lo
osservo con disperazione,non riuscendo a capire che cosa stia accadendo, temendo che
stia andando incontro alla morte, solo per colpa mia. Le spalle larghe sono
tese e contratte, mi perdo nel fissarlo. È persino più bello di quanto me lo
ricordassi, i ricordi non gli rendono giustizia, nemmeno con uno sforzo incredibile
di concentrazione e precisione. Ed, anche se ha ancora i capelli bagnati,
arruffati come quelli di un pulcino, e il viso sporco di terra, mi si mozza il
respiro, come se soffocassi. Arrossisco, guardando la camicia nera aderire
perfettamente alla sua pelle, rivelando ciò che soltanto la mia fervida e
lussuriosa fantasia può aver immaginato. Ha delle bende che gli coprono un
braccio, e qualche altra sulla fronte, ma sembra stare bene. Cerco
disperatamente i suoi occhi, è un controsenso cercare calore da quelle due lame
ghiacciate, eppure oramai per me sono diventati questo. Calore. Come quando tocchi il ghiaccio ed il tuo cervello recepisce
dapprima la sensazione di freddo, ma dopo il bruciore per quel contatto,
diventa quasi infuocato, non sapresti più dire se hai caldo oppure freddo, come
sarebbe logico. Ecco, Draco, per me è questo. Un controsenso. Mi ha sempre
gelato con i suoi occhi, ma dopo sentivo che andavo a fuoco.
I suoi occhi, però, restano ostinatamente rivolti
davanti a sé, non si accorge di me. Al rallentatore quasi, lo vedo aprire le labbra e pronunciare piano la
formula di smaterializzazione, la bacchetta in pugno. La cupa disperazione e la
paura per dove si stia recando, da solo, senza di me a potergli fare da scudo,
si traduce in un’ultima sferzata di energia che spezza definitivamente i
legacci invisibili.
Come un
elastico teso che viene finalmente rilasciato, mi sollevo seduta sul letto,
allungando la mano verso di lui.
Afferrando solo l’aria… quel tragicomico pop ancora nelle orecchie. Un solo secondo dopo… che è andato via.
Le lacrime che
non piango da ore, forse da giorni, o da mesi, rovinano dai miei occhi,
scoppiando in singhiozzi acuti. Mi piego in due, poggiando il viso sulle mie
ginocchia raccolte al petto. Sento la Parkinson parlare, e mi ricordo della sua
presenza… lei può richiamarlo indietro, lei può… fare qualcosa… può riportarlo
da me… lo deve riportare da me… adesso, non mi importa che cosa ne pensa…
Apro le labbra,
imponendomi di urlare, ma dalla gola non esce alcun suono. Nulla.
Cerco di farmi
forza, ma, se il controllo di Astoria sembra avermi liberato il corpo, la voce
comunque non esce. Sotto lo sguardo inorridito della Parkinson, mi porto una
mano sul collo. Nulla. La voce non esce. Ogni altro movimento, adesso, mi
riesce, constato lucidamente.
Ma la voce, no…
la voce era la cosa che le dava più fastidio… forse me l’ha tolta per sempre…
“Granger, ma tu
non eri tipo immobilizzata?” commenta malignamente la Parkinson, guardandomi storto “I patti
erano che mi dovevo prendere cura di una specie di bambola di pezza, non della
Granger in tutta la sua ingombrante presenza… sei ingrassata in questi anni, lo sai?”.
Sorride con finta comprensione, la guardo stringendo gli occhi. Concentro la
mia attenzione sulla stanza, scarsamente illuminata adesso da una lama di luce,
proveniente dal sole che sorge. Le pareti avorio si colorano di riflessi rosa
ed arancio, rendendomi visibile tutta la magnificenza del letto a baldacchino
sul quale sono ancora semisdraiata, decorato da drappi preziosi cobalto ed oro.
In un lato della stanza, una specchiera è parzialmente coperta da una serie di
boccette di vetro colorato e vari cosmetici, tra cui un rossetto rosso carico
lasciato distrattamente aperto.
Con un balzo,
mi alzo furiosamente dal letto, mentre la Parkinson continua ad inveirmi
contro. La testa mi gira e il passo è molle e fiacco, ma riesco a camminare,
anche se devo subito appoggiarmi alla specchiera per non cadere, in preda alle
vertigini. Chiudendo gli occhi e respirando a fatica per vincere la sensazione
di venire meno, afferro il rossetto e mi affretto a scrivere sullo specchio, a
caratteri cubitali: Dov’è andato Draco?
“Perché diamine
non parli, razza di idiota?” biascica nervosamente la Parkinson, scuotendo la
testa piena di riccioli ardesia. Roteo gli occhi con espressione ovvia,
indicando la mia gola e poi negando con il capo. Lei si illumina e sorride
malignamente: “Che bello, almeno sei senza voce! Posso dire quello che voglio e
non puoi rispondere! Dio, che bel regalo di Natale in anticipo!”.
Sospirando
rumorosamente, indico con un dito il messaggio sullo specchio, picchiettando un
paio di volte per attirare la sua attenzione.
“Santo cielo,
anche Draco lo chiami?” vomita lei con disgusto “Lui, Hermione, tu, Draco… il mondo è decisamente andato a scatafascio…”.
Picchietto ancora sullo specchio, ignorandola, ma lei non si dà ovviamente pena
di rispondermi prima che mi scoppino le coronarie dall’angoscia, ma continua a
tergiversare e ad esporre le sue teorie sul presunto capovolgimento dell’ordine
costituito, che prelude sicuramente ad un cataclisma di proporzioni bibliche. Mentre
conta i giorni che ci separano dal 21 dicembre del 2012, penso irritata e
sconvolta: “A mali estremi, estremi rimedi…”.
Inizio come un
ossessa a far cadere tutte le boccette di vetro per terra, una dopo l’altra. I
flaconi si rompono, cadendo al suolo, una serie di frammenti di diamante che
luccicano nella luce del primo mattino con un fragore assordante, parzialmente
coperto dalle urla della Parkinson che tenta inutilmente di fermarmi. L’aria si
satura di odori e profumi preziosi, mescolati in un olezzo poco gradito.
Alla facciaccia sua…
Agli strepiti e
alle urla della Parkinson che continuano a proferire epiteti irripetibili
contro la mia persona e tutti i miei antenati, la porta della stanza si apre di
scatto, sbattendo contro la parete. Mi giro di scatto, il cuore in gola,
sperando che sia Draco, ma ovviamente non si tratta di lui, ma di Blaise
Zabini, accorso alle urla. “Mione!”, Serenity che è in braccio a lui, si
divincola cercando di venirmi in braccio.
Le corro
incontro, strappandola non molto gentilmente dalle braccia dell’impietrito
Zabini, stringendola forte a me.
“Si può sapere
che diamine sta succedendo?” sussurra lui con voce esile e modulata,
osservandomi con la testa inclinata di lato. I capelli neri gli coprono
parzialmente i sottili ed allungati occhi verdi da felino. Distolgo lo sguardo
da lui, indicando lo specchio con un dito e sperando che perlomeno lui si degni
di rispondere. Cosa che, ovviamente, non avviene. Zabini si affretta ad
avvicinarsi alla Parkinson, sentendo la sua versione dei fatti che riporta più
o meno il mio stato mentale fortemente disturbato e reso peggiore dal mutismo.
“Quindi almeno
adesso si può muovere…” constata lui freddamente, guardandomi dall’alto in
basso. Sollevo il mento con espressione di superiorità, stringendo meglio
Serenity. Zabini rotea gli occhi nervosamente, dopo aver guardato Pansy ed
averle detto con voce potente e stentorea: “Lo sai meglio di me che glielo abbiamo
promesso…”. La sua
attenzione torna a me, non prima di essersi riempito gli occhi di freddezza:
“Stiamo aspettando una persona che potrebbe aiutarti a riacquistare il
controllo di te stessa… ma vedo che già siamo ad un ottimo punto…”, mi scocca
un’occhiata accondiscendente, proseguendo: “… se Draco ti avesse visto prima di
partire, sicuramente si sarebbe tranquillizzato…”.
Al mio
ulteriore cenno verso lo specchio, proferisce rapido: “Sono affari suoi…”.
Come diamine farò a resistere qui per più di un’ora, con
questi due che non vogliono dirmi nulla?
Abbasso il
viso, le lacrime che mi appesantiscono lo sguardo, rendendo tremulo tutto ciò
che vedo. Serenity mi poggia una mano sul viso, dandomi un piccolo colpetto e
pronunciando il mio nome con l’accenno di pianto. Respiro profondamente e le
sorrido.
“Cosa mi tocca
fare…” borbotta Zabini con voce incolore, prima di dire: “Ascolta, Granger…
Draco non è un idiota… o meglio non lo era prima di innamorarsi di te, ma perlomeno in queste
cose è ancora il migliore… ricorda che è sempre il traditore di
Voldemort… e se non l’ha
fatto fuori l’Oscuro Signore, dubito che ci riesca qualcun altro…”. Sollevo gli
occhi, guardandolo; apparentemente sembra sincero. La mascella gli si
indurisce, mentre continua: “E se ci tieni a lui, invece di spaccare cose e
preoccuparti della sua sorte, dovresti pensare alla tua… riposarti e riprenderti, soprattutto se non sei
nemmeno in grado di fare magie…”, e qui un’odiosa risata gli curva le labbra,
sicuramente, dato che lavora al Ministero, ricorda perfettamente la mia
condanna “… sei totalmente inutile… ma se almeno fossi capace di parlare e di dirgli
che sei…”, un moto di disgusto gli deforma il viso in una smorfia “… insomma,
che… sei innamorata di lui… come credo che sia evidente a tutti, tranne che a lui… ne acquisterebbe forza… ed è questo che gli serve adesso, forza… non la
tua isteria…”.
Le sue parole
hanno un che di indiscutibilmente vero che mi fa abbassare lo sguardo di
vergogna, arrossandomi le guance.
Effettivamente
mi sto comportando decisamente da isterica. Che cosa penso di fare? Al momento,
io non servo assolutamente a nulla. Io sono la magia.
Sono ritornata,
anche se parzialmente, nel mio mondo, quello a cui davvero appartengo.
Ma da cui sono
ancora mortalmente divisa, e non solo perché ho ancora la condanna che grava
sulla mia testa.
Al momento, non
ho nemmeno la voce… sarei solamente un peso, per lui. Dovrebbe pensare solo a
difendermi.
E io, invece,
non posso difendere lui, né tantomeno Serenity.
Per questo… devo tornare me stessa, quanto prima possibile…
Inoltre, se non mi libero del tutto del controllo di
Astoria… probabilmente lei troverà il modo di controllarmi ancora.
Annuisco con il
capo, sedendomi sul letto e poggiando Serenity sul copriletto.
“Ecco… meno
male…” sospira Zabini, estraendo la bacchetta e facendo sparire i frammenti di
vetro dal pavimento. La Parkinson si siede nervosamente su una sedia, agitando
la gamba elegantemente accavallata avanti ed indietro.
“Al momento,
siamo uniti da Draco… nostro malgrado…” ribatte Zabini con decisione “Quindi al
momento è meglio deporre le armi… non siamo amici, né mai lo saremo… ma lui ti
ha affidato a noi, quindi è meglio che ti dai una calmata…”.
Sbuffando,
annuisco ancora, distogliendo lo sguardo da lui per guardare Serenity.
“Stessa cosa
vale per te, Pansy…” aggiunge, guardando in tralice la ragazza mora che
immediatamente sgrana gli occhi neri, arrabbiata.
“Stai per caso
parlando con me? O mi stai rimproverando?!” inveisce lei, alzandosi e
stringendo rabbiosamente i pugni.
“Mi sembrava di
sì…”.
“Tu e Malfoy
avete dei seri problemi! Io non ho alcun dovere nei confronti suoi o della Mezzosangue…”
urla a squarciagola, il volto livido “Se ne è andato per anni, si è innamorato
della Granger, e ora lo dovremmo aiutare! L’ha portata anche a casa mia! Non se
ne parla proprio!”. Attraversa la stanza a grandi passi, i tacchi che battono
sul pavimento di legno, per poi aprire la porta e chiuderla bruscamente alle
sue spalle. Mi chiudo nelle spalle, imbarazzata, mentre Zabini sospira ancora.
Entrare nelle
dinamiche degli ex Serpeverde, non era una mia priorità nella vita. Decisamente.
Sono persone
che ho sempre ignorato, abbondantemente ricambiata.
Invece, adesso,
per il solo fatto di essere così legata a Draco, ci sono in mezzo. Queste sono,
in fondo, le persone di cui lui si fida di più nella sua vita, tanto da sapere
anche il suo segreto, cioè che è ancora in vita. Inoltre, da come ha parlato
prima Draco, sembrava chiaramente che Pansy sapesse tutto anche di Helena e di
Serenity… ed ora anche di me.
Mentre il viso
mi va a fuoco, ricordando ciò che ha detto poco fa, di cui ogni parola mi si è
incisa dentro come un comandamento scavato nella roccia, tra me e Zabini cala
un pesante silenzio. Lui guarda distrattamente fuori dalla finestra con sguardo
assente, lucciole nella giada. L’unico rumore è prodotto dal lenzuolo che va
giù e su, strattonato da Serenity che ha inventato un nuovo gioco.
Sorrido,
guardandola. Sono contenta che ci sia almeno lei…
Sul comodino di
legno intarsiato, intravedo una penna lunga e flessuosa, di colore nero,
accanto ad un calamaio di inchiostro rosso ed un foglio di pergamena. Mi sporgo
per afferrarli, sicuramente mi saranno utili visto che non posso parlare.
Poi, spinta da
quel silenzio imbarazzante che prosegue, mi faccio coraggio e scrivo poche
righe sulla carta, porgendole poi a Zabini.
Mi dispiace… fosse stato per me, non saremmo nemmeno venuti
qui… ma saremmo andati dal Ministro…
So quello che
ha detto Draco, che il Ministero non sarebbe sicuro e che anche Harry gli
avrebbe consigliato di non andare da lui, in caso di difficoltà con Pucey e
Montague che potrebbero avere delle spie, all’interno. Ma… insomma… se avessimo
parlato direttamente con Harry… forse avremmo arginato i rischi…
Zabini afferra
il foglio di carta e le legge, appallottolandolo subito dopo con stizza.
Ma chi diamine me l’ha fatto fare? Figurati che mi frega
delle paturnie di Blaise Zabini… come se non avessi abbastanza problemi…
Lo osservo con
la coda dell’occhio, cercando di non farmene accorgere. Era da parecchio tempo
che non lo vedevo, almeno da due anni, esattamente da quando ebbi la
celeberrima condanna. Lui era nell’ufficio di fronte al mio, ma comunque non
abbiamo mai avuto alcun genere di conversazione. È sempre stato la tipica
persona che, nonostante la scuola fosse finita e nonostante la mia posizione si
fosse fatta decisamente importante nel Mondo Magico, continuava a trattarmi come
faceva a Hogwarts.
Quando mi
incrociava nei corridoi, oppure se per qualche motivo ero costretta a
rivolgermi a lui per lavoro, mi guardava con la stessa espressione che mi
riservava sempre alle riunioni che Lumacorno allestiva al sesto anno tra gli
studenti che riteneva migliori.
Lo sguardo, per
la serie, che diamine ci fa lei qui?!
Uno sguardo che
mi ha sempre profondamente irritato, anche quando andavamo a scuola e, a
lezione, rispondevo correttamente alle domande dei professori o collezionavo E
una dopo l’altra… i Serpeverde continuavano a guardarmi come un enorme errore
di valutazione del sistema scolastico, come la pecca, la macchia, la magagna
che guastava il metro di giudizio di tutti gli altri.
Draco mi ha sempre guardato così, ora fa quasi male ricordarlo. E, dietro di lui,
venivano immediatamente la Parkinson e Zabini.
Ma, giunta ad
un certo punto della mia crescita, quando oramai tutte le chiacchiere dei
Purosangue e dei Mezzosangue, mi erano state spiegate e ne avevo compreso i
meccanismi malati e contorti, perlomeno per me, quegli sguardi mi lasciavano
indifferente.
Sapevo chi ero
e non avevo bisogno di dimostrarlo a loro.
Questo, però,
ovviamente, mi ha sempre impedito di osservarli bene, come invece mi è tipico per mia stessa
natura con tutte le altre persone. Potevo anche restare indifferente a quello
sguardo o sbuffarci sopra con insofferenza, come una pioggia imprevista in una
splendida giornata di sole, ma intanto, non essendo masochista, cercavo di
evitarli per quanto mi fosse possibile, specie se incrociarli implicava
automaticamente la possibilità che Ron ed Harry finissero in punizione fino
alla prossima era geologica. Di conseguenza, se per i Grifondoro, i Tassorosso
e i Corvonero, ero in grado di rendermi conto di tutto, dalle relazioni più
segrete ad improvvisi cambiamenti di umore e carattere, con i beniamini di
Piton non poteva ovviamente andare così.
Blaise Zabini,
quindi, è al pari di tante altre persone, un illustre sconosciuto.
In fondo, lo era anche Draco. Lui, potevo conoscerlo meglio per via della sua
collaborazione con l’Ordine o perché era l’oggetto di ogni indagine di Harry a
partire dal secondo anno, ma mai avrei potuto dire che cosa lo legava a Blaise
oppure a Pansy, e come si fosse evoluto il loro rapporto nel corso degli anni.
Ora, chiaramente, il mio sentimento verso Draco, mi rende sensibile anche a
questo.
Nella smania di
conoscere ogni cosa di lui, rientra anche Blaise Zabini.
E mi chiedo
automaticamente come mai Draco abbia scelto, quando ha deciso di fingere la
propria morte e di sparire dal mondo magico, di preservare comunque un rapporto
con loro due, tra l’altro un rapporto tale da spingerlo a venire qui a
nascondere me e Serenity.
Tralasciando
Serenity, che è una Purosangue, è sempre di me che si parla. La Mezzosangue
Granger, Grifondoro fino al midollo e cocca dei professori, nonché amica
stretta di Harry Potter. Insomma, come parlare dell’aglio per un vampiro.
Eppure,
nonostante le rimostranze e gli sbuffi, sono rimasta qui. Draco ha chiesto e
loro hanno obbedito. Anzi, non hanno obbedito.
Hanno accettato.
Hanno persino accettato che lui sia innamorato di me e io di
lui… anche se continuano a
pensare che Draco si sia impazzito. E questo sicuramente è il minimo… eppure lo
stanno aiutando.
Cosa è così
forte da legare tre persone in modo così assoluto?
Osservo
attentamente Blaise Zabini, quasi cercandone risposta. Non è molto cambiato in
questi anni: è sempre molto alto, molto più di me ed anche di Draco, sembra
sfiorare il metro e novanta. Il viso è sempre spigoloso, duro, la mascella
volitiva, le labbra carnose atteggiate in una smorfia continua di fastidio
aristocratico, probabilmente immatricolata in Serpeverde. I capelli sono
lunghi, legati in una coda non molto lunga, sembrano la criniera di un cavallo
nero dal manto estremamente lucido e nobile; gli occhi verdi completano
l’aspetto da pirata del settecento, ulteriormente suggerito dal fatto che
indossa una camicia bianca con degli sbuffi sul davanti e un paio di pantaloni
neri. Apparentemente perso nei suoi pensieri, apre un cassetto della specchiera
di Pansy, estraendone un pacchetto di sigarette lunghe e sottili. Ne esce una,
le dita sottili l’accendono con un gesto risoluto, diffondendo nell’aria un
odore voluttuoso di liquirizia e gelsomino. Storco il naso, voltando il viso
dall’altra parte, non sono nelle condizioni di parlare o meglio di gettargli
pile di messaggi minatori, dato che dipendo dalla sua volontà di tenere ferma
la Parkinson, quindi me ne rimango zitta e ferma al mio posto.
Ma come faceva a sapere che c’erano lì le sigarette?
Quella domanda
passa decisamente in secondo ordine, quando la porta di acero bianco si apre di
nuovo, immediatamente seguita da un passo flessuoso e leggero che sembra solo
sfiorare il pavimento. Comprendo immediatamente che non può trattarsi della
Parkinson che, nonostante i vestiti lussuosi e i tacchi da gazzella, non ha mai
avuto quel portamento, come me del resto.
Anzi, forse, io
sono persino peggio della Parkinson. Io, con i tacchi, ho la decisa tendenza a
schiantarmi dopo cinque passi e mezzo.
Ad entrare,
avvolta da una nube di costoso profumo francese, è forse una delle donne più
belle che abbia mai visto.
Alta, dagli
zigomi pronunciati e dal volto affilato, il corpo snello e sinuoso come quello
di una modella, non ha però assolutamente nulla in comune con la sola modella
che, al momento, mi viene in mente, e cioè ovviamente Helena.
Helena aveva
una bellezza solare e radiosa, che ispirava un senso di tenerezza e dolcezza
soffusa. Ti faceva venire voglia di prenderti cura di lei, come se la vedessi
troppo piccola e fragile per affrontare il mondo da sola. Non sono ovviamente i
miei di pensieri o sensazioni alla vista di Helena… sono quelli che provava
Draco quando la vedeva, ricordo con una piccola fitta al cuore.
Me le ha fatte
vivere sulla mia stessa pelle.
Questa donna,
invece, incute solo timore e deferenza.
Ha i capelli
corvini, tagliati in un caschetto particolare, come quelle ballerine di
charleston degli anni Trenta, appena sotto le orecchie.
Gli occhi sono
quasi coperti da una frangia dritta che ne copre un po’ il sinistro bagliore
grigio verde con cui mi osserva con apparente curiosità. Infreddolita quasi,
prendo in braccio Serenity come scusa per poterne rifuggire senza vergogna.
A completare il
tutto, indossa un pesante mantello di velluto nero, bordato d’argento, sopra un
vestito che riprende la trama del mantello stesso. Tintinnano alle orecchie dei
pesanti pendenti di perle e diamanti.
Sembro la
piccola fiammiferaia a confronto. L’abito viola di Astoria è strappato in più
punti, sono ferita sul viso ed anche sporca di terreno, per non parlare dei
miei capelli che sembrano un vespaio impazzito. Li osservo con vergogna nello
specchio nell’angolo, le forcine hanno ceduto in più punti, liberando ciocche
ribelli di colore ancora nero che vanno arricciandosi.
Fantastico… la conoscesse una racchia per una volta quel
dannato di un Malfoy…
Ora capisco
perché si è innamorato di me: quando uno ha tutte queste bellissime donne
davanti agli occhi per tutta la vita, ovviamente ne diventa insensibile e si va
ad invaghire di quelle senza niente di speciale.
Se non si fosse
capito, sono fortemente sarcastica.
E fortemente innervosita.
Ed anche
fortemente desiderosa di cavargli gli occhi una volta che l’avrò rivisto. Così smette di
chiamare sedicenti Miss Inghilterra per curarmi… perfetto, sono
diventata anche gelosa marcia di lui… l’aggettivo patetica ormai mi calza decisamente a pennello.
Che poi… voglio
proprio vedere che diamine potrà fare una tipa simile per guarirmi… rientrasse
almeno la Parkinson e il suo grugno da carlino inferocito, e potrei sentirmi
meno imbarazzata. Ed invece no… deve essere emigrata in Lapponia…
Zabini,
cavallerescamente, si alza prontamente dalla sedia, avvicinandosi a lei e
baciandole la mano guantata di raso sempre nero. Non fa per niente freddo…
anzi… è piena estate… da dove diamine viene vestita così? Anche se… Raissa… mi sa che prima Draco l’ha chiamata così, se
effettivamente si tratta di lei e non della sua gemella bellissima ma inutile…
sono proprio acida, accidenti a lui… Raissa… nome decisamente russo.
È come legare
due concetti troppo simili per non poter essere accostati, pensare alla parola Russia e Durmstrang. Certo, lo so che quella scuola non è in Russia, ma
in Europa orientale… eppure quel collegamento non so perché mi appare
improvvisamente ovvio e normale. Il suo abbigliamento… mi ha ricordato
immediatamente come erano bardati gli studenti di quella scuola, quando
arrivarono per il torneo Tremaghi. Le ulteriori considerazioni che dovrei avere
di fronte un’esperta di arti oscure, ma non direttamente legata a Voldemort, e
il ricordo che Lucius Malfoy voleva mandare Draco a Durmstrang ma che poi
Narcissa Malfoy vi si era fieramente opposta per avere il figlio vicino, mi
persuadono ancora più di quell’idea. Potrebbe tranquillamente avere dei
contatti, con qualcuno di lì.
Cosa che,
beninteso, non mi lascia decisamente tranquilla. Non mi fido granché di questa
donna.
Ha uno sguardo
strano, troppo… curioso. Mi squadra dalla testa ai piedi, rispondendo a monosillabi alle domande
cordiali e gentili di Zabini. Sembra cercare qualcosa nel mio aspetto che
evidentemente non la persuade del tutto.
Se avessi la
mia voce, ovviamente le avrei già risposto a tono. Ma, non potendolo fare,
inarco un sopracciglio, fissandola interrogativa.
“E’ lei, dunque?” la sua voce ha un accento duro e marcato
sulle consonanti, mi ricorda vagamente il timbro vocale di Viktor. Al contempo,
è ugualmente monocorde e fintamente disinteressata. Gli occhi continuano a
scrutarmi come se fossi uno strano pezzo da museo, mettendomi a disagio e
facendomi salire il nervosismo.
Zabini
annuisce, con un’alzata di spalle: “Sì, sì, è lei… Hermione Granger…”.
“Credevo che
fosse immobilizzata…” osserva in modo volutamente assorto, gettando il mantello
su una sedia e guardandomi ancora dall’alto in basso “Draco aveva detto così…”.
Stringo un
pugno con crescente nervosismo. Draco… l’ha chiamato per nome… anche lei sa
che è vivo e forse tutto il resto.
Si fida anche
di questa donna. Perché, maledizione?
Il suo sguardo
si impunta sulla mia mano serrata, mi affretto a distenderla, accorgendomene,
girando il capo verso sinistra. Sto diventando, oltre che patetica, ridicola. Ci manca essere gelosa a questo punto? Chi
diamine me ne dà il diritto? E soprattutto è il momento? Draco non c’è, per
quanto ne so potrebbe essersi incamminato a grandi passi verso una fine
prematura e cruenta, e ho al momento la capacità comunicativa di un delizioso
pesce rosso. Devo aggiungere anche la gelosia, cosa che peraltro non ho mai
provato in vita mia per nessuno? Non sono mai stata gelosa di Ron, di Dean… non
sapevo nemmeno che cosa volesse dire. Sentivo le sfuriate di Ginny di fronte
alle innumerevoli fan di Harry, e mi scoppiava da ridere con superiorità. Le
chiedevo persino di descrivermi che cosa provasse, per darle dei consigli,
perché non sapevo proprio che cosa significasse essere gelosi di qualcuno.
Ed invece nel
meraviglioso pacchetto Innamoramento per Draco Malfoy rientra anche questo.
Avere la voglia
di sottoporre questa tipa ad un terzo grado di due ore e mezzo… e non tollerare
nessuno che condivida anche un solo respiro di quell’insopportabile ragazzo
biondo, come se fossero tutti miei per il solo fatto di amarlo. Assurdo. Non sono
davvero più io.
Un brivido freddo mi raggiunge il polso, quando la
donna, oggetto delle mie fantasie tormentate, fa scorrere l’indice sulla
cicatrice dello Zahir. Mi volto, trovandola seduta sul letto accanto a me,
completamente concentrata sulla ferita che deturpa la mia pelle.
Ritraggo il braccio, infastidita, stringendolo al
petto con l’altra mano. Zabini mi squadra, vistosamente irritato dalla mia
reazione
“La cicatrice c’è ancora… ed anche i capelli sono
ancora neri…” si rivolge a Blaise, risollevandosi in piedi “Dunque, non è
assolutamente libera del controllo dello Zahir…”. Come se non lo sapessi… non
ho nemmeno la voce. Che grande luminare…
“Infatti non ha nemmeno recuperato la voce…”
aggiunge Zabini al posto mio, appoggiandosi al davanzale della finestra, il
sole lo illumina da dietro come su un palcoscenico. Il fatto che debbano
parlare come se io non ci fossi, mi infastidisce ulteriormente.
“Ho bisogno di sapere tutto di questa cosa…”
soggiunge lei piatta, per poi guardarmi con sguardo insofferente: “… ma
immagino che solamente lei, potrebbe dirmi tutto quello che c’è da sapere…”.
Incrocio le braccia al petto, annoiata.
Estrae la bacchetta dal vestito e me la punta
contro, mi ritraggo quasi spaventata.
“Devo usare la Legilimanzia su di te… altrimenti
non potrei sapere tutto ciò che voglio… o comunque ci metterei troppo tempo…”
ingiunge perentoria, gli orecchini che tintinnano per un attimo, illuminando
gli occhi verdi di riflessi di ghiaccio.
Sospiro, socchiudendo gli occhi. Ovviamente, in
modo razionale, so che non c’è altra via se non posso parlare. Irrazionalmente
sono fortemente tentata di alzarmi, darle un calcio e scappare da questa stanza
a gambe levate, pur di non sottopormi a questo stillicidio della mia privacy e
dei miei sentimenti. Tentando di essere anche ragionevole, mi lascio convincere
dal pensiero che non è colpa di questa donna se, come una cretina, sono caduta
nella trappola di Astoria e ho creato uno Zahir. E dovrò pur liberarmene prima
o poi.
Il pensiero che, se Astoria riuscisse a riaprire il
contatto con la mia mente, potrebbe indurmi a fare del male persino a Serenity
che ora gioca serena accanto a me, rompe definitivamente i miei indugi. Faccio
un breve ed affrettato cenno con il capo, mentre lei, senza troppe cerimonie,
preme la bacchetta contro la mia fronte, pronunciando la formula per la
Legilimanzia. Serro gli occhi, non sono mai stata una bravissima Occlumante,
non mi è mai servito esercitarmi molto e quindi è un qualcosa che non ho mai
potenziato appieno. Compio perciò ogni sforzo possibile per indirizzare i miei
pensieri solo sullo Zahir, sul sogno che mi ha indotto Astoria e sulla
preparazione della pozione, cercando di escludere il ricordo di Helder in modo
da non metterla nei pasticci. Mi concentro anche sui diretti effetti dello
Zahir, sul senso di onnipotenza e di indifferenza, diventato velocemente odio
letale, e ripenso in modo automatico sia ad Hayden che a Draco stesso.
Censurando quello che ho fatto a loro due, cerco di indirizzare la sua ricerca
ed indagine sul controllo del mio corpo e sullo scontro con Astoria, oltre che
poi sul modo in cui prima avevo rotto lo Zahir e poi mi ero parzialmente
liberata della magia, eccetto per la voce, solo pochi minuti prima. La
sensazione di intrusione non cessa, però, lì. Sento che sta cercando qualcos’altro,
quasi con scetticismo e meraviglia, convinta intimamente che non sia tutto lì.
La respingo indietro con l’ultimo accenno di forza che mi rimane, una fitta
improvvisa e lancinante allo stomaco che mi ferma il respiro. Parte dei suoi
pensieri travalicano la barriera della sua mente, giungendo a me estremamente
confusi ed incerti. Ma, tra essi, una cosa appare netta e chiara. Il suo nome.
Raissa Karkaroff.
Riapro gli occhi meravigliata, seguita
immediatamente da lei stessa che mi guarda allo stesso identico modo.
Ovviamente per motivi diversi dai miei. La squadro senza pudore, ecco perché mi
era venuto automatico collegarla a Durmstrang. È la figlia di Igor Karkaroff.
Propendo per questa tesi, visto che mi è sembrato
di intravedere un frammento di lei con suo padre, Igor, dove si rivolgeva a
lui, chiamandolo appunto padre.
Come faccia Draco a fidarsi di una donna simile, figlia di un
Mangiamorte, è ancora un autentico mistero. Certo, se lui fosse qui,
probabilmente replicherebbe con stizza che anche lui è il figlio di un
Mangiamorte e che quindi questo non qualifica automaticamente Raissa come una
seguace delle Arti Oscure. Già me lo vedo inarcare un sopracciglio
perfettamente cesellato come l’oro ed incrociare le braccia, sbuffando… e già
mi vedo, a mia volta, lanciargli contro qualcosa di estremamente pesante e
possibilmente anche acuminato.
So perfettamente che Lucius Malfoy era anche peggio
di Karkaroff: quest’ultimo scappò al ritorno di Voldemort, finendo barbaramente
ucciso per il suo tradimento di tanti anni prima, quando, con le sue
testimonianze, aveva riempito le celle di Azkaban di seguaci del Signore
Oscuro… mentre Lucius restò al servizio di Voldemort praticamente sempre, fino
ad essere ucciso dagli Auror stessi.
Ma Draco tradì i suoi molto prima della loro morte…
mentre, per questa donna, Raissa… chissà com’è andata… Draco, a quanto pare si
è potuto rivolgere a lei perché conosce abbastanza le arti oscure, ma non era
legata a Voldemort, quindi non bramerebbe la testa di Draco su un piatto. Eppure…
non mi fido… mi guarda in modo troppo curioso… e cercava qualcosa nella mia
mente…
Come se, al pari di
ogni Serpeverde, non credesse che io sia stata davvero capace di creare uno
Zahir…
Socchiudo gli occhi, fissandola, sporgendomi
automaticamente a prendere Serenity in braccio, come se la volessi difendere.
Lei osserva incuriosita la mia manovra, sorridendo quasi divertita. La fulmino
con gli occhi, esortandola con il mio silenzio a darmi un responso.
Lei comprende l’antifona ed inizia a parlare, ovviamente
non guardando me, ma Zabini, che ha osservato tutta la scena senza fiatare,
sbuffando solo ogni tanto e gettando occhiate in tralice alla porta chiusa,
quasi come se volesse scappare.
“Non credevo che avesse effettivamente creato uno
Zahir…” sibila in modo malevolo, sedendosi a gambe accavallate su una sedia,
alzo gli occhi al cielo, incurante che mi possa vedere, e te pareva “Pensavo
che Draco avesse esagerato… e che lei fosse
semplicemente sotto qualche tipo di Imperius potenziato… ma
invece si tratta effettivamente di uno Zahir… incredibile…”.
La fiducia che hanno nelle mie capacità, è sempre
commovente.
Si riavvia i capelli con gesto distratto,
portandoli dietro le orecchie e continuando: “Se non è facile crearlo, immagina
che cosa sia distruggerlo… è semplicemente impossibile… eppure è
riuscita in entrambe le cose... anche perché, come ti è stato spiegato,
Granger, lo Zahir d’amore è quello più instabile e pericoloso… si basa su un
sentimento troppo potente ma al contempo troppo variabile nella sua stessa
natura… di conseguenza lo Zahir deve essere molto forte per gestirlo… e ancora
non capisco come diamine abbia fatto…”.
“Hai una spiegazione per questo?” chiede senza
reale interesse Zabini, mordicchiandosi un pollice.
“Certo…” risponde Raissa ovvia, come se le avesse
chiesto se sapesse come mai l’acqua dell’oceano evapora sotto la luce del sole
“Credo che sia stato, perché il sentimento che prova per Draco è effettivamente
molto forte… ed essendo in contraddizione con tutto quello che lei pensa e
prova, ci ha messo molto per accettarlo… e questo l’ha fatto radicare
profondamente in lei… mettiamola così, è come quando ha di fronte un teorema
che neghi e non accetti, ma che poi ti viene dimostrato come assolutamente
reale e logico… bene, quando comprendi la sua veridicità, qualsiasi obiezione o
negazione dello stesso sarebbe per te inconcepibile, proprio perché sai quanto
ci hai messo ad accettarne la natura e ne conosci ogni possibile riflesso, ogni
possibile obiezione che potrebbe essergli mossa contro, perché a suo tempo sei
stato tu il primo ad opporti ad esso… a qualsiasi negazione, insomma, avresti
l’argomento per controbattere… capisci che cosa voglio dire? Lo Zahir doveva
lottare con la sua stessa natura che, dopo incredibili tentativi di diniego,
aveva accettato di amare Draco Malfoy…”.
Imbarazzata, mi schiarisco la voce, cercando di
riportare la loro attenzione sul fatto che, oltre ad essere presente, non è di
vitale importanza discutere di come si sia evoluto il mio sentimento per Draco.
Zabini annuisce, stranamente crucciato.
“Nonostante questo, però… resta comunque assurdo che, oltre a crearlo e a non
esserne uccisa, sia anche riuscito a romperlo… ma la spiegazione credo che sia
come sopra… quando lo Zahir le imponeva di fare del male a Draco, la sua stessa
natura si è opposta… ed è stata più forte dello Zahir stesso… che alla fine si
è rotto… Astoria contava sullo Zahir per uccidere Draco ed effettivamente, come
accadde alla regina Artemisia, l’esito sarebbe stato scontato… ma lei lo ha
rotto… e quindi Astoria ha dovuto collegare la sua mente con quella della
Granger per riuscire a controllarla e farle fare quello che voleva… ha
sfruttato l’odio ancora presente in lei per entrare in contatto con la sua
mente, e questo le ha permesso di renderla sua schiava… l’odio è difficile da
eliminare in tempi veloci, quando ti avvelena può abbandonare il tuo corpo solo
con grandi sforzi… ma questo penso che fosse già chiaro sia alla Granger che a
Draco, no? Ve l’ha spiegato Astoria stessa…”. Annuisco senza partecipazione.
Fino ad ora non mi ha detto nulla che non sapessi già.
“Veniamo ora alla rottura del controllo…” continua,
enumerando con le dita “In altri casi, vi direi di non preoccuparvi… quando si
ha a che fare con faccende oscure come queste, si deve sempre ringraziare di
essere ancora in vita per poterlo raccontare… lo Zahir fa a pezzi le anime,
isolandone pezzi che distrugge e controlla… in questo, è quanto di più simile
esista all’Horcrux… se questo concede una relativa immortalità, lo Zahir
consente di controllare sé stessi da qualsiasi pericolo esterno legato a
sentimenti, sensazioni, emozioni… crea statue di sale, prive di qualsiasi forma
emozionale, pronte a tutto, insensibili al dolore, al piacere, al sentimento…
crea insomma un essere intangibile ed invulnerabile…”. Rabbrividisco, sentendo
le sue parole.
Sono così simili lo
Zahir e l’Horcrux… ha ragione lei… ho
mutilato la mia anima… in questo, sono diventata come Voldemort…
“Era usato più per questo che per altro… grandi
condottieri, spaventati dalla possibilità di essere distratti nelle loro
spedizioni e guerre, usavano lo Zahir per essere liberi da ogni pastoia dello
spirito… per avere quella che potrebbe essere chiamata pace… ma che assomiglia solo alla morte…”.
La ricordo
perfettamente quella sensazione… ero intoccabile… ma ero anche… morta dentro…
“Per questo, ripeto, rompere uno Zahir dovrebbe già
essere considerato un miracolo… e l’odio che la avvelena ancora probabilmente,
con il tempo, abbandonerà il suo corpo, specie se è stata così forte da non
farlo mai vincere del tutto, infatti, contrariamente a quanto pensava Draco e a
quanto mi ha riferito, il suo cuore non ne è toccato, infatti è evidente che ne
sia ancora innamorata… ma il problema è il collegamento con Astoria… basta solo
una goccia di quell’odio, rimasto dentro di lei, per permettere ad Astoria,
qualora fisicamente si avvicinasse al luogo dove la Granger si trova, di
riprendere il suo controllo… dovrebbe esserne completamente purificata per poterla dire al sicuro… e il
segnale evidente sarebbe il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli che
ritornerebbero normali… cosa che, come è evidente, non è ancora successo…”. Fa
una pausa ad effetto, guardandosi le unghie laccate di nero, mentre arrossisco
di sdegno a causa del suo silenzio prolungato ed assolutamente ingiustificato.
“Da un esame sommario, però, ho capito che la
soluzione è più semplice di quello che credessi… Astoria le ha imposto due tipi
di controllo, uno sul corpo e uno sulla voce… il secondo è più potente e
recente, e, da come è andata la battaglia, me lo spiego in virtù del fatto che
è la Granger è riuscita a ricontrollare la voce, come prima cosa… quindi Astoria
ne ha dovuto intensificare la potenza, distinguendola dal resto del corpo… ma
la chiave per farle ritornare la voce, come per purificarla, è Draco stesso…”. Sgrano gli occhi, non
riuscendo a seguire il ragionamento di Raissa che si affanna a spiegare.
“Quando Draco ha parlato con Pansy… lei era
cosciente… e ha sentito tutto…” spiega
Raissa con un filo di voce, Zabini si volta a guardarmi con un espressione
irritata e scandalizzata, sollevo il mento, sebbene il viso mi vada a fuoco per
la vergogna “Le parole di Draco… quello che ha detto… e la disperazione provata
al pensiero che lui andasse via… le hanno consentito di rompere il controllo
del corpo… deduco quindi automaticamente che, per rompere il controllo sulla
voce, è necessario ancora che la Granger si concentri sull’amore che Draco
nutre per lei…”.
“Tutto qui?” erompe Zabini quasi deluso.
“Tutto qui…” conferma Raissa smortamente, alzandosi
in piedi “Il problema è il tempo,
deve accadere molto velocemente… perché l’odio è ancora presente nel
suo corpo… è come una malattia messa parzialmente a tacere, localizzata nella
sua gola e che ora colpisce solo la voce… ma se non viene debellata del tutto,
esploderà come un cancro, riprendendo la sua antica potenza, perché comunque
sarà sempre indotta da Astoria, anche a distanza, a riacutizzarsi… e lei
tornerebbe esattamente come era prima… una morta… e se
arrivasse al cuore, probabilmente ucciderebbe nuovamente il suo amore… e lei
riprenderebbe ad odiarlo… oppure perderebbe completamente il controllo di sé
stessa, anche la coscienza… sarebbe come un vegetale… ed allora, anche se Draco
le decantasse un poemetto stile amor cortese, lei non lo ascolterebbe nemmeno
più…”.
Le parole di Raissa mi gelano il respiro, sebbene
sotto lo sguardo dell’algida donna, cerco di mostrarmi calma e serena. Ma sento
la pelle del viso diventare fredda e cinerea, le mani sudare
incontrollabilmente e l’animale, mai placato ma sempre rannicchiato dentro di
me, torcermi le viscere come se mordesse. Mai come ora, sento il bisogno
inesauribile di avere Draco vicino… e mai come ora ne avverto la mancanza come
se soffocassi. Non solo perché da lui, ora, dipende la mia vita in senso
stretto, ma perché ricevere una notizia simile, senza la consolazione di averlo
vicino… mi uccide.
“Quindi, se lui ora non c’è…” commenta scialbamente
Zabini, guardando intensamente Raissa che completa a suo posto: “…è molto
probabile che, quando ritornerà, non la troverà più…”. Stringo Serenity tra le
braccia, come se fosse una bambola e io mi fossi fatta piccola piccola, incapace della benché minima forma di coraggio. O
perlomeno di finto coraggio, specie davanti a Zabini e a Raissa.
“Glielo ho promesso, Raissa… fino a quando lui
torna, deve restare in vita…” dice tonante Zabini, guardandola, ancora non si
danno minimamente pena e pensiero che io sia lì ad ascoltarli. Raissa annuisce
riflessiva: “Draco non tornerà tanto presto… lo sai… e quel che è peggio, è che
non c’è alcun modo per rintracciarlo…”. Un barlume di ragione mi raggiunge in
quella disperazione.
Persino lei… sa
dov’è… e che cosa sta facendo… perché io, no?
Che sta facendo da
non poter essere raggiunto? E soprattutto che sta facendo che, evidentemente,
non vogliono dirmi?
Cala un pesante silenzio, rotto solo dai gorgheggi
di Serenity che gioca contenta e beata, ignara di ciò che sta accadendo. Zabini
si muove nervosamente avanti ed indietro, quasi preda di un profondo conflitto
che lo fa a pezzi. Raissa, invece, resta immobile e fredda come una statua di granito,
bellissima e spenta, gli occhi accesi da scintille di pensieri e riflessioni
tutte sue.
Mi rannicchio su me stessa, spaventata. Ormai le possibilità
rimaste sono: ritornare un demone che lo vuole morto; diventare un burattino
nelle mani di Astoria che uccida sia lui che Serenity; oppure congelarmi per
sempre come la bella addormentata. Solo che io non sono così bella da suscitare
il bacio del principe…specie se, poi, quel bacio, non lo sentirei nemmeno.
Nella mia fiaba, nessun incantesimo si romperà con
un bacio.
Asciugo velocemente le lacrime cadute dai miei
occhi, quando Zabini riprende a parlare, incerto e titubante: “Se ci fosse un
modo… per mostrarle i pensieri di Draco… credi che funzionerebbe?”. Tremo di
sorpresa, guardandolo con gli occhi sbarrati.
I pensieri di Draco…
Raissa, stupita a sua volta, sgrana gli infiniti
occhi verdi, dicendo sgomenta: “Parli dei suoi ricordi? Hai i ricordi di Draco?”.
Diecimila anni tra la domanda di Raissa e la sua
risposta incerta e flebile: “Sì… Draco, da quando è diventato babbano per sua
scelta, mi ha sempre dato a scadenze i suoi ricordi… l’ha fatto perché temeva
che gli accadesse qualcosa, mentre cercava Pucey e Montague, e, se questo fosse
avvenuto, io e Pansy avevamo il compito di cercare qualcuno di babbano che si
prendesse cura di Serenity… e, a tempo debito, quando lei fosse stata in grado
di capire, probabilmente quando avesse sviluppato già le prime doti magiche, le
avrei mostrato i suoi ricordi per farle conoscere la sua vera storia… di
Helena, di Draco… ed anche della Granger… non li ho mai guardati… e non dovrei
nemmeno parlarne… ma gli ultimi me li ha affidati stamattina… quindi penso che
ci sia tutto di lui… e della Granger…”. La gola mi si secca, guardandolo,
pensando alla possibilità.
Prima… ho parlato di spiare una pagina di diario…
qui, si parla della cosa più intima possibile.
I suoi ricordi su di me, i suoi pensieri… le sue
più intime sensazioni… come quando mi mostrò i ricordi di Helena… io… vidi tutto.
Anzi… non vidi tutto…
sentii tutto… come se fossi nella sua carne e nel suo sangue…
Mentre attendo la risposta accigliata di Raissa,
che immagino già essere positiva, sospiro senza accorgermene.
E si tratta anche di
rispondere alla domanda da un milione di sterline…
Come diamine ha fatto
Draco Malfoy ad innamorarsi di Hermione Granger?
Un capitolo di una
difficoltà estrema e che nemmeno mi piace del tutto!! Ho avuto una specie di
crisi mistica quando l’ho scritto, perché mi sono convinta di scrivere in
maniera pessima e HALFT è stato molto vicino ad essere seppellito nei meandri
delle cose mai finite!! Ma poi ho ripreso coraggio e, cambiando qualcosa qua e
là dal piano originario, mi sono riuscita a sbloccare… grande merito di ciò va
a Raissa Karkaroff che mi ha salvato decisamente la vita con la sua presenza…J diciamo che è un
capitolo di transizione, nel senso che prelude al vero e grande capitolo!! I ricordi
di Draco su Hermione!! E qui necessito di un consiglio!! Quando si tratta di Draco
divento disgustosamente logorroica… quindi potrei ricanalizzare tutta la storia
dal suo punto di vista, ovviamente andando anche a ritroso nel tempo, quindi
ricordi di scuola o della guerra, ma non voglio essere troppo prolissa… che
cosa mi consigliate? L
Ora, diciamo che in questo capitolo la cosa più importante è il discorso di Draco…
l’ho immaginato come la fine di un percorso, quello che beninteso vedrete nel
prossimo chappy… e forse questo capitolo è effettivamente questo. La fine del
percorso di entrambi… se Hermione ha compreso il valore di un sentimento anche
qualora sia non corrisposto o doloroso, Draco ha compreso l’importanza di
riprendere a vivere anche senza Hermione, dato che è convinto che lei lo odi…
volevo insomma che, da questa esperienza, entrambi crescessero prima come
persone e poi come coppia che credo che sia la cosa più normale ed ovvia per
due che sono rimasti mortalmente delusi dall’amore stesso, nonché dalla vita,
nel caso di Draco. Spero di aver reso tutto questo nel capitolo, lo spero
davvero…:D
EFP e la nostra
carissima Erika ha introdotto una nuova funzione, RISPONDI ALLE RECENSIONI! Quindi
stavolta non vi risponderò nel mio spazio al termine del capitolo, ma in tale
forma… credo che ci sia un link per la risposta al termine della vostra
recensione… risponderò a tutti!! J
purtroppo ho sempre il pc abbastanza fregato quindi
non so se riuscirò a farlo per tutti con gli stessi tempi, ma prometto di
rispondere!! Un enorme bacio a tutti coloro che leggono questa fic, che la commentano, seguono o inseriscono tra i
preferiti… e a chi mi segue su FB! J
Alla
mia amica Chloe, una dedica con tanto affetto
Ti voglio
tanto bene…!
La mattina, bevo sempre il succo di ananas, ma, se
sono terribilmente nervosa, senza accorgermene, ingurgito caffè amaro, nero e
soprattutto bollente.
Quando c’è il sole, mi viene automatico indossare
qualcosa di colorato, fosse anche una semplice sciarpa vivace e luminosa.
Il mio colore preferito è il rosso, ma in realtà tendo
ad indossare maggiormente il bianco e l’azzurro, perché penso di attirare
troppo l’attenzione con il rosso.
Ho rivisto “Moulin Rouge”
dodici volte, ma mi fermo sempre quando Christian e Satine
si riuniscono sul palco; il finale l’ho visto solo la prima volta, perché odio
che lei muoia.
Se mi taglio e vedo il sangue macchiarmi la pelle,
chiudo gli occhi, tamponando la ferita, perché ho sempre paura che non finisca
più di scorrere.
Quando è finita con Ron, ho evitato di guardarmi allo
specchio per mesi, convinta di essere orrenda, e, da allora, resto davanti allo
specchio massimo per trenta secondi.
Odio le barbabietole rosse da quando sono stata male
per tre settimane, dopo averle mangiate, anche se, secondo ogni test ed
analisi, avevo invece preso la mononucleosi.
Cerco di tenere acceso il cellulare massimo sette ore
al giorno, perché mi illudo che così possa dedicarmi solo a me, ma poi metto la
deviazione di chiamata per il numero di casa.
Il mio libro preferito è “Orgoglio e Pregiudizio”, amo
il finale e che stiano assieme per sempre, ma rileggo sempre quando Lizzie rifiuta Darcy, perché mi
ricorda me stessa.
D’estate quando mangio il gelato, prendo sempre il
cono, mai la coppetta, e, se le calorie sono troppe, prendo anche la panna
dicendo che oramai il danno è fatto.
Se sento “My sharona”, ho la bruttissima abitudine di
mettermi a canticchiare, muovendo la testa come un pupazzetto da macchina, è
più forte di me.
Se sto dicendo una bugia, mi mordicchio la pellicina
attorno alle unghie; se invece dico una cosa ovvia nella sua verità, inarco
sempre il sopracciglio destro.
Sbatto sempre troppo violentemente le porte, le
finestre, gli sportelli delle macchine, le ante degli armadi e delle dispense,
i cassetti e le portelle dei generatori di corrente.
Dimentico sempre dove lascio le pantofole, ne ho già
dodici paia per questo motivo, perché le ricompro e puntualmente poi le
ritrovo.
Sollevo il mento, raddrizzo la schiena, allineo le
spalle parallelamente al bacino, rilasso l’addome, punto il petto in fuori,
mantengo i piedi uniti con i calcagni ben piantati…
… ma sono sempre gli occhi a tradirmi.
Particolari che non valgono a conoscere una persona,
ovviamente. Sono quelle cose piccole, sciocche, minuscole, che fanno di un
individuo quello che è.
Non valgono a conoscere una persona… ma valgono ad
individuare quanto ne sai di quella persona. Se sai queste cose, così piccole,
di quelle grandi devi per forza avere una conoscenza plenaria ed esaustiva.
Sono come segnali luminosi, cartelli stradali, minimi indizi di ciò che sei. E
chi sa decifrarli, o li ha saputi perlomeno notare, è come se avesse un accesso
privilegiato alla tua persona, alla tua anima… al punto dove giace il tuo cuore
segreto, come un tesoro da tirare fuori dalle viscere oscure della terra.
Quando mio marito mi guarda con sguardo assente,
chiedendomi con un filo di voce perché, dopo tante volte, adesso invece mi
rifiuto di fare l’amore con lui, vorrei rispondergli questo. Sebbene sembri il
contrario, il sesso non è il modo più sublime di unire due persone. È solo uno
dei tanti modi, meraviglioso, appagante, totalizzante. Ma non unico.
E io so che potrei anche fare l’amore con lui, senza
problemi, lasciandomi andare ad una logica meccanica e primordiale, soddisfando l’istinto di ogni corpo, compreso il mio.
Non mi sentirei nemmeno in colpa, in fondo è di mio
marito che si tratta… e poi si può davvero tradire una persona che, probabilmente,
ormai ti ha sradicato del tutto da sé?
Ma non sarebbe ciò che mio marito vuole, penserebbe
che sono finalmente di nuovo sua… e sbaglierebbe. E, quel che è peggio, è che
stavolta io non sono in grado di spiegargli il perché del suo sbaglio.
Come ho sempre fatto. Come faccio da una vita…
spiegare le cose a lui, fino a quando le capisca senza incertezze.
E Ron stavolta non potrebbe capire. Mio marito non
potrebbe capire.
Perché lui, quelle cose piccole piccole…
non le conosce. Nessuna, me ne sono già accorta. Anche se è stato con me per
anni… ed è mio marito da cinque.
Quelle cose… vederle, scorgerle, intuirle, capirle…
quando nemmeno io sapevo razionalmente che ci fossero… quelle cose le ho viste
per la prima volta,tramite gli occhi di un altro, che
dapprima le derideva, le ridicolizzava, le odiava… ma le vedeva. Le ha
viste, fino ad accarezzarle con gli occhi. Fino ad amarle.
Ed esse mi hanno resa sua, per sempre.
Sua.
Per sempre.
Mi posso anche chiamare Hermione Jane Granger in
Weasley… ma per sempre qualcosa, dietro la mia superficie, mi impone di
chiamarmi Hermione Jane Granger in Malfoy.
In Malfoy.
Alexander Leo Malfoy. Esattamente come per mio figlio.
Restiamo entrambi nell’essenza al di là di questa finzione, suo figlio, lui. E
sua moglie, io.
Alex ha il sangue ad unirlo.
Io ho me stessa ad unirmi a lui. Perché, prima di
essere sua nel corpo, prima di unirmi a lui nella carne… io sono stata sua
nella sua mente.
Come lui è stato mio nella mia mente.
Perché tutte quelle cose… piccole, insignificanti al
punto di non saperle nemmeno io… le ho viste tutte nei ricordi di Draco.
Come diamine ha fatto Draco Malfoy ad innamorarsi di
Hermione Granger?
Quella domanda frana nei
miei pensieri, rovinando come una valanga che non si può fermare, mentre Raissa
dice pigramente di sì.
Mi mordicchio l’interno
della guancia, nervosa, stringendo ancora Serenity che si divincola per
continuare il suo gioco innocente. Zabini continua a parlare, sempre più
irrequieto, misurando la stanza in grandi falcate e diffondendo un profumo
acerbo di liquirizia, proveniente dalla quinta sigaretta che ha acceso in pochi
minuti. Ciancia di tradimento. Non sa se tradirà Draco, non impedendo
che io mi consumi lentamente ma inesorabilmente, oppure mostrando i suoi ricordi
che lui gli ha affidato per ben altri motivi.
Sospiro, se avessi saputo
che i Serpeverde hanno tutte queste crisi di coscienza…
La cosa peggiora con
l’ingresso della Parkinson, che si sente in ovvio e discutibile
diritto di esporre anche le sue tesi senza che nessuno glielo abbia chiesto.
Tutto con una voce da gallina strozzata che mi fa rimpiangere di non essere,
oltre che muta, anche sorda. Zabini, poi, che in un primo momento aveva preso
in evidente considerazione l’idea di mostrarmi i suddetti ricordi, adesso
cambia personalità all’arrivo di Pansy versione cornacchia urlatrice, e dice
che non esistono ricordi che Draco gli ha dato e che stava solo parlando di una
possibilità, remota ed assolutamente poco confacente al vero. Prima di iniziare
a gettare di nuovo tutto all’aria, Raissa perde il controllo ed inizia ad
urlare a sua volta, facendo tacere gli altri due.
“Io non ho promesse da
rispettare, in palese contraddizione tra loro… ne ho solamente una… guarire
la Granger… e dato che la mia sembra essere molto più attendibile della
tua, Zabini, considerando che l’ho fatta solo un’ora fa, mi sento in dovere di
considerarla prioritaria… ma se vogliamo rispettare la democrazia con grande
tatto ed assoluta inappropriata eleganza, facciamolo pure… ma mi riservo
che la stessa fedeltà la usiate per comunicare a Malfoy, non appena sarà
tornato, che la donna che ama è ormai un cadavere… e si sarebbe salvata
se voi non fosse stati così pedantemente fedeli da proteggere i suoi
ricordi…”.
Dopo quelle parole, accade
tutto velocemente, troppo velocemente.
Compare il Pensatoio,
assieme ad una bottiglia intarsiata di fiori d’oro, vorticante di una nebbia
argentata. Zabini ci punta contro la bacchetta e, dopo aver sillabato una
specie di parola d’ordine che non riesco a sentire, essa si apre con uno
stridio fastidioso. Il flusso di ricordi scorre nel Pensatoio velocemente, come
l’acqua di una cascata, Zabini la richiude prima che scorrano del tutto.
Nella bottiglia, restano
evidentemente solo quelli di Helena.
Stavolta essi mi sono risparmiati… stavolta… ci sono
solo io…
L’eccitazione mi fa sudare
le mani, le stringo freneticamente una dentro l’altra. Non penso alla
possibilità di tornare libera. Non ci riesco.
Penso solo a Draco. Al mio
desiderio di capire.
E, senza nemmeno rendermene
conto, il mio viso già infrange la superficie densa come mercurio e rilucente
come diamante.
L’inferno di porte chiuse,
che è la mente di Draco, si riapre di nuovo ai miei occhi.
La mente di Draco è
cambiata dall’ultima volta, in cui ci sono stata. Quando era lui a guidarmi,
nel corridoio immenso pieno di porte di ogni dimensione e colore, esse erano
quasi tutte chiuse, sigillate, inaccessibili. Ora, invece, al mio silenzioso
passaggio, esse si aprono tutte, dalle più piccole alle più grandi.
Potrei entrare in ciascuna
di esse, se solo lo volessi… incredibile…
Allora, Draco mi aveva
indirizzato in modo frettoloso e spedito per mostrarmi i ricordi di Helena in
modo che capissi di non avere speranze con lui, oltre di essere stata usata
tutto il tempo da quando ero arrivata al Petite Peste. Adesso, invece, mentre
scivolo come un fantasma, argentea come un pensiero, non ho alcun limite.
Guardo per qualche istante le porte disposte in fila, improvvisamente incerta
su quale varcare e su come trovare me stessa in quel labirinto, curiosa dei
ricordi di Draco, eppure contemporaneamente quasi timorosa di invadere la sua
privacy per cose che non mi sono state concesse. La mia ricerca si ferma,
quando, dritto davanti a me, rivedo il portone della scorsa volta.
Quello di legno chiaro,
inciso di rose che descrivevano voluttuosamente le iniziali di Helena.
Devo essermi persa,
arrivando di nuovo qui… o Zabini mi ha mandato nei ricordi sbagliati. Sto già
per innervosirmi e per tornare indietro con passo marziale, quando il portone
frana su sé stesso, come se si fosse fatto di sabbia. Spaventata, mi ritraggo
su me stessa, pensando di aver fatto io qualcosa di sbagliato, mentre i
chiavistelli, le serrature e i pannelli si sgretolano, diventando polvere
chiarissima e luminescente. Come sotto una tempesta di vento, la sabbia si
solleva, soffiando contro il mio viso. Stringo gli occhi irritati, coprendomi
il viso con le braccia, mentre delle strane parole prendono forma nella mia
mente, respirando nelle mie orecchie.
“E’ un maschio, signora
Malfoy! Uno splendido maschio! Come avete intenzione di chiamarlo?”.
“Draco… Draco Lucius
Malfoy…”.
“E’ un nome potente mia
signora… si dice DRACO DORMIENS NUMQUAM TITILLANDOS…”.
“Spero che gli insegni
appunto ad essere forte ed implacabile… quando lo sottoporrete al rito? Il
Signore Oscuro ne ha richiesto immediatamente l’esecuzione… vuole accertarsi
che Draco gli sia destinato…”. Una pausa incerta e sofferta.
“Suo marito ne ha dato già
esecuzione… aspettano il risultato della cera a momenti…”.
“Non capisco come faccia
una cera sciolta nell’acqua a decretare il destino di una persona… delle forme
casuali possono guidare un bambino? E se non uscissero le iniziali del Signore
Oscuro? Non vorrei che…”.
Un’affrettata rassicurazione.
Una porta che si apre, sbattendo. Una domanda concitata. Una risposta
addolorata.
“La cera non ha assunto le
forme delle iniziali del nostro Signore …”.
“E cosa, allora?”. Materno
sollievo malcelato.
“Tre lettere
incomprensibili… H.J.G… è in esse il destino di vostro figlio Draco, mia
signora…”.
Riapro a fatica gli occhi. Il giorno della nascita di Draco… le
iniziali…
Avevo letto da qualche parte di questo rito, compiuto ancora dalle
famiglie Purosangue di più antica tradizione. Si scioglie la cera di una
candela accesa dentro un catino d’acqua fredda, e, dalla forma assunta dalla
cera medesima, si determina il destino del neonato.
Può prendere la forma di un qualche oggetto, indicando una qualche
propensione futura, oppure appunto le iniziali di qualcuno che sarà
determinante nella vita del bambino. Ron è l’unico che conosco, fino ad ora,
che lo avesse subito da piccolo, e mi disse che assunse la forma di un
triangolo, probabilmente già testimone del rapporto tra me, lui ed Harry che gli
ha decisamente cambiato la vita.
Lessi anche che, nei tempi dell’ascesa di Voldemort, i figli dei
Mangiamorte si auguravano segni quali le iniziali del loro Signore, sia come
Tom OrvolosonRiddle che
come Voldemort, o altri simboli ugualmente nefasti che avrebbero
inequivocabilmente testimoniato che il loro figlio era legato a Voldemort. Lui
stesso se ne accertava personalmente, dando molta importanza a tale rito, ma,
alla sua seconda ascesa, non ci dette più alcun peso, sempre meno convinto di
persone che gli potessero essere fedeli a vita, se non per calcoli
utilitaristici più che per un improbabile destino forgiato da cera liquefatta.
Draco… l’ha
subito anche lui da piccolo, ovviamente… Voldemort era ancora al potere quando
nacque… e si auguravano le sue iniziali…
Invece…
quelle di Helena… e lei effettivamente gli ha cambiato la vita…
Ma… quelle
sono anche… le mie…
Per questo,
sono arrivata qui… dietro a quel portone, non c’è mai stata solo Helena… ma…
anche io…
Assurdo… ogni
cosa, da giorni, mi sembra sempre più assurda.
Sono sempre stata nel destino di Draco. E, di conseguenza, lui nel mio.
Incredibile anche solo pensarlo… l’implicita conferma mi viene quando vedo
dall’altra parte della soglia, dove prima c’era quel mastodontico portone, lo
specchio in cui avevo visto la storia di Helena e Draco. Esso si illumina di
luce azzurrognola, splendendo come la superficie di un mare illuminato dalla
luna. Mi avvicino cautamente, quasi temendolo, e le prime immagini che riesco a
distinguere, mi lasciano senza fiato.
Il treno rosso di Hogwarts. Il primo settembre di quasi tredici anni
fa.
Sono nei
ricordi di Draco già allora…
Il colore rosso dell’Espresso per Hogwarts lo irritava
profondamente, l’aveva già deciso Draco Lucius Malfoy, undici anni, non appena
lo aveva visto per la prima volta.
Certo, ne aveva sentito parlare nei racconti di chi
era andato ad Hogwarts prima di lui, o lo aveva visto nelle fotografie dei suoi
genitori, ma lì, dal vivo, con la nuvola di vapore tutt’attorno e il sole che
lo illuminava rendendolo come un fuoco notturno, ne passava di acqua sotto i
ponti. E Draco aveva già deciso che non lo sopportava.
Perché, poi, era rosso come i Grifondoro? E non verde
come i Serpeverde? Si chiese con una punta di ulteriore disprezzo e
fastidio.
Doveva essere sicuramente un’idea di quel babbanofilo di Silente, quello si fa venire idee che
nemmeno la più stupida delle mezzosangue si farebbe venire. Questo, almeno a
sentire suo padre. E Silente, per quello che ne sapeva lui, era maschio e
purosangue.
Camminava impettito lungo il binario 9 e ¾ , l’elfo
domestico alle sue spalle che spingeva a fatica il pesante baule verde
smeraldo. Draco lo guardò stomacato, mentre sudava accaldato in quell’ancora
calda mattina di settembre, e si fermava a riprendere fiato, rimproverato
immediatamente con un gelido sibilo da Lucius Malfoy. Il piccolo elfo, la cui
pelle grinzosa era imperlata di piccole gocce di sudore, prese a tremare
violentemente, riprendendo immediatamente il suo lavoro a ritmo più sostenuto.
Draco si sentiva così importante, mentre camminava a fianco di sua madre e suo
padre, il mento fieramente alzato.
Sua madre era la più bella tra le altre mamme, gettò
un’occhiata divertitamente sprezzante a quella che
sembrava la madre dei Weasley, impegnata a trattenere per un braccio una
piccola furia dai capelli rossi che strillava come un’ossessa. Narcissa invece
volteggiava come una sirena, stretta nel suo abito blu oltremare che faceva
risaltare gli occhi chiari e la criniera bionda. Draco la guardò orgogliosamente,
fiero della sua famiglia, stringendo nella manina paffuta la sua bacchetta
nuova di zecca, imitando il contegno aristocratico di suo padre, che la
impugnava sempre sotto il mantello leggero come una nebbia di vento.
Le occhiate che la gente, al loro passaggio, li
scoccava, li sembravano un degno e scontato coronamento.
Narcissa, a quegli sguardi, però, stringeva
freneticamente la spalla del figlio, sospingendolo in avanti, mentre Lucius
accelerava il passo, inarcando in avanti la schiena.
Improvvisamente, Draco intercettò il cenno ossequioso
di saluto di una donna alta, dal viso arcigno. Narcissa sorrise nella sua
direzione, avvicinandosi a lunghe falcate.
“Buongiorno Cissy, cara…” la
salutò amichevolmente la donna, baciandola su entrambe le guance. Alle sue
spalle, comparve un uomo tarchiato e brizzolato che prese a parlare con Lucius.
“Ciao Charisma…” rispose
educatamente Narcissa, distaccandosi alla manifestazione d’affetto decisamente
troppo calorosa per una donna fredda come lei.
Draco sospirò, guardando i due adulti parlare con i
suoi genitori. Per un attimo se ne era dimenticato ed aveva sperato di passare
indenne per il binario, salendo di soppiatto sul treno.
Ed, invece,se
c’erano loro, voleva dire che c’era anche…
“Ciao Draco!!” una voce squillante gli perforò
immediatamente le orecchie, attirando l’attenzione per il suo spropositato
volume di un gruppo di ragazzine del quinto anno.
Per un tremendo ed imbarazzante minuto, gli parve
persino che ne fosse sovrastato ed ammutolito anche il cicaleccio dell’intero
binario.
“Ciao Pansy…” rispose con poco calore Draco, roteando
il capo per guardarla in viso, mentre spuntava oltre la schiena di sua madre Charisma. La bambina, che aveva un viso severo come quello
della madre, lo salutò con la mano, avvicinandosi immediatamente a lui e
prendendo a chiacchierare con confidenza. Era vestita di tutto punto, indossava
un costoso vestito di velluto rosso che fece aumentare l’emicrania di Draco
ancora di più.
Si conoscevano da anni, lui e Pansy, e spesso a Draco
era capitato di intercettare discorsi strani dei suoi genitori che avevano a
che vedere con parole sconosciute come “dote” e simili. Spesso, infatti, i
Parkinson venivano a casa sua e peroravano la tesi che la “loro dote” era
sicuramente maggiore di quella di Astoria, un’altra ragazzina odiosa che Draco
conosceva di vista. Era troppo piccolo per capire che cosa si celasse dietro
quelle parole, ingenuamente pensava che si trattasse di un paragone tra le
qualità delle due bambine.
Ed era una bella lotta, considerando quanto fossero
odiose entrambe.
I suoi genitori erano molto amici dei Parkinson, e lo
avevano sempre pregato di trattare bene Pansy, anche se a Draco era sempre
sembrato abbastanza difficile: troppo appiccicosa, chiacchierona e soprattutto
aveva la precipua caratteristica di pretendere da lui attenzione assoluta.
Pretesa che Draco, dall’alto del suo cognome, non
riusciva assolutamente a giustificare.
Ma, anche quel giorno, al momento di salutarlo, la
madre lo aveva pregato di essere sempre gentile con Pansy e di fare amicizia
con lei. Draco replicò infastidito di sì e meditò di seminarla quanto prima una
volta salito sul treno, quando avrebbe cercato i suoi veri amici. Blaise,
Vincent, Gregory. E soprattutto avrebbe cercato anche Potter…si diceva che
sarebbe venuto a scuola quest’anno.
Era una celebrità, anche se Draco non aveva capito
esattamente che diamine avesse fatto per esserlo. Si diceva che fosse
sopravvissuto all’AvadaKedavra
di un mago molto potente… e se quello lo avesse semplicemente mancato?
Boh… comunque, i suoi avevano piacere anche che
legasse con lui. O meglio che lo controllasse. Chissà perché…
Lucius lo salutò con una semplice alzata di capo,
dicendogli di fargli sapere se qualcosa andava storto. Draco inarcò
scetticamente un sopracciglio, dandogli le spalle. Le porte del treno si
chiusero con un cigolio e il mezzo partì, sbuffando. Affacciato dal finestrino,
Draco vide i suoi genitori diventare sempre più piccoli, fino a sparire del
tutto in un lampo biondo. Pansy continuava a parlare e lui fece molta meno
fatica a negare la stretta al cuore che provava a vederli allontanare, con lei
che non gli avrebbe comunque fatto dire mezza parola.
Era contentissimo di andare ad Hogwarts, sicuro che
sarebbe stato smistato a Serpeverde come sua madre e suo padre, certo che
sarebbe stato il bambino più lodato e stimato, come era avvenuto in quella
stazione… ma al contempo, era la prima volta che si ritrovava senza i suoi
genitori, e questo gli faceva un po’ paura.
Certo, suo padre lo aveva rassicurato a suo modo,
dicendogli che qualsiasi sgarro che avesse subito, glielo avrebbe dovuto
comunicare e lui avrebbe agito di conseguenza.
Ma questo aveva aperto nuove voragini nei pensieri del
figlio… perché doveva subire dei torti?
“Andiamo a cercarci gli altri, che ne dici?” cinguettò
Pansy guardandolo, e Draco annuì, più preso dalla possibilità di scaricarla che
dalla eventualità di restare solo con lei, come lei probabilmente sperava.
Ovviamente, Pansy riprese a parlare con voce forsennata, contribuendo alla
confusione che già Draco sentiva e che veniva amplificata dal vociare concitato
dei ragazzi che correvano, entravano ed uscivano dagli scompartimenti o che si
riabbracciavano dopo l’estate. Draco li guardava con curiosità, chiedendosi se
l’anno prossimo anche per lui sarebbe accaduta la stessa cosa. In questo, Pansy
continuava a parlare di migliaia di cose assieme, senza che lui si desse la
benché minima pena di ascoltarla attentamente. Era così presa dal suo discorso
da non accorgersi nemmeno di una figura accovacciata per terra, a qualche passo
da loro. Draco l’aveva notata prima di lei e riuscì a fermarla in tempo, prima
che la calpestasse, prendendola per un braccio. Pansy lo guardò attonita, poi
si accorse al suo cenno del capo dell’ostacolo.
“Si può sapere che diamine ci fai per terra?” chiese
Pansy, innervosita, guardando la bambina accucciata per terra e mettendosi le
mani sui fianchi “Potevo cadere…!”.
Draco alzò gli occhi al cielo, quante tragedie
inutili…
La bambina si alzò in piedi, rivelandosi completamente
alla vista di Draco, scuotendosi la polvere di dosso alla divisa nera di
Hogwarts che già indossava. Guardò Draco per qualche secondo, sbattendo le
ciglia con espressione confusa e sorpresa, per poi alzare orgogliosamente il
capo.
Era una bambina assolutamente ordinaria, come ce ne
sono tante. Aveva i capelli cespugliosi, ispidi ed elettrici, che sembravano un
vespaio impazzito di riccioli e boccoli disordinati. Lo ispirava curiosamente a
ridere, per quanto sembrasse buffa, specie quando aprì la bocca rivelando anche
due ugualmente ridicoli incisivi, grandi più del normale. Per Draco, doveva
essere una di quelle persone che si dovevano solamente nascondere dalla faccia
della terra, per non subire il ludibrio altrui. Eppure, notò, dopo qualche
momento, che invece la sua espressione era altezzosa ed orgogliosa, non c’era
nulla in lei che presagisse che si vergognasse di qualcosa del suo aspetto,
anzi ne sembrava esageratamente fiera.
Che razza di controsenso… gli occhi apparivano
curiosi, attenti, sgranati su ogni particolare di chi si trovava di fronte. Era
fastidiosamente irritante anche nel modo di stare in piedi, con la schiena
dritta e i piedi uniti.
Sembrava la figlia di qualche Mago potente e nobile,
conscia completamente del suo ruolo nel mondo. Draco sospirò in modo quasi
teatrale, allontanandosi. Probabilmente doveva aspettarsi che i suoi
chiamassero anche i genitori di quella bambina ridicola per compararne la
“dote”.
Spiccava persino nella folla di ragazzini che salivano
al castello, dopo aver attraversato il Lago nero sulle piccole imbarcazioni. La
sua chioma vaporosa era impossibile da ignorare.
Era come il treno rosso di Hogwarts nella sua testa,
li irritava i nervi ottici.
La chiamarono prima di lui, per lo Smistamento. Tese
le orecchie per sentirne il cognome, l’elemento di discrimine di ognuno di
loro, in quella Sala.
Due sillabe, dal suono liquido e duro. Granger.
E Draco capì di essere caduto nell’errore più grande e
umiliante della sua brevissima vita. Era una Mezzosangue.
Alla fine della giornata, nel suo nuovo letto, confuse
la nostalgia per casa con la prima irritazione per la neo Grifondoro.
La tenerezza di vederci
di nuovo così piccoli, per un attimo, mi attanaglia il pensiero, confondendomi.
Appoggio la fronte sullo specchio palpitante di colori ed immagini che
vorticano per mostrarsi già ai miei occhi. Mi viene da sorridere, curiosamente,
dopo essermi rivista. Ero buffa, davvero… e pensare che ero anche convinta di
essere bellissima ed intelligentissima.
Porto entrambe le mani
sullo specchio, sofferente.
Quel giorno abbiamo messo la prima pietra del mondo
che ci avrebbe divisi…
L’urlo
di dolore ruppe il silenzio perfetto e riverente che godevano i sotterranei,
durante le lezioni di Severus Piton. Un gruppo di
venti studenti contrasse contemporaneamente le spalle, sollevando gli occhi
dalle pagine ingiallite del manuale di Pozioni e dai calderoni che ribollivano
ingredienti mescolati in modo più o meno preciso. Passarono pochi secondi che
l’intera stanza fu avvolta da un fumo acre di colore nero scuro che aveva una
consistenza densa e pesante, tanto da indurre tutti a tossire con prepotenza.
Un
lampo di luce verde-oro e la nube si dissolse velocemente, come era nata. Severus Piton ripose la bacchetta con un gesto lento e
annoiato, gettando un’occhiata raggelante dietro gli sporchi capelli neri per
individuare il responsabile del disastro. Dopo aver appurato che stranamente
non si trattava di Neville Paciock, che era ancora intento a tagliare la radice
di Mandragola in un modo così goffo e grossolano che non avrebbe potuto
utilizzarla nemmeno per un minestrone di dubbio gusto culinario, percorse la
stanza con uno sguardo obliquo, vagando tra fronti volutamente abbassate ed
occhi desiderosi di scoprire la nuova vittima sacrificale di Piton.
Potter
e Weasley erano anche loro ancora intenti all’aggiunta della Polvere di Girilacco, si erano fermati con le mani a mezz’aria, le
espressioni cupe e nervose. Con una punta di dispiacere, Piton si rese conto
che quindi non era stato nessuno dei Grifondoro. Andò quindi con estrema
riluttanza a scandagliare le file dei Serpeverde, scoprendo in fretta il
colpevole dell’esplosione. Vincent Tiger, infatti, si teneva la mano sinistra
ustionata con l’altra, gemendo silenziosamente. Draco Malfoy, accanto a lui,
sospirava rumorosamente, guardando il calderone che divideva con lui
parzialmente esploso.
“Signor
Malfoy, la pregherei di andare in infermeria a prendere un medicamento per il
signor Tiger…” ingiunse Piton con voce melliflua, guardando il suo pupillo “… e
per voialtri, non credo che nessuno vi abbia detto di fermarvi… cinque punti in
meno per Grifondoro…”. Gli studenti rosso-oro ripresero immediatamente a
lavorare, riempiendo nuovamente il freddo scantinato di chiacchiere sussurrate,
ferme imprecazioni contro il professore e risate trattenute all’indirizzo di
Tiger che, intanto, continuava a tenersi la mano ferita.
Draco
uscì dalla stanza con un lieve sospiro, intimando a Tiger di riprendere immediatamente
a preparare la Pozione. Il ragazzo con foga riprese a tagliare la radice di
Mandragola con una mano sola. Draco si chiuse la porta alle spalle, risalendo
le scale ed attraversando i corridoi deserti, attraversati solo da gruppi
nutriti di studenti che andavano da una lezione all’altra, accompagnati
rigorosamente da insegnanti e prefetti. Uno di essi, uno sciocco Tassorosso del
secondo anno, lo guardò obliquamente, chiedendosi sicuramente come mai lui
invece se ne andasse libero e tranquillo per la scuola. Poi il suo sguardo si
distese, diventando gelido, mentre voltava il capo, riprendendo a parlare con
una ragazzina dalle trecce bionde.
Passando
accanto a lui, Draco sentì distintamente la ragazzina sussurrare: “Ovvio,
Ernie… quello è Draco Malfoy… figurati se il Basilisco va ad attaccare lui…
Serpeverde e Purosangue …!”. Draco scrollò le spalle con indifferenza,
sentendosi fiero di quelle definizioni che lo ponevano una spanna sopra i
comuni studenti, costretti invece a farsi accompagnare a lezione come dei
poppanti. Lui, lì dentro, non rischiava nulla. Anche se avesse incontrato
l’Erede di Serpeverde in persona, probabilmente sarebbe stato lui ad inchinarsi
di fronte a Draco… o almeno lo avrebbe sicuramente lasciato tranquillo.
Draco
continuò a camminare pigramente verso l’infermeria, le mani in tasca, godendosi
la sensazione di quiete e silenzio. Quella scuola doveva essere sempre così,
altro che quella feccia che la infettava costantemente. Forse, dopo che il
Basilisco avesse fatto pulizia e quell’incapace di Silente se ne fosse andato,
la scuola avrebbe riaperto con un nuovo ordinamento.
Niente
più mezzosangue e babbani.
Suo
padre lo sperava più di ogni altra cosa.
E
Draco con lui.
Il
ragazzo biondo si fermò a guardare fuori dal porticato, gli occhi grigi
pigramente poggiati sui ritagli di sole che bagnavano il cortile come oro
liquido, filtrando dalle nuvole che attraversavano velocemente il cielo
primaverile.
Tante
cose stavano per cambiare… e lui doveva essere pronto.
Poggiò
un braccio piegato su una delle colonne di pietra che delimitavano il
porticato, sospirando lievemente e socchiudendo gli occhi.
Quasi
spaventato da quel gesto, girò bruscamente su sé stesso, bussando alla porta
dell’infermeria alle sue spalle. Dall’interno, non proveniva alcun rumore e
nessuna voce.
Imprecando
per l’assoluta incompetenza del personale di quella scuola e maledicendo sua
madre per non avergli permesso di andare a Durmstrang, il ragazzo entrò
cautamente nella stanza, accostando immediatamente la porta alle sue spalle.
L’infermeria, come aveva previsto, era assolutamente vuota, Madama Chips era
chissà dove, all’anima sua.
Draco
roteò gli occhi, innervosito, guardandosi attorno tra i letti parzialmente
celati da tende immacolate, sospinte dal vento che entrava dalla finestra
lasciata aperta. Il silenzio era assoluto, completo, alle orecchie del ragazzo
giungeva solo il vociare soffuso dell’aula vicina e il rumore metallico degli
anelli che reggevano le tende che, al muoversi delle stesse, battevano contro le
aste che sormontavano i letti.
Si
mosse indolentemente annoiato verso una serie di mensole, ingombre di boccette
piene di strani liquidi colorati, su cui torreggiavano delle etichette che ne
spiegavano sommamente il contenuto; se quella dannata donna non si muoveva,
almeno cercava di fare da solo. Una volta, la stessa Madama Chips, quando si
era recato in infermeria per una ferita post partita di Quidditch, gli aveva
detto di fare da solo, dato che era impegnata a medicare una bimbetta del primo
anno. Che non lasciasse tutto per porgere le sue solerti cure al rampollo dei
Malfoy, era parso ovviamente strano all’undicenne Draco, che quindi aveva
combinato un pasticcio con le pozioni, in modo da farla rimproverare duramente,
mentre lui ghignava con soddisfazione. Ma dubitava che stavolta sarebbe
successo… l’infermiera era impegnata oltremisura in quei giorni, a causa del
Basilisco e delle sue vittime.
Quindi,
nessuno si sarebbe sognato di muoverle un rimprovero di qualsivoglia natura.
Inoltre,
la cosa poteva anche tornagli utile… la solita emicrania che lo colpiva sempre
all’assoluta mancanza di efficienza della gente che lo circondava, gli stava
perforando il cervello, quindi, provvedendo da solo, avrebbe trovato un rimedio
anche per quella, senza che l’infermiera lo ammorbasse con inutili domande di
circostanza.
Attraversò
la stanza silenzioso, acclimatandosi perfettamente alla quiete che lo
circondava, superando la fila di letti e raggiungendo velocemente la libreria
dove le boccette splendevano di luce colorata, rinfrangendo i raggi bianchi del
sole in gocce arcobaleno. Scorse con il dito i vari nomi delle pozioni,
cercando di ricordarne le funzioni e le proprietà, la sensazione d’intrusione
al cervello che aumentava di minuto in minuto. Si portò una mano sulla tempia,
sofferente, era talmente intensa e fastidiosa che si era tradotta nella
sensazione che qualcuno lo osservasse, quando invece la stanza era ovviamente e
vistosamente deserta. Il respiro gli accelerò in preda ad un’ingiustificata ed
assolutamente anormale ansia, mentre, frettolosamente, cercava il medicamento
per le bruciature, trovandolo alla fine, con enorme e poco celato sollievo, in
una boccettina panciuta che conteneva un liquido denso di colore arancione. Si
voltò su sé stesso, smanioso di tornare nel buio eppure accogliente sotterraneo
di Piton, chiedendosi come mai sentisse quel senso assurdo di oppressione al
petto, come una premonizione improvvisa che gli faceva persino dubitare di
essere immune ed al sicuro in quella scuola, come pensava da quando il
Basilisco aveva preso ad attaccare babbani e mezzosangue.
Ma,
quando si voltò, lentamente, quasi come se temesse davvero di incontrare gli
occhi gialli del mostro leggendario a pietrificargli lo sguardo, il sollievo
curvò le sue labbra in un sorriso sardonico e soddisfatto.
Era
solo… lei.
Il
passo di un predatore della notte, implacabile eppure leggiadro, si avvicinò
all’ultimo letto, prima della finestra, reso visibile dalla tenda lasciata
distrattamente aperta. La gola bruciava di una risata urticante, come sapone
negli occhi, mentre guardava il corpo immobile della ragazza, distesa su quel
letto, una mano sollevata in alto come se tentasse disperatamente di stringere
qualcosa, i tratti congelati in una perenne e nefasta sorpresa.
Erano
passate alcune settimane da quando il Basilisco aveva pietrificato la Granger.
E, quella sera, Draco aveva dato una festa nella sua camera, ridendo
sguaiatamente con Blaise e gli altri Serpeverde ed improvvisando persino un
balletto tribale sul suo letto, a cui era seguita una pomiciata appassionata
con Pansy. Dio, era così felice che non si era nemmeno accorto di quello che
faceva… e il giorno dopo, con lei convinta di essere diventata ormai a tutto
diritto la futura signora Malfoy, era stato decisamente seccante rimettere le
cose a posto e convincerla che si era trattato solo di un errore.
Ma,
nonostante quell’indubbio fastidio, non avrebbe mai rinnegato quel momento di
assoluto e perfetto godimento… il momento in cui tutta la scuola aveva saputo
dalla voce impastata di dolore e pianto della Mc Granitt, che HermioneGranger era l’ultima vittima del mostro.
L’aveva sperato, se l’era augurato diverse volte parlando con Tiger e Goyle, e
finalmente era stato accontentato.
La
guardò con divertimento, schernendola nel pensiero.
Della
Granger, odiava tutto… tutto. Non c’era cosa che non gli desse fastidio,
considerò guardandola.
Il
tempo si era fatto più caldo nelle ultime settimane, preannunciando l’arrivo
celere e veloce di spruzzi d’estate, ma lei indossava ancora un pesante
maglione di lana grigia, sopra la gonna a pieghe della divisa, che le lasciava
scoperte le gambe fasciate in un paio di calze nere molto coprenti. Seguì le
linee del suo corpo, fino a quell’odiosa mano che ancora era protesa in alto,
come lei faceva sempre in classe, facendola scattare ancora prima che il
professore di turno finisse la sua domanda. Adesso, invece, nelle aule regnava
il silenzio ammantato di paura e timore che Draco tanto adorava. E che non gli
faceva scoppiare la sua solita emicrania.
Che
soddisfazione… l’avrebbe pagato il Basilisco, se lo avesse visto.
Chissà
che diamine di pagamento, poteva desiderare una bestia del genere, poi…
I
capelli, impreziositi da minuscoli fili di bronzo dorato creati dalla luce del
sole, indoravano il cuscino bianco latte, sparsi come se lei fosse in tutto e
per tutto morta. Draco si chinò guardandoli, per un attimo curioso della loro
consistenza. Chissà se assomigliavano a quelli delle statue, cesellati fino ad
ogni ricciolo e boccolo, in modo da suggerire l’idea di una morbidezza che era
solo un’illusione di freddo marmo liscio. Sembravano così reali… eppure, come
il resto del corpo della Mezzosangue, erano immobili come il suo respiro, come
qualsiasi cosa di lei… si chiese, guardandola con disgusto, se dietro la pelle
granitica, lei fosse effettivamente ancora in grado di sentire. Se, insomma, lo
vedesse, lo sentisse, ma fosse solo incapace di muoversi.
Infantilmente,
fu quasi preso dalla smania di farle un dispetto qualsiasi, tipo tapparle il
naso tra il pollice e l’indice per vedere se reagiva in un qualche modo, o
rovesciarle qualcosa di liquido addosso.
Qualsiasi
cosa…
…
di lei lo disgustava qualsiasi cosa. Il corpo ancora così acerbo come quello di
una bambina, piegato spesso dal peso dei tomi che si portava avanti ed
indietro. Le mani dalle unghie rosicchiate e malcurate, le cui dita stringevano
sempre con foga quasi smaniosa le penne intinte d’inchiostro, che solo lei
sapeva far scorrere a quella velocità sovraumana, mentre scriveva. Le labbra
che celavano a fatica quegli odiosi incisivi, che sfuggivano un respiro
articolato in suoni e parole sempre irritanti e sempre pronunciati a
sproposito. La zazzera di capelli che, sebbene cercasse di domare in ogni modo
con fasce e fermagli di dubbio gusto, era sempre disordinata e incolta, come se
alla fine si arrendesse e semplicemente non le importasse più.
Ma
di lei, le dava assoluto fastidio il nome.
Hermione
Granger.
Il
nome… constatò, stringendo i pugni e serrando la mascella mentre la guardava.
Nulla di lei era cambiato in quegli istanti, nulla, nemmeno il colore terreo
della pelle del viso.
Quel
nome, che recava ancora la colpa inconfessabile di quel giorno di un anno
prima, quando, per via del suo assolutamente ingiustificato contegno e rigore
aristocratico, gli era sembrata una Purosangue… era diventato sinonimo di una
condanna. Era il nome che suo padre inseriva nei discorsi per farlo sentire in
colpa, paragonando con scherno le doti della Mezzosangue alle sue.
Se
Draco falliva, Lucius chiosava che persino la Granger ci sarebbe riuscita.
Oramai era il paragone assoluto, il contraltare di ogni cosa che facesse.
Ovviamente,
Lucius usava il nome della ragazza con irrisione, facendo scivolare le
consonanti dure e liquide con grazia disgustata e instillando nell’animo di
Draco l’adeguato senso di inferiorità che sperava lo spingesse a migliorare,
nel sentirsi, non solo paragonato, ma anche perdente, di fronte ad una lurida
Sanguesporco.
Ma,
anche a scuola, quel nome era dappertutto. Sulle bocche dei professori, ad
eccezione di Piton ovviamente, sulle quelle degli studenti, che si chiedevano
come diamine facesse ad essere sempre così preparata in tutto. E se quella
domanda era colma di ammirazione sincera nei Grifondoro, nei Tassorosso e nei
Corvonero, nei Serpeverde, che pure non sfuggivano al suo dannato incantesimo
di perfezione, diventava piena di invidia e risentimento.
Ma
sempre c’era… sempre… in ogni cosa che facesse, fosse anche perfetta e
meravigliosa, lei c’era.
Poteva
anche avere E in un compito, ma lei avrebbe permesso di inventare una nuova
valutazione che avrebbe reso il suo voto obsoleto e ridicolo.
Era
come un’ossessione… e la odiava. La detestava. Voleva che il suo nome sparisse
dalla memoria di tutti. Voleva che fosse Draco Malfoy, quello che ripetevano
genuflettendosi, non il suo nome sporco e ridicolo.
Era
una cosa assurda… assurda, decisamente. Quella piccola strega ridicola… gli
stava rovinando la vita.
Ma,
adesso, si disse con gioia, era finita. Finalmente se ne stava zitta e al posto
suo… quello che le spettava. Fuori dalla vita e dalle menti di tutti.
Un
giorno, l’avrebbero scordata. Rimpiazzando l’assordante vuoto che lei aveva
lasciato con la ridondanza del suo di nome. Sorrise ancora, era solo questione di
tempo… ed anche suo padre avrebbe smesso con i suoi paragoni cretini.
Avrebbe
smesso anche lui.
“Addio
Granger, riposa in pace…” ghignò all’indirizzo della fanciulla immobile,
guardandola in volto. Aveva evitato di farlo fino a quel momento, quasi spaventato
dal colore vitreo delle sue pupille. Fu in quel preciso momento, al contatto
con l’agata spenta dei suoi occhi, che si accorse con un brivido di come lei
sembrasse seguirlo con lo sguardo, da qualsiasi parte si muovesse in quella
stanza.
Era
stato quello, prima, a farlo sentire curiosamente osservato.
Gli
occhi… lo seguivano, anche se si spostava. Era come averli direttamente nel
cervello.
Era
come se vivessero di vita propria… o era la luce del sole a renderli luminosi
come la prima volta che l’aveva vista?
Sudando
freddo sotto quello sguardo che gli appariva contemporaneamente di rimprovero e
pietà, cercò di dirsi razionalmente che era solo una stupida impressione, che
la Granger era oramai come un fantoccio, ma la sensazione proseguì, paralizzandogli
le membra ed impedendogli di muoversi come se fosse sotto lo stesso incantesimo
della ragazza. Divenne un calore insopportabile, una debolezza fiacca ed una
nausea inammissibile che lo fece fuggire lontano da quella stanza, tacendo al
cuore ed alla mente una probabile motivazione che non implicasse che stava male
per il contatto visivo prolungato con la Granger stessa.
Lo
nauseava così tanto da farlo stare male fisicamente, dannata Mezzosangue.
Trascorse
giorni a letto in preda ad una febbre che non si poteva curare in alcun modo e
che solo il tempo e l’indebolirsi del ricordo dei suoi occhi nella sua mente,
fece sparire.
Non
sapeva Draco Malfoy che quella febbre era il primo segno del destino.
Quello
che l’avrebbe separato dalla sua famiglia per sempre… perché la prossima volta,
non avrebbe avuto la scusa della Granger per coprire pateticamente gli effetti
di quell’inspiegabile malattia.
La
prossima volta… quattro anni dopo… si sarebbe trattato di Silente e del suo
omicidio.
E
allora il silenzio con cui ammantava ogni cosa che non capiva e non accettava,
compresa Hermione Granger e l’effetto terribile che gli aveva causato, si
sarebbe miseramente infranto sotto la scure delle parole del professore che
aveva sempre indorato di lodi il suo nome, non quello della nemica.
Poche
e semplici parole. Letali… come strappargli la carne dalle ossa.
Draco
non poteva essere un Mangiamorte.
Ero già stata pietrificata, me ne ero
completamente dimenticata. Al secondo anno, dal Basilisco.
Già… ma allora fu diverso, rispetto a quanto è accaduto adesso con lo
Zahir. Completamente diverso.
Non me le ero andata a cercare, tranne per il fatto che vagavo da sola per
i corridoi.
Ne avevo parzialmente evitati gli effetti, ricorrendo a quel piccolo
specchietto.
E, soprattutto, da statua, non ero stata minimamente cosciente… mi era solo
sembrato di dormire, per settimane, senza che ne preservassi il benché minimo
ricordo.
Infatti, non avrei mai immaginato che
Draco mi avesse visto… che fosse stato lì, a pochi passi da me…
I suoi ricordi... sospiro dolorosamente… il bambino viziato che mi
perseguitava a scuola, che detestavo. E che mi infastidisce ancora adesso, se
ci ripenso. Ma aveva un motivo.
Suo padre.
Ero, in fondo, quella che gli impediva di ricevere le lodi che pensava di
meritare tanto dai suoi genitori, tanto dai professori.
… ma già da allora, già da quel
giorno, in Draco Lucius Malfoy, c’era qualcosa di profondamente diverso.
Già, da quel giorno, Draco aveva in sé il
germe della sua redenzione. Di quella che era una malattia del corpo, ma era il
disagio dell’anima.
Per un cuore buono, in un corpo destinato
al male.
Era accaduto
davvero?
Draco
continuava a chiederselo ininterrottamente da ore, guardando il tessuto verde
bottiglia del baldacchino del suo letto. Seduto a gambe incrociate sul
materasso, aveva tirato le tende pesanti, rimanendo nel buio, gli occhi aperti,
spalancati, progressivamente acclimatati alla mancanza di luce, tanto da
distinguere persino che le torce si erano accese e che quindi era scesa la
sera. Si mosse solo quando si rese conto che un piede si era addormentato.
Si stese quindi
supino, poggiando la testa sul cuscino e chiudendo gli occhi.
Non era
preoccupato. In fondo, riflettendoci, non lo era affatto. Aveva chiaramente
detto a Tiger e Goyle di non dire nulla a nessuno e contava sulla memoria
paludosa dei due che, ben presto, si sarebbero dimenticati di tutto.
Non era nemmeno
preoccupato del Trio delle Meraviglie… se avessero diffuso troppo la voce,
sapevano che probabilmente sarebbe giunta alle orecchie di qualche professore
che non avrebbe visto la cosa come un’impresa eroica, ma come un qualcosa da
punire. O perlomeno lo credeva. Ma, trattandosi della Mezzosangue, dubitava che
avrebbe rischiato la sua pulitissima carriera scolastica.
Quindi, a conti
fatti, non era preoccupato che si sapesse. Non esageratamente, in fondo.
Era arrabbiato?
Di primo
acchito, sì, lo era stato. Aveva meditato di ucciderla, per aver osato
sfiorarlo con quella sua mano ripugnante. Aveva pensato di scrivere una lettera
a suo padre, dicendogli tutto… aveva anche preso un pezzo di pergamena ed una
penna, già intinta nell’inchiostro. E poi, una nuova riflessione lo aveva fatto
velocemente desistere, ed aveva lasciato il materiale per scrivere sulla sua scrivania,
rifugiandosi a letto.
La rabbia era
scomparsa al pensiero che suo padre ridesse di lui, per essersi fatto
schiaffeggiare da una piccola e tutto sommato debole Mezzosangue. Certo che ne
avrebbe riso… e sicuramente si sarebbe vendicato con lei, ma che soddisfazione
ne avrebbe avuto lui? Nessuna. Perché ora, la Granger aveva conquistato un
ulteriore punto nella loro personale guerra sotterranea.
Era stata la
sola, dopo suo padre, a schiaffeggiarlo. E suo padre lo aveva fatto solo una
volta, per quel dannato libro del Piccolo Principe.
La guancia,
sebbene il colpo non fosse stato fortissimo, specie per un tredicenne come lui
che cresceva in fretta, modellato dall’attività fisica e dallo sport, bruciava
ancora. Forse era ancora rossa… eppure la rabbia non tornava.
Non arrivava
più.
E allora che
cosa era che provava? Schifo?
Certo, lei lo
aveva toccato… e sì, si era lavato quindici volte, mentre Tiger e Goyle
annuivano comprensivi. Poi li aveva cacciati, dicendo che doveva studiare.
Ma anche lo
schifo era passato, ad un certo punto…
… era rimasto…
solo…
Sorpresa.
Meraviglia. Stupore.
Da dove diamine
l’aveva trovato il coraggio lei, quella stramaledetta Mezzosangue, per
schiaffeggiare lui, Draco Malfoy?
Non aveva
pensato che suo padre le avrebbe potuto far passare le pene dell’inferno?
Contava tanto sulla sua presunta impunità davanti a Silente? Non poteva essere
così sciocca e non sapere CHI suo padre era… e che cosa poteva farle, fuori da
quella scuola… no… sebbene gli costasse fatica anche solo pensare di
ammetterlo, sapeva che non era così stupida.
Lo aveva fatto
e basta, quella lurida e sporca Mezzosangue.
Gli occhi
fiammeggianti d’ira, il viso deformato dal livore… lo aveva fatto e basta.
Convinta di poterselo permettere… convinta che fosse in suo potere.
Diede un pugno
forte alle colonne intarsiate che reggevano il baldacchino, che tremò
leggermente.
… la rabbia
ritornò come un fiume in piena.
Non sarebbe
successo mai più. Nessuno lo avrebbe toccato mai più, tantomeno quella piccola
sciocca. Mai più sarebbe stato così debole da concedere anche a quella idiota
della Granger di schiaffeggiarlo.
Sarebbe stato
così potente, un giorno, che persino lei avrebbe dovuto baciargli l’orlo della
veste.
Rise di
quell’immagine e si alzò dal letto con un flessuoso salto. Uscendo, gettò
un’occhiata in tralice alla pergamena ancora sulla scrivania. Recava solo
l’incipit “Cari padre e madre”.
Restrinse le
pupille con fastidio, afferrandola e stracciandola.
E sussurrò con
un ghigno: “Cari padre e madre, mi dispiace… ma la partita con la Mezzosangue,
è solamente mia…”.
Vederlo crescere sotto i miei occhi…
vedermi crescere attraverso i suoi occhi… nonostante la durezza dei suoi pensieri e
l’odio percettibile che vi sento, è come inseguire un filo rosso.
Trovare il bandolo della matassa... è netto, evidente, visibile, nei suoi
pensieri.
Lo vedo e lo seguo, mentre turbina nello specchio la sera del Ballo del
Ceppo.
“La Granger deve aver utilizzato un filtro
d’Amore su Krum… non c’è altra spiegazione…” asserì Pansy per la settima volta
nella serata, guardando con occhi ridotti a fessure il campione bulgaro
volteggiare al centro della sala, completamente perso della sua
accompagnatrice.
Il volto della Serpeverde, impiastricciato
da adolescenti mani inesperte, sparì e ricomparì sotto un riflesso iridescente,
proveniente da un fascio di luce che aveva colpito un addobbo di cristallo.
“E allora come mai sembra… decente…
a tutti, e non solo a Krum?” ribatté con espressione nervosa Daphne,
sistemandosi una ciocca di capelli platino dietro le orecchie e sistemandosi
meglio il vestito di satin grigio, che aveva appena scoperto con evidente
disappunto essere identico a quello della campionessa di Beauxbatons. Le due
ragazze, acquattate in un angolo della stanza dove un centinaio di ragazzi
ballavano spensierati, gettarono un’occhiata disgustata ad un gruppo di
Serpeverde che sbavavano a bocca spalancata, guardando Krum e la sua dama.
Alle parole più che logiche, Pansy tacque
sconfitta, incassando il colpo e facendo cadere il suo braccio dal gomito di
Draco, che aveva toccato per attirare la sua attenzione.
Inutilmente.
Draco non aveva detto una parola, da
quando era entrato. Non aveva voluto ballare, non aveva voluto parlare, si era
appoggiato ad una colonna con la schiena, osservando con occhi pigramente
annoiati la sala ingombra di persone. Pansy gli gettò un’occhiata in tralice,
cercando di indovinarne i pensieri, cosa che mai le era riuscita e tantomeno
poteva riuscirle adesso. Gli occhi del ragazzo erano persi nei suoi pensieri,
inaccessibili, splendevano solo dei riflessi delle luci colorate che giocavano
a disegnargli le iridi di lapislazzuli e diamante. Improvvisamente, Draco
sbuffò senza ritegno e si allontanò, alzando gli occhi al cielo e dicendo a
Pansy che andava a prendersi qualcosa da bere.
La ragazza, confusa, annuì senza
replicare, fissando la schiena del ragazzo che si allontanava per qualche
istante, prima di scrollare le spalle e ritornare a parlare con le sue amiche.
Draco fendé con la solita flessuosa eleganza
la folla che ballava accaldata, nonostante fosse una sera gelida di dicembre,
sguardi femminili che carezzavano il suo completo di velluto nero con il collo
alto e che non potevano minimamente presagire quanto il principe azzurro delle
loro notti, fosse in realtà profondamente irritato e seccato.
Primariamente, per quel ridicolo
abbigliamento che lo faceva somigliare ad un vicario, ma che la madre gli aveva
ingiunto di indossare con la clausola che fosse un abito d’alta moda. Come se a
lui importasse… non era mica una ragazzina sciocca, interessata alla moda… quel
commento poteva interessargli come sapere che Albus Silente adorava le
caramelle al limone.
Ma, contrariamente a quanto gli era
tipico, non aveva detto nulla. Aveva indossato il completo senza una parola,
senza nemmeno una riga in cui redarguiva pesantemente la madre, certo di
ottenerne il consenso e le scuse immediate.
La verità era che voleva evitare quanto
più possibile le discussioni con i suoi genitori, già ampiamente nervosi negli
ultimi periodi.
Giravano voci strane in merito ad un
probabile ritorno del Signore Oscuro, cosa che aveva messo tutti in subbuglio.
Compreso Draco che, però, dal basso dei suoi quattordici anni, non capiva come
mai quella notizia fosse accolta più che con gioia, con evidente sgomento.
Per questo, evitava di gravare troppo sui
suoi, fosse anche con il racconto di ciò che accadeva a scuola durante il
Torneo Tremaghi… la frustrazione per il nuovo ruolo di spicco di Potter come
campione di Hogwarts e sulla mancata applicazione delle regole, quando si
trattava del celeberrimo ragazzo, era diventata una consuetudine da sfogare in
privato, o con amici sempre più accondiscendenti e sempre meno effettivamente
partecipi.
Aveva gioito, quindi, quando aveva saputo
che quell’anno avrebbe passato il Natale ad Hogwarts e non a casa, nel castello
diventato silenzioso come una tomba.
Ma non aveva immaginato che ciò
significasse partecipare a quella pagliacciata.
Urtò una ragazzina che lo guardò,
schioccando la lingua infastidita, e si diresse velocemente verso il tavolo dei
rinfreschi, afferrando un bicchiere di Burrobirra e trangugiandone in pochi
sorsi il contenuto. Si riappoggiò ad un’altra colonna, incrociando le braccia,
attento che Pansy si mantenesse sempre a debita distanza, completamente
assorbita dalle chiacchiere sciocche con le sue amiche.
Quella sera, era più insopportabile del
solito.
Il vestito che portava, era di un ridicolo
rosa pallido, che la faceva sembrare una specie di meringa venuta su male. Lei
aveva cianciato per giorni sul fatto che fosse identico a quello di una famosa
cantante o roba simile, ma su di lei non faceva decisamente l’effetto che lei
aveva sperato.
Ci ballava dentro, nelle sue forme ancora
virginali, mentre il vestito era pieno di spacchi e scollature. Era
assolutamente ridicola… e odiava vederla al suo fianco in quelle deplorevoli
condizioni.
L’aveva invitata, perché così era stato
deciso dai suoi… figuriamoci… ed aveva accettato sempre per non contraddirli,
ed anche perché di quel ridicolo ballo, gliene importava ben poco.
E poi, scegliendola, aveva troncato sul
nascere il cicaleccio delle ragazzine Serpeverde che filosofeggiavano sulla
possibilità che, dietro ogni suo sguardo, si nascondesse un invito in
ginocchio, accompagnato da sguardi adoranti e promesse d’amore eterno. Ma
ovviamente, Pansy si era rivelata sempre sé stessa. Non che sperasse, peraltro,
che un vestito la facesse cambiare. Sperava almeno che il volume della musica
fosse troppo alto per farla parlare.
Ma era ovvio che, se si indossava qualcosa
di diverso dalle soliti uniformi nere, la capacità oratoria diventava
decisamente superiore in un’oca simile.
Specie se poi, l’ultima persona al mondo
che si aspettava potesse fornire spunti di conversazione di quel particolare
tipo a Pansy, aveva invece segretamente concordato per fornire materiale alla
Parkinson di cianciare in eterno.
Un altro motivo per detestarla, se mai ce
ne fosse stato bisogno, concordò tra sé e sé, stringendo i pugni. Una coppietta
che sostava accanto a lui, si allontanò, bisbigliando spaventata.
La guardò di nuovo, cercando facilmente un
lampo azzurro in mezzo alla sala. Non era la prima volta in quella serata, se
ne era già abbondantemente reso conto, ma ogni volta si era dato una
spiegazione ineccepibile.
La prima volta, quando era entrata,
l’aveva guardata per rivolgerle un insulto carico di disprezzo, immaginandola
alla stregua della Mc Granitt e dei suoi barbari tentativi di sembrare un
essere di sesso femminile.
… e non ne aveva trovato nessuno…
La seconda volta, quando erano iniziate le
danze, l’aveva guardata, sperando che inciampasse nel suo vestito, rovinando
faccia a terra, suscitando l’ilarità generale e l’ispirazione per un insulto
che non riusciva a formulare.
… ma lei, leggera come una gazzella, non
aveva sbagliato un passo.
La terza volta, quando gli era passata
distrattamente accanto, l’aveva guardata, mentre Pansy la indicava senza
ritegno, sostenendo che era ovvio che lei ci fosse qualcosa di diverso che
doveva essere assolutamente magico.
… e lui aveva trovato circa sette cose che
la facessero sembrare diversa.
I capelli lisci e lucenti, legati in una
crocchia elegante.
Il sorriso più aperto e malizioso, senza
ombra dell’imperfezione degli incisivi che, solo qualche giorno prima, le aveva
fatto crescere a dismisura.
L’andatura spedita e sicura, persino su
quelle scarpe alte.
La schiena dritta e le spalle aperte,
forse perché non aveva tutta quella massa di libri che si portava sempre
dietro.
Le labbra più rosse del consueto, che si
aprivano solo per sussurrare.
Il colore più roseo del viso, mentre Krum
si chinava sempre casualmente su di lei.
Gli occhi che saettavano su Weasley più
volte di quanto non lo facesse normalmente.
… ed ovviamente il vestito. Non sembrava
uno spaventapasseri, come aveva immaginato quando aveva saputo che qualcuno,
Paciock probabilmente, l’aveva invitata.
Dio, quanto si era immaginato il momento
in cui l’avrebbe vista e si sarebbe piegato in due dalle risate… ma nulla del
genere era successo. Come diamine era possibile?
Doveva aver fatto qualcosa, non c’è
dubbio… qualcosa… ma cosa? E poi, nessuno, a parte lui, lo trovava anormale…
c’erano una sfilza di professori che avrebbero riconosciuto un maleficio da
chilometri.
E se Silente o la Mc Granitt, sicuramente,
non avessero voluto smascherarla, Piton non ne avrebbe perso l’occasione. Ed
invece, tutti si limitavano a guardarla e a dirle con tono ammirato quanto
fosse bella.
Possibile… che lo fosse sul serio?
No, no, che non era possibile… insomma, non
era suo padre a sostenere che le donne babbane sono quanto di più orrido esista
sulla faccia della Terra?
Pansy passò in quel momento accanto ad
Hermione Granger, urtandola deliberatamente. Lei fece un passo indietro,
perdendo l’equilibrio, ma Krum l’afferrò prontamente per un gomito, impedendole
di cadere.
Ecco, appunto, sospirò, acquattandosi
dietro la colonna per impedire che Pansy lo vedesse. Appena lo sorpassò, uscì
dal suo nascondiglio, la Granger stava parlando con Krum e sorrideva come se
nulla fosse successo. Era evidente che sorridesse in maniera più nervosa di
quanto l’avesse vista fare in altre circostanze, e si era separata da Krum
imbarazzata… ma non era la solita Granger. No, dannazione, non era la solita
Granger.
La breccia nel muro, iniziò lentamente a
spaccare la granitica convinzione che lo permeava come un dogma sacro.
Draco sentiva le parole di suo padre
affastellarsi nel suo cervello, pronunciate dalla sua voce autoritaria, come se
lo avesse lì, davanti agli occhi, intento a fare la sua filippica.
Le sue risposte erano timide, pronunciate
a mezza bocca, con incertezza, come se non ci credesse nemmeno lui. Ma, per la
prima volta, c’erano.
Guardava Hermione Granger e gli appunti
per le risposte fiorivano come primule di marzo.
Le donne babbane sono quanto di più
stupido esista sulla faccia della Terra.
Aveva davanti la studentessa migliore di
Hogwarts, quella che non aveva mai preso un voto inferiore al suo.
Le donne babbane sono quanto di più
frivolo esista sulla faccia della Terra.
Aveva davanti la chiave delle vittorie
dello Sfregiato di fronte a tutti i suoi nemici, compreso suo padre.
Le donne babbane sono quanto di più orrido
esista sulla faccia della Terra… la Granger rise ancora, scuotendo il capo, i
riccioli che tintinnarono come campanelli.
Sussurrò qualcosa nell’orecchio di Krum,
poi indicò l’angolo dove c’era Draco. Il cuore in gola, le mani sudate, la vide
avvicinarsi, passando leggera come una farfalla di seta tra le persone avide
del suo tocco.
Che diamine voleva adesso? Si agitò Draco,
spostando il peso da una gamba all’altra, un magone sul petto.
Dando le spalle a Krum, la Granger si
concesse un respiro più forte del solito, che la fece somigliare più a quella
che era di solito. Non guardava lui, comunque, Draco se ne accorse subito.
Voleva allontanare i suoi occhi da lei, ma era ipnotizzato dalla magia che
sembrava averla trasformata, come una principessa, al grande ballo. Ridicolo,
si disse ancora, doveva aver fatto sicuramente qualcosa.
La Granger si avvicinò al tavolo delle
bevande, si versò del succo di frutta e lo bevve lentamente, dando le spalle a
Draco stesso. La sua schiena scoperta, a pochi centimetri da lui, sembrava
tremare, facendola sembrare un pesce fuor d’acqua. Un ricciolo era sfuggito
dall’elegante acconciatura e le sfiorava delicatamente la pelle morbida delle
spalle, ora contratte, mentre guardava la sala distrattamente, le labbra
accostate al bicchiere che non svuotava.
Si avvicinò piano alle sue spalle,
sostandole a pochi passi. Se lei si fosse voltata, lo avrebbe sicuramente
urtato, Draco sentiva il profumo sconosciuto di lei, sapeva di un fiore di
vaniglia.
Quella vicinanza… era la voce del padre
che smetteva di parlare nella sua mente. Per la prima volta, suo padre aveva
torto nella mente di Draco.
Avvertendo la presenza di qualcuno alle
sue spalle, la Granger si voltò bruscamente, girando su sé stessa e trovandolo
lì, a pochi centimetri da lei.
“Malfoy?” chiese interrogativa, un’ombra
di sorpresa che era sopravvissuta all’avversione per lui, restando nei suoi
occhi, prima di focalizzare chi fosse.
Draco, come se si svegliasse
improvvisamente, spalancò gli occhi, scuotendo il capo ed abbandonando la sala.
Inutilmente, la voce di Pansy cercò di richiamarlo indietro.
Corse per i corridoi deserti, evitando
sporadiche coppiette che cercavano privacy, e raggiunge di corsa i sotterranei,
spalancando la porta della sua camera. Se la chiuse furiosamente alle spalle,
l’eco risuonò per tutta la sala comune, come lo scoppio di un colpo di fucile. Si
gettò sul letto, respirando a fatica, una mano piegata sugli occhi, il petto
che andava su e giù.
La breccia nelle sue convinzioni,
diventava sempre più friabile.
Non chiuse occhio, tutta la notte, gli
occhi di quell’incantatrice di serpenti attaccati ai suoi pensieri.
Spaventato, salì a colazione la mattina
dopo. Temendo di incontrarla, temendo che lei fosse ancora così… temendo che
tutto fosse definitivamente falso… tutto quello che gli aveva detto suo padre.
Ma, la mattina dopo, Hermione Granger era
di nuovo sé stessa, i capelli solo un po’ più lisci, il carico di libri tra le
braccia, la gonna dell’uniforme sempre più lunga di quella delle sue coetanee.
Draco la guardò, cercando traccia della
principessa della sera prima, e non ne trovò. Rise tra sé e sé, sollevato, e
dandosi dello stupido per tutto quello che aveva passato quella notte.
… lei era di nuovo la stessa…
Si avvicinò a Pansy e Blaise con un
sorriso. Sciorinò convinto la sua teoria, addentando un pezzo di muffin e
seppellendo ogni altro pensiero fallace nella palude di una memoria che avrebbe
sempre negato.
La Granger aveva decisamente usato
qualcosa per incantare Krum.
Sorpresa, porto una mano sullo specchio, ancora incantata da quello che ho
visto. Non mi ha guardato quel giorno né affascinato, né incantato, né
attratto, né chissà in che modo romantico. No, assolutamente, constato con le
mani sudate. Era solo… spaventato.
Autenticamente terrorizzato.
È in questo preciso momento che mi rendo confusamente conto di come le
chiacchiere sui Mezzosangue siano state così assolute nella sua mente, fin
dall’infanzia, che qualsiasi cosa che uscisse da quell’assioma incontestabile,
gli apparisse come demolire l’immagine stessa di suo padre.
Mentre mi guardava, sebbene potesse constatare in modo superficiale che
fossi più graziosa del solito, questo
per lui rappresentava indirettamente…
tradire suo padre.
Gli occhi che vedevano una cosa, trasmettendo un impulso che il cervello
non poteva ignorare… ed intanto lo spirito di sopravvivenza delle sue idee,
cresciute negli anni come rampicanti a cui aggrapparsi in ogni caso, di fronte
a qualsiasi cosa, di fronte a qualsiasi palese contraddizione.
Sono sempre stata la palese contraddizione di quello che pensavano i suoi e
che li avevano inculcato nel cervello.
Mi ha sempre odiato più per questo, che
per altro… fossi stata orribile, stupida e frivola come diceva suo padre… non
avrebbe speso mai il suo odio su di me…
Non mi ha mai odiato perché ero una Mezzosangue in sé… ma perché ero la
prova vivente che le cose che diceva suo padre, erano bugie.
Ero la soluzione inammissibile dell’equazione che riassumeva il resto della
sua vita.
La prova del nove che non riusciva mai. La quadratura del cerchio che
stonava. Il teorema di Pitagora che diceva il contrario di quanto scritto nei
libri.
… a scuola… mi ha sempre odiato per questo.
Vedermi attraverso i suoi pensieri… mi sta facendo capire… anche
quell’odio. Me ne sta facendo capire l’origine e la ragione… al punto,
impossibile anche solo da spiegare, che riesco persino a capirlo per quello che
provava. Accarezzo lentamente la sua immagine in quel vetro, lontana nel tempo
e nella memoria, mentre parla accalorandosi con Zabini.
La libertà che mi hanno sempre dato i miei
per le mie scelte, mi sembra qualcosa di così scontato che non vederla in altre
persone… mi sembra solo impossibile.
Ma adesso… capisco quanto sia stato
difficile per te, più di quanto lo sia mai stato per me.
… che cosa avrai provato il giorno in cui
hai scoperto che eri innamorato proprio di me?
Tremo dall’ansia di scoprirlo, la mano che scivola sul suo riflesso come se
fosse ghiaccio. Le immagini passano velocemente, frammenti di me e di lui,
lievi, leggeri, perlopiù frasi mozzicate, silenzi carichi di tensione e sguardi
colmi di risentimento e sospetto. Sparisce completamente la piccola breccia nel
muro, e il ricordo della sera del Ballo perde completamente definizione e
consistenza, schiacciato sotto il peso del ritorno di Voldemort nella sua vita.
Io appaio e scompaio come una fastidiosa meteora, come una macchietta nel coro,
sullo sfondo della massa di persone che lo circonda. Lentamente, con il passare
di quei flash fugaci, mi rendo conto di come perda progressivamente interesse
per tutto, per la scuola, per la sfida aperta con Harry, spinto da necessità
che avverte più impellenti e più importanti del mero itinerario scolastico. Nei
suoi pensieri, il desiderio di emergere, di vincere la guerra con quel mondo
magico che l’ha sempre rifiutato, anche se non ne ha mai avvertito né il motivo
né tantomeno il rimedio, si incarna nell’immagine di Voldemort stesso, il
signore che lo renderà potente e rispettato… anche agli occhi di suo padre,
sempre più distante e sempre più preso dai suoi intenti egoistici. La madre è
anch’essa una cometa, di rara bellezza, ma comunque evanescente e volubile nel
cielo dei suoi giorni. Vedo anche il rapporto con gli altri Serpeverde
cambiare, li vedo crescere sotto i miei occhi come non hanno invece mai fatto
sotto il mio autentico sguardo, perso a quel tempo in orbite che non erano
sicuramente le loro.
Vedo Draco allontanarsi progressivamente da Tiger e Goyle, bollandogli come
due idioti senza cervello e con cui non ha alcun genere di confronto, ed
avvicinarsi invece sempre di più a Blaise e Theodore Nott, con cui parla molto
e trova molte affinità. Anche il suo rapporto con le ragazze cambia, lo vedo
con una punta di gelosia ingiustificata, mettersi seriamente con Pansy
Parkinson, a seguito di un’effettiva crescita fisica e mentale della ragazza.
Distogliendo lo sguardo imbarazzato, li vedo fare l’amore per la prima volta il
giorno del quindicesimo compleanno di Draco, nella sua stanza. Eppure, seguo
ancora con lo sguardo, dopo quello, in modo quasi automatico, entrambi si
rendono conto di essere uniti solo dall’amicizia e non dall’amore. Si lasciano
serenamente e pacificamente, e lei diventa praticamente la sua ombra. La sua
migliore amica.
Non avrei mai immaginato che ne fossero
successe tante, proprio sotto i miei occhi…
Lo vedo anche aderire alle squadre d’Inquisizione della Umbridge,
entusiasta del suo potere e della possibilità di punire. Marcia per il castello
come un generale, a capo dei suoi fidati soldati, cercando di scovare il luogo
dove noi dell’ES ci riunivamo, la buon vecchia Stanza delle Necessità, ma,
sebbene comprenda la somiglianza che quella situazione abbia con la vita reale,
prende tutto come un gioco, come la giusta vendetta nei confronti di quel
Potter che gli ha sempre rubato la gloria e l’onore sotto il naso, che ha
sempre creduto gli fosse dovuta. E contro di me, ovviamente… conserva di me
solo il frammento del giorno in cui fummo portati nell’Ufficio della Umbridge e
dell’espressione di puro disprezzo con cui lo guardai.
Se ne compiace, ovviamente, e medita che finalmente anche io ho avuto
quello che mi merito e che devo solo ringraziare di aver messo piede in quella
scuola.
Le sue convinzioni, al quinto anno, sono più granitiche che mai.
Cambia tutto con l’arresto di suo padre e con la sua missione di uccidere
Silente. Persino i suoi ricordi diventano stranamente foschi, cupi,
monocromatici. Passano velocissimi, come lame di luce perlacea che squarciano
come tagli una nera oscurità perfetta.
Sono in bianco e nero, con pochissimi particolari colorati. Pochissimi.
L’oro di un boccino, nascosto sotto un letto, con un’ala spezzata.
La copertina azzurra del libro di Pozioni, che Piton gli porge con
un’occhiata significativa.
Il cuore rosso di cioccolata che Pansy gli porge con un sorriso triste, il
giorno di San Valentino.
E poi… sgrano gli occhi… la mia nuca…
ed un fermaglio fucsia.
Mentre siamo in coda per ritirare un compito corretto di Incantesimi, lui è
poco dietro di me. Lo sguardo perso nel vuoto, la solita sensazione di cupo
terrore, l’angoscia che gli permea la fronte di sudore freddo, mentre ogni
rintocco è l’avvicinarsi del calare della scure del boia su di lui e sulla sua
famiglia.
Io procedo serena, scocco un’occhiata innervosita a Ron che è davanti a me
e che si sbaciucchia con Lavanda, mi sistemo i capelli trattenuti dal fermaglio
fucsia.
Lui, dietro di me, segue le mie mosse con distrazione. E prova invidia. Invidia. Mi ha invidiato.
Invidia la mia nascita, invidia la mia famiglia, invidia il destino non
segnato che possiedo. Invidia i miei genitori al sicuro in una casa calda ed
accogliente, invidia i miei sogni ancora intatti, invidia Voldemort che tange
di striscio la mia vita, invidia i miei pensieri pieni di sciocche
preoccupazioni inutili. E mi odia di nuovo, ricacciando quel pensiero scomodo.
Si dice che ce la farà, ucciderà Silente e tutto andrà a posto. E si dice
che la tensione gli gioca brutti scherzi, se sta persino invidiando la Granger.
Nella sua mente, il desiderio di onnipotenza ed onore sta scomparendo
lentamente.
Si affievolisce sotto la domanda ossessiva del perché, da quando è stato
marchiato, la sua vita non è diventata migliore… affatto. Anzi fa sempre più
schifo.
Passano poi ricordi che già conosco, l’omicidio di Silente, la fuga con
Piton, la sua malattia incurabile causata dal rimorso, la decisione dei
genitori di venderlo agli Auror, l’arrivo a Grimmuald Place. Sono una
carrellata rapidissima di sensazioni ed emozioni che immagino così fulminei da
non traumatizzare Serenity, la vera destinataria di queste memorie.
Finché le immagini riprendono a ritmo normale, attorno ad una data. 5
giugno.
Si ferma di nuovo tutto su quella data, e comprendo che di nuovo ci sono
anche io. Ma anche stavolta, non ricordo perché.
È sempre stato un’ombra tale nella mia
vita, come io una meteora nella sua, che ancora non mi capacito di quanti
ricordi preservi di me…
Poi, mentre le immagini acquisiscono forma, ricordo vagamente qualcosa,
assieme a ricollegare quella data.
Il 5 giugno… di quell’anno… il
diciottesimo compleanno di Draco…
I suoi vestiti erano ancora impregnati
dell’odore di sua madre.
Violetta di Parma, che lei faceva arrivare
direttamente dall’Italia. Se lo spruzzava sempre copiosamente sul collo, sulle
clavicole e sulle lunghe braccia, intrecciate di perle bianche e nere.
Negli anni, quell’odore aveva significato
casa. Ora significava tradimento. Il loro, non il suo; a quello, Draco Malfoy
ci pensava raramente.
Vedeva la sua, come giustizia. Il
tradimento era quello dei suoi.
Quella parola, dalle lettere scandite e
difficilmente equivocabili, era diventata come un picchio nella sua testa.
Martellava costantemente, senza mai apparente sosta, disarmonica e stonata,
qualsiasi cosa facesse, ed essa calava sulle sue palpebre come un velo
opprimente e scuro. Filtrava anche il reale, mostrandolo attraverso quella
lente opaca.
Persino la sua stessa pelle ne acquisiva
un qualcosa di diverso. Era la pelle di seconda scelta di uno che meritava di
essere venduto.
Anche a quella parola, non cessava mai di
pensare. All’inizio gli era parsa esagerata, troppo poco abituato a considerare
sé stesso alla stregua di una cosa, avvertendo quello che aveva dentro come un
segno tangibile di una dimensione ben lontana da quella immateriale. Pulsava
dentro di vita e forza… e quindi non era una cosa da vendere.
Ora, la rabbia stantia di quei giorni
aveva anche reso quel mero segno di riconoscimento come essere umano,
abbastanza inutile.
E vendere, come verbo, era diventato
oltremodo calzante. Caratura, peso, valore commerciale… ne enumerava infiniti
corollari nella mente. Quelli che gli avevano fatto meritare di essere venduto.
E, poi, arrivava la chiusura del cerchio.
Meritava di essere venduto, come una cosa vecchia, sciocca ed inutile?
Benissimo. Meritava anche di tradire.
Un attimo… non tradire… espressione
scorretta… meritava giustizia.
Sua madre lo aveva abbracciato il giorno
prima, quando era tornato a Malfoy Manor per raccogliere delle nuove
informazioni da portare a Potter e agli Auror. Aveva aspirato il profumo di
lei, ed aveva sperato come un bambino idiota, che Narcissa non si staccasse mai
da lui, mentre chiudeva lentamente gli occhi. Ma era rimasto rigido come un
pezzo di ghiaccio e lei gli aveva chiesto ancora una volta, perché non tornasse
a vivere a casa con loro.
Ma lui aveva ribadito, non senza una nota
dura nella voce ormai da uomo, che era grande abbastanza per vivere da solo.
Gli occhi di sua madre si erano illuminati di un pigro bagliore azzurro,
cercando nell’impettito giovane davanti a lei, il piccolo principe che correva
a nascondersi dietro la sua gonna ad ogni accenno di pericolo.
Non l’aveva trovato.
Draco avrebbe voluto sputarle in faccia
che era stata lei ad ucciderlo, ma non lo faceva mai.
Avrebbe compromesso il suo ruolo di
doppiogiochista, certamente.
Ma intuiva che ovviamente, c’era dell’altro,
l’ancora assurdo desiderio di non farle del male, quando invece lo stesso modo
in cui aveva scelto di vivere, era praticamente un ucciderla in modo costante.
Ma, anche a questo, Draco Lucius Malfoy,
non pensava quasi mai.
Si limitava a salutare sua madre con un
affrettato cenno del capo, mentre suo padre, immobile sulla scalinata di marmo
nero, stringeva con forza il corrimano, fino ad avere le dita bianche. Si
guardavano negli occhi per qualche istante, nubi d’ottobre gemelle, prima che
Draco inforcasse l’uscita, l’inconcepibile ed inspiegabile certezza che suo
padre, Lucius, in qualche strano e confuso modo, sapesse tutto.
Di lui e di quello che stava facendo.
Anche quel giorno, era andata così. Anche
quel giorno, era alla fine tornato a Grimmuald Place, nella sua polverosa
stanza in soffitta, con il minuscolo oblò che fungeva da finestra.
All’inizio, disgustato dal suo ruolo e
smanioso di non condividere troppo la casa con Potter e compagni, ci tornava
solo una volta alla settimana, trascorrendo il resto del tempo in giro per
bettole e locande, smanioso della libertà che aveva perso per qualche
settimana, dopo essere stato venduto agli Auror. Ne voleva sempre di più,
voleva l’ossigeno che premeva contro i suoi polmoni, fino ad urticargli la
laringe.
Poi, passata quella normalissima
sensazione, aveva invece desiderato mura sulla sua testa, a raccogliere e
comprimere i suoi pensieri.
E, quindi, ignorando sommamente quasi
tutti gli abitanti di quella casa, ci tornava sempre più spesso. Ci era tornato
anche quel giorno, il 5 giugno… il suo compleanno.
Sua madre aveva insistito per farlo
rimanere molto più del solito, ma lui aveva scrollato le spalle, irremovibile,
ed aveva sibilato che non aveva tempo per quelle sciocchezze.
La mente correva ai diciassette compleanni
prima, sfarzosi, bellissimi, da suscitare invidia e meraviglia. Fontane di
cioccolato, piccoli draghi addomesticati da cavalcare, scope volanti e mini
tornei di Quidditch.
Ed aveva anelato, come non mai, tornare
nella sua piccola e gelida stanza, dove il 5 giugno era solo un giorno tra il 4
e il 6 giugno.
Dove nessuno gli avrebbe fatto gli auguri,
o gli avrebbe messo in mano pacchetti luccicanti di cose inutili. Dove ogni
cosa aveva il sapore del sangue, detestabile, orribile, ma sincero.
Gli occhi della gente che incontrava per
casa, specie di quelli che erano solo di passaggio, erano vuoti e spenti, e a
Draco stranamente davano una calda sensazione di familiarità, come qualcosa che
riconosci e ti conforta nella sua somiglianza. Razionalmente, sapeva che
difficilmente quelle persone avevano qualcosa in comune con lui, eppure era
sempre così che si sentiva. Rincuorato. Rinfrancato, e non ne poteva fare a
meno.
Ognuno là dentro aveva perso qualcuno che
amava e, sebbene non fosse vero, Draco amava fingere quello stesso sguardo con
facilità impressionante, dicendosi che anche i suoi, per lui, erano morti.
Ne piangeva un lutto silenzioso, fatto di
lacrime soffocate nel cuscino che, di giorno in giorno, si erano sempre più
diradate. Un lutto che si confondeva con il sospetto e la sfiducia che,
nonostante quello che stava facendo, sembrava circondarlo come un alone
incancellabile. Di sera, quando la sola compagnia era la luce della finestra
della casa di fronte, pensava con sarcastica amarezza che avrebbero avuto
davvero fiducia in lui solo il giorno in cui sarebbe morto per mano di
Voldemort, cosa che non poteva escludere e che, anzi, era molto più che
probabile.
E allora, fuoco alle polveri, se non
sarebbe diventato un eroe… con tutto quello che ne conseguiva.
Ma non gli interessava. Ormai nulla gli
interessava davvero.
Nulla… persino la vita stessa, indossata
come una scomoda ed ineliminabile abitudine, scevro d’ogni inclinazione a
piangere, a ridere o a provare qualsiasi cosa di diverso da un guasto rancore.
Irritato da quell’odore che sembrava
attaccarsi addosso, contaminandolo fino alle ossa, si sfilò velocemente la
maglia azzurra, gettandola con rabbia per terra, restando a torso nudo. La
calpestò violentemente con il piede, dopo aver incontrato il riflesso diafano
della sua pelle nello specchio di fronte a lui.
Linee più scolpite del torace per
l’esercizio fisico da traditore che doveva fare ogni giorno. E cicatrici,
piccole, chiare, impercettibili, ma che facevano tutte male come il primo
giorno.
Improvvisamente, i sensi affinati dagli
allenamenti a cui lo sottoponeva Lupin, Draco sentì un rumore soffocato fuori
dalla sua porta. Afferrò prontamente la bacchetta, ancora vestito solo dei
jeans, non preoccupandosi che, molto probabilmente, doveva trattarsi di uno
degli abitanti della casa, piuttosto che di un autentico nemico. Si appoggiò
contro la porta, la bacchetta sguainata, cercando di ascoltare i rumori che
provenivano da fuori.
Un tramestio di passi, che scendevano le
scale. Poi più niente.
Deciso a prendersela con qualcuno, aprì di
scatto la porta, sperando di cogliere in flagrante il molesto avventore. Ma,
davanti alla porta, non c’era nessuno.
Sospirò, inarcando un sopracciglio,
facendo un passo per rientrare dentro, ma, nel farlo, notò qualcosa appoggiato
per terra. Si chinò leggermente, raccogliendo un piccolo involto di colore
verde bottiglia.
Un pacchetto.
Un pacco regalo, con un piccolo fiocco
rosso in cima.
Draco lo teneva in mano, come se temesse
di vederlo esplodere da un momento all’altro. Sotto il fiocco rosso, un
biglietto bianco recava poche scarne parole, scritte con una calligrafia
panciuta e precisa.
Tantissimi auguri di buon compleanno,
Draco.
Che sua madre avesse scoperto dov’era e
gli avesse mandato quel regalo?, si chiese chiudendo la porta con un piede. Sì
come no… scopre che sono un traditore e la prima cosa che fa, è mandarmi un
regalo, a meno che non fosse davvero un modo per farlo fuori. Pronunciò
automaticamente qualche formula con la bacchetta, controllando il contenuto del
pacchetto, ma non ne venne fuori nulla.
Inoltre, era abbastanza scontato che
nessuno sarebbe potuto entrare nella casa, arrivare fino alla sua stanza,
depositare un pacchetto ed uscire senza che nessuno se ne accorgesse… e poi,
ammesso e non concesso che ci fosse riuscito, che senso avrebbe dovuto avere
usare un mezzo del genere per ucciderlo, e non farlo fuori direttamente, una
volta arrivato a pochi metri da lui?
No… era stato qualcuno della casa… quindi
uno dei buoni… quindi qualcuno… che si è ricordato del suo compleanno…
Scartò sospettoso il pacchetto, uscendone
fuori una sciarpa di colore verde anch’essa. Semplicissima, con delle frange
alle estremità. Nulla di speciale, insomma, non sembrava nemmeno di grande
qualità.
Forse l’aveva fatta Molly Weasley,
dubitava che qualcuno fosse uscito a comprarla… certo che regalare una sciarpa
a giugno aveva del geniale, constatò caustico, gettandola sul suo letto.
Si distese a sua volta sul letto,
esaminando il biglietto che aveva accompagnato il regalo. Chi diamine era
stato? Non riconosceva la scrittura del biglietto.
Doveva essere stata Molly Weasley,
concluse alla fine con un sospiro, chiudendo gli occhi. Quella sera, a cena, in
maniera volutamente casuale, aveva fatto scivolare nel suo piatto una razione
in più di torta alle ciliegie.
Quando lui l’aveva guardata interrogativo,
aveva solo sorriso, non replicando nulla.
Sì, sì, doveva essere stata lei… i
pensieri divennero sempre più foschi, fino a che il sonno lo cullò, portandolo
nel velluto dolce di un riposo senza sogni.
Si svegliò che il sole era sorto già da
qualche ora. O perlomeno così pensava, visto che dalla sua misera finestrella
non si vedeva nulla.
Per fortuna, quella mattina non aveva
nulla da fare, quindi poteva anche restare a letto un po’ di più… che fortuna,
davvero. Voleva fare disperatamente qualcosa, qualsiasi cosa per evitare di
pensare ad una cosa qualunque.
Come ogni giorno, era la prima sensazione
che lo coglieva appena sveglio.
E, se questo significava aiutare Molly
Weasley a liberarsi di Mollicci, lo avrebbe fatto con enorme e disgustoso
piacere.
Si vestì velocemente, scendendo di sotto,
la casa completamente avvolta nel silenzio, cosa abbastanza strana. Doveva
essere in corso qualche operazione che implicava la presenza di tutti… aveva
sentito parlare di qualcosa di grosso, dovevano catturare due Mangiamorte dei
peggiori ed interrogarli per sapere dove si trovava Voldemort. Cosa che nemmeno
lui era riuscito a sapere.
Chissà a chi sarebbe toccato morire, stavolta
… a qualcuno che era suo amico una vita fa, o ad uno dei volti scavati che
transitavano lì, come anime di un infinito purgatorio?
Fece qualche passo, entrando in cucina.
Sulla tavola c’era solo una brocca di latte freddo e un paio di muffin, lasciati
sicuramente per lui da Molly.
Quella donna, appuntò mentalmente Draco,
addentando un muffin, lo trattava come un figlio.
Doveva essere una sua dote naturale, o
forse vagamente indotta dal fatto di avere così tanti figli. E Draco la
lasciava fare anche con lui.
Ogni gesto d’affetto che accettava da
Molly Weasley, era un gesto che non concedeva di fare a sua madre.
Si appoggiò stancamente al muro,
continuando a mangiare e guardando pensosamente il vuoto davanti a sé, finché
un rumore per le scale lo fece dapprima sobbalzare, poi, riconoscendone
l’origine, meditò di fuggire di sopra, ma ovviamente non faceva in tempo.
Quindi restò al suo posto, stoico come il capitano di una nave che affonda,
aspettando l’inevitabile.
L’inevitabile… che aveva una massa di
capelli ricci ed una lingua lunga come poche. E che, ovviamente, aveva nome
Hermione Jane Granger.
L’aveva già riconosciuta per la serie di
rumori che aveva fatto per le scale, le scendeva sempre come un elefante, la
grazia femminile non sapeva nemmeno dove abitava. Inoltre, da quando stava con
Weasley, doveva aver anche attaccato qualcuna delle malattie infettive di cui
soffriva il rosso a livello celebrale. Insomma, ci voleva un’ischemia seria per
stare con un tipo del genere.
A Draco, che pure poco importava delle
vicende sentimentali di Grimmuald Place, non era certo passato inosservato del
fatto che stessero assieme, sebbene sembravano nasconderlo alla onnipresente
madre Weasley… il motivo, pensava Draco, risiedeva forse nel fatto che li
avrebbe fatti sposare seduta stante.
Ma bisognava essere abbastanza ciechi per
non accorgersi dei sussurri a mezza bocca, l’uno nell’orecchio dell’altra, o
delle mani strette sotto il tavolo, o del fatto che, di sera, lui spesso andava
nella camera di lei, attraversando con un passo non propriamente felino il
pianerottolo tra le varie stanze, svegliando spesso anche lui che imprecava gli
ormoni di quei due.
Quindi Molly Weasley doveva essere davvero
la mamma migliore del mondo… anche cieca era…
Da bravo Serpeverde ed ex Mangiamorte, si
aspettava con soddisfazione il momento in cui sarebbero stati scoperti dalla
corpulenta signora. Anche se sicuramente Molly Weasley agognava non tanto
velatamente avere la Granger come nuora, non sarebbe stata sicuramente contenta
di ciò che facevano sotto il suo stesso tetto. Insomma, perlomeno Draco lo
pensava… vai a vedere che quella lì già smaniava per avere un nipotino…
La Granger irruppe in cucina con la sua
solita innata eleganza, spettinata come se si fosse appena svegliata, anche se
era vestita di tutto punto. Indossava una camicia bianca sopra un paio di
pantaloni azzurri, ed era vistosamente trafelata, il viso rosso dalla corsa che
aveva fatto per le scale. Non era sfuggito ad un osservatore attento come lui,
quanto la ragazza fosse cambiata nel corso dell’anno, in cui non si erano
visti.
Se lui infatti era passato da una parte
all’altra delle barricate in cui era diviso il mondo magico, lei aveva invece
viaggiato alla ricerca degli Horcrux, assieme a Potter e Weasley.
Immaginava che tipo di viaggio fosse
stato… ed immaginava che non fosse stata una semplice passeggiata nei boschi.
Non erano tornati da moltissimo tempo da
quel viaggio, circa tre settimane, in cui al comando di tutte le operazioni,
c’era sempre stato Lupin, ma non appena Potter era tornato, era come se in modo
immediato ed automatico, il scettro del comando fosse passato a lui. Difatti,
Lupin stesso aveva conferito con Potter per ore sulla situazione di Draco
stesso, convincendolo della sua buona fede.
Un tempo, questa cosa avrebbe dato estremo
fastidio a Draco, si sarebbe impuntato… ora, come per molte altre cose, non gli
importava più.
Era Potter l’eroe… e lui, al massimo,
poteva ambire ad essere una squallida spalla e controfigura. Ma non importava,
come sopra insomma.
Non avrebbe, però, potuto negare l’aura
diversa che aveva il magico Trio, da quando era tornato. A parte le cose
evidenti come la relazione tra Weasley e la Granger, abbastanza scontata e
prevedibile, piccoli particolari avevano cambiato notevolmente i tre. Potter
era cambiato fisicamente, più alto, più robusto, ma anche più silenzioso e
malinconico. Weasley era più serio e posato, ed aveva preso l’abitudine di
seguire con lo sguardo la Granger dovunque si spostasse.
E lei, la Granger… bisognava essere alla
stregua dell’ipovedente Cooman per non accorgersi dei suoi cambiamenti.
Quando l’aveva rivista, si era
meravigliato non poco. C’era ben poco della ragazzina saccente che conosceva a
scuola. O meglio, era sempre saccente, ma fisicamente c’era ben poco. Era molto
dimagrita, ma a questo aveva sopperito il fatto che fosse cresciuta in altezza,
portava finalmente i capelli ordinati e coordinava persino vestiti ed
accessori. Un miracolo, insomma.
Ma era sempre insopportabile, anzi forse
lo era più di prima, ora che era anche spalleggiata dal suo Re straccione.
Quindi, i duelli verbali con lei non erano
certo venuti meno, ma adesso la parola MEZZOSANGUE era abolita, ovviamente.
Sarebbe stata fuori luogo per un traditore convertito.
Anche se, pensava Draco, non l’avrebbe mai
potuta usare come l’aveva usata a scuola… la breccia della sera del Ballo del
Ceppo era diventata una voragine, fatta apposta per ferire anche quel ricordo
del padre nella sua testa.
Quindi si poteva riconoscere che lei fosse
intelligente e persino decente… ma non era il sangue sporco a renderla
insopportabile. No, era proprio lei così, sospirò.
Manco quell’attenuante le poteva
riconoscere.
La Granger entrò quindi in cucina con
passo marziale ed esaminò la stanza per tutta la sua larghezza e, non trovando
chi cercava, emise un lungo sospiro lamentoso.
Poi, lo sguardo si incupì, notando Draco
appoggiato contro la credenza; il ragazzo, in tutte quelle sue manovre, aveva
finto abilmente di non essersi minimamente accorto di lei.
La Granger lo guardò sospettosamente sotto
le lunghe ciglia nere, poi, alzando gli occhi al cielo, sospirò ancora,
avvicinandosi di qualche passo ed inserendosi nel suo campo visivo, in modo che
non potesse continuare ad ignorarla.
“Malfoy, dove sono gli altri?” chiese
impaziente, battendo il piede per terra con nervosismo.
“Che vuoi che ne sappia io?” rispose lui a
tono, continuando a mangiucchiare senza darsi la benché minima pena di
sollevare anche lo sguardo “Non mi sembra di essere diventato una sorta di
portinaio… non ci dovrebbe essere un elfo domestico o qualcosa del genere?”. La
Granger parve trattenere a stento un pensiero che le aveva attraversato gli
occhi scuri e che le aveva curvato il viso in un accenno di fastidio represso,
ma si morse la lingua e non disse nulla, limitandosi a sospirare ancora con
teatralità.
“Non sai dove potrebbero essere andati?”
chiese ancora con un filo di voce, guardandolo.
Draco sembrò pensarci per qualche momento,
poi finse un’espressione di improvvisa consapevolezza che accese lo sguardo di
Hermione. Poi, scosse il capo con un ghigno, mormorando che non lo sapeva. La
Granger, ovviamente irritata, sbuffò ancora, non dandosi però pena di
rispondergli. Era sempre così con lei, constatò Draco, non gli rispondeva mai a
meno che non fosse necessario. E generalmente non lo trovava mai necessario.
Draco intuiva il perché, e lo trovava
estremamente fastidioso.
La Granger era buona. Molto più di Potter.
Lo era sempre stata.
E, da buona, non poteva avere null’altro
che pena e compassione per lui. Era evidente nei suoi occhi, quando lo guardava
e quando tratteneva le risposte piccate che le sue provocazioni le suggerivano.
Hermione, davanti a lui, fece qualche
passo, afferrando un pezzo di pergamena da una mensola ed una penna babbana.
Scrisse poche righe e poggiò il foglietto sul tavolo, accanto alla colazione di
Draco, prima di voltarsi per uscire.
Il ragazzo, sospirando perché finalmente
se ne stava andando di sopra, gettò un’occhiata distratta al biglietto che era
ovviamente un messaggio per Weasley.
Poi, con un piccolo sussulto, vide
qualcosa che non lo convinceva ed afferrò il foglio, rigirandoselo tra le dita.
La consapevolezza glielo fece stringere tra le mani, facendolo accartocciare.
La grafia, la scrittura del biglietto
della sera prima… era la stessa. Era stata la Granger a scriverlo.
D’accordo la pena e la compassione e non
rispondergli per le rime, quando la provocava… ma arrivare a fargli anche i
regali, qui si esagerava.
Salì le scale velocemente, due gradini alla
volta, fermandosi solo quando arrivò davanti alla camera di Hermione, la cui
porta era socchiusa. Non dandosi pensiero di bussare o altro, la spalancò
violentemente. La Granger, che si stava mettendo una giacca, probabilmente per
uscire, sobbalzò spaventata, poi, riconoscendolo, sospirò di sollievo, urlando:
“Che diamine vuoi?? Ti sembra il modo di entrare nelle stanze delle persone?!”.
“Scusa la mancanza di galateo, Granger…”
replicò Draco sarcasticamente, guardandola dall’alto in basso “Ma ero troppo
sconvolto all’idea che mi avessi fatto un regalo per il mio compleanno per
badare all’educazione… come diamine te ne sei uscita??? Faccio così pena??!”.
La sua voce si era fatta fastidiosamente acuta sulle ultime parole, aumentando
di tono e rivelando la rabbia enorme che gli era montata addosso.
Come accadeva da anni, però, la Granger
non reagì come lui si aspettava e come avrebbe fatto qualsiasi persona sana di
mente al suo cospetto. Non lo aveva fatto a scuola quando era il rampollo dei
Malfoy, figuriamoci se l’avrebbe fatto adesso… non si piegò, quindi,
chiedendogli scusa e prostrandosi ai suoi piedi, non fosse altro per il quieto
vivere. Anzi, quelle parole ebbero il preciso effetto che Draco si era augurato
poco prima.
Aveva stretto gli occhi, abbandonando ogni
tenerezza per il ragazzo abbandonato dai suoi genitori e ogni forma di riguardo
per il doppiogiochista da cui materialmente dipendeva il loro destino, in
quella guerra.
Aveva riassunto il solito cipiglio severo
e il solito ardore furibondo, guardandolo con astio. A Draco venne curiosamente
da sorridere, dovette trattenersi con tutte le forze per non farlo, specie
perché non ne capiva l’origine.
“Veramente era da parte di tutti, razza di
furetto ingrato…” replicò atona, perdendo ogni forma di contegno “Ma a nessuno
andava di scrivere un biglietto, e sono stata costretta a scriverlo io… capisci
il senso della parola costretta, o devo tipo mimarlo per fartelo
comprendere?!”. Aveva le guance rosse per l’irritazione, le mani strette a
pugno, sembrava una bambina piccola in posizione di combattimento.
A Draco si persero ancora le parole in
gola, non riusciva a parlare. E non perché non avesse argomenti, o fosse tipo
affascinato da lei, o spaventato… no. Si stava trattenendo dallo scoppiare a
ridere.
Era così buffa… ma non nel modo ridicolo
con cui lo era a scuola. Non le faceva venire voglia di prenderla in giro, le
faceva venire solo voglia di stuzzicarla di più.
Una sensazione nuova. Una sensazione
piacevole.
Lo faceva sentire di nuovo… vivo. Voglioso
di qualcosa, che non fosse la vendetta.
“E sai che c’è?!” continuò Hermione la sua
invettiva, finendosi di infilare la giacca “Visto che le serpi come te non
hanno evidentemente un collo idoneo a sentire il freddo, me la prendo io la tua
sciarpa…! Ovviamente con le dovute scuse per averti trattato da essere umano!”.
Soddisfatta dal silenzio, di cui fraintendeva abbondantemente l’origine,
Hermione inforcò l’uscita, sbattendo la porta e scendendo velocemente le scale.
Dietro la porta della sua camera chiusa,
Draco Lucius Malfoy, traditore di ogni parte del mondo, venduto dai suoi
genitori agli Auror per la sua evidente incapacità di essere un Mangiamorte,
scoppiò infine in una risata liberatoria e colma di sentimenti inespressi e
scordati. Piegandosi in due dal gran ridere, riascoltando il cuore battere per
qualsiasi di diverso dalla mera inedia o dal rancore, ebbe un sussulto di
speranza.
Il primo, da quando era stato marchiato…
l’ultimo, prima di molti anni dopo.
Quando il suo destino e quello della
ragazza più buffa che avesse mai conosciuto, ancora insopportabile come poche,
si sarebbero intrecciati di nuovo, ma in un modo che Draco Malfoy non poteva
nemmeno lontanamente immaginare.
La speranza… quel giorno, con la mia
celeberrima imitazione di pesce palla, ti ho ridato la speranza.
La speranza di trovare ancora motivi per ridere.
Incredibile… con un gesto così piccolo…
So quanto labile sia stata quella speranza, conosco in parte i suoi ricordi
di quello che è accaduto dopo.
E so che sarà stato solo un breve momento, questo, che mi è stato concesso
di vedere.
Eppure… quel pensiero… di essere stata questo, anche solo per un secondo in
un momento del genere della sua vita, mi riempie il cuore.
Scappa da ridere anche a me, osservando il mio riflesso. Sono buffa
davvero, quando faccio così… e pensare che ho sempre pensato di essere tremenda
ed implacabile.
Prova ulteriore di quante cose io stia scoprendo, guardandomi attraverso i
suoi occhi.
Il mio sorriso si congela, quando le immagini riprendono, velocemente,
forse perché la mia stessa volontà ha impedito che diventassero più nette e
precise.
Non voglio più rivederlo quel ricordo. La sera a Grimmuald Place, lui che
piangeva la morte dei suoi genitori e io che, irritata dal suo modo di
rispondermi, gli avevo augurato di morire in quella tremenda guerra. Come sono
stata capace di dargli la speranza, così sono stata capace di togliergliela.
I ricordi turbinano ancora, portandosi via per fortuna quell’immagine
odiosa che spero la stessa Serenity non debba conoscere mai, e giungono ad una
calda notte estiva, piena di gioia.
Forse la notte più bella della mia vita… il mio futuro era così radioso che
sembrava risplendere… la notte della
sconfitta di Voldemort.
E ci sono ancora io, nel ricordo di Draco. Stavolta questa scena la ricordo
anche io… fu l’ultima volta che lo vidi, prima di rivederlo al Petite Peste.
Un unico enorme corpo, con centinaia di
facce, ognuna delle quali faceva una cosa diversa… come uno di quei mostri
mitologici dal corpo di serpente che, ad ogni colpo infertogli, creava un’altra
testa.
Draco Malfoy, quasi diciannove anni,
sopravvissuto alla grande battaglia finale contro Voldemort, si chiese
scioccamente se quell’ultima riflessione non fosse l’esito di un profondo
trauma celebrale non diagnosticato, piuttosto che di pensieri normalmente
sconnessi e comprensibilmente sconvolti, dopo tutto quello che aveva subito.
L’infermiera, però, nella tenda di soccorso adibita alla cura dei feriti,
continuava a garantirgli che non aveva nulla di grave. La guardò meglio, mentre
lo medicava. Era Madama Chips, da un passato lontano secoli ne riemerse
l’immagine fumosa e sbiadita, assieme alla scarsa considerazione che aveva
sempre avuto di lei, quando era a scuola.
Draco si ripromise, vedendola allontanarsi
ondeggiando, di recarsi da un vero Medimago, non appena si fosse potuto alzare.
Quella, doveva essere anche ubriaca…
Non che non fosse giustificata…
probabilmente metà dell’Inghilterra magica, ora che Voldemort era morto, era
sotto l’effetto di litri d’alcol…
Draco Lucius Malfoy era abbastanza restio
a credere di essere ancora vivo.
La bassissima soglia di sopportazione al
dolore, che lo aveva contraddistinto quando era ancora un bambino, si era
notevolmente alzata e razionalmente sapeva che, a parte la ferita alla testa,
la gamba rotta e una serie di escoriazioni superficiali, stava discretamente
bene. Era anche imbottito di antidolorifici, quindi era abbastanza lucido. O
meglio, lucido, perché non sentiva il dolore, ma per il resto, difficilmente lo
si poteva definire in possesso di tutte le sue capacità mentali, sensoriali e
cognitive. E questo, per un piccolo ed impossibile rompicapo che lo affliggeva…
lui era vivo. Non era morto.
A meno che l’inferno non avesse uno
sgraditissimo senso dell’ironia, facendogli credere di essere ancora in vita
quando in realtà era morto… ma doveva essere davvero un inferno di quinta
categoria.
E lui, il traditore di ogni parte del
mondo, si meritava un inferno con i controfiocchi.
Draco Malfoy non si capacitava di essere
ancora vivo. Questo era il punto.
Era convinto, certo e sicuro di morire
quella sera, e si era preparato molto, nei giorni precedenti a quello.
Non aveva spinto il suo pensiero nel
programmare nemmeno un minuto dopo quella fatale giornata in cui avrebbero
attaccato il covo di Voldemort.
Alla fine, qualcun altro aveva parlato,
rivelando la collocazione del nascondiglio.
Sembrava che fossero stati Pansy, Blaise e
Nott. Si era chiarito anche con loro, prima di affrontare la battaglia. Nott
non ne aveva voluto sapere, rintanandosi nella cella oscura in cui era stato
rinchiuso, anche se non c’erano grandi prove contro di lui. Blaise e Pansy
avevano accettato le sue spiegazioni di buon grado.
Aveva detto addio alla vita, facendo sesso
con la sua pseudo fidanzata Denise… ed aveva aspettato di morire. Ma la
bastarda, la Morte, non se l’era portato via.
Non che si potesse dire che non l’avesse
sfiorato durante la battaglia.
Nelle prime concitate fasi dello scontro,
quando i Mangiamorte disorientati si erano visti attaccare dagli Auror così
all’improvviso, ogni colpo aveva più lui come obiettivo, piuttosto che lo
stesso Potter, a cui sembrava mirare solo Voldemort. Non che non l’avesse
immaginato… era il traditore, ci mancava anche che non lo facessero.
Meno ovvio era stato, invece, che era
stato protetto da ogni parte. E questo gli faceva abbondantemente propendere
per la tesi che fosse stato un sogno e che lui fosse morto.
Lupin, i Weasley, lo stesso Potter… e
persino la Granger che, poche settimane prima, gli aveva augurato di morire…
ognuno di loro si era scagliato in sua difesa, evitandogli la morte quando gli
attacchi erano semplicemente troppi e Draco aveva ormai sentito la fine
prossima, fino al punto che i Mangiamorte avevano deciso di lasciarlo
momentaneamente perdere per riprendere lo schema dell’attacco originale, così
come inveiva Voldemort.
E lui era stato libero di muoversi come
meglio gli competeva, come sapeva meglio, come il serpente elegante ma
implacabile, che aveva imparato ad essere.
Specie, quando avevano cercato di
disarmarlo… perché Draco Malfoy era il maestro degli Incantesimi senza
bacchetta.
Ne aveva fatti fuori parecchi, anche di
gente che conosceva e con cui aveva riso per anni, ma che ora lo volevano morto
nella maniera peggiore possibile. Primi tra tutti, Tiger e Goyle.
Ed aveva anche restituito il favore che
aveva avuto, quando era stato protetto. E questo, se possibile, era ancora più
assurdo. Doveva essere morto, decisamente, all’anima della Chips e delle sue
ferite superficiali.
Ricordava distintamente sua zia
scaraventarsi su Molly Weasley, come una bestia ferita, pronta ad ucciderla.
E ricordava anche distintamente sé stesso
colpire il sangue del suo sangue, alle spalle. Era stata lei, Bellatrix, poi, a
lanciargli un anatema che gli aveva rotto la gamba.
Ma, prima di allora, aveva anche salvato
la Piattola Weasley da Pucey… e lui l’aveva guardato con un odio tale che, per
un attimo, non era stato più in grado di muoversi.
Ovvio… sua sorella marciva ad Azkaban per
colpa sua.
Aveva persino aiutato Potter ad infliggere
il colpo finale a Voldemort… se questa non era fantascienza, non sapeva che
cosa altro poteva esserlo…
Non che la sua vita non si fosse
trasformata progressivamente in una patetica commedia degli errori… ma pensava
che il palcoscenico calasse quella sera.
Lo pensava… e forse lo sperava pure. Draco
si portò una mano tra i lunghi capelli biondi, stringendone una ciocca con
rabbia, piegandosi in due sul lettino su cui sedeva da quando la battaglia era finita.
Attorno a lui, la gente si muoveva come un
corpo solo, dotato di mille teste. C’era chi piangeva qualcuno che era morto,
chi rideva, chi cantava, chi gemeva per il dolore. Era come un coro stonato in
modo macabro e perverso, a cui si aggiungeva e mescolava l’odore del sangue
che, come sempre, lo faceva stare male, e quello del disinfettante, che gli
faceva arricciare il naso.
Perché non era finita quella sera? Che
razza di senso dell’umorismo aveva quel Dio che lo aveva risparmiato?
Non sapeva che farsene della sua vita. Non
sapeva che farsene.
Sarebbe dovuto morire quella notte, come
un eroe… non vivere come un fantasma… attendendo di morire per mano di
qualcuno, desideroso della sua testa di traditore…
Gli avrebbero proposto di cambiare
identità, lo immaginava… ma Draco Malfoy gli sarebbe sempre venuto dietro… per
sempre… l’unico modo per chiudere i conti con lui, era morire.
Morire, quel giorno… ed ora? Che avrebbe
fatto?
Era meno che niente… non era nulla… non
aveva nessuno da riabbracciare, alla fine di quella guerra. Era solo un uomo
morto che camminava. Che cosa avrebbe fatto, adesso, ora che non era più utile
a nessuno?
Come una risposta materializzatasi a
quella domanda, si sentì chiamare leggermente a bassa voce da qualcuno:
“Malfoy…”.
Sollevò gli occhi umidi, incontrando
quelli castano chiaro della Granger che lo guardava lievemente preoccupata. Si
tirò immediatamente a sedere composto, come se fosse stato punto da un’ape,
raddrizzando la schiena.
Lei seguì quelle manovre in silenzio, limitandosi
a spostare il peso da una gamba all’altra, visibilmente a disagio. Doveva
averla costretta qualcuno, probabilmente Potter, a venire lì a parlare con lui.
In fin dei conti, ricordò Draco serrando
la mascella, l’ultima volta si era augurata caldamente che morisse… ed invece
non era successo. Se avesse saputo lei, la Granger, che per lui era una
maledizione essere ancora vivo…
“Che diamine vuoi?!” inveì con rabbia,
guardandola e desiderando avere il braccio rotto, piuttosto che la gamba,
almeno si sarebbe potuto alzare ed andarsene in modo dignitoso.
All’anima di Bellatrix, che marcisca
all’inferno, lei che è morta sul serio…
La Granger non rispose ancora, abbassò gli
occhi e rimase in silenzio, dondolandosi pensosamente. Sembrava vittima di un
profondo conflitto interiore, come se nel suo corpo si scontrassero due volontà
diverse che le imponessero di fare due cose diametralmente opposte. Non le era
tipico quell’atteggiamento silenzioso e sommesso: piuttosto le era tipico che
iniziasse ad urlare e a sbraitare, dicendo assurdità. Invece se ne stava ferma,
in silenzio, contraendo le mani.
Avrebbe voluto battere il piede per terra,
richiamando la sua attenzione ed esortandola a muoversi, ma non lo fece. Gli
venne piuttosto da osservare come stesse, nel caso avesse subito qualche colpo
che le impedisse di ragionare.
La camicetta rosa che indossava, era
sporca di sangue e terriccio, ma lei non sembrava ferita; anche i pantaloni
fustagno erano macchiati allo stesso modo, ma ancora non sembrava ferita.
Doveva essere il sangue di qualcun altro,
non il suo.
Aveva comunque le braccia magre coperte di
lividi ed ematomi, un labbro spaccato su cui si era aggrumato del sangue e le
mani coperte di piccoli tagli.
Ma, rispetto ad altri, si poteva dire che
stesse bene.
Draco sospirò lungamente, niente traumi
cranici… ed allora che diamine voleva ancora?
Alla fine, lei scosse il capo leggermente,
sospirando lievemente, e sollevò gli occhi che avevano riassunto il solito
cipiglio autoritario. Sorrise in modo nervoso ed automatico, prima di dire:
“Scusami se ti ho disturbato… volevo solo riferirti che il Ministro mi ha
chiesto di dirti che vorrebbe incontrarti la settimana prossima… per parlare
della tua… situazione…”. La sua voce si era piegata a disagio sull’ultima parola,
facendole distogliere lo sguardo da lui.
“Certo… la mia situazione…” replicò lui,
per nulla interessato al messaggio. Non era venuta a fare l’ambasciatrice… la
Granger era dannatamente cristallina quando ci si metteva. Era venuta… per
altro.
Cosa, lo sapeva solo lei…
Rimase ancora in silenzio, poi, quasi
preda di un’ispirazione improvvisa, Hermione gli chiese distrattamente, non
guardandolo ancora in viso: “Stai bene?”.
Doveva essere davvero morto, constatò
sorpreso, visto che la Granger gli chiedeva anche come stesse… voleva
risponderle male, irritandola e facendo sparire quel fastidioso contegno che
stava mostrandogli, ma non ce la fece ancora.
“Sto bene… me la caverò…” sussurrò, e fu
quasi un riflesso automatico chiederle: “E tu?”.
Lei sembrò sorprendersi davvero per
questo, serrò le spalle e lo guardò interrogativa. Poi, qualcosa le curvò lo
sguardo in modo quasi dolce e sorrise in un modo che non le aveva mai visto
fare: “Me la caverò anche io…”.
Draco, imbarazzato, voltò il capo
dall’altra parte, concentrando tutta la sua attenzione sulle operazioni di
bendaggio di Madama Chips.
“Sarebbe stupido, allo stadio attuale
delle cose, dirti: teniamoci in contatto o cose simili, visto che non siamo mai
stati in contatto…” la sentì bisbigliare ancora, la voce che si perdeva nel
vociare confuso che li circondava.
Draco non riuscì ancora a voltarsi per
guardarla in volto: “Ci mancherebbe…”.
Lei rise piano, poi proseguì: “Stammi bene
allora… salutami Denise…”.
“E tu non salutarmi Weasley, Granger…”
replicò infine, ghignando. Lei borbottò qualcosa, ma gli sembrò più farlo per
abitudine che per effettiva irritazione.
Draco si voltò, infine, solo quando sentì
i suoi passi allontanarsi. Ne seguì la chioma riccia, come quel primo giorno ad
Hogwarts, sparire attraverso la folla di malati e degenti, per poi prendere
l’uscita. Vedendola uscire, provò una fitta acuta allo stomaco… nel bene e nel
male, dire addio alla Granger era dire addio ad un pezzo della sua vita.
La guerra era finita… anche con lei.
Chi aveva vinto, non l’avrebbe mai ammesso
compiutamente… perché era lei che aveva vinto, inutile girarci attorno.
Aveva davanti a sé un futuro radioso e
luminoso… lui non sapeva nemmeno se ce l’aveva un futuro… sarebbe diventata una
donna importante, potente, con ruoli di responsabilità e comando.
Ci giurava che sarebbe diventata il Capo
degli Auror.
Ma soprattutto era una donna amata… da
Lenticchia, certo, e questo poteva essere solo una disgrazia, ma intanto era
amata da qualcuno.
Poi, ovviamente, c’erano Potter e gli
altri Weasley…
Sorrise, chiudendo gli occhi… non voleva
essere amato, mai più… specie da tipi del genere… ma, intanto, dopo anni di
scomoda lotta intestina, poteva decretare il risultato di quello scontro.
La piccola Granger aveva sconfitto il grande
Draco Malfoy.
Si stese di nuovo a letto, chiudendo gli
occhi. La guerra aveva avuto il pregevole dono di tirare fuori la vera natura
delle persone. Comprese le loro.
Aveva tirato fuori la sua, nera come la
pece e dannata più dell’inferno. Ed aveva tirato fuori quella della Granger,
luminosa, chiara, trasparente come un paradiso che a lui era solo dato di
guardare.
E la guerra aveva anche deciso quella che
sembrava una battaglia eterna.
Lui non poteva assolutamente competere con
Hermione Jane Granger.
Ero andata a chiedergli scusa, quel giorno.
Non mi aveva costretto Harry… ero andata a chiedergli scusa per avergli
augurato di morire.
Stringo il pugno sulla superficie gelida dello specchio, immaginandomi ad
un tratto in modo chiarissimo anche quello che sta succedendo, dopo che Draco
mi ha visto uscire.
Sono rimasta fuori dalla tenda per una decina di minuti, una mano sul
petto, andando avanti ed indietro innervosita.
Perché non ce l’avevo fatta… era stata la prima
volta che mi ero sentita in imbarazzo, davanti a lui.
Non mi era mai successo, e questo mi rendeva confusa. Poi, me ne scordai
ovviamente, specie perché non avevo spiegazioni.
Spiegazioni che avrei trovato sempre a fatica, quando non avrei potuto più
ignorare quella sensazione, vivendo con lui.
Quella sensazione… il legame, il filo rosso… è sempre esistito. Sempre.
Già da quel giorno… certo non ci sopportavamo, ma già non ci odiavamo più.
È incredibile che io lo capisca solamente adesso.
Il vero odio, contrariamente a quanto ho sempre pensato, non nacque in
quegli anni, ma dopo. Quando divenni il Capo degli Auror… perché divenni quella
che copriva il silenzio sulla morte dei suoi genitori. E perché, ai suoi occhi,
fui la complice omertosa dell’uccisione di Helena ed Amos Diggory, visto che
nessun Auror intervenne quel giorno, essendo coinvolto lui.
Dopo, quelle cose si sono rivelate infondate…
… ma intanto avevano avuto l’enorme potere di spazzare via quel germe
positivo, che mettemmo quel giorno.
L’avrei inseguito, poi, per settimane, non appena lo rividi, pensando che
fosse ancora uno vetusto orgoglio Purosangue a separarci. O semplicemente la
tesi che eravamo troppo diversi per stare assieme, anche solo come amici.
Quel germe, però, era già esistito.
Astoria aveva ragione, è sempre stato tutto più semplice di quello che
credevamo... e forse la condanna per chi calpesta un legame del genere, di cui
si dovrebbe solo essere grati, è proprio questa. Sforzarsi con la stessa forza,
con cui si è negato quel legame, di ricostruirlo… e, non riuscendoci, vivere
con la consapevolezza di averlo perso solo perché lo si è distrutto con le
proprie mani. Questo, ha scelto Draco. Vivere con questa condanna, con questo
pensiero, convinto come è, di avermi perso per sempre.
Ma oggi, Draco, anche questo finisce…
Quel legame è sempre esistito… esiste ancora oggi… e sempre esisterà…possiamo fare qualsiasi cosa, andare, tornare, svegliarci ed
addormentarci, ma esso sarà sempre lì.
Di negarlo, oramai, sappiamo entrambi che
è impossibile…
E se tu hai accettato di vivere con il
tormento di averlo perduto, io non lo farò mai. Mai più.
Perché è sempre lì, intero, bello,
splendente, come è sempre stato anche quando non lo vedevamo.
E se vivere significa negarlo, e morire
significa che esso è parte di noi… se devo morire, sapendo che è inevitabile e
fatale che sono destinata ad essere tua…
… così sia.
Questo capitolo è
stato un autentico parto!! Non so nemmeno io da quanto lo state aspettando,
povere stelline mie!! Purtroppo di mezzo c’è stato, nell’ordine, un esame, le
vacanze di Natale, una crisi d’ispirazione senza precedenti e tutta una serie
di piccole cose rompiscatole che mi hanno distratto il cervello…J
Inoltre sono troppo egocentrica per avere una beta, quindi rileggere il
capitolo e scovare i mini errori è stata una pena senza precedenti…L
Ma a parte questo, finalmente iniziamo a fare un po’ di ordine in questa
matassa di eventi che ho messo a cuocere, entrando nella testa del bel
Serpeverde!:D Devo dire che Draco mi affascina molto come personaggio e spero
di essere riuscita a renderlo anche se solo in parte… voglio, come sempre, che
resti assolutamente IC, credo che sia la mia prima priorità nella storia,
stessa cosa ovviamente per Hermione. Quindi, siccome la mia storia segue
l’andamento di quella canon fino al sesto libro,
volevo assolutamente che Draco non sembrasse innamorato di Hermione già dal
primo anno, cosa che ho letto in alcune fic e che, a
parte alcune, non ho trovato molto convincente. Sono dell’opinione infatti che,
se guardassimo solo la storia originale, Draco ed Hermione sono colmi di
potenzialità l’uno nei confronti dell’altra, ma bisognerebbe introdurre un
evento davvero traumatico nella vita di entrambi per farli avvicinare. Ma,
lasciando le cose come stanno, non riesco proprio ad immaginare un Draco
innamorato di Hermione già dal primo anno, quando la chiamava Mezzosangue e
simili… insomma volevo creare una connessione tra di loro che fosse
indipendente da un comune sentimento d’amore, inteso in modo tradizionale. Mi
piace molto l’idea di un rapporto fatale che esiste indipendentemente da
etichette come AMORE, ODIO, AMICIZIA, ecc… e mi
piaceva molto anche l’idea di due persone che hanno vissuto la vita, l’una
accanto all’altro, ma senza toccarsi davvero mai… questo, ripeto, è la mia
personalissima idea e spero di averla resa al meglio!! Ovviamente sono aperta a
qualsiasi nuova tesi…:D nel prossimo capitolo, invece, entreremo più nel vivo
della vicenda, scorrendo i ricordi di Draco al Petite peste, quindi della mia
“vera” storia!
Il titolo del
capitolo è preso da una canzone dei Trading Yesterday, a mio dire, davvero
stupenda ed adattissima a questa coppia… per chi la volesse ascoltare questo è
il link di un video DRAMIONE proprio con questa canzone in sottofondo!
http://www.youtube.com/watch?v=DuLYt7GOmBk
Ora passo
velocemente ai ringraziamenti e alle risposte di rito:
SHINKORO: che
bello una nuova lettrice!! Ti ringrazio tantissimo dei tuoi complimenti, mi
hanno fatto davvero piacere!!:D sono contenta che la storia ti sia piaciuta e
che tu te la sia divorata!! Sono cose che, ad una pseudo scrittrice come me,
fanno sempre piacere!! Purtroppo come avrai potuto leggere da questo capitolo,
Hermione cinque anni dopo è effettivamente sposata con un’altra persona… ma in
HALFT le cose non sono mai come sembrano e, tranquilla, ho sempre garantito
l’happy ending tra la nostra Herm
e Draco!! Grazie ancora, un bacio
SLAB: “Come
diamine ha fatto Draco Malfoy ad innamorarsi di Hermione Granger?”, è la
domanda da un milione di dollari, anzi di galeoni!! J
ma spero che da questo e dal prossimo capitolo di dare finalmente risposta a
questa domanda!! Grazie tantissimo dei tuoi complimenti, e non ti preoccupare,
recensisci quando puoi e vuoi!:D un bacio!!
LADY_SLY: Ciao
cara Ale!! Grazie davvero dei tuoi complimenti, lo scorso capitolo
effettivamente mi è stato abbastanza difficile da scrivere, nel senso che
Hermione immobilizzata in un letto, non era il massimo della vita per una
descrizione accurata, ma volevo effettivamente che arrivasse quello di cui mi
hai parlato tu, cioè la sensazione quasi di sentirsi soffocati dalla voglia di
parlare, di fare qualsiasi cosa e di non poterlo fare.Mi è piaciuto tantissimo il tuo paragone
della mia storia ad una pianta d’edera, è un’immagine davvero affascinante e
poetica!! Grazie ancora, un enorme bacio!
ERUANNE: ciao
carissima!! Hermione effettivamente, soprattutto per come l’ho resa io, può
rompere le scatole anche se fosse muta e sorda! In questo assomiglia molto alla
sottoscritta…! Grazie della fiducia anticipata per questo capitolo, spero che
ti piaccia anche dopo averlo letto… come infatti hai visto, ho seguito il tuo
consiglio e ho vagato un po’ nel passato dei nostri cari Herm
e Draco!!:D Non ti preoccupare dell’Hermione del futuro, già dal prossimo
capitolo avrai una bella sorpresa…! Un bacio Cassie!!
PICCHIBAU: ciao
cara!! È sempre bello trovare nuove lettrici! Tranquilla, in tantissime
occasioni ho ribadito di non farvi “Spaventare” dall’apparente futuro nero di
Hermione! Andrà tutto bene, ve lo assicuro! Un bacio e grazie a te di aver
letto la mia storia! Un bacio!
STELLALE: ciao
tesoro!! Grazie davvero dei tuoi complimenti, me ne fai davvero tanti tanti, me felice!! Le parti del futuro sono effettivamente
un po’ laceranti anche per me, nel senso che è difficile scriverle sapendo che
c’è dietro, ma davvero, dal prossimo capitolo le cose andranno meglio anche per
la Herm del futuro! Per quanto riguarda la parte sul
presente, anche io ho adorato (pure se l’ho scritta da sola!) la dichiarazione
di Draco, rispecchia l’idea dell’amore che ho io, qualcosa di puro, totale e
che non ti porta mai a cambiare te stesso, e che ti rende più libero, non più
prigioniero. Volevo che si avvertisse quanto Draco fosse cambiato per merito
più o meno palese di Hermione… e l’uscita di scena mi serviva così, anche se
sono stata effettivamente cattivella! Pansy e Blaise volevo lasciarli come
sono, due Serpeverde, odio quelle storie dove familiarizzano subito con Hermione, anche se sono anni che
non si sono mai filati di striscio. Per quanto riguarda Raissa, avrà un ruolo
molto importante in futuro, e sono i segreti del mestiere spiccio che faccio
lasciarla per il momento in ombra!!:D Una cosa: correggimi pure quanto vuoi!!
Merito fior fior di strigliate per certi pasticci che
combino!! Quindi dimmele tutte che, progressivamente, quando si spera, riuscirò
a rivedere la storia che è piena di contraddizioni insopportabili, toglierò
anche quegli errori! E sono stata così logorroica che il capitolo viene persino
diviso in due parti!!:D grazie ancora!! Un bacio!!
VERONIC 90: grazie
tantissimo dei tuoi complimenti, questi capitoli sono daaaaavveero
importantissimi!! Un bacio!!
SINGER: credo che
la domanda : “Come diamine ha fatto Draco Malfoy ad innamorarsi di Hermione
Granger?”, sia la più quotata al mondo!! Grazie dei complimenti, un bacio!!
OPHELIA: ciao tesorina!! Tu mi fai troppi complimenti, addirittura un
genio??!! Se fossi così geniale non avrei aspettato tanto tempo per scrivere ed
avrei circa due miliardi di recensioni!!:D ti ringrazio davvero tantissimo,
anche di tutti gli spot via facebookiana!! Raissa non
convince nemmeno me che l’ho creata, ed è tutto dire… sarà lei a dirmi in che
direzione vuole andare!!:D come avrai letto, alla fine ho scritto anche dei
ricordi di scuola e per questo il capitolo lo dovevo per forza dividere in
due…:D spero che non ti dispiaccia!!:( un bacio, tesorina!!
HELDER BLACK: ciao
carissima! Sono contenta che la scena della dichiarazione ti abbia scaldato il
cuore, è una cosa bellissima da sentire considerando, come sempre, quanto fossi
dubbiosa al riguardo…:D grazie ancora tantissimo, un bacione!
VANILLA SKY: no,
no, non tralasciare lo spagnolo per me!! Bisogna studiare!! (lo dice una che
dovrebbe studiare diritto commerciale ed invece sta scrivendo da ore!!)!!
grazie davvero tantissimo dei tuoi complimenti!! Hai davvero ragione, me ne ero
dimenticata!! Questa storia era anche pubblicata sul sito Everylittlething dedicato alle Dramione, ma poi, come centinaia di altre cose mie, mi sono
dimenticata di aggiornare anche lì, sono contenta allora di averti ritrovato
qui…J
un enorme bacio, Cassie!!
LYLI ROSE: ciao
cara, grazie dei tuoi complimenti!! Purtroppo il futuro dei cinque anni dopo si
avvererà, ma non per il momento, e comunque avremo sempre il lieto fine!! Posso
anticipare però che la colpa di tutto sarà di Hermione stavolta, non del povero
Dracuccio!! Grazie tantissimo del tuo consiglio,
effettivamente l’ho trovato molto utile, specie nell’ultimo ricordo…! Draco è
veramente prolisso quando ci si mette, è un personaggio molto complesso…L
grazie ancora!! Un bacio!!
SEVEN: la mia
carissima Nadia!! Inutile che ti stia a dire quanto adoro le tue recensioni,
sono delle vere e proprie analisi del testo, farcite delle tue riflessioni. Come
dico sempre, sei il sogno di ogni pseudo scrittrice come me!! Grazie davvero
della pazienza che hai nell’ascoltare tutte le mie paranoie sulla storia e
simili!! Lo dico e lo ripeto, metà di HALFT è del tutto MERITO TUO!!! (ps: ho di nuovo msn andato, ma è
una cosa passeggera, la risolvo in poco!) un bacio, tvb!
HALEY JAMES: Haley, ciao!! Mamma mia, grazie davvero, addirittura un
libro? J Sinceramente non lo so,
diciamo che questa storia è troppo legata al fandom
di HP per poterla rendere autonoma ed indipendente come storia originale,
dovrei stravolgere un sacco di cose e alla fine non sarebbe più la stessa… ma
il fatto che tu ci abbia seriamente pensato mi ha davvero colpito e fatto piacere!!
Raissa mi piace ed inquieta allo stesso tempo, mentre Hermione mi è sempre
facilissima da descrivere perché, ripeto, in questa mia versione, non ho dovuto
fare altro che modellarla su me stessa!! :D Blaise e Pansy li ho voluti
lasciare volutamente così, diciamo che ho cercato di pensare a come si
comporterebbero nella realtà due persone che vedono un loro amico mettersi con
una che odiano (anche se tecnicamente non stanno ancora assieme) e penso che
troppa “comprensione” mi sarebbe sembrata forzata…J
un grandissimo bacio!!
Un ringraziamento
particolare va alla meravigliosa SWEET TAIGA che ha realizzato una bellissima
copertina di HALFT che potrete vedere se entrate nel mio profilo FB , Cassie chan EFP!! E che mi ha anche davvero pubblicizzato in modo
meraviglioso nella sua storia, dateci un’occhiata, è davvero carina!! Si chiama
SHE CALLED IT LOVE!! Ecco il link:http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=607470&i=1
Un enorme bacio
anche a coloro che leggono soltanto la storia, siamo a quota 162 preferiti, 228
seguiti e 38 da ricordare!! Grazie a tutti!!
L’uomo non può volare… è un assioma
scontato nella sua ovvietà. O perlomeno, lo dovrebbe essere.
In fondo, io, adesso, contro ogni legge
fisica ed anatomica, sto effettivamente volando. In ogni senso metaforico e
letterale. Quindi, come insegnano tante cose nel nostro mondo, nulla è mai
troppo scontato, ovvio o banale.
La vita ha sempre lo straordinario talento
di rendere tutto imprevedibilmente realizzabile.
E il bambino biondo, che si dimena sul
sedile accanto a me, cercando di sporgersi dal finestrino chiuso, ne è una
concreta e tangibile testimonianza.
Non avrei mai pensato, nemmeno come
ipotesi remota suggerita da un pazzo con un discutibile senso dell’umorismo, di
avere un figlio da Draco Malfoy.
Non ci credo nemmeno adesso, se ci
ripenso… ma non perché sia assurdo, come comunque è.
Ma perché l’incontrovertibile dato che lo
rende mio e suo figlio, quel dato che porta i suoi capelli biondi, la sua aria
nobile, la sua fossetta sul mento, il suo naso arricciato…
… lui è lontano da me migliaia di
chilometri, milioni di secondi e miliardi di flagelli di emozioni.
È difficile concretamente ricordarmelo…
ripetermelo nel cervello, per renderlo reale, per non relegarlo in una
dimensione quasi onirica, dove non sono sicura che tutto sia successo sul
serio.
Ogni giorno, ho fatto questo sforzo,
aggrappandomi con le unghie e con i denti a Draco, per non permettere che mi
scivolasse via dalle dita e dalla memoria. Era come stare aggrappata ad uno
spuntone di roccia, sospesa sull’oceano ribollente, cosciente che sarebbe bastata
una sola esitazione per cadere di sotto, in un oblio nero e denso, dove sarei
stata rivestita di ogni giustificazione.
Quanto siamo stati assieme io e Draco,
davvero? Pochissimi giorni. Da quanto siamo divisi? Cinque anni.
Voleva un figlio da me? Forse. Sa che ha
già un figlio da me? No.
Che cosa ha fatto in questi cinque anni?
Non lo so.
Ogni risposta era un invito a ricadere in
quell’oceano, che sarebbe stato miele sulle ferite che porto dovunque per
essermi attaccata al suo ricordo.
E io ho scelto il sale, invece, sulle mie
ferite. Ho scelto che me le aprisse il vento. Ho scelto che me le infettasse la
terra. Ho scelto che me le lavasse indolente la pioggia, senza farle mai
sparire.
Contro tutto… e contro tutti.
Fino ad oggi.
Fino alle sei e trentanove di stamattina.
È stato come se il mio cuore fosse esploso
in mille pezzi, sottoposto ad una deflagrazione potentissima che ha generato un
calore tale da rinsaldarne, poi, i frammenti in modo compatto ed inespugnabile.
O meglio… il mio cuore non è mai stato intero, da quando l’ho perso. Oggi ne
sento di nuovo il confortante peso dell’interezza nel mio petto, quasi come un
cucciolo addormentato sul mio torace che riscalda il mio stesso respiro.
Come quando tengo in braccio Alex, fino a
quando si addormenta.
Non… mi sento… sola.
… ecco, come se si fossero venuti a
ripescare dopo anni, sospesa su quella rupe, mi portassero in una casa
accogliente e mi dicessero che oramai quel mare non mi ghermirà più.
Dimenticare… scordare… mai più.
Ho sempre odiato volare, sin da quando ero
bambina e mia madre voleva venire a trovare mia nonna in Sicilia d’estate.
Prendevamo l’aereo e io mi muovevo sul sedile tutto il tempo, agitandomi e
piangendo, scatenando le reazioni scioccate dei miei genitori che non erano
abituati a queste mie intemperanze, visto che ero sempre abbastanza tranquilla
e posata.
Ad Hogwarts, la situazione non migliorò
con la possibilità concreta di staccare i piedi dal suolo, non all’interno di
un uccello di metallo solido e resistente, ma a cavallo di una fragile asta di
legno: credo che la mia repulsione naturale per le scope sia ancora tramandata
agli studenti di quella scuola, come l’eccezione tangibile della regola che
vuole i maghi e le streghe grandi amanti delle scope.
L’uomo non può volare… è così scontato che
credo che, persino da bambina, ogni cosa che ne dimostrasse minimamente il
contrario, mi sembrava illogica e priva di senso.
Ergo, l’aereo, la scopa o qualsiasi altro
mezzo volante, doveva schiantarsi prima o dopo, come se la forza di gravità
improvvisamente si ricordasse di fare il suo ancestrale dovere.
Ed anche da adulta, sebbene cercassi
sempre razionalmente di dirmi che non correvo rischi e che ci sono mezzi
tecnici capaci di prevenire qualsiasi tipo d’incidente, sia a bordo di una
scopa che di un aereo, mi tremavano sempre le gambe se dovevo affrontare delle
prove del genere, come se io stessa fossi ancorata alla terra da una forza più
forte di quella di gravità e che, staccandomi da essa, io perdessi appoggio e
rifugio.
Quindi, anche se ero costretta per ipotesi
a salire su un aereo o su una scopa, restavo immobile, gli occhi socchiusi, e
cercavo di concentrarmi intensamente, così da convincermi di essere seduta
comodamente sul mio letto, piuttosto che su un trabiccolo volante.
Fino ad oggi.
Fino alle nove e diciotto di stamattina.
Non ho smesso un secondo di guardare fuori
dal finestrino, tenendo Alex in braccio che mi indicava case, alberi, palazzi,
colline, montagne… e specchi d’acqua, illuminati per un attimo dal sole.
Diventavano schegge di luce liquida per un secondo, poi si spegnevano mentre
l’aereo se li lasciava alle spalle. Come tante schegge di vetro…
… come le schegge di vetro del vaso che
Ronald ha rotto ieri sera, facendo rovinare una cascata d’acqua e fiori sul
tappeto cremisi del salotto.
Attonita, l’ho sentito prendere la giacca,
inforcare l’uscita ed andarsene, sbattendo la porta. Sapevo che sarebbe tornato
la mattina dopo, le orecchie rosse d’ira e lo sguardo glaciale, cercando poi
ogni pretesto per fare pace mediante piccoli contatti fortuiti, oppure parole
sfuggite casualmente, o ancora usando Alex come ambasciatore che non può
portare pena. E io avrei riso rassegnata, lasciando perdere il motivo della
litigata, dicendo che non importava.
È stato questo il punto, il lasciar
perdere perché non importava. Per me ha sempre avuto un motivo quasi
imbarazzante nella sua indubbia chiarezza.
A me non importa più avere ragione in una
discussione con lui, perché in fondo Ronald non è mio marito nel senso comune
del termine.
Ovvio. Che diamine me ne dovrebbe
importare allora di avere ragione, in questo caso?
Ma lui ha scambiato questo “lasciar
perdere perché non importava”, decisamente per altro.
Credevo che lui lo avesse capito… l’ho
sempre pensato. Insomma, come avrebbe potuto pensare il contrario? Sa
perfettamente che cosa ha portato al nostro matrimonio, sa perfettamente che
Alex non lo chiama nemmeno papà, sa perfettamente che persino mio figlio sa di
avere un padre di nome Draco Malfoy, che ha i suoi stessi occhi e che ride
nella sua stessa identica maniera.
Sa perfettamente Ronald, dei cinque regali
di Natale per Draco, nascosti in soffitta, che ogni anno ho accuratamente
incartato, messo sotto l’albero e portato via con le lacrime agli occhi, quando
Natale passava ed era tempo di mettere a posto le decorazioni. Stessa cosa per
i regali di compleanno. Cinque regali ancora incartati.
Sa perfettamente Ronald, delle novecento e
tredici lettere che ho scritto a Draco in questi cinque anni, tenute assieme da
un nastro verde come sarebbe piaciuto a lui, e che non ho mai potuto spedire.
Sa perfettamente Ronald, del saluto che
faccio a lui ogni mattina, appena apro gli occhi: “Buongiorno Draco…”. E della
buonanotte, ogni sera, alla fine della giornata che non mi ha riportato da lui:
“Dormi bene, Draco…”.
Solo un sussurro, perso nelle lenzuola di
cotone. Un trillo festoso che va ripetendo, invece, Alex, appena si alza da
letto, da quando ha scoperto per caso che lo facevo io, ed ha preteso di
imitarmi.
“Buongiorno mamma!! Buongiorno Ron!! E
buongiorno anche a te, papà!!”.
Ronald sa anche di questo diario, di
queste parole che scrivo ogni sera prima di addormentarmi. Lo sa, perché mi
vede scrivere. Lo sa, perché me ne ha chiesto il motivo, quando ho iniziato a
scriverlo quattro anni fa.
E io gli ho risposto: “Draco deve sapere
tutto di questi cinque anni, quando torneremo da lui…”.
Quel giorno, corrugò la fronte ed arricciò
le labbra, ma non disse nulla. E io pensavo che avesse capito. Non che ci
volesse tanto, ma forse Harry gli aveva messo altre idee in testa… e comunque
era meglio chiarire.
Deve aver capito, ovviamente. Questo, ho
pensato.
Fino al vaso rotto.
Fino a ieri.
Fino alle ventidue e quarantasette di ieri
sera.
Ronald non ha mai capito. Lui mi ha sempre
seriamente considerato sua moglie, in ogni senso comune, metaforico ed anche
poetico del termine.
Ha sempre seriamente pensato che, in
fondo, non fosse vero che io amassi Draco Malfoy. Forse, non è nemmeno convinto
che Alex sia davvero nostro figlio, anche se somiglia a Draco così tanto.
… non ha mai seriamente pensato che sarei
tornata da lui, appena avessi potuto. Nessuno l’ha mai davvero pensato. Forse
nemmeno i miei, Helder ed Hayden che sono stati con me in questi anni, l’hanno
mai davvero creduto possibile.
Forse, pensavano che mi abituassi in
fretta alla mia nuova vita da neo signora Weasley, ed accettassi fino in fondo
il sacrificio da madre che mi era stato imposto e che avevo accettato.
Anche loro, forse, l’hanno sempre pensata
come Ron.
Non importa.
Perché, poi, è arrivata la discussione e
il vaso rotto delle ventidue e quarantasette di ieri sera. E Ronald se n’è
andato, sbattendo la porta.
È arrivata la lettera in filigrana delle
sei e trentanove di stamattina. Ed Helder ed Hayden mi hanno salutato,
abbracciando forte me ed Alex.
Ed è arrivato l’aereo delle nove e
diciotto. Ed ogni paura di volare mi è evaporata dal cuore, come se librassi io
stessa per la gioia.
Mentre intravedo dopo cinque anni Londra,
mentre mi si avvicina con i suoi colori e suoni che non ho mai smesso di
ricordare, stringo forte mio figlio tra le braccia e la mia borsa da viaggio.
Il mio solo bagaglio.
Cinque regali di Natale, cinque regali di
compleanno e novecento tredici lettere.
La mia tenue ma decisa pressione sulla superficie liscia dello specchio,
impedisce alle immagini successive di prendere consistenza e forma, mentre
scivolano veloci come vagoni di un treno notturno, illuminati da grappoli di
luci tremule mentre sfrecciano a tutta velocità. Sotto i polpastrelli, sento il
freddo che mi suscita lo specchio, propagarsi come una serie di piccoli crampi
fastidiosi, anche se so che quello stesso specchio non è altro che una forma
mentale data da Draco ai suoi ricordi, e che quindi, tecnicamente, nemmeno
esiste.
Ma la logica, la razionalità, in questo posto, mi hanno già dato ampia
prova di non esistere.
Lo specchio non è reale, ok… eppure, provo comunque quella sensazione di
freddo sotto le dita, come se stessi indugiando su un pezzo di ghiaccio.
E non c’entra nulla il fatto che questo specchio abbia una fattezza così
tangibile da farmi dubitare costantemente sul fatto che non sia reale. Il
freddo è per quelle immagini che, nonostante la mia volontà faccia scorrere
rapide come se avessi premuto un invisibile tasto di avanzamento veloce, mi
sembrano sempre troppo lente, troppo cariche di dettagli e particolari che
riesco comunque a cogliere, mio malgrado.
Dettagli carichi di odio, repulsione, violenza.
E di cui io sono il centro vorticante e tenebroso, nella mente di Draco.
Piego la testa come vessata da un carico opprimente ma invisibile sulle mie
spalle, che mi curva la schiena come una supplice vestita solo di stracci. So
che tutto questo è cambiato, ma la vividezza di quelle immagini è così
sconcertante e potente da darmi le vertigini.
Draco, l’ultima volta che mi ha condotto nei suoi ricordi, mi ha persino
protetto da essi, anche se aveva intenzione di farmi del male in modo da
allontanarmi da lui.
Adesso, che lui non c’è a filtrarli, mi arrivano tutti, prendendomi in
pieno e tagliandomi il respiro.
Sono gli anni di Helena, certo, rivedo a sprazzi ancora la loro amicizia
complice trasformarsi in amore, le notti proibite, i giorni rubati, la nascita
di Serenity, la morte di Amos ed Helena stessa, la disperazione e l’inerzia di
Draco, l’arrivo nella sua vita di Astoria. E, rapido, vedo persino l’incontro
con Seth, quando Helena era ancora viva ed aveva deciso di fondare il Petite
Peste per avere una carriera alternativa alla vita da modella. Vedo, rapidi
come lampi, particolari che non ho visto la prima volta, ma non mi concentro
troppo, perché tutto è avvolto da una patina grigiastra, scura, come lanugine
che vela ogni pensiero.
Tutto filtra dall’amore per Helena prima, e per Serenity, poi. Ovvio. Ma
nulla sembra più forte dell’odio.
… dell’odio per me.
Ora non sono più la ragazzina saccente che, confrontata con lui, vinceva
sempre e che lo spodestava dal suo trono in modo illegittimo, e che quindi era
ovvio odiare, specie se non aveva nessuna delle doti che lui riconosceva come
fondanti quella supremazia. Non sono più nemmeno la giovane donna che, per un
solo ed avventato attimo, lui ha quasi stimato in quella tenda di soccorso sul
campo di battaglia.
Non sono più nessuna di quelle persone.
Ora lui mi vede coperta del sangue delle persone che ha amato di più, i
suoi genitori, Amos ed Helena. Sono il simbolo incarnato di tutto ciò che
detesta, di tutto ciò che esiste di opposto a lui e che gli ha causato dolore e
sofferenza. Pensa spesso a me, mi vedo nella sua mente dipinta di colori scuri
e glaciali, un ritratto in calce di un demone travestito da angelo.
Serro il pugno, chiudendo gli occhi sotto le palpebre che tremano. Sogna di uccidermi.
Al mattino, quando si risveglia, la sua umanità lo fa riscuotere e
dimenticare quelle fantasie nefaste, ma ogni notte sogna di nuovo di uccidermi.
Con Harry, non riesce a prendersela, perché chiaramente lui l’ha aiutato
enormemente e si sente legato a lui da un sentimento frammisto di gratitudine,
invidia ed avversione.
Ma, con me, è diverso. Quella purezza che mi aveva riconosciuto, diventa
per converso il mio personificare tutti quei valori estremamente bigotti ed
inquadrati che hanno portato alle morti delle persone che ama. Sono pregna di
quella giustizia, priva di
sfaccettature, che, quando decreta un sentenza di morte, la esegue senza
nemmeno battere ciglio.
In fondo… ha ragione. L’avevo già
notato e pensato. Ed è il motivo per cui ho deciso da tempo che non sarò più il
Capo degli Auror.
Cosa avrei fatto, solo un anno fa, se avessi saputo di tutto questo? Che
Draco Malfoy mi riteneva la diretta responsabile della morte dei suoi genitori
e della donna che amava?
Probabilmente nulla, lo so. Avrei replicato con tono borioso e colmo di
acrobazie dialettiche, che io non ero ancora il Capo degli Auror, quando furono
uccisi Lucius e Narcissa… stessa cosa per Helena. Non ero più il Capo degli
Auror già da un anno. Eppure, nulla avrebbe impedito che Draco vedesse quel
sangue sporcarmi le mani.
Perché l’Hermione, capo degli Auror, convinta fautrice di quella giustizia, forse avrebbe trovato milioni
di giustificazioni ad entrambe quelle uccisioni.
Narcissa e Lucius erano Mangiamorte e dovevano morire, poco importa come.
Se Helena era senza protezione, la colpa era di Draco e del suo aver rifiutato
gli Auror.
Non ci avrei mai creduto fino in fondo, e dentro ne avrei subito un
tormento lacerante… ma, di fronte a lui, come sempre è stato, dovevo vincere.
Granitica come sempre.
Ora, con infinità consapevolezza, mi rendo conto che solo il mio abdicare a
quel ruolo, mi ha consentito di avvicinarmi davvero a Draco.
Prima di tutto, per ragioni logistiche… se fossi stata ancora il Capo degli
Auror, non avrei mai cercato un lavoro. Ma soprattutto mi sarei sentita in
dovere di difendere il mio mondo e il mio ruolo, e so che avrei chiuso gli
occhi davanti al suo dolore e alla sua rabbia.
… e non avrei mai capito che cosa c’è di sbagliato nell’ergersi giudice del
mondo intero, segnando spartiacque di fuoco tra il vizio e la virtù, la bontà e
la cattiveria… il bene e il male.
Me l’ha insegnato lui, Draco… senza volerlo ovviamente. Ma l’ha fatto.
Ed oggi non essere più io a ricoprire quel ruolo, per cui comunque ho
sudato e faticato, oggi… è una benedizione.
Non saprei più essere quella persona… e non sopporterei il modo con cui
Draco mi guarderebbe. Non lo potrei reggere e sopportare.
All’inizio, non me ne resi nemmeno conto, scambiai quello sguardo per il
disgusto solito che aveva per me, da quando andavamo a scuola. Ma sapevo, dentro, che era diverso.
Poi, quando inquadrai la cosa… come
tu sei lieto di essere Draco, io sono lieta di essere Hermione. Me stessa con
le mie idee e i miei pensieri... e sono davvero stanca che tu sconti su di me
colpe altrui… fu il tormento dell’inferno, non appena iniziai a provare
qualcosa per lui.
Poi… un giorno… lo sguardo sparì. Cambiò, mutò, si trasformò, come un
soffio di aria gelida diventa una brezza calda e soffice.
Sono qui, per quello sguardo. Per capire come fece a cambiare.
Sono qui, per questo.
Le immagini si fermano, riprendono a ritmo normale, come se rispondessero
alle mie domande, individuando il lontano bandolo della matassa che ha
intrecciato i nostri destini slegati.
“A mai più
arrivederci anche a te, Granger…” rispose a tono in maniera falsamente educata
Draco, mentre la guardava scendere le scale.
La vide dall’alto ripercorrere con la schiena dritta la sala piena di
tavolini, fermandosi solo davanti alla saracinesca abbassata, per poi chinarsi
con attenzione. Sembrò indugiare qualche secondo sulla soglia, la mano di Draco
si contrasse ferocemente sul corrimano. Si rilassò solo quando sentì i passi
veloci di lei allontanarsi in fretta, correndo quasi. Un rivolo di sudore freddo
gli scese lungo la schiena, facendolo rabbrividire.
Era stato bravo a restare calmo nel rivedere la Granger davanti a lui, dopo
circa due anni che non la vedeva… l’aveva vista l’ultima volta con Weasley,
quel giorno che era corso al Dipartimento degli Auror per rinunciare alla loro
protezione.
L’errore più grande della sua vita… l’errore che aveva ucciso Helena.
Il respiro divenne agitato, convulso, affannato, mentre la sua schiena
scivolava sulla parete su cui si era appoggiato per sostenersi, dopo la
tensione che gli aveva riempito le vene di urgenza e dolore. Seduto sul
pavimento, un gomito poggiato sul ginocchio piegato, si portò pensosamente una
mano tra i capelli biondi, stringendone con livore una ciocca.
Era stato bravo… ma forse non sarebbe dovuto esserlo. Avrebbe dovuto
ucciderla, appena l’aveva vista. Puntarle una bacchetta alla gola, vedere i
suoi occhi riempirsi di lacrime, gioire del tremore nelle sue membra… poi un
lampo verde e finalmente lo avrebbe lasciato in pace. Brividi freddi lo
assalirono ancora e dovette serrare le labbra per fermarli. I soliti segni che
conosceva bene, i segnali che il corpo gli mandava, quando si trattava di
uccidere.
La febbre… la solita febbre, che non conosceva la giustizia di uccidere
l’assassina di Helena.
Gli occhi grigi rotearono con fastidio, lo sguardo fisso sulle travi del
pavimento.
Non era solo questo, ovviamente. In fondo, aveva già ucciso. Mangiamorte,
nemici. Ed ogni giorno pianificava la morte di Pucey e Montague. Sapeva
combattere oramai quella malattia, che aveva decretato il suo destino.
Avrebbe ucciso la Granger, senso di colpa, febbre altissima, rimorso… ma,
dopo un po’, sarebbe stato bene. Avrebbe seppellito anche lei nel cimitero
della sua mente, sempre pieno zeppo di cadaveri putrescenti.
Ma c’era Potter, ricordò con una smorfia, lui non l’avrebbe mai accettato.
Ed addio protezione del ministero, garanzie con Astoria.
Ed addio anche a Serenity. E non era ancora il momento di rinunciare alla
bambina.
A meno che non fosse stato proprio Potter a mandarla… e perché, poi? Non
sapeva come viveva…? E la Granger sembrava effettivamente sorpresa di vederlo
lì. O aveva solamente recitato? Probabilmente era così… voleva indagare.
Sicuramente.
Forse su come trattava Serenity… la mano strinse il ciuffo di capelli, fino
a fargli male. Erano convinti che non fosse in grado di prendersi cura di
Serenity… ovvio, lui era Malfoy, non poteva fare da padre adottivo ad una
bambina di un anno.
Sentiva già le loro voci, nella testa. Probabilmente pensavano, nella
migliore delle ipotesi, che la trascurasse… e nella peggiore, che la
maltrattasse.
Gli sovvenne il ricordo del viso di Hermione, nitido, preciso, come se ce
l’avesse davanti agli occhi. Le palpebre lievi sopra le ciglia lunghe e
nerissime, gli occhi castano chiaro, la pelle del collo lasciata scoperta dalla
canotta rossa che indossava, le spalle magre che avrebbe potuto afferrare con
una mano. Arrivò immediatamente il ricordo della sua voce, tenuemente soffusa
mentre nell’oscurità della sua stanza sussurrava: “Harry non mi ha mandato qui,
Malfoy… e, se questo può consolarti, io non so minimamente chi sia questa
Serenity…”.
Stava mentendo… stava mentendo quella dannata Mezzosangue… avrebbe dovuto
ucciderla, altroché… ed invece le aveva anche retto il gioco.
“Dannazione!” urlò, picchiando violentemente il pugno contro il pavimento.
Le nocche si graffiarono, perdendo qualche flebile goccia di sangue.
Si riscosse immediatamente, quando sentì dei passi su per le scale,
alzandosi in piedi e scuotendo la polvere dai jeans neri. In una manciata di
rapidissimi secondi, il suo volto perse tutta l’angoscia e la preoccupazione
che, assieme con la rabbia e l’odio, avevano scavato di profonde rughe la sua
espressione. Liscia come l’avorio, la sua pelle riassunse un colorito normale e
un cipiglio tranquillo, mentre fingeva di attardarsi annoiato sulle scale.
“Eri qui, Danny? È andata via la tua amica?” chiese Seth con tono gentile,
salendo le scale e guardando il ragazzo biondo. Draco irrigidì le spalle,
l’espressione raggelata, mentre un groppo pesante in gola gli impediva di
respirare e parlare normalmente.
Respirò profondamente, cercando di dissimulare nonchalance e tranquillità:
“Certo… possiamo finire l’inventario…” ed iniziò pigramente a scendere le
scale, il magone che non passava.
Superò Seth, mentre diceva scherzando: “E’ una ragazza carina! Un po’
nevrastenica, ma sembra simpatica… non so se avrebbe mai potuto fare la
cameriera, è troppo poco paziente. Purtroppo non ho potuto assumerla, non aveva
referenze… e per il party abbiamo bisogno di una ragazza esperta” soggiunse
Seth con voce contrita, mentre Draco capiva con ulteriore rabbia, l’inganno che
aveva ordito la Granger. Fingere di essere alla ricerca di un lavoro e circuire
quell’ingenuo di Seth.
Strinse i pugni, mentre il ragazzo chiedeva con voce tranquilla: “La
conosci da tanto?”.
Draco sospirò lungamente, chiedendosi se Seth stesse solo tentando di fare
conversazione oppure se stesse effettivamente indagando sulla Granger e sul
loro inesistente legame. Avrebbe voluto urlargli tutto contro, rivelando che
lei era l’indiretta responsabile della morte della sola donna che avesse mai
amato e la complice degli assassini dei suoi genitori, e, per un attimo folle,
ci pensò seriamente. Seth era un buon amico e, sebbene tutta la sua vita per
lui fosse un mistero e un carico cospicuo di bugie, sapeva che il giorno in cui
si fosse deciso a dirgli la verità, Seth avrebbe capito. Dalle questioni sui
Purosangue e Mezzosangue, fino al suo destino segnato di futuro Mangiamorte,
arrivando persino al suo tradimento.
Era convinto Draco, che Seth avrebbe capito entrambi i tradimenti, che
ancora bruciavano nelle sue vene come lava incandescente.
Quello verso i suoi genitori, quando era diventato una spia per l’Ordine.
Quello verso Amos Diggory, quando era diventato l’amante di sua moglie.
Seth avrebbe capito e lo avrebbe giustificato, assolto, scagionato dalle
sue colpe. E lui non lo voleva. Era questo il punto. Voleva restare quello che
era, anche agli occhi di Seth… la finzione di quel Danny Ryan, che era un uomo
senza passato.
Puro, candido, innocente, come solo una finzione può essere.
Dentro, invece, sarebbe rimasto Draco Malfoy, il traditore di ogni parte
del mondo. Quell’uomo non meritava alcun ristoro o alcun sollievo alla sua
condizione.
Draco, spesso, concepiva il tutto come un qualcosa di clamorosamente
scontato… quell’uomo meritava di morire, non appena avesse affidato Serenity a
chi ritenesse degno di crescerla e non appena avesse ucciso Pucey e Montague.
E la Granger? Era un’altra vita che doveva prendere?
Probabilmente sì… più realisticamente no.
Per Potter, certo… e poi non desiderava realmente ucciderla. Non era un
mostro, non lo era mai stato.
Una vita fa, avrebbe aggiunto a quel “non lo era mai stato” un “suo
malgrado”. Non saper uccidere era stata la condanna sulla sua testa, in
fondo.Il motivo per cui i suoi genitori
lo avevano rifiutato e scacciato.
Non amava prendere delle vite, non lo aveva mai amato nemmeno in guerra. Ma
se fosse stato costretto, le cose sarebbero cambiate.
La Granger non doveva mai più avvicinarsi a lui, se aveva cara la pelle.
Sibilò freddo come il vento, ricordandosi della presenza di Seth e della
sua ancora sospesa domanda: “Era una mia compagna di scuola, Seth… ma non ci
siamo mai sopportati…”.
Divennero un sussurro di minaccia le sue ultime parole, mentre si voltava
guardando fisso l’amico negli occhi con espressione raggelante.
Seth trasalì, non abituato a quel viso, così strano sul guscio vuoto che
rispondeva al nome di Danny Ryan, ma perfetto come se fosse nato solo per
quello, se lo si legava al nome Draco Malfoy.
“… non voglio più vederla qui dentro…”.
Se avessi saputo tutto questo, se avessi saputo di questo suo viso… e
persino della sua risolutezza ad uccidermi, se mi fossi avvicinata troppo a lui
e a Serenity…
Sicuramente non avrei davvero messo più piede al Petite Peste… e io che
pensavo che era il solito odio dei tempi della scuola…
Devo ringraziare di come siano andate le cose… e di come questo odio così
raggelante, un giorno, si sia trasformato in amore.
Non riesce la paura a scalfirmi, ovviamente. Non
potrei mai temerlo adesso. Per come lo amo e come ho sentito distintamente lui
confessare di amare me, non posso averne paura.
Ma non riesco a smettere di chiedermi come sia
potuto tutto questo cambiare…
… dato che io, ingenua, il giorno dopo, ero già
di nuovo davanti ai suoi occhi.
Draco Lucius Malfoy non aveva un gran numero di
giornate da enumerare, come “le più belle della sua vita”. Erano poche, da potersi
contare sulle dita di una mano.
Nemmeno i giorni con Helena, constatò con un
lieve sospiro che si perse nel vento, potevano essere considerate tali. Certo,
era meraviglioso stare con lei, ma nel sottofondo della sua anima, il pensiero
di Amos e l’angoscia per il loro futuro, gli impediva di essere felice appieno,
di godersi quei momenti che, ancora non lo sapeva, avrebbero avuto breve
durata. Inoltre, Helena era sempre stata bravissima nel lasciarlo in un perenne
stato d’insoddisfazione, che lo consumava fino alla volta in cui l’avrebbe
avuta di nuovo. Non era solo il sesso, ma era soprattutto la distanza che
comunque preservava nei suoi confronti, ed il fatto che, nel bene e nel male,
aveva sempre rifiutato di considerarsi sua.
Era la moglie fedifraga di Amos Diggory, ma
intanto, ci teneva sempre a sottolineare con un gesto, con una parola, con una
curva delle labbra, che era comunque sua moglie.
Draco sospirò ancora, afferrando una manciata di
sabbia ed osservandone poi i minuscoli granuli disperdersi nel vento, mentre le
sue dita si aprivano lentamente. Gettò un’occhiata in tralice a Serenity, che,
seduta sulla sabbia accanto a lui, contemplava affascinata il volo dei
gabbiani, frecce d’argento nel cielo turchino e riflessi di luna nell’acqua cobalto
del mare. Gli occhi di Serenity erano identici a quelli di Helena, quando
venivano lì, su quella spiaggia dove era stata per la prima volta con Cedric
Diggory e dove aveva conosciuto per la prima, e forse l’unica volta, la
speranza di un destino diverso.
Ci tornava spesso Helena, se lo ricordava
ancora, forse perché ne traeva quella speranza, assente ora nel suo corpo e
nella sua mente. E Draco, dalla sua morte, aveva preso a venirci anche lui
spesso, traendone solo il beneficio di un nitido ricordo di lei.
La speranza era annegata da anni… da un ricordo
che non sapeva nemmeno di possedere ancora. Sciarpa calda e guance rosse.
La speranza spariva con i ricordi di Helena.
Persino la villa che lei amava guardare, era stata messa in vendita.
I ricordi di Helena, profumati di ciliegia,
perdevano definizione ogni giorno. Cercava di trattenerli come poteva, ma
sapeva che presto sarebbero stati sempre meno netti.
Era il meccanismo della sua mente per continuare
a sopravvivere, dimenticando in parte quel dolore. La sua mente agiva così,
senza una sua specifica volontà in proposito. Non gli interessava sopravvivere,
era disperato all’idea di dimenticarla.
E nemmeno il quadro vivo di lei, era una
consolazione. Non dipingeva un tratto, da quando lei era morta.
Helena si era augurata per lui, una sequela di
giornate da chiamare le “più belle della sua vita”, quando gli aveva lasciato
il suo ultimo messaggio. Si era augurata anche una donna, che gliele facesse
vivere.
Assurdo, constatò come sempre, stendendosi sulla
sabbia, le braccia piegate sotto la nuca, e chiudendo gli occhi, le voci di
rari bagnanti nella testa come un eco morente.
Anche quel giorno, il conteggio delle giornate
più belle della sua vita era fisso sul numero tre.
Una mattina in cui suo padre aveva trascorso
tutto il tempo con lui e sua madre, insegnandogli il Quidditch. Il sorteggio
come Serpeverde. Serenity che diceva la sua prima parola: “Danny”.
La consolazione magra che poteva darsi e
raccontare allo spirito di Helena, quasi come una giustificazione, era che
anche quelle “più brutte” erano ferme da qualche mese al numero tre.
Le parole di Piton che dicevano che non poteva
essere un Mangiamorte. Il ricordo della morte dei suoi genitori. La morte di
Amos e quella di Helena.
Draco aveva invece un’invidiabile serie di
giornate da definire “fastidiose”, al punto che, se avesse dovuto fare una
sintesi dei suoi ventitré anni di vita, quell’etichetta era applicabile ad una
buona metà dei suoi giorni.
Sapeva che era anche il suo carattere, poco incline
a sopportare la gente in generale, ad infastidirlo più del dovuto di fronte ad
una sequela innumerevole di cose. Ad alcune giornate, poteva attribuire
quell’appellativo, anche se una ragazza lo aveva fissato per strada, o se un
commesso aveva cercato di vendergli qualche cosa di più. E nonostante non
potesse negare di essere anche sollevato di vivere da babbano, aveva anche
notato che il fastidio era aumentato da quando era senza poteri, visto che
doveva usare mezzi pubblici, avere a che fare con il traffico londinese e così
via.
Eppure, se avesse dovuto dare una pole position
alla sua giornata più “fastidiosa”, quella odierna vinceva assolutamente su
tutte. E la cosa meno confortante era che non era nemmeno finita.
Stilò una lista di sufficienti argomenti che
perorassero questa sua ultima tesi e quel poco auspicabile primato, gli occhi
ancora chiusi mentre restava supino, di lui restava attento solo l’udito per
verificare che Serenity non iniziasse a piangere.
Punto primo, la Granger. Si era ripresentata al
Petite Peste, a quanto pare ancora con la recita della ricerca del lavoro in
piedi.
Quando se l’era rivista davanti, aveva fatto eco
a tutta la sua forza per non schiantarla all’istante. Ma ovviamente non poteva
farlo, perché era in una stanza piena di babbani, con cui viveva e lavorava
ogni giorno: l’incantesimo di memoria, poi, non era mai stato il suo forte e
nessuno, tantomeno la Granger, lo avrebbe messo nelle condizioni di chiedere
aiuto ad Astoria, che invece sapeva fare quasi solo quello.
Aveva retto ancora il gioco all’Auror, solo per
difendere la sua copertura, ed era rimasto oltremodo sconvolto dalla faccia di
bronzo della Granger. Non soltanto continuava nella recita del posto di lavoro,
ma si era persino meravigliata che lui non glielo avesse dato sul serio! Il
fastidio per la Granger in generale era, poi, anche acuito da molti punti che
non gli tornavano della vicenda.
Lei aveva accennato ad una condanna, che doveva
aver ricevuto e su cui lui si sarebbe potuto fare due risate… che diamine
voleva dire? Era stata condannata? E da chi? E per cosa?
Perché poi, se voleva fare delle indagini su di
lui, continuava con quella messinscena, sicuramente poco positiva visto che lui
comunque non le avrebbe dato il lavoro? Poteva benissimo fare irruzione al suo
locale con una decina di Auror, fare delle perquisizioni e liquidare in fretta
la vicenda. Invece, no, evidentemente aveva optato per la tortura mentale.
Si morse il labbro inferiore, forse la vita
della Granger era così patetica da volerlo indurre ad ucciderla… lui sarebbe
stato arrestato, Serenity gli sarebbe stato tolta e lei sarebbe morta come
un’eroina.
Altrimenti non sapeva come spiegarsi come si
azzardava anche a nominare suo padre… “sei identico a tuo padre”… magari lo
fosse stato, pensò stringendo le labbra. Lucius l’avrebbe uccisa con una
semplice scrollata di spalle.
Lui, invece, era riuscito a resistere, anche
dopo quel commento. Certo, aveva immaginato con sublime soddisfazione di
ammazzarla sul serio ed aveva sentito il viso infiammarsi di collera così tanto
da credere di esplodere, ma ce l’aveva fatta.
Ne andava dei suoi progetti di vita: la sua
vendetta e la cura di Serenity. Solo pensando a quelle due cose, era riuscito a
darsi forza sufficiente.
Ma la Granger, sebbene in modo incomprensibile,
aveva anche in parte ragione. E con questo si arrivava al punto secondo: Seth
Green.
Sì, perché se la Granger si era sentita in
dovere di presentarsi nuovamente da lui, era stato anche per lui, che l’aveva
assunta a sua insaputa.
Quando lei se ne era andata, gli aveva urlato
contro per ore, lui che assumeva la sua espressione da cucciolo abbandonato
sotto la neve, ma gli occhi verdi del ragazzo continuavano a scintillare
ispirati.
Ergo, qualsiasi cosa avesse in mente, assumendo
la Granger, non gli era ancora passata.
Draco sospirò a lungo, non che fosse un mistero
che cosa volesse da lei… e nella sua mente maledisse ancora quella dannata
strega. Seth aveva un’adorazione per lui, era evidente, e conoscere una ragazza
del suo passato, doveva essere stato come un imprevisto regalo di Natale. Da
quando lo conosceva, si era sempre profuso in miliardi di domande su di lui e
sul suo passato, non sapendo quanto scavava nel torbido. Per fortuna, di Helena
aveva un tenue ricordo e non aveva avuto modo di collegarla a lui, credendo
solo che fosse la sorella di Summer. Quindi, ora che si era trovato davanti una
ragazza che sicuramente sapeva molte cose su di lui, era chiaro che avrebbe
sfruttato la cosa. Inoltre, Seth era fondamentalmente buono, era capace di
affezionarsi a chiunque ed infatti tutti gli volevano bene; Draco non era
pertanto sorpreso che sembrasse nutrire una certa simpatia anche per la
Granger. Come diamine facesse ancora non era chiaro…
Punto terzo: ovviamente Astoria, che aveva montato
un teatrino assurdo quando aveva visto la Granger. L’aveva incantata,
costringendola a credere che lei fosse davvero Summer Breeze Layton, e questo
aveva evitato a Draco che la Granger fosse ulteriormente insospettita dalla
presenza della sorella minore di Helena. Ma ovviamente, aveva evitato una parte
del problema, perché Astoria, che già non aveva mai visto di buon occhio la
Granger come qualsiasi Serpeverde che si rispetti, aveva fatto una scenata
pazzesca dato che era convinta che fosse stato lui a farla venire, in modo da
trovare un modo per spezzare la Promissio Gemina. Non ci aveva tenuto a
sottolinearle che, se così fosse stato, avrebbe accolto la Granger spargendo
petali di rosa per aria ed intonando canti propiziatori, visto che quella farsa
dell’essere fidanzati doveva durare ben sette anni. Ne era passato solo poco
più di uno, e già si era pentito amaramente di come si fosse lasciato
incastrare.
E, con questo, per collegamento di idee, si
arrivava al punto quarto: Potter. Erano giorni che cercava di contattarlo,
innervosendosi di volta in volta alle sue mancate risposte e ai vari messaggi
della segretaria che, schioccando la lingua con fastidio ed irritazione,
ripeteva che il Ministro era occupato. Come diamine si azzardava Potter ad ignorarlo
in quel modo? Una parte razionale della sua mente sapeva che Potter, in fondo,
era il Ministro, era anche abbastanza normale che fosse occupato.
Ed una vocina estremamente fastidiosa, che
parlava anche curiosamente in modo molto simile alla Granger, insinuava anche
che il suo ex nemico di scuola avesse fatto davvero tanto per lui, in quegli
anni.
Ma la sua propensione allo sdegno aristocratico,
non gli impediva comunque di sentirsi quasi offeso dal fatto che, nonostante
avesse lasciato decine di messaggi, Potter non si decideva a richiamarlo.
Si levò bruscamente a sedere, piegando un
braccio sul ginocchio. Inoltre, se Potter lo stava evitando, questo deponeva
decisamente per la tesi per cui sapesse perfettamente della Granger e del
tormento che gli stava dando.
Sperava solamente che con quell’ultimo
sgradevole incontro, la parentesi Granger si fosse finalmente conclusa… chiuse
gli occhi sofferente, stava cercando di evitare di farle del male, ma forse la
prossima volta il tormento dell’inferno, che per colpa anche sua stava vivendo,
lo avrebbe travolto al punto tale da rendergli impossibile rispettare la sua
vera natura, che in fondo non era malvagia.
L’avrebbe uccisa. E sapeva anche che avrebbe
potuto ucciderla in un modo terribile.
Respirò a fondo l’aria dell’oceano, cercando di
ricavare dal profumo penetrante dello iodio una calma che non possedeva e che
sperava che sarebbe giunta dal paradiso, dove si trovava Helena. Ma lei, come
sempre, non lo ascoltava mai, taceva nella sua culla turchina, sorda alle
preghiere sue e di sua figlia. Quasi lo derideva nel suo silenzio, mostrandogli
a cosa lui invece fosse simile… non alla placida assennatezza del mare, ma al
torbido carnevale della pioggia.
Lontano, risuonò un tuono, che squarciò il
silenzio di voci di gente che iniziava ad affannarsi per evitare il vicino
fortunale, mentre iniziavano a cadere pesanti gocce dal cielo, improvvisamente
ricolmo di nubi.
Draco riaprì gli occhi gemelli di quel cielo
spezzato, mentre la pioggia aumentava di intensità, affrettandosi a raccogliere
Serenity per riportarla in macchina. La bambina aveva messo su un pianterello
isterico e innervosito, sicuramente indotto dalla paura che aveva dei tuoni,
che oramai si susseguivano velocemente, incalzando la pioggia con il loro rombare.
Sistemò la bambina sul seggiolino, sistemato con cura sui sedili posteriori,
assicurandosi che non si fosse bagnata, mentre Serenity continuava a
piagnucolare, tirando su con il nasino. Draco cercò di rassicurarla come
poteva, ma alla vista della coda che si stava formando per tornare in città,
decise di tornare subito al posto di guida per ripartire, prima di trovarsi
imbottigliato nel traffico crescente. Cosa che comunque non riuscì ad evitare,
la pioggia iniziò a cadere sempre più forte mentre si avvicinava quasi a passo
d’uomo a Londra, le strade completamente intasate.
Draco cercava ancora di rassicurare Serenity, ma
la bambina non ne voleva sapere di stare tranquilla.
Quando arrivò finalmente al Petite Peste, oramai
un’ora dopo, era già scesa la sera e la pioggia non aveva smesso un secondo di
scendere, anzi dal grado di allagamento delle strade, a Londra doveva aver
iniziato a piovere molto prima. Tamburellando sul volante all’ennesimo semaforo
rosso e cercando di far concentrare Serenity sulla versione storpiata della
favola del Brutto Anatroccolo, dato che non ricordava assolutamente come
finisse, Draco si chiese per l’ennesima volta come diamine aveva fatto ad
arrivare a vivere quella vita, la vita di un ragazzo padre babbano, con un
locale sulle spalle, un amico iperprotettivo e una fidanzata nevrastenica.
Era stata Helena, era tutta dannatamente colpa
sua. La vedeva persino ridere di quel sorriso dolce, accucciata in un angolo
del cielo, lei che magari l’aveva anche rimpianta una vita simile. E lui,
invece, non aveva nessuna vita da desiderare.
Non desiderava tornare alla Magia, se non per
strette esigenze concrete e funzionali, tipo la Smaterializzazione che mai come
ora, sarebbe stata utile.
Non desiderava tornare ad essere Draco Malfoy…
ma non desiderava nemmeno continuare ad esistere in quella bugia incarnata, il
cui stesso nome era un altro di quelli che aveva posseduto Helena. Danny Ryan,
l’originale.
In fondo, pensò seguendo con lo sguardo una
goccia di pioggia che cadeva lungo il vetro, tingendosi del verde della luce
del semaforo, non desiderava esistere affatto.
Fosse evaporato come l’acqua che il cielo
riversava sull’asfalto… sarebbe stata la giusta fine, per uno come lui.
Silenzio. Pace. Quiete. Li agognava come miele dorato.
Dallo specchietto retrovisore, gli occhi colmi
di lacrime di Serenity furono come sempre la corda che lo legavano alla vita,
che lo riportavano a galla dal mondo gonfio di morte, in cui annegava la testa,
annaspando nel sangue che aveva versato per essere ancora lì. Respirò
profondamente, giungendo infine nel cortile esterno del Petite Peste e
parcheggiando la macchina. Armeggiò con la cintura di sicurezza, liberandosi
infine, ed uscì fuori, cercando di non bagnarsi mentre prendeva Serenity,
avvolgendola nel suo cappottino verde. La bambina, dal pianto leggero e tutto
sommato ignorabile che aveva mantenuto fino a poco prima, proruppe in una serie
di schiamazzi umanamente impossibili in un esserino così piccolo, dimenandosi
come unafuria tra le braccia di Draco.
Stranamente nella sua psiche infantile, non voleva uscire dalla macchina…
magari, aveva capito che tra poco avrebbero dovuto rincontrare Astoria…
afferrando tra le manine una ciocca di capelli di Draco e tirando forte,
Serenity cercò ovviamente di far intendere a “suo fratello” che non era poi
così d’accordo con l’idea di tornare a casa da quella strega e che potevano
benissimo intraprendere un viaggio in Cina.
Il risultato fu che Draco ci mise circa tre ore
a trovare la chiave di casa, bagnandosi completamente i piedi, coperti dalle
scarpe leggere di tela, e, solo all’interno, quando evidentemente si rese conto
che Astoria non c’era, Serenity finalmente si calmò, erompendo in trilli
estatici. Draco sospirò, era peggio di sua madre quando ci si metteva… doveva
essere nata, come sua madre, per rendergli la vita un inferno.
Si rendeva conto confusamente di essere
vagamente negativo in quella giornata, come sempre del resto, perché sapeva
anche di adorare Serenity e di aver amato profondamente sua madre Helena.
Ma era in giornate come quelle, fastidiose come
quelle, che riviveva inconsciamente lo strazio dei giorni senza di lei… e tutto
quindi era inferno. Lui, Helena, Serenity, la sua vita.
Tutto.
Con quel pensiero, aprì la porta di scatto,
sbattendola subito alle sue spalle, bofonchiando a mo’ di saluto: “Serenity
deve essere nata decisamente per rendermi le serate un inferno!”. Le scarpe,
completamente zuppe, gocciavano sul pavimento, ne osservò le travi di legno
bagnarsi progressivamente. Quando sollevò lo sguardo, inizialmente non notò la
presenza incuriosita e divertita di Seth che sostava pigramente davanti a lui.
I suoi occhi furono catalizzati completamente da qualcosa alle sue spalle.
La Granger. Ancora.
Per un attimo lunghissimo e sciocco, Draco si chiese sbigottito se non se
la stesse semplicemente immaginando, se il fastidio di quella giornata non si
fosse tradotto in una visione assolutamente molesta e sgradita. Ma la visione
era troppo reale per non immaginare che fosse lei, sul serio… la ragazza era
seduta a gambe incrociate sul letto di Seth, una mano sospesa per aria mentre
portava alla bocca delle patatine. A questo, si aggiungeva il fatto che non
indossasse lo stesso vestito azzurro della mattina, ma un paio di shorts neri
ed una maglia rossa; come se non bastasse, poi, aveva i capelli vistosamente
umidi e sembrava che si fosse appena fatta una bella doccia.
Ancora una volta, come se fosse stata chiaramente invitata a restare, A
CASA SUA.
Il nervosismo gli tinse il viso di rosso, facendolo sentire accaldato e
vagamente claustrofobico, sensazione che aumentò al sospiro malcelato di lei,
mentre alzava gli occhi al cielo. Lei si permetteva di alzare gli occhi al
cielo?? Lei??!! Il perenne ospite sgradito???!! Si può sapere che razza di interesse
masochistico aveva sviluppato nei suoi confronti da stargli costantemente
davanti ai piedi? Non ce l’aveva una vita sua? E poi… se voleva controllarlo,
non poteva essere diretta come sempre e smetterla con tutte ste sceneggiate?
Ovviamente, sperava di fargli perdere la pazienza… dimostrando quanto del
Mangiamorte che non era mai stato, c’era ancora in lui.
Non sapeva quanto fosse vicina a rincontrarlo, le dita fremevano di rabbia,
mentre ostentava indifferenza, stringendo Serenity con il terrore di vederla
sparire. La bambina, quasi come se stesse percependo la tensione che si era
venuta a creare nella stanza, era rimasta in un muto silenzio, non proferendo
più nemmeno l’ombra di un sospiro o di una risata.
Improvvisamente, il viso della Granger cambiò repentinamente, mentre
sbatteva le palpebre un paio di volte, assumendo un’espressione incredula
mentre lo fissava, le labbra leggermente dischiuse nella forma quasi di una
piccola “o”.E Draco, con una stretta gelata
attorno al collo, ricordò repentinamente della presenza di Serenity ancora tra
le sue braccia. Il senso di possesso su quella che considerava alla stregua di
sua figlia, si mescolò con l’imbarazzo, quando Serenity lasciò perdere le
vicende dei grandi che ovviamente non poteva decifrare, e mise su di nuovo il
broncio, biascicando: “Danny! Danny! Fame!!!”. Era così assurda quella
situazione, paradossale… al punto da desiderare di fuggire pur di non
continuare a viverla.
Sentiva il peso del suo stesso corpo inchiodarlo al suolo, come quelle farfalle
trafitte da collezionisti sempre troppo poco consci della loro evidente
crudeltà.
E lui quello era, al momento… infilzato in bella mostra davanti alla
Granger, sadicamente interessata ai colori della sua vita, alla ricerca
spasmodica di quel tono scuro che lo avrebbe fatto gettare nella spazzatura del
mondo. Di nuovo.
Lo sguardo che lei possedeva, aveva come sempre qualcosa di clinico, di
chirurgico, nel modo che aveva di scandagliargli il viso, i tratti, le
espressioni, come se fosse sempre sotto una lente d’ingrandimento.
Una parte tremolante del suo pensiero, gli ricordava che era sempre così
con lei… la Granger era proprio fatta così, non lo faceva apposta. Era nata con
quello sguardo d’agata, che ti perforava il cervello.
Ma, ovviamente, la maggior parte del suo riflettere non poteva essere
razionale e lucido, andando anche a recuperare quel particolare che aveva
sempre conosciuto di lei.
Notò piuttosto che gli occhi della Granger trasudavano sorpresa e, con un
fremito delle dita nervose, Draco immaginava quello stesso stupore
perfettamente cesellato sul suo volto, con la maestria di uno scalpellino o di
uno scultore formidabile.
Esibito ad uso e costume, della risoluzione incomprensibile che aveva
preso, da qualche giorno. E cioè quella di rovinargli la vita.
Era inutile la sorpresa, visto che sapeva perfettamente che quella era la
figlia di Helena, anche se non l’aveva mai vista in viso. Chiunque avrebbe
potuto riconoscere in Serenity sua madre.
Ma se la sorpresa era inutile e fastidiosa, l’ilarità, che cercava di
trattenere a fatica e che evidentemente doveva essere per lei massima nel
vederlo nelle vesti imbranate e poco abili di giovane padre, fu la cosiddetta
goccia che fece traboccare il vaso.
Fu quell’espressione a gelargli il pensiero ed il cuore, facendogli
percepire persino Serenity come un corpo estraneo tra le sue braccia, come se
nelle sue vene ormai scorresse solo il ghiaccio di un solo pensiero.
Doveva finire oggi… quella patetica sceneggiata… in quel momento… lei non
era nessuno per starsene lì, sul suo solito scranno da Regina del Mondo, a
giudicare la sua vita…
Poco importava il modo, poco importava il mezzo… ma oggi doveva finire. Si
sarebbe pentita di aver rimesso piede lì.
“Un attimo, Serenity…” sentì Seth rispondere al posto suo, evidentemente
comprendendo che non era aria. Sperava che si fosse finalmente reso conto che
mettere quella ragazza nella sua stessa stanza, significava evidentemente che
la voleva morta.
La Granger, alle scarne parole di Seth, sembrò riassumere un’espressione
pensierosa, che le curvò il viso in uno sguardo di profonda riflessione,
venandolo di improvviso sospetto. Draco la ignorò palesemente, restando
immobile al suo posto, incapace di muoversi, finché di fronte al prolungato
silenzio, Seth pensò bene di prendere in braccio Serenity, togliendogliela
dalle mani gelide e trascinarsela dietro, chiudendosi la porta alle spalle.
Fu quel rapido contatto a farlo ritornare in sé, come se fosse ritornato da
una dimensione lontanissima, la decisione di farla finita oggi ancora nel suo
corpo, mentre cercava una soluzione che non implicasse l’idea di ucciderla.
Sospirò vistosamente, poggiando una busta della spesa sul tavolo della cucina e
prendendone a sistemare il contenuto, fingendo di non accorgersi minimamente di
lei. La testa macinava alla velocità della luce, alla ricerca di una risposta,
di una soluzione, gli occhi grigi apparentemente persi nelle sue faccende. In
realtà, la soluzione c’era ed era semplicissima… ucciderla… ma ancora per
chissà quale motivo, non voleva.
E non c’entrava nulla l’avere a che fare con il Capo degli Auror, o il
dover affrontare Potter, se le avesse fatto del male.
Ancora, qualcosa lo teneva fermo nella risoluzione di non torcerle un
capello, nonostante lei fosse la diretta responsabile del male di cui era piena
la sua esistenza.
Ancora… era più facile convincersi a non toccarla, piuttosto che ad
ucciderla. Come sempre, era quella la malattia che non lo lasciava mai in pace,
nonostante i suoi propositi. La malattia del non uccidere.
Quella, per cui non era un Mangiamorte. Quella, per cui trovò un’altra
soluzione, non appena, dalla stanza accanto, sentì uno sbuffo impaziente e il
rumore di cose spostate. Se ne stava andando… di nuovo…
“Non questa volta, Granger…” pensò, voltandosi su sé stesso per ritornare
sui suoi passi.
E, in pochi secondi, le arrivò davanti, fermandosi a pochi centimetri da
lei, che era china a raccogliere le sue scarpe.
“Che c’è?!” replicò la Granger nervosa, sollevandosi, l’orecchio allenato
di Draco colse un’incertezza strana della sua voce, quasi come l’eco di un
pianto, ma non ci si soffermò nemmeno per un secondo.
La vicinanza improvvisa di lei, al punto da sentirne il profumo di vaniglia
e tè nero, gli fece ricordare i giorni del suo passato… compresa l’ultima volta
che l’aveva vista.
Il Ministero, lei con Weasley che rideva della risata di Helena…
Helena…
La rabbia fu così forte nel suo petto, da non permettere nemmeno al ricordo
o al rimpianto della donna amata di farsi strada dentro di lui.
Ne soppesò con lo sguardo tutta la figura, quei tratti che, per chissà che
curioso controsenso della sua psiche, a volte sembravano assomigliare a quelli
di Helena. Non quando parlava con lui, ovviamente, ma quando il suo sguardo era
posto in qualsiasi altra direzione. Quella stessa mattina, mentre parlava con
gli altri, prima di accorgersi della sua presenza… quei pochi attimi, la piega
strana delle sue labbra o il bagliore degli occhi… sembrava… quasi lei… perché,
dannazione?
Perché, dannazione, se adesso invece era così diversa da Helena da
ricordargli costantemente il loro divario inesauribile, il divario che Helena
avrebbe avuto con qualsiasi donna esistente, soprattutto con lei?
Lei che continuava a mantenere quell’espressione da Regina del Mondo…
aggrottava le sopracciglia e stringeva gli occhi di risentimento. Ora… non era
lei… ora, Draco, si chiedeva come diamine avesse visto Helena anche per un
secondo, in lei.
Lei, che come uno scherzo della natura, indossava persino la maglia da
calcio che gli aveva regalato Seth, ma che lui non aveva mai indossato,
specificando che detestava il calcio.
Testimonianza, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Seth aveva già preso
in simpatia la Granger: Seth idolatrava quella maglia e non la faceva indossare
a nessuno, visto che lui, Draco, l’aveva indossata una volta. E quindi lo aveva
sorpreso, spesso, a sniffarla come se si trattasse di cocaina.
Ora l’aveva data alla Granger.
I suoi occhi grigi tornarono al suo viso e le sue labbra si arricciarono in
una smorfia di repulsione, per il pensiero che ora la stesse indossando lei.
Lei sollevò ancora gli occhi al cielo, riprendendo a raccogliere le sue
scarpe. Fu allora, vedendola così indifesa e al contempo ancora pregna di
quell’ostinazione cocciuta che era stata la vera responsabile della morte di
Helena, che Draco perse le ultime resistenze, decidendo di agire. La afferrò
brutalmente per il polso, la sua pelle era calda, quasi bollente, ma Draco non
se ne accorse neppure. Nelle orecchie, il tonfo sordo dei sandali bianchi di
lei che ricadevano sul pavimento di marmo.
Mentre era ancora china, la Granger sollevò autenticamente sorpresa i suoi
occhi, come se davvero non se lo aspettasse da lui. La sua pelle tremò per il
dolore, ne percepì la tensione forte sotto le dita, mentre lei continuava a
guardarlo, una nebbia fosca di lacrime negli occhi. Si sarebbe fermato se
l’avesse vista piangere? Probabilmente no… o forse sì.
Ma le lacrime della Granger non erano per il dolore. Appariva solo
frustrata, nervosa, impotente. E questo non bastò a farlo fermare, mentre nella
mente ripeteva la formula per la Legilimanzia. Per
violarle la mente.
La soluzione per non ucciderla… ma si aspettava che lo fermasse da un
momento all’altro. Quindi rimase concentrato, cercando di leggerle i pensieri
quanto prima possibile.
“Malfoy, nel caso in cui la tua ristretta scatola cranica non l’abbia
immagazzinato come concetto, me ne sto andando…” sussurrò lei tagliente,
cercando di mantenere ferma la voce, ma ancora lui non se ne dette pena.
Continuando a tenerla per il polso, con un strattone la sollevò
violentemente dalla posizione accovacciata in cui era, facendola ritrovare in
piedi davanti a lui che continuava a trattenerla per il braccio sollevato,
guardandola negli occhi. Doveva restare immobile, fermo, e non perdere la
concentrazione. Era senza bacchetta e doveva usare tutta la sua forza magica,
senza peraltro garanzia di riuscire a violarne la mente.
Da un momento all’altro, si aspettava infatti che lei reagisse, sguainasse
la bacchetta e lo allontanasse da sé, presagendo che cosa stava per fare.
Ma una parte remota della sua mente, registrò che invece lei non stava
assolutamente reagendo. Cercava di divincolarsi, ma chiaramente non era forte
quanto lui, e prese anche ad urlare, graffiandolo: “Lasciami Malfoy! Ho capito,
me ne sto andando!”, ma, oltre a quello, nient’altro. Nemmeno nella sua mente.
E Draco si ritrovò nei suoi pensieri, senza che nulla lo ostacolasse.
La mente della Granger era un labirinto intricato, impervio, che si
arrampicava in miliardi di pensieri scintillanti. Tutto, però, contrariamente a
quanto Draco aveva rinnegato fino a quel momento, era bianco, puro, quasi
accecante.
La mente di Hermione era il pieno e perfetto simbolo di quella che lei era;
ci scommetteva Draco che, al contrario di molte altre donne, lei ascoltasse
sempre prima la sua testa, e poi il suo cuore. E la sua testa era intricata di
ragionamenti, idee, congetture che affollavano il suo cervello, ma al contempo,
era anche una mente semplice, pura, incapace di concepire il male. Magari era
sospettosa, diffidente, ma era sempre pronta a ricredersi.
Draco sentiva già dentro il pensiero della Granger contaminarsi al suo, si
chiese ancora perché lei non lo fermasse, facendolo vagare indisturbato. Che
fosse un’altra delle sue tattiche? Ma nella mente non poteva mentire, non
poteva fingere cose false… doveva essere sincera. E quel candore, da bambina…
con sgomento, si rese conto che doveva essere vero. Frugò nella sua mente,
incontrando ricordi che non capiva e che non riusciva ad interpretare.
Un fiore giallo, sullo sfondo di una Firenze in piena estate.
Una collana d’oro giallo con un ciondolo quadrato, smaltato di un bel rosso
acceso.
Uno spesso braccialetto d’argento, con una piccola piastrina di metallo
piatto e liscio, che recava le sue iniziali.
… tutti ricordi, permeati di tristezza, di malinconia, di un’insicurezza
che non ricordava che la Granger avesse mai avuto.
Cercando di non farsene sopraffare, continuò la sua ricerca, cercando di
indirizzare il corso dei suoi pensieri verso Serenity e verso il nome Helena
Jasmine Greengrass, comprendendo che così avrebbe capito perché fosse qui e
quanto stesse cercando di capire del collegamento di lui, con loro. La risposta
fu buia, oscura. La mente della Granger si offuscò, diventando nera come la
pece.
Le tenebre sopraggiunte, per Draco, furono come sbattere la testa contro un
muro. Furono uno shock, paragonabile alla scoperta rinascimentale che la Terra
era tonda.
Scavò meglio, più a fondo, quasi arrivando al suo subconscio, ma la
risposta era sempre quella. Chiara, netta, precisa.
Hermione Granger non era il Capo degli Auror, il giorno della morte di
Helena. Lo era Beckwith, il suo vice. E non lo era da un po’.
Non conosceva il nome di Helena, era convinta che le Greengrass fossero
solo due e non sapeva nulla nemmeno di Amos Diggory.
Meno che meno, di Serenity. Era insospettita dalla presenza di quella
bambina, ma ammetteva che stava bene. Si chiedeva solo che diritto avesse Draco
di tenerla con sé.
Basta. Nient’altro.
Hermione Granger non sapeva nulla di lui. Perché allora era lì? Cercò di
arrivare a quella risposta, ma penetrò troppo in fondo nella sua mente. Ne
percepì il dolore al braccio, l’insicurezza… e la paura che aveva di lui.
E quel pensiero terrorizzato… “Mi ucciderà così, come niente, senza
nemmeno un urlo, e io me ne andrò, senza fare assolutamente niente…”.
Pensava che stava per ucciderla…non si era accorta che stava violando la
sua mente…
Un conato di vomito lo costrinse quasi ad uscire dai suoi pensieri, quasi
come se stesse fuggendo da lei. Se ne sentiva sporcato, come se l’avesse
violentata. Come uno che tocca qualcosa di intoccabile e puro, di illibato e
vergine, senza averne alcun diritto… perché lei non era l’assassina di Helena.
Hermione non ne sapeva nulla. Quel giorno, per chissà quale motivo, c’era
Beckwith al suo posto… ed intuiva dai suoi pensieri che c’era stato anche prima
di quel giorno, ed anche dopo.
Fino insomma a quel momento… lei infatti di Helena non sapeva nulla.
Forse, non era nemmeno più il Capo degli Auror… possibile?
Batté le palpebre con foga sorpresa, ritornando in sé e lasciandole infine
il polso, dopo averla guardata con un misto di curiosità e sollievo. La Granger
si massaggiò piano il polso con l’altra mano, poi accorgendosi delle sue guance
bagnate, cercò goffamente di asciugarsi, senza farsi vedere da lui. Un vuoto
allo stomaco, l’aveva anche fatta piangere. Tremava persino, come un pulcino
bagnato.
“Davvero non sapevi nulla di Serenity, Granger…”. La sua non fu una
domanda, fu una constatazione. Una constatazione meravigliata, se ne rendeva
conto. Era come se gli avessero rovesciato tutti i pensieri, la osservava
immobile, incapace di fare qualsiasi cosa.
“Te lo dovevo dire in ebraico
antico, Malfoy?” aggiunse lei, massaggiandosi ancora il polso, gli occhi che
scintillavano, roteando lontani, quasi a cercare una via di fuga “Non so nulla
di Serenity, né tantomeno mi interessa… “.
Il labbro inferiore le tremava innaturalmente, battendo quasi sui denti, e
Draco cercò di dirsi che era perché l’idiota non l’aveva fermato, mentre
violava la sua mente, affrettandosi poi a distogliere lo sguardo da lei.
“Si può sapere perché sei qui allora? Di nuovo, aggiungo…”.
“Non ti devo alcuna spiegazione, Malfoy…” rispose ancora la Granger, la
voce che non cessava di tremare “Me ne sto andando e comunque è stato Seth a
chiedermi di restare…”, ecco, tutto quel casino per Seth.
Hermione guardò ancora il polso rosso e buttò fuori cattiva: “…e poi non mi
venire a dire che non sei come tuo padre…”.
“Lui t’avrebbe ucciso, Granger… io ho solamente letto i tuoi pensieri…”
sputò fuori Draco, con espressione ovvia, roteando gli occhi annoiato
dall’ennesima frase dello stesso tono della Granger.
Fu già allora, a rendersi conto, di che cosa stava cambiando lentamente.
Noia.
Non rabbia.
Era bastato assolverla dall’omicidio di Helena, per rendere quel commento
della Granger innocuo. Anzi, quasi giustificato, visto che lei aveva pensato di
morire. Come, lo poteva sapere solo lei.
Certo, quella constatazione lo lambì appena, morendo nel mare di insulti
che si stavano già scambiando… restando interrotta come tre punti di
sospensione, come una frase che non avrebbe mai completato per mesi.
Lui… come non avrebbe fatto probabilmente nemmeno lei.
Perché, anche se lei lo avrebbe chiamato Danny, accettando già da quella
sera di reggergli un gioco che nemmeno conosceva…
Perché, anche se lei era lì per motivi che lui non poteva nemmeno
immaginare e che avevano tutto della predestinazione…
… per tanto, troppo, tempo, la sua mente avrebbe sempre concepito solo un
pensiero.
“I segreti dei Grifondoro non saranno mai quelli dei Serpeverde, eh
Granger?”
Cerco ossessivamente di riflettere, di pensare,
di fermare quelle immagini nella mia mente, ma lo specchio è di parere
contrario. Il turbinare dei ricordi, riprende immediatamente.
La ragazza dormiva scomposta, agitata, muovendosi continuamente nel letto
che non le apparteneva.
Draco si avvicinò sospettoso, guardandola con astio anche se lei non poteva
accorgersene. Trasalì, una fitta improvvisa al cuore, quando lei si mosse e
fece una piccola smorfia da bambina infastidita, spostando la coperta con un
piede. Nella luce della luna, i capelli spettinati gli parvero più cespugliosi
del solito in evidente contrasto con la maglia rossa da calcio che portava, e
le ciglia recavano tracce di lacrime lontane che doveva aver pianto. Draco si
sedette accanto, non riuscendo a smettere di guardarla, un dejà vu continuo nei
sensi che lo frastornava. Sembrava… era del tutto identica a… lampo di
consapevolezza.
Ancora.
Era la seconda volta che gli accadeva… perché?
O meglio, oramai, era indubbio che le volte in cui la Granger gli era
sembrata Helena, stavano diventando decisamente troppe. Decisamente troppe, per
non pensare che gli stesse venendo una specie di Alzheimer precoce e giovanile.
O evidentemente quel Dio che rinnegava dalla mattina alla sera,
maledicendolo, aveva deciso un raffinato metodo per punirlo: mostrargli
l’immagine più chiara della donna che amava, in quella che invece detestava.
Certo, ora sapeva perlomeno che la Granger non era la responsabile della
morte di Helena e la collera eccessiva per lei, si era un po’ calmata, quasi
accucciandosi in un angolo della sua mente. Ma, in fondo, lei era sempre
l’incarnazione di tutto quello che detestava e che gli aveva rovinato la vita.
La cieca virtù dei buoni, il patetico buonismo ipocrita degli Auror, colmo di
procedure e inghippi burocratici, nelle cui maglie morivano centinaia di
persone sotto l’egida di un’ingiusta giustizia.
Era pur sempre, il Capo degli uomini che avevano trucidato i suoi… e
sebbene per quel fatto, la rabbia fosse inferiore rispetto a quella che provava
per la fine di Helena, questo non significava che rivedere quest’ultima nei lineamenti
seri e morbidi della Granger, non fosse un pensiero che disarmava la sua mente,
lasciandolo prostrato alla ricerca di una qualsiasi forma di spiegazione.
Continuò a guardarla, sporgendosi leggermente su di lei nel buio della
stanza, analizzandone il viso con attenzione quasi maniacale.
Il mistero di quella somiglianza, non si ripeteva mai quando era cosciente
di sé stessa, quando cioè era attenta al suo agire, impostata, rigida nelle sue
regole di comportamento e nei suoi prescrittivi codici morali. Allora, assumeva
la posa della cocca dei professori di Hogwarts, che tanto odiava, con la
schiena dritta, le spalle aperte e l’espressione insofferente. Nulla di nuovo,
e nulla di diversamente detestabile rispetto agli anni passati.
Ma, ora, per chissà che motivo, era uscito qualcosa da lei che non aveva
mai riconosciuto in quegli anni. Ne trovava tracce pallide, dietro di sé, non
le aveva mai notate veramente, senza impedire che si disperdessero nel tempo occorso
tra di loro.
Forse aveva visto semplicemente visto la “vera” Granger. Quella, oltre
quell’atteggiamento saccente e supponente, da Regina del Mondo. E forse quella
Granger… assomigliava ad Helena.
Era una sensazione quasi impalpabile, lieve come un miraggio, che lo
prendeva solo quando Hermione si comportava in modo naturale, senza freni e
senza inibizioni.
Quando era sé stessa… ancora quella constatazione quasi fastidiosa lo
raggiunse prima che lo potesse impedire a sé stesso.
Draco si prese la testa tra le mani, seduto ancora all’angolo estremo del
letto, dove Hermione finalmente si era calmata un po’ e respirava con
regolarità. Le gettò ancora uno sguardo, dopo aver distolto forzatamente lo
sguardo da lei, assicurandosi che stesse ancora dormendo, soffermandosi ancora
sui particolari del suo viso e quasi sincerandosi che quella somiglianza non
fosse una specie di ictus del suo cuore, che oramai voleva vedere Helena
ovunque.
La Granger non le somigliava affatto, se uno la guardava bene.
I capelli potevano essere quasi dello stesso colore, forse quelli di Helena
erano leggermente più chiari, ma la loro forma era completamente diversa.
Helena era sempre ordinata e perfetta, la Granger invece era sempre in
disordine. Un disordine che però la rispecchiava appieno, che non appariva
sciatto come a scuola e che la rendeva semplicemente ridicola.
No, adesso Hermione Granger era una donna, fatta e finita, e, come per
molte altre cose, sembrava semplicemente superiore all’idea di una messa in
piega perfetta.
Gli occhi, anche se adesso erano chiusi, erano il punto di maggiore
difformità tra le due. Helena aveva occhi più allungati, quasi da gatta, e di
quel turchino che incantavano tutto il mondo. Aveva inoltre un’aria sempre
dolce, sempre indifesa, che la faceva apparire tremendamente friabile, sempre
sul punto di rompersi o spezzarsi. La Granger, no. Gli occhi di Hermione
Granger erano grandi, di un castano anonimo, che però si illuminava per i
particolari più sciocchi. Si sorprendeva di tutto, per tutto… ma aveva già
notato tantissime volte, da quando la conosceva, che erano semplicemente occhi
curiosi, che rispecchiavano un’intelligenza vivace e dinamica. Per questo,
erano occhi forti, serrati sotto palpebre sempre frementi di capire, occhi che
ti scandagliavano alla ricerca del particolare che le sfuggiva. Lo aveva
guardato così, per ore, prima a cena, dato che Seth aveva avuto la brillante
idea di costringerlo a farla restare, oltre che imporgli persino di pensare
all’idea di assumerla.
Come se cercasse davvero un lavoro… chissà che diamine voleva da lui…
Gli aveva dato sui nervi quello sguardo, aveva avuto la tentazione di
schiantarla ogni secondo. Quello di Helena, invece, lo rimpiangeva come l’acqua
in un deserto.
Eppure, c’era qualcosa, in lei… in Hermione Granger… che la rendeva tanto
simile ad Helena. Qualcosa, nel modo di comportarsi, nell’aria da bambina,
negli atteggiamenti aperti e limpidi, nei sorrisi luminosi. Qualcosa che, in
Hermione Granger, usciva fuori solo quando non era con lui… ovvio. Lo vedeva
adesso, mentre dormiva… lo aveva visto quel giorno al Ministero… lo aveva
scorto nella sua mente… lo aveva intravisto, mentre giocava con Serenity o
parlava con Seth.
Quando abbassava le difese, quando si sentiva sicura e tranquilla… quindi,
con somma pace, quando non era con lui.
Le era uscito fuori solo un attimo, forse perché troppo spiazzata per
rendersene conto, quando le aveva chiesto nervoso di non reggergli il gioco e
lei aveva sbattuto le palpebre, confusa.
Gli era sembrata più piccola, con quelle spalle serrate a rinnegare chissà
che pensiero nascosto. Gli era sembrata Helena, di nuovo.
Draco scivolò seduto sul pavimento, reclinando indietro la testa e
poggiando la nuca sul materasso, lo sguardo fosco catturato dal soffitto, un
cielo artificiale fatto apposta per lui, che oramai il cielo vero non lo
guardava nemmeno più. Nel buio, solo una lama di luce argentea dalla finestra,
proveniente da una falce di luna, sottile e affilata come la lama di un
assassino, pronto a squarciargli la notte. Perfetto il silenzio, solo il
respiro lieve di Hermione che dormiva alle sue spalle, una mano sotto il
cuscino, le gambe rannicchiate in posizione fetale e le labbra rosse dischiuse.
L’aveva guardata talmente tanto, cercando il motivo di quell’assurda
somiglianza, che ne ricordava perfettamente le fattezze, dai piedi piccoli e
nudi alle gambe tornite e scoperte, fino al collo bianco impreziosito da
qualche ciocca di capelli… fino alle ciglia che sembravano più nere, bagnate di
quelle lacrime che chissà perché aveva pianto.
Mentre dormiva, aveva bofonchiato qualche parola, agitandosi, qualcosa che
curiosamente assomigliava alla parola “caminetto”. Poi aveva sorriso piano e si
era calmata, addormentandosi profondamente. Ne aveva seguito ogni movimento,
come quando guardava Serenity, nel cuore della notte, assicurandosi che stesse
bene. Anzi… quella era la prima notte, che aveva trascorso senza guardare la
bambina, cercando di scorgere in lei un ricordo nitido di Helena.
In compenso, ne aveva avuti decine di centinaia, quella sera, guardando la
sua antica nemica.
Distogliendo lo sguardo da lei, Draco si rese conto, guardando in quel
soffitto bianco, che l’immagine di Helena nel suo ricordo si era fatta più
netta e chiara. Turbato, il cuore in gola, il respiro corto, si rese conto che
la ricordava meglio, guardando Hermione. Poteva… poteva finire il ritratto di
Helena, se l’avesse avuta lì tutto il giorno, se avesse potuto guardarla
dormire, facendosi dominare da quella magia che non sapeva da dove provenisse.
Avrebbe terminato il quadro di Helena… il surrogato della donna che amava e che
avrebbe preso vita, dal suo amore ancora intoccabile per lei. Come Amos che
ogni sera parlava con il ritratto di Daisy, anche lui avrebbe potuto vedere
Helena e parlarle come prima.
Stringerla, baciarla, accarezzarla, no… sapere che era viva e reale, non
più… ma al momento, si doveva accontentare di quello per andare avanti. Si
doveva accontentare di Hermione Granger, della copia malriuscita di Helena, per
andare avanti.
Restò lì, fino alle prime luci della giorno, lo sguardo fisso sul soffitto,
le orecchie catturate dai rumori soffici di Hermione che aveva ripreso a
rigirarsi nel letto. Quando lasciò la stanza, era freddo del piano per
trattenere la Granger lì, assieme a lui, cieco e sordo dei soliti motivi che
l’avrebbero spinto a gettarla in mezzo alla strada, appena si fosse svegliata,
aggiungendo persino nuovi di segno opposto, come il fatto che avere un’Auror
per casa poteva essere utile anche per proteggere Serenity.
Ogni particolare era perfetto, ognuno fatto apposta per legare Hermione a
lui, a doppio filo. Un filo spesso, come non avrebbe mai nemmeno immaginato.
Un filo… rosso.
Il sole sorge e tramonta tre volte. Passano tre
giorni.
… tre giorni, in cui, nonostante le sue premesse
e il suo piano apparentemente perfetto, Draco si logora nel senso di colpa per
i suoi genitori. E mi tiene alla larga.
Lo seguo nelle sue stanze vuote e deserte,
accompagnato solo dai gemiti di Serenity e da una turba di pensieri con il
medesimo tono e colore.
…solo quella parola, declinata in infiniti modi
diversi.
Lo taglia come una lama sottile, insinuandosi
rapidamente nei suoi pensieri, proiettando ombre lunghe sul ricordo di sua
madre e di suo padre. Si accascia al suolo, si porta le mani nei capelli e si
dice che ancora una volta, Helena è più importante di tutto.
E, se lui vuole dipingerla, deve tenermi lì,
anche contro il mio volere. Anche contro la veste accecante di Auror, alias
assassino, che mi vede addosso.
Anche contro i suoi, che da quegli stessi
assassini, sono stati trucidati nella peggiore delle maniere.
E si sforza di non pensarci, rimane immoto ed
immobile in una stasi prolungata, un’inerzia che non ha senso, una
contraddizione di gesti e parole.
Non mi parla per tre giorni, se non per rade
istruzioni sul lavoro, e non si interroga sul reale motivo per cui sono lì. Non
mi guarda dormire, non prova a dipingermi, evita persino il mio sguardo,
illudendosi quasi che io sia una specie di accessorio, che ha messo in casa
costretto da qualcuno ed accanto al quale passa controvoglia, inarcando un
sopracciglio.
Chiedendosi quasi: “Ma è ancora qui?!”, oppure
dicendosi con le labbra arricciate: “Certo che è davvero disgustoso… me ne
libererò un giorno…”.
La pigrizia di una cacciata definitiva, esibita
ad arte ai suoi stessi pensieri, soccombe al sangue che ribolle nelle vene,
sempre alla mia vista.
Non sono un accessorio, non sono una lampada
kitsch, una scrivania di dubbio gusto estetico, una coperta dalla cromaticità
imbarazzante.
Sono un passo sempre troppo pesante, fuori dalla
sua porta. Sono una parola sempre troppo urlata, oltre un muro. Sono un respiro
sempre troppo greve, attraverso il silenzio.
Sono… sempre troppo viva.
E sono anche nell’affetto di Seth e Serenity,
sono anche nell’avversione di Astoria, che continua a litigare con lui per la
mia inspiegabile permanenza.
Sono lo sguardo di Helena, che ancora non
capisce da dove mi viene.
E, allora, colpa su colpa, rimorso su rimorso,
disgusto su disgusto, trascorre le notti nel pianerottolo che divide
l’appartamento di Seth dal suo. Le braccia conserte sul davanzale di una
finestra, gli occhi ritagli di stelle, i pensieri avviluppati attorno al mio
respiro, dietro una porta chiusa.
Un respiro così ordinario da poterlo scambiare
con quello di un’altra. Con quello dell’altra. Helena.
Un respiro che, però, è essenza di
un’espressione che può già figurarsi come troppo simile a quello di un’altra. A
quello dell’altra. Ancora Helena.
Poi qualcosa si spacca, si spezza, con il tonfo
di una ceramica rotta. Non riesco a coglierne i particolari precisi, sono come
tagli su una tela da cui filtra una luce rossastra.
Cessa la pigrizia celata, cessa il rimorso,
cessa anche l’inerzia.
E tutto, inspiegabilmente, cambia.
Poche, pochissime parole, pronunciate con voce
affrettata e tagliente. Senza nemmeno una presentazione, un saluto.
Subito dopo che lo squillo del telefono aveva
rotto il silenzio perfetto di quel pomeriggio sonnacchioso, avendo l’effetto di
sconquassarlo fino alle ossa. Non aveva nemmeno visto chi era.
Aveva solo risposto.
Solo cinque parole.
“Non avrebbe dovuto scoprirlo così…”.
Il sospiro, lieve, leggero, sfuggito quasi per
caso, per una malaccorta dimenticanza. L’irritazione a quello sbuffo, come se
pesasse tonnellate.
“Dì la verità, Potter… non avrebbe dovuto proprio
scoprirlo… altro che non avrebbe dovuto scoprirlo così…”.
Ancora un sospiro, stavolta studiato a tavolino,
pathos e tormento. La sosta di un oggetto afferrato e spostato, solo per
nervosismo.
“Immagino come sia andata… potrai ingannare lei,
ma non me…”. La voce non ne voleva sapere di bloccarsi, continuava come il
fiume che spaccava una diga.
Lui, ancora non parlava, Harry Potter ancora
restava in silenzio, i minuscoli sospiri come tracce di vita neglettamente
sfuggita.
E lui, Draco Malfoy, il traditore di ogni parte
del mondo, scopriva la loquacità che non aveva mai avuto. E che avrebbe negato,
dopo tre secondi netti.
“Il segreto di Stato, le indagini in corso…
stronzate, Potter… lei avrebbe fatto storie… questa è la realtà. E vi serviva,
la Granger… vi serviva…”.
Il pugno si contrasse, senza che lo potesse
fermare. Lo guardò quasi a disagio, sgranando gli occhi grigi ed imponendo alle
dita di aprirsi, dissimulando indifferenza. Ma restavano serrate, tremanti,
livide.
“E’ perfetta, per quello che fa, no, Potter?
Così pura, così ingenua, così pronta a credere che il mondo sia bianco e nero…
è perfetta, no? Se avesse saputo, le avresti istillato il dubbio, e non sarebbe
servita più… ovvio, naturale, potrai ingannare lei, ma non me, te lo ripeto…”.
Assenso espresso in sospiri. Chi tace acconsente. E il pugno non ne voleva
sapere di riaprirsi, di sciogliersi in una mano distesa, rilassata, noncurante.
“Lei non ha mai avuto nulla a che fare con
questa storia… né con me…”. Esitazione, prima che se ne rendesse conto.
Sentirsi perso, afferrare un angolo del tavolo come per reggersi, come se il
mondo si rovesciasse.
Sfuggirono le parole, lasciarono un silenzio
attonito dall’altra parte, muto anche di sospiri.
“Avrei dovuto saperlo…”.
Improvvisa fretta, dall’altro capo, come di
angosciosa ansia, come di desiderio di strappargliela dalle dita, anche sotto
la forma di quelle parole innocenti ed assolutamente innocue.
Draco sorrise senza accorgersene, amaramente,
senza allegria. A Potter, era andata bene che, per anni, lui avesse maledetto
la Granger, accusandola di ogni sciagura, ma ora che ammetteva che avrebbe
sempre dovuto sapere che lei non c’entrava nulla con la morte dei suoi, come
per quella di Helena, il Ministro si agitava, come se stesse per cadere dalla
sedia.
“Malfoy, voglio solo sapere dov’è…”.
“Mi sembrava che ti sentissi tu in vena di fare
conversazione…”.
“Sai dov’è?” ripeté lui monocorde, Draco poteva
giurare di aver anche sentito la presa diventare più forte sulla cornetta del
telefono.
Con il pollice già sul tasto rosso, pronto a
riagganciare, il ragazzo biondo replicò atono, il pugno che ancora non ne
voleva sapere di distendersi: “Non lo so Potter, ma anche se lo sapessi, non te
lo direi…”, una piccola pausa per gustarsi quell’ansia crescente nel silenzio
del Ministro, prima di concludere, riagganciando: “E’ la volta buona che io e
la Granger parliamo seriamente, ci buttiamo il passato alle spalle e diventiamo
amici del cuore, che ne dici, eh?”.
Non attese alcuna risposta, chiuse la
conversazione, una risata di scherno sulle labbra sottili. Poggiò il cellulare
sul tavolo, ovviamente aveva mentito. Chissà dov’era adesso, la Granger… era
impossibile pensare di rivederla. E di parlarle ancora.
Lo aveva detto solo per fare innervosire Potter,
con lo spettro di una assolutamente sgradita amicizia tra loro, figuriamoci. In
un mondo perfetto, adesso lui starebbe a cercarla, per poi chiedergli di
perdonarlo, per quello che aveva detto.
Anche se era solo la verità: schifosa, orribile,
nauseante, crudele. Ma sempre tale.
Nel mondo perfetto, però, anche della verità si
chiedeva scusa e lui avrebbe dovuto farlo, compito, come uno scolaro che svolge
un tema sulle vacanze estive. E lei, magnanima come un’improbabile maestrina
dalla penna rossa, ne avrebbe sorriso. E lo avrebbe perdonato, e tutto sarebbe
andato a posto. Sarebbero diventati amici, e sarebbero solo state risate su
confidenze, sorrisi su complicità.
Ma, nel mondo vero, che non aveva nulla della
perfezione, lui scrollò le spalle e poggiò il cellulare sul tavolo,
accarezzando il capo di Serenity che, spensierata, giocava nel suo box.
Controllò se Seth fosse tornato, ma si ricordò
che era andato a trovare sua madre, incontrò April per le scale e le chiese di
controllare la bambina per qualche attimo, mentre lui si faceva la doccia.
April arrossì, annuì con il capo e salì nell’appartamento di Seth, dove aveva
lasciato Serenity. Draco scese nel sotterraneo, osservando il dipinto di
Helena, ancora incompleto. Si rammaricò di non aver fatto nemmeno uno schizzo
della Granger. Salì di sopra, nel suo appartamento.
Gettò la camicia bianca e i jeans su una sedia,
senza curarsene, e si infilò immediatamente in bagno, lasciando che l’acqua
scorresse liberamente sul suo corpo, tappandogli le orecchie da milioni di
pensieri che non voleva ascoltare, e che serrava dietro gli occhi chiusi.
Perché, nel mondo vero, che non aveva nulla della perfezione, a Draco Malfoy
importava solo di non poter completare il ritratto di Helena, senza che la
Granger gli gironzolasse attorno, e stava già cercando un altro modo per farlo.
Ma ne era quasi sollevato, constatò con un
sorriso rotto dalla cascata d’acqua, perché lei, la Granger, con quella assurda
somiglianza stava diventando peggio di una droga, che non poteva finire bene.
Astoria parlava di un debole… che lui aveva per
Hermione. Non parlava di cotta, attrazione o innamoramento, no.
Però sosteneva, urlando in tutti i modi che
conosceva, graduando in un’ampia gamma di toni che andavano dallo stridulo
all’acuto, che avesse un debole per lei.
Debole.
Un debole… non per la Granger, così
stramaledettamente insopportabile, saccente, con le sopracciglia sempre aggrottate
e l’espressione da Regina del Mondo.
No.
Decisamente, non per quella.
Ma, ancora, per quella che somigliava ad Helena…
quella che non immaginava esistere nel corpo dell’amazzone, della guerriera
Granger, quella che, tanto per intenderci, pur di non piangere, si mordeva le
labbra a sangue.
Recettivo come sempre era stato, si era
accorto dell’insolito silenzio che la coglieva a tratti, o della piega insolita
delle sue labbra in determinati discorsi, o della nebbia vorticosa che ne
velava lo sguardo in alcuni momenti. Ma poi lei indossava di nuovo la maschera
dell’eroina del Mondo, ostentando cinismo ed indifferenza, nascondeva i segni
delle crepe e tirava diritto. Come sempre… anche se era palese che le fosse
successo qualcosa, nei giorni precedenti.
Qualcosa che l’aveva persino convinta a lavorare per lui.
Ed era in quei momenti, rari, fugaci, come stelle cadenti, che la Granger
le somigliava ancora di più. E sapeva, Draco Malfoy, che un miracolo simile non
poteva esistere due volte su quella Terra.
La magia di rivedere la donna che amava, in una che invece detestava.
E ora pensava solo a come ritrovare qualcosa di simile. Solo a quello.
Perché lui era nel mondo vero, che non aveva nulla della perfezione.
Pensava solo a quello…
Solo a quello.
Solo a quello.
Solo a quello.
Non al perché la Granger fosse improvvisamente diventata così insicura.
Non a cosa le fosse successo per renderla così.
Non alla sua espressione, quando le aveva detto la verità sui suoi.
Non al modo infantile che aveva di negare con il capo, mentre lui parlava.
Non alla preoccupazione di Potter su dove fosse.
Non al fatto che il Ministro l’avesse usata per
anni, come la scintillante rappresentante di un presunto mondo vero, che doveva
avere tutto della perfezione.
Lui, il solo orbo in un paese di ciechi, vedeva
il mondo vero, che non era perfetto. E quindi di tutte queste cose, a lui non
importava nulla.
Gli importava solo del quadro che non poteva
terminare.
L’acqua scorreva sul suo corpo in lunghi ed ampi
rivoli ghiacciati, facendo fiorire brividi tremuli lungo la sua pelle,
giungendo a lambire l’ampia schiena dritta, le natiche, le gambe e i calcagni.
Con stizza, gli occhi chiusi, cercò di girare
ancora il rubinetto, ma si rese conto che era giunto al limite. Sconcertato, si
allontanò dal getto della doccia, valutando se semplicemente la caldaia non si
fosse rotta e quindi non uscisse acqua calda. Inequivocabilmente, nuvole dense
di vapore acqueo si sollevavano fuori dalla cabina di vetro trasparente,
appannandola. L’acqua era bollente… era lui, Draco, che continuava a sentire
freddo.
Con un gemito di fastidio, si rinfilò sotto la
cascata ghiacciata d’acqua, cercando di fare in fretta e frizionando i capelli
con energia, la voglia di mettersi persino a battere i denti per il gelo che
sentiva. Forse aveva la febbre… la pelle tirava, come se si fosse fatta troppo
piccola per contenere il suo corpo, come il vestito di un bambino cresciuto
troppo velocemente da risultare ridicolo in panni troppo striminziti e stretti.
La pelle, poi, era incandescente. Bruciava semplicemente, facendogli quasi
salire le lacrime agli occhi, una sensazione fisica senza spiegazione, come se
fosse stato al sole per decenni. A questo si aggiungeva un pizzicore diffuso
sotto le piante dei piedi, simile ad un solletico di fastidio, che si propagava
lungo gli arti inferiori in crampi quasi dolorosi.
Draco piegò la nuca, l’acqua che continuava a
scorrere, non portando alcun refrigerio alla pelle congestionata, poggiando la
fronte contro la parete di mattoni e dando dei piccoli colpi ritmici, che gli
rimbombavano nel cervello. La gola gli stringeva una morsa soffocante, quasi
come due mani serrate attorno alla sua pelle, come un serpente che la ostruisse
completamente con la mole del suo corpo liscio e piatto.
Ma la cosa che gli dava più fastidio, era quella
sensazione alla base del collo.
Impronta. Un’impronta. Come un segnoche poi era
bruciato come una malattia, su tutto il suo corpo. Letale, contagioso, e gli
venne ancora da credere alle baggianate sui Mezzosangue e sul potere infettivo
che avevano. Perché era meglio credere a quello, che ad altro, anche se sapeva
che non era stato quel minuscolo contatto, il tutto, la causa, il momento
determinante.
Credere che la Granger fosse infettiva, era
meglio che ricordare che non era mai stata così vicina. Mai, in dodici anni.
Era più… reale.
Ma, dopo quel ricordo di dita affusolate, dalle
unghie corte, che si artigliavano alla sua camicia, fu impossibile tornare
indietro al mondo vero, che non aveva nulla della perfezione.
Quello dove davvero gli importava solo di non
poter finire il quadro di Helena.
Gli importava anche di quello… ma non solo di
quello.
Il mondo vero, era diventato un altro.
Si era insinuato lento, subdolo nei suoi
pensieri, in quei cinque secondi netti. O forse era accaduto anche prima,
quando aveva scoperto che la Granger non c’entrava nulla con la morte di
Helena.
Anzi, nemmeno la conosceva… quella rivelazione,
effettivamente, aveva aperto un mondo, molto prima del fugace e furtivo
contatto fisico che avevano avuto.
Nel primo caso, era stato un caso, ecco, in un
ordine perfetto, composto dalle loro vite che erano sempre corse parallele.
Parallele, sì… perché, sebbene la loro distanza a volte fosse stata minima,
mentre condividevano le stessi classi a scuola o la stessa casa a Grimmuald
Place, lui ed Hermione Granger erano sempre stati due rette parallele.
Destinate a restare ognuno nel campo visivo dell’altro, ad ascoltare con
l’orecchio disinteressato il rumore dei giorni altrui, a percepire un odore
diverso contaminarsi a quello dell’altro… ma ferocemente destinate a non
incontrarsi mai.
E quel contatto, quando quella mattina, lei gli era franata addosso, mentre
apriva la porta della sua stanza, e si era aggrappata alla sua camicia per
evitare di cadere, era stato. come un’ombra di vento.
Fugace, rapido, senza conseguenze, se non quella che, come sempre, Hermione
Granger gli era parsa Helena. Ma era stato un secondo, sui cinque di quel
contatto.
Un secondo che faceva franare il cuore, minava la sua ragione e resuscitava
il suo dolore, ma sempre un secondo era stato.
Dopo quel secondo, era arrivato il solito profumo della Granger, tè nero e
vaniglia, così diverso dalla ciliegia dolce di quello di Helena, perché era
forte, penetrante, impossibile da ignorare, come era la stessa Granger.
E, riaprendo gli occhi, aveva scorto i suoi capelli annodati in una coda
alta sul capo, da cui sfuggivano delle ciocche che le accarezzavano le spalle e
che non sarebbero mai sfuggite al rigore di Helena. Ed anche quella vicinanza
si era rivelata per quella che era, perché ogni spigolo, ogni incavo, ogni
curva del corpo della Granger, incastrato anche per un millesimo di secondo con
il suo, non combaciava per nulla.
Non era nata per questo Hermione Granger. Era nata per questo Helena
Jasmine Greengrass, per essere il pezzo mancante.
Non era stato quello, il Big Bang, il momento determinante… il nuovo mondo
era sorto, come un’alba violenta di colori e di luci, quando aveva letto nella
sua mente, dove sapeva che non poteva mentire, della sua estraneità assoluta
alla morte di Helena.
Certo, quella rivelazione era stata come avere avuto sempre davanti agli
occhi un bersaglio ben visibile nel buio, luminoso, tinteggiato di colori
accesi, ed aver aspettato ogni minuto di scagliargli contro un dardo infuocato,
aspettando che si avvicinasse al punto di poter colpire, per poi scoprire, in
quel momento fatale, che non era il bersaglio che cercava. Ma, una parte non
così piccola di lui, soffocata dai giorni intossicati d’odio per lei, forse non
ci aveva mai creduto davvero che lei ne avesse colpa, lei, Hermione Granger,
ingenua e trasparente come un’insopportabile mocciosa. Non avrebbe avuto quel
viso così pulito e quella mente così candida, se ne avesse avuta colpa. Ed era
anche certo che Hermione Granger non sarebbe mai riuscita ad ingannarlo,
nemmeno volendo, contraffacendo il contenuto della sua memoria, in modo da
indurlo in errore.
Ora, nel nuovo mondo, era scontato e banale che fosse Beckwith ad avere colpa
dell’omicidio di Helena ed Amos.
Quella stessa piccola parte di lui gli suggeriva subdolamente, in un modo
troppo confacente al vero per non crederci, che, se ci fosse stata davvero la
Granger al suo posto, lei sarebbe intervenuta per fermare quell’omicidio, prima
di tutto per il suo innato e detestabile spirito di giustizia, secondo, per
mettersi le mani sui fianchi, guardarlo con superiorità e dirgli con aria
saccente: “Te l’avevo detto io, che avevi bisogno degli Auror!”.
Ed Helena forse ne avrebbe riso…
Draco rabbrividì ancora, sotto il getto d’acqua bollente, c’era qualcosa di
enormemente strano nell’immaginarle tutte e due assieme. La Granger… ed Helena.
Di primo acchito, poteva dire che era assurdo immaginarle assieme, così
diverse, così lontane, contemporaneamente legate da lui e dal bisogno per una e
per l’altra, e divise nettamente dai sentimenti che provava per una e per
l’altra.
Ma dopo un attimo, curiosamente gli parve giusto immaginarle assieme…
giusto… perché?
Evitò i suoi pensieri irrazionali, passandosi una mano tra i capelli
bagnati, la sensazione di freddo che si ostinava a non passare.
I segnali del nuovo mondo, erano continuati come un’epifania divina, nei
passi che li avevano legati da quella mattina.
Hermione Granger si era staccata, imbarazzata da lui, era rimasto
sconcertato nel vederla arrossire davanti a lui. Doveva avere la febbre… in
fondo, aveva anche gli occhi lucidi, scintillavano quasi, ma lei, come sempre,
aveva tirato su con il naso ed aveva finto abilmente che le lacrime non fossero
assolutamente presenti, nei suoi occhi d’agata. Come sempre.
Dopo pochi secondi era già lì a rispondergli a tono e a ritornare
all’autentico motivo che l’aveva condotta lì: sapere la storia di Danny Ryan,
quello che si era inventato, in modo da poter raccontare qualcosa di una sua
presunta vita babbana a Seth, senza tradirlo.
Chiacchiere. Voleva indagare, tipico, era dannatamente cristallina, le si
leggeva tutto in fronte, come se lo avesse stampato a caratteri di fuoco.
Ed infatti si era opposto, palesandole che non
era decisamente il piano geniale che credeva. E lei, sorpresa, gli aveva
rivelato il suo grande segreto.
Non era più una strega da due anni, interdizione
all’uso della magia per abuso di potere… quindi non era più non solo il Capo
degli Auror, non era proprio una strega. E quello collimò perfettamente con il
ricordo chiaro che aveva visto nella sua mente, ossia che nel giorno della
morte di Helena, la Granger non era al comando. Era vero, se mai avesse avuto
bisogno di una conferma.
Aveva riso come un pazzo alla confessione della
Granger, l’ennesima prova che viveva in un mondo nuovo. Lei che veniva punita
per chissà quale motivo… e lui che viveva da babbano.
C’era un’ironia tale in quella vicenda, che gli
aveva offuscato i ragionamenti, cosa a cui aveva contribuito anche
l’espressione di lei, simile a quella di un pesce palla in posizione di
combattimento.
Era rimasta sempre buffa la Granger… e già si
stupì Draco di quel pensiero. Aveva pensato… buffa… non ridicola.
Il mondo nuovo.
Istintivamente, quando Hermione aveva cercato di
allontanarsi, infastidita dalla sua risata, Draco l’aveva afferrata per il
polso. Senza accorgersene, senza rendersene conto, quasi d’istinto. E si era
chiesto perché, sbattendo le palpebre, mentre lei guardava la sua mano che la
tratteneva.
L’aveva fermata, quando invece sarebbe stato
meno scocciante che se ne fosse andata, magari offesa mortalmente. L’aveva
fermata, quando non aveva alcuna intenzione di parlarle di Danny Ryan. L’aveva
fermata, e si era stupito del fatto che, sotto la sottile pelle del polso,
sentisse il suo cuore battere forte, come se avesse sempre creduto e pensato
che la Granger non ce l’avesse un cuore, come se fosse invecchiata dai
ragionamenti e dai pensieri, come se funzionasse con una serie di complicati
ingranaggi.
Il mondo nuovo.
E poi lei lo aveva guardato e lui aveva
acconsentito anche a parlarle di Danny Ryan, in fondo, con le sue domande
curiose, Seth poteva oggettivamente metterla in difficoltà e costringerla a
dire cose che poco avrebbero collimato con la sua versione dei fatti. Quindi,
anche se era palese che lei voleva indagare su di lui, utilizzando lo schermo
della sua identità babbana, era meglio darle comunque qualche particolare.
Draco chiuse velocemente il rubinetto
dell’acqua, continuando a rabbrividire ed uscendo velocemente dal box doccia.
Si annodò un asciugamano attorno ai fianchi, restando per qualche istante
immobile, attonito, completamente catturato dal riflesso nello specchio, dai
suoi occhi grigi che sembravano persino sillabare quelle tre parole, la chiave
del nuovo mondo.
Avrebbe dovuto saperlo.
Che Hermione Granger non c’entrava nulla. Né con
i suoi, né tantomeno con Helena.
Se comunque si sentiva la coscienza pulita, a
posto, convinto com’era che fosse solo una colpa della ragazza non sapere nulla
del posto dove lavorava, qualcosa, però, dietro di lui continuava a
contorcersi. Il mondo nuovo.
Mentre fissava i suoi occhi, nel riflesso dello
specchio, la madreperla parve quasi eclissarsi, tingersi di riflessi
cioccolato, diventare una nebbia di lacrime e delle parole balbettate, con il
pianto in gola.
Il mondo nuovo, anche se era stramaledettamente
vero, non era ancora perfetto. Forse, non lo sarebbe mai stato. E Draco Malfoy,
nonostante quel riflesso castano nei suoi occhi, pallido come un ricordo, ma
vivido come un rimorso, si disse che non importava. Non era colpa sua, non era
suo dovere trattenerla lì, spiegarle le cose, farle capire quanto fosse stata
usata dai suoi amici.
Poteva anche dispiacergli, averle fatto del male
così, specie ora che sapeva quanto lei fosse dannatamente innocente di tutte le
colpe che le aveva riversato addosso, ma il senso di colpa era un nonnulla
rispetto a quello che, di solito, provava per Helena e la sua morte; quindi
sapeva ignorarlo, scansarlo, evitarlo.
Ma il mondo nuovo era di altro parere. Il mondo
nuovo non poteva ignorarlo, scansarlo, evitarlo, ora che si era compiuto.
Nemmeno quella sera. Specie quella sera.
Quando finalmente, assicurandosi che Astoria non
fosse in giro per casa, Draco si decise ad uscire dal bagno, si rese conto che
era già tardi, erano quasi le undici di sera. Il tempo era passato così
velocemente, senza che se ne rendesse conto, e la cosa lo stupì alquanto, visto
che, invece, le sue giornate avevano la strana abitudine di essere eterne e di
non finire mai. Dopo essersi rivestito, andò a controllare ancora se Seth fosse
tornato, ma in segreteria c’ era un suo messaggio che diceva che sarebbe
rimasto a casa della madre, per quella notte. Anche Serenity dormiva già,
comodamente distesa nel suo lettino, un pollice in bocca e l’espressione
rilassata. Draco sorrise nel guardarla, accarezzandole lievemente i riccioli
biondi, la bambina si spostò di lato nel sonno, continuando a respirare
regolarmente. April evidentemente doveva averla messa a letto, dopo averle dato
da mangiare, sul tavolo della cucina c’erano infatti dei residui di un
omogeneizzato.
Aveva anche lasciato l’armadio aperto, mancava
una coperta… non se ne preoccupò più di tanto, forse al locale non c’era molta
gente e i suoi impiegati avevano pensato bene di trascorrere la serata,
chiacchierando sulle scale, e magari faceva freddo.
Draco ciondolò un po’ per casa, non aveva molta
fame, quindi decise di prendere una boccata d’aria. Non aveva voglia di andare
in giro, però, in fondo non era stato con Serenity tutto il giorno e non voleva
che, se si fosse svegliata, non l’avesse visto di nuovo. Quindi, decise di
uscire un po’ sul tetto, stranamente per la sua natura… quella sera, aveva
voglia di stelle e di luci, anche striminzite ed artificiali.
Salì pigramente le scale, fino alla porta di
metallo del tetto, che era accostata. Se ne chiese il motivo, ma pensò che
doveva averla lasciata aperta qualcuno, senza darsene troppa pena.
L’aria della notte soffiò sul suo viso,
spostandogli i capelli biondi dalla fronte, scompigliandoglieli. Aveva un odore
buono quella notte, come di erba bagnata e fiori di glicine, anche se non
immaginava nemmeno da dove potesse venire un profumo del genere in piena città.
Probabilmente dai parchi di Notting Hill… e quella curiosità inconsueta, ancora
nella sua natura, lo costrinse a fare qualche passo per affacciarsi alla
ringhiera e strizzare gli occhi per vedere se effettivamente provenisse da lì.
Fu solo un attimo, ed un lieve bagliore
aranciato, alla sua sinistra, catturò la sua attenzione. Sembrava venire
dall’intercapedine tra la ringhiera e la caldaia. Si era subito spento, così
come era nato, durando solo un secondo, eppure ancora quella strana curiosità
non lo lasciava in pace. Era inconsueto per lui, abituato all’inerzia, essere
invece quel giorno, così curioso di stelle, fiori e lucciole, ma non era una
sensazione sgradevole.
Era solo diverso, vecchio come un ricordo ed, al
contempo, nuovo.
Il mondo nuovo.
Si sporse leggermente verso la rientranza,
invisibile per chiunque entrasse, a patto di avvicinarsi, e di primo acchito
pensò solo che April si doveva essere impazzita, se lasciava le coperte in
giro, senza alcuna spiegazione logica.
Fu alla seconda occhiata, che quel qualcosa
dentro che si contorceva da quella mattina, riprese a muoversi nel suo stomaco
con maggiore foga, inarcandosi, distendendosi, come un animale in gabbia. Draco
trattenne uno spasmo involontario della mano, che si stava già di nuovo
serrando, sorda alla sua volontà, mentre puntava lo sguardo sulla chioma
castana che spuntava fuori dalla coperta a scacchi rossi e verdi.
Hermione non l’aveva visto, aveva il viso chino,
probabilmente teneva la fronte poggiata sulle ginocchia. Ancora, con estrema
certezza, seppe che, in quella sua morbida fortezza, non stava piangendo, ma
probabilmente teneva gli occhi aperti, spalancati, fissi nei suoi pensieri.
Incatenati ad una moltitudine asciutta di considerazioni. Desiderò, per un solo
attimo, scavarle attorno un fossato, costruirle un muro alto, rendere davvero
quella fortezza da bambina, una roccaforte inespugnabile.
Chiuderla a chiave, tenerla sottovuoto, in un
castello dove nessuno la toccasse più. Toccare, non in senso fisico… non c’era
possesso nel suo pensiero. C’era piuttosto la considerazione di tenere una
creatura pura come lei, in una teca di cristallo.
Come la rosa della Bestia, nella favola babbana
che raccontava a Serenity prima di dormire.
Non era possesso, era pietà umana. Impedire che
un altro le facesse male… a costo di tenerla prigioniera.
Si riscosse da quel pensiero, sbattendo le
palpebre, la Granger che ancora non si accorgeva di lui. Vide per la prima
volta, nettamente, il mondo nuovo. Ne distinse i limiti, i confini, la spinta
rivoluzionaria che stava imprimendo ai suoi pensieri.
Scorse persino fino a dove quella storia poteva
portarlo.
Il suo primo pensiero, sgomento, da seccare la
gola ed inaridire la bocca, fu: “Che diamine mi stai facendo, Hermione
Granger?”.
Il suo secondo moto, istintivo, da bloccare il respiro e imprigionare le
membra, fu di prendere la porta e di andarsene, lasciandola lì.
Ma il terzo momento, inevitabile, al punto di rinfrescare gola e bocca, e
di sciogliere respiro e membra, furono quelle parole: ““Hai parlato con Potter,
quindi…”.
Lei non parve nemmeno averlo sentito, come se si fosse congelata, il
silenzio che non era silenzio che pesava su di loro, come una lapide di mille
tonnellate. Fu di nuovo tentato di andare via e non tornare più, sensazione
gemella di quel sentirsi stupido per averle chiesto qualcosa che già sapeva
essere successo. Finalmente, dopo quelli che sembrarono anni, arrivò la sua
voce.
Flebile, lieve, come un pigolio: “Perché farebbe qualche differenza?”.
“Credo che sia rilevante per me sapere se sono ancora il più grande
bugiardo della storia del mondo magico… ho appena liberato uno spazio per la
targa sul camino… Potter me la deve da tempo…”.
L’ironia venne fuori, senza controllo. Assieme al sollievo malcelato per
sentire la sua voce, quasi come se avesse temuto per un solo secondo, che
Hermione avesse perso per sempre la voce. Ancora, come in una fiaba, quella
della Sirenetta, con lui al posto di quella strega, che le estirpava la parola
dalle corde vocali, per fargli conoscere il suo grande segreto. Ma lei parlava
ancora… ma non alzava il capo, restava a testa china, come se portasse
semplicemente un peso troppo grande.
“Non credi di sopravvalutarti troppo?” aggiunse scettica, sempre immobile
“In fondo, c’è sempre Peter Minus in lizza… Zabini,
la Parkinson e mezza casata Serpeverde… un sacco di Mangiamorte… la concorrenza
è notevole, non sono affatto certa che tu sia il migliore…”.
“Invece io ne sono sicurissimo… sarebbe un duro colpo per la mia immagine…
e comunque non c’è nessuno abbastanza abile come me… la targa la vincerei più e
più volte… il sangue conterà qualcosa, no? Sono sempre il figlio di Lucius
Malfoy e quella è una polizza sulla vita…bè, ripensandoci, non è esattamente
una polizza sulla vita, credo più su un’orribile morte e su tormenti eterni, ma
nel multiforme mondo della menzogna è indubbiamente una garanzia…”.
Non riusciva a sentire che cosa stesse dicendo. Nella testa, aveva solo un
pensiero. Una preghiera.
Alza il capo,
guardami, inarca il sopracciglio ed ostenta ogni tua dote, Granger. Dimmi che
sono un idiota, dimmi che non mi credi, dimmi qualsiasi cosa che mi faccia
innervosire. O che mi faccia sorridere, mentre cerchi di essere implacabile, e
sembri solo un buffo pesce palla in posizione da combattimento. Fammi
desiderare di sbatterti per strada, fammi smettere questa ironia fastidiosa
anche su mio padre, che non so da dove mi venga. O meglio, lo so da dove mi
viene.
Mi viene dal
pensiero che tu mi liberi da questo senso di colpa. Stupido, inutile, lercio. E
dal desiderio. Che tu sorrida ancora.
Sii il dannato
tormento dell’inferno, sii una schiavitù immorale, sii una droga insulsa… ma
sorridi, Granger, dannazione.
Che diamine mi
stai facendo, Hermione Granger?
“Questo si chiama nepotismo, Malfoy…”la sentì obiettare contrariata, quasi come ci stesse credendo sul serio.
Fece un passo, avvicinandosi e replicando convinto: “Questo veramente si chiama
DNA, Granger…” .
“Credo di essermi persa nel sottotesto della conversazione…” chiese sconcertata,
un’ombra di sorriso mentre finalmente sollevava gli occhi, anche se rifuggiva
dal guardarlo “Stiamo per caso parlando in maniera civile? Anche se comunque in
un modo alquanto contorto?”. Fu sufficiente. Quel sorriso fu sufficiente per
farlo tornare in sé, per abbandonare quell’ansia senza senso e senza motivo.
Vederla al sicuro nel suo castello di stoffa.
Nemmeno lui riusciva a guardarla.
Poteva dire che era vergogna, per la sofferenza che le aveva causato… il
nuovo mondo avrebbe detto così? Il vecchio, sicuramente, avrebbe replicato che
non si vergognava di guardarla, assolutamente. E perché, poi?
Lui aveva detto la verità, anche se faceva male… ma era lui, la vittima,
non viceversa. Quindi poteva guardarla da un’altitudine di milioni di metri, con
il mento alzato che sollevava sempre lei.
Ed invece… non ce la faceva. Temeva di vedere un segno qualsiasi sul suo
volto… una prova, una traccia, un’orma delle sue parole.
E non c’entrava Helena… per la prima volta, nemmeno lei c’entrava nulla,
non c’entrava pensare che, così, Hermione le avrebbe somigliato meno, ed addio
progetto di dipingerla … c’entrava solo che non voleva lasciarle segni, non
lui.
Non in quel modo. Non, dopo esserle entrato nella mente così. La
sporcassero gli altri, con i loro ragionamenti e le loro congetture, ma non
lui.
Ne aveva sporcate troppe, di persone pure.
Si sedette accanto a lei, che non parve nemmeno muoversi, per poi scrollare
le spalle, dicendo, lo sguardo fisso davanti a lui: “Assolutamente no, Granger,
sarà una tua impressione… stiamo parlando solo in modo contorto…”.
“Credo che questo sia al massimo che ci possiamo aspettare l’uno
dall’altra, no?” la sentì sorridere ancora, una stretta tiepida al torace, la
sensazione che, in fondo, non stesse poi così male. O che comunque poteva
andare avanti.
Recuperò parte del suo autocontrollo, inarcando un sopracciglio e
mormorando quasi offeso: “Sicuramente è il massimo possibile… e ti informo che
è già stato un enorme sforzo… ne potrebbe andare della mia salute fisica e mentale…”.
“Lo capisco…” la sentì sospirare, guardando davanti a sé, esattamente come
faceva lui, fingendo un’espressione seriamente preoccupata. Non cercava di
guardarlo, nemmeno per sbaglio. Teneva le iridi puntate davanti a sé, come una
statua di pietra, imitando il contegno rigido del suo corpo. Sicuramente, ora
si sentiva debole, vulnerabile… o forse si vergognava per quello che aveva
sostenuto per anni… le poteva essere tipico, conoscendola.
Si stupì per un istante di quante cose, suo malgrado, sapesse di lei, prima
che Hermione riprendesse a parlare: “Deduco che adesso sia al momento per me di
fare l’enorme sforzo…”, poi la sentì appena bisbigliare piano: “Scordati la
targa per quest’anno, Malfoy… penso che la vincerà il Ministro Potter…sì, Harry
Potter… il Ministro della Magia e il più grande bugiardo del mondo…”.
“Il Ministro?!!! No, non è possibile!” mormorò autenticamente scioccato,
era così strano sentire quelle parole sulle labbra della Granger, era tipo come
sentir dire a Voldemort che i mezzosangue erano dei validi elementi della
Comunità magica. La sentì sorridere, ma poi fermarsi di botto, come se
improvvisamente si fosse ricordata che non era il caso di stare lì, con lui, a
ridere di Potter. Giusto, che fosse il mondo nuovo, non implicava ugualmente
che non fosse un mondo assurdo ed illogico.
Come era assurda ed illogica quella vicinanza, da vecchi amici…
Non erano vecchi amici, dannazione… non erano nulla. Perché erano lì?
Assieme? Perché era ancora lì, lei? Perché era ancora lì, lui?
Non lo sapeva… ed era un fastidio atroce, non saperlo.
Poggiò il braccio piegato sul ginocchio, sospirando e sentendo lo sguardo
di Hermione addosso. Per la prima volta, sembrava solo curiosa, non arrabbiata,
non irritata verso di lui. Ed anche lui, in fondo, era solo curioso.
Una curiosità, l’uno per l’altra, scoperta dopo anni… quando si dice, un
mondo assurdo… si erano passati accanto per anni, e solo adesso erano curiosi
l’uno dell’altra.
Ma c’era una cosa che lo incuriosiva più di tutto… ora, in quell’istante,
che forse era il massimo della confidenza tra di loro ed in cui doveva
sembrargli Helena più di tutte le altre volte, Hermione non le assomigliava
affatto. Le gambe ancora piegate, il mento poggiato sulle ginocchia, gli occhi
rossi ma asciutti, i capelli spettinati ed agitati dal vento… non le somigliava
più. Ma era soprattutto l’atteggiamento, ora, a renderle diverse.
Helena avrebbe pianto, se la sarebbe presa con lui, probabilmente se ne
sarebbe andata via.
Hermione non piangeva, era stranamente gentile, non accennava a muoversi di
un passo.
Cercò di cancellare quei pensieri, tornando a concentrarsi su di lei,
aggiungendo in tono noncurante: “Nel suo caso, si dovrebbe parlare di
omissione, non di bugia vera e propria…”. Gli era venuto anche di difendere
Potter, incredibile… ma ovvio.
In fondo, era davvero difficile avere a che fare con una donna del genere,
diamine… come la si faceva a guardare in faccia, con quegli occhi indagatori
che aveva, e dirle la verità?
Si riscosse, però, da quel pensiero, Potter era pur sempre il suo migliore
amico. Era un suo compito. Inoltre dubitava anche che fosse stata solo una
dimenticanza, anzi… sicuramente non glielo aveva detto, perché era utile averla
al suo servizio.
“Non pensavo davvero che non lo sapessi… ero convinto, insomma, che il Capo
degli Auror le sapesse queste cose…” aggiunse dopo un po’, la voce che si
piegava in un accento di scusa, prima che lo potesse impedire.
“Teoricamente sì…” rispose lei senza esitazione, sollevando il mento e
raddrizzando la schiena “Ma Harry mi ha spiegato che Scrimeogeor
ne ha combinate molte per mettere tutto a tacere. Nessuno ne ha mai parlato,
nonostante alla fine della guerra di cose simili ne venivano fuori ogni giorno.
Abusi di potere, violenze, razzie. Ma mai sugli Auror… soprattutto per quanto
riguardava loro, il Ministro fu molto prudente. Seppellì ogni cosa, voleva che
la gente avesse fiducia negli Auror e nella loro rettitudine. Una cosa del
genere avrebbe tolto anche questo alla gente, anche quella residua fiducia.
Quando Harry l’ha scoperto, ha deciso che sarebbe stato meglio lasciare le cose
com’erano per evitare ulteriori scandali… ormai era passato del tempo ed alla
fine Harry la pensava come Scrimeogeor. Mi ha detto
che c’era la guerra e, se dovessimo condannare ogni persona per ogni tipo di
crimine, bè non la finiremmo più… tutti sanno che gli Auror hanno ucciso i
tuoi, non è accusare qualcun altro, questo ha detto… e ha aggiunto che non è
propriamente utile in questo momento che tutti sappiano come li hanno uccisi…
quindi, gli Auror sono rimasti al loro posto e nessuno ha più parlato di questa
storia. Quando sono subentrata io nella carica di Capo degli Auror, hanno
logicamente supposto che non sarei stata d’accordo con la decisione del
Ministero, quindi non mi hanno detto nulla in modo da impedire che creassi
problemi o avessi remore verso i responsabili…”.
“E’ quello che avresti fatto?” le chiese, senza nemmeno accorgersene, le
parole che fluirono veloci, mentre si voltava verso di lei, puntando gli occhi
nei suoi. Nel buio che li circondava, non riusciva a distinguere nettamente i
particolari del suo viso, quelli che, per tante ore, aveva scrutato alla
ricerca di quelli di Helena. Ma, ora più che mai, non sembrava Helena, ed
ancora si chiese quando e perché gli sembrasse lei. La Granger aveva gli occhi
lucidi, spalancati, ma colmi delle solite luci che risplendevano come lucciole
impazzite. Il solito sguardo da Granger, simile a quello di una bambina
curiosa, che a volte inteneriva, a volte innervosiva, sempre faceva sentire a
disagio, perché sembrava che stesse sempre alla ricerca del particolare che le
sfuggiva, il pezzo che non tornava. Era lo sguardo di una maestrina, che
impartisce le lezioni… ma adesso stranamente era più soffice, più lieve, mentre
sembrava quasi arrossire. Era lui, forse, che la stava mettendo a disagio,
adesso, guardandola.
Ma, come sempre, lei non l’avrebbe mai ammesso, infatti si limitò a
deglutire, ma restò con gli occhi fissi nei suoi, come se cercasse di
trasmettergli qualcosa, al di là delle sue parole.
Sussurrò serissima, le labbra rosse si aprirono appena: “Non sarei nemmeno
diventata un’Auror, se avessi saputo una cosa del genere…”.
“Non è vero…” le rispose d’istinto, distogliendo di nuovo lo sguardo da
lei. Non le credeva… non fino a quel punto. Stava mentendo, era sempre stata
brava con le frasi d’effetto. Era nata per fare l’Auror e non poteva essere
così idiota da non farlo solo per un episodio. Stava esagerando… ovvio.
Evidentemente era in vena di spararle grosse, in modo che lui si fidasse di
lei.
Era il mondo nuovo, d’accordo, ma non era ancora arrivato il tempo della
fantascienza. Non la odiava più, d’accordo, poteva stimarla, va bene… arriviamo
anche che le faceva tenerezza, al pari di Serenity… ma da qui, alla fiducia, ne
correva di acqua sotto i ponti… e soprattutto ne correvano di parole non così
assurde come quelle.
Ma lei non si arrese, figuriamoci, non si arrendeva mai. Le ritornò la
cadenza autoritaria consueta: “E’ verissimo, invece…ho deciso di essere un’Auror
per impedire che tutto quello che avevo passato durante la Guerra capitasse a
qualcun altro… volevo disperatamente che tutto quello che Voldemort e i
Mangiamorte hanno fatto, fosse solamente un ricordo. Se un Auror è capace di
fare cose del genere, se è tenuto al suo posto perché in fondo non ha fatto
niente di così grave, se tutti hanno pensato che si poteva chiudere un occhio,
se persino Harry ha concluso che a creare problemi potevo essere solamente io e
non tutti gli altri… bè, allora vuol dire che non era decisamente la mia
strada…”.
Ingenua, stupida dannata ingenua… ti faranno a pezzi, un giorno o l’altro…
Loro ti avrebbero fatto a pezzi… sai, quante volte ho raccontato a mio
padre di quello che mi facevi passare a scuola? Sai quanto avrebbe voluto ucciderti
lui? Sai quanto avrebbe riso, se ti avessero catturato?
Avresti avuto lo stesso destino di mia madre, idiota… anzi peggio… perché
sei ancora giovane… e sei anche carina, Granger… ti avrebbero violentato fino
alla pazzia… cresci, dannazione, prima che ti facciano a pezzi…
“Anche se hanno ucciso due persone che, se ne avessero avuto la
possibilità, ti avrebbero fatto fuori senza tanti complimenti?” replicò
arrogante, guardandola ancora.
Avrebbe voluto prenderla a schiaffi, per farle entrare quei concetti
basilari nella testa, spiegandole che non era compito suo salvare il mondo, ma
cercò di calmarsi e di far filtrare via quel nervosismo, che lei gli metteva
addosso.
In fondo, non era la sua balia.
“Soprattutto in quel caso…” mormorò lei, abbassando lo sguardo “Volevo
dimostrare che non sono come loro… ed invece alla fine non c’è nessuna
differenza… uccidere una persona fa parte del pacchetto. E sembra quasi che non
ci si possa tirare indietro, nemmeno volendolo… quindi, se è così, è chiaro che
non è più quello che posso fare… non voglio uccidere nessuno, né ora né mai…
chiunque egli sia…”.
La ferita c’era, nell’anima, fresca. Era solo lei che non la dava a vedere…
ma non significava che non ci fosse.
Che uno non mostri le ferite… non significa che non le subisca.
Hermione Granger, forse, veniva anche ferita più volte delle persone
comuni, visto com’era fatta… sempre a difendere valori, in cui non credeva più
nessuno… ma non lo dava mai a vedere.
“E adesso? Che cosa farai?” le chiese lui, ancora, tornando a guardarla in
viso. Ancora curioso.
La vide inarcare un sopracciglio, mentre lo guardava con espressione
assolutamente sconvolta: “Ma stai bene, Malfoy? Non è che hai contratto qualche
rarissima malattia infettiva? Ti stai davvero interessando a che cosa ho
intenzione di fare?”.
Ecco, accidenti alla curiosità… se la doveva segare quella lingua…
“Non mi sto assolutamente interessando a te, Granger…” aggiunse calmo e
freddo, incrociando le braccia e distogliendo ancora lo sguardo da lei “Mi sto
interessando alla mia cameriera, non ad altro… e alla mia salute, se Seth
dovesse scoprire che ti ho licenziato di nuovo…”. Già, soprattutto alla sua
salute… tra l’emicrania post Astoria che inveiva perché lei lavorava ancora
qui, e quella post Seth che uggiolava perché lei non lavorava più qui… era
peggio la seconda.
Almeno Astoria la poteva far tacere, minacciando davvero di rompere la
Promissio Gemina… con Seth non aveva armi di ricatto.
“Vuol dire che lavoro ancora qui?” chiese lei meravigliata, spalancando gli
occhi, avvicinandosi quasi a lui, come se non credesse alle sue orecchie “Ma
non avevi detto che…”.
“Ricordo perfettamente che cosa ho detto…” la interruppe lui, velocemente.
Ovvio, non si poteva accontentare di quattro parole in croce, bisognava ricordare
che l’aveva licenziata… e mettere il dito nella piaga sul senso di colpa di
averle rovinato la carriera da aspirante omicida... lei però non aggiunse altro
e le fu quasi grato per questo. Quasi, ovviamente. Ci mancava esserle grato,
oggi.
“Almeno per il momento, la decisione è sospesa, Granger… è solo per il
party, sia chiaro… è tra pochi giorni e non farei mai in tempo a trovare
un’altra cameriera, ammesso che Seth non mi ammazzi prima…” aggiunse risoluto e
deciso a chiudere immediatamente quella conversazione imbarazzante.
“Non avevo pensato a nulla di diverso da questo” sorrise lievemente,
guardandolo.
… la ferita è ancora lì… ma almeno sorride, di nuovo.
“Ecco, appunto…” trattenne tutto sé stesso, per non sorriderle in risposta.
Che diamine, si stava rincretinendo del tutto, se si metteva anche a
sorriderle… qualcosa filtrò sul suo viso, ma si affrettò ad alzarsi e a
voltarsi prima che se ne accorgesse.
Ispirazione improvvisa… sorrideva, certo, ma in modo più debole. La ferita
c’era, che non la mostrasse non significava nulla.
Non voleva essere stato lui ad infliggerla… avrebbe dovuto pensarci Potter,
non lui. Ancora.
“E comunque, Granger…” aggiunse di spalle, poco certo di voler vedere che
cosa avrebbero riflesso i suoi occhi. Al suo cenno d’assenso, proseguì:“Ero davvero convinto che tu lo sapessi…”.
“Non importa…” sussurrò lei, in un
flebile sospiro gemello del suo.
“Smetterai di essere un’Auror?”. Dannata curiosità idiota.
“Non lo so… in fondo, ho due anni per decidere… la condanna finirà allora…
finalmente qualcosa di positivo in questa storia…”.
“Fai come vuoi, sei libera di farlo, ma…” esitò, non voleva dire più nulla,
ma non poté impedirlo a sé stesso, inspirò profondamente: “… ma non farlo per
questa storia… non se lo meritano…”.
L’avrebbero fatta a pezzi, se avessero potuto. Cresci, dannazione, Granger.
“Sarò io a giudicarlo questo, Malfoy…” replicò fredda “So solamente una
cosa… se dovessi tornare, non avrò pace finché non avrò gettato ad Azkaban i
responsabili della fine dei tuoi… e questa è una promessa…”.
Non sapeva che farsene delle sue promesse. Specie di quella, poi.
“Non è necessario…” le disse, voltandosi nella sua direzione, sibilando
gelido come il vento che gli scompiglia i capelli biondi: “A me non interessa
che siano morti, non mi interessa come sia successo, né chi sia stato a farli
fuori… meritavano quello che gli è successo ed è giusto che sia finita così…
non me ne frega nulla di questa storia… e tu non mi devi niente… come non mi
doveva nulla il Ministero… ho accettato quello che mi stavano dando perché mi
conveniva, non per altro… non voglio essere risarcito per qualcosa che forse
avrei finito per fare io stesso se le cose fossero andate avanti… e comunque
non voglio essere in debito con nessuno, tantomeno con te… spero che questo sia
chiaro…”.
“Cristallino, Malfoy…” ribadì a sua volta, guardandolo dal basso, ma con
uno sguardo da far dubitare che fosse ancora seduta “Con una sola obiezione…
anche a me non interessa nulla, ma di quello che potrai dirne tu… lo farò per
me, non per te. Tu non mi dovrai nulla, mai… perché lo farò soltanto per me e
per quello che dovrebbero essere gli Auror… non per te. Questo, scordatelo,
Malfoy…”.
“Fai come ti pare…” le rispose acido, prima di voltarsi. Figuriamoci, fa
sempre come gli pare…
Sparì, chiudendosi la porta alle spalle, sospirando per la fine di
quell’estenuante conversazione. Era assurdo tutto quello che era successo…
l’aveva trattenuta di nuovo lì… e nemmeno con la certezza, dopo quella sera,
che lei somigliasse effettivamente ad Helena. Quella sera, non l’aveva più
rivista in lei. Era peggio dell’enigma della Sfinge, accidenti a lei.
Solo a letto, si concesse il lusso di un nuovo sorriso, ripensando a quella
situazione.
Afferrò il cellulare, scorse l’ultima chiamata, quella che aveva rotto il
silenzio perfetto di un pomeriggio sonnacchioso, avendo l’effetto di
sconquassarlo fino alle ossa. Spinse il tasto verde, attese in linea, prese
fiato quando qualcuno rispose.
Poche, pochissime parole, pronunciate con voce affrettata e tagliente.
Senza nemmeno una presentazione, un saluto.
“… la Granger è qui, Potter… ma ci resta…”.
Ed ecco qua, il nuovo
capitoletto!! E premetto che come sempre è stato un parto plurigemellare!! Il motivo
è chiaro, è passato tantissimo tempo dal mio ultimo aggiornamento… ma a parte i
soliti problemi di ispirazione e di immedesimazione in Draco, cosa che mi
riesce sempre difficile dato che non voglio trasformarlo in un personaggio
melenso, ho avuto anche alcuni casini fastidiosi che mi hanno impedito di
scrivere… oltre che lo studio…! Lasciamo perdere, và…J
ma adesso sono tornata con vostra gioia, spero…! Mi sono fermata qui nei
ricordi di Draco, per due motivi: il primo strettamente pratico, e che chi mi
segue su FB già conosce… c’era un altro ricordo da inserire, che io ho definito
“tenero” e che mi piace alquanto… ma purtroppo mi sta prendendo tempo ed è
passato davvero troppo dall’aggiornamento. Secondo motivo, più teorico: volevo
che il chappy finisse qui, concludendo la fase dell’odio
di Draco per Herm, mentre dal prossimo apriremo la
parentesi della progressiva amicizia, stima ed amore. Nell’ultimo ricordo,
infatti, ne ho messo le premesse, come vedete…J
Purtroppo i ricordi mi prenderanno ancora molto tempo, non ne posso tralasciare
molti e soprattutto devo rivedere che cosa ho scritto, ai tempi, dal punto di
vista di Hermione, per far collimare il tutto… e sono passati quasi 2 anni dal
primo capitolo! J Chiedo scusa se non
riesco ad inserire i ringraziamenti per le scorse recensioni, ma ho come sempre
il tempo contato, ma davvero ringrazio tutti coloro che mi seguono, sia che
recensiscano, sia che leggano solamente, sia che mi contattino su Fb, sia per altre vie, sia coloro che mi stanno aiutando a
rendere questa storia più bella di quanto già non sia… in particolar modo, mi
sento di ringraziare la mia cara Nadia che come sempre mi ha dato tanti
consigli per questo capitolo (oltre che ascoltarmi in decine di crisi
esistenziali diverse!) e Ophelia che con il suo affetto
è riuscita a tirarmi su in parecchie occasioni… grazie davvero!! Un enorme
bacio Cassie!:D
Questo capitolo
necessita di una premessa, che spero leggerete tutti. Credo che sia un passo
obbligato, considerando che l’aggiornamento arriva dopo più di cinque mesi.
Non posso dire
di non aver aggiornato per mia pigrizia, o per mia mancanza di tempo, anche se
sicuramente lo studio, gli esami e quant’altro hanno influito. E sicuramente,
come molte altre volte, ho avuto delle crisi d’ispirazione tali da bloccare il
mio lavoro, ed infatti leggendo forse noterete che c’è qualcosa di particolare
che non ne era previsto e di cui ho dato conto via Fb
e che ora non riprendo per non spoilerare troppo…J . Credo di non
aver aggiornato per la profonda mancanza di stimoli che mi ha causato il
ricevere pochissime recensioni nello scorso capitolo, a fronte di un numero di
visite sempre molto alto . 8 recensioni (di cui alcune negli ultimi tempi)
contro 1528 visite. Ora ovviamente so che molte di queste visite non sono
veritiere, nel senso che basta aprire il capitolo per far scattare il
contatore, ma comunque il numero è molto alto, considerando che questa storia
ha comunque 176 preferiti e ben 274 seguiti. Ora è chiaro che io non pretendo
commenti da tutti, ad ogni capitolo, e specie da persone meravigliose che mi
fanno sempre sapere il loro punto di vista anche per altra via. Ma queste sono
cose che non fanno molto piacere. Sarò dura, ma io non nessun dovere di
pubblicare questa storia, potrei benissimo continuare a scriverla e mandarla
via mail a coloro che mi seguono. Sarebbe semplicissimo no? E so perfettamente
di essere magari impopolare o ripetitiva con questo discorso, ma per pseudo
autrici come me che comunque non hanno moltissima fiducia nelle proprie
capacità e credono sempre di non essere all’altezza, questa è stata una bella
botta. E ripeto, non mi sono mai lamentata, quando le recensioni erano una
quindicina, perché non credo nemmeno di meritare duecento recensioni a
capitolo, ma credo che questo discorso fosse comunque doveroso, perché la
recensione può anche servire a dire che la storia sta prendendo una piega
sgradita, io lo accetterei. Ed invece nulla.
Se sono stata
convinta non solo a pubblicare, ma anche a continuare questa storia, lo devo
all’entusiasmo di alcune ragazze straordinarie, che davvero mi hanno riempito
il cuore. Ovviamente sapete che parlo di voi, Francesca, Turchese, Nadia, Ale
Stella, Sandra, Anna, Rosa e tantissime altre che adesso probabilmente e, con
somma colpa, sto dimenticando. Le prime due, in modo particolare, mi hanno
davvero incoraggiato tanto. Hanno creato un gruppo su FB su cui invito davvero
tutti, perché è meraviglioso, e si chiama Put a spell on her eyes (http://www.facebook.com/groups/209545025766521/)
e mi hanno sostenuto in ogni modo possibile ed immaginabile, dai consigli ai
disegni alla realizzazione di video; e al di là di questo, mi hanno fatto
sentire che la mia storia era arrivata a qualcuno, che avevo trasmesso qualcosa
e che non avevo mai smesso di farlo. Davvero, sono stata fortunata a trovare
persone come loro… ed è per loro che questa storia è ancora qui, in piedi.
Certo, può
darsi che ora dopo tanti mesi, la mia storia non sia nemmeno più seguita come
prima, oppure non piaccia più. E lo accetterò, tranquillamente. Ma se la
situazione dell’ultima volta dovesse ripresentarsi, chiaro che sicuramente
potrei reagire in qualsiasi modo. La mia non vuole essere una minaccia, ma una
constatazione.
So che è un
problema segnalato tantissime volte su EFP, e so anche che forse non c’è
soluzione. Ma non dirlo, non sarebbe stato da me, come ho già detto altre
volte.
Detto questo,
ringrazio come sempre coloro che hanno recensito, che mi hanno fatto sapere il
loro parere su FB e in altre maniere, grazie davvero.
Vi lascio alla
lettura del capitolo, con un breve riassunto, nel caso vi foste persi qualcosa!
Draco ed Hermione
sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli
assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi, dopo aver compreso il
legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello
Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il
pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass,
che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy
Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza
riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di
lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione
a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor
Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo
per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per
farlo, le sta facendo vedere i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse
accaduto qualcosa a Draco stesso. Nella parte iniziale, come sempre, c’è un
pezzettino del futuro lontano cinque anni che sta vivendo Hermione: dopo aver
ricevuto una lettera, Hermione torna a Londra dopo cinque anni, intenzionata a
trovare Draco con il figlio Alex.
E in questo
capitolo, sta parlando con qualcuno…
Capitolo 32 – Love song requiem
step three
“Sei cambiata… non che non lo immaginassi,
ma… insomma… anche esteticamente… vederti è tutto un altro paio di maniche…”.
“Bè, ci sta… sono passati cinque anni, in
fondo…”.
“Non credo che sia per quello…”.
“Lo so, d’altronde portavo la stessa
acconciatura da quando avevo diciotto anni… ma all’asilo, sai, quelle mamme
tutte agghindate… mi facevano sentire a disagio…”.
“Un tempo, non ci avresti dato peso…”.
“So anche questo… ma fare
contemporaneamente la mamma e il papà, cambia molto della tua prospettiva…”.
“E Ronald?”.
“Troppo permissivo, non credo che sia nato
per questo… se doveva negare una cosa ad Alex, lo spediva difilato da me… non
che volessi il contrario, insomma. Credo di aver sottolineato in ogni modo
conosciuto che doveva comportarsi da amico, da zio, da qualsiasi cosa, tranne
che da suo padre…”.
“Sei stata dura…”.
“Sono stata giusta… e visto com’è
andata a finire, potresti darmi torto?”.
“No, onestamente no”.
“Questi anni sono stati una specie di
prova continua di resistenza… per me, certo. Ma soprattutto per lui, per Ron…
non lo ringrazierò mai abbastanza per aver accettato tutto questo, per proteggere
me ed Alex. Specie, sapendo che è figlio di Draco… lui non l’hai mai accettato,
credo che nel profondo di sé stesso, nonostante quanto Alex somigli a Draco,
non ci creda nemmeno. Se vi facevo accenno, lui rifiutava anche solo di
sentirne parlare, sai quante volte ho cercato di condividere con lui il dolore
per averlo perso? O ricordare cosa mi aveva unito a lui?”.
“Sei stata ingenua a pensare che potesse
comportarsi da amico con te, allora…”.
“Hai ragione, appena l’ho capito ho
smesso, mi sono tenuta tutto dentro… e va bene così… ma, anche se credo che la
sua segreta speranza fosse che Alex lo considerasse suo padre un giorno, in
modo da convincere anche me a considerarmi sua moglie, le cose non cambiano. Né
mai cambieranno. Sono stata vera, sono stata onesta. Sapeva che sarei tornata
da lui. Ci vuole più forza per fare questo che per rimanermene tranquilla in
Italia con lui… ci vuole una forza che nemmeno so se possiedo ancora, dopo
tanti anni passati a resistere. Ma lo devo ad Alex… e a me… nessuno credeva che
l’avrei fatto, ma lo sapevano tutti…”.
“Parli dei tuoi… o di Helder e Hayden?”.
“Di tutti… credo che a tutti avrebbe fatto
più piacere che fossi rimasta in Italia, con Ron… ovvio, vogliono che sia
felice, e li ringrazio per questo. Peccato che io non lo fossi, ero solo
sicura, non felice… e, tornando indietro, forse non mi sarei sottoposta a tutto
questo. Avrei protetto Alex in un altro modo… e sarei tornata da Draco, subito.
Perché io posso essere felice solo con lui… e il loro proteggermi è impedirgli
di farmi male ancora. Questo pensano, sono convinti che Draco mi manderà via,
se anche riuscissi a trovarlo… cosa che nemmeno io posso escludere
completamente, anzi. Molto probabilmente andrà davvero così… e se mi tratterà
sarà solo per Alex, quindi è chiaro che sperassero che andasse diversamente…”.
“Tutti, tranne me…”.
“Lo so… e ti ringrazio per questo…”.
“Che cosa farai adesso? Ho fatto tutto il
possibile… anche Kevin per quanto conti… sai, alla centrale… ma nulla… sono
anni che non lo vedo, da quella mattina che…”.
“Io lo troverò… in qualche modo, troverò
lui e Serenity… non potrei vivere sapendo di non averci nemmeno provato. Fosse
anche l’ultima volta che lo vedo, io devo trovarlo…”.
Un piccolo seme. Piccolo, minuscolo, fragile.
Timoroso, soprattutto.
Draco lo vede, lo scorge, mentre trova una culla
nei suoi pensieri, un incavo di friabili convinzioni e di volubili idee. È
piccolo, è fragile, ma, giorno dopo giorno, mette radici.
Mette foglie brillanti e verdi. Germoglia di
colori mai visti. Fruttifica.
Giorno per giorno.
Quando Draco, per la settima volta in circa dieci minuti, si ritrovò a
leggere la stessa riga dell’estratto conto mensile delle spese del locale, capì
che c’era decisamente qualcosa che non andava. Alzò gli occhi al cielo,
sospirando, togliendosi gli occhiali dalla montatura di metallo che usava per
leggere, e poggiandoli sul bancone nel cono di luce della lampada verde che
illuminava le carte. Si passò pensosamente un dito sul mento, cercando di
recuperare il filo dei suoi conti, ma un nuovo urlo proveniente dalle cucine,
lo fece desistere completamente dal suo malsano proposito di controllare
l’economia del locale. Guardò l’orologio, le undici e trentacinque… se fosse
stata una serata normale, a quell’ora ci sarebbe stata gente che andava avanti
ed indietro, cibi e bevande portati in processione, con somma gioia delle sue
tasche. Ed invece no… i babbani dovevano inventare una cosa chiamata Champions
League, attinente ad un’altra cosa infernale, chiamata volgarmente calcio… e
quindi, dato che c’era una partita importante, tutti erano rimasti a casa o si
erano attrezzati per andare a vedere il match in un altro locale, non come il
suo, che rifiutava categoricamente di proiettare le partite di calcio.
L’ultima volta che si era azzardato a fare una cosa del genere ci aveva
rimesso, oltre che un buon quarto del suo autocontrollo a non usare la magia e
a restare il penitente Draco Malfoy sotto mentite spoglie non magiche, anche
cinque sedie ed un tavolino, dato che ad Ashley Cole era venuto in mente di
arpionare con un calcio volante Steven Gerrard, che aveva praticamente già segnato.
Non che i maghi fossero da meno… le ricordava ancora le partite di Quidditch, viste con Blaise e
Theodore. Là volavano Schiantesimi da far impallidire
persino l’algido Piton.
Quel ricordo, ora così lontano gli fece stringere il cuore per un momento,
ma poi intervenne un altro urlo sovraumano dalle cucine che ebbe, perlomeno, il
positivo effetto di distrarlo da quel pensiero. Le spalle afflosciate, decise
di alzarsi alla fine, per rendersi conto di che diamine stesse succedendo
ancora. Non che non lo immaginasse… la colpa era la sua, certe cose uno se le
doveva anche aspettare.
April aveva un esame l’indomani, ed aveva chiesto di poter fare solo il turno
mattutino. Gail aveva biascicato qualcosa sul trigono di Giove con Orione, ed
era fluttuata fuori qualche minuto prima. Lorna e Corinne, ovviamente, avevano
inventato una serie di balle spaziali per non lavare i piatti. Lawrence, da
clausola contrattuale, non aveva l’obbligo di lavare i piatti, Trey idem. Non
era nemmeno venuto quella sera, dato che la discoteca era chiusa. Con somma
pace delle sue orecchie, anche Astoria non c’era. Doveva incontrare quella che
prendeva il suo posto a casa sua per darle la solita scorta settimanale di
capelli per la Pozione Polisucco, cosa che durava
tendenzialmente tutta la serata visto le lagne che faceva per strapparseli.
Ergo, gli unici due rimasti è che potevano urlare in quel modo, nelle
cucine, erano ovviamente la Granger e Seth.
Si sporse, sospirando oltre la soglia, guardando all’interno. Immersi tra
pile di pentole e nuvole di schiuma, mentre davano le spalle alla porta, Seth
ed Hermione non si resero conto della sua presenza.
Lei era intenta a lavare i piatti, un paio di guanti azzurri di gomma che
le arrivavano quasi al gomito, i capelli raccolti e tenuti goffamente assieme
con l’ausilio di una matita a mo’ di fermaglio, da cui cascavano delle ciocche
che lei continuava a spostare con fastidio, inarcandosi come un gatto dato che
aveva le mani bagnate. Era una serata calda e nelle cucine faceva ancora più
caldo, quindi si era tolta la divisa da cameriera per il solito paio di shorts
neri e la maglia da calcio rossa, che, a dispetto di quello che diceva, aveva quasi
adottato. Come sempre, era scalza: le ballerine nere di velluto che indossava
durante il turno, erano in un angolo, ma evidentemente doveva ancora perso le
ciabatte.
Seth era alla sua sinistra, anche lui immerso nel lavabo, mentre brandiva
pericolosamente il tubo dell’acqua per risciacquare le pentole, lavate da
Hermione. Pericolosamente, perché lo agitava come un’arma nella foga della
conversazione con l’amica, schizzando dappertutto e provocando le urla di
Hermione che Draco aveva sentito da fuori. Seth era ancora vestito di tutto
punto, come poco prima, troppo preso dalla conversazione per rendersi conto di
avere la camicia di Armani a cui tanto teneva, zuppa fino al gomito. Senza
contare la macchia di schiuma sui jeans neri.
Draco alzò gli occhi al cielo per l’ennesima volta, dire che quei due
avessero legato era un pallido eufemismo… come facessero ad andare d’accordo
due persone così diverse, era un autentico mistero. Draco poteva azzardare che
fossero semplicemente complementari: la Granger così realistica, cinica e poco
dedita alle pratiche femminili, che invece affascinavano il sognatore e vanesio
Seth.
“Punto primo, uno così perfetto non può esistere! È insano, malato e
fuorviante dare un messaggio simile alle ragazzine! E a te, per quello che
conta, visto quanto sei ingenuo, Seth!” stava sostenendo la Granger, ad ogni
parola il suo volto si faceva più rosso, specie ai tentativi di Seth di
prendere la parola “Punto secondo, lei è un’idiota! Diamine, cade anche in una
buca larga ottocento chilometri e visibile dallo spazio! Ma è ovvio, altrimenti
quel tomo non si sarebbe mai interessato a lei se non fosse così imbranata da
necessitare della scorta anche per andare in bagno!”, la Granger proseguì senza
nemmeno prendere fiato, sbuffando all’ennesima ciocca di capelli che le era
caduta sulla schiena “Punto terzo, è una saga profondamente anti femminista!
Lei fa sempre tutto quello che dice lui, parola per parola, e non si
ribella mai…!.Per non parlare di quando lui la abbandona. Cade in una depressione
non umana!”. All’ennesimo tentativo di Seth di interromperla, assunse un
cipiglio severo, inarcando un sopracciglio, prima di replicare: “E punto
quarto, e per pietà non aggiungo altri duecento motivi di biasimo, un amore del
genere non è amore… e basta…”.
La sua voce, su quelle ultime parole, aveva assunto un colorito più tenue,
soffuso, quasi triste. Draco, ancora seminascosto dietro la porta a spinta, la
vide distintamente serrare le spalle, quasi in una contrazione involontaria.
Tacque per qualche istante il rumore anche delle stoviglie e dei gorgheggi
d’acqua, e il suo viso si chinò leggermente, mentre probabilmente fissava senza
vederlo realmente, il lavabo ancora ingombro di piatti sporchi. Seth si voltò
repentinamente verso di lei, guardandola preoccupato. Doveva aver capito che
cosa le fosse passato per la mente, perché le posò una mano sulla spalla e
sussurrò: “Herm, tutto ok?”.
Lei, come se fosse stata attraversata da una scarica elettrica, inarcò la
schiena, tornando dritta, come se fosse stata colta in una colpa capitale. Non
era l’espressione di Helena, quella della bambina colta con le mani nella
marmellata, che lui adorava tanto… no, era un’espressione completamente
diversa. Helena, quando era colta in fallo, semplicemente sorrideva teneramente,
piegando la testa di lato.
La Granger, no. Mai. Sbarrava gli occhi, serrava le spalle, contraeva le
dita, come se fosse terrorizzata. Ecco, come terrore puro… di rivelare qualcosa
di troppo segreto.
Forse, di rivelare che anche lei fosse fallibile come ogni persona. Era
semplicemente terrorizzata che qualcuno capisse che non era perfetta.
Draco sospirò tra sé e sé, più conosceva Hermione Granger, più studiava le
sue espressioni, e più esse diventavano dissimili da quelle di Helena. Di primo
acchito, infatti, ancora le avrebbe potute confondere, ma stava diventando
sempre più difficile. Si assomigliavano ancora come due sorelle, ma lentamente
l’incanto stava svanendo. Era facile, prima, fraintendere le espressioni della
Granger. Per esempio, lei abbassava lo sguardo e lui ripensava ai momenti di
tristezza di Helena.
Ma Hermione era come un foglio di carta in controluce. Dietro, si vedeva
che cosa pensava davvero. E la maggior parte delle sue preoccupazioni, dei suoi
pensieri, non avevano nulla in comune con quelli di Helena.
E conoscerli, intuirli, faceva sì che la vedesse diversa.
Gli era rimasto solo il sonno della ragazza, quando non era cosciente. Era
il solo momento in cui riusciva ad ingannarsi, le palpebre di lei chiuse su
quegli occhi scuri, follia di domande che affastellavano la sua mente.
“Comunque tu, Twilight, stasera non lo vedi! Non nel mio spazio vitale,
almeno… che comprende una superficie di almeno quindici chilometri quadrati…”
esplose alla fine lei, la voce più stridula del solito. Cambiava discorso,
evidente. Le spalle si erano aperte di botto nel suo solito contegno quasi
militaresco, Draco si sorprese di come aveva preso ad annotare e riconoscere
tutte quelle cose di Hermione, senza nemmeno rendersene conto.
Seth iniziò ad uggiolare, implorandola, dando vita ad una serie di strepiti
intensificati dalla voce di lei, che continuava a perorare la sua causa con la
tenacia di un avvocato.
“Stasera nessuno vede niente di niente…” Draco, alla fine, uscì allo
scoperto, pensando che solo la sua presenza avrebbe fatto terminare le
lamentele di Seth, cosa che infatti accadde quasi immediatamente, mentre
l’amico si voltava a guardarlo sorridendo, con il solito sguardo dolce e
mieloso. Al suono della sua voce, anche la Granger si era voltata su sé stessa,
guardandolo per qualche secondo, mentre un ulteriore ciocca di capelli sfuggiva
dalla presa della sua acconciatura, sfiorandole una guancia. Non appena mise
completamente a fuoco che si trattava di lui, Hermione abbassò gli occhi imbarazzata,
restando a testa bassa.
Draco sospirò leggermente, quella era una novità degli ultimi giorni. Da
quando le aveva detto dei suoi e lei si era scoperta assolutamente ignara delle
trame che avvenivano alle sue spalle, Hermione era sempre timorosa di guardarlo
negli occhi, abbassava il mento che prima soleva sollevare ad ogni piè
sospinto, nel cipiglio orgoglioso che le era tipico. Ora, si vergognava quasi
di guardarlo.
Anzi… togliamo il quasi… Hermione Granger, la Regina del Bene, si
vergognava davvero di guardarlo. Si vergognava di sé stessa. Come sempre, aveva
preso sulle sue spalle sottili e magre colpe non sue, le stesse colpe che, da
quella sera su quella terrazza, lui le aveva definitivamente tolto,
assolvendola. Era innocente anche per Draco, come era sempre stata per chiunque
altro.
Ma Hermione Granger, agli occhi del suo implacabile tribunale interiore,
era colpevole e meritevole di una pena esemplare. La immaginava tormentarsi
nelle notti insonni, chiedendosi cosa avrebbe potuto fare per impedire quello
che gli era accaduto, oppure mentre si chiedeva se avrebbe potuto sapere
qualcosa di più, di fronte al silenzio omertoso del Ministro.
In attesa del supplizio e della redenzione, tingeva le guance di un rossore
inquieto, serrava le parole in gola, taceva gli occhi del bagliore fiero che
aveva sempre.
A Draco venne curiosamente da sorridere. Non da ridere, non di lei… solo da
sorridere. Ne soppesò la figura per qualche istante, trovandola ormai
curiosamente familiare, in quella cucina, con quell’abbigliamento comodo,
persino in quella posa che la faceva apparire più piccola, mentre restava scalza
sul pavimento della cucina e tormentava il labbro inferiore con i denti. Dopo i
primi giorni di spaesamento, quando, emergendo dai suoi pensieri, la vedeva
davanti ai suoi occhi e doveva fare uno sforzo immane per non chiederle che
cosa diamine ci facesse ancora lì, ora era naturale vederla lì. Naturale, già.
Con una semplicità che disarmava, Hermione Granger era diventata una presenza
naturale attorno a lui. La guardò ancora, lei che stringeva le spalle, quasi
incassandole dentro il petto, come a volersi rendere invisibile. La curvatura
delle labbra sottili di Draco fiorì sul suo viso, senza che lo avesse
premeditato.
Era bella.
Un tonfo nel petto, e si corresse automaticamente, senza traumi o
confusione.Non era lei che era bella:
era bella la sensazione di averla lì.
Poteva essere insopportabile come poche, ma Hermione aveva il dono di
illuminare e riscaldare l’aria attorno a sé. Lei non ne era minimamente
consapevole,anzi si stupiva non poco
nel rendersi conto che aveva un qualunque effetto sugli altri.
Hermione spingeva tutti a migliorare, perché scandagliava dentro le persone
e vedeva quello che loro non riuscivano a vedere… dove potevano arrivare, chi
potevano essere, cosa potevano conquistare. Iniettava fiducia, speranza,
coraggio.
In questo, non è che fosse dolce, beninteso: spesso era dura, perché odiava
la gente che sprecava sé stessa, il proprio tempo, le proprie doti. Diventava
quindi autoritaria, caparbia, orgogliosamente fiera e supponente.
Eppure, non c’era nessuno che non l’adorasse, come se tutti leggessero
dietro quell’apparente ruvidezza, il sentimento profondo che nutriva per chi
era oggetto di quelle attenzioni.
Seth e Serenity conoscevano un’allegria che Draco non li aveva mai visto
addosso, ed anche gli altri colleghi le volevano bene sinceramente. Solo
Astoria, ovviamente, non poteva sopportarla e chiedeva a Draco ogni giorno
perché la tenesse lì.
Lo scrutava alla ricerca del particolare che le sfuggisse, memore dei
celeberrimi litigi tra lui e la Granger, che avevano incontrato l’eternità tra
i ricordi degli studenti di Hogwarts.
Draco non le diceva del ritratto, ovviamente, Astoria non avrebbe capito. Dall’alto
della sua enorme superficialità ed egocentrismo, era convinta che lui non
amasse più sua sorella, che si fosse rassegnato e lui, per quieto vivere ed
inedia, glielo lasciava credere. Ma, del resto, non si sforzava di darle
nessun’altra spiegazione che non fosse un vago: “La Granger è un’ex Auror… è
per proteggere Serenity…”. Astoria alzava gli occhi al cielo, sbuffava, ma per
ora non controbatteva, aveva troppo da perdere per farlo, ma era cristallino
che la sua spiegazione si reggeva in piedi come un castello di sabbia. E se un
giorno Astoria, per puro coraggio o masochismo, avesse davvero fatto quella
domanda in più, che avrebbe risposto?
Non lo sapeva, Draco Malfoy non sapeva che rispondere alla domanda sul
reale motivo per cui tratteneva lì Hermione Granger. Parlava di un ritratto che
non sapeva nemmeno se poteva finire, per nascondersi la coscienza. E di questo
se ne rese conto compiutamente in quel momento, mentre guardava Hermione
incastrarsi perfettamente nelle sue abitudini e nella sua routine, con la calda
e soffice sensazione di essere parte del suo mondo, di quella piccola famiglia costruita
sull’argilla del dolore e sul limo delle menzogne.
Cosa li univa esattamente?
A volte, sembrava che lei agisse anche su di lui, come faceva con gli
altri. Come se lo spingesse a… essere migliore.
Allontanò questo pensiero con fastidio, quasi come fosse una mosca molesta,
agitando il capo con noncuranza. Figuriamoci, era solo per il ritratto. Non
c’era altro dietro.
E ci mancherebbe che, a volte, persino Hermione Granger non diventasse a
suo modo piacevole… in caso contrario, doveva essere davvero un errore divino
che fosse nata. Non poteva avere solo difetti, no?
Riprese a parlare più sereno, convinto dai suoi ragionamenti, ma non al
punto tale da non lasciarsi sfuggire un vigoroso sospiro mentre incrociava le
braccia: “C’è da chiudere cassa… e io devo stare con Serenity… quindi uno di
voi deve farlo, considerando anche che il vostro quieto e pacato interloquire
ha reso i miei neuroni una marmellata informe…”.
Draco terminò la frase con un silenzio eloquente, guardando i due che li
sostavano di fronte. Seth si dibatteva tra la voglia di assecondarlo e la noia
di doversi occupare delle scartoffie, mentre in Hermione passavano migliaia di
pensieri diversi.
Era facile leggerle dentro per lui, era facile in un modo quasi scontato.
Anzi, più che scontato… era… naturale, ecco. Ancora. “Naturale” era la parola
giusta.
Perché sembrava che lui, Draco Malfoy, fosse venuto al mondo provvisto del
manuale d’istruzioni di Hermione Jane Granger.
Tanti anni fa, una constatazione simile gli avrebbe provocato ribrezzo e
repulsione, poi ne avrebbe cercato un evidente tornaconto da sfruttare a suo
favore.
Ora, invece, nel celeberrimo mondo nuovo che fungeva da etichetta
consolatoria a tutto ciò che non aveva risposta, accoglieva quel fatto con
rassegnazione perché era un altro mattone che cementava quel legame
incomprensibile che li univa.
Per esempio, ora sapeva come se fosse ovvio, che Hermione stava pensando di
assecondarlo, ma solo per far piacere a Seth. Era visibile negli occhi nocciola
che saettavano da lui a Seth, ma ovviamente Draco sapeva di infastidirla con le
sue parole e con il suo tono di voce autoritario, quindi lei respirava forte un
paio di volte, inarcando le spalle. Eppure, Hermione non si sentiva in grado di
contraddirlo, visto che si sentiva ancora in difetto con lui, quindi l’istinto
da ribelle, che ben sopiva davanti alle regole ma che non per questo non
esisteva in lei, le sigillava sulle labbra parole cariche di livore e
frecciatine sarcastiche.
Draco, reprimendo ancora un sorriso, vedeva quelle parole astiose quasi
premere contro la sua gola, facendo pulsare la giugulare sotto la pelle candida
del collo rimasto scoperto.
Alla fine, mentre le si rilassavano le spalle, Draco capì ancora prima che
parlasse che lui aveva vinto. Dietro, però, quel sorriso di circostanza, sapeva
che la Regina dei Grifondoro aveva fatto vincere solol’affetto per Seth ed il rispetto del dovere.
Nemmeno nella sua mente (anzi, forse, soprattutto in essa) gliela avrebbe data
vinta in qualche modo. Accettò di chiudere lei cassa, a patto che, quando fosse
risalita, Seth l’avesse piantata con Twilight.
“La fine te la registri, chiaro?!” borbottò, uscendo dalla cucina e
sorpassando Draco in una lunga falcata nervosa, raggiungendo velocemente la
cassa. Draco si voltò un secondo dopo che lei gli passò davanti, seguendo senza
accorgersi la scia ramata dei suoi capelli disordinati. Aveva ancora lo stesso
odore tenero di quando era a scuola, profumo di vaniglia, come quello di una
bambina. Era la prima volta che si rendeva conto che era sempre lo stesso di
tanti anni fa.
Gli faceva tornare in mente tante cose quel profumo, si srotolavano giorni
e giorni davanti ai suoi occhi, sentendolo. Quando era a scuola, era come un
campanello d’allarme, gli sembrava di fiutare la Granger come un animaleda caccia.
Ovviamente non era cosciente di conoscerlo, ma lo avrebbe riconosciuto
subito. La percepiva immediatamente, quando era vicina.
Era sempre la stessa, negli anni lei non era mai cambiata. Era come una di
quelle montagne immutabili, che conoscono le stagioni come qualcosa di
capriccioso ed instabile, restando sempre identiche a sé stesse in modo fiero e
nobile.
Era… una roccia. Si chiedeva che cosa potesse spezzarla davvero.
Persino la scoperta dell’inganno ordito alle sue spalle da Potter, aveva
aperto delle crepe in lei, ma l’aveva lasciata in piedi.
Ci doveva essere qualcosa… ma cosa?
“Danny, che cosa c’è?” la voce di Seth lo raggiunse alle spalle, facendolo
sobbalzare. Seth seguì lo sguardo di Draco vedendolo puntato su Hermione che si
era appena seduta al bancone del ristorante, cercando di mettere ordine tra le
carte sparse. Il ragazzo moro gettò un’occhiata in tralice a Draco, sorridendo
appena, mentre lui si affrettava a replicare che stava andando di sopra. I suoi
passi conobbero una fretta che non aveva mai, mentre saliva le scale a due a
due.
Fremiti, tremori, sospiri, magoni… da quando c’era la Granger, conosceva
dimensioni del sentire umano che aveva dimenticato.
Si stese a letto, era un bene? No, non lo era. Non c’era nemmeno bisogno di
farsela quella domanda.
Non aveva bisogno di sentirsi vivo… aveva bisogno di esistere abbastanza da
prendersi cura di Serenity, controllare Astoria ed uccidere Pucey e Montague.
Chiuse gli occhi nella penombra crescente, non aveva bisogno di Hermione
Granger e della curiosità che gli metteva addosso. O dell’ansia di scappare
dalle stanze dove c’era lei. O del nervosismo che gli trasmetteva,
camminandogli vicino.
Non aveva bisogno di chiedersi che cosa avesse il potere di spezzarla, o di
accorgersi che il suo profumo era lo stesso di tanti anni fa, o di conoscere a
menadito le sue espressioni e i loro significati.
Non aveva bisogno di lei.
Si alzò da letto con un piccolo balzo, il passo che non ne voleva sapere di
tornare largo e disteso, sebbene fosse impercettibile la sollecitudine che
imprimeva i suoi movimenti in modo nuovo, febbrile, ansioso, mentre raggiungeva
Serenity. Cercò di saturarsi degli occhi della bambina, immergendosi nel
ricordo ceruleo di quelli di Helena, cercando di scavarsi quel colore nella
memoria, il pezzo del suo ritratto che non sarebbe mai potuto provenire dalla
Granger.
Serenity si addormentò, dopo aver mangiato, e Seth rientrò, accasciandosi
sul divano, e lui, a quel punto, sarebbe andato a letto, chiudendo gli occhi
sui suoi pensieri neri.
Avrebbe sognato alberi di Natale in fiamme, spiagge grigie dal mare spento,
rose dall’odore di ciliegia che gli marcivano tra le dita. E sarebbe andato
bene, perché era un modo di avere vicina Helena, nel rimpianto e nel rimorso
che non lo lasciavano mai.
Era un modo per continuare a punirsi della sua morte, ed andava bene così.
Invece, continuava a marciare per casa, senza sapere che cosa fare, né che
cosa dire, guardando l’orologio piegare le ore in minuti pigri e secondi
indolenti. Per converso, le vertebre, le ossa, persino la sua pelle, fremevano
di impazienza, di inquietudine e di una forma continua di cupa eccitazione, che
non gli facevano chiudere occhio. Non riusciva nemmeno a stare a letto disteso,
senza sentire l’improvviso impulso di alzarsi, come se fosse steso su un cumulo
di rovi ed ortiche.
Alle tre, quando oramai tutta la casa dormiva e Seth aveva finalmente
spento la tv, decise di andare di sotto per farsi una passeggiata. Già che
c’era, poteva controllare il locale, accertarsi che le luci fossero tutte
spente, cose così… impiegare il tempo.
E già mentre lo pensava, la sua mente considerava strana quell’occupazione.
Impiegare il tempo… non ne aveva mai avuto bisogno.
Il dolore e la noia del vivere erano una spugna che assorbiva tutto il
tempo, impregnandolo di lercio.
Pazzesco, aveva bisogno di impiegare il tempo… e di notte, poi… assurdo…
Scendendo le scale, intravide un bagliore rosato provenire dalla sala
ristorante. Il suo respiro si distese, trovando un ideale bersaglio a quel
fremito delle ossa che lo stava facendo impazzire. Poteva inveire contro lo
spreco di energia, tacciando qualche incauto dipendente di mancanza di riguardo
per le sue risorse finanziarie e per l’intera gestione del locale; avrebbe
borbottato un po’, risalendo le scale, magari avrebbe anche dato un calcio a
qualche sedia ed, infilandosi nelle coperte, avrebbe fatto sbollentare la
rabbia nell’aristocratica consapevolezza che non tutti potevano essere come
lui. Non tutti erano lui.
Il suo passo si gelò sull’ultimo gradino, mentre la sua mano si artigliava
al corrimano.
L’ansia inspiegabile si sedò come sotto l’effetto di un anestetico,
acquattandosi come un predatore nella boscaglia, mentre i suoi occhi,
acclimatandosi alla penombra, inquadravano l’unica zona luminosa della stanza.
Aveva i capelli color dell’oro rosso sotto quella luce, scivolavano
invisibili gocce di riflessi, mentre dormiva. Sembravano quasi attingere da una
fonte sotterranea e poi scrosciare liberi, percorrendone tutta la lunghezza.
Hermione si era addormentata con la testa china sul bancone, le braccia
incrociate come uno scomodo cuscino e le labbra semiaperte. Sulle spalle, aveva
messo una felpa stinta e consumata, forse perché aveva freddo, ma ora stava
scivolando di lato. Le palpebre chiuse fremevano leggermente ad ogni respiro,
che sembrava più frettoloso del solito.
Draco sospirò, sgradita calma nel petto, e fece qualche passo,
avvicinandosi di più a lei. Meditò sull’idea di salire di sopra e prendere
carta e matita, in modo da andare avanti con il suo lavoro sul ritratto di
Helena, ma non ne aveva voglia. Improvvisamente, quel tumulto interiore, per
cui avrebbe pagato milioni di galeoni pur di fare qualcosa, si era congelato in
una bonaccia priva di alcuna volizione o intenzione.
E poi, diamine… quella sera gli parve davvero assurdo cercare Helena in
Hermione Granger.
Assurdo, già, perché oramai il delicato filo rosso che le univa ai suoi
occhi, si stava disgregando come nulla, persino mentre le guardava dormire.
Helena dormiva del sonno di una creatura da fiaba, la immaginava ancora
così nel sonno della morte, anche se non l’aveva voluta vedere al suo funerale.
Impalpabile il respiro, immobile il viso, perfetta nella sua aurea serenità e
pace. Il giorno poteva portarle dolore, angoscia, senso di colpa, ma di notte
Helena rinasceva come un fiore dorato, cullandosi in una quiete che la faceva
somigliare ad una principessa addormentata, in un mondo che peccava se non si
addormentava assieme a lei.
Hermione, invece, era sempre agitata, anche quando dormiva. Raramente,
dormiva di filato per un’ora, la sentiva spesso svegliarsi ed andare in giro
per casa, a meno che non fosse stanchissima. I suoi sogni erano sempre pieni di
particolari che la facevano sobbalzare, spaventare e muovere con ansia. Spesso,
quando la ritraeva, si era dovuto allontanare di scatto, perché si stava
risvegliando di soprassalto. Aveva pochissimi attimi, in cui dormiva
tranquilla, e quindi assomigliava ad Helena.
E quella notte non era tra quelle tranquille.
La sentiva addirittura mormorare qualcosa, con voce quasi incrinata dal
pianto. Voce spezzata. Lei che si spezza. Qualcosa che la spezza.
Quel flusso di pensieri diedero impulso alle sue gambe di muoversi ancora,
fisso sulle sue labbra rosse che si aprivano e si chiudevano, sillabando con
dolore qualcosa. Qualcosa che si ripeteva, continuamente, e qualcosa che lui non
conosceva.
Qualcosa, che la stava lacerando dall’interno e che non aveva nulla a che
fare con lui. Già, perché quel qualcosa non sembrava avere a che fare con la
morte dei genitori di Draco e sull’inganno di Potter, che pure l’avevano tanto
prostrata.
Era qualcosa di diverso… e come sempre il manuale d’istruzioni di Hermione
Granger, tornò utile come non mai. Lo pronunciava con colpevole affezione, lo
ripeteva come qualcosa che conosceva bene, lo assaporava anche nel sonno come
un caldo conforto che racchiudeva in poche sillabe tutto un senso che Draco non
conosceva. Un senso che si era spezzato, tra le sue mani.
Scommetteva che fingesse che non fosse importante… ma nel sonno lo
rincorreva, chiedendosene il motivo.
Si sentiva un sonnambulo, camminava a
passi piccoli ed incerti, la distanza da lei sembrava allungarsi a dismisura.
Era come trascinarsi dietro una catena di domande, legate alla caviglia, che lo
rendevano più lento.
Tra quelle, primeggiava in pesantezza quella più ovvia: che cosa gli
interessava delle parole che Hermione Granger pronunciava nel sonno?
Quella constatazione fu provvidenziale, perché lo fermò un attimo prima che
Seth scendesse le scale, stropicciandosi gli occhi. Draco finse un’espressione
scocciata alla vista della ragazza addormentata, come qualsiasi datore di lavoro
che vede il suo dipendente dormicchiare sul posto di lavoro. La indicò con il
capo a Seth, alzando le sopracciglia con aria annoiata.
“La prossima cameriera che assumiamo, dovrà avere la particolare qualifica
di restare sveglia dopo mezzanotte…” commentò Seth con voce che voleva essere
sarcastica, ma uscì solo tenera, guardando Hermione “Ieri sera mi sono spaccato
la schiena a riportarla in camera… stasera ci pensi tu Danny?”. Draco, che era
profondamente perso nei suoi pensieri, sussultò: “E che, non può dormire qua?!
Peggio per lei che si è addormentata… oppure la sveglio e tanti saluti…”.
“Ti sconsiglio entrambe le cose…” sbadigliò Seth, salendo di sopra con
nonchalance “Domani sarebbe intrattabile… e ti giuro che non è bello che sia
intrattabile…”. Pronunciò le ultime parole con il giusto tono sospeso tra la
minaccia e la paura.
Gettando un’ultima occhiata divertita alle sue spalle, mentre fingeva un
improvviso colpo di sonno tale da non lasciarlo nemmeno finire il discorso, si
chiuse la porta alle sue spalle, gettandosi sul letto.
L’armadietto di Summer poteva sicuramente contenere almeno dieci delle sue
camicie di Armani, rifletté sogghignando prima di addormentarsi profondamente,
a bocca spalancata.
Draco imprecò tra sé e sé, mentre la porta della camera di Seth
chiudendosi, produceva un rumore sordo, amplificato dal silenzio della notte.
Passeggiò nervosamente avanti ed indietro per qualche minuto, misurando la
dimensione della stanza con i lunghi passi infastiditi, maledicendo nell’ordine
la letargia della Granger, la solerzia di Seth nel presentarsi sempre quando
non era il momento e, non da ultimo, il fatto che lui, Draco Malfoy, invece di
dormire della grossa, si fosse messo in testa di andarsene in giro a quell’ora.
Poteva lasciarla lì, eccome se poteva… Seth non era nessuno per dargli ordini.
E se ne era quasi persuaso, girandosi bruscamente su sé stesso e dando le
spalle alla ragazza ancora addormentata. Poi una voce estremamente molesta e
fastidiosa che, tanto per gradire, parlava esattamente come la Granger, gli
sibilò nella mente: “Hai forse timore di Hermione Granger, Draco? Continui a
scappare davanti a lei… che c’è? Temi anche lo sfiorarla adesso?”.
Ma certo che non temeva il toccare quella piccola sciocca… che se dormiva
in camera sua, come tutte le persone normali, avrebbe fatto meno danni. Anzi se
dormiva proprio in un altro Stato, ne faceva ancora meno… la vocina pigolò
ancora che lei era lì, perché lui aveva messo in piedi quella farsa del lavoro
da cameriera, quindi non era colpa della Granger, ma la mise a tacere con
stizza. La colpa era della Granger, a prescindere!
Dal nervosismo stava quasi per battere il piede per terra, in modo che lei
si svegliasse e risolvesse quell’incresciosa situazione, ma, rendendosi
improvvisamente conto del suo atteggiamento quantomeno infantile e recuperando
un po’ di autocontrollo, Draco sospirò lungamente come per darsi coraggio,
avvicinandosi rassegnato a lei e berciando con voce perentoria: “Granger, se ti
azzardi a svegliarti, giuro che ti do una botta in testa… ci manca anche che mi
veda…”.
Cercando di fare attenzione e sfruttando la flessuosità dei movimenti che
aveva appreso negli anni, Draco spostò cautamente Hermione, spingendole
indietro il busto contro lo schienale della sedia. Lei mugugnò un po’, ma
continuò a dormire con il capo inclinato mentre Draco la sollevava,
afferrandola per la vita e poi sotto le ginocchia. Accoccolata tra le sue
braccia, Hermione appoggiò il viso nell’incavo della spalla di Draco,
scambiandolo forse per un caldo cuscino.
Ancora augurandosi che lei non si svegliasse o che ad Astoria non fosse
venuto in mente di fargli una visitina notturna, salì le scale sempre con
Hermione in braccio, il respiro di lei che gli solleticava il collo,
procurandogli un brivido caldo lungo la schiena. Si sentiva circondato dal
profumo di lei come se ne fosse stordito, come se non fosse rimasta una sola
molecola d’aria che non ne fosse impregnata. Era leggerissima tra le sue
braccia, la ricordava più grassottella quando erano a scuola.
Invece solo ora si rese conto che era dimagrita molto, diventando
longilinea come una gazzella. Figuriamoci, conoscendola, era capace di saltare
anche il pranzo, se aveva delle cose da fare…
Ma che gliene importava?
Spingendo la porta con un piede, entrò nella sua camera, reggendola ancora
in braccio, la matita che le teneva buffamente assieme i capelli scivolò di
lato, liberandoli, mentre faceva quell’operazione. L’odore di vaniglia si fece
ancora più forte, mentre Draco cercava di ignorarlo. Finalmente, nella
penombra, intravide il suo letto e la appoggiò delicatamente su di esso,
facendo sempre attenzione che non si svegliasse. Hermione si accucciò in
posizione fetale, mettendo una mano sotto il cuscino e continuando beatamente a
dormire.
Ancora, gli venne da sorridere.
Stava diventando un riflesso condizionato, quando le era vicino, tipo una
paresi delle labbra che non smettevano di piegarsi quando incrociavano la
Granger.
Si sedette sul letto accanto ad Hermione, la scusa che si era stancato a
salire le scale con lei in braccio e voleva riprendere fiato. Il suo sguardo,
acclimatatosi alla semioscurità, si volse attorno alla ricerca di qualcosa che
nemmeno lui sapeva di stare cercando. Lei continuava a respirare tranquilla,
mentre lui esaminava la sua camera. Era più o meno come sempre, come quando era
vuota settimane prima ed Astoria la usava quando voleva dormire da lui.
La libreria d’acero bianco, il comodino con la lampada azzurra, l’armadio
con lo specchio dalla cornice dorata.
Unici segnali che lei ci fosse, che Hermione Granger davvero vivesse in
quella stanza, erano una valigia ingombra di vestiti ai piedi del letto, che
lei non aveva mai evidentemente disfatto, ed un libro sul comodino, con una
foto come segnalibro. Sembravano lei e la Weasley, ma non poteva dirlo con
certezza. Aveva fermato le sue dita, prima che corressero curiose a guardare
meglio anche quel particolare sciocco.
Era saturo dei particolari sciocchi di quella piccola sciocca.
Non aveva disfatto la valigia, perché voleva darsi l’impressione di essere
di passaggio. Allo stesso modo, non aveva personalizzato quella camera con
nulla di suo, così da non rendersi compiutamente conto che viveva lì sotto il
suo stesso tetto. Doveva essere per lei insopportabile, quando se ne rendeva
conto. Scommetteva che ignorava quel pensiero, ma quando esso tornava, nelle
mura di quella stanza, sotto quel soffitto, si sentiva soffocare dalla
dipendenza materiale che aveva maturato nei suoi confronti, in quanto suo
padrone di casa e datore di lavoro. Gettò un’occhiata distratta alla valigia
stessa, ingombra di felpe, jeans e t-shirt.
Il suo abbigliamento la rispecchiava pienamente, mai nulla di aderente, di
scollato, di vistoso. Colori chiari, tenui, che non dessero nell’occhio, così
da passare inosservata. Non aveva mai cercato di mettersi qualcosa di più
provocante, nemmeno quando erano a scuola e forse, ricordò con una punta di
disgusto, voleva fare colpo su Weasley.
Figuriamoci adesso… non credeva che stesse con qualcuno, ma era evidente
che non lo stava nemmeno cercando. Era dannatamente brava ad ingolfarsi in mise
comode e pratiche che facevano inorridire Seth.
Non conosceva nessuna donna che, in sua presenza, si fosse comportata come
lei.
Sapeva di non lasciare le donne indifferenti, era successo a scuola e
succedeva ancora oggi. April, Lorna, Corinne e persino Gail, nel momento in cui
sapevano che lui c’era, sfoggiavano sempre i loro look migliori, sbattevano
ciglia, dispensavano sorrisi.
Non c’era una che fosse fuori posto, quando sapeva di doverlo incontrare.
Ne aveva fatto quasi un motivo di vanto Draco Malfoy, perché almeno
venivano al lavoro in ordine. E una parte remota della sua mente registrava
anche che, ognuna di esse, sarebbe stata disponibile nei suoi confronti, in
senso prettamente carnale.
Cosa, al momento, poco rilevante, ma comunque esistente.
Invece, Hermione Granger era come sempre la dannata eccezione a tutte le
regole della sua vita.
Passava accanto a lui, sfoggiando fiera la sua maglietta da calcio o la sua
felpa azzurra, se non indossava la divisa da cameriera. Lasciava i capelli spesso
bagnati dopo la doccia, lasciandoli arricciare in piccole onde ribelli, senza
acconciarli in alcun modo particolare. Niente smalto, niente trucco, se non
quando era necessario, e questo non corrispondeva mai a quando lo incrociava.
Lesinava i suoi sorrisi, le sfumature calde dei suoi occhi e, anche se
adesso non lo guardava più con odio, certo non vedeva mai nei suoi occhi
qualcosa che potesse lasciar presagire un qualche effetto di lui su di lei.
Anzi, sembrava sempre contenta di essere ignorata da lui.
Strinse i pugni… quando, invece, lei, Hermione Granger era semplicemente
impossibile da ignorare.
Non riusciva mai ad ignorarla. Lo infastidiva, lo innervosiva, lo faceva
arrabbiare, o diventare scontroso… lo faceva pensare… fino ad arrivare a farlo
sentire in colpa, a farlo intenerire persino, ma non riusciva mai ad ignorarla.
Ad ignorarla, come lei, invece, sembrava fare con lui…
Ed ancora le cose si capovolgevano come sempre… ed era lui che notava cose
che non avrebbe voluto mai notare. Chiuse gli occhi nervosamente, lasciando
andare una riflessione a lungo repressa, ma oramai, anch’essa, impossibile da
ignorare.
Non aveva la bellezza di Helena o di Astoria, eppure, ora come ora, si
rendeva conto che non era mai stata così bella.
Era bella in modo buffo, distratto, nervoso, ma lo era davvero, era quel
qualcosa dentro, quella scintilla di speranza e bontà, nascosta sotto strati di
cinismo, a trasfigurarle il viso di una luce perfetta e pura, che nemmeno
Helena aveva mai avuto.
Perché Hermione era soprattutto certa di sé e di quello in cui credeva, e
il mondo si plasmava sotto i suoi occhi castani, come se fosse creta ai suoi
ordini.
L’aria stessa di quella casa era
cambiata, da tramontana fredda a scirocco tiepido, come se lo stesso respiro di
quelle stanze fosse diventato nuovo… come se fosse diventato suo, di Hermione
Granger.
Persino ora, che dormiva, la sentiva respirare attorno a lui, sentiva
ancora quel lieve calore sul collo, dove era appoggiata poco prima. Si portò la
mano su quel punto, come a fermare il pulsare incontrollato di quel punto
incandescente sulla sua pelle fredda. Lieve come se fosse fatta apposta per non
essere vista né sentita, sentì sotto le sue dita una piccola goccia d’acqua.
Ritrasse la mano, guardandola meglio. Sull’indice, sentiva
indiscutibilmente la frescura di una goccia d’acqua. Intuendo che cosa fosse,
portò l’indice alle labbra.
Salata. Una goccia d’acqua salata.
Come poco prima, quel formicolio leggero che avvertiva sempre sotto la
pelle e che, per ora, non sapeva fare altro che chiamare curiosità, lo fecero
muovere senza accorgersene, mentre si chinava sul corpo addormentato della
Granger. La sua mano le sfiorò leggermente una guancia, la pelle sotto le sue
dita era morbida… e bagnata. Indiscutibilmente bagnata. Aveva pianto.
“Piangi anche tu, allora…” sussurrò al silenzio, le sue dita che
continuavano a percorrere la superficie liscia della sua pelle. Lei mugugnò
qualcosa, facendo spaventare, senza che però la sua mano riuscisse a spostarsi
dal suo viso.
Non riusciva a staccarsi dal suo viso.
Non riusciva a farlo, dannazione.
Le palpebre di lei si mossero di nuovo nervosamente, nel sonno si morse il
labbro inferiore, altre lacrime caddero sulle dita di Draco che ne sentì il
peso umido addosso.
Fu rapido, improvviso, brusco.
Lei aprì le labbra e quel qualcosa che la stava spezzando, venne fuori,
come se non ce la facesse più a restare sottovuoto. Era la stessa parola di
poco prima, piena di senso ed affezione nel pronunciarla, perché era qualcosa
effettivamente che andava ripetuto. Più e più volte, in stanze che ridevano e
letti che si baciavano. In una casa ora troppo grande, da non far nemmeno
patire la sistemazione sotto il tetto di un antico nemico.
Una parola… che non era una parola… ma che lei doveva aver ripetuto chissà
quante volte, riempiendola di un significato adesso perduto.
Quella parola era un nome.
E tra l’istante, in cui Draco lo udì, e quello dopo, in cui finalmente i
pezzi vennero a combaciare perfettamente, Draco si chiese ancora come si stesse
abbandonando alla curiosità per Hermione Granger, quando le loro stesse vite
reclamavano un fossato incolmabile che le tenesse separate.
La sua mano si ritrasse mentre Hermione pronunciava l’ultima sillaba del
nome “Dean”.
Si alzò in piedi, fuggendo da Hermione come faceva sempre, come avrebbe
continuato a fare.
… ma i pensieri, da quelli non si poteva scappare. Specie da uno.
Dean Thomas avrebbe dovuto solo ringraziare di stare con una come lei.
Quante cose sono successe, senza che io me ne
accorgessi? Senza che lui se ne accorgesse? Le nostre parole, i nostri gesti,
ci hanno scavato dentro, come l’acqua che divora la roccia. Abbiamo dato a
quello che ci stava accadendo la dimensione di una pioggerellina stupida,
quando avevamo tra le mani le avvisaglie di un uragano. Nei suoi pensieri, nei
suoi ricordi, avverto la stessa confusione che ha attanagliato me, mentre
scoprivo un legame con l’ultima persona al mondo con cui credevo di averlo.
Nei suoi ricordi, passano rapidi sprazzi di
fiducia e quella curiosità che cresce giorno per giorno, sembrano macchie di
luce che filtrano da una foresta oramai non più scura ed inaccessibile. Arriva
all’ammissione compiuta di non odiarmi più, quella mattina in cui pensammo di
essere attaccati dai Mangiamorte, ma invece si trattava solo di Astoria con la
sua varicella. Sento nei suoi pensieri, incatenante come una marea argentea, il
desiderio di abbandonarsi a me, di vedere il peso che porta sulle spalle
alleggerirsi, sempre grazie a me.
Ma lo nega, sempre. Annaspa sotto quel peso, il
rimorso per la morte di Helena, la preoccupazione per Serenity, la rabbia per
la morte dei suoi, ma inspiegabilmente, anche se man mano sembra comprendere
quanto io potrei aiutarlo, decide sempre di più di lasciarmi fuori.
E non lo sa, sembra non capirlo, ma vuole
solo…proteggermi.
I ricordi turbinano ancora dietro lo specchio,
ma, dopo qualche attimo, mi accorgo immediatamente che qualcosa è cambiato.
Sta succedendo qualcosa di strano, di diverso.
Il loro stesso colore sta cambiando, sta
diventando molto più scuro e tendente al grigio. Aggrotto le sopracciglia, non
riuscendo a capire ed avvicinandomi di più allo specchio.
Ho visto spesso ricordi cambiare in base
all’emozione del loro possessore, ma questa… cosa… sembra diversa.
È come… se stessero perdendo definizione. Come
se stessero scomparendo.
La mia impressione si rivela esatta quando mi
rendo conto che anche il loro ritmo sta incalzando, scorrono molto più
velocemente, senza che io ne possa visualizzare nessuno.
Poggio la mano sullo specchio nella sciocca
quanto insensata aspettativa che questo li arresti, ma, con orrore, mi accorgo
che, sotto le mie dita, si apre una leggera crepa. Corre velocemente lungo la
superficie dello specchio, tagliandola nettamente a metà.
Stacco la mia mano come se scottasse e me la
stringo al petto. Sta succedendo qualcosa… decisamente… e non è un buon segno.
Draco…
Sta succedendo qualcosa a lui… con sofferenza,
mi rendo conto della verosimiglianza del mio pensiero. I suoi ricordi… se
stanno scomparendo… sta succedendo qualcosa a lui.
Qualcosa di serio, di grave… la morte non li
cancella, constato con razionalità, cercando di non farmi sopraffare da quel
pensiero così straziante.
Eppure, anche se escludo la cosa peggiore fra
tutte, non riesco comunque a calmarmi. Non ci può essere nulla di buono dietro.
Ed ha a che fare con quello che sta facendo, lontano da me.
Mi guardo attorno con disperazione, cercando un
modo per andarmene e per riprendere coscienza. Sarà anche che io rimanga muta
per sempre e che questa fosse la mia sola possibilità di liberarmi dello Zahir,
ma devo assolutamente capire che cosa sta succedendo. Il mio sguardo vaga
sperso nell’immenso spazio vuoto, senza trovare nulla, la nuca che mi si
inzuppa di sudore freddo. I miei occhi tornano senza volerlo alla sola cosa
reale, lo specchio; come una videocassetta con il tasto dell’avanzamento
veloce, vedo ormai solo frammenti di immagini che passano rapidissimi, diventando
sempre più invariabilmente indistinguibili, fino a quando la superficie diventa
completamente grigia.
Sotto il mio sguardo attonito, lo specchio si
infrange in mille pezzi. Nascondo il viso dietro le braccia, urlando e temendo
la cascata di frammenti che rischia di rovinarmi addosso. Cado in ginocchio,
mentre li sento colpirmi la pelle come una scarica di piccoli dardi appuntiti,
anche se so perfettamente che non esistono nemmeno.
Il mio urlo si infrange nel silenzio circostante
con una nettezza così chiara che capisco che non è più la mia mente ad
immaginarlo, ma è davvero reale.
E la cosa mi si conferma quando, riaprendo gli
occhi dietro un bagliore rosato, mi accorgo di non essere più nella mente di
Draco, ma nella camera a casa di Pansy Parkinson.
Mi sollevo immediatamente seduta con uno scatto
brusco dalla posizione distesa in cui ero, il Pensatoio ancora accanto a me sul
letto. Lo guardo distrattamente, la sua superficie non è più argentea, ma
scura, al pari dello specchio e dei ricordi di Draco. Non c’è niente di
buono in questo. Nulla, niente di buono.
La testa mi gira paurosamente e la stessa stanza
vortica su sé stessa, vittima della mia ansia che non riesco a tenere a freno.
Chiudo gli occhi, ispirando profondamente e cercando di calmarmi, sovrapponendo
la luce del sole al tramonto, che filtra dalla finestra, rendendo le pareti
rosa, alle immagini orribili su che cosa può essere successo a Draco.
Picchietto le dita sulla tempia, cercando di
concentrarmi e, al contempo, di calmarmi, restando ancora con gli occhi chiusi,
come se la terribile paura che mi sta assalendo possa arrestarsi dietro le mie
palpebre.
Cercherò una bacchetta… la strapperò anche a morsi da Zabini o dalla
Parkinson se dovessero impedirmelo e farò un Incantesimo di Localizzazione per
trovare Draco.
Poco importa se Astoria mi trova, stavolta ho la
bacchetta e non riuscirà a controllarmi di nuovo… e se dovesse farlo… non lo
farà, basta, non mi troverà. Prenderò strade poco battute e lo riporterò a
casa, dovunque diamine si è andato a cacciare.
La mia risoluzione si gela su sé stessa,
afflosciandomi le spalle. La voce… mi sarà tornata?
Se non mi è tornata, se quei pochi ricordi di
Draco non sono stati sufficienti a farmi tornare in me, non posso fare nessun
incantesimo, nemmeno volendo, nemmeno ignorando la condanna che, comunque, mi
farebbe localizzare immediatamente dal Ministero, se facessi una magia. Cosa
che nemmeno è auspicabile, se Pucey e Montague hanno effettivamente degli
infiltrati al Ministero stesso. Sospiro, a questo penserò dopo. Se non ho la
voce, questo problema non si pone.
Riapro gli occhi stancamente, sospirando e
pronta alla prova del nove.
È solo in quel momento che mi accorgo che, nella
stanza, non sono sola.
Di fronte a me, seduto sul letto, c’è qualcuno; rabbrividisco
al contatto con il suo sguardo gelido e, per un folle attimo, nella penombra
della stanza al tramonto, penso che sia Draco. I miei occhi si inumidiscono
immediatamente, mentre cerco di metterlo al fuoco, concentrata sulla luce dello
sguardo di fronte al mio, che solo apparentemente assomiglia ad una penombra
assoluta. La stessa luce oscura degli occhi del mio Draco.
Ma è solo un attimo, un attimo bellissimo e
crudele assieme, che mi lascia sconvolta e senza fiato. Uno spasmo mi blocca il
cuore, mentre trattengo le lacrime.
Mi chiedo come diamine abbia fatto a non
rendermi conto di non essere sola, la presenza dello sconosciuto di fronte a me
è così totalizzante da essere percepita persino ad occhi chiusi.
Ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, che, quando si tratta di
Draco, io divento muta, sorda e cieca di tutto il resto.
Il giovane uomo di fronte a me non può avere più
di venticinque anni, è alto ed imponente, mi sovrasta con la sua altezza anche
da seduto. Le spalle larghe sono coperte dal tessuto pesante di una giacca
grigia, portata in modo neglettamente elegante su una camicia bianca, chiusa
sotto il collo da una medaglia d’oro che luccica di rubino nella luce del
tramonto. La sua aria severa ed impettita è completata da un viso dai tratti
duri, le labbra carnose e piene sono aggrottate in una smorfia arcigna,
parzialmente celata da una lieve barba scura. Scuri sono anche i capelli ricci
che porta spettinati e che coprono la fronte spaziosa. Gli occhi sono color del
mare in tempesta.
L’uomo, che non ho mai visto in vita mia, è
pericolosamente vicino, sento quasi il suo respiro sul viso. Mi ritraggo per
quanto me lo consenta la distanza tra me e lui, arretrando fino ad incontrare
la spalliera del letto. Il timore che sia un altro sgherro di Astoria, venuto a
farmi fuori, mi colpisce in modo inaspettato, ma, sebbene non so minimamente
chi sia, sento che non a che fare con lei. Anzi… il suo cipiglio e il suo
sguardo… me lo fanno collegare immediatamente a Raissa. Le somiglia. Deve
essere un suo parente.
Quindi, tecnicamente, se il mio collegamento non
è inesatto, non dovrei avere nulla da temere.
Eppure, il suo sguardo, dopo la prima fugace
impressione che me l’ha fatto confondere con quello di Draco, mi mette
terribilmente in soggezione. La bocca impastata, cerco di distogliere lo
sguardo da lui. La mano fredda del giovane si muove improvvisamente dopo il mio
gesto ed io mi ritraggo ancora con timore, ma lui si limita a sollevarmi con
due dita il mento, come se mi stesse studiando. Sulla mia pelle calda, le sue
dita sembrano ancora più fredde, rabbrividisco a quel contatto, incapace di
reagire.
Il suo sguardo mi scava sotto la pelle, come
aveva fatto anche Raissa, provocandomi un brivido, accentuato dal fatto che si
morda il labbro inferiore con aria contemporaneamente sensuale e cacciatrice.
Mi sento un topolino in trappola.
Mi volta il viso da una parte all’altra, lo
sguardo azzurro fisso su di me, come se stesse cercando qualcosa. Ancora, allo
stesso modo di Raissa. Di secondo in secondo, sembra rapire qualcosa dai miei
occhi, che va ad illuminare i suoi di ghiacciate lucciole cobalto. Sotto quello
sguardo, avverto qualcosa che non mi piace… e che difficilmente potrei
fraintendere… era in ombra in Raissa, era meno evidente. In quest’uomo, sembra
invece un riflesso così evidente da trasfigurare il viso.
Si confonde ad una voglia di conoscere, di
sapere… e assume un carattere quasi sessuale. Quest’uomo mi vuole.
Quel pensiero, scuotendomi la schiena di brividi
freddi, mi fa ritornare in me, dopo qualche secondo di spaesamento.
Allontano con stizza la sua mano dal mio viso, riscuotendomi.
Lui sbatte gli occhi un paio di volte sorpreso, gli occhi tornano opache sfere
di ametista, il blu si fonde con il rosso del sole.
“Chi diamine sei?!” chiedo con voce scocciata, cercando di allontanarmi ancora da lui “E ti
dispiacerebbe non trattarmi come un pezzo di carne in vendita?!”.
Solo dopo averla sentita nelle mie orecchie,
spalanco gli occhi e mi porto le mani alla bocca, accorgendomi che la mia voce
è tornata.
Più roca del solito, ma… è tornata.
Dovrebbe esserne completamente purificata per poterla dire al sicuro… e il
segnale evidente sarebbe il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli che
ritornerebbero normali…
Mi alzo di scatto dal letto, dirigendomi verso
lo specchio alla mia destra, dove ancora ci sono delle boccettine di profumi
rovesciati nel mio impeto di prima contro la Parkinson.
Il mio riflesso è pallido, sfatto, indebolito.
Ho le occhiaie, indosso ancora il vestito di seta viola che mi ha fatto
indossare Astoria, ho le mani sporche di terreno.
Ma i miei occhi e i miei capelli sono di nuovo
gli stessi. Castani dorati, come li ho sempre conosciuti, sin da piccola.
“Sono libera…” mormoro più a me stessa,
che all’uomo alle mie spalle, portandomi una mano a coprire le labbra che
tremano.
In tutta quella manovra, lui non ha smesso un
secondo di fissarmi.
Cercando di ignorare la sensazione perforante
del suo sguardo sulla schiena, avvicino il polso al mio viso: persino la
cicatrice sembra essere scomparsa.
Sono tornata completamente me stessa. Ho di nuovo il mio libero arbitrio,
il mio cuore, la mia mente.
Il labbro inferiore mi trema dal sollievo, mi
stropiccio gli occhi davanti allo specchio per impedirmi di scoppiare a
piangere, dopo la fine di quest’incubo.
… o meglio, dopo la fine di una parte di
quest’incubo.
L’angoscia mi riprende ad ondate, unita alla
consapevolezza che adesso non c’è niente che mi possa fermare. Niente,
nemmeno quest’uomo.
Mi volto bruscamente su me stessa, pronta a
scagliarmi su di lui e a strappargli la bacchetta di dosso, pur di correre a
cercare Draco.
Invece sussulto, ritrovandomelo ancora ad un
centimetro dal mio viso, non mi sono nemmeno accorta che si è alzato. Con un
gesto rapido e flessuoso, quasi senza respirare, mi prende per un braccio,
piegandomelo dietro la schiena ed avvicinando il mio corpo al suo, fino a
quando aderiscono perfettamente.
Terrorizzata, visto che è molto più forte di me
e mi sta facendo decisamente male, tento di divincolarmi, non riuscendo ad
indovinare le sue intenzioni.
Mi giunge infine una nota profonda e roca,
mentre finalmente si degna di parlarmi: “Non ci pensare neanche…”.
La sua voce ha l’effetto di farmi drizzare i
capelli sulla nuca. “A far che?!” pigolo spaventata, cercando ancora di
liberarmi, gli occhi colmi di lacrime di frustrazione.
Mi sovrasta ancora in altezza, quindi non devo
guardarlo in viso, riesco solo a fissare lo sguardo impietrito sulla medaglia
appuntata al collo.
Il braccio che piegava senza sforzo il mio, si
sposta sulla mia schiena. La stretta non si fa meno salda, anzi impedisce
ancora di più i miei scarni movimenti. Con durezza, stringe la mano libera sul
mio viso, costringendomi a sollevarlo fino ad incontrare il suo. Trattengo le
lacrime solo per orgoglio, perché mi sta facendo davvero male. Lo guardo con
espressione feroce dritto negli occhi, ma lui non se ne accorge nemmeno. Ha lo
sguardo fisso sulle mie labbra, sento la tensione del suo corpo contro il mio.
Per un secondo, penso che mi stia per baciare, e
l’impercettibile movimento del suo viso verso il mio, mi fa sussultare ancora,
mentre tento disperatamente di allontanarmi.
Ma, invece, si limitare a sussurrare sulle mie labbra:
“Non ci pensare neanche a muoverti da qui, o a fare qualsiasi altra cosa tu
abbia in mente, sei anche sotto la mia custodia adesso, Granger… e fin quando
ci saremo io, Raissa, Zabini e la Parkinson, tu non ti muovi da qui…
soprattutto per andare a cercare Malfoy…”.
Sussulto, sentendo il nome di Draco.
Anche lui deve sapere dov’è… e ha capito subito che voglio andare da Draco…
perché stanno facendo di tutto per trattenermi qui e per non dirmi nulla?
Incurante della mia situazione e della vicinanza
con quest’uomo, bisbiglio, ormai in lacrime, cercando di guardarlo negli occhi:
“Per favore, dimmi dov’è…”.
Come sempre, ogni orgoglio ed ogni dignità evaporano come acqua, quando si
tratta di Draco…
Qualcosa nello sguardo dell’uomo sembra
addolcirsi, e finalmente molla la presa. Respirando a fatica, indietreggio di
qualche passo, fino ad urtare il muro alle spalle, le ginocchia che mi tremano
e la sensazione ancora del suo corpo contro il mio. Mi stava per baciare, ne
sono certa.
Mi guardo attorno terrorizzata, cercando una via
di fuga, ma le sue parole successive riescono a farmi perdere ancora ogni
volizione e intenzione di agire.
“I suoi ricordi sono scomparsi, vero?” la sua
voce sembra quasi sorridere in modo sardonico, guardandomi con la testa
inclinata di lato e studiandomi con lo stesso interesse di poco prima. Combattendo
con l’imbarazzo che mi provoca, biascico un sì.
“Sei stata fortunata, allora, a tornare in te,
prima che sparissero del tutto…” sorride ancora comprensivo, appoggiandosi con
una spalla al muro accanto a sé ed incrociando le braccia “Io e Raissa avevamo
intuito che sarebbe andata così, era così dannatamente scontato, così
dannatamente da Malfoy… offrire i suoi ricordi, come prezzo…
sinceramente credevo che avessi più tempo, ma Malfoy come sempre mi ha
sorpreso, evidentemente ce l’ha fatta prima del previsto… ma fortunatamente ce
l’hai fatta anche tu…”.
Non mi piace il tono della sua voce, non mi
piace che sembri soddisfatto, non mi piace nulla del desiderio che ha negli
occhi, non mi piace che mi guardi ancora inumidendosi le labbra.
E non mi piacciono le sue parole, che continuo a
non capire.
Offrire i suoi ricordi come prezzo… se quest’uomo
non mente, Draco ha offerto i suoi ricordi come prezzo a qualcuno. Ma a chi? E
significa forse che… quando tornerà, non si ricorderà più di me? L’angoscia
mi stringe un nodo in gola, stringo con la mano il collo, sentendomi soffocare.
Dopo tutto quello che ho fatto… dopo tutto questo… lui non si ricorderà di
me? Non può essere…
Il nodo blocca l’aria nei miei polmoni, tossisco
forte come per liberarmi da un corpo estraneo, ma la sensazione non passa, anzi
sembra diventare sempre più opprimente.
“Se tornerà da te, sarà probabilmente il più
grande Mago dei nostri giorni…” sussurra ancora il ragazzo con voce mielosa,
provocandomi una fitta allo stomaco.
“Come?!” chiedo attonita, stringendo i pugni. La
paura e il terrore, a quelle parole e, soprattutto a quel se tornerà, mi
danno coraggio insperato al suo cospetto. La rabbia per quello che potrebbe,
invece, aver fatto Draco, sacrificare i suoi ricordi, mi fanno tremare
come una foglia.
“Malfoy voleva solo una cosa: avere la forza
sufficiente per proteggere te e la bambina, e si è rivolto a me e a mia
sorella… penso che tu abbia capito che sono il fratello di Raissa, Dimitri…”
continua lui con voce ovvia, la preoccupazione che cresce ad ogni secondo. Non
mi fido di quest’uomo e non mi fido nemmeno dell’aiuto che può aver dato a
Draco.
Come diamine gli è saltato in mente di
rivolgersi a lui? L’angoscia mi impregna la schiena di sudore, il vestito mi si
attacca sulla pelle in modo scomodo e fastidioso.
“Non mi interessa chi diamine tu sia…” biascico,
sollevando il mento e guardandolo con espressione di sfida. Se l’ha messo in
pericolo…
Dimitri sorride sornione: “Dovrebbe, invece…
visto che, se Malfoy tornerà da te con un potere enorme, sarà solo per merito
mio…”.
“Dimmi immediatamente dov’è…” sibilo con voce
fredda, gli occhi che scintillano pericolosamente e i pugni contratti
“Dimmelo!” ripeto a voce alta, graffiandomi le corde vocali di fronte al suo
perdurante ed ironico silenzio.
Al mio urlo, finalmente nella stanza irrompono
la Parkinson, Zabini e Raissa. Pansy ha i capelli spettinati e lo sguardo
sconvolto, mentre si allaccia la vestaglia rossa. Espressione simile ha anche
Zabini, sembra che stesse dormendo profondamente, anche se non è ancora calata
la notte.
Gli occhi di entrambi sono profondamente
cerchiati, si guardano un istante, prima di concentrarsi su di me.
Raissa, invece, è esattamente perfetta come
prima. Mentre i primi due restano sulla soglia, quasi timorosi di entrare, lei
fa immediatamente qualche passo, riempiendo immediatamente la stanza della sua glaciale
presenza. Dimitri li guarda con sguardo sarcastico, indicandomi alla sorella
con un cenno affrettato del capo.
Raissa non replica nulla, guarda il fratello con
espressione incolore, facendo ancora qualche passo e ponendosi tra me e lui.
“Dimmi immediatamente dov’è Draco…” ripeto
ancora, ignorando Raissa, le narici che fremono, la rabbia che confonde i loro
lineamenti davanti ai miei occhi, colmi di lacrime.
“Sei tornata te stessa, dunque…” constata lei
con freddezza, guardandomi “E, se sei qui così presto, scommetto che i ricordi
di Draco sono spariti… ovvio, deve aver scelto quelli…”, sospira
lungamente, prima di rivolgersi a Zabini e la Parkinson: “… controllate la
bambina, non deve mai restare da sola…”.
I due, evidentemente sollevati, lasciano
correndo la stanza per andare da Serenity.
Lo sguardo di Raissa s’indurisce, voltandosi
alle sue spalle e fissando Dimitri che non ha mai perso l’espressione ironica
del volto: “Cerca di rintracciarlo… se sapesse che la Granger è di nuovo in sé,
forse si tirerà indietro…”.
Il volto di Dimitri diventa una maschera di
cera, pura elettricità scorre nel suo sguardo mentre fissa Raissa, e poi me:
“Sai meglio di me che è impossibile…”.
“So meglio di te che è improbabile, non impossibile…”
replica lei decisa, dandogli le spalle.
“E’ quello che voleva, no?” replica lui
monocorde, fissandomi ancora. Sostengo lo sguardo con livore. “Gli abbiamo dato
solo quello che voleva…”.
Raissa prende fiato, prima di soffiare rigida:
“Nessuno sa mai davvero che vuole, nemmeno Draco… la sola cosa che vuole
davvero è lei… se sapesse che lei è già sua, credi che non tornerebbe
indietro? O non hai notato il modo in cui si appartengono, Dimitri?”.
Le parole di Raissa mi colpiscono al cuore,
anche se apparentemente asettiche ed impersonali. E la stessa cosa accade a
Dimitri, anche se in modo completamente diverso. Sento distintamente il livore
dell’uomo crescere come il turbinare di una tempesta di vento. Le spalle contratte
e il passo marziale, lascia la stanza sbattendo la porta.
Il rumore sordo mi fa tremare, prima di
respirare di sollievo ora che è andato via.
Raissa sospira lungamente, portandosi una mano
alla tempia che massaggia piano, come se avesse una terribile emicrania, e mi
dà l’impressione di essere abituata al comportamento del fratello. Poi,
scrollando le spalle, torna a concentrarsi su di me. Mi ingiunge di sedermi sul
letto con un cenno brusco della mano, le ginocchia mi reggono a stento mentre
faccio quei pochi passi, prima di crollare seduta. Il petto mi si alza ed
abbassa così velocemente che temo di scoppiare, da un momento all’altro.
Raissa mi dà le spalle, fissando il panorama
fuori dalla finestra, il cielo che si tinge di viola, mentre il sole scompare
all’orizzonte. I piedi mi fremono d’impazienza e di ansia, fatico a restarmene
ferma al mio posto, mentre lei resta in silenzio, apparentemente assente. Tento
di calmarmi, cercando di respirare a fondo, cosciente che, se dovessi
irritarla, perderei l’unico autentico appoggio in questa casa. Un appoggio
friabile e poco saldo, d’accordo, dato che è evidente che anche Raissa fatica a
credere alle mie capacità e mi vede come una semplice ragazzina fortunata,
finita in una storia più grande di lei… eppure le sue parole di poco fa, il
fatto di avermi quasi difeso davanti a Dimitri e di avergli ordinato di cercare
Draco, mi fanno avere maggiore fiducia in lei. Certo, molta di più di quanta ne
possa avere in suo fratello, o nell’assoluta inettitudine di Zabini e della
Parkinson.
Dopo qualche secondo, Raissa finalmente si
decide a parlare, continuando a darmi le spalle. La sua voce è un lieve
sussurro, la intendo a malapena.
“Stai molto attenta a Dimitri…”.
“Perché?” chiedo con voce atona alle sue spalle,
le mie parole sembrano esse stesse stanche, come se fossi sfiancata dopo aver
percorso chilometri a piedi. Si reggono nell’aria, riuscendo ad arrivare a lei,
per miracolo. Mi sembra persino che stia perdendo di nuovo la voce, anche se so
che non è vero.
In realtà, è la forza che sto perdendo.
Raissa si volta finalmente e sospira, non
rivolgendo però lo sguardo verso di me. Gli occhi restano puntati contro una
parete: “Draco non aveva considerato l’interesse che avrebbe maturato Dimitri
per te: una donna, per di più mezzosangue, che crea uno Zahir, non ne rimane
uccisa e riesce persino a distruggerlo e, ora, si libera anche del suo potere
oscuro… Credo che ti voglia come non ha mai voluto niente nella sua vita… e
credo che, adesso, il suo più grande desiderio sia che Draco non torni mai più,
sarebbe facile, allora, averti tutta per sé…”.
Balbetto le parole successive, portandomi le
mani nei capelli: “Avermi… in che senso?”. Le mie parole mi sembrano stupide,
già mentre le pronuncio.
Come se non avessi già capito che cosa vorrebbe Dimitri da me…
“Averti in ogni senso…” aggiunge Raissa
con nonchalance, quasi come se fosse scontato “Dimitri è uno scienziato, un
esperto di Arti Oscure… la sua vita è conoscere, sapere, indagare…
ora sarà arso dal desiderio di capire come funziona la tua mente, a cosa
attinge la tua magia, come tu abbia fatto a creare uno Zahir… sei un’eccezione
ai suoi teoremi. Ma sei anche una donna, potente, intelligente… e sei
innamorata di Draco. Credo che non esista per lui sfida più appagante di
strapparti a lui…”, il tono delle sue parole diventa più leggero: “Non sei la
prima, e non sarai nemmeno l’ultima, è già accaduto, so come funziona… quando
coglie la dimensione scientifica di una determinata persona, perde
completamente interesse per lei… accadrà anche con te…”. Respiro più sollevata,
cercando di non concentrarmi sul buco nello stomaco che avverto al ricordo
degli occhi di Dimitri.
“Non è pericoloso, specie se ci sono io nelle
vicinanze…” aggiunge incolore “Lui e Draco non sono mai stati propriamente
amici, anzi… ma lui ha salvato la vita sia a me che a Dimitri, e questo per me
conta più di tutto. E per lui, per Draco, ora tu conti più di tutto…
quindi non permetterei in ogni caso che Dimitri ti facesse del male, anche se è
mio fratello…ammetto di capirlo, anche io continuo ad
ossessionarmi con le domande sul tuo conto… ma ho fatto una promessa a Draco, quindi,
anche se non mi sei esageratamente simpatica, devo lealtà alla promessa fatta a
lui prima di tutto…”.
Calmata la mia preoccupazione per Dimitri e rassicurata della effettiva
fiducia che posso riporre nel legame tra Raissa e Draco, la mia mente viene di
nuovo invasa in modo totale dal pensiero di Draco stesso. Come sotto una nebbia
corrosiva, i miei pensieri si sfaldano in mille pezzi minuscoli, scivolando
dalla mia comprensione. Draco ha sacrificato i suoi ricordi per avere più
forza, secondo quello che dice Dimitri. Ma a che pro? Se anche ottenesse
maggiore potere, non ricorderebbe più nulla di me.
E non potrebbe proteggermi.
E poi non posso credere che davvero
sceglierebbe di dimenticarmi…
Mi mordicchio pensosamente l’unghia del pollice, anche se lui non sa che io sono innamorata di lui e magari vuole
smettere di soffrire, proprio come ho fatto io, creando lo Zahir.
Chiudo gli occhi, una lacrima che sfugge fuori, in fondo io non posso dare
lezioni a nessuno.
Sono stata una sciocca… anzi una sciocca fortunata, visto com’è andata a finire.
Riapro gli occhi, fissando Raissa, la voce che balbetta: “Per favore, Raissa, dimmi dov’è Draco… dove
l’ha mandato Dimitri? Perché i suoi ricordi sono scomparsi?”.
“Io e mio fratello non saremo d’accordo su tante
cose, Hermione Granger…” scandisce bene lei, incrociando le braccia, il
mantello ondeggia alle sue spalle “… ma tu da qui non ti muovi… non
potresti aiutare Draco, nemmeno volendo… e ripeto, devo lealtà solo alla
promessa che ho fatto a lui… e gli ho promesso di non farti muovere da qui,
fino a quando non fosse tornato… o non fosse morto…”.
Deglutisco pesantemente all’ultimo inciso, non
ci devo pensare.
“Ma non gli hai promesso di non dirmi nulla,
vero?” prego ostinata, alzandomi in piedi e fronteggiandola “Per favore… dimmi
almeno dov’è…”.
Me ne frego della promessa che ha fatto a Draco… appena saprò dov’è, lo
andrò a cercare. Non mi conoscono ancora bene, se pensano di tenermi qui buona
e ferma.
Raissa sorride lievemente, è la prima volta che la vedo sorridere e mi dà
un brivido freddo, invece di riscaldarmi. Sembra che sia solo un sorriso amaro,
velato da una consapevolezza altrettanto penosa. Mi intima ancora di sedermi,
poi estrae la bacchetta dal mantello e fa comparire due tazze, di cui una tra
le mie mani.
La guardo senza capire, è piena di un liquido caldo color verde scuro.
“Sarà una lunga spiegazione…” snocciola, sedendosi accanto a me, la tazza
tra le mani “E inizia a far freddo… è tisana ai fiori di menta…”.
Annuisco, contenta di averla convinta, e porto la tazza alle labbra. Il
liquido scivola nella mia gola, caldo prima e dopo freddo, dandomi una bella
sensazione alla bocca dello stomaco.
“Io e Dimitri siamo al momento i più grandi
studiosi al mondo sulle Arti Oscure…” inizia a spiegare, descrivendo piccoli
cerchi sulla superficie della tazza “… ma non è stato sempre così. Siamo i depositari
di una conoscenza che forse nemmeno Voldemort possedeva…”, sussulto nel
sentirla nominarlo per nome, chiaro sintomo che non ne ha mai avuto paura,
contrariamente a suo padre.
“Questa conoscenza ci è stata donata,
quando avevamo tredici anni io e quindici Dimitri…” continua, guardando un
punto fisso davanti a sé, ancora quel sorriso storto le curva il viso
bellissimo “Dico, donata, perché non l’abbiamo ottenuta in modo
tradizionale, consultando libri per anni o facendo ricerche… e l’abbiamo
ottenuta in pochi mesi, non in anni… ma non è stata una passeggiata… è stato
difficile, duro, lacerante… aggiungici pure tutti gli aggettivi che vuoi…”.
Sorseggia un po’ di tisana con un sospiro, non capisco che c’entri Draco con
questo racconto, ma continuo ad ascoltarla, restando in silenzio.
“Io e Dimitri abbiamo un vecchio debito verso Draco…
ci ha salvato la vita, durante la Guerra, nascondendoci dai Mangiamorte che ci
volevano dalla loro parte, proprio in virtù della nostra conoscenza… ed
ora stiamo saldando il nostro debito. Quando Draco ha spiegato a me e a Dimitri
che cosa voleva, farti tornare te stessa e diventare più forte, sapevo che il
solo modo era… portarlo da lui… ma non glielo ho detto. Io ho perso
troppo per quella scelta, non avrei voluto che lui la subisse… che nessun altro
la subisse… Dimitri, no. Per lui, era come sempre una sfida… e gli ha rivelato
tutto, più per vedere se poteva riuscire, che per altro… è tipico della sua
natura…”.
La salivazione mi si azzera del tutto a quelle
parole, la tazza mi trema tra le dita.
Raissa prende ancora fiato, prima di parlare.
Stavolta si volta e mi guarda dritto negli occhi: “Scommetto che conosci
Gellert Grindelwald…”.
Il cuore perde un battito nel petto, non può
essere. Chiunque nel mondo magico, sa chi è ovviamente e pensare che me lo
stia anche solo nominando, in riferimento a Draco, mi ghiaccia il sangue nelle
vene. Gellert Grindelwald era un potentissimo mago oscuro vissuto prima di Lord
Voldemort, aveva frequentato la scuola di Durmstrang, da cui venne espulso per
i suoi esperimenti malvagi. Ricordo di aver letto, in una serie di rapporti
segreti del Ministero che non sono mai stati resi pubblici, che conobbe il
giovane Albus Silente, di cui divenne molto amico, tanto da pianificare con lui
una sorta di "nuovo ordine" mondiale, in cui i maghi avrebbero dovuto
regnare sui babbani. Silente sembrava approvare queste idee, ed era in procinto
di metterle in pratica, quando suo fratello Aberforth lo accusò di trascurare
la loro sorella malata, Ariana. Questo litigio indusse Grindelwald a torturare
Aberforth, ed Albus Silente ebbe così la prova definitiva della crudeltà del
suo amico. Tra i tre scoppiò una lotta, durante la quale Ariana venne uccisa.
Dopo questo episodio Grindelwald scappò all'estero, dando inizio ad una
stagione di terrore. Silente inizialmente cercò di evitare di combatterlo,
poiché temeva che Grindelwald sapesse chi aveva scagliato l'incantesimo che
aveva ucciso Ariana, e non poteva sopportare l'idea di scoprire di averla
uccisa lui stesso. Infine, spinto dalle atrocità commesse da Grindelwald, lo
attaccò e lo sconfisse, facendo si che venisse rinchiuso.
E sono anche sicura che sia stato ucciso da
Voldemort stesso, il quale voleva dimostrare di non aver avuto mai alcun eguale
nella storia della Magia.
Perché allora Raissa l’ha nominato?
Assorbito il colpo, Raissa finalmente prosegue,
la voce più incerta: “Io e Dimitri siamo alcuni dei pochi al mondo a sapere
dell’esistenza di un suo parente, non sappiamo esattamente se sia suo fratello
minore, suo figlio o altro… ma è l’unico suo parente rimasto in vita. Si chiama
Adamar… al momento, credo che associarlo ad un uomo, è come associare un
deserto ad una città come Londra. Non è rimasto nulla in lui, che possa
chiamarsi umano. È in tutto e per tutto, un demone…”.
Rabbrividisco a quelle parole. E Draco adesso
è con lui. La tazza rischia di scivolarmi dalle dita, a causa del tremore
che mi ha assalito le mani. Sbatto le palpebre un paio di volte, per rendere
più nitida la mia vista, offuscata dalle lacrime che non voglio piangere. Si
è messo nelle mani di un demone. Per me e per Serenity… solo perché io mi sono
fatta usare da Astoria… se gli accadesse qualcosa per colpa mia…
Raissa accende le luci della stanza con un colpo
di bacchetta, strizzo gli occhi per la luce improvvisa, non mi ero accorta che
oramai si fosse fatto buio. Poi continua: “Adamar ha rinunciato alla sua
umanità… molto peggio di come fece Voldemort, perché Adamar non crede in
niente. Odia gli uomini, odia il mondo… e vive segregato da qualche parte, in
un luogo che non può essere trovato…percepisce la gente che ha bisogno del suo
intervento… e solo allora si fa trovare… altrimenti è impossibile che venga da
te…”, Raissa fa una pausa, sicuramente pensa alle parole che ha detto a Dimitri
sul trovare Draco. A lui aveva detto che era improbabile, ma capisco che
l’ha fatto solo per far andar via suo fratello.
In realtà, era davvero impossibile.
“Adamar ha dei poteri immensi, proprio perché
oramai è una sorta di cardine tra il mondo umano e le dimensioni demoniache… e
non c’è nulla che non possa farti ottenere, se impegni qualcosa di te stesso…”.
“I suoi ricordi…” bisbiglio, lasciando scivolare
la tazza al suolo. Il fragore ingombra la stanza di rumore, ma non rompe il
silenzio tra me e Raissa.
Esso è la sola difesa che impedisce al mio corpo
di spezzarsi in due.
Raissa annuisce, dopo aver gettato uno sguardo
distratto alla tazza distrutta e alla macchia verde che si espande sul tappeto.
“Vuole la cosa più preziosa che hai… in pegno…
e ti sottopone a delle prove durissime… anzi, durissime è un pallido
eufemismo…”, la voce si piega mentre soggiunge: “… io e mio fratello ci siamo
quasi uccisi tra noi…”. La guardo in tralice, non riesco a smettere di tremare.
Che cosa starà affrontando Draco?
“Adamar detesta la natura umana, spesso mi sono
chiesta che cosa gli sia successo, ma ovviamente non ci è dato saperlo. A chi
chiede il suo aiuto, vuole testimoniare quanto sia infame, meschino, sciagurato,
come essere umano. Se superi le prove, trattiene quello che hai impegnato come
una sorta di prezzo… e lui ha vinto…”.
“E come avrebbe vinto?”.
“Ti ha fatto perdere la tua umanità…e
tanto gli basta… ha dimostrato che esisteva qualcosa di più importante di ciò
che credevi prezioso nella tua vita…”.
“Tu e Dimitri avete superato quelle prove,
vero?” chiedo con un filo di voce, cercando di trovare un qualsiasi segnale che
possa alleviare l’enorme macigno che mi si è depositato sul petto “La conoscenza…
l’avete ottenuta… che cosa avete perso?”.
“L’amore per nostro padre…” sussurra lei
stentorea, senza traccia di emozione, gli occhi non brillano nemmeno “Non ho
versato una lacrima quando è morto… non so nemmeno perché lo amassi tanto…”. Gelo
su me stessa, portandomi le mani ai capelli, disperata.
“C’è ancora speranza, però…” sussurra Raissa,
guardandomi. Sento un’onda rovente sulla schiena, mi trattengo dall’impulso di
scuoterle le spalle affinché si muova a parlare.
“Ed è una speranza che mi auguro caldamente…
perché se Draco perdesse i suoi ricordi, dovrei proteggere io te e la
bambina… o comunque dirgli di farlo, quando probabilmente non gliene fregherà
più nulla… e voglio essere fuori da questa storia prima possibile… altrimenti
Dimitri si ossessionerà sempre di più su di te…”.
Giusto, come dimenticare…
“Adamar è un demone, ma è equo…”
chiosa Raissa, annoiata “Se non superi le prove, ti restituisce ciò che hai
dato… ammette di aver perso. Ammette che la tua motivazione non era così forte
da farti rinunciare alla tua umanità… se Draco supera le prove, perderà i suoi
ricordi per sempre… ma, se fallisce, li avrà indietro… è meglio sperare in
questo che nella possibilità di contattarlo prima che porti a termine il
rituale, dicendogli che stai bene, come ho detto a Dimitri… Adamar non lo
permetterà mai…”.
Già nel momento in cui pronuncia queste parole,
so perfettamente che non sarò in grado di aspettare che il rituale si concluda,
sperando che Draco non lo superi. Raissa ha detto di aver raggiunto la
conoscenza, in mesi… un tempo troppo lungo per attenderlo, qui, in
questa casa, pregando e crogiolandomi nell’angoscia.
Anche se è impossibile, cercherò di contattare
Adamar… magari, chiederò ancora l’aiuto di Helder… oppure, potrei andare al
Ministero e vedere di rintracciare notizie su di lui.
Anche se Raissa ha detto che solo in pochi sanno dell’esistenza di Adamar…
Ma sicuramente, ricercando, si potrebbe scoprire
qualcosa… è sicuro… nessuno sapeva nulla degli Horcrux, eppure io, Harry e Ron
li abbiamo trovati e distrutti. Ed anche se stavolta sono sola, ce la farò
anche questa volta. Troverò Adamar, interromperò il rituale e riporterò a casa
Draco, da me.
Devo solo trovare un modo per andare via, per
scappare, senza che loro se ne accorgano…
Tutto… farò di tutto, affinché Draco torni sano e salvo da me… e non
perderà i suoi ricordi… non posso permetterlo…
Raissa improvvisamente si alza in piedi,
gettando uno sguardo all’orologio a pendolo che batte le otto di sera. Sembra
soppesare qualcosa nella mente, poi si volta su sé stessa, tornando a guardarmi
con espressione enigmatica: “Sarà meglio che rimani seduta…”.
“Perché?” non ho nemmeno finito di pronunciare
queste parole che un’enorme debolezza mi coglie all’improvviso, rendendo il mio
corpo pesante come se fosse fatto di piombo. Faccio fatica persino a restare
seduta, l’impulso di lasciarmi andare alla gravità e di cadere supina sul letto
è così forte che a stento riesco a tenere gli occhi aperti.
Una consapevolezza folle e disperata, mi
raggiunge alle parole successive di Raissa, pronunciate con un sorriso
sarcastico.
Non sono più tra i Grifondoro… un serpente può essere leale, ma è sempre un
serpente…
“Tu non conoscerai bene me, ma io conosco bene te…”
sorride Raissa, premendo contro una mia spalla. La debolezza mi fa ricadere
istantaneamente sul letto, fisso gli occhi sul soffitto a cassettoni,
comprendendo finalmente. La tisana… ha messo qualcosa nella tisana…
“Dormi adesso… e intanto trasformo questa casa
nella tua bellissima prigione dorata…”.
Le parole di Raissa e il rumore dei suoi tacchi
sul pavimento di legno, sono l’ultima cosa che sento, prima di scivolare in un
sonno denso, privo di sogni.
Forse, in fondo, le rose hanno sempre saputo tutto.
Quel pensiero così apparentemente privo di senso, si insinua rapido nella
mia mente, rapendomi dai ricordi, mentre strizzo gli occhi per la luce forte
del sole. L’assurdità di quel pensiero è assoluta, ma è un attimo dolce e
liberatorio, al tempo stesso. Riprendo respiro, la mano sul petto, chiudendo
forte le dita sulla camicia che indosso. L’altra mano, stringe forte quella più
piccola di Alex, che si guarda attorno incuriosito.
Mi indica qualcosa sorridendo, annuisco con il capo, mentre le sue parole
si perdono nel cupo ronzio che mi affolla le orecchie.
Le rose sembrano non essere mai cambiate, anche se so che, in cinque anni,
migliaia di milioni di fiori sono nati, hanno bevuto il sole e sono appassiti,
reclinando gli steli e perdendo i petali.
Eppure, sembra tutto così maledettamente uguale da darmi le vertigini.
Sapevo che sarebbe andata così, era scontato, questo viaggio è in fondo un
calvario, fatto di stazioni obbligatoriamente destinate a ferirmi la mente,
come delle spine acuminate e crudeli.
Ma soffrire è sempre meglio del niente. E dopo cinque anni di niente, a me
va anche bene così.
Il dolore, il rimpianto dentro, è Draco. È riaverlo vicino, anche se in una
forma diversa e lacerante. Ma fa nulla… il dolore rende le cose più reali di
quanto non siano mai state in questi anni.
Nulla, tranne Alex, è stato reale in questi anni.
Spesso, la notte, quando Alex aveva pochi mesi, mi svegliavo e andavo
silenziosamente in camera sua.
Se Ron si accorgeva che mi ero svegliata, dicevo che ero solo preoccupata
che si svegliasse. Oppure che volevo controllare che stesse bene, che non ci
fosse nulla che non andasse.
Balle.
Colossali.
Sebbene io sia la più ansiosa delle madri, trascorrevo le notti guardando
Alex per convincermi che fosse reale.
Quando guardavo i suoi pugnetti chiusi, mentre dormiva nella sua culletta,
e la luna illuminava i suoi capelli dorati, respiravo di nuovo.
Aveva il naso di Draco, aveva i suoi capelli. Se si svegliava, aveva anche
i suoi occhi. Era vero, era suo figlio, non mi ero sognata tutto, non stavo
vivendo la vita di un'altra donna con le memorie di un’altra ancora.
Oggi, oltre a mio figlio, anche le rose sono reali. Il loro odore è sempre
lo stesso, mi ferisce la memoria con implacabile dolcezza, suggerendomi anche
l’angosciosa sensazione di attesa, con cui le ho guardate per tanto tempo.
Sono passati cinque anni, eppure la prima cosa che vedo, non appena chiudo
gli occhi, sono sempre le rose. Mi capita di sognarle spesso.
Boccioli, petali, corolle dischiuse o fasci ben legati da nastri di seta.
Credo di sognarle anche di colori che nemmeno esistono.
Le ho evitate per anni.
Il giorno del nostro primo anniversario di matrimonio, Ron mi aveva portato
in camera un mazzo enorme di rose rosse.
Era stata la prima volta che avevo pianto davanti a lui, sciogliendo infine
il segreto che portavo nel cuore.
Era stata la prima volta che avevo parlato di Draco direttamente davanti a
lui, nonostante ovviamente sapesse tutto e fingesse soltanto di non
ricordarsene.
Avevo torturato le rose tra le dita, ne avevo staccato i petali uno ad uno sotto
lo sguardo sconvolto di mio marito, volutamente mi ero ferita con una spina.
E, guardando il sangue che mi sporcava le dita, avevo trovato le parole
giuste.
Come il sangue.
“Io, Draco ce l’ho dentro, Ron… e ce l’avrò dentro per sempre…”.
Ron non mi aveva più nemmeno nominato le rose. Aveva preso ad evitarle
anche lui. Persino se le vedeva su un giornale, voltava la pagina con fastidio.
Le rose sono i fiori messaggeri dei segreti.
Perché hanno un cuore segreto esse stesse: in alcune specie, la rosa
appassisce prima di rivelare il suo nettare, che rimane protetto in un guscio
di petali morbidi, ma inaccessibili.
Per questo, la metafora. Regalare una rosa, dovrebbe essere come regalare
un segreto.
Non avevamo più segreti da regalarci, o meglio da rovinarci addosso, io e
Ron.
Io e Draco, forse, non potremmo nemmeno regalarci questo intero giardino,
per quanti ancora ci pesano dentro.
Busso con decisione alla porta, oggi inizio a scioglierli tutti, uno ad
uno.
Ed il primo so che sarà con lei.
La porta si apre, la vedo sgranare gli occhi e reggersi allo stipite della
porta, come a ripararsi dalla sorpresa che la sta investendo. Alex la guarda
senza capire, cerca il conforto della mia mano.
Aspetto volutamente che guardi in viso mio figlio. Aspetto che guardi i
suoi occhi, i suoi capelli, il suo naso.
E poi finalmente le mie labbra si aprono.
“Ciao Pansy”.
La mente funziona in modo strano, nei momenti di
crisi.
Quando si sostiene un esame, spesso l’adrenalina
reclama conoscenze, che uno non penserebbe mai di aver memorizzato.
Quando ci si trova in mezzo ad una tragedia, si
riscopre forza e coraggio e si fanno cose che, a mente fredda, non ci si sognerebbe
nemmeno di poter fare.
In guerra, ricordo donne delicate come fiori in
boccio, chiudere ferite aperte dei loro compagni con le loro mani nude, premendo
le dita su vene che sgorgavano copiosamente sangue, concedendosi solo lacrime
di terrore e sguardi atterriti, mentre cercavano aiuto.
E, al contempo, ricordo uomini alti e nerboruti
scappare terrorizzati al primo accenno di incantesimi e di lotte, anche se
avevano sostenuto allenamenti durissimi.
Io stessa avevo scoperto che la mia resistenza
al dolore, al disgusto e alla paura, erano molto più alte di quanto avessi mai
creduto.
Quando la guerra è finita e ho avuto tempo per
pensare, trascorrevo sere intere con Ron a ricordare che cosa avevamo fatto
durante il nostro viaggio. Ed eravamo sempre increduli, mentre mettevamo a
posto i pezzi di quegli atroci ricordi. Come eravamo riusciti a farcela?
Per mesi… forse per anni… io mi sono creduta
forte come una roccia. Ero persino preoccupata di questa mia forza; temevo che alla
fine mi rendesse impermeabile a tutto.
Ho dato a quella forza la colpa di non farmi
innamorare di Dean. Ero diventata insensibile.
Ovviamente, poi, ho finito per cambiare idea quando mi sono scoperta
innamorata di Draco Malfoy.
La mia forza è sempre stata un castello di carte, poggiato su pile di sale.
Si è sbriciolata come niente.
Non ho mai sofferto così tanto, in vita mia.
Uno non può mai sapere come funziona la mente in
un momento di crisi, quando senti che persino le ossa si spezzano per il
dolore, la rabbia, l’angoscia, e chissà che altro.
Nemmeno io posso saperlo… ma la mente è un
meccanismo molto diverso dal cuore, per quello io ho sempre affidato me stessa
alla prima piuttosto che al secondo.
Il mio cuore si è spezzato decine di volte…
ancora adesso, è a pezzi. Sento persino lo spazio esistente tra ogni singolo
pezzo del mio cuore, dentro il mio petto, come se fossero immensi buchi d’aria
che mi succhiano via l’ossigeno dai polmoni, impedendomi di respirare.
La mia mente, invece, ha trovato il modo di
resistere. Ancora.
Tenendomi in piedi, nonostante tutto,
consentendomi di esistere ancora, sotto il peso di questa terribile ed immensa
paura.
Non pensavo che avrei retto per un solo minuto. E
invece sono rimasta sana di mente non solo per un giorno… ma per ben
ventitré.
23 giorni e 8 ore, senza Draco. Con il
pensiero costante che lui stia affrontando le prove di Adamar, e stia quindi,
nella migliore delle ipotesi, perdendo ogni ricordo di me.
La peggiore delle ipotesi è scontata. Ed
impossibile persino da pensare con il suo nome completo.
Razionalmente, questi pensieri avrebbero dovuto
condurmi alla follia.
Ed invece la mente ha uno straordinario meccanismo
difensivo.
Ci si abitua a tutto. Ci si abitua anche
all’impossibile, all’insopportabile, all’insostenibile.
O ci si racconta altre verità, sussurrandosi a
voce bassa quelle che prima erano menzogne, facendole diventare certezze.
Ma in fondo credo che sia la stessa cosa.
Semplicemente, non considero l’ipotesi che lui non torni. O che perda tutti
i suoi ricordi.
Non sono opzioni contemplabili… e per smettere di contemplarle, devo
smettere di pensare in toto.
Anestetizzandomi la mente.
Mi alzo dal letto, dove, come ogni notte, non ho
fatto altro che fissare ad occhi spalancati il soffitto, mettendo a tacere le
voci ossessive e le domande continue che non hanno mai risposta. Da quando
Draco è andato via, ho dormito circa un’ora a notte, se sono fortunata o
esausta.
Il giorno è facile da mandare avanti.
La notte è un tormento eterno.
Il buio suggerisce immagini, sussurra parole,
echeggia ricordi, accarezza cose mai avute e che forse non vivrò mai.
Come sarebbe sentirlo dirmi, occhi negli occhi, che mi ama. Come sarebbe
vederlo ridere perché ho detto una cosa divertente. Come sarebbe ballare con
lui, anche una volta soltanto.
Come sarebbe riaverlo anche un giorno soltanto. Forse accetterei anche di
tornare indietro, al Petite Peste, di nuovo con il pensiero che non mi amerà
mai.
Accetterei di rivivere tutto daccapo. L’odio, la rabbia, il livore.
A piedi nudi, attraverso la stanza ancora al
buio. Il pavimento è piacevolmente gelido contro la mia pelle. Raggiungo la
finestra, spalancando di scatto le tende scure.
Un uccello vola lontano, spaventato. Le cicale
continuano a frinire, per nulla intimorite.
Il sole è appena sorto, su un nuovo giorno senza
Draco.
Lo vedi tu il sole, da dove sei? Fa freddo o fa caldo come qui? Riesci a
respirare, pensando che sono lontana?
Mi appoggio con le braccia incrociate sul
davanzale, chiudendo gli occhi. L’aria è già umida ed opprimente, è la più
calda estate degli ultimi anni qui in Inghilterra, sembra soffocarmi con la sua
morsa sudata ed appiccicaticcia. Ma forse non fa nemmeno caldo, come penso.
Forse fa freddo, e il caldo è solo angoscia, qualcosa che sopravvive alla stasi
dei miei pensieri.
Sono giorni che non so dire se faccia caldo o freddo, se piova o se ci sia
il sole, se esisto o vivo.
Il vento scompiglia i miei capelli, sparsi
disordinatamente sul lino della mia camicia da notte bianca, mentre riapro gli
occhi sul giardino che circonda la casa di Pansy Parkinson. L’odore delle rose
è così forte da darmi la nausea, splendono umide di rugiada le corolle mezze
dischiuse, ferendomi la vista di rosso, rosa e bianco. Disposte su due filari a
costruire un complicato sentiero che gira tutt’attorno alla villa in stile
imperiale, proprio sotto alla mia finestra si aprono in un voluttuoso cerchio
colorato, al cui centro torreggia un piccolo gazebo di pietra bianca. Le
colonne sono piene di rampicanti, ancora rose color rosso sangue che si
avviluppano in altezza, come se volessero fare a pezzi la pietra bianca e
liscia.
Al centro del gazebo, c’è un piccolo divanetto foderato
di damasco, dove Pansy spesso intrattiene i suoi ospiti, decantando per ore la
bellezza del suo giardino, sempre fiorito anche d’inverno, e tutto grazie ad incantesimi
di sua invenzione. L’ultima volta che l’ho vista chiacchierare amabilmente con Millicent
Bulstrode, mi sono trattenuta a stento dall’urlare dalla finestra che le piante
dovevano essere massacrate da questo ciclo eterno di fioritura.
Ovviamente, mi sono morsa le labbra a sangue per
non parlare. E solo perché nessuno ovviamente sa che Pansy mi nasconde a casa
sua. È stata la scelta migliore, mi ha confidato Raissa, perché Pansy è la sola
che sa di Draco ma che Astoria non conosce. Draco stesso, non fidandosi
completamente di lei, non le ha mai detto che Blaise e Pansy sapevano di lui.
Blaise, però, vive con i suoi. Quindi si trattava di una scelta obbligata farmi
restare qui, tutto per la mia sicurezza.
Ed effettivamente in quasi un mese, Astoria non
ci ha mai attaccati.
Ho spesso sentito, nei miei sogni, ancora aperto
un legame con lei, l’ho sentita anche cercare nuovamente di controllarmi a
distanza, ma si tratta di tentativi deboli ed incerti e che avvenivano solo se
non ero cosciente. Se ero totalmente presente a me stessa, non l’ho mai
sentita.
Nei miei sogni, l’ho dapprima percepita distante
e disperata, presa da una furia cieca. Poi è completamente scomparsa.
Ovviamente non credo che si sia arresa, ma credo
che oramai abbia capito che l’energia dello Zahir è del tutto morta. Quindi
dovrebbe affidarsi a sistemi più tradizionali per adempiere ai suoi piani.
Insomma, credo che si stia solo riorganizzando. Ed è ovvio che quindi io debba
rimanere qui.
Ma, al di là della mia sicurezza, ci sono altri
motivi per cui non è conveniente che qualcuno sappia che io sono qui. Motivi taciuti,
ma solo perché sono scontati.
Credo che la maggior parte dei Serpeverde
considererebbe Pansy pazza, se lo sapesse; ma avremmo il primo caso di completa
armonia di vedute con gli ex Grifondoro, Tassorosso e Corvonero. Sarebbe più o
meno come dire che un cane ed un gatto vivono sereni, tenendosi la zampetta di
notte mentre dormono, ed anche quel caso sarebbe più probabile.
L’unico legame tra me e Pansy Parkinson, è Draco
Malfoy. E sarebbe difficile spiegare anche l’accostare il mio nome a quello di
Draco, assieme al termine legame.
Draco è morto per tutti. Draco non mi avrebbe mai guardata senza
insultarmi. Draco non starebbe mai rischiando la vita e la mente per Hermione
Granger.
Sarebbe difficile spiegarlo a chiunque, anche a
Ginny. Persino ad Harry.
Così, quando mi hanno detto che era molto più
prudente che nessuno sapesse che fossi qui, sono stata d’accordo.
Ho detto che avevo bisogno di qualche tempo per
stare un po’ da sola, senza dare alcuna indicazione su dove mi trovassi.
Hanno persino truccato i risultati del concorso
a cui dovevo partecipare, facendo credere a tutti che avevo regolarmente
sostenuto la prova con risultati eccellenti, in modo da non insospettire
nessuno, cosa aberrante per le mie orecchie. Mi hanno garantito che tengono sotto
stretto controllo tutte le persone a cui voglio bene, così che Astoria non
possa vendicarsi trasversalmente su di loro. Mi hanno anche chiesto
precisamente dove si trovi la casa dei miei, così da non tralasciare nessuno.
In generale, sono oggetto delle migliori e più
sollecite cure.
Non l’avrei mai detto.
Come non avrei mai detto che, giunta ad un certo
punto, questa cosa, invece che infastidirmi, mi procuri solo sollievo. Per
tutta la vita, mi sono sempre presa cura di me stessa e degli altri. Ora, avere
qualcuno che si prende cura di me in tutto, mi fa sentire protetta. Anche se
per farlo, mi hanno praticamente chiuso in una scatola.
Mi hanno sistemato in una stanza che si affaccia
sul retro della casa, probabilmente per impedirmi di vedere Draco, qualora
dovesse arrivare ed entrasse dall’ingresso principale, forse perché temono che
io possa fare qualcosa di stupido vedendolo e rendendomi conto che magari non
si ricorda di me… o che è ferito mortalmente ed è tornato solo per dirmi
addio… respiro profondamente, asciugandomi la fronte sudata.
Non lo fanno per proteggermi, ovviamente. Se ne
fregano di me. Lo fanno solo per rendere onore alla promessa fatta a Draco,
come per tutto.
In questo, rientra darmi una delle più camere
più belle della casa, rilucente del marmo rosa e della seta delle tende e dei
tappeti. Oppure, mettermi a disposizione libri, musica, vestiti, persino una
piccola elfa domestica, che ogni giorno mando via con un paio di galeoni. Ho un
immenso bagno personale, pieno di boccette dei più costosi bagnoschiuma e
profumi, oltre che di una decina di creme diverse. Inutile dire che le ho
guardate tutte con fastidio, aprendo solo quello che sembrava il più anonimo
dei saponi.
Pansy mi concede persino di andare in giro per
casa, curiosando nella biblioteca antica, oppure di girovagare senza meta nel
giardino con Serenity. E so perfettamente che, in circostanze normali, mi
avrebbe messo alla porta o al più sistemato comodamente nella cuccia del cane,
nella calorosa compagnia di pulci e zecche.
Si vede che questa è la sua fantasia proibita, i
suoi occhi castani si restringono sempre quando mi vede e le sue narici fremono
di fastidio ed irritazione, ma mi lascia fare più o meno quello che voglio. Del
resto, non hanno bisogno di controllarmi a vista.
La mia mente sterile, nel corso dei giorni, ha
perfettamente inquadrato tutte le abitudini degli avventori di questa casa.
Ed ogni sei ore precise, con i ritmi di un
orologio, Raissa fa il giro della proprietà, delimitata da una schiera di
altissimi pioppi bianchi, e muove distrattamente la bacchetta, producendo
scintille nere e rosse. A tappe, si ferma pensosamente, sussurra qualche parola
ed agita la bacchetta con nonchalance, sigillandomi all’interno della
proprietà.
Compie quelli incantesimi con una tale facilità,
che sembrerebbero banali Appello o Wingardium Leviosa.
Invece, sono Incantesimi Oscuri, persi da chissà
quante generazioni. Il loro potere, se mi affaccio alla finestra, è così forte
da farmi drizzare i capelli sulla nuca.
Non sono trappole, non sono botole segrete o
elettrificazioni che mi farebbero morire fulminata, appena li tocco.
Semplicemente, se mi avvicino al cancello, o
alla recinzione, o ai pioppi bianchi, mi svuotano della volontà di tentare la
fuga. Sento le forze abbandonarmi, sento qualsiasi volizione venir meno e sento
distintamente che sono troppo potenti, anche per cercare di convincermi a
forzarli. Tutto qui.
Nei primi giorni della mia prigionia, ho cercato
in tutti i modi di scardinarli. In fondo, la mia volontà era stata sufficientemente
forte da creare e spezzare uno Zahir, potevo farcela se mi fossi concentrata
adeguatamente. Ma stavolta non c’era nulla da fare.
Anche perché, con il passare dei giorni, credo che una parte di me, quella
più stanca e provata dagli eventi, abbia semplicemente smesso di provarci.
Vivo dell’inerzia che qualcuno pensi al posto mio, agisca al posto mio,
prenda decisioni al posto mio.
Mi dicono quando mangiare, quando bere, quando dormire, ed in fondo, alla
mia mente va bene così.
Strano a dirsi, vero? E forse con questo
intendevo che la mia mente ha reagito in un modo che non mi aspettavo
assolutamente.
I primi giorni sono stati terribili. Non
terribili, in un senso pallidamente esagerato di qualcosa di oggettivamente
sopportabile.
No.
Terribili in senso stretto.
Mi sono svegliata nella camera che Pansy mi
aveva destinato, dopo che Raissa mi aveva addormentato con la tisana, ed erano
passate già più di sedici ore. Ero corsa giù, avevo percorso il giardino sempre
come un’ossessa, non rendendomi nemmeno conto che sicuramente avevano già
pensato a murarmi viva lì dentro. Mi ero fermata alla vista dei pioppi bianchi,
come se ci fosse un muro invisibile. Non ce la facevo nemmeno a muovere un
passo.
Avevo iniziato ad urlare, a graffiarmi il viso,
a rivolgermi a loro con i peggiori epiteti, ma non si erano dati pena nemmeno
di uscire dalla casa, avvolta nelle tenebre notturne.
Solo quando, cascata in ginocchio e rannicchiata
in posizione fetale, mi ero arresa almeno per quella sera, Raissa era uscita. Mi
aveva sollevato con malagrazia per un gomito ed, in silenzio, mi aveva
ricondotta in camera mia senza nemmeno dirmi una parola.
Il giorno dopo, ci avevo riprovato, stavolta
concentrando tutta la mia volontà nel tentativo di spezzare l’incantesimo. A gambe
incrociate, ero rimasta ore ed ore seduta davanti ai pioppi, concedendomi solo
il lusso di sbattere le palpebre ogni tanto, mentre convogliavo ogni mio
tentativo mentale per forzare la resistenza dell’incantesimo.
Avevo rifiutato il cibo, avevo rifiutato di
dormire, avevo rifiutato qualsiasi cosa. Per tre giorni.
Finché avevo capito che la mia volontà era
forte, rocciosa, granitica, ma ogni pietra si spezza contro il diamante. E lì,
davanti a me, invisibile come un miraggio, c’era una parete di diamante.
Sarebbe caduta solo quando Raissa l’avesse deciso. Potevano passare anche mesi
interi, fino a quando si fosse saputo qualcosa di Draco, ma io intanto dovevo
restare lì.
Avevo anche cercato di convincerli a mandarmi da
Harry, o da Ginny, persino da Helder, ma niente.
Raissa scrollava le spalle e Pansy taceva con
espressione riverente, al suo cospetto. Credo di aver odiato la parola “promessa”,
più di qualsiasi cosa al mondo.
Al quarto giorno, avevo tentato un altro
approccio.
Adamar.
Dovevo farlo venire da me. Se avesse percepito
che in me c’era qualcosa che poteva interessargli, forse si sarebbe fatto vivo.
Ed avrebbe lasciato in pace Draco.
Avevo fatto ricerche nella biblioteca sterminata
dei Parkinson, facendomi bruciare gli occhi mentre decifravo lingue antiche e
rune di ogni tipo, addormentandomi sui testi polverosi non appena spuntava il
sole, e risvegliandomi per ricominciare, quando la luna ricompariva nel cielo.
Anche in quel caso, mi avevano lasciato fare.
Dimitri aveva fatto molti tentativi per
contattare Adamar ed ancora, a suo dire, ci stava provando, chiuso nel suo
castello in Bulgaria. Ovviamente dubitavo che stesse tentando sul serio. In
ogni caso ero sollevata che non ci fosse, ma sicuramente potevo riuscirci
meglio io, dato che, al contrario suo, volevo davvero trovare Adamar, fermare
il rito e far tornare Draco indietro.
Avevo provato con le pozioni, con gli
incantesimi, con le antiche rune, con la telepatia. Avevo versato sangue dalle
ferite su calderoni ardenti, avevo pianto lacrime su formule ancestrali, avevo
tagliato ciocche di capelli ed avevo rievocato ricordi e rimpianti. Ma nulla,
nessuna tecnica aveva funzionato.
La sera del settimo giorno, Raissa mi aveva
sollevato di nuovo di peso dal pavimento, dove mi ero prostrata in preda allo
sconforto, e mi aveva trascinato in camera.
Chiudendo la porta, mentre mi abbandonavo alla
stanchezza, aveva sussurrato al buio nero della mia camera: “Adamar non può
voler niente da te. Non ti sei mai chiesta perché non ha abbia mai cercato
Voldemort? Non voleva nulla da lui… e nemmeno da te. Entrambi avete già
dimostrato che le vostre anime sono deboli. Tu con lo Zahir. Lui con gli
Horcrux. Non può volere nulla da persone come voi.”. Ancora, ero stata
paragonata al mago più crudele di tutti i tempi. Dov’è finita la mia forza?
Quella notte, era stata la peggiore.
Avevo di nuovo sognato Voldemort che mi
violentava, come quando ero sotto la maledizione della luna nuova.
Ma stavolta, c’era anche Draco che non faceva
assolutamente nulla per fermarlo. Aveva lo sguardo disgustato nel guardarmi,
bello e lontano come un dio pagano.
Avevo trascorso i successivi tre giorni a letto,
senza muovere nemmeno il viso, senza nemmeno aprire le tende. Ancora, avevo
rifiutato da mangiare. La debolezza mi chiudeva gli occhi e mi faceva
precipitare in un oblio paludoso, dove i suoni si confondevano ovattati con i
ricordi e dove mi sembrava di vivere mille vite in una.
Poi, un pomeriggio assolato, avevo sentito
Serenity piangere dalla camera accanto.
Ero uscita fuori scalza, ero scivolata in camera
sua, l’avevo abbracciata ed avevo pianto senza ritegno per ore.
Solo a quel punto, mi ero lasciata convincere a
mangiare, a dormire, a prendere in mano un libro che non avesse a che fare con
Draco, a vedere un film.
E da quel giorno, mi sono imposta di andare
avanti, di alzarmi ogni mattina trascinando il mio corpo alla ricerca di
qualcosa da fare, cercando inevitabilmente di sopravvivere.
Non ho più pianto una sola lacrima da quel
momento.
Distrazione.
Continua distrazione da me stessa.
Mi prendo cura di Serenity, leggo libri su
libri, memorizzo particolari stupidi sugli abitanti della casa.
La mia mente, per resistere, è diventata
particolarmente recettiva a tutto ciò che non sia Draco, riempiendosi di cose
che io considero inutili, ma che invece sono vitali per colmare i vuoti
lasciati nei pensieri, dalla mia imposizione di non pensare a lui e a che cosa
gli possa accadere.
Mi sono ritrovata a conoscere con perfetta
chiarezza tutte le abitudini di Pansy e Raissa, le mie carceriere.
Raissa che si sveglia la mattina alle sei
precise, attiva gli incantesimi di controllo e non fa mai colazione.
Pansy che si alza da letto alle dieci passate,
annaffia le sue rose ed immediatamente manda un gufo a qualcuno.
Dopo quel gufo, generalmente o ne arriva un
altro, o compare Blaise Zabini.
Si materializza sempre sul retro della casa,
poco sotto la mia finestra ed anche se mi vede affacciata, ovviamente non fa il
benché minimo cenno di saluto. Corre via, il mantello che si agita alle sue
spalle, e sparisce dentro la casa. Poco dopo, sento sempre i suoi passi
affrettati sulle scale, mentre raggiunge la camera di Pansy, che è all’ultimo
piano.
Ne escono due ore dopo, lei con le labbra rosse
e gonfie, gli occhi castani colmi di lacrime, l’andatura incerta. Cammina
davanti a lui, non lo degna di uno sguardo e lo accompagna silenziosamente alla
porta. Lui esce lentamente, cerca sempre di toccarla prima di andarsene,
talvolta una mano, un braccio, una spalla. A volte, se vede che sono soli, le
prende il viso tra le mani senza una parola, lei si divincola e singhiozza, e
lui se ne va, i passi che riecheggiano nel giardino.
So che Pansy resta immobile davanti alla porta
aperta per qualche minuto, fissando i passi che lui ha lasciato nella polvere,
mentre i petali di rosa mulinano nell’aria calda.
E poi esce in giardino, coglie una rosa e la
calpesta sotto i piedi, con freddezza, come se nemmeno l’avesse curata per mesi
o settimane.
Sarebbe impossibile non capire che cosa ci sia
tra loro, dopo quella scena avevo facilmente fatto due più due.
Quella strana familiarità che Blaise sembrava avere con la casa, la prima
sera che mi portarono qui, quando aveva perfettamente indovinato dove fossero
le sigarette nella camera di Pansy. L’arrendevolezza che dimostrava sempre
verso di lei. L’aria stravolta che avevano, quando mi ero risvegliata dai
ricordi di Draco.
E quattro più quattro fa otto, in qualsiasi
lingua del mondo. È stato facile capire anche il resto.
I Parkinson sono caduti in rovina con la guerra,
ormai hanno poco più che un nome stantio da difendere.
Sono spariti dalla circolazione, lasciando la
figlia in Inghilterra in questa enorme casa a salvare le apparenze di viaggi
d’affari, che sono solo mere fughe dai creditori.
Gli Zabini, invece, abili calcolatori che non si
sono mai fatti sorprendere come aperti sostenitori di Voldemort, sono all’apice
della gloria e della ricchezza.
Non potrebbero mai concretamente volere che il
loro unico figlio maschio frequenti la reietta Parkinson.
C’è sempre stato un mondo, che non mi sono mai data pena di vedere.
Ripareremo mai agli errori che abbiamo fatto in anni ed anni?
Lo stupore che provo oggi è emblematico: è come se avessi sempre pensato
che loro non amino, che, siccome non fanno di cognome Potter o Weasley, non abbiano
diritto di soffrire… pensare che non sono la sola a stare male, è
consolante in modo crudele eppure fatalisticamente inevitabile.
Un giorno, quando mi ha sorpresa a guardarla
mentre Blaise andava via, Pansy ha chiuso gli occhi, come se non mi volesse
nemmeno vedere, come se persino la mia vista le fosse improvvisamente
insopportabile. E mi ha detto solo poche parole, che non scorderò mai.
“Draco è il mio migliore amico, lo sarà per
sempre… e io spero davvero che torni, sano e salvo. Per tutta la vita, ho
desiderato che tornasse ad essere sé stesso e che smettesse di vivere come
Danny Ryan, perché quella non è la sua vera vita. O meglio… ho sempre voluto
che tornasse da me e da Blaise. Lui non avrebbe permesso che io…”, la sua voce
si è spezzata ed ho capito simultaneamente che voleva dire che Draco non le
avrebbe permesso di innamorarsi di Blaise, vista la loro situazione. Ha ripreso
con forza, guardandomi con odio: “Eppure, oggi, grazie a te, è la prima volta
nella vita che spero che ritorni nel vostro sporco mondo babbano… perché, se
decidesse di tornare nel nostro, nessuno gli perdonerà mai di amare te…
nessuno, Granger, né quelli come noi, né quelli come voi… tu gli
hai rovinato l’esistenza, spero che ne sia consapevole…”.
Ho alzato il mento ed ho replicato fredda: “E
lui ha rovinato la mia esistenza, se è per questo… ma rovinare qualcosa
che già non andava, non è un peccato mortale… è stata la più grande
benedizione che mi abbia rovinato la vita, quella patetica vita che portavo
avanti ed indietro, Parkinson… e il fatto che tu possa pensare che la sua non
fosse altrettanto patetica, è il sintomo chiaro che non ne capirai mai nulla… e
quando tornerà, perché lui tornerà, arriverò a cambiare anche tutto il
mondo pur di restare con lui, senza bisogno dei consigli di una come te...
subite pure il mondo che vivete, io ho smesso di farlo…”.
Da quel momento in poi, Pansy mi ha evitato come
la peste. In compenso, Blaise non è più tornato nemmeno una volta.
Non so se sia perché abbia ripensato alle mie
parole. Mi piacerebbe pensare che sia per questo, mi piacerebbe pensare che sia
per merito mio che lei abbia preso una decisione definitiva, la stessa che le
avrebbe suggerito anche Draco stesso. Ma ovviamente è troppo pensare che questo
sia concretamente vero.
Spero davvero di averle dato la spinta nella
direzione giusta, almeno mi libererebbe da un po’ del senso di colpa che provo,
per essere stata così maledettamente piena di pregiudizi nel corso degli anni. Oppure,
utopisticamente, io voglio già costruire un ponte con la vita di Draco.
E la voglio affrontare per intero la vita assieme a lui, senza scappatoie.
E se decidesse di tornare ad essere sé stesso, lo sosterrei, gli farò scudo
con tutta me stessa.
E vorrei anche che i suoi amici non lo lascino solo, perché sta con me.
Reprimo un singhiozzo a fatica, inclinando il
capo, mentre le ginocchia mi tremano. Stare con me implica che lui sia
tornato. E lui tornerà, vero? Tornerà da me, vero?
Posso avere un segno qualunque, Dio? Uno qualsiasi?
Corro velocemente al comodino, versandomi un
bicchiere d’acqua dalla brocca di vetro anticato che ho sempre vicino al letto.
La bevo velocemente, cercando di inghiottire il groppo in gola che mi impedisce
di respirare ed imponendomi di stare calma.
Finalmente mi tranquillizzo superficialmente,
dicendomi che non so ancora nulla di lui e che non devo pensare che stia
andando tutto male.
Andrà tutto bene.
Sospiro a lungo, tornando indietro sui miei
passi e chinandomi in silenzio sul lettino di Serenity, che ho preteso
immediatamente che portassero in camera mia, appena mi sono ripresa dalla mia
paralisi emozionale. Le accarezzo dolcemente i riccioli biondi, mentre le
continua a dormicchiare, un pollice in bocca.
Non te lo perdonerò mai, mai e poi mai… non hai lasciato solo me, ma anche
Serenity. Se tornerai, non te lo perdonerò mai.
Apro distrattamente le ante dell’armadio, pieno
zeppo di abiti costosi e pregiati, che Pansy continua a far portare ogni giorno
in camera mia. Sicuramente con i soldi di Draco, figuriamoci se puoi
permetterseli lei. Come se me ne facessi qualcosa. Dovevi esserci qui tu,
non i tuoi soldi.
Prendo una gruccia a caso, senza nemmeno vedere
che cosa ho scelto, tranne per il colore, un bel blu oltremare. I vestiti di
colori accesi e vivaci sono tutti ammonticchiati in un angolo, non riuscirei a
vedermeli addosso.
Dopo essermi fatta un bagno ed essermi vestita,
apro la porta per scendere di sotto. Incrocio Lyria, l’Elfa dei Parkinson, e le
chiedo gentilmente di controllare Serenity e di avvisarmi non appena si dovesse
svegliare. La casa è ancora in silenzio, sebbene le tende siano già tutte
aperte.
Ovviamente Pansy sta ancora dormendo, mentre
Raissa forse è in giro a trovare modi per non farmi nemmeno uscire dalla mia
stanza.
Scendo in silenzio le scale di pietra bianca ed
esco in giardino, chiudendomi la porta alle spalle con un sospiro. Non accenno
nemmeno ad avvicinarmi ai pioppi bianchi, già so che sarebbe un’inutile perdita
di tempo ed un’ulteriore botta alla mia autostima ed al momento non ne sento
estrema necessità.
O non sarà piuttosto che, se dovessi scoprire una falla nell’incantesimo,
sarei costretta a prendere una decisione? Dovrei affrontare la realtà
finalmente, sapere che è successo a lui… e non voglio. L’ignoranza è la più
grande delle beatitudini umane.
Mi siedo per terra, sull’erba umida, chiudendo
gli occhi alla luce del sole, ancora tiepida. Il vento stormisce tra le rose,
fruscii di velluto nelle mie orecchie e profumo mielato nelle narici. Lo faccio
ogni mattina, mi sembra di sentirmi parte della natura, se faccio così…parte
dei suoi ritmi giusti e necessari, che hanno un senso profondo, un nocciolo
indispensabile da non mettere in discussione mai. Mi dà l’illusione di
calmarmi. Svuota la mia mente ancora di più. Sono ombra, luce, acqua, terra.
Divento tutto, tranne che me stessa.
Un brivido mi scuote la schiena, facendomi
rabbrividire, mi stringo nelle spalle, riaprendo gli occhi.
“Lo sai anche tu che non tornerà…”.
Gelo su me stessa, alzandomi in piedi di scatto
e facendo qualche passo indietro. Rischio anche di scivolare per terra,
inciampando, ma riesco all’ultimo a restare in equilibrio. Senza fiato per lo
spavento, mi porto istintivamente una mano sul petto, il cuore minaccia di
schizzarmi fuori.
La mano di Dimitri resta immobile, ancora
protesa verso il punto dove ero seduta io fino a poco fa, come se avesse voluto
aiutarmi ad alzarmi. Si raddrizza immediatamente, riassumendo il suo consueto
contegno militaresco, con le spalle dritte e la schiena eretta. Mi guarda con
espressione indagatrice, trapassandomi da parte a parte. I riccioli neri sono
più scarmigliati del solito, ma gli occhi chiari splendono della solita ferrea
rigidità e bramosia. Non porta più la giacca con la medaglia, ma solo una
camicia bianca su pantaloni grigi. Inclina la testa leggermente di lato,
osservandomi, perso in pensieri e fantasie segrete, che non mutano in nulla la
sua espressione gelida.
Da quando è tornato, circa cinque giorni fa,
ribattendo che aveva fatto ogni tentativo per cercare di contattare Draco senza
riuscirci, ho tentato in ogni modo di evitarlo.
Ma le sue abitudini non sono così scandite, come
quelle di Pansy o di Raissa.
Anzi, di notte spesso non dorme, ma di mattina è
sempre in giro dalle primi luci dell’alba, come se oggettivamente non gli
servisse riposare. Si assenta per lunghe ore, tornando agli orari più
disparati, e trascorre la maggior parte del suo tempo in biblioteca,
impedendomi quindi anche la più proficua e piacevole delle mie occupazioni.
Ha spesso cercato di avvicinarmi, tenta sempre
il contatto con me in ogni modo, sfiorandomi casualmente oppure cercando di
intavolare discorsi che celano, sotto abili perifrasi, domande sulla mia magia,
sulla creazione dello Zahir e sulla sua distruzione. Ovviamente, al momento,
anche solo sentire la parola Zahir mi fa reagire malissimo.
Se sento nominare quella parola, la mia prima
reazione è di alzarmi ed andarmene.
Se non avessi creduto al sogno mandatomi da Astoria, Draco forse sarebbe
ancora qui.
A questo, necessariamente, si aggiunge anche la
sensazione di pericolo che Dimitri mi comunica, nonostante tutte le
rassicurazioni di Raissa. Non sono abituata a uomini così, a uomini il cui
potere non sta negli incantesimi che potrebbero scagliarti, ma nella loro mente,
colma di conoscenze e di ragionamenti ineccepibili dal punto di vista logico.
Il suo sguardo mi studia come se fossi un
curioso esperimento scientifico, che lui si sforza di comprendere in ogni sua
parte, come se fossi l’incarnazione di una teoria a cui non hai mai prestato
fede, ma che ora si dimostra fisicamente come vera. Forse, stando a contatto
con lui, riconosco in minuscola parte quello che gli altri, a scuola, provavano
ad avere a che fare con me, quando fingevo in modo verosimilmente perfetto di
conoscere ogni cosa ed ogni risposta.
Una sorta di terrore reverenziale, una paura che si stempera in un senso di
muta ammirazione e di fascino sottile.
Il gioco del gatto con il topo, con l’aggravante
però della preda che resta paralizzata davanti al predatore, inebetita. Io
non riesco a fare nulla, quando gli sono vicina.
Annulla le mie resistenze, annienta la mia
forza, mi indebolisce. Non c’è nulla di erotico o romantico, in questo. È un
bell’uomo, ma non vedo neppure come è fatto.
È la sua mente, che gioca con la mia.
È quasi un flusso di energia continuo che scorre
da lui a me, una prova di resistenza continua, un’estenuante lotta sotterranea
di sguardi e di parole mozzicate, dove non è previsto che lui perda, dove ogni
pronostico sancisce il mio capitolare. Nei suoi occhi, vedo distintamente la
mia immagine. Mi vede fragile, inerme, indifesa, bisognosa di lui e della sua
protezione.
Il suo sguardo mi spoglia di tutto, in ogni
senso. Ritrosia, imbarazzo, terrore, paura, inquietudine, preoccupazione.
È come se, solo guardandomi, mi dicesse decine
di cose, mi comunicasse tremila messaggi diversi con l’intento evidente di
aprire il mio guscio.
Non c’è nulla di male, se cedi. Sono un uomo potente e ti amerò molto più
di quanto faccia Draco. Cosa è Malfoy, in confronto a me?
Non permetterò che Astoria ti faccia del male, la ucciderò con le mie mani
e sarai serena.
Sei piccola, sei senza magia, sei prigioniera. Nessuno ti farà una colpa se
cedi, se diventi mia.
A Malfoy ci penserò io.
Affidami il tuo corpo, la tua mente, la tua magia… e diventerai una regina.
Tutto solo con uno sguardo, ogni giorno più
intenso, ogni giorno più divertito, ogni giorno più sicuro. Ogni giorno che
passa senza notizie di Draco, sente che mi sto spegnendo poco a poco. E allora
sarà facile, secondo lui, manovrarmi a suo piacimento. E rendermi sua. Non
sa quanto si sbaglia…
Reprimendo a stento quel senso pungente di
timore che mi comunica, mentre mi rendo conto che è la prima volta che
concretamente siamo soli, mi volto di spalle, non degnandolo di uno sguardo ed
iniziando a muovermi per tornare dentro. Il mio passo è malfermo, ma lo tengo
volutamente lento per non fargli pensare che ho paura di lui.
Anche se, in realtà, vorrei solo mettermi a correre…
Lo sento muoversi velocemente come sempre,
assomiglia alla nebbia che avanza in una giornata di novembre. Nemmeno i
petali, sparsi copiosamente sul selciato, si spostano al suo passaggio. Sembra
muoversi come potrebbe fare solo un alito di vento. Rabbrividisco, sentendolo
alle mie spalle.
Le sue braccia mi cingono alla vita, senza
violenza, senza forza eccessiva, abbracciandomi da dietro. È un gesto inusuale
da parte sua, sembra che si pieghi su di me.
Come se per un attimo, abbia io il potere e non
lui… come se fossi di nuovo io quella
forte, e lui quello debole. Come se fossi davvero io la regina, qui.
Poggia il viso contro la mia guancia, la mia
schiena si adagia contro il suo petto. Lo sento respirare accanto a me in modo
lento, come se aspirasse il mio profumo, come se tentasse di imprimerselo nella
sua mente. “Sai di vaniglia…” sussurra, poggiando le labbra sul mio collo. Vado
a fuoco, le sue labbra lasciano un segno rovente sulla mia pelle, quando si
stacca.
Non mi ha baciato, ha solo appoggiato le labbra.
Certo… ancora una sfida… devo essere io a pregarlo di baciarmi… non farà più
nulla senza che io non voglia…
Tremo al pensiero che Pansy si affacci e mi
veda, mentre mi auguro che Raissa se ne accorga e che mi venga a salvare.
Questo non è da me. Non è da me aspettare di essere salvata e restare
inerme.
Non è da me.
Che cosa diamine mi sta succedendo?
Non riesco a scacciarlo… il riflesso di una mente che non vuole pensare, è
cercare ansiosamente chi mi annulli del tutto la volontà. Dimitri mi annulla la
volontà.
È questo che mi spinge verso di lui.
Dimitri, dopo qualche attimo di silenzio in cui
sembra essersi solo bellamente gloriato della mia reazione, mi sussurra tra i
capelli in tono persuasivo ma deciso: “Lo sai anche tu che non tornerà… perché
lo aspetti ancora?”. Il tono roco delle sue parole è quasi divertito, specie
nel sottolineare il perché io aspetti ancora Draco.
In fondo, credo che abbia solo sottolineato che lo sto aspettando, ma
intanto lascio che lui mi faccia questo.
La mia mente si sveglia come sotto una cascata
gelida. Riprende a pensare tutt’assieme, fluisce il terrore che quello che
Dimitri dica sia vero, si spaccano come cocci tutte le mie resistenze, tutte le
mie tesi, tutti i miei ragionamenti tesi a dimostrare che Draco tornerà
sicuramente, senza ombra di dubbio. Non devo nemmeno pensarci al fatto che
lui non torni.
Ed invece no…
Potrebbe anche essere che Draco…
Sussulto improvvisamente, in preda ai brividi, e
cerco di allontanare Dimitri, divincolandomi come posso. Mi disgusta tutto di
lui, il calore del suo corpo, il suo respiro, la sua pelle. Improvvisamente, un
solo secondo in più tra le sue braccia mi farà rimettere.
Innervosito dalla mia reazione, che oramai non
si aspettava più, la sua stretta si fa più salda, mentre mi serra le braccia
attorno alla vita. Fatico anche a respirare, il mio torace non riesce nemmeno a
sollevarsi, figuriamoci a tentare un qualsiasi movimento. In gola, trattengo le
urla di panico che vorrei lasciar uscire.
Se Pansy mi vedesse, sarebbe la fine.
Lui respira tra i miei capelli, stringendomi
ancora, le sue braccia si chiudono sotto il mio seno. Mi dibatto disperata,
come un uccello in gabbia, mentre lui riprende a parlare: “Malfoy non tornerà,
piccola Granger, lo vedrai da te… e se anche tornerà, non si ricorderà più
nulla di te…”.
Cerco ancora di spingerlo via, non emettendo un
solo fiato, la tensione del suo corpo contro il mio che mi suggerisce che,
sebbene sia irritato dalla mia reazione, essa lo rende più bramoso della sua
conquista. Mi rovescerebbe per terra e mi prenderebbe contro la mia volontà, se
potesse. Forse teme solo Raissa e il fatto che io inizi finalmente ad urlare.
La paura mi confonde la vista, mentre con
facilità impressionante, come se fossi una bambola di pezza, mi volta su me
stessa, portandomi a tiro dei suoi occhi. Una delle due mani lascia libero il
mio fianco, mentre trova il mio viso che solleva, mentre cerco di tenerlo rivolto
verso il basso. L’altro braccio mi trattiene con forza, mentre continuo a
spingere le mani contro il suo torace, cercando di spingerlo via, cosa che non
lo impensierisce assolutamente.
La mia mente, atterrita, richiama energia
dall’adrenalina che mi intossica il sangue.
Fingere…
Abbandono le braccia lungo i fianchi, fingendo spossatezza,
mentre fisso i suoi occhi come se mi ipnotizzassero, come se stessi per arrendermi
e lui mi incatenasse senza possibilità di remissione, come se le sue parole
sussurrate siano la sola cosa che percepisco attorno a me. Come se persino
Draco non esistesse più, quando il mio petto squarciato continua a ripetere e
ad urlare il suo nome. Si morde il labbro inferiore, soddisfatto, ed accarezza
piano i miei capelli, con aria pensosa e riflessiva. Chiudo gli occhi, sperando
che non si accorga del tremore delle mie palpebre oppure che lo fraintenda,
scambiandolo per desiderio ed eccitazione.
Quando poggia la sua fronte sulla mia, li
riapro, mentre mormora ancora, fissandomi dritto negli occhi con tono
dolciastro: “Posso aspettare anche tutta la vita che tu lo capisca, posso
aspettare anni vedendoti scrutare l’orizzonte, mentre lo attendi. Ma lui non
tornerà ed un giorno lo capirai anche tu…”, la sua stretta si fa meno forte,
mentre porta le sue mani sul mio viso, attirandolo vicino al suo. Sfiora le mie
labbra, bisbigliando suadente: “…e quando quel giorno arriverà, sarai tu stessa
ad implorarmi di entrare nel mio letto…”.
Chiude gli occhi, preparandosi a baciarmi. Mi
trattiene debolmente, certo di avermi oramai in pugno.
Un formicolio mi solletica la nuca, adesso o
mai più...
Con disgusto e con rabbia, mi allontano di
qualche centimetro e gli sputo in faccia. Approfitto del suo momento di
smarrimento per divincolarmi, faccio ancora fatica a respirare, il vento caldo sembra
soffiarmi solo polvere addosso, senza alcuna forma di refrigerio.
Dimitri mi guarda con odio puro, pulendosi il
viso con la manica della camicia. Prima che pensi a qualcos’altro, ringhio a
denti stretti, stringendo i pugni: “Mettitelo in testa una volta per tutte… io,
Draco ce l’ho dentro…sarò per
sempre sua… e se verrà il giorno in cui sarò di qualcun altro,
specialmente tua, avverrà solo in un modo: da morta…”.
Non lasciandogli il tempo di replicare, mi volto
bruscamente su me stessa, correndo dentro casa, salendo le scale, fino a
barricarmi in camera mia, chiudendo la porta a chiave.
Scivolando per terra, dopo giorni, mi concedo il
lusso di piangere di nuovo.
La notte è calata, senza che io nemmeno me ne
sia accorta.
Ha sparso il suo velluto nero e lucido sulla
valle, avvolgendo ogni cosa in una quiete ovattata ed irreale, pesante come
un’attesa sfibrante, come se la stessa terra avesse smesso di respirare e fosse
rimasta in apnea, asfissiata. Il caldo continua ad essere opprimente, schiaccia
ogni cosa sotto una coltre umida, mentre un caldo vento di scirocco spazza le
piante e fa stormire le rose del giardino. Il vento ha un odore di carta
bruciata, che mi irrita il naso, porta l’eco di terre lontane riarse dal sole.
Le montagne, all’orizzonte, sembrano giganti
guardiani di questa quiete prima della tempesta.
È un caldo anormale, quello che precede un
temporale violento, già le nuvole si addensano scure in direzione di Londra,
tingendosi di un lieve bagliore aranciato, causato dalle luci artificiali.
Londra è alla mia destra, lontana, distinguo solo il baluginare delle luci che
rompono la monocromia cobalto del cielo notturno.
Quando inizio a vedere i primi lampi vividi in
quella direzione, mi abbraccio le ginocchia.
Seth si sarà messo a correre per casa, cercando
di chiudere tutte le finestre, che intanto stanno iniziando a sbattere per il
troppo vento. Imprecherà contro quella della cucina, la cui chiusura è
difettosa, e maledirà la pioggia che gli bagna la camicia di Fendi. Mediterà di
lasciare tutto così e tornerà indietro sui suoi passi, fino a quando April lo
rimprovererà e farà sbuffante marcia indietro. Non lo seguo oltre con gli occhi
della mia mente, perché so perfettamente che, quando Seth ritornerà in camera
sua, sarà solo.
E lui odia essere solo. Dormire da solo è in
cima alla classifica delle cose più odiose al mondo, per lui.
E, in pochi giorni, lui ha perso me, Draco e
Serenity.
Seduta sul patio della villa di Pansy, cercando
refrigerio sulle fresche assi di acero bianco, poggio il mento sulle ginocchia
piegate e chiudo gli occhi.
A Seth, ho dato la stessa versione propinata a
tutti quanti, lui al telefono ha annuito gravemente, approvando. E mi ha
chiesto di Danny, se sapessi come stessero lui e Serenity e se le cose a casa
loro, in America, si stessero risolvendo. Mi ha spiegato che l’aveva chiamato
una sua amica di nome Pansy, dicendo che era morta una loro vecchia e cara zia
e che sarebbero rimasti in America per un po’.
Ho evitato di dire nulla, ogni parola sarebbe
stata un’ammissione del ruolo che avevo avuto in quella chiamata. Ero stata io
a dire a Pansy di farla.
Ed invece ho cambiato bruscamente discorso e
Seth non ha fiatato, pensando che, dopo la mia confessione sui miei sentimenti
non corrisposti per Danny, io stessi semplicemente evitando di parlare. Cosa vera,
a conti fatti… ma Seth non sa quanto tutto sia cambiato, in poco tempo.
Lui mi ama, Seth. Ha cercato di proteggermi, sempre. Summer è sempre stata
la strega che pensavi, ma si chiama Astoria. E ci vuole morti, entrambi.
Bugie, su bugie. E ho smesso di rispondere anche
ai suoi messaggi, se non con monosillabi e frasi mozzicate.
Non gli dirò mai una bugia, mai più.
Se lo rivedrò, se un giorno accadrà, gli
racconterò tutta la verità, dal principio.
Un’ombra alle mie spalle mi fa trasalire,
strappandomi ai miei pensieri. Sono sicura a chi appartenga, dato che ho
aspettato ore, chiusa in camera mia, che Dimitri uscisse, ma comunque gli
eventi di questa mattina mi impediscono di ignorare il sobbalzo del cuore e la
stretta dello stomaco.
Sinceratami che si tratta di Raissa, che si
siede accanto a me in silenzio, riprendo a fissare le nuvole che si avvicinano
sempre di più.
“Draco potrebbe non tornare mai più…”.
Sgrano gli occhi, sono stata io a parlare. Era
la mia voce, era indiscutibilmente la mia voce, le corde vocali vibrano ancora
nella mia gola.
Ho aperto le labbra per dire una cosa fredda ed
impersonale, una frase fatta del tipo che sta per piovere e che forse è meglio
che do un’occhiata a Serenity. Ho aperto bocca solo perché odio il silenzio e
perché Raissa, invece, non parla mai, se non interpellata.
Ed, invece, mi è uscita una cosa completamente
diversa.
La verità… non più una bugia.
Il pomeriggio è corso tutto tra le pareti della
mia camera, tinte prima di luce chiara e poi di un lieve bagliore rosato. Ho
contato le ore ed i minuti passare, come se stessi solo allora imparando i
numeri ed avessi bisogno di tutta l’attenzione del mondo per memorizzarli,
restando cosciente solo per i piccoli suoni inarticolati, che uscivano dalle
labbra di Serenity.
Mi sono lavata la faccia più e più volte, perché
gli occhi mi bruciano ancora dopo aver pianto stamattina, e non riesco a farli
ritornare limpidi.
E quando Serenity si è addormentata e ho sentito
sia Pansy che Dimitri uscire di casa, mi sono spinta fuori dalla porta.
Non ho passato un solo secondo ferma, immobile,
come se, smettendo di muovermi, potessi interrompere il battito del mio cuore.
O il piede andava avanti ed indietro, mentre leggevo, o le dita della mano
tamburellavano ininterrottamente. Vittima febbrile, mi sono calmata solo
sedendomi qui fuori, osservando la natura che si preparava al temporale e che
mi sembrava vicina a me stessa e ai miei sentimenti. Perché, dentro, da questa
mattina, si è insinuato qualcosa, una spina sottopelle come quelle delle rose,
se non fai attenzione a coglierle.
Non sono riuscita a capire che cosa fosse, fino
ad ora.
Draco potrebbe non tornare mai più.
Gli occhi si inumidiscono all’istante, il
giardino davanti a me, illuminato solo da decine di piccole candele
tondeggianti sparse sul selciato, diventa liquido anch’esso, tremolando nelle
mie iridi. È un pensiero così scontato che fa quasi ridere, eppure, fino a
stamattina, fino alle parole di Dimitri, io concretamente non ci ho mai
pensato.
La mia mente è risorta e non c’è più nulla, ora,
a farla tacere.
Nessun pensiero consolante, nessuna frettolosa
rassicurazione, niente di niente.
Draco potrebbe non tornare mai più… o tornare
senza alcun ricordo… o tornare morto.
Sospingo il dolore a quel pensiero, lo
seppellisco a fondo cercando di ignorarlo, e penso solo alle cose più concrete,
più materiali.
Devo occupare la mente, occuparla ora che non è
più in grado di restare vuota. Altro meccanismo per impedirmi di impazzire.
Raissa annuisce gravemente, con la coda
dell’occhio vedo che ha chiuso gli occhi e ha serrato le labbra rubino.
“Che cosa accadrà a me e a Serenity?” aggiungo,
mantenendo calma la mia voce prima che mi dilani la disperazione alla sua
mancanza assoluta di reazione.
Non ha detto di no, non ha detto: “Tranquilla, Draco tornerà…”, non mi ha
contraddetta.
“Per Serenity, credo che sappiano Blaise e Pansy
che cosa fare…” commenta incolore Raissa, le dita che giocherellano con la sua
bacchetta.
Una scintilla viola sfugge dalla punta, la seguo
mentre vola qualche istante e poi si spegne, cullata dal vento.
“Certo” sospiro, cercando ancora di reprimere
quel nodo che impedisce alla mia voce di non suonare troppo bassa.
Blaise aveva i ricordi di Draco, proprio per
mostrarli un giorno a Serenity, qualora a lui fosse capitato qualcosa. La
daranno in affidamento a qualcuno di babbano, così da rispettare la volontà di
Helena. Potrò rivederla io? Una lacrima ribelle scivola lungo il mio
viso, la nascondo con il palmo della mano, prima che Raissa se ne accorga.
“Serenity è giusto che stia qui… il tuo caso è
diverso…” sospira Raissa, come se stesse parlando da sola e non più con me.
Seguo le sue parole, senza interromperla.
“Ho promesso di proteggerti… questo lo sai…”
prosegue lei, sospirando ancora “Ma non posso chiuderti a chiave in una stanza…
non è auspicabile per te, ma soprattutto per me. Ho una mia vita… mi pare
ovvio…”. Non obietto al suo egoismo, in fondo viene enormemente a mio
vantaggio.
“E la situazione con Dimitri sta peggiorando…”
sussurra preoccupata, prima di fissarmi dritto negli occhi: “Vi ho visti
stamattina…”.
Sussulto, ricordando la paura provata e il
terrore che mi stesse per violentare. Mi assale anche l’incertezza, perché
Raissa non l’ha fermato?
Riprendo fiato, non volendomi mostrare ancora
più debole di quanto già non sia: “Se avessi una bacchetta, gli farei passare
tutta la voglia di avvicinarsi a me, ma ovviamente dubito che me la darete…”.
Raissa sorride amara: “Se pensassi che tu, con
una bacchetta, potresti fermarlo, te l’avrei già data… non potresti rompere gli
incantesimi della proprietà nemmeno volendo… ma il guaio è che, anche se ti
dessi la Bacchetta di Sambuco, non riusciresti comunque ad allontanare Dimitri…
ogni giorno in più che passa, senza avere notizie di Draco, per lui è una
vittoria… stai perdendo la speranza che ritorni ed è giusto. E lui approfitterà
della tua debolezza…”.
“Io non starò mai con lui, se è questo che
intendi…” borbotto offesa, serrando le spalle. O meglio starò con lui, ma con
la forza. La prossima volta non sarà tenero come oggi.
L’angoscia mi inzuppa la schiena di sudore
freddo, mentre Raissa tace persa nei suoi pensieri, confermandomi
implicitamente che la mia non è semplice paura.
Raissa, alla fine, sospira di nuovo e dice: “Tre
giorni… aspetta solo tre giorni. Poi ti accompagnerò io stessa al Ministero
e ti affiderò a Potter… è rischioso, lo so, ma lo è molto di più farti restare
qui… specie per me…”, non capisco che cosa tema così tanto, ma annuisco
pensosamente. In fondo mi sta dando quello che chiedo da settimane. E poi
tutto, pur di andarmene da qui. Dimitri la preoccupa. E non la preoccupa
solo per me… la preoccupa anche per sé stessa.
“Intanto sarà meglio che tu resti sempre con me,
siamo intesi?” soggiunge ancora, alzandosi in piedi “Non ti farà nulla, se ci
sono io…”.
Annuisco, alzandomi in piedi a mia volta e
scrollandomi la polvere dai jeans chiari.
Però, la dimensione del potere che Dimitri ha su
sua sorella continua ad incuriosirmi ed, incapace di trattenermi, chiedo con
voce strozzata: “Raissa, io non capisco… ma perché lo temi così tanto? In
fondo, lui…”. Un tuono violento interrompe le mie parole, sembra provenire da
molto vicino e mi fa sobbalzare, seguito da una folata di vento che spegne
alcune delle candele del vialetto. Adesso distinguo appena il viso di Raissa. Non
mi sono accorta che il temporale si è avvicinato così velocemente.
“Sarà meglio che vada a controllare Serenity… ha
paura dei temporali…” aggiungo velocemente, guardandola. Ha il viso rivolto
verso il giardino, gli occhi sono immobili, ma non distinguo la sua
espressione. Sembra una statua congelata.
“Raissa…” la chiamo leggermente, scuotendola per
il braccio. Lei copre la mia mano con la sua, come se volesse al contempo
trattenermi e ricavare forza da me. Continua a restare in silenzio, la sua mano
è gelida, il viso è immobile, fisso in un punto che vede solo lei. Dopo qualche
secondo, finalmente le sue labbra si aprono. Scuote la testa incredula, fa un
piccolo sorriso e poi bisbiglia, lasciandomi la mano: “Non ci sarà nessun
temporale stasera… anzi forse potrebbe essere la notte più bella della tua vita…”.
Improvvisamente, inizio a capire. Un calore
assurdo si espande nel mio addome, mentre mi volto lentamente, guardando in
direzione del vialetto d’ingresso.
Capitolo forse un po’
morto, ma necessario!! Sono enormemente di fretta quindi ringrazio velocemente
tutti coloro che hanno risposto al mio appello, recensendo la storia, grazie! Sto
rispondendo a tutti, ma purtroppo ho sempre il tempo risicato quindi lo sto
facendo piano piano…-.- un bacione! Cassie!!
Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire
dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton,
che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per
uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione,
ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno,
le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere
nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco.
Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di
recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza
sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è
parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha
convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff,
Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe
concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i
ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a
Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta
rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo
risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un
demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e
Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa,
la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Ad Hermione, non
resta che aspettare che Draco ritorni, sperando che fallisca le prove o si
ritiri preservando le sue memorie. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa
ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue
un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. Intanto nel futuro di
cinque anni dopo, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson.
Capitolo 34 – Risingroses part II
“Fai ancora a pezzi le rose, Pansy? No, vero?
Ora ti sembra persino un crimine… io non ne sopporto nemmeno la vista. La
capisci adesso la differenza tra me e te?”.
Pansy distoglie forzatamente lo sguardo, gli
occhi scuri che vagano nel salotto verde smeraldo della sua casa.
È cambiato tutto da quando vivevo qui.
L’arredamento, i colori, l’odore quieto delle stanze. Il sole che sta
tramontando tinge tutto di una stasi dorata, bagnando i muri e i mobili di
liquida luce immobile.
Davanti a noi su un basso tavolino i residui di
un tè preparato solo per educazione e solo per il mio compagno di viaggio. Non
avrei mai pensato che Pansy Parkinson l’avrebbe mai guardato così mentre io
parlavo.
Cercava conferme, interpretava respiri e cenni
del capo, stava più attenta a quello che mostrava lui sul viso che io nelle mie
parole.
A conti fatti mi rendo conto che va benissimo
così.
Pansy non si sarebbe mai fidata di me. E dopo
cinque anni è chiaro che si fidi più di Seth.
Quando il mio racconto si faceva frastagliato o
quando mi scappava da piangere, Pansy spiava semplicemente la mano che Seth
continuava a stringermi, come se le sue considerazioni le dicessero di non
credermi e quella mano invece la esortasse sempre a mettersi in dubbio. Non ha
mai parlato mentre io spiegavo che cosa mi è accaduto. Il suo viso si è tinto
di incredulità, ma ha continuato a tacere.
Dietro i suoi occhi apparentemente
disinteressati, i pensieri sembravano ricorrersi, mettendo a posto tessere e
pezzi del mosaico mio e di Draco.
Quando mi ha visto, mi ha ovviamente intimato di
andare via.Mi ha messo alla porta senza
troppi complimenti. Poi è arrivato Seth e ha acconsentito ad ascoltarmi.
In silenzio, senza spiccicare parola… solo ora,
quando ho accennato alle rose, si è stretta nelle spalle, ha chiuso gli occhi e
ha trattenuto un fremito leggero, fingendo di sistemarsi il vestito ocra.
La sua risposta silenziosa è stata quella di accarezzare
il petalo di una rosa caduto da un vaso posto sul tavolino, di stringerlo tra
le dita come un tesoro prezioso e di riporlo in un libro dimenticato aperto sul
divano dove siede.
Ad interrompere il silenzio, ci pensa di nuovo
suo marito che entra trafelato, tenendo in braccio Charisma, la loro unica
figlia. Alex trotterella accanto a loro, mi sorride e mi saluta: “Hai finito,
mamma?”.
“Un attimo tesoro…” gli rispondo, stringendo
forte la mano di Seth.
Lui mi osserva meditabondo, sporgendo in avanti
le labbra in una buffa smorfia pensierosa, lo bacio sulla fronte sperando di
rassicurarlo.
Pansy prende in braccio la bambina, la culla
lievemente avanti ed indietro, motteggia all’indirizzo del marito qualche frase
di rimprovero e gli dice di avere pazienza.
L’uomo sbuffando prende di nuovo in braccio la
figlia ed Alex per mano, ed esce dalla stanza non prima di dire caustico:
“Questa me la paghi, Granger…!”.
Nonostante tutto mi viene da ridere, è sempre
stato così e sempre così sarà. Ed è un po’ di calore in questa giornata
estenuante.
“Ti sono sempre piaciuti i bambini… ma ora
capisco che erano quelli degli altri a piacerti!” replico leggera, sorridendo a
mia volta . Pansy guarda entrambi, ma non replica nulla.
“Infatti tuo figlio mi piace…” borbotta lui,
cercando di trattenere Charisma che rischia di cadergli dalle braccia mentre
Alex giocherella con lei“Ma quando i
bambini non li molli alla fine della giornata, diventi lievemente misantropo…” .
Dean chiude la porta, sorridendomi ancora. Gli
sorrido a mia volta, negando con il capo, mentre ancora mi chiedo che cosa
sarebbe successo se quel giorno non avessi sbagliato stazione in metropolitana,
arrivando al Petite Peste.
Lui non avrebbe sposato Pansy ed io non avrei un
figlio con Draco. Forse io e Dean saremmo marito e moglie. E saremmo infelici.
Anche se, nel mio caso, l’infelicità sembra una
costante se si mette assieme la parola “matrimonio” e la mia persona. Fisso la
porta chiusa, cercando di tenere gli occhi limpidi.
“Siete una bella famiglia…” sussurro a Pansy che
sorride appena fiera ed orgogliosa “Ed immagino quanto sforzo ci sia dietro. Tu
e Dean… se me l’avessero detto anni fa… ma ce l’avete fatta. Tu sei stata forte
a sufficienza per reggere un peso del genere… sei andata contro il tuo mondo ed
hai vinto…”, la mia voce si spezza senza che me ne rendo conto, le lacrime
scivolano via dai miei occhi: “Spesso penso a come sarebbe andata per me, se mi
avessero dato una sola dannata possibilità di avere tutto questo. Magari io e
Draco avremmo mandato lo stesso tutto all’aria ed avremmo fatto soffrire sia
Alex e Serenity. Poteva succedere, no? Era forse la cosa più scontata che
avvenisse, visto com’è andata. E magari è giusto che io non abbia mai questa
risposta, Pansy, e che continui a vivere nel dubbio, perché in fondo ora come
ora, come da cinque anni a questa parte, ha senso solo pensare a quello che è
rimasto della mia famiglia… Alex… e magari hai ragione tu, siamo andati tutti
avanti, tu, Seth, Dean, forse Draco stesso. E io non ho diritto di venire e
distruggere degli equilibri che avete creato. È giusto, Pansy… ed è egoista e
falso e ipocrita che io mi celi dietro mio figlio per nascondere che sono io,
solo io, che ho bisogno di ritrovarlo. Perché io la voglio quella risposta,
deve dirmelo lui che non avevamo possibilità di stare assieme, che non c’è
stato tolto niente… deve dirmelo lui… e devo sapere che sta bene… che lui e
Serenity stanno bene… solo questo… mi basta solo questo…”.
Mi piego sulle mie ginocchia, singhiozzando, il
braccio di Seth cerca di tirarmi su e di farmi stare dritta, ma io ricado giù
come un burattino privato di fili.
“Io vi ho visti, Granger… vi ho visti…” sussurra
Pansy tra le mie lacrime, la voce flebile come un sospiro “E so quanto ti
amava… e so quanto lo amavi tu… ma davvero non so dove sia. Non lo vedo da quel
giorno di cinque anni fa… non siamo più Serpeverde, Grifondoro, babbani o
mezzosangue… la vita ci ha strappato quelle etichette di dosso. Siamo solo noi
stessi. Te lo direi se lo sapessi… ma non lo so… io non so dove sia…”.
La mia esile speranza cade come un petalo di
rosa che scivola su un tavolino ingombro di tazze oramai gelide.
Ma quel petalo ha prodotto il suono del velluto.
La mia speranza frana dal mio cuore con il rombo
di un tuono.
Il cuore mi batte in gola come se effettivamente
mi fosse salito quasi alle labbra.
La pelle del mio collo si tende cercando di
trattenerlo, pulsano gelide le vene bluastre, mentre gli occhi corrono lungo il
viale d’ingresso che porta alla villa di Pansy. È molto lungo, poco
distinguibile nel buio setoso di questa notte strana, resa ancora più
avvolgente dalla mancanza di stelle e luna. Le nuvole continuano a borbottare.
Solo piccole candele tondeggianti permettono di
distinguere qualcosa.
Un’ombra, solo un’ombra che avanza piano verso
di noi.
Un’ombra che può essere tutto e può essere
niente.
Un’ombra inghiottita dal buio.
Un tramestio di foglie secche che può essere
solo il vento.
Un fruscio di petali sollevati che può essere
anche l’esplorazione di un qualche animale notturno.
Un rumore di passi, lunghi, distesi, misurati.
Non affrettati, ma sempre controllati.
Passi che con lentezza divorano la distanza del
vialetto, come un nastro che si disfa scucendosi in fili sottili e impalpabili.
Il cono di luce di una candela ondeggia nel
vento, illuminando fiocamente l’ombra che avanza.
Come se fossi arrivata all’atto finale di una
tragedia che ha solo i contorni plumbei di una commedia, l’ombra rivela piano
le sue fattezze.
Un capogiro mi coglie indolente, mi reggo allo
stipite della porta di acero bianco alle mie spalle smettendo di respirare.
L’ombra continua a camminare, come se non fosse
soggetta alle leggi del tempo. Un lampo brusco la rende del tutto evidente ai
miei occhi che pure ne avevano già intuito i contorni e i confini. Ma il lampo
non ha nulla della delicatezza sobria della candela, è uno squarcio aperto nella
memoria e nel cuore che mi violenta i sensi, le membra e l’anima.
In un secondo mi dà un’immagine netta e precisa,
poi l’inghiotte di nuovo nel buio misericordioso delle candele e della notte torbida.
Abbasso lo sguardo, reggendo convulsamente lo
stipite della porta. Le unghie grattano la vernice bianca che si scrosta,
graffiandomi di sangue le dita.
È sempre stato così alto, Draco Malfoy?
Ha sempre avuto gli occhi tendenti all’azzurro
come adesso?
Ha sempre avuto i capelli così spettinati da
sembrare che l’abbia fatto apposta?
E le spalle sono sempre state così aperte?
Ha sempre avuto le labbra sottili, tese e
contratte?
È sempre stato così bello?
La mia memoria è sempre stata allenata a
ricordare formule, incantesimi, nozioni, ricorrendo a meccanismi calibrati nel
corso di anni ed anni. Eppure, non ricorda bene adesso, non ricorda il volto di
Draco così distintamente. Ne aveva un’immagine ormai quasi grigia, negletta
nell’averlo fissato da un’impressione diretta ormai lontana di giorni e giorni.
Ed ora i miei occhi ricolmi di lacrime urlano alla mia memoria di essere
bugiarda, perché celava un’immagine nemmeno lontanamente simile a quella che
adesso ho davanti. Mi mordo il labbro inferiore, ricordavo un bel ragazzo
biondo, con l’aria arcigna, gli occhi grigi e l’espressione arrabbiata.
E mi trovo a pochi passi da me un uomo fatto e
finito, dal passo sicuro e per nulla teso. Un uomo che ha gli occhi quasi
celesti e niente dell’ansia e dell’agitazione che dovrebbe avere, sapendo che
la donna che ama è qui, in questa casa, e sta per incontrarla.
Draco potrebbe non tornare mai più.
Ora so che sbagliavo… Draco è tornato.
Uno che si chiama Draco Malfoy, che ha amato Helena Jasmine Greengrass in
Diggory e che ora si fa chiamare Danny Ryan.
… ma il mio Draco… forse lui non è tornato.
E se fosse morto sotto la scure di Adamar?
I passi diventano sempre più veloci, sempre più
vicini, le mie unghie raschiano via altra vernice dalla porta, si sbriciola
sotto le mie dita.
Ed il mio cuore scoppia. Letteralmente. Ma che
dico, il cuore… tutto esplode.
Vado in frantumi, come un pezzo di vetro sotto
un calcio ben calibrato.
Il mio volto resta terreo, congelato, mentre
conto i passi che lo separano da me.
Venti passi… diciannove… diciotto…
Mi volto furiosamente verso Raissa, non mi ero
accorta che è ancora vicina a me. Sorride ancora lei e mi chiedo che diamine
abbia da sorridere. Non può distinguere i miei occhi allucinati e ai miei singhiozzi
risponde con una carezza affrettata ed imbarazzata sulla mia spalla.
“Io non ce la faccio…” dico con un filo di voce
piangendo e Raissa mi guarda non riuscendo a capire. Stacca la sua mano dalla
mia spalla come se scottasse.
Ancora le mie parole sono detonate senza
controllo. Senza che me ne rendessi conto.
“Se non si ricorda di me… io… io non voglio
vederlo…” singhiozzo ancora, Raissa è sconvolta, la sua freddezza non riesce a
celarlo “Per favore, lasciami andare…”.
Una decina di passi.
Senza aspettare che mi risponda, mi volto su me
stessa correndo via in casa. Senza fiato, apro la porta e me la richiudo alle
spalle, continuando a correre, superando il corridoio e poi il lungo salone
della casa dei Parkinson. Tutto mi spinge in avanti come un elastico sotto
tensione rilasciato improvvisamente. La mia mente è esplosa, non esiste più,
esiste solo l’istinto e la paura. Sono sempre stata una persona razionale,
saggia, integerrima. E ora vaneggio, del tutto.
Forse sono stata sana di mente troppo a lungo… questa è la realtà.
Io non sono fatta per questo amore, che mi piega le ossa e mi distrugge la
mente.
Io sono fatta per un piccolo amore senza rischi, consolante come un gatto
accucciato in grembo, non per questa passione atroce che scardina l’anima.
Lode a chi ci riesce. Lode a chi ce la fa.
Ma io non sono mai stata Catherine Earnshaw che muore in un letto, desiderando
e maledicendo il suo unico amore.
Io sono sempre stata Elizabeth Bennet: nascondo l’amore in frasi pungenti, pregando
che nessuno venga mai a scavare sotto la mia pelle.
Non posso ritrovarmi davanti il vecchio Draco,
non ce la farei.
Non posso più tenere da sola il filo di
quest’amore impossibile, vedendo dall’altra parte il capo estremo cadere nel
vuoto.
So che scappare non serve… mal’ignoranza
è la più grande delle benedizioni.
Non voglio saperlo, non voglio sapere che cosa
abbia fatto… e che cosa ricordi.
Non voglio saperlo.
Abbasso velocemente la maniglia della porta sul
retro, ritrovandomi di nuovo in giardino proprio sotto la finestra della mia
camera. Faccio in tempo solo a pensare che è meglio che torno indietro, che qui
sono troppo esposta, che devo chiudermi nella mia stanza. Prima che il mio
corpo si fermi dalla sua folle corsa e prima che la mia mente rinsavisca,
qualcosa mi ferma di botto. Una mano sul mio polso, una stretta decisa, un respiro
affannato, il profumo dell’erba bagnata nel mese di settembre.
Come lo riesca a distinguere è sempre un
mistero. Come persino quel calore sul polso sia familiare e non assomigli alla
mano di nessuno, è sempre un mistero.
La memoria torna indietro. Veloce, si srotola come un gomitolo di lana.
Dejà vu, croce e delizia, incanto e maledizione.
Mi volto piano, spaventata, non riuscendo a
smettere di piangere, vergognandomi profondamente di me stessa. Un coro di voci
fastidiose ed indistinguibili nella mia mente mi spingono alla calma, al
tornare in me, allo smettere di piangere.
Perché io sono Hermione Granger e piuttosto mi graffio i palmi delle mani
con le unghie, ma non piango mai, davanti a nessuno, da sola sì, ma davanti a
qualcuno mai.
Specie davanti a chi potrebbe farmi a pezzi…
E lui può farlo, può distruggermi in un colpo solo.
L’ha già fatto.
Ma questa voce assomiglia al ronzio di una
vecchia radio rotta. Dà notizie vecchie di secoli con tono arrugginito e
metallico, parla di guerre combattute e perse, ciancia di battaglie che non
sono sopravvissute alla morte dei loro soldati. Io sono morta. La mia
vecchia me stessa è morta il giorno in cui si è innamorata di lui.
Ho rinnegato nome, storia, carne, sangue. Tutto, per amare lui.
Continuo a piangere, perché io, oggi, adesso, non
conosco nemmeno il senso della parola orgoglio.
Che senso ha impormi di non piangere? È sempre
stato più forte di me.
I miei occhi gonfi corrono al mio polso, quello
che portava la cicatrice dello Zahir e che ora è chiuso dalle dita di Draco. Le
sue mani sono piene di tagli, sporcano la mia pelle di sangue e terra, eppure
restano fredde e livide.
Se mi concentrassi su questo calore esso mi scioglierebbe il cuore. Perché
è di nuovo la pelle dell’uomo che amo sulla mia. Ed è già un miracolo che sia
qui. Che sia vivo. Che mi tocchi anche solo per sbaglio… ma
non riesco a pensarci.
Perché potrebbe essere solo un contentino.
E io lo voglio tutto, l’uomo che amo. Sono
stanca dei contentini. Sono egoista, insaziabile, affamata come una leonessa
abbandonata nella foresta.
Ho fame di un abbraccio, ho fame di un “ti amo”
premuto contro le mie labbra, ho fame di fare l’amore con lui finché mi manchi
il respiro.
Una vita di compromessi… e ora sono arrivata a questo. O tutto, o niente. O
sei mio, o non sei niente.
Ma non sono ancora pronta al fatto che lui sia
per me niente. E non credo lo sarò mai.
Per questo, lasciami andare. Non darmi questa risposta. Perché la metà
delle possibilità che tu non sia più mio non vale il rischio di sapere.
Le sue dita, improvvisamente, scivolano lungo il
mio polso, stringendo infine le mie. Una presa forte, salda, che lascia una
scia tiepida sulla mia pelle fredda.
Sussulto e tremo ancora, mentre un lampo
illumina a giorno il giardino.
Sollevo lo sguardo piegato dalle lacrime, il mio
corpo più forte di qualsiasi cosa. Gli occhi corrono ai suoi e le dita si allacciano
alle sue.
Draco è davanti a me ed è ancora diverso da
qualsiasi ricordo che avessi su di lui.
È bellissimo.
Esplodono i fulmini lontani nel cielo dei suoi
occhi, rendendoli macchie cobalto. Guarda le nostre mani unite, trattenendomi e
basta, non fa nulla. Dura la mascella, l’espressione sembra scolpita nella
pietra. Rabbrividendo, mi chiedo se non sono stata io a stringergli la mano senza
accorgermene e lui adesso ne è disgustato. Mi tremano le labbra, mentre cerco
di staccarmi da lui, presagendo l’occhiata estremamente nauseata che potrebbe
destinarmi e a cui sono tristemente abituata, ma non rassegnata. Non adesso,
non più.
Ma Draco solleva lentamente il viso con un
sospiro che il vento cattura, portandoselo via. La luce molle di una candela rischiara
le mie lacrime riflesse nei suoi occhi, mentre contrae le labbra sottili. Ora
assomigliano ad un taglio nitido nella pelle diafana del viso.
Piano si aprono, come se facesse fatica a
parlare, come se rompere il silenzio fosse già un’onta infamante.
“Hermione…”.
Il mio cuore è un tamburo sincopato che non
conosce alcuna legge ritmica.
Non Granger… Hermione… come sa dirlo solo lui… il vecchio Draco non mi
avrebbe mai chiamato Hermione.
Dimmi che dietro quei occhi sei ancora tu, dimmi che non sono più sola,
dimmi che ci sei ancora…
Annuisco solo con il capo.
Non voglio né dire, né fare altro, il terrore
che tutto si infranga come cristallo è così forte e reale da farmi solo
asciugare le lacrime con una manica della camicia.
La sua mano nella mia rabbrividisce ancora, le
dita si serrano più forte attorno alle mie.
“Hermione…” ripete ancora, la mano che diventa
sempre più gelida “Sei tu?”.
Resto immobile, non riuscendo a capire che cosa
voglia dire, lo guardo interrogativa, le lacrime che non smettono di bagnarmi
il viso.
Il suo sguardo mi inchioda al cielo pieno di
lampi, scandaglia i miei occhi come se fossero trasparenti, vagano sulla pelle
del mio viso cercando pallori e rossori alla ricerca di una risposta.
Improvvisamente capisco, vacillo nella consapevolezza. Un altro lampo squarcia
prima la mia mente e poi il cielo su di noi.
Come seguire un filo rosso… come ricucire uno strappo all’altezza del
cuore… come chiudere un cerchio… come trovare finalmente la chiave.
Leggo i suoi occhi come se li conoscessi da
tutta la vita, non sono più la pioggia di meteore veloci di una vita fa, dove
lui era sempre davanti a me di un passo e dove non riuscivo mai a capirlo. Sono
uno specchio che riflette me stessa, dove leggo la risposta che sta cercando
nei miei.
Se sono di nuovo io… se sono libera dallo Zahir… mi sta chiedendo se sono
tornata me stessa…
“Ti… ricordi?” sussurro instupidita, intorpidita,
cosciente di me stessa solo per la mano che continua a stringere la sua. È come
un’ancora che mi impedisce di annegare, come il filo di un palloncino legato
alla terra. La mia testa è leggera, come se fosse oggettivamente piena di elio.
Lentamente la pelle della sua mano diventa calda.
Draco copre la distanza che ci divide con un
passo rapido come il vento. Nel buio, vedo i suoi occhi non lasciare un attimo
i miei, mentre mi lascia la mano. La punta delle mie dita ritorna gelida per un
attimo, mentre tremo guardandolo. Nessuna oscurità, nessun temporale, nessuna
pioggia potrebbe renderlo più luminoso di come è adesso.
Un sole caldo, bellissimo, splendente di una luce pronta ad esplodere.
Cercando quasi conferma nei miei occhi, Draco
poggia le mani sul mio viso, la pelle brucia come se avessi la febbre. Cancella
le mie lacrime con le dita, mentre tutto nel mio corpo batte dello stesso ritmo
del cuore. Depongo le armi, tutta me stessa per un attimo si arrende. Fisso le
sue labbra, senza percepire nulla del resto, anneghi il mondo, muoia la vita,
la terra esploda, e io non smetterei di esistere fino a quando lui è qui. Mi
accarezza piano la nuca, fremo rabbrividendo.
Sollevo il viso, cercando i suoi occhi, e ripeto
annebbiata: “Ti ricordi?”.
Draco sorride come non l’ho mai visto fare, mai,
mai, con nessuno. Con Helena, con Serenity, con Seth, nei ricordi, nel
presente, nella speranza, nella passione, nel dolore, in ogni momento della
vita in cui l’ho visto e in cui l’ho sognato. La mia immaginazione non è mai
stata nulla in confronto a questo. E sorrido anche io, senza accorgermene,
senza capire il perché, solo perché sorride lui e solo perché sorride a me, la
mia mente prolissa è muta e il mio cuore sbriciolato è sordo. Sorrido e basta,
anche se non mi ha ancora risposto.
“Ogni cosa…” bisbiglia la sua voce al silenzio
della notte, mentre poggia la fronte sulla mia e chiude sofferente gli occhi.
Un altro tuono spezza il silenzio, non ho visto
il lampo. La luce se la sono presa gli occhi di Draco, adesso vicinissimi ai
miei, chiusi. Le sue palpebre tremano, come le sue dita che tengono ancora in
ostaggio il mio viso.
Ogni cosa…
Una folata di vento spegne un paio di candele
vicino a noi, un’oscurità rotta solo dalla luce livida dei lampi ammanta il mio
respiro che accelera. Le lacrime continuano a scendere dai miei occhi, bagnando
le sue dita. Sbatto le palpebre, cercando di schiarire la vista, ma il volto di
Draco resta nebuloso. Solo il suo sorriso è ancora netto e chiaro, perché anche
se gli occhi non lo dovessero vedere più, è scolpito a sangue e fuoco nella
memoria.
Ogni cosa…
Carrellate di ricordi scivolano via con le mie
lacrime, mentre abbasso il viso piegando di poco il collo. Le sue mani,
sorprese, lasciano il mio viso e ricadono lungo i fianchi. Non so come, sento che
non sta sorridendo più. Non so come, sento che rabbrividisce. Non so come,
sento che guarda il mio labbro tremare e cerca di capire.
So solo una cosa… che improvvisamente tutto si
rovescia, di nuovo, ancora, anche se è qui.
Ogni cosa… ogni cosa va a pezzi.
Sono un ossimoro incarnato. L’osmosi è completa,
sono la terra che ha aspettato tanto la pioggia, arsa dal sole.
E che, ora che essa finalmente sta per erompere
dal cielo, pensa a mettere a riparo i suoi figli, temendo che si facciano del
male.
È forte abbastanza da sopportare il suo impeto?
Non lo sa. Rabbrividisce per i tuoni, geme per i fulmini, impallidisce per i
lampi.
Sa che accetterà la pioggia, perché la pioggia è
il suo destino. Draco è il mio destino.
Eppure, si chiede se non la farà franare come
fango se si affida ad essa completamente. Affonda le radici per non farsi
trascinare via, anche se ama la pioggia più di ogni cosa al mondo. Anche se
ti amo più di ogni cosa al mondo.
Anche se annaspavo aspettandoti, anche se mi prosciugavo senza te, anche se
sarei morta se fossi mancato per un altro secondo…
… anche se tutto mi spinge ad anelarti come acqua, anche se fai rifiorire
la vita dentro di me, anche se disseti un deserto affamato ed assettato…
Ricordare ogni cosa… significa ricordare davvero
tutto.
Guardare i pioppi bianchi fino a farmi dolere gli occhi. Cercare nei libri
risposte senza senso. Piegarmi vessata e accoccolarmi al suolo. Affidarmi a chi
ho sempre odiato. Inventare parole false e sterili, pur di rassicurare
Serenity. Mentire ai miei amici. Essere attratta dal fatto che, piegandomi a
Dimitri, tutto sarebbe finito.
E non piangere più, perché non era detto che tu non tornassi. E piangere
ancora, perché non era detto che tu tornassi.
Ed aspettare, aspettare, aspettare.
Aspettare te, che sei ogni cosa.
Sollevo lo sguardo, improvvisamente asciutto, i
suoi occhi sono atterriti e sconvolti, il viso è livido, le labbra dischiuse in
una domanda che è insieme una preghiera.
La luce è spenta e fa male, fa un male atroce.
Draco ha i capelli biondi che ricadono sugli
occhi coprendoli. Sembra piegarsi sotto il peso del suo stesso corpo: sembra
piccolo ed indifeso, come se davvero io fossi in grado di fargli più male di
quanto possa subire. Sembra tutto tranne che sé stesso.
Per un attimo le lacrime mi affannano di nuovo la
vista e mi chiedo perché non lo abbraccio e basta, perché non la faccio finita.
Eppure la mia voce non si ferma, eppure io non
mi fermo. Sull’orlo del precipizio, sono condannata a non essere mai felice se
non seguo prima la mia mente…oppure stavolta è il cuore che sto seguendo…
quello che lui ha fatto a pezzi.
Le labbra si aprono appena, le parole sembrano
strozzate, la gola mi graffia le corde vocali.
“Non mi fido di te…” suonano così forti quelle
parole che arrivo a battere i denti come se stessi congelando “Sei diventato il
mio motivo per restare e io non sono mai stata il tuo…”.
“Hermione…” sussurra ancora lui con la voce
spezzata, facendo un cenno nella mia direzione. Non riesco a smettere di
piangere, le parole che ho appena detto mi feriscono le orecchie come aghi
appuntiti, e vorrei cancellarle, negarle, metterle a tacere al mio stesso
cuore. Invece restano lì, aleggiano come fantasmi inquieti, drammaticamente vere
e scontate.
Lo fermo con gli occhi, sollevando un palmo ed
imponendogli di restare dov’è.
“Per favore…” lo prego, sbattendo le palpebre e
distogliendo lo sguardo “Fammi finire… ti prego…”.
Lo vedo con la coda dell’occhio rimanere
immobile.
“Questa è la notte più bella della mia vita…”
mormoro con un filo di voce, portandomi indietro i capelli con una mano così da
nascondere il rossore che mi ha preso le guance. Respiro a fondo e balbetto a
disagio: “Sei tornato e sei qui con me… siamo vivi, entrambi, e siamo noi
stessi. Abbiamo sfidato forze più grandi di noi e non so nemmeno come, ma
abbiamo vinto…”. Fisso per un attimo il cielo, un lampo rende le nuvole livide
come se fossero in fiamme. Chiudendo gli occhi riprendo: “… io ho creato uno
Zahir, mi sono votata alla stessa forza oscura che ha dominato Voldemort in
vita. Ed è un pensiero che non smette di tormentarmi nemmeno per un secondo… ho
visto che cosa potrei diventare e che cosa non sono forse solo per un puro
caso…”.
“Non dire sciocchezze…” tuona la sua voce e
rabbrividisco nel sentire di nuovo l’accento duro, freddo, deciso, che mi ha
fatto innamorare di lui.
Per un attimo, percepisco quanto sia vicino e
un’eco del suo corpo caldo mi fa venire i brividi.
“E’ così, Draco, mettila come vuoi…” bisbiglio,
voltandomi finalmente a guardarlo. Ha la mascella serrata e i pugni stretti.
“Sono diventata un demone… e se penso a
che cosa potevo farti…”, la mia voce si curva in un nuovo accenno di pianto, la
freno con tutta la forza che mi è rimasta.
Il suo sguardo si addolcisce, piega lievemente
le spalle, ma non osa fare un passo nella mia direzione.
“Ma è un mio errore e ci devo fare i conti da
sola …” sospiro ancora, stringendomi nelle spalle “Eppure se penso a che cosa
ho fatto…a che cosa ti ho fatto, a quello che tu hai fatto a me da quando ci
siamo rincontrati…”, una goccia di pioggia mi cade sul viso, la asciugo con una
mano: “Astoria aveva ragione. Ci siamo fatti così male, probabilmente è il
nostro destino farci per sempre del male, continueremo per sempre. Tu sei in un
modo e io sono fatta in un altro, non cambieremo mai… e malediremo ogni giorno
di esserci… ”, mi interrompo imbarazzata, arrossendo ancora, peggio di una
bambina di dieci anni che parla con il primo fidanzatino. Malediremo ogni
giorno di esserci innamorati.
Volevo dire questo e, certo, io non sono capace
di parlare d’amore, non sono capace di alluderci con tranquilla nonchalance, come
se non fosse una cosa così imprevista e erosiva da avermi fatto letteralmente a
pezzi. Ma probabilmente più che il mio solito contegno in queste cose, sto
lasciando volutamente che l’amore sia il grande assente di questa
conversazione.
Perché se ci alludo, se ci penso anche solo per
un attimo… non smettere di baciarmi mai…
“Non posso sopportarlo ancora…” sussurro, una
goccia d’acqua mi colpisce di nuovo il viso e non so se sta iniziando a piovere
o se sto piangendo “Farmi del male, facendone a te… e permettere che tu faccia
ancora del male a me…”.
Il fiume in piena si arena improvvisamente,
seccandomi la bocca impastata. Per qualche secondo, sento solo il rumore del
vento che agita le rose del giardino, le fisso incapace di guardare Draco. Come
libri sfogliati dal vento, le rose si disperdono in un turbinio di petali
violentati nell’aria che monta di pioggia.
Non guardo Draco perché ora io capirei che sta
pensando, leggerei subito le linee del suo viso, la linea indurita della
mascella, quella tagliente delle labbra, la piega storta dello sguardo.
E, dopo tutto, non c’è bisogno di guardarlo.
Perché sento già salire la sua rabbia in questo silenzio che ci avvolge.
Perché se io sono terra, Draco è sempre
stato mare.
Mare in tempesta, fortunale, rara calma mai del
tutto assopita.
Movimento eterno, abbandono estatico che non può
mai essere assoluto. Fidarsi che l’acqua sia calma è il più grande errore del
marinaio.
E io mi accorgo subito che qualcosa cambia
immediatamente in lui, come se gli abissi ruggissero sotterranei un attimo
prima di esplodere in onda e spuma.
Esito ancora nel guardarlo, mentre sento
scintille di calore farmi rabbrividire la schiena, presagendo il temporale
vicino. Sospirando, mi do coraggio e torno a guardarlo.
È calmissimo.
Pessimo segno.
Non si muove di un passo, non alza la voce, non
fa nemmeno un cenno nella mia direzione. Eppure gli occhi sono tornati grigi
come il cielo che continua a piangere pioggia su di noi.
“Granger, non è questo il punto… ci stai girando
attorno e mi stai stancando…” sibila, incrociando le braccia.
“Che diamine vuol dire questo?!” chiedo
autenticamente irritata, aggrottando le sopracciglia.
La sua voce cala di tono, diventando roca e
soffusa: “Significa quello che ho detto, hai capito benissimo… se non sono più
per te il motivo per restare, non farlo diventare come sempre il contrario…
cioè, che non lo sei tu per me…”.
“Dovrei capire qualcosa dopo questa vitale
precisazione?!”.
Ignorandomi riprende duro, stringendo le labbra:
“C’è una domanda che non mi stai facendo, Granger… e mi sto chiedendo il perché, conoscendoti…ma
forse già lo so, quindi in quel caso risparmiami tutta la tiritera…”.
“Che domanda?” replico sinceramente sorpresa,
sbattendo le palpebre.
Draco fa una smorfia e contrae le dita della
mano impercettibilmente, prima di soffiare a voce bassa: “Non mi hai chiesto
perché sono qui adesso… come faccia ad essere qui, con tutti i miei ricordi,
senza che nessuno mi abbia richiamato indietro…”, sgrano gli occhi alle sue parole,
un tonfo nel petto.
È vero, ha ragione… non mi è saltato in mente nemmeno per un attimo di
chiederglielo…
La voce di Draco continua impersonale,
completamente disinteressata: “Immagino che tu mi consideri solo un idiota
fortunato, vero? Uno che per miracolo ce l’ha fatta anche questa volta…”,
le sue parole mi rimbombano nelle orecchie, fatico ad intenderle mentre fisso
il suo volto inespressivo: “Quindi non ha senso fare domande, sarà stata la
solita fortuna di Draco Malfoy... ma soprattutto non ha senso fare domande,
perché hai già decretato nella tua testa che non c’è da fidarsi di me. Non è di
te che sei preoccupata, del fatto che tu non cambierai mai. Sono io
quello che non cambierà mai, vero? Ti farò soffrire e ti farò piangere, perché
sicuramente avrai pianto anche adesso…”, le sue mani si contraggono lievemente,
le fisso senza fiato per non guardarlo in viso: “Anche se non lo dici, la
verità è sempre la stessa… scommetto che persino i tuoi amici, Potter, la Piattola
te lo ripeterebbero a gran voce...”.Fa
una pausa, inconsciamente torno a guardarlo: “Essere innamorata di me è la
più grande sciagura che ti potesse succedere… e se Astoria aveva ragione in
una cosa, aveva ragione solo in questo: ti era così insopportabile l’idea di amarmi
che, alla fine, hai scelto di creare uno Zahir…”, resto
immobile come se mi avesse dato uno schiaffo in viso, il gelo mi assale
facendomi rabbrividire.
“Sii onesta e dillo…” mormora guardandomi fisso
negli occhi, un’espressione allucinata e colma di risentimento “Dillo che ti
odi per esserti innamorata di me… dillo, dannazione… ammettilo una santissima
volta… sta tutto qui il punto. Non ti sei mai fidata di me e mai ti fiderai… ma
sei innamorata di me… e questo ti uccide…”.
Il suo sguardo mi agghiaccia come se fossi la
vittima di un assassino che dopo una folle corsa, mi ha braccato in un vicolo
oscuro e deserto.
La lama che sta calando nella mia carne, riluce
nel buio, mentre affonda dentro di me. Sanguino, letteralmente, avevo pensato
di ferirlo ed invece come sempre tra i due, è sempre più bravo lui a questo
gioco al massacro. Inizio di nuovo a piangere, la pioggia rompe gli argini ed
inizia a cadere copiosa dal cielo, come pesanti gocce di mercurio. Tremo come
una foglia dalla testa ai piedi, ma nulla di me lo intenerisce, il suo sguardo
se possibile diventa ancora più duro ed inaccessibile. Si limita a chiudere i
pugni sollevando il mento. La pioggia gli bagna i capelli, scivolando lungo il
suo collo.
“Non odio me stessa…non più…” bisbiglio tra le
lacrime, guardandolo “E’ te che odio…”.
“Siamo sempre lì, non credi?” soggiunge piccato
con un sorriso sarcastico.
Abbasso gli occhi, le parole sanguinano dentro,
riempiendomi di dolore come tanti piccoli taglietti sulla pelle nuda, esposti
all’acqua salata. Poi si aggrumano nella mia gola, restringendosi,
compattandosi, diradandosi. Il fiume diventa ruscello, io divento roccia e le
parole diventano poche nella mia bocca.
“Io non odio te, quello che sei, l’idea che non
cambierai mai… ti avrei voluto indietro anche se mi avessi odiato, anche se non
avessi ricordato nulla… bastava che fossi tu… mi sei sempre bastato tu…
ti odio perché io, invece, non ti sono bastata… io e Serenity non ti
siamo bastate. Hai di nuovo desiderato morire, rischiare la vita, punirti,
affidarti ad un demone invece che accettare di vivere… con me. Io ti avrei
voluto anche se non avessi ricordato più nulla… ma tu mi hai lasciato prima di
sapere se fossi tornata me stessa…”, sorrido tristemente, chiudendo gli occhi,
lasciando che la pioggia mi scivoli sul viso: “E la cosa più imbecille è che
non riesco a sopportare che magari, morendo, volevi raggiungere Helena…”.
Gli sorrido ancora, piangendo: “Vedi, forse mi
dovrei odiare per questo non per altro… perché sono diventata una cretina…”.
Nonostante le mie gambe si siano fatte di
cemento, mi impongo di voltarmi su me stessa e di allontanarmi da lui. Non
guardo il suo volto, non sento sospiri o sussurri, solo il rumore delle mie
scarpe nell’acqua che sta allagando il giardino. Eppure, come la forza delle
maree, ho solo la forza di mettere qualche metro tra me e lui. Mi siedo sugli
scalini del gazebo di Pansy alle mie spalle, i gomiti sulle ginocchia e la testa
tra le mani. Chiudo gli occhi, confondendo pioggia e lacrime e stringendo i
capelli umidi con le dita.
Non afferro i pensieri, lascio che anneghino
nella pioggia che cade. Dovrei stare in piedi ed invece mi sono piegata come
un giunco… ma almeno non mi hai spezzata.
Acqua calpestata, spostamento d’aria, odore di
settembre e un calore vicino. Non mi sollevo, non potrei farlo ancora. Lascio
che Draco si sieda accanto a me.
“Ricordi quando eravamo a Wonderland?” mi chiede
improvvisamente, la sua voce è tersa, tintinna nel silenzio umido che ci
circonda. Non gli rispondo, la mia gola articola un cenno d’assenso. “Quel
giorno… credo di aver voluto che tu capissi… che tu mi fermassi…”, incerta
improvvisamente nelle parole, la sua voce indugia nelle mie orecchie,
riempiendomi di scariche calde sulla schiena “Non ho sopravvalutato te o
la tua intelligenza. Forse avresti capito prima o poi… è me che ho
sopravvalutato. La forza che potevo avere…”.
La pelle d’oca al contatto con le sue parole mi
fa ritornare seduta. I suoi occhi continuano pigramente a guardare il giardino
che si riempie d’acqua, sembra che stia parlando con sé stesso, non più con me.
Sospira lievemente, prima di dire pacato: “Non
ce l’ho fatta a mandarti via… mai… anche se sapevo che era giusto, perché
mettevo in pericolo te e mettevo in pericolo me stesso. Perché interrogarmi su
di te, sul fatto che potessi piangere la sera chiusa nella tua camera, sul
perché fossi diventata così cinica, sul perché bevessi come una drogata quel
dannato succo d’ananas, era un pericolo per me, più di quanto non lo fosse per
te. Ti ho odiata, tanto. E non c’entra Helena, i miei o il fatto che tu fossi
una Mezzosangue. Ti ho odiato perché tu mi rendi migliore. E io volevo
restare uguale, forse lo voglio ancora. E tu invece mi costringevi a prendermi
cura delle cose o delle persone, e io non sono così…”. Lo ascolto avida, non
osando nemmeno respirare. Mi specchio di stupore, il cuore in gola, nei suoi
occhi lontani.
Sorride lievemente e riprende: “Da quando ci
sei, mi sono chiesto per la prima volta se non fosse giusto per me crescere
Serenity come se fosse mia figlia, come Helena stessa si era sempre augurata.
Invece io, prima di te, non l’avevo mai pensato. Ho capito che non potevo farmi
ricattare da Astoria… che si sarebbe presa tutto il buono di me. E io pensavo
che non avessi più nulla che mi potessero togliere. E mi sono scoperto, invece,
ricco. Perché avevo te, avevo Serenity… avevo Seth, Pansy, Blaise. La
capisci l’assurdità della cosa per uno come me?”.
“Un pochino…”.
“Tu hai ragione… io non cambierò mai,
Hermione. E stare con me, per te, sarà sempre un rischio…” soggiunge duro,
stringendo i pugni “Ti spezzerò il cuore, ti farò piangere, ti prometterò cose
che non manterrò… e maledirai di avermi incontrato. E maledirò di aver
incontrato te… ti ho rassicurato adesso quando hai ammesso di non fidarti di
me? No, anzi ti ho anche aggredito…io non sono Weasley o Thomas, Hermione. Tu
non ti puoi fidare di me… e forse il mio
desiderio più grande sarà sempre che un giorno arrivi a pensare all’amarmi come
una sciagura. Saresti libera e non potrei davvero più farti del male. E soprattutto
sarebbe più comodo raccontarmi che tu non mi hai mai voluto, piuttosto che cambiare,
come tu mi costringi a fare… ma tu questo non me l’hai permesso, vero?”.
Si volta finalmente a guardarmi e un sorriso
lieve aleggia nei suoi occhi, mi stringo nelle spalle, imbarazzata, non
reggendo quello sguardo di diamante sulla mia anima di vetro.
Le sue mani improvvisamente si portano sul mio
viso, sollevandolo e trattenendolo tra le sue palme. Mi mordo il labbro
inferiore, non riuscendo a smettere di guardarlo.
È una solitudine d’oro e d’argento dei nostri
sguardi uniti, che ci unisce isolandoci da tutto il resto, come una bolla
luminosa.
È una sensazione che mi riscalda e mi raffredda
assieme, come la terra che ha aspettato la morsa umida della pioggia e continua
a ruggire insoddisfatta, volendone di più
I suoi occhi incatenano i miei, i nostri sguardi
sono uno lo specchio dell’altro. Persi, alla ricerca della chiave per quel
mondo nuovo che abbiamo solo scorto, ma che non abbiamo mai davvero conosciuto.
Il solo mondo dove potrei vivere adesso, esule di un ogni altro Universo che
non sia il nostro.
Il suo sguardo sfugge i miei occhi, cercando le
mie labbra, prima di dire: “Io non posso farti promesse, Hermione… non posso.
Posso solo darti questo… una sola cosa. Tu sei tutto ciò che mi è rimasto da credere.
Se non credo in te, in cosa altro dovrei credere? Dio? Il destino? La gente? O
peggio in me stesso? Io credo in te, e credo nel fatto che sono egoista,
codardo, vigliacco, ma il solo pensare di proteggere te, mi ha fatto affrontare
Adamar. Credo in te e nel fatto che hai rotto lo Zahir, e ora sei qui,
sei mia, sei mia per sempre… se non puoi credere in me, credi in te…puoi farlo…
tu… puoi credere in questo? Riesco… a… bastarti anche così?”.
Le parole sono morte in qualche parte del suo
discorso, sono nella profondità di me stessa e si lacerano e si putrefanno, di
fronte all’incanto del suo viso e alla magia delle sue parole. Un viaggio che è
concluso, una meta che ho ammirato da lontano per mesi e che ora è ad un passo,
calda come una scoperta, dolce come una conquista, inebriante come una rivelazione.
Non c’è nulla che possa dire, ha imbavagliato il mio cervello e ha reso signore
il mio cuore.
“Tu non mi basterai mai…” sussurro ad un
soffio dalle sue labbra, la pelle che diventa carta danzante nel fuoco. Nebuloso
diventa il suo viso e perde definizione, sommerso da una calugine voluttuosa
che ho rinnegato per mesi, ma che ora erompe in tutta la sua forza, piegando
persino la mia voce in un accenno più strozzato e timido.
Draco spalanca prima gli occhi, ne distinguo
ogni pagliuzza di diamante in quel mare di perla, mi sembra persino di sentire
il suo cuore battere più forte. Ma forse è solo il mio che ha travalicato ossa,
carne e pelle, e mi è esploso addosso. Sento una gioia inquieta pervadermi,
un’ansia febbricitante darmi le vertigini e la sensazione di un’attesa
appagante che sta per finire. Le sue dita accarezzano la mia pelle, un lampo
azzurro lambisce i suoi occhi e vedo le mie parole riflettersi ed echeggiare in
lui. Come se finalmente le capisse, le assaporasse, le condividesse, accettasse,
pregasse. Ed è un attimo, prima che annulli il respiro che ci divide, chiudendo
le mie labbra con le sue.
La mia bocca riconosce subito la sua, mentre
chiudo gli occhi, tremando. È un sapore che emerge dalla memoria come una
nebbia di menta e limone, che, nonostante mi abbia appena sfiorato, è impressa
come un calco nella pietra. Le sue labbra accarezzano lievemente le mie, è un
contatto lieve, delicato, quasi timoroso, eppure destabilizzante.
Mi aggrappo alla manica della sua camicia
bagnata, come se fosse il solo appiglio rimasto in un mondo fattosi d’acqua.
Draco trattiene le mani sul mio viso, è come il
fremito delle ali di una farfalla, i polpastrelli sembrano saggiare la mia
pelle con attenzione e cura come se reggesse un artefatto prezioso. E piango e
non so che cosa ci sia da piangere, perché se senti scoppiare il petto per la
gioia o per qualsiasi cosa abbia trasformato il mio cuore in questa argilla
calda che pulsa sotto i miei vestiti, non dovresti comunque piangere. Eppure il
sapore salato delle mie lacrime sulle mie labbra e sulle sue, è giusto,
necessario, terribilmente consono a quello che siamo.
Non è un bacio al sapore di caramella, dolce
come fragola e liquido come miele, non scivola come una delizia innocente. È un
bacio salato che fa bruciare le ferite, le apre ancora se possibile, le fa
sanguinare… ma le cura, le disinfetta.
Non ha niente di una languida dolcezza da
cartolina, ma tutto del rimedio amaro ed inevitabile.
E rende le mie, le sue, le nostre labbra lo
specchio del bacio di quel giorno al Petite Peste, sotto la luna nuova. È
ricordo costante, ma in continuo movimento ed evoluzione.
Piano, come se il tempo fosse morto e il mondo
ci avesse concesso di andare avanti ad un ritmo tutto nostro, le mie labbra si
schiudono assieme con le sue, come due fiori gemelli aperti ad un’inattesa
primavera, la mia mano lo porta più vicino a me, attirandolo dalla nuca. I suoi
capelli tra le mie dita sono bagnati, li stringo forte tra le dita, non riuscendo
a smettere di piangere. Non temo di fargli del male, non temo più niente. Draco
lascia il mio viso per un attimo, lo rimpiango ad occhi chiusi come se fosse
andato dall’altra parte del mondo, prima che le sue braccia si chiudano attorno
alla mia vita. Esploro il sapore della sua bocca con l’esasperante lentezza che
non mi sono mai concessa nella mia vita e che ora mi sembra un dono, un dovere,
un diritto inalienabile. Lui asseconda il mio ritmo, stringe tra le dita la mia
camicia bagnata sui fianchi. Quando il tessuto fradicio conosce la carezza
bollente della sua pelle sulla mia, rabbrividisco come se il freddo di questa
notte e il caldo del suo corpo stessero generando un tornado dentro di me.
Ma non so fermarmi, non potrei fermarmi. Volute
di seta sono le sue labbra sulle mie, che quando per un attimo si allontanano,
mi soffocano in una lontananza che non posso sopportare. Torna mio, sii
sempre mio, non andartene mai più, e sia sbagliato, e sia giusto, e sia folle,
e sia qualsiasi aggettivo, ma basta che tu sia tu e che io sia io, qui, per
sempre, per domani, per oggi soltanto. Per un altro secondo ancora. Un altro
secondo ancora.
Persa. Fin dal primo momento in cui ho rivisto Draco,
questo è l’effetto preciso che mi ha fatto.
Avevo ragione. Dovevo perdere me stessa per trovare lui.
Le mie mani conoscono d’improvviso ansia
febbrile, divorante, insaziabile come un incendio d’agosto. Tu non mi
basterai mai. Per tutta la vita ho represso il desiderio come qualcosa di
sconveniente e pericoloso, come qualcosa da sigillare in fondo al ventre e da
non mostrare mai a nessuno. Fallibile statua di granito, ho conosciuto carezze
di amore dolce che mi arrivasse a malapena al cuore. Adesso, persa me stessa,
divento nuova, generata da un bacio come una principessa delle fiabe. Ho una
foresta oscura alle spalle, rovi e spine che hanno graffiato di sangue il tulle
di un vestito scomodo e stretto, ho superato trappole come voragini e fiumi
come oceani… ma è stato poco.
Il cuore dice che è stato poco se era questo
quello che mi aspettava fuori.
Stringo le mie braccia attorno alle sue spalle,
non è mai abbastanza, nulla è mai abbastanza. Le mani di Draco si rincorrono
lungo la mia schiena bagnata, mi inarco senza accorgermene, gli mordo il labbro
inferiore. Tu non mi basterai mai. Sentendo il sapore ferrigno del
sangue sulle mie labbra, spalanco gli occhi spaventata e mi stacco da lui
respirando a fatica. Draco ha gli occhi confusi, pieni di nebbia e stelle,
restano socchiusi guardandomi come se fosse sotto una luce troppo forte.
“Ho paura…” sussurro timidamente, poggiando la
fronte sotto il suo mento “Tutto… questo… c’è… troppa… ecco, foga…
io non sono mai stata così…”.
La pelle del collo di Draco, bollente e pulsante
contro la mia, trema un po’, lo sento ridere leggermente. Le sue braccia mi
stringono più forte, le mani si aprono sulla mia schiena nuda. Rabbrividisco
ancora, trattenendo l’istinto di implorarlo come la peggiore delle donne di
strapparmi tutti gli indumenti di dosso.
“Nemmeno io sono mai stato così…” mi bisbiglia,
accarezzandomi ancora la schiena, gioca con l’allacciatura del mio reggiseno.
Chiudo gli occhi, mordendomi le labbra. Lo sta facendo apposta? È Malfoy,
Hermione, certo che lo sta facendo apposta.
Draco prende il mio viso tra le mani,
allontanandomi gentilmente da sé e mi guarda con un sorriso rapace, eppure
dolce. Lo guardo imbambolata, dimentica di tutto. Come fa ad essere così? Come
fa ad essere… mio… adesso? Come faccio a piacergli io? Non sono Helena e
i suoi occhi da cielo di primavera. Non sono Astoria e la sua bellezza quasi
sfrontata. E non sono nemmeno la Parkinson e il suo destino gemello incatenato
del suo. Sono… solo Hermione Granger. Che diamine ci vede in me? Non sto
con un uomo da tanto tempo, non sono mai stata un’amante capace e fantasiosa,
sono goffa ed impacciata, spesso fredda e scostante. Che cosa ci vede in me?
“Se fossi stato sempre me stesso con te…”
sussurra ancora, lo sguardo che diventa di nuovo fosco e nebuloso mentre guarda
le mie labbra “… ti avrei baciata dal primo momento che ti ho visto…”,
deglutisco più rumorosamente di quanto vorrei, abbassando lo sguardo. Draco
sorride ancora, tornando a guardarmi negli occhi prima di aggiungere leggero:
“Non posso crederci di essermi privato di tutto… questo… fino ad ora. Tu
mi hai fatto perdere me stesso… e devi esserne consapevole… sei tu, adesso,
che non mi basterai mai…”.
I miei occhi, prima esplosi di calore e luci,
scivolano malamente in basso, la forma di un pensiero scomodo che li grava come
pesi da mille tonnellate. Ma prima ancora che dia forma a quel pensiero, prima
ancora che mi renda conto del suo contenuto, prima che lo apra come uno
sgradito regalo, Draco mi solleva il viso e mi dice poche parole, sfuggite con
tono di voce scontato, banale, ovvio. Ma il mio cuore, quell’argilla in fiamme
in cui si è trasformato, schizza nel petto come un lapillo di lava.
“E non mi basterai mai non solo perché ti
voglio come non ho mai voluto nessuna altra donna: non mi basterai mai
perché ti amo. E spero che tu la sappia la differenza, perché la stiamo
sprecando fin troppo questa notte…”. Come sempre, la sua voce arrogante
completa i suoi pensieri, ma per una volta le mie labbra conoscono una risposta
nuova, assolutamente silente. Lo bacio ad occhi chiusi, le mie dita sul suo
viso che sussultano mentre bisbiglio, accavallando le parole che moriranno
sulle sue labbra: “Ti amo anch’io”.
A quelle parole, a sentirle rotonde nella mia
bocca, a sentirle naturali e facili come mai sono state per nessuno, mi viene
quasi da ridere, mentre mi apro ancora alla bocca di Draco. Lui stesso mi pare
sorridere, mentre chiude gli occhi e mi abbraccia di nuovo. Sorrisi neonati,
mai scoperti, mai indovinati, mai nemmeno profetizzati. È d’improvviso
rilasciare la spuma argentea di un’onda marina repressa e sentire l’acqua ruggire,
raggiungendo e cingendo la riva di una spiaggia assolata. La completezza assoluta
mi avvolge, come se davvero Draco fosse sempre stato il pezzo mancante, il
tassello del mosaico che è sempre mancato per avere una visione completa. Sono
nuova, dalle punte delle dita fino ai capelli, ed esisto in me stessa solo
perché esisto in lui. È terribile, ma sublime. È sempre mancato lui, ora
riconosco quel senso di incertezza dell’infanzia, di inadeguatezza
dell’adolescenza e di insicurezza di questi ultimi anni, come la mancanza di
qualcosa che non avevo mai vissuto: lui, Draco Malfoy. Mi mancava, senza
conoscerlo, il sapore delle sue labbra, aspro, forte, fresco. Mi mancava il
modo che hanno le sue mani di intrecciarsi alle mie, collimando perfette negli
spazi tra le dita. Mi mancava la carezza calda del suo corpo contro il mio in
una sera d’inizio estate fredda e piena di pioggia. Mi mancavano le sue spalle
forti che quasi non si fanno cingere dalle mie braccia. Mi mancava la sua
lingua che danza con la mia, come se fosse nata solo per quello. Ed ora esisto
finché tocco, bacio, accarezzo, amo lui. È terribile… ma come si fa tornare
indietro?
Se scopri che ti piace il fuoco, se scopri che è
la sola cosa che ti fa sentire viva, cosa importa bruciare come una foglia
secca?
Con un movimento improvviso, Draco, senza
smettere di baciarmi, chiude con la sua mano il mio polso, poco prima che io
senta uno strappo all’altezza dell’ombelico. Uno spostamento feroce d’aria
fredda, il rumore della pioggia che si attutisce e un calore piacevole sulle
braccia scoperte.
Apro piano gli occhi, scoprendomi in piedi nella
mia camera a casa di Pansy. Draco ci ha smaterializzati all’interno. La pioggia
continua a ticchettare contro le finestre, la camera è semibuia, illuminata dai
riflessi rosso-oro del camino che proiettano ombre scure sulle pareti.
Piano, senza dire una parola, Draco mi prende
per mano, guidandomi nella penombra accogliente della stanza. Il cuore mi batte
nel petto all’impazzata, mentre si siede sul letto invitandomi a fare
altrettanto. Immediatamente riprende a baciarmi in modo più febbrile rispetto a
prima, le sue mani giocano con i miei capelli bagnati sulla nuca, passandoci
attraverso, sciogliendo ogni boccolo, ogni riccio scomposto dall’acqua. La mia
schiena scivola indietro, incontrando la superficie morbida del letto e della
coperta damascata. Draco, sopra di me, puntellandosi sui gomiti per non
gravarmi addosso, scende dalle mie labbra al mio collo, lasciandomi esanime ad
occhi spalancati contro il soffitto violaceo.
Chiudo gli occhi rabbrividendo, sentendo le sue
labbra calde scivolare sulla mia pelle fredda e bagnata, mentre le sue mani
aprono bottone dopo bottone la mia camicia. È lento, indiscutibilmente lento, è
un supplizio dolceamaro sentirlo ancora così lontano nonostante sia così
vicino. Tutto di me implora pietà, implora resa, implora barriere di stoffa
fatte cadere una dopo l’altra, come roccaforti conquistate. Ogni pressione
delle sue dita su di me mi rende cosciente solo in quel punto del mio corpo,
addormentando il resto, finché lui magnanimo non mi concede altro del suo
benefico calore, ed allora dimentico ciò che era vivo, pulsante, fulgido fino a
poco prima. Tu non mi basterai mai.
Mi sfila la camicia, ne sento il fruscio ai
piedi del letto. Draco accarezza le mie braccia infreddolite, come a volerle
riscaldare, mentre, senza staccarmi da lui, lo libero della parte superiore dei
suoi vestiti con la solita timidezza maledetta che non ho mai dismesso da
quando ero ragazzina. Le mani tremano contro la pelle nuda del suo torace,
mentre scoprono le linee del corpo che avevo sempre e solo immaginato, Draco
stringe la mia mano, portandola sul suo cuore. Batte forte, sembra scoppiare
quasi quanto il mio.
Sotto i lampi fulgidi che filtrano dalla finestra,
come spruzzi della luce di un faro visti da una nave naufraga, mi ritrovo passo
dopo passo, vestito dopo vestito, tessuto dopo tessuto, pelle dopo pelle, nuda
sotto i suoi occhi. Nascondo imbarazzata il viso contro il suo petto, Draco
sorride ancora e non smetterei mai di sentirlo sorridere. Certo, ho paura, ho
paura come sempre: io avrò sempre paura di tutto quello che non so
spiegare. Come si fa a spiegare il sangue che ardendo scorre nelle vene, i
fiori di fuoco che sbocciano dove mi tocca lui, le scintille d’acciaio sotto le
palpebre chiuse, la voglia che mi faccia sua, adesso, subito, domani, oggi, per
sempre. La chiamo paura, perché se la chiamo solo amore, io uso
un termine inflazionato che tutti hanno già usato e che non può descrivere me e
lui assieme. Nessuno ha avuto quello che abbiamo io e lui assieme.
La chiamo paura perché forse davvero
sarei stata più sicura e salva nelle braccia di Hayden, nell’amore immaturo di
Ron, in quello confortante di Dean. Nelle braccia di Draco, io sono piccola,
sparisco, divento schiava del cuore, divento un’altra. Ma divento me.
Torno me. Sono me stessa. Ora, adesso. Sono la vera me stessa, non
quella che fingo sempre di essere.
Torno ad essere me stessa in un modo in cui non
mi sono mai saputa.
E lui lo sa, Draco se ne accorge, perché sa chi
sono io davvero.
E lo sa perché adesso mi accarezza i capelli e mi
sussurra: “Guardami, Hermione…”. E sa che io lo guarderò, vincendo imbarazzo e
timidezza, senza che lui lo chieda una seconda volta. E capirà, adesso, che in
fondo, dopotutto, io mi fido di lui.
Perché, non appena lo guardo, non appena
riconosco i suoi occhi argento, non appena vedo davanti a me l’uomo più bello
che abbia mai visto, nudo, mio, piegato dal desiderio, ma che comunque si
trattiene, ancora aspetta che sia io a dargli l’ultimo cenno d’assenso, riconosco
in fondo e finalmente quanto Draco mi ami.
Tanto, troppo: molto di più di quanto gli
sarebbe naturale e normale, come accade a me. Amarsi così tanto non è normale o
naturale. Eppure è vero. Adesso so che è vero.
Lo attiro più vicino a me di nuovo, si separano
le mie ginocchia e lo lascio entrare nel mio corpo, come è entrato nel mio
cuore tanti mesi fa.
Ogni colore cessa di esistere, ogni rumore
soffoca di silenzio, ogni cosa esplode di calore mentre annego ed annaspo,
trovando infine salvezza. Come se fosse davvero un miracolo, come se questo
momento fosse stato già scritto, come se chiunque altro abbia disposto di
ostacoli il nostro percorso solo per farci arrivare a questo assieme, moriamo
l’uno nell’altra nello stesso identico momento. Stringo forte la sua schiena
sudata, soffocando i gemiti contro la sua spalla, Draco infine mi bacia ancora,
forte, senza remore, ed è un bacio nuovo, diverso, mio, suo, che abbiamo appena
inventato con la gioia spavalda dell’amore appena spartito. L’amore che credi
immortale, l’amore che non può essere altro che immortale.
L’amore che ha il tocco di velluto soffice di un
petalo di rosa che scivola dai miei capelli, riposando sul mio seno e
respirando del respiro di Draco, addormentato su di me.
Allora, questo capitolo è
ingiustificatamente in un ritardo colossale! Se mi seguite sul gruppo “Put a spell on hereyes”
su FB ne sapete parzialmente i motivi! Oltre ai miei soliti impegni personali
(mi manca poco alla laurea quindi sono abbastanza impegnata) sono stata
selezionata per un contest per Collection of Starlight
e ho “dovuto” scrivere una oneshot
che mi ha mangiato moltissimo tempo, anche perché il pc si è divorato la prima
versione e quindi l’ho dovuta riscrivere. Non sono stata ammessa alla seconda
fase ma è stata un’esperienza molto importante, specie perché mi ha insegnato
molte cose sul mio modo di scrivere, quindi è andata bene così. Inoltre non
credo meritassi di vincere o di accedere alle fasi successive, ma sono comunque
contenta così. Mi sono solo pentita di aver trascurato molto Halft per questo. Questo capitolo sarebbe potuto essere
pubblicato molto prima, perché sostanzialmente da Natale era quasi completo, ma
come avete potuto leggere, accade qualcosa di molto importante che, per molto
tempo, non ho saputo come descrivere, essendo più o meno la prima volta che lo
facevo. Spero solo che ci sia ancora qualcuno che segue questa storia,
purtroppo non posso promettere aggiornamenti molto ravvicinati nel tempo,
oramai sono nelle condizioni di non fare più promesse ingiustificate ed
ingiustificabili di migliorare, perché forse andrà sempre così. Ma prometto, e
questa è una vera promessa, che Halft non sarà mai
lasciata incompleta e non oltre spero i tempi di questo aggiornamento. Che
dire? Come sempre ringrazio tutti coloro che ancora leggono e recensiscono
questa storia, nonostante i spaventosi ritardi. Risponderò a tutte le
recensioni ma come sempre non prometto puntualità in questo. Ringrazio ancora e
come sempre le ragazze fantastiche del gruppo Put a spell
on hereyes che come sempre
mi hanno sostenuto ed incoraggiato in tutti questi mesi in tutte le iniziative
che ho portato avanti, in particolar modo Francesca, Turchese, Nadia, Anna e
Sandra. Davvero, rischio sempre di ripetermi ma siete uniche, speciali e sono
stata fortunatissima nel conoscervi. Per questo vi invito (sperando che lei non
mi uccida) a vedere la meravigliosa preview del video
trailer che ha realizzato Francesca per Halft, vi
giuro che ne sono innamorata! Non metto qui il link per rispetto a lei e al suo
lavoro, ma se entrate nel gruppo, lo troverete! J Voglio
ringraziare anche un’altra persona, Erika, già proprio la nostra Erika! :D So che
con Halft non c’entra nulla, ma lavorare con lei mi
ha dato un aiuto notevole e così grande che mi sento nuova e stimolata come mai
prima. È una persona speciale. E tutto questo, poter scrivere qui, è merito
suo. Quindi è doppiamente speciale, sarebbe da ringraziare sempre. Ringrazio
anche chi ha recensito la oneshot
per il contest, Thema probandum.E,
credo, che sia tutto.:)
Piccola premessa a suo modo necessaria:
questo capitolo come sempre mi capita è abbastanza lungo. Purtroppo devo ancora
elaborare il significato dell’espressione “dono della sintesi”, ma sto cercando
di migliorare. All’inizio avevo pensato di dividerlo in due, ma alla fine
significava spezzare qualcosa che ancora nella mia mente, concepisco come
unito. Quindi a chi ancora segue questa storia, chiedo scusa da adesso per il
tempo che perderete leggendo…L
NEI CAPITOLI PRECEDENTI:
Draco ed Hermione sono
riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli
assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il
legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello
Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il
pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole
che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per
proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare
con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto
dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé
stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff,
Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe
concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i
ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a
Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione
sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo
risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un
demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e
Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione
stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco
fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli
restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco
ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere
le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto
d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a
tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Intanto nel
futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme
a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa
dove Draco sia. Non lo vede anche lei da cinque anni. Hermione affranta perde
l’ultima speranza di trovarlo.
Capitolo 35 – Decayingrosebud
Ai luoghi della memoria non è concessa amnistia
dal tempo.
Anzi, forse lo subiscono molto di più di
qualsiasi altro posto esistente al mondo. È un dissidio incolmabile come un
denso fluido che galleggia sull’acqua: un luogo della memoria sarà sempre
diviso a metà. Gli occhi vedono come è cambiato, il cuore si muove nel diniego
di ciò che resta tutto uguale. E quasi strizzi la vista per dirti che deve
esserci altro, ancora qualcosa del tempo sepolto. Invece non c’è più niente.
Pansy è cambiata: dalla ragazza acidula e cinica
che conoscevo si è trasformata in una creatura più malleabile e meno
dispoticamente concentrata su sé stessa. Forse, anche prima di essere la mamma
di Charisma, diventare la moglie di Dean ha influito molto nel processo. Del
resto, tranne che nel mio caso, quando una diventa madre e moglie,
tendenzialmente smette i panni adolescenziali dell’egocentrismo, diventando
irrimediabilmente altruista.
Quindi sebbene Pansy amasse il suo giardino ed
amasse ovviamente il gazebo di pietra in cui sostava con le sue amiche, ad un
certo punto deve esserle sembrato inutile, scomodo. Uno spreco di spazio che
poteva essere meglio dedicato alla sua famiglia.
Lì, io ho baciato Draco per la prima vera volta.
Al suo posto, ora c’è un’altalena di corda
magica che non ha bisogno di essere spinta e che, in caso di caduta, ti
accoglie su un tappeto di petali bianchi comparsi dal nulla.
L’incantesimo si attiva ad ogni fruscio dei miei
piedi, mentre sicuramente Charisma ancora non tocca il suolo con i suoi
minuscoli arti.
I petali volano via, leggeri nel tramonto,
creando un contrasto sanguigno con il cielo rossastro. Splendono quasi rosei e
poi spariscono alla mia vista.
“Credo che le ricordasse Zabini…”. La voce
leggera di Dean mi raggiunge da un punto imprecisato alla mia destra. Gli
sorrido stancamente, sospingendomi sull’altalena avanti ed indietro mentre lui
si avvicina a me. Si appoggia alla struttura di ferro battuto con una spalla,
gli occhi sabbia malinconiche onde rese brillanti dalla luce del sole morente.
“Come lo sai?” chiedo con un sospiro. Il profumo
dei petali di rose è soffocante ma non riesco a fermarmi, continuo a spingermi
avanti ed indietro. Dean scompare e riappare accanto a me.
“Stringeva le labbra quando veniva qui…”.
“E da lì hai capito? Come?” chiedo, fermandomi
all’improvviso. Lo guardo implorante, come se dalla sua risposta potrei avere
cose che io non so e non ho mai avuto. Quotidianità, ecco. Le piccole abitudini
affastellate giorno dopo giorno, i riti inanellati continuamente: io e Draco
non abbiamo fatto in tempo ad averli. Abbiamo avuto una passione bruciante, un
amore inesausto, ma non abbiamo potuto assistere al momento in cui le farfalle
nello stomaco si sarebbero riposate, dismettendo le ali.
Dall’innamoramento, intenso ma passeggero, non
siamo mai arrivati all’amore, carsico nel sottosuolo di noi stessi.
Io non conosco Draco come Dean conosce Pansy.
Dean sorride leggero: “Stringe sempre le labbra
quando qualcosa le dà fastidio… quando la incontrai a Parigi, aveva
quell’espressione praticamente sempre. È difficile dimenticarsela, è molto
simile a quella che avevi tu quando nominavo Ron…”.
“Davvero? Non me lo ricordo più…”.
“Ho una discreta esperienza” commenta Dean
presuntuoso, incrociando le braccia “Vengo sempre dopo un cosiddetto grande
amore…”.
“Cosiddetto, appunto…” sorrido amaramente,
incassandomi nelle spalle “Pansy ti ama molto, spero che tu non l’abbia messo
mai in dubbio…”.
Dean sorride, ha gli occhi profondamente persi
nei suoi pensieri come se non guardasse me, il tramonto o il giardino, ma
qualcosa che sta avvenendo solo nella sua testa e che probabilmente è
lontanissimo anche nel tempo.
“No, non l’ho mai messo in dubbio…” acconsente
con sicurezza stentorea, per poi proseguire con voce soffice: “Ma è difficile
dimenticare quello che siamo stati per tutta la vita, Hermione. Amare Pansy mi
ha reso un altro… credo che tu lo capisca meglio di chiunque altro. Sai quante
volte al giorno sento dentro una lotta intestina tra quello che ero e quello
che sono diventato? Tra il Grifondoro mezzosangue che avrebbe potuto amare solo
una come lui, e il marito di Pansy Parkinson, la migliore amica di Draco
Malfoy?”. La sua è una domanda retorica, ovviamente. Sa già che cosa
risponderò. È una frattura come la cesura in un osso rotto che sento circa
duecento volte al giorno.
“Quindi è normale che spesso la mente non mi
viene dietro…” prosegue, socchiudendo gli occhi e stringendosi nelle spalle “E
mi sembra più ovvio che il suo grande amore sia stato Zabini, piuttosto che
io…”.
“E a me sembra più normale che con Draco sia
finita, piuttosto che sia continuata…” aggiungo con un filo di voce, Dean mi
poggia una mano sulla testa facendomi una carezza affettuosa. Riconosco le sue
dita, la sua mano, la sua pelle, ed è assurdo pensare che mi abbia amato, che
io abbia pensato di amarlo. Mi abbandono a quella dolcezza nostalgica che ora è
solo fraterna.
“Sarebbe più normale che tra me e lui non sia
mai successo nulla…” riprendo con un nodo in gola che strozza le mie parole
“Poi vedo Alex e ricordo quello che è stato. Non posso più tornare indietro,
Dean. Tu potresti?”.
“No… fa paura talvolta, anche se la mia
situazione con Pansy è diversa … ma… no. Non ce la farei a tornare indietro.”.
“Mi capisci adesso?” riprendo, voltandomi
finalmente a guardarlo. Dean ha gli occhi più chiari di quello che ricordo, mi
fissano con espressione sofferta, tra una tenerezza difficile da smussare e una
pietà impossibile da nascondere.
“L’ho sempre fatto…” Dean prende fiato e sospira
profondamente, tutti i miei sensi improvvisamente si risvegliano. La sua
espressione è cambiata. Il sole improvvisamente, da morto diventa rovente, e mi
infiamma il viso. Dean abbassa lo sguardo e io rincorro i suoi occhi,
esortandolo silenziosamente a parlare.
“Pansy non ti ha mentito…” dice con voce atona,
a malapena muove le labbra “Lei non sa dove è Malfoy. Ha sofferto forse quanto
te in questi anni. Era il suo migliore amico…”.
Deglutisco, la testa che pulsa ininterrottamente
e il volto accaldato. Le mie mani stringono convulsamente la corda
dell’altalena.
Dean sospira ancora, guardando il cielo: “Ma non
ti ha detto una cosa… non so perché. Mi piace credere che non voglia farti
soffrire… ma non li conosceremo mai fino in fondo, Hermione. Mai.”.
Mi si svuota la mente da ogni pensiero, come se
affogassi. Mi aggrappo alla sua bocca e alle sue parole come se fossero pane ed
acqua in una deserto di fame.
Dean si piega in ginocchio, giungendo alla mia
altezza. Mi accarezza una spalla con dolcezza, poi chiude gli occhi e mi
stringe una mano.
“Pansy mi ha raccontato tutto. Di quel giorno di
cinque anni fa. Malfoy andò via di qui con Serenity… dopo che…”. Mi stringo
nelle spalle, chiudendo le labbra, cercando di non ripensare a quanto avvenne
quel giorno. Lo prego in silenzio di non proseguire, il pensiero del dolore di
Draco mi spezza fiato e cuore e non lo posso sopportare ancora. Per fortuna
Dean capisce e si interrompe dal ricordarmi quel maledetto giorno di cinque
anni fa.
“Non andò via da solo…” lo aggiunge quasi senza
voce, inconsciamente serro la sua mano nella mia “E anche di lei non sappiamo
più niente da cinque anni… deve essere ancora con lui…”.
“Di lei?” pigolo spaventata, sbarrando gli occhi
“Di chi stai parlando, Dean?”.
“Raissa… quel giorno Draco è andato via con
Raissa. E crediamo che siano ancora assieme”.
Ai ricchi piace la seta viola.
Che in un
momento del genere io riesca a pensare una cosa simile, non è una cosa che mi
sorprende. Ho il cervello che se ne va sempre per conto suo nei momenti topici
della mia esistenza. Non che questo lo sia, un momento topico intendo, ma
pensare ad altro sarebbe quantomeno provvidenziale vista la mia attitudine ad
infilarmi costantemente in situazioni senza uscita.
E questa è
forse la regina madre delle situazioni senza uscita.
Astoria mi ha
fatto vestire di seta viola, quando voleva farmi uccidere Draco. Pansy mi ha
messo a disposizione una serie di pigiami tutti rigorosamente viola e tutti di
seta, che io mi sono rifiutata categoricamente di indossare, e non a caso
adesso indosso solo una camicia bianca da uomo che mi copre a malapena le
gambe.
Concludere in
modo netto che la seta viola è in cima alle preferenze d’abbigliamento
facoltoso è la logica conseguenza del fatto che anche Dimitri Karkaroff ha una
camicia di tale colore e tessuto.
Certo, capisco
la seta, è un prezioso involto proveniente da un comunissimo baco, ma il viola…
io lo detesto il viola, peggio di un’attrice alla prima di uno spettacolo
teatrale.
Lo evito come
c’è gente che evita gli specchi rotti, o i gatti neri, o le crepe sui
marciapiede.
E non sono
superstiziosa, figuriamoci! Mi trasmette solo disagio.
E vedermi
parare in corridoio alle sette del mattino Dimitri con tale abbigliamento
doveva essere un segnale divino, come se improvvisamente si fosse messo a
piovere fuoco dal cielo.
Ma, ovviamente,
io che sono una persona razionale e ragionevole, non ci ho fatto caso.
Sbagliando!
Ho solo cercato
di allungare quanto più possibile la camicia che indossavo, per coprirmi almeno
fino al ginocchio, faccenda sicuramente importante ma che mi ha distratto
dall’apparizione del colore nefasto. Che poi, a rifletterci bene, anche se lo
avessi visto bene il colore della sua camicia, figuriamoci se ne avrei ricavato
un qualche presagio di sventura.
Ero, e sono,
nel bel mezzo della mattina più bella della mia vita.
Ho gli occhi
gonfi di sonno, i capelli spettinati, il labbro inferiore con un piccolo
taglietto, un segno violaceo sul collo e la testa che pulsa come un martello
pneumatico.
Eppure sono la
donna più felice del mondo.
Ciò implica che
ho la capacità visiva e cognitiva di una lumaca sgusciata.
Ergo, mi sono
accorta a malapena di Dimitri, figuriamoci della sua maledetta camicia…!
Se mi fossi
accorta anche solo della sua presenza, tanto per dirne una, probabilmente al
momento non sarei rimasta con la mano ferma a mezz’aria e la bocca lievemente
spalancata, mentre la garza imbevuta di disinfettante scivolava via dalle mie
dita, ricadendo soffice sul letto su cui sono seduta a gambe incrociate.
E questa
mattina sarebbe rimasta del colore dell’oro e della perla, invece che tingersi
di un indaco fastidiosamente irritante.
E certamente
non mi sarebbe stata fatta questa domanda, dopo la quale le vene del mio collo
si sono pericolosamente gonfiate, facendomi riassumere la ben nota espressione
da pesce palla… anche se poi, a conti fatti, non è che sia così inconsueto che
io stia passando nell’arco di quattro secondi dal disinfettare amorevolmente lo
zigomo tumefatto del mio quasi fidanzato-amante-compagno-frequentatore di
letto-non-so-come-altro-chiamarlo-in-attesa-che-lui-definisca-esattamente-quello-che-siamo,
meglio noto come Draco Lucius Malfoy, alla voglia spasmodica di aprirgli una
serie di altri tagli sulla faccia, dove spargersi sopra del sale che fa molto
stile “Attila flagello di Dio”.
Fare l’amore
con l’uomo che amo, non cambia che l’uomo che amo sia sempre Draco Malfoy.
E non cambia
che, dopo una manciata di minuti silenziosi, in cui si è lasciato passivamente
curare da me che straragionavo ed inveivo con una
serie di anatemi e maledizioni, abbia sospirato, abbia allontanato con la sua
mano ingrata la mia e mi abbia guardato negli occhi con il livore di un cane a
cui hanno tentato di rubare un osso. E già vedermi paragonare mentalmente ad un
osso mi fa venire voglia di spalmargli la faccia di soda caustica.
Però la
sensazione di trallalà in cui mi trovo al momento, mi
ha impedito di reagire male, l’ho solo guardato con gli occhi dolcemente
appannati, chiedendo: “Che cosa c’è?”.
E lui,
seriamente, calmo come solo lui può esserlo (ossia nella sua testa ha già
ucciso qualcuno in una dozzina di modi diversi), ha proferito stoico la domanda
da maschio imbecille, insicuro, immaturo, illogico ed un’altra sequela di
aggettivi che iniziano per “i”, ma che non sarebbero adeguatamente offensivi.
“Sei stata a
letto con Dimitri?”.
Cinquanta
secondi dopo, Draco Malfoy aveva un nuovo livido sul braccio.
Ed Hermione
Granger, la sottoscritta, era in giardino che camminava avanti ed indietro,
indossando un stramaledetta vestaglia di seta viola.
Tutto inizia e
finisce con il gelato fritto.
Gelato fritto,
avete capito bene.
Quando vivevo
con Dean, non avevamo molti soldi. Certo, anche se era il solo a lavorare,
aveva uno stipendio abbastanza decoroso, ma sicuramente io non ero una di
quelle fidanzate che passa la vita sulle spalle del suo uomo. Anzi, ero più il
tipo che, se avevo la necessità impellente di comprarmi qualcosa, preferivo
ricavarla di risulta da qualcos’altro. Sono andata a tre matrimoni con lo
stesso vestito, modificato in modi più o meno decenti dalla bacchetta di Ginny,
pur di non ammettere che avevo bisogno di un nuovo abito. Dean mi rimbrottava,
si arrabbiava, era anche capace di mettermi nel portafoglio di soppiatto delle
banconote, ma allo stesso modo io gliele ridavo con tanti saluti. Ebbene, per
questo mio esibito trionfo di parsimonia, c’era sempre ben poco con cui
festeggiare a casa nostra: niente champagne, niente torte di compleanno se non
striminzite ed al sapore di plastilina, niente coriandoli colorati.
Un giorno
qualsiasi, Dean si alzò da letto dicendo che non aveva voglia di andare a
lavorare, che faceva troppo freddo, che preferiva restare a letto. Mi
arrabbiai, tirai le lenzuola cercando di farlo muovere, gli tolsi il cuscino,
gli gettai un bicchiere d’acqua ghiacciata in faccia, ma niente. Anzi, per
tutta risposta, ebbe anche il coraggio di afferrarmi per i fianchi e
trascinarmi a letto, intimandomi di non muovermi. Mi dimenai per un’ora,
dicendo che avevo delle cose da fare, anche se non lavorando era abbastanza non
credibile. Alla fine mi arresi.
Restammo a
letto tutto il giorno, senza fare assolutamente niente se non ridere e mangiare
schifezze ordinate dal ristorante cinese che c’era vicino a casa, vedendo
telenovele argentine sottotitolate di cui cambiavamo i dialoghi. Non ho mai
riso tanto in vita mia ed anche se il giorno più bello della mia vita resta e
rimane questo, quello è stato sicuramente il più spensierato. Non avevo davvero
pensieri, preoccupazioni. Durò poco, certo, la mattina dopo Dean tornò a
lavorare e io tornai a deprimermi, ma fu davvero un giorno speciale.
Speciale, senza
che avesse granché per esserlo. Credo perché era Dean ad essere una persona
speciale. Che io non l’abbia mai davvero amato e che ora sia persa di quel
furetto maledetto, non cambia nulla. Mi ha insegnato il valore delle piccole
cose, Dean. Il valore del gelato fritto, quando si è felici.
Su quel letto,
pieno di briciole, mentre lo mangiava riempiendosi la bocca di morbido ripieno
alla nocciola, mi disse solo sorridendo: “Non si è mai troppo poveri per un
gelato fritto! Dovremmo farne un rito per quando accade qualcosa di
meraviglioso! Tanto costa solo tre sterline!”. Sorrisi a mia volta, annuendo e
commentando che meno male che le cose meravigliose accadono raramente,
altrimenti il mio fegato sarebbe raddoppiato di volume nel giro di un paio di
mesi. Mi baciò, ridendo.
Da allora, da
quel momento, non ho più mangiato il gelato fritto. Non mi ritenevo mai
abbastanza felice da doverlo mangiare, da dover celebrare quello che al massimo
era un momento di serenità o di tranquillità. E poi è arrivata la notte scorsa.
Draco è
tornato. Draco è vivo, è riuscito (anche se non so ancora come) a scampare da
Adamar.
Ma soprattutto
Draco mi ama, io lo amo. E ho fatto l’amore con lui.
Ho passato
quasi tutta la notte ad occhi spalancati, senza una minima traccia di sonno,
guardando il soffitto che piano cambiava colore mentre la pioggia apriva il
cielo. Ha albeggiato nel mio cielo d’intonaco e i miei occhi non si sono
socchiusi per un secondo, perché quando vivi da sveglia un sogno qualsiasi
immagine scoppi sotto le tue palpebre chiuse, avrà sempre la consistenza di un
contentino. Draco era accanto a me addormentato, ogni tanto mi giravo a
guardarlo, perché poteva anche essere volato via come un’impalpabile nebbia,
poteva essere davvero un sogno che, adesso, pavidamente evaporava alla luce del
sole. Il giorno è crudele, si sa, con i sogni innamorati della notte.
L’ho guardato
per tutta la notte, mordendomi l’interno della guancia, senza battere le
ciglia, una mano sotto il cuscino.
Lui dormiva e
io lo guardavo.
Ha l’aria
corrucciata anche quando dorme, aggrotta spesso le sopracciglia, biascica
parole incomprensibili, si muove spesso scalciando. Timidamente, come se fosse
uno sbaglio che lui adesso mi appartenga, al primo raggio di sole che spezzava
il pulviscolo dell’aria della stanza gli ho accarezzato piano la guancia ispida
di barba. Si è svegliato subito.
“S-scusami, non
ti volevo svegliare…” ho biascicato stupidamente, stringendomi il lenzuolo al
petto. Lui, senza nemmeno riaprire gli occhi, ha sorriso, attirandomi vicino a
lui.
“Non mi sono
mai addormentato…” mi ha detto, mentre mi adagiavo nell’incavo tra la sua
spalla e il collo, chiudendo a mia volta gli occhi “Ma ho fatto riposare il mio
ego ferito… è stato ritemprante sentire che mi mangiavi con gli occhi per tutta
la notte…”.
Prima ancora
che reagissi stizzita, negando e spergiurando, Draco mi ha letteralmente
tappato la bocca baciandomi. Le mie labbra sono remissive come io non sono mai
stata, e subito si sono piegate, aprendosi a lui. Ha scoperto, inventato,
creato un metodo perfetto per impedirmi di parlare a vanvera e di argomentare
per ore. Mentre scivolavo sotto di lui, le mani sul suo viso, si è
riappropriato di me per la seconda volta ed è stato persino meglio della prima.
La timidezza si è accucciata nel velluto della notte appena passata, risorgendo
nuova come esperta conoscenza della sua pelle, della mia, di tutto quello che
fa la geografia di un corpo. La luce del sole, che lentamente sorgeva, mi ha permesso
di vederlo meglio, di sentirlo meglio, mentre stringevo tra le dita i suoi
capelli che sembravano rilucere come la fiamma di un fuoco dorato. Le sue mani
oramai scandagliavano insenature e penisole della mia pelle con il piglio
spavaldo del veterano navigatore, riconoscendo sentieri e rotte come se gli
fossero appartenuti da sempre. E io stessa ho scoperto di me stessa una
dimensione nuova, riflessa in lui, che di minuto in minuto mi rende scevra da
quella che sono sempre stata, avvicinandomi a chi volevo sempre essere.
Coraggiosa,
temeraria, non superficialmente, ma davvero, dentro, nel profondo, senza che
una sciarpa rosso-oro lo debba dire per me.
In giardino fa
ancora freddo.
Mi siedo per
terra, dietro una siepe di rose bianche e rosse. Ne tormento una con le dita,
giocando con il tesoro di una goccia d’acqua che racchiude tra i petali.
Stringo le ginocchia al petto, perché, per quanto ora io sia arrabbiata e
stizzita, mi sento esplodere ed è come se mi dovessi tenere faticosamente tutta
assieme, per impedirmi di schizzare via in mille direzioni differenti. Non era
mai stato così, fare l’amore con qualcuno… non che io abbia una grandissima
esperienza, sono stata solo con Dean e Ron. Ma con loro ricordo sempre di
quanto fossi rapida, di quanto volessi che tutto finisse in fretta, di quanto
mi imbarazzassero i loro corpi nudi, per non parlare del mio. Cercavo
angolazioni e coni di luce impossibili, pur di non far notare i miei difetti.
Con Draco, è tutto diverso.
Già, me lo
immagino che direbbe lui: “Ovvio, sei stata solo con Weasley e Thomas, ci
manca pure che ti metti a paragonare loro e me…”. Ma non è questione di
paragonare loro, Draco è chiaramente esperto, si vede, mio malgrado, che è
stato con molte donne. La questione è paragonare me: mi abituo a prendere,
senza chiedere, pretendendo nulla di meno di quanto so che lui mi possa dare. E
lui non se lo fa ripetere due volte.
Arrossisco come
una scema a quei ricordi, poggiando la fronte sulle ginocchia. Ne sono
perdutamente, disperatamente, inesorabilmente, innamorata persa. Anche se è un
imbecille.
Mi sono
svegliata di soprassalto dopo un’oretta scarsa, e il letto era vuoto. Le
lenzuola erano gelide, ma la mia solita razionalità calma ha finalmente preso
il sopravvento, suggerendomi che Draco probabilmente era sceso a fare
colazione, oppure era andato da Serenity, o ad avvisare Pansy e Raissa del suo
ritorno. Ho respirato profondamente, mi sono alzata da letto e ho aperto le
tende chiuse: una dolcissima luce dorata mi ha avvolto, il sole è tornato. L’aria
profumava ancora di pioggia, gemme di diamante sulle piante e sulle rose del
giardino.
E in quel
momento di assoluta perfezione, mi è tornato in mente il gelato fritto.
Non c’era nulla
di maggiormente corrispondente all’aggettivo “meraviglioso” per descrivere quel
momento.
In pochi
secondi mi sono pienamente convinta che se non avessi mangiato immediatamente
quel involto grasso e zuccherato, sarebbe imploso lo stesso pianeta Terra.
Mi sono
infilata velocemente una camicia che era gettata sulla poltrona, registrando
sommamente che era di Draco. Ed ecco, se uno poi ci ripensa, sono io che da
sola mi infilo nelle peggiori delle situazioni per le mie considerazioni
cretine: ora non sarei qui seduta per terra in giardino, se non avessi
semplicemente ripensato al fatto che Draco aveva lasciato la sua camicia sulla
poltrona. Assieme agli altri vestiti. Ergo, non poteva essere andato troppo
lontano.
Presa da una
smania paragonabile ai riti scaramantici di un giocatore di calcio, che indossa
per mesi lo stesso paio di calzini fortunati e disgustosamente maleodoranti,
sono uscita in corridoio con solo la camicia ed ovviamente la biancheria
addosso, i capelli goffamente tirati su con un mollettone marrone, scalza per
giunta, alla ricerca di Lyria, l’elfo domestico dei Parkinson. Stavo cercando
di capire dove potessero essere le cucine, dato che non ricordavo di aver mai
preso nota di dove fossero esattamente, quando improvvisamente un movimento
alle mie spalle mi aveva fatto trasalire. E voltandomi, mi ero ritrovata
Dimitri davanti.
Se quell’uomo
non mi avesse mai fatto così tanta paura e soggezione, probabilmente avrei
provato pena per lui. Non lo vedevo da ieri mattina, eppure sembrava diventato
un’altra persona. Non aveva dormito sicuramente, e due profonde occhiaie gli
velavano la pelle morbida sotto gli occhi bigi, e non più azzurro oltremare. I
capelli ricci e neri erano scompigliati e spettinati, ma non nel modo solito
che trasudava eleganza, ma appariva trasandatamente sconvolto. Persino la
postura del suo corpo era cambiata, era curvo su sé stesso, come se reggesse un
enorme fardello di colpa sulle spalle. Non provo e non ho provato pena per lui,
ma preoccupazione, aveva persino gli abiti zuppi d’acqua come se avesse passato
tutta la notte sotto la pioggia. Ed è stato automatico chiedergli sgomenta:
“Che ti è successo?”. Non ho osato fare un passo nella sua direzione, memore
della mattina precedente, mi sono incassata nelle spalle, ma quella maledetta
domanda è uscita lo stesso. Perché? Perché sono un’idiota e in questo, io e
Draco Malfoy siamo perfetti l’uno per l’altra.
Ed è stato in
quel momento che il suo sguardo si è acceso per un secondo come prima, come un
guizzo di luce in un mare di buio, sparute lucciole di azzurro. Mi ha guardato
contraendo le labbra con ferocia, sembrava volersi prendere a morsi da solo,
distruggersi come se ardesse su una pira da cui lasciarsi consumare con
rabbiosa lentezza. Sono apparsa sul suo viso per quella che ero in quel
momento: gli occhi colmi di luce, i capelli spettinati, il segno sul collo, le
labbra rosse, l’espressione felice ed impaziente, le gambe nude.
E lì, ho
capito. Ovvio. Ma troppo tardi.
“Ti sei
divertita stanotte?” ha proferito gelido come una raffica di vento che
spazzasse la tundra annientando vita e spargendo morte “Ti ha fatto gemere come
una puttana in calore, vero? Era impossibile non sentirti…”. Non sono
una puritana imborghesita, sono cresciuta con due ragazzi, ero il capo degli
Auror, sono abituata ad un linguaggio ben peggiore di questo, ma non a quel
tono. Assolutamente. Come se davvero lo avessi tradito. Come diamine poteva
pensare che in qualche modo io non sarei tornata con Draco? E poi… possibile…
che mi conosca da così poco e viva tutto questo, in questo modo?
Questo mi ha
spaventato, ecco la verità. L’ossessione che lui sembra avere per me. Non è
amore, è ossessione. Ed improvvisamente ho capito perché Raissa voleva
andarsene da qui, prima che accadesse questo. Sembrava folle, pazzo, come se la
gelosia e questo malaugurato senso di possesso lo stesse mandando al manicomio.
“In quale
momento preciso della mia vita, ti ho dato il diritto di fare commenti
del genere? O di pensarmi di tua proprietà? Perché sai, forse sono
annebbiata, ed oggettivamente me lo sono scordata…” ho commentato duramente,
incrociando le braccia, momentaneamente incurante anche del mio abbigliamento.
Nello stomaco, corroso dall’acido di un nervosismo senza pari, si era
sviluppato il calore di un nuovo coraggio, cresciuto e nutrito dall’amore per
Draco prima, ma soprattutto dalla nuova fiducia in me stessa che lui ha
indotto. Sono nuova, certo, sono diversa, ma sono tornata molto più simile alla
ragazzina spavalda che ha lasciato Hogwarts per cercare gli Horcrux, che alla
donna che viveva con Dean solo perché non sapeva stare da sola.
Quindi,
ovviamente, in quel momento non ci sarebbe stata persona che mi avrebbe
infastidito di più di Dimitri, altro che spaventarmi.
“Si chiama destino,
Granger…” mi ha risposto lui con noncuranza, quasi annoiato “Già una volta
ho lasciato che qualcun altro si mettesse in mezzo tra me e il mio destino,
credi che lo farei anche questa volta?”. Non ho ovviamente capito a che diamine
si riferisse, ma nemmeno mi interessava. Stava facendo evaporare la mia
fantastica sensazione di entusiasmo e felicità. E dopo tutto quello che ho
passato, non l’avrei permesso più a nessun altro. Ho sospirato insofferente, ho
chiuso gli occhi scocciata e ho fatto per sorpassarlo, cercando di tornare
nella mia camera: “Resta pure delle tue idee, Dimitri, che io resto della mia,
ed alla fine vedremo chi aveva ragione… sai che c’è? Pensala come credi. Non mi
interessa. Non mi importa… lui è tornato, è qui… ed è qui per me.
Figurati quanto mi può interessare la tua idea fatalistica dell’esistenza,
specie se contempla uno scenario in cui sono assieme a te… non si chiama
destino, quello. Si chiama fantascienza…”.
E, mentre
finalmente gli davo le spalle, completando quelle parole, ha fatto qualcosa che
non mi aspettavo assolutamente. Ha riso. Pensavo che mi voltasse bruscamente,
che mi desse persino uno schiaffo, ma che scoppiasse a ridere in modo così
ingenuo ed autentico mi ha fatto sinceramente rabbrividire. Non è normale, ho
pensato automaticamente, voltandomi ancora a guardarlo, mentre continuava a
ridere sommessamente, una mano sulla bocca come se si volesse rispettosamente
trattenere ma non ci riuscisse. Con quella risata liberatoria, è stato come se
il manto opprimente che aveva addosso si fosse dileguato come neve sciolta. Era
come se avesse recuperato il sonno, il senno e la forza. Ed ora, di nuovo,
stranamente, il potere di quella situazione era fluito da me a lui: era di
nuovo lui quello potente, come se si fosse attaccato al mio sangue e ne stesse
succhiando via tutto il vigore e la gioia. Io ero ancora quella piccola,
debole, senza bacchetta, per di più semisvestita. Lui era di nuovo il signore
di tutto, fosse anche del mio corpo, che pure lo rinnegava, lo rifiutava e lo
bestemmiava, ma lui, misericordioso, mi lasciava fare, accogliendo le mie
intemperanze come un padre accoglie i capricci di una bambina viziata.
Mi ha soppesato
lentamente con lo sguardo per un lunghissimo minuto, come se cercasse delle
parole in gola che fossero sufficientemente forti da darmi il colpo che
meritavo, ma che nella sua bocca erano dolcissime come delle caramelle al
miele. Poi, sorridendo ancora, mi si è avvicinato di un passo, prendendomi la
mano e stringendola tra le sue come se stesse per darmi una notizia che
meritasse tutto il suo conforto. Ho cercato di divincolarmi, ma prima che lo
facessi, le sue parole hanno paralizzato ogni mio movimento.
“Ti ha detto come
è tornato? Come ha fatto a tornare?” ha soffiato dolciastro, portando le nostre
mani unite al suo petto, avvicinandomi di più a lui “Non è qui per te… è qui
per lei, è lei che lo ha fatto tornare… sai che c’è, questo è il
destino, Granger… io non ho nessuno dall’altra parte che mi chiama a sé. Solo
tu mi chiami a te… lui invece no. È tra l’incudine e il martello… e tu non
vincerai mai. Vincerà sempre lei.”. Era stato facile capire, ovviamente. La
mente aveva già trovato il nome. Il cuore, battendo sulle costole, invece, negò
feroce.
“Dici di no?”
ha sorriso lui, crudele, lasciando la presa della mia mano per chiudermi la
vita con le braccia “E’ tornato per Helena. Non per te… l’ha incontrata, ma ti
risparmio i noiosi dettagli. Eccotelo il destino, unisce loro due e
separa lui da te. Io solo a questo mondo, tornerei sempre e solo per te. Io
solo a questo mondo, farei sempre di te il mio motivo per restare…”.
Quelle parole… il
motivo per restare… senza nemmeno rendermene conto, senza prestare la
benché minima attenzione a tutto quello che mi aveva detto, quelle quattro
semplici paroline hanno contratto le mie dita nella morsa di un pugno da
graffiarmi i palmi con le unghie. Digrignando i denti, le narici che fremevano,
ho sollevato il braccio velocemente pronta a colpirlo in pieno viso. Quelle
parole… sono mie e di Draco. Non sono di nessun altro, tantomeno sue. E il
fatto che le abbia usate… vuol dire… che ci ha ascoltato ieri sera.
Le nocche
livide, l’ho visto carambolare dall’altra parte del corridoio finalmente
lontano da me. Dopo aver descritto una buffa capriola in aria, è atterrato
malamente al suolo, faccia sul pavimento. Di primo acchito, la rabbia, il
respiro ansante, l’adrenalina, non mi ha fatto rendere materialmente conto che
la mano non mi bruciava per nulla per il colpo dato. E soprattutto che, anche
se sono il Capo degli Auror, sono più abituata a colpire con la bacchetta e non
senza. Dunque, potevo certo fargli male, ma non così tanto da farlo addirittura
rimbalzare così lontano da me. Quando poi il silenzio sconvolto che mi
circondava è stato rotto da una voce abituata ad essere calma anche nella
rabbia, ma che adesso faticava a non tremare, i capelli mi si sono drizzati
sulla nuca e mi sono voltata lentamente su me stessa.
“Se non avessi
avuto lei come motivo sufficiente per restare, adesso ne ho un altro,
Karkaroff… tu… nemmeno se fosse lei stessa a chiedermelo, te la
lascerei…” Draco ha fatto silenziosamente qualche passo, senza guardarmi, gli
occhi grigi fissi su Dimitri che si rialzava da terra, pulendosi nervosamente
il labbro spaccato. Aveva i capelli bagnati, segno evidente che era solo a
farsi una doccia. A torso nudo, con addosso solo i jeans, sembrava la cosa più
simile ad un miraggio che avessi mai visto. “Hermione è mia, in tutti i
sensi che questa parola possa significare…”, la bacchetta nella sua mano non ha
tremato per un attimo mentre diceva queste parole, io mi sono sentita così
scossa da brividi caldi e freddi assieme che temevo di andare a pezzi “Se solo
ti avvicini a lei, se solo le respiri ancora vicino, se solo anche pensi a lei,
ti ammazzerò con le mie mani. La tua schifosa vita è mia, l’ho salvata una
volta e te la posso togliere in qualsiasi momento. E per quanto riguarda
Helena… nominala solo un’altra volta, maledetto bastardo, e ti farò fuori…”.
Tra l’incudine e il martello… ho pensato per uno sciocco attimo, prima di
scuotere il capo, cancellando quel pensiero.
“Non avrei
nemmeno saputo che esisteva se non fosse stato per te, Malfoy…” ha ribadito
Dimitri, alzandosi ed estraendo la bacchetta “E tu non sai contro chi ti sei
messo. Ti pentirai di aver chiesto il mio aiuto quel giorno…”. Così dicendo, un
fascio di luce scarlatta è schizzato fuori dalla sua bacchetta, colpendo Draco
in pieno viso. Ho urlato, spaventata, vedendo il sangue, ma ovviamente non si
sono fermati. Hanno preso a combattere come due invasati, sparendo e
ricomparendo come lampi, abbattendo statue e pezzi di muro, mentre io china per
terra cercavo di ripararmi la testa con le braccia e maledicevo il solito fatto
di non avere una bacchetta. Cercavo di seguire Draco, di intercettare il
baluginare dei suoi capelli biondi, ma si muovevano troppo velocemente.
Tossendo per la polvere sollevata e chiedendomi come non facessero Pansy e
Raissa ad intervenire visto il fracasso, ho cercato di pensare ad una soluzione
per fermarli, prima che Dimitri davvero facesse del male a Draco. Divide
bellatores, le parole sono fluite da sole nella mia testa, era un
Incantesimo antico, poco conosciuto, utilizzato dalle vecchie streghe delle
taverne quando due ubriachi si azzuffassero. Non era molto potente, specie
perché lo dovevo usare senza bacchetta, ma speravo che mi desse il tempo
necessario per farli fermare. Mi sono alzata in piedi faticosamente, chiudendo
gli occhi e cercando di concentrarmi al massimo, nonostante il frastuono dei
colpi e la preoccupazione per Draco. Il mio potere magico, così represso nel
mio corpo dall’inizio della condanna, è corso velocemente alle mie palme
sollevate, facendomi sorridere, è stato come ritrovare un vecchio amico che
smaniava dalla voglia di vedermi. Pronunciare la formula è stato come togliere
il tappo ad una bottiglia di spumante. Respirando a fatica, ho visto finalmente
Draco e Dimitri divisi, che si squadravano in cagnesco, separati da un bagliore
lucido e biancastro che si frapponeva tra loro e che non riuscivano a superare.
Dopo aver sommariamente constatato che Draco sembrava stare bene, a parte qualche
taglio sul viso e sul braccio, e che Dimitri si reggeva in piedi (non che me ne
freghi di lui, beninteso, ma non ci sto che Draco diventi un assassino), mi
sono avvicinata a loro, tenendo sempre il contatto visivo con la barriera che
li divideva per impedire che venisse meno.
“Che diamine
stai facendo, Granger?! Togli subito questa maledetta cosa, prima che la faccia
a pezzi!” ha urlato Draco, rosso in viso per la furia dello scontro, agitando
la bacchetta contro il bagliore che lo rimandava indietro.
“Sta zitto tu!”
ho urlato a mia volta, guardandolo di striscio dato che non potevo distogliermi
dall’incantesimo “Apprezzo molto quello che hai detto, ma non ho bisogno di
nessuno che mi difenda, non sono una proprietà, Malfoy. E scelgo da sola dove
diamine devo andare e con chi diamine devo stare…”, sentendo la risata sommessa
di Dimitri, soddisfatto per il nostro diverbio, mi sono accigliata e ho
guardato di sbieco anche lui: “E ho sempre scelto Draco. Sarà sempre
lui. Non si è trattato nemmeno di scegliere, Dimitri… non sei mai stato nulla
per me. Spero stavolta di essere stata chiara… e se non lo sono stata,
ricordati questo. Tu ammiri di me il mio potere, il fatto che io abbia creato
uno Zahir, che l’abbia distrutto, che ne sia rimasta viva. Se non te ne vai
subito da questa casa, se non lasci me e lui in pace, sappi solo che la
prossima volta che ci incontreremo non sarò in queste condizioni…”, sospiro
infondendo calore alla mia minaccia: “Io avrò una bacchetta, fosse anche
rubata. E saprai che cosa significa mettersi contro il Capo degli Auror, specie
se si chiama Hermione Granger.”.
In quel
momento, finalmente nel corridoio sono arrivate sia Raissa che Pansy che hanno
provveduto a disarmare Draco e Dimitri, un secondo prima che, cadendo in
ginocchio, non riuscissi più a reggere la barriera tra loro. Raissa ha
immediatamente afferrato il fratello per un braccio, portandoselo via, mentre
Pansy ha urlato di tutto a Draco sullo stato del corridoio. E quando finalmente
ci ha lasciati soli, a testa bassa, siamo tornati in camera. Borbottando contro
Dimitri, mi sono messa a disinfettargli le ferite che aveva sul viso. E poi lui
se n’è uscito con la domanda del secolo. “Sei stata a letto con Dimitri?”. E
rieccomi all’inizio del cerchio, seduta vicino alle rose, mentre il sole oramai
è molto più alto nel cielo.
Certo, mi sono
offesa, che domande, non avrebbe un livido nuovo di zecca in faccia se non mi
avesse fatto innervosire… la sua mancanza di fiducia è tipo un cazzotto in un
occhio, ma ancora non ne sono sconvolta. Cavolo, non è che le cose vanno a
posto da un momento all’altro, dopo del sesso francamente eccezionale. Io e
Draco ci amiamo, tanto, e ci consuma. Ma la fiducia è ancora una strada lunga…
e non a caso, lui ha pensato che fossi stata a letto con Dimitri. E io… bè,
adesso che ho la testa vuota, penso con nettezza alle parole di Dimitri.
Sull’incontro con Helena… sul fatto che Draco sarebbe tornato per lei. Certo,
Dimitri potrebbe mentire, anche perché che io sappia, non c’è un modo concreto
per parlare con un defunto se non la Pietra della Resurrezione, e dubito che
qualcuno l’abbia mai trovata davvero. Ma chissà, magari esiste un modo che solo
Adamar conosce… o Draco ha trovato un modo, forse l’ha salutata prima che…prima
che succedesse qualcosa tra me e lui… come se le avesse chiesto un permesso…
Quel pensiero è
gelido ed infido come una lucertola che si arrampica lungo la schiena. Se fosse
davvero andata così, rifletto chiudendo gli occhi, mi starebbe bene? No. Certo
che no. È come dire che lui le appartiene e io l’ho solo preso in prestito per
la mia sciocca vita mortale… e Dimitri, mio malgrado, avrebbe ragione. Il
destino che unisce, è il loro, non il nostro.
Mi asciugo con
la punta delle dita una stupida lacrima che carambola fuori dal mio occhio
sinistro, seguita subito da un’altra e da un’altra ancora. Stupida, che diamine
piango a fare? Se Dimitri mi vedesse adesso, sarebbe convinto di averla avuta
vinta. Smettila, Hermione. Smettila, dannazione. Inspirando forte, ricaccio
indietro le lacrime e mi alzo malferma in piedi.
E Draco è qui,
davanti a me, il cuore mi va in gola vedendolo. La luce del sole che crea ombre
invitanti sulla sua pelle nuda, mentre è ancora a torso nudo come poco prima,
il taglio sul viso che sanguina ancora, i capelli sporchi anch’essi di sangue e
polvere di calcinacci, lo sguardo in attesa e le labbra dischiuse.
Allunga il
braccio piano verso di me, rimanendo con il palmo sollevato, aspettandomi.
E se non è la
forza attrattiva di un destino già scritto che la mia mano scivoli sulla sua,
che si chiude subito a sigillarmi carne nella sua carne…
… io non so
come altro si possa chiamare.
Credo che i
vestiti diventeranno un optional stando con Draco Malfoy.
Ho chiuso la
porta della camera alle mie spalle, dopo che lui piano mi ha presa per mano e
condotto dolcemente indietro, e non so se sono stata io a cercare lui, o lui a
cercare me. So solo che ho avuto bisogno di baciarlo, di toccarlo, di sentirlo
contro di me a respirarmi addosso. Non siamo nemmeno arrivati a letto, rapido,
veloce come non era stato stanotte, è entrato in me, mentre gli cingevo i
fianchi con le gambe, la schiena contro la parete. È stato diverso, ancora. La
voce è ancora arrochita nella mia gola per quanto il respiro sia venuto meno,
per quanto mi sia venuto da urlare, gridare, e per quanto mi sia trattenuta.
Sudata, senza forze, mi sono afflosciata su di lui, abbracciando le sue spalle.
La landa
desolata conosceva di nuovo il suo legittimo re, così mi è sembrato di tornare
ad essere.
“Non avrei
dovuto farti quella domanda…” mi dice improvvisamente e gravemente, vibra il
suo petto contro la mia schiena, dandomi dell’eco delle sue parole
l’impressione della nota stentorea di un organo in una chiesa. Seduti per
terra, sul tappeto cremisi, scivolati sul pavimento soffice senza farci male,
sono tra le sue gambe, un braccio poggiato sul suo ginocchio piegato e la
guancia su di esso. I miei occhi chiusi si riaprono, mentre soffio: “No, non
avresti dovuto”.
La sua presa
sui miei fianchi diventa più stretta.
“Me lo avresti
detto se fosse successo sul serio?”. La sua voce è un bisbiglio lieve, fatico a
sentirla.
“Certo”.
“E non ti è mai
passato per la testa? Possibile?” le sue dita descrivono piccoli cerchi sui
miei fianchi, rabbrividisco chiudendo gli occhi. Cerco di mettere a freno le
sensazioni fisiche che provo e che mi imporrebbero di rispondere che no, non mi
è mai passato per l’anticamera del cervello, perché come diamine poteva
assomigliargli Dimitri anche in questo semplice modo di sfiorarmi piano, senza
alcuna fretta, dandomi l’impressione di accendere dei fuochi d’artificio sotto
la pelle? Ripenso a ieri mattina, sembrano passati decenni… quando Dimitri ha
cercato di baciarmi in giardino… al fatto che lui sembrasse annullarmi il
pensiero e la volontà. A quanto lo cercassi per questo.
“Non in modo
cosciente…” sussurro piano, mentre lo sento irrigidirsi alle mie spalle “Tu non
c’eri… ed ero così debole e lui sembrava così forte, così pronto a darmi tutta
la protezione che volevo… ma soprattutto mi avrebbe impedito di pensare al
fatto che tu non tornassi. Per questo, mi sfiorava quel pensiero. Di
arrendermi. Ma non l’ho fatto, Draco… anche se non fossi tornato, non sarei mai
stata con lui…”.
“E’ un
bell’uomo per quanto ne possa capire io…” commenta asciutto e freddo, tipico
segnale che chissà che diamine sta pensando “E dopo Weasley e Thomas, non è che
c’è da fare tanto gli schizzinosi…”, ed è sarcastico. Quindi mi sta
pungolando apposta, per nascondere l’enorme elefante da salotto dei pensieri
che non vuole palesarmi.
“Non è te”
bisbiglio velocemente, arrossendo ancora come una cretina e ringraziando di non
averlo davanti agli occhi “A volte ho la remota ma assolutamente convincente certezza
che ti piaccia enormemente che lo ripeta a scadenze di quindici minuti…”.
Ovviamente ho alzato la voce sull’ultima frase, imbarazzata come non mai. Ed
ovviamente adesso mi si è azzerata la salivazione e mi sono serrata nelle
spalle.
Le braccia di
Draco mi cingono con delicatezza la vita, mentre mi bacia su una tempia:
“Effettivamente, mentirei se dicessi il contrario, ho un enorme istinto
all’autocelebrazione… specie se viene da te…”, la sua guancia sfiora con
dolcezza la mia mentre si appoggia con il mento alla mia spalla: “… e il fatto
di… amarti… non cambia che adoro farti arrabbiare. Anzi è meraviglioso
che non mi sia passata… potrei passare l’intera esistenza così, Granger…”.
Amarti… risentirlo ogni tanto dà anche a
me un’ebbrezza simile all’autocelebrazione. Ci siamo inseguiti per così tanto
tempo che queste parole ci fanno tutto il bene del mondo.
Reprimo il
sorriso che già mi sta uscendo e sbuffo fintamente arrabbiata: “Consolante,
avrò la cirrosi epatica in un paio di anni”.
“Dunque siamo
arrivati a pianificare di stare assieme già un paio d’anni?” la sua voce
è colma di una gioconda voglia di punzecchiarmi, ma dietro alle parole, dietro
al tono fintamente preoccupato e teso, c’è un calore simile alla speranza. Lo
sento dentro il cuore, che batte contro la sua schiena. È facile riconoscerlo
perché appartiene anche a me.
“Anticipo i
tempi, sì… che ci vuoi fare?” ribatto serissima “Devo fare solo un corso di
sopravvivenza anti furetto… mi toccherà chiederlo alla Parkinson, però…”.
“Che c’entra
lei?” ride lui, non riuscendo più a trattenersi, e il suono cristallino della
sua risata mi distrae da me stessa. Entra scintillando dentro di me,
azzerandomi i pensieri. Ed è un male talvolta, visto quello che dico subito
dopo, senza accorgermene: “E’ la tua sola ex che ho a portata di mano, no?
Denise Delacour non so nemmeno che fine abbia fatto…
e in quanto ad Helena…”. L’eco della risata di Draco si spegne come era nato,
assomiglia ad un fuoco d’autunno soffocato da un uragano di pioggia e,
d’improvviso, la mia pelle e la sua, l’una contro l’altra come se fossero nate così,
semplicemente nate per sfiorarsi, si respingono come poli uguali di una
calamita. Estraneo diventa allora il suo corpo, potenzialmente nemico, anche se
non si è mosso di un centimetro. Il silenzio si ammanta del mio respiro
trattenuto e del suo cuore che batte, batte, batte forte contro la mia schiena.
E si potrebbe fare finta di niente, certo che potremmo, riderei adesso, farei
una battuta, mi alzerei in piedi e ci distrarrei con un pensiero scemo.
Funzionerebbe, perché non abbiamo bisogno di questo, adesso, nel pianeta delle
nuvole rosa in cui siamo. Ma la mia mente non mi lascia mai in pace ed eccola a
suggerirmi il ricordo delle parole di Dimitri. Ed ecco che ora è costrizione
stare seduta, sono prigione le sue braccia, ho bisogno d’aria e ho bisogno di
essere libera. Draco cerca con voce malferma di cambiare argomento: “Dunque ti
hanno fatto vedere i miei ricordi? Se l’avessi saputo, non li avrei mai dati a
Blaise…”, ma l’aura spensierata che ci circondava si è dissolta. Mi trema il
labbro e mi viene da piangere, lei sarà sempre presente tra me e lui?
L’avvertiremo sempre come una fantasma che, gelido, ci respira sul collo?
Spinta da quel
pensiero, mi alzo bruscamente in piedi, divincolandomi dalle sue braccia. Evito
di guardarlo in viso, trovo con lo sguardo la finestra aperta e il sole nel
giardino mentre sussurro: “Dimitri mi ha detto che sei tornato per lei…
e non per me. Io non gli credo… non voglio credergli. Che cosa c’entra Helena
con il fatto che tu sei tornato?”.
Draco sospira,
alzandosi in piedi a sua volta: “Non devi credere a Dimitri… è per te che sono
tornato. Con questo Helena non c’entra niente…”, stringe i pugni lungo le
braccia, prima di dire duro: “Non mi perdonerò mai di averlo portato qui… e
finirò per ammazzarlo, se si mette ancora tra me e te… è solo un altro da
aggiungere alla lista…”.
Spaventata
dalla sua voce fredda, replico stizzita: “Lascia stare Dimitri, adesso… e per
favore, risparmiami anche i tuoi pensieri sull’ammazzarlo o roba simile… voglio
sapere di Helena. Che cosa c’entra lei? Come hai fatto ad incontrarla?”. Draco
rilascia i pugni chiusi, le braccia ricadono inermi lungo i fianchi. Sembra
ancora trattenersi dalla voglia di parlare, guarda altrove, fa qualche passo in
circolo e l’esitazione gli trasfigura il viso, rendendo i suoi tratti confusi
ed incerti. Poi, piano, mi fa segno di avvicinarmi, mi accenna a sedermi sul
letto e sospirando, inizia a parlare monocorde.
“Adamar non ci
ha messo molto a trovarmi appena ha percepito che lo stavo cercando. Ero andato
via da qui da nemmeno due ore e lui già si è fatto vivo. Non saprei
descrivertelo… non l’ho mai visto in viso, ho solo sentito la sua voce. Ed era
raccapricciante, letteralmente, mille volte peggio di quella di Voldemort. Lui
sembrava ancora un uomo, quando parlava. Adamar no, Raissa aveva ragione. È
un demone, in tutto e per tutto. Ha una voce dolce, celestiale, sembra
quella di un’arpa… ma il tono, le cose che dice… mi ha detto che erano anni che
mi stava aspettando, da quando ho tradito i miei genitori… eri sufficientemente
debole e stupido da cercarmi, ma purtroppo eri ancora così legato ad una
sciocca ed antiquata moralità per sentire quel bisogno. Dovevi perdere tutto,
per arrivare a me… questo ha detto. Oramai non sperava più di vedermi,
credevo che lei ti bastasse. Si riferiva a te…”, al suo silenzio titubante,
ricollego le mie parole di ieri sera, io non ti sono bastata. Senza
volerlo l’ho colpito nello stesso punto in cui l’ha ferito Adamar.
“Mi ha fatto la
sua proposta: mi avrebbe dato del potere pressoché infinito, inesauribile.
Magia, conoscenza, intelligenza, volontà. Sarei diventato tutto quello che
Voldemort ha sempre sognato di essere, senza la vita eterna, ma dovevo superare
la prova che aveva in serbo per me. Chiedeva in cambio la cosa più preziosa che
avessi… non ho esitato, erano i ricordi che ho di te. Se non avessi superato la
prova, o mi fossi ritirato, me li avrebbe restituiti… ma questo lo sai. È una
specie di codice d’onore. Adamar prende quello che gli offri solo se è in grado
di darti quello che cerchi. Chi l’ha messo a quel posto, e non so davvero se
sia stato Dio o il diavolo, l’ha messo lì per rendere palesi le punizioni che
gli uomini ottengono, desiderando troppo… è il demone della fragilità umana.
Conosce l’anima delle persone, meglio di quanto la conosca tu stesso. È
orribile ed affascinante al tempo stesso. Non ha dubitato un secondo nello
scegliere la prova che mi avrebbe destinato, come se avesse sempre saputo che
sarebbe stata quella. Io pensavo a draghi, demoni, lupi mannari, vampiri… e lui
mi ha semplicemente indicato una cascata, su una montagna. Mi ha detto di
superarla… solo questo. Ovviamente sapevo che non poteva essere tutto così
facile… ma quando ho superato quell’ostacolo, l’ho anche pensato per un attimo.
Non c’era niente. Solo una caverna fredda, umida e buia. Poi, improvvisamente,
mi sono mancate le forze, non riuscivo a vedere bene, mi mancava il respiro… e
credo di essere svenuto… quando ho riaperto gli occhi, ho capito quale era la
prova. E ho capito anche che non l’avrei mai superata, anzi forse non sarei
nemmeno sopravvissuto. La tua prova sono i morti, ha detto la voce di
Adamar nella mia testa, mentre rideva senza ritegno…”.
“I m-morti?”
dico incerta, guardandolo sconvolta. Draco ha lo sguardo basso, i capelli che
gli coprono gli occhi, una mano che trema. La stringo forte nella mia e dopo
qualche secondo, riprende a parlare: “Non saprei descriverti il luogo in cui
sono stato, assomigliava ad un deserto, ma faceva freddo… e forse non era
nemmeno simile ad un alcun luogo terrestre. Il tempo non esisteva, a volte
avevo l’impressione che fosse passato un secondo, a volte cinquant’anni. E non
saprei nemmeno quanto tempo sono stato lì, tu hai detto che sono mancato
ventitré giorni, a me sembrano passate ventitré vite invece. Vedevo gente su
gente, bambini, vecchi, donne, uomini, guerrieri, soldati… credo persino di
aver visto Voldemort, ma era irriconoscibile, assomigliava ad un neonato
deforme… ma ho visto tutte quelle anime solo dopo. Di primo acchito, la sola
cosa che ho visto sono stati…i miei
genitori…”.
Ancora Draco si
interrompe, gli occhi si annebbiano, li strofina con la mano che io lascio
libera. L’altra stringe forte la mia fino a farmi male, piango le lacrime che
non sa versare. Respira a pieni polmoni, cercando di darsi forza, per un attimo
il silenzio ci avvolge misericordioso, sento solo il frinire lontano delle
cicale.
Ma poi il fiume
delle sue parole riprende con foga: “Non erano felici di vedermi. Non lo
erano affatto. Ovvio. Come se si potesse pensare il contrario… non ti dirò che
mi hanno detto, che mi hanno fatto, che cosa ho sopportato. Non ne vale la
pena. Credo che il pensiero della morte sia sempre stato bello per me, perché
credevo che si smettesse di esistere e basta. Adesso so che non è così… per
questo, Hermione, prima ancora di te e di Serenity, desidero vivere più a lungo
possibile per non affrontare quel posto come ero quel giorno. Colmo di
rimpianti, rimorsi, sensi di colpa… ci sono persone che ho mandato io stesso
lì. Tiger, Goyle, la sorella di Pucey, il padre di Montague… sono morti perché
io tradito. Sono morti perché io vivessi… nemmeno loro erano felici di vedermi.
Dico così, dico che non erano felici perché non saprei usare altre
parole, Hermione. La rabbia dei morti è una rabbia eterna, senza scampo. Arde
come fuoco, brucia come ghiaccio, non hanno tempo o perdono davanti… volevano
solo una cosa. Che restassi lì, a patire per l’eternità. Anche loro, come
Adamar, mi stavano aspettando… da anni… mio padre e mia madre continuavano a ripetere
che sarei dovuto morire con loro, quel giorno. E che ora era giusto che
l’ordine fosse ristabilito: non ero nato per vivere da babbano, per avere una
bambina bionda come figlia e per essere innamorato di Hermione Granger. Ero
nato per morire in quel modo, come loro…
“Ho cercato di
resistere per tanto, troppo. Ma a me non appartengono i tuoi valori morali,
Hermione, non potevo riempirmi di parole come giustizia, coraggio, nobiltà o
altro… sapevo che i morti avevano ragione. E lì ho capito anche perché Adamar
mi stava aspettando da anni. Era stato chiamato a ristabilire l’ordine: era il
mio destino morire e restare all’inferno. Probabilmente se anche avessi
rinunciato alla prova, non mi avrebbe nemmeno aiutato. Mi avrebbe lasciato lì,
rompendo quel suo codice per la prima volta. In quel momento, in quel preciso
istante, ho pregato per la prima volta nella vita. Per te e per Serenity… ed un
attimo dopo, i morti erano lontani da me. E vicino a me c’era Helena…
“Non ti
mentirò, Hermione. Dal momento in cui ho capito dov’ero, l’ho cercata, mi sono
aspettato che lei fosse tra loro, ad urlarmi che era morta per colpa mia. Ma
non era lì, Helena è in un altro posto… era luminosa come una stella. Era come
una luce vivente. Le altre anime non riuscivano a starle accanto, scappavano e
gridavano, compresi i miei. Aveva uno sguardo che non ha mai avuto in vita, era
duro, crudele, colmo di livore. Ma non verso di me… verso gli altri morti.
Parlava in una lingua che non capivo, aprendo a malapena le labbra. Non so che abbia
detto, che cosa abbia fatto, ma sono andati via, sparendo come nuvole con il
sole. E poi ha guardato me e sorrideva. Ero accovacciato per terra, con le
braccia a ripararmi la testa… e mi ha accarezzato il viso, come una madre con
un figlio. Ha detto solo: “Niente è eterno, Draco. Nemmeno questo posto. Chi
vuole può andare via. Deve trovare la forza di capire, cambiare… anche qui. C’è
tempo, ancora, perché i tuoi capiscano. Vivi la tua vita anche per loro. Sii
felice, falli dubitare, non odiarli, amali. E capiranno…”. Aveva un modo di
parlare diverso da quello che aveva da viva, era carezzevole, mi induceva a
piangere come un idiota. Non so nemmeno per quanto tempo abbiamo parlato… forse
anni…”.
“Non voglio
sapere che cosa ti ha detto…” sussurro, abbassando gli occhi, sgomenta da
quello che mi sta raccontando “Sono cose tue e sue… io non c’entro niente…”.
Draco sorride,
lascia la mia mano e cinge con il braccio le mie spalle, attirandomi accanto a
lui. Sciocche, piccole lacrime stupide bagnano la pelle nuda del suo torace,
mentre chiudo gli occhi, una mano aperta sul suo cuore.
“Tu c’entri
sempre, Hermione…” bisbiglia piano, accarezzandomi i capelli “Non so nemmeno io
come… ma c’entri sempre. Ho parlato tanto con Helena… anche di te”.
Inconsciamente la mia schiena si irrigidisce, Draco piano solleva il mio mento
con due dita, portandomi a tiro dei suoi occhi. Sono brillanti, splendono. Non
mi ha mai guardata così, come se fossi… un regalo. E le sue parole mi
chiariscono quello sguardo. Soffice, soffia sulle mie labbra un respiro caldo,
prima di sussurrare: “Sai che mi ha detto Helena? Su di te? L’ho portata io
da te, Draco, questo ha detto, vi siete sempre appartenuti sin da quando
eravate a scuola. Ma ci sono persone che devono essere aiutate da un
destino superiore ad incontrarsi. Non l’avresti mai più rivista, non avresti
mai capito quanto ti poteva cambiare dentro.”. Draco recita le parole di
Helena come se fossero i salmi di un libro sacro, continuo a guardarlo con gli
occhi sgranati, mordendomi il labbro inferiore, rapita dalle sue parole.
Aggiunge poi casuale, come se non stesse parlando di un dialogo avvenuto con la
sua ex morta da anni, ma di una semplice conversazione di cortesia: “Mi ha
detto di ricordarti di una fermata della metropolitana sbagliata… e
dell’ossessione che hai per le canzoni d’amore. Sai che significa?”.
Per un attimo
non capisco assolutamente che cosa voglia dire, sono così sconvolta dal suo
racconto che mi sembra di avere la testa ovattata con tutti i pensieri
rovesciati e lo guardo sbattendo le palpebre, confusa. Un brivido, però, mi
raggiunge immediatamente la nuca, mentre gli occhi di Draco scavano i miei.
La mattina in
cui arrivai per caso al Petite Peste, ricordo con fatica, sbagliai a scendere
dalla metro arrivando a Notting Hill: perché mi ero distratta, ascoltando la
musica con l’ipod.
Ed erano
canzoni d’amore… le ascoltavo sempre… perché… sono dell’opinione che una
canzone d’amore struggente, se ti fa male, è perché hai qualcosa di enorme da
nascondere, che la suddetta canzone è andata a toccare. Le canzoni d’amore ti
fanno effetto in due soli casi: o se ti ritieni troppo felice e quindi pensi
che la canzone porti una sfiga pazzesca, oppure se sei infelice forte e quindi
arrivi anche a pensare che potrebbe pure andare peggio. Ed allora io non ne
ero né felice, né infelice. Ero vuota. Ed ascoltarle non mi faceva il benché
minimo effetto, anzi mi faceva sentire superiore a tutti i sentimenti umani.
Draco segue il
mio sguardo con aria preoccupata, riscuotendomi dolcemente per un gomito
vedendomi distratta. Al suo volto serio e silenzioso, non riesco a rispondere
con null’altro che un misero cenno d’assenso con il capo, troppo sconvolta per
parlare. Lui sospira di sollievo, chiudendo piano gli occhi. “Quindi ti ha
davvero portato lei da me…”. E’ solo una constatazione, credo che non avesse
dubitato nemmeno per un istante che quella che aveva di fronte era davvero
Helena e che fosse stata sincera. Mi sfugge quello che sta davvero pensando,
sembra sereno come poco prima, eppure una vena sottile e distorta gli riga per
un attimo l’espressione. È solo un secondo, passa subito, ma si insinua in me
come un martello pneumatico, causandomi un nodo in gola. Odio non capirlo, odio
che riesca a nascondermi ancora qualcosa, odio stare insieme a lui solo da un
giorno, odio che abbia tutta una vita senza di me… ed odio pensare tutte queste
cose e tutte assieme.
“Helena mi ha
detto che non avevo bisogno di altro potere…” continua dopo qualche istante di
silenzio “Mi ha convinto che, per proteggere te e Serenity, non c’era bisogno
di una versione potenziata di me stesso, ma che non avrebbe più ricordato nulla
di te…”, ancora quella piccola crepa che mi ha aperto il suo sguardo, mi fa
pensare acidamente che non ci voleva un angelo del paradiso per capirlo, ci
poteva arrivare anche da solo, ma la faccio stare zitta in modo automatico. La
mia gola produce in risposta un gemito di fastidio nervoso, che Draco avverte.
Sorrido, dicendogli che non è nulla. Poco convinto, prosegue: “E mi ha detto
che la mia anima è buona… o perlomeno questo lo dice lei… che non avrei bisogno
della vendetta, di trovare Pucey e Montague… o Astoria. Mi ha chiesto di
prometterle di lasciar perdere. Di non uccidere i suoi assassini… ma non sono
riuscito a farlo…”. Mi muovo nervosamente, a disagio, ancora piena di
nervosismo nello stomaco. Qualcosa mi sfugge, qualcosa mi resta oscuro in tutto
questo, qualcosa mi parla nella testa con la voce di Dimitri ma non riesco a
capire che cosa mi voglia dire. Sono felice, certa dell’amore che Draco ha per
me… eppure, qualcosa ancora mi apre una piccola finestra buia nella testa.
Qualcosa che ha
a che fare con la vendetta che Draco non riesce a lasciar andare… il tessuto
della mia mente si lacera, sento lo strappo, avverto una fitta al fianco.
Qualcosa che ha a che fare con il fatto
che Draco non riesce ancora a lasciarla andare.
Lui continua a
parlare, racconta di altre cose che gli ha detto lei, o di persone che ha
visto, ma non riesco più a sentirlo. Annuisco piano, dicendo anche qualche
parola, ma il cuore mi si è fatto piccolo come una noce rugosa ed è affondato
nella mia cassa toracica. È il pensiero più sciocco del mondo, non riesce a
lasciarla andare, ma se uno lo coniuga al futuro, lo estrae dalla sua
dimensione presente e lo proietta all’infinito, mi fa chiedere automaticamente
se mai ci riuscirà. Se anche adesso che ci sono io, è comunque così importante
trovare chi ha ucciso Helena, a costo di perdere la vita e di perdere me… non
conosco la voce di Adamar, eppure sento le sue parole nella testa. Parla come
Dimitri anche lui.
Credevo che lei ti bastasse…
Mi sento
franare come una fortezza che brucia, assaltata da un nemico che non ho mai
visto. Non è semplice gelosia, quella saprei come affrontarla… è diverso, è
tutto ben diverso.
Mi chiude in un vicolo cieco… amerà mai me
quanto ha amato lei?
Respiro piano,
a fondo, come se volessi evitare un attacco d’ansia. Non c’è risposta, non c’è
adesso, non c’è domani. Ci sarà, se mai possibile, al momento in cui rovinerò
al suolo dopo aver spiccato il salto fatale. Ma chi prendo in giro… il salto
l’ho fatto mesi fa, quando mi sono innamorata di lui. Ora sono in volo, come
una libellula cullata dal vento tiepido dell’estate.
E se non
saltavo, non potevo sapere se le mie ali mi avrebbero retto o mi sarei
sfracellata su una roccia aguzza. Anche ora non lo so. Potrebbero sciogliersi
al sole come quelle di Icaro.
Potrei arrivare a capire che per quanto mi
ami, non mi amerà mai quanto amerà lei.
E quel giorno, se lo dovessi capire… sarà
lui a bastare a me?
Il tempo… è il
più misericordioso dei doni. Non posso trasfigurarlo come farei di un topo che
diventa una tazza. Un giorno con me non diventa improvvisamente gli anni con
lei. Non diventa improvvisamente gli anni senza di lei. Devo aspettare,
posso aspettare… devo voler aspettare. Devo voler aspettare.
“E quindi mi
sono messo un cappellino da donna in testa, con un grazioso fiore fucsia, e mi
sono anche messo a cantare Weasley è il nostro Re con l’accento perfetto di una
soprano francese…”.
“Certo,
infatti…”.
“Granger, se
c’è una cosa che detesto, è non essere ascoltato…” il tono brusco delle sue
parole e l’improvvisa aura ghiacciata che sento di nuovo nella stanza, mi fanno
sobbalzare come se fossi una molla, strappandomi ai miei pensieri. Sbatto le
palpebre, guardandolo, la mascella è contratta dal fastidio rabbioso che prova,
gli occhi sono lame da cui si può solo implorare il perdono.
“S-scusami…”
sussurro, mordendomi l’interno della guancia “Non volevo, mi sono distratta un
attimo…”.
“Sei stata tu a
chiedermi che cosa fosse successo… mi sarei benissimo risparmiato tutto questo
racconto… non è una passeggiata per me ricordare queste cose…”.
“H-hai
ragione…” balbetto ancora, spiazzata, abbassando gli occhi e fissandomi le mani
che si torcono in grembo “E’ stato un attimo… perdonami…”.
La sua mano
solleva bruscamente il mio viso, senza delicatezza, imponendomi di guardarlo in
faccia: “Che c’è? Sei cambiata all’improvviso… non ho la pazienza di cavarti le
parole di bocca, Granger… dimmi che cosa c’è. Adesso… se non vuoi, poi…” la sua
voce si abbassa di tono, scorgo qualcosa che si spegne in lui e la mia vista si
appanna: “…almeno non farmi sentire come se fossi lo sgradito terzo incomodo
tra te e i pensieri che non mi dirai mai…”.
“Non è niente…”
sorrido forzatamente, prendendo la sua mano tra le mie “Sto bene, mi sono solo
distratta, davvero…”. Sto fingendo, ovvio, mi fa male il collo per quanto sto
cercando di tenere su questo sorriso che non viene da dentro, ma tant’è… è un
problema mio, non suo. Ma quel che è peggio è che lui non può darmi quello che
voglio adesso. Potrebbe rassicurarmi, certo, potrebbe farmi promesse da
innamorato che si rotolino tra le lenzuola assieme a noi, potrebbe chiudermi le
domande con i baci e confondere i dubbi con le carezze, ma quel dubbio, quel
pensiero… resterebbe sempre. Solo il tempo, solo provare a stare assieme, potrà
togliermelo dalla testa. E non è giusto che lui stia male per questo… ha
passato l’inferno, in senso metaforico e non.
Bacio la sua
mano ancora tra le mie, sorridendo ancora, stavolta un po’ più sincera:
“Scusami davvero… ti stavo ascoltando… Helena quindi ti ha fatto interrompere
la prova?”. Lui esita ancora a parlare, per un attimo splende nel suo sguardo
una tristezza così lacerante che ne capisco immediatamente il motivo.
Non sono l’attrice fantastica che penso…
ha capito che c’è qualcosa che non gli sto dicendo…
“Draco…” lo
chiamo ancora con un sussurro, stringendo ancora la sua mano fredda. Lui
sospira a lungo e riprende incolore: “Ho urlato che mi ritiravo ad Adamar… che
non volevo più quello che mi aveva promesso. L’ho sentito urlare nella mia
testa come una bestia ferita. E tutto si è fatto confuso, come se i contorni
stessi delle cose stessero perdendo definizione… e dopo un po’ mi sono
svegliato nella caverna… però… prima di svegliarmi…”, Draco si interrompe,
fissando senza realmente vederla la parete di fronte a noi. Sembra lambiccarsi
attorno a qualcosa che fa fatica a ricordare, aspetto in attesa fino a quando
la consapevolezza gli bagna gli occhi e torna a guardarmi: “Prima di
svegliarmi… non posso essere certo di non aver sognato tutto… ma mi si è
avvicinata una ragazza… non l’avevo mai vista in vita mia… e mi ha detto…
maledizione, è così difficile ricordare… stavo perdendo i sensi…”. Inarcando un
sopracciglio, perplessa, lo esorto a fare uno sforzo. Non è cosa da tutti
tornare dall’inferno e poterlo raccontare… e se una defunta ti lascia un
messaggio, non è cosa da tralasciare.
“Era una
ragazza giovane, poco più di vent’anni forse e parlava con un forte accento
straniero…” continua Draco a fatica, cercando di ricordare “Aveva una ferita
all’addome… sembrava sanguinare ancora… ed era incollerita, aveva l’espressione
dura, ma non ce l’aveva con me, non era un’altra di quelle che ho fatto
uccidere… anche perché non la conoscevo proprio…”.
“E quindi?”
chiedo ancora incuriosita, sistemandomi meglio sul letto.
“Mi ha chiesto
come si chiamasse la mia donna…” prosegue Draco incerto, guardandomi in tralice
“E le ho risposto che si chiamava Hermione Granger…”, stringo le spalle, sfugge
il solito sorriso da ebete che vorrei reprimere ma che è il degno corollario
della stretta allo stomaco che sento ogni volta che parla così di me.
“… quando
tornerai, dille il mio nome, Draco. Dille che lo ricordi… ha detto queste
parole… e poi le ho chiesto quale fosse il suo nome… mi chiamo Tatia
Krasova…” Draco ricostruisce i pezzi di quella conversazione come i pezzi
di un puzzle, sollevando infine lo sguardo alla ricerca di un lume di
comprensione in me. Che non trova.
Non conosco
proprio nessuna Tatia Krasova.
“Ma sei sicuro
di non aver capito male? O che non abbia capito lei male? Che stesse cercando
in realtà un’altra persona? Io non conosco proprio nessuna Tatia… e credimi
come nome mi sarebbe rimasto impresso…” commento scettica, incrociando
meccanicamente le braccia.
“Non so che
dirti, Granger…” borbotta Draco, stendendosi sul letto con le braccia sotto la
nuca “I morti sono strani… Helena dice che spesso vedono oltre… e non ho
capito che diamine vuol dire, magari vedono le cose prima di noi… sei sicura di
non conoscerla? Forse è una vittima dei Mangiamorte… che cerca vendetta… e si è
rivolta a me perché tu sei il Capo degli Auror, forse non sa che non lo sei
più…”. Le ipotesi di Draco effettivamente mi convincono, forse è una persona
della cui morte nessuno ha avuto giustizia.
“Potrebbe
essere…” commento perplessa, mangiandomi l’unghia del pollice mentre rifletto:
“Magari se mi fai vedere il suo viso, mi viene in mente qualcosa… forse non
conosco solo il suo nome…”. Draco annuisce, si solleva di nuovo seduto e mi
prende le mani tra le sue, chiudendo gli occhi. Un flusso di immagini confuse
mi colpisce, passando nella mia mente come uno stormo di uccelli. C’è Helena,
ci sono i suoi… tanti altri volti… ed alla fine quello di Tatia: alta, carina,
pelle olivastra, occhi marroni, lunghi capelli lisci e castani e un lungo abito
azzurro, macchiato dal sangue.
“Niente…”
ripeto spiccia, quando la visione finisce, mentre lui si stende di nuovo sul
letto “Non la conosco affatto, anche se il suo nome… l’accento… potrebbe essere
straniera, dell’Europa orientale, magari Raissa o Dimitri la conoscono…”.
“Magari Raissa
la conosce…” calca Draco con decisione, gelandomi “Sognati di parlare di nuovo
con Karkaroff…”.
“Credi che non
mi sappia difendere da sola?” ribatto ottusa, guardandolo storto.
“No, non lo
credo… ne sono assolutamente sicuro…”.
“Dammi una
stramaledetta bacchetta e ti farò vedere come non so difendermi da sola!” mi
arrabbio, diventando paonazza ed alzandomi in piedi.
“A quello ho
già pensato…” concede Draco con un sorriso, continuando ostinatamente a
guardare il soffitto “Al di là di Karkaroff, c’è sempre Astoria là fuori da
qualche parte… e certo, stavolta non le permetterò di avvicinarsi a te e non
penso che tu voglia ripetere la straordinaria esperienza della creazione di un
gingillo millenario…”.
“Ci
mancherebbe…” asserisco più calma, sedendomi di nuovo accanto a lui.
“… ma intanto
hai bisogno di una bacchetta… me ne frego della condanna…” continua Draco
stoico “Da strega, sei forte quasi quanto me…”.
“Certo, quasi
quanto te… credici, Malfoy…”.
“No, non lo
credo… ne sono assolutamente sicuro…” ripete lui con un ghigno
sarcastico, al quale sorrido condiscendente prima di alzare gli occhi al cielo spazientita.
“In ogni caso,
avere una bacchetta ha due vantaggi: puoi difenderti, ovviamente… ed anche se
non ci riuscissi, il fatto che non puoi usare la Magia attiverebbe l’ufficio
per l’Uso improprio della magia stessa… ergo, se per ipotesi mi facessero
fuori, saresti comunque in salvo… qualcuno del Ministero arriverebbe…”.
“Non dicevi che
sei più forte di me? Siamo arrivati all’ipotesi che ti facciano fuori?”
commento dura, la testa ghiacciata dal pensiero di vedermelo davanti morto.
“Si parla di
ipotesi, Granger… te lo ripeto, è forse la prima volta nella vita da quando ho
lasciato Hogwarts che ho più interesse a vivere che a morire… l’esperienza da
Dante Alighieri mi è bastata per almeno una sessantina d’anni…”.
“Ne sono
contenta…” ribatto più acida di quanto vorrei “Per un attimo avevo pensato che
fosse per me e per Serenity che non volessi morire… ma ehi, troppa
responsabilità dà alla testa, quindi grazie…”. Con un movimento brusco ed
improvviso, il suo braccio mi cinge possessivamente la vita, trascinandomi
all’indietro fino a ritrovarmi stesa sul letto accanto a lui. Si puntella su un
gomito, girandosi verso di me e sovrastandomi con la sua altezza, resto
schiacciata tra il materasso e lui. Il cuore riprende a battermi come
impazzito, avendolo così vicino, a torso ancora nudo, gli occhi annebbiati di
desiderio. Non credo che mi abituerò mai a questo. Draco fa scorrere l’indice
sulle mie labbra, accarezzandomi piano, di riflesso sento la mia bocca aprirsi,
già implorando che mi baci ancora.
“Non essere
sciocca, Hermione Granger…” sussurra, gli occhi fissi sulle mie labbra “Adesso
stai con me, non con Weasley o Thomas, non hai nessun alibi per diventare
idiota…”.
“Che diamine
vuoi dire?” ribatto con un scatto residuo d’orgoglio, serrando le labbra ed incrociando
ancora le braccia in un moto di difesa.
“Hai bisogno
che te lo dica ancora?” bisbiglia, accarezzandomi piano un fianco, scendendo
poi giù lungo la mia gamba ancora nuda, chiudo gli occhi senza volerlo “Hai
davvero bisogno che te lo dica ancora?”, le sue dita corrono sulla mia pelle
con la tattile esperienza che gli consente di sfiorarmi soltanto, eppure di
ridurmi in cenere “Dopo tutto quello che è accaduto, dopo che te l’ha detto
anche Helena…”, torna al mio viso che riprende ad accarezzare con misurata
lentezza “…dopo il modo che hai di farmi a pezzi se solo non mi dici che cosa
pensi, dopo che mi fai desiderare di ammazzare tutti coloro che ti guardino
anche un po’ di più di quanto dovrebbero… tu… hai bisogno che te lo dica
ancora?”.
“Sì…” bisbiglio,
riaprendo gli occhi e guardandolo dritto nei suoi, prima di sorridere: “Ho un
insano istinto all’autocelebrazione… devi avermelo attaccato tu…”.
“Pessima mossa
innamorarsi del serpente, Granger…” sussurra ad un respiro da me, prima di
poggiare dolcemente le sue labbra sulle mie.
Mentre le sue
dita si riappropriano dei pochi vestiti che indossavo e mentre ancora ripenso
al fatto che stanno diventando un optional, mi regala un sospiro, lo soffoca
sulla mia spalla, lo confonde con un morso, lo mescola ad un bacio, lo impasta
con un respiro. Ed io, gli occhi nebulosi al soffitto, la mano che stringe i
suoi capelli, le ginocchia attorno al suo bacino, ho un sussulto, lascio
sfuggire una lacrima, lo abbraccio più forte.
“Non sei un
motivo per non morire, Hermione. Sei un motivo per vivere… per vivere davvero…
perché se oggi amo te come non pensavo di poter fare ancora, vuol dire che
davvero posso fare tutto… anche vivere di nuovo…”.
Abbraccio la
sua schiena mentre lo sento entrare in me, e per un po’ tra le sue braccia si
acquieta quel senso acuto di malinconia, di nostalgia, di un rimpianto e di un
rimorso che non hanno né forma né colore, che hanno la foggia di un tempo che
non ci appartiene e che non ci fa chiamare Hermione Granger e Draco Malfoy, perché
non c’è niente di peggio della nostalgia per le cose impossibili. E io avrò per
sempre nostalgia di un tempo facile tra noi, di parole scontate, di silenzi
inequivoci. Ed avrò sempre nostalgia di un universo in cui non è esistita
alcuna Helena a farmi dubitare dell’amore che ha ed avrà per me.
Ma adesso… ora,
mentre mi trafigge del dolore dell’amore… per oggi, basta che tu mi ami
così.
“Thomas è un
idiota… non che non lo sapessi… ma l’essere sopravvissuto alla guerra, o
essere uscito indenne dall’adolescenza mi avevano reso cautamente ottimista
sulla ripresa funzionale delle sue sinapsi… e ha anche frequentato te,
un minimo di giovamento poteva anche trarne…”.
“Se non la
smetti, giuro che ti infilo una scarpa in bocca!”.
“Magari
Granger, mi leveresti questo saporaccio infernale, qualsiasi cosa sarebbe
meglio, anche una scarpa… Dio, ascoltare Thomas, come mi è venuto in mente?!
Come se si affidasse il destino dell’Inghilterra a Luna Lovegood…”.
“Che altro hai
adesso contro Luna?!! Ma come parli e parli, insulti qualcuno a cui tengo?!”.
“Bè non è colpa
mia se hai sempre avuto una propensione per gli idioti, gli stralunati, gli
imbecilli…”.
“Giusto, mi
sono innamorata di te, come dimenticare?!”.
Stizzita, mi
sporgo verso di lui e gli strappo dalle mani l’involto di cartone che regge con
due dita, come se gli facesse enormemente ribrezzo anche solo toccarlo. Draco
non si scompone minimamente e continua nella sua tiritera: “Solo lui poteva
avere la brillante idea di rendere peraltro i cinesi ancora più ricchi di
quello che già sono… già hanno conquistato mezzo mondo, aumentiamo anche i loro
introiti… così al Petite Peste, organizziamo sit in
per votare Dean Thomas come nuovo Primo Ministro… con tutto lo spazio libero
che avremmo, sarebbe fattibile no? E tutto perché non abbiamo nel menù il…”,
una smorfia lo spinge a guardarmi schifata mentre mangio in silenzio: “…gelato
fritto…”.
Giuro che
quando fa così, gli darei fuoco!
“Senti, Malfoy,
nessuno ti ha obbligato a mangiare con me…!” inveisco, cercando di non sputacchiare
in giro dato che ho la bocca piena “Era una cosa mia, non è che dovevi
partecipare per forza… e poi che ne so, che non hai mai mangiato cinese in vita
tua!”.
“Dici che vuoi
mangiare per forza cinese, mi aspetto almeno l’ottava meraviglia del mondo
gastronomico… invece carne di gatto morto… ed un involto dolciastro…” riprende
lui, sistemandosi meglio seduto “E poi mi dici anche che era il cibo preferito
di Dean Thomas… fantastico… come se non volessi scordarmi ogni minuto che sei
stata con quello, prima che con me…”.
“Tu sei stato
con Pansy Parkinson se è per questo… e mi stai facendo vivere anche a casa
sua!” ribatto a tono, accalorandomi “E a proposito, non è che resteremo qui per
molto, vero? Dopo che avremmo parlato con Harry di Astoria, possiamo anche
andarcene e cercare di…”.
“Calma, calma…
rallenta Granger, cos’è che dobbiamo fare?! Noi non ce ne andiamo proprio da
qui…”.
Il braccio che
reggeva la scatoletta di cartone bianca, decorata con complicati caratteri
cinesi in rilievo di colore rosso, si affloscia, un secondo prima di un mio
urlo innervosito che rompe l’atmosfera di quiete di questa calda serata di
giugno. Che era iniziata davvero bene, intendiamoci, ma non è che uno può
pretendere che io e Draco Malfoy possiamo restare nella stessa stanza per poco
più di una mezz’ora, senza darci reciprocamente ai nervi. E sottolineiamo che
siamo innamorati l’uno dell’altra.
Abbiamo passato
due giorni sulle nuvole, restando quasi sempre nella mia camera con la sola
compagnia di Serenity. Il momento in cui Draco ha rivisto la sua bambina, è
stato forse il momento della mia vita in cui maggiormente avrei voluto piangere
di commozione ma in cui mi sono trattenuta. Ho notato la piega impercettibile
che Draco ha negli occhi ogni volta che mi metto a piangere fosse anche per
felicità, è come se si incrinasse qualcosa in lui. Non sopporta le lacrime di
nessuno, mi ha detto una volta a letto, perché non sa come gestirle… ma
soprattutto le mie lo fanno impazzire. Quindi, insomma, sto cercando di
reprimerle il più possibile. Non che sia stato facile, intendiamoci… mentre
Serenity continuava a battere le manine come impazzita e a ripetere goffamente
il suo nome, Draco mi ha allacciato per la vita tenendo sempre la bambina in
braccio. Aveva gli occhi spaventosamente simili all’essere lucidi, ma il suo
sorriso era splendente. Giuro che se avesse sorriso sempre così, mi sarei
innamorata di lui a scuola, Serpeverde, Mangiamorte o qualsiasi cosa fosse
stato. Ha guardato prima me, e poi Serenity, ha baciato la piccola sui capelli
biondi e me sulle labbra, prima di sussurrare stringendoci: “Le mie
ragazze…”.
Avete presente
quando provate qualcosa di così forte che il cuore sembra non sopportarlo e
avete l’impressione di stare male, malissimo, da non riuscire nemmeno a
respirare, eppure quell’agonia è così dolce e piena che vorreste che non
finisse mai? Ecco, la provo spesso oramai.
E non nei
momenti nei quali io e Draco facciamo l’amore, o mi dice “ti amo”, o io gli
rispondo nello stesso modo, o vengo così travolta dalla pienezza di amarlo e di
essere amata da sentirmi mille persone in una. Contrariamente a quanto dice
Malfoy, Dean aveva perfettamente ragione. L’amore non è grande, immenso,
sterminato, come io ho sempre pensato. Non è la superficie marina che spaventa e
terrorizza il marinaio, pur affascinandolo. Non è il cielo che il pilota brama
solcare, sapendo che potrebbe anche non reggerlo e capricciosamente sbatterlo
al suolo. Odiavo l’amore per questo, perché con il mio cuore piccolo, la mia
mente minuscola e il mio corpo limitato, se fosse entrato davvero in me, mi
avrebbe fatto implodere.
Invece l’amore
è nelle piccole cose, si nasconde, si piega in un gesto, in un sorriso, in una
frase detta per caso, in un abbandono che sa di friabile fiducia. L’amore è in
quella caduta rovinosa che fai non vedendo un gradino, nella risata che ne
viene fuori, nello sguardo ilare e preoccupato di un ragazzo biondo che ti
ingiunge che sei un’imbranata.
L’amore è
starnutire per un petalo di rosa che ti finisce sul naso, mentre fai l’amore in
giardino una notte in cui non riesci a dormire, l’amore è in quell’ulteriore
risata quando starnutisce anche lui.
L’amore è una
mano che ti sposta i capelli dagli occhi, in uno sbuffo che ti viene
naturalmente acido, mentre replichi che puoi anche legarli: l’amore è
soprattutto quando ti senti dire che con i capelli in ordine, non saresti più
la ragazza di cui lui si è innamorato.
L’amore è
“Orgoglio e Pregiudizio” letto in una vasca da bagno piena di schiuma, dove a
malapena ci state entrambi, dove gli dici che è uguale a Darcy e lui risponde
che Wickham allora è Ron Weasley, glorificando Dio
per non avere una sorella.
Ma l’amore è
anche il contenitore vuoto del pollo alle mandorle che fende l’aria, colpendolo
sulla fronte, dopo le sue stramaledette parole caustiche.
Dean ha sempre
avuto ragione, sempre, e in due anni ha cercato di insegnarmelo, ma ero troppo
ferita per capirlo.
Ora l’ho capito
in un modo così assoluto che dovrei mangiare gelato fritto ogni santissimo
minuto della giornata… ma, oltre a diventare una botte, Draco mi chiederebbe il
perché e non vorrei mai trovarmi a raccontare tutta la storia. Sarebbe troppo
imbarazzante… e poi è bella la condivisione, è bello stare assieme, ma è anche
bello avere dei ricordi e dei pensieri solo miei.
E non c’entra
niente una vendetta dei pensieri di Draco su Helena… per almeno due giorni, ad
Helena per fortuna non ho pensato mai.
Avevo troppo di
cui parlare con Draco… ci siamo raccontati tutto quello che è accaduto in
questi mesi, dai ricordi che non avevo più potuto vedere. Tanti pezzi sono
andati a posto, i suoi atteggiamenti, le sue parole: mi ha per esempio
raccontato della conversazione che aveva avuto con Harry mentre ero in coma.
Non era stata quella che mi aveva mostrato, aveva volutamente modificato i suoi
ricordi: quello che invece era successo, era che aveva chiesto ad Harry di
portarmi via di lì, di allontanarmi da lui, perché temeva che Astoria mi
facesse del male.
Ed Harry,
scioccato da queste sue parole, aveva pensato che potesse provare qualcosa per
me… la conversazione telefonica che avevamo avuto, mentre ero con Hayden ed ero
sotto il controllo dello Zahir, mi era parsa così strana proprio perché lui
solo aveva la vera versione di quel giorno. Io ero invece certa che Draco gli
avesse chiesto di darmi un lavoro solo perché non sopportava più di vedermi,
come lo stesso Draco mi aveva fatto credere per allontanarmi da lui e da
Astoria.
Che lei lo
avesse minacciato, l’avevo già intuito, ma me l’ha raccontato meglio dopo…
dicendomi che la sera in cui mi aveva trovato al pianoforte, soltanto pochi
minuti prima, Astoria gli era apparsa davanti. Potente, minacciosa, ritornata
una strega. Era furiosa e Draco aveva immediatamente intuito che la sua
famiglia non aveva più voluto saperne nulla di lei. Gli aveva detto che era
tutta colpa sua quello che le era accaduto, che oramai non aveva più niente da
perdere, al contrario di lui che aveva ancora me e Serenity.
Ci avrebbe
uccise, se non avesse rinunciato ad entrambe… e Draco ci aveva provato,
ovviamente prima con me, manipolandomi e facendomi conoscere la sua storia con
Helena.
Ma quella era
ovviamente solo una parte del piano di Astoria: la parte successiva aveva avuto
pieno esito positivo. Io avevo creato lo Zahir, rischiando di ucciderci
entrambi.
Dopo tutto
quello che è accaduto, penso che sia normale che per due giorni, mi sia
tranquillizzata e mi sia semplicemente goduta la sua vicinanza, soprattutto
dopo che anche Dimitri se ne è finalmente andato. Raissa ce l’ha riferito ieri
mattina, dicendoci che non ci avrebbe più disturbato e scusandosi. Sembrava
molto depressa e triste, e Pansy l’ha invitata a restare per qualche altro
giorno… credo che si senta sola, Pansy intendo, senza i suoi e senza nemmeno
Blaise. Draco mi ha confermato come avevo creduto che si sono lasciati, dopo
che lei finalmente ha interrotto la loro relazione clandestina che durava da
circa quattro anni. Blaise, infatti, è ufficialmente fidanzato con Daphne
Greengrass, ma ha sempre amato lei, Pansy.
“Ma non abbastanza
da rompere il fidanzamento…” ha commentato Draco quando ne abbiamo parlato,
aggiungendo che tra circa venti giorni, Pansy andrà in Francia. Resterà per un
anno a Parigi, a casa di una sua parente che le ha anche fatto avere un lavoro
all’Ambasciata magica dell’Inghilterra. “Le farà bene cambiare aria” ha
aggiunto Draco “Anche perché credo che Blaise oramai non potrà più rinviare…
credo che si debba sposare per forza con Daphne e al più presto…”.
Ecco perché non
capisco che ci facciamo ancora qui… dobbiamo parlare con Harry al più presto,
dirgli di Astoria. Lui e gli altri, grazie ai maneggiamenti di Zabini, pensano
che io abbia regolarmente sostenuto l’esame e ora sia ad Hogsmeade in vacanza.
Credo che mandino anche in giro una specie di illusione ottica con le mie
sembianze per rendere la storia credibile, e forse anche per far abboccare
Astoria, che però sembra sparita. In ogni caso, per il momento Harry non mi
contatterà, crede che io stia bene. Seth idem. Quando torneremo alla nostra
vita solita?
Dopo essermi
esercitata nella disciplina olimpionica del lancio degli oggetti contro
fidanzati imbecilli ed aver attirato sia Pansy che Raissa in camera nostra,
finalmente mi calmo, mi siedo sbuffando sul letto ed attendo spiegazioni,
battendo il piede per terra. Pansy e Raissa, abituate dall’amichevole scambio
di vedute tra me e il mio ragazzo, restano in ascolto appoggiate alla parete
mentre Draco, dopo aver ovviamente borbottato per ore sul mio essere “violenta,
manesca, assolutamente poco femminile e maledettamente lunatica”, si sistema
meglio Serenity tra le braccia ed inizia ad esporre il suo grande piano. Dubito
che lo sia, un grande piano intendo, potrei dirglielo anche adesso prima ancora
di sentirlo, ma sono sempre stata una persona equa. Glielo dirò dopo averlo
sentito. Non sia mai che divento una donna poco obiettiva per due giorni di
vicinanza con Draco Malfoy… Serenity, in tutto questo, non si sa come, dorme
tranquilla.
Le urla mie e
di Draco, per lei, fungono da rilassata ninna nanna. Valle a capire le bambine…
“Allora stavo ragionevolmente
esponendo le motivazioni per cui ci dobbiamo trattenere ancora qui, ma
ovviamente la tua solita mancanza di stima nelle mie idee e di autocontrollo
dei tuoi istinti, ha impedito che potessi terminare…” inizia Draco ragionevole,
come se stesse parlando ad una povera pazza “Tutte le tue energie del resto
sono deviate per digerire quella massa informe di calorie che hai osato anche
chiamare cibo… dovrei anche capirti…”.
Al diavolo
l’equità!
“Il tuo piano
sarà una specie di fallimento preventivo, già lo so! Vogliamo ricordare la
storia del “teniamo alla larga Hermione, mostrandole i miei ricordi”?! Certo,
ha davvero funzionato!” inveisco, creando un fosso sotto il mio piede per
quanto lo batto furiosamente sul parquet.
“Questi due già
hanno bisogno della terapia di coppia… andiamo bene…” commenta Pansy scocciata,
accendendosi una sigaretta che diffonde un quieto odore dolciastro di
gelsomino. Raissa annuisce, alzando gli occhi al cielo.
“Vogliamo
ricordare la storia d’amore della tua vita, Pans? Il fidanzato della tua
migliore amica, ricordi?” ribatte a tono Draco, per nulla preoccupato di
ferirla. Pansy fa spallucce e dice monocolore, senza nemmeno staccare le labbra
dalla sigaretta: “Colpita”.
Questi
Serpeverde non li capirò mai…
“Vogliamo
andare al punto della questione?” rimarca Raissa nervosamente, da quando
Dimitri se ne è andato è nervosa praticamente ogni secondo della giornata e le
salta la mosca al naso ogni tre per tre “Anche io voglio capire come si mette
adesso la questione… ringrazio Pansy dell’ospitalità e certamente fino a che
Dimitri non si sarà calmato, con buona pace dei miei nervi, ne approfitterò… ma
se non vi sono più utile, appena possibile, me ne torno a casa e tanti
saluti…”.
“Conosci una tale
Tatia Krasova?” mi ricordo io improvvisamente, battendomi una mano sulla
fronte, mi ero completamente dimenticata di chiederglielo. So che al momento
non c’entra molto, ma rischio di dimenticarmene daccapo, specie se Draco
inizierà a blaterare e mi verrà di nuovo l’istinto di prenderlo a picconate.
Lui ovviamente se ne ricorda a sua volta, lo sguardo grigio passa da me a lei
in attesa. Raissa si passa un indice sulle labbra rosse, riflettendo: “Credo di
sì… se non ricordo male, era una ragazza del mio paese natale. Fu uccisa dai
Mangiamorte in guerra…”, le sue spalle si contraggono mentre chiede
casualmente: “Non è conosciuta in Inghilterra… che volete sapere?”.
“Niente, è solo
che Draco…” inizio a spiegare, ma non riesco a finire perché Draco si siede accanto
a me e mi interrompe dicendo: “Ne ho sentito parlare sulla via del ritorno,
sembrava una piccola celebrità… e mi sono incuriosito. Che diamine lo esci a
fare adesso il discorso, Granger?!”. Lo guardo senza capire, aggrottando le
sopracciglia, ma, prima che possa replicare, dal suo sguardo intuisco che non
vuole raccontare che cosa sia effettivamente successo con Tatia a Raissa. Mai
fidarsi dei serpenti, sembra dire con gli occhi.
“Mi volevo
distrarre dall’esposizione del tuo meraviglioso piano… e purtroppo non
ci sono riuscita…” lo assecondo, sospirando languidamente, in fin dei conti
conosce questo mondo meglio di me. lo vedo sorridere con gli occhi, mentre
finge un’espressione rassegnata e cinica. Roteo gli occhi con un sorriso
tirato, deve comunque spiegarmi perché non voglia parlare.
“Nel piano
c’entro anch’io?” bofonchia Raissa scocciata, incrociando le braccia “Perché,
in caso contrario, me ne andrei in camera…”.
“No, grazie
Raissa…”.
Con un cenno
del capo ed un “buonanotte” nervoso, Raissa lascia la stanza, i tacchi che
battono ritmicamente sul parquet chiaro. Serenity fa una buffa smorfia,
infastidita, mentre lei chiude la porta alle sue spalle, sparendo in una nube
di costoso profumo francese.
“Quella non me
la conta giusta…” bisbiglia Pansy alla porta chiusa, dando un’altra boccata
alla sua lunga sigaretta sottile. La guardo non capendo, sbattendo le palpebre.
Draco
ovviamente non si scompone per nulla, asserendo serio: “Nemmeno a me… grazie di
averle offerto di rimanere… meglio tenerla sott’occhio…”.
“Non capisco…”
ripeto guardando entrambi in attesa “Avete deciso di farla rimanere qui per
tenerla sotto controllo? Perché non vi fidate di lei?”.
“E’ la sorella
di Dimitri Karkaroff… ti basta come spiegazione Granger?” dice ovvia Pansy,
spegnendo la sua sigaretta in un posacenere sulla specchiera e guardandomi come
se fossi una bambina cretina “Hanno un discreto ascendente l’uno sull’altra… e
se Karkaroff ha questa malsana ed assolutamente inspiegabile ossessione per te,
non credi che tenere d’occhio sua sorella al momento sia quantomeno utile?!”.
“Non credo
questo…” mormora Draco, stringendomi la mano mentre impallidisco un po’
spaventata “Raissa e Dimitri non sono mai stati fratelli nel senso comune del
termine. Lo ha fatto andare via e per tutto il periodo in cui sei stata qui,
lui non ti ha torto un capello grazie a lei… non credo che ti farebbe del male.
Ma è anche vero che questa storia di Tatia mi puzza… e molto. Sono russi tutti
e tre, Tatia, Raissa e Dimitri… e non credo alle coincidenze…”.
“Credi che
abbia a che fare con loro? Ma lei non ha detto in proposito… sembrava non
conoscerla… ”.
“Ovvio che non
l’abbia fatto, ma…”.
“… ma lasciare
la stanza appena è stato fatto il suo nome, è anch’essa una bella coincidenza…”
completa Pansy, accendendosi immediatamente un’altra sigaretta. Draco annuisce
con il capo pensosamente ed effettivamente anche a me adesso sembra strano. Non
è sembrato che cambiasse espressione al nome di Tatia, ma in ogni caso è meglio
non rischiare. Certo che è strano… in fondo, Tatia non voleva che Raissa si
ricordasse di lei, voleva che me ne ricordassi io. Ma io non la conosco...
secondo me, la stanno facendo troppo lunga.
Raissa ha
confermato che è stata una vittima dei Mangiamorte, magari è davvero
invendicata dalla sua morte e vuole solo giustizia.
“E’ questo il
problema con voi Grifondoro, Granger…” biascica Pansy, sedendosi elegantemente
su una poltrona a gambe accavallate “Se foste solo un pochino meno generosi
nell’elargire fiducia a destra e a manca, non saremmo a questo punto… specie se
non lo fosse Potter… ed è anche il Ministro… in che razza di mani siamo…”.
“Mi volete
spiegare o no??!!”.
Draco si alza
in piedi, dopo avermi dato Serenity in braccio, e misurando la stanza a lunghi
passi, inizia a spiegarmi: “Come ti ho già detto, Potter sa perfettamente che
ci sono delle spie al Ministero, degli infiltrati dei vecchi Mangiamorte… e mi
ha sempre detto che, se fosse successo qualcosa, non avrei mai dovuto avvisarlo
direttamente ma solo dopo qualche giorno per dargli il tempo di agire in modo
che lo sapessero solo poche persone, quelli del suo entourage di cui si fida
ciecamente. Circa una decina… di Grifondoro. Su loro ha sempre messo la
mano sul fuoco… sbagliando…”.
“Che diamine
vuol dire? Che ci sono spie anche in quelle dieci persone?! Non è possibile…!
Li conosco tutti… e non ne sarebbero mai capaci…” inveisco, cercando di non
muovermi troppo per non svegliare Serenity. Ecco perché me l’ha data in
braccio… ha previsto perfettamente la mia reazione. Maledetto Malfoy.
Pansy sospira
lungamente, annoiata, mentre Draco prosegue stizzito: “La stessa cosa che ha
detto Potter… e credo che all’inizio avesse ragione. Ma da quando con Pucey e
Montague c’è anche Astoria, le cose sono cambiate. Credo che abbiano qualcuno
anche in quel gruppo… avevo preso una stanza alla Testa di Porco, credendo di
dover aspettare per molto che Adamar mi trovasse, e da lì avevo tentato di
contattare Potter… per fortuna non ci sono riuscito, non c’era. E nonostante
avessi usato il solito nome fittizio che mi ha detto di usare per quando lo
contatto, quella sera stessa la stanza è stata completamente messa a soqquadro…
probabilmente mentre Pucey, Montague ed Astoria cercavano me, lei sa del nome
falso che uso con Potter, mi ha visto chiamarlo decine di volte. Avrà detto a
qualcuno di avvisarla quando chiamava quella particolare persona… ma per
fortuna io ero già con Adamar, mi aveva trovato subito…”.
“Quindi credi
che ci sia una spia anche tra quei dieci?” commento svuotata, i fatti ovviamente
gli danno ragione. Non mi sorprende più di tanto, dopo aver saputo di che sono
capaci gli Auror e dopo essermi innamorata di Draco Malfoy, non credo più in un
mondo diviso in bianco e nero. Il mondo è grigio, lo è sempre stato, solo io mi
illudevo del contrario.
“Sì, Astoria ha
sempre avuto più contatti al Ministero… certamente di più di Pucey e Montague
che sono latitanti dalla fine della guerra…” Draco prosegue, continuando a
camminare nervosamente per la stanza “E sicuramente è una spia recente… sennò
Pucey e Montague mi avrebbero trovato da anni, invece i loro contatti devono
essere molto lontani dal Ministro… quindi al momento Potter è inavvicinabile.
Abbiamo una buona copertura al momento, non c’è da preoccuparsi… Astoria non sa
di Pansy, non sa che lei e Blaise sapevano che ero vivo, te l’ho già detto, qui
siamo al sicuro per il momento… ma ovviamente Pansy deve partire e Blaise vive
ancora con la sua famiglia, lì non potremmo certamente nasconderci. E comunque
prima o poi, dobbiamo parlare con Potter, no? Il Petite Peste è protetto,
compresi i ragazzi che ci lavorano, Astoria non può arrivare a loro… e ci sono
frequenti controlli alle Passaporte internazionali, quindi escluderei anche i
tuoi… e i tuoi amici del mondo della Magia sono protetti anche loro, sono nel
mondo dove Astoria vuole rientrare, non farebbe mai fracasso uccidendo qualcuno
per arrivare a noi… se la scoprissero, le cose si farebbero troppo difficili…
dopo aver sistemato entrambi, lei vuole tornare alla sua vita, lo so, lo
immagino. Non fa per lei la vita da fuggitiva…”.
“Quindi
mettiamo anche che al momento siamo al sicuro… tra venti giorni saremo
virtualmente punto a capo, non appena Pansy partirà…” ribatto pensosamente, so
che ovviamente potremmo trattenerci qui anche senza Pansy, ma sarebbe più
complicato. Vicini che notano strani movimenti quando la casa dovrebbe essere
vuota, nessuna possibilità di rifornirci… senza contare che, come dice Draco
appunto, con Harry prima o poi dobbiamo comunque parlare.
“La soluzione è
ovviamente trovare la spia…” riprende Draco duro, sedendosi alla fine accanto a
me “Cosa che servirebbe anche sotto un’altra prospettiva… trovandola, ci
porterebbe a quei tre. E potremmo finirla con questa storia…”, il silenzio
scende cupo a queste sue parole, non c’è bisogno di traduzione per sapere che
cosa intende per “finirla con questa storia”.
“Io e Blaise ci
stiamo lavorando… abbiamo un paio di sospetti in realtà… se la spia è di
Astoria, c’è la buona possibilità che sia una donna, una sua amica
probabilmente… è di donne nell’entourage di Potter ce ne sono tre: Demelza
Robins, Lavanda Brown e Natalie McDonald…”. Le conosco tutte, ovviamente, e su
tutte e tre non penserei mai nulla di male. Certo Lavanda è una ruba-fidanzati
imbecille, ma da qui ad essere una spia ce ne passa, se non altro perché
dovrebbe tenere la bocca chiusa, cosa che lei non farebbe mai. Demelza era una
Cacciatrice quando eravamo a scuola, era molto amica di Ginny e combatté anche
lei con noi nella grande battaglia finale… ed anche su lei non scommetterei
nulla contro. Natalie era di tre anni più piccola di me, la ricordo come una
bimbetta dolcissima ed anche adesso, è sempre rimasta una ragazza molto carina.
Anche su di lei non penserei mai nulla di male. Mi mordo il pollice a disagio,
scuotendo il capo incredula.
“Abbiamo
pensato di lanciare una trappola, di dare una falsa esca… in modo di capire chi
sia…” spiega Draco, con nonchalance “E vorrei cercare di elaborare bene il
tutto prima che lo sappia Potter… so per esperienza come ragionate voi
Grifondoro e so che non ci crederà mai… quindi preferirei arrivare da lui con
le prove che la cosa è vera ed avendo anche un nome…”.
“E come
arriveremo da lui? Il problema non è appunto che non sappiamo come arrivare da
lui?” ribadisco, non seguendolo.
“Un modo per
arrivare da lui c’è… ma abbiamo sempre una certa dose di rischio… ed inoltre,
da quel momento in avanti, la questione sarà solo sua… la spia, Pucey, Montague
ed Astoria… me li toglieranno dalle mani…” la voce di Draco è gelida come vento
invernale, rabbrividisco ed il pensiero di Helena mi ritorna ancora in mente.
Vendicarla è sempre più importante del resto. So che Astoria ha fatto male
anche a me, anche io vorrei che pagasse ma non come lo vuole lui. Abbasso lo
sguardo, chiudendo gli occhi.
Draco per
fortuna non se ne accorge, riprendendo a parlare, con un sospiro sollevo lo
sguardo di nuovo. Pansy ha gli occhi fissi su di me, mentre continua indolente
a fumare, una scintilla nasce e muore sul suo viso, spegnendosi ed
accendendosi. Mi stringo nelle spalle, terrorizzata che abbia intuito i miei
pensieri.
“… quindi
vorrei una decina di giorni per elaborare con Blaise un modo per scoprire chi
è… mettere a punto un’esca che non metta al contempo a rischio me, te, Serenity
o Pansy stessa. Se non ci riusciremo, chiameremo comunque Potter nell’altro
modo… ma solo se non riuscirò a capire chi è la spia, solo così posso arrivare
a quei tre senza che ci sia il Ministero di mezzo…”.
“Spiegale come
arrivare a Potter, ci sarà da divertirsi…” lo interrompe bruscamente Pansy con
un sorriso malevolo, un attimo dopo di avermi lanciato una lunga occhiata
penetrante. Un brivido mi trapassa la schiena, quando capisco che Pansy
Parkinson ha davvero intuito tutto. Lo ha interrotto volutamente mentre parlava
ancora della vendetta per Helena. Non ci credo.
Lei ha capito.
Abbozzo un
sorriso incerto, che Pansy ovviamente non ricambia, guardandomi disgustata.
Forse mi sono sognata tutto.
Draco sorride
alle parole dell’amica, dicendole che forse è meglio che lo spieghi lei stessa,
dato che è una sua interessante scoperta.
Lei inizia
gioiosa a parlare come se non ne vedesse l’ora: “Due anni fa, Potter e la
Weasley si sono lasciati per un mese, lo sai no?”.
La mascella
quasi mi si schianta a terra, stiamo davvero facendo pettegolezzi sulla vita
sentimentale del Ministro in un momento come questo? E che diamine c’entra
adesso?
“Certo che lo
so…” ribatto acidamente, porgendo finalmente Serenity a Draco così da essere
libera di spaccare la faccia al carlino Parkinson che sicuramente prima non
mi ha assolutamente aiutato “Ma è stato per molto poco, c’erano delle
incomprensioni leggere… Harry era appena diventato Ministro ed era difficile
trovare tempo per Ginny, lei si sentiva trascurata e quindi…”.
“Chissenefrega
della vita sessuale di Potter! Arriviamo al punto!” ribatte Draco scocciato.
“Si dà il caso
che in quel mese, Potter sia stato ad una festa e si sia ubriacato… e si dà il
caso che sia stato a letto con Daphne Greengrass…!” conclude Pansy con un
sorriso mieloso, al che io effettivamente casco dal letto sconvolta. Ma
possibile che alle mie spalle ne siano successe di tutti i colori??!! E
quell’altro, tradire Ginny così!! Come si fa??!! Ma io adesso la chiamo, e lo
scortichiamo vivo, chissenefrega dello stare nascosta!! Gli gratto via la carne
dalle ossa con le unghie!! Maledetto, e si sta anche per sposare!!!
Draco osserva
ridendo la mia manovra, mentre mi arrampico nuovamente sul letto: “Almeno se fa
il moralista sul venire a letto con un Serpeverde, saprai che rispondergli…!”.
Lo guardo senza
replicare con gli occhi ridotti a due fessure, prima di dire con voce
strozzata: “Ginny lo ammazzerà quando lo saprà, è la sola cosa che mi fa stare
seduta qui e non mi fa uscire per prenderlo a padellate…!”.
“La Weasley lo
sa…” commenta annoiata Pansy, ravvivandosi i capelli “Figuriamoci la moralità
di Potter… se non glielo avesse detto… e la Piattola se l’è ripreso…”.
“Ginny lo
sa???!!” ribatto ancora, artigliandomi all’angolo del letto per non cadere
ancora riversa a terra. Come se fosse emerso da una nebbia confusa, mi ricordo
un discorso di tanto tempo fa con Ginny… io parlavo di Draco che era ancora
perso dalla sua ex… e lei…
“Che palle ste ex! Sono la rovina della
società… il crescente numero di divorzi deve essere dovuto a loro…”.
“Harry non ha delle ex vere e proprie… di
che ti lamenti?!”
“Lasciamo perdere, decisamente!!” .
Evidentemente si riferiva a questo, al fatto che
Harry fosse stato a letto con Daphne.
“E quindi? Tutto questo che cosa dovrebbe
portare di buono a noi? A parte i vostri sorrisini imbecilli?” commento
caustica, mentre entrambi continuano a sogghignare.
“La Greengrass deve solo ringraziarmi che le ho
lasciato il suo principe azzurro…” ribatte Pansy con voce atona, osservandosi
le unghie “Sarebbe facilissimo convincerla che deve semplicemente contattare
Potter per parlargli di quella notte, altrimenti mi riprendo Zabini con tanto
d’interessi… certamente Potter non ha interesse che la storia si venga a
sapere, specie se è così vicino alle nozze… e non lo direbbe a nessuno del suo
entourage. Cosa che invece non possiamo escludere se lo contattassimo o io, o
Blaise… o qualcun altro…”.
“E all’appuntamento con Daphne, ovviamente ci
saremmo noi due…” completa Draco, guardandomi in attesa.
Paradossalmente il suo piano è anche buono, non
posso negare che i Serpeverde se si tratta di mettere assieme sesso e potere,
sono sicuramente i numeri uno. Annuisco con il capo, dando il mio tacito
assenso per non darli troppa soddisfazione, stendendomi stancamente sul letto.
“Bè, io me ne vado a letto…” dice Pansy,
alzandosi dalla sedia e stiracchiandosi come un gatto “Per favore, se non
riuscite a dormire, giocate a scacchi magici… ma il sesso nel mio
giardino, tra le mie rose, non rientra nei concetti di ospitalità… non
credo che rientrasse nemmeno in quella di quei perversi dei Greci…
insonorizzate la stanza e bruciate le lenzuola, piuttosto…”.
Arrossisco come un pomodoro, aspettando che esca
per affondare il viso nelle lenzuola.
Draco sorride ancora, poggia Serenity nella sua
culla accanto al nostro letto, poi spegne la luce, stendendosi accanto a me.
Nel buio, si muove piano vicino a me, facendomi appoggiare la testa sul suo
petto mentre mi accarezza la schiena piano, lambendo i riccioli dei miei
capelli sciolti.
“Dieci giorni, Hermione… solo dieci giorni…” la
sua voce è inghiottita dal nero della stanza, soffice risuona nel suo torace
sotto il mio orecchio.
“Perché proprio dieci?”.
“Per Pansy… sarà il suo compleanno tra dieci
giorni… e farà una festa. Vorrei essere qui… sono anni che manco perché vivo da
babbano. Ed andarmene prima, proprio ora che sono qui, dopo tutto quello che
sta facendo per noi… e con quello che sta passando…”.
“Ok…” sussurro colpita dalla dolcezza della sua
voce mentre parla della sua amica “Con dei Confundus saremo abbastanza
irriconoscibili anche per la gente che verrà qui, credo… ma non potrebbe
invitare Harry così da farla finita?”.
Draco ride, continuando ad accarezzarmi i
capelli con dolcezza: “Io e te siamo la prima cosa simile ad un rapporto di
qualsiasi natura tra Grifondoro e Serpeverde, nonostante la pace, nonostante
tutto, Hermione… credi che Pansy inviterebbe mai Harry Potter alla sua festa di
compleanno? Ed anche se la convincessi, credi che lui verrebbe? Ed ammesso e
non concesso che accada, alla fantomatica spia apparirebbe subito come
strano…”. Certo, il mondo non ha vissuto la stessa rivoluzione che abbiamo
visto insorgere io e lui nei nostri cuori.
Fuori da questa casa, al di là delle rose, il
mondo è sempre rimasto uguale.
Harry va a letto con Daphne ma deve nasconderlo
a tutti, una spia Grifondoro fa il doppio gioco per i Serpeverde ma
probabilmente va a cena con il suo capo, Zabini non saluterà Ron per i corridoi
del Ministero e Pansy non avrà altro uomo al di fuori di uno che si dipingeva
il viso di verde ed argento.
“A che pensi?” mi chiede Draco, toccandomi la
guancia con l’indice.
“Al guaio in cui ci siamo cacciati… sei
cosciente che, anche quando con Astoria sarà finita, per noi sarà sempre
così?”.
“Così, come?” la voce di Draco, tirata, si
stempera nell’ultima sillaba, mentre solleva il mio viso e mi bacia nel buio.
Chiudo gli occhi, aspirando il suo sapore e il suo profumo, lasciando che le
sue braccia si chiudano sulla mia vita e che le sue dita giochino con la pelle
tesa dei miei fianchi.
Si stacca da me, sussurrando poche parole, prima
di riprendermi a stringere. E ringrazio il buio come se fosse un amico, come se
fosse il mio confidente. Nasconde caritatevole la lacrima che sfugge dai miei
occhi prima che Draco se ne accorga, cela il suo percorso bagnato sulla mia
guancia e camuffa la sua morte sul mio collo.
In una lacrima, piccola come tutte le cose
piccole in cui si nasconde l’amore, si racchiude la felicità più strabordante
che si possa provare al mondo.
Una felicità che ha la voce di Draco, mentre
dice poche, piccole parole, nascoste dal buio.
“Prego Dio ogni giorno per questo… e se esiste,
me lo deve… mi deve che tra me e te sia per sempre così…”.
“Una mocciosa di undici anni non avrebbe
quell’espressione nemmeno il primo giorno di scuola… per Merlino, Granger,
datti una calmata…”.
Senza nemmeno accorgermene, mi giro su me stessa
e sorrido come non ho mai fatto proprio a lei, proprio a Pansy Parkinson e alla
sua voce caustica ed acida. Lei, ferma sulla porta, inarca un sopracciglio,
guardandomi incerta, poi scuote il capo con rassegnazione e sorride a sua volta
lievemente, pensando che io mi sia già voltata. Per salvare il suo orgoglio,
fingo abilmente di non aver visto quel sorriso e torno a giocherellare con la
bacchetta che finalmente mi hanno dato. Seduta davanti alla specchiera,
aspettando di prepararmi per la festa di compleanno di Pansy, da circa un’ora
muovo il polso e lascio che dalla punta della bacchetta escano poche e
coloratissime scintille luminose. Rosse, gialle, azzurre, poi d’improvviso
nere, dorate, argentate, arcobaleno.
Le guardo e sorrido come una bambina piccola. Io
sono la magia. Non credevo davvero che mi mancasse così tanto.
Draco, dopo dieci giorni di attesa, finalmente
ha acconsentito a darmi una bacchetta, non è ovviamente la mia, sembra anche un
po’ vecchia e logora dall’uso, forse è nella famiglia dei Parkinson dai tempi
della Regina Vittoria. Ma sentire sotto i polpastrelli la superficie lignea di
una bacchetta, è una cosa che non saprei descrivere senza uscirmene con parole
assurde e ridondanti e senza forse anche mettermi a piangere. È l’ultimo pezzo
della mia vita che torna indietro, dopo essermi stato strappato con la forza in
questi anni, rinsaldandosi in un mosaico dal disegno intimamente diverso, ma
dalle tessere profondamente simili al passato. È come avere tra le mani gli
stessi colori, identici, averli sempre usati per disegnare le stesse cose, e
ora scoprire che puoi disegnare anche altro.
E mancava la magia, il suo colore. Mi mancava
per sentirmi completa.
Certo, Draco me l’ha data come estrema risorsa,
conta sempre di proteggermi lui da qualsiasi cosa, ma stasera con la festa ha
ritenuto più prudente darmela direttamente. In dieci giorni, Dimitri non si è
fatto vedere, Astoria come sempre oramai non mi tange più se non raramente nei
sogni, Pucey e Montague sembrano dissolti con lei. Siamo più calmi, ovvio, ma
non siamo al sicuro.
Per dieci giorni, Draco ha cercato con Zabini di
scoprire chi fosse la fantomatica spia, ma senza apprezzabili esiti. È furba,
se mai avessimo dei dubbi. Draco è riuscito solo a restringere il tiro,
escludendo come prevedibile gli uomini. È una donna, una tra Lavanda, Demelza e
Natalie. Per ovvi motivi, io dubito di Lavanda Brown, probabilmente è ancora
suo sommo desiderio che io sparisca del tutto e le lasci libero campo con Ron,
anche se dubito che pensi che io possa essere ancora un ostacolo. Cavolo, se
poi è davvero in contatto con Astoria, a questo punto dovrebbe sapere della mia
relazione con Draco…
Lui invece è convinto che sia Demelza la spia,
crede di ricordare di aver ucciso forse suo fratello per sbaglio. Ma non ne è
sicuro. E Zabini pensa che sia Natalie perché “è troppo carina, come minimo
nasconde teste di Troll sgozzati sotto il letto”. Ergo, non siamo arrivati a
nessun punto.
Draco con riluttanza, ha accettato quindi che
entri in campo Daphne Greengrass.
Stasera lei verrà alla festa e Pansy gentilmente
le ingiungerà di convocare il Ministro a casa sua in uno di questi giorni.
Forse, così facendo, tra domani e dopodomani
finalmente potremo tornare a Londra.
È oramai più di un mese che sono qui, rinchiusa.
E desidero davvero farmi una passeggiata, rivedere i miei amici, andare anche a
prendere uno stupido tè o leggere un libro in un parco. E non averlo potuto
fare per Astoria Greengrass, è davvero al limite della pazzia… in questi
giorni, Draco ha dovuto spesso trattenermi quando, presa da una sindrome al
limite della claustrofobia, minacciavo di uscire da sola e di schiantare qualsiasi
cosa si muovesse così da farla finita finalmente con Astoria.
Ovviamente tali momenti sono stati sempre
abbastanza rari e controllati. Sono chiusa in una casa da un mese, certo, ma
sono sempre chiusa in una casa con il ragazzo che amo e con una bambina che
adoro. E dopo tutto quello che abbiamo passato io e Draco, anche una serata in
giardino semplicemente a mangiare del gelato sotto le stelle diventa
un’esperienza da ricordare.
Nei giorni, nel tempo che passa, Draco si
trasforma sempre di più da rovente novità a calda abitudine.
E per me, che non vivo delle onde passionali
delle storie d’amore da romanzo ma di quelle dolci della vita vera, sicuramente
rappresenta una bella conquista.
Iniziare a capire le sue espressioni, i suoi
silenzi, i suoi gesti; sapere come vuole mangiare un determinato piatto e
poterlo prevedere; conoscere un ricordo che lui condivide ridendo con me, anche
se quando era accaduto probabilmente io pensavo a lui nei termini di un furetto
che meritava solo di restare appeso ad un palo… tutte queste cose, che solo la
frequentazione ti consente di avere, sono passi importanti che si ottengono
giorno per giorno, con la costanza di formiche e la diligenza di api. Amare non
è un verbo statico, è un verbo in fluire che ha a molto a che vedere con
l’impegno. Ed io, ogni giorno, prima che pensare alla pelle di Draco, al suo
odore, alle sue labbra, attrattive così immense da farmi crollare al suolo in
estasi, devo sempre impormi di pensare all’impegno di stare con lui, oltre alle
facili trappole dell’attrazione. Ci attiriamo come se ci fossimo solo noi sulla
Terra e in questa casa, al punto da fare l’amore nei posti più impensati, nei
momenti più imprevisti… ed è stupendo, sconvolgente come poche cose al mondo.
Ma abbiamo anche due caratteri così opposti che ogni momento di comprensione fa
rima con uno di bisticcio e con uno di silenzio stizzito… e iniziare a capire
che cosa porti al primo, cosa al secondo e cosa al terzo di quei momenti, è una
recente vittoria. Una vittoria di dieci giorni, certo, acerba ed immatura, ma
che si preannuncia dolcissima. Sono felice, tanto, troppo, anche se chiusa in
una casa da un mese, in compagnia di Pansy Parkinson e sotto la minaccia di una
pazza assassina.
Questi dieci giorni sono volati, davvero, come se
ogni giorno fosse un secondo ed ogni secondo non sapessi nemmeno misurarlo.
Draco ha fatto spesso tardi con Blaise, chiuso
in salotto, ad elaborare teorie su teorie.
E io mi addormentavo in camera abbracciata a
Serenity, svegliandomi quando lo sentivo tornare. Lui si stendeva pigramente
accanto a me, scuotendo il capo in assenza di novità, stringeva me e la bambina
e si addormentava subito… poi ha chiesto a Blaise di venire di giorno, perché
odiava arrivare a quello stato semi-comatoso di sera.
E a quel punto, per forza di cose, ho dovuto
passare molto del mio tempo con Pansy. Raissa, da quando Dimitri è andato via,
trascorre molto del suo tempo in camera sua, non accenna ad andarsene eppure
preferisce trascorrere il tempo da sola. Sia a me, che a Draco e Pansy
ovviamente questo comportamento sembra sempre più strano, specie perché loro
due continuano a ribadirmi che lei e Dimitri non si sono frequentati per anni
dopo l’incontro con Adamar. Paradossalmente è stato Draco a riunirli, quando li
ha salvati dal pericolo di essere coattivamente assoldati come Mangiamorte…
quindi non sappiamo, né capiamo perché Raissa stia così. E al contempo, se la
sua reazione è preoccupazione per il fratello, non capiamo perché non torni da
lui.
Nei momenti di noia ho fatto delle ricerche su
Tatia Krasova ed effettivamente è come pensavo una vittima dei Mangiamorte
uccisa durante il periodo di pace tra la prima e la seconda guerra. Le indagini
si impantanarono ad un punto morto e, appurato che era stata una vendetta
trasversale per alcuni contatti del padre con i Mangiamorte, non si è mai
capito chi fosse stato ad ucciderla. Era molto giovane, vent’anni appena
compiuti e si era appena sposata… ma a parte questo, di lei si sa poco e nulla.
Credo che, quando tornerò a Londra, cercherò delle maggiori informazioni sulla
cosa. Lei voleva che mi ricordassi di lei, è il minimo che possa fare capire
chi l’ha uccisa.
In quei momenti, in cui cercavo delle notizie su
Tatia mentre Draco era con Blaise, ho sempre avuto Pansy accanto a me. Senza
una parola, quando Blaise arrivava, lei si chiudeva in biblioteca dove spesso
c’ero già io, si sedeva su una poltrona stinta dietro la finestra e fumava
anche per ore, guardando il cielo cambiare colore. In un momento preciso, come
se fosse un cane che avverte la fine del pericolo, si alzava in piedi, spegneva
la sigaretta nel posacenere ed usciva fuori, il passo deciso.
Potevo giurare su tutti i galeoni
dell’Inghilterra che, in quel momento, anche Blaise se ne era andato.
I primi giorni restava seduta lì, senza fare
assolutamente niente, senza parlarmi, senza guardarmi. Poi, un giorno, avevo
portato Serenity con me, lei continuava a giocherellare con una bambola di
pezza e all’improvviso l’ha chiamata, ridendo. La chiama “zia”, me ne sono
sempre accorta e credo che comunque, anche se sotto la copertura da babbano,
Draco continuasse a frequentare Pansy.
Pansy ha sorriso, si è alzata e ha preso a
giocare con lei.
E da allora non si è più seduta dietro la
finestra. Si è sempre messa a giocare con Serenity che da quel momento in
avanti, non ho più lasciato a Lyria ma ho sempre portato con me.
A volte, si è anche messa ad aiutarmi con le
ricerche indolentemente, con l’aria di chi cercasse solo di occupare il tempo,
condendo ogni pagina letta di commenti malevoli e di sarcastici appunti, a cui
rispondo ovviamente a tono. Ma qualcosa è cambiato, non molto, ma qualcosa
sicuramente sì.
Draco Malfoy è una palestra notevole nell’avere
a che fare con i Serpeverde: quando impari ad andare oltre i loro motteggi
velenosi, capisci cosa davvero vogliano dire. Pansy Parkinson non è una mia
amica, intendiamoci, ma ora la vedo meglio, riuscendo ad andare oltre alla sua
apparenza sgradevole e fastidiosa. È una ragazza sola, depauperata di tutto,
compreso il suo nome e il suo ricco lignaggio. Ma soprattutto soffre, molto,
per amore. Non ammetterebbe mai di avere bisogno di compagnia, tratta ancora me
e Draco come l’abominio della razza umana, eppure ho l’impressione netta e
precisa che non vorrebbe che andassimo via. Sebbene non mi sopporti, sebbene io
non la sopporti, sebbene non è convinta ancora della relazione mia con Draco e
sebbene non abbia nemmeno tutta la pazienza di stare dietro a Serenity, è
contenta a suo modo che siamo qui. In fondo, devo davvero ringraziarla. Sono
diventata più indulgente, adesso. E lei, a suo modo, lo sta diventando a sua
volta. Camuffa le gentilezze dietro strati di cinismo, farcisce i complimenti
di insulti e maschera l’interesse di menefreghismo ostentato… e io faccio lo
stesso.
Credo che siamo nel bel mezzo della più grande
tregua della storia moderna, coniata ad uso e costume di una tattica
volutamente femminile.
Come se fossimo coscienti tutte e tre, io, Pansy
e Serenity, anche se è solo una bambina, che siamo le tre donne della vita di
Draco Malfoy: l’amante, l’amica e la figlia.
Amandolo così come lo amiamo noi, in modo
diverso, sapendo di non poter vivere senza tale amore per lui, ci siamo
adattate a questa pace.
Pansy ha bisogno del suo migliore amico.
Serenity ha bisogno di quello che considera a pieno titolo suo padre. E io ho
bisogno del ragazzo che amo.
Per osmosi, ognuna di noi avrà bisogno che ci
siano le altre due per avere Draco felice. E al momento, è la sola cosa a cui,
coscienti o no, sappiamo pensare.
In questo, tante cose diventano ovviamente
possibili, compreso il fatto che Pansy mi aiuti a prepararmi per stasera. Lei
ha detto solo: “Devi fare la parte di mia cugina e quindi ne va della mia
dignità che tu sia decente… non credo che i Confundus coprirebbero i tuoi capelli
sciatti… meglio che ti sistemi io, Lyria non sa che cosa significhi stile e
compostezza…”.
Quindi mi sono seduta pazientemente in attesa,
con addosso la solita vestaglia viola di raso, passando il tempo con la mia
bacchetta. Si sa quanto sia refrattaria alle pratiche femminili, quindi non mi
ha creato troppo disagio l’idea che mi dovesse agghindare Pansy Parkinson. Ha
migliorato il suo gusto negli anni e in ogni caso, devo sembrare sua cugina
quindi non penso che mi metta a forza in un involto da meringa come fece lei in
occasione del Ballo del Ceppo.
E, in quel caso, ho una meravigliosa bacchetta
da poterle puntare contro, paventando le peggiori maledizioni esistenti. Ah,
che bella sensazione…
Pansy, dopo avermi dato con freddezza una
collana con il ciondolo a forma di rosa, aggiunge a mo’ di spiegazione:
“Contiene una sostanza che Confonde… sembrerai un’altra persona ad ogni strega
o mago che posi gli occhi su di te, tranne ovviamente a me e a Draco… e qualora
sia assolutamente necessario fare presentazione, dì solo che sei mia cugina
Calista Parkinson, non parli bene l’inglese perché sei di origine portoghese… e
defilati… meno particolari dai, meglio è…”. Porto il ciondolo al viso, il
profumo del nontiscordardime è molto intenso. Lo lego al collo con attenzione.
Pansy si sistema alle mie spalle, prendendo a
spazzolarmi i capelli mentre borbotta commenti sarcastici sulla loro forma, il
loro colore ed ogni altro tipo di particolare che le salti in mente, ovviamente
con il solito inciso finale: “Non capisco come Draco si sia potuto innamorare
di te e di questa specie di zazzera che hai in testa…”. Nonostante le mie
rispostacce e nonostante mi esibisca nel solito spettacolo da pesce palla, lei
ovviamente non demorde, ma lo ripeto, per quel poco che la conosco, adesso, so
che è il suo goffo modo di fare conversazione. Quindi non mi irrita più di
tanto… anche se di riflesso, la solita ombra scura che talvolta prendono i miei
pensieri, sceglie proprio quel momento per tornare pressante nel mio cervello.
Intrecciando le mani in grembo, a sguardo basso,
sussurro incerta: “Posso farti una domanda?”.
“Certo che no… se vuoi l’amichetta del cuore,
provvedo a chiamarti la femmina Weasley e ti fai una bella chiacchierata…”
borbotta Pansy, continuando ad armeggiare con i miei capelli.
Ovviamente la ignoro, dal riflesso dello
specchio noto infatti che i suoi movimenti si sono fatti più lenti, segno che
mi sta ascoltando.
Esito ancora qualche minuto, prima che lei mi
rintuzzi, e quindi accenno con un filo di voce: “Hai mai conosciuto Helena?”.
Pansy, dietro di me, contrae un attimo le spalle
e per un attimo i suoi occhi incrociano i miei attraverso lo specchio, mentre
smette di spazzolarmi. Fa un sospiro rumoroso e dice velenosa: “E’
un’ossessione, vero? Draco ha la sensibilità di un Ippogrifo quando ci si
mette… e manco se ne rende conto di quanto ti struggi al pensiero, Granger…
comunque sì, i suoi capelli erano decisamente meglio dei tuoi…”.
Le confidenze con Pansy Parkinson… Dio, che
diamine mi è saltato in mente…! E va bene la pace armata, va bene che mi sto
facendo anche sistemare placidamente da lei, ma da questo alle confidenze ce ne
vuole! Che poi, sono proprio imbecille, mai fidarsi dei serpenti…! Quella è
sicuro che lo dice a Draco…! Boccaccia mia maledetta!!
“Era una bella donna, se mi stai chiedendo
questo…” prosegue improvvisamente lei, la guardo dallo specchio senza capire,
continua a spazzolarmi pensosamente i capelli come se ne andasse della sua vita
“Molto bella. Ma lo sai… era una modella. Ed era una Greengrass… è sempre stata
il mio mito e di Daphne. Vivevamo per essere come lei, senza riuscirci
ovviamente… e quando Draco si è messo con lei… credo di averlo ammirato più di
quanto facessi a scuola. Mi sarei innamorata di lui solo perché aveva Helena…
assurdo…”.
Mi viene da sorridere, ma mi trattengo, un po’
perché temo che smetta di parlare, un po’ perché l’aura di leggenda che
circonda Helena mi provoca come sempre la solita fitta al cuore, tanto da farmi
chiedere che razza di istinto masochista io abbia per sabotarmi da sola la
felicità.
“E se vuoi chiedermi anche come era Draco con
lei, rispetto a come è con te… bè, era un’altra persona…” aggiunge
casuale, guardandomi infine “Era diverso, molto… una donna che non potrai mai
avere del tutto, che è di un altro, che ti si concede solo per pochi preziosi
attimi… e che in più è così bella, così perfetta… sono cose potenti per un
uomo, Granger, non devo certo dirtelo io…”.
La fitta al cuore diventa una stretta
soffocante, so che non sta mentendo, so che non vuole ferirmi. È sincera,
dannatamente sincera.
“Non sarò mai alla sua altezza, vero?” commento
con un filo di voce, senza accorgermene, il peso delle lacrime che mi scava gli
occhi per uscire, ma che trattengo con forza.
“No, Granger, non lo sarai…” prosegue Pansy, la
sua voce è quasi un velo soffice, ancora non ci scorgo nemmeno l’intenzione
lontana di farmi del male “E non ci devi nemmeno provare… mai… sennò ti
rovinerai la vita e la rovinerai a lui… a me sembra inconcepibile, lo sai… ma è
innamorato di te… fattelo bastare per oggi. E non pensare a lei…”.
“Tu vivresti così? Ce la faresti?” ancora la mia
voce va fuori controllo, esce dalle rotaie, se ne va per conto suo.
Pansy ci riflette qualche attimo, come se
davvero se lo stesse chiedendo, poi bisbiglia, aprendo appena le labbra: “Oggi
no, Granger… sono diventata troppo egocentrica negli anni e ho bisogno di un
uomo che sia solo mio… ho diviso troppo con un’altra per dirti che lo rifarei
ancora, anche se quest’altra fosse morta… ma l’ho fatto. E non è detto che
finisca come è finito per me…”.
“Certo, grazie…”.
“Nella mia intenzione, volevo dissuaderti…”
sorride lei, riprendendo a spazzolarmi i capelli, le sorrido inespressivamente
di rimando. Non mi ha detto niente di male, niente di sbagliato, è stata onesta.
Ovvio che se avessi parlato con Seth o con Ginny, loro mi avrebbe indorato la
pillola, mi avrebbe detto cose del tipo che Draco mi ama molto, che ha fatto di
tutto per me e che non devo preoccuparmi. Ma loro non l’hanno visto con Helena,
io sì nei ricordi di Draco, Pansy anche. E soprattutto lei non avrebbe mai
potuto usare parole enormi per definire quello che c’è tra me e lui: non sono
quella che augurava al suo migliore amico, mi ha visto con lui per dieci miseri
giorni e con lei per anni. Probabilmente spera ancora che lui rinsavisca, ma è
stata obiettiva come poche: ha ammesso che è innamorato di me e mi ha detto di
vivere nel presente, cosa che ho sempre detto anche io. Di sbagliato lei non ha
detto nulla.
Eppure sentire dalla voce di un’altra persona,
così diversa da me, ma al contempo così legata a Draco, tutto questo, l’ha reso
più reale di quanto già non fosse.
Terribilmente più reale.
Respiro profondamente, a lungo, cercando di
darmi forza e cancellando quei pensieri. Lui mi ama, mi ama, devo pensare solo
a questo. Ed Helena fa parte del suo passato.
Questa terribile altalena emotiva mi sta facendo
andare ai pazzi, sta eliminando tutto il mio buonsenso e tutta la mia logica,
oltre che la mia serenità e felicità. Non posso permetterglielo.
Basta paranoie: vivrò nel presente, senza
scadenze, senza programmi, senza impegni. Il tempo mi darà le risposte che
cerco.
Pansy finisce di sistemarmi i capelli,
aiutandosi con la bacchetta, e poi esce per andare a prepararsi a sua volta,
dandomi le ultime raccomandazioni. Aggiunge che Draco mi aspetterà di sotto
dato che ha ancora delle cose da organizzare con Zabini. Mi guardo allo
specchio, stranamente la Parkinson ha fatto un ottimo lavoro. I miei capelli
sono ondulati, morbidi, lucenti, ricadono in boccoli sulle mie spalle,
trattenuti da un fermaglio d’argento sulla nuca.
In poco tempo, aprendo il mio armadio, trovo
l’abito che avevo già pianificato di indossare: lungo, semplice, di seta, con
delle ruches sull’orlo e sulla scollatura. E rosso. Adoro il rosso, ma non amo
indossarlo, credo sempre che sia troppo per me, che diventi troppo
appariscente. Ma è la prima occasione “pubblica” di essere la ragazza di Draco
Malfoy, anche se nessuno mi riconoscerà… e soprattutto, dopo gli ultimi
pensieri, ho bisogno di coraggio anche visivo per avere sicurezza in me stessa.
Quando la musica dal piano di sotto comincia a
salire assieme al vociare confuso degli invitati, mi guardo allo specchio
mentre completo il mio abbigliamento con un paio di orecchini d’argento, un
bracciale sempre d’argento ed un goccio di profumo. Con mia somma sfortuna,
tutte le scarpe dell’armadio sono con dei tacchi altissimi e sono costretta ad
indossarne un paio di colore nero con il cinturino alla caviglia. Nascondo la
bacchetta sotto il vestito e controllo che la collana sia al suo posto, poi,
respirando profondamente, apro la porta, decidendomi a scendere.
La musica di un gruppo d’archi mi raggiunge
subito e, affacciandomi sulla scalinata che porta al salone principale, noto
che Pansy ha decorato tutta la casa con motivi di rose rosse e stampe floreali
dello stesso tipo, che ricoprono divani, sedie e tendaggi. La stessa aria
profuma di rose, dire che è fissata è dire poco. La intravedo chiacchierare
amabilmente con alcuni Serpeverde che conosco, trasalisco reggendomi al
corrimano della scala quando la vedo conversare amabilmente con Astoria
Greengrass e Theodore Nott. Ma dal sorriso di lei e dalla piega diversa dallo
sguardo, mi appare subito evidente che non si tratti della vera Astoria: è la
sosia che vive a casa sua e che la sua famiglia ha accettato al posto suo, in
quanto capace ancora di generare figli.
Mi chiedo come facciano gli altri invitati a non
accorgersi che non sia lei: è vero, questo è un mondo fatto di apparenze, di poca
sostanza. La stessa Pansy, in questi giorni, cianciava a caso di persone che
era costretta ad invitare per formalità, ma che detestava cordialmente
ricambiata. E quindi chiunque guardi Astoria, forse vede solo il perfetto abito
di satin dorato, o il perfetto modo che ha di portare i lunghi capelli biondi,
o il perfetto mascara che le incornicia lo sguardo ceruleo. Forse chi vede un
po’ oltre, vede anche il modo affettuoso che ha Theodore di stringerla per la
vita, di baciarla ogni tanto sulla tempia o di sussurrarle qualcosa in un
orecchio. Ma chi come me non è mai entrata in questo mondo, vede invece tutto.
Astoria non ha mai sorriso così, entusiasta,
felice, colpita da tutto come se lo vedesse per la prima volta… e considerando
che Draco parlava di una che avevano raccattato per strada, ci sta che adesso
pensi di aver vinto alla lotteria. La cosa che però, nonostante tutto, mi porta
a sorridere sinceramente guardando lei e Theodore è captare un pezzo della loro
conversazione, mentre li passo accanto, finendo di scendere con attenzione le
scale.
Theodore si china alla sua altezza e lo sento
sussurrare nell’orecchio di lei: “Ricordati che Pansy è la migliore amica di
tua sorella… fingi che lo siano davvero amiche, ma non darci troppo peso. In
realtà si odiano…”. La falsa Astoria sorride, annuendo, e gli accarezza piano
il viso. Sorrido, scuotendo il capo. Theodore sa che non è la vera Astoria… ma
evidentemente gli va bene così.
Cerco per la stanza piena di gente Draco, ma non
riesco a riconoscerlo, magari il suo Confundus agisce anche su di me… ma no,
Pansy ha detto che il mio non agisce su di lui, perché diamine dovrebbe essere
diverso al contrario? Mi guardo attorno per cercare almeno di localizzare
Zabini, ma niente. Come sempre, quando sono in mezzo alla gente, specie se mi
sento osservata, inizia a prendermi la solita ben nota sensazione di disagio e
cerco una via di fuga. La portafinestra che conduce in giardino è aperta,
magari riesco a nascondermi lì…
“Buonasera…!” mi sento afferrare bruscamente per
un polso, mentre qualcuno mi fa ruotare su me stessa. Accigliata già faccio
saettare il braccio in direzione della bacchetta, ma poi mi tranquillizzo
vedendo che si tratta solo di un tipo sulla quarantina, con una lunga tunica
verde smeraldo, che Pansy prima ha salutato come “il mio vecchio amico Robert”.
Sorrido educatamente facendo un cenno del capo e
cercando al contempo di sfuggire dalla presa ferrea e sudaticcia dell’uomo.
“Lei deve essere Calista… la cugina di Pansy,
vero?” mi chiede curioso, avvicinandosi molto più di quanto dovrebbe ed
respirandomi in faccia con il suo mostruosamente disgustoso alito alcolico.
Annuisco con il capo, a quanto pare sono portoghese, quindi non è che debba
parlare più di tanto. La stretta dell’uomo, che è visibilmente sbronzo, si fa
ancora più salda.
Se non si stacca tra quattro secondi netti,
cugina portoghese o no della Parkinson, lo schianto all’istante.
“Lo sa che è una bellissima donna? Per Merlino,
se avessi dieci anni di meno… ma come si dice, lasciamo decidere alla donna…!”
ride sguaiatamente della sua battuta senza senso, avvicinandosi ancora e
tentando di abbracciarmi. Ringhiando, cerco la bacchetta pronta a puntargliela
addosso.
Improvvisamente la mano che stringeva il mio
braccio si stacca violentemente da me, ricacciata indietro da un’altra mano. Mi
volto nervosamente, masticando ancora amaro, trovandomi Draco ad un tiro dal
mio viso, l’espressione dura.
“Buonasera Robert…” sibila calmo, mettendosi
immediatamente accanto a me “Ha conosciuto la mia fidanzata, Calista? Non è
meravigliosa?”.
Robert, capita l’antifona, borbotta qualcosa e
fa marcia indietro, allontanandosi.
Sospiro a lungo, voltandomi a guardarlo. Inutile
dire la paresi facciale che devo autoimpormi per non iniziare ad arrossire come
una mocciosetta. Draco ovviamente mi appare nel suo aspetto consueto, biondo,
con gli occhi grigi, la linea dura della mascella e il sorriso sarcastico. Il
completo grigio che indossa, fa risaltare i suoi occhi in modo quasi
fastidioso, e la cravatta non allacciata che pende sulla camicia bianca, gli
danno un’aria ancora più strafottente del solito. Spero davvero che il
Confundus nasconda quell’espressione, è troppo immatricolata in Draco Malfoy
per non riconoscerlo. Per qualche secondo, il suo sguardo si perde sul mio
viso, sfiora la mia pelle, mi mette a disagio in modo assurdo, mentre mi
stringo nelle spalle, maledicendo il mio dannato vestito rosso. Poi, senza dire
una parola, in mezzo alla sala piena di persone che hanno iniziato a ballare
nella semioscurità, mi stringe per la vita e mi bacia a lungo, intensamente,
come se ci fossimo solo io e lui al centro esatto della stanza e del mondo
intero. Trasportata dal suo bacio, dalla luce soffusa e calda e dalla musica
dolce che spinge le coppie a ballarci attorno, gli chiudo le spalle con le
braccia, alzandomi in punta di piedi sui miei tacchi scomodi e chiudendo gli
occhi.
Quando si stacca da me, rimanendo con la fronte
poggiata sulla mia, mi rendo conto che goffamente e senza accorgermene, abbiamo
iniziato a ballare come tutte le altre coppie attorno a noi, stretti, vicini,
come non siamo mai stati in mezzo all’altra gente.
“Devo tipo tenerti legata per evitare che
qualche maschio ti si avvicini troppo?” mormora, riaprendo gli occhi, scintille
bronzo nell’argento “Passi per Karkaroff, ma adesso che stai con me, ti si
azzeccano tutti?!”. La sua voce suona calda e vibrante e, nonostante me ne
vergogni profondamente, la sua gelosia si traduce in una stretta allo stomaco
piacevole e calda.
“Bah, sarà il Confundus e l’aspetto di Calista
Parkinson… mica vedono davvero me…” commento stoica, senza scompormi e
guardando altrove oltre la sua spalla.
Le sue dita sollevano il mio mento,
costringendomi a guardarlo in viso: “E non sanno che cosa si perdono…”. Ancora,
chiude le sue labbra sulle mie, baciandomi ancora.
Vorrei rispondere che anche nel suo caso, non
sanno che cosa si perdono, ma il suo ego si gonfierebbe fino all’inverosimile,
quindi meglio stare zitta.
Piegando la testa di lato, sorridendo, sussurro:
“Mi hai chiamato la tua fidanzata…”.
“Tecnicamente ho chiamato Calista la mia fidanzata…”.
“Certo, certo… se fossi stato te stesso e io me
stessa, avresti usato un’altra espressione, tipo… che so…” bisbiglio
meditabonda, mettendo un finto broncio.
“La mia amante, la mia compagna di letto… ce ne
sono tante… non amo le etichette…” commenta lui casuale, curioso di dove stia
andando a parare il discorso.
“Tutte, tranne fidanzata, insomma…”.
“Esatto… tecnicamente si dice fidanzata quando
indossi un anello e una pietra all’anulare… e non mi pare che tu ce l’abbia…”.
Una botta alla nuca, un brivido sulla schiena ed
una voragine che si apre sotto i piedi. Stavo scherzando, volevo provocare un
po’ Draco, sentirgli dire come mi avrebbe chiamato, scommetto che stava
scherzando anche lui. Ma eccolo lì, ancora quel pensiero… sta diventando peggio
di una malattia.
Helena ce l’aveva un anello.
Abbasso lo sguardo, chiudendo ancora gli occhi,
mi sento un’imbecille, una cretina patentata. Ecco, per quanto mi sforzi e mi
sforzi, io nel presente non ci so stare: mi struggo per il passato e mi
angoscio per il futuro.
“Hermione…” la voce di Draco mi riporta alla
realtà, alle sue braccia attorno alla mia vita e ad uno dei momenti più belli
della mia vita che sto facendo di tutto per rovinare “Guarda che stavo
scherzando… stai diventando un po’ troppo seriosa ultimamente…”, mi guarda con
attenzione in viso, socchiudendo gli occhi e irrigidendosi, prima di
sussurrare: “… e stai anche piangendo…”.
“Non sto piangendo…” ripeto instupidita, toccandomi
le guance. Ed invece sì, sto piangendo, le guance sono bagnate, non me ne sono
nemmeno resa conto.
“Che cosa hai? Non credere che non me ne sia
reso conto…” riprende Draco, il tono duro “Ogni tanto ti estrani, diventi
fredda, chiusa… a che diamine pensi? Ho lasciato correre perché hai diritto di
avere cose che non mi vuoi dire… ma riguardano me, non sono idiota, Granger… e
sta accadendo sempre più spesso… sta diventando seccante…”.
“Scusami se sono la perfetta non
fidanzata seccante…” borbotto innervosita, lasciando cadere le braccia dalle
sue spalle e stringendole al petto.
“Tendenzialmente non sei così seccante…
al momento però credo che tu sia andata decisamente in overdose…” replica Draco
senza scomporsi, guardandomi severamente e lasciando la presa attorno alla mia
vita. È come se mi andasse il sangue alla testa, penso a Pansy che ha capito
subito che cosa ci fosse di strano in me, nonostante forse mi odi ancora o
comunque io non le stia sommamente simpatica. Penso invece a lui che non si accorge
di niente, a lui che mi ha messo quest’altare davanti agli occhi con Helena da
adorare ogni santissimo minuto della giornata. E so che non è razionale, so che
è assurdo anche solo pensarlo, ma è come se lui non abbia mai lasciato che lei
morisse davvero, come se ci goda enormemente a lasciarla tra me e lui.
Altro che vivere nel presente…
Non ce la faccio, non riesco a sopportarlo.
Le lacrime agli occhi, il labbro che mi trema,
mormoro: “Non sia mai che tu mi debba sopportare… meglio che ti lasci in pace,
no? Del resto non sono nemmeno la tua fidanzata, non devo nemmeno restituirti
un anello o simili…”. Senza lasciare ai miei occhi lo strazio di guardarlo
ancora, mi volto su me stessa ed attraverso correndo la sala ancora piena di
gente che balla. Incespico sulle scale, a causa di questo stupido vestito, e
ritorno velocemente in camera mia. Non ho neanche fatto in tempo a chiudere la
porta e a raggiungere il letto dove mi lascio cadere senza forze, che la porta
si riapre ancora e Draco entra trafelato, chiudendosi la porta alle spalle con
violenza. Il buio della notte senza luna mi nasconde clemente ai suoi occhi,
nessuno dei due osa dire una parola o accendere una luce, solo l’affanno del
suo respiro e il singhiozzo soffocato nel mio petto spezzano il silenzio
ovattato che ci circonda.
“E’ per la faccenda dell’anello?” la sua voce
incerta mi coglie del tutto impreparata, ho un brivido sulla schiena nuda e mi
stringo nelle spalle.
“Che cosa?!” chiedo autenticamente confusa,
asciugandomi in silenzio le lacrime dagli occhi.
Draco fa qualche passo, vedo la sua ombra
fermarsi davanti al letto e restare immobile. La luce dell’esterno lo illumina
malamente, sposta il peso da una gamba all’altra a disagio. Credo che sia la
prima volta che lo vedo autenticamente imbarazzato. E non capisco perché.
“Sì… insomma…” prosegue sempre con un filo di
voce, gli occhi bassi “La faccenda della fidanzata, l’anello e tutto il resto…
guarda che stavo scherzando… se credi che io…”.
Esasperata chiedo ancora: “Che tu che cosa?”.
“Che non voglia impegnarmi con te o cose simili…” finisce lui con voce
monocorde, scompigliandosi i capelli con una mano e nascondendomi così
l’espressione del suo volto, prima di soffiare con tono nervoso: “Dio, mi sento
un idiota…”.
Continuo a guardarlo con sguardo decisamente
poco intelligente, ma non ci posso fare nulla, non riesco assolutamente a
capire dove voglia andare a parare. Se ne sta lì immobile, a cianciare di
anelli, mentre io a tutto sto pensando tranne che a quello. Ricostruisco a
fatica gli ultimi momenti della nostra conversazione alla festa, lo scherzo che
gli stavo facendo a riguardo del non sentirmi chiamare la sua fidanzata.
Sbuffo, deve aver pensato che volessi un impegno formale di qualche tipo da
parte sua. E io sono invece lontana mille miglia da questo.
Faticosamente apro le labbra, massaggiandomi
sfibrata la tempia: “Impegnarti? Guarda che non volevo dire che…”.
“Ascoltami, avevo già pianificato tutto questo…”
mi interrompe immediatamente lui, con un lungo sospiro nervoso, prima di
sedersi sul letto accanto a me. Gli occhi grigi restano ipnotizzati dal muro di
fronte a noi, senza posarsi su di me nemmeno per sbaglio. Le spalle sono
serrate, chiuse, come se si stesse tenendo stretto a sé stesso per impedirsi di
scoppiare via. Respira ancora profondamente prima di aggiungere con voce velata
di fastidio: “… ma ovviamente con i tuoi atteggiamenti hai dovuto rovinare
tutto… e adesso sembrerà una cosa fatta apposta…”.
Ancora più innervosita, trattenendomi dal
digrignare i denti dalla frustrazione, ribatto: “Non ti seguo, Draco…”.
Finalmente il suo sguardo torna al mio viso, ha
il colorito roseo di chi sta arrossendo e davvero è qualcosa che non sapevo
scientemente che Draco Malfoy potesse fare. E non c’entra niente il fatto che
abbia l’incarnato così pallido, la pelle così chiara da sembrare quasi
trasparente. Semplicemente lui spesso sembra una creatura di un altro mondo, a
limite tra l’essere un angelo e un diavolo.
Arrossire è una cosa così umana che non sapevo
gli appartenesse, mi provoca la stretta dolce al cuore che provai la prima
volta che mi sorrise o in cui lo vidi piangere.
“La festa… Pansy… è stata una scusa…” bisbiglia,
guardandosi le mani contratte “Volevo che te lo ricordassi… volevo che…
insomma, che fosse una cosa…”.
Sta persino balbettando, assurdo. Forse ha
battuto la testa, non c’è altra spiegazione. Cavolo, sono la sua pseudo ragazza
da dieci giorni e mi conosce da anni… adesso è diventato timido? E poi mi sta
facendo decisamente preoccupare… già al momento non sono lucida, figuriamoci se
si mette anche a cavillare su cose che non capisco. E che diamine significa che
la festa era una scusa?!
“Continuo a non seguirti…” borbotto
innervosendomi ancora di più, mi sono fatta truccare e vestire da Pansy
Parkinson, indosso un vestito rosso che non avrei mai indossato, mi sono fatta
alitare in faccia da un porco ubriacone, mi sono dovuta ricordare di Helena per
la quarantesima volta in dieci giorni, per una “scusa” partorita chissà perché
dalla sua mente malata??!!
Incrocio le braccia insofferente, guardandolo
storto e biascicando: “Ma la cosa peggiore è che mi sono iniziando anche a
preoccupare che tu abbia subito un serio danno celebrale…”.
“Potresti stare in silenzio circa trenta secondi
o ti si squaglia il cervello in caso contrario?” mi risponde acido, le mani di
nuovo distese sulle ginocchia, guardandomi in tralice con cattiveria.
“Non mi hai definita, com’era, ah giusto…
seccante?!”.
“Mai trovata definizione più calzante…”
asserisce convinto, socchiudendo gli occhi.
“E quindi?!”. Se sta cercando di farmi
innervosire ancora di più, ci sta riuscendo perfettamente…
Improvvisamente i suoi occhi cambiano, sono onde
dolci di gennaio alla luce della luna piena. Ipnotici, come sempre sono stati.
La nenia del loro riflesso nella mia mente, che mi incatena i pensieri e mi
impedisce di ragionare. E si scioglie la rabbia, si scioglie il ricordo, si
scioglie il rancore. Mi sciolgo io stessa. Deglutisco a disagio, non riuscendo
comunque a staccarmi da lui.
Sorride piano, dolcemente, sospira ancora. E
sembra quasi rassegnato, come se accettasse qualcosa che non riesce a cambiare,
che non vuole cambiare.
E dice solo, accarezzandomi piano una mano:
“Voglio che tu sia seccante solo con me… per tutto il resto della mia vita…”.
Il cuore mi salta nel petto, mandandomi in
fiamme il viso. Forse dalle vene della mano, che lui ancora stringe, può
sentirne il rintocco cupo nel mio corpo. Mi mordicchio l’interno della guancia,
sfuggendo i suoi occhi che mi illuminano in viso come se fosse una luce nel
buio. Calma, Hermione, stai calma. Non può essere quello che hai capito… dai,
insomma, non scherziamo. Sta cercando di blandirti perché ha visto che ti sei
arrabbiata con lui… e adesso come un qualsiasi uomo che si rispetti, sta
dicendo parole volutamente grosse per impedire che ti arrabbi ancora di più,
certo, è così… insomma non può voler dire che… spio con la coda dell’occhio il
suo viso, ha ancora gli occhi saldamente puntati nei miei e quell’instancabile
mezzo sorriso sghembo che ha sempre quando incrocia il mio viso. Il cuore mi fa
un’altra capriola tra le costole, dandomi la sensazione soffocante di non
riuscire nemmeno a respirare più. Quello sguardo… non può essere… la mano che
stringe ancora nella sua, trema sudando come se stessi correndo. Calma,
Hermione, ti stai sicuramente sbagliando…! Calmati! E di Malfoy che stiamo
parlando… figuriamoci… sarà un altro dei suoi sporchi mezzucci per ridurmi
buona! Certo, sarà così…
Cercando di darmi un contegno, lo guardo ancora
di sbieco, non osando affrontare i suoi occhi così dannatamente chiari da darmi
il sangue alla testa. Poi sospiro sicura e dico tracotante, incespicando
comunque nelle parole: “N-non stai dicendo quello che ho capito, v-vero? Non
può essere che tu…”.
“Sto dicendo esattamente questo invece…” dice
con un filo di voce, la sua mano che stringe ancora più forte la mia.
Un nodo in gola, lo seguo con lo sguardo mentre
armeggia con qualcosa nella tasca interna della giacca. Lo vedo a rallentatore,
con gli occhi sbarrati, estrarre una piccola scatoletta di velluto azzurro che
deposita sul mio grembo con cura. Non oso toccarla, non oso nemmeno sfiorarla,
la guardo e basta. Soffoco con la mano libera un singhiozzo che mi scappa dalla
gola, mentre sussurro: “O mio Dio…”. Le dita si bagnano di lacrime, mentre il
cuore non smette di martellarmi nelle orecchie, un fiume di lava nello stomaco.
Draco si avvicina ancora, il suo profumo mi
sembra più forte di quanto non sia mai stato. Sfiora il mio fianco con il suo,
prima di sollevarmi il viso con entrambe le mani. Mi trattiene così ad un tiro
dai suoi occhi, le labbra che si schiudono appena, gli occhi annebbiati.
Guardandolo, ogni pensiero svanisce ancora. Persino il peso della scatoletta
sulle gambe evapora, me ne dimentico.
Il cuore si calma, dismette la sua ansia
febbrile. Siamo solo io e lui. Come sempre.
Quando sembra accorgersi che mi sono calmata, la
sua voce mi sussurra sulle labbra: “Ascoltami, so già adesso che cosa dirai.
Che è presto, che sei giovane, che hai solo ventitré anni, che la nostra vita è
un tale casino che pensarci adesso… è assurdo, e hai ragione. Ma io non ho
bisogno di conoscerti ancora, di sapere ancora chi sei… io ti conosco da tutta
la vita, Hermione. Sei sempre vissuta parallelamente alla mia vita e tutte le
tue gioie in questo mondo, a suo modo, sono state le mie. Così come i dolori…
non mi serve conoscerti ancora, giocare ai fidanzati per altri dieci anni,
andare a feste come questa, sfoggiarti come un trofeo davanti a Potter… non mi
serve. Ho bisogno solo di averti accanto… solo di sapere che ci sei, per
sempre. E questo è il solo modo.”, fa una pausa sofferta, abbassa gli occhi,
sembra cercare qualcosa nella sua testa come a pulire un pensiero. Poi
riprende, la voce più roca: “Vorrei poterti dire che non c’è egoismo in me, che
non è perché cerco un modo qualsiasi per legare la mia vita e la tua ed
impedire che si sciolgano… ma mentirei… io ti amo, Hermione Granger, e voglio
che tu resti per sempre mia… tu sarai mia moglie un giorno… io lo so e lo sai
anche tu. Diventalo oggi, adesso. Abbiamo cercato di sfuggire a tutto questo
per mesi… e non ci siamo riusciti. Non ci riuscirà nemmeno Astoria, Karkaroff…
o chiunque altro si metta in mezzo tra me e te…”, chiude gli occhi un attimo,
prima di sussurrare ancora: “Sposami Hermione…”.
“Non lo stai dicendo sul serio, vero?” bisbiglio
ancora, un capogiro mi fa barcollare, stringo la manica della sua giacca come
se temessi di cadere anche da seduta.
“Non sono mai stato così serio in tutta la mia
vita…”.
“E S-serenity? Io non
sono pronta… non posso essere… sua madre… io non…”.
La mia testa è decisamente in cortocircuito, non
so nemmeno io che cosa sto dicendo. E che cosa sto pensando. Che c’entra adesso
Serenity? Mi ha chiesto di sposarlo, mio Dio… Draco Malfoy mi ha chiesto di
sposarlo. Stiamo assieme da dieci giorni… e mi ha chiesto di sposarlo. Mio Dio,
non ci posso pensare… credo che collasserò al suolo tra cinque secondi.
Draco sorride ancora, accarezzandomi i capelli:
“Serenity ti adora… tu adori lei… non mettere paletti a quello che potreste
essere l’uno per l’altra… io non sono suo padre, non mi considero tale. Non ci
dobbiamo chiamare mamma e papà per amarla come l’amiamo io e te…”.
“Ma… Astoria… Pucey… e… poi… il Ministero…
n-no…” continuo a balbettare sconvolta, affastellando motivi su motivi, domande
su domande, cose su cose, pensieri su pensieri. Su tutti primeggia il poco
tempo passato assieme… ogni pensiero, appena spunta all’orizzonte, sembra così
grande da darmi il panico. Poi torno a guardare Draco, e il pensiero diventa
piccolo piccolo. Come in un gioco d’ombre si
appiattisce al suolo, diventa un riflesso inconsistente sotto una luce troppo
luminosa.
Ed allora lo cerco nella mia testa, come si
cercano i residui di un incubo al risveglio. Ed è sparito. Non riesco a trovare
un solo singolo motivo che mi impedisca di sposarlo adesso, oggi, sempre.
Dieci giorni che stiamo assieme?
Sono stati i giorni più belli della mia vita in
ventitré anni. Se non sono stata mai felice in vita mia in questo modo, vuol
dire che posso esserlo solo con lui. Non ho bisogno di altri dieci anni da
passare con lui da “fidanzata” per saperlo. Lo so già adesso.
Astoria, Pucey, Montague, Dimitri?
Non mi faranno mai del male, fin quando sono con
lui. Non faranno mai del male a lui, fin quando è con me. Non lo permetterò.
Non lo permetterà.
Harry, Ginny, Pansy, Blaise, Ron, Dean, Lavanda, i miei?
Capiranno. E se non capiranno… non fa niente.
Posso vivere anche senza di loro, ma non senza di lui.
Sono solo una cameriera, non sono una strega, non so che fare della mia
vita.
So esattamente che cosa fare della mia vita.
Sarò sua moglie. Sarò la moglie di Draco Lucius
Malfoy. Indipendentemente da tutto il resto.
Lentamente, come se andassi a fuoco per i miei
stessi pensieri, sollevo il viso guardandolo, mentre dice con un sussurro
flebile: “Niente e nessuno si potrà mettere tra me e te… niente….”.
Le lacrime mi impediscono di vederlo bene, il
nodo in gola non mi fa parlare, annuisco piano balbettando. Lo attiro vicino a
me, tirandolo per il colletto della camicia e baciandolo con foga, come se ne
andasse del restare viva, come se ne avessi bisogno per non lasciare ai miei
pensieri il modo di arrivare alla mia testa. Draco mi cinge accogliendomi nel
suo abbraccio, e vorrei dirgli di sì, vorrei dirgli di sposarci adesso, subito,
immediatamente, prima che questo stesso bacio finisca, vorrei dire tanto,
vorrei dire tutto, vorrei dire che lo amo, che è tutto per me, vorrei dirgli
quello che di solito trattengo per pudore, o per paura di sembrare ridicola, o
per paura che si inorgoglisca troppo. Tutto vorrei dirgli, tutto, dalle parole
più grandi a quelle più piccole, a quelle più stucchevoli, alle più idiote, a
quelle scontate, a quelle che mi farebbero sembrare sciocca. Voglio chiamarlo
amore, così, con naturalezza, firmare il mio nome con il suo cognome. Tutto
questo, tutta questa follia di pensieri senza nome, li riverso nel bacio che
gli do, sperando che capisca. E lui risponde al mio bacio, allo stesso modo. E
toccandoci poco, sfiorandoci appena, facciamo l’amore in un modo nuovo.
Con un sorriso radioso, si stacca da me senza
dire una parola. Con lo sguardo accenna alla scatoletta ancora sul mio grembo,
me ne ero completamente dimenticata. Asciugandomi le lacrime, la apro. Produce
un piccolo suono metallico strozzato, prima che la luce perfetta del diamante
mi si riveli. Riluce qualche secondo nel buio, poi sparisce.
Sparisce.
Tutto viene risucchiato nel buio, tutto. Le
parole bloccate in gola, le promesse, le lacrime, i pensieri appena inventati.
Un buco nero che assorbe la luce. Stritola Draco, cattura me, per poi sputare
pezzi informi da cui non si riconosce che cosa ero e cosa sono.
Raggelata, è come se mi svegliassi da un brutto
sogno. Da un orribile incredibile sogno, che mi sembra persino di aver davvero
fatto una vita fa: una proposta di matrimonio, un anello di diamanti tra le
mani, la sensazione di essere risucchiata via. E il cuore che mi si spezza
irrimediabilmente.
Tremo come non ho mai tremato, il tempo si
ricuce, i pensieri diventano di nuovo montagne insormontabili, il profumo di
Draco sparisce come fumo d’incendio.
Tra le mani, balugina qualcosa che non mi
appartiene. L’ho riconosciuto subito.
L’anello di Narcissa Malfoy, prima. Quello di
Helena Jasmine Greengrass, dopo.
Mi ha appena chiesto di sposarlo con l’anello
che aveva dato a lei.
L’anello è come un Dissennatore, materializza
tutte le mie peggiori paure. La schiena formicola di sudore freddo, mentre la
nebbia dei pensieri mi offusca gli occhi. Le lacrime si asciugano, divento lucida,
consapevole, vuota, come se fossi appena uscita da una doccia fredda. Stormi
neri dove prima c’era cielo accecante: e così, improvvisamente, tutto
sembra sbagliato. La paura di Helena diventa tangibile, reale; ha adesso le
fattezze dell’oro bianco e del diamante e non c’è più niente dietro cui possa
nascondermi. Vivere nel presente è impossibile, sapendo che Draco adesso ha
chiesto di impegnarmi indefinitivamente per il futuro. E tutto, tutto, tutto,
dalla prima all’ultima cosa, trova posto in un mosaico scomposto di paure. Non
mi provocano panico, ansia, angoscia. No.
La cosa peggiore è che rimango assolutamente
inerme, tranquilla, calma. Rassegnata.
Del tremendo e meraviglioso uragano interiore
che mi ha sconvolto fino a poco fa, resta solo la polvere lercia.
Sollevo gli occhi asciutti, lo guardo ancora con
quel sorriso immenso che gli illumina il viso, ma che poi si spegne subito. Non
scorge più le lacrime calde nei miei occhi e ne ha terrore, stringe gli occhi
grigi non capendo. E forse maledice di avermi detto che odia vedermi piangere.
Adesso odia di più non vedermi piangere.
“Ed Helena? Lascerai a lei invece di potersi
mettere tra me e te? Quello andrà bene, invece?”.
Già il silenzio che muta, già la morsa gelida
nel mio respiro, già il fatto che lui trattenga il suo, già l’odore stesso
della stanza che cambia… già tutto questo dovrebbe farglielo capire. Come può
non averlo mai capito? Basta il nome di lei, basta solo e soltanto il suo nome
che tutto cambia tra me e lui, come se in un regno retto da un usurpatore, per
caso, nel bel mezzo della sala del trono, si facesse il nome del sovrano
legittimo. Le lacrime occupano i miei occhi di nuovo, la calma si sgretola, si
spezzetta come foglie secche.
Draco mi guarda attonito, come se gli avessi dato
uno schiaffo, come se avessi calato un coltello nel suo fianco: “Che diamine
c’entra Helena adesso?”.
Scuoto il capo non capendolo, non capendo come
faccia a non arrivarci. Quel piccolo movimento della mia testa mi restituisce
rabbia, confusione, cala la notte sui miei pensieri. Mi alzo dal letto,
singhiozzando, vado avanti ed indietro per la stanza, l’anello ancora tra le
mani. Lo torturo senza ritegno, prima di sputare fuori: “E’ il suo anello,
Draco, dannazione! Il suo anello… non ci posso pensare… ed avevo quasi deciso
che…”.
“Hermione, calmati, insomma… che c’entra Helena?
Che cosa c’entra lei adesso? Perché la tiri sempre in ballo?!” mi raggiunge,
afferrandomi e trattenendomi per le braccia, ma mi divincolo allontanandolo ed
urlando in preda ai singhiozzi: “Io?!! Io la tiro in ballo?!! È il suo anello!
Il suo anello! L’hai dato a lei, hai chiesto di sposarla con lo stesso
anello!”, Draco mi guarda senza capire, ferito nello sguardo. E quello, se
possibile, mi urta ancora più di tutto il resto. Mi urta che ancora non
capisca.
Tutte le premure, tutte le resistenze, tutte le
reticenze del caso crollano del tutto.
E dico quello che penso da dieci giorni, ma che
non avevo mai avuto il coraggio di dire per non fargli del male.
Sollevo gli occhi, contraendo le labbra: “Che
c’è, sono una specie di sostituta per te? La copia malriuscita che ti va bene
avere adesso?!”.
E gli faccio male sul serio, adesso. Si
allontana da me come se scottassi, fa qualche passo malfermo indietro, mi
guarda come se mi vedesse per la prima volta. Mi vedo nei suoi occhi, le spalle
chiuse, i pugni serrati, il volto chiazzato e bagnato, i capelli spettinati, lo
scintillio furioso dello sguardo. Come sempre, in poche manciate di attimi,
Draco recupera sé stesso, nasconde l’incertezza, la mette a tacere, si serra in
sé stesso chiudendosi a doppia mandata. Recupera la distanza persa con me, mi
si para davanti in tutta la sua altezza e stringe forte le labbra facendole
quasi sparire.
“Non usare le mie parole per difendere te stessa
e i tuoi ragionamenti idioti, non te lo permetto… se non mi vuoi sposare,
dimmelo adesso… ma non tirare in mezzo Helena… lei non c’entra niente…”, la sua
voce scende di tono, si vela di tristezza ed aggiunge: “E’ stata persino lei a
portarti da me… e tu adesso…”.
“Il problema non è Helena! Sei tu! Tu e basta!”,
quella tristezza nello sguardo mi accende come benzina sul fuoco “Tu che non
riesci a lasciarla andare, tu che continui a vivere come se lei fosse solo
partita per un viaggio, tu che non mi consenti mai di dimenticare che è
esistita, tu e basta!”.
La razionalità è un lusso che non riesco più a
concedermi, eppure sono talmente presente a me stessa da capire ogni sua
espressione. L’amore è il grande assente, ecco perché. Non lascio che mi
controlli, che mi distolga da me stessa, non lascio che apra bocca. La
tristezza di quegli occhi la odio come non ho mai odiato niente in vita mia, è
la stessa tristezza che aveva quando mi ha parlato per la prima volta
dell’incontro con Helena e capì che era stata lei a portarmi da lui. Adesso la
distinguo nettamente, chiaramente. E fa un male atroce, come se mi svuotassero
il cuore con un cucchiaino. Non ho mai consentito a me stessa di vedere
davvero, appiattita nel presente come avevo desiderato per andare avanti con
lui. Ma adesso che lo scintillio di un diamante mi ha proiettato un riflesso di
me e lui nel tempo che scorrerà da questo momento in poi… adesso vedo tutto
disgustosamente bene.
“Non sai di che cosa stai parlando…” ripete lui,
come se non capisse il senso stesso delle sue parole. Scuote solo il capo,
allontanandosi ancora. Non glielo lascio fare, lo afferro per la giacca, gli
prendo il viso tra le mani, lo costringo a guardarmi in faccia.
“Guardami adesso, guardami in faccia adesso…”
ripeto, piangendo, pregando, implorando, maledicendo il suo sguardo
ostinatamente basso “Guardami negli occhi adesso… e giurami che stasera,
adesso, la lascerai andare. Davvero, non per finta come hai sempre fatto…
giurami che, usciti da quella porta, rinuncerai per sempre all’idea di
vendicarla. Per sempre, non come fingi… perché lo so Draco, lo so… domani
vedremo Harry e fingerai che ti vada bene che cerchi lui Pucey e Montague, ma
invece… non rinuncerai mai. Dimmelo adesso che lo farai, che sceglierai di
vivere accanto a me. Che non penserai mai più che sia stata colpa tua che è
morta… giurami adesso che non hai mai pensato che la tua vera vita fosse quella
con lei…”, chiudo gli occhi e la nefasta ispirazione di quella tristezza che ho
visto adesso nei suoi occhi mi travolge come un’onda pestilenziale, e devo dire
anche questo, devo impedire che seppellendolo per non fare male a lui, finisca
per fare male a me. Gli accarezzo piano lo zigomo con un pollice e sussurro:
“Giurami adesso, Draco… che quando hai saputo che è stata lei a portarmi da te,
non hai pensato nemmeno per un secondo che lei avesse scelto di rinunciare di
nuovo a te… anche dall’aldilà… dimmi che non hai pensato ancora che per
l’ennesima volta, non sei stato così insostituibile per lei, al punto che
addirittura ha cercato un’altra per te…”, sobbalza, trasale, chiude gli occhi e
già intuisco la risposta alla domanda che sto facendo. Singhiozzando, non
riuscendo nemmeno a parlare, sussurro ancora: “Guardami adesso… e dimmelo…
giuramelo e ti sposerò stasera stessa… dimmelo… ti prego…”.
Cala il silenzio, cala come una scure sulle
nostre teste. Cala come la notte quando il sole tramonta, e quel silenzio è la
dannata risposta che stavo cercando. E poco importa che ai miei singhiozzi,
adesso, si sia unito anche il suono stentoreo della sola e singola lacrima che
ha lasciato i suoi occhi per sfiorare le mie mani. Poco importa. Importa poco
anche che mi dica, piano, la voce rotta: “Non posso… non posso giurartelo…”.
Poco importa che sia stato sincero, ancora, poco importa che Ron mi avrebbe
mentito e che Dean avrebbe negato. Poco importa.
Tutto, adesso, importa poco.
Quando le mie mani lasciano il suo viso, quando
crollano e ricadono lungo i miei fianchi, quando mi sento privata della spina
dorsale come uno sciocco fuscello nel mezzo della tempesta, finalmente lui
solleva lo sguardo, incrocia il mio viso e il suo labbro trema senza controllo.
Fredda, gelida, incapace di parlare ancora,
bisbiglio più a me stessa che a lui: “Io posso farlo, posso sforzarmi, posso
stravolgere quella che sono e quello in cui credo… e sarà facile, semplice,
bellissimo. Perché avrei in cambio momenti come quelli che ho vissuto in questi
dieci giorni… posso vivere nel presente, posso farlo. Posso vivere con il
pensiero che tu non mi ami adesso come hai amato lei… ma non posso vivere
pensando che non mi amerai mai quanto hai amato lei…”.
Lo colpisco di nuovo, stavolta nemmeno
rendendomene conto, stavolta con la sola consapevolezza che non so più che cosa
sto dicendo. Mi stringe per il polso, mi attira a lui, mi stringe tra le
braccia e non sento niente, niente di niente. Resto immobile tra le sue
braccia, come una bambola vecchia. E lo sento stringermi più forte, tentando di
farmi male, persino di soffocarmi, come se così le parole possano tornare indietro,
i silenzi possano riavvolgersi. Ma non accade, niente accade.
“Non è giusto… non è giusto… tutto questo…”
sussurra, ripete, piange continuando a stringermi, il suo corpo mi implora di
stringerlo a mia volta, e io non riesco nemmeno a ricordarmi come si alzino le
braccia, come si possa vincere la debolezza che mi fiacca da dentro, come si
possa anche solo simulare un calore che non provo, essendo diventata carne
fredda e morta “Mi stai dicendo che devo scegliere tra te e lei? Come diamine
credi che possa farlo? Come maledizione puoi pensare che io possa smettere di
pensare a lei, oppure lasciare che adesso tu te ne vada da qui? Come posso…
lasciarti andare via?”.
Lasciarmi andare via… certo, perché
qui siamo arrivati adesso. Deve lasciarmi andare via. Come se non l’avessi
nemmeno pensato fino ad ora, come se non ci avessi nemmeno ragionato fino a
quando non l’ha detto, capisco che è vero. Deve lasciarmi andare via. Adesso,
subito, immediatamente. Ovvio che non posso lasciare questa casa, ma questa
stanza sì, questo letto sì, questa vasca da bagno sì… devo andarmene da qui,
Pansy mi darà un’altra stanza ed avrò solo i miei pensieri da cullare, da
ascoltare; solo le mie lacrime da asciugare, da cancellare.
Devo andarmene da qui.
Urgenza diventa adesso andarmene, perché Helena
ci respira addosso e io non lo sopporto più. Il suo odore si confonde con
quello di Draco, e io non lo sopporto più. Di nuovo, si nasconde nei suoi
gesti, nelle sue pause, nei suoi silenzi... Dio, come se lo sapessi solo ora,
mi ricordo anche che Serenity è sua figlia… non lo sopporto più.
Le parole si incespicano, mi allontano da lui,
mi sciolgo dal suo abbraccio. E non lo guardo in viso, mentre riprendo a
parlare, la voce ragionevole, la voce che adesso non dovrei nemmeno pensare di
avere, ma che so usare solo perché adesso è importante, vitale, necessario,
andarmene da questa stanza. Il fine, lo scopo, giustifica ogni mezzo.
“Non lo so Draco, io non lo so… io ti amo…”, e
mi forzo per non guardarlo, mi forzo per non sentire le pieghe di ognuna di
quelle tre parole e di quelle sette lettere, mi forzo per usarle come se
fossero una sciocca frase da consuetudine, mi forzo per non sentire davvero la
forza di amarlo nelle ossa, nella carne e nella pelle. E riprendo stoica:
“Forse abbiamo bisogno di tempo, magari dobbiamo stare da soli per un po’…
magari quando tutto questa storia con Astoria, sarà finita, sapremo che cosa
fare…”.
“Mi stai lasciando?” la sua voce fende l’aria, e
non posso più impedirmi di guardarlo, perché piange davvero adesso. E non so
fermarmi, non so smettere di piangere anche io. Dieci minuti fa mi ha chiesto
di sposarlo… dieci minuti dopo, forse ci stiamo lasciando. Non ce la faccio a
pensarlo.
“Non lo so… per favore, lasciami andare…
lasciami stare da sola, lasciami pensare da sola… per favore, Draco, non ce la
faccio adesso neanche a parlare…”.
“Non doveva finire così stasera… non doveva…”.
“Lo so, Draco, ma è il solo modo per tornare
assieme… è il solo modo… per favore, lasciami andare…”.
“Non puoi andartene… Astoria… non puoi andartene
da qui…”.
“Voglio solo fare una passeggiata… mi farò dare
un’altra stanza da Pansy… domani incontreremo Harry… e poi si vedrà…”.
Sono le ultime battute, le ultime frasi che
riesco a dire, che riesce a dire. Adesso ci rimangono solo pochi monosillabi,
pochi singhiozzi, pochi suoni soffocati. Poi tutto sarà fissato, presente:
quando chiuderò quella porta dietro di me, tutto questo sarà reale. Lui che non
riesce a scordare Helena. Io che non riesco a sopportarlo.
“Non posso, non ce la faccio…” fa un ultimo
tentativo, mi guarda di nuovo, per un attimo cerca di riacquistare la forza
solita.
“Per favore…” dico soltanto, e quella forza si
annienta, sparisce, evapora. Non dice più nulla.
Mi volto su me stessa, traballante, apro la
porta e la musica della festa lontanissima al piano di sotto mi colpisce come
se fossi stata tutta la vita in una campana di vetro. Barcollo, strizzo gli
occhi per la luce e mi reggo allo stipite della porta. Una vertigine mi coglie
infida, e faccio un passo indietro, rischiando di cadere. Ma non cado, lui è
lì, come quel giorno al Tourquoise Party quando vidi Harry e gli altri. Mi
adagiai contro di lui e seppi di essere al sicuro. Riprendo a piangere,
nascondo il viso tra le mani e lui mi volta delicatamente, facendomi nascondere
nella sua camicia mentre mi stringe a sé. La sua voce dista mille miglia, parla
come se la buttasse fuori per abitudine. Non l’ho mai sentito così.
“Helena me l’aveva detto quel giorno, il
messaggio che mi lasciò prima di morire… quando incontrerai la donna giusta,
non farle pagare il prezzo di non essere me… ed invece io l’ho fatto con te…
non potrò mai perdonarmelo… come potrai tu perdonare me? Come potrai tornare
indietro, adesso? Andrai via adesso… e sarà per sempre…”.
Mi stacco da lui, mi alzo in punta di piedi e lo
bacio dolcemente, piano, sulle labbra.
“Io sono tua, Draco Malfoy… e lo sarò per
sempre… non andrò mai via… mai… te lo giuro…” gli dico sincera, accarezzandogli
il viso “Ma non posso restare qui adesso… se non vado via, adesso, prima o poi
ci perderemo… ma io ti amo… e ti amerò per sempre… abbi fiducia… in me, in te,
in noi… ce la faremo… solo… non oggi… ce la faremo… domani parleremo con Harry,
torneremo alla nostra solita vita… e tutto andrà a posto, in qualche modo… deve
andare a posto in qualche modo… se esiste un Dio, lo deve a tutti e due…”.
Lo bacio ancora, ancora, ancora.
E poi scappo via, tra le luci della festa e poi
tra le ombre del giardino.
Piango, urlo e la musica assorbe tutte le mie
parole sconnesse.
Piango, urlo e grido, chiedendomi già come farò
a guardarlo in volto domani mattina, come farò a spiegare ad Harry che stiamo
assieme ma che in realtà non stiamo davvero assieme.
Piango, e mi chiedo come faccia a trovarmi nel
bel mezzo di una pausa di riflessione, io che le ho sempre odiate.
Piango, e non mi accorgo dell’ombra che spunta
in giardino.
E piangendo, preoccupandomi dei giorni che
verranno, ignoro che essi non arriveranno.
Perché cinque anni dopo, nel salotto di quella
stessa casa, senza più il suono della musica o il volteggiare delle luci,
seduta su un divano, ricorderò quell’esatto momento.
Avrò Seth vicino, Pansy di fronte, mio figlio in
un’altra stanza assieme al ragazzo che mi ha insegnato il valore delle piccole
cose.
Avrò i capelli più corti, avrò una fede al dito.
Mi chiamerò Hermione Granger in Weasley.
E quel giorno, mentre il sole muore, ricorderò
le lacrime di quel momento, accompagnandole con una sola singola tonante frase.
La frase che mi ha riportato in Inghilterra
cinque anni dopo, la frase che Pansy ascolterà sconvolta, la frase che Seth
conosce già ma che comunque odia sentire.
La frase che le mie stesse orecchie non riescono
a sopportare.
“Quella è stata l’ultima volta che ho visto
Draco…”.
Capitolo che mi ha fiaccato psicologicamente, specie nella parte finale! Non
sapete quanto sia stata dura scrivere la fine, ovviamente sapevo che sarebbe
successo ma mi ha fatto davvero un brutto effetto! Come sempre chiedo scusa per
i ritardi con cui pubblico la storia, ho già chiarito spesso che purtroppo non
posso garantire costanza negli aggiornamenti, ma spero che abbiate sempre la
pazienza di seguire Halft e di seguire soprattutto
questi capitoli strabordanti. Che dire? So che forse in molti si chiederanno
del motivo per cui ho diviso Hermione e Draco, anche perché dalla fine avete
intuito che è stato da quel momento che non si sono più visti, dal prossimo
capitolo infatti saremo nel futuro, che abbiamo solo sbirciato fino ad ora. Bè,
io non credo nelle favole, ecco, e credo che l’amore sia bello, sia
meraviglioso, ma non risolve tutti i problemi. E sto cercando di trasmetterlo
in questa fic. E per me, certo, Draco ed Hermione si
amano profondamente, ma avevano da affrontare ancora molte cose, tra cui
soprattutto la venerazione che Draco ha per Helena. Purtroppo, e qui ci sta la
mia mente malata, quella che è solo un’incomprensione che avrebbero potuto
risolvere assieme, verrà diciamo inasprita dalle circostanze, cosa che ancora
non dipende da loro due, ma da me che sono una sadica pazza. J abbiate fiducia
comunque… e sempre… J volevo
chiarirlo perché insomma ne va di quello che sto cercando di esprimere in
questa storia, che certo è una fic e certo non è
vera, ma la voglio quanto più reale possibile. Detto questo come sempre
ringrazio tutti per la pazienza e soprattutto le ragazze del gruppo Put a spell on hereyes
che si sorbiscono i miei deliri, le mie paranoie, nonché tutti i miei momenti
di incertezza. L’ho già detto e lo ripeterò sempre, questa storia è più vostra
che mia. Non saprei che fare se non ci foste. Sto cercando di rispondere alle
recensioni, purtroppo ogni tanto il mio pc fa le bizze quindi davvero scusatemi
se ogni tanto non ci riesco, le apprezzo tutte dalla prima all’ultima e vi
ringrazio davvero… ad alcune sono riuscita a rispondere, recupererò con le
altre approfittando di qualche giorno libero. Grazie comunque davvero a chi
lascia anche un piccolo commentino, sapete quanto apprezzi queste cose… e se
avete bisogno di risposte più immediate, fatevi una passeggiata su Fb e nel
gruppo!:) https://www.facebook.com/?ref=tn_tnmn#!/groups/209545025766521/
Grazie ancora a tutti…J un bacione
Cassie! J
Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire
dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton,
che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per
uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione,
ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno,
le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere
nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco.
Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di
recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza
sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è
parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha
convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che
le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi
sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco
ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora
fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i
ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio,
Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone,
Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da
Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la
cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la
prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i
suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata
da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una
sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa
di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si
riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di
perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro
situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua
cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene
individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua
passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo
sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno,
quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione
di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con
cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e
decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non
la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione
esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è
tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy,
che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni
prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione,
sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni
passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in
cui ha visto Draco.
Capitolo 36 –
The butterflyeffect
Sono una brava mamma.
Negli anni, soprattutto negli ultimi cinque, ho
avuto dubbi su ogni cosa tranne che su questo: non sono mai stata così brava
come studentessa, fidanzata, amica, pseudo-moglie, Auror, strega e cameriera,
come lo sono da mamma. E non l’avrei mai detto.
Per essere madre devi essere ermetica, a
chiusura stagna. Devi seppellire le cose nel tuo profondo, lasciare che
macerino il tempo necessario per trasformarsi in una poltiglia densa che possa
al massimo soffocare il tuo di respiro, ma mai disturbare anche solo
il sonno del tuo bambino.
E io, dopo che ho finito di parlare con Dean,
dopo che…quel giorno Draco è andato via con Raissa. E crediamo che siano ancora
assieme… non ho mosso un muscolo.
Sono tornata in casa quando il sole ha finito la
sua curva rovente nel cielo, ho sorriso ad Alex che giocava con Charisma, l’ho
rimproverato perché non ne voleva sapere di mangiare, l’ho rimproverato ancora
perché non voleva andare a letto, troppo preso dal gioco con la piccola di
Pansy e Dean. Gli ho letto per l’ennesima volta la favola del Piccolo principe
perché lui me l’ha chiesta di nuovo. Arrivata a leggere del piccolo principe
che incontra le rose sulla Terra e parla della sua, ho trattenuto il groppo in
gola e ho continuato a leggere stoica, come se ne andasse del destino
dell’intero Universo. Ho schiarito la voce un paio di volte fingendo un colpo
di tosse e ho scandito: “Non si può
morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi
rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che
ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è
lei che ho riparato col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi (salvo
due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o
vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa.”
L’effluvio di una rosa
bianca sul comodino della camera che Pansy ha destinato a me ed Alex, mi ha
fatto pizzicare gli occhi e pungere il naso.
“Mamma…” mi ha
sussurrato Alex, gli occhi grigi già ridotti a due fessure per il sonno
incombente “Ma quando andiamo da papà?”.
E io che sono una
brava mamma, gli ho sorriso, gli ho accarezzato i capelli biondi e gli ho detto
che ci andiamo molto presto.
Alex si è
addormentato, gli ho rimboccato il lenzuolo e sono uscita fuori chiudendomi la
porta alle spalle.
E dopo qualche passo, dopo
solo qualche passo, sono caduta in ginocchio nel corridoio. Tappandomi la
bocca con la mano, soffocando ancora per paura che Alex mi sentisse, ho pianto
le lacrime che avevo in corpo dal tramonto. Le ho piante tutte, una dopo
l’altra: dalla rabbia alla frustrazione, alla sofferenza, al dolore, alla
nostalgia, all’odio e all’amore. Non piangevo così da cinque anni.
E poi mi sono alzata
come sempre, solo un po’ malferma sulle gambe, tornando in salotto.
Anche Charisma
dormiva. Anche Pansy poteva smettere di essere una brava mamma e Dean poteva
smettere di essere un bravo papà.
Potevamo tornare noi
stessi, smettere i panni dei genitori che devono essere sempre i supereroi dei
loro figli e tornare per qualche ora i fallaci esseri umani che andiamo alla
ricerca della salvezza.
Seth no. Lui credo che
un supereroe lo sia davvero.
Mi sono seduta di nuovo
sul divano, le mani poggiate sulle ginocchia. Seth accanto a me, mi ha subito
preso la mano. L’ho stretta forte nella mia.
Pansy e Dean, di
fronte a me, nemmeno si sfioravano. Non ne avevano bisogno.
Solo quando ho aperto
bocca, hanno vacillato un pochino. Dean ha chiuso gli occhi e Pansy ha
contratto le spalle.
“Perché diamine
nessuno mi ha mai detto che era andato via con lei?”.
Quando ho deciso di
tornare in Inghilterra, ho messo in conto molte cose.
Ho preso mentale
annotazione di decine di particolari da ricordare, tutti oltremodo importanti
specie se riguardavano Alex.
Mio figlio ha sempre
vissuto in Italia: parla inglese, ma lo parla con un accento diverso dal mio o
da quello di Ron, spesso frammenta i discorsi con parole italiane. Oppure è
abituato ad un determinato stile di vita, ad andare a letto più tardi dei suoi
coetanei, ad andare ogni giorno a mare d’estate, ad una temperatura umida e
calda. Ha un temperamento aperto, caloroso, colmo di allegria, meno tipico dei
bambini inglesi.
Le cose da considerare
su Alex erano tantissime: ne avevo persino scritto un enorme blocchetto da
leggere con solerzia alla prima maestra che avrei trovato, non appena l’avessi
iscritto a scuola.
Su di me avevo solo
una cosa da ricordare. Sempre, continuamente, come una filastrocca imparata
all’asilo.
Sono passati cinque anni.
Sembra la più grande
delle ovvietà mai udite, ma davvero ho avuto sempre bisogno di ricordarmelo.
Cinque anni sono
lunghi.
Certo ci sono periodi
temporali molto più lunghi, ma nel mio caso hanno una consistenza fisica che è
tangibile, percepibile, incontestabile.
Tutta la vita di mio figlio
si è svolta in questi cinque anni. E da mamma, essa mi sembra così immensa anche
se forse è solo perché ha stravolto la mia stessa essenza. Ripenso a quando è
nato e al ciuffetto di capelli biondi che spuntava fuori dal cappellino
azzurro. Ripenso alla sua prima pappa di riso e alla smorfia assurda che fece
mangiandola. Ripenso ai suoi primi passi e all’Incantesimo di Appello che usai
per impedire che inciampasse in un peluche. Ripenso alla sua prima parola
“mamma” e al mio pianto incontrollabile di commozione che ne venne fuori.
Ecco, se proietto
questi cinque anni su Alex, io so con coscienza che sono passati. Cinque anni
fa, lui non esisteva e ora è un respiro lieve al piano di sopra e un pensiero
costante nella testa.
Se li proietto su me
stessa sciogliendomi da ogni dimensione di essere la madre di un bambino di
cinque anni… ecco, io sono rimasta bloccata alla sera del compleanno di Pansy.
Annegata nella
gelatina di un tempo trascorso solo a parole. Come se, a parte la
trasformazione fisica del mio corpo che da ragazza mi aveva candidata a madre
attraverso la curva crescente della mia pancia, io non fossi cambiata e mutata
per nulla… ed è assurdo, a ripensarci.
Perché cinque anni
sono passati sul serio, non devo scomodare il pensiero di mio figlio per
saperlo. Ho davanti agli occhi due persone che cinque anni fa probabilmente
facevano fatica persino a ricordarsi, e che adesso sono marito e moglie. Ho
accanto un ragazzo che cinque anni fa non sapeva nulla del mio passato ed era
innamorato del suo capo, e che adesso mi chiede costantemente di fargli degli
Incantesimi per vedere come starebbe biondo e che ha un fidanzato di nome
Kevin.
Tornare poi qui a casa
di Pansy non aiuta, non sta aiutando e non aiuterà. All’assassino tornare sul
luogo del delitto dà la macabra sensazione di poter rivivere il suo crimine:
ucciderebbe con più crudezza, ucciderebbe prima o non ucciderebbe affatto.
Io, mentre Pansy cerca
le parole, riesco solo a pensare alla sera del suo compleanno: a che cosa
sarebbe accaduto se non fossi uscita affatto dalla camera che dividevo con
Draco.
Quest’anello è
maledetto.
Hermione per un minuto
lo pensa davvero.
Uscendo fuori dalla
casa di Pansy, afferrando distrattamente un cardigan azzurro da una poltrona
all’ingresso dove lo aveva lasciato, lo ha tenuto sempre stretto tra le mani.
L’anello l’ha seguita senza che lei se ne accorgesse.
Seduta sull’erba
fresca, il pianto in gola, lo guarda nel palmo aperto rifrangere le stelle e
riflettere la luna; con un accenno di risata amara le viene da urlare al cielo,
al paradiso, all’inferno… ad Helena… Le viene da urlare.
“Che c’è, Greengrass,
è un altro dei tuoi stupidi segni divini che lo debba avere io? Mettiti l’anima
in pace, dovunque tu sia, Helena… io quest’anello non lo indosserò mai.
Scordatelo dalla tua presunta onniscienza e misericordia.”
Quel pensiero blasfemo
le fa salire altre lacrime agli occhi, le asciuga distrattamente come se ne
avesse vergogna. Guarda la casa illuminata a festa, sente la musica allegra
rompere la monotonia della notte silenziosa, eppure insegue ancora la piccola
luce soffusa della stanza al primo piano. È la terza finestra da destra,
proprio sopra il gazebo di pietra accanto al quale ha trovato rifugio. La luce
balla, traballa, si muove liquida, ma non si spegne.
Ed Hermione sa che lui
è dentro quella luce, sa persino che adesso si muove nervosamente avanti ed
indietro, sa che ha preso a pugni qualcosa, sa che probabilmente alla fine si è
accasciato sul pavimento, la testa reclinata, le mani tra i capelli.
Ma la luce non si
spegne, lui non prende la porta, non scende le scale, non corre nel giardino e
non viene a strapparle l’anello dalle mani.
E lei, ipnotizzata
barchetta dalla luce di un faro che solo apparentemente è salvezza e
benedizione, rimane lì, seduta dietro il roseto, le lacrime che le velano il
viso. Gli occhi le bruciano, le fanno male nel tentativo assurdo di ordinare a
quella piccola luce di spegnersi… ma al contempo se essa si spegnesse, ma Draco
restasse lì non scendendo da lei… quella sarebbe la peggiore delle beffe. Ed
Hermione non è in vena di accettare i tiri sinistri e comici di un destino che
ancora decide per lei.
Sospira a lungo, non
che lei possa oggettivamente fare qualcosa, non che abbia il potere di
srotolare il tempo all’indietro per…
Già, per fare che?
Impedire a Draco di conoscere Helena? Impedire la morte di lei? Impedire che il
mondo stesso si avviti per anni intorno ad un pazzo sanguinario, che decide che
se sei una Mezzosangue ed una Grifondoro, non sei degna dell’attenzione di un
Purosangue Serpeverde?
Dovrebbe cancellare il
mondo, Hermione, per cancellare il suo destino. Cancellare infine persino sé
stessa e Draco per avere un futuro diverso, più facile e forse anche più roseo.
Ma non è possibile.
Non le resta che
accettare quanto prima che non può cambiare tutto.
Decide quindi di
aspettare il sole, di aspettare Harry: decide di aspettare da lì, dalla sua fortezza
umida e odorosa di rose. Aspetterà che il mondo vada a posto da solo senza che
lei debba come sempre muoversi convulsamente per fermarlo.
Quando inizia a
sentire la musica abbassarsi, segno che la festa sta arrivando alle battute
finali e che forse tra un’oretta qualcuno inizierà ad uscire per tornarsene a
casa, decide perlomeno di alzarsi e di andare a nascondersi vicino ai pioppi
bianchi che delimitano la proprietà. Non ce la farebbe adesso a fingere anche
di essere Calista Parkinson… si strappa la collana dal collo e la getta dietro
il cespuglio di rose.
Seminascosta dalla
penombra dell’albero accanto al cancello, si regge alla corteccia del pioppo
con la mano libera. Un’ondata di tristezza e di stanchezza si mescola nel suo
corpo dandole la nausea. Si china, una mano sulla bocca, reprimendo l’istinto
di rimettere, poi l’aria fresca della notte le soffia sul viso dandole
sollievo. Tornando dritta, nota improvvisamente qualcosa che non aveva notato
prima. Una strana ombra fuori dal cancello, sembra una donna supina.
Si chiede solo per un
secondo se la barriera di Raissa le impedisca ancora di uscire da lì, ma ha
notato subito che ha potuto avvicinarsi al pioppo senza sentire nulla, senza
sentire quella sgradevole sensazione di impotenza che aveva sempre provato.
Quindi suppone che la barriera non ci sia più. Sorpassa il cancello ed esce
fuori, correndo vicino a quella che si rivela essere davvero una giovane donna
svenuta. È stesa bocconi sull’erba, il volto semiaffondato nel terreno,
apparentemente priva di sensi. La luna bassa le illumina i capelli non appena
Hermione si avvicina.
Sono biondi. È Daphne
Greengrass.
Non preoccupandosi del
fatto che qualcuno possa riconoscere il suo vero aspetto, Hermione si piega
sulle ginocchia chinandosi all’altezza della ragazza. Le sposta i capelli dal
viso, la scuote per un braccio e lei emette un breve rantolo. È viva, ma
incosciente, probabilmente è stata Schiantata. Ma da chi? Con un brivido sulla
schiena nuda, Hermione rimane ferma, immobile, in attesa. La mano afferra la
bacchetta sotto il vestito, mentre si alza in piedi, iniziando ad
indietreggiare verso il cancello aperto. Chiamerà qualcuno all’interno per
aiutare Daphne… e con una stretta allo stomaco, si ricorda di aver buttato via
la sua collana e di riavere di nuovo il suo aspetto solito. Può chiamare solo…
Draco.
Non fa in tempo a fare
un solo passo, comunque. Un fascio di luce azzurra compare all’improvviso
davanti a lei, lo schiva scartando di lato e cadendo per terra di fianco. Batte
il gomito su una pietra, sente il sangue colarle lungo l’avambraccio. Non
lascia però che il dolore la stordisca o disorienti, si rialza subito in piedi
puntando la bacchetta davanti a sé, il respiro affannato dall’adrenalina.
“Eccola la vera
Hermione Granger…” sente sussurrare nel velluto della notte una voce lasciva
“Non la puttanella di Malfoy…ma la vera ed autentica Regina dei Grifondoro…”.
Hermione riconosce
subito la voce, prima ancora che Dimitri faccia qualche passo, rivelando il suo
viso. Il mantello blu notte oscilla alle sue spalle, assecondando i suoi
movimenti sinuosi, mentre si ferma a pochi passi da lei. Con la punta dello
stivale, volta il corpo disteso di Daphne ed aggiunge: “Troppo semplice,
Granger… dovresti diventare più disinteressata… mia sorella ha previsto ogni
misura per non farmi più rientrare… ma ha scordato di impedire a te di uscire…
deve essere distratta ultimamente…”. Hermione deglutisce pesantemente, la
bacchetta ancora sguainata. L’incantesimo di Raissa era ancora presente, per
questo voleva che uscisse fuori. Daphne era solo una trappola.
“Che diamine vuoi?!”
chiede furiosa, il braccio teso, la presa salda sulla bacchetta “Stavolta non
finirà come le altre volte… avvicinati di un altro passo e ti pentirai di
essere tornato…”.
Dimitri agita noncurante
la mano come ad allontanare una mosca molesta: “Dov’è finita l’educazione,
Granger? Frequentare Malfoy ti sta facendo decisamente male…”. Una smorfia
involontaria fa contrarre le labbra di Hermione che si serrano in una morsa
dolorosa, sentendo il nome di Draco. Dimitri studia con attenzione le linee del
suo viso, sorride appena e fa un altro passo, piegando la testa di lato ed
inumidendosi le labbra: “Ti ha già fatto piangere vero? Anzi no… non ti ha solamente
fatto piangere …”, come se cercasse qualcosa nei suoi occhi la rimira a lungo
alla ricerca della risposta, poi il suo sguardo si illumina gioioso e
bisbiglia: “Ti ha spezzato il cuore… povera piccola mia…”.
“Dì un’altra sola
parola e giuro che ti dovranno raccattare con il cucchiaio…” ringhia Hermione,
ricacciando indietro le lacrime, la bacchetta che trema.
“Non posso dirti di
non averti avvisato…” mormora lui comprensivo, la voce è dolce, roca, bassa, da
far sciogliere qualunque donna, Hermione indietreggia mentre lui si fa ancora
avanti “E’ per la Greengrass, vero? Per Helena… ha te e trova ancora il
coraggio di pensare a quella…”. Un raggio di luce rossa parte fulmineo dalla
bacchetta di Hermione, lo colpisce ad una spalla, Dimitri constata il danno e
la guarda sconcertato, spalancando gli occhi blu.
“Ti ho detto di non
dire un’altra parola…” sibila lei, fredda, gelida, il volto rosso e gli occhi
di ghiaccio, la sua voce si spezza mentre sussurra: “Non ti azzardare a
nominarlo mai più…”. Dimitri la guarda ancora, un sorriso sghembo sul volto, gli
occhi illuminati dal desiderio. È come se la guardasse in trasparenza, come se
andasse oltre pelle, vestiti, ossa e carne, e penetrasse ostinato dentro il suo
cuore, la sua anima, la sua testa, leggendole pensieri e sentimenti.
“Vieni con me…
stanotte… Hermione…”sussurra carezzevole, facendo un altro passo verso di lei.
Ha lo sguardo dolce, caldo, colmo dell’amore di un principe delle fiabe,
Hermione lo guarda attonita, le lacrime che le affollano la vista e le
impediscono di metterlo a fuoco. La bacchetta quasi si abbassa, facendola
arrendere, facendola cadere come non è mai caduta in tutti questi mesi. Pensa
davvero per un solo singolo secondo ad arrendersi, ed è molto peggio di quanto
non sia accaduto quella mattina nel giardino di Pansy. Quel giorno Draco non
era tornato, non era una presenza fisica eppure lontanissima nella casa
illuminata alle sue spalle.
Per un attimo Hermione
pensa davvero a rinunciare a lui, stavolta per sempre. Pensa davvero che
l’amore, quello vero, le ha rovinato l’esistenza. Sente l’inquietante nettezza
del cuore spezzato in petto, ne sente il peso opprimente, desidera smettere
solo di pensare. Potrebbe andare via con lui, Draco non la cercherebbe più,
Astoria non gli farebbe più del male, lui sarebbe al sicuro con Serenity. E lei
non dovrebbe più affrontare questo cupo, sordo e cieco amore che le sta
accartocciando l’esistenza.
Non scioglierebbe mai
il dubbio su Helena. Non aspetterebbe mai più la sua risposta.
Dimitri la chiuderebbe
in un castello nero, proteggendola dall’amore. La ricoprirebbe d’oro e di
magia, di sapienza e di gloria, non pretendendo mai l’amore da lei.
È un attimo, un solo
secondo.
Poi la bacchetta
ritorna salda, la punta scintilla di bianco e rosso e sprizza qualche scintilla
che fa indietreggiare Dimitri.
Hermione sa già come è
rinunciare all’amore, sa già che cosa si prova. Si è felici, immensamente,
liberi, leggeri, come farfalle di seta. E si è morti.
Non accetterà mai più
le fogge serpentine di uno Zahir, anche se adesso ha il colore degli occhi di
Dimitri Karkaroff.
L’uomo di fronte a lei
serra la mascella e contrae i pugni, trasformato di nuovo nel lupo cattivo
pronto a divorare la bambina che scioccamente si è avventurata nel bosco.
Hermione non ha paura, non ne ha affatto, il sangue dell’Auror pompa ossigeno
nelle vene assieme all’adrenalina, respira lungamente e lo studia senza timore.
Il cuore spezzato le dà la forza, le dà l’energia e il coraggio di affrontarlo…
perché la rabbia adesso monta e mulina come un turbine di vento dentro di lei.
Vuole farla finita con lui, vuole farla finita con ogni cosa che da troppo
tempo sta subendo passivamente. Non può cambiare il cuore di Draco, non può
cambiare il fatto che sia dilaniato in due tra l’amore per lei e il ricordo per
Helena. Non può cambiare nemmeno il suo di cuore, non può cambiare che lo
voglia intero l’uomo della sua vita e non può cambiare che non si accontenterà
mai di meno.
Ma tutto il resto… può
cambiarlo. Per fortuna. Iniziando da Dimitri Karkaroff.
Impugnando la
bacchetta e puntandogliela contro, Dimitri muove appena le labbra, lo
scintillio dei suoi occhi irati spezza il nero della notte: “Non era una
domanda, Granger… tu stasera vieni con me…”.
“E non era un
avvertimento amichevole, Karkaroff… sparisci immediatamente da qui…” minaccia
lei, la gola secca, osservando ogni movimento di lui.
L’aria crepita d’elettricità
come prima di un temporale, un attimo
prima che Dimitri rompa gli indugi ed apra le danze. Hermione evita un nuovo
fascio di luce violetto, saltando di lato e prendendo a correre verso il bosco.
Le hanno insegnato a confondere le tracce, le hanno insegnato a scegliersi il
campo di battaglia e a mettersi subito in una posizione vincente: per lei è la
foresta, dopo una vita passata nei boschi con Ron ed Harry a cercare gli
Horcrux. Corre trafelata tra gli alberi, gli occhi annebbiati dalla mancanza di
luce, pronti ad accogliere ogni minimo spruzzo d’argento che filtri dalla luna
attraverso il fogliame pesante. La milza punge, il fiato manca, ma Hermione
continua a correre veloce, come una saetta.
Dimitri la insegue
senza fretta, convinto di riuscire a farla finita in breve tempo, i passi dei
suoi stivali che spezzano le foglie secche. Ride, guardando la schiena di lei
che si allontana e i lunghi capelli castani agitati dal vento, la vuole più di
ogni cosa al mondo, più di qualsiasi altra cosa abbia mai desiderato. Lascia
fremere le mani sulla bacchetta, lascia che la voglia lo porti ad un passo
dall’impazzire del tutto per la mancanza del corpo di lei tra le sue braccia, lascia
che sia enormemente più eccitante la caccia che il momento in cui lei sarà
finalmente sua. Spera quasi che lei corra ancora di più, che non si fermi, che
continui a mettere distanza tra loro come una gazzella inseguita dal leone. Non
sarebbe lei, se gli rendesse tutto troppo facile.
La risata, ad un certo
punto, gli si gela sulle labbra: si guarda furiosamente attorno, voltandosi a
destra e sinistra. È sparita.
Panico nel petto,
inizia a correre a sua volta, imponendosi di non chiamarla, di non urlare il
suo nome, di non mostrarsi così maledettamente disperato dal fatto di averla
perduta. Se lei lo capisse, se lei sentisse quell’urgenza nella voce, che non è
solo voglia o desiderio o senso di possesso, forse capirebbe il potere immenso
che ha su di lui. E Dimitri non vuole che lo capisca, non lo vuole
assolutamente. Ribalterebbe ogni regola del gioco: quella dove lui è signore e
lei inerme pedina.
Non conosce Hermione
Granger, la sottovaluta e già piange di averla persa.
Pensa che sia caduta
in un dirupo o pensa che sia inciampata in una radice perdendo i sensi. Stima
di lei la forte guerriera, ma è ancora convinto che sia una principessa
innocente pronta a cascargli tra le braccia.
Improvvisamente
qualcosa lo fa cadere supino al suolo, impreca con la faccia premuta contro il
muschio. Una pressione lieve ma decisa sulla schiena, dalla forma allungata.
Una bacchetta. Sorride, sollevato: è lei.
La spia di sottecchi,
il volto affannato, il seno ansante, l’abito trasfigurato di colore perché il
rosso era oggettivamente troppo visibile. Era sparita solo rendendo il suo
abito nero come la notte. E deve essere anche salita su un albero, ha le mani
striate di sangue, deve aver semplicemente aspettato che lui le passasse
davanti.
“Accio bacchetta…”
dice stentorea, la bacchetta di Dimitri vola dalla sua mano in quella di
Hermione.
“Credo di averti
sottovalutato… un errore venale…” commenta con nonchalance Dimitri, guardandola
di sbieco “Consentimi di dirti che non sembri affatto una Mezzosangue… ma
dovrei aspettarmelo, sei sempre il Capo degli Auror…”.
Hermione non risponde,
la presa sulla bacchetta che non diventa meno salda. Lo guarda con odio, con
rancore, la guancia graffiata e i capelli spettinati, pronta anche a farlo
fuori. È stanca, enormemente stanca. E non c’entra niente la corsa nel bosco,
non c’entra niente il fatto di essere come sempre presa sottogamba perché è una
Mezzosangue, non c’entra nemmeno l’ostinazione con cui Dimitri la rivendica
come una cosa sua. C’entra solo che è stanca, dentro, nel punto dove è sempre
esistita la forza di lottare e di combattere. Draco gliela ha spazzata via. E
vorrebbe solo dormire, almeno per un po’, e smettere di dibattersi come un
pesce all’amo. Ricaccia indietro una lacrima, guardando Dimitri dall’alto in basso.
“Ma è un errore che
non farò mai più… Hermione Granger…”. Dimitri non ha nemmeno finito di parlare
che Hermione si sente sbalzata indietro da una folata di vento, sbatte
violentemente al suolo, la schiena contro un albero. Il volto sporco di
terriccio, si solleva a fatica. Dimitri è di nuovo in piedi, ha di nuovo la sua
bacchetta. La guarda ghignando e leccandosi il sangue dalle labbra.
E non è più da solo.
Hermione sente il
cuore perdere un battito, ne sente il tonfo terrorizzato nel petto. Rimettendosi
seduta, valuta se esista una via di fuga che al momento non trova. Quindi i
suoi occhi tornano di fronte a lei, quasi pregando di aver visto male.
Ma non è così. Le sue
preghiere non sono mai state molto fortunate.
Alla destra di
Dimitri, l’espressione di una dea pagana crudele e pronta al sacrificio, c’è
Astoria.
Pucey e Montague
compaiono alle sue spalle, ancora più incattiviti di quanto non li avesse già
visti in passato.
Hermione li osserva ad
occhi sgranati, terrore ed ansia adesso nel petto che si alza e si abbassa,
cerca di farsi indietro ma tocca la corteccia rugosa dell’albero che le graffia
la schiena. Prima che la sua mano raggiunga di nuovo la bacchetta, Astoria
gliela allontana con un gesto flessuoso ed annoiato del braccio. Hermione la osserva
a lungo, per un attimo chiedendosi scioccamente se non sia la sua sosia, quella
che ha lasciato a casa di Pansy.
Ma quella ragazza
aveva l’espressione solare e raggiante, un sorriso pieno sulle labbra rosa, gli
occhi di chi ha conosciuto la somma felicità.
Astoria, pallidamente
illuminata dalla luna, non è più la Summer che ha conosciuto lei, o la sciocca
bambinetta dei tempi di Hogwarts.
Sembra non essere
nemmeno interessata al suo aspetto da viandante, al vestito azzurro che pende
sul suo corpo magro e denutrito. Ha le guance scavate, le unghie sporche di
terreno, l’aspetto sciupato. Gli occhi, invece, brillano sinistri, non lasciano
un attimo il suo viso, la divora con lo sguardo come se fosse un cucciolo e lei
una crudele fiera. Pucey e Montague, alle sue spalle, sembrano temerla, la
guardano in adorazione e pendono dalle sue labbra.
“Ti sei alleato con
lei…” commenta Hermione, sentendosi stupida, cercando di rialzarsi in piedi.
Astoria, ancora, la fa cascare violentemente al suolo.
“Mai fidarsi dei
serpenti, Granger…” risponde Dimitri, chinandosi alla sua altezza e guardandola
dolciastro “Dovresti ringraziarmi… lei ti voleva morta… e io invece l’ho
convinta che basta solo separarti da Malfoy per ucciderti davvero…”.
Hermione si ritrae
ancora, il terrore che la paralizza come una bestia ferita. Astoria non dice
una parola, la guarda e basta, contraendo le labbra per il disgusto.
“Io non verrò mai con
te…” sussurra Hermione con un filo di voce, chiudendo gli occhi. Per un attimo
le appare sotto le palpebre chiuse il volto di Draco, la sera in cui tornò a
casa dei Parkinson. Gli occhi grigi, il sorriso strafottente, la mascella
contratta, le mani calde che le accarezzano il viso. Lo immagina nella loro
stanza, lo immagina che ancora non sa che cosa le sia successo, lo immagina
chino su Serenity mentre ne guarda preoccupato il sonno.
Pensa al momento in
cui non la troverà più, pensa al momento in cui si sentirà in colpa come mai
nella vita, pensa a quando la cercherà disperato, pensa a quando troverà il suo
cadavere lì in quel bosco. Le lacrime sfuggono senza controllo, contrae le
labbra cercando di fermarle. Di quello si tratta. Lei tra poco sarà morta, che
Dimitri dica quello che vuole. Non sarà sua, se non da morta. Glielo ha già
detto.
“Mi dovrai uccidere
prima…” dice, riaprendo gli occhi e sollevando il mento orgogliosamente “Io
sono sua… non sarò mai più di nessun altro, tantomeno tua…”.
Un raggio di luce
gialla le colpisce lo zigomo, facendolo sanguinare, Astoria alle sue spalle
respira fremente di rabbia, la bacchetta ancora sollevata. Non parla, non dice
nulla, nemmeno urla. Sembra che le abbiano tolto la voce, ma è bastato che lei
alludesse a Draco per farle perdere il suo autocontrollo. Dimitri la guarda in
cagnesco, intimando a Pucey di trattenerla.
Hermione si asciuga il
viso, rialzando fiera gli occhi e ripetendo stoica: “Dovrai uccidermi…”.
“Non essere
melodrammatica Granger…” ride Dimitri, facendo un cenno alla sua destra a
Montague che si allontana con un cenno deferente del capo “Esistono molti modi
per convincerti… potrei persino ammazzare il tuo Malfoy per fartelo capire… ma
ho un patto da rispettare con Astoria… ed in fondo gli devo ancora la vita,
l’onore è tutto per me, Granger…”. Si volta alle sue spalle, mentre Montague
riappare, trascinando qualcosa che striscia pesantemente sul terreno.
Hermione aguzza lo
sguardo e ciò che vede la lascia senza parole. Si porta una mano alla bocca,
ora davvero terrorizzata. Hanno il potere di fare qualsiasi cosa, lo capisce in
un attimo. Capisce che non può scappare. Morire sarebbe stato infinitamente
meglio. Persino per Draco. Perché può solo immaginare che cosa c’entri lui con
la parte del patto che è stata riservata ad Astoria e a cui Dimitri ha
parzialmente alluso. Non si faranno scrupoli pur di ottenere quello che
vogliono.
Montague getta per
terra con malagrazia il corpo di Hayden. Ha il volto tumefatto, gli occhi
chiusi e pesti. Hermione, singhiozzando, ricorda il giorno in cui l’ha
conosciuto, la profonda calma che le trasmetteva, il bacio dolce che le diede
quella sera di pioggia al Petite peste. Urla con tutta la voce che ha il corpo
il suo nome, si acquatta per arrivare a lui, chiede gridando che cosa
c’entrasse lui. Lui non c’entrava niente. Niente. Era rimasto nella sua mente
come una dolce luce spensierata, un calore troppo tenue per riscaldarla davvero
ma che l’aveva trattenuta sull’argine della pazzia anche quando era sotto il
controllo dello Zahir. Aveva deciso di incontrarlo, al suo ritorno a Londra, di
parlargli, di dire anche a lui tutto, come con Seth.
Gli voleva bene, gli
vuole bene.
Piangendo, si rialza
velocemente e si avvicina a lui, lo scuote per una spalla mentre constata
superficialmente che è ancora vivo. Una profonda ferita, però, gli inzuppa di
sangue la camicia sulla schiena. Gli sposta il tessuto lercio ed inorridisce. È
una ferita profonda, infetta, da cui gronda pus biancastro. Lo hanno ferito da
parecchio tempo, chissà da quanto è incosciente.
“Potevamo prendere uno
qualunque, ovvio…” commenta annoiato Dimitri, guardandola dall’alto “Tu avresti
lottato per qualunque stupida vita avessi minacciato di togliere… ma sai com’è?
Se una persona la conosci, è anche meglio…”, la sua voce scende di tono e
riprende duro: “E’ anche per dimostrarti una cosa… tutti i limiti del tuo
Draco…”. Hermione, china su Hayden, abbraccia le sue spalle proteggendone il
corpo, solleva lo sguardo umido su Dimitri digrignando i denti.
“Ha pensato a
proteggere tutti, tranne lui…” ride Dimitri senza allegria “Probabilmente
sperava anche che lo facessimo fuori… quando invece avrebbe solo dovuto sperare
che tu scegliessi lui… il babbano, per esempio, non ti avrebbe portato a me…”.
La risata sul volto di lui si smorza, ostaggio di memorie lontane: “… non ti
avrei mai conosciuto… ed avrei pensato che tu… non esistessi…”.
Hermione, sempre china
su Hayden, sussurra a mezza bocca interrompendo i pensieri di Dimitri: “Verrò
con te… ma lascialo andare…”. Non c’è soluzione, non c’è. Hayden è ferito,
probabilmente è grave. Devono lasciarlo andare.
“No, tesoro… tu verrai
con me… ma non lo lascerò andare… è il solo modo per impedirti di fare qualcosa
di stupido ed insensato mentre sei con me…”.
Stupido ed insensato…
certo… uccidersi… come aveva già deciso di fare pur di non andare con lui. Ma
adesso che c’è anche Hayden… deve restare in vita per lui. Nella prigione che
Dimitri le sta per destinare.
Pucey e Montague
sollevano di nuovo il corpo incosciente di Hayden, strappandolo dalle braccia
di Hermione che li osserva impotente mentre spariscono con un pop trattenuto.
Dimitri le porge cerimonialmente la mano, prima di dire la formula di
Smaterializzazione.
“Mi cercherà…”
sussurra Hermione, mettendo la sua mano in quella di Dimitri “Draco non avrà
pace fino a quando non mi avrà trovato…”.
Dimitri contrae la
mascella: “No… non ti cercherà mai più… no, se sei tu stessa a dirgli di
lasciarti andare…”. Hermione sgrana gli occhi, guardando l’espressione
compassata di Dimitri, si puntella con i piedi in un ultimo disperato tentativo
di resistere, ma lui l’afferra per un polso e si smaterializza. Hermione sente
lo strappo all’ombelico e vola lontano, le lacrime che restano nella foresta
come gocce di rugiada.
L’ultima cosa che vede
sono gli occhi azzurri di Astoria che la guardano sorridendo con cattiveria.
Non si è
Smaterializzata assieme a loro.
Chiudo gli occhi, serrandoli come se fossi
sotto una luce troppo forte. Cerco di lasciar fuori dalla mia mente quel
ricordo, ma sebbene siano passati cinque anni e sebbene adesso io sia al
sicuro, quel ricordo ha un odore forte ed intenso che lo fa stagliare
distintamente nell’oceano della mia memoria. Lo ritrovo sempre quando lo cerco,
quando disgraziatamente la mia mente mi riporta indietro: odora di conifere, di
rugiada, di rose calpestate. Di lacrime, sangue e sudore. La pelle di Draco, i
suoi occhi, le sue labbra, le sue parole… quelle sensazioni negli anni sono
evaporate, sono solo una stretta allo stomaco e il ricordo di come mi sentissi.
Perfetta, mi sentivo perfetta tra le sue braccia. Ma giorno per giorno,
come la cascata di granelli di sabbia che svuotano una clessidra, la nettezza
di quei ricordi è sfuggita via, solo gli occhi di Draco li ricordo
perfettamente perché sono gli occhi di Alex. Invece, sebbene cerchi
disperatamente di dimenticare, quella notte è scolpita come pietra nei miei
pensieri. È iniziato tutto lì. O meglio, è finito tutto lì.
Sollevo gli occhi umidi, fissando Pansy e Dean
di fronte a me. La mia mano stringe ancora più saldamente la mano di Seth,
mentre a bassa voce biascico nervosamente: “Dimitri ci ha fatto tutto questo… e
tu hai permesso a Draco di andarsene con sua sorella?!”. Dean apre la bocca per
obiettare, ma Pansy lo fa tacere con un cenno brusco della mano.
“Vorrei ricordarti, Granger, che fino a
stamattina io non sapevo minimamente che cosa ti fosse successo…” sciorina
Pansy ovvia, stringendo le labbra rosse “Non riuscirete né tu, né Draco a farmi
sentire in colpa per qualcosa che non ho fatto… magari non te ne sei accorta,
ma lui non è un bambino… e io non sono la sua balia… quando è andato via era
perfettamente in grado di decidere chi volesse ancora nella sua vita… e non
voleva ovviamente più te…”, la sua voce si abbassa e si addolcisce, Dean la
guarda preoccupato mentre aggiunge con un filo di voce: “… e non voleva
tantomeno me…”. Pansy, captando la tenerezza che sta adesso sciogliendo il mio
di sguardo, riprende a parlare dura come le appartiene solitamente: “Se c’è
qualcuno con cui dovresti prendertela, è Potter… lui ha deciso questo brillante
piano… se mi avesse perlomeno detto qualcosa, se mi avesse raccontato la storia
nei dettagli… bè, perlomeno avrei evitato di renderti oggetto di pratiche
voodoo nel corso degli anni…”. Reprimo una stupida risatina nervosa che mi sta
venendo inconsapevolmente fuori, arrancando tra le lacrime che non smetto di
piangere, mentre per fortuna interviene Seth: “Andiamo Pansy… sai benissimo che
Harry non poteva parlare… né con te, e né con nessun altro… ne andava della
sicurezza di Hermione ed Alex… altrimenti lei se ne stava tranquillamente in Inghilterra
e tutto sarebbe andato per il meglio: sarebbe andata al matrimonio di Ginny ed
Harry, al vostro… e tanto per non tralasciare niente, avrebbe anche impedito
che mi arrampicassi sulla torre della polizia per dichiarare il mio amore a
Kevin… rompendomi la clavicola… e il femore…”.
“Dubito che quello l’avrei impedito pur stando
qui…” commento acidamente, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano
“Avresti chiamato un tentato suicidio un gesto d’amore… e me, com’era, un’insensibile
donna fredda priva di slanci sentimentali…”.
“Era frigida donna fredda, priva di
slanci sentimentali…”.
“Giusto, avevo rimosso l’endiade…”.
“L’endi-che??!”.
“Dio, mi ero dimenticato come era parlare con
te, Hermione…” commenta stancamente Dean, passandosi una mano tra i capelli e
guadagnandosi una mia occhiataccia “Potremo gentilmente tornare al punto della
questione? Vorrei ricordare che Pansy è partita per la Francia, quindi pur
volendo non avrebbe nemmeno potuto parlare con Harry… era troppo impegnata ad
incontrare il suo destino…”. Dean chiude la sua sviolinata con uno sguardo
tronfio e presuntuoso, al quale Pansy replica acida: “Ma che bel destino…!
L’avessi saputo sarei annegata nella Senna…”.
“Andiamo piccola, tanto lo sanno tutti che mi
ami perdutamente!” ripete Dean, passando un braccio sulle spalle della moglie
che si divincola con sguardo assassino: “Chiamami un’altra volta piccola,
specie in presenza di ospiti non propriamente graditi… e vai in bianco per un
anno intero…”.
“Lo vedi come è il romanticismo?” tuba Seth
con gli occhi a cuore, guardandomi quasi commosso, al che inarco un
sopracciglio scettica non volendo nemmeno sapere il tenore delle conversazioni
con Kevin se chiama questo, romanticismo. Scuoto il capo e non riesco a
fare a meno di sorridere, mi era mancato tutto questo, mi era mancato come
l’aria. Ovvio che mi era mancato Seth: dopo tanti anni, dopo tutto quello che
mi è accaduto, so con certezza che è e resterà sempre il mio migliore amico.
Non a caso, appena sono tornata in Inghilterra, sono andata subito da lui,
prima che da Harry o da Ginny o da chiunque altro. E gli ho raccontato tutto,
di me, di Draco, del nostro passato, del mondo della magia, degli ultimi cinque
anni. Ho parlato per circa tre ore ininterrottamente, lui non mi ha mai interrotto.
Sebbene dopo cinque anni poteva anche chiudermi la porta in faccia, mi ha fatto
parlare. E quando ho finito, mi ha guardato incredulo dicendomi che pensava
spesso a me, al giorno in cui ci saremmo rivisti. E pensava che solo raccontare
della scomparsa di Danny e Serenity, dell’aver rilevato il Petite Peste
diventandone il solo proprietario e dell’aver conosciuto Kevin, sarebbero stati
grandi scoop.
“Ed invece mi devi battere sempre in tutto!”
ha riso, ravvivandosi i capelli ricci “Sei persino stata a letto con Danny,
anzi no, aspetta Draco… mah mi piaceva di più Danny…! E avete anche un figlio
assieme!!”. E mentre ancora ridevo, lui ha aggiunto con nonchalance: “Bè,
quando andiamo a riprenderci il tuo Principe azzurro?”.
E sono felice, davvero, di averlo qui con me.
Sono felice anche di aver ritrovato Dean,
sapevo per sommi capi da Ginny che aveva sposato Pansy Parkinson, me lo aveva
scritto in una lettera quando ero ancora in Italia. Ed ero cascata dalla sedia,
facendomi decisamente male. Ma poi era stato quasi confortante, in un modo
abbastanza egoista. Era come vedere il riflesso irrealizzato di me e Draco in
due altre persone. Era come sapere tramite l’esperienza di altri che tra me e
lui poteva essere possibile. Il Grifondoro mezzosangue e la Serpeverde acida:
sembrava una favola. Certo, ora che li ho visti, tutto sembrano tranne che una
favola, anzi sono tipo una commedia tragica che spero preveda decine di anni di
repliche.
Rivedere Dean, rivederlo padre e marito,
rivederlo così felice… ha avuto il sapore dolce e pieno dell’assoluzione.
Strano a dirsi, ma è così, ancora dopo cinque anni da quando ci siamo lasciati,
mi sentivo tremendamente in colpa nei suoi confronti. Ero convinta di avergli
rovinato la vita. Ma lui sta bene adesso. E’ felice. E mi è mancato in uno
strano modo anche lui, mi è mancato come una presenza nella mia vita che non
saprei chiamare “amico” e non potrei nemmeno liquidare come “ex”. Sono solo
contenta che lui ci sia ancora, che tutto non sia andato a scatafascio, che
possiamo persino scherzare sui nostri due anni assieme senza che ci si
frapponga contro un inutile imbarazzo o uno sconveniente rancore.
E mi è mancata anche Pansy, già, se glielo
dicessi probabilmente vomiterebbe succhi gastrici da oggi fino al 2076.
Quindi non glielo dirò mai.
Mi è mancato il suo essere così maledettamente
Serpeverde… perché mi ricorda Draco… la sincerità mai rigettata, il sarcasmo,
l’orgoglio. In cinque anni, io non ho mai visto nessuno così. E mi mancava
terribilmente. Quando ti abitui a parlare con loro, difficile è tornare ai tuoi
soliti legami. Con Ron, nonostante tutto, a volte ero anche felice, ma non era
una sfida continua come era Draco e come spesso, a suo modo, è anche Pansy. E
adoro sia Helder che Hayden… ma non era la stessa cosa.
I miei pensieri, che per un attimo si erano
fatti scintillanti e spensierati, si oscurano di nuovo. Mentre Dean e Seth
continuano a ridere e punzecchiano Pansy che risponde a tono, ancora la
dimensione profonda della mancanza di Draco in questa stanza con me e con i
nostri amici, oppure al piano di sopra con nostro figlio, mi acceca e mi toglie
il fiato.
Lui non è qui, non è qui, dannazione. È con Raissa, o chissà con chi
altra. Senza volerlo, senza averlo premeditato, mi
piego e nascondo il volto tra le mani, piangendo.
Le risate cessano all’istante, immediatamente
le braccia di Seth si chiudono sulle mie spalle abbracciandomi: “Scusami
tesoro… ci siamo lasciati prendere la mano…”.
“N-no, non è per voi…” biascico ancora china
su me stessa “… ma… lui… Draco… dovrebbe essere qui… con me, con voi… e
con Alex…”.
“Se lo avessi visto quel giorno, capiresti che
non poteva restare qui un attimo di più…” mormora Pansy, scuotendo il capo, mi
drizzo a sedere e la guardo senza capire. Lei senza scomporsi, prosegue: “Quello
che vi è successo, è ingiusto… ma è giusto che lui non ci sia, Granger…”.
“Che diamine vuol dire?!” chiedo già iniziando
ad alterarmi, stringendo violentemente i pugni.
“Dico solo che per come sono andate le cose,
per lui è normale non essere qui adesso…” riprende incolore, guardandosi le
unghie apparentemente disinteressata “Io ti ho raccontato com’è andata…
ma non ti ho fatto vedere com’è andata… ed è giusto che tu lo sappia…
così smetterai di pensare che io o chiunque altro avessimo qualche potere su di
lui, non l’abbiamo mai avuto su di lui normalmente, figuriamoci quel giorno… tu
l’hai fatto a pezzi, Granger…”.
“Io non ho fatto nulla, non ero io!” urlo
addolorata, anche se Pansy lo sa, anche se adesso tutti lo sanno che quella
mattina ad incontrare Draco non fui io. Seth mi tiene stretta per gli
avambracci, quasi impendendomi di muovermi, mi dibatto come un uccellino in
gabbia.
“Lo so… ora so che era Astoria…” commenta
piatta Pansy, guardando la finestra, lo sguardo di Dean corre veloce da lei a
me “Ma quel giorno… sembravi tu in tutto e per tutto… l’odore, la forma dei
capelli, il modo di parlare… non era Pozione Polisucco, non era tantomeno un
Confundus…”.
“Era CordisImitatio…” ribatto stancamente, cercando di parlare a voce più
bassa e calma, Seth finalmente mi lascia andare “Ho fatto delle ricerche in
Italia, avevo il sospetto che Astoria avesse fatto qualcosa di simile… quel
giorno non si smaterializzò con me e Dimitri… e pensai che avesse fatto
qualcosa per dividermi da Draco… non avevo la certezza che non lo avessero
ucciso, avevo solo la speranza che non fosse così, anche perché Dimitri aveva
sempre parlato di una parte della loro collaborazione per cui chiaramente
Astoria aveva un vantaggio e riguardava Draco, poteva solo voler dire che non
avesse mai rinunciato all’idea di diventare la signora Malfoy…”, sospiro
lungamente prima di riprendere: “Non mi aveva strappato dei capelli o altro…
non era Pozione Polisucco. E tantomeno un Confundus, forse ve ne sareste
accorti, abituato com’era Draco ad usarlo al Petite Peste anche quando c’era
Astoria… e trovai quest’Incantesimo. Vecchio, antico, quasi perduto, ma che
ovviamente Dimitri con tutta la sua conoscenza magica, sapeva come fare… letteralmente
si chiama Imitazione del cuore… due persone unite dallo stesso sentimento
entrano in risonanza l’una con l’altra. Una delle due ne può rubare per qualche
ora aspetto, ricordi, emozioni. A patto che l’altra persona sia
sufficientemente debole… ed io lo ero, ero sotto il controllo di Dimitri. Ed
Astoria in fondo, a suo modo, non ha mai smesso di amare Draco…”. Chiudo gli
occhi, una sequela di ricordi uno peggiore dell’altro mi si affastellano
davanti agli occhi e cerco di lasciarli al passato a cui appartengono.
Sospirando concludo con un filo di voce, rivolgendomi a Pansy: “Avevo fatto
sogni strani… tu… che piangevi… e Draco… che…”. Non riesco a finire la frase,
quell’immagine era stata così straziante che mi ero chiesta che cosa avessi
potuto pensare di così terribile da fare un sogno simile. Poi, quando avevo
avuto modo di riflettere, avevo ipotizzato con angoscia che poteva essere
successo davvero.
“Draco che perdeva il controllo? No,
quello non puoi averlo visto…” dice sadica Pansy, un sorriso amaro sulle labbra
sottili. Estrae la bacchetta dalla tasca della sua gonna, la punta alla tempia
e ne esce un rivolo argentato. Con un altro movimento flessuoso fa comparire un
Pensatoio in cui riversa il ricordo appena estratto dalla sua memoria.
Con un sospiro greve, mi sporgo con Seth oltre
la superficie tremolante del Pensatoio, dove fluttua e prende definizione il
ricordo di quella mattina di cinque anni fa.
Un reggiseno rosso
sotto il tavolo della cucina.
Pansy lo afferra con
due dita schifata, china in ginocchio sul pavimento, e lo getta distrattamente
nel sacco dell’immondizia che Lyria tiene aperto. Borbotta afona insulti e
maledizioni all’indirizzo della misteriosa “donna scarlatta” che ha pensato
bene di dare sfoggio delle sue doti amatorie nella sua cucina, alla sua
festa di compleanno. Non che la sua festa, quell’anno, fosse stata il massimo
del divertimento… Robert, quel dannato vecchio che sopportava solo perché era
l’avvocato dei suoi genitori, era caduto in una delle fontane del giardino facendo
scappare l’ultimo esemplare di cigno bianco di sua madre. Daphne Greengrass si
era ubriacata ed era svenuta in giardino, peraltro dimenticando tutto quello
che era successo nelle ore precedenti, compreso il ricatto di Pansy per
l’incontro con Potter. E adesso doveva dirle tutto daccapo… come se non
bastasse, Pansy aveva cercato di cancellare Blaise dalla sua mente, pomiciando
con uno che conosceva appena e che aveva pensato bene di vomitarle tutto il punch
alla frutta sull’ultimo paio di scarpe di velluto che possedeva.
Pansy riemerge da
sotto il tavolo sudata ed accaldata, è una mattina umida di fine giugno, di
quelle dove persino respirare è faticoso e dove ti senti sempre appiccicaticcia
e nervosa. Lyria è abituata alle sue intemperanze acide, ai suoi rimproveri
caustici e alle sue frecciate pungenti, quindi, vedendola scura in volto, pensa
bene di arretrare e di fingere di guardare attentamente il contenuto del sacco
dell’immondizia.
Pansy non avrebbe mai voluto
fare una festa per il suo compleanno, spendere soldi inutili, fingere di
adorare persone che odia, nascondere la piaga purulenta che eruttava quando
Blaise le passava accanto e volutamente le sfiorava la schiena, una spalla, una
ciocca di capelli. Lei chiudeva gli occhi tremante, stringeva le labbra e
lasciava che il corpo si godesse la carezza per un attimo. E poi apriva gli
occhi e vedeva Draco e la Granger.
Provava schifo per
loro due, come negarlo. Di primo acchito la coglieva incredulità, repulsione,
l’insana speranza che fosse tutto uno squallido sogno. Era di Draco Malfoy che
si stava parlando, il suo amico, il principe dei Serpeverde, quello che, se al
mondo pazzo in cui vivevano non fosse saltato in mente di esplodere, avrebbe
potuto avere ogni donna del mondo. Aveva avuto persino Helena Greengrass… e
adesso si accontentava della Granger.
In quei momenti a quel
pensiero, le veniva quasi da gridare per il nervosismo: avrebbe legato Draco ad
una colonna, lo avrebbe fustigato fino alla follia e lo avrebbe fatto
rinsavire, ecco.
E quella stessa
identica fantasia si era materializzata quando lui le aveva detto con la più
ingenua e beata delle espressioni, che voleva chiedere alla Granger di sposarlo.
Con l’anello di sua madre. Dopo solo dieci giorni che stavano assieme.
Pansy in quel momento,
aveva aperto e chiuso la bocca come se stesse andando in iperventilazione,
mentre Draco le mostrava l’anello di Narcissa. Come se non se lo ricordasse… da
ragazzina era stato la sua ossessione. Un diamante di un carato, tagliato a
cuscino, circondato da una doppia fila di ulteriori brillanti. E diamanti anche
sulla fedina. Era tipo una leggenda, tra le Purosangue della sua età.
Tramandato di generazione in generazione dai Malfoy, era il sogno proibito di
ogni ragazza.
E lei ricordava
perfettamente come lo sfoggiasse fiera Cissy… e, a quel pensiero, aveva avuto
un travaso di bile non da poco. Adesso sarebbe diventato della Granger, che
manco ne avrebbe apprezzato il valore.
Aveva aperto la bocca,
pronta ad una sequela di insulti… che non erano arrivati. Era bastato guardare
Draco per fermarsi.
La luce che aveva il
suo viso al pensiero di chiedere in moglie la Granger, era tipo più
luminescente di ottomila diamanti da quindici carati. E quella luce non era una
novità: l’aveva dalla mattina successiva al suo ritorno, quando salutando Pansy
stessa a malapena, aveva passato tutta la colazione a guardare la Granger che
beveva uno stupido succo di frutta.
Draco lo avrebbe fatto
lo stesso, anche senza la sua approvazione… ma senza di essa, lo avrebbe perso.
Quindi aveva
pronunciato qualche velenosa frase di convenevoli, gli aveva dato un pacca
sulla spalla di incoraggiamento ed era uscita, una stretta insopportabile alla
bocca dello stomaco. Che non era gelosia, invidia, o altro. Certo, aveva amato
Draco, molto, era il suo primo amore. Ed era il suo migliore amico. Quindi
ovvio che le dispiacesse che volesse stare con la Granger… ma non era questo.
Non era nemmeno
l’invidia per un diamante da decine di migliaia di sterline, anche se le
sarebbe sembrata la spiegazione più ovvia, vista la vita da poveraccia che era
costretta a fare.
Ma invece che
invidiare dell’amore quel suggello luccicante da poter mostrare e sfoggiare ad
ogni piè sospinto, lei invidiava l’amore stesso. Quello che fa superare ogni ostacolo, quello che ti fa
decidere di stare con una persona anche se tutto l’Universo ti si rivolterà
contro. Blaise poteva regalarle anelli come quello se solo l’avesse chiesto, se
solo il suo orgoglio fosse morto ed avesse deciso di chiederglielo. Le avrebbe
regalato un anello con gioia, perché facendoglielo mostrare alle amiche, lei si
sarebbe sentita soddisfatta ed appagata, non chiedendo niente di più. Ma lei
non avrebbe mai potuto dire che era un anello di Blaise, ci mancherebbe. Era
l’amore, quel tipo particolare di amore, che Blaise non poteva darle.
Quell’amore che era al
contempo, salvezza e dannazione… quello che se ti colpisce come un fulmine a
ciel sereno, devi solo arrenderti e basta. Quell’amore che aveva condotto Draco
a portarle la Granger in casa, pretendendo la sua approvazione, senza nemmeno
chiederla, perché sapeva che, disapprovando lei, avrebbe al contempo rigettato
lui. Quell’amore che aveva inumidito gli occhi della Granger mentre le diceva:
“Quando tornerà, perché lui tornerà, arriverò a cambiare anche tutto il mondo
pur di restare con lui, senza bisogno dei consigli di una come te... subite
pure il mondo che vivete, io ho smesso di farlo…”. Facendole spezzare il cuore.
Perché, per lei, nessuno avrebbe cambiato il mondo. Per lei, al massimo, lo si
subiva.
Pansy Parkinson non è
abituata all’onestà nemmeno con sé stessa. Quei pensieri come una lanugine
biancastra le ingolfano la mente, facendola sentire solo confusa e vagamente in
colpa. Per una come lei, non è normale, sano ed auspicabile trovarsi ad
invidiare Hermione Granger. Come se avesse a che fare con della sgradita
polvere, nasconde quella punta d’insoddisfazione sotto una carrellata di pensieri
sciocchi e futili tra cui primeggia il suo programma di attività, non appena
sarà giunta a Parigi.
Ma non fa in tempo a
pensare a nulla che un tramestio per le scale la fa trasalire improvvisamente,
Lyria spaventata molla il sacchetto dell’immondizia che ricade per terra con un
tonfo secco.
“Raccoglilo…” le
ingiunge gelida Pansy, sollevandosi da terra e attraversando la cucina. Apre la
porta per raggiungere le scale, pregando in tutte le lingue del mondo compreso
il serpentese, l’eschimese e il cinese mandarino di
saper fingere in modo convincente un infarto del miocardio, se il rumore è
stato provocato dalla Granger che vuole raccontarle della proposta di
matrimonio.
Ma a scendere le scale
non è stata Hermione Granger, con un anello al dito e l’espressione di chi ha
appena vinto la lotteria del destino.
A scendere le scale è
stato Draco Malfoy, il completo grigio della sera prima ancora addosso
completamente spiegazzato, i capelli arruffati di chi si è appena svegliato,
gli occhi cerchiati e rossi. Fermo ai piedi della scala, il respiro ansante, si
guarda furiosamente attorno, il respiro convulso.
Di primo acchito,
Pansy non lo guarda in viso, lui le dà le spalle e continua a guardare a destra
e sinistra, percorrendo con lo sguardo tutto l’ingresso, non accorgendosi di
lei. E Pansy automaticamente incrocia le braccia al petto, rotea gli occhi con
fastidio ed apre le labbra pronta a dire qualcuna delle sue frasi velenose, che
in realtà nascondono l’affetto per il suo amico. Forse per un solo istante,
mentre pensa di esordire con un commento caustico sul completo grigio usato
come pigiama, è davvero contenta per Draco, gli augura la felicità con Hermione
Granger, spera che Serenity lo veda come un padre. Per un momento, un fosco
momento nella luce pallida del primo mattino, Pansy Parkinson è prodiga di
benedizioni che, piovendo come incenso sul capo di Draco, di riflesso vanno ad
indorare anche quello meno gradito della Granger. E non la invidia più, perché
se rende felice Draco, merita di essere felice anche lei.
Per un momento, Pansy
augura il bene a chi ama e per quello, a tempo debito, lei stessa avrà la
ricompensa di un amore che sfida tutto, compresa sé stessa.
Ma è solo un momento.
Poi Draco si gira e le
sue labbra si serrano perché lei non resterebbe mai a bocca aperta, mostrandosi
sconvolta. Solo le sue braccia abbandonano il loro confortevole posto
incrociato e le cadono lungo i fianchi, dandole l’aspetto di una che sta
aspettando una spada di fuoco che le piova dal cielo senza preavviso e senza
scampo alcuno. Pansy non ha mai capito il tono orgoglioso e tronfio di chi
sostiene di conoscere qualcuno meglio di sé stesso: non capisce, né capirà mai
una rinuncia così palese ed ingiustificata del proprio sano egocentrismo, né
tantomeno cosa ci sia di così meraviglioso in un’osmosi di sentimenti e umori
da rendere pazzo chiunque la viva.
Chi desidererebbe mai
soffrire per un dolore altrui, che riesce a riconoscere perfettamente nel volto
di un’altra persona?
Pansy ama le
sensazioni represse per pudore ed orgoglio, ama le zone nascoste dell’anima,
ama i segreti soffici, ama l’eco dei pensieri nella sua testa quando non
diventano parole rivelate a qualcuno. Eppure, anche se non l’ha mai desiderato,
anche se non l’hai cercato, anche se, qualora se ne rendesse compiutamente
conto, probabilmente si sentirebbe non meno che agghiacciata, lei conosce Draco
meglio di sé stessa.
Ne conosce soprattutto
il dolore, perché a quello Draco si è abituato bene nella sua breve vita.
Draco si volta e Pansy
ne distingue ogni minima crepa nel viso contratto che ora la fissa, negli occhi
allucinati di cui resta solo un cupo riflesso di perla, ormai inghiottito dal
nero della pupilla terrorizzata. Conosce quel sudore freddo sulla fronte
madida, la pelle del collo che pulsa bianca, conosce il cuore che sembra quasi
esplodere fuori, conosce quei gesti mozzicati, goffi ed ineleganti che non
conoscono più la galanteria fredda che hanno imparato sin da bambini.
In fondo, chiunque sa
che la paura è sempre molto poco educata.
Lui non avrebbe
nemmeno bisogno di parlare, che Pansy ha già capito: quando il dolore ti
trasfigura il viso, quando è così evidente nei tratti che sono sempre stati
abituati a celare, il dolore può essere solo riflesso della gioia.
Quando ti distruggono
la più grande felicità che tu abbia mai provato, per contrappasso vieni
ripagato con il dolore più sterminato di cui tu possa mai soffrire.
Pansy allora pensa di
essere fortunata, è un attimo ma lo pensa davvero. Perché lei non è mai stata
così felice come Draco in questi dieci giorni: amava Blaise, certo, lo ama
ancora, ma è sempre stato un sentimento di ripiego, di quelli a cui non lasci
nemmeno l’ombra di un sorriso sulle labbra per paura di risultare patetica o
per paura che qualcuno se ne accorga e te lo strappi via. Draco invece aveva
profuso gioia per giorni, si era inginocchiato alle promesse del tempo che
aveva creduto benevolo, si era affidato ad un destino o ad un Dio che oramai da
lui aveva preteso troppo, prendendosi tutto. Ed ora il conto salatissimo era
arrivato.
Pansy avrebbe finto di
dimenticare in fretta il viso di Draco di quel giorno, perché le cose che le
spezzavano il cuore, lei le nascondeva sempre in fondo a sé stessa, così da
poter negare persino che ce l’avesse un cuore.
Ma quel viso era un
monito, per lei: sarebbe spuntato una mattina di sole inquieta a Parigi, due
anni dopo, quando avrebbe detto ad un ragazzo nato babbano, che lo amava,
mentre lui le porgeva un libro che aveva dimenticato.
Quando l’avrebbe
stretta, quando l’avrebbe baciata, quando le avrebbe risposto allo stesso modo
facendola volteggiare in Place de l’Opera… lei
avrebbe ricordato il viso di Draco. E lì, avrebbe avuto paura di essere felice.
Da quel momento in avanti, Pansy avrà sempre paura di essere felice.
“Dov’è?!” Draco si
volta verso di lei, le mani contratte in due pugni silenziosi, il respiro
ansante “Dov’è lei?”.
Non la chiama per
nome, non usa il suo nome di battesimo, come se non lo volesse sciupare, come
se lui potesse usare un pronome femminile solo per parlare di Hermione Granger,
non per parlare di una qualsiasi altra donna al mondo.
Pansy vorrebbe avere
una risposta qualsiasi, vorrebbe anche avere una di quelle frecciatine
sarcastiche che sono sempre a sua disposizione come i dardi di una faretra, ma
invece resta in silenzio, attonita, come se avesse avuto uno schiaffo. Pensa al
alla luce sfarzosa dell’anello di Cissy … e l’istinto della donna le dice che
lei, la Granger, non ce l’ha fatta. Pensa subito che non ha voluto. Ma l’amica
fa tacere la donna, si dice che è impossibile, che la Granger in fondo ama
Draco, che lo sposerà sicuramente, che non è così stupida da buttare all’aria
un amore così. Un lampo le curva la schiena, facendole drizzare i capelli sulla
nuca, la ricorda davanti a quello specchio la sera prima, le spalle incassate,
gli occhi rivolti vergognosamente in basso.
Non risponde alla
domanda di Draco, in un attimo la donna prevale e le sembra ovvio chiedere:
“L’anello… quello di tua madre… l’hai dato anche ad Helena vero?”.
È come aver preso un
coltello ed averglielo calato nelle viscere: Draco si piega, il respiro si
spezza, gli occhi si eclissano. Pansy constata con terrore che vorrebbe persino
piangere, ma si sta trattenendo perché davanti a lei, alla sua amica, a quella
che erroneamente lo crede invincibile, lui non piangerebbe mai. Si scompiglia i
capelli, tentando di sembrare disinvolto, ma stringe forte le ciocche nella
mano come a strapparli con forza dal cuoio capelluto.
Sussurra con un
tremito della voce: “Ho fatto una cazzata… la più grande che potessi fare in
tutta la mia vita… era l’anello di mia madre, prima che essere quello di
Helena… e io non volevo che pensasse… per me era solo importante, per me era
solo dirle che è importante come mia madre, come Helena… più di loro due messe
assieme… ma… lei…”. Non aggiunge altro, si accascia sulle scale, si prende la
testa tra le mani, i gomiti poggiati sulle ginocchia che tremano. Da qualche parte
giunge ancora la sua voce, è un flebile bisbiglio che sembra lasciare a fatica
la sua bocca come se fosse un peccato pronunciare quelle parole.
“Dice che non riesco a
lasciare andare Helena…”.
Pansy fa qualche passo
incerto sulle gambe, si siede sul gradino accanto a lui e sospira lungamente.
Concede solo quello a sé stessa e a lui, non conosce come si dice una parola
gentile, sa solo spronare a suo modo con insulti al vetriolo. Si ferma mentre
sta per abbracciarsi le ginocchia come quando era piccola e c’erano i
temporali. Non sapeva allontanarsi dalle finestre e dai vetri scossi dai tuoni
e sferzati dal vento, ma si abbracciava le ginocchia come a trattenersi tutta
intera, come a racchiudersi in un bozzolo che la tempesta avrebbe trovato
sempre inaccessibile.
Si stira un’invisibile
piega sulla gonna cremisi e mugugna solo: “Gli incantesimi di Raissa non si
sono mai spezzati… sarà qui da qualche parte…”.
“E poi? E poi che
succede Pans?” le dice Draco implorante, sollevandosi dritto e guardandola
negli occhi come non aveva mai fatto. Pansy trasale, chiude gli occhi, alla
fine si abbraccia le ginocchia.
L’amore è analgesico
della paura, lo seda e lo mette a tacere, lo trasforma in coraggio spavaldo, in
voglia famelica di vivere, in arroganza verso chiunque non provi amore
esattamente come te. Quando l’amore vacilla, quando chi ami sparisce, quando
spezzi il cuore che ti ha somministrato in vena l’eroina più buona che potrebbe
esistere al mondo, quando vai in astinenza da onnipotenza, il buio viene
portato sul piedistallo della tua testa. Ti riscopri codardo come coniglio,
timoroso di ogni rumore e di ogni respiro più intenso, spii il tuo stesso fiato
nei polmoni e lo conti nel timore che sfugga via, lasciandoti esanime. Pansy sa
che cosa intende Draco: lei non c’è, la Grifondoro che gli ha iniettato la
forza e la pretesa della felicità non è accanto a lui. E ora Draco teme il
futuro, la vita, il caso. Teme lei stessa, teme l’amore e teme ogni cosa. Ha
avuto un assaggio di cosa succede quando la droga scarseggia, quando non c’è
più a darti l’estasi colorata dei sensi. Che farà lui, allora? Cerca risposte,
cerca un’altra forza che non ha.
Pansy si dondola sulle
ginocchia chiudendo gli occhi, le parole marciscono in lei come foglie morte. È
il momento, adesso o mai più. Lo può afferrare dall’orlo del precipizio, farlo
tornare indietro e salvarlo. Disintossicarlo, chiuderlo in una stanza soffice e
sicura ed impedirgli di soffrire. Perché lei lo farà soffrire, è ovvio, e una
parte nascosta della sua testa le suggerisce che anche lui farà soffrire lei.
L’altro lato della medaglia di quell’amore è quella sofferenza e quel dolore.
Chi ama così tanto, è
condannato.
Può salvarlo adesso.
Può salvare anche Hermione Granger adesso, per quanto le importi. Li ha
entrambi ad un tiro delle sue dita chiuse, basta una sola parola, basta un solo
fiato.
“Che cosa devo fare?”
sussurra ancora Draco, più a sé stesso che a lei. L’attesa suggerisce la sola
risposta, la risacca del coraggio sferza le sue parole rendendole già più
ferme, già meno vacillanti. La schiena torna più dritta, gli occhi più intensi,
le labbra si serrano in una morsa decisa ed implacabile. Ma aspetta la risposta
di Pansy, la aspetta ancora, come una rassicurazione in fondo voluta, come se
davvero ne avesse bisogno. Pansy gli è grata per questa ricerca del suo
consenso.
E lo lascia a penzolare
nel vuoto con un sorriso: se c’è anche una sola possibilità che Hermione Granger lo faccia
volare, lontano dal fondo limaccioso in cui le serpi come loro hanno sempre
strisciato, vale anche prendersi il rischio che si sfracelli al suolo.
“E’ semplice Draco...
fai la sola cosa che la tratterrà accanto a te…” bisbiglia sofferta,
sciogliendo la presa sulle ginocchia e poggiando le braccia dietro di sé “ E
sai perfettamente qual è…”.
I lineamenti del viso del
ragazzo si addolciscono, spunta persino un sorriso sulle sue labbra ed una luce
nuova negli occhi: è un bambino che si lambiccava su un problema di matematica
difficilissimo, prima di capire che bastava una sottrazione per risolvere il
tutto. Draco deve sottrarre Helena dal suo cuore, se vuole che ci abbia casa e
dimora perenne Hermione Granger. E’ così semplice che a Pansy viene quasi
scioccamente da ridere, ma sa che le cose più sembrano semplici, più in realtà
sono voragini ed abissi intricati di difficoltà e sforzi. Estirpare Helena da
sé, per Draco, sarà la cosa più complicata che esista… ma esiste una cosa più
complicata per lui. Vivere senza Hermione Granger. Quindi tutto il resto,
necessariamente, deve essere semplice, deve diventarlo per un logico principio
di sopravvivenza: senza il ricordo di Helena, senza il pensiero di vendicarla,
lui perde una parte di sé. Senza Hermione Granger, lui perde tutto.
Perché lei ormai gli è
entrata dentro, e Pansy se ne accorge dal gesto sciocco che fa adesso, mentre
sembra più disteso e ha il respiro più calmo. Le mette un braccio sulle spalle,
la attira verso di sé e lascia che appoggi la tempia sulla sua clavicola.
Le bacia da fratello
la testa, prima di lasciarla andare. E Pansy non fa nulla per fermarlo, non fa
nulla per rinfacciargli quel gesto, anche se capisce che non è suo, anche se
comprende fino a che punto Hermione gli sia entrata nel sangue. Forse è anche
dentro di lei, dentro le lacrime che le affollano gli occhi, mentre cerca con
un gesto noncurante della mano di rimandare al mittente quell’imbarazzato
ringraziamento.
È entrata dentro a
tutti loro, dannata Mezzosangue.
Improvvisamente
sentono un rumore su per le scale, Draco si alza in piedi di scatto come una
molla, sperando che si tratti di Hermione. Sulle scale, invece, avvolta in una
vestaglia nera di seta, c’è Raissa. Le spalle di Draco si afflosciano su sé
stesse, mentre lo sguardo da cane braccato riprende vigore sul suo viso. La
Granger ancora non si fa vedere. Pansy solleva lo sguardo verso Raissa,
sollevandosi in piedi a sua volta, cerca di farle capire con un’alzata di
spalle o un’occhiata sarcastica che i piccioncini di casa hanno di nuovo
litigato, e che loro ne andranno di mezzo. Certo, non è una lite come le altre,
anzi è LA LITE, con tutte le maiuscole e i grassetti del caso, ma questo lei
non lo direbbe mai, a meno che non vi accennasse Draco stesso.
Non si fida di Raissa,
Pansy non si è mai fidata. Ovviamente è più simile a lei di quanto lo sia la
Granger, e questo ha fatto sì che tra le due si innescasse una sorta di
confidenza storta, la quale si nutre di occhiate e cenni del capo a cui non c’è
bisogno di dare spiegazioni e significati. Ma Pansy descriverebbe quell’idea di
intimità con una stanza in cui si è rinchiusi per ore con due persone: una che
parla la tua lingua, mentre l’altra ha un idioma completamente diverso. Ecco,
ovvio che parleresti di più con quella che parla come te, limitando all’altra
gesti affrettati e mozzicati da tradurre di volta in volta… ma questo non significa
che effettivamente ci sia un legame con la data persona.
E Pansy, sebbene non
se lo direbbe mai apertamente, si affiderebbe più ad Hermione Granger e alla
sua lealtà smisurata e ridicola, che a Raissa Karkaroff e alla sua presunta
onniscienza gelida.
La guarda con gli
occhi socchiusi, anche adesso ha qualcosa nell’atteggiamento che non la
convince. I capelli sono perfettamente in ordine, gli opali che porta sempre
alle orecchie tintinnano lievemente, persino la seta della vestaglia non ha la
benché minima piega come se lei nemmeno respirasse… ma sotto le palpebre, nel
vederli, passa rapido un guizzo di luce che sparisce subito dopo. Pansy lo
nota, però, così come nota la mano che si stringe attorno ad un libro che ha in
mano. Ha il frontespizio azzurro tutto rovinato, sotto spicca il rosa di una
vecchia copertina. Il titolo del libro stesso è illeggibile, rimangono solo
sparuti segni dorati.
Quel libro non è di
Raissa, è della sua libreria, Pansy lo riconosce perché è un libro vecchio che
si ripromette sempre di gettare via, ma che invece sopravvive quasi con
dispetto, longevo, godendo delle sue dimenticanze e delle sue mancanze come
padrona di casa. Non ricorda di che parli, forse non lo ha mai nemmeno aperto,
non è nemmeno così vecchio da essere prezioso, perché altrimenti lo avrebbe
venduto, sicuramente. È un libro vecchio come tanti altri.
Raissa ha venduto
l’amore per suo padre per ottenere una smisurata conoscenza. Sapeva tutto dello
Zahir e di Adamar, due dei segreti più vecchi e nascosti della storia della
magia.
Che se ne fa di un
libro della sua biblioteca? L’aiuta a dormire, leggere cose che conosce
perfettamente?
Pansy continua a
guardarla mentre scende pigramente le scale, il libro ancora tra le mani, le
unghie smaltate di rosso scuro graffiano la copertina.
Pansy getta uno
sguardo in tralice a Draco, ovviamente perso nei suoi pensieri. Dovrà cavarsela
da sola. Al più presto, dovrà mettere mano su quel libro.
“Raduno mattutino?”
commenta Raissa con tono di voce strascicata, finendo di scendere gli ultimi
gradini “La festa non deve essere stata granché se siete in piedi già adesso…”.
Draco non la fa nemmeno finire di parlare, trafelato le chiede: “Hai visto
Hermione?”. Pansy nota ancora l’esitazione che ha per un secondo nel
rispondergli, sa che anche Draco se ne accorgerebbe se fosse in pieno possesso
delle sue capacità analitiche, ma ovviamente lui non ci fa il benché minimo
caso. Pansy socchiude gli occhi, fissandola con attenzione. Ci ha messo solo un
secondo di più del dovuto per dire: “Non lo so… io non la vedo da ieri
pomeriggio…”. Ha dovuto pensarci, e questo a Pansy continua a non piacere.
Un nome si forma nella
sua testa, rapido, come un bagliore diffuso di tenebra. Dimitri.
Lo ricaccia indietro con
un nodo in gola, guardando alternativamente Raissa e Draco, ha bisogno di
parlare sola con lui. Se non trovano subito la Granger, la sola spiegazione può
essere che Raissa l’ha venduta a suo fratello. D’accordo, hanno litigato ma lei
non si sarebbe mai allontanata da lì. Non è così stupida… e tecnicamente
nemmeno può, gli incantesimi la relegano nella villa. A meno che…
“Gli incantesimi che
impediscono alla Granger di uscire… ci sono ancora?” chiede in un soffio,
guardando Raissa negli occhi. Draco la guarda senza fiato, per un attimo il
mondo attorno gli sembra improvvisamente di nuovo esistente, lo sente chiudersi
a cerchio attorno a loro e premere come un serpente. Si aggrappa alle labbra rosse
di Raissa che, giudice di ultimo grado, sussurra solo dispiaciuta: “Non credevo
che servissero più… era complicato per me tenerli in piedi… ho lasciato solo
quelli che impedivano a Dimitri di entrare… non a lei di uscire… ma perché,
pensiate che sia andata via? Non lo farebbe mai…”.
Draco prende con
collera un vaso colmo di fiori rossi da un tavolino, lo scaglia violentemente
al suolo bestemmiando ed urla di rabbia ed angoscia. Pansy non distingue il
fragore, non sente le gocce d’acqua colpirle i piedi, non avverte la sofferenza
agonizzante dei suoi fiori che perdono il contatto con la vita liquida e
surrogata che li fa sopravvivere. Sente solo le eccessive parole con cui si è
giustificata Raissa. Sente solo che ha detto troppo. Sente solo che, a quelli
come loro, basta molto meno per dire qualcosa. E sente solo il tono sommesso di
chi ammette un errore. Loro, non lo fanno mai. Raissa l’ha appena fatto.
La Granger poteva
uscire dalla villa. Raissa ha volutamente lasciato che le difese cadessero. Là
fuori c’è Dimitri. Troppo facile fare due più due: Draco non la rivedrà mai
più.
Lui, però, è sedato
dall’amore e dalla speranza e non vede niente con chiarezza: vede solo il suo
sbaglio, quello che ha la durezza di un diamante donato con troppa leggerezza.
Quell’anello che le ha voluto regalare senza pensare alle conseguenze, illumina
la mente di Draco di mille screziate sfaccettature una peggiore dell’altra, ma
sono riflessi ciechi che isolano tutto il resto e mettono al centro solo loro
due, in modo egoisticamente desolante.
Draco pensa che il suo
errore sia stato chiedere ad Hermione di sposarlo con l’anello di Helena, crede
che lei è andata via per ricongiungersi a quel mondo che era solo suo e che ha
continuato ad alitarli addosso, da fuori quel cancello.
Pansy inizia invece a
pensare che l’errore di Draco sia stato farla uscire dalla loro camera quella
notte, perché un amore del genere, per sopravvivere, te lo devi legare al polso
con una corda corta. La libertà, in amore, loro non se la potevano concedere.
Sta pensando a quello,
sta pensando di dirlo a Draco, sta pensando alle parole giuste perché ormai lei
pensa anche alle parole giuste da dire, non le dice e basta senza curarsi del
risultato… quando l’artefice delle sue riforme a livello lessicale, compare
improvvisamente in un angolo della stanza, dopo essersi smaterializzata. Pansy
non sa, non se lo aspetta e non lo immagina, ma quel sollievo che adesso ha
sentito nello stomaco sarà la cosa di cui maggiormente si vergognerà nella
vita.
Lo troverà ancora in
fondo a sé stessa un’ora dopo, quando tutto il suo mondo si sarà rovesciato. Ed
odierà Hermione Granger come non ha mai nemmeno lontanamente fatto in passato.
L’ha sempre odiata per cose che non avevano a che fare con lei. Nessun motivo
personale, solo l’eredità nauseabonda di un sangue sporco. Ora l’avrebbe odiata
per tutto quello che aveva a che fare con lei, per tutto ciò che suo malgrado,
aveva conosciuto di lei.
E, per aver conosciuto
quelle cose, avrebbe odiato sé stessa ancora più di quanto odiasse lei.
Ad ogni passo della
Granger nel salotto, il respiro di Draco si scioglie, si calma. Le mani si
decontraggono, le spalle si rilassano, i fortunali negli occhi cessano di
spargere fulmini. Pansy respira a sua volta, chiude gli occhi per un istante,
per poi riaprirli mentre la guarda con il solito sguardo tagliente. Mette anche
le mani sui fianchi, pronta ad una ramanzina acida delle sue, si dimentica
completamente di Raissa alle sue spalle che stringe con forza il libro nelle
sue mani, il labbro che le trema.
Quando Hermione
compare nel cono di luce della finestra, Pansy lascia ricadere le braccia lungo
i fianchi e si chiede se non è diventata paranoica. È lei, è la Granger, ma al
contempo appare diversa. Non è più vestita come la sera prima, ha un paio di
jeans ed un gilet sempre dello stesso tessuto, su una maglia bianca a maniche
corte. I capelli sono lucidi ed annodati in una treccia che le cade su una
spalla, ai piedi ha delle scarpe da ginnastica rosse di tela. Al collo, non c’è
più la collana che le ha dato la sera prima. Il viso è pulito, tranquillo,
apparentemente privo di alcuna traccia di turbamento. Le labbra sono distese in
una piega rilassata e gli occhi sono limpide pozze calme. Pansy crede persino
di distinguere un sorriso, lieve, fumoso, stridente.
Poi solleva gli occhi
e si accorge di loro. Improvvisamente un’onda di marea le rapisce la calma e la
freddezza, torna sé stessa in un attimo e cambia completamente. Si mordicchia
nervosamente il labbro, gli occhi diventano lucidi e rossi, le spalle si
incassano, appare persino più spettinata e meno ordinata nell’abbigliamento. I
passi si arrestano proprio di fronte a loro, mentre, a testa bassa, rimane
immobile al centro dell’ingresso come una condannata che aspetta il giudizio.
“Si può sapere dove
diamine sei stata?!” Draco non fa un passo nella sua direzione, non si muove,
ha il contegno severo e sollevato di un padre che vede rientrare la figlia
troppo tardi. Pansy, a disagio, vorrebbe allontanarsi, lasciarli soli, ma è
inchiodata al pavimento. Raissa, dietro di lei, prende a salire le scale in
silenzio, diventando inaspettatamente veloce sui gradini più in alto, e
sparisce nel corridoio. Il rumore della porta della sua camera che si chiude,
risveglia Pansy che, senza dire una parola, sale a sua volta le scale e svolta
nel corridoio. Ma poi, semplicemente curiosa, inaspettatamente sospettosa,
inconsciamente interessata, resta con la schiena contro la parete, origliando
che cosa si stanno dicendo.
“Non potevo restare
qui, te l’ho detto… avevo bisogno di schiarirmi le idee…”. La voce della
Granger è velata, soffusa, sembra persa in un mondo tutto suo. Un mondo che già
ha scavato solchi e fossi tra lei e Draco.
Pansy non sa come
distingue il respiro di lui accelerare di nuovo, lo sente fare un piccolo e
minuscolo passo, che però riecheggia enormemente nell’androne deserto mentre
calpesta un frammento del vaso che ha rotto poco prima.
Il tempo scompare di
nuovo, mentre la Granger implora sofferta, la voce incrinata, il respiro a
pezzi: “Per favore… resta lì… non ti avvicinare… h-ho bisogno di parlare…”.
“Non abbiamo parlato
abbastanza ieri sera? Non hai già espresso in tutti i modi le tue interessanti
quanto poco veritiere riflessioni?”. Draco ha di nuovo gli accenti duri e rochi
del suo consueto conversare, flette le parole di rabbia repressa a stento. La
notte appena passata, l’alba senza di lei, l’angoscia al pensiero che se ne
fosse andata senza una spiegazione… tutto gli provoca rabbia. Pansy sente il
mulinare dei suoi sentimenti come un uragano di vento che acquista velocità.
“Veramente per i miei
standard ho anche parlato poco… e ho espresso un decimo di quello che volevo
dire…” Hermione ovviamente, come sempre è stato e come sempre sarà, non si fa
alcuna remora nel rispondergli, le sfugge il solito tono di voce caustico ma
con una punta di veleno che non ha mai avuto. Poi ancora la voce le si spezza e
prosegue incerta: “…ma se mi facessi la grazia di lasciarmi finire di…”.
“Il problema è
l’anello, vero? E quello che credi che ci sia dietro… è così?” Draco la
interrompe ancora, ha la voce affannata, celere, rapida. Sembra persino che
abbia il fiatone.
“Draco, non è per
quello… c’è anche che…”.
“Ascoltami, per una
benedetta volta!” le urla contro, sordo alle sue rimostranze, Pansy se lo
immagina con il volto chiazzato di rosso e gli occhi ciechi di nervosismo “Non
hai solo tu l’esclusiva del diritto alla parola, te l’ha mai detto nessuno?!
Chiudi quella bocca ed ascolta…!”. Dopo un po’, riprende al silenzio della ragazza:
“Finalmente… veniamo alla maledetta storia dell’anello… che peraltro hai ancora
tu, quindi non credo nemmeno che tu non l’abbia gradito per nulla…”.
“Non lo vorrai
indietro adesso, spero…!” bercia nervosamente la Granger, balbettando a
disagio. Pansy si appoggia meglio alla parete, lo sguardo fisso sul dipinto di
fronte a lei, è una scena in stile amor cortese con un cavaliere che accetta un
omaggio dalla sua dama, una specie di fazzoletto ricamato. Pansy ha sempre
detestato quel quadro, ma piaceva molto a sua madre quindi non ha mai cercato
di rivenderlo per pagare i debiti. Lo fissa senza davvero vederlo, come quando
si hanno le orecchie assorbite da suoni così pressanti da rendere cieca la
vista. Forse è la sua mente così abituata a fare calcoli venali sul valore
degli oggetti, o forse è la permeabilità della mente di una bambina cresciuta
con quadri romantici e favole luccicanti. Non crede più a quelle cose,
ovviamente, ma esse sono sopravvissute riplasmandosi in un romanticismo più a
misura d’uomo e donna di tutti i giorni. E quindi è normale chiedersi dove la
Granger abbia cacciato quell’anello dal valore inestimabile e perché appaia
così terrorizzata al pensiero che lui lo rivoglia indietro… avrebbe dovuto
ridarglielo appena lo avesse visto, magari lanciandolo drammaticamente ai suoi
piedi. Non l’ha buttato via, quello no, non sarebbe da lei. Lo percepisce: Hermione,
con tutta la rabbia del mondo, non avrebbe mai fatto sparire l’anello della
madre dell’uomo che ama. Ma allora, dove ha messo l’anello?
“Non mi interessa
granché al momento…” riprende Draco con un filo di voce, ed anche Pansy si
convince che in fondo non importa dove abbia messo il prezioso solitario “Quell’anello
era di mia madre, prima di essere di Helena… lo sai perfettamente, hai visto i
miei ricordi, non c’è persona che sa queste cose meglio di te… e sai anche che
in realtà non è mai stato di Helena. Lei non l’ha mai indossato, non ci siamo
mai realmente sposati. Era solo un simbolo… una rivalsa solo mia per legarla a
me, quando lei apparteneva ad un’altra vita e ad un altro uomo…”, riprende
fiato prima di proseguire, la voce che vibra dell’attesa angosciosa di non riuscire
a spiegarsi: “Io amavo Helena, la amavo come non ho mai amato niente nella mia
vita… e poi sei arrivata tu… e tutto quello che credevo… tutto quello che
sapevo… tu me l’hai strappato di dosso pezzo per pezzo… sai che l’amavo, sai
anche quanto l’amavo, perché purtroppo conosci i miei ricordi… ma non è… come…
con te…”.
A Pansy fa male il
cuore nel petto, le fa male il silenzio cupo della Granger, le fa male la sua
resistenza. Lei sarebbe già saltata addosso a chi le avesse detto parole
simili. Ma lei è una Serpeverde, e non ha orgoglio. La Granger sì, per quello
Draco è costretto ancora a proseguire: “Ti ho dato quell’anello non perché tu
ti sentissi in competizione con Helena, o per dimostrarti che non l’ho mai
dimenticata… tutto il contrario. Per me… era un cerchio che si chiudeva. Non lo
avrei mai dato ad una donna che non avessi amato nello stesso modo… se non di
più… era delle donne che amavo, non pensi che darlo a te significa esattamente
lo stesso? Che ti amo come amavo loro?”.
Dal tono di Draco,
dalla linea scarna delle parole, dalla sequenza razionale delle frasi, a Pansy
sembra inconcepibile pensare che effettivamente le abbia dato l’anello per
motivi diversi da quelli che sta enumerando. Sembra persino ovvio che l’abbia
fatto solo per tributarle un riconoscimento pari a quello della prima donna
amata e della madre. È persuasivo, senza essere pressante, e convincente, senza
sforzarsi di esserlo. È solo vero, onesto. La Granger non può non capirlo.
“Io non la vedo così…”
la voce della Granger lo sfida, e Pansy sconvolta è quasi tentata di uscire
fuori allo scoperto e di iniziare ad urlarle in faccia. Poi si ricorda che
tecnicamente lei dovrebbe fare il tifo perché si lascino, non perché restino
assieme.
“Ok… lasciamo stare
questo benedetto anello…” prosegue Draco stoico, come se avesse trovato solo
una buca sulla strada e dovesse solo limitarsi ad aggirarla “Ammettiamo che
questa cosa poteva mandarti in confusione, ammettiamo che io ci ho visto
qualcosa di bello e che tu invece non hai visto tutto questo… ok va bene, te lo
posso riconoscere…”, sta persino ammettendo di aver sbagliato. Che diamine gli
hai fatto Hermione Granger?
“Dammi quell’anello e
facciamola finita con questa storia…” il tono scarno e sicuro fa sobbalzare
Pansy nel suo nascondiglio improvvisato, si tappa la bocca con la mano.
La Granger riprende il
suo tono da pulcino terrorizzato e biascica: “Che cosa? C-che vuoi farne?”.
“Distruggerlo… è un
diamante da migliaia di sterline… uno spreco, ma sai, sono un pragmatico…qualche modo deve esistere per distruggerlo,
chiederò a Raissa…”.
“Perché vuoi
distruggerlo?!!”.
“Ti dà fastidio che
esista? Ti dà fastidio che te l’abbia regalato? Pensi che te l’abbia dato
perché pensavo ancora ad Helena e volevo renderti ufficialmente la sua
sostituta?” Pansy sente i passi di Draco che lo avvicinano alla Granger, i
cocci di porcellana che si riducono in polvere mentre li calpesta. Si ferma,
forse ad un tiro dei suoi occhi, e sussurra, la voce calda e soffice: “Lo farò
a pezzi… e ti chiederò di sposarmi con un anello fritto di cipolla… quello, ad
Helena non l’ho mai dato… ed un giorno spero che guardandolo, vedrai quante
cose io non ho mai dato ad Helena, ma solo a te… visto che ancora non sei in
grado di vederlo…”.
Pansy si tocca le
guance, sono calde come se avesse la febbre. Si è ricordata cosa amava di
Draco, di cosa si era perdutamente innamorata anni prima, cosa l’aveva spinta a
concedergli il suo cuore, dopo avergli dato anche la sua verginità. Si è
ricordata del modo caldo che ha di parlare, di come sceglie le parole sempre,
sia nel caso in cui voglia colpire al cuore, sia qualora voglia semplicemente
farti a pezzi. Ha riconosciuto di nuovo quanto sia monogamo nei sentimenti: sebbene
sia un Serpeverde della peggiore risma, se qualcosa mette radici nel suo
essere, verdeggia e fruttifica come un albero dal rigoglioso splendore. Quando
ama, è per sempre. Si sente fiera di lui in un goffo modo che è solo amicizia,
affetto, memorie condivise, complicità.
Sa che la Granger non
potrà resistere, al pari suo: anzi per lei sarà peggio, perché quelle parole
sono per lei, perché lo ama, perché lui ha cambiato tutta la sua vita solo per
sfiorarla lievemente. E se lui le è entrato dentro anche solo la metà di quanto
lei è entrata dentro a lui, accetterà di sposarlo stasera stessa. Non ci
penserà un solo secondo, pur di non farselo scappare più via.
“Non è mai stato per
l’anello, Draco… l’anello, per me, è sempre stata una scusa…”. Pansy trasale,
senza accorgersene scivola e cade al suolo in ginocchio, una mano ancora sulla
bocca per reprimere un solo sospiro che le è uscito fuori. La voce della
Granger le è giunta attutita, sa che lui l’ha abbracciata, si deve essere
divincolata e ora ha detto quella frase senza senso, piangendo, imponendogli di
stare alla larga da lei.
“I-io non capisco…”
Draco non capisce sul serio, non ammanta la voce di sicurezza disinvolta o di
disincantato cinismo, non la prende nemmeno in giro come farebbe in altri casi.
Non capisce sul serio. Ci riprova ancora, ma già la voce si è incrinata, già ha
perso lo smalto, già improvvisamente teme di averla persa sul serio, in una
notte sola. Pansy vorrebbe dirgli che è impossibile, la bile le sale in gola e
vorrebbe urlargli che, se l’ha già persa, vuol dire che non l’ha avuta mai. Ma
non vuole dirlo, inaspettatamente non vuole avere ragione, non adesso, non con
lui, non con lei.
“E’ per Helena? Non
capisco, Hermione… vuoi che rinunci all’idea di vendicarla? L’ho già fatto…
inconsciamente l’avevo già fatto quando ho deciso di vivere accanto a te… cosa
altro vuoi? Cosa altro cerchi?”, la sua voce si carica di elettricità mentre
sussurra tagliente: “La sola cosa che ti è rimasta da farmi, è puntarmi una
stramaledetta bacchetta alla gola e farmi scordare davvero tutto di lei… ti
basterebbe questo?!”.
Forse la guarda, forse
legge qualcosa in lei che non sta dicendo, forse improvvisamente perde tutte le
speranze. Forse è tutto questo assieme.
Perché, quando Draco
parla daccapo, dice solo con un filo di voce: “… ma non è Helena il problema,
vero? Il problema… siamo io e te… giusto?”.
Pansy resta seduta per
terra, gli occhi chiusi, si abbraccia le ginocchia piegate. Sente le parole
della Granger, le sente una dopo l’altra che si inanellano perfette nell’aria
che li separa, come i granelli di una clessidra che inesorabile scandisce il
tempo che manca alla loro separazione. Ogni parola recide una speranza, ogni
parola le piega il petto in uno spasmo inconsapevole, ogni parola la convince
che Draco ha osato troppo, ogni parola le ricorda il mondo di cui hanno fatto
parte da secoli e che li candida ancora come le due metà dell’Universo. Ogni
parola dipinge la Granger di colori da Serpeverde: argentea di codardia e verde
di bugia. E se questo è ciò che sente lei, se immagina a che cosa sta pensando
Draco, le viene da graffiarsi il viso dall’ansia.
Farebbe di tutto per
risparmiargli quelle parole. La Granger poteva andarsene e non tornare più,
rifugiarsi nella sua torre d’avorio e dimenticarsi di lui. Invece ha dovuto
strappargli il cuore dal petto.
Perché lo sta facendo?
L’ha mai amato, allora?
No. Avrebbe dovuto
salvare Draco quando poteva… non l’ha fatto. E ora la Granger lo sta uccidendo
sotto i suoi occhi.
“Quando sono andata
via… stanotte, dopo che mi hai chiesto di sposarti con l’anello di Helena… ho
avuto modo di pensare. Tanto. A questi mesi… da quando ho messo piede al Petite
Peste fino ad ora. Ogni cosa mi è sembrata tornare al suo posto. L’amore per te
mi ha reso cieca, mi ha impedito di vedere tutto chiaramente… fino a stanotte,
fino a quando non sono rimasta davvero sola, fino a quando tu non mi hai
spezzato di nuovo il cuore e io te l’ho lasciato fare. È stato come mettere
distanza tra una falena ed una fiamma… sebbene mi mancassi, sebbene sentissi
che eri lontano, non andavo più a fuoco, non stavo bruciando. E finalmente
potevo vedere tutto in un modo completamente vero… onesto… reale. E sono
arrivata alle mie conclusioni. Sono scontate, ovvie, naturali… ed avrei dovuto
vederle come tali fin dal primo momento.
“Ho creato uno Zahir…
un incantesimo proibito da secoli, pericoloso per me e per te, pericoloso
persino per le persone con cui sarei venuta in contatto. Questo non fa parte di
me, se rivedo la persona che sono stata in questi mesi, accanto a te, io non mi
riconosco più. Mi era così insopportabile l’idea di essermi innamorata di te
che ho fatto una cosa del genere… e in questo Astoria aveva ragione. Ma lo
volevo negare a me stessa, volevo dirmi che era la sofferenza che mi era
insopportabile, che derivava tutto da una bugia che mi avevi detto, quella di
non amarmi… ma non è così. Pensaci Draco… pensaci davvero… non smetteremo mai
di farci del male, amare te non smetterà mai di spezzarmi il cuore. Avevamo
promesso di non farlo più… e tu mi avevi chiesto se mi saresti bastato anche
così. La verità è che non posso farmi bastare questo, non posso farmi bastare
questo dolore continuo alternandomelo con qualche istante di felicità. Perché
per cinque minuti di gioia, ne esisteranno sempre dieci di sofferenza… e non lo
posso sopportare. Non posso scegliere autonomamente una persona che mi farà
sempre soffrire… dovremmo stare con chi ci rende grati di essere vivi, non con
chi ci fa desiderare di morire… non con chi ci fa creare uno Zahir. Io non sono
in grado di amarti, come tu vorresti… come meriteresti, anche… dopo come è
finita con Helena.
“E sono anche convinta
che tu non l’abbia mai dimenticata… che quell’anello era un segno, era un modo
per prenderti una rivincita sulla vita che vi ha separato… come se volessi dire
al destino che avevi trovato un’altra Helena. Ho iniziato a piacerti solo
perché, in qualche confuso modo, ti ricordavo lei, non mi avresti mai
trattenuto al Petite Peste se non te l’avessi ricordata mentre dormivo… e
persino Pansy, che di me e te non sa nulla, me l’ha confermato. Mi ha detto che
non posso competere con lei, che non sarò mai come lei… e che tu non mi amerai
mai come hai amato lei. Da lì, dalle sue parole, mi si è aperta una breccia in
testa… e a quel punto nemmeno Helena era davvero un problema…
“Il problema è la
persona che tu mi fai diventare. Io odio me stessa, stando con te… divento
gelosa, sospettosa, vendicativa, infida. Non sono mai stata questa persona. Né
mai lo sarò… non posso lasciartelo fare, non posso lasciare che tu mi soffochi
giorno per giorno, facendomi diventare chi non sono. Una Serpeverde. Io non
sono nata per questo, sono nata per sposare Ron, per avere dei figli da lui,
per diventare la cognata di Harry e Ginny… ma quando mi sono resa conto che
questo non sarebbe più potuto succedere, la terra mi è franata sotto i piedi.
Ho perso tutto. E ho creduto di non essere più quella persona. Di non esserlo
mai stata. E ho fatto cose inconcepibili, per me… come innamorarmi di te. Ma
forse, a conti fatti, non ti ho mai davvero amato… ero solo confusa,
disorientata… o magari ti ho amato sul serio, sennò non avrei creato lo Zahir… al
momento non lo so, non mi capisco nemmeno…
“Non voglio ferirti,
non ho mai voluto davvero farlo… ma non posso sposarti, né ora né mai. Non
posso restare qui un secondo di più… per far star bene te, io finisco per
distruggere me stessa. Non c’è parola, non c’è singola parola o promessa che
possa convincermi del contrario… ho troppi mesi e troppi giorni alle spalle per
sapere che non andrà mai bene tra me e te… mai e poi mai, perché semplicemente
non siamo nati per questo. Ho contattato una mia amica del Ministero,
un’Indicibile… lei mi nasconderà per un po’… e sarà lei a curarsi che Harry
sappia tutto di Astoria e del resto. Non te ne devi più preoccupare… vivi la
tua vita con Serenity... e non cercarmi mai più. Sarà solo più difficile per
entrambi, se lo farai… e mi costringerai a ripeterti le stesse identiche cose.
E lo farei, Draco… ti direi tutto daccapo. Ma tu potresti sopportarlo ancora?
Potresti sopportarmi ancora che dico tutto questo?”.
Pansy sente in un
angolo remoto della sua mente che Draco risponde solo con un filo di voce: “No…
credo che tu sia stata sufficientemente chiara…”.Le guance di Pansy si bagnano
inconsapevolmente mentre lo sente risponderle, non ha nulla a cui aggrapparsi
ancora, volutamente la Granger gli ha tolto qualsiasi galleggiante che potesse
impedirgli di affogare. Non ha nulla da risponderle ancora. Cosa si può dire ad
una persona che ammette candidamente di odiarsi per amarlo? Ha detto tutto ciò
che Draco temeva di sentirle dire un giorno… e ha detto persino tutto quello
che Pansy temeva di sentire, l’allusione alla loro conversazione della sera
prima. Non era stata così categorica, come lei l’aveva dipinta, ma Draco
avrebbe creduto a lei.
Ne aveva tutti i
motivi, era ancora la donna che amava, lo aveva appena lasciato… e lei invece
era solo l’amica che non aveva mai voluto quell’unione.
Per molto tempo, dopo
le parole della Granger, la mente di Pansy non avrebbe funzionato a dovere.
Aveva erto lei stessa una potente barriera collosa che tenesse fuori il mondo,
e il momento inevitabile in cui avrebbe guardato Draco negli occhi. Registra
con una parte sommaria dei suoi pensieri le inutili parole che Draco dice alla
Granger, qualcosa che vuole ancora cercare di convincerla a restare, una serie
di promesse grosse e friabili, una sequenza di scuse, un carnevale di
ripensamenti. Ode i monosillabi di lei, il modo caparbio in cui ripete: “Non
cercarmi più…”, la voce che le si alza di tono in tono mentre alla fine urla
che ha ripreso ad amare sé stessa, soltanto odiando lui. Viene allora il
silenzio, vengono allora i singhiozzi falsi di lei, viene allora il rumore
buffo della Smaterializzazione. Ed infine il frastuono, tessuti lacerati, piatti
e bicchieri rotti, mobili divelti, vetri infranti. Draco che fa a pezzi casa
sua.
Raissa ricompare sulle
scale, trafelata, sentendo il fracasso della distruzione. Non fa caso a lei,
ancora seduta per terra, che si abbraccia le ginocchia.
Dice solo con la voce
straordinariamente sicura, rivolta a Draco: “Vuoi andartene da qui?”.
“Immediatamente…”
risponde lui, la voce strozzata.
Pansy solleva lo
sguardo verso Raissa, sa che lei la sta guardando con la coda dell’occhio
mentre sentenzia crudele: “Non vuoi avvisare prima Pansy?”.
“Per me è morta cinque
minuti fa…”.
“Sai già dove
andare?”.
“Sì… ma… al momento
non sono lucido… non voglio far spaventare Serenity… potresti venire con me?”.
Raissa guarda Pansy,
ha un sorriso sardonico sulle labbra che lei non dimenticherà mai.
“Naturalmente…”.
La colla dei pensieri
di Pansy si scioglie solo quando li sente andare via, solo pochissimi istanti
dopo. Ma è già troppo tardi per fermarli.
La nebbia del Pensatoio si dirada in ampie
volute di fumo, lasciandomi a riprendere fiato. Pansy si alza in piedi
nervosamente dal divano, va avanti ed indietro per la stanza con passo
innervosito, congiunge le mani in una stretta morsa in cui poi respira dentro
con la bocca. Dean rimane seduto, lo sguardo preoccupato che segue la moglie,
finché la chiama lievemente per nome e lei torna seduta, apparentemente più
calma. Le scioglie le mani incrociate e ne prende una tra le sue, baciandola
con le labbra chiuse. Seth si scompiglia i capelli sconcertato, la magia è una
novità ancora per lui e non riesce a credere di aver appena vissuto un ricordo
di Pansy stessa… e non riesce nemmeno a credere che quella nel Pensatoio non
fossi io.
A quello, per poco, non credevo nemmeno io.
Non avevo mai visto quell’Incantesimo, non
sapevo come fosse, avevo solamente supposto che potesse trattarsi di quello,
considerando come aveva ingannato tutti, compreso Draco. Una parte di me, anche
quando aveva fatto quella supposizione, era comunque rimasta sorda e muta di
fronte alla ragione dei fatti: lui si sarebbe dovuto accorgere che non ero io,
ma che era Astoria. E se non lui, l’avrebbe dovuto capire Pansy perché
sicuramente lei avrebbe mostrato qualche gesto molto più flessuoso dei miei,
più da Serpeverde, o avrebbe usato delle parole più fredde e caustiche. Pensavo
anche che Astoria, in un certo modo, si tradisse, usasse troppa rabbia, oppure
perdesse il controllo.
Una parte di me trovava inconcepibile che Draco
non mi avesse mai cercato, dopo aver parlato con Astoria che assumeva le mie
sembianze.
Sposto una ciocca di capelli sudati dalla
fronte, l’angoscia mi fa sentire caldo e il senso di oppressione al petto mi fa
respirare irregolarmente, come se fossi stata per minuti interi in apnea.
Quella ero io.
L’aspetto era identico, ma questa è la parte
minore. Le movenze, i gesti, il modo di parlare, l’intercalare in determinate
frasi… quello ci poteva anche stare, poteva anche essere somigliante al lavoro
meticoloso che fa un’attrice. Ma i pensieri… quelli che Astoria ha usato nel
suo discorso… erano indiscutibilmente miei. Tutti, dal primo all’ultimo. Erano
i pensieri dei mesi in cui non capivo l’effetto che mi faceva Draco, erano i
pensieri che mi avevano portato alla creazione dello Zahir, erano i pensieri di
quando lui era stato con Adamar, erano i pensieri di quando effettivamente mi
aveva dato l’anello di Helena… ma erano pensieri rapidi, fuggevoli. Erano i
pensieri di quando ero stanca o demotivata o triste, ma poi sparivano sempre,
quasi subito, perché io amavo ed amo Draco e quello, per me, contava più di
tutto.
Lui mi aveva insegnato una nuova me stessa, che
amavo più di quella vecchia, più di quella probabilmente “destinata” ad amare
Ron. A volte, avevo rifiutato l’ingresso di quella nuova Hermione nel mio corpo
e nella mia anima, ma alla fine mi ero arresa ad essa. Lui mi aveva resa
migliore, non peggiore: più tollerante verso chi non era dal mio lato della
guerra e della vita, più aperta verso il prossimo, persino più spigliata e
divertente. Mi ero scoperta meno inquadrata, meno rigida, meno bacchettona,
meno sputasentenze.
Ero diventata, e mi viene quasi da ridere a
ripensarci, più elastica come si è sempre augurato Dean.
Non fossi stata così, non avrei mai potuto
accettare di diventare mamma del figlio di un uomo, che probabilmente non avrei
rivisto mai più.
Respiro profondamente, cercando di calmarmi e di
escludere mentalmente la fitta al cuore che mi ha provocato la visione di Draco,
oltre che le sue parole. Aveva deciso di lasciare andare Helena, aveva deciso
di provarci, aveva capito la mia sofferenza. Sarebbe potuto tutto iniziare
quella mattina, ci saremmo potuti sposare quel giorno stesso… e probabilmente
di lì a poco, sarei stata in grado di dire a Draco che stava per diventare
padre. Invece io l’ho scoperto nel peggiore dei modi, in una cella buia e
fredda, prigioniera di un uomo che voleva fare di me la sua schiava e la sua
regina. Trattengo le lacrime, le ricaccio indietro perché ormai piangere non ha
senso, non ha scopo e non ha nemmeno utilità.
Da quando sono mamma, piango sempre poco, cerco
sempre di evitarlo. Alex non mi ha mai visto piangere e non deve accadere mai. Ma
non piangere, cercare di non farlo… alla fine ti comprime il petto e te lo
squarcia. Persino il cuore va a fuoco. Ed anche se sapevo come era andata, anche
se sapevo che Draco non mi aveva mai cercato, anche se sapevo che dovevano aver
usato dei meccanismi potenti… non credevo che fosse andata così. Pansy aveva
ragione: dopo queste parole, è normale che Draco non mi avrebbe mai più cercato.
Mi aveva sentito dire tutto quello che temeva:
che io mi odiassi, perché amavo lui.
Gli occhi pungono, mi si affolla la mente di
pipistrelli neri, e tutto sembra trattenersi dolorosamente in me sul ciglio di
un’esplosione.
Pensavo che oramai tutto il dolore fosse alle
spalle, pensavo che ormai il grosso fosse passato, pensavo che nulla mi avrebbe
potuto ferire di più di quanto non avessi già subito… stringendomi il petto con
la mano, mi rendo conto che non era assolutamente vero. E Pansy, almeno non ha
visto Draco in viso quel giorno… almeno questo mi è stato risparmiato.
Chiudo gli occhi, cercando di calmarmi e
cercando di tornare lucida. Se c’è una cosa che però sicuramente non sapevo fino
a questo ricordo, che Raissa potrebbe aver sempre saputo tutto.
E, adesso, potrebbe essere ancora con Draco.
“Raissa poteva aver sempre saputo tutto…” rendo
evidenti i miei pensieri, dopo essermi schiarita la voce ed aver rotto il
silenzio.
“Ne sei sicura?” commenta Dean, lasciando la
mano di Pansy. Lei chiude gli occhi e li riapre, sospirando: “In quel momento
ebbi la netta impressione che avesse qualcosa da nascondere… ma dopo che
Astoria parlò, ovviamente tutto passò in secondo piano…”, la sua voce si vela
di amara ironia mentre sottolinea: “E se vogliamo dirla tutta, ci avevo visto
giusto anche su Astoria… avevo notato che era terrorizzata al pensiero che
Draco le chiedesse l’anello…”.
“Ovvio…” bisbiglia con un filo di voce Seth
“L’anello ce l’aveva ancora Hermione…”. Traffico nella mia tasca, uscendone un
cofanetto azzurro. Dentro, brilla ancora l’anello di Cissy Malfoy, che avevo
ritrovato nella tasca del cardigan azzurro, che avevo preso di fretta la sera
del compleanno di Pansy.
“Una pietruzza da due soldi…” biascica
innervosito Dean, guardando storto Pansy “Ora capisco perché storcesti il naso
al mio solitario…”.
“Ci voleva il microscopio per vederlo…”.
“Ma era purissimo al cento per cento…!”.
“Ovvio, le imperfezioni non ci sarebbero entrate
nel diamante… minuscolo com’era…”.
“Kevin mi ha regalato uno smeraldo! Lo sai Herm?
Uno smeraldo vero! In un orologio, però… se mi faccio un anello, dici che è
troppo?!”.
Mi gratto la tempia, mettendo a posto l’anello.
Dio, questi se li lascio fare partono per la tangente ogni volta!
“Possiamo gentilmente abbandonare il campo
dell’oreficeria?!” borbotto, incrociando le braccia, interrompendo le manovre
di Pansy che mette a paragone le dimensioni del suo solitario con un minuscolo
bottoncino della sua camicia. Recuperata la loro attenzione, sospiro lungamente
per riprendere il filo del discorso, anche se una pericolosa risata mi sta
uscendo di nuovo inconsciamente, ma ne va della mia autorevolezza se iniziassi
a ridere per le loro scemenze!
“Perché credi che Raissa sia andata con Draco?”
chiede Seth a Pansy, sistemandosi meglio sul divano “Credi che gli
interessasse… in qualche senso romantico?!”. Un groppo in gola mi costringe
a deglutire più rumorosamente di quanto vorrei, mentre Pansy si ferma a
riflettere. Poi esordisce sicura: “No, non credo… o perlomeno non credo che in
quel momento, lo abbia seguito perché ne era follemente innamorata… anche se
questo non esclude che possa essere successo qualcosa con il tempo… se sono
rimasti assieme per cinque anni, potrebbe anche essere accaduto… devi farci i
conti anche con questa possibilità, Granger…”.
Annuisco senza partecipazione, pigolando un:
“Sono passati cinque anni, Pansy… lo so perfettamente… e se non è Raissa,
potrebbe essere qualcun’altra…”.
“Appunto…” mormora lei, incrociando le braccia
“Per lui, è tutto finito quella mattina… e quell’Hermione gli ha fatto capire
che non era storia… e come se non bastasse, lui ha anche una figlia da
crescere… potrebbe aver pensato a darle una madre… come tu a tuo modo, hai
pensato a dare un padre a tuo figlio…”.
“La faccenda tra me e Ron è leggermente
diversa…” mi inalbero subito, stringendo i pugni “Sai perfettamente che non
siamo davvero sposati… ed Alex non l’ha mai considerato suo padre…”.
“Sì che lo so, Granger, accidenti…!” ribatte lei
annoiata, guardandosi le unghie “Ma mettiamo in conto che lui ti abbia cercato…
mettiamo in conto anche che ti abbia trovato… mettiamo che per ipotesi assurda
l’avesse saputo, che cosa avrebbe pensato? Hermione vive in Italia nella
casa dei suoi nonni, ha un figlio ed è sposata con Ron Weasley.”.
Sobbalzo, stringendomi nelle spalle, a questo
non avevo mai davvero pensato. So che è abbastanza improbabile che Draco mi
abbia cercato e soprattutto che mi abbia trovato, considerando tutte le premure
che al Ministero hanno preso. Ma ammettiamo che ci fosse riuscito… vai a
spiegare che non sono davvero sposata, che non lo sono mai stata, che ho finto
di esserlo.
Vai a spiegare che mio figlio non ha il volto
spruzzato di lentiggini e i capelli rossi, ma è una peste immatricolata in
Malfoy.
Spero davvero a questo punto che Astoria lo
abbia ferito al punto tale da non farmi mai cercare…
“Comunque tolta l’ipotesi dell’amore folle di
Raissa per Draco, credo che lo abbia seguito solo per tenerlo d’occhio…”
riprende Pansy dopo un po’, assolutamente incolore “Quando eri nelle mani di
Dimitri, credo che abbia semplicemente controllato che lui non si facesse
venire l’idea di venirti effettivamente di nuovo a cercare… in quel caso, credo
che abbiano di nuovo assoldato Astoria… e quando invece tu sei riuscita a
liberarti da Dimitri, credo che potrebbe essere rimasta con lui per farti
uscire allo scoperto... qualora avessi contattato Draco, lei lo avrebbe saputo
ed avrebbe avvertito Dimitri…”.
L’analisi di Pansy non fa una piega, annuisco
sovrappensiero. La sola cosa che rimane meno chiara è come mai Raissa aiutasse
suo fratello. Non mi era mai sembrata così d’accordo con i suoi modi, non mi
aveva mai torto un capello ed anzi aveva cercato di allontanarlo da me in più
di un’occasione. Mi aveva ammonito di stare attenta a suo fratello, aveva anche
temuto che Draco non tornasse in tempo per impedire che Dimitri si incaponisse
troppo su di me. Perché poi avrebbe dovuto aiutarlo?
“Certo è che, ora che Dimitri è morto,
probabilmente Raissa non ha più motivo di restare con Draco, no?” sciorina
ovvio Dean, distendendo le braccia stanche. Annuisco ancora, ricordando la
lettera di qualche giorno fa che mi è stata recapitata in Italia. La lettera
che mi informava che l’esilio mio e di mio figlio per motivi di sicurezza, in
Italia, era finito. Avevano trovato i cadaveri di Astoria e di Dimitri in un
fiume, poco a sud di Birmingham. A quanto pareva, si erano uccisi tra loro
probabilmente in un diverbio. Quella notizia ha decretato anche la fine del mio
matrimonio-farsa con Ron. Peccato che lui non avesse mai davvero capito che
fosse una farsa.
Ho sempre avuto dubbi su Ron e sul vero motivo
per cui avesse scelto di vivere in quel modo, accanto a me, come mio marito.
Nei primissimi tempi non ne avevo mai avuti: egoisticamente non pensavo a lui,
pensavo solo a me stessa e al tempo che si ripiegava e si contorceva su sé
stesso, allontanandomi da Draco. Poi ovviamente, se non altro per deviare dai
pensieri inconcludenti e frustranti che non mi portavano mai a nulla, avevo
iniziato a pensare anche a Ron. Il candore con cui aveva accettato quella commedia
solo per proteggere me ed Alex era stato sporcato dai miei ragionamenti e
dall’osservazione di tanti piccoli dettagli della nostra vita assieme:
rifuggiva le rose, non nominava mai Draco, non alludeva mai al tempo che
avevamo passato divisi, non si riferiva mai ad Alex come al figlio di Draco
Malfoy. E soprattutto, anche quando non era più necessario, anche quando la
porta di casa si chiudeva e non eravamo sotto lo sguardo di estranei
potenzialmente nemici, lui continuava a comportarsi come mio marito. Mi baciava
sulla guancia, raccontava ad Alex aneddoti di quando eravamo bambini.
E lì, chiaro, stentoreo, potente, mi si è acceso
un allarme nella testa.
L’ho affrontato una sera di maggio, il sole era
basso nel cielo della Sicilia, circondava di rubino i limoni del nostro
giardino rendendoli screziati. Ron era seduto su una sedia a sdraio, gli occhi
socchiusi e l’espressione beata. Per un attimo, ferma sulla soglia della
veranda, avevo pensato alla possibilità di lasciar perdere tutto. Avevo un
figlio di due anni che dormiva placidamente in casa, non era egoista continuare
a dirgli che doveva chiamare “papà” l’uomo lontano che non aveva mai visto e
che forse ci aveva dimenticato? Non sarebbe stato più facile dirgli di
considerare genitore l’uomo vicino, quello che gli dava da mangiare, lo portava
al mare a giocare e lo metteva a letto tutte le sere? Non era egoista
aggrapparmi con disperazione a Draco?
“Mione che cosa c’è?” aveva detto Ron,
voltandosi improvvisamente, il sole che rendeva i suoi capelli quasi una fiamma
rossa.
“Lo sai che tutto questo finirà un giorno,
vero?” la mia voce non aveva avuto alcun dubbio, era uscita da sola senza
lasciar adito ad alcuna reticenza o tentennamento. Le spalle di Ron si erano
contratte, aveva stretto un pugno ed aveva sussurrato: “Certo che lo so…
tornerai da Malfoy, un giorno o l’altro… ammesso che ti voglia indietro…”.
Non mi aveva ferito, non poteva ferirmi con la
verità. La verità non ferisce se sei vero anche tu… Ron non lo era. Per questo
la verità lo aveva ferito invece come una spada scagliata nel cuore.
“Io non sono davvero tua moglie…” avevo
sussurrato guardandolo in viso “Il nostro matrimonio non esiste da nessuna
parte, è invalido persino nella carte… ti sono grata di quello che stai facendo,
lo sarò per sempre, hai scelto di proteggere me ed Alex… ma questo non cambia
niente, Ron. Noi non siamo davvero sposati… e Draco con questo non c’entra
nulla… fosse anche che non mi voglia più, che io arrivi a non volerlo più, sarà
una cosa tra me e lui…”, inspirando avevo aggiunto stoica: “… tra me e te è una
recita, Ron… niente ci restituirà il tempo passato e il male che ci siamo
fatti… niente…”. Mi aveva sorpassato rientrando in casa, furibondo. Ed aveva
implicitamente sciolto il mio dubbio.
Per questo, la sua reazione alla notizia che
Dimitri ed Astoria erano morti, e quindi io ed Alex non avevamo più motivo di
nasconderci in Italia, lo aveva sconvolto e destabilizzato. Ed aveva rotto quel
vaso nell’ingresso e se ne era andato via, furibondo. Non ci siamo nemmeno
salutati, prima che io partissi. Avrei voluto farlo, ma sarebbe diventato tutto
più difficile. Gli sarò per sempre grata per quello che ha fatto, e spero un
giorno di potergli parlare, di potergli spiegare bene tutto, di poter tornare a
chiamarlo amico. Adesso no, adesso è troppo presto.
Due che sono stati prima migliori amici, e poi
fidanzati, non dovrebbero mai fingere di essere sposati, fosse anche per
supreme ragioni di sicurezza. Ma le cose sono andate così, allora. E come per
tutto il resto, recriminare serve a poco. In questi cinque anni mi sono trovata
bloccata in un ingranaggio, che non era mai messo in moto da me. La mia parte
di decisione è stata solo quella di tornare in Inghilterra tre giorni fa e di
cercare Draco. Per il resto non ho mai deciso nulla in questi cinque anni, non
ho preso una sola decisione da quando Dimitri mi ha rinchiuso nel suo castello.
Stringo la camicetta tra le dita all’altezza del
petto, mentre i miei amici continuano a fare supposizioni su Raissa e Draco.
Per un attimo, mi estranio da loro. In questi
cinque anni mi è stato tolto potere decisionale in tutto, persino nella scelta
di essere madre.
Mi manca il fiato nel pensarci, ma oggi potevo
anche non esserlo affatto. Il mio grembo poteva restare vuoto, la stanza al
piano di sopra poteva essere piena solo delle mie cose, l’ultimo legame con
Draco poteva essere reciso e spezzato come il filo sfilacciato di una veste
logora.
Posso odiare Astoria per avermi costretto a
creare lo Zahir, per aver ingannato Draco… ma poi, dovunque sia adesso, sono
costretta a perdonarla per il suo folle dono da egoista.
Lei mi ha donato la più grande delle
benedizioni: mio figlio.
Anche se lo fece solo per i suoi di motivi.
La fortuna è essere quasi sempre incosciente di
mattina.
Ad Hermione la mattina piace da morire, le piace
il sole che buca le nuvole, le piace quella sensazione di aspettativa, di
promessa, di rinascita.
A casa, si alzava sempre all’alba da letto,
qualsiasi cosa dovesse fare, perché le piaceva enormemente avere delle ore di
vantaggio sul mondo e sulla vita stessa. E se per qualche caso, finiva per
alzarsi tardi, si sentiva come se avesse sprecato preziosi attimi che poteva
impiegare proficuamente in qualche altro modo. Dean la rimproverava sempre, le
diceva che l’unico vantaggio di non lavorare era che poteva restare anche a
letto a poltrire. E lei allora si impuntava come una bambina piccola, metteva
la sveglia anche prima ed alzava il volume del trillo, così da svegliare anche
lui. Alla fine, borbottando lui e ridendo a crepapelle lei, facevano colazione
assieme sul balcone di casa.
Al Petite Peste, alzarsi presto era naturale,
era scontato perché doveva lavorare. C’era da preparare il caffè per gli
affannati broker della City, c’era da riscaldare le brioches per i ragazzini
che andavano a scuola, c’era da fare il tè per le mamme che si trattenevano
qualche minuto dopo aver accompagnato i loro figli in classe. E lei si alzava
sempre come una furia, correndo in bagno a farsi velocemente la doccia e a lavarsi
i denti. Poi c’erano anche ragioni logistiche, legate al possesso del bagno.
Seth ci moriva dentro per ore, e Draco non era granché diverso, anzi… spesso ci
mettevano il doppio del tempo netto che ci metteva lei. Quindi puntare la
sveglia prima, significava assicurarsi per prima il bagno, ridendo ancora per
quanto Seth o Draco avessero distrutto la porta a suon di pugni, intimandole di
uscire.
Se già ricordare il tempo ordinario le provoca
dei vuoti d’aria nel torace, rimembrare poi il tempo straordinario le fa salire
le lacrime agli occhi, persino nel sonno dell’incoscienza.
Il tempo straordinario sono stati i dieci giorni
accanto a Draco, a casa di Pansy Parkinson. Sono state quelle mattine di luce
fragrante, in cui si svegliava accanto a lui. Draco dormiva ancora, lei
sorrideva ai suoi occhi chiusi e quasi sempre tendeva a stropicciarsi
vigorosamente gli occhi per non credere di sognare di averlo vicino.
Generalmente tendeva a farlo con troppa energia, o comunque aveva la
caratteristica di fare qualche rumore che comunque invariabilmente lo
svegliava. Draco roteava gli occhi, fingendo di sbuffare, e l’apostrofava con
una serie di aggettivi scherzosi. Lei fingeva di prendersela, faceva la mossa
di alzarsi dal letto e di allontanarsi da lui. Draco la tirava giù per i
fianchi, la riportava a letto ridendo e le ingiungeva severo: “Non ci pensare
nemmeno un istante, Granger, ad andartene da qui…”. Facevano l’amore, ancora,
dolcemente, e poi lui faceva comparire la colazione. Caffè nero bollente per
lui, e “quel maledetto succo d’ananas da carie” per lei.
Nel sonno, Hermione trasale, sobbalza per un
momento. Draco non l’ha cercata, non la sta cercando. Ne è certa, in qualche
confuso modo ne è sicura. Non sa da quanti giorni è prigioniera, il tempo ha
una sua cognizione completamente scevra da lei, ma sa che è così… perlomeno le
risparmiano il sorgere del sole, il momento in cui dovrebbe ammettere a sé
stessa che è iniziato un altro giorno in quella gabbia. La preservano dai
ricordi che la colpirebbero troppo violentemente.
La giornata, paradossalmente, inizia a pranzo,
quando Pucey con malagrazia scende le scale dei sotterranei e deposita vicino
alle sbarre della sua cella una ciotola di zuppa maleodorante. Il clangore che
provoca, la sveglia sempre e per un attimo, le pupille non distinguono nulla
nella lama di luce che proviene da una minuscola finestra in alto, anch’essa
inevitabilmente sbarrata. Scivola nella polvere della cella, si lava
distrattamente il viso in una bacinella d’acqua, si costringe a mangiare perché
deve restare in vita, deve andarsene da lì. Deve sopravvivere, prima che per
Draco, per Hayden.
Si avvicina a lui, che come sempre giace
incosciente nel suo giaciglio di paglia e sacco, abbandonato di malagrazia sul
pavimento sconnesso della cella. La ferita alla schiena va sempre peggio, è
infetta, continua ad eruttare liquido biancastro e sangue. Lui rinviene poco,
delira per la febbre. Ed Hermione usa quel poco di energia magica che possiede
nelle vene per arginare l’infezione, come una volta le ha insegnato Ginny. Ma è
debole, l’incantesimo deve farlo senza bacchetta, trascorre tutto il pomeriggio
in quel modo, alla sera è sfinita. E non è nemmeno certa che comunque Hayden ne
tragga beneficio: la preoccupa e la strazia il fatto che le gambe del ragazzo
sono diventate insensibili. Non reagiscono agli stimoli, non si muovono.
Ogni minuto lì, gli toglie la possibilità di
guarire del tutto.
Dimitri si fa vedere di sera, la esamina con lo
sguardo sofferto attraverso le sbarre, la prega come sempre di salire in camera
da lui. Ma lei è stata chiara fin da primo momento, non è una sua gradita
ospite, non vuole una stanza, vuole una cella perché lei è sua prigioniera e
così deve essere trattata. Salirà su in camera, solo se lasciano andare Hayden.
Ma ovviamente Dimitri non è d’accordo, teme quello che farebbe se non avesse
lui a trattenerla al di qua della morte e della scelta di essa. Al contempo non
la costringe, è convinto che il ragazzo morirà presto e che Hermione, piegata
dal dolore e dagli stenti, si lascerà alla fine andare. Non sa del coccio di
vetro che Hermione nasconde sotto il letto, non sa che, quando verrà meno ogni
speranza che Draco la trovi e quando Hayden morirà da vittima innocente di una
colpa non sua, lei si taglierà le vene e tanti saluti.
Astoria non scende mai con Dimitri nelle
segrete, e questo spaventa Hermione più di tutto. È convinta che abbia fatto
qualcosa a Draco, qualcosa che l’ha concretamente convinto a non cercarla più.
Sa che sta bene, è certa che Astoria abbia ancora interesse a diventare la
signora Malfoy in qualche arcano modo, ma al contempo devono averlo ferito più
di quanto lei immagini se non si dà alcuna pena di vedere che fine abbia fatto.
Qualche giorno prima, ha sognato Pansy che piangeva disperatamente… e Draco che
faceva a pezzi dei mobili, rompeva un vaso, urlava come un animale colpito a
morte… si è svegliata piangendo, urlando, con le mani nei capelli. Ha sentito
dentro che non era un sogno, ha saputo in qualche modo che era successo
davvero. Hayden ha ripreso i sensi solo quella volta, solo quando l’ha sentita
piangere ed urlare. E lei è riuscita a raccontargli tutta la verità, del mondo
della Magia, di lei e dello Zahir, di Draco.
Hayden è stato colpito da un raggio di luce
giallastra alla schiena, appena uscito dal museo dove lavorava: un raggio
partito da una specie di bacchetta, che gli era puntata contro da un uomo che
sembrava russo.
Non ha fatto fatica a credere a tutto quello che
Hermione gli ha raccontato. Si è riaddormentato, madido di sudore freddo,
mentre lei gli prometteva che in qualche modo lo riporterà a casa.
Quando Dimitri, poco dopo mezzanotte, torna in
camera sua, Hermione si addormenta, piegata in posizione fetale nel letto
lercio delle segrete.
Si sveglia solo all’ora di pranzo, ma sa che non
è la stanchezza, la rabbia o la paura che la fanno addormentare così
profondamente.
È Dimitri.
Entra nella sua testa, la confonde, fa alternare
nel suo cervello ricordi e fantasie. Hermione si vede vestita da regina sul
balcone di un palazzo immenso con lui accanto, le fa sognare di fare l’amore
con lui, la fa gridare nel sonno di desiderio e passione mentre la possiede in
ogni modo concepibile. Hermione, però, non cede. Nel sonno, urla, piange, lo
implora di smetterla… oppure sta ferma, immobile, subisce tutto quello che lui
le fa, ma richiama alla mente Draco. E Dimitri è costretto a sgusciare fuori
dai suoi sogni, gemendo innervosito per non riuscire a violarla nemmeno nella
mente.
Vuole ancora che lei lo desideri in modo
autentico, vuole che lei si convinca, vuole che lei lo ami sinceramente. Non la
tocca, non la sfiora, non le fa del male in alcun senso fisico.
Intanto, cerca di carpire il segreto della sua
magia, la tiene incosciente anche per quello, per arrivare al fulcro del suo potere,
per capire da dove prende tanta forza. Ma anche in quel caso fallisce… ma lì
Hermione non sa perché ciò avvenga. Quando di sera lui fa avanti ed indietro
nervosamente fuori dalla sua cella, imprecando e chiedendole come mai la sua
energia magica sembra così compromessa e sporcata da qualcosa di estraneo, lei
biascica nervosamente che è prigioniera in una gabbia polverosa e sporca, ci
mancherebbe pure che sia al meglio del suo potenziale magico. Ma sa che mente,
lo fa solo per farlo arrabbiare, perché lo odia, lo ammazzerebbe con le sue
mani.
In realtà non sa perché questo accada, perché è
impenetrabile ad ogni suo tentativo di carpirle l’essenza magica. Pensa che sia
perché usa tutta la sua forza per aiutare Hayden, restando quindi distrutta, ma
sa che non è così.
C’è qualcos’altro che impedisce a Dimitri di
arrivare al cuore della sua magia, per capire da dove derivi tutto il suo
potere.
C’è qualcos’altro di misterioso ed arcano che
riesce a proteggerla, senza che però Dimitri capisca da dove arrivi quella
barriera.
Ovviamente Hermione non se ne preoccupa, non
immagina che cosa sia, è convinta che alla fine Dimitri, purtroppo, violerà
anche quella resistenza. E non è nemmeno il sommo dei suoi problemi.
Perdere la sua energia magica, i suoi poteri, nel
caso in cui a Dimitri salti in mente persino di sottrarglieli… la terrorizza,
certo, ma ci sono cose peggiori.
La gabbia, nei giorni, inizia a fiaccarla
psicologicamente e mentalmente: la pelle ha bisogno d’aria pulita, gli occhi
hanno bisogno del sole, la mente ha bisogno dei colori della vita. E lei vede
solo polvere, sente solo grigio, respira solo buio. Piano, inizia a temere che
il tempo rimanga inalterato così per sempre e che nulla cambi. Teme di
dimenticare il sapore della libertà: se un essere umano vede a rischio la
propria stessa sopravvivenza, si abitua e si adatta alla nuova situazione.
E lei non vuole rassegnarsi ad essere
prigioniera.
Quell’ipotesi ha la consistenza della gelatina
nei suoi pensieri, e, come sabbia mobile, attira in basso tutti gli altri
timori: quello che Dimitri deponga la sua cortesia e la costringa a salire in
camera da lui; quello che Hayden muoia, senza che lei possa fare nulla per
impedirlo; quello che lei stessa muoia, prima di aver salvato almeno l’amico.
E poi c’è il timore peggiore, quello a cui cerca
di non pensare, quello su cui scatena tutta la sua residua forza: il timore che
facciano qualcosa di così grave che lei davvero perda Draco.
Quella paura le inzuppa la schiena di sudore, le
fa battere i denti, la fa muovere nervosamente avanti ed indietro come un
topolino in trappola, le fa scuotere le sbarre della prigione e la fa
abbandonare a lunghi lamenti, colmi di pianto.
Più i giorni passano e più lei si abitua alla
prigione, più si convince che devono aver ferito Draco in modo irreparabile:
più passa il tempo e meno sono le speranze che, tornando libera, possa far
tornare tutto a posto.
Forse, e questo è il terrore peggiore di tutti,
nemmeno riuscirà più a trovarlo.
La mattina in cui si sveglia e non si stupisce
di trovarsi lì, decide con la sua solita tenacia che, per tenersi sana di
mente, farà un gioco: annotarsi mentalmente tutte le cose che non ha ancora
detto a Draco. Tutte quelle che gli deve ancora dire.
Non gli ha mai detto che odia quando usa il gel,
perché sembra che gli abbia leccato i capelli una mucca.
Non gli ha mai detto che adora quando ha le mani
occupate e le lascia libero il mignolo, così lei lo possa comunque stringere
nella sua mano.
Non gli ha mai detto che detesta sinceramente quando
si mette a mangiare a letto, perché riempie le lenzuola di briciole.
Non gli ha mai detto che, quando hanno ballato,
aveva l’impressione che il mondo fuori fosse finito.
Non gli ha mai detto per un numero sufficiente
di volte che lo ama, che vuole sposarlo. E non gli ha mai detto che ha paura di
Helena, ha paura che lei continui ad attrarlo a sé dall’alto dei cieli.
Ha appena iniziato quel gioco, in un giorno
qualunque di quella prigionia, e ne è talmente presa che non si accorge che è
sveglia di mattina. Non si rende conto che quella mattina Dimitri non ha
tentato di sedurla nella sua testa, o di attentare al suo potere. È così
assorbita dai suoi pensieri, che la sola parte cosciente di sé la lascia
impegnata a mormorare l’incantesimo che argina la ferita di Hayden. È così
assorta che nemmeno si rende conto dell’arrivo di Dimitri ed Astoria, fino a
quando non sono davanti alla sua cella. Anche se non fosse stata, però, così
persa nei suoi pensieri, Hermione non avrebbe mai potuto sapere che quella è la
mattina che cambierà la sua vita per sempre.
Quando vede i suoi carcerieri, Hermione si alza
bruscamente in piedi, preoccupata che si accorgano delle cure che presta ad
Hayden. Ci manca soltanto che decidano di spostarlo in un’altra cella,
allontanandolo da lei e dalle poche cure che in grado di dargli. Solleva
fieramente il mento, guardandoli, li odia come non ha mai odiato nulla nella
sua vita. Vorrebbe ferirli, colpirli, ucciderli persino. Dimitri che è
ossessionato dal pensiero di averla, come se lei fosse una sciocca bambolina di
porcellana da mettere su una mensola, ed Astoria, che ancora non si convince
che ha distrutto da sola il suo mondo, senza che né lei né Draco ne abbiano
avuto la benché minima responsabilità.
La mano, che stringe il coccio di vetro che è la
sua sola arma, si serra troppo forte ed inizia a sanguinare.
La guardano, oltre le sbarre, senza dire una
parola, e curiosamente Hermione nota che quella mattina si sono invertiti le
espressioni: è Astoria quella curiosa nei suoi confronti, la guarda a labbra
dischiuse, una scintilla negli occhi chiari. Dimitri invece stringe i pugni, ha
la bocca arricciata di disgusto e lo sguardo nervoso. Solo in quel momento, dal
raggio di luce che dalla feritoia in alto colpisce i loro visi, Hermione si
rende conto che è mattina.
Sta per succedere qualcosa. E’ cambiato
qualcosa, nella routine stantia di quei giorni. E non può essere in meglio.
Astoria la studia con ingordigia, si sporge persino
tra le sbarre come se potesse arrivare a captare qualcosa di lei in modo più
netto, diminuendo la distanza tra loro. Hermione trasale, nasconde meglio nel
palmo il pezzo di vetro, medita di colpire chiunque dei due si avvicini a lei.
Spera che sia Dimitri, Astoria sarebbe più facile da far fuori in qualche altro
modo. Pensa a qualche incantesimo muto da fare senza bacchetta, calcola la
distanza con la porta, cerca di riflettere sul modo in cui potrebbe poi
trascinarsi dietro Hayden. Viene, però, interrotta dalla voce impaziente di
Dimitri che si rivolge spazientito ad Astoria: “Falle questo maledetto
incantesimo, Greengrass… se glielo potesse fare un uomo, ti avrei già preceduto
da ore…”.
Hermione non sente la seconda parte della frase
di Dimitri, sente solo la prima. Riprende a sudare freddo, si stringe nelle
spalle e si guarda furiosamente attorno alla ricerca di un riparo. Ha troppa
poca forza nel sangue, per ricacciare indietro una maledizione. E se poi è
l’Avada Kedavra… bè, la prenderanno di certo.
Non può morire… non può ancora morire, prima di
aver salvato Hayden… e, tonfo al cuore, prima di aver detto tutto quello che ha
ancora da dire a Draco… non glielo dirà mai… non potrà farlo mai… le lacrime le
si affacciano prepotenti agli occhi, non se ne andrà senza combattere. Morirà,
combattendo come ha sempre fatto. Spera solo che, dovunque vada a finire, possa
continuare a guardare Draco vivere, possa continuare a proteggerlo e a tenerlo
in salvo.
Prende la rincorsa, pronta a scagliarsi contro
le sbarre e a colpire Astoria che è ancora mollemente appoggiata ad esse, ma la
strega bionda è più veloce. Sguaina la bacchetta, la punta contro di lei e dice
con un sorriso storto poche parole.
Lì, in quelle parole, c’è già tutto il destino
di Hermione Granger da quel momento in avanti.
“Matris revelatio”.
Hermione non sente dolore e ringrazia la Morte
per essere stata così misericordiosa. Poi riapre gli occhi e trova ancora la
cella, la polvere, il corpo di Hayden svenuto. Guarda oltre le sbarre e vede Astoria
che sorride follemente, quasi saltella, con uno sguardo allucinato ed esaltato
che non le ha mai visto. Dimitri sputa per terra, con disgusto, dà un calcio
alla parete, urla di rabbia e livore come se lo avessero picchiato.
Hermione non capisce, si guarda attorno e solo
allora nota il bagliore aranciato che le illumina il ventre. Una nebbiolina
quasi dorata la circonda all’altezza dei fianchi, ha un odore di rose che le fa
salire le lacrime agli occhi. Non riconosce l’incantesimo, non lo ha mai visto.
Guarda interrogativa prima Astoria, e poi Dimitri. Lui non si degna nemmeno di
guardarla, come se improvvisamente persino la sua vista le fosse
insopportabile, mentre Astoria riprende a ridere allegra e gioviale.
“Che diamine mi hai fatto?!” urla alla fine
Hermione, raggiungendo le sbarre e scuotendole forte come un animale in
trappola.
Astoria smette di ridere, la guarda con il suo
solito sguardo stomacato e le ingiunge: “Vedi di stare calma, Granger… fallo
con le buone… anche se non avrei nessuno scrupolo a narcotizzarti per nove
mesi, pur di farti stare tranquilla…”.
“Che diamine vuoi dire?!” grida ancora Hermione,
un secondo prima che la consapevolezza la travolga in pieno e le faccia cedere
le gambe, mentre ricade seduta.
“Sei incinta di Draco Malfoy…” ride ancora
Astoria, un misto di folle gioia e di sfrenata follia “ E non c’è cosa migliore
al mondo che potesse capitare…!”.
I primi minuti da madre di Hermione Granger,
sono solo angoscia e terrore. Come se improvvisamente il corpo si fosse ricordato
della gravidanza, dopo essersi accasciata al suolo, Hermione viene scossa da un
forte conato di nausea, si chiude la bocca con la mano destra e tenta di
reprimere l’istinto a vomitare. La testa vortica come al centro di un tornado,
fatica a restare cosciente. Si chiede come diamine possa essere successo e se
Astoria non stia mentendo, ma ammette con sé stessa che sarebbe un giochetto
mentale abbastanza inconcludente, considerando che l’hanno praticamente alla
loro mercé da giorni. E che vantaggio potrebbe portare, farle credere di essere
incinta?
Forse farla impazzire… e se quello è il piano,
ci stanno riuscendo perfettamente.
Piegata sulla schiena, gli occhi sbarrati, la
mano ancora premuta sulle labbra, Hermione combatte con la nausea e con i
pensieri. Lei e Draco non sono mai stati attenti in quel senso, non se ne sono
minimamente preoccupati: tra loro è sempre stato come vivere in un momento
strappato, rubato, trafugato, dall’invidiosa vita che li voleva divisi. Erano
inconsciamente sempre consapevoli di avere sempre poco tempo e, quando facevano
l’amore, semplicemente non pensavano.
Hermione, che pensava sempre, non aveva mai
pensato in quei momenti. E lei, che era sempre cauta ed attenta, ora era
prigioniera ed incinta. E il secondo aggettivo sembrava quasi una ripetizione
del primo. Era prigioniera, anche perché era incinta.
Non voleva diventare madre adesso, non voleva
esserlo a ventiquattro anni, quando ancora non sapeva nulla di sé stessa e
della sua vita. Non voleva prendersi cura di un’altra persona, più piccola e
costantemente bisognosa di lei, non era in grado nemmeno di prendersi cura di
sé stessa… non era stata in grado nemmeno di prendersi cura di Draco. Come
poteva crescere un bambino? Come poteva crescerlo, spiantata come era?
Le voci di Astoria e Dimitri la riportano ancora
di più al terrore del presente, ripensa al coccio di vetro che stringe ancora
nelle mani e sa che, adesso, non può nemmeno sentirsi libera di tagliarsi le
vene. Perché è la culla di quel bambino non nato, perché è l’ancora che lo
tiene aggrappato alla vita, facendolo galleggiare sul mare dell’inesistenza.
Con la testa che le gira ancora, immagina i mesi successivi in quella prigione,
immagina il pancione che cresce nella polvere, immagina il parto con accanto
Hayden incosciente, immagina il bambino che le viene messo accanto sulla lercia
brandina dove dorme… e finalmente, come se tutto fosse troppo, vomita riversa
per terra.
Non può essere vero, non può essere… con la
mente anestetizzata, sente Astoria dire: “E’ normale che non riuscivi a captare
la sua essenza magica, Karkaroff… il potere del bambino interferisce con quello
della madre… cerca di proteggerla…”, Hermione sobbalza e trasale, quella specie
di piccolo mollusco nella sua pancia cerca di proteggerla, chiude gli occhi e
gli chiede nella mente chi diamine glielo faccia fare. Astoria continua con
voce gaia: “E’ potente, ovviamente… è il nipote di Lucius Malfoy e Narcissa
Black… il figlio di Draco…”. Il tono sognante di Astoria, che riduce Hermione
ad un semplice guscio che protegge il figlio di Draco Malfoy, mette la ragazza
in allarme più di tutto il resto. Solleva stancamente il capo, guardando i due
che se ne stanno ancora fermi fuori dalla cella. Si aggrappa alle sbarre, si
solleva in piedi e, reggendosi, li sfida con gli occhi.
Quelle scarne parole di Astoria le hanno messo i
sensi in allerta, l'ha metabolizzato solo adesso in un momento di lucidità.
Lei aspetta il figlio di Draco.
Ignora volutamente che è anche suo figlio, cerca
di non pensarci adesso e cercherà di non farlo per molto tempo, finché quel
bambino un giorno se lo sentirà davvero dentro, finché lo sentirà muoversi e
nuotare in lei, finché per la prima volta lo chiamerà compiutamente con il suo
nome, accarezzandosi la pancia. Alexander Leo Malfoy.
Ma per ora, Hermione non vuole pensare che
quell’ospite dentro il suo corpo, sia suo figlio. Non vuole pensare al fatto
che, probabilmente, sarà la persona con cui condividerà più cose nella vita,
non vuole collegare lei stessa e quel bambino se non per un particolare: Draco.
Lui è l’uomo che lei ama, ed è il padre di quel bambino. Lei ha il dovere, anzi
l’obbligo, di proteggere il figlio dell’uomo che ama.
“Quindi basta liberarsene, no?” mormora Dimitri,
avvicinandosi alle sbarre ed estraendo la bacchetta. Hermione, terrorizzata,
indietreggia come può, trovando il muro con la schiena, già con l’istinto di
proteggere il suo cucciolo. Razionalmente non riesce nemmeno a dire la parola
“mamma” nella testa, associandola a sé stessa; visceralmente il suo corpo, già
va per conto suo, già la candida genitrice del bambino che ha in grembo. Cerca
la fuga, cerca scampo, dimenticandosi tutto quello che non sia lei stessa e il
figlio non nato. Dimentica persino per un momento, Hayden e il senso di colpa
per averlo trascinato lì. Deve andarsene. Adesso. Ora. Subito.
Ma prima che possa fare qualsiasi cosa, Astoria
si para davanti a Dimitri ed estrae la sua bacchetta, urlando sconvolta:
“Lasciala stare!”.
“Levati di mezzo Greengrass!” urla a sua volta
Dimitri, ma Astoria per tutta risposta, si smaterializza nella cella, parandosi
davanti ad Hermione con la bacchetta tesa.
“Io voglio questo bambino!” urla con la voce
stridula e graffiata di sofferenza “Non posso avere figli! Non ne avrò mai…! E
tantomeno ne potrei avere da Draco! Ma la Granger porta in grembo suo figlio… e
Draco non rifiuterà mai suo figlio! Se gli dico che sono sua madre… avrò la
sola possibilità per cui davvero accetti di sposarmi…! Non puoi toccarla! Fallo
ed immediatamente Montague avviserà le autorità sul luogo in cui ci troviamo,
con la Granger prigioniera… ti sei mai chiesto perché non è mai qui con noi?!”.
Astoria ha il fiatone per lo sforzo per aver parlato così velocemente, Hermione
ne guarda la schiena mentre si ritrae contro la parete. Il figlio di Draco… è
la sola cosa al mondo che Astoria non avrebbe potuto mai avere.
Lei gliela ha offerta su un piatto d’argento.
Dimitri impreca, gettando qualcos’altro per
aria, e scompare su per le scale. Astoria sospira lungamente, si volta verso di
lei e le dice freddamente: “Vedi di mangiare, oggi… ti farò portare della
carne…”. Qualcosa, poi, sembra attirare la sua attenzione e, con un movimento
rapido, le strappa il frammento di vetro dalle mani, portandoselo via.
Hermione non riuscirà più a dormire da quel
momento in poi. Trascorrerà il giorno, curando Hayden, e la notte con gli occhi
aperti, una mano sulla pancia. Farà il gioco del “non ho mai detto a Draco” per
cercare di addormentarsi, ma non riuscirà lo stesso a prendere sonno. Perché
tutte le frasi si areneranno sempre in una sola.
Non ho mai detto a Draco che aspetto suo figlio.
Riapro
stancamente gli occhi, lasciando indietro nel fondo della mia memoria i ricordi
della mia prigionia in Russia, nel castello di Dimitri. Sono stata lì poco tempo,
solo una decina di giorni, eppure ricordo quelle giornate perfettamente, una
meglio dell’altra. Avevo avuto paura, certo, quando mi avevano catturata, ma la
mia solita incrollabile fiducia in me stessa, in Draco e nei miei amici mi
aveva fatto andare avanti i primi tempi. Una parte di me era convinta che sarei
riuscita a trovare un modo per liberarmi, o comunque ero certa che Draco mi
avrebbe cercato.
E
qualora tutto quello fosse fallito, prima o poi anche ad Harry, Ron o Ginny,
sarebbe saltato in mente di venirmi a cercare.
Le
cose, purtroppo, non erano così facili come le dipingevo.
E
me ne resi compiutamente conto solo nel momento in cui seppi che ero incinta di
Alex. Diventare madre è, automaticamente, diventare un essere terrorizzato e
ansioso. O perlomeno, quella fu la prima impressione che ne ebbi. La paura si
impadronì di me in un modo così totale che non ne trovavo paragoni nemmeno in
guerra, o in viaggio per trovare gli Horcrux. Non aveva nessun genere di
confronto con il terrore che poteva avermi assalito negli anni al pensiero che
capitasse qualcosa ad Harry o a Ron, né tantomeno aveva qualcosa in comune con
la sana angoscia che potesse capitare qualcosa a me stessa. Era invece qualcosa
di così cupo e totalizzante, da annullare ogni altro pensiero. Forse fu un
bene, chissà, perché per la prima volta da mesi esisteva qualcuno più
importante di Draco, e quindi ciò mi impediva di concentrarmi su di lui, cosa
che mi avrebbe rapidamente condotto alla follia. Al contempo, era anche un
male: ero completamente responsabile del piccolo individuo che mi cresceva
dentro, non potevo più agire solo ed esclusivamente per me stessa, non potevo
più mettere a repentaglio la mia vita in modo così avventato da uccidere me
stessa e il mio bambino. E questo fu terribile, perché ero e sono una
Grifondoro: ero e sono il coraggio incarnato della leonessa.
Ma
persino la più fiera delle regine della giungla deve, ad un certo punto,
diventare subdola e sfuggevole come una iena se vuole salvare i suoi piccoli.
E
quindi, lentamente, iniziai a riflettere in un modo che aveva tutto della
paranoia e quasi nulla della razionalità.
Era
oramai evidente che Draco non mi avrebbe cercato: sebbene allora non sapessi
della parte di Raissa in questa vicenda, anzi persino la ponevo tra i miei
ipotetici salvatori, ero comunque relativamente convinta che lui doveva essere
stato allontanato a forza da me, con qualche inganno e stratagemma. Se così non
fosse stato, Draco mi avrebbe immediatamente cercato e probabilmente anche
trovato, perché era chiaro come il sole che Dimitri mi voleva per sé. Il dubbio
poteva essere solo tra lui ed Astoria, ma in ogni caso Draco li avrebbe trovati
entrambi se fosse venuto al castello di Dimitri. Ed invece lui non arrivava a
salvarmi. Perciò concretamente o doveva credermi al sicuro, o doveva essere
stato convinto che non avevo bisogno di lui, cosa che poi effettivamente era
avvenuta. Deducevo che l’inganno ai suoi danni, molto probabilmente, doveva
aver fatto cadere in trappola anche Pansy e Raissa. E quindi escludevo anche
loro.
C’erano
i miei amici, poi, ma anche nel loro caso, sapevano che io avevo sostenuto
l’esame per entrare nel Wizengamot e che stavo trascorrendo del tempo da sola,
ad Hogsmeade. Ci aveva pensato, ai tempi, Zabini a quella messinscena, facendo
girare una specie di ologramma con le mie sembianze per il paese. Ed ammesso
che mi avessero cercato, probabilmente i raggiri di Dimitri e di Astoria
avrebbero potuto mettere comunque una toppa… e poi, certamente, nel peggiore
degli scenari per loro, comunque non avrebbero collegato la mia scomparsa a
Dimitri ed Astoria.
Harry
nemmeno sapeva dello Zahir, della trappola della Greengrass, non sapeva nemmeno
che io e Draco eravamo innamorati. Per arrivare a ricostruire i pezzi, ci
avrebbe messo troppo. E comunque c’era sempre la famosa spia di Astoria nella
cerchia del Ministro: qualsiasi mossa strana di Harry sarebbe stata subito
riferita e controbilanciata.
Non
mi sforzavo nemmeno di considerare, poi, i miei amici babbani, anzi mi auguravo
che non li saltasse mai in mente di venirmi a cercare. Hayden era in pericolo
di vita, e loro ne avrebbero condiviso la fine. Ed in ogni caso, dubitavo che
comunque potessero trovarmi. Seth sapeva che avevo bisogno di tempo per
dedicarmi a me stessa, ed anche lui non si sarebbe preoccupato se non fosse
riuscito a rintracciarmi, perlomeno per un paio di giorni.
Restavo
solo io con le mie esili possibilità di fuga. Ed uso l’aggettivo “esili” per
essere tardivamente positiva. Ero incinta, terrorizzata, priva di bacchetta,
con l’energia magica a pezzi e la mente confusa. E c’era Hayden che non era in
grado di spostarsi da solo, anzi… non era nemmeno cosciente, per la maggior
parte del tempo. Non potevo smaterializzarmi, probabilmente nessuno poteva
farlo nemmeno nel perimetro del castello; con il passare dei giorni, al
crescere del mio terrore, divenni sempre meno lucida. E mi resi conto
rapidamente di quale sarebbe stato il mio destino: potevo sperare
nell’indulgenza di Dimitri per i successivi nove mesi, fino a quando non avessi
al mondo il figlio di Draco. Astoria se ne sarebbe impossessata subito, avrebbe
ingannato Draco dicendo che era suo figlio, lui ci avrebbe creduto. Allora
Dimitri, inselvatichito da quei mesi di impotenza, mi avrebbe preso di forza e
portato nella sua camera. E lì sarei morta davvero, svuotata dell’amore per me
stessa e privata di quello per mio figlio e per il mio uomo. Hayden, intanto,
probabilmente sarebbe morto, gravandomi la coscienza di un’ulteriore colpa.
Mentre
nella mia mente, mio malgrado, si srotola di nuovo quel terrore, i miei amici
continuano a parlare animosamente, convinti che io li stia ascoltando.
Astoria,
a suo modo, ha salvato mio figlio, non posso portarle troppo rancore. Era una
donna sola, rigettata dal suo mondo, convinta di poter valere qualcosa solo
accanto a Draco Malfoy. Persino quando ero in Italia ed ogni volta che lasciavo
giocare Alex in giardino con l’ansia che lei si nascondesse ovunque per
portarmelo via, comunque provavo sempre un pizzico di pietà per lei.
Con
Dimitri, è diverso.
Lui
mi ha distrutto la vita, in ogni senso possibile.
Ha
lasciato una cicatrice così profonda in me che quella dello Zahir non è
assolutamente nulla. E quest’ultima c’è, c’è sempre, come una macchiolina
sporca sull’anima, come il segno di un peccato originale che non potrò mai
purificare in un battesimo. Dimitri si è insinuato nelle piccole cose, come il
serpente che era. È la paura degli spazi chiusi, quando resto sola. E’ nei
momenti di estraniamento come questo, in cui il vecchio panico di quei giorni
torna prepotente. È la repulsione per i contatti fisici con gli estranei. È
nella luce che lascio accesa quando vado a letto.
È,
ovviamente, nella distanza tra me e Draco.
Naturalmente
è nella mancanza di ricordi di Alex su suo padre.
È
nella ferita che ho inferto a Ron, lasciandolo in Italia. È nelle gambe di
Hayden, che non camminerà mai più. E’ negli occhi di Helder, quando scrutava il
tramonto e lo cercava all’orizzonte.
È
nello sguardo di pietà che curva gli occhi di Dean. È nella repressa
compassione di Pansy. È nella mano sempre stretta sulla mia di Seth.
Quando
ho saputo che era morto, non ho provato sollievo. Non ho sentito quella stretta
calda allo stomaco nel sentirmi finalmente al sicuro, e libera. Mi sono sentita
defraudata della sua uccisione.
Volevo
ucciderlo io, come non ho mai voluto farlo in tutta la mia vita. Persino da
Capo degli Auror, sono riuscita ad evitare di infliggere la morte. Adesso
volevo disperatamente ucciderlo, io.
Sono
arrivata a capire Draco, quando cercava gli assassini di Helena. Ma Pucey e
Montague erano due disperati e folli vendicativi, che volevano farla pagare a
colui che aveva portato via le loro persone care. Dimitri non aveva mai amato
nessuno. Non agiva per amore.
Solo
per potere, quello che voleva su di me.
E
soprattutto non ha fatto solo una vittima, ma decine. Draco, Alex, Hayden, Helder, Ron. E ha ucciso una parte di me stessa.
Sorrido
a Dean che continua a fare supposizioni, che Pansy stronca ogni minuto con
semplici monosillabi, mentre Seth continua a spanciarsi dal ridere.
Credono
di avere davanti la solita Hermione Granger e non si danno pena della mano che
non smette di tremare, unico sfogo ai miei pensieri. Perché, anche se sono
tornata a casa adesso dopo cinque anni, anche se sono riuscita a salvare me
stessa e mio figlio, anche se sono al sicuro, anche se finalmente ho la
possibilità di cercare Draco… una parte di me, nemmeno tanto piccola, è ancora
chiusa nel castello russo di Dimitri. Una parte di me non è mai stata liberata
quella notte calda di inizio luglio.
Quando
ci ripenso, quando ancora sento le pareti della stanza chiudersi su di me come
se mi intrappolassero, senza accorgermene tendo a sfregarmi forte le labbra con
il dorso della mano.
La
traccia di Dimitri sulla mia bocca, non se ne è mai andata da cinque anni fa.
È
stata l’ultima persona che ho baciato. E mi ha tolto anche l’ultimo calore
quieto che mi era rimasto di Draco.
Tra
le altre cose, mi ha tolto anche questo: l’ultima consolazione. Perché se tento
di ricordare il sapore delle labbra di Draco, immediatamente sento quelle di
Dimitri addosso. E le mie labbra prendono a bruciare come l’inferno.
Esattamente come in quella notte di cinque anni fa.
“Non devi prendermi in giro, Hermione…
piccola…l’ho capito che non camminerò mai più…”.
“NO! Non devi dirlo, io non te lo permetto!
Quando ci libereremo, quando usciremo da qui… Ginny… è un Medico dei Maghi…
potrà fare qualcosa, sicuramente lei potrà…”. La voce le si spezza, mentre
segue la sua mano che, senza accorgersene, ha stretto la gamba di Hayden.
Dovrebbe sentire male, dovrebbe avvertire dolore, gli sta facendo male. Lui
invece non reagisce minimamente, non dice nulla. Chiude gli occhi, tira
indietro la testa, sospira. Un minuscolo singhiozzo gli riecheggia in gola.
Hermione stacca la sua mano come se si fosse
ustionata, ricade seduta sul pavimento accanto al suo letto, le spalle piegate
dal peso del mondo tutto.
Hayden sta meglio, se così si può dire. La
gravidanza le ha dato un enorme ascendente e potere su Astoria, l’ha minacciata
di lasciarsi morire di fame se non avesse portato una medicina per guarire la
ferita di Hayden. La mattina precedente, lei ha portato una boccetta dal
liquido verde acqua che ha fatto ingerire ad Hayden, non prima che Hermione si
premunisse di assaggiarla per non constatare la presenza di un veleno. Astoria
ha stretto gli occhi, guardandola oltre le sbarre, ma Hermione ne ha sorretto
orgogliosamente lo sguardo mentre beveva. Per nove mesi, potrà aggrapparsi ad
ogni premura di Astoria, preoccupata spasmodicamente che lei resti viva e porti
a termine la gravidanza.
Non appena Hayden ha ingerito la pozione, la
ferita si è rimarginata e la febbre è calata. Ha ripreso coscienza, ha
ricominciato a parlare, lentamente ha ripreso anche a mangiare. Eppure le sue
gambe sono rimaste immobili, insensibili, assolutamente morte. Ha tentato di
fare qualche passo, di muoversi, ma nulla. È sempre cascato al suolo, senza
forza. La ferita, troppo profonda, deve avergli intaccato qualche nervo spinale.
Hermione lo guarda e non riesce a smettere di
piangere, non riesce a fare altro. Non si meritava tutto questo, solo per
averla conosciuta in uno stupido parco divertimenti. Non si meritava lei, non
si meritava la sua vita disastrata, non si meritava di stare in quella cella.
Perché hanno dovuto prendere lui e fargli del male? Perché? Non pensavano che
l’avrebbero già spezzata, dividendola da Draco? Ci voleva il colpo di grazia
finale alla sua combattività?
Certo che ci voleva, Hermione inconsciamente lo
riconosce. L’hanno divisa da Draco, ma lei sa di voler tornare da lui, ha
ancora speranza. Lo Zahir non ha sedato il suo amore, figuriamoci se possono
riuscire delle sbarre in questo. Se lo riprenderà, lo troverà, appena uscita da
qui. Ne è certa.
Però il senso di colpa per Hayden le impedisce
di pensare a qualsiasi cosa di vagamente volitivo. È come se fosse paralizzata
lei stessa, ma in un pantano appiccicoso che le impedisce anche solo di pensare
di muoversi. Annega nelle sabbie mobili e nulla la trattiene al di qua della
fossa che la trascina giù. Quando Hermione ci ripenserà anni dopo, capirà
agevolmente quanto Hayden fosse stato utile a Dimitri. Era il modo con cui lui
ha potuto tenerla oggettivamente segregata lì, prima nel cuore, e solo
secondariamente con il corpo. Ed è stato anche il vero ed autentico modo in cui
l’ha divisa da Draco. Non riesce a pensare a lui, si sente colpevole a farlo.
Hayden sta patendo tutto quello, non solo perché
l’ha conosciuta, ma anche perché lei non ha corrisposto il suo affetto, se non
addirittura il suo amore. Perché amava Draco.
E pensarci adesso, aumenta la colpa sulla colpa.
In quei giorni, Hermione cerca di pensare di
rado anche al bambino che porta in grembo, non ne immagina viso, colori e
gesti, ma lo relega in una parte della sua mente dove ha solo l’obbligo di
continuare a respirare e a mangiare, per tenerlo in vita.
È l’arma che usa contro Astoria. Ed è al
contempo un’arma contro Dimitri: non ha più voluto vederla, da quando ha saputo
che era incinta. Non viola la sua mente, non tenta di sedurla, non fa
assolutamente nulla. La ignora, ecco. La sua espressione alla scoperta della
gravidanza, del resto, era stata abbastanza inequivocabile: Hermione lo
disgustava. Perché diamine allora non la lascia andare, perché non lascia
andare Hayden? Semplice. Tra nove mesi, Hermione non lo farà più inorridire,
quando si libererà dell’ultimo scomodo regalo di Draco Malfoy. Solo allora
Dimitri non avrà più davanti agli occhi la prova tangibile che Hermione ha
sempre amato e sempre amerà Draco Malfoy.
Hermione abbraccia le ginocchia, poggiando la
fronte sulle gambe piegate. Cerca di reprimere i singhiozzi, non vuole che
Hayden la veda piangere. Lui non conosce questo mondo, deve essere lei ad
incoraggiarlo. Ma ha perso tutto, ha perso ogni cosa. Ormai persino la speranza
è diventata stantia come naftalina.
Sobbalza quando sente la mano di Hayden che le
accarezza piano i capelli, solleva il viso e lo vede sorriderle stancamente,
disteso sempre sul letto. Lo stesso instancabile sorriso che aveva il giorno
che l’ha conosciuta. Le lacrime ignorano le sue proteste e inondano gli occhi,
riversandosi poi sulle guance rosse.
“Non è stata colpa tua…” sussurra Hayden,
continuando ad accarezzarle il capo “Non voglio che tu lo pensi nemmeno per un
secondo, ok? È un caso che ci sia qui io, o non lo so, Seth… o April…”.
Hermione deglutisce rumorosamente, non gli confessa che Draco ha protetto loro
ma non lui. Non crede a Dimitri, è convinta che Draco semplicemente non abbia
pensato che Astoria potesse colpire lei attraverso Hayden. Non crede che
l’abbia fatto deliberatamente, come dice Dimitri. Non lo crederebbe mai.
Eppure ad Hayden non dice nulla, eppure protegge
Draco.
Forse protegge solo sé stessa: lei che, quando
Draco le aveva parlato delle misure di sicurezza che aveva preso, non aveva
minimamente pensato che Hayden potesse essere in pericolo. Forse, egoista
com’era, a lui non aveva pensato proprio.
Un ulteriore singhiozzo le fa tremare le spalle,
Hayden le solleva il mento con una mano: “Voglio che tu mi prometta una cosa,
Hermione…”.
“Tutto quello che vuoi…” bisbiglia lei.
I suoi occhi si fanno seri, intensamente lucidi,
sembrano due pezzi di vetro verde scheggiati di luce: “Se avrai la possibilità
di andartene da qui… se hai anche una sola minuscola idea che ti conceda di
salvarti, ma non la stai nemmeno rendendo reale a te stessa perché sai che non
posso seguirti… non farlo. Devi andartene da qui, sono stato chiaro?”.
“NO!” urla Hermione, staccandosi bruscamente
dalla sua stretta “Non esiste al mondo! Io non me ne andrò mai senza di te, hai
capito?!”.
“Sì che lo farai…” ripete testardo Hayden,
guardandola negli occhi “Sei incinta, hai un bambino…! E ho capito che cosa
vuole quel Dimitri da te… vuole tutto quello che hai…”, fa una pausa, lunga,
sofferta, respira a fatica: “… e con tutto quello che hai, intendo davvero
tutto… il tuo cuore, la tua magia, il tuo corpo… tutto…”, le prende il viso tra
le mani, le sue dita si bagnano delle lacrime che le cadono incessanti dagli
occhi: “Ti ucciderà, Hermione… se non in modo fisico, si prenderà tutta te
stessa… devi andartene da qui…”.
“Sarei già stata con lui, se avessi avuto la
certezza che ti avrebbe liberato…” confessa Hermione tutto d’un fiato,
chiudendo gli occhi.
Hayden si stacca da lei, la guarda con
espressione addolorata, capisce che non cambierà mai idea.
“A Draco non pensi? Non pensi a cosa accadrà se
non ti vedrà tornare?”.
Hermione trasale, trema e si aggrappa all’angolo
del letto. La mente le si spalanca di tutti gli Universi possibili a cui cerca
di non pensare da quando è stata catturata. Serra forte gli occhi, trattenendo
fuori quei pensieri, ma l’effetto che ne ricava è di sentire solo un forte
rumore nella testa, simile ad uno scoppio.
“Ahia…” si lamenta, portandosi le mani alle
tempie. Hayden si china con il busto su di lei e le chiede: “Che c’è? Hai di
nuovo la nausea? O è la testa… che ti fa male?”.
“Ho sentito come uno scoppio nel cervello…”
bofonchia Hermione, tranquillizzando il ragazzo “Gli ormoni forse mi fanno
brutti scherzi…”. Non fa nemmeno in tempo a finire la frase che il rumore,
nella mente, si ripete di nuovo, stavolta però accompagnato da una voce
femminile che la chiama per nome: “Hermione…”. La ragazza, di primo acchito, si
mette istintivamente le mani sulle orecchie, premendo forte, convinta che sia
solo uno dei trucchi di Dimitri per farle perdere quel poco di cervello che
ancora possiede. Quando la voce, però, riprende a parlare, qualcosa scatta
nella mente di Hermione che riesce a collegare di averla già sentita.
“Hermione… mi senti?” la voce lo chiede ancora
con tono più sommesso, ed Hermione finalmente riesce a capire di chi si tratta.
Con le lacrime agli occhi, sente la speranza guizzare in fondo al suo ventre
come un pesce argenteo.
“Helder!” urla nella sua mente, cercando di
concentrarsi il più possibile. La voce dell’amica le arriva lontana, come se
fosse distante chilometri. Hayden la guarda senza capire, Hermione solleva
semplicemente il palmo della mano e cerca di fargli capire che va tutto bene.
“Riesci a sentirmi?” ripete ancora Helder, la
voce leggermente più netta.
“Sì… adesso un po’ meglio… come faccio a
sentirti? Come ci riesci?” chiede Hermione, lieta che la voce della sua testa
sia più forte di quella della sua gola che sicuramente si sarebbe profusa in
singhiozzi.
“Ti sei scordata che sono un’Empatica?” la voce
di Helder sembra quasi ridere nella sua mente, Hermione se l’immagina persino
scuotere la testa incredula “Di base è semplicemente Legilimanzia… ma io non ho
bisogno di bacchetta o di eccessiva vicinanza… solo di sentimenti forti… e nel
tuo caso so per esperienza che sono una tua prerogativa…”.
“Lo Zahir… è distrutto…” si sente quasi in
dovere di spiegare, a disagio, come se in qualche modo fosse importante
dirglielo, come se a suo modo Hermione volesse sconfessare il momento di quella
debolezza “Ed è stata Astoria Greengrass… insomma… a convincermi a crearlo…”.
“Avrei dovuto capirlo…” dice Helder con tono
grave “Nessuno sa niente dello Zahir… devi stare tranquilla su questo… era una
pozione proibita, finirei prima io nei guai e poi tu… e sono contenta di come
sia finita… sia per te che per Draco…”.
“Come fai a saperlo? Come fai a sapere che
noi…?” chiede atona Hermione, chiudendo la mente dal pensiero di Draco stesso.
“Che siete innamorati? Facile, Hermione… la
risposta è come sopra… sono un’Empatica…” sorride Helder con calore nella sua
testa “Quel giorno… a Diagon Alley… era solo un sospetto. Non su di te,
ovviamente… ma su Draco… aveva sentimenti confusi, veloci come stelle cadenti…
e non potevo esserne certa. Ma sentivo che sotto quella rabbia e quel dolore…
c’era qualcosa. Poi siete venuti allo scoperto l’uno nei confronti dell’altra…
e da allora, è stato impossibile ignorarvi…”.
“Che vuoi dire?” bisbiglia Hermione,
stringendosi il petto.
“Non credi che un amore così, sia qualcosa di
semplicemente… troppo… anche per un Empatico? Tu hai rotto lo Zahir… lui ha
battuto Adamar… due segreti vecchi come la Magia stessa… noi Empatici… io e gli
altri, anche a grandissima distanza… vi abbiamo sentito ininterrottamente, come
si sente il fuoco di un incendio quando si è avvolti dalle fiamme… sono
settimane che ho il cervello che brucia…”.
È come se, alle parole di Helder,
improvvisamente si aprisse una finestra nella mente di Hermione. La luce entra
cauta, timorosa, timida, poi d’un tratto esplode e fiorisce come decine di
fuochi pirotecnici. L’incantesimo del demone cattivo, che ha chiuso la
principessa nel castello, si rompe come cristallo ed Hermione stessa ha
l’impressione di spezzettarsi come un pezzo di vetro. Tutto quello al quale ha
cercato di non pensare per giorni, le compare nella testa con la potenza di un
vortice. Il cuore pompa di nuovo nelle vene l’amore per Draco che, prepotente
come sempre è stato, le annulla ogni altra preoccupazione e pensiero. E tutto
risorge come se non se ne fosse mai andato, l’urgenza di sapere dove e come
stia, la preoccupazione per lui, l’ansia di sapere se stia soffrendo… ricorda,
come se lo sapesse solo ora, che è incinta di suo figlio. La gola si chiude e
si serra come se stesse soffocando, mentre ogni muscolo del corpo brucia
nell’immobilismo che fino a poco fa, le era sembrato quasi doveroso imporsi.
Doveroso, sì, per rispetto verso Hayden e per cura negletta di suo figlio.
Adesso, d’un tratto, tutto è claustrofobia, costrizione. E proteggere Hayden e
il suo bambino è trovare il modo di uscire di lì. La speranza, che la voce di
Helder le ha restituito, diventa un faro luminoso nella sua testa che la porta
persino a ripensare a sé stessa: ha ragione Hayden, non può permettere che
Dimitri si prenda tutto di lei. Ma soprattutto lei non può permettersi di
lasciar scivolare via Draco, lontano dalla sua vita, ingannato da chissà che
artificio di Astoria e Dimitri. Non può permetterlo. Per loro, per quello che
hanno alle spalle e per quello che hanno davanti a loro. Un figlio. Un bambino.
Sebbene ancora non riesca ancora a dirsi che è anche suo figlio, Hermione per
la prima volta lo sente vivo e tangibile dentro di lei. Per la prima volta, non
è una specie di vermiciattolo che striscia nella sua pancia. Per la prima
volta, ne immagina persino un viso senza colori.
“Non so dove sia, comunque… li sento i tuoi
pensieri, Herm…” riprende tristemente Helder, rispondendo alle domande mute
dell’amica “Non riesco a sentire Draco… è vuoto, al momento, Hermione… quindi
non emana nulla che io possa percepire…”.
“Vuoto?!” esclama Hermione sgomenta, aprendo e
chiudendo la bocca come in mancanza d’aria.
“Vuoto, già… è difficile da spiegare per un Non
Empatico… ma è così… lo sento come un eco, sento che è vivo… ma non saprei
dirti nemmeno se è ancora in Inghilterra… non prova nulla di sufficientemente
forte, perché io lo possa sentire…”.
Quella frase, Hermione la sentirà molte volte
negli anni successivi. Le farà sempre lo stesso maledetto effetto: il cuore in
una morsa, stritolato e stropicciato più e più volte. Ogni volta che Helder con
pazienza dolente gliela ripeterà, lei perderà un briciolo di forza e di
speranza. Quel giorno, però, è la prima volta che la ode. Quindi la ricaccia a
fondo dentro sé stessa, cercando di non lasciarsi sopraffare.
“Come fai allora a sentire me? E come fai anche
a parlare con me?” chiede quindi impensierita “Forse io non sono nemmeno in
Inghilterra… o sbaglio?”.
“No, non sbagli… sei in un castello, al confine
tra Russia e Bielorussia… e sono riuscita a sentirti solo per un attimo… giorni
fa… hai provato una disperazione così lacerante che sono riuscita a sentirti per
pochissimo in modo distinto…”.
Hermione ci riflette su, una disperazione
lacerante… poi sospira e ricorda. Il momento in cui ha scoperto di essere
incinta… ed ha immaginato i mesi successivi in quella prigione.
“Ti controllavo da settimane… da quando hai
rotto lo Zahir…” continua Helder senza sosta “Ovviamente di quello me ne sono
accorta subito… ti sentivo a tratti, eri triste… poi hai ritrovato Draco… e
siete esplosi nel cervello di tutti, non solo nel mio… fino ad una sera di
dieci giorni fa… lì, non vi ho più sentiti…”. Dieci giorni fa… Hermione fa un
rapido calcolo: la sera del compleanno di Pansy.
“Mi sono impensierita, naturalmente… non sentivo
più te… e ora so che era perché eri troppo lontana da Londra, perché ti
sentissi… e Draco era vuoto… ho pensato persino che ti avesse uccisa…”.
Hermione incassa le sue parole con un tonfo al
cuore, ovviamente sa che Draco non le farebbe mai del male. Ma sa anche che il
padre di Helder è stato ucciso da Lucius Malfoy: sarebbe anormale se lei non
avesse pensato una cosa del genere.
“Avevo già deciso di contattare qualcuno… di
dare l’allarme a costo di rivelare tutto, anche dello Zahir… poi sei ricomparsa
lontanissima dall’Inghilterra… in un castello in Europa Orientale… e ho capito
che c’era qualcosa che non andava…”. Helder prende ancora fiato, la sente
esitare nella sua mente, poi dice sicura: “Se riesco a sentirti adesso, se
riesco a parlarti… è perché sono qui, Hermione… sono a pochi chilometri dal
castello…”.
Hermione sobbalza: “Sei qui? E sei da sola? Non
puoi fare nulla, Helder… il castello è protetto… è troppo pericoloso…”.
“Non sono da sola… e qui viene il bello…”
sorride Helder con calore, la mente stessa di Hermione sembra trarne un tiepido
beneficio “Quando sono andata al Ministero… per raccontare che ti avevo sentito
in Bielorussia… e ti avevo sentito disperata… Harry era in gran subbuglio… e a
causa tua…”.
“Harry?! E che c’entra lui?”.
“Poco prima, Ronald era piombato nel suo
ufficio, trascinando Lavanda, la sua ragazza… lei è la segretaria del Ministro,
lo sai no?”. Hermione annuisce mentalmente, i pezzi che finalmente iniziano a
combaciare uno dopo l’altro.
“Ron e Lavandaavevano litigato quella mattina a causa tua…”
prosegue Helder concitata “Lui voleva lasciarla e lei continuava a dire che era
ancora innamorato di te…”.
Hermione trasale ancora e serra più forte gli
occhi chiusi, mentre Helder prosegue: “Lavanda, in un impeto di rabbia, gli ha
urlato che probabilmente non ti avrebbe più rivista… e Ron, sconvolto, l’ha
portata da Harry… e lì Lavanda ha confessato che faceva da qualche settimana il
doppio gioco per Astoria Greengrass… voleva liberarsi di te perché era convinta
che tu fossi l’ostacolo sempre presente tra lei e Ron… non sapeva che cosa ti
fosse successo, sapeva solo che non eri più in Inghilterra… e da lì, è uscito
fuori tutto, Hermione…”.
“Cosa, esattamente? Di me e di Draco?” chiede
Hermione con un filo di voce, ancora incredula. La spia… quella che avevano
cercato per giorni… era Lavanda Brown.
Come poteva, dopo anni, preoccuparsi ancora di
lei? E soprattutto non aveva saputo da Astoria che lei e Draco stavano assieme?
Aveva mentalmente escluso che potesse essere lei, proprio per quel motivo. Una
parte della sua mente registra sommariamente che, secondo Lavanda, Ron è ancora
innamorato di lei. Vorrebbe non sentire nulla, a riguardo, ma lo stomaco le si
contorce in preda al nervosismo.
“No, di te e Draco non è uscito fuori nulla…” la
rassicura Helder con un filo di voce “Ed è ovvio, se ci pensi… Astoria non
aveva mai raccontato niente a Lavanda per non compromettere l’aiuto prezioso di
lei… anzi l’aveva incoraggiata a credere che tu fossi ancora persa di Ron… in
quanto ad Harry, ha collegato te e Draco, ma non in quel modo, anzi mi ha detto
di averti chiamato settimane fa e di aver sentito distintamente da te che non
provi nulla per Draco… ed invece credo che tu fossi solo sotto il controllo
dello Zahir, vero?”. Hermione, fiaccata, annuisce stancamente e ricorda la
telefonata di Harry di qualche settimana prima: lei era appena tornata dalla
spiaggia con Hayden ed Harry le aveva chiesto se provava qualcosa per Draco.
Hermione aveva negato con ferocia, quando in realtà era solo sotto l’azione
dello Zahir che le impediva di sentire qualsiasi cosa per Draco.
“Per il resto del Mondo della Magia,
figuriamoci…” continua Helder “Draco è morto anni fa… e voi non avevate alcun
legame… Harry ovviamente l’ha cercato… ma nulla, lui è scomparso. Il Petite
Peste è gestito da Seth, non si trova nemmeno la bambina, Serenity… e persino
Blaise Zabini e Pansy Parkinson non sanno nulla di lui da una decina di giorni.
Harry ha scoperto, però, che tu non
avevi mai sostenuto l’esame per il Wizengamot, che le carte erano state
manomesse… e ha anche scoperto che quella che girava per Hogsmeade, secondo
alcuni testimoni, era solo un miraggio, un’illusione ottica… quindi ha pensato
che fossi scomparsa da tantissimo tempo… quando invece tu eri con Draco… non ho
contraddetto la sua tesi, perché comunque spetta a te parlare loro di Draco e
di tutto il resto… e se non l’hai mai fatto, avrai i tuoi motivi…”.
“Hai fatto bene… grazie Helder…” ripete
Hermione, preoccupata “Anche se, conoscendo Harry, sicuramente adesso sarà
convinto che io sono scomparsa a causa di Draco… insomma lui non si trova e
nemmeno io…”. Le parole le fluiscono fuori senza forza. Hermione riesco solo a
pensare che Draco non si trova, e nemmeno Serenity. Riesce solo a pensare che
nemmeno Blaise e Pansy sanno nulla di lui. E, per strano che le possa sembrare,
lei non pensa che non si trovi perché è prigioniero o altro. Anche negli anni
successivi, Hermione lo sentirà distintamente vivo e vegeto, ma morto dentro.
Come le continuerà a ripetere Helder. Non è nemmeno disperato… è solo… vuoto.
“Harry, ovviamente, di primo acchito ha
collegato le vostre due sparizioni…” asserisce Helder “Ma, quando sono arrivata
io e gli ho detto che ti avevo sentito in Russia… e che Draco non era con te,
perché sennò mi sarei accorta di lui… mi ha creduto… è abbastanza ignorante in
materia di Empatici, il Ministro. E non sa che, se anche Draco fosse con te, io
dall’Inghilterra non l’avrei sentito… avrei potuto percepirlo solo per
quell’amore che condividete e che, come ti ho spiegato, è abbastanza
onnipresente per quelli come me… ma Harry mi conosce, e si fida di quello che
dico… quindi se escludo la responsabilità di Draco, senza spiegare molto di
più, a lui ovviamente sta bene così…”.
“E sa che dietro a tutto c’è Dimitri Karkaroff?”
chiede Hermione nervosa “Non sarà facile avere a che fare con lui…”.
“Dimitri Karkaroff lo conosco… dai tempi della
Seconda Guerra Magica…” riprende Helder incolore “Voleva essere un Indicibile…
ma non ci riuscì… e so per certo che non è persona di cui fidarsi… la sua
conoscenza magica è illimitata… e scommetto che c’è lo zampino di Adamar…”.
“Non sbagli…”.
“Ma la cosa peggiore di lui è… quello che ha
dentro…” prosegue Helder agghiacciata “Non ho mai sentito nulla del genere… non
è amore quello che sente per te, non è nemmeno curiosità… è ossessione… sarebbe
capace di farti a pezzi, pur di vedere come funzioni…”. Hermione rabbrividisce,
chiudendosi nelle spalle, la mano di Hayden si chiude sulla sua. La stringe
forte.
“Io non sono sola, Helder…” riprende Hermione
dopo un po’ con tono sommesso “C’è un’altra persona con me… un Babbano… e credo
che non possa nemmeno più muoversi… e poi… sono…”.
“Incinta…” finisce Helder per lei “Lo so, lo
sento… sento il bambino dentro di te… non ha ancora una forza sua autonoma o
sentimenti… ma insomma… è facile da sentire… o meglio… è strano da sentire… è
come avvertire te e Draco mescolati assieme…”. Una lacrima le sfugge
dall’occhio, Hermione la raccoglie con le dita, mentre sente quasi il peso di
suo figlio dentro. E poi sente come l’ha chiamato… suo figlio.
“Per fortuna non sono sola nemmeno io, Herm…”
continua Helder più allegra “Harry e Ron sono con me… assieme ad una ventina
dei tuoi vecchi Auror…”.
Le lacrime finiscono di cadere sulle guance di
Hermione, si sciolgono come ghiacciai all’inizio della primavera. I suoi amici…
sono qui… non è sola, non lo è mai davvero stata. L’hanno trovata. Tutto in lei
urla feroce che il tempo l’ha divisa da Harry e Ron, lei stessa non è più
quella che loro conoscevano. Ha un segreto pesante dentro, che ha le fattezze
di un bimbo Malfoy nella sua pancia, eppure loro tre sono ancora lì, pronti ad
accorrere sempre l’uno in soccorso dell’altro. Per un piccolo e stupendo
attimo, Hermione si pente persino di non aver mai raccontato loro nulla di lei
e Draco e di averli volutamente lasciati fuori. Lo avrebbero difeso, lo
avrebbero trovato, avrebbero impedito che Dimitri glielo portasse via. Magari
sarebbero stati restii a capire che si amavano sul serio loro due, ma poi, come
hanno fatto Pansy e Blaise, avrebbero accettato. E ora, forse, Draco sarebbe
con loro a liberarla. Ma lui non c’è… lui… adesso è… vuoto. Ogni volta che
quell’aggettivo, assurdamente riempie la sua mente, lei si sente andare a
pezzi.
“Ora, però, viene il difficile, Herm…” prosegue
Helder con voce flebile “Dimitri è potente… molto… troppo, persino per un
migliaio di Auror… conosce incantesimi che io non posso nemmeno pensare di
conoscere anche se sono un’Indicibile. Harry mi ha voluto qui proprio perché
comunque ho una conoscenza maggiore rispetto a loro… e comunque non credo
nemmeno che sia sufficiente… Dimitri ha un solo punto debole… e purtroppo, sei
tu…”.
Hermione deglutisce rumorosamente, sapeva che si
sarebbe arrivati a questo punto, lo sentiva. Da quando Helder ha iniziato a
parlare nella sua testa, ha sentito che si sarebbe arrivati a quel punto. La
mano di Hayden nella sua, è fredda, ed Hermione, senza riaprire gli occhi, lo
vede accanto a lei, le gambe immobili, il sorriso tirato, la fiducia riposta
completamente in lei. Deve farlo… è il suo sacrificio per Hayden. Lui ha già
sacrificato troppo per lei.
“Dimmi che cosa devo fare… a patto che salviate
Hayden… io farò qualsiasi cosa…” dice decisa, raddrizzando le spalle.
“L’unico Incantesimo che è posto sulla
proprietà… che riesco a sentire…” inizia titubante Helder “E’ un Incantesimo
che ha reso le mura del castello… come prolungamenti del corpo di Dimitri.
Sente… ogni cosa. Se abbattessimo un muro, o entrassimo, se ne accorgerebbe
subito… a meno che… non si distragga… e la sola che puoi distrarlo, sei tu…”.
“Certo…” asserisce convinta Hermione “Hayden è
nelle segrete… portate via lui, approfittando del tempo che posso guadagnare…”.
“E tu?” chiede Helder, il tono sospeso che
ricorda che sta parlando con il Capo degli Auror, la cui mente era
costantemente allenata ad ogni tipo di strategia e piano diversivo. Hermione
non ha dubbi nemmeno per un momento: “Salirò in camera di Dimitri… se lui può
sentire solo le mura del castello… io mi getterò dalla finestra della sua
stanza…”.
“E’ troppo pericoloso!”.
“No… non lo è… pensate a come impedire che mi
sfracelli al suolo… una scopa… o un Levicorpus
potente… avete tempo fino a quando sentirai Dimitri… cambiare…” Hermione
deglutisce pesantemente, sa che accadrà quando Helder sentirà Dimitri cambiare.
Sarà arso dal desiderio per lei. Sarà facilissimo per Helder accorgersi della
differenza. In entrambi… lui sentirà di aver vinto. Lei sentirà di aver davvero
perso per sempre.
Hermione chiude la mente ad Helder e alle sue
rimostranze, riapre gli occhi e guarda Hayden con un largo sorriso.
“Vengono a liberarci…” dice, sorridendo. Hayden
le stringe forte la mano, le chiede come faranno, chi gli sta liberando, come
faranno a portarlo fuori da lì, in quelle condizioni. Hermione gli dice solo di
fidarsi di lei.
“C’è anche Draco con loro?” chiede Hayden,
guardandola negli occhi.
Hermione sospira profondamente, eludendo la sua
domanda: “Ascolta Hayden, devi fidarti di me… non contraddirmi… fai solo quello
che ti chiedo… resta qui…e non fare
nulla di stupido… io… io me la caverò, ok?”.
Hermione si divincola dalla sua presa, raggiunge
velocemente le sbarre della cella mentre Hayden inutilmente la richiama
indietro, urlando e cercando anche di trascinarsi giù dal letto su cui è
disteso. Ma Hermione, rapida, sussurra al chiavistello della cella: “Voglio
andare da Dimitri”. Hermione si sente strappare via, all’altezza dell’ombelico,
mentre in un fascio di vento, si sente sospinta in alto, verso la camera del
signore del castello.
La stanza di Dimitri deve essere nella torre più
alta: Hermione nota subito dalla finestra spalancata la notevole altezza, a cui
devono trovarsi. Respira a pieni polmoni l’aria fresca, che scaccia via la polvere accumulatasi nei
giorni precedenti. L’aria ha un odore buono, sa di pulito, sa di resina e
pioggia, sa di luna mescolata alla rugiada. Lontano, intravede delle vette
innevate, una foresta di conifere, un laghetto dall’acqua pulitissima. Il vento
le soffia sul viso, scompigliandole i capelli ed agitando il vestito nero che
porta dalla sera del compleanno di Pansy. Hermione resta con lo sguardo
immobile, congelato, desiderosa di correre fino alla finestra per gettarsi di
sotto, senza paura. La libertà è ad un passo.
Ma Hayden è ancora lì sotto, ancora attende di
essere liberato. E lei ha ancora una cosa da fare, ha ancora quest’ultimo
vessillo da far cadere davanti a Dimitri, prima di poter arrendersi.
Getta uno sguardo distratto alla stanza, sembra
scavata nella roccia. La pietra viva ricopre pareti, soffitto e pavimento.
Sulla destra un letto a baldacchino rosso sangue torreggia su un tappeto dello
stesso nauseante colore. Sulla sinistra, invece, c’è un enorme camino spento,
sulla cui sommità Hermione vede la testa di un cervo ucciso. L’unica luce è una
candela posta sul comodino di Dimitri, accanto al quale c’è una poltrona. E lì,
c’è lui.
Appena la vede, si solleva bruscamente in piedi
e la fissa sconvolto, come se non la vedesse davvero, come se non credesse sul
serio che sia lì. Per un attimo, lascia andare il ferreo e rigido controllo su
sé stesso e sembra autenticamente sorpreso. Probabilmente non dorme da giorni,
due profonde occhiaie gli cerchiano gli occhi blu, la camicia nera è
spiegazzata, i primi bottoni aperti sul torace. I capelli serici sono
arruffati, li scompiglia ulteriormente con le dita. Nella mano, regge un
bicchiere rotondo di cristallo, in cui restano poche tracce di uno scintillante
liquido ambrato.
“Sei qui…” constata con un filo di voce,
poggiando il bicchiere sul comodino e facendo un passo incerto. Hermione lo
guarda, sollevando il mento, sa che deve trattenerlo, sa che deve recitare, sa
tutto. Ma sa anche che deve essere sé stessa, sa anche che non può diventare
un’altra. Lui capirebbe il suo gioco immediatamente. Le mani le sudano
freneticamente, mentre dice stentorea: “Avevo qualche alternativa? Sono qui da
giorni… non sarà forse il momento di… sistemare questa cosa? Che cosa diamine
vuoi da me?!”. Le spalle le si contraggono involontariamente, scivolano fuori
con rabbia inespressa le ultime parole della frase, mentre una calugine di
pianto frustrato le vela lo sguardo.
“Hermione… piccola…” bisbiglia lui,
avvicinandosi piano come una fiera nella foresta. Si ferma di fronte a lei, la
soppesa con lo sguardo per qualche secondo, poi allunga una mano come a volerle
toccare il viso. Ma il braccio ricade sconfitto lungo il suo fianco, un attimo
dopo che Hermione sia trasalita e si sia stretta inconsciamente a sé.
“Hai paura di me?” le chiede con voce soffusa,
da una parte quasi spaventato, da una parte curiosamente eccitato dalla
possibilità che lei davvero lo tema. Hermione punta i suoi occhi nei suoi,
lapilli di fuoco che guizzano nel blu dell’iride di lui.
“Dovrei averne?” chiede lei, incrociando le
braccia “Mi tieni qui prigioniera, cerchi di violare la mia mente… vuoi rubare
la mia magia… e chissà che altro…”. Hermione tace il pericolo maggiore, quello
che le si agita pericolosamente dentro, come un animale rivoltante. Gli occhi
evitano di guardare il letto nell’angolo della stanza, ma comunque lo sguardo
voglioso di Dimitri sembra suggerirle in ogni momento quanto bramerebbe trascinarla
lì.
“Non devi avere paura…” sussurra Dimitri,
facendo un altro passo e guardandola. Ormai è di fronte a lei, Hermione deve
sollevare lo sguardo per riuscire a guardarlo negli occhi come si sta imponendo
di continuare a fare. Il coraggio non le è mai mancato, né le mancherà nemmeno
in punto di morte.
Dimitri, veloce, le prende il viso tra le mani, Hermione
rabbrividisce al contatto con la sua pelle fredda. Lui ha quasi un tono di
scusa sommessa negli occhi, si piega l’espressione di prostrazione mentre la
guarda e, piano, ccon
tutta la lentezza del mondo, le accarezza il profilo morbido delle labbra con
le dita. Hermione chiude gli occhi, concentra la sua mente sul bambino nella
sua pancia, mette ogni energia nel ricordare che è il figlio di Draco. E’ il
solo modo per non perdersi, per non cedere, per non cadere come una fortezza
espugnata davanti a Dimitri.
“Tutto questo…” riprende Dimitri con un tono
dismesso che non gli appartiene, mentre continua ad accarezzarle le labbra “E’
stato necessario… Hermione… piccola… tu… non volevi ascoltarmi… e ho dovuto…
portarti qui…”. La sua voce, così diversa da quella che lei è abituata a
sentire, le fa aprire bruscamente gli occhi e dischiudere le labbra, mentre lo
guarda. Ha un’espressione diversa, concentrata, infinitamente… triste. La cosa
strana è che sembra non guardarla neppure, sembra che lei nemmeno esista più.
E’ come se fosse diventato una statua di sale, cosciente di sé stesso solo per
il lento e meccanico movimento di accarezzarla.
Non si era immaginata così la cosa, Hermione. Si
era immaginata violenza, avevo pensato subito che la gettasse su quel letto e
la prendesse con la forza. Hermione sente dalla tensione del corpo di lui che
la vuole ancora, che la desidera infinitamente, eppure se ne sta fermo,
immobile. La accarezza e basta, profondamente perso nei suoi pensieri.
Quando sente la voce di Helder nella testa che
la esorta a continuare qualsiasi cosa stia facendo, dato che l’Incantesimo a
difesa delle mura si sta indebolendo, Hermione respira a fondo e sussurra con
un filo di voce: “Cosa, non volevo ascoltare?”.
La domanda le esce dalle labbra quasi come se
stesse sognando, come se non fosse più cosciente di sé stessa. Fissa gli occhi
blu di Dimitri e formula quella domanda: non vuole soltanto prendere tempo, ma
vuole capire. Perché effettivamente sente che qualsiasi cosa spinga Dimitri
verso di lei… curiosamente con lei non c’entra nulla. È strano, non saprebbe
spiegarlo.
Dimitri sorride, ha un sorriso storto e curvo,
che non arriva agli occhi. Sono come bloccati quegli occhi, persi in una stasi
tutta loro. Bisbiglia a mezza bocca, ancora con quel tono timido che non gli ha
mai sentito: “Non mi hai mai voluto ascoltare… mai… sin da quel giorno
quando…”, le sue parole sono sconnesse, frammentate, deliranti “… te l’ho detto
tante volte… mi avresti dovuto aspettare… ma tu invece… hai dovuto cedere a
lui, certo, ovvio…”. Le mani di Dimitri sul suo viso tremano, Hermione ci
distingue rabbia ed impotenza e si pente di aver fatto quella domanda. Ha
riportato alla mente di Dimitri il ricordo di Draco…. e lei non vuole, vuole
lasciarlo fuori da questa stanza. Da questo momento che è fatto solo per
salvarli entrambi. Cerca di recuperare quel filo sottile che si sta rompendo
con Dimitri, inconsciamente poggia una mano su quella che lui le tiene ancora poggiata
sul viso. Dimitri sbatte le palpebre, sembra svegliarsi da un incubo tutto suo,
la fronte si imperla di sudore. Gli occhi si riverberano di nuovo di luce, la
mascella si indurisce, mentre Hermione lascia cadere la mano.
“Non hai mai voluto ascoltare la verità,
Hermione…” sussurra di nuovo Dimitri suadente, tornato in sé, guardandola
ancora con l’espressione del gatto che aspetta di mangiarsi il topolino
bloccato tra i suoi artigli “E la verità è questa… è sempre stata questa: tu mi
appartieni. Sei il solo modo per cui tutto… tutto… vada a posto… mi sei stata
mandata perché io possa riparare a tutti i miei sbagli ed errori… e io non ti
lascerò mai andare… mai più… devo tenerti qui, affinché tu non vada via… fino a
quando… non capirai… e sarai tu a non voler andare mai più via, da qui…”. È
cambiato, è tornato sé stesso. Hermione sente di nuovo la schiena rabbrividire
al contatto con quegli occhi ghiacciati.
“Sono bravo a giocare con la mente…” mormora
roco, avvicinando il viso di Hermione al suo, lei chiude repentinamente gli
occhi, il cuore che le batte forte, mentre ogni possibilità di fuga le si
palesa davanti agli occhi come impossibile, almeno fino a quando Helder non le
darà il segnale. Dimitri continua a bisbigliare, la voce sempre più bassa e flebile,
Hermione ne sente il respiro sul viso: “Sono sempre stato bravo a giocare con
la mente delle persone… ma stavolta niente trucchi… è il tuo vero sapore che
voglio sentire… non quello che mi suggerisce la mia mente…”.
Ad un soffio dalle sue labbra, mentre Hermione
sente le lacrime scenderle lungo il viso e le forze abbandonarla, Dimitri
aggiunge divertito: “Vediamo di togliere anche questo a Draco Malfoy…”.
Hermione trasale, il suo corpo è diventato il
campo di battaglia tra Dimitri e Draco… e non riesce nemmeno a sopportarne il
pensiero. Il lampo di trionfo che legge negli occhi di Dimitri, con l’effetto
lacerante di strapparle di dosso orgoglio e dignità, la tormenterà per anni,
sarà il motivo maggiore per cui lo odierà, per cui non cesserà di volerlo
vedere morto anche quando lui già non ci sarà più. Lei e l’orgoglio sono sempre
stati una sola cosa, tolto il secondo, sostanzialmente lei non esiste più.
La mano di Dimitri, che era poggiata sul suo
viso, scivola sulla nuca di Hermione nel tentativo di renderla più arrendevole,
facendole reclinare lievemente la testa all’indietro, mentre rapace le chiude
le labbra con le proprie, stringendola con il braccio libero attorno alla vita.
Le labbra di Dimitri sono gelide sulle sue, si nutrono avare del suo sapore,
muovendosi febbrili, cercando di acquistarne calore, rubandole la memoria del
gusto di Draco. E’ un bacio prepotente, che deve costringere Hermione immobile
per poter esistere, è un bacio al sapore di limone che la ragazza non
dimenticherà mai più. Sa che è impossibile, sa che è ancora presto, sa che è
solo una sensazione, ma il disgusto che sente si traduce in un rantolo al
ventre, che le fa credere che persino il bambino si stia rivoltando in fondo al
suo addome. È al bambino che Hermione si aggrappa con tutte le sue forze, se
può proteggere la sua magia, impedire che Dimitri gliela porti via… può
proteggerla anche da questo. Si ricorda di quando Draco, la sera del loro primo
bacio al Petite Peste, la soccorse ferita a causa della maledizione di Voldemort…
e mentre lei inorridiva per la visione del mostro che la violentava, Draco la
salvò anche in quel senso, distruggendone l’ombra.
“Se sei suo figlio… se sei davvero il figlio di
Draco… ti prego, salvami anche da questo…”. La preghiera si forma nella sua
testa, mentre sente le mani di Dimitri scorrere sulla sua schiena, lasciata
nuda dal vestito. E il figlio di Draco, quello che Hermione ancora non chiama
suo figlio, sembra ascoltarla.
Hermione sente una punta di calore fortissimo al
basso ventre, che la induce quasi a scoppiare a piangere, mentre rabbrividisce
per il contrasto con la pelle gelida di Dimitri che continua a stringerla.
Riapre gli occhi, trova la luna che splende nel cielo fuori dalla finestra,
rendendo tutto bagnato d’argento. La luna… gli occhi di Draco. Ed è un attimo
prima che il desiderio di tornare da lui, faccia il resto… ed è un attimo prima
che ritorni fredda.
La finestra… lei deve scappare da lì… ma Dimitri
la riprenderà in fretta. Sospirando languidamente nella bocca di Dimitri, che
sorride compiaciuto, si rende conto della sua bacchetta che pende dalla tasca
dei pantaloni.
Hermione sospira più pesantemente, finge un sussulto
delle membra come se d’improvviso volesse smettere di lottare, come se
d’improvviso una passione incontestabile l’abbia accecata, come se non fosse
più in grado di controllarsi e di trattenersi.
Come se Dimitri avesse alla fine vinto.
Si solleva in punta di piedi, portandosi più
vicina a lui, gli cinge il collo con le braccia e dischiude le labbra prima
serrate al bacio di Dimitri. Lui sembra trasalire per un attimo, ma il senso di
potenza e di trionfo lo acceca completamente, mentre spinge il suo corpo contro
quello di Hermione. La ragazza, senza più esitazione, ascoltando solo l’anelito
della sua sopravvivenza e di quella del suo bambino, si scollega completamente
da sé stessa. Le sue dita stringono voluttuosamente i capelli di Dimitri,
facendoli persino male, in un impeto di odio feroce che confonde con una finta
vogliosità che lui fraintende appieno. Lui ride persino, entusiasta, eccitato
come non mai, quando Hermione gli morde il labbro inferiore con i denti. Il
sangue di lui le scivola in gola, irritandole la faringe, e lei fa di tutto per
non tossire, per non interrompere la recita. Lo spinge con tutta la forza che
le è rimasta in corpo verso il letto, Dimitri inizia a giocare con le spalline
del suo vestito, scende lungo il suo collo.
Con la visuale momentaneamente libera, le dita
sempre nei capelli di Dimitri, la testa lievemente chinata all’indietro,
Hermione calcola mentalmente quanto separa il letto dalla finestra. Poco. Molto
poco. Di meno, che se rimane qui in piedi.
“La resistenza delle Mura è caduta…” bisbiglia
improvvisamente Helder nella sua testa, Hermione chiude gli occhi come ad
escludere dalla sua mente le immagini di quanto sta accadendo perché Helder non
le veda “Stiamo portando fuori il ragazzo… appena ti do il segnale… puoi agire…
useremo un Levicorpus da cinque bacchette diverse…”.
Hermione annuisce, ha bisogno ancora di tempo, deve muoversi.
Dimitri continua a baciarle il collo, fino alla
linea delle spalle e alla clavicola, scendendo lungo il seno, mentre sposta con
la mano lo scollo del vestito. Hermione, senza esitare, gli solleva il viso, lo
bacia furiosamente sulle labbra, lo morde ancora, con più forza di quanto non
abbia fatto prima. Lui continua a sorridere, il sapore del sangue tra le loro
labbra ha il sapore per entrambi della vittoria. Solo quello di uno dei due, si
rivelerà essere quello autentica, tra pochi minuti.
Sospingendolo con tutto il peso del corpo,
Hermione guida Dimitri al letto, lui ricade all’indietro, trascinandola.
Hermione sale a cavalcioni su di lui, non lo guarda nemmeno in viso, si è
trasformata in una marionetta scarlatta che sta solo recitando una parte. Non è
mai stata così, con nessuno. Perché adesso non è più lei. Se Dimitri conoscesse
ed amasse la vera Hermione Granger, saprebbe che lei adesso non è minimamente
somigliante a sé stessa.
Hermione ha fatto l’amore con Draco per dieci
giorni, al punto da generare un figlio, e l’ha fatto in un modo timido, dolce,
intenso. Ogni volta, ha quasi pianto, non ha mai abbandonato i suoi occhi
grigi, ha sempre sorriso quando lui la guardava. Si è sempre scusata per tutto,
si è sempre preoccupata di fargli male, non ha mai chiesto o preteso nulla, ha
sempre dato tanto. E Draco che l’amava come non ha mai amato niente, le ha
sempre dato in cambio tutto quello che lei meritava.
Adesso, Hermione non guarda nemmeno Dimitri, gli
fa volutamente del male, ha le labbra serrate e chiuse, è violentemente
aggressiva, sembra solo rispettare una meccanica del sesso che ha la gestualità
di un film di bassa categoria e nulla dell’amore.
Non sapeva di esserne in grado, Hermione, non
sapeva di poterlo fare. Eppure, mentre gli sbottona con malagrazia la camicia e
scende a baciargli il petto, si rende conto che questo è quello che intendeva
Hayden con “prendersi tutto di lei”. Ha preso anche il suo modo goffo e timido
di fare l’amore. La pelle di Dimitri, che intanto geme, gli occhi chiusi, la
testa poggiata sul cuscino, si bagna delle lacrime di lei. Lui nemmeno si
accorge, così come non si accorge della mano di Hermione che, scendendo lungo i
suoi fianchi, sfila la bacchetta dalla sua tasca, per poi allontanarla con un
piede.
Dimitri, offuscato ed annebbiato dal desiderio,
troppo preso dalla donna che lo ha rifiutato per settimane e che ora è
inaspettatamente sua in un modo che non avrebbe mai concepito come possibile,
la lascia fare, le lascia condurre il gioco. Ed è lì che commette l’errore più
grande della sua vita. Ma chi non ha mai conosciuto la differenza tra fare
l’amore con una persona che si ama, e farlo con chi invece non ti ama affatto,
difficilmente potrebbe rendersi conto di qualcosa nella nebbia del piacere.
“Ci siamo Hermione…!” urla trafelata Helder
nella sua testa, Hermione si solleva come se fosse stata attraversata da una
scarica elettrica. Dimitri, di primo acchito, non se ne accorge, alza il viso,
restando supino. La guarda con gli occhi annebbiati e rimane sconvolto, quando
la vede alzarsi dal letto, correre verso la finestra e sedersi sul davanzale
con le gambe penzoloni nel vuoto. Dimitri sgrana gli occhi, ancora troppo
confuso, poi pensa che voglia suicidarsi, pensa che improvvisamente le sia
tornata voglia di farla finita. Ma sa che non lo farebbe, tiene ancora il
babbano prigioniero, è anche incinta di Malfoy… poi Hermione, lievemente rischiarata
dalla luce della luna, ancora seduta sul davanzale, si volta di tre quarti e
sorride.
Gli dice solo: “Hai avuto anche troppo da me,
Karkaroff… e me lo riprenderò con gli interessi quando ci rivedremo… quello che
hai avuto… sarà la sola cosa che hai avuto di me… tutto quello che mi resta…
sarà di nuovo di Draco, molto presto…”.
Dimitri non capisce, si alza in piedi, ma lei si
è già gettata nel vuoto. Corre alla finestra, disperato, sporgendosi dal
davanzale.
Auror. Decine di Auror. Tutti attorno al castello.
Le bacchette puntate contro la sua finestra. Non lo preoccupano, anche se
distingue nel nitore lieve della luna, che hanno il babbano, lo conducono via
dalle sue segrete.
La sola cosa che vede è il corpo di Hermione, lo
stesso corpo caldo e profumato di vaniglia che aveva fino a poco prima tra le
braccia, che libra leggero, ormai a soli pochi metri dal suolo.
Libera.
Accecato dalla rabbia, come se non vedesse più
nulla, cerca la bacchetta mentre ulula come un lupo alla luna di rabbioso
dolore. Non la trova, prende a calci la poltrona, intravede la bacchetta sotto
il letto. La afferra, corre al davanzale, alla cieca la punta contro la folla
radunata lì sotto. La punta contro l’ombra scura che è la donna, di cui ancora
il suo sangue ribolle nelle vene. Un raggio di luce rossa riesce dall’alto a
cadere come un fulmine, schivando tutti i Protego
degli Auror.
Il colpo raggiunge Hermione a soli tre metri dal
suolo, quando già, sorridendo, stava allungando una mano verso Harry.
L’amico la vede sbarrare gli occhi, colpita alle
spalle, e rovinare giù, senza che nessuno riesca ad impedirlo, come un involto
di stracci vecchi.
Hermione cade al suolo, batte violentemente la
testa, sente immediatamente il sangue scivolarle lungo il collo.
Vede il cielo e la luna prima di perdere i
sensi.
Si porta gli occhi di Draco nel buio.
I
miei amici continuano a parlare, mentre gli ultimi pezzi dei miei ricordi
lasciano la mia mente. Ricordo tutto di quel folle volo disperato, il momento
in cui avevo sentito la maledizione colpirmi alla schiena, lo sguardo affranto
di Harry, quello impotente di Ron, quello sconvolto di Hayden. E ricordo
perfettamente l’impatto con il suolo, la sensazione che la testa mi si
spaccasse in due, la luce della luna che si faceva sempre più fioca, le voci
attorno a me e le urla degli Incantesimi che si facevano sempre più flebili,
giungendomi quasi da una cortina spessa di fumo.
Quando
ripresi i sensi, ricordo solo il calore del sole che mi ispirò curiosamente a
piangere. Non era il sole dell’estate, era un sole già più sbiadito, già meno
intenso.
E
soprattutto non era il mio di sole, quello dell’Inghilterra. Era un sole che
comunque conoscevo, ma che avevo dimenticato da anni, forse persino decenni.
Era
il sole dell’Italia, era il sole della casa dei miei nonni in Sicilia. E ciò,
se già non fosse abbastanza, era comunque qualcosa di poco rispetto al resto.
Era
il sole del mese di ottobre.
Erano
passati tre mesi dalla notte di inizio luglio, in cui ero riuscita a scappare
dal castello di Dimitri.
Ero
rimasta in coma tre mesi. 103 giorni e 15 ore, per la precisione.
Tre
mesi in cui la vita era andata avanti lo stesso, in cui si erano dovute
prendere delle decisioni, in cui i miei amici avevano dovuto decidereper
me.
Ed
ovviamente lo avevano fatto, senza esitazione.
Quella
notte, Dimitri era riuscito a scappare dagli Auror, dopo aver resistito per
quasi un’ora agli attacchi assieme ad Astoria, Pucey e Montague. Era
praticamente scomparso, nessuno era riuscito più a trovarlo, era vissuto per
anni in una zona borderline tra il legale e l’illegale, una zona grigia dove
chiunque li avrebbe dato protezione. Una zona che era composta da tutti coloro
che rifiutavano apertamente l’autorità costituita, come ex Mangiamorte,
delinquenti comuni, reietti. Dimitri sparì come una nebbia di vento.
Ovviamente,
però, non era assolutamente sparita la minaccia che poteva rappresentare nei
miei confronti: i miei amici fecero la sola cosa sensata che gli venne in
mente. Nascondermi. In Italia.
Nessuno
sapeva della casa dei miei nonni, l’Italia era sicura perché le Passaporte
internazionali erano poche e ben controllate ed anche usando i mezzi di
trasporto babbani, ammesso che qualcuno sapesse che potevo nascondermi lì, la
cosa sarebbe stata complicata. La casa dei miei nonni era sulla piccola Isola
di Favignana. E lì si poteva arrivare solo con l’aliscafo. Ovviamente sempre
controllato. Ed ammesso che qualcuno fosse arrivato, era stata mandata a vivere
con me la migliore delle Empatiche: Helder.
Mi
diceva spesso che aveva scolpito come nella pietra, ciò che Dimitri aveva
provato quella notte. Lo avrebbe sentito appena si fosse avvicinato anche solo
alla Sicilia.
A
vivere con me, fu mandato anche Hayden. Non ci fu nulla da fare, Hayden non
camminò più. Rimase sulla sedia a rotelle. Mandare anche a lui in Italia, era
una premura forse eccessiva, ma Harry aveva avuto notevoli grane con il Primo
Ministro inglese per tutta la faccenda. E quindi anche Hayden fu racchiuso nel
programma di protezione, anche se non aveva tutte le limitazioni negli
spostamenti che avevo io. Poteva anche viaggiare, uscire da Favignana per
qualche giorno, e sostanzialmente riprese la sua solita vita. Lui lavorava in
Italia, prima di conoscere me.
Quindi
alla fine ritornò ai suoi studi. Dopo un anno circa, gli fu concesso di
trasferirsi da Favignana a Palermo, dove vive tutt’ora.
Hayden,
straordinario come sempre era stato, si adattò persino alla sua condizione di
disabile, riuscendo a recuperare velocemente il sorriso. Era felice di essere vivo,
era felice di essere tornato in Italia, era felice anche di aver conosciuto il
mondo della Magia. È arrivato persino a scherzare sul mio senso di colpa. È una
persona meravigliosa, non c’è altro da dire.
Così
meravigliosa che, l’anno scorso, Helder mi ha confessato di essersi innamorata
di lui. Ricambiata. Si sposeranno l’anno prossimo.
Ovviamente
tutto quello che di bello poteva ancora accadere nella mia vita, era lontano
mille anni luce da me quando mi svegliai in Sicilia tre mesi dopo la mia fuga.
Nonostante tutto quello che era successo e nonostante un tentativo di aborto
spontaneo che avevo avuto nel coma, mio figlio era sopravvissuto ed aveva preso
pieno possesso del mio corpo. Avevo già una piccola pancia.
Ma
non me ne accorsi per nulla, nemmeno mi resi conto che ero ancora incinta. A
ripensarci, nei primi mesi, sono stata la più sciagurata delle madri.
Ero
stata prigioniera in un castello per giorni, mi ero gettata da un’altezza di
una trentina di metri, avevo riportato una trauma celebrale serio, ero stata in
coma tre mesi, e nemmeno mi ero preoccupata di mio figlio quando mi ero
risvegliata. Ma insomma, adesso compenso con un’iperprotettività da dieci e
lode nei confronti di Alex… quindi insomma credo di essere perdonata.
Svegliandomi,
trovando Harry, Ron ed Helder che iniziarono a raccontarmi della notte della
fuga e della faccenda con Lavanda… io riuscii solo a pensare ad una cosa.
“Harry, basta!” la voce, che non è nemmeno più abituata ad usare, vibra
d’improvviso così tonante che lei stessa se ne stupisce. Rimbalza sulle pareti,
colpisce l’amico al centro esatto del petto, marginalmente striscia anche su
Helder e Ron. La guardano tutti e tre sconvolti, mentre Hermione riprende fiato,
una mano sul petto, mentre il torace si alza ed abbassa velocemente. Inconsciamente,
come si è accorta di fare spesso da quando ha ripreso i sensi, si porta una
mano al basso ventre, sulla pancia che è lievemente cresciuta. Quando se ne
accorge, stacca la mano dal tessuto del lenzuolo come se scottasse.
Per qualche minuto, nella stanza bianca
dell’ospedale italiano dove si trova, non si sente altro che il ronzare delle
macchine che sono collegate ad Hermione, il bip intermittente che rappresenta
il suo cuore, che adesso segna un numero altissimo di pulsazioni. Quando il
cuore di Hermione si calma, si aggiunge il gocciolio della flebo, che,
attaccata al braccio della ragazza, continua a sversarle nel sangue nutrimento
e linfa. Il vento, dalla finestra aperta, soffia dolce l’odore dei gelsomini e
della menta selvatica che crescono nei giardini dell’ospedale, e che è stato la
prima cosa che Hermione ha sentito al risveglio.
Quando, però, qualche minuto prima, mentre Harry
raccontava della notte della fuga dal castello di Dimitri e del suo incidente,
era spirato nella stanza anche un lieve odore di rose, Hermione ha sentito
improvvisamente il sangue andarle alla testa.
E non ha capito più niente.
I ragionamenti lenti, che fa da quando si è
svegliata in quel letto tre mesi dopo la fuga da Dimitri, sono diventati
improvvisamente febbrili, rapidi, veloci, come saette in un fortunale estivo.
Il respiro le ha gonfiato il petto dolorosamente, spingendola ad ansimare alla
ricerca d’ossigeno. Ha iniziato a sudare freddo, ha sentito il cuore in bocca, ha
avvertito dei capogiri colpirla con precisione clinica, anche se è seduta sul
letto. E quando quel malessere, si è tradotto in un nome formato dalla sua
mente, ha urlato con tutta la forza che ha in gola.
Il nome, come sempre, è Draco.
È sveglia da una ventina di giorni, giorni in
cui per la maggior parte del tempo, ha fatto fatica a mettere assieme i più
basilari dei concetti. Tutto le sfugge via, come acqua tra le dita, la sua
testa è ingombra di una poltiglia sabbiosa che le impedisce di connettere. Le hanno
detto i medici che è normale, è reduce da un forte trauma cranico. Ci manca
solo che non sia in quelle condizioni… tende a riaddormentarsi spesso, a
confondere realtà e sogno, a perdere immediatamente attenzione.
Nei momenti in cui il suo cervello riesce a
conquistare un po’ di lucidità, ha capito che si trova in Italia e che
miracolosamente il bambino che portava in grembo, vive ancora. Ma glielo hanno
detto i medici, ovviamente in un italiano siculo che le ha ricordato i tempi
delle sue vacanze infantili a casa di sua nonna Cathy. Quella mattina è la
prima in cui vede i suoi amici, dopo che, nei giorni precedenti, solo sua mamma
e suo papà le sono stati vicini.
Le hanno detto che sono volati lì dalla Toscana,
tre mesi prima, non appena sono stati avvisati da Harry del suo incidente. E
non se ne sono più andati.
E subdola, l’informazione che sono passati tre
mesi dalla fuga, le è scivolata nella memoria, impantanandosi nella palude che è
ormai la sua testa. Tutto, dalle cose più piccole a quelle più grandi, assume
la consistenza di bolle di sapone, quando entra in contatto con lei. Vengono
soffiate le informazioni nel suo cervello, e rimangono a galleggiare come se
fossero inconsistenti. È come se si fosse rotto del tutto il meccanismo che le
consente di dare peso alle cose.
Poi, lentamente, i sensi hanno iniziato
nuovamente a funzionare, soprattutto quello della vista che era sempre annebbiata.
Ha ripreso a parlare, fiocamente, come se la voce non le appartenesse. Ha
iniziato a mangiare, poco, dato che ogni cosa le dà la nausea. I momenti di
coscienza si sono fatti sempre più frequenti, fino al riaffiorare dei primi
ricordi della prigionia e della notte della fuga. Mentre il suo cervello
recupera le forze, tutto ciò che goffamente ha saputo e tutto ciò che, invece,
ancora non sa conosce una forza di gravità più importante, che fa rimanere
attaccati i ragionamenti. E, mentre va a ritroso con i pensieri,
improvvisamente diviene necessario anche avere spiegazioni e chiarimenti.
E, così, finalmente è stato dato ai suoi amici
il permesso di vederla e di raccontarle quello che è accaduto da quella notte:
la fuga, l’attacco al castello di Dimitri, la sua rovinosa caduta, il trauma
cranico, l’arrivo in Italia assieme ad Hayden. Il coma, che era parso subito
grave. La verifica che non aveva riportato danni seri, ma l’impossibilità di
fare previsioni sul momento in cui si sarebbe svegliata. Il tempo dell’estate
che lasciava il posto alla fragranza dorata dell’autunno mediterraneo.
E il giorno, in cui ha riaperto gli occhi.
Hermione, però, si è accorta subito di due cose
fondamentali. Nessuno parla del suo futuro, sembra tutto galleggiare nella
dimensione presente che ha il colore asettico di quell’ospedale. È come se lì
fosse nata e lì dovesse restare. Dopo averla aggiornata brevemente su quei tre
mesi, Harry e Ron iniziano a raccontare di vecchie storie, di aneddoti
scolastici, di episodi della guerra, come se siano in grado di parlare del
passato solo se remoto.
Ma lei, Hermione, ha tutto un passato prossimo
che non si può cancellare: e lì si accorge quasi in modo fulmineo, del secondo
particolare.
Nessuno, nemmeno i suoi, ha parlato della sua
gravidanza. Lo hanno fatto solo i medici: solo loro, quando la visitano, le danno
notizie del bambino. Le infermiere lo chiamano “il piccolo guerriero”, perché,
nonostante lei fosse in coma e nonostante avesse avuto quella tremenda caduta,
si è aggrappato alla vita con le unghie e con i denti. Ed Hermione, in un modo
confuso ed inspiegabile, sa anche che la “miracolosa e rapida guarigione” che
sta avendo, dopo un coma così lungo, è collegata a doppio filo a
quell’ugualmente prodigiosa voglia di vivere che ha avuto il bambino. Nei mesi,
negli anni dopo, Hermione si sarebbe spiegata quel miracolo con la connessione
straordinaria che lei e suo figlio avevano avuto fin dal primo momento. Si
erano aiutati quando lei doveva fuggire, e si erano aiutati durante quel sonno:
Hermione aveva dato ogni sua energia, anche da incosciente, a suo figlio perché
vivesse. Il bambino l’aveva ricompensata, proteggendola dal rischio di perdere
del tutto la sua mente e il suo cervello. Ma allora, Hermione ancora non lo sa,
è madre da soli quattro mesi di cui ben tre sono trascorsi da addormentata.
Ha una maggiore certezza di sé e del proprio
bambino quando, quella stessa mattina, la ginecologa le dice che quasi
sicuramente il bambino sarà un maschio.
Ed Hermione ha stretto il lenzuolo tra le dita e
non ha detto nulla, perché improvvisamente quel agglomerato di cellule ha
iniziato il percorso per diventare una persona. Non una persona qualsiasi… un
bambino, un maschietto. Non è solo renderlo ancora più reale… è anche rendersi
conto che ha sempre saputo di aspettare un maschio. È scoprire dimensioni del
suo sentire, nuove, strane, irrazionali.
E vuole parlarne, vuole dirlo a qualcuno, vuole
chiedere come si faccia a sapere che il proprio bambino sia un maschietto… si
fa quelle domande, mentre Harry e Ron continuano a parlare, ridendo e
scherzando, di fronte a lei che semplicemente annuisce. Helder ride a sua
volta, i suoi occhi sono azzurri come quelli di Ron, non guarda volutamente
verso di lei e verso quello che sente.
Le domande diventano milioni, miliardi… ed
arriva al punto che, con la stessa ancestrale certezza per cui sapeva che il
bambino era maschio, sa anche che il bambino avrà gli occhi del padre. Dalla
finestra, soffia l’odore delle rose.
Il padre… Draco.
E lì le scoppia tutto addosso… lì,
improvvisamente, il pantano della sua mente si gela, acquistando la durezza del
diamante. I suoi pensieri acquisiscono una chiarezza così accecante da farle
chiedere dove fossero stati fino a quel momento. La sua mente recupera come
d’incanto ogni memoria tattile, visiva, cognitiva ed affettiva. E il petto le
si squarcia: sono passati tre mesi, lei ha solo dormito, il bambino è maschio e
Draco non è lì.
Quella consapevolezza subitanea l’ha condotta ad
urlare, strappandosi le corde vocali, pochi secondi prima, mentre Harry
continuava a parlare e a ridere. Adesso, tutti la guardano preoccupati, Ron le
si avvicina chiedendole come stia, accarezzandole lievemente il viso con due
dita. Scuote il capo, dice che sta bene, poi improvvisamente decisa, proferisce:
“Lo sapete che sono incinta? O nessuno ve l’ha detto?”. Ron si stacca da lei
rapidamente, si ritrae e si chiude nelle spalle. Harry distoglie lo sguardo da
lei e guarda con attenzione il pulviscolo dorato, che entra dalla finestra
aperta. Solo Helder rimane immobile, gli occhi che diventano dello stesso
colore dei suoi, e sospira.
Ovviamente, sanno tutto… ed ovviamente Helder, a
cui lo ha detto la notte della fuga, ha capito che è giunto il momento della
verità. Come ha promesso, mesi prima, non ha raccontato nulla ad Harry e Ron di
lei e Draco.
Ron stringe i pugni e dice, la voce che gli
trema: “Certo che lo sappiamo, ‘Mione… quel bastardo…”. Hermione spalanca gli
occhi, rabbrividendo, lo guarda come si guarda un estraneo.
“B-bastardo?” blatera con voce fioca,
improvvisamente colma di risentimento verso Helder che evidentemente ha
raccontato tutto di Draco. Altro che mantenere la promessa. “Ch-che diamine vuoi dire?!”.
Harry si siede accanto a lei sul letto,
scompigliandosi i capelli neri. Ha gli occhi cerchiati, colmi di dolore, le
labbra nemmeno sembrarono muoversi mentre parla: “Mi dispiace, Herm… avrei
voluto… avremmo voluto salvarti, prima che lui… ma lo troveremo, stai
tranquilla… non ci scapperà per sempre… adesso che ti sei svegliata, io stesso
andrò a guidare gli Auror che…”.
“Volevamo farti abortire…” lo interrompe Ron,
pragmatico, Hermione sente la testa gelare, la mano che corre al ventre “… ma
era giusto che decidessi tu… che sapessi tu… così dicevano i tuoi… è una tua
decisione… e quell’abominio si è attaccato a te, come ha fatto quel bastardo
del padre… e quindi…”.
“Basta!” Hermione si ritrova di nuovo ad urlare,
le mani premute sulle orecchie, non è possibile. Sta sognando. Non c’è altra
spiegazione.
La parola “abominio” le sconquassa il cervello,
la sente scuotere i suoi nervi, la ferisce in decine di punti del suo corpo.
Sente gli occhi di Harry e Ron addosso, mentre
continuano a guardarla addolorati, chiedendole che cosa abbia. Poi, tonante, la
voce di Helder dice poche parole, che riportano il mondo sul suo asse. O
perlomeno, quello di Hermione torna sul suo asse… quello di Harry inizia a
muoversi confusamente, perdendo ogni legge di attrazione e di controllo. Quello
di Ron si stacca del tutto, vagando in uno spazio vuoto.
“Ti avevo fatto una promessa, Hermione… e l’ho
mantenuta…” dice Helder, stoica, gli occhi scintillanti del castano di quelli
di Hermione “Pensano che il bambino sia di Karkaroff…”.
“Che cosa vuoi dire?!” chiede Ron, muovendosi
verso Helder, rifiutando lo sguardo di Hermione. La sua voce trema
vistosamente, le mani strette a pugno.
“Significa quello che ha detto…” replica
Hermione, sospirando, iniziando a capire “Il bambino che aspetto… non è di
Dimitri… con lui non è successo nulla in quel senso… non mi ha mai toccata…”.
Prende ancora fiato, cercando di darsi coraggio, gli occhi di Harry e Ron che
la guardano come se non la riconoscessero. Perché quello di Ron è lo sguardo
che lei già riconosceva come troppo simile a quello che aveva avuto in passato,
quello di quando stavano assieme. Stava sperando, aveva sperato di tornare con
lei… ed ora capisce che non sarà così. E
lui non riconosce alcun Universo in cui Hermione semplicemente è innamorata di
un altro, al punto da avere un figlio con lui.
Quello di Harry, invece, è lo sguardo doloroso
di chi sa qualcosa di più, di chi improvvisamente trova un nome nella testa e
lo associa a lei, non più con il pensiero che ci fosse lui dietro la sparizione
della sua amica; ma con la medesima identica angoscia che comunque, in un modo
diverso, se l’è comunque portata via.
“Ero prigioniera di Dimitri da dieci giorni,
quando mi avete liberato…” spiega Hermione sommariamente, guardando il lenzuolo
“Prima di allora… non ho sostenuto l’esame… e non sono mai stata ad Hogsmeade…
ma l’ologramma che girava lì… e le carte che dimostravano che avessi sostenuto
l’esame… non era opera di Dimitri… sono stata io… con Zabini e la Parkinson… e
con…”.
Harry diventa livido in viso, si lascia cadere
su una sedia. Ron, non riuscendo ancora a capire, chiede: “Ti tenevano loro
prigioniera? Zabini e la Parkinson? Che c’entrano loro? E quando ti hanno
ceduto a Dimitri?!”.
Hermione nega con il capo, è tutto così
maledettamente difficile, maledizione. Perché Harry non finisce al suo posto?
Perché non lo fa Helder? Perché la lasciano da sola, a dare quel colpo a Ron?
Non vuole farlo, nonostante quello che le ha fatto in passato… non vuole farlo.
Una lacrima le cade lungo il viso, l’asciuga con il palmo. Adesso, ormai, non può
più nascondersi dietro un dito.
“Ero a casa di Pansy… da circa un mese… quando
mi ha rapita Dimitri…” sussurra con un filo di voce “E né lei, né Blaise c’entrano
nulla con questa storia… ero lì di mia spontanea volontà… ed ero lì con il
padre del bambino che porto in grembo…n-non mi ha costretta nessuno… io… sono
innamorata di lui…”, respira, prende ancora tempo, non crede di farcela. Poi
solleva lo sguardo, Ron ha comunque l’espressione spezzata, Harry comunque si
porta le mani ai capelli, Helder si chiude comunque nelle spalle. Non ha più
senso indugiare.
Non vuole più indugiare.
Gli occhi accesi, l’espressione seria, quasi di
sfida, bisbiglia ferma: “Il padre di mio figlio… è Draco Malfoy… è di lui che
sono innamorata…”. Ron non reagisce,
sbatte le palpebre un paio di volte, guarda a disagio prima Harry e poi Helder,
poi torna a guardare lei, addolorato, sconvolto, ma al contempo con uno strano
singulto di speranza negli occhi chiari. Hermione, la cui rivelazione le è
costata cara, al punto che ogni lettera del nome di Draco le si è conficcata
pesantemente nel petto, lo guarda senza capire, per un attimo convinta di non
aver nemmeno parlato oppure di aver pensato una cosa, ed averne detta un’altra.
La lanosità stopposa dei suoi pensieri la tradisce e sta quasi nuovamente per
aprire bocca per spiegare, quando Ron si
avvicina, si siede sulla sponda del letto e la rassicura con vane parole vuote,
trattandola come una pazza. E lì, Hermione capisce di nuovo: lui sa che Draco è
morto, da anni, in un incidente con un drago, come tutti sanno nel Mondo della
Magia per proteggere la sua nuova identità babbana. Pensa che sia impazzita. Hermione,
prostrata, lascia cadere le braccia lungo i fianchi, non ce la fa a ricordare
quei mesi. Non potrebbe nemmeno volendo, non può raccontare tutto dall’inizio,
senza che ogni secondo di quel racconto la svuoti del tutto, senza che quel
senso di urgenza che oramai conosce non la sopraffaccia del tutto. Tace, chiude
gli occhi, piange a calde lacrime. Ron le accarezza il viso.
Harry, però, finalmente interviene, fa pochi
passi, si ferma davanti a Ron. E parla, per una mezz’ora buona: racconta tutto
quello che sa di Draco, del lavoro al Ministero, della scoperta dell’atroce
morte di Narcissa e Lucius, della rinuncia alla protezione degli Auror, della
morte di Helena ed Amos Diggory, dell’affidamento di Serenity Hope Diggory,
dell’assunzione dell’identità di Danny Ryan. E, a quel punto, Harry si ferma a
disagio, perché il viso di Ron, paonazzo, mostra che infine ha capito, infine
ha collegato un pezzo importante. La sera del Tourquoise Party… Hermione
abbigliata come una principessa… lui che andava a quella festa con Lavanda,
Harry e Ginny, per vedere come se la cavava…
E l’avevano vista rimanere sconvolta nel
vederli… quel passo indietro, come se avesse avuto una vertigine… e quel
ragazzo dietro di lei, a cui si era appoggiata quasi naturalmente… lo sguardo
che si erano scambiati… pensava fosse il suo capo, Danny Ryan. Ed invece era
Draco Malfoy. Il padre del suo bambino.
È la fine del mondo… e non nel senso che
Hermione in modo melodrammatico userebbe parlando amabilmente con un’amica
dell’ultimo libro che ha comprato, o di un vestito che ha adocchiato in una
vetrina.
È davvero la fine di un mondo, alla stregua di
stelle che cadono sulla terra, di mari che si aprono e di terre che vengono
inghiottite. Ricorderà poco di quei momenti, pochissimi particolari.
Ron che urla, Harry che va avanti ed indietro,
Helder che cambia colore degli occhi ogni secondo. Lei che cerca di sovrastare
le loro voci, che urla a sua volta, che piange. E che ripete il nome di Draco
continuamente, come un talismano da puntare contro chi li vuole lontani. Quel momento
avrà le fogge incartapecorite di un vecchio calendario appeso alla parete, bruciato
dalla luce dell’estate. Per ben tre volte, il calendario aveva visto
un’infermiera solerte arrivare e sbarrare i giorni del mese appena trascorso.
E, adesso, restano intonsi solo i giorni che da ottobre conducono alla fine
dell’anno, dei mesi precedenti Hermione non ha traccia nella memoria.
Mentre urla, grida, lascia sfuggire tutto quello
che non ha mai detto prima ai suoi due amici di lei e Draco, Hermione guarda
quel calendario e conta i giorni che l’hanno separata da lui. 103 giorni e 15
ore. Può essere accaduto di tutto in
quei giorni, di tutto. Dimitri può averlo trovato, può averlo ucciso, può aver
ucciso Serenity e Seth. E lei se ne sta lì, a parlare con Harry e Ron di cose
che, forse, non avrebbero mai davvero capito.
Ed allora avrebbe provato ad alzarsi da letto,
avrebbe strepitato, dicendo che doveva andarsene, deve andare da Draco, lo deve
raggiungere. Si sarebbe strappata la flebo dal braccio, sarebbe arrivata troppo
lentamente alla porta ed avrebbe battuto i piedi quando l’avrebbero trattenuta,
stringendola per le braccia. L’energia vitale di Draco esiste, le avrebbe risposto
Helder, ma è troppo lontano per sentire dove sia.. Hermione le chiederà di
tornare in Inghilterra, ma Harry le ordinerà di restare lì, perché è la sola in
grado di sentire Dimitri e di proteggerla da lui.
Chiederà, quindi, ad Harry di cercarlo e lui,
dopo settimane di silenzio astioso, lo farà, la accontenterà. Ma Draco Malfoy
sembrerà davvero morto, per tutti. Blaise Zabini si sposerà con Daphne
Greengrass e si trasferirà in Scozia. Dirà di non averlo più visto. Pansy
Parkinson vivrà ormai in pianta stabile in Francia. Dirà di non averlo più
visto. E i suoi amici babbani diranno a loro volta di non averlo più visto.
E allora Hermione si convincerà che spetta solo
a lei cercarlo e trovarlo, non le interessa nulla della protezione, del piano
di tenerla nascosta a Favignana, a casa dei suoi nonni. Non le interesserà
nemmeno dell’obbligo di stare a letto per i successivi mesi, fino al termine
della gravidanza, per non perdere il bambino che aspetta. Fuggirà, una notte, e
la riprenderanno all’aeroporto. Sarà Ginny a trovarla, diventata intanto madre
di James e chiamata in Italia come estremo aiuto.
La rimprovererà duramente, lei piangerà, capirà
che deve attendere che il bambino nasca.
I nove mesi passeranno, veloci, rapidi,
istillandole nel corpo goccia a goccia un sentimento nuovo e diverso, che tutto
crea e tutto annulla: l’amore di madre. Sarà prima un senso di palpitante
attesa, poi un’ansia continua ed infine un senso di completezza e di
rassegnazione, che le prosciugheranno le intemperanze da innamorata. E
ricorderà che il pericolo non è solo Dimitri, ma è anche Astoria. Lei vuole suo
figlio, perché non è solo suo. È anche il figlio di Draco.
E lei deve proteggerlo, prima di ogni altra cosa
al mondo.
Accetterà di sacrificare sé stessa, per suo
figlio. Accetterà di attendere che Dimitri ed Astoria siano catturati, per
poter tornare in Inghilterra. Accetterà che Draco la sappia lontana, senza
sapere che cosa le è successo. Accetterà di restare in Italia e di vivere lì
“come se non dovessi più tornare a casa”, come le dice Harry. E, pochi giorni
prima della nascita di suo figlio, accetterà di firmare delle carte volutamente
invalide che la designano come Hermione Jane Weasley.
Ron vorrà restare con lei in Italia. Userà la
scusa che si sente in colpa perché è finita in questa storia per Lavanda.
Userà la scusa che vuole proteggerla, dato che
ha ancora la condanna dell’interdizione alla magia sulle spalle per altri due
anni.
Userà la scusa che vuole aiutarla con suo
figlio.
Ma Hermione noterà subito che appella il bambino
esclusivamente come suo figlio, non come figlio anche di Draco.
Eppure, Hermione accetterà, distrutta, anche
quella commedia. Perché tanto Ron non l’avrà mai, perché è stato davvero
generoso ad offrirsi di aiutarla, perché in fondo “potrebbe non tornare più a
casa” e lei avrà bisogno di dare un padre a suo figlio.
Quando suo figlio nascerà, in una piovosa notte
di febbraio, Hermione sentirà un nuovo rivolo di forza nascerle nel sangue.
Perché il suo bambino ha gli stessi occhi di Draco.
E inizierà a sperare che quel filo reciso tra
lei e Draco, lo possa tessere di nuovo il loro figlio.
Tra giorni di felicità e giorni di cupo
sconforto, lei continuerà ad aspettare di tornare a casa. Dopo cinque anni,
potrà farlo. Ed avrà in mente solo una cosa: cercare Draco.
Esattamente come quando si è svegliata, cinque
anni prima.
Esattamente come sempre.
Vuoto:
quell’aggettivo, nella mia testa, ha assunto un peso ossimorico per anni.
Sebbene indichi la vacuità, in me è diventato greve come una tonnellata di
piombo.
L’Empatia
è una capacità ancora misteriosa e poco compresa, si basa sulle sensazioni e
sui sentimenti, non esistono manuali e spiegazioni. Quindi Helder, spesso, non
era in grado di darmi un’esauriente delucidazione su quello che lei sentiva a
riguardo di Draco… però si è sempre sforzata di farmi capire, di illustrarmi
tutto con la maggiore chiarezza possibile. È stata la sola che abbia condiviso
pienamente tutto quello che ho provato e sentito in questi ultimi cinque anni.
Con i miei genitori, tacevo, per loro non era il massimo sentirmi parlare del
padre di mio figlio, sebbene adorino Alex come nulla al mondo. Però è sempre
l’uomo che ha messo incinta la loro bambina e che non vive con lei, che non
l’ha mai cercata per anni. E, sebbene ho sempre avuto il sospetto che Draco fosse
stato volutamente allontanato da me, la conferma mi è arrivata solo ora, dai
ricordi di Pansy. Quindi è chiaro che non potessi difenderlo così totalmente da
non sembrare ai loro occhi solo la disperata donna innamorata che sono. Con
Ron, tacevo ovviamente per non ferirlo: ben presto, nella nostra vita
pseudo-coniugale, avevo capito che era innamorato di me e che la sua era solo
una strategia per tornare assieme in qualche modo. Ai tempi, ero stanca,
devastata, distrutta, ed avevo accettato il suo aiuto senza riflettere e senza
peraltro un pieno quadro della situazione. Ero certa, in breve, che Ron mi
aiutasse solo per amicizia e solo perché si sentiva in colpa per Lavanda, o
anche perché diffidava profondamente di Draco e voleva, a suo modo,
proteggermi. Ma poi, ovviamente, con il tempo la cosa era venuta a galla e,
quando avevo iniziato a convivere con la nostra situazione, avevo riconsiderato
tutto, compreso il suo coinvolgimento.
Se
non fossi stata così debole, al momento della nascita di Alex, probabilmente
non avrei mai accettato il suo aiuto.
Gli
avrei chiesto immediatamente di tornare in Inghilterra, lasciandomi da sola.
Ma,
appena era nato mio figlio, tutto aveva subito un brusco cambio di prospettiva:
contava Alex soltanto.
E,
per proteggerlo, avrei accettato anche l’aiuto di Voldemort.
Ovviamente, quindi, con Ron non potevo parlare.
Ci mancava anche sottoporlo ai miei problemi sentimentali.
Con
Hayden, sebbene i suoi sentimenti per me fossero un ricordo e sebbene avessimo
condiviso l’esperienza straziante della prigionia, non sono riuscita a parlare
o anche solo a guardarlo per mesi. Era costretto su una sedia a rotelle per
colpa mia… ed anche in quel caso, figuriamoci se avrei mai potuto lamentarmi
del mio amore infelice con lui.
La
sola che restava era ovviamente Helder, che è stata mia amica in un senso così
profondo che non avrei mai potuto ritenerlo possibile. Lei aveva amato un
Mangiamorte, sapeva che si prova, c’era stata quando avevo creato lo Zahir, era
la sola a sapere di questo, senza contare che sapeva anche di Helena e di Draco
ed Adamar. Ed era un’Empatica, spesso non c’era bisogno che parlassi, mi
avvertiva triste o nervosa, o esasperata, e mi veniva volutamente a cercare.
Non so che avrei fatto senza di lei.
E,
sempre, sempre… dal giorno in cui ero felicissima e speranzosa, a quello in cui
sprofondavo nell’angoscia e nel terrore… ogni giorno… io le ho fatto la stessa
domanda.
Riesci a sentire Draco?
E
lei ha sempre negato, scuotendo i capelli castani e dandomi un buffetto sulla
guancia.
Gli
Empatici riescono a sentire le emozioni, ma per ovvi motivi esse sono
amplificate qualora si trovino materialmente vicini alla fonte del sentimento o
dell’emozione. Se riescono a captare delle emozioni a grande distanza, ciò è
dovuto alla presenza di un fortissimo sentimento: Draco non provava nulla di
così forte da essere sentito da lei, dall’Italia. E ciò lei se lo spiegava, da
quella che era stata l’ultima sensazione di lui che aveva avuto in Inghilterra
e per la quale non era riuscita nemmeno allora a localizzarlo: era vuoto,
appunto. Provava sentimenti ed emozioni evanescenti, che non mettevano radici
dentro di lui, come invece per esempio aveva fatto l’amore che avevamo
condiviso per quei indimenticabili dieci giorni e che era stato così forte da
essere percepito distintamente anche lontanissimo da noi. Quindi, Helder non
riusciva a sentirlo. Una volta, una notte che ero particolarmente triste e
sconvolta, mi aveva anche concesso di tornare per poche ore in Inghilterra,
inventando una scusa con Harry, che aveva prontamente mandato a difendermi un
plotone di Auror. Helder era andata in giro per Londra e per molte altre città,
cercandolo, sperando che provasse qualcosa che lo facesse sentire da lei. Ma
nulla… niente. Continuava ad essere vuoto. Non c’entrava, quindi, solo la
distanza. Era davvero impossibile sentirlo.
Le
avevo chiesto di spiegarmi, quindi, come facesse a sentire che fosse ancora
vivo e che vita poteva fare se non provava nulla di così forte. E lei mi aveva
risposto lapidaria che era vivo, perché in un confuso modo sentiva la sua forza
vitale, ma non sapeva dove fosse. Mi aveva fatto l’esempio di una stanza piena
di gente che parla a gran voce, dove si riconosce una voce che si conosce ma a
causa del frastuono e della tenuità della voce conosciuta, non si capisce da
dove essa provenga, se si usa solo l’udito. E, in quanto alla vita che faceva,
Helder era stata ugualmente telegrafica: “Potrebbe vivere in qualsiasi modo
Hermione… quello che so è semplicemente che non prova nulla di forte… sia in
positivo che in negativo… ma non c’è nulla di così strano o assurdo… semplicemente
potrebbe essere come una dei milioni di persone che vivono su questa terra e
che non provano mai nulla di così forte da poter esser percepito a distanza… il
vostro amore è stato raro per noi Empatici, te l’ho detto… non credere che sia
così comune sentire una persona a distanza… e se quel giorno, ho sentito la tua
disperazione nel castello di Dimitri, è stato indirettamente per lo stesso
motivo… era sempre collegato al perdere Draco, al perdere quell’amore… ma
invece Draco, che non ha fatto altro che perdere persone da quando è nato… lui
semplicemente si è svuotato del poco che gli era rimasto… per questo, allora
non l’ho sentito, non ho sentito dolore o disperazione… quando deve averti
persa, la sua parte più profonda, quella che sentiamo noi Empatici, credo che
fosse rassegnata, credo che semplicemente abbia sempre pensato in fondo a sé
stesso che era un errore averti per sé. Non significa non soffrire, ovviamente,
significa più realisticamente non concedersi di soffrire… e per questo, adesso,
probabilmente continua a non permettere a sé stesso di provare nulla di forte…
potrebbe persino essersi sposato, ma non amare sua moglie come amava te…”.
Quindi,
sostanzialmente, Helder per anni mi ha detto tutto. E non mi ha detto niente.
Ciononostante le sue supposizioni si sono rivelate tutte esatte, considerando
quanto mi ha mostrato Pansy riguardo all’inganno di Astoria: la mia fittizia me
stessa ha detto a Draco tutto quello che lui temeva di sentire da me, quello
che mi aveva urlato la sera che era tornato a casa di Pansy.
Dillo che ti odi per
esserti innamorata di me… dillo, dannazione… ammettilo una santissima volta…
sta tutto qui il punto. Non ti sei mai fidata di me e mai ti fiderai… ma sei
innamorata di me… e questo ti uccide…
Ovviamente,
non appena ho saputo che Raissa era andata via con Draco, il mio primo pensiero
è stato quello di trovare lui, cercando lei. Ma trovarla con l’Empatia è
impossibile: Helder me lo aveva già detto. Anni fa, le avevo chiesto di
controllare i miei amici, per sapere se stavano tutti bene, se eventualmente Dimitri
ed Astoria non si fossero vendicati di loro come era accaduto con Hayden. Era
un eccesso di zelo, ero convinta che Harry avesse già predisposto tutto, ma
dopo Hayden, non me la sentivo di rischiare. Ed inoltre, dato che avevo
preservato il segreto sullo Zahir per proteggere Helder stessa, non avevo
parlato del coinvolgimento di Raissa. Quindi, avevo chiesto ad Helder di
controllare soprattutto che lei stesse bene, che almeno fosse viva. Helder mi
aveva assicurato che era viva, ma anche nel suo caso, come per Draco, non
provava nulla di sufficientemente forte da essere sentito. Quindi, non poteva
essere rintracciata. Ovviamente allora mi era bastato sapere che fosse viva.
Helder, però, mi aveva detto chiaramente che difficilmente avrebbe sentito
Raissa, anche se avesse provato qualche cosa di molto forte, a meno che non le
fosse stata vicinissima. Curiosa come sempre, le avevo chiesto il perché e lei,
nervosamente, mi aveva rivelato di averlo scoperto con Dimitri. Le persone che
hanno vinto una prova con Adamar, sono cieche all’Empatia. Lei credeva che sia
perché perdono parte della loro umanità, e quindi della capacità di provare
sentimenti. Se ne era accorta con Dimitri, appunto: Helder era dovuta arrivare
praticamente fuori dal suo castello per sentire qualcosa di lui, che si era
rivelato per lei così negativo e disgustoso da farle chiedere come mai non lo
avesse sentito prima, a maggiore distanza.
“E
come farai a sentirlo se arriva qui, scusa?” le avevo allora chiesto una sera,
mettendo a letto Alex, la luna che compariva nel cielo terso della Sicilia
“Harry ti ha fatto stare qui perché crede che tu lo sentirai anche a
distanza…”.
“Una
volta che senti una sensazione così negativa e così particolare… ti si attacca
addosso… ne sentissi anche un eco indistinto… me ne accorgerei subito…” mi
aveva risposto laconica.
Quindi,
per trovare Raissa… mi restano solo i metodi tradizionali. È la sola cosa a cui
posso aggrapparmi per trovare Draco.
Una
parte di me, nemmeno tanto piccola, ovviamente sa che trovare Raissa e scoprire
che è ancora con Draco, anche adesso che Dimitri è morto, significa
probabilmente anche scoprire che stanno assieme. Ma in ogni caso, sebbene mi si
geli il cuore al pensiero, nulla cambia le mie volizioni. Io, Draco lo devo
trovare ad ogni costo.
Perché
deve sapere che Raissa probabilmente collaborava con Dimitri, deve sapere che
allora anche lei ci ha diviso. E se lei è estranea a tutto, devo sincerarmene
da sola. Devo essere certa che lui e Serenity siano al sicuro con lei.
Ovviamente devo trovarlo per Alex. Mio figlio si merita di conoscere suo padre.
E me lo merito io.
Mi
merito di raccontargli la verità, mi merito di dirgli che non ero io quella
donna che gli ha spezzato il cuore quel giorno, mi merito di dirgli che io non
mi sarei arresa, mai, con lui.
Mi
merito di rivederlo, anche solo una volta. E, stupidamente, anche se sono
passati cinque anni, mi merito di dirgli che lo amo ancora. E che non ho mai
smesso di farlo.
E
se non c’è più nulla che io possa fare per riaverlo… allora mi merito che me lo
dica lui.
Dopo
tutto quel carnevale di ricordi, la mia attenzione ritorna ai miei amici che
non hanno mai smesso un secondo di parlare, elaborando teorie su Raissa e su
come si potrebbe rintracciarla. Il mio contributo è stato minimo fino ad ora,
me ne rendo conto, ma sinceramente non ho moltissime idee. E la cosa mi
demoralizza in modo sconcertante. Raissa non aveva parenti, il suo solo
contatto era Dimitri… e lui non c’è più. Ed amici… non so manco chi siano e se
li avesse.
Improvvisamente
Seth sobbalza e batte poco elegantemente le mani in segno di vittoria, urlando:
“Ci sono!”. Lo guardo senza capire, se mi dice che sta pensando al giusto
colore delle mèches che vuole farsi, giuro che lo appendo per le caviglie…
Pansy e Dean, poco abituati alle intemperanze del mio amico, sobbalzano. La
prima, soprattutto, inizia a borbottare, anche se da quello che Seth mi ha
raccontato, si conoscono da un annetto. Quando Pansy aveva deciso di sposare
Dean, era venuta al Petite Peste per cercare Draco, usando ovviamente la
copertura babbana di Danny Ryan, credendo che potesse essere tornato lì.
Ovviamente Seth, come tutti, non lo vedeva da cinque anni.
“Si
può sapere che diamine hai da gridare, Seth?! Non so se lo sai, ma sono
abbastanza sul chi vive da cinque anni!” lo rimprovero, dandogli una gomitata
sul fianco.
Lui,
per nulla intimorito, mi stringe le mani gioviale e mi fa con occhi a stella:
“Ma Herm, non capisci?! Il libro! Il libro è la chiave di tutto!”.
“Il
libro?!” chiediamo all’unisono sia io che Pansy e Dean. Capisco che Seth sia
oggettivamente poco abituato al mondo della Magia, e quindi può essere
sconvolto e cianciare di cose inesistenti… ma insomma qui si esagera! È troppo
suggestionabile, sapevo che dovevo lasciarlo a casa e…
“Il
libro, il libro, dannazione! Mi avete fatto vedere i ricordi di Pansy…
possibile che ve lo siete scordato? La mattina in cui Danny poi è andato via
con Raissa… lei è scesa dalle scale, ed aveva un libro con sé… e questa cosa a
te è sembrata strana, no, Pansy? Perché era un libro di poco valore, e perché
lei possedeva già tutta la conoscenza magica del mondo… ti sembrava strana
anche per altri particolari, soprattutto per la fretta che aveva di
giustificare che aveva fatto cadere la barriera magica a difesa della villa… ma
forse se troviamo il libro, qualche indizio possiamo averlo… sempre meglio che
stare qui a rimuginare sul nulla…!”. Seth termina la sua filippica, con un
sorriso soddisfatto.
Un
mago e due streghe hanno continuato a blaterare per due ore, e lui, da semplice
babbano, ha trovato la cosa più simile ad un inizio di ricerca che potevamo
avere.
Io,
Voldemort e le sue menate sulla superiorità dei maghi, non le ho mai capite.
Dopo
un’intera notte a cercare, il libro non esce fuori.
Pansy
ha praticamente rivoluzionato tutta la casa da quando è nata Charisma, e molti
dei libri che erano in biblioteca li ha spostati in altri luoghi della casa,
allo scopo di liberare spazio per la stanza della bambina. E dato che lei,
ovviamente, non ricorda assolutamente nulla di quel libro, né di dove si trovi,
né tantomeno se non l’abbia gettato via come si riprometteva sempre di fare,
abbiamo dovuto perlustrare tutta la casa. Seth, dopo il suo lampo di genio, si
è addormentato sul divano della biblioteca con la bocca aperta, mentre Pansy,
solo qualche ora fa, è andata a consolare Charisma che si era svegliata per un
incubo. E non è più tornata.
“Io
la bambina non l’avevo sentita piangere…” borbotta Dean, spulciando un’altra
libreria nel corridoio “Avrà trovato la scusa per dormire…”, lo sento
bofonchiare qualcosa poi che suona come: “Maledetti Serpeverde…”.
Sorrido
con un angolo della bocca, il calore alla bocca dello stomaco che le parole di
Seth e la sua intuizione hanno acceso che si va raffreddando progressivamente.
Ormai mi sono rimasti solo pochissimi libri da controllare. E non è nemmeno
certo che, se anche trovassi il libro, potrei cavarne qualcosa. Anzi,
probabilmente Raissa lo leggeva per noia, o per chissà che altro. Non significa
proprio niente. Di primo acchito, la mancanza di risorse mi ha fatto
considerare quella traccia come vitale, ma adesso che ho modo di pensare, mi
rendo conto di quanto fosse in realtà poco importante. Di quanto in realtà, è
solo un’altra stupida illusione a cui mi sto aggrappando, per impedirmi di
pensare che, davvero, non ci sono più speranze.
Alla
fine, senza forza, mi siedo per terra, la schiena poggiata sulla parete dietro
di me, chiudendo gli occhi. Il sole entra pigramente dalla finestra del
corridoio, colorando il bianco delle pareti e facendomi strabuzzare gli occhi
stanchi. Dovrò darmi un contegno, Alex si sveglierà tra poco, e non deve, non
deve vedermi piangere. Magari se mando Dean a…
“Trovato!”
urla Dean alla fine, agitando il piccolo volume polveroso. Mi alzo in piedi,
scattando sull’attenti, come mi avesse punto una vespa, mentre un’insperata
onda di calore liquido mi avvolge da capo a piedi. Mi avvicino a Dean, gli
occhi che brillano, e lui mi sorride, dicendo solo: “Lo vedi? C’è ancora
speranza…”.
Annuisco
senza fiato, facendo un passo verso di lui, e Dean mi mette un braccio sulle
spalle, baciandomi sulla tempia.
Senza
nemmeno respirare, ci sediamo per terra tra i volumi sparsi ed iniziamo a
sfogliare il piccolo libro, che rischia di cadere a pezzi ogni volta che
voltiamo una pagina. Starnutisco per la polvere che è sfuggita via, e ne leggo
il frontespizio. Le mie spalle si afflosciano, sembra un libro come tanti
altri, solo vecchio, ma nemmeno così antico da far pensare a chissà quale
incantesimo nascosto o segreto inconfessabile. Il titolo è quanto di più neutro
e poco rivelatore possa esistere: “Profetesse Europee. Storia della Divinazione
femminile attraverso i secoli”.
Raissa
l’avrà letto solo per caso, o magari effettivamente non ricordava qualcosa:
sfogliandolo, sembra solo un catalogo di profetesse famose, dai tempi antichi
fino a quelli recenti, divise per nazione. Trovo Cassandra di Troia e la
Cooman, tra quelle che personalmente ricordo. Ma niente di più.
Improvvisamente
qualcosa mi fa nuovamente sobbalzare, Dean mi guarda curioso mentre mi rendo
conto che la numerazione di una pagina è errata. Semplicemente, ne manca una.
Manca
una pagina… e nella sezione “Europa orientale”.
Senza
lasciarmi prendere dall’entusiasmo, senza dare adito a troppe speranze, prendo
nota del numero di pagina mancante e chiamo immediatamente il Ghirigoro,
chiedendo notizie. Il libraio mi riconosce subito, praticamente spendevo
stipendi interi da lui e non se la prende nemmeno per averlo svegliato così
presto. Mi dice che controllerà e mi manderà la pagina mancante.
Quando
la risposta arriva un’ora dopo, con un gufo, la apro incerta sotto lo sguardo
di Pansy e degli altri. Potrebbe essere tutto, e niente. Potrebbe essere
semplicemente che manca una pagina perché il libro è vecchio e rovinato, non
perché Raissa ha voluto nascondere qualcosa, anche se la coincidenza
dell’Europa orientale è ben insolita.
Ma
non così tanto, mi ripeto ancora, sciogliendo il nodo della pergamena
inviatomi, il sudore che mi fa scivolare le mani.
Sono
passati cinque anni… e questa può essere solo una pagina strappata dal tempo. Meglio
che mi ripeta anche questo.
Srotolo
la pergamena e il cuore mi sale in gola, dandomi il senso di una vertigine che
mi fa quasi cadere.
Non
è una coincidenza, non è nemmeno una pagina strappata a caso e non è neanche uno
sciocco scherzo per farmi capitolare del tutto.
“Che
dice, Herm?” mi chiede Seth, agitandosi sul divano come un bambino.
Bisbiglio
con la poca voce rimastami: “E’ la scheda di una profetessa vissuta una decina
di anni fa… in Russia…”, apro e chiudo la bocca un paio di volte, la lingua
impastata mi fa incespicare mentre dico: “E’… Tatia Krasova, Pansy…”.
Dean
e Seth guardano entrambe a turno, cercando di capire di chi si tratti. Pansy si
alza dal divano sconvolta, mi strappa il foglio dalle mani e lo guarda senza
parole, tornando poi a guardarmi.
Pansy
ricade seduta, biascica con un filo di voce: “Se era una profetessa, se
conosceva il futuro… quello che vi sarebbe successo… forse, quando ha
incontrato Draco nel mondo dei morti… non voleva che ti ricordassi di lei, in
quel momento… “.
“…
forse voleva che mi ricordassi di lei… adesso…” finisco io, incerta,
guardando il ritratto sulla pergamena.
Non credo di aver mai
scritto un capitolo così lungo e così difficile, specie perché ho dovuto
rimettere assieme tutto quello che avevo disseminato per mesi! Credo di aver
risposto a tutte le recensioni di cui vi ringrazio sempre ed enormemente! E come
sempre chiedo scusa dell’enorme ritardo! E chiedo scusa anche della brevità del
mio intervento, ma sono di corsa! Un bacione a chi ancora, con enorme pazienza,
segue questo delirio sconnesso!
RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Draco ed Hermione sono
riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias SummerLayton,
che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per
uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione,
ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno,
le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere
nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco.
Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di
recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza
sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è
parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha
convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che
le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi
sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco
ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora
fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i
ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio,
Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone,
Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da
Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la
cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la
prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i
suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata
da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una
sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa
di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si
riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di
perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro
situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua
cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene
individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata
relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia
nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando
dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di
sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui
Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di
prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami
quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed
Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni,
Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio
Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia.Dean, però, le rivela che Draco,
cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di
Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli
eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata
l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne
rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague,
proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione
di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden,
l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente
e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello
di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge
Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che
sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo
con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della
gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia
da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte
violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si
trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un
matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed
Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una
traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco,
incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di
nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in
modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni
dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una
profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la
pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatia
non voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel
momento, alla scoperta del gesto di Raissa.
Capitolo 37 – Red string of fate
Ho sempre creduto nel potere dei libri di
unire le persone. Io, i libri li ho sempre idolatrati, questo si sa, sia che
fossero testi di scuola o che fossero romanzi. È come se per me contenessero
tutte le risposte del mondo ed ogni modo per evadere dalla vita: per quanto uno
si sforzi e magari rivoluzioni completamente sé stesso, comunque siamo nati con
una vita sola addosso.
Per quanto, per esempio, io faccia tutto
per cambiare, sarò sempre una donna inglese, nata babbana, che ha avuto un
figlio a ventiquattro anni e che ama un uomo di nome Draco Lucius Malfoy.
I libri, spesso, ti danno l’illusione che
tu possa essere un’altra persona, ti fanno vivere in un altro mondo e in
un’altra era. Puoi essere chi vuoi, leggendo.
E, in questi cinque anni, ho desiderato
tantissime volte essere un’altra, in modo egoista e colpevole me ne rendo
conto. Ma spesso capitava e non ci posso fare niente.
L’Italia non era diversa dalla cella
polverosa in cui ero rinchiusa quando ero prigioniera di Dimitri: era come
sempre una terra bellissima, dorata, luminosa, piena di gente affabile e cordiale.
Ma c’erano giorni in cui era semplicemente un’altra prigione, dal tetto azzurro
come il cielo e dai confini di mare trasparente. Ero persino su un’isola, come
se non potermi muovere liberamente non fosse già sufficiente… e questo acuiva
ancora di più quella sensazione claustrofobica.
I libri erano l’ora d’aria alla fine della
giornata.
A letto, con Ron accanto, ne divoravo
decine dei generi più diversi, spesso addormentandomi anche alle tre di notte
per finirne uno che mi aveva particolarmente catturato. Per qualche ora, mi
dimenticavo chi ero. E quando sollevavo gli occhi dalla pagina e scoprivo con
la vista che mi bruciava, che ero ancora lì, che ero ancora io, che Ron era
ancora lì e che Draco ancora non c’era... annegavo nei sensi di colpa, ma non
potevo impedirmi di iniziare un nuovo romanzo che mi portasse via da lì.
Via dal dolore, via dalla nostalgia, via
dall’amore che non provavo per Ron e da quello che non moriva mai per Draco,
via dal continuo terrore che accadesse qualcosa ad Alex.
Ron, vedendomi più presa del solito dai
libri, aveva cercato di avvicinarsi a me, iniziando anche lui a leggere qualche
libro prima di andare a dormire: tendenzialmente crollava dopo poche pagine,
addormentandosi a bocca aperta con il libro aperto sulla faccia. Però riuscì a
finirne qualcuno, anche se non con il ritmo forsennato con cui leggevo io.
I ricordi migliori che ho della nostra
vita da pseudo-sposati, sono i giorni in cui, sbuffando, veniva a dirmi che
aveva finito un libro che io gli avevo consigliato, ma che non gli era piaciuto.
E intavolavamo lunghissime discussioni sul perché la protagonista aveva fatto
questo e non quell’altro, spesso interrotte solo dall’arrivo di Alex che, come
sempre, aveva a sua volta finito qualche libro e voleva dire la sua. Mio figlio
ha quasi prima imparato a leggere che a parlare. E ha lo stesso amore maniacale
per la lettura che ho io, come con tantissime altre cose che condivide con me.
Non che sia una mia piccola copia al
maschile, intendiamoci… certe volte somiglia così tanto a Draco da suscitarmi
la stessa irritazione.
Ma almeno legge quanto leggevo io alla sua
età.
Quindi, quando ovviamente una settimana fa
è saltato fuori dal libro di Pansy il nome di Tatia Krasova ed ovviamente è
diventato necessario fare tutte le ricerche del caso su vecchi e nuovi tomi per
scoprire di chi si trattava, io ne sono stata quasi felice. Era come tornare ai
tempi di Hogwarts e dei compiti. Sentivo già l’odore della pergamena e
dell’inchiostro, il sapore della cioccolata alla cannella che mi piace bere
quando leggo, e, per forza di cose, avendo trascinato a suon di lagne e
minacce, i miei amici in questa storia, mi immaginavo lo stesso miracolo
accaduto con Ron.
Discussioni animate, interpretazioni sugli
autori, idee delle più varie, supposizioni da confutare: Tatia è stata a suo
modo famosa, ma ovviamente solo in Russia. E non essendo in grado di leggere
ancora il cirillico, mi dovevo accontentare delle poche e lacunose fonti
inglesi, di cui non era da tralasciare nulla, considerando che non è ancora
assolutamente inconfutabile che esista un legame tra Raissa e Tatia. Potrebbe
aver strappato quella pagina per i motivi più disparati… e potrebbe anche non
averlo fatto lei, a conti fatti.
Comunque il fatto che lei sia una
Profetessa e che abbia incontrato Draco nel regno dei morti, dicendogli
espressamente di far sì che io mi ricordassi di lei… è una circostanza più che
convincente nel farmi cercare ogni notizia su di lei. Io non la conoscevo
affatto, non so assolutamente chi sia. E ci fosse anche solo una speranza che
lei abbia visto qualcosa su me e Draco, sin da quel momento, e voglia adesso
aiutarmi in qualche confuso modo… bè, ripeto, giustifica ogni nottata sui libri
per sapere quanto più possibile su di lei.
Ma ovviamente non avevo fatto i conti con
la gentaglia da cui sono circondata, e che dopo una settimana di ricerche,
ormai sta perdendo il lume della ragione.
È una fresca mattina di metà luglio, siamo
tutti in biblioteca e siamo sommersi dai libri da spulciare e leggere. Ogni
tanto, un gufo entra dalla finestra portandone un altro, lo deposita sul tavolo
e vola via, dopo aver reclamato una ricompensa di cibo. All’ingresso di ogni
gufo, Seth, Pansy e Dean borbottano ed inveiscono all’indirizzo del povero
animale, mentre io cerco di concentrarmi. Alex e Charisma colorano dei libri
illustrati, non badando minimamente a noi.
All’ingresso del dodicesimo gufo di quella
mattina, mandatomi dal proprietario del Ghirigoro, Seth scoppia ed inveisce:
“Non studiavo così tanto dai tempi della maturità!”.
Roteo gli occhi nervosamente, ignorandolo
e continuo a leggere, gettando un’occhiata ad Alex per vedere se sta bene.
“Io non studiavo così tanto, tipo, da… mai!” commenta accorato Dean, scagliando
lontano il tomo che ha appena concluso di leggere.
“Non credo che ai MAGO non hai studiato
per nulla…” borbotto scocciata, voltando un’altra pagina “In fondo li hai
passati con voti soddisfacenti se non ricordo male…”.
“Oltre ogni previsione quasi ovunque, sì…”
ribatte lui casualmente, stiracchiandosi “Millicent Bulstrode aveva davvero
studiato bene…!”.
“Che diamine c’entra lei adesso?”
commento, senza davvero ascoltarlo, massaggiandomi il collo stanco.
“Ah bè, c’entra eccome… se non mi avesse
passato tutto lei, dubito che avrei superato gli esami…”.
“Che cosa?!” mi scandalizzo, guardandolo
storto. In tutto questo, ovviamente, Pansy è rimasta assolutamente inerme,
seduta a gambe accavallate sul divano mentre sfogliava velocemente un libro con
aria annoiata. Dubito che stia davvero leggendo, credo che guardi solamente le
immagini e passi oltre. Cosa che mi costringerà a rivedere anche i libri che
lei dovrebbe aver letto.
“Aveva un’enorme cotta per me, sin dal
primo anno…” mi risponde Dean, non scomponendosi per nulla, attirando
l’attenzione di Seth che ha tipo il fiuto di un cane da caccia quando si tratta
di pettegolezzi “E quindi quando ci furono i Mago, la adulai un po’ e le
promisi un appuntamento ad Hogsmeade… così mi fece copiare senza tante storie…”.
“E ci sei uscito poi con lei?” chiede Seth
curioso, sporgendosi oltre il tavolo con gli occhi luccicanti. Dean rotea gli
occhi e sospira: “Se conoscessi Millicent Bulstrode, non mi faresti questa
domanda…”. A bocca spalancata, biascico: “Mi era sembrato strano che avessi
effettivamente studiato… e che non mi avessi chiesto nemmeno il più piccolo dei
suggerimenti… sei… sei… scorretto! Ed
abbietto! Ecco che cosa sei! Hai
imbrogliato! Ed hai ingannato pure quella poveraccia della Bulstrode!”.
“Ma figuriamoci…” dice noncurante Dean,
agitando una mano “Dalla morte di Silente c’erano molti meno controlli… tu da
chi hai copiato Pans?”.
“Metà da Blaise… e credo l’altra metà
sempre da Millicent…” risponde lei, senza nemmeno alzare gli occhi, poi,
ispirata, dice senza cambiare tono di voce: “Adesso capisco perché l’invito al
nostro matrimonio che spedì a Millicent, mi ritornò indietro pieno di Tranello
del Diavolo…”.
Mentre sto quasi per cadere dalla sedia guardandoli,
Dean replica scioccato ed inorgoglito dallo scatto di gelosia della Bulstrode:
“Non me l’avevi mai detto!”.
“Non sei certo il mio biografo…” risponde
Pansy, guardandolo oltre la copertina del libro.
“E la cosa non ti è sembrata strana?!”.
“Ah no… credevo che ce l’avesse con me
perché mi ero sposata prima di lei… insomma ce l’aveva con tutte per quel
motivo, è ancora zitella per quello che ne so… le rimandai la partecipazione e
la imbottii di Pus di Bubotubero…” .
Questi sono pazzi, PAZZI! .
Dean scrolla le spalle e riprende
scocciato a leggere, mentre Seth che brama dalla voglia di partecipare, inizia
a trillare tutto contento: “Una volta, un ex di Kevin mi spedì un ciambellone
pieno zeppo di fragole! E io sono allergico…! Mi venne quasi uno shock
anafilattico! Ma poi Kevin mi portò all’ospedale e mi fecero un’iniezione o
qualcosa del genere… fu una scena bellissima! Lui aveva ancora l’uniforme della
polizia, sembrava una scena da ufficiale
e gentiluomo!”.
Mi scompiglio sconcertata i capelli
chiedendo con un filo di voce, vagamente stupita: “Certo, deve essere
bellissimo avere come ex degli assassini che bramano ucciderti con dei pacchi
avvelenati…”.
“Non è colpa nostra se hai due ex che
fanno pena…” soffia Pansy, guardandomi dall’alto in basso “Di quello che hai
mollato in Italia, meglio che non parlo… e l’altro… figuriamoci… uno che non si
toglie i calzini per fare l’amore, non è manco degno di considerazione…”.
“Non sapevo che Malfoy non si togliesse i
calzini…” commenta stupito Dean, mentre io spalanco la bocca, affrettandomi a
coprire le orecchie di Alex che, ovviamente, captato il suo cognome, dice: “Non
è vero! Io i calzini me li cambio ogni giorno… zio Dean è un bugiardo, mamma!”.
“Veramente io non parlavo di Draco… ma di
te…” continua Pansy come se nulla fosse “Che io ricordi e la Granger può confermare…
Draco non usava proprio il pigiama…”, e via alle occhiate maliziose. In tutto
questo, Alex non ha smesso un secondo di divincolarsi per togliersi le scarpe e
mostrare i suoi piccoli calzini perfettamente puliti, Dean ha continuato a
difendersi sostenendo che l’episodio dei calzini è accaduto solo una volta e
solo perché faceva freddo, e Seth alterna fasi da “credo di essermi innamorato
di Kevin per la divisa, insomma è il non plus ultra per un uomo, rendiamoci
conto!” a “che fortuna, tutte e due siete state con Danny! Herm non mi ha mai
dato particolari, è così possessiva, dai dimmi qualcosa Pansy! Non tenetevi il
meglio per voi!”.
Quando Pansy tra gli schiamazzi generali
inizia a raccontare della sua prima volta con Draco, sostenendo a viva voce che
quando lo fai con un Malfoy, te lo ricordi per tutta la vita, mentre Dean la
guarda agghiacciato e Seth pende dalle sue labbra, capisco che è decisamente il
momento di fare una pausa.
Sempre tenendogli le mani sulle orecchie,
prendo Alex ed esco fuori, non prima di aver urlato rossa in viso: “Se quando
rientro, sento ancora il nome di Draco in un discorso di tale tenore, giuro che
vi sminuzzo e vi metto a macerare nell’aceto bianco!”.
“Che vi dicevo, è troppo possessiva!”
sussurra complice Seth, sedendosi stile comare accanto a Pansy “Danny è un bene
dell’umanità! Deve essere portato alla conoscenza di più persone possibili! Ed
anche se ormai è di tua esclusiva proprietà, avremo anche il diritto di averne
una conoscenza indiretta!”.
Chiudo la porta con un piede, sbattendola,
lasciando che il sorriso che per un attimo mi ha curvato le labbra, scoppi solo
nel momento in cui arrivo nel corridoio, quando Alex, liberato dalla mia
stretta, ripete battendo il piede: “Mamma, voglio dei nuovi calzini!”.
Da quando ho trovato quel libro e il
riferimento a Tatia, è come se qualcosa si fosse improvvisamente acceso dentro
di me: qualcosa che, tanto per intenderci, era morto cinque anni fa nel momento
esatto in cui ero stata separata da Draco. E’ qualcosa che assomiglia
spaventosamente persino alla felicità. Certo, è ovvio, Draco è ancora disperso
chissà dove, forse è anche con Raissa, magari mi odia, forse si è persino
scordato chi sono, ma… qualcosa finalmente si sta muovendo. Ed uscire dall’impasse
in cui mi sono mossa in questi ultimi anni, è qualcosa di straordinario, al
punto da darmi le vertigini e l’ebbrezza. E ripeto, non è successo nulla di
che: del resto, non sono nemmeno certissima che trovare informazioni su Tatia
Krasova mi conduca da Raissa.
Ma se Tatia cinque anni fa ha detto a
Draco di farmi ricordare di lei e io sono più certa di non conoscerla… poteva
riferirsi solo a questo, solo al momento in cui ho trovato quel libro, visto
che era una Profetessa e magari vedeva nel futuro anche dall’aldilà. Ho pensato
anche ad un altro piccolo particolare: Tatia non era in pace, Draco me l’aveva fatto
capire chiaramente.
Non era come Helena, trasfigurata di luce
e rifulgente come un angelo. Era tra le anime che Adamar aveva mandato per
punire Draco stesso, tra gli spiriti probabilmente morti violentemente e
sicuramente ancora incattiviti verso la vita. Tatia, peraltro, quando era
apparsa a Draco, aveva ancora una ferita all’addome, forse la stessa che
l’aveva uccisa.
Eppure sono convinta che non sia una
specie di spirito vendicatore, che vuole colpire me o Draco, o peggio ancora
mio figlio. Sono certa che, in qualche confuso modo, mi voglia aiutare e sono
anche certa che Raissa c’entri qualcosa. Quindi, anche se di lei al momento so
ancora molto poco dato che il materiale scarseggia, certamente sono nella
migliore direzione per trovare Draco da cinque anni a questa parte. La
sensazione di calore agli arti che mi ha liberato dal torpore autoimpostomi in
questi anni, si è tradotta anche nella considerazione di un particolare che,
fino ad ora, non avevo ancora considerato ed apprezzato appieno: sono libera. Posso finalmente muovermi
come voglio, uscire per un gelato, fare una passeggiata, andare in un parco,
persino andare fino al mare se mi va, anche se questo non credo che mi andrà
mai.
Da quello stramaledetto volo nel lago di
Hogwarts, quando io e Draco fuggimmo da Astoria e stavo per morire annegata, ho
un terrore sacrosanto dell’acqua.
Ma intanto tutto il resto lo posso fare e
quindi, approfittando del fatto di aver perso quei tre perversi dietro
chiacchiere scabrose, sono finalmente uscita in città con Alex, che non aveva
mai visto Londra. Di primo acchito, tutto lo ha spaventato, mi ha stretto la
mano guardandosi attorno con gli occhi grigi socchiusi e sospettosi, abituato
com’è alla nostra casa nella piccola isola siciliana dove vivevamo fino a dieci
giorni fa. Ma è bastato entrare ad Harrods e si è ovviamente trasformato,
mentre correva in giro tra gli espositori di giocattoli come un pazzo,
indicandomi ogni tanto qualcosa.
Ma il bello di Alex è che non è un bambino
assolutamente comune: sarà che sono io che lo vedo così, essendo sua madre. Ma
mi sorprende sempre, come faceva Draco.
Spesso, nei momenti peggiori della mia
vita, ho davvero creduto che Dio me l’abbia mandato per sopportare meglio
l’assenza di suo padre.
Con le braccia ingombre di macchinine,
robottini ed altri giocattoli di plastica, mi ha guardato con gli occhi brillanti:
“Posso averne uno?!”.
“Puoi prendere solo una cosa, Alex… ci
manca soltanto dover fare un’altra valigia per tutta quella roba…” ho
borbottato, incrociando le braccia.
E lui, immediatamente, senza nemmeno
pensarci un secondo, ha lasciato tutto su uno scaffale, trattenendo per sé solo
un piccolo involto azzurro.
“Che cos’è?” ho chiesto, chinandomi alla
sua altezza. E lui, sollevando il mento come sono solita fare sempre io e
mettendo il broncio come faceva solo Draco, ha berciato categorico: “I miei
nuovi calzini… così lo zio Dean non dirà più che un Malfoy non si toglie i
calzini! Gliela farò vedere io!”. Ho trattenuto le risate alla sua faccia seria
mentre gonfiava le guance, e ho annuito dandogli ragione.
A parte questa fissazione insana, adesso,
per i pedalini che è tutta colpa di Pansy e della sua lingua lunga, ovviamente
mi ha ricordato Draco come nulla al mondo, al punto da farmi stringere la gola
in un nodo che mi ha ispirato a piangere. Alex sa poco quanto niente della
stirpe dei Malfoy e di tutto quello che ne consegue, ho sempre pensato che
fosse dovere di Draco, quando lo avessimo trovato, dirgli tutto del prezioso
retaggio che ha. Certo, erano doppiogiochisti razzisti e tutto il resto, ma
sono sempre una delle famiglie più antiche di Maghi della Gran Bretagna, anche
se probabilmente l’illustre albero genealogico si sta rotolando nella tomba
dato che l’ultimo erede non è null’altro che un Mezzosangue. Però, appunto,
Alex dei Malfoy non sa nulla.
Questo orgoglio è tutto suo, tutto di
Draco: mio figlio ce l’ha nel sangue. E credo che lo usi spesso perché,
inconsciamente, è la sola cosa che lo rende unito a suo padre. Gli piace dire
che è un Malfoy perché è la sola cosa che concretamente sa di suo padre: il
nome. Si è sempre fatto bastare solo quello, aiutato anche dal fatto che io non
ho nemmeno una fotografia di Draco. E, come se non bastasse, ho di lui una
memoria che è pelle, sangue e cuore, poco adatta ad essere condivisa con un
bambino. I miei ricordi di Draco, specie di quando era piccolo, non sarebbero
molto adatti a darne un quadro esaustivo e soprattutto vero ed onesto. Che gli
dovrei dire? Che era un aspirante assassino? Che lo è stato in guerra? Che era
figlio di uno dei peggiori Mangiamorte in circolazione? Quindi sono sempre
stata contenta che Alex non mi facesse eccessive domande su Draco. Di lui,
appunto, aveva solo il nome e quello lo sfoggiava sempre orgogliosamente in
decine di circostanze. Poi, con il tempo, mentre mio figlio cresceva, mi sono
resa conto che era strano, che non poteva essere imputato solo al candore di un
bambino che, innocentemente, accetta una realtà che gli era stata messa sotto
gli occhi fin dalla nascita. Era sempre vissuto con l’idea di un padre lontano,
ci si era abituato, ma non faceva domande su di lui, non chiedeva come fosse o
perché non fosse con noi, anche se ha sempre frequentato altri bambini che
avevano sempre la mamma e il papà. Me ne sono preoccupata, ovviamente, ma non
volevo chiedergli direttamente qualcosa, in fondo era felice, lo è sempre
stato. Era sereno, e comunque nominava “il suo papà” in molti discorsi. Ma non
era curioso a riguardo.
Un giorno, senza che nemmeno lo chiedessi,
mentre guardavamo Alex che giocava in giardino con Ron, Helder rispose alla mia
domanda muta: “E’ un bambino felice, sereno ed amato… devi stare tranquilla… ti
vuole bene come nulla al mondo. E vuole bene anche a Ron… e persino a suo
padre, anche se non lo conosce… ma nella sua mente… Alex scinde Draco e suo
padre, come se fossero due persone diverse. Del secondo, sa che è il suo papà e
tanto gli basta. Del primo, non chiede nulla… perché sente che ti fa soffrire e
fa arrabbiare Ron… per quello sta zitto…”.
Avevo incassato le parole di Helder con un
sospiro, chiudendo gli occhi ed accontentandomi di sapere che almeno era sereno
al riguardo.
Per questo, quando finiamo le compere e ci
sediamo in un parco a mangiare un gelato, la domanda di Alex che mi giunge
improvvisa, come un lampo in cielo, non mi sorprende poi del tutto. In dieci
giorni, è tutto cambiato: mi vede più serena, Ron non c’è e sente nominare
Draco decine di volte da Pansy e da Seth. Improvvisamente tutta la curiosità di
mio figlio risorge come un fiore d’estate.
“Mamma, posso farti una domanda?” mi dice
cauto, guardandosi le scarpette da ginnastica rossa, mentre agita i piedi
avanti ed indietro sull’altalena.
“Certo tesoro che puoi…” sorrido
incoraggiante, improvvisamente persino pronta per quelle domande che so già che
arriveranno.
“Mi prometti che non ti arrabbi?” bercia
lui, a testa bassa, continuando a guardarsi i piedi. Sorrido nuovamente, mi
chino sui talloni e poggio le mani sulle sue ginocchia, esortandolo a
continuare.
Lui, illuminandosi, dice con un filo di
voce, dopo aver sollevato gli occhi verso di me: “Ma perché papà non è con me e
con te? Non ci voleva bene?”.
Qualcosa nell’aspetto di Alex mi fa
bruciare gli occhi e pizzicare la gola, ma trattengo con tutte le mie forze il
pianto, sospirando. Alex ha le spalle contratte, il labbro inferiore che trema,
gli occhi grigi lucidi e stringe forte le corde dell’altalena tra i pugnetti.
Questa domanda doveva tenersela dentro da chissà quanto tempo.
“Tu che cosa pensi, tesoro?” chiedo,
cercando di incoraggiarlo e simulando una calma che non possiedo “Pensi che
papà non ci voglia bene?”.
Lui sembra spiazzato dalla mia domanda e
fa una smorfia strana, mettendo una specie di broncio buffo, mentre riflette
pensosamente. Dopo qualche secondo, fa incerto: “La maestra, una volta, mi ha
detto che siamo nati perché la mamma e il papà si volevano tanto bene…”, poi,
acquistando colore sulle guance, asserisce con il tono di chi sta
tranquillizzando un fratello minore: “… quindi doveva volerti bene tanto,
mamma!”. Sorrido e gli accarezzo piano la guancia, il nodo in gola che non ne
vuole sapersi di sciogliersi. Respirando ancora, sussurro convinta: “Visto? La
sapevi già da solo la risposta… la maestra aveva ragione… papà voleva molto
bene alla mamma… e per questo, sei nato tu…”.
“Ma perché allora non sta mai con noi?”
chiede ancora, animandosi e spingendosi con l’altalena “Il papà di Marco non
c’è mai a casa… ma la sua mamma dice sempre a Marco che loro sono dimezzati e
quindi non stanno più assieme! Pure voi siete dimezzati?!”.
“Dimezzati…? Ah vuoi dire, divorziati…”
capisco, lasciandomi sfuggire un altro sorriso e rendendomi conto di quanto mio
figlio abbia captato in questi anni, senza però fare il benché minimo accenno.
Siccome il discorso si preannuncia lungo e siccome questa spiegazione gliela
devo da troppo tempo per liquidarla in due minuti, lo sollevo dall’altalena,
per poi sedermi con lui in braccio che, ormai, non mollerà l’osso se non del
tutto convinto. Infatti, si volta di mezzobusto verso di me, continuando ad
interrogarmi con gli occhi grigi spalancati.
“Allora, tesoro…” inizio con un filo di
voce, poi mi do coraggio e respiro profondamente, stringendolo “La mamma e il
papà si volevano molto bene… e proprio perché erano tanto felici, un giorno,
decisero di farti nascere… perché volevano tanto che tu nascessi e stessi con
loro. Per me e papà sei sempre tu la cosa più importante del mondo…”, sospiro
ancora, tecnicamente io e Draco non abbiamo deciso proprio niente su Alex, ma
ovviamente non mi pare il caso che mio figlio sappia di non essere stato né
programmato, né tantomeno gradito in un primo momento. Alex annuisce
vigorosamente con il capo, come tutte le volte che ha capito qualcosa e ne è
profondamente soddisfatto. Incoraggiata, proseguo, dondolandomi avanti ed
indietro: “Solo che, un giorno, arrivarono delle persone molto cattive… un mago
ed una strega…”.
“Come te e Ron, mamma?” chiede lui,
incuriosito, agitandosi sulle mie gambe. Conosce la magia da quando era
piccolo, si divertiva vedendo gli occhi di Helder cambiare colore, ha persino
spostato diversi oggetti quando era in fasce, specie quando si innervosiva. Da
un paio di anni, da quando ha avuto l’età per capire, gli ho parlato della
differenza tra babbani e maghi e sa quindi di dover evitare di far vedere i
suoi poteri. Ciò, quindi, si è tradotto in un’ossessione verso la magia che lo
porta a chiedermi ad ogni compleanno il numero di anni che mancano per andare
ad Hogwarts.
“Sì, Alex… come me, Ron… ed anche come
papà, zia Pansy e zio Dean…”.
“Zio Seth, invece, non è un mago? Lui dice
sempre che fa magie contro il crispo…”.
Mi gratto la guancia, l’ho sentito io
stessa Seth cianciare in quel modo questa mattina: ha dato uno sguardo ai miei
capelli, che non ho avuto modo di lisciare, e mi ha dato tutta una sfilza di
boccette che secondo lui, “fanno magie contro il crespo”. Inutile dire la fine
che hanno fatto quelle boccette. Accidenti a lui e alle orecchie di Alex che
sente sempre tutto!
Per semplicità, replico ad Alex che lo zio
è un tipo di mago particolare che fa delle magie senza bacchetta. Poi riprendo:
“Il mago e la strega, però, non erano buoni come me e papà o come gli zii…
erano molto cattivi… e non volevano che mamma e papà stessero assieme, e
potessero stare con te. E quindi raccontarono tante bugie a papà, dicendogli
che la mamma non gli voleva più bene…”. Alex sgrana gli occhi grigi, come se
gli stessi raccontando una fiaba, e mi guarda rapito: “Erano proprio tanto
cattivi, allora!”.
“Già, tesoro…” sorrido tristemente,
guardando oltre il mio bambino e concentrando per un attimo lo sguardo sul
cielo tra i palazzi di Londra “E quindi papà divenne molto triste e decise di andare
via con la tua sorellina e non tornò più… quindi la mamma rimase da sola e,
siccome tu eri piccolo piccolo, andò lontano così da
poterti far nascere… perché il mago e la strega cattivi volevano fare del male
anche alla mamma…”.
“E Ron? A lui non volevano fare male?”.
“No, Alex… Ron stava con noi perché è un vecchio
e caro amico della mamma, e la voleva aiutare…” ribatto velocemente,
arrampicandomi nelle spiegazioni che posso e non posso dare a mio figlio su me
e Ron “Lui è come zio Harry… te lo ricordi? E voleva aiutare me e te… quindi è
rimasto con noi…”.
“Ho capito…” dice serio Alex, grattandosi
la testa, poi, dopo qualche secondo di silenzio, mi chiede ancora: “E la strega
cattiva e il mago cattivo, adesso, non ci sono più?”.
“No, tesoro… per questo siamo tornati a
casa… adesso gli zii ci stanno aiutando a cercare papà… così…”.
“… così gli diciamo che tu gli vuoi bene,
e che anche io gli voglio bene, e lui torna sempre a casa con noi! Vero mamma?”
mi interrompe Alex, battendo le mani contento. Annuisco, sorridendo, e lo
abbraccio forte, baciandolo sulla fronte. Lui si divincola quasi subito,
saltando dall’altalena, e si mette di fronte a me, dondolandosi con le gambe.
Contento mi chiede: “Mamma, ma com’è papà?
Zia Pansy, quando mi ha visto, ha detto che sono uguale a papà! Ha detto
identico spiaccicato!”.
“Spiccicato, Alex…” lo correggo
meccanicamente, poi sorrido ispirata: “La zia aveva ragione… era uguale a te…
forse possiamo chiederle se ha una foto di papà di quando era piccolo… lo
vorresti vedere?”. Alex annuisce contento e continua con le sue domande, mentre
va avanti ed indietro. Sembra un professore che interroga una studentessa.
“Quindi a papà non piacevano le carote
così come non piacciono a me?” dice fiero, guardandomi con gli occhi socchiusi.
“No, a papà le carote piacevano…” dico
convinta, smorzando la sua espressione sorniona. Ovviamente non ricordo se a
Draco piacessero le carote, ma Alex lo sta chiedendo solo perché sa che, se
dico di no, la prossima volta dirà che non le mangia perché “nemmeno a papà
piacciono”.
“Ma papà era furbetto proprio come te…”
esclamo allegramente, prima di saltare dall’altalena ed acchiapparlo al volo,
facendogli il solletico. Lui inizia a muoversi convulsamente, ridendo come un
pazzo, mentre cerca di sfuggirmi. Alla fine, il trillo del mio cellulare mi fa desistere
e lo lascio andare, e lui, con espressione da uomo maturo rassegnato, si
sistema i vestiti disordinati dal mio impeto.Trattenendomi dal ridere mentre lo guardo, rispondo al telefono:
“Pronto?”.
“Herm, sono Seth, dove sei? Abbiamo una
pista!” la voce di Seth mi trapana l’orecchio da parte a parte, facendomi
allontanare il cellulare con una mano. Alex, seguendo la mia manovra
salva-timpano, scoppia a ridere ed inizia a giocherellare con una lattina che
c’è per terra. Mentre gli ingiungo severamente di non toccarla, cerco di
prestare attenzione a Seth: “Una pista? Guarda che non siamo in un poliziesco,
Seth… spiegati!”.
“Uno di quei libri che sono arrivati
stamattina era una traduzione di un testo dal russo…” mi spiega velocemente
Seth, la voce squillante “E c’erano molte informazioni su questa Tatia… molto
più che in tutti gli altri libri messi assieme che dicevano solo quando era
nata e quando era morta… vieni a casa che ti spiego!”.
Riagganciando, dopo essermi massaggiata
l’orecchio vigorosamente ed aver agguantato Alex che ha lasciato perdere la
lattina per dedicarsi completamente ad un piccione malaticcio, afferro la
bacchetta e, guardandomi attorno, mi smaterializzo a casa di Pansy.
Quando arrivo a casa di Pansy, devo
trattenere tipo per la collottola Seth che, come un cucciolo scodinzolante, mi
viene incontro nell’ingresso e smania dalla voglia di raccontarmi quello che ha
scoperto. Pansy e Dean sono seduti in cucina con Charisma ed entrambi sospirano
fragorosamente al mio arrivo, evidentemente sollevati dal fatto che finalmente
posso sorbirmi Seth al posto loro.
Prima che Seth inizi a cianciare a tutto
spiano, chiedo a Pansy se Lyria, la loro elfa, può occuparsi di Alex. Dopo
stamattina, mi sono resa conto di quanto sia assolutamente vitale e necessario
per me proteggere mio figlio anche da questa ricerca spasmodica di suo padre.
Deve saperne quanto meno possibile, non deve illudersi, non deve sperare
inutilmente. Il peso di questa cosa deve essere solo sulle mie spalle, dato che
sono sua madre. E, sebbene ingenuamente avessi sempre pensato che Alex non
avesse una vera e propria visione delle cose tra me e Draco, mi sono oggi resa
conto che ne aveva invece una tutta sua, ricavata da mozziconi di discorsi e
frasi nemmeno del tutto corrette.
Fino a quando io stessa non sarò certa di
come stanno le cose tra me e Draco e tra lui e noi, io devo proteggere Alex
dalla possibilità che io stessa o Draco gli possiamo fare del male.
Prima era solo il mio cuore ad essere a
rischio. Adesso, c’è anche mio figlio di mezzo. E non posso permettere a
nessuno, tantomeno a suo padre, di ferirlo in nessun modo. Ho rinunciato a
tutto per la serenità e la sicurezza del mio bambino, ho represso lacrime e
rabbia, ho ucciso il mio amore, sono rimasta per cinque anni in Italia. E se
adesso trovare Draco è la cosa migliore per Alex, il giorno in cui non lo sarà
più, dovrò rassegnarmi a smettere di farlo e a rinunciare per sempre e davvero
a lui.
Quando Alex finalmente è uscito con Lyria,
a cui Dean affida anche Charisma, ci sediamo tutti e quattro in salotto dove
Pansy fa comparire del tè freddo sul tavolino basso di cristallo. Seth
ingurgita in tre sorsi il contenuto del suo bicchiere, non so se per prepararsi
al suo immenso discorso esplicativo, o per riprendersi dalla serie di gorgheggi
lamentosi da cane in cerca d’attenzione che ha prodotto fino ad ora. Fatto sta
che in qualche minuto, si degna di dirmi tutto quello che hanno scoperto.
Nei libri inglesi, di Tatia Krasova si
diceva semplicemente che era una chiaroveggente, dotata di un forte potere di
previsione del futuro e che era morta in giovane età, probabilmente uccisa dai
Mangiamorte. Insomma informazioni abbastanza intuitive, che non mi avevano
detto niente di che su di lei, anzi avevano persino confermato la tesi che
Tatia poteva essersi rivolta a Draco solo per ottenere vendetta per la sua
morte, qualora mi avesse creduto ancora il capo degli Auror. Questo era quello
che avevo supposto in un primo momento con Draco stesso, non dandoci quindi
nemmeno peso eccessivo… ed implicitamente la cosa mi era stata confermata anche
da Raissa, quando glielo avevamo chiesto.
Nel testo, invece, che Seth ha letto ne
viene dato un quadro molto più preciso.
Tatia era nata a San Pietroburgo circa
ventotto anni fa, quindi oggi avrebbe avuto la mia stessa età: i suoi genitori
si erano separati appena la bimba era nata, a seguito della scoperta da parte
della madre di Tatia che il padre era un Mangiamorte dei più terribili. Tatia,
quindi, piccolissima, si trasferì con la madre in un piccolo paesino al confine
con la Finlandia. L’autore, come nota di colore, aveva aggiunto che nel
suddetto paesino, vivevano molte donne che, sposate con Mangiamorte, si erano
rifugiate lì con i figli piccoli per sfuggire al destino loro riservato dai genitori.
E ne aveva fatto qualche nome.
Nel piccolo paesino, ai piedi della
montagna, avevano abitato anche Dimitri e Raissa Karkaroff con la loro madre.
La prova, quindi, del legame tra Raissa e
Tatia è ormai evidente. Raissa, quindi, molto probabilmente strappò volutamente
la pagina del libro che consultava quella mattina di cinque anni fa,
evidentemente messa in allarme dalla domanda che io avevo fatto su Tatia solo
la sera prima. Tre indizi, in fondo, fanno una prova… e Raissa, quando le
chiesi di Tatia, non disse nemmeno nulla di eccezionale, non accennò
minimamente al fatto che fosse cresciuta nel suo paesino, cosa anch’essa
abbastanza strana se non aveva nulla da nascondere.
Seth continua dicendomi che, al termine
della prima guerra magica, il padre di Tatia non tornò a casa: la piccola
iniziò a manifestare i suoi poteri proprio in quell’occasione, quando,
nonostante avesse appena imparato a parlare, previde che il padre era stato
ucciso. Da allora fu praticamente idolatrata nel paese, molta gente veniva da
lontano per conoscerla e parlarle, spesso per sapere il destino dei propri cari
in guerra. Ma Tatia, spesso, non riusciva ad essere chiara nelle sue
previsioni, oppure molte volte semplicemente non ne aveva; essendo il suo
potere così instabile ed incontrollabile, ben presto la gente perse interesse
per lei e il pellegrinaggio presso la sua abitazione si esaurì. In ogni caso,
era molto conosciuta in zona: anche se non riusciva a controllare le sue
previsioni, esse continuavano ad esistere. In molti casi aveva infatti predetto
la morte di alcune persone, o ne aveva salvate delle altre, anche quando era
solo una bambina.
Ed ancora, torna il nome Karkaroff: Tatia
aveva quattordici anni quando, tornato il Signore Oscuro, predisse ad Igor
Karkaroff che sarebbe morto per mano dei Mangiamorte, spingendolo alla fuga.
Anche questa circostanza depone in favore
di un legame tra Raissa e Tatia. Probabilmente se Tatia fece quella previsione
e si premurò anche di riferirla, doveva sussistere una specie di legame con il
padre di Raissa stessa. Forse erano persino amiche, oltre che compaesane.
Alla morte della madre, poco prima della
fine della seconda guerra magica, Tatia si trasferì a Tampere, in Finlandia. Ma
non da sola… aveva solo diciotto anni, ma si era sposata. Con un tale Ilai
Radcenko. I due, però, furono felici solo per un anno scarso: Tatia fu
ritrovata morta il giorno del suo diciannovesimo compleanno, nella casa che
divideva con Ilai. Si fecero molte teorie a riguardo, ma prevalse la tesi per
la quale Tatia fosse stata uccisa da Mangiamorte, desiderosi di vendetta, anche
se erano passati tantissimi anni dalla morte del padre. In mancanza di prove
che potessero individuare i responsabili, tutti dettero per buona questa
teoria, specie considerando il periodo nero dopo la guerra. Di gente morta, ne
veniva trovata ogni giorno. E spesso spiegazioni non c’erano. Vendette
trasversali, regolamenti di conti, rapine finite male di Mangiamorte
incattiviti dalla fuga e dagli stenti: ricordo ancora tantissimi episodi,
accaduti quando ero il Capo degli Auror. Io stessa, in molti casi, avevo dovuto
concludere delle indagini con un nulla di fatto. Ovvio che la cosa fosse
accaduta anche a Tatia.
La sola cosa che risulta meno ovvia in
questa storia, è il collegamento che ho io con Tatia: Raissa ok, potrebbe
averla conosciuta, ma che cosa c’entro io? Perché ci ha tenuto che Draco si
ricordasse di lei in modo da riferirmi la cosa? Certo, se Tatia non è
propriamente uno spirito pacifico al momento, magari vuole ancora che io
vendichi la sua morte… e magari Raissa ha una qualche responsabilità nel suo
omicidio. La cosa mi agghiaccia, specie se Raissa dovesse essere ancora con
Draco e Serenity… ma loro dovrebbero essere vivi, Helder li ha sempre sentiti
tali. Ma potrebbero essere in pericolo… e magari Tatia vuole aiutarmi in
questo, vuole aiutarmi a trovare Draco. Ma come? È morta, come potrei entrare
in contatto con lei? Adamar fece sì che Draco la incontrasse ma per punirlo,
non so nemmeno se esiste un altro modo che non implichi magia nera e la
possibilità concreta di lasciarci le penne.
Prima, avrei rischiato tutto, ovviamente.
Ma adesso Alex fa sì che la mia scarsa attenzione per la mia incolumità, sia
decisamente salita.
La sola strada che concretamente mi resta,
è trovare qualcuno che la conosca. Parlarci, cercare di capire chi fosse.
Potrei persino capire effettivamente se ha avuto dei contatti con Raissa.
L’unica persona che sembra ancora in grado
di darmi queste informazioni, è Ilai Radcenko, suo marito.
Dopo aver finito di parlare con Seth ed
aver comunicato la mia intenzione di parlare con Ilai Radcenko di Tatia, Dean e
Pansy riescono a farmi sapere qualcosa di lui grazie ai contatti che hanno all’ambasciata
dove lavoravano a Parigi: una loro conoscente riesce in un paio di ore a farci
sapere l’indirizzo attuale del marito di Tatia. A quanto pare, vive ancora a
Tampere, in Finlandia.
Ergo, non mi resta che andare lì. Seth
ovviamente decide di accompagnarmi e si scaraventa in camera sua per prenotarci
dei posti sul primo volo disponibile. La sua gioia trillante mi impedisce di
dirgli che io potrei viaggiare benissimo per mezzi magici, impiegandoci la metà
del tempo e non affrontando il mio secolare terrore per gli aerei. Ma questo
significherebbe lasciarlo qui e, al momento, dirglielo potrebbe costare la
salute già precaria del mio sistema nervoso, oltre che del mio apparato
uditivo. Quindi, lascio correre.
“Vengo anche io con voi…” mi dice sicura Pansy,
guardando oltre di me Dean che culla Charisma che non ne vuole saperne di
prendere sonno.
Inarco un sopracciglio: “E Dean?”.
“Lui se ne sta qui con la bambina…”
sciorina lei con nonchalance, stiracchiandosi come un gatto al sole “Potreste
aver bisogno di aiuto… insomma che sappiamo di questo Radcenko? Seth non è
certamente un mastino e non c’entra nulla il fatto che sia un babbano… anche da
mago, terrorizzerebbe al massimo un Avvincino…”.
“Come mai tutta questa disponibilità?”
borbotto scettica guardandola, non del tutto convinta.
“Mi offendi Granger… non potrei essere
sinceramente preoccupata per te e per Seth, oltre che per Alex?”.
“E?” la incalzo, incrociando
meccanicamente le braccia.
Pansy si gira su sé stessa, dando volutamente
le spalle a Dean che continua a canticchiare ninna nanna a Charisma che hanno
solo l’effetto di farla ridere a crepapelle. Dean sospira, gettando occhiate in
tralice a Pansy che, invece, mi sussurra con voce innocente: “… per puro caso,
questo weekend verranno qui sia mia madre che mia cognata… strega purosangue la
prima, babbana la seconda… non mi ero accorta di aver detto di sì a tutte e due
per lo stesso giorno…”.
Le spalle mi si afflosciano, mentre lancio
un’occhiata di solidarietà al povero Dean che, ignaro del suo destino, continua
ad agitare sonaglini per calmare Charisma.
“La Finlandia mi pare sufficientemente
lontana per una Fattura Orcovolante da parte del mio
caro maritino…” bisbiglia melensa Pansy, prima di allontanarsi e prendere la piccola
dalle braccia del padre. Mi gratto la guancia a disagio, sotto lo sguardo
indagatore di Seth.
Lui, senza fare una piega, sospira ed
intuisce i miei pensieri, anche se da babbano di queste cose non ne capisce
ancora nulla.
Con una mano sotto al mento e
l’espressione saputa, dice solo una parola, omnicomprensiva di tutto quello che
sto pensando.
“Serpeverde…”.
In questi cinque anni io non sono stata
nulla di diverso dalla mamma di Alex.
Non credo che c’entri solo l’istinto e la
spinta primordiale a difendere il proprio piccolo, mettendo in quint’ordine
ogni propria esigenza o desiderio. Credo che io abbia fatto di necessità,
virtù. Sono sempre stata una persona sinceramente preoccupata degli altri, ma
il legame che si instaura con un bambino, con il proprio figlio, è una cosa che
non si può descrivere e spiegare a nessuno. Alex mi ha semplicemente annullato
il pensiero di me stessa. E questo è avvenuto in un momento in cui avevo
disperatamente bisogno di non pensare a me stessa.
Nel momento in cui l’avessi fatto, avrei
avvertito solo la lacerante distanza da Draco che mi avrebbe obnubilato ogni
volizione.
Quindi, insomma, essere mamma ha
contribuito a non farmi perdere la sanità mentale, mentre ero “prigioniera” in
Italia. In fondo, era come se non fossi mai uscita dal castello di Dimitri:
dovevo pensare a me stessa, nella sola funzione che ciò portasse alla salvezza
prima, e alle felicità poi, del mio bambino.
Per questo, quando Pansy e Dean mi
convincono a lasciare Alex a casa con Dean dato che non sappiamo concretamente
che ci aspetti in Finlandia, per un attimo mi sento monca.
Al momento, per la prima volta da cinque
anni, io non sono la mamma di Alex. Il mio bambino è al sicuro, è protetto, sicuramente
ha preferito restare a giocare con Charisma piuttosto che seguirmi in questo
viaggio astruso, so che è felice. Io, invece, sento migliaia di piccole
sensazioni indimenticate che mi punteggiano la schiena, come se esse fossero ombre
solo tenute a bada dalla luce dell’amore per mio figlio. Certo, è ovvio ed è
scontato che io non abbia smesso all’improvviso di essere quella che sono stata
in cinque anni, e comunque sono sempre la mamma di Alex.
Ma quello che sto facendo adesso, in un
certo senso, senza Alex che mi ricordi sempre che è anche il figlio di Draco,
mi sembra di farlo solo ed esclusivamente per me stessa.
Il tempo, senza che Alex con la sua
presenza mi ricordi quanto concretamente ne è passato, si annulla e si eclissa.
E mi sento di nuovo la ragazza che uscì in giardino la sera del compleanno di
Pansy, dopo aver rifiutato una proposta di matrimonio dall’uomo che amava.
Stranamente, non ho più pensato ad Helena in questi anni. Sono ancora a mio
modo convinta che quella sera, per come andarono le cose, feci la cosa giusta,
specie sapendo che cosa accadde la mattina dopo, quando Draco promise ad
un’Astoria con le mie sembianze di lasciar andare Helena. Se tutto questo non
fosse accaduto, io e Draco saremmo marito e moglie, lo so, lo sento.
E questo mi riempie di un tale senso di
nostalgia, rimpianto e rimorso che adesso mi stringe la gola e mi spinge a
piangere ancora come se tutto questo fosse accaduto solo ieri.
Soffoco le lacrime in gola, guardando
ancora nella borsetta, da cui esco il distintivo da Auror che mi sono portata
dietro. Cercando di distrarmi, riporto alla mente la strategia che ho elaborato
con Seth e Pansy per poter parlare liberamente con Ilai Radcenko. La cosa
ovviamente più semplice, era fingere ancora di essere il Capo degli Auror e di
essere venuta a fare un’indagine in merito alla morte di Tatia. Cercherò di non
nominare direttamente Raissa, non so fino a che punto il marito di Tatia
potrebbe essere coinvolto con lei e con Dimitri, ma in ogni caso dalle sue
risposte potrò capire come stavano le cose e se posso fidarmi di lui; da lì,
ovviamente, si apriranno i giochi.
Mi stiracchio distrattamente, cercando di
tenere a bada la risorta malinconia e la neonata insicurezza, e getto
un’occhiata in tralice a Seth e Pansy seduti nella fila contigua alla mia.
Sospiro a lungo, li sto ignorando dall’inizio del viaggio per la loro solita
attitudine a fare discorsi strambi, che tendenzialmente mi trascinano in un
vortice di folla suicida ed omicida. Al momento, Pansy sta infatti
rianalizzando tutto l’albero genealogico della famiglia di Seth, che cerca di
risponderle come meglio può, agitando le mani nella foga della conversazione.
Uno adesso si può chiedere che diamine
cerchi Pansy Parkinson, Purosangue decaduta, snob impenitente, nella genealogia
del babbano Seth Green… si dà il caso che Seth sia omonimo di un indesiderabile
passeggero delle liste in mano alle compagnie aeree, forse qualche terrorista o
un semplice disturbatore della quiete pubblica che, da allora, è diffidato dal
viaggiare in aereo. Io non escludo che, invece, l’omonimia non esista e che si
parli della stessa persona, specie perché una volta Seth mi raccontò di essersi
preso una cotta per un, parole sue, “tipo da infarto” che faceva lo steward per
la British Airlines. Quindi non voglio nemmeno immaginare che cosa abbia fatto
per il suddetto amore della sua vita, che poi è durato circa due mesi scarsi…
comunque Seth nega di essere lui stesso sgradito sui voli di linea e diciamo
che gliela faccio passare. Ogni volta che prende un aereo, quindi, deve
chiarire che non è il Seth Green, invece, terrorista, omicida o chissà che
altro, e per sbrigarsi, spinge i controllori a verificare il nome da nubile di
sua madre, Esperanza Mendes, cubana. E lì, la cosa si risolve. Fino ad oggi.
Perché Pansy ha sentito il nome di sua madre, e ha dato di matto. A quanto
pare, i Mendes a Cuba sono come i Malfoy in Gran Bretagna.
Una famiglia magica, di Purosangue,
ricchissimi e persino collegati a Fidel Castro in persona.
Io ovviamente ho liquidato il tutto,
dicendo che probabilmente era anche in questo caso un’omonimia, considerando
che Seth non ha una goccia di sangue magico nelle vene e nemmeno conosceva qualcuno
con dei poteri prima di venire in contatto con me e con Draco. Pansy, invece,
che non ha mai abbandonato del tutto le sue reticenze sui babbani e sui
mezzosangue, sta scandagliando da ore la sua stirpe: va abbastanza sul regime
dell’eccezione, lei. I babbani sono tutti idioti, tranne Dean perché me lo sono
sposato. Tranne la Granger, perché Draco qualcosa in lei ci doveva trovare.
Ed adesso deve anche spiegarsi la sua
strana simpatia per Seth, trovando un’origine purosangue della sua
piacevolezza.
Seth, peraltro, si è fatto abbastanza
suggestionare da tutta la storia ed intervalla la ricostruzione della sua
famiglia con aneddoti assurdi sulla sua infanzia, dove secondo lui sono
evidenti i segni della sua latente magia: effettivamente perdere la maglietta
arancione che gli aveva regalato sua zia e che lui odiava, oppure imparare a
memoria la canzone di Natale in dieci minuti, sono tutti segni evidenti di magia, come negarlo. Quindi
ciò credo che spieghi abbondantemente perché li ignoro per tutto il viaggio,
per tutto l’atterraggio, per tutta la ricerca dei nostri bagagli e per quella
di un mezzo di trasporto, che ci conduca in centro dal piccolissimo aeroporto
di Tampere. È una giornata bellissima, colma di luce e sole, con il cielo da
cartolina. La strada è costeggiata da alberi di pino ed abete che diffondono un
quieto odore di bosco, muschio, rugiada. La gente stessa sembra vacanziera ospite
di una natura ancora incontaminata: ogni tanto, vediamo spuntare un laghetto
dalle acque verdi e trasparenti. È una bellissima terra, le persone sono
cordiali ed educate, parlano quasi sottovoce come se avessero sempre paura di
disturbare. Tampere è un’allegra piccola metropoli, attraversata da un fiume: il
dislivello di una cascata è stato sfruttato per creare energia idroelettrica,
una grande centrale di mattoni rossi torreggia vicino al nostro albergo. I
viali sono ampi, con delle fioriere in cima ai lampioni, e c’è un aria
rilassata e pacata. Mi piace molto questa città, sarebbe piaciuta anche ad Alex.
Mentre camminiamo, cercando di raccapezzarci
con i nomi gutturali delle strade, Seth non la smette di fare foto con il
telefonino, orientandosi prevalentemente sulla “fauna locale”, ossia su ogni
individuo di sesso maschile che trova minimamente interessante. Appena obietto
che lui è fidanzato, mi risponde che le guarderà con Kevin senza problemi,
“siamo una coppia dal comune senso estetico”. Roteo gli occhi, armeggiando con
la cartina, mentre Pansy procede indolente accanto a me, guardando le vetrine
con aria annoiata e indifferente. Ma ogni tanto i suoi occhi vengono catturati
da qualcosa e deduco che, in realtà, è molto interessata a tutto, ma ovviamente
non vuole darlo a vedere.
Finalmente, dopo circa un’ora di
tentativi, riesco a decifrare la cartina e le strade e, con un po’ di
informazioni della gente del posto, riusciamo a trovare la strada dove vive
Ilai Radcenko, il marito di Tatia. È una strada seminascosta, apparentemente
deserta, in periferia. Piccole casette bianche ad un piano, circondati da
fazzoletti di terra, spuntano da entrambi i lati della strada. Anche la casa di
Ilai e Tatia non differisce di molto da quell’assieme asettico e sempre
identico a sé stesso. La cosa che stranamente mi colpisce in tutto quel nitore
accecante, è una siepe di fiori rossi che distingue la casa di Ilai da tutte le
altre: mi chino a sfiorarli con la punta delle dita, sono fiori di ibisco e
forse nemmeno dovrebbero crescere in Finlandia.
Toccando un petalo, sento un lieve
pizzicore sul polpastrello: magia, sicuramente.
Almeno abbiamo la certezza che qui ci
abitano dei maghi.
Ripasso con Pansy e Seth la versione che
dobbiamo dare, ingiungendo a loro due di stare entrambi zitti: entrambi
sbuffano, Pansy perché non crede alle mie capacità di Ex Capo degli Auror e
Seth perché è costituzionalmente incapace di stare zitto per quarantacinque
secondi di fila. Ma il mio celebre sguardo raggelante li fa tacere all’istante.
O meglio fa tacere Seth, figuriamoci… Pansy continua a borbottare, ma almeno lo
fa sottovoce.
Con un lungo sospiro, busso alla porta di
acero bianco, su cui è appesa una ghirlanda di frutti piccoli e rossi. Dopo
qualche minuto, trafelata, viene ad aprire una donna. Ha i capelli lunghi e
castani legati in una crocchia scomposta sul capo, è un po’ in carne e dimostra
circa una quarantina d’anni. Su una guancia rossa e sudata, ha un buffo sbuffo
di farina.
Una donna… la guardo sovrappensiero. Forse
ho sbagliato casa… magari Ilai non vive più qui… oppure… si è risposato.
In ogni caso, con voce ferma, chiedo:
“Buongiorno signora… mi scusi per il disturbo… avrei bisogno di parlare con
Ilai Radcenko… vive qui?”.
La donna si asciuga velocemente le mani su
un canovaccio umido, sono anch’esse sporche di farina e pasta aggrumata. Getta
uno sguardo confuso a me, Seth e Pansy e sussurra: “Chi lo cerca?”. Parla
perfettamente inglese, per fortuna, non mi ero premunita di accertarmi che
capissero la mia lingua. Ha solo un accento più duro e gutturale del mio,
perfettamente acclimatato al suo aspetto.
“Sono Hermione Jane Granger… e loro sono
due miei colleghi…” dico ferma, con un sorriso deciso “Sono il Capo degli Auror
dell’Inghilterra… avrei da fargli qualche domanda in merito alla morte di sua
moglie… Tatia Krasova…”. Al nome di Tatia, l’espressione della donna si
rasserena e diventa più distesa, aprendosi ad un timido sorriso.
“Capisco… prego accomodatevi…”. Ci fa
cenno di seguirla all’interno, in un piccolo salottino bianco con un divano
rosso anch’esso. Nell’aria, c’è un odore invitante di cannella e mele. Seth lo
fiuta come un cane da caccia, lo guardo con sguardo severo prima che dica
qualche sciocchezza.
La donna si siede di fronte a noi, su una
poltrona che sembra a malapena contenerla, e poggia lo straccio su un tavolino
basso. Distrattamente noto una cornice, rossa anch’essa. Una foto di un
matrimonio: riconosco subito Tatia perché Draco me l’aveva mostrata quando mi
aveva riferito il suo messaggio dall’oltretomba. Ma nella foto sembra più
giovane, più bella, straordinariamente felice. Ha un vestito semplicissimo
bianco, stretto in vita, con una gonna a ruota lunga fino al ginocchio. Stringe
il braccio di un ragazzo più alto di lei, abbronzato in viso, con capelli
castani spettinati e un sorriso contagioso riflesso negli occhi scuri. Non
sembra russo, né tantomeno finlandese. La foto della felicità di Tatia ed Ilai
mi stringe il cuore, mi fa seriamente dubitare del fatto di essere venuta qui a
disturbare quest’uomo dopo dieci anni dalla morte della moglie, e solo per i
miei fini personali. Poi mi dico che comunque cercherò di scoprire davvero qualcosa
sulla morte di Tatia, anche solo per mandare poi le informazioni a Beckwith, il vero Capo degli Auror inglese, così la sua
morte non resterà impunita.
Inoltre, è strano da spiegare… ma da
quando sono entrata in questa casa, ho la sensazione tiepida che Tatia voglia
che io stia qui. La sento respirare sulla mia nuca, mi avvolge di un calore
placido sulle spalle come una coperta di lana. Non è la sensazione sgradevole
che sentivo quando Helena si metteva tra me e Draco, perlomeno nei miei
pensieri e nelle mie percezioni. È una sensazione estremamente piacevole,
invece. Mi scioglie la gola e mi fa sentire al sicuro.
“Ilai non è in casa al momento…” esordisce
la donna, estraendo una bacchetta dalla tasca del grembiule a scacchi e facendo
comparire del tè con dei pasticcini. Seth ci si fionda su come un assatanato,
sotto lo sguardo pietrificato mio e di Pansy.
“Io sono sua sorella… Anya…” sorride la
donna, mentre guarda Seth mangiare a tutto spiano, seminando briciole
dappertutto “Da quando Tatia è morta… vivo qui con Ilai… non volevo lasciarlo
solo… figuriamoci lui non avrebbe mai voluto che stessi qui, crede di potercela
fare da solo… e sicuramente è così. Ma Tatia… è stata l’unica donna che abbia
mai amato. Ed è morta in quella maniera orribile…”. Anya si asciuga
silenziosamente un angolo dell’occhio destro con il grembiule, trattenendo un
singhiozzo prima di chiederci: “Che cosa c’entra il Ministero inglese con la
sua morte? Qui ormai le indagini sono chiuse da anni…”.
Mi ero preparata un’elaborata storiella,
avrei alluso ad una pista di omicidi simili a quelli di Tatia che erano
avvenuti in Inghilterra che ci avevano fatto pensare allo stesso omicida. Ma
improvvisamente, la stessa mano che mi si è poggiata sulla schiena da quando
sono entrata qui, mi suggerisce che sarebbe sbagliato mentire a questa donna,
darle speranze inutili. Non posso raccontare la verità, tutta la storia… ma non
è nemmeno giusto che dica una bugia. La mia bocca si apre senza controllo, e sussurro:
“So che le sembra assurdo… ma qualcuno ha visto Tatia… nell’aldilà… lei ha
chiesto a questa persona di farmi il suo nome e di ricordarmi di lei… io però
non la conosco, non la conoscevo… forse Tatia vuole giustizia… dato che non è
riuscita ad averla…”.
Anya resta sconvolta dal mio racconto,
esattamente come Seth e Pansy che erano rimasti ad un’altra versione e che mi
guardano esterrefatti. Ma sono sempre più convinta di aver fatto la cosa
giusta: la cognata di Tatia ovviamente chiede numi e spiegazioni, e gliene
fornisco sommariamente qualcuna, non alludendo però né a Draco, né a Raissa e
Dimitri. Dico solo i particolari che ricordo dell’aspetto di Tatia e di quello
che aveva detto. Anya rimane qualche secondo in silenzio, le mani tra i
capelli, lo sguardo basso.
“Non voglio arrecare a lei o a suo
fratello altro dolore… ma comprende che non potevo ignorare una cosa del
genere…” sussurro timidamente, le mani che si torcono in grembo.
“Certo… e la ringrazio di essere venuta
fin qui, per una persona che nemmeno conosce…” bisbiglia Anya, sollevando il
viso “Non so che cosa potrebbe volere Tatia da lei… non so perché non abbia
fatto avere a me o ad Ilai stesso questo messaggio, in dieci anni, se davvero
ne aveva la possibilità… eravamo la sua famiglia… lei non aveva fratelli o
genitori… eravamo la sola casa che aveva…”.
“Crede che vorrebbe vendicarsi?” chiedo
esitante, sporgendomi nervosamente verso il tavolino ed afferrando un biscotto
al burro che però non porto alle labbra. Anya esita un pochino, incassa le
spalle e riflette qualche secondo. Poi, sospirando, chiosa sicura: “No, non lo
credo… Tatia era una ragazza buona, gentile, generosa. Bastava guardarla per
sentirsi a casa, al sicuro, felici… specie da quando aveva conosciuto Ilai.
Erano una cosa sola. Davvero. Mio fratello l’amava così tanto… e lei lo amava nello
stesso modo. Non credo che siano mai esistite due persone più innamorate di
loro…”. Annuisco con il capo, già dalla foto mi era sembrato lampante il legame
tra loro. Ne ho viste decine di foto di matrimoni nella mia vita, eppure
qualcosa della loro mi spinge sempre a guardarla ancora, come se ci fosse
qualcosa sotteso tra Tatia ed Ilai che l’occhio della fotocamera ha percepito,
ma non è riuscito a fissare su pellicola. Penso a me e a Draco, al dolore che
ci siamo portati dentro in questi anni… a come mi è sempre sembrato immenso
come un’onda nera che avanzava implacabile in una landa deserta.
E poi penso ad Ilai… trovare morta la
donna che ami. Trovare morto Draco, senza
possibilità di salvarlo, di morire al suo posto, di morire con lui.
Credo che sarei davvero andata a pezzi.
Stavolta, sul serio. Negli anni la mia forza è stata anche saperlo vivo. Che
avrei fatto se un giorno Helder mi avesse detto che non lo sentiva più?
Deglutisco pesantemente, tornando al tempo
presente. Chiedo cauta, con un filo di voce ad Anya: “Che mi dice del giorno
della sua morte?”.
“Non le posso dire molto, signorina
Granger…” bisbiglia Anya, guardandosi il grembiule e lisciandolo con le dita
“Io vivevo a San Pietroburgo allora, con nostra madre. Seppi tutto quando le
cose erano già accadute. Ilai la trovò morta in casa rientrando di sera… era il
giorno del suo compleanno. Di Tatia, intendo. Compiva diciannove anni. Non
c’erano segni d’infrazione, in casa non mancava nulla, non era stata derubata…
né tantomeno…”, la voce di Anya esita un attimo, riprende forza con un lungo
sospiro: “Non l’avevano toccata. Non
era nemmeno ferita. L’autopsia rivelò solo un ematoma celebrale e delle
profonde lesioni sempre a livello del cervello… come se l’avessero forzata a
fare qualcosa che non voleva con la sua mente… con i suoi poteri… pensammo
subito a qualcuno interessato alla sua dote di chiaroveggente…”.
“Era quindi abbastanza conosciuta per il
suo dono, vero? Ed aveva ancora delle visioni quando morì?”.
“Certo che sì… facevano sempre parte di
lei…” asserisce convinta Anya “Non era mai riuscita a controllarle, nonostante
avesse sempre voluto fermarle. La facevano soffrire, la dilaniavano spesso. Quando
Ilai l’aveva conosciuta, era spesso autenticamente devastata da queste
premonizioni… ma poi con lui accanto, le aveva accettate. Ilai l’aveva convinta
a pensare che facessero parte di lei e che, provenendo dalla sua mente, poteva
fermarle. Ci era anche riuscita qualche volta, le viveva molto più serenamente
adesso. Ma forse, così facendo, fermò anche la visione del giorno della sua
morte e non riuscì ad evitarla…”.
“Aveva dei nemici? Persone che volevano
farle del male?”.
“No, non si poteva fare a meno di volerle
bene. Era piccola, dolce, sempre allegra. Ci hanno detto che forse sono state
persone che ce l’avevano con suo padre… era un Mangiamorte, ma penso che lo
sappiate… ma era morto da vent’anni… che diamine potevano volere ancora da
Tatia? E poi viveva qui, in Finlandia… era felice…” Anya si interrompe per un
attimo, ricacciando indietro le lacrime. Continua dopo qualche attimo di
esitazione, la voce più tremula: “Inoltre anche le modalità della morte erano
state strane, non erano da Mangiamorte. Niente Marchio Nero, niente rivendicazioni,
niente minacce pregresse, niente di niente. Ma non si venne mai a capo di
nulla. Ci dissero che forse volevano che si unisse ai Mangiamorte, volevano il
suo potere di previsione del futuro per sapere se Colui che non deve essere
nominato sarebbe tornato, dopo che era stato ucciso da Harry Potter… ma io non
ci ho mai creduto. E nemmeno Ilai. Abbiamo fatto anche qualche indagine per
conto nostro. Ma non siamo mai arrivati a nulla… non capisco perché Tatia stia
cercando giustizia da lei, signorina Granger… non lo so davvero… se
c’entrassero i Mangiamorte, lo stesso Capo degli Auror finlandese avrebbe
trovato qualcosa… Tatia non vi ha dato alcun indizio che potrebbe fare luce
sulla cosa?”.
Nego pensosamente con il capo, Tatia disse
solo poche parole a Draco. Voleva solo che mi ricordassi di lei. Ma perché,
maledizione? Per un attimo, inizio seriamente a dubitare della fiducia che ho
riposto in questa strada. Mentre inseguo i miei pensieri, concedo però
involontariamente a Pansy di aprire bocca, deve essersi scocciata del mio
cambio di programmi e si deve essere convinta di essere giustificata a parlare
anche lei.
“Tatia conosceva per caso una tale Raissa
Karkaroff?!” la voce di Pansy mi fa trasalire e la guardo innervosita,
aggrottando le sopracciglia e rimproverandola. Avevo deciso di attendere che
tornasse Ilai per parlare direttamente di Raissa, e comunque l’avrei presa
molto alla larga. Accidenti a lei! Pansy, senza scomporsi, bisbiglia velenosa:
“Granger che tu finga di essere ancora il capo degli Auror, non ti rende tale…
e soprattutto non ti rende il mio di Capo…”. Seth guarda entrambe come un
bambino guarderebbe la mamma e il papà quando litigano, e ci bisbiglia di stare
calme. Sospiro profondamente, tornando a guardare Anya che non ha seguito il
nostro silenzioso scambio di opinioni.
“Ricordo una Raissa…” medita Anya con
calma, grattandosi la nuca “Era un’amica di Tatia ed Ilai… ma non si vedevano
da anni, dall’inizio della Seconda Guerra Magica… lei era partita per un lungo
viaggio… infatti mancò anche al matrimonio di Ilai… tornò con suo fratello solo
per il funerale di Tatia… erano entrambi sconvolti dalla fine della loro
amica…”.
Il legame quindi c’è, constato
superficialmente. Non che avessi qualche dubbio: quindi Raissa aveva
volutamente negato quel giorno di conoscere Tatia. E doveva anche aver
strappato la pagina del libro di Pansy, prima che collegassimo lei e Tatia.
Questo, ovviamente, mi puzza. Aveva evidentemente qualcosa da nascondere. Il
lungo viaggio di cui Anya ha parlato, facendo un po’ di calcoli, dovrebbe
essere quello che lei e Dimitri avevano fatto per trovare Adamar, da cui
avevano ottenuto la Conoscenza Assoluta. Sicuramente, se non si erano fatti
vivi al matrimonio di Tatia che a quanto pare è avvenuto in piena guerra, deve
essere stato perché erano nascosti: Draco mi aveva raccontato che aveva salvato
loro la vita, proteggendoli dal pericolo che Voldemort li reclutasse nelle sue
schiere di Mangiamorte a causa dei loro poteri. Eppure, continua ad esserci
qualcosa che mi sfugge. Se era solo una sua amica, perché non dirci subito chi
era? Mi ricordo perfettamente l’espressione di Raissa, quando le chiesi di lei,
anche se non allusi assolutamente al messaggio che aveva dato a Draco
nell’aldilà. Raissa rimase assolutamente indifferente. Né un ricordo, né un
segno di cedimento. Poteva anche non avere voglia di condividere la cosa con
noi, ok, ma quella freddezza… come faceva ad essere devastata per la sua morte
e poi a ricordarla come un pezzo di ghiaccio cinque anni dopo? C’è decisamente
qualcosa che non torna.
Comunque a quanto pare anche Ilai la
conosce. Anya ha detto che era un’amica di entrambi. Quindi forse lui sa
qualcosa: Tatia deve avermi guidato qui perché Ilai sa qualcosa.
“Credi che Ilai sappia dove sia Raissa
adesso?” chiedo, senza giri di parole, suscitando la reazione soddisfatta di
Pansy, dato che sembra che abbia appreso al meglio la sua lezione di
interrogatorio.
Anya nega energicamente con il capo: “No,
non credo proprio… Ilai ha tagliato i ponti con tutto il suo passato in Russia…
troppi ricordi… non credo che la senta ancora…”. Le mie spalle si afflosciano
alla risposta di Anya e il cuore mi rotola fino alle scarpe, e credo che anche
Pansy e Seth provino qualcosa di molto simile. Eppure, la stretta calda alla
nuca non mi abbandona, non mi lascia in pace. C’è qualcosa, ancora qualcosa che
devo capire. Non è possibile che essere venuti qui sia stato inutile. Non lo
credo, non può essere. Devo aspettare che torni Ilai. Magari Anya non lo sa, ma
si sentono ancora. Comunque lui è il solo a potermi dire davvero come stavano
le cose tra Tatia e Raissa. Anya deve saperne poco quanto niente.
“Potrei dare un’occhiata alle cose di
Tatia per favore?” chiedo improvvisamente ispirata, aggrappandomi
disperatamente all’ultima cosa che mi è venuta in mente. La tensione di Pansy,
accanto a me, suggerisce che, se fosse per lei, Crucerebbe Anya per farle
ammettere quello che, secondo lei, sa e non dice. Ma io, invece, non credo che
ci stia omettendo volutamente qualcosa.
E’ evidente che non sa davvero nulla di
Raissa.
“Certo…” annuisce con un sorriso,
guidandomi in una stanza laterale che deve essere la camera da letto di Ilai e
Tatia. Anche qui, il colore dominante è il rosso che risalta sanguigno contro
il bianco delle pareti. Rosso il copriletto, rosse le tende, rossa una piccola
poltrona. E rossa è la scatola di cartone che Anya esce dall’armadio e mi porge
delicatamente.
Una scatola
rossa. Un’improvvisa scossa mi scuote i nervi,
facendomi rabbrividire: Draco. La scatola di Helena. L’odore di ciliegia. Anche
Draco aveva una scatola rossa per il ricordo della donna che amava. Ilai ne ha
una uguale. Più vado avanti e più mi convinco che non è una coincidenza che
sono qui, che non è un caso che sono arrivata in questa casa.
Tatia vuole che io sia qui, vuole che
scopra qualcosa proprio qui.
Apro la scatola con deferenza, accanto
allo sguardo commosso di Anya e a quelli curiosi di Seth e Pansy che non
riescono ovviamente a capire il mio interesse. Cosa che peraltro, da una prima
occhiata sfugge anche a me. Sono ricordi di una vita spezzata, ricordi di sogni
interrotti, ricordi di illusioni bruciacchiate: tutto commovente, tutto
straziante, tutto doloroso.
Ma anche tutto al contempo normale ed
eccezionale come una qualsiasi delle miliardi di vite che affollano il mondo. Fotografie,
un’agenda, una cartolina, una bambola di pezza, un fiore secco, un paio di
scarpette da neonato sempre rosse. Le guardo superficialmente, intenerita sì,
ma non interessata.
Poi, improvvisamente qualcosa attira la
mia attenzione: un libro. Comune. Un libro qualsiasi. Vecchio, polveroso, dalla
copertina strappata.
Lo esco delicatamente come una reliquia,
ne leggo il titolo a rilievo ed il mio cuore perde un colpo.
Profetesse
Europee. Storia della Divinazione femminile attraverso i secoli.
Il libro di Pansy. Il libro a cui Raissa
strappò la pagina che parlava di Tatia: un’altra copia dello stesso libro.
Ancora non può essere una coincidenza. Non può. Lo sfoglio velocemente, qui la
pagina mancante su Tatia ovviamente c’è, per il resto sembra uguale al libro
che ho già visto da Pansy. Però, mentre lo finisco di sfogliare sconfitta,
pregustando già il sapore amaro dell’ennesima coincidenza senza senso alcuno, i
capelli mi si drizzano sulla nuca. La stretta calda ha quasi le fattezze di una
mano rovente poggiata sul mio capo. Deglutisco con forza, cercando di far
scivolare giù un peso sulla gola che mi ha quasi chiuso la respirazione. È qui che mi voleva portare.
Tra l’ultima pagina e la copertina, c’è
una busta rettangolare di carta rossa: una lettera. Con poche lettere scritte
in cirillico. È chiusa, sigillata, da uno stemma bianco di ceralacca. La
estraggo con cura, reggendola tra due dita come se scottasse. Seth e Pansy la
guardano senza capire, mentre Anya invece resta inerme, come se l’avesse già
vista.
“E’ l’ultima cosa che ha lasciato Tatia.
Una lettera. Scritta chissà quando…” aggiunge con un filo di voce, chiudendosi
nelle spalle “Ilai l’ha trovata un mese dopo la sua morte, in quel libro. Ma
non si può aprire… non sappiamo che cosa c’è scritto…”.
“Non si può aprire?!” chiede Seth
sconcertato, mentre un’ondata di brividi mi travolge. Anya annuisce ancora,
indicandomi la scritta sulla busta: “E’ protetta da un incantesimo forte, che
non siamo mai riusciti a rompere. Potevamo forzarlo, ma avremmo distrutto la
lettera stessa. È stato il tormento di Ilai per anni… specie per
quell’iscrizione…”.
“Che cosa d-dice?” chiedo, tremando a
disagio, guardando Anya e reggendo la busta tra le mani.
“Tre parole…” soggiunge Anya, guardando le
lettere nere sulla carta rossa “Tre parole senza senso… dice: il tuo nome.”.
Rabbrividisco, annaspo e stringo la
lettera tra le mani. Improvvisamente tutto mi appare chiaro. Nitido, definito,
incontestabile. La stretta sulla nuca diventa dolce, quieta, tranquilla,
ispirandomi curiosamente a piangere. Dille
che ricordi il mio nome. Il messaggio dato a Draco, quel giorno. Il tuo nome.
La lettera è per me. E’ sempre stata per
me.
Solo una cosa può provarlo adesso.
Senza esitare, il respiro affannato, gli
occhi allucinati, giro la busta di carta in modo da avere il sigillo di
ceralacca davanti agli occhi. Lo avvicino alle labbra e sussurro con un filo di
voce, sotto lo sguardo attonito dei presenti: “Sono Hermione Jane Granger”. Il
sigillo si spezza nel mezzo, emettendo un piccolo bagliore perlaceo. La busta
si apre tranquillamente, come se nulla fosse.
All’interno, un paio di fogli scritti con
una grafia precisa e tondeggiante. La lettera
era per me.
Anya mi guarda sconvolta, mi stringe forte
per un braccio ed osserva avida la lettera, biascicando: “Si è aperta… era… è
sempre stata… per te, Hermione Granger…”. Sconvolta, annuisco con un sospiro
spezzato mentre Seth e Pansy osservano le mie manovre, ormai del tutto
atterriti e silenti. Una lettera di una donna che non ho mai conosciuto… mi
aspettava qui, da dieci anni.
Ha sempre voluto che venissi qui. Le
parole dette a Draco, erano la chiave per capire.
Che cosa mi avrà scritto in questa lettera
dieci anni fa? Dieci anni fa… avevo diciotto anni, avevo appena sconfitto
Voldemort, stavo con Ron.
E se… da allora… lei avesse sempre saputo
tutto?
Estraggo i fogli velocemente,
improvvisamente arsa dalla voglia di sapere. Dalla busta cade una strana
pietra, rossa, lucida, come un pezzo di ambra, ma rossa, appunto. Stringendola
tra le dita, avverto del potere magico intenso, forte. Ma mentre mi sto
chiedendo di che cosa si tratta, la lettera di Tatia mi vola via dalle mani in
un soffio, atterrando poco lontano. Mi volto in direzione della porta, irata,
furibonda, sentendomi defraudata. Ma poi mi arresto così, sgonfiandomi
progressivamente.
Fermo sulla soglia, con una spalla
appoggiata allo stipite ed una bacchetta sguainata rivolta verso di noi, Ilai
fa improvvisamente la sua comparsa. Stringe nella mano destra i fogli della
lettera che mi ha sottratto pochi istanti fa, mentre mi guarda severamente, uno
sguardo duro e roccioso negli occhi scuri. Non appare molto diverso dalla foto
che ho visto poco fa, sebbene siano passati dieci anni. Ha capelli ispidi e
scuri sul capo ed occhi dello stesso colore, sembrano due immense pozze di
petrolio. I lineamenti sono marcati, scolpiti nella pietra di un’espressione
perennemente accigliata. È molto alto, più di me sicuramente, ma anche più di
Draco o di Dimitri, e sembra schiacciare tutti con la sua altezza, il soffitto
della stanza sembra a malapena contenerlo. Qualcosa nel suo viso mi ricorda
Draco, quando lo rividi al Petite Peste: i gesti mozzicati, gli occhi tristi e
stanchi, le labbra serrate. Il viso di uno uomo che ha perso la donna che
amava. Hanno qualcosa di così straordinariamente comune lui e Draco, da darmi
quasi le vertigini. E vedendo l’espressione di Seth e Pansy, capisco che anche
loro hanno avvertito la stessa acuta sensazione. Ilai, per un po’, si limita a
fissarci facendoci sentire sgraditi ospiti nella sua casa e nella sua vita,
mentre continua a stringere i fogli della lettera di Tatia. Quando parla, la
voce è greve, pesante, ma a suo modo melodiosa.
“E’ una lettera di mia moglie… e si dà il
caso che sarò io a leggerla… fosse anche che è stata lei, signorina Granger, ad
aprirla…” ingiunge severamente al mio indirizzo, facendomi intuire che
evidentemente deve aver seguito tutta la scena senza che ce ne accorgessimo.
Sembra completamente disinteressato a me o a Seth e Pansy, e sembra anche
completamente indifferente al motivo per cui siamo qui e stavamo frugando tra
le sue cose. Tutto il suo essere è catalizzato dalla lettera, l’ultima cosa che
Tatia ha lasciato di sé. Come ha preannunciato Anya, deve esserne stato
effettivamente ossessionato per anni. Lo capisco, ci mancherebbe. Anzi, se sono
stata il modo per fargli avere le ultime memorie della donna che amava, ben
venga. Mi fa sentire un po’ meno in colpa per essere venuta qui a sconvolgergli
la vita. Quindi annuisco immediatamente, abbassando vergognosamente lo sguardo.
Certo, brucio ancora dalla voglia di sapere qualcosa, anche perché tecnicamente
la lettera è per me, non per Ilai. Ma non conoscevo questa donna in fondo. Suo
marito ha ogni diritto di leggerla prima di me.
Qualcosa, però, succede prima che lui
possa iniziare a leggere. Ilai, infatti, abbandona le braccia lungo i fianchi,
dopo che, con un altro gesto lieve della bacchetta, ha sospinto di nuovo i
fogli verso di me. Li prendo di nuovo in mano senza capire, guardandolo
dall’altra parte della stanza con espressione interrogativa.
“L’inchiostro sparisce, se la tocco io…”
asserisce freddamente “Tatia deve averla destinata a lei personalmente… mi
farebbe la cortesia di leggerla ad alta voce, signorina Granger?”. Ha un tono
sofferto e stanco, eppure sempre resettato su una galanteria naturale e su una
nobiltà incontestabile, specie evidentemente quando si rivolge ad una donna. Gli
occhi, però, sono cupi, bigi, spenti. Si chiede perché la lettera sia per me,
per una sconosciuta. E non per lui. Imbarazzata, me lo chiedo anche io. In
Ilai, però, scorgo i germi di una rassegnata consuetudine. Deve essere stato
abituato negli anni alle stranezze della sua consorte. Forse questa è solo una
fra le tante, forse persino in una cosa del genere c’è chi ritrova un affetto
perduto e sorride di dolorosa nostalgia.
I fogli non appena li riprendo in mano, ritornano
pieni di parole scritte da una mano frettolosa. Tatia deve aver stregato la
carta per far sì che la leggessi solo io. Chissà se posso davvero leggerli ad
alta voce, a tutti. Dubbiosa, li soppeso fra le mani con esitazione. Poi,
rompendo gli indugi e respirando forte, inizio a leggere ciò che Tatia mi ha
scritto dieci anni fa.
E’ strano scriverti, Hermione Granger.
Non è strano perché io non ti conosco,
tu non mi conosci e non ci conosceremo mai.
A queste cose ti abitui quando sei una
profetessa: entri continuamente nelle vite e nei destini intimi degli altri
senza che questo, alla fine, ti sconvolga. È un’abitudine lacerante, ma ci si
abitua a tutto, anche alle cose più strane e senza spiegazione. E sebbene per
tutta la mia vita io mi sia sentita unapettegola che spia la polvere in casa degli altri, ormai questo conta
davvero poco. Specie adesso.
È strano scriverti, Hermione
Granger,perché, tra quindici minuti
esatti, mi uccideranno.
Non trovi assurdo che, adesso, io stia
scrivendo a te, ad una perfetta sconosciuta, a pochi minuti dalla mia morte? Io
lascio il mio testamento ad una donna che non conosco, e lascio all’oblio della
mia morte tutto il resto della mia vita. E’ assurdo, vero? Ho diciannove anni,
sto per essere barbaramente assassinata, mi sono appena sposata, non sarò mai
madre. Dovrei correre, scappare, cercare una via di fuga. Inseguire vendetta o
giustizia. O perlomeno, dovrei dire adesso a mio marito che lo amo, che mi
dispiace. Dirgli che quest’anno assieme è stato il più bello della mia vita. Ma
lui questo lo sa. Lo deve sapere, sennò vuol dire che non ci siamo mai amati
abbastanza. E questo non lo credo.
Scappare non serve, ti abitui anche
all’impotenza quando sei una profetessa. La vendetta e la giustizia, in un
contorto modo, sono legati a te, tra poco lo capirai.Ma in realtà più che la condanna per chi mi
farà questo, a te io chiedo l’assoluzione per me stessa.
Perchése stai leggendo questa lettera, vuol dire che tutto quello che mi è
stato mostrato stamattina, è successo davvero. Vuol dire che il futuro che mi
si è dipanato davanti agli occhi, i tuoi prossimi dieci anni sono davvero
accaduti.
Ed allora, se sei qui, la colpa è solo
mia ed è giusto che tu lo sappia.
Quando sei una profetessa, impari una
cosa importante. La Vista ti concede di spiare solo un destino, quello più
probabile. Ma è solo uno, uno soltanto:dalle decisioni più piccole, nascono conseguenze impensabili. E milioni
di destini, tutti diversi. Il libero arbitrio esiste, non dubitarne mai. Per
questo, una parte di me spera che tu non arrivi mai a leggere questa lettera,
spera che la tua strada sia diversa, spera che adesso per miracolo io abbia
persino sbagliato. Potrei impedire tutto anche adesso, spedendoti questa lettera,
ma forse peggiorerei il tuo futuro, forse ti cambierei la vita in peggio. Lascerò
a te il modo di decidere chi amare e che cosa fare. In un confuso quanto
assurdo modo, mi fido di te. E forse, se davvero sei arrivata a questa lettera,
non cambieresti una virgola di quello che hai scelto.
Perché se sei qui, adesso, tu ami di un
amore impossibile ed incomparabile Draco Malfoy ed hai un meraviglioso bambino
di nome Alex. E sono certa che, nonostante il dolore che hai provato, non
cambieresti nulla di questo. Sceglieresti sempre Draco, daresti sempre la vita
ad Alex.
Ma, mentre adesso ti scrivo, sei
un’eroina del Mondo Magico, hai appena sconfitto Voldemort, hai un fidanzato
che ami da anni, stai per diventare Auror, Draco Malfoy a stento lo sopporti.
Nella migliore delle ipotesi, se avessi questa lettera, la getteresti prima
ancora di finirla. Nella peggiore, faresti di tutto per non realizzare questo
futuro.
Quindi, adesso, io ripongo la mia
fiducia in te e nelle tue scelte.
Nasconderò questa lettera appena la
finirò, così, solo tu stessa, da sola, sceglierai di amare Draco Malfoy. A me
stessa, lascerò solo la possibilità di aiutarti se verrà il momento. Tra
qualche anno, esattamente cinque, non so bene come, incontrerò Draco Malfoy
nell’aldilà: gli chiederò come si chiama la sua donna. Se mi dirà il tuo nome,
sarà il segnale che tutto quello che ho visto, è successo. Ed allora sarà il
mio dovere aiutarti: donerò a Draco il mio di nome, così tu verrai a cercarmi.
Indirettamente: perché sei a casa mia per cercare Raissa Karkaroff.
La mia assassina.
Il destino che ho cercato di cambiare,
Hermione Granger, è stato questo: so dall’età di dieci anni che Raissa
Karkaroff mi avrebbe ucciso non appena ne avessi compiuti diciannove. E lei è
mia sorella, in tutti i modi in cui due persone possono essere sorelle senza
mettere di mezzo il sangue.
Siamo cresciute nello stesso paesino e
lei e Dimitri sono sempre stati per me i miei fratelli maggiori.La mia era una vita solitaria, lo è sempre
stata: mia madre era sola, vedova, disperata, spesso beveva e si assentava da
casa per mesi. Io, poi, avevo questo dono maledetto, vedevo il futuro,
profetizzavo tragedie e morti di cui già il mondo era saturo. Avevo un anno e
mezzo, quando ho visto la morte di mio padre. Credo che mia madre da quel
momento, mi abbia sempre odiato. Per quello, mi lasciava spesso da sola. Ero
piccola, molto, quando i nostri vicini di casa si resero conto delle sue
continue assenze. Erano in tre, Dasha e i figli Raissa e Dimitri, poco più
grandi di me. Raissa e Dimitri sono sempre stati per me due fratelli.
Premurosi, accondiscendenti. Mi hanno sempre viziato ed amato come se fossi
davvero la loro sorella minore. Per me, che ero sola, senza amici ed evitata da
tutti, erano la salvezza.Sono sempre
stati affascinati ed incuriositi dal mio dono. Mi facevano domande, prendevano
appunti, collegavano eventi a me, mi sfidavano a prevedere il futuro, ed anche
se le visioni non arrivavano mai a comando, per me e per loro era un gioco
divertente. Mi faceva sentire potente ed ammirata, mentre loro erano sempre più
curiosi di capire “come funzionassi”. All’inizio, credo che la loro fosse solo
curiosità, poi divenne il desiderio altruista di fermare un potere che spesso
mi faceva soffrire, dopo divenne solo un’insana ossessione che ebbi la sciagura
di capire troppo tardi. Facevo tutto quello che Raissa mi diceva, le riferivo
le profezie prima che ai diretti destinatari, accettavo che mi facesse degli
incantesimi per vedere quello che vedevo io nella sua testa, o che mi
somministrasse il Veritaserum per sapere se mentivo. Dimitri non era meno ossessionato
di sua sorella, ma era tenero e gentile con me, mi trattava come una
principessa, mi faceva regali. Io ero tutto per lui, me lo diceva sempre. Credo
di aver sempre inconsciamente pensato che, un giorno, ci saremmo sposati. Non
mi ha mai detto che mi amava e non so se io, nel mio infantile modo, lo abbia
davvero amato. Ma era qualcosa di così naturale pensarmi un giorno come sua
moglie, che non sapevo nemmeno concepire per me un futuro diverso da quello che
mi avrebbe legato per sempre a lui.
Poi arrivò quel giorno di settembre di
nove anni fa.
E la mia vita cambiò per sempre.
Era la sera prima del mio primo giorno
di scuola a Durmstrang, e correvo in giardino sotto la luna piena. Dimitri e
Raissa mi ingiunsero di stare attenta, ma mi sentivo felice, contenta, serena,
amata. Caddi e mi sbucciai un ginocchio, Raissa e Dimitri vennero
immediatamente ad aiutarmi.
Il sangue della mia ferita… sulle loro
mani.
Mi si annebbiò la vista, persi i sensi.
Ed ebbi la mia prima visione di me, a diciannove anni, che venivo assassinata
da Raissa.Il mio mondo, tutto quello
che credevo, tutto quello che sapevo, si rovesciò come un castello di sabbia
nel vento. Ebbi la febbre per giorni, nella mente solo il dolore della ferita
che lei mi avrebbe inferto e che non era nulla in confronto al terribile
laceramento di sentirmi odiata da quella che, per me, era una sorella. Avevo
sentito il suo odio, la sua rabbia, la sua violenza. E questo, faceva più male
di tutto il resto. Dimitri ci sarebbe stato, ma non mi avrebbe salvato, mi
avrebbe pianto, ma non avrebbe fatto nulla per impedire a Raissa di uccidermi.
Per settimane, evitai Raissa e pensai
al modo in cui potevo impedire quel futuro.
Non era facile cambiare le visioni, non
lo è mai stato, occorreva desiderare con tutte le proprie forze, richiamare le
forze positive sul futuro. Ero poco più di una bambina e, come se non bastasse,
non capivo perché Raissa potesse desiderare di uccidermi, fosse anche in un
solo futuro possibile. Poi capii che era la sua ossessione per me che l’avrebbe
portata a questo. Il desiderio malato di capire come funzionasse la mia mente,
da dove venissero le mie visioni, il mio potere. Dovevo cercare per lei un
desiderio che fosse più grande di questo. Non sapevo quale potesse essere,
pensai scioccamente al fatto che lei fosse felice, serena, appagata e
realizzata. Era mia sorella, volevo il suo bene prima ancora che il mio. Non
volevo rinunciare a lei e a Dimitri, concretamente e scioccamente ero
aggrappata a loro. Per anni mi avevano convinto che fossi una specie di
creatura divina, a cui tutto era concesso e nulla poteva essere negato. Ero
sicura che avrei potuto trovare un modo in cui impedire quel futuro. Mi affidai
totalmente al mio potere, cercando di canalizzare tutta la positività che potevo
sul futuro. Qualcuno esaudì il mio desiderio.
Mandò l’amore a Raissa.
Il giorno in cui lei mi rivelò con lo
sguardo colmo di lucciole che era innamorata, la visione sparì. Il mio futuro
appariva denso e dubbioso, ma una cosa era certa: né lei, né Dimitri avrebbero
attentato alla mia vita. Fu il giorno più bello della mia vita fino a quel
momento. Il mio destino, incerto come quello di tutti gli uomini, mi sembrava
comunque risplendere di vita e luce propria. Tutto grazie a questo ragazzo
arrivato nel mio paese in un giorno di inizio estate. Era coetaneo di Dimitri,
quindi aveva un anno in più di Raissa e quattro più di me, e lei se ne era
innamorata perdutamente, a quanto pare anche abbastanza ricambiata. Uscivano
assieme e lei parlava sempre di lui, me lo descriveva con meravigliosi
aggettivi, diceva che voleva sposarlo una volta diventata maggiorenne. Io mi
sentivo la fata buona di una fiaba: me lo avrebbe presentato la sera del
solstizio d’estate. Nel nostro paese, si teneva sempre una festa in quell’occasione,
ballavamo, cantavamo, giocavamo attorno al fuoco, le montagne che stormivano
all’orizzonte, la luce sospesa delle notti chiare della Russia. Raissa voleva
sapere che ne pensavo di lui, ero la sua sorellina, bramava la mia approvazione
più di qualsiasi cosa al mondo. Accettai, ovviamente, ero felicissima, quella
sera Raissa mi regalò un suo bellissimo vestito blu notte con la gonna a ruota,
ballavo davanti al fuoco e mi divertiva vedere le pieghe della gonna ruotare.
Vidi arrivare da lontano Raissa con Dimitri, mi fermai e li corsi incontro.
Sorrisi ad entrambi, mi indicarono il ragazzo accanto a Raissa e me lo
presentarono.
Hermione, pensa al momento in cui hai
capito di amare Draco.
Pensa al momento immediatamente
successivo a quella consapevolezza.
Pensa a quando l’hai guardato.
Tutto contemporaneamente esplode e
trova posto.
Prima senti il vuoto deflagrante della
desolazione, il cupo silenzio del tuo petto, l’eco dei frammenti sparsi. Poi,
immediatamente dopo, è ruscello, alluvione, maremoto. Ovunque. Anneghi,
soffochi, annaspi. Improvvisamente colma, al punto che trabocchi. Di lui.
Non sapevo nemmeno che significava,
fino a quella sera, fino a quando quel ragazzo mi tese la mano e mi disse
sorridendo il suo nome.
Ilai.
Dimitri non era amore: era affetto,
cura, dedizione, pazienza, dolcezza.
Non era Ilai.
Non sarebbe mai stato Ilai.
Il destino mi aveva fatto pagare il
prezzo del desiderio: volevo la vita? Volevo Raissa e Dimitri nella mia vita?
Il prezzo era innamorarmi follemente del ragazzo di Raissa.
Ovviamente l’avrei accettato, andava
bene.
Ilai era bello da spezzare il fiato,
era forte, generoso, divertente. Stare con lui mi faceva dimenticare chi ero.
Non ero il fenomeno da baraccone con le visioni e i destini da intrecciare: ero
una ragazzina felice, allegra, che voleva tutto dalla vita e se lo sarebbe
preso. Non mi sentivo onnipotente, mi sentivo debole, fragile, pronta ad andare
sempre in pezzi. Lui soltanto riusciva a tenermi assieme. Diventammo amici,
uscivamo spesso con Raissa e Dimitri… lentamente, tra Ilai e Raissa le cose
iniziarono ad andare peggio, lui non aveva occhi che per me.
Il vero prezzo del destino che avevo
scelto, non era che io mi innamorassi di Ilai.
Era che lui si innamorasse di me.
Ci baciammo il giorno del mio
sedicesimo compleanno. Non appena mi baciò, toccai contemporaneamente l’inferno
e il paradiso: la visione tornò.
Raissa mi avrebbe ucciso il giorno del
mio diciannovesimo compleanno.
Dimitri e Raissa non ci misero molto a
scoprire di me e di Ilai, andarono su tutte le furie, mi chiamarono puttana e
traditrice. Sentii il loro odio e pensai che forse non sarei nemmeno arrivata
al mio diciannovesimo compleanno, mi avrebbero ammazzato prima. Scoprire cosa
era l’amore ebbe l’effetto di rendermi coraggiosa al punto tale da capire che
dovevo sciogliere i legacci, che mi tenevano avvinta ai Karkaroff. Quello per
loro, era un sentimento malsano, non meno di quanto non fosse il loro
attaccamento a me. Dovevo tagliare i ponti, tutto. Pensai di fuggire, ma sapevo
che probabilmente non sarebbe servito. Cercai quindi un nuovo desiderio dentro
di me, stavolta disinteressandomi completamente se esso li avrebbe portati
lontano da me. Se l’amore non li aveva salvati, dovevano allora diventare più
potenti, perdere interesse in me, capire che in fondo il mio potere era
qualcosa di scontato, stupido, irrilevante.
Stranamente anche questa volta fui
ascoltata.
La visione sparì più o meno nello
stesso momento in cui vennero a sapere dell’esistenza di Adamar, il demone delle
fragilità umane. Decisero di partire per ottenere la Conoscenza Assoluta, forse
anche per allontanarsi da me e da Ilai, convinti che sarebbero ritornati così
potenti da far ritornare le cose a posto.
Dimitri mi chiese di aspettarlo.
Non lo feci.
Mi fidanzai ufficialmente con Ilai, lo
sposai.
Non sapevo quanto tempo avevo, la
visione era sparita, certo, ma poteva tornare. E poi era ricominciata la
guerra, io ed Ilai potevamo anche morire in un modo assolutamente imprevisto
alle mie visioni.Volevo disperatamente
stare con Ilai.
Ci trasferimmo a Tampere e credetti di
aver trovato la gioia.
La guerra finì, vinse Harry Potter. Io
ed Ilai stavamo bene. Dimitri e Raissa non erano tornati, forse erano morti in
guerra o non avevano superato le prove di Adamar.
Una mattina, vidi nei miei pensieri una
bambina. Pensai che fosse mia figlia: era bionda, aveva due grandi occhi
nocciola-verdi, si chiamava Charlotte, il nome che avrei sempre voluto dare ad
una mia bambina. Mi salutava e mi ringraziava, dicendomi che era andato tutto
bene. Le credetti. Sbagliai.
Dimitri e Raissa sono tornati qualche
mese fa.
Non sono più le persone che conoscevo,
specie Dimitri. Sono diventati potenti, implacabili, hanno perso l’amore per il
padre che tanto avevano amato. Si sono incattiviti a causa della guerra che hanno
passato nascosti per evitare che il Signore Oscuro ne facesse dei loro seguaci.
Li ha salvati un tale Draco Malfoy.
L’ho odiato, ma adesso non conta più
niente, si odierà lui stesso per quello che ha fatto.
Sapevo che era questione di tempo prima
che la visione tornasse.
Stamattina, ho espresso un altro
desiderio: il mio ultimo desiderio, da egoista. Avevo Ilai negli occhi che
rideva, indicandomi i fiori rossi del giardino. Ed avevo ancora l’immagine di
Charlotte nella testa. Senza pensare, senza rendermene conto, piangendo tra me
e me, ho pregato che qualcuno prendesse il mio posto, che trovassero un’altra
da tormentare, che finalmente mi lasciassero in pace. E sono stata
accontentata.
Mi sarà data la pace con la morte. E
troveranno un’altra.
Sarai tu, Hermione Granger.
Per questo sei qui, oggi: perché
imprudentemente io ho espresso questo desiderio. Senza peraltro avere nessuna
garanzia di salvarmi, anzi accelerando solo la mia fine. Ma a questo punto,
davvero, mi va anche bene morire oggi. Sono stata felice, ho rischiato tutto
per stare con Ilai e ho perso. Mi hanno promesso la pace con la morte. Ma non
posso perdonarmi di aver coinvolto te, un’innocente, e Draco Malfoy. Non posso
perdonarmi. Quindi ti dirò tutto quello che so per aiutarti a trovare Raissa.
Se tutto quello che ho visto è accaduto, li hai conosciuti per liberarti di un
maleficio. Hanno detto a Draco di Adamar, magari Dimitri sperava persino di
liberarsi di lui. Dimitri ti ha rapito e condotto al suo castello, hanno
ingannato Draco per fargli credere che non lo vuoi più, ti sei scoperta
incinta, hai avuto un figlio. Sei stata in una sorta di esilio per tutti questi
anni, sei tornata adesso e sei alla ricerca di Draco. Ti hanno detto che Raissa
potrebbe essere ancora con lui.
Quello che non sai, è la parte che ha
Raissa in questa storia. L’hai creduta innocente per anni, ma adesso hai
iniziato a sospettare di lei, forse da quando hai collegato me e lei. Ed
ovviamente adesso, sai di aver avuto ragione. Lei non mi ucciderà volutamente,
lo farà per spaventarmi e darmi una lezione, quando tra poco verranno. Ma non
saprà controllare i suoi poteri e mi ucciderà. Dimitri sarà distrutto dalla
cosa, la odierà, vorrà ucciderla. Raissa stessa vorrà uccidersi, non tanto per
il senso di colpa per quello che mi ha fatto, ma per Ilai, per il fatto che lui
la odierà per quello che ha fatto. Lo ama ancora, lo amerà sempre. Ed è questa
la parte peggiore di tutto. Io non posso permetterle che abbia Ilai, in nessun
modo posso lasciarle l’uomo che amo.
Dimitri e Raissa saranno complici come
sempre.
Nasconderanno le tracce del loro
passaggio in casa mia, si procureranno un alibi, piangeranno al mio funerale. E
stringeranno un Voto Infrangibile: Dimitri prometterà a Raissa di non dire
nulla ad Ilai di lei e della parte che ha avuto nel mio omicidio, purché lei lo
aiuti qualora un giorno trovassero una donna che susciti in Dimitri lo stesso
amore ed interesse malsano che gli ho suscitato io.
Ed un giorno Dimitri la troverà.
Sarai tu.
E chiederà a Raissa di aiutarlo a
portarti via da Draco Malfoy. Lei sarà esitante ed incerta, ma avrà ripreso a
frequentare Ilai anche se solo come amica, e quindi terrorizzata che il
fratello gli riveli tutto della mia morte, accetterà di aiutarlo. Sarà lei a
suggerire l’incantesimo per far assumere ad Astoria il tuo aspetto e i tuoi
pensieri, sarà lei a far cadere le barriere di Villa Parkinson e sarà lei a
scegliere di seguire Draco Malfoy, per controllarlo. Dapprima lo farà per impedire
che lui ritorni da te, ma quando tu sparirai, lo farà per riportarti da Dimitri
qualora tu torni da Draco stesso. Non vedo oltre, non so dove sono, non so che
cosa stiano facendo, non vedo nemmeno che fine abbia fatto Dimitri adesso nel
momento in cui tu vivi e leggi questa lettera. Forse non lo vedo perché è
morto. Una cosa, però, la so per certo. Raissa non lascerà mai andare Ilai.
Continuerà a sentirlo, a scrivergli lunghe lettere, mentre sarà con Draco. Ilai
sa perfettamente dove è. Non te lo dirà, ovviamente, fino a quando non gli
leggerai questa lettera, credo che Raissa nel corso degli anni gli racconterà
una serie di fandonie per cui non può tornare in Russia, forse mettendo anche di
mezzo il Ministero inglese, dicendo che ha delle grane con loro da risolvere.
Ma appena gli leggerai questa lettera, Ilai capirà tutto, ti aiuterà, ti dirà
dove Raissa si trova. Digli che deve perdonarmi per non avergli detto nulla,
per non aver lasciato che trovasse questa lettera, per non avergli detto che
era stata Raissa ad uccidermi. Mi odierà probabilmente, mi odia già adesso
mentre leggi questa lettera che è l’ultima cosa che ho lasciato e che non era
per lui. Ma io dovevo proteggerlo, Hermione Granger: l’altra cosa che ho visto
del futuro è che, se Ilai avesse affrontato da solo Raissa o Dimitri, sarebbe
morto. Stando con te, sarà al sicuro. Ti affido la sola cosa che mi è rimasta,
Hermione Granger: ti prego, proteggilo come proteggeresti Draco o come
proteggeresti tuo figlio. È la sola cosa che ti chiedo, e so che non ne ho
diritto, ma non ho bisogno di vedere il futuro per sapere che ora, verrà con
te, a cercare Raissa. Proteggilo, Hermione, ti prego. E spero che come Draco,
un giorno, ha dimenticato Helena e si è innamorato di te, Ilai trovi un’altra
donna da amare. Si merita ogni felicità del mondo. Spero che con tutto questo
io sia riuscita perlomeno in parte a riparare le mie colpe. Non sarà mai
sufficiente a compensare quello che hai già passato, e che forse ancora
passerai. Ma mi illudo che mi perdonerai, che avrai pace un giorno e che la
darai anche a me. L’ultima cosa che ti lascio è il ciondolo che hai trovato in
questa lettera: è una magia antica, bianca, che nella mia famiglia viene
trasmessa di generazione in generazione, dalle madri alle figlie femmine. È una
goccia di sangue di Unicorno solidificata, persa durante il parto: è rarissima.
E produce un incanto potente, solo per le madri. Un solo singolo incantesimo
per il desiderio più grande di una madre per suo figlio: saprai tu quando
usarlo, è il mio ultimo dono per te, Draco ed Alex. Io non l’ho potuto usare
mai. E a mia madre non è mai saltato in mente di usarlo per liberarmi del mio
potere. Ma tu sei una brava madre, lo so, lo sento. E sicuramente saprai quando
e come usarlo, se sarà necessario.
Arrivano Hermione Granger. Arrivano.
Per favore, dì ad Ilai di ricordarsi
della cannella bruciata. Digli che è la sola cosa a cui riesco a pensare
adesso. E digli che lo amo, sempre, per sempre, da sempre.
Sii felice, Hermione Granger… per me.
Quando finisco di leggere, ho la bocca impastata e la gola secca.
Imputo a quello la mia incapacità assoluta di aprire bocca e di dire una cosa
qualsiasi. Ma anche il mio sguardo non riesce a sollevarsi dalle pagine che
Tatia ha scritto poco prima di morire. Resta basso, incollato a quelle lettere
panciute, da ragazzina appena sposata che si era disperatamente innamorata ed
aveva solamente osato essere felice. Nel silenzio, sento distintamente Seth
iniziare a piangere, lui è sempre stato quello più forte di tutti noi. Ci vuole
forza e coraggio a piangere, sì, perché quando scopri una cosa del genere,
quando leggi una cosa del genere, le lacrime sono sfogo e ristoro. E sebbene i
miei occhi si siano fatti umidi, sebbene mi pizzichi la gola, sebbene la
stretta sulla nuca ormai è una vertigine rovente, io non riesco a piangere.
Milioni di sensazioni si affannano nella mia mente e nel mio cuore: la
gratitudine per questa donna che no, non potrei mai odiare, per aver dato una
spinta al mio destino. Il dolore incredibile per quello che le è accaduto. La
rabbia per Dimitri e Raissa, il desiderio di farli pagare anche questa. La
paura per quello che ho rischiato in mano a quell’uomo. Il terrore cieco e
sordo per Draco e Serenity, che forse sono ancora con quell’assassina. Tutto
esplode in me con lo scoppio di un’esplosione, ma restando contenuto al mio
corpo, tanto che si traduce soltanto in una piccola lacrima che mi sfiora la
guancia e in una feroce stretta allo stomaco. Mi stringo nelle spalle, sentendo
improvvisamente freddo ed imponendomi di alzare lo sguardo. Pansy ha stretto
timidamente un braccio di Seth, lui si è piegato su di lei e continua a
singhiozzare nell’incavo del suo collo. Anya ha una mano sulla bocca, trema, è
fredda e bianca in viso.
Ed Ilai… è scivolato a terra, poggiandosi sui talloni. Borbotta
qualcosa, non si riesce ad intendere che stia dicendo, ha un pugno infilato in
bocca. Cola del sangue.
Le lacrime finalmente sgorgano senza controllo, senza rendermene conto
faccio qualche passo malfermo e sorpasso Seth, Pansy ed Anya, la goccia di
sangue di Unicorno ancora tra le dita. La lettera mi è caduta poco fa dalle mani,
planando leggera ed inconsistente come una nuvola di pioggia marzolina.
Esitante, mi fermo davanti ad Ilai e mi chino alla sua altezza, ha lo sguardo
completamente allucinato, i denti che mordono senza sosta la pelle della mano.
Delicatamente prendo il pugno che serra in bocca, lo stacco dalle labbra e lo
trattengo tra le mie mani, impedendogli di farsi male ancora. Ilai sbatte le
palpebre, mi vede davanti a sé, sembra riconoscermi a fatica. Gli occhi sono
lucidi, ma non piange. Resta immobile, guardandomi, mentre adesso sono le
labbra che prende a mordere. Stringo il suo pugno serrato tra le mani, cercando
di dargli coraggio, anche se non so nemmeno io come fare. Le lacrime non me lo
fanno mettere nemmeno del tutto a fuoco. Uno scatto nervoso delle dita, e lo
sento dire con angoscia: “L’ha uccisa… è stata Raissa ad ucciderla… e Tatia…
l’ha sempre saputo… non me l’ha mai detto… io… l’avrei protetta, io avrei…”.
“Lo so… “ sussurro a mezza bocca, reprimendo un singhiozzo, mentre
Ilai si aggrappa a me con tutte le sue forze. Si piega, finalmente piange di
rabbia e dolore sulla mia spalla, Tatia ci unisce e ci divide allo stesso
tempo. Piango anche io la morte di una donna che non conosco, che è la mia
salvezza e la mia speranza, ma di cui non so nemmeno il colore della voce. Non
so cosa faceva nei giorni di pioggia, non so se amasse il tè con lo zucchero o
senza, non so se aveva l’abitudine di dormire con la luce accesa, non so se le
piacesse leggere o magari dipingere.
Non so niente di lei, e non lo saprò mai. Eppure la piango come
un’amica, una sorella, una compagna.
Stringo Ilai come se fosse lui stesso un amico, un fratello, un
compagno, come se non l’avessi conosciuto solamente adesso.
Tutti e due siamo due reduci, due sopravvissuti ai Karkaroff. Questo
ci unisce come non può unire nessun altro al mondo: sappiamo entrambi cosa
abbiamo rischiato personalmente, sappiamo entrambi chi abbiamo messo in mano
loro. Tatia non è tornata. Draco potrebbe non tornare nemmeno lui. Il dolore
sepolto in cinque anni, quello a cui mio figlio ha messo sempre freno, esplode
come un cancro ormai all’ultimo stadio. Piango le lacrime che non ho mai
pianto, urlo la pena che non ho mai urlato, maledico la rabbia che non ho mai
maledetto, mastico l’amarezza che non ho mai masticato. Ilai fa a suo modo lo
stesso, ci aggrappiamo l’uno all’altra, siamo fratello e sorella. Non credo che
ci sarà qualcuno che mi capirà più di lui. E’ un legame istantaneo, fatale, che
Tatia ha plasmato per noi. E ci arrendiamo ad esso. Lo proteggerò come lei mi
ha chiesto. Lui mi proteggerà come lei gli avrebbe chiesto. Saremo noi stessi a
rendere vero l’ultimo desiderio di Tatia.
Così quando, cercando di calmarmi, apro bocca di nuovo, so già che
cosa Ilai mi risponderà. Lo so perfettamente, non avevo bisogno nemmeno di
chiederglielo.
“Raissa ha l’uomo che amo… ha Draco…”.
“Ti porterò da lei…”.
In Finlandia, contrariamente ai piani, ci sono rimasta per quindici
giorni.
Non so perché, ma l’atmosfera di qui mi calma molto, mi rasserena, mi
dà l’impressione di non crollare a pezzi. Cammino molto, passeggio, trascorro
le ore sulle rive del fiume di Tampere, lo sguardo fisso sui fiori rossi che lo
costeggiano e il libro sempre chiuso sulle mie ginocchia. Non riesco a lasciare
la Finlandia, questa è la verità.
E non c’entra nulla che sia una terra bellissima, magica, incantata. Non
c’entra nulla il calore educato della gente che mi circonda, non c’entra nulla
il desiderio comprensibile ed umano di prendermi una pausa da me stessa e dal
mio essere una super-mamma, fosse anche per un paio di giorni.
Fosse così, l’avrei accettato. Avrei persino giustificato ed assolto
me stessa per non aver immediatamente preso un aereo per tornare da mio figlio,
non appena la faccenda di Tatia si era chiarita.
Una crepa, una singola crepa corre dentro di
me come se fossi vetro scheggiato. Se mi muovo, se faccio un passo…
probabilmente mi frantumerò.
Non appena ho letto la lettera di Tatia, la crepa era già lì, piccola,
invisibile, rassomigliante a migliaia di altri segni che la vita mi ha lasciato
addosso. Di primo acchito non me ne sono accorta, come non mi accorgo mai di
niente che abbia troppo a che fare con me stessa, da quando ho perso Draco. Pensare
a me stessa, ai miei sentimenti, ai miei pensieri, è diventato qualcosa di
scomodamente rinviabile ed evitabile nel corso degli anni. Per sopravvivenza,
ovvio.
Appena l’atroce strappo che avevo sentito dentro, al ricordo della
fine di Tatia, si era un po’ placato, mi sono resa conto in modo compiuto che
avevo Draco più vicino di quanto non fosse stato in cinque anni. Certo, Ilai
sapeva dove era Raissa, non dov’era Draco dato che lei nelle sue lettere non
gli aveva mai detto nulla a riguardo. Ma avevo un indirizzo, cosa nemmeno
lontanamente immaginabile fino a poco tempo fa. Ed avevo Raissa, che era stata
sicuramente l’ultima persona a vederlo.
L’ansia spasmodica di trovare Draco si era confusa in un calderone
bollente di emozioni al desiderio di vendicare Tatia, di scovare Raissa e di
fargliela pagare. Tutto in me sembrava ribollire per la voglia di muovermi e di
raggiungere il paesino in riva al mare, a pochi chilometri da Londra, dove a
quanto pare si trovava Raissa e dove aveva detto ad Ilai di avere degli affari
suoi da sistemare, che l’avevano trattenuta lì. Chiacchiere, ovviamente, anche
Tatia me l’aveva confermato. Se era rimasta in Inghilterra, era stato prima di
tutto per Draco, per controllarlo a nome di Dimitri, qualora io lo avessi
raggiunto o lui avesse cercato me. Dopo la morte di Dimitri stesso, ovviamente,
tutto diventava più nebuloso. Potevano anche non essere più assieme. Raissa
poteva aver perso utilità nel sorvegliarlo, come era ovvio, non essendo più
vincolata dal Voto Infrangibile con Dimitri. E lui, da quanto aveva detto Harry
al ritrovamento del suo cadavere, era morto da circa dieci giorni.
Dieci giorni, più il tempo che era passato da quando la notizia mi era
stata comunicata ed ero partita, faceva un tempo più che ragionevole perché
Raissa avesse abbandonato Draco al suo destino. Peraltro, Ilai mi aveva
spiegato che lei non gli scriveva da circa due settimane e mezzo, più o meno da
quando Dimitri era morto. Quindi, tutto faceva pensare che lei potesse essere
sparita di nuovo. E ciò mi rendeva ancora più angosciata di quanto già non
fossi, colmandomi di sudore freddo per tutta la notte e non facendomi addormentare,
presa com’ero dalla smania di ripartire per inseguire Raissa e per non darle
ulteriore vantaggio. Ma non ero sola, non potevo agire egoisticamente come se
lo fossi.
C’erano Pansy e Seth, d’accordo, ma loro mi avrebbero seguito
immediatamente, fino in capo al mondo per trovare Draco.
Ma adesso, in un confuso modo che ha tutto della predestinazione, io
sono legata anche ad Ilai. Non potevo semplicemente andarmene, quando lui aveva
ricevuto un colpo simile e non era nemmeno in grado di muoversi o parlare. Per
sette giorni, era rimasto chiuso nella sua camera, al buio, senza mangiare e
senza dormire. Mi muovevo spasmodicamente fuori dalla porta, cercando di
trattenermi dalla tentazione di pressarlo o di chiedergli direttamente che cosa
avesse intenzione di fare, oppure di salutarlo e partire da sola. Ogni volta
che, però, innervosita e fiaccata dal nervosismo, rifacevo la valigia e cercavo
di andarmene, puntualmente rimanevo con la mano bloccata a mezz’aria mentre
stavo per bussare alla sua porta. Mi paralizzavo, la stretta calda sulla nuca
che mi faceva formicolare il cuoio capelluto, e tornavo indietro, disfacendo la
valigia. Tatia voleva che lo proteggessi. Dovevo restare accanto a lui, ed
aspettarlo. Lo dovevo a lui e a Tatia stessa. E se lei mi aveva protetto al
punto di farmi avere quella traccia, lo avrebbe fatto anche successivamente.
Dovevo fidarmi di lei e di Ilai. Sapere che si sarebbe ripreso, confidare che
avrebbe superato lo shock di sapere che quella che era ormai diventata per lui
la sua migliore amica, era stata anche l’omicida di sua moglie.
Intanto la crepa era lì, uno spacco piccolo ed invisibile da cui
ancora non sgorgava nessuna goccia di sangue. Pizzicava un po’, ma di quel
fastidio sommesso su cui ti ergi noncurante, dicendoti che non è nulla. Poi
arriva il momento che la pelle davvero si lacera, ed il sangue ti macchia le
dita, ed il pizzicore diventa d’improvviso dolore acuto di fiamma.
Devi correre allora, tamponare la ferita, disinfettare e restare
immobile. Restare immobile.
La crepa, in me, si è definitivamente aperta cinque giorni fa.
Una lettera l’aveva creata ed una lettera l’ha aperta ancora di più,
trattenendomi sulla soglia dell’immobilismo per paura di rompermi del tutto.
Una lettera di Raissa, per Ilai, scritta solo tre giorni fa. Aveva
scritto sciocchezze, inezie, racconti di aneddoti estivi e di curiosità
stupide, nulla di che. Eppure, adesso, ogni parola per Ilai era una coltellata.
L’affetto che lei ci aveva messo in quelle poche righe, era macchiato dal
sangue di Tatia. Io avevo cercato segni, tracce, indizi di Draco nelle sue
scarne parole.
Alla fine, li avevo trovati. Erano come sempre equivoci, ombrosi, foschi,
come tutto da quasi cinque anni, ma c’erano.
L’indirizzo di Raissa era lo stesso: lo stesso di cinque anni prima,
quando aveva iniziato a scrivere ad Ilai, dicendo che per un po’ non poteva
venirlo a trovare personalmente. Lo stesso di quei lunghissimi anni che avevo
trascorso in Italia. Lo stesso di prima e dopo la morte di Dimitri. Raissa è rimasta
nello stesso posto, dove aveva accompagnato Draco cinque anni fa. Adesso è
ancora lì.
E Draco dovrebbe essere ancora lì, con lei.
A meno che non abbia deciso di trasferirsi da solo lontano da lì e
Raissa, dopo la morte di Dimitri, non abbia fatto nulla per impedirglielo,
ormai non più interessata a lui.
Il disinfettante sulla mia piaga, allora, ho scoperto essere solo una
cascata iridescente di granelli di sale.
Oramai la risposta a tutte le domande sbocciate, maturate ed
imputridite in questi anni, è ad un passo. E io, adesso, sto sperando in quello
in cui non ho mai sperato prima.
Se Raissa fosse ancora in quel paesino per i suoi motivi personali e
Draco non fosse più lì… perderei il bandolo della matassa che mi ha guidato
fino ad ora, quello che Tatia ha seminato paziente e che mi sfuggirebbe dalle
dita. Tutto si riaprirebbe in modo confuso e nebbioso. Draco potrebbe essere
ovunque, Raissa potrebbe non saperlo o potrebbe anche non dirmelo.
Potrei davvero essere vicina a perderlo sul serio, stavolta.
Evaporerebbe come se non fosse mai esistito, lasciando Alex orfano del suo
ricordo e della sua conoscenza. E lasciando me vedova del matrimonio che mi
sono negata cinque anni fa.
Prospettiva allarmante, tragica, da infarto. Ma non è la peggiore. No,
non lo è.
Se le cose fossero andate così, se non fossero più assieme… lo
cercherei, ovviamente. Non mi arrenderei, mai. Forse troverei persino nuova
forza e nuovo coraggio.
Ma se fosse ancora con lei… se lui e Serenity fossero ancora con
Raissa… non mi concederei nemmeno l’attimo fugace e ristoratore del sollievo e
della gioia. Essi sparirebbero subito, veloci, fulminei, come meteore nel nero
cupo della notte. Annegherei nella preoccupazione che lei abbia fatto loro
qualcosa, che abbia mentito, che li abbia fatto del male. E se scoprissi che
non fosse così, se scoprissi che Raissa è rimasta con loro perché Draco lo
voleva, perché lui l’ha voluta lì accanto a lui, indipendentemente dagli scopi
di Raissa…
Io non riuscirei ad accettarlo. Non ce la farei. Non lo vorrei nemmeno
vedere. Probabilmente impedirei anche ad Alex di conoscere finalmente suo
padre.
Potrebbe avere una moglie, adesso. O una fidanzata, o una compagna, o
un’amante, persino un’amica. Non sono così ingenua da crederlo vergine di una
donna, in tutti questi cinque anni. Perdonerei le scappatelle, giustificherei
le notti di sesso, dimenticherei baci e carezze ad una che non fossi io.
Riuscirei anche ad accettare una donna che porta un anello al dito,
con dentro il nome Malfoy.
Sorriderei con il cuore spezzato a chi lo chiama “amore”, a chi gli
passa il sale a tavola, a chi dorme con lui.
Giuro che lo farei. Probabilmente maledicendola, maledicendomi,
maledicendolo. Ma lo farei. Perché lo amo. Ed amo mio figlio.
Li lascerei conoscere, restando sul proscenio. E cercherei di
dimenticare tutto quello che è accaduto tra noi, non permetterei a Draco né il
rimorso, né il rimpianto né tantomeno il ricordo.
Nulla che lo separi dalla donna che amasse adesso.
Ma se quella donna fosse Raissa… se anche lui ci fosse andato a letto,
una sola singola volta… io non lo vorrei sapere. Non lo vorrei vedere mai più.
Non vorrei accostarli assieme nemmeno nella più lasciva e sporca delle
fantasie. Mi farebbe schifo, la vendetta mi esploderebbe nel ventre, Tatia armerebbe
le mie mani. Forse vorrei uccidere lei e ferire mortalmente lui. Non ce la
farei, ecco.
Semplicemente, tutto andrebbe in pezzi, io andrei in pezzi.
Il demone che lo Zahir creò dalla mia anima, non sarebbe nulla a
confronto.
Ecco perché resto immobile, ecco perché non voglio sapere.
Ecco perché resto in Finlandia: fin quando non devo sapere, posso
ancora sperare. Non so in cosa esattamente… ma posso ancora farlo.
Il fiume davanti a me, mentre resto seduta sull’argine, brilla di luce
riflessa come una scia di stelle. D’un tratto la luce si oscura lievemente,
sobbalzo alla vista di un’ombra che si siede accanto a me.
So chi è, senza nemmeno guardare.
Ed è strano che sia così, ma lo so e basta.
Lo so dalla sensazione che provo in fondo allo stomaco: calore
tiepido, sicurezza inconsapevole, fiducia istantanea. Conoscendomi, uno si
immaginerebbe che tale trasporto io lo senta per Harry, o per Ron, o per Seth,
o comunque per una persona che conosco da anni. Non da giorni.
Ed invece io, tutto questo lo sento per Ilai Radcenko.
Ci conosciamo da quindici giorni, abbiamo parlato tre volte in tutto,
ci siamo guardati a malapena. Eppure, sento di potermi fidare ciecamente di
lui.
Tatia è la responsabile, tira dall’alto dei Cieli i fili rossi che ci
uniscono come se fossimo due marionette alla sua mercé. Non mi dà fastidio,
però. Mi rilassa profondamente. Mi sento sempre protetta.
Ilai guarda a sua volta il fiume, gli occhi scuri concentrati,
circondati dalle ciglia nerissime che vibrano ad ogni respiro. I capelli sono
spettinati e i vestiti sono sgualciti, ma ha le palpebre meno pesanti ed
un’aria quasi riposata. Anya mi ha detto che è un medico, un pediatra per la
precisione. In questo riconosco distintamente i suoi movimenti educati e lenti,
la voce pacata, le mani delicate. Persino l’espressione, seppure sofferente, è
sempre dolce e quieta. Ha un qualcosa di estremamente tranquillizzante, che mi
spinge sempre a sentirmi calma, avendolo vicino.
Senza una parola, mi porge un bicchiere di carta dalla forma
allungata, ancora caldo. Lo guardo senza capire, togliendo piano il coperchio.
L’odore me lo fa riconoscere subito, sorrido tenendo il bicchiere tra le mani
che si riscaldano piano. Cappuccino
aromatizzato al caramello. Lo sorseggio piano, grata, in silenzio.
“E’ il mio preferito…” esordisce Ilai dopo un po’, guardando con un
sorriso lieve il fiume.
“Anche il mio…” ribadisco, pulendomi la schiuma dalle labbra, poi dico
calma: “Non la trovi una cosa strana? Cioè… non hai l’impressione che…”.
“… ci conosciamo da sempre?” sorride Ilai, guardandomi di lato per un
momento, prima di tornare a guardare l’acqua che scorre “Sì… ce l’ho anche io
questa sensazione. Ti spaventa?”.
“No… oserei dire persino che mi calma…”.
“Anche a me…” sospira profondamente Ilai, distendendosi sull’erba
accanto a me, le braccia incrociate sotto il capo e gli occhi ritagli di nuvola
“Credo che sia stata Tatia… credo che sia lei a farci sentire così uniti… come
se ci conoscessimo da anni. Con lei è sempre stato così. Sapeva le cose prima
che accadessero… e non c’entra la chiaroveggenza, o il futuro. Conosceva
proprio il cuore delle persone… era strana, a volte faceva persino paura… e
sono convinta che sapesse anche questo. Per questo ha fatto sì che venissi qui,
per questo non ha nascosto la lettera altrove… voleva che ci conoscessimo… e ci
aiutassimo… voleva che io avessi te vicina quando fosse giunto il momento di
sapere la verità… e voleva che tu avessi me vicino quando ne avessi avuto
bisogno…”.
Assimilo le sue parole con consapevolezza, senza eccessiva sorpresa: è
quello che ho sempre pensato anche io. Ogni coincidenza di questo percorso, di
questi ultimi anni mi sembrano disseminate da Tatia stessa dieci anni fa. Ed in
questo rientra anche questa strana familiarità tra me ed Ilai. Si alza un alito
di vento fresco, chiudo gli occhi respirando la luce del sole.
“Credi che adesso io ne abbia bisogno?” chiedo più a me stessa che ad
Ilai, riaprendo gli occhi “Credi che adesso… io abbia bisogno di te?”.
“Difficile non accorgersene…” commenta lui laconico, sollevandosi a
sedere “Questa storia… non è una tragedia solo per me, che ho perso mia moglie.
Tu hai perso a tua volta delle persone che amavi… o meglio, non hai ancora
finito di perderle… e non avere la certezza che ciò sia successo, non sapere se
ciò sia successo davvero… non volerlo nemmeno sapere… credo che sia la parte
peggiore…”. Ancora, ha capito tutto da solo. Non che fosse difficile,
intendiamoci… Seth ed io ne abbiamo già parlato. Ma con lui, con tutti… io devo
spiegare prima, e dopo capiscono.
Con Ilai non ce n’è bisogno, capisce da solo prima ancora che parli.
“Prima o poi dovrò saperlo, però, no?” sorrido tristemente,
guardandomi le scarpe e gettando poi distrattamente un sasso nel fiume. La pietra
descrive una linea semicircolare che si conclude con un tonfo sordo d’acqua,
sollevando schizzi argentei. Il silenzio di Ilai dura fino a quando l’acqua si
calma, tornando una linea piatta.
La sua voce è grave, sembra risuonare dal suo petto come se
echeggiasse da una caverna: “E prima o poi io dovrò affrontare Raissa… e da
quello non so che potrà uscirne… ora come ora, vorrei solo…”.
“Ucciderla?” suggerisco, abbracciandomi le ginocchia, rifiutandomi di
guardarlo in volto. La mia voce non ha tracce della patina polverosa dei miei
soliti giudizi morali, ma solo la profonda consapevolezza che aver odiato Dimitri
Karkaroff per tutti questi anni, mi ha fatto scendere maggiormente a patti con
la parte più violenta ed irrazionale di me stessa. I pensieri spesso non si
possono fermare, così come i desideri o i sentimenti. Sono le azioni che ci
qualificano.
Se pensi di uccidere, non sei un assassino. Sei solo umano. Se poi
uccidi, allora diventi un omicida. E smetti di essere umano.
Io non ucciderei mai, per quanto possa averlo pensato. Ed Ilai non lo
farebbe a sua volta, lo so. Lo sento.
Ilai annuisce con un breve cenno del capo, me ne accorgo con la coda
dell’occhio. Il suo sguardo per un attimo si eclissa di fiducia spezzata e
dolore spento. È come se tenesse a freno dentro di lui un uragano che lo
spazzerebbe via, se solo gli desse il potere di farlo. Lui ha parlato del mio
di dolore e della mia di perdita, ma Draco c’è ancora, io so che è vivo. Ilai,
per quanto possa anche ottenere vendetta o giustizia, non riavrà mai indietro Tatia.
A questo non c’è paragone in niente al mondo.
“La scelta sarà di entrambi…” dice Ilai infine con un filo di voce,
guardandomi dritto negli occhi “Saremo entrambi a decidere che fare di lei… non
sarà solo una tua o una mia responsabilità… lei pagherà… non le permetterò di
farla franca. La morte ci ha tolto Dimitri dalle mani… ma non sarà lo stesso
con Raissa…”.
Annuisco convinta con il capo, su questo non ci piove. Ma c’è altro
che lui deve sapere. C’è altro che Ilai dovrà sapere, prima che definitivamente
questa cosa ci leghi del tutto, prima di intraprendere questo viaggio assieme. A
suo modo, come tutto il resto, sento che lui già lo sa. Ma ho bisogno di dirlo
ad alta voce, anche a me stessa.
Andare a cercare Raissa e forse Draco potrebbe costarmi tutto: la
speranza, la fiducia, l’amore. Persino la mia stessa anima.
Potrei tornare un involucro vuoto, molto peggio di quello che mi rese
lo Zahir. Potrei trascinare me stessa ed Ilai, senza contare Pansy, Seth e il
mio stesso figlio, in un vortice di annientamento da cui non riuscirei a
salvare nessuno. Potrei far rischiare loro la vita, per quanto io ne possa
sapere. Per questo, per tutto quello che comporta questo viaggio, ho bisogno di
pormi dei limiti, delle linee guida, per sapere esattamente quando tornare
indietro prima che sia troppo tardi.
La mia voce è chiara, mentre scandisco: “Dovremo essere pronti entrambi
a partire, allora… solo allora lo faremo… non importa quanto tempo ci vorrà… ma
dobbiamo essere uniti in questo. Altrimenti saremo spazzati via…”, respiro a
fondo mentre Ilai mi guarda, dandomi silenziosamente il suo assenso: “Io ho un
figlio e devo pensare ad Alex prima di tutto. Se capirò che qualcosa può
metterlo in pericolo, non esiterò a mettermi anche contro di te se dovesse
necessario… nessuno deve toccare in nessun modo mio figlio…”.
“Non permetterò che facciano del male al tuo bambino…” ripete deciso
Ilai, stringendo inconsciamente la mia mano ancora abbandonata sull’erba. Mi aggrappo
ad essa, fissandolo dritto negli occhi scuri: “Io ho bisogno di sapere, di
capire… Raissa pagherà… ma devi promettermi che… aspetterai che io capisca cosa
c’è tra lei e Draco, qualora siano ancora assieme…”. Ho paura di fargli troppo
male per come stringo forte la sua mano, ma Ilai non fa una piega, non dice
nulla, continua solo a stringermi forte lasciandomi intendere che abbia capito
perfettamente quello che chiedo.
“… e se… capirò che…”, la mia voce si rompe lasciando sfuggire una
nebbia confusa di pianto che tento a fatica di nascondere. Un singhiozzo
deforma le mie parole, ma Ilai continua a tenere stretta la mia mano e riesco
quindi a fatica a terminare: “… se dovessi rendermi conto che stanno… assieme… devi farmi una promessa…”.
“Ti porterò via da lì… porterò via da lì sia te che Alex, te lo giuro…”
bisbiglia Ilai, guardandomi in viso e prevenendo ogni mia altra parola. Sgrano gli
occhi lucidi di pianto, ancora una volta ha capito tutto da solo. Rendo ancora
grazie silenziosamente a Tatia, per questo dono che mi ha fatto. Ha voluto che
affrontassimo questa cosa nella maniera migliore possibile. E ci ha creato a
nostra immagine e somiglianza un’ eco dell’anima, che rende tutto un pochino
più semplice. Non di tanto, ma perlomeno posso sperare di avere qualcuno che conduca
me ed Alex fuori da tutto questo.
E fa molto davvero. Non tanto per me, dubito che tornerei mai normale
dopo aver visto Draco con Raissa. Ma per Alex, devo sapere che, se lo porto con
me, ci sarà qualcun altro a proteggerlo.
“Grazie…” sussurro piano, asciugandomi una lacrima che cade lungo il
viso “Avrò bisogno solo di qualche giorno… voglio andare a prendere Alex… poi
possiamo andare… tu sei pronto?”.
Ilai mi lascia la mano e stringe la mascella, dicendo di sì.
Solo pochi giorni… ed avrò le risposte che
cerco…
Solo pochi giorni: ed ho avuto le risposte che cercavo.
Non eravamo pronti.
Né io, né Ilai. Non era pronto nessuno. Non lo saremmo mai stati,
anche se avessimo avuto mille e mille anni.
Il cielo mi sembra sanguinare, anche se è solo il tramonto quieto di
un giorno d’estate di una piccola cittadina sul mare, che odora di iodio e di
sale, di gente calorosa, di feste di paese. Tutto sembra andare a fuoco, io
stessa brucio, annaspo, e poi annego, soffoco, riemergo, muoio daccapo.
Non ero pronta, non lo sarei mai stata. Mai e poi mai, per quanto tempo
ci mettessi.
Seth prende in braccio Alex che mi guarda senza capire, mentre resto
in ginocchio nascosta dietro il cespuglio della villa bianca sulla sommità
della collina, circondata da rampicanti e fiori viola.
L’ho riconosciuta subito, ovviamente, appena l’ho vista. Ed è stato l’ennesimo
colpo al cuore. L’ennesimo, l’ulteriore, ma mai l’ultimo. Mai, non finisce mai
la storia per cui io debba sempre auto-infliggermi dei colpi mortali solo per
vedere se riesco a sopravvivere. Già c’era tutto il senso, tutto, tutto, solo
nel vedere che Raissa scrive ad Ilai dalla casa che Helena aveva sempre
desiderato di comprare anni prima, quando veniva su una spiaggia poco lontana
da qui, con Draco.
Potevo andarmene, no? Potevo già capire tutto, no? Ed invece me ne
sono stata zitta, imponendomi di non morire dissanguata dentro, giusto per
rendermi conto che se uno mi spara dritto al petto, io posso pure respirare
ancora per altri cinque minuti.
Cinque minuti provvidenziali.
E non ne avevo bisogno, non ne dovevo aver bisogno come invece
continuavo a dirmi di avere.
Seth si allontana con Alex in braccio, lui deve pensare che stiamo
solo facendo una gita, deve continuare a pensarlo. Per quello sono qui anche
Dean e Pansy, con Charisma. Sento Alex raggiungere la sua amichetta, iniziare a
giocare, ridere. Sta bene, non ha visto nulla, non si è accorto di nulla.
Guardo Ilai nello stesso momento in cui lui si volta a guardare me,
cerco la sua mano, lui la intreccia forte con la mia.
Non eravamo pronti, non lo saremmo mai stati.
Lui non era pronto a rivedere Raissa, viva, vegeta, sorridente,
assassina senza rimorso. Un vestito chiaro, i capelli più lunghi, l’aria fredda
nei tratti dissolta.
Ma lui finge di stare bene, deve farlo, capisce subito che per me è
peggio.
Serro gli occhi forte, cancellando la parola maledetta che mi vibra
nella testa, quella che impedirei persino ad Alex di usare ancora, nonostante
sia la parola più bella e dolce che io conosca.
Mamma.
Una bambina bionda, gli occhi azzurri da cielo di primavera. Un paio
di scarpette rosse di vernice, una salopette di jeans, un sorriso furbo.
Una bambina che non ho mai dimenticato, una bambina che ha nel sangue
l’amore per questa casa e per questa terra, una bambina che dopo cinque anni,
non potrei scambiare con nessuna bambina del mondo. Una bambina che ho detto a
mio figlio di chiamare sorella.
La mia bambina bionda… la mia Serenity… che chiama mamma l’assassina
di Tatia Krasova.
Serenity chiama mamma Raissa Karkaroff.
Grazie a chi ha
ancora la pazienza e la voglia di seguire questa storia! Risponderò alle
recensioni promesso…J Scusate la brevità, ma
scappo, corro e fuggo come sempre! Un Bacione a tutti!!! Cassie
RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Draco ed Hermione sono riusciti a
fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton,
che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per
uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione,
ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno,
le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere
nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco.
Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di
recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza
sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è
parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha
convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che
le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi
sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco
ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora
fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i
ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio,
Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone,
Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da
Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la
cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la
prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i
suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata
da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una
sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa
di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si
riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di
perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro
situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua
cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene
individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua
passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo
sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno,
quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad
Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo
l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena,
crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che
Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano
momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro,
dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e
a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove
Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato
via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più
vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete
che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto
Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si
era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio per separarla da Draco e
farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a fare sua
Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico babbano che
Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo
incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri,
però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria,
sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che
sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo
con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della
gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia
da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte
violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si
trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un
matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed
Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una
traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco,
incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di
nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in
modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni
dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una
profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la
pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due.
Tatia non voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in
quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire
dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un
uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera
destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni e dove lei le dice tutto
quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui
è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse
più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da
sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto
l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di
Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed
Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri
le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in
lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe
rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta
la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a
casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma.
Capitolo 38 – Six degrees of separation
“Basta Alex! Smettila!”.
Merce avariata:
sono sempre stata questo.
Ho sempre avuto il cuore in cancrena, l’anima in putrefazione, il cervello
in necrosi.
Da quando? Non saprei dirlo con certezza.
Probabilmente da quando Ron mi ha tradito e ho avuto la condanna
all’Interdizione all’Uso della Magia. Molto più realisticamente da quando ho
creato lo Zahir e la cicatrice che mi ha trafitto i sensi, non se n’è mai
davvero andata. Però, in realtà, se ci penso bene, dieci giorni di paradiso
salvano l’anima dall’inferno. Dieci giorni con Draco mi hanno salvato l’anima,
hanno curato squarci aperti, hanno sanato le ferite, hanno disinfettato lividi
ed escoriazioni, dandomi persino il salutare aspetto di una persona sana ed
equilibrata nonostante tutto.
Dieci giorni da cui ho avuto anche un dono quando sono finiti: chi mi
aveva salvato dallo Zahir, chi mi aveva salvato persino da me stessa, aveva lasciato
dentro di me uno scintillante seme biondo, da cui è sbocciato un bambino. Mio
figlio. Alex. Il figlio di Draco.
E quindi, quando mi hanno cacciato dal Paradiso, quando Dimitri e
Raissa mi hanno ripreso a forza dalla parentesi di cielo che mi era stata
improvvidamente regalata, io ho avuto ancora qualcosa a cui aggrapparmi
ferocemente per impedirmi di ripiombare nell’abisso marcio, da cui ero uscita.
Alex era il luccicante filo dorato che potevo tenere teso in una mano, così che
mi conducesse fuori dal labirinto dove ero capitata. Era la chiave, la strada,
il modo per uscire dal Limbo: il solo legame ancora esistente, non reciso, con
Draco.
Ma il filo, in realtà, era teso verso il vuoto: l’altro capo era
saldamente ancorato ad un precipizio desolato dove io, alla fine, sono
precipitata. Poco importa che io il filo lo tenga ancora tra le dita, poco
importa che esso esista ancora, poco importa che questo filo sia carne, sangue,
ossa, intelligenza, volontà, sorriso e lacrima di un bambino, che è mio e che è
di Draco.
Poco importa anche che, inseguendo quella lucida scia di luce, io sia
sempre stata accompagnata da una schiera di angeli, protettori e salvatori.
E poi Helena e Tatia, due spiriti che hanno indirizzato le mie azioni
sin dall’inizio. Adesso, le odio entrambe allo stesso modo per avermi condotto
qui. La prima per aver fatto sì che arrivassi al Petite peste. La seconda per
non avermi impedito di perdere il filo in un modo naturale, cosa che mi avrebbe
lasciato vergine di rancore e pura di ricordi.
So che cosa è il veleno dell’odio, lo conosco, è omnicomprensivo,
nulla sfugge. Si stende sulle cose come una patina nerastra che non lascia
scampo. Ed io adesso odio tutto.
Gli angeli, i diavoli, i vivi, i morti, i buoni, i cattivi, gli amici,
i nemici, i figli e le figlie. Ma mai come odio me stessa, mai come odio tutto di me stessa.
Dell’imputridita me stessa, che adesso per la prima volta in cinque
anni ha urlato contro suo figlio.
Non l’ho mai fatto, non ho mai permesso ad Alex di vedere questa parte
di me. La parte oscura.
Adesso lui mi vede per quella che sono realmente: letale, infida,
sospettosa, manipolatrice.
Marcia.
Mi porto una mano alla bocca, chiudendola sotto il suo sguardo gonfio
di lacrime. Mi guarda come se non mi riconoscesse, come se fossi
improvvisamente un mostro ibrido a tre teste che si è mangiato la sua tanto
cara e buona mamma. Si chiede che cosa abbia fatto o detto di male. Ed il bello
è che non ha fatto nulla di che.
Ha messo su un capriccio come ce ne sono stati tanti in cinque anni,
voleva andare dopodomani ad una festa di paese, ci sono le giostre, le
bancarelle, lo zucchero filato. Non lo stavo ascoltando, mi ha chiamato più
volte battendo il piede per terra. Cinque, sei, sette volte ha ripetuto con la
vocetta stridula da bambino ignorato: “Mamma, mi senti? Mamma, mamma, mamma!”. Non
lo sopportavo. La crepa che mi taglia a metà dentro, come se fossi uno stupido
coccio di vetro, si è messa a crepitare.
Serenity che chiama Raissa mamma.
E ho iniziato ad urlare. Alex inconsciamente ha abbassato gli occhi,
si è cacciato un dito in bocca come non faceva da quando aveva tre anni e ha
iniziato a piagnucolare in silenzio per paura che mi arrabbiassi ancora. Sulla
soglia della stanza, attirati dal rumore e sconvolti dal mio comportamento,
Dean, Pansy e Seth hanno guardato la scena in silenzio. Ho restituito loro uno
sguardo implorante e livoroso, la mano ancora premuta sulla mia bocca come se
mi stessi trattenendo dal vomitare.
Seth, come sempre, si muove prima di tutti, attraversa il salotto
della piccola villetta che abbiamo affittato e raggiunge Alex, chinandosi su di
lui. Mio figlio solleva gli occhi grigi pieni di lacrime, sollevando le braccia
e chiedendo silenziosamente a Seth di prenderlo in braccio. Lui lo solleva, lo
tiene tra le braccia e trattiene una mano sulla sua testa come a cancellare
tutta la sua paura e preoccupazione. Le gambe mi tremano come se fossi
affondata nel ghiaccio, non riesco a staccare la mano dalla mia bocca,
mordicchio la pelle del palmo a punizione e pena verso me stessa.
Seth sussurra nell’orecchio di Alex che la mamma è solo un po’ stanca,
che andremo sicuramente alla fiera, che lo porterà lo zio Seth. Alex annuisce,
il viso nascosto nella camicia di Seth. Lui mi getta un’ultima occhiata che
vorrei che fosse di rimprovero, ma invece è solo di pena, apprensione, pietà. Digrigno
i denti come una fiera selvatica, mentre Seth esce dalla stanza, in silenzio.
La mano mi ricade lungo il fianco, sconfitta, franano anche le mie
ginocchia e ricado come un corpo morto. Dean fa un cenno nella mia direzione,
ma Pansy lo ferma subito con la voce, ingiungendomi severamente: “Spero che tu
sappia che questo… stato… in cui sei…
non è normale… e spero che tu ti renda anche conto di quanto tuo figlio non
c’entri nulla in tutto questo…”.
Mi abbraccio da sola, chiudendomi nelle spalle e cercando di
trattenere il terribile rigurgito di rabbia che mi corrode dentro, che mi
spingerebbe a rispondere anche a Pansy, urlandole addosso.
“E spero anche che tu capisca che noi tutti… abbiamo delle vite… non
esiste che restiamo qui dodici anni solo per farti capire che cosa hai
intenzione di fare…” continua con voce tagliente, guardandomi dall’alto in
basso. Dean le stringe il braccio a tacito rimprovero, ma lei si divincola
automaticamente.
“No Dean… smettila!” alza la voce come se un pensiero le fosse scoppiato
improvvisamente dentro come un petardo “Non dovete proteggerla, né tu, né Seth!
Siamo qui già da una settimana a fare finta di essere in vacanza… abbiamo
nostra figlia a cui badare, non possiamo perderci eternamente dietro questa
storia… e lei ha un figlio suo. Draco potrebbe essersi rifatto una vita,
l’abbiamo sempre saputo… restare qui immobile non cambierà le cose… non
cambierà nulla! Deve decidere che cosa fare!”.
“Hai ragione…” biascico istintivamente con un filo di voce, cercando
di sollevarmi in piedi “Hai ragione, avete ragione tutti… c-cercherò di capire
che cosa f-fare… e cercherò di capire anche come stanno le cose con R-Raissa…”.
Persino il suo nome mi taglia a fettine, mi fa venire voglia di distruggere
l’intero Universo. Poggio le mani per terra, rialzandomi. Pansy esce anche lei
dalla stanza, lasciandosi dietro una scia di profumo dolciastro che mi fa
arricciare il naso. Dean mi guarda intensamente, prima di sussurrare: “Sai
com’è fatta… soffre anche lei… ma lei conosce solo la rabbia come rimedio a
tutto. Prenditi il tempo che ti serve… non pensare a noi…”.
“Devo pensare a voi, invece…” sussurro, asciugandomi una lacrima dalla
guancia “Altrimenti finisce che annego in questo pantano e trascino anche voi
sotto con me… compreso Alex… e questo non me lo posso permettere… devo
s-sapere… che cosa sia successo…”. La mia voce suona meno stabile di quanto
vorrei, ma spero che convinca almeno Dean se non riesce a convincere me stessa.
Lui mi dà un buffetto affettuoso sul mento, poi sorride tristemente ed
esce anche lui dalla stanza, lasciandomi sola.
Il silenzio mi avvolge odioso, finché un passo conosciuto lo rompe in
modo misericordioso. Il calore di un corpo alle mie spalle mi ispira di nuovo a
piangere, mentre mi nascondo il volto tra le mani. La gola gratta come se ci
stessi strofinando sopra della carta vetrata, traducendosi in una sequenza di singhiozzi
scomposti che mi fanno tremare il torace.
Un paio di mani calde si poggiano sulle mie spalle, facendomi voltare
su me stessa, prima di stringermi forte per la vita. Come se fossi un pezzo di
vetro che continua ad andare in pezzi, cerco la ricomposizione dei miei
frammenti ed abbraccio Ilai davanti a me, chiudendo le braccia attorno alle sue
spalle. Singhiozzo nella sua camicia, mentre lui mi accarezza piano i capelli.
“Ti avevo promesso che ti avrei portato via…” bisbiglia delicatamente,
non smettendo un secondo di abbracciarmi “Ma sei tu che devi chiedermelo
adesso… puoi andare via, adesso?”.
“Non posso, Ilai… non posso…” piango come se mi stessi dilaniando ed
urlassi dal dolore “Devo vederli… devo capire… perché lei è ancora con lui,
perché Serenity la chiama…”. Mi fermo incapace di proseguire, un singhiozzo più
forte mette del tutto a tacere la mia stessa voce.
“Sai già che cosa fare?” mi chiede Ilai, staccandomi dolcemente da sé.
Annuisco con il capo, il labbro inferiore che mi trema senza controllo,
mentre mi specchio nei suoi occhi. Ilai serra le labbra, annuisce a sua volta e
mi stringe il polso con quieta forza.
Senza forze, bisbiglio ancora: “Resterai con me?”.
La mano di Ilai trema sul mio polso, è calda come un pezzo di lava.
“Sempre”.
E ho scoperto che il mio castello poggiava su
fondamenta di sale, fondamenta di sabbia.
Lo cantava qualcuno, tempo fa. Non ci avevo mai concretamente fatto
caso, fino a questo momento. Conosco questa canzone a memoria, mi piace anche,
ma non avevo mai prestato attenzione ai suoi versi. Le cose hanno spesso il
dono di attaccarsi addosso all’ anima, per poi spuntare fuori come funghi
velenosi al momento più inopportuno che esista.
Canticchiavo a bocca chiusa in modo meccanico ed innaturale, seduta
nel taxi accanto ad Ilai. Guardavo fuori dal finestrino la pigra cittadina di
mare in cui mi trovo, mentre cominciava tutte le sue occupazioni mattutine.
Seguivo le buste della spesa portate dalle signore corpulente, rimproveravo
mentalmente le corse dei bambini che andavano a scuola, chiacchieravo con gli
anziani che si godevano il sole. E mugugnavo a mezza bocca le note della
canzone che passava in radio.
Ilai, accanto a me, si limitava a restare immobile, le braccia
conserte, la nuca poggiata sul sedile, gli occhi chiusi.
Poi è arrivato quel verso, ne ho rincorso le parole nella testa ed
improvvisamente, dalla stasi robotica in cui mi trovavo, rovente è risalita
l’ansia lungo il mio stomaco.
Serro forte le mani attorno alla borsa, chiudendola con un piccolo
suono meccanico, e getto uno sguardo terrorizzato all’autista mentre mi sento
cedere fino, appunto, alle fondamenta di me stessa.
Per cinque anni, ho avuto la somma illusione di essermi fatta più
forte. Essere madre ha certamente contribuito a darmi un assaggio di
intangibilità a tutto, dovendomi ogni giorno confrontare con la necessità
concreta che mio figlio non capisse o anche solo sospettasse quanto potessi
soffrire. Ho seppellito tutto così in profondità in me, che alla fine ho eroso
tutto quello che doveva tenermi in piedi, al punto che ora mi sono fatta
fragile e trasparente come carta velina.
Fondamenta di sale, fondamenta di sabbia: ecco. E ora stanno franando.
È bastata solo una parola. Una sola singola parola. La parola più
vecchia del mondo, mamma, e tutto è
crollato a pezzi. Le crepe nel mio castello di vetro hanno iniziato a correre
una più letale dell’altra, c’erano sempre state, ma adesso sono improvvisamente
molto più mortifere di quanto credessi. Tutto potrebbe sbriciolarsi addosso a
me ed Alex in pochi secondi, se non riuscissi a sopravvivere a tutto questo.
E al momento, la sola cosa che so è che posso anche morire sotto le
macerie, ma Alex deve salvarsi.
Sempre.
Stringo tra le dita la goccia di sangue di Unicorno che mi ha lasciato
Tatia, lo faccio spesso quando sono nervosa, non riesco a spiegarmi perché ne
senta il bisogno.
Mi sono infilata a forza in questo taxi non per me stessa, ma per
Alex. Per come l’ho trattato stamattina, per come mi sono sentita, per come
sono arrivata al punto di detestarlo perché mi chiama come Serenity chiama
Raissa e come Draco ha concesso che lei facesse… mi sono imposta di uscire e di
finirla con questa storia. Ho affidato Alex alle persone di cui mi fido di più
al mondo: Seth, Pansy, Dean. E spero che lo proteggano dall’ombra che mi
attanaglia. Lo porteranno stamattina al mare, lo faranno giocare con Charisma,
cercheranno di fargli dimenticare le mie urla ingiustificate.
E ho affidato me stessa ad Ilai.
Lui è danneggiato come me, lui è un castello di vetro con le
fondamenta di sale come me e, per quanto assurdo questo sia, solo due ruderi
maciullati come noi due sono in grado di reggerci l’un l’altro per tenersi in
piedi. Non voglio che se ne vada. Non voglio che mi lasci. E lui resta accanto
a me, in silenzio, saldo come una roccia di montagna.
Chiudo e riapro gli occhi una, due, tre volte, improvvisamente
infastidita dalla luce del sole. Sotto le palpebre, un solo ricordo passa e
crepita come un miraggio nel deserto.
Sette giorni fa.
La casa di Helena, quella che lei avrebbe voluto comprare, quella che
indicava felice a Draco mentre mangiavano il gelato sulla spiaggia dove lei era
stata con Cedric Diggory. Le colonne bianche, ioniche, a descrivere un
porticato tutto attorno all’abitazione. Il giardino immenso, pieno di alberi di
magnolia, l’odore struggente delle sere d’estate. La luce violenta del sole che
copiosamente sanguinava su tutto, tingendo di porpora ed oro la pietra bianca.
Il frinire dei grilli, lo stormire delle foglie, il caldo respiro del mare.
Mi ero fermata davanti al cancello, dietro il quale un viale
d’ingresso pieno di ciottoli portava alla porta d’ingresso. Una mano si era
chiusa sulle sbarre chiuse, mi si era seccata la bocca, Ilai aveva annaspato
accanto a me, mentre Alex, alle mie spalle, giocherellava con Charisma. Seth,
Pansy e Dean nemmeno respiravano.
Una donna alta dai capelli corti e biondi, era uscita da una macchina
rossa ferma nel vialetto. Avrei potuto pensare subito che fosse lei, che fosse
la moglie di Draco, la sua ragazza o chissà che altro. Fosse stato così, giuro
che l’avrei accettato. Ma avevo capito subito che non c’entrava niente. Aveva
aperto lo sportello del passeggero e ne era uscita fuori Serenity.
La mia Serenity.
La bambina che avevo considerato mia figlia senza alcun diritto per
cinque anni. La bambina che si addormentava accanto a me, chiamandomi “Mione”.
La bambina che aveva insistito per dormire tra me e Draco l’ultima notte che
eravamo stati assieme. Avevo stretto la sbarra di metallo del cancello così
forte, da farla tremare. Seth, alle mie spalle, aveva trattenuto un gemito
sommesso di commozione e ricordo. Pansy e Dean avevano respirato di sollievo.
Era cresciuta, ovviamente, aveva i capelli più lunghi, biondi, ricci,
gli occhi sempre azzurri, le labbra rosse come una ciliegia. Sembrava più alta
della media, aveva un modo scanzonato e divertente di camminare, sembrava quasi
galleggiare sull’asfalto. Assomigliava a sua madre, Helena, come non mai. Ma
non mi aveva dato fastidio, non ero inorridita. Mi sentivo riconciliata persino
con lei.
Mi bastava aver trovato Serenity. Perché, oltre che indiscutibilmente
l’amore che ho per quella bambina, significava anche aver trovato Draco.
Non poteva averla lasciata. Non poteva. Lo sapevo. Era lì, a pochi
passi. Il cuore è diventato un orologio non funzionante che batte ad ogni
secondo la mezzanotte, e rintocca impazzito.
Avevo dimenticato tutto, Raissa, Ilai, Tatia. Persino che quello era
l’indirizzo da cui quella donna scriveva ad Ilai che intanto, accanto a me, tratteneva
il fiato.
La donna che era scesa dalla macchina aveva preso Serenity per mano,
aveva detto qualcosa in direzione della vettura in cui, solo ora, notavo anche
altri bambini, ed aveva suonato il campanello.
Avevo aguzzato la vista, sebbene cercando sempre di nascondermi dietro
un cespuglio, avevo guardato distrattamente Alex come a sincerarmi del colore
dei suoi occhi, prima che Draco aprisse la porta. Milioni di domande si erano
accavallate in me, avevo cercato di ricordare il suo viso per compararlo a
quello che stavo per vedere, avevo implorato il cuore di non cedere adesso.
Ma la porta non era stata aperta da Draco.
“Mamma!” Serenity aveva trillato contenta, abbracciando le gambe della
donna che aveva aperto la porta. E io ero gelata, mentre le fondamenta su cui
mi reggevo, si erano rivelate per quello che erano. Polvere, brina e un po’ di
cemento scadente. Ilai mi aveva stretto la mano inconsciamente, la sua pelle
era fredda, mi ero aggrappata ad essa come se stessi galleggiando nel vuoto.
Seth aveva allontanato Alex, Pansy e Dean avevano inventato un gioco
per lui e Charisma.
Raissa, con un largo sorriso che non le avevo mai visto, aveva preso
Serenity in braccio e l’aveva portata dentro, chiudendosi la porta alle spalle.
Nelle mie orecchie, avevo sentito solo un suono simile a quello di un
osso che si rompe. Poi più nulla, non ricordo nemmeno che cosa sia successo
esattamente dopo.
Riapro gli occhi faticosamente, mentre sudo freddo. Ilai, accanto a
me, mi guarda preoccupato, fingo un sorriso, gli dico che va tutto bene, torno
a guardare fuori dal finestrino.
Sono tornata davanti a quella casa per sette giorni, ogni dannata
mattina appena mi alzavo da letto. Camminavo per il paese come una sonnambula,
i capelli appiattiti sotto un cappello e un paio di lenti scure. Poi mi
acquattavo davanti alla siepe del loro giardino, mentre tormentavo le foglie
tra le dita.
Sempre la stessa scena: la macchina rossa, la donna bionda, la porta
che si apre al suono del clacson.
Raissa che chiama Serenity all’interno, lei che corre fuori con uno
zainetto fucsia sulle spalle. Raissa si china alla sua altezza, le sistema
meglio i capelli, Serenity sorride. Poi la saluta. Ciao mamma!
Entra nella macchina rossa, la donna bionda saluta Raissa, lei ritorna
dentro dopo essersi fermata qualche istante sul patio.
Al pomeriggio, sempre la stessa donna che ho imparato a conoscere come
Caroline, riporta Serenity a casa.
I primi tre giorni, quelli in cui ero assolutamente convinta che la
cosa non poteva stare come io avevo capito, sono rimasta fuori dalla villa
tutta la giornata, riuscendomi a nascondere all’arrivo di ogni auto. Raissa
esce di rado, rientra carica di pacchetti, non fuma più, ha un sorriso tirato
quando non è con Serenity. Saluta pochissime persone. Si ferma spesso in un bar
e scrive molto su fogli disordinati che tiene in un quaderno dalla pelle rossa.
Cancella, scribacchia. Poi getta il foglio, dopo averlo bruciato con attenzione
con una bacchetta, attenta a non farsi vedere.
Ne avevo raccolto un frammento un giorno in cui non era stata attenta.
Ilai, lo sai che… scriveva a lui.
Ancora.
Perlomeno, anche io avevo portato via qualcosa a lei.
Mi ero resa conto abbastanza facilmente che Draco non era lì. Raissa
chiudeva casa, non appena Serenity tornava. E nessun altro, nemmeno a tarda
notte, faceva ritorno.
Ma non credo che semplicemente non ci sia a titolo definitivo. Lo
sento, lo so. Lui non avrebbe mai lasciato Serenity, a nessuno. A meno che
anche questo non sia cambiato.
E su questo non posso giurare compiutamente.
Per questo devo capire, devo concludere questo percorso in modo
definitivo, anche se la risposta mi agghiaccia.
Se Draco non fosse più con loro, probabilmente significherebbe
qualcosa di terribile. Forse gli è capitato qualcosa. Ed allora strapperei
Serenity a Raissa, e poi la ucciderei, vendicando Tatia e Draco.
Se Draco invece non c’è temporaneamente, allora si aprirebbe uno
scenario che non so spiegarmi in nessun modo.
Ammesso che stiano assieme… e ciò già mi fa morire… perché consente a
Serenity di chiamarla mamma? Ha rinnegato Helena fino a questo punto? Ha
rinnegato anche me… fino a questo punto?
Non avrei la necessità estrema di saperlo, in fondo: potrei benissimo
denunciare Raissa ad Harry, mostrarle la lettera di Tatia, farla finire ad
Azkaban senza nemmeno mostrarmi a Draco e Serenity.
Ma questa codardia, sorta limacciosa nel cuore di un Grifone, non è da
me, non lo è affatto.
Danneggiata, distrutta, fiaccata: ma sono sempre io. Devo essere sempre io.
Quindi devo sapere, per me e per Alex, prima di fare qualsiasi cosa.
La strada naturalmente più semplice sarebbe piombare in casa di Raissa
e farle ammettere tutto. Ma potrebbe essere un’arma a doppio taglio: potrebbe
mentirmi, ingannarmi e, non da ultimo, mettere in pericolo Serenity. A questo
punto, l’unica strada in realtà è diventata un’altra. Parlare con Serenity
stessa.
Non posso farlo però nel mio aspetto. Certo, Serenity difficilmente
ricorda chi sono, era troppo piccola. E non credo nemmeno che Draco abbia parlato
alla bambina di me. Ma potrebbe raccontare a casa che una donna di nome
Hermione Granger, l’ha fermata per parlarle. Metterei in allarme Raissa, forse
consentendole di scappare. Quindi con Ilai, ho preparato della Pozione
Polisucco, in cui scioglierò un capello che ho già prelevato precedentemente
dalla psicologa della scuola. Lei, adesso, dorme profondamente a casa sua.
L’altro punto è che, mio malgrado, dovrò far prendere il Veritaserum a
Serenity.
So che è scorretto, so che è solo una bambina, so tutto. Ma devo
sapere la verità e solo in tale modo, posso sapere con certezza se lei sta bene
ed è felice, escludendo la possibilità che Raissa le stia facendo del male in
qualche modo. E posso anche sapere dove è Draco, ammesso che siano ancora
assieme.
Il taxi si ferma all’improvviso, inchiodando davanti all’edificio
colorato che ho visto giorni fa essere la scuola elementare che frequenta
Serenity. Scendo dall’auto, dopo aver pagato l’autista che riparte subito. Il
cortile della scuola è pieno di bambini che giocano, sono gli ultimi giorni
dell’anno scolastico. Peraltro siamo a luglio, è anche strano che qui si
frequenti ancora la scuola.
Respiro profondamente, la pelle del viso è gelida e la boccetta con la
Pozione rischia di scivolarmi dalla mano. La trattengo forte, facendomi
coraggio e puntando lo sguardo sull’edificio.
“Sarò qui fuori…” mi dice Ilai alle mie spalle, la voce calma e
pacata, annuisco pensosamente giocando con il tappo della bottiglietta della
pozione.
“Sarà la cosa giusta da fare?” chiedo con un filo di voce, voltandomi
a guardarlo “E-è solo una bambina…”. Ilai sospira a lungo, poi con dolcezza mi
accarezza la guancia prima di dire: “Potresti salvarla per quanto ne sappiamo…
non dovresti badare alla forma… è l’unico modo per avere delle risposte o una
parte di esse…”, la sua voce si abbassa mentre conclude: “Pensa a tuo figlio.
Lo stai facendo per lui, gli stai impedendo di soffrire successivamente… e lo
stai impedendo anche a te stessa. Hai diritto di sapere, Hermione… solo allora
saprai cosa fare e potremo farla pagare a Raissa per quello che ci hanno fatto
lei e Dimitri…”. Ha ragione, ovviamente ha ragione. È uno scrupolo sciocco il
mio. Non farò del male a Serenity. Ed in compenso, in tal modo, potrò
proteggere mio figlio. Questo ha sempre contato più di tutto. Non deve venire
in alcun modo in contatto con Draco, se sta con quella donna, anche se lui è
sempre suo padre.
Non posso permetterglielo. E se mi sarà possibile, salverò anche
Serenity da questa dannata follia.
Annuisco gravemente ad Ilai, mentre mi dice che mi aspetterà qui
fuori. Velocemente, entro nel cortile della scuola e mi acquatto dietro una
siepe bassa, ingurgitando in tre sorsi il contenuto dell’orribile pozione.
Quando sento il mio viso cambiare, mi azzardo a ritornare in posizione eretta.
Il riflesso di una finestra mi rimanda un’immagine completamente diversa di me:
sono bassa, tarchiata, con occhiali di madreperla e un vestito rosa confetto.
Assomiglio terribilmente alla Umbridge, cosa che mi fa anche sorridere.
“Nancy!” una giovane donna nell’ingresso urla questo nome con foga,
agitando una mano nella mia direzione. Dato che nessuno si volta, deduco che
stia parlando con me. Ha un aspetto dimesso ma comunque curato, una maglia
verde smeraldo ed una lunga treccia che pende su una spalla. Con mia somma
fortuna, un bambino minuscolo la chiama per nome, dicendole “Maestra Viola?”,
facendomi dedurre che sia un’insegnante. Mi avvicino cautamente a lei, la mia
voce suona gutturale e al contempo acuta mentre dico: “Ciao Viola!”.
“Sei in ritardo anche oggi?” sorride lei, guardandomi di traverso
“Dennis ti ha fatto dannare di nuovo?”. Ah certo, Dennis… certamente ho capito
di che sta parlando…
Fingo un’espressione scocciata, dicendo nervosa: “Non me ne far
parlare!”. Viola, per fortuna, scoppia a ridere quindi deduco che non ho detto
nulla di sbagliato.
Mi guardo attorno con espressione indagatrice, ma apparentemente
indifferente: il bambino che si è avvicinato a Viola sembrava aver più o meno
sei anni. L’età che dovrebbe avere Serenity, adesso. Potrebbe essere anche in
classe con lei. Non credo che la psicologa della scuola conosca tutti i bambini
dell’istituto, quindi è plausibile che chieda numi a lei.
“Senti…” inizio con decisione “Per caso in classe hai una bambina di
nome Serenity? Mi hanno chiesto di fare un colloquio privato… cose di routine,
sai…”.
Viola si illumina immediatamente e dice: “Serenity Hope Ryan, per
caso?”.
Una prima informazione abbastanza scontata raggiunge il mio cervello
mentre annuisco: Serenity porta ancora il cognome di Danny Ryan. Certo, siamo
in una scuola babbana e comunque forse sono ancora sotto falsa identità, quindi
era improbabile che lei adesso facesse Malfoy di cognome. Ma, intanto, forse è
un indizio che Draco sia ancora con lei.
“E’ in classe con Dora…” aggiunge Viola, riferendosi ad un’altra
insegnante “Ma dato che devo comunque andare a raggiungerla, te la mando in un
ufficio ok?”.
“Grazie Viola…” sorrido grata, mentre si allontana. Già ci metterò
un’ora a trovare l’ufficio della psicologa… almeno non devo anche trovare la
classe di Serenity, vagando tra queste aule tutte uguali.
Quando finalmente scorgo una porta smaltata di rosso con una piccola
targhetta con su scritto “Nancy Leibnitz”, Serenity è già seduta fuori dalla porta.
Il cuore mi salta alla gola diventando un tamburo ingovernabile, e
persino il mio volto va a fuoco. Mi reggo convulsamente alla parete, cercando
di tenermi in piedi, fingendo assoluta tranquillità.
Serenity finalmente solleva lo sguardo, accorgendosi di me. Fa un
sorriso dolce, ha le ciglia nere e lunghe che le circondano gli occhi azzurro
chiaro. È rimasta identica nell’espressione a quando era più piccolina: il
fondo un po’ triste degli occhi chiari, le labbra rosse inarcate sempre in una
piega ilare, la postura sempre dritta e composta. Adesso, con le trecce bionde
impeccabilmente tenute ferme da nastri rossi, il vestito estivo dello stesso
colore e le scarpette di vernice… sembra davvero la figlia di Helena. Le
somiglia moltissimo. Solo la forma degli occhi, adesso, mi ricorda qualcosa che
con Helena non c’entra affatto… ed è facile collegare Amos Diggory. Ha
praticamente lo stesso sguardo di Cedric, il fratellastro che non ha mai
conosciuto.
“Voleva vedermi, signorina Leibnitz?” sussurra compita, in modo
educato. Ha la voce cristallina, pura, senza tracce di indecisione nel tono.
Forse è la sua voce a sconvolgermi di più, spingendomi a deglutire un paio di
volte. Quando l’ho lasciata, era una bambina di un anno e mezzo. Non parlava
ancora bene, diceva solo qualche parola mozzicata.
Adesso va a scuola, parla fluentemente, sembra intelligente e
rispettosa. Sono passati cinque anni, maledizione… è giusto davvero che io sia
qui? È giusto davvero che io sia ancora qui?
Serenity è diventata un’alunna di scuola elementare. Alex ci andrà l’anno prossimo. È giusto
che io sia qui a perseguitare questa bambina, invece di occuparmi di mio
figlio?
Poi, stringendo i pugni, mi rispondo mentalmente in modo affermativo:
sì che è giusto. Questa bambina chiama mamma una donna che è stata la più bieca
degli assassini.
Qualsiasi dubbio dovrà sempre cedere di fronte a questo.
“Sì, accomodati dentro…” dico esitante, aprendo la porta dell’ufficio
che si rivela piccolo, impregnato dall’odore di sigaretta e ricoperto da un’odiosa
carta da parati glicine. Sulla scrivania, però, noto quello che maggiormente mi
interessa: una bottiglia chiusa di succo di frutta, due tazze fucsia. Resta
solo capire come posso distrarre Serenity.
Sentendomi tremendamente in colpa, le indico un libro della mia
libreria, chiedendo se può prendermelo mentre sistemo delle cose nello
schedario. La piccola, senza sospettare nulla, mi dà le spalle, mettendosi in
punta di piedi per raggiungere il libro. Quando si volta, ho già svuotato il
contenuto della boccetta del Veritaserum in una delle due tazze, che mi
affretto ad annotare mentalmente così da non confonderla con la mia.
“Vuoi bere qualcosa?” chiedo gentilmente, la voce che risuona troppo
acuta alle mie stesse orecchie. Ma per fortuna è una giornata calda e la
bambina accetta il succo di frutta con gioia, ringraziandomi. In pochi attimi,
i suoi occhi azzurri si eclissano, l’espressione diventa tetra e vuota, resta
immobile senza nemmeno sbattere le palpebre. Mi si stringe il cuore a vederla
così, accarezzo con un pollice una mano che tiene sulla scrivania e sussurro un
mesto: “Mi dispiace, piccola…”.
Ovviamente Serenity non fa il benché minimo movimento che possa
lasciare intendere che mi abbia sentito. Resta ferma, facendomi ovviamente
decidere di concludere questo maledetto interrogatorio quanto prima possibile.
Ripercorro mentalmente quello che volevo chiedere, prima di sospirare e di
iniziare.
“Come ti chiami?” chiedo atona, lasciandole la mano.
“Mi chiamo Serenity Hope Ryan…” ripete monocorde la piccola, dandomi
la prima delle risposte che cercavo. Non è una finzione. È davvero convinta di
chiamarsi in questo modo.
“Chi sono i tuoi genitori?” chiedo dopo un attimo di pausa, eccola
forse la domanda peggiore. Sospiro lungamente, chiudo gli occhi mentre Serenity
risponde senza un attimo di esitazione: “Non ho i genitori. Mia madre e mio
padre sono morti quando sono nata. Io non li ho mai conosciuti. Si chiamavano
Helena ed Amos”. Riapro gli occhi esterrefatta, guardando il viso inespressivo
di Serenity.
Sa la verità, sa di Helena ed Amos. Sa tutto questo. Ed allora perché
chiama Raissa mamma? E fino a che punto sa tutto?
“Sai come sono morti i tuoi genitori?”.
“No”.
“Sai del Mondo della Magia?”.
“No”.
Sa poco effettivamente di loro. Sa il necessario per una bambina della
sua età. Non sa nemmeno del Mondo della Magia, come voleva Helena a suo tempo.
Proseguo con la gola secca le mie domande: “Con chi vivi allora? Da
chi è composta la tua famiglia?”.
Anche stavolta Serenity non ha un attimo di esitazione: “E’ composta
dal mio papà e da Raissa”. Ancora mi sfugge qualcosa, il suo papà? Ma se ha
appena detto che Amos è morto… e perché allora non ha parlato di Raissa come di sua madre?
Non ci capisco nulla.
“Chi è il tuo papà, allora?” chiedo con un filo di voce, temendo e al
contempo augurandomi una risposta specifica.
“Il mio papà si chiama Danny Ryan, era un caro amico della mia mamma…
ma per me è il mio papà…”. Migliaia di sensazioni mi punteggiano la schiena,
costringendomi a nascondere il viso dietro le palme delle mani, per poi
passarlo tra i capelli. Il mio cuore batte forte come se stesse per scoppiare… quel
nome… sono anni che non lo sento.
È ancora con lei, è ancora con Serenity.
Lei lo chiama papà… ma sa che non è il suo genitore naturale. Ha
trovato la perfetta soluzione a tutto. Non ha mai voluto che Serenity lo
considerasse suo padre per il profondo rispetto che aveva per Amos. Ma, al
contempo, ha fatto sì di legarsi a lei in un modo ben diverso dall’essere
semplicemente suo fratello, come diceva all’inizio. Chissà che cosa le ha
detto… come ha fatto…
Per un attimo sordo come un colpo di cannone, ripenso ad Alex. Anche
lui chiama Draco papà, ma ne ha tutti i diritti.
Solo che Draco non ne sa nulla.
Il sudore che mi imperla la fronte, per non lasciare nulla di
intentato di cui potrei pentirmi, chiedo per conferma: “Puoi descrivermi il tuo
papà, Serenity?”.
La bambina mi dà un quadro preciso di lui ed è indubbiamente,
indiscutibilmente Draco.
Una gioia feroce, irrazionale, malsana mi esplode nel petto: comunque
vadano le cose, io l’ho trovato. Dopo cinque anni, l’ho trovato. Le lacrime mi
affannano la vista, per qualche secondo sono assolutamente incapace di dire o
fare alcunché. L’aria stessa che respiro, assume odori e sapori diversi perché
adesso so che è la stessa che respira e sente lui. Il mondo non è più visi
estranei, tra cui lui non c’è mai. È una collezione di immagini che ci
uniscono, che improvvisamente sono diventati gli stessi. E tutto, tutto, dalle
cose più piccole a quelle più grandi, si indora e ricrea perché le vede anche
lui. La mia felicità è immotivata ed irrazionale, stupida, sciocca, e so già
malauguratamente di breve durata, considerando che non ho ancora chiarito nulla
riguardo a Raissa. Ma la assaporo fino in fondo, piangendo, singhiozzando,
gemendo come una bambina commossa. È un momento solo mio, di contentezza
assoluta. Sono solo la donna che ama quest’uomo che ha perso, e che ora lo sa
vicino. Sono solo questo. Non sono la mamma di Alex, l’amica di Seth, il
riflesso speculare di Ilai. Non sono nemmeno Hermione Granger.
Sono l’amore e tutto ciò che ci sta dentro, tutto quello che di
egoista e sconsiderato esiste attorno a questo sentimento.
Ovviamente dura poco. Il senso di responsabilità, la razionalità, l’amore
per mio figlio, l’affetto per i miei amici, la profonda riconoscenza ad Ilai e
Tatia mi riportano indietro, come se fossi sabbia nella marea. Il lascito,
però, del ricordo di quanto io ami ancora in modo totale ed impossibile da
ignorare Draco Lucius Malfoy, diventa una piccola punta di coraggio e speranza
nel mio essere, che germoglia anche nel mio cuore in rovina. È una gemma
piccola, timorosa, che darà forse frutti che dovrò sradicare da me stessa con
tutta la forza di cui sono capace, ma al momento mi fa sentire più viva e
coraggiosa di quanto non mi sia sentita in cinque anni. Improvvisamente è come
se fossi tornata la ragazza che amava Draco ed era da lui riamata. Luminosa come una stella.
Questo si ripercuote nella mia voce, che torna ferma e salda, anche se
ancora nelle fogge stridule di Nancy Leibnitz: “Dov’è adesso il tuo papà,
Serenity?”.
“E’ in viaggio… tornerà tra due giorni a casa…”.
“Non sai dove sia andato?”.
“No”.
In viaggio. Questo, ovviamente, significa che la sua assenza è solamente
temporanea. Forse è fuori per lavoro, ovviamente deve essersi trovato
un’occupazione in questi anni.
Significa, però, ovviamente anche altro. Che Draco, quindi,
effettivamente vive ancora con Raissa.
Senza darmi il tempo di pensare ancora prima che il coraggio mi
abbandoni daccapo, faccio la domanda che temevo maggiormente di fare a
Serenity.
“Serenity, chi è Raissa?”.
Lei, stavolta, ci pensa su qualche momento. La sua espressione non
cambia, è sempre vuota come tutte le persone sottoposte al Veritaserum, ma
appare per un attimo insicura come se la risposta non la sapesse nemmeno lei in
modo corretto. Poi ovviamente riprende a parlare monocolore: “E’ un’amica del
mio papà…”.
“Vive da molto con voi?”.
“Da tanti anni… forse da quando sono nata…”. Non è così ovviamente, ma
sicuramente Serenity non può ricordare il suo primo anno di vita dove Raissa
era assente.
Respiro a fondo, prima di sussurrare: “Perché la chiami mamma?”.
La risposta di Serenity mi lascia senza parole. Devo persino chiederle
di ripetere daccapo che cosa ha detto, dato che sono sicura di aver capito
male. Artiglio le mani attorno alla scrivania, le palme che sudano, mentre
Serenity nuovamente dice: “Perché me l’ha chiesto papà…”.
Draco ha chiesto a Serenity di chiamare Raissa
mamma. Il cranio mi formicola di granchi ghiacciati, che diamine significa?
Un atroce sospetto si traduce in una stretta crudele alla bocca dello stomaco,
mentre un conato di nausea mi fa chinare in avanti e portare una mano alle
labbra. Draco ha chiesto a Serenity di farlo. Questo, ovviamente, significa che
alla bambina non è venuto naturale come è accaduto con lui, come le è parso
normale chiamare Draco papà. Significa quindi anche e probabilmente che questa
richiesta è stata fatta in uno specifico momento, ben localizzato.
“Quando ti ha chiesto papà di chiamare Raissa così?” la mia voce è un
pigolio indistinto, ma Serenity per fortuna mi sente. Ed un attimo dopo, vorrei
che invece non mi avesse sentito affatto.
“A Pasqua… quando mi ha detto che avrebbe sposato Raissa…”.
Tre mesi fa. Solo tre mesi fa: Draco ha deciso di sposare Raissa.
Forse l’ha già fatto, forse è sua moglie. Ha voluto che Serenity chiamasse
mamma la sua matrigna, ovviamente. Ed io, invece, che avevo ogni diritto che
Alex chiamasse papà Ron, perché nemmeno avevo la certezza che sarei tornata in
Inghilterra, non l’ho mai fatto.
Il giardino verdeggiante che mi cresceva dentro, viene riarso dal
fuoco della rabbia e del dolore. Piango piccole lacrime di frustrazione, batto
i pugni sulla scrivania, mi piego sconfitta. Nessuna premura e remora, adesso,
mi cautela dal fare troppe domande a Serenity. Divento affamata di risposte che
mi trafiggano come frecce, facendomi sentire sempre più idiota.
“Si sono già sposati?”.
“Non ancora…”.Soffoco
l’anelito caldo del sollievo, perché è temporaneo, improvvido, imbecille. Potrà
anche non averla ancora sposata. Ma sta per farlo, sta per sposare l’assassina
di Tatia Krasova. Sta per sposare una
donna che non sono io. E quando l’ha chiesto a me cinque anni fa, mi aveva
rassicurato che sarei potuta essere qualsiasi cosa avrei voluto per Serenity.
Adesso, invece, Raissa l’ha resa sua madre. Non potevo esserlo io,
evidentemente. Non ero adatta? Non andavo bene? Il livore mi rendono cieca,
sorda, ma non muta. Perché continuo nelle mie domande, stringendo i pugni,
piangendo, persino alzando la voce. Sono domande che Serenity non potrebbe
sciogliere, eppure le faccio lo stesso.
“Il tuo papà ama Raissa?”.
“Papà vuole bene a Raissa”.
“Raissa ha mai puntato una bacchetta contro papà?”.
“No”.
“E contro di te?”.
“No”.
“Lui la bacia? L’abbraccia? Che cosa le dice?”.
E continuo così, come una pazza invasata, fino a quando distinguo una
scintilla di lacrime negli occhi di Serenity. La rabbia si accuccia in un
angolo di me, mentre riconosco di nuovo la versione avariata di me stessa che
stamattina ha ferito Alex. Forse, davvero, io la mamma non la so fare. Forse,
davvero, è meglio che la madre di Serenity sia Raissa, che è un’assassina.
Chiudo le braccia sul tavolo, poggiandoci sopra la testa, continuando
a piangere, a singhiozzare senza ritegno. Come se l’anima si fosse impigliata
in qualcosa ed avessi dato uno strattone per liberarla, ora mi sento lacerata,
brandelli di quella che ero mi pendono inutilmente dalle mani. Le lacrime sciolgono
persino il mio aspetto da psicologa, riconosco subito il pizzicore della
Polisucco che svanisce ma non riesco a fare un passo. La sta per sposare. Si sta per sposare. Come diamine ha potuto? Come ha
potuto cancellarmi da tutto?
Non mi sollevo, non mi rimetto seduta, continuo a piangere, piegata in
due, mentre chiedo ancora: “Serenity, papà ti ha parlato mai di una persona che
si chiama Hermione Granger?”.
Il “no” della bambina riecheggia nella stanza come l’eco di una
campana a morto. Non le ha mai parlato di me, non le ha mai detto nulla. Vive
nella sua bella casetta bianca con sua figlia e la sua promessa sposa,
dimentico di tutto l’inferno che mi ha gettato addosso da quando l’ho
incontrato, dimentico del figlio che mi ha lasciato, dimentico di tutto quello
che ho passato.
L’effetto del Veritaserum finirà tra poco, Serenity tornerà cosciente,
vedrà il mio vero aspetto. Ma io non riesco a fare nemmeno un passo, neanche
alzo la testa, la luce del sole adesso sarebbe come l’eco di lui nei miei occhi
e forse finirei anche per cavarmeli dal viso, pur di non immaginarmelo ancora.
“Oblivion…” una voce calda raggiunge le mie orecchie, ma sono così
senza forze da non sollevare nemmeno la fronte. Al solo tonfo di Serenity che
cade addormentata sulla scrivania, mi sollevo con preoccupazione, asciugandomi
le lacrime velocemente dal viso. Poi, nella foschia che mi avvolge le pupille,
riconosco la figura che ho di fronte e ricomincio a gemere, devastata.
“La sta per sposare… Draco sta per sposare Raissa…” biascico,
nascondendo ancora il viso tra le mani, mentre definitivamente crollo, vado in
pezzi, rovino come un calcinaccio umido di pioggia.
Affondo il viso nel collo di Ilai, nascondendomi alla luce. Lui si
china su di me senza parlare, mi stringe per qualche secondo.
Poi mi solleva, mi prende in braccio e mi tiene tra le sue braccia.
Resterai con me? Sempre.
Anche dopo essersi Smaterializzato con me nel salotto vuoto della casa
dove alloggiamo, Ilai mantiene la sua promessa.
Non mi lascia andare. Resta con me, sempre.
Passione, istinto, ragione, intuito. Tutto
si sente in diritto ed in dovere di aprire bocca per commentare. Peccato che la
mia decisione sia maturata altrove, in una zona grigia dell’anima e del corpo,
che non sapevo nemmeno di avere. Si chiama ineluttabilità, fatalità,
irrimediabilità. Ha le fogge di un pesante mantello grigio che ha il vantaggio
di coprirmi, ma che al contempo pare soffocarmi.
Sotto questo ombrello improvvisato, sono salva, al sicuro, ben
protetta. Sono di nuovo roccia e montagna.
Ma non sono nulla di diverso da questo. Non che mi interessi, al
momento nulla mi interessa davvero. Specie me stessa, specie tornare ad essere
compiutamente me stessa. E sentire qualcosa, un qualcosa di liquido e caldo che
rompa la monocromia che avverto dentro come profondamente rilassante e
necessaria.
Sto anche bene adesso, perché so che cosa devo fare. Nulla mi farà
cambiare idea.
E nessuno.
Seth è sempre stato passione: quello
del romanticismo, delle gote rosse, delle parole dolci, dell’amore che supera
ogni ostacolo. Uno che crede profondamente nel bene, che crede nella gente
prima di tutto e prima di tutti, uno che “se è vero amore, non c’è nulla che
possa farlo cambiare”. È convinto di avere ragione, perché la sua vita è stata
sofferenza affettiva continua, ma poi ogni sua lacrima è stata ricompensata ed
asciugata. Lui c’era al Petite Peste, c’era nel momento in cui non c’eravamo
ancora nemmeno io ed Draco assieme. Crede che ci apparteniamo dal momento in
cui ci siamo baciati sulla terrazza, la sera del Tourquoise Party. Non crede
alle mie parole.
Dean è sempre stato istinto: quello
delle decisioni improvvise, degli scatti di pancia, del gesto subitaneo, della
parola sfuggita. Uno che crede profondamente in quello che il corpo stesso
comunica in date occasioni, che pensa che sfogarsi sia sempre la cosa migliore,
che manda a quel paese. È convinto di avere ragione, perché ha seguito
l’impulso con una donna che con lui non aveva nulla a che fare, ed ha vinto la
felicità. Lui c’era quando Ron mi ha tradito, c’era nel momento in cui mi sono
giocata tutto pur di ottenere la ragione che meritavo. Crede che io non debba
fuggire, che debba lottare, che debba essere la Grifondoro che sono sempre
stata. Non crede alle mie parole.
Pansy è sempre stata ragione: quella
dei ragionamenti, delle conclusioni, delle riflessioni, dei calcoli ferrei e
lineari. Una che crede profondamente che bisogna sempre contare fino a duemila
prima di dire o fare qualcosa, e poi magari ricominciare, specie se di mezzo un
figlio. È convinta di avere ragione, perché anche se non lo direbbe mai, un
giorno ha scelto l’amore di fronte al destino, ragionandoci su, anche al di là
del cuore. Lei c’era quando Draco se ne è andato, c’era quando non ci siamo
fidati di noi stessi al punto di sposarci. Crede che io mi tirerò indietro,
rivendicherò l’assurdo desiderio egoista d’amore che mi ha spinto fino ad ora.
Non crede alle mie parole.
Ilai è intuito: quello delle
parole uguali che sgorgano sulle labbra, dello schiocco di dita che è
improvvisa comprensione. Uno che crede profondamente che la vita ci metta
davanti dei segnali che sono solamente da decifrare nel modo più giusto. È
convinto di avere ragione, perché la donna che amava è sempre stata fluido e
magico intuito e lo protegge ancora dal Regno dei Cieli, al punto da avergli
donato questo rapporto fatale. Lui c’era quando Serenity ha parlato, c’era
quando mi ha raccontato la verità su Draco e Raissa. Crede che io menta dicendo
che è la scelta migliore, che così soffrirò meno, che è la scelta giusta per me
e mio figlio. Non crede alle mie parole.
Nessuno di loro, che lo dicano o meno, crede alle mie parole.
“Domani io ed Alex partiamo… e non incontreremo Draco…”.
Le parole che pronuncio, alle mie stesse orecchie, tuonano come
assurde. Eppure, non me le potrei rimangiare nemmeno se volessi.
Dopo aver incontrato Serenity, Ilai mi ha riportato a casa. Mi ha
messo a letto come se fossi una bambina con la febbre, mi è rimasto accanto
seduto sul letto, mentre restavo distesa sulla coperta, lo sguardo fisso nel
vuoto e l’unghia del pollice in bocca. Si è allontanato da me solo quando sono
tornati Seth, Pansy e Dean. Ha raccontato quello che era successo e loro hanno
tenuto Alex lontano da me dicendo che la mamma aveva la febbre. Sono rimasta
tutto il giorno a letto, fantasie scomposte che si inseguivano nel mio
dormiveglia. Non riuscivo a focalizzarne nessuna, neanche una, nemmeno mezza.
Frammenti di frasi, di immagini, di suoni, come un carnevale ridicolo che non
smetteva mai di tamburellarmi nella testa. Il solo rimedio era non fare nulla,
restare ferma, ancora.
Sperare che passasse.
Mi sarei addormentata di un sonno lungo mille anni, se mi avessero
detto che al risveglio mi sarei dimenticata tutto.
All’alba, improvvisamente, pochi passi. Soffici, tenui, cauti. Tutto
il mio essere è stato attraversato da una corrente elettrica continua, mi sono
tirata a sedere, ho guardato verso la porta.
Alex era in piedi, l’orsacchiotto tra le braccia, un dito in bocca,
l’espressione persa. Gli occhi grigi erano gonfi di lacrime, mi guardava per la
prima volta temendo di avvicinarsi.
E lì, improvvisamente, è successo. Draco e Raissa sono scivolati fuori
da me, le macabre premonizioni sul loro matrimonio mi hanno lasciata esanime ma
perlomeno capace di prendere decisioni, ed ho capito improvvisamente che la
sola cosa che conta, davvero, per sempre, è mio figlio. Più sto qui e più perdo
me stessa, più rischio di fare male a lui. La ricerca di Draco doveva essere,
oltre che il mio intransigente desiderio da donna innamorata, la ricerca del
padre di mio figlio affinché lui potesse conoscerlo. Adesso io so che Draco non
può conoscere mio figlio, non deve farlo, deve starci solamente lontano. L’uomo
che ama e sposa l’assassina di Tatia, non può nemmeno respirare accanto a mio
figlio. Sia come sia, che sappia la verità, che non la conosca, che sia stato
ingannato o tutto quello che ne consegue… se ama quella donna, non può amare me
e mio figlio. E questo è quanto.
Rischiamo entrambi che lui ci faccia a pezzi il cuore. E se l’ha già
fatto in decine di modi diversi a me, il cuore di Alex non deve nemmeno sapere
come è fatto.
Non è vendetta, non è puntiglio, non è nemmeno rabbia. È
l’ineluttabile destino della madre, che mette in scacco la donna, l’amante, l’amica,
la figlia, la guerriera.
Alex ha dormito con me, dorme ancora adesso. L’odore dolce di
borotalco per bambini, il suo respiro calmo finalmente, il tenue sorriso sulle
labbra quando gli ho promesso che saremmo andati alla festa di paese a cui
teneva tanto, il pugnetto stretto attorno alla mia camicia: è stato come
sentirmi a posto, finalmente, con me stessa.
Per questo, qualsiasi cosa diranno, qualsiasi cosa i miei amici
diranno, non cambierà nulla.
Domani io ed Alex partiamo… e non incontreremo Draco.
“Sei sicura Herm?” chiede con voce tremante Seth, alzandosi in piedi
“Insomma per quanto ne sappiamo, Danny può essere sotto il controllo di Raissa…
lo dovremmo scoprire prima, lo dovresti salvare in quel caso… non credi?”.
Sollevo il mento, la voce fredda: “No. Non è affare mio. Denuncerò Raissa alle
autorità. Loro scopriranno anche fino a che punto Draco è coinvolto… non è
necessario che io resti qui e non è necessario che ci sia anche Alex. Serenity
non era sotto Imperius, me ne sarei accorta… e le ho
chiesto se Raissa ha mai puntato la bacchetta contro Draco, se lo controlli, se
Draco sta male. La risposta è sempre stata no. Non poteva mentirmi… e se anche
l’Imperius fosse stato più forte del Veritaserum, lei
a quel punto avrebbe rotto il controllo della pozione pur di non sconfessare
Raissa, qualora l’avesse controllata. So come funzionano queste cose, sono
stata il Capo degli Auror per anni. Mi sarei accorta di una cosa del genere”.
“E se fosse un controllo diverso?” bisbiglia Seth con un filo di voce,
fronteggiandomi a pugni chiusi “Se fosse semplicemente che… gli ha fatto il
lavaggio del cervello?”.
Un sorriso amaro curva le mie labbra, mentre rispondo ancora gelida:
“Seth, tu conosci Danny Ryan, ma non sai nulla di Draco Malfoy. Il lavaggio del
cervello non se lo farebbe fare da nessuno… se ha scelto di…”, nonostante la
mia convinzione, non riesco comunque a terminare la frase senza che la voce mi
tremi. Deglutisco un paio di volte, tossendo, poi concludo: “… è perfettamente
in possesso delle sue capacità intellettive, ti dico. Ed anche se non lo fosse,
quando arresteranno Raissa, avrà tutto il tempo di accorgersene. Certo, non gli
servo io per saperlo…”.
“Ma tu lo ami!” biascica sconfitto Seth, lasciandosi cadere su una
sedia, le mani tra i capelli. Un singhiozzo si rompe nella mia bocca, fingo
ancora di tossire per fermarlo, il petto che echeggia vuoto.
“Amo di più Alex…” mormoro sicura, distogliendo lo sguardo da Seth per
puntarlo sulla finestra. La luce mi inonda le iridi, chiudo gli occhi per il
fastidio: “E per quanto adesso mi sembra il contrario, è importante che
ricominci anche ad amare me stessa… non potrò farlo se continuo ad inseguire la
speranza remota che questa storia vada a posto per un motivo qualsiasi. Tra me
e Draco era finita cinque anni fa. Non siamo stati noi a volerlo, d’accordo. Ma
era finita allora e lui è andato avanti. Io no. Adesso ne sono più consapevole
di quanto sia mai stata…”.
“So che probabilmente a queste parole, l’inferno gelerà… ma la Granger
ha ragione, Seth…” la voce monocorde di Pansy mi raggiunge da un punto
imprecisato alla mia sinistra, la vedo con la coda dell’occhio accendersi una
lunga sigaretta che emette un buon odore di arancia e vaniglia. Dopo averne
dato una boccata, aggiunge seria: “Non sei madre, Seth… e non puoi capire…”.
Mi volto a guardarla, lei ovviamente non fa il minimo accenno nella
mia direzione ma prosegue calma: “Se fosse successo a me con Charisma, avrei
fatto esattamente la stessa cosa. Anzi probabilmente al posto tuo, non avrei
nemmeno lasciato l’Italia. Mi sarei aggrappata a chi avevo accanto in quel
momento… so che nel tuo caso era Weasley, quindi qualsiasi cosa era migliore…”,
sollevo gli occhi al cielo e reprimo un sorriso scomodo mentre continua: “… ma
è vero che essere madre cambia la vita. Devi andare avanti per forza. O vuoi, o
non vuoi. Tu hai messo in pausa tutto, invece… Alex merita che invece tu vada
avanti. La condanna è finita, l’esilio anche. È ora che inizi a viverla davvero
questa tua esistenza… se non altro per Alex. Un giorno, probabilmente,
scoprirai anche il piacere di viverla per te stessa. Ma adesso è a lui che devi
pensare…”. Pansy spegne la sigaretta con un gesto elegante, mentre io
silenziosamente la ringrazio mentalmente.
La sua voce ha un tono più triste mentre continua: “E non credere che
sia facile per me dirti questo. Draco è sempre il mio migliore amico. E so
anche che… quello che provavate voi due… difficilmente si trova ancora e
difficilmente lo provano altri. Credimi, lo so…”, nei suoi occhi passa veloce
un lampo d’oro liquido, ricorda i colori dell’autunno, ricorda dei pomeriggi
bagnati dalla luce del sole fattosi di bronzo. Dean conosce lo stesso sguardo
per qualche secondo e penso immediatamente che qualcosa nelle parole di Pansy,
sia chiaro solo a loro due e ai loro ricordi.
Pansy capisce ovviamente. Lei e Dean si sono
innamorati dello stesso amore assurdo di cui ci siamo innamorati io e Draco.
“Per questo, non ti credo…” aggiunge stentorea, sistemandosi meglio
sulla poltrona “Non ce la farai a rinunciare a lui. Tornerai indietro… basterà
il tempo di capire che non ce la fai ad andare avanti senza di lui. Ti
spezzerai definitivamente e ti trascinerai dietro anche tuo figlio… perché
anche se Draco non sposasse più Raissa, anche se tornasse… non sarà più la
stessa cosa. Dovreste ricominciare daccapo. E siete genitori adesso, non
potreste semplicemente mandarvi al diavolo quando vi va. Sareste costretti a
stare assieme. Ed inutile che ti dica che secondo me, non ne siete stati in
grado… mai… ti ha chiesto di sposarti appena vi siete messi assieme. L’hai
lasciato appena ti ha mostrato l’anello di Helena. Siete sempre stati deboli.
Con Alex, finireste semplicemente per fare un’ulteriore vittima, oltre voi
stessi…”. Le parole di Pansy aleggiano nel silenzio che galleggia pigro nella
stanza, sono troppo studiate per non capire che se le teneva dentro da anni.
Non posso obiettare, non posso contraddirla, a suo modo ha ragione. So
anche, però, che il bello di questa storia è che la vita non darà mai ragione a
me o a lei. Ci lascerà per sempre il beneficio del dubbio, riguardo a quello
che poteva essere e non è stato tra me e Draco Malfoy.
Ignoro ogni accenno a me e a lui assieme e ribatto solo alla prima
parte della sua frase: “Suppongo che dovrai fidarti della mia volontà di
chiuderla davvero questa storia. E se ci scommetti contro, hai anche una
discreta casistica che ti sostiene… a me basta sapere che sei dalla mia parte,
a tuo modo. Credo che sia il massimo che possiamo ottenere l’una dall’altra
no?”.
“Ci mancherebbe… il giorno in cui dirò che mi fido di te e delle tue
scelte, sarà anche il giorno in cui truccherò lo Smistamento di Charisma perché
finisca a Grifondoro…”.
“E il giorno in cui io sarò d’accordo con il tuo piano, sarà quello in
cui Charisma finirà a Serpeverde!” biascica velocemente Dean, toccato dapprima
dalla frase della moglie e successivamente ancora dalla considerazione della
mia decisione. Sospiro, preparandomi all’ennesima filippica. Dean si alza in
piedi, rovesciando quasi all’indietro la sedia su cui era seduto. Seth lo
guarda con una cupa nebbia di speranza, mentre Pansy si massaggia la tempia
come se avesse mal di testa. Ilai resta immobile, la schiena poggiata alla
parete, gli occhi chiusi, le braccia conserte.
“Lascerai che quella la faccia franca?! Lascerai che Raissa la faccia
franca?!” ripete Dean nervosamente, andando avanti ed indietro per la stanza,
gettandomi ogni tanto un’occhiata furente.
“Io non lascerò proprio stare nulla!” trovo nella mia voce l’eco di un
po’ di forza nervosa, cosa che porta Dean ad un sardonico sorriso. Mi affretto
immediatamente a respirare, cercando di calmarmi, mi conosce troppo bene per
non farmi capitolare nella sua trappola. Preme un po’ sui miei punti deboli e
crede naturalmente che io cederò come ho sempre fatto. Si sbaglia anche lui.
“Solo, non sarò qui per guardare la fine di Raissa…” dico serena,
chiudendo le braccia “Denuncerò la morte di Tatia, consegnerò la lettera… e
dirò anche quello che ha fatto a me, assieme a Dimitri. La pagherà, certo che
la pagherà… solo che non voglio essere qui, per quando accadrà… voglio
andarmene, voglio essere in grado di ricominciare da sola. Non avrei comunque
potuto affrontarla. Mai… se si fosse trattato solo della mia incolumità,
l’avrei fatta a pezzi dal momento che l’ho vista con Serenity. Ma c’è Serenity
appunto, c’è Alex… non posso affrontarla, devo lasciare questa cosa agli Auror.
La cattureranno… e allora…”.
“… e allora Malfoy saprà tutto, a questo non hai pensato?” bercia
affrettato Dean, guardandomi intensamente in viso.
“Certo che ci ho pensato… se accadrà… se verrà lui a cercarmi, sarà
una sua scelta, non mia…” mormoro affannosamente, mettendo a tacere la parte di
me che continua a sperare che ciò avvenga “E solo allora, deciderò che cosa
fare… e se lui non mi cercasse mai… quando Alex sarà grande abbastanza per
capire, gli racconterò tutto. Sarà lui a decidere se vuole conoscere suo padre…”.
“E’ assurdo tutto questo…” commenta Dean, lasciandosi di nuovo cadere
pesantemente sulla sedia.
“No, non lo è… io voglio solo mettere a posto la mia vita, raccogliere
i cocci… non continuare a vivere in funzione di Draco…” dico con un filo di
voce “Per cinque anni l’ho considerato indispensabile alla mia felicità… lui
non ha considerato me allo stesso modo. So che probabilmente si sarebbe dovuto
rifare una vita, era anche giusto visto quello che Astoria gli aveva fatto
credere di me… ma non con Raissa… non posso accettarlo. Non posso. Voglio solo
acquistare la forza sufficiente ad andare avanti da sola… che domani accada
quello che deve accadere, ma devo imparare ad essere una brava madre senza il
pensiero di Draco, senza il pensiero che Alex sia suo figlio e che io lo faccia
anche per lui. Voglio che, sia che mi venga a cercare, sia che non lo riveda
mai più, per me la vita vada avanti lo stesso… ed accada la stessa cosa anche
per mio figlio. Voglio solo questo. Me lo merito.”.
Le mie parole vengono accolte da un profondo silenzio, tutti
finalmente tacciono come se alla fine io avessi detto davvero delle parole risolutive.
Ho detto solo la verità, nulla di più di questo. Voglio solo ricominciare a
vivere per conto mio, sciogliendo il filo rosso che mi lega a Draco. Può darsi
che sia solo per vedere se resiste, può darsi che io lo faccia perché non posso
sopportare che per un momento qualsiasi della sua vita lui abbia scelto Raissa,
può darsi che io lo faccia solo per non dargli occasione di far soffrire Alex,
può darsi che io lo faccia perché sono davvero stanca adesso.
Ma è quello che voglio. È quello che davvero voglio, adesso.
“Che cosa farai ora?” pigola Seth con un filo di voce, sedendosi
accanto a me e chiudendo le mie mani nelle sue. Sollevo il viso, fissandolo per
qualche istante, poi i miei occhi sfuggono involontariamente dietro di lui,
raggiungendo Ilai. Lui riapre gli occhi in quello stesso momento, limitandosi a
restituirmi lo sguardo.
Sa anche questo. Ilai
si stacca dal muro, rimane immobile e continua a guardare me e Seth. Distinguo
le sue mani che tremano un po’. Deglutendo pesantemente, sussurro: “Oggi
accompagnerò Alex a quella fiera di paese a cui voleva andare… almeno gli
resterà un bel ricordo di questo viaggio…”, sospiro e torno a guardare Seth: “…
e poi vado in Finlandia...”.
Il silenzio che ha accolto prima le mie parole non ha assolutamente
nulla a paragone con questo di silenzio.
Pesante, teso, colmo di sottointesi.
Dean si guarda le scarpe, Pansy assume un’espressione indecifrabile e
Seth si limita a mormorare un asettico ed educato: “Capisco…”. Le sue mani però
si stringono così forte sulle mie che temo che tra poco non mi circolerà più il
sangue. Seth poi non sa nemmeno che cosa sia un tono sommesso ed educato di
rassegnazione, conosce piuttosto le repliche urlate. Quindi se sta zitto, è solo
perché non vuole parlare alla presenza di Ilai. Ho persino la curiosa
sensazione che a Seth, Ilai faccia persino paura.
Ilai, forse capita l’antifona, fa qualche passo ed esce dalla stanza
chiudendosi la porta alle spalle.
Lì, ovviamente, la stanza stessa esplode. Faccio solo in tempo a
staccare le mani da quelle di Seth temendo che me le torca del tutto, prima che
lui si alzi in piedi paonazzo chiedendo spiegazioni.
Spiegazioni che, per inciso, non ho. Volendo essere quanto più neutra
possibile, so che ho deciso di andare in Finlandia perché la calma di quella
terra mi è entrata dentro e credo di averne bisogno più che mai adesso. E’ un
posto tranquillo, pieno di natura amichevole e generosa che so che ad Alex
piacerebbe molto. Non da ultimo, è vergine di ricordi. In Italia non posso
tornare, avrei sempre in mente questi anni e mi sembrerebbe di tornare
indietro. In Inghilterra, per ora, non voglio rimanere, ogni cosa mormora di
Draco e ci sono troppe persone a cui dovrei troppe spiegazioni per un figlio
che non ha padre. Peraltro Seth vive ancora al Petite Peste con Kevin e io lì
non ci ritornerei nemmeno morta. Dean e Pansy hanno la loro vita, hanno
Charisma, non mi intrometterei mai troppo nella loro esistenza. Ginny ed Harry
idem. E per quanto riguarda me, al momento, non ho una casa qui. Resterei in
Finlandia per l’estate, quindi solo altri due mesi, il tempo di schiarirmi le
idee… e poi tornerei qui. Alex inizierà la scuola a settembre e, per allora,
credo che avrò capito che cosa voglio fare di me stessa e della mia esistenza.
Simili considerazioni, però, io potrei farle per qualsiasi posto al
mondo. Potrei andarmene in Spagna, in Francia, in America. E sarebbe lo stesso.
Ed invece ho scelto la Finlandia, ho scelto Tampere, ho scelto di
vivere da Anya ed Ilai.
Stamattina, appena sveglia, ho lasciato Alex a letto e sono uscita in
giardino. Faceva fresco, l’odore del mare era remoto come quello di una
conchiglia, mi sono stretta nelle spalle e seduta su una panchina bianca,
proprio sotto un albero di pino marittimo. Avevo già preso la mia decisione, ne
ero più che mai convinta, attendevo solo di dirla agli altri.
Ilai, in silenzio, è apparso quasi dal nulla e si è seduto accanto a
me. Aveva i capelli più spettinati del solito, come se non avesse chiuso occhio
per tutta la notte, gli occhi erano cerchiati, le labbra serrate e screpolate.
Ho sussurrato la mia decisione senza guardarlo in volto, continuando a tenere
lo sguardo ostinatamente rivolto alla finestra della camera dove dormiva Alex.
“Credi davvero che sia la decisione giusta? Che riuscirai a lasciarti
tutto alle spalle?” mi ha chiesto, la voce quieta, calma, tranquilla.
Per un attimo ho capito perfettamente perché fa il pediatra, rende le
persone sicure, non ti fa temere nulla.
Mi sono lasciata andare contro lo schienale della panchina e ho
sorriso lievemente: “Ci riuscirò mai davvero un giorno? Lascerò mai davvero
tutto indietro? La risposta è no e lo sai anche tu. Ma è l’unico pensiero che
mi consente di non andare in pezzi… quello di pensare di andarmene… e se è
così, forse vuol dire che è la cosa giusta…”. Lui è rimasto in silenzio, non ha
aggiunto altro, nemmeno quando gli spiegavo che avrei denunciato Raissa, avrei
consegnato la lettera e avrei anche raccontato della sua collaborazione con
Dimitri nel tenermi reclusa. In risposta, ha soltanto detto che lui comunque
sarebbe rimasto fino a quando non avesse visto Raissa trascinata in catene, poi
sarebbe tornato a casa sua a Tampere. Per qualche secondo solo il rumore degli
alberi che stormivano nel vento del primo mattino ha fatto compagnia ai nostri
respiri, poi, mentre riflettevo concretamente su dove andare e mi rendevo conto
che non avevo un posto da chiamare casa in senso stretto, Ilai si è alzato in
piedi e mi ha dato le spalle facendo qualche passo. “Ad mia sorella Anya …
piacciono molto i bambini, non ne ha di suoi. E io e Tatia non abbiamo fatto in
tempo a darle un nipote…”. Il viso mi è andato a fuoco, come se fossi
febbricitante mentre ancora mi colpiva quasi a tradimento l’intimità dei
pensieri che sembriamo sempre condividere.
Mi sta dicendo… che ad Anya, Alex piacerebbe,
che mi aiuterebbe a prendermi cura di lui.
Mi sta dicendo di andare a casa sua, in
Finlandia.
Ho deciso di accettare nello stesso momento in cui me l’ha chiesto.
Ancora, di motivi razionali io ne ho a iosa. L’ho già spiegato e adesso mi
affanno anche a spiegarlo ai miei amici. Ma non è solo questo. Ovvio, lo so. E
Pansy stranamente svela quello che mi sto tenendo dentro: “L’ho detto io, prima
no? Qua si tratta dell’aggrapparsi a quello che si ha… hai imparato troppo
tardi la lezione, Granger… considerando comunque che sei migliorata, passando
dalla concreta possibilità di restare attaccata come una cozza allo scoglio a
Weasley, a quella invece di Radcenko… possiamo dedurre che il tuo ritardo
nell’apprendimento sia anche stato provvidenziale…”. Non è ovviamente solo
questo: mi sto aggrappando ad Ilai, perché è Ilai, non perché è la sola
alternativa presente.
Lui mi dà l’impressione di prendersi cura di me. Ecco, e io non ci
sono affatto abituata. L’unica volta in cui qualcuno si è preso cura di me, è
durata dieci giorni e mi è stata strappata via.
Quello che io e lui condividiamo, è un calderone liquido di sentimenti
che altri non possono provare: la stessa persona che ti strappa l’amore della
tua vita.
Come fai a non sentirti unita a quella persona?
Ilai poi è silenzio, quiete, stasi: mi abbevero alla sua calma come se
fossi un’assetata. Magari non è normale un così forte attaccamento ad una
persona che, in fondo, è poco più che uno sconosciuto… ma non mi interessa. Mi
fido ancora troppo di Tatia e dell’avermi guidato a lui per mettere in dubbio
questo affetto. Per tutta la vita, poi, ho sempre cercato di spiegarmi le cose
e il risultato è come sto adesso. Se ho qualcosa, qualcuno che mi fa sentire
bene… mi va bene qualsiasi motivo per cui ciò avvenga.
Ovviamente che per me tutto sembri così chiaro nella testa, non
implica che sia lo stesso per gli altri. La mancanza di etichette specifiche a
quello che sento che siano traducibili in parole razionali, impedisce che loro
comprendano. Se per Pansy alla fine il mio è calcolo puro e semplice e glielo
lascio pensare perché mi fa comodo non avere altre domande, per Seth
soprattutto o si parla di amicizia, o si parla di altro. Ed io ed Ilai ci
conosciamo da troppo poco per essere amici secondo lui.
“Si sta semplicemente aggrappando a lui…” ripete Pansy con voce
annoiata, mentre Dean borbotta: “Giuro che d’ora in poi avrò anche paura di
andare a comprare il latte, se corro il rischio che ti aggrappi pure al postino
in mia assenza…”. Pansy lo ignora bellamente concentrandosi su Seth che
continua a blaterare: “Cioè capisco che insomma… sia... un bel tipo… hai degli
addominali su cui ci potresti grattugiare il formaggio…”, sgrano gli occhi e lo
guardo sconvolta, giuro che questa me la scrivo da qualche parte “… e non ci
sarebbe nulla di male se tu… credessi di provare qualcosa per lui… ma ok, un
po’ di sesso consolatore, un paio di baci… ma addirittura che te ne vai a casa
sua! Mi sembra troppo! Non ti sarai innamorata di lui?!”.
“Seth, per favore…” mormoro atona, senza nemmeno prendermi la briga di
arrabbiarmi “Non sono innamorata di Ilai e non ci farò nemmeno del sesso
consolatore… ammesso che io capisca che sia il sesso consolatore…”.
“Io ne ho un ricordo… mi sa che è iniziata così tra me e te…” commenta
allegro Dean, facendomi l’occhiolino. Per fortuna che Pansy pensa bene di
lasciar cadere accidentalmente il suo piede su quello del suo adorabile marito,
prima che lo strozzi io con le mie mani.
“E poi Ilai resta qui fino a quando non arrestano Raissa, non è che
partiamo assieme nel fulgore dell’aurora…” biascico senza eccessiva
convinzione, sapendo che comunque lui prima o poi a casa ci deve tornare “E
comunque, sia come sia, non credo di essere legata a qualcuno. Potrei anche
decidere di sposare Ilai o il fantasma di Nick quasi senza testa, e sarebbero
solamente affari miei, no?”.
Seth ovviamente continua a bofonchiare per un’altra quindicina di
minuti, ma alla fine concorda sul fatto che io debba fare quello che sento di
fare. Del resto, di fronte all’argomento per cui Draco sposa Raissa, mi
concederebbero di fare qualsiasi cosa.
“Vi ringrazio per quello che avete fatto per me in queste settimane…”
le lacrime si formano nei miei occhi prima che le possa fermare “Grazie
davvero, io non so se sarei sopravvissuta senza di voi. Non lo so davvero.
Quello che avete fatto per me, per Alex… non lo dimenticherò mai”. Mi asciugo
frettolosamente le lacrime dagli occhi, mentre Dean sorride e Pansy finge di
essere profondamente interessata allo stato delle sue unghie. Ma la sua mano
trema un pochino quindi credo che mi abbia sentito. Seth, manco a dirlo,
singhiozza. Gli batto amichevolmente una mano sulla spalla mentre mormora: “Non
volevo che finisse così…”. Un groppo pesante in gola, dico piano: “Non era
certamente nemmeno quello che volevo che accadesse a mia volta… ma le cose
adesso stanno così… e poi non è un addio, Seth, diamine! A settembre vengo al
Petite Peste e mi fai vedere il parquet che hai messo nella sala ristorante!”.
“E vieni anche a vedere Charisma… magari la riusciamo a far sposare
con Alex, ti immagini?! Saremo consuoceri, che figata…” asserisce convinto
Dean, strappandomi finalmente una risata allegra, specie quando Pansy obietta:
“Certo, vieni con questi propositi matrimoniali per due bambini di tre e cinque
anni… e vi mando in Romania a curare la carie di tutti i draghi presenti sul
suolo nazionale...".
Alla fine tutti assieme decidiamo di andare assieme alla fiera di
paese, per cui Alex mi ha dato il tormento contagiando anche Charisma. È in un
paese vicino, quindi dovremo prendere il treno. Poi, torneremo qui e ci
divideremo.
Sto per tornare in camera mia per svegliare Alex, quando mi rendo
conto che non so se ad Ilai vada di venire con noi. Allo stesso tempo mi rendo
anche conto di aver dato ampiamente per scontato che lui mi voglia davvero a
casa sua, quindi forse è anche il caso che gli chieda conferma. Lo trovo in
camera sua, è steso sul letto al buio, un braccio piegato sugli occhi chiusi.
Sto per riaccostare la porta lasciandolo riposare, quando la sua voce mi
richiama indietro: “Hai bisogno di qualcosa?”.
Incerta, resto sull’uscio di porta e lo metto a conoscenza dei nostri
piani per la giornata. Dice solo che verrà con noi, senza cambiare il tono di
voce pacato che ha sempre.
“Non ti ho davvero chiesto se a te va bene che venga a stare da te per
un po’…” comincio con voce malferma, temendo quasi che mi dica di no, i miei
occhi lo cercano nell’oscurità della stanza non riuscendo a trovarlo. Lo sento sospirare
prima di rispondere, dopo essersi tirato su a sedere. Le molle del materasso
stridono fastidiose, mentre bisbiglia: “Avrei avuto qualche alternativa?”.
Per la prima volta, da quando ci conosciamo, non capisco che cosa
intenda dire. Resto immobile, imbarazzata dalla possibilità di averlo davvero
messo spalle a muro senza che lui abbia potuto effettivamente opporsi. Sto già
per balbettare delle scuse affrettate e rapide, quando lo vedo alzarsi dal
letto, muoversi lentamente nella stanza e fermarsi di fronte a me che sono
ancora davanti alla porta semi accostata. Sussulto lievemente mentre Ilai
solleva il braccio, non lasciando un attimo i miei occhi. La sua mano mi sfiora
la guancia facendomi rabbrividire, mentre si affretta a chiudere la porta, facendo
calare la stanza nel buio più completo. L’eco della porta chiusa si infrange
nella mia mente confusa, mentre lui ripete ancora sottovoce: “Avrei avuto
qualche alternativa?”.
Nell’oscurità più totale, non riesco ormai più a distinguere nulla del
suo volto, né di lui, sento solo che è inaspettatamente vicino, più vicino di
quanto era prima. Il mio respiro accelera senza che me ne renda conto, mentre
biascico: “S-scusami, avevo capito che stamattina tu…”. Le mie parole sono però
immediatamente bloccate in gola, le sue dita si poggiano morbide sulle mie
labbra, costringendomi al silenzio. E’ come se il buio stesso mi accarezzasse,
mi guardasse, mi respirasse vicino. Il cuore perde un colpo che vorrei non
avesse perso. Le sue dita scendono placide lungo il mento, descrivendo una scia
fresca sulla mia pelle calda, mentre scorrono sul collo, sulla piega della
spalla, lungo il braccio, fino alla mia mano. La prende nella sua, la stringe,
se la porta al petto.
Rabbrividisco, accorgendomi che è a torso nudo, la pelle del mio palmo
sfiora la sua, sento il suo cuore battere forte. Non mi sento in imbarazzo, non
mi sento in colpa, non mi sento turbata, sebbene un allarme indistinto mi
risuona in testa. Penso solo che mi fido di lui… ed improvvisamente focalizzo
quante volte Raissa può aver toccato così Draco.
La stretta ferrea allo stomaco mi costringe a deglutire pesantemente,
apro la mano sul torace di Ilai, resto ad ascoltare il suo cuore mentre dice:
“Il solo momento in cui sono quasi in pace è quando ci sei tu… quando sono con
te e con tuo figlio… credi che potrei lasciarti andare via in qualche modo?”.
E’ inutile che gli dica che è lo stesso, lo sa già. Vorrei chiedergli se pensa
che sia normale tutto questo, vorrei chiedergli se non è solamente vendetta la
nostra verso Raissa, vorrei chiedergli se non ci faremo solo del male e basta,
vorrei chiedergli se stiamo solo rimpiazzando Tatia e Draco, vorrei chiedergli
se adesso non sia il caso che rompiamo questa cosa prima che ci porti chissà
dove. Vorrei chiedergli tutto questo, davvero, ma la stanchezza mi ottenebra la
mente. Il tocco di Ilai sulla mia pelle mi dà la pace, come succede a lui… quello di Draco mi faceva sentire viva. Ma
se non posso più sentirmi viva, va bene che allora io insegua la pace. La sola
cosa che mi resta da desiderare.
Così quando Ilai mi chiede con un filo di voce: “Resterai con me?”, la
mia risposta può essere solo una.
“Sempre”.
I figli sanno sempre approfittare dei sensi di colpa dei genitori.
Specie se i suddetti figli hanno anche un discreto numero di geni nel
corredo cromosomico propensi alla manipolazione altrui, ereditati da un
genitore che non è quello da manovrare.
Nella mia vita di madre ho mancato ai miei doveri per soli sette
giorni, se escludiamo la mia gravidanza che non mi ha visto propriamente
ricamare quadretti all’uncinetto di colore azzurro.
E questo non è certo accaduto per colpa mia.
Da quando ho sentito Serenity chiamare Raissa mamma, fino a quando ho
deciso di andare via da qui senza incontrare Draco, sono per l’appunto
trascorsi sette giorni.
Ho volutamente ignorato Alex per sette giorni, considerandolo come un
ospite molesto della mia vita. Perché era il figlio di Draco.
Per la prima volta nella sua vita, la sua somiglianza con il padre mi
è sembrata insopportabile. Il colore grigio degli occhi, il biondo dei capelli,
il broncio delle labbra, il carattere furbo: per sette giorni mi è parso tutto
lo scherzo di cattivo gusto di un Dio crudele. Quello che era stato sempre un
miracolo, una benedizione, è diventato in sette giorni l’aspro profilo di una
condanna ineluttabile.
Semplicemente, perché amo Alex. Ed attraverso di lui sarei stata
sempre condannata ad amare Draco Malfoy.
Che, invece, mi aveva rimpiazzata con Raissa.
Ho odiato la vista di Alex, il fatto che mi chiamasse mamma, la
condizione di non sentirmi libera di scappare da tutto questo, l’impossibilità
di lasciarmi andare al mio dolore e alla mia sofferenza come una donna
qualsiasi con il cuore spezzato… solo perché c’era lui a cui dovevo una perfezione
esteriore che non potevo avere.
Ma io ed Alex siamo sempre stati uniti, come due naufraghi su un’isola
deserta. Siamo necessari l’uno alla sopravvivenza dell’altro, come quando ero
incinta e riuscimmo a salvarci la vita da Dimitri e dal coma. Credo che se un
domani avesse altri figli, non riuscirei a legarmi in questo modo con nessuno,
pur amando comunque un altro bambino o un’altra bambina.
È una cosa mia e di Alex, che ci ha sempre tenuto in vita.
Per questo, quando stanotte è venuto in camera mia piangendo, io ho
saputo immediatamente cosa fare.
Mi sono aggrappata a lui per sopravvivere, sapendo che lui ha solo me
per sopravvivere.
Però intanto, per una settimana io sono stata orribile, ho pensato le
cose peggiori, ho persino deciso di lasciarmi andare all’inedia sperando che mi
uccidesse… senza pensare ad Alex. Il senso di colpa per questo è tale da darmi
una smania nervosa di accontentare in tutto il mio bambino. Che ora, tanto per
intenderci, devo imparare a chiamare così. Mio figlio, il mio bambino, il mio
Alex.
Mio e basta.
Il problema è che Alex appartiene a sé stesso e al suo sangue. Ed il
suo sangue, per quanto io operi di negazione, è sempre il sangue di Draco.
Quindi ha capito abbastanza in fretta che cercavo di farmi perdonare.
In una sola mattinata, camminando per la fiera di paese a cui ci ha trascinato,
ha ottenuto due mele caramellate (che io non gli compro mai, considerandole
l’anticamera del dentista, cosa che mi pone in enorme conflitto d’interessi con
i miei), ha preteso un paio di pattini (a cui ho resistito per anni,
considerandoli l’anticamera del pronto soccorso, cosa che stavolta mi pone in
conflitto d’interessi con Ginny) e non ha camminato nemmeno per un passo,
ottenendo che tutti gli uomini presenti lo portassero in braccio a turno, sotto
le mie sollecitazioni stanche e sotto lo sguardo omicida di Pansy, dati i
capricci che di conseguenza ha messo su Charisma.
Non da ultimo ha ottenuto anche un cane, cosa su cui mi scocciava da
quando è nato, ma che non aveva mai potuto avere per quanto fossi aggrappata
all’idea che l’Italia non fosse la nostra vera vita e che quindi avere anche un
cane, poteva essere un peso quando ce ne saremmo andati.
Ora, invece, che io ho una vita devo provare davvero a viverla, senza
prendere in affitto un’esistenza rattrappita nell’attesa di riavere Draco,
ovviamente ho ceduto.
Ed Alex tutto contento se ne va in giro per le bancarelle, tenendo al
guinzaglio un minuscolo botolo color caramello con la punta delle zampe
bianche, alla stregua di quattro calzini.
Ovviamente questo ha colpito Alex come non mai, l’ha indicato nel
recinto dove c’erano i cuccioli abbandonati che un ente benefico aveva salvato
dalla strada, e mi ha detto serio: “Mamma, voglio lui!”. Mi sono seppellita in
gola le mie rimostranze, specie considerando che era il cane meno calmo di
tutti e stava abbaiando come un pazzo, e ho acconsentito persino al nome
Biscotto che gli ha appioppato. Il cucciolo, ovviamente, ha capito subito chi
comandava tra me e mio figlio, non ha filato di striscio me e si è fiondato a
leccare la faccia di Alex, conquistandolo. Giurerei persino che il cagnaccio mi
abbia anche guardato con sguardo sornione di sfida quando Alex gli ha messo il
guinzaglio, per la serie “sei retrocessa al terzo posto in classifica in questa
famiglia, pupa!”.
Quindi ora non sono tiranneggiata solo da un bambino di cinque anni,
ma anche dalla sua adorabile bestiaccia.
Ma va bene così… Dio, se Alex può sorridere
ancora ed essere felice, va bene tutto… va davvero bene tutto…
Non mi ha più chiesto di suo padre. Neanche una parola. Da quando
siamo arrivati qui, non ha più nominato Draco nemmeno per sbaglio. Non me ne
ero accorta, ovviamente, presa da me stessa.
Ma fino all’ultimo giorno prima di partire per la Finlandia, voleva
sapere continuamente quando saremmo andati da lui, faceva domande a Pansy e a
Seth, chiedeva foto.
Poi, non l’ha più fatto. E so che questo non è un bene, non lo è
affatto. Vuol dire che si sta reprimendo, vuol dire ancora che gli ho trasmesso
le mie emozioni.
Eppure ne sono felice: fino a quando non mi farà domande, io non dovrò
ripensare a Draco. Al momento mi basta il suo nome nella testa, per sentirmi
aperta in due come una mela.
Questa fiera è una bella distrazione: ovviamente per Alex, che
saltella felice con il suo cucciolo ammonendo Charisma su come deve tenerlo al
guinzaglio, e lo è appunto anche per la bambina di Pansy e Dean. È una
piccolina allegra, spiritosa, vivace, sempre in movimento. Adesso si fa
trascinare ridendo da Biscotto, il vestitino bianco increspato dal vento e la
mano di Alex che la trattiene per un braccio come ad impedirle di cadere. Alex
è molto protettivo con Char, come già l’ha ribattezzata, e credo che sentirà
molto la sua mancanza quando andremo via.
Per questo, voglio che questa giornata sia la migliore possibile e non
solo per i bambini, ma anche per i miei amici. Il paesino dove ci troviamo, si
arrampica sul declino di una montagna rocciosa e brulla, persa a strapiombo
sull’oceano verde e grigio. L’aria è fresca e il cielo è nuvoloso, cosa che
probabilmente significa che tra poco pioverà, ma le bancarelle colorate
riescono comunque a trasmettere allegria. C’è di tutto, dai dolci che riempiono
dell’odore di caramello le strade, fino agli acchiappasogni, ai giocattoli, ai
carillon, ai braccialetti. Seth saltella da un banchetto all’altro come se
fosse stato punto da un’ape, spendendo i suoi soldi per ogni cosa che si
avvicina al suo concetto di “carino”. Pansy ovviamente guarda tutto con il suo
solito disinteresse borghese, gettando qualche occhiata distratta solo alle
sciarpe dalle stampe floreali. Dean osserva il suo viso e le dice scocciato:
“Quella sciarpa con le rose è bella... potrei prenderla per mia sorella…”.
“Tua sorella è sprovvista di collo… è nata con la testa incassata
sulle spalle… non potrebbe oggettivamente indossarla…”.
“Quindi forse è meglio che la prendo per te, no? Almeno non va
sprecata…”.
“Fai come vuoi…” borbotta lei, infine, schioccando la lingua come se
gli stesse facendo un favore. Ma gli occhi le brillano mentre lui le dà le
spalle per pagare l’acquisto, ed una mano si poggia dolce sulla schiena di Dean
come un incoraggiamento ed un ringraziamento gentile.
Serviva anche a loro una giornata libera dal caos che ho gettato nella
loro vita.
Loro ce l’hanno una vita: Seth ha Kevin, Pansy ha Dean e Charisma,
Dean ha loro due. Non è stato giusto mettere in pausa anche loro, costringerli
a cercare la verità con me, obbligarli a darmi risposte. Li invidio,
profondamente e non è bello. Sono contenta che siano felici, ma invidio il loro
posto nel mondo, la loro nicchia, la loro assoluta convinzione di essere nel
giusto luogo dove devono stare. Io tutto questo non ce l’ho. E questo, ancora,
mi rende uguale ed identica ad Ilai. Anzi io almeno ho Alex, lui non ha nemmeno
questo.
Appena siamo arrivati nel paesino, ha guardato le bancarelle in
lontananza, la gente che rideva, i bambini che facevano i capricci. Era accanto
a me, con Alex sulle spalle che lo ha preso in una simpatia smodata, nonostante
Ilai non parli molto e non sia esageratamente divertente. Alex, però, si mette
a fare lunghi discorsi prolissi con lui, made in Hermione Granger, ed Ilai lo
ascolta paziente facendogli qualche domanda gentile. Solo quando sono con te e con tuo figlio, io trovo la pace. Le sue
parole della mattina mi sono rimbombate in testa un sacco di volte, specie
mentre camminavo accanto a lui, Alex che non smetteva di parlare. Poi ha visto
le bancarelle, la confusione. Si è irrigidito, si è bloccato, è rimasto
immobile. Ha posato delicatamente Alex a terra e ha sussurrato a me: “Vado a
farmi una passeggiata scusami…”. L’ho guardato fino a quando è sparito dietro
una curva, sentendomi improvvisamente sola. Non lo sono, ovviamente, ma se a
lui io comunico pace, lui a me dà un senso saldo di sicurezza difficilmente
negabile. Ma l’ho lasciato andare, forse aveva dei ricordi che gli davano
fastidio, forse voleva stare da solo. Alex ha stretto la mano nella mia e ha
bofonchiato saggiamente: “Non voglio che sia sempre così triste, mamma…”.
“Lo so, tesoro…” ho annuito sorridendo e reprimendo la tristezza
gemella di Ilai, in fondo a me stessa.
Quella tristezza, però, senza Ilai che la tenga a freno, esplode
sinistra in un momento qualunque, mentre decidiamo di raggiungere un chiosco
che vende panini.
Pansy si drappeggia la sciarpa nuova attorno al collo, Dean le fa dei
complimenti stupidi e la bacia frettolosamente sulla guancia prima che lei si
scansi infastidita, gli occhi però pieni di luce. Seth parla dei regali che
Kevin gli fa ed io non riesco a respirare più normalmente.
Improvvisamente, la vista di Dean e Pansy mi è diventata
insopportabile come poche. Perché loro sono me e Draco, al contrario, in un
Universo inesistente dove tutto è finito bene. E al contempo, sono due delle
persone a cui voglio più bene al mondo. Che io rinneghi Draco, non significa
che lui non ci sia. In tutto. In Alex, in Seth, in Pansy… in tutto.
Quando, poi, Alex insiste per partecipare ad una lotteria a premi e
gli chiedono il suo nome per inserirlo in una boccia da cui estrarre il
vincitore di una fiammeggiante bici da corsa, il respiro mi si blocca in gola
per qualche secondo, dandomi l’impressione davvero di morire.
“Mi chiamo Alexander Leo Malfoy!”.
Non sapevo nemmeno che diamine fosse un attacco di panico, ora so
anche questo. C’è sempre da ringraziare Draco Malfoy in merito alle esperienze
migliori e peggiori della mia vita. Il viso mi va a fuoco, la testa mi rimbomba
di voci, la schiena gocciola di sudore e la gola si chiude, mozzandomi il
fiato. Sto per morire, non c’è altra spiegazione. Mi stringo il collo della
camicia con la mano annaspando, ma cercando al contempo di nascondermi dietro
il tronco di un albero per non far spaventare Alex. La corteccia mi fa male
alla schiena, dandomi l’impressione di volermi grattare fuori le ultime bolle
d’aria che ho nei polmoni. Che c’è, mi aspettavo che sarebbe stato facile? Mi
aspettavo che decidere che non volevo avere nulla a che fare con Draco Malfoy,
lo avrebbe cancellato dalla mia testa e dal mio cuore? Quando mai è successo?
Quando? Mai, ecco. Ho creato uno Zahir e non ha funzionato, mi hanno relegato
in un castello nero e non ha funzionato, sono stata cinque anni in Italia con
un altro uomo e non ha funzionato. Perché dovrebbe esser diverso, adesso? Solo
perché lo dico a me stessa? Solo perché mi convinco che sia così?
Non ce la farò mai, non ce la posso fare.
Il respiro, a quei pensieri, diventa sempre più affannoso, il petto si
comprime come se fosse sotto una lastra di marmo. Mi metto le mani tra i
capelli, stringendoli forte tra le dita, mentre scuoto il capo piangendo,
negando chissà che cosa a me stessa. Io, Hermione Granger, la razionalità
incarnata… che rischio di soccombere per una cosa del genere. Il panico, perché
io ancora lo voglio qui, perché non ce la faccio senza di lui, perché mi manca
adesso più di quanto mi sia mancato in tutti questi anni, perché lo so di
un’altra quando io sono sempre rimasta sua. Questi pensieri non se ne andranno
mai davvero, non mi lasceranno mai. Potrò trarre forza dalla felicità di mio
figlio e dei miei amici, ma non dalla mia. Io non sarò felice mai più… ed è
tutta colpa sua.
La pelle mi diventa ghiacciata sulle mani che stringo furiosamente tra
i capelli, lo odio e non ci posso fare nulla. Lo Zahir, la furia che sentivo
dentro, il desiderio di fargli del male… alla fine mi dava soddisfazione,
potevo sperare di trarre piacere dalla sua sofferenza. Adesso, io non ho nulla,
niente, nemmeno quello. Perché lo amo ancora e voglio che sia felice, e non
potrei mai davvero ferirlo… ma lui mi ha strappato pezzo dopo pezzo ogni
possibilità di esserlo a mia volta. Un’onda nera, cupa, malsana mi cancella
ogni speranza dai pensieri, la forza si eclissa soffocandomi ancora di più.
“Respira…” una voce calda scoppia nella mia testa come un petardo “Non
si muore… ti sembra che sia così, ma non si muore… te lo posso assicurare…”.
Spaventata, atterrita, completamente cieca per il terrore e l’angoscia,
continuo a tremare come una foglia finché i miei polsi riconoscono la presa
ferrea di un paio di mani che si stringono su di essi, liberandomi il viso.
Balbetto qualcosa anche se non so esattamente cosa, la luce grigia del
sole che torna sul mio volto terreo, i riflessi dell’albero sotto il quale mi
sono rifugiata ritagliano forme iridescenti negli occhi scuri di Ilai mentre mi
tiene stretta per i polsi, tenendoli distanti dal mio viso. Le unghie mi hanno
scavato dei graffi poco profondi sulle guance, adesso sento il vento soffiare
freddo e farmi bruciare la pelle. Singhiozzando, mi concentro sui suoi occhi
cercando di guardare solo quelli, isolandomi dal rumore circostante della gente
che si muove festosa, non badando minimamente a noi. L’odore delle mandorle
tostate, dei dolci, delle caramelle mi alita sul viso, dandomi la nausea, ma il
respiro piano torna regolare. Il cuore smette di battere forte, come se stesse
per scoppiare lacerandomi, e la presa di Ilai si fa un po’ meno salda. Quando
ho ripreso completamente il controllo di me stessa, mi azzardo ad aprire bocca,
la mia voce suona ancora malferma e traballante ma perlomeno riesco a parlare
senza l’impressione di soffocare.
“Che cosa era?” chiedo con un filo di voce, guardando Ilai con un
misto di vergogna, imbarazzo e terrore. Lui lascia la presa sui miei polsi, le
braccia gli cadono lungo i fianchi e punta lo sguardo lontano, apparentemente
catturato da qualcosa alle mie spalle. Le sue spalle tremano un po’ mentre
risponde: “Attacco di panico, d’ansia…paura di non farcela… puoi chiamarla in mille modi… hai l’impressione di
morire, ma non è così…non è mai così…”.
“E’ successo anche a te, vero?” sussurro, asciugandomi il viso dalle
lacrime versate senza accorgermene. Ilai torna a guardarmi, scrollando le
spalle quasi con noncuranza: “Quando morì Tatia, quando capii che non sarei
nemmeno riuscito a vendicarla, a scoprire chi l’aveva uccisa… ne avevo parecchi
di questi episodi. Ti distrai, stai con le persone che ami, ma poi basta che ci
ripensi, basta che per un caso qualunque ti accorgi che lei non c’è e ci ricadi
daccapo. Ma ogni volta che lo superi, diventi più forte. La volta dopo, ne esci
prima e meglio…”.
“La volta dopo?!” chiedo spaventata, aggrappandomi senza volerlo al
suo braccio “Mi accadrà di nuovo?”. Ripenso alla possibilità che mi accada
davanti ad Alex mentre sono sola con lui, facendolo spaventare a morte. Ilai si
morde il labbro inferiore, poi mi stringe per le braccia e sussurra: “Ascolta,
accadrà di nuovo, accadrà sempre, perché per quanto forte sia la volontà, non
riesci mai a lasciare davvero indietro quelli che ami. Ma hai tuo figlio… e sei
forte, ce la farai…”.
“Chi avevi tu?” chiedo con un filo di voce, stringendo la presa sul
suo braccio “Chi tirava fuori te?”. Ilai non risponde, guarda altrove, la
tensione del braccio si fa intensa, scattano i muscoli nervosi sotto le mie
dita. Ecco chi sono io, l’egoista senza appello che pensa sempre di stare
peggio degli altri. Di nuovo, è comparso come un angelo custode quando ho avuto
bisogno di lui.
Al momento io non posso pensare a vivere, questo deve capire. Non
posso pretendere da me stessa tutto e subito, non posso ottenere felicità,
gioia, calore in ogni cosa che faccio. Tutto mi sembrerà schifoso, grigio,
spento, orribile. Ogni passo sarà un’impresa, ogni sforzo per non rintanarmi in
un letto con le serrande abbassate sarà una conquista, ogni minuscolo momento
di autentica gioia, non sporcata dal ricordo e dall’assenza di Draco, sarà una
vittoria. È come se fossi convalescente da una lunga febbre: non si può uscire
immediatamente all’aperto, bisogna coprirsi, limitare i colpi di vento,
camminare poco, non prendere freddo. Ora, se mi imponessi tutt’assieme di
riprendere a vivere come se niente fosse, come se Draco non fosse mai esistito,
mi tenderei come un elastico sotto sforzo e finirei presto per rompermi,
ricominciando a detestare che mio figlio porti il cognome Malfoy, che Pansy e
Dean stanno assieme felici, che Seth ha un ragazzo che lo ama. Mi rinchiuderei
nel riccio di un egoismo che non mi farebbe nemmeno distinguere quanto dura
sia, non solo per me, ma anche per altri come Ilai.
Adesso, devo pensare prima di tutto a sopravvivere, il resto verrà
piano da sé.
Per sopravvivere so di dover diventare io stessa la garanzia di
sopravvivenza di qualcun altro. Non solo di Alex, ma anche di Ilai.
Lui ha bisogno di me quanto io ho bisogno di lui. Tendo a dimenticare
che lui ha perso Tatia peggio di come io ho perso Draco, lui non ne parla, non
vi fa accenno e io veleggio nella mia noncuranza, pensando solamente a me
stessa. Ed anche con questo, la faccio finita oggi.
Incerta, come se mi fossi persino dimenticata di come si trasmette
calore e vicinanza ad un’altra persona, poggio le mani sul viso di Ilai e gli
accarezzo piano gli zigomi con le dita. I suoi occhi tornano rapidi nei miei,
liquidi, intensi, lucidi.
“La prossima volta ci sarò io con te, ok?” dico con un sorriso
rassicurante, sollevando il capo per guardarlo negli occhi “In questa storia,
ci stiamo dentro assieme… e così ci restiamo… assieme…”.
Ilai ha l’espressione intimorita di un bambino mentre mi guarda con il
primo autentico sorriso da quando lo conosco. Considerando quanto sia alto e
considerando che sia un uomo fatto e finito, quell’espressione mi intenerisce
anche di più di quanto sarebbe normale. Annuisce piano, poggiando una mano su
quella che ancora io ho sulla sua guancia, mentre chiude gli occhi.
Una piccola sensazione di calore mi si allarga nel petto, mentre
inizio a sentire davvero il respiro che ora mi riempie i polmoni in modo pieno.
Essere utile, aiutare… la salvezza, per me, passa sempre da quello. È sempre
passata da lì. Anche stavolta, sarà questo ad aiutarmi davvero.
Quando quindi sento il nome di uno speaker che annuncia i vincitori
della bici da corsa, sono straordinariamente calma.
“Alexander Leo Malfoy…!” trilla la voce con allegria, mentre sento
distintamente Alex festeggiare e Biscotto darci dentro con i suoi versi da cane
partecipe.
Mi stacco da Ilai scrollando le spalle e bofonchio con un sospiro:
“Figuriamoci, avrà truccato l’estrazione…”.
Ilai sorride e sono felice di questo, lo prendo per il polso per
andare a raggiungere gli altri. Sgusciamo fuori dal nostro nascondiglio, mentre
Alex già trotterella verso il palco per ritirare il suo premio. Seth mi viene
incontro tutto gaio e frizzante, raccontandomi come prevedevo del “trucchetto
che ha fatto Alex con gli occhi per confondere i bigliettini nella boccia”.
Sospiro lungamente, prendendo nota di fare una bella ramanzina a mio figlio,
Seth getta uno sguardo malizioso alla mano che tengo stretta a quella di Ilai,
lui sorride, Pansy fa uno sguardo da donna saputa, Dean fa un verso strano con
la gola, Charisma grida il nome di Alex accompagnata dai versi di Biscotto.
Lancio uno sguardo ad Alex che ormai ha raggiunto il palco e di cui
sta salendo i gradini, nel sole che spunta tra le nuvole è uguale a Draco. Mi
si stringe il cuore, mi fa male respirare, mi sento mancare ma non lo reprimo a
me stessa. Stringo la mano di Ilai, lui stringe la mia e sorrido a Seth,
roteando gli occhi.
Ed è lì che succede.
“E adesso il secondo classificato… Serenity Hope Ryan!”.
RIASSUNTO DEI
CAPITOLI PRECEDENTI: Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola
tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è
alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere
entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora
parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha
fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente
controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha
portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un
luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la
ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito.
Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia
conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico
modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per
lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da
Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a
Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi
sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa
Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri
necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale
demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per
questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di
ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione,
non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di
Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione
distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che
misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano
la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità:
decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro
è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i
tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono
costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il
Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà
avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa
sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza,
raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in
moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del
tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato
Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino
della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di
Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata
con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco,
cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di
Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli
eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata
l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne
rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague,
proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la
determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di
catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava
precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di
camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende
di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di
fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la
possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di
non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci
giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry
e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per
tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono
nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione
apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con
suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede
inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua
prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva
chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei.
Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean,
Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era
stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro,
testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatia non voleva che
Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla
scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di
Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di nome Ilai
Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla
ragazza e scritta ben dieci anni e dove lei le dice tutto quello che le è
accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata.
Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di
loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un
fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole
scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che
ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si
erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri
le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in
lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe
rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta
la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a
casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma.
Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura
per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza
incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una
complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo
figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore
del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di
Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola.
Il grilletto che
cambierà la vita di due persone si preme in un secondo. Un secondo, ed uno
perderà la vita, l’altro perderà l’anima.
Una roulette russa,
macabra, mortale, incomparabilmente semplice e tragica: un colpo, uno schioppo,
il rumore sordo che fa tacere il cielo. E tutto cambia per sempre.
Io, lo scoppio non
l’ho sentito. Ho sentito solo un nome. Eppure l’effetto è lo stesso. Identico.
Uguale. Mortale.
I miei sensi
improvvisamente si congelano. Vista, udito, olfatto… credo di perderli tutti
assieme nello stesso momento. Sono come una specie di larva vuota, un bozzolo
in cui dentro prima c’era qualcosa di vagamente rassomigliante a me stessa, con
una sua storia, un suo passato ed un suo futuro; volizioni, sentimenti e
pensieri ed ora invece c’è un cumulo di polvere rancida.
Una parte della mia
mente registra la presenza di una bambina bionda che saltellando mi sorpassa,
la vedo al rallentatore camminare verso il palco mentre supera Seth e gli altri.
Sconvolti, immoti, loro guardano alle mie spalle. Io non riesco a muovermi, a
pensare, a fare una qualsiasi cosa che non sia solamente impormi di respirare.
Perché, se non me lo impongo – muovi il
diaframma, ispira, trattieni il fiato, espira - credo che sverrò, cadendo
riversa per terra. E magari, allora, sarà un sogno. Tutto questo sarà un sogno.
La Finlandia, la lettera di Tatia, Ilai, il Veritaserum a Serenity.
Sarò ancora nel mio
letto a Favignana, con Alex che urla: “Sveglia mamma!”.
Dentro sarà
speranza amara, al sapore di arancia acerba. Ma forse sarà sempre meglio della
certezza lercia che ho raggiunto nel corso degli ultimi mesi. Ma che dico mesi…
degli ultimi anni.
La vita ha con me
un senso dell’umorismo macabro, grottesco, raccapricciante. Mi dà le illusioni
delle scelte, mi fa lambiccare su cunicoli di decisioni e su vicoli ciechi di
pensieri, mi fa soffocare nel pulviscolo confuso di una motivazione e, quando
io alla fine giungo a capire che cosa devo fare e muovo tutta me stessa in quella
direzione, vengo chiamata al destino e al caso. Non ho scelto nulla in questi
cinque anni, nemmeno se essere madre. Ho deciso solo di tornare, e poi di
andarmene, quando ho saputo di Raissa e Draco.
Una decisione da
spaccarsi il cuore, ma era la decisione giusta. È ancora la decisione giusta.
Ma, adesso, già è
diventata inutile, già da lassù qualcuno mi ha nuovamente spogliato del mio libero
arbitrio, lasciandomi ancora ad annegare nelle coincidenze.
Strattonata, ecco
come mi sento: dai destini, dagli spiriti, dagli altri. Persino Helena e Tatia
sembrano divertirsi a giocare con la mia vita.
Ma la cosa
peggiore, la cosa davvero peggiore, è il cuore. Che batte, batte, forte. E
comanda il corpo.
Lo strattona, lo
spintona, esplode come una meteora di luce estiva.
Girati Hermione,
girati, questo dice. Questo comanda. E io non so nemmeno osare contraddirlo.
Draco è lì, è dietro di te, guardalo.
Ricordi i suoi occhi? Dici che sono quelli di Alex, ma sarà davvero così? Ne
hai un’immagine così sbiadita. Saranno davvero grigi? O sono azzurri? Il tempo
li ha macchiati di odio rendendoli neri? Ha una ruga d’espressione in cui sei
annidata tu? Ha una piega diversa delle labbra quando pensa al colore turchese
di un bacio rubato? Arriccia il naso se sente odore di vaniglia? Luccicano le
iridi se ricorda la pioggia e il profumo delle rose umide, ed una notte a fare
l’amore fino a perdere il fiato, pelle contro pelle, soffocando sì, ma
respirando davvero?
Capirà, vedendo Alex? Andrà tutto a posto
come per magia? Sarà un attimo e la ricongiunzione di tutto? Puoi sperarlo
Hermione, finché lo guardi e ti sciogli in un questo secondo di caramello.
Dolcissimo sarà quel secondo, da incollare i denti e placare la gola riarsa di
pienezza opprimente. E te lo godrai, fino in fondo. Per una volta sola.
Guardalo, Hermione, sarà solo per questa
volta.
Dopo, ammantati di rabbia e dolore… dopo,
maledici ogni cosa. La tentazione, la speranza, la colma consuetudine
dell’amore che diventa adorazione idiota ed improvvisa remissione dei peccati.
Ma quello sarà dopo. Prima… guardalo. Non
hai imparato che con lui negare non serve a nulla?
Negavi di tenerci a lui, poi negavi di
esserne attratta, hai negato così a lungo di amarlo da distruggerti quasi
l’anima.
Vale la pena farlo ancora, farlo adesso? Con
un cuore maciullato, con il respiro sciolto, con un corpo che lo reclama? Vale
la pena farlo con un figlio che è suo e che respira del suo sangue?
Vale la pena farlo dopo cinque anni persi a
sognare solo questo momento? Vale la pena farlo se persino le ossa si piegano
come giunco, imponendoti di voltarti?
Girati Hermione, guardalo… tanto comunque,
anche se non lo facessi, è sempre lui che amerai per sempre, è sempre lui che
immaginerai sempre come tuo marito, è sempre da lui che vorresti dei figli che
abbiano solo i suoi occhi.
Guardalo, Hermione.
Il mondo diventa
grigio e sono daltonica di tutto quello che non sia Draco: fuoco nelle
sterpaglie, divento cenere riarsa dal desiderio, dalla rabbia, dal dolore, da
qualsiasi cosa che si mescola nella mia carne con l’effetto di una mistura
chimica impossibile anche solo da immaginare addosso ad altri, ma che invece è
tipica di me quando ho a che fare con Draco Malfoy. Mi volto su me stessa,
vinta, piegata, incurante, sconfitta, come sempre sono stata dentro a questo
amore troppo grande per il mio essere così maledettamente piccola per
contenerlo tutto. La mano di Ilai nella mia è fredda, è improvvisa zavorra, è
memoria tattile di giorni che si srotolano assurdi davanti ai miei occhi,
adesso troppo presi dalla vista desiderata dell’uomo che amerò fino all’ultimo
fiato del mio corpo. Il sole scompare dietro le nuvole in un anelito di vento
improvvisamente gelido, mentre turbinano le foglie secche. Trovo la figura che
già i miei amici stavano guardando e la mia schiena vibra di brividi freddi,
fioriti come bucaneve nel ghiaccio.
Il mio volto
diventa terreo, gelido: ritorno ad una coscienza urgente, che si traduce in una
stretta allo stomaco che mi toglie il fiato. Sparisce la spasmodica ricerca del
modo di respirare, e tutto passa in secondo piano eccetto mio figlio. Alex è
ancora sul palco, guarda la sua bicicletta, ci gira attorno. È troppo lontano. Troppo, maledizione.
Improvvisamente
ritorno cosciente di me stessa, come se fossi appena riemersa dall’acqua
ghiacciata. Percepisco il repentino cambio di temperatura, l’annuvolamento del
cielo, la scomparsa del sole, le ombre lunghe delle cose e delle persone.
Terrorizzata, osservo i miei amici che si stringono tra loro, Pansy che si è
chinata velocemente su Charisma prendendola in braccio; la piccola che, sebbene
non ne capisca il motivo, a sua volta si è stretta a Biscotto che tace,
uggiolando. Dean si è parato davanti alla moglie, la tiene ferma dietro di lui,
strizza gli occhi nella polvere del vento che diventa sempre più forte. Seth,
che come sempre ha capito tutto da solo, ha trattenuto Serenity per un braccio,
mentre continua a guardare me con gli occhi sbarrati. La bambina si dimena e si
agita, ma lui non la lascia andare. I miei occhi volano lontano, al palco, alla
foresta di sedie di plastica nello spiazzo, al banditore che continua a
chiamare Serenity.
Il sudore mi
inzuppa la schiena, mi gela il respiro nei polmoni, mi dà l’impressione di
annegare. Il vento mulina rapido, la gente inizia ad allontanarsi temendo un
temporale, Alex getta uno sguardo confuso nella nostra direzione. Ma non posso
dirgli nulla, non capirebbe, non riuscirebbe a sentirmi. Ma forse se lo ignoro,
forse se non lo guardo… lei non se ne accorgerà.
I miei occhi
spalancati sotto le palpebre che tremano, osservano Raissa con attenzione
vigile, i suoi capelli lunghi danzano nel vento come le fronde di un albero
notturno. Allo stesso modo, il vestito scuro che indossa si gonfia per l’aria
in tempesta, aprendosi come una medusa nel mare. Stringe con ansia febbrile una
collana dal ciondolo rotondo che porta al collo, ne tormenta il cinturino ma
gli occhi restano fissi, ipnotizzati, catturati. Il respiro cresce come se
l’aria attorno a lei si facesse sempre più rarefatta, il viso si chiazza di
rosso mentre finalmente comprendo che cosa sta fissando con tanto odio. Il mio
sguardo scende lungo il mio braccio, trovando la mano di Ilai ancora stretta
tiepidamente nella mia. Raissa segue i miei occhi, fremendo come una bestia
pronta ad attaccare, e io le restituisco uno sguardo sbiadito e pallido,
preoccupata che si accorga di mio figlio ancora sul palco.
È un attimo prima
che mi accorga che anche Ilai sta guardando il palco alle nostre spalle con la
coda dell’occhio, la sua mano trema nella mia e sento la tensione scoppiare
nelle vene del polso. Poi, con lentezza, le nostre dita trovano lo spazio tra
quelle dell’altro: non so chi sia stato per primo, ma sento che come sempre ne
avevamo bisogno entrambi. E poi… è sadico, velenoso, tossico, ma io quella
mano, per un attimo, la stringo di più, sollevo il mento e sfido Raissa con lo
sguardo. Occhio per occhio, Karkaroff.
Un rombo di tuono
crepita vicino, mentre Raissa freme, ansima e continua a non distogliere lo
sguardo come se anche farlo per un istante le costerebbe la vita stessa. Ad
ogni ansito, ad ogni respiro affannoso, il cielo si fa più scuro, l’aria
diventa più ghiacciata, il vento si fa più forte al punto che iniziano a volare
i tendoni che rivestono le bancarelle. Gli ambulanti raccolgono le loro cose
velocemente, si arrabattano per mettere a posto. Gli avventori della fiera
guardano il cielo, aspettano una pioggia che non arriva, si chiedono come abbia
fatto il tempo a cambiare così repentinamente.
È il preludio
dell’inferno, ecco perché è piombato senza sconti.
Ho il tempo solo di
guardare Alex, sperando che resti dov’è. Respiro di sollievo quando lo vedo
accucciarsi dietro i gradini del palco stesso, scomparendo alla mia vista. Per
anni, in Sicilia, nel terrore cieco che mi accadesse qualcosa, ho insegnato a
mio figlio che deve solamente nascondersi se vede qualcuno che possa farmi del
male. Deve nascondersi, chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie e io, in men
che non si dica, sarò da lui. Alex ha capito da solo che sono in pericolo, che
lo è anche lui… ed ha obbedito. Dio, sono così fiera di lui.
Temporaneamente
rassicurata, torno a guardare Raissa, che ha il volto chiazzato, gli occhi di
fiamma, resa pazza e cieca dalla gelosia. Solleva le braccia al cielo come
un’orrenda dea pagana. Scorrono lungo la pelle bianca delle braccia scariche
verde-oro dello stesso colore di quelle che adesso solcano il cielo. Charisma
piange, Serenity tace e io ho solo il tempo di urlare ai miei amici di
andarsene da qui, prima che quell’energia malefica ci venga scagliata addosso.
Distinguo solo un lampo nero e verde, prima che Ilai mi spinga lontano,
carambolando poi di lato con una flessuosa capriola all’indietro. L’onda di
energia nera distrugge tutto nel suo passaggio, esplodendo come un petardo di
luce nel cielo poco distante.
Rovinando per
terra, prendo un colpo al collo ma non lascio che il dolore mi stordisca. Mi
rialzo immediatamente, tossendo, guardandomi attorno, la polvere
dell’esplosione che si attacca alle ciglia. Cala una notte innaturalmente
fitta, come se improvvisamente fosse sparito il sole dalla faccia della terra e
nessuna luna fosse arrivata provvidenziale. Non distinguo nulla ad un passo da
me, tutto è nero, oscuro. L’angoscia per i miei amici e per Alex mi fa piangere
senza ritegno, mentre mi tasto le tasche alla ricerca della bacchetta. La
gente, adesso, scappa via lontano, urlando ed urtandosi. Sento solo le voci di
chi corre e strepita, impedisco con un incantesimo pigro che mi calpestino.
Cerco di diradare la calugine nera, ma ottengo solo di illuminare con una punta
della mia bacchetta circa ad un metro davanti a me, cosa che mi costringe a
camminare a tentoni. Non è ovviamente un Incantesimo che conosco, è oscuro
quanto basta per farmi drizzare i capelli sulla nuca. La sfera d’energia ha
fatto volare via le sedie di plastica, adesso giacciono a pezzi per tutta la
piazzetta. Anche le bancarelle sono state rivoltate l’una dopo l’altra, cadono
caramelle, cioccolate, dolciumi. Il cristallo degli acchiappasogni si frantuma
come una pioggia di stelle colorate. Mi faccio strada fino al punto dove
c’erano i miei amici ed Ilai, urlando “Bombarda!” per far saltare in aria tutti
gli oggetti che ostacolano il mio passaggio.
Nel miasma di
polvere e di vento, nella nebbia nera come petrolio, per un attimo credo di
essere rimasta da sola, non riesco nemmeno a distinguere dove si trovi Raissa. Poi
finalmente vicino all’albero dove ci siamo fermati poco fa io ed Ilai,
intravedo il baluginare dei capelli di Serenity. Corro in quella direzione,
sono tutti lì, impolverati ma salvi.
“Che diavolo è
successo?!” urla Dean, ha un profondo taglio sul braccio che tiene con l’altro
stretto al petto. Anche lui ha la bacchetta tesa, come Ilai e Pansy. Così
riusciamo ad illuminare un po’ di più la zona, ma non fino al palco dove
dovrebbe essere ancora nascosto Alex. Mi sento mancare l’aria dallo spavento e
dall’ansia di mettere al sicuro mio figlio, ma immediatamente l’adrenalina mi
comunica le giuste parole: “Andatevene da qui, è tra me e Raissa questa storia…
sono stata chiara? Portate via le bambine, Seth e Biscotto… non posso
difendermi se devo pensare anche a voi…”.
“Tu non ci resti
qui da sola, Herm!” urla Seth, un frammento di vetro gli ha tagliato a metà il
sopracciglio, l’occhio è chiuso sotto il sangue che continua a scorrere.
“Sì invece!” urlo
ancora, guardandoli “Pansy e Dean si Smaterializzeranno lontano… possono
portare al massimo le bambine e te Seth… io devo restare qui!”.
“Ed Alex?” sibila
Dean, afferrandomi per un polso. Tremando, indico con un cenno della testa il punto
dove dovrebbe essere Alex, il labbro che trema senza controllo.
Dove diamine è Raissa? Se lo vede…
maledizione…
La mia angoscia e
preoccupazione si tramutano in un urlo acuto: “Andatevene subito da qui! Posso
restare da sola… siamo una contro l’altra, ce la posso fare!”.
Dean mi guarda
negli occhi, continuando a stringermi il polso. Ha uno sguardo che conosco, che
parla dei momenti che abbiamo passato assieme in due anni, di ogni dannata
volta in cui ho avuto bisogno di aiuto ma non ho mai chiesto assolutamente
nulla. Posso farcela da sola. Con
lui, io ho sempre fatto così. Certo, è stato un bene per lui, gli ho impedito
di accontentarsi di un amore rattrappito e stanco per trovare invece quello
inaspettatamente dolce di Pansy Parkinson. Ma, intanto, è così che è andata. È
quello che lo feriva maggiormente di me, il fatto che non avessi mai bisogno di
lui e scommetto che anche adesso lo ferisce, anche se siamo solamente amici.
Per questo, so perfettamente che sta per dirmi e so perfettamente che stavolta,
come risarcimento della sofferenza che gli ho arrecato, io obbligherò me stessa
ad avere bisogno di lui, ad affidarmi completamente a lui. Anzi, ad affidare
tutto quello che ho a Dean.
“Appena porto al
sicuro Seth… io torno qui a prendere Alex…” pronuncia affrettato, stringendomi
il polso “Dì che diamine vuoi, ma io lo farò lo stesso…”. Pansy lo guarda,
stringendo forte Charisma tra le braccia, ha negli occhi una sofferenza
rassegnata, una paura quieta che comunque si stempera in fiducia. È forse la
prima volta che mi rendo conto di quanto questa donna dura, amara, acida,
sarcastica, ami quest’uomo. Ha un terrore dannato e maledetto per suo marito,
eppure lo lascia qui a fare promesse ad una donna che ha amato in passato.
L’amore è una
dimostrazione costante che non ha nulla a che vedere con i “ti amo” o con i
baci appassionati. L’amore si annida negli sguardi che gli occhi lasciano
sfuggire senza volerlo, che sanno di consapevolezza maturata come un frutto
dolce di sole estivo. L’amore di Dean e Pansy è una lama di luce che lasciano
involontariamente vedere agli altri, ma che tengono solitamente per sé.
Spiazzata da questo
riflesso, arrendendomi alla fiducia che hanno l’uno nell’altra e che contagia
anche a me, sussurro solo con le lacrime agli occhi: “Grazie…”.
Pansy si alza in
piedi, gettando un’occhiata veloce attorno a sé e tenendo stretta tra le
braccia Charisma, che a sua volta tiene Biscotto. Seth segue il suo movimento e
sussurra solo: “Tu resti con lei, vero?”. Rabbrividisco, chiudendo gli occhi,
mentre la voce di Ilai mi giunge da un punto imprecisato alla mia destra. Mi
volto, trovandolo accovacciato dietro di me, i capelli spettinati, il volto
coperto di polvere, gli occhi luccicanti di furia: “In questa storia, ci stiamo
dentro assieme… e così ci restiamo… assieme…”. Ripete le parole che ho detto io
poco fa, con un tono però più deciso, più risoluto, infinitamente più convinto
di quello che avevo io. Non se ne andrebbe da qui nemmeno se lo pregassi, se lo
implorassi, se mi gettassi in ginocchio ai suoi piedi. Per un attimo, penso a
Tatia, penso che mi ha chiesto di proteggerlo, penso che forse dovrei
obbligarlo ad andare via, penso che lei mi ha detto che se avesse affrontato i
Karkaroff, sarebbe morto. Ma non so se questa premonizione sia ancora attuale,
adesso che ci sono io… e soprattutto come farei a mandarlo via? Ha ragione. Questa
strana cosa dentro che condividiamo io e lui, risuona peggio di un voto fatto a
Dio: ci siamo dietro assieme e, con Raissa, la chiudiamo assieme. All’inverso,
lui non mi avrebbe mai obbligato ad andare via, se Raissa avesse ucciso Draco.
Quindi, annuisco
senza forze, la polvere che cancella il mio sorriso tirato e preoccupato.
Serenity ci guarda
tutti, atterrita, spaventata, terrorizzata, uno sguardo sgranato da cucciolo
abbandonato che mi stringe il cuore. Raissa l’ha lasciata qui senza
preoccuparsi per nulla di lei, resa cieca dalla rabbia di avermi visto con Ilai,
anzi ha persino attaccato senza nemmeno preoccuparsi della bambina. Questo mi
assolve da tutte le mie colpe di aver coinvolto Serenity, usando anche il
Veritaserum… la stiamo salvando. Lei, però, questo non lo sa… ed adesso è
circondata da sconosciuti, ha appena subito un attacco, non sa che le sta
succedendo.
“Andate a casa di
Serenity…” ingiungo severamente, guardando la bambina che mi restituisce
un’occhiata incerta, dubbiosa, sospettosa. Respiro a fatica ed aggiungo con un
filo di voce, guardandola: “Siamo amici del tuo papà, piccola… stai tranquilla,
lui tornerà presto…”. Vorrei che restasse dall’altra parte del mondo adesso, ma
ovviamente posso solo promettere a sua figlia che ritorni.
La bambina,
rassicuratasi lievemente, si lascia prendere in braccio da Pansy che si
smaterializza con Charisma e Biscotto, dopo avermi detto con voce affrettata:
“Vedi di non fare scherzi… Malfoy tende a diventare irritante quando subisce un
lutto, credimi…”. Le sorrido, prima che sparisca, seguita da Dean e Seth. A lui
biascico severamente di non dire nulla, qualsiasi cosa la farebbe sembrare un
addio, mentre Dean mi ripete che tornerà subito.
Appena loro
scompaiono, l’ansia del combattimento mi riprende ad ondate mentre cerco di
restare lucida, soprattutto perché la nebbia nera inizia finalmente a
diradarsi, consentendomi di vedere al di là del mio naso. Magari riesco ad
individuare il palco ed Alex. Ilai, accanto a me, ha già sguainato la bacchetta
e mi sta accanto mentre si guarda sospettosamente attorno. Il silenzio attorno
a noi, adesso, è totale. La gente è fuggita completamente, non sento rumore di
passi o altro, potrei arrischiarmi anche a chiamare Alex ma non voglio attirare
l’attenzione di Raissa, che sicuramente si è nascosta qui vicino. Se c’è anche
una sola possibilità che non l’abbia visto e non si sia accorta di lui, devo
aggrapparmi ad essa.
“La priorità è mio
figlio…” sussurro con un filo di voce, provando ancora a farmi luce con la
bacchetta senza grande esito. La presa diventa meno salda mentre aggiungo: “Non
farò nulla se non lo saprò al sicuro…”. Ilai non dice nulla, prende solo la mia
mano come ha sempre fatto, intreccia le sue dita con le mie. Ci siamo dentro, assieme.
Improvvisamente
qualcosa mi fa urlare di dolore. Una vampata di fuoco incandescente mi fa
bruciare la mano che tengo stretta ad Ilai, mi stacco da lui gemendo, prima di
intuire immediatamente che cosa sta succedendo. Ghigno tra me e me, almeno
adesso so perfettamente come tenere lontana Raissa da Alex.
“Karkaroff!” urlo
con la bacchetta tesa davanti a me “Non sarà cresciutella
per questi giochetti da asilo?! Hai ucciso sua moglie, hai ucciso Tatia…
credevi forse che davvero avrebbe tenuto te per mano?!”.
Quello che succede
dopo mi fa pentire immediatamente di averla sfidata così apertamente. La nebbia
si dirada immediatamente, il sole ricompare nel cielo come una palla infuocata
che ci soffoca di afa ed Ilai viene sbalzato via lontano da me, atterrando
supino poco distante. Mentre sgomenta cerco di capire che cosa stia succedendo,
fumo nerastro mi circonda come un miasma tossico portandomi a tossire
pesantemente, finché quel fumo diventa una morsa d’acciaio attorno alla mia
gola. Gli occhi socchiusi, cerco di liberarmi dalla stretta letale senza
riuscirci mentre vengo sollevata di malagrazia da terra. Le mie mani graffiano
senza forza il mio invisibile aggressore senza riuscirci, mentre finalmente mi
rendo conto che è lei, Raissa in persona, che mi sta tenendo senza apparente
sforzo sollevata, stringendo le mani attorno al mio collo. L’aria diventa
rarefatta nei miei polmoni, sento i pensieri sfuggirmi sotto il suo sguardo
ghiacciato che mi squadra apparentemente senza alcun interesse. Le palpebre
però fremono irate, il suo respiro è sempre affannato, sembra far un
incredibile sforzo per non spezzarmi l’osso del collo ma per darmi invece solo
l’illusione della morte. Agitandomi, le braccia aggrappate alle sue, guardo
Ilai steso per terra, privo di sensi. Chiudendo gli occhi, spero almeno che
Alex non stia vedendo questa scena e che, dopo avermi uccisa, lei non si
accorga di lui.
Raissa allenta lievemente
la presa, non lasciandomi andare, ma consentendo che un po’ di ossigeno arrivi
alla mia gola, dandomi la forza di ascoltarla. Le sue labbra si muovono appena,
come se nemmeno parlasse, come se ogni respiro passasse a malapena tra i denti.
È calma, gelida, assolutamente disinteressata. Ma le dita che stringe sulla mia
giugulare continuano a tremare riarse dall’odio, ogni sforzo è concentrato per
impedirsi di uccidermi così velocemente da non farle pregustare il tutto con
spasmodica e crudele lentezza. Dice dapprima qualche parola sottovoce, come se
parlasse tra sé e sé: suoni gutturali e duri giungono alle mie orecchie
ovattate, assieme alla percezione di uno spostamento d’aria repentino. Distinguo
a fatica sopra di noi un piccolo bagliore aranciato che non riesco ad
interpretare: raggiunge il punto più alto sopra le nostre teste, resta immobile
per qualche istante e poi scompare. Un Incantesimo non verbale.
Che, naturalmente
ancora non conosco. Adamar ha dato a lei e a Dimitri un potere di conoscenza così
elevato che quest’Incantesimo potrebbe essere persino sparito da secoli.
Finalmente dedica
tutta la sua attenzione a me, guardandomi schifata.
“Mi sono sentita in
colpa verso di te per anni… “ respira pacata con il tono di una che sta
parlando del colore nuovo delle tende “Per anni. Non ti avevo mai odiata, mai,
avevo voluto persino proteggerti da mio fratello, terrorizzata che lui si
reclamasse al Voto Infrangibile…”. Fa una pausa, studiando il mio viso come a
cercarvi un’onta di stupore che ovviamente non trova. Sorride con elegante
scherno ed aggiunge: “Scommetto che sai tutto, no, di questo? Del Voto
Infrangibile con Dimitri, del fatto che si potesse appellare ad esso, della
sensazione cupa e cieca di doverlo controllare per impedire che perdesse la
testa per un’altra come era accaduto con Tatia. Me ne volevo andare subito, non
appena ho scoperto che poteva essere interessato a te. Ma eri una Mezzosangue,
una che per pura fortuna aveva creato uno Zahir. Non ne eri morta, ok, ma
Dimitri doveva capirlo che valevi poco, che non valevi nulla, che era solo
caso. Ma non l’ha capito… mai… e ho dovuto assecondarlo. Per anni, per cinque
stramaledettissimi anni, mi sono sentita in colpa verso di te… ti avevo
consegnata nelle mani di mio fratello. E mi sono sentita in colpa verso Draco
Malfoy. Mi aveva salvato da Voldemort e gli avevo portato via la sola cosa che
voleva al mondo…”. Raissa sospira, improvvisamente serena come se fosse in
pace: “Ma oggi, Mezzosangue, sei tu che mi hai portato via tutto, quindi finalmente
questo buco dentro si è cucito… e adesso so esattamente che cosa fare…”.
La guardo
terrorizzata, cercando ancora di liberarmi dalla stretta attorno al collo. Ho
le braccia indolenzite a furia di provarci e la gola che gratta come se stesse
sanguinando, ma continuo mio malgrado a sentirla: “Tatia… è stata lei, vero?
Quella piccola puttanella…si è affidata
a te, alla Salvatrice delle anime degli uomini abbandonati. Scommetto che ti ha
affidato Ilai, scommetto che è convinta che lo proteggerai, scommetto che si
augura anche che lui si innamori di te, no, Mezzosangue?!”, ad ogni inevitabile
insulto che riversa o su me o su Tatia le sue dita aggiungono pressione sulle
vene del mio collo, costringendomi a reprimere la tosse “E lei ti ha detto
tutto no? In qualche sciagurato modo dei suoi… e tu ovviamente, la regina del
bene, dovevi dirlo ad Ilai, dovevi dirgli tutto, così da splendere di luce
riflessa davanti ai suoi occhi. La nobile Mezzosangue, la dea della giustizia
che cerca l’assassina della profetessa sventurata… quando invece non sei
null’altro che una povera piccola sciocca, manovrata da forze più grandi di
lei…”. I miei occhi si socchiudono nel fissarla, creda che diamine vuole, non
mi interessa. Cerco di snebbiare la mente al punto di riuscire a lanciare un
Incantesimo non verbale ma le sue successive parole cancellano di botto ogni
mio pensiero: “Sei solamente il rimpiattino delle donne morte che cercano una
sostituta innocua per i loro fidanzatini e maritini. Prima Helena, e adesso
Tatia. Non te lo sei mai chiesto, Granger? Non ti sei chiesta come mai tutto
questo interesse dall’alto dei cieli? Non sei niente di speciale in fondo… ed è
questo il punto… sanno che resteranno indimenticabili. E scelgono te per avere
questa certezza. Non scalfirai minimamente il loro ricordo.”, la bocca di
Raissa si piega in un sorriso dolciastro prima che sputi fuori: “Sarò anche
un’assassina, sarò anche la feccia dell’umanità… ma Ilai scriveva a me, prima
di sapere tutto questo. Mi ha voluto bene per quella che sono… mi avrebbe amato
per quella che sono… e mi amerà per quella che sono, non perché sono la
sostituta di Tatia. E in quanto all’amore della tua vita, Granger… mi sta per
sposare. Sapevi anche questo? Adesso capisco perché te ne sei innamorata da
povera piccola cagna in calore… è una specie di dio a letto, vero? Mai scopate
migliori di quelle con Draco Malfoy…”.
Le sue parole hanno
l’effetto di conficcarsi come schegge acuminate dentro il mio cuore, come se mi
avessero infilato un paletto nel petto che adesso si sta spezzettando in
minuscoli frammenti. Non so quale mi ucciderà, ma li sento uno ad uno avanzare
mortiferi nel mio sangue e farmi il male che la stretta alla gola non ha potuto
minimamente preconizzare.
Sentirla parlare
così di me mi lascia del tutto indifferente: odia me e Tatia, quindi potrebbe
mentire per quello. Inoltre è una vita che vengo chiamata Mezzosangue o vengo
sottovalutata e disprezzata, non può certo farmi il male che potevano farmi
altri insulti a dodici anni. Ma le parole su Draco… quelle so che sono vere, so
che lei davvero lo sta per sposare. E non era nemmeno difficile capire che, se
fossero giunti a quel punto, voleva anche dire che erano stati a letto assieme.
La nausea emotiva che sento mi fa immediatamente venir voglia di abbandonarmi
alla soffocante stretta delle sue dita: li immagino assieme, nudi, avvinti in
un abbraccio caldo e seducente. E mi viene da vomitare. Potrebbe mentire anche
adesso, certo, ovvio… ma sono così stanca e così esausta di crearmi palizzate
di ragionamenti nella mente che mi difendano da tutto questo. Sono stanca, sono
così maledettamente stanca.
Improvvisamente la
stretta di Raissa si fa meno forte, le sue dita abbandonano un po’ la pressione
sulla mia pelle senza consentirmi di liberarmi, ma lasciandomi almeno respirare
normalmente. Riapro faticosamente gli occhi e la vedo guardare qualcosa alle
sue spalle con aria terrorizzata ed affranta. Ilai. Le punta una bacchetta alla nuca, l’espressione stravolta e
il sangue che gli cola da una profonda ferita alla testa. Sibila come se anche
lui si stesse trattenendo a stento dall’assassinarla: “Lasciala andare,
Karkaroff, prima che ti faccia fuori…”.
Raissa fa un verso
strano con la gola, assomiglia ad un singhiozzo trattenuto e cambia espressione
come non l’ho mai vista fare. Diventa livida, pallida, smunta. Trema
vistosamente e getta uno sguardo confuso alla collana che porta al collo. Gli
occhi diventano lucidi, non so se sia sofferenza o rabbia, non mi interessa.
Ma, dimenticandosi totalmente di me, guarda Ilai sconvolta come se
improvvisamente si rendesse conto di che cosa sta succedendo. È un attimo ma è
come se diventassi lei, vedo la Russia, le notti chiare, l’odore del fuoco e di
quella sera fatale in cui ha presentato Tatia ad Ilai. Sento il dolore che ha
provato quando li ha saputi assieme, la rabbia, la gelosia. E sento che adesso
lo vede ancora sparire da sé, dopo aver fatto di tutto per tenerselo stretto.
Non mi fa pena. Ci
mancherebbe.
Ma capisco
immediatamente la sua immediata domanda, la sola cosa che le preme davvero
sapere. Chiederei la stessa cosa io a
Draco, se adesso fosse qui.
“Ti sei innamorato
di lei, Ilai?” esala fuori velenosa, guardandomi in tralice.
Ilai di primo
acchito non risponde, mi guarda per un attimo come se davvero cercasse una
risposta onesta ad una domanda a cui non ha mai prestato attenzione. Gli
restituisco uno sguardo stanco, teso, preoccupato, cercando quasi di fargli
capire che ogni risposta a questa domanda non cambierà nulla tra me e lui. Ilai
chiude gli occhi, poi, riaprendoli, preme più forte la bacchetta contro la
pelle di Raissa che geme ancora, mentre lui biascica stentoreo: “Il ragazzo che
hai conosciuto in Russia si sarebbe innamorato di lei la prima volta che l’ha
vista…”.
Nonostante la mia
intenzione iniziale, comunque il mio cuore perde un battito e i miei occhi si
spalancano di contemporanea sorpresa ed imbarazzo. Guardo Ilai con la coda
dell’occhio mentre prosegue affannato, continuando a fissare Raissa e non me:
“Il ragazzo con cui hai parlato quella sera vicino al Palazzo d’Inverno… quello
che voleva fare il medico dopo la morte dei suoi fratelli… quello che pensava
che bastava essere giusti per avere in dono giustizia…”, Ilai segue un filo
intessuto di ricordi solo suoi e di Raissa e di cui mi sento ospite molesta.
Lei improvvisamente inizia a piangere senza nemmeno mutare espressione, la
presa sul mio collo si fa così debole che temo di cadere al suolo.
Ilai prosegue,
tornando a guardarla: “Bè, quel
ragazzo, Karkaroff… si sarebbe innamorato dei suoi occhi, della sua risata,
dell’effetto che ha di rendere tutto buono e tutto migliore, si sarebbe
innamorato del modo buffo che ha sempre di andare avanti e di continuare ad
avere speranza. E si sarebbe innamorato di come lei ama sempre senza odiare
mai, anche se le spezzi il cuore in mille pezzi…”. Improvvisamente quelle
parole mutano anche la mia espressione, facendomi venire voglia di piangere. È
come stesse parlando di un’altra persona, è incredibile vedermi attraverso i
suoi occhi. Poi, l’aria dolce di Ilai si raggela, diventa di nuovo pietra
scolpita e la bacchetta quasi perfora la pelle del collo di Raissa mentre dice:
“Ma tu, Karkaroff, hai ucciso quel ragazzo il giorno che hai ammazzato Tatia. E
io non posso nemmeno pensare di amare un’altra persona, come ho amato mia
moglie, tantomeno se si tratta di Hermione Granger. Perché io di lei non amerei
tutto quello che è, ma solo il dolore che è uguale al mio e che le avete
inferto tu e di quel bastardo di tuo fratello”. Chiudo gli occhi, cercando di
renderli limpidi dalla foschia che li avvolge.
Come io amerei di te solo il fatto che le
stesse persone che ti hanno rubato Tatia, mi hanno tolto anche Draco.
Cosa sarebbe allora? Vendetta, giustizia,
pietà, tenerezza? Sarebbe tutto tranne che amore: sarebbe anche giusto, no?
Ma abbandonarci a questo sarebbe darla
vinta a loro. Dimostrargli che ci hanno reso incapaci di amare.
Ilai conclude
stoico, mentre lo guardo con uno strano senso di orgoglio per quello che ha
detto e che come sempre ha prevenuto i miei stessi pensieri: “… ma soprattutto,
Karkaroff, non posso permettermi nulla di diverso dal mero sopravvivere fino a
che ti saprò in giro libera e pronta ad ammazzare la moglie di qualcun altro…”.
Raissa per qualche
secondo non fa assolutamente nulla, assorbe le sue parole come se non le
accettasse, come se avesse bisogno di qualche secondo per capirle. Continua
pensosamente a guardarsi la collana al collo, la studia come se fosse la cosa
più interessante del mondo. Ha gli occhi asciutti adesso, solo lievemente rossi
ed anche l’espressione è tornata calma, gelida, riflessiva.
“Non sarai mai
mio…” commenta fiocamente, come si fosse accorta solamente adesso di che cosa è
accaduto. Ilai non risponde, continua a tenere la bacchetta puntata al suo
collo e getta uno sguardo preoccupato nella mia direzione. Debolmente glielo
restituisco, guardandolo dall’alto in basso.
Repentinamente
Raissa lascia andare la presa sul mio collo, gettandomi senza apparente sforzo
contro Ilai. Lui mi afferra saldamente per la vita, impedendomi di cadere al
suolo, mentre finalmente tossisco e recupero il respiro. Ilai mi sorregge per
un fianco, mi aggrappo senza forze al suo braccio teso.
“Stai bene?” mi
chiede piano, non mollando la bacchetta puntata verso Raissa e non distogliendo
l’attenzione da lei. Annuisco con il capo, recuperando immediatamente la mia
bacchetta e guardandomi attorno alla ricerca di un segnale qualsiasi che mi
faccia capire che Dean è riuscito intanto a portare via Alex. Purtroppo il
palco è sempre troppo lontano per capire qualcosa, spero con tutta me stessa
che mio figlio sia al sicuro.
Raissa
improvvisamente si aliena completamente da sé stessa e da me e da Ilai. Inizia
a camminare in circolo, tenendo sempre la collana stretta tra le dita e
guardandola con aria corrucciata. Sembra riarsa da un conflitto interiore
insanabile, il viso è trasfigurato dall’incertezza. Mentre recupero le forze,
ansimando, la bacchetta tesa, guardo distrattamente la collana che ha al collo.
Un ciondolo
normalissimo, rotondo, di colore scuro. Rabbrividendo, però, noto
improvvisamente qualcosa di strano. Scintille. Al suo interno. Nere e verdi.
È qualcosa di
magico, quindi, non lo guarda solo per riflesso condizionato. Ed è indecisa sul
fare qualcosa… probabilmente sull’ucciderci, dato che comunque ama ancora Ilai.
Forse quel ciondolo ci farebbe esplodere in mille pezzi, senza che nemmeno ce
ne accorgessimo.
Sto appena per
aprire la bocca, avvisando Ilai di disarmarla immediatamente e di toglierle
quella cosa dal collo, che Raissa improvvisamente urla con tutto il fiato che
ha in gola. Prima le sue parole sono scomposte, incomprensibili. Sono solo una
sequela di suoni inarticolati, colmi di rabbia e dolore. Raissa si strappa i
capelli, continua ad urlare, si accascia al suolo.
Poi finalmente
alcune sue parole diventano comprensibili, un attimo prima che si tolga la
collana dal collo e la getti furiosamente per terra, facendola rompere in mille
pezzi.
Dice solamente:
“Non avrei voluto arrivare a questo…”.
Urlo immediatamente
ad Ilai di nascondersi, di stare giù, di ripararsi, preparandomi al delirio
dell’inferno. Ci gettiamo entrambi a terra bocconi, la testa tra le braccia,
cercando di proteggerci.
Ma non accade
nulla. Nulla di esplosivo, di letale, di mortale, al punto che penso che
l’incantesimo sia andato a male e non abbia funzionato.
Mi azzardo
timidamente a sollevare il viso e ciò che vedo mi gela il sangue nelle vene,
facendomi assumere in tutto e per tutto le fattezze di una statua di marmo. Mi
trattengo dallo stropicciarmi gli occhi, incredula, pensando ad un macabro
scherzo, ma so subito che non ci sarebbe nessuno così malvagio da farmi
rivivere tutto questo. E soprattutto la mia stessa fantasia non avrebbe mai
potuto concepire questo oggi, adesso. L’ondata che risale dallo stomaco mi fa
mordere furiosamente il labbro e digrignare i denti per la rabbia, mentre
rabbrividisco al contatto con lo sguardo che mi ha perseguitato per cinque
lunghi anni. Le ultime labbra che ho baciato si aprono sardoniche, prima di
sussurrare: “Mi piacevi di più con i capelli lunghi, piccola. Ma rimedieremo
anche a questo, adesso che finalmente sei di nuovo qui…”.
Come un animale lasciato
libero dopo anni di cattività, mi sollevo in piedi come una furia prima di
scagliarmi addosso a Dimitri con tutta la rabbia e l’odio che ho in corpo. Lo
Zahir non era nulla in confronto a quello che sento adesso, alla voglia
spasmodica che ho di fargli del male, di ferirlo come lui ha ferito me.
Inconsapevolmente provo persino piacere, immenso, che non sia morto, che sia ancora
vivo, che improvvisamente sia ancora qui, davanti a me, così che possa fargli
tutto quello che ha fatto a me, triplicato. Adesso finalmente posso ucciderlo,
con le mie mani. È colpa sua, è tutta colpa sua. Tutto quello che mi è
accaduto… tutto quello che… le immagini di questi cinque anni mi ballano
davanti agli occhi come fotogrammi di un film in bianco e nero, vecchio di
secoli.
La notte in cui è
nato Alex. L’odore di rose nella camera di ospedale. La sedia a rotelle di
Hayden. Una cartolina ingiallita indirizzata ad Helder. Il giorno della festa
del papà e Ron che guarda Alex confezionare un pacchetto che non è per lui. Le
lettere a Draco. Un ramoscello di menta selvatica in un libro. Mia madre che
guarda la mia pancia e piange. Mio padre che mi stringe per la nuca e piange.
Harry che si aggiusta gli occhiali sul mento dicendo che non ha visto James
nascere. Ilai che non amerà mai nessuna come Tatia. Ron che getta a terra un
vaso di rose. Tatia che muore a diciassette anni e dice a suo marito di ricordarsi
della cannella bruciata. E poi io che mi improvviso madre e padre, innamorata e
sconfitta, salvatrice e salvezza, vittima e carnefice, tradita e traditrice.
Per anni, mesi,
giorni, ore, mentre Draco si scopava Raissa Karkaroff e programmava di sposarla,
mentre avrei potuto diventare sul serio la moglie di Ron, mentre avrei potuto
andarmene con Ilai.
Tutto questo
scoppia in un secondo, mentre mi alzo in piedi e mi scaglio su Dimitri urlando
e graffiandogli furiosamente il viso. Il segno delle mie unghie rimane vivido
sul viso finché inizia copiosamente a sanguinare, finché con un gesto della
bacchetta semplicissimo, riesce ad immobilizzare il mio impeto. Senza timore,
prendo la mia bacchetta e provo ogni genere di incantesimo con sorda rabbia
cieca, continuando a gridare come un’ossessa, ma nulla infrange la barriera a
difesa dei Karkaroff.
“Se avessi saputo
che sentivi così tanto la mia mancanza, Granger, mi sarei fatto vedere molto
prima…” commenta con un ghigno Dimitri, ridendo dei miei tentativi a vuoto di
ferirlo e colpirlo. Non sembra assolutamente cambiato di una virgola da quella
sera di luglio in cui gli sfuggii: gli stessi occhi blu oltremare carichi di
sadico divertimento nel guardarmi, gli stessi capelli ricci e neri spettinati,
la stessa espressione gelida, la stessa posa militare. Indossa persino vestiti
molto simili a quelli che indossava da Pansy. Per un attimo sciocco, penso
persino che sia un miraggio. Ma il sangue della ferita sul viso è dannatamente
reale, le mie unghie che graffiavano la sua carne erano anch’esse reali. È
reale. Non è mai morto. È sempre stato nascosto da qualche parte ad aspettarmi
con disgustosa pazienza. Raissa, alle sue spalle, è rimasta nella stessa
identica posizione di poco fa: seduta per terra, con le gambe piegate, il volto
rivolto verso il basso.
“Come diamine fai
ad essere ancora vivo?!” urlo ancora, muovendomi come un’ossessa per cercare
una falla nella sua difesa, mentre la barriera continua a respingere facilmente
ogni mio incantesimo “Harry ha visto il tuo corpo! Helder ha sentito che eri
morto, dannato bastardo! Come diamine fai ad essere ancora vivo?!”. Ilai, alle
mie spalle, freme a sua volta, ma riesce a essere più calmo di me, almeno fino
a quando Dimitri con voce monocorde, non si rivolge direttamente a lui: “Prima
l’educazione, Granger, devo salutare il mio vecchio amico Radcenko… è così
confortante ritrovarsi dopo tanti anni a fare sempre le stesse cose… come
contendersi sempre le stesse donne… peccato che stavolta non l’avrà vinta
lui…”.
“Il giorno in cui
ti lascerò Hermione sarà lo stesso in cui mi dovrai ammazzare prima di poterci
anche solo provare…” sibila freddo Ilai.
“Bè allora sono
fortunato che questi giorni coincidano e che cadano tutti oggi…” sorride
gioioso Dimitri, guardando Ilai con espressione sarcastica “Già una volta ti ho
concesso di metterti in mezzo tra me e la donna che amavo. E Tatia è morta… non
accadrà ancora…”.
“Tatia è morta
perché lei l’ha uccisa…” ripete Ilai
con un gemito doloroso, facendo un cenno del capo in direzione di Raissa, che
si limita ad incassarsi nelle spalle magre “Non parliamone come se fosse un
incidente. Mia moglie è stata uccisa. Ed è giunto il momento che tu e tua
sorella paghiate per questo…”.
“Mia sorella ha già
pagato per questo…” commenta annoiato Dimitri, guardando in tralice Raissa “Ha
perso te, no? Ti ha perso per sempre. Era la cosa peggiore che le potesse
accadere, altrimenti non avrebbe stretto quel Voto Infrangibile con me. E in
quanto a me… dimentichi quanto io amassi Tatia. Non le avrei mai torto un
capello, se fosse rimasta mia… ma lei, no. Non mi aspettò, sposò te e a questo
punto posso dire che fece la scelta peggiore che potesse fare… visto che non
sei stato nemmeno in grado di salvarla da mia sorella…”.
Mi volto appena in
tempo per rendermi conto del potente Schiantesimo che Ilai scaglia ferocemente,
il viso tumefatto dall’ira contro la parete che protegge Dimitri che continua a
ridere sguaiatamente. Lo spostamento d’aria mi fa fare qualche passo indietro,
mentre si solleva un’onda di polvere a causa del contraccolpo. Ilai continua a
scagliare maledizioni furibonde, gli occhi annebbiati e il respiro corto, senza
ottenere nulla. Il mantello di Dimitri non si increspa nemmeno. Approfittando
di un attimo di sosta di Ilai che cerca di riprendere fiato, mi avvicino
velocemente a lui afferrandolo per un polso. Lui mi guarda quasi trapassandomi
da parte a parte, cieco, folle, nella sua ricerca di vendetta. Poi qualcosa nei
suoi occhi cambia mentre sembra mettere a fuoco chi sono, il braccio che regge
la bacchetta si piega e la voce blocca in gola l’incantesimo inutile che stava
già pronunciando.
“Vuole farci
perdere la pazienza e farci stancare inutilmente…” sospiro con un filo di voce,
guardandolo e stringendogli la mano “Non permetterglielo, Ilai… ci siamo dentro
assieme…”.
“… e la finiamo
assieme…” conclude lui, annuendo stancamente “Hai ragione. Ma quella barriera…
è Magia nera. Per quanto ci sforziamo, non verrà mai giù. Potrebbe fare di noi
quello che vuole… e non mi preoccupa quello che vuole fare a me… ma quello che
vuole fare a te…”, la sua mano stringe forte la mia mentre sussurra deciso:
“Non gli permetterò di portarti via da me”.
Sorrido
stancamente, accarezzandogli piano il dorso della mano con il pollice, ma non
faccio nemmeno in tempo a parlare che la voce di Dimitri ci interrompe
nervosamente, rivolgendosi ancora ad Ilai: “Radcenko, ti ho già detto di
smetterla con questo vizio di infatuarti delle mie cose…”. La voce di Dimitri
sembra calma, tranquilla, ma si è già increspata vistosamente. Lo guardo con
odio puro, non ha perso il maledetto vizio di considerarmi di sua proprietà e
di trattarmi alla stregua di un oggetto. Giuro che lo farò pentire di essere
tornato qui. Se solo sapessi che Alex è al sicuro, avrei già fatto esplodere l’intera
piazza. Certo, io ed Ilai potremmo anche Smaterializzarci lontano, qualora
capissi che Dean ha portato via Alex… ma vorrei lasciarla come ipotesi finale
nel caso le cose si mettano male. Oggi deve finire questa storia. E non me ne
andrò da qui fino a che non vedrò i Karkaroff in catene.
Dimitri guarda
prima me e poi Ilai e sussurra in modo lascivo: “Vedo che il tuo non era poi il
grande amore della tua vita, eh Granger? Ti sei già dimenticata di Malfoy? Adesso
fai gli occhi dolci a Radcenko… ma ti va male anche in quel caso… entrambi
hanno lasciato o lasceranno che tu venga dritta da me… aspetto da cinque anni
questo momento, credi che mi faccia fermare da lui?”.
“E credi che per me
le cose in cinque anni siano cambiate?” rispondo acidamente, con voce strozzata
“Che tu non sia morto, mi dà solo la felicissima occasione di gettarti io
stessa ad Azkaban…”.
Dimitri assume
un’espressione canzonatoria, mi guarda con gelido e sarcastico divertimento.
Qualcosa in lui è cambiata in questi cinque anni: me ne accorgo solamente
adesso. E’ dannatamente sicuro di sé, al punto da deridere me ed Ilai con lo
sguardo in modo insopportabile. Prima, aveva ogni cura e premura che io lo
desiderassi autenticamente, adesso non gli importa. Vuole solamente avermi, in
qualsiasi modo ciò dovesse avvenire. E per farlo, non esiterà ad usare ogni
mezzo possibile. La frustrazione di questi lunghi anni deve averlo fatto
scendere a patti con sé stesso in modo inaspettato. E potendo usare tutto
quello che ha a disposizione, ovviamente il rapporto tra me e lui si è
sbilanciato come non mai. Non sono davvero nulla, adesso, in confronto a lui.
“Di te ho sempre
adorato questo straordinario idealismo che hai, nonché il coraggio e la
speranza…” sorride dolciastro, guardandomi con le labbra serrate “Credi forse
che io possa essere rinchiuso ad Azkaban? Credi forse che ci sia un rimedio
diverso per fermarmi che non sia uccidermi?
Aspirazione invidiabile la tua… ma assolutamente ridicola, piccola Granger…”.
Fa qualche passo deciso, fermandosi ad un soffio dalla barriera e da me, Ilai
lo guarda digrignando i denti, Dimitri lo ignora e mi dice, inclinando la testa
di lato: “La Conoscenza Assoluta… quella che mi ha donato Adamar… non è solo
Conoscenza di ogni singolo Incantesimo mai esistito su questa terra ed
inventato da uomo. E’ conoscenza di tutto, Granger. Conosco ogni singola pietra
di Azkaban, ogni crepa nelle mura, ogni botola, ogni passaggio segreto, ogni
falla nella sicurezza. Resterei lì pochi secondi… e potrei far saltare in aria
tutta quella feccia nel tempo che tu impieghi a respirare…”.
Rabbrividisco,
distogliendo lo sguardo da lui. Ovviamente ci avevo pensato, l’avevo
immaginato: ma accettarlo compiutamente significa anche comprendere che allora
lo devo uccidere io. E non sono ancora diventata un’assassina… e poi… esisterà
davvero un modo per ucciderlo? Probabilmente conosce ogni contromossa possibile
ad ogni Incantesimo.
In fondo, è qui,
vivo e vegeto. Harry mi mandò persino delle foto del suo cadavere, perché lo
riconoscessi. Aspettarono persino qualche giorno prima di comunicarmi la
notizia, così da escludere che avesse fatto bere la Polisucco a qualcuno che
poi aveva ucciso. Helder aveva sentito la sua forza vitale venire meno. Come
diamine ha fatto?
Do voce ai miei
pensieri, ringhiando: “Immagino che la suddetta Conoscenza assoluta sia stata
anche utile per farti mettere in scena la tua morte, no?”. Dimitri sogghigna
soddisfatto, guardandomi in tralice ed annuendo con sussiego: “Sarebbe accaduto
anche prima, se non avessi avuto tra i piedi quell’oca idiota di Astoria
Greengrass…”.
“Quindi lei è morta
sul serio?” aggiungo debolmente, non l’ho mai detestata quanto ho detestato
lui. Mi ha fatto creare lo Zahir, mi ha quasi costretto ad uccidere Draco, però
ha fatto sì che Dimitri mi obbligasse ad abortire, dato che Astoria ha sempre
voluto per sé il figlio di un Malfoy. Era una donna debole, fragile,
intimamente legata ad un mondo dalle regole assurde. Provo pietà per lei ed
arrivo persino a sentire un po’ di compassione quando Dimitri mi conferma che è
morta sul serio e che è stato lui ad ucciderla. Questo, ovviamente dopo che mi
si confermi nella testa che quest’uomo ormai è disposto praticamente a tutto e
che è un diavolo incarnato.
“Non valeva la pena
ucciderla…” sciorina con voce monocorde, guardandosi le unghie “Mi è sempre
stata utile nella fuga, aveva contatti con il Ministero, anche dopo che avete
neutralizzato Lavanda Brown. E poi era anche graziosa… me la sono fatta un paio
di volte…”, trattengo il disgusto a quelle parole turpi e continuo ad
ascoltarlo mentre riprende: “Era noiosa, intendiamoci… ossessionata dall’idea
di mettere le mani sulla preziosa progenie di Draco Malfoy… si faceva i calcoli
per vedere quando sarebbe nato, cercava di ricordare particolari di te che le
facessero capire se era maschio o femmina, mi tediava con ogni stramaledetto
aneddoto per cui, se fosse stato maschio, sarebbe stata riaccolta nella sua
famiglia a braccia aperte… ed anche Draco non l’avrebbe più rifiutata… da
quello che mi ha raccontato Raissa, Malfoy ha una figlia femmina che non è sua…
per un Malfoy, un figlio maschio sarebbe stata la più grande delle benedizioni
esistenti…”.
Trattengo in gola
un groppo di pianto confuso, pensando a che cosa ho negato volutamente a Draco.
Un figlio maschio… non ci avevo mai concretamente pensato… per i Purosangue
come lui, queste cose sono ancora dannatamente importanti. Trasmettere un
cognome, essere erede di tradizioni e valori, vedersi proiettato in lui… chissà
come sarebbe cresciuto Alex se avesse conosciuto Draco sin dal primo momento.
Sarebbe un Malfoy, adesso, in tutto e per tutto. Quelle poche tracce che ha di
me… forse non ci sarebbero state. Ma sicuramente l’avremmo cresciuto in modo
che prendesse solo il meglio dalla sua famiglia d’origine. E lui, Draco…
sarebbe scoppiato di orgoglio ogni momento della vita di nostro figlio.
Ricaccio a fatica
quei rimpianti inutili, gettando uno sguardo distratto al palco dove spero non
si nasconda ancora mio figlio, e continuo ad ascoltare Dimitri: “Me la sono
sempre portata appresso mentre fuggivo… Pucey e Montague erano delle zavorre
inutili, li ammazzai la sera della tua famosa fuga dal mio castello. Ma lei
tutto sommato poteva ancora tornarmi utile… specie perché da quella notte, tu
sei praticamente scomparsa. Ho fatto in ogni modo, provato centinaia di
incantesimi, preparato decine di pozioni… ma nulla, per cinque anni non sono
mai riuscito a trovarti in nessun modo… nonostante avessi ordinato a Raissa di
rimanere con Malfoy fino a quando tu ti fossi fatta viva… tu non provavi
nemmeno a contattarlo…”.
Ecco perché Raissa
era partita con Draco e ci era rimasta per cinque anni… l’ultimo pezzo mancante
è tornato a posto. Effettivamente, il punto non tornava perché non sapevo
Dimitri ancora vivo… adesso ha tutto senso. Restava con lui perché Dimitri si
era appellato al Voto Infrangibile… e continuava ovviamente ad amare Ilai. Ma
allora perché stanno per sposarsi?
Mi trattengo la
domanda in gola, sicura che mi mentirebbero, e lascio ancora spiegare Dimitri
che comincia ad andare concitatamente avanti ed indietro come se il nervosismo
di questi anni si fosse improvvisamente palesato di nuovo nelle sue membra,
impedendogli di restare fermo.
“Sono passati
cinque anni stramaledettissimamente lunghi…” riprende incolore Dimitri,
mascherando la rabbia “E non riuscivo a capire come avessi fatto semplicemente
a sparire. Nessuno parlava di te, da Malfoy non andavi, la tua stessa forza
vitale era come morta… poi un anno fa, Astoria sputa il rospo. Casualmente
quell’oca, dopo quattro anni, si ricorda che tu conoscevi un’Indicibile da cui
avevi avuto la formula dello Zahir… quindi probabilmente avevi qualche metodo
magico per celarti… peccato che io conosca tutto anche degli Indicibili. Non è
questo il punto… finalmente si degna di dirmi chi era quell’Indicibile… Helder Cassidy Bode… come se non la conoscessi. Riuscì a diventare
un’Indicibile al mio posto… la conoscevo da anni, mi fu presentato anche suo
padre una volta dal mio… e sapevo che non era solo un’Indicibile. Era anche
un’Empatica… per quello non riuscivo a trovarti. Era il suo potere a
nasconderti… e la cosa peggiore era che lei invece avrebbe potuto trovarmi
sempre. So che noi che abbiamo vinto una prova di Adamar siamo ciechi agli
Empatici, ma so anche che, se ci sentono una volta, non si dimenticano più di
noi… e quella mocciosa poteva avermi sentito la sera della tua fuga. Doveva essere
stata lei a trovarti quella volta. Questo significava che potevo avvicinarmi
anche solo per caso a te e lei se ne sarebbe accorta subito, mettendoti in
fuga. Quell’imbecille di Astoria non mi aveva mai detto nulla… non l’aveva
considerato importante… la ammazzai quella sera stessa…”. Rabbrividisco,
gelando. Ha ammazzato Astoria solo perché non si è ricordata di dirgli questa
cosa. Le gambe mi tremano anche se non vorrei mostrarmi debole davanti a lui,
improvvisamente la paura mi prende come una morsa ghiacciata. Ilai mi sfiora con
il dito l’interno del polso senza farsi vedere da Dimitri. Sospiro, cercando di
calmarmi.
“Finalmente capii
il punto… l’Empatia era l’ostacolo…” riprende allegro come un bambino
soddisfatto “Ma purtroppo per me, l’Empatia è così poco conosciuta nei suoi
effetti e nei suoi poteri che non sapevo bene come affrontarla. Io conosco
tutto quello che è stato scritto da uomo: formule, incantesimi, libri, anche se
persi da secoli. Tutto, dai romanzi ai progetti di edifici agli articoli di
giornale. Ma dell’Empatia so pochissimo, semplicemente perché è l’uomo stesso
che non sa nulla dell’Empatia. Sono sempre stati una casta chiusa, dalle regole
ferree, persi nei loro deliri di onnipotenza, che comunicavano di generazione
in generazione solo con il loro dono, senza scrivere mai nulla. C’è gente che
nemmeno sa che esistono… e poi hanno il potere esattamente contrario a quello
di Adamar. Lui mutila le anime per dare potere, loro conoscono le anime per
avere forza… credo che nemmeno Adamar stesso sappia molto degli Empatici.
Ucciderla non sarebbe servito, si sarebbe accorta comunque di me per tempo… e
in ogni caso continuavo a non sapere dove fosse lei… e dove fossi tu.
Sicuramente eravate nello stesso luogo. L’unica possibilità era fingere che
fossi morto io… tu ti saresti sentita libera, saresti tornata indietro… ed
avresti prevedibilmente cercato Malfoy. Sei sempre stata un libro aperto per
me, Granger…”. Ignoro il suo sorriso saputo, serrando forte la mascella.
“Serviva qualcosa
di potente… qualcosa che ingannasse un Empatico. Doveva celare ogni cosa di me…
rendermi morto sul serio… nemmeno un Distillato della Morte vivente potenziato
sarebbe bastato... tutto di me doveva congelarsi e a lungo… avrebbero fatto
prove, test per giorni, per capire se ero davvero morto… e la maledetta
Empatica non doveva più avvertire di me la benché minima traccia vitale. Un
modo c’era… un fiore che cresce sulle Ande, rarissimo, di nome Titanca.
Proviene da una pianta endemica, che fiorisce solo una volta per poche
settimane nei suoi circa cento anni di vita, poi muore. Dalla polverizzazione
dei suoi petali si ricava un estratto che induce la morte, fino al momento in
cui viene innescata una scarica elettrica sul corpo della vittima. Ci ho messo
settimane a trovare la pianta, che era vicina a perdere i fiori… e ne ho
ricavato la mistura, che mi ha immediatamente indotto la morte. Ho fatto
trovare il mio cadavere accanto a quello di Astoria… così che pensaste che ci
fossimo uccisi a vicenda. E la collana che portava Raissa…”.
“… era il modo per
svegliarti…” completo scioccamente, giungendo finalmente a comprendere tutto.
Le scintille che avevo visto erano scariche elettriche, collegate, chissà come
a Dimitri. Appena la collana era esplosa, aveva trasmesso l’impulso a Dimitri
che si era svegliato. Fino ad allora, dovunque Dimitri fosse, lo avrebbero
sempre scambiato per un cadavere.
“Bravissima, Granger…”
commenta Dimitri in tono disgustosamente fiero, prima di proseguire sinistro: “Comprenderai
quindi che sono cinque anni che attendo con ansia questo momento… chiunque si
metterebbe in mezzo tra me e te, adesso, non mi farei scrupoli nel farlo fuori…
Auror, Ministri della Magia o altri patetici personaggi…”, la sua voce si
abbassa di tono, suonando come una minaccia stentorea: “Figuriamoci se poi si
tratta di qualcuno con cui ho un conto in sospeso da più di dieci anni… se non
si era capito, parlavo di te, Radcenko…”. Ilai non controbatte, resta immobile
e gelido guardandolo, io rabbrividisco e chiudo gli occhi, cercando di non
sovrapporre Hayden ad Ilai. Già lui ha pagato per quello che Dimitri voleva da
me, non sopporterei che accadesse ancora. Dimitri sorride ancora, guardandomi
di sbieco, e biascica dolce: “Per dovere di completezza, c’è anche qualcun
altro da considerare…”. Il mio cuore perde un battito, mi volto repentinamente
a guardarlo mentre aggiunge melenso: “Draco Malfoy, come dimenticarlo. Ma,
andiamo Hermione, è un idiota. Non ha mai capito nulla di ciò che era successo,
sta per sposare mia sorella, credi che adesso potrebbe davvero capire
qualcosa?”.
“Lui dov’è?” chiedo
con un filo di voce, temendo la risposta.
“Sta bene, per
quanto io ne sappia…” biascica Dimitri annoiato “Da quel giorno in cui sei
scappata da me, non è mai stato nei miei interessi primari. Quello che ha
fatto, lo ha fatto tutto da solo. Credo che sia a Londra adesso, o qualcosa del
genere, no Raissa?”. La donna, abbandonata al suolo, fa un cenno di assenso
inarticolato. Che diamine sta facendo a
Londra?!
“Perché è lì?!”
urlo nervosa.
“Sai Hermione
Granger, mia sorella e il tuo amato hanno avuto una vita assieme in questi
anni…” mormora Dimitri sorridendo alla mia espressione devastata “Ed una vita
assieme, significa vacanze, feste di Natale, bambini per casa e lavoro con
annessi viaggi, quello che sta facendo adesso… tu non esisti più per lui,
tesoro. È andato avanti”. Le sue parole mi procurano il solito ben noto tonfo
al petto ma decido con improvvisa risoluzione di non ascoltarlo più e di non
chiedergli più nulla. Al momento non ho né tempo, né voglia di occuparmi di
Draco Malfoy e di quello che ha fatto in questi cinque anni. E soprattutto non
so nemmeno come stiano oggettivamente le cose e non lascerò che mi manipolino
come, ai tempi, fecero con Draco stesso.
Peraltro, ho
davanti a me un demonio insaziabile che ammazzerebbe mezzo mondo pur di
arrivare a me e non è sicuramente la mia priorità sapere adesso di Draco: sta
bene e tanto al momento basta. Certo, Dean a quest’ora avrà sicuramente portato
Alex in salvo, ma intanto qui c’è ancora Ilai. Nessuno deve finire in mezzo tra
me e i Karkaroff, di nuovo… anche se questo può voler dire che posso solamente
ucciderli a questo punto. Accetterò di farlo, se sarà la sola strada per
impedire che facciano del male a qualcuno. Soprattutto ad Ilai. Non voglio che
gli accada nulla, mai.
L’ho promesso a
Tatia, l’avrei difeso e protetto… e non sopporterei mai che gli accada qualcosa
per colpa mia.
Non sopporterei che gli accada qualcosa in
ogni senso, in verità. Perdere lui adesso mi darebbe il colpo di grazia.
Mi fa terribilmente male nel pensarlo… e mi
rende così confusa da farmi girare la testa… ma non posso perderlo. In nessun
modo possibile.
“Quindi torniamo a
noi…” ricomincia Dimitri, gettandomi uno sguardo famelico a cui Ilai reagisce
irrigidendosi e parandosi davanti a me. Lo trattengo per un braccio,
fermandolo, lui mi guarda senza capire prima di dire sottovoce: “Non esiste che
vai via con lui…”. Il braccio di Ilai è rigido, la pelle è colma di tensione
che scorre nelle vene assieme al sangue. Mi guarda negli occhi e percepisco le
stesse cose che sto provando io, tutte, dalla prima all’ultima. La paura,
l’impotenza, la rabbia, la voglia di vendicarsi. E in più questa strana
connessione dentro, che non ci lascia mai in pace.
Perderci… adesso… è
impossibile. Siamo l’uno il sostegno dell’altra. Andremmo in pezzi da soli.
Ilai chiude la mano che ho sul suo braccio, soffiando tra i denti: “Lascia che
sia io a farlo fuori…”.
“No” dico
nervosamente, stringendo la presa sul suo braccio “Sarà lui a fare fuori te, lo
sai meglio di me, Ilai…”. Gli occhi mi si annebbiano, mentre sento Dimitri
continuare a ridere disgustosamente divertito. Improvvisamente, come un petardo
acceso, la voce di Ilai scoppia nel mio cervello mentre apre una connessione
telepatica con me. Rabbrividisco, colma di meraviglia e stupore, sentendolo
dentro di me. Non ho avvertito intrusione, non ho opposto resistenza, non mi
sono dovuta nemmeno aprire per accoglierlo nei miei pensieri. Il legame strano
tra me e lui funziona persino a livello di magia… c’è una connessione alchemica
quasi, che non ho mai sentito con nessuno e che continuo ad imputare ad una
sorta di lascito di Tatia. La voce di Ilai, nei miei pensieri, mentre sono
ancora sotto il suo sguardo d’ardesia, sussurra: “Hermione, devi lasciarmelo fare. Devi farmi provare ad ucciderlo. Io
vivo solo per questo ormai… solo per vendicarmi di Tatia. Loro… non potremo mai
chiuderli in una cella. E tu… devi scappare. Hai ancora tuo figlio e Draco è
vivo da qualche parte. Non rischiare la tua vita per niente, non ne vale la
pena. Questa è una mia responsabilità… anche se non lo voleva, è stata mia
moglie a trascinarti in tutto questo… e non mi perdonerei mai se ti succedesse
qualcosa.”.
Le lacrime mi
affannano la vista mentre stringo il suo braccio, aggrappandomi ad esso: “Credi che tornerei mai me stessa, se ti
lascio andare adesso?”. Ilai sospira, chiude gli occhi e sta per replicare
qualcosa, ma lo interrompo malamente: “Tatia…
ci ha legato in questo modo. Se uno dei due non ne esce… probabilmente non ne
uscirà nemmeno l’altro. Questo è un peso che spartiremo assieme, d’accordo? Io
sono l’ex Capo degli Auror… deve esistere un modo per riuscire a colpirlo. E al
momento la sola cosa che abbiamo è questa…”.
“Cosa?”.
“Questa connessione, Ilai… sei riuscito ad
entrare nella mia mente senza che quasi me ne accorgessi. Se riusciamo a
sfruttare questa cosa a livello di magia, forse possiamo intaccare la sua difesa…”.
Ilai batte le
palpebre sorpreso, rendendosi conto della verità delle mie parole. Poi annuisce
impercettibilmente, soffermandosi a riflettere. Tutto questo, nella mia mente e
nella sua, si svolge in pochissimi istanti, all’esterno non sono passati nemmeno
due secondi.
“Un attacco condotto perfettamente
all’unisono potrebbe avere successo…” riprendo mentalmente, mentre a voce fingo di star implorando Ilai di non
attaccare Dimitri “La barriera è forte. Ma
magari colpita nello stesso punto, con lo stesso incantesimo, se usiamo la
medesima forza… potrebbe funzionare…”.
“Che incantesimi hai usato fino ad ora?” mi chiede febbrilmente Ilai, sento ancora
la sua indecisione a farmi collaborare ma enumera velocemente quelli che ha
usato lui. Confrontandoli con i miei, ci rendiamo velocemente conto che non
abbiamo usato solo il “Finite incantatem”. Mi sembra
abbastanza debole come incantesimo e magari nemmeno funzionerà. Ma distruggere
la barriera al momento è la cosa migliore. La sicurezza di Dimitri si incrinerebbe
e riusciremmo perlomeno a colpirlo. Raissa, al momento, non sembra un pericolo.
È completamente svuotata delle sue forze. Tra i due, certo meglio occuparci di
Dimitri al momento. Continuando a fingere di parlare, pianifichiamo che, se la
barriera cade, cercheremo immediatamente di disarmare Dimitri. Il suo potere è
la conoscenza, sapere ogni mossa e i mezzi per controbattere, ma non ha mai
avuto un potere magico interiore elevatissimo. Persa la bacchetta,
probabilmente lo scontro sarebbe ad armi pari: non riuscirebbe ad evocare la
maggior parte degli incantesimi che conosce. O perlomeno spero. L’indemoniata
onniscienza che possiede, magari, può persino questo.
“Non te ne andrai via vero?”Ilai sospira nella mia mente e sento il muscolo del suo braccio tendersi
sotto le mie dita. Nego impercettibilmente con il capo, un piccolo sorriso che
mi spunta sulle labbra: “Mai senza di
te”. Lui scuote piano il capo, tra l’incredulo e il rassegnato, e alla fine
acconsente. Vedo nella sua testa che, se mi attaccassero direttamente, si
parerebbe davanti a me per impedire che mi succeda qualcosa, ma ricaccia
immediatamente quell’immagine, forse per impedirmi di conoscere i suoi veri
pensieri che mi sono comunque arrivati. Non
glielo permetterei mai.
Fingo un isterico
scoppio di pianto davanti a Dimitri, mentre biascico ad Ilai di andarsene
immediatamente, che non ho bisogno di lui, che non può succedergli niente come
è successo ad Hayden. Dimitri osserva la scena come se stesse a teatro, le
braccia conserte ed un sorriso sardonico sui tratti duri del viso. Lascia in
piedi la nostra pantomima solo per divertimento, sa perfettamente che, se anche
mi consegnassi a lui, non lascerebbe in pace Ilai. Forse gli concederebbe anche
di fuggire, per poi battere tutta la Terra alla sua ricerca per farlo fuori.
Odia Ilai più di quando odi Draco.
“Lascerai che se ne
vada? Mi prometti che sarà in salvo?” urlo sconvolta a Dimitri, voltandomi
verso di lui e continuando a piangere rabbiosamente.
Dimitri annuisce in
silenzio con un sorriso quieto, e simula persino con le dita un segno sul cuore
come se stesse facendo una promessa stupida ad una bambina. Ilai probabilmente
farebbe tre passi e poi morirebbe ugualmente… oppure aspetterà davvero che se
ne vada, visto che comunque Raissa è sempre presente.
“Io e Radcenko ce
la vedremo poi…” sussurra suadente e minaccioso al suo indirizzo “Vieni adesso
con me… e gli darò qualche ora di vantaggio…”. Annuisco continuando a piangere,
mentre Ilai finge ancora una sua resistenza e io lo spingo via con le mani,
urlandogli contro con eccessiva foga ed enfasi. Ma, ovviamente, meglio
esagerare. Sia Raissa che Dimitri, anche se quest’ultimo in modo più velato,
sono così presi dal tentativo di capire che cosa ci sia tra me ed Ilai che
esagerare non può fare altro che bene: più fingiamo di essere così legati da
impazzire al pensiero che all’altro succeda qualcosa, più loro perdono la
testa. Rivedono Ilai con Tatia, forse, e questo li fa ammattire. Raissa,
infatti, ha alzato lo sguardo ed è completamente presa da Ilai che continua ad
implorarmi di farlo restare, mentre Dimitri inizia nervosamente a serrare le
labbra mentre si inizia a spazientire.
“E’ il momento!” urlo nella mia testa, un secondo prima di
puntare la bacchetta contro la barriera e gridare con tutte le mie forze:
“FINITE INCANTATEM!”. Alle mie spalle, poco distante, Ilai fa la stessa cosa
nel medesimo momento, colpendo lo stesso punto che colpisco io e che ha visto
nella mia mente mentre lo puntavo. Il contraccolpo dei due raggi dorati, che si
fondono l’uno nell’altro diventando una sola saetta bronzo, è tale da farmi
perdere l’equilibrio mentre si solleva in aria un pulviscolo di foglie secche e
cartacce. Barcollo per qualche istante, prima di reggermi di nuovo sulle gambe:
l’onda d’urto del potere sollevata è stata enorme. Non vedo assolutamente nulla
per qualche secondo, tutto ricade in una polvere diffusa e in una miriade di
scintille luminose, ma cerco di recuperare immediatamente il controllo,
correndo in direzione di dov’era prima Dimitri. Ilai mi sorpassa correndo a sua
volta, ci rendiamo subito conto che l’Incantesimo congiunto ha funzionato e che
la barriera è caduta. Ilai corre molto più veloce di me e, improvvisamente, lo
perdo di vista finché sento una serie di tonfi ed un gemito trattenuto. Gelata,
agghiacciata, corro ancora in quella direzione con il cuore in gola, mentre con
la bacchetta e delle formule di rito cerco di diradare la polvere. Quando la
mia visuale torna limpida, mi rendo conto che Ilai ha raggiunto Dimitri. Deve avergli
mollato un calcio in pieno viso, perché Dimitri è in ginocchio, il volto un
mascherone di sangue e cerca di tamponare la feroce emorragia dal naso.
Velocemente, prima che raggiunga la sua bacchetta, riesco con un colpo a farla
volare nelle mie mani; immediatamente, senza la minima esitazione, la spezzo in
due con le mie mani. Intanto Ilai ha preso Dimitri per il collo, gettandolo per
terra per poi tenerlo supino, un piede sulla sua carotide. Dimitri annaspa,
tossisce, ma non si muove. Mi volto con preoccupazione, rendendomi conto che,
in tutto questo, Raissa non si è assolutamente mossa: guarda suo fratello ed
Ilai con aria afflitta, ma non accenna a muoversi. Qualcosa mi si accende
furiosamente nel cervello, una specie di spia luminosa, sembra tutto troppo facile, ma cerco di ignorarla: punto la
bacchetta in direzione di Raissa, intimandole di non muoversi. Lei non fa
assolutamente nulla, resta immobile come se non stessi nemmeno parlando con
lei.
Che Dimitri sia
rimasto sorpreso dalla nostra manovra, non è evidentemente un mistero: ha gli
occhi sbarrati, lo sguardo confuso e le labbra impregnate di sangue che
tremano. Eppure non fa nemmeno lui nulla per opporsi alla stretta di Ilai che
continua a tenere premuto il piede sul suo collo, bloccandogli la respirazione.
Al contempo, Ilai tiene ferma la bacchetta sulla fronte di Dimitri, digrignando
i denti, colmo di rabbia. È strano. Tutto
questo… è troppo strano.
“Non avevi detto
che eravamo arrivati alla resa dei conti, Karkaroff?” lo minaccia Ilai, premendo
il piede ancora sulla sua vena, Dimitri tossisce furiosamente. Mi impongo di
non distogliere lo sguardo, ripetendomi che ci ha spinto lui a questo e
ricordandomi tutto il male che ha fatto a me e ad Ilai stesso. Non voglio
lasciare solo Ilai, non voglio che si prenda la sola responsabilità di questo.
Se lui ammazzerà Dimitri, io farò lo stesso con Raissa. Lo dovrò fare,
altrimenti non ne usciremo più. Deglutisco pesantemente, guardando il cumulo di
stracci in cui si è trasformata.
Dimitri, dopo un
primo attimo di smarrimento, ghigna e guarda Ilai dal basso verso l’alto come
se fosse un insetto, lui in risposta preme ancora più forte sul suo collo al
punto da farmi temere che gli spezzerà l’osso. Tossicchiando, Dimitri aggiunge
con tono di sfida: “Dovevi andartene quando ne avevi ancora la possibilità,
Radcenko… ho già accettato che Malfoy toccasse la Granger una volta. Non la
lascerei mai a te, che già mi hai portato via Tatia. Non ti senti enormemente
idiota nell’affrontare una sfida che sai di perdere?”.
“Non sono io quello
che sta per andare all’altro mondo…” mormora Ilai spingendo la punta della
bacchetta contro la sua fronte, al che Dimitri scoppia a ridere con enfasi,
facendomi drizzare i capelli sulla nuca, mentre biascica: “Non credi forse che
io non abbia un piano B? E se va male, un piano C, D o E? Sono cinque anni che
aspetto di prendermi quella donna… e mi farei fermare solo perché ci sei tu e
perché avete fatto cadere la mia barriera? Scommettiamo che tra cinque minuti sarà
lei stessa a chiederti di lasciarmi andare?”.
Ilai lo guarda con
l’ombra di un sorriso sarcastico, convinto che stia mettendo in campo solo una
delle sue minacce. Io invece sento distintamente crescere la sensazione di
pericolo dentro lo stomaco, molto più di quanto non sia avvenuto fino a questo
momento. Il mio stesso sangue mi ribolle nelle vene e il sudore mi imperla la
fronte, mentre un timore ancestrale mi colpisce gli arti facendomi tremare la
bacchetta tesa. La strana stasi di Raissa, la presunzione calma di Dimitri… c’è
qualcosa dietro, di molto peggio di quello che ho visto fino ad ora.
Dimitri solleva
leggermente il viso, guardandomi con espressione tronfia, nonostante il dolore
provocatogli da Ilai. Si inumidisce le labbra prima di dire: “Questa volta,
Hermione Granger, tu sarai mia. E non intendo fermarmi davanti a nulla… a
niente, hai capito bene? Ho lasciato che ti consegnassi da sola, ho cercato di
convincerti ad abbandonare Radcenko come hai già abbandonato Malfoy…”, assimilo
le sue parole senza rispondergli, mentre prosegue: “… ma tu sei come Tatia.
Siete due maledette sciocche testarde… che vi andate sempre ad innamorare delle
persone sbagliate. Sei persino caduta anche tu nella stessa trappola di
Radcenko… ti sei persino innamorata anche tu di lui…”, continuo a non controbattere,
la testa che agghiaccia per quello che scommetto sta per dirmi.
Dimitri sorride
malevolo, e poi dice, lo sguardo allucinato: “Ma cinque anni mi sono valsi per
mettere le cose in prospettiva, Granger… me ne frego dell’amore, me ne frego di
chi ami, me ne frego se ti vuoi scopare Malfoy o Radcenko… me ne frego. Tu sei
mia, e lo sarai per sempre. Ti avrò nel mio letto la notte, nella mia casa ogni
giorno, e tu sarai tutto quello che ho sempre chiesto e mai avuto. Non amarmi…
piuttosto odiami, bestemmiami, ma intanto questo è quello che sarai… la morte
si è presa Tatia, a te non lascerò lo stesso onore, Granger…”.
“Cosa mi impedirà
di non uccidermi quando dovessi capire che non ho scelta?” mormoro, la voce che
trema “Cosa me lo impedirà, eh, Karkaroff? Anche se arriverà il momento in cui
non avrò più la speranza di farti fuori, io mi ammazzerò e ti maledirò assieme
a Tatia…”.
“Tesoro” commenta
Dimitri con un filo di voce “Tatia poteva anche uccidersi, l’ha tenuta in vita
l’amore idiota per Radcenko… e un giorno non è bastato più. E ha affrontato la
morte, sapendo che era il solo modo di liberarsi, scommetto che sapeva che
sarebbe morta, l’aveva predetto, ma non ha fatto nulla per impedirlo…”, Ilai a
quella parole raggela, ferito si stringe nelle spalle e Dimitri fa una lunga
pausa per godersi l’effetto delle sue parole. Poi prosegue sempre più
divertito: “Il tuo caso è diverso, Hermione Granger, tu non ti ammazzeresti mai,
lo so da quando sei stata mia ospite nel mio castello… perché c’è qualcuno che
ami molto di più di quanto ami Malfoy o Radcenko o chiunque altro su questa
terra. Non è così?”.
Improvvisamente,
con una scarica di brividi ghiacciati e gelidi, capisco di che cosa sta
parlando. Sgrano gli occhi, la bacchetta scivola dalle mie dita fattesi di
burro.
“Già, Hermione,
piccola…” sorride fintamente comprensivo Dimitri “Tatia non ha fatto in tempo a
diventare mamma… ma tu sì…”. Tutto di me improvvisamente muore, tutto. Mi
dimentico di tutto, di ogni cosa. La mente si annebbia, il cuore si oscura e la
vista viene meno. Mi sento richiamare al suolo come se fossi una marionetta
lasciata cadere giù. Mi aggrappo ferocemente con tutte le mie forze a Dean, al
pensiero che ormai dovrebbe averlo portato in salvo, penso che quella di Dimitri
sia solo una minaccia. La pelle del viso fredda, ghiacciata, le unghie che
affondano nei palmi, biascico: “Mio figlio… non c’entra nulla… prova a fargli
qualcosa e io…”.
“Tecnicamente,
Radcenko gli sta già facendo qualcosa…” ride Dimitri, suscitando la reazione
sgomenta di Ilai che non comprende assolutamente che cosa stia succedendo. Il
cuore mi balza in gola, l’ansia mi chiude il respiro e mi sento improvvisamente
svenire. Con furia, afferro di nuovo la bacchetta che è caduta al suolo,
incurante di tutto pronuncio la formula di Smaterializzazione concentrandomi
sulla casa di Draco dove i miei amici dovrebbero essersi rifugiati e dove Dean
ormai dovrebbe essere con Alex. Ma non succede nulla. Piangendo, balbettando,
convinta di aver sbagliato le parole, ripeto ancora la formula, ma ancora non
mi muovo, non succede assolutamente nulla. Un lampo tragico di comprensione mi
avvolge, con l’effetto di farmi piegare a terra, in ginocchio come una
supplice. Raissa… poco fa… l’Incantesimo non verbale, il bagliore aranciato.
Dopo non mi è sembrato che fosse successo nulla di visibile. Ed invece… ha reso impossibile la Smaterializzazione.
Dean non è mai arrivato… Alex è ancora dietro quel palco.
Resa cieca e pazza,
inizio a correre in direzione del palco come una fiera nella savana, ma immediatamente
qualcosa mi ferma. Ricado violentemente al suolo, sbattendo la faccia sul
pietrisco, che si bagna del mio sangue e delle mie lacrime. Sollevo lievemente
il capo per vedere che finalmente Raissa si è alzata in piedi e mi punta la
bacchetta contro, trattenendomi schiacciata a terra. Il suo sguardo è così
freddo e vuoto che capisco che la sua era solo la calma prima della tempesta:
nel tentativo di distrarla, lei alla fine si è convinta sul serio che mi sono
innamorata di Ilai. E adesso brama la mia morte più di quanto ha bramato la
morte di Tatia stessa. Certo, Dimitri non lascerà che lei mi uccida, ma non si
opporrà a che io soffra quanto più possibile. E mio figlio è ancora qui, pronto
a pagare per le mie colpe. Dovevo ucciderli subito, dovevo lasciare che Ilai lo
uccidesse, dovevo farlo io stessa. Il cuore mi si strappa dal petto, continuo a
dibattermi impotente ed urlo con tutte le mie forze, quando Raissa agita
pigramente il braccio verso il palco.
Quando vedo mio
figlio, curiosamente mi viene in mente il primo momento in cui l’ho visto:
dormiva profondamente, come se niente fosse. Un ciuffetto rado di capelli
biondi in testa, gli occhi chiusi e l’espressione infastidita. Le infermiere lo
avevano coperto bene, aveva un pagliaccetto celeste di lana pesante: era una
notte scura di aprile, pioveva a dirotto. In Sicilia le luci rade delle stelle
del porto di Favignana erano annegate nel cotone delle nubi nere e tutto
sembrava tremare dei lampi e dei fulmini. In tutto questo, mio figlio, dopo
essere stato lavato dalle ostetriche, se ne stava buono a dormire, un pugnetto
chiuso vicino al viso e le sopracciglia aggrottate. Quando me lo avevano
sistemato sul seno, lo avevo punzecchiato con un dito, sperando che si
svegliasse. Non so perché, ma mi dava quasi fastidio che dormisse: mi dicevo
che, cavolo, avevo aspettato tanto per vederlo, e lui adesso dormiva! Mi
sfuggii persino mentalmente che era l’atteggiamento tipico di un Malfoy… e
proprio allora decisi di chiamarlo Leo di secondo nome, come una stella, come
Draco forse avrebbe voluto chiamare suo figlio, come lo avevo sentito dire in
un ricordo con Helena.
E decisi anche per
il cognome Malfoy. Non si poteva chiamare in altro modo, non era un Granger,
non era un Weasley. Era un Malfoy, ce l’aveva nel sangue. Alex dormiva e
continuava ad aggrottare le sopracciglia apparentemente senza spiegazioni,
finché collegai che sembrava infastidito quando sentiva un tuono. Non
spaventato, non terrorizzato: infastidito. Per la serie, fatemi continuare a
dormire. Lo amai in quel preciso momento. Lo adorai sopra ogni cosa in quel
preciso istante. Non avevo sentito istinto materno durante la gravidanza, non
mi ero sentita madre nei nove mesi passati, avevo vissuto da pazza incosciente,
eppure mio figlio si era salvato. In quel momento, però, dal nulla mi sentii
inondare dall’amore per quel bambino dalla faccia dispettosa. Fu prima l’amore
veloce e rapido della mamma, quello che nasce quando riconosci la tua carne, il
tuo sangue, le tue ossa. Dopo fu l’amore della donna, perché sentivo Draco in
quel bambino piccolo e lo avevo di nuovo accanto a me. Con il passare dei
giorni, divenne un amore da innamorata, perché mi sono innamorata di mio
figlio. Ne scoprivo pieghe della pelle, curve delle braccia, riflessi delle
ciglia e lo trovavo perfetto. Mi chiedevo come potesse essere così perfetto, me
lo chiedevo sinceramente. Poi venne il suo carattere: i primi tentativi di
camminare, le prime parole, i primi capricci, i primi discorsi pieni di
ragionamenti arzigogolati, i primi giochi sempre al limite del pericolo, le
prime paure come quella dell’acqua che io stessa gli avevo trasmesso. E me ne
innamorai ancora, peggio di come ho amato Draco stesso. Perché tramite Alex,
amavo di nuovo lui… ed amavo anche me stessa, trovando un balsamo che mi
limasse dal dolore. Se avevo fatto nascere quell’esserino così meraviglioso,
forse non ero così sbagliata, forse qualcosa di buono l’avevo fatta, forse non
tutto era perduto.
Quella notte,
mentre se ne stava addormentato sul mio seno, mentre Ron lo guardava storto
cercando e trovando tutte le somiglianze con suo padre, ricordo distintamente
la prima parola che dissi a mio figlio. Mormorai solamente, un nodo in gola che
mi impediva di tenere la voce ferma: “Certo che se iniziamo così, andiamo bene…
sei uguale a tuo padre… ci manca solo che hai preso anche i suoi occhi…”. Alex,
come se mi avesse sentito, aprì gli occhietti, sollevò le palpebre raggrinzite
e mi guardò con uno sguardo tra la sfida e l’adorazione.
Non dimenticherò
mai quel momento, il nodo in gola che si scioglieva e le lacrime sul viso che
scoprì essere di commozione, e non di dolore.
Aveva gli occhi del
cielo in tempesta, mio figlio, aveva gli occhi della pioggia che cadeva fuori.
Aveva gli occhi di Draco.
E io mi considerai
la donna più fortunata del mondo, nonostante tutto.
Gemendo,
agitandomi, muovendomi come una anguilla catturata, impotente, incapace di
muovermi, vedo Raissa che, senza nessuno sforzo, solleva un braccio in
direzione del palco che viene avvolto da un bagliore perlaceo, prima che la
sagoma di Alex emerga dall’ombra. Addormentato, con gli occhi chiusi, come quel
primo giorno in cui l’ho visto. Con l’espressione infastidita, una mano attorno
al collo. Le scarpette rosse da ginnastica slacciate, come io non vorrei mai
che camminasse. La salopette di jeans mezza sporca di polvere, con ancora i
segni delle zampette di Biscotto sulle gambe. I capelli biondi spettinati. E
gli occhi grigi chiusi, gli occhi di Draco chiusi, gli occhi di mio figlio
chiusi. Perché li ha chiusi? Perché?
Urlo ancora, dibattendomi,
il volto sudato e bagnato di lacrime: imploro, piango, prego, chiamo mio
figlio, chiamo Draco, chiedo aiuto ad Ilai, ma nessuno mi ascolta.
“Se Radcenko toglie
il piede dal mio collo, magari tuo figlio si riprende, Granger…” biascica
ridendo Dimitri, guardando prima me e poi Ilai. Capisco anche stavolta senza
molto sforzo: ha fatto qualcosa, ha legato lui ed Alex, quello che accade a
Dimitri accade anche a mio figlio. E
stavo per ucciderlo, Ilai stava per ucciderlo. Urlo graffiandomi la gola ad
Ilai di lasciar stare immediatamente Dimitri, che quello che succede a lui
succede anche a mio figlio. Batto i piedi nella polvere, agito le braccia ed
affondo le unghie nel terreno, graffiando la terra impotente. Ilai libera
subito Dimitri, scioccato guarda Alex e dopo me. Stringe i pugni, intima a
Dimitri di lasciare stare mio figlio, ottiene solo che lui si alzi in piedi e
si asciughi il sangue che ancora gli cola dal naso. Flessuosamente, con un
movimento rapido, agita il braccio e immobilizza anche Ilai al suolo, prima di
sferrargli una serie di violenti calci negli stinchi. Ilai annaspa, geme, sputa
sangue, ma continua ad urlare a Dimitri di lasciare stare Alex. Raissa guarda
il pestaggio ormai indifferente alla sorte dell’uomo che ama.
“Il bambino è la
mia polizza sulla vita, Radcenko…” mormora Dimitri con cupo divertimento,
massaggiandosi il collo indolenzito e fermandosi finalmente. Io non lo guardo
neppure, vedo solamente Alex che finalmente si muove: resta addormentato ma non
si tiene più la mano sul collo. Continuo ad agitarmi, ma niente scioglie la
presa di ferro di Raissa.
“Lascia andare il
bambino, Karkaroff…” sibila ancora Ilai, con voce più greve, sputando sangue.
“Granger, è con te
che voglio parlare, non con il tuo ennesimo innamorato…” sogghigna Dimitri,
guardandomi dall’alto verso il basso con ingordigia, continuo ad urlare senza
voce e senza nemmeno intendere che cosa sto dicendo, pazza dal dolore e dalla
furia.
“Io e tuo figlio
siamo legati… l’avrai capito, no, Granger? Una precauzione, mettiamola così…
nel caso foste riusciti ad uccidermi, tuo figlio sarebbe venuto dritto dritto all’inferno con me…” mormora Dimitri, chinandosi
alla mia altezza e guardandomi in volto “Te l’ho detto che questa volta non
c’erano sconti… non c’è neanche quella troietta di Astoria a scocciarmi… non è
un’assimilazione completa, non è definitiva ed è ancora debole. Tuo figlio
sarebbe morto, adesso, se avesse subito quello che io ho subito da Radcenko…
tra tre giorni, però, diventerà definitiva. Quando sorgerà la luna piena,
Granger… ed io mi ammazzerò, portandomi dietro tuo figlio. In fondo, se non
posso avere te, posso anche andarmene all’altro mondo, no? Ma almeno farei in
modo che tu mi pianga sul serio…”, Dimitri fa una pausa colma di enfasi prima
di aggiungere: “…a meno che tu non ti consegni a me spontaneamente. E non mi
porti i cadaveri di Draco Malfoy ed Ilai Radcenko. Credo che sia un prezzo
equo, no? La salvezza di tuo figlio in cambio di quella dei tuoi amanti… in
fondo credo che tu lo debba a tuo figlio, no? Credo che tu gli debba di non
essere la puttana in calore che si fa sbattere da tutti quelli che le fanno gli
occhi dolci… o saranno più importanti loro, di tuo figlio?”.
“M-mio figlio non
c’entra nulla…” mormoro, piangendo, implorandolo, cercando i suoi occhi,
sperando che quest’ossessione malata che ha per me lo faccia rinsavire “Per
favore, ti prego Dimitri, per favore… lascialo andare… l-lascia in pace mio
figlio… e Draco, ed Ilai. È me che vuoi, verrò con te, farò tutto quello che
vuoi, tutto quello che chiedi… ma per favore, ti prego, lascia stare mio
figlio…”. Lui si china di più alla mia altezza, piegandosi su sé stesso, fino
ad accarezzarmi dolcemente il capo e ad asciugarmi le lacrime con le dita,
prima di aggiungere: “Scapperesti, fuggiresti, un giorno ti uccideresti. Oppure
loro ti verrebbero a cercare… no, tesoro, non deve esserci più nessuno tra me e
te. Uccidi Malfoy e Radcenko… e io lascerò libero tuo figlio… hai tre giorni
per pensarci…”. Mi accorgo di essere libera di muovermi un nanosecondo dopo che
Raissa e Dimitri sono scomparsi, evaporando come stelle nel mattino, assieme a
mio figlio.
Mi alzo in piedi,
mi guardo attorno, cerco di vederli e di localizzarli, ma nulla. Piango, urlo,
grido al cielo, biascico maledizioni ed insulti, imploro Dimitri di prendere
me, ma nulla, niente. Il cielo resta vuoto, la piazza resta deserta, il
bagliore di mio figlio che scompare è la sola cosa che mi si scolpisce nella
retina.
Sento delle voci,
mi volto furiosamente in quella direzione, ma sono babbani che accorrono dopo
tutto quel frastuono. Non ho la forza di fare nulla, piango e basta, vedo Alex
che sparisce, vedo solo Alex davanti ai miei occhi. Chiudo gli occhi, gemo, non
ce la faccio nemmeno a muovere un passo. Poi, sento una stretta forte al
braccio, uno strappo all’altezza dell’ombelico e vengo risucchiata via. Quando
riapro gli occhi, sono nel giardino della casa di Helena, il sole sta morendo
all’orizzonte, l’odore delle magnolie è quasi insopportabile, la casa riluce fredda
ed assente.
“Perché mi hai
portato via?!” grido senza motivo, sconvolta, graffiandomi il viso, ad Ilai che
se ne sta immobile, davanti a me, improvvisamente piccolo, minuscolo, curvo
sulla schiena sotto il peso di un fardello pesante tonnellate. Lo odio, odio
tutto, odio il cielo, odio il mare lontano, odio la mia carne, il mio sangue,
odio il mio respiro, odio che sono in vita e vorrei morire, e poi penso ad Alex
ed allora devo vivere per forza. Penso a come sorrideva quando ha visto
Biscotto, penso che lo dovevo proteggere, penso che sono la peggiore delle
madri.
Mi scaglio su Ilai,
lo prendo a pugni sul petto senza capire il perché di quello che sto facendo,
lo insulto, gli urlo di tutto, mi divincolo mentre cerca di abbracciarmi.
“Dovevi lasciarmi
stare lì! Loro potevano tornare! Si sono presi mio figlio… hai capito che si
sono presi mio figlio?! Devo tornare indietro, me lo devono ridare, che cosa
vuole da me, vuole che muoia, vuole che mi uccida, vuole che uccida qualcuno?!
Perché si sono presi mio figlio, il mio bambino?! Portami indietro, riportami
indietro, maledizione! Che cosa diamine vuoi anche tu, da me?!”. Continuo a
calciare, a battere i piedi, Ilai che mi trattiene per le braccia, non dicendo
nulla, sopportando tutto. Dentro, un buco si allarga a dismisura, mi ingloba,
mi svuota, mi rende morta dentro.
Batto forte i pugni
sul torace di Ilai, tento di spostarlo, provo a fargli male, desidero ucciderlo
perché così posso riportare mio figlio a casa. Ma lui non si sposta, resta lì,
immobile, le labbra serrate, gli occhi lucidi, la polvere dello scontro sul
viso. Lui resta lì, fermo come una montagna, e io non riesco a vederlo più,
piango e le lacrime lo coprono, non posso fargli male, non gli farò del male,
non ci posso riuscire, sono debole, piccola, sola. Ed Alex morirà tra tre
giorni. Riarsa dalla rabbia, continuo a scaricare colpi su colpi su Ilai, che
non cessano, che non diventano più deboli ma che rendono me ormai prossima al
punto di rottura. Finché lui, piano, lentamente, prende i miei polsi tra le sue
mani e mi attira vicino a lui, chiudendo le mie labbra con le sue.
Per un secondo, la sorpresa
per il suo gesto è tale da lasciarmi immota, le braccia ferme e poggiate sul
suo petto. Poi la rabbia esplode più cieca che mai, vorrei davvero ucciderlo
adesso, continuo a divincolarmi a costo di farmi male, lo colpisco ancora, mi
dibatto come una fiera catturata al lazo. Ilai, però, non interrompe la sua
pressione delicata sulle mie labbra, le sue mani lasciano i miei polsi e mi
trattengono stringendomi per gli avambracci. È un attimo, ma, dimenandomi,
finisco per accarezzare goffamente con le mie labbra le sue, trasformando quello
che era solo un contatto forzato e privo di senso in un vero e proprio bacio,
che improvvisamente diventa così indiscutibilmente giusto da farmi tremare le
ginocchia. Sento il sapore di Ilai e lo riconosco come nuovo, sa di qualcosa di
aspro come questo bacio strano, che è solo catarsi, solo esigenza, solo
purificazione. Mi strappa con forza il ricordo del bacio di Dimitri di cinque
anni fa, restituendomi a me stessa, mi si snebbia la mente piano, come se
improvvisamente tutto diventasse bianco ed accecante. Il buco dentro di me
diventa smisurato, ma adesso ne avverto solo il dolore, l’impotenza, l’angoscia
che sento per il mio bambino. La rabbia che mi teneva in piedi si sgonfia come
un palloncino. Nelle labbra di Ilai sulle mie, non c’è amore, non c’è
desiderio, non c’è passione. C’è solo bisogno, enorme, immenso, al punto che mi
affloscio come un bambola vecchia e mi accuccio tra le sue braccia. E dolore
sterminato, così incomparabile che nulla che mi ha fatto soffrire fino ad
adesso mi sembra paragonabile a questo momento, mi sembra che, se Ilai mi
dovesse lasciare andare adesso, io probabilmente mi spezzerei a metà. Mi tengo
assieme solo perché lui mi stringe ed impedisce che io vada in frantumi. La
resistenza delle mie braccia frana come se fossi di pastafrolla, mi aggrappo
alla sua maglia con le dita, chiudo gli occhi e singhiozzo devastata, grata che
le sue labbra mi soffochino le parole in gola e mi impediscano di articolare il
nome di mio figlio, cosa che mi graffierebbe dentro al punto tale da uccidermi
davvero adesso.
Amare dell’altro solo il dolore. Ecco che
cosa hanno finito per farci i Karkaroff.
È la sola cosa che ci è concessa, adesso.
Piano, lentamente,
quasi quando è certo che io davvero non vada in pezzi e possa reggermi da sola
in piedi, Ilai si stacca da me e resta così, fermo ad un tiro dei miei occhi,
le mani sul mio viso, l’espressione sofferente e distrutta come la mia.
Singhiozzo, fatico a respirare e guardo le sue spalle. Poco fa, lì c’era mio
figlio, c’era Alex che parlava a ruota libera e poi mi diceva che non voleva
che Ilai fosse sempre così triste. Le lacrime non si fermano, esplodo in un
singulto soffocato e mormoro come se me ne accorgessi solo ora: “Si sono
portati via Alex, Ilai…”.
Lui mi accarezza
piano i capelli e la nuca, apre la bocca piano e, dolorosamente, in un sospiro
spezzato sussurra: “Lo so, Hermione, lo so piccola…”, continua a ripetermi
questo mentre singhiozzo, mentre lo abbraccio e mi stringo nella sua maglia,
soffocando le lacrime dentro il suo petto caldo e saldo, che sembra non dover
crollare mai mentre mi aggrappo a lui. Delicatamente, mi prende di nuovo il
viso tra le mani, asciugandomi le lacrime con le dita, prima di sussurrare:
“Ascoltami, lo riporteremo a casa… non gli faranno del male, è legato a
Dimitri… non può succedergli nulla per ora, Hermione… abbiamo tre giorni… lo
riporteremo a casa, ok? Ti giuro che lo riporteremo a casa…”. Annuisco senza
forze, senza convinzione, senza il benché minimo sforzo perché tutto quello si
traduca in una qualsiasi volizione dentro di me. Ilai mi stringe piano, lascia
che i miei singhiozzi si calmino sulla sua spalla, mi tiene stretta a sé mentre
la luna prende il posto del sole. Resto immobile tra le sue braccia, incurante
del tempo che passa, la guancia poggiata sulla sua clavicola, gli occhi chiusi,
le lacrime che non smettono di scorrere. Sotto le palpebre passano lampi di vita
di mio figlio, nelle orecchie sento le sue parole affastellarsi una dopo
l’altra sin dal giorno in cui ha parlato per la prima volta. Ilai tiene un
braccio stretto attorno alla mia vita, mentre l’altra mano mi sorregge per la
nuca. Mi stringo forte al suo braccio teso, come se fosse il solo appiglio in
mezzo ad un naufragio. Mi tiene ancora stretta a sé, quando improvvisamente una
voce fende l’aria con la forza di una frustata.
“Mi avevano già
detto tutto… non c’era bisogno che venissi qui, Granger…”.
Aggrotto le
sopracciglia ed apro a malapena gli occhi, che mi bruciano come se ci fosse
finito dentro del sapone. Il vento mi soffia nelle orecchie, dandomi per un
attimo l’illusione che io mi sia solo sognata quella voce. Il labbro mi trema
in modo incontrollabile nel sentire l’eco di quella voce nella mia testa, dove
si mescola assieme tutto quello che ho amato nella mia vita. Sembrava Alex, il
mio bambino, ma adulto, uomo, capace di consolarmi e di reggermi in piedi come
io non sono stata in grado di fare con lui. Le lacrime tornano a premere contro
le mie palpebre e sento di nuovo l’istinto di abbandonarmi all’abbraccio di
Ilai, di chiudere gli occhi, di precipitare in un pantano privo di pensieri,
dove possa non rendermi conto di aver condannato mio figlio.
Però, non ci
riesco. Improvvisamente la schiena rabbrividisce di brividi, sebbene la
temperatura non sia cambiata. Mi si gela il cervello e mi rendo conto che anche
Ilai si è irrigidito, continua a trattenermi per la vita, ma la mano che teneva
poggiata sui miei capelli è scivolata lungo il suo fianco, privandomi del mio
appoggio. E sono costretta ad aprire del tutto gli occhi, fissando Ilai.
L’espressione, mentre lo guardo dal basso, è rigida, scolpita, cesellata nella
pietra: ha il labbro contratto, gli occhi neri fissi di fronte a sé, le spalle
chiuse. Qualcosa lo colpisce come una saetta nello sguardo e mi lascia andare,
imbarazzato, intimidito, come se il mio fianco scottasse. Mi ha appena baciato
ed adesso si fa problemi nel toccarmi? Lo guardo, cercando di capire, ma solo
allora mi rendo conto che non è me che guarda, non è di me che è preoccupato.
Guarda qualcosa davanti a sé, alle mie spalle.
Il cuore mi schizza
in gola, mentre lentamente mi volto su me stessa, barcollando per qualche
istante.
Miraggio, allucinazione, visione: non può
essere altro che questo.
Quello penso,
subito, quasi con un afflato di sollievo. Sono impazzita, ho perso la ragione,
il dolore mi ha sopraffatto al punto tale che ormai vedo cose che non ci sono.
Mi chiuderanno ben presto in una stanza dalle pareti imbottite e sarò il
pettegolezzo più di moda nel mondo magico per diversi mesi.
Il primo effetto,
sebbene sappia che è la mia mente a tendermi questo tiro mancino, è
un’incredulità potente come una botta in testa: poco gentile, improvvisa,
assolutamente destabilizzante. Le gambe mi tremano, il respiro si ferma, vado
in apnea per qualche secondo, il viso mi diventa rosso ed incandescente.
Cinque anni, e la
mia mente non si è mai dimenticata di Draco Malfoy al punto che, adesso, riesce
a ricostruirlo in un modo malato ed insano davanti ai miei occhi colmi di
lacrime. Nulla di lui è cambiato, nulla: è esattamente lo stesso di quella sera
di inizio luglio in cui ci siamo lasciati. Alto, le spalle larghe,
l’espressione arricciata di fastidio nobile, le braccia incrociate al petto, un
movimento del piede impaziente come se fosse in ritardo con la vita stessa e tu
fossi sempre e solo d’impaccio. Le labbra sottili e morbide sono serrate in un
moto di disagio, i capelli biondi sono sempre spettinati ad arte, le gambe sono
ben piantate per terra, gli abiti sono ordinati e puliti. Piango come una
bambina piccola, chiudendomi il pugno in bocca e socchiudendo gli occhi,
negando con il capo come a voler cancellare un brutto sogno. Perché sì, Draco
Malfoy, adesso, è solo un brutto sogno e la mia mente me lo deve cancellare
dalla vista. Non ho guardato gli occhi di quella visione, ma so come sono: sono
grigi, azzurri nel fondo, colmi di saette luminose come quelli di mio figlio. E
se alla mia mente è venuto in mente di assassinare il mio corpo, non poteva
scegliere sicario migliore. In pochi secondi, però, quando riapro gli occhi
nella nebbia del pianto, qualcosa mi taglia di netto il fiato, costringendomi a
considerare che questo, adesso, è qualcosa di ben peggiore di un incubo. La
luce della luna illumina come il faro di un palcoscenico l’uomo che ho davanti,
che mi guarda con qualcosa di diverso rispetto a prima. Gli occhi, sì, adesso
sono costretta a guardarli… e sono occhi stanchi, occhi di vecchio, occhi di
mare morto, occhi putrefatti. Scintillano di qualcosa che non ricordo, che non
riconosco, che la mia mente non avrebbe saputo creare.
Scintillano di chi
vede una persona che amava, cinque anni dopo.
Una vertigine
ancora mi coglie indolente, facendomi fare un passo indietro, mentre sento
l’istinto di cadere. E stavolta non c’è lui dietro di me a reggermi, come
quella sera al Petite Peste, come quella sera che lo lasciai a casa di Pansy
dopo che mi aveva chiesto di sposarlo. Stavolta c’è un altro uomo, un uomo
alto, un uomo distrutto, un uomo dagli occhi neri, un uomo che prima mi baciava
e adesso non mi tocca più, un uomo che si sente ladro sotto lo sguardo di
ghiaccio dell’altro. Perché era l’altro che baciava me, era l’altro che
abbracciava me, era l’altro che adorava me.
Ma soprattutto l’uomo
alle mie spalle ha tenuto sulle spalle mio figlio, l’ha conosciuto, l’ha
ascoltato, l’ha adorato tanto quanto me.
E l’uomo dallo
sguardo di ghiaccio, davanti a me, che stringe i pugni reggendo una valigia,
non sa nemmeno che esiste mio figlio.
Non sa nemmeno che
esiste suo figlio.
E’ suo padre, dannazione. È il padre di mio
figlio, ed Alex adesso non c’è, Alex adesso è addormentato, o forse è sveglio,
o forse piange, o forse mi chiama, o forse ha paura del buio, o forse chissà
che fa. Alex non c’è a chiedergli se gli piacciono le carote, se davvero non si
toglieva mai i calzini, se davvero ha gli occhi suoi, se davvero non è
diventato un Mangiamorte perché non poteva uccidere nessuno, se davvero ha una
sorellina che si chiama Serenity. Alex non c’è, non è tra le mie braccia a
guardarlo sospettoso, non sta camminando vicino alle sue gambe con aria
indagatrice, non sta soppesando la somiglianza che ha con lui. Perché gli
assomiglia così tanto che mi sta spezzando il cuore.
Era questo, dunque,
che volevano da me, gli spiriti, gli angeli, le anime, i diavoli e i santi:
ecco che volevano. Come una pazza, come un’isterica, come una che ormai è
lontana dall’avere un barlume di ragione nel cervello, guardo Draco con
espressione spiritata trattenendo una risata che sarebbe solo nevrotica,
malata, inspiegabile. Lui non capisce, piega la testa di lato come faceva
sempre, lascia finalmente la vista di Ilai per tornare su di me ed accorgersi
che c’è qualcosa di strano. Nei suoi occhi mi vedo riflessa con i capelli
spettinati, i graffi sparsi sul viso, la polvere addosso, la camicetta
strappata, gli occhi gonfi di lacrime, le labbra arrossate e screpolate: mi
vedo come una superstite di guerra, come una vittima, come una profuga. E vedo
le onde dei suoi occhi calmarsi, tornare oceani limpidi e cristallini,
riempirsi di preoccupazione e di una cosa che non riesco a decifrare. Qualcosa
di dolciastro, di stonato, di stridente con lui. Pena, pietà. Gli faccio pena, pietà.
Chiudo gli occhi,
il respiro che diventa veloce, le unghie che mi feriscono l’interno dei pugni
chiusi.
Non ti azzardare a guardarmi così, non ti
azzardare a preservare negli occhi un minimo segno di quelli che eravamo cinque
anni fa, non ti azzardare a cancellare questi anni come se non esistessero.
Non ti azzardare a cancellare mio figlio
come se non esistesse, come se non l’avessi portato dentro, come se non fosse
nato in una notte di aprile, come se non me l’avessero strappato dal petto
cinque minuti fa. Non ti azzardare, adesso, ad essere bello come sei sempre
stato, ad essere il desiderio confuso che tu mi baci ancora, sempre e per
sempre, ad essere l’amore sorto e mai morto, ad essere domande che sorgono
fulminee e muoiono dentro l’orgoglio e il dolore. Non ti azzardare a guardare
l’uomo che mi è vicino come guarderesti un insetto, come guardavi Hayden, come
guardavi Dimitri, come ricordavi Dean. Non ti azzardare a guardarmi ancora,
come se mi spogliassi ancora, come se ancora mi conoscessi, come se ancora mi
capissi. Non ti azzardare, mai, e poi mai ad indugiare su un ricciolo che
tiranneggiavi, sul lobo di un orecchio che baciavi, su una spalla su cui
respiravi, sulle labbra che tormentavi. Non ti azzardare a chiamarmi per nome.
“Hermione?!” la sua
voce strascicata mi chiama con un velo di sollecitudine che ha l’effetto di
finire di mandarmi in pezzi, facendomi incendiare come una steppa bruciata.
Perché ho capito il prezzo di quello che avevo chiesto al cielo, alla vita,
alla morte e ai giorni intercorsi e passati. Volevo Draco indietro, e ora ce
l’ho. Ma non mi avevano detto quanto costava questo desiderio.
L’ho avuto. E si
sono presi mio figlio. Nostro figlio.
Occhio per occhio,
dente per dente: destinata ad avere nella vita un solo paio di occhi tempesta
alla volta.
Ed adesso i soli
occhi che vorrei non sono i suoi. Voglio solo quelli del mio bambino.
È un attimo, un
solo secondo singolo che mi getta nel baratro. Lui che chiama il mio nome, lui
che dice Hermione ed io ormai che vado in frantumi.
Tutto si confonde,
tutto sparisce, tutto diventa l’esatto contrario di quello che avrei provato
stamattina se, al posto di Raissa, ci fosse stato lui: allora, nonostante
tutto, sarei scoppiata a piangere, avrei dimenticato tutto, avrei chiamato Alex
a gran voce e gli avrei detto che era il suo papà. Adesso, senza Alex, non
riesco nemmeno a respirare da quanto ho l’impressione che tutto, tutto di Draco
Malfoy, mi faccia male. Più lo guardo, più lui mi guarda e più mi sento morire.
È un attimo, un
solo secondo e perdo il controllo: mi scaglio su di lui come se fosse la mia
vittima designata e come se l’avessi cercata per anni. Draco non capisce,
ancora mi guarda con quello sguardo di pena che mi fa solo infiammare di più,
trattiene i miei polsi mentre cerco di colpirlo e di schiaffeggiarlo.
“Granger si può
sapere che diamine hai?!” mi ripete, cercando di fermarmi e tenendomi ferma,
mentre continuo a dibattermi, piangendo ed urlando, singhiozzando e respirando
a fatica al punto che le mie parole all’inizio non le capisce, non le intende,
non le ascolta. È più forte di me, come sempre, come sempre è stato, e riesce a
trattenermi immobile così che non lo possa colpire, non gli possa fare del
male. Mi guarda stranito, gli occhi grigi socchiusi, le labbra chiuse e livide,
e io riesco solo a pensare a quanto lo ami, a quanto siano calde le sue mani
sui miei polsi, a quanto vorrei che mi spogliasse adesso e mi baciasse. E non
l’ho mai odiato tanto per questo.
Non riuscendo a
colpirlo con le mani, non riuscendo nemmeno a reggere un altro secondo sotto i
suoi occhi spalancati, mi metto ad urlargli contro: “Volevi che ti dicessi che
mi odio per essermi innamorata di te?! Eccotela qui! Mi odio da quello
stramaledetto giorno in cui sono entrata al Petite peste! Era questo che
volevi, era questo che vuoi?! Eccotelo, dritto in faccia! Mi dovevi lasciare in
pace! Mi dovevi lasciare in pace, maledetto bastardo!”, non lo riesco a ferire,
non prova nulla, come è ovvio che sia, glielo ha già detto Astoria tutto questo
cinque anni fa e lui pensava che fossi io, ci ha già fatto i conti con tutto
questo. È solo meravigliato, sorpreso che ancora adesso io sia così arrabbiata
con lui, soffre un po’, stringe le labbra ma non prova nient’altro.
Non lo sopporto, al
punto che riprendo ad urlare, stavolta piangendo così forte che la mia voce si
spezza un paio di volte: “Ti dovevi sbattere per forza la Karkaroff, vero? Anzi
no, dovevi decidere di sposartela vero?!”, adesso finalmente qualcosa cambia
nella sua algida espressione, stringe gli occhi e le spalle tremano un po’,
mentre la presa sui miei polsi si allenta. Continuo ad urlare, la gola che mi
fa male: “Dovevi trattenere per forza quella donna nella tua vita, vero? Non ci
sapevi stare senza una donna da farti la sera, vero?! Quanto tempo è passato da
quando ci eravamo lasciati? Due giorni, due ore, due minuti?! O te la facevi
anche mentre stavamo assieme?!”. Non so più nemmeno io che cosa sto dicendo, so
solo che l’ho ferito al punto tale che mi lascia di istinto i polsi e resta immobile
a guardarmi, come se gli avessi davvero tirato uno schiaffo. I suoi occhi sono
insopportabili, sono troppo chiari… troppo da Alex. Non ce la faccio più.
Gemo, chiudendomi
nelle braccia come a mantenere unita la gabbia toracica, e sputo fuori: “Non ti
perdonerò mai, mai, per avermi fatto questo… mai…”, Draco ancora non parla,
ancora non dice nulla, resta lì, immobile, il viso inespressivo, gli occhi
spenti. Biascico nervosamente, singhiozzando senza ritegno: “Se solo tu… se
solo l’avessi mandata via… se solo… adesso… non ci fossero stati… e io fossi
venuta qui… e non ci fosse stata… e…”, mi rendo conto subito che ormai sono
arrivata allo stremo, le gambe mi cedono e il buio inghiotte la mia vista,
mentre sussurro: “… adesso mio figlio sarebbe ancora qui…”.
La forza di gravità
mi attira famelica a sé, mentre mi affloscio come un fiore secco. Chiudo gli
occhi, un ronzio cupo nelle orecchie, ma non sento il contraccolpo del terreno.
Un paio di braccia mi sostengono subito, muovendosi rapide e tenendomi per la
vita, prima di sollevarmi e di prendermi in braccio. So subito, nelle nebbie
dell’incoscienza, che non è Draco, ma che è Ilai. Hanno un calore diverso, un
profumo diverso, un modo di stringermi diverso.
Anche le loro voci
sono diverse, profondamente diverse.
Quella di Draco è
lenta, strascicata, roca, profonda. Dice solo, un accenno tra lo sconvolto e il
furibondo: “Che cosa è successo a suo figlio?”.
Quella di Ilai è
calma, rapida, dolcissima, triste. Risponde, lo stesso accenno sconvolto e
furibondo di Draco: “La tua futura moglie e Dimitri Karkaroff lo hanno
rapito…”.
L’ultima cosa che
sento, prima di scivolare via nel sonno, è la domanda che Draco rivolge ad Ilai.
La voce incerta, tremante ed al contempo caparbia, decisa, rancorosa.
Sono stati questi cinque anni o siamo
sempre stati così?
Sento solo la
domanda di Draco, e ha l’effetto quasi di svegliarmi. “Sei il marito di
Hermione?”.
Ilai non ha ancora
risposto, mentre perdo del tutto coscienza.
Chiedo enormemente
scusa per le mie mancate risposte alle vostre stupende recensioni, scusatemi
davvero! Ma questa settimana mi laureo e ho avuto solo il tempo di caricare il
nuovo capitolo…L
Se volete contattarmi più velocemente, potete trovarmi su fb! Il gruppo si
chiama PUT A SPELL ON HER EYES, e questo è il suo indirizzo… https://www.facebook.com/groups/putaspellonhereyes/487515674636120/?comment_id=487765394611148¬if_t=like
! Ancora grazie a tutti!!:D
RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Draco ed Hermione sono riusciti a
fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton,
che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per
uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione,
ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno,
le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere
nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo
l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un
luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la
ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito.
Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia
conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico
modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per
lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da
Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a
Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi
sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa
Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri
necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale
demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per
questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di
ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione,
non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di
Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione
distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che
misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano
la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità:
decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro
è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i
tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono
costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il
Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà
avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa
sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza,
raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in
moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del
tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato
Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino
della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di
Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata
con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco,
cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di
Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli
eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata
l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne
rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague,
proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la
determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di
catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava
precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di
camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende
di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di
fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la
possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di
non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci
giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry
e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per tre
mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta,
fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della
morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per
cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un
incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto
nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad
Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la
conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che
Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da
Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile
contatto tra le due. Tatia non voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque
anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione
riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove
era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova
una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni e dove lei
le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente
ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e
Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come
fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da
sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff,
specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato.
Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere
casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua
una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato
Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie.
Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean,
Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity
chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che
Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di
andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui
la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è
andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco
chiama il vincitore del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran
voce il nome di Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente
da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma
con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed
Hermione, usa un Incantesimo per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più
ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé
stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha
solo tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che
Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di
Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco
ricompaia nella sua vita.
Capitolo 40 – You weren’t there part 1
Il sonno non mi salva, non mi porta sollievo. Nell’incoscienza ogni
respiro è una pugnalata e ogni sospiro è un ago conficcato nella mia pelle. Non
dimentico, non trovo pace. Continuo ad agitarmi come se fossi avvinta da
milioni di miliardi di tentacoli ombrosi che mi chiudono il fiato. Mi hanno
sepolta viva in una tomba di nebbia, dove non mi è risparmiato il dolore,
sebbene non ne ricordi il motivo. Inferno.
Devo essere all’inferno. Fa caldo, tanto, la pelle si attacca addosso come se
si fosse fatta piccola per il corpo e ho l’impressione di urlare come se mi
stessero lacerando viva.
Ma le parole non escono o peggio nessuno le ascolta.
Attorno a me ne sento altre, di parole. Tutte confuse, tutte ronzanti,
tutte ugualmente insignificanti ed inutili come stracci vecchi.
Ne distinguo solo una, misericordiosa, che si accompagna ad una lieve
pressione sulla mia fronte. Ha un tono duro, sconfitto, colmo di livore. Eppure
si stempera in un accento morbido, soffice, che ha l’odore dell’erba nel mese
di settembre. Dice solo Requiesco. L’incantesimo
per dormire per chi è troppo stanco, distrutto o triste per farlo.
E finalmente riesco a prendere sonno.
Forse cammino da ore, o da anni. Forse cammino
dall’inizio della mia stessa vita: la fronte si imperla di sudore freddo, non vedo
il sole, non sento la luce, eppure il caldo è torrido, soffocante,
insopportabile. Le gambe mi fanno male come se fossero elastici in tensione da
mesi, ho paura che un solo singolo movimento le faccia rompere del tutto,
fuscelli secchi nel vento polveroso.
La cosa peggiore è che non riesco nemmeno a
pensare di fermarmi, continuo a muovermi con l’urgenza della salvezza che
spinge il naufrago a galleggiare nel mare scuro.
Gli occhi sono incollati, non riesco ad
aprirli, le palpebre sono pesanti serrande di ferro ed acciaio calate sulle mie
iridi. Non riesco ad immaginare nulla di quello che avviene oltre i miei occhi
chiusi, ho la percezione confusa dell’aria stagnante di un deserto, quando non
so nemmeno come sia fatto un luogo del genere. Il mio stesso corpo continua a
muoversi, sballottolato a destra e sinistra, senza controllo come se fossi su
una specie di barca malferma. Mi sforzo ancora, ma gli occhi non si aprono. E
non mi fermo. Continuo a camminare, arsa dalla sete e bruciata dal caldo.
D’improvviso, qualcosa di freddo si poggia
sulla mia guancia. È un sollievo immediato, immenso, vitale. Riconosco le
fattezze di una mano piccola, sottile, da donna. Per quanto, però, mi sforzi,
non riesco comunque ad aprire gli occhi e questo mi comunica un ulteriore senso
d’angoscia. Però la mano sul mio viso mi fa fermare e mi dà sollievo, quindi mi
lascio andare al suo profumo di fragola, respirando di avido sollievo. Una voce
argentina, da ragazzina, sussurra con tono lamentoso: “Forse ce l’hai dentro
già adesso…”.
Le parole della donna fluiscono senza peso nel
mio cervello, le perdo appena le ho ascoltate. Le mie labbra spaccate si aprono
piano e biascico, sentendo di stare sanguinando: “Chi sei? Dove sono…? Questo…
è un sogno, vero?”. La mano della ragazza trema un pochino sul mio volto,
mentre dice piano: “Che sia un sogno o meno non implica che non sia reale,
no?”.
“Chi sei?” chiedo ancora, sgomenta, forzando
ancora gli occhi che restano chiusi.
“Sai perfettamente chi sono…”.
La consapevolezza mi avvolge come un manto
fresco, respiro ancora e mi sento più calma: “Tatia?”. La voce annuisce roca,
non lasciando il mio viso.
“Perché sei qui?” mormoro con un filo di voce,
pensando contemporaneamente che l’ultima volta che ho visto una persona defunta
in sogno, era un inganno di Astoria. E se adesso fosse lo stesso?
Se fosse stavolta Raissa ad ingannarmi?
Tatia, però, scioglie subito il mio dubbio,
ribattendo ai miei pensieri nascosti con decisione: “Raissa non ti direbbe mai
quello che sto per dirti adesso…”.
“Che cosa?”.
“Hai già tutto quello che serve, Hermione
Granger…” la voce prosegue senza rispondere alla mia domanda, la pressione sul
mio viso è tiepida e dolce “Hai sempre avuto tutto, Hermione Granger. Solo che
non lo sai, non l’hai mai saputo. Anche stavolta sarà così…”. Mi sento ancora
sbattuta avanti ed indietro come un giocattolo conteso, oscillo senza riuscirmi
quasi a tenere in equilibrio al punto di sentire la nausea. La mano di Tatia
sul mio viso è il solo punto fermo attorno a me. Gli occhi mi lacrimano dalla
voglia di aprirli, un tenue bagliore aranciato compare dietro le palpebre,
mentre l’odore di fragola si fa più forte.
“Io non capisco che cosa vuoi dire…” blatero
affannosamente, le labbra che si spaccano ad ogni mia parola, sento il sapore
metallico del sangue sulla lingua. La mano di Tatia aumenta la sua pressione
sulla mia guancia, come se stesse richiamando la mia attenzione su qualcosa
prima di aggiungere: “Questo luogo… è per i Profeti. Nessuna altra anima
avrebbe potuto incontrarti… ma tante avrebbero voluto farlo. Tantissime…
l’inferno echeggia del loro pianto…”. Continuo a non capire che cosa mi sta
dicendo, la bocca è impastata dalla sete e fatico a restare sveglia.
“Solutiodamnationis…” bercia affannata Tatia, come se avesse poco
tempo ma le sue parole continuano a non avere alcun genere di senso per me.
“Non capisco…” ripeto ancora, sentendomi
maledettamente stupida. La polvere soffia addosso alla mia faccia, levandomi il
fiato, tossisco come se stessi per soffocare.
La voce di Tatia diventa improvvisamente
imponente, grave, rimbombante. Il vento aumenta di intensità, la presa della
sua mano sulla mia guancia viene meno e mi sento quasi spostare dal turbine
d’aria. Annaspo non riuscendo a respirare, mentre Tatia urla assieme alle voci
di quelle che mi sembrano centinaia, migliaia, milioni di persone.
La nenia infernale diventa ossessiva nel mio
cervello, cerco di ripararmi dal vento come meglio posso, ma alla fine mi sento
trascinare via.
Urlo, cercando di trovare un appiglio, mentre
gli echi di quel canto continuano a rimbombare.
Nell’ombra di un sonno senza pace, sento solo
Tatia dire: “La collana, Hermione… la collana… non togliertela mai…”.
Al risveglio mi accoglie una giornata calda ed afosa, dalla luce
ombrosa e scontenta di un’umidità soffocante. Gli occhi fanno fatica ad aprirsi
e la gola arde di sete repressa: non so per quanto tempo abbia dormito, un
tremendo cerchio alla testa e il tremore nelle membra mi avverte che comunque è
stato troppo poco. Gli echi del sogno fatto tornano ad ondate progressive,
sotto le palpebre ancora chiuse, ma non ricordo granché del contenuto. C’era
Tatia, una serie di voci che dicevano qualcosa che non riesco a ricordare… il
caldo, come quello di ora… e quell’avvertimento sulla collana.
D’istinto, la mia mano scatta al collo dove il ciondolo con la goccia
di sangue è ancora al suo posto.
Il desiderio di una madre per suo figlio.
Quell’associazione di idee mi riporta tutto alla memoria come un film
proiettato in un cinema oscuro: l’incontro con Raissa e Dimitri, il rapimento
di mio figlio. Mi si stringe il cuore come se me lo stessero stritolando,
tossisco come se effettivamente qualcuno mi stesse ammazzando dall’interno. Eppure,
nonostante tutto, ho l’impressione confusa di sentirmi meglio. Il dolore, la
preoccupazione e l’ansia sono sempre lì, basta che getti un’occhiata confusa
per rendermi conto che Alex non c’è ed andare in panico… ma tutto questo,
adesso, è una parte molto più piccola della rabbia enorme che provo. Immensa,
sterminata, da corrodere stomaco e fegato. E la rabbia diventa azione, diventa
volizione, diventa impossibilità assoluta che a mio figlio capiti qualcosa.
Non esiste nessun mondo, nessun universo e nessuna vita, dove a mio
figlio succeda qualcosa di brutto, senza che io non sia morta prima per
proteggerlo.
Respiro profondamente ancora ad occhi chiusi, sono uscita dalla guerra
ed avevo a che fare con il peggior mago oscuro della storia. Avevo da difendere
Harry e Ron, ce l’ho fatta ed avevo solo diciassette anni. Adesso ne ho molti
di più, sono l’ex Capo degli Auror e si tratta del mio bambino. Chiudo i pugni
con ferocia lungo i fianchi, arriverò ad uccidere chiunque si metta tra me e
mio figlio se ciò sarà necessario e non ne proverò nemmeno il minimo senso di
rammarico. Non dovevano farlo, non dovevano coinvolgere Alex… adesso hanno
firmato la loro condanna a morte.
Devo solo capire come riuscire a batterli, ci deve essere un modo
qualunque, deve esistere. Persino Voldemort aveva un punto debole, per loro non
può essere diverso.
Tatia ha detto… che ho già tutto quello che mi serve. E mi ha detto di
non togliermi mai la collana… la sola cosa che mi sembra di avere, adesso, è
questa. Forse c’è un modo per farla funzionare, per invocare il suo potere che
è legato al fatto che io sia la madre di Alex e che adesso ho il desiderio di
trovarlo e portarlo in salvo. Devo solo capire quale.
Un passo per volta, Hermione, un passo per
volta. Non pensare a nulla, non pensare ad Alex per ora, non pensare a quanto
la sua vita dipenda da questo.
È solo un’altra indagine, solo un’altra
ricerca come ne hai fatte tante: ce la farai anche questa volta. Pensa solo a
questo, adesso.
Ho tre giorni: ce la posso fare.
Riapro stancamente gli occhi, accorgendomi solo adesso di essere in
una stanza dalle pareti azzurro oltremare. Guardo distrattamente i muri, la
mente ingolfata da mille pensieri, non riconoscendo nulla che mi aiuti a capire
dove mi trovo. Sono stesa su un letto dalle lenzuola candide, che emanano un
gradevole odore di lavanda. Accanto al letto, un comodino di acero bianco con
sopra una lampada azzurra e un libro chiuso. Seminascosta dal lume, una cornice
dorata con dentro una foto. I miei occhi la guardano senza curiosità, ha i
contorni bruciacchiati e devo strizzare gli occhi nella luce del mattino per
capirne i soggetti. Con un groppo in gola, il cuore che fa un balzo sinistro,
riconosco l’immagine sorridente di Helena ed Amos Diggory.
Sono nella stanza di Draco.
È un attimo, sbagliato ed assolutamente inopportuno, ma non posso
fermare i miei occhi che vagano adesso attenti, nella stanza. È diversa,
completamente, dalla camera che aveva al Petite peste. Ogni cosa qui mi fa
sentire che ha ripreso a vivere, che non esiste per inerzia, che probabilmente
sta bene. Senza di me. Le tende sono
aperte e chiare, ha una finestra su un giardino di betulle, da lontano vede il
mare. Sulla parete di fronte, c’è una grandissima libreria di acero sempre
bianco. Ed anche se i libri non possono parlare, mi trasmettono calore,
vicinanza, abitudine consolidata di leggere ed imparare avidamente curioso.
Sotto alla libreria c’è una piccola scrivania, un computer e dei post it.
Chiamare Tim e confermare per partita venerdì.
Idraulico: 356897868
Pennarelli a cera per Serenity.
Ha degli amici con cui programmare delle partite. Ha delle piccole
scocciature come le riparazioni da fare in casa. Ha dei pastelli da comprare a
sua figlia e di cui magari si dimentica.
Ha una vita normale, serena, tranquilla. E vorrei che questo mi
rendesse felice, mi facesse piacere, mi comunicasse gioia… ma invece mi fa
sentire solo la bocca impastata. Nel fondo dello stomaco, la rabbia aumenta
esponenzialmente, come un turbine di vento che sta per esplodere. Perché di
Raissa non c’è traccia, ma io so che c’è, so che ha dormito qui, so che ha
visto quei libri.
So che c’è lei nei vuoti lasciati da me e da Helena: e io non posso
accettarlo, non ci riesco nemmeno a pensarlo, mi fa persino schifo questo letto
dove forse hanno dormito assieme.
Mi tiro bruscamente a sedere, appallottolando le lenzuola e
scagliandole lontano, chinandomi su me stessa nel cupo rigetto che mi fa venire
voglia di vomitare. Nella parete alla mia sinistra, a cui prima di fianco davo
le spalle, sono appese centinaia di fotografie in bianco e nero. Le guardo con
la coda dell’occhio, piegata in due, una mano premuta sulla bocca.
Ha persino una nuova passione: la fotografia babbana. Forse non
dipinge più. Sono tutte diverse e tutte a loro modo bellissime: lo scorcio di
un albero in giardino; il mare in tempesta; Serenity che si ingozza di
ciliegie… e, mescolate ad esse, come se non ci fosse nulla di strano, ce ne
sono altre che mi fanno stringere il cuore come se scoppiasse.
I suoi nonni. I suoi genitori. Qualche altro parente, distinguibile
per i tratti affilati del viso e i capelli biondi. Compagni di casa a
Serpeverde. Amos Diggory. Helena. Seth. Gli altri del Petite Peste.
Ma non io, assolutamente: non sono nemmeno sullo sfondo di quelle
fatte al Petite Peste. Una è stata fatta la sera del Tourquoise Party, ed io
non ci sono. Ci sono solo lui e Trey. E non c’è nemmeno Pansy in quelle di
scuola, come se con perfezione chirurgica ci avesse tagliate fuori dalla sua
vita. Si è riconciliato con tutto, con tutti, persino con i suoi genitori ed
Helena anche se non ci sono più.
Ma con me e con Pansy, no.
La nausea, se mai era possibile, cresce ancora di più e mi ricorda per
un parallelismo idiota, quando ero incinta di Alex e ne soffrivo parecchio, o
perlomeno per quel poco che ricordo mentre ero nella prigione di Dimitri. Io
ero dall’altra parte del mondo, a straziarmi l’anima per lui e a raccontare
storie su un padre che non aveva, a nostro
figlio… e lui se ne stava qui, ad appendere foto e a cancellarmi da ogni
ricordo. Vorrei strapparle una ad una, renderle carta straccia. E la sensazione
si acuisce quando noto degli spazi vuoti, dove la vernice appare scrostata.
Segno che c’erano altre foto, una decina forse, tolte di recente.
Se ci fossimo state io e Pansy, non avrebbe avuto motivo di toglierle,
specie ora. Ed invece probabilmente se le
ha tolte c’è solo un motivo.
Dovevano portarmi qui… e in quelle foto, c’era
anche Raissa.
C’era anche la donna che ha osato puntare una bacchetta contro mio
figlio, contro nostro figlio.
Se lo può tenere il suo letto comodo, la sua vita meravigliosa
sbandierata in faccia, la sua figlioletta adorabile, la sua pace dei sensi, la
sua pena e pietà da fiera addomesticata… non resterò qui un secondo di più, in
questa casa e sotto questo tetto. Mi tiro di colpo giù dal letto, registrando
sommariamente che indosso ancora i vestiti del giorno prima, anche se forse con
un banalissimo Gratta&Netta non appaiono più
sporchi come prima. Controllo ancora una volta di avere il ciondolo di Tatia al
collo, prima di apprestarmi ad uscire, quando piano la porta della camera si
apre, provocandomi uno spasmo al petto e facendomi rimettere seduta come se le
gambe si afflosciassero.
Nella stanza fa capolino a testa bassa Dean, cosa che mi fa respirare
daccapo. Ha l’aria stravolta, i capelli spettinati, gli occhi rossi e
cerchiati. Non appena mi vede sveglia, fa una smorfia sofferente e mi sorride
tirato: “Ti sei svegliata… come ti senti?”. La sua vista mi impedisce di
parlare normalmente, mi ricorda improvvisamente la mancanza di Alex e mi fa
desiderare che qualcuno mi stringa forte, fino a soffocarmi, fino a ridarmi il
calore che non so dove se ne sia andato lasciando il mio sangue freddo e
ghiacciato. Per un attimo goffo e confuso, rivedo Draco per come lo ricordo da
ieri sera: le spalle larghe, l’espressione seria, le braccia tese. E desidero
un suo abbraccio con una nettezza così sconvolgente da farmi tornare la nausea.
Come sempre, il mio cuore fa sempre i comodi suoi quando si tratta di lui, al
punto da farmi dimenticare tutto come se effettivamente fosse la sola persona
al mondo. Ma poi, la sensazione di amputazione che mi causa il fatto che Alex
non sia qui, mi fa tornare subito in me, gelando ogni altro istinto. Ed improvvisamente,
come un fulmine, mi ricordo anche dell’ultimo abbraccio che ho avuto. Ilai. E del bacio… la sola cosa
consolante è che sono talmente assorbita dal pensiero di mio figlio da non
potermi dibattere nel dissidio, solo accennato dal corpo e dalla mente, di
chiedermi se desidero di più un altro bacio da Ilai o un singolo abbraccio da
Draco. E’ facile rispondere, adesso: rinuncerei ad ognuno di loro con il
sorriso più chiaro ed aperto del mondo, se in cambio riavessi Alex.
Ma non alla maniera che suggerisce Dimitri… cioè che io li uccida.
Ovvio… anche se la parte più arcana del mio essere madre, ogni tanto, mi fa
interrogare su questa possibilità, subito la ricaccio con sdegno. Io posso
essere solo l’assassina dei Karkaroff, adesso, non di altri. Tantomeno di loro
due… specie considerando quanto, in un modo così diversamente scomodo, ami
tutti e due. Li amo alla maniera stupida di una bimba di cinque anni: basta che
esistano in qualche parte del mondo per farmi stare tranquilla. Ormai, però,
sono ben oltre i concetti banali di essere innamorata o altro.
Figuriamoci se mi interessa il mio destino sentimentale adesso: se non
avessi fatto di tutto per trovare Draco, mio figlio sarebbe ancora qui. E non
farò più l’errore di mettere me stessa davanti ad Alex, se avrò di nuovo la
possibilità di riaverlo indietro. Quindi, non mi pongo la benché minima domanda
con una così immensa serenità che vorrei solo non averla acquisita a causa
della perdita di mio figlio.
“Un pochino meglio… grazie…” biascico nervosamente, rispondendo a Dean
che intanto si è seduto sul letto poco distante da me. Si torce le mani in
grembo, quasi graffiandole, e non mi guarda in viso, cosa che non è decisamente
da lui. Non ricordo una sola singola volta in cui non mi ha guardato in faccia,
mentre mi parlava, nemmeno quando stavamo assieme ormai una vita fa. Non appena
apre bocca, respirando a lungo come per darsi coraggio, capisco il perché.
“Mi dispiace…” le sue parole sono graffiate e grevi come se
provenissero da qualcosa di più profondo della sua stessa voce “Mi dispiace
tanto, Hermione… io… non ho potuto fare niente… t-tu mi avevi affidato Alex ed
io invece… se io ti avessi affidato Charisma, tu l’avresti salvata… ne sono
certo… sono un emerito buono a niente…”.
Gli prendo subito le mani tra le mie, cosa che lo fa trasalire ed
alzare lo sguardo lucido su di me. Gli stringo forte le dita quasi facendogli
del male, prima di dire: “Dean, questo non lo devi nemmeno pensare… non è stata
colpa tua… non l’ho pensato nemmeno per un momento. Né io, né Ilai siamo
riusciti a fare nulla… ed eravamo lì, davanti a loro…”, la mia voce si spezza,
deglutisco rumorosamente cercando di calmarmi mentre Dean stringe più forte le
mie mani. Gli sorrido, grata, prima di proseguire: “Sono troppo forti, troppo potenti…
non abbiamo i mezzi per contrastarli… e non avresti potuto fare nulla, anche se
fossi stato lì…”. Sospiro, trattenendo un pensiero: se Raissa non avesse
impedito la Smaterializzazione e Dean fosse arrivato… adesso piangerei la sua
morte, ne sono certa.
Non si sarebbero fatti il benché minimo scrupolo a farlo fuori.
“Ho cercato di smaterializzarmi un sacco di volte…” prosegue Dean,
guardando fisso davanti a sé, le palpebre fremono di frustrazione “Poi ho
capito che c’era qualcosa che non andava… e ho cercato di smaterializzarmi nel
punto più vicino possibile a dove eravate voi… ma era a tre chilometri e quando
sono arrivato, voi non c’eravate già più… Ilai poi ci ha raccontato tutto…”.
Annuisco con il capo, ovviamente l’avevo immaginato, ma non ne fatto nella mia
testa alcuna colpa a Dean. Ha già rischiato la vita per me e per mio figlio e
lui non è propriamente solo al mondo: ha Pansy e Charisma, e comunque non
dovevo mettere nemmeno lui così a rischio. La sola responsabile, qui, sono io,
inutile girarci attorno.
“Non avresti potuto fare nulla, Dean…” mormoro stancamente, sospirando
“Davvero… te lo posso assicurare…”.
Lui annuisce a sua volta e mi appare un pochino più tranquillo, con
mio enorme sollievo. Al momento non posso sopportare che nessun altro stia male
per questa storia. Il rumore terso del mare in questa giornata di inizio estate
riempie il silenzio tra me e lui, mentre i miei occhi restano fissi sulla
parete bianca, cercando di non guardare nient’altro della vita di Draco, i cui
particolari trasudano da ogni piega dei muri. Resto cosciente di me stessa solo
per le mani che, spasmodicamente, sono chiuse in quelle calde di Dean.
“Nel caso te lo stessi chiedendo…” aggiunge Dean dopo un po’, con voce
quasi canzonatoria “… di sotto si gioca alla grande al gioco del silenzio,
credo che ne verrà fuori un bel torneo…”. Mi viene da sorridere come una scema
e mentalmente ringrazio Dean come sempre per essere la mia ancora di salvezza
in queste situazioni.
Farmi sorridere, adesso, è forse la cosa più impossibile che esista. E
lui ci riesce sempre.
“E chi vince?” aggiungo con un filo di voce, guardandolo di lato.
Finalmente il suo sguardo torna come sempre ha fatto su di me, suggerendomi che
almeno apparentemente non si sente più in colpa come prima. Inarca un
sopracciglio con flemma, prima di rispondermi schioccando la lingua:
“Certamente non vince Seth…sta
ciarlando da ore… ma vista la situazione, è meglio che ci sia lui…”.
“Di cosa sta parlando esattamente?” chiedo quasi spaventata, le mani
che mi tremano. Non lo perdonerò mai se osa dire qualcosa che non dovrebbe a
Draco.
Dean borbotta annoiato: “Di tutto… e di niente… del Petite Peste,
della gente che ci lavorava, di Kevin… ma Malfoy lo sta a sentire… quindi
insomma va tutto bene, almeno gli sta dando un intrattenimento…”. Rimango in
silenzio per qualche secondo, riflettendo tra me e me, prima che Dean risponda
alle mie domande silenti: “Nessuno ha parlato o sta parlando di te o di Alex,
Herm… credo che siamo tutti d’accordo nel dire che è una tua responsabilità e
scelta decidere che cosa dire o meno a lui… compreso il fatto che quello che è
stato rapito è anche suo figlio…”.
Annuisco con un profondo sospiro, una fitta poderosa al centro esatto
del petto che mi fa mancare il fiato prima che io replichi sommessamente:
“Grazie…”. Dean sorride lievemente, accarezzandomi il dorso della mano con il
pollice con affetto e calore. Prima che me ne renda compiutamente conto, chiudo
gli occhi e mi lascio andare all’enorme stanchezza e disperazione che mi attanagliano
il fiato, la colonna vertebrale si piega e poggio la testa sulla spalla di Dean
con un sospiro, gli occhi sempre serrati.
“Quello che so per certo, adesso, è solo che voglio andare via di
qui…” sussurro con un filo di voce, trattenendo con tutte le mie forze il
pianto che già si affaccia sotto le mie palpebre, pungendomi come centinaia di
aghi arroventati. Dean sospira ancora, sento il battito regolare del suo cuore
tramite le vene del collo e mi dice rassicurante: “Lo avevi già deciso in fondo,
no? Avevi già deciso che non volevi vederlo e non volevi dirgli di Alex… e i
tuoi motivi…”.
“… non sono cambiati…” lo interrompo con veemenza, schiarendomi la
voce “Tutto, in questa casa… dalle cose più piccole a quelle più grandi… mi è
estraneo, scomodo, ostile. È come se avesse svoltato un angolo cinque anni fa
ed adesso io fossi qui a pretendere di riportarlo indietro… e non c’è forse più
nulla di lui da riportare indietro davvero… è passato troppo tempo, si sta per
sposare, ha una figlia… e non gli direi mai adesso di Alex… non voglio che si
occupi di lui perché è in pericolo, perché glielo deve, perché adesso sono qui
e sono così maledettamente terrorizzata all’idea di perdere mio figlio da
vendere persino l’anima al diavolo… lo dovrebbe fare perché lo vuole, non per
altro… e certamente non gli permetterei di decidere della vita di mio figlio…
sono sua madre da cinque anni… lui sarebbe suo padre da cinque minuti… e poteva
sapere di lui se avesse voluto… ed invece… non mi ha mai cercato…”.
“Ma se lui, in fondo, potesse davvero aiutarti?” obietta Dean
debolmente, lasciando le mie mani per chiudermi le spalle con il suo braccio
come a sostenermi meglio. Sorrido amaramente: “Lui non sa niente di Raissa,
Dean… o di Dimitri, o di tutto il resto… non potrebbe fare nulla… ed adesso non
ho il tempo materiale, né la voglia, né la forza di affrontare anche lui… o di
metterlo di fronte al fatto che la sua… fidanzata…
è un’assassina… ed una bugiarda… meno che mai voglio metterlo di fronte al
fatto che è il padre del mio bambino… impazzirebbe, manderebbe tutto a ferro e
fuoco e credi che io adesso possa sopportarlo, in vista di un ipotetico aiuto
che potrebbe darmi? Mi darebbe solo il colpo di grazia… meglio che stia fuori
da questa storia, adesso… sa che Raissa è la responsabile della sparizione di
mio figlio… e quindi sa che non è una santa. Per adesso, ciò dovrebbe
bastargli… se mai questa storia finirà bene… allora penserò a me e a lui…
adesso non me lo possono chiedere…”. Per qualche secondo, Dean resta in silenzio,
i versi dei gabbiani fuori dalla finestra sono la sola cosa che rompe questo
manto di pensieri nascosti, poi lui bisbiglia con decisione: “Qualsiasi cosa tu
scelga… qualsiasi cosa tu decida… io sarò sempre dalla tua parte, Herm… e lo
sai…”.
Sorrido grata, staccandomi da lui e guardandolo in viso, ed annuisco
con il capo, incapace di parlare, la voce bloccata in gola.
“Troveremo Alex… e lo riporteremo a casa…” mi rassicura ancora,
accarezzandomi fraternamente il capo “In fondo deve diventare mio genero…”. Mi
viene ancora da ridere per questa storia di Alex e Charisma assieme che si è
infilato in testa, e scuoto il capo incredula.
“… ed anche Pans sarà dalla tua parte… te lo posso assicurare…”
aggiunge con convinzione, alzandosi in piedi e stiracchiandosi come un gatto.
“Questo lo vedo difficile… è più probabile che uno squalo diventi
vegetariano e si ingozzi di alghe da mattina a sera…” commento scettica,
guardandolo dal basso verso l’alto. Dean fissa il muro davanti a sé, gli occhi
gli si piegano in un accenno quasi triste prima che replichi con voce piatta:
“Hermione, tu sicuramente sei la persona che maggiormente ha sofferto in questa
storia. Non voglio minimamente contestare questo… stai soffrendo ancora,
terribilmente, e tuo figlio è la seconda vittima di questa vicenda… forse, e
concedimelo, Alex è chi ha subito e sta subendo più di tutti. Perché è un
bambino, è innocente ed è stato privato del padre… e credimi, so che cosa
significa… adesso forse anche di più, da quando sono padre anche io…”. Incasso il
colpo, sospirando, me lo ricordo il giorno in cui Dean ha scoperto finalmente
che il suo vero padre era un Mago, ucciso dai Mangiamorte dopo aver sposato una
babbana, a cui aveva sempre tenuto nascosta la sua vera identità per
proteggerla. Dopo la morte del padre sua madre si è risposata e Dean è vissuto
con molti fratellastri e sorellastre. Aveva ovviamente sempre avuto il sospetto
che suo padre fosse un mago dati i suoi poteri, ma non aveva potuto
dimostrarlo: qualche anno fa, poi, finalmente avevano trovato delle carte ad
Hogwarts in cui si indicava come studente Tassorosso un tale Christopher
Thomas, suo padre, appunto. Ricordo quanto pianse quel giorno, ricordo che
passammo la notte svegli a parlare dei ricordi che aveva del suo vero padre,
morto quando aveva solo tre anni, e di quanto amasse comunque il compagno di
sua madre, Mark, il padre delle sue sorellastre e fratellastri, ma che non
fosse mai riuscito a chiamarlo papà. E ricordo anche che, dopo quella volta,
Dean non volle mai più, nemmeno per scherzo, affrontare l’argomento di suo
padre. Adesso, che come mi ha sommariamente detto Pansy, anche sua mamma è
morta, il fatto che tiri fuori suo padre, è una cosa decisamente seria che
improvvisamente mi fa sobbalzare internamente nella mia decisione di non dire
nulla a Draco di Alex. Poi, ancora dentro di me, mi riprendo: sono casi diversi
e storie diverse. O meglio, sono la stessa cosa.
Il padre di Dean volle proteggere lui e sua madre, io sto cercando
disperatamente di proteggere mio figlio.
Ed anche me stessa. Ogni tanto, posso anche essere egoista se ciò
coincide con il benessere di mio figlio. Questa storia è troppo grigia e fosca
perché io ci butti dentro mio figlio, senza alcuna garanzia. Specie adesso… che neanche è qui accanto a
me. Annaspo ancora, chiudendomi il petto con le braccia, e riprendo ad
ascoltare Dean che prosegue: “Quindi non proverò a dirti che mia moglie ha
sofferto quanto te o quanto Alex… ma ha sofferto anche lei, Hermione. E molto.
Malfoy non si è fidato di lei, se ne è andato, non ha provato a contattarla per
cinque anni senza chiederle spiegazioni o chiarimenti. E in questi cinque anni,
lei ha affrontato un trasferimento in altro paese, un nuovo lavoro, una nuova
vita. Si è lasciata alle spalle Zabini e non ti sto a dire quanto questo sia
stato un tormento continuo per lei… e per me. Si è innamorata di un
Mezzosangue, ha avuto una bambina, si è sposata…”, Dean sospira e si scompiglia
i capelli ad arte, come quando è nervoso e agitato, poi soggiunge: “Lo voleva
accanto, lo voleva vicino… era il suo migliore amico… e non c’era. Specie
considerando che lui l’avrebbe aiutata a capire come affrontare l’onta di
essere innamorata di un Mezzosangue…”. La voce di Dean scimmiotta un tono
scandalizzato, che mi fa sorridere tristemente, prima che concluda: “Ce l’ha
fatta da sola e, se ci penso, magari è un bene. Ma a conti fatti, Hermione… è
normale che adesso sia tutta e completamente dalla tua parte… forse lo sarebbe
stata lo stesso, checché ne dica lei, perché sei madre come lei e la nascita di
Charisma l’ha resa empatica in queste cose… ma è anche perché si tratta di
Draco. Il suo egocentrismo potrebbe anche farle perdonare che lui abbia
abbandonato te, ma non che abbia abbandonato anche lei…”. Annuisco
sovrappensiero, rendendomi conto di quanto Dean abbia ragione. È vero, magari
poteva persino esistere un goffo e sciagurato universo in cui io perdonavo
Draco per quello che mi aveva fatto, accettavo che fosse stato ingannato da
Astoria e dimenticavo che sta per sposare Raissa, questo ovviamente prima che
lei rapisse mio figlio. Ma, anche se tutto questo fosse accaduto, per Pansy non
sarebbe cambiato niente. Se l’è lasciata alle spalle senza riserve, senza
pensieri e senza ripensamenti. Non l’ha cercata mai in cinque anni, convinto
che lei sia stata la creatrice del germe che mi ha separato da lui, come
Astoria gli ha fatto credere. E lui non ne ha mai dubitato, mai, neanche per un
istante.
Al posto di Pansy, anche io probabilmente non ne vorrei sapere nulla
di lui, specie considerando quanto invece lei abbia accettato la mia relazione
con lui.
Ne sta vivendo persino una identica, a sua volta.
“Certo, non credere che non faccia effetto…” asserisce Dean con un
sorriso tra il sardonico e il soddisfatto “Quando Ilai è entrato con te in
braccio e Draco che vi seguiva a ruota, Pansy è spuntata dalla cucina
sconvolta… e non ha fatto una piega quando l’ha visto, né quando lui ha provato
a parlarle, né quando ha autenticamente sbarrato gli occhi nel vedermi lì e
nell’intuire che siamo sposati ed abbiamo una figlia… ma quando Pansy resta
così indifferente è solo perché non lo è affatto. Gli ha solo detto, quando di
nuovo ha provato a parlarle: - Adesso
devo occuparmi di Hermione- … credimi, stavo per svenirci sul colpo… cosa
avvenuta dopo avermi baciato in modo decisamente plateale e dopo aver
apostrofato Charisma con il suo nome completo, comprensivo del cognome… se non
è arrabbiata, vuol dire solo che sta diventando ancora più bipolare, cosa che
mi porterebbe all’acquisto di un’autobotte di ansiolitici… e sto risparmiando
per mandare Char in una scuola privata, non voglio fucilarmi i risparmi… quindi
mi auguro caldamente che sia arrabbiata…”. Nonostante tutto, ancora, mi viene
da sorridere e vedo la tensione colpevole di Dean rilassarsi di minuto in
minuto. Sta cercando volutamente di prendere la cosa nella maniera più leggera
possibile, malgrado la questione decisamente seria di Alex, e lo ringrazio
enormemente per questo.
“Quindi che cosa devo aspettarmi, scendendo di sotto?” mormoro con un
sorriso stanco, stiracchiandomi e guardando Dean in attesa. Sono felice,
davvero, che ci sia lui qui, adesso. A parte cercare di farmi sorridere, Dean è
l’unico che al momento è davvero sincero con me: Pansy sarebbe troppo dura,
considerando che ce l’ha anche lei con Draco, e Seth sarebbe troppo morbido,
considerando che è fissato che io e lui ci apparteniamo a vicenda, eccetera,
eccetera. Dean è l’unico che adesso ha una visione lucida delle cose.
Ce l’avrebbe avuta anche Ilai una visione
lucida delle cose… anzi avrebbe avuto la visione che meglio leggeva dentro di
me… ma al momento, dopo essersi baciati, non credo proprio che sia il caso di
chiedere qualcosa del genere a lui.
Dean ci pensa su qualche secondo e poi dice: “Ilai non c’è… appena è
rientrato con te in braccio, ti ha portato qui e si è allontanato. Credo che si
sia accorto che Malfoy lo guarda come se lo volesse sbranare… ed in fin dei
conti siamo sempre a casa sua, di Malfoy intendo…”, ecco, perfetto, ci mancava
anche questa. Io ed Ilai non stiamo assieme, tecnicamente mi ha baciata lui e
sarebbe facile adesso rinnegare tutto quello che ho vissuto con lui fino ad
ora, visto che c’è Draco adesso. Ma non funziona così, non funziona affatto:
Ilai sia per me quello che è, Draco non deve permettersi di trattarlo come
trattava ai tempi Hayden. Qua è tutta diversa la faccenda… specie se sta pure
per sposare Raissa. La gelosia da ex tradito se la può benissimo tenere.
“Pansy al momento è con Charisma e Serenity… l’ho costretta ad uscire
di casa per portare le bambine al parco…” bofonchia Dean con una smorfia,
testimoniando che non è stato semplicissimo costringere la moglie ad andarsene
“Ma non credo che tornerà tardi… Serenity aveva scuola anche oggi…”.
Dean respira a fondo, e poi aggiunge: “E Seth è con Malfoy, te l’ho
detto… e difficilmente si schioderà da lì… quindi preparati ad affrontare anche
lui…”.
Certo, come se avessi la forza di affrontarli entrambi… ma Seth deve
capire che questa vicenda, sebbene lo coinvolga moltissimo, non lo riguarda. È
tra me e Draco. E non voglio alcuna intromissione, nemmeno da parte sua. Voglio
solo andarmene da qui quanto prima e salvare mio figlio. Non ho altri pensieri,
al momento. Diventerò una bestia con chiunque mi impedirà di pensare solo ed
esclusivamente ad Alex. Fosse anche Seth, a cui voglio un bene dell’anima.
“E riguardo a me sono a tua completa disposizione…” sorride ancora
Dean, dandomi una piccola spallata affettuosa. Ripensandoci, lo prendo
immediatamente in parola, è forse la sola persona in grado di velocizzare le
mie ricerche mentre io mi occupo di Draco.
Sommariamente gli spiego il contenuto del mio sogno, il messaggio di
Tatia sulla collana e il fatto che celerebbe la possibilità di realizzare il
desiderio di una madre, ma che non so assolutamente come possa essere
utilizzato. Non voglio correre il rischio di sprecare questo desiderio con un
uso sbagliato del ciondolo stesso. Cerco di ricordarmi il maledetto canto
infernale che sentivo nelle orecchie, ma al momento sono solo suoni confusi ed
inarticolati che ho dimenticato, quindi lascio perdere. Dean annuisce,
annotando mentalmente le mie istruzioni, prima di bofonchiare ironico: “Certo
che devi volermi proprio bene per affidarmi questa missione… cosa che
comporterà marcire sui libri che, come ben sai, io adoro…”.
“Se vuoi ti faccio affrontare il doppio plotone Malfoy – Green e vado
io a fare ricerca…”.
“Pensandoci bene, ho sempre adorato
leggere…”.
Sorrido ancora e saluto Dean con una mano, mentre si Smaterializza in
Diagon Alley per cercare notizie e libri al riguardo. Restiamo d’accordo che,
non appena lasciamo la casa, cosa che sarà a breve, lo avviserò in modo che lui
possa raggiungerci quando avrà finito.
Non appena Dean sparisce, l’aura di rabbia e dolore che mi avvolgeva
ritorna prepotentemente, accompagnata dalla neonata ansia al pensiero di dover
scendere di sotto ed affrontare Draco. Il ricordo di lui di ieri sera è ancora
scolpito nella mia testa: non mi è stato indifferente, affatto.
Adesso, a mente lucida e contorta dall’angoscia, chissà se sarà peggio
o meglio.
Decido di prendermi tutto il tempo di cui ho bisogno, sebbene il mio
cuore si maceri sempre dall’ansia per Alex: razionalmente, al momento, non
posso fare nulla se non affidarmi al ciondolo di Tatia. E di quello se ne sta
già occupando Dean. Devo stare calma e tranquilla, e sistemare quanto prima la
faccenda con Draco, che implica, per forza di cose, rinviare tutto a tempi
migliori. Noto una porta che evidentemente conduce al bagno di Draco, su una
sedia c’è la mia valigia e decido quindi di cambiarmi: trattengo il fiato di
fronte ai vestiti di Alex ancora confusi con i miei e stringo forte l’angolo
della scrivania per non scoppiare a piangere. Scelgo velocemente un vestito
azzurro dalla cintura bianca e corro in bagno, chiudendo la porta a chiave.
Dentro, l’odore di Draco è quasi soffocante: ha una nettezza così scandita
adesso, che faccio fatica a pensare che me ne fossi dimenticata in questi anni.
Con la solita ironia che la vita ha spesso con me, l’ho cercato tanto ed adesso
mi fa quasi venir voglia di rimettere.
Specie quando, su una mensola, noto un piccolo recipiente di vetro
screziato rosso: profumo all’ambra grigia, un profumo femminile, il profumo di
Raissa. Senza nemmeno prendere nozione di quello che sto facendo, afferro la
piccola bottiglietta ed, offuscata, la getto rovinosamente contro il pavimento,
rompendola in mille pezzi che provvedo a calpestare con rabbia sotto le mie
scarpe.
Il labbro che mi trema, il respiro manchevole, mi spoglio e mi infilo
sotto la doccia, lasciando che l’acqua lavi via tutti gli odori della giornata
precedente uno peggiore dell’altro; il bagnoschiuma di Serenity, ancora alla
ciliegia dopo tutti questi anni, mi ricorda Helena, ma lei, oggi, è la
benvenuta nella mia memoria. La sento forse più vicina di quanto sia stata mai.
In fondo ha tradito anche te.
Quando mi asciugo e mi rivesto, mi sento lievemente più calma, il
profumo distrutto di Raissa e quello di Draco si sono fusi in una miscela
innocua che mi consente di respirare più serenamente.
Faccio qualche passo nella stanza, in tondo, come un’anima in pena,
poi comprendo che forse si sono già resi conto che mi sono svegliata, quindi
decido finalmente di scendere di sotto.
La porta si apre con uno stridio che è peggio di quello registrato nei
film dell’orrore, sebbene abbia cercato di fare in silenzio. Maledicendomi, la
riaccosto con delicatezza e respiro profondamente, la nuca che gronda sudore
freddo. Se almeno ci fosse Ilai, adesso, con me… forse sarebbe più semplice. No, mi contraddico. Sarebbe più
complicato, ancora. Meglio essere sola, dopotutto.
Percorro il lungo corridoio bianco, affiancato da cinque porte di
acero bianco, tutte ugualmente chiuse, cosa che benedico perché ci mancherebbe
anche essere presa dalla curiosità di guardare dentro e di spiare altri
particolari della vita di Draco che, al momento, non mi è vitale conoscere.
Anzi che non mi è vitale conoscere proprio mai… chissenefrega di come diamine vive…
Avanzo nel corridoio fino alle scale, tenendomi raso al muro, peggio che
se fossi ubriaca, e reggendomi con la mano come se fossi cieca. Ad ogni passo
le voci provenienti da piano di sotto si fanno più chiare e nette,
costringendomi a deglutire in preda ad una sensazione simile al soffocamento.
Sento la risata di Seth, ed il tono di voce basso e profondo di Draco, che ha
l’effetto di farmi fermare in mezzo al corridoio con l’insano proposito di
tornare indietro, chiudermi a chiave e non uscire più. Poi, come lo scoppio di
un petardo, ricordo Alex ed il coraggio mi riavvolge velocemente, turbinando
come vento nello stomaco. In pochi passi, arrivo finalmente alla scala che mi
preparo a scendere, la sensazione di vertigine che continua a non passare.
E poi sento Seth scusarsi sommessamente e Draco rispondere che non c’è
problema. Lo sento terrorizzata dire che torna subito, ne odo distintamente i
passi all’interno del salone fino all’androne davanti alla porta d’ingresso,
proprio sotto la scala che sto iniziando a scendere io.
Non c’è modo di scappare, non c’è modo di nascondersi. Forse non ci
sarà mai.
È lì, sotto di me, ed è un attimo, un secondo, un fulmine prima che
sollevi il capo e si accorga di me, fermandosi di botto. Entrambi, senza
nemmeno rendercene conto, ci siamo aggrappati al corrimano della scala,
ovviamente in due punti diversi.
È inutile che uno anche provi a pensare che non faccia effetto: nello
sguardo ci ritroviamo ad inseguire le tracce che ci siamo lasciati
nell’espressione, nei gesti, nella postura, e cerchiamo con ossessione i segni
che qualcun altro possa avere scavato in nicchie e cavità, dove prima c’eravamo
noi. Non sono abituata più ad avere i suoi occhi così vicino; ieri sera ero in
parte convinta che fosse un sogno e poi ero così devastata che non ci ho fatto
caso. Ora che sono più lucida, mi rendo conto che è davvero qui, davanti a me,
adesso. E’ qui, Dio santo, non lo dividono da me mille chilometri e mille anni,
mille vite e mille giorni, è diviso da me solo da una scala, che adesso chissà
se saprei scendere senza rovinare al suolo. Ed è assurdo, incomparabilmente
illogico, che lui non sia cambiato, che sia sempre così biondo, sempre così
alto, sempre così elegante, sempre così bello da farmi girare la testa ed
accendere dentro anche solo guardandolo, al punto che la mano che stringo sul
corrimano si irrigidisce, si piega, diventa livida perché davvero è il solo
punto fermo attorno a me, il solo. E sarebbe così facile, così maledettamente
semplice e veloce, correre adesso su queste scale, piangere finalmente e
volargli tra le braccia, perché in quegli occhi, in quello sguardo, lui ce l’ha
ancora scolpito dentro ed addosso che mi stringerebbe, mi abbraccerebbe, mi
cullerebbe piano come ha fatto per soli dieci giorni della mia vita. E magari
fingeremmo entrambi che ci stringiamo perché in fondo siamo amici, quando io e
lui amici non lo saremo mai: nemici o amanti, non esiste via di mezzo. Però ce
lo diremmo, ci diremmo che è solo un abbraccio da ex nostalgici, ci
sorrideremmo imbarazzati perché i nostri corpi coincidono ancora e si
incastrano perfettamente, nonostante gli anni e i cambiamenti. Ma seguirei la
linea delle sue braccia desiderando che mi spogli, cingerei la sua schiena
implorandolo che mi baci, mi farei stringere solo sperando che sia lui il primo
a cedere.
Tra me e lui è sempre così: non è amore, adesso. Se penso all’amore,
io vedo Pansy che lascia andare Dean, confidando che torni. Tra me e lui, è
rimasto tutto fermo, immoto, congelato nel rogo di amarci inesauribilmente,
senza pensare a nulla. Lo capisco da lui che mi guarda e stringe le labbra, da
come accarezza il mio viso, da come tremino le sue mani, da come segue le linee
che il mio vestito tratteggia. E lo capisco da me stessa che quasi dismetto
orgoglio, dolore e rabbia perché mi prenda ancora.
Ma non funziona così: non avrebbe funzionato cinque anni fa, che prima
o poi avremmo dovuto fare i conti con il presente ed il futuro, e non funziona
adesso che io sono una madre, e tutto di me mi dice solo e soltanto che sono
una madre. Nulla di Hermione Granger deve sopravvivere.
Tra me e te non ha mai funzionato… basta
raccontarci frottole. Ed è un caso che mio figlio sia anche il tuo.
In quella piega degli occhi, si è annidata
Raissa, la vedo, la sento, la percepisco, me l’immagino che fa l’amore con te e
geme tra le tue braccia.
E tu, lo so, che cerchi Ilai nel mio viso, e
ti lascio cercarlo perché magari così siamo pari, magari così fa meno male,
magari così ti perdono.
Ed invece ancora non funziona, perché è
diverso, enormemente diverso.
Affastellando scuse su scuse, giustificandomi e
condannandoti, alla fine perdo solo tempo. E non ne ho. Devo pensare a mio
figlio.
Basta perdere tempo con una cosa che non
funziona.
Sospiro a fondo, dandomi ancora la forza che credo non avrò mai: se
ieri sera non riuscivo a guardare gli occhi di Draco, pensando a quelli di
Alex, oggi curiosamente sono scintilla e coraggio. Ripensando a mio figlio,
riesco a tenermi alla giusta distanza anche emozionale da Draco e a non
lasciarmi travolgere dalla nostalgia. Distolgo lo sguardo da lui, fissando un
quadro ai lati della scala, e mormoro nel tono meno acido che mi riesca: “Mi
dispiace esserti piombata in casa all’improvviso…”. Lo sento distintamente
accogliere le mie prime parole dopo cinque anni con un silenzio che ricordo
perfettamente che con lui non preannuncia mai nulla di gentile o piacevole.
Rotta la stasi dell’incantesimo muto di saperci di nuovo vicini, adesso
ovviamente dobbiamo tornare ad essere noi stessi. E il nervosismo alle mie
parole lo sento già mulinare dentro di lui. Fa qualche passo, salendo un solo
gradino, mentre io non lo guardo ancora, le spalle che mi tremano.
Poi prende e fiato e dice sarcastico: “Puoi anche chiedermi scusa
perché hai calpestato i tappeti, se è per questo…”. La sua voce è sempre la
stessa, identica: roca, severa, a tratti canzonatoria. Mi provoca un tremore
incontrollato lungo la schiena che mi fa stringere nelle spalle e tacere: non
so se sia voglia di cavargli gli occhi, o ancora voglia di farmi stringere. In
entrambi i casi, è una cosa che mi provoca un ulteriore travaso di bile,
spingendomi quasi a digrignare i denti per il nervoso.
“Stiamo davvero parlando di questo?” continua, duramente, la voce che
fa di tutto per costringermi a girarmi, richiamandomi a sé. Ma non c’è niente
di fare, tutto dello mio sguardo si aggrappa al quadro come un’ancora, le mani
che si stringono a pugno lungo i fianchi. Le unghie mi penetrano nella pelle,
vorrei graffiarmi via da me stessa, pur di smettere di stare qui.
Passa qualche secondo di frustrato silenzio, il suono dei gabbiani che
volano oltre la finestra sul mare è la sola cosa fisicamente ancora presente.
Lo sento fare ancora un altro passo, salire un altro gradino, avvicinarsi
ancora. Mi ritraggo contro il corrimano come se fossi spaventata, terrorizzata,
confusa, o chissà che altro. Ed invece so distintamente che il solo motivo per
cui non lo guardo in faccia e vorrei scappare via è che adesso lo prenderei a
schiaffi, urlando, per tutto quello che mi ha fatto. È l’amore, lercio e malato
che ho ancora per lui, che mi trattiene su questo gradino a guardare un quadro
come se fosse la cosa più interessante del mondo, a trattenermi mentre le
spalle mi franano, a non piangere mentre tutto sembra scoppiarmi dentro.
L’amore per lui, che è la mia maledizione… e quello per Alex, che è la mia
benedizione. Quest’uomo che mi ha rovinato la vita, è sempre suo padre. Anche
se da me, specie oggi, non lo saprà mai.
“Raissa ha portato via tuo figlio… perché?”.
Nel momento stesso in cui Draco finisce questa frase, capisco che sto
definitivamente crollando, capisco che non posso trattenermi più, capisco che
al momento non mi interessa che quest’uomo sia il padre di mio figlio. La
rabbia diventa un tutt’uno con l’angoscia per Alex, barcollo senza forze e mi
reggo ancora al corrimano. Non appena sento che si sta muovendo nella mia
direzione, sollevo il palmo della mano, imponendogli di restare dove diamine è.
Se si azzarda a toccarmi, è la volta buona che lo uccido. Respiro a fatica,
cercando di calmarmi, ma non c’è verso, non c’è alcuna possibile soluzione. In
una frase, nella mia mente ormai devastantemente irrazionale, ha compiuto e
siglato un errore fatale.
Hai messo al centro della frase quella
maledetta donna che ha rapito Alex. Come se fosse importante capire solo perché
lei l’abbia fatto, come se bisognerebbe capirla e giustificarla, indagare le
sue ragioni, magari comprenderla, parlarci e dirle che ha sbagliato. In modo
bonario… allo stesso modo che rimproverare un bambino perché ha rubato una
caramella.
Ed invece quella si è rubata mio figlio: mio
figlio. Mio figlio, dannazione, che c’avrà pure i tuoi occhi, ma è mio figlio.
Alex che detesta le carote, che mangerebbe
brownies ogni giorno, che ogni sera vuole che gli legga qualcosa, che ha
parlato per la prima volta ad un anno e due mesi, e ha detto mamma.
Si è presa il mio bambino.
…
…
Se ti azzardi anche solo ad avvicinarti, è la
volta buona che ti uccido.
La mia voce scivola fuori senza controllo, mentre il mio collo conosce
finalmente la torsione che mi porta ai suoi occhi.
“Perché non lo chiedi a lei, eh?!” sibilo, rantolando a fatica,
chiudendo i pugni con ferocia, cercando il suo viso come un cacciatore cerca la
preda “Si dice in ricchezza ed in povertà, in salute e in malattia… ma forse si
dovrebbe anche aggiungere nel bene e nel male… perché non le chiedi perché si è
portata via mio figlio? Conterà essere sinceri con il proprio… fidanzato…”.
Draco cerca di nascondere il sussulto che lo coglie alle mie parole,
ma non ci riesce troppo bene. Soddisfatta mi rendo immediatamente conto che le
sue spalle si sono contratte e ha serrato le labbra. Lo sguardo adamantino
occulta il riflesso di pietosa compassione che ha nel guardarmi e che mi rende
ancora più furiosa nei suoi confronti, sembra sempre sul punto di assecondare
una povera pazza che ha perso suo figlio. Ho sputato fuori la parola fidanzato, come se scottasse in bocca,
come se fosse una pietanza avariata, come se fosse veleno e fiele. Quella
parola rovina contro di lui con forza, ma non lo smuove, non lo tocca, non lo
tange. E ciò ancora di più, mi fa impazzire.
“Ci sei tu, qui, e lo sto chiedendo a te…” mormora serio, guardandomi
e spostando il peso da una parte all’altra “Perché si è presa tuo figlio?”.
La mia mente è una steppa devastata dalla tempesta: ogni volta che
pone Raissa come soggetto di una frase, sento lei nella testa ripetermi quanto
fosse bello andare a letto con lui, sento Serenity dirmi che si sposano, rivedo
tutte le volte in cui ho rifiutato Ron, riavverto il senso di colpa soffuso di
quando ho baciato Ilai. Tutto amplificato dalla lacerazione intima, come se mi
strappassero la carne dalle ossa, di non sentire Alex qui e di saperlo con lei
e Dimitri. La vista mi si offusca, vedo nero, rosso, tutto assieme. Io ho
provato lo Zahir, l’estasi dell’odio che dava, il desiderio di fare del male
solo perché faceva bene a me fare del male a lui… ma era una pallida carezza
smunta. Adesso, se mi sto trattenendo, non è nemmeno più per l’amore, volatile
ospite che ha lasciato il mio corpo. È solo perché non ho tempo da perdere appresso
a lui. Ne ho già perso troppo… e ne sto perdendo ancora troppo. Ogni secondo
che dedico a lui, invece che a mio figlio, mi riporta a questi cinque anni
maledetti, in cui potevo lasciarlo andare e non l’ho fatto, colmandomi di
rimorso da overdose. Non ce la faccio più… devo andarmene da qui e basta.
“Senti…” inizio con voce malferma, scendendo un gradino, mentre lui
segue i miei movimenti “Al momento non ho né tempo, né voglia di profondermi in
spiegazioni… ti ho riportato tua figlia, ho cercato di proteggerla per quanto
potevo e ti ho informato di che cosa ha fatto quella… donna…”, un sapore aspro mi riempie la bocca mentre aggiungo: “…
adesso sai che cosa aspettarti dalla tua fidanzata, è sempre stata in combutta
con suo fratello e non penso che tu abbia dimenticato che cosa lui volesse da
me… e penso anche che sia facile a quel punto capire che cosa vuole da mio
figlio. Adesso la mia priorità è lui…”, scendo un altro gradino, appoggiandomi
al corrimano, la voce mi si spezza “Quindi lasciami andare… per favore…”. Tutto di me mi spinge a
tenerlo fuori, tutto, la rabbia, il dolore, la preoccupazione. Forse una parte
di me, al di là dell’odio che provo perché sta con Raissa, cosa che mi rende
insopportabile persino guardarlo, lo vuole fuori da questa storia anche per un
altro motivo. Più importante, che va al di là di tutto. Se non ce la faccio… se
Dimitri dovesse riuscire a portarmi via… se Alex però si salvasse… se
rimanesse, per qualche motivo, solo… deve avere un altro genitore da cui
tornare. E questo è lui. Al momento non vorrei che fosse così, ma purtroppo è
questa la realtà. E Dimitri lo vuole morto. Quindi, deve starsene qui, buono,
ad occuparsi di Serenity e ad eventualmente, un giorno, a prendersi cura di
Alex.
Draco mi guarda con espressione indecifrabile, gli occhi attraversati
da meteore di luce. Scarta di lato, si sposta in modo beffardamente
cavalleresco e sibila glaciale, indicandomi la porta: “Prego, vai pure…”.
Ovviamente non ho dimenticato che le reazioni più comuni, in Draco Malfoy, significano
tutto il contrario di quello che pensa. Probabilmente non vorrebbe lasciarmi
andare. Ha un’espressione troppo rilassata per uno che è davvero convinto di
lasciarmi uscire dalla sua vita: la fronte si aggrotta per tutte le domande che
vorrebbe farmi e, nonostante tutto, so che vorrebbe fargliela pagare a Dimitri.
In fondo a sé stesso, credo che mi voglia bene, e ciò mi provoca uno spasmo
ulteriore alla bocca dello stomaco, che vorrei che fosse senso di colpa per
l’avversione che io invece ho per lui, ma che invece è in tutto e per tutto
simile a quel disgusto dolciastro che provi se vedi un sentimento che non
vorresti in una persona, a cui dedichi un’emozione diversa da quella che ti
viene riservata. Per intenderci, vorrei che mi odiasse anche lui. O che mi amasse ancora. Sempre. Invece
in tre frasi, mi ha solo chiesto di Raissa. Ed è uno strappo continuo, dentro.
Non so che farmene della sua pietà, del suo affetto.
Perciò di fronte alla sua apparente resa, penso automaticamente di non
dargli il tempo di reagire e di controbattere, approfittando invece per uscire
e per non tornare più qui dentro. Biascico un grazie traballante, scendo di
corsa gli ultimi gradini e lo sorpasso velocemente, non lasciando a me stessa
nemmeno il tempo di respirare, così che il suo odore non mi entri dentro più di
quanto non abbia già fatto. Seth, in fondo, può tornarsene da solo… e Pansy…
bè, vedrò di avvisarla in qualche modo.
Ho già la mano sulla maniglia della porta e lo sguardo bloccato
davanti a me, per paura di voltarmi ancora e guardarlo per l’ultima volta,
avida del suo ricordo, che la sua mano si chiude sul mio polso, bloccandomi. È
assurdo che, adesso, dopo cinque anni, la mia pelle riconosca la sua con tanta
precisa solerzia e pazienza da darmi l’impressione che non se ne sia mai
andato. Guardo senza fiato le dita artigliate poco sopra la mia mano, sono
sempre affusolate come le ricordavo ed ancora mi danno i brividi solo a
sfiorarmi piano. Mi concentro su quelle dita, perché so e sento dalla nuca che
agghiaccia che Draco mi sta guardando, che i suoi occhi sono puntati sul mio
viso, che se sollevo la testa improvvisamente non sarò più in grado di
concepire un pensiero minimamente consapevole. Guardo quelle dita e penso a
quante volte, a letto, in Italia, osservavo le mani di Ron mentre dormiva ed
era quello il momento in cui, nonostante il buio, non potevo illudermi che
fosse Draco. Un magone pesante mi scivola in gola e mi occlude il respiro,
queste dita, queste mani, mi hanno toccato in centinaia di modi possibili,
avanguardia di mesi e mesi per arrivarmi al cuore. Sono familiari in un modo
che ha tutto dell’anormale, dopo cinque anni. Come è familiare, la sua stretta:
calda, salda, tesa, nervosa. Perché so che è lui, adesso, ad essere teso e
nervoso.
Cosa che mi si conferma quando apre bocca e con voce tagliente mi
ingiunge: “Quello che nega di essere tuo
marito, comunque, se ne è andato… magari se lo aspetti qui ti trova prima,
al suo ritorno…”. Per un attimo, strabuzzo gli occhi e non capisco nemmeno che
abbia detto, un calore soffuso che dall’arto mi si irradia nel petto. Anche
però quando cerco di calmarmi e prudentemente sollevo lo sguardo,
ritrovandomelo vicino, ad un passo da me, con la mascella serrata e
l’espressione severa… devo comunque respirare ancora per decongestionare il
viso rosso, che non dovrei avere a quest’età e in questo momento della mia
vita. Ma anche quando sono certa di essere lucida e tollero la sua improvvisa
vicinanza in modo quasi normale, continuo a non capire. Lui mi guarda come se
mi volesse trapassare con lo sguardo, provocandomi un calore diffuso lungo
tutta la schiena, ed io ancora non capisco che diamine stia dicendo.
Aggrotto le sopracciglia e biascico stupidamente: “Ma che cosa stai
dicendo, scusa?! Puoi ripetere?!”.
Draco sbatte le palpebre un paio di volte, confuso a sua volta, guarda
il polso che ancora mi sta stringendo ed improvvisamente lo lascia andare come
se fosse rovente, facendo un passo indietro, cosa che consente al mio respiro
di decelerare e al mio annebbiamento di passare. Mormora, con la voce più
bassa: “Il tipo che era con te, ieri sera… ha detto che non è tuo marito, ma ho
capito che state tutti giocando al gioco dell’elusione con me… Seth che parla
per tre ore solo del Petite Peste, Thomas che non entra nella stanza dove sono
io… e Pansy che mi dice casualmente solo che si è sposata con lui… e Dio solo
sa che droga assuma, al momento…”, scuote la testa ancora incredulo e, di
riflesso, io serro la mascella, contrariata. Certo è anormale che Pansy abbia
sposato Dean… ma è perfettamente logico che lui stia per sposare Raissa. Certo,
come no. Trattengo comunque in gola le mie rimostranze e continuo ad
ascoltarlo: “… ho capito che aspettano il tuo sommo segnale per rendermi
partecipe di qualche minima informazione su cosa diamine stia succedendo…quindi deduco che il tipo che se ne è andato
e che dice di non essere tuo marito, in realtà lo sia…”.
“Stiamo davvero parlando di questo, adesso?” borbotto, incrociando le
braccia e guardandolo storto.
“Se deve piombare di nuovo in casa mia non appena te ne sarai andata
per cercare la sua mogliettina… sì, ne stiamo decisamente parlando…”.
Adesso ricordo anche che cosa diamine mi facesse venire voglia di
ucciderlo un giorno sì e l’altro pure. Con un rumoroso sussulto, mi rendo conto
anche in che cosa assomiglia ad Alex. Il modo in cui adesso mi guarda, gli
occhi grigi accesi e fissi che sembra che inseguano un bersaglio, i piedi
piantati al suolo, l’ostinata cocciutaggine nel non farsi mai evitare nemmeno
verbalmente… questo, Alex l’ha preso da lui. E’ così simile a mio figlio,
adesso, che un capogiro mi fa di nuovo tremare.
Nervosamente, senza pensarci eccessivamente su, rispondo frettolosa:
“Se stai parlando di Ilai, non è una persona che mente…”, contrariamente alla tua fidanzata “… quindi mi pare ovvio che
avesse ragione…”. Soffoco in gola la caterva di insulti che gli sto per
rovesciare addosso, mentre lui mi guarda con lo sguardo nebuloso ed aggiunge:
“… ma se non è lui… tuo marito dov’è?”.
Ma è cretino?! Ma che hanno messo una legge per cui, superati i
venticinque anni, uno deve essere per forza sposato?!
“Mio marito è nel meraviglioso paese delle favole a cavalcare gli
unicorni…” borbotto nervosa, aggiungendo infine: “Non so nemmeno perché ti sto
rispondendo… ma io non sono sposata… non so dove diamine tu la prenda sta
convinzione…”. Io conosco quest’uomo da diciassette anni, ho un figlio che gli
assomiglia come una goccia d’acqua, eppure ancora oggi non lo capisco, non lo
comprendo appieno. Draco, infatti, sgrana gli occhi esterrefatto, ne distinguo
ogni pagliuzza più chiara in quell’immenso mare d’argento fuso, e mi guarda
improvvisamente tremante, scosso, nervoso, come se qualcosa fosse vacillato e
crollato tutto dentro di lui. E’ come vedere un castello di carte e sabbia che
frana, si disintegra, si annienta.
Balbetta mentre mi chiede ancora: “Non sei sposata?!”.
Cerco di mantenere un contegno, mentre osservo ombre e luci inseguirsi
sul suo viso, giocando a cambiargli l’espressione da sorpresa, a terrorizzata,
a improvvisamente serena, a sconcertata, a di nuovo fredda ed apparentemente
insensibile. Gli rispondo tutto sommato ancora sarcastica, che l’ironia, come
sempre, è rimasta la mia sola difesa.
“No, non sono mai stata sposata…” biascico a denti stretti, spostando
il peso da una gamba all’altra “E credimi mi fanno persino votare alla Camera
dei Comuni, nonostante sia nubile…”.
Draco stringe i pugni, distoglie lo sguardo da me ed insegue il volo
di un gabbiano fuori dalla finestra. Per un attimo, nei suoi occhi, distinguo
una nota stonata che non riesco a qualificare, e non c’entra nulla che sono
cinque anni che non lo vedo e magari non sono più cosi rapida a decifrarlo. È
qualcosa che su di lui stride, cozza, perché non c’è nulla che giustifichi il
suo viso, articolato e congelato in quella che appare come sofferenza, angoscia. Non ha dipinto addosso il sollievo geloso
dell’ex che scopre sardonicamente soddisfatto che l’altra è ancora libera, non
ha più la pena e la compassione di quello che magari si rende conto che la mia
vita non è esattamente una passeggiata, non ha tantomeno la curiosità
sarcastica di chiedersi allora di chi sia mio figlio.
Soffre, invece, sta male e non capisco il perché. Forse è colpa,
concludo con le mani che mi tremano dalla voglia di prenderlo a schiaffi: forse
si sente in colpa perché, apparentemente, io sono rimasta ancorata alla fedeltà
tardiva verso di lui, mentre si sta per sposare con un’altra. Bè, se è di
questo che si tratta… ancora se la può tenere.
Capisco, però, che c’è dell’altro, quando parla ancora, non
guardandomi, gli occhi ostinatamente rivolti fuori dalla finestra. Le spalle
gli tremano, perpetuando nel silenzio segreti obliqui che evidentemente non
sono solo i miei: perché, sicuramente, ci deve essere un ragionamento a cui
sono esclusa, alla base della sua domanda angosciante ed angosciosa.
Quella che, per intenderci, mi fa sobbalzare ed arrossire come se
fossi una bimba colta in fallo.
“Granger… si può sapere che diamine è successo in questi cinque
anni?”.
Rabbrividisco quando torna inspiegabilmente a guardarmi, ha gli occhi
che implorano spiegazioni e spandono domande. Sta andando tutto esattamente
nella direzione in cui non volevo che andasse e non riesco a capire come siamo
giunti a questo, partendo dal mio stato civile, la cosa che consideravo più
innocua di tutte, al punto da rispondergli onestamente. C’è qualcosa… qualcosa
che non mi sta dicendo nemmeno lui, qualcosa che non so. Qualcosa per cui,
adesso, quello che gli sto dicendo ha messo in discussione qualcosa dentro di
lui che non riesce e non vuole ignorare.
Dovevo andarmene da qui, subito, appena ripresi i sensi. Il mio
residuo istinto alla fuga, magari con una bella Smaterializzazione, viene
sedato bruscamente da un’ombra comparsa sulla soglia del salotto e di cui
avverto immediatamente lo sguardo giada puntato su di me. Prima ancora che Seth
parli, comprendo già che mi vuole dire dalla sua postura e dal fatto che, per
la prima volta da quando lo conosco, non sta sorridendo. E la cosa non mi piace
affatto.
“Devi dirglielo, Hermione…” mormora, facendo un passo nella mia
direzione. Lo guardo agghiacciata, ignorando Draco alle mie spalle che sta
ovviamente guardando a sua volta Seth. Sento distintamente i suoi occhi grigi
perforarmi la nuca e vagare poi sul volto di Seth, di cui ora sa che conosce
tutta la storia come me. La sensazione di essere stata braccata e messa
all’angolo mi annebbia il cervello, provocandomi un vuoto d’aria nello stomaco
che è costrizione e minaccia. Io non ho
alcun obbligo di dire proprio nulla. Ho solo l’obbligo di andare a cercare
subito mio figlio.
“Non ci credo che mi stai facendo questo…” biascico, il labbro
inferiore che mi trema e gli occhi lucidi, guardando Seth che mi restituisce
uno sguardo addolorato, prima di rispondermi, ignorando del tutto Draco e
parlando come se ci fossi solo io nella stanza: “So che ci sono cose… che tu
non gli diresti mai, adesso. E sono cose di cui spetta a te parlare. Non mi
arrogherei mai questo diritto…”. Respiro lievemente di sollievo, almeno la
verità su Alex me la concede, mi lascia tenerla per me, eppure non riesco
ancora a calmarmi del tutto. Il respiro è comunque distonico, tremendamente
accelerato, angosciato: in realtà io, adesso, non vorrei davvero parlare di
questi cinque anni con lui. So che è stupido ed irrazionale, e non è
decisamente da me, ma il mio controllo mentale è sparito nel momento in cui ho
visto Raissa e Dimitri smaterializzarsi assieme ad Alex. Adesso, mi ritengo pienamente incapace di intendere e volere.
Ed adesso io non voglio che lui sappia niente di me. Come spiegare… ecco, lui
ha fatto delle scelte in questi cinque anni, in base a delle convinzioni
sicuramente radicate in lui. Ha probabilmente amato Raissa al punto di decidere
di sposarla, e nulla, niente di me, lo ha fermato. Non è venuto a cercarmi, non
ha raccontato a Serenity di me, non ha nemmeno cercato Pansy o Seth stesso.
Ora, cosa mi serve che lui sappia che cosa è accaduto? Che mi serve? Niente mi
riporterà indietro questi anni… e niente cambierà quello che è accaduto,
adesso. Che me ne faccio, adesso, che lui sappia la verità? Mi darebbe pena,
colpa, tenerezza, forse persino amore. Ma tutti in ritardo, e sulla base di
quello che gli ho detto. Io avrei voluto
che scegliesse me, anche senza sapere che cosa è successo. Avrei voluto che mi
avesse aspettato, come io ho aspettato lui. Draco ha fatto una scelta, io
ho esitato a farla, ma ora ci sono arrivata anche io. E pretendo che anche
Seth, con tutto il bene che gli voglio, rispetti questa mia scelta.
“No…” sollevo gli occhi e dico lapidaria a Seth, mordendomi il labbro
“No, Seth… adesso non è il momento per…”.
“Lui ha diritto di sapere, invece!” urla Seth, facendomi accapponare
la pelle. Non mi ha mai urlato contro, non mi è mai stato contrapposto, ha
sempre preso le mie parti. Ed adesso sceglie Draco, adesso sta scegliendo lui,
e non me. Questa consapevolezza mi apre dentro peggio di una mela spaccata a
metà. Seth continua a guardarmi e ad urlarmi contro, stringendo i pugni, il
volto che si fa violaceo, mentre Draco se ne sta in silenzio alle mie spalle:
“Lui ha diritto di sapere di Raissa! Io non ci sto, non ci sto che lasci che
lui si rovini la vita appresso a quella donna, che accetti di sposarla, che non
sappia che cosa è successo a te e che cosa ti è stato fatto in questi anni…
perché, maledizione, non riesci a fidarti di lui, non riesci a fidarti di
nessuno?! Perché devi fare tutto da sola?!”.
“Perché io sono da sola, Seth!” mi ritrovo a gridare, la voce tagliata
dal pianto, prima ancora che me ne renda conto, Seth si interrompe e mi fissa
ad occhi spalancati. Le lacrime prendono a scorrermi lungo il viso, mentre a
pugni chiusi mastico amaro e vomito con ferocia: “Io sono sola, Seth! Sono
cinque anni che sono sola! La sola cosa che ho e che non mi rende del tutto
tale, è mio figlio… voi, tutti voi, tu, Dean, Pansy…”, ruoto su me stessa ed
indico Draco, che continua a fissarmi, gli occhi spenti “… persino lui, persino
lui… tutti voi ce l’avete una stramaledetta vita a cui tornare! Io non ce l’ho,
Seth! E come faccia adesso tu a non capire questo… è assurdo… io ho solo me
stessa ed Alex… ed è tutta la mia stramaledettissima esistenza che faccio la
cosa giusta, che mi prendo a calci pur di fare la cosa giusta… e tutto questo,
tutto questo, a che cosa mi ha portato, Seth? A perdere mio figlio, che è la
sola cosa che conta al momento per me. Quindi me ne frego che lui abbia diritto
di sapere, me ne frego di te che pensi che lui abbia diritto di sapere… io
voglio solo andarmene da qui, e riprendermi il mio bambino. Dopo, un giorno,
quando mio figlio sarà qui con me e al sicuro, potrete farmi tutte le morali
che volete… ma adesso abbiate il sacrosanto diritto di stare fuori dalla mia
vita, che è mia e di mio figlio, e basta!”.
La carotide preme contro la mia pelle come se volesse schizzare fuori,
la faringe mi gratta come se ci fosse scivolato dentro dell’acido e le lacrime
mi bruciano il viso: non so nemmeno in che punto della conversazione sono
scivolata in basso, restando in ginocchio. So solo che il viso di Seth e la
tensione silente di Draco sono insopportabili, adesso. Tutto si mescola alla
mancanza di Alex, che è come l’amputazione di metà del mio corpo, quella più
vitale e necessaria, al punto che mi considero al momento un moncherino
sanguinolento, tenuto in vita da un perfido accanimento terapeutico. Soffoco il
viso e le lacrime tra i palmi della mano, cercando di non fare rumore ed
emettendo un’aura di distacco che spero che entrambi colgano. Non voglio, né
necessito che nessuno mi tocchi.
Ed è inconcepibile che ci pensi adesso, ma le sole persone che vorrei
al momento sono Dean o Ilai. Il primo che ha fiducia in me qualsiasi cosa
faccia, ben più di Seth, che si è così fissato che io e Draco ci apparteniamo
da non vedere nemmeno che cosa ci sia capitato adesso e in che persone ci siamo
trasformati. Il secondo che si è allontanato discreto, non appena ha saputo che
Draco era qui. Lo so, lo sento come sempre, che è andata così. Ed invece io,
ora, avrei bisogno di lui più che mai. Lui saprebbe spiegare questo squarcio
dentro, lui allontanerebbe le ombre da me, lui mi farebbe sentire in pace… e
lui conosce Alex. Draco Malfoy, suo padre, non sa nemmeno come è fatto. E so
che, almeno questo, non è colpa sua: ma al momento gli darei ogni
responsabilità del mondo. Perché tutto nasce e muore in questo: lui, Raissa,
non l’ha lasciata andare. Se l’avesse fatto, Alex sarebbe ancora qui. Qualsiasi
cosa accada, comunque vada a finire, io questo non riuscirò mai a
perdonarglielo. Mai.
Nel silenzio che adesso si spande venefico su di noi, interrotto solo
dal frinire triste di una cicala, lascio che i miei occhi se ne stiano dentro
le mie mani così da potersi riposare e sciogliere di lacrime, senza che nessuno
mi fissi, facendomi sentire compatita. Ma è ovvio che non posso stare così a
lungo: quando mi arrischio ad alzare lo sguardo, mi accorgo immediatamente che
Draco mi ha sorpassato e si è piantato accanto a Seth, che si morde l’unghia
del pollice a disagio, gli occhi lucidi. Draco, invece, ha l’espressione
indecifrabile, dura, chiusa, arcigna, ed ovviamente è me che guarda così.
Mi asciugo con il palmo della mano le lacrime ancora sparse sul viso e
sollevo il mento, a mo’ di sfida silente, così che dica quello che sta
pensando. Le parole ci sono sempre state nemiche, ma i gesti, le espressioni e
gli sguardi no; infatti, nonostante tutto, lui capisce subito che cosa gli sto
dicendo ed incrocia le braccia meccanicamente, sibilando freddo: “Sono davvero
lieto che, dopo cinque anni, siamo ancora a questo meraviglioso punto delle nostre
vite, per cui sei sempre presa dall’insano desiderio di punirmi per qualcosa
che non ho commesso… ed al contempo sei sempre presa dal tuo delirio di
onnipotenza per cui puoi fare tutto da sola… e sempre…”. Ansimo, la voglia di
prenderlo a schiaffi che mi sussurra nelle orecchie e mi infiamma le dita,
mentre lui prosegue disinteressato: “Sono cose che fanno riflettere, sei
rimasta esattamente quella che sei sempre stata… anche se sei madre, adesso…”,
mi alzo in piedi, facendo qualche passo, giuro che se non la smette
immediatamente lo uccido sul serio. Draco fa un sorriso beffardo, guardandomi
ed inclinando la testa di lato: “Da genitore si fa ogni sacrificio possibile,
credo che tu lo sappia… e se si fosse trattato di Serenity, io ti avrei
implorato di aiutarmi… anche se si fosse trattato di te…”. Chiudo i pugni lungo
i fianchi, l’odio che mi macina come se fossi dentro un ingranaggio, il volto
mi va a fuoco. Non le voglio lezioni sull’essere madre, tantomeno da lui che,
dopo chissà quanto, ha deciso di fare da padre a Serenity. L’ho lasciato che si
faceva ancora chiamare fratello da lei. Che diamine ne vuole sapere, lui, del
coraggio di essere un genitore sin dal primo momento, sin da quando tuo figlio
nasce, sin da quando lo vedi respirare accanto a te, e tu magari non ne volevi
sapere, non volevi essere madre, e raccogli la forza che hai, solo perché lo
hai visto quel bambino e adesso lo ami più di qualsiasi altra cosa al mondo?
Non le voglio lezioni da uno che ha deciso di essere padre, solo quando ha avuto
Raissa accanto.
Ma lui ovviamente prosegue, forse leggendo quelle parole nel mio viso
e, come sempre, non facendosene minimamente impensierire: “… e sai, posso anche
accettare che, nella tua mente non valgo al punto da avere una qualsiasi
spiegazione su quello che sta succedendo, soprattutto se riguarda la donna con
cui ho passato gli ultimi cinque anni…”, la solita fitta mi colpisce infida al
petto, cerco di dissimulare il dolore con una smorfia che spero suoni come
ironica “… ed ovviamente sei libera di fare quello che vuoi, riguardo a tuo
figlio. Ma qui si tratta anche della mia
di figlia…”, la sua espressione si indurisce, torna ghiaccio scavato e gli
occhi scintillano di furia: “… se mia figlia è stata messa in pericolo perché
Raissa era qui, se c’è anche una possibilità che lei ritorni e metta in
pericolo Serenity… io devo saperlo. E non sarai certo tu ad impedirmelo”. Il
suo volto diventa demoniaco, una maschera di odio deforme, mentre aggiunge
sardonicamente: “C’è una semplicissima parola che risolverebbe tutto questo,
Granger… se tu ancora non volessi parlare… e credo che anche tu la ricordi…”.
“Quale?!” sputo fuori con astio, la mia voce che tintinna di ira
repressa. Draco sorride, quasi comprensivo, ed improvvisamente ricordo che è il
traditore di Voldemort, un ex Mangiamorte. Negli anni, tutto di me lo aveva
scordato, ricordavo solo la tenerezza e l’amore che aveva per me. Ma Draco
Malfoy è anche questo, è anche minaccia, ricatto, furia e violenza, specie se
qualcuno attenta a ciò che ama. E come per me nulla adesso conta più di Alex,
per lui ora nulla conta più di Serenity.
“La parola magica, Granger…” sussurra suadente, lasciando cadere le
braccia lungo i fianchi e facendo un passo verso di me “E’ legilimens…”. Accompagna l’intimidazione ad usare la Legilimanzia,
sfoderando la bacchetta che punta subito nella mia direzione sotto lo sguardo
terrorizzato di Seth, che guarda prima lui e poi me ad occhi sgranati. Una
risata di gola, profonda, triste, mi fa tremare il torace mentre asserisco convinta:
“Credi forse che io sia la stessa di cinque anni fa? Che sia ancora senza
poteri? Se osi anche fare un solo passo nella mia mente… te ne farò pentire…”.
A mia volta, fremendo, sguaino la bacchetta dalla mia tasca e la punto a mia
volta verso di lui. Alcune scintille stanno già sfrigolando, quando Seth,
autenticamente terrorizzato, si para tra me e lui, gli occhi lucidi e le
braccia aperte.
“Smettetela!” urla a pieni polmoni, io e Draco già presi
dall’adrenalina e dalla rabbia sbattiamo le palpebre, come risvegliati, la mia
bacchetta trema nella mia mano “Non vi permetterò tutto questo!”. Seth mi
lancia uno sguardo storto, prima di sussurrare qualche parola che non intendo e
che assomiglia tremendamente ad una richiesta di scuse.
Poi, guardando Draco, prima che io glielo impedisca, biascica: “La
ragazza che ti ha lasciato cinque anni fa… non era lei, era Astoria… Hermione…
non l’avrebbe mai fatto…”.
La bacchetta di Draco scivola dalle sue mani, mentre lui, bianco, le
labbra livide, supera la spalla di Seth, cercando immediatamente i miei occhi.
Sono liquidi, morbidi, intensi, colmi di una sofferenza incredula che non credo
di avergli mai visto. Mi fanno riprendere a piangere prima che me ne renda
conto, mentre lui dice balbettando: “N-non è possibile…”.
Draco sa perfettamente come dissimulare le emozioni, l’ha sempre
saputo fare. Ma ora non ci riesce, non ce la fa.
Il solo sfogo al dolore che riesce a trovare, è guardare verso di me,
sbigottito, sconcertato, sconvolto, come se si aggrappasse a me.
La mia bacchetta ricade via dalle mie dita e, con un tonfo secco,
atterra sul pavimento.
Sgonfiata, senza forze, d’improvviso esausta, mormoro: “Ti dirò tutto…
ma alle mie condizioni…”.
La mia prima condizione è tempo.
Ne ho un tremendo bisogno.
Corro subito di sopra nella camera in cui mi sono svegliata, e la
prima cosa che faccio è rifugiarmi nel bagno, chiudere la porta a chiave e
scivolare al suolo. Piango, singhiozzo, lascio che tutta la tensione e il
dolore trovino almeno un sfogo che mi impedisca di esplodere come una bombola
di gas: premo forte le mani sulla bocca così che nessuno mi senta e soffoco le
lacrime in modo che muoiano qui, in me, senza che nessun altro le senta o le
veda. Quando giudico di essere più calma, mi alzo in piedi, mi lavo la faccia
con abbondante acqua fredda e mi pettino di nuovo i capelli. L’aspetto che lo
specchio mi rimanda, sebbene gli occhi rossi e le occhiaie, è quello di una
persona apparentemente più normale.
Uscita dal bagno, afferro il cellulare dalla mia borsa, ignorando con
un profondo sospiro lo screensaver che mostra Alex a pochi mesi di vita che
sorride dentro il box, e compongo dapprima il numero di Dean, poi quello di
Pansy, ed infine quello di Harry. Il primo mi dice che è sulla buona strada per
capire come funzioni il ciondolo di Tatia, ha trovato una negromante indiana
che ne capisce di queste cose e che sta consultando dei testi per capire come
non disperdere il potere del sangue di unicorno e se questo può essere
utilizzato anche contro un forte potere oscuro, come quello derivante da
Adamar. Ringrazio Dean profondamente, lui mi rassicura e tranquillizza, ed
effettivamente riprendo a respirare normalmente, sapendo che stiamo facendo di
tutto per sfruttare la sola risorsa che abbiamo al momento. Sono convinta che,
se Tatia mi ha lasciato questo ciondolo, aveva le sue motivazioni, come per
tutto il resto, senza contare il sogno che ho fatto dove mi ha ammonito di non
toglierlo.
È stata la prima vittima dei Karkaroff, non può essere tutto un caso.
Chiamo Pansy per sapere come stia, sommessamente, con una voce smunta
che non le appartiene, dice che ha accompagnato Serenity a scuola, e che adesso
è in giro con Charisma. Passerà in farmacia per delle commissioni, e poi
tornerà indietro. Mi prega di non “infierire
sul cadavere di Malfoy, che voglio averlo io questo onore”,e, mio malgrado, sorrido incredula,
riagganciando.
L’ultimo che chiamo, è Harry: gli racconto tutto di quello che è
accaduto, lo sento ascoltarmi rabbiosamente. Mi promette che cercherà nel modo
più discreto possibile di rintracciare i Karkaroff, anche se sa che non è
probabile che li trovi. La loro magia è troppo potente. Però mi promette che
farà di tutto per aiutarmi e che informerà Helder quanto prima, la sola forse
in grado di aiutarmi davvero.
Quando ho finito, chiudo gli occhi e mi abbandono sul letto ancora
sfatto. Sotto le palpebre, si inseguono i ricordi di questi cinque anni. Li
afferro, li sistemo velocemente, ne seleziono alcuni, ne tralascio altri.
Dovrò essere asettica, settoriale, precisa. Ridurre al minimo le
domande, parlare in modo veloce e chiaro, evitare ogni riferimento ad Alex,
alla sua età, al suo nome, al suo aspetto, al suo carattere.
Di lui, non deve sempre niente, l’ho già detto e non cambio idea. Non
così, non adesso.
L’ultima condizione che paleso una volta scesa, chiudendo la porta del
salone dopo che Draco è entrato, è semplice.
Io e lui. Basta.
Nessun altro.
Vedo lo sguardo di Seth oltre la porta, mentre si stringe nelle spalle
e distoglie gli occhi da me, ma lo ignoro. Mi ha tradito, non ha rispettato una
mia precisa scelta. Voleva questo, voleva che parlassimo? Benissimo. Lo faremo.
Ma da soli. E nella maniera più veloce e rapida possibile. Non ho bisogno
dell’arbitro degli aggettivi che userò, qualora non rendano abbastanza il
concetto.
Voglio bene a lui, a Dean, a Pansy… ma questa storia è mia e di Draco,
non di tutti loro.
Ho immaginato tante volte questo momento, nel corso degli anni, quello
in cui avrei detto a Draco la verità. Spesso nei miei sogni questo momento si
affacciava, prima di prendere sonno, ed aveva sempre un colore diverso, un
respiro diverso, un palpito diverso. Mi chiedevo spesso, quando ero ancora in
Italia, se avrei dovuto mostrargli Alex e lasciare che lui capisse, perché ero
convinta che Draco, vedendolo, avrebbe capito. Immaginavo il tremore che gli
avrebbe preso gli occhi, la piega emozionata delle labbra, la fossetta gentile
ai lati delle labbra di quando sorride e scoppia dalla gioia. Avrebbe inseguito
gli occhi di nostro figlio, e subito avrebbe intuito, ma mi avrebbe comunque
chiesto chi fosse, come si chiamasse, magari anche perché gli somigliasse
tanto. Ed ero certa, sicura, convinta che Alex non avrebbe taciuto, avrebbe
urlato una frase del tipo: “Ciao papà!” come quando lo salutava ogni mattina a
Favignana, dopo aver salutato me e Ron. Avrei maledetto il candore genuino di
Alex ed avrei pianto, guardando Draco, annuendo con il capo, lasciando che lui
lo guardasse bene e che si chinasse alla sua altezza per osservarlo negli occhi
gemelli dei suoi. Pensavo che avrei potuto lasciarli soli, e poi mi dicevo che
non era il caso, che Draco sarebbe stato traumatizzato, che Alex spesso parla
troppo e lo avrebbe rintronato. Meditavo su tutte queste cose ed era come
rilassarmi, mollare la presa, sentirmi felice dentro che tutto sarebbe andato a
posto, ed in ricompensa il sonno arrivava. Mentre mi addormentavo, però, mi
dicevo che l’incontro perfetto avrebbe visto Alex venire solo dopo che noi due
avessimo parlato, perché avevamo bisogno di un momento per noi, avevamo bisogno
di essere prima Draco ed Hermione, e poi i genitori di Alex. Ce lo doveva il
tempo, la vita, il destino e tutto quello che ci aveva divisi. Era facile
quindi decidere che avrei indossato qualcosa di rosso, come la sera del
compleanno di Pansy, e mi sarei tirata su i capelli, perché lui una volta mi
aveva detto che stavo bene così. Avrei avuto un passo leggero e, mentre gli
raccontavo ciò che era accaduto, avrei voluto tenergli la mano, stringergli le
dita o lasciare che mi stringesse lui. Avrei infarcito il racconto di aneddoti,
dei pensieri più vari, pentendomi se avessi scordato qualcosa. Gli avrei
consegnato le novecento tredici lettere che gli avevo scritto, i cinque regali
di Natale e i cinque regali di compleanno. E, ad un certo punto del racconto,
mi sarei fermata e l’avrei guardato fisso negli occhi. E sapevo che l’avrei
baciato, sapevo che mi avrebbe risposto, sapevo che avremmo fatto l’amore come
se non ci fosse domani, disperati, ma riuniti, riconciliati, riappacificati con
la vita stessa. Cadevo nel sonno, dicendomi che però stavolta dovevamo stare
attenti, basta con i bimbi non programmati, Alex aveva bisogno di averci per
noi almeno per un paio di anni, sarebbe stato già difficile avendo anche
Serenity, dovevano legare tra loro, e chissà se sarebbero andati d’accordo, e
potevamo mandarli assieme in palestra, oppure Serenity a danza ed Alex a scuola
calcio che adorava il calcio essendo cresciuto in Italia, e poi la domenica…
… pensavo davvero queste cose prima di andare a dormire. Ci credevo
profondamente, a tutte.
Non era fede e speranza, era per me previsione del futuro.
In tutto questo, Draco Malfoy andava a letto con Raissa Karkaroff,
Ilai Radcenko soffocava nella mancanza di sua moglie e Dimitri Karkaroff mi
cercava come una bestia dannata.
Adesso che ci sono arrivata, adesso che sono arrivata a questo
momento… mi siedo sul divano di fronte a Draco che mi guarda, stringendo i
pugni, e non c’è nulla di come doveva andare.
Ho un vestito azzurro spiegazzato, ho i capelli sciolti, ho gli occhi
rossi e stanchi. Mio figlio non dirà da un momento all’altro “ciao papà!”, non
racconterò nulla più del necessario, le mie novecento tredici lettere sono
nella mia valigia. Non lo bacerò, non lo stringerò, non voglio che mi tocchi
nemmeno per sbaglio.
La fantasia, la mia soprattutto, ha accartocciato il futuro, rendendo
questo momento insapore ed inconsistente come segatura.
Al momento, io… voglio solo che finisca.
Faccio un profondo respiro, Draco mi soppesa con lo sguardo come se
temesse d’improvviso che mi trasformi in qualcos’altro davanti ai suoi occhi.
Si è cambiato, porta una polo azzurra su dei jeans chiari ed ha i capelli
bagnati sulla nuca, come se si fosse fatto una doccia. Un raggio di sole
illumina e taglia a metà i suoi occhi, rendendo palese la tensione che permea
il suo corpo, visibile anche nelle mani chiuse a pugno e nei gomiti poggiati
parallelamente alle gambe. “Seth non ci capisce niente di magia…” inizia
impaziente, le mani che si sfregano nervose l’una sull’altra “Ma io e te
sappiamo che non è possibile quello che dice… la ragazza che ho visto quel
giorno… eri tu, eri indiscutibilmente tu… una Polisucco non avrebbe mai
potuto…”.
“Hai dimenticato di chi stiamo parlando?” lo interrompo subito, asciutta,
senza nemmeno alzare lo sguardo “O frequentare quella donna per cinque anni ti
ha ottenebrato la mente fino a questo punto?”.
“Potremmo lasciare fuori questa storia per il momento?” borbotta
nervosamente, le dita che tamburellano come se avesse un tic.
“Ah certo, lasciamo fuori questa storia…” commento acidamente,
sorridendo in modo forzato “Ovviamente, come sempre, è tutto un senso unico con
te… io devo parlare… ma tu puoi
startene zitto… comunque non mi interessa, basta che la finiamo…”. Concludo
stancamente, pentendomi del mio accesso di rabbia e gelosia, a cui Draco ha
risposto solo piegando le spalle ed appoggiandosi stancamente al divano. La sua
attenzione torna vigile, quando mormoro con tono ovvio: “La Conoscenza assoluta
l’hai dimenticata? Non ricordi che lei e suo fratello conoscono ogni singola
cosa scritta da uomo? E questa non era nemmeno tanto difficile da trovare… si
chiama Imitatiocordis,
imitazione del cuore… due persone unite dallo stesso sentimento entrano in
risonanza l’una con l’altra. Una delle due ne può rubare per qualche ora
aspetto, ricordi, emozioni. Io ed Astoria condividevamo le stesse sensazioni in
quel momento…”, distolgo lo sguardo da lui, non mi va proprio nemmeno di
ricordare quali fossero le sensazioni
che condividevamo “In tal modo, riuscirà una personificazione perfetta. A patto
che l’altra persona sia sufficientemente debole…”.
Draco assimila le mie parole per qualche secondo, appare ancora
incredulo e sconcertato, tormenta le dita delle mani in modo meccanico. Sembra
quasi voglioso di contraddirmi, convinto evidentemente contro ogni logica che
non poteva trattarsi di persona diversa da me. Poi qualcosa scivola sul suo
viso, un’ombra che gli sfiora i lineamenti e gli fa contrarre l’espressione
come se avesse avuto un calcio in pieno stomaco. Dismette il dubbio ed
abbraccia la paura. Sussurra solo, stringendo le labbra: “Se la persona da
impersonificare eri tu… ed era necessario che fossi debole per consentire ad
Astoria l’incantesimo…”, fa una pausa incredibilmente sofferta, scopro ancora
la stretta massiccia in fondo al ventre di tutte le volte che stava male ed ero
arsa dal desiderio di impedire qualsiasi cosa lo ferisse. La ricaccio nel fondo
di me con rabbia, ci manca solo addolcire la pillola adesso, lui intanto
conclude con un tremito: “Eri debole…
perché?”.
Per un attimo, guardo i suoi occhi e non vorrei fargli del male, so
che adesso si sentirà in colpa, so che starà male. So tutto quanto. Respiro a
fondo e capisco che però non potrei nemmeno volendo, rendergli le cose più
facili e meno dolorose: non a condizione di massacrarmi io. Tra noi è andata
male, anche perché accettavo di tacere pur di stare con lui, pur di non
diventare seccante. E pur di non esserlo, non gli confidai la mia paura di
Helena. È stato sbagliato. Doveva portare quella croce con me. Altrimenti,
perché stare assieme? Ora, certo, non importa più… ma siamo alla catarsi
finale. E voglio che questo lo sia anche per me: lui e Seth hanno voluto la
verità? Eccola. La verità fa schifo, farà male. Non ci posso fare assolutamente
nulla.
Decido di essere quanto più precisa possibile, in modo che mi faccia il
minor numero di domande, non voglio ricordare queste cose per un secondo di
più.
“La sera del compleanno di Pansy… è stata l’ultima vera volta in cui ci
siamo visti… dopo che…” prendo fiato, distolgo il viso e tengo a freno il
pianto idiota che mi assale al ricordo della sua proposta di matrimonio. Draco
si muove sul divano, fa un minuscolo accenno di assenso con la gola che sa di
tristezza raschiata via, e finalmente riesco a continuare: “Bè, quella sera… uscii in giardino per
prendere aria. Non avevo nessuna intenzione né di andarmene, né tantomeno…”,
ancora sono costretta a fermarmi, le parole sono diventare così infide che mi
pungolano per essere sincera e poi mi sgusciano tra le mani se mi arrivano
troppo vicine al cuore, che batte ancora maledettamente per l’uomo di fronte a
me.
“Fa male…” commenta Draco, le spalle piegate, e non è una domanda, è solo
una constatazione che sembra nascere dal profondo di sé per riverberarsi dritto
su di me. Lo guardo dritto negli occhi, ed una stupida lacrima mi cade
dall’angolo dell’occhio destro, l’asciugo rabbiosamente: “Ho raccontato questa
storia così tante volte… ed è assurdo che faccia ancora così male… i-io… non ne
volevo parlare adesso… non con Alex che… ed è sempre stata Raissa… fin da
allora…”. Le lacrime mi affannano di nuovo la vista, maledico la mia debolezza
e le asciugo meccanicamente.
“Ti prometto che sarà l’ultima volta che ne parli… per favore… dimmi che
cosa è successo…”. Un brivido caldo mi scuote la schiena, il contatto con i
suoi occhi mi fa ricordare in modo goffo che cosa amassi di lui… e che cosa amo
ancora di lui. Questo: la poderosa sicurezza che ti avvolge e che fonde ad ogni
parola che pronuncia. Sebbene sia passato tanto tempo, fa ancora effetto su di
me, rende il mio respiro più calmo e mi costringe a parlare normalmente, in
modo quasi freddo, pur di finire in fretta: “Non volevo lasciarti. Non l’avrei
mai fatto, e soprattutto non in quel modo... in giardino, fuori dal cancello,
vidi una sagoma supina, era Daphne Greengrass… corsi da lei, non avevo visto
chi fosse e temevo che fosse qualcuno che si fosse fatto male. Raissa aveva
fatto cadere la barriera… ed ovviamente non trovai alcuna resistenza. Lì… mi
aspettava Dimitri…”. Le mani di Draco si torcono a pugno, diventano livide, ma
mi sibila di continuare. “… mi ha minacciato, voleva che lo seguissi. Ed io
ovviamente mi sono rifiutata, avevo la bacchetta che mi avevi dato, l’ho attaccato…
ed avevo anche avuto la meglio. Ma appena ero riuscita a farcela, sono comparsi
Astoria, Pucey e Montague… si erano alleati con lui… io… non li avrei seguiti
lo stesso, sarei morta pur di non andare con lui… ma… avevano Hayden…”. Lo
stupore sul volto di Draco ad ogni parola del mio racconto si stempera nella
rabbia, nella furia. Sento distintamente che sta per perdere il controllo, sta
per cedere, sta per crollare. Le mani sono rosse a furia di sfregarle, mi
sforzo di proseguire deglutendo: “Lo avevano già ferito… tu avevi pensato a
difendere tutti, tranne lui… e io non potrò mai perdonarmi di non avertelo
ricordato, di non aver io stessa pensato che lui potesse essere messo in mezzo
a questa storia… per colpa loro, Hayden non camminerà mai più…”. Ancora le
lacrime mi impediscono di continuare, ho già raccontato questa storia decine di
volte, ma adesso con Draco ha un’impressione differente. Mi fa davvero più male
che tutte le altre volte. Quello che leggo in lui, nei suoi occhi, mi spinge a
sentire tutto più forte di prima. Seth pianse mentre parlavo, Pansy rimase
sconvolta, Dean mi abbracciò un paio di volte… ma con loro è diverso, è ovvio
che lo sia. Draco è vittima come me, in
me. Nel ricordo, lui soffre assieme a me per la prima volta da cinque anni.
Fa male, infinitamente male, ma forse fa anche bene. In un modo strano, sento
che forse è la sola occasione che ci è rimasta di sentirci uniti ed è
emblematico che ciò avvenga nel ricordo del dolore, della rabbia e dell’odio
che ci ha resi estranei.
Ormai, abbiamo dalla nostra solo questo e qualche granello di polvere di
una passione, che probabilmente, nostro malgrado, non andrà mai via. Ma è solo
sangue, carne, pelle. Non arriva più al cuore.
“Sono stata costretta a seguirli… ma mi sono accorta subito che Astoria non
era venuta assieme con noi…” proseguo inespressiva, forzandomi a trattenere le
lacrime e a non guardarlo “Ed ho intuito subito che avrebbero fatto qualcosa
per tenerti lontano da me… e ne ho avuto la prova quando Pansy mi ha mostrato i
suoi ricordi. Ero io in tutto per tutto, persino le cose che dicevo… erano cose
che avevo pensato… ma lei le stravolgeva come voleva, io non ho mai odiato me
stessa per essermi innamorata di te… ed anche se l’avevo fatto… poi era
cambiato tutto stando assieme, erano cose che risalivano allo Zahir ed oramai
era passato… ed io ero a pieno titolo un’altra persona. Non quella che poteva
stare con Ron, o con chi so io… ero fatta per stare con te…”, nascondo il
rossore delle guance , fingendo di portarmi indietro i capelli con le mani, ed
evito ancora di fissare Draco. Non prendo nemmeno fiato, riprendendo a parlare
con compostezza prima che mi interrompa, la tensione sta crescendo ancora,
dubito che resisterà ancora per molto: “… ed anche Pansy… era stata onesta parlandomi
di Helena… ma non mi ha mai, e dico mai, fatto pressioni per allontanarmi da
te. Non era colpa sua se avevo sempre lei in testa… e se vuoi ancora una prova,
chiedimi come sia con me adesso, come nonostante tutto posso dire persino di
essere legata a lei… mi ha sempre accettato nella tua vita perché amava te… ma
sarà lei a parlartene, se vorrà… e in quanto a me ed Helena… non credo che
conti molto parlarne adesso…”. Figuriamoci se conta parlarne adesso: non si è
fatto scrupolo nemmeno verso Helena.
Sento che Draco sta per alzarsi in piedi e sento distintamente che sta per
parlare, non glielo lascio fare. Se adesso mi fermo probabilmente non riuscirò
più a continuare.
“Sono stata prigioniera di Dimitri per dieci giorni, assieme ad Hayden… ho
tentato di curarlo in modo goffo, ma non c’è stato nulla da fare, è rimasto
paralizzato… e sebbene li abbia implorati di liberare almeno lui, non ne hanno
mai voluto sapere, era un modo per tenermi ancorata lì senza fare nulla di
stupido…”, non l’avrei fatto comunque
qualcosa di stupido, dato che ero incinta di tuo figlio. Quel pensiero
sfuggito per caso mi blocca il respiro e mi fa soffocare. Tossisco un paio di
volte, con forza, come a scacciarlo via, e riprendo con un filo di voce: “Ho
intuito subito che ci doveva essere un motivo… qualcosa… per cui tu non mi
cercavi… e allora non sospettavo minimamente della parte che Raissa aveva avuto
in questa faccenda… pensavo che fosse solo Dimitri… comunque, senza andare per
le lunghe, dieci giorni dopo Helder mi ha rintracciato… mi teneva d’occhio da
quando avevo distrutto lo Zahir e si era accorta che ci era qualcosa che non
andava…”, sono settimane che ho il
cervello che brucia; ancora devo fare ogni sforzo mentale e fisico per
gettare fuori dalla mia mente tutti i ricordi di che cosa è davvero accaduto
cinque anni fa, di Helder che mi diceva che si era accorta che c’era qualcosa
che non andava perché non sentiva più l’amore che legava me e Draco. Faccio
fatica a parlare ormai, la gola mi si chiude come se stessi sott’acqua: “Helder
ha avvisato Harry e Ron, mi hanno trovato nel castello di Dimitri, hanno
attaccato… ma quella notte… l’unico modo per fuggire era saltare da una
finestra. E non è andata esattamente come speravo… un incantesimo di Dimitri mi
ha colpito alla schiena, sono ruzzolata giù per qualche metro e ho avuto un
trauma cranico. Sono stata in coma tre mesi… e al mio risveglio ero in Italia…
avevano trovato tutti più sicuro nascondermi lì, perché Dimitri non era morto,
era fuggito, poteva ancora farmi del male… e mi è stato impossibile
rintracciarti in qualsiasi modo, non mi facevano venir via… e poi…”, faccio un
respiro profondo, l’ennesimo, sembra che debba impormi ogni tanto di inspirare
a rischio di dimenticarmene ed andare di nuovo in debito d’ossigeno “… poi è
nato Alex e per me è diventato prioritario proteggere lui. Per farlo, Ron ha
accettato di fingere di essere mio marito… ho vissuto con lui cinque anni…”. Il
silenzio di Draco cambia, mi arrischio ad alzare lievemente lo sguardo, le sue
mani sulle ginocchia sono distese, le dita sono come congelate e sembra essersi
immobilizzato dal moto ondoso che lo caratterizzava fino a poco fa. Prevedo
senza eccessiva fatica che cosa sta pensando, sento persino il veleno della
risposta che mi dedicherebbe e mi sento subito in dovere di specificare e di
discernere l’indubbia similitudine che sta facendo con la sua situazione con
Raissa: “So che al momento non sono affari tuoi… e dubito che lo saranno mai
più… ma io e Ron abbiamo solo finto di essere sposati… non c’è stato niente tra
me e lui, di alcun tipo, per cinque anni…”, è più forte di me poi aggiungere
come una cretina: “… ed Alex non è suo figlio, se te lo stai chiedendo in modo
del tutto inappropriato…”.
Immediatamente dopo aver finito di parlare, mi rendo conto della stupidaggine
che ho fatto. Accennare ad Alex significa automaticamente fargli venire la
curiosità sulla sua paternità… come farei a glissare se mi facesse una domanda
diretta? Specie se sto cercando, nel mio rancoroso modo, di fargli capire che
sono rimasta fedele a lui in tutto e per tutto, anche se in un modo
assolutamente patetico, visto come è andata… ma ovviamente Alex non può essere
nato sotto una foglia di cavolo.
Ma, con mia somma fortuna, Draco perde del tutto la connessione con il reale
quando sente parlare di matrimonio e capisce che non sono sposata. Non riesco
ancora a capire il perché, ma spiandolo con la coda dell’occhio, lo vedo
nervoso, crucciato, le sopracciglia aggrottate di uno che ancora sente qualcosa
che non può credere come reale. Non lo facevo così tradizionalista, cavolo,
forse non mi crede capace di avere un figlio anche se non sono sposata… boh…
comunque in ogni caso, per fortuna ha assimilato il riferimento ad Alex in modo
neutro, senza pensarci troppo su, cosa che mi consente di proseguire con
maggiore tranquillità: “Qualche settimana fa… mi hanno dato la notizia che
Dimitri era morto. In realtà, aveva solo finto di essere morto, ha assassinato
Astoria e dopo ha usato una pianta che inganna gli Empatici e nemmeno Helder ha
potuto capire nulla… quindi sono potuta tornare qui…”, deglutisco ancora a
fatica, quanta parte abbia lui nel mio ritorno non voglio nemmeno palesarla a
me stessa, solo che al momento per continuare nel mio racconto, devo
necessariamente fargli sapere che lo stavo cercando. Altrimenti perché
prendermi la briga di cercare Raissa, e tutto quanto?
Alla fine decido di mantenermi vaga, sostenendo che avevo un sospetto su
Raissa stessa, ed avevo cercato appunto di rintracciarla grazie a Seth, Pansy e
Dean. In breve racconto quindi la storia di Tatia, il viaggio in Finlandia,
l’incontro con Ilai e il voto Infrangibile tra Dimitri e Raissa, fino al
momento in cui li avevo incontrati entrambi. Ed accenno, ovviamente escludendo
che avevo precedentemente incontrato anche Serenity, che era stata Raissa
stessa a dirmi che si stavano per sposare e che erano fidanzati.
Quando finisco di parlare, ho il fiato corto e la sensazione di sentirmi
svuotata completamente da ogni forza ed energia: sono persino costretta ad afferrare
la bacchetta e a far comparire una brocca d’acqua ed un bicchiere, di cui
trangugio il contenuto in tre sorsi. Nelle ultime fasi del mio discorso, forse
presa dalla voglia di finire quanto prima e di condensare eventi, non ho molto
badato a Draco e a come stesse reagendo. Lui, del resto, non ha quasi più
respirato ed è come evaporato da qui, esattamente da quando ho raccontato di
essermi svegliata in Italia. Con una fitta di nervosismo, constato che
probabilmente non ha sentito una parola del racconto di Tatia e mi riprometto,
qualora mi chieda qualcosa, di mandarlo a quel paese, dato che su di lei sono
stata adeguatamente precisa e prolissa.
Ma Draco, appena finisco di parlare, non fa assolutamente nulla del genere.
Si alza in piedi, fa qualche passo attorno alla stanza per poi fermarsi dietro
la finestra, la schiena rivolta verso di me e le braccia piegate e poggiate sul
vetro. Finalmente posso guardarlo senza che ciò mi susciti alcuna emozione
palese: i muscoli delle spalle sono contratte, scattano sotto la polo
nervosamente, il respiro è rapido ed ansante. Le mani, chiuse a pugno, tremano
leggermente. Sembra, di nuovo, sul punto di scoppiare.
La sua voce sembra provenire da molto lontano, quando parla di nuovo,
sebbene sia solo ad un paio di metri da me. Ha un tono sarcastico, ma sfumato
in una specie di tenerezza collosa, che mi fa scendere un pesante groppo sullo
stomaco. Dice solo: “Mi ero dimenticato com’è parlare con te… che eludi e
scegli accuratamente che cosa dire e che cosa non dire, che cosa accentuare e
cosa lasciare sfuggire via… chissà quanto non mi stai dicendo…”. Sobbalzo a
disagio, ancorandomi al bracciolo del divano come se fossi stata appena
condannata alla pena capitale. Ritrovo il respiro solo quando parla di nuovo
con voce inespressiva: “Non ti chiederò di tuo figlio… l’ho capito che non ne
vuoi parlare… e ok, mi può anche stare bene…”, sospiro un po’ troppo
rumorosamente, calmandomi e ritrovando un ritmo più o meno normale del cuore “…
ma c’è altro che devo chiederti… devo farlo. E mi devi rispondere…”.
La sequenza di tutte quelle coniugazioni del verbo dovere mi provocano un
ulteriore bruciore lacerante allo stomaco, e sono tentata di incrociare le
braccia e di sbuffare rumorosamente. Poi tento di darmi un contegno e di ricordare
che tutto quello che gli ho detto avrebbe sconvolto anche me, se lo avessi
saputo solo adesso. Sentendomi cretina, dico alla sua schiena in tono truce:
“Non accetterò un terzo grado, Malfoy… non ne ho né la voglia, né il tempo…
condensa tutto in tre domande, ed andiamo avanti…”.
“Me ne bastano due, Granger…” mormora lui, e ha ad un tratto la voce così
triste che mi pento quasi del mio accesso di acidità di poco fa. Le viscere mi
si torcono dolorosamente, trovo sollievo solo dicendo in tono più gentile: “Due
domande… possono andare bene… che cosa vuoi sapere?”.
Si volta improvvisamente, e il contatto con i suoi occhi è così rapido e
subitaneo che mi trovo ad annaspare come un naufrago che non sa nuotare. La mia
schiena trova il divano, mentre mi spingo indietro, come a volergli sfuggire,
prima di rendermi conto di quanto sia inutile. Le pupille dilatate spingono il
grigio dell’iride verso il bianco degli occhi, il respiro accelerato crea
chiazze rosse sui suoi zigomi e le mani si contraggono a pugno, prima che se ne
renda conto. Ho quasi il terrore che voglia lanciarmi contro qualcosa. Poi
parla, e capisco. Ha la voce dolce e disperata, piena di rimorso, e pur non
volendo, pur non immaginandolo, pur non premeditandolo, la vecchia Hermione
trasale dentro di me, si slancia idealmente verso di lui, sogna di abbracciarlo
e di cancellargli quel pensiero dal cuore.
“Voglio sapere esattamente che
cosa ti ha fatto Dimitri…” biascica in tono affrettato, come se non potesse
nemmeno prendere fiato parlando “Tu sei stata molto elusiva nella tua piccola
conferenza stampa… ma io… ho bisogno di saperlo…”, la sua voce si abbassa
ancora, mentre i suoi occhi si assottigliano, come se non potesse nemmeno
sopportare la fioca luce della stanza, ed aggiunge, causandomi un’altra fitta
al cuore: “Io… ho bisogno di sapere fino a che punto ho mandato a puttane la
promessa che avevo fatto… quella di proteggerti…”.
Tre secondi, tre miseri e maledettissimi secondi, e io me lo ritrovo di
fronte, ad un passo da me, senza che me ne sia nemmeno accorta. Per un attimo,
penso di aver avuto una botta in testa, di essere svenuta, o che sia stato lui
ad avvicinarsi. Ma Draco ha l’espressione a sua volta troppo sorpresa perché
possa averlo fatto lui, ed al contempo, con angoscia, mi rendo conto di essere
io quella in piedi, quella lontana dal divano, quella rossa in viso e quella
che non ha ragionato agendo. Me ne ero dimenticata, mi ero dimenticata di come
perda sempre il controllo quando si tratta di lui, di come il mio cervello vada
in cortocircuito quando sento quel richiamo ancestrale come quello di una
conchiglia, di come d’improvviso faccia cose che razionalmente non farei. Ho
sorpreso persino lui stavolta, mi guarda in modo strano, indecifrabile, le
palpebre che tremano leggermente come se i suoi occhi fossero tesi dal
tentativo di capire perché adesso, dopo ore, io mi sia avvicinata così tanto.
In realtà, non lo so nemmeno io fino a quando non parlo, non apro bocca: per
qualche secondo mi sento così rintronata dal suo profumo, che credo di avere
ancora un annebbiamento. Ma le mie parole sono così lucide e chiare che mi
chiedo dove diamine stessero se la mia mente è così ottenebrata da non poterle
ragionevolmente averle formulate.
“Non potevi proteggermi…” sussurro con un filo di voce, un accenno di
pianto idiota che mi fa vergognare di me stessa, lui se ne accorge e fa un
minuscolo passo verso di me. Il mio corpo non reagisce come vorrei, non si
allontana, resta esattamente piantato al suolo dove sono, anzi ho persino
l’impressione di essermi spinta più sui piedi, scivolando più in avanti.
Proseguo, trattenendo un singhiozzo: “Io… non ho protetto Alex… non ho potuto
farlo. E per te è stato lo stesso cinque anni fa… non devi sentirti in colpa o
altro…”, sto quasi per aggiungere che potrebbe sentirsi in colpa per ben altre
questioni, ma mi trattengo, mordendomi le labbra e distogliendo il viso.
“Dimmelo lo stesso, però…” lo sento bisbigliare con un filo di voce, in un
respiro flebile che non gli appartiene “Dimmelo lo stesso… che ti ha fatto?”.
Respiro a fondo, cercando di ricordarmi quei terribili dieci giorni, e non
so perché improvvisamente sento che non voglio essere sincera. Voglio mentire,
nascondere, celare, cancellare quegli occhi che ha e che non volevo che avesse
mai più. Sono stati i giorni peggiori della mia vita, perché negarlo a me
stessa? Hayden che peggiorava, la scoperta della gravidanza, il terrore di
partorire lì, il disgusto per quello che mi poteva fare Dimitri, la paura che
Astoria mi portasse via Alex per usarlo contro Draco, l’angoscia per lui… e poi
il buio, la gabbia, le sbarre, la polvere. Senza dimenticare la sera della
fuga… le labbra di Dimitri, il suo corpo sul mio, il volo oltre la finestra, lo
schianto. Voglio davvero che sappia anche questo? Voglio davvero punirlo per
qualcosa di cui non ha colpa? No. Non lo voglio.
Voglio punirlo perché sposa e ama Raissa, non perché ha concesso che mi
accadesse questo.
Voglio che si possa difendere… e voglio anche che lui sia innocente, perché
così rende innocente me. Io… che non ho salvato nostro figlio.
Quel pensiero si traduce in un ulteriore scoppio di pianto, che reprimo in
gola, e che diventa un singhiozzo soffocato che però Draco ode lo stesso. E
forse, annebbiato anche lui, ostaggio dell’abitudine di sorreggersi sempre e
schiacciato dal pensiero di non vedermi soffrire ancora, mi prende per un
fianco e mi attira a sé, abbracciandomi, stringendomi, fino a farmi mancare il
respiro. Allaccia le braccia attorno alla mia vita ed affonda il viso tra i
miei capelli, piegandosi sulle ginocchia. Sento il suo respiro sul collo, il
calco delle labbra che mi resta impresso come se fossi creta, sebbene non mi
stia davvero baciando. Ma io già so com’è, ricordo com’era quando mi baciava, e
la mia mente mi ripropone l’anticipazione di quella fantasia, facendomi tremare
come una foglia. Rimango immobile tra le sue braccia, congelata, raggelata,
rendendomi conto che tutto quello che ho fatto fino ad ora, avrebbe dovuto
portarmi a restare seduta composta su quel divano, e non qui, tra le sue
braccia che ancora profumano di pioggia, di erba bagnata nel mese di settembre.
Il mio labbro inferiore trema, lo sguardo fisso nella finestra e nel cielo
placido qui fuori, e io resisto, resto ferma, fingo di non essere qui.
E poi, semplicemente, all’improvviso… non ce la faccio più.
È così caldo, così saldo, coì improvvisamente presente dopo anni in cui non
lo è stato… che, senza fretta, timorosamente, mi alzo in punta di piedi e
chiudo le mie braccia attorno alle sue spalle, reprimendo ancora le lacrime nel
fondo dei miei occhi. Non penso a nulla per un momento, a niente, solo che lo
voglio vicino, l’ho sempre voluto vicino in questi cinque anni, ed adesso c’è,
adesso a suo modo c’è. Chiudo gli occhi, le sue braccia che mi stringono più
forte e mi attirano più vicina, e Draco d’improvviso sorride nei miei capelli e
dice: “Hai sempre lo stesso odore… i tuoi capelli… usi sempre quel maledetto
shampoo alla vaniglia che sa di cupcakes…”. E non so perché è persino giusto
adesso che me lo dica, e mi chiedo perché non l’abbia fatto prima, ed è così
naturale che mi sembra normale, ed è così tranquillizzante che sorrida daccapo
che io sorrido a mia volta, e mi tengo più stretta a lui, perché tanto non mi
interessa più niente di niente, se è qui daccapo. E non so nemmeno io che dico,
a quel punto, lo rimprovero forse, lo prendo in giro sommessamente o racconto
daccapo l’aneddoto di quello shampoo, che è l’unico che ho la certezza assoluta
che non sia testato su nessun animale o pianta o elfo domestico. E lui mi dice
che se lo ricorda, al supermercato Serenity lo voleva comprare una volta, ma “Raissa odia quel profumo, peggio di come io
odiavo la ciliegia”. E per un attimo rido persino, sento solo il calore
delle sue dita sulla mia schiena e penso solo ad esso… e poi, così come è
arrivata quell’ondata di spontaneità ingenua, se ne va via.
Lasciandomi stupita e stupida, chiedendomi che diamine sto facendo.
Mi sento schiacciata dalle sue braccia, come se soffocassi tutt’un tratto,
mentre ricordo tutto quello che dovrebbe funzionare come muro e barriera tra me
e lui, ora. C’è Raissa e tutta la maledetta storia che ha con lei; c’è Alex ed
il fatto che lui non sappia che sia suo figlio; c’è Ilai e il bacio che ci
siamo dati stanotte; c’è il tempo che è scorso tra me e lui, rendendoci
estranei. Ed allora comprendo tutta la maledetta idiozia di stare qui a parlare
dello shampoo che uso, o delle preferenze che ha Serenity, o di quelle ancora
più aberranti alle mie orecchie di Raissa. Sento, d’un tratto, la sua vicinanza
come se mi mandasse a fuoco, come se fiamme intense mi corrodessero
dall’interno, mangiandomi e consumandomi viva. Al contempo, voglio che si
allontani da me… e voglio che mi stringa di più.
Ma siccome questo secondo desiderio è sconvenientemente idiota, mi stacco
da lui e mi divincolo con forza. Draco mi guarda senza capire, gli occhi
socchiusi e ridotti a due fessure, poi sbatte le palpebre e mette distanza tra
me e lui, facendo un passo all’indietro. Gli occhi lucidi che tornano a me e
quelli ghiacciati che tornano a lui, sono il segnale che siamo tornati noi
stessi.
Quelli formali, ovattati e poco sinceri che siamo dopo cinque anni: ma i
soli che, davvero, possiamo essere adesso.
“Dimitri non mi ha fatto nulla…” commento, riprendendo il discorso e portandomi
nervosamente i capelli dietro le orecchie, Draco per un attimo sembra che stia
per dirmi qualcosa, ma poi abbandona le braccia lungo i fianchi, ascoltandomi
apatico “Voleva che io lo desiderassi autenticamente, non voleva
costringermi…”, ed era disgustato dal
fatto che fossi incinta di te “… ovviamente in dieci giorni non ha ottenuto
che nulla di me cambiasse idea… e non l’avrebbe ottenuto nemmeno tra dieci
anni…”.
Draco fa un piccolo sorriso, storto, debole, che non gli arriva agli occhi.
Scuote il capo e mormora: “Ancora… c’è ancora
qualcosa che non mi stai dicendo…”.
“Con le cose che tu non mi hai detto… e che non mi dici ancora… si potrebbe
costruire una scala per l’Everest…” ribatto piccata, innervosita dalla
cristallinità che ho sempre davanti a lui. Draco fa una risata amara, di gola,
priva di allegria, prima di aggiungere: “Facciamo che ti credo… e facciamo che
fingo che tu mi abbia detto tutto… e facciamo anche che credo che io non avessi
il potere di impedire tutto questo…”, Draco solleva il palmo, fermando le mie
ovvie rimostranze, e prosegue, improvvisamente meno arrabbiato e più serio: “Mi
devi la seconda domanda…”.
Certo… me ne ero scordata… annuisco, incrociando le braccia nervosamente e
sperando che mantenga la promessa di non tirare fuori Alex.
Sono concentrata su un tale numero di possibili cose che avrebbe interesse
a chiedermi, che per un attimo, la domanda che mi fa, non raggiunge le mie
orecchie, scivola fuori come se fosse acqua. Registro solo la sua espressione
serissima, la mascella contratta, gli occhi intenti a trapassarmi da parte a
parte come se fossi burro.
“Radcenko… il marito di Tatia…” mormora lapidario, le dita che per un
attimo hanno un fremito involontario che tenta di calmare, serrandole “Che cosa
siete l’uno per l’altra?”.
Il cuore prende il volo, sbatte contro la gabbia toracica come se volesse
schizzare fuori, ed ancora temo di perdere il controllo davanti a lui. Ha
l’espressione scavata, gli occhi più chiari che mai, solo lievemente coperti
dalle ciocche di capelli bionde. E sembra più alto, improvvisamente, come se mi
schiacciasse al suolo, e sembra avere lo sguardo più intenso, come se si
divertisse a mettermi a soqquadro la testa. Istintivamente, come una bambina
che confessa non avendolo nemmeno pianificato, come se ingenuamente i gesti mi
sfuggissero dalle mani prima di rendermene conto, mi porto un dito alle labbra
e lo lascio lì, fermo, mentre la mia schiena ancora sussulta della sua domanda.
Lo legge subito Draco, lo capisce. Fa un respiro profondo, chiude gli occhi e
distoglie il viso, perché con quel gesto inconscio, è come se avessi
confessato. Scioccata, stacco la mano dalle mie labbra, la serro dietro la
schiena e fisso lo sguardo sul pavimento.
Potrei dirgli che non sono affari suoi… ma a che pro? Non mi interessa che
cosa pensa al momento… basta che quello su cui non esprima giudizi, sia la
verità. Non una bugia.
E la verità la vomito dalle labbra che conoscono Ilai e non più lui, come
se me ne volessi liberare nella maniera più veloce possibile.
“Non stiamo assieme…” dico velocemente, vedo con la coda dell’occhio che si
volta e torna a guardarmi “… ma anche se questo non deve interessarti e non
devi nemmeno permetterti di aprire bocca… specie adesso… specie per come stanno
le cose…”, sospiro ancora e biascico con voce malferma: “Non è un mio amico.
Non lo è affatto. E non lo so che cosa sia per me e cosa sia io per lui…”.
Ritengo che sia sufficiente, ritengo che basti: non parlo del bacio, o
della connessione che ho anche a livello magico con lui, e non accenno
minimamente al fatto che avevo pianificato di andare con lui in Finlandia,
prima che succedesse tutto questo. Però, d’improvviso, reputo vitale aggiungere
qualcosa e non so se, in questo, sia più forte quello che provo per Ilai o
quello che provo per lui. Non so se sto cercando di proteggere Ilai, punendo
lui, o se sto cercando di chiarire le cose per impedire che mi si ritorcano
contro. Non so nemmeno se è ancora la catarsi di cui parlavo prima.
So solo che, come ho ritenuto impossibile dirgli i particolari della mia
prigionia per non farlo sentire in colpa, e come ancora ritengo impensabile
dirgli di Alex in queste circostanze, adesso so che deve sapere altro… di me e
di Ilai. Perché ho finito di proteggere Draco, a discapito di me stessa. Non
dirgli nei particolari cosa mi ha fatto Dimitri, lo protegge ma non mi
danneggia, anzi mi fa anche bene non ricordare che cosa mi è successo. Non
dirgli di Alex, protegge mio figlio e tanto già basterebbe, se non fosse che
protegge anche me. Dirgli di Ilai, probabilmente, gli farà del male… ma a me
invece consentirà di riaverlo qui, di fargli sapere che io lo rivoglio qui.
Quindi, se mi fa bene, contrariamente a tutto quello che ho fatto in questi
anni, io devo dirlo, anche se farà del male a lui.
Alzo il mento con orgoglio e torno a guardarlo. Sebbene le mie intenzioni
siano nette, il mio corpo se ne va comunque per conto suo. Arrossisco e pigolo
qualcosa di incomprensibile, poi a voce più chiara scandisco: “Ho bisogno di
lui… io ho bisogno che Ilai sia qui, adesso…”. Chiudo e riapro la bocca un paio
di volte, incapace di proseguire oltre, e distolgo lo sguardo prima di leggere
qualcosa in quello di Draco: qualcosa che mi costringerebbe a ritrattare, a
mitigare, a accentuare quello che ho detto. Ma la verità, invece, è questa:
pura, semplice, netta ed, al contempo, scomoda e sgusciante.
Bisogno: ecco che cosa è, oggi, Ilai per me. E’
un bisogno, al pari di dormire, mangiare e bere. Un bisogno creato dalle
circostanze attuali, sicuramente, ma che non cambia natura. È fame di aria nei
polmoni, perché lui riesce a farmi respirare; è sete di calore allo stomaco,
perché lui riesce a farmi calmare; è insonnia di riposo della mente, perché lui
mi mantiene salda in me stessa.
Non so questo che significhi, non so questo che cosa sia, non so se possa
chiamarsi amore, affetto, ossessione, attrazione o semplice pazzia.
Ma è un bisogno, adesso, insormontabilmente realizzabile solo da Ilai. Nel
bene e nel male, lui è tutto quello che Draco non mi ha mai dato.
E che non ho mai cercato, intendiamoci… nonostante cinque anni fa le cose
non fossero facili, non sentivo la necessità di qualcuno che mi mettesse a
posto. Ero già a posto: disoccupata, con un brillante destino da cameriera,
sconquassata dal presente da babbana, separata dai miei amici e dalla mia vita,
e poi innamorata di quello che sarebbe sempre stato l’uomo sbagliato… ero
comunque a posto.
Non necessitavo di qualcuno che mi sorreggesse, o mettesse assieme i miei
pezzi, se non nel modo quotidiano in cui comunque si ha sempre necessità di
dividere la propria vita con qualcuno. E Draco, questo l’ha fatto… per dieci
giorni in cui mi sembrava comunque di non avere bisogno di nulla, tranne che di
lui, ma l’ha fatto. Però, Pansy aveva ragione: quello era l’inizio, era un
passo, ma era solo il primo. L’amore… quello sarebbe venuto dopo. E’ stato
sbagliato costruirmi la vita su quei dieci giorni… specie quando ho capito che,
adesso, da madre e da donna, io avevo un bisogno diverso. Più viscerale, più
intimo, maggiormente legato al fatto che non ero più forte come un tempo…
specie adesso. Ron non riusciva a vedermi diversa da quella che sono sempre
stata: la ragazzina saccente e sicura, che fingevo di essere. Per questo, lui
non placava quel mio bisogno che, per molto, non ho saputo nemmeno esistente,
concentrata com’ero su Alex. Draco, forse, potrebbe anche farlo, ma parliamo
ormai di ipotesi: avrei dovuto fare un atto di fiducia se Raissa non fosse mai
esistita, figuriamoci adesso. Ilai ci riesce, senza che nemmeno pensi di
chiederlo. Per questo, è la sola persona di cui sento davvero di avere
necessità estrema adesso. Anche Dean, ovvio, mi tratta così, contrariamente a
Seth… ma lui ha Pansy e Charisma. Ed è giusto che io non mi appoggi a lui.
Ilai, a sua volta, ha solo me.
Dopo qualche secondo, in cui Draco è rimasto in perfetto silenzio e io mi
sono limitata a seguire le linee concave del legno di frassino della libreria,
la sua voce mi richiama indietro. La tiene ferma, salda, apparentemente sicura,
ma dentro ci vibra qualcosa di sordo che stride nelle mie orecchie come unghie
sul ghiaccio.
“Bè, è naturale che tu abbia bisogno di
qualcuno…” dice quieto, provocandomi un sobbalzo nello stomaco. Lui… quieto non lo è mai. E difatti non lo è
nemmeno adesso, non ho neanche bisogno di guardarlo. La sua voce è chiara,
certo, ma ha accentuato la parola bisogno con un tale disgusto e nausea che mi
fa immediatamente stringere i pugni e contrarre la mascella.
“Mi chiedo solo come prenderà Weasley questo tuo attaccamento…” commenta con voce accorata, siglando ogni parola con
ulteriore malcelata antipatia “In fondo, da quello che mi hai detto… hai
vissuto con lui per cinque anni… e sono bastate, quanto, due o tre
settimane…e sei invece totalmente dipendente da uno che conosci appena… e
che era anche sposato…”.
In quattro secondi, Draco brucia come carta ogni mia resistenza ed ogni mio
tentativo di stare calma. Ha scelto ogni parola, ogni dannatissima parola, con
l’attenzione di un avvocato che fa un’orazione, cosa che mi fa gemere di
nervosismo e respirare come se temessi di prenderlo a schiaffi da un momento
all’altro. Ha tirato nella conversazione Ron, quando a lui non è mai fregato
niente di lui. Mi ha definita dipendente da Ilai, in modo che il mio orgoglio
d’istinto volesse sputargli contro che io non sono dipendente proprio da
nessuno. Ha accentuato e sminuito il tempo che è passato da quando ho
conosciuto Ilai, così che potessi chiaramente sentirmi un’imbecille che investe
tanto in un rapporto che dura da così poco. Ed ovviamente ha anche sottolineato
che lui era sposato, così che potessi sentirmi davvero una sciocca ragazzetta
cresciuta che si aggrappa a chiunque le stia vicino. L’arte mirata dell’insulto
travestito l’ha sempre padroneggiata meglio di me. Ed io, non ho mai nemmeno
pensato di impratichirmi con la dissimulazione: perché, difatti, ogni suo
insulto va dritto al punto, nella parte più morbida del mio cuore maciullato,
nella zona più esposta del mio rimpianto, nel fianco più scoperto del mio
ricordo.
Mi volto infuriata, stringendo i pugni, i capelli che mi fustigano il viso,
e per un attimo distinguo un sorriso becero e sardonico sul suo volto, come se
si aspettasse a breve la mia reazione. Ma ormai sono già sul piede di guerra e
nulla potrebbe fermarmi adesso, neanche quella sfumatura lievemente malinconica
che ha il fondo delle sue iridi grigie. Hai
bisogno di un altro… e non di me. Questo dice. Ma ovviamente è così sepolta
che faccio ben facilmente finta di ignorarla.
“Non credo che tu sia la persona più adatta a discutere dell’andamento
delle mie relazioni sentimentali…” biascico nervosamente, non preoccupandomi
nemmeno di tenere la voce bassa. Draco sorride, stringendo le palpebre, e mi
guarda di traverso: “Siamo già arrivati a relazioni
sentimentali? Se insisto qualche altro secondo, probabilmente arriverò a
sapere il colore delle bomboniere che avete scelto…”.
“L’unico qui che può parlare di bomboniere e relazioni, sei tu!” urlo
finalmente, graffiandomi la gola “O ci stiamo dimenticando che sei tu quello
che si sta per sposare…?!”.
Mi aspetterei, non senza una certa soddisfazione, che Draco assumesse
un’espressione colpita, offesa e vergognosa; che si chiudesse nell’angolo ed
incassasse il colpo. Incrocio persino le braccia, mettendo su un sorriso
appagato, ma ho ancora dimenticato che Malfoy non è la persona che asseconda le
mie aspettative. Mai. E difatti mi sorprende anche stavolta: senza battere
ciglio, senza manco cambiare espressione, si passa annoiato una mano tra i
capelli e blatera profondamente scocciato: “Ancora con questa storia? Sei
rimasta seccante come sempre… peggio di un martello pneumatico…”.
“Ancora con questa storia?!” biascico scandalizzata, guardandolo incredula
“Mi stai facendo un processo per Ilai… e tu… tu ti stai per sposare! Lasciamo
stare che non è nemmeno normale ed opportuno che tu mi faccia domande su me e
lui, e lasciamo anche stare come mi sia saltato in mente di risponderti… ma che
ti permetti anche di fare commenti?! Tu, che ti stai per sposare con quella?!”.
“C’è mai stato qualcosa di normale
ed opportuno tra me e te?” commenta
Draco serio, dismettendo l’espressione ironica ed indossandone una intensa e
desiderosa di frugarmi dentro, al punto che sono costretta a stringermi nelle
braccia, quasi per proteggermi dal flusso di ricordi che mi colpisce subdolo
“Sei sempre stata tu quella che badava a ciò che era giusto fare… a me non è
mai fregato nulla di questo… se ho una domanda da farti, te la faccio… allo
stesso modo, ora, ho una risposta da darti e te la darò… anche se tu, quella
delle cose opportune, non chiederesti
mai nulla…”.
“Una risposta?! Su che cosa?!”.
“Me e Raissa…” biascica con ovvietà, roteando gli occhi nervosamente “Ti
stai rodendo il fegato per saperlo, ma, come sempre, non ti azzarderesti a fare
una domanda diretta nemmeno se ti puntassero la bacchetta alla gola…”.
Punta sul vivo, mi rendo conto che effettivamente l’ho nominata troppe
volte per lasciargli intendere che sia indifferente alla questione. In ogni
caso, incrocio le braccia con rabbia e sputo fuori velenosa: “Forse perché me
ne frega poco di te e Raissa…”.
“O forse perché te ne frega troppo…”
commenta lui annoiato, guardandosi le unghie con un’espressione saputa che mi
manda il sangue alla testa “Te ne frega al punto che la nomini ogni tre
secondi, ma non sia mai che questo io lo capisca, no?”. Ovviamente ci ha preso
in tutto, è naturale che me ne freghi di lui e Raissa, ma non voglio
assolutamente che capisca fino a che punto. Odio essere rimasta così
dannatamente trasparente ai suoi occhi, ed odio anche e soprattutto parlare di
queste cose in un momento come adesso: dovrei solo correre fuori a cercare
Alex. Eppure, ho i piedi incollati al pavimento. Se poi contiamo che sono
vagamente e trucemente rassicurata dal fatto di non poter fare nulla per Alex fino
a quando Dean non torna… bè questo spiega perché il mio: “Non dire sciocchezze…
se non l’hai capito ho cose ben più importanti a cui pensare…” suoni così
debole e fiacco, mentre volto il capo dall’altra parte.
Draco, minimamente impensierito, fa qualche passo e torna a sedersi sul
divano, il sole che lambisce per un attimo i suoi occhi e li rende lucidi
specchi. Con voce monocolore, riprende: “Ok, d’accordo, lo accetto… diciamo che
sono io quello che sale sul palco e racconta la sua vita adesso, dopo che ti
sei lamentata per circa quarantacinque minuti… me lo devi un bel momento alla
“come eravamo”, no?”.
“Non ti devo un bel niente…” biascico ancora, stavolta più decisa,
incrociando meccanicamente le braccia.
“E allora io parlo alla credenza e tu semplicemente aspetti che torna quello di cui hai bisogno, ok?” dice
melenso, con la faccia da schiaffi peggiore di questa terra, specie nello
scimmiottare daccapo il modo che ho usato per chiamare il rapporto tra me ed
Ilai “È un bel compromesso… puoi persino fingere che non mi stai ascoltando e
io posso persino fingere di essere impazzito e di stare parlando da solo…”.
Rassegnata, sospiro a lungo e decido di tornare a sedermi al mio posto, non
prima di aver borbottato acida: “Fai come dannazione ti pare… basta che ti
spicci…”.
Draco, contrariamente alle premesse, si prende qualche minuto per formulare
le parole giuste: spio con la coda dell’occhio le sue ciglia biondissime
fremere e muoversi convulsamente, sopra gli occhi agitati, mentre resta
immobile a guardare il tavolino del salone con espressione concentrata ed, al
contempo, assente. Credo di essermi incantata qualche secondo, perché quando
riprende a parlare, sollevando lo sguardo e beccandomi a guardarlo, ho un
piccolo sobbalzo. Lui risponde con un sorriso che non riesce a cancellare, cosa
che mi fa sentire una ragazzina di cinque anni, poi si schiarisce la voce,
dicendo: “Cinque anni fa… quando ho incontrato te… anzi, quando ho incontrato Astoria che fingeva di essere te…
non è stato bello. Mettiamola così…”.
È incredibile come, nella sola parola bello
preceduta da una negazione, sia riuscito a mettere tutto quello che deve
aver provato: ho sentito la confusione, la rabbia, il dolore, la sofferenza,
tutto. Tutto, nel semplice tremito della voce nel formulare quell’aggettivo… mi
stringo nelle spalle e sposto senza necessità alcuna il peso da una gamba
all’altra.
Draco prosegue, come se non si fosse accorto dei miei movimenti,
apparentemente così perso nelle sue parole da non dare peso a me: “Lei ha detto
tutto quello che io temevo di sentirti dire ed, al contempo, tutto quello che
la parte peggiore di me sperava che tu dicessi, così da costringermi a vivere
nella maniera asettica in cui sono sempre vissuto da quando è morta Helena…
sono stato sollevato e devastato allo stesso modo. E sollevato di essere devastato e devastato
per essere sollevato… e sebbene mi sia successo tanto… tutto, in questa stramaledetta esistenza… non ero più me stesso”.
Fa una pausa che occupa lanciandomi una lunga occhiata obliqua, intrisa di
qualcosa che non riesco a spiegare, e che somiglia ad una dolcezza guasta che
mi scivola dentro, anche se non vorrei.
“Avrai sofferto di più tu, Granger, ovvio e naturale… ma io… come dirlo…”
lo vedo cercare a disagio le parole, fino a che si illumina e dice stoico:
“Ecco, mi sono perso…”.
Perso… quel maledetto aggettivo mi riporta
indietro di cinque anni. Alla sensazione che provavo al Petite peste, ai primi
contatti con lui, al momento in cui mi aveva parlato in terrazza, al nostro
primo bacio.
È una sensazione orribile, da stringere la gola e da farmi desiderare
fuggire dall’altra parte del globo.
Ma trattengo il fiato, respiro a lungo e cerco di calmarmi, imponendomi di
ascoltarlo. Dopo che mi hanno portato via Alex, la portata delle brutte sensazioni
si è decisamente attenuata.
Draco, intanto, prosegue, sbatto le palpebre e scaccio i ricordi,
ascoltandolo: “Quando Helena è morta, ero ben cosciente di chi ero: ero un
maledetto bastardo che l’aveva fatta morire e che doveva vendicarla. Quando tu
te ne sei andata, io non sapevo chi diamine fossi. L’apatia era un insulto a te
e ad Helena, che avete sempre voluto che io vivessi… la vita era una bestemmia
a me, che non volevo nemmeno sentirne parlare… e in tutto questo, in tutto
questo… la cosa migliore era bere, ubriacarsi, e non pensare, così da non dover
decidere...”.
Non sta indorando la pillola, ovviamente, ed immaginarlo così mi fa sentire
d’improvviso ancora peggio di quanto già non mi sentissi. Draco solleva lo
sguardo, mi incatena ai suoi occhi e mi obbliga a non fuggire, mentre dice
fermamente, non abbandonando il mio viso, il sole che lo illumina da dietro
come se fosse davvero su un palco: “Tre
mesi… ho passato così tre mesi. Nel sollievo di non dover decidere ancora…
e nel sollievo che Raissa era con Serenity…”. A quel nome, trasalgo, chiudo gli
occhi e mi serro nelle spalle, una spina nel fianco che riprende a pulsare.
Quando riapro gli occhi, Draco è ancora lì, di fronte a me, seduto sul
divano, i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani che, come prima, sfregano
l’una sull’altra. Vaga sul mio viso per un attimo, gli occhi leggermente
spalancati, poi sussurra velocemente: “Lei mi aveva seguito, si era presa cura
della bambina, mi portava a letto quando rientravo stravolto…e io… gli ero grato. E basta. Era solo gratitudine,
solo amicizia, solo… questo… e certo,
ora so che mi dirai che lei mi sorvegliava per Dimitri, che amava Radcenko… ma
in fondo, non mi interessa. L’ha fatto… e tanto basta. Mi ha usato e io ho
usato lei… sono almeno cosciente di questo… non come altri che si usano a
vicenda e nemmeno hanno l’accortezza di ammetterlo a sé stessi…”.
Quell’ultimo commento mi fa drizzare seduta come se fossi colpita da una
scarica elettrica: “Se stai parlando di me ed Ilai…”.
“Sto parlando di me, adesso, Granger… piantala con il tuo egocentrismo…”
mormora lui, rimettendosi seduto con la schiena poggiata al divano e le braccia
incrociate, prima di continuare con un sorriso sbruffone: “…ma la tua coda di
paglia è sommamente interessante…
giuro che ci tornerò sul punto…”. Non so che cosa mi trattenga dal gettargli
qualcosa contro, forse il fatto che il vaso di cristallo sul tavolo costerà
decine di sterline e non glielo ripagherei mai. Trattiene quel sorriso da
schiaffi per un po’, per poi proseguire atono: “Comunque, andiamo avanti, non
sia mai che la credenza si annoi e non mi ascolti più… dopo tre mesi, qualcosa
è cambiato. Non so nemmeno io quando e come… o forse lo ricordo ma non credo
che siano affari tuoi e te lo dico ben apertamente senza scivolarci sopra,
sperando che tu non te ne accorga, come hai fatto tu...”, ancora, sono presa
dall’insana voglia di lanciargli una scarpa appresso. Peraltro… tre mesi dopo…
facendo un po’ di calcoli, era ottobre, no? Più o meno quando mi sono svegliata
in Italia… ed era il periodo del compleanno di Serenity. Ecco che deve essere
successo, qualcosa al compleanno di Serenity. I suoi misteri li può decisamente
nascondere meglio. “Bè, tre mesi dopo, mi sono reso conto che non poteva andare
avanti così…” continua Draco, guardando le sue scarpe e non più me,
evidentemente maggiormente coinvolto da quello che mi sta dicendo “E non per
me, non per te, non per Helena… ma per Serenity, per mia figlia. Lei sarebbe cresciuta senza di me ed io sono la
sola famiglia che aveva e che ha. E lei è la sola famiglia che io ho. Potevo
esistere per lei, come avevo sempre fatto, ma vivere davvero questa volta… sforzandomi di farlo per lei. E sperare che
un giorno avrei potuto vivere anche per me stesso. All’inizio non sarebbe stato
facile, naturale… ma poi chissà, poteva anche venirmi più semplice nel corso
del tempo. E nel corso del tempo lo è stato… più semplice, intendo… ci sono giorni, momenti, attimi, in cui la vita
che ho fatto e che faccio… mi piace persino. Ed in questo, non c’entri tu, non
c’entra Raissa e non c’entra nemmeno Helena. C’entro io… e c’entra Serenity.
Sono… e credimi mi fa anche paura dirlo… sono felice di farle da padre…”. Nonostante tutto, nonostante abbia
sempre e comunque voglia di buttargli qualcosa contro, non posso fare a meno di
sentire una stretta piacevole allo stomaco. Ho sempre desiderato che
considerasse Serenity come sua figlia, ho sempre voluto che dicesse che aveva
desiderato vivere almeno per lei. Per un attimo, sciocco come tutto oggi, quando
si tratta di me e di lui e dell’altalena emotiva a cui ci stiamo sottoponendo,
mi sento persino fiera di lui. Sorrido per la prima volta autenticamente da
quando l’ho abbracciato, e sussurro incerta: “M-mi fa piacere… magari non ci
credi nemmeno, ma…”.
“Ho sempre saputo quando sei sincera e quando non lo sei, Granger…” mi
sorride a sua volta, timidamente, piano, come un’alba di gennaio. E mi fa
sciogliere il cuore, davvero. Dio, è
possibile amarlo ancora in questo modo? Basta che abbia solo un sorriso come
questo… e già mi devo attaccare i piedi al pavimento per trattenere l’impulso
di baciarlo? Seguo a disagio, il cuore che mi sfonda le orecchie, la linea
del suo sorriso, la forma delle sue labbra e mi ricordo distintamente il sapore
che avevano. Imbarazzata, arrossendo, distolgo lo sguardo e biascico duramente
quasi: “Avresti dovuto rendertene conto prima… ma è bello che adesso la
consideri a pieno diritto tua figlia…”.
“Non è stato facile…” sussurra in modo sofferto, respirando a lungo “Non lo
è mai, specie quando ricordo che la mia felicità… o quella che ci assomiglia,
mettila come vuoi… io l’ho strappata ad Amos. Ma in quei giorni… ed è qui che
arriviamo alla parte non normale e
non opportuna… quella dove ancora
dopo cinque anni, mi sento in vena di darti spiegazioni che non dovresti avere…
bè, in quei giorni, ecco…c’è o meglio c’era… Raissa…”.
Ed eccomi strappata di nuovo dal momento di miele, che mi ero erroneamente
dipinta addosso. Ma che strappata… violentata, cacciata fuori, gettata in mezzo
ad una strada in una notte di tempesta furiosa. Il volto mi va in fiamme e
torna l’impulso di scappare via lontana, non posso farcela, non credo di
farcela. Non voglio particolari, non so che farmene.
Se mi dice che ci è andato a letto, se me lo confermano le sue parole… non
potrei sopportare di sapere che io e Raissa abbiamo condiviso la sua pelle che
era solo mia.
Se mi dice che la ama, poi…
… non ci voglio nemmeno pensare a questo.
“Io non ho bisogno di sapere che c’è tra te e lei… vi sposate, no? Credo
che sia chiaro tutto… che altro devo sapere?” urlo con voce stridula, alzandomi
in piedi e facendo segno di volermi allontanare.
“Nemmeno io avevo bisogno di sapere di te e Radcenko…” schiocca lui la
lingua, parlando con voce torbida e tagliente. Si alza in piedi a sua volta,
dopo aver seguito i miei movimenti: “Ma si dà il caso che tu me l’abbia detto
lo stesso… quindi chiariamo le cose, adesso, come mai siamo stati in grado di
fare, Granger… non voglio incontrarti tra altri cinque anni e sapere, di nuovo,
che oggi non ti ho detto nulla e ti ho nascosto qualcosa…”, fa una pausa e
qualcosa sembra passargli rapido sul viso. Qualcosa che improvvisamente me lo
fa percepire più luminoso, più bello, meno arcigno. Sussurra: “…e poi in
fondo…”.
“Cosa?” dico con un filo di voce, aggrappandomi allo schienale del divano,
catturata dalle sue parole come una stupida falena con la fiamma.
Draco sospira e sembra quasi sconfitto, mentre soggiunge: “In fondo è
ancora stupidamente, maledettamente e dannatamente seccante parlare con te… eppure ancora stupidamente, maledettamente
e dannatamente… io non riesco ad
andarmene da qui…”.
Il cuore, ancora, mi schizza in gola. Perché,
secondo te, io riesco ad andarmene da qui? Annuisco e basta con il capo,
stringendo forte il tessuto del divano e piegando il collo, così da non
guardarlo in faccia.
“Non ti dirò bugie, verità plastificate o elusioni preconfezionate”
riprende dopo qualche secondo di silenzio, rotto solo dal rumore dell’orologio
“Eccotela la verità… sposare Raissa è una cosa ben diversa, lontana anni luce
da quello che c’è tra me e lei… non c’entra nulla. È firmare un pezzo di carta,
fare un po’ di scena… ed avere la certezza che Serenity resti mia figlia… anche
se lei, con me, non ha nulla in comune”. Resto immobile, come se mi avessero
messo in naftalina, improvvisamente la testa diventa nebulosa e fosca nei
pensieri che arrancano ed annaspano. Lo guardo senza capire, qualcosa di
assurdo che mi accende dentro una fiammella tremula, e che somiglia
clamorosamente alla… speranza. La
speranza… e io, adesso, non sapevo nemmeno che sapore potesse ancora avere nel
mio cervello. Ha dei contorni così malinconicamente dolcissimi da ispirarmi
curiosamente il pianto, al punto che sono costretta a nascondermi la bocca
dietro il palmo della mano, come se questa semplice mossa mi aiutasse a
respirare meglio e a reprimere le lacrime. Non so a che somiglia questa
speranza, somiglia d’improvviso alla sensazione calda di una casa dal tetto
rosso, di un vaso di gerani in giardino, di una mano stretta su un’altalena, di
una risata sfuggita nello stesso momento, di una torta bruciacchiata che si
mangia comunque. Assomiglia a quei farinosi ragionamenti che facevo in Italia,
che manco erano ragionamenti, ma fantasie… ed erano fantasie di famiglia. Io… Draco… Alex… Serenity.
Ritrovo un battito diverso del cuore, un colorito acceso, una foga
eccessiva nell’attendere che parli, un tremito convulso delle dita. Draco, a
quelle mie manovre, però, distoglie lo sguardo e continua inespressivo:
“Serenity non è una Malfoy, non è una Black. E’ una Diggory… ed è una
Greengrass. E tu forse l’hai dimenticato… ma quella famiglia… è alla canna del
gas. E se mettessero le mani su Serenity, sulla sua eredità come figlia di
Amos… io distruggerei l’ultimo desiderio di Helena, rovinerei la vita di mia
figlia… e distruggerei la sola cosa che davvero mi è rimasta…”.
“N-non capisco… spiegati…” chiedo esitante, la speranza cresce, diventa una
specie di pallone che si gonfia nel petto, mi sento sospesa su un ciglio da cui
so che potrei solo volare via o sfracellarmi al suolo.
Draco, inarcando un sopracciglio, mormora sarcastico, guardandomi di
traverso: “Adesso siamo allo spiegati
impaziente… non mi stava ascoltando solo la credenza?!”.
“Malfoy…” lo riprendo nervosamente, eppure un sorriso scemo mi scappa lo
stesso. Lo caccio subito via, cercando di recuperare il controllo… non mi ha
detto niente, in fondo. Ma Raissa… lei potrebbe anche aver mentito… e lui,
allora… basta, ascoltalo e basta,
Hermione.
“Non siamo diversi io e te…” sussurra Draco, dandomi d’improvviso le spalle
e guardando fuori dalla finestra “Ed è per questo che ci siamo anche…”,
sussulto, mi stringo nelle spalle, annegando nel suo silenzio imbarazzato che
delinea una sola parola: innamorati. Non
siamo poi così diversi, ecco perché ci siamo innamorati, questo stava dicendo.
Ma quella parola… amore… con tutte le sue coniugazioni e declinazioni, è sempre
stata così viscida tra me e lui, ed al contempo così distante dal descriverci
nonostante tutto, che l’abbiamo sempre evitata. Anche adesso… nulla è cambiato.
“…ma non è questo il punto…” Draco sospira e continua atono, rivolgendosi
al sole che ha raggiunto intanto lo zenit nel cielo, infiammando questa mattina
di luglio “Tu hai finto di essere sposata con Weasley, perché così proteggevi
anche tuo figlio e per me è sempre stato lo stesso… quando mi sono ripreso, ho
desiderato venire qui, nella casa che Helena amava guardare quando ci
incontravamo sulla spiaggia. Mi sembrava il giusto punto da cui ricominciare,
era come cucire uno strappo, o meglio aprire di più le ferite così da farne
uscire il pus. Cominciando qui, immergendomi nel dolore di averla persa… potevo
farci i conti con questa cosa. Finalmente. Avevo notato mesi fa… proprio il
giorno in cui sei piombata al Petite Peste… che la casa era in vendita… ed ho
deciso di comprarla. Il padrone di casa si ricordava distintamente di me e di
Helena, lei, poco prima di morire, aveva fatto un’offerta per la casa stessa,
quindi in sua memoria mi ha favorito nelle varie offerte, mi ha fatto un buon
prezzo, ha accettato un pagamento rateale dato che non ho più accettato nulla
dal Ministero. Mi sono stabilito qui con Serenity e Raissa… lei… restava con me perché diceva che
aveva problemi con Dimitri. E io l’ho lasciata fare… ebbene, qualche mese fa…
il padrone della villa è morto, sostituito da suo fratello nella proprietà
della dimora. Io ho sempre chiesto la cortesia al vecchio proprietario di
pagare le rate della villa a nome di Helena, allo scopo di non lasciare alcun
genere di informazione riguardo a me, né come Danny Ryan, né come Draco Malfoy.
Ma, mentre il vecchio padrone di casa accettava sommariamente la transazione,
suo fratello per delle irregolarità ha deciso di chiamare Helena, non sapendola
morta. Così inevitabilmente i Greengrass hanno saputo che qualcuno sta facendo
acquisti a nome di Helena. Non so quanto manchi prima della scoperta
dell’esistenza di Serenity. Sarei potuto scappare ancora, certo, ma io ormai….
volevo risolvere la questione una volta per tutte, adottando finalmente in modo
legale Serenity così che nessuno me la possa togliere. Ma per farlo, dovrei
dimostrare che la bambina, oltre a trattarmi come suo padre e ad essere
cresciuta in modo sano ed equilibrato, abbia anche una donna che considera sua madre:
in questo Raissa era al posto giusto al momento giusto. Le ho chiesto di
fingersi sua madre, e ho anche chiesto a Serenity di chiamarla così, in modo da
poter legalmente dimostrare che è cresciuta con noi…”. Tutto… tutto sembra
avere un posto adesso… le parole di Serenity sotto il Veritaserum, il fatto che
la chiamasse mamma, ma da poco tempo… era per… questo…
“Ho sperato così di poter prendere tempo con i Greengrass offrendoli del
denaro… fino a quando avrò sposato Raissa ed avrò adottato Serenity…” Draco si
volta finalmente a guardarmi, ha un sorriso un po’ più triste e qualcosa che,
ancora, tace nell’espressione. Ancora… c’è qualcosa che non mi sta dicendo
“Quindi… come vedi… non è esattamente la favola degli anni duemila… è una
persona che tiene a me e a Serenity… o ci teneva,
fai come ti pare… e ha accettato di farmi questo favore… vedila come diamine
vuoi. L’avrà fatto per tutti i motivi che credi… ma l’ha fatto, o meglio
l’avrebbe fatto. E a me tanto bastava. E basterebbe persino adesso… se non
avessi saputo di tuo figlio… e del fatto che potrebbe mettere in pericolo anche
Serenity…”.
“L’hai… usata… per questo… hai
fatto la stessa cosa che hai fatto con Astoria…” commento instupidita, non
sapendo d’improvviso che dire, la gola secca.
“Serenity è la cosa più importante della mia vita…” dice lapidario Draco
con sguardo sprezzante “Credi forse che non avrei sposato anche il diavolo in
persona se non avessi avuto la certezza di tenere lei?!”.
“… ma non era così, vero?” lo interrompo d’un tratto, la speranza che si
accuccia in un angolo della mia mente. Il paragone con Astoria ha messo
sinistramente in moto il mio cervello. Non era come con lei, non era come con
lei… Astoria… lei non avrebbe avuto foto sulle pareti, uno spazio nel suo
bagno, un posto nella sua vita. L’avverto subito… come una cosa diversa. Non
che mi sarebbe andato bene che avesse usato anche lei, ma considerando che
Raissa comunque l’avrebbe sposato, solo per controllarlo ed amando Ilai… bè, la
speranza mi avrebbe spinto persino a perdonarlo. Ma non è solo questo…
dannazione, non è solo questo. Astoria era un’inquilina mal sopportata nella
sua esistenza. Raissa era diventata padrona e regina, al punto da togliere
persino alla memoria di Helena il nome di mamma di quella bambina. E so che
Draco ci bada tanto, troppo, a queste cose. Non avrebbe mai… lasciato che
Serenity chiamasse una qualunque estranea così.
Non avrebbe mai lasciato che lei entrasse così tanto nella sua vita, solo
per un mero calcolo anche se indirizzato a proteggere sua figlia.
No… c’è dell’altro… le spalle mi si afflosciano, Draco mi guarda con
l’espressione dura, quasi di sfida, mentre biascico più a me stessa che a lui:
“Non stavamo parlando solo di un matrimonio interessato… o mi sbaglio? Hai
detto… che non c’entrava con quello che c’era tra voi, no?”.
“No…” mormora stentoreo, chiudendo i pugni “Non c’entrava e non c’entra…
probabilmente, se non ci fosse stata questa cosa…
la storia di Serenity e dei Greengrass… non avrei mai chiesto a Raissa di
sposarmi. O l’avrei fatto tra chissà quanto tempo… o l’avrei fatto con un’altra
donna… ma lei era qui, e quindi…”.
“Ma lei non era qui solo perché era superficialmente interessata alla tua
salute, o perché amava la spiaggia…” lo interrompo di nuovo, innervosita, sta
girando attorno alla questione ed è come essere una mosca che sbatte contro un
vetro. I palmi delle mani mi sudano, la testa mi scoppia e la speranza
incancrenisce, diventando un fango melmoso che mi nausea: “E non rimaneva qui,
nemmeno per controllarti con te che la pativi in modo insofferente… era qui
anche perché tu la volevi qui…”.
Concludo con un filo di voce, sapendo che ci ho azzeccato in pieno.
Aver bisogno di Ilai. Volere che Raissa
resti qui. La stessa cosa: siamo proprio uguali.
Ricaccio quel pensiero con rabbia, che idiozia… non sarà mai la stessa
cosa.
Draco annuisce spavaldo, guardandomi dall’alto in basso. Sì, la voleva qui.
“Ne sei innamorato?” chiedo nervosamente prima di rendermene conto, dopo
aver fatto qualche passo ansioso nella sua direzione ed essermi parata di
fronte a lui minacciosamente.
“Che vuol dire innamorato?!” ride lui, in tono derisorio, guardandomi come
se fossi un insetto o una bambina stupida “Mi chiedi se era come era con te? Stai diventando
improvvisamente prodiga di domande…”.
“Lasciamo stare me allora…” concedo con tono accondiscendente, ma credo che
in realtà io questa risposta non la voglio proprio, non sopporterei che mi
dicesse di sì. Ma che dico… non sopporterei nemmeno che paragonasse le due
cose. Borbotto pedantemente, irritata persino dalla mia voce: “Era come con
Helena?”.
“No…” risponde rapido, veloce, senza nemmeno pensarci su, poi prosegue
indifferente, come se stesse parlando del tempo, ogni sua parola mi si conficca
dentro come una scheggia “E’ sempre stato sesso
quando eravamo tristi, e tenerezza da
amici del cuore quando eravamo vicini alla felicità. Questo è stato…”. Le
gambe mi tremano, gli occhi mi si eclissano e le sue parole sbattono nella mia
testa come le onde del mare. Lo sapevo, me l’aveva già detto Raissa, l’avevo
già intuito da questa casa… ma, ora… non c’è appello, revisione, terzo grado,
grazia, perdono. Niente. Ora davvero sono conscia che sia tutto vero, ed ora
che lo so, ora che ce l’ho davanti con quegli occhi grigi pieni di provocazione
silente, provo una tale nausea che sento ogni parte di me contorcersi. Temo
persino di essere diventata bianca in viso. Ma lui non se ne accorge, non se ne
preoccupa, stringe solo le labbra sottili e mormora distaccato: “Che c’è? Non
capisci come sia possibile? Vuoi uno schemino? Non è lo stesso bisogno che tu
hai di Radcenko?”.
Il sangue che mi va al cervello, sibilo: “Non osare mettere a paragone le
due cose, non c’entra assolutamente n…”.
“Perché?! Eh, perché?” mi interrompe, e stavolta è lui ad urlare, è lui ad
avvicinarsi a me con aria di minaccia, è lui che non cerca nemmeno di
trattenere per un istante la sua rabbia “Perché lui ha l’aria da tenebroso e
dannato e ha perso sua moglie, e io invece sono uno stronzo della peggiore
specie?! O perché Raissa è un’assassina e tu sei un’eroina da guerra?! Eh,
perché sarebbe diverso?! Perché?! Me la sono scopata e mi è piaciuto farlo, mi
faceva stare bene, mi annullava il pensiero… e di giorno si prendeva cura di me
come una mogliettina affettuosa. Cosa c’è di diverso dal tuo bisogno? Cosa? Io
di te non mi sono preso cura… e neanche tu di me. Non ne abbiamo avuto il
tempo, benissimo… sarà anche non stata colpa nostra. Ma se Raissa è riuscita a
farsi strada dentro di me, e Radcenko ce l’ha fatta con te, perché credi che
sia successo? Eh, perché? Perché non ci siamo mai dati quello di cui avevamo
davvero bisogno, eccotela la realtà… e l’avrai pensato anche tu, no? Lo so, ci
scommetto, te lo leggo scritto in faccia…”.
Taccio, assimilando il colpo: ha ragione, ha maledettamente e stupidamente
ragione. Eppure non riesco ad accettarlo, non riesco a pensarlo, non riesco ad
immaginare… che io e lui… non siamo stati nulla di diverso da una storia
stupida di dieci giorni. Le lacrime mi sgorgano improvvise, scoppiando sul viso
come fuochi d’artificio, e d’un tratto vorrei ancora parlare, dirgli di più,
dirgli tutto, e non di Alex, ma di me, della vera me, delle notti con Ron,
delle novecento tredici lettere, dell’Italia che mi toglieva il fiato, della
paura dell’acqua, delle rose, della gelosia per Pansy e per Dean, di ogni
dannato momento in cui ho ripensato a quei dieci giorni e me li sono fatti
bastare come se fossero stati dieci anni. Dilatavo minuti, distorcevo ore e mi
bastava, mi bastava. Ed ora, invece… a che è servito? A che è servito tornare
qui? A far rapire mio figlio? Ad uccidermi il cuore… a cosa diamine è servito…
non è stato sesso con Raissa… quello… forse un giorno, con il mio bambino
vicino, lontana dalla repulsione per la rapitrice di nostro figlio… forse, dico
forse, l’avrei accettato…ma non… tenerezza da amici del cuore… cosa diamine
è? Forma edulcorata e stanca di amore? Patetico pudore di non chiamare le cose
con il loro nome? Ultima difesa del moribondo sentimento che ci ha uniti? Che
cosa diamine è?
Una parte di me, mentre singhiozzo, mentre lui mi guarda quasi digrignando
i denti, restando freddo e convinto che come sempre io stia facendo due pesi e
due misure, mi suggerisce che anche io ho fatto lo stesso. Anche io ho promesso
ad Ilai di stare con lui, anche io mi sono fatta abbracciare da lui, anche io
ho lasciato che mi entrasse nel cuore… ma è facile mandarla via questa parte
codarda di me stessa.
Io ho davvero ceduto solo ieri sera, baciando Ilai. Ieri sera… dopo cinque
anni.
Lui ha ceduto tre mesi dopo avermi lasciata… ed io… ero ancora in coma in
Italia, incinta di suo figlio.
Glielo vomito addosso, pazza, ormai non più conscia di me stessa in nulla:
“Con la differenza che per me questo è successo ieri sera… ieri sera,
maledizione, ieri sera ho lasciato che mi baciasse… non cinque anni fa…”.
“E invece tuo figlio è stata una scopata occasionale? O te l’ha portato la
cicogna?”.
Lo dice di nuovo con una risata sardonica, crudele, malvagia. E capisco che
mi ha mentito la sua faccia, il suo viso, i suoi occhi… ha notato di Alex, ha
notato che non è figlio di Ron, ha notato che non è nemmeno figlio di Ilai. Ma
non ha concluso per quella che era la soluzione più ovvia del rebus, se solo
davvero mi conoscesse, se solo davvero sapesse di me e di questi anni e quindi
potesse intuire che poteva essere solo il suo
di figlio.
No.
Stava con un’assassina che amava un altro e gli andava bene, gli andrebbe
anche bene adesso, se non avesse messo in pericolo Serenity.
Ma io… io che sono madre di suo figlio, io che ho baciato solo due uomini
dopo di lui ed entrambi, in modo diverso, per salvarmi la vita, perché anche
Ilai la vita me l’ha salvata…
Io… che l’ho amato sempre in cinque anni, senza dubbi, senza scappatoie e
senza incertezze.
Io, invece, sono una puttana che mi sono fatta qualcuno una sera, al punto
da concepire un figlio.
Lo schiaffeggio con tutte le forze che mi sono rimaste, sibilando poi,
colma di odio: “Non ti azzardare a nominare più mio figlio”.
Resta immobile, il mio schiaffo non lo sposta nemmeno di un passo. Si
massaggia solo la guancia arrossata, socchiude gli occhi e mi guarda come se
stesse per sputarmi in faccia: “E tu non ti azzardare a rimettere piede qui…
aspetta Radcenko, sposatelo, fai quello che ti pare… basta che te ne vai da
qui…”.
“Me ne sarei andata ore fa… se non fosse stato per te e Seth…” aggiungo,
facendo qualche passo indietro ed asciugandomi nervosamente il viso “Io non ti
perdonerò mai. Mai…”.
“Non mi pare di avertelo chiesto…” soggiunge a voce bassa, guardandomi con
sussiego “Non sei la dispensatrice del perdono universale, Granger… vattene via
di qui… e lasciami in pace una buona volta…”.
Non me lo faccio ripetere due volte: non lo guardo neppure un’altra mezza
volta, mi volto su me stessa ed attraverso correndo il salone, aprendo la porta
con rabbia e disperazione.
Vorrei solo scappare, fuggire fuori, prendere aria… ma invece vado a
sbattere contro una persona che stava aprendo la porta nello stesso momento.
L’odore delle violette mi avvisa subito di chi si tratta. Pansy.
La guardo per un attimo con la vista annebbiata, sconvolta, atterrita,
improvvisamente persino desiderosa di una sua parola mordace, che mi faccia
uscire fuori da queste sabbie mobili in cui si è trasformata poco a poco questa
giornata. So che lei capirebbe, so che magari mi rimprovererebbe, so che
comunque in ogni caso sarebbe qui con il suo sdegno algido da Serpeverde… lei
sola, al mondo, in questa stanza, è madre come me, è donna come me, è
innamorata come me. Resto immobile, guardandola, mi sento figlia anche se non
dovrei, ho gli occhi che non trattengono le lacrime, il labbro che sanguina per
la forza che ci ho messo mordendolo, e l’aria di una che è sopravvissuta ad un
disastro nucleare, nascondendosi sotto una pila di cadaveri.
Pansy ha i capelli spettinati, l’espressione stravolta, il volto rosso e
gli occhi accesi: persino il suo abito nero è spiegazzato e ha annodato
malamente il foulard con le rose attorno al collo. Ha parlato, ha detto
qualcosa, ma io non l’ho sentita. Non sono riuscita a capire che stesse dicendo
ed ora sembra più calma, meno agitata. Mi guarda e basta, nelle iridi di
ardesia scatta comprensione ed empatia, ma le ricaccia subito indietro,
gettando uno sguardo di ghiaccio nero alle sue spalle in direzione di Draco.
“Mi dispiace per Alex…” dice solamente, e la vedo stringere forte la mano
che tiene a Charisma, che non avevo notato e che è accanto a lei, intenta a
guardarmi fissa, gli occhi azzurri spalancati sul mio viso in lacrime. Mi
asciugo malamente le guance ed annuisco, tirando su un sorriso smunto che
tranquillizzi almeno la bambina.
“Lo so…” sussurro senza forze, mentre lei piano si ricompone e impacciata
mi mette una mano sulla spalla, dandomi una specie di goffa pacca “Lo troviamo…
stai tranquilla…”.
Annuisco ancora, improvvisamente la dimensione della scomparsa di mio
figlio mi prende daccapo, causandomi una vertigine indolente che controllo solo
chiudendo gli occhi.
“O Dio santissimo, ancora qui sei?” la voce di Pansy è tagliente e severa,
quando sfiora di nuovo le mie orecchie e si infrange alle mie spalle,
ricordandomi di Draco e del discorso appena avuto con lui. Un conato di vomito
mi fa trasalire e mi siedo pesantemente su uno sgabello basso, prendendomi la
testa tra le mani e cercando di calmarmi, isolando la mia mente dalle immagini
di lui e Raissa assieme, oltre che da quelle ormai celeberrime di Alex in
pericolo, che piange, sanguinante o connesso a Dimitri per sempre. Solo dopo un
po’, mi accorgo della manina di Charisma che stringe forte le mie dita. Sorrido,
alzando il capo, e la piccola mi sorride a sua volta in modo caloroso e
luminoso, al punto che mi sento rincuorata senza alcun motivo. Le stringo la
manina senza dire nulla, e lei ride felice.
Draco, dopo qualche secondo di silenzio, risponde acido a Pansy: “Questa
sarebbe casa mia, fino a prova contraria…”.
“Ti pagherò l’affitto per l’uso del tuo mefitico ossigeno da carogna…”
biascica per nulla impressionata Pansy, sollevando le sopracciglia con aria
fintamente innocente “La tua fidanzatina assassina e traditrice… dove potrebbe
essere? Lo sai?”.
“Certo che lo so… non sono corso
da lei solo perché avevo una terribile unghia incarnita al piede sinistro…”.
“Peccato che non ti sia incarnito anche altro, tipo… non lo so… la lingua…” riprende Pansy senza nemmeno
cambiare espressione “…dato che la Granger ha appena perso suo figlio… e
scommetto che a te è saltato in mente persino di raccontarle di te e della
consolatrice dei vedovi…”, giuro che
questa me la segno, Pansy Parkinson che mi difende davanti a Draco Malfoy “…
comunque visto che sei utile come un ombrello nel bel mezzo di uno tsunami, e
visto che a me del tuo raccontino porno soft da sfigato non interessa nulla,
potrei continuare la mia conversazione con la Granger con te che magari ti
eclissi e sparisci nel tuo giardino, nel tuo bagno o da qualche altra parte?
Prometto che lo pago l’affitto dell’aria che consumo… sarà insalubre, ma devo
pur sempre sopravvivere…”.
“Ma Thomas allora deve essere davvero impotente…” erompe ancora del tutto
indifferente Draco, guardando Pansy con una smorfia dispiaciuta che sembra
finta come una moneta da sette sterline “Questa si chiama frustrazione sessuale in piena regola…”.
“Se… questa, qualsiasi cosa tu
alludi,si chiama in qualche modo… si
chiama ormoni da seconda gravidanza in
quattro anni di un uomo che se la cava decisamente meglio del mio primo
fidanzato…”.
Per qualche secondo, sono certa di aver capito male: ho le orecchie che
fischiano, il cervello ingolfato e le lacrime che non ne vogliono sapere di
smettere di scendere.
Poi capisco, ed è come una specie di esplosione di suoni e parole che
provengono da ogni direzione, che intonano un coretto al quale tutto sommato mi
unisco anche io e che ripete che Pansy è incinta. Seth, che come era
prevedibile stava ascoltando tutto probabilmente da ore, entra nella stanza
saltellando, Pansy gli ingiunge di smetterla e mi chiede quando tornerà Dean e
se “tornerà tutto intero dalla missione che gli ho affibbiato” e io mi
congratulo con il primo vero sorriso senza pensieri della giornata.
Che ovviamente dura poco, pochissimo… perché Draco è ancora lì, dall’altra
parte della stanza, a braccia conserte che, per un attimo, guarda me in modo
indecifrabile e poi scappa via, gli occhi grigi lontani. E io ripenso che,
quando ho saputo che ero incinta di Alex, non c’erano palloncini, feste e
risate gioiose. C’era polvere, sangue e sbarre.
Alla fine, dopo la notizia, Pansy decide finalmente di dover parlare anche
lei con Draco. Non che lo faccia con la massima tranquillità, anzi storce il
naso, simula nausee mattutine da gravidanza che le sono spuntate solo adesso e
ripete ottanta volte “di quanto sarà
contento mio marito Dean Thomas, che è un vero ed autentico stallone, roba che
di notte non posso nemmeno dormire per un’ora consecutiva”, cosa che, mio
malgrado, mi provoca un accenno nervoso di risate che mi soffoco in gola,
represse solo quando vedo la faccia basita e schifata di Draco che evito
comunque di fissare.
Recuperata la calma, io, Seth e Charisma li lasciamo soli nella stanza,
chiudendo la porta. Seth, imbarazzato ed ancora impossibilitato a guardarmi in
faccia, mormora che va a telefonare a Kevin, dato che è da tempo che non si fa
sentire. E io resto sola con Charisma, meditando se non sia il caso di
andarmene e non tornare più.
Poi concludo che devo aspettare Dean per sapere della collana… e, adesso, a
maggior ragione, devo e voglio aspettare che Ilai torni. Quindi resto seduta
sulle scale che portano al piano superiore, i gomiti sulle ginocchia, mentre
Charisma gioca con qualcosa, seduta accanto a me.
“Zia!” la voce di Charisma mi fa sobbalzare, mi devo essere assopita senza
rendermene conto. Mi volto alla mia sinistra dove Charisma si è seduta sul
gradino sotto il mio, e mi guarda fisso con gli occhi azzurri accesi, che Dean
mi ha raccontato aver preso da sua madre. E’ impossibile non sorridere a questa
bambina, ti strappa pur non volendo pieghe delle labbra che non sapevi nemmeno
di avere. Per quello Alex la adora. Con un groppo in gola dico: “Dimmi Char…”.
Il groppo non passa, anzi diventa ancora peggiore, quando penso che ho chiamato
la bambina esattamente come la chiama Alex.
“Io e Biscotto abbiamo deciso che quando torna Alex, dobbiamo andare alla
spiaggia…” dice convinta, mettendo su un broncio che mi intenerisce come non
mai, sciogliendo il groppone del respiro “Perché Alex è proprio scemo, e non sa
nuotare! Quindi se parliamo al mago cattivo e gli diciamo che Alex non sa
nuotare, lui ce lo deve ridare per forzissima!”.
“Certo piccola… hai proprio ragione… ce lo deve ridare per forzissima…”
sussurro con un sorriso, nascondendomi una lacrima nel palmo della mano, mentre
Charisma batte le mani contenta.
Sono ancora in preda a quella strana sensazione di pace senza spiegazioni
che Charisma mi ha istillato, che sento un pop
provenire dalla cucina, pochi istanti prima che Dean compaia di nuovo
davanti a me.
“Ciao papà!” urla Charisma, alzandosi in piedi e correndo ad abbracciargli
la gamba sinistra, su cui cerca di arrampicarsi. Dean sorride, la prende in
braccio e le mormora canzonatorio: “Ciao ragnetta!”.
Li guardo con un sorriso mesto che vorrei davvero non avere, adesso:
immagino l’espressione che assumerà Dean quando saprà che sta per diventare
padre per la seconda volta. Lui è nato per essere genitore, l’ho sempre saputo,
credo che sia perché è un bambino anche lui, in fondo. Charisma, difatti, adora
suo padre, la vedo spesso intrattenersi in lunghissimi discorsi o giocare nelle
maniere più buffe con lui. Me la vedo già, frizzante adolescente, confidarsi
con più facilità con Dean che con sua madre. Quando stavamo assieme, una cosa
che mi tranquillizzava spesso se facevo progetti su me e lui, era pensarlo
padre dei miei figli. Sono contenta che questo non sia cambiato, che la mia
previsione si sia realizzata, anche se non per i miei di bambini.
Ho accostato tante figure all’immagine del padre che avrei voluto per Alex,
dicendomi sempre che nessuno sarebbe stato come Draco.
Adesso, oggi… vorrei davvero che Alex fosse nato da nulla, senza avere a
che fare con lui.
Dean, dopo qualche minuto, esorta Charisma ad andare a prendere Biscotto di
cui deve mostrargli un nuovo gioco, e si siede accanto a me, sospirando a
lungo. Mi guarda di sottecchi, sono ben certa che le ombre lunghe sul mio viso
mi stiano scavando i tratti di ulteriore stanchezza ed angoscia, dato che Dean
asserisce senza domandare, ma solo constatando: “E’ andata male…”.
Annuisco e basta, stringendomi nelle spalle, prima di aggiungere che non ho
voglia di parlarne al momento e che sono, invece, interessata a sapere che cosa
ha scoperto del ciondolo. Dean sorride in modo tirato, poi mi chiede: “Prima
che iniziamo a parlare… Pansy è tornata? Non stava benissimo in questi giorni,
sempre con la nausea, le vertigini… e quando esce di casa da sola… ho sempre
paura che svenga da qualche parte…”. Sorrido, dicendo che sta parlando con
Draco, e Dean si sistema meglio seduto, rincuorato, non sapendo ancora che il
malessere della moglie ha la migliore delle spiegazioni.
“Ovviamente non dirle che mi sono preoccupato per lei…” borbotta come un
adolescente scornato, che non vuole far sapere che si interessa ad una
coetanea, perché fa troppo poco figo.
Mi viene ancora da sorridere, mentre annuisco: sono una coppia, a loro modo,
fantastica. Scommetto che lei sa che lui si preoccupa, e scommetto anche che
lui sa che va esaltando le sue doti amatorie davanti agli ex fidanzati, ma non
sia mai che se lo dicano in faccia tra loro. Dopo la conversazione tra me e
Draco, dopo l’iceberg freddo che mi perfora lo stomaco convincendomi persino
che la sola cosa che ci unisce è il fatto di avere un figlio assieme, ma di cui
lui adesso non sa nulla… guardo Pansy e Dean con molta meno invidia, e molta
più tenerezza.
Per quello che hanno costruito, che adesso so che non sarebbe stata una
cosa scontata nemmeno restando con Draco; per l’equilibrio che li consente di
restare sé stessi, nonostante tutto; per la serenità allegra che ha Charisma,
che non ha paragoni, mio malgrado, con quella di Alex e nemmeno con quella di
Serenity. Sono tre bambini completamente diversi, sebbene amati allo stesso
modo.
Alex è un bambino allegro ed intelligente, ma sente quando sono triste, lo
percepisce e cambia quello che dice e che vuole in base a ciò che sento io.
Serenity, per quello che mi è parsa, è una bimba dolce ed educata, ma ha
dei gesti, dei modi, delle posture innaturali, ancora come una cresciuta nel
velluto di una protezione persino asfissiante.
Charisma è divertente, scanzonata, spontanea, spiritosa, in costante
scoperta del mondo, che esplora in un modo fiducioso ed aperto, come se Dean e
Pansy avessero davvero evitato per anni, nel modo più discreto possibile, che
qualcosa la toccasse senza che però lei se ne sentisse soffocare.
Giuro che, se mai un giorno avrò un altro figlio, ripenserò sempre a come
Pansy e Dean hanno cresciuto Charisma.
Finalmente Dean inizia nella sua spiegazione, borbottando che la negromante
che ha contattato, grazie a delle sue conoscenze sparse sempre in ambasciata,
aveva l’aspetto di un transessuale malaysiano e parlava pure per filastrocche,
però ha riconosciuto subito il ciondolo e ha detto immediatamente che è
qualcosa di molto potente, intriso di magia bianca.
“Così potente da andare anche contro il potere di Adamar?” chiedo
speranzosa, guardando meglio Dean. Lui arriccia il naso e spiega con voce
incerta: “Non ne sono sicuro… o meglio la negromante non ne era sicura. Cioè,
ovviamente, sai che in pochi sanno di Adamar… e difatti lei non sapeva chi
fosse. Ho parlato di una fortissima fonte di magia nera… e l’ho paragonata a
quella di Colui che non deve essere nominato… anche se…”.
“Voldemort non era nulla in confronto ad Adamar e a quello che può darti…”
completo sconfitta, le spalle che si afflosciano.
“Esattamente… però se almeno poteva andare contro di lui, possiamo intendere
che abbia degli effetti contro Adamar, no?”. Annuisco pensosamente, non del
tutto convinta, mentre Dean prosegue, cercando di dirmi tutto quello che sa nei
dettagli: “Lei dubitava che si potesse parlare di sconfitta o di morte, o di
grave menomazione… in breve non potresti ordinare al ciondolo di ammazzare
Dimitri e Raissa anche se per proteggere tuo figlio. Ogni desiderio
esprimibile, che è solo uno naturalmente, è in ordine alla protezione di Alex.
Ma anche se loro attaccassero direttamente lui, e tu volessi salvarlo, la
negromante dice che devierebbe il colpo, ma difficilmente compirebbe azioni
risolutive come quella di uccidere o privare quei due della loro Magia… specie
se ha un’origine oscura…”.
Ad ogni parola di Dean, mi sento sempre più tradita: è come se avessi
investito tanto, troppo, nel dono di Tatia ed adesso mi rendo conto che molto
probabilmente, non potrà fare nulla di che. Come faccio allora a salvare mio
figlio? L’ansia minaccia di sopraffarmi, quindi chiedo sbrigativa: “E quindi? Che
cosa può fare?”.
Dean si sistema meglio sul gradino e noto ancora lo sforzo che sta facendo,
per non tralasciare nulla: “Il potere del ciondolo è un catalizzatore di magia
bianca, per la protezione di un figlio da parte di una madre… ha la stessa base
della magia che salvò Harry, grazie all’intervento di Lily Potter… ma anche in
quel caso, se ben ricordi, salvò il figlio ma non uccise il Signore Oscuro o lo
privò dei suoi poteri. Lo pose in una forma innocua per il bambino… stavolta,
però, non si potrebbe nemmeno sperare in qualcosa del genere: là c’era più
squilibrio di forze, la magia di Lily fu veicolata con un sacrificio…”, Dean si
ferma e mi guarda seriamente, presagendo nei miei occhi il pensiero che sto
avendo e cioè che potrei anche io morire per Alex: “E no, non ci pensare
nemmeno a morire… sarebbe inutile, comunque… l’hai detto anche tu. Colui che
non deve essere nominato era un bimbetto dell’asilo in confronto al potere di
Adamar… stiamo parlando di un demone millenario, messo lì chissà da chi e
chissà perché… moriresti e a lui probabilmente provocheresti un dolore pari
alla rottura di un’unghia… ed Alex a quel punto non avrebbe nessuno che lo
salvasse…”.
Taccio con frustrazione, guardandomi le scarpe, ed annuisco controvoglia:
purtroppo ha ragione.
Certo, io non ho a che fare con Adamar, ma con Dimitri e Raissa: ma il loro
potere viene da lui. Ed è un potere malato, perverso, folle ed incomparabile.
Se solo Adamar fosse stato interessato a Voldemort… deglutisco con terrore,
difficilmente tre ragazzini come me, Harry e Ron, l’avremmo mai potuta avere
vinta su di lui.
“La negromante ha detto che anche desideri generici sono pericolosi…”
continua Dean, la voce più tranquilla dopo il mio cenno di assenso “Cose come salva mio figlio o portalo qui… è una Magia che ha una sua logica, una sua mente, un
suo destino… potrebbe concludere che salvare Alex è allontanarlo
definitivamente da te… o persino ucciderlo per impedire che soffra ancora… è
troppo instabile, catalizza appunto le emozioni materne… e tu sei preoccupata,
agitata, sconvolta. Realizzeresti una cosa negativa, pur non volendo, dando
adito alle voci nefaste che hai nel cuore… ”, gelo come se fossi immersa nel
ghiaccio, improvvisamente la superficie del ciondolo che mi tocca la pelle del
collo mi dà i brividi. L’avevo visto come qualcosa di rassicurante e caldo,
adesso mi pare un serpente pronto a strozzarmi.
“Per questo devi essere molto specifica, quando formulerai il desiderio…”
soggiunge Dean, guardandomi dritto negli occhi “In modo da isolare la tua mente
e renderla meno permeabile…”. Mi chiedo onestamente che cosa resti ancora da
chiedere. Pensavo di poter salvare Alex così, o di poterlo portare qui, oppure
di eliminare Dimitri e Raissa. L’ansia, ancora, mi chiude la gola, annaspo e cerco
di concentrarmi sul mio respiro come mi ha insegnato Ilai, per prevenire gli
attacchi di panico. A calmarmi davvero, però, sono le successive parole di Dean
che mi sorprende come non mai.
Nel miasma di agitazione che mi travolge, capisco quanto sia vitale avere
qualcuno vicino che pensi a mente fredda e lucida.
Difatti, Dean mi appare estremamente sicuro mentre dice: “Mi pare ovvio che
la sola cosa che possiamo chiedere al ciondolo è di liberare Alex dalla connessione con Dimitri…”.
Il volto mi va in fiamme per il sollievo e la gioia: ha ragione, è un
desiderio sufficientemente specifico, ha come fine la protezione di Alex e non
si scontra troppo con il potere oscuro dei Karkaroff. Se riuscissimo, infatti,
a liberarlo da questo collegamento, almeno avrei la certezza che,
smaterializzandomi con Alex, lui non possa subire conseguenze da Dimitri in
ritorsione. Ovviamente, mi resta da elaborare un piano su come trovare i
Karkaroff, ingannarli, prendere tempo, convincerli magari che ho anche ucciso
Ilai e Draco… ma se tutto questo mi riesce in qualche modo, Alex è salvo.
Abbraccio Dean di slancio, ringraziandolo, è la soluzione più giusta e
normale ed io sono davvero arrugginita per non averci pensato da sola. Dean
sorride e mi accarezza goffamente la testa, dicendo che non c’è problema, che
tutto si risolve e che riporteremo mio figlio a casa, costi quel che costi.
Poi, però, diventa improvvisamente serio, la mano che mi aveva poggiato sulla
nuca scivola via ed io mi sollevo a sedere, osservando i suoi occhi dorati che
tornano su di me un po’ tristi ed un po’ preoccupati.
“Cosa c’è?” chiedo, tornando a guardarlo e rabbrividendo leggermente,
mentre lui sorride in modo tirato e mi sussurra: “Adesso viene la parte
peggiore, Herm…”.
“Peggiore?!”.
“Il ciondolo… non ti ho detto come
funziona…”.
Mi artiglio alla manica della sua camicia, spaventata, immaginando tutti i
modi più neri e macabri per utilizzare questo ciondolo, cosa che alla fine
renderà la cura peggiore della malattia e mi porterà a considerare impossibile
l’uso dell’unica speranza di salvare Alex. Ma le prime parole di Dean mi
sconcertano per la sua semplicità, sebbene resti teso e nervoso: “Ci vuole solo
del sangue… e una formula magica…”.
Inarco un sopracciglio, ancora non riuscendo a seguirlo: certo, non mi ha detto
quanto sangue ci vuole, potrebbero anche voler dire che ci vogliono pinte di
sangue così da farmi restare dissanguata, ma, a parte in quel caso, non ci vedo
niente di strano o preoccupante.
Dean prosegue, evitando il mio sguardo, gli occhi nocciola che puntano
lontano, seguendo qualcosa che vede solo lui: “Ci vuole il sangue della madre,
ovvio… poche gocce, niente di che… ma ci vuole anche il sangue del figlio…”, mi
sgonfio e il petto diventa una lastra di ghiaccio, come una lapide che mi tiene
seppellita. Eccola la fregatura… il sangue di Alex… che non è qui, al momento.
Apro e chiudo la bocca un paio di volte, in apnea, pensando a qualche
soluzione, ma Dean mi precede e torna a guardarmi, un ulteriore piega
mortificata negli occhi: “La negromante ha detto che non è questo il problema…
il sangue del figlio può anche essere ricreato…
anzi forse, dice, la mistura sarebbe persino più potente e garantirebbe una
protezione maggiore…”.
“Ricreato? Che significa?”
chiedo, un terribile sospetto che mi si affaccia dentro, causandomi un tonfo al
cuore.
Dean mi stringe la mano e la tiene stretta forte nelle sue.
“Il sangue di Alex…” sussurra Dean a bassa voce, quasi temendo di farsi
sentire da qualcuno, le mie mani graffiano quasi le sue, mentre lo tengo
stretto: “Il sangue di un figlio è creato dall’unione del sangue di due
persone… la madre… e il padre…”, Dean
accentua quell’ultima parola con fermezza traballante, si rifrange su di me e
mi costringe al mutismo, mentre la testa pensa che ancora, quando decido
qualcosa, la vita ha sempre la consuetudine bastarda di lasciarmi prendere una
decisione solo per poi divertirsi a vedermela smontare.
La sola speranza di salvare mio figlio è il ciondolo di Tatia. Il solo modo
di far funzionare il ciondolo, anche senza Alex, è il sangue di suo padre.
Dovrò dire a Draco che Alex è anche suo figlio.
Sapete che di solito
da un bel di tempo, tendo a non scrivere nulla nei capitoli, diciamo che ho
altre vie, spesso, per comunicare con chi segue la mia storia e quindi spesso
me ne dimentico, presa dall’ansia di aggiornare con i miei soliti ritardi
mostruosi. Poi davvero certe volte mi auto-convinco che questa storia stia su
EFP quasi per caso, che nessuno la curi eccessivamente, che posso anche
limitarmi a parlarne solo con chi ne parla assieme sul gruppo di facebook… e
poi arriva una recensione improvvisa, un commento, e mi squaglio rendendomi
conto di quanto questa storia, che va avanti da anni, e di cui adesso mancano
circa 4/5 capitoli alla fine, sia seguita. Halft oggi
ha 40 capitoli, 466 recensioni, 273 preferiti, 100 da ricordare e 392 seguiti…
e quando l’ho iniziata a scrivere anni fa, per gioco, non immaginavo niente del
genere. Quindi il mio oggi è prima di tutto un grazie, enorme come una casa,
per chi legge questa storia, per chi la commenta, per chi fa tanto per me ogni
giorno, per la mia armata halftiana, per chi perdona
ed accetta i miei ritardi che vorrei che fossero minori, ma che purtroppo, mio
malgrado, sono sempre presenti. Halft sarà
completata, ma con i miei tempi, purtroppo: questo capitolo sarebbe arrivato
prima, se il mio pc non l’avesse distrutto. Metteteci anche un po’ di cattivo
umore e il mio desiderio di finire una dramione
incompleta… e i tempi si sono allungati al punto che sono stata costretta a
dividere questo capitolo in due. Sono perfezionista e pazza, perciò purtroppo
dovrò sempre dirvi che Halft non sarà mai aggiornata
celermente… ma spero davvero che resterete ugualmente con me…J
Per le recensioni, io spesso rispondo in ordine sparso, sono davvero un
disastro… o me ne dimentico… quindi cercherò di rispondere a quelle dello
scorso capitolo che mi mancano, in tempi brevissimi, specie di chi non frequenta
il gruppo… grazie davvero ancora dell’enorme pazienza che avete con me…L
Il sangue di Draco. L’ho visto ben più volte di quanto sarebbe normale.
Una volta, da ragazzina, mentre giocava una partita di Quidditch. Quando
Fierobecco lo aveva colpito al braccio. A Grimmuald place, una sera in cui era
stato ferito durante un’operazione contro i Mangiamorte. Nello scontro finale,
quando eravamo nella tenda del pronto soccorso. Nei suoi ricordi con Helena. Quando
si era scontrato con Astoria. Quando aveva litigato con Dimitri.
Il sangue… era la cosa che, in
passato, mi avrebbe sempre tenuto lontana da lui. La purezza di quel sangue e
la sporcizia nel mio, erano discrimine ed argine che ci avrebbero tenuti divisi
per sempre. Per questo, quando avevo visto quel liquido rubino, spesso mi ero
data pena di osservarlo più del necessario. Non trovandoci, come ovvio, alcuna
differenza.
Rosso, dall’odore ferrigno, dalla consistenza densa: era esattamente come
il mio, portava alle stesse lacrime di dolore se versato, aveva la stessa
funzione necessaria di trasportare vita.
Addirittura un giorno, in guerra, a causa di una sua ferita particolarmente
emorragica, mi fu chiesto il mio gruppo sanguigno, in modo che, se le cose si
fossero messe male, si potesse valutare la possibilità di una trasfusione. Avevamo
persino lo stesso gruppo sanguigno, 0 positivo lui e 0 negativo io. Lui a me
non poteva donare sangue… ma io a lui sì.
Non arrivammo a questo, il sangue ce lo siamo mescolati nella più comune
delle maniere, con l’amore e quello che ci sta attorno, ma mi ricordai di
questoparticolare, quando
nacque mio figlio.
Il suo sangue… era quello di Draco. 0 positivo.
Avevo annotato questa cosa il giorno della sua nascita con un sorriso
mesto. La stirpe dei Malfoy era stata definitivamente sporcata, forse gli
antenati si stavano rivoltando nelle loro tombe fredde, ma quel segno, quel
minuscolo impercettibile segno, recava in sé la traccia di una colpa quasi
cancellata, nella purezza che veniva data a mio figlio nel sangue gemello di
suo padre.
Ora quel sangue è anche la sola chiave di salvezza di Alex.
Ho pensato tanto, ore intere, mentre Draco ancora discuteva con Pansy, ad
un modo che comportasse non dirgli di suo figlio, ma assicurandomi il suo
sangue. Dean ne aveva di metodi per farlo, tutti poco ortodossi, ma che in
fondo mi hanno fatto sorridere. Qualcosa dentro di me, di mogio, spento, sordo
e pigro, si era mossa in modo imprevisto, ed è stata davvero come una ferita da
cui gocciava sangue e che minacciava di farmi morire dissanguata. Uno
stillicidio che mi rendeva debole, di secondo in secondo, sempre più
annebbiata, sempre meno lucida, sempre meno presente a me stessa, mentre in
testa prendeva forma un pensiero che non saprei definire se positivo o
negativo.
Tatia, Helena… il loro continuo
collegamento con me, i miei sogni su di loro, mi hanno reso più aperta ed
attenta ai segni che la vita mi dà sotto la forma delle più impensabili delle
coincidenze, quelle che io per inciso, non so nemmeno quanti decenni fa, odiavo
perché sembravano togliermi il controllo della mia esistenza.
Tatia mi ha lasciato una collana che, per funzionare, necessita del sangue
di Draco. Mi ha ammonito di non toglierla. Ci vuole poco a fare due più due.
Dal Cielo, da dovunque ella sia, vogliono che io dica a Draco di suo
figlio… e non tra una settimana, un anno, dieci anni, come io pensavo mi fosse
concesso fare.
No.
Adesso, ora… perché tanto oramai sono già a pezzi, e tanto ormai comunque
le cose stanno andando male, e tanto ormai conta sempre Alex e lui per sempre.
Quindi, chissenefrega di me stessa: del resto, ormai, che è rimasto di me
stessa?
Non ho mai pensato di togliere a mio figlio suo padre, di non dirgli mai
che Alex è suo figlio… ho solo pensato che adesso
non fosse il momento.
Per me.
Sì, per me sola, che per una volta volevo essere egoista: Alex è la sola
cosa che mi resta, e forse non volevo spartirla con lui, specie dopo che lui ha
conquistato tanto, tutto, senza di
me. O forse mi sento così devastata che non trovo il coraggio di inventarmi un
discorso che sia la rivelazione di quella verità… o forse, ancora, dirgli di
Alex avrebbe significato dover accettare che lui rientrasse nella mia vita, ma
non dal portone principale di una ricongiunzione voluta dal destino e
perpetuata da un amore mai morto, quanto invece dalla porticina secondaria di
un dovere verso suo figlio e di un affetto istantaneo per lui, che avrebbe
visto me solo come mediatrice. Ecco: quando ho capito questo mentre Dean
parlava, quando ho capito che volevo tenermi quella verità dentro non perché
pensavo ad Alex e volevo proteggerlo, ma perché pensavo solo a me, quando mi
sono resa conto che forse Tatia da me invece voleva proprio che superassi il
mio egoismo non scambiandolo per amore per mio figlio… in quel preciso istante,
ho capito che avrei detto a Draco tutto, senza remore e senza rimorsi,
smettendo di usare mio figlio contro di lui. Dopo le parole di Draco, la parte
remota di me, quella ancora innamorata, ancora vogliosa di combattere per lui,
quella che l’ha aspettato cinque anni ed è tornata a riprenderselo… credo che
sia definitivamente evaporata da me. Ed era quella parte, tesa sempre ad
immaginare il ritorno di Draco nella mia vita, che non voleva e non poteva
dirgli di Alex. Perché voleva che tornasse perché mi amava, non perché doveva.
Ora, invece, ogni ritorno di quel tipo mi è precluso per sempre. Forse mi vuole
ancora bene, forse non gli sono indifferente, forse è anche geloso di me… ma
l’amore, quello che mi ha tenuto ancorata a lui per cinque anni, lui se l’è
dimenticato da un pezzo.
Da tre mesi dopo che io ero scomparsa.
Quindi nella nostalgia di un ritorno che non ci sarà mai, posso smettere di
desiderare qualsiasi cosa che non sia riavere mio figlio.
E se il cielo, il ciondolo, Seth, la vita o come la voglio chiamare,
vogliono che io dica a Draco di Alex… così sia.
Quella che sono ora, la madre di Alexander Leo Malfoy e basta, ha interesse
e cura nell’avere quel sangue: se il modo più celere è questo, allora va bene
così.
Dean continua a parlare e io sento solo che la mente si annacqua nella
colpa: perché, ancora, dal ritenermi la mamma meravigliosa che mi sono sempre
creduta, ho compreso che invece sono egoista e codarda. E sono una di quelle
donne che si diverte ad affilare suo figlio contro il padre, solo perché lo
detesta. In che cosa mi sono trasformata? In che cosa il risentimento per Draco
mi ha trasformato? Oppure… continuo a dare la colpa a Draco, a Raissa, ad
Helena, allo Zahir, a Dimitri. Ma forse… questa sono io.
Una che si diverte a fare l’eroina, ad ergersi stoica sull’altare del
buonsenso e della giustizia… ed in realtà non assomiglia nemmeno al riflesso
sporco di quello che professo.
L’apatia mi travolge becera e fioca, come se mi avessero sfilato di netto
dal corpo la colonna vertebrale, alla maniera in cui si spina un pesce. Avverto
le membra intorpidite, formicolanti, prive di forza mentre Dean accanto a me
continua a parlare, descrivendomi ancora qualche altro particolare
dell’incontro con la negromante. D’improvviso, sono così stanca da non reggermi
nemmeno in piedi.
“Herm, stai bene?” la voce premurosa di Dean mi raggiunge a stento le orecchie,
mi tocca la guancia con le nocche della mano e mi guarda preoccupato “Hai il
viso caldo… non avrai la febbre?”.
Non lo so, non credo, mi sento solo incredibilmente spossata: nego con il
capo, dicendo che sto bene e che forse ho solo bisogno di riposare un pochino.
Dean annuisce pensosamente, commenta che deve essere stata la tensione, non ho
nemmeno mangiato nulla a pranzo ed ormai è pomeriggio inoltrato. Mi indica
sommariamente una camera al piano di sopra, dice che deve essere degli ospiti,
niente tracce o ricordi né di Draco e nemmeno di Raissa. Annuisco con un
sorriso ringraziandolo, ma salendo le scale ho ancora la sensazione che mi
siano state risucchiate le forze in un momento ben preciso, tra la
conversazione con Draco e quella con Dean. Sfibrata, mi appoggio al corrimano
della scala, cercando di calmare le vertigini che minacciano di farmi scivolare
al suolo, finché sento un braccio stringersi attorno alla mia vita, sollevarmi
in modo deciso ed aiutarmi a camminare. Penso a Dean, ma lui è ancora ai piedi
della scala, lo intravedo con la coda dell’occhio ancora bloccato in un gesto
che stava facendo verso di me per aiutarmi e che poi si è arenato in sé stesso.
Con lo sguardo annebbiato, sollevo il mento verso la persona che mi sta
aiutando.
“Ti porto a letto… vieni…”. Nella foschia che mi ha preso subdola le iridi,
intravedo solo lo scintillio verde di un paio di occhi lucidi e tristi, che mi
osservano con dolcezza malinconica.
Annuisco e, del tutto esausta, mi lascio andare, affondando il viso nel
collo di Seth e ritrovandomi persino a chiudere gli occhi. Bastano pochi passi
che faccio a stento, le ginocchia di pastafrolla, che Seth è costretto a
caricarmi sulle spalle e a trasportarmi così al piano di sopra. La testa che continua
a pulsarmi, il volto rosso, riapro gli occhi solo quando sento Seth adagiarmi
piano su un letto morbido. Dalle palpebre semi-chiuse, spio la stanza in cui mi
trovo con il cuore in gola e la sua anonimità mi rassicura sul fatto che non
sia quella di Raissa. C’è solo un letto, una libreria vuota ed una finestra
piccola, la cui luce è coperta però da delle tende pesanti e scure, cosa che
rende la camera in penombra.
“Mi dispiace Herm…” la voce di Seth mi sorprende, provocandomi un piccolo
sussulto che reprimo raggomitolandomi di più su me stessa, una parte di me
registra che si è seduto alle mie spalle, una mano contratta sul lenzuolo “Non
avrei dovuto arrogarmi il diritto di parlare al tuo posto con Danny… ero stato
zitto fino a quel momento… e poi non ce l’ho fatta più…”. Il materasso trema
sotto il peso di una risata amara e nervosa che non gli appartiene e che mi
spinge, improvvisamente, a considerare tutto dimenticato. Così, come nulla,
come rugiada al sole. Quella che era arrabbiata con Seth… quella era sempre la
Hermione che non si sentiva così spenta e fiacca, tutt’un tratto. Quella che
poteva rimproverare tutti e non sé stessa. E adesso, invece… io sento che non
posso fare più niente del genere. Mai più. E poi… sembra dispiaciuto,
sinceramente. Lui posso perlomeno provare a perdonarlo, sentendomi anche
sincera, e non solo in colpa come con tutto il resto.
“Tranquillo…” sussurro con un filo di voce, voltandomi su un fianco per
guardarlo in viso, ha un’aria da bambino dispettoso che mi spinge persino ad un
lievissimo sorriso “A tuo modo avevi ragione, anche se avrei voluto avere il
tempo e il modo di decidere quando e come dirgli tutto…”, la mia voce risuona
acidula e sfiancata, presagisco che, così facendo, Seth penserà che ce l’ho
ancora con lui. Quindi completo con il più convincente dei toni che mi esce: “Non
sono molto razionale al momento… e mi dispiace anche di quello che ti ho detto…
che sono sola e tutto il resto… so che non è vero… è ingiusto verso te, Pansy e
Dean. In ogni caso, fosse anche solo per Alex, era giusto che lui sapesse la
verità…”.
“Sì…” conferma Seth, tormentando la coperta con le dita e sospirando in
modo rumoroso come a darsi forza “Però poi… l’ho sentito parlare di Raissa…e lì ho capito che magari anche tu avevi ragione. Che non era il caso adesso di sapere
anche questo… Pansy ha ragione, io non sono padre… e non posso sapere come è
perdere un figlio. Non avrei dovuto premere perché tu avessi anche questo
carico sulle spalle, adesso. C’era tutto il tempo di chiarirti con Danny…”, il
tizzone ardente che esplode come sempre al ricordo della prigionia di Alex, mi
raggiunge anche nella quiete narcotica che mi annebbia, ma mi limito ad annuire
con il capo, mentre Seth ancora sorride triste, dicendomi: “E’ stato Kevin a
farmelo capire… noi… un giorno vorremmo diventare genitori, adottare dei
bambini…”, Seth si stringe nelle spalle e mi sembra piccolo piccolo
mentre mi parla di quella fantasia dolce, mi avvicino a lui e gli poggio con
tenerezza la mano su un ginocchio. Seth me la stringe e continua: “E Kevin mi
ha detto che un figlio viene prima di tutto, prima persino di te stesso… e mi
ha detto che, se non ero stato in grado di capirlo con te ed Alex, forse non
ero pronto ad essere papà...”, stringo le labbra e sospiro a fondo, Kevin mi ha
fatto decisamente migliore di quella che sono come tendono a fare tutti, ma non
ho energia per controbattere, mentre Seth prosegue: “Mi ha fatto riflettere …
ed allora ho capito che aveva ragione… e che io, in realtà, non era a te che
pensavo… era a me che pensavo…”.
Aggrotto le sopracciglia, non comprendendolo, la mano nella mia è sudata e
fredda di quella confessione e mi chiedo se non sia la giornata dell’egoismo
universale. Seth pigola piano, trattenendo le lacrime: “Danny è stato il mio primo
amore… e non lo dico con malinconia o con tristezza, ormai, lo sai bene… ma
nella mia testa, quando ho rinunciato a lui, l’ho fatto per te, per quella che
credevo il suo grande amore, per quella che era il suo destino… quel pensiero
non è mai andato via, nemmeno quando siete scomparsi… e si è rafforzato quando
ho visto Alex…”, fa una pausa, sofferta, lunga, la sua mano nella mia trema e
io cerco di non dare adito alle lacrime che stanno esplodendo sinistre sotto le
palpebre abbassate “… volevo che parlaste, perché ero convinto che con Raissa
fosse una magia delle vostre. Ero
certo che lei l’avesse ingannato, circuito o incantato. Ed invece era la più
normale delle cose… e questo ha fatto più male al mio vecchio orgoglio ferito,
che a te… per questo, Herm, ti chiedo scusa…”.
“Non devi farlo…” dico piano, con un sospiro tremulo, sistemandomi meglio
sul letto “Sia quel che sia… era la cosa giusta dirgli che cosa era successo…”,
prendo fiato e continuo ancora con un filo di voce “… e stasera… gli dirò anche
di Alex… se sul resto potevo avere dubbi… su questo, devo cercarne di non
averne… è di mio figlio che si parla. Ha diritto ad avere suo padre…”. Spiego
anche sommariamente la questione del ciondolo a Seth e del sangue di Draco,
cosa che ha solo indirizzato la mia scelta. E Seth sussurra, stringendomi
ancora la mano: “Vedi che io il padre ancora non lo posso fare? Io adesso me ne
andrei e basta… ed invece tu stai giustamente pensando ad Alex…”, sorride
intenerito e mormora: “Sei una mamma eccezionale…”.
Nego con il capo e mi schernisco con vergogna, quando in realtà sto solo
annaspando dalla volontà di urlare che non è vero, che se lo fossi stata mio
figlio sarebbe ancora qui, che se lo fossi stata avrei fatto ben altre scelte
negli anni e forse qui sarei arrivata con ben altro spirito, che quello
dell’innamorata ferita. Ma non dico nulla, ci vorrebbe troppa forza che non ho
e Seth controbatterebbe, mi darebbe contro.
E non avrebbe mai ragione… mai.
Seth mi dice, alla fine, di riposare, così da recuperare le forze per il
confronto che mi aspetta stasera e di non preoccuparmi di nulla, Dean sta
organizzando tutto per un’eventuale incursione e comunque stiamo aspettando che
Harry ci faccia sapere qualcosina di più, magari da Helder. Mi accarezza la
fronte e si chiude la porta alle spalle. Scivolo in un sonno nervoso ed
inquieto, dove ogni volta che mi addormento mi sembra di tradire Alex e di
stare perdendo tempo, ed allora penso a che cosa fare, a come organizzare la
sua fuga, a come salvarlo. Ammassando strategie, il sonno mi colpisce di nuovo,
a tratti, facendomi ripiombare in un denso e colloso riposo che non mi calma,
ma mi agita solamente, prostrandomi di immagini cupe e sanguinose, accompagnate
da una litania infernale di cui non distinguo le parole. Se poi penso a cosa
dire a Draco, a come spiegargli che il bambino di cui ho parlato fino ad ora, è
anche suo… allora, la possibilità di dormire si allontana ancora di più,
maciullando le mie articolazioni. Devo avere davvero la febbre, in fondo.
Non so esattamente a che ora mi risveglio, la gola secca ed il respiro
corto, sentendo qualcosa di diverso: non mi sono neanche accorta di essermi
addormentata, la sensazione di calore non è passata, così come quella maledetta
sensazione di stanchezza paralizzante. Però avverto la presenza di qualcuno nella
stanza, quindi, ricordandomi che indosso ancora il vestito della mattina, mi
copro pudicamente con il lenzuolo. Forse perché una parte di me ha già capito
chi si è seduto sul letto accanto a me, e questo ha portato il mio cuore
decelerato ad assumere un ritmo quasi normale. Quando sento una carezza lenta e
dolce sulla mia testa, come se fosse fatta ad una bambina ammalata, respiro a
pieni polmoni l’odore dello sconosciuto, che già so chi sia, sebbene ho gli
occhi chiusi, serrati. Tabacco. Cuoio.
Aghi di pino.
È un odore quieto, fresco, tranquillo, che rende la mia febbre più
sopportabile, che mi assolve e perdona, che mi protegge e capisce. E mi fa
piangere, sebbene stia ancora fingendo di dormire. Inutilmente. Perché se è
come sempre, se va tutto come sempre… Ilai già sa che sono sveglia, già sa che
non ho mai dormito, già so che forse non ci riuscirò mai più.
“Mi hai lasciato sola…” sussurro, gli occhi sempre chiusi, alla mano che mi
accarezza la fronte e che d’improvviso si ferma, immota, colpevole, vinta. Un
sospiro un po’ più forte, un brivido sulla schiena, il ricordo di un bacio, poi
lui riprende ad accarezzarmi con lentezza, non voglio che smetta e non lo fa,
mentre mi risponde pacato: “Non l’ho mai fatto… né mai potrei. Ero qui fuori…
non mi pareva il caso di stare in casa di Malfoy, senza uno specifico invito…”.
Non penso che Pansy e Dean abbiano avuto bisogno di un invito, ma capisco che
cosa voglia dire Ilai. È qualcosa di ben diverso: è accettazione che lui sia
qui, adesso, a far parte della mia vita in questo modo così strano e fatalista.
Dubito che Draco riuscirebbe a formulare un invito in quel senso… come non
penso che lo farei mai io, al contrario.
“E adesso, allora, che cosa è cambiato?” chiedo con un filo di voce, non
aprendo ancora gli occhi.
“Seth…” mormora Ilai laconico, facendo una pausa “Mi ha visto in giardino…
e mi ha detto che dovevo essere qui… con
te… e che con Malfoy ci parlava lui… non volevo ancora, ma ha insistito…”.
Sorrido mio malgrado, ripensando alle parole di Seth del pomeriggio e
ricordandomi di quanto può essere convincente o assillante, se ci si mette. Comprendo, in sottotesto, anche altro: Seth
non aveva mai accettato il legame che io avevo con Ilai. Mai, perché era
convinto che io e Draco appunto ci appartenessimo. Se si è convinto, noto con
una spina lacerante in petto, vuol dire che non lo pensa più.
Mi muovo velocemente nel letto, avvicinandomi con improvvisa risoluzione ad
Ilai, pur restando distesa nel letto. Poggio la testa sulle sue gambe, lo sento
irrigidirsi sorpreso e sento, persino nel buio della stanza e delle mie
palpebre chiuse, il suo sguardo di ghiaccio nero soppesare la mia reazione. Poi
qualcosa si fa più leggero, più vischioso e più caldo assieme, e giurerei di
averlo sentito sorridere. Si incaglia quel sorriso dentro di me, in un punto
morbido nel petto, e sorrido timidamente a mia volta, ringraziando il buio.
“Ti hanno detto del ciondolo di Tatia?” chiedo senza preamboli, affondando
il viso sulle sue ginocchia.
Ilai sospira ancora piano, ed annuisce, confermandomi anche che sa di Draco
e del fatto che dovrò dirgli di Alex.
“E’ la scelta giusta… e lo sai anche tu…” la sua voce tintinna nel buio,
causandomi un altro brivido lungo la schiena e di nuovo la dimensione di quello
che sta per accadere mi frastorna ancora. Tremo, mentre mi sforzo di annuire ad
Ilai, che naturalmente si accorge di questo. Lentamente, dolce come sempre è
stato, si china su di me, mi stringe per i fianchi e mi solleva seduta con
facilità, come se fossi davvero una bambina piccola. Ho ancora un capogiro, ma
si smorza quando sento il torace di Ilai reggermi saldamente, mentre mi ha
sistemato in braccio a lui e mi ha chiuso con le sue braccia. Poggia la guancia
sulla mia fronte, mentre mi raggomitolo contro di lui, e poi mi sussurra:
“Andrà tutto bene… mi hai capito? È suo figlio, ti aiuterà… e non sarai sola in
questa storia…”.
Una scossa elettrica lungo la schiena mi fa aprire velocemente gli occhi,
mentre sollevo il collo, rivolgermi a quel buio caldo che so essere lui: “Non
sono mai stata sola… tu… ci sei stato tu…”.
“E non è servito a granché…” ride amaramente, il cuore che mi diventa
minuscolo “Non ho salvato te… non ho salvato tuo figlio… non ho vendicato
Tatia… e quel che è peggio è che…”, Ilai tace a disagio, le sue braccia tremano
ed improvvisamente la testa mi gira daccapo: “Continua… ti prego…”.
“Perché?” mastica amaro, muovendosi nervosamente e sistemandomi meglio tra
le sue braccia, il cuore mi annega in una melassa condensata, sentendo la sua
voce scoraggiata “Perché, Hermione? Fino a che punto, uno può ammettere che
tutto quello che ritiene giusto, vero e corretto… tutto quello che sa che dovrebbe fare… poi,
semplicemente, non lo fa… non lo riesce a fare, perché ogni fibra del suo corpo
lo spinge da una parte diversa, ed adesso… io… non ci dovrei nemmeno pensare,
dovrei solo andarmene via da qui e basta…”, quel pensiero mi immobilizza, mi fa
trattenere un singhiozzo e mi spinge ad aggrapparmi alla sua camicia con le
dita, mentre mormora con tono disperato: “Io devo andarmene da qui, Hermione…”.
So che ha ragione, so che non ha torto, so che è ingiusto che io lo
trattenga qui per questo senso di bisogno che ho maturato nei suoi confronti e
che non so spiegare. So che dovrei avere la mente libera e il cuore sgombro per
riflettere su quello che davvero provo per lui, senza che mi si frapponga la
rabbia, la disperazione, la rivalsa, il dolore. So che probabilmente dovrei
proteggerlo per Tatia e mandarlo via, concedergli di salvarsi, e so forse
adesso per la prima volta che quest’uomo era di un’altra che mi ha aiutato da
un’altra vita ed un altro mondo, e che io sto ringraziando cercando di
insinuarmi nel ricordo che ha ancora di lei. È quel pensiero, turpe, immondo e
schifoso, che batte l’apatia e mi spinge a prendere coscienza di me stessa. Con
le mie residue forze, mi alzo in piedi a fatica, tenendomi vicina ad un
comodino. Da fuori non filtra alcuna luce, deduco che sia ormai sera e mi
arrischio velocemente ad accendere la luce di un abat
jour, che ho visto poco fa. Mi abbaglia una luminescenza perlacea e smorta, che
conferisce al viso di Ilai una sfumatura decadente che me lo mostra più fragile
e debole di quanto mi sia mai parso.
Resta seduto sulla sponda del letto guardandomi, mentre resto immobile, in
piedi, davanti a lui, le braccia chiuse sotto il seno a proteggermi e
contenermi. Ilai ha lo sguardo più triste di quando l’ho conosciuto in
Finlandia, ha i capelli spettinati, le labbra rosse e il respiro affaticato,
eppure gli occhi sono vivi, liquidi, intensi, incollati ai miei.
“Hai ragione…” biascico, osservandomi i piedi nudi “Hai ragione… questo… non è giusto… io sono
semplicemente un’egoista… non posso… anzi… non devo… trattenerti qui…”, non
faccio nulla per nascondere la lacrima che mi accarezza la guancia e che muore
nel mio collo, tanto lui l’intuirebbe lo stesso. Ilai stringe le labbra, fa un
verso di gola e bisbiglia: “Tu sei egoista, adesso? Tu?”, si alza in piedi e si
para davanti a me, prima di sollevarmi il viso con due dita e sorridermi mesto,
la luce bianca che disegna ombre scure sotto i suoi occhi che mi appaiono
sempre più stanchi. Non mi sforzo nemmeno di trattenere le lacrime, mentre mi
dice: “Io ti ho baciato, io ti bacerei ancora, io dico una cosa e ne faccio un’altra, io mi impongo di andarmene e resto in
giardino, io mi obbligo a non
toccarti mai più e godo nel fare l’incoerente con me stesso… io… io e basta… che so che sarai per
sempre di Draco Malfoy, eppure tento di strapparti pezzo dopo pezzo a lui…”. Il
cuore mi va in gola, ancora, di nuovo, soffocandomi, il contatto con i suoi
occhi è d’improvviso così destabilizzante, che rimpiango il buio e la stasi
misericordiosa che ci aveva dato.
“Io… non sono più di nessuno… non hai nessuno a cui strapparmi via, se non
me stessa…” piagnucolo, cercando di sfuggire i suoi occhi, Ilai sorride triste
e dice: “Lui è sempre qui, Hermione, non è dall’altra parte del cielo come
Tatia… fino a quando sarà qui, sarai sua per sempre…”. Non so più che dire,
resto in silenzio, mi divincolo dalla sua presa e faccio un passo indietro,
finendo per scontrarmi contro il muro alle mie spalle. Non ce la faccio più a
guardarlo, non ce la faccio più. Il pensiero che se ne vada, che non possa più
rifugiarmi in lui, che non ci sia più… mi
uccide. È bastato un secondo, un solo secondo, e già misteriosamente mi
sono sentita meglio… però, poi, il pensiero di tenerlo qui, ad aspettare… che
cosa, poi? Che mi dimentichi Draco, che possa tornare quella ragazza pura e
semplice che si meriterebbe, che tutto sparisca in una nebbia vorticante di
buone intenzioni? Almeno con lui… non posso e non devo essere egoista.
Il cuore che mi martella in petto, sollevo lo sguardo e dico con un sorriso
tremulo: “Hai ragione, cioè… è giusto che tu vada via… io non sono sola, non ti
devi preoccupare… ce la farò in qualche modo… e poi Raissa e Dimitri vogliono
anche la tua pelle… è meglio davvero che tu vada via… tranquillo… io… starò
bene…”, fingo ancora un sorriso, sperando di rassicurarlo.
Ilai sorride a sua volta, tristemente, poi mi guarda piegando la testa di
lato, e soggiunge: “Non torno in Finlandia… ma prendo una camera in paese.
Quando affronterete Raissa e Dimitri… io ci voglio essere… solo, è meglio che
non resti più qui…”. Lo ripete ancora, come per convincere sé stesso e me, ed
io annuisco daccapo, il vuoto che si allarga nel petto, risucchiandomi, la
mascella tesa nel tentativo di mantenere su questo sorriso spento.
“Certo, hai ragione, lo capisco… vai, non ti preoccupare, starò bene…”
sussurro ancora, poggiando la schiena al muro e cercando di nascondergli il
tremito convulso delle mie gambe al pensiero che davvero se ne vada. Quella
sensazione si acuisce ancora, quando lo vedo estrarre la bacchetta per pronunciare
l’incantesimo di Smaterializzazione, mantengo il respiro fermo e il sorriso
statico e tranquillo, ma so già che appena sparirà, crollerò piangendo, di
nuovo, daccapo, come ormai so fare benissimo. Lui soppesa la bacchetta tra le
mani, la rigira e la guarda come se scottasse, e getta un’ultima occhiata a me,
che ancora trattengo le lacrime, che ancora sorrido, che ancora cerco di
rassicurarlo quando so benissimo che non ce la posso fare. Perché nessuno è
lui, perché è troppo facile stare tra le sue braccia e sentirmi a casa, perché
sarà anche egoista ed inconcepibile, ma sto bene adesso solo se c’è lui.
Eppure, anche solo l’ombra del sospetto pigro che possa volerlo qui solo per
sostituire Draco, mi incatena a questa parete, non facendomi muovere.
“Ciao Hermione…”.
“Ciao Ilai…”.
Ilai ha già sollevato in aria la bacchetta, compiendo la torsione del polso
che lo porterà via da me, ed io mi lascio sfuggire un singhiozzo lento, che
infrange il mio sorriso, che lo spezzetta in mille pezzi, che lo rende un
plastificato retaggio di memorie che non ho più. Con gli occhi sgranati, con
l’espressione persa, con il cuore in gola, vedo Ilai gettare rabbiosamente la
bacchetta a terra, avvicinarsi rapido a me e chiudermi tra il suo corpo e il
muro alle mie spalle, prima di prendermi il viso tra le mani e baciarmi con
tutta la forza e la disperazione di cui è capace. Le sue dita si artigliano
gentili sulle mie guance, giocando poi dolcissime con i miei capelli, mentre le
sue labbra, caldissime come un fiore d’agosto, si poggiano silenti sulle mie,
costernate, distrutte, piegate ed afflitte. Piange nelle mie labbra chiuse, e
piango anche io, non resistendo più, ma restando immobile, atterrita, inerme,
catturata nell’attimo dell’inspirazione, e ritrovandomi improvvisamente senza
fiato, come se annegassi. Cerco di resistere, cerco di impormi di fermarmi,
cerco di comandare il mio corpo di non fare nulla, assolutamente nulla, ma le
mie braccia lo cingono alla vita prima che me ne renda conto, le mie labbra si
aprono ed assaggiano avide il suo sapore, il mio cuore si scontra con il suo
mentre gli volo tra le braccia e la mia mente mi scoppia in mano, suggerendomi
di non smettere di baciarlo. Piango ancora, ed è giusto così, perché lui aveva
ragione, siamo solo capaci di amarci in questo dolore sordo, continuo,
costante, incessante, e se non sento le lacrime sulle sue labbra, sulle mie
labbra, io non lo riconosco, io non so che è lui, io non posso piegarmi a
baciarlo. Perché non è amore questo, come non è amore quello per Draco, ormai.
Io so amare solo mio figlio, adesso: questo ha i contorni malaticci di un
sentimento sbriciolato che la sola cosa che mi è rimasta da dare a qualcuno. Anche
a lui, anche ad Ilai, anche a lui che adoro tanto, che forse avrei amato
persino, che magari potrebbe rendermi felice. Anche a lui.
Non mi basta più, con terrore mi accorgo che baciarlo soltanto non mi basta
più: che voglio averlo dentro, addosso, ovunque, ad annullarmi la memoria ed il
pensiero.
Me la
sono scopata e mi è piaciuto farlo, mi faceva stare bene, mi annullava il
pensiero…
Con un sussulto, mi ricordo le parole di Draco su
Raissa. Siamo uguali, non c’è che dire… sempre a cavare fuori l’anima, da chi
ci sta vicino… chi è mai stato davvero il Serpeverde tra me e lui?
Quando Ilai si stacca da me, non vorrei che lo
facesse: guardo i suoi occhi annebbiati e stanchi, le sue labbra rosse e
gonfie, il segno che senza volere gli ho lasciato sul collo con le dita della
mano nel tentativo di attirarlo più vicino… ed abbasso il viso, la vergogna che
si spande come un manto sulle mie spalle.
“Devo andare, adesso…” bisbiglia lui, che invece è
saldo in sé stesso, non ha cambiato idea, sa che non dovrebbe stare qui. E che
poi mi bacia ancora, piano, da fratello, a fior di labbra. E io gli strappo
ancora altri baci, veloci, rapidi, dolci come caramelle ed amari come veleno,
mentre mi rassicura che, se ho bisogno di lui, potrò chiamarlo in ogni momento.
Ogni parola che dice, gliela soffoco sulle labbra. Ed ho freddo quando si
allontana, quando afferra la bacchetta caduta per terra e quando si prepara a
sparire. Ho un sorriso meno tirato, più tranquillo, reso morbido dalle sue
labbra, che diventa persino sincero, mentre mi guarda serio e dice dolcemente:
“Se esiste anche un solo destino per cui Tatia ha voluto che ci incontrassimo
perché dovessi restare con me… questa sarà l’ultima volta che ti lascio
andare…”.
Con un groppone in gola, annuisco e sussurro: “Se
sarà così… sarò io a non permetterti di andartene più…”. Glielo dico
sincera, onesta, vera come non sono da giorni e come si merita che io sia.
Glielo dico, perché ne sono convinta e con questa convinzione riesco ad
assolvere me stessa e quello che ho appena fatto. Forse, esiste davvero un
mondo in cui, se non appartengo più a Draco, divento sua. Ma se avverrà, se
accadrà, sarà senza tutto questo che mi sconquassa il cuore: sarà con Alex con me
che gli gioca sulle spalle ma che chiama Draco papà, sarà con me che lo bacio
solo perché voglio baciarlo, sarà perché voglio stargli accanto completamente
presente a me stessa, sarà con Draco diventato una memoria innocente e
piacevole nella testa, e non l’incendio boschivo che è adesso.
Sarà con me che amo Ilai ed Ilai solamente, e sarà
con me che mi dico che ho bisogno di lui perché lo amo, e non che lo amo perché
ho bisogno di lui.
Se esiste un solo destino, anche uno soltanto, che
mi vede accanto a lui… mi avrà tutta, senza sconti, per sempre, tersa, limpida
ed immacolata come un bucaneve fiorito.
Nessuno, soprattutto lui con quello che ha passato,
si merita questa versione marcia e lercia di me stessa, che ama ed odia nello
stesso istante, che mente ed è sincera, che ha fede nello spergiuro e che ha le
vene sature di dolore. Nessuno… persino Draco…si merita questa versione di me stessa.
Ilai sorride alle mie parole, ed è anche il suo è
un sorriso aperto, sincero, dolcissimo, onesto. Mi saluta con il palmo della
mano aperto, poi pronuncia la formula di Smaterializzazione e scompare.
La stanza, d’improvviso, sembra così piccola e
vuota che voglio solo uscire da qui. Ritemprata da un nuovo coraggio, persino
da una speranza fioca nel futuro, mi sussurro decisa che devo immediatamente
parlare con Draco, dirgli di Alex e utilizzare il ciondolo di Tatia. Prima
riporterò mio figlio a casa, prima tutto tornerà normale, prima tornerò me
stessa… e prima potrò risolvere tutti questi nodi irrisolti che mi sto
lasciando alle spalle. Nel silenzio della preoccupazione dissolta, potrò
davvero capire se è finita tra me e Draco… e se è iniziata tra me ed Ilai.
La febbre sembra non essersene andata, lo specchio
mi rimanda una mia immagine dagli occhi lucidi e dalle guance rosse come mele
mature, ho il passo ancora traballante e il fiatone, ma decido di scendere
subito di sotto per chiudere la questione con Draco. Il vestito azzurro è
spiegazzato e aggrinzito, quindi decido di cambiarmi velocemente: Seth deve
aver portato qui la mia valigia, perché la trovo ai piedi del letto. Un paio di
jeans ed una canotta bianca, mi fanno sentire più a mio agio, ma il freddo che
mi sento fin nelle ossa a causa delle febbre, mi spinge a poggiare malamente
una felpa sulle spalle. Decido di assecondare immediatamente i residui della
calma che Ilai mi ha lasciato addosso e di cui chissà per quanto tempo non
potrò usufruire, e decido di scendere di sotto immediatamente a cercare Draco.
Apro la porta, percorro il corridoio e scendo le scale, la luce della luna mi
informa che devono essere almeno le otto passate.
Gironzolo un po’, ma in salotto non c’è nessuno, e
nemmeno nelle altre stanze. Alla fine, trovo in cucina Pansy e Seth, seduti
attorno al tavolo ed intenti a sbocconcellare dell’insalata. Charisma si è
addormentata tra le braccia di sua mamma, dorme con un ditino in bocca. E sul
divano poco distante, vedo anche Serenity addormentata a sua volta, i codini
biondi legati con dei nastri azzurri. Per terra, sono sparsi dei giochi e delle
bambole, cosa che mi fa dedurre che devono aver giocato assieme fino ad ora.
“Herm!” Seth si alza subito in piedi, premuroso,
avvicinandosi a me e sfiorandomi la fronte con il palmo della mano “Hai ancora
la febbre?”. Sorrido rassicurante e rispondo che credo che sia scesa un
pochino, Pansy alle spalle di Seth, mi guarda indecifrabile ma
impercettibilmente sembra allentare la tensione delle spalle.
“Dove sono gli altri?” chiedo velocemente,
sedendomi accanto a Seth che mi porge subito da mangiare.
“Dean credo che sia andato a svaligiare una
farmacia… per comprare del magnesio, o che so io…” risponde svogliata Pansy,
punzecchiando con la forchetta un pomodoro “Se avessi saputo che doveva
trasformarsi nella versione maschile di Nonna papera, gli avrei detto che ero
incinta a moccioso sgusciato fuori…”. Roteo gli occhi con espressione
fintamente partecipe, rendendomi conto che adesso Dean sarà semplicemente
elettrico, avendo saputo della nuova gravidanza della moglie. Certo, Pansy la
liquida bruscamente, ma lo splendore terso che ha assunto il suo sguardo, lei
non lo può negare e nascondere. E per fortuna, non può nemmeno vederlo, così da
non vergognarsene o da cercare di sottrarlo agli altri. Charisma, nel sonno, fa
una buffa risata e si accoccola meglio contro il petto della madre.
Chissà
se Alex ha avuto un incubo stanotte… mi caccio a forza un’altra
manciata di insalata in bocca, lottando con il solito impulso di rimettermi a
piangere.
“Chi ha i denti e non ha il pane…” mormora Seth,
mettendo su un broncio “Io non ho coccole da nessuno da settimane…”. La sua
espressione mi spinge a ridere sommessamente, Seth mi guarda felice e lieto che
abbia sorriso alla sua piccola battuta: sono davvero felice che possiamo
tornare a guardarci così.
Pansy però prende la mia risata come se gli stessi
dando manforte, magari lamentandomi anche della mia di astinenza da coccole,
e difatti blatera, agitando la mano con aria truce: “Green, tu hai un fidanzato
da qualche parte o mi sbaglio? Quindi non farei propriamente il delirio
tragico… e tu Granger, vogliamo parlare del tuo tozzo di pane russo? Mi
sa che hai i denti ed anche la pagnotta…”.
“Non dire sciocchezze…” arrossisco fino alla punta delle
dita dei piedi, nascondendomi dietro la frangetta di capelli mentre continuo a
mangiare.
“Ah bè sì certo, il taglio sul labbro da bacio
alla “come se non ci fosse un domani” te l’ha fatto Seth in un accesso
tardivo di mascolinità post adolescenziale…” asserisce tagliente Pansy, mentre
io in imbarazzo mi strofino le labbra con il palmo della mano in modo febbrile,
ricavandone una piccola striatura rossastra. Seth ridacchia del mio imbarazzo,
sghignazzando, lo minaccio brandendo una forchetta e asserendo: “E comunque… il
tozzo di pane, insomma, Ilai, accidenti a te… se n’è andato…”.
“Herm!” squittisce Seth deluso, alzandosi in piedi
e facendomi sobbalzare “Ma allora dillo che hai maturato uno spirito di
contraddizione nei miei confronti! Che ti ho fatto, eh? Te l’ho mandato persino
in camera così che… potesse farti provare il suo sfilatino!”.
“Possiamo smetterla con queste metafore da
panificio?!” biascico sempre più violacea e con la temperatura corporea che
minaccia di arrivare a 45 gradi centigradi, non credendoci nemmeno che lo stia
facendo questo discorso “Sebbene io ed Ilai volevamo…”.
“… strapparci i vestiti di dosso…”.
“…usarci come farmaco per la castità
pluriennale che ci accomuna…”.
“Questa è bella, Pans!”.
“Esercizio, Green... tra qualche anno ci arrivi
anche tu…”.
“Dicevo…” continuo, massaggiandomi con le
dita le tempie e controllando il mio viso congestionato “… sebbene io ed Ilai
ci siamo avvicinati molto in queste settimane, al momento non era giusto che
lui stesse qui… quando la situazione tra me e Draco…”, devo prendere fiato per
proseguire: “… non è poi così chiara… e poi, io devo parlargli di Alex adesso,
lo sapete… ed al momento è meglio che mi concentri solo su questo…Ilai l’ha
capito ed ha deciso di allontanarsi… lui…” divento rossa in viso ancora,
ricordandomi il bacio che mi ha dato solo pochi minuti fa, e non so più in
grado di continuare.
“… lui ti vuole molto bene…” completa Seth con un
sorriso tenero e dolce, accarezzandomi la testa fraternamente, ed io annuisco,
stringendomi nelle spalle.
“E te lo meriti Granger…” sottolinea Pansy,
sistemandosi meglio Charisma tra le braccia così da nascondermi il suo viso, la
guardo sconcertata per la sua gentilezza rude, mentre prosegue: “Tutti, persino
tu, ti meriti qualcuno che si prenda cura di te, adesso… e so che il tuo nobile
spirito Grifondoro si rivolterà nel senso di colpa… ma non devi alcuna fedeltà
a Draco, se non quella di madre di suo figlio… non contorcerti nell’olio
bollente…”.
“Non lo sto facendo…” sorrido quietamente,
guardandola.
“Lo so… sei più simile a te stessa di quanto tu non
sia stata da settimane… tutta tesa a fare la cosa giusta… e se è merito
di Radcenko, allora… deogratias
per l’addio alla tua te stessa martire…”. In modo inconsapevole, mi viene
da sorridere ancora, non so per quale motivo, ma l’approvazione di Pansy
ultimamente per me è diventata la più importante. Non so se la considero
strettamente una mia amica, ma forse è proprio per questo che so che, quando
sbaglio, non avrebbe alcuna remora d’affetto a farmelo notare, come invece
accade con Seth, Dean o Ilai. Perciò, anche se a lei non lo dirò mai, capisco
che sto facendo la cosa giusta solo se me lo dice lei. E considerando che cosa
siamo state fino a qualche anno fa, questo è davvero il vertice dei paradossi
che conosco da quando mi sono innamorata di Draco.
Mi ricordo improvvisamente di lui e quella tenue
sensazione di sicurezza tiepida si raggela come ghiaccio rappreso. Fingendo
indifferenza e riprendendo a mangiare, chiedo pacata: “E… Draco… dov’è?”.
“Ah bè, certo… nella scaletta della giornata da ritorno
al passato, adesso viene la paternità tardiva…” bofonchia Pansy con un
sorrisetto sardonico, guardandomi di sbieco “Malfoy non potrebbe aver avuto
giornata peggiore di questa… e io l’ho visto quando ha preso gli orecchioni e
la varicella assieme, nella stessa giornata… non era una bella e mistica
visione…”. Quando però aggrotto le sopracciglia, in attesa, chiedendole in modo
alquanto palese ed impaziente dove diamine sia andato, Pansy sospira e borbotta
qualcosa sottovoce che non riesco ad intendere, prima di aggiungere: “Dopo
l’illuminante chiarimento con la sottoscritta… il quale per inciso si è
concluso con le pareti del salone immacolate e non sporche di sangue, cosa che
è il massimo possibile adesso… Seth ha pensato bene di parlare a Draco della
necessità che Radcenko stesse qui… un momento epico… da poema
cavalleresco…”, a quelle parole Seth gonfia il petto tronfio di sé stesso, ma
distinguo una lieve sfumatura verdastra sul suo viso, cosa che mi fa ragionevolmente
assumere che non sia stata esattamente una passeggiata corredata di gelato
parlare con Draco di me ed Ilai. Gli do comunque una pacca sulla mano, alla
quale Seth mi restituisce un’occhiata soddisfatta, mentre Pansy conclude con
tono indifferente: “Alla fine il drago, geloso marcio della sua
principessa mezzosangue di cui non ammetterebbe mai di essere ancora stracotto,
è andato da qualche parte a sbollire la sua rabbia… ma penso che stia per
tornare… insomma, è sempre la sua di casa, anche se tecnicamente desideriamo
sfrattarlo ad ogni piè sospinto…”.
Una parte di me, nemmeno così piccola come potrei
fingere, ha un singulto tremulo alle ultime parole di Pansy: è una parte
adolescenziale, acerba, imberbe, ancora strettamente legata a Draco come uomo
che amo, e non come padre di mio figlio, la sola cosa a cui riesco a pensare
adesso. Sentire la supposizione per cui lui potrebbe essere ancora innamorato di
me mi fa arrossire e tremare il cuore come se fosse fatto di cera. Non credo
che passerà mai questa sensazione, non abbiamo smesso di amarci per scelta e
convinzione, limando odio e rabbia giorno per giorno. È stato più simile ad un
aborto spontaneo, doloroso, terribilmente acuto e di cui portiamo ancora i
segni e le tracce addosso, come tagli di sangue nella carne. Difficilmente un
giorno dismetterò l’abitudine di sussultare sentendolo nominare, oppure di
sobbalzare parlando di lui, o anche di sperare che tutto possa tornare a posto,
specie considerando che sono la mamma di suo figlio e sarà sempre mia fantasia
che Alex possa avere i suoi genitori assieme. Figuriamoci se posso
improvvisamente, adesso, smettere di sentire il cuore in una centrifuga se
penso a lui.
Per fortuna, almeno, ho imparato a nasconderlo:
difatti, quando mugugno che spero che si spicci a tornare, Seth e Pansy
annuiscono partecipi, non accorgendosi del tremito della mia voce, percettibile
solo alle mie orecchie. A quel punto, finito di mangiare, Pansy porta Charisma
in una camera al piano di sopra, mentre Seth fa lo stesso con Serenity, dopo di
che decidiamo di organizzare al meglio il piano contro i Karkaroff, definendo
delle linee guida, almeno fino a quando non tornano Dean e Draco. Ci sediamo in
salotto, io con una tazza di tisana che ha l’effetto di calmarmi e di cercare di
snebbiare la mente da tutte le cose che potrebbero andare storte, ferendo Alex
o peggio. Quando però la tristezza minaccia di sopraffarmi, Pansy fa una
battuta divertente o Seth mi stringe meglio la coperta sulle spalle, così da
non farmi prendere freddo dato che la febbre non accenna a scendere, ed allora
mi sento un pochino meglio. In ogni caso, ad ogni rumore proveniente
dall’esterno e che potrebbe tradursi nel ritorno di Draco, mi scopro ancora
vogliosa di prendere tempo prima di dirgli di Alex e sospiro di sollievo quando
capisco che non è lui, affannandomi nella testa per trovare le parole giuste.
Non so davvero se esistano queste fantomatiche parole giuste… anzi… di minuto
in minuto, credo di capire che non ci sono parole giuste tra me e Draco, da
quando ci siamo conosciuti. Non ci sono mai state. Ergo, sarà meglio che
nemmeno ci pensi… dovrà venire da sé. A costo di prendergli il sangue a forza,
sibilando solamente che mi serve il sangue del padre di mio figlio. Almeno
glielo avrò detto… parlare di come agire con i Karkaroff, paradossalmente, è
più semplice. Il mio istinto da ex Capo degli Auror prende il sopravvento,
rendendomi più fredda e lucida, mentre analizzo la situazione. Non sappiamo
dove sono nascosti, quindi in ogni caso dobbiamo aspettare che siano loro a
contattarci, non possiamo pertanto studiare il terreno di scontro e capire bene
come affrontarli. Ho solo alcune cose chiare e nette in mente. Primo, usare il
ciondolo solo in presenza di Alex, quindi arrivata nel loro nascondiglio. Non
posso rischiare che il suo potere non sia sufficiente, se Alex fosse lontano da
esso. Secondo, Dean, Pansy e Seth ovviamente restano qui. Non esiste che li
metta in pericolo in alcun modo e se questo non è un problema per Seth, che sa
di essere d’impiccio essendo babbano, e per Pansy, che è consapevole di dover
restare fuori a causa della sua gravidanza, non sarà ugualmente semplice
convincere Dean, ma spero che in questo sua moglie sia più persuasiva di quanto
potrei essere io. Ed arriviamo all’ultimo ed ovvio punto: con me dovranno
venire Ilai e Draco, se non altro perché dovrò fingere in qualche modo che li
ho uccisi, altrimenti Dimitri non mi farà nemmeno avvicinare ad Alex. Senza
contare che Ilai non rimarrebbe mai fuori da questa storia… e dubito che lo
farà anche Draco, specie quando saprà che Alex è suo figlio. Ovviamente, è
questo il punto maggiormente difficile da sbrogliare al momento: se so che,
sciolto Alex dall’assimilazione con Dimitri, potrei tentare di fuggire o di far
fuggire almeno lui, affidandolo o a Draco o ad Ilai, so che sarà difficile
farli collaborare pacificamente assieme, vista la situazione complicata di me
con ognuno dei due. E, punto non trascurabile, non so praticamente come
inscenare la loro morte. Dimitri e Raissa sanno qualsiasi cosa, scoprirebbero
subito falle ed inganni di pozioni o incantesimi anche ben congegnati. Sanno
tutto quello che è stato scritto da uomo, me l’ha detto Dimitri… come trovare
qualcosa di sconosciuto a loro? Mi lambicco il cervello per ore attorno a quella
domanda, ma non ne vengo assolutamente a capo. E non vale nemmeno l’aiuto di
Dean quando ritorna, lo sguardo acceso, carico di integratori per Pansy che
riprende a sbuffare. Quando Seth inizia a sbadigliare e Dean ingiunge a Pansy
di andare a letto, che “le neo-mamme devono dormire almeno sette ore a
notte”, cosa che gli fa guadagnare una rispostaccia acida sul “se
dormissi sempre sette ore a notte, adesso non sarei proprio incinta”,
capisco che dobbiamo rimandare la questione a domani. Penso di chiamare Helder
ed Harry per chiedere il loro aiuto: la prima ha sottomano il più grande
patrimonio non scritto, ossia quello degli Empatici, ed il secondo ha accesso a
fonti che sicuramente io non conosco, come i centri di sperimentazione di
pozioni. Saluto Dean, Pansy e Seth, rassicurandoli e dicendoli di andare
tranquillamente a dormire, mentre io mi stendo sul divano in salotto, scossa
dai brividi della febbre che sicuramente ha ripreso a salire. Ma devo aspettare
Draco, non c’è verso di rimandare a domani.
Crollo di nuovo in un sonno fragile ed instabile,
ogni rumore mi fa rizzare in piedi e la febbre peggiora le cose, dandomi la
sensazione di essere sospesa su un vulcano di lava bollente, sebbene i brividi
di freddo non mi lascino in pace. Nel buio, ogni ombra nasconde un nuovo
terrore per Alex, una nuova ansia al pensiero di non trovare una soluzione o di
non riuscire a parlare con Draco. Poco prima dell’alba, fiaccata e distrutta
dai dolori alle articolazioni e dalla sensazione di essermi ridotta come un ramoscello
secco e bruciacchiato, mi appisolo lievemente, scivolando in un sonno nero e
privo di sogni che non mi riposa, ma mi agita soltanto. A calmarmi, giunge solo
una carezza fresca sulla mia fronte, che ha l’effetto di placare la mia
angoscia, la luce dorata che preme contro le mie palpebre chiuse e sudate. È un
tocco delicato, lieve, dolce… come il battito delle ali di una farfalla. Ed è
umido, bagnato, infinitamente rilassante e corroborante sulle mie tempie
bollenti. Morbido, soffice… nessuna mano potrebbe esserlo, è sicuramente un
asciugamano imbevuto d’acqua fresca, che corre lungo le vene del mio sangue a
portarmi refrigerio. Respiro profondamente ad occhi chiusi, mentre passa lungo
i miei zigomi e giunge a bagnarmi anche le labbra secche e spaccate dal delirio
della febbre. Non apro gli occhi, non so se sia perché non ci riesco, o perché
non voglio: ed in quel momento che un sospiro più forte, da annegata, sospinge
un profumo familiare nelle mie narici, giungendo a farmi capire che non apro
gli occhi perché non posso.
Perché, sebbene tutto di me spinga a forzare la
resistenza degli occhi serrati, so che nel momento in cui li aprissi, Draco
smetterebbe di prendersi cura di me così.
Varrebbe la pena anche solo per vedere i suoi occhi
grigi fissi su di me, non furiosi, non arrabbiati, non colmi di livore… ma solo
di quel residuo di tenerezza melodiosa che aveva per me, anche sbiadita,
scolorita, sporca, contaminata, ma ancora straordinariamente vera e presente.
Basterebbe anche solo questo, pure se si allontanasse subito, comprendendo che
non sto dormendo, ma che sono sveglia.
Mi basterebbe.
Ma violerebbe le regole non scritte tra me e lui,
quelle per cui tutto quello che ci nuota nel cuore davvero, può avere forma
solo di tocchi, di sguardi, di fruscii, da poter negare l’attimo dopo.
L’attenzione solerte che ha adesso per me, se fossi cosciente o pensasse che lo
sia, me la tributerebbe solo se fosse certo al mille per mille che io non la
userei come arma contro di lui. E questa mancata ritorsione è accaduta solo
dieci giorni della nostra vita assieme, quando ci siamo così fusi l’uno
nell’altra da generare un bambino.
Sono troppo orgogliosa per ammettere che respiro
davvero, adesso che mi sfiora così. Sono troppo arrabbiata per convincermi che
ha sempre l’odore più buono del mondo. Sono troppo addolorata per svegliarmi e
sorridergli grata, come se non fosse accaduto nulla. E lui è troppo orgoglioso,
arrabbiato ed addolorato a sua volta per leggere meglio il mio respiro
affannato, per fare un gesto meno cauto che mi costringa a dismettere la
recita, per dire il mio nome con prudenza affinché possa accorgermi di tutto. Si
limita a picchiettare con solerzia la mia pelle con la stoffa bagnata, come se
non fosse capace di fermarsi, come se in fondo fosse normale farlo, come se non
ci fosse altra scelta. Lo sento sospirare a tratti, allontanarsi e bagnare
nuovamente il tessuto, per poi tornare a me con nuova cura, diligenza ed
attenzione. Ad ogni tocco, la mia pelle assetata ne domanda ancora e, ad ogni tocco,
conosce fame e sete nuove, al punto che comprendo ben presto, con un brivido,
che non ho necessità di quella acqua seppure piacevole. Ho ancora e sempre
necessità che sia lui a farmi questo. Non dovrei, e lo so bene, ma non posso
evitarmi di abbandonarmi a questo gesto semplice eppure perfetto.
Che è affetto ed interesse… sebbene sia ad occhi
chiusi. Gli occhi aperti, la luce, il sole, la vita ci ricorderebbero troppo,
così da non poter essere più naturali e sinceri come eravamo ere fa.
Il buio, il sonno, la luna, la febbre, la
stanchezza, gli occhi chiusi… sono la coltre insincera, dove ci concediamo
sprazzi di passato per nasconderci al presente.
Draco si prende tutto il tempo del mondo per
rinfrescare il mio viso, piano, con gesti misurati e premurosi, prima che
ancora lo senta sospirare e sussurrare, la voce bassa che fatico a sentire: “Tu
e Radcenko non avete bisogno di alcuna mia benedizione…”, sobbalzo, rendendomi
conto che era perfettamente cosciente che fossi sveglia, eppure mi serro nelle
spalle e non accenno ad aprire gli occhi, mentre prosegue: “Dubito che ne
avresti mai avuto bisogno… e dubito che tu ne abbia bisogno adesso… so di
Raissa, so di Dimitri, so tutto… e non posso convincerti ad accettare che io ti
aiuti per tuo figlio… se hai bisogno di andare via, fosse anche con lui… fallo
e basta. Ma fallo presto… sai come va tra me e te… come va sempre tra me e
te…”, sospira ancora profondamente come per prendere fiato e sussurra: “Non
possiamo mettere a posto quello che è stato. Eppure fingeremmo di
dimenticarcene così da trattenerci l’uno nella vita dell’altra… e poi… alla
prima occasione…”.
“… verrebbe tutto fuori daccapo… lo so…” completo
io al suo posto, triste, riaprendo finalmente gli occhi e trovandomelo davanti,
chino su di me, il fazzoletto bagnato ancora in mano, i capelli biondi
spettinati e gli occhi grigi slavati dalla stanchezza. Si siede goffamente per
terra, accanto al divano, la testa reclinata all’indietro, guardando il
soffitto con espressione distratta, prima di annuire.
“Forse doveva andare così…” sussurro piano,
fissando un punto imprecisato alle sue spalle, per fermare le lacrime sotto gli
occhi.
“No… non doveva andare così…” dice lui deciso,
forte, stringendo i pugni anche se non mi guarda ancora “E’ andata così per i
Karkaroff… non posso credere che non ce l’avremmo fatta…”, il suo sguardo torna
d’improvviso nel mio, fiero, lucido, spavaldo, mentre aggiunge lapidario: “Io e
te… quelli che siamo stati, allora… ce l’avremmo fatta…”.
Annuisco, non sapendo se lo faccio solo per fargli
intendere che l’abbia sentito, oppure perché sono d’accordo con lui: cosa
importa, in fondo? Lui non mi perdonerà mai per Ilai. Io non lo perdonerò mai
per Raissa. Chi se ne frega di quelli che eravamo… ormai non ci siamo più,
ugualmente.
“Non che importi, adesso…” riprende, facendo
nuovamente scivolare lo sguardo lontano da me e prevedendo il filo dei miei
stessi ragionamenti “Credo che quella parte di me… di noi… sia morta e sepolta,
ormai… è rimasto solo… il padre di Serenity. E quello che farei per lei… e la
madre di Alex…e quello che tu faresti per tuo figlio… tutto filtra da questo.
Persino i sentimenti che ho per te, e quelli che tu hai per me… o mi sbaglio?”.
Annuisco ancora, dicendomi intanto che in realtà qualcosa di diverso c’è. E
passa tutto da quello che lui farebbe per mio figlio… per suo figlio. La
consapevolezza che le cose stanno prendendo una piega più definitiva di quelle
che dovrebbero avere, mi frastorna d’improvviso, facendomi sentire spossata.
Sto salutando intimamente Draco, ma in realtà io non posso ancora farlo, forse
non potrò mai, perché è il papà di Alex. Ma lui non lo sa, non lo sa ancora, mi
sta giustamente rescindendo dalla sua vita… e non posso permetterglielo, non
ancora. E non c’entra il sangue di cui ancora ho bisogno… c’entra Alex, il mio
bambino. Qualsiasi cosa accada, comunque vada tra me e Draco, Alex ha bisogno
di suo padre. L’ho capito tardi… ma l’ho capito.
“Io devo parlarti… c’è ancora una cosa che devo
dirti…” le mie parole mi esplodono in gola, mentre mi tiro ritta a sedere,
rompendo la quiete mesta che ci attorniava. Draco sussulta, si rimette dritto e
mi guarda in attesa. Ho la gola secca, ma improvvisamente so esattamente che
cosa dire. Non penso a me stessa, non penso a Draco. Penso solamente a nostro
figlio. Penso che ha bisogno di suo padre. Penso che non voglio e non posso più
essere da sola a fargli da genitore. Penso che tutto questo è così
maledettamente giusto, a così tanti livelli, che ormai non posso nemmeno
concepire l’ombra di un dubbio. Il mio sguardo, che si era inconsapevolmente
abbassato sulle mie mani chiuse sulle ginocchia, ritorna alto e cerca gli occhi
di Draco, mentre dischiudo le labbra.
Ma non trovo i suoi occhi, bassi dove erano prima,
mentre lui era seduto di fronte a me. Si è alzato in piedi, guarda un punto
alle mie spalle, stringe i pugni e serra la mascella. La febbre rallenta e di
molto, i miei riflessi, perché di primo acchito non capisco che diamine stia
guardando: devo persino sbattere le palpebre un paio di volte, per snebbiare la
vista. Poi comprendo che sta guardando il camino spento alle mie spalle e
mastico maledizioni sottovoce: proprio adesso doveva essere contattato da
qualche amico suo? Io e il tempismo abitiamo decisamente in due dimensioni
spazio temporali parallele.
Sto già per alzarmi e togliere il disturbo, pronta
a tornare dopo, quando lo sguardo di Draco torna nel mio, ed è torbido, teso,
preoccupato.
E lì, con un brivido che nulla ha a che vedere con
la febbre, mi volto piano su me stessa. Nel camino non è comparsa una testa
fiammeggiante, come accade in tutte le comunicazioni tra maghi. È invece
comparsa una nebbia perlacea, dalla consistenza più densa del mero fumo, che
sta rapidamente invadendo la stanza. Preoccupata mi tiro su a sedere, coprendo
il viso con una mano e temendo che si tratti di qualcosa di tossico. Cinque
secondi dopo, ne ho la conferma. Ma non si tratta di una tossicità che concerni
direttamente i miei polmoni… riguarda, invece, un alto grado di dannosità
valevole per la mia intera persona, i miei affetti, la mia anima, il mio corpo,
il mio passato, presente e futuro. La nebbia assume la consistenza netta di un
muro, e le fogge di una superficie rettangolare, quasi come se si trattasse di
un televisore: splende di un bagliore smunto ed intermittente, ronzante, finché
vortica in modo sinistro, materializzando due figure che assumono progressiva
definizione.
Traballo su me stessa, reggendomi in piedi ed
aggrappandomi al bracciolo del divano, gli occhi che mi si fanno lucidi. Mi
mordo le labbra, trattenendo le lacrime, che non so se siano d’ansia, di
preoccupazione, di dolore, di irritazione dovuta alla nebbia o di febbre. Poco
importa, non le devono vedere lo stesso. Draco, alle mie spalle, fa un passo
verso di me, mi afferra per un gomito e quasi mi costringe a stare dritta,
mentre le figure mi appaiono finalmente limpide. Lo ringrazio mentalmente,
mentre lascia cadere il braccio, dopo essersi sincerato che potessi stare in
piedi da sola.
“Buongiorno tesoro…” la voce disgustosamente roca
di Dimitri mi fa accapponare la pelle, mi chiudo nelle spalle per impedire che
se ne accorga. Ha un aspetto più florido del possibile, sembra ben nutrito,
riposato e sereno. Tutto il contrario di come sto io… e solamente a causa sua e
di sua sorella. Lei, come di consueto, non parla, ha la mascella serrata e lo sguardo
rivolto ostinatamente su di lui.
“… e buongiorno anche a te, Malfoy…” sogghigna
Dimitri, un tetro scintillio nei beffardi occhi chiari, Draco si irrigidisce
ancora di più “Non nego che avrei avuto maggiore soddisfazione a trovarti già
in perenne posizione orizzontale… ma almeno possiamo darci agli ultimi
convenevoli…”, Dimitri fa una studiata pausa ad effetto prima di aggiungere
biecamente: “Non c’è bisogno di ringraziarmi per essere riuscito in ciò in cui
fallivi da anni… ossia uccidere gli assassini della Greengrass… ed anche per
averti tolto di mezzo l’altra Greengrass… non nego di aver tratto anche del
piacere personale da entrambe le situazioni…”. Draco non risponde, resta
immobile, non posso guardarlo in viso, ma la tensione che emana il suo corpo la
sento persino io che sono davanti a lui.
“Dov’è Alex?” chiedo terrorizzata, guardando
Dimitri con odio puro, stringendo le palpebre “Che cosa gli hai fatto?!”.
“Nulla Granger, credimi…” mi rassicura malevolo
Dimitri, guardandomi di sbieco “Ho reputato che il miglior modo per far vivere
ad Alex questa esperienza, fosse che non la ricordasse affatto… quindi tuo
figlio dorme da quando l’abbiamo… prelevato… e come ben ricordi, siamo
una sola cosa adesso… domani sera lo saremo definitivamente… quindi, se mangio
io, puoi star certa che ne trae anche lui giovamento…”. Un piccolo sospiro mi
cattura i polmoni, effettivamente la sola cosa buona di questa dannata
assimilazione è che se Dimitri sta bene, sta bene anche Alex. E quel bastardo
sembra stare benissimo: quindi anche il mio bambino sta bene. E se sta
effettivamente dormendo come dice… non si sarà nemmeno reso conto di nulla. E
spero che non se ne renda conto mai… fino a quando non sarò andata a prenderlo…
“Quindi Granger, non essere noiosa…” blatera
Dimitri con un gesto noncurante, come se stesse scacciando una mosca molesta,
poi, ispirato, soggiunge: “Qui, sta succedendo qualcosa di sommamente più
interessante e a cui darei la priorità al momento…”, non capisco di che
diamine stia parlando, finché non mi rendo conto che Raissa si è stretta nelle
spalle ed ha sollevato lo sguardo lievemente. Un brivido mi fa trasalire,
mentre mi volto leggermente e guardo alle mie spalle. Draco ha lo sguardo fisso
su di lei, gli occhi di acciaio che la trapassano da parte a parte,
l’espressione dura.
“Tu… hai fatto tutto questo… a me?” l’intimità
di quella domanda è peggiore di tutte le illazioni fatte mentalmente su di
loro, peggio persino delle risposte poco filtrate che ha dato alle mie domande.
La confidenza dei pronomi personali, il tono accorato ed incredulo di Draco
che, davvero, non ha mai pensato che quella donna potesse fargli del male… mi
hanno comprendere in modo fulmineo e poco delicato quanto si sia fidato di lei
e quanto ci abbia tenuto a lei. È come uno spiraglio di una vita che queste due
persone hanno condiviso per cinque anni: il respiro di questa casa,
d’improvviso, sa ancora pesantemente di giorni trascorsi assieme, a spartirsi
poca gioia e moltissima sofferenza, mischiate tutte assieme tra le lenzuola
della camera da letto. Mi sento estranea, terzo incomodo, cerco di farmi
piccola in questa confidenza sussurrata tra queste due persone, mentre Dimitri
ridacchia ed io non so nemmeno dove guardare. Alla fine è lui che guardo,
Dimitri, perché lui è responsabile anche di questo, anche di farmi stare qui in
questo momento, anche di quest’ondata di fuoco liquido che mi scioglie le
viscere, inducendomi al pianto.
Draco, senza esitazione alcuna, prosegue con tono
spento e volutamente basso, come se stesse cercando di arrivare a qualcosa di
ben diverso dalle mere orecchie di Raissa: è come se, a suo modo, stesse
cercando di farla rinsavire, ragionare, tornare in sé. Ed ancora sento caldo,
un rovente e vorticante incendio allo stomaco. Sa di poterselo permettere,
Draco. Sa che lei lo ascolterebbe. Ovviamente, spero che lo faccia, spero che
l’ascolti… ma qualora accadesse… avrei ancora una prova ben diversa da un mero
rapporto fisico tra loro. E questo, nonostante tutto, farà sempre un male
dannato dell’inferno.
Eppure lo lascio fare, chiudo gli occhi, cerco
quasi di sparire come se non li volessi disturbare: ho imparato troppo, in
poche ore, per permettermi recriminazioni cretine da donna innamorata che mi
allontanino ancora di più da mio figlio.
“Tu hai permesso che lui me la portasse via…”
pronuncia affannato Draco, non un solo muscolo lascia intendere che stia
guardando me e non lei, mi stringo ancora nelle spalle, il fuoco che si placa
un pochino, sentendolo ricordarsi di me “Io mi sono fidato di te, da subito… e
tu mi hai consolato, aiutato. E sapevi che lei… sapevi che Hermione stava
rischiando la vita, e tutto quello che era nelle mani di tuo fratello…”, Draco
abbassa ancora di più la voce, ringhiando: “Se le fosse successo qualcosa, se
oggi non fosse stata in grado di essere qui, se l’aveste uccisa come avete
fatto con la moglie di Radcenko…”, fa una pausa voluta, forte, tonante che ha
l’effetto anche di gelare Dimitri, ma Draco scuote il capo come a ricacciare
indietro quei pensieri in un punto oscuro dentro, non prima di aver gettato uno
sguardo confuso nella mia direzione, come ad accertarsi davvero che io sia qui.
Tento un timido sorriso con gli occhi, ma lui volta subito il viso altrove,
riprendendo: “… avevate un debito con me. Tu avevi un debito con me… e l’hai
saldato, allontanando da me la sola persona che avesse mai contato fino a quel
momento nella mia vita…”, ancora rabbrividisco e mi serro nelle spalle, il
calore che non so se sia febbre, che mi toglie il fiato e mi azzera la
salivazione.
“Ed adesso…” soggiunge stoico Draco, sibilando
freddo “Per me non fate alcuna differenza… entrambi... lasciate libero il
bambino…prima che vi pentiate tutti e due di esserti mescolati alla mia
stramaledetta esistenza…”. Dimitri, ovviamente, non si scompone, ridacchia
beffardo e sta per aprire bocca, ma Raissa finalmente solleva lo sguardo, gli
occhi verdi corrono prima al mio viso, ritraendosi disgustati, e poi vagano su
quello di Draco, mentre aggiunge, ignorando la sua minaccia: “Fino ad una
settimana fa… fino a pochi giorni fa… non avrei mai voluto chiamare
Dimitri indietro dalla morte falsa, che si era imposto…”, parlano come se non
ci fossimo, Dimitri non ne pare disturbato, sghignazza e basta, guardandomi;
io, in compenso, non riesco a stare ferma con i piedi, la febbre che rende i
miei movimenti fin troppo lenti “… ed anche se l’avessi fatto… tu e Serenity
dovevate restare fuori…”. L’aria assente di Raissa torna improvvisamente fin
troppo presente, mentre soggiunge digrignando i denti: “Ma lei si è presa Ilai…
me l’ha portato via… i-io ho visto come la guardava… Ilai la guarda come
guardava Tatia, come non ha mai guardato me, con quell’ansia di uccidersi pur
di proteggerla…”, mi stringo nelle spalle, distolgo il viso, come se lei
potesse leggerci anche il modo che ha avuto Ilai di baciarmi. Non so se sia lo
stesso che aveva con Tatia, e nemmeno mi interessa, ma non vorrei mai che lo
intuisse. Draco, alle mie spalle, segue le mie manovre in silenzio, lui che
invece difficilmente posso ingannare. Il mio sguardo corre un secondo nel suo,
ma è lui a distoglierlo per primo, tornando a Raissa che riprende a parlare:
“Ma ho visto anche come lei guardava lui… e come guarda ancora anche te… se non
fosse la puttana che è, se si fosse accontentata solo di Ilai… tu almeno
saresti stato salvo… ed invece vi vorrebbe entrambi, quella cagna…”, ancora
Raissa parla come se io non ci fossi, non mi do pena di rispondere ai suoi
patetici insulti, mi basta sapere dove diamine sia mio figlio, ma se non
finiscono sto discorso inutile, non posso ovviamente saperlo “… ed io non posso
lasciare che abbia né te, né Ilai… si consolerebbe con il superstite,
l’aiuterei persino a scegliere… ed invece così non avrà nessuno dei due… come
non vi avrò io…”. La rabbia ovviamente mi raggiunge nonostante il velo della
prudenza, della disperazione e della febbre, costringendomi a mordermi
l’interno della guancia nervosamente, finché non sento il sapore del sangue in
bocca. È come benzina sul fuoco quel tono ferrigno sulla lingua: i pugni chiusi
lungo i fianchi, mi ritrovo ad urlare stremata prima di rendermene conto: “E tu
per punire me, accetteresti anche di ammazzare la persona che dici di amare? E
quella con cui hai vissuto per cinque anni? Ed ammesso che ciò non ti convinca…
che cosa diamine c’entra mio figlio, sua figlia?! Sei stata con Serenity per
cinque anni… ed adesso la priveresti di suo padre?! Che razza di persona
sei?!”. Draco alle mie spalle, raggela, come se avessi detto troppo, cosa che
mi fa chiedere se non abbia esagerato. Ma, dopo, la pressione gentile che fa
con due dita sulla mia schiena mi fa rabbrividire di sollievo.
Dimitri chiude le braccia al petto, divertito,
osservando in tralice la sorella, come ad aspettarsi la prossima battuta nel
dramma che stiamo mettendo in scena per suo esclusivo divertimento. Raissa non
si scompone minimamente, ha un’aria folle ed allucinata che non le ho mai
visto. È come se davvero avesse perso ogni cognizione del reale. Sussurra solamente:
“Se Serenity resterà sola… sarò io a farle da madre… come in fondo Draco
voleva…”, le dita di lui, sulla mia schiena, tremano piano, come se
d’improvviso e finalmente abbia capito con chi diamine abbia a che fare. I suoi
occhi perdono la sfumatura quieta della diplomazia che aveva assunto, perdono
ogni accenno tenero di affetto verso quella donna e si spalancano nervosamente,
comprendendo quanto i Karkaroff abbiano in comune tra loro. Qualsiasi ostacolo
ai loro obiettivi, deve morire… e, in modo diverso, sono io il loro obiettivo. Lui,
Ilai, Alex e persino Serenity… sono inciampi trascurabili. Saranno soddisfatti
solo quando sarò distrutta, marcia, morta, ma di Dimitri. La mano di Draco
abbandona la mia schiena, si serra a pugno e resta sospesa lungo il fianco.
“… e in quanto al bambino…” prosegue Raissa
monotona, come se stesse semplicemente organizzando una gita al mare “Te lo
potrai pure tenere, Granger… se fai esattamente quello che ti abbiamo
chiesto…”. Per un folle e sconsiderato attimo, mi immagino in un castello nero,
colmo di morte ed odio, a crescere mio figlio assieme a Dimitri. È la cosa più
orribile e sciagurata che abbia mai immaginato, non posso pensare che ci
credano sul serio. Ma è così e me ne dà conferma Dimitri cinque secondi dopo,
aggiungendo casuale: “Il bambino, poi, non è nemmeno fastidioso… credimi,
Granger, mi sono anche ricreduto sul tuo moccioso, sembra un bambino
intelligente e sveglio… era decisamente più odioso quando era nel tuo grembo,
con quella stramaledetta barriera magica… ma non ci conoscevamo ancora, adesso
siamo una cosa sola… andremo davvero d’accordo…”.
“Sei ancora più pazzo di quanto non pensassi se sei
arrivato persino a concepire una cosa del genere…” mormoro a denti stretti,
facendo un passo che spero suoni come minaccioso, sebbene nella febbre è molto
più traballante di quello che vorrei “Mi riprenderò mio figlio… e la farò
finita con voi due, una volta per tutte…”. Dimitri ovviamente non si scompone,
scuote il capo come farebbe un fratello maggiore che deve sempre sopportare i
capricci della sorellina e mormora con voce annoiata: “Domani sera,
l’assimilazione diventerà definitiva… a meno che tu non mi porti i cadaveri di
Radcenko e Malfoy… ed allora finalmente sarà finita sul serio…”. Digrigno i
denti, nella testa rincorro già la soluzione al problema di ingannarlo sui
corpi di Ilai e Draco e divento cieca e sorda del mondo circostante, al punto
che non mi accorgo subito che è calato uno strano ed inquieto silenzio nervoso,
di cui non capisco l’origine e il motivo. Sollevo lo sguardo nebuloso e mi
rendo conto che Raissa è ferma, immobile, gli occhi sbarrati ed incuriositi: ha
persino un singulto sinistro di gioia, che le trasfigura il viso di una luce
cattiva che subito mi dà i brividi lungo la schiena. Dà una gomitata quieta a
Dimitri, che segue la direzione del suo sguardo, e sorride a sua volta,
divertito, stupito, autenticamente felice. Aggrotto la fronte, non capendo e,
sebbene tenti di seguire la direzione del loro sguardo, non mi sembra che ci
sia granché di nuovo nella stanza. Poi Dimitri scoppia a ridere senza ritegno,
ottenendo di farmi ancora di più innervosire, così che automaticamente apro
bocca per vomitargli addosso una serie di insulti e bestemmie, che però mi
muoiono in gola. Perché lui, con calma e divertimento, mentre persino Raissa si
trattiene dallo scoppiare a ridere, dice perfido: “Sai che c’è, Granger? Voglio
essere generoso… portami solo il cadavere di Radcenko…”, lo guardo senza
capire, comprendendo che deve essere successo qualcosa che, nel delirio della
febbre, mi è evidentemente sfuggito. Mi sento così idiota che sto quasi per
chiedere il perché, ma poi di istinto, guardo la schiena di Draco, grata che
lui possa essere in salvo e possa restare fuori da questa storia. E gelo su me
stessa.
La sua schiena è contratta, la maglia appare sudata
e ha i pugni stretti così forte lungo i fianchi, che piccole gocce di sangue
franano al suolo. Sto già per correre verso di lui, quando un’aura di colore
nerastro attorno al suo corpo mi avvisa che probabilmente non riuscirei a
toccarlo. Sembra… elettricità pura. Che diamine sta succedendo? Gli hanno
fatto… qualcosa? Ma non ho visto nulla, non gli hanno nemmeno rivolto la
parola… è lui… che sta reagendo, così. Ma a cosa, diamine? Non c’era già abbastanza
da essere furioso? Ripercorro mentalmente le ultime fasi della conversazione,
cercando qualcosa che non so, ed arrivo alla soluzione nello stesso momento in
cui Dimitri, prima di sparire, sibila dolciastro: “Non ti perdonerà mai,
Granger… tanto vale che resti vivo ad odiarti per sempre…”.
La nebbia si dirada come era nata, spegnendosi con
le risate sguaiate di Dimitri e Raissa: ma il gelo nella stanza non passa,
l’aura di Draco non passa, i suoi capelli ondeggiano di potere nero come se
fosse immerso nell’acqua. Non riesco a guardargli il viso, non so che
espressione abbia, terrorizzata mi rendo conto che forse non lo voglio sapere. Mi
sta facendo autenticamente paura, davvero… e cerco immediatamente di farmi
vicina, di parlare, di spiegare. Ma lui, con un solo singolo e flessuoso
movimento della bacchetta, dopo aver pronunciato un irato: “Silencio!”,
tronca la mia voce in gola. Ricado seduta al suolo per il forte contraccolpo
dell’incantesimo, stringendo una mano sul collo: non ha mai usato un incantesimo
contro di me, mai. E mai, con quella voce… come si trattenesse dall’uccidermi.
È quello, forse, a lasciarmi seduta inerme al suolo, senza tentare la benché
minima reazione, senza provare a forzare l’incantesimo. Non saprei nemmeno che
dire.
Ormai… nemmeno importa più.
Dimitri
ha accennato che ero incinta di Alex quando ero nel suo castello... cinque anni
fa…
Draco, davanti a me, la bacchetta quasi spezzata
tra le dita nervose, pronuncia un altro feroce incantesimo che fa sollevare la
carta da parati della parete di fronte, che esplode in mille pezzi, soffiando
polvere sul mio viso. Sulla parete, dietro la carta spezzata, emerge un
ritratto dalla cornice antica e rovinata: una donna dall’aspetto nobile, gli
occhi azzurri stropicciati dal sonno e una lunga massa di capelli corvini.
Draco le si rivolge inquieto, la voce tenuta faticosamente normale dal tono di
voce urlato che vorrebbe sputare fuori: “Nonna! Il tuo quadro… il tuo quadro a
Grimmuald place… accanto all’arazzo dei Black… voglio che tu vada lì! Gli
ultimi nomi dell’albero genealogico… leggimeli!”. Quella che adesso ho
riconosciuto come la nonna materna di Draco, Druella Rosier, sparisce dopo aver
fatto un vezzoso inchino, lasciando la cornice vuota. Attonita, cerco di
liberarmi dall’incantesimo, perché non posso sopportarlo, non posso sopportare
che accada così, non posso permettere che succeda così… e dovrei essere io,
adesso, a togliergli i dubbi, persino quello infamante che, cinque anni fa, ero
incinta di un altro uomo. Piango ed apro la bocca come uno stupido pesce rosso
in una boccia, Draco che non si gira e volta affatto, lo sento solo digrignare
i denti nell’attesa, come se li stesse per spaccare. Si muove solo quando mi
vede alzarmi in piedi, e tentare di arrivare verso di lui: rapido, letale,
veloce, mi costringe con un altro movimento della bacchetta al suolo, facendo
esplodere una scarica di luce violetta contro il mio petto. Le mie costole
tremano affannate, il fragore attira anche gli altri, li sento scendere le
scale ma Draco, furioso, gli occhi ciechi, pronuncia un Colloportus
così forte, che la porta sembra quasi staccarsi dai cardini. Finalmente lo
guardo in viso: grosse gocce di sudore gli imperlano la fronte, le pupille sono
dilatate e ricacciano l’aura grigia verso il fondo degli occhi, le labbra sono
violacee e serrate, il respiro convulso, i capelli biondi ancora ondeggiano di
potere represso. Mi getta una sola singola occhiata, mentre giaccio inerme ai
suoi piedi, tenendomi il petto dolorante con una mano, e non è pena,
dispiacere, dolore o confusione. È solo rabbia, disgustata, livorosa,
rancorosa, che mi farebbe a pezzi, se potesse. Nemmeno quando pensava che fossi
l’omertosa complice dell’omicidio dei suoi, o di Helena, mi guardava così… e
scopro che fa così male, da farmi desiderare di morire all’istante, in sfregio
persino ad Alex, in sfregio al mio orgoglio, in sfregio a tutto. Piango
disperata, senza poter emettere un solo suono, l’incantesimo che mi blocca
anche a causa della febbre, ed ogni parola si putrefà nella faringe,
trasformandosi in una cascata di odiosi cristalli di sale che scartavetrano la
gola, facendola sanguinare di offesa e di umiliazione, oltre che di sofferenza
e tristezza.
Quando Druella Rosier torna, ha anche lei
l’espressione disgustata: guarda il nipote con astio, tenendosi un fazzoletto
ricamato sulle narici come se avvertisse un fetido odore di fogna.
“Di chi sono gli ultimi nomi, nonna?!” scoppia
Draco come se non ne potesse più, il vaso sul tavolino accanto a lui esplode in
mille pezzi, mi proteggo il viso dai frammenti di vetro.
“Di traditori del loro sangue, di feccia, di
mezzosangue che inzozzano la nostra purezza di stirpe…” piange Druella,
guardando biecamente Draco che, ansimando, urla di nuovo, incendiando la tenda:
“Di chi sono i nomi?!”. Druella sembra spaventata, assume un colorito bianco ed
esita, poi, terrorizzata, sputa fuori due nomi, prima di sparire nel paesaggio
bucolico alle sue spalle.
“Teddy Lupin, nipote di quella sciagurata di
Andromeda… ed Alexander Leo Malfoy, nipote della mia piccola Cissy… e figlio
tuo e della Sanguesporco Granger…”.
Tutta l’aria, tutto l’ossigeno viene succhiato via
dalla stanza, sostituito da un qualcosa di acquoso, viscido, denso come gli
abissi di un oceano morto: qualcosa che rallenta i movimenti, qualcosa che
rende tutto soffuso ed oscuro ai miei occhi, qualcosa che fa pulsare
dolorosamente un punto fiammeggiante sopra il mio seno sinistro. Ed allora,
forse, non è solo l’aria che manca, non è solo il cervello che annaspa,
chiedendo qualcosa che non ha più e che probabilmente non avrà mai – l’aria
limpida, serena, pulita, come se tutto fosse a posto - : forse allora, è il
tempo stesso che se ne vola fuori, assieme alla vita, al delirio
dell’esistenza, alla cognizione di chi siamo e di che cosa vogliamo, divento
piatta come un foglio di carta, devitalizzata come un embrione abortito, secca
come una foglia d’autunno. Tutto si atrofizza, tutto resta immoto per qualche
secondo, amaro come un limone mangiato in modo improvvido e sleale, che
annienta il senso del gusto per sempre.
Una nuvola abbatte il sole, lo cancella, le pareti
si rivestono di piombo e sembriamo chiusi dentro una cassaforte in fondo al
mare, come l’esperimento di un mago escapologo.
Ma fuga non c’è: è la fine, perché la
fine si annuncia, bussa, sparge segni come semi al vento che ti soffiano in
viso, costringendoti a chiudere gli occhi. E se anche non vedi, senti e sai,
lo sai che alla fine stai arrivando, perché il cuore si fa pesante tra
le costole, diventa d’improvviso così rovinosamente greve che ti schizza fuori
il poco respiro che raccatti in una stanza che sa di piombo e di acqua sporca.
Io, questa fine l’ho costruita pezzo dopo pezzo, l’ho ricamata come la
tela di un arazzo da guardare con spasmodica attenzione tronfia, calibrando il
colore di ogni filo e recidendo ogni fibra che mi tenesse ancorata a qualcosa
che stridesse con la fine stessa. Da quando sono entrata qui, l’avrei
voluta mia questa fine, l’avrei voluta tenere stretta tra le mani così
da conoscerne foggia e forma e non poterla confondere con null’altro, né con
una pausa di riflessione, né con un moto di pigrizia emotiva, né con un spasimo
di orgoglio funereo. L’avrei voluta decisa e spontanea, ineluttabile eppure
convinta, con quell’ombra soffusa di speranza che solo il tempo sa risolvere e
rivoltare, rivelandola come un retaggio d’abitudine o un autentico investimento
nel futuro. Ma io, che sono quella dell’essere responsabili delle proprie
azioni, quella che ponteggia sul libero arbitrio, quella che “se vuoi
qualcosa, la fai”, quella de “le coincidenze non esistono”, ecco
quella… mi ritrovo a subire la fine, senza che l’abbia innescata, senza che
l’abbia vista arrivare. E la subisco anche fisicamente perché resto seduta per
terra, senza voce, il labbro spaccato. Debole, sconfitta e vinta che, se ci
fosse Dio, gli chiederei il motivo di tante elaborate punizioni e se mi
rispondesse che ne avrò ricompensa, direi che ricompensa e premio non c’è.
Perché tutto mi è tolto, tutto mi è rubato come se io non me lo fossi nemmeno
dovuto drappeggiare addosso, che forse vivo la vita di un’altra ed allora me la
strappano pezzo a pezzo.
Forse vivo l’amore che doveva essere di Helena,
forse vivo la maternità che doveva essere di Tatia: quindi, adesso, se le
vengono a prendere con gli interessi.
E
allora strappatemele tutte, dannate streghe, ed è all’inferno che marcite perché
nessun Dio potrebbe volere questo: strappatemi via ogni goccia stupida di amore
per quest’uomo, fate che ne abbia emorragia, tiratemelo fuori dal sangue, dal
petto, dall’anima, dal respiro, dal fiato, dal ricordo, e fate un lavoro
certosino, preciso, lungo, accurato. Strappatemelo dalle unghie, che non mi ci
aggrappi più, che non diventi amicizia, stima, tenerezza, imbarazzo, perché
deve bruciare come l’inferno che vi brucia, perché solo così abbiamo pace,
odiandoci ed uccidendoci. E strappatemi l’amore di madre, perché mio figlio merita
tutto, merita altro che non sono io, e di errori ne ho troppi, decine, migliaia
di cui presentare il conto. E sarà salato, salatissimo… ed allora che sia salvo
mio figlio, il mio bambino, ma che non sia con me, che vi prendiate tutto di me
e io che possa restare involucro nella terra, a dormire, a riposare finalmente,
a giacere illibata e vergine in una tomba di nulla, perché è troppo sfiancante
andare avanti, ed in questo corpo forza non ce n’è più. Me l’avete drenata dal
corpo: ed allora… adesso… posso riposare ora?
L’orgoglio, per primo, ha subito la fine: non mi
riesco ad alzare da terra, non mi sforzo di parlare, guardo solo le mie
ginocchia, provando solamente ad escludere dalla mia mente che cosa possa
provare Draco. Non sapevo ancora che parole avrei usato, probabilmente avrebbe
avuto comunque un colpo... ma avrei cercato ogni balsamo per lenirlo. Posso
odiare il Draco che amo e che mi ha sostituito tre mesi dopo che ero sparita…
ma non avrei mai odiato il padre della cosa che amo di più al mondo. Ma lui,
adesso, non ha avuto alcuno schermo: la verità è stata fango, limo, sabbia,
buttate in faccia a schiacciargli il fiato, accompagnate poi da una turba di
pensieri neri che posso solo intuire. Con la coda dell’occhio, mi accorgo che
Draco, d’improvviso, ha ripreso a muoversi come un animale in gabbia, l’aura
ghiacciata che ancora gli gravida attorno, i pugni serrati lungo i fianchi ed
un’espressione stralunata che non gli ho mai visto. I nostri amici continuano a
bussare alla porta, ma non raggiungono le sue orecchie. Misura a grandi passi
la stanza, pazzo, feroce, animalesco, ripetendo tra le labbra: “E’ mio
figlio. E’ mio figlio. E’ mio figlio”. E, ad ogni passo, ad ogni
invocazione, ad ogni movimento dei piedi, prende qualcosa che infrange
violentemente al suolo: un vaso colmo di peonie bianche e rosa, una cornice con
una foto di Serenity, un soprammobile di un viaggio a Londra… un ricordo, uno
slancio di passione, un monito di tenerezza, un singulto di perdono: rovinano
pezzi di vita sul pavimento, infranti dalla sua furia cieca, e non faccio nulla
per spostarmi dalla loro traiettoria. Distrugge tutto di quella vita serena, da
rivista d’arredamento, che tanto avevo invidiato entrando qui: come se
bruciasse su una pira quello che è stato fino ad ora. Sembra godere nel
calpestare frammenti e pezzi di carta, finemente, fino a ridurli ad una polvere
sottile ed apparentemente innocua. Si porta spesso le mani nei capelli, si
morde il labbro, calcia con violenza sedie e tavoli, ma mai guarda verso di me.
Perché
ora è il sangue che ti spinge: il sangue del padre, vero?
Chi
abitava in questa casa, nonostante tutto, era sempre Danny Ryan: magari più
tranquillo, riconciliato, felice. Ma di quel riflesso, tu hai preso in prestito
sembianze di calma, che non hai mai posseduto ed, alla fine, avevi fatto così
finta di essere lui che lo sei diventato sul serio. Avevi la sua mente tersa,
banale, concentrata su un oggi patinato di gioia rafferma. E ci hai creduto sul
serio: hai appeso foto di un passato che potevi ignorare, hai cresciuto una
bambina, ti sei persino detto che andavi avanti perché stavi con Raissa. Poi
sono entrata io… e sei tornato Draco, il mio Draco, che ha il cuore spremuto
dall’amore e che cerca di mettere a tacere con l’ironia sbruffona; che confonde
l’odio con l’adorazione, che di me tutto odi e disprezzi, e tutto poi ami e
idolatri. E Draco conosce gelosia, passione, rabbia, e le mescola tutte
assieme, in un calderone che ucciderebbe altri, ma non smuove te, che hai il
cuore allenato a sopportare il quadruplo delle reazioni umane. Draco, lui sì, che
poteva anche accettare che oggi fosse la fine… perché in fondo è generoso come
nulla, e mi avrebbe lasciato andare. Io amo Draco, disprezzo Danny Ryan… ed
odio Malfoy. Ed ora, io ti ho fatto tornare Malfoy, quello che magari tu stesso
eri convinto che non ci fosse più… ma invece c’era, è un legame che si nutre di
placenta ed orgoglio genitoriale, rinsaldandoti alla stirpe marcia che ti porti
dentro.
E,
sebbene padre lo sei già… Serenity non è tua. E’ libera di amarti o no… è
legata non dal sangue, ma dall’amore… e quello è Draco.
Di Alex
avresti avuto prima dell’amore, sangue, orgoglio, rispetto… ti avrebbe fatto
nascere padre come padre nacque Lucius Malfoy.
Purosangue,
traditore, fariseo, becero doppiogiochista… che del sangue vive e del sangue,
ora, ha un riflesso sconfessato e scoperto per caso. È il sangue che chiama
adesso.
Sei un
Malfoy, a cui hanno tenuto nascosto un figlio.
Non c’è
essere più pericoloso, cattivo ed imprevedibile nell’intero Universo.
Repentinamente, Draco si ferma immobile nella
stanza e scoppia a ridere in modo così stridente e folle, da farmi accapponare
la pelle. Si piega in due, ma intanto continua a calciare oggetti sparsi.
Non ho
paura, di lui. Non devo averne.
Ancora non mi guarda, si rivolge all’aria stantia
che ci circonda, come se non esistessi, come se fossi evaporata qualche istante
fa e lui parlasse ad una sgradita ospite lontana della memoria: “Non ha detto
la sua età. Non l’ha descritto. Non ha detto nemmeno il suo nome completo… Leo
fa persino di secondo nome…”, ancora gli sfugge una risata astiosa,
denigratoria, che vede in quel piccolo gesto che io volevo come legame, solo un
ulteriore beffa a suo danno. Difatti commenta: “Il contentino, certo…”,
insegue frotte di pensieri lugubri, mentre ancora fa avanti ed indietro: “Ne ha
parlato da quando è entrata qui, non voleva che l’aiutassi, voleva che stessi
lontano da… da mio figlio…”. Quell’aggettivo possessivo, lo pronuncia
con voce dolente e tremante, è un delirio incosciente, un rantolo da ubriaco
che conosce sintassi scomposta e pause nevrotiche. Ha perso completamente il
controllo… lui, che il controllo non lo perde mai. Rabbrividisco ancora, mentre
prosegue con voce più sottile, guardandomi in tralice, una smorfia di ribrezzo
che gli deforma il viso: “Sei stata furba, eh, Granger? Peccato che Karkaroff
abbia parlato… peccato, davvero… avrei pensato per sempre che tuo figlio fosse
davvero solo tuo, fosse davvero una scopata occasionale…”, la sua voce
improvvisamente si alza di tono, chiude i pugni e mi affronta a muso duro,
gridandomi contro: “Me lo avresti tenuto nascosto per sempre, vero?! L’avresti
persino spinto ad odiarmi, perché mi facevo quella che l’ha rapito, vero?!”,
frustrato, afferra la bacchetta e la punta nella mia direzione, tremo come se
davvero temessi che possa uccidermi, mentre invece si limita ad urlare
minaccioso: “PARLA, dannazione!”. Un’ondata di calore mi avvolge la gola,
mentre riacquisto l’uso della parola. Lo guardo come non credo di averlo mai
guardato, perché mai nella vita, sin dalla preistoria di Hogwarts e sin dai
tempi della guerra, ho associato tanti aggettivi negativi e terrorizzanti sulla
sua persona. Mi sforzo mentalmente di rintuzzare orgoglio e coraggio, come
farei di una brace addormentata punzecchiata con un bastone: cerco vie e strade
inesplorate, sentieri impervi che mi facciano risorgere me stessa da questo
involto tremolante che sembro essere diventata. Ma non c’è verso: non posso
richiamarmi alla ragazzina di scuola, che intimamente riteneva di essere
migliore di lui per merito e destino; non posso appoggiarmi all’eroina di
guerra, che magnanima accettava supponente un traditore che veniva dalla sua
parte; non posso nemmeno rifarmi alla donna innamorata che mai avrebbe permesso
che lui mi parlasse ed usasse così, perché quella donna l’ho talmente
seppellita ed uccisa per far posto solo alla mamma di Alex, che ormai non so
manco dove sia. E la donna che non sa che prova per Ilai, è ancora
maledettamente debole, perché brandisca quel sentimento nebuloso come una spada
ed un bastone ed un sostegno. C’è solo la madre di Alex, adesso, e quella,
senza suo figlio, basta un alito di vento per spezzarla e portarsela via.
La mia voce, pigolante, gracchiante, terribilmente
somigliante al peggiore dei miei peggiori incubi, squittisce, mentre cerco a
fatica di alzarmi in piedi: “I-io… io te lo stavo dicendo… poco fa, ricordi… ti
ho detto che ti dovevo p-parlare…”. Sono parole nate deformi, nate già
handicappate, quando escono dalle mie labbra, e suonano come suonerebbero degli
sgraziati fracassi prodotti da utensili inutili. E difatti Draco, lo sguardo
cieco di furia, non perde un secondo per interrompermi, contraddicendomi. La
sua voce non è come la mia, è dura, forte, urlata, come mai è stata.
Il
padre di Alex e Draco Malfoy non hanno quasi nulla in comune. Stessa cosa per
la madre di Alex ed Hermione Granger.
Forse…
non torneremo mai noi stessi.
Chiudo gli occhi inconsciamente, mentre Draco mi
urla addosso: “Quando, eh? Quando? Dieci minuti fa? Sei qui tra ventiquattro
stramaledette ore… ed abbiamo parlato di tutto, DI TUTTO, tranne che di questo…
mi sono dovuto sentire per ore le menate su te e Radcenko, Weasley, Thomas o
chi cavolo ti fai al momento! E non ti è passato per la testa di dirmi che il
figlio di cui parlassi, era anche mio?! Dovevi dirmelo appena entrata! Ed
invece no…”, si ferma, prende fiato, si massaggia stanco la tempia e riprende,
la voce più malevola: “E’ stata tutta elusione continua, ci hai girato attorno,
ecco che cosa cazzo mi stavi tenendo nascosto, ecco che cosa evitava di dire
Seth, Pansy… hai costretto anche a loro a mentirmi!”.
“Non dire sciocchezze!” qualcosa di me stessa
rispunta fuori, come un raggio di sole nell’abisso nero dell’oceano, ma è
ancora poco, ancora poco, ancora gracchia insopportabilmente la mia voce “Sapevano
che era una scelta mia, che ero io che dovevo…”.
“Fare, cosa? Eh? Cosa?! Dirmelo quando ti
aggradava, dirmi che mio figlio è in pericolo e io non so nemmeno di avercelo
un figlio?!” è senza controllo, senza freno, mi interrompe ancora e so che ha
ragione, so che avrà sempre ragione “T-tu… mi hai guardato negli occhi, hai
detto di essere sincera… e non mi hai detto tutto questo?! Tu dovevi tornare da
me cinque anni fa, appena hai scoperto di aspettare il mio di figlio!”. Si
avvicina minaccioso a me, il volto trasfigurato dall’ira che sembra la maschera
cattiva di un demone da teatro, colma di rosso e nero e di lineamenti
luciferini, rabbrividisco e gemo, come se temessi ed aspettassi il colpo
fatale. Ma lui mi afferra per le spalle, mi scuote violentemente, la febbre mi
fa sentire tutto triplicato e mi fa a pezzi il cuore, sbriciolandolo del tutto.
Grida a muso duro, ad un bacio dal mio volto: “Nessuno ti dava il diritto di
scegliere per il mio di figlio!”.
È quella improvvisa vicinanza che quasi mi sveglia,
mi tramortisce, mi acceca: pensare che, quando due persone sono così vicine,
quando si sono amate, si colma il sangue del desiderio di un bacio. Lo scopro
ancora nel fondo di me stessa, è simile ad una piccola fiammella rosata che mai
sarà spenta, nemmeno da questa conversazione. È come afferrare il filo e
procedere a ritroso fuori da un labirinto, recuperando ad ogni passo ed
ostacolo superato, una parte di me stessa, di lui e di quelli che siamo stati
assieme. Recupero ricordi e forza d’improvviso, tanto per persino la febbre mi
sembra sopportabile, diventa una carezza fresca. Io ho cresciuto mio figlio,
nostro figlio, nell’amore: quello che ho dato a lui, quello che lui ha dato a
me, quello che gli ho sempre detto che l’ha forgiato. Dentro di me, per mesi,
hanno battuto due cuori, come se davvero si volesse triplicare e moltiplicare
l’amore. Il mio è un cuore piccolo, rugoso, colmo di imperfezioni e rughe. Il
cuore di mio figlio era ed è, dentro di me, luminoso, chiaro, circondato da
un’aura di fiducia smisurata nel mondo e nella vita, da un’allegria scanzonata,
da una sorridente vivacità. Ora, adesso, lo sento ancora nel ventre quel
battito lontano. Ed esso mi riporta sulla retta via, come l’ago di una bussola:
l’amore che ispira anche solo il ricordo di un bacio, nutrendosi di un’ostile
vicinanza… l’amore che fa battere due cuori nello stesso corpo fallace di una
donna… è lo stesso amore che ha messo al mondo quel figlio, che Draco adesso
rivendica come suo. L’amore non sbaglia mai. Furia e fuoco nelle ossa, ammetto
con me stessa di aver potuto sbagliare come amante, come moglie finta, come
donna imperfetta… ma non come mamma. Ho strattonato ogni parte di me stessa per
essere la migliore delle madri, ed il migliore surrogato di un padre.
Posso accettare il rimprovero alla mia me stessa
innamorata, quella che tiranneggia quest’uomo, quella che non perdona che sia
stato con un’altra, quella che nutre sentimenti confusi per Ilai, quella che
non è mai sicura e che odia ed ama assieme, e posso condannarla per aver
prevalso quando sono entrata qui dentro, e per avermi tappato la bocca nel
parlare con Draco… se lui mi rimprovera di non avergli detto di Alex appena
sono entrata, ha ragione. E ne avrà sempre. Non avrò mai sufficienti scuse a
riguardo. Ma non può nemmeno osare fiatare su questi cinque anni. Una sola
imperfezione non cancella quella che sono stata per cinque anni: non cancella
che un minuscolo frammento di merito nel modo in cui sia venuto su mio figlio,
sia anche mio. Non cancella che mio figlio sia cresciuto sereno e felice, per
quanto era possibile, sebbene sostanzialmente prigioniero. Non cancella che io,
adesso, sempre… farei qualsiasi cosa, anche morire, anche uccidere, anche
rinunciare a lui, per averlo in salvo.
La colpa dell’amante, non cancella le scelte della
madre.
Nemmeno se provasse a cancellarle il padre di mio
figlio. Specie se mi rimprovera di non essere tornata cinque anni fa.
Finalmente la mia spina dorsale torna dritta,
raddrizzo la schiena, le guance si asciugano e il coraggio risorge, mostruoso e
terribile. Lui mi guarda sbattendo le palpebre, in questo infinito gioco di
parti di teatro sembra Draco per un attimo, e non più Malfoy, gli occhi sono
meno neri, e più grigi, meno grigi e più azzurri. Mi divincolo dalla sua presa sulle mie spalle,
lo guardo socchiudendo gli occhi ed urlo a mia volta, la voce adesso finalmente
somigliante alla mia: “Mi hai sentito almeno quando ho parlato, prima?! Hai
capito che cosa diamine mi è successo?!”, glielo chiedo davvero come se davvero
non avesse capito, e lui davvero per un attimo sgrana gli occhi, ci sono tante
dimensioni del non dire e del solo sentire tra me e lui, che è autentico
stupore che si mescola all’ira nei suoi occhi. Questo rende la mia voce più
bassa mentre proseguo, ma non meno amara, confondendosi con un accenno
indistinto di pianto: “Scusami tanto se mentre ero imprigionata nel castello di
Dimitri, non ti ho potuto immediatamente chiamare per appendere il fiocco
azzurro dietro la porta… l’ho scoperto nella peggiore delle maniere, buttata in
una cella polverosa, con un ragazzo che avevo condannato all’immobilità accanto
e con il pensiero di dover partorire lì… e se ben ricordo, non credo nemmeno
che avessimo propriamente programmato la cosa…”, lo sguardo di Draco si tinge
di qualcosa di caldo e tiepido, che però fa scomparire immediatamente sotto le
palpebre, mentre mi affanno a continuare: “E scusami se i primi tre mesi della
mia gravidanza fossi in coma, in Italia, non propriamente in grado di prendere
telefono e carta da lettera e scrivere ad una persona che, peraltro, era
scomparsa per tutti…!”. Abbasso il viso, frenando il rigurgito da innamorata
che lo accuserebbe ancora di essere andato a letto con Raissa quando io ero in
coma ed incinta, poi, quando sono certa di stare ferma con le parole sgradite,
continuo a voce ferma: “E scusami ancora se ho pensato prima di tutto ad Alex,
lasciando che crescesse in Italia, fino a quando non sapessimo che fosse al
sicuro… e nonostante tutto vedi come è andata…”, devo ancora distogliere lo
sguardo per impedirmi di piangere, aggiungendo casuale: “Astoria voleva per sé
il figlio di un Malfoy, era assurdamente convinta che tu l’avresti voluta
indietro se ti avesse fatto credere di aver partorito lei Alex… credi che io
potessi tornare con questo pensiero? Credi che l’avrei messo in pericolo… per,
cosa, poi? Non avevo nessuna certezza, nessuna garanzia che tu…”, le parole si
sfaldano e vengono seguite da un silenzio pesante che odio, perché è colmo di
ogni sciocca speranza lercia che avevo di mettere su una vera famiglia, quando
l’avessi trovato. Lo rompo questo silenzio odioso, tornando a guardarlo e
gridando a pugni chiusi: “Ho pensato solo a proteggere mio figlio!”.
Draco, quando mi volto, ha un singulto deciso negli
occhi chiari che non intendo appieno e non intendo subito: per un attimo sembra
rammarico, rimorso, e sono sensazioni tutto sommato dolci, retaggio restio di
un amore che forse ancora prova per me. Ma anche in lui, l’amante ha vita da
farfalla: dura un battito d’ali e muore. Il padre è più forte. Serra la
mascella, acquisendo altre cose che gli avevo omesso come la minaccia
costituita da Astoria, ma evita ulteriori recriminazioni. Il torto di non
avergli detto di Alex assorbe tutto, tanto lo ritiene grave. Infatti si limita
a guardarmi con ferocia, masticando: “Hai pensato, nella tua contorta e
discutibile maniera, a proteggere nostro figlio… smettila immediatamente
con questa smania di possesso”.
La rabbia scaccia la diplomazia ed il tatto, ed improvvisamente
esplodo, senza il benché minimo controllo, ringraziando che Alex non sia qui
adesso, ringraziando che posso urlare contro quest’uomo che di mio figlio ha
solo sangue ed occhi, ma nulla del suo cuore, della sua gentilezza, di quel
battito regolare che mi batte nel ventre. Lascio che il fiume di parole mi
dreni e mi lasci esanime, ma che mi impedisca di implodere in me stessa: “Smania
di possesso?! Ma ti senti?! Sei padre da quanto, cinque minuti, e già ti vuoi
immischiare in quella che è la sua vita, le mie scelte, le mie decisioni?! Io
l’ho cresciuto, io gli ho insegnato a camminare, a parlare, a leggere… io ho
fatto di tutto perché non soffrisse, perché sapesse di avere un padre che non
poteva stare con lui… perché non ti odiasse, ma anzi chiedesse di te, ti
volesse bene, ti cercasse…”, ogni parola che mi ero arenata dentro, ogni mezza
verità che avevo prima scioccamente taciuto, adesso, diventa piena, completa,
assoluta, mentre ancora piango sotto il suo sguardo indecifrabile: “Ho avuto
Ron vicino per cinque anni, e potevo anche non tornare mai più… eppure mai ho
permesso che pensasse a lui come padre, perché eri tu suo padre, sei tu suo
padre… non permetterti di giudicare le mie scelte, le mie decisioni, riguardo a
MIO figlio, non te lo permetto! Specie tu che…”. Ancora mi devo trattenere per
non vomitare fuori quello che penso, per lasciare ancora fuori lui e Raissa, ma
stavolta purtroppo lui se ne accorge e mi ingiunge duramente, fronteggiandomi: “Io
che? Io che? Dai finisci, finisci… io che mi sbattevo Raissa?! Io che mi sono
fatto per cinque anni quella che l’ha rapito? Questo stai dicendo, questo?! E
dai, sputalo fuori, aggiungiamoci altro schifo a sto calderone che siamo
diventati io e te… perché questo siamo diventati io e te… uno schifo…! Quello
che adesso tu hai magicamente reso me e tutto quello che siamo stati…”.
“Io?!” sbotto sconvolta, guardandolo ad occhi
sbarrati, mentre Draco, come se di nuovo la rabbia minacciasse di sopraffarlo e
tentasse un rimedio qualunque, inizia a camminare nervosamente per la stanza,
avanzando tra frammenti di vetro e cocci vari, non guardandomi più in faccia: “Tu,
sì, tu… tu ci hai reso questo schifo. Tu… con queste tue scelte… ma il
bello… è che io non sono migliore di te. Io ho scelto in questi anni, ho
fatto una scelta per salvare mia figlia, per tenermi Serenity… ho tenuto qui
Raissa, per salvare mia figlia… e così ho condannato Alex, perché se avessi
buttato per strada quella dannata stronza, tutto questo non sarebbe successo…”,
si accascia stancamente su una poltrona, d’improvviso spossato, vecchissimo, le
mani tra i capelli, la voce un rantolo scomposto: “Io avevo un figlio, e non lo
sapevo. Un figlio, dannazione, un Malfoy…”. Solleva lo sguardo verso di me, ed
è inespressivo, immobile, sembra che stia parlando di un articolo di giornale
sciocco, ma invece mi fa la peggiore delle confidenze, come se la sputasse
fuori biecamente. Già so che non lo dirà mai più, già so che lo negherà sempre,
già so che questo momento io me lo dovrò cancellare, lo so dai suoi occhi
spenti, come se li avessero cavati da un’altra persona ed attaccati sulla sua
faccia. Sussurra piano, assurdamente sincero: “Io, Serenity la amo con tutto me
stesso… è mia figlia. Ma non hai pensato che sia un dolore continuo per me
guardarla? Non hai pensato che è la prova continua che Helena ed Amos sono
morti per colpa mia? Non ci hai mai pensato che Serenity è la prova continua
che lei… che Helena… non ha mai davvero scelto me? Non fa male questo… dopo
anni non fa quasi più male. È come un fastidio, ecco, che nessun bene che provi
per quella bambina cancellerà mai, perché questo sono, Granger, sono abietto ed
egoista, e quando sono altruista, non lo sarò mai del tutto…non ci hai pensato
mai, vero? Ovvio, non sia mai che tu ci pensi…”, ride tra sé e sé in modo
amaro, si scompiglia i capelli, chiude gli occhi prima che ci distingua una
pagliuzza di lacrime al loro interno “Ma Alex… sarebbe stato mio figlio, senza
alcuna remora, ricordo, rancore. Con il mio cognome, con la mia storia addosso,
con il mio sangue… mi avrebbe pulito, purificato, asciugato dalle mie colpe…
avrei amato meglio Serenity attraverso di lui, perché avrei capito che potevo
essere padre senza fare da surrogato ad uno che ho tradito…”. Non so quando ho
iniziato a piangere, non so quando sia accaduto, me ne accorgo solo quando
Draco si alza in piedi, recupera il suo viso normale, quello stravolto
dall’ira, e mi si para davanti di nuovo, ormai lontano dalla sua confessione:
“Adesso me ne rendo conto, dannazione, è sempre stato così maledettamente
ovvio… l’altra sera, quando mi hai visto… ti ho ricordato lui, non è così? Mi
somiglia pure, non è così?”.
Esplode la mia voce in singhiozzi, destinata ad
avere nella vita un solo paio di occhi tempesta alla volta: “E’ tuo figlio…
è ovvio che ti somigli…”.
Draco è come se implodesse ed esplodesse assieme,
poi i pezzi si rinsaldano in una forma confusa che ha almeno il pregio di
tenerlo assieme. Respira profondamente un paio di volte, chiude gli occhi ed è
come se si trattenesse ancora dal piangere, dall’urlare, dal farmi del male,
dal fare qualcosa di stupido. Nel suo viso passa una considerazione nuova, un
lampo di luce, lo seguo ancora singhiozzando. Poi la sua voce torna calma,
stentorea, tranquilla e chi conosce Draco Malfoy sa che si dovrebbe solo
fuggire a questo punto: “E quindi mi ami e mi odi, vero? Radcenko non c’entra
un cazzo… è questo che odi di me, vero? E’ questo che non sopporti? Che abbia
condannato nostro figlio. Questo ti fa schifo, vero? Benvenuta nel mio mondo,
benvenuta nello schifo che mi hai riversato addosso… perché diamine sei venuta
a cercarmi?”, non lo so, oggi me lo sto chiedendo anche io… l’Italia poteva
durare per sempre, diceva Harry. Perché davvero non è durata per sempre? Perché
non sono rimasta lì, con Ron come marito, Alex accanto e lui incastonato nel
cuore, al punto che nessuno me l’avrebbe portato via? “Io non potrò mai
perdonarti. Mai. Perché tu mi hai fatto scegliere chi dovevo condannare tra i
nostri figli. E questo non lo potrò mai perdonare a me stesso. Se anche lo
salvassimo, se anche ce la facessimo… io non potrò mai perdonarti… né perdonare
me stesso…”, lo schifo, eccolo qui, lo schifo. Avevi ragione, l’hai sempre
avuta: ci siamo fatti a pezzi in tanti di quei modi, in tante di quelle vite ed
Universi che ormai sembrava l’abitudine. Ed invece questa farà più male, perché
non c’è niente che ci riporti a posto, nulla, ed anche di quel legame che ci
unisce, nostro figlio… noi lo faremo a pezzi. Pansy aveva ragione, tutti
avevano ragione, io stessa anni fa avevo ragione. “Io non sono mai pentito
di niente. Di niente, quando si trattava di te, Dio santo, che sei sempre stata
così perfetta, così meravigliosa, che persino ora, persino adesso… persino poco
fa… ti ho detto che era finita, ti ho detto che doveva andare così… ma ero
convinto, certo, sicuro… che in fondo ce l’avremmo fatta, una parte di me l’ha
sempre pensato… e se fossi entrata qui dentro, un giorno qualunque, un giorno
qualsiasi, un giorno pure che avessi avuto moglie, figli, cane e casa di proprietà,
e mi avessi detto che volevi stare con me… io avrei mandato sempre e tutto a
fanculo, pur di averti anche altri cinque secondi, fossi pure entrata quando
avessi avuto novant’anni e dieci giorni da vivere davanti…” la cosa più
bella, la cosa più bella… dimmela daccapo, dimmela sempre, dimmela per sempre…
perché non me l’hai detto subito? Perché me lo dici adesso? Subito, avrebbe
fatto ogni differenza, subito ti sarei volata tra le braccia, legittimata a
strapparti da ogni vita che non fosse la nostra. Ed adesso, invece, tu me lo
dici solo per ferirmi, me lo dici solo perché io sappia che cosa ho fatto, che
cosa ho distrutto, che cosa ho ucciso, così mi odi e ti odi per sempre “Da
quando ho scelto di amarti, perché sì, io ho scelto di amarti… mai, mi sono
pentito di niente. Ed adesso, come ho scelto di amarti, io scelgo di odiarti…
sia maledetto il giorno in cui sei entrata al Petite peste, sia maledetta
Helena che ti ha portato da me, sia maledetto tutto quello che è stato tra me e
te… e non hai idea dello schifo enorme, immenso che provo… a pensare di avere
un figlio con te…”, è questa la fine, l’autentica fine: annunciata, temuta,
stroncata, mangiucchiata, ricacciata, assaporata, e poi ancora rinnegata,
seviziata, violentata, aspettata, accettata, abbracciata, baciata. Eccola la
fine, è qui in questa frase, in questo momento, in questi occhi estranei, in
questo che stai per dire, nella cattiveria che ci metterai, nel freno molle che
era amore ed è morto, nell’ira che sgorgherà in me, nella minaccia che farai,
nel singhiozzo che risponderò, nelle dita che tremeranno, nelle labbra che si
graffieranno. Eccola la fine: come un cerchio che si chiude, e di cui l’inizio
è lontano. Ne vedo ancora l’inizio, ma forse è per poco, forse è ancora un
attimo prima che vibri il colpo fatale, la cosa peggiore che tu possa dirmi e
che mi pieghi del tutto, quella che io ormai veda come imperdonabile. L’inizio…
che è una saracinesca con una bambina sorridente. O forse è una richiesta di
scuse affrettata dentro la tenda di pronto soccorso. O forse è lo sfrecciare di
un treno rosso, mentre ho undici anni. O forse… non c’è mai stato inizio… solo
fine, tante di quelle fini, incanalate una dietro all’altra a separarci.
Era più
facile stare divisi, odiarci… che amarci.
Ecco che
oggi diventa più facile: forse farà bene ad entrambi, amore mio. Gli inizi,
ogni inizio… ha fatto così male, che ce lo siamo cuciti addosso per non
perderlo di vista.
Questa
fine, questo gridare… scivola come olio sull’acqua.
Facile.
Le parole che ci scambiamo a questo punto, dopo
questo interminabile secondo, sono cattive, dure, fanno schifo. Non sono mie.
Non sono sue.
“… ma è mio figlio… è un Malfoy… e io lo riporterò
indietro… è stata solamente colpa tua… non hai protetto nostro figlio, e la
pagherai anche per questo… dovevi tornare da me cinque anni fa… e ce l’avremmo
fatta, l’avremmo salvato… la vera sciagura di Alex è avere te come madre e me
come padre, l’abbiamo condannato entrambi… ma rimedierò, a costo di andarmene
all’altro mondo…”.
“Io non ho condannato mio figlio! Non l’ho fatto! E
cosa credi, che me ne starò qui ad aspettare che tu distrugga la vita di mio
figlio?!”.
“Invece sì, te ne starai proprio qui…! E quando questa
storia sarà finita, quando l’avrò salvato… mio figlio verrà qui, da me… e te lo
potrai sognare di rivederlo per almeno altri cinque anni…”.
“CHE COSA?! Non puoi togliermi Alex!”.
“Posso e lo farò… credi che mettere al mondo un Malfoy
sia una cosa normale?! Sarà pure un Mezzosangue, ma è l’ultimo di una casata
nobile… e la madre non conta niente, non conta nulla… sarà mia decisione quando
e come farti rivedere mio figlio… io… non ho visto mia madre per due anni e
mezzo da bambino… e si sopravvive benissimo…”.
“Non puoi farmi questo”.
“Mi ci hai costretto tu… tu dovevi tornare da me
cinque anni fa…”.
Queste parole non sono nostre.
Ma non sono nostre nemmeno le parole che, dopo uno
scoppio di tuono, ci fanno tacere.
Sono le parole della sola persona che ci potrebbe
salvare, quella che mi ha salvato sempre.
Sono le parole di Helder, spuntata nel soggiorno,
dopo aver fatto saltare la porta.
… ma le sue parole non sono parole di salvezza.
“Ed ecco come muore l’unica speranza di salvare
Alex…”.
I
momenti peggiori della vita hanno un’ombra tale, lunga come quella degli
oggetti al tramonto, che li distingui persino mentre li stai ancora vivendo.
Proiettano un cono nero dentro il futuro, che deglutisce tutto quello che ci
sarà da quel momento in avanti, stritolando colori e gioie non ancora nemmeno
concretizzate. I giorni belli della vita, i migliori, non avvisano mai, così
che tu possa sottovalutarli e non lacerarti nell’angoscia che scivolino via, perché
se lo capissi, se lo intuissi, perderesti la leggerezza necessaria a vivere
quel momento e a renderlo il migliore, forse, mai visto. Quindi, sono lievi,
sottili, frastagliati nella memoria dall’ansia irascibile di non aver mai
fissato abbastanza particolari di quell’attimo.
Ma i
momenti brutti sono come lastre di cemento: e soffocano, comprimono,
schiacciano. E non smettono mai di farlo.
Io,
già adesso che urlo contro Draco, avverto la premonizioneche questo sarà il momento più
brutto della mia vita. Ed è qualcosa di vagamente ironico e sarcastico,
considerando che cosa ho passato e che cosa probabilmente ancora passerò.
Eppure, quel presagio mi fa drizzare i capelli sulla nuca. Non è riposante o
consolante pensarlo, non è che mi dico automaticamente che ciò significa che ho
davanti il riscatto di una pacifica serenità, se questo fosse davvero il
momento peggiore della mia vita. Potrebbe esserci anche una distesa di giorni
né troppo belli, né troppo brutti: vuoto davanti, come
quello che lascia un tifone al suo passaggio. Quindi non c’è alcuna
soddisfazione nello stare dentro al tifone,
preconizzando che se ne uscirebbe vivi, solo per trovarsi nel bel mezzo del
deserto post Apocalisse. Ma quella premonizione si rivela con una mano calda
sul collo, dietro la nuca. E lì capisco che è Tatia che me lo sta dicendo.
Non
sono solo io a capirlo, con i miei sensi offuscati dalla rabbia o dal dolore. C’è
qualcosa di vero in tutto questo.
Quel
calore se lo inghiotte il gelo della stanza, rimasto inalterato anche dopo
l’ingresso di Helder, che dice solo: “Ed ecco come muore l’unica speranza di
salvare Alex…”. Mi dimentico presto di una sciocca profezia che non mi
interessa se si auto-avveri, è davvero questo il momento
peggiore della tua vita, Hermione.
E
non distinguo, soffocata dalla pioggia di parole che vomito adesso a Draco, una
piccola voce sottile da uccellino che bisbiglia nei miei pensieri.
Ti ricorderai questo, solo alla fine di tutto… e la
fine non è questa.
Arsa
dalla rabbia e dalla sofferenza, pronta ormai a scagliarmi contro Draco per
fargli il maggior male concepibile per aver anche solo pensato di togliermi mio
figlio, non avverto alcun sollievo nel arrivo della mia amica, tantomeno
curiosità per le parole che ha detto. Non provo nemmeno un adeguato senso di
vergogna per rendere spettatori Pansy, Dean e Seth del peggiore momento della
mia vita, quello dove sto dando prova di tutto il contrario di quella che mi
sono sempre professata essere. Continuo ad urlare parole scomposte, Draco fa lo
stesso, ci fronteggiamo lividi in volto come mai è accaduto, persino ad
Hogwarts, persino al Petite peste. Nulla ci aveva mai unito abbastanza da
trasformarsi poi in un tale odio, se calpestato. Forse arriva qualcuno a
cercare di dividerci, Seth che prende lui per le spalle, Dean che trattiene me
per la vita, ma sono deboli e molli legacci. Le parole non si fermano,
esplodono, scoppiettano, spandono veleno attorno.
Per fortuna, quelle invece le scorderai. Ti
dimenticherai le sue di parole e le tue, come se non fossero mai esistite.
Sarà persino facile, semplice, in confronto a
quello che stai per passare.
Buona fortuna, Hermione Granger.
Scuoto
il capo, come se fossi disturbata da un insetto che continua a ronzare nel mio
cervello, mentre mi preparo a rispondere all’ennesima accusa di Draco. Poi,
d’improvviso, io e lui precipitiamo al suolo, seduti, cascando sulle ginocchia
e poi restando immobili a terra, come pupazzetti addomesticati. Uno strano
senso di gelida calma mi trapassa il petto, si espande come una melma nera e
corrode le mie vene riarse, anestetizzandomi e rendendomi insensibile. Non
capisco che cosa diamine mi stia succedendo, è come essere stata drogata, non è
assolutamente piacevole come sensazione, sebbene sia stata bruciata dalla
rabbia fino a pochi secondi fa e questo dovrebbe darmi pace. E’ come calare un
corpo ustionato nell’acqua ghiacciata: il respiro rallenta fino quasi a
scomparire, il volto mi torna gelido, persino la febbre sembra svanire. Le voci
dei miei amici tacciono tutte assieme. Guardo Draco senza capire, cercando nei
suoi gesti rallentati la risposta all’uguaglianza che sento nei miei, ed anche
lui è sconvolto, atterrito, sbigottito, incapace di fare una cosa qualunque,
fosse pure guardarmi con odio.
“L’empatia
non è solamente un bel trucchetto di cambio estetico del colore degli occhi…”
la voce di Helder suona così cupa e remota che mi fa tremare di freddo, sembra
d’improvviso antichissima e solenne come quella di una dea o di una regina
“Usiamo di rado il nostro vero potere perché è ingiusto controllare le emozioni
degli altri. Credo di averlo fatto due volte nella mia vita… con questa. Non costringetemi a farlo di nuovo…”. Sento lentamente il giogo
ghiacciato della calma forzosa allentarsi, il respiro tornare ad accelerare, la
rabbia riprendere a mulinare, la febbre fiaccarmi di nuovo i sensi.
“…
vedete di trattenervi, entrambi, per il bene di vostro figlio…” soggiunge Helder con
voce un po’ più acuta e meno bassa, più simile alla sua. Riesco finalmente a
vederla in viso, ruotando leggermente il collo, ha le palme sollevate e rivolte
davanti a sé, fisse nella nostra direzione. Gli occhi sono spaventosi: senza la
benché minima espressione, l’iride e la pupilla sono annegate nel bianco
dell’occhio sparendo. Forse, per la prima volta, mi rendo davvero conto di che
cosa sia il potere di un Empatico… e quanto essa sia letale e pericoloso,
qualora decidessero di usarlo appieno e per fini sbagliati.
La
stretta della calma imposta inizia a passare piano, così come l’espressione
luciferina di Helder che riacquista colore in viso, nelle labbra e sulla pelle
delle braccia, che prima erano trasparenti come vetro. I suoi occhi tornano
scuri mentre riabbassa le palme e si rivolge a me, un guizzo d’oro nelle iridi
della stessa tinta delle mie: “Questa… non sei tu.
Devo forse ricordartelo io chi sei davvero?”. La calma si è disciolta del
tutto, con essa adesso scompare anche la rabbia, ma con l’empatia non c’entra
granché. Sono io che provo autentico imbarazzo per quello che mi sta dicendo,
tanto che mi chiudo nelle spalle a disagio, distogliendo lo sguardo da lei e
fissandolo sulle mie ginocchia ancora poggiate sul pavimento. Ha ragione, lo
so, inutile anche che lo pensi. Mi sono trasformata in poche ore in tutto
quello che ho sempre aborrito… tutto, da quando mi hanno tolto Alex. Un
singhiozzo mi si incastra in gola, lo ricaccio indietro con fastidio.
“…
sono stata con te cinque anni in Italia e hai sempre avuto bene in mente chi
era il nemico contro cui dovevi combattere…” riprende Helder, chinandosi alla
mia altezza e guardandomi ancora fisso negli occhi gemelli dei suoi, poi fa un
cenno alle mie spalle verso qualcuno, che capisco essere Draco dalle parole che
subito sussurra quieta: “E non è mai stato lui… ma Karkaroff.
Se vuoi riprenderti tuo figlio… devi usare le tue forze contro Dimitri, non
contro il padre di tuo figlio… e credimi, avrai bisogno di tutte le
tue forze…”. Annuisco come una bimbetta scornata, e lei mi aiuta
silenziosamente ad alzarmi in piedi. Si avvicina furtiva al mio orecchio e mi
bisbiglia lievemente, senza farsi sentire da nessuno: “Tu sei quella della
scatola di latta azzurra che non si chiudeva, mentre la mettevi in valigia…
devo ricordarti anche questo?”. Arrossisco, sento il viso andarmi a fuoco e la
guardo con gli occhi sbarrati, convinta d’improvviso che le sia successo
qualcosa, che abbia nuovi poteri, forse anche di telepatia.
La scatola di latta azzurra… nascosta nel fondo
della valigia… con il coperchio accostato e non chiuso, perché era troppo piena
per poterci riuscire…
Le novecento tredici lettere per Draco.
Mi
ha visto scrivere ogni mattina, appena alzata, mi sedevo in veranda e scrivevo
a lui. Socchiudo gli occhi, quasi travolta dai ricordi della luce afosa della
Sicilia e dell’odore pungente dei limoni e delle arance, mentre Alex mostrava a
Ron qualche altro dei suoi giochi… e torna quel senso acquoso di riscatto che
avvertivo scrivendo a Draco, raccontandogli di che cosa facesse suo figlio, di
come una piega del suo volto fosse inaspettatamente simile alle sua, di quanto
ancora lo amassi, di quanto fossi così piena di domande per lui da poterci
riempire carta su carta. Riapro gli occhi, tornando a guardare Helder che ha
un’espressione pacata ma seria. Sapeva che le lettere erano per Draco, credo
che me l’abbia anche chiesto, probabilmente avvertiva il sentimento per lui,
può anche supporre che mi sia portata quel pacco di corrispondenza mai inviata…
ma che ne sa di dove sia? Che ne sa della scatola? Ma soprattutto… e questo mi
dà un brivido caldo alla schiena, mentre lo spazio tra i polmoni punge
irrisolto… perché me lo sta dicendo adesso? Non sente quanto
sono lontana da quello che ha animato quelle lettere? Non sente quanto anche
Draco lo sia? Non capisce che è finita?
Helder,
però, ignora bellamente il mio sguardo interrogativo e sconvolto, rivolgendosi
alle mie spalle, verso Draco, con voce molto più ferma. Adesso i suoi occhi
sono grigio tempesta, come quelli di Alex e Draco, ma la loro espressione è
persino più dura di quella degli occhi del loro legittimo ed originario
proprietario, specie mentre chiosa seria: “Devo poi davvero fare prediche ad un
uomo che minaccia di togliere un figlio a sua madre, quando il suo peggiore
terrore è che i Greengrass vengano a riprendersi la sua di figlia, avendone
tutte le ragioni legali e nessuna d’amore ed affetto? Faresti a tuo figlio
quello che temi che facciano a Serenity… ed anche nel tuo caso, il nemico è
Karkaroff, non lei… la donna che in ogni caso ti ha dato un figlio e l’ha
protetto per cinque anni…”.
Quando
Draco riprende a parlare, sebbene non lo guardi, capisco che anche nel suo caso
che le parole di Helder lo hanno colpito e ferito. Solo io, ma sicuramente
anche lei con l’empatia, distingue quella sfumatura tremula nella voce
arrogante che chiede sarcastico: “E in nome di quale diritto dovrei ascoltarti?
Quello di un’altra amichetta della Granger?”.
“In
base a molti diritti…” enumera apparentemente spensierata Helder, facendo
qualche passo avanti ed indietro e contando sulla punta delle dita “Vediamo…
punto uno, sono un’emissaria del ministro e sono a conoscenza dei sospetti dei
Greengrass su tua figlia, dato che hanno chiesto di riaprire le indagini sulla
morte di Helena Diggory… ergo, potrei persino aiutarti con questa situazione, o
chiedere al Ministro di farlo… o sei stato davvero così sciocco e presuntuoso
da credere che non avrebbero mai scoperto nulla?”, il silenzio alle spalle mi
avvisa dello sconcerto misto a preoccupazione ansiosa che Draco sta cercando di
trattenere, mentre Helder prosegue ironica: “Punto secondo, sono la sola al
momento in grado di dirti come salvare l’altro tuo figlio, anche se dubito
grandemente che tu possa riuscirci con questo collaborativo stato d’animo…
punto terzo, e qui vado vagamente sul personale, sono la figlia dell’uomo che
tuo padre ha torturato fino alla follia… e non nego di essere grandemente
attratta dalle seduzioni ricattatorie verso una coscienza non propriamente
pulita… e vediamo un po’… punto quarto…”, esterrefatta, esattamente come penso
sia Draco alle mie spalle, vedo Helder chinarsi di nuovo per terra e toccare
con la bacchetta una manciata di frammenti di ceramica, distrutti dall’impeto
di Draco di poco fa. Dopo un veloce Reparo, i frammenti si
rinsaldano assieme, assumendo la forma del più ordinario dei souvenir londinesi,
una riproduzione dozzinale del Tower Bridge. Aggrotto le sopracciglia ancora
vagamente confusa, mentre Helder lo soppesa nella mano aperta, quasi con
affetto, prima di sussurrare, gli occhi grigi quasi incattiviti: “Ed ecco il
punto quarto… non è un po’ strano che uno che ha vissuto anni a Londra si tenga
in casa un souvenir del genere?”.
“Ho
capito… possiamo darci un taglio…” la voce di Draco l’interrompe velocemente,
mentre lui fa qualche passo febbrile e mi sorpassa, mormorando che ha bisogno di
un po’ d’aria prima di fare qualsiasi cosa. Si sbatte la porta alle spalle nel
più assoluto dei silenzi, mentre io continuo a non capirci niente.
Helder
sorride tra sé e sé, muta alle mie domande silenti, mentre gli occhi tornano i
suoi e cinguetta, la voce da uccellino: “Dio, quanto amo l’empatia…”.
L’arrivo
di Helder è una boccata d’aria fresca.
Letteralmente.
In
cinque anni, in Italia, ho già abbondantemente chiarito che è lei la persona
che ho avuto più vicina, e che quindi ha sempre avuto il dono di rendermi
maggiormente calma e lucida, al punto da farmi concretamente pensare che usasse
l’Empatia su di me per controllarmi: questo, prima della scena di stamattina,
in cui ho avuto modo di appurare che cosa accade quando davvero uno
con i suoi poteri condiziona i sentimenti altrui.
E non parlo solo della calma ghiacciata che ci ha
fatto rovinare addosso… ma delle sue parole… a me… e a Draco…
Che
io l’abbia ascoltata, bè, non è così assurdo. Ma che l’abbia ascoltata lui,
specie nello stato in cui era, dove non ha esitato persino a spintonare Seth
che cercava di calmarlo… è autenticamente un miracolo. Non ha sa nemmeno che
cosa abbia in mente per aiutare Alex. Si è fermato e basta.
Specie quando ha parlato di quel souvenir… che
diamine sarà? Che cosa poteva esserci sotto, da averlo convinto così d’un
tratto? Come se… temesse… che lei dicesse qualcosa di troppo…
Quelle
considerazioni mi accompagnano mentre, meccanicamente, sistemo il salotto della
casa di Draco, agitando pigramente la bacchetta che va a ricomporre quadri,
vasi e tessuti lacerati. Con l’altro mano, sorseggio piano un decotto all’anice
stellato che dovrebbe farmi abbassare la febbre, anche se in realtà non sembra
che abbia un grande effetto.
Sbatto
le palpebre un paio di volte, cercando di snebbiare la vista, anzi la febbre sembra persino salire sempre di più.
Helder
ha chiarito che ha delle novità molto importanti che ci potrebbero aiutare con
i Karkaroff e con Alex, ma ha asserito convinta che non ne parlerà fino a
quando non metteremo ordine “fuori e dentro di noi, che
non posso stare a fermare sedizioni e rivolte ogni tre secondi”. Insomma, morale
della fiaba è che, quando ci avvertirà compiutamente calmi e pronti alla
collaborazione, si deciderà a sputare il rospo. Sebbene quindi lo stomaco mi
ribolle dall’ansia e dalla preoccupazione, senza contare l’odio per Draco e per
quello che si è permesso di dirmi qualche ora fa, cerco di tenere la mente
occupata in faccende futili, così da tenere fuori le sensazioni negative che mi
pregiudicherebbero l’aiuto di Helder. Lei, al momento, è uscita con il monito
di starcene buoni, perché “se iniziate a distruggere
altri pezzi di mobilia, me ne accorgerò a chilometri di distanza”. Ho storto il
naso, annuendo, la sensazione scomoda di essere una mocciosetta in castigo. Ma,
mentre appunto sistemo il salone, la testa un po’ meno ingolfata dai pensieri
rabbiosi ed ansiosi, non posso fare a meno di ripensare a quello che è appena successo.
La scatola azzurra di latta… e il souvenir del
Tower Bridge…
Anche
se non so che cosa Draco nasconda in quell’oggetto, deve essere per forza di
cose qualcosa di emotivamente rimarchevole, se lei se n’è accorta. E certo, ne
sono curiosa, come negarlo, specie perché con la sola allusione ad esso, lui si
è istantaneamente convinto a collaborare. Che diamine
sarà? Sembrava un oggetto così comune… qualche altra cosa su Raissa, che non
so?
Figuriamoci, allora, che se ne sarebbe fregato di
farmelo sapere… magari me l’avrebbe sputato in faccia apposta…
Eppure,
nonostante la mia curiosità, la cosa maggiore che al momento non capisco, è
come Helder si sia accorta di tutto questo e di come abbia sentito anche la mia
scatola, nascosta in valigia al piano di sopra. Non aveva tali poteri quando ho
lasciato l’Italia: le sue percezioni sono sempre state forti, d’accordo, ma
sempre limitate alle persone… non agli oggetti. Ed adesso sente anche le cose?
E poi, rifletto massaggiandomi la tempia destra… il potere che ha usato su di
noi e l’avvertimento che adesso può sentirci anche a chilometri di distanza…
c’è qualcosa di diverso in lei, decisamente. Non è mai stata così… forte.
L’Empatia è sicuramente un potere misterioso ed inspiegabile, antico ed ancora
poco conosciuto, quindi ci sono ancora tantissime dimensioni di queste capacità
che non conosco e che magari non è nemmeno facilissimo per lei spiegare a
parole, come mi ha sempre fatto sottintendere… ma ci sono stata accanto per
cinque anni e non era così, non lo è mai stata. La mia mente ripercorre
febbrile tantissimi episodi di vita assieme di questi cinque anni, e ne enumero
decine dove era evidente che Helder non possedesse un potere del genere.
Mi
siedo sul divano al centro della stanza ormai in ordine e faccio mente locale
su quello che può essere il piano di Helder. Anche su quello, diversi punti non
tornano. Ha detto che doveva uscire per mettersi in contatto con il Ministro e
con altre non meglio identificate persone, cosa che quindi presuppone che Harry
sia pienamente a conoscenza della situazione. E fin qui, più o meno, ci possiamo
ancora essere. Ma la cosa strana è che ha chiesto che Dean rintracciasse
immediatamente Ilai, asserendo che dovrebbe tornare immediatamente e che ha
bisogno di tutti coloro che sono coinvolti in questa storia. E qui, la cosa
particolare è che, da come ha parlato, sembrava pienamente consapevole persino
di quello che è successo tra me e lui e della necessità che lui si allontanasse
da qui: mi ha lanciato uno sguardo obliquo, mentre lo diceva, una strana nebbia
negli occhi dello stesso colore dei miei, a metà tra la preoccupazione e il
rimprovero silente. Ancora non ci ho capito granché, certo le mie sensazioni
possono averle comunicato qualcosa, ma non tutto nei particolari, l’Empatia non
ha mai funzionato in questo modo. Ilai non era nemmeno qui, quando è arrivato:
come ha fatto a sentire quello che è successo? L’Empatia è sempre stata una
serie di frammenti di sensazioni captate, non di interi pensieri e memorie. Avrebbe
potuto capire un legame tra me ed Ilai ma poco della sua natura, e poco delle
decisioni che abbiamo preso poche ore fa. Ed anche in quello, lo sguardo
preoccupato non avrebbe motivo di esistere… di che cosa si preoccupa? È Draco
che può farmi del male, non Ilai… ed invece lei, in sfregio completo del mio
cuore e dei miei sentimenti che pure sembra sentire così bene, mi ha ammonito
di ricordare la donna che si struggeva per il primo in Italia, e mi ha
rimproverato silenziosamente sul mio attaccamento al secondo. Non è un
comportamento tipico di lei, che non si è mai minimamente permessa di giudicare
i miei sentimenti, nemmeno quando ne avrebbe avuto ogni voce in capitolo, visto
che viveva a strettissimo contatto con me e Ron, e poteva benissimo esprimere
perplessità su questo matrimonio fasullo. Inoltre, non è che sia mai stata una
grande fan di Draco stesso, anzi: quando ero scomparsa, rapita da Dimitri, non
aveva esitato a dirmi di aver avuto il sospetto che Draco potesse avermi
ucciso. E nemmeno si era fatta eccessive remore nel dirmi dello Zahir, proprio
perché capiva quanto mi lacerasse amare proprio lui.
Perché,
invece, ora ha reagito in questo modo?
Ma la
ciliegina sulla torta è stata che ha chiesto a Seth di contattare Kevin, il suo
ragazzo, dato che avremmo bisogno anche di lui. Seth, ovviamente, è saltato
sulla sedia entusiasta, finalmente partecipe dei piani d’azione che lo fanno
sentire come James Bond. Ma, naturalmente, io ho continuato a non capirci
nulla: cosa diamine c’entra il ragazzo di Seth, babbano fino al midollo, con i
Karkaroff? E perché sta coinvolgendo tutta questa gente? Dimitri è me che
vuole. Ammazzerà chiunque si metterà tra me e lui, compreso Alex. È davvero
necessario che così tante persone rischino per colpa mia? Già non sopporto che
ci siano Dean e Pansy, che è pur sempre incinta… ed Ilai, ovviamente, che Tatia
voleva che io proteggessi…
E Draco.
Con
un groppo in gola che mi impedisce di respirare agevolmente, mi lascio cadere
sul divano, chiudendo gli occhi e prendendomi la testa tra le mani. Al momento,
vorrei solamente che lui fosse dall’altra parte del mondo, dell’Universo tutto.
Il male che mi ha fatto pulsa ancora nelle profondità di me stessa, come un
punto fiammeggiante che non cessa mai di ardere: e quindi, mi pare ovvio il
sollievo che proverei se fosse lontano. Ma in realtà non è solamente questo. Adesso,
nonostante sia accaduto nella maniera peggiore possibile, lui sa di Alex. Sa
che è suo figlio, sa di essere suo padre.
Ed ancora, nonostante tutto, mio figlio è più
importante di ogni cosa. Vorrei Draco al sicuro… perché vorrei che Alex lo
fosse, qualora mi accadesse qualcosa.
Mi
porto indietro i capelli, le mani che mi tremano senza sosta, un improvviso
senso di panico e disagio allo strambo piano di Helder. Quest’impotenza e
questa attesa mi stanno facendo diventare pazza… senza contare la febbre, che
non ne vuole sapere di lasciarmi in pace. Poggio la tazza ormai vuota sul
tavolino, sfiorandomi distrattamente la fronte, è inutile, la temperatura non
cala. Ci mancava anche questa, adesso. Devo essermi davvero debilitata in
queste settimane, di solito non ho mai la febbre. Le mie riflessioni sono
interrotte dall’ingresso di Pansy che, con aria scocciata, si siede accanto a
me sospirando forte, prima di esordire velenosa, asciugandosi la fronte in modo
teatrale: “Capisco se avessi contagiato Radcenko con tutto quello
sbaciucchiamento clandestino… ma Malfoy come cavolo ha fatto a prendersi anche
lui l’influenza, adesso?!”.
“Eh?!”
commento instupidita, non seguendo le sue parole, ho i pensieri talmente
annegati in una melassa di ragionamenti contorti, che faccio fatica a capire le
cose più basilari.
Al
che Pansy, con la calma di un insegnante saccente che si rivolge ad una bambina
scema, mi spiega che era andata a portare Charisma e Serenity a casa di una
vicina, che a quanto pare fa spesso da babysitter a Serenity stessa. Ed in
giardino, ha visto Draco seduto sotto un albero, rosso in viso, che batteva i
denti per il freddo. L’ha portato in casa e messo a letto controvoglia, mentre
lui inveiva, dato che vuole ovviamente conoscere il piano per salvare Alex. Gli
ha promesso che lo chiamerà per tempo, gli ha ingiunto di riposare e ha dato
anche a lui una pozione all’anice stellato.
Con
un brivido, mi rendo conto che quindi anche lui ha la febbre alta.
“Non
ti pare… strano?” mi inalbero sospettosa, la febbre che ancora mi
provoca un capogiro e mi costringe a chiudere gli occhi per fermarla.
“E
che cosa non è strano, quando si tratta di voi due?” borbotta Pansy annoiata,
sistemandosi i capelli con nonchalance “Vi fate venire anche le malattie
contemporanee, adesso…”. Non do voce ai miei pensieri, ma mi chiudo nel mio
silenzio colmo di un’accozzaglia di riflessioni. La febbre mi fa sentire
completamente distrutta, mi spezza le ossa, ma per il momento almeno lascia in
pace il mio cervello. Sta succedendo qualcosa… e qualcosa di strano. Non può
essere un caso tutto quanto.
Questa…
febbre… non è normale.
È
magica.
Non
ci vuole tanto per capirlo… è immune ai rimedi più comuni e colpisce solo me e
Draco. Che siano Raissa e Dimitri? Che stiano cercando di indebolirci? Ma
allora… dovrebbe averla anche Ilai, colpirebbero anche lui. Anzi, al momento,
sono anche convinti che io e Draco non ci riappacificheremo mai, magari anche a
ragione… che motivo avrebbero di colpire lui? E poi… non è il loro stile.
Decisamente. Sceglierebbero una cosa ben più mortale, questa febbre… è solo fastidiosa.
Che
cosa diamine può essere?
Più
ci penso e più la febbre sembra liquefarmi il cervello, martellandomi i
pensieri come un picchio.
Nel
momento in cui mi lascio andare ad un sospiro frustrato, sento provenire dalla
stanza accanto il rumore sordo di una Smaterializzazione, immediatamente
seguito da un tramestio di passi. Dean varca la soglia con un sorriso rivolto
prima a Pansy e poi a me, poco prima di sedersi accanto alla moglie di cui
accarezza il viso in modo tenero. Dietro di lui, vedo comparire la sagoma
conosciuta di Ilai, cosa che mi manda in fiamme il viso e mi fa alzare in piedi
d’istinto prima ancora che me ne renda conto. Ilai mi guarda timidamente per
qualche secondo, salutandomi a bassa voce, poi si avvicina piano e mi chiede
sommariamente come sto e come è la situazione. Mi limito a scrollare le spalle,
imbarazzata dal fatto che Dean e Pansy ci stiano guardando, e replico
velocemente che stiamo aspettando che torni Helder. Sollevo piano lo sguardo,
cercando quasi di fargli capire solo con gli occhi che Draco adesso sa tutto di
Alex e che questo è successo nel modo peggiore possibile; probabilmente
distingue un barlume di tristezza rabbiosa della mia espressione che gli fa contrarre
la mascella, intuendo che sia successo qualcosa. Ma naturalmente, così come
abbiamo deciso e così come conviene per il fatto che non siamo propriamente
soli al momento, sussurra una tenue rassicurazione dicendomi che andrà tutto
bene, sistemandosi accanto alla finestra, la schiena poggiata alla parete e le
braccia conserte. Le ginocchia di pastafrolla, mi siedo nuovamente sul divano
accanto a Pansy, cosciente sia della presenza silenziosa di Ilai dietro di me,
che di quella ghignante di Dean ed insinuante di Pansy. Ho appena il tempo di
pensare che la situazione da imbarazzante diventerà surreale con tendenze allo sterminio, quando Draco
scenderà dal piano di sopra, che sento la porta d’ingresso aprirsi. Scatto di
nuovo in piedi, convinta che si tratti di Helder, ma invece si tratta
dell’ennesima tessera del mosaico denominato “portiamo
Hermione Granger all’ipertermia per vergogna”. In poche parole, è Seth.
Per
fortuna, mi rendo subito conto che stavolta Seth non è minimamente interessato
a prorompere in uno dei suoi consueti commenti riguardanti la mia vita
sentimentale, cosa che di solito avviene nel beato menefreghismo che uno dei
suoi protagonisti è presente nella stanza ed ha ancora un apparato uditivo
funzionante, e il secondo è al piano di sopra, non quindi propriamente in
Olanda a guardare i mulini a vento. Stavolta, Seth è preso dalla sua di vita
sentimentale, considerando che entra in casa dando il braccio ad un ragazzo,
che riconosco immediatamente come Kevin, il suo fidanzato, anche se è la prima
volta che lo vedo. Di lui, però, grazie alla bocca larga di Seth, so
praticamente tutto, mi ha anche mostrato delle sue fotografie. Quindi non mi
stupisce né il fatto che sia notevolmente alto, né il colore chiaro degli occhi
oltremare, né tantomeno l’espressione dura ed arcigna che cela, in realtà, un
ragazzo autenticamente d’oro. Mentre gli porgo la mano presentandomi, non mi
stupisce nemmeno la divisa della polizia che indossa, sapevo del suo lavoro. E
visto come mi guarda, con una piega tra l’affettuoso e il costernato negli
occhi, capisco che anche lui sa tutto di me. Seth quasi saltella come un
bambino piccolo, parlando a raffica e dicendo che lui stava già venendo qui per
chiedermi se avessi bisogno di aiuto, considerando che c’è di mezzo la sparizione
di un minore. E quindi, come ovvio che sia, inizia a cianciare di destino, di
fili rossi dell’amore, di telepatia e di tutta una serie di altre scempiaggini,
che costringono me a sospirare in debito di pazienza, Pansy a reprimere le sue
risposte taglienti e Dean a trattenere un’espressione sbalordita per la
quantità di parole che può stipare in un minuto. Poi succede il miracolo. Kevin
si limita semplicemente a ruotare il capo, guardandolo con un sopracciglio
inarcato, e Seth sorride in colpa, si stringe nelle spalle e biascica
imbarazzato, con gli occhi luccicanti d’amore: “Scusami, tesoro… tu volevi
parlare con Herm, giusto?”.
Nessuno
fa tacere Seth e Kevin ci riesce solo con un’occhiata nemmeno di minaccia, ma
solo di constatazione amichevole.
Questi
due si sposano, sono fatti per stare assieme.
Kevin
sorride dolcemente a Seth annuendo, prima di dire con tono contrito: “Mi
dispiace per quello che ti è accaduto, Hermione… come puoi immaginare, Seth mi
ha raccontato tutto… di Alex e della faccenda dei Karkaroff… vorrei davvero
poter essere d’aiuto, e quindi chiedimi davvero tutto quello di cui hai
bisogno…”. E qui ovviamente viene la parte difficile: io non ho
assolutamente bisogno di Kevin. O perlomeno, penso che sia così. È Helder
che sembra aver bisogno di lui. Quindi non so assolutamente che cosa diamine
gli debba rispondere: anzi, l’istinto e la mia tendenziale voglia di fare tutto
da sola, senza mettere in pericolo gli altri, mi spingerebbero anche a dire a
Kevin di tornarsene a casa sua, magari portandosi dietro Seth. Però, in fondo a
me stessa, mi fido di Helder. È la sola giunta qui con un vago senso di
sicurezza su che cosa sia necessario fare per salvare Alex… devo avere fiducia
in lei. Perciò, con riluttanza, allargo le braccia impotente e sussurro a
Kevin: “La mente del piano, al momento, non è ancora tornata, è lei che ha
chiesto il tuo aiuto… vorrei dirti di più, ma non so nemmeno io granché…”, poi
con un sorriso aggiungo: “Ma ti ringrazio di esserti precipitato qui. In fondo
nemmeno mi conosci…”.
“…
ma ti conosce Seth, e ti vuole bene…” soggiunge lui con espressione tenera,
come se fosse ovvio che lui corra per aiutare una persona amata dal suo
ragazzo, Seth sorride a sua volta e gli mette affettuosamente una mano sul
braccio, mentre Kevin continua: “Probabilmente non sarò granché utile, ma sono
contento di esserci…”. Nonostante tutto, però, mi affretto a dirgli che, in
ogni caso, sarà mia premura che non succeda nulla né a lui, né tantomeno a
Seth, e che in qualsiasi momento sono liberissimi di andare via, se avessero la
sensazione che tutto sia semplicemente troppo per loro. In fondo, è un mondo
completamente sconosciuto per loro, Seth fa ancora certe facce grigiastre e
sconvolte quando ci vede usare la magia. Una vertigine mi fa tacere
all’improvviso, la febbre ancora non ne vuole sapere di lasciarmi in pace,
traducendosi adesso in un vago senso di confusione mentale che somiglia a
centinaia di persone che parlano nello stesso momento, trasformandosi in un
ronzio fastidioso ed irritante. Mi accascio nuovamente sul divano, questa
stramaledetta sensazione sta diventando così invalidante che mi sta portando
alla nausea. Ilai si stacca dal muro e si viene a sedere accanto a me,
gettandomi un’occhiata preoccupata ed ansiosa, prima di toccarmi la guancia con
due dita e sussurrare quieto: “Hai ancora la febbre…”.
Mi
stringo nelle spalle, un rossore che stavolta non ha a che fare con la febbre
mi incendia il viso, ma per fortuna Pansy e Dean sono presi dalla conversazione
con Kevin, che ha appena rivelato di conoscere qualcosa del mondo della Magia,
perché sua cugina era una strega. Respiro quindi di sollievo e mi lascio
lievemente andare alla carezza di Ilai, annuendo alla sua domanda.
“Anche
Draco ha la febbre…” aggiungo con nervosismo, la mano di Ilai si stacca dal mio
viso e si contrae agitata, mentre l’appoggia su un ginocchio.
“Strano…”
commenta lui, guardando davanti a sé, gli occhi scuri una folla di domande
senza risposta “E non è nemmeno la più comune delle febbri… si dovrebbe essere
già abbassata, adesso…”, lo sguardo di Ilai si illumina e mi dice convinto:
“Perché non chiedi alla tua amica Empatica? Magari lei ci capisce qualcosa di
più di noi… Dean mi ha detto che riesce a sentirvi anche a distanza, ora… forse
puoi chiederglielo anche adesso…”. Ha ragione, ultimamente davvero sto perdendo
ogni nozione di giudizio autonomo.
Non
faccio nemmeno in tempo a provare a contattare mentalmente Helder che lei si
affaccia con prepotenza nella mia mente, la voce squillante che mi trapana i
neuroni.
“La febbre è magica, Herm… probabilmente ho anche
il modo di farla passare…” mormora lei concitata, facendomi ancora chiedere come diamine faccia a
sentirmi con tale chiarezza adesso. Naturalmente, lei sente anche questo,
perciò si affanna a sorridere e a sussurrare: “E
tranquilla… appena la febbre sarà passata, non vi sentirò più come vi sento
adesso… ammetto che sia divertente, specie con la mente contorta di Malfoy… ma
siete troppo visibili così…”.
“Visibili?!” chiedo, non capendo e sbattendo le palpebre un
paio di volte. Ilai mi guarda confusamente, le sue dita abbandonate sulla gamba
sinistra sembrano quasi formicolare, mentre si trattiene dal toccarmi anche
solo per richiamare la mia attenzione. Pansy, Dean, Seth e Kevin continuano a
parlare tra loro, ignari di tutto.
“Già… diciamo che al momento siete visibili a
tutti gli Empatici del mondo… ogni vostro barlume di pensiero e sensazione è di
dominio pubblico…quindi ne guadagnerà anche la vostra privacy, oltre alla
vostra sicurezza…”. La
voce di Helder suona quasi dispiaciuta ed imbarazzata ed il mio viso
semplicemente esplode di calore. Al momento, non sono granché interessata al motivo per
cui questo stia succedendo… ma a quello che sta succedendo in sé, a quello che
è successo da quando ho questa febbre. La conversazione con Ilai, il bacio, lo
scontro con Draco… tutti i miei pensieri e sentimenti, per chissà quale assurdo
motivo, sono stati letti e sentiti da tutti gli Empatici del mondo?! Non
saranno propriamente quindici miliardi, ma anche solo che li abbia sentiti
Helder… già è insopportabile. Figuriamoci se penso a centinaia di persone
sconosciute, che mi hanno sentito nei momenti peggiori della mia vita, in ogni
aspetto più delicato ed intimo di me stessa. Mi affloscio come un palloncino
sgonfio, sopraffatta dalla frustrazione di non sapere che cosa diamine stia
succedendo e che cosa questo possa portare in termini di salvezza per Alex… e
la mia prima inconscia reazione è chiudere gli occhi, serrare la mente,
proteggerla e cercare di tenere fuori quanti più pensieri possibili. Ma
l’Empatia non è Legilimanzia, è più forte. E io non sono mai stata una brava
Occlumante, nemmeno a scuola.
“Mi dispiace Herm…” sussurra contrita Helder nel mio
cervello, avverto ogni goccia del suo dispiacere “Ma posso consolarti dicendo che solo adesso, con l’aumento
della febbre, ti posso sentire in modo più preciso… e così tutti gli altri… fino
a ieri non eri così visibile e Malfoy non lo sentivamo proprio… erano solo sparse
sensazioni… ma, appena torno, lo mettiamo a tacere, tranquilla…”.
“Che cosa c’entra tutto questo con Alex?” chiedo, ancora
con l’assurdo tentativo inconscio di nascondere alla platea che mi ascolta
silente ed invisibile ogni traccia di angoscia ansiosa per mio figlio.
“C’entra, Herm… la febbre, a suo modo, è una cosa
buona… cinque anni fa non ha fatto in tempo a… ma ti spiegherò tutto meglio
dopo. E’ chiaro, però, che rallenta la tua mente, ti rende troppo visibile… e
ci manca soltanto che se ne accorgano Raissa e Dimitri… o qualsiasi altra
persona, che abbia ottenuto qualcosa da Adamar…” enumera lei mentalmente, in modo
veloce, non riesco ancora a seguire nulla del suo ragionamento, né di che cosa
diamine c’entrino le persone che hanno ottenuto qualcosa da Adamar. Helder se
ne accorge naturalmente, e mi rassicura con voce dolce: “Non ti preoccupare… appena torno, ti spiego tutto… tra poco
sarò lì…”. Deve
evidentemente sentire qualche altra cosa in fondo a me stessa, qualcosa che
nemmeno io avverto compiutamente e che può essere solo insicurezza e non totale
fiducia in quello che sta accadendo, e su cui non ho il benché minimo
controllo. Difatti aggiunge con un filo di voce, incerta e d’improvviso
spossata: “Herm… so che è difficile, ma fidati. Fidati di
te… e fidati di lui, di Draco soprattutto. Fidati delle persone che ti
circondano… e fidati anche di me, se puoi… credimi, non vorrei portarti a
questo, ma è l’unico modo. E’ la vostra sola arma, al momento…”.
Poi,
come colta da un’ispirazione improvvisa, soggiunge allegra, con un trillo della
voce: “C’è una persona in tutto questo, su cui non hai
mai avuto dubbi… mai, nemmeno per un istante…”.
“Chi?”.
“Tatia Krasova…”. Sobbalzo, sentendo quel nome
nella testa, la presenza silente di Ilai accanto a me si traduce in un
ulteriore brivido lungo la schiena.
Helder
prosegue, adesso certa di avere tutta la mia attenzione: “Hai fatto un sogno qualche giorno fa… lo vedo nella tua
testa…”. E
d’improvviso, come se la mia mente si schiarisse e si liberasse, come se
diventasse bianca e nivea da corvina che era, rivivo in pochi fotogrammi quel
sogno strano che avevo persino seppellito nella mia mente, fino a cinque
secondi fa. Il deserto, le parole di Tatia, i suoi avvertimenti, il canto
infernale delle altre anime… è come afferrare al volo un oggetto, prima che
cada e rovini al suolo, distruggendosi.
L’arma,
qualsiasi essa sia, non è il ciondolo.
Helder
annuisce nel mio cervello, quasi sorridendo e dandomi implicita conferma ai
miei pensieri, mentre ricordo finalmente le esatte parole della nenia delle
anime dannate.
“L’arma… è la Solutio damnationis”.
Quando
Helder torna, è passata solo mezz’ora dalla nostra conversazione mentale,
eppure mi sembra passata un’eternità di tempo.
Una mezz’ora stancante e sfiancante, perché
contrariamente a quanto sono abituata da tutta la vita, ho fatto di tutto per
non pensare né al piano di Helder, né alla connessione che ho al momento con
gli Empatici, né tantomeno alla fantomatica Solutio damnationis, descrittami in
sogno da Tatia. C’è un perimetro di vita che deve restare mia e non di
centinaia di persone legate, chissà come e chissà perché, alla mia mente:
perciò, sebbene mi causi un cerchio alla testa sempre più pressante, trascorro
il tempo ascoltando le chiacchiere di Seth che ci racconta ancora come ha
conosciuto Kevin e di come si sono innamorati, compreso l’ennesimo ricordo
dell’arrampicata sulla torretta della centrale di polizia, che stavolta però si
colora anche dei particolari descritti dall’altro protagonista, il quale la fa
molto meno eroica di quanto l’avesse fatta Seth. Ascolto anche Pansy raccontare
di come Charisma sembra andare d’accordo con Serenity, sebbene sia più piccola
di lei, e non spingo la mente nel limo dei rimpianti e delle amare
considerazioni che farei sulla distanza incuneatasi tra me e Draco. Non sfioro,
né parlo con Ilai, perché anche questo aspetto deve restare solo mio. E quando
l’ansia per il mio bambino e per il tempo che passa, mi riassale, stringo forte
il ciondolo di Tatia tra le mani, convincendomi che lei mi sta guardando da
qualche parte e non mi lascerà sola neanche adesso.
Questo si
traduce, inevitabilmente, in un mio perdurante silenzio che, però, per fortuna,
nessuno in modo caritatevole e comprensivo si sogna di disturbare. E sebbene il
cerchio alla testa per lo sforzo sia opprimente e mi porti alla nausea, noto
che la febbre, di fronte a plastificate e insensibili riflessioni, diventa meno
rovente, artigliandosi invece come un giogo di fuoco se mi avventuro su altri
pensieri più coinvolgenti del mio cuore. La testa semplicemente diventa lava e
magma se mi azzardo a pensare, anche solo per errore o associazione di idee, a
Draco.
Quello è il
momento in cui, davvero, ho l’impressione che mi stia evaporando il sangue dal
cervello, per quanto sia diventato bollente.
Un moto di
curiosità mi assale in modo involontario, avendo come conseguenza immediata che
la maledetta febbre ardente si artigli in modo più snervante attorno a me,
spingendomi persino a respirare a fatica, mentre non trattengo l’inevitabile
domanda su come stia Draco, invece, e su che cosa stia pensando. Ovviamente,
non può avere pensieri limpidi e cristallini su di me, coronati da arcobaleni
ed unicorni… come nemmeno ci riesco io, mi pare ovvio. Vorrei quasi salire di
sopra, verificare come stia, ammonirlo sulla febbre e sul fatto che tutti gli
Empatici possono sentirci adesso… e vorrei persino dirgli di non pensare a me,
se vuole avere la friabile illusione di non scoppiare di calore. Ma, poi, il
fiume di parole ed insulti che ci siamo scambiati mi rovina come una cascata addosso
e resto incollata al divano.
Credo che sia
un’abitudine preoccuparmi per lui, un riflesso condizionato, un movimento
istintivo che probabilmente mai riuscirò a sradicare da me stessa, e che
adesso, oltre ad associarsi ad una sferzata di odio e rancore frammisti ad
orgoglio rabbioso, si manifesta in un ulteriore aumento della mia temperatura
corporea, così da farmi sentire davvero come se fossi in fiamme. Quindi, lo
sedo velocemente e facilmente, come un animale che associa un particolare
evento a qualcosa di negativo, imparando a non farlo più.
Helder
sta per tornare, la febbre passerà anche a lui. Io la sopporto da quasi dodici
ore. Può sopportarla anche lui per un po’.
Respiro di
sollievo rinfrancata, avvertendo la fronte più fresca e la vista più chiara.
Sto riprendendo
a forzare me stessa per ascoltare con quanta più calma e freddezza possibile, i
miei amici che chiacchierano amichevolmente, che d’improvviso, quasi con un
rombo di tuono, compare al centro esatto del salone Helder, il mantello oltremare
smosso dal contraccolpo della Smaterializzazione, i capelli lievemente
increspati ed un’aria seria e compunta. Mi alzo dal divano nel silenzio
generale, facendomi vicina a lei ed interrogandola nervosamente con lo sguardo;
ma Helder solleva piano il palmo, spingendomi all’immobilità e al silenzio in
modo riverente, mentre lei si stacca dalla cintura un sacchetto di velluto
nero, che osservo senza capire.
“Titanca…”
soggiunge lei, seguendo ed indovinando la direzione del mio sguardo “Non è
facilissima da trovare come puoi immaginare, fiorendo solo ogni cento anni… e
tendenzialmente allora se ne fa incetta tra ricettatori e pozionisti…”. Sgrano
gli occhi sconcertata, replicando con un moto istintivo di autodifesa: “La
Titanca… è il fiore che ha usato Dimitri per fingersi morto e non essere
percepito neanche da te come vivo… che cosa c’entra con me?”. Helder afferra la
bacchetta e fa comparire sul tavolo alle mie spalle due bicchieri di cristallo,
finemente intarsiati d’argento: sono pieni di un liquido scarlatto, che
rilascia un vapore di condensa dall’invitante odore di frutti di bosco. Con
eleganza disinvolta, svuota il contenuto del sacchetto in entrambi i bicchieri,
una polvere di colore argenteo che rende il liquido scintillante. Pensosamente,
Helder mi fa cenno di afferrare un bicchiere e di berne il contenuto, mentre
spiega: “Tecnicamente, la Titanca non induce una finta morte… dosi eccessive
possono avere questo effetto, richiedendo quindi voltaggi elevati che
riattivino il cuore mediante stimolazione elettrica… sicuramente Dimitri ne
deve aver ingurgitata parecchia. Ti ho già spiegato che chi ha ottenuto
qualcosa da Adamar, non viene sentito dagli Empatici, se non con moltissima
difficoltà… ma per quel poco che si può sentire restano scolpiti nella mente.
Come lui è rimasto scolpito nella mia, dopo averlo sentito… quindi aveva
bisogno di qualcosa che fosse persino più forte di questo…”, Helder fa una
pausa per riprendere fiato, mentre io afferro il bicchiere con mano malferma:
“In realtà, la Titanca in piccole dosi, non quelle eccessive che deve aver
assunto Dimitri per andare sul sicuro, tendenzialmente annulla solo l’Empatia,
rendendo chi la assume praticamente impossibile da percepire per un Empatico…
certo, altre parti della pianta hanno altri effetti, ma i petali sminuzzati
hanno solo questo…”.
“Rendermi cieca
agli Empatici… farà passare la febbre?” chiedo dubbiosa, le labbra accostate al
bicchiere che non svuoto.
“Sono la stessa
cosa…” mormora Helder, piegando la testa di lato “La febbre… è solo un segnale.
Per gli Empatici. Un segnale… di
quello che vi sta accadendo. E
quello che vi sta accadendo… ha a che fare con la connessione aperta con gli
Empatici stessi. Chiusa la connessione, passa la febbre…”.
“Io continuo a
non capirci niente…” borbotto con nervosismo, tendendomi come una corda di
violino, poi mi rilasso sussurrando: “Ma se questo intruglio può farmi passare
questa maledetta febbre…”, ghigno sarcastica e sollevo il calice con aria
pomposa: “Alla salute”. Lo vuoto in un solo sorso, ha un sapore fruttato
piacevole e rinfrescante, e scivola nella mia gola come ghiaccio sciolto.
Immediatamente, mentre penetra nel mio corpo, sembra portare un’aria fresca di
tramontana: la febbre cala d’improvviso, lasciandomi scariche di brividi ghiacciati
sulla schiena, ma anche una sensazione di forte chiarezza mentale come non mi
accadeva da giorni. I pensieri si snebbiano come la mia vista, la pelle torna
tiepida come sempre, il respiro si calma, la spossatezza sparisce e si
trasforma in forza e maggiore coraggio. Dal riflesso della porta del salone e
dall’aria sollevata di Helder, capisco che anche il mio aspetto torna
decisamente più florido e sano.
Guardo Helder
con gratitudine, pronta contemporaneamente anche a sommergerla di domande, ma
lei ancora previene le mie rimostranze, dicendo con tono accorato: “Lo so, lo
so, ti spiegherò tutto… quello sguardo lo conosco, non c’è bisogno
dell’Empatia… però sii clemente, è già una storia terribilmente complicata…
fammela dire solo una volta, ok? Ed al momento ho ancora alcune cose da
sistemare… e per queste cose, mi serve immediatamente l’altro malato…”, si
guarda attorno con nervosismo, poi getta uno sguardo in direzione del soffitto,
facendomi presagire che naturalmente sente ancora Draco. “Qualcuno potrebbe
chiamare il padrone di casa, per favore?” biascica stancamente Helder,
massaggiandosi il collo. Poi, quando già Seth si sta muovendo per andare di
sopra, Helder sgrana gli occhi e mormora seria, il volto improvvisamente
cinereo: “Meglio che ci vado io di sopra… Malfoy sta decisamente peggio di te…
dubito che riesca ad arrivare qui…”. Un alito di vento e si Smaterializza al
piano di sopra. Vorrei davvero evitare alla mia gola di articolare quel suono
duro, gutturale, strozzato, simile a quello di una bestia presa al laccio,
mentre le vie respiratorie si contraggono e faccio fatica ad inalare ossigeno.
E vorrei anche evitare al mio cuore di battere forte, sordo, terrorizzato, al
pensiero che possa essere persino vicina a perderlo. Vorrei davvero non considerare
estranee le mani di Ilai che, adesso, mi sfiorano la vita cercando di
rassicurarmi. Vorrei che tutto questo non ci fosse… e per fortuna faccio in
tempo a negarlo a me stessa. Perché dura tutto solo pochi secondi.
Draco scende le
scale di corsa, i capelli spettinati, l’aria affannata, gli occhi grigi accesi.
Si ferma davanti a me, ha il colorito acceso, il fiatone, ma sta bene. Soppesa
il mio viso, lo studia ed io studio il suo, abbeverandomi della sua salute. Poi
sbatto le palpebre, ricordandomi tutto, allo stesso modo in cui anche lui si
ricorda tutto. Lancia un’occhiata torva ad Helder che lo segue sorridendo, mentre
Draco distoglie il viso da me, incrociando le braccia e borbottando qualcosa. A
mia volta, guardo Helder confusa, ha le mani incrociate dietro la schiena e
saltella spensierata.
Ci sta
manipolando.
La rabbia a
quel pensiero raggiunge le mie mani facendole tremare di nervosismo a stento
represso: non so quale sia il fine di Helder, non so quale sia il suo piano, ma
sto esattamente, adesso, che cosa sta facendo. Sta manipolando me e Draco, come
due marionette. Si è ripreso troppo in fretta per pensare che stesse davvero
così male, come mi ha detto… e lui… aveva un’espressione troppo sconvolta,
scendendo, come se avesse pensato a sua volta che io stessi malissimo. E certo,
d’accordo, posso essere ancora maledettamente felice che, nonostante tutto, non
desideriamo ucciderci a vicenda, ma è una cosa abbastanza scontata, credo. È
sempre il padre di mio figlio. Sono sempre la madre del suo. Ci mancherebbe.
Ma che lei stia
sfruttando il germe di questo attaccamento, non mi va proprio. C’è troppa gente
che si insinua, o si è insinuata tra me e lui. E spesso non faccio altro che
pensare che sia stato anche questo a far andare tutto a scatafascio tra me e
lui. Quindi, anche adesso che le cose sono chiuse, anche ora… anzi, forse soprattutto ora… gli altri, compresa Helder, devono stare fuori
da questa storia, specie per provocare discutibili reazioni per i propri ancor
più discutibili scopi. Senza nemmeno un attimo di esitazione, annebbiata ed
innervosita, afferro Helder per il polso con malagrazia, trascinandomela dietro
in giardino, sotto lo sguardo ovviamente atterrito degli altri. Non mi
interessa, prima chiarisco questa storia meglio è.
Il sole è
forte, il contrasto con la penombra dell’interno mi fa bruciare gli occhi e non
mi fa mettere bene a fuoco. Inoltre la calura è asfissiante, le cicale
friniscono impazzite. Ma la mia voce tintinna netta e chiara, mentre sibilo:
“Si può sapere che cosa diamine hai in testa? Credi forse che siamo all’asilo?
E che mi devi chiudere in una stanzetta con Malfoy, così facciamo pace con il
mignolino?”, Helder mi guarda con un impercettibile sorriso e le spalle
afflosciate, come se fosse semplicemente preoccupata, e questo mi fa salire
ancora di più l’acido in gola: “Questo… tutto questo casino tra me e lui… sono
affari miei e di nessun altro. Puoi aiutarmi con mio figlio? E allora non farmi
perdere tempo con queste stronzate, ok? Non me ne frega niente degli Empatici,
della connessione, della febbre… e tantomeno mi interessa al momento dimostrare
a qualcuno che posso ancora sentirmi legata a Malfoy… non c’è niente tra me e
lui, meno di quello che c’è mai stato… quindi se puoi aiutarmi con Alex, bene,
parla. Altrimenti, se sei qui solo per fare la consulente matrimoniale… puoi
tornartene da dove sei venuta…”. So che sono stata dura, e forse anche
ingiusta, la voce mi trema e mi manca persino il fiato, ma adesso mi sento
decisamente più lucida, da quando è passata la febbre che mi stava tormentando.
Mi annacquava i pensieri, li scoloriva, mi impantanava nel disastro di non avere
più forza e coraggio. Adesso che mi sento meglio, ogni secondo che sto qui a
fare altro che non sia salvare mio figlio, è un secondo in cui farei una
strage. Anche delle persone a cui voglio più bene al mondo.
Helder, però,
non è minimamente sconvolta dalla mia reazione, anzi ancora si stringe nelle
spalle, sorride e si chiude in sé stessa a farsi più piccola e minuta. Quando
già sto per urlarle di nuovo contro, volge il viso alla sua destra, in
direzione del vialetto d’ingresso della casa di Draco, e dice solamente: “Ve
l’avevo detto che ci sarebbe voluto più tempo del previsto…”.
Quando guardo
dove sta guardando lei, il cuore mi martella nel petto con un sentimento
frammisto di angoscia, ansia, preoccupazione, e poi sollievo, gioia, felicità
rapprese che mi esplodono addosso, come insolenti fuochi d’artificio. Come
facessero a starsene lì, tutti, in silenzio completo, senza nemmeno respirare,
è un mistero, ma appena mi accorgo della loro presenza, è come se semplicemente
non li potessi ignorare più, non potessi più distogliere il viso da loro.
I primi che
riconosco sono Harry e Ginny, forse perché inconsciamente desideravo così tanto
rivederli, da averli immediatamente tracciati nella mia vista non appena sono
comparsi. Certo, Harry veniva a trovarmi ogni tanto in Italia, ma le sue erano
sempre visite rapide, timorose, istituzionali, nel timore che qualcuno potesse
seguire i suoi spostamenti. E Ginny… sebbene mi sentissi con lei regolarmente tramite
lettere e con telefonate e spesso la vedessi anche attraverso il camino, non la
vedevo di persona da anni, esattamente da quando mi impedì di partire per
cercare Draco, quando ero ancora incinta di Alex in Italia. Era troppo
pericoloso per lei venire a trovarmi, ovviamente, nonostante insistesse tanto
con Harry. E poi, anche lei è diventata mamma di tre figli: si diventa
ragionevoli, quando si ha qualcuno che dipende completamente da te. Tre bambini
che mi chiamavano zia nonostante tutto, quando parlavo con loro al telefono… ma
che non avevo mai visto.
E che adesso,
finalmente, vedo, cosa che mi provoca una nebbia di lacrime negli occhi che
cerco di ricacciare indietro, per poter fissare nella mia mente ogni
particolare.
Harry non è
cambiato di una virgola: veste lievemente più elegante adesso che è Ministro,
ma la sua aria scanzonata ma al contempo sempre un po’ triste non cambia mai. È
in piedi, le gambe magre coperte da un paio di pantaloni kaki, sotto una polo
bianca che fa risaltare in modo quasi molesto gli occhi verdi. Sorride nel
guardarmi, piega le spalle sotto il peso di una bambinetta minuscola che ha
sulla schiena, addormentata. Lily.
Ha tre anni adesso, e Ginny
me l’ha sempre descritta come un terremoto. Adesso, però, dorme sulle spalle
del suo papà, ha i capelli rossi annodati in due treccine e l’aria pacifica sul
viso tondo. Accanto ad Harry, con una smorfia impertinente e le braccia
conserte da piccolo adulto scornato, sta un bambino della stessa età di Alex:
ha due profondi occhi azzurro chiaro, capelli neri scarmigliati e l’aria di chi
già conosce tutti i segreti del mondo civilizzato. James. Mi viene ancora da sorridere, ricordando di quando Ginny mi
aveva detto che, alla nascita, sembrava aver già suggerito il suo nome,
mostrandosi come il ritratto perfetto del suo defunto nonno. Il mio sguardo si
sposta ancora, inquadrando invece adesso la mia amica, cosa che, appunto, dopo
cinque anni, mi fa scoppiare a piangere senza ritegno. Lei mi si avvicina,
abbracciandomi forte, le lacrime che curvano anche il suo viso, mentre cerca
scherzosamente di consolarmi. Mi stacco da lei con un sorriso mesto,
asciugandomi il viso imbarazzata: in lei nulla pare cambiato. È diventata certo
più morbida nell’aspetto, meno ossuta, e ha un’aria più dolce del viso, ma i
capelli sono sempre una fiamma d’autunno che brilla al sole e gli occhi azzurro
chiaro hanno lo stesso bagliore che avevano da ragazzina. Stringe la mano di un
bambino magro e mingherlino, dall’aria più timida e spaurita rispetto a suo
fratello maggiore. Albus.
Sorrido, accarezzandogli la
testa, era con lui che spesso parlavo di più al telefono e, ascoltando la sua
voce stridula ed acuta, me l’ero immaginato esattamente così, somigliante nei
colori a suo fratello James, tranne che per gli occhi, verdi come quelli della
nonna Lily e del padre Harry.
La visione
della meravigliosa famiglia del mio migliore amico, per un attimo, mi distrae
da tutto il resto e mi consola, facendomi dimenticare persino l’accesso di
rabbia verso Helder che mi ha portato ad uscire in giardino. Quella sensazione
scomoda, però, ritorna immediatamente, non appena mi rendo conto di chi altro è
comparso nel vialetto e che, di primo acchito, rallegratami alla vista di
Harry, Ginny e dei bambini, non avevo notato. È una sensazione di soggezione ed
imbarazzo, perché si tratta di persone con cui non ho mai avuto eccessiva
confidenza e che quindi adesso mi vedono in un momento di fragilità. Mi affretto
quindi a raddrizzare la schiena e ad asciugarmi gli occhi con il palmo della
mano. Messa maggiormente a fuoco la situazione, mi esplode dentro un senso
indiretto di disagio e di preoccupazione protettiva, nei confronti di Dean,
Pansy e Charisma.
Di fronte a me,
infatti, imperturbabili come statue greche ed ugualmente bellissimi, se ne
stanno i coniugi Zabini, Blaise e Daphne.
Il loro
contegno aristocratico non è minimamente mutato nel corso degli anni: Blaise ha
semplicemente tagliato i capelli che ricordo lunghi, quando veniva da Pansy.
Gli occhi sono sempre due lame blu-verde, affilate come quelle di un gatto che
sezionano chiunque gli stia davanti, emergendo foschi nel contrasto con la
pelle abbronzata del viso e con i capelli corvini. Porta un lungo mantello
nero, dalla fodera azzurra, sebbene la giornata sia calda ed afosa. Accanto a
lui, così perfetta ed immobile che non sembra nemmeno respirare, se ne sta
Daphne, il corpo sottile coperto da un lungo abito grigio con decori d’argento.
I capelli sono tirati all’indietro, biondi e lisci come sempre sono stati, e
gli occhi azzurri splendono della solita freddezza. Mi appare solo un po’
affaticata… e triste, ecco. Di primo acchito, lo imputo al fatto che
ha di fronte l’artefice indiretta della fine di sua sorella minore Astoria, e
sta per incontrare il responsabile anch’esso indiretto della morte della
sorella maggiore Helena, cioè Draco. Ma, dopo qualche istante di
considerazione, capisco che non è quello: è qualcosa che si è proprio attaccato
a lei, una tristezza interna che sembra vecchia di mille anni e che non ha
nulla a che vedere con la dipartita delle sue sorelle. Credo anche che nemmeno
le interessi come siano morte e per mano di chi. Ricordo le parole di Helena sul
fatto che, per le donne purosangue, il matrimonio sia tutto. Me le aveva fatte
sentire Draco, mostrandomi i ricordi che aveva di lei.
Con il
matrimonio, cessa ogni rapporto con la famiglia d’origine. Helena, dopo le
nozze, infatti, aveva visto allentarsi enormemente i rapporti con le due
sorelle minori.
Quindi, Daphne probabilmente
non si sente nemmeno più una Greengrass.
Cercando il motivo
di quell’espressione, noto finalmente che Daphne tiene in braccio un neonato di
soli pochi mesi, avvolto in vestitino azzurro che mi fa supporre che sia un
maschio. Lo tiene come se fosse… infetto. Sembra non toccarlo neppure. Il bambino, dal canto suo, se
ne sta immobile, un pugnetto chiuso in bocca e un’espressione meditabonda negli
occhi neri socchiusi.
Guardo Helder
con nuovo nervosismo irritato, chiedendomi che cosa diamine le sia saltato in
mente per chiamare anche loro, ma lei fa un cenno timoroso del capo alle spalle
di Daphne e Blaise, ignorando il mio risentimento. Seguo la direzione del suo
sguardo e lì l’irritazione si affloscia così come era nata, sostituita da
vergogna e amarezza.
Helder, che
stavolta non ha alcun genere di giustificazione riguardo agli Zabini e Pansy di
cui ovviamente non poteva sapere nulla, ha richiamato indietro anche Ron, di
cui invece sa tutto.
La guardo
inorridita per qualche secondo, era in Italia con me, sa perfettamente che cosa
abbiamo vissuto per cinque anni e come sia stato lacerante per me, nonostante
tutto. Vedere Ron qui, adesso, dopo tutto quello che è accaduto, dopo quello
che sta accadendo, mi fa sprofondare il cuore in una morsa dolciastra di
rimorso e senso di colpa. Non mi guarda in viso, si guarda le scarpe, ha le
orecchie in fiamme e gli occhi fissi al suolo, ma tutto di lui mi fa sentire
vittima di un rimprovero silente che sento di meritare appieno. È ancora qui
per aiutarmi, e io me ne sono andata dall’Italia per inseguire un uomo che si
era già rifatto una vita. Con lui, avevo una casa, un tetto, una routine di
abitudini persino confortanti… una
sedia rossa in cucina dallo schienale mezzo rotto, un post it
fucsia sul frigorifero con gli orari del ritiro della spazzatura, una coppia di
amici con cui giocare a tennis nel weekend, un barattolo di pesche sciroppate
sull’ultimo ripiano della dispensa che nessuno mangerà mai… ed io ho buttato all’aria tutto per il miraggio
di un grande
ed eterno amore. Adesso, in
questa situazione, con Alex lontano e in pericolo, tutto quello che rigettavo
di quella vita, paradossalmente, è miele e ciliegia dolcissima. È proprio vero
che si è sempre insoddisfatti di quello che si ha e si è sempre irriconoscenti
seriali… con lui, non mi sono mai sforzata di cercare il benché minimo
contatto, convinta che mai potesse capirmi e risoluta a mantenere sempre una
distanza tra lui e mio figlio, che doveva restare il figlio di Draco e mai il
suo. Forse, in fondo a me stessa, mi sono persino sentita superiore a lui.
Sempre… in modo peggiore di quanto
accadeva ad Hogwarts o di quanto accadeva quando stavamo assieme. Io sola avevo
davvero amato qualcuno, io sola capivo di che cosa avesse bisogno mio figlio,
io sola potevo sapere lo strazio di amare una persona tanto diversa da me, io
sola ero depositaria del bene assoluto. Ed intanto, fino a quando sono stata con lui, Alex
è stato al sicuro. Poi, da
povera idiota, mi sono legata ad un perfetto sconosciuto come Ilai senza
nemmeno rendermene conto, e ho scoperto che Draco poteva essere padre, solo
odiando me.
Vorrei davvero
parlargli, adesso, chiedergli scusa, implorare un mondo in cui possiamo ancora
essere amici, senza che null’altro si metta in mezzo. Ma, adesso, come tante
altre cose, sento di non averne il diritto. O forse è semplicemente troppo
tardi. È come cercare l’origine di una slavina che ha devastato una valle,
seminando morte ghiacciata. Sulla vetta, deve essere stata solo una piccola
palletta di neve sporca, ma dopo, con la gravità che incalza e il tempo che
scorre, difficilmente potresti capire che cosa ha creato tutto. Raccogli ciò
che hai seminato, metti toppe alla devastazione e ti sforzi di dire che andrà
meglio, un giorno. Ed il mio sforzo è soltanto un sorriso debole, grato,
infinitamente riconoscente verso di lui. Ron, quello goffo, imbranato,
insensibile e superficiale… lo ricambia, stringendosi le spalle.
Accanto a lui,
vedo una persona che non avevo notato, una ragazza non molto alta, esile come
un giunco, che mi sembra di conoscere. La guardo meglio, ha lunghi capelli
liscissimi castano chiaro, sottili, e due grandi occhi verde chiaro, è vestita
in modo semplice e colorato. Mi sorride anche lei, ha le guance rosse come due
mele, tanto da avere l’aria di una bambina. Le mani sono strette su un
passeggino, al cui interno distinguo un bambino di pochi anni, forse tre o quattro.
Ha i capelli spettinati castano scuro, e non so come un bambino possa sembrare
già così serio ed arcigno. Studia pensosamente un sonaglio che ha in mano, come
se stesse cercando di scoprire il segreto di una formula quantistica. Quando
torno a guardare la ragazza, improvvisamente mi sovviene chi sia.
Natalie
McDonald, un ex Grifondoro di qualche anno più piccola di me… l’avevamo persino
sospettata tra le spie di Astoria al Ministero, dato che era nell’entourage di
Harry.
La sua presenza
vale a rendermi ancora più confusa, mi volto con le braccia conserte e sempre
più innervosita verso Helder, nello stesso momento in cui i bambini,
naturalmente, giudicano sufficiente il loro contegno così a lungo trattenuto.
James dà quindi una pacca sulla schiena di Albus che inizia a piagnucolare,
cosa che fa svegliare Lily, che smania per essere messa a terra e per poter
correre nel giardino. Come era naturale, il bambino di Daphne inizia a sua
volta a strillare, richiamando attenzioni, lei lo culla distrattamente come se
stesse pensando a tutt’altro. Il piccolo, invece, di Natalie se ne resta
tranquillamente al suo posto, ipnotizzato dal suo giochino, persino incurante
di Lily che lo osserva da vicino, facendogli delle domande con vocetta
stridula. Ginny cerca di dividere Albus e James, Harry e Ron mi si avvicinano
prodighi di spiegazioni, Zabini smania per entrare in casa… e io guardo Helder,
la sola artefice di questo caos, con la voglia di commettere un omicidio.
“Ammazzami
dopo, cortesemente…” gorgheggia lei allegra, mettendosi le mani dietro la
schiena con noncuranza “Manca ancora il secondo atto …”.
Non faccio
nemmeno in tempo a chiedere che cosa diamine voglia dire, che comprendo che il secondo atto non è null’altro che l’aumento esponenziale
della confusione, quando tutti coloro che erano all’interno della casa, pensano
bene di uscire nel giardino, evidentemente richiamati dalle voci oppure dal
fatto che io non sia ancora rientrata. Quindi, negli stessi cinque metri
quadrati, si ritrovano persone che non si vedevano da anni e che, nella
migliore delle ipotesi, si ignoravano. Il più calmo di tutti è naturalmente
Kevin, che non fa assolutamente una piega. Ilai appare sospettoso, ma avendomi
vista relativamente tranquilla, si calma a sua volta anche lui e si siede
pigramente accanto a Kevin, sui gradini della casa. Seth, la cui giovialità è
direttamente proporzionale al numero di persone presenti in una stanza, diventa
semplicemente indemoniato e se ne va in giro, stringendo mani ed abbracciando
spalle, soprattutto quando naturalmente rivede Harry e Ginny, che conosceva dai
tempi del Petite Peste. E fin qui, tutto sommato, siamo alle reazioni pseudo
normali.
Le peggiori
sono, naturalmente, quelle di Pansy, Dean e Draco.
La prima, non
appena vede chi c’è nel giardino ed incrocia lo sguardo improvvisamente attento
e serio di Blaise, sgrana gli occhi ed impallidisce. La sua mano corre veloce
al basso ventre, stringendo forte la presa sul bambino che porta in grembo.
Giurerei persino che abbia avuto un capogiro e giurerei persino che se n’è
accorto anche Dean che, alle sue spalle, corre immediatamente a reggerla per il
gomito, guardando in cagnesco Blaise e Daphne. Quest’ultima, ancora, non dà
segni di alcuna reazione, resta bella ed impassibile, persino dell’espressione
del marito, che sembra al contempo illuminata e sofferta, tesa e rilassata,
felice e dilaniata. Questi, però, sono Serpeverde: in capo a pochi secondi,
ritornano l’emblema dell’aplomb e dell’impassibilità. Dean, naturalmente, no.
Continua a stringere il gomito di Pansy, la tiene stretta a sé ed ha
un’espressione che vorrebbe essere di minaccia, di rimprovero, ma sembra solo inquietudine
irrequieta. Come
se gliela volesse portare via. Sarebbe
lo sguardo che forse io, anni fa, avrei avuto se avessi incontrato Helena. Al destino, magari si scappa pure, ma
se ti si ripresenta davanti, crederai sempre di essere stato solo fortunato. Dean, però, sebbene non lo capisca, non è
stato solo fortunato… la conosco Pansy ormai, capisco le sue reazioni anche se
le nasconde dietro strati di menefreghismo cinico. Ha reagito male,
probabilmente le è scoppiato il cuore, ha il viso lievemente rosso e la pelle
lucida e bianca… ma si è subito stretta al bambino che porta dentro, al figlio
di Dean. E, contrariamente a quanto farebbe sempre, non si sta divincolando
dalla presa di lui, non gli ingiunge severa che non è una paralitica e che può
camminare da sola. Lascia che lui la sorregga, lascia che lui la stringa. Non si farà mai portare via.
Mentre in pochi
secondi si consuma tutto questo, l’altro che ha naturalmente una pessima
reazione, essendo a pieno titolo il Principe delle pessime reazioni, è Draco. La sua replica alla massa di gente
comparsa, è come sempre calma, misurata, assolutamente serafica. E non starò
ancora qui a dire quanto questo significhi tutto il contrario di quello che
pensa. Respinge al mittente lo sguardo torvo di Ron e quello evidentemente
scocciato di Harry e Ginny, non presta attenzione alla situazione di Pansy, non
alza gli occhi al cielo per Seth, non mostra curiosità alcuna per i bambini che
giocano.
La sua reazione
è pessima, perché, in tutto questo marasma, guarda me. Ed è pessima come reazione, perché io già lo stavo guardando.
Gli occhi sono
socchiusi, fissi, implacabili. Mi tagliano il respiro. E so già che cosa vuole,
che cosa sta pensando, che cosa chiede. Perché lo sto pensando anche io.
Ed è quello che
dico ad Helder, sfibrata, cinque secondi dopo: “Lasciando stare l’opportunità o
meno di fare questa allegra riunione…”, respiro e guardo con riconoscenza
Harry, Ron, Ginny e Natalie, meno Blaise e Daphne “Si può sapere che cosa
diamine c’entra tutto questo con Alex?”. Draco sospira, incrocia le braccia e
distoglie lo sguardo da me.
Helder,
finalmente, piega la testa di lato, ha gli occhi colmi di scintille colorate,
scommetto che le si è fritto il cervello con tutti questi sentimenti
contrapposti. Poi, con serietà, fa tornare gli occhi del suo colore normale e
dice compunta: “Per quello che abbiamo intenzione di fare… per quello che
dovrete fare per salvare vostro figlio… serve il più grande numero possibile di
maghi e streghe, credetemi. Al momento qui ci sono solo le persone che potevo
concretamente contattare… e che sapevano del fatto che Draco Malfoy fosse
ancora vivo…”. Helder getta uno sguardo a Draco, che assorbe il colpo e guarda
la gente riunita, finalmente ammutolita. Ovviamente i suoi occhi, così come i miei,
si concentrano su Natalie che non sappiamo ancora cosa diamine ci faccia qui,
ma qui è Ron che interviene, le orecchie sempre più rosse, facendo un minuscolo
passo verso di lei: “Eravamo assieme quando Helder mi ha contattato. E quando
ha capito che era in pericolo il figlio di Hermione… è voluta venire con me…”.
Non mi soffermo
su quell’ “eravamo
assieme”, sarebbe così
maledettamente stupido ed ingrato da farmi sentire un’imbecille… ed inoltre,
credo sul serio che, se avesse una connotazione sentimentale, mi metterebbe a
posto la coscienza in un modo che non posso ancora concedermi. Quindi sorrido a
Natalie e dichiaro, dolcemente salda: “Grazie…”.
“Tu sei sempre
stata gentile con me… è il minimo…” sorride lei gaia, sotto lo sguardo soffice
di Ron.
“Ma non bastiamo…”
riprende Helder con vigore, guardandosi attorno ponderatamente “Non siamo
ancora sufficienti…”, deglutisco a disagio, chiedendomi perché le serva tutta
questa gente, compreso un babbano come Kevin. La paura di quello che sto per
affrontare si mescola venefica al coraggio e alla consapevolezza che, così,
potrei davvero salvare mio figlio.
“Per questo, ho
bisogno del tuo, diciamo, permesso, Malfoy…” prosegue Helder, ritornando a Draco
“Se tu hai intenzione di rivelare che sei ancora vivo, di rinunciare alla tua
copertura come Danny Ryan… potremmo chiamare molta più gente, ci serve più
aiuto possibile… e tu ed Hermione siete stati così tanto stimati in due
ambienti così diversi, come quelli dei Serpeverde e dei Grifondoro, degli Auror
e degli ex Mangiamorte, che potremmo davvero avere molte più persone disposte
ad aiutarci…”, Helder respira forte nel silenzio di Draco, che non ha per nulla
mutato espressione del viso, poi prosegue atona: “Qui siamo ben oltre il
concetto semplice di bene
e male, così come
l’abbiamo sempre conosciuto… le vecchie barricate sono morte. E credo che lo
sappiate tutti voi, in questo giardino, considerando le relazioni che vi
uniscono tra voi… e con il figlio di Draco Malfoy ed Hermione Granger…”. Tutti,
con mia grande sorpresa commossa, annuiscono, persino Ron o Daphne o la stessa
Ginny. Nessuno di loro ha mai accettato che io stessi con Draco, nessuno l’ha
mai capito… ma da quando è nato Alex, le cose sono cambiate. E tutta questa
gente, tutte queste persone, sono disposte a mettersi a rischio, pur di salvare
mio figlio. E’
come se, nella sua esistenza, Alex fosse un simbolo. Il perno di un mondo che
potrebbe cambiare e a cui tutti, dopo Voldemort, vogliono davvero credere.
“Mi avevi già
convinto alla parola permesso,
Empatica, senza bisogno di
questa pappa sociologica…” mormora arrogante Draco, serrando le braccia al
petto, prima di aggiungere in modo epigrafico: “Una volta sola ho cercato di
fare tutto da solo e ci sono andati di mezzo Helena ed Amos. Non rifarò lo stesso
errore con mio figlio… fai pure quello che serve…”.
In un
altro momento, in un’altra vita, in un altro mondo, adesso ti avrei stretto le
dita, avrei riscaldato la tua mano, dandoti quel coraggio da leone che tu non
hai. Avrei letto la tua voce fratta, avrei seguito le tue labbra strette, avrei
distinto netto ed evidente quel barlume di incertezza che ti ha oscurato lo
sguardo. Ti saresti aggrappato a me, forte, ma non così angosciosamente da far
sì che qualcuno se ne accorgesse. Avresti solo accarezzato piano le mie dita,
strette nelle tue, così che tutti pensassero che la debolezza fosse la mia e
non la tua, che oggi uccidi Danny Ryan.
Uno
schermo, un’identità posticcia, un falso nome…ma comunque un ricovero, un asilo, una capanna in mezzo alla tempesta,
un salvagente a cui mai avresti voluto rinunciare, specie ora, specie adesso,
per la salvezza di un figlio.
Che
vale tutto, tutto.
Lo so
e lo capisco: è nelle ossa che lo chiamano ininterrotte, nel respiro che piange
l’assenza, nel sangue che invano scongiura. Lo sento anche io, come sento quel
dilaniamento a cui, ancora, ti sottoponi. La scelta di un figlio sull’altro.
Anni
fa, implicitamente, senza saperlo, hai scelto di salvare Serenity e condannare
Alex, tenendo Raissa qui.
Adesso,
esplicitamente, con ogni coscienza, hai rotto la promessa con Helena che voleva
Serenity cresciuta tra i babbani.
Hai
scelto di salvare Alex e condannare Serenity, tornando ad essere te stesso ma
restando suo padre.
Hai scelto
di sfidare apertamente i Greengrass, tornando alla vita con l’erede della
fortuna dei Diggory.
In un
altro momento, in un’altra vita, in un altro mondo, adesso ti avrei detto che
troveremo una strada, che Serenity resterà con noi e riporteremo Alex a casa.
Ed
invece in questo momento, in questa vita, in questo mondo… so solo chiudere gli
occhi, serrare le spalle e respirare forte, distogliendo lo sguardo da te.
“Se si tratta di
andare a fare l’ambasciatrice credo di potermene occupare io…” asserisce
convinta Ginny, prendendo per un braccio James e per l’altro Albus che
continuano a bisticciare “E ne approfitterei anche per scaricare questi marmocchi
nel Gran Canyon e sperare che siano sbranati dai coyote…”.
“E Lily?”
chiede Harry, preoccupato, dato che la bambina al momento è impegnata nella
ricerca spasmodica di vermi nel terreno, cosa che ha ridotto il suo vestitino
azzurro in una collage di macchie d’erba e terreno. Sentendo il suo nome, Lily
solleva il capo e fa un grande sorrisone sdentato.
“Non abbiamo
fatto un accordo prematrimoniale… ma credo che ci fosse la divisione equa dei
compiti, no?” mormora Ginny, arricciando il naso “E ringrazia che il numero dei
nostri figli sia dispari, sennò te ne toccava anche un altro…”. Harry incassa
il colpo e tace, recuperando la figlioletta prima che si infili qualche
lombrico in bocca.
Ginny, dopo
avermi salutato con affetto ed avermi rassicurato che contatterà quante più
persone possibili, si Smaterializza con James ed Albus, ancora impegnati a
darsi calci negli stinchi. A quel punto, Daphne rompe il silenzio algido che
aveva tenuto fino a questo momento, per sussurrare flautata e mesta che ha
intenzione anche lei di andare a cercare aiuto, molto probabilmente dalle
persone che, per ovvi motivi, Ginny non potrebbe contattare. Serpeverde. Mangiamorte più o meno
pentiti.
Non riconosco
la sua voce, è terribilmente bassa e sottile. Sentendola, mi provoca una fitta
allo stomaco, mentre Blaise non reagisce minimamente, resta perso nell’immagine
di Pansy e Dean davanti a lui, ancora stretti l’uno all’altra. Blaise li continua
a studiare senza ritegno e senza nemmeno tentare di nasconderlo.
È Pansy,
allora, a reagire, raddrizzando la schiena e dicendo greve: “Grazie Daphne… non
frequento più alcune persone del nostro vecchio… gruppo… e non credo di poterlo fare personalmente…”. È anche lei
terribilmente cortese ed impersonale, senza alcuna sfumatura scherzosa o
irritata, segno evidente che non è sincera e non è sé stessa. Dean la guarda
preoccupato, non lasciando mai però il viso di Blaise, di cui analizza ogni fremito
di palpebre. Helder stessa serra gli occhi, diventati per un attimo del colore
di quelli di Daphne, reprimendo una smorfia di dolore.
“Non ci sono
problemi…” risponde lei con distacco, agitando noncurante la mano “Ne
approfitterò anche per riportare Jacob a casa dalla sua balia…”. Fa un gesto
indolente in direzione del bambino che ha in braccio, che ha preso a
giocherellare con una ciocca dei suoi capelli biondi e lucidi. Lei ne sembra
quasi infastidita per un attimo, trasale e rabbrividisce, ma poi lo lascia
fare.
“E’ un bel
bambino…” commenta educata Pansy, il silenzio attorno a loro è immenso,
completo, impossibile da rompere nemmeno volendo. Tutti fingiamo di non stare
ascoltando, ma nessuno riesce davvero a dire qualcosa, neanche Seth che si è
andato a sedere mogio accanto a Kevin. Daphne reagisce in modo incomprensibile
ancora una volta, serra le spalle ed annuisce piano, a disagio, aumentando in
me la curiosità su che cosa diamine le sia successo. Poi Pansy fa un commento,
scivolatole fuori quasi per caso, e Daphne ha ancora un comportamento
incomprensibile. Impallidisce, gli occhi le si fanno lucidi, la presa sul
bambino trema al punto che temo che lo faccia cadere a terra.
Pansy ha solo
detto con voce casuale: “Non so perché, ma ero convinta che Jacob fosse più
grande… ero sicura che fosse coetaneo o poco più grande di Charisma…”.
“Ti sarai
sbagliata…” ingiunge duramente Blaise, parlando per la prima volta ed
abbandonando l’espressione mollemente assente che aveva, assumendone invece una
scavata e fiera, che fa da contrappunto a quella terrorizzata ed
incomparabilmente malinconica della moglie. Pansy annuisce a disagio, sembra
stordita, ma nei suoi occhi qualcosa è spuntato improvvisamente.
Un… sospetto.
Daphne, in
fretta, fa quindi per congedarsi, dicendo che tornerà quanto prima, portandosi
dietro tutti coloro che vorranno aiutarla. Andando via, prima di
Smaterializzarsi, guarda Pansy e Dean e, per un attimo, le spunta un sorriso
debole ed inespressivo, ma comunque un po’ più caldo di qualsiasi espressione
che abbia avuto fino ad ora.
“Sarà una
bambina…” sussurra solamente, guardando la pancia di Pansy, che se la stringe
piano, gli occhi lucidi che vanno subito a cercare Dean, che finalmente si
rilassa e chiede a Daphne spiegazioni su come se ne sia accorta. Blaise serra
la mascella, fa qualche passo nervoso, si appoggia al tronco di un albero,
sembra improvvisamente più stanco.
“Intuizione
puerpera, un potere di
premonizione delle gravidanze che hanno molte Purosangue… specie nella mia
famiglia…” sorride lei, stavolta in modo più aperto “Helena l’aveva più forte
di me… ed Astoria invece doveva sempre usare una bacchetta… ma l’abbiamo
ereditato tutte e tre…”. I nomi delle sue due sorelle sono come una spada sulla
testa mia e di Draco, ricordo improvvisamente l’incantesimo all’odore di rosa
che Astoria mi fece al castello di Dimitri, mostrando la mia gravidanza. Una
donna che non poteva avere figli… ma era perfettamente in grado di capire
quando li avessero gli altri… che dono crudele. Draco contrae le braccia, resta immobile e apparentemente
indifferente quando sente il nome di Helena, ma persino io sento il suo respiro
farsi irregolare. Daphne, però, sebbene la sua voce sia tornata il flebile e
gelido alito di vento di poco fa, sembra quasi calmarci tutti, dicendo prima di
sparire: “Non vi do alcuna colpa per la morte delle mie sorelle… nessuna di
nessun tipo. Entrambe hanno scelto la loro strada ed io la mia. Ed in quanto alla
bambina, alla figlia di Amos ed Helena… quella che hai nascosto alla mia
famiglia per cinque anni, Draco… non me ne interessa assolutamente nulla. Sono
una Zabini, adesso…”.
L’eco di
quell’ultima frase, dal tono così risoluto ma al contempo così tremendamente
triste da sembrare la pronuncia di una condanna a morte, si spegne nell’aria,
mentre Daphne si Smaterializza, portandosi dietro il figlio Jacob.
Finalmente,
sistemate quelli che erano gli aspetti più impellenti della matassa che ci
circonda, possiamo conoscere il piano di Helder. La guardo in attesa assieme
con Draco, e lei accenna ad un gazebo di legno color ciliegia approntato nel
giardino. Pansy decide di non seguirci, dice di volersi occupare di Lily e del
figlio di Natalie che apprendiamo chiamarsi Elias, ma è evidente che vuole
stare da sola e magari raccogliere i pensieri e le emozioni all’imprevisto
incontro con Blaise. Quest’ultimo la osserva crucciato, Dean invece la lascia
andare comprensivo all’interno, gli occhi ancora umidi al pensiero della
bambina che farà compagnia a Charisma. Seth si offre immediatamente di
accompagnarla, aggiungendo che comunque lui è abbastanza inutile e che Kevin
può dirgli comunque tutto dopo. Dean lo ringrazia in modo pacato, sapendo che
almeno farà compagnia alla moglie. Natalie, però, gentile ma ferma, dice che è
meglio che Elias resti con lei, quindi il bimbo, che ancora non ha dato nessun
segno di interesse a nulla se non il suo giocattolo, rimane con noi. Ci sediamo
nel gazebo, all’ombra la temperatura è molto più fresca, specie sotto gli
alberi. Draco rimane in piedi, poggiato con la schiena ad una colonna, mentre
io scelgo prudentemente di sedermi in una posizione neutra, ossia tra Harry e Dean.
Al momento, per la mia salute mentale, meglio stare equidistante sia da Draco,
che da Ron ed Ilai.
Helder prende
un profondo respiro prima di cominciare e sussurra come preambolo: “Fatemi il
piacere di interrompermi il meno possibile… e di perdonarmi se inizio da molto
lontano… è una storia davvero complicata, dove voi due paradossalmente siete
solo gli attori finali… ed è una storia che riguarda gli Empatici ed Adamar… ma
dovete avere chiaro tutto per capire che cosa dovete fare…”.
Annuisco
ancora, quasi affascinata da questo nostro collegamento con segreti più vecchi
della Magia stessa, e spio con lo sguardo Draco che, contrariamente a me, non
ha ancora minimamente mutato espressione. La voce di Helder risuona
d’improvviso nella mia testa, molto più debole e fioca di quanto fosse prima
quando riusciva a leggermi nel pensiero, mentre sussurra: “E mi dispiace se purtroppo nel mio
discorso ti farò soffrire o ti metterò in imbarazzo… ma credimi non c’è altra
scelta…”. Sebbene
preoccupata, annuisco silenziosamente al suo indirizzo, esortandola a
continuare.
Helder respira
ancora, e finalmente comincia: “Partiamo dalla cosa più ovvia… la febbre che vi
ha colpito e che ho provveduto a farvi passare… ed il fatto che, assieme ad
essa, si fosse aperta una connessione con tutti gli Empatici del mondo, così
che i vostri pensieri più intimi e le vostre sensazioni fossero percepite anche
a chilometri di distanza da tutti coloro che avessero questo potere… non è una
cosa così ovvia, nemmeno scontata e tantomeno naturale per la nostra gente, ma
ha un suo nome, un suo motivo ed una sua spiegazione. Si chiama Segno di fuoco. È un avviso… ecco. Per gli Empatici. A
trovarvi… ed è già successo cinque anni fa…”.
“Non avevamo
nessuna febbre cinque anni fa…” l’interrompe prontamente Draco, con voce
dubbiosa e caustica “Me ne ricorderei… non è stata una passeggiata al luna
park…”. Lo guardo storto, meno male che Helder aveva detto di non
interromperla. Ma lei non ne sembra disturbata, anzi annuisce tra sé e sé in
tono riflessivo, e sussurra: “Era iniziata in realtà… ma non ebbe grandi
effetti su di voi. Il segno di fuoco aveva due fasi, la prima che riguardava
solo noi Empatici, la seconda che avrebbe riguardato voi due… e voi, cinque
anni dopo, avete vissuto questa seconda fase quando vi siete rincontrati. Comunque
andiamo con ordine…”. Helder, a quel punto, si rivolge a me, quasi isolandosi
da tutto il resto e mi guarda fisso negli occhi, chiedendomi: “Cinque anni fa,
quando tu e Draco vi siete messi assieme… io ti ho parlato di una sensazione
che avevo provato assieme ad altri Empatici, ricordi?”. Faccio velocemente
mente locale, cercando di rendermi impermeabile all’imbarazzo e al dolore per
quei ricordi, poi facilmente ricordo cosa mi aveva detto telepaticamente quando
mi aveva liberato dalla prigionia di Dimitri. Era una cosa che negli anni mi
era sempre rimasta impressa.
Non credi che un amore così, sia
qualcosa di semplicemente… troppo… anche per un Empatico? Tu hai rotto lo
Zahir… lui ha battuto Adamar… due segreti vecchi come la Magia stessa… noi
Empatici… io e gli altri, anche a grandissima distanza… vi abbiamo sentito
ininterrottamente, come si sente il fuoco di un incendio quando si è avvolti
dalle fiamme… sono settimane che ho il cervello che brucia…
Annuisco tra me
e me guardandola e lei riprende con più energia, rivolgendosi di nuovo agli
altri: “Tutti noi Empatici, soprattutto nei dieci giorni che loro hanno
condiviso a casa di Pansy, provavamo una strana sensazione. La sensazione che il
cervello andasse a fuoco, che bruciasse, ecco… era una cosa che nessuno aveva
provato mai prima, che nessuno sapeva descrivere, che sembrava nutrirsi di loro
due ed averne in loro origine e spiegazione. Di storie d’amore su questa terra
ne sono esistite tante, decine di migliaia, era impossibile pensare che la
motivazione fosse solo questa. Io, che vi conoscevo, l’ho collegata alla forza
del vostro legame ed al fatto che aveste battuto Adamar e lo Zahir. Ma quando
decine di Empatici mi hanno riferito in quei giorni la stessa sensazione, anche
se erano distanti migliaia di chilometri da voi… abbiamo capito, tutti, che
c’era qualcosa che non andava come doveva. C’era qualcosa di strano in tutto
questo. D’accordo vivevate un forte sentimento, che era stato travagliato, ma
come poteva questo provocare delle conseguenze in tutto il mondo, a migliaia di
persone che non si conoscevano tra loro e che tantomeno conoscevano voi?”.
Helder
fa ancora una pausa, come se raccogliesse i pensieri tra sé e sé, il silenzio
attorno a lei è assoluto. Draco, finalmente, ha sciolto le braccia che teneva
strette al petto, ho sentito il suo sguardo addosso, ma non mi sono premurata
di rispondergli. Non adesso che tutto, in me, pulsa e batte forte di ricordo.
“Ma
poi la sensazione è passata, siete stati divisi, il fuoco si è spento…”
riprende Helder, giocherellando con le dita con l’orlo della sua veste “Ed io
in cinque anni non ci ho quasi mai più pensato… fino a quando qualche settimana
fa, ho ricevuto una chiamata. Eravamo ancora in Italia… c’eri anche tu…”,
ancora si rivolge direttamente a me, guardandomi dritto negli occhi: “E non ti
ho detto nulla, perché in fondo non serviva a nulla per te saperlo… era una
cosa degli Empatici, solo nostra. E tu eri solo una causa accidentale di tutto
questo…”, Helder di nuovo distoglie lo sguardo da me e riprende: “Noi Empatici
siamo organizzati in una specie di consiglio, si chiama Senato celeste, ma
onestamente l’ho sempre trovata una cosa abbastanza folcloristica e
nient’altro. Gavril, l’uomo che mi ha chiamato… è a capo di questo Consiglio.
Mi chiese se ero io Helder Cassidy Bode, se ero con
una donna chiamata Hermione Granger, se era stata lei a creare uno Zahir
qualche mese prima, se era stato l’amore per un tale Draco Malfoy a creare lo
Zahir poi distrutto, se era anche vero che quest’uomo aveva affrontato e
battuto Adamar… ovviamente incuriosita, confermai tutto. Al che, mi fu chiesto
se avevo provato anche io quel fuoco nella testa… me ne fu detto il nome, mi fu
detto che era un segnale, mi fu detto che non era stata una coincidenza che si
fosse acceso allora e mi fu detto che aveva un motivo ben preciso, legato a voi
due. Mi fu persino anticipato che molto probabilmente, a lungo andare, avrebbe
provocato delle conseguenze anche a vostro carico: malessere fisico,
rallentamento a livello celebrale, ipersensibilità emotiva, febbre altissima
che non si sarebbe placata con nessuno dei rimedi più conosciuti. Ma
soprattutto l’apertura di un canale privilegiato con i vostri pensieri e
sensazioni, per tutti gli Empatici del mondo. Gavril mi disse di raggiungere
immediatamente Hermione, quando avessi iniziato a sentire i suoi pensieri anche
a distanza. Questo è successo più o meno ieri mattina... e, allora, dopo aver
saputo da Harry del rapimento di Alex da parte di Dimitri ed aver finalmente
udito tutta la storia da Gavril, ogni pezzo è andato a posto. E quindi sono
partita subito per raggiungervi…”.
Ieri mattina… la febbre è iniziata allora…
“Mettiamo
che mi interessi tutta questa faccenda di questa febbre misteriosa…” ancora
Draco interviene, le mani contratte a pugno e gli occhi accesi di rabbia,
guardando Helder. È come se improvvisamente qualcosa si fosse rivoltato in lui,
imponendogli di prendere di nuovo la parola “E mettiamo ancora che io mi voglia
sentire tutte queste menate empatiche… che cosa diamine c’entra tutto questo
con nostro figlio?”. Il cuore mi fa improvvisamente tanto male da darmi
l’illusione che stia volando fuori dal petto, mentre fa una capriola buffa. È la prima volta che dice nostro figlio.
Mi
schiarisco silenziosamente la gola, facendo passare la morsa che la stringe
forte. Ilai, di fronte a me, sembra intuire qualcosa dal mio sguardo, ma non lo
guardo in viso per non esserne smascherata.
Helder si fa serissima, guarda prima Draco e poi
me, la sua voce riassume il tono caparbio ed autorevole che aveva quando ci ha
parlato e rimproverato, non appena ci ha visti litigare:“Non sto raccontando questa storia per mio personale divertimento,
ma per un motivo molto semplice. Che è questo: non salverete Alex in nessuna
delle maniere che credete di poter utilizzare…”. Annaspo, il respiro si ferma,
mi chiudo il petto tra le braccia e mi mordo il labbro, colma di angoscia.
Draco, a sua volta, diventa livido, bianco, i pugni tremano serrati. Helder,
con nuova decisione, prosegue: “Non lo salverà il ciondolo di Tatia Krasova,
non lo salveranno interventi magici dei più potenti e non lo salverà nemmeno
ricorrere a rimedi babbani. Certo, potreste avere fortuna, potreste ingannare
Dimitri al punto da liberare Alex e fuggire… ma non cambierebbe nulla. Non
credo che il ciondolo possa sciogliere l’assimilazione, e, anche se lo facesse,
Dimitri ci metterebbe tre secondi a ripristinarla, stavolta magari facendosi
davvero del male. E in ogni caso… pensateci… anche se doveste riuscire a
salvarvi, anche se doveste riuscire a salvare vostro figlio… passereste una
vita in fuga. Perché loro, i Karkaroff, non si fermeranno mai. E prima o poi,
arriveranno a voi e ad Alex. Anche se esiste una scappatoia non sarete così
fortunati in seguito… il potere dato da Adamar è assoluto, fortissimo, senza
scampo. Non ci sono rimedi ad esso…”, Helder sospira nel nostro silenzio
angosciante, improvvisamente stanca, prima di aggiungere faticosamente: “O
meglio… non ci sono rimedi conosciuti ad
uomo, per esso. Un rimedio, il solo, esiste. Ed è talmente pericoloso
anch’esso che solo suggerirvelo per me è sbagliato. Specie… nelle condizioni in
cui siete adesso…”, la guardo disperata, senza capire, gli occhi che mi
pizzicano, non riuscendo minimamente a comprendere che cosa voglia dire. Poi
lei fa vagare gli occhi da me a Draco, come a descrivere un’improbabile ellisse
che ci unisca, quando invece non siamo mai stati così distanti. Ed allora
capisco di che situazione parla. Parla di noi due, dei nostri sentimenti, di
che cosa proviamo adesso. Persino i suoi goffi tentativi di unirci, adesso, e
quelli di mostrare disappunto riguardo ad Ilai, mi sembrano improvvisamente più
chiari. Ho improvvisamente un senso di soffocamento, fortissimo, che mi porta quasi
a tossire per liberarmi di un blocco che non esiste.
Ma non lo faccio, me ne resto ferma con la bocca
impastata a fermare i pensieri che franano da una parte all’altra, sempre più
convinta che il piano di Helder prevede me e Draco in una forma che adesso non
abbiamo, in un sentimento ed una fiducia che neanche nei sogni, forse, abbiamo
avuto. E per la prima volta, davvero, con un senso di stordimento che mi fa
sentire soffuse le altre voci, ho davvero terrore di non poter salvare Alex.
Helder, intanto, ha continuato a parlare nel mio
momento di assenza, confermando tutto quello che da sola avevo già intuito:
“Però non mi perdonereste mai, se non ve lo dicessi, se non vi parlassi di
questa possibilità… la sola che abbiate… conosco il vostro cuore, conosco il
sentimento che lega un padre ed una madre al loro figlio. Fareste di tutto per
salvarlo. E quindi tanto vale che ve ne parli io adesso… il rimedio, l’arma… lo
conosce solo Adamar. Non è mai stato scritto da nessun uomo, perché è un
rimedio Empatico, e, come forse sapete, loro sono sempre poco avvezzi alla
scrittura. Difatti la sola pecca che hanno Dimitri e Raissa nella loro
Conoscenza Assoluta, è proprio l’Empatia… ma questo, ecco, rimedio, forse, non
sarebbe stato scritto comunque, anche se non fosse stato Empatico, perché
semplicemente è troppo antico… è nato con gli Empatici e con Adamar stesso,
affonda nella loro storia ancestrale, era già scritto nel momento della
creazione di quel demone. E gli Empatici non hanno mai potuto davvero tramandarlo…
lo capirete presto… quindi se n’è persa ogni traccia nel corso degli anni…”.
Helder fa ancora una pausa, si mette una ciocca
di capelli dietro le orecchie e bisbiglia, proseguendo con voce ferma: “Questo
rimedio… è una condizione stessa dell’esistenza di Adamar, non può opporsi,
qualora sia scagliato nei suoi confronti, se ce ne sono le condizioni… deve
subirlo e basta. Ma non per questo vuol dire che, siccome non può impedire che
usiate quest’arma, l’avreste vinta con lui… significa solamente che deve
accettare di giocare, non che è
destinato a perdere… tutt’altro…”.
“E’ normale che non ci sto capendo niente?!”
borbotta Dean, roteando gli occhi ed incrociando le braccia. Helder sorride ed
annuisce, dicendo che sarà tutto decisamente più chiaro quando avrà finito di
parlare. A quel punto, aggiunge lapidaria, rivolgendosi alla silenziosa platea
che l’ascolta: “Il rimedio si chiama Solutio
damnationis, lo scioglimento della dannazione. Ed in realtà ha un effetto
semplicissimo, anche se di portata cosmica… se funzionasse… se ci riusciste… Adamar cesserebbe di esistere. Ogni
desiderio oscuro da lui esaudito verrebbe estinto, persino nell’aldilà… le
anime l’aspettano da secoli… Tatia te l’ha fatto capire chiaramente in quel
sogno, Hermione… e devo ammettere che sentire anche lei premere in questa
direzione, leggendo i tuoi pensieri, mi ha spinto a rivelarvi tutto…”.
Ilai ha ovviamente uno scatto improvviso,
nervoso quasi, e torna a guardarmi, chiedendomi implorante: “Hai sognato…
Tatia?”. Ha il volto acceso, angosciato, lontano anni luce dall’immagine calma
e tranquilla che ho sempre di lui. Per un attimo, vedo Draco guardarlo,
stringere gli occhi grigi e restare in un’attesa pensierosa, che non so che
cosa lasci presagire. Poi, con un maledetto senso di angoscia, penso che
probabilmente si è sentito simile ad Ilai per una volta, penso che forse
immagina che avrebbe avuto la stessa reazione se io avessi parlato di Helena a
lui.
Sei solamente il rimpiattino delle donne
morte che cercano una sostituta innocua per i loro fidanzatini e maritini.
Prima Helena, e adesso Tatia. Non te lo sei mai chiesto, Granger? Non ti sei
chiesta come mai tutto questo interesse dall’alto dei cieli? Non sei niente di
speciale in fondo… ed è questo il punto… sanno che resteranno indimenticabili.
E scelgono te per avere questa certezza.
Le parole malevole
di Raissa rimbombano nel mio cervello, le mando fuori dalla mia testa con
nervosismo, mentre annuisco ad Ilai, raccontando
sommariamente il contenuto del sogno a cui non avevo dato molto peso, alle
parole di Tatia che mi ammonivano sul fatto che avessi già tutto quello che mi
serviva, alla nenia infernale che ripeteva le parole Solutio damnationis, al
fatto che Tatia sembrava la messaggera di qualcosa che milioni di persone
sembravano condividere, ma che non avevano potuto comunicarmi, cosa che invece
aveva potuto fare Tatia.
“Se Adamar cessasse di esistere, quindi…”
completa alla fine Harry, quasi mettendo una chiusa a tutto il ragionamento “Raissa
e Dimitri Karkaroff perderebbero la loro Conoscenza assoluta, tornando due
maghi ordinari… e sarebbero decisamente più gestibili… potremmo persino
arrestarli, no?”. Draco fa un’espressione così scettica che capisco
perfettamente che non avrebbe alcuna intenzione di consegnare i Karkaroff alla
giustizia ordinaria, ma per fortuna Harry non se ne accorge. Non credo che, al
momento, sopporterebbe facilmente le sue intemperanze. Spesso, in Italia,
parlando di Draco, in Harry emergeva chiaro l’avversione che avesse per lui, ed
io, stavolta, non c’entravo niente. Harry si è sempre sentito tradito dalla sua
sparizione cinque anni fa, visto che lo stava aiutando da anni di nascosto da
tutti. Se è qui, adesso, non è per lui, ma per me ed Alex. E se Draco non si è
mai mostrato riconoscente con Harry stesso, io non smetterò mai di esserlo.
Helder annuisce, rivolgendosi ad Harry ed
aggiungendo stoica: “E dubito che Raissa e Dimitri, se maghi normali,
potrebbero avere storia con il traditore di Voldemort e l’ex Capo degli Auror,
impegnati a salvare il loro unico figlio…”.
“Una cosa, però, non mi è chiara…” chiede
Natalie, che fino a questo momento era rimasta in silenzio, spingendo avanti ed
indietro il passeggino di Elias, Helder la guarda in attesa e con un piccolo
sorriso, già come se prevenisse la sua domanda “Se questo rimedio esiste da
secoli, se è agognato persino nell’aldilà, se Adamar non potrebbe rifiutarsi di
subirlo… perché allora voi Empatici non l’avete usato prima? Perché avete
dovuto aspettare il segno di fuoco di Malfoy ed Hermione?”.
“E qui che la questione si complica… ed è qui
che capirete perché questo rimedio, in realtà, è pericoloso al pari di Adamar
stesso…” riprende Helder con un profondo sospiro, più simile ad un singhiozzo
che la scuote dall’interno “E capirete anche perché ho avuto bisogno di
convocare così tante persone e tante ancora me ne servono… perché questo
rimedio è stato già usato una volta, con conseguenze disastrose. E quando è
stato usato, ha comportato una pena salata per tutti gli Empatici e per Adamar
stesso… usarlo implica la quasi certezza del fallimento. E non solo perché Adamar
è quello che è ed è con lui che dovete vedervela… ma perché la Solutio
damnationis, specie se fallisce, comporta conseguenze planetarie… potrebbero
perdere la vita decine di migliaia di persone ed è già successo… e voi due
sareste semplicemente i primi a morire…”, un brivido mi scorre lungo la
schiena, mi stringo nelle spalle mentre cerco di fermarlo “Per anni la Terra
dovrebbe fare i conti con gli effetti di tutto questo. Ed io, come rappresentante
degli Empatici e del Senato Celeste, ho l’obbligo morale di impedire che
persone innocenti perdano la vita. Ma al contempo ho anche il dovere di dirvi
della Solutio damnationis che appunto è l’unico modo concreto di salvare Alex,
liberandovi dei Karkaroff e di Adamar… e liberando il mondo stesso da quel
demone empio…”.
“Parla, Bode…” la voce di Draco è dannatamente
ferma, molto più di quella che avrei io, se avessi dovuto chiederle di
proseguire. Lo ringrazio mentalmente, guardandolo intensamente, i suoi occhi
trovano i miei, prima che ne scappi ancora. Helder annuisce con comprensione,
poi inizia finalmente a raccontare: “Per farvi capire bene tutto, devo
raccontarvi del modo in cui sono inscindibilmente legati gli Empatici ed
Adamar. Un modo di cui nessuno di noi aveva memoria, fino a qualche mese fa. Quando
il fuoco si è spento, cinque anni fa, quando voi due siete stati divisi, io,
come tutti gli Empatici, ho iniziato ad avere sogni strani. Cose di poco conto,
in persone come me, che nel Senato celeste avevamo una posizione marginale. Non
ci avevo dato peso nel modo più assoluto: vedevo solo un’inondazione e basta,
la distruzione di una grande città, desolazione e morte. Poteva essere un sogno
come tanti altri, indottomi dalla mia paura per Hermione, Alex ed Hayden, dato
che ero in Italia con loro. In persone, invece, con più potere, quei sogni
erano stati ben più nitidi ed intensi, colmi di particolari raffrontabili tra
di loro. Dopo cinque anni, la cerchia più alta del Consiglio era stata in grado
di ricostruire una storia che ci appartiene da decine di migliaia di anni, ma
che ci era stata cancellata dalla mente fino appunto al Segno di fuoco di
cinque anni fa, che aveva dato origine allo snebbiamento della nostra memoria
mediante quei strani sogni. Avevamo solo delle teorie, sebbene abbastanza
attendibili, specie quando gli altri Empatici mi hanno contattato ed è venuta
fuori la faccenda vostra e dei Karkaroff, e quindi hanno capito che avevate
ancora, in qualche modo, a che fare con Adamar… ma quelle teorie sono diventate
certezza adesso, quando il Segno si è riacceso con il vostro incontro di pochi
giorni fa, con la febbre e la connessione aperta. Anche io ho potuto ricordare
tutto. E, come me, tutti gli altri. C’è voluto del tempo… ben cinque anni… e la
consultazione con diverse persone per giungere a tale storia, il Segno di fuoco
era durato solo poche settimane e non aveva potuto far recuperare completamente
la memoria. Ma, mettendo assieme i pezzi provenienti da diversi sogni e le
leggende che comunque si conoscono e sono tramandate oralmente riguardo ad
Adamar, il Senato era già giunto ad un elevato livello di chiarezza,
confermatoci pienamente quando il Segno di Fuoco si è riacceso ieri mattina…”.
“Come si fa a scordare un’intera storia?” chiede
Ron perplesso, mi ero dimenticata completamente di non essere da sola, rapita
com’ero dal racconto di Helder.
“… ma soprattutto…” aggiunge ancora Dean
meditabondo, grattandosi una guancia e inarcando un sopracciglio “Come fa
un’intera storia, a sparire dalla mente di centinaia di persone? Che io sappia…
gli Empatici non sono proprio pochissimi al mondo… e poi tutto è tornato per
qualcosa che riguardo Malfoy ed Hermione, che nemmeno sono Empatici?”.
“Strano, vero?” commenta leggera Helder, il
vento le scompiglia i capelli e la fa apparire molto più giovane di quanto mi
sia mai sembrata “Ma credetemi, ragazzi… è decisamente possibile… ho memorie
nette e ricordi di un intero popolo… e non li avevo fino a ieri. I miei stessi poteri
sono cambiati…”, Helder sorride tra sé e sé ed aggiunge gioviale: “E’ la magia… di che cosa altro vi sorprendete
ancora?”.
“Di nulla in effetti…” mormora Kevin, che se n’è
stato in silenzio fino ad ora e che si porta le mani ai capelli, reprimendo un
sorriso di circostanza, maschera di un’incredulità difficilmente reprimibile.
“Nulla sarà mai come uno come Potter che
sconfigge davvero Voldemort… dopo
quello, mi sono fatto il vaccino alle cose assurde…” biascica Draco
sarcasticamente, Harry lo guarda minacciosamente, prorompendo in una parolaccia
che spero che Alex non impari mai. Ma, paradossalmente, tutti scoppiano a
ridere con tono leggero e vivace, persino Ron e Dean, costringendo persino me a
scuotere il capo incredula con un sorriso sbieco. Draco non si unisce alla
risata collettiva, ma le sue spalle si rilassano, il respiro si allenta, gli
occhi diventano più chiari. E mi guarda ancora, per un attimo solo, dritto
negli occhi, come se dovesse constatare di persona se quell’attimo di apparente
distrazione abbia fatto bene anche a me. Lascio stavolta che il mio sguardo non
lo abbandoni troppo presto, lascio stavolta che i pensieri non mi affollino la
mente, chiudendomi le palpebre di orgoglio e rabbia. Stavolta è lui a
sfuggirmi, voltando il capo e rivolgendosi di nuovo ad Helder: “Andiamo alla
favoletta, Cantastorie…”.
L’atmosfera rilassata torna d’improvviso
concentrata e tesa, mentre Helder, dopo essersi sistemata meglio, a sedere,
ricomincia pacata: “La storia che avevamo scordato è la storia della nostra
stessa razza e di come un tempo, Adamar, fosse stato uno di noi, un Empatico.
Migliaia di anni fa, gli Empatici vivevano tutti in un regno che molti di voi
conoscono anche solo di nome e di fama… e che una persona, qui, ha già sentito
nominare quando ha creato lo Zahir… il regno di Atlantide…”.
Naturalmente, ho immediatamente addosso gli
sguardi di tutti, cosa che mi fa sentire a disagio e nervosa.
Atlantide… e lo Zahir. La Regina Artemisia… lo Zahir d’amore, il primo,
l’unico, a parte il mio. La fine di un Regno, per un amore trasformato in odio.
Speravo di non dovermene più ricordare, dello
Zahir intendo. Il più grande errore della mia vita. Non ne ho fatte molte di
scelte assennate in questi anni, ma quella credo che sia stata la peggiore.
Ancora, spesso, sogno che quel fiume d’odio mi ritorni nel sangue. Mi scorro
lentamente l’indice sul polso, dove si chiudeva quell’infernale serpente e dove
la cicatrice gemeva e pulsava prima di sparire.
Il serpente… che credevo avrebbe preso il posto
di mio figlio, quando ero incinta.
Quella paura… sorda e cieca… che Ron mandava via, abbracciandomi e
dicendomi che avevo il cuore di una leonessa.
Ron è seduto esattamente di fronte a me, tra
Natalie ed Ilai, e Draco è alle sue spalle, immobile come una statua. Persino
adesso, non posso guardare Ron, senza incontrare gli occhi di Draco o quelli di
Ilai. E mi fa male terribilmente, perché vorrei ancora renderlo partecipe della
gratitudine che provo assieme al senso di colpa. Però, per un attimo, ho come
l’impressione che segua le mie dita che torturano la pelle del polso e neghi
impercettibilmente con il capo, ammonendomi di fermarmi, ancora a convincermi
che quella cicatrice non c’è più.
Come faceva cinque anni fa, accarezzandomi la
pancia che cresceva e nutriva Alex.
La mia mano si stacca subito dal polso e respiro
forte, mentre Helder, dopo una pausa, continua a raccontare: “Le leggende hanno
trasmesso l’idea che questo regno, Atlantide, fosse un autentico paradiso
terrestre e questa non era una bugia. Lo era sul serio. Si trattava di un’isola
lussureggiante, cresciuta dalla terra ed amata dall’acqua, la cui architettura
ricordava molto quella della nostra odierna Venezia. Era praticamente un’isola
strappata al mare… dagli Empatici. Era un paradiso non solo naturale, ma anche umano. Dato che era appunto abitata da
gente in grado di sentire i sentimenti degli altri, non esisteva guerra,
dolore, sofferenza, invidia, odio. La gente, sentendo cosa poteva provocare con
i propri sentimenti negativi, semplicemente evitava il male e lo censurava
persino dai propri pensieri. Ed Atlantide conosceva prosperità e fortuna,
sebbene si isolasse dal resto del mondo, percepito come ostile e crudele.
Atlantide era una monarchia costituzionale, la prima della storia: c’era un
sovrano, coadiuvato nei suoi poteri e prerogative da un Senato celeste, che aiutava
la Corona a reggere il peso del Regno. Il sovrano, infatti, doveva essere il
più potente tra gli Empatici, in grado quindi di prevenire i desideri della sua
stessa popolazione, e doveva vertere sempre in una posizione di pace ed
equilibrio interiore, tale per cui potesse svolgere al meglio il suo compito e
non far riflettere alcun sentimento negativo su Atlantide e sulla sua gente. I
sovrani erano giovani, vergini, imberbi adolescenti che regnavano per pochi
anni, al massimo cinque o sette. Si consumavano presto, come candele bruciate
dal fuoco, a causa della miriade di sentimenti che provavano e del controllo
che ne dovevano comunque avere. Il Senato impediva che morissero, aiutandoli a
reggere il loro potere e sostituendoli presto, ma in ogni caso era decisamente
troppo per una persona sola. All’avvento della 45° dinastia, fu proclamata
Regina di Atlantide una ragazzina nobile di soli quindici anni, figlia di uno
dei più grandi dignitari del Regno: si chiamava Artemisia, era intelligente e
vivace, forte del fulgore della sua giovinezza. Negli stessi anni, fu eletto
capo del Senato celeste uno degli uomini più potenti del regno, fratello del
padre della Regina. Il suo nome era Adamar Varsos,
conosciuto in tutta Atlantide per la sua saggezza e chiarezza di pensiero.
Sotto la guida congiunta di Artemisia ed Adamar, Atlantide conobbe per alcuni
anni il periodo più florido della sua storia: Artemisia ruppe l’isolamento del
Regno, che poté finalmente aprire le frontiere commerciali a città stato
potenti e forti come Atene e Sparta, guadagnandone in ricchezza e benessere
della gente. Adamar, d’altro canto, uomo di grande ingegno ed acume finissimo,
riuscì a mettere a punto tutta una serie di sistemi e stratagemmi che
consentissero che l’energia magica della Regina non si esaurisse
prematuramente, visto quanto era rigoglioso il suo governo. Il risultato fu
che, a venticinque anni, Artemisia era ancora Regina ed Atlantide era al
massimo del suo splendore. Ma i problemi e la crisi del Regno erano già dietro
l’angolo, legati invariabilmente alla circostanza per cui la Regina non era più
adolescente, scevra da sentimenti forti e da passioni brucianti… Atlantide aveva
retto perché governata da una bambina. Sarebbe crollata perché ormai retta da
una donna.
“La fine di Atlantide venne per mano di un
commerciante di sete e broccati, di nome Ferele. Un Ateniese bello, giovane, ma
spregiudicato ed ambizioso, il cui ruolo di piccolo commerciante stava stretto.
Arrivò ad Atlantide ed irretì la giovane ed inesperta Regina, che se ne
innamorò perdutamente. Ferele cavalcava molto l’onda di questa cotta della
sovrana, ne rideva con gli amici, la sfruttava per ottenere dei vantaggi di
natura economica per la sua patria, cosa che gli valse molti riconoscimenti in
Grecia. Atlantide iniziò una forte parabola di decadenza, specie nei rapporti
commerciali dove veniva sempre favorita Atene a discapito di Atlantide stessa,
che divenne quasi suddita della città greca. Ferele, maliziosamente,
consigliava male la regina, sempre più isolata dal suo Regno e dalla sua gente.
Si giunse ad un punto tale di rottura, che alla fine il Senato celeste decise
di intervenire nella persona di Adamar, appunto, che escogitò un sistema per
liberare la Regina dal suo sentimento malsano di attaccamento a Ferele. E
questo sistema fu lo Zahir…”.
Non fu Artemisia a sceglierlo, non fu lei a volerlo… lo dovette… subire.
Le strapparono letteralmente quell’amore… per il benessere della sua gente.
Ripenso alla sensazione orribile dello Zahir che
mi lacerava dentro, come un artiglio che brandisce la carne e, senza fretta
alcuna, sbrindella la cosa a cui tenevi di più al mondo. Avverto, come se fosse
di nuovo mio, lo strazio che deve aver subito Artemisia che, contrariamente a
me, lo viveva senza volontà e da parte delle persone di cui si era sempre
fidata… in fondo Adamar era anche suo zio.
Riprendo ad ascoltare Helder con una stretta
allo stomaco: “Sapete ormai perfettamente come funziona uno Zahir: un
sentimento ossessivo viene estirpato dall’anima di una persona, dandone forma
di un oggetto. Con il tempo, però, tale sentimento se nutrito ancora dalla
vicinanza con la persona che suscita quell’emozione stessa, si trasforma nel
suo contrario, contaminando l’anima e diventando ugualmente devastante. Questo
processo, per ovvi motivi, è più forte e lacerante con gli Zahir d’amore che
non si possono rompere se non con molta difficoltà, e che si convertono in
odio. Un odio irrazionale, corrosivo, cancerogeno. Solo due persone hanno rotto
uno Zahir d’amore: una sta seduta di fronte a me e l’altra… fa parte di questa storia, quindi non ne avevamo memoria
fino a qualche giorno fa...”.
“Un’altra persona… ha rotto uno Zahir d’amore?”
chiedo perplessa, con l’assurda speranza che questa persona sia stata Artemisia
stessa, visto che cosa era stata costretta a subire. Ma Helder, dopo un primo
accenno di assenso, mi smentisce con decisione: “Questa persona, però, non era
Artemisia: dopo qualche tempo di calma interiore e sollievo, prese ad odiare
Ferele, riflettendo il suo rancore verso Atene, al punto da dichiarare guerra alla
città dell’uomo che amava. Voleva distruggerla dal mondo, cancellarla,
annientarla. L’ondata di sentimenti negativi iniziarono a riversarsi su
Atlantide, che conobbe criminalità e corruzione, omicidi e prostituzione,
ladrocinio e mistificazione. Persino la terra iniziò a marcire, gli alberi a
non dare frutto, il bestiame a morire, mentre diverse sciagure naturali
cominciarono a sconquassare l’isola. Quando la guerra con Atene iniziò,
Atlantide era già allo stremo. Atene ebbe facilmente la meglio su un regno
sempre abituato alla pace e alla non belligeranza. La distrusse in pochissimi
giorni e la Regina Artemisia fu trucidata da Ferele stesso. I pochi superstiti
rimasti sull’isola e non deportati ad Atene perirono in una feroce inondazione,
che annientò Atlantide dalla faccia della Terra, dopo che l’ondata di
sentimenti negativi aveva completamente devastato l’ecosistema.
“Adamar, suo malgrado, sopravvisse, trascinato
in catene e schiavo ad Atene. Dovette persino subire di vedere Atlantide
sprofondare negli abissi mentre una nave lo deportava, consapevole di averci
lasciato sua moglie e i suoi cinque figli nel vano tentativo di salvarli dalla
prigionia. Distrutto nell’orgoglio e nell’animo, traboccante di dolore e lutto,
era diventato un servo della peggiore specie, destinato a morire presto nei
feroci giochi olimpici dei Greci o nei loro tributi sacrificali. Ardeva del fuoco
di quella che chiamava giustizia, di quello che definiva ordine, di quella che
chiamava pace… aborriva la fragilità umana, la debolezza dei sentimenti, il
cambiamento futile delle anime che amano ed odiano con la stessa intensità,
finendo per distruggersi, e sognava un mondo che forse lui non avrebbe visto,
ma dove agli uomini sarebbe stato posto un freno per impedire di diventare
facili prede dei propri sentimenti. Sognava la pace che lo Zahir aveva dato ad
Artemisia prima che tutto virasse verso la tragedia… sognava quella che,
invece, era solo morte. Però, qualcuno ascoltò questa sua preghiera…
“Il mondo è un continuo dondolo tra luce ed
ombra, bene e male, bianco e nero. A volte sembra prevalere uno, a volte
l’altro. Ma, semplicemente, non vince mai nessuno. Vince sempre e solo
l’ordine, l’equilibrio, la compensazione tra le due anime dell’Universo. A
tutela di quest’ordine, esistono delle entità che, dopo la fine di Atlantide,
decisero di intervenire. Si potrebbero chiamare Angeli, si potrebbero chiamare
Dei, si potrebbero chiamare Custodi ed io, per semplicità, li chiamerò così. Custodi dell’ordine. Queste entità,
addolorate dalla fine tragica di Atlantide e dalla perdita di tante vite,
decisero che questa sarebbe stata l’ultima volta che l’uomo si distruggeva
così: Adamar sarebbe diventato censore dell’uomo, dei suoi sentimenti, delle
sue passioni, della sua stessa vita. Gli diedero i poteri assoluti che ben
conosciamo, la capacità di realizzare desideri e di imbrigliare in tal modo
sentimenti divenuti troppo molesti e pericolosi, fossero essi buoni o malvagi, gli
lasciarono lo Zahir come mezzo di controllo… sono entità che non si possono
definire malvagie, né tantomeno buone. Hanno solo a mente l’ordine e il
disordine e perseguono il primo. Basta. Ad un gesto malvagio, ne deve
corrispondere uno buono e viceversa, ed il mondo, per loro, deve appiattirsi
nell’assenza di emozioni che distruggano. I Custodi dell’Ordine, delusi
dall’uomo, diedero ad Adamar una vita lunghissima, quasi eterna, ma ad una condizione.
Anche lui, un giorno, doveva morire, come tutte le altre cose. Anche il mondo,
un giorno, doveva essere restituito agli uomini e ai loro sentimenti, e questo
quando sarebbero stati in grado di controllare le loro passioni e
sconvolgimenti dell’anima. Questo momento di restituzione sarebbe stata appunto
la Solutio damnationis: se lo stesso
sentimento avesse sconfitto Adamar per ben due volte, egli avrebbe avuto
l’obbligo di concedere una prova al detentore o ai detentori di tale sentimento
puro. Garanti di tale correttezza sarebbero stati gli Empatici superstiti: alla
seconda sconfitta di Adamar subita dal medesimo sentimento, si sarebbe acceso
il Segno di fuoco che ormai conoscete, così che gli Empatici riconoscessero chi
era riuscito in tale arduo compito e lo avrebbero preso in custodia, fino alla
prova scelta da Adamar. Se tale prova fosse stata superata ed Adamar quindi
fosse stato battuto per la terza volta, avrebbe cessato il suo compito e i
Custodi avrebbero lasciato la Terra di nuovo agli uomini, come ai tempi prima
della fine di Atlantide. Adamar avrebbe cessato la sua lunga vita e si sarebbe
sciolto ogni giogo posto da Adamar stesso agli uomini, compresi quelli già
morti e successivamente dannati per la loro debolezza. Anche costoro avrebbero
raggiunto la pace.
“Adamar, all’inizio, non prese molto seriamente
il suo compito: i primi anni della sua vita assolse quel compito in modo quasi
indolente, stanco, affaticato. Era ancora un uomo, la distruzione della sua
gente e il fallimento della sua politica ad Atlantide, gli gravavano dentro al
punto di non sentirsi giudice di nulla. Successivamente però, venendo sempre
più in contatto con gli uomini, ne comprese la fragilità lunatica e la forza
masochista, comprese che, se lasciati liberi, potevano solo uccidersi a
vicenda. Iniziò a considerarli inferiori, deboli, sciocchi, e dismise tutta la
sua umanità. Era convinto che dovevano essere comandati, guidati, resi schiavi
docili della volontà superiore. Questo senso di distacco fece evaporare ogni
sentimento di vicinanza alla razza umana. Diventò sempre più asservito all’idea
che fossero malvagi e corrotti nell’anima, impossibili da redimere. Moltiplicò
la Terra di Zahir, dai maggiori ai minori, ma evitando quegli d’Amore le cui
conseguenze devastanti potevano risvegliare i Custodi dell’Ordine, specie
adesso che la popolazione umana stava crescendo di numero e un sentimento
d’odio avrebbe ucciso molta più gente, se non controllato. Si lasciava invocare
da centinaia di persone solo per dimostrare quanto potesse essere facile
devastare un cuore umano ed esaudiva desideri anche di dittatori e tiranni, i
quali conoscevano impunita fortuna grazie a lui, che aveva appunto a mente solo
l’ordine ed il discutibile modo di raggiungerlo. Sono imputabili ad Adamar
tantissimi conflitti e guerre, morti, stragi. L’assassinio di Giulio Cesare, la
caduta dell’impero romano, un paio di crociate. Pensiamo persino che sia
ascrivibile a lui l’invenzione dell’Horcrux, ma è solo un sospetto. È certezza
che, invece, abbia creato lui i Dissennatori che, se ci pensate bene, hanno un
potere a lui simile: assorbono sentimenti, perlopiù positivi. Li mandò in giro
sulla terra a sbrigare le faccende che considerava inezie. Nulla sfuggiva al
suo insindacabile giudizio onnipotente: divenne un demone, logorato dal potere
ed oramai dimentico del primario scopo della sua vita. Viveva e vive tuttora per
dimostrare che la razza umana merita solo la dittatura morale di qualcuno di
migliore, e quel qualcuno sarebbe lui e lui soltanto. Mette a tacere ogni voce
più forte nel coro umano, o perlomeno cerca di farlo. Talvolta qualcuno sfugge
al suo controllo e gli dimostra che gli esseri umani sono ancora degni di onore
e fiducia: ci sono state persone che hanno rotto degli Zahir, o che hanno
rinunciato a ciò che prometteva all’interno delle sue prove, o che, sebbene
sappiano di lui, non hanno mai sentito dentro il desiderio di invocarlo. Ma
questo serviva solo a dimostrargli che siamo deboli, non nobili, indegni del
libero arbitrio. Proprio per questo, anche al fine di controllare meglio
l’uomo, prese un’abitudine attorno al Medioevo, a cui si è malauguratamente
assuefatto e a cui ormai non rinuncia più: quando esaudisce un desiderio,
quando uno Zahir viene creato ma non distrutto, lascia una parte di sé nel
cuore della sua vittima, così da poterne sempre avere controllo ed influenza.
Di uomini che vivono così, al mondo, sempre pronti a poter essere da lui
manovrati e condizionati, ce ne sono al momento un milione e duecentocinquanta
settemila…”.
Rabbrividisco, distraendomi per un attimo dalle
parole di Helder. Il racconto sulla storia di Adamar è così oscuro e malvagio,
che non posso fare altro che chiudere gli occhi, serrarmi nelle spalle,
ripensare alla folla di persone che possono essere controllate da questo demone
e che, chissà quante volte, ci passano accanto nella nostra vita.
1257000 vite mutilate, che hanno sacrificato la cosa più preziosa che
avevano per un desiderio, smettendo di disturbare Adamar con il cicaleccio dei
loro sentimenti, qualsiasi essi siano.
Helder mi guarda, come a sincerarsi che io la
segua ancora, e prosegue la sua spiegazione: “Sono persone cieche all’Empatia,
con l’anima sfregiata e il cuore in rovina. Se a questi aggiungiamo coloro che
sono già nell’Inferno, comprendete di quanto si sia allungata l’ombra di Adamar
su questa terra nel corso dei secoli. Tra queste persone, ovviamente, ci sono
anche Dimitri e Raissa. Sono loro stessi, certo, hanno una loro individualità e
coscienza, lui è stato davvero ossessionato da Tatia ed adesso lo è da
Hermione. Lei è veramente innamorata di Ilai. Ma Adamar può sempre controllarli
e condizionarli in qualche modo, spingerli in una determinata direzione,
smorzarli o accenderli in quello che provano. Inoltre vede e sente quello che
vedono e sentono loro. Per questo era importante spegnere il Segno di fuoco.
Una persona qualunque che abbia ottenuto da lui qualcosa, qualora se ne fosse
accorta, lo avrebbe messo in allarme. E, se sono ciechi all’Empatia,
difficilmente noi stessi possiamo sentirli, a meno che non siano molto vicini e
ci imprimano una sensazione negativa che ci permette di ricordarci di loro… abbiamo
davvero bisogno, dalla nostra parte, dell’effetto sorpresa… o farete la fine
delle persone che hanno provato la Solutio damnationis, anni fa…”. Non chiedo
la fine che hanno fatto queste persone, mi sembra abbastanza logico da tutto il
preambolo di questo discorso, che probabilmente sono state distrutte da Adamar
stesso. E, con la gola riarsa, mi rendo conto che questo probabilmente aspetta
anche me e Draco.
Una prova, a cui sottoporre un sentimento puro. Il nostro già è morto
per la vita normale. Come potrebbe resistere ad una prova sovraumana? E poi…
esiste davvero ancora qualcosa che possa essere sottoposto ad una prova?
È in questa direzione che sta andando il
discorso di Helder. Ha detto chiaramente che la Solutio damnationis è la nostra
sola risorsa. E io continuo, invece, a volerla ignorare, dicendomi che deve
esserci dell’altro che possiamo fare. Qualcosa che eviti che io pensi
compiutamente a quanto io e Draco, ormai, siamo distanti anni luce. Qualcosa che
non metta mio figlio nel mezzo di una guerra millenaria con un demone. Ma per
il momento scanso i miei pensieri, rimandando il momento in cui dovrò davvero
pensarci, e continuo ad ascoltare Helder: “Mentre Adamar era al massimo del
potere e dell’onnipotenza, gli Empatici hanno sempre cercato il modo di
sciogliere il suo potere, di invocare la Solutio damnationis. Consideravano
riprovevole quello che Adamar faceva, in quanto non distingueva dal bene o dal
male e perché spesso agiva anche in situazioni, dove non vi era alcun rischio concreto
di disordine, insensibile alle conseguenze delle sue azioni. Ma, per quanto
facessero, nulla attivava il Segno di Fuoco, nessun sentimento umano, nemmeno
quelli più semplici, riuscivano a sconfiggere Adamar per ben due volte. Si andò
avanti in questo modo fino al 1774, anno della creazione del penultimo Zahir
della storia antica.
Era uno Zahir di Dolore e fu creato dalla Regina
Maria Antonietta di Francia, pochi anni dopo la salita al trono. Ancora una
Regina si poneva di traverso sulla strada di Adamar, infastidito dal sordo
dolore di fondo della sovrana, trascinata quattordicenne in Francia per
contrarre matrimonio con un uomo che non amava affatto. La Collana di Zaffiro
della regina Maria Antonietta di Francia la rese, di riflesso al dolore,
insensibile alle esigenze della sua gente, trasformandola in una creatura
capricciosa e viziata. E ciò provocò quella che conoscete tutti come la
Rivoluzione Francese. Anche quando lo Zahir venne distrutto dalla Regina
stessa, la Rivoluzione rimase in piedi, sobillata dal carico di frivolezza e
vizio che aveva avvolto la sovrana agli occhi del suo popolo. Sapete tutti,
poi, come andò a finire, Maria Antonietta venne ghigliottinata e la monarchia
crollò. Le conseguenze per anni furono devastanti e il carico di vittime fu
notevole.
“Fu la goccia che fece traboccare il vaso: gli
Empatici Francesi, nella persona del Capo del Senato celeste, Laurence Dubois, decisero che non si poteva più attendere il
naturale corso degli eventi, sperando che un giorno qualunque qualcuno fosse
degno del Segno di Fuoco. Così compirono il più grande crimine che un Empatico
possa compiere…”, Helder si ferma, improvvisamente ha sul viso un’espressione
addolorata, imbarazzata, sconvolta. E non è che fino ad ora il suo racconto sia
stato propriamente un bagno caldo al termine di una giornata stancante. Sembra
sentirsi lei stessa improvvidamente complice di questo crimine ancestrale, di
cui non aveva neanche memoria fino a ieri. Il volto è cinereo, le labbra
bianche e gli occhi sono spenti. Respira a fondo, sembra guardarci come a
cercare una sorta di perdono, e poi riprende a spiegare con voce smorta: “Nelle
lezioni elementari di Magia, quando si studiano i filtri d’amore o
l’Amortentia, ci viene detto che possono solo creare l’illusione dell’amore, ma
mai un vero sentimento. I sentimenti sono quanto di più complesso l’uomo
possegga, ma al contempo anche la cosa più preziosa che ha. È lì il fulcro del
libero arbitrio, è lì ciò che ci distingue gli uni con gli altri. Lo stesso
oggetto, la stessa persona, può provocare odio in una ed amore in un’altra…
Adamar agisce in modo profondamente errato perché pretende da qualcosa di
diverso dall’uomo stesso, che questi sentimenti siano messi a tacere, perché
potenzialmente pericolosi. Gli Empatici, però, non sono stati migliori. Li
hanno esaltati, pontificati, beatificati, considerandoli come fonte di potere
immortale… un uomo che ama può fare tutto. Questo si sono detti, sempre, e
questo si sono detti soprattutto due secoli fa… ma siccome nessun sentimento
nasceva con la possibilità, davvero, di potere tutto… ne hanno creato uno”.
“Ma non avevi detto appena adesso che non è
possibile creare un sentimento?” la interrompe volutamente Dean, piegando la
testa di lato.
“Non è esatto… o perlomeno non è completamente esatto… un sentimento non può
essere creato dal niente da un Mago comune… ma non da un Empatico…” spiega
sommariamente Helder ed è un attimo prima che comprenda livida la dimensione di
questa cosa e irrompa con voce tremula: “Quello che hai fatto poco fa… a me e a
Draco… la calma che sentivamo... era una cosa simile?”. Draco resta ancora
completamente indifferente, non guardandomi neppure, come se ricordasse
d’improvviso quella rabbia cieca che provavamo, sedata in un niente.
Helder annuisce esangue, aggiungendo con calma:
“Esattamente. Un Empatico in realtà può creare un’emozione dal niente, fa parte
dei suoi poteri. Solo… che non è strettamente voluto dalle leggi della nostra
gente, né tantomeno da quelle dell’Ordine universale, è un peccato contro
natura, rende l’uomo schiavo e vittima di reazioni più forti di lui. I poteri
di un solo Empatico potrebbero condizionare le sensazioni e questo non sarebbe
visto esageratamente come un problema… nel vostro caso, ho semplicemente
premuto un po’ sulle vostre reazioni, rendendole più tollerabili, ecco… è una
cosa difficile ed anche disgustosa per una come me. Fa male più a me che a voi.
Ma la cosa buona è che un solo Empatico può farlo solo per pochi minuti e,
difficilmente, se non a costo dei propri poteri e finanche della propria vita,
lascia tracce permanenti nell’animo della persona colpita. Ma, nel 1799 non lo
fece solo un Empatico… ma l’intero Senato
celeste. Immaginate decine di persone, centinaia forse, che concentrano i
loro poteri per creare un sentimento. E non un sentimento qualsiasi, ma il più
forte di tutti. L’amore… poteva essere una cosa sublime e meravigliosa, ma
volutamente fu creato dal niente un Sentimento d’amore, malsano, ossessivo,
patologico. Le vittime furono gli stessi figli del Capo del Senato che si
offrirono volontariamente, considerando un grande onore quello di poter essere
utilizzati per la sconfitta di Adamar. Si chiamavano Angelique e Francois Dubois, erano fratelli e furono spinti ad amarsi di un
amore incestuoso e riprovevole. Una cosa orribile, insana, che li spinse quasi
alla pazzia…”.
Amare il proprio fratello. Considerare un onore logorarsi per
quest’ossessione.
Pupazzi… semplici pupazzi nelle mani degli Empatici, o di Adamar.
Pedine… in un gioco molto più grande di loro.
Lo diventeremo anche io e te, Draco?
Abbasso gli occhi fissandomi le ginocchia,
mentre Helder prosegue: “Angelique creò uno Zahir d’Amore, il secondo della
storia umana, quello che, come vi dicevo, era stato dimenticato da tutti gli
Empatici. Francois si rivolse ad Adamar chiedendo maggior potere magico così da
diventare un uomo potente che poteva ambire ad un conveniente matrimonio e, per
ottenere questo, impegnò l’amore malato per la sorella. Entrambi vinsero: lo
Zahir di Angelique fu distrutto da lei stessa e Francois si ritirò dalla prova,
in quanto entrambi, essendo prima che amanti due fratelli, non volevano
rinunciare all’affetto normale per il proprio consanguineo. Il Segno di Fuoco
fu attivato, gli Empatici cantarono vittoria ed Angelique e Francois furono
addestrati per la prova di Adamar. Quest’ultimo, però, non è mai stato stupido.
Mai.
“Si accorse della stranezza della cosa, della
facilità con cui Angelique aveva rotto lo Zahir prima che tramutasse l’amore in
odio, della richiesta indefinita di Francois di maggiore potere magico che
sembrava chiaramente un pretesto. E i suoi sospetti furono confermati quando li
vide entrambi invocare la Solutio damnationis, bardati di tutto punto ed
evidentemente allenati a qualsiasi prova, fisica o mentale. Non poteva
rifiutare, non avrebbe mai potuto farlo, ve l’ho già spiegato. Ma… si vendicò. Crudelmente,
intenzionalmente, orribilmente. Li fece a pezzi, in ogni senso metaforico e
fisico. I loro corpi non furono mai trovati, non si è mai saputo a che prova
fossero stati sottoposti, ma fu qualcosa di così malvagio e dissennato da
impregnare la terra per anni ed anni, provocando il Terrore rivoluzionario in
Francia ed una serie di altre orrende disgrazie in tutto il globo. Adamar era
diventato deliberatamente malvagio, si era sentito preso in giro ed aveva
reagito nella peggiore delle maniere, perdendo ogni intenzione alla giustizia.
E gli Empatici stessi avevano provocato una tragedia senza pari che sembrava
non avere mai fine e si perpetuava sempre in sé stessa. Laurence Dubois si suicidò… e i Dubois
furono solo le prime vittime…”.
Ed è questo quello che io e Draco dovremmo fare. Gettarci come agnelli
sacrificali nelle fauci di un demonio, che nessuno hai mai sconfitto,
aspettando che ci faccia a pezzi, magari distruggendo anche il resto del mondo
e i nostri figli? Incrocio lo sguardo di Draco mentre sollevo gli
occhi, sempre più convinta che questo piano sia talmente demenziale e
pericoloso che qualsiasi cosa sarebbe meglio, persino consegnarmi a Dimitri.
Non so come e perché Helder me lo stia suggerendo, non capisco se davvero anche
per lei sia più importante sconfiggere Adamar, che salvare mio figlio. Non può
essere la sola cosa che ci è rimasta da fare… e Draco, mentre mi guarda, ha la
mia stessa espressione, i miei stessi pensieri iracondi e nervosi, che si
riflettono nelle braccia contratte e tese. Annuisco silenziosamente al suo
indirizzo, quasi ingiungendogli di aspettare che lei finisca il suo racconto,
così che possiamo dirle di no, senza problemi. Draco sospira rumorosamente,
tanto che Ron si volta a guardarlo schifato.
Helder, intanto, continua, apparentemente ignara
delle reazioni mie e di Draco: “Stavolta i Custodi dell’Ordine non restarono
silenti testimoni, stavolta il danno aveva sconvolto anche i loro perfetti
canoni di ordine, considerando come il mondo era stato mandato nel caos. E
decisero per una pena per entrambe le fazioni. Adamar perse la sua vita
lunghissima e perse il suo corpo, dovendosi accontentare di prenderne in
possesso uno di quelli da lui controllati per la loro intera vita; per questo,
in questa epoca storica, usa il corpo del congiunto di Grindelwald, che
evidentemente si è rivolto a lui in anni passati. Adamar perse anche la formula
dello Zahir, giudicato troppo pericoloso, e la sua formula andò perduta dalla
mente e dal cuore degli uomini, nonché dalla loro tradizione scritta. La
formula fu affidata agli Indicibili, che ne dovettero mantenere il segreto. La
punizione degli Empatici fu quella che vi ho accennato: la perdita della memoria.
Nessuno avrebbe più ricordato questa storia in quel momento e nel futuro,
finché un genuino Segno di Fuoco si fosse acceso ed avesse risvegliato in modo
autentico la memoria degli Empatici allora in vita. Ecco perché nessuno sapeva
questa storia dal diciannovesimo secolo… ed ecco perché voi due ci siete finiti
in mezzo, senza che nessuno potesse preavvertirvi del rischio che correvate… nessuno,
compresa me naturalmente, che diedi ad Hermione la formula dello Zahir con una
leggerezza che ancora non posso perdonarmi. E se fino a poco tempo fa, era solo
il terrore delle conseguenze di quell’oggetto riprovevole, se qualcosa fosse
andato storto ed Hermione non fosse riuscita a romperlo o a vincere l’odio,
adesso so invece che quello fu il primo passo di questa catena di eventi che vi
hanno posto nell’occhio del ciclone, assieme a vostro figlio…”.
“Occhio del ciclone?” chiedo incapace di
trattenermi oltre, il contraccolpo della mia rabbia mi spinge ad alzarmi in
piedi, ormai stanca di questa stupida leggenda “Al momento non siamo
nell’occhio di nessun ciclone… d’accordo, io ho creato uno stramaledetto Zahir…
e lui…”, ed indico con un gesto insofferente Draco, che serra la mascella “… si
è rivolto ad Adamar. Siamo due idioti, si era capito! Ma al momento non ci
interessa rivangare gli errori o infilarci in questa guerra millenaria! Sono i
Karkaroff i nostri nemici, sono loro che hanno Alex… me ne frego di Adamar!
Possiamo anche aver attivato questo… Segno di fuoco, o come caspita si chiama…
ma non abbiamo il tempo, adesso, di pensare ad Adamar e alla sua stupida prova!
E sono certa che se lo ignoriamo, pensando a cose ben più importanti, lui ci
ignorerà a sua volta, lieto che non vogliamo invocare sta maledetta Solutio
damnationis che…”.
“Non vi ha mai ignorato fino ad ora… e tu credi
che inizi a farlo adesso?”.
La voce di Helder è sorprendentemente calma e
misurata, si infrange contro la mia frustrazione stizzosa, lasciandomi
sconvolta ed atterrita, oltre che svuotata. Le ginocchia mi tremano come se
fossero di cristallo e biascico un: “Cosa?” debole e pigolante. Draco, a sua
volta, che se ne era stato in silenzio al mio sfogo, pronto semplicemente a
dare la stoccata finale quando ce ne fosse stato bisogno, si stacca dalla
colonna e fa qualche passo verso Helder, suonando vagamente minaccioso. Ma la
sua voce è solamente tremante, mentre chiosa serio: “Che cosa vuol dire che non
ci ha mai ignorato, Empatica?”.
Helder a quel punto fa qualcosa di strano, che
non ho mai visto e che mi lascia assolutamente senza parole. Estrae la
bacchetta dal mantello, mormora delle parole soffuse e si sfiora con la punta
prima la fronte, e poi il collo, premendo leggermente. Quando riapre bocca, la
sua voce è diversa… sudando freddo, mi accorgo che è la voce di Draco.
Dice solo qualche parola che risuona cupa come
se provenisse dal fondo di un contenitore basso e fondo, come se provenisse da
un lontano tempo e passato. Le sue parole mi risuonano familiari, e ricordo
distintamente di averle già sentite, anche se di primo acchito non ricordo
quando. Poi, rapido come lo sfrecciare di un treno, mi sovviene l’odore delle
rose, la luce calda di un mattino, le braccia di Draco attorno a me e la
sensazione di essere immortale e destinata solo alla gioia. La mattina dopo che era tornato… quando mi
raccontò dell’incontro con Adamar… trasalgo così tanto a quel ricordo, da
lasciarmi cadere sulla panca su cui ero seduta in modo pesante ed impacciato,
come se fossi caduta. Dean mi afferra per un polso, ed Harry mi chiede se mi
sento bene, mentre Helder finisce la sua frase con la perfetta intonazione di
Draco stesso, che la guarda ad occhi spalancati, le iridi diventate mercurio
sfuggevole e metallico.
Adamar mi ha detto che erano anni che mi stava aspettando, da quando ho
tradito i miei genitori… “Eri
sufficientemente debole e stupido da cercarmi, ma purtroppo eri ancora così
legato ad una sciocca ed antiquata moralità per sentire quel bisogno. Dovevi
perdere tutto, per arrivare a me…” questo ha detto. Oramai non sperava
più di vedermi, “credevo che lei ti
bastasse...”. Si riferiva a te…
Helder, prendendo fiato come se fosse stata
sott’acqua, ci guarda entrambi con improvvisa compassione, apparentemente
stanca, snervata, abbattuta. Sussurra lieve: “Non vi ha mai ignorato…”.
I suoi occhi, colmi di una foschia umida,
tornano soprattutto a Draco, mentre mormora: “Con lei, con Hermione… è stata
lei, per colpa mia, ad andarsela a cercare… ma nel tuo caso… lui ha sempre voluto far tacere quel tuo
fastidioso cuore…”. Draco, a sua volta, si abbandona di nuovo contro la
colonna, ha l’espressione persa e sconvolta di un cucciolo abbandonato e farei
di tutto, adesso, per allontanare da lui il fantasma che si è rappreso nei suoi
occhi. Ma resto incollata al mio posto, stringendo la mano di Dean con forza.
Helder si siede daccapo, sospira e riprende, la
sua voce suona impersonale e statica, come se d’improvviso volesse scrollarsi
di dosso e velocemente questa vicenda: “Quando Hermione creò lo Zahir e quando
poi lo distrusse, probabilmente non entrò negli interessi di Adamar… non fu
vista come una minaccia. Era certo, convinto che il suo sentimento non fosse
corrisposto, quindi non poteva esserne minacciato, seguiva Draco Malfoy da anni
perché era convinto di poterlo piegare ad avere bisogno di lui, invocandone
l’aiuto. Sapete come funziona, Adamar deve essere invocato mentalmente ed è
lui, poi, a decidere se si è degni della sua attenzione. Per questo, anche se
il sentimento che lo aveva vinto una volta era legato a Draco Malfoy, era
sicuro che quando Draco l’avesse invocato, l’avrebbe fatto per altro… per
paura, rimorso, codardia, ma mai per amore. E mai, soprattutto, per quel amore
che all’inverso già lo aveva battuto, l’amore per Hermione Granger, una Mezzosangue…”.
Sono passati anni, abbiamo un figlio e,
nonostante tutto, restiamo legati in un modo che difficilmente qualcuno
potrebbe slegare… eppure, ancora adesso, alle parole di Helder che descrive i
pensieri di Adamar sull’impossibilità che io e Draco fossimo innamorati… ancora adesso… impercettibili segni di
assenso e comprensione silenziosa, mi circondano indolenti. Me ne accorgo,
sebbene sia ancora a testa china, con lo sguardo fisso sulle mie ginocchia e
sulla mano che ancora tengo stretta in quella di Dean. E, in questa buffa posa,
in questo gioco delle parti che si allentano ma non muoiono mai, mi sento
ancora imputata e colpevole, condannata innocente al crimine di essermi
innamorata, riamata, di quell’uomo. La mano di Dean nella mia, lui che è
avvocato e vittima della mia stessa colpa, è fredda, ghiacciata, sudata, come
se lui stesso tremasse e fremesse di un processo che sta subendo anche lui.
Sento distintamente la piega viscida della voce di Helder, mentre parla e
descrive quella sensazione assolutamente giustificabile di Adamar, come se
quasi per una volta condividesse il suo operato. Sento lo sbuffo spazientito di
Ron, a cui fa eco il movimento dei piedi di Harry, innervosito, cupo, oscuro.
Distinguo nettamente lo sconcerto imbarazzato di Natalie che, senza necessità
apparente, si china a sistemare qualcosa nel passeggino di Elias. E persino
Ilai e Kevin, che con questa storia hanno ovviamente meno a che fare, sono più
silenziosi di prima, intenti persino a non respirare, come se questo possa
sembrare assenso a quello che è successo.
Poi, feroce ed ostile ma al contempo dolce,
lieve, sottile come un pianto, avverto qualcosa rifrangersi sulle mie spalle,
sui miei occhi bassi, sulla mia fronte… tutto
attorno ame. Come calore, che
sembrerebbe di una fiamma omicida, ma poi diventa solo riparo dall’inverno.
Sollevo gli occhi piano, lentamente, e Draco è ancora lì, nei miei occhi,
l’espressione al contempo spaventata ed astiosa, terrorizzata e spavalda, amara
e delicata. Guarda me e mi uccide negli occhi come fa da stamattina, ma non c’è
più eco di rimprovero o di disgusto per la faccenda di Alex, non è lo sguardo
del padre tradito. Rabbrividisco, la schiena che trasale di pelle d’oca e
brividi fulminei. È uno sguardo odioso, eppure mi fa battere il cuore come mai da
cinque anni a questa parte.
Mi sta rimproverando… perché lo sto lasciando da solo. Perché, a mio
modo anche io, con questi occhi bassi e con quest’aria colpevole, rinnego e
spergiuro i sentimenti che aveva per me.
E quelli che avevo per lui. Rinnego persino Alex, che da quell’amore è
nato, come se fosse incidente ed ostacolo di percorso.
Raddrizzo le spalle, sollevo il mento, lo guardo
con la stessa espressione sua e riprendo a respirare, lasciando gentilmente la
mano di Dean. Li guardo tutti, uno per uno, sfidandoli a proseguire,
minacciandoli in silenzio per il loro giudizio sordo. Perché se adesso siamo
meno di niente, nessuno deve
azzardarsi a pensare che allora non siamo stati tutto.
E non permetterò a nessuno, tantomeno a loro, di
continuare a rimproverarmi per questo… mai più.
Helder si schiarisce la voce, ha un’ombra bizzarra
di sorriso nella voce, poi continua: “Purtroppo per Adamar, però, qualche
giorno dopo la rottura dello Zahir, quando foste imprigionati da Astoria,
dovette scoprire che Draco, invece, era innamorato di Hermione, la
corrispondeva. Certo, Draco ancora non sapeva dell’esistenza di Adamar, non
voleva invocarlo, non aveva il benché minimo istinto in tal senso, quindi la
Solutio damnationis era ancora lontana… ma era Adamar che voleva Draco sin dai
tempi di Voldemort e del suo tradimento. Era attratto dalla sua anima, così
piena di dissidi, lo disturbava, era come un ronzio che si cerca di eliminare
da una stanza perfettamente in silenzio. Con Draco, Adamar fu stranamente
ingordo, tradendo la sua natura ancora mezza umana. Poteva lasciarlo perdere,
poteva rinunciare a lui, ma non sapeva farlo. Lo voleva ugualmente, persino
rischiando la Solutio damnationis. Era così sicuro della sua anima malvagia,
della sua pavidità, della sua indole traditrice che tanto lo avevano irritato
ai tempi di Voldemort, che adesso era convinto che avrebbe sacrificato
facilmente il sentimento per Hermione Granger. Quindi fece in modo che Draco
volesse venire da lui… attraverso i Karkaroff. Erano le sole persone che
controllava, avendo già ottenuto qualcosa da lui, e che erano al contempo
vicine a Draco…”, Helder si interrompe, la sua voce suona più leggera, quasi
casuale, mentre chiede a Draco direttamente: “Ricordi come ti venne in mente di
rifarti al debito che avevi con loro per averli salvati durante la guerra?”.
Draco ci pensa su qualche secondo, poi borbotta
sicuro: “Ero a casa di Pansy… e lessi per caso “La gazzetta del Profeta” dopo
anni… c’era un articolo di Rita Skeeter su Igor
Karkaroff e sulla sua eredità… mi ricordai dei suoi figli allora…”.
Helder annuisce grave, prima di mormorare riflessiva:
“Rita Skeeter, certo… è cieca all’Empatia, me ne sono
resa conto da anni… ha avuto qualcosa da Adamar, chissà cosa…”, non avevo il
minimo dubbio che quella avesse qualcosa di marcio
dentro, adesso ne ho la conferma “Adamar deve averlo reputato il modo più
veloce per arrivare a te, istillandoti l’idea di poter chiamare Raissa e
Dimitri. Lui agisce così, è subdolo, bieco, abietto… e può contare, come
immaginate e come vi ho detto, su persone che manovra facilmente,
condizionandone la mente e il cuore come faceva da Empatico. Comunque Draco
contatta i Karkaroff. Adamar suggerisce a Dimitri di indurre in Draco l’idea di
sottoporsi ad una prova del demone per ottenere più potere per salvare
Hermione. Adamar sottopone Draco ad una prova semplice nei suoi standards… un biglietto di andata e ritorno per il
regno dei morti… ed è sinceramente convinto che Draco, il traditore, la
supererà…”.
“Se quella era una prova semplice…” mormora Harry, improvvisamente partecipe e rimarcando la
parola “semplice”, senza che però Draco dia segno di averlo perlomeno sentito.
“Il grande difetto di Adamar, ormai, è proprio
l’empatia…” prosegue Helder, cercando di spiegarsi “E non intendo il potere che
ho io… ma proprio la capacità di avvertire il dolore delle persone. Lui, ormai,
ragiona solo nel termine di ordine e disordine, ciò che fa troppo rumore va
eliminato. E siccome di Draco aveva fatto sempre più chiasso il suo lato
negativo, era certo che la prova l’avrebbe superata alla grande, sordo al
rimorso e cieco al dolore. Era convinto che lui avrebbe ricacciato indietro
facilmente la gente morta, convinto che la loro morte non era stata colpa sua,
ma che era stata o necessaria alla sua sopravvivenza, oppure conseguenza del
tradimento che aveva primariamente subito. Ma aveva decisamente considerato Draco
peggiore di quanto in realtà sia, così come aveva fatto quando era stato
convinto che non corrispondesse Hermione. La prova lo dilaniò, specie
l’incontro con i suoi genitori, per cui Draco sembrava non aver mai provato
rimorso…”, con la coda dell’occhio vedo Draco muoversi a disagio, distogliere
lo sguardo e fissarlo lontano, come ipnotizzato da un albero di magnolia. Solo
il respiro, veloce ed inquieto, mi fa capire che non è semplicemente distratto,
ma in realtà è profondamente colpito dalle parole di Helder, come quando
ripensa ai suoi genitori o ad Helena. Colpiti, in modo diverso, sono anche gli
altri, come se, ad eccezione di Blaise che, a dire la verità, avevo
completamente rimosso per quanto sembri perso nei fatti suoi, tutti avessero
sempre pensato che lui fosse il perfido e bieco doppiogiochista senza rimorsi,
che Adamar voleva per sé.
Lieta che dopo cinque anni, ci stiano arrivando finalmente.
“Adamar sapeva che cosa sarebbe successo a quel
punto: se Draco si fosse ritirato dalla prova, considerando a quel punto
l’amore per Hermione e i suoi ricordi più importanti della brama di potere, lo
avrebbe battuto. Il sentimento che lo aveva vinto una volta lo avrebbe
sconfitto di nuovo. Si sarebbe acceso il Segno di fuoco ed avrebbe dovuto
concedere la Solutio damnationis, dato che gli Empatici avrebbero ricordato
tutto. Quindi, contravvenendo alle regole, non ascoltò Draco quando urlò di
volersi ritirare… penso che anche tu, Draco, ti sia accorto che stava
contravvenendo al suo codice e sembrava intenzionato più ad ucciderti che ad
altro. Adamar non ne voleva ovviamente fare di Draco la causa della sua rovina.
Però non aveva fatto i conti con i Custodi dell’ordine, che quelle regole le
avevano scritte. Mandarono Helena Greengrass a salvarlo… intromettendosi nella
prova come punizione per Adamar. Difatti, interrompendola, Adamar fu sconfitto
per la seconda volta.
“Il Segno di fuoco si accese al ritorno di Draco
dallo scontro con Adamar, gli Empatici provavano addosso l’amore che vi univa.
Ancora per l’ennesima volta, Adamar trovò facilmente riparo a quella che ormai
doveva essere una sorte segnata. Si accorse che le memorie tornavano
lentamente, gravate dagli anni trascorsi, e capì di avere ancora tempo prima
che gli Empatici si risvegliassero. Ed era certo che Draco Malfoy ed Hermione
Granger si sarebbero distrutti e bruciati da soli, facendo spegnere il Segno di
fuoco prima che la memoria fosse completamente tornata. Esso si alimenta dal
sentimento che lo crea… quindi, se si fossero separati, il Segno si sarebbe
spento e gli Empatici avrebbero avuto per le mani mozzicati cenni di memoria,
insufficienti a ricostruire tutto. Dalla sua parte aveva peraltro Raissa e Dimitri,
poteva sfruttarli ancora come armi: incendiò l’animo del secondo
dell’ossessione che già provava per Hermione Granger, così che potesse
appellarsi al Voto Infrangibile con sua sorella. E… riuscì ad ottenere anche
Astoria Greengrass…”.
“Astoria?” chiedo sconcertata, stringendo le
braccia al petto “Anche lei… ottenne qualcosa da Adamar? E come fate a
saperlo?”.
“Dal suo corpo…” biascica velocemente Helder,
rabbrividendo “Restano delle tracce della possessione di Adamar… impercettibili
se è durata poco, ma in lei anche questi segni infinitesimali c’erano. Penso
che Dimitri, sempre sobillato da Adamar, al momento di allearsi con lei, le
impose questa condizione… aveva bisogno di serrare i ranghi. Adamar aveva il
controllo su Raissa e Dimitri, ma con una terza persona sarebbe andato sul
sicuro. Probabilmente, considerando le sue reazioni successive, penso che abbia
impegnato l’amore che aveva per Draco… in cambio del desiderio impossibile di
avere un figlio da lui… che ottenne quando catturarono Hermione, già incinta di
Alex…”.
Non vi ha mai ignorato… adesso capisco
appieno che cosa vuol dire. Ho paura di chiedere altro, mi accorgo che, senza rendermene
conto, mi sono aggrappata al bordo della panca, mentre le mie unghie scrostano
la vernice secca. Ho paura di chiedere se ha fatto sì che io restassi incinta
proprio allora, così Astoria potesse avere mio figlio. Ed ho paura di chiedere
quanto del destino del mio bambino si sia intrecciato per questo a quello di
questo demone. Non voglio chiedere niente.
Ma Alex, adesso, non è solamente mio figlio. E’
figlio di Draco, che, in silenzio e senza risposte, non sa restare.
Masticando amaro, mormora: “E’ stato per Adamar…
che lei è rimasta incinta proprio in quel momento?”.
“Probabilmente sì…” sussurra Helder e il mio
cuore sprofonda così in basso nella gabbia toracica, da darmi l’impressione di
diventare un pantano umido e soffocante “… ma, in fondo, a voi cambia qualcosa?
Alex sarebbe nato in un altro momento se lui non fosse intervenuto… ma se era
destino che nascesse, sarebbe nato. Basta… non interrogatevi oltre, Alex è nato
dal vostro sangue, da voi e basta… per il bene che volete a vostro figlio… è
importante che, in quel momento, Adamar abbia fatto sì che nascesse prima?”.
Sì che è importante… lo pensiamo sia
io che Draco, quando restiamo in silenzio e non rispondiamo ad Helder. È
importante perché significa che potere ha sulle vite delle persone. È
importante perché significa che non è stato un caso che mio figlio sia stato
messo in pericolo, dalla prigionia di Dimitri. È importante perché è il motivo
per cui Draco non ha potuto conoscere e crescere suo figlio.
È importante perché mi dimostra fino a che punto
davvero non ci ha mai ignorato.
È importante perché mi dimostra quanto
probabilmente non ci ignorerà mai.
Mio figlio sarebbe nato ugualmente, certo, e
lui, dentro, non ha nulla del destino manovrato che l’ha fatto venire al mondo
per assecondare al desiderio di una donna sterile e affamata di potere. Tutto
questo è vero… ma questo pensiero è ugualmente insopportabile. Paradossalmente,
è la cosa che maggiormente non riesco a sopportare al momento.
Al punto che, per la prima volta da quando Helder ha iniziato a parlare
prendo davvero in considerazione la Solutio damnationis.
“Separando Draco ed Hermione, anche fisicamente,
il Segno di Fuoco si spense…” prosegue Helder dopo un po’ “In entrambi c’era
qualcosa di più forte dell’amore reciproco: in Draco era il dolore della
separazione; in Hermione il terrore per suo figlio. A quel punto, Adamar lasciò
fare ai Karkaroff, senza condizionarli ancora. Del resto, avevano la Conoscenza
assoluta, potevano agire benissimo per conto loro, come ha fatto Dimitri quando
ha scoperto che ero con Hermione, ingannandoci per simulare la sua morte con la
Titanca. E credo che, anche adesso, li stia lasciando liberi di agire, perché è
certo che il sentimento sia stato distrutto, come peraltro credo che abbia
pensato quando vi ha visto assieme, stamattina, attraverso gli occhi di Raissa
e Dimitri… ed ha scoperto che Hermione non ha mai detto a Draco di Alex…”, un
fastidioso groppo in gola mi spinge a muovermi sulla panca, come se fossi punta
da una zanzara. Draco chiude i pugni, si rinnova l’astio nei suoi occhi. Helder
segue quelle manovre e, misericordiosa, sussurra le parole successive solo nel
mio cervello, così che almeno mi sia risparmiata la vergogna dei miei amici che
mi fissano curiosi, soprattutto Ron.
Come si è accorto, attraverso gli occhi di Raissa, che tu ti stai legando
anche ad un’altra persona, ad Ilai Radcenko…
annuisco, guardandola e ringraziandola silente. Dalla reazione di Draco,
capisco che anche lui ha ascoltato: sbuffa impaziente, guardandosi attorno.
Helder continua a parlare nella mia e nella sua testa, rivolgendosi stavolta a
lui: “Come, peraltro, ha sempre saputo,
del legame che tu avevi con Raissa…”. Mi viene fuori un sorriso sarcastico
e soddisfatto a guardare l’espressione colpita ed irritata di Draco, ecco almeno mettiamo le cose in chiaro,
siamo entrambi responsabili allo stesso identico modo. Helder, a quel
punto, riprende a parlare con la sua voce, rivolgendosi a tutti: “Adamar è
certo e sicuro di aver fatto tutto per dividere Draco ed Hermione attraverso i
Karkaroff, ed è certo e sicuro che, quindi, il Segno di Fuoco non possa
riaccendersi e completarsi. Peccato per lui che esso si sia acceso ieri
mattina, risvegliando le memorie empatiche che erano state messe già in moto
lento, cinque anni fa. Come e perché si sia riacceso, lo sapete solamente voi…”.
Vorrei che avesse detto anche questo solo nella mia testa… mi ritrovo, prima di potermi fermare, ad arrossire e a distogliere lo
sguardo, cercando di rifuggire gli occhi che mi inseguono. Certo, sapere nella
mia testa che posso essere ancora ed in parte innamorata di Draco, è una cosa.
Sapere che questo ha creato questa reazione ancestrale, visibile in modo netto
nella febbre e nella connessione aperta con gli Empatici... è un altro paio di
maniche. È qualcosa di meno negabile, meno trascurabile, meno liquidabile con
retaggi di memoria persa e morta. Non posso dirmi, solidale con me stessa, che
è normale che io provi ancora qualcosa per il padre di mio figlio, e non posso
enumerare sarcastica i momenti in cui posso essermene resa compiutamente conto…
la febbre è salita subito dopo la nostra conversazione su quello che era
successo cinque anni fa… che non si è conclusa in modo idilliaco. Ma la rabbia e il dolore non erano
sufficienti a farmi dire che non ero, dentro, in fondo, contenta che fosse lì
con me, che non ero ancora arsa dal desiderio che mi baciasse, che non ho
ricambiato il suo abbraccio, che non mi macinavo dalla gelosia per lui e
Raissa.
È chiaro che sono ancora innamorata di lui. E’ ovvio che lo sarò sempre.
Però è ben diverso sapere questo in questa
forma. Perché ero innamorata di lui, forse anche di più di adesso, anche cinque
anni fa, quando ero prigioniera di Dimitri. Ma il Segno si era spento, era più
importante la paura per Alex, che Draco. Adesso… di nuovo, l’amore per lui è diventato più importante… dentro quella
conversazione, in cui mi sono persino dimenticata che ero la mamma di Alex,
sono tornata la donna ferita ed innamorata di quest’uomo che mi ha spezzato il
cuore. Ovvio che il Segno si sia riacceso… e ciò mi rende egoista verso mio
figlio ed insensibile verso Ilai e Ron.
Respiro forte, lentamente e profondamente, e
così mi calmo senza premeditarlo. Perché, d’accordo… sarà anche idiota… ma se
lo amo ancora, forse posso uscirne viva da questa storia. E farci uscire vivo
anche mio figlio… e Draco stesso. E poi…
un angolo della mia bocca si piega all’insù, mentre ci penso… forse, nonostante tutto, se il Segno di
Fuoco si è acceso… forse… mi ami ancora anche tu. Forse… non l’ho fatto
riaccendere solo io. Forse… sei stato anche tu.
Mi volto piano, quando sono certa di essere
padrona di me stessa e delle mie reazioni, preferendo non guardare in viso
Draco. Se ci leggessi indifferenza, sarebbe il colpo di grazia, ricaccerei
indietro tutto ciò che di buono ho ancora dentro per lui. Se ci leggessi
imbarazzo, probabilmente lo fraintenderei. Se ci leggessi tenerezza, allora mi
svestirei di orgoglio e forza che adesso mi servono ancora.
“Sapete solamente voi se il male che vi siete
fatti, sia più forte di quel germe d’amore che è ancora sopravvissuto e che ha
fatto sì che il Segno di Fuoco si riattivasse…” Helder lo sussurra quasi in
silenzio, come se avesse paura di disturbare “Ed è su quel germe che dobbiamo
fare affidamento per salvare Alex… perché solo questo, se invocate la Solutio
damnationis, potrà aiutarvi durante la prova con Adamar, è ciò che lui metterà
alla prova, è ciò che cercherà di distruggere… che lui non sappia al momento
che il Fuoco si è riacceso, che gli Empatici sanno tutto e che invocherete la
Solutio damnationis, cambia poco. Fa solo sì che possiamo sfruttare l’effetto
sorpresa, impedire che ancora infranga le regole, magari premendo su Raissa e
Dimitri affinché uccidano vostro figlio, così da farvi lacerare nella rabbia e
nell’odio reciproci…”, e lo farebbe sul
serio… come l’ha fatto nascere, così lo farebbe morire… “Ma quando la prova
inizierà, sarete in sua balia. Completa. Significherà affidare tutto di voi
stessi ad un demone che non vuole assolutamente che vinciate. Significherà
correre lo stesso rischio che hanno corso Angelique e Francois Dubois…”.
“Se è un rischio tale…” chiede Kevin incerto,
come se tentennasse nel parlare di cose che non capisce appieno e fosse
timoroso di fare qualche errore “… perché loro dovrebbero correrlo, Helder?”.
Lei lo guarda senza appunto comprendere di che cosa parli, ed aggrotta la
fronte in modo incerto, ma Natalie afferra il filo dei pensieri di Kevin, che
tace e riordina il suo ragionamento, mentre la ragazza spiega le sue
rimostranze: “Quello che Kevin, credo, voglia dire è… se già duecento anni fa,
la Solutio damnationis è stata provata e fallita da due fratelli Empatici, per
giunta… che speranze hanno loro due di vincere? Non sarebbe meglio… trovare un
altro modo…?”.
“Infatti…” commenta ferocemente Ron, guardando
Draco in cagnesco “Sono incerti su quello che provano, non si parlano neppure…
e devono rischiare la vita di Alex per questo? Per qualcosa che non sanno
nemmeno loro, se esiste ancora? Scommetto che se li chiediamo se si amano
ancora, manco sanno che rispondere…”.
Colpita nel vivo, sto per aprire bocca e
replicare caustica, ma Draco mi precede tagliente: “Weasley, credimi… te lo
dico spassionatamente. Lei in ogni
caso, non ci torna con te a fare la mogliettina frustrata… insomma, non sarà il
caso di rassegnarti un pochino?”.
“E’ ad Alex che penso, razza di bastardo!”
inveisce Ron, alzandosi in piedi ed afferrando rosso in viso Draco per il
colletto della camicia. E diciamo addio,
alla conciliazione e alla pace universale. Dean ed Harry si alzano
immediatamente per cercare di dividerli, cosa che diventa problematica quando
Draco, per nulla intimidito, soffia freddo: “Posso avere anche perso ogni
diritto su quella donna… su quella che era la tua di donna, se non l’avessi tradita con la Brown… ma non ho perso
alcun diritto su quello che è ancora e sarà sempre mio figlio… e non tuo. Spiacente che cinque anni di pausa siciliana
dalla vita ti abbiano reso certo del contrario…”.
“Per cinque anni è stato mio figlio! E tu lo sei da cinque minuti, e già parli di metterlo
in pericolo! Perché non ti suicidi, così Adamar si tranquillizza che non potete
nemmeno provare questa Solutio qualche cosa?!”.
“Ron! Smettila!” urlo a mia volta, alzandomi in
piedi, a cui fa eco la voce di Natalie che cerca di far calmare senza successo
Ron. Continuano a vomitarsi insulti l’uno sull’altro, con la ferocia rabbiosa
di due che hanno solo visto accrescersi negli anni i motivi per cui odiarsi.
Quando ormai sono sicura che, all’ultimo sibilo velenoso di Draco, Ron
risponderà con un pugno in faccia, finalmente la sola in grado di intervenire,
si decide a farlo. Helder ripete la stessa identica scena di stamattina,
inducendo la calma ad entrambi, e di nuovo mi fa così spavento che ringrazio
che stavolta non ne sono vittima io.
“E con questo, fanno due volte in una giornata,
che non rispetto la legge Empatica…” mormora acida, sistemandosi il mantello,
quando Ron e Draco finalmente sembrano normali, solo sbuffanti “Alla terza
volta, a chiunque mi costringa daccapo indurrò un sanissimo e corroborante istinto alla mutilazione genitale…”. La
minaccia sembra aver il risultato sperato, specie negli uomini naturalmente, e
finalmente tutti restano in silenzio, meditabondi. L’eco della domanda di Kevin
e Natalie sull’esistenza di un altro modo per salvare Alex torna agli occhi di
Helder che, più calma, riprende: “Se esistesse un altro modo, non sarebbe stata
mia premura farli conoscere questo… che è rischioso per loro, e per tutti noi. Nulla
varrebbe tanto… e sebbene gli altri Empatici premano perché loro adempiano a
questo destino, in cui, loro malgrado, si sono trovati coinvolti…questo non è quello che penso io. Ho pensato
ad ogni possibile altra soluzione… a tutte, sul serio. E tutte si concludevano
in un vicolo cieco. Raissa e Dimitri hanno la Conoscenza assoluta, quindi
conoscono formule ed incantesimi che io nemmeno posso pensare di immaginare… e
conoscono ogni contromisura. Hanno la pecca della Conoscenza Empatica che è
orale, d’accordo… ma non c’è nulla che possa piegarli definitivamente, o darci
un vantaggio per liberare Alex. La collana di Tatia… è potente, è intrisa di
magia bianca, ma è instabile, come vi ha spiegato Dean, forse persino insufficiente
a sciogliere l’assimilazione di Alex. Senza
contare che poi è un vantaggio trascurabile… abbiamo un solo desiderio. Tolto
quello, se sbagliassimo o fosse manchevole il suo potere, il potere del
ciondolo si esaurirebbe… inoltre, come credo che vi abbia già fatto capire…
ammesso e non concesso che riuscissimo a trovare un modo per liberare Alex, che
al momento non so immaginare… non elimineremmo il problema alla radice. I
Karkaroff ci hanno già dimostrato che fuggire non serva a nulla… ci hanno messo
cinque anni, ma sono tornati ed in una posizione di vantaggio… potreste vivere sempre
con questo pensiero, ammesso e non concesso di liberare Alex? Potreste vivere
con la paura che possano trovare voi e vostro figlio in qualsiasi momento?”,
Helder fa una pausa sofferta, lunga, straziata, mentre quella domanda si
ripercuote nella mia testa che insegue una risposta “… ma soprattutto per forza
di cose… qui, non si tratta dei Karkaroff, potenti quanto lo si vogliano, ma
umani, nonostante tutto… possiamo arrivare ad ingannarli, colpirli, ferirli, ucciderli.
Potremmo metterci anche anni, ma forse… e dico forse ce la potremmo persino fare. Ma qui non sono loro il
problema… ma Adamar. Mettiamo anche che assecondiate le richieste folli dei
Karkaroff, pensiamo anche alla soluzione masochista di Hermione che si consegna
a Dimitri, uccide Ilai Radcenko e libera Alex… pensiamo anche di fare una cosa
del genere per prendere tempo, sebbene credo che per tutti sia una soluzione
francamente assurda e nemmeno concepibile… come andrebbe a finire? Per tutta la
vostra vita, finché Adamar esiste e sa che potreste invocare la Solutio
damnationis, sarete sotto il suo controllo. Un controllo continuo, perenne… vi
ha già dimostrato che può farlo. E lo farebbe anche senza i Karkaroff, ammesso
che riuscissimo a farli fuori. E da lui non si scappa invece, ha troppi
strumenti di controllo, troppo potere, troppa gente che condiziona… e noi
Empatici non possiamo proteggervi. Basterebbe che Hermione ripensi a Draco,
basterebbe che Draco ripensi a lei, basterebbe che Adamar percepisse un seme di
quell’amore che può sconfiggerlo, basterebbe che cominci a temere per sé stesso
e per il suo potere… per uccidere voi e vostro figlio, prima che abbiate il
tempo di invocare la Solutio damnationis. Sarebbe… facile. Ad Adamar non piace condizionare le persone, evita di
farlo… e non per scrupolo morale come gli Empatici… ma perché gli fa schifo,
odia mescolarsi alle pulsioni umane.Ma
in una situazione d’emergenza… credete che non lo farebbe? Credete che non
comanderebbe Dimitri di uccidere Hermione, sebbene lui nel suo modo malato la
ami pure? Credete che non condizionerebbe Raissa a credere che Alex sia
qualcosa di insopportabile, persino da lasciare vivo? E credete che non possa
spingere una persona qualunque, magari un ladro, un rapinatore, un omicida che
ha ottenuto qualcosa da lui…ad
uccidervi entrambi, solo perché passava vicino a voi?”.
Vicolo cieco: si può esprimere in un altro modo questa
sensazione? Il cuore in gola, il sudore freddo, le palpitazioni e il
soffocamento, come se mi stringessero la gola con un paio di mani ghiacciate ed
incredibilmente forti. Non sono mai stata immune alla paura in questi anni e ho
sempre saputo che cosa sia combatterla e vincerla, in virtù di un coraggio
carminio e dorato che un cappello sdrucito, anni fa, scelse per me. Ho
affrontato maghi oscuri tra i peggiori, ho battuto Mangiamorte dei più
temibili, ho incontrato criminali efferati, provando il piacere sottile di
infilarmi io stessa in situazioni che mettessero a dura prova la mia
intelligenza e la mia forza: spesso la morte ha soffiato su di me, beffarda,
gelida, ma sempre restando sufficientemente lontana per non ghermirmi.
Voldemort, gli Horcrux, la maledizione della Luna nuova… sono stati un incubo.
Mi sono trascinata fuori dalla guerra, con la consapevolezza di avercela fatta
forse solo per fortuna, piuttosto che per vera abilità.
Però… avevo davanti sempre qualcuno da
considerare il nemico, e nessuno, dietro di me, di cui essere scudo a costo
della vita.
Adesso, invece, è tutto diverso: tutto deve essere
setacciato dall’amore per mio figlio. Devo pensare a proteggere lui, a
salvarlo. Anche quando dovessi cadere io stessa… deve essere il mio cadavere ad
impedire che si faccia male. Ma soprattutto questa volta… non ho un nemico vero
e proprio davanti. Ho un mostro a milioni di teste, che può raggiungermi in
ogni modo, in ogni momento, con qualsiasi persona che mi scivoli accanto. E,
netto eppure terrorizzante, comprendo che non c’è soluzione alcuna che mi
preservi viva, che questa è una condanna a morte di cui posso scegliere solo il
modo.
Ed il modo, per una come me, sarà sempre la Solutio
damnationis. Inutile che pensi a scorciatoie o che insista per fuggire, o che
mi incaponisca sul consegnarmi, o che ordisca inganni.
Ogni piano avrebbe un buco, un’incognita, una
variabile pazza… che può uccidere Alex. La Solutio damnationis, nonostante tutto,
sebbene metta me e Draco a rischio, dà maggiori garanzie che lui resti vivo.
Specie se riesco a strappare agli Empatici… che
proteggano mio figlio, anche se dovessi fallire.
Chiudo gli occhi e respiro piano, a fondo,
cercando di restare lucida. È questa… la sola strada.
Vicolo cieco.
Perché mi lascia un’impercettibile traccia di
speranza, sufficiente a non farmi impazzire. Perché può salvare altre vite.
Perché può rendere libero mio figlio, anche se non sia più con me.
… e perché, se dovesse andare tutto bene… saremo
davvero liberi e per sempre. Mi ridaranno potere sulla mia vita. Niente più
spiriti che mi manovrano, niente demoni che decidono quando devo restare
incinta, niente sogni premonitori, niente fughe ed esili dalla mia vita, niente
falsi nomi e matrimoni fasulli.
Mi riprenderò tutto… e ci fosse anche solo una
possibilità su un miliardo di riuscirci… ci proverei sempre.
Sollevo il viso, già sapendo che cosa
risponderò, già sapendo che cosa sto per dire, ma avendo a mente che, qui,
adesso, non è soltanto una scelta mia. E’ anche sua, è anche di Draco.
La mia condanna a morte, se sarà la Solutio damnationis, vorrà dire…
morire assieme a te.
Ed in un modo stupido, sciocco, insensato e maledettamente idiota… è
forse l’unico modo in cui accetterei di morire.
Draco ha un’espressione che sembra fredda,
distaccata, lontana anni luce: non ha nulla del mio viso arrossato, dei miei
occhi accesi, delle mie spalle tremanti. Non ha niente che presagisca che abbia
ascoltato qualcosa fino ad ora, sembra solo annoiato e stanco. Ed è così che
appare a tutti, anche ad Helder, che quasi lo interroga impaziente con gli
occhi, arsa dalla voglia di sapere che cosa abbia in mente. Quando parla, un
debole singulto si insinua nella sua voce, rendendola tremula come il fuoco che
si spegne agitato dal vento. E, allora, fulmineo, so che cosa ha deciso, so che
cosa ha pensato.
So che una Grifondoro abbraccia il coraggio ed
un Serpeverde sceglie la furbizia…ma se
amano, se sono genitori… sei di fronte ad una spiccia proprietà commutativa.
Cambiano i fattori… ma il risultato non cambia.
Avrà più paura di me, più ansia di uscirne vivo. Sarà più prudente, più
sottile di me.
… ma la risposta è sempre quella.
Se la Solutio damnationis salverà nostro figlio… è la sola strada
possibile.
Draco parla con la solita voce tagliente e
sarcastica, sembra persino irriverente e scherzoso, ma, dentro, nella voce,
scivola un’onda amara di rammarico e rimorso che le mie orecchie non possono
ignorare e che mi fanno battere il cuore forte ed inumidire gli occhi.
“Allora, Empatica… mettiamo che io sia così
voglioso di darmi alla Sindrome da Prescelto stile Potter…” mormora atono,
gettando uno sguardo obliquo ad Harry che risponde con un’occhiataccia
“Ammetterai anche che dopo il tuo cianciare da Cassandra profetessa di
sventure, non siamo proprio così entusiasti di gettarci in un piano suicida,
senza alcuna rassicurazione di successo e di previsione dei rischi… e se su di me
e la Granger… che scommetto già entrata nell’assetto eroina…”, lo fulmino con lo sguardo, perfettamente ignorata, mentre
Draco prosegue nervoso, trattenendosi dall’urlare di frustrazione: “… ci può
anche stare che rassicurazioni non ne esistano, visto che dovremmo fare gli
agnelli sacrificali di questo fottuto demone e del tuo clan di acrobati emotivi… credi che questo sia
sufficiente a farmi scegliere di adempiere al tuo piano da fantasy di quinta
categoria?!”.
“Malfoy, la connessione con il tuo cervello
putrefatto si è chiusa, ergo non posso più leggere i tuoi contorti pensieri…
potresti essere lievemente più chiaro?”.
“Quello che lui vuole dire… con il suo parlare
da primate…” lo prevengo io, con voce chiara e guardando Draco con tracce di
rimprovero che lui ovviamente respinge al mittente, scrollando le spalle con
noncuranza “… è che abbiamo bisogno di garanzie…”.
“Garanzie?” Helder continua a non capire di che
assicurazioni abbiamo bisogno, se quelle riguardo a noi non ci possono essere
date. Lo sguardo, invece, di Harry è evidentemente colmo di comprensione, così
come quello di Natalie e quello di Ron. I primi due sono genitori, l’ultimo sa
esattamente che cosa significa esserlo.
Tutti e tre sanno a che cosa sto alludendo. Se non ce la facciamo… se, come probabile,
ci lasciamo le penne… Alex che fine fa?
“Sì, sto parlando proprio di garanzie, Helder…”
commento con decisione, la voce ferma “Non farò nulla, di alcun tipo, non
voglio nemmeno iniziare concretamente a pensarci… se non avrò delle certezze…
riguardo ad Alex e a Serenity. Voglio delle garanzie per i nostri figli…”. Helder finalmente comprende e tace, meditando sulla
risposta che deve darmi.
La guardo in attesa e, senza volerlo, i miei
occhi si spostano su Draco, quasi a cercare l’assenso a quello che lui voleva
dire poco fa e che, sono certa, dovrei aver interpretato al meglio. Quando mi
rendo conto che la sua espressione è cambiata in modo impercettibile ma
innegabile, mi rendo conto di che cosa ho detto. I nostri figli. Sgrano gli occhi meravigliata e mi stringo nelle
spalle, mentre lo sguardo di Draco non mi lascia in pace. È la cosa più simile
a quello che eravamo cinque anni fa, rispetto ad ogni sguardo che è intercorso
tra noi da quando sono qui. Non c’è rabbia, non c’è ironia, non c’è dolore e
non c’è nemmeno odio risentito. È lieve, leggero, sfumato di una morbidezza
calda che mi fa sentire il respiro più facile. E mi fa persino pensare che ce
la possiamo fare, adesso, ad uscirne fuori, mi fa persino pensare che, dentro,
in fondo ci amiamo ancora e ci ameremo sempre. Draco piega la testa di lato,
gli sfugge un sorriso sottile mentre scrolla il capo ed ancora mi guarda, ed è
quasi uno sbuffo incredulo e stupito, meravigliato e attonito. Sorrido a mia
volta, piano, timorosa, vergognandomi di come questo sorriso mi nasca incerto e
di come mi nasca comunque, nonostante tutto.
Perché è incredibile che tu, adesso, ancora possa dubitare che consideri
entrambi figli miei. Figli nostri.
Quello che ho messo nelle mie parole, e che a
tutti è sfuggito, lui l’ha sentito perfettamente. Gli altri hanno semplicemente
pensato che io parlassi di mio figlio
e di sua figlia, e li unissi sotto
l’aggettivo nostri.
Lui sa, l’ha letto nel mio imbarazzo schietto e
nella mia consapevolezza istantanea, che io volevo invece dire mio e suo figlio, e mia e sua figlia.
In cinque anni, è la sola cosa che per me non è
mai cambiata.
“Se dobbiamo arrivare a parlare di questo…”
riprende Helder con energia, stiracchiandosi “Vuol dire anche che dobbiamo
arrivare alla parte operativa della Solutio damnationis… a quello, cioè, che
concretamente dovete fare voi… e noi tutti…”.
“Ecco, così magari mi passa il complesso del - non prescelto -… ed inizio ad avere
un’utilità…” biascica Dean acido, incrociando meccanicamente le braccia.
“Mettiti in fila, Dean… io ce l’ho da Hogwarts,
questo complesso…” risponde Ron, scoccando un’occhiata ad Harry che sbuffa,
facendomi sorridere.
“… e comunque, tanto per chiarire…” riprende
Dean, con espressione fintamente offesa e canzonatoria, guardando sia me che
Draco “Non ho capito ancora di che garanzie abbiate bisogno…”, quando sto per
ripetere nervosa ed esasperata che cosa voglio dire, e ciò che cosa dannazione
succede ad Alex e Serenity se noi crepiamo nella Solutio damnationis, lui mi
interrompe e dice stoico: “Nella malaugurata ipotesi che tutto vada male…
pensate che lasceremo Serenity in mezzo ad una strada? Oppure lasceremo Alex
prigioniero dei Karkaroff?”. Lo ripete con una voce talmente sicura e calma da
non indurmi la benché minima rimostranza, anzi mi fa sentire quasi in colpa per
aver fatto una domanda simile. Il suo tono è così convincente che nemmeno Draco
replica nulla, nemmeno quando Dean prosegue: “Io e Pansy… siamo gli unici, qui,
ad essere regolarmente sposati e a non avere una masnada di figli come Harry… se dovesse succedervi qualcosa, se non
doveste tornare… e se a voi va bene, ad entrambi intendo… ci prenderemmo noi
cura di Alex e Serenity… li cresceremmo come figli nostri…”.
È un attimo così forte, così potente che, senza
nemmeno rendermene conto, mi ritrovo ad asciugarmi di nascosto le lacrime dagli
occhi, annuendo con vergogna. Ripenso alle riflessioni di ieri mattina, di come
avessi notato la differenza tra i nostri figli e Charisma, di come avessi
invidiato il modo leggero e spensierato in cui lei è stata cresciuta.
Non ci sarebbe soluzione migliore, se Alex
dovesse restare solo.
Dean è un ottimo padre: è comprensivo, paziente,
giocherellone. Renderebbe la mia perdita più tollerabile per mio figlio. E
Pansy è sufficientemente aspra e sarcastica, da pungolarlo pur di farlo
reagire. Avrebbe Charisma vicino, che vede già come una sorella, e ciò lo
spingerebbe ad accettare meglio anche Serenity. Inoltre, alla nostra morte,
loro dovrebbero essere al sicuro. Adamar, ormai, non dovrebbe avere nessun
interesse a perseguitare Alex e la sua nuova famiglia. Non sono pensieri
piacevoli, non lo sono affatto, specie perché si accompagnano all’ansia e
all’angoscia che potrei morire senza aver rivisto e senza aver di nuovo parlato
con il mio bambino. È questo che mi fa sentire maggiormente condannata, è
questo che d’improvviso mi provoca un’angoscia tale che vorrei solamente
scappare e correre via, codarda ma salva. Il
pensiero di non poterlo vedere crescere, innamorarsi e vivere la sua vita…
andarmene, senza nemmeno provare ad immaginare che cosa diventeranno il suo
viso, i suoi occhi, i suoi gesti, quando non sarà più così piccolo. Forse,
potrei non esserci quando andrà a scuola per la prima volta. Forse, potrei non
esserci quando insisterà per andare a studiare con un’amichetta. Forse, potrei
non esserci quando andrà ad Hogwarts. Forse, potrei non esserci quando si farà
la barba per la prima volta, o quando vorrà imparare a farsi da solo il nodo
della cravatta, o quando non capirà un compito di Pozioni e si lambiccherà il
cervello per venirne a capo. Senza di me, senza me. E senza neanche Draco. E
lui… neanche lo conosce suo figlio.
È quel pensiero che mi sospinge coraggio nei
polmoni.
Draco.
Ricordarmi che non conosce suo figlio per colpa
di Adamar e dei Karkaroff. Ricordarmi che, nonostante tutto, voglio
disperatamente che questa catena di sudditanza a forze più grandi di me, di
noi, si interrompa adesso, fosse anche con la mia morte. Ricordarmi che io,
prima di morire, ho dei ricordi di Alex e persino di Serenity da portarmi
appresso. Lui, di nostro figlio, non ha nulla. Eppure è lì, fermo, saldo, con
solo una patina negli occhi, ad affrontare questa cosa assieme a me. A me che,
comunque la si metta, gli ho fatto così male. Ricambiata, certo.
Ma sempre più fortunata di lui, sempre.
Annuisco finalmente a Dean, senza dire altro. Era
una speranza che non avrei nemmeno osato concepire, ma sono così grata loro
che, adesso, con questo pensiero mi sento persino più spinta ad affrontare la
Solutio damnationis. Al cenno di assenso silente di Draco, che, senza eccessive
parole, dà anche lui il suo consenso, ci accordiamo in modo rapido e fulmineo
sulla possibilità di firmare dei documenti per la loro custodia, prima di
affrontare Adamar. Harry dice che garantirà lui, naturalmente, impegnandosi al
contempo per far sì che i Greengrass continuino a non sapere nulla di Serenity
stessa, cosa che viene accolta da Draco con sollievo malcelato. Nessuno,
neanche Ron, ha da dire nulla sulla soluzione, Kevin promette che, in quel
caso, lui e Seth daranno una mano a Pansy e Dean. L’unico che sembra
contrariato, è Zabini che, come ho precisato, non è stato molto collaborativo
fino ad ora. Se n’è rimasto seduto sui gradini del gazebo, dandoci volutamente
le spalle. Solo quando sente questa questione, volta lievemente il capo,
incrociando lo sguardo duro di agata di Dean. Ma, comprendo subito, i miei
figli non c’entrano niente. E’ facile capire che cosa lo abbia fatto reagire.
L’allusione a Pansy e Dean, al loro matrimonio. Non lo accetterà mai.
“Mi pare ovvio che, durante la Solutio
damnationis, Serenity sarà fuori da ogni pericolo…” riprende Helder, la voce
più incrinata rispetto a prima “Probabilmente sarà il caso che restino con lei
Pansy e Seth, se siete d’accordo… nel suo attuale stato, Pansy è meglio che
stia del tutto fuori dalla vicenda. Non voglio che si prenda dei rischi insensati
a carico della bambina che porta in grembo…”, Dean annuisce grato con un lieve
sorriso ed ancora una volta Blaise si irrigidisce, ma stavolta non si volta,
restando ostinatamente di spalle “E riguardo a Seth, insomma, ammetterete che è
la soluzione migliore per intrattenere i bambini…”. Stavolta è Kevin ad annuire
con un sorriso, gli occhi blu colmi di luce.
“… per quanto riguarda Alex… probabilmente, se
voi…”, Helder esita e lascia in sospeso la frase, confermando naturalmente che,
con me e Draco morti, Alex non corre nessun pericolo “Insomma, se la Solutio
damnationis, finisce male… i Karkaroff non dovrebbero avere più interesse in
lui… e riguardo ai tempi della Solutio damnationis e a come arginare il
pericolo dell’assimilazione definitiva con Dimitri, ho un paio di idee… ma a
questo punto sarà meglio che vi dica per filo e per segno come ho intenzione di
agire, sempre se voi siete d’accordo, così da spiegare anche il compito di
tutti gli altri…
“Come potete immaginare sulla Solutio
damnationis non abbiamo certezze o conoscenze, i soli che l’hanno subita sono
morti durante la prova, quindi non si può sapere né quanto duri, né in che cosa
consista. Potrebbe durare secondi, come potrebbe durare settimane intere.
Sappiamo, però, che ha delle conseguenze negative, qualora inizi ad andare
male. Viene liberata energia malvagia in forma di sentimenti malevoli, a causa
della corruzione che Adamar cerca di portare sul sentimento puro, indipendentemente
dal fatto che lui rispetti o meno le modalità della prova. Naturalmente, questo
è un rischio che non possiamo correre, nessuno può farlo… se anche la prova
finisse bene, la liberazione di queste ondate di negatività comporterebbe degli
sconvolgimenti mondiali, che potrebbero durare anni. Ed è qui che intervengono
i maghi e le streghe che ho convocato, e che spero arriveranno ancora. Il
principio è creare una barriera magica attorno al luogo della Solutio
damnationis, quanto più grande possibile, così che i sentimenti negativi non
possano diffondersi… e non è complicata da realizzare, se si hanno molti maghi
e streghe a disposizione. Vi ho anticipato che i Dissennatori sono una creazione
di Adamar, delle sue emanazioni che hanno un potere molto simile a lui… il
rimedio ad essi è il Patronus ovviamente, che dà
forma a sentimenti positivi in grado di contrastare il male. Adottando questa
logica, possiamo pensare di conseguenza che una barriera di Patronus
possa ovviare alle conseguenze della Solutio damnationis, preservando la
popolazione innocente. Tanto più saranno i maghi e le streghe… tanto più la
barriera sarà potente. Ed è a questo che servirete voi…”.
Quando finalmente il compito dei miei amici
viene chiarito, mi rassicuro ancora: non si tratta di nulla di pericoloso, o
difficile da realizzare. Tutti sembrano disponibili a tale compito che si
rivela, rispetto a quello che aspetta me e Draco, comunque più facile del previsto.
Naturalmente è sempre meglio che Pansy ne resti fuori a causa della gravidanza,
ma per gli altri non ci dovrebbero essere rischi.
“Ovviamente una tale barriera non è propriamente
discreta ed invisibile… e comunque qualcosa potrebbe filtrare fuori…” prosegue
Helder con compostezza, incrociando le mani sulle ginocchia “Una strega ed un
mago potrebbero anche difendersi… ma un babbano no. Per questo è necessario un
cordone di sicurezza per i babbani. È per questo che ho chiesto a Kevin di
venire qui, è un poliziotto, conosce le procedure, dovrebbe essere più semplice
per lui convincere le forze dell’ordine che ci sia un allarme bomba o qualcosa
del genere… Harry poteva contattare il Ministro babbano… ma i tempi si
sarebbero allungati troppo, ed abbiamo invece poco tempo…”, anche questo
finalmente diventa chiaro, facendomi meravigliare di come Helder sia riuscita a
mettere assieme tutti i nostri talenti e le forze che possediamo. Io, così
abituata a fare sempre tutto da sola, probabilmente non ci avrei nemmeno
pensato. Lei, invece, che fa della capacità di pensare a tutti il suo potere,
ha ovviamente arginato ogni possibilità che le cose vadano male. Kevin,
naturalmente, annuisce convinto, dicendo che non dovrebbe avere problemi
eccessivi.
“Di tempo ne abbiamo davvero pochissimo…”
continua Helder, con voce affrettata ed affannosa “Domani sera scade
l’ultimatum di Karkaroff: alla luna piena l’assimilazione di Alex sarà
completa. Inoltre, dobbiamo stringere i tempi per sfruttare l’effetto sorpresa
ed impedire che Adamar capisca che volete provare la Solutio damnationis… meno
preparato è, più possibilità avrete di farcela…”.
“Tecnicamente, però, noi non sappiamo nemmeno
dove siano…” obietto con un filo di voce “Come facciamo a sorprenderli?”.
“Per quello… per trovarli, intendo… credo che ci
sia il ciondolo di Tatia…” sorride incoraggiante Helder, facendo un cenno verso
la goccia d’ambra che mi brilla al collo “Hai un solo desiderio, no? Il
desiderio di una madre per un figlio… chiedili semplicemente di trovare tuo
figlio. Probabilmente Raissa e Dimitri sono nascosti dalla Titanca… e forse
l’hanno fatta prendere anche ad Alex, così che gli Empatici non lo trovino,
anche se si avvicinassero a lui. Ma non dovrebbe essere complesso e neanche equivoco
per il potere del ciondolo chiedergli di rintracciare tuo figlio…”.
Hai già tutto quello che serve, Hermione Granger… hai sempre avuto
tutto, Hermione Granger. Solo che non lo sai, non l’hai mai saputo. Anche
stavolta sarà così…
Tatia aveva già cercato di dirmi tutto, in quel
sogno. Persino del ciondolo, quando mi aveva ammonito di non toglierlo.
Lo avevo scambiato per un’arma, ed invece era
solo un pezzetto di questo intricato piano.
“Attaccando all’alba, avremo un ragionevole
lasso di tempo, prima che Dimitri completi l’assimilazione…” la voce di Helder
assume un colore più scuro, come se d’improvviso, dopo tutto quello che ci ha
detto, fosse più esitante nel proseguire “Ha bisogno della luna piena per
completarla. E, certo, non sappiamo quanto la prova possa durare, ma dovremmo
avere tempo prima che l’assimilazione di Alex sia completa. E, se si dovesse
protrarre oltre… ho anche il modo per impedire che la completi…”.
“Come?” chiedo, con una strana fitta d’angoscia.
Strana sì, perché non è che fino ad ora, siamo propri stati nel racconto di
un’allegra scampagnata al mare. E c’è l’altissima possibilità che tutto vada
verso la mia prematura scomparsa, visto che io e Draco non ci fidiamo nemmeno
l’una dell’altro e non sappiamo nemmeno fino a che punto ci amiamo davvero o
sia solo un ricordo intriso di rimpianto... quindi non è che mi incammino verso
la Solutio damnationis e verso questo piano, colma di fiducia e speranza.
Eppure, Helder, che è stata sempre chiara fino ad ora e poco incline a farci
illudere, adesso sembra improvvisamente titubante e restia a parlare. E capisco
subito che ciò che deve impedire il completamento dell’assimilazione, non
dipende da me o da Draco, probabilmente già morti o in procinto di morire o
ancora impegnati in questa prova dannata… dipende da qualcun altro, a cui sta
per affibbiare il compito più pericoloso, dopo quello che darà a me e Draco.
E, con un brivido, prima ancora che parli, so
perfettamente a chi lo darà.
“Se dobbiamo ingannare Adamar… dobbiamo ingannare
anche Raissa e Dimitri…” comincia Helder, la sua voce è flebile e sottile “Non
devono sospettare nulla, né notare nulla di strano in voi che li faccia
presagire qualcosa di strano… quindi deve sembrare che siate giunti ad
adempiere alle loro richieste. Sarete distrutti dall’odio e dal rancore,
probabilmente dovremmo anche inscenare che sia Draco a voler consegnare
Hermione. Ma soprattutto…”.
“… soprattutto… io devo essere morto, no?” completa Ilai, dando voce a
tutti i miei sospetti. Le mie mani iniziano a tremare prima ancora che me ne
renda conto, e faccio ogni sforzo possibile per simulare tranquillità e
freddezza, dato che sono sempre di fronte a Draco e a Ron, e non mi pare il
caso di trasformare questo momento in un teen-drama, dove devo dimostrare a chi
tengo di più. Riesco a fingere un’ombrosa calma, perché sono naturalmente
sicura che Helder non può proporre davvero
di uccidere Ilai. Eppure, la pelle sudata del suo volto ed il fatto che i suoi
occhi dardeggiano continuamente nei miei, come a cercare assenso a quello che
sta per fare, mi fanno sentire inquieta e nervosa.
“Sì…” annuisce lei pensosamente, guardandolo “I
Karkaroff si aspettano il tuo cadavere. Quindi vederti morto… porterebbe
decisamente meno attenzione da parte loro a Draco ed Hermione…”.
Ok, adesso arriva la parte dove dice come si finge la morte, in un modo
ancora sconosciuto.
“Devi, però, sapere che quello che ti sto per
proporre, Radcenko…” Helder respira a fondo, con calma, come se si volesse
rassicurare da sola, cosa che porta ulteriormente me a sentirmi andare a fuoco
dall’angoscia “… non è stato mai provato prima… quindi c’è l’altissima
possibilità che tu non ne esca vivo sul serio…”. Mi muovo ancora sulla sedia,
innervosita, tormentata, agitata: non posso sopportare che lui rischi la vita
per me, non esiste. Tatia... le ho promesso che sarebbe stato al sicuro, che
non gli sarebbe successo nulla. Se io e Draco rischiamo la vita… è diverso.
Siamo uniti da questa circostanza, siamo uniti come genitori… abbiamo un legame
che presuppone anche questo. Ma Ilai è qui, per caso, per una fatalità che lo
ha portato qui. Non posso permettere che rischi anche lui, che rischi uno solo
dei miei amici in questa storia. E sto odiando decisamente Helder anche solo
per proporlo. Perché lui accetterà, già lo so. Non si tirerà indietro, non lo
farà. Ed è infatti quello che succede.
Ilai, la mascella serrata, gli occhi tersi,
risponde ad Helder, ma puntando dritto gli occhi nei miei, come se a me in
realtà che stesse parlando. Ha la voce tenue ma sicura, quando dice: “Non mi
terreste fuori nemmeno volendo… quello di cui c’è bisogno… io lo farò…”.
“Stai scherzando, vero?!” chiedo d’improvviso,
non riuscendomi più a trattenere, sebbene sia perfettamente conscia che, così,
ho attirato l’attenzione tanto di Ron che degli altri, quanto di Draco.
Stringendo i pugni, lo guardo assolutamente sconvolta, con il fiato corto e il
viso rosso: “Io… non ti permetterò di rischiare la vita per me…”.
“Qua rischiamo tutti la vita, Granger, o non hai
capito la parte sul fatto che ci potremo lasciare le penne?!” interviene Draco,
con voce affannata e spezzata, guardandomi dall’alto in basso come se volesse
fulminarmi “Non vedo perché Radcenko non debba dimostrare la sua grandiosa utilità…”. Gli lancio
un’occhiata infastidita, prima di replicare a suoni mozzicati: “Perché… in
questa storia ci siamo dentro io e te e basta… io e te siamo i genitori di
Alex, io e te abbiamo fatto scattare questa dannata cosa con Adamar… ed io e te
la dobbiamo finire! Nessuno deve finirci in mezzo, tantomeno lui…”.
“Ah siamo a questo… Radcenko è degradato a terzo
incomodo?” sibila freddamente Draco, fraintendendo volutamente il senso delle
mie parole e pungolandomi sarcastico, prima di rivolgersi con scherno a lui:
“Scusa amico… ma la Granger è una donna molto volubile… solo io resto immutato destinatario del suo amore…”. Lo dice con un
tono talmente tronfio, spavaldo e convinto, che vorrei davvero prenderlo a
pugni, cosa che si palesa fastidiosamente prossima, quando irride anche Ron:
“Immagina tu, quindi, di quanto sei retrocesso…”.
“Malfoy, dobbiamo ripetere la meravigliosa scenetta della calma
indotta?!” lo minaccia Helder, come farebbe con un moccioso dell’asilo che sta
facendo i capricci, salvandolo dalla possibilità che la calma gliela faccia
venire io attraverso il rigormortis
dopo averlo fatto trapassare, poi con il medesimo tono si rivolge a me,
guardandomi storto: “Radcenko ha il diritto di decidere e di ascoltare la mia
proposta, come avete fatto voi… dopo, quando sarò andata a recuperare la mia
sanità mentale a seguito di quest’estenuante conversazione, sarai libera di
fare a lui le tue rimostranze e di inventarti un altro modo di agire…”. Taccio
nervosa, incrociando le braccia con sussiego, ripromettendomi che la questione
è solo rimandata e che troverò un altro modo di muoverci e che non implichi
mettere a rischio Ilai.
La mia reazione, naturalmente, non passa
indifferente e sotto silenzio: mi rendo conto subito che, adesso,
improvvisamente Ron si è accorto di Ilai, lo squadra dalla testa ai piedi,
probabilmente chiedendosi che cosa nasconda quello che, fino a poco fa,
immaginava essere solo il vedovo di Tatia Krasova. Harry, a sua volta, lo fissa
con la coda dell’occhio e con il tipico sguardo da raccoglitore di particolari
da riferire a Ginny. Ho lasciato naturalmente intendere che ci sia qualcosa tra
me e lui… e le parole di Draco hanno fatto il resto. Se alla mia preoccupazione
potevano obiettare che era una cosa normale e che avrei fatto, ovviamente, lo
stesso per chiunque altro, adesso un sottotesto di sospetto si è insinuato in
loro.
Se Draco Malfoy per una volta mi rendesse le cose più semplici invece
che più complesse, quel giorno sarebbe festa nazionale in tutti e cinque i
continenti.
“Dimitri ha bisogno della luce della luna piena
per completare l’incantesimo di assimilazione di Alex, è una formula che ho
studiato anni fa…” riprende Helder, massaggiandosi le tempie “Ovviamente è una
formula in possesso degli Indicibili, per quello la conosco… e Dimitri la
conosce, perché è scritta, quindi naturalmente è nella sua memoria… la luna
piena sorgerà domani sera, quindi per quello vi ha dato tale ultimatum… ma noi
abbiamo intenzione di attaccare all’alba. Però, non sappiamo quanto la Solutio
damnationis duri…e, del resto, non
sappiamo che livelli di difesa abbia instaurato Dimitri… potrebbe esserci
proibito l’accesso, tranne che a voi… e al cadavere di Ilai Radcenko,
naturalmente… è sostanzialmente cogliere due piccioni con una fava: non far
insospettire i Karkaroff, consegnandogli appunto il corpo di Ilai, e dall’altra
parte avere un basista, una sorta di cavallo di Troia, quando voi sarete
impegnati con la Solutio damnationis… il metodo per creare queste condizioni è
qualcosa di intentato, stupido e rischioso… perché in realtà… non si tratta di
simulare un decesso… ma di ammazzarti sul serio, Ilai…”.
Ovviamente sbianco, aggrappandomi alla sedia e
sporgendomi come se stessi vincolata ad ogni parola di Helder, solo per
impedire di soffocare, come se fosse il solo ossigeno rimasto. Non può stare proponendo sul serio… di
ucciderlo. Ilai, calmo come sempre, si schiarisce semplicemente la voce che
reca comunque una traccia di esitazione, mentre si dichiara disposto a
conoscere questo metodo, esortando Helder a parlare.
“E’ complicato da spiegare, cercherò di farla
semplice con un esempio…” riprende Helder con voce netta, gesticolando con
attenzione “Conoscete il trasferimento di chiamata?”, non riuscendo a capire
dove diamine stia andando a parare questo discorso assurdo, annuisco con il
capo assieme agli altri.
“E’ un servizio offerto da tutti i principali
gestori di telefonia che permette di deviare le chiamate che si ricevono su un
dato numero verso un altro, qualora il primo sia occupato o non disponibile. Al
momento, Hermione e Draco, per gli Empatici, sono come due telefoni muti o
occupati. La connessione stabilita dal Segno di Fuoco esiste ancora
naturalmente… ma con la Titanca ne abbiamo eliminato gli effetti. E quindi, se
mi concentro su di loro… arrivo a loro, ecco, ma non li sento. È come appunto
fare una chiamata, ad un numero a cui nessuno risponde… fino a quando la
chiamata non viene deviata. E ti risponde qualcuno che, invece, non ha la
Titanca nel suo corpo… ed è perfettamente sensibile all’Empatia. Non si può
deviare questa connessione con una persona qualunque… non posso, che ne so,
stabilirla con Dean o con Ron… ma con Ilai questo può riuscire… perché lui ed
Hermione sono… legati, ecco…”.
“Che diamine significa che sono legati, Empatica?!” l’interrompe
nervosamente Draco, staccandosi dalla colonna su cui era appoggiato.
Arrossisco, abbassando lo sguardo, questa
giornata, probabilmente l’ultima della mia vita, sarà anche ricordata come la
giornata più dannatamente frustrante
ed imbarazzante della mia esistenza.
“La
sensazione di conoscere una persona da sempre…” prosegue Helder, guardando
me ed Ilai, io rifiuto anche solo di prendere in considerazione il pensiero di
alzare di poco lo sguardo “L’ho sentita in Hermione, quando avevo accesso ai suoi
pensieri… empaticamente si chiama Assonanza alchemica. È all’origine dei più
diversi rapporti umani, Assonanti alchemici possono essere amici del cuore,
fratelli e sorelle, padri e figli, mariti e moglie, innamorati divisi… per
sempre si sentiranno meglio di qualsiasi altra persona al mondo. Si parla di
sensazioni appunto, poi sta nella vita della persona far fruttificare o meno
un’Assonanza… considerando che spesso non avere schermi, né barriere con
un’altra persona, può anche essere una cosa sommamente sgradita, e per altri
invece infinitamente desiderabile. Comunque, tornando a noi, l’Assonanza è
anche una condizione magica, che consente maggiori capacità nella Legilimanzia,
nella Telepatia… e difatti Hermione ed Ilai hanno combattuto contro Dimitri,
sfruttando inconsciamente questo meccanismo… esistendo quest’Assonanza è
possibile deviare appunto la connessione di Hermione con gli Empatici su Ilai…
sarebbe quindi collegato a noi. E questo collegamento è biunivoco, lo è sempre
stato… solo che ovviamente Draco ed Hermione non se ne sono accorti, o non
hanno fatto in tempo ad accorgersene… aprendo la connessione con Ilai, potremmo
trasmettergli mentalmente tutto ciò di cui ha bisogno… in particolar modo, se
la Solutio damnationis si protraesse ed arrivasse la notte. Esistono
duecentottanta cinque incantesimi, settecento nove pozioni e cinquantadue
rimedi babbani, per nascondere la luna ed impedire così l’assimilazione. Gli
Empatici, come parte dell’accordo se doveste accettare la Solutio damnationis,
si impegnano a liberare ad ogni costo vostro figlio. E quindi stanno studiando
i rimedi contro la luna, proprio in questo momento… Dimitri conoscerà anche il
modo di contrastarli, tutti fino all’ultimo. Ma il modo di fargli perdere tempo
per l’intera notte, lo troviamo. E dovessimo andare oltre la notte… Ilai
sarebbe sempre lì, a studiare la situazione con i suoi occhi… elaboreremmo in
divenire un’altra strategia, passo dopo passo, fosse anche quella di irrompere
in forze nel luogo dove sono nascosti… morirò io stessa, pur di portare Alex in
salvo, quando ormai non sarà assimilato a Dimitri… ma, e qui arriviamo alla
parte peggiore… Ilai potrà entrare in quel luogo, solo se morto. E con morto… si intende morto sul serio, non esistono trucchi con Dimitri e Raissa che non
conoscano per poter simulare la sua dipartita… quindi dobbiamo sfruttare la
connessione con gli Empatici, il loro sapere è la sola pecca dei Karkaroff… non
esiste nulla, però, di Empatico che abbia un effetto di simulazione di tale
tipo. Tranne appunto… ucciderti sul serio…”,
finalmente sollevo gli occhi guardando Helder ancora più sbigottita, un eco
dello sguardo di Draco resta su di me, laconico ed assente, ma cerco a fatica
di ignorarlo. Ilai, in tutto questo, resta pacato, chiedendo ad Helder di
proseguire.
“Il corpo fa ciò che la mente comanda, ciò che
il cuore comanda…” spiega lei con pazienza incerta “Mediante la connessione
aperta, sarà possibile modulare la gamma delle tue emozioni, fino ad indurti
stati di sofferenza, di dolore, di disperazione, di angoscia, in proporzione
tale… da mandarti in arresto cardiaco.
Alternando poi queste sensazioni ad alcune più positive, che avranno l’effetto
di renderti tachicardico, dovremmo riuscire a mantenerti ad un ritmo vitale
molto basso, in modo da far sì che tu non muoia… ma, attraverso i tuoi occhi,
vedremo quando i Karkaroff saranno vicini a te o ausculteranno il tuo cuore… ed
allora ti indurremo l’arresto cardiaco. Almeno fino a quando Hermione e Draco
avranno invocato la Solutio damnationis… dopo… ripristineremo il tuo battito
normale ed il naturale corso delle tue sensazioni. Cercheremo naturalmente di
non tenerti in arresto cardiaco oltre i quattro minuti, che sono il tetto
massimo per non avere danni irreversibili… ma… il tuo cuore… potrebbe non farcela comunque… potrebbe non resistere
a questo sovraccarico di emozioni, come non potrebbe resistere a questi ritmi
forsennati. Ti alleneremo, certo, a sopportarlo, ma dipende dalla forza del tuo
organismo… e tu… potresti morire sul serio, Ilai…”.
Se il discorso su me e Draco, sulla leggenda
millenaria che ci unisce, sulla Solutio damnationis e sullo scontro con Adamar,
mi è sembrato quasi folcloristico ma, dopo tante vicissitudini, quasi
impossibile da non prendere in considerazione come vero, la parte su Ilai, per
quanto me la ripeta nel cervello, è semplicemente assurda. E non riesco nemmeno
a guardare Helder, senza pensare che non doveva nemmeno sognarsi di proporla,
specie sfruttando questa specie di legame incomprensibile che abbiamo. Se morisse… se gli accadesse… probabilmente
lo sentirei dentro, come se stesse accadendo a me.
Ha detto che è un crimine controllare le
emozioni altrui, e con lui vorrebbero farlo, al punto da mandarlo avanti ed
indietro dalla morte? È carne da macello fino a questo punto? Lo siamo tutti,
fino a questo punto? Io e Draco… posso accettarlo, posso accettare di essere
una semplice marionetta. Lo facciamo per nostro figlio. Perché dovrebbe farlo
Ilai? Che cosa c’entra lui?
Se Ilai affronta da solo i Karkaroff… muore. Con un singulto interno, mi
ricordo delle parole di Tatia, della sua lettera: ecco che voleva dire. Ilai
morirà, se affronterà i Karkaroff, accadrà sul serio.
La
sola incognita è se
tornerà indietro.
Non
posso permetterglielo, semplicemente non posso.
Sto
già per aprire bocca, urlando tutto il mio disgusto e sdegno, incurante di chi
mi circonda, quando Ilai si alza in piedi e risponde sicuro ad Helder, ma senza
smettere un secondo di guardare me. Intercetto per un attimo gli occhi di
Draco, fissi di acciaio su di me, ma cerco di non farmene distrarre.
“Se
è il solo modo concreto di aiutare Alex…” risponde quieto e serio Ilai, non una
singola esitazione nella voce “… lo farò. Qualsiasi tipo di rischio vale la
salvezza di quel bambino, specie se la Solutio damnationis va male. In questa
storia… sono in debito… e questo è il minimo che io possa fare… mi allenerai a
sopportarlo, Helder…”.
Ilai
non aggiunge altro, si alza e va via, lasciandomi con un senso di amaro in
bocca che non riesco a mandare via. Tutto questo… è sbagliato. È sbagliato,
maledizione.
Mi
riprometto di parlare con lui, mi riprometto di fermarlo, mi riprometto di
trovare un altro modo…
…
eppure quando Helder mi chiede, alla fine, se proverò davvero la Solutio
damnationis… quando lo chiede anche a Draco…
Capitolo 43 *** The ballad of silver linings part 1 ***
Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola
tesa da Astoria, alias SummerLayton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per
uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione,
ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir
che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante
rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass,
che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson,
per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a
parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che
l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco
per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia
conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico
modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per
lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da BlaiseZabini per farli vedere a
Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione
sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo
risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un
demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e
Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione
stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco
fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli
restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco
ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere
le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto
d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a
tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono
dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per
rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una
spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi,
sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua
passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo
sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno,
quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad
Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo
l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena,
crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che
Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano
momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro,
dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e
a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove
Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato
via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più
vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete
che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto
Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si
era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio
per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione
di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden,
l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente
e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello
di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge
Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che
sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo
con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della
gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia
da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte
violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si
trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un
matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed
Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una
traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco,
incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di
nome TatiaKrasova gli
aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di
lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione,
Dean, Pansy e Seth scoprono che TatiaKrasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e
nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un
probabile contatto tra le due. Tatia non voleva che
Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla
scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di TatiaKrasova: era in Finlandia
dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla
ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è
accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene
fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico,
aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli
Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che
innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano
innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia
e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che
suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome
dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in
Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una
cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum
la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa;
distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per
la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma,
alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di
partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una
lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire
che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela
vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver
intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire
Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere
Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda,
accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione
diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il
figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai,
poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è
idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami
intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano,
quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco
scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo
figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente e psicologicamente, minando forse
per sempre la fiducia nei confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più
complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica
Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il
demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e
riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che
testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima,
assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al
ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una
serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del
demone: solo loro possono invocare la Solutiodamnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la
distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa
esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione
disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutiodamnationis è però
l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza
dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti
i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe
avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai
Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed
empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di
non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova
vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutiodamnationis.
Capitolo 43 – The ballad of silver linings part 1
Questo potrebbe essere l’ultimo tramonto che vedo.
Un pensiero
del genere potrebbe uccidere prima ancora che lo faccia qualcos’altro. Lo so. È
la prima regola della sopravvivenza: non trastullarti in dettagli romantici e
melensi su quello che stai perdendo, o potresti perdere sul serio tutto.
Affrontare la morte non richiede paura se non nella dose necessaria a diventare
coraggio.
E c’è un
punto di equilibrio, un punto morbido e nascosto, dove si deve restare
assolutamente immoti e fermi per poterne trarre forza. È il punto dove hai un
piede nella rievocazione nostalgica di ciò che stai lasciando alle spalle e che
non puoi mai dimenticare, altrimenti diventeresti incosciente ed affronteresti
il pericolo senza la necessaria premeditazione; ed un piede invece nel distacco
cinico, nella dimenticanza di ciò che ti circonda, e dove ne trai freddezza e
spavalderia. Devi salutare il mondo, come se fossi già fiero e soddisfatto di
ciò che ti ha dato.
Come se questo fosse davvero possibile.
Quando
diventai Auror mi dissero che, se non riuscivo a
trovare quel benedetto punto di equilibrio, l’isolamento sarebbe stata la cosa
migliore. Stando soli, difficilmente i sentimenti di rimpianto e ricordo
filtrano in modo così mortificante da farti mancare la forza. La gelida
determinazione che, invece, trai dalla solitudine, non può essere scalfita
facilmente.
E così io,
schiacciata, piegata e sconfitta dal turbinio di una vita ancora giovane ed
irrisolta a cui devo rassegnarmi a dire un ben probabile addio, mi sono
arrampicata sul tetto per restare da sola, per recuperare lucidità e logica,
per infondermi una forza benigna che ancora non provo al pensiero di affrontare
Adamar e, realisticamente, non tornarne viva.
Ad occhi
chiusi, seduta sulle tegole del tetto, le ginocchia abbracciate al petto, ho potuto
ignorare per ben un’ora le volute argentee dei fumi dei vari Patronus che salivano in cielo, mentre la gente nel
giardino, corsa ad aiutarci in questa missione suicida, si esercitava
nell’incanto che dovrebbe tenere a freno il potere negativo di Adamar.
Le voci
erano anch’esse facili da ignorare: si trattava di squillanti saluti e moti
repressi a stento di ilarità, frutto di incontri che probabilmente non
avvenivano da anni. Io stessa ho rivisto persone che, davvero, non credevo che
ancora si ricordassero di me e ci tenessero alla mia persona. Seamus, Calì, Neville, Luna, ifratelli Weasley, ma anche Hannah
Abbott, Cho Chang, Penelope Light, Terry Steeval. Ognuno mi ha accolto con gioia e
sollievo, dichiarandosi felice di mettersi a mia completa disposizione per
salvare mio figlio.
Nessuno di
loro sa di preciso che cosa stia accadendo, Helder dice che è meglio che la
questione della Solutiodamnationis
resti solo nostra, affinché nulla trapeli troppo e giunga eventualmente ad
Adamar: per questo, lei stessa controlla scrupolosamente la gente che entra in
casa e che Ginny continua ad arruolare, verificando che non siano anch’esse
persone controllate da Adamar.
I miei ex
compagni ed amici sanno quindi di dover lottare contro un nemico, di cui non
possono sapere molto per motivi di sicurezza: ma non se ne dolgono granché. C’è
ben altro di cui poter conversare, appestando l’aria di brusii e motti di
sorpresa. In poche parole e qualche rapida occhiata, buona parte del mondo
magico, avvezza da anni ormai all’ignoranza e alla dimenticanza su di me e
Draco Malfoy, ha scoperto che non solo lui è vivo, ma ha avuto una relazione a
dir poco improbabile con la sottoscritta e da cui è nato un bambino di nome
Alex.
E questo
basterebbe a metterci sulle copertine di ogni giornale per mesi.
Che abbia di
meglio a cui pensare adesso, non significa, però, che possa sopportare le
lunghe occhiate che mi vengono riservate tra un saluto e l’altro, tra un
abbraccio e l’altro, tra un bacio e l’altro, infarciti spesso di commenti mozzicati
e risate che contribuiscono a rabbuiarmi: tutto questo, peraltro, devo
sopportarlo da sola, dato che di Serpeverde tornati ce ne sono davvero pochi,
quindi Draco non ha alcuna occasione di doversi intrattenere in civili
convenevoli. Anzi, si è chiuso nella sua camera e preferisce starsene per i
fatti suoi, e non posso nemmeno rimproverarlo o ingiungergli di collaborare,
dato che, per questa prova di Adamar, non può esserci alcun genere di
preparazione. Preparazione che, invece, sta affrontando Ilai che, dopo le
spiegazioni di Helder, è stato prelevato da un paio di Empatici prima ancora
che io potessi fare tutte le mie rimostranze al pericoloso piano che lo
riguarda. A questo si aggiunge la delicata faccenda tra Pansy, Blaise e Dean, che provoca scintille elettriche
percettibili in ogni parte della casa: Seth, Natalie e i bambini vengono quindi
usati come comodi parafulmine, per impedire che quei tre restino da soli a
scannarsi. Harry, assieme a Ron, ovviamente si sta dando ad una sorta di
controllo generale di tutto e tutti, cosa che secondo me gli ricorda
enormemente le riunioni dell’ES, riempiendolo di sollievo cauto. E Kevin è
andato via per organizzare la parte del piano che gli compete.
Ed io,
dunque, alla fine ho preso esempio da Malfoy: starmene per i fatti miei era la
cosa migliore. Sono apparentemente priva di occupazione, se non quella di
impensierirmi per il mio bambino e angosciarmi saltuariamente per quello che
accadrà se non dovessi farcela. Il tetto, quindi, come sempre, è stato per me
il ricovero ideale: starmene in pace, sopra tutto e tutti, ad ignorare il conto
alla rovescia del mio sangue che scorre verso la fine. Il segnale della fine,
in fondo, è difficile da ignorare o da dimenticare: è l’alba, Helder ha detto
che ci muoveremo appena trascorsa questa notte.
Una notte insonne, naturalmente: quindi non è che
c’è pericolo che non mi accorga di quando arrivi il momento, dormendo troppo.
Mentre il
sole descriveva la sua curva luminosa nel cielo, richiamato dietro l’orizzonte,
mi sono ricordata della lezione di autocontrollo del mio maestro ai tempi del
corso per Auror. Ho chiuso gli occhi, cercando di
concentrarmi e di ignorare ogni spinta al rammarico, al terrore o al ricordo
che provenisse dalla mia mente e dal mio cuore; ma, dentro di me, qualcosa
emergeva sempre più forte, sempre più incontrollabile, sempre più travolgente,
finché mi ha aperto gli occhi nella luce del tramonto, rendendo i miei occhi
specchi lucidi color rubino.
Mi accorgo
che le mie mani mi tremano, che il mio cuore batte più forte e che il respiro
arranca, e capisco che quel punto di equilibrio non lo troverò mai.
Perché posso accettare che questo sia il mio ultimo
giorno sulla Terra. Posso accettare che ci sia ancora tanto che io voglia fare
e che non farò. Posso accettare di dire addio a tutti. E posso persino
accettare di non rivedere più il mio bambino, purché con la mia morte io lo
liberi e lo salvi, affidandolo a mani amiche che veglino su di lui al posto
mio.
Ma c’è una cosa che non riesco ad accettare. Una sola,
in cui si perpetua l’esistenza stessa del mio fallimento.
Del nostro fallimento.
L’ultimo giorno su questa Terra, io lo passo lontana
dall’uomo che forse non ho mai smesso di amare.
Lo passo, sola, su un tetto a guardare il sole che
muore. Lui lo passa, solo, in una stanza a guardare sé stesso che muore.
Non siamo in grado di starci vicini nemmeno adesso
che, forse, è la fine. E così facendo, la stiamo davvero scrivendo la nostra
fine: perché solo sorreggendoci, solo recuperando l’amore che abbiamo, possiamo
vincere e tornare. Invece, a tutti e due è venuto naturale e scontato stare da
soli. Non c’è più nulla che ci riporti indietro, l’uno nell’altra, se non
nostro figlio.
E questo, nella prova contro Adamar, può significare
soltanto e davvero che ci distruggerà.
Vincerebbe un amore puro, disinteressato, sgombro,
pulito, senza dubbi, remore o rammarichi.
Forse noi non l’abbiamo mai provato. E questo sarà
davvero l’ultimo tramonto che vedo.
Respiro a lungo, mentre il sole scompare dietro gli alberi, tingendo il
cielo di arancio, verde ed indaco. La luna è già spuntata sulla linea bassa
dell’orizzonte, ha una luce smunta e triste e il suo ultimo spicchio è
ovviamente ancora mancante, determinando la sopravvivenza di Alex, la cui
assimilazione con Dimitri non è ancora completa. Una sola fase, e la luna sarà
piena… quando io sarò chissà dove e chissà in che condizioni.
Stanca, mi distendo supina, le braccia incrociate sotto la nuca, il
cielo che fiorisce di stelle. Nel petto che agghiaccia, sento la sensazione che
mi sto davvero distaccando da tutto, persino da Draco, persino da Alex… e forse
va bene così. Non ho bisogno di altre domande irrisolte, non ho bisogno di
portarmi dietro quesiti che non scioglierò mai. In fondo… va bene così.
Va bene anche trovare l’equilibrio nell’indifferenza verso tutto,
ormai.
Chiudo gli occhi, pronta persino ad addormentarmi perché ormai non mi
preoccupa più nulla, quando alle mie spalle sento un rumore quieto, gentile,
preoccupato. Per un attimo, una sciocca speranza tremula si accende nel fondo
di me stessa, poi sparisce fulminea, sedata dalla scarica ghiacciata della mia
calma apparente.
“Sapevo che eri qui…”.
Mi tiro bruscamente a sedere, dando comunque le spalle alla voce che mi
ha appena chiamato. La riconosco naturalmente, cosa che mi fa drizzare la
schiena come se fossi in punizione, prima che le mie mani si artiglino ad una
tegola, come se temessi di ruzzolare giù. Il vento spira un odore buono di mare
che è un ulteriore calcio subdolo agli stinchi: soffia ricordi vecchi eppure
non lontanissimi nel tempo, che stringono il cuore e mangiano il fiato.
Annuisco solo con il capo, l’eco della voce di Ron nella mia testa che echeggia
ancora come dentro una chiesa deserta. È una voce conosciuta, come quella di un
padre o di un fratello, è una conoscenza ormai quasi amniotica, che mi fa
percepire ogni pagliuzza di emozione nelle parole che si lascia sfuggire. Ha un
tono duro, rancoroso, nervoso, ma sempre stemperato da una dolcezza
irrinunciabile e che non riesce a dismettere, come una mania da impazzirci di
ossessione. È un tono che, con me, negli anni ha sempre usato, ha sempre avuto.
È il tono di quando litigavamo ad Hogwarts, il tono di quando stavamo assieme e
mi accusava di essere poco elastica, il tono di quando tentò di spiegarmi
perché mi aveva tradito con Lavanda. Ma, negli anni, in questi cinque anni, ha
assunto un colore più scuro che avevo erroneamente associato al fatto che fosse
cresciuto e si fosse fatto uomo. Poi, con il tempo, nel lampo gelido di una memoria
che non volevo saperne di lasciare andare, ho capito che invece era un tono
cieco di tristezza che, ormai, aveva sempre parlando con me. Ogni volta che mi
guardava… Ron vedeva Draco. E non riusciva a sopportarlo.
Adesso, ovviamente, dopo averlo lasciato in Italia per tornare qui,
quel velo di tristezza si è incancrenito, diventando sempre più pesante ed
opprimente, sfumando in una rabbia ulteriore che rende la sua voce ancora più
terrea e profonda. E, comprendo subito, quel tono suo malgrado dolce e tenero
non è per me. E’ per Alex, che da me ha sempre preso anima e cuore.
E Ron, ora che sono più lucida da ammetterlo, è stato la cosa più
vicina ad un padre che Alex abbia mai avuto.
E’ la verità incontrovertibile di quel pensiero, rinnegato fino a qualche
settimana fa, a mandarmi a fuoco il viso e a farmi luccicare gli occhi,
rendendomi conto di quanto questo potrebbe essere anche l’ultimo momento
in cui vedo Ron, ed ho occasione davvero di parlare con lui, da sola. Provando
almeno a chiedergli scusa, a lasciargli un buon ricordo di me, a ricacciare
indietro tutto quello che è successo… ma soprattutto, e lo capisco solamente
adesso, a dargli la certezza enorme e sconfinata di quanto sia stato importante
averlo vicino a me e a mio figlio in questi anni. Con la cocciutaggine del mio
amore per Draco, ho sporcato l’affetto innocente e sincero che c’era tra loro,
impedendo che diventassero in un modo naturale qualcosa di simile a padre e
figlio. Certo, magari non sarebbe stato giusto verso Draco… ma sarebbe stato
più giusto verso Alex e verso Ron stesso. Lasciarli liberi di essere loro
stessi, senza che io mi mettessi continuamente di mezzo con il mio rammarico e
ricordo. E adesso, sebbene forse sia tardi, sento di dovere questo a Ron, prima
di qualsiasi altra cosa.
Mi viene curiosamente da sorridere intenerita, mentre, voltandomi su me
stessa, dico piano all’ombra alle mie spalle: “La soffitta a casa nostra… ero
convinta che non ti fossi accorto che mi ci rintanavo sempre dentro…”. Ron
sembra esitare, resta per un attimo immobile a guardarmi e gli occhi blu sono
specchi incerti ed affranti. Poi qualcosa sembra convincerlo. Adesso, nella
luce slavata della luna, lo vedo finalmente in viso: è stanco, ha gli occhi
arrossati di sonno ed i capelli rossi disordinati, il volto è pallido e segnato
da profonde occhiaie scure. Eppure ha anche qualcosa di sottile e lieve
nell’espressione da spingermi persino a pensare che, in fondo, stia bene. Non
so perché e non so come, è come una sorta di… speranza… che nemmeno sembra
palesare a sé stesso. Un sollievo, quasi, da qualcosa che non so immaginare e
che, paradossalmente, sento che nemmeno mi riguarda. Meglio così, davvero…
spero davvero con tutte le mie forze che possa trovare qualcosa a cui
aggrapparsi, dopo il caos che ho gettato nella sua vita. Si torce le mani
nervosamente, palesando il suo conflitto interiore, le dita sono sporche del
colore di un pennarello verde e deduco che forse deve aver giocato con i
bambini fino ad ora. Forse… anzi sicuramente… gli manca Alex. Poi fa un
respiro profondo e si siede accanto a me, non sfiorandomi, né guardandomi
neanche per sbaglio.
Fissa ostinatamente gli occhi di fronte a sé, perdendosi nelle chiome
scure degli alberi, poi nel mare che luccica di stelle. Ed è allora che è come
se si ricordasse di me e del mio commento di poco prima, sulla soffitta di casa
nostra in Sicilia. Stringe le spalle ed assume la faccia di uno che ha
masticato un limone, ma ugualmente sussurra tenue: “Sparivi per ore… e non eri
in giardino. Dovevi essere in casa. Sapevo che fuori non potevi uscire
facilmente, senza che Helder controllasse che non ci fosse pericolo.
Semplicemente… credevo che fosse meglio per te restare da sola, quando ne avevi
voglia… e poi… è da Hogwarts che cerchi sempre un punto in alto, quando sei
triste. La Torre d’Astronomia, poi quella specie di verandina al piano
superiore della signora Sanchez quando vivevamo assieme… la soffitta a
Favignana… e adesso qui…”.
“Quindi… credi che io sia triste?” mormoro con un filo di voce,
guardando il suo profilo contratto. Ancora, non mi guarda in faccia, resta
immobile a fissare gli alberi. Non so precisamente che risposte cerco da lui,
forse voglio che qualcuno definisca meglio quello che sento. Perché magari
potessi dire di essere semplicemente triste… peccato che io sia svuotata,
adesso. Ed è peggio.
“Bè, felice non sei…” sputa fuori Ron con durezza, serrando la mascella
ed alzando la voce “E questa, adesso, è la parte peggiore… se tutto questo
casino che è successo fosse servito a renderti felice, almeno ne sarebbe valsa
la pena per uno dei due, o almeno per Alex… ed invece… non sai neanche se…”.
Ron si interrompe, stringe le spalle e tace, improvvisamente a disagio.
“Hai ancora paura di parlare a questo punto?” replico più acida di
quello che vorrei, forse semplicemente perché ha ragione a definirmi così,
forse perché con la solita poca delicatezza che gli appartiene mi mette di
fronte all’inutilità della scelta di tornare qui. Non so per quale motivo la
mia voce si stemperi di nervosismo, ma è quasi confortante poterci parlare come
parlavamo un tempo, definendoci intimamente stupidi e continuando a sentircisi,
anche se per motivi ormai profondamente diversi da un invito al Ballo del Ceppo
o una pila di calzini sporchi abbandonati vicino al letto.
I ricordi dell’intera vita che, nonostante tutto, mi legano a Ron, mi
spingono ad essere ancora più tristemente ostile, mentre biascico, alzando la
voce di un’ottava: “Domani probabilmente sarò morta, Ronald… se devi dirmi
qualcosa, parla… adesso…”.
Finalmente lui torna a guardarmi, ha il viso di nuovo rosso e gli occhi
accesi di furia. Mi afferra per le spalle, mi scuote e mi dice frettoloso, il
respiro ansante e veloce: “E’ tutto collegato, Mione! Tutto! Non capisci? Se
domani muori… è proprio perché… non sai se…”. Ancora si interrompe, mi lascia
le spalle come se si fosse accorto d’improvviso di aver osato troppo.
“Cosa non so, dannazione?!”.
“Se lo ami…” sussurra piano Ron, senza rabbia, senza rancore, solo con
un terribile sentore di vuoto lacerante che mi strazia “Se ami ancora Malfoy…
tu non lo sai se ami ancora Malfoy. Non lo sai, vero? Dopo cinque anni
in cui te l’ho visto stampato in faccia ogni dannato minuto della nostra vita… oggi…
non lo sai. Ed è fantastico, credimi, è perfetto… a che cosa è servito tutto
questo… se non lo dovessi amare più Hermione? Se… domani… per questo… davvero
tu non torni più?”. Le sue parole vere, oneste, dannatamente reali smontano
la mia rabbia frustrata in un istante, costringendomi a stringermi nelle spalle
e a distogliere lo sguardo mentre Ron, con ferocia, affonda le mani nei capelli
rossi e si guarda le scarpe. Biascica solo, con un suono strozzato di gola che
assomiglia ad una risata tetra ed amara: “Ed è assurdo che te lo dica io,
adesso… che adesso te lo stia io anche a chiedere… dovrei essere solamente
felice di questo. Che forse non lo ami più, che non sei sicura di te e lui, che
come prevedevo ti ha ferito al punto da riportarti, un giorno, arresa ed
arrendevole da me… ed invece… non lo sono affatto. Felice… non sono affatto
felice. Perché tu domani…”, la sua voce si spezza, si incrina, diventa un
pigolio indistinto che mormora: “… se non lo ami e se lui non ama te… tu domani
non ci torni viva. Ed è così che ti voglio ancora. Viva. Così che tu
possa rimpiangermi per sempre, così che tu possa capire per sempre che lui non
era quello giusto… ma è così che ti voglio, Mione. Viva. E tu, viva, forse non
ci tornerai affatto da me… tornerai in una cassa piena di fiori, che non posso
insultare, maledire o bestemmiare… così te ne torni, se va bene ed Adamar me lo
lascia un corpo da piangere. Sennò diventi nebbia, fumo, pioggia… e nemmeno ti
seppellisco… ed allora, allora, Hermione, ti prego… dimmelo che lo ami, dimmelo
che sarà per sempre lui, dimmelo che non hai smesso un istante di amarlo e
dimmelo che non è cambiato niente in questi cinque anni… che se non ti fidi di
lui, comunque lo perdoni e lo ami sempre, per sempre, e che domani sarà una
passeggiata, e che tu da me ci torni viva così che possa odiarti, affrontarti e
ripeterti che non lo accetterò mai che ami lui, e non me… ma dimmelo Hermione,
dimmelo ti prego. Dimmelo”.
La voce di Ron si stempera alla fine nelle lacrime che versa nelle
palme chiuse, spegnendosi come un lamento da moribondo. Le sue spalle magre
sono scosse dai singhiozzi che lo scuotono dall’interno e io, inorridita,
agghiacciata, sconvolta, non riesco a fare altro che chinarmi su di lui ed
abbracciare quelle sue spalle tremanti, cingendole tra le mie braccia. Ron mi
stringe per i fianchi, piange ancora, sento le lacrime scivolare indolenti
lungo il mio collo. E piango con lui, assieme a lui, cercando sollievo e
ristoro, coraggio e salvazione, perdono ed amnesia. È in questo pianto che, per
miracolo, lo sento di nuovo mio, lo sento vicino davvero. Siamo stati assieme
per anni, migliori amici, poi innamorati, infine perfino sposati. Ma mai
davvero vicini… come ora. Ed in questo so che il suo sfogo non ha a che fare
con Draco, so che non ha bisogno davvero di una risposta che non ho. Se lo
amo ancora, se amo davvero Draco.
Che senso avrebbe dirgli che lo amo ancora, ammesso che questo basti
nella prova con Adamar?
Che senso avrebbe invece dirgli che non lo amo più, ammesso che questo
serva a consolarlo sul serio?
Ho messo sempre qualcuno tra me e Ron: prima Harry, poi il mio lavoro,
poi Lavanda. Infine Draco ed Alex. Adesso siamo soli, adesso è solo tra me e
lui. Non voglio dirgli bugie, non voglio nascondermi e non voglio nemmeno
arrampicarmi sugli specchi, mettendomi a descrivere i sentimenti che ho per
Draco e le possibilità che ho di tornare viva o morta. Voglio dirgli addio…
comunque vada. Voglio dire addio alla versione marcia che siamo stati per
cinque anni. Voglio che ci siamo sul serio soltanto io e lui, adesso. Ho troppo
da dirgli, troppo da farmi perdonare. E, per una volta, Draco non c’entra
niente.
C’entro solo io. E il mio migliore amico, che ho lasciato a caricarsi
del peso di qualcosa che davvero non gli apparteneva e non gli competeva.
Non dovrà più preoccuparsi di me e Draco, mai più, lacerandosi nella
gelosia e nel dolore: non dovrà più preoccuparsi né che io lo ami, né che io
non lo ami. Sarà un problema mio… come sempre doveva essere. È il mio ultimo
regalo per lui… che spero, davvero, che accetti.
Per questo, quando sento il suo respiro più calmo e la sua stretta
sulla mia vita meno salda, mi azzardo a sussurrare con voce spezzata, prendendo
fiato dopo il pianto: “Immagino che domani sapremo a che punto siamo io… e
Malfoy. Almeno, in un contorto e discutibile modo, la chiariremo una volta per
tutte…”. Ron si stacca da me, guardandomi con le sopracciglia aggrottate, prima
di dire nervoso: “Dovrebbe essere una cosa buona, dunque, gettarti in pasto a
quel mostro senza sapere se ne uscirai viva?”.
Respiro a lungo, distogliendo lo sguardo da lui per puntarlo sulla luna
lontana. Quando sono certa che sono sufficientemente calma ed in grado di
dissimulare la mia reale paura, mescolandola ad un’audace noncuranza, torno a
guardarlo con espressione quasi scocciata: “Andiamo Ron… non è una novità.
Rischio la vita da quando avevo undici anni… c’eri anche tu, no?”.
“Ma… stavolta… io non ci sarò. E nemmeno Harry. Ci sarà solo lui… solo
Malfoy…” la voce di Ron si colma di preoccupazione rancorosa “E di lui non mi
fiderò mai”.
Gli prendo la mano tra le mie, Ron deglutisce un paio di volte a
disagio e le sue orecchie diventano rosse, come accadeva quando eravamo
ragazzi. Questa cosa mi fa sorridere di tenerezza, rendendomi conto che una
parte di noi, sepolta chissà dove, esiste ancora.
Incoraggiata, proseguo e lo guardo negli occhi: “E allora fidati di me.
Fidati che farò l’impossibile per tornare. Questo puoi farlo? Puoi ancora
fidarti di me?”.
Non ha esitazione Ron nel rispondere, è rapido, veloce, sicuro. Uomo,
come non mi era mai sembrato, nonostante tutto. Stringe forte le mie mani: “Io
mi sono sempre fidato di te. E non smetterò adesso”.
“Grazie” dico con un groppone in gola, che rende quella semplice parola
più acuta di quanto dovrebbe essere. Nascondo le lacrime poggiando la guancia
sulla sua spalla e chiudendo gli occhi. Il silenzio della notte ci avvolge come
una preghiera di perdono, che forse qualcuno oggi si degnerà di ascoltare. Ron
resta immobile, accogliendomi contro di lui, respira piano sui miei capelli,
baciandomi la testa con affetto. È solo fraterno, non c’è nulla di passionale e
nemmeno di lontanamente sensuale. Una calma friabile si insinua dentro di me,
mentre i pensieri si allontanano. Tutti, tranne uno. Che mi spinge a riaprire
bocca dopo qualche secondo, seppure non muovendomi di un millimetro.
“Ho bisogno di dirti delle cose… ma credimi, non c’entra niente quello
che sta succedendo adesso. Non è un patetico addio o discorso da moribonda. È
solo arrivato il momento che io te le dica. Credo che fosse arrivato da tempo…
ma ero troppo persa ed egoista per rendermene conto. La perdita di Alex ha
rimesso le cose in prospettiva, almeno questo”.
Ron non si muove nemmeno lui, resta immobile, si sistema meglio e
basta, articolando un suono di gola che assomiglia ad un cenno di assenso.
“Scusami per averti costretto a sopportare tutto questo per cinque
anni” lo sputo fuori velocemente, senza remore, solo con rimorso. Una lacrima
mi sfugge senza accorgermene, la freno con la mano prima che rovini sul mio
collo, rendendosi visibile. Sono parole semplici e complesse assieme,
racchiudono davvero tutto. Non potrei aggiungere altro, se non risultando falsa
o compassionevole, ispirando una pietà marcia e tardiva. E non si merita anche
pietà, adesso… non dopo tutto quello che gli ho costretto a passare,
illudendolo nella forma farinosa di una famiglia che non era la sua,
impedendogli di cercare la sua di strada e non mostrandomi nemmeno riconoscente
per quello che faceva.
Ron sospira, sembra persino sorridere e mi bacia ancora i capelli, prima
di sussurrare quieto e tranquillo: Ti amavo, ti amo ancora e forse ti amerò
sempre. Ed amo tuo figlio… non è stata una sopportazione. È stato il mio sogno…
essere tuo marito. Semplicemente non lo era anche il tuo…”.
Non lo riconosco, davvero non riconosco quest’uomo capace di cedermi
così facilmente, senza artigliarsi di fuoco sul mio cuore per strapparlo a chi
ha osato rubarlo a lui. Non riconosco la sua calma, la sua quiete, la sua
placidità. La sua rassegnazione matura di chi ha smesso di lottare. Eppure non
c’è, d’improvviso, dolore lacerante in lui, tantomeno rabbia o orgoglio
tradito. È triste, questo sì… ma improvvisamente riconciliato con l’idea di
lasciarmi davvero andare.
Sussurro a mia volta, piano, come timorosa di rompere un fragile equilibrio,
lieta di non doverlo guardare in viso ma di poter restare ad occhi chiusi ad
immaginare il mare lontano: “Tu però non avresti dovuto vivere con questo peso
costante… che non fosse quello che volevo anche io. Non avrei dovuto ricordarti
ogni minuto che…”.
“… che non ero lui…” completa Ron, dando voce ai miei pensieri.
Sgrano gli occhi, rabbrividendo, irrigidendomi per un attimo. Lui… me lo
immagino chiaramente davanti agli occhi, come se fosse qui.
Draco.
Mi trema il cuore, mentre biascico: “Già”.
“Non è stato piacevole…” sorride amaramente Ron, prima di continuare
con voce monocorde: “Ma Mione… andiamo, è stata anche colpa mia… io
semplicemente non ti volevo sentire, non volevo vedere. Cinque anni a foderarmi
gli occhi e le orecchie di prosciutto per non rendermi conto che…”. Ron si
interrompe a disagio, grattandosi la nuca: “Insomma hai avuto un figlio da lui.
Non avevi alcun istinto materno, alcun desiderio di diventare madre… ma è
bastato che fosse suo figlio per spingerti a farlo nascere. Avrei dovuto
capirlo già da allora… ma per anni ho pensato solo che tu avessi sbagliato, che
ero io quello fatto apposta per te. L’amico d’infanzia, il tuo complementare,
la favola buona e pure un po’ sciocca dell’amore che nasce da bambini e non
cambia e muta mai. Probabilmente una parte di me penserà sempre che io fossi
quello perfetto per te. Ma non sono quello giusto… vorrei soltanto che quello
giusto non fosse proprio Draco Malfoy…”.
“Non immagini quante volte l’ho pensato io…” dico sinceramente,
riaprendo gli occhi “Mesi, anni. In Italia. Alle volte, volevo davvero che tu
diventassi la mia famiglia. Sul serio, senza finzione… ”.
L’ho davvero voluto, l’ho davvero pensato. Se quello che provavo per
Draco non fosse stato così forte, così assoluto, così maledettamente
totalizzante da non farmi prendere in considerazione null’altro che lui, e se
non ci fosse stato Alex a ricordarmi eternamente che era suo figlio…
probabilmente avrei davvero pensato di tornare con Ron. Se Draco fosse stato un
amore semplice, normale, da consumarsi in un paio di anni e da non ripensarci
mai più… non avrei resistito all’idea assolutamente giusta e migliore di
appartenere a Ron. Ma non era così, non è mai stato così.
Da quando sono entrata al Petite Peste, da quando ho suonato Forbidden
colours al pianoforte, da quando sono stata davvero sul punto di sposare un
uomo con cui stavo da dieci giorni…
… io non ho mai avuto scampo.
Mai.
Ron si schiarisce la voce, come a nascondere qualcosa di sepolto che
conosce solo lui, poi greve prosegue: “Da qualche parte, magari io e te davvero
siamo stati felici. Ci siamo sposati, abbiamo avuto dei figli, siamo
invecchiati assieme. Ma in questa vita, in questo mondo… non è stato mai il
nostro destino. Io ti ho tradito, ti ho lasciato, ci siamo fatti del male… ma
la verità è che siamo cresciuti, siamo cambiati. Non saprò mai darti quello che
ti dà lui, anche se non lo capisco. E tu… nemmeno. Dovevo smettere di essere
così cieco per capire anche questo, Mione. Mi merito di essere il primo,
l’unico. Non il secondo, non il ripiego. Tu non potevi darmelo, non più. Ero
così imbalsamato in questa fantasia di vita perfetta con te… da non aver capito
anche questo… ho sempre cercato di cambiarti. Tu lo stesso. Non ho mai avuto la
spinta a cambiare io da solo. Tu lo stesso. Tu… e lui… vi siete cambiati così
tanto nel corso degli anni, da essere diventati due estranei per chiunque,
tranne che per voi stessi…”.
Vi siete
cambiati così tanto nel corso degli anni, da essere diventati due estranei per
chiunque, tranne che per voi stessi…
Rabbrividisco, sento il sangue affluire tutto alla testa, lasciandomi
ghiacciata nel resto del corpo. La verità semplice che ha snocciolato Ron in
poche mozzicate parole, mi ha raggiunto con la forza di un uragano. Solo
Draco sa chi sono davvero. Solo lui capisce chi sono sul serio, dentro. Tutti
sono bloccati ed ostaggi in memorie morte e sepolte di me, tutti. Tranne lui.
Mi ha tagliata fuori dal mio mondo, passo dopo passo, emozione dopo
emozione, bacio dopo bacio. Senza apparente fretta, senza nemmeno che me ne
rendessi compiutamente conto… ed alla fine sono diventata estranea ai miei
amici, alla mia famiglia, persino a me stessa. Solo lui riesce a riconoscermi
davvero. Soltanto lui… ed il bello è che quella che gli altri conoscevano non
era la vera me stessa, non è che io d’improvviso sono diventata un’estranea.
Gli altri mi vedono così, d’accordo, ma io in verità… ho semplicemente smesso
di sembrare perfetta e sono diventata vera. La vera me.
Draco mi ha fatto capire che non avevo bisogno di essere perfetta per
essere amata: se mi amava lui, con tutto quello che ci aveva sempre diviso,
poteva riuscirci chiunque altro.
Gli devo tanto, nonostante tutto: alla fine, in uno strano e goffo
modo, sono contenta di quella che sono diventata. Sono più… serena, perché
libera di sbagliare, di peccare, di non essere impeccabile.
Mi sono sentita libera al punto di avere un figlio da non sposata; al
punto di abbandonarmi ad un bacio solo perché lo volevo; al punto di non
lasciarmi travolgere da giudizi morali sui miei amici e su chi ha sposato chi.
In fondo, credo che Draco mi abbia persino reso migliore… e mi ha donato Alex.
Questo non credo che lo dimenticherò mai.
Sono rimasta troppo in tempo in silenzio e la tensione imbarazzante del
momento sembra essere risalita tra me e Ron, allontanando quella leggerezza
spensierata che ci aveva sfiorato per un attimo. Ritorna di nuovo cupo il
ricordo di ciò che mi aspetta domani, cosa che curva le mie spalle e serra le
mani di Ron in una morsa ghiacciata. Respirando forte, spintono scherzosamente
una sua spalla con la mia, aggiungendo sarcastica: “Quando sei diventato così
saggio, Ronald?”.
Lui coglie il mio invito ad alleggerire l’atmosfera e sospira casuale:
““Bah sarà l’influenza di Natalie. Lei è fissata per queste cose… destino,
karma, fato. Se ne va in giro tranquilla e serena che tutto quello che le
succede è solo quello che le doveva, per forza di cose, accadere… si fida
troppo dell’Universo…”.
“Vorrei essere così pura ed ingenua come lei, davvero…” aggiungo con un
moto inconsapevole d’invidia, distendendomi sulle tegole del tetto ed
incrociando le braccia sotto la nuca.
“Sembra ingenua. Lo sembra sul serio…” commenta Ron, imitandomi
e distendendosi accanto a me, il volto rapito dalle stelle. “La guardi, la
senti parlare… e all’inizio ti dà quasi sui nervi. Così certa, convinta,
sicura… che il bene torna sempre indietro, che la vita in fondo sia giusta e
che bisogna solo avere pazienza. Però non riesci a risponderle male, a smontare
le sue illusioni. Stai zitto. E lei invece alla fine ha la meglio su di te…”.
Mi poggio su un fianco, una mano aperta a sostenermi il mento, e studio il viso
di Ron con attenzione.
Lui tiene gli occhi ostinatamente rivolti al cielo, sono lievemente
illuminati dalla luce della luna, eppure li distinguo più azzurri del solito. Non
sarà che…?
Mi viene inconsciamente da sorridere, un ulteriore peso che mi
alleggerisce il cuore. So di non potermelo permettere, so di non voler
liquidare il senso di colpa che sento per Ron con una stupida supposizione
gratuita, ma so anche che incamminarmi verso la morte con il pensiero di non
lasciarlo del tutto solo… è quanto di più piacevole io potessi immaginare,
adesso.
La sua voce si è tinta di una dolcezza stemperata da una sorta di paura,
parlando di Natalie, e come da tradizione le sue orecchie si sono fatte
lievemente più rosee.
Non ha mai avuto quel tono, parlando di nessuna, tantomeno di Ginny, di
Lavanda o di me.
Non so se sia per curiosità autentica, per voglia di tranquillizzarmi o
semplicemente perché con lui non abbandonerò mai l’istinto di voler avere
ragione, ma gli chiedo apparentemente indifferente: “La conosci bene… era
un’amica di Lavanda? Ad Hogwarts non ricordo che la frequentassi più di tanto…
era più piccola di noi di tre anni… ed anche se era nella segreteria di Harry,
Lavanda faceva il lavoro grosso, lei non la vedevamo quasi mai…”.
Ron, a quel punto, mi racconta tutta la storia di Natalie. Lo fa senza
fretta, con attenzione, con una cauta dolcezza e una ferma ammirazione che
ancora mi conferma che ci tiene parecchio a lei. Non l’aveva incontrata
moltissime volte mentre stava con Lavanda, ma in una di quelle occasioni si era
ritrovato a parlarle, dato che erano i soli che ad una particolare festa dove
non conoscevano nessuno. La guerra aveva lasciato Natalie orfana di entrambi i
genitori e di sua sorella, aveva anche perso la sua casa e quel poco di
sicurezza economica che aveva. Affamata, sporca, lacera, era stata raccattata
per strada da Florian Fortebraccio, il proprietario della gelateria di Diagon
Alley che conosceva sua madre da molti anni e che si era quindi preso cura di
lei. Natalie iniziò a lavorare nella gelateria, che però stentava ovviamente ad
andare avanti durante la guerra, situazione che divenne ancora più complicata
alla scomparsa di Florian. A quel punto, finalmente, il figlio di Florian,
Damon, era tornato dalla Spagna dove viveva da molti anni per aiutare la
ragazza con l’impresa di famiglia. Damon era un ragazzo sicuro di sé, forte,
imprevedibile, dal carattere impetuoso e passionale: in pochi mesi, lui e
Natalie si erano innamorati. Alla fine della guerra, avevano deciso di
sposarsi, dopo due anni e mezzo in cui stavano assieme. Quando Ron aveva
incontrato Natalie alla festa di Lavanda, a cui ci era andata da sola perché
Damon aveva da lavorare, lei gli aveva appunto raccontato che era sposata da
qualche mese e questo aveva destato molta curiosità in Ron, dato che lei era
ancora molto giovane, essendo poco più che ventenne. Lo aveva colpito anche il
modo pacato con cui parlava della sua relazione con Damon, del fatto che lui
fosse molto diverso da lei, ma che era sempre stata certa, da quando lo aveva
visto, che doveva diventare suo marito. Si completavano a vicenda. Ron l’aveva
trovata ingenua, infantile, mentre gli raccontava queste cose, mentre gli
diceva che aveva sempre sentito che la guerra le aveva insegnato che non aveva
senso aspettare, che quando hai l’occasione di essere davvero felice, dovresti
cogliere le occasioni al volo. Eppure quel discorso lo colpì molto, specie
perché da tempo aveva più o meno capito che non amava Lavanda e che stava solo
perdendo tempo con lei. Di Natalie non seppe più nulla per anni. Quando poi io
tornai in Inghilterra dopo averlo lasciato in Italia, Ron dopo qualche giorno
tornò a sua volta a Londra. Andò a Diagon Alley, vide la coda nella gelateria
di Fortebraccio e si ricordò di lei, del suo discorso.
“Di quel
sentimento assoluto che ti impedisce di scappare quando lo trovi. Mi ricordai
di quando Natalie mi aveva parlato di lei e Damon, della sua impossibilità di
aspettare un solo giorno per sposarlo. E ripensai a te e a Malfoy… al fatto che
dopo cinque anni, con tutta la logica e la razionalità del mondo contro… ancora
non riuscivi a lasciarlo andare…”.
Mi stringo nelle spalle mentre Ron continua a raccontare. Natalie lo
aveva accolto con calore, facendolo accomodare subito, e Ron si era
immediatamente accorto di come il locale fosse cambiato. Era diventato più
luminoso, più nuovo, persino migliore di come era prima della guerra, era
pienissimo di gente. Natalie a quel punto gli aveva raccontato che era la nuova
proprietaria della gelateria, da quando Damon circa un anno prima era morto. A
Ron, però, quella rivelazione non era parsa così lacerante per la ragazza e,
conversando, aveva capito il perché. Lei e Damon si erano lasciati circa tre
anni prima, pochi mesi dopo la nascita del loro figlio, Elias. Natalie era
stata molto vaga, non aveva parlato delle motivazioni, aveva solo detto
laconicamente che non andavano più d’accordo. Aveva però garantito che erano
rimasti in buoni rapporti, lei aveva iniziato a lavorare come tata e lui aveva
ripreso le redini della gelateria. Ogni weekend, Natalie portava Elias da suo
padre. Durante, però, uno di questi weekend, Damon fu misteriosamente ucciso
nella gelateria stessa. Fu letteralmente fatto a pezzi, probabilmente da
Mangiamorte impenitenti o da rapinatori scontenti. Era riuscito a nascondere il
figlio Elias sotto una scrivania, impedendo che si facesse male anche lui, ma
il bambino evidentemente aveva assistito comunque alla scena.
Ascolto sconvolta le ultime parole di Ron, stringendomi convulsamente
le mani in grembo, mentre finalmente collego il motivo della stranezza di Elias
non appena l’avevo visto.
“Elias, da quel momento, si è chiuso completamente in sé stesso…”
aggiunge Ron stancamente, stropicciandosi gli occhi “I medici dicono che ha
sviluppato una sorta di autismo di reazione al trauma della morte del padre.
Non parla, non vuole farsi toccare, non ha la benché minima relazione con
nessuno. È contento di starsene in silenzio e basta…”.
Agghiacciata, ripensando istintivamente a mio figlio con un moto di
autentica empatia per la povera Natalie, chiedo: “Ha subito dei danni
celebrali?”.
“No… ed è questa la cosa strana…” commenta con una risata amara Ron,
sospirando di frustrazione “Elias… ha un quoziente intellettivo molto alto. Ha
imparato a leggere a due anni. Sa già risolvere problemi ed equazioni… e ha
solo tre anni. Legge tantissimo, divora libri su libri, conosce a memoria la
tavola periodica e le capitali di ogni stato del mondo… è semplicemente… un
genio, ecco… solo… non è molto interessato alle iterazioni umane… e
credimi, non è che non sappia parlare, lo sa fare…”.
“Come lo sai? Con Natalie parla?”.
“A volte… soprattutto per fare delle domande sugli argomenti più
disparati che gli saltano in mente…” aggiunge Ron “Natalie si documenta, dato
che si tratta spesso di cose che nemmeno lei conosce appieno, lui ascolta
crucciato e poi se ne torna nel suo silenzio. A riflettere, a pensare. È come
se volesse smontare il mondo per capire come diamine funziona… sono gli unici
momenti di vera relazione che hanno tra loro… e a Natalie, nonostante tutto, va
benissimo così. Basta che lui la chiami mamma e le chieda perché il cielo è
azzurro, ed è autenticamente felice… anzi…”. Ron d’un tratto si interrompe a
disagio, grattandosi la testa, come se fosse improvvisamente reticente nel
continuare, quasi imbarazzato.
“Cosa?” lo incoraggio, guardandolo in modo comprensivo.
Ron sospira a lungo come a darsi un contegno, storce il naso ancora
indeciso, prima di continuare con un cenno nervoso della mano: “Natalie era felice
di questi piccoli gesti di Elias… quando era convinta che a suo figlio fosse
precluso altro… poi… ha scoperto che non è così…”.
“Come?”.
“Il giorno in cui io l’ho incontrata a Londra… lei all’inizio mi aveva
solo raccontato della morte di Damon e del fatto che avesse avuto un figlio,
non tutta la sua… situazione, ecco… c’era molta gente nel locale, si è
dovuta allontanare per alcune cose… ed in quel momento è arrivato Elias.
Spuntato dal nulla come un fungo. Mi ha guardato e basta per qualche minuto,
come se mi stesse studiando. Io… ho intuito che era suo figlio. Non sapevo
naturalmente delle sue difficoltà relazionali… e…”. Ron si ferma, respira
forte, poi prosegue con un filo di voce: “Sentivo la mancanza di Alex. E mi è
venuto naturale… parlargli normalmente, come si fa a qualsiasi bambino…”.
Punta da quella vena di nostalgia e da un nuovo afflato di senso di colpa,
mi affretto a chiedere comprensiva: “Ed Elias ha reagito male?”.
“No…” sorride Ron, ostentando un’espressione quasi incredula “Ha
reagito bene… cioè… neanche bene. Ha reagito come un normale bambino. Mi ha
chiesto chi fossi, che ci facessi qui, come conoscessi sua madre, se eravamo
amici da tanto, quale casa frequentassi ad Hogwarts. Mi ha chiesto persino
perché i miei capelli sono di questo colore. E che la fragola bollente è il suo
gusto preferito di gelato. Sono riuscito persino a… prenderlo in braccio…”.
“Davvero? Ma è una cosa miracolosa, Ron!”.
“Natalie, quando è rientrata… è scoppiata a piangere, vedendolo… ha
fatto cadere un vassoio pieno di coppette di gelato… e io non capivo che ci
fosse di così strano… ma lei… non riesce a prenderlo in braccio dal giorno
dell’omicidio di Damon… anche se lo fa, per esigenze concrete, Elias si dimena
dopo pochi secondi… che se ne stesse tranquillo, in braccio ad uno sconosciuto,
a mangiare il gelato… era incredibile per lei… per quello mi ha raccontato tutto…”.
Scuoto il capo a mia volta, incredula, immaginando la faccia di Natalie
a quella visione. Probabilmente sarei stata invidiosa al suo posto, ma
soprattutto… felice, ecco. In un certo qual modo, è quasi una conferma di
quello che ho sempre pensato di Ron. Che sia una persona speciale… Elias, a suo
modo, con la sua sensibilità di bambino particolare, deve averlo capito subito.
“Da allora… insomma Nat… ha voluto che li stessi vicino…” balbetta Ron
rosso in viso, dandomi ulteriore conferma che la situazione non gli è affatto
dispiaciuta, sorrido cercando di non farmene accorgere “Elias… a volte parla
con me. Non ha uno schema preciso. Ci sono giornate sì… e giornate no… ma per
qualche motivo, che ancora nessun medico si spiega… a me dice più cose del suo
solito. Stipa decine di parole in quei pochi secondi… per questo… ero con lei
quando Helder mi ha chiamato… Natalie… sapeva già tutto di te, di Malfoy, di
Alex… alla fine… le avevo raccontato tutto… mi dispiace…”.
“Figurati… non hai niente di cui scusarti… non dirlo neanche per
scherzo…” dico convinta, sorridendo. Ci mancherebbe che, dopo anni, non potesse
nemmeno confidarsi con qualcuno sul casino che ho deliberatamente gettato nella
sua vita peggio dell’uragano Katrina.
“Quando ho saputo del rapimento di Alex… ero con lei e lei ha deciso di
aiutarci, ovviamente… ” aggiunge Ron con voce casuale, cercando quasi di non
darci importanza. Ma lo capisco, lo vedo… lo conosco troppo bene per non
rendermene conto. Ha gli occhi di una persona presa di sorpresa. Ha lo stesso
sguardo che affastella particolari su una persona, sentendosi sempre incredulo,
al limite tra il rifiuto e la voglia.
Ha lo stesso
sguardo che forse lui ha visto in me, cinque anni fa, al Tourquoise Party,
mentre mi voltavo su me stessa per guardare Draco.
Si potrebbe innamorare di lei. Si è già innamorato di suo figlio.
È una favola così perfetta e giusta che, se davvero dovrò morire, la
chiederò come ultimo desiderio.
E non per avere la remissione dei peccati ed andarmene contenta… ma
perché Ron se lo merita. Tutto. Si merita un miracolo venutolo a cercare dagli
angoli della vita stessa. Si merita di essere indispensabile, come mai è stato
né con me, né in famiglia, né con Harry. Si merita di sentirsi unico al mondo,
speciale in un modo che ha tutto della magia e della predestinazione. Si merita
la bontà di Natalie che, un giorno, se mai accadrà, gli farà persino accettare
la mia morte. Se lo merita.
E Natalie merita lui, così come Elias.
Sarà davvero
il mio ultimo desiderio, se dovessi morire.
“Prima di andarmene, la dovrò ringraziare sul serio…” dico con
decisione, una pausa sofferta che piega le mie parole in tutti i sensi
possibili, così che anche Ron possa capire, pur fingendo di non essersene
accorto “E dovrò ringraziare anche te… ti tocca, Ronald…”.
“Lo farai quando torni. Viva. Non ho intenzione di parlare con una
bara…” biascica lui sicuro, afferrandomi per un polso come a volermi ancora
trattenere.
Sorrido ancora a quel tentativo colmo di disperazione caparbia ed
intensa, che mi ricordano il ragazzo di cui mi sono innamorata anni fa, la
struggente intensità ostinata del primo amore. Poi soggiungo quieta: “Non ci
voglio tornare in una bara. Ma può succedere, Ron, e, prima che tu mi
interrompa, c’è davvero una cosa che posso dirti solo adesso…”.
“Non voglio ascoltarti…” protesta lui, accennando persino ad alzarsi in
piedi, innervosito e furente. Lo imito, fronteggiandolo con lo sguardo,
sfidandolo ad andarsene. Ma lui ovviamente non lo fa: mastica dolore e rabbia
negli occhi, ma resta inchiodato al suo posto, ad ascoltarmi, i capelli
scompigliati dal vento.
“Se non torno indietro…” inizio con la voce spezzata, incerta,
ingoiando le lacrime “Voglio che lo dica tu ad Alex. E voglio che gli stia
vicino sempre… Dean e Pansy erano la scelta giusta per crescerlo. Lo sono
ancora. Era la sola cosa che…”, che Draco avrebbe concesso, penso con
ferocia, ma non lo dico. Il nome di Draco è nascosto nelle pieghe di questa
conversazione, se uscisse deflagrerebbe come una bomba atomica, ricordandoci
davvero tutto quello che sta nel sottotesto di noi stessi, restando non detto
per paura di spezzare quel poco che ancora c’è tra noi. Quindi taccio, distolgo
lo sguardo, guardo la luna incompleta e cerco di caricare il silenzio di altre
parole, magari della consapevolezza che affidare Alex ad una coppia sposata
sarebbe più facile dal punto di vista legale, o magari anche più gestibile per
loro, che sono in due ed hanno già una bambina. In realtà, e forse Ron lo sa
perché stringe gli occhi e piega le spalle, al di là della stima per Dean e
Pansy, ho scelto loro perché era giusto così. Perché volevo che questa scelta
non fosse solo mia… ma anche di Draco. Volevo sentirmi unita a lui come
genitore per la prima e forse unica volta della nostra vita. Volevo dividere il
carico di questa responsabilità con lui… non volevo più sentirmi sola. Ma
questo non toglie che, sebbene io sappia e riconosca che Draco sia padre di
Alex ed abbia ogni diritto del mondo di condividere le mie scelte, il vero ed
autentico padre che Alex ha avuto per cinque anni… è stato Ron. Anche se non
l’ha mai chiamato papà, anche se sapeva la verità, anche se lo vedeva come un
amico solo più grande.
Ron gli ha insegnato a nuotare. Ron gli ha fatto il bagno con l’amido
di mais, quando ha preso la varicella. Ron l’ha accompagnato agli allenamenti
di calcio. Ron gli ha spiegato, a suo modo, perché lui e la mamma non si
baciavano mai. E se è la morte imminente e probabile che ha fatto sì che
ricordassi tutte queste cose, poco importa. Basta che ci sono arrivata.
“Promettimi che non lo lascerai solo…” mastico amaro, chiudendomi la
bocca con la mano e fermando questa serie idiota di rantoli scomposti della mia
voce “So che non ho alcun diritto di chiederti niente, ma…”.
“Non dovevi neanche chiedermelo…” sorride Ron, dandomi un buffetto
sulla guancia, nascondendo in questo gesto casuale le lacrime che non vuole
versare “L’avrei fatto lo stesso… ma adesso che so che lo vuoi anche tu… ti
giuro che non lo lascerò mai solo…”.
“Grazie…” pigolo incerta, schiarendomi la voce nel tentativo di farla
sembrare assolutamente normale, il pianto si incaglia in gola, distorcendo i
suoni che mi escono dalle labbra e facendoli sembrare ancora più acuti del
normale. Gli do le spalle, cercando di ricompormi. Mi asciugo il viso e respiro
a fondo, Ron mi lascia fare. Con la delicatezza che non gli ho mai
riconosciuto, non mi sfiora né mi consola, né tantomeno dice altro. Lascia che
il silenzio si prenda i miei singhiozzi come a volerli cancellare, come a voler
far finta che non ci siano. Gli sono grata, ancora. Perché sa quanto detesti
essere guardata mentre piango, o essere compatita. Gli sono grata per la
promessa che mi ha fatto.
Adesso, posso andarmene quasi serena.
Natalie gli starà accanto. Gli ho chiesto scusa. L’ho ringraziato. Ed
Alex avrà lui, se io non dovessi tornare.
Quasi ad avvisarmi di questa pace, respiro forte il silenzio calato tra
noi che ha un odore placido, soave, assorto di pensieri ormai puliti,
cristallini, sgombri. La notte è ormai calata a grandi stelle su di noi, il
mare borbotta poco lontano e il vento sa di magnolia e resina. Quando mi volto
verso di lui, so di aver detto tutto quello che volevo, so che ha fatto
altrettanto.
Ha gli occhi rossi, ha pianto anche lui, approfittando che fossi
voltata e gli dessi le spalle. Ma sulle sue labbra comunque compare un sorriso
dispettoso, mentre mi dice: “Malfoy mi aveva mandato a chiamarti quando sono
arrivato… circa quarantacinque minuti fa…”.
“Che cosa?! Che diamine vuole, adesso?” chiedo sconvolta, la calma che
mi viene strizzata fuori dal petto come se fossi un indumento appena lavato.
Ron fa spallucce, disinteressato: “Non lo chiedere a me… sembrava solo…
nervoso…”.
“Non che sia un discrimine del suo comportamento… quello è natonervoso…”
borbotto, incrociando meccanicamente le braccia, mentre a Ron sfugge una risata
leggera: “Avrei voluto dirtelo subito… ma poi abbiamo iniziato il nostro
chiarimento cuore a cuore… e mi è passato di mente…”.
Inarco un sopracciglio scettica, costringendolo a confessare con aria
candida: “E va bene, d’accordo… è stato un piacere per l’anima ignorare
deliberatamente che cosa mi aveva detto…”. Mi viene da ridere in modo
incontrollato, ricordandomi a mia volta tutte le volte in cui usavo Draco come
una palletta antistress al Petite Peste, ricavandone un sadico piacere. Però,
sforzandomi al massimo, sbuffo e dico con voce fintamente seria: “Il mio ultimo
pensiero quando Malfoy mi ucciderà sarà per te, mio caro ex marito
improvvidamente intempestivo nella comunicazione dei messaggi…”.
Il candore spensierato della risata di Ron è la migliore delle
ricompense, persino di fronte alla probabile arrabbiatura di Draco. È il segno
che possiamo tornare ad essere quelli di prima, io e Ron. Questo valeva ogni
cosa. Si meritava di essere più importante di ogni cosa per una volta nella
vita.
Dopo averlo salutato, scendendo le scale, mi cerco nelle tasche
l’anello con la pietra rossa che simboleggiava il nostro matrimonio, quando ero
in Italia. L’ho sempre odiato, era una promemoria della stucchevole vita finta
che conducevo e che mi teneva separata da Draco. Adesso significa gratitudine,
stima, speranza, amicizia. Contenta lo indosso di nuovo, ma all’anulare destro.
Il sinistro, quello dei matrimoni e delle promesse, mio malgrado
resterà per sempre vuoto.
Ciondolo per un po’ nel corridoio, incerta sul da farsi. Cerco Draco
guardinga, chiedendomi nervosamente che cosa voglia al momento.
Nulla di
buono, sicuramente. E se ha ancora intenzione di farmi rimproveri o scenate, lo
manderò a quel paese e tanti saluti.
Se è davvero
il mio ultimo giorno sulla Terra, ho di meglio da fare che sentirlo inveire per
cose che mi ha restituito doppiamente, e con tanto di interessi.
Finalmente,
mentre sono ancora incerta se scendere al piano inferiore oppure se iniziare ad
aprire camere a casaccio, lo vedo uscire da una stanza. Fingo il maggiore
disinteresse possibile, ostentando calma gelida mentre si accorge di me, ma non
riesco ad impedirmi che mi sfugga un respiro più forte del solito, a simulare
un sospiro d’ansia repressa.
“Weasley
anche come messaggero fa pena…” commenta tra sé e sé, guardandomi in tralice
“Sarà utile allo sviluppo umano in qualche modo ulteriore oltre a paravento per
le formiche?”. Lo guardo ad occhi socchiusi, incrociando le braccia impaziente
e facendogli intendere che non è che abbia tutta questa voglia masochista di
sentirlo parlare. Quindi ci può anche dare un taglio. Draco, a sua volta, mi
guarda con espressione tra il curioso e l’insofferente, quasi studiandomi.
Evidentemente è alla ricerca di qualcosa nel mio viso che gli suggerisca il
motivo del mio ritardo, oltre che della mia assoluta noncuranza ai suoi insulti
gratuiti. In realtà non rispondo, sia perché non ne ho voglia, sia perché non
me ne sento colpita. Vibra nelle sue parole una stanchezza apatica, una patina
di pessimismo e rassegnazione che può essere solo la consapevolezza della
condanna a morte che ci pende sulla testa da qualche ora. Il suo aspetto è
sempre impeccabile: capelli biondi in ordine, occhi grigi aperti e limpidi,
vestiti puliti e stirati. Ma lo conosco troppo bene per non distinguere bene
che cosa nasconde: il colletto della camicia lievemente stropicciato, perché si
è steso sul letto a pensare; le pupille vagamente dilatate, perché se n’è stato
al buio; l’indole arrendevole, quando vede che non gli rispondo; la voce
vistosamente impastata di finzione, perché al momento vorrebbe dire altro.
Come so che
anche io sembro vagamente più autoritaria ed irritata del solito, tutto per
nascondere la paura che ho al momento ed al contempo l’ansia di rimanere troppo
da sola con lui.
Quindi,
impaziente, biascico severa: “Si può sapere che diamine vuoi? Mi sembra che ci
siamo già detti abbastanza in due giorni da riempire cinque vite umane…”.
“E domani
dobbiamo dimostrare il nostro imperituro
amore ad un demone millenario…” commenta Draco assente con un sorriso malevolo,
appoggiandosi con una spalla al muro e guardandomi di sbieco “Devo proprio
aggiornare il mio testamento, mi sa, Granger? Dici che se lascio un bel po’ dei
miei indumenti a Weasley apprende un po’ di senso dell’eleganza nel vestire? Naaah, hai ragione… meglio lasciargli a Thomas… con lui non
è del tutto un’impresa disperata…”.
“Sei sempre
stato uno da one man show…” mormoro innervosita,
muovendomi per allontanarmi da lui “Comprenderai quindi se ti lascio al tuo
teatrino da quinta categoria…”.
Non sono
certamente dello spirito adatto per perdermi in una delle sue contorte
discussioni: se lui è ancora così bellamente di buon umore, lo invidio, mi
chiedo che cervello malsano abbia e sono anche contenta per lui. Ma che mi stia
qui, a sentirlo… non se ne parla proprio. Ovviamente il suo sadismo non mi
consente di andarmene tranquillamente, così da godermi le mie ultime ore di
vita in pace. Mi richiama indietro con un verso inarticolato di gola che,
nonostante tutto, sebbene neanche assomigli lontanamente al mio nome, mi fa
voltare su me stessa. È a testa bassa, ora, ben più preoccupato ed ansioso, più
vicino al suo reale stato d’animo piuttosto che al suo alter ego malvagio e
supponente che avrei già avadakedavrizzato all’istante, se non fosse il padre
di mio figlio e la sola occasione di salvezza per lui. Sospiro e rimango in
attesa, le braccia conserte, Draco sembra mangiarsi pensosamente le parole
prima di pronunciarle, ha il volto bianco e livido, gli occhi iniettati di
sangue. Poi le spalle si rilassano, sospira, appare stanchissimo. E mormora
fiocamente, facendomi drizzare i peli sulla schiena: “Ho bisogno che tu parli
con Serenity…”.
Sussulto, le
spalle si contraggono ed inevitabilmente mi metto in posizione di difesa, non
capendo l’assurdità della sua richiesta. Una parte di me ovviamente mi informa
in modo remoto, che non userebbe mai sua figlia per uno scopo meno che nobile e
necessario. E probabilmente, visti come sono i nostri rapporti attuali, non mi
metterebbe nemmeno nella stessa stanza con lei, se in un caso vistosamente
vitale. Eppure, ugualmente, il sospetto mi fa reagire in modo stizzito, mentre
biascico: “E per quale motivo, scusa? Di che diamine dovrei parlarle? Non le
hai già detto tutto di me?”, e, prima che me ne renda conto, sto già
borbottando acida: “Ah già, giusto, Serenity non sa nemmeno chi sono… Raissa
era molto esclusiva nella sua percezione di primadonna della tua vita. Bè,
comprenderai se la rievocazione storica di me stessa non mi interessa. Non ho
niente da dire a Serenity…”.
“Ed invece
sì…” mormora lui, in risposta, calmo, i pugni chiusi e il fuoco negli occhi
“C’è un argomento sul quale sei sufficientemente erudita e su cui io sono
spaventosamente ignorante, mio malgrado…”.
“Quale,
Malfoy? Per favore, falla breve…”.
“Nostro figlio…” sputa alla fine fuori,
facendomi rabbrividire “Serenity vuole che le parli di…”, la sua voce si
spezza, si curva, sguscia fuori quasi con timore delicato e raffermo, mentre
per la prima volta pronuncia il nome di nostro figlio: “Serenity vuole che le
parli di Alex…”.
Non so se è
l’ombra del sospetto malfidato che si è insinuato viscido tra me e lui, ma
sentirlo dire per la prima volta il nome di Alex suona terribilmente strano,
incomprensibilmente strano. Quel nome nella sua bocca non ha l’accenno tenero e
dolce che ha sempre avuto per me, accompagnandosi ad un odore soffuso e
rappreso che ricorda talco, margherita, arancia. Ha invece un sapore indiscutibilmente
amaro di bile, ira, come mosto selvatico, come fiele, come limone acerbo. Sento
tutta la difficoltà che ha provato a chiamarlo quel bambino, di cui rivendica
sangue e carne, con un nome che probabilmente sente che non gli appartenga,
sente che lo fa uscire dalla nebbia rassicurante di una cosa indistinta ed
indistinguibile, per dargli una tangenza tagliente che finisce solo per
tagliarlo ancora di più fuori.
Da Alex,
appunto, ma anche da me e da una vita che è scorsa senza di lui, srotolandosi
in modo asettico e sterile per quanto mi riguarda, ma in modo comunque presente
ed innegabile per lui.
Non so come
faccia a capire tutto questo dalla semplice inflessione sofferta che Draco ha
messo nel pronunciare il nome di nostro figlio, venandolo persino da un’onta di
disgusto che credo che sia quasi scontata, se penso che suo figlio, l’ultimo
dei Malfoy, ha anche un nome completamente babbano.
Non ci avevo
mai davvero pensato a questo, al fatto che potesse non accettare come avevo
chiamato Alex.
Quel nome,
in me, non nacque istintivo come può pensare lui, né tantomeno fu una specie di
vendetta e rivalsa: non ho desiderato macchiare un Malfoy con un nome che lo
designasse immediatamente come estraneo verso suo padre, altrimenti non avrei
fatto sì che portasse il suo cognome con manovre al limite dell’illegalità, per
fortuna accondiscese da Harry, e non avrei nemmeno insistito che avesse come
secondo nome Leo, come la stella dell’omonima costellazione, così da ricordare
che nostro figlio è anche l’ultimo dei Black, assieme a Teddy Lupin. Ho sempre
voluto che Alex si sentisse figlio del retaggio che porta diluito, e per
fortuna per lui innocuo, nel sangue. Ma mio figlio è cresciuto da babbano, ha
conosciuto solo la parte di famiglia che potevo dargli io, i miei genitori,
alcuni miei parenti italiani.
Ed avevo
sentito quasi subito la necessità di legarlo, a doppia mandata, anche a quella
parte del suo sangue: di legarlo a me, quando ancora avevo paura di non essere
pronta a fargli da mamma.
Il primo che
accettò Alex, forse prima ancora di me, fu mio padre. Si candidò nonno, dal
momento in cui spiegai che mio figlio non era frutto della violenza di Dimitri
Karkaroff, ma di una normalissima ed ugualmente straordinaria storia d’amore.
Andò persino contro mia madre per questo, lei era più riflessiva, più posata,
più preoccupata che la sua bambina potesse non essere ancora pronta per pensare
alla sopravvivenza e al futuro di una creatura che dipendesse in tutto da lei.
Mio padre
invece ha avuto fiducia in me, prima che ne avessi io. Mi portava al corso
preparto, mi accompagnava a comprare vestiti quando nemmeno mi importava che
mio figlio non fosse nudo, mi forzava a prendere decisioni. Lo odiavo. Fino a
quando non vidi Alex, e capii fino a che punto aveva avuto ragione.
Non sono mai
stata brava a ringraziare, a fare gesti affettuosi, a profondermi in pompose
attestazioni d’amore e riconoscenza.
Semplicemente,
dopo tre giorni in cui il mio bambino era un senza nome tra i più carini al
mondo, dissi chiaramente che il suo nome era Alexander.
Il nome di
mio papà.
Sarebbe
difficile spiegare questo a Draco, adesso: probabilmente non sarebbe nemmeno
tra le cose più urgenti a questo mondo, visto quanto poco ci rimane
probabilmente da vivere.
Quindi, dopo
aver accolto la sua stoccata con una fitta al cuore che dubito potrei negare a
me stessa, mi limito a chiedere spiegazioni sul perché debba parlare a Serenity
di Alex, ignorando tutto il resto. Sinteticamente, Draco mi spiega che ha
raccontato a Serenity del fatto che suo fratello sia in pericolo e che lui deve
andare a salvarlo, ma la bambina ovviamente più che preoccuparsi del destino
del suo padre putativo, la cui grave situazione naturalmente è stata taciuta da
Draco, si è notevolmente incuriosita per l’esistenza di questo nuovo fratello,
che non ha mai conosciuto e di cui non ha mai sentito parlare. Ha iniziato a
fare domande a Draco che non poteva granché rispondere, conoscendo in pratica
di Alex solo il suo nome ed il fatto che sia figlio mio e suo.
“Voglio che
lei sappia di lui… che lo conosca…” aggiunge infine con voce stanca,
massaggiandosi una tempia in modo distratto “Se… non dovessimo farcela… Alex
sarà tutto ciò che resta della sua famiglia. E viceversa. È giusto… che lei
sappia di lui, prima di vederselo piombare in casa e nella sua vita…”. Draco
solleva lo sguardo, spiando la mia reazione, prima di mormorare caustico: “Con
lui, non faccio in tempo a dirgli niente di lei… almeno con Serenity posso…”.
“Alex sa
tutto quello che poteva sapere di Serenity…” lo interrompo subito,
meccanicamente, guardandolo storto “Ha sempre saputo che era sua…”. Mi fermo,
rendendomi conto di quello che sto dicendo, di come lo sto dicendo e della
persona a cui lo sto dicendo. Draco infatti resta attonito, meravigliato, mi
guarda ad occhi sgranati e spalancati, autenticamente sorpreso. Sono così belli
i suoi occhi adesso, sanno di diamante e perla che per un attimo mi scordo di
dove sono, e di che cosa sto facendo e dicendo.
Lo vedo fare
un minuscolo passo nella mia direzione, insicuro, e spiare con lo mio sguardo
acceso la mia reazione, che resta quasi terrorizzata, incerta, spaventata. Si
ferma allora, lascia ricadere lungo il fianco la mano che aveva
inavvertitamente sollevato e sospira a lungo, prima di dire con voce piatta: “Che
cosa sa Alex di Serenity?”.
“Quello che
sapevo io… quello che potevo dirgli io…” mormoro, guardando altrove, prima di
sussurrare nervosamente: “… e quello che mi auguravo per loro…”.
“Cosa?”.
Torno a
guardarlo con decisione, sfidandolo persino, mentre dico: “Sa che è sua
sorella… l’ha sempre chiamata così… e la chiamerà ancora così…”.
Draco accusa
il colpo, tace, abbassa lo sguardo, evidentemente comparando le nostre due
situazioni. Serenity non ha mai saputo niente di me. Certo, di Alex non poteva
dirgli nulla, non sapendo della sua esistenza, ma non ho mai negato a mio
figlio la sua storia, inserendoci anche quella bambina, perché l’ho sempre
considerata parte della mia famiglia e perché ho sempre inconsciamente creduto
che Draco non l’avrebbe mai lasciata andare. Ma c’è dell’altro, e Draco se ne
rende conto subito, perché il suo sguardo torna d’improvviso nel mio, e brucia,
splende, arde come l’inferno. Mi fa sentire nuda, spoglia, indifesa, e mi
stringo nelle spalle quasi a tenermi unita ed incollata assieme.
Draco è il
padre biologico di Alex e quello adottivo di Serenity: era ovvio che li
definisse fratelli. Io, per Serenity, non sono mai stata nulla. Eppure, in
cinque anni, l’ho chiamata sorella di mio figlio ed involontariamente anche
figlia mia, e non perché rivendicassi qualcosa su quella bambina… no. Perché
ero certa che quando avrei trovato Draco, avrei trovato anche lei… e speravo di
poterla chiamare figlia, come Alex. Ne ero certa, altro che sperare… e si è
visto la mia bella certezza che fine ha fatto.
Fa male, fa
malissimo adesso ripensarci, e lasciare che quella meravigliosa illusione si
sciolga come zucchero nello sguardo di Draco che mi accarezza, spogliandomi,
baciandomi, incensandomi, e di nuovo odiandomi, disprezzandomi, maledicendomi,
mentre si ricorda di tutto il resto che c’è tra noi.
Lascio
cadere le braccia, mormorando: “Lasciamo perdere. Va bene. Parlerò con
Serenity… portami da lei…”. Draco apre la bocca come se stesse ancora per dire
qualcosa, poi si arrende e mi fa strada. Lo seguo in silenzio nel corridoio,
fino ad una porta bianca di legno come le altre, che però reca una vezzosa
targhetta che, in roselline fucsia, descrive le lettere del nome di Serenity.
Draco sospira, mi guarda come a chiedermi assenso definitivo e, al mio cenno
statico di resa, apre la porta con decisione.
La camera è
in penombra, le tende bianche sono tirate e la sola luce proviene da una
lampada sul comodino, che proietta cuori e stelle colorati sul soffitto. È la
tipica camera di una bambina: pareti rosa, disegni di principesse alle pareti,
una libreria ed una piccola scrivania sempre di colore rosa, peluche e bambole,
un letto la cui testiera assomiglia ad un castello. Tutto ha un odore
penetrante di ciliegia e lavanda, mi ricorda il profumo che Draco associava ad
Helena e mi chiedo se sia una cosa più o meno voluta, o casuale, che sua figlia
abbia lo stesso profumo di sua madre.
Serenity è
già a letto, seduta composta come una regina: ha i capelli biondi sciolti,
ricadono in onde leziose lungo la schiena. Porta un pigiama con i coniglietti
rosa anch’essi, ma ha il viso imperturbabile di una ventenne. Gli occhi sono
fissi, fuoco ceruleo, su me e su Draco, attendono risposte, si affollano di
domande. Sussurra un semplice saluto affrettato ed educato nella mia direzione,
prima di guardare Draco in attesa. Lui mi sorpassa e si siede accanto a lei,
sul letto. Hanno un modo di guardarsi particolare, muto, silenzioso, che va al
di là della comunicazione normale ed anche al di là di come normalmente ci si
guarda tra padre e figlia. Serenity lo guarda con un sottotesto di adorazione,
che Draco ricambia in eguale modo. Io ed Alex non ci siamo mai guardati così:
certo è la persona che amo di più al mondo, ma ho sempre mantenuto la distanza
ovvia che dovevo tenere per proteggerlo come madre e preservarlo da me stessa e
da ciò che poteva danneggiarlo. Lui comunque spesso capiva le cose da solo… ma
io non lo guardavo così, mai, da pari a pari. È un bambino, penso che fosse
giusto così. Serenity ha invece già le fattezze e lo sguardo di una donna, a
cui suo padre può persino appoggiarsi se crede. Sono un mondo a sé, una bolla
luminosa, dove dubito che qualcuno entrerà mai. Ciò quasi mi risarcisce del
posto che, quindi, doveva avere Raissa. Ma al contempo mi incute una strana
diffidenza, specie nell’ottica delle fantasie che avevo su una nostra famiglia
e dove avevo sempre considerato Serenity ed Alex come pari figli miei e di
Draco.
Serenity
sarà sempre diversa per Draco, sempre…. Anche quando e se conoscerà nostro
figlio.
Sarà per
sempre così, c’è troppo legame tra loro… in un modo morboso quasi, che finisce
persino per spaventarmi.
Mi stringo
nelle spalle, mentre Draco spiega a Serenity in modo laconico: “Lei… è la mamma
di tuo fratello, bimba… puoi fare a lei le domande che volevi farmi. Va bene?”.
Serenity mi
studia per un attimo, in attesa. I suoi occhi azzurri soppesano interamente la
mia figura, come a volersi imprimere ogni particolare nella testa alla ricerca
di qualcosa che la spinga a fidarsi di me o, viceversa, a cacciarmi fuori.
Trova evidentemente qualcosa che la convince positivamente, ed annuisce
all’indirizzo di suo padre. Draco sospira, accarezzando la testa della bambina,
e dopo fa cenno a me di sedermi sul letto accanto a lei. Imbarazzata, mi
accorgo che Draco non fa altro che alzarsi dal letto ed accomodarsi in una
poltrona poco distante. Non ha alcuna intenzione di lasciarmi da sola con la
bambina. Mi chiedo che cosa prevalga in lui, al momento: se la curiosità su ciò
che dirò su nostro figlio, o la preoccupazione per sua figlia.
In ogni
caso, non ho molta scelta. Esitante, mi siedo sul letto accanto a Serenity e,
cercando di essere quanto più allegra e rassicurante possibile, dico dolce:
“Ciao Serenity…”.
“Buonasera…”
mi risponde lei educatamente, guardandomi in tralice. Sono a disagio, mi sembra
di essere seduta su un letto di spine. Serenity ha ben poco della bambina di un
anno, che tenevo tra le braccia e a cui facevo il bagno, raccontandole i miei
pensieri. È impettita, seria, composta. Persino il suo saluto è formale. È un
curioso controsenso: ha l’aspetto di una bambina, ma non si comporta come tale.
Lo avevo già intuito, paragonandola a Charisma, da cui porta solo quattro anni
di differenza. Ma adesso è evidente come il sole. Ha occhi torbidi, foschi,
sporchi: nulla del candore infantile, tutto della consapevolezza adulta. È
cresciuta in modo strano… non assomiglia neanche ad Helena. Lei era il suo
opposto. Occhi da primavera, da bimba, in un corpo da donna. Serenity è il
contrario.
Cerco di non
farmi impensierire né da questo, né dalla presenza silente di Draco alle mie
spalle, e mormoro, decisa a darci un taglio prima possibile: “Chiedimi tutto
quello che vuoi…”.
Serenity
annuisce, mette su un’espressione imbronciata. Guarda la coperta rosa, su cui
poggia le mani contratte, poi chiede d’un fiato: “Lei… per caso… è Helena?”.
Sento Draco
muoversi sulla sedia, in modo fulmineo, facendo cenno di alzarsi e di venirci
incontro. Prima che però lo faccia, intenerita da quello che finalmente sembra
un accenno infantile in lei, recupero l’autocontrollo da mamma che per fortuna
ho ancora nel sangue. È normale che abbia pensato che sia anche la sua di
mamma. I fratelli, in fondo, sono tali per l’uguaglianza dei genitori. E
sebbene Draco le deve aver già detto che Helena è morta, la speranza in una
bambina è l’ultima a morire, sempre. Si colora di fiaba, illusione e magia,
diventando semplicemente una storia qualunque e fantastica a cui credere. La
morte non può essere per sempre: un bambino neanche ci arriva a pensare al “mai
più”.
Essere di
nuovo sul mio terreno, scoprire in quella piccola qualcosa che sembri
finalmente autentico, mi spinge persino a fare un cenno verso Draco,
imponendogli di stare dov’è. Lui mi guarda storto, ma non si muove. A quel
punto, mi sistemo meglio sul letto, sorrido ed accarezzo lievemente le dita di
Serenity. Lei mi guarda un po’ dubbiosa, ma non si ritrae.
“No, tesoro,
mi d-dispiace… non sono la tua mamma…” dico serenamente, guardandola in viso
“Era una bellissima donna. Sembrava una principessa… credimi, non somigliava
affatto a me…”. Faccio una buffa smorfia, arricciando il naso. Serenity,
finalmente, sorride calorosamente, divertita. Istintivamente chiude la manina
su quella che ho ancora sulla sua.
Solo adesso,
d’un tratto, mi ricorda la bimba che mi chiamava Mione.
Le sorrido
ancora, Draco alle mie spalle sembra più tranquillo e si siede daccapo.
“Io mi
chiamo Hermione Granger…” spiego con voce calma “Ci siamo viste parecchio in
questi giorni, ma non credo di essermi mai presentata. Mi dispiace… sono stata
davvero maleducata. Tu invece sei proprio una signorina…”, Serenity sorride
fiera di sé stessa, raddrizzando la schiena. Continuo quindi più tranquilla,
optando ovviamente per una versione neutra: “Sono una vecchia amica del tuo
papà, lavoravamo assieme in un bar a Londra…”.
“Il Petite
Peste? Assieme a zio Seth?” mi precede lei, le guance rosse.
“Sì, sì,
bravissima…” sorrido incoraggiante, mi sono accorta subito che adora essere
lodata. Dubbiosa ma incoraggiata dal fatto che Draco non stia intervenendo,
decido di rincarare la dose aggiungendo: “Ti ho conosciuta quando eri molto
piccola. Ricordo che ti piacevano molto i cavalli… una volta sei persino
scappata per andare a giocare con loro…”. Serenity per un attimo mi guarda ancora
incerta, poi qualcosa si illumina nella sua espressione. Evidentemente deve
conoscere questo episodio, quello della sua sparizione a Wonderland… io lotterei per diventare il motivo che
cerchi… scrollo il capo agli sgraditi e molesti ricordi, tornando a
Serenity che, entusiasta, mi risponde: “Papà me l’ha raccontato. Mi piacciono
molto anche adesso i cavalli… vado a scuola di equitazione. Ed il mio cavallo
si chiama Cannella. Ha il pelo lucido e marrone”.
“Deve essere
molto bello…”.
“Molto… ma
un po’ indisciplinato… non vuole correre quando glielo dico io, ma solo quando
va a lui…”.
“Scommetto
che imparerà…” commento sinceramente, ormai più vicina ad una conversazione
normale con una bambina. La sensazione di estraneità e disagio sembra quasi
passata del tutto. Mi metto persino più comoda, mentre aggiungo calorosa: “Sei
sempre stata molto brava con gli animali, sin da bambina. Me lo ricordo
ancora…”.
Serenity
quindi si sporge su di me, prende a sussurrare complice, guardandomi come se
stesse confidando un segreto: “Lei quindi era con papà, allora? Il giorno in
cui sono scappata?”.
“Sì, ero con
il tuo papà… eravamo…” mi interrompo alla ricerca di una verosimile definizione
di quello che eravamo. Il silenzio di Draco, alle mie spalle, e la sensazione
degli occhi che mi stanno perforando la schiena non è decisamente d’aiuto. Ma
alla fine sputo fuori con falsa tranquillità: “Eravamo amici, ecco…”.
Amici…
Non ricordo un maledetto momento in cui ho potuto
chiamare Draco Malfoy mio amico.
Nemmeno allora a Wonderland: era già un mistero nel
sangue, che scoppiava di febbre peggio di una malattia.
Mai mezze misure, mai grigio, mai quieto ricordo
acquattato nell’ombra. Sempre odio, morte, sangue, amore, passione,
sopravvivenza. Mai meno. Semmai sempre di più.
Torno a
Serenity, simulando ancora calma e serenità e dicendo gentile, certa ormai di
essermi guadagnata un po’ della sua fiducia apparentemente riottosa: “Quindi se
ti conosco non c’è bisogno che mi dai del lei, non credi?”.
“Credo di
sì…” dice alla fine lei con un profondo sorriso, e solo adesso, per un attimo,
vedo Helena nei suoi tratti, quella che ho imparato a conoscere dai ricordi di
Draco. Persino l’aura del profumo alla ciliegia si fa più forte. Sembra pensare
un po’, aggrottando le sopracciglia, prima di chiedere incerta: “Quindi lei,
anzi, tu… sei la mamma di mio fratello?”.
“Sì…”.
“Come si
chiama?”.
“Si chiama
Alex…” dico con voce sommessa, persino il suo nome mi fa contrarre lo stomaco,
poi aggiungo a voce più alta, quasi rivolgendomi alla silenziosa platea alle
mie spalle: “Alexander Leo Malfoy…”.
Onestamente,
non so perché ho bisogno di dirlo a voce alta, perché lui lo senta, lo ricordi.
Semplicemente, con una nettezza disarmante, so adesso che probabilmente questo
sarà l’unico momento in cui Draco saprà qualcosa di suo figlio. E voglio che
sappia quanto possibile… ha ragione, in fondo. Lui vuole che Serenity sappia di
Alex, io voglio che lui sappia di Alex.
È per mio
figlio.
Idealmente
oggi cucio la famiglia che non ha mai potuto avere.
Serenity
sgrana gli occhi, sorpresa, ed erompe con voce squillante: “Ha lo stesso
cognome di papà!”. Draco, alle mie spalle, si schiarisce la voce, non mi
azzardo a voltarmi nella sua direzione, annuendo piuttosto alla bambina che
continua, ispirata: “Io invece no… mi chiamo Diggory. Sono nata da un altro
papà, quindi mi chiamo così…”. La dolcezza quieta e pacata che Serenity mette
in queste parole, facendomi ricordare automaticamente il volto sereno di Amos
Diggory mentre affrontava la sua fine, mi spinge a chiudere gli occhi
velocemente per nascondere un pizzicore diffuso che potrebbe diventare lacrime
assolutamente inopportune. Ancora, dietro di me, Draco si schiarisce la voce.
“E perché
mio fratello si chiama proprio Alex? È un nome babbano… non è un mago come me?”
chiede ancora curiosa Serenity, il volto rosso. Non sapeva del mondo della
Magia fino a quando l’ho interrogata con la pozione della Verità.
Evidentemente, poco fa, Draco deve averle spiegato anche questo. Continuo, dopo
qualche secondo: “Sì, sì, anche lui è un mago… ma si chiama così perché il mio
papà si chiama Alexander… volevo chiamarlo come lui…”.
Ecco,
adesso, sa anche questo. In silenzio, lo sfido quasi ad obiettare, a dire
qualsiasi cosa. Ma Draco continua a tacere come dall’inizio di questa
conversazione. Vorrei tanto girarmi per vedere qualcosa della sua espressione,
capire che cosa sta pensando, ma Serenity riprende a parlare vivace, prevenendo
qualsiasi mia intenzione: “Quindi anche Alex fa delle magie? Io una volta ho
sollevato il tavolo e rovesciato le sedie… ma Raissa si è arrabbiata… ”.
Le spalle mi
si contraggono a quel nome, mentre un enorme pezzo di ghiaccio mi cade enorme e
gelido nello stomaco, dandomi la nausea. Stringo forte il lenzuolo tra le dita,
trattenendomi dall’impulso di prendere di andarmene da qui per correre altrove,
così da trovare quella maledetta donna che mi ha distrutto la vita. Poi ricordo
che, purtroppo, nella matematica della vita e nella somiglianza delle cose
impossibili, Ron sta ad Alex come Raissa sta a Serenity. Lui è stato una
copertura per me, e una specie di padre per Alex. Raissa, a suo modo, è stata
anche una specie di madre per Serenity. Non posso accettare quella specie di
surrogato sporco di compagna che è stata per Draco, ma perlomeno il ruolo che
ha avuto nella vita di Serenity devo accettarlo. Per il bene di questa bambina.
Quindi, dopo
qualche secondo di esitazione, ingoio il veleno, faccio il migliore dei miei
sorrisi e riprendo gioviale: “Sì, anche Alex fa delle magie ma molto piccole…
spesso quando fa i capricci e non vuole mangiare la verdura. La fa sparire. E
poi ricompare in giro per casa…”.
“Neanche a
papà piace la verdura, specie le carote…”.
Questo è
persino peggio. Questa cosa stupida fa persino più male di tutto il resto del
discorso… Alex che odia le carote. Draco che odia le carote.
Mi mordo
l’unghia del pollice con ansia, borbottando: “Specie le carote, già…”.
Sento alle
mie spalle un movimento involontario di Draco, come se si fosse nuovamente
poggiato sulla poltrona, dopo essersi inarcato con ansia in avanti.
L’altra
sera, quando mi hai visto… ti ho ricordato lui, non è così? Mi somiglia pure,
non è così?
E’ tuo figlio… è ovvio che ti somigli…
Quante
somiglianze hanno, ancora, che io ho già non ho visto? In quanto è ancora suo figlio,
oltre che mio?
Il palmo
delle mani prende a sudarmi in preda all’ansia, lo asciugo freneticamente sulla
stoffa del piumone, la voce di Serenity continua ad interrogarmi e la sento con
una parte remota della mia mente, presa in tutti altri pensieri. Sembra la
vendetta al contrario del Veritaserum che le ho propinato io. Il karma è
davvero una brutta bestia.
Ogni sua
domanda è porta di ingressi privilegiati in ricordi, uno più letale dell’altro,
e in immaginazioni di giorni che non verranno mai.
“Quanti anni
ha? Va già a scuola?”.
“Ha cinque
anni. In Italia andava all’asilo… inizierà la scuola elementare a settembre…”.
“Gli piace
il calcio? Io lo detesto!”.
“Purtroppo
sì, gli piace… ma anche io lo detesto, tranquilla!”.
“E gioca
spesso a calcio?”.
“Non tanto…
è ancora piccolo. Ma sta imparando a nuotare… Charisma, l’hai conosciuta? Vuole
che impari a nuotare… così possono andare in spiaggia con Biscotto”.
“Papà non
vuole che io abbia un cane… perché lui ce l’ha, invece?”.
“Perché… era
un cagnolino abbandonato… e papà ha fatto un’eccezione…”.
“Quindi
anche un po’ mio Biscotto?”.
“Certo
piccola…”.
Gli occhi
della bambina iniziano lentamente a socchiudersi progressivamente, vinti dal
sonno. Respiro di sollievo al pensiero che si addormenti, e mi liberi da questo
interrogatorio. Ma, infida come la lama di un coltello, mentre Serenity reclina
lievemente il collo di lato, quasi vinta dalla stanchezza, mi giunge in un
sussurro la domanda che temevo: “Papà dice sempre che io sono uguale a mia
mamma, ad Helena… anche Alex è uguale a te?”.
No. Eccola la risposta.
No.
Due
maledette lettere incastonate nel cervello. E io andrò in pezzi, se lo dico. E
se non lo dico, sarò bugiarda e spergiura, rinnegando mio figlio. E se lo dico,
come mi trattengo tutta assieme dentro questo corpo, senza esplodere lontana? E
se non lo dico, come sopporterò il suo silenzio alle mie spalle, sapendo che
gli sto mentendo?
Perché la
verità è che è uguale a lui… ma se lo dico, io ricordo Alex con la chiarezza
che non mi farebbe più ragionare… mi unisco di nuovo a Draco, nel sangue che è
fluito in me e ha generato Alex. Se lo dico, ricordo che ce l’ho avuto dentro,
sopra di me, ad accarezzarmi i capelli, spostando petali di rosa, a dirmi che
mi amava, a respirarmi di fuoco sulla spalla, a ridermi nelle orecchie, a
piantarmi il cuore e il corpo di questo bambino che non sarà più solo un
bambino qualunque.
Sarà suo
figlio.
Sarà mio
figlio.
Sarà carne e
sangue, respiro ed anima. Sarà me e lui, uniti, in una forma che non avremo mai
più. E che non posso sopportare che non avremo mai più.
Non lo posso
sopportare. E lo odio, per questo. Mi odio per questo. Perché lo voglio ancora,
lo vorrò sempre. Lo amo ancora, lo amerò sempre.
Non nella
maniera perfetta e nobile che vuole Adamar per salvarci… ma in un modo lercio e
voluttuoso, che è solo una vendetta mai libera.
Si nutre di
rammarico e rimpianto, mangia pezzi di mio figlio, gode di simmetrie e
somiglianze, si strappa di dosso differenze e si scava di distanze.
Questo sono
diventata: amando lui, odio me stessa. Come mai era successo, nonostante tutto,
nonostante lo Zahir.
Allora io mi
odiavo perché non ero abbastanza per lui. Adesso… non è così.
Come faccio
a rispondere, adesso? Come faccio a dire la verità, adesso? Come faccio a sentirlo
dentro di nuovo, sapendo che non lo avrò mai più?
Respiro a
fondo, scelgo le parole, sono sincera ma non completamente. Fingo che non ci
sia, mi iberno e mi chiudo a chiave, sperando che basti.
“Alex ha
qualcosa di me… ma non è uguale a me. Mi fa arrabbiare tante volte proprio
perché è diverso da me…”.
“E’
cattivo?”.
Serenity è
una bambina, è innocente, non è la maliarda ingorda che vedo io. Non fa le
domande per scavarmi il cuore con un cucchiaino. Dice quello che sente, quello
che crede. È innocente.
Sono io che
esplodo, in mille pezzi diversi.E non
so nemmeno con chi maledizione sto parlando. E di chi sto parlando.
Di mio
figlio. Di quanto amo lui. O di Draco. E di quanto potrei ancora amare lui.
Non lo so
più.
Ho gli occhi
congelati su un quadrato di stoffa del piumone. Vedo fucsia e rosa, oro e
cremisi. Ma in realtà è tutto grigio perla, diamante, latte e ghiaccio.
Il mio
colore preferito: il rosso non ha mai retto il confronto. Non è mai stato il
colore del cuore, per me. Mai.
Il cuore, il
sangue, le viscere: tutto grigio. Tempesta, lampo, mare di dicembre, nube
acquosa, strada maestra, spuma di onda, carta e libro, pietra carsica, caverna
di roccia, capelli di vecchio, argento vivo, luna e stella, pioggia dalla
finestra, cenere e fondo di fiume, lacrima sporca: gli occhi di Alex. Gli occhi
di Draco.
“No, tesoro.
È un bravissimo bambino. Ma è sempre convinto di avere ragione… ed è furbo,
testardo, fa di me quello che vuole, cerca sempre di trovare il pelo nell’uovo
per dimostrarmi che ho torto. Ed è terribilmente orgoglioso, permaloso. Ha
bisogno sempre delle prove per tutto ciò che fa. È allergico alle fragole, per
esempio? Non ci crede, fino a quando non sta male dopo averle mangiate. Mi
contesta spesso, mi sfida in continuazione… ma mai con arroganza,
maleducazione, spavalderia. È semplicemente fatto così. Però… capisce le
persone. Capisce chi sta male, prima ancora di averne conferma. Ed è delicato,
sta attento a quello che dice, cerca di non fare soffrire nessuno. Spesso penso
che si senta solo. Ma non me lo fa capire mai. Se ne sta zitto, in silenzio,
finché non passa. È gentile, specie con i più piccoli, con gli anziani e con
gli animali. Mi fa dei regali, ma me li nasconde in posti segreti e, quando li
trovo, si vergogna nell’essere ringraziato. Gli piacciono i brownies,
mangerebbe solo quelli. Ed ha un’intera collezione di magliette azzurre, perché
dice che il rosso è da femmina. Ha paura del mare, perché ne ho paura io. La
sua fiaba preferita è “Il piccolo principe”, ma non gli piacciono le fiabe,
preferisce i fumetti dei supereroi e le storie di guerra. Ha letto una versione
dell’Iliade in prosa di nascosto, temevo che fosse troppo violenta. E da allora
adora Patroclo, perché dice che è morto per un amico. Quando piove, deve sempre
camminare nelle pozzanghere. E mi fa arrabbiare come non mai. Poi sorride, mi
chiede scusa, e so che non lo pensa, so che mi sta prendendo in giro, ed allora
mi arrabbio di più. E lui allora mi abbraccia le ginocchia, nasconde la faccia
e mi dice che mi vuole bene. E solo allora ci credo davvero…”.
Tiro su con
il naso, prevenendo le lacrime, e mi chiudo nelle spalle. Mi trema il labbro, per favore sfiorami… anche solo per sbaglio,
anche solo per pietà. Soffri con me, piangi con me, straziati il cuore con me. Non
posso perdere lui. Non lo posso perdere, Draco. Ho già perso te. Non posso
perdere anche lui.
Ho già perso te.
Sollevo lo
sguardo, cercando di simulare un’espressione normale e serena per
tranquillizzare Serenity. Il letto va giù, e poi su di nuovo.
E Draco si è
seduto alle mie spalle, in silenzio, vedo con la coda dell’occhio le sue gambe
piegate, poco distanti dalle mie. Non fa nulla, non dice nulla. Ha un odore
buono, di casa. Non riesco a guardarlo in viso, ho gli occhi fissi su Serenity.
La mia schiena trema, pelle d’oca e brividi.
“E’ in
pericolo, adesso? Tornerà a casa?” la voce di Serenity suona fioca, spaventata.
Draco si fa
più vicino, non so come si muova così in silenzio. Il cuore scoppia, ovunque.
“Puoi starne
certa, tesoro… lo vedrai presto… e se vorrai, gli insegnerai ad andare a
cavallo…”. La mia voce è quasi un singulto, un gemito.
La sua mano
si poggia sul mio ginocchio. Sussulto, sono giunco e lui tempesta, sono ramo
secco e lui fuoco. Mi sfugge un respiro più forte dei precedenti, la mia pelle
riconosce le sue dita sopra la stoffa dei pantaloni leggeri che porto. La mia
mano scivola dallo spazio che aveva guadagnato nell’intermezzo tra le nostre
due gambe, smette di stringere il piumone con l’ansia di lacerarlo. Sale sulla
mia gamba. Si accuccia vicino alla sua mano.
“E lui può
insegnare a me il calcio…”.
“Non ne
vedrà l’ora…”.
Si trovano
le nostre mani a metà strada. Si sfiorano lievi prima, e quasi si spaventano,
si ritraggono. Poi si riconoscono di nuovo. Lui scivola sulla mia mano, la
copre con la propria. Io blocco le sue dita nell’incavo tra le mie. Lascio che
stringa forte, stringo forte. Chiudo gli occhi, mi manca il fiato, l’aria. E
non so che altro.
Lo sputo
fuori e basta. Serenity si sta addormentando e io lo dico e basta, a bassa
voce. A lui. Non alla bambina.
“Vuoi vedere
una sua fotografia?”.
Serenity
mugugna qualcosa, la testa piegata sulla testiera del letto. Draco accarezza
con il pollice il palmo della mia mano, rabbrividisco. Sembra che persino le
vene, sotto la pelle, vadano a fuoco. Tutto il corpo formicola di un contatto
lieve e leggero. Stupido, da bambini… ed impersonale, da genitori. Tenersi la
mano come due adolescenti. Ed invece… è peggio che fare davvero l’amore.
Possibile
che mi faccia ancora quest’effetto? Possibile che non smetta mai di farmi
effetto? Possibile che tutto diventi ghiaccio sciolto, carta straccia, cenere
di legno, se solo mi tocca? È davvero possibile, ancora? È solo una mano nella
mia, la premura asfittica del genitore e il rimpianto acre dell’amante. Ed
ancora, impossibile da dirsi, mi fa effetto.
Un effetto
lercio, sfilacciato, monco: un retaggio di abitudine, un avamposto di ricordo,
un grimaldello di rimpianto, un singhiozzo di desiderio. Ma non smette di fare
effetto.
Contro orgoglio.
Contro logica. Contro amor proprio.
Amando lui, odio me stessa.
Con la scusa
di afferrare la bacchetta dalla mia tasca, stacco velocemente la mia mano dalla
sua, con la sensazione benefica di tornare a respirare. Sento l’esitazione nel
suo sguardo e nella mano che resta ancora, per un po’, poggiata sulla mia
gamba. Poi sfugge via, rabbiosa, lesta, veloce, mentre io con voce rotta dico:
“Accio album”. Dopo qualche secondo, l’album di pelle azzurra che tenevo
nascosto nella mia valigia, compare fluttuando nella stanza, cascando
dolcemente sulle mie gambe. Mi volto verso Serenity, la bambina ormai è cascata
addormentata, sarebbe inutile svegliarla come alibi di una conversazione civile
tra me e Draco. Seguendo la direzione del mio sguardo, Draco alla fine si alza
in piedi, sospirando, e sistema meglio sotto le coperte sua figlia, che non fa
cenno di svegliarsi. Le bacia la fronte e le accarezza i capelli per qualche
secondo, forse chiedendosi intimamente se la rivedrà ancora. Resto seduta lì,
le unghie artigliate sulla superficie dell’album di fotografie, sentendomi di
troppo e chiedendomi se non sia il caso di uscire, per lasciarlo da solo. Ma
dopo pochi secondi, Draco si avvicina alla poltrona su cui era seduto prima, la
prende per i braccioli e si sistema di fronte a me, non accennando più a
volersi sedere accanto a me per toccarmi ancora. La sua manovra mi fa trasudare
di tenace sollievo.
Apro
l’album, ma decido con ostinazione di arrivare velocemente alle ultime pagine:
non ho granché intenzione di commentare con lui le prime fotografie, risalenti
nel tempo al periodo della gravidanza e alla nascita di Alex, sperando che non
si accorga o concentri sulla mia manovra diversiva. Trovo immediatamente la
foto che stavo cercando, l’abbiamo scattata appena arrivati a Londra, dopo il
nostro viaggio dall’Italia, ed è l’ultima che ho di Alex, la più recente. È
quella che meglio lo rappresenta: glielo ho scattata nel giardino di Pansy, in
una pausa del gioco con Charisma, ha la faccia imbronciata e sporca di terreno,
l’espressione dispettosa di chi è stato distolto da una faccenda molto
importante. I capelli biondo scuro sono tutti spettinati, ma sembra più lui di
tutte le foto impostate che gli ho fatto in duemila occasioni diverse.
Accarezzo la superficie liscia della fotografia, trattenendo un singhiozzo, per
poi passare l’album a Draco che lo prende quasi con la punta delle dita,
poggiandolo poi in grembo e lisciando la pagina con la mano aperta.
Soppesa la
pagina per lunghissimi attimi, minuti che si srotolano senza soluzione di
continuità. Di primo acchito, la sua espressione sembra quasi clinica, fredda.
Esamina la fotografia con attenzione maniacale, vedo gli occhi saettare da una
parte all’altra senza pace, saziandosi di particolari. Le nocche delle sue mani
sono bianche, fredde, artigliate attorno alla copertina dell’album come se ne
morisse lasciandolo andare. Sembra… lontanissimo. Il cuore mi batte
furiosamente in petto, cerco assenso nei suoi tratti, cerco l’amore istantaneo
che nasce per un figlio, cerco la consapevolezza che io l’abbia cresciuto nella
migliore delle maniere possibili. Ma è impossibile leggergli dentro, adesso, è
impossibile. È solo immoto, fermo, ad occhi sgranati.
Mi manca il
respiro, davvero. Mi sembra di stare sott’acqua. E ho già chiarito quanto
detesti adesso l’acqua, grazie ad Astoria.
Solo dopo
quello che io considero un’eternità, Draco finalmente si muove. Semplicemente,
respira forte, un greve sospiro trattenuto. E si massaggia lentamente con due
dita, lo spazio tra gli occhi chiusi.
Come se stesse facendo di tutto… per non…
Un luccichio
balugina nel suo sguardo, quando torna a guardare me, arreso, vinto, sconfitto,
distrutto.
… per non piangere.
È un momento
intimo, segreto, nascosto. Non dovrei essere qui a vederlo. Faccio quindi la
sola cosa che mi viene in mente di fare, conoscendo Draco e sapendo quanto sia
parco con le sue emozioni, specie con le lacrime. Mi ha concesso pochissime
volte di vederle. E mi ha sempre detto che, dalla morte di Helena, piangere per
lui è la cosa peggiore che gli possa succedere, ci arriva solo quando non è in
grado di fermarsi, quando semplicemente… è troppo. Ecco: e so anche che, quando
è troppo, se ne vergogna. Vuole stare da solo, non vuole che nessuno lo veda,
non vuole che nessuno pianga con lui. E io, a piangere, ci sono davvero molto
vicina, adesso.
Quindi,
semplicemente, prendo tempo, fingendo occupazioni diverse. Mi alzo in piedi e
mi fermo in piedi davanti alla finestra, prima di socchiuderla appena, come se
io avessi bisogno d’aria. Soffia salsedine e pino nella stanza, spero che gli
porti sollievo. Poi, ancora, fingo di voler controllare che Serenity stia
dormendo serenamente, che il suo cuscino sia ben sprimacciato, che non abbia
freddo o caldo: occupazioni da mamma che non mi distraggono affatto, visto che
sono giorni che non posso compierle con Alex, ma almeno gli do il tempo di
provare a ricacciare indietro… il troppo.
Un figlio che non conosce e forse non conoscerà mai.
Un figlio che… è identico a lui.
Io sarei già esplosa in mille pezzi.
Tento con
tutte le forze di concentrarmi su altro, ciondolando per la stanza e guardando
libri, fotografie, giochi. Se piango anche io, adesso, è la fine.
Per fortuna,
quando ormai sono certa che, a breve, scoppierò in lacrime, vanificando tutti i
miei sforzi, sento un colpo di tosse nervosa. Mi volto verso di lui, ha gli
occhi arrossati ma sembra non aver pianto. È riuscito a trattenersi. Sembra
solo… stanco, sfatto. Con quell’album ancora sulle gambe. Sussurra solo, la
voce bassa come quella di un morente: “E’ alto… sembra molto… alto…”.
Si riferisce
ad Alex, ovviamente. Sorrido con il maggiore calore che mi riesce, e mi siedo
daccapo sul letto di fronte a lui. Segue le mie manovre in silenzio, gli sfugge
qualcosa sul viso che assomiglia ad uno sbuffo di rassegnazione, come se si
fosse accorto di tutta la mia manovra diversiva. Non commenta però, resta in
attesa della mia risposta.
“1 metro e
20 centimetri…” dico con una punta d’orgoglio, sorridendo ancora “È il più alto
della sua classe...”.
“Nella tua
famiglia non sono molto alti che io ricordi…” replica a voce più accorata,
qualcosa che gli fiammeggia nello sguardo. Orgoglio.
Immediato, istantaneo.
Così brucia l’amore del genitore. Un moccioso urlante
tra le braccia, ancora sporco di placenta e sangue. Una fotografia stupida tra
le dita, saporosa di passato e rimpianto.
E non sei più uguale a prima: tessi tele e ricami che
siano i vessilli del sangue che vi lega. Se ci somiglia, è la migliore versione
di noi stessi. Se non ci somiglia, è il migliore rimpiazzo a noi stessi.
Sorrido
ancora, immaginando tutto quello che ora, nonostante tutto, sta accadendo nella
mente di Draco.
E quindi gli
concedo di dire lieve: “No. Nella mia famiglia non siamo molto alti. Non ha
preso da me…”.
“Non ero
così alto da bambino…” obietta giustamente, guardando ancora la fotografia
attentamente.
Sono
incerta, a quel punto, nel continuare. So perfettamente da chi ha preso Alex la
sua altezza. Me ne sono accorta subito, scorrendo mentalmente i nostri alberi genealogici.
Ripenso alle
foto in camera di Draco, ripenso a come in alcune di esse semplicemente c’era
una figura che comprimeva tutte le altre.
Lucius Malfoy.
Esitante,
preoccupata di risvegliare chissà che fantasmi, sussurro: “Ma lo era… tuo padre…”.
Draco inarca
un sopracciglio, continuando a guardare la fotografia, senza apparire sconvolto
o irritato. Continua ad essere semplicemente curioso. Ti sei davvero riconciliato con il loro ricordo, allora.
Quella mia
impressione viene confermata dalle sue parole successive, pronunciate con voce
chiara e tersa, senza che nulla le spezzi o pieghi: “Hai ragione. Ha qualcosa
di lui… di… Lucius…e persino… di mia madre…”.
“Lo so…”.
“Il mento.
La forma dei capelli…”.
“E il colore
degli occhi…”.
La prima cosa che vidi di lui: quella per cui pensai
che era davvero tuo figlio. Non vedi che ha i tuoi occhi?
Sono innamorata follemente di quegli occhi.
Draco
soppesa ancora la foto, ha uno sguardo più luminoso, mentre asserisce in un
sussurro spezzato: “E’ un Malfoy. L’avrei riconosciuto anche se non avessi
saputo che era mio…”. Mi stringo nelle spalle, annuendo, l’ho sempre saputo, ha
preso tantissimo dalla sua stirpe. Tranne
il male. Quello è rimasto nel mio sangue. L’ha iniettato lui, Draco, e l’ha
lasciato lì, pronto a farmi marcire dall’interno.
Draco,
improvvisamente, alza lo sguardo, mi studia come se stesse cercando qualcosa
nel mio viso, sgrana gli occhi, torna a guardare la fotografia.
“Ma… ha
anche qualcosa di tuo…” dice d’improvviso serio, pensoso, mordicchiandosi il
labbro inferiore con un sorriso storto, prima di sputare fuori con aria
sofferta: “Dio… ti somiglia così tanto…”.
Il mio cuore
ha un battito più forte, bloccato, smorzato e soffocato dalle costole. Mi
stringo sotto il seno, cercando di fermarlo, ed obietto acida: “In cosa, scusa?
A parte che gli piace leggere e qualcosa del carattere… esteticamente è la tua
fotocopia…”.
Draco non si
scompone di un millimetro, mi guarda ancora, ha uno sguardo penetrante di
madreperla che mi sembra mi screzi dentro. Piano, replica: “Granger, lo conosco
bene il tuo dannato viso. Ha le tue labbra, il tuo taglio degli occhi... e quel
broncio non è mio. È tuo. L’espressione da pesce palla…”, sorride teneramente e
qualcosa di caldo e denso si scioglie dentro il mio petto, rischiando di
soffocarmi. Mi schiarisco la voce, distogliendo lo sguardo, mentre lui sussurra
sarcastico: “Quella avrei evitato volentieri che la ereditasse…”.
Sorrido
ancora, sbuffando con finta irritazione: “Ereditata e migliorata con una
notevole dose di impertinenza che non è mia … appena lo vedrai, te ne renderai
conto…”.
Qualche
secondo di silenzio, un muscolo del viso che si contrae in modo involontario,
una smorfia fastidiosa, come uno spasmo al ventre che lascia senza fiato.
Poi lo
sguardo su di me, occhi tempesta e ghiaccio, labbra contratte. E la voce
accorata, sofferta, che si aggrappa senza speranze. A me. E dice: “Perché io lo
vedrò, Hermione? Credi che lo vedrò? Conoscerò mio figlio?”.
Boccheggio
senza fiato, non ce l’ho ovviamente la risposta. O intimamente, credo anche di
averla, ma non palesarla a me stessa la rende meno reale. Se odio il pensiero
di non rivedere più Alex, semplicemente non sopporto che lui neanche lo possa
conoscere. Quindi, per mitigare quell’atrocità, sussurro la prima cosa che mi
viene in mente, cercando di cambiare discorso: “Vuoi vedere il resto delle
foto?”. Draco fa un sorriso piccolo ed obliquo, che non gli arriva agli occhi,
probabilmente intuendo la mia elusione, ma annuisce e mi ringrazia. Non avevo
la benché minima intenzione che vedesse altro di quell’album, specie perché è
pieno di foto dell’Italia che mi ricordano un periodo di cui vorrei sapesse il
meno possibile. Ma, ancora, devo tutto questo ad Alex. Se suo padre molto
probabilmente non lo conoscerà mai, si merita perlomeno di averne il quadro più
esauriente possibile, sebbene in sua assenza. E quelle foto sono il mezzo
migliore, mio malgrado.
Draco le
scorre avido, girando le pagine con attenzione, come se tenesse una reliquia. È
prodigo di domande, cerca spiegazioni, mi inonda di richieste di chiarimenti e
di particolari a cui neanche io, con tutto che ho vissuto cinque anni con mio
figlio, ho mai prestato attenzione. Nota cose che il sangue richiama
immediatamente, quel sangue che ovviamente io non ho e che invece Draco
riconosce subito. Spesso assume un’espressione triste, sofferta, ed è in quel
momento che interrompo le sue riflessioni staticamente dolorose con un aneddoto
divertente, che ha perlomeno il pregio di distrarlo. Esibisce di frequente un sorriso
nuovo, appena scoperto, dal carattere luminoso e dall’impronta malinconica: è
un sorriso di orgoglio, di presunzione persino, a vedere quel figlio che gli
somiglia così tanto, che detesta le stesse cose che detesta lui, che ama quello
che ama lui, sebbene neanche lo conosca. Sfodera quel sorriso quando gli ripeto
che Alex fa sparire la verdura per casa, quando gli sussurro che la sua frase
preferita è “i Malfoy questo non lo fanno!”, quando asserisco che vorrebbe
diventare Cercatore. Non mi limito a questo, però, collego anche l’anima e il
respiro che io invece gli ho dato. Dico anche questo, perché ha diritto di
sapere anche questo, quanto di me c’è in nostro figlio. A quello, Draco
talvolta risponde con una smorfia, ma si mescola al suo sorriso, con il
risultato di indurmi ad una risatina tra il nervoso, il rassegnato e il sereno.
Gli dico quindi che adora leggere e che divora libri alla velocità della luce.
Gli ingiungo che, per il momento, non ci pensa proprio a finire a Serpeverde,
ma che non gli fa impazzire neanche Grifondoro. Sorrido mesta, rimarcando che è
terribilmente testardo, permaloso ed ostinato. Ma questo, mi accorgo dopo, non
so davvero da chi l’abbia preso di noi due.
Io e Draco
siamo testardi, permalosi ed ostinati in uguale misura rispetto a nostro
figlio.
Le foto
scorrono indietro, riavvolgendo il nastro della vita di Alex, fino a che è di
nuovo una minuscola nocciolina dentro la mia pancia. Sono quelle le foto che
non avrei voluto che vedesse e, per un attimo, sono quasi tentata di
strappargli l’album di mano. Ma Draco ha le dita così ancorate alla superficie
di cuoio, che dubito che ci riuscirei senza fare la parte di una pazza
isterica.
Draco ha ben
tollerato la sequenza di foto, dove Alex appariva sulle spalle di Ron, o
intento a giocare con lui, o a tentare di nuotare. Ha solo fatto un respiro più
forte, prima di chiedere veloce: “E’ stato bravo come padre surrogato?”. Non ho
esitato nel rispondergli sicura che è stato il migliore padre che Alex potesse
avere date le circostanze. Ovviamente mi ha irritato l’aggiunta della dicitura
“surrogato”, ma glielo ho concessa, glissando sul commento. Però, naturalmente,
la cosa cambia quando, arrivando alle prime foto dell’album, Draco trova quelle
più vicine temporalmente al periodo che ricordava lui.
In realtà,
non sono molte: figuriamoci se avevo la voglia e la volontà di farmi
fotografare in quel periodo. Ma fu mio padre ad insistere, e quindi sono
esattamente due.
Una è in
clinica, sono seduta a letto, e porto ancora i segni del terribile scontro con
Dimitri. Ho la flebo attaccata al braccio, bende sparse, ecchimosi sul volto. E
l’aria di una che, se potesse, si sarebbe suicidata. Sono terribilmente
denutrita, magra. La pelle è trasparente e scarnita, le occhiaie viola si
mangiano la salute del viso. La curva della pancia spunta dal mio corpo
scheletrico come una specie di escrescenza sbagliata: ero a sette mesi, ero
ancora convinta che dovevo trovare Draco e basta, di lì a dieci giorni avrei
provato a fuggire per poi essere fermata da Ginny. Naturalmente, odio quella
foto. Ma l’avevo comunque aggiunta all’album, essendo una delle poche che
preservavo della gravidanza ed avendomi Alex dato il tormento per un intero
pomeriggio, per avere qualcosa di simile. Quindi l’avevo attaccata e basta,
senza darci peso. Tale peso ed importanza, però, adesso la sta dando Draco. E
colgo il lampo fulmineo che gli passa negli occhi, quando, a fronte delle
parole scarne e rapide che gli ho rovesciato addosso descrivendo che cosa mi
fosse successo, adesso ne ha invece una rappresentazione grafica fedele. Erano
passati solo sette mesi da quando mi aveva vista, ed ero già un’altra persona.
Accarezza piano la superficie della foto in uno slancio di affetto e pena
sinceri che per un attimo mi tramortiscono, come se si fosse scordato che io
sia presente qui, di fronte a lui. Non solleva lo sguardo, ostinatamente
rivolto in basso, coperto dai capelli biondi, mentre sussurra: “Mi dispiace…
dovevo… esserci io con te…”.
“Lo so…”
soggiungo a voce bassa, spostando il peso del corpo da una gamba all’altra.
“… ma c’era
lui, almeno…” commenta ancora Draco piatto, con voce al limite tra il veleno e
la rassegnazione. E ciò lo dice, perché è passato all’altra fotografia. Quella
del mio matrimonio con Ron.
Quando mi
ero finalmente rassegnata al fatto di restare in Italia e alla copertura della
falsa identità di Hermione Weasley, Harry mi convinse che la cosa migliore
sarebbe stata celebrare un vero matrimonio con Ron, per poi eventualmente
invalidarlo in seguito. Era più sicuro a livello legale, non essendo le
convivenze quasi per nulla tutelate in Italia. Sarebbe stato più facile
annullarlo successivamente. Ero oramai prossima al parto, stanca, demotivata:
accettai senza tante storie. In realtà, come poi avrebbe ammesso un paio di
anni dopo, Harry premeva in quella direzione perché era convinto che, una volta
sposata, avrei recuperato le cose con Ron e non sarebbe stato più mio interesse
sciogliere effettivamente il matrimonio. Naturalmente, perlomeno allora, a Ron
la cosa era andata bene. Quindi il loro interesse non era celebrare un
matrimonio legale in modo da aumentare la sicurezza mia e di Alex: una vera
cerimonia non immetteva alcun valore aggiunto alla nostra serenità.
Semplicemente
era un trucco da propinarmi nella speranza che abbandonassi questo amore idiota
per Draco Malfoy, per uno decisamente più sensato per Ron Weasley.
Ovviamente,
quando lo seppi, due anni dopo il nostro matrimonio, andai su tutte le furie e
pretesi immediatamente l’annullamento, essendo stato celebrato il rito
canonico. Avremmo continuato a vivere come marito e moglie, ovviamente, ma
legalmente dovevo tornare nubile. Ron ed Harry, compreso alla fine che non
avrei lasciato andare Draco in alcun modo, acconsentirono. Ed il Ministro si
fece perdonare, premendo sull’acceleratore delle pratiche naturalmente
secretate del nostro annullamento. Poco più di anno dopo, il mio matrimonio era
stato annullato. Del resto, io e Ron tecnicamente non avevamo mai consumato la
nostra unione, Alex non era figlio suo, potevo averlo ingannato e circuito per
essere sposata: di motivi per un annullamento, ce ne erano a iosa.
Ciò, però,
non toglie che ai tempi il nostro matrimonio fu celebrato, immortalato e tutto.
Fu una cerimonia veloce e sbrigativa, al termine della quale andammo in un
ristorante spartano sulla costa toscana, dato che ero lì per sistemare alcune
cose a casa dei miei. C’eravamo solo io, Ron, i miei, Harry e Ginny. Persino
Helder se lo perse, era al capezzale di Hayden, ancora ricoverato, avevano
appena iniziato a legare. Facemmo poche foto, alle quali diedi il mio assenso
solo nello scenario futuro di mostrarle ad Alex, o di conservarle come conferma
del nostro matrimonio. E, sempre per Alex, una di queste foto è finita in
questo album. Aveva tre anni, era un periodo in cui voleva assomigliare ai suoi
coetanei, insisteva parecchio per avere un quadro di famiglia che fosse simile
a quello dei suoi amichetti. Ed in questo rientrava la foto del matrimonio di
quelli che, all’esterno naturalmente, presentava come i suoi genitori. Quindi,
sbuffando, allegai anche questa foto.
Stavo meglio
rispetto alla foto di due mesi prima, avevo un aspetto più florido, non avevo
più ferite ed escoriazioni. Mi ero persino arrischiata ad una specie di
sorriso, che però restava statico ed impostato. Ron, invece, e ciò fa persino
male a ricordarlo, era raggiante: sorrideva, abbracciandomi, una mano sul
pancione. Avrei partorito solo quindici giorni dopo. Ed io, invece, avevo
insistito per un abito semplice, corto, sopra il ginocchio, coperto da un
pesante cappotto bianco della stessa lunghezza ed accompagnato da un modesto
bouquet di roselline. Mi ero solo impuntata per un cappello con la veletta.
Motivo? Volevo piangerci dietro quanto mi pareva e piaceva.
Dubito però
che tutti questi dettagli Draco li possa apprendere da una semplice fotografia.
Per lui, c’è solo il ritratto di una apparente felicità mitizzata per sempre.
Lo vedo guardare la foto con evidente rabbia, stringendo forte le mani
sull’album, come se lo volesse fare a pezzi. Ma nemmeno l’accenno di un fiato
gli solca le labbra: se non fosse per le mani, apparirebbe il perfetto ritratto
della calma e della pace. La stessa finta serenità filtra nelle sue parole,
mentre dice pacato: “Deve essere stato il sogno di Weasley averti lì
finalmente… vinta… e… sua…”.
La tregua
ovviamente è terminata: il segnale della ripresa dell’ostilità è l’acido che mi
corrode lo stomaco, soffiandomi in gola la risposta venefica che mi affretto a
sputargli addosso: “Bè, se avessimo aspettato ancora qualche mese, avremmo
avuto una perfetta foto simile tra te e Raissa, no? Mi dispiace davvero tanto…
doveva essersi fatta un bel po’ di film sul diventare la signora Malfoy…”.
“Effettivamente
come titolo ha un’onorabilità maggiore della ben poco ambita posizione di signora Weasley…” schiocca lui la
lingua, fingendo disinteresse e guardandomi con astio.
“Dipende dai
punti di vista, suppongo…”.
Alla mia
finta e sdolcinata aria da convenevole, Draco replica con un’alzata di spalle,
le mani ancora contratte sull’album: “Non mi sognerei mai di asserire
preferenze su una scala universale… ho di fronte a me l’esempio di una donna
che ha preferito di gran lunga l’appellativo Weasley a quello di Malfoy… in
fondo l’hai portato con grande onore e
soddisfazione per ben cinque anni… ed
invece… se la memoria non mi inganna, hai tipo… rifiutato la mia proposta di matrimonio… con l’annessa implicita e
spero ben reclamizzata possibilità di diventare una Malfoy… sei sempre stata
cristallina nei tuoi punti di vista, Granger…”.
“Bene, visto
che siamo tornati noi stessi, con tutto l’ovvio corollario di recriminazioni ante prima guerra mondiale, comprenderai
se tralascio il secondo atto…” mugugno nervosa, alzandomi in piedi dopo
l’ennesima stoccata che non credevo assolutamente di meritarmi e che invece,
come sempre, mi è piombata tra capo e collo “Del resto so come va a finire. Hai
ancora un discreto carico da riversarmi addosso, no? Probabilmente comprensivo
anche dei tempi di Hogwarts e delle beghe tra i miei e tuoi antenati… quindi
grazie, incasso, ma me ne vado a letto…”. Prima che abbia il tempo di
riprendere con le sue frecciate, afferro l’album di fotografie, pronta a
riprendermelo, pentita dal mio accesso di gentilezza di poco fa. Draco, preso
di sorpresa, lascia l’album poco prima che io l’abbia saldamente tra le mani,
con il risultato che cada a terra, rovesciandosi. Una fotografia scivola fuori
e ricade sul tappeto della stanza di Serenity, sbuffo, guardando Draco storto.
Con le mani occupate dall’album, non ho il tempo materiale di raccoglierla
prima di Draco, che fa per porgermela con aria scocciata. Poi qualcosa attrae
la sua attenzione, ritira indietro la mano e si sofferma sulla foto, ad occhi
sgranati.
Che altro diamine ha visto, adesso?
Incrocio le
braccia e batto il piede a terra con impazienza, ha visto tutte le foto
dell’album, non ne ha tralasciato nessuna. Ma questa la sta degnando di
un’attenzione diversa, eccessiva. E lo sguardo che porta a me, ai miei occhi, è
d’improvviso così sbigottito, impetuoso, intenso che mi fa tremare le gambe. Fa
solo un singolo passo e, con delicatezza, mi porge la fotografia tra le mani,
sento che indugia con il pollice per qualche secondo su di essa, come a non
volersene separare. E, mentre la guardo, comprendendo infine, il suo sguardo
non mi lascia per un solo istante, facendomi sudare ancora di più freddo.
Perché quella fotografia… è un segreto. Turpe, eppure dolce. Sgraziato, eppure
gentile. Molesto, eppure innegabile.
Un segreto
che ho seppellito nel fondo di me stessa, per evitare di pensarci ancora. Un
segreto che riecheggiava ogni giorno della mia vita con Ron. Un segreto che,
fino a qualche settimana, andavo urlando e professando a chiunque me lo
chiedesse, attendendo di dirlo nuovamente a lui, a Draco, ma che adesso,
invece, si è fatta la vergogna più inconfessabile e tremenda mai esistita. Un
segreto che può salvarmi, ma non mi salverà. Un segreto che accende il fuoco
degli Empatici, ma agghiaccia il mio cuore.
Un segreto
che non è mai stato davvero segreto… e cioè che non ho mai smesso, per un solo
secondo della mia vita, di pensare a Draco Malfoy.
E non nella
maniera che si conviene ad una donna, ad una madre… no. Nella maniera scomoda
ed imbarazzante di un’adolescente alla prima cotta, tanto da farmi concretamente
supporre che il karma mi stesse punendo per non aver mai avuto episodi simili a
tredici, quattordici anni.
Il periodo
peggiore era stato quando Alex aveva circa tre mesi: mia madre, per aiutarmi,
viveva a casa mia in Sicilia, cosciente che forse non ero ancora del tutto in
grado di prendermi cura di me stessa, figuriamoci di un bambino. Mia mamma è
sempre stata una donna teutonica, instancabile. Sostanzialmente lei faceva
tutto per Alex, e io restavo a crogiolarmi nell’autocommiserazione e nella depressione.
Che mia madre, ingenuamente, trattandomi da malata, mi facesse più male che
bene, l’ho capito dopo qualche mese. Ho iniziato a stare meglio solo quando,
finalmente, mi sono occupata da sola di Alex e i miei pensieri neri si sono
accucciati in un angolo, schiacciati dalla luce accecante dell’amore per mio
figlio.
Prima, però,
io avevo dato fondo a tutta la mia dignità ed amor proprio, piangendo da sola,
mettendo su capricci assurdi, mangiando chili di gelato. Ed impuntandomi su una
cosa: dopo un anno, ormai, in cui non vedevo Draco, ne stavo scordando il viso.
Volevo una sua foto, la volevo disperatamente. L’avevo cercata, l’avevo
spasimata in tutti i modi, ma le foto di scuola o quelle del periodo
immediatamente successivo alla guerra non mi ridavano il volto del mio Draco,
del ragazzo che avevo conosciuto al Petite Peste. C’era troppo che mi
infastidiva in quelle di Hogwarts, troppo che mi intristiva in quelle del
periodo con Helena. Ma, naturalmente, del periodo successivo non c’era nulla.
Draco per tutti era morto, non si era fatto fotografare da nessuno. Ed
ovviamente non potevo mettere a repentaglio la sicurezza mia o di Alex,
contattando per una sciocchezza simile Seth, o Pansy.
Alla fine,
però, ottenni qualcosa.
Di piccolo,
sgranato, sfuocato.
Ciò che Draco ha tra le mani.
La Gazzetta
del Profeta aveva pubblicato in un vecchio numero una foto della festa a casa
di Pansy: per caso, nella mia infinita ricerca, avevo notato una fotografia nel
cui fondo, appena visibili, c’erano due persone abbracciate. Una ragazza mora,
cinta alle spalle da un ragazzo alto: Calista Parkinson e il suo ragazzo. Che
ovviamente non erano mai venuti a quella festa… eravamo io e Draco.
Avevo
incantato la carta per rimuovere gli incantesimi che avevano ingannato anche la
pellicola fotografica per proteggere me e Draco. La foto si era schiarita
ancora di più. L’avevo ingrandita, migliorata e modificata in tutte le maniere
possibili, ma comunque era rimasta una foto sbiadita e sfuocata, incapace di
restituirmi il ricordo dell’uomo che amavo. Eppure l’avevo divorata con lo
sguardo notte e giorno, così da sentire di nuovo il profumo di quelle braccia
addosso. L’avevo custodita sotto un cuscino, l’avevo inondata di pianto,
l’avevo baciata come una mocciosa.
Poi, come
premesso, l’avevo seppellita a fondo in un cassetto, quando finalmente avevo
preso ad occuparmi attivamente di mio figlio. E da quel cassetto era uscita
solo quando Alex mi aveva chiesto di vedere suo padre, quando non avevo trovato
niente di meglio da fare che mostrargli quella foto, per poi comprare un album
di cuoio e farne la sua prima immagine.
Adesso, come
tutto quello che in questa notte sta tornando indietro per punirmi prima della
mia probabile morte, anche questa fotografia è uscita fuori al momento meno
opportuno. È una prova principe, maestra, di fronte al quale, se si nega, si è
spergiuri ed apostati. È un coltello dalla parte del manico, pronto a
conficcarsi nella carne morbida del fianco. È tutto ciò che ho cercato di
negare fino ad ora, perché lui non lo sapesse, spinta dalla possibilità a suo
modo terribile che l’attaccamento che ho sempre continuato ad avere per lui e
per il suo ricordo, non avesse in lui un corrispondente. Lo sento il suo
sguardo addosso, quel senso riottoso di vittoria e possesso che si riprende
sulla mia vita e su quella di nostro figlio, facendo evaporare l’onta di
esclusione che le altre foto gli avevano biecamente disegnato negli occhi e
nelle parole. Lo sento vicino, vicinissimo, seppure non si è spostato. E la
sola cosa che mi resta da fare, vinta, vergognosa, rossa in viso come una
scolaretta smascherata, è afferrare con rabbia quella foto, schiacciandomela
contro il cuore, restando a viso basso e reprimendo l’istinto di piangere.
Proteggo quel Draco e quell’Hermione della foto, nascondendoli dalla luce
scomoda e falsa della realtà presente, del mio imbarazzo crescente che neanche
insegue il suo sguardo che immagino già tronfio, presuntuoso, colmo di
sicurezza molesta e mortificante.
D’un tratto,
lo sento con una parte della mia mente muoversi per la stanza, fare qualche
passo incerto ed in silenzio, fermarsi davanti alla libreria della camera di
Serenity. Spio le sue spalle, abbasso furiosamente il capo quando lo vedo
voltarsi ed avvicinarsi a me, di nuovo. Resta ancora immobile qualche istante,
soppesandomi ancora, poi sospira a lungo, forte, come a darsi coraggio. La sua
mano raggiunge fulminea e veloce il mio polso, staccandolo dal mio petto con un
movimento che mi mozza il fiato, per quanto è veloce, naturale, dolce. Le sue
dita corrono rapide lungo il polso e la mano, forzando le mie dita per aprirsi,
prima di intrecciarsi a loro con decisione. Ha la mano calda, caldissima,
rovente. Incapace di fare qualsiasi cosa, lo sento trascinarmi piano fino al
letto di Serenity, prima di sedersi. Mi invita in silenzio a fare altrettanto.
Fa ancora un grosso sospiro, non lascia la mia mano neanche per un secondo, non
obietto, non mi tiro indietro, non la lascio. Forse perché mi aiuta a non
perdere l’equilibrio. O forse perché, come tutto il resto di lui, mi è mancata
così tanto che se ne posso godere con una scusa qualunque, lo faccio e basta,
prima che si risvegli l’orgoglio.
In silenzio,
non spostando neanche l’aria, mi porge qualcosa.
Un libro.
Un semplice
libro dalla copertina di pelle rossa, con ghirigori dorati che inanellano la
parola “Fiabe”.
Un semplice
libro per bambini, dall’aria antica, magari anche pregevole, ma niente che
possa sembrarmi familiare e giustificarmi la sua volontà di mostrarmi qualcosa.
Lo tengo
sulle ginocchia per qualche istante, poi lui sussurra quieto: “Aprilo…”. Ha una
voce diversa, più morbida rispetto a prima. Incerta, tremante persino.
Sfoglio le
pagine senza capire, con attenzione, apparentemente disinteressata. È solo una
raccolta di fiabe, niente di che. Ad ogni pagina, con il racconto, si
intervallano bellissimi disegni dei personaggi, fatti con gli acquerelli. Non
noto niente di particolare, niente che mi faccia sobbalzare: sono storie
ordinarie. La Sirenetta, Cenerentola, la Bella Addormentata nel Bosco,
Raperonzolo, Biancaneve.
Storie
adatte ad una bambina. E difatti, i disegni sono tutti di bellissime e graziose
principesse che prima lottano, combattono, e poi si godono felici il loro lieto
fine.
Qualcosa,
però, ad un certo punto mi fa salire i brividi sulla schiena. C’è qualcosa in
quei tratti che, a sua volta, mi ricorda qualcosa. Lo stile, le pennellate
delicate eppure decise, il modo di dipingere gli occhi come se fossero la parte
più importante del viso, la carezza ai corpi femminili come se l’artista li
possedesse… e lì, subito, in modo fulmineo, capisco che i disegni sono di
Draco.
Ha lo stesso
identico stile di quando dipingeva Helena. Difficile non rendersene conto, solo
lui riesce a vedere la bellezza in ogni cosa, trasformandola, trasfigurandola
persino.
Ed è per
questo che, di primo acchito, neanche me ne accorgo. Per questo che, anche se
era così evidente, io non me ne rendo assolutamente conto, se non dopo qualche
minuto, bruciandomi il cuore.
Come la sua
mente mi ha visto in modo ben diverso da come pensavo che fossi, così ha fatto
anche la sua arte nei cinque anni in cui non ci siamo visti.
La mia mano,
nella sua, ha uno spasmo improvviso, pallida imitazione di quello che scoppia
nel mio petto.
Ogni
principessa, nel libro di fiabe di Serenity, ha il mio viso.
Questo
capitolo, mio malgrado, merita una spiegazione. Se mi avete seguito in questi
anni, se a vostro rischio e pericolo, ancora lo fate, sapete più o meno come
sono e chi sono. Sono una che si nasconde dietro questa storia, che non ama
parlare granché al di là di questa, che si imbarazza per i complimenti e ha
anche difficoltà a rispondere alle recensioni, perché spesso le sembra di dire
le stesse cose e di non meritarsi nulla di quello che riceve. Sono una persona
lunatica ed emotiva: e in questa storia, negli anni, ho trasfuso talmente tanto
di me stessa, che quando sarà finita probabilmente perderò un forte pezzo di me
stessa. Questa storia, che è nata come una fic, mi ha
dato tanto, tutto. La determinazione a capire che cosa voglio fare della mia
vita e dove sto andando. La consapevolezza di chi profondamente sono. L’amicizia
e la vicinanza di persone meravigliose. Un punto di vista sul mondo e su quello
che penso e vivo.
Ecco,
cosa è Halft per me, oggi.
Ed
ecco perché questo spaventoso ritardo merita una spiegazione.
Non
mi annoierò con il racconto della mia vita, con quello che mi è successo in
questi mesi, dalle cose più piccole e belle, a quelle più grandi e terribili. Non
mi esibirò nel patetico lamento di un’infelice ed occupata persona, che a tempo
perso fa finta di essere una scrittrice. Non ve lo meritate, insomma. E neanche
aggiungerò che sono una persona perfezionista, ed il capitolo non vede la
pubblicazione finché non sono soddisfatta; e nemmeno che ormai è una storia
così complessa che seguirne ogni personaggio ed ogni storia, non è
semplicissimo. Non vi incuriosirò dicendo che ho già in mente il seguito di
questa storia, che però non so ancora se pubblicherò su EFP visto che è quasi
del tutto una storia mia, e che quindi dissemino già Halft
di indizi. E neanche mi giustificherò con la parabola rilassante di sapere che
ormai mancano solo una manciata di capitoli alla fine.
Piuttosto,
vi chiederò scusa, a tutti voi, per l’enorme ritardo. Scusa e basta. Perché,
non ve lo meritate. E non ci sono giustificazioni, le mie, che tengano. Se non
seguirete più questa storia, vi capisco. Se vi siete arrabbiati, sentiti presi
in giro, ancora vi capisco.
Io
non abbandonerò mai Halft. La completerò, la scriverò
tutta come credo e spero. Ma purtroppo non sono una da un aggiornamento al
mese. Non lo sono mai stata. Ma non vorrei neanche diventare una da un
aggiornamento all’anno. Quindi in questa sintesi, sta il senso del mio “scusa”.
Ma
sta anche il senso del mio “grazie”.
Alle
ragazze del gruppo di Halft, che sempre mi seguono,
incoraggiano e capiscono. Ad una mia amica, che non nomino perché lei sa chi è,
ed è l’unica che sente e vive questo sogno con me, leggendo questa storia. Ai lettori
che non mi insultano, ma che mi recensiscono. A chi sente questa storia,
dentro. A chi si è lasciato cambiare da essa.
Grazie
quindi ad Astoria GM e all’essersi sentita prolissa. Grazie del fatto che ti
sei incollata gli occhi al pc, e grazie anche del tuo punto di vista. Io adoro
Ilai, ma sono terribilmente parziale. Ho voluto scrivere una storia vera,
quindi sono quasi felice dell’angoscia che provi. E del fatto che,
oggettivamente, proprio perché esiste anche Ilai, proprio perché esiste anche
Raissa, non si sa come potrebbe finire. Grazie.
Grazie
a Feffola della pazienza, dell’essersi preoccupata
che ci fossero motivi gravi per la mia assenza. Grazie di avermi rassicurato
sul fatto di non essere “pesante”.
Grazie
a GHIM 92, per avermi definito una delle più belle storie su EFP. Non so se sia
vero, ma tant’è… grazie.
Grazie
a Nyteshade e scusa se ti ho fatto sentire come se
avessi perso qualcuno, quando hai visto che non aggiornavo da così tanto.
Grazie
a DAFNEDAFNE, se ti è sembrato che i personaggi non fossero stravolti, ma solo
cresciuti. Per una fanatica dell’IC come me, fa davvero molto.
Grazie
Asaq, e spero che alla fine tuo figlio la merenda l’abbia
mangiata!
Grazie
Alchimista93, e grazie di tutte le tue domande. Perché sono tutte cose che
vorrò inserire nel seguito.
E
grazie a tutti gli altri che mi hanno recensito, ma che al momento non ricordo
se ho risposto, ringraziato, scritto via facebook o
altro. Prometto e qui mantengo, che alle recensioni risponderò qui, non via
risposta automatica, a meno di domande urgenti. Perché altrimenti me ne
dimentico, e sono costretta ad una nuova parabola di scuse.
Quindi
la sintesi è: scusate. Vi ringrazio. E se ci siete ancora, e se qualcosa non vi
è chiaro, contattatemi pure.
Capitolo 44 *** The ballad of silver linings part 2 ***
Draco ed Hermione
sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, aliasSummerLayton, che si è alleata conPuceye Montague, gli assassini di sua
sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i
due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo delloZahirche Astoria, con l’inganno, le ha
fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente
controllata dallaGreengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha
portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un
luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la
ragazza è innamorata di lui e che l’effetto delloZahirè parzialmente sopito. Draco per
aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza,
la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per
tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per
farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati daBlaiseZabiniper farli vedere a Serenity, qualora
fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i
ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio,
Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone,
Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da
Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la
cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la
prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i
suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata
da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una
sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa
di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si
riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di
perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro
situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua
cerchia più fidata. Nonostante i tentativi diBlaisee
Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare DaphneGreengrasse una sua passata relazione con il
Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà
avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa
sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza,
raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in
moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del
tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato
Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino
della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di
Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata
con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco,
cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di
Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli
eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata
l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne
rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria,Puceye Montague, proprio per separarla da
Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a
fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico
babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e
rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello
di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge
Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che
sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo
con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della
gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia
da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte
violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si
trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un
matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed
Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una
traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco,
incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di
nomeTatiaKrasovagli aveva chiesto di riferire ad
Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la
conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono cheTatiaKrasovaera una profetessa, il cui nome era
stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro,
testimoniando quindi un probabile contatto tra le due.Tatianon
voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento,
alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima
dimora diTatiaKrasova: era in Finlandia dove
era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa diTatia,
Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci
anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche
che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata.Tatiaera un’amica d’infanzia di Dimitri e
Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come
fratelli.Tatiada
sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto
l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri,
che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando peròTatiaed Ilai si erano innamorati, Raissa
aveva finito per uccidere casualmenteTatiae Dimitri le aveva fatto promettere di
aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli
aveva provocatoTatia, altrimenti avrebbe
rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta
la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a
casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma.
Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura
per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza
incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una
complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo
figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore
del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di
Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma
l’attesa di Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa
che, pazza di gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un
Incantesimo per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da
Hermione. Le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo
che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni
per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si
suicidi, trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco,
Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia
nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono
traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed
Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a
causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene
possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. La scoperta lo distrugge
emotivamente e psicologicamente, minando forse per sempre la fiducia nei
confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile,
quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti
nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli
Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se
non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li
unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e
distruzione delloZahire al
ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una
serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del
demone: solo loro possono invocare laSolutiodamnationis,
lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso
da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata,
difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si
è deteriorato il loro rapporto. LaSolutiodamnationisè
però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere
dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder,
trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy.
La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro
due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo
biologico ed empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene
siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli
qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi allaSolutiodamnationis. Dopo essersi
chiarita con Ron, Hermione parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello”
Alex. Ma proprio durante la conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco
le fotografie del loro figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con Draco,
scattata e conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che Draco mostra
ad Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity. Ogni principessa
del libro ha il volto di Hermione.
Capitolo 44 – The ballad of
silver linings part 2
Belle, nella
libreria della Bestia, ha tra le mani una copia di Twilight ed assume con uno
sbuffo la mia espressione da pesce palla.
Aurora, in
una foresta di rovi, dorme con un vestito rosso e sembra sempre inquieta e
nervosa, anche quando dorme.
Raperonzolo,
prigioniera in una torre, è circondata di rose e ne ha depositati tra i capelli
qualche petalo sparso.
Cenerentola,
ballando con il suo principe, ha un vestito turchese dal taglio greco ed
accessori tutti dello stesso colore.
Ariel,
diventata umana, usa per raccogliere i capelli una matita come se fosse un
fermaglio.
Biancaneve,
appena sveglia, sposa il suo principe azzurro con l’anello di Narcissa Malfoy ed Helena Greengrass.
Ognuna di
loro, ciascuna di loro, cambia
vestito, capelli, storia.
Ma mai gli
occhi, mai il viso, mai le labbra.
Sono sempre io. Sono sempre rimasta io.
La mano che
Draco stringe ancora nella sua, piano, delicato, quasi timoroso di romperla,
suda freddo e caldo assieme. Per un attimo ho la scomoda e sgradita sensazione
adolescenziale delle prime volte in cui davi la mano ad un ragazzo e temevi,
come se ne andasse della tua vita, che l’avessi sudata. Eppure, non riuscirei a
staccarmi nemmeno provandoci con tutta la forza possibile.
È il solo
punto fermo, in un mondo d’acqua. Tutto, compresa me stessa, sembra
d’improvviso fluttuare senza peso alcuno, trascinandosi la mia mente, che si
allunga, allarga, diluisce e perde consistenza e significato. Ogni pensiero
galleggia nebuloso, ondeggiante e palpitante: d’un tratto incerto, sbaragliato,
inerme.
Come la mano
non lascia Draco, così gli occhi non lasciano il libro. Lui non aveva bisogno
come me di razzolare fotografie sconfitte dalla memoria. Ha creato il suo
personale album di ricordi, scolpendo di matita e colori ogni minima traccia
che aveva preservato di me, ma dandone una forma innocua, infantile, inoffensiva,
che addirittura scivolasse di sogno ed incanto nella mente di sua figlia.
Le
principesse sono bellissime, soavi, fatate: non c’è rabbia, rimorso, ricordo,
rammarico. Hanno la forma statica ed assurdamente perfetta di ciò che non
cambierà mai. È difficile riconoscermi in esse, se non fosse per quei
particolari messi così accuratamente a fuoco, se non fosse per gli occhi di
ognuna e le forme del viso che non sono assolutamente rinnegabili. Spiccano di
quella bellezza incomprensibile, in mezzo a figure maschili sempre di spalle,
sempre poco accennate, sempre fosche. Solo le foreste, il mare, il cielo,
diventano adeguate cornici. Il resto sparisce.
Mi accorgo,
nell’oceano volutamente apatico in cui nuoto, che il respiro di Draco è
accelerato negli ultimi minuti e che la sua mano si è fatta più calda, più
scivolosa, più stretta.
Eppure,
sebbene mi accorga che sono rimasta in silenzio troppo a lungo, sebbene sappia
che debba dire qualcosa, è come se avessi improvvisamente dimenticato persino
come si apra la bocca, come si facciano muovere le labbra, come si articoli il
vibrato indifferente delle corde vocali in parole coerenti e corrette. Di
salsedine porosa brillano i miei pensieri, come se davvero fossi sott’acqua ed
avessi la sola concreta esigenza di ricordarmi come si respira. Espira, inspira. Espira, inspira.
E poi accade.
Tutto
assieme, tutt’un tratto, come l’onda che spazza gli abissi, tracimando fango,
confondendo sabbia, masticando alghe e pesci.
Il solo
segno esteriore che mi concedo è un respiro un po’ più forte, intenso, come se
prendessi fiato dopo essere stata in apnea. Rintocca nella stanza con il suono
forte di una campana a morto. E sento, come se neanche mi spiegassi il perché,
che ho bisogno di aria, di vento, di sole. Di uscire, andarmene, scappare,
fuggire.
Perché? Mi chiedo sciocca,
il respiro che si affanna, la mano in quella di Draco che d’improvviso sguscia,
scivola, arranca, scappa.
Non dovrebbe essere questo che stavi cercando? Non
dovresti essere… felice, adesso?
Non ti ha dimenticata. Ti ha pensata in questi anni. Non
ti ha cancellato dai pensieri.
Lui non parla, non inonda i figli di parole e ricordi.
Non è come te, che hai soverchiato tuo figlio di incommensurabili ed ineffabili
discorsi, neanche prendendo fiato, neanche esitando, neanche cercando le
parole. Le parole fiorivano sempre come le primule a marzo. Veloci, rapide,
colorate. E mai morivano, mai conoscevano ghiaccio o afa. Mai. Erano sempiterne
di gloria d’amore.
Lui non è come te: lui non parla. Lui disegna.
Non sei assurda, adesso? Non vorrai forse che lui diventi
come te? Logorroico, verboso, costantemente teso all’evoluzione semantica dei
tuoi sentimenti?
Non dirmi che, davvero, adesso… ancora… non sei felice?
Quelle
domande, pregne di senso di colpa necrotico, mi costringono a reprimere il nodo
in gola che, ancora, di più, mi impedisce di respirare normalmente. E quando
inizio a piangere, quando le lacrime mi affannano la vista, quando scivolano sule
guance, d’istinto stacco la mano da quella di Draco per asciugarmi il viso.
Ancora, non lo guardo, ma il suo silenzio è dolce, morbido, soffice.
Pensa che sono felice, pensa… che piango di gioia. Ci
sono tutti i motivi per essere felice.
Ed invece io
non riesco a respirare: ed invece, come una che sta per avere un infarto, mi
sbottono i bottoni del colletto della camicia, avverto le vene affluire troppo
sangue al viso, facendomi scoppiare di calore.
… perché non riesco ad essere felice? Perché non fa bene?
Perché fa solo male?
Sono diventata così assurdamente rancorosa, da non
provare più gioia?
Oppure… ormai ci siamo fatti così male, che non riesce
più a farmi stare bene?
Da quello
spiraglio, d’incanto, respiro: è aria calda, schifosa, oscena, miasmatica.
Avvelena, distorce, contamina, rende cancro i polmoni. Ed è un pensiero così
assurdamente vero, così drammaticamente onesto, così impossibile da negare che
se ne sta di marmo davanti a me, contemplandomi con la percezione scomoda delle
cose scontate. Sorride beffardo, mi deride, mi ingiuria, mi dice che essermi
sentita in colpa per non riuscire a gioire, è ancora più idiota. Perché lui,
quel pensiero, stava sempre là.
Non se n’è
mai andato.
Mai… da
quando ho saputo di Raissa.
Incerta,
indegna, vergognosa, alla fine mi azzardo a dischiuderlo quel pensiero: quello
ride, orrendamente, come il primo della classe che spiega il teorema al bambino
con il cinque in pagella.
Eccotelo: goditelo. Goditi il motivo per cui domani non
tornerai più.
È così semplice, immediato.
Ce l’hai davanti agli occhi, stupida.
La foto che nascondi nell’album, i disegni che fa lui su
un libro. Chi sono quei due? Siete voi?
Annaspo,
l’aria mefitica mi chiude il fiato. Certo
che è lui, certo che sono io.
Ed ancora la
mia stessa mente ride, crudele, malefica.
Non siete più voi.
Tu ami il ragazzo del Petite Peste. Quello delle rose nei
capelli, quello dell’abbraccio a Wonderland, quello che si struggeva per Helena
e i suoi genitori, quello che chiamava Serenity sorella.
Questo che ti stringeva la mano, neanche lo conosci.
Non conosci la rassegnazione spavalda che ha nello
sguardo. Non conosci la gloria riflessa di cui ora bacia il passato. Non
conosci l’accettazione amorevole di sentirsi padre.
Tu non c’eri, lui è un altro, adesso. E questo non
cambierà mai. Non avete né il tempo e né la voglia di cambiare le cose.
Di lui ami il passato ed odi il presente. Odi il padre di
Serenity, odi che ti abbia tradito, odi che sia andato avanti, odi che forse si
sarebbe innamorato di Raissa.
E lui… uguale.
Se ti declina e ti ama, ti declina e ti ama al passato.
Odia la mamma di Alex, odia che tu lo abbia tradito, odia
che sia andata avanti, odia che forse ti saresti innamorata di Ilai.
Che speranza hai di perdonarlo? Che speranza ha di
perdonarti? Che speranza avete, domani, di tornare?
L’amore vive nel presente, si appoggia sul passato e si
proietta nel futuro.
E voi vi aggrappate al passato, per scordarvi che nel
presente vi odiate e nel futuro neanche vi vedete assieme.
Se il cuore
ogni tanto mi vomitava addosso avvisaglie di disperazione acuta ed assoluta
mancanza di fiducia nella convinzione di tornare a casa, la mente clemente mi
aveva sempre protetto da questi pensieri, che una volta formulati,
riconosciuti… semplicemente non se ne vanno più. E se le ondate di dolore che
mi colpivano come frustate sulla schiena, ogni tanto potevano darmi qualche
segnale confuso di qualcosa, ora invece è come se avessi smesso di dibattermi
in un giogo che più lo rifiutavo, più mi stringeva, schiacciandomi il respiro.
Ed adesso,
davvero, non ho più nulla a cui aggrapparmi. Nulla.
Non posso
restare in questa stanza con lui un minuto di più. Devo andarmene, prima che i
singhiozzi che mi stanno salendo in gola, mi cadano sulle labbra e li senta
anche lui.
Chiederebbe
spiegazioni, mi scambierebbe per una pazza ingrata, crederebbe che vado
cercando tutto per non essere contenta.
E allora
dovrei spiegarmi, dirgli la verità che lui ancora non vede. E capirebbe, sì che
capirebbe, ed allora sarebbe finita.
Quello che sto provando io… questa… cosa… che manco
chiamarla disperazione rende l’idea… la proverebbe anche lui. E non posso
permetterglielo. Non posso.
Non può accorgersene, non può capire anche lui.
Perché questo pensiero, capirlo e rendersene conto… è
essere condannati. È la prova ultima che Adamar ci farà a pezzi.
Se lui non se ne accorge, se non lo capisce, se ne rimane
escluso ed estraneo… forse c’è ancora speranza.
“Hermione…”
mi chiama piano, con una punta di sospetto nella voce, come se avesse infine
compreso che tutto questo silenzio spezzato di lacrime non ha a che fare con
una gioia inesprimibile ed indescrivibile.
Cosa è più insopportabile?
Fargli pensare che neanche questo mi basta o fargli
pensare che niente ci basterà mai, arrivati a questo punto?
Farmi credere ingrata ed ingiusta? O farmi riconoscere
condannata a morte, come lui?
Gli mentirò con una bugia o lo accecherò con la verità?
Il male
minore è, ovviamente, il primo.
Assecondo la
mia volontà di andarmene, mi alzo in piedi e mormoro sconfitta, non guardandolo
neanche in faccia: “Scusami… n-non ce la faccio…”. Accento la mia voce di quel
tono rancoroso ed ostile che so che lo manderà in bestia, ma lo lascerà qui,
inchiodato al pavimento. Mastico la presunzione e l’arroganza di fargli credere
che non sarà mai abbastanza, e non trattengo le lacrime che so che gli spezzano
il cuore e che non sa come gestire. Ed alla fine fuggo nel corridoio, codarda,
infida, perfida. Ma salvandolo dal rischio che capisca anche lui fino a che
punto, ormai, non ci siamo più.
Senza fiato,
con la mano premuta contro la bocca a schiacciare i singhiozzi in gola, apro la
prima porta che trovo, rifugiandomi in una specie di sgabuzzino.
Non accendo
neanche la luce, lascio che l’oscurità sia spezzata solo da quel poco che
filtra dagli opachi vetri azzurri della porta.
E finalmente,
contro la parete, la mano ancora sulla bocca per paura che qualcuno mi senta,
mi sfogo piangendo. Non ho mai pianto così, in nessun momento della mia vita,
come se mi stessero strappando a viva forza la carne di dosso, come se un acido
mi stesse corrodendo la pelle. I singhiozzi sono così forti da farmi tremare il
petto, le ginocchia, le gambe. Mi accascio al suolo, ancora la mano sulla bocca
per il terrore che qualcuno mi senta e voglia consolarmi, ascoltarmi, farmi
parlare. Perché io non voglio essere consolata, ascoltata, fatta parlare.
Voglio solo che qualcuno riempia questa voragine, dentro.
Perché lui ce l’avevo dentro, sempre.
Ed ora, adesso, non ce l’ho più.
Solo se il mare evaporasse d’un tratto, lasciando abissi
vuoti, capiremmo quanto spazio prendeva sulla terra.
E io, quanto avessi dentro Draco Malfoy, nonostante
tutto, malgrado me stessa, non lo sapevo fino a questo momento.
Non passano
neanche cinque minuti che sento immediatamente, come l’eco di una fiera pronta
a prendermi, l’eco sordo di porte aperte e sbattute nel corridoio dove mi
trovo. Traballante, incerta, mi alzo in piedi, pronta a scappare via ancora, ma
non faccio in tempo a fare nulla che anche la porta dello sgabuzzino dove mi
trovo si apre con un tonfo, sbattendo contro la parete. Gli occhi arrossati,
sorpresi dalla luce, non mettono a fuoco chi ho di fronte, ma non ne ho
bisogno. La porta si chiude, facendomi restare di nuovo nella pietosa
semioscurità. Sento un respiro affannoso proprio di fronte a me, pioggia, terra bagnata, settembre.
“Esci
immediatamente” ingiungo severamente, la voce comunque pigolante come quella di
un pulcino bagnato a cui cerco di dare un tono, non riuscendoci. I singhiozzi
piegano e spezzano le parole, colmandole di pause inopportune e di rantoli
spezzati. Mi asciugo velocemente la faccia, inutilmente, perché ormai la patina
fosca sugli occhi è calata rapida e la luce è troppo poca perché davvero veda
qualcosa. Le guance si impastano di lacrime e mascara, dandomi l’aspetto
sicuramente di una derelitta. Eppure, come l’ultimo stendardo di una flotta che
si prepara all’estremo sacrificio richiesto dal mare, pianto saldamente i piedi
per terra, sollevo il mento e guardo Draco con inflessibile ira, sperando che
se ne vada.
“No”.
Non c’era
bisogno che mi dicesse di no: sapevo che lui non mi ascolta mai. Specie quando
ha quel viso: la mascella contratta, i denti stretti, le pupille dilatate e il
respiro veloce, ansante. Disordinati i capelli, disordinati gli occhi,
disordinato il torace che si alza ed abbassa velocemente. Mi guarda e basta, a
pugni chiusi, stretti, serrati. Non mi ascolta mai, non ti fidi mai di me, neanche la fiducia l’uno nell’altra abbiamo. Dove
pretendiamo di andare? Uno suono strozzato esce fuori dalla mia gola,
confondendosi con le lacrime.
Ma stavolta
mi deve ascoltare, se ne deve andare, non si azzardasse a stare qui un secondo
in più.
Non posso
sopportarlo, non posso parlare adesso.
“Ti ho detto
di andartene! Lasciami in pace!” urlo ancora a voce più alta, tremando,
lasciando che la voce di nuovo si spezzi e sperando che questo lo faccia andare
abbastanza in panico da lasciarmi sola.
“No”.
Niente. Non
c’è niente da fare: la voce è sempre quella, salda, seria, forte, fiera.
Neanche trema, neanche è incerta, neanche si piega. Non gli ho mai fatto paura,
terrore. E sebbene so che si sta dilaniando perché mi vede in queste
condizioni, l’angolo della bocca che si
solleva, le narici che fremono, gli occhi che pungono, le mani che vogliono
correre, vogliose, rapide, attente, apparentemente egoiste e distrattamente
generose, a chiudermi le labbra, a baciarmi le lacrime, mentre mi implora di
non piangere… eppure, ancora, non se ne va. Non si muove.
Decido di
combattere, decido di fingere che quella che ho davanti sia solo una
manifestazione d’orgoglio e di prepotenza. Decido di non vedere il resto,
perché mi uccide e non ce la faccio più.
Dalla tasca
dei pantaloni, estraggo la bacchetta, la faccio sfrigolare di scintille rosse
che accendono la stanza come il sole a mezzogiorno, gliela punto contro. Lui
non si muove, non fa nulla, fa un sorriso beffardo e triste. Di sfida. E allora, ancora, scoppio,
piango, glielo urlo contro, sperando di spostare quella montagna inerme che è.
“Esci subito
da qui!”.
Le scintille
volano, cadono al suolo.
Assieme alla
bacchetta.
E non è
stata la mia presa a lasciarla, perché qualsiasi cosa ho adesso tra le mani
rimane salda perché mi ci reggo alla ricerca di un sostegno come se non mi tenessi
in piedi.
Ho mollato
la presa… perché Draco, urlando un ultimo no
che ha fatto tremare la parete, ha stretto lui la presa su di me. Lo guardo
atterrita, terrorizzata, e poi implorante, supplice, con una preghiera
disperata in bocca, mentre la schiena trova la parete e resto bloccata in pochi
respiri tra lui e il muro. Sento il calore delle sue mani che mi tengono ferma
per gli avambracci, distinguo appena nelle lacrime che mi velano gli occhi il
suo viso adesso così vicino, da farmelo studiare come non ho potuto fare in
tutti questi giorni. I suoi occhi non lasciano i miei neanche per un attimo,
sono bloccati, fissi, incantati come quelli del predatore che si pregusta la
preda, prima di calare i denti nella pelle indifesa. Eppure, c’è sempre una
dolcezza mesta, struggente, ferita, che non lascia mai i suoi occhi,
un’incertezza misericordiosa che percorre i tendini delle braccia e fa tremare
le dita che mi tengono stretta. Piango, non riesco a smettere, mi divincolo, ma
non riesco a fuggire.
Fidati di me una santissima volta. Fidati, per favore.
Lasciami andare. Non farmi parlare.
Arresami al
fatto che, come sempre, non l’avrò vinta su di lui con la forza, sollevo il
mento e lo guardo con disperazione, come se fossi moribonda, sanguinante, ma,
ancora, non fossi in grado di arrendermi. Gli urlo contro, folle, pazza,
inselvatichita: “Che c’è? Che diamine vuoi ancora? Perché non puoi smettere di
farmi male? Lasciami in pace, maledizione!”.
Draco non si
scompone, oserei dire che neanche respira. Il suo viso è chiarissimo ai miei
occhi, nonostante la semioscurità e le lacrime. È ghiaccio, gelo, roccia. Resta
immobile, segue le tracce che il pianto mi lascia sulla pelle arrossata delle guance.
La presa sulle mie braccia si allenta appena, ma non così tanto da consentirmi
di fuggire.
“Ho bisogno
di sentirtelo dire” sussurra piano, lieve, leggero. Ma deciso, stoico,
implacabile, inamovibile. E lì tremo, agghiaccio, mi paralizzo.
“Cosa? Cosa
hai bisogno di sentirmi dire?!” rantolo fuori, ansimando, sbarrando gli occhi.
La pelle delle braccia, sotto le sue mani contratte, si riempie di brividi,
così come la schiena. Vado a fuoco, congelo, mi sciolgo come se fossi cenere e
poi di nuovo mi immobilizzo vittima del ghiaccio: tutto in neanche un battito
di ciglia.
“Il perché
avessi quella foto in quell’album…” biascica lui severamente, le sue mani sempre
artigliate sulla pelle delle mie braccia. I suoi occhi seguono una lacrima che
mi cade sulle labbra, mentre le riapro per dire, sfibrata, esausta: “Perché,
dannazione, Draco? Perché?”.
Respira a
fondo, forte, come se davvero stesse cercando una risposta in una selva di
pensieri, pronti a sbranarlo. Lo sguardo cade al suolo, fruga lontano come se
neanche esistessi più. Le sue mani non mi lasciano andare, neanche si sforza
più di tenermi ferma. La percepisce la mia assoluta mancanza di forze nel sangue,
sente quanto, sotto la pelle, tutto è algido mercimonio di calma finta.
Non ha
assolutamente bisogno di fare nulla.
Quando
riapre la bocca, la sua voce tuona da un punto lontanissimo nel tempo e nello
spazio, come se fosse d’improvviso prigioniero altrove. Paralizzato, bloccato,
incatenato.
È una voce
irosa, furiosa, masticata di rabbia. Ma non riesce a farmi tremare: perché
quella rabbia non so nemmeno verso chi la rivolga, probabilmente neanche verso
di me. È una rabbia stanca anch’essa, soffiata fuori solo quando diventa così
corrosiva che, a stare in gola, ucciderebbe. Ma non saprei nemmeno se lui
stesso creda che serva a qualcosa. Che serva davvero a toccarmi e a farmi male.
Perché, in fondo, è un’arma spuntata se la punta contro
me. Crede di impugnarla dal manico, brandendola contro di me, ed invece la
regge dalla lama.
Se cerca di colpirmi, prima anche solo di sfiorarmi, è
lui a finirne dilaniato.
“Non hai
ancora finito di farmi a pezzi, c’è ancora qualcosa di intero in me che merita
di andare in frantumi… devi finire il tuo lavoro…” sussurra alienato, come un
pazzo beccato a parlare con i fantasmi, prima di tornare a guardarmi negli
occhi. Sento i suoi polpastrelli premere sulla mia pelle, affondare, lasciare
segni che non se ne andranno mai. Ha una contrazione dell’angolo della bocca,
che deforma le parole in un rigurgito odioso: “Avanti, dai… fammi a pezzi.
Dimmi di nuovo che non basta. Dillo, ancora, che io… non ti basterò mai…”.
La freccia
colpisce il suo cuore prima ancora di colpire il mio. Perché prima ancora che
io ricordi quella notte di inizio luglio di cinque anni fa, l’odore delle rose,
il singulto febbrile della pioggia e gli echi sterminati dei tuoni, prima che
ricordi io stessa come suonava la mia voce quando potevo permettermi di amarlo
senza alcun problema o remora d’orgoglio, prima che rammenti di che sapeva
quella vicinanza accennata e in attesa che diventasse mano accostata, labbra
sfiorate, cuore sovrapposto… prima ancora che me ne renda conto io, se ne rende
conto lui.
Riesco… a… bastarti
anche così?
Tu non mi
basterai mai…
Fa più male
a lui ricordare quelle parole, sapendo che non potrebbe più udirle con lo
stesso senso, che a me, che comunque subisco quello spasmo improvviso al cuore
di sapermi scissa per sempre dalla versione migliore e più bella di me stessa.
Le sue labbra si arricciano di qualcosa che a definirla angoscia, pure si sbaglierebbe, pure si mentirebbe, pure non si
renderebbe giustizia abbastanza a quegli occhi così atterriti e sconvolti, come
se fossero stati sorpresi dalla luce neonata di un’apocalisse vicina ed
ineluttabile. È l’agnello, la bestia, il cucciolo, mandato al sacrificio.
Le sue mani,
sulle mie braccia, scivolano, perde un po’ la presa, mentre guarda in basso,
cercando un punto meno doloroso ai suoi occhi del mio viso e delle mie lacrime.
Non lascio che la desolazione mi travolga, non lascio che l’effetto delle sue
parole mi sconvolga e mi sgomenti al punto da lasciarmi inchiodata qui, a
finire di distruggerci.
Le parole
sono diventate mercenari bastardi, affamati di razziare gli ultimi scampoli
sopravvissuti del nostro amore sepolto.
Approfittando
del suo silenzio, ignorando quel viso basso e quelle spalle piegate, sfuggendo
gli occhi improvvisamente foschi e incatenati al suolo, biascico supplice: “Per
favore, lasciami andare… per favore…”. Le dita di Draco tremano un po’ sulle
mie braccia, per un attimo fortunato penso che si stia convincendo, che tutto
questo sia diventato troppo, che mi lascerà andare, risparmiandomi di finire
questo scempio maledetto di me stessa assieme a lui. Penso che abbia trovato in
ritardo un po’ di spirito di conservazione, di istinto alla sopravvivenza che,
se non ci lascerà vivere incolumi dopo Adamar, almeno ci consentirà di
andarcene fisicamente da questa vita con la consapevolezza ridicola di avere nel
cuore un amore riottosamente indissolubile e piegato solo dalle circostanze.
Ed invece,
come sempre, Draco non mi dà mai sollievo, pace, gioia tremebonda della
vergogna di fuggire. Le sue mani si rinsaldano sulle mie braccia, i suoi occhi
tornano spaventosi nei miei, riassume il contegno spaventoso del demone e della
fiera. E sorride crudelmente, masticando le parole con voce sottile e flautata:
“L’ho mai fatto? Ho mai concesso che prendessi una porta e te ne andassi, anche
quando sarebbe stato giusto, normale, ovvio? L’ho fatto una sola volta,
Granger. Una sola singola volta. E ti ho
persa. Pensi che lo farò daccapo? Pensi che ci proverò daccapo?”, hanno un
rantolo le sue mani come a trattenermi, come a tenermi ferma, come a strapparmi
al tempo che già mi ha portato via, e io lo guardo senza fiato, senza forze,
senza respiro, neanche provandoci più a scappare.
Insiste,
feroce, affamato, gli occhi deliranti, le dita che torturano la pelle: “Dillo,
Granger. Finisci il lavoro. Dillo… perché avevi quella foto?”.
“No” ripeto
testarda, scuotendo il capo, cercando un’impossibile fuga nel muro alle mie
spalle.
“Dimmelo,
dannazione, Granger! Dimmelo!” ripete lui, non preoccupandosi di tenere ferma e
bassa la voce, scuotendomi per le braccia come a cavarmi fuori le parole di
bocca “Domani a quest’ora potremmo essere morti… sputalo fuori… perché avevi
quella foto?”.
“Perché non
ho smesso un secondo di pensare a te!”.
La mia voce
esplode come una mina, imprevista, letale, mortifera. Scoppia, deflagra,
neanche le pareti ne assorbono il colpo. Rovina contro il mio petto e il mio
cuore esposto, spingendomi curiosamente all’indietro come per contraccolpo,
mentre mi manca il fiato, mentre si spezza il respiro. La verità scoppia fuori
e Draco lascia stare le mie braccia come se scottassero. Deve finire, dovrebbe
finire questa maledetta abitudine di non pensare quando sono con lui, di
perdere i freni, di lasciare andare tutto fuori come se fosse rovente,
venefico, mortale. Come faccio ora a rinnegare tutto questo? Come faccio ora a
negarlo? Come faccio ora ad andarmene da qui dopo tutto questo? Non lo guardo
in viso, non ne ho bisogno, perché l’aria è cambiata, il suo respiro è
cambiato. Me ne rendo conto immediatamente, come sempre è stato, come sempre
sarà. Prima questa stanza era quasi insopportabilmente colma di elettricità
statica: preannunciava tempesta. Ogni fiato, ogni respiro spezzava il silenzio
con la forza di una coltellata. Adesso invece il silenzio è fragrante, dolce,
profumato. Avverto Draco vicino, anche se neanche si è mosso, neanche ha
respirato. Le pareti sembrano vibrare ancora delle mie parole, che non posso
rimangiare, che non posso ricacciare indietro, che se ne stanno lì a dare
l’ultima ora d’aria al condannato a morte.
E, al
condannato a morte, se la pena è solo a due passi, non serve nulla della vita e
del suo ricordo. Serve solo buio soffice, e rassegnazione. Non luce, non
calore, non rimpianto. Come si fa a
morire, poi?
Eppure,
dentro, nelle mani che mi chiudo frenetica al petto, nelle dita che tormentano
le asole della camicia, nelle labbra che mordono le lacrime, qualcosa persino
mi rende felice, contenta, esplosivamente soddisfatta. Perché lo sai, adesso. Perché te lo porterai dentro, questo segreto,
ora anche tuo.
In un
attimo, all’improvviso sento un suo respiro più forte, più profondo, come a
raccogliere tutta l’aria che non ha respirato fino ad ora. Con la coda
dell’occhio, vedo i suoi piedi muoversi piano, lenti, nella mia direzione.
Sebbene sobbalzi, sebbene la mia schiena agghiacci di brividi, sebbene cerchi
ancora rifugio nella parete alle mie spalle, non riesco a muovere neanche un
passo. Basterebbe poco per scartare di lato, superarlo, andarmene. Basterebbe
poco, solo un movimento delle ginocchia, e recupererei la bacchetta abbandonata
al suolo, gliela punterei contro, lo spingerei via. Ed invece i piedi sono
incollati al pavimento, non si muovono di un muscolo neanche a violentarmi il
pensiero. Il cuore batte forte, come se si preparasse a consumare tutti i
battiti di una vita in questi pochi secondi che si srotolano tra i passi di
Draco che si avvicina a me. Un calore d’inferno affluisce dal sangue al mio
viso, che arrossisce e a cui solo le lacrime portano pietoso sollievo. E la
sola cosa che riesco a fare, è mordicchiare l’unghia del pollice, restare a
testa bassa, singhiozzare come una bambina ed… aspettare.
Aspettarlo,
come sempre ho fatto.
Come in tutta
la vita, sempre, ho fatto: persino prima di sapere che esistesse, persino prima
di sapere che avrei potuto amarlo.
Con un
piccolo sussulto, sento le sue mani poggiarsi sui miei fianchi, i polpastrelli
giocano un po’ con le pieghe della camicia, cercando varchi, spazi, passi
esposti. Rabbrividisco e sento il sapore del sangue in bocca, dove i denti
hanno escoriato la pelle fragile del pollice che continuo a mordicchiare come una
bimba spaventata. Come se si abituasse di nuovo piano a me e al mio corpo,
cambiato, trasformato, mutato da quel suo figlio che ho partorito senza di lui,
le sue mani sono dubbiose prima, incerte, delicate e timorose. Restano poggiate
e basta, ed ancora io potrei scacciarlo con facilità, potrei ancora fuggire,
potrei ancora salvarmi. Ed invece non lo faccio.
Ed invece
aspetto che prenda forza e sicurezza.
Aspetto che
il suo profumo si faccia più forte e mi annebbi.
Aspetto quel
movimento dolce mentre, con delicatezza, tenendomi ancora per i fianchi, mi
spinge contro la parte.
Aspetto che
le sue braccia si chiudano attorno alla mia vita.
Aspetto che
le dita si intreccino sulla mia schiena.
Aspetto e
bramo, poi, la prigione: quella tra la parete e il suo corpo, caldo, meraviglioso, forte. Mi cinge e
mi culla piano, lentamente, ed io ancora resto con quel braccio contratto sul
petto, con il pollice tormentato dai denti, con il sangue che mi bagna le
labbra, con le lacrime che invadono le guance. Draco poggia lieve le sue labbra
sulla mia fronte, come se carezzasse un bambino. Non è un bacio, non è niente,
resta solo lì per qualche secondo, e io già vado a fuoco, già sussulto, già socchiudo
le labbra, già comando le mie braccia stanche di cingerlo a mia volta. Chiudo
gli occhi, comandandomi di restare immobile, e respiro forte, i denti trovano
ancora la pelle del pollice. Compreso che non farò nulla, che non mi sposterò
di un passo, che me ne starò lì ferma, Draco mi tiene facilmente stretta solo
con un braccio. L’altra mano sale sul mio fianco, mi accarezza nel solito modo
distratto ed insolente che sa che gli lascerò fare, sospirando e sussultando.
Piano, percorre con le dita tutto il mio braccio teso, raggiunge la mano che
continuo a tormentare e la stacca velocemente e delicatamente dalle mie labbra
serrate. Lo guardo con gli occhi spalancati, finalmente cosciente di quanto sia
vicino, di quanto sia ad un passo da me, di quanto io non potrei scappare
neanche volendo. E non lo voglio. Dio,
non lo vorrò mai.
Le sue
labbra si poggiano piano sul mio pollice ferito, baciano il mio sangue e
diventano rosse come le mie. Ha gli occhi accesi, luminosi, fissi nei miei,
mentre cura a suo modo quella piccola ferita. Ed io avvampo, distolgo lo
sguardo, mi sposto a disagio quando non posso fare neanche il più piccolo dei
movimenti. Quando lo lascia andare, il mio pollice resta comunque sulle sue
labbra, percorre distratto tutto il loro contorno, prima che me ne renda conto
e lo nasconda dentro la mia mano chiusa. Non mi lascia, però, libera dai suoi
occhi: è un attimo prima che sollevi il mio mento con la mano, portandolo ad un
respiro dalla sua bocca. È annebbiato, nella coltre delle mie lacrime. Eppure,
lo vedo benissimo come se fosse fatto di luce liquida. Accarezza piano il mio
viso con la mano aperta, solletica la nuca con le dita e gioca con i miei
capelli; poi, di nuovo, chiude gli occhi, poggia la fronte sulla mia e si piega
su di me, arso, vinto, eppure ancora esitante.
Riapre gli
occhi, guarda i miei spalancati, spia la pelle del mio collo sconfitta dal
cuore che batte impazzito, facendo pulsare le vene. E sussurra in un respiro di
menta e limone che accarezza le mie labbra: “Dovrebbe essere facile adesso,
no?”.
L’aria che
respiro è la stessa aria che respira lui, ho gli occhi socchiusi, come se ci fosse
improvvisamente troppa luce in questa stanza buia.
Senza
convinzione, senza realmente pensarlo, sussurro ancora, vittima dell’orgoglio:
“Per favore, Draco… lasciami andare…”.
Capisce
subito che non lo penso, passa un fulmine negli occhi grigi, dice severamente senza
muovere un muscolo: “Avanti, su… vai via… non ti sto tenendo legata… vai via,
se vuoi…”. Ogni volta che dischiude le labbra, ogni volta che le apre e le
muove, accarezza e sfiora piano le mie, riducendomi in cenere. Mi aggrappo al
suo braccio, come se mi stessero risucchiando via, come se davvero a qualcuno
sia saltato in mente di strapparmi via da lui. Draco, quasi con comprensione,
continua ad accarezzarmi piano i capelli con un sorriso dolce, quieto, gentile,
eppure affamato, non pago, mai sazio. Mi mordo il labbro inferiore con ansia,
ogni cellula del mio cervello che mi ordina di prendere ed andarmene via,
possibilmente per non tornare più: mi si ripropongono frammenti di immagini che
non hanno senso e non hanno scopo alcuno, come se mi volessero distogliere e
salvare da questi occhi grigi puntati nei miei.
Gli occhi lucidi di Ron sul tetto. Qualche parola sparsa
di Dean. Lo sguardo pietoso di Harry.
Ilai.
Diecimila volte Ilai nella mia testa.
Sussulto,
rabbrividisco, serro gli occhi come a fermare la sua immagine nella mia testa,
qualche altra lacrima rotola giù. Ma nulla, niente, riesce a farmi muovere di
un passo. Il mio corpo e il mio cuore sono sempre stati più sinceri di me, mi
hanno sempre smascherato e sbugiardato. Sospiro, gemo, respiro ancora. E riapro
gli occhi, trovandomi Draco sempre lì, concentrato sulle mie labbra con quel
sorriso meraviglioso che è la sola cosa che ho voluto, sognato e desiderato in
cinque anni.
“Dovrebbe
essere facile adesso, no?” ripete ancora in un sussurro caldo sulle mie labbra,
la mano che mi teneva il viso sollevato scivola piano sul volto, si apre sulla
guancia, chiude il mio viso a coppa assieme con l’altra che ancora gioca con i
miei capelli. È vicino, vicinissimo, sento già un’eco del sapore delle sue labbra,
e socchiudo gli occhi, vinta, sconfitta, arresa, affamata, esausta, colpevole,
vincitrice, ipocrita. E di fondo, persino la mia mente si arrende, persino il
mio cervello geme in silenzio perché darò la colpa a lui, dirò che è sua la
colpa, dirò che non ce l’ho fatta a scacciarlo, dirò qualunque cosa ed avrò
ragione, perché sarò morta, e i morti non si contraddicono.
Ed allora avrà avuto persino senso baciarlo, perché tanto
stavo per morire, ed allora andrà anche bene andarci a letto per un’ultima
volta, perché tanto stavo per morire, e poi sono morta sul serio, ed allora
sarà solo un segreto tra me e lui, e poi di fondo il corpo non ha alcuna
decenza, sanità o orgoglio, e dirò che sarà stata colpa sua, e rinnegherò il
cuore che brucia, il cuore che mastico tra le labbra chiuse, il cuore che urla,
il cuore che scoppia in petto, ed allora sarò peccatore irredento ed innocente,
macchiato dalla venale vergogna di non essere forte abbastanza nella carne, ma
con spirito e respiro intatto; sarò angelo, dea, fata, quando dentro invece
saprò solo io quanto sono demonio, mostro, tiranno.
Lo sento
ancora respirare sulla mia bocca, si mescola il fiato della mia e della sua,
eppure aspetta, esita, non si muove ancora. Riapro gli occhi lenta, piano, e lo
vedo sempre lì, sempre immobile, sempre con il mio viso tra le mani, e penso a
quanto sarebbe facile adesso prendermelo io questo bacio. Basterebbe solo
inarcare un po’ la schiena, basterebbe solo portare le mani che si torturano
tra loro sulla sua nuca, attirandolo a me. Leggo persino quel bagliore di luce
nei suoi occhi, che mi implora di farlo io questo passo, di fare quello che
lui… non riesce a fare.
Ci provo
persino, comando persino me stessa di muovermi, ma… non ci riesco. Sgrano gli occhi, inizio a respirare a fatica e
quasi gli chiedo scusa con gli occhi. Non
ce la faccio.
Dio… non ce la faccio.
Ci guardiamo
entrambi, sconvolti, disperati, con gli occhi aperti e spalancati da un terrore
che, per noi, è più ancestrale della vita stessa. La mente ci rinnega. Il cuore ci scaccia. Anche il corpo, adesso?
Davvero, tutto si è fatto così estraneo adesso?
Ed allora,
pur di smettere di pensare, pur di non ricordare, pur di cancellare quello che
in fondo allo stomaco già so, già sapevo e che non volevo semplicemente ricordare,
dico la prima cosa che mi viene in mente, guardandolo dal basso verso l’alto,
fingendo una malizia che non ho ma che perlomeno celi la disperazione che
ruggisce sottopelle.
“Magari
semplicemente non lo vuoi più…non mi
vuoi più…”.
Non attende
neanche un secondo per rispondermi, si stacca da me solo il necessario per
potermi guardare e soppesare con lo sguardo di nuovo deciso, offuscato, buio.
La voce è
forte, intensa, dolente, senza alcuna esitazione: “Dubita di qualsiasi cosa,
Hermione Granger. Tranne che di questo… che abbia mai smesso di volerti più di
quanto sia possibile ed auspicabile per restare sano di mente…”.
Ricomincia.
Tutto ricomincia come le tempeste a luglio, quando le nuvole si addensano
all’orizzonte, compare un scampolo di sole, giunge un tuono lontano e sai già
che ricomincerà a rovinare la pioggia sulla terra, distruggendo, inondando,
scavando fango. Ricomincia: perché quando hai sete, se cerchi di saziarti di
una bevanda dolcissima, hai sollievo per solo cinque secondi, poi ricomincia la
sete più rovente di prima. Ricomincia, perché quando le parole ormai sono
assassine, non smettono mai di esserlo. Ricomincia, perché se non sei più in
grado di chiuderle fuori le parole con i baci, le carezze, anche se sono solo
pallidi e sbiaditi rimedi, allora sei condannato. Siamo condannati.
Mi trema il
labbro, mentre riapro bocca e sussulto mormorando: “Avevi bisogno anche tu di
finire il lavoro? Di finire di farmi a pezzi? A che cosa serve che io lo sappia
adesso? A che cosa serve dirti adesso che non ho mai smesso di pensare a te?”.
Draco
agghiaccia, sobbalza e si stacca ferocemente da me, come se d’improvviso la
verità indubitabile delle mie parole gli sia giunta alle orecchie come una
bestemmia incalcolabile. Freme, chiude i pugni, ansima, le narici dilatate
nella stasi della rabbia. Mi si affolla la pelle di brividi ghiacciati, e non
c’entra che ho paura di lui, non ne ho
mai avuta, c’entra solo che improvvisamente è di nuovo lontano.
C’entra solo
che ormai è vicinissimo a capire, a comprendere. Ogni ombra che si mangia i
suoi occhi, è un terribile ed osceno passo in avanti.
La rabbia
raggiunge ed arma le sue mani, colpisce violentemente il muro alle mie spalle
con le palme aperte, proprio ai lati del mio viso. Non sobbalzo, non trasalgo,
non mi sposto nemmeno.
“Lo vedi? Lo
vedi?” sibila glaciale, guardandomi storto, prima di allontanarsi da me con
frustrazione e iniziare a misurare la piccola stanza a grandi passi come se,
improvvisamente, non riuscisse più neanche a guardarmi “Perché è così
maledettamente facile farsi del male per me e per te… ed invece non riusciamo
più a farci stare meglio?”.
“Questo…” dico esitante, con un sospiro
mesto “Dovrebbe farci stare meglio?”.
Draco si
ferma al centro della stanza improvvisamente, mi guarda con le spalle piegate e
sussurra piano, ingenuo, dolce, innocente come mai è stato: “Non funziona come
le fiabe, Granger, come quelle che disegnavo per Serenity? Non funziona così?
Se ti bacio, non va tutto a posto, come per magia, come per miracolo? La principessa
si sveglia e il principe diventa Re… non funziona così… Hermione?”.
Ritrovo il
sapore delle lacrime in bocca, mentre scuoto il capo a cancellare quella
sensazione di miele che me lo ripropone di fronte con quella dolcezza arrogante
e sfrontata che ha anche nostro figlio. Ed ancora sono mamma, crudele mamma con
i piedi per terra, che replica stanca ed affannata: “Io e te non siamo mai
stati una fiaba… ci faremo solo più male così…”.
“Perché?” mi
chiede ancora, sincero, onesto, ancora caparbio martire di una causa persa. Fa
un passo, e poi ancora un altro, avvicinandosi di nuovo a me, riprendendo a
sussurrare ad un sospiro da me, mentre io non mi chiudo tra lui e il muro, non
concedendomi questo alibi idiota. Poggio le mani sulle sue spalle, lo tengo
lontano e vicino assieme, non lascio che si avvicini e neanche che se ne vada.
E lui mi
stringe i fianchi, non accenna a nessun movimento ulteriore, parla e basta, la
fronte di nuovo poggiata sulla mia, gli occhi chiusi, il tono della voce
soffuso come se si confessasse in punto di morte.
“Ti bacio e
te lo tolgo a forza il sapore di Radcenko dalla bocca. Ti bacio e ti tolgo il
modo che ha di guardarti, come se fossi un regalo fatto apposta per lui, quando
tu sei stata fatta per essere un regalo a me e a me soltanto. Ti bacio e ti
tolgo a forza il modo che hai tu di guardare lui, come se ti servisse per
respirare, per andare avanti, come se avessi sempre più bisogno di lui e non di
me. Ti bacio e mi tolgo dagli occhi il pensiero di che cosa può averti fatto
Karkaroff che non mi dici, perché ti guarda come se un po’ ti avesse avuta, e
persino una briciola di te in mano a quel mostro, mi fa ribrezzo e gliela
toglierei con la forza, con il sangue, con il dolore, pur di saperla di nuovo
solamente mia. Ti bacio e ti tolgo a forza che Weasley è stato il padre
migliore che potesse avere mio figlio a causa delle circostanze, ti tolgo il
ricordo che vivesse con te, dormisse con te, magari ti baciasse persino,
sentendoti sua. Ti bacio e sparisce che ti appoggi a Thomas se hai paura, o
guardi Potter se sei incerta, e sfuggi i miei occhi come se scottassero, come
se non li sopportassi, come se non potessi neanche sopportarne la vista. Ti
bacio e ti tolgo dall’orbita di ogni uomo che ti ha guardato, respirato,
accarezzato, sfiorato. Ti bacio… e ti perdono per aver osato pensare di poter
vivere senza di me. Per averci anche provato. Per aver creduto che un altro,
chiunque, potesse essere me. Per averlo persino augurato per nostro figlio. Per
non essere corsa da me. Per non avermi detto subito di nostro figlio. Perdono
quella pancia che cresceva senza di me ad accarezzarla e a prenderla in giro,
perdono le labbra strette se arrivavi a pensarmi ma senza che i piedi si
muovessero ed andassero via dalla tua vita in naftalina, perdono la rabbia che
hai per me, perdono la morte che mi puoi dare… ti bacio… e tutto questo andrà a
posto… vero?”.
Non so
quando ho cominciato a singhiozzare così forte, da temere che il cuore mi esca
dal corpo. Non so quando ho cominciato a temere che gli occhi mi bruciassero
così forte, che forse stessi piangendo sangue. E non so nemmeno quando ho
chiamato nella testa queste parole testamento.
Non so nemmeno se la sensazione che abbia il petto pieno di spine, non sia
solo un’illusione e non una strana certezza dell’anatomia. So solo che, ad un
certo punto, ho chiuso le braccia attorno alle sue spalle, ho cominciato a
piangere con la fronte poggiata sulla sua clavicola, mentre con la testa negavo
febbrilmente e gli imponevo quasi di fermarsi, di smetterla. Ogni singola
dannata parola è un rocchetto di filo, che ti illude di portarti fuori dal
Minotauro, ma invece ti getta dritto nelle fauci del mostro. Ogni parola, è una
conferma. Ogni parola, è una certezza. Tutto quello a cui cercavo di non
pensare, che in realtà tra noi è solo
vendetta sporca, nulla dell’amore se non quello romanzato del passato, detona
dentro di me.
Ed ora siamo
davvero alla fine: ora, davvero, non posso più nascondermi. Ora, davvero, saprà
tutto anche lui. E dovrò strappare, come petali di una margherita setosa, ogni
suo pensiero, farlo rassegnare alla morte, farlo scendere nella fossa scavata
apposta per noi, assieme a me. E non volevo, non voglio. Non posso.
Vi prego, qualcuno, chiunque… non me lo faccia fare. Non
me lo faccia dire. Mi uccida adesso, e basta.
Ed invece,
come la megera che sogghigna quando deve dire ad un bambino che Babbo Natale
non esiste, sento già le mie corde vocali atteggiarsi a parlare, comprendendo
dalla tensione del corpo di Draco contro il mio che sta attendendo una
risposta, sta attendendo che io parli, sta attendendo che io, l’amica delle
parole, spieghi tutto e srotoli inoffensivi pensieri ai suoi occhi.
Non sa
quanto le parole mi si siano ritorte contro, e siano diventate attentatrici
alle spalle.
“Non puoi
davvero pensarlo…” sussurro contro il suo petto, sperando che passi,
trincerandomi ancora dietro una frase innocua.
Draco mi
stacca gentilmente da sé, tiene ancora il mio viso tra le sue mani, mi
accarezza piano gli zigomi con le dita, prima di bisbigliare con voce
dilaniata: “Perché?”. Ho ancora un sussulto nello sguardo, un accenno di
diniego nel collo, una preghiera bloccata tra i denti, non mi far parlare per favore.
Lui invece
aspetta, lui invece attende quello strale fatale che lascerebbe scagliare solo
a me.
E quello
alla fine arriva. Alla fine, semplicemente scoppia fuori.
“Neanche
riesci più a baciarmi, Draco. Non vuoi perdonarmi… vuoi solo punirmi…” le sue mani perdono la presa
con il mio viso, mi guarda come una Sibilla crudele, come i troiani guardavano
Cassandra che preconizzava sventure. Con gli occhi atterriti, gli arti
abbandonati, la mente affollata delle parole che mi ha appena detto e che ora
acquistano il loro verso senso e significato.
Benzina sul
fuoco, è il bacio che non è riuscito a darmi, che non siamo riusciti a darci,
che ancora non riesce a pensare di darmi.
È la prova
dell’omicidio: il coltello sotto il tappeto, sporco di sangue. La pistola
fumante. Il bicchiere pieno di veleno.
Singhiozzo
ancora e già rimpiango le sue dita sul mio viso, faccio un passo in avanti
verso di lui a braccia tese come a trattenerlo, ma poi le mie mani si bloccano
e ricadono lungo i fianchi.
“Vuoi
punirmi perché ad un certo punto, per un motivo qualunque, ho scelto altro. E non te…” piango ancora, stringo
gli occhi e pigolo fuori con voce straziata ed acuta: “Come io non riesco a
perdonare te. Non sarà un bacio a mettere a posto le cose. C’è… troppo, Draco… che ci fa male ancora
adesso. Non basta stringerci, stavolta, dirci che ci amiamo, stavolta…”.
Mi
interrompe, fa un passo verso di me, allunga una mano che poi si arrende e
ricade piano, come un vessillo spezzato. Gli occhi sono esitanti, il corpo
pure.
Ha la voce
spezzata dal pianto, quando mi chiede disperato, come se davvero non ci credesse:
“Mi ami? Tu… mi ami ancora?”.
Le lacrime
si fermano, si bloccano, si arenano. Sicura, spavalda, sollevo il mento e
pronuncio il mio giuramento, con la forza di un dogma divino: “Non esiste più
un’Hermione Granger che non ami Draco Malfoy”. E l’osmosi è completa, lui
accusa il colpo, si chiude le dita sul petto, stringendo la camicia. Parla a sé
stesso, folle, pazzo, lo sguardo fisso al pavimento.
“Dici una
cosa così… e da una parte ti prenderei contro questo muro, facendo l’amore per
tutta la notte. E da una parte, non riesco a sopportare neanche di guardarti…”.
“Perché ti
ho tradito… come tu hai tradito me…” sussurro, e i singhiozzi di nuovo
deformano la mia voce “Non lo capisci? Perché me lo stai facendo dire? Perché
mi ci stai facendo pensare? Potevo tenerlo nella testa… e fare finta che non ci
fosse…”. Nascondo il viso nelle palme, cancellandomelo dal viso, fingendo che
non ci sia più, invocando il pensiero di Alex, di Ilai, di Ron, o di qualsiasi
altro angelo o demonio che mi strappi da qui.
“Ami la
ragazza del Petite Peste, la tua cameriera che camminava scalza per casa…” lo sto dicendo davvero, perché sto parlando
ancora? Perché nego e spergiuro l’amore, e qualcuno non mi uccide adesso?
Perché non mi sentono gli Empatici? Perché non vengono a dirmi che solo l’amore
può salvarci ed allora me lo incastona nel petto, me lo innalza con la magia,
me lo incatena al cuore così non fugga?
Nessuno
arriva. Nessuno. E le mani chiuse sul viso, le lacrime che mangiano gli occhi,
mai si sono mangiate anche le parole.
“Ed io amo
il mio capo arrogante e presuntuoso, che mi ha baciato sotto la luna nuova… ma
quelli…”.
L’ultima
freccia, l’ultimo fendente, l’ultimo colpo… almeno lo scaglia lui.
Comprendendo, infine, a voce mozzata, a lacrime fiorite, a vita spezzata.
Le ginocchia
si piegano, cado per terra, supplice, implorante, spezzata. Non tocco il suolo,
però: Draco corre, mi stringe, mi abbraccia.
Piange sul
mio collo, tutta la notte.
Piango sul
suo collo, tutta la notte.
Dietro le
palpebre chiuse, mentre torno lentamente alla coscienza, si disegna una trama
di parole mozzicate e di rantoli scomposti. Per un attimo, non ricordo nulla,
resto ad occhi chiusi beandomi del silenzio e di un vento fresco che spira da
una qualche finestra vicina. Non ricordo per un secondo neanche come mi chiamo:
accolgo solo una sensazione piacevole di pace, in fondo allo stomaco, e la
curiosa convinzione di avere davvero dormito profondamente per la prima volta
in settimane. Riposata, rinvigorita, resto ad occhi chiusi con un sorriso
inspiegabile.
La prima
cosa di cui mi accorgo è una luce grigiastra che preme contro le palpebre:
automaticamente penso che manchi poco all’alba ed associo la sensazione di
benessere alle domeniche di ottobre, ad Hogwarts, quando potevo poltrire a
letto un po’ di più. Lento, però, mentre il mio corpo si risveglia lieve, la
percezione di esso mi rimanda ad una sua foggia ben diversa da quella della
ragazzina.
Sono grande,
sono una donna: ho ventotto anni. Ho preso il diploma, ero un’Auror, poi una
cameriera squattrinata.
Quelle
immagini, però, non hanno consistenza alcuna: non acquisiscono definizione e si
confondono nel vento che mi soffia sul collo, portandosi un odore salmastro. Il mare. Non è Hogwarts allora. Ma non
può essere neanche Favignana: quando mai sono stata in pace, lì? O forse è
successo qualcosa… e io… non me lo ricordo… è rapido, allora, fulmineo, che in
un solo respiro, torni tutto alla mente.
Come un
treno che passa in una stazione deserta con i vagoni che sferragliano sulle
rotaie, riducendosi a macchie luminose e saettanti nelle pupille, così le
immagini di questi ultimi giorni mi si ripropongono velocemente, causandomi un
vuoto allo stomaco. Raissa in casa di
Draco. Il ritorno di Dimitri. Il rapimento di Alex. La Solutiodamnationis. Il senso di ansia e di angoscia per
mio figlio riprendono pieno possesso del mio cuore e dei miei pensieri,
causandomi il solito pizzicore diffuso negli arti immobili e negli occhi che già
percepisco come arrossati, come se avessi pianto per giorni. Sono così pesanti
che nemmeno riesco ad aprirli. Ed è a quel punto che, risalendo a ritroso nella
memoria, ricordo anche perché ho pianto così tanto.
Io… e Draco. Il libro di favole. La fotografia. La fuga.
Quel ripostiglio buio. Ha cercato di baciarmi… e non ci siamo riusciti. La
consapevolezza che domani, anzi oggi… non torneremo indietro.
Non ci unisce un amore puro e meraviglioso,
incontrastabile, privo di colpa e rimorso, ma solo stralci di sentimento che
solo il tempo avrebbe potuto rendere vergini di rancore ed odio.
Un tempo che… adesso non abbiamo. Un tempo che… ci
condanna innamorati di persone che non siamo più.
Quella
sensazione di… non farcela più.
Semplicemente.
Lui… che mi
stringe forte, le labbra premute sulla mia fronte. E che piange, con me,
assieme a me.
Quando le
lacrime si sono pian piano arenate nei miei occhi, quando semplicemente mi sono
sentita troppo stanca per fare altro, quando improvvisamente la coscienza di
non poter fare più nulla per cambiare il mio futuro, quando ho compreso che
l’importante era che mio figlio fosse in salvo in qualche modo, quando persino
la rabbia che provavo per lui si è trasformata in un senso ineluttabile di pace
sconfitta e di rassegnazione nervosa… ho avvertito d’un tratto tutta la
stanchezza di questi giorni, gli occhi che mi si chiudevano, la guancia premuta
contro il torace di Draco.
E, da lì, è
diventato tutto confuso, una nebbia luminosa ed iridescente che profumava di
lui. Il profumo della terra a settembre.
Mentre con
fatica riapro piano gli occhi, chiudendoli quasi subito per una lama di luce
che mi ferisce, mi sento così impregnata di quel profumo che mi chiedo se non
mi sia entrato nelle ossa stesse. Lo sento ancora, fortissimo, vicinissimo. E
lì ricordo gli ultimi tasselli delle scorse ore.
Il sonno che calava sulle palpebre, pietoso. Draco seduto
per terra, le guance ormai asciutte, il mento poggiato sulla mia testa, le
braccia strette attorno alle mie. Un sospiro, il respiro finalmente sciolto. Qualche
parola che non ho inteso. E poi... ero nel corridoio, in braccio a lui, le
braccia allacciate alle sue spalle salde. Il buio della sua camera. Il letto.
Una coperta.
“Dormi un po’, adesso, ok?”. La voce un po’ spezzata, un
po’ tremula, poco sicura.
“Puoi stare un po’ con me, però?”. Come se fossi ubriaca,
come una bambina con la febbre alta che sragiona nel sonno.
“Fino alla fine del mondo. Anche se fosse stanotte”.
Calma, pace, dolcezza. E poi finalmente… la quiete del
sonno.
I miei
sensi, finora addormentati, tornano tutt’un tratto, assieme al cuore che si
ridesta e riprende a battere forte, come farneticante. Con un senso di
meraviglia e timore inconscio mescolati assieme, riapro gli occhi lentamente.
Sono effettivamente distesa sul letto della camera di Draco, quella dove mi
risvegliai dopo lo scontro con Dimitri. Riconosco la mobilia e la finestra
aperta sul giardino, dove si sentono ancora le voci allegre di qualcuno che non
ne vuole sapere di andare a dormire. Ma non è quello che, ovviamente, mi fa
andare in fiamme il viso. Attorno alla mia vita, poggiato come a proteggermi e
a tenermi contemporaneamente vicina, c’è un braccio dalla pelle chiara che non
potrei mai confondere con quello di nessun altro. Tiene la sua mano sul mio
ventre, chiusa e coperta dalla mia. E solo adesso, non so come e non so neanche
perché, con un sussulto, distinguo un respiro nei miei capelli e la forma delle
sue labbra su di essi.
Mi sfugge un
sorriso che non so da dove mi sia spuntato, specie adesso, specie quando, con
ostinazione e pietosa ipocrisia, mi volto lentamente su me stessa, rigirandomi
nel letto per sincerarmi che sia davvero lui. Compio la mia manovra in silenzio
e con cautela, non spostando il suo braccio ancora chiuso sulla mia vita,
trovandomi finalmente di fronte a lui.
Draco ha il
respiro regolare e lento di chi è profondamente addormentato e, come ricordavo
ancora, nel sonno si lamenta un po’ come sempre. Ha il labbro inferiore
leggermente sporgente come se avesse un buffo broncio, cosa che ancora mi
ricorda Alex, ed ha le ciglia biondissime così lunghe che mi chiedo come non si
attorciglino tra loro. Sono ancora bagnate, non so se per le lacrime o per il
sudore di questa notte calda, e tremano leggermente. I capelli sono
disordinati, ricadono a grandi ciocche sulla fronte, spostandosi un po’ a ritmo
del suo respiro. Il suo braccio è fermo, immobile, decisamente chiuso sul mio
fianco, la mano aperta e poggiata sulla mia schiena. È così bello, così
irrealmente meraviglioso averlo qui, così, vicino a me, come lo sognavo sempre
in Italia, che mi chiedo se davvero non sto sognando. E, vittima di quella
sciocca ed infantile paura, allungo lentamente una mano per toccargli il viso.
Ma non faccio in tempo a sfiorarlo che Draco spalanca le palpebre con un
sobbalzo, come dopo un incubo. Respira di sollievo vedendomi lì, gli occhi si
sgranano e tornano poi alla normalità. Però, immediatamente, si accorge del
braccio che teneva poggiato su di me e lo stacca bruscamente, un’ombra di
rossore sulle guance. Metto a tacere la punta di delusione che sento nel
ventre, assolutamente sgradita ed inopportuna, ed abbasso lo sguardo,
concentrandomi su altro.
“Scusami…” sussurra
con la voce impastata, a malapena udibile.
“Non
importa…” sorrido, tornando a guardarlo, ha gli occhi ancora foschi e nebbiosi,
nascondo con un sospiro le mani sotto il cuscino, prima di bisbigliare pacata:
“Stai tranquillo”. Il tono delle nostre voci è cambiato repentinamente, dalla
sera prima. È soffice, gentile, timoroso, mai urlato. Non ci siamo mai parlati
così, anzi… tra di noi, tendenzialmente usavamo un colore di voce abbastanza
stridulo ed antipatico, anche quando stavamo assieme. Eppure, questa… delicatezza… adesso è persino giusta,
necessaria. Come se camminassimo su un terreno minato. Come se ieri sera, con
il suo carico di scoperte, avesse fatto scoppiare una bomba, il cui conto alla
rovescia durava da mesi, forse anni. Adesso, nelle rovine, ci muoviamo come
reduci: rimpariamo a comunicare, a conoscerci.
Anche se tutto questo durerà solo poche ore. E, forse, la
pace è cominciata proprio perché manca così poco alla fine.
“Sei
riuscita a dormire?” mi chiede con premura, gentilmente, spiando le ombre del
mio viso.
“Un po’… e
tu?”.
“Un po’
anche io…”.
Imbarazzata,
gli sorrido in risposta, giocherellando con le pieghe delle lenzuola. Poi, a
voce bassa, mormoro: “Grazie… di essere rimasto…”.
Draco non
risponde, non dice assolutamente nulla. Annuisce con un sorriso nuovo, diverso.
Forse anche chiamarlo sorriso, è troppo. È una semplice piega delle labbra, un
po’ statica, tirata, inespressiva.
Ma almeno
vera.
Si sistema
meglio sul cuscino, uno sprazzo di luce negli occhi grigi che spero, davvero,
che sia ancora la luce della luna. Non potrei sopportare che fosse già il sole.
Sembra che stia per dire qualcosa, dischiude le labbra ed accenna a parlare.
Poi tace, restando in silenzio a guardarmi. Non riesco a mia volta a smettere
di fare lo stesso. Starmene qui, su questo letto, a contare i secondi che
passano indifferenti nella mia testa, con questo sorriso mesto, guardandolo
negli occhi.
“Sarà un
segreto tra me e te, Hermione. Non è necessario che… lo sappiano…” bisbiglia Draco con un filo di voce, un’ombra
nerastra che si rapprende nella sua espressione, portandomi a stringere le
spalle quasi a moto di difesa. Comprendo a che cosa si sta riferendo, non è necessario che nessun altro, a parte
noi, sappia quanto questa missione sia semplicemente suicida.
Draco
prosegue monocorde, lisciando un’invisibile piega sul cuscino: “Specie Seth,
Pansy… penseranno che… ce l’abbiamo messa tutta e non ce l’abbiamo fatta… non
c’è bisogno che… soffrano da ora…”. Per qualche secondo mi incanto a guardarlo,
meravigliata, stupita. La tenerezza, la dolcezza, la preoccupazione che mette
in queste parole, per quelli che considera i suoi migliori amici, mi lascia
frastornata. Fino ad ora, ho visto l’evoluzione di Draco Malfoy solo in termini
negativi, solo in tutto quello che mi divideva da lui. Ora, vedo anche gli
albori di tutto quello che di bello è sorto in lui in cinque anni. Non solo il
padre… ma anche l’amico: l’uomo non più così egoisticamente concentrato su sé
stesso e la sua sofferenza, ma che addirittura comprende quella degli altri.
Avevo sempre avuto fiducia nel fatto che potesse diventare così… e so che avevo
ragione. Ora ne ho la conferma, anche se purtroppo non potrò vedere altro.
Rimasta
troppo a lungo in silenzio a fissarlo, mi affretto a replicare affannosamente:
“Sì. Hai ragione. Non ce n’è bisogno… è già abbastanza difficile senza che
loro…”. Lascio la frase a metà, grata che lui non la finisca. Un magone si deposita
velocemente sul mio petto, cerco di scacciarlo respirando profondamente. Mi
concentro sulla sensazione di calma che ho provato appena sveglia, cosciente
che, tutto sommato, avevo sistemato tutto quello che mi restava da fare. Con
Ron, con Serenity, con Draco. Per gli altri, non ho veri e propri addii. Non
devono sapere fino a che punto io sia cosciente di non tornare più. Spero solo di riuscire a rivedere Alex anche
di sfuggita. Le lacrime iniziano a pungermi di nuovo gli occhi, cerco
quindi di distrarmi come posso, e penso a quanto sia bello poter stare nella
stessa stanza con Draco, senza che tutto mi esploda nel petto, costringendomi
ad odiarlo. Non è cambiato davvero nulla. Raissa e il suo ricordo sono sempre
lì, con le recriminazioni, i rimpianti, i ricordi. Solo che, appunto, per
fortuna e purtroppo, non c’è tempo per pensarci. Per la prima volta da ore, con
un vago senso di nausea che mi colpisce allo stomaco, mi chiedo dove sia Ilai. Ed
è lì che la mia calma vacilla, si spezzetta, minaccia di scomparire. Abbasso il
viso, respirando, cosciente dello sguardo di Draco che, ancora steso su un
fianco vicino a me, non si perde nessun mio movimento.
Lascio che,
però, anche il pensiero di Ilai se ne vada dalla mia testa, nella somma e
consapevole coscienza di dover lasciare libero anche lui.
Mi muovo nel
letto piano, cercando assenso nei suoi occhi, fino ad arrivargli vicino e ad
affondare il viso nella sua camicia spiegazzata. Lo sento sorridere contro il
mio viso, il torace che vibra piano, mentre lo stringo forte, restando con la
testa seppellita sul suo petto. Mi cinge alla vita, rimane sempre con le labbra
poggiate sulla fronte nel gesto che ha imparato da qualche ora, e che ora
considera naturale.
L’anticamera di un bacio, che non riusciremo più a darci.
Ancora, per
scacciare i pensieri, mormoro quieta: “Dimmi qualcosa su di te che ancora non
so…”.
Draco sembra
irrigidirsi un po’, resta qualche secondo a chiedersi perché mi sia saltato in mente
di fargli questa domanda. Non lo so neanche io. So solo che voglio morire
sapendo più cose possibili su di lui, so solo che ce ne sono troppe che non
saprò mai, so solo che quelle forse che ci farebbero più male, comunque, non
riusciremmo a dircele. So che ne ho bisogno. So che ho bisogno di lui, adesso, come mai nella mia vita. Le dita
di Draco si avventurano tra i miei capelli, giocando distratte. Chiudo gli
occhi, rabbrividendo appena, e sospiro nel suo petto. Il suo profumo è così
forte, che penso non se ne andrà mai più da me. E non c’è cosa migliore al mondo.
Finalmente,
con un sorriso che sento nelle orecchie, Draco risponde cauto: “L’importante lo
conosci, Granger. L’hai sempre saputo.
E il superfluo… conta davvero adesso?”.
“Dimmelo lo
stesso. Per favore…” ribatto cocciuta, stringendomi di più a lui.
Ci pensa
ancora su, non parla ancora. Si limita a tenermi stretta, e davvero mi andrebbe
anche bene così.
Quando ormai
mi sono arresa a non avere una risposta, inizia a parlare a voce soffusa, bassa.
“Odio tutti
gli ortaggi color arancio, mi dà fastidio il sapore e da qualche anno li
associo ai capelli di Weasley, quindi adesso li detesto proprio. Non ho mai
buttato la sciarpa che mi facesti avere a GrimmualdPlace, ci ho provato per mesi dopo allora e non ci sono mai
riuscito. Quando ho pensato che fossi andata via, ho comprato come un’idiota Orgoglio e pregiudizio, ma l’ho richiuso
dopo tre capitoli. Sono felice che Pansy stia con Thomas, non mi chiedere
perché, e se glielo dici, ti uccido. Mangio anche io il gelato fritto quando
sono felice, adesso, ed anche su questo preferirei che non commentassi. Ho
scritto una lettera per Alex, ci ho messo due ore e non sapevo che dirgli
perché neanche lo conosco. Poi ho cominciato a scrivere e non smettevo più. Gli
ho detto che mi piace il suo nome. Gli ho detto che, anche se fino a ieri non
sapevo nulla di lui, è assieme a sua sorella ciò che di più caro ho al mondo.
Gli ho chiesto scusa per non averlo potuto conoscere. Gli ho detto che, se
avessi scelto da chi avere un figlio, anche avendo mille anni e mille vite a
disposizione, avrei scelto sempre sua madre. E gli ho detto che, nonostante
tutto, tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata…”.
Draco non ha
quasi mai preso fiato mentre parlava, ha affannato le parole in un solo respiro
soffice. Adesso, recupera fiato, sento il suo torace abbassarsi e alzarsi
velocemente contro la mia guancia. Non dico nulla, non aggiungo altro: piango
naturalmente, tiro su con il naso e cerco di non farmi sentire da lui,
limitandomi con il capo ad annuire e basta. Senza neanche prevederlo, senza
nemmeno premeditarlo, mi ha detto tutto ciò che volevo sentire e sapere. Non
c’è nulla dell’amore mistico e magico che può sconfiggere Adamar, c’è solo la
corsa affannosa a vivere quel poco tempo che ci resta nella maniera più onesta
e serena possibile… eppure, c’è tutto. È un miracolo in cosa ci siamo
trasformati in poche ore, solo con la coscienza che stiamo per morire.
Se le cose
fossero normali, non sarei qui. Se le cose fossero normali, probabilmente ci
sottoporremo a mesi di chiarimenti e di risoluzioni che chissà come ci
lascerebbero, due derelitti imbruttiti dall’odio.
Invece ora,
non c’è più pressione, ansia. Nulla. Non siamo abbastanza per Adamar, non lo
siamo neanche per noi stessi. Siamo solo Draco ed Hermione, nonostante tutto.
Sempre.
Solo questo,
non cambierà mai.
Mi asciugo
una guancia con il dorso della mano, sei
la cosa più bella che mi sia mai capitata. Non è ti amo, non è non ti lascerò
mai, non è torneremo a casa, non
è neanche cresceremo assieme nostro
figlio. Ma posso portarmi questa frase dentro, dietro, senza che nulla me
la tolga dal cuore.
Draco mi
tocca la guancia con un dito, richiamando la mia attenzione, prima di
sussurrare tra il suadente e l’arrogante: “Non mi merito anche io un fantastico
discorso cuore a cuore in punto di morte,
adesso, Granger?”.
Sorrido,
inarcando un sopracciglio, prima di sollevare il viso e guardarlo dal basso
verso l’alto. Ha gli occhi tristi, un sorriso smorto che immagino replichi il
mio. Nego con il capo e biascico velocemente, descrivendo piccoli cerchi sulla
sua camicia, senza guardarlo: “Non ho mai avuto problemi di comunicazione,
Malfoy. Sai già tutto di me. Sai anche troppo”.
“Dimmi tutto
daccapo, allora…” ribadisce lui, testardo, mettendomi una ciocca di capelli
dietro l’orecchio.
Mi nascondo
di nuovo nel suo petto, aspettando di nuovo le sue braccia che mi stringano
forte alla vita. Non penso a che cosa sto per dirgli, respiro forte come a
prendere fiato e lascio che sia la mia voce, timorosa ma ferma, delicata eppure
salda, a fare tutto il resto.
“Odio il mio
mignolo sinistro da quando Lavanda mi disse, a quindici anni, che avevo le dita
troppo tozze. Mi è sempre piaciuto il tuo naso, ma preferirei che non
commentassi. Da quando me l’hai fatto notare, compro molti più vestiti rossi. Quando
ero incinta, ho divorato un’intera torta alle carote e mandorle, e sono
convinta che Alex detesti le carote anche per questo. Non so come diamine è
successo, ma credo che adesso chiamo Pansy Parkinson la mia migliore amica, ma
se glielo dici, ti uccido. Alex ogni mattina, da quando sa parlare, ti ha
sempre salutato con un Buongiorno papà! In
Italia ti ho scritto novecento tredici lettere in cinque anni, ho cominciato a
scrivere e non smettevo più. So che non ha senso adesso, so che non le leggerai
mai per tempo fino all’alba… ma voglio che le abbia tu. Sono tue. E credo di
non averti mai detto che… sei la persona che ho amato di più in tutta la mia
vita. E, nonostante tutto, se devo accettare un modo per morire oggi, lo
accetto solo perché sarà con te…”.
Sotto le mie
dita, sotto il tessuto della camicia, il cuore di Draco rimbalza forte,
battendo più veloce. Per qualche secondo, non sembra neanche respirare, se ne
sta in silenzio completo. Solo alcune cicale rompono la quiete della fine di
questa notte. Incerta, insicura, spio con la coda dell’occhio la sua reazione
ed è allora che vedo quella singola, minuscola e perfetta lacrima che gli
scivola indolente dall’angolo dell’occhio destro. La asciuga con rabbia, non
appena incontra i miei occhi, premurandosi di rassicurarmi con i suoi e di fare
spallucce con espressione fintamente rilassata. Ma la tensione delle vene del
braccio che mi tiene stretta, è evidente: scattano i muscoli sotto la pelle
tesa. Questa è solo una tregua armata, in fondo: tutto è sempre lì, sepolto,
come braci sotto la cenere. Basta un soffio per dare la vita a tutto. Basta una
sola parola che esca fuori dal seminato, dal tracciato inoffensivo, e potrebbe
scoppiarci tutto in faccia. E forse, quelle parole le ho dette io, adesso. Me
ne accorgo da come, adesso, mi diventa innaturale vedermi dall’esterno stretta
a lui, in questo letto. Me ne accorgo da come le ombre delle pareti mi sembrino
gli occhi di Raissa. Me ne accorgo del pensiero risorto di Ilai, che ora punge
nello stomaco più forte di prima. E me ne accorgo perché avverto la sua mano
sulla mia schiena in modo diverso, molto diverso. Un modo che non è affatto
pacifico, affettuoso e dolce. Piuttosto un modo che brucia i suoi polpastrelli
sulla mia maglia, facendomi improvvisamente chiudere gli occhi a
quell’improvvida carezza, come ad implorare che vada oltre, quando invece io
stessa so che, se lo facesse, lo odierei senza posa.
Draco sembra
intuire i miei pensieri, tanto che la sua mano sulla mia schiena dismette
quella carezza bellissima ma pericolosa, e sussurra lievemente noncurante: “Non
è stata una grande idea fare questo discorso, non credi?”.
“Credo
anch’io” asserisco convinta, poggiando di nuovo il palmo aperto sul suo petto,
rassicurata dalla sua voce di nuovo pacata e tranquilla.
“Un tempo
facevo altre cose a letto con te. Bei tempi” biascica in tono sognante ed
insolente, facendomi mio malgrado scoppiare a ridere, non prima di essermi
sollevata con il busto ed averlo colpito leggermente sul braccio. Lui sbuffa un
po’, sorride ancora. Mi appoggio di nuovo con le braccia incrociate sul suo
torace, con il viso rivolto verso il suo, il mento poggiato poco sotto il
collo. Lo guardo e basta, non riesco a fare altro. Sono svuotata in senso
buono, incapace di pensare o di dire altro. Voglio solo guardare i suoi occhi,
voglio imprimermeli nella testa.
Restiamo per
un po’ così, non saprei nemmeno io dire quanto. Con quel sorriso addosso che è
solo una smorfia che cela e disvela, che nasconde e mostra, che ama ed odia
assieme. Piego la testa di lato, poggiando la guancia sul braccio piegato,
chiudendo gli occhi quando le sue dita mi sfiorano piano lo zigomo, con la delicatezza
riservata di solito ad una cosa di cristallo, già mezza scheggiata, già con
qualche crepa. Forse mi addormento di nuovo, forse passa davvero troppo tempo,
perché quando parla di nuovo, quando mi accorgo della luce che ha cominciato a
diventare più chiara, mi sembra che siano passati solo qualche secondo.
“Voglio
stare con Serenity. Fino all’alba…” mormora in tono di scusa, la sua mano sulla
mia guancia trema un po’. Sussulto, chiudendo le spalle e sollevandomi,
restando in ginocchio sul materasso. Lui mi imita, sedendosi di fronte a me,
prima di afferrarmi il polso, sfiorandomi con il pollice l’interno del palmo
della mano. Sussurra lieve: “Vuoi… venire con me?”. Torno a guardarlo in viso,
la sua espressione è autenticamente spezzata in due, ancora gemella della mia. Non vuoi lasciarmi. Ma al contempo sai che
questa notte e questa vita devono finire… e hai bisogno anche di stare con tua
figlia.
Chiudo le
dita sulle sue, sorridendo forzatamente e rassicurandolo: “No, tranquillo. Posso
stare da sola. Ti… aspetto giù…”.
La sua
espressione si addolcisce un po’, come se avesse compreso che voglio lasciarlo
da solo libero di salutare la sua bambina, in pace. Qualcosa gli passa negli
occhi, qualcosa che ruggisce nel fondo dei suoi occhi, passione, odio, rabbia, dolore, rimorso, desiderio, e la mano che è
ancora nella mia trema un po’, si distende e si contrae. Apre le labbra,
fissando le mie, come se stesse per dire qualcosa, come se stesse di nuovo per
provare a baciarmi. Ma la paura ancora di non riuscirci, la paura di affrontare
di nuovo quel demone che è la coscienza di non amarci più come prima, lo fa
desistere, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Mi scopro a chiudere le
labbra che avevo già dischiuso involontariamente, serrandole in una morsa.
La sola cosa
che fa, prima di uscire, è di prendere la mia mano tra le sue, stringerla
forte, quasi a fermarmi la circolazione del sangue. Annaspo, gliela stringo a
mia volta, cercando di fugare le domande nei suoi occhi e a renderle certezze
inoffensive.
“Granger…”.
“Dimmi”.
“E’ per
Alex…”.
“E’ per
Alex…”.
Un capitolo un po’
più piccolo del solito, ma un capitolo che è un ringraziamento come sempre, a
tutti coloro che mi hanno consolato e spronato con i loro commenti nello
scorso, dopo lo spaventoso ritardo. Io davvero ho i lettori migliori del mondo.
Ho risposto a tutti singolarmente stavolta, anche nelle ficMissingmoments di Halft, ma ancora e sempre… grazie.
Un abbraccio speciale
lo do ad Emme e Francesca. Sempre i miei generali, e sempre prodighe di
consigli quando ne ho bisogno. Siete le mie rocce…J
Draco ed
Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias SummerLayton, che si è
alleata con Pucey e Montague, gli assassini
di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che
unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo
dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza
voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata
dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a
casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo
sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la
ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è
parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha
convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che
le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi
sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco
ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a
Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione
sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo
risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un
demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e
Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione
stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco
fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli
restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco
ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere
le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto
d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a
tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono
dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per
rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una
spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e
Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare
Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per
contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da
Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa
occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per
accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo
stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare,
dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I
due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa.
Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy
Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con
Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque
anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri.
Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli
anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera
in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri
Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e
Montague, proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e
la determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di
catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava
precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di
camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende
di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di
fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la
possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di
non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci
giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry
e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per
tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono
nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione
apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con
suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede
inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua
prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il
suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce.
Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono
che Tatia Krasova era una profetessa,
il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un
libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatianon voleva che Hermione si ricordasse di lei
cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa.
Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di
nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata
a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto
quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui
è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa,
sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come
fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico,
aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli
Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che
innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa
aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto
promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse
che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome
dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in
Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una
cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum
la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa;
distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per
la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma,
alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di
partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una
lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire
che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela
vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver
intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire
Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere
Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda,
accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione
diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il
figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai,
poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è
idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami
intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano,
quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco
scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo
figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente e psicologicamente, minando forse
per sempre la fiducia nei confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più
complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica
Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il
demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e
riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che
testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima,
assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla
prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi
che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo
loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della
dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della
sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed
Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro
rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per
sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in
modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti
per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali
per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi
morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico, per ingannare i
Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e
rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed
Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Dopo
essersi chiarita con Ron, Hermione parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello”
Alex. Ma proprio durante la conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco
le fotografie del loro figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con
Draco, scattata e conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che
Draco mostra ad Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity.
Ogni principessa del libro ha il volto di Hermione. È la molla per la peggiore
delle rivelazioni possibili. Sebbene entrambi sono consci di essere ancora
profondamente legati l’uno all’altra, Draco ed Hermione affrontandosi si
rendono conto di essere innamorati del loro passato, più che di loro stessi al
momento. Troppo dolore e rancore è intercorso tra loro, e purtroppo ormai non
sanno se potranno recuperare loro stessi vista l’imminente prova con il demone.
Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle
circostanze, restano assieme per la loro ultima notte.
“Devi ricordarti sempre che hai un debito verso questi personaggi”.
Dedico questo capitolo a Demetra, per tutto quello che mi ha detto
mentre scrivevo questo capitolo, ricordandomi perché sono una
pseudo-scrittrice.
Capitolo 45 – No rest for the wicked
Quando Draco
esce dalla stanza si porta via tutto. Luce,
calore, pace.
Il primo
istinto che mi colpisce svogliato alla bocca dello stomaco, è di stendermi sul
letto alle mie spalle ancora impregnato del suo profumo e di nascondermi sotto
le coperte fino all’alba.
Forse, non è stata una buona idea restare da sola.
L’indolenza
minaccia di paralizzarmi mentre aspetto chissà che cosa piangendo,
disperandomi, sprecando tempo e basta. Respiro quindi a fondo, con una mano sul
torace, decisa, cercando di darmi coraggio e di focalizzare tutte le mie
energie sul tempo che mi resta.
Due ore. Mancano due ore all’alba.
Mi guardo
attorno spaesata, apparentemente ho tantissimo da fare… ma niente, davvero, con
cui riempire il tempo. Un po’ di vento notturno mi scompiglia i capelli
soffiando dalla finestra e costringendomi a trattenerli con una mano. Un gemito
di profumo diverso mi raggiunge le
narici. Odore di fiori, fresco, gentile, dolce. Nella luce pigra della lampada
azzurra sul comodino di Draco, noto qualcosa che inspiegabilmente attira la mia
attenzione addormentata. Aggrotto le sopracciglia in direzione del profumo insolito
ed allungo un braccio verso un libro che forse Draco stava leggendo, prima di
addormentarsi. Ne riconosco subito la copertina con un tonfo al basso ventre.
Orgoglio e pregiudizio.
Sorrido in
modo triste, malinconico, ripensando alle parole di Draco di poco fa.
Quando ho pensato che fossi andata via ho comprato come
un’idiota Orgoglio e pregiudizio, ma l’ho richiuso dopo tre capitoli
Forse, non
riuscendo a dormire, ha cercato di andare oltre nella lettura.
A fare da
segnalibro, una piccola peonia bianca incantata con la magia perché sia così
piccola da stare in un libro, sia sempre in fiore e sia sempre
meravigliosamente bella. La sfioro con le dita, è soffice e fragile come
velluto. Con curiosità, nel nitore accecante che emana, noto una piccola macchietta
nerastra.
La studio
meglio, avvicinando il fiore al viso. Il profumo è così dolce che mi stringe il
cuore. Sussulto stringendo le spalle: non è una macchiolina. È una piccolissima
serie di lettere, calcate delicatamente con l’inchiostro nero di una piuma. H.J.G..
Ed è la
prima volta nella vita che so che non sono le iniziali di Helena, ma le mie.
Una peonia bianca per alcuni significa una ragazza
indimenticabile per bellezza ed arguzia.
In Oriente, simboleggia coraggio: i guerrieri se lo tatuavano
a grandi petali sulla pelle.
In Occidente, simboleggia il matrimonio, il coronamento
di un amore scelto dal destino.
Per gli antichi, proteggeva dal male.
E per altri ancora, è un fiore che significa rabbia.
Quale significato hai scelto tu, Draco, da associare a
me?
Accarezzo i
petali del fiore con sconforto comprendendo che non lo saprò mai: l’incantesimo
sulla peonia mi impedisce anche di capire se l’abbia sempre avuta, o l’abbia
colta solo stanotte. Nel dubbio, in ogni caso, la nascondo nelle pieghe degli
abiti che indosserò per affrontare Adamar, come se stessi portando con me un
amuleto magico.
Con
quell’odore ancora nel naso a solleticarmi gli occhi di lacrime, decido prima
di tutto di lasciare un messaggio alle persone che amo. Dubito di riuscirle a
salutare degnamente adesso, visto che io e Draco abbiamo concordato di tenere
per noi quanto consideriamo impossibile tornare. Trovo la mia bacchetta sulla
libreria di fronte al letto di Draco. Probabilmente l’ha portata qui dopo il nostro
scontro nel ripostiglio. Estraggo quindi una scatolina di argento smaltato in
cui riponevo gli anelli quando non li indossavo, per conservarli al sicuro in
valigia. E la incanto perché, come fece Helena ormai sei anni fa, trattenga il
suono della mia voce e lo trasmetta, una volta aperta, ai miei genitori e ai
miei amici. Piango naturalmente, ma cerco di tenere ferma la voce per impedire
che ricordino questo di me. Soffoco le lacrime nel palmo quando non riesco a
parlare e, ad ognuno di loro, lascio un messaggio, un ringraziamento, una
raccomandazione, una frase affettuosa.
Concludo con
una comune esortazione. Per favore,
prendetevi cura di Alex e Serenity.
Con lui, con
mio figlio, non parlo. Ho altro in mente. Non può sentire che cosa ho detto
agli altri, non adesso. Quindi, ancora a costo di lacrime e di un sapore amaro
in gola che mi induce a tossire spasmodicamente, scrivo una lunga lettera e la
nascondo nel libro del Piccolo Principe che ho ancora in valigia. La incanto
perché, come fece Tatia con me, solo Alex la possa leggere e non prima del giorno
del suo diciassettesimo compleanno.
Lo considero
il tempo ottimale perché lui possa conoscere tutta la verità.
Gli dico
tanto, troppo: che lo amo, che sono
fiera di lui, che sono certa che è diventato tutto quello che voleva diventare,
che sicuramente ha già una ragazzina che gli fa battere il cuore, che suo zio
Dean è fissato che questa ragazzina sia Charisma. Gli dico che, qualunque
persona sceglierà di essere, con chiunque decida di condividere la vita, io sarò
dalla sua parte. Gli dico di amare sempre, e non pentirsene mai, perché io non
mi sono mai pentita di aver amato.
Né te e neanche tuo padre.
E gli dico
che, dovunque sarò, non smetterò mai di stargli accanto.
Nessun Dio o
diavolo potrà impedirmelo.
Con cura,
ripongo la lettera nel libro che, a sua volta, nascondo nella valigia. Sistemo
sul letto i vestiti di Alex, li piego con attenzione per l’ultima volta,
sbattendo continuamente le lacrime per impedirmi di crollare. E, con
maniacalità, compilo una lista per Pansy e Dean su tutto ciò che devono sapere
su Alex: i vestiti che adora, i suoi libri preferiti, cibi o medicinali a cui è
allergico, malattie che ha già contratto, vaccinazioni, fratture, patologie
pregresse mie o di Draco, altre vicende mediche accadute durante la gravidanza
e il parto. Ripiego la lista in due e la sistemo accanto alla scatolina
incantata, al libro del Piccolo Principe e alla lettera per Alex. Quando
finisco, respiro di nuovo. La luce all’esterno è lievemente più chiara.
Per eliminare
le tracce di quel pianto, mi faccio una lunga doccia con acqua bollente,
godendomi il tepore sul mio corpo. L’acqua nelle mie orecchie non riesce, però,
ad ovattare del tutto i miei pensieri che ripetono con accenni duri e strozzati
una sola litania.
Fa male. Fa malissimo.
Scuoto il
capo a tenerli fuori da me stessa, mentre mi asciugo velocemente. Indosso un
paio di jeans corti ed una camicia rossa, così che possa sentirmi me stessa.
Per lo stesso motivo, impulsivamente, punto la bacchetta contro i miei capelli
e li ordino di ricrescere: ricadono adesso in morbide onde sulle mie spalle.
Assomiglio alla mia me stessa della guerra contro Voldemort, cosa che voglio
prendere assolutamente come un buon presagio.
L’ultima
cosa che faccio, prima di scendere di sotto ed indossare la mia migliore
maschera di calma e seraficità, è poggiare sul letto la scatola di latta
azzurra con le novecento e tredici lettere per Draco.
Sono tue. Sono sempre state tue.
A far
compagnia al ricordo dei miei cinque anni in Italia, c’è anche l’anello di
Narcissa Black. È giusto a questo punto, visto che non è mai stato davvero mio,
che io lo lasci a Serenity.
Il mio solo
bagaglio è la collana di Tatia, l’anello di Ron con la pietra rossa e la peonia
bianca di Draco.
Quando mi
chiudo alle spalle la porta della camera di Draco, mi sorprende il silenzio del
corridoio e del resto della casa. Tutti evidentemente devono essersi addormentati.
I miei passi riecheggiano forte, quindi decido di andare in giardino così da
evitare di svegliare qualcuno e di dover intrattenere conversazioni che non ho
la forza di tenere. La porta della camera di Serenity è chiusa, mi fermo a
disagio davanti ad essa.
Immaginando
Draco e Serenity lì, abbracciati, in quel letto piccolo e femminile al profumo
di ciliegia e lavanda.
Li invidio,
come li avevo invidiati anni fa a Wonderland, stretti in quel vincolo d’amore
da cui mi ero sentita esclusa.
Invidio
Draco, perché ha una figlia da stringere, prima di morire.
Invidio
Serenity, perché ha lui da stringere, prima di perderlo.
Cancellando
quei pensieri, continuo a camminare nel corridoio, sentendo con una parte della
mia mente qualcuno parlare a mezza bocca. Il
sangue è troppo, è davvero troppo. Aggrotto le sopracciglia guardandomi
attorno ed intravedo Theodore Nott che parlotta con Blaise Zabini, tenendo un
libro in mano. Probabilmente qualche stupido racconto dell’orrore: come se non
ne stessi vivendo uno sulla mia stessa pelle. Li studio con silente rimprovero,
borbottando a mezza bocca, ma loro non si curano di me, sbuffando rumorosamente
guardandomi. Per tutti loro, in fondo,
oggi è solo una gita nella memoria con i vecchi compagni di scuola. Scendo
di sotto, dove c’è un’aria stagnante di sonno e pace. Pansy è profondamente
addormentata, distesa su un fianco sul divano, una mano sulla pancia ancora
inesistente. Ha sul viso un sorriso che non le ho mai visto, meraviglioso,
luminoso e bellissimo: libero. Fa
inspiegabilmente sorridere anche me, anche se non so da che cosa sia causato,
se dalla gravidanza, oppure da… altro. Dean
è seduto sul tappeto, un braccio piegato e poggiato sul bracciolo del divano a
poca distanza dalla testa della moglie, su cui tiene una mano aperta come a
proteggerla anche nel sonno. Ha la bocca spalancata, russa un po’, eppure non credo
che sia mai stato così felice. Mi porterò questo ricordo stupendo di loro, di
quello che sono, di come avrei voluto somigliarli anche solo un po’. Mi guardo
attorno nel resto del salone, il cuore gonfio di una sensazione insopprimibile
tra la tristezza e la tenerezza. Ron si è addormentato anche lui, vestito di
tutto punto, seduto sull’altro divano a braccia incrociate, un’espressione
aggrottata sul viso. Natalie dorme serena accanto a lui, la guancia poggiata
sulle sue ginocchia. Elias, invece, riposa nel passeggino poco distante. È
sporgendomi oltre che ho la sensazione davvero di stare per crollare: sul
tappeto, per terra, Seth russa della grossa con le braccia e le gambe
spalancate stile stella marina. Attaccate ai suoi fianchi, una a destra ed una
sinistra, ci sono Charisma e Lily profondamente addormentate a loro volta. Sul
petto, però, c’è un’altra bambina che non credo di aver mai visto. È bionda, ha
la pelle chiarissima ed indossa un vestitino di lino bianco con la stampa di
ravanelli fucsia. Sorrido, anche se non me l’avessero presentata, saprei
perfettamente chi è.
Kara, la piccola di Luna Lovegood.
È venuta
anche lei quindi…
Dal numero
di giochi sparsi in giro e dalla faccia di Seth, impiastricciata con i
pennarelli per farlo somigliare ad un panda, deduco che devono aver giocato
fino a crollare esausti.
Sarai un buon padre, in fondo.
Anche lui,
sono felice di poterlo ricordare così.
Quel senso
di pienezza tra i polmoni che rischia però di gonfiare il muscolo cardiaco al
punto di farlo esplodere, mi spinge a correre fuori nel giardino, a contatto
con la luce chiarissima dell’alba ormai imminente e con il vento che spira il
vociare inesauribile delle rondini che si risvegliano. Riprendo fiato,
poggiandomi con la fronte al tronco di una magnolia, chiudendo gli occhi
sofferente. J
Una serie di
rumori soffocati però mi costringono a riaprire le palpebre immediatamente,
mentre aggrotto le sopracciglia e ne cerco l’origine. Sembrano provenire da un
punto imprecisato alle mie spalle dietro alcuni alberi che descrivono una
piccola radura seminascosta del giardino di Draco. Incuriosita o forse
semplicemente vogliosa di distrarmi, faccio qualche passo in quella direzione,
uscendo dal sentiero che descrive il perimetro della proprietà ed addentrandomi
nel terreno brullo e coperto da aghi di pino. Mentre sposto qualche ramo basso
che minaccia di farmi sbattere la testa, mi rendo conto del punto preciso da
cui arrivano i rumori soffocati che, ancora, non distinguo pienamente. È dalla
parte opposta rispetto alla casa, in un angolo completamente nascosto dalla
vegetazione. Non appena i suoni assumono una dimensione lievemente più chiara
mostrandosi somiglianti a rantoli confusi, penso semplicemente ad un animale
sofferente ed afferro la bacchetta, pronta sia a curare la bestiolina, che a
difendermi da un probabile attacco.
Quando però
scosto con attenzione un ulteriore ramo basso di pino marittimo ed aggiro un
altro paio di alberi, la vista che mi compare davanti agli occhi mi agghiaccia
il sangue nelle vene, costringendomi a fare qualche passo indietro, come se ne
avessi avuto un contraccolpo sordo al centro esatto del petto.
Di fronte a
me, con un ginocchio poggiato sul fogliame secco ai piedi di un grande albero,
non c’è alcuna bestia ferita.
C’è Ilai.
Ha il volto
emaciato, scavato: la pelle del viso è terrea, bianca, ma segnata da profonde
macchie violacee che somigliano terribilmente a lividi ed ematomi non
riassorbiti. Inspiegabilmente sembra persino dimagrito ed anche meno alto del
consueto, mentre è così piegato al suolo. Non sembra assolutamente il ragazzo
che ho baciato ventiquattro ore fa e che mi ha cullato nel sonno: non ha più
nulla di quella placida e serafica sicurezza, ma un’espressione addolorata e
completamente devastata dalla sofferenza fisica. Non si è ancora accorto di me,
quindi ho tutto il tempo di rendermi conto di che cosa sta accadendo. I versi
che ho sentito… era lui. Chino al
suolo, tossisce ancora un paio di volte, il torace completamente sconquassato
dai sussulti.
La mano che si
tiene premuta sulle labbra si bagna di sangue che gronda copioso dalla sua
bocca, allargando sempre di più una già ampia chiazza sul terreno, di cui non
mi ero ancora accorta.
È lì che
comprendo la gravità della situazione e che, senza ulteriori indugi, corro
verso di lui, chinandomi in ginocchio alla sua altezza e prendendo il suo viso
tra le mani così da poterlo guardare in faccia.
“Ilai! O mio
Dio!” gemo in preda all’ansia e all’angoscia, mentre lui mi guarda con le
pupille dilatate per il terrore. Trattiene ancora la mano insanguinata sulla
bocca e sembra reprimere a fatica un ulteriore accenno di tosse che minaccia di
esplodergli in petto. Poi, accorgendosi della mia attenzione per la mano sporca
del suo sangue, sembra cercare di fare un cenno noncurante e disinteressato che
voglia rassicurarmi, ma nessuna sillaba lascia le sue labbra come se fosse
anche in debito di ossigeno.
“Ilai… che
ti succede?” chiedo ancora disperata, i pollici che cercano di cancellare il
sudore freddo che gli impregna la pelle fredda del viso, poi con fermezza lo
costringo a spostarsi verso un albero vicino così che possa appoggiare la
schiena contro il tronco. Lui asseconda i miei movimenti con lentezza come se
fosse esausto, e continua a premere la mano sulla bocca.
Il sangue
continua a gocciare tra le dita, mandandomi nel panico.
“Vieni qui,
siediti, riposa… hai bisogno di acqua? Vado a prendertela…” dico stupidamente,
completamente disorientata, non capendo nulla di quello che sta succedendo e
non riuscendo nemmeno a capire l’origine dell’emorragia. Mi guardo attorno cercando
aiuto, portando alla memoria nozioni di primo soccorso che si affannano l’una
sull’altra senza alcun senso. Siamo troppo lontani dalla casa, devo tornare
indietro da sola… e se lui intanto… proteggilo,
Hermione, per favore proteggilo… come faccio… io… Tatia… glielo ho
promesso… deve… vivere, come faccio?
Il mio
cervello va completamente in corto circuito e la sola cosa che continuo a
pensare è a portargli quella maledetta acqua, che non so che diamine di utilità
potrebbe davvero avere con una cosa del genere. Faccio quindi per alzarmi in
piedi per correre verso la casa, quando sento la mano di Ilai chiudersi sul mio
polso fermandomi. I capelli mi sbattono in faccia, facendomi ricordare di
averli di nuovo lunghi e restituendomi un po’ di chiarezza mentale, accucciando
il panico in un angolo di me stessa. La
pelle della sua mano… è ancora calda. È ancora la sua.
Lo guardo in
viso, una calugine di lacrime che mi impedisce di metterlo bene a fuoco. La dirado
sbattendo furiosamente le palpebre. Ha il viso lievemente più roseo, meno
pallido. Il sangue… ha smesso di scorrere. La mano resta sporca, ma riesce
finalmente a staccarla dalla bocca senza che nuovi conati possano scuoterlo
dall’interno. Il petto però si alza e si solleva ancora troppo velocemente: lo
vedo quindi poggiare sofferente la nuca contro il tronco dell’albero, dopo aver
lasciato il mio polso ed avermi fatto cenno con la mano di restare dove sono.
Portandomi i capelli indietro con entrambe le mani per fermare il tremore nelle
dita, mi chino di nuovo e mi avvicino a gattoni nuovamente a lui, studiando il
suo viso e le ombre che ne mangiano la salute. Ed è lì che, seguendo una
traccia di sudore che scivola lungo la mascella morendo nel collo, noto
qualcosa che di primo acchito non avevo notato. Senza rendermene conto, mi
avvicino ancora a lui, approfittando del fatto che stia riprendendo fiato ad
occhi chiusi con la testa ancora poggiata mollemente al tronco dell’albero. Non
riuscendo ancora a capire di che si tratta, le dita che mi tremano
convulsamente, sposto con delicatezza i lembi solo accostati della sua camicia aperta
per i primi tre bottoni a lasciare scoperta un’ampia porzione del torace. Quel
movimento fa trasalire Ilai che, d’improvviso, spalanca gli occhi e ferma le
mie mani, stringendomi per i polsi.
Iniziando
finalmente a comprendere di che cosa si tratta, la mia voce ingiunge minacciosa
e colma di livore: “Cosa… sono? Fammi vedere…”.
Ilai nega
con il capo ancora incapace di parlare: ha gli occhi più chiari di prima,
eppure appaiono ancora spalancati, terrorizzati. E comprendo subito che non è
il dolore a tenerli sbarrati e dilatati su di me… come anche poco prima, quando
mi ha vista arrivare. Non era la sofferenza, no.
Non voleva che me ne accorgessi. Non voleva che lo
sapessi.
“Fammele
vedere subito!” urlo allora sull’orlo delle lacrime, stringendo i pugni e
digrignando furiosa i denti.
Ilai
trasale, si stringe nelle spalle, ha un sussulto nelle mani che ancora
stringono i miei polsi. I suoi occhi assumono una piega carezzevole, tenera,
come se ancora cercasse di calmarmi solo con lo sguardo, dato il mutismo che
l’apnea del respiro ancora gli impone e i rantoli del dolore ancora non del
tutto scomparso. Restiamo per qualche secondo immobili, io in ginocchio di
fronte a lui, le dita ancora artigliate al colletto della sua camicia, mentre
lui mi tiene ancora per i polsi, il respiro affannoso e spezzato. Il sangue
vischioso sulla sua mano sporca la mia pelle, lo sento scivolare caldo lungo il
braccio.E’ ancora caldo, tremendamente caldo.
Sospiro a
lungo, gli occhi fissi nei suoi.
Alla fine,
la tensione delle sue mani si allenta appena, accompagnata da un lungo e
trattenuto respiro che rilascia tutt’assieme con evidente e malcelata rassegnazione.
Finalmente libera di muovermi, sebbene le sue mani siano ancora saldamente
ancorate sui miei polsi, riapro con attenzione e delicatezza la sua camicia,
deglutendo a disagio per la contemporanea intimità di quel gesto che si mescola
con lo sgomento neonato per le sue condizioni.
Il cuore mi
sprofonda in petto, mentre annega in un’incandescente lava melmosa di pena che
sembra subito trovare corrispondente nell’immagine che vedo di Ilai. La pelle,
che dovrebbe proteggere quel cuore di cui ho sentito mio il battito troppe
volte, è mangiata da lunghi e profondi segni di bruciature da cui fuoriesce
l’odore acre e nauseabondo della carne in suppurazione. Le striature rossastre
e lucide attorno alle ferite rimarcano come l’infezione si stia diffondendo ai
tessuti circostanti, contaminando il sangue. La porzione di tessuto necrotico è
estesa, ampia, uniforme… parte dall’incavo del cuore e si irradia tutt’attorno
nello spazio occupato dai polmoni.
Il respiro
mi si affanna subito, diventando veloce, irato, incomparabilmente nervoso e
furibondo. Sento lo sguardo di Ilai addosso, sento le sue mani sui miei polsi allentare
la loro stretta e renderla molto più dolce e gentile, eppure nella mia testa
sento solo le parole di Helder e la sua spiegazione di come avrebbero
utilizzato Ilai nel loro piano contro Dimitri e Raissa, inscenandone una
presunta morte.
Sarà possibile modulare la gamma delle tue
emozioni, fino ad indurti stati di sofferenza, di dolore, di disperazione, di
angoscia, in proporzione tale…da mandarti in arresto cardiaco. Attraverso
i tuoi occhi, vedremo quando i Karkaroff saranno vicini a te o ausculteranno il
tuo cuore… ed allora ti indurremo l’arresto cardiaco. Almeno fino a quando
Hermione e Draco avranno invocato la Solutio damnationis… dopo… ripristineremo
il tuo battito normale ed il naturale corso delle tue sensazioni. Il tuo cuore potrebbe non farcela
comunque… potrebbe non resistere a questo sovraccarico di emozioni, come non
potrebbe resistere a questi ritmi forsennati. Ti alleneremo, certo, a
sopportarlo, ma dipende dalla forza del tuo organismo… e tu… potresti morire
sul serio, Ilai…
“E’ quella
cosa che ti ha imposto Helder, non è così?” esplodo alla fine furibonda,
collegando tutti i pezzi e rendendomi maledettamente conto di come, presa dal
mio sciocco egoismo, ho concesso che iniziassero ad allenarlo per questo mascherato
suicidio. Mi stacco da lui alzandomi in piedi, non riuscendo più neanche a
guardarlo, la colpa e il dolore che minacciano di detonare dall’interno
riducendomi a brandelli.
Come ho potuto… come dannazione ho potuto lasciarlo da
solo? Come ho potuto permettere che accadesse… e a lui, poi?
Vado avanti
ed indietro come una fiera in gabbia, prendendo a calci in modo isterico sassi
e foglie, prima di biascicare a denti stretti: “Ti sta riducendo in queste
condizioni, vero? Ma sì, tanto in fondo avevano bisogno di te morto… e ben
presto ti uccideranno sul serio, no?”.
“Non è
niente…” la voce di Ilai mi sorprende, facendomi trasalire ed inchiodare sul
posto come se fossi stata fulminata. È la sua solita voce, calda, dolce,
tenera… un po’ più flebile del solito, meno salda. Ma è sempre la stessa…
respingo l’ondata di automatico sollievo che provo nel risentirla, nonché
quella spinta assolutamente inconscia ed ineluttabile che come sempre mi spinge
a sentirmi più calma e serena.
“Sembra più
grave di quello che è…” aggiunge Ilai con tono casuale, cercando di sollevarsi
in piedi e rinunciandoci per un nuovo tremito del torace che cerca di non farmi
notare inutilmente.
La vista di
lui debole ed affaticato rintuzza la mia furia, spingendomi ad urlare ancora, i
pugni chiusi: “Sei un medico! Sei un dannatissimo medico! Credi che non lo
sappia che potresti evitarti di soffrire se volessi?! Credi che non lo sappia?!
Non puoi fare nulla! E’ questa la realtà!”. Ogni tratto di sofferenza sul suo
viso, ogni residuo di sangue sulle sue labbra, invece che indurmi ad una sana e
pietosa compassione, mi infiamma di rabbia come benzina sul fuoco: è più forte
di me, non riesco a farne a meno. L’impotenza determinata dalle sue condizioni
e dal fatto di non essermi accorta prima di come stava, si traducono in una
morsa insopportabile alla bocca dello stomaco, che, in mancanza di sfogo, usa
lui come incomprensibile bersaglio.
Ilai si
solleva in piedi e, noncurante e distratto, aggiunge in tono calcolato: “Certo
che posso fare qualcosa. Solo… non per
conto mio…”. Di fronte al mio silenzio stizzito, si affretta ad una
sommaria spiegazione dopo un nuovo e rantolato sospiro: “La mia borsa… quella di
cuoio nero. C’è una bottiglietta di colore verde smeraldo. Falla riscaldare un
po’… e versaci tre cucchiaini di cardamomo, sette di tarassaco ed uno di
arnica. E portamela qui con delle bende.”.
Senza indugi
e neanche un’ulteriore parola, mi affretto a tornare indietro verso la casa,
alla ricerca della sua borsa. Ovviamente ho riconosciuto immediatamente gli
ingredienti che mi ha detto di prendere, nonché la pozione che dovrei
preparare: una blanda pozione rinfrescante e purificante contro le scottature.
Le mani mi tremano dal nervoso, mentre preparo il medicamento cercando di non
sbagliare. La casa è ancora avvolta nel silenzio, ma quando sento un tramestio
di passi dal piano superiore immediatamente gelo sul posto, terrorizzata che
sia Draco. So che non sto facendo nulla di male, so anche che naturalmente Ilai
è in queste condizioni perché sta cercando di aiutare noi due a salvare Alex. E
quindi Draco dovrebbe mostrarsi solo che riconoscente e preoccupato,
esattamente come me. Dubito però che, nonostante la ritrovata tregua che ci
siamo imposti, vivrebbe la cosa così. Del resto, la succitata tregua ha senso
anche e soprattutto perché abbiamo evitato di chiarire davvero ciò che potrebbe
renderci nemici.
Ed uno dei
primi punti sarebbe stato proprio quello che provo per Ilai.
Mentre
mescolo distrattamente la pozione azzurrina che sobbolle in un contenitore di
rame, mi lascio andare di nuovo ad un profondo sospiro.
Avessi più
tempo, avessi più vita davanti, sarei dovuta giungere ad una conclusione su
quello che sento per Ilai: mettere un punto, aprire porte, concedermi
possibilità, negarle in tronco.
Tutte cose che allo stesso identico modo mi atterriscono.
Invece, la
codardia che la morte vicina mi impone, mi spinge a liquidare questi pensieri
come assolutamente sgraditi e inutili. Non avrò alcun genere di futuro, è un
puro esercizio di retorica immaginare con chi avrei preferito viverlo quel futuro.
La sola cosa
che sento adesso di dover fare è lasciare libero Ilai: consentire che, dopo
l’inferno che gli ho riversato addosso, lui sia in grado senza remore e colpe
di non addossarsi responsabilità per la mia morte, ma di accettarla in modo abbastanza
sereno, andando avanti per la sua strada. Dovrei recidere il filo rosso che
Tatia ha tessuto per noi e consegnarlo ad un destino pacifico ed innocente, dandogli
la mia somma benedizione per un riscatto dal dolore in un luogo e tempo dove
possa curare le sue già incancrenite ferite.
Purtroppo, e
qui ancora la rabbia rischia di farmi bruciare le dita con la punta della
bacchetta, Helder è stata di altro avviso, avviluppando nello stesso infame
fato di morte non solo me e Draco, ma anche Ilai che in fondo è un innocente
estraneo.
Come faccio
quindi a morire serena, se so che anche lui sta rischiando la vita?
Come faccio
se so con certezza che la previsione di Tatia, quella sulla sua morte se avesse
affrontato da solo i Karkaroff, non sia vicina ad avverarsi?
Come posso
ripagare tutta la sua dolcezza, sicurezza, comprensione, facendogli rischiare
la vita? Ed allora, più o meno inconsciamente, torno a pensare che magari una
risposta onesta sui miei sentimenti sarebbe il minimo che dovrei tributargli,
visto quello che sta passando. E lì i miei pensieri ancora di più si incartano,
spingendomi ad ulteriore nervosismo verso Helder.
Come in
trance, affollata dai ragionamenti, termino di preparare la pozione, prendo
l’occorrente per una medicazione dalla borsa di Ilai e torno a passi spediti
nel giardino, fino al punto dove è nascosto. Il sole non è ancora sorto, manca
poco ormai, l’orizzonte è bianco e grigio di luce occulta. Ilai sembra stare un
pochino meglio. Ha il volto più disteso e in mia assenza sembra essersi pulito
del sangue sul viso e sulla mano. Anche il respiro ansante sembra essere
scomparso. Accoglie il mio arrivo con un sorriso sereno ma fioco, a cui non
rispondo, infuriata come sono. Mi inginocchio rapida accanto a lui,
trasfigurando una foglia affinché diventi una ciotola di legno scuro in cui
riverso il medicamento. A testa bassa, senza aggiungere altre parole, intingo
la garza nel liquido azzurro e mi avvicino a lui, senza guardarlo. Con una
vampata di imbarazzo, mi rendo conto che, per curarlo a dovere, dovrei
perlomeno sbottonare il resto della camicia.
Con il viso
che mi va in fiamme, capisco con vergogna che non sono affatto pronta e
preparata ad una cosa del genere. Medito se sia possibile medicarlo anche senza
sfilargli l’indumento, ma la porzione di pelle visibile non è nemmeno
lontanamente quella più ferita ed escoriata. Maledicendo ancora Helder e
rimproverandomi silenziosamente per la mia stupida timidezza che non ha alcun
motivo di venire fuori proprio adesso, resto immobile con la garza in mano che
goccia antipatica sulla mia gamba.
Quando ormai
sono quasi pronta a battere in ritirata per l’imbarazzo e per la stupidità,
sento un verso di gola proveniente da Ilai.
È
curiosamente simile ad una risata arrochita.
Inspiegabilmente
un’ondata di calore mi avvolge da capo a piedi, restituendomi calma e serenità
e portandomi persino una piega ilare sulle labbra. Scuoto il capo come a
scacciare fuori i pensieri e mi riaccosto a lui mordendomi il labbro inferiore,
mentre cerco contemporaneamente di non guardarlo in faccia e di simulare nella
mia goffa operazione di soccorso le movenze professionali che ho spesso visto
in Ginny. Faccio quindi scivolare i bottoni rimasti fuori dalle asole, cercando
di apparire disinvolta alla vista del suo torace, poi con lentezza esasperata dall’impaccio
apro un po’ la camicia. Un tocco gentile ma deciso da parte di Ilai sulla pelle
interna del mio polso, mi informa con sollievo che basta così. Con ritrovata
padronanza di me stessa, inizio con delicatezza e paura di fargli del male a
passare la garza imbevuta sulla pelle ferita. Ilai si lascia andare prima ad un
verso quieto di fastidio e poi ad un singulto di sollievo quando la pozione
inizia a fare effetto. Respiro di sollievo, l’odore di lui torna prepotente
nelle mie narici, sostituendo quello fastidioso e dolciastro della carne in
putrefazione. Per qualche minuto compio le mie operazioni in silenzio, beandomi
del ritrovato ritmo normale della respirazione, nonché dell’aspetto delle
escoriazioni che migliora notevolmente. Attorno a noi gli animali notturni si
ritirano nelle loro tane e quelli diurni ancora riposano beati nelle cadenze
regolate dalla natura: è un attimo di perfetto silenzio al profumo di resina e
legno di pino, che mi lascia dentro la sensazione di essere rimasta sola al
mondo assieme a lui senza più nessuno attorno.
Persino i
pensieri sembrano essersi volatizzati, annullati nel movimento meccanico di
bagnare la garza, strizzarla un po’ e passarla sulle ferite aperte.
“Grazie”
sussurra Ilai quieto dopo qualche secondo. La mia mano si ferma, restando
poggiata sul suo petto.
“Potevi
farlo benissimo da solo. Mi stai prendendo in giro…” mormoro spazientita,
comparando in modo sommario la salute della pelle della mia mano e lo stato
raggrinzito e malato della sua “Serve solo a curare i sintomi delle bruciature
e a mitigare il loro aspetto. Non la causa…”, mi stacco con un moto sdegnato e
chioso drastica: “Adesso mi chiederai di portarti della camomilla così da
calmare la tosse? O un bel bicchiere di latte e miele?”.
Ilai si
abbandona di nuovo a quella risata roca e infinitamente triste che ha l’effetto
di far evaporare ogni mio accenno di rabbia, svuotandomi e rendendomi solo
inerme e frastornata. Ancora, nonostante tutto, non riesco minimamente a
pensare di sollevare il viso, neanche quando sussurra con voce dolce: “Sarei
stata un bravo medico”.
“Non
cambiare discorso…” mastico amara, spiandolo dal basso a palpebre semichiuse
“Mi basta uno che faccia così nella
mia vita”.
L’allusione
a Draco mi esce fuori dalle labbra prima ancora che me ne renda conto, prima
che comprenda con chi sto parlando, prima che non mi scoppietti nel cervello ed
attorno a noi con la forza insolente e prepotente di un petardo acceso. La
garza mi scivola dalle mani, cadendo con un tonfo soffuso sul pavimento di
foglie.
“Ti basta uno nella tua vita… in assoluto…”.
La sua voce
non ha niente di rancoroso o di recriminatorio. Sarebbe stato meglio se mi stesse accusando di qualcosa. Decisamente
meglio. È invece asciutta, amara, velata di malinconia, ma senza alcun tono
di autocommiserazione. È semplicemente vera, reale ed onesta, come sempre è
stata, come se semplicemente mi stesse spiegando con logica razionale che il
sole è caldo e il ghiaccio è freddo. Eppure ha l’effetto devastante di un
calcio ben calibrato agli stinchi, pronto a mozzarmi il fiato e a mangiarmi il
respiro.
Guardami in faccia, per favore. Almeno questo.
Sento quella
preghiera nella mia testa, pronunciata con un tono al contempo stentoreo e
funereo seppur delicato e lieve, al punto che neanche sembrano i miei di
pensieri. Sollevo piano lo sguardo, le spalle contratte e strette, spiando con
colpa il suo viso che trovo inaspettatamente rivolto al mio. I colori dei suoi
occhi sembrano improvvisamente diversi, più caldi e luminosi. Ha la pelle
fragrante di miele ed ambra, scintille di caramello negli occhi, fiorisce di
sanità il respiro calmo e rilassato. Persino le ferite sembrano meno
spaventose, comprese le ecchimosi sparse che aveva sul volto. Sembra
esattamente lo stesso di sempre, nessuna traccia di sofferenza e dolore.
Inaspettatamente,
però, anche ciò che ci circonda sembra cambiare, come se si adeguasse a lui.
L’aria stagnante e sospesa del primo mattino è sostituita dalla luce dorata e
profumata di un pomeriggio d’estate che fa tralucere le foglie come se fossero
trasparenti. Ogni ombra si accuccia quieta e gentile, risorgono fremiti di
farfalle e crepitii gentili di usignoli, il vento alita fresco di muschio ed
erba.
Penso solo che
sia l’alba ormai imminente, vengo presa dall’ansia di parlare, di spiegarmi, di
non lasciarlo andare così.
“Non devi
fare questo per me…” biascico con voce rotta, le lacrime affacciate negli
occhi, afferrando un lembo del colletto della sua camicia “Per Alex. Non è
giusto che tu soffra così. Non puoi rischiare la vita per me, non te lo
permetto…”, respiro senza fiato con titubanza, sputando fuori: “…in fondo…”.
“In fondo con questa storia
io non c’entro nulla?” completa lui prontamente, ancora senza alcuna traccia di
rabbia o livore, ma con quella mansueta consapevolezza che mi fa ancora più
male “Io non sono… nessuno, giusto?”.
Le mie mani
sussultano, rabbrividiscono, stringendosi a lui, prima che erompa
scandalizzata, come se lo avessi sentito bestemmiare: “Che cosa?! Ti ho mai
fatto credere una cosa del genere? Ti ho fatto mai pensare che tu non sia
niente per me?”.
Ilai non
replica nulla, resta immobile ed in silenzio come se le mie parole non avessero
neanche raggiunto le sue orecchie, ma fossero invece scivolate lontane come
acqua da una cascata. La mascella è stretta e contratta, ma ancora
inaspettatamente nei suoi occhi non c’è traccia di rabbia, livore e tantomeno
di quella sana pena che mi spingerebbe a reagire stizzita e nervosa. È fiero
come il sovrano legittimo che viene trascinato in catene al patibolo, ma non
abbassa lo sguardo per guardare negli occhi il suo boia. Non tinge neanche
un’eco delle sue parole di un velato rimprovero o piuttosto di una qualsiasi
sfumatura di accusa: si limita a constatare i fatti e basta, apparentemente
senza alcun trasporto emotivo. Con perizia chirurgica, disseziona i miei
sentimenti, sentenziando poi, clinicamente consapevole, l’impossibilità che io
guarisca dal mio cancro terminale.
Non sono
abituata a tutto questo, non ci sono
abituata. Sono drammaticamente
abituata ai segni esteriori che Draco mi dà, alle sue espressioni
apparentemente fredde, ma celanti i suoi intimi pensieri che si rivelano,
d’improvviso limpidi, in un cenno del capo, in un’alzata di sopracciglia, in una
parola sfuggita.
Sono anche
abituata alla chiarezza rancorosa di Ron, come ero abituata alla superficiale
profondità di Dean.
Ilai non è
così, è completamente diverso. È geloso di sé stesso, specie della sofferenza,
del dolore, della rabbia… delle sensazioni negative, insomma. È sempre teso a
dare un’immagine di sé di distensione e trasparenza. Ed è sicuro, inflessibilmente
sicuro di sé e di ciò che lo circonda, mentre collega particolari e dettagli ed
arriva alle conclusioni con uno spirito d’osservazione acuto ed affilato. E
vive della teoria che ha interiorizzato.
Un po’… come… me.
Mi chiedo
improvvisamente se sia venuto a cercarmi, se abbia intuito che ero con Draco,
se pensa che le cose adesso con il padre di mio figlio siano a posto, se è
convinto che ci siamo riappacificati.
E mi rendo
conto che al momento non saprei che dire se mi facesse una domanda diretta
sullo stato in cui siamo. E’ facilissimo per me e Draco capire dove siamo:
abbiamo un passato di gradazioni di grigio nel definire noi stessi che ci aiuta
a non dover e voler trovare definizioni.
Ma Ilai è bianco o nero.
Per i suoi
gusti, ha vissuto fin troppo nell’aura dell’irrisolto, dell’atteso,
dell’inspiegabile.
Se l’ha
accettato fino ad ora, è stato solo per me.
Ma ora basta. Neanche io valgo questo sacrificio di
quello in cui crede.
Mi andrebbe
bene anche così se non fosse per questa maledetta spina dentro che mi impedisce
di lasciarlo andare con una incantata bugia, piuttosto che con la verità.
Fargli
credere che tra me e Draco è tutto risolto, che lui non ha mai contato troppo
per me… sarebbe una bugia. Ma lo libererebbe, lo salverebbe, gli permetterebbe
di farsi una rapida ragione della mia morte. La verità, invece, lo legherebbe
ancora.
Ma poi… in fondo… io la conosco questa verità?
Sono davvero in grado di dirgli che cosa è per me?
Sono davvero disposta a lasciar andare parole che non
torneranno più indietro da me, innocue ed inoffensive?
Mi stringo
nelle spalle a disagio, incapace di fare o dire qualsiasi cosa per la prima
volta nella mia vita: con Draco so sempre che fare e che dire. Al massimo, non voglio dirlo o farlo.
Ora, invece,
ogni gesto ed ogni parola sono armi a doppio taglio.
Ilai guarda superficialmente
le mie dita sul colletto della sua camicia ancora artigliate neglettamente,
come se si reggessero a stento. Le stringe di scatto tra le sue con un
movimento veloce e rapido, senza neanche tornare ai miei occhi. Non faccio
neanche in tempo a rendermi conto di che cosa sta accadendo o a percepire quell’ombra
piacevole di calore delle sue mani, che lui le lascia andare, facendomi
immediatamente intuire che voleva solo che mi staccassi dal suo petto. In
silenzio, con calma, mentre lo osservo di sbieco ad occhi sgranati, lo vedo
alzarsi in piedi con decisione, chiudersi la camicia e fare qualche passo come
se stesse tornando indietro verso la casa.
Ancora
seduta sul fogliame sparso e secco, mi volto di scatto su me stessa seguendo la
sua schiena che inizia piano ad allontanarsi. Un raggio improvviso e subdolo di
sole mi ferisce gli occhi, costringendomi a socchiudere le palpebre.
Sole. Alba. Tra poco è finita.
“Aspetta…”
mi sollevo in piedi in modo così brusco da avere un capogiro. La sua schiena
che si ferma mentre mi ascolta, calma un po’ di quell’insopportabile panico
ansioso nello stomaco.
“Aspetta…”
ripeto senza fiato, una traccia di lacrime inesplose nella voce flebile.
Che cosa dovrebbe aspettare, adesso? Scuse, promesse,
rassicurazioni, addii?
Lascialo andare Hermione, basta. Smettila una dannata
volta.
… sarà sempre Draco no? Sarà sempre lui, vero? È così che
l’hai sempre pensata e sempre la penserai. Ed allora lascialo andare. Smettila.
Contraggo le
spalle con ritrosia mentre quell’esortazione interiore si perde nel fondo di me
stessa, baluginando debole ed inascoltata nell’incoerenza maciullata che è
diventato adesso il mio cuore.
Ilai si
lascia andare ad una risata priva di allegria che ha l’effetto di rompere
l’incantesimo quieto a cui si era sottoposto. Si volta verso di me, incredulo,
sorpreso, più vivo di quanto l’abbia mai visto. Serra ancora la mascella, si
scompiglia i capelli con risentimento come se esitasse solo per dignità sepolta
a strapparseli dal capo. Respiro di nuovo sollevata, forse perché mi merito che
lui sia arrabbiato con me, o perché con il livore riesco ad averci meglio a che
fare.
O semplicemente, ho bisogno di sentire quello che prova
per me, qualsiasi cosa sia.
Ilai ancora
ridacchia, allarga le braccia in un gesto di contemporanea resa ed afflizione,
poi le fa ricadere mollemente lungo i fianchi, sfibrato e stanco. Mi guarda dal
basso delle ciglia nerissime, prima di sussurrare con voce dura: “Perché?
Perché non è abbastanza sentire il suo odore addosso a te? Non è abbastanza
vedere che è già cambiata la tua voce, o come mi guardi, o come mi sfiori? O
devo sorbirmi anche la pietà, la colpa, la pena? Risparmiamelo. Almeno questo,
per favore… risparmiamelo…”.
Un brivido
si arrampica gelido sulla mia schiena, non ha mai usato questo tono di voce con
me. Credo anzi che non l’abbia mai usato con nessuno neanche una volta nella
sua vita. Neanche con Draco, seppure era percettibile dalla contrazione dei
muscoli delle spalle quanto in realtà avesse voluto essere molto meno che
pacato ed educato. Con me a maggior ragione è sempre stato dolce, calmo,
gentile. In un modo che mi ha fatto abituare alla sua voce, così da ripetermela
nella testa come una ninnananna quando avessi timore o ansia. Ora, questa voce
nuova, ferrea ed arcigna, non la riconosco. Neanche le parole che mi ha detto,
le ho davvero sentite. È bastato il tono per farmi rabbrividire, mentre mi
chiudo la mano sul petto, stringendo la camicia rossa.
Io davvero traggo fuori il peggio dagli uomini.
Cosa speravo? Cosa pensavo in fondo? La morte vicina può
rendermi vigliacca ed egoista, può avvicinarmi Draco, può farmi perdonare da
Ron: ma non può darmi tutto. Certo non può darmi lui, qualsiasi maledetta cosa
io davvero voglia da lui.
Questo qualcosa che non permetterò a me stessa di
conoscere compiutamente. E tantomeno a lui.
Una parte di
me neanche tanto piccola è rincuorata dalla sua rabbia: sarà molto più facile e
semplice accettare la mia morte se mi odia.
Respiro a
fondo, cercando di tornare lucida. Come poco prima con Draco, mi impongo di
dire tutto ciò che so che potrebbe tenerlo lontano. Così da salvarlo da me
stessa. Così da liberarlo.
Nascondo nel
fondo di me stessa la forza, la decisione, l’orgoglio, la determinazione. Fingo
un’insopportabile tremore della voce, una debolezza volubile, l’acuto singulto
di una donna capricciosa che non sa neanche lei che cosa vuole dalla vita.
Forse in
fondo è davvero così… o forse ho paura davvero ad ammettere con me stessa che
cosa voglio.
Non importa
quale sia la risposta.
Devo solo lasciarlo andare.
Faccio
tremare il mio labbro inferiore con uno studiato broncio da bambina, mentre
pigolo fastidiosa persino alle mie orecchie: “Non è cambiato niente tra me e
te. Niente…”, lascio che un singhiozzo calcolatamente falso ed eccessivamente
patetico interrompa le mie parole. Mi asciugo le lacrime e mi giustifico
sommariamente: “Le cose… sono sempre state chiare, dall’inizio. Non è mutato di
una virgola quello che sentivo per lui… e quello che sento per te…”.
Ilai scrolla
il capo con un sorriso diverso da quello che gli ho sempre visto addosso.
Il suo
sorriso consueto è malinconico, un po’ triste, spruzzato sempre di un po’ di
amarezza mai del tutto ripudiata. Adesso invece indossa un sorriso storto che
non arriva agli occhi, più simile ad un ghigno ferino. Un sorriso che mi fa
rabbrividire e chiudere nelle spalle come se fossi al centro esatto
dell’inferno. Respira a fondo con espressione saputa, scuotendo il capo come se
non credesse alle sue orecchie, come se avessi profuso e difeso la più
menzognera delle eresie.
Come se avesse capito che cosa sto facendo.
Sgrano gli
occhi, non può essere che l’abbia capito,
e resto improvvisamente a secco di parole, terrorizzata e spaventata. Non
posso tenerlo lontano nell’unico modo che conosco: le bugie, a celare la
verità. E la verità è scomoda, sgusciante, viscida.
Non posso permettermi di capire sul serio che cosa provo
per te.
Mi basta Draco. Mi basta lui. Mi basta il dolore che mi
provoca lui.
Mi deve bastare lui.
Basterà ad uccidermi che debba perdere lui.
Non farmi pensare ad altro, adesso.
Ti prego.
Mi abbraccio
goffamente, sfregando le mani sulle braccia, ancora un intollerabile freddo
nelle ossa.
Ilai solleva
il capo, chiude gli occhi e poi li riapre, spiando dei ritagli di cielo tra le
chiome degli alberi. Ha la voce incerta, farinosa, soffocata, quando riprende a
parlare non guardandomi neanche per sbaglio: “Tatia diceva che ogni uomo ha
cinque destini. Quello del cervello: la mente, la ragione, il calcolo. Quello
del cuore: l’affetto, l’onore, l’amore. Quello delle ossa: gli avi, la
tradizione, i doveri. Quello del fegato: l’istinto, l’intuizione, la
premonizione. Quello del sangue: il caso, l’occasione, l’opportunità…”, prende
fiato, sorride come se inseguisse un ricordo lontano, tira su con il naso.
Poi,
d’improvviso, i suoi occhi lasciano il cielo, sfuggono i miei, si incatenano al
tappeto di foglie secche che calpesta con ferocia, spostando il piede avanti ed
indietro come in preda ad un tic nervoso. Sibila irrequieto, la voce che a
malapena mi raggiunge le orecchie per quanto è rancorosa e fioca: “Lei mi ha detto di ricordare la cannella
bruciata… cucinava una torta di mele, stava aggiungendo la cannella alla crema
pasticcera, mi dava le spalle ed era china sul fornello della cucina. Aveva una
schiena ampia, abbronzata. Seguivo le linee che univano nei ed efelidi, con la
voglia di baciarle una ad una. Mi ero incantato ad osservare quella piccola
donna bambina che era mia moglie: i suoi piedi nudi, la schiena scoperta, i
capelli castani lisci, la pelle olivastra. Poi un odore strano: la cannella che
bruciava. Mi avvicino a lei. Aveva gli occhi vacui, persi, lontani. L’ho scossa
per le spalle, le ho allontanato la mano dal fuoco, l’ho fatta sedere. Mi ha
guardato come se non mi vedesse, piangeva. Ogni
uomo ha cinque destini. Non si sa se li incontrerà tutti. Le persone tranquille
ne vivono e scelgono uno. Quelle felici ne trovano uno che ne comprende cinque.
Tu ne avrai tre. Sangue, cuore, fegato. Io sono stata il sangue. Ci sono altre
due vite, fuori di me, dopo di me, al di là di me. Questo mi disse. Poi
chiuse gli occhi, finse di tornare alla normalità, come se non ricordasse la
visione. Ma la sua schiena tremava, i piedi tremavano, la pelle tremava tutta.
La baciai, facemmo l’amore sul tavolo sporco di farina. Non mi importava del
destino, era lei il cuore. Lo era sempre stato…”.
Lo osservo
senza capire, stringendomi ancora, gli occhi sbarrati. I suoi finalmente
tornano al mio viso, stringe i pugni, ha la pelle del volto chiazzata e plumbea
come se si stesse trattenendo dal colpirmi. Stento a riconoscerlo, mi sembra di
trovarmi di fronte ad una persona completamente nuova. E di cui non so
assolutamente che cosa aspettarmi e che cosa temere.
Un brivido
freddo mi trapassa da parte a parte, facendomi rendere conto che sono io che
l’ho ridotto così. Continuo a guardarlo, il cuore che mi fa inaspettatamente
così male da darmi l’impressione che si sia spezzato a metà. Ed ero davvero
certa e sicura che ormai quello che c’era da soffrire, io l’avessi già alle
spalle. Invece non si smette mai.
Non smetto
mai di fare male a chi… a chi tengo, a
chi voglio bene, a chi amo?
Sussulto
serrando gli occhi a contenere quella spinta di domande affollate nella testa,
mentre Ilai fa qualche passo incerto verso di me, i pugni sempre chiusi,
l’espressione di un gargoyle di pietra. Nemmeno riesco a ritrarmi, a farmi
indietro, a sottrarmi al suo viso stravolto e al suo sguardo feroce. Resto
saldamente incollata al suolo, come se improvvisamente fossi ansiosa che mi
uccida meritatamente lui, e non Adamar. La sua voce è ormai modulata su uno
sbigottimento incancrenito, su una disperazione malvagia che mi colpisce come
un’onda lunga, frantumandomi come se fossi di sabbia e sale. Azzarda persino
una risata amara, mentre sputa fuori cercando risposte nei miei occhi: “E poi
Tatia mi lascia e scrive una lettera a te… muore, e scrive una lettera a te. A te che non eri nessuno per me. Come io che
adesso non sono nessuno per te. E dice: “Ricordati
della cannella bruciata”. Ed allora… dimmelo… quale sei tu? Quale destino
sei tu?”.
Me lo chiede
sul serio ormai a pochi passi da me, sempre con i pugni serrati, l’espressione
stralunata. Noto ancora un rivolo di sangue ferirgli le labbra, e mi sembra
adesso inconcepibile che io quelle labbra so di che cosa sanno, ne so
perfettamente il sospiro e il sapore, so anche come sarebbe stato desiderarle,
so che non mi sono concessa davvero di volerle. Però, ora, quella dimensione
sembra una fantasia di purgatorio in questa parentesi di limbo infernale. La
sua rabbia, il suo livore, la sua determinazione a darmi colpe, dovrebbe solo
che rendermi felice e contenta.
Invece la
determinazione con cui mi sputa addosso questa domanda senza alcun retro
pensiero ironico, senza remore, senza coscienza del futuro o memoria del
passato, ma come se davvero mi chiedesse che cosa siamo l’uno per l’altra, mi
inchioda come un Cristo in croce.
Balbetto il
suo nome e basta, incapace anche solo di pensare ad una miserrima risposta che
possa farlo fluire lontano da me.
L’ho già legato a me. È già legato a doppio filo a me.
Morirò io… e morirà anche lui.
Indipendentemente se si salvi o meno, ammazzerò una parte
di lui.
Io… sarò per lui quello che è stato Draco per me.
E sarà una condanna. Per sempre.
Se non si può stare assieme, diventa una condanna.
Non c’è nessuno che lo possa sapere meglio di me.
E io non sono riuscita a salvare almeno lui.
Un vento
improvvisamente caldo mi soffia un riverbero di polvere sul viso, obbligandomi
a sfregare gli occhi, mentre mi chiedo dove sia finita l’alba e il tempo
stesso. Tutto resta congelato, niente si muove a strapparmi via da qui, così da
impedirmi di versare queste lacrime confuse nella polvere del vento, mentre
ancora fingo pateticamente che io non abbia nulla di cui dolermi adesso.
Ilai abbassa
la voce, mi guarda di lato come se non sopportasse la vista dei miei occhi
lucidi e sospira come ispirato: “O meglio… non sei un destino. Sei una maledizione. Una disgrazia.
Questo sei. La colpa di aver fatto uccidere la donna che amavo che torna
indietro a punirmi…”, sobbalzo e chiudo gli occhi, come se mi avesse pugnalata. Diventa sempre meno lucido mentre
parla, cammina avanti ed indietro come un prigioniero prima della pena
capitale. Ha la voce distratta di chi parla con i morti, di chi bestemmia i
vivi, di chi è vittima di rimorsi perversi e crudeli: “…ma a quanto pare non
era abbastanza, non era abbastanza perdere la donna che amavo per colpa di
Karkaroff. No, non era abbastanza… magari semplicemente sono io che non sono
mai abbastanza…”. Mi guarda d’improvviso con irrazionale chiarezza, un sorriso
bieco sul viso: “Questo allora sei tu.
Un maledetto incidente sulla strada della mia vita. Mi danno sempre qualcosa e
me la tolgono…”. Non riesco più neanche a fingere di non stare piangendo, mi
appoggio all’albero alle mie spalle, soffoco i singhiozzi nel palmo aperto
della mano, mentre lui bestemmia il cielo, Tatia, me. Tutte e due assieme, nello
stesso maledetto calderone di odio e dolore.
“Questo
volevi dire, Tatia? Questo volevi dire? Che ho il destino di masticare cose mai
mie?” urla con il fiato che si spezza, gli alberi testimoni silenti e il cielo
una cappa argentata “Perché sei venuta da me in Finlandia, eh, Hermione? Perché
non te ne sei stata a casa tua, nella tua bella vita, eh, a sognare quell’uomo
che ti ammazza anche solo guardandoti, respirandoti vicino, eh? Perché non mi
hai lasciato in pace? Perché non mi lasci in pace? Io sono quello che guarisce
le ferite, che si accontenta delle briciole, che va anche bene così…”, la sua
voce si abbassa di nuovo, diventa solo un rantolo scomposto ed incomprensibile:
“Va anche bene morire domani, basta che torni viva e salva e sua… questo sono io… e tu sceglierai sempre
lui, sempre lui, che ti spezza il cuore che io ti rimetto assieme. Questo è il
destino, Tatia? Questo era il destino?”.
“Smettila!
Sei ingiusto!” mi ritrovo a gridare senza averlo premeditato, senza che io mi
sia resa conto di essermi staccata dall’albero e di essermi fermata davanti a
lui.
Solo con
l’anelito spavaldo della sopravvivenza, prima che finisca di farmi a pezzi.
“Nessuno ti
ha mai trattenuto! Potevi… potevi andartene quando volevi!” farfuglio ancora,
spiando i suoi occhi alla ricerca di un minuscolo segno di cedimento che mi
farebbe affondare ancora di più con le mie parole nel suo fianco scoperto “Puoi
andartene anche adesso! Fallo! Vattene! Ti prego, vai via!”.
Lui mi
guarda con una nuova crudeltà che gli distorce il viso in tratti persino
sadicamente divertiti. Rabbrividisco, percependolo più vicino di quanto mi
aspettassi: persino quel metro che mi separa da lui mi sembra d’improvviso
troppo poco, come per paura che davvero mi faccia del male.
“Avrei
davvero avuto quest’alternativa?” sussurra con voce salda, una replica deforme
di quello che mi disse settimane fa, quando volevo andare con lui in Finlandia.
L’ho davvero pensato? Ho davvero pensato di andare via
con quest’uomo che non conosco affatto?
Questa nuova
paura prosciuga tutta la fiducia incomparabilmente immediata che avevo per lui.
Ma, poi,
all’improvviso, come il sole che torna dopo un’eclisse, come l’aria che d’un
tratto si fa più tiepida e leggera, il suo viso dismette rabbia e disperazione
e torna calmo, impassibile, freddo. Più simile a quello a cui sono abituata. Abbandona
le braccia lungo i fianchi, mi guarda con il dolore dell’incomprensione che ha
velato la sua espressione mentre mi sentiva chiedergli di andare via.
Non può farlo. Non può andare via. È condannato. Come…
me.
Torna sé
stesso, come se il livore fosse fluito fuori dal suo corpo al pari del veleno
succhiato via di una vipera. Si bagnano di una patina di lacrime i suoi occhi
scuri, ringiovanendolo e rendendolo più simile ad un bambino.
Si arrende,
si lascia andare… e mi fa più paura adesso di quanto non mi abbia fatto mentre
urlava.
“Credi che
ce l’abbia un’alternativa?” mormora al vento, sollevando un braccio come ad
accarezzarmi il viso, ma fermandosi subito dopo scuotendo il capo.
Guardo la
sua mano, e poi il suo viso, il cuore che mi soffoca in gola.
“Sei una
stupida…” aggiunge lieve, ed è tenero, dolce, bellissimo. No, non esserlo, odiami, torna ad odiarmi, ti prego. “Sei tanto
intelligente e bellissima, e tutto… ma sei una stupida…”, non guardarmi così, “Credi davvero che me ne sarei mai potuto
andare via? In qualunque momento? Adesso? Domani? Mai?”.
“Perché,
maledizione, perché?” chiedo ed urlo, grido, stringo i pugni, come a voler
recuperare quel soffio nefasto di odio che lo animava fino a poco fa. E che era
la miglior cosa possibile.
Lo era… perché io che fingo una debolezza che non ho e
lui che finge di odiarmi, erano le sole bugie pietose che potevamo concederci,
come carinerie dell’addio.
La verità farà molto più male delle bugie.
Perché è a
quel punto che lui urla molto più forte di me, molto più forte di quanto abbia
fatto prima, senza che i suoi occhi cambino, senza che si nasconda più, senza
che metta ancora bugie a guardia armata del suo cuore.
“Perché ti
amo!”.
Non mi potrà mai odiare. Non se ne potrà mai andare.
Mi sembra
che il mondo stesso abbia preso a tremare dal contraccolpo del suono delle sue
parole, ed io, sciocca, piccola, inconsistente, posso solo tremare a mia volta,
come una foglia nella tempesta, attaccata all’albero padre solo per un
peduncolo fatuo di puntiglio. Respira a fatica come se fosse in apnea, come se
quelle due parole fossero una corda attorno al collo che impicca e toglie vita.
Il mondo, alla fine, è bianco e nero:
non c’è più alcun confortante grigio, dietro al quale nascondersi.
Non c’è più niente.
Dischiudo le
labbra mentre lui mi guarda spaventato, atterrito, implorandomi con lo sguardo.
E vorrei davvero sapere che cosa dire, vorrei davvero che tutte le parole non
si fossero prosciugate come un rigagnolo sporco, inaridendomi dentro,
lasciandomi riarsa e secca come steppa. E poi, in una fulminea consapevolezza
malata, comprendo che non mi sta
implorando di dire qualcosa.
No. Mi sta
implorando esattamente del contrario. Di non dire nulla. Di restare in
silenzio. Di scappare lontana, fingendo che le sue parole non esistano. Fingi ancora. Fingi. Salvati.
È quello che
mi fa in mille pezzi, come se davvero fossi in trappola e non ci fosse mai
stata data né scelta, né possibilità. Qualsiasi cosa io faccia, qualsiasi cosa
io dica o non dica… io lo dilanierò, ugualmente. Nello stesso identico modo. Ed
allora scoppio in lacrime, singhiozzo e trovo contro la mia schiena l’albero
familiare di poco fa, quello sotto il quale lo stavo curando e sotto il quale
ero virtualmente al sicuro: potevo ancora andare via, prima che tutto mi
esplodesse in faccia. Nascondo il viso nelle palme aperte e poi sento i suoi
passi avvicinarsi, fermarsi di fronte a me, chiudermi stretta tra la corteccia
e il suo corpo, come se solo così, solo stringendomi, possa far fermare il
tempo e non farmi piombare la condanna di Adamar sulla testa.
Come se,
come sempre da quando mi conosce, mi facesse scudo con tutto sé stesso a tutto
quello che minaccia di farmi del male. Persino sé stesso.
Piango,
singhiozzo, e non mi azzardo a muovermi, non voglio neanche respirare. Le mani
mi chiudono il viso, lo nascondono pietose, mi impediscono di vedere il suo
viso scolpito da quelle parole.
Ti amo. Lui mi ama.
Le sue
braccia mi cingono alla vita, sprofondo con il viso nel suo petto ferito, ferita la pelle, ferito il sangue, ferito il
cuore, e resto con le mani sul viso, pur di impedirmi di sentire il suo
odore, pur di confonderlo nelle lacrime, pur di non smettere di respirarlo come
la cosa sola esistente. Si piega su di me, il viso nell’incavo della mia
spalla, e le sue lacrime scivolano lungo la pelle del mio collo, facendomi
rabbrividire, costringendomi a non impormi minimamente di smettere di piangere,
pur di non lasciarlo solo in tutto questo. Il suo peso su di me è così forte,
come se d’un tratto non avesse più forza e si abbandonasse del tutto, che, non
riuscendo più a reggerlo in piedi, scivolo con la schiena contro l’albero e
ricado seduta sulle foglie secche.
Ilai mi tiene
ancora stretta al suo petto, mi respira nei capelli, mi implora con voce
spezzata: “E non ti azzardare a rispondere, a parlare, a dirmi niente, mi hai
capito?”, nego con il capo, singhiozzo, mi sforzo di dirgli qualcosa ed ancora
le lacrime confondono le parole, e lo squarcio dentro fa rovinare fuori quelle
poche preimpostate ed asettiche che mi sono trovata per caso, tra quelle di
convenzione e quelle di abitudine.
Ilai mi
stacca il viso da sé, mi guarda piangendo a sua volta, tenta goffamente di
asciugarmi le lacrime con i pollici, con il dorso delle mani, con le labbra:
“Mi hai capito, Hermione? Non ti azzardare a dirmi niente, non te lo permetto.
Vattene con lui, amalo, mi hai capito, amalo… perché devi tornare, domani devi
tornare. Ed allora dimentica, non ti ho mai detto niente, non ci pensare… devi
tornare. Devi tornare. Dimentica, non è vero… non ti amo, mi hai capito? Io non
ti amo… era una bugia…”.
Nega con il
capo come un bambino piccolo, come se quelle parole se le potesse rimangiare
sul serio, come se potessero sparire così come sono nate. È febbrile,
disperato. Lascia la presa sul mio viso, e si stringe violentemente le mani nei
capelli, strappandoseli dal capo. L’unica cosa che non riesce a smettere di
fare, è muovere la testa a destra e a sinistra, negando, spergiurando,
implorando che mi dimentichi che cosa ha detto e finga che non esista.
Mi spezza il
cuore ancora più di quanto abbia già fatto, e lo immobilizzo, prendendogli il
viso tra le mani, cancellando le sue lacrime con le dita come ha fatto con me.
Lui si aggrappa ai miei polsi, mentre sussurro protettiva: “Ilai, smettila, per
favore. Calmati, guardami…”.
Torna a
guardarmi, mi accarezza gli zigomi, sfiora con le dita la pelle della nuca e i
capelli, e tinge gli occhi di fallace decisione mentre mi fissa negli occhi,
come a trapassarmi da parte a parte, come a cercare di convincermi sul serio:
“Io non ti amo”. Gli sfioro il viso, piangendo, annuisco come se effettivamente
fossi davvero certa di quello che sta dicendo, come se mi avesse
definitivamente persuasa.
Gli bacio la
fronte, gli accarezzo i capelli, non lascio che sfugga i miei occhi: “Shhh,
tranquillo. Calmati”.
“Non ti amo”
ripete ancora, la fronte contro la mia, gli occhi però disperatamente aperti,
fissi nei miei come frecce alla ricerca di un bersaglio.
“Lo so.
Neanche io” glielo garantisco, veloce, rapida, con decisione, con ferocia, con
coraggio.
“Io non ti
amo” sussurra di nuovo, stanco, sfibrato, gli occhi che non riescono a stare
aperti sotto il peso delle lacrime, le dita sul mio viso che sussultano e
tremano.
“Neanche io”
bisbiglio gentile, gli occhi chiusi, le mani bagnate che lo accarezzano
rassicurante, calma e paziente, mentre il mio respiro si confonde caldo con il
suo.
Lo bacio
prima ancora di capire che cosa sto facendo, lo bacio prima ancora che la voce
della ragione mi ingiunga che è sbagliato, lo bacio prima ancora di capire che
così farà ancora più male dopo.
Lo bacio con
la stolta consapevolezza che sto morendo, e che tutto mi è concesso. Lo bacio
con tutto l’amore che gli ho negato, e che non potrò mai dargli.
Lo bacio,
come non ho potuto baciare Draco ore fa. Lo bacio, come non ho potuto salutare
mio figlio prima di morire. Lo bacio, come tutti quei baci mai dati a Ron, a
Dean, ad Hayden.
Sento che
trasale sgomento nel sentire le mie labbra premere contro le sue. Sento persino
che cerca di allontanarmi. Sento, poi, la quieta stasi eccezionalmente dolce di
sentirsi baciato da me per la prima volta in assoluto, senza che sia stato lui
a cominciare, dandomi alibi e scuse.
Sento che
capisce che non mi posso fermare o allontanare, neanche con il pensiero,
neanche per un momento.
E poi sento
che si arrende, sento che non ce la fa, sento che dischiude le labbra e sento
che finalmente lo assaporo intimamente, completamente, follemente. Sono rapida,
folle, disperata, e lui mi risponde nello stesso identico modo in un bacio che
non ha nulla di gentile, quieto o dolce, diversamente da come è stato fino ad
ora tra me e lui.
Sempre soffi di amore gentile per paura che ci
capitassimo nel cuore.
Ora invece è
mangiarsi l’anima a vicenda, strapparsela di dosso prima che ce la strappi
qualcun altro. Stringo le mie braccia attorno alle sue spalle, gli rovino
addosso, accolgo le sue mani sulla mia schiena, mentre giocano con la pelle
riarsa. E piango, e non smetto, e non mi faccio domande, e lo bacio e basta, e
gli gravo con il mio peso addosso, prima che con bramosia, con desiderio, con
foga, lui inverta le posizioni e mi rovesci sulle foglie secche che si
frantumano al mio tocco. Lo sento con una parte remota della mia testa scendere
sul mio collo, baciarmi la linea delle clavicole e poi, con decisione violenta
e febbrile, strapparmi di dosso la camicia, mentre scende sul mio seno, respira
sul mio petto, bacia la mia pelle.
E mi chiedo,
spogliandolo a mia volta, perché me ne sia privata fino ad ora, perché non
l’abbia preso prima di adesso… e non ricordo il motivo, faccio forza sulla mia
memoria ma non ricordo il perché. Esco e rientro dentro a me stessa, come se
perdessi coscienza a tratti, come se fossi nel buio di un mare lontano dove la
luce di un faro fiorisce a fiotti fulminei nella tempesta. Mi sento nuda ed
infreddolita tra le sue braccia, lo sento nudo ed infreddolito tra le mie,
eppure è come se fosse tutto troppo luminoso per tenere gli occhi aperti, ed
allora li chiudo, e lo sento entrare in me, e so che è lui, e so che lo sento,
e so che è dentro di me fino ad un punto nascosto e celato della mia anima, ma
nello stesso tempo è come se non ci fosse, è come se mi cingesse il mare, o la
terra, o la sabbia, o l’Universo tutto, e io non esistessi più. Sotto le
palpebre chiuse, nella trama di luce accecante, si intrecciano immagini e
suoni. E mentre lo sento spingersi più a fondo dentro di me, quelle immagini assumono
chiarezza, consistenza, lapidarietà di dogmi di fede. Si accompagnano alle sue
parole, alla sua voce sofferta, all’eco delle sue spinte in me che quasi non
percepisco più, quasi si spengono, quasi muoiono come ad assomigliare al
dondolio di un’altalena o al ritmo di un’onda spumosa di mare.
È così che doveva andare,
dice. E non capisco che sta dicendo, so solo che non riesco ad aprire gli
occhi, so solo che c’è troppa luce, e lui ripete ancora “E’ così che doveva andare”. Ondeggio come se fossi immersa in
oceano caldo, annegando in sprazzi di piacere e deserti di dolore. Ed
improvvisamente, nel mio sguardo umido e fosco, quelle immagini che tenevo
fuori mi filtrano nel cuore, tramortendomi, svegliandomi, facendomi annaspare.
Un paio di mani calde si poggiano sulle sue spalle,
facendola voltare su sé stessa, prima di stringerla forte per la vita. Come se
fosse un pezzo di vetro che continua ad andare in pezzi, cerca la
ricomposizione dei suoi frammenti ed abbraccia Ilai davanti a lei, chiudendo le
braccia attorno alle sue spalle. Singhiozza nella sua camicia, mentre lui le
accarezza piano i capelli.
“Ti avevo promesso che ti avrei portato via…” bisbiglia
delicatamente, non smettendo un secondo di abbracciarla “Ma sei tu che devi
chiedermelo adesso… puoi andare via, adesso?”.
Serro gli
occhi chiusi, lasciando sfuggire delle lacrime sospese, mentre rivivo quel
ricordo come se fosse accaduto ad un’altra persona: quello del giorno in cui
andai alla scuola elementare di Serenity per scoprire la verità su Draco e
Raissa. Quello in cui avevo detto di no ad Ilai, quello in cui avevo insistito
per sapere che cosa fosse successo. Stavolta, però, la voce di Ilai, dolce come
una ninna, mi culla altrove, mi porta in un posto ed in un tempo in cui non
sono mai stata.
Doveva andare in un altro modo.
Lo ripete
ancora e l’immagine cambia, diventa diversa da quello che ricordo essere
successo.
“Ma sei tu che devi chiedermelo adesso… puoi andare via,
adesso?”.
“Devo andare via, Ilai. Per favore, ti prego… portami
via… portami via da qui… ”.
La voce di
Ilai è dolce, malinconica. Dovevo
portarti via, quel giorno. Non dovevo chiedertelo e basta. Dovevo macchiarmi
del mancato rispetto di te e del tuo cuore. Dovevo strapparti via da qui, con
Alex, e portarti via. Tenerti con me. Restare con te, sempre. Non rispettarti
affatto, non rispettare quello che volevi. Sarebbe stato tutto diverso.
Succede
tutto così rapidamente, come se vedessi delle scene proiettate con il tasto
dell’avanzamento veloce, che non riesco più a capire dove sono o che cosa sta
accadendo. Non sento più Ilai dentro di me: lo sento ovunque, dappertutto
attorno a me. Afferro qualche immagine come se fossero pesci sguscianti,
baluginanti nel bianco.
Io a casa
sua in Finlandia. In quel letto bianco e rosso che aveva diviso con Tatia. Il
viso bianco di dolore, gli occhi rossi, come se mi acclimatassi perfettamente
ai colori della stanza. Lo sguardo ostinatamente fisso fuori dalla finestra, le
labbra dischiuse come se facessi fatica a respirare. La pelle trasparente di
chi è profondamente cagionevole, ma i tratti tutto sommati normali di chi ha la
malattia nel cuore, e non nel corpo. Vedo Alex, ed è a quel punto che davvero
singhiozzo e gemo come una bestia ferita, aggrappandomi alla sua immagine con
tutta la forza possibile: lo vedo ciondolare attorno al mio letto, cercare di
attirare la mia attenzione, ottenere in risposta solo sorrisi spenti. Vedo poi
Ilai prenderlo per mano, portarlo in giardino a giocare con Anya, sua sorella. Sarebbe stata dura all’inizio, continua
la voce di Ilai nella mia testa, e lo sento spingersi di tristezza ancora più a
fondo dentro di me, e non so davvero più che cosa sia, se carne, spirito, fiato
o sogno, sarebbe stato impossibile
all’inizio, perché il cuore non lo curi facilmente, non lo curi velocemente,
forse non lo curi mai davvero. Specie se uno hai il cuore che hai tu, che ami
una volta ed è per sempre. E nelle notti, dormendo su un divano, sentendo il
tuo respiro nella stanza accanto, mi sarei pentito di averti portato con me perché
mi sarei reso conto che non potevo strapparti amore dal cuore, non più, non per
me. Sarebbe stato uno stillicidio, una spina dentro. Eppure, non avrei potuto
fare a meno di te. Neanche se tu ormai eri solo quel respiro sottile da
uccellino nella stanza accanto. Ed un giorno avrei sognato Tatia, mi avrebbe
preso per mano. E mi avrebbe detto che facevo bene, che dovevo tenere duro, che
dovevo avere pazienza, che chi ama così ama sempre di nuovo. Non ci avrei
creduto. Ma non avrebbe fatto differenza o caso. Ti avrei amata lo stesso,
avrei amato un impercettibile movimento delle sopracciglia a sentirmi entrare,
avrei amato come non sobbalzassi a sentirmi entrare nella stanza, riconoscendomi.
Avrei amato il tuo passo leggero, come se temessi di disturbare. Avrei amato
persino le tue lacrime, se le potevo cancellare io. Ed avrei amato tuo figlio,
come se fosse il mio. Ci avrei visto solo te in lui e ci avrei inventato me in
lui, dimenticandone una paternità che non fosse quella che favoleggiavo per
lui.
Le immagini
riprendono, acquisiscono colore e velocità, e io rifiorisco come un bocciolo di
rosa. Più colore nelle guance, più rossore sulle labbra, più dolcezza nello
sguardo. Il letto finalmente lontano, abbandonato. Una stanza accanto a quella
di Ilai, qualche sorriso sparuto ma davvero sincero. Una corsa nell’erba, mentre
inseguo Alex che scappa da me ridendo. E lui, Ilai, lontano, la spalla poggiata
sul tronco di un albero, che mi guarda schermandosi gli occhi dal sole.
Un giorno avrei davvero pensato che ne eri uscita. Che ne
eri fuori. Che ce l’avevi fatta. Vi avrei portato vicino al fiume dove avevamo
davvero parlato la prima volta in cui eri venuta a Tampere. Avrei spiato
continuamente il tuo viso, come se temessi che fosse semplicemente troppo, che
magari non eri ancora pronta per uscire, che in realtà sarebbe stato meglio
aspettare ancora. E tu avresti avuto il volto bagnato del sole pallido del
maggio della Finlandia, ancora un po’ troppo freddo, ancora un po’ slavato, ma
almeno lievemente tiepido, almeno tenuamente mite. Saresti rimasta ad occhi
chiusi per un po’, come ad assaporare i profumi ed i rumori che non sentivi più.
Ed Alex ti avrebbe tirato una manica del vestito azzurro che portavi, perché avresti
sempre portato l’azzurro adesso, perché il rosso ti ricordava una vita che non
avevi più e io mi sarei rassegnato a non vedertelo addosso mai più. Avresti
aperto gli occhi, gli avresti sorriso, lui ti avrebbe detto una frase scherzosa
che ti avrebbe fatto reagire, vogliosa di vivere finalmente. L’avresti
inseguito, correndo nell’erba, sfilandoti le scarpe, calpestando rugiada e
facendo un salto per evitare dei fiori rossi. Lo avresti acciuffato dopo
qualche metro, facendogli il solletico per poi abbracciarlo, e vi avrei visti
lontani da me ma finalmente vicini. E mi sarei detto che potevi anche andartene
domani, tornare alla tua vita… ma ne valeva la pena. Ne era valsa la pena. Ti
avrei guardato, schermandomi gli occhi dalla luce del sole. Saresti tornata
indietro, dopo aver preso Alex in braccio. E il cuore mi avrebbe fatto un salto
in petto a vedere quel sorriso rivolto a me. L’avrei nascosto in un colpo di
tosse studiato, prima dell’effetto che aveva su di me quel sorriso. Il fiatone,
le guance rosse, con tuo figlio in braccio, mi avresti detto solo: “Andiamo a
casa, adesso…”.
Una casa
dalla porta azzurra, con una sola stanza da letto. Un letto dalla testata
bianca, con una foto di me con Seth, Pansy e Dean. Un’altra accanto di Ilai con
Alex. Due sole tazze sul tavolo, una blu chiaro ed un’altra più scura. Io con i
capelli più chiari e più lunghi, una cartellina di documenti in mano, un paio
di occhiali dalla montatura d’osso sul naso. Alex più alto, più robusto, con un
broncio spavaldo, mentre mi guarda con le braccia incrociate. “Mamma, io non ho
più bisogno della babysitter! Ho otto anni! ”. “Effettivamente tra poco dovrò
farti la barba…”. Risata di gola. Risata profonda. Risata vera. “Ed allora
portami con te! Perché non posso venire con te ed Ilai?”. Rossore, morso sul
labbro inferiore, sorriso timido. “Ti prometto che tornerò presto a casa…”.
Mi avresti detto che prendevi una casa da sola con Alex.
Mi avresti spezzato il cuore. Ma ti avrei lasciato fare. Te l’avrei lasciato
fare, e quel silenzio per casa sarebbe stato insopportabile, tremendo, fastidioso,
odioso. Avrebbe avuto eco e rimbombo nella notte, e vuoto e risucchio di anima
nel giorno. Però sarei stato felice, davvero. Ti avrei aiutato ad appendere le
foto alle pareti, ed avrei sbuffato di nascosto quando avresti scelto il letto
più ingombrante del mobilificio. Ci avremmo perso un pomeriggio a montarlo,
prima di mangiare un panino seduti per terra perché dovevano ancora consegnarti
le sedie. E, finita, la tua casa avrebbe profumato di mele e cannella, perché
Alex aveva rovesciato una boccetta di profumo nell’ingresso e, da allora, avrei
associato sempre quell’odore a te. Avresti ricominciato a lavorare, saresti
corsa da me a raccontarmi che lo adoravi, che non lavoravi da troppo tempo, che
di fronte al tuo ufficio facevano il cappuccino aromatizzato al caramello
migliore del mondo. Me ne avresti portato uno ogni tua pausa pranzo. Saremmo
usciti spesso con Alex. Cinema, luna park, museo della scienza. Ed una sera
qualunque, con tuo figlio addormentato sulla schiena, mi avresti detto senza
guardarmi: “Sono esausta di programmi da bambini! Ogni tanto avrei bisogno di
fare l’adulta… magari con te… ”. Avrei spalancato gli occhi, mi sarebbe andato
di traverso il respiro e tu saresti arrossita, avresti mugugnato qualcosa e poi
ti saresti ritratta imbarazzata, dicendo che c’era un doppio senso grosso come
una casa nella tua frase, ma volevi solo dire che avevi voglia di uscire con
me, da sola. Ti avrei chiesto se ne eri sicura, non ci avrei creduto davvero. E
mi avresti risposto dolce: “Non credi che sia arrivato il momento? Per me e per
te?”.
Un bacio al
sapore di caramello. Il buio di una casa dalla porta azzurra. Una risata
soffocata. Una porta chiusa su un bambino addormentato profondamente accanto ad
una ragazzina con l’apparecchio ai denti. Un divano che cigola terribilmente,
ed allora fare piano, in silenzio. Il suo corpo contro il mio, il mio viso tra
le sue palme. Sentirlo dentro, sentirlo davvero, come non sono sicura davvero
di sentirlo adesso, come sono certa di non sentirlo più adesso. La sua voce
spezzata da un gemito più forte di un altro. “Dimmelo solo una volta che mi ami
quanto hai amato lui”. “Non amerò nessuno come ho amato lui”. Un sobbalzo, lui
che tenta di alzarsi. Un bacio più profondo. Un sussurro sulla spalla di lui.
“Non voglio più amare nessuno come ho amato lui. Voglio amare tutto come amo
te”.
Forse la prima volta in cui saremmo usciti, ti avrei
portata a vedere un film in bianco e nero di quelli che ti piacciono tanto.
Però il terrore che fosse qualcosa che avessi già visto con lui o con un altro,
mi avrebbe fatto scegliere alla fine una commedia sciocca e stupida, tutto pur
di non vederti adombrare come tutte le volte che ripensavi a lui. Sarebbe stato
un film che ti avrebbe fatto irritare enormemente, perché sei femminista,
ambientalista o chissà che altro, e quel film sarebbe stato un’apoteosi di
luoghi comuni che detesti. E quindi niente ristorante di lusso prenotato in
anticipo. Avrei saputo che la cosa migliore era farti mangiare un hamburger in
una tavola calda, almeno potevi fare una conferenza su “come i film demoliscono
l’immagine della donna, figuriamoci se sono tutte così idiote come quella, io
per esempio al suo posto…”. Ti avrei ascoltato, perché se mi distraevo sarebbe
stato peggio, te ne saresti accorta, avresti messo su il tuo broncio da pesce
palla. Ma forse mi sarei distratto lo stesso ed allora te la saresti presa.
Però, ad un certo punto, dopo un continuo tentativo di farti parlare di quello
che non avevo ascoltato, mi avresti stretto la mano, così, dal niente, dicendo
che per farmi perdonare dovevo offrirti una cioccolata al caramello. Sarebbe
stato il sapore del primo vero bacio che ci saremmo dati senza provare dolore.
Mi sarebbe scivolato in gola, riempiendomi come un affamato. Ed allora avrei
dimenticato decenza, pudore, decoro, onore. E non avrei rifiutato quando mi
avresti invitato in casa tua, implorandomi di fare silenzio perché Alex dormiva
con la babysitter. Piccoli rumori soffocati, come due adolescenti impauriti dal
genitore… e ti avrei avuto su quel divano che ti avevo aiutato a scegliere e
che ora avrei voluto grande, comodo, silenzioso. Ma ti avrei baciato lo stesso
le dita ad una ad una. Avrei fatto lo stesso di tutto per non farti male, per
non schiacciarti, per spiare ogni ombra del tuo viso affinché sparisse,
morisse. “Dimmelo solo una volta che mi ami quanto hai amato lui”. Mi sarebbe
venuto fuori così, di istinto, mentre venivo dentro di te. E tu mi avresti
spezzato il cuore, dicendo che nessuno sarebbe stato come lui. E me lo avresti
ricucito, dicendomi che non volevi amare mai più come avevi amato lui.
Colori,
tutto è pieno di colori: e la voce di Ilai si fa più tenue nella mia testa,
come se d’improvviso stesse sparendo, stesse scomparendo, stesse evaporando.
Cerco di afferrarla, cerco di stringerla a me, cerco di stringerlo a me, ma non
c’è niente da fare. Diventa sempre più flebile, tenue. E piango, ancora,
sempre, mentre ancora, sempre, ogni immagine mi si conficca in un punto morbido
del cuore che non sapevo di avere più. Due fedi uguali, una più piccola e
l’altra più grande, entrambe di oro rosa. Fiori azzurri e bianchi. Un abito
lungo di satin, Anya che mi sistema un velo sulla testa piangendo. Ed un parco
d’estate con pochi amici, lui che mi aspetta dopo un tappeto blu. Alex più grande
ancora, ormai quasi adolescente, che mi porta all’altare. E io che sorrido a mio
figlio e ad Ilai, e poi getto un’occhiata distratta alle sue spalle, come se
fossi preoccupata per qualcosa. E poi sorrido ancora, rassicurata. Una bimba di
poco più di tre anni, capelli biondi, occhi nocciola-verdi, un vestitino giallo
limone, un broncio dispettoso. “Tatia non mi perdonerà mai per non averle fatto
fare la damigella”. Un sorriso, la mano guantata che stringe quella di Ilai.
Lui che sorride ancora, come mai l’ho visto fare. “Sarà alta un metro scarso…
ma non esiste essere più vendicativo di nostra figlia. Non credo che arriverai
viva al buffet…”.
E a quel
punto, sento risate, lacrime, canzoni, pioggia, baci, sorrisi, grida, compleanni,
urla, temporali, risolini, fruscii, rimproveri, gorgheggi, musica … vita che
scorre e passa, vita che in realtà non viene, vita che finisce. Ed io finisco
con essa assieme a lui. Sparisce la luce, sparisce il sole, sparisce tutto. E
ricompare lui, di fronte a me, le lacrime negli occhi. E non capisco perché io
sia vestita, e non capisco perché tutto sia bianco attorno, e non capisco dove
sia tutto il resto, e non capisco perché non riusciamo a smettere di piangere
occhi negli occhi, lacrime nelle lacrime. E non capisco nemmeno perché lui non
parli, eppure lo senta distintamente nella testa, nel cuore, dappertutto, mentre se ne sta con la
fronte poggiata alla mia, gli occhi aperti, le labbra serrate.
Questo era quello che ci meritavamo. Questa era la scelta
che dovevamo concederci di vedere. Questo è quello che non avremmo mai. E mi
sarebbe anche andato bene darti a lui, consegnarti di nuovo a lui, ma non darti
alla morte, ad un demone che ti faccia a pezzi. Ed allora sai che c’è? Non mi
interessa morire, salvarmi, tornare, andare, venire, vivere ancora. Non mi
interessa. Sia come sia. La mia vita era quella con Tatia, e non l’avrò. La mia
vita era quella con te, e non l’avrò lo stesso. Ci può anche essere un altro
destino là fuori, piccola, ma non mi interessa. Ci possono essere mille vite,
ma non mi interessano. Vorrei averti strappata via al destino di martire che ti
hanno dipinto addosso. Vorrei averti strappato via da lui, fregandomene del
resto, persino di te, facendo l’egoista, lo stronzo, l’insensibile, il
bastardo. Ma io non sono questo, no? Non lo sarò mai, vero? Non c’è destino che
ti possa cambiare, in fondo, da quello che sei dentro. Un destino che da tondo
ti renda quadrato. Un destino che da Ilai Radcenko ti faccia rinascere Draco
Malfoy. Un destino che ti leghi alla sola donna che non avrai mai e che ti
faccia morire con lei. Sebbene lei non l’avrà nessun altro, mai. Solo la morte
l’avrà: e la morte, come una maledetta e dannata ladra, ha preso l’abitudine di
togliermi tutto di dosso. Compresa te, che eri vita, meraviglia, terra alla
fine del mare appena scoperta. Compresa te, che eri riscatto, redenzione,
liberazione, ricompensa, premio. Ma non c’è mai niente di giusto al mondo. E
dovremmo smettere davvero di vivere così, tu ed io, a cercare sempre quello che
è giusto. E dovrei smettere io di fantasticarti qui, adesso, mia in un solo
istante, prima della scure del boia sulle nostre teste.
Tu, tutto questo non lo saprai mai. Perché non sono
questo, io. Sono quello che ti lascia andare, quello che ti dice che devi fare
ciò che credi, quello che non ti dirà mai nulla più del necessario.
Non lo saprai mai. Non lo sai. E in fondo non serve che
tu lo sappia.
In fondo ti è sempre bastato uno nella tua vita in
assoluto.
“Ti basta uno nella tua vita… in assoluto…”.
Tutto si lacera
con la forza di un uragano che si infrange sulla costa. Un enorme frastuono
nelle orecchie, e poi mi ritrovo di nuovo nel giardino di Draco, con Ilai di
fronte. Il volto tumefatto, i lividi che gli mangiano il viso, le labbra riarse
dal sangue, il colorito grigiastro. E io sono di fronte a lui, di nuovo, la
garza che mi è scivolata dalle mani, atterrando sulle foglie secche, dopo
l’allusione non voluta che ho fatto a Draco. Mi guardo attorno sbigottita, la
luce dell’alba è ancora lontana, sono perfettamente vestita, ho i capelli in
ordine, nessun bacio ha sfiorato le mie labbra, nessun ti amo ha varcato quelle di Ilai.
Sono di
nuovo qui a medicargli le ferite come quando? Un’ora fa, un anno fa, una vita
fa? Lo guardo ad occhi spalancati, le lacrime affacciate alle ciglia, il labbro
inferiore che mi trema senza controllo, mentre non riesco a capire che cosa sia
successo, se io abbia sognato, se sia stata solo la mia immaginazione, se
semplicemente io non stia impazzendo. Mi sento venire meno come se stessi
perdendo i sensi, e mi aggrappo di nuovo alla camicia di Ilai, guardandolo
disperatamente, alla ricerca di aiuto, spiegazione, soccorso.
“Che c-cosa
è…?” balbetto, non potendomi impedire di piangere ancora, gli occhi fissi nei
suoi, mentre cerco ancora di capire che cosa sia successo.
Ma lui
fraintende la mia espressione, pensa che sia terrore per quello che ha detto o
la confusione volubile che lo tiene ancorato a me.
Sorride
tristemente, mi accarezza la fronte e sussurra con stanchezza: “Non ti preoccupare,
era solo un commento stupido. E non ti preoccupare anche per me. Me la caverò.
Pensa solo a tornare sana e salva, ok?”.
Non
aspettando la mia risposta, si alza e torna verso la casa.
Lasciandomi
lì con i frammenti di una vita mai vissuta tra le mani.
E senza
capire se quella vita l’ho vista davvero o è stato solo un sogno.
… ed è lì
che, non so nemmeno quanto tempo dopo, mi trova Helder. Ancora seduta sotto
quell’albero, una mano poggiata sulla corteccia del tronco, lo sguardo
incantato e perso sul muschio sotto le mie scarpe. Sebbene la senta arrivare,
sebbene con la coda dell’occhio la veda avvicinarsi, non riesco comunque a
muovermi, ad alzarmi da terra, a fare qualsiasi cosa.
Sono
prosciugata da tutte le mie forze.
Helder di
primo acchito non si accorge di niente, si avvicina cauta forse solo perché
teme che io sia spezzata dalla prova imminente, o preoccupata per Alex, o arrabbiata
per il coinvolgimento di Ilai.
Perciò non
si cura granché di trovarmi seduta per terra, apparentemente lontana mille
miglia con i pensieri.
È prudente
ed attenta anche quando mi rivolge la parola, sussurra come se avesse paura di
disturbare: “Herm, manca poco all’alba… mi serve il
ciondolo di Tatia per individuare dove si trova Alex… ora mi serve che…”. Poi d’improvviso
si interrompe, la vedo aggrottare la fronte in preda alla confusione e alla
preoccupazione, ed allora mi impongo di sollevare lo sguardo simulando un
sorriso statico e tirato, mentre faccio leva sul braccio per alzarmi in piedi.
Le ginocchia mi tremano ancora, ma riesco per fortuna a reggermi ancora
diritta, quindi annuisco senza convinzione e faccio per muovermi per tornare
verso la casa. Il mio passo è ancora malfermo, traballante, incerto, ma lei non
mi sente empaticamente. Può scambiarlo per qualsiasi altra cosa, non per la sua
vera ragione. La vera ragione. Sicuramente
non lo può collegare ad Ilai. È Draco che mi ha sempre reso così, mai il
ragazzo russo dallo sguardo gentile. E neanche sono del tutto convinta che sia
stato davvero lui e non io. Non sono neanche convinta che sia davvero successo qualcosa. Fermo il
flusso di immagini che di nuovo mi colpiscono nella memoria, ed accenno un
cenno del capo ad Helder adesso di fronte a me, fingendo che significhi che
sono pronta ad andare. Ma Helder, invece, resta con la fronte corrucciata, mi
studia senza ritegno e fa un gesto d’impazienza rabbiosa ed impotente,
probabilmente perché non riesce a sentire che cosa provo. I suoi occhi difatti
sono del suo solito colore, non del mio. La Titanca funziona ancora, sono cieca
all’Empatia. Per fortuna. Quando le
passo accanto, mi afferra per un polso costringendomi a fermarmi. Mi guarda
ancora, sospettosa, alla fine l’Empatia è solo un surplus per lei. Mi conosce,
sa chi sono e sa anche che non è normale che io sia così… apatica.
Deve essere
successo qualcosa. Qualcosa che lei non sa.
Qualcosa che nessuno sa. Qualcosa che nessuno può sapere.
Me lo chiede
senza peli sulla lingua, senza esitazione, non lasciandomi il polso, come se
temesse che le possa sfuggire: “Che cosa ti è successo, Herm?!”.
Scrollo le spalle cercando di rassicurarla, non
dirò mai a nessuno che cosa è successo. A nessuno. Non lo deve sapere nessuno.
Neanche io.
Me ne devo dimenticare.
Se me ne dimentico, non è mai esistito.
Per quanto
però mi sforzi di fare uscire la voce e di dire una cosa qualunque per
rafforzare la mia fallace indifferenza, le corde vocali non rispondono ai
comandi. Me ne sto bellamente in silenzio, con il labbro che trema irrefrenabile,
gli occhi lucidi e la testa che si limita a negare debolmente.
Helder
allora alza la voce, si preoccupa sul serio, stringe di più la presa sul mio
polso, scuotendomi appena: “Non farmi preoccupare per favore! Che cosa è
successo?!”.
“N-nulla…
n-niente, s-sto bene…” assicuro con improvvisa risoluzione, sebbene non possa
impedirmi di balbettare e di avere una voce pigolante e gracchiante. Serro le
spalle e decido perlomeno di sincerarmi che quello che ho supposto sia
corretto. Sospiro a fondo ed aggiungo con un tono di voce casuale, ma
fastidiosamente tremante alle mie orecchie: “Volevo solo chiederti una cosa
prima di andare…”.
“Tutto
quello che vuoi…” mi rassicura lei, pensando alla prova, pensando a mio figlio.
Mi lascia il polso e mi guarda in attesa, un filo di apprensione negli occhi
che non accenna a spegnersi.
“Quello che
state f-facendo ad…” inizio, ma la voce mi manca al momento di pronunciare il
suo nome. Respiro, cerco di darmi un contegno, cerco di nascondere il
singhiozzo che già mi sta raggiungendo la gola. Riprendo con voce più stabile:
“Quello che state facendo… ad…”, ancora mi fermo, ancora la voce si spezza,
Helder mi guarda ancora ed improvvisamente il volto le si tinge di una
consapevolezza diversa, marcata, scavata.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Mi agito,
terrorizzata che capisca qualcosa. Ed allora finalmente la voce esce fuori
limpida: “Quello che state facendo ad I-Ilai… mi potrebbe permettere di sentire
i suoi pensieri? F-forse di vi-viverli addirittura?”. Riprendo fiato come se
fossi stata sott’acqua, il mio respiro decelera ed anche il mio viso riprende
colore.
Le spalle di
Helder si afflosciano come se avesse perso il sostegno del corpo. Eppure non
esita a rispondermi con finta nonchalance: “Probabilmente sì… qualche cosa di
confuso, fino a quando non siete vicini… qualche pensiero mozzicato. Stavamo
aprendo la connessione con la tua mente, ti ho già spiegato come dovrebbe
succedere, no? Deviamo la connessione che abbiamo con te su di lui. Probabilmente
qualcosa sarà fluito da lui a te… in modo totalmente inconsapevole. Radcenko
non può rendersene conto, sei cieca anche per lui. Ma dovrebbe essere finito
adesso… abbiamo finito, la connessione è stabilita. Siete Assonanti alchemici.
Un po’ di Telepatia empatica… ma niente di così forte se non siete stati
vicini. E tu… non gli sei stata vicina,
vero?”. Me lo chiede con un’ombra di panico, di terrore, di ansia.
Che significa essere vicini?
Che cosa significa in fondo?
Siamo stati solo vicini… e quindi… io…
No.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Rispondo
velocemente, troppo velocemente,
quasi incespicando nelle parole: “No. Assolutamente no. Ho sentito solo alcuni
voci confuse nella testa. E ho pensato ai Karkaroff… o al Segno di Fuoco…
quindi era lui. L’avevo immaginato. Sentivo che parlava di sangue ed avevo
pensato che fossero Zabini e Nott, ed invece era lui, nella mia testa… bene,
almeno non sto impazzendo del tutto… meno male che è passato allora… non sta
bene spiare la privacy di una persona…”, mi esce fuori una risata spasmodica,
idiota, maledettamente somigliante ad un rantolo da moribonda, quindi cambio
subito discorso ed aggiungo: “Hai bisogno del mio sangue, hai detto? Draco te
l’ha già dato? Come credi che funzionerà il ciondolo? Farà luce oppure…”.
“Herm…”. La voce di Helder mi interrompe e suona come un
proiettile sparatomi al centro del torace.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
“No…”
rantolo con le lacrime agli occhi, sollevando il palmo furiosa verso di lei
“No, niente Herm. Niente Herm.
Niente di niente, Helder… basta…”.
Lei per
tutta risposta mi ignora e mi stringe di nuovo il polso con nuova decisione,
soffiandomi contro poche parole con voce tonante: “Gli sei stata vicina, vero?
Hai sentito i suoi pensieri?”.
Mi divincolo
velocemente dalla sua presa, mettendo qualche passo tra me e lei, come se non
ne sopportassi la vicinanza. Ed è così, assurdamente è così. Sono allo stremo,
ormai. Persino la morte, adesso, mi sembra riposante. La odio per non avermi
avvisato. La odio per avermi trascinato in tutto questo. La odio perché so che
potrebbe mentirmi, pur di preservarmi integra al massimo per affrontare Adamar.
“Non è mai
successo…” le dico, guardandola con livore negli occhi “Se non mi chiedi
niente, se non sono costretta a dirti bugie, non è mai successo… rispetta
almeno questo, per favore…”.
“Tu non
capisci, Herm!” inveisce lei guardandomi lacerata
“Era la sua mente! Non eri tu! Qualsiasi cosa sia successa, qualsiasi cosa tu
abbia visto… era la sua mente, non eri tu!”.
Rido senza
ritegno, amaramente, duramente, come se mi avesse raccontato una brutta storia
dell’orrore.
“Avanti,
allora…” aggiungo senza allegria, senza lacrime, senza emozione che non sia
rabbia ed odio “Avanti allora… dimmelo, adesso. Dimmi la verità. Dimmi che
quella che ho visto era solo la sua immagine di me, e non ero davvero io. Dimmi
adesso che io sicuramente non avrei fatto nulla di ciò che ho visto. Dimmi
adesso che è solo quello che lui voleva, e non quello che volevo io. Giurami
con tutta la lealtà di questo mondo che io non mi sarei mai comportata così e
che non avrei mai avuto un dubbio, un incertezza, un ripensamento. Dimmelo,
dai, giuramelo…io non posso dirlo a me stessa. Ma tu a quanto pare sì, vero?
Dimmelo allora… convincimi… ”, lei fa
per aprire le labbra per rispondermi una cosa qualunque che non voglio sentire,
che non mi interessa. Estraggo la bacchetta, gliela punto contro, la vedo
esitare spaventata come se non mi riconoscesse.
“Non mi
interessa che tu mi fabbrichi delle scuse idiote per assolvermi da quello che forse avrei potuto fare…” sibilo
minacciosa, la bacchetta puntata contro i suoi occhi “Non mi interessa che cosa
avrei fatto se davvero tutto quello che ho visto fosse successo. Non mi
interessa giustificarmi, o avere alibi, scuse. Non mi interessa… e neanche ne
ho bisogno…”, abbasso la voce, cerco di trattenerla ferma, ma comunque trema un
po’ mentre aggiungo: “Io non avrei dovuto sapere quello che provava. Quello che
sentiva. Aveva il diritto che fosse un segreto suo. E non lo potrò più guardare
come lo guardavo prima sapendo che cosa ha dentro… sapendo che cosa mi avrebbe
dato… sapendo che cosa avrebbe voluto dirmi davvero e che cosa non ha mai
permesso che io sapessi… sapendo che cosa sente, guardandomi… io… non dovevo
portarmi anche questa colpa, dentro. Io… non dovevo avere anche questo rimorso…”,
rido ancora come un’isterica, una spostata, una delirante pazza, la bacchetta
che quasi mi sfugge dalle mani. Ed alla fine mastico fuori una sola incerta
sillaba di quello che mi si sta accartocciando dentro: “Ma non è il rimorso la
parte peggiore. Non è il senso di colpa. È il rimpianto… ed il dubbio. Non dovevo avere anche questo dubbio…
che davvero avrei dovuto dare una possibilità a quello che prova per me…”.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Abbasso la
bacchetta, la rimetto nella tasca dei pantaloni, mi volto per tornare dentro.
Dandole le
spalle, le dico davvero il mio ultimo desiderio. Il mio testamento.
“Io domani
non tornerò. Morirò con Draco, come doveva essere. Ma Ilai deve tornare
indietro. Se morirà con me, ti perseguiterò da qualsiasi inferno dovessi
capitare…”.
Quello che
succede dopo, nella mezz’ora che impieghiamo per localizzare Alex e per
organizzare gli ultimi dettagli, mi scorre indifferente davanti come se neanche
esistesse.
Tutti ormai
sono svegli, esagitati, affaccendati a svolgere i loro compiti.
Io al
contrario sono gelida come un pezzo di ghiaccio. Me ne sto seduta sul divano
del salotto a braccia incrociate, aspettando solo il momento in cui avrò il
segnale per poter andare.
Ignoro dove
sia finita Helder, rispondo a monosillabi alle domande di Seth e Dean.
Draco scende
dal piano di sopra, si siede accanto a me ed immediatamente si accorge che è
successo qualcosa. Mi guarda incerto stringendo gli occhi grigi.
“Che è
successo, Granger?” chiede senza preamboli, studiandomi con attenzione.
“Niente…” sorrido
mio malgrado, non è mai esistito “Voglio solo farla finita con questa storia…”.
“Non lo dire
a me…” borbotta lui chiudendo gli occhi ed appoggiando la schiena al divano
“Poi uno si chiede come mai Potter sia venuto fuori così disturbato… ti si squaglia il cervello a vivere con il complesso
del prescelto…”. Azzardo una risata
lievemente più sincera, scuotendo il capo incredula, sebbene speri solo che non
indaghi più di tanto. So che non si è bevuto quello che ho detto. Mi accorgo
subito che segue il mio sguardo sfuggente quando Ilai entra nella stanza.
Non è mai esistito.
La prova che
Draco abbia intuito qualcosa mi arriva quando, in un momento di stallo in cui
tutti sono altrove a pianificare dettagli della nostra missione suicida, mi
chiede innocente: “Allora hai salutato Radcenko?”. Sussulto, non lo deve sapere nessuno, non è mai
esistito.
Ha la voce
assolutamente banale del genitore che chiede al figlio se ha ringraziato dopo
un regalo. E lui dubito che sappia usare una voce impersonale del genere,
resettata sul cortese e sull’ educato, neanche per rimproverare
bonariamente sua figlia. Figuriamoci se possa usarla con me: ha capito che è
successo qualcosa e con Ilai.
Non è mai esistito. Mi dimenticherò che sia mai esistito.
Ma qualcosa è successo. Sì… qualcosa. Draco non mi
chiederebbe nulla altrimenti. Che cosa è successo, allora? Fantasie, ecco.
Sciocche fantasie. Una vita di fantasia.
Il resto… non è mai esistito.
Concentrandomi
quindi solo sui pensieri di Ilai e sul fatto che innocentemente voglio
nasconderli solo perché suoi privati, rispondo tranquillamente inarcando un
sopracciglio: “Mi stai davvero facendo la domanda che ho sentito?”.
“Certo, amore…” asserisce lui con strafottenza,
poggiando un braccio sullo schienale del divano con noncuranza, prima di
mormorare stoico: “Non siamo in una fase di riconciliazione
universale dove una qualsiasi mia domanda inopportuna può passare per
semplice tentativo di fare conversazione
ante mortem? E non invece per curiosità
morbosa, possessività paralizzante
e tendenze omicide irrisolte di
Mangiamorte riscoperto che sceglie le sue vittime tra i russi?”.
Mi massaggio
stancamente le tempie, rispondendo con voce fiacca: “Dovrei anche risponderti,
dopo che mi hai detto che ti piace
fantasticare sul suo cadavere?”.
“Ma io
parlavo dei Karkaroff, mica di Radcenko… quel gran bravo ragazzo…” blatera
scioccato, portandosi una mano al cuore come se lo avessi ferito profondamente,
prima di guardarmi come se fossi una specie di strega che pronuncia eresie su
eresie “Sei proprio malpensante, Granger…”.
Certo come no. Stava proprio pensando ai Karkaroff. Ha
appena guardato Ilai come se lo volesse impalare.
“Esiste una
risposta qualunque che tronchi questa conversazione prima che ti ammazzi io?”
chiedo con un sorriso falso, decisa a prendere questo discorso come l’ennesimo
tentativo di punzecchiarmi e non altro. Non posso pensare che davvero la voglia
una risposta. Draco, ovviamente, non ci sta ad assecondarmi neanche per una
volta, neanche ad un passo dalla morte, neanche se lo implorassi. Poggia la
nuca sullo schienale del divano, guarda il soffitto e biascica seriamente:
“Probabilmente non esistono risposte giuste
o sbagliate, Granger… ma esistono decine di risposte che vorrei davvero
sentire adesso… scegline una a caso ed andiamo serenamente incontro alla
morte…”, torna a guardarmi dall’alto verso il basso con un sorriso storto,
aggiungendo canzonatorio: “Guarda, giuringiurello che farò anche verosimilmente finta di crederti…”.
“Una
risposta a caso tra cosa, esattamente?”
chiedo con un filo di voce, il cuore che mi va su e giù in gola.
“Le bugie,
Granger…” mi risponde lui con ovvietà, schioccando la lingua e ritornando
seduto compostamente “Scegli una stronzata qualunque… e dimmela…”.
Mi stringo
nelle spalle distogliendo lo sguardo da lui, pensando persino per qualche
istante davvero ad una bugia da raccontargli.
Perché tanto sono diventata una Cantastorie, mi invento
qualsiasi cosa pur di non dire la verità.
Poi,
mordendomi il labbro inferiore, mi accorgo che non ho una scorta di nuove
menzogne a portata di mano. Ci vorrebbe troppa fantasia, troppo coraggio,
troppa faccia tosta. E del resto io a lui non posso mentire mai più.
Allargo le
spalle con leggerezza, dicendo cauta: “Non avevamo finito di raccontarci bugie?
Non era questa la fase della… come avevi detto… della riconciliazione universale?”.
“No. La
riconciliazione universale è eludere la
verità…” sussurra lui, di nuovo senza guardarmi, poi i suoi occhi tornano
per un po’ nei miei, grigi come il mare a dicembre “Non credo di averla mai
voluta da te la verità, figuriamoci adesso che sto per tirare le cuoia. Quindi
credo che le bugie caschino a fagiolo…”.
“Ci possiamo
limitare alle omissioni allora?”
bisbiglio con un filo di fiato, senza più forze e nemmeno coraggio, con un tono
di voce implorante, da preghiera, piegandomi come un giunco secco su di lui.
Appoggio la fronte sulla sua spalla ad occhi chiusi, come se davvero lo stessi
scongiurando di non farmi parlare, come non mi sono piegata davvero in tutta la
mia vita. A suo modo, come sempre, lo capisce. Lo sento sussultare, come se
fosse autenticamente sorpreso ed al contempo sconvolto. Poi, lenta, la sua mano
si arrampica sulla mia nuca, avvicinandomi a sé. Sorrido, mentre resta di nuovo
con le labbra solo poggiate sulla mia fronte, parlando con finta irritazione:
“Non è tanto onesto da parte tua… temo che mi scateni la curiosità morbosa e
tutto il resto… ma d’accordo… effettivamente l’omissione mi impedisce di fare la faccia di quello che ti crede
mentre biascichi scuse… meno sforzo e più energie per il demone. Sei una grande
stratega, Granger…”.
Sorrido
ancora dandogli un colpetto sul fianco, mormorando sarcasticamente: “Sei tu
quello che non mi ha mai dato credito come Capo degli Auror…”.
“Ti prometto
che ti darò tantissimo credito d’ora in
avanti…” ridacchia lui sempre con la bocca sulla mia fronte, facendomi
rabbrividire, per poi concludere ironico: “E’ davvero un’enorme sfortuna che il
mio d’ora in avanti sia di poche
ore…”. Sorrido ancora scuotendo il capo, poi, non appena sento dei passi nel
corridoio, mi tiro bruscamente a sedere ed anche Draco torna eretto, sebbene
con molta più lentezza di me.
Lo sento
ancora guardarmi di sottecchi, però resto dritta con lo sguardo limpido.
A rientrare,
però, è Helder, non Ilai. Resto immobile ed indifferente a guardarla, mentre a
disagio mi chiede di bagnare il ciondolo di Tatia con il sangue mio e di Draco.
Annuisco con il capo, senza aggiungere altro. Il ciondolo a contatto con il
sangue si illumina leggermente come se stesse effettivamente reagendo a
qualcosa. Quindi la tesi di Dean era giusta. Helder poi mi esorta ad esprimere
il desiderio con voce tonante e decisa. Voglio
trovare mio figlio.
La goccia di
sangue d’unicorno persa durante il parto che Tatia mi ha lasciato, non mi
delude. All’interno di essa compare una sorta di ago che somiglia a quello di
una bussola. Punta in una direzione ben precisa.
Verso Alex.
A quel punto
non ci resta che seguirla.
Ci muoveremo
tutti assieme, per poi dividerci progressivamente man mano che individuiamo il
luogo preciso dove si trovano i Karkaroff. Prima lasceremo Kevin che disporrà
il cordone di sicurezza per i babbani. A quel punto, dopo qualche chilometro,
sarà il turno dei maghi e delle streghe che devono lanciare i Patronus come
protezione, ed infine gli Empatici che devono comunicare con Ilai. Quando ci
muoviamo per lasciare la casa di Draco, intravedo fuori dal cancello un grande
serpentone di gente di cui solo alcuni sono miei conoscenti. Ovviamente ci sono
Harry, Ron, Ginny, Natalie, Dean e Kevin, nonché altre persone di cui intuivo
la presenza come Luna, Nott e Neville, ma comunque siamo almeno sul centinaio
di persone tra Empatici e maghi che hanno reclutato Daphne e Ginny.
Stranamente, all’ appello manca proprio Blaise Zabini che avevo visto in casa
qualche ora fa. Non me ne preoccupo onestamente, di fondo credo che non avesse
nessuna voglia di restare qui ed aiutarci.
Credo che
fosse venuto solo per vedere Pansy… e quello che deve aver visto, non deve
essergli piaciuto affatto.
Dopo che ho
raccolto i miei pochi bagagli, mentre Draco è andato a salutare per l’ultima
volta Serenity, resto ad osservare tutta la gente appostata fuori dalla
finestra, una mano sull’intelaiatura della tenda. Sento una sensazione familiare
di calore sulla nuca, come quella di una mano piccola e sottile.
So
esattamente che cosa significa, ormai è come se ci avessi fatto l’abitudine, mi
aiuta persino a sentirmi più tranquilla.
È Tatia, anche lei a suo modo mi vuole salutare.
Sorrido ad
occhi chiusi, come se solo così potessi vederla.
Mi ritrovo a
parlarle come se fosse davvero qui.
Sono
pensieri fugaci e confusi che non distinguo neanche io: assomigliano a
rassicurazioni, a richieste di perdono e a confessioni. Mi pizzicano gli occhi,
provando colpa, vergogna ed imbarazzo, ma la mano di Tatia sulla mia testa non
mi lascia mai, come se mi garantisse la remissione dei miei peccati, il
perdono, l’assoluzione.
Sebbene sia io che non posso perdonare me stessa.
Rassicurata
superficialmente, mi ritrovo di nuovo a pensare alla bambina che ho visto, alla
figlia mia e di Ilai che portava il suo nome. Stranamente mi ricorda quello che
aveva scritto lei nella sua lettera, sulla visione che aveva avuto, sulla
bambina di nome Charlotte che non aveva mai potuto avere da suo marito. Lo
considero quasi un segno strano che entrambe, prima di morire, abbiamo avuto
negli occhi e nel cuore il ricordo di una figlia di Ilai che non abbiamo mai
davvero avuto.
Questa cosa,
invece che agitarmi e farmi sentire ancora più condannata, mi rende più
tranquilla come se ancora mi sentissi meno sola, come se anche lei avesse
provato quello che provo io.
Ovvio che lo provava. Moriva anche lei uccisa, molto
prima di quando fosse il momento, lasciando una selva di cose in sospeso.
Rimpianti, rimorsi e ricordi.
Ed anche lei moriva, essendo…
Sobbalzo
ancora, riaprendo bruscamente gli occhi: la stretta tiepida non mi lascia,
quasi invogliandomi a terminare i miei pensieri, ma invece di nuovo li serro
forte dentro di me.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Quasi a
preservare quel senso di pace che però Tatia mi ha indotto, incanto la sua collana
perché non mi si sfili dal collo. Voglio averla con me, fino all’ultimo.
È solo a
quel punto che la presa calda mi lascia. Grazie
Tatia.
Respiro
profondamente, scrollo il capo e mi allontano dalla finestra.
Naturalmente
adesso in continua successione come le tappe di una via crucis, so
perfettamente che cosa altro mi aspetta: i
saluti. È forse per quello che, inconsciamente, cerco Draco con lo sguardo
mentre sto uscendo dal salotto. Sarà duro non trasformare quelli che agli altri
dovranno sembrare degli arrivederci,
in addii. Ho bisogno che ci sia lui
con me, adesso. Finalmente lo intravedo mentre scende le scale, sfregandosi gli
occhi lucidi dopo il saluto a Serenity.
Quando mi
vede però in attesa sotto le scale, scuote velocemente il capo, assumendo
un’espressione neutra.
“Sei
pronta?” sussurra gentile, fermandosi di fronte a me. Annuisco con decisione,
sfiorandomi la collana con le dita. Senza aggiungere altro, con naturalezza, mi
prende la mano, intrecciando le dita con le sue. Abbasso lo sguardo guardando
le nostre mani legate assieme, tentando al contempo di nascondere il rossore
che mi ha già infiammato il viso.
“Insieme?”
sospira Draco, una mano sulla maniglia della porta d’ingresso e l’altra stretta
forte nella mia.
“Fino alla
fine del mondo…” sussurro, guardandolo negli occhi e ripetendo la frase che lui
ha detto a me prima di dormire “Anche se fosse stanotte”.
Usciti nella
luce del primo mattino, con il cielo ancora così grigiastro da dare l’illusione
di essere sospesi in un tempo eternamente fermo, la prima persona che ci
troviamo di fronte è quella che, molto probabilmente, ha sempre creduto in me e
Draco molto prima che lo facessimo noi.
Seth.
Ha gli occhi
verdi umidi, tira un po’ su con il naso, però non piange, si sforza con tutte
le sue forze di non farlo. Kevin ha una mano poggiata dolcemente sulla sua
spalla come a tenerlo calmo e tranquillo. In uno slancio d’affetto, che solo a
lui può venire così naturale e spontaneo, allunga le braccia per poi stringere
me e Draco tutti e due nello stesso momento. Draco, ovviamente, rimane rigido e
si limita a dargli fraternamente una pacca sulla spalla. Io, invece, lo stringo
forte a me, cercando di imprimermi come se fossi un pezzo di argilla il calore
del corpo del mio migliore amico.
“Cinque anni
fa…” bisbiglia con voce tremante nel mio orecchio, quando Draco alla fine si è
divincolato dal suo abbraccio “… quando te ne andasti dal Petite Peste…
ricordi?”.
Annuisco solo
con il capo per non affidarmi alla mia voce che non so come potrebbe suonare.
“Ero certo
che ti avrei rivisto dopo tantissimo tempo…” sussurra convincente, staccandosi
da me ed accarezzandomi il capo “… questa volta sono certo che tornerai presto.
Ci rivedremo presto. Ne sono sicuro…”.
Annuisco con un sorriso fingendo di essere convinta delle sue parole, e lo
ringrazio per tutto quello che ha fatto per me.
Lui si
scansa quasi con fastidio, dicendomi che non gli devo nulla.
Staccandomi
da Seth, è il turno di Pansy che, ovviamente, lasceremo qui a causa della sua
gravidanza, in modo da prendersi anche cura delle bambine. Ha gli occhi
vistosamente lucidi, sbatte le palpebre un paio di volte, ma non abbandona mai
il suo sarcastico sorriso. Nel fondo delle sue iridi castane, vedo un dolore
maggiore di quello di chiunque ci sta salutando… come se davvero, come sempre,
lei fosse la sola che comprende che cosa abbiamo dentro io e Draco. E quanto
questo non possa passare per il sentimento puro che serve per sconfiggere
Adamar.
Eppure è
come se ci reggesse il gioco, come farebbe… un’amica.
Sbuffa seccata
guardando me e Draco, prima di borbottare all’indirizzo di lui con uno schiocco
di lingua: “Non ti abbraccio neanche morta, Malfoy… puzzi ancora di carogna…”.
“E io potrei
abbracciarti solo se avessi gli avambracci lunghi un metro e quindici…”
commenta Draco con voce monocorde “Stai già lievitando pericolosamente,
Parkinson… sei stata fortunata una volta a non diventare una mongolfiera umana,
ma farti mettere di nuovo incinta da Thomas è davvero al limite del gioco d’azzardo…”.
Lei, come se
non l’avesse ascoltato, guarda tutti e due con espressione tra il serio ed il
canzonatorio, prima di ribadire stoica: “Sono incinta. Sono debole e
vulnerabile, nonché suscettibile sul mio aspetto. E vi preavverto che il nero… mi cade davvero malissimo sulla
pancia. Quindi vedete di tornare vivi… o firmatemi una dispensa per venire al
vostro funerale vestita di rosso fragola… quello sì che mi sta bene… meglio che ad una Grifondoro, direbbe
qualcuno…”.
Sorrido
nonostante tutto, guardando in tralice Dean che, sicuramente, è l’autore del
complimento. Quando, però, la supero con un cenno del capo che spero riassuma
tutto quello che voglio dire per ringraziarla del suo carattere ruvido e di
quanto mi abbia spronato spesso a reagire, vedo Draco porgersi su di lui ed
abbracciarla, nonostante tutto.
Distinguo
persino qualche parola sparsa, che fingo di non sentire mentre parlo con Dean.
Se la sola persona che può renderti felice così è lui…
non privartene mai.
Quando Draco
si allontana da Pansy dandole un buffetto sulla guancia, alla quale lei alla
fine scoppia a piangere rientrando in casa, lo riaccolgo con un sorriso
incolore, stringendogli la mano e non facendo commenti sulle sue parole di
commiato. Lui sorride in modo sbiadito, poi mi stringe la mano mentre
finalmente lasciamo la villa. Lo vedo soppesarla con tristezza qualche secondo,
lo sguardo grigio fisso su una finestra del primo piano, da cui proviene un
bagliore rosato.
La camera di Serenity.
Non saprei
che altro dire, le parole sono così bastarde che me le conto una per una. Mi
limito a stringergli più forte la mano, sperando che basti. Dopo essersi
lasciati alle spalle la sua casa, camminiamo in silenzio per una ventina di
minuti, guidati dalla luce del ciondolo che, come una bussola, ci indica una
direzione ben precisa. Gli altri, attorno a noi, sono anch’essi silenti anime in
pena e, sebbene siamo così tanti, sembriamo scivolare nella nebbia del primo
mattino come fantasmi in esilio.
Quando più o
meno comprendiamo in che direzione stiamo andando, riuscendo ad isolare
mentalmente le costruzioni che ci sono nei paraggi, comprendiamo che i
Karkaroff ed Alex potrebbero essere nascosti solo in una decina di esse, tutte
ammassate sulla scogliera a strapiombo del mare. Sono vecchie case di pescatori
ormai abbandonate ed in disuso. A torreggiare tra esse, un monastero lasciato
all’incuria da qualche decennio, fatiscente e pericolante. Descrivere a quel
punto un perimetro attorno all’area, diventa abbastanza semplice.
Arriva
quindi il momento di salutare Kevin che è il primo a fermarsi, giudicando
sufficientemente lontano il luogo dove sistemerà i poliziotti babbani per
impedire fughe di notizie, oltre che di imprevisti incidenti. Lo saluto
affettuosamente augurandogli buona fortuna per tutto, e gli chiedo con maggiore
sincerità di quella che avrei per Seth, di prendersi cura di lui qualora non
dovessi tornare. Mi restituisce uno sguardo torbido ma non sorpreso, a
dimostrazione che neanche lui in fondo è così convinto che torneremo. In un
modo strano è più facile salutare una persona che sembra più insicura del mio
ritorno.
Mi permette di
essere più me stessa e di smettere di fingere. È più…rassicurante, ecco.
Dopo aver
lasciato Kevin, ci addentriamo di più in una sterpaglia di vegetazione rada e
sferzata dal vento dove non c’è alcun segno di abitazione. Decisamente meglio
così, nessuno correrà inutili rischi tra la popolazione inerme. Fa freddo,
nuvole basse velano il sole all’orizzonte, mentre il mare geme grigio come un
lenzuolo vecchio. La luce calda del ciondolo, alla fine, individua nel
monastero abbandonato il luogo in cui si trova Alex. È una specie di roccaforte
sul mare, da cui si accede attraverso una minuscola lingua di terra erosa dalla
salsedine. Ovvio che abbiano scelto questo posto per nascondersi… ci vedranno
subito arrivare potendosi accedere solo da una direzione. Non possono temere
attacchi da altri lati, né tantomeno dal mare: non si può attraccare, le onde
sbatterebbero lo scafo contro gli scogli, ed anche riuscendoci, la parete di
roccia è alta una quarantina di metri. Impossibile arrampicarsi. L’accesso è
anche problematico dall’alto: troppo vento per scope, ippogrifi o altro. E
dubito che non abbiano ripetuto il trucco dell’impedimento alla
Smaterializzazione che usarono per rapire Alex.
L’unico
accesso è appunto la fascia di terra sparsa di cespugli brulli.
Basterebbe
vederci in compagnia o con qualcosa che non gradiscono per scappare o fare del
male a mio figlio.
Come ha
detto Helder ieri, effettivamente il nostro punto a favore è che non ci
aspettano così presto. Probabilmente ci pensano ancora a lambiccarci il
cervello su come liberare Alex. Certamente non pensano alla Solutio
Damnationis.
Nei
successivi quindici minuti ci limitiamo a studiare bene la situazione, cercando
di nasconderci quanto più possiamo negli anfratti rocciosi: la mancanza di
alberi rende problematico celarci alla vista dei Karkaroff. E siamo in numero
tale da metterli sicuramente in allarme. Quando più o meno abbiamo concordato
su come muoverci e su come sistemare i cordoni di sicurezza di maghi ed
empatici, comprendiamo che forse la cosa migliore è che loro si sistemino dopo
che noi siamo entrati e non prima. Dovranno essere veloci, rapidi e fulminei
nel prendere posizione, ma ci daranno il vantaggio di arrivare meno visibili.
E, avendone pochi di vantaggi, meglio sfruttare al massimo quelli che abbiamo.
Questo,
però, ovviamente significa che dobbiamo salutarli tutti adesso.
E significa
anche che gli Empatici dovranno abbassare i parametri vitali di Ilai ben prima
del previsto: se i Karkaroff guardassero fuori, devono vedere un corpo, non lui
vivo e vegeto che cammina al nostro fianco. Chiudo gli occhi annuendo,
cosciente che, dopo quello che ho vissuto stamattina a contatto con la sua
mente, nessun discorso potrebbe fargli cambiare idea.
Helder ha un
viso che simula un’accorata richiesta di perdono, ma non riesco a guardarla più
del necessario mentre spiega come dobbiamo muoverci. Non ci riesco proprio.
Non posso
neanche immaginare come potrò vederlo morire.
Con la certezza che non lo rivedrò mai più.
O muoio io, o muore lui, o moriamo entrambi: non si
scampa.
Dio… non lo rivedrò mai più.
Quella nuova
improvvisa rivelazione mi serra il respiro in gola, mentre Ilai chiude gli
occhi e trascorre il tempo successivo in uno stato catatonico di evidente
concentrazione. Ma la sola cosa che riesco a pensare, sono le ferite che ha sul
torace, le ecchimosi che ha sul volto, per non parlare di quella tosse
convulsa.
Lo spio,
mentre respira piano e tenta di meditare come gli hanno insegnato Helder e gli
altri.
Ho
l’illusione che, fino a quando sentirò il suo respiro, potrò respirare
tranquilla a mia volta.
Darei di tutto per restare sospesa in questo istante.
Il respiro di Ilai. Il respiro di Draco.
Tutti e due che respirano ancora.
Però i
secondi passano, si affannano l’uno sull’altro. E qualcuno già si allontana,
salutandoci e prendendo posizione. L’angoscia mi fa bagnare la nuca di sudore,
mentre non so più neanche dove guardare per non sentirmi in colpa. Ilai di fronte a me. Draco accanto a me.
Ed è alla
fine è Helder che guardo, ad occhi socchiusi, livorosi, rancorosi, sperando
quasi per un miracolo dell’Empatia che senta i miei sentimenti, e senta quanto
la detesto, e comprenda quanto non la perdonerò mai per avermi fatto conoscere
i pensieri di Ilai.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Sentendomi
vicina all’implosione come se stessi andando in overdose, decido di
allontanarmi per un attimo con la scusa di volermi concentrare da sola per
qualche secondo. Fingo persino un calo di potere magico, non so nemmeno che
dico pur di essere lasciata in pace. E torno a respirare solo quando,
semi-nascosta da un cespuglio di menta, mi raccolgo le ginocchia al petto e
finalmente non ho più nessuno dei due davanti ai miei occhi.
Cerco di
calmarmi, cerco di respirare a fondo… ma ad ogni inspirazione, li sento entrare
sempre più dentro di me.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Ma io lo so
ormai.
Non c’è più
niente da fare. Ogni paravento, ogni bugia, ogni scusa… è distrutta, lacerata,
fatta a pezzi. E persino la resa, sebbene amara, sebbene odiosa, sebbene
impossibile anche solo da pensare, ormai è quasi necessaria pur di non
scoppiare come un palloncino.
Un piccolo
sassolino su una montagna: una piccola ammissione. E tutto precipita come uno
smottamento, trascinandomi dietro.
.
.
Odio Helder
perché mi ha dimostrato che Raissa aveva ragione su di me.
E io non
l’avrei saputo se non avessi visto i pensieri di Ilai.
Se non fosse la puttana che è, se si fosse
accontentata solo di Ilai… tu almeno saresti stato salvo… ed invece vi vorrebbe
entrambi, quella cagna…
Ciò che mi rende
così furiosa è qualcosa di enormemente semplice, che Helder, neanche con
intenzione, mi ha sbattuto in faccia.
Ho sempre
saputo di amare Draco. Non c’è nulla che mi farà cambiare idea, mai, neanche la
morte. Però, potevo ignorare quello che provavo per Ilai e nascondermelo sotto
il naso pur di non vederlo. L’ho sempre trattato con una sorta di lasciva
indifferenza e di ben studiato fatalismo, affastellando parole nella testa come
definizioni che significassero tutto e niente, ma evitando quelle che
contassero davvero. Era sempre importante altro:
mio figlio, naturalmente.
E poi Draco,
ovviamente. A suo modo, Ron. E i miei amici.
Io ed Ilai,
in fondo, siamo solo come quei soldati che tornano dalla guerra e si legano ai
loro commilitoni. Due sopravvissuti. Bastava questo a farmi relegare quello che
sentivo per lui sotto mille “non so che
provo”, oppure “non ho tempo adesso”,
pensando solo che tutto fosse condizionato dalle circostanze e che, a non
poterle eliminare quelle circostanze, allora non si poteva neanche ragionare. Era come indagare la purezza
dell’acqua quando era mescolata con l’olio. Era un semplice e contorto ragionamento
astruso fatto per ipotesi.
E quindi, a
quel punto, potevo tranquillamente fingere con me stessa che fosse solo questo
pantano di dolore ad unirci, che fosse stato sempre solo questo tra me e lui,
che essere Assonanti alchemici ci facesse questi effetti strani, che Tatia a
suo modo ci manovrasse per tenerci uniti, che mi piacesse fisicamente e questo
complicasse le cose.
Mi andava
bene così, presa com’ero dall’assolutezza di quello che è sempre Draco per me.
Mi andava
anche bene riconoscere un bisogno di
lui, che mi condannava debole ed instabile, ma tutto sommato mi giustificasse:
ho perso mio figlio, ci manca che non mi aggrappi a chi si prende cura di me.
Avrei sempre
creduto questo, questo e basta, se
non fosse stato per stamattina. Ho continuato a pensare questo, mentre ero con
Draco, mentre ero con Ron.
… e ora,
invece, non lo posso neanche lontanamente pensare, o supporre, o inventarmelo
mentalmente così da crederci.
Da quando ho
conosciuto i pensieri di Ilai, non posso più farlo. Quell’istinto a volerlo
contraccambiare pur non potendo, pur sapendo che c’era Draco, pur essendo
vicina a morire, ha messo tutto in chiaro nella mia testa. Per poco, per il
battito di ciglia di quei pensieri nella mia testa, per la prima volta ho
desiderato davvero di vivere quella vita con lui. Ho sognato qualcosa di caldo,
confortante e semplice, non questo strazio continuo di dilaniarmi il cuore in
questo amore per Draco, che sembra così lontano dalle idee semplici di casa, famiglia, affetto, cura, tenerezza.
Con Draco è
sempre fuoco mescolato al veleno, passione mescolata all’odio, pace armata dove
hai anche paura di respirare, e poi ti scoppia il cuore, e poi ti si spezza.
Ed oggi per
la prima volta, davvero ho dubitato che potessi ancora sopportare che il mio
cuore si spezzasse ancora.
Ho visto la
vita assieme ad Ilai, quella che comunque non avrò mai… e mi sono chiesta
davvero perché non mi sono data modo di sceglierla, perché non l’avessi presa
in considerazione fino a quel momento. Non avevo risposte. Non le ho ancora.
Di fondo… è quello che ho sempre voluto.
Di fondo… è quello che non ho mai avuto.
Di fondo… so che quella vita, probabilmente, io con Draco
non la avrò mai.
Comunque vada. Comunque sia.
E lì, nel
tormento di scoprire che invece era solo fantasia e sogno, in quel maledetto
strappo che da allora avverto nel fondo di me stessa, ho capito che non era
solo la voglia di pace come sempre ho pensato. No. Non era stato solo lasciarsi
andare ad un sogno al sapore di caramello, perché magari si è molto stanchi e
provati. Non era stato farsi un viaggio mentale nella pelle di qualcun altro, e
vedere cosa succede e che si prova a nascere in un altro destino. Non era stato
un esperimento da custodire come qualcosa di cui ridere, o gioire, o rifuggire sconfitti.
Magari fosse
stato solo questo. E del resto, è intuibile che, se mi si è conficcato nella
testa e nel cuore, non poteva essere solo questo.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Però ho cercato
ancora di non vedere. Ho cercato ancora di fare finta che tutto non stesse lì,
grande e terribile, a prendersi gioco di me.
Fino ad ora,
quando li ho visti assieme. Fino a quando ho capito che non potevo fingere più,
perché il pensiero di lasciare o uno o l’altro, mi straziava nello stesso modo.
Tutto è
diverso… tranne questo. Non ce la faccio
a lasciarli.
Ed allora la
verità mi si è avvicinata, coprendo l’ultimo passo che mi mancava.
La verità,
quella che se ne stava davanti ai miei occhi sin da quando avevo rischiato
l’ira di Draco pur di dirgli che avevo bisogno di Ilai, era terribilmente
semplice.
È
terribilmente semplice.
Io sono innamorata di Ilai.
Lo amo. E non ci posso fare niente.
In un modo
profondamente diverso da come amo Draco, ovvio, non amerò nessuno come amo
Draco. Però alla fine non cambia che sono innamorata anche di Ilai. È come
essere innamorate di due modi diversi d’amore: inconciliabili, incompatibili,
eppure tutte e due vitali. Non li avrai mai entrambi nella vita, è impossibile:
dovresti scegliere e sapere che cosa rischi, buttandoti in una cosa o
nell’altra.
Questo era ciò che dovevo davvero scegliere.
Questo è ciò che mi hanno tolto.
Questo è ciò che mi avrebbe reso diversa da Raissa.
Questa era la mia scelta.
Dare il mio
cuore ad una persona che, sono certa, non smetterà di spezzarlo… ma lo farà
battere più forte di quanto possa essere possibile per molti?
O invece
darlo a chi se ne prenderà cura, lo proteggerà e lo tratterà come la cosa più
preziosa al mondo… impedendoti però anche di sentirtelo scoppiare nel petto?
So cosa
volevo da ragazzina: l’amore senza aggettivi, illogico e tutto il resto. E so
anche che quest’amore mi ha fatto letteralmente a pezzi per cinque anni.
So che,
intimamente, dentro… lo desidererò per sempre. Ed intimamente, dentro,
desidererò sempre anche di essere serena ed in pace.
Ecco, cosa è
Draco, per me. Ecco, cosa è Ilai, per me.
Ad amare il
primo, sono abituata da anni. Ad amare il secondo, mi sono rassegnata adesso.
Per quello
odio Helder: me l’ha sputato in faccia. Come si possono amare due persone
assieme?
Le puttane,
le vanesie, le vanagloriose, le vanitose amano due persone, assieme.
Non io.
Io no.
Io no.
Ed invece
no: morirò da puttana e da spergiura, sebbene non ho fatto nulla che mi renda
colpevole, sebbene sia solo dentro che so tutto questo, sebbene solo il cuore
sia il mio assassino e il mio confessore, sebbene non ho fatto promesse o
giuramenti a nessuno dei due.
Però fa
comunque schifo. Moriranno entrambi immaginando che io ami esclusivamente
l’altro. Fa schifo perché non posso inventarmi alcun conforto né per uno, né
tantomeno per l’altro.
Ilai pensa
che sarà solo e per sempre Draco, e che io non lo ami affatto.
Draco pensa
che quello che provo per Ilai è più puro, e che io non lo ami affatto.
Ecco perché
fa schifo. Ecco perché questa è l’ultima volta che ci penso.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Lo
seppellisco di nuovo, perché mi meritavo il tempo e il modo di fare una scelta.
E, se questa scelta mi è preclusa, questo sarà sempre e per sempre solo affare
mio: nessuno lo dovrà sapere, mai, anche se un giorno impossibile che non vedo
affatto, fossi viva e potessi davvero farla questa scelta. Se fosse Draco, non
saprebbe mai quanto inaspettatamente ero anche innamorata di Ilai. Se fosse
Ilai, non saprebbe mai quanto inevitabilmente avrei sempre Draco dentro.
Sono cose
queste a cui una donna si abitua presto, quando cresce.
È il
compromesso mozzicato con te stessa che ti fa andare avanti, nelle pause
doverose tra i momenti in cui menti pietosamente al tuo cuore e agli altri.
Io non potrei sopportare mai che qualcun altro mi veda
per come mi vedo io adesso.
Torno
indietro con uno sguardo pulito, innocente, limpido. Tutti i miei sentimenti
repressi e sepolti li metto piuttosto nel discorso che faccio a tutti prima di
andare. Ringrazio la gente che è accorsa qui per aiutare noi e nostro figlio,
anche se ci conosceva appena, mi faccio promettere che non correranno rischi
inutili contro i Karkaroff, e a tutti affido Alex affinché sia in salvo.
Alla fine,
mentre gli altri vanno a prendere posizione, restano solo Harry, Ron, Natalie,
Ginny e Dean.
Dean è il
primo che mi si avvicina, ha lo sguardo terso e lucido, eppure sicuro. Mi
stringe forte tra le braccia, spingendomi a piangere prima ancora che me ne
renda conto, mentre non mi dice assolutamente niente e se ne sta in silenzio,
come se qualsiasi parola fosse semplicemente inutile. Quando si stacca da me,
mi sorride e mi dà un buffetto sulla guancia aggiungendo scherzoso: “Mi prenderò cura di mio genero come se fosse mio figlio…”. Capisco come sempre il suo riferimento neanche troppo oscuro ad
Alex come futuro marito di Charisma, sorrido ed annuisco con il capo, asciugandomi
le lacrime con il palmo della mano. Mi ha detto, a suo modo, la sola cosa che
davvero per me è importante, e cioè sapere che farà da padre ad Alex se non
dovessi tornare.
Il resto, in
fondo, lo sappiamo entrambi.
Quello che
però a quel punto mi sorprende davvero è che fa un paio di passi in direzione
di Draco, spingendomi a guardare la scena con una punta di ansia, dato che non
sono così amici da salutarsi in modo struggente ed affettuoso. Draco stesso,
infatti, lo guarda con la bocca arricciata e le sopracciglia aggrottate. Dean,
però, calmo e tranquillo, armeggia con la sua mano destra, sfilandosi qualcosa
che, imperturbabile, lancia verso Draco in un piccolo lampo di metallo
argenteo. Draco, istintivamente, lo afferra e si trova tra le mani un anello
pesante, doppio, d’oro bianco, con una pietra dura e lucida di colore nero. Io,
con un brivido, riconosco l’anello, ma mi sembra un gesto così assurdo che
resto in silenzio. Draco ugualmente non dice nulla, sebbene non sappia di che
si tratta. Dean, scrollando le spalle, aggiunge casuale: “E’ la sola cosa che
mi ha lasciato mio padre. L’unica”.
“Vorrebbe
essere una specie di portafortuna, Thomas?” chiosa Draco, rigirandosi l’anello
tra le mani, senza però alcuna ironia velenosa o retrogusto amaro nelle parole.
“Vorrebbe
essere un prestito… e non a fondo
perduto…” mastica serio Dean, guardandolo di lato “Devi riportarmelo indietro,
Malfoy. E’ la cosa a cui tengo di più al mondo… pretendo che tu torni vivoabbastanza
da restituirmela…”.
Lo sguardo
di Draco viene velato da un’ombra scura, quasi un pensiero segreto di
preoccupazione e di ansia, come se d’improvviso fosse davvero teso dalla
possibilità che lui non possa restituire quel regalo. E non si parla solo
dell’anello e della possibilità che, morto lui, chissà che fine faccia. Sono
certa, conoscendolo, che Draco improvvisamente sia dilaniato da un gesto di
fiducia che non si aspettava, come mai si aspetta nulla di positivo da nessuno
nei suoi confronti. Alla fine, fa solo
un sorriso storto e chiude l’anello nella mano, accogliendo di nuovo il solito
salvifico sarcasmo, spezzato da una bugia misericordiosa: “Ci mancherebbe che
non te lo restituisco, Thomas. Non mi faccio seppellire con un pezzo di
ferraglia vecchio ed antiestetico”.
“Sei un
bravo furetto ammaestrato, Malfoy…” sorride un po’ tristemente Dean, scrollando
le spalle e voltandosi per raggiungere gli altri, gli occhi più lucidi di
prima.
È sposato con Pansy Parkinson, sa perfettamente che cosa
dicono davvero in cinque parole che sembrano solo insulti.
Draco guarda
per un po’ l’anello nella sua mano, soppesandolo come se fosse pesantissimo,
poi con sicurezza lo infila all’anulare destro. Fingo con perizia di non averlo
visto e lo lascio allontanarsi, mentre mi appresto a salutare Harry e gli altri,
a cui lui rivolge solo qualche parola veloce di stanco rancore stantio. Le
prime che saluto, abbracciandole entrambe con calore, sono Ginny e Natalie. Mi
sembra quasi naturale unirle assieme in questo unico abbraccio, come se fossero
sorelle. Si profondono in raccomandazioni ed in rassicurazioni sul fatto che
sicuramente tornerò indietro e che non devo preoccuparmi di Alex. La mia sola
risposta è una frase semplice: “Prendetevi
cura di loro…”, alludendo ad Harry e Ron. Natalie sobbalza un po’ ed arrossisce,
come se si vergognasse a parlarne con me, però cerco di farle capire con lo
sguardo quanto sia sollevata dal fatto che ci sia lei adesso nella vita di Ron.
È quando
arriva il momento di salutare lui ed Harry che le mie difese crollano
completamente. Salutarli per andare incontro alla morte sembra un eco infinito
di centinaia di altri momenti che abbiamo vissuto sin da quando ci siamo
conosciuti in quel bagno, ad undici anni. Abbiamo sfidato sempre la morte,
rischiando la vita in milioni di modi diversi, tutti accomunati dalla sola
costante di essere sempre assieme. Era quello l’anatema per tornare a casa,
sani e salvi, sempre. Invincibili, immortali, invulnerabili. Sembra adesso un
infinito gioco di parti e specchi che ci riporta indietro di anni ed anni. Ma
stavolta la costante della nostra indefessa resistenza alla morte non c’è. Loro
non ci saranno, loro resteranno qui: io sarò sola lì fuori. E, nonostante la
vita ci abbia diviso tanto e spesso in questi anni scavandoci distanze addosso,
sembra davvero assurdo adesso non vedermeli alla mia destra ed alla mia
sinistra, come angeli, come guardie, come fratelli.
Singhiozzo e
lascio che loro due, ormai ben più alti di me e dei bambini che ricordo, mi
abbraccino forte, chiudendomi tra le loro braccia. Harry mi accarezza piano la
schiena dandomi dei piccoli colpetti incoraggianti, la faccia affondata nel mio
collo. Ron, cautamente, delicatamente, respira nei miei capelli e mi bacia la
fronte con affetto.
“Sarà come
tutte le altre volte…” sussurra con un filo di voce Harry, tenendomi stretta
“Sarà come sempre. Tu che fai un paio di abracadabra a cui nessuno aveva mai
pensato… e tutto finisce in una bolla di sapone…sarà come tutte le altre volte, Hermione…”.
“Noi ci
saremo lo stesso…” aggiunge Ron con un filo di voce, rischiarandosi la voce
roca “Noi… ci saremo sempre, Mione…”.
Annuisco
forte, mormorando qualcosa che non intendo neanche io perfettamente nelle mie
orecchie ovattate. Forse li dico che li voglio bene, forse li chiedo scusa,
forse li ringrazio, forse chiedo loro di occuparsi di Alex. O forse non dico
niente e mi limito a pensarle quelle parole senza riuscire ad aprire bocca, tra
le lacrime che mi strozzano le parole in gola. So solo che, quando mi lasciano
andare, il calore del loro abbraccio mi è rimasto dentro un pochino, mescolato
al loro profumo sugli abiti. Sento davvero di non essere sola adesso.
Li lascio
andare con Ginny e con Natalie con un sorriso mesto, salutandoli con la mano
aperta, affidandoli ad un destino o ad un Dio misericordioso che possa sempre
vegliare su di loro, se non posso farlo più io. Li auguro felicità, gioia,
serenità, amore: li auguro tutto quello che si meritano.
Mi asciugo
ferocemente gli occhi rossi, passandoci sopra le mani aperte e respirando a
lungo con la bocca aperta per cancellare i singhiozzi dal petto. Mi guardo
attorno, presagendo che adesso mi è rimasta solo Helder da salutare: la vedo
infatti a pochi metri da me, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo basso, le
spalle contratte. Con un sospiro profondo, mi avvicino a lei con lentezza,
cercando di tenere a bada quella spinta alla rabbia che ho nei suoi confronti e
che, in fondo, devo cercare di seppellire in me stessa, visto che non la
rivedrò mai più. Mentre la raggiungo, però, noto qualcosa che per un attimo mi
fa fermare, aggrottando la fronte e tenendomi la mano stretta al torace. Nel
tempo che ho impiegato a salutare Harry e Ron, Draco si è allontanato molto di
più di quanto mi fossi accorta… ma soprattutto non è da solo. È con Ilai. È con
lui che sta parlando, l’espressione scura, ampiamente restituita da Ilai che, a
sua volta, lo guarda teso e nervoso.
È così
strano vederli impegnati in una conversazione che la cosa mi risulta subito
strana e sospetta, al punto da spingermi ad osservarli di sbieco. Cerco di
leggere il labiale inutilmente. Quando Helder mi si avvicina e comincia a
ricapitolarmi le fasi del nostro piano, non la ascolto neppure, per quanto sono
presa dal capire che cosa sta succedendo.
“… Malfoy fingerà di averti voluto consegnare
per salvare Alex…” sta continuando a ripetere Helder con voce monotona,
evidentemente comprendendo che non la sto ascoltando “Dirà, probabilmente, cose
odiose per esaltare il concetto… e getterà loro il presunto cadavere di
Radcenko. Mostrati distrutta per quello che sta dicendo Malfoy, imploralo,
scongiuralo… e mostrati disperata per la morte di Radcenko…più credono che ami
lui e meno penseranno a qualcosa come la Solutio damnationis…”.
“Certo,
certo…” mormoro distrattamente, ancora presa dalla vista di Draco ed Ilai
assieme.
“… ma tu non
avrai bisogno di fingere che ami Ilai
Radcenko, vero?” commenta Helder con una scrollata di spalle, guardandomi
obliqua. Finalmente intendo le sue parole come se mi raggiungessero solo adesso,
e mi volto verso di lei, sussultando e sgranando gli occhi in un moto di
nervosismo ansioso, la schiena attraversata da scariche elettriche.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Mi ritrovo
di nuovo a minacciarla con lo sguardo, come se temessi che possa mettersi ad
urlare quella verità, sbattendola in faccia a Draco, ad Ilai e a me stessa che,
ancora, disperatamente, voglio tenerla fuori dalla mia testa.
Helder
solleva le palme in un moto di difesa, poi apre le braccia in gesto impotente e
sorride amara: “L’ho capito subito. E non c’entra l’Empatia… una come te… orgogliosa come te, convinta sempre di
poter fare tutto da sola… potevi avere così bisogno di una persona solo se ne
fossi innamorata… ed io te l’avrei augurato con tutta me stessa, se era la cosa
di cui davvero avevi bisogno… ed invece per colpa di questa storia che ho
cominciato io con lo Zahir… sono costretta a sperare che sia sempre più forte
quello che provi per Malfoy…”, Helder sorride ancora e si lascia sfuggire delle
lacrime rabbiose che, nonostante tutto, mi fanno sgonfiare l’astio e l’ansia
come se fossi stata punta da un ago: “… però non ne sono pentita. Magari sono
solo egoista… e voglio solamente che torni a casa, sana e salva…”.
Annuisco con
il capo, masticandomi in gola le lacrime e limitandomi ad accarezzarle un
braccio, non ancora del tutto pronta per abbracciarla e perdonarla del tutto.
Quel gesto piccolissimo, però, è come se l’assolvesse e perdonasse.
È lei,
allora, che si sporge su di me e mi stringe forte. Mio malgrado, con un nuovo
scoppio di pianto, l’abbraccio a mia volta, lasciando scappare via l’astio
fuori da me e cercando di ricordarmi solo il bene che ha fatto per me in cinque
anni, nonché quello che ancora farà per mio figlio, salvandolo.
“… per
favore…” mormoro piangendo, piegandomi su di lei “Salva Alex, Helder. E riporta
indietro Ilai… fai di tutto per riportarlo indietro… io… non ho potuto salvare
Draco… ma almeno lui… per favore, riportalo indietro…”. Helder mi rassicura
sommariamente, lasciandomi alla fine andare.
Mi volto su
me stessa asciugandomi il volto con i palmi delle mani, e faccio qualche passo
incerto, gli occhi coperti dalle dita. Poi, mi ricordo di Draco ed Ilai e
sollevo lo sguardo preoccupata, cercandoli.
Non sono più
assieme.
Di fronte a
me, c’è solo Ilai.
È di nuovo
in piedi, le gambe ben piantate al suolo e leggermente divaricate, cosa che lo
fa assomigliare ad un militare in attesa di attaccare. Ha la mascella serrata,
le braccia conserte ed un’espressione dura sul viso. I suoi occhi sono
ostinatamente rivolti alle mie spalle, in un punto ben preciso che guarda come
se lo volesse incendiare con lo sguardo. Prima però che possa voltarmi su me
stessa per capire di che si tratti, il suo viso torna a me, riempiendosi di un
calore soffuso e di un sorriso che non gli arriva agli occhi.
Lo guardo
ancora senza capire, mentre sussurra dolcemente guardandomi con tenerezza: “Prostimenya… do svidaniyasladkaya…”.
Non capisco
che cosa mi stia dicendo, sta parlando in russo. Nonostante non abbia
assolutamente capito che cosa mi stia dicendo, il tono con cui dice quelle
parole mi spinge automaticamente a singhiozzare, comprendendo, come se mi
stesse scrivendo quelle parole addosso, che mi sta dicendo addio.
Eppure non
riesco a muovermi nella sua direzione, non riesco a salutarlo davvero, non
riesco a dirgli forse un’ultima parola che sia un’eco sciocca ed inconsistente
di quello che ho scoperto di provare per lui, senza pure che mi disveli,
riveli, mostri apertamente.
Ilai
dismette quel sorriso dolcissimo che sarà l’ultima cosa che mi ricorderò di
lui. E torna a guardare alle mie spalle, arcigno, duro, irrigidendosi ancora
come una statua di sale.
Chiosa
severo, la voce come un taglio nella carne viva: “Non voglio che lei veda. Me
l’hai promesso, Malfoy. Portala via”.
E io capisco
troppo tardi che cosa sta succedendo.
Mi volto
furiosamente su me stessa, impugnando la bacchetta, incrociando gli occhi di
Draco, immobile, alle mie spalle.
La bacchetta
puntata alla mia schiena, l’espressione fraternamente gemella a quella di Ilai.
Tutto è diverso… tranne questo.
Lo imploro
con gli occhi comprendendo che non farò in tempo a reagire, che è troppo tardi,
che già sento vibrare la bacchetta dell’incantesimo che mi sta per scagliare
addosso.
Ma Draco mi
ignora, contrae la mascella, ringhia l’incanto con voce ferma e caustica.
“Stupeficium!”.
La scarica
di luce rossa si infrange nello spazio tra i miei polmoni: proprio nel centro
del cuore.
Perdo i
sensi, scivolando in un manto nero di tenebra.
Cosciente
solo per una cosa.
… non vedrò mai più Ilai Radcenko vivo.
Il mio
risveglio non è dei migliori.
Anche se dubito ormai di poter avere un risveglio
migliore.
Sono
sollevata di malagrazia da un braccio ed il contraccolpo mi fa spalancare gli
occhi intimorita. Attorno a me ci sono grida, urla, risate, e per un attimo non
capisco dove mi trovo, né tantomeno che cosa sto facendo. La testa mi pulsa
orribilmente come se fosse vessata da un martello pneumatico e gli occhi sono
annebbiati, come se ci fosse calata su una calugine amorfa. Mi guardo attorno
le orecchie che ronzano, ed allora improvvisamente mi tendo come la corda di
una chitarra. Sono nell’androne di un palazzo vecchio quasi completamente
demolito dall’incuria del tempo: rade piante secche crescono nelle
intercapedini delle rocce bianche e grigie, descrivendo un ambiente triste e
mesto. Il sole è nascosto da una coltre spessa di nubi e fa ancora un freddo
indemoniato, troppo inconsueto e strano per il mese di luglio.
Quando
riconosco la presa familiare sul mio braccio, quelle dita affusolate, sottili eppure forti che, sebbene ora siano
affondate nel mio braccio, hanno la perizia attenta e dolce di non farmi
davvero male… inizio con una punta di disagio ed ansia a capire dove sono e
che cosa è successo. I miei riflessi per fortuna reagiscono ben prima di me,
non appena con la coda dell’occhio individuo nella cornice scrostata di un
balcone quasi del tutto franato, le figure silenziose e spaventose dei
Karkaroff. Dimitri, come sempre, con il suo aspetto autoritario, il sorriso
sadico ben modellato sulle labbra chiuse, le braccia incrociate al petto,
l’espressione vogliosa ed implacabile. Raissa, con gli occhi spalancati,
sgranati, sconvolti, le lacrime che scorrono sul viso di alabastro, le mani
strette alla gola come se soffocasse, le gambe che cedono e la fanno cadere in
ginocchio. È quella vista a farmi capire simultaneamente che cosa sta guardando
alle mie spalle e a farmi finalmente sentire la voce di Draco che urla
improperi, insulti, invettive contro di me, rea di avergli nascosto un figlio e
di essersi innamorata di un altro. Mi sforzo di non ascoltare quello che sta
dicendo Draco, mi sforzo solo di fingere di essere stata catturata, tradita,
umiliata. Mi divincolo con tutte le mie forze dalla presa di Draco, sebbene
appunto lui stia fingendo ed in realtà potrei liberarmi abbastanza facilmente.
Mi sforzo di non concentrarmi sulle sue parole se non nella misura di apparirne
sconvolta, sgomenta, così da rispondere a suon di preghiere ed appelli accorati
in nome di nostro figlio.
È un bel
teatrino, è un bello spettacolino. E Dimitri ne pare così oltremodo soddisfatto
da non interromperci neanche per un momento, mentre si pregusta tutto con una
smorfia di puro piacere sul volto, inumidendosi lascivo le labbra. Raissa, del
resto, è completamente assente, è come se neanche ci stesse ascoltando. Ed è lì
ovviamente che scatta il colpo di grazia: la presa di Draco si fa un attimo più
forte sul mio braccio, mi guarda negli occhi come stesse per chiedermi se sono
pronta e riceve da me in risposta un minuscolo segno di accenno con il capo.
Grazie per preoccuparti di questo. Grazie Draco.
Grazie per capire che non sono pronta. Né mai lo sarò.
“… quel figlio di puttana…” mi sputa Draco
addosso, guardandomi con un ghigno crudele e velenoso “Quello che ti volevi
fare da settimane… non lo rivedrai più, Granger…”. Draco ride in modo sguaiato
ed io non ho bisogno neanche di mettere su un’espressione autenticamente
devastata.
Perché è
vero che io non rivedrò più Ilai.
Non lo rivedrò più.
Però ci
aggiungo un tocco di consapevolezza dilaniata e distrutta dal pensiero che
Draco possa aver ucciso la persona che amo. Ed è allora che Draco mi getta con
violenza sul corpo di Ilai.
Neanche
adesso devo fingere: non c’è bisogno. La vista del suo corpo martoriato,
escoriato, ferito, come se non fossero passati pochi minuti da quando l’ho
visto, mi strazia come se mi stessero tirando gli arti in due direzioni
differenti.
Perdonami Tatia.
Perdonami… se te l’ho portato via, in tutti i modi
possibili.
Mi getto su
di lui, lo abbraccio piangendo, urlo maledizioni ai Karkaroff e a Draco stesso,
simulo persino un tentativo di scuoterlo per svegliarlo ed un massaggio
cardiaco per rianimarlo. Provo anche la respirazione bocca a bocca ed
onestamente non so quanto questo aggiunga valore alla mia recita, o se non sia
solo una goffa ricerca di alibi per baciarlo un’ultima volta. Solo che questa
volta, le sue labbra sono fredde, gelide, immobili. Ed alla fine questo mi fa a
pezzi più di tutto il resto. Sfibrata, mescolando la vera disperazione a quella
falsa, affondo il viso nel suo petto, nascondendomi alla vista di tutti,
coperta dai miei capelli. E sospiro di sollievo quando sento un minuscolo,
brevissimo, battito, provenire dalle profondità del suo torace. I Karkaroff non
si sono ancora avvicinati a lui, non deve essere stato ancora necessario
mandarlo del tutto in arresto cardiaco.
Sento Draco
prendere tempo, chiedere di vedere Alex per capire come stia, prima di consegnarmi
a loro. Sobbalzo, la schiena rigida, sperando con tutte le mie forze di poter
rivedere mio figlio un’ultima volta. Ma i Karkaroff sono di altro avviso:
vogliono prima vedere se Ilai sia davvero morto.
Mentre ci
raggiungono levitando nell’aria come se fossero fatti di vento, Draco muove
impercettibilmente il capo nella mia direzione, facendomi capire che è arrivato
il momento. Ha il viso distrutto, gli occhi lucidi… e comprendo che non abbiamo
modo di aspettare che ci mostrino Alex. Dobbiamo lanciare la Solutio
damnationis, mentre saranno ragionevolmente distratti dall’esame del corpo di
Ilai.
Gli
Empatici, in collegamento con Ilai stesso, si accorgono subito dell’intenzione
dei Karkaroff. E con uno spasmo, scoppiatomi in bocca come l’ennesimo singhiozzo,
mi accorgo che quel minuscolo battito nel petto di Ilai è scomparso. Adesso… è morto sul serio.
Sebbene sia
distrutta, sebbene non riesca neanche a respirare, resto vigile ed attenta
mentre Dimitri calcia con malagrazia il corpo di Ilai e Raissa uggiola
fastidiosa, piangendo a dirotto e strappandosi le vesti. Come un fuoco
d’artificio che esplode nel cielo nero, io e Draco riconosciamo il momento
propizio: estraiamo le bacchette ed urliamo con tutta la forza che abbiamo in
corpo: “SOLUTE DAMNATIONEM!”.
Dimitri e
Raissa gemono, fremono, si scagliano contro di noi per tapparci la bocca.
Inutilmente.
Pochi
secondi… e spariscono alla nostra vista, sostituiti da un buio spesso ed
intenso che ci avvolge completamente.
Nel silenzio
nero l’unica cosa che sento e percepisco è il mio fiato corto, spezzato,
assieme a qualche altro singhiozzo che mi sfugge ancora dalle labbra.
“Draco?” lo
chiamo spaventata, non afferrando assolutamente nulla attorno a me, se non
questo gelido buio totale.
“Sono qui…”
mi rassicura lui da un punto non meglio precisato alle mie spalle, sento il suo
respiro sulla nuca. Rabbrividisco, prima che lui mi chieda sommariamente: “Stai
bene?”. Annuisco con il capo prima di capire che lui comunque non riesce a
vedermi, e ripeto il mio assenso con la voce.
“Sai dove
dobbiamo andare adesso?” chiedo con un filo di voce, cosciente della sua
presenza dietro di me, mentre angosciata da questo buio totale ho l’impressione
di essere diventata cieca o di essere stata sepolta viva sottoterra. Draco forse
avverte la tensione nella mia voce ed immediatamente con naturalezza mi stringe
la mano, mentre sudo freddo. La intreccio grata con la mia, contenta di non
essere sola in tutto questo.
“No,
Granger… non lo so…” mormora lui con voce sconfitta, uno spostamento d’aria che
mi informa che forse si sta guardando attorno alla ricerca di un po’ di luce
“La prima volta non è stata così. Non ho neanche prettamente incontrato Adamar… sentivo solo la sua voce…”.
“E quindi
che facciamo?”.
“A parte
interrogarci su quando il demone farà l’allacciamento
alla corrente elettrica?” biascica lui nervosamente, la sua mano che si
contrae impercettibilmente “Non lo so. Magari dobbiamo chiamarlo oppure…”. Ci
interrompiamo a disagio, quando nella nostra testa esplode una sorta di litania
lamentosa, un canto, una voce stucchevole e femminile che sussurra: “Andate avanti. Camminate dritto…”.
“… oppure
ascoltiamo la voce da bambina indemoniata
che ci è misteriosamente apparsa in testa…” commenta malevolo Draco, iniziando
a camminare nella direzione indicata dalla voce, la mano sempre stretta nella
mia a guidarmi e a precedermi. Il buio non diventa meno totale mentre
camminiamo, restando così fitto che non riesco assolutamente a distinguere
nulla. Sembrano dei cunicoli sotterranei, ai nostri lati avverto la presenza
imponente di pareti di roccia scavate, nonché di tanto in tanto il suono di
acqua che goccia. Ma, per il resto, non ho più la pallida idea di dove siamo.
Dopo una
decina di minuti abbondanti in cui abbiamo continuato a camminare nel perfetto
silenzio, sento la necessità impellente di dire una cosa qualunque, pur di
rompere quest’ansia che mi sale per quello che stiamo per affrontare.
“Ti ha
chiesto Ilai di schiantarmi?” chiedo asciutta, rivolgendomi a quel silenzio
odoroso di terra bagnata che so essere lui.
La sua mano
nella mia si fa ghiacciata, mentre borbotta caustico: “Credi che tragga piacere dallo schiantarti, così, a
titolo gratuito? Ovvio che me l’ha chiesto Radcenko. Non voleva che tu vedessi…
che cosa gli stava per accadere… ma
aveva bisogno interamente della sua energia magica per il trattamento degli
empatici… e per quello l’ha chiesto a me, Granger…”.
“E’ stato
così… brutto?” chiedo con un filo di
voce, la gola secca.
Draco ghigna
in modo fastidioso alle mie orecchie, prima di biascicare acido: “Qualsiasi
cosa abbia passato Radcenko… è un delicato
sonnellino nel prato in confronto a che cosa stiamo per passare io e te…”,
poi abbassa il tono di voce, suonando ancora tra il minaccioso ed il derisorio:
“So che avevi bisogno di lui, Granger…
ma ormai sarà il caso di lasciarlo andare, non credi? Se tutto va bene… lui si salverà e si troverà un’altra
mogliettina adorabile da condannare a morte… e se tutto va male… bè, almeno vi siete lasciati con ottimi ricordi… un romantico addio in russo… e te schiantata da quel bastardo del
tuo ex… davvero… una favola moderna… sono
quasi invidioso…”.
Le sue
parole, come sempre, mi feriscono più all’interno di quanto ammetterei ad alta
voce. Sa perfettamente come colpirmi al cuore quando vuole. Risbattermi in faccia che avevo bisogno di
lui. Pungolarmi sulla possibilità che si rifaccia una vita senza di me.
Innervosirmi con l’insinuazione per cui Tatia sia morta per colpa sua.
Minimizzare quello che siamo. Però me ne sto in silenzio, non replicando e
sorprendendo persino Draco, che conosce adesso un silenzio ben più inquieto.
Io devo
lasciare andare Ilai, devo lasciare andare tutti adesso: la mia ultima realtà
definitiva è Adamar, non c’è altro a cui pensare.
Continuo a
camminare in silenzio non replicando più nulla, avvertendo le dita di Draco che
si contraggono nella mia mano come se fosse lui, adesso, a voler parlare.
Ma, in ogni
caso, non ne avrebbe né modo, né possibilità.
Finalmente
il lungo corridoio di pietra che stavamo percorrendo, viene falciato da una
luce calda che mi fa strizzare gli occhi dopo tanta oscurità. Io e Draco ci
incamminiamo in quella direzione, i sensi all’erta, pronti a qualsiasi attacco.
Ma ciò che ci aspetta, alla fine di quella che si rivela essere una galleria di
pietra aperta su uno spazio aperto e luminoso, ci lascia letteralmente senza
parole.
La prima
cosa che noto è un profumo meraviglioso, soave… che non credo di aver mai
sentito. Assomiglia a quello degli agrumi, delle zagare in Sicilia, ma
infinitamente più dolce, più penetrante, più inebriante, come se fosse
mescolato a qualche aroma zuccherato di cannella, vaniglia, caramello fuso. Non
può esistere un odore del genere in natura. È paradisiaco, sazia quasi la gola
e lo stomaco solo respirandolo. La seconda cosa di cui mi rendo conto, mentre
la luce si fa più intensa, quasi accecante, è che lo spazio su cui si apre la
galleria è qualcosa di francamente… impossibile
da pensare, considerando che stiamo per affrontare un demone millenario.
Al termine
della galleria, infatti, ci troviamo in un enorme e meraviglioso prato verde,
circondato da floride colline ricoperte di fiori. Ha un aspetto curato, eppure
naturale, sublime, come se non ci avesse mai respirato singolo uomo. Il cielo è
terso, luminoso, di una nettezza azzurra così abbacinante da farmi chiedere se
ho mai visto prima il sole. Sembra una giornata primaverile delle più stupende
che possa conoscere l’Inghilterra… lontano, tra gli alberi di salice,
gorgheggia un fiumiciattolo trasparente che sfocia in un laghetto coperto di
ninfee. Ed è seguendo la linea del fiume che intravedo finalmente un enorme
casa in stile georgiano, ricoperta interamente da mattoni rossi, con camini
alla destra e alla sinistra del tetto, un portico centrale con una piccola
finestra rotonda superiore, finestre all’inglese e balconi in ferro finemente
lavorati. Sembra così… meravigliosamente perfetta da farmi dubitare seriamente
che esista.
Forse, io e
Draco siamo già morti e non ce ne siamo accorti… questo, non sembra l’inferno.
Ma esattamente il contrario.
È solo dalla
mano gelida di Draco nella mia che resto cosciente di me stessa, ricordandomi
che forse è l’inferno proprio perché non ne ha assolutamente l’aspetto. Questo
posto è solo una pianta carnivora che, con grande sfavillio di colori e suoni,
vuole intrappolarci al suo interno. Draco appare meravigliato e titubante
esattamente come me, dandomi conferma che la sua esperienza con il demone è
stata completamente diversa da quanto sta succedendo adesso.
Se mai era
possibile, la nostra perplessità sbigottita aumenta esponenzialmente quando ci
rendiamo conto che non siamo propriamente soli al momento. Di fronte a noi,
infatti, proprio sotto l’architrave della porta d’ingresso della casa, c’è
qualcuno. La sua presenza è così impalpabile e leggera che non l’abbiamo
avvertita fino ad ora, sembra persino non respirare. Distinguo a malapena nel
nitore della giornata un cenno del capo che vuole essere un invito ad essere
seguita. E quindi, con riluttanza e nervosismo, ci avviciniamo a passi lenti e
guardinghi, studiando bene la figura esile.
Che non sia
Adamar, è evidente: certo, Draco conosce solo la sua voce, ma Helder l’ha
sempre apostrofato al maschile. E questa invece è una… donna. Per un attimo, penso che possa essere comunque lui che
magari ha cambiato aspetto… ma, non so perché, sono perfettamente convinta e
consapevole che non si tratti di lui. La guardo con attenzione mentre mi
avvicino, sembra nata per essere inserita in questo clima ottocentesco. È una
donna bellissima sulla trentina d’anni, forse solo lievemente più grande di me.
Non è molto alta, eppure sembra comunque imponente, autoritaria, statuaria. Ha
un fisico asciutto, proporzionato, avvolto in un abito completamente bianco che
riluce come se fosse fatto di luce pura. Ancora, è perfettamente in stile
ottocentesco: è plissettato sulla gonna lunga e non molto ampia, si arriccia e
stringe sotto il seno, descrivendo la linea della vita sottile con una fila
regolare di piccole perle bianche. Le maniche a sbuffo lasciano scoperte le
braccia lunghe, la cui pelle, come per il viso, è candida, vellutata, senza
alcun segno di imperfezione e discromia. Non ha alcuna ruga d’espressione,
niente, come se appunto neanche respirasse e fosse una bellissima statua di cera.
Solo dai fremiti delle lunghe ciglia nere che racchiudono due penetranti occhi
azzurri dalla forma un po’ allungata, si potrebbe intuire che è viva. Sul
collo, alcune ciocche dei suoi capelli biondo ramati sfuggono con cura
impeccabile dalla crocchia che le raccoglie la chioma, impreziosendo così la
linea ferma delle clavicole. I capelli nascondono quasi completamente un
ciondolo dalla forma rotonda. È la prima cosa che guardo di lei non appena mi
avvicino con Draco: è il cameo di una rosa bianca, lucido come un pezzo di
ghiaccio.
Quando parla
le sue labbra si muovono appena. Eppure la sua voce ha un colore cristallino,
pulito, squillante. Da ragazzina.
Sembra di sentire una cascata di campanelli che tintinnano.
“Il signor
Malfoy e la signorina Granger?” domanda educata e gentile come una perfetta
padrona di casa. Annuisco con sospetto, non prima che abbia gettato un’occhiata
a Draco. Da come accoglie la voce con assoluta indifferenza, comprendo che,
come avevo intuito, non siamo di fronte al demone Adamar.
“Sua
Eccellenza vi sta attendendo…” mormora, scandendo con decisione la parola Eccellenza, come se potessimo dubitare
di chi sta parlando “Vogliate farmi la grazia di seguirmi in casa… è un luogo
più appartato in cui discutere della vostra
situazione…”. Intimorita e messa a disagio dalla fredda cortesia impostata
della donna, la seguo all’interno della casa con Draco che sbuffa, le mani
affondate nelle tasche dei pantaloni: “… la prossima volta dovrò noleggiare uno
smoking per venire a crepare davanti a questo qui…”.
Roteo gli
occhi, spero che nessuno l’abbia sentito.
Gli ambienti
della casa sono modesti e dall’aspetto antico: prevale il legno in noce che
ricopre di pannelli le pareti color avorio. Ogni centimetro del pavimento è
ricoperto da tappeti di colore rosso, arancio, marrone: tutti toni caldi.
Passiamo di fronte a molte camere perfettamente arredate, dove la costante è
sempre la presenza di enormi librerie e di arazzi dall’aspetto prezioso. Il
senso di stranezza per lo scenario che ci troviamo di fronte, non fa che acuire
la mia ansia: più la casa sembra confortevole ed accogliente e più ho
l’impressione che Adamar non abbia bisogno di incutere paura con scenari tetri
e raccapriccianti. E questo può voler dire solo una cosa, vista la mia esperienza
da ex Capo degli Auror.
Non ne ha bisogno.
È
perfettamente in grado di pretendere rispetto e di scatenare timore senza
ricorrere ad espedienti. Questa casa, questa tranquillità, questa donna calma e
pacata, sono solo raffinati mezzi di distrazione. O vezzi estetici.
Ci può fare
a pezzi, in qualsiasi modo. Non ha bisogno di null’altro che sé stesso.
E ciò,
ovviamente, mi agghiaccia.
Avrei di
gran lunga preferito altro piuttosto che questo.
Dopo qualche
minuto di silenzio, ci fermiamo di fronte ad una pesante porta di legno
intarsiata. La donna la apre con discrezione, camminando all’interno in modo
ancora più lieve di quanto non abbia fatto fino ad ora e ci invita di nuovo a
seguirla con un cenno della testa. Io e Draco entriamo, riconoscendo una stanza
che ha tutte le fattezze di uno studio antico. La parete vicino alla porta è
completamente occupata da una gigantesca libreria piena di tomi preziosi,
dall’aspetto sdrucito e rovinato, mescolati a libri decisamente più moderni
dalle copertine agili e colorate. Di fronte, sulla parete opposta, ci sono tre
grandi finestre quadrate da cui si intravede il giardino. Alla nostra destra,
c’è un piccolo salottino con un tavolo basso, mentre le poltrone e il divano
sono foderate di velluto rosso sangue. La stanza è ancora avvolta da quel
profumo gradevole ed intenso, che qui però assume degli accenti ancora più
penetranti che danno alla testa. Ma soprattutto noto immediatamente, in
contrasto con gli ambienti antichi, la presenza di uno stereo moderno che riproduce
della musica lirica. Ascoltando le noti possenti e la voce poderosa del tenore,
faccio immediatamente mente locale. E lucevan le stelle. La Tosca di Puccini.
Vengo
sconvolta dai brividi, mentre il tenore gorgheggia devastato e dilaniato.
Svanì per sempre il sogno mio d'amore...
l'ora è fuggita,
e muoio disperato!
E non ho amato mai tanto la vita!
… il canto di un uomo condannato a morte, che nel momento
in cui sta per lasciare vita ed amore, capisce quanto ami entrambi. Amore. E
vita.
Non può essere
una scelta casuale, constato con disperazione amara e rabbiosa. Ovvio.
Ed è già un
indizio su come agisce questo mostro.
La donna che
ci ha guidato fino ad ora, prende posto alla nostra sinistra dove finalmente
noto una scrivania ingombra delle cose più varie con una prevalenza per i
manufatti in cristallo.
E lì, seduto
tranquillamente, c’è… un uomo.
Sussulto
leggermente dalla sorpresa e dalla contemporanea ansia immediata che mi
comunica: sento ogni centimetro della mia pelle rabbrividire e gelare di sgomento
al contraccolpo dall’enorme potere magico che scaturisce da lui. La mia mano
inconsciamente corre spaventata al polso di Draco che stringo con paura,
facendo qualche passo indietro. Draco chiude la sua mano sulla mia, ha la pelle
fredda e sudata. Non ho mai sentito niente del genere in vita mia, nulla… ed ho
incontrato Voldemort, il Signore Oscuro che ha distrutto questa terra per anni.
Era un
bambinetto in confronto.
Incontrando
Voldemort, certo, se ne poteva avere paura…
ma non così. Adamar non sta facendo assolutamente nulla, è solo seduto e ha
le mani incrociate elegantemente sotto il mento… eppure, quello che sprigiona
dal suo corpo… è un potere immenso, nero, oscuro, che penetra in ogni poro
della mia pelle, facendomi sentire spacciata e pronta all’implosione. E
contrariamente a Voldemort, non ha neanche un aspetto ferino e mostruoso. Nulla
del genere. È apparentemente un uomo normalissimo, sulla quarantina, dal corpo
slanciato ed alto. Ha i capelli castano scuro un po’ lunghi sulla nuca, con
qualche riccio scomposto; scuro è anche il rado pizzetto che gli copre il
mento. Gli occhi sono penetranti, taglienti, audaci, e splendono di una luce
verde smeraldo. Veste come la donna alle sue spalle in modo decisamente
antiquato: pantaloni beige leggermente larghi sui fianchi, una camicia bianca,
un fazzoletto al collo di velluto verde, un gilet ed una giacca dello stesso
colore. Non mi è dato naturalmente di sapere o intuire se questo sia il suo
aspetto da millenni, o se invece abbia il viso di Grindelwald,
l’uomo di cui ha preso in prestito il corpo.
Oppure se anche questo aspetto apparentemente normale sia
solo un meccanismo per mostrarsi ai nostri occhi.
Da quello
che sento del suo potere, potrebbe anche mostrarsi con l’aspetto più comune per
rassicurarci, e poi colpirci infido alle spalle. Al momento, sembra il più
normale dei padroni di casa: affascinante, gentile, curato, preoccupato persino
di fare una buona impressione.
Con le mani
larghe e forti fa segno con un sorriso alle due sedie di fronte alla scrivania,
invitandoci ad accomodarci.
“Buongiorno
Miss Granger. Buongiorno Signor Malfoy…” esordisce con un sorriso serafico,
alternando lo sguardo prima su di me e poi su Draco. Sotto la scrivania
continuo a stringere il polso di Draco, incapace di lasciarlo andare sotto lo
sguardo di Adamar. Il demone fa una pausa ad effetto, sospirando in modo
teatrale prima di soffiare fuori con voce entusiasta: “Sono onorato di
conoscervi finalmente di persona…”. Da come sento vibrare le vene di Draco
sotto la pelle del suo polso, comprendo che ha riconosciuto perfettamente la
sua voce. È davvero lui, se mai ci fossero dubbi. Ha una voce cavernosa, roca,
profonda, ma comunque pastosa e melodiosa: non ho mai sentito una voce simile.
Sembra il suono di un’arpa.
Si adatta
perfettamente alle note liriche che continuano a riempire la stanza.
Sbatto le
palpebre per qualche secondo, incespicandomi nelle parole: “Tu…”, mi sento
irrispettosa e, scornata come una bambina ripresa dalla mamma, mi correggo
velocemente in preda al panico: “Lei…
è Adamar?”.
Lui fa un
nuovo instancabile sorriso dolciastro, guardando la donna alle sue spalle e
facendole un incomprensibile cenno d’intesa con il capo, a cui lei risponde con
un sorriso timido. Poi torna a guardarmi con paterna pazienza: “Ne è sorpresa? Comprendo le frustranti
limitatezze della vostra cultura così avvezza alle etichette. Suppongo che,
avendo conferito principalmente con la misera progenie empatica, abbiate
maturato l’idea che avessi un aspetto ben differente e che avessi residenza in
un luogo diverso…”, finge di rifletterci su per qualche secondo umettandosi le
labbra e gettandomi uno sguardo divertito, prima di continuare con voce
scontata, come se volesse umiliare la mia deduzione spiccia: “Un demone dovrebbe avere protuberanze sul
capo, un miasma sulfureo a circondarlo e magari anche un volgare oggetto a tre
punte in mano, come se approntasse delle balle di fieno. Quindi dovremmo anche
essere nelle viscere della terra e non in questo luogo ameno…”, abbraccia in un
ideale sguardo tutta la lussuosa stanza nonché la vista serena che penetra
dalla finestra. Poi sembra avere una provvidenziale illuminazione e prosegue: “Ammetto
che però questo argomento è esatto. Siamo vicino al centro incandescente del
vostro pianeta… ma non per mia volontà di emulare qualche infernale divinità.
Semplicemente perché è uno dei pochi luoghi liberi dalla presenza umana…”.
Chiude gli occhi sognante, sembra vagheggiare qualcosa di lontano anni e vite
fa: “Adoravo l’Himalaya: così
inospitale, algida e persino pervicace nel suo isolamento. Ma poi sono arrivati
gli escursionisti… un paio di spiacevoli
incidenti… e ho deciso di ritirarmi qui…”.
Tremo al
pensiero di chi possa averlo casualmente incontrato e non ho dubbi nel
comprendere che cosa sia accaduto a queste sciagurate persone.
La sua voce
è amabile e tranquilla, sempre impostata su questo tono volutamente forbito che
si snoda in un linguaggio formale ed accademico, ma sembra perfettamente
consapevole di chi è, di che cosa fa e della sua natura demoniaca. Non fa
assolutamente nulla per nasconderla, la esibisce anzi come se ne fosse
sommamente fiero ed orgoglioso.
“Come
facciamo noi allora a sopravvivere al centro della Terra?” chiede Draco allora
noncurante, come se stesse chiedendo del tempo. Lo guardo sconcertata dal suo
sangue freddo. Non so se sia la sua solita spavalderia arrogante che vuole
mettere a tacere la paura, oppure se semplicemente ricorda perfettamente come è
parlare con questo… demone… ed allora
riesce a simulare calma e coraggio.
“Raffinata deduzione, signor Malfoy…” si
complimenta Adamar con vivo entusiasmo, sporgendosi sulla scrivania per
guardare meglio Draco “Ricordavo la sua spavalda arroganza, nonché la sua
intelligenza decisamente sprezzante. E lei dovrebbe ricordare perlomeno la mia…
voce, giusto?”.
“La ricordo”
commenta sintetico Draco con una punta di amarezza sarcastica nella voce.
Adamar
sorride sardonicamente massaggiandosi una tempia con le dita in modo
volutamente disattento. Il guizzo di un tendine della mascella mi informa, però,
che si sta innervosendo. La gola mi si secca, mentre metto a fuoco il modo che
ha di guardare Draco.
Ostile, rancoroso, sospeso tra la voglia di farlo a pezzi
e quello di capire come funziona.
Ha più o
meno lo sguardo che mi tributava sempre Dimitri, escludendo ovviamente alcuna
componente di attrazione sessuale. Non so come faccia Draco a starsene seduto
calmo e tranquillo, visto anche che il repentino cambio d’umore di Adamar è percettibile
anche dall’improvvisa onda calda del suo potere che ci si infrange addosso,
come mare su rocce. Poi si smonta così com’è nata: Adamar dismette il suo
sguardo acceso, fa un gesto di noncuranza con la mano e sorride rassicurante,
suonando solo lievemente infastidito mentre arriccia il naso e le labbra con
nobiltà e distacco:“Non abbiamo vissuto
la migliore delle esperienze io e lei, signor Malfoy. Helena Greengrass che si
intromette nella sua prova, lei che si ritira… confesso di esserne rimasto
molto indispettito… ha incontrato un mio profondo disappunto avere a che fare
con lei… non per questo non risponderò alla sua insolente domanda.”, fa una pausa ad effetto studiata ad arte per
dare enfasi alle sue parole e verificare se siano andate a segno. Draco resta a
braccia incrociate, ma quel luccichio dello sguardo che cela un retaggio di
prudenza cauta, soddisfa profondamente l’ego di Adamar. Difatti, con tono più
rilassato, prosegue tranquillo e lieve: “Avvertite una temperatura tollerabile,
riuscite a respirare in modo adeguato, vedete… tutto questo…”, allarga le braccia comprendendo idealmente la casa
ed il panorama fuori dalla finestra, escludendo invece volutamente sé stesso e
la donna con lui “…perché io voglio che
sia così. Lo chiami pure un retaggio della mia disgraziata esistenza umana,
ma potrei definirmi un esteta. Sapete
quanti artisti ho personalmente… patrocinato?
La ricerca della bellezza è un mio punto debole. Uno dei miei momenti più
sereni di questo lunghissimo arco vitale fu al confine tra il Lancashire e il North Yorkshire, nel 1840, in una magione
come questa… per questo traggo profondo piacere nella rievocazione mentale di
quell’atmosfera bucolica”. Si ferma a lungo a questo punto, quasi innescandoci
la curiosità di chiederci che cosa sia successo in questo suo passato secolare
per renderlo così felice e voglioso di reminiscenze persino nel vestiario. Ma,
naturalmente, non riceve alcuna domanda ulteriore: non siamo venuti qui perché
ci racconti la storia della sua depravata vita. Draco risponde con una
scrollata noncurante delle spalle, spingendomi ancora a chiedermi che razza di
piacere perverso tragga nel provocarlo così apertamente. Dal canto mio, stringo
le palpebre ed annuisco impercettibilmente con il capo, sperando che sia
sufficiente.
È un uomo
incredibilmente vanitoso, orgoglioso e presuntuoso: e questo, paradossalmente,
mi rassicura alquanto.
Ha un fondo
di umanità con cui posso ancora trattare, intuendo da che lato debba prenderlo
per non indispettirlo eccessivamente.
Peccato che
questo Draco ancora non lo capisca: non dico che Adamar ci tratterà bene se facciamo
i cortesi e gli educati, sottoponendoci ad una prova facile da superare. Ma
sappiamo per certo dall’esperienza dei Dubois che, se capisce di essere
imbrogliato o preso in giro, reagisce in modo efferato. Potrebbe persino
ammazzarci qui, con una semplice scrollata di spalle, non iniziando neanche la
Solutio damnationis. In fondo… chi mai potrebbe punirlo per questo? I Custodi
dell’Ordine? Lo fanno stare al suo posto da millenni… probabilmente non
reagirebbero neanche eccessivamente se ci uccidesse… sicuramente non al punto
da eliminarlo. Magari, Adamar sa anche fino a dove può tirare la corda con
loro… specie considerando che la corda sono due fragili umani di carne e
sangue, come me e Draco.
Siamo già
nelle sue mani… sarà anche il caso di rendere quelle mani ancora più vogliose
del nostro sangue di quanto già non siano?
È il mio
spirito da Auror a parlare: se sai già di essere in condizione di inferiorità,
cerchi di guadagnare miserrime posizioni di vantaggio per andartene con
dignità.
Non sputi e
disprezzi tutto, maledicendo di stare per morire.
Ma Draco è
un Serpeverde: fa del disprezzo il suo ornamento preferito.
Tra i due,
quella prudente sono sempre stata io.
E del resto
non so neanche propriamente come Draco sia sopravvissuto in questi anni, visto
quanto poco attento è.
Lo guardo
con la coda dell’occhio cercando di fargli capire il mio messaggio.
Adamar
sembra soddisfatto dalla mia espressione di partecipazione superficiale e
riprende accorato, rivolgendosi ancora a Draco: “Non priverei mai lei e la sua deliziosa compagna di questo armonioso
spettacolo. Una donna dalla così conclamata fama merita il migliore dei
trattamenti possibili…”, rabbrividisco leggermente, stringendomi nelle spalle
quando la sua attenzione torna a me.
Ha il viso
costernato sinceramente mortificato, mentre sussurra suadente, lasciando che un
raggio di sole gli tagli a metà il viso: “Mi è dispiaciuto non conoscerla
personalmente quando ha creato lo Zahir, Miss Granger. Sa che mio malgrado non
posso occuparmi più di queste pratiche…”, con un brivido improvviso mi rendo
conto che, se la storia non fosse andata com’è andata e i Custodi non gli
avessero tolto lo Zahir, effettivamente sarebbe stato lui a vendermi quella
distruzione dell’anima. Gemo silenziosamente rievocando ancora quell’antico
errore, e le mie dita impercettibilmente toccano ancora il polso su cui si
stringeva l’infernale monile. Draco studia le mie mosse, ma resta immobile,
forse per non attirare l’attenzione di Adamar con un gesto rivolto a me che
simuli debolezza. Stacco quindi le dita dal polso, rischiaro lo sguardo e torno
a guardare Adamar che assume un tono estasiato: “Una persona che era sotto il
mio controllo l’ha vista in occasione di una qualche celebrazione presso il
luogo di lavoro del signor Malfoy… era all’apice del suo potere.
Irriconoscibile, implacabile. Aveva la chioma corvina ed occhi della medesima
tonalità…”. Sussulto sgranando gli occhi: la sera della festa al Petite peste,
quando ero sotto il controllo dello Zahir ed incendiai lo scantinato di Draco.
Forse uno dei giorni peggiori della mia vita fino a
quello in cui mi hanno tolto Alex.
Qualcuno che
era sotto il suo controllo… era a quella festa… lui mi ha visto tramite quegli
occhi servili…
Non vi ha mai ignorato, scoppia
di ricordo la voce di Helder nella mia testa.
“Mi dolgo
davvero di non averla potuta seguire nella sua vicissitudine…” prosegue Adamar
con un sorriso addolorato ed assolutamente sincero, cosa che mi fa ancora di
più inorridire “Non vedevo uno Zahir d’Amore da secoli nonché una tale oscura
maestria nel gestirlo. Ammetto che, se fossi stato ancora umano, l’avrei
persino desiderata…”, Adamar fa una risata timidamente modesta, come se stesse
parlando di qualcosa di volutamente enfatico ed impossibile, seppure esibisca
il contegno puro ed innocente di un adolescente innamorato. Dubito, però, che
sia rimasto qualcosa di così umano in lui da fargli autenticamente desiderare
una donna. Credo che l’abbia detto solo ed esclusivamente per mettermi a
disagio: me ne accorgo dall’occhiata lasciva che mi lancia e da quella
accondiscendente e soddisfatta con cui fissa per un attimo le mani contratte di
Draco sulla scrivania.
Innervosita,
sollevo fieramente il mento guardandolo storto.
D’accordo giocare alle tue regole, demone… ma queste
regole non implicano che tu mi renda il tuo giocattolo mentale.
Adamar
prosegue con un lampo di trionfo nello sguardo, come se si fosse
improvvisamente ricordato di qualcosa di importante: “Le buone maniere mi impongono però prima di tutto di porgerle i miei
ringraziamenti, Miss Granger...".
"Ringraziamenti?" chiedo sgomenta, aggrottando le
sopracciglia. Non posso neanche immaginare che cosa diamine possa aver fatto
per meritare i suoi ringraziamenti.
Qualcosa di
riprovevole senz’altro.
Per questo sono sbigottita oltre misura quando Adamar chiosa ovvio: "Per
avere contribuito alla distruzione del Signore Oscuro. Mi tediava la sua
presenza... terribilmente emotivo, ossessionato e tormentato…”, le mie dita si
artigliano attorno ai braccioli della sedia su cui sono seduta, mentre i
polpastrelli descrivono la trama in rilievo degli intarsi. Tutto potevo
immaginarmi tranne che un ringraziamento simile… e specie in questa forma. È
come se avesse marcato enormemente la differenza esistente tra lui ed il male
comune, al punto che può permettersi di definire un mostro come Voldemort
semplicemente come emotivo. E non è assolutamente un aggettivo che avrei
coniato sull’incubo di metà della mia vita.
È evidentemente al di là del male… ed al di là del bene.
Al di là di
qualsiasi cosa mortale.
Si massaggia stancamente le tempie, ispirando un senso di pietosa
comprensione nella donna alle sue spalle che, per il resto, è rimasta sempre
immobile. Adamar quindi prosegue in modo volutamente pietoso come a voler
instillare affetto nei suoi confronti: “Era causa di continue emicranie. Ero
sul punto di intervenire di persona, quando lei e i suoi compagni l'avete
annientato. Le sono riconoscente…". Persino la donna mi guarda con
espressione cautamente sollevata, come se anche lei mi ringraziasse dell’aver
liberato il suo padrone da quella indicibile fonte di irritazione.
Getto un’occhiata in tralice a Draco che, a sua volta, mi restituisce
uno sguardo fosco e torbido, non prima di un ennesimo segno di indifferenza nel
viso contratto. Non basta questa sua rassegnazione arrogante, però, a mozzarmi
le parole in gola.
Non quando si parla della causa della morte di tanta gente che amo.
È quindi inevitabile per me dire a voce più alta ed acuta del normale: "Perché
allora non l'ha fermato prima?".
Adamar mi soppesa con lo sguardo con solenne pazienza non prima di aver
guardato la sua compagna con espressione indecifrabile, poi si sporge su di me
con fare complice e cospiratorio come se stesse per confidarmi un segreto. Non
indietreggio neanche di un centimetro, lo sfido con gli occhi a continuare. Ho
silenziosamente rimproverato Draco fino ad ora per il modo in cui si era
approcciato nei suoi confronti, temendo ritorsioni. Ma adesso, con la nettezza
abbacinante di un fulmine, comprendo che non voglio andarmene prendendo tempo e
simulando pazienza. Posso essere sgusciante e viscida, acquattandomi nell’ombra
e mostrando inveterato rispetto… ma se parla di me. O di Draco. Ma dargli anche
un minimo alibi di malcelata accettazione a quello che fa… non esiste al mondo.
Adamar sussurra in modo suadente, lo sguardo fisso sulle mie labbra,
l’ombra sprezzante del solito sorriso: "Esaudire un desiderio del signore
Oscuro avrebbe significato la distruzione di questo pianeta, Miss Granger. E la
vostra razza deve essere controllata, non annientata. Ed ammetto la mia
assoluta debolezza nell'essere ancora interessato al destino della vostra
progenie degenerata. Inoltre per diversi anni è stato un alleato. Contribuiva
a risolvere la sovrappopolazione di questo pianeta. Tutti quegli eccidi...
hanno spazzato via molta frenesia umana dal globo...”.
Le mie mani si aggrappano di nuovo ai braccioli della sedia come se
stessi per cadere per terra. Con una parte remota della mente, sento un
movimento di Draco alla mia sinistra che pare sconvolto e sbigottito,
esattamente come me. Voldemort era un suo… alleato. Ammazzava persone… e gli
impediva di essere eccessivamente disturbato dai sentimenti umani.
Poi è
diventato lui stesso una fonte di disagio… ed è stato grato che morisse.
È così che
ragiona. È così che vive: vorrebbe un mondo ammantato di silenzio, poco importa
chi sia a renderlo tale.
Se Dio o il
diavolo.
La mia espressione evidentemente palesa in modo inequivoco i miei
pensieri, perché Adamar si fa indietro con la schiena e guarda fuori dalla
finestra, esibendo uno sguardo d’improvviso stanco ed annoiato: “Non pretendo
che lei capisca. La moralità è un raffinato esercizio di perversione della
vostra stirpe. Una finezza lessicale che io, al contrario di voi, non posso
permettermi. Mi creda, ho ancora rimembranza di essa, la conoscevo bene nel
tempo in cui ero umano. Ma adesso, dopo millenni, la trovo così laidamente
inopportuna nel vostro mondo guasto da considerarla semplicemente una vetusta
abitudine borghese. Da puritani, da individui con scarsa visione del disegno
unitario. È come pretendere di guarire il cancro con uno sciroppo per la tosse.
Sono libero da tempo immemore da tali corruzioni del buoncostume. Perciò
comprenderà che, dal mio punto di vista, il gran numero di omicidi perpetrati
da Lord Voldemort ha potuto falcidiare una moltitudine di sentimenti
assolutamente disturbanti e molesti. E' stato... riposante, Miss
Granger. Lo devo ammettere. Ogni tanto, persino un’entità come me può trarre
piacere da cose come questa…”.
“E’ una cosa… disgustosa…” esplodo prima di potermi fermare,
mentre Draco fa un buffo cenno di gola, traducibile più o meno con “Stavi
rimproverando me… e poi sei decisamente molto più brava di me a farlo
incazzare”. Sbuffo, senza guardarlo.
Adamar torna a noi con espressione autenticamente divertita, ridendo
gaiamente. Ma nelle tenebre dei suoi occhi, è visibile qualcosa di sinistro e
di molto meno cortese. Rabbia. Me ne accorgo dalle vibrazioni che si
trasmettono ad alcuni manufatti di cristallo, sulla sua scrivania ingombra.
Tremano come se fossero impauriti.
“Mia cara…” ride affabilmente, guardandomi con dolcezza finta, una mano
contratta sulla scrivania “Non mi diventi come il suo sgarbato compagno.
Non ricevo molte visite, almeno non qui. E sono sempre stato affascinato
dall’arte sublime della conversazione. Ho sentito molto parlare di lei, Miss
Granger, so che ha delle doti dialettiche molto spiccate. Non troverò una
conversatrice così mirabile per molto tempo. Mi conceda perlomeno questa
parentesi di piacere in una vita di così opprimente fatica…”, la sua
voce si colora anche di una venatura volutamente ironica, accompagnandosi ad un
impercettibile movimento delle sopracciglia che mostra arroganza e presunzione.
Aggiunge quindi ovvio: “Mi preme anche sottolineare che finanche dura il mio
diletto, nonché il mio interesse in voi, potrò evitare di domandarvi che ci
facciate qui. Giungendo a dover prematuramente troncare le vostre speranze ed
aspettative di vita…”. La sua minaccia pare così gentile che, per un attimo,
passa quasi inosservata alle mie orecchie. Poi deflagra con potenza, seccandomi
la gola e ricordandomi con potenza che cosa siamo venuti a fare qui.
A morire,
sicuramente. Ad uccidere lui, irrealisticamente.
“Quindi conversiamo, sarà decisamente meglio per tutti…” soggiunge gaio
con un nuovo irritante sorriso, prima di chiedere con calma facendo un gesto
alla donna alle sue spalle: “Tè?”.
La donna fa comparire praticamente dal nulla, senza l’ausilio di alcuna
bacchetta, un vassoio con un servizio da tè antico di rame scuro, con delicati
intarsi. Per pochi secondi, in un gesto così semplice e casalingo, anche in lei
si rivela un enorme potere magico. Poggia il vassoio sulla scrivania porgendoci
due tazze dall’odore invitante. È Earl Grey, lo riconosco dall’odore di
bergamotto. Eppure, per un secondo, titubo all’idea di bere l’intruglio
preparato dall’affascinante tuttofare di un demone millenario: potrebbe anche
essere avvelenato. Poi, ricordo con tempismo che comunque vada, quest’essere mi
ha in suo potere. Non è nel suo stile propinarmi una bevanda avvelenata. Un
rimedio così banale per qualcuno di così potente è decisamente idiota.
Sorseggio quindi con calma il tè, attenta a non scottarmi.
Draco, invece, lo porta alle labbra ma non vuota la tazza.
“Domando scusa…” soggiunge d’improvviso Adamar profondamente contrito,
poggiando la sua tazza sulla scrivania con un piccolo clangore metallico “Non
vi ho presentato la mia diletta Eva. L’ho detto, troppa poca conversazione in
questi anni…”. La donna fa un cenno vezzoso con il capo come a volersi
presentare, sebbene sia stata presente in questa stanza fino ad ora. La luce
del sole che entra dalla finestra fa scintillare il cameo della rosa bianca al
suo collo.
Prendendo al volo l’occasione di tergiversare e di assecondare almeno
per ora la sua indole ciarliera di modo da capire quante più cose possibili su
di lui, chiedo non senza una buona dose di curiosità prendendo un lungo sorso
di tè: “Lei è… umana?”.
Adamar pare
sinceramente soddisfatto dalla mia domanda come se fossi un’alunna diligente e
rispettosa, e squadra Eva dalla testa ai piedi con uno sguardo frammisto tra il
rispetto, l’adorazione e la soddisfazione personale. Lei si ritrae umile,
piegando la testa.
“Lei è la
sola umana degna di vivere sul vostro pianeta…” sussurra Adamar, non distogliendo
un attimo lo sguardo da lei come se ne fosse infinitamente rapito “Per questo
le ho dato il nome della prima miseranda femmina della vostra specie, sperando
che un giorno tutto il mondo diventi come lei…”, i suoi occhi tradiscono una
vena reale di emozione, somigliante a quello che in un uomo chiamerei palpito
di cuore. Ma in verità, ancora, dubito che sia questo. Ha la gestualità di una
persona, non i pensieri e le intenzioni. Quindi sicuramente c’è sotto altro.
Torna quindi a guardarmi e previene le mie domande in modo quasi meccanico: “Ma
se mi chiede se Eva è come me, oppure se sia come lei, Miss Granger… la
risposta è quasi, per entrambe le
cose…”.
Quasi…
Quasi umana… quasi demoniaca… che cosa diamine è, allora?
Improvvisamente
tutto della donna mi pare clamorosamente artificioso, inumano, impossibile. La
pelle liscia, i capelli privi di imperfezioni, lo sguardo trasparente, i gesti
lenti. Persino la collana che porta al collo e con cui ora giocherella con due
dita. Non poteva essere umana… era naturale… cosa è allora?
“Mi ricordi,
Eva, cara, come ti chiamavi prima?” le chiede Adamar, poggiandole con
naturalezza e confidenza una mano sul fianco, esortandola ed invogliandola alla
risposta. Eva pare emozionata dal contatto, o almeno così dice la sua smania
improvvisa di rispondere. Eppure i suoi occhi restano assolutamente
indifferenti.
“Mi faccia pensare, Eccellenza… è passato così tanto tempo…”.
“Credo quasi trecento anni…” ride Adamar con il tono di voce di un uomo
avanti con gli anni che vagheggia sul tempo perduto.
“Non ho avvertito un secondo di queste decadi con lei, Eccellenza…”
mormora lei sicura, azzardandosi per la prima volta a guardarlo in viso, una
traccia di rossore sul viso pulito. Adamar le risponde con un sorriso a suo
modo grato, a suo modo persino romantico, da cavalier cortese. Ma so che non
prova amore… so che non prova niente… e quindi ancora di più, mi stringo alla
mia tazza ormai tiepida, chiedendomi come faccia a dissimulare così bene queste
emozioni umane. Eva ha un singulto negli occhi chiari, che sembra incredulo e
perplesso come se facesse fatica a ricordare e a capacitarsi che quello che
rammenta sia vero: “Adesso ricordo. Lucille Dubois. Mi chiamavo così…”.
I sensi mi si mettono subito in allerta.
Angelique e
Francois Dubois. I primi e gli unici che hanno provato la Solutio Damnationis,
prima di noi. Quelli che il nostro cortese ospite… ha fatto a pezzi.
La voce incerta chiedo dubbiosa, convinta che non possa trattarsi delle
stesse persone: “Dubois… come i fratelli della Solutio
Damnationis?”.
“Memoria
eccellente, mia cara” si compiace Adamar, guardandomi deliziato ed azzardandosi
persino ad un entusiastico battito di mani, causandomi un ulteriore spasmo
nello stomaco per quanto mi sia impossibile immaginare un collegamento tra lui
e le vittime della sua peggiore ferocia. Peraltro ha parlato di trecento anni… questa donna ha trecento anni… che il diavolo
ti renda davvero eternamente giovane?
Con i tempi
ci siamo.
Angelique e
Francois vissero durante la Rivoluzione Francese. Così ci ha detto Helder.
Di fronte al mio sbigottimento, Adamar spiega con lentezza enfatica: “Eva
era la sorella maggiore di Angelique e Francois. Empatica anche lei, come tutta
la sua famiglia. Aborrì ciò che fecero ai suoi congiunti… la creazione del
sentimento incestuoso di amore… e quando morirono, comprese la portata della
mia missione. Mi pregò di prenderla al suo servizio, di vincolare la sua vita
alla mia, di esistere fino a quando avessi bisogno di lei, di essere mia
ancella, compagna e confidente. Ammetto che all’inizio ero dubbioso, non ho mai
avuto bisogno di assistenza. Ma quando Lucille ebbe l’ardimento di pormi una
richiesta di cui nessun uomo mi ha ancora reso oggetto… mi soggiogò… una donna
dalla così consapevole lungimiranza non credo che sia ancora nata…”.
Lucille, o meglio Eva, ha un nuovo sorriso di profondo piacere, sembra
inarcarsi come un gatto che riceve le fusa: “Lei mi lusinga,
Eccellenza…”.
“Cosa… le chiese?” sussurro spaventata con un filo di voce.
Adamar fa un sorrisino beffardo, saputo, profondamente arrogante,
soppesandomi con un’espressione di profonda superiorità morale e fisica. Si
guarda persino le unghie per qualche istante ostentando nonchalance, e sorride
quietamente ad Eva che gli risponde calorosamente. Poi, sporgendosi, bisbiglia
bieco: “Silenzio del cuore. Eva mi chiese il silenzio del cuore. Totale,
irreprensibile, insondabile, invalicabile. Non voleva provare più nulla che non
fosse la devozione per me…”, rabbrividisco paralizzata, la sensazione di mille
granchietti ghiacciati che arrancano sulla schiena, sul collo, sulla nuca, sul
cuoio capelluto, ovunque.
Come uno
Zahir. Ma totale.
Ci ho quasi
rimesso la sanità mentale, perdendo un solo sentimento. Come deve essere stato…
perdere tutto… tranne l’adorazione religiosa per un demone?
Mi stringo nelle spalle, cercando di fermare il tremore improvviso che
mi ha preso le membra, costringendomi anche a serrare i denti. Non riesco
neanche più a guardare Eva, immaginando il tetro gelo che sente dentro: ho come
l’impressione che quegli occhi calmi e serafici possano succhiarmi via l’anima
dal corpo.
Adamar prosegue soffuso con il tono di una confidenza tra amici:
“Lucille sapeva che una parte di lei avrebbe continuato a provare avversione
per l’uccisione dei suoi fratelli. Quindi prese questa giudiziosa risoluzione.
E devo concedere che la sua cooperazione è stata oltremodo remunerativa in questi
secoli… Eva ha meno reticenze di me a viaggiare, trasmette la memoria della mia
esistenza a chi ha in sé la capacità di invocarmi. Se non fosse per lei,
probabilmente non avrei più menzione in questo mondo. Da una parte i babbani e
la loro fetida tecnologia, rinnegante di qualsiasi cosa incomprensibile alle
loro piccole e sciocche menti; e dall’altra parte i maghi, che non hanno la più
basilare conoscenza dell’origine dei loro poteri, nonché delle loro vite. Non
mi sorprende dunque che vi lasciate manovrare a scadenze regolari da tiranni in
cappuccio. Eva è diventata essenziale…”, ha un sorriso da diavolo, da mostro,
da inferno, oscuro e nero come la notte che fa rilucere gli occhi come se
fossero di fuoco liquido. Si fa indietro con la schiena, guardando Eva con una
risata, a cui lei risponde con uguale ilarità come se stesse raccontando un
aneddoto divertente: “…ma del resto avrei dovuto intuirlo da come sbrigò la
questione con quel tale inglese… Dorian Grey… fu davvero un momento… soddisfacente…”.
Impallidisco, mi ritraggo su me stessa e chiudo senza accorgermene la
mia mano sulle labbra fredde. Dorian Grey… una creatura da romanzo.
Un uomo che vendette l’anima… per essere eternamente giovane. E ne morì
devastato dal vizio e dall’immoralità.
Non era una storia. Non era un romanzo.
Era… vero.
Vendette l’anima a… lui.
Che
speranze… abbiamo io e Draco? Quali… se del suo potere malvagio e cancerogeno è
metastatizzata da millenni l’intera umanità?
La sensazione di impotenza, di terrore, di disgusto, diventa una
cascata di sudore freddo sulla schiena, inasprita ed esacerbata dalla visione
di Eva ed Adamar che continuano a sogghignare spensierati, come se stessero
rievocando qualcosa di sommamente ilare. Asciugo freneticamente i palmi sudati
sul tessuto dei pantaloni che porto, ricavandone solo un ulteriore sensazione
di fastidio bollente, mentre il respiro aumenta di frequenza e diventa sempre
più simile ad un rantolo scomposto, come se stessi andando in apnea.
È allora che, naturale come un angelo custode, la mano di Draco copre
la mia, la stringe forte e mi restituisce calma e coraggio. Lo guardo
terrorizzata, il viso cinereo, il respiro che non ne vuole sapere di
sciogliersi, gli occhi lucidi, l’ansia che mi gonfia il petto. Draco non fa
altro che simulare un lungo respiro profondo, costringendomi quasi ad imitarlo,
per poi scuotere impercettibilmente il capo, come se mi dicesse silenziosamente
di smettere di fare domande. Ha ragione. Io sarò anche stata il Capo degli
Auror… ma come conosce lui il male… non lo conosce nessuno.
Non si deve
mai lasciarlo parlare, fare domande, cercare di capirlo… ti trascina in basso
all’inferno, senza darti scampo alcuno.
Lui… il
male, lo conosce da anni.
Per quello è
stato zitto. Per quello non ha chiesto niente. Per quello ha esibito arroganza
tracimante rabbia.
Per non
farlo parlare…per non darsi spacciato,
per recuperare coraggio.
Non siamo
qui a cercare di resuscitare il bene. Siamo qui per battere il male.
E il male
non lo si sta ad ascoltare.
Accarezzo con il pollice il palmo della sua mano annuendo, dando segno
e cenno che ho capito che cosa mi sta dicendo.
Draco lascia la mia mano prima di commentare scocciato: “Possiamo arrivare
al punto della questione? Non siamo venuti qui a fare conversazione, o ad intrattenerti
amabilmente…”.
Adamar ha un moto di stizza nervoso, mentre viene interrotto dalla sua
piacevole rievocazione di atrocità con Eva. Ci guarda con espressione
disgustata, come se fossimo delle specie di ratti, storcendo le labbra in una
smorfia elegante di disapprovazione mentre osserva Draco. Ma stavolta non trova
alcun gesto di biasimo o rimprovero in me: anzi gli rimando lo sguardo al
mittente con forza.
“Signor Malfoy, se conoscesse le dinamiche della biologia, saprebbe
benissimo che al topo non conviene richiamare l’attenzione sull’appetito del
felino…” mormora seriamente, non prima di un raffinato ghigno di scherno
dipinto sulle labbra sottili “La sua compagna ha avuto decisamente più
buonsenso di lei, con il suo delizioso silenzio e la sua vereconda curiosità…
ma visto che ci tiene così tanto, possiamo anche dedicarci alle questioni che
più da vicino ci competono…”, prende fiato e ci dedica un’espressione neutra
come se fossimo appena entrati in casa, mentre incrocia le mani sulla
superficie del tavolo ed aggiunge sardonico: “A cosa devo il piacere della
vostra visita?”.
“Come a cosa devo il piacere?!” reagisce Draco con violenza, sbattendo
i pugni sulla scrivania e facendo incrinare lievemente una statuina antica “La
Solutio damnationis, razza di mostro! Siamo qui per questo! Non credo che ci
abbia lasciato molta scelta, bastardo… i Karkaroff hanno nostro figlio… e a
quanto pare ti sei sempre bellamente impicciato delle nostre questioni…”.
Spaventata dalla sua reazione, nonché enormemente di più dalla
ritorsione di Adamar, chiudo la mano sulla spalla di Draco cercando di
calmarlo, mentre spio con la coda dell’occhio la reazione del demone. Adamar
però non fa altro che sistemare la statuetta spostata dall’impeto di Draco,
rimettendola al suo posto, per poi sfregarsi con stanchezza annoiata una tempia
con due dita.
“Ah signor Malfoy, lei e la sua indignazione facile…” si rivolge
a me con espressione pietosa e compassionevole “Mi dica, Miss Granger, come
interloquisce con lui? Deve essere davvero snervante…”, non nego che
sono fortemente tentata dal rispondere piccata che non è una passeggiata di
salute stare nella stessa stanza con Draco Malfoy e un demone che giocano a
punzecchiarsi come ragazzini, ma soprassiedo, esibendo un’espressione incolore.
Draco, intanto, appoggia di nuovo la schiena alla poltrona, apparentemente più
calmo.
“So perfettamente che siete qui per questo motivo, vi ho sentito mentre
pronunciavate l’incantesimo davanti ai signori Karkaroff…” mormora scocciato
Adamar, schioccando la lingua con fastidio “Ma ho sperato che la nostra piccola
conversazione vi avesse dato il sufficiente tempo materiale per comprendere
quanto sia vano quello che siete venuti a cercare qui. Vi lascerei persino
tornare indietro se mi confessaste in tutta sincerità che avevate decisamente
sottovalutato le dimensioni di tutto quello che vi potrebbe accadere, se
doveste porre la vostra vita e la vostra anima in mano mia…”. Lo guardo con un
sopracciglio inarcato: non è che avessimo granché scelta se non questo.
L’abbiamo chiarito a noi stessi ed ai nostri cari in tutte le maniere
possibili. Non avevo alcuna priorità di venire qui, anzi. Quindi le sue minacce
sono abbondantemente inutili, giunti qui. Non ho nulla in comune con la causa
degli Empatici e, nel mio sano egoismo, potevo anche pensarlo ad infelicitare
la Terra con la sua presenza, purché non toccasse chi amo. Ma non ce l’ha
permesso. La dissuasione, adesso, è un semplice giochetto mentale… sembra che
gli piacciano, in fondo. Per questo ne vengo abbastanza irritata, incrociando
le braccia al torace in modo meccanicamente seccato.
“Ci risparmieremmo molti fraintendimenti nonché fastidi e disagi se
decidessimo di essere sinceri gli uni con gli altri. Quindi pretenderò da voi
la stessa dose di adeguata onestà che adesso vi tributo…” inizia con voce
monocorde Adamar ruotando lievemente con il busto, fino ad avere il panorama
della finestra davanti agli occhi e non più noi due, come se d’improvviso ci
trovasse repellenti “Vi riconosco un attaccamento genuino l’uno nei confronti
nell’altra, non siete vittime di un artificioso affetto indottovi come accadde
per gli sfortunati fratelli Dubois. Ma è il vostro solo punto a favore. L’unico.
Vi ho già detto che adoro le metafore? Rendono complicate immagini molto più
gestibili da qualsiasi tipologia di mente. Ve ne pongo una, dunque. La gazzella
è vittima e preda naturale del leone. Se le dessimo un’arma da fuoco, avrebbe
ogni mezzo per potersi difendere. Peccato che non saprà mai come utilizzare il
mortifero utensile. Ecco dunque cosa siete voi due con la Solutio damnationis.
Avete un’arma di incredibile potenza, ma non ne conoscete minimamente
l’utilizzo. Molto deplorevole. Gli Empatici ha una strana quanto
inconsueta abitudine ad indirizzarmi individui di cui io possa fare macero. La
Solutio damnationis mette alla prova un’emozione umana che ho già incontrato e
non distrutto per ben due volte. Nondimeno, gli uomini si sono incaponiti a
volermi battere con l’amore. Madornale errore, ne converrete anche voi. Siete molto
più puri ed eburnei nel disprezzo, nell’odio, nel rancore. L’amore è
un’emozione troppo multiforme, da potersi considerare pura per alcuno.
Necessita di vitale e quotidiano sostentamento di una gamma così ampia di
sentimenti positivi, da disgustarmi profondamente. Fiducia, speranza, forza,
coraggio, persino una certa ardimentosa dose di sano istinto al sacrificio e al
compromesso. E mi duole ammetterlo, ma il vostro sentimento è manchevole di
ognuna di queste gradazioni. Non eleviamo un’attrazione sessuale ed un becero
attaccamento emozionale ad un grande amore. Neanche in due individui del tutto
particolari come voi. D’accordo, avete doti complementari ed elevatissime
rispetto alla media della vostra razza. Ma non si esalta una mosca bianca in
uno stormo di insetti neri: è pur sempre un parassita che si nutre di letame,
mi scuso per la volgarità di questo infelice paragone. Analizziamo i fatti con
discernimento, volete?”, fa un lungo respiro profondo e torna finalmente a
guardarci, un’ombra di sorriso sulle labbra. Ha un ultimo sguardo per Eva, lei
non ha minimamente cambiato espressione a nessun accenno ai suoi famigliari.
Adamar quindi prosegue spavaldo: “I fratelli Dubois erano due Empatici dei più
valenti, vennero a me dopo mesi di estenuante addestramento, avevano nozioni e
preparazione incredibilmente accurate riguardo alla mia intera vita e alla
gamma dei miei poteri. Erano persino adorabili nelle loro pose militaresche e
nelle loro menti mute, così che io non conoscessi nulla dei loro pensieri e delle
loro debolezze. Erano oggetto di un sentimento oltremodo limpido, non come il
vostro così sporcato da emozioni negative. Scardinai le loro difese in dodici
ore. Ci avrei anche messo meno ma volevo punire la loro incredibile
supponenza. Prima demolii interamente le loro menti, annegandoli nella paura. E
quando non erano null’altro che fragili gusci tremanti di bieco terrore,
polverizzai le loro inermi membra umane. Ricordo ancora la fragranza del sangue
della ragazzina, Angelique. Mora di bosco e miele di lavanda. Dolcissima”.
Annaspo con un brivido all’espressione goduriosa e voluttuosa del
demone che sembra stia pregustando di nuovo quell’aroma fragrante. Mi porto la
mano alle labbra in preda ad un sinistro conato di vomito, che reprimo a
stento. Ad incentivare la mia sensazione, è sempre l’assoluta mancanza di
reazione di Eva.
“Che cosa sei, oltre ad un pazzo visionario?” esplode Draco con una
risata disgustata, guardandolo torvo “Un vampiro, anche?!”.
“Ah no, signor Malfoy. Fu semplice frenesia rabbiosa” lo corregge
bonariamente Adamar con un gesto noncurante della mano “Non riuscii a
contenermi dal farli letteralmente a pezzi. Mi creda, lei e Miss Granger non
correte almeno questo rischio. Non mi state ingannando, non siete così
ottusamente sciocchi. Se giungessimo davvero alla Solutio damnationis, avrei
enorme rispetto delle vostre spoglie umane. Concederei alle vostre famiglie il
ristoro di una degna sepoltura. Non vi state burlando di me, sento l’eco di un
affetto che vi ha unito e che ha generato il vostro adorabile figlioletto…”.
“Di cui lei ha avuto responsabilità nella nascita, non è così?” sputo
fuori tagliente, come se stessi ingurgitando veleno.
È la sola cosa che davvero sento come fastidiosamente perforante nel
mio cervello, persino più del pensiero di morire. Draco, accanto a me, ha un
movimento deciso della mano. La contrae e la rilassa un paio di volte, come se
si stesse trattenendo dallo spaccare qualcosa.
“Certo, Miss Granger. Dovevo esaudire le volontà della piccola Astoria
Greengrass. E nondimeno la richiesta della giovane Astoria era
straordinariamente incline ai miei stessi desideri, caso più unico che raro… del
resto ciò che è opposizione si concilia e dalle cose differenti nasce
l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contrasto… lo diceva
Eraclito, un grande filosofo…” mi risponde Adamar con calma guardandomi in
tralice. Ha negli occhi qualcosa che mi sfugge, qualcosa che non comprendo,
specie in quella citazione colta che sembra attaccata con un pretesto. E che mi
fa congelare repentinamente sul posto.
La richiesta
di Astoria… quella di avere un bambino Malfoy… era incline ai suoi desideri.
Quali
desideri, maledizione?
Adamar fa volutamente sfuggire il filo di quell’allusione, proseguendo
atono: “La mia natura demoniaca non ha ancora
debellato tracce di una fervida e discutibile curiosità di stampo umano. Non so
se compiacermene o esserne ripugnato. Tale stranezza del mio temperamento è
stata ampiamente soddisfatta dalla nascita del vostro Alexander. Un fanciullo
eccezionale. Non ho mio malgrado alcuna dote di preveggenza del futuro, ma è
davvero semplice comprendere che diventerà un valente membro della sua stirpe.
Ha ereditato quanto di migliore aveste entrambi, ma c’è qualcosa di interamente
suo che potrebbe diventare fonte di enorme potere magico. La vostra avventura
con i signori Karkaroff mi ha consentito di conoscerlo molto prima del tempo
previsto, ne sono davvero lieto. Sarebbe nato probabilmente solo tra molti
anni… o non sarebbe nato affatto. Ma il mio intervento ha facilitato la sua
venuta al mondo. Avete generato vostro figlio in modo consenziente, ma ho reso
lei, Miss Granger, e mi scusi la crudezza di questo discorso, semplicemente più
fertile in quel dato momento. Non ha motivo di esserne colpita più di quanto
non sia prevedibile, visto l’enorme divario che caratterizza me e lei, nonché i
nostri potenziali, le nostre velleità, le nostre intenzioni. Mi creda, altri
non sono stati così fortunati da essere stati così marginalmente interessati
dal mio operare. In fondo, avete compiuto le vostre scelte con il massimo grado
di libero arbitrio possibile, eravate autenticamente attratti l’uno dell’altra,
persino… come si direbbe nel vostro caso?”, soppesa un attimo le parole con
espressione fintamente meditabonda, prima di pronunciare caustico: “Giusto…
eravate innamorati, scusatemi. È una
parola così abusata nel vostro mondo che la rigetto nel suo utilizzo. Dunque
gioite della nascita di quello che probabilmente resterà il vostro unico e
pertanto indiscutibilmente speciale erede. In un modo del tutto consequenziale,
dovreste anche porgermi i vostri ringraziamenti. Ma ho rimembranza della natura
fallacemente marcia che vi contraddistingue. Quindi non pretenderò alcun
omaggio in tal senso. Ribadirò solamente che è stata vostra specifica volontà
entrare nella mia orbita d’azione. Lei, Miss Granger, con lo Zahir. Il Signor
Malfoy, richiedendo il mio intervento.
Roteo gli occhi con una risatina, mormorando ironica, mentre incrocio
meccanicamente le braccia: “Ha parlato di essere onesti gli uni con gli altri,
no? Ed allora perché non ammette che ha sempre avuto un interesse in Draco?!
Perché non ammette che lo ha seguito da quando ha tradito i suoi genitori?”.
Un tremolio sulla mascella di Adamar mi informa immediatamente che devo
aver detto qualcosa di clamorosamente sbagliato, che l’ha infastidito
profondamente. La sua mano sinistra si stringe a pugno violentemente sulla
scrivania, come se si stesse trattenendo furiosamente dal chiudermele attorno
al collo. La nuca mi si inzuppa di sudore freddo, mi tiro indietro inutilmente
con la schiena e la mia mano corre alla bacchetta, come se effettivamente ci
fosse qualcosa da fare contro una sua reazione d’ira. Draco, a sua volta, si
sporge protettivo su di me, chiudendomi il polso con la mano e parandomi alla
sua vista con la sua figura. Gli stringo una manica della camicia come una
bambina, mentre fuori il panorama idilliaco che vedevamo cambia, si trasforma.
Il cielo viene solcato da pesanti nubi nere comparse all’improvviso che iniziano
a rovesciare acqua mista a grandine sui vetri delle finestre, sul tetto, sul
prato. Contemporaneamente si solleva un vento furioso, malsano, inumano, che
sembra voler scardinare la casa dalle fondamenta. Sbatte contro gli scuri come
una bestia in trappola, ambendo a noi e alla nostra distruzione. La sala cala
nel buio, la musica che ci ha accompagnato fino ad ora si interrompe
bruscamente sull’acuto della soprano. Mi aggrappo a Draco che mi stringe con il
braccio la vita, mentre nell’avvicendarsi dei lampi e dei tuoni, vedo solo gli
occhi sinistri di Adamar, adesso stranamente più allungati e dalla pupilla
sottile come quella di un gatto. Scintilla l’iride di oro facendoci luce,
mentre un’aura di colore nero l’avvolge completamente facendo ondeggiare i suoi
abiti. Un paio di soprammobili si infrangono, scaraventando di cristallo su di
noi. Draco mi copre, un frammento gli taglia la camicia all’altezza del
braccio, urlo preoccupata e spaventata chinandomi su di lui.
La voce di
Adamar supera la pioggia, il tuono e il rumore del cristallo che si rompe,
mentre urla con voce mostruosa: “Le solite paranoie umane. La solita indefessa
alterigia di ergersi al di sopra dei propri stessi simili nella convinzione di
essere diversi, migliori, speciali, unici. Non lo siete! Non lo siete mai
stati! Siete tutti identica feccia di universo che, per pura clemenza divina,
continuate ad insudiciare il globo! Rigurgiti di misericordia e di cattiveria,
impegnati a sbattere gli uni contro gli altri come cani rabbiosi! Come potrei
minimamente nutrire interesse in uno di voi? Che non sia un interesse allo
zittirvi per sempre, al rendervi creature mute ed incapaci di creare nocumento
a voi stessi?! Formiche, scarafaggi, ratti… che vomitano odio come amore, e che
in virtù di ciò da cui si lasciano manovrare, ammazzano, violentano, uccidono,
distruggono. Interesse… io proverei
interesse?! Dovreste solo che ringraziare che sia vincolato ad un codice di
onore che neanche nelle vostre più rosee aspettative di comprensione potreste
minimamente apprezzare, altrimenti vi avrei già estirpato tutti da questa
terra!”.
Nel suo
ultimo singulto di rabbia, la finestra si rompe ed il vento si abbatte nella
stanza, agitando fogli di carta e rovesciando oggetti a caso in un turbine
selvaggio. Quando ormai penso che è vicinissimo ad ucciderci, Draco si china su
di me chiudendomi tra le mie ginocchia e il suo corpo. Mi stringe forte al suo
torace proteggendomi la testa, ed a mia volta, mi stringo alle sue braccia, il
rumore del vento che mi impedisce di avere altri pensieri se non quello che,
per una sciocca arroganza, me ne sto andando prima ancora di aver davvero
provato la Solutio Damnationis.
Poi, soffice
come una piuma, la voce di Eva esplode di campanelle come se non stesse
succedendo assolutamente niente. Piatta, pacata, con il tono paziente di una
madre, dice soave: “Eccellenza, si calmi. È solo un’umana, non può comprendere…
non si agiti nel cercare di spiegare…”.
Tutto cessa
all’improvviso repentinamente.
Il rumore
della pioggia, il vento, il fragore degli oggetti distrutti. Quando Draco ha il
coraggio di lasciarmi andare ed io ho quello di aprire gli occhi, tutto è
tornato al suo posto. Il sole splende di nuovo fuori dalla villa, la finestra è
intatta, Adamar è di nuovo un attraente padrone di casa dallo sguardo giocondo
ed educato. Niente più occhi da diavolo: il respiro però non accenna a
decelerare nel mio petto. Continua furioso e forsennato e la mia mano si
artiglia a quella di Draco, incapace di lasciarlo andare. Discretamente, senza attirare
l’attenzione del demone, Draco mi accarezza il dorso della mano con il pollice
come a cercare di rassicurarmi. Gli getto un’occhiata che vorrebbe essere
ugualmente tranquillizzante, ma mi esce fuori solo un sorriso tremulo ed un
pigolio strozzato. Persino la sua camicia è perfettamente integra.
È il demone che abbiamo visto adesso, non la sua
incantevole copertura.
Ed è stata la cosa peggiore che abbia mai visto in vita
mia.
“Hai
ragione, Eva, mia cara. Un’imperdonabile défaillance…” mormora Adamar,
voltandosi per guardare la sua compagna che gli rimanda un sorriso
accondiscendente, inclinando la testa di lato“Un’ammissione di collera è implicitamente un riconoscimento di
uguaglianza con queste infime creature…”. Senza cambiare espressione, si volta
su sé stesso e torna a guardare me con le sopracciglia sollevate per il
dispiacere. Il terrore che mi mostri di nuovo quegli occhi orribili mi fa
serrare nella mia la mano di Draco, fino probabilmente a bloccargli la
circolazione.
“Mi scusi
anche lei, Miss Granger. Ho perso la nozione di me stesso…” sussurra accattivante,
esibendo un tono così mortificato da spingermi quasi ad implorarlo di perdonare
me invece per averlo così sconsideratamente innervosito. Per fortuna, quella
considerazione fugace riesce a riportarmi alla ragione ed alla calma. Riprendo
a respirare normalmente, mostrandomi superiore e largamente non impensierita
dal suo scoppio infantile di nervosismo. Lascio la mano di Draco solo per
esibirmi in un gesto noncurante e distratto, quasi dicendo che non è nulla.
“Lei
d’altronde è solo l’affascinante pappagallino della gente empatica…” chiosa
convincente, scoccandomi uno sguardo di compassione che contribuisce ad
eliminare la paura e a far risorgere la voglia di spaccargli la faccia “Lei mi
ripete diligentemente solo ciò che ha sentito dire. Non posso darle eccessive
responsabilità o volizioni nelle sue inopportune e scorrette supposizioni…”.
Evito di rispondergli altro, ma gli scocco uno sguardo spavaldo e per nulla
intimorito, a dimostrazione che la sua sceneggiata precedente è stata un abile
trucchetto, ma niente più di questo.
Riprende
quindi il filo del discorso, spiegando con convinzione: “Non ho mai avuto
interesse in Draco Malfoy. Se poi dobbiamo parlare di interesse alla vostra volgare e semplicistica maniera… è sempre
stato solo quello di… metterlo a tacere…”,
sussulto lievemente ma cerco di non darlo a vedere. Draco, invece, resta
assolutamente inerme, le braccia incrociate, come se questo discorso non lo
riguardasse affatto.
Adamar
riflette per qualche secondo, poi argomenta i suoi pensieri come se si
sforzasse di farceli intendere alla perfezione: “Si immagini una notte in cui è
particolarmente spossata da una lunga giornata di lavoro, finalmente è a letto
e il silenzio l’avvolge dolce e totale. Si immagini che, d’un tratto, nella
stanza irrompa il fastidioso gocciolare di un rubinetto che perde. Lo ignora,
chiude gli occhi, nasconde la testa sotto il cuscino e cerca di addormentarsi.
Ma il tediante suono si ostina a ripetersi costante nelle sue orecchie,
destandola ed impedendole di dormire. Ecco
cosa è Draco Malfoy per me…”.
“Io sarei
presente nella stanza al momento…” sbuffa Draco infastidito “Potremmo anche
evitare di definirmi un rumore fastidioso…”.
“Mi scusi,
signor Malfoy…” sogghigna Adamar, guardandolo con autentico divertimento “Era
il solo modo di rendere il concetto semplice e digeribile anche per voi. Lei
non è un’eccezione così rara, non è un qualcosa di così unico della sua specie.
Devo dire di essere stato molto tormentato da personaggi come lei in passato. L’evoluzione della società umana ha
notevolmente accelerato e diversificato le modalità di espressione dei
sentimenti umani, difficilmente riuscite al momento a tacitare ciò che sentite
e provate. Avete decine di strambe diavolerie con cui esprimere ciò che di
abietto vi scorre dentro. Io colgo soprattutto l’inespresso, il represso, il
nascosto. Ciò che non confessate neanche a voi stessi, nel silenzio e nel buio
delle vostre camere. Ebbene, secoli fa, nulla si esprimeva di personale, i
cuori scoppiavano di infami segreti e di passioni nefaste, credo fosse a causa
di un’educazione fortemente nobiliare e resa bigotta dalla religione. Ora non è
più così, incontro altri problemi nella mia quotidiana gestione della vostra
razza… ma non ne parlerò adesso con voi. Ebbene i sentimenti repressi, essendo
celati, sono ben più forti. E mi causano terribile insofferenza ed
incommensurabile assillo. I sentimenti espressi sono invece scocciature tutto
sommato tollerabili. Dunque, se incontro un individuo che ha ricevuto
un’educazione di vetusto stampo e dunque è abituato alla repressione di sé,
alla noncuranza, all’indifferenza, può ben comprendere quanto tarlo mi
provochi, specie se è ormai uno dei pochi su questa Terra…”, non capisco
minimamente dove voglia andare a parare con il suo discorso. Non sta dicendo
nulla di così singolare da qualificare come poteva essere interessato a Draco.
Adamar quasi
previene, però, le mie rimostranze, mentre soggiunge: “Però, potreste
giustamente obiettare che anche in Oriente vi sono ancora forme di educazioni
similari e non ne traggo il medesimo tormento. E a quel punto, vi spiegherei
sommariamente che Draco Malfoy è abituato alla noncuranza di sé… ma non è lo
stesso per il suo cuore…”.
È a quel
punto che taccio improvvisamente chiudendomi nelle spalle, ricordandomi con una
nitidezza accecante prima rimasta sepolta, che siamo qui davanti a questo
demone a farci sviscerare il cuore e l’amore che dovremmo provare l’uno per
l’altra. Quello che sta dicendo… non è per me una novità. Lo è certamente meno
per Draco che, in tono violentemente veemente, chiede con foga: “Che diamine
significherebbe?!”. Adamar mi lancia uno sguardo d’intesa, che si traduce
persino in una scrollata di spalle d’impotenza e di presunto riconoscimento
della banalità della domanda del mio compagno.
Ho sempre
saputo che Draco finge continuamente un disinteresse puro per ogni cosa, ma
che…dentro… non è affatto così.
Ribolle, rifiorisce ed annaspa di centinaia di cose diverse, da far impazzire.
Paradossalmente, Draco Malfoy è una delle persone più sensibili che conosco: ha
una lucida e meravigliosa attenzione per qualsiasi particolare ispirante la più
ampia gamma di sentimenti. Abbraccia amore come accoglie odio, non rinnega mai
nulla di quello che sente e prova. Ma, siccome è semplicemente… troppo… molto più delle persone normali…
fa finta di non accorgersene. È un meccanismo di difesa: il solo modo che gli
hanno insegnato.
Ovvio che,
se Adamar lo percepisce, per lui sia stato un tormento ed un desiderio continuo
tacitarlo. Sporcando la sua anima, spingendolo a chiedere il suo aiuto, lo
avrebbe ucciso quel massacrante riflesso di viva umanità.
E, visto come lo guarda… come si guarderebbe un dolce…
non penso che si sia ancora arreso a quell’idea.
“Signor
Malfoy, la sua continua provocazione nei miei confronti sarebbe persino ilare
se comprendesse quanto abbia io e sempre il coltello dalla parte del manico…”
sorride bonario Adamar, fissando Draco con compassione dolciastra “Devo forse
rivelare quanto e cosa provi per quella donna, che le siede accanto? Quanto
confonde costantemente adorazione e desiderio, con rabbia e rimpianto? Prova
così tante cose nello stesso momento da ammattirmi…”, mi piego su me stessa
quasi a volermi rendere invisibile e cancellarmi da questa conversazione,
mentre Draco si muove a disagio sulla sedia come se temesse che dica qualcosa
di più del necessario. Adamar sorride ancora serafico, poggiando il mento sulle
mani incrociate e snocciolando con voce ferma: “Da quando è qui, è stato preoccupato per lei, infastidito da lei, affascinato da lei, infuriato
con lei. E tutto questo, sempre, nell’arco di pochi secondi. Se non crede che
ne possa ricevere indubitabile oltraggio, allora dovrò ripetere il mio
ragionamento di poco fa con termini ben più semplici… è sempre stato così per
tutto ciò che ha riguardato Hermione Granger…”. Non sollevo lo sguardo neanche
per caso fingendomi profondamente interessata alla moquette verde smeraldo. Non
sta dicendo nulla di nuovo, né per me, né tantomeno per Draco immagino. Eppure
il terrore che vada a scavare in qualcosa di così profondo da non voler essere
ancora né sentito, né affrontato a viso aperto da me o da lui, mi fa soffocare
di vergogna ed imbarazzo. Ed è assurdo che adesso tema più questo, piuttosto
che concretamente l’ipotesi che ci ammazzi su due piedi.
“Per questo
ho compiuto l’enorme errore di valutazione di considerare lei, signor Malfoy,
completamente scevro da sentimenti per l’incantevole donna che le siede
accanto…” si giustifica frettolosamente Adamar, riprendendo a parlare con voce
tranquilla, Draco continua a dimenarsi sulla sedia come se fosse punto
dall’ansia di interromperlo “Ha celato l’amore a sé stesso fino a quando ha
potuto. Lo cela ancora adesso, sebbene per motivi differenti. Tornando a noi,
crede che un sentimento simile, sporco per lei al punto da rinnegarlo sempre e
da accettarlo solo quando ne ho può fare più a meno, possa davvero nuocermi in
qualche modo? Parliamoci chiaro, signor Malfoy. La osservo da così tanti anni
che posso ardire di parlarle in modo franco…”. Fa una terribile e lunghissima
pausa, studiata al punto tale da indurmi ansia anche solo con il senso
dell’attesa.
Persino il
tempo sembra sospeso. Non sento neanche più il suono degli uccelli, fuori dalla
finestra.
Quando
riprende a parlare, ha una voce completamente diversa, che faccio fatica a
riconoscere e che mi fa drizzare la schiena. E’ lenta, lamentosa, scandita,
sporcata da un accenno quasi di pianto malinconico somigliante ad una nenia o
ad una ninna nanna. Ma è storpia, storta, orrendamente grottesca e
cantilenante, al punto da spingere a chiudere gli occhi per un contraccolpo
sonnolento.
Quando
sollevo lo sguardo, seguendo le sue parole, vedo che Draco non si muove più. E’
immobile, fermo, grigiastro nel volto e con le labbra bluastre. Lo guarda con
gli occhi spalancati, le labbra semi-socchiuse e l’espressione stravolta.
Preoccupata, sconvolta, mi volto verso Adamar sgomenta e noto finalmente che ha
di nuovo quegli orribili occhi di poco fa.
Dorati, con
la pupilla stretta.
Continua a
parlare con voce monotona e monocorde, come se stesse soffiando fuori una
filastrocca vecchia: “Lei, signor Malfoy, non è semplicemente nato per questo. Per le relazioni, per
l’impegno costante di prendersi cura di qualcuno, per essere genitore. Mi
creda, incontra tutta la mia compassione in questo, l’umanità è da sempre
terribilmente incline a dare rilevanza a tali dimessi palliativi per la
solitudine a cui intimamente siete obbligati. Ed anche lei, nel suo profondo,
ha un’aspirazione perenne a vincere il suo endemico stato di eremo, ma…semplicemente
non le riesce. Crede di essere maturato dai tempi di Helena Greengrass?
Certo che sì, si prende cura della sua adorabile e vezzosa figlioletta, ha una
magione rispettabile e curata, adorna le pareti di foto del suo passato…”.
Sta cercando di suggestionarlo, sta cercando di
convincerlo… che ha ragione…
Draco
diventa sempre più bianco in viso, temo quasi che spirerà senza che io possa
impedirlo e senza che cambi espressione. Mi guardo attorno, spaventata,
cercando qualcosa che io possa fare per fermare la litania del demone. Ma un movimento
impercettibile di Eva alle spalle di Adamar mi fa supporre che mi ammazzerebbe
lei stessa se osassi fare qualcosa. La sfido con lo sguardo, non mi spaventa
affatto ed anzi estraggo la bacchetta mostrandole che non ho assolutamente
paura di misurarmi con lei.
Eva, però,
volutamente mi ignora, muove solo le labbra un paio di volte, sillabando
qualcosa. E semplicemente così, in pochi soffi di fiato, annulla ogni mia
energia. Ogni mia volontà.
Improvvisamente…
è come se dovessi solo ascoltare, solo stare ferma, solo sapere che non è
questo che ucciderà Draco Malfoy, solo rassicurarmi che non accadrà nulla di
irreparabile.
Mi lascio
andare passivamente a quella forza sconosciuta, mentre Adamar continua a
parlare convincente, raccontando quella che, a suo modo, ritiene la verità.
Quella che
anche Draco, ormai livido, ha sempre ritenuto essere la verità.
Quella che
persino io, a mio modo contrastato ed indocile, ho spesso sperato che non fosse
la verità.
“Io e lei
sappiamo che non è così, signor Malfoy…” continua Adamar, lanciandomi uno
sguardo obliquo di soddisfazione di fronte al mio gelo calmo “Avanti… non
divertiamoci in un triviale giochetto nel quale ci fingiamo migliori di quello
che siamo. Lei rovina tutto ciò che ama, lo fa a pezzi perché è convinto di non
poter essere sul serio oggetto di affetto e di sentimenti sinceri. Dissemina di
trabocchetti il sentiero per arrivare a lei, gloriandosi della facilità con cui
gli altri individui sovente vengano sopraffatti dalla raffinatezza signorile
delle sue tagliole. Prospera e fruttifica in infeconde storie da letto, come
quella con la procace signorina Karkaroff. Avrei davvero benedetto una vostra
unione. Un tale carico di rancoroso insulto alla vita e all’amore meritava una
possibilità. A lei, signor Malfoy, non interessa essere amato: interessa
dimostrare che non è degno di esserlo.
Ci pensi. Ci rifletta su. La donna che le siede accanto… è un’amazzone. Una guerriera. Ha lottato per lei dal giorno in cui
sciaguratamente ha capito di amarla. Ha messo persino al mondo il vostro erede
ed era sola, senza alcuna evidenza di rincontrarla. Invece, signor Malfoy, lei
è sempre fuggito. Le ha persino offerto in dono un anello maledetto per indurla
alla ritirata. Il suo inconscio è straordinariamente autorevole nella
premeditazione dei suoi fallimenti. Nondimeno, se vogliamo essere del tutto
schietti, non è neanche propriamente una sua esclusiva mancanza. È lapalissiano
che non sappia che significa lasciarsi amare, dato che i suoi stessi genitori,
scegliendo la sicurezza ed il potere al suo posto, le hanno dimostrato
precipuamente che non era degno di essere amato. Un’efficiente profezia, la
loro. Preconizzatori di quello che lei, prima o poi, avrebbe fatto loro. Credo
che si dica occhio per occhio, dente per dente: curiosa espressione che denota
rozzezza, ma indubbiamente è un sintagma lessicale potente. Le metafore sono
l’unica cosa salvabile della vostra comunicazione sciatta, ve l’ho già detto,
vero?”, ha un sogghigno che gli lascia scoperti i denti bianchi, come se si
affannasse a calarglieli nella pelle del collo. Quell’ombra maledetta nello
sguardo, quell’improvvisa certezza che potrà
anche non ucciderlo fuori ma lo sta ammazzando
dentro, rompe con il fragore del vetro rotto l’incanto indottomi da Eva.
L’ansia, l’angoscia e la preoccupazione tornano prepotenti nel mio petto,
mentre Adamar aggiunge venefico verso un Draco ormai ad occhi chiusi,
abbandonato contro lo schienale della poltrona: “L’hanno tradita. E lei ha fatto lo stesso con loro. L’amore
filiale è sempre così dannatamente commovente,
vero, Eva? Come potrebbe lei, dunque, amare a sua volta?”.
La sola cosa
che riesco istintivamente a pensare di fare per metterlo a tacere, è mettermi
ad urlare a mia volta: “Smettila! Lascialo stare! Immediatamente!”.
Le corde
vocali mi vibrano per il contraccolpo, ma per fortuna la nenia del demone si
interrompe: di nuovo i suoi occhi tornano normali, mentre mi tributa uno
sguardo sorpreso e meravigliato, prima di un sorriso derisorio e cautamente
ammirato. Mi avvicino a Draco sfiorandogli la guancia, ma lo vedo
immediatamente riprendere colore, tornare calmo nel respiro e scuotere la testa
come a cancellare quelle parole dalla sua testa. Non so se ci riesca
effettivamente, ma si limita a rispondermi con uno sguardo sofferto ma tutto
sommato sereno.
“Mi scusi
Miss Granger, non volevo ignorarla così a lungo…” mormora serio Adamar,
guardandomi. Noto immediatamente che stavolta tocca a me. Me ne accorgo da come
iniziano a mutare i suoi occhi, da come mi chiamino alla loro vista come se non
ne potessi fare a meno, da come tutto inizia ad apparire lontano e sfocato ad
eccezione della sua voce cavernosa e piagnucolosa.
“Non sia mai
che qualcuno la ignori troppo a lungo, vero?” mi chiede ironicamente, mentre mi
volto verso di lui. Stringo le palpebre in un ultimo singulto di volontà,
cercando di tenere fuori l’eco malvagio delle sue iridi dorate ma lo sento
ugualmente entrarmi nelle ossa, nei pensieri, nel cuore, mentre ripete
carezzevole: “Le riconosco grazia e forza, intelligenza ed ostinazione, ma non
mi dica sul serio che ha mai davvero investito in questa quantomeno inusuale relazione? Lei non è semplicemente
nata per questo. È un’eroina di
guerra, la strega più brillante della sua generazione, la prima della sua
classe. Ho memorie tangibili di lei, sin da quando era solo una bambina. La
seguo fin da allora, sa? Sentivo così tanto parlare di lei, che era diventato
un vezzo irrinunciabile in secoli di monotona osservazione della mediocrità
umana. L’ho vista eccellere nel pianoforte a cinque anni. Avere la meglio su un
troll di montagna ad undici. Risolvere l’enigma del basilisco a dodici. Ho
spesso potuto assistere alle sue mirabolanti imprese, fino alla caduta del
Signore Oscuro e alla sua ascesa come Comandante degli Auror. Aveva una
sfolgorante carriera davanti a sé, bastava allungare la mano per appropriarsene
in modo meritato. Ma lei, mia cara, si è fatta vincere dal tradimento del suo
innamorato. E lì è cominciata la sua discesa negli inferi: e solo così, solo in
questo tortuoso e discutibile modo scelto dal destino, ha potuto incontrare il
signor Malfoy…”. Le sue parole mi convincono come se mi stesse raccontando una
verità da sempre negata a me stessa, come se avesse sempre avuto ragione e io
fossi stata solo troppo cieca per accorgermene. La luce sinistra dei suoi occhi
è d’un tratto così forte che chiudo gli occhi vinta ed arresa, reclinando il
collo sulla sedia. Sento lontana la voce di Draco, ma non riesco ad afferrarla,
schiacciata da quella di Adamar: “Di base, miss Granger, ha semplicemente
abdicato a sé stessa e alla sua natura, per amare un uomo così corrotto e
marcio come il signor Malfoy. Ci rifletta su. Ha sempre candidamente ammesso
con sé stessa di odiare sé stessa, amando lui. La posso però ampiamente
rassicurare rivelandole che, molto probabilmente, il suo sentimento è fiorito
in condizioni estreme in cui non era in pieno possesso delle sue facoltà e doti
intellettive, e dove progressivamente ha cercato giustificazione per le
pulsioni fisiche che aborriva provare per quest’uomo, mascherandole nell’egida
di un profondo ed incontrastabile sentimento. D’altronde è una fanciulla testarda
e caparbia e si deve essere anche impuntata nella missione impraticabile di
salvare un uomo impossibile da redimere. È una caratteristica comune degli
individui di sesso femminile ungersi il capo d’olio sacro ed armarsi di divina
pazienza, convinte di poter cambiare i loro compagni. Le do abbondante merito
di aver sostanzialmente trainato l’esito di questa relazione, nella totale
inerzia del signor Malfoy. Ma non può realisticamente credere che sia sempre
stato questo il suo destino, frustrerebbe enormemente il suo intelletto
pensarlo. È qui per un mero incidente del caso, nonché per la progressiva
deteriorazione della sua sicurezza a causa delle disastrose relazioni con il
signor Weasley e il signor Thomas. Soltanto questa sua versione, mi permetta di
dirlo, difettosa, può concepire di
amare Draco Malfoy. Ci sguazza nel guano di questa vita al di sotto delle sue
reali possibilità perché ha un’indole irritante incline al perfezionismo, e non
perdonerebbe a sé stessa ulteriori errori di valutazione. Dunque, una scelta
clamorosamente errata l’ha trasformata nella sola possibile, l’ha persino
elevata ad un qualcosa di desiderabile che l’ha resa migliore. Ma in fondo a sé
stessa sa che non è così. In fondo a sé stessa, sa che giustifica il suo
sentimento solo per dare un padre a suo figlio ed ancora trovarsi oltremodo
criticabili alibi per perdonarsi di essersi eternamente legata a lui persino
con un bambino, sebbene così grazioso…”. Ha
ragione, sì, ha ragione, ha sempre avuto ragione…
La mia
volontà, ormai, è quasi completamente annullata, mi sento annegare in una sorta
di gelatina stopposa che mi avviluppa i pensieri.
Chiudo gli
occhi enormemente stanca, ma felice e soddisfatta, come se avessi trovato
finalmente la quadra del cerchio e fossi libera infine.
“Mi permetta
di darle un consiglio personale assolutamente disinteressato…” aggiunge ancora
Adamar con il tono dimesso di un vincitore schivo “Ricostruisca sé stessa
mediante il prezioso aiuto del signor Radcenko… ha un bel patrimonio genetico, il signor Radcenko…Aleksandra
FëdorovnaRomanova… sbalorditivo…”, chi diamine è Radcenko? Il nome… questo nome… mi sembra… familiare… “La
ama in modo del tutto sincero…”, ma
certo, che idiota… Ilai Radcenko… il marito di Tatia Krasova…
ora ricordo. Lui è innamorato di me, è vero… sta rischiando la vita per me e
per mio figlio… i miei occhi si aprono appena, come in un’assolata mattina
di domenica dove la riluttanza a svegliarsi confonde veglia e sogno.
Solo che io
non ho davanti a me il sole… ma quegli occhi malati da diavolo.
“A quanto
pare, si è accorta dei suoi sentimenti anche di recente…” insinua Adamar con un
filo di voce appagato, ed è lì che avverto di nuovo la sensazione di un fragore
di vetri nella testa, assieme alla sensazione di uscire dall’apnea.
Ilai. Ilai che mi ama. I suoi pensieri. Il matrimonio.
Nostra figlia. Io che sono innamorata di lui.
“Assonanti
alchemici, un classico. Mi lasci indovinare? Telepatia empatica… deve essere
stato straziante…” prosegue Adamar convincente, ma io ormai non lo ascolto più.
Io che sono innamorata di Ilai. Draco che è qui, Draco
che non lo deve sapere, nessuno lo deve sapere. Neanche io, neanche Adamar,
neanche Ilai. Nessuno lo deve sapere.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Spalanco gli
occhi, torno dritta con la schiena, mentre Adamar termina con voce atona: “Non
deve per forza finire così, mia cara signorina Granger. Torni da lui. Si
dimentichi di una parte di sé che non le appartiene affatto. Sarà straordinariamente
più semplice così… non è stanca di combattere sempre da sola, per un uomo che
non l’amerà mai come merita?”.
Le sue
ultime parole, però, gli muoiono in gola.
Infrangendosi
come il vaso di cristallo che faccio rompere in mille pezzi, il fiato corto,
puntandogli contro la bacchetta.
Adamar,
tornando alla sua forma normale, mi guarda di nuovo con quel senso sdegnoso di
orgoglio frammisto ad ammirazione, nonché ad una punta di quieta irritazione e
fastidio. Mentre riprendo fiato mi accorgo che Draco è in piedi, un braccio
teso contro Eva a puntarle la bacchetta in direzione del torace. Anche lei,
nonostante la sua solita maschera impassibile di fierezza fredda, appare
lievemente impallidita. Deduco quindi che Draco non si è fatto incantare dalla
sua magia tranquillizzante ed anzi ha cercato di fermare il demone minacciando
lei. Non so se avrebbe avuto effetto in ogni caso, ma almeno mi rassicura sul
fatto che sia riuscito a contrapporsi alla loro malia. Non appena vede che ho
ripreso lucidità, si avvicina a me chiedendomi sommesso e preoccupato: “Stai
bene?”.
Annuisco
senza forze, la voce ancora in gola ed arenata dal fiatone. Mi specchio nei
suoi occhi grigi, cercandovi tracce della possibilità che abbia udito le parole
di Adamar in riferimento a me ed Ilai. Ma non trovo qualsiasi violento riflesso
che mi farebbe capire che ha intuito qualcosa o che si sta chiedendo che cosa
sia accaduto in riferimento alla telepatia empatica. Quindi, il mio respiro
finalmente si rilassa e calma sotto lo sguardo ancora sommessamente divertito
di Adamar che, invece, dal canto suo ovviamente freme entusiasta.
Lo guardo ad
occhi socchiusi, mentre Draco si erge di nuovo eretto.
Gli ho
offerto, mio malgrado, il mio peggiore nervo scoperto: la consapevolezza di
amare un’altra persona oltre Draco, nonché l’angoscia che lui lo scopra.
Difficile che non usi tutto questo a suo favore, anzi… sarà il suo grimaldello
privilegiato per farmi a pezzi. Probabilmente lo supponeva già, visto com’è
andato a colpo sicuro nominandomi Ilai. Del resto condivide la conoscenza dei
Karkaroff, ovvio che abbia notato che io sia legata ad Ilai.
La Telepatia Empatica… come faceva però a saperlo?
In un modo
però imperscrutabile, comprendo improvvisamente che non è una cosa negativa che
lui sappia questo. Anzi, sorrido interiormente, non lo è affatto. Come
supponeva Helder, più ci crede lontani, più abbassa la guardia. Più è convinto
che il sentimento tra me e Draco sia estinto e più supporrà che sarà facile
distruggerci.
Sbagliando,
naturalmente.
Helder ci ha
spiegato che la sua grande pecca, adesso, è che non riesce appunto ad
immedesimarsi nei sentimenti delle persone. Per lui, quindi, comprendere che io
ami Ilai esclude automaticamente che io ami anche Draco. Invece, questa netta
semplicità non è tipica del cuore di nessuno. Si ama, purtroppo, in decine di
modi diversi e in decine di modalità contemporanee. Ma ovviamente a me conviene
che pensi tutto questo. Certo, sarebbe stato meglio non reagire in modo così
affrettato… ma devo proteggere Draco da questo.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Io posso, a
malapena, convivere con me stessa e con questo segreto.
Lui,
semplicemente, non ce la farebbe.
Del resto,
però… c’è qualcosa che mi sfugge. Dubito che questa sia la Solutio damnationis:
questo giochetto di ipnosi mentale, dove ci dice velatamente quello che noi
stessi già sappiamo. Ne dubito perché in fondo non è poi così impossibile
infrangerlo e la Solutio damnationis… non dovrebbe essere così, altrimenti
avremmo già vinto e tanti saluti. Inoltre, ha un’arma così potente come i miei
sentimenti per Ilai da rivolgere contro Draco… eppure non lo fa. È come se
stesse semplicemente… giocando. È un
demone, certo, magari si diverte così. Ma ha già ampiamente dimostrato di
essere pragmatico. Fa le cose per scopi ben precisi, mettendoci efferatezza
solo se ben finalizzata ai suoi scopi.
Quindi… sta
perdendo tempo.
Perché? Mi
chiedo, soppesandolo con lo sguardo. Poi, sebbene stia guardando l’ennesimo sorriso
soddisfatto del suo volto, comprendo con velocità che cosa sta accadendo.
Vuole convincerci a non provare la Solutio Damnationis.
Vuole che torniamo indietro, capendo di essere spacciati. Non ha messo in mezzo
Ilai per distruggere Draco. No. L’ha messo in mezzo perché vuole darmi un
elemento per tornare indietro.
Mi scappa un
sorriso quasi di trionfo mentre lo squadro senza soggezione, avvolta da un
nuovo ed insperato calore. È così maledettamente potente e dannato e per questo
è difficile accorgersene… ma ha paura della Solutio Damnationis. Ne è
terrorizzato. Ed è l’unica cosa che non pensavo davvero che potesse accadere:
che avessi persino una remota chance di farcela, visto che ci teme.
… e ci teme
perché, in fondo, per lui siamo come due mine vaganti. Non sa davvero che cosa
proviamo l’uno per l’altra. Non lo riesce a capire.
Del resto non lo capiamo neanche noi… figuriamoci se può
capirlo lui…
Non sa
soprattutto che deve temerci per un altro importante motivo. Il più importante.
Nostro figlio.
Io e Draco possiamo essere ai lati opposti della vita,
del mondo e dell’amore, adesso.
Ma c’è una cosa che non ci separerà mai: Alex.
Mentre
continuo ad inseguire il filo logico dei miei pensieri, Draco si rivolge ad
Adamar con voce stufa sillabando un: “Hai finito?”.
Il demone
trasale per la prima volta da quando l’abbiamo incontrato, autenticamente
meravigliato, chiedendo stupefatto: “Che cosa?”. Persino Eva a suo modo sembra sbalordita.
La sola che
invece sorride e sembra assolutamente consapevole di che cosa sta accadendo,
sono io.
Anche Draco l’ha capito. Ha capito che sta facendo.
A suo modo sicuramente…ma ha capito anche lui.
Lo guardo quasi
orgogliosa, mentre mormora con tono di voce volutamente pedante, incrociando
stancamente le braccia al petto: “Stavo semplicemente chiedendo se hai finito,
perché in caso contrario mi faccio un altro solitario mentale di carte. O
magari la tua sguattera qui mi porta un’altra tazza di tè… almeno ho
un’occupazione mentre continui a ciarlare in maniera inutile…”.
“Ciarlare in
maniera inutile?!” erompe Adamar con una risata nervosa e scandalizzata, mentre
getta uno sguardo sconcertato ad Eva “Negherebbe pertanto che io stia dicendo
la verità, signor Malfoy?”.
“Oh no, mio caro. Le tue argomentazioni
veritiere vanno assolutamente al segno…” commenta Draco, scimmiottando la sua
voce e poggiandosi con un fianco alla scrivania in posa negletta “Fanno persino male. Te lo riconosco. Ma
credi forse che io e la Granger non ci siamo abituati? Credi forse che la nostra relazione sia stata un’allegra
passeggiata tra le rose, per usare una metafora a te gradita? Credi forse che
non abbiamo già provato tutto il male possibile in questi anni? E credi forse
che, dopo quello che io ho fatto a lei e dopo quello che lei ha fatto a me,
esista ancora qualcuno che possa farmi lo stesso male che può farmi lei solo
con una parola? Demone, sei un moccioso che mi punzecchia per
avere il gelato in confronto a lei…”, trattengo il respiro chiudendo gli
occhi, il sorriso di fiducia che si smorza un po’, mentre lui prosegue amaro,
ma indiscutibilmente sincero: “Il bello e il brutto di questa… relazione… è che ho concesso solo a lei
in tutto l’Universo di avere ancora il potere di farmi davvero male. Credimi abbiamo esaurito il male che ci possiamo
fare… consolati che abbiamo esaurito anche il bene che ci possiamo fare,
facendo nascere nostro figlio, quindi l’avrai vinta con questa dannata Solutio
qualche-cosa. Tutto il resto è solo pappa insipida che mi rende al massimo
annoiato”.
Sento l’eco delle
sue parole in un punto soffuso del mio cervello e del mio cuore, ma le lascio
andare concentrandomi solo su quello che ha capito anche lui.
Adamar sta perdendo tempo. Ci sta solo tormentando
inutilmente.
“Lo
sconcerto è qualcosa che non provavo da diversi lustri. Le riconosco il merito
di avermi indotto il ricordo di questa sensazione…” commenta asciutto Adamar,
scoccando a Draco un’occhiata penetrante subito prima di guardare me con un
sorriso storto: “Se lei prova solo noia
al momento, crede che la signorina Granger qui provi la stessa cosa che prova
lei? Magari sta davvero riflettendo sul senso delle mie parole…”. Torno a
guardarlo, come se mi avesse punta un ago, drizzandomi sulla sedia.
“Figuriamoci
se la Granger è d’accordo con me, demone…” dice Draco noncurante, prima di
guardarmi con espressione riflessiva e sorridermi piano, dolcemente. Gli
sorrido a mia volta, arrossendo e dimenticando le parole che ha detto poco fa,
mentre continua delicato non smettendo di guardarmi: “Ma la conosco quell’espressione.
Non è annoiata… anzi. Probabilmente
ha capito qualcosa che a me non è passato neanche per l’anticamera del
cervello. Chiediglielo. Quando si puntella così sui piedi come se non riuscisse
a stare ferma, è perché smania dalla voglia di dirlo…”.
“Il Signor
Malfoy ha ragione, miss Granger?” biascica irritato Adamar “Ha davvero intuito
qualcosa di così nascosto che persino a me è passato inosservato?”.
Guardo Draco
ancora per un secondo, specchiandomi nei suoi occhi, mentre lui annuisce piano,
dandomi coraggio. Poi mi volto verso Adamar, sporgendomi come ha fatto spesso
con me, come se stessi per rivelare un segreto. Mi umetto le labbra prima di
soffiare fuori con la migliore delle mie voci impostate e calme: “Mi creda, mi
duole ammetterlo, ma lei può anche sfoderare una lista ben nutrita dei miei
successi accademici, nonché snocciolarmi tutto ciò che ho provato e sentito in
questi anni, persino nei meandri di me stessa…”, faccio una voluta pausa ad
effetto mentre respiro forte guardandolo negli occhi in modo serio, sapendo che
sta sicuramente pensando di nuovo ad Ilai e sfidandolo di nuovo ad azzardarsi a
farne menzione. Adamar, però, mi scocca un’occhiata distratta, evidentemente
più preso dalle mie parole che da questo, incoraggiandomi a continuare: “Ma qui
quello che mi conosce meglio… è Draco
Malfoy…”. Ancora mi fermo, lasciando quasi che il mio compagno si prenda
tutto il merito della sua osservazione, mentre io tamburello volutamente
disattenta sulla scrivania e mi massaggio lentamente il collo. Poi riprendo
casuale: “Notavo semplicemente, e non nego con una certa dose di curiosità, le
sue argomentazioni per convincerci di essere spacciati. Quasi come a
convincerci a non tentare la Solutio damnationis… perché, se ci considera
inferiori rispetto a lei, ci vorrebbe dissuadere? È così carente in fatto di
divertimento che dovrebbe trarre solo piacere dalla nostra distruzione… o è
diventato un angelo custode dal demone che era? Ce lo dica, perché noi dobbiamo
combattere un demone, non un preoccupato fratello maggiore che elenca i motivi
psicanalitici per cui non siamo fatti l’uno per l’altra. Mi creda, li
conosciamo. E non ha mai fatto alcuna differenza… ci siamo arrivati molto prima
di lei, se è per questo…”.
“Ti avevo
detto che aveva capito qualcosa…”mormora Draco alle mie spalle con voce tra
l’orgoglioso ed il tronfio “Avrò un problema irrisolto con la figura di mio
padre. Ma fare due più due ci arrivo ancora…”.
Adamar
soppesa le nostre parole per qualche secondo, guardandoci in modo
autenticamente confuso e disorientato, cosa che rende il suo bel viso solcato
da una ruga profonda in mezzo agli occhi: “Siete coscienti di non avere un
sentimento in grado di battermi… eppure volete sfidarmi ugualmente? Ammetto di
essere confuso. Ed anche questa è una sensazione nuova… chegiornata interessante…”.
“Non è
l’amore che proviamo l’uno per l’altra ad essere assoluto…” biascico con un
filo di voce, ritrovandola poi negli accenti finali per suonare quanto più
chiara possibile: “Quello può essere battuto, annientato, sconvolto. Lo sai tu
e lo sappiamo anche noi. Ma c’è una cosa che non puoi neanche pensare di
toccare, Adamar…”, sospiro a lungo, quasi per nascondere le lacrime e la
nostalgia nel sottofondo di me stessa: “Ed è
l’amore per nostro figlio. Se la Solutio damnationis è il solo modo di
saperlo al sicuro, è il solo modo che avremo di vivere. Fattene una ragione…”.
“Lo vedi che
siamo ancora d’accordo su qualcosa? Dovremmo usarti come terapeuta…” commenta
Draco ironicamente, guardando con finta innocenza Adamar “Che dici, riesci
anche a risolvere il mio perenne conflitto con gli ortaggi arancioni? Mi
sconvolgono perennemente!”. Mi scappa una risata spontanea e non premeditata
che ha l’effetto mio malgrado di smorzare molto dell’aura solenne che avevo
assunto. Però in fondo non me ne pento nemmeno. Qualsiasi risata mi sia
rimasta, meglio che spenda subito.
Adamar resta
ancora in silenzio per qualche attimo, profondamente confuso e turbato. Mi
accorgo del suo stato d’animo, se così si può ancora definire vista la sua
natura non umana, da come cambia lo scenario all’esterno. Il sole scompare
dietro una nebbiolina rada ma coprente, tutto crolla in un’oscurità ghiacciata
ed oscura, come se facesse improvvisamente notte. La brina ricopre i vetri
delle finestre ed un brivido mi fa annaspare di freddo. Eva, dal canto suo, non
fa altro che andare a chiudere le finestre, accendere candele qua e là e
rintuzzare il fuoco di un camino che non avevo notato prima. Lo studio viene
quindi avvolto da una luce liquida e decadente, che scava il viso di Adamar di
profonda riflessione, mentre Draco batte impaziente il piede per terra in
attesa.
Alla fine,
il demone rilassa le spalle ed abbandona le braccia sulla scrivania, apparendo
quasi stanco e demotivato. Poi dice asciutto: “Mi compiaccio del vostro sangue
freddo. E persino della sua ironia inopportuna, signor Malfoy. D’altronde credo
che non sia prerogativa del mio ruolo dissuadere la gente dal suicidio. Se è la
Solutio damnationis quello che volete… ebbene l’avrete… non avrete più alcun
genere di sconto o premura da parte mia… versare sangue magico dei più valenti
mi avrebbe rattristato, lo avrei considerato un tremendo spreco… ma se è quello
che desiderate, così sia…”.
Draco
immediatamente riprende posto accanto a me, sfiorandomi non meno che
casualmente la schiena con una mano, come se mi dicesse intimamente che sta per
cominciare e che dobbiamo essere pronti. Annuisco gravemente con il capo, non
so se a lui o se al demone, e asserisco composta: “Bene… ci dica solo che cosa
dobbiamo fare…”.
Adamar
sbuffa, di nuovo molto meno che elegantemente rispetto a quanto ci abbia
abituati fino ad ora, e poggia il mento sulle mani incrociate, sospirando a
lungo. Poi laconico elenca: “Nulla, in realtà. La Solutio damnationis non è una
prova di abilità, o una corsa campestre, o un duello all’arma bianca. Metterò
alla prova il vostro sentimento. Vincerò dove dimostrerò senza oppugnabile
dubbio che ciò che vi lega è assolutamente sacrificabile in virtù di altro… di
ciò che ritengo essere il vostro autentico
desiderio. E che non contempla primariamente l’altro nella mia opinione.
Portando corruzione sul sentimento che vi anima, fiaccherò progressivamente le
vostre menti. Dalla graduale deteriorazione delle vostre componenti psichiche
deriverà inevitabilmente un decadimento fisico, realisticamente culminato con
la vostra dipartita precoce. Ovviamente dove riuscirete ad opporvi a tale
corruzione di voi stessi, vincerete la prova ed io cesserò di esistere…”, fa di
nuovo una smorfia ben poco raffinata, come se stesse mangiando qualcosa di
disgustoso e come se ancora la questione gli portasse più tedio che
preoccupazione effettiva sulla possibilità di perdere.
Tamburella lievemente
con le dita sulla scrivania, come un impiegato annoiato che spiega l’ennesima
procedura al cliente pedante, sebbene stia realisticamente parlando di come
perderemo la vita e non di come accendere un mutuo con la filiale di una banca.
Fa un cenno distratto ad Eva ancora occupata con le sue faccende, e la donna
ritorna silenziosa al suo posto.
Poi continua
smorto: “Lo stato fisico e mentale in cui terminerete la prova è legato
indissolubilmente al tempo che impiegherete. Più tempo restate bloccati nella
mia opera corruttiva, peggiori saranno le vostre condizioni al vostro improbabile
rientro. Per voi potranno essere trascorsi anni,
ma nel tempo reale potrebbero essere passati solo pochi secondi. Qualora
perdiate, le vostre menti saranno bloccate nell’incanto che vi indurrò. E le
vostre spoglie, come vi ho promesso, saranno ridate alle vostre famiglie…”, la
sua voce diventa noiosa e nasale mentre specifica grave: “Come da accordi con i
Custodi dell’Ordine, per ovviare alla patologica disparità di poteri che ci
caratterizza, vi è concessa una sorta di scappatoia all’incanto che vi somministrerò,
la quale ovviamente è resa segreta per garantire la genuinità della prova…”, ci
riflette su qualche secondo, sfiorandosi la mano con il mento. Un guizzo d’oro
gli si accende nello sguardo, liberando una scarica di potere che mi fa
annaspare a disagio come se mi avesse tolto il respiro per un attimo. Tossisco,
la sensazione di un corpo estraneo in gola, mentre mi accorgo che anche Draco
fa lo stesso.
Un incantesimo. Ci ha fatto qualcosa.
Adamar guarda
Eva, poi conclude soddisfatto recitando compito: “…il giunger palma a palma è il bacio dei pii palmieri…”. Eva
annuisce conquistata, mentre io, che ci sto capendo sempre meno, intuisco solo
che ha mormorato dei versi di Shakespeare.
“Romeo e Giulietta”, se non
ricordo male.
Mi
riprometto di mantenere a mente questa informazione per la prova, sebbene
adesso mi sembri poco importante.
Adamar
allora continua indifferente: “Mi impegno inoltre a consentirvi il ritorno, ove
vinciate… scusate la trafila burocratica… ma come intuite ho superiori a cui
fare riferimento…”.
“Vai
tranquillo, tanto non ci ho capito niente… puoi continuare serenamente per
altre due ore e mezzo…” borbotta Draco, scocciato.
“Che cosa ci
succederà insomma?” chiedo io ugualmente frustrata.
Adamar
ancora non risponde roteando gli occhi esasperato, poi stende la mano sulla
scrivania. Sulla superficie del legno, appare un bagliore dorato che mi fa
strizzare gli occhi infastidita. Quando scompare, noto il più curioso e strano
oggetto che abbia mai visto. Mi sporgo lievemente studiandolo con attenzione,
mentre Draco sbuffa di fronte al mio interesse accademico. Per molti versi
somiglia ad una scacchiera: è difatti un piano dalla forma vagamente
quadrangolare, su cui ci sono diversi tipi di pedine. Ma le somiglianze
finiscono decisamente qui. La prima differenza è il piano d’appoggio: non è a
scacchi bicolori, ma assomiglia ad una strana superficie acquosa, costituita da
quelli che sembrano minuscoli filamenti iridescenti e variamente intrecciati
tra loro. Le pedine, poi, sono tutte dello stesso colore e tipo: trasparenti
come cristallo. Si muovono da sole sulla superficie liquida, come se
pattinassero sul ghiaccio. Le conto mentalmente, raffrontandole ai pezzi che
conosco. Due hanno le stesse fattezze del Re e della Regina e sono le sole assolutamente
immobili sulla scacchiera. Ci sono poi una serie indefinita di Cavalli, divisi
stavolta in pezzi bianchi e pezzi neri. Questi sfrecciano come dannati urtando
spesso gli Alfieri, anch’essi in buon numero. Infine al limitare del perimetro,
ci sono le Torri. Sono tre, tutte dello stesso colore chiarissimo. Una di esse
è illuminata in modo irregolare e pulsante, Adamar la sfiora con un dito con un
nuovo sbuffo infastidito, annuendo e guardando di nuovo Eva che fa un ulteriore
e serio cenno di assenso. Non conto alcun Pedone.
Adamar,
però, a parte l’interesse subito accantonato per la Torre illuminata, sembra
non prestare alcuna attenzione alle pedine in movimento febbrile. Con un nuovo
movimento della mano, sotto lo sguardo esterrefatto mio e di Draco che non
abbiamo mai assistito ad una scena simile, copre di un bagliore nero ed oro la
scacchiera. Dalla superficie lanuginosa, come se ci fosse un doppio fondo
segreto, compare un nuovo pezzo somigliante in tutto e per tutto ad un Alfiere
ma stavolta di colore scuro, opaco, come se fosse bruciato. Adamar lo osserva
pensoso: alcune maglie di quella strana sostanza stopposa restano avviluppate
sul pezzo estratto. Adamar le afferra scientemente e con attenzione con le
dita, dipanandole davanti a sé: adesso quelle strane maglie mi appaiono quasi
simili come consistenza al contenuto di un Pensatoio. Hanno la stessa
stopposità lanosa e fumosa, quasi impalpabile, salvo che splendono d’oro e sono
intrecciate profondamente, proprio come dei fili di seta.
Adamar annuisce
ancora, guardando i fili nella sua mano, e li tocca in tre punti diversi,
sciogliendo altrettanti tre nodi.
Mormora
quindi tra sé e sé, quasi dimenticandosi di noi: “Unum solum in tribus”.
Alla buona,
sforzandomi ancora di capire che cosa diamine stia facendo, traduco mentalmente
il sintagma latino. Uno solo… tra tre.
A quel
punto, Adamar si ricorda di noi come se li fossimo improvvisamente capitati di
fronte, mentre giocherella con i fili adesso perfettamente dritti tra le sue
mani.
Sussurra quindi
enfatico: “Conoscete la storia del battito
di ali di una farfalla che genera un uragano dall’altra parte del mondo?
Voi umani vivete vite caratterizzate da codesti paradossi. Una sola decisione,
una sola singola e minuscola risoluzione differente genera effetti a catena
inimmaginabili…”, guarda con affetto i fili dorati nella sua mano sfiorandoli
con due dita, mentre si rivolge a noi: “Che cosa singolare… se i suoi genitori
non l’avessero tradita, signor Malfoy, Helena Jasmine Greengrass non sarebbe venuta
al mondo…”.
“Che cosa?!”
chiede Draco con un piccolo sobbalzo, domandandosi probabilmente come me che
cosa c’entri questa supposizione adesso.
“Intuitivo a
ripensarci…” riflette tra sé e sé Adamar, chiaro ormai solo a sé stesso e molto
meno a noi due “Se Narcissa e Lucius fossero stati due genitori ben più legati
al loro figlioletto di quanto lo sono stati sul serio, non avrebbero
partecipato attivamente alle missioni del Signore Oscuro, neanche quando un
erede non era ancora nato. Magari per amore della loro futura famiglia o per
semplice quieto vivere, faccia lei. Quindi si sarebbe reso necessario che
qualcuno subentrasse al loro posto. Qualcuno come… i Greengrass. E sarebbe stato oltremodo comune che Lara Greengrass,
incinta del suo primogenito, lo perdesse deprecabilmente in una delle suddette
missioni… spogliando il mondo della possibilità di conoscere una terza sorella,
prima di Daphne ed Astoria…”.
“Non capisco
perché ci sta dicendo tutto questo…” chiedo ancora spaesata, gli occhi che
continuano a corrermi sulla scacchiera.
Ancora i
pezzi si muovono a casaccio, descrivendo trame di luce torbida nel reticolo di
fili su cui scivolano.
Adamar posa
i fili che aveva tra le mani sulla scrivania, prima di guardarci ferino e
sussurrare con voce bassa: “Siete figli del tradimento.
Quello che lei, Miss Granger, ha subito dal signor Weasley. E quello che lei,
Signor Malfoy, ha patito a causa dei suoi genitori. Le vostre decisioni sono
corollari di questo. Vi siete incontrati ed innamorati per questo. Siete
persino diventati differenti a causa di questo…”, ci lancia una lunga occhiata
penetrante, la luce delle candele mangiano il suo viso rischiarando i suoi
occhi di bagliori aurei. Spaventata mi accorgo che, di nuovo, la pupilla si sta
restringendo.
Afferro la
mano di Draco stringerla forte nella mia, cosciente che non la lascerò in
qualunque inferno ci dovesse scagliare.
“Mi limito
solo a raddrizzare il corso degli eventi…” prosegue Adamar conciliante con un
sorriso perfido sul viso, gli occhi ormai di nuovo demoniaci “Senza queste
sciagurate circostanze, non avreste nemmeno lontanamente concepito di nutrire
qualcosa di rasente la stima l’uno per l’altra. Non ne avreste mai sentito il
bisogno… se non fosse stato per l’incantevole Alfiere russa…”.
Continuando
a non capire di che cosa sta parlando e neanche a chi si riferisca con
l’appellativo di Alfiere russa, mi
accorgo invece di come la luce dei suoi occhi diventi sempre più sinistra,
malata, accecante, costringendomi a chiudere gli occhi mentre mi nascondo nel
petto di Draco. Lui mi stringe forte a sé, sussurrandomi qualcosa nell’orecchio
che però non riesco a sentire.
Adamar
infatti urla, spaventoso e terribile come il diavolo in persona: “Vi darò tutto
quello che avete sempre sognato nel fondo di voi stessi, senza osare
esprimerlo, data la sua ormai oggettiva impossibilità… e semplicemente sarete voi a non voler più tornare indietro…”.
La luce
diventa fortissima, peggio del sole a mezzogiorno.
Sembra
accecarmi anche i pensieri.
Il bianco
avvolge la mia testa, il mio cuore, tutto.
È come se la
mia memoria fosse sfogliata come un libro, mentre lui si affanna dolorosamente
a strappare pagine su pagine. Il dolore è così forte che mi metto ad urlare,
dilaniata.
Prima che
tutto diventi inesistente dentro di me, avverto la sensazione orribile di uno
strappo allaltezza del fianco destro come se mi trascinassero da qualche
parte, strattonandomi lontano.
Draco urla
il mio nome, a mia volta lo chiamo, perdendo la presa su di lui come se
sparisse. Piango annaspando, cercando di allungare le mani nella sua direzione.
… ma
semplicemente lo perdo.
Mi perdo.
Non lo rivedrò mai più.
La voce di
Adamar suona canzonatoria e terribile.
“Siete solo due pedine in un gioco molto più grande di voi”.
Poi, probabilmente, smetto di esistere.
“Se non finisci in Grifondoro ti diserediamo” intervenne
Ron, “ma non voglio metterti pressione”.
“Ron!”.
Lily e Hugo risero, ma Albus e
Rose erano serissimi.
“Non dice davvero” li rassicurarono Hermione e Ginny, ma
Ron si era distratto. Intercettò lo sguardo di Harry e accennò di nascosto a un
punto a una cinquantina di metri da lì. Il vapore per un attimo si diradò e tre
persone si stagliarono nitide contro la nebbiolina fluttuante.
“Guarda chi c'è”.
Era Draco Malfoy con moglie e figlio, un cappotto scuro
abbottonato fino alla gola. Stava cominciando a stempiarsi, il che enfatizzava
il mento appuntito. Il ragazzino gli assomigliava quanto Albus
assomigliava a Harry. Draco si accorse che Harry, Ron, Hermione e Ginny lo
guardavano, fece un brusco cenno di saluto e si voltò.
Hermione fece un passo
indietro, si toccò la tempia a disagio, aveva avuto l’impressione che qualcuno
la stesse chiamando. Si guardò attorno smarrita per un secondo, chiudendo gli
occhi e frenando una improvvisa ed inopportuna vertigine. A Londra faceva
decisamente troppo caldo, per essere settembre.
“E così quello è il piccolo Scorpius”
commentò Ron sottovoce. “Cerca di batterlo in tutti gli esami, Rosie. Per
fortuna hai il cervello di tua madre”.
“Ron, per l'amor del cielo” ribatté Hermione, un po'
seria un po' divertita. “Non cercare di metterli contro ancora prima che la
scuola sia cominciata!”.
“Hai ragione, scusa” concesse Ron, ma non riuscì a
trattenersi e aggiunse: “Non dargli troppa confidenza, Rosie. Nonno Arthur non
ti perdonerebbe mai se sposassi un Purosangue”.
Hermione scoppiò a ridere, una
chiara risata cristallina e tersa. La vertigine era passata, così come la
sensazione di strappo all’altezza del fianco destro.
Mentre James tornò con la notizia
che Victorie e Teddy si stavano baciando, Hermione portò la mano al collo
toccandosi il ciondolo che portava sulla camicia.
Lo faceva sempre quando aveva
l’impressione che tutto fosse a posto.
Era un ciondolo antico, dalla
luce rossastra.
Una goccia di sangue di Unicorno solidificata, persa
durante il parto.
Considerazioni
finali e spoilerose sull’intero capitolo
Mi ha terrorizzato
pubblicare questo capitolo. Davvero. Chi mi segue via Facebook,
questo lo sa. Però per la prima volta più che scrivere appunto lì chiarendo le
cose, ho preferito e preferisco farlo qui così che tutti possano leggere.
Ovviamente, siccome sarà una pappa psicanalitica su me stessa e su come intendo
questa storia, siete liberissimi di skippare a piè pari questa parte,
semplicemente con il mio sommo ringraziamento per esserci ancora e per
sopportare i miei ritardi. Però se invece, volete sapere perché questo è stato
il capitolo più difficile da scrivere fino ad ora, perché le cose sono andate
così e tutto il resto, se magari siete delusi o arrabbiati e vi chiedete se
siete ancora in una Dramione e che ne è delle mie
promesse di happy ending… magari riesco a spiegarmi
continuando a scrivere.
Ecco… il terrore di
questo capitolo.
Non c’entra Adamar,
ovvio: io, Adamar, lo adoro, credo che sia uno dei migliori personaggi che mi
sono trovata a creare fino ad ora, senza presunzione o altro. Sapete che non mi
appartiene. Ma mi è piaciuto scrivere tantissimo di lui, della sua apparenza
elegante e vittoriana, del suo accento, nondimeno della sua malvagità. Ma, per
chi mi segue appunto, ha letto qualche spoiler su di lui già a giugno. La sua
scena in forma di dialogo esisteva già da allora… quindi ovvio che il mio
terrore non era Adamar. È stato complicato scrivere di lui perché il suo
incontro è disseminato di indizi su quello che accadrà nel seguito di HALFT. È stato
anche complicato perché ci sono tanti indizi su ciò che accadrà nella prova. Perché
sì, è evidente dove Hermione e Draco sono finiti.
La mia storia, di
fondo, si distingue per due particolari da quella della Rowling.
I tradimenti: Narcissa
e Lucius che tradiscono Draco. Ron che tradisce Hermione.
Da lì è nato tutto.
Adamar ha eliminato i
tradimenti e le loro conseguenze.
Quindi…
… siamo di nuovo nel
mondo della Rowling. Tutto è andato esattamente come nel libro.
Non è cambiato niente.
Siamo in quel futuro.
Ma sebbene questo vi
faccia supporre quanto Adamar sia infernale e quanto io sia contorta… ancora
non è stato Adamar il problema.
Il problema è stato
Ilai Radcenko.
Ora, come spesso
spiego in altre sedi, questa storia ormai per me significa essere trascinata
avanti ed indietro dalla volontà di questi personaggi: sembra strano,
inconcepibile, magari persino pretestuoso visto che è solo una fanfiction. Ma io ormai questi personaggi li conosco come e
meglio di me stessa, spesso mi portano dove vogliono loro. Spesso è come se non
dovessi inventare ciò che accade, ma solo raccontarlo e testimoniarlo come se
me lo narrassero loro. Certo, ho i miei piani e i miei progetti: ma come
reagiscono a questi piani e questi progetti, spesso è esclusiva volontà loro.
Ilai Radcenko era un
pretesto per introdurre Tatia Krasova, che era a sua
volta un pretesto per legare Raissa e riagganciarla. Mi sono scelta un bel prestavolto per Ilai appunto (per chi non mi segue per
altra via, è questo il prestavolto di Ilai http://media.tumblr.com/tumblr_lt1dmwKanJ1qzmb4oo1_500.gif)
ma tanto per vezzo. Non è che me lo dovevo portare dietro. Poi le cose sono
andate diversamente, senza premeditazione. Come mi sono portata dietro senza
premeditazione Pansy e Dean che ormai idolatro alla follia, così mi sono
portata dietro Ilai. In sette capitoli (che nella media di questa storia
praticamente non sono niente) Ilai è diventato qualcosa di centrale, mio
malgrado, al punto che ho “dovuto” pensare ad un modo per lasciarlo andare.
Perché, e qui c’è anche uno spoiler, è l’ultima volta che abbiamo visto Ilai.
Non lo vedremo più se non nel seguito. Quindi questo era un addio. Per come
l’ho concepito, mi immaginavo che non avrebbe detto nulla ad Hermione prima
della prova: né rivelazioni sui suoi sentimenti, né considerazioni su quelli
per Draco, tantomeno rimostranze per quello che stava passando a causa degli
Empatici. L’avrebbe lasciata andare e basta. Per questo mi è venuto in mente il
trucco della Telepatia empatica: è solo la sua mente, quindi, che Hermione vede.
Quello che lui vorrebbe fare senza remissione di colpa, orgoglio ed onore.
Confessarle che l’ama, dirle cosa pensa del suo rapporto con Draco, persino
arrabbiarsi con lei per averlo trascinato in mezzo a questo marasma,
prendersela con Tatia che ha intrecciato i loro destini. E poi la fantasia
dell’averla finalmente, vagheggiando su un futuro che non hanno appunto avuto.
Ilai però non sa che tutto questo, Hermione l’ha vissuto con lui. Non lo
immagina nemmeno: e nella mia idea iniziale, questo era solo un pretesto e modo
per far sapere a lei che Ilai ne era innamorato, senza che lui effettivamente
glielo dicesse. Ho scritto tutta la loro storia fittizia con il magone, con
“Over the love” dei Florence and the Machine in loop
e la lacrima facile, arrivando a non dormire pur di finire. E poi ho finito. E
tutto doveva finire e basta. Un po’ di senso di colpa di Hermione, e via tutto
dritto. Ed invece no. Hermione, letteralmente, se n’è andata per conto suo,
come vi ho già spiegato che mi accade spesso. Si è arrabbiata con Helder in un
modo che mai le ho visto fare. Si è chiusa in questo silenzio e questa
negazione assoluta di ciò che le era successo. Ha fatto ogni sforzo possibile
per dimenticare cosa aveva visto. È stato… naturale scriverla così. E io, come
forse persino voi leggendo, pensavo: “Ma scusa? Perché questa cosa ti sta
sconvolgendo tanto? È lui che ti ha immaginato così, tu che c’entri? Pensa a
Draco, piuttosto! Pensa ad Adamar, piuttosto!”. Lei mi dava retta cinque
secondi… e poi di nuovo ci ripensava. La lingua che batte dove il dente duole,
direbbe qualcuno. Mi sono fermata, ho preso tempo, comprendendo che c’era
qualcosa che mi stava sfuggendo di mano: ed è stata, giuro, la prima volta in
tutta la storia, in cinque anni, che mi è accaduto. E mi ha terrorizzato:
perché stavo uscendo dal seminato, perché questa è una Dramione,
perché forse non mi avreste capita come volevo farmi capire, perché potevo
impelagarmi in un vicolo cieco da cui non uscire più, se non a patto di
incoerenza e di volubilità. Ed Hermione non è mai stata né incoerente, né
volubile. E lì… è arrivato il consiglio di Demetra. Glielo ho chiesto, ed
ancora la ringrazio, perché lei non legge questa storia, non ne sarebbe stata
condizionata. E perché stimo quello che scrive e come scrive in modo viscerale.
“Devi ricordarti sempre che hai un debito verso questi personaggi”. Lei mi ha
detto questo. Era così giusto e vero, che mi ha schiarito la mente. Ho un
debito verso questi personaggi, verso quello che sentono e che provano, e che
non posso schermare o censurare solo perché io non sono d’accordo, o perché ho
paura che non siano capiti, o perché i piani erano altri. No. Se mi hanno
portato qui, un motivo c’è. Ed allora, piano, approfittando di una maledetta
cervicale che mi ha allontanato dal computer per settimane, ho riletto tutti
gli ultimi capitoli. E la risposta stava lì ad un passo. Ci stavo solo girando
attorno, come una trottola impazzita. Hermione che si fida subito di questa
persona, che gli racconta tutto, che si lascia baciare due volte, che ammette
di averne bisogno. Ma soprattutto è stato il capitolo 40 ad aprirmi gli occhi.
Prima lei che pensa: “…sono
talmente assorbita dal pensiero di mio figlio da non potermi dibattere nel
dissidio, solo accennato dal corpo e dalla mente, di chiedermi se desidero di
più un altro bacio da Ilai o un singolo abbraccio da Draco. E’ facile
rispondere, adesso: rinuncerei ad ognuno di loro con il sorriso più chiaro ed
aperto del mondo, se in cambio riavessi Alex.(…) Io posso essere solo
l’assassina dei Karkaroff, adesso, non di altri. Tantomeno di loro due… specie
considerando quanto, in un modo così diversamente scomodo, ami tutti e due. Li
amo alla maniera stupida di una bimba di cinque anni: basta che esistano in
qualche parte del mondo per farmi stare tranquilla. Ormai, però, sono ben oltre
i concetti banali di essere innamorata o altro”. Glielo avevo già fatto dire inconsciamente, ma il pensiero di Alex
era ovviamente più forte di tutto il resto. Poi lei incontra Draco, parla con
lui, esce fuori la questione di Ilai. Ed Hermione non ha incertezze. Lo
definisce così: “ Bisogno: ecco che cosa è, oggi, Ilai per me. E’ un
bisogno, al pari di dormire, mangiare e bere. Un bisogno creato dalle
circostanze attuali, sicuramente, ma che non cambia natura. È fame di aria nei
polmoni, perché lui riesce a farmi respirare; è sete di calore allo stomaco,
perché lui riesce a farmi calmare; è insonnia di riposo della mente, perché lui
mi mantiene salda in me stessa. Non so questo che significhi, non so questo che
cosa sia, non so se possa chiamarsi amore, affetto, ossessione, attrazione o
semplice pazzia. Ma è un bisogno, adesso, insormontabilmente realizzabile solo
da Ilai. Nel bene e nel male, lui è tutto quello che Draco non mi ha mai dato. E
che non ho mai cercato, intendiamoci… nonostante cinque anni fa le cose non
fossero facili, non sentivo la necessità di qualcuno che mi mettesse a posto. Ero
già a posto: disoccupata, con un brillante destino da cameriera, sconquassata
dal presente da babbana, separata dai miei amici e
dalla mia vita, e poi innamorata di quello che sarebbe sempre stato l’uomo
sbagliato… ero comunque a posto.
Non
necessitavo di qualcuno che mi sorreggesse, o mettesse assieme i miei pezzi, se
non nel modo quotidiano in cui comunque si ha sempre necessità di dividere la
propria vita con qualcuno. E Draco, questo l’ha fatto… per dieci giorni in cui
mi sembrava comunque di non avere bisogno di nulla, tranne che di lui, ma l’ha
fatto. Però, Pansy aveva ragione: quello era l’inizio, era un passo, ma era
solo il primo. L’amore… quello sarebbe venuto dopo. E’ stato sbagliato
costruirmi la vita su quei dieci giorni… specie quando ho capito che, adesso,
da madre e da donna, io avevo un bisogno diverso. Più viscerale, più intimo,
maggiormente legato al fatto che non ero più forte come un tempo… specie
adesso. Ron non riusciva a vedermi diversa da quella che sono sempre stata: la
ragazzina saccente e sicura, che fingevo di essere. Per questo, lui non placava
quel mio bisogno che, per molto, non ho saputo nemmeno esistente, concentrata
com’ero su Alex. Draco, forse, potrebbe anche farlo, ma parliamo ormai di
ipotesi: avrei dovuto fare un atto di fiducia se Raissa non fosse mai esistita,
figuriamoci adesso. Ilai ci riesce, senza che nemmeno pensi di chiederlo. Per
questo, è la sola persona di cui sento davvero di avere necessità estrema
adesso”. Stava tutta qui la risposta.
Hermione si era innamorata di Ilai e io nemmeno me ne ero accorta. Si era lei
stessa abilmente nascosta ai miei occhi, esibendo la preoccupazione e l’ansia,
l’incertezza e la rabbia. Ed io non me ne ero accorta. Ecco perché reagiva in
quel modo. I pensieri di Ilai le avevano mostrato che quella vita lei, in
fondo, la voleva, la desiderava. Perché Ilai è tutto quello che Draco non è e
non sarà mai. E viceversa Draco è tutto quello che Ilai non è e non sarà mai. A
quel punto, confessato quello, per me è andato tutto a posto. Ha ripreso a
scorrere tutto. Non stavo più tradendo nessuno, nascondendomi dietro un dito,
nemmeno l’intenzione di questa storia. E l’intenzione, in aperta antitesi con
il titolo, è che l’amore non è una bella fiaba romanzata. Il primo passo per
farlo finire, distruggere, annientare, è credere che sia più perfetto di quanto
siamo noi. Così, noi non sopravvivremo ad esso. Prima si capisce questo, e
prima si ama davvero. Prima Hermione capiva che è innamorata anche di Ilai, e
prima può ricominciare. Prima si rendeva conto di cosa manca a lei e Draco, e
prima poteva andare avanti, anche nella sfida con Adamar. Adesso facciamo che
io debba rispondere ipoteticamente ad una persona che legge questa storia solo
perché è una Dramione: puoi continuare a leggerla
sperando nel lieto fine? Sì. Perché con i problemi di Draco ed Hermione, Ilai
c’entra poco: è solo una conseguenza. Inevitabile, ma una conseguenza. Ed è una
scelta: l’amore ha tantissimi modi di vita. Hermione deve solo capire quale
vuole. Draco non sarà mai Ilai, non sarà mai quello che lei ha visto nella sua
mente, fa parte persino del suo fascino e della malia che ha su di lei. Può
accettarlo? Può abbracciare tutto di lui? Ne è pronta? Solo se conosceva fino
in fondo cosa si stava lasciando indietro, poteva avere la consapevolezza di
questa scelta. Per fare un paragone spiccio: se mi chiedono di scegliere tra la
luce e la notte, ma io ho vissuto solo di giorno, non saprò mai fare una vera
scelta. Ecco, per chi è Dramione inside ed ha odiato
questo capitolo e pensa di Hermione che sia ipocrita e chissà che altro (“Te la
prendi per Raissa, tu hai fatto di peggio, che grande amore eh!”)… ecco
pensatela così. Se non approfondivo quello che provava per Ilai, sarebbe
rimasto per sempre un punto di domanda anche in un futuro Dramione.
Se siete poi Hermione addicted inside, bé… probabilmente la potete anche capire. Difficilmente una
soffre così per cinque anni, e resta immutabilmente innamorata della stessa
persona come il primo giorno. Non sarebbe realistico. Si aprono sempre delle
crepe, e qualcuno spesso si insinua in quelle crepe. Ed onestamente,
immedesimandosi in Hermione, ancora e difficilmente si potrebbe reagire con
piena indifferenza ad Ilai se Draco non è (in questo preciso istante, non parlo
del futuro) un contraltare sufficiente. Amiamo Hermione proprio perché è
contradditoria e vera, o spero almeno che sia così. Soffre perché non può
scegliere ed è terrorizzata che qualcuno la veda così: è questo, per me almeno,
il bello di lei. È sempre tesa a fare la cosa giusta e corretta, sebbene spesso
non sia semplicemente possibile essere sempre corretti. Se siete poi tra quelle
quattro o cinque persone che amano Ilai, credo che questo capitolo vi sia
piaciuto, lui ha avuto una sorta di rivalsa di cui, d’accordo, non sa nulla, ma
che esisterà per sempre. Gli abbiamo dato un bel addio, sebbene ammetto che mi
mancherà molto. Ma è sopravvissuto ben oltre le premesse, quindi sono davvero
contenta di quello che ha dato a me e ad Hermione. Gli devo molto.
Che dire… se state ancora
leggendo anche questa postilla ultra-logorroica, ne sono felice e contenta. Ci
tenevo a chiarire. Se avete domande, sapete dove trovarmi. Sto iniziando a
rispondere alle recensioni dello scorso capitolo e a quelle per “Sanguine”, non
ne ho avuto modo fino ad ora. Ma come sempre… grazie.
Altra inutile
postilla: questo capitolo prende il suo nome da una canzone di Lykke Li, di nome appunto “No rest
for the wicked”. Potete trovarla qui con il testo: https://www.youtube.com/watch?v=2eeGQuyEYTw
. E’ praticamente Hermione che parla. Non potevo chiamare questo capitolo in
altro modo.
Capitolo 46 *** Disturbia, step one : about happenstance. ***
Dopo cinque anni di separazione e una residenza
forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass,
Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex, di cui
Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean,
Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con Raissa
Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un
incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto
nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli
aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di
lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione,
Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era
una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando
la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le
due. Tatia non voleva che Hermione si
ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del
gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora
di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era
sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova
una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove
lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente
ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di
Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti
assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo
potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa
dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto
più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati,
Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva
fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo
stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe
rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta
la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a
casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma.
Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per
sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare
Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità
sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i
suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo
premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity,
facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di
Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di
gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo
per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le
ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi
cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire
che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi,
trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione
distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua
vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno
dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco
e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa
dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa
fare parola, che Alex è anche suo figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente
e psicologicamente, minando forse per sempre la fiducia nei confronti di Hermione.
Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione
apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una
guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere
i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta
dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti,
cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e
al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una
serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del
demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo
scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da
Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata,
difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si
è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però
l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza
dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti
i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe
avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai
Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed
empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di
non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova
vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi
alla Solutio damnationis. Dopo essersi chiarita con Ron, Hermione
parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello” Alex. Ma proprio durante la
conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco le fotografie del loro
figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con Draco, scattata e
conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che Draco mostra ad
Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity. Ogni principessa
del libro ha il volto di Hermione. È la molla per la peggiore delle rivelazioni
possibili. Sebbene entrambi sono consci di essere ancora profondamente legati
l’uno all’altra, Draco ed Hermione affrontandosi si rendono conto di essere
innamorati del loro passato, più che di loro stessi al momento. Troppo dolore e
rancore è intercorso tra loro, e purtroppo ormai non sanno se potranno
recuperare loro stessi vista l’imminente prova con il demone. Disperando di
poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme
per la loro ultima notte. Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico
tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso
di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso unico,
cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione
incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del
demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di
Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e,
secondo Adamar, avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li
blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola
scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria
del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente
ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno
possibilità di tornare indietro.
E’ tutto bianco, come se avesse nevicato. Ma la neve è bella, pulita,
fresca, pura… ed invece quel bianco è malato, ansiogeno. Si mangia i colori, si
mangia le voci, è vorace di luci e suoni. Dà l’impressione di essere diventati
ciechi o di essere diventati sordi, anzi peggio… di essere morti e di non
essersene accorti.
Già… morti.
Trapassati nell’inesistenza in un soffio di fiato più forte degli altri.
Morti come le foglie secche schiacciate dai piedi frettolosi di un
passante. Un fruscio sinistro e poi più niente.
Lei però qualcosa sente. Qualcosa sente.
Una sola singola e tonante frase che le rimbomba nel petto come una campana a
morto. Una voce maschile che preme contro le sue orecchie. È strascicata,
eppure roca, profonda. Le dà i brividi. Sussurra contro le sue guance, come se
fosse ad un alito da lei.
Però è come se il bianco avesse una voce che sa di vento, furore, tempesta.
Di occhi dorati e malati di demone.
E si porta via quelle parole. Non le distingue. O le sente ma le dimentica
assieme nello stesso istante. Ricorda solo la fine di una frase che sembra non
avere senso.
“… il motivo che cerchi…”.
Fa male.
Il bianco la strattona dal fianco destro, come se si divertisse a tenderla
come un elastico per vedere quanto resiste. E lei puntualmente si spezza.
La chiamano, la chiama: e lei non può
rispondere. La voce se l’inghiotte il bianco.
Poi si inghiotte anche lei, intera, in un solo morso.
Al mattino Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, ha sempre una lacrima
sotto l’occhio sinistro che non capisce. La sfiora con un dito, l’assaggia, fa
una buffa smorfia cercando di dare spessore ad una serie indefinita di lampi
dorati nel bianco. Da tre mesi non ricorda più i suoi sogni al risveglio. Ma
devono essere incubi visto che alla mattina sembra che abbia pianto.
“Grazie memoria selettiva, allora…” sussurra allora a sé stessa con un
sorriso stanco.
Indugia nel letto qualche secondo, pigra. L’aria del primo mattino è
fredda, le coperte sono calde invece. Poi si alza con un sospiro ed indossa la
vestaglia da camera sul pigiama rosa di flanella.
La lacrima dalle sue dita cade sulla fronte di suo marito, mentre lo
accarezza con distratto affetto, sussurrandogli di svegliarsi.
La goccia di sale evapora ancora prima che Ronald Weasley si sia svegliato.
Le rughe mi hanno sempre affascinato.
Quando in un impeto di sincerità l’ho raccontato
a Ginny, lei mi ha guardato storto e ha borbottato roteando inquieta gli occhi:
“Cioè, già sei immune alla maggior parte delle preoccupazioni femminili… ma
anche le rughe adesso ti piacciono? Non avrai qualche seria turba psichica di
cui non sei ancora completamente a conoscenza?”.
Dopo allora, credo di non averlo più
propriamente esternato a qualcuno di diverso da me stessa, mentre mi guardavo
allo specchio.
Intendiamoci: ovvio che sono perfettamente
consapevole che ogni singola ruga sul viso di una donna, somiglia ad un passo
verso la strada della decadenza della bellezza.
E già questo dovrebbe indurre a comprendere
quanto potrebbe fregarmene di meno.
Diamo però per scontato che io non sia Hermione
Granger, 36 anni, la regina della razionalità incarnata e la principessa dal
motto “La sostanza vale tutto, la forma non vale niente”.
Supponiamo per un momento, invece, che sia una
modestamente più interessata all’estetica: probabilmente avrei ugualmente
fascino delle rughe, di quelle linee scolpite nella pelle di una donna o di un
uomo, a contarne gli anni come i cerchi degli alberi.
Le rughe mi ricordano il viso di Silente: quella
pace scolpita, quella dolcezza addormentata, quel reticolo di pensieri che, da
bambina, mi davano l’impressione di essere così potenti e forti da non restare
confinati nel tracciato dei neuroni, ma che avevano necessità di uscire fuori,
scoppiare all’esterno, chiazzare l’epidermide.
E io mi auguravo una folla di pensieri così.
Le rughe mi ricordano anche il viso di mia madre
quando sorride: e mi spingono a cercare in una di esse, in quella più profonda,
in quella più scavata vicino alle labbra, la presenza di mio padre che, da
cinque anni, non può più baciare quell’angolo della bocca.
Le rughe mi sembrano, insomma, una specie di
mappa del cuore di una persona.
Come se tu potessi ricostruirne la trama dei
ricordi, soltanto guardando un viso: sono pochi ragionevolmente sul volto
glabro di un bambino. Diventano tracce del sangue, quando si diventa adulti e
vecchi.
Per questo, il mio esercizio al mattino è
studiarmi il volto alla ricerca di quei segni: saranno più o meno di ieri? Un
sogno della notte avrà lasciato un marchio tangibile nella pelle accaldata?
Osservo il mio riflesso allo specchio, una ruga
piccola ed irregolare taglia a metà lo spazio tra gli occhi: è il carico di
ghiaccio che mi congelò il cervello quando vidi il corpo di Harry
apparentemente morto penzolare tra le braccia di Hagrid il giorno della
battaglia di Hogwarts. Un’altra, dritta e profonda, solca lo zigomo destro e
scende lungo le fossette del sorriso: è l’ultima spinta quando misi al mondo
Hugo, gemendo sudata dopo un travaglio di dodici ore. Un’altra ancora appena
accennata segue la linea del collo, ricordandomi del giorno in cui persi di
vista Rose e lei si ruppe un braccio cascando dal trampolino della piscina.
Poi ce n’è una che non mi crea tutta quella
serenità che provo alla vista delle altre.
Una recente, ma profonda. E soprattutto
particolarmente fastidiosa da guardare stavolta, come se fosse… diversa.
Non mi ricorda nulla, assolutamente nulla.
È un segno evidentemente scolpito, come se fossi
fatta di marmo e fossi stata scavata nella pelle con una mano dotata di
scalpello. Corre come la goccia che fende la roccia, partendo dall’angolo
interno dell’occhio destro e segue gli itinerari delle lacrime, scivolando
sullo zigomo e sulla guancia.
L’ho notata per la prima volta quando sono
tornata a casa il 1° settembre, dopo aver lasciato Rose alla stazione di King’s Cross. Certo, avevo pianto un pochino sulla spalla
di Ron mentre riprendevamo l’auto, ma non così tanto da addirittura ritenere
che ciò lasciasse un segno. Ero contenta che mia figlia fosse ad Hogwarts, lo
sono ancora, le scrivo ogni giorno cercando notizie e elemosinando aneddoti
dalla sua penna da ragazzina, dolendomi se mi scrive troppo, avrà amici con
cui occupare il tempo in cui dovrebbe scrivere a sua madre? e lamentandomi
se mi scrive poco, nemmeno tre mesi sono passati e già si è dimenticata
della sua mamma!
Un iter largamente normale che mi vede compagna
di centinaia di mamme con cui condivido discorsi stereotipati, conditi da
troppi sospiri e singulti di rassegnazione.
Ma quella ruga, quel segno come se avessi pianto
fino a scorticarmi il cuore, come se mi avessero strappato qualcuno da dentro
facendomi sanguinare e scoppiare le vene…
… io non me lo sono mai riuscito a spiegare dal
1° settembre di qualche mese fa.
"Finisci la tua colazione! Devi andare a
scuola... e non credo che abbiamo ancora animali domestici da sacrificare per
giustificare i tuoi ritardi! Questo mese sono morti tre canarini, un pesce
rosso ed sette criceti. La casa della morte la chiameranno!".
Nessuno dei miei due figli ha preso da me: hanno
qualcosa come un calco confuso, ma nessuna reale somiglianza. Ron spesso
sostiene che Rose abbia ereditato la mia intelligenza, ma mi sono schermita
spesso di fronte al complimento. Questo perché mio marito non ha mai
riconosciuto di avere una sua forma specifica di intelligenza, ben diversa
dalla mia.
Accorgendosene invece, si sarebbe reso conto di
quanto in questo Rose sia diversa da me.
La mia è un’intelligenza nervosa, sudata,
isterica, forgiata dalla carta e dell’inchiostro.
L’intelligenza di Rose è più istintiva,
naturale, rapida come il fuoco che incendia le frasche. Le piace leggere, ma
non divora libri come facevo io alla sua età. Conosce parecchie nozioni sparse,
apprese per forza di cose dai dialoghi infiniti che ha sempre avuto con me, ma
non ne fa sfoggio od uso eccessivo, se non nei momenti in cui sia vitalmente
necessario. Intuitivamente è il mio opposto, dato che invece ho sempre brandito
la conoscenza come la spada affilata a scudo delle mie insicurezze ed
incertezze. Se prende un voto basso a scuola, sbuffa un pochino, poi scoppia a
ridere dicendo che non le interessa.
Io, al suo posto, mi sarei fatta venire una caterva
di precoci rughe.
Difficilmente riesce a stare ferma per più di
dieci secondi cronometrati: le piace correre, sporcarsi d’erba, giocare a
Quidditch.
È una Weasley, inutile girarci attorno.
Ricorda così tanto il fantasma di Fred e George
come entità indivisibile e mai separata nei ricordi, da fare male al fiato e
allo stomaco.
Il suo aspetto ne è un ulteriore conferma.
Lunghi capelli lucidi e lisci, solo un po’ arricciati sulle punte come residuo
del mio patrimonio genetico. Occhi grandi e puliti che di mio hanno solo il
colore: io non ho mai avuto occhi così tersi neanche alla nascita, avevo sempre
troppe domande a cui rispondere e che mi affannavano lo sguardo. A completare
il tutto, Rose sfoggia un corpo acerbo e dinoccolato da ragazzina: magra come
un chiodo, con le ginocchia spigolose e il viso tondo dell’infanzia. In tutto,
ricorda maggiormente la zia Ginevra che la madre Hermione.
Il discorso non è neanche molto differente con
Hugo: anzi probabilmente, visto il suo sesso diverso dal mio, mio figlio sembra
aver preso solo il sangue di suo padre.
È coraggioso ma insicuro, sempre timoroso e
convinto di non essere capace di fare determinate cose, finché non apprende che
non solo le sa fare, ma sa anche migliorarsi continuamente. Anche a lui piace
stare all’aperto, vivere nell’erba e nel vento e, contrariamente a Rose, non ha
alcuna pazienza né di ascoltare storie, né tantomeno di leggere.
Non mi lamento: adoro i miei figli, amo mio
marito. Vederlo riflesso in loro è sempre stato come mettere in parentesi
l’amore per lui e moltiplicarlo all’ennesima potenza.
Spesso ho pensato a come sarebbe stato avere un
figlio, o una figlia, che avesse invece ereditato il mio amore sviscerale per i
libri, le mie labbra, il mio taglio degli occhi, persino la mia espressione da
pesce palla. Ci ho pensato spesso ed è un pensiero che mi ha sempre causato un
senso strano di mancanza.
Come di amputazione di metà del mio corpo,
quella più vitale e necessaria. Quindi l’ho ricacciato indietro, perché è un
sentimento ingiusto.
Così brucia l’amore del genitore. Un moccioso
urlante tra le braccia, ancora sporco di placenta e sangue. Una fotografia
stupida tra le dita, saporosa di passato e rimpianto. E non sei più uguale a
prima: tessi tele e ricami che siano i vessilli del sangue che vi lega. Se ci
somiglia, è la migliore versione di noi stessi. Ma se non ci somiglia, in
fondo, è il migliore rimpiazzo a noi stessi.
E io non potevo desiderare rimpiazzi migliori a
me stessa di Rose ed Hugo.
Sorrido non vista, mentre dando le spalle al
tavolo della colazione continuo a lavare i piatti. Passo la spugna insaponata
sulle tazze sporche e, con uno strano senso di nausea, osservo il contenuto
avanzato della mia. Un fondo di caffè nero ed amaro, una volta bollente, mi
informa che stamattina non ho bevuto come al solito il mio succo di ananas. Io
ingurgito sempre caffè solo quando sono terribilmente nervosa. Sospiro a lungo,
anche quella è una novità degli ultimi tre mesi. Da quando è partita Rose, non
c’è stato verso di riprendere con le mie solite abitudini alimentari della
colazione. Eppure, non potrei dirmi nervosa o agitata, o in pensiero per mia
figlia. Diamine, è a scuola, non è stata rapita da un pazzo omicida. Il mio
corpo, però, non è dello stesso avviso. Chiudo gli occhi per un paio di
secondi, fermando il conato di vomito che mi raggiunge le labbra, e
meccanicamente ingiungo ad Hugo di muoversi con la sua colazione.
In risposta mi giunge un gorgheggio lamentoso ed
acuto di mio figlio, assieme al tintinnio secco del cucchiaio che gira ancora
nella tazza di cereali. Quando sto già per voltarmi e rincarare la dose, Ron
pensa bene di intervenire, redarguendomi con voce flemmatica: “Mione dai...
devi essere un po' più elastica!".
La tazza che stavo risciacquando annoiata mi scivola
dalle dita bagnate di sapone di marsiglia, cascando con un tonfo sordo nel
lavandino. Trattengo un respiro più forte che rilascio all’improvviso come se
fossi un palloncino che viene sgonfiato di schianto. Freno con un impeto di
coraggio e calma il rigurgito acido di parole che sta già solcando le mie
labbra; esso però si accompagna con un ulteriore e ben più reale attacco di
nausea che mi fa barcollare. È quello che non trattiene in gola, alla fine, il
mio commento piccato: "Ti regalerò il dizionario dei sinonimi e contrari
per evitare che pronunci otto volte al giorno quel simpatico
aggettivo...".
Ron Weasley ha sempre il modo giusto e pronto in
tasca per farmi arrabbiare: in momenti di lucidità o di estrema pace, penso
semplicemente che non lo faccia apposta, che sia soltanto un uomo distratto e
superficiale come ce ne sono tanti. Non è peggiore di tanti altri, le donne
devono da sempre imparare ad avere pazienza con l’atteggiamento da elefanti in
una cristalleria dei loro compagni. Altre volte penso in modo automatico che
Ron Weasley non sia venuto al mondo provvisto del manuale d’istruzioni di
Hermione Granger. E non a caso, in un modo che spero sempre che sia
inconsapevole perché a metterci impegno si sfiorerebbe la crudeltà, Ron mi
punzecchia ancora con l’aggettivo poco elastica che sa perfettamente che
detesto. Credo persino di averglielo detto in una decina di occasioni,
sforzandomi di essere seria, chiara e concisa. Ed invece, per l’ennesima volta,
ci risiamo.
Odio essere definita così perché mi sembra quasi
un retaggio delle chiacchiere adolescenziali che berciavano alle mie spalle:
sì, ero tanto intelligente e capace, ma ero anche una bacchettona snob ed
antipatica che sveniva sul colpo a non rispettare le regole, ad accorciare una
gonna, a bere un bicchiere di Acquaviola, a concedersi ad un ragazzo. Certo,
magari mi può importare poco di quelle che sono solo paranoie da ragazzina
ormai dimenticate, ma l’adolescenza si attacca alle ossa anche quando si
cresce. Ci si crede sempre in debito di dimostrazione con essa: e io credo
davvero di essermi ammorbidita negli anni.
La guerra, quella dannata guerra che abbiamo
vinto, avrei potuto superarla solo se flessibile come giunco, e non rigida come
quercia.
D’altronde, Ron è quello che ha vissuto tutte
quelle esperienze con me. Dovrebbe avermi vista maturare ed aprirmi come un
bocciolo di loto e per primo dovrebbe riconoscere che non sono più la stessa
ragazzina tutta acqua e sapone ed inchiostro e libri: quindi che si ostini a
chiamarmi ancora in nome di una vecchia pecca del mio carattere, è quantomeno
irritante.
Non lo fa apposta, mi dico daccapo nella
mente, accompagnando la frase con uno sospiro profondo, specie quando intuisco
che Ron se l’è presa per il mio commento piccato, avendo ulteriore conferma
della mia scarsa propensione al gioco, all’ironia ed allo scherzo. Mi sforzo
quindi di voltarmi con espressione più neutra, mentre Hugo sbraita di nuovo con
vocetta acuta: "E poi, mamma, a me non piacciono le ciambelline di avena!
Volevo le stelle di cioccolato con lo zucchero!".
Una nuova vertigine mi colpisce infida alle
tempie, accompagnandosi all’ennesimo conato. Rispondo quindi acidamente, senza
ascoltare nemmeno che cosa stia dicendo: "Bè certo effettivamente non
erano abbastanza colme di glucosio! La prossima volta a colazione, direttamente
il saccarosio! Te ne preparerò una ciotola piena, va bene, Alex?".
Alle mie parole, sento seguire uno silenzio
strano da parte di mio marito e di mio figlio, cosa che mi costringe a voltarmi
su me stessa, chiedendomi se non siano improvvisamente evaporati liberandomi
dal fracasso mattutino.
Ron mi guarda inarcando un sopracciglio, le
labbra che descrivono una piccola “o” di sorpresa, mentre Hugo sporge il labbro
inferiore, ancora vagamente infastidito: "Mamma io sono Hugo".
L’ovvietà dell’affermazione di mio figlio,
pronunciata con voce tra il saccente e lo scontato, mi spinge a ricapitolare
mentalmente le mie parole precedenti che non trovo assolutamente sbagliate.
Dopo qualche secondo, arresami, poggiando la tazza pulita nella credenza,
chiedo con uno schiocco di lingua nervoso: "Perché, che ho detto?".
"Alex" risponde Hugo, quasi offeso, guardandomi storto come se lo
avessi tradito personalmente.
"Hai detto proprio Alex, Mione"
rincara Ron la dose con espressione scettica, piegando il collo per dedicarmi
uno sguardo indagatore, come se fossi un foglio di carta da guardare in
controluce. Gli restituisco uno sguardo fosco, nebuloso, mentre chiedo ancora:
"Alex?".
"Alex, sì, non sono sordo" ribadisce Ron sfiancato, riprendendo a
sorseggiare il suo caffè con sufficienza. Resto per un attimo assorta nei miei
pensieri, la testa bassa e gli occhi fissi sulle piastrelle di ceramica del
pavimento della cucina. Alex. I miei occhi si impuntano su una crepa di
una mattonella, sembra una lunga ferita nel marmo, ne seguo il profilo con la
punta del piede.
Sebbene abbia studiato qualche anno fa
psicologia, non capisco che collegamento incomprensibile può aver fatto la mia
mente per suggerirmi un nome che non mi dice assolutamente niente. Certo,
Alexander è il nome di mio padre, ma non è entrato in alcuna associazione
mentale, adesso, mentre rimproveravo Hugo. E certo non mi sono mai riferita
mentalmente a mio padre con il nome “Alex”: ovvio che lo chiami ancora “papà”,
sebbene sia morto da cinque anni. Del resto, non conosco quell’abbreviazione
nemmeno per intercalare altrui: mia mamma ha sempre chiamato papà con il suo
nome di battesimo completo, cosa che mi dava sempre un tono solenne e mi
spingeva sempre a concludere, quando ero bambina, che Alexander fosse un nome
da imperatore, da zar, da sovrano, ed andasse quindi pronunciato per intero.
Quando rimasi incinta di Rose, il nome Alexander
era tra i papabili se avessi avuto un maschietto. Mi sarebbe piaciuto davvero
come nome, anche seguito dall’Arthur del padre di Ron.
Sarebbe stato davvero un nome da re se coniugato
in quella maniera.
Ma arrivò una bambina, la mia meravigliosa
piccola Rose, e scelsi io il nome per lei. Mi era sempre piaciuto come nome
assieme a Charlotte.
Come d’accordi, poi, lasciai che qualora
avessimo avuto un altro figlio, fosse Ron a scegliere il nome del neonato. Ma
allora non arrivò alcuna Charlotte, nome che lui stranamente aveva persino
approvato.
Arrivò un maschietto a cui appioppò il nome Hugo
che io detesto. E tanti saluti ad Alexander Arthur Weasley. Mio figlio,
invece di portare il nome di un re, porta il nome del portiere dei Cannoni di Chudley di una decina di anni fa. Me lo faccio piacere solo
perché, nel mio intimo, continuo a dirmi che si chiama Hugo in onore dello
scrittore francese Victor Hugo. E tecnicamente è anche la versione che do in
giro, quando mio marito non è a portata d’orecchio. È una cosa però superata da
anni, mi ci sono anche rassegnata su, perciò commento in modo scherzoso verso
Ron: "Sarà una vendetta del mio inconscio per averti concesso di scegliere
il nome di nostro figlio. Alex... da dove diamine mi è uscito?". Le mie
labbra, mentre do le spalle all’ulteriore siparietto tra Ron ed Hugo,
continuano a masticare il nome Alex per qualche secondo, fino a quando ho
l’impressione che questo faccia, se possibile, aumentare ancora di più la mia
nausea e vorticare il mio cervello come se fossi in una morsa.
Quando mi sembra di averne abbastanza di questi
giramenti di testa, mi siedo con attenzione e premo a lungo la mano sulle
labbra, attirando l’attenzione preoccupata di Ron.
“Mione, che c’è?” mi chiede con apprensione,
sfiorandomi la guancia con due dita, mentre si inginocchia di fronte a me.
Rassicura Hugo con un’occhiata, ingiungendogli severo di andarsi a preparare,
cosicché nostro figlio esca dalla cucina sbuffando e battendo i piedi, senza
accorgersi però del mio malessere. Cerco di rassicurarlo con un sorriso stanco,
mentre lui mi porge con solerzia un bicchiere di acqua fredda. Lo ingurgito in
due sorsi e, finalmente, la nausea sembra passare, lasciandomi solo una
sopportabile sensazione di stretta allo stomaco.
Sollevo lo sguardo finalmente verso Ron,
carezzandogli lo zigomo con dolcezza, prima di soffiare fuori: “Nulla di che.
Solo un po’ di nausea… e vertigini. Credo che sia un po’ di pressione bassa…”.
Ron non dismette l’espressione agitata e,
porgendomi la mano affinché mi alzi in piedi con cautela, mormora severo: “Non
dovresti andare al lavoro se non ti senti bene, Mione. E dovresti chiamare un
Medimago… non è la prima volta che ti succede…”.
Aggrottando le sopracciglia, mentre mi sollevo
malferma sulle ginocchia e mi appoggio al suo braccio teso, chiedo confusa:
“Quando altro mi sarebbe successo?”.
Ron chiude con la sua la mano che io tengo
poggiata sul suo avambraccio, mentre mi guida al piano di sopra. Il sole filtra
dalle finestre del salone, soffiandogli riflessi di vetro oltremare nello
sguardo azzurro. Poi, dopo una pausa di qualche secondo, sussurra quieto:
“Probabilmente ti è accaduto anche successivamente… ma me ne ricordo
distintamente il giorno in cui accompagnammo Rose al binario 9 e ¾ … ti
lamentasti del caldo e mi dicesti che avevi avuto una vertigine…”. È vero,
constato sommariamente mentre mi siedo sul letto in camera nostra. Me ne ero
completamente dimenticata. Avevo lamentato anche allora un malessere simile e
ne diedi la colpa alla temperatura alta di quella giornata di settembre. In
realtà, sapevo perfettamente a che cosa quel capogiro era stato dovuto:
all’improvviso vuoto della partenza di mia figlia. Ma non volevo confessarlo a
Ron che mi avrebbe preso in giro fino alla morte per quell’eccesso di nostalgia
da mamma chioccia, quindi imbastii quella scusa sul caldo.
È bello però che se ne ricordi e preoccupi
ancora.
Quindi sorrido in modo più caloroso, mentre lui
si veste e mi dà le spalle e lo rassicuro dicendo che cercherò di non stancarmi
troppo e di vedere quanto prima un medico. Intanto, Ron si offre di portare lui
a scuola Hugo, dato che per lui le ferie natalizie sono iniziate molto prima di
me, e non deve recarsi all’Ufficio degli Auror se non in tarda mattinata. Lo
ringrazio sommariamente e socchiudo leggermente gli occhi, quando mi bacia con
dolcezza sulle labbra, prima di uscire ingiungendomi di tornare a casa
dall’ufficio ad un orario decente.
Resto qualche secondo seduta sul letto della
stanza, accarezzando il copriletto cremisi con distrazione, mentre sento le
voci di Hugo e Ron rincorrersi al piano di sotto. Quando odo distintamente la
porta d’ingresso, mi concedo il lusso di rilasciare un sospiro nervoso e
stanco. Poi, mi alzo con decisione, mi fermo davanti allo specchio e lego i
capelli in una coda alta da cui sfuggono ciocche distratte.
Non mi affanno a cercare orecchini, collane o
anelli da abbinare: stamattina ho l’incontro con il capo della Divisione Elfi
Domestici del Sussex meridionale, e non sarà decisamente una passeggiata di
salute da risolvere con qualche moina femminile. Sto già per uscire afferrando
la cartella piena di documenti, quando torno indietro come se fossi stata punta
da uno spillo. Apro l’armadio, scavo tra pile di vestiti ed indumenti, fino a
trovare quello che sto cercando. Una sciarpa di lana che ho comprato il 1°
settembre, quando il vuoto per Rose mi era sembrato per un attimo
insopportabile da accettare.
Era in una vetrina, appoggiata mollemente al
collo di plastica di un manichino denutrito. Non era vistosa, non era elegante:
era semplice, ordinaria, persino un pochino fuori moda. Ginny mi avrebbe presa
in giro per quell’acquisto sciocco, quando poteva portarmi da Madama Seraphine a Diagon Alley e farmi realizzare una stola che
cambiava colore e pesantezza, a seconda della giornata.
Persino la commessa, una donna alta dai capelli
biondo ramati che portava al collo il cameo di una rosa bianca, lucido come un
pezzo di ghiaccio, mi aveva guardata un po’ meravigliata per la scelta estetica
dubbia, indicandomi piuttosto un meraviglioso foulard rosso fiammante con la
stampa di delicate margherite.
Ma inaspettatamente, ero stata irremovibile. Non
so spiegarmi il motivo, specie perché effettivamente il foulard rosso era più
adatto alla stagione, nonché declinato nel mio colore preferito. Mi ero
ritrovata invece ad insistere caparbia e testarda, io che di solito assecondo
le commesse in tutto e per tutto per pigrizia e noia.
“No, voglio quella che c’è in vetrina. La
sciarpa di lana… quella grigia…” avevo ripetuto cocciuta.
Addosso, stretta attorno al mio collo, sapeva di
casa. Non è che facesse tutto questo caldo, ma mi faceva sentire serena,
riposata, incardinata in un punto preciso del mondo senza che sbandassi
altrove.
Quel grigio negli occhi sapeva di tempesta,
lampo, mare di dicembre, nube acquosa, strada maestra, spuma di onda, carta e
libro, pietra carsica, caverna di roccia, capelli di vecchio, argento vivo,
luna e stella, pioggia dalla finestra, cenere e fondo di fiume, lacrima sporca.
Ed il vuoto della mancanza di Rose mi aveva
fatto meno paura.
Me la drappeggio attorno con un collo con un
sorriso statico, affidandomi di nuovo a quel ritaglio di stoffa.
Sebbene mi aspetti solo una normale giornata da
Hermione Granger in Weasley.
Come tante altre prima di questa.
Suo marito aveva ragione. La nausea durava da molto più di quanto lei
stessa ricordasse: era una sensazione tipica, spavalda, infida come un calcio
nello stomaco. E la colpiva senza preavviso alcuno. Ma Hermione Granger, 36
anni compiuti, era una donna che non faceva la cronaca dei propri malesseri
quando erano assolutamente trascurabili. Passava così come era venuta, e tanto
bastava per dedicarsi nuovamente al lavoro, alle lettere alla figlia, alla cura
per il figlio, ai rimproveri scherzosi al marito, agli impegni con amici e
famiglia. Ci poteva mettere più attenzione, sicuramente, ma lei non era così.
Era la pressione bassa. Era il caldo. Era lo stress. Era quel intruglio di
carne e rape che aveva preparato sua suocera per cena.
Aveva un carnet di spiegazioni ineccepibili.
La nausea, poi, non aveva alcuno schema preciso: veniva e passava,
somigliando alla sosta di una barca in mezzo al mare, in preda ai flutti.
Pochi secondi, occhi chiusi, respiro più forte… e passava.
Era solo un patema distratto del corpo che reagiva a cose assolutamente
scollegate tra loro.
Il binario 9 e ¾ e i commenti su un vecchio compagno di scuola.
Una passeggiata in centro, e Hugo che propone di comprare del gelato
fritto.
L’ondata di pigrizia quando Ginny le aveva proposto di portare i bimbi in
un parco di divertimenti di nome Wonderland.
Il maglione turchese che aveva ricevuto in regalo per il suo compleanno.
L’odore di rose di una passante.
Il succo d’ananas praticamente ogni mattina… e la sua sostituzione con
caffè amaro, nero, bollente, come se fosse sempre nervosa e nemmeno se ne
rendesse conto.
Anche a voler unire tutti gli indizi, nessun disegno sarebbe venuto fuori.
Ed Hermione Granger non era una che cadeva nelle trappole dell’intuizione
spicce.
Era ovvio pensare che fosse solo un po’ stanca a causa del lavoro.
Glielo disse anche un’adorabile vecchietta dallo sguardo vispo che era
venuta a chiederle udienza e consiglio per il caso di un Elfo domestico che non
voleva smettere di picchiarsi.
“Signora Weasley! Si riposi ogni tanto! Sembra così deperita…” le ingiunse
severamente, accarezzandosi il suo cameo di una rosa bianca.
Hermione Granger, 36 anni, annuì sorridendo, respingendo al mittente la
nausea che le aveva colpito di nuovo lo stomaco, mentre riordinava le novecento
tredici schede dell’archivio.
La nausea non aveva alcuno schema preciso.
Era solo un patema distratto del corpo, che reagiva a cose assolutamente
scollegate tra loro.
Diventare i vicini di casa di Harry e Ginny
quando mi ero sposata, mi era sembrato un segno meraviglioso del destino:
nessuna volizione, nessun desiderio specifico. Solo una serie di fortunate
coincidenze, che io avevo liquidato con solerzia sotto l’etichetta di indizi
superiori di una volontà più forte di farci vivere la nostra vita quanto più
vicini possibili.
Harry e Ginny si erano sposati da qualche mese,
aspettavano James, ed io e Ron eravamo ancora alla ricerca della casa perfetta
per un matrimonio che avrebbe seguito il loro di meno di un anno. Ciondolavamo
di appartamento in appartamento, di cottage in cottage, di villa in villa,
liquidando tutte le costruzioni come ben poco confacenti al concetto di casa.
A questo, si aggiungevano tutte le variabili del caso: serviva una casa che
fosse sufficientemente vicina alla Tana per quando fossimo diventati genitori,
e Molly ed Arthur avessero voluto fare avanti ed indietro per vedere i loro
nipotini. Ne volevamo anche una che fosse vicina alla Passaporta
internazionale situata alla Torre di Londra, così da raggiungere velocemente i
miei genitori per lo stesso motivo, dato che avevano deciso di stabilirsi a Favignana,
in Sicilia, nella vecchia casa di mia nonna. Eravamo entrambi d’accordo di non
vivere in campagna aperta ma di essere almeno nella periferia di Londra, così
da facilitare gli spostamenti lavorativi. C’erano poi alcuni quartieri che non
ci andavano eccessivamente a genio, come Notting Hill
che ci era sempre parso troppo caotico, cosa che ogni volta contribuiva a
procurarmi un’emicrania perforante ed una nausea pazzesca. O come Belgravia,
che a Ron era sempre sembrato come “il recinto di quelli con la puzza sotto il
naso”. Ci eravamo ormai rassegnati ad andare a vivere con i suoi per un po’
appena dopo il matrimonio, dato che il contratto di affitto dell’appartamento
di 40 metri quadrati dove convivevamo scadeva un mese prima delle nozze e non
aveva senso rinnovarlo, visto che non ci avremmo potuto vivere se la nostra
famiglia si allargava. Senza contare che era un buco dall’affitto decisamente
sproporzionato… insomma fu in quel momento che Ginny venne praticamente di
corsa ad avvisarmi che era stata messa in vendita la casa accanto alla loro, a Earls Court, un quartiere che io avevo sempre adorato.
Tranquillo, ben collegato, con esterni ben
curati.
L’appartamento di Ginny ed Harry mi era sempre
piaciuto perché piccolo, luminoso, su due piani e con una sfiziosa porta
laccata in azzurro. Aveva un minuscolo giardino, dove Ginny aveva fatto
piantare delle piante aromatiche che usava per le zuppe invernali. Quella che
sarebbe diventata casa mia, aveva una struttura parallela e gemella a quella:
salone, cucina ed un piccolo corridoio al piano terra; due camere da letto ed
un bagno al piano superiore. Era quasi incassata in casa di Harry, al punto che
affacciandomi alla finestra, potevo spesso passare a Ginny il sale o lo
zucchero o le uova, se le aveva dimenticate al supermercato. I primi tempi in
quella casa furono un autentico sogno: Earls Court
era vicinissima a Holland Park, un posto che avevo
sempre adorato di Londra. Holland Park è considerato
uno dei più tranquilli e romantici parchi di Londra, e io amavo passarci
il tempo quando ero a casa da Hogwarts per le vacanze estive. Ci tornavo spesso
quando ero incinta di Rose: mi sedevo vicino alla famosa Orangery,
circondata da enormi siepi di rose, e respiravo felice. Forse, persino da quei
pomeriggi pigri, ricavai l’intuizione per il nome di mia figlia. Mi destava
anche enorme curiosità il fatto che ci fosse un set di scacchi giganti con cui
si può effettivamente giocare: da bambina, specie nell’estate del mio primo
anno ad Hogwarts dopo la vittoria su Voldemort/Raptor
proprio per una partita a scacchi, costringevo i miei a portarmi lì e a
cominciare lunghissime partite che sapevo di vincere sempre. È forse uno dei
posti più cari della mia infanzia e della prima adolescenza, per questo casa
mia mi parve subito così speciale essendoci così a quel parco. Ci sono tornata
sempre meno poi negli anni e forse di riflesso, anche casa mia ha perso le sue
meravigliose attrattive per questo.
L’ultima volta che sono stata ad Holland Park, tra l’altro, ne ho un pessimo ricordo: sarà
stato circa un mese fa, avevo una mezza giornata libera e un libro meraviglioso
da finire. Avevo cercato la mia panchina preferita di quando ero piccola,
proprio vicino ad un roseto di boccioli bianchi. Non ero riuscita a leggere
nemmeno una riga, lo stomaco mi pungeva, la schiena mi si era inzuppata di
sudore freddo come se fossi rimasta per ore sotto la pioggia, e le gambe mi
formicolavano come se volessi solo scappare via a e chiudermi in casa. Quando
avevo provato a cambiare posto, avvicinandomi alla scacchiera, era stato
peggio: guardavo i pezzi ed avevo sempre la sensazione di aver dimenticato
qualcosa. Qualcosa che dovevo tenere a mente a tutti i costi: ma più ci pensavo
e più mi veniva in mente solo la parola “palma”.
E di interesse botanico per una pianta
tropicale, non credo di averne mai nutrito in vita mia.
Una serie di comportamenti mentali fastidiosi,
al limite dell’idiozia e della paranoia, insomma. Però alla fine avevano
confermato quello che già pensavo e credevo: odiavo, ormai, vivere lì. E ciò si
era ripercosso anche nell’adorato parco dei miei ricordi, ormai ridotto ad un
posto che mi comunicava solo nervosismo. Dopo la partenza di Rose, con meno
impegni a gravarmi il cervello, la cosa appariva molto più chiara. Ormai tutto di
casa mia contribuiva ad innervosirmi: la poca luce la mattina nelle stanze, e
quella decisamente eccessiva nel pomeriggio. La camera da letto troppo piccola.
Il disimpegno davanti alla porta d’ingresso inutilizzato. Le dimensioni
esagerate della camera di Hugo. Insomma: qualsiasi cosa mi dava fastidio,
persino il colore laccato verde della porta che, all’inizio, mi aveva tanto
colpito.
Queste cose, in fondo però, erano aspetti
risolvibili o comunque trascurabili. Non è che uno cambia casa perché non gli piace
il colore della porta. C’era, invece, qualcosa che da essere la cosa più bella
di quell’abitazione, improvvisamente era diventato l’aspetto peggiore. E a ciò
non c’era rimedio.
La vicinanza con Harry e Ginny.
È ovvio che essere così vicini con i miei
cognati sia una comodità ed un sostegno notevole, specie nelle faccende che
riguardano i bambini. Ed è anche indiscusso che avere la mia migliore amica a
così stretta portata di mano, significa anche poter contare su di lei in
qualsiasi momento, fosse anche per farci del semplice popcorn e vederci un film
strappalacrime assieme. Stessa cosa, ovviamente, è per Ron con Harry: e questo,
nei primi anni del matrimonio, aveva fatto sì che mi sentissi sempre in
vacanza, con i miei migliori amici sempre vicini in una sorta di grande
famiglia allargata.
Ma di anni intanto ne erano passati dodici dalle
mie nozze ed ora lentamente, avevo capito che una coppia sposata, nonché i
propri figli, ha un estremo bisogno di una vita che sia quanto più separata
possibile: relazioni forti ed intense con famiglia ed amici, ma anche un
perimetro di vita solo propria. E io questo perimetro non l’avevo mai avuto.
Bastava un semplice litigio mio e di Ron,
normalissimo nella vita da sposati, e Ginny ne poteva avere tutta una telecronaca
visto che le pareti erano di compensato e cartone. E ciò naturalmente finiva
spesso per sedare i miei malumori in modo artificioso, dato che ero a
conoscenza del fatto di voler lasciare la cosa personale, quindi ad un certo
punto della discussione, sebbene insoddisfatta, mi imponevo di tacere per paura
di essere ascoltata. O lanciavo Incantesimi Insonorizzanti che, nei culmini di
nervosismo, potevano anche spaccare i vasi dell’ingresso e non raggiungere il
loro bersaglio reale.
Un mio semplice malessere e voglia di stare da
sola a casa mia, poteva mettere su un caso nazionale, non da ultimo riferito
anche a mia suocera, specie se si traduceva nel mio rifiuto di vedere Harry e
Ginny piombati nel mio salotto per un’improvvisata. I miei figli risentivano molto
della vicinanza continua con i cugini, assimilandone comportamenti da me non
approvati o non graditi: e a questo si aggiunge il fatto che Hugo e Lily non
vadano affatto d’accordo, cosa che aumenta enormemente le mie emicranie.
In questo, si spiega perché proprio stamattina
che sono vittima di questo malessere cretino ed avrei solamente voglia di
passeggiare per arrivare al Ministero, usando magari i mezzi babbani che mi
danno meno nausea della Smaterializzazione, sentire le voci di mio marito e dei
miei cognati in giardino, cosa che mi costringerà a passare loro davanti,
dovendomi intrattenere in una qualche forma di conversazione civile, mi fa
ribollire il sangue nelle vene.
Con fastidio, resto qualche minuto
nell’anticamera del salone, l’orecchio contro la porta, sperando che ci mettano
poco a terminare le chiacchiere così che io possa sgusciare fuori, non vista.
Ma naturalmente i discorsi si protraggono oltre il tempo concessomi dal fatto
di essere l’unica, ancora, che deve andare al lavoro e che già beneficerà di
qualche minuto di permesso a causa del mio malore.
Aggiungiamoci pure che l’Ufficio Auror è parco
di attività prima di Natale e, se Ron deve recarsi alla sede centrale per delle
scartoffie dopo le undici, Harry non ha nemmeno quell’occupazione, avendo
sistemato tutto prima delle tanto agognate ferie per dedicarsi completamente
alla motocicletta di Sirius, che necessita dell’ennesimo check
up. Ginny, ovviamente, scrive per la Gazzetta del Profeta: può decidere
autonomamente i suoi tempi di lavoro, anche se questo implica iniziare a
scrivere la telecronaca dell’incontro delle HolyheadHarpies dopo una corroborante chiacchierata con marito e
fratello. Nondimeno posso sperare che ad Hugo, improvvisamente, sia venuta
voglia di andare a scuola: lo sento urlare acidulo qualcosa all’indirizzo di
Lily, che strilla ugualmente irritata qualche serie di improperi al suo
indirizzo.
Per un attimo penso di Smaterializzarmi,
fregandomene della nausea e di tutto: ma la pila di depliant
delle agenzie immobiliari che accatasto da tre mesi in cucina affinché Ron dia
loro un’occhiata, magari approvando il cambiamento di casa, mi fa desistere.
L’acido nervoso che sento in gola, constatando come ogni giorno che non sono
stati minimamente toccati probabilmente al grido di “Stiamo così bene qui!”, si
traduce nell’ennesima torsione olimpionica del mio stomaco. Alla fine, quando
comprendo che la cosa andrà per le lunghe, respiro profondamente nella mia
sciarpa grigia e mi preparo ad uscire, malgrado il fuoco incrociato che mi
aspetta. Chiudo gli occhi per qualche secondo, la mano sulla maniglia, mentre
mi riprometto di imbottirmi di un digestivo per farmi passare l’acidità che
inevitabilmente sta per peggiorare.
Quando però esco in giardino, il sole dolcemente
tiepido che filtra tra le nuvole e mi soffia in viso uno stralcio di buonumore
destinato a soccombere presto, comprendo che avrò bisogno di un’autobotte di
digestivo, non di una semplice bustina. La quantità di decibel prodotti dalla
conversazione pacata che si sta tenendo all’esterno, infatti, mi fa
convenientemente supporre che ben presto sarà infranto il muro del suono, cosa
che produrrà un’onda d’urto terrificante, in grado di schiantare al suolo tutte
le persone nel raggio di quattordici miglia. La strada è ancora tranquilla,
poche persone camminano pigramente per raggiungere il posto di lavoro, sferzate
da un venticello gelido che preannuncia la prima neve dell’anno. Darei di tutto
per respirare questa pace prima di arrivare in ufficio, ma la mia caotica famiglia
non è del medesimo avviso. Ron ha completamente perso di interesse in Hugo per
dedicare tutta la sua attenzione ad Harry, che a sua volta è intento a
controllare una perdita d’olio della motocicletta di Sirius, cosa che fa
gocciare un liquido nerastro di pessimo odore nel nostro vialetto
d’ingresso, dato che al mio intelligente marito è venuta la straordinaria idea
di concedere al suo cognato preferito di eseguire le piccole riparazioni del
veicolo da noi, visto che Ginny sostiene che i fumi di scarico facciano male
alle sue piante aromatiche. Non al mio equilibrio psicofisico fanno male, ma
alle sue piante.
Già questo basterebbe per farmi urlare come
un’isterica pazza, ma la ciliegina sulla torta è mio figlio che continua a
gridare come un ossesso contro Lily, che risponde con una serie di pacati e
calibrati calci negli stinchi di Hugo. Ad ogni calcio ben assestato, il volume
delle urla di Hugo aumenta sensibilmente ed, in tutto questo, naturalmente
Ginny è assolutamente calma ed indifferente. Si limita ad una serie di stanchi
rimproveri all’indirizzo della figlia che non sovrastano nemmeno gli strilli
dei due bambini. La comprendo in fondo, Lily è decisamente una bambina
impossibile, ci sta che la mia amica sia già stravolta alle otto di mattina.
Lily non ha mai legato granché con nessuno né all’asilo, né tantomeno alla
scuola elementare. Nemmeno con i suoi fratelli ha un rapporto così idilliaco. È
prepotente, violenta, testarda, decisamente difficile da gestire. In questo
assomiglia abbastanza a Ginny, credo che abbia risentito anche lei, come sua
madre, di essere cresciuta con due maschietti più grandi ed intraprendenti. Ma
se questo in Ginny provocò dapprima una fortissima timidezza, e successivamente
in pubertà una grande carica e forza emotiva, Lily invece ha appreso in modo
inconscio che l’unico modo che aveva per farsi rispettare era urlare, gridare,
calciare, picchiare, anche se fosse solo per ottenere un gelato. Spesso,
abbiamo cercato di farla legare con i suoi coetanei, ma è sempre stato un completo
disastro. Non ha mai trovato nessuno che le tenesse testa, in modo deciso ma
comunque non violento: o finiva per trovare altre attaccabrighe con cui
ingaggiava lotte senza quartiere, o bimbe delicate come fiori che strillavano
come matte al primo accenno di prepotenza. Questo ha finito per irrigidire Lily
sempre di più, rendendola sempre peggiore nei modi e nel comportamento, facendo
arrendere anche Harry e Ginny che ormai tendono ad ignorare il problema,
sperando che, una volta ad Hogwarts, la situazione si risolvi da sola. Io,
onestamente, non ci giurerei. Ricordo ancora il destino della sua ultima
amichetta, Kara Scamander, la figlia di Luna
Lovegood, una dolcissima piccola bimba dalla pelle bianca e le trecce biondo
platino. Al termine di un solo pomeriggio con Lily, Kara non aveva più soffici
capelli da sfoggiare: in un impeto di furia ed in un attimo di distrazione di
Ginny, Lily glieli tagliò tutti con le forbici. Per fortuna era la figlia di
una donna abbastanza svagata come Luna che non aveva dato peso eccessivo
all’episodio.
Ma in ogni caso, Kara non si era fatta più
vedere.
Esteriormente Lily è un amore di bambina:
capelli rossi e lisci come quelli della mamma, occhi verdi lucenti come quelli
del papà, viso tondo e roseo. Ma basta che apra bocca, e ti fa pentire di
questa tua considerazione ingenua.
Saluto con un cenno del capo Harry e Ron, i
quali, ancora presi nella loro conversazione sullo spinterogeno, si limitano ad
un gutturale cenno di gola che vorrebbe significare per Harry un “Buongiorno
Hermione, mia cara cognata!” e per Ron un “Stai tranquilla amore, tra
poco porto Hugo a scuola, sai che te l’ho promesso!”. Sospiro a lungo prima
di avvicinarmi a Ginny, sperando di non ritrovarmi ben presto a massaggiarmi le
tempie come sta facendo lei, in preda all’emicrania. Abbozzo un saluto, prima
di fiondarmi a dividere le piccole bestioline, rimproverando Hugo con finta
solerzia, tanto per non dare l’impressione di credere che sia sempre colpa di
sua cugina, come invece in realtà ritengo. Hugo, ovviamente, mi mette il
broncio, incrocia le braccia per l’accusa ingiusta e si va a sedere sui gradini
dell’ingresso sotto il portico, guardandomi in cagnesco. In tutto questo, Lily
per un po’ continua a provocarlo da lontano, poi, quando Harry si decide finalmente
a erompere in un rimprovero vagamente più autoritario, scoppia in un pianto
isterico e rientra correndo in casa, convinta di essere immediatamente seguita
da sua madre, pronta a consolarla.
Ginny, invece, decide saggiamente di lasciarla a
macerare un po’ nella sua rabbia stizzita, restando fuori in giardino. Si
appoggia stancamente alla ringhiera che divide le nostre due abitazioni con un
forte sospiro, ha i bei occhi azzurri cerchiati dal sonno e sembra abbastanza
stanca. Anche il suo corpo si è appesantito nel corso degli anni, rendendola
più simile a sua madre di quanto era da ragazzina. Ma resta una donna forte,
energica, attiva. Troppo, forse. Credo che la vita domestica le stia
stretta, sebbene scriva per la Gazzetta del Profeta, lo fa da casa e questo ha
contribuito che si lasciasse molto andare con il tempo. Della scattante
giocatrice di Quidditch di qualche anno fa, è rimasto poco. Non è una, però,
che si lascia andare, che si dichiara sconfitta, che subisce la vita. Forse,
per questo le voglio così bene ed è ormai una sorella per me. Ha sempre quello
scatto di coraggio che a me manca, sopito nel conformismo. Ha deciso di
frequentare un corso per diventare volontaria al San Mungo, non lo avrei mai
detto, ma le piace la medicina. Le ho chiesto una volta, perché non ha mai
provato a diventare Medimago. Lei si è chiusa nelle spalle, ha fatto un sorriso
storto e ha borbottato dicendo che le HolyheadHarpies, ai tempi, le avevano garantito un buono stipendio
e, con Ron che frequentava il Corso per diventare Auror, non voleva gravare
troppo sui suoi genitori che già pagavano le spese di suo fratello.
Non so perché, ma sono convinta che sarebbe
stata un buon Medimago. Glielo dico spesso, ma lei si schermisce innervosita.
Solo alcune volte, accetta di buon grado il complimento e questo
tendenzialmente avviene quando parliamo della mia ferita magica sulla schiena:
quella che mi sono procurata un anno dopo la fine della guerra, in un covo di
Voldemort dove aveva lasciato delle vecchie carte muffite riportanti i nomi dei
suoi Mangiamorte. Gli Auror avevano chiesto l’intervento del Dipartimento della
Cura delle Creature Magiche dove allora lavoravo, perché a guardia della grotta
vi era una statua che si trasformava in una sorta di Basilisco. Avevo sottovalutato
il pericolo di quella creatura, finendo per essere colpita dal suo veleno e
procurandomi una ferita maledetta che riprende a sanguinare nelle notti di
novilunio e per cui sono sempre costretta ad assumere una pozione una volta al
mese. Ebbene, è su quella che Ginny ciancia spesso. Sostiene che, secondo lei,
potrebbe sparire del tutto con una sorta di pozione potenziata del veleno del
Basilisco stesso, che mi immunizzerebbe dalle tossine in modo permanente. La
lascio parlare e sorrido calorosa solo per incoraggiarla.
Dovrebbero mandarmi in coma per provare una
Pozione del genere.
“Lo sai che la colpa era di Lily, vero?”
esordisce Ginny a mo’ di saluto, guardandomi in tralice. Punta sul vivo,
replico affannata ed imbarazzata: “Certo perché Hugo invece era calmo e
serafico? Ho sentito le sue urla dal primo piano…!”, getto un’occhiata
colpevole al mio bambino, ancora seduto scornato sui gradini, promettendomi di
ricompensarlo per questo rimprovero ingiustificatamente subito.
Mia cognata sorride dolcemente, limitandosi a
staccare una foglia secca dalle parete di ibisco rosso che divide i nostri
giardini, prima di soffiare fuori: “A volte penso che se fossi stata meno a
casa e l’avessi asfissiata di meno con le mie cure da “sei la sola
femminuccia!”, sarebbe venuta su molto meglio…”.
“Non dire sciocchezze, Gin… ogni bambino è
diverso dall’altro…” commento fiocamente, sollevando il capo per respirare a
pieni polmoni l’aria mattutina “Non sarebbe cambiato nulla… e poi…”, cerco di
aggiungere con tono di voce allegro, rassicurandola: “Credo che stiano
migliorando le cose, no? Ultimamente la vedo più… tranquilla, ecco…”.
Alludo effettivamente al fatto che Lily non abbia preso a morsi il polpaccio di
Hugo, non mollando la presa nemmeno al rimprovero di Harry e ad un tentativo di
esorcismo: per i suoi standard, è un comportamento decisamente tranquillo.
“A dire cazzate, fai pena…” commenta con una
risata Ginny, scuotendo il capo “Quasi quanto quei due come meccanici…” e con
un’alzata di spalle, indica i nostri adorabili mariti, intendi a riempirsi di
grasso ed olio del motore. Sospiro lungamente, anche Hugo ha lasciato perdere
il suo contegno offeso per osservare con occhio clinico la vettura. Cerco di
comunicare telepaticamente a Ron di stare perlomeno attento a nostro figlio e
al fatto che non si imbratti come un operaio su una piattaforma petrolifera, ma
ottengo solo che Ron risponda a qualche affermazione di Harry con un sentito: “Miseriaccia!”.
“Siamo circondati da mocciosi…” sorride Ginny
con rassegnazione, a cui rispondo con un sentito verso gutturale di assenso.
Una folata ghiacciata di vento mi soffia sul viso, costringendomi a chiudermi
meglio nella mia sciarpa che, a quel refolo, rilascia un buon odore di pulito.
Ginny si informa sui miei programmi mattutini, dolendosi del fatto che il
Dipartimento della Regolazione della Legge Magica non abbia ancora dichiarato
la sosta natalizia, e io rispondo accorata sebbene meno sentitamente di lei. In
realtà, andare al lavoro non mi disturba affatto, ho ancora una decina di cause
da sistemare prima delle festività e spero di riportarmi in pari entro oggi.
“E tu, invece?” chiedo cortese a Ginny che, con
un’efficace movimento rotatorio degli occhi a testimoniare la sua irritazione,
mi racconta di avere l’ennesimo incontro con le insegnanti di Lily dato che la
bambina ha versato un barattolo di vernice gialla addosso ad un altro bambino,
per giunta autistico, che adesso si rifiuta di recarsi a scuola.
“Forse ti ricordi di chi si tratta…” commenta
Ginny con calma, enumerando sulle dita “Ricordi Natalie McDonald? Grifondoro,
occhi verdi, carina?”.
“Vagamente…”.
“Insomma, è suo figlio il bambino, Elias si
chiama… già ha mille problemi relazionali, ci mancava anche incrociare la
strada con quel Anticristo che mi trovo per figlia…”.
Rido sommessamente nonostante tutto, prima di
rendermi conto che è già abbastanza tardi e che devo correre in ufficio, specie
se ho intenzione di camminare un po’ ed usare i mezzi pubblici. Ginny, per
fortuna, viene richiamata in casa da uno squillo del telefono, utensile che si
è rivelato necessario visto che viviamo in una strada babbana e il passaggio di
gufi, alla lunga, sarebbe stato notato. Il fatto, poi, che il telefono squilli
per due volte e poi si interrompa per poi ricominciare con questa sequenza una
decina di volte, ci fa intuire agevolmente che si tratta di una chiamata di
Molly: nonostante tutte le spiegazioni del caso, non ha mai imparato bene l’uso
di questo “infernale aggeggio!”.
Lieta di poter sgusciare via prima che, per
qualche minuto, la chiamata di mia suocera coinvolga inaspettatamente anche me,
saluto velocemente Ginny ed Harry ed ingiungo a Ron di muoversi a portare Hugo
a scuola, prima di incamminarmi verso la stazione della metro.
Che viva da un po’ troppo tempo come strega, mi
si rende evidente subito: sono sempre stata convinta di essere una di quelle
donne che, sebbene abbiano dei poteri magici, non dimentichino mai la propria
origine mezzosangue e preservino quindi il senso dei piccoli riti delle persone
assolutamente normali. Per questo casa mia è piena di elettrodomestici, ho
obbligato Ron a prendere la patente di guida e ho erudito i miei figli sugli
aspetti essenziali della vita babbana. Nonostante questo, la maggior parte
della mia esistenza quotidiana prevede l’uso di una bacchetta e il fatto che,
invece, stamattina mi sia obbligata a prendere la metro come una normale donna
londinese che va al lavoro, mi avvisa di quanto in realtà sia rimasta indietro
senza accorgermene.
Per prima cosa, superato il complesso di case
residenziali dove vivo con la mia famiglia, mi accorgo della presenza di molta
più gente per strada di quanto sia abituata o di quanto mi ricordi: negli anni
ho dimenticato la regola basilare di stare sempre sul lato più interno del
marciapiede, se non vuoi rischiare di essere travolto da chi cammina a velocità
molto più sostenuta di te. E quindi subisco una serie di spintoni, pestoni e
collisioni tra i miei talloni e le ruote di diversi passeggini. Se quindi
pensavo di poter fare una tranquilla passeggiata che mi facesse passare nausea
ed emicrania, mi sbaglio notevolmente.
Arrivo alla stazione della metro di Earls Court ben più nervosa di quanto fossi all’uscita di
casa, anche perché nel frattempo ha iniziato a scendere una pioggerella
irritante come solo a Londra può esistere, e io naturalmente ho
dimenticato di portarmi l’ombrello, regola basilare della vita in questa parte
d’Inghilterra.
Tra le altre cose che ho rimosso, abituata a
Polvere Volante e Smaterializzazione, c’è la precauzione necessaria di vestirsi
a cipolla quando si ha intenzione di prendere la metro, visto che, se
all’esterno la temperatura può essere di -10 gradi, dentro invariabilmente si
toccheranno i massimi della regione di Calcutta quando l’asfalto si scioglie.
Questo significa inevitabilmente che, all’acqua che mi sono presa fuori, si
aggiunge il sudore dentro, oltre ad una sequela di bestemmie quando capisco che
il costo del biglietto giornaliero è aumentato di una sterlina.
Tutto farcito da un’altra serie di interessanti
iterazioni umane, consistenti in spallate e calci accidentali vari, mentre
controllo che linea devo prendere, visto che ce ne sono un paio che non
conosco.
Ovviamente sarebbe semplice adesso rinunciare
al mio esperimento pseudo-sociologico ed afferrare la bacchetta che mi preme
nella tasca e raggiungere l’ufficio in tre secondi, visto che l’emicrania che
volevo scacciare si è triplicata ed adesso assomiglia ad un martello pneumatico
che perfora un muro.
Ma ovviamente faccio di nome Hermione Granger,
con sottotitoli onorari a testimoniare la caparbietà, l’ostinazione, la
tenacia, assieme ad una buona dose di puntiglio. Quindi, insisto mentalmente
per arrivare al lavoro in metro come mi ero prefissa. Presa dal mio delirio di
onnipotenza, dimentico un’altra regola fondamentale.
Non ascoltare musica in metro se sei seduta, ma
circondata da persone in piedi che ti impediscono di capire a quante fermate
sei dalla tua.
Mentre infatti sono ancora intenta a skippare a
piè pari tutte le canzoni d’amore che sono residuate sul mio i-pod e che mi
causano un’orticaria fulminante a braccia e gambe, non mi rendo conto di aver
abbondantemente superato la mia fermata. Quando capisco che dovrei essere già
arrivata e mi alzo alla successiva apertura delle porte, leggo con fatica sul
cartellone la beffarda scritta “Notting Hill”, intuendo
che, non solo sono scesa in ritardo e mi sono distratta, ma ho preso anche la
metro che va in direzione esattamente opposta alla mia.
Borbotto a denti stretti catapultandomi fuori
dal vagone già in ripartenza, prima di allontanarmi ancora di più dalla mia
meta. Il caldo nella stazione è asfissiante e la gente mi urta senza ritegno,
mentre cerco di arrivare al pannello delle linee, così da capire quale mi
conviene prendere per tornare indietro. Davanti agli occhi, le semirette
colorate danzano pericolosamente e si attorcigliano in modo confuso, mentre il
nome “Notting Hill” continua a riecheggiarmi in testa
come se fosse il suono di una campana rintoccante, risvegliando alla
rievocazione della mia stupidità la celeberrima nausea.
Solo che questa volta, al lampeggiare sinistro
del nome di quella stazione della metro, il mio malessere sembra persino più
forte del solito: arrivo persino a piegarmi in due su me stessa, come se stessi
per rimettere anche l’anima, una mano premuta sulla bocca a far sì che non
filtri alle mie narici alcun odore molesto. E lì che mi preoccupo davvero ed
impensierisco: che diamine è questa nausea?
Sperando che l’aria fresca mi arrechi sollievo,
ignorando che siano ormai quasi le nove, salgo velocemente le scale, la mano
sempre a premere sulle labbra, ed esco velocemente all’esterno, ritrovandomi
nel traffico del colorato quartiere di Londra che, solitamente, frequento meno.
L’aria fredda mi sferza il viso accompagnandosi all’odore dell’erba bagnata:
finalmente ricomincio a respirare e la nausea si acquatta in un angolo del mio
stomaco.
Non è una cosa però su cui stare sereni e
tranquilli: mi appunto mentalmente di vedere quanto prima un medico. Da un po’,
accade molto più di frequente. Posso anche darmi adesso la giustificazione del
caldo della metro, ma stamattina a colazione, quando mi è saltato in testa di
chiamare mio figlio Alex, stavo benissimo. Solo a ripensarci, la testa riprende
a girare come una trottola impazzita.
La cosa migliore da fare è fermarmi da qualche
parte per prendermi qualcosa da bere, magari una limonata. Mia mamma diceva
sempre che è un rimedio ideale contro il mal di stomaco. Magari sedendomi per
qualche secondo potrò anche recuperare le energie e non rischiare di collassare
prima di arrivare al lavoro. Per fortuna, ha anche smesso di piovere quindi
posso fare quattro passi come era nelle mie intenzioni iniziali. Apro la borsa
e ne estraggo il mio cellulare, lo uso di rado e solo per comunicare con Leda,
la mia segretaria. Essendo abbastanza più rapida a comprendere come funziona un
sms rispetto alle sue coetanee purosangue, le mando velocemente un messaggio
per avvisarla che arriverò più tardi del previsto. Il quartiere, nonostante le
mie premesse e i rifiuti, non è affatto male: è pittoresco, vivace, attivo.
Cammino un po’ guardandomi avidamente attorno, la folla colorata e multietnica
che scorre vicina a me. I negozi sono pieni di merce particolare, soppesata con
occhio critico dalla clientela, e per un po’ gironzolo beatamente senza
pensieri, pentendomi di non esserci mai venuta prima con più calma.
Del resto, constato con una punta di acidità
mentale, non sarebbe nemmeno stata la stessa cosa se ci fossi venuta con Ron,
che avrebbe sbuffato ogni due per tre se mi fossi fermata davanti a qualche
vetrina, oppure peggio con i miei figli, che mi avrebbero reso materialmente
impossibile prestare attenzione a qualsiasi cosa diversa da loro. Mi riprometto
mentalmente di prendermi più tempo per me stessa, come tecnicamente faccio
sempre, riuscendoci molto poco: infatti, se non fosse stata per questa nausea
maledetta, non penso che mi starei nemmeno parzialmente godendo questo momento.
Con un sorriso quasi colpevole sul volto, un
raggio di sole che mi colpisce di oro gli occhi, percorro un vialetto alla mia
sinistra, quasi spinta dall’istinto di scoprire al meglio questo quartiere
dimenticato. Nella mia testa, per dimenticare che sono sempre in ritardo per il
lavoro, mi dico che sto sempre cercando un pub o qualcosa del genere, così da
prendermi qualcosa che combatta il mio malessere.
Il viale che percorro è dominato da una serie di
imponenti alberi di magnolia e da una sfilza di bancarelle all’aperto che
vendono cibi di ogni sorta. Incuriosita da una bancarella ricolma di trecce
d’aglio e spezie odorose, gestita da un francese dal naso rosso, intravedo
all’angolo del palazzo un negozio di fiori.
Ammiro il contrasto cromatico tra una serie di
vasi di latta azzurra e delle meravigliose peonie bianche.
Al ritorno di una nuova vertigine, temendo di
schiantarmi al suolo, decido di accelerare la ricerca almeno di una
caffetteria, imboccando una stradina alla mia sinistra. Dopo un negozio di
musica celtica ed una cartoleria piena di mocciosetti
che comprano le penne colorate al sapore di frutta, vengo attirata da
un’insegna luminosa che assomiglia vagamente a quella di un pub o qualcosa del
genere. Mi avvicino cautamente e mi rendo conto che la mia supposizione sembra
essere corretta, i caratteri recano la scritta “Sharon’splace”.
A meno che non mi sono imbattuta in una casa
chiusa gestita da questa Sharon, questo dovrebbe significare che sono di fronte
ad una specie di pub.
Non che sia del tutto convinta di non essere
caduta in un errore grossolano, visto che la prima cosa che noto del posto è
che sciaguratamente monocolore nella peggiore delle maniere.
Le pareti interne, la saracinesca, il bancone
che a malapena intravedo, sono tutti di uno squillante e lezioso lilla che
contribuisce a farmi venire il mal di testa.
Chi ha avuto quest’idea geniale deve essere
davvero passabile della pena di morte.
Spio all’interno, notando comunque che è un
locale abbastanza frequentato da gente tutto sommato normale.
Ripetendomi mentalmente che comunque non è che
io debba recensirlo su Tripadvisor, ma solo prendere
una stramaledetta limonata, mi decido ad entrare.
L’interno mi restituisce una sensazione tutto
sommato positiva: si tratta di un ambiente abbastanza grande e luminoso,
frequentato da parecchia gente. Mi dà l’impressione di essere molto più grande
di quello che sembra, e mi chiedo se non sia sprecato come semplice pub.
Intravedo nell’angolo una scala a chiocciola che porta al piano superiore, cosa
che mi fa suppore che probabilmente ci vivano anche qui. Tutto è avvolto in un
odore vezzoso di vaniglia e cannella che, se possibile, contribuisce a farmi
pulsare il cervello di nervosismo. In fondo, intravedo un bancone sempre dello
stesso maledetto colore lilla, verso cui mi dirigo cercando di non inspirare
eccessivamente la mistura caramellosa. Mi siedo con lentezza, quasi timorosa di
innescare una nuova vertigine, attirando con la mia manovra l’attenzione di una
giovane mamma con bambino. Le sorrido rassicurante, lei mi risponde con
educazione, provvedendo a nascondere dall’impeto del figlio il cameo di una
rosa bianca che porta al collo.
Ci sono due cameriere: una dall’aria truce, mora
con lunghissimi capelli neri legati in una sola ed unica treccia, che mi
squadra con i sottili e allungati occhi neri mentre pulisce il bancone con aria
annoiata. All’aspetto poco rassicurante che fa abbastanza a cazzotti con il
color caramella della divisa che indossa, si aggiunge un orribile, a mio dire,
anello al naso ed un tatuaggio d’aquila con le ali spiegate che copre entrambe
le clavicole e che è perfettamente evidente a causa della maglia scollata. La
seconda invece, è una ragazza dai corti capelli biondo cenere con delle ciocche
rosso acceso. Mi sorride e mi sta immediatamente più simpatica, nonostante
anche lei sembri strana forte. Oltre ai capelli bicolori, la cui frangetta
copre quasi integralmente i suoi occhi celesti, porta anche lei un brillantino
al naso, ma la cosa strana è che da esso pende una catenina d’argento che
conduce all’orecchio e alla piccola gemma rossa che splende sul lobo. E
comunque, alla catenina, è appeso un ciondolino a forma di croce anch’essa
rossa. Lei, almeno, sembra lievemente più compatibile cromaticamente con la
divisa.
Chiedo a quest’ultima una limonata, fidandomi
maggiormente della sua aria svagata che di quella da omicida seriale della sua
collega, poi, in un impeto di espansività, mormoro: “Non ero mai venuta qui…
sembra un posto…”, così maledettamente fru-fru che persino Lavanda Brown sarebbe potuta sembrare una donna di concetto al
confronto “… carino…”, commento diplomatica, prima di chiedere con un
sorriso educato: “Siete aperti da molto?”.
“Da troppo siamo aperti…” schiocca la
lingua scocciata la tizia truce guardandomi storto, come se fossi una di quelle
vecchiette che vogliono per forza intavolare una discussione annoiando il
prossimo. Roteo gli occhi rinunciando al mio eccesso di confidenza, non prima
però che la bionda decida invece di rispondermi al suo posto: “Siamo aperti da
circa cinque anni, signora”. Una vena del collo, all’appellativo, mi si
gonfia paurosamente mentre la mia bacchetta freme nella mia tasca, sprizzando
qualche immaginaria scintilla al pensiero di quante maledizioni potrei
lanciarle, visto che non ritengo di meritare l’epiteto essendo lei quasi mia
coetanea. Mi guardo nel riflesso dello specchio alle spalle del bancone ed
analizzo distaccata il mio trench beige, il mio maglione a collo alto, le mie
occhiaie scure, il mio pallore e i miei capelli legati in una crocchia
distratta. Per la prima volta comprendo che effettivamente dimostro più anni di
quelli che ho, specie quando sono stanca. Ricaccio indietro l’accesso di ira
alle parole della svampita cameriera e sorseggio pensosamente la mia bibita.
“Va tutto bene?” si informa a quel punto una
voce comparsa alle mie spalle, con un accento dolce eppure petulante. Mi volto
su me stessa e, nella stessa irritante divisa lilla, c’è una donna dai capelli
rosso-ramati, il viso paffuto e gli occhi verde sporco. Una targhetta appuntata
sulla camicia recita compita “Sharon Tingle”, quindi
suppongo che sia la proprietaria, probabilmente incuriosita dalla presenza di
una cliente nuova da dover a tutti i costi ammaliare così da renderla una
presenza abituale. Sorrido annuendo, prima di chiedere ragione della mia
congettura. D’altronde, il pub ha praticamente il suo stesso nome.
Mi pento del mio slancio di gentilezza circa
cinque secondi dopo la suddetta domanda. Sharon è infatti una donna prolissa e
dalla chiacchiera facile e, come se non bastasse, il nome del pub racchiude
praticamente tutta la sua storia d’amore con suo marito. Assolutamente non
richiesto, mi giunge quindi tutto il racconto del momento in cui ha rincontrato
suo marito a Londra dopo anni in cui non si vedevano, dato che avevano
frequentato la scuola assieme, e di come allora fosse scoppiata tra di loro la
scintilla, sebbene ai tempi del liceo non si fossero mai granché filati di
striscio. Conosco quindi tutti i particolari del loro sogno di aprire un pub a Notting Hill, di come questo era stato più complesso del
previsto e di come, quando alla fine ci erano riusciti, lui fosse stato così
sollevato dalla cosa da decidere istintivamente di chiamare il posto come la
sua adorabile mogliettina. Così che tu possa sentirti sempre a casa, aggiunge
con tono di voce sognante, congiungendo le mani e poggiandole drammaticamente
sulle guance, mentre mi sono slogata la mascella a furia di finti sorrisi e di
cenni del capo entusiasti. In compenso, essendo alla mia quinta limonata, posso
dire la mia nausea completamente dissolta.
Avendo quindi la bevanda svolto il ruolo che
ancestralmente mia madre le attribuiva, mi chino per recuperare la borsa ed
andare via, ma ovviamente la verbosa Sharon ormai mi tratta da amica del cuore
ed insiste per presentarmi il formidabile marito campione di romanticismo.
Erompe quindi in una specie di richiamo, probabilmente utilizzato anche dalle
femmine di pipistrello per attirare l’attenzione dei compagni, e da una porta
laterale compare l’uomo intento a pulirsi le mani bagnate su un canovaccio.
Dall’espressione vacua, comprendo che probabilmente era dedito a qualche
attività che il gracchiare della moglie ha bruscamente interrotto. Lo studio
per qualche secondo, uno strano allarme nel cervello: non mi sembra di averlo
mai visto, ma ha qualcosa di vagamente familiare. Non dimostra più di
trent’anni, in tutto e per tutto è un normale ragazzo dai ricci capelli scuri e
dagli occhi verde acqua. Mi squadra torvo per un po’, mi studia attentamente
guardandomi in tutta la mia figura per un paio di volte. Indugia sui miei
capelli raccolti alla bell’e meglio, mentre io mi serro nelle spalle. Sbuffa
con il naso un paio di volte esibendo una specie di broncio infantile, prima di
borbottare qualcosa all’indirizzo di Sharon.
Non so perché continuo a squadrarlo senza ritegno,
come se ci fosse qualcosa che stona in lui. Sembra il più normale dei ragazzi,
solo un po’ trasandato e stanco. Probabilmente la giovane moglie lo sta
rintronando, appesa com’è al suo braccio ed intenta all’ennesima rievocazione
della loro saga romantica, ma è un’espressione che non mi ricorda la
superficialità maschile che ha spesso anche Ron quando straparlo. Piuttosto…
sembra davvero e sinceramente spazientito. Nulla di lui richiama l’eroe
romantico che stava descrivendo sua moglie… e forse è questo che mi sembra così
sbagliato nel suo aspetto.
Del resto non ha nulla che sembri strano alla
vista: indossa dei jeans un po’ strappati sulle ginocchia, una maglia rossa da
calcio lievemente stinta sui bordi, delle scarpe di tela sporche di polvere
bianca e gialla.
Sembra solo lievemente più scuro di pelle del
consueto, cosa che mi fa intuire che non sia inglese al 100%.
Eppure la sensazione che ci sia qualcosa che non
va, non mi fa dismettere lo sguardo indagatore.
Non sorride nemmeno per sbaglio. Neanche per educazione: sembra che faccia
fatica persino a restare fermo qui.
Come faccia sua moglie a non rendersene conto, è un autentico mistero.
“Devo tornare al lavoro, Sharon…” ingiunge dopo
un po’ con voce atona “Devo riparare il rubinetto del bagno di servizio prima
che ci allaghiamo…”.
“Certo, tesoro! Vai pure… credo di aver tediato
fin troppo la nostra gentile cliente…” ridacchia scioccamente Sharon, ancora
bellamente ignara dell’evidente espressione insoddisfatta del marito, persa
com’è nella sua nuvola rosa. Ed è da lì che si rende conto di non sapere
nemmeno come mi chiamo.
“Hermione Jane Granger” sorrido educatamente,
porgendo la mano ad entrambi. Il ragazzo la afferra in modo distratto in una
presa umida e un po’ lenta, sussurrando in un sospiro lieve: “Il mio nome è
Seth Green…”. Nelle sue dita che, immediatamente, senza alcuna partecipazione
emotiva, lasciano le mie, avverto di nuovo quello strano senso di estraneità
che non riesco a spiegarmi.
È qualcosa che mi spinge a voler trattenere la
malinconia di questo ragazzo come se temessi che, lasciato da solo in questo
pub che sa di frivolo e sciocco, possa commettere qualche pazzia. Della sua
tristezza, si ammanta ogni cosa circostante, eppure nessuno sembra rendersene
conto.
Presa da questa strana angoscia vedendolo darmi
già le spalle, dico frettolosamente: “E’ molto bello amare così tanto una
persona dopo tanti anni…”, riferendomi ovviamente alla moglie che continua a
vomitare melensaggini. Seth si volta verso di me, per un attimo con un singulto
negli occhi verdi da farmi temere che si metta a piangere così, di schianto. Mi
agghiaccia il cuore e d’istinto, mi guardo attorno come a cercare un appoggio,
un sostegno, sotto quell’insopportabile sguardo. Non ne trovo nessuno e mi
sento soffocare.
“Certo, è bellissimo, Hermione… glielo
posso assicurare…” ribatte caustico, come se stesse pensando tutto il contrario
di quello che sta dicendo e si divertisse a farlo fluire nelle parole che la
moglie non comprenderà, sciocca com’è “L’amore dovrebbe farti cambiare e
renderti migliore. Spingerti ad essere te stesso. Fortunatamente io ho
una persona che mi ama esattamente così come se fossimo ancora al liceo…”.
Ogni sua parola oscilla tra la stanchezza ed il
veleno, come se fosse semplicemente troppo annoiato per ribellarsi davvero, ma
al contempo non abbia ancora rinunciato ad un tono dismesso e crudele. È
evidente e palese che non ami questa donna dalla voce trillante e dal
comportamento appiccicoso: perché sia evidente a me che lo conosco da cinque
secondi ma non a lei, resta un mistero. Non so come mi sia trovata io, qui, una
perfetta estranea, a comprendere tutto questo, ma penso che sia semplicemente
perché questo ragazzo è circondato da idioti. Cammina con un enorme segnale in
testa di infelicità, ma nessuno pare accorgersene, e ciò stranamente mi fa
sentire responsabile della sua serenità come se lo dovessi abbandonare in mezzo
al mare.
Mi riprometto di tornare qui come se dovessi
tipo tenerlo sotto controllo, e non posso fare a meno di provare un senso
inconsueto di abbandono quando sparisce nel retrobottega, mentre io pago le mie
consumazioni. Afferro la mia borsa lasciata su una sedia ed esco fuori
respirando di nuovo, come se un po’ di quell’aria interna mi avesse viziato il
fiato.
“Mi scusi, signora?”.
E con questa fanno due appellativi da sessantenne in una giornata, borbotto tra me e me, voltandomi in direzione della voce che mi ha
richiamato indietro appena fuori dal “Sharon’splace”.
Mi ricompongo un po’ quando mi rendo conto che
si tratta di un agente di polizia: assumo subito un contegno rispettoso, mentre
l’uomo, non molto più grande di me, mi chiede numi su un auto parcheggiata
nella strada nonostante un ben evidente divieto di sosta e fermata. Faccio
spallucce assicurando che non sia mia, l’agente sospira rumorosamente come se
fosse profondamente stanco, cosa che marchia la sua espressione apparentemente
arcigna di una ruga di sconforto che me lo rende immediatamente più simpatico.
Mi affretto quindi a dire partecipe, indicando
con il capo il pub da cui sono uscita: “Molto probabilmente è di qualcuno che
prende un caffè…”, aguzzo la vista per leggere la targhetta del nome che porta
appuntato sulla divisa linda e pulita, Kevin Stevenson, prima di
concludere con un riverente: “… agente Stevenson…”.
L’agente mi restituisce un sorriso slavato che
non gli arriva agli occhi oltremare, prima di concludere annoiato che molto
probabilmente ho ragione.
Lo seguo per un po’ con lo sguardo mentre entra
nel locale, mi pare persino di sentire la voce di Sharon che squittisce
qualcosa e chiama di nuovo a gran voce suo marito Seth per risolvere la grana.
Accarezzo la mia sciarpa grigia, affondandoci il
naso dentro per ripararmi da un improvvido vento ghiacciato.
Mi restituisce un accenno dell’odore di pioggia
che soffia il vento sul mio viso, cosa che mi ricorda per associazione di idee
l’erba bagnata nel mese di settembre, quando pochi giorni prima del mio
compleanno l’estate dismette i suoi panni e il mondo sembra più dolce, più
tiepido. Non hai paura della tempesta, sebbene si addensi all’orizzonte. La
terra ha aspettato tanto la pioggia, arsa dal sole. E, quando finalmente sta
per erompere dal cielo, pensa a mettere a riparo i suoi figli, temendo che si
facciano del male. È forte abbastanza da sopportare il suo impeto? Non lo sa.
Rabbrividisce per i tuoni, geme per i fulmini,
impallidisce per i lampi.
Ma sa che accetterà la pioggia, perché la pioggia è il suo destino.
Sorrido un po’ adesso, senza motivo, solo con
quel profumo nelle narici.
Improvvisamente certa, sicura, che per ognuno ci
sia un destino in attesa.
Persino per il ragazzo dall’aria sconfitta di
nome Seth.
Andare al lavoro per me è diventato da anni uno
slalom continuo nella stupidità umana. Uno pensa che magari io esageri perché,
oggettivamente, non ho molta tolleranza nei confronti della comune mancanza di
buon senso. Non sarei appellata ogni due per tre da mio marito come poco
elastica, se non fosse così. In realtà, a sfidare anche la logica e la
statistica, nel Dipartimento della Regolazione della Legge Magica si sono
concentrati le menti meno eccelse della Storia del Mondo della Magia a partire
da Mago Merlino e dagli incantatori di serpenti saraceni. Non so per quale
ancestrale motivo ciò sia accaduto.
D’altronde siamo una delle branche più
importanti del Ministero: quella che, a rigor di
logica, garantisce integrità e tranquillità nel nostro mondo e nel rapporto con
quello babbano. E sicuramente non mancano elementi validi, senza falsa
modestia, come la sottoscritta.
Ma, tralasciando qualche altro infaticabile
dipendente, c’è stata in questo dipartimento una concentrazione tale di idiozia
da vanificare ogni mente vagamente illuminata che potesse averci messo piede.
Io non dovevo lavorare qui, ovvio: la vita
spesso, però, si attorciglia e annoda attorno ad eventi che uno non potrebbe
mai preconizzare. E quindi ti ritrovi in un ufficio a quasi quarant’anni, senza
che niente, prima, ti abbia avvisato che saresti finita qui. Ero tornata ad
Hogwarts alla fine della guerra, avevo completato la mia istruzione magica come
a quei due asini di Harry e Ron non era assolutamente saltato in mente. Avevo
ovviamente messo il muso, il broncio, ma non era servito a nulla: a loro due
era sembrato assolutamente normale non terminare gli studi.
Avevamo diciotto anni, un’età in cui pochi soldi
in tasca fanno già una differenza abissale tra sentirsi bambini e sentirsi
adulti.
Harry, il ricco orfano di guerra ora anche eroe,
aveva saggiamente deciso di investire le sue risorse economiche, lievitate dopo
la guerra con i suoi encomi ed onori, per frequentare il Corso per Auror.
Sembrava una strada quasi obbligata per lui, e non aveva deluso nessuno. Si
trattava di studi impegnativi, gravosi, pesanti anche dal punto di vista
strettamente monetario, ma Harry non si era fatto dissuadere.
In pochi anni, era riuscito a raggiungere
l’agognato titolo, aveva cominciato ad uscire in missione, si era inserito
perfettamente nella vita criminale del mondo magico come uno spauracchio
letale.
C’era stato un periodo in cui era stato tentato
dalla carriera politica, aveva pensato persino di concorrere come Ministro
della Magia, ma poi aveva deciso di restare nel Corpo degli Auror.
Il motivo era semplice: ci era entrato anche
Ron.
Questo, in effetti, era molto meno scontato:
finita la guerra, dopo la morte di Fred, era stato per lui naturale restare nel
negozio a Diagon Alley per aiutare suo fratello George. Faceva qualche soldo,
poteva permettersi persino di offrirmi delle cene eleganti in occasioni di
anniversari e compleanni e questo, per il ragazzo che aveva avuto sempre poco o
niente se non di seconda mano, faceva tutta la differenza e l’entusiasmo del
mondo. Poi, terminato il primo periodo di euforia, Ron comprese che quella non
era la sua strada, ma era una modellata su quella del defunto fratello. Non era
giusto per nessuno giocare a sostituirlo se lui aveva altri sogni e desideri:
del resto, poi, George aveva sposato da poco Angelina e, naturalmente, il
negozio di scherzi era diventato la fonte di sostentamento della neonata
famiglia. Ron era velatamente, ma naturalmente, diventato di troppo.
Fu un periodo complicato e nebuloso. Ron
sembrava avere tante ambizioni, tanti sogni, tanti progetti, ma erano sempre
stelle di fumo, miraggi di nebbia. Era sempre troppo insicuro per provare davvero
a fare qualcosa, aveva sempre troppo timore di fallire e si rifugiava sempre
nella sua famiglia, ora meditando di tornare a lavorare con George chiedendo
magari una paga ridotta, ora pensando di andare in Romania con Charlie, ora paventando
la possibilità di assistere Percy nel suo lavoro. Io, da parte mia, avevo da
poco finito Hogwarts, ero sempre la strega più brillante della mia generazione,
ero presa dall’ansia di dimostrare al mondo quanto valessi. Fu difficile starci
accanto. Era come se Ron temesse sempre che volessi eclissarlo, oscurarlo,
sotto la mia luce. Io mi muovevo sempre in punta di piedi, spaventata di fare
troppo rumore, o di essere troppo brava, o troppo valente per lui e per quello
che stava passando. Finsi quindi un’insopportabile incertezza su che cosa
volevo fare della mia vita, esibendo una specie di dubbiosità insita nel fatto
che mi ero sempre interessata a troppe cose in modo da mostrarmi a mia volta
fallace, umana, corruttibile.
Ron si sollevava d’animo alle mie difficoltà,
comprendeva che magari non era così assurdo che anche lui fosse incerto se addirittura
lo ero anche io: sorridevo, lo rassicuravo, ed intanto facevo colloqui
segreti e spedivo curriculum di notte. Non mi sono mai pentita di questo, mai:
ebbi qualche scricchiolio solo quando Ron si fece coraggio e fece un provino
per una squadra di Quidditch, finendo per essere rifiutato.
Lì, toccammo il fondo. Sul serio. Ron divenne
ombroso, scontroso, chiuso in sé stesso. Passava il tempo seduto sul divano con
un bicchiere di Acquaviola, lo sguardo annacquato nel vuoto.
Iniziammo a litigare sempre più spesso. Per cose
sceme, per cose importanti, per cose sceme per lui ed importanti per me, e
viceversa.
Io dicevo che era troppo immaturo, che doveva
reagire, che era solo un fallimento venale e che ci stava nella scala di cose
che accadono in una vita.
Lui ribadiva che ero troppo rigida, troppo poco
elastica, che non potevo sapere com’era la vita per lui, abituata ad essere
sempre perfetta.
Proprio come accadeva ad Hogwarts. Ma peggio.
Stavolta non c’era Harry a fare da paciere.
Stavolta eravamo anche fidanzati.
Le cose, se possibile, peggiorarono quando
andammo a vivere assieme, convinti che così le cose si sarebbero sistemati,
potendoci prendere cura l’uno dell’altra. Ma prendemmo ad evitarci nelle stesse
mura di quella casa. Lui usciva e tornava a casa tardissimo, ubriacandosi con
gli amici. Io mi addormentavo a braccia incrociate sul tavolo, aspettandolo.
Eravamo sempre stanchi e nervosi, pronti a rimbeccarci in qualsivoglia
occasione. Guardavamo un po’ di tv in silenzio e poi a letto. Ovviamente a
dormire.
Ma, nemmeno per un attimo, ho mai smesso di
credere a me e a lui assieme.
Era il mio destino stare con lui. Eravamo
sopravvissuti a Voldemort, non potevano spaventarci le liste della spesa, le
fatture da pagare e l’affitto.
Lui era il mio principe azzurro da tutta
la vita, stare con lui era ogni giorno una fiaba.
Questa caparbietà fece così che le cose, piano,
iniziassero ad andare meglio. Sostanzialmente per molto dovetti trainare da
sola la mia relazione, sperando sempre che ne valesse la pena. Misi alle
strette Ron, cercai di capire che cosa voleva fare della sua vita, dissi che
non potevamo andare avanti così, nessuno dei due. Mentii e feci ragionevolmente
finta di riferirmi anche a me stessa, che dovevo decidere a mia volta la mia
strada, sebbene dopo mesi l’avevo capito anche io che cosa volessi fare.
Peccato che quella risposta si schiantò come vetro quando scoprii che era la
stessa di Ron.
L’Auror. Entrambi volevamo fare l’Auror.
Confessarlo a Ron lo avrebbe distrutto. Ora che
aveva faticosamente capito che cosa voleva fare della sua vita, se avesse
saputo che c’ero io di nuovo a fargli da contraltare e da luminoso paragone,
sarebbe crollato. Non avrebbe retto. Lo avrei perso sul serio. E io, davvero,
pensavo onestamente che potessi fare qualsiasi cosa.
Quindi lo lodai, lo aiutai a studiare, convinsi
i suoi ad aiutarlo economicamente per la scuola, lo abbracciai e baciai quando
mi disse, con gli occhi lucidi, che ce l’aveva fatta.
Stirai la sua camicia il primo giorno di lavoro
e gli dissi di stare attento, mentre usciva di casa per andare in missione la
prima volta.
Chiusi la porta, mi accasciai contro di essa e
piansi, a lungo. La luce che cambiava nel corridoio per ore, con il mio
sacrificio che premeva nel petto, le mani che mi soffocavano le lacrime in gola
per il mio piccolo sogno infranto. Era odioso capire di volere una cosa nello
stesso momento in cui la si perde. Avevo voluto essere un’Auror per tante cose:
per la scarica di adrenalina che mi avevano dato le mie infinite battaglie, per
il mio desiderio mai arso di giustizia, per la volontà di rendere il mondo un
posto migliore, per la convinzione profonda che sarei potuta essere grande, per
la consapevolezza che volevo dimostrare a tutti quanto elastica fossi.
Tutto, al confronto, sembrava avere il sapore
farinoso e insipido della segatura.
Fu così che finii al Ministero prima al
Dipartimento per la Cura delle Creature Magiche, cercando di riannodare i fili
della mia me stessa che voleva giustizia per chi fosse più debole di lei. Ma
avevo un incarico sottopagato che non mi portava da nessuna parte. Scartoffie,
burocrazia, controlli di routine di bestie poco mansuete. Poi, la ferita magica,
una convalescenza di otto mesi e mezzo, Ron che tornava a casa e mi raccontava
del suo lavoro… e io desideravo solo che sparisse.
Fummo vicini ad implodere anche allora, forse ci
fummo più vicini che in qualsiasi altro momento. Forse però, le coppie che
restano assieme nonostante tutto, malgrado persino sé stessi, sono quelle che
alla fine l’hanno vinta. Ron mi vedeva deperire, mi sentiva depressa. Lottò
perché fossi trasferita al Dipartimento per la Regolazione della Legge Magica,
e le cose migliorarono abbastanza. Sempre lavoro di ufficio era, sempre poco a
che fare con l’Auror aveva, ma avevo almeno l’impercettibile sensazione che
fossi una parte di quella linea sottile tra ordine e caos.
Le ultime resistenze verso Ron, mi sparirono dal
cuore quando mi chiese di sposarlo.
Accettai, ovviamente.
Il resto, poi, è storia ormai delle mie ossa e
della mia carne.
Non per questo amo il mio lavoro. Sono ben
pagata, negli anni ho fatto carriera giungendo ad essere una dei dirigenti e,
ben presto, dovrei poter entrare nel Wizengamot come uditore giudiziario prima,
e come giudice poi. Ci dovrebbe essere molto lavoro in futuro, dicono che
stanno aprendo molte indagini su alcuni crimini commessi proprio dagli Auror
nel periodo della guerra.
E io potrei davvero fare qualcosa.
Solo questo ha sepolto, dopo decenni, la voce
dell’Auror dentro di me, soppiantandola con la consapevolezza che non fossero
così puri ed innocenti come sempre ho pensato. Io non sarei sicuramente
diventata un’Auror anche se avessi potuto, qualora avessi saputo una cosa del
genere. In questo sono decisamente meno elastica di Ron ed Harry, che hanno
sempre pensato che io sola potessi creare problemi. Mi hanno sempre apostrofato
in modo sarcastico, quando ne parliamo, dicendomi che sono troppo pronta a
credere che il mondo sia bianco e nero e che un minimo dubbio mi avrebbe fatto
uscire dai giochi.
Ho dato loro persino ragione, hanno decisamente
più pelo sullo stomaco di me.
Ma ci sono voluti più di quindici anni a darmi
la pace. E, spesso, il prezzo del sacrificio che ho fatto per Ron mi è sempre
sembrato troppo caro.
Lo è di più specie quando comprendo che lavoro
in un ufficio di idioti.
E, stamattina, nervosa come sono, non ho granché
picchi di positività per ricacciare indietro i pensieri negativi, né tantomeno
riflessioni eziologiche su me stessa che mi facciano sentire contenta di essere
dove sono. Stamattina, stancamente mi limito a respirare piano nella mia
sciarpa grigia, illudendomi di calmarmi.
La stoffa spessa mi restituisce, ancora, quel
quieto odore di pioggia. È quello che mi rende fredda anche quando vedo
stazionare nel corridoio che porta al mio ufficio i due peggiori esponenti
della razza di incapaci che sono costretta a frequentare in questo
Dipartimento: mi si imperla già la fronte di sudore freddo, considerando che
non ho vie di fuga e che sarò costretta a passargli davanti, intrattenendo
persino qualche amabile chiacchiera che mi costerà una mutilazione di
intelligenza ed autocontrollo. Uno dei due avventori è una ragazza piuttosto
giovane, alta, decisamente carina: pelle bianca, un sorriso accattivante e
seducente, occhi azzurri dal particolare taglio allungato, una cascata di
fluenti capelli ondulati biondo platino, abbigliamento da turista in vacanza
estiva, visto che indossa una camicia azzurra senza maniche abbondantemente
aperta sul seno, e un paio di shorts molto corti. Sospiro, ha una spalla
mollemente poggiata sullo stipite di una porta e sussurra suadente nei
confronti dell’uomo che ha di fronte, mentre porta alle labbra un bicchiere di
carta.
Uno direbbe che, come minimo, per tale
atteggiamento rilassato, si debba trattare quantomeno di una dirigente o di un
impiegata capace e di lungo corso.
Sbaglierebbe in entrambi i casi: la procace
ragazzetta altri non è che la mia pessima segretaria, Leda Pole, alle mie
strette dipendenze da un infernale anno.
Non l’ho assunta, né cercata personalmente: non
potrei riunire tanta sconsideratezza in una sola discutibile scelta nemmeno
mettendomi d’impegno, dato che Leda incarna praticamente tutto ciò che detesto
nelle donne. Partiamo dal suo abbigliamento e dal fatto che sia tremendamente
frivola, oscena, oca, sempre impegnata a fare colpo su qualche componente della
razza maschile, specie se costui possa esibire un portafoglio gonfio, poco
importa se sia celibe o sposato, single o vedovo, padre o nonno. Leda
puntualmente strizzerà il seno in un bustier
minuscolo, esibirà un sorriso vorace da mangiatrice di uomini, sbatterà le
ciglia gravate dal mascara e si darà al flirt selvaggio. Sembra sempre vivere
sotto il dogma de “il mare è pieno di pesci”, nel dubbio cala quanti più
ami possibili, indifferente a chi abbocchi.
Questo, però, in fondo è un fatto solamente suo.
Del resto non è mai sembrata interessata a mio marito, anzi quando lo incrocia
ne sembra persino infastidita, cosa che non può far altro che allietarmi.
E certo, caratterialmente, è abbastanza
permalosa, vanesia, viziata ed umorale, ma, ancora, ci devo lavorare assieme,
non diventare amica del cuore.
Il problema è, appunto, lavorare assieme a Leda.
Perché è un’incapace, superficiale, smemorata, e non dico eresie se ammetto
candidamente che il mio lavoro è triplicato da quando c’è lei. Devo sempre
correre ai ripari per le sue dimenticanze, perché può darsi che non mi riferisca
di importanti incontri ed appuntamenti. In compenso, tiene a mente benissimo
fatti intimi e personali come se fosse Pico della Mirandola: è capace persino
di tenere nota mentale di ogni mio litigio con Ron, di ogni mia sfuriata con
Ginny, di ogni incomprensione con i miei figli e finanche del mio ciclo
mestruale. Quindi, insomma, se ci mettesse impegno, potrebbe anche tenere in
testa due nomi in croce, seguiti da qualche orario. E, se a ciò ci aggiungiamo
che è abbastanza inaffidabile, quindi può sparire senza nessun margine di
preavviso per giorni e senza che nessuno sappia dove sia e quando tornerà,
abbiamo raggiunto l’apoteosi.
Ora è naturale che uno si chieda perché lavori
con me. Semplicemente, è un altro di quegli enormi compromessi che devo fare
con me stessa ogni giorno lavorando qui.
A furia di gettare ami, circa due anni fa, Leda
ottenne davvero un buon partito: non so chi sia, ma chiacchiere di corridoio
parlano di un uomo molto ricco, con una posizione ammirevole, di buona
famiglia, naturalmente sposato con figli. Leda si innamorò istantaneamente del
suddetto personaggio, perché sembra anche che, caso più unico che raro, il
facoltoso tipo fosse anche giovane e decisamente affascinante. Questa
combinazione fece sì che la mia futura segretaria cadesse ai piedi dell’uomo
come una pera cotta, sperando persino di essere impalmata un giorno. Ma il
fedifrago non la pensava affatto così e, dopo qualche intenso mese di
frequentazione, la scaricò. La delusione cocente della ragazza fu tale che minacciò
di mettere a soqquadro l’intero mondo magico e la reputazione della famiglia
dell’uomo spiattellando tutta la storia, a meno che non avesse ricevuto una
contropartita soddisfacente per la sua delusione amorosa.
Le fu dato credito perché i Pole fanno parte
comunque di un ramo cadetto della famiglia Nott, quindi poteva essere
ragionevolmente creduta ed alzare anche il tiro delle sue pretese, paventando
persino la possibilità fasulla che fosse incinta.
Il suo devastante mal d’amore fu risarcito con
una somma di denaro che onestamente non rammento e nemmeno mi interessa, e nel
diritto di poter trattenere una serie di ninnoli e regali dei tempi del
corteggiamento, tra cui un vistoso anello di opale da cui lei non si separa
mai. In aggiunta, ottenne di poter essere sistemata professionalmente al
Ministero, dopo il fallimento delle sue velleità da cantante.
Il caso vuole che, in quel momento, io stessi
appunto cercando un collaboratore. Sfortuna vuole che tutti sapessero quanto io
sia discreta e disponibile, pronta anche a crocifiggermi per adempiere il mio
lavoro. Se poi lei, furbescamente, mi fu di primo acchito dipinta come una
povera vittima delle circostanze, sedotta ed abbandonata da un becero
maschilista che si era approfittato della sua ingenuità da ragazzina
innamorata… potete capire come l’accolsi a braccia aperte. Accettai di buon
grado la sua lunaticità il primo mese, perdonai le sue sfuriate e le sue
distrazioni, fui accondiscendente con le sue assenze e moine. Avevo persino in
programma di salvarla e riabilitarla dalla lettera scarlatta che il Mondo
magico le aveva dipinto in fronte, convinta che non fosse colpa sua.
Ci misi due mesi, però, a comprendere che quel
ruolo le piaceva parecchio, che se l’era scelto, che non c’era alcun errore di
considerazione e nessuna malevola chiacchiera infondata alle sue spalle. E che,
soprattutto, sarebbe stata un peso nel mio lavoro. Ormai, però, me la dovevo
piangere nel mio ufficio, dato che era virtualmente insostituibile e
ragionevolmente irremovibile, senza che rischiassi io stessa il posto.
All’inizio non me ne interessava, tornavo a casa così nervosa ed arrabbiata da
sfogarmi ripetutamente con Ron mentre cucinavo la cena. Arrivai al punto di
scrivere una lunga lettera di dimissioni, minacciando di andarmene se non me la
toglievano dalle scatole. Ma poi Ron mi fece ragionare, parlò di quanto ci era
utile il mio stipendio, di come Rose fosse vicina ad andare ad Hogwarts con
tutte le sue spese e di quanto necessitassimo di stabilità. E quindi quel “porta
pazienza per un mese o due”, alla fine è diventato “sopportala e basta.
Fai il suo lavoro. E mastica amaro mattina e sera, allevandoti un tumore che ti
ucciderà a cinquant’anni scarsi…”.
Leda, presa singolarmente, è relativamente
innocua: fastidiosa come una puntura di zanzara, ma alla fine basta che non ci
pensi. Diventa una specie di ulcera perforante, unita ad un ustione di quinto
grado e ad una collisione del mignolo del piede contro uno spigolo, quando è in
compagnia di un uomo. E non di un uomo qualunque… ma del mio odioso
dirimpettaio lavorativo, Dean Thomas.
È infatti lui che, adesso, sta “parlando” con
Leda, sebbene non credo che il verbo parlare sia adatto al loro palese flirtare
e lanciarsi occhiatine provocanti. Non a caso, al momento, Leda continua a passarsi
languida la lingua sulle labbra, ignara della mia presenza, come se fosse
maniacalmente attenta alla pulizia della sua bocca dopo aver bevuto il caffè, e
Dean praticamente pende da esse come se fosse la Sibilla Cumana. Sospiro con
nervosismo, è come aspettare di essere travolti da un disastro ferroviario,
misto ad un incidente aereo e ad un terremoto di 9 gradi sulla scala Richter.
Sono il quadretto più classico che esista al
mondo di pateticità e perversione: ho già abbondantemente chiarito di che razza
sia fatta Leda Pole, una che si innamora dei codici IBAN degli uomini. Se però
il conto corrente della persona in questione rasenta lo zero assoluto, dobbiamo
per forza parlare di un altro personaggio sui generis.
Dean Thomas è infatti un idiota. Senza
mezze misure.
Ne avevo pallidi sospetti ad Hogwarts, ma sono
sempre stata fiduciosa sulla ripresa neurale delle sue sinapsi. Era un ragazzo
immaturo e superficiale, con una pericolosa attitudine alla menzogna gratuita,
ma in fondo buono, onesto, innocente. Se avesse trovato compagnie giuste,
nonché una donna che gli insegnasse che poteva anche non essere spaccone per
essere scelto, sarebbe diventato sicuramente il migliore degli uomini. Aveva
bisogno di una sorta di sfida vinta alla lotteria del destino, di ingranare il
colpo di coda del gioco di carte della vita, perché poi tutto filasse da sé.
Invece se il teorema insegna che, nella vita
degli uomini, saranno fondamentali le donne che andrà incontrando ed amando, si
comprende che, essendo capitata a Dean Thomas invece Lavanda Brown, la conquista più facile ed oca della storia del
mondo, inevitabilmente tutto sarebbe andato a scatafascio. Iniziarono una
relazione per caso all’indomani della mia con Ron che spezzò il cuore di quella
vanesia gallina. Dean era libero, carino, disponibile: non sono cieca, persino
adesso è un bel vedere. Non era nemmeno esageratamente impegnativo, e Lavanda
dovette pensare che fosse un bel ripiego.
Fecero tira e molla per parecchi anni
ripagandosi i tradimenti con gli interessi, finché si arresero alla fine di
quel gioco quando Lavanda scoprì di essere incinta e dovettero sposarsi in
fretta e furia.
Ebbero un figlio, Gabriel, e per alcuni anni
furono il ritratto dell’insipida vita coniugale, tutti concentrati sul loro piccolo
tesoro che intanto cresceva in arroganza e presunzione.
Poi, appena Gabriel fu sbolognato al nido,
ripresero le loro antiche abitudini, peggiorate dalla convivenza forzata e
dall’esistenza del unigenito che comunque li costringeva a restare assieme. Hanno
preso stranamente ad assomigliarsi anche nell’aspetto: sono sempre
abbronzantissimi anche a dicembre, con la manicure fatta, i capelli ossigenati
e le rughe che spiccano sulla pelle scura attorno agli occhi. Credo che Dean
abbia anche adottato lo stesso tono di voce della moglie, acuto e stridulo.
Sono una specie di barzelletta triste del nostro
mondo: ci sono giri di scommesse su quanto dureranno, su quando il loro figlio
li ammazzerà nel sonno, su chi sarà la prossima preda del loro continuo tradirsi
a vicenda. Quest’ultimo giro scommesse, però, è fermo da mesi riguardo a Dean.
Perché lui è ormai il giocattolo sessuale ufficiale di Leda Pole.
È stata lei a confessarmelo candidamente un
pomeriggio d’estate. Ovviamente non lo ama, ed ovviamente non pensa che ci
possa essere un futuro qualunque tra loro, visto che Dean ha una semplice paga
da impiegato, un figlio a carico ed un destino bloccato in questo Dipartimento,
dopo che anni fa rifiutò una promozione del suo vecchio Dipartimento alla
Cooperazione internazionale che lo avrebbe però portato a Parigi, lontano dalla
moglie gravida. Chiaro che questo scenario non possa far fremere nulla di Leda.
Ma è un bell’uomo, “scopa da Dio! Ha questo vizio di non smettere di
guardarmi negli occhi quando viene dentro di me! E a me viene da ridere! Lui
sorride un po’, pare pure triste, volta il capo e se ne va…”, mi ha
riferito zelante e non richiesta Leda.
È stata quella confidenza non voluta, a cui ho
risposto con un commento acido che mi ha tolto Leda di torno per una settimana,
a farmi stringere il cuore.
Non ho mai provato pena o compassione per Dean
Thomas, figuriamoci. Non ne proverei mai per uno che volontariamente non solo
si sposa con Lavanda, ma se la fa con Leda.
Però quel particolare, quel suo modo di guardare
negli occhi questa sciocca ragazzina qualunque, come se cercasse qualcosa ma
lei fosse troppo sorda e cieca per capirlo… mi ha illuminato su quanto debba
sentirsi perso e perduto dietro quell’aspetto solare da playboy impenitente.
Suo figlio non è una consolazione: è un quindicenne maleducato e distante, che
lo appella nelle maniere peggiori possibili tra cui vince decisamente la parola
“coglione”. Dean, però, più sta male e più sorride. Magari in modo più stanco,
ma questo fa.
E dice solo: “Sarebbe stato meglio avere anche tre
figlie femmine, io con le femmine ci so fare decisamente meglio!”. Leda a
quelle parole scoppia a ridere civetta, sporgendosi in avanti con il busto a
sottolineare che con lei, effettivamente, ci sa fare. Dean ancora sorride, ma
ha uno spasmo all’angolo della bocca che somiglia ad un rantolo trattenuto.
E io penso davvero che qualsiasi vita sarebbe
stata migliore di questa.
Una volta qualche mese fa, il 21 giugno, lo
beccai che piangeva. Mi disse che era il compleanno di Gabriel, che era
commosso dal tempo che passava, che suo figlio era diventato un uomo e che per
questo non voleva passare la festività con lui, andando a pescare. Finsi di
credergli, feci una battuta su Rose che ormai non voleva più la babysitter.
Dentro di me, pensai al dramma di un uomo per
cui il compleanno del figlio è il giorno peggiore della sua vita.
Quello dove ha legato il suo destino a questo
pagliaccio da gossip che interpreta, e non è stato in grado di liberarsene più.
Giunta in prossimità del triangolo delle Bermuda
(ed anche di qualche altro pezzo di intimo) tra la squinzia e il toy boy,
accenno ad un cenno del capo che funga da saluto ma non mi risucchi nelle loro
chiacchiere porno soft. Sono convinta di essere sgusciata indenne, quando Leda con
voce zuccherosa mi richiama indietro: “Capo! Ho un messaggio da consegnarle!”.
Mi volto sorpresa dalla sua efficienza, dato che
sarà tipo il secondo messaggio che riesce a riferirmi in un anno. Ed il primo è
giunto a destinazione solo perché era di Blaise Zabini, un altro dei suoi
target annunciati. Con un sorriso svenevole che causa un altro rantolo in Dean,
mi porge un biglietto dalla tasca del top che porta, quindi praticamente in
corrispondenza del seno sinistro.
Disgustata e comprendendo che se n’è ricordata
solo in virtù del suo utilizzo come rituale di accoppiamento, afferro il
biglietto con due dita ringraziandola a denti stretti, mentre dico caustica:
“Leda, sei sempre la mia salvezza in ogni circostanza. Un toccasana per
il mio sistema nervoso…”. L’imbecille ovviamente non capisce l’antifona e
sorride ancora zuccherosa, mentre Dean annuisce entusiasta, lo sguardo ancora
sul punto da cui la mia solerte segretaria ha estratto il messaggio.
“Dean sei cianotico…” commento piccata,
guardandolo storto mentre rientro nel mio ufficio “Forse è meglio che chiami
Lavanda e ti faccia venire a prendere…”. Punto sul vivo, si affretta anche lui
a rientrare nel suo ufficio, lasciando Leda da sola che mette su un broncio da
bambina scontenta.
“Cara…” rimarco al suo indirizzo, sapendo
quanto detesti l’appellativo perché ritiene che la invecchi “Potresti portarmi
la pratica del caso Latimore? Dovrebbe essere
all’Archivio N4…”, quindi dall’altra parte del Ministero e dove
tendenzialmente c’è una coda di un’ora e mezzo, così possa dimenticarmi che
esisti.
Contrariata, Leda è costretta ad accettare e si
incammina a grandi passi sui tacchi traballanti.
Finalmente posso entrare in ufficio e chiudermi
la porta alle spalle con un enorme sospiro. Guardo con un sorriso l’albero di
Natale spelacchiato che Hugo ha insistito perché facessi in ufficio, agitando
la bacchetta perché si accenda di oro e rosso. Mi siedo alla scrivania
spostando una serie di scartoffie che Leda avrebbe dovuto sistemare nello
schedario, cosa che mi costringe ad un nuovo sbuffo di fastidio, e finalmente
apro il messaggio. È di Ginny e recita solo poche parole: “Riunione Weasley
stasera alla Tana. Dramma in arrivo. Non mancare. G.”.
Rassicurante al punto giusto, devo dire.
Così che io abbia davvero voglia di tornare a
casa, bramando di trovarmi di nuovo nel mezzo di una crisi dai capelli rossi.
Guardo le pratiche sulla mia scrivania,
decidendo che proprio oggi avrò misteriosamente un carico di lavoro tale
da trattenermi qui fino alle 21 passate.
Ginny ha usato l’espressione “riunione Weasley”,
perché in fondo è questo quello che siamo. Tutti.
Weasley.
Persino Harry, che ha il cognome più importante
del mondo magico. Persino lui che è un uomo e, in una logica prettamente
maschilista ed antiquata, dovrebbe trasmettere il proprio cognome a sua moglie.
È un Weasley anche lui e stiamo sempre parlando
dell’unico genero che Molly ed Arthur Weasley avranno mai. Una specie di razza
in via d’estinzione.
Figuriamoci se non lo siamo, a maggior ragione,
io, Fleur, Angelina, Audrey e persino Cora, l’eterna fidanzata mai del tutto
ufficiale di Charlie.
Abbiamo dismesso cognomi ed identità, nel
momento in cui abbiamo messo le fedi al dito.
Esagero, lo so.
In parte influenza il fatto che sono le otto di
sera e, dopo un gufo particolarmente minaccioso di Ron, ho dovuto mollare
l’ufficio perché lo raggiungessi immediatamente a casa dei suoi genitori. Un
po’ influisce che io abbia al momento le caviglie gonfie e i piedi doloranti
dopo che sono stata in piedi per un’ora, intrattenuta nei convenevoli con
l’ambasciatore neozelandese, e che quindi il mio solo desiderio sarebbe tornare
a casa, farmi un bagno ed andare a letto. Sicuramente, il disagio è aumentato
dalla nausea, risorta improvvida dopo il mio pranzo, quando mi è saltato in
mente di prendere un pezzo di torta alle carote e mandorle. Quindi ammetto che,
al momento, potrei non essere molto razionale.
Questo in condizioni normali dovrebbe spingermi
automaticamente ad allontanarmi da qualsiasi forma di iterazione umana per
paura di far danni, ma naturalmente non sono stata messa nelle condizioni di
rintanarmi nel mio buco di solitudine e misantropia.
Sollevo lo sguardo annebbiato dalla stanchezza
verso le finestre della casa, che si staglia come una grande ombra scura nel
centro esatto della valle silente: giunge dall’interno il tramestio comune di
più di venti paia di passi, accompagnato da un’accozzaglia di voci tra le più
diverse, condito dall’odore di arrosto alle cipolle selvatiche di Molly che
costringe il mio stomaco ad un ulteriore capriola di fastidio. Sospiro
lungamente cercando di ricacciare indietro la nausea, preoccupata di dover
anche subire un terzo grado da chioccia da parte di qualcuno all’interno, poi,
illuminata, decido di sedermi qualche secondo sui gradini dell’ingresso,
nascosta dalla siepe di buganvillea, godendo del freddo pungente della sera. La
mia innocua giustificazione mentale è che, spero, l’aria fresca possa
restituirmi il benessere e un po’ di energia. La mia vera reale preoccupazione
è di ritardare quanto più possibile l’incontro con il dramma in corso,
che realisticamente si rivelerà essere solo una divergenze di vedute sul menù
di Natale tra le solite ventinove portate e il tentativo di Molly di aggiungere
anche il pasticcio di rognone, ostracizzato come da tradizione.
Appoggio la testa contro la siepe ritrovandomi
ad occhi chiusi, le labbra strette.
Ho sempre adorato i Weasley, tutti, dal primo
all’ultimo. Ho sempre adorato il caos che si respira a casa loro, ho sempre
adorato di non sentirsi mai davvero soli. Mi sono innamorata, prima che di Ron,
di quel rumore di fondo delle stanze che erano voci e sedie accostate,
bicchieri che si toccano e mani che si sfiorano, e che non somigliava affatto
al silenzio bianco della mia casa da bambina.
Sono figlia unica, sono unigenita figlia di due
unigeniti genitori: esclusi loro, escluse qualche sporadica amichetta del corso
di pianoforte, sono sempre stata una bimba solitaria e strana, con il naso
sempre affossato nei libri, gli occhi sempre incuriositi dai movimenti
infantili degli altri e dai loro giochi, ma con la posa ritta e severa di
un’adulta che già si escludeva e faceva ombra a sé stessa.
Fino ad Hogwarts.
Fino ai Weasley, appunto.
Sono diventata una figlia ed una sorella con una
velocità che mi ha sempre sorpreso e che non poteva essere imputata a me,
sempre chiusa e bacchettona. Ma a loro, alla loro franchezza, al loro calore,
alla loro gioia di accogliere qualcuno nel loro tiepido guscio. Io ed Harry ci
siamo trovati seduti ad un tavolo, circondati da teste rosse, dall’oggi al
domani: mangiavamo porridge caldo su una tovaglia a
scacchi e ci sentivamo a casa, l’orfano e l’unigenita. Avevamo regali da
scartare che, pure se di fattura scadente, erano di enorme cuore e sostanza di
amore. E tutto sembrava solo una meraviglia dolce di affetto, piombataci
addosso come risarcimento di due infanzie solitarie. Certo, la mia non è
minimamente paragonabile a quella di Harry con quegli zii infernali che aveva,
ma insomma… ci siamo capiti.
È un segreto ostile come un serpente, ma fino a
non molto tempo fa, a mio modo, li consideravo quasi come la mia vera famiglia.
Lo ammetto. Influiva decisamente che il mio albero genealogico contava pochi e
sparuti membri che conoscevo poco e che erano tutti babbani fino al midollo: mi
avevano sempre fatto sentire diversa, strana, anormale. Ne avevano ragione, ma
ovvio che ora che ne avessi una giustificazione mentale e fisica, avessi ancora
meno interesse a frequentarli se all’antica umiliazione ed inadeguatezza si
aggiungeva anche un corposo senso di rivalsa.
Il mio posto era un altro, la mia vita era
un’altra: loro manco sapevano che c’era stata una guerra e quanta gente era
morta, per salvare anche loro. Avevo persino avuto una sorta di blocco emotivo per
un paio di settimane al termine del conflitto quando avevo recuperato i miei
genitori dall’Australia, per lo stesso motivo. Mi seccava dover spiegare che
cosa era accaduto, in fondo ritenevo che non avrebbero capito, specie nella
mora ancora fresca della perdita di Fred e in quel miasma di dolore che
sembrava unire tutti i Weasley, me ed Harry, ed escludere automaticamente tutto
il resto del mondo.
Quando tutto tornò alla normalità, per molto le
cose non cambiarono: anzi, il mio nuovo status di fidanzata di Ron mi
rese ancora più parte integrante del clan, ora senza più alcun genere di scusa.
I miei stessi genitori furono trascinati nel vortice della vita alla Tana,
perché era ovvio che la legge dei numeri prevedesse automaticamente che due
individui potessero spostarsi tranquillamente, meno venti e passa.
Ogni Natale, ogni festa qualunque, l’ho sempre
festeggiata qui dai tempi del fidanzamento fino a quelli del matrimonio. A
maggior ragione, quando sono nati Rose ed Hugo.
Ed andava bene, sul serio. Sono sempre stata
felice. Contenta. In pace.
A godermi confusione e chiasso, a bearmi delle
chiacchiere e dei piccoli motteggi di mia suocera, a preoccuparmi bonariamente
di mio suocero, a controllare che i miei figli non si mettessero nei guai con i
loro cugini. Mi sono sempre sentita benedetta e rassicurata che non vivessi in
una fittizia vita di plastilina dalla pecca, tutto sommato normale e
trascurabile che, escludendo Ginny, non ho mai avuto grandi rapporti con le mie
cognate. Fleur di fondo non mi è mai piaciuta, troppo vanitosa e bella per non
mettermi a disagio con i miei capelli sempre in disordine e le unghie
mangiucchiate. Angelina, la moglie di George, è un’autoritaria allenatrice di
Quidditch a suo modo anche simpatica, ma con cui ho ben pochi argomenti di
conversazione in comune. Audrey, la moglie di Percy, è abbastanza nevrastenica
e perfezionista, non penso di averla mia beccata da sola in un momento che non
fosse la preoccupazione per lo stato dei vestiti delle sue figlie, o per la
presenza o meno di grassi insaturi nelle salsicce di fegato.
Cora, invece, è un caso a parte.
Ha tipo quarant’anni, ma ne dimostra la metà:
bellissima, con un corpo da favola e lunghi capelli corvini. Una modella,
praticamente, ma che ha anche il pregio di essere colta e simpatica. Ma è una
meteora. Lei e Charlie girano il mondo curando i draghi, non si fermano mai
troppo a lungo nello stesso posto, non pensano minimamente né di sposarsi e
nemmeno di avere figli.
Mi piace molto forse proprio perché è il mio
opposto… ma la vedo troppo poco per legare con lei.
Però, tutto questo non è mai stato un problema:
vado d’accordo con Molly, con Ginny. Ho mia madre. Insomma, non ambisco alla
perfezione.
Poi qualcosa è cambiato. Dalla morte di mio
padre.
Arrivò Natale, mia madre ormai viveva da sola a
Favignana in Sicilia. Volevo passare le feste da lei, non volevo costringerla a
spostarsi, non volevo nemmeno che affrontasse l’Inghilterra e tutti i suoi
ricordi. Volevo anche che i miei figli conoscessero quel lato di me, quella
casa che sapeva di arancia e limone, quella lontana origine che avevo solo
finto di dimenticare e che ora mi richiamava a sé come il mare di una
conchiglia. Solo un anno, dissi convinta a Ron quasi supplicando, dammi
solo un anno. Sapevo di chiedere molto, lui adora il Natale a casa, sua
madre non ci avrebbe perdonati facilmente. Ma pensavo davvero che capissero.
Ebbene, non capirono. Per nulla.
Ron mise un broncio da bambino di cinque anni
che gli durò settimane: preparava i bagagli con malagrazia, accatastando cose
con malavoglia e guardando con desiderio Harry mentre rientrava a casa carico
di pacchetti. Formalmente diceva: “Andiamo, tranquilla, non ti preoccupare… che
saranno due settimane da babbano?” ed intanto nell’appunto finale, ci metteva
abbastanza sarcasmo da darmi il voltastomaco. Non parliamo nemmeno poi del vero
ed autentico ostruzionismo che mi fecero Rose ed Hugo: naturalmente alla
prospettiva del più normale dei Natali, senza i tiri vispi Weasley ad
inventarsi corolle di luce porpora, senza alcun cuginetto con cui giocare e
senza nemmeno il caos tipico delle nostre feste, montarono beghe e noie
assurde. Favignana, del resto, non aveva grandi attrattive d’inverno con cui
poterli allettare. Riuscii a resistere abbastanza bene al fuoco incrociato di
mio marito e dei miei figli, ignorando il primo e mollando ceffoni ai secondi
quando si permisero insolenti di dire anche che “ci rifiutiamo di andare da
nonna Eleanor perché è pizzosa!”.
Capitolai, però, durante il pranzo domenicale
del quindici dicembre, due giorni prima di partire. Tra i miei cognati che
organizzavano le festività, spingendo all’invidia Ron e i bambini che
continuavano a guardarmi storto, e i miei suoceri che oscillavano tra “non
sarà la stessa cosa senza di voi” e “d’altronde avrebbe avuto più senso
che si fosse spostata solo Eleanor! Sarebbe stata anche in compagnia! Si
divertirebbe di più”, conditi da sguardi lacrimevoli e stucchevoli
complimenti alla “la famiglia è sempre la famiglia!”… semplicemente non
ce la feci più e dichiarai bandiera bianca su tutta la linea, stremata.
Restammo a Londra, i miei figli si divertirono
come pazzi, Ron poté vedere la finale di Quidditch con i suoi fratelli, mia
madre prenotò un volo economico all’ultimo minuto, ed io…
… spaccai una decina di piatti in preda
all’isteria da sola nella cucina di casa mia, prima di raggiungere gli altri
alla Tana.
È una delle cose più irrazionali che abbia mai
fatto: scientemente ho passato un’ora d’orologio a spaccare piatti, rimetterli
assieme con la bacchetta e poi a frantumarli daccapo in modo sempre più
fantasioso.
Non è una bacchetta, però, che ripara le crepe
che ti si aprono dentro. Mai. Al massimo ci metti gesso e stucco, ma il difetto
è nell’intelaiatura, sta sempre lì. Mettici una pietanza più calda e si venerà
daccapo.
In Italia ci siamo andati poi a Pasqua, i miei
figli si sono divertiti un mondo giocando a mare sulla spiaggia, mia madre ha
mostrato le ristrutturazioni fatte alla casa di mia nonna, Ron ha mangiato
chili di pasticcini con la marmellata d’arance… tutto bellissimo. Certo.
In realtà, non è andato più niente a posto da
allora per me nella famiglia di mio marito. Improvvisamente piccole cose che mi
erano sempre passate innocue sotto il naso, sono diventati elefanti da salotto
che nascondevano la luce del sole. Esattamente come la prossimità di Harry e
Ginny come vicini di casa.
Il senso profondo della condivisione, ora, mi
infastidiva: c’erano cose che avevano il dovere di restare mie e di mio marito,
e non essere lavate nel caldaio Weasley magari anche con sufficienza. La
continua mancanza di privacy adesso mi irritava perché scoprivo di nuovo la mia
dimensione più introversa che necessitava e bramava come ossigeno domeniche a
casa, festività solitarie o semplici pomeriggi dove assentarmi senza alcuna
spiegazione. L’appartenenza che, improvvisamente, faceva scomparire famiglie
d’origine o conoscenze esterne, delineandoti a pieno un membro del clan, dava
sì supporto e sostegno, ma schiacciava anche senza respiro. E, se per me non
era eccessivamente fastidioso, non potevo tollerare che i miei figli
considerassero amici solo quelli che, a conti fatti, erano sempre i loro
cugini.
C’era altro là fuori.
Dopo quello, ovviamente, tutti i piccoli e
grandi difetti sono sorti come funghi, infastidendomi come non mai. L’eccessiva
premura da mamma apprensiva di Molly, l’inconsistenza vaga dei pensieri di
Arthur, l’iper-precisione pedante di Percy e Audrey, la sfrontata spacconaggine
di George e Angelina, la superficialità vanesia di Fleur.
Intendiamoci: li adoro. Li amo sempre. Sono la
mia famiglia.
Ma necessito di pace, calma, tregua. Più spesso
di quanto riesca ad ottenerla.
Ciò mi fa sentire ingiusta e sbagliata al punto
che, solo perché pianifico di andare da sola in Italia per l’Epifania a trovare
mia madre, mi risale la nausea. Solo pensare alla veranda della sua villetta,
con la luce afosa dell’estate e l’odore di limoni mentre sono intenta a
scrivere qualcosa, mi fa sentire male. E non dovrei sentirmi così. Dovrebbe
essere un pensiero bello prendermi del tempo solo per me, come donna, da sola.
Ed invece, ormai, sono un punto indistinto in una trama color rosso ed oro.
Probabilmente la stanchezza esacerba tutto un
po’, penso con calma respirando il vento che sa di muschio e fresia, e probabilmente
il dramma annunciato sarà solo una sciocchezza da un paio di ore massimo.
Un paio di ore lontana dal mio copriletto caldo, dal mio libro rimasto alle
ultime trenta pagine, dalla mia camomilla con miele e limone.
Sospiro languidamente, prima mi do una mossa e
meglio è. Mi alzo sferzata da un’ondata di coraggio, ergendomi dritta in tutta
la mia modesta altezza, inarcando in avanti la schiena e spingendo in fuori il
busto. Salgo a due a due i gradini del portico, per poi fermarmi davanti alla
porta a vetri da cui giunge un bagliore aranciato e voci soffuse ma concitate.
Incasso di riflesso il collo nelle spalle, nascondendo la bocca nella mia
sciarpa grigia che ormai si è impregnata dell’odore di pioggia, sembra che
ci sia nata apposta con questo odore addosso, poi, rapida, sfruttando
l’ultimo anelito di masochismo rimasto, abbasso la maniglia con decisione
entrando.
Le voci, che all’esterno sembravano tutto
sommato sopportabili, mi rintronano una volta all’interno per il contraccolpo
rispetto al silenzio, assieme all’ondata di calore data dalla differenza di
temperatura. Con nervosismo, quindi, mi levo velocemente il cappotto mollandolo
su una poltrona assieme al cappello.
La sciarpa, no. Quella non riesco a togliermela
di dosso. Mi dà la rassicurante sensazione di potermici nascondere dentro.
Seguo la direzione delle voci, giungendo infine
in salotto. Le voci cessano all’improvviso, anche se sarebbe più corretto dire
che sono le urla a smettere di colpo non appena tutti avvertono la mia
presenza. Guardo tutti interrogativamente, la posa già alla Granger scolpita
nella mia espressione e nelle movenze del mio corpo: ho già inarcato
inavvertitamente un sopracciglio, ho già messo le mani sui fianchi e ho già
gonfiato le guance in un moto da pesce palla in posizione da combattimento.
Tutti, d’altro canto, mi guardano con un frammisto senso di terrore, di calma e
di immediata remissione di ogni problema sulle mie fiacche spalle. Ed è questo
che aggiunge alla mia postura un tic nervoso al piede sinistro che prende a
tamburellare sul pavimento, in attesa.
Dato che nessuno si ostina a parlare, getto uno
sguardo nervoso alla stanza intera mettendo a fuoco nella vista tremolante di
stanchezza tutti i presenti. In piedi, poggiato al davanzale della finestra,
c’è Harry che si pulisce gli occhiali con un lembo del maglione rosso che
indossa: lui mi sembra quello più calmo, più pacifico. E ciò mi rassicura sul
fatto che, in fondo, non sia successo niente di così grave. Mi restituisce uno
sguardo appannato a cui rispondo con un fremito dell’angolo destro della bocca
a dimostrazione di quanto mi consideri ben più esausta di lui, almeno tu sei
già in ferie.
Poco più in là Ginny è seduta scompostamente su
una poltrona, le gambe piegate su un bracciolo, mentre mangiucchia dei cubetti
di formaggio con estrema nonchalance, come se fosse perfettamente a suo agio e
non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. Si limita semplicemente ad un cenno
frettoloso del capo in mia direzione per poi riprendere a mangiare con tutta
calma, un piede che dondola.
Comprendendo agevolmente che il problema non
siano i coniugi Potter, cerco naturalmente Ron nella stanza, sperando che
allora il problema non sia nostro: lo trovo in piedi a poca distanza da me,
visibilmente più agitato di Harry e Ginny, ma ben più calmo di quanto sarebbe
se ci fosse un qualcosa di grave su me, lui o i bambini. Ha solo le orecchie un
po’ più rosse del solito, i capelli più scompigliati e credo che non si sia
accorto di aver messo il pullover al contrario, dato che intravedo l’etichetta.
In cinque passi copre la distanza tra me e lui, mi guarda lievemente
imbronciato forse per il mio ritardo e si limita a toccarmi l’interno del polso
nel vago tentativo di rassicurarmi.
Il solo effetto che riesce ad ottenere è che le
mie spalle si affloscino come se fossi un mollusco privo di sostegno: continuo
ostinatamente a non capire che cosa stia succedendo e soprattutto l’urgenza
della convocazione. Guardo quindi Ron in attesa sperando che si spieghi, ma lui
si limita ad un sospiro e ad un cenno meccanico del caso come se mi
indicassein silenzio la fonte
dell’enorme dramma in corso. Seguo la direzione del suo cenno fino al divano,
dove probabilmente ci sono i primi attori della tragedia in atto. Sul sofà rosa
stinto al centro del salotto, sono seduti i miei suoceri in atteggiamento ben
poco rassicurante: se Molly è infatti cianotica, con i capelli grigio polvere
scomposti e spettinati, abbandonata mollemente all’indietro con la nuca
poggiata sullo schienale, Arthur non mi pare in stato migliore. Pallido,
emaciato, con una tragicomica “o” a spalancargli la bocca mentre guarda nel
vuoto, completamente ignorato dalla seppur amorevole moglie che è intenta a
sventagliarsi con un fazzoletto scozzese, mentre borbotta frasi sconnesse. È
guardando in giro per la stanza alla ricerca di spiegazioni che, finalmente,
intravedo un capannello di persone che non ho notato per stanchezza, o perché
più realisticamente erano quasi seppelliti e nascosti nell’intercapedine tra il
tavolo e la credenza. Non sono naturalmente sconosciuti, ma era difficile
riconoscerli in questi panni dimessi e… spaventati.
Insomma non credo che esista nemmeno una parola
corretta per definire questi esserini informi, accartocciati su sé stessi come
vermetti contorcenti e che solitamente hanno risposto al nome dei miei cognati
Bill, Fleur, George e Angelina. Sono tutti abbastanza verdi in viso e, dalle
loro facce e dal modo che hanno di saettare lo sguardo in direzione del divano,
riconosco abilmente che la loro espressione è quella tipica da scontro con
Molly Weasley: una battaglia già persa in partenza. Dietro di loro,
finalmente, mi accorgo di due presenze familiari ma assolutamente inconsuete,
tanto che devo strizzare gli occhi un paio di volte per distinguerli bene. I
miei nipoti, Victorie e Teddy.
Li guardo senza ben capire, Victorie dovrebbe
essere a scuola e Teddy non lo vedo da qualche mese, dato che ha iniziato a
frequentare una scuola nel nord della Francia. E, a meno che non abbia capito
male, i corsi finivano il venti dicembre, non adesso.
Oltre però alla loro tangibile presenza, è anche
il loro aspetto che mi meraviglia un po’, facendomi infine capire che devono
essere loro nell’occhio del ciclone Weasley.
Si tengono per mano, ma ciò naturalmente non mi
sorprende: sappiamo tutti che stanno assieme. Teddy del resto, sin da bambino,
è sempre stato una sorta di Weasley acquisito. Ha praticamente vissuto a casa
di Harry da quando era in fasce, diventando praticamente un fratello per James,
Albus e Lily. E naturalmente un grande amico per i miei figli e i loro cugini.
Con Victorie c’era sempre stato un rapporto “speciale” ed alla fine sono
diventati una coppia. Gioia e giubilo in casa: era come avere una sorta di
timbro ancora più reale dell’appartenenza del piccolo Lupin alla famiglia.
Alle loro spalle c’erano state tutte le più
ampie congetture su come e quando si sarebbero sposati, cosa spesso interrotta
da Fleur che diceva che Vic doveva finire la scuola e poi pensare al resto. Fu
la sola volta che, stizzita dal comportamento vergognoso degli altri, le diedi
ragione su tutta la linea. Del resto, Teddy ha deciso di andare appunto a
vivere per quattro anni a Brest, in Bretagna, dove si trova una scuola molto
prestigiosa specializzata nel disegno di scope da corsa. È una scuola molto
costosa che Teddy si è potuto permettere solo perché, sciaguratamente un anno
fa, è venuta a mancare sua nonna Andromeda, la stessa che lo ha cresciuto e che
gli ha lasciato una discreta rendita. Probabilmente al termine del percorso
accademico, rimarrà anche lì in Francia a lavorare. A Brest c’è infatti la
fabbrica delle Firebolt.
I fiori d’arancio e i confetti bianchi quindi
sono stati abbondantemente accantonati in attesa di tempi più maturi.
D’altronde parliamo di due ragazzini, cavolo:
tra un anno Teddy potrebbe stare con una dolce e piccola francesina, mentre
Victorie decide di trasferirsi in Nuova Papuasia per studiare le vongole. È il
bello della giovinezza non essere mai davvero legati. Ovviamente tengo per me
questi pensieri, Ron mi darebbe delle sfasciafamiglie e della libertina: del
resto è abbastanza strano che io non mi faccia intenerire facilmente da niente
specie da due ragazzini innamorati che si tengono per mano con dolcezza,
suggerendoti in modo erroneo che non facciano altro.
Lui mi definisce cinica, io credo solo di essere
realista: non è il destino di tutti gli amori sopravvivere alla vita stessa.
Ora, però, paradossalmente, penso in modo più
convinto che potrebbero farcela a restare assieme persino per sempre. Hanno un
modo di aggrapparsi l’uno all’altra, sebbene appaiano sbattuti e nervosi,
prossimi forse anche alle lacrime, che mi sorprende. Non mi dà di due
ragazzini, insomma.
Victorie è livida in viso, ha i capelli
biondissimi spettinati e legati malamente in una treccia scomposta che pende
inerme su una spalla. Tiene stretta la maglia con una manoe
con l’altra quella di Teddy alle sue spalle. Ha gli occhi lucidi, il labbro che
trema, e sta a testa bassa. Teddy, invece, è saldo, forte, sembra un uomo. Le
sta dietro come un cavaliere ad un passo da una principessa. Mi saluta con un
quieto sorriso, mentre indossa il più comune degli aspetti: capelli castani ed
occhi azzurro polvere. Quando voglio sentirmi solo me stesso, zia. Sembra
ricordarmi solo con lo sguardo quella confidenza.
Decido d’improvviso slancio che, qualsiasi cosa
sia accaduta, sarò sempre dalla sua parte.
Gli voglio bene come un figlio, qualsiasi cosa
abbia fatto o sia successa. Non cambierà mai, questo.
Improvvisamente una vertigine sembra colpire
sleale Victorie e farle fare un passo indietro. Fleur si muove in modo
automatico verso la figlia, preoccupata, ma il suo piccolo mancamento viene
subito assorbito ovviamente da Teddy alle sue spalle. La ragazza si volta
leggermente con il viso, fino ad incontrare gli occhi chiari del fidanzato. Si
guardano nella distanza quasi nulla che esiste tra loro al momento. Ed è quasi
naturale per lei, come l’onda del mare al richiamo della marea, abbandonarsi
piano con la schiena contro di lui, stanca, esausta come dopo una lunga
camminata che le ha succhiato via ogni energia. E credo che sia naturale anche
per lui, semplicemente lasciarla lì, a sentire contro le sue spalle il
suo respiro che accelera sempre di più ad ogni secondo.
Ovvio. Naturale.
È solo un secondo in cui entrambi distolgono lo
sguardo da tutti noi, e trovano gli occhi dell’altro. È solo un attimo, ma vale
come mille anni.
Non so perché non sono riuscita a smettere di
guardarli. So che penso che non permetterò che gli facciano del male e che
rovescino la loro vita, piccola ed ingenua come ancora è. So che sono sempre
più arsa dalla curiosità di sapere che cosa dannazione sia successo.
Ma so che, per un attimo, non riesco a pensare a
nulla di qualsiasi cosa perché ogni parte del mio essere è impegnata a frenare
il conato di nausea che mi ha preso lo stomaco in un modo così forte da farmi
temere di morire. Come se la mia testa si spaccasse in due, come se d’un tratto
vedessi solo bianco e sentissi solo voci che mi chiamano nella testa.
Passa in un secondo scarso, respiro nella
sciarpa grigia e mi sembra di sentirmi meglio.
E, sollevata, mi rendo conto che nessuno si è
accorto del mio mancamento, nemmeno Ron a cui per fortuna davo le spalle. Vedo
le sue dita ancora chiuse sul mio polso e mi stacco come se fossero di troppo
in questo momento. Lui mi lascia fare, ovviamente preso dai suoi pensieri. E io
torno a guardare i ragazzi, sollevata dalla fine di quel contatto che pure
prima, mi aveva tanto tranquillizzato.
Non capisco perché ora mi turba tanto vederli assieme:
forse è solo l’invidia rancida di una quasi quarantenne che, dopo aver visto
Teddy e Victorie, rammenta che di quello sguardo così schietto ed ingenuo, di
amore vero, non ha più memoria. Non è il destino di tutti gli amori
sopravvivere alla vita: ma non è il destino dell’amore restare intonso di
sguardi e puro di cuore, così da non sporcarsi giorno per giorno con la vita
stessa. Un amore lucido e perfetto di cristallo, non si salva mai. Si rompe e
frantuma il cuore. Se vuole salvarsi, si fa roccia: sporca, venata, comune.
Si fa duro come cemento armato.
Non più così bello a vedersi, pieno di schegge
di compromessi, di crepe di rammarichi, di imperfezioni di rimpianti.
Ma si salva, resiste, vive. Ancora. Di giorno in
giorno, fino al “per sempre”.
Credere che l’amore possa restare sempre una
bellissima fiaba, è una puttanata grossa come una casa.
Quei pensieri, acidi come limone, mi spingono a
reagire nervosamente chiedendo stizzita e rompendo il silenzio della stanza:
“Si può sapere che cosa è successo?!”.
È come fare scoppiare un petardo nella stanza e
tutti mi guardano nel modo scioccato con cui guarderebbero un bambino
recalcitrante che si diverte a fare scherzi rumorosi.
Con imbarazzo e fastidio.
Si sta davvero bene in una stasi addormentata in
fondo, e magari vogliono anche smettere di pensare a che cosa è accaduto.
Andrebbe bene anche a me, se mi facessero tornare alla mia casa e alle mie
quattro mura.
Restano tutti immobili, chi a mangiarsi le
unghie, chi ad aprire la bocca e a chiuderla subito dopo, chi a guardare
interessato le tende o il soffitto… ed io inizio ad innervosirmi.
Sempre di più, come se fossi posseduta. Perché
nei loro sguardi, in quelli della mia famiglia, leggo quel sentimento di quieto
e riottoso incomodo che hanno per la mia persona. Per quella che razionalizzerà
tutto, minimizzerà tutto, si prodigherà in rimproveri e critiche e darà a tutti
l’impressione di essere stupidi per aver chiamato dramma un’autentica
sciocchezza.
Però, intanto, aspettano sempre quel mio movimento
di ramazza mentale che metterà tutto a posto. Imprecano, borbottano, giudicano:
ma lo aspettano come una salvezza piombata dal cielo. Perché in fondo a me non
costa niente, in fondo mi rende felice. Perché per loro io adoro passare la
vita a risolvere le grane altrui. Anche se non lo do a vedere.
Stasera, però, sono troppo stanca per questo.
Stasera, forse, mille lampadine di egoismo mi baluginano negli occhi a farmi
sentire esausta.
Stasera, lo ammetto, vedo solo Victorie che
guarda Teddy e si affida ciecamente, e mi chiedo se io mi sono mai sentita così
nella vita.
Pronta a mettere tutto di me nelle mani di un
altro.
E so già la risposta: no.
Io non me lo sono mai potuta permettere, nemmeno
con Ron, di affidare me stessa a qualcuno nella speranza di riposarmi un po’.
Va bene, sono forte abbastanza per tutti: ma non
stasera. Stasera voglio solo le mura della mia stanza a contenermi i pensieri,
a lasciarli galleggiare fuori e a tenerli circoscritti perché facciano male
solo a me.
Stasera, non so perché, ho la sensazione che
potrei persino far male a qualcuno, pur di salvarmi io.
Mi sembra che ci sia il destino in agguato, mi
sembra che sto mettendo punti a frasi di anni e che non potrò mai più tornare
indietro.
Nervosa per il silenzio che continua, decido
quindi di andarmene e tornare a casa.
Sono già di spalle nello sguardo di Ron che mi
guarda sconvolta, quando mi raggiunge la voce di Teddy.
Un bambino cresciuto in fretta, un uomo che non è mai stato un neonato.
Solo nel mondo, sebbene pensiamo sempre che sia un membro del clan.
Per questo, per lui, è facile fare il lupo solitario.
Perché lo è. Il branco è solo la pallida giustificazione che diamo ad
un’infanzia sfortunata che vogliamo destinata ad essere invece perfetta.
È solo. E da oggi lo sarà anche di più.
“Victorie è incinta, zia. E non sono io il
padre”.
Il mio primo immediato istinto, stranamente, è
avvicinarmi ai ragazzi in modo automatico e meccanico come se mi richiamasse un
anelito selvatico di consapevolezza e dolcezza profonda. Nel silenzio fondo di
quella che, ora, mi sembra un puritano vessillo di borghesia, tendo le braccia
e le stringo attorno alle spalle di Victorie e Teddy. La loro reazione, il loro
non indugiare nemmeno per un secondo per stringermi a mia volta cingendomi per
la vita, mi fanno rapidamente capire che nessuno ha pensato prima di me a
fargli sentire semplicemente vicinanza e calore, affetto e comprensione, prima
di giudizi scomodi e facili e di sensi di colpa stantii e fumosi. Persino
Victorie, la mia prima nipote bellissima ed algida come un fiore di ghiaccio,
si aggrappa a me con una disperazione così forte da farmela sentire più bambina
di quanto sia mai stata. Ha solo diciassette anni, e già la sua vita da oggi
cambierà per sempre. Non so se lo meritasse, nemmeno me lo chiedo, picchietto
la sua schiena con piccole carezze regolari, mentre lei rilascia un respiro un
po’ più forte che sa di mora, spezia. Come se fosse ormai così adulta e lontana
da essere persino oltre me, la zia anaffettiva e razionale che, sola, adesso ha
avuto la decenza di abbracciarla. Teddy, dal canto suo, ha il solito odore
buono di muschio e sandalo che mi ricorda sempre il bosco, i lupi, l’origine
remota del sangue di suo padre. Respira un po’ nel mio collo come se si
nascondesse, come se per un secondo dismettesse vergognoso i panni del
capobranco ed indossasse quelli più miti del cucciolo spaventato e timoroso.
Tra i miei capelli, tra la chioma di una che non ha mai avuto la presunzione di
considerarsi sua madre ma ha sempre agito intimamente come tale, si concede una
tregua, una pausa, un riposo.
Quando mi stacco di loro, sono tornati ad essere
due fortezze di tendini ed ossa dagli occhi scavati. Hanno la schiena dritta
come se fossero al patibolo da innocenti. Tornando a guardare gli altri,
distinguo uno sguardo ceruleo su di me che mi spinge a cercarne l’origine. È
naturalmente Fleur, mi guarda con una meraviglia stemperata dalla gratitudine.
Sussurra qualcosa che non capisco, gli occhi come due specchi in fondo al mare,
annuisco come se non ci fosse bisogno di alcuna altra parola.
La tregua dura poco ovviamente: al mio gesto,
che forse in fondo ha svergognato la freddezza da calcolo degli altri, è come
se prendesse fuoco una steppa di sterpaglia secca.
Tutti cominciano a parlare nello stesso momento,
raccontandomi la loro versione con tono di voce tra la malcelata isteria e la
voglia di essere ragionevoli. Naturalmente è la voce di Molly quella che
sovrasta tutte le altre, specie perché accompagna le grida da soprano con una presa
ferrea sul mio gomito che mi costringe a mettermi seduta per ascoltarla. A
restare in silenzio, ovviamente, sono solo gli stremati ragazzi e Fleur che
passa il tempo a lisciare assente i capelli della figlia, mentre Bill si agita
come un avvocato difensore.
In breve apprendo che cosa è successo. Due mesi
fa Teddy e Victorie si erano lasciati per un periodo. Cose da ragazzi
naturalmente che non intendo e non mi interessano, sebbene Molly sia prodiga di
dettagli. In questo breve periodo Victorie ha frequentato un altro ragazzo, di
cui si ostina a non dire il nome neanche sotto minaccia e sotto costrizione.
Replica solo che è stato un ripiego, una sua stupida vendetta dolorosa e
rancorosa per la separazione dalla persona di cui era veramente innamorata. Non
importa chi diamine sia. Naturalmente, come ogni ragazzina confusa, Victorie
finisce a letto con il tipo, si vedono qualche sera per un’uscita a Hogsmeade,
si ingozzano di brownies e poi comprendono di essere solo amici e nulla più.
Victorie torna da sola, è sempre più distrutta dalla separazione da Teddy, poi
comincia a stare male anche fisicamente e pensa solo allo stress. Nausea,
vomito, vertigini: in una piccola farmacia babbana fuori Londra dove è scappata
un weekend con la scusa di andare a trovare una parente malata, scopre che sta
per diventare mamma.
I conti, purtroppo, sono inequivocabili: il
bambino può essere solo del “chiodo scaccia chiodo che ha clamorosamente
fallito nell’intento di farle scordare Teddy”.
È disperata naturalmente, distrutta, devastata.
Nasconde la cosa per settimane, ne parla con il padre del bambino che, a quanto
pare, è un ragazzo almeno responsabile e in gamba. Dice che non è pronto per
impegnarsi, dice naturalmente che non è innamorato di lei, dice che è stato un
errore, dice che lei sarà libera di scegliere che cosa vuole farne e che, in
ogni caso, lui la aiuterà, fosse anche solo come padre del piccolo o piccola.
Victorie si lascia solo sfuggire che è un ottimo amico ed una bellissima
persona, e sottolinea quasi a mo’ di giustificazione che la sua famiglia sta
molto bene economicamente, quindi suo figlio avrebbe comunque un futuro sereno.
La complicazione, naturalmente, giunge quando
Teddy si pente di averla lasciata e torna alla carica, professando scuse e
implorando perdono. È in fondo solo un diciannovenne confuso da una vita
lontana dalla terra natia e dalle cose e persone a cui è abituato. Ecco cosa
fa il branco, il clan: ti fa crescere con le radici incardinate al suolo e non
ti fa schiodare più. Nemmeno i pensieri sfiorano il cielo, ma restano sepolti
nella terra. Se ne esci, se voli e scappi, diventi polvere nel turbinio della
tempesta. In poco tempo Teddy torna alla ragione, si pente di averla
lasciata, scrive lettere, manda fiori, contatta amici comuni.
Ma Victorie, adolescente sfiorita troppo presto,
esibisce maturità e grazia: ed è questo che mi colpisce di tutta la storia, più
che i risvolti pratici di ciò che accadrà adesso.
Questa biondina dal volto ancora paffuto e dagli
occhi teneri di azzurro, che porta sempre orecchini coordinati alle scarpe e di
mercoledì si veste sempre di rosa, reagisce come una donna di ferro: taglia i
ponti, brucia lettere e fiori, stoica dice a Teddy che non c’è storia, simula
una relazione con un altro, chiama anche l’amico/padre a testimoniare. Protegge
il ragazzo che ama dalla vergogna del tradimento forse, ma in fondo lo vuole
salvare da una responsabilità che non è sua, che non lo sarà mai, che plasmerà
destino e carne, che non potrà mai più a rimangiare. Lo vuole salvare, ecco, da
qualsiasi peso possa portare.
Rinnega amore e cuore da ragazzina, per il
sangue e la placenta della madre.
Dovrebbero essere fieri di lei, altro che
additarla come un’irresponsabile che si è fatta mettere incinta.
Sarà più mamma lei con questo alito da aquila
che protegge i suoi cari, che qualsiasi nevrastenica quarantenne imbevuta di
manuali di puericultura con le braccia piene di tutine firmate.
Teddy, però, non se la beve. Per niente. Torna
all’improvviso, va a trovarla ad Hogsmeade, la ferma in un pub, pretende la
verità. Lei tace, piange cocciuta, implora che la lasci in pace. Si sente male,
rimette, sviene. La portano da un Medimago che parla con Teddy, mentre lei è
incosciente. Gli dice la verità, presupponendo che lui sia il padre del piccolo.
Teddy capisce tutto. Subito, come un fulmine. Ed
è stoico, implacabile: “Se la sola cosa che ci tiene lontani è la
gravidanza, io sarò chiunque tu vuoi che io sia. Per te e per il bambino.
Chiedimi quello che vuoi… e io lo farò… sparirò, se sarà necessario. Sarà
quello che tu vuoi, non avere paura. Farò tutto ciò che desideri. Ma se per un
solo istante, tu chiedi a me che cosa io voglia, se per un solo attimo sia la
mia volontà in gioco… se deve essere quello che io voglio… sia che, da
oggi in poi, io sia tuo marito e il padre di tuo figlio”.
Eccolo qui, il dramma.
Perché Victorie piange e lo bacia, lo abbraccia,
si mette al dito un anello trovato nelle patatine ed accetta. E ci
mancherebbe con una dedica così, persino a Molly è rimasta impressa e mi cita
parola per parola. E non finisce qui. Teddy sa tutto ciò da dieci giorni,
se ne va in giro con un fardello di risposte e discorsi da preparare ma tace
con tutti. Arriva qui solo quando ha trovato una specie di lavoro, quando ha
delle fotografie di una casa in affitto vicino Salisbury,
minuscola come una stanza singola. Ne parla solo quando ha già deciso che
lascerà la scuola per qualche anno, per poi riprendere dopo. Ne parla solo
quando anche Victorie dice tranquilla che prenderà il diploma e poi resterà a
casa con il piccolo, fino a quando sarà svezzato.
Il dramma nasce perché sembrano due bambini, e
si comportano da adulti. Perché in un mondo di bambocci, noi abbiamo due
miracoli di maturità ed intelligenza e restiamo basiti.
Ognuno, naturalmente, nella stanza ha
un’opinione diversa sulla questione e su come si dovrebbero comportare i
diretti interessati.
Molly non ha una vera e propria idea, in realtà
è semplicemente fossilizzata sulla vergogna e su ciò che dirà la gente quando
saprà la cosa. Erompe rossa ogni due per tre che non è possibile che sia
accaduta una cosa del genere nella loro famiglia, che Bill è sempre stato
troppo permissivo con la figlia, che adesso ci manchi che gli diamo la mano e
ci congratuliamo con loro per il pasticcio che hanno combinato.
Forse solo adesso mi rendo conto di quanto sia
invecchiata: i suoi processi mentali sono meno permissivi e più sclerotici, e
forse è anche giusto che sia così. Quest’anno compirà settant’anni, ormai ha
rinunciato a tingersi i capelli, lunghe striature di argento solcano il rame
dei riccioli scomposti. È sempre più stanca, si siede spesso, ha le mani
deformate dall’artrite. Non si può pretendere da lei molto di più.
Nemmeno ovviamente si può pretendere molto da
Arthur. E’ un anno più piccolo di Molly, ma non ha nulla dell’energia della
consorte. E’ vistosamente dimagrito. Lotta da anni con il diabete, è sempre più
perso nel suo mondo di invenzioni. Tendenzialmente ora passa molto tempo in
silenzio, a rimuginare o a bofonchiare da solo. Cosa che sta facendo anche
adesso, non esprimendosi anche lui appieno. La sola cosa che fa, è accarezzare
ad occhi spalancati ed ancora lievemente scioccati il dorso del suo cane,
Birillo, un botolo di ormai quindici anni che passa il tempo seduto sotto i
suoi piedi a sputare palle di pelo rognoso.
Se la senilità consente di ignorare le reazioni
dei miei suoceri o quantomeno di giustificarle, non posso dire lo stesso per
quelle dei miei coetanei o quasi.
Bill, naturalmente, è impegnato a difendere
tardivamente l’onore della figlia, cosa che lo rende dello stesso colore dei
suoi capelli lunghi e lisci, legati in un codino. Le cicatrici spiccano bianche
come tagli nel sangue, dando persino l’impressione di contorcersi mentre lui
continua a perorare la causa di Victorie e di una sua non meglio identificata
purezza ed ingenuità. Non è naturalmente un argomento convincente e nemmeno
molto veritiero se, con un candore ben diverso, Victorie ha confessato che non
era vergine al rapporto con il padre di suo figlio. E che, per pura casualità
dell’imprevedibile, il bambino era di costui, e non di Teddy. Non che ciò
importi… ma da padre, Bill ovviamente si aggrappa all’idea ben più accettabile
di una figlia stupidamente manovrabile, piuttosto che di una giovane donna che
ha fatto delle scelte consapevoli che è disposta persino ad affrontare. Per
Bill, è naturalmente più semplice quindi scagliarsi contro Teddy, reo
nell’ordine di averla lasciata, di aver consentito che subisse questo, di
essere troppo freddo e calmo in questa situazione, di aver suggerito soluzioni
francamente inaccettabili per la sua perfettissima figlia.
A trattenere l’impeto di Bill, non può
intervenire nemmeno la solita carismatica pacatezza bionda di Fleur, la sola
rimasta immutata negli anni come il quadro fulvo e fosco di una dea greca. Il
solo segnale del tempo trascorso è un taglio di capelli più corto, sbarazzino,
maschile, ma che ha l’effetto di farla sembrare per contrasto ancora più
femminile. Fleur di solito è il ritratto della flemma e della calma, posata ed
educata come pochi: ora, non smettendo un secondo di accarezzare i capelli di
Victorie, parla fitta in francese all’indirizzo dei ragazzi che rispondono in
modo meccanico ed apatico. Non ho idea naturalmente di che cosa stiano dicendo,
di primo acchito mi sorprende stupidamente solo che Teddy parli perfettamente
francese. Ma il viso di Fleur, quelle incomprensibili macchie violacee sul suo
viso marmoreo, quel luccichio malato degli occhi acquamarina, quella presa di
acciaio sul gomito della figlia e quella voce cantilenante e ripetitiva, mi
fanno capire agevolmente che sta premendo per qualcosa. La secchezza delle
risposte dei ragazzi, la loro stanchezza, il loro sguardo a tratti slavato e a
tratti infuriato, mi fa dedurre che non siano d’accordo.
In una pausa dei discorsi degli altri, mi arriva
quella parola: avortement, come unafrustata secca e fragorosa.
Non devo essere certamente una madrelingua d’oltre Manica per intuire che cosa
significhi e per sbiancare un po’, reggendomi all’angolo del divano come se
stessi per cadere. Victorie guarda ad occhi sbarrati la madre, come se fosse
una specie di strega con lunghe unghie affilate piazzate sul suo ventre a
strapparle quel germe di vita bionda, poi si lascia trascinare via da Teddy
fino ad una nicchia tra credenza e poltrona in fondo alla stanza. Restano lì,
immobili, ad occhi chiusi come due cuccioli spauriti.
Non parleranno più, nel caos che li circonda.
Attorno, ovviamente, nessuno se ne rende
propriamente conto. Sono tutti impegnati nelle loro diatribe dialettiche, tutti
profondamente sicuri della loro verità e della loro assoluta residenza dalla
parte della ragione. George, con piglio spavaldo, sostenuto dalla moglie
Angelina, ribadisce netto che ci può anche stare che il bambino nasca e che se
ne prendano cura, ma che il matrimonio è una cosa da escludere per due
ragazzini. Non sapranno nemmeno che cosa vorranno l’inverno successivo e,
comunque, il piccolo è una responsabilità del padre, non di Teddy. Può amare e
curare sua madre, ma anche in una forma più leggera e meno impegnativa, così da
non avere più pesanti ricadute in futuro se dovessero lasciarsi. E con tutti
loro ad aiutarli, non ci saranno eccessivi problemi.
Dall’altro lato della barricata, invece, si
piazzano Harry e Ron: se il primo ha una fiducia smisurata in Teddy e nelle sue
decisioni, al punto da lodare continuamente la sua maturità ed assennatezza, il
secondo invece fa del mantra dell’inviolabilità degli impegni presi la sua
bandiera e vessillo. La gradazione degli impegni, secondo mio marito, va da
quello con Victorie, che era comunque la sua ragazza sebbene non nel frangente
storico della relazione che ha generato la gravidanza, a quello verso il
bambino, ad uno più generale verso l’idea di una famiglia che probabilmente ci sarebbe
stata lo stesso.
La giovinezza dei ragazzi è uno specchio a
doppio fondo: se per Angelina e George è il discrimine di un’immaturità a
prescindere, per Harry e Ron è invece qualcosa che non corrisponde ad un’acerba
imprevedibilità. Se per i primi tutto è volatile come aria, per i secondi tutto
è scolpito come roccia.
Solo dopo qualche minuto, mi rendo conto che
Ginny è comparsa al mio fianco come una nebbia rossa di silenzio. Non ha mai
parlato da quando sono entrata.
Mi fa un sorriso stanco e flessuoso di pensieri
tutti suoi, sussurrando nel chiasso: “Sono alquanto sorpresa, Hermione Granger.
Non hai ancora detto una sola parola. Possibile che tu non abbia un’opinione a
riguardo? Ce l’hanno tutti, persino Birillo il cane, e tu no?”. Sorrido
a mia volta, stendendomi meglio con la schiena sul divano e chiudendo gli occhi
per un attimo: “Nemmeno tu hai detto nulla”.
“Le mie opinioni sarebbero state mere bestemmie
di fronte all’impossibilità di questa famiglia di non interloquire con un tono
di voce da Concorde in fase di decollo…” commenta piccata Ginny,
strappandomi un altro sorriso mentre la guardo di lato “Ma fa parte del mio
personaggio: sono la stronza sarcastica. Tu sei la pedante
risolutrice…”.
Mi sposto di tre quarti per guardarla in viso e,
contemporaneamente, togliere dalla traiettoria del mio orecchio le onde sonore
prodotte da Molly che sta ancora urlando con Bill.
Con il sapore del fiele in bocca, qualcosa
persino di più pesante della solita nausea mai del tutto scomparsa, ammetto con
calma: “Non credo di avere una vera opinione, Gin…”, scuoto il capo ignorando
lo sguardo di Ron che cerca da me sostegno in un alterco con George che non sto
nemmeno ascoltando, poi proseguo con voce flebile: “Sarà anche strano, ma è
così. Davvero non so che cosa sia la cosa giusta da fare…”.
“E ti fa impazzire come cosa, vero?” completa
per me Ginny, dedicandomi un nuovo sorriso tra il sarcastico e il comprensivo.
Un acuto di Angelina copre la sua voce nel finale, distorcendola.
Faccio una tenue smorfia annuendo lievemente con
il capo come a non darle troppa soddisfazione, cosa che la fa scoppiare in una
genuina risata. Ron guarda male entrambe, ma poi torna alla sua discussione, le
orecchie come due tizzoni ardenti, evidentemente offeso da non essere sostenuto
né dalla moglie, né dalla sorella.
Mi lascio quindi andare ad una veloce
riflessione mordendomi l’unghia del pollice.
Effettivamente, constato con una punta di
frustrazione analizzando mentalmente la pianura dei miei pensieri, non riesco
ad avere una chiara opinione. Tutto mi sembra sfuggente e viscido come anguille
di fiume sporco. Chiamo ancora in causa la stanchezza, ma in verità non penso
che sia questo. Sono perfettamente in grado di ragionare anche con il cervello
congestionato, è sempre stata una mia precipua e meravigliosa caratteristica.
Ora, ogni pensiero ha la consistenza stopposa della segatura.
Riesco a capire ogni punto di vista… ma nessuno
mi appartiene davvero.
Ammiro la maturità di Teddy e Victorie, ma mi
chiedo se non stiano agendo secondo uno schema prestabilito dai loro stessi
doveri confusi. Spio il loro amore come una rinsecchita zitella, ma temo sempre
che sia una cotta da adolescenti sopravvalutata. Aborrisco all’idea di
un’interruzione di gravidanza, ma mi chiedo se non sia il caso comunque di
tenerla in considerazione. Vedo il matrimonio come una cosa da adulti, eppure
al pensiero di una mamma che cresce un figlio da sola, ho la nausea.
È così tangibile quel pensiero che, con
risoluzione, sento solo di escludere a priori che Victorie resti da sola ad
affrontare questa cosa, a costo persino di stare assieme al padre del bambino
per semplice dovere. Aggrappandosi a lui. Se non si è madri non lo si può
capire… quanto a volte diventa necessario anche aggrapparsi con le unghie e con
i denti a chi c’è in quel momento, pur di far stare bene il proprio figlio.
A me non è successo, ho cresciuto i miei figli
con il loro padre accanto, ma c’è qualcosa di sorprendentemente morbido e
sanguigno dentro a farmi intuire cosa debba essere una cosa così, anche se non
lo so per esperienza.
Una sola persona che si improvvisa per sempre madre e padre, innamorata e
sconfitta, salvatrice e salvezza, vittima e carnefice, tradita e traditrice.
La testa mi vortica come se fossi nel pieno di
una tempesta di vento, la tengo a freno chiudendo gli occhi e toccandomi una
tempia.
Resta che, escluso questo particolare aspetto,
non ho nessuna opinione a riguardo. O meglio, sono contro qualsiasi punto di
vista sto sentendo.
Le voci scemano, si smorzano, si avvitano tutte
attorno a me come le spire di un serpente, perché ora tutti, persi nel loro
cortocircuito dialettico, si rendono conto che io non ho ancora espresso
un’opinione. E naturalmente si chiedono perché. E naturalmente sanno che sarà
quella l’opinione da battere, o da smontare, o viceversa da appoggiare con
tutte le forze.
E io resto come un pesce all’amo, incapace di
parlare, ma solo di aprire e chiudere la bocca come un stupido luccio. Le iridi
di Ron saettano ferite nella mia direzione.
A salvarmi, per fortuna, è il lungo suono un po’
tirato del campanello.
“Finalmente è arrivato Percy…!” commenta rapida
Molly, fiondandosi nel corridoio per aprire la porta, certa di avere uno
smisurato appoggio dal figlio più intransigente della nidiata.
Sospiro per l’inaspettata tregua, ma
evidentemente troppo presto, dato che Ron pensa bene di guardarmi direttamente
e chiedermi: “Mione… che cosa ne pensi tu?”. Lo fulmino con lo sguardo per
avermi di nuovo posta al centro dell’attenzione e medito con un improvvisa
risoluzione di spellarlo vivo non appena torniamo a casa. Penso naturalmente se
optare su una soluzione diplomatica, oppure su un ben più sentito urlo
generalizzato alla ripresa della calma, mentre Teddy mi sorpassa affannato e si
ferma a poca distanza da me davanti alla porta del salone, berciando un veloce
e caloroso: “Ciao zio”.
“Ci mancava anche Percy”, borbotto tra me e
me mentre mi tormento le mani in grembo sotto lo sguardo indagatore di Ron, che
indubbiamente vuole avere ragione su tutta la linea. Cosa che potrei anche
concedergli: però davvero una delle mie poche certezze è che non penso, come
lui, che Teddy e Victorie abbiano un impegno tale da spingerli automaticamente
al matrimonio. Una considerazione simile mi spinge solo ad arricciare il naso e
a trattenere il vomito di piccate contraddizioni. Ma potrei insomma concedergli
di avere ragione per una volta e sostenerlo, tanto per spirito di pace e
conciliazione.
Tutti gli sguardi sono ancora puntati su di me e
sulla mia assoluta incapacità di parlare, mentre Teddy continua bellamente ad
intrattenere l’ignorato Percy: “Come sta zia? Tutto a posto? Riesce ad alzarsi
dal letto?”. Arriccio il naso aggrottando le sopracciglia sotto la sequela di
sguardi perforanti. Perché non pensano ad Audrey che ha la febbre, o che so o,
e non riesce ad alzarsi dal letto… invece di pensare a me?
“Sta bene, Edward… ma non così tanto da
liberarmi dal tedio abbastanza paralizzante di essere stato costretto ad
entrare in questa elegante magione. Ti ringrazio davvero ragazzo
dell’invito, la tua solerte premura ha alleviato quella quarantina di
contrazioni intestinali che ho avvertito nel tragitto fin qui… e dire che alla
precipitosa chiamata della mia cara genitrice preconizzavo un blocco renale.
Quindi possiamo concludere che sia una meravigliosa giornata di insperate
fortune… ”.
Avverto immediatamente qualcosa di strano nella
voce di Percy, che mi fa chiudere le labbra quando stavo già tentando di
rispondere a Ron. Lui mi guarda in attesa con espressione nervosa, aspettando
delle rade parole che io invece ho già dimenticato. Non intendo subito che cosa
ha detto Percy, ma solo il tono di voce profondamente diverso con cui le ha
dette. La voce di Percy la so a memoria: è strillante, acuta, pedante e
profondamente troncata sugli accenti. Questa, invece, è diversa. Lenta, roca,
strascicata sulle finali come se fosse sempre convinto che non stai mai capendo
che cosa sta dicendo e ciò lo irritasse enormemente. È una voce dal timbro
chiaro, preciso, come una campana ridondante che impone attenzione e riverenza.
Dall’accento inesistente, plasmato da una imposta dizione aristocratica e
nobile.
Un accenno di nausea mi risale senza motivo
dallo stomaco, corrodendo l’esofago come se fosse acido: mi chiudo le labbra
con una mano come a frenare il conato che, invece, si intensifica e mi dà
l’impressione che mi stiano rivoltando come un calzino. E forse a quel punto
che noto istantaneamente che la stanza è calata nel più profondo silenzio, una
bella differenza abissale rispetto al caos di poco fa.
Mi sporgo oltre la sagoma di Teddy che mi
bloccava la visuale della porta, e la prima cosa che riesco a fare è chiedermi
se non ho appena avuto un ictus celebrale asintomatico.
Penso che sia una cosa abbastanza normale temere
della mia salute, visto chi ho davanti agli occhi.
La mia voce si blocca in gola, mentre riconosco
la figura davanti a me.
Ecco perché riconoscevo la voce, ma al contempo
mi sembrava diversa da quella di Percy Weasley.
Accanto ad un’atterrita Molly, intenta a ridurre
ad una palla informe il grembiule sporco di sugo che ancora indossa, è comparso
misteriosamente ed inaspettatamente Draco Malfoy.
Continuo a guardarlo senza ritegno come se
pensassi che fosse una specie di visione, d’altronde si inserisce nel panorama
del salotto dei miei suoceri come si inserirebbe un eschimese nel cuore della
foresta pluviale. È ovviamente fuori posto, come se fosse sbagliato tutto
accanto a lui. Persino io. Ogni cosa di me stona accanto a lui. Donna,
babbana, mezzosangue, povera, castana... Lui è il contrario di tutto questo.
Trattengo ancora il conato di nausea, rendendomi conto che non può essere un
mio cortocircuito mentale da stanchezza o un improvviso aneurisma, visto che
anche gli altri sono ammutoliti e lo stanno guardando nella mia stessa identica
maniera.
Del resto mi sembra ovvio: che diamine c’entra
lui qui, adesso?
Spiandolo sotto le ciglia, seminascosta da Teddy
ancora in piedi davanti a me, mi do pena di osservarlo meglio mentre lui è
ancora intento con lo sguardo a soppesare Teddy stesso, non degnando il resto
della stanza della benché minima attenzione. Forse è la prima volta da anni che
lo rivedo da così vicino, credo di averlo incrociato spesso, ma sempre a
distanza per fortuna.
Al binario 9 e 3/4 quando avevo accompagnato
Rose per la partenza per Hogwarts, non ci avevo prestato molta attenzione. Era
avvolto dalla nebbia del fumo del treno, era distante… solo Ron con il solito
astio lo aveva guardato bene dandomene un ritratto completo appena tornati a
casa, accentuando che stava cominciando a stempiarsi anche lui.
Tutti i soldi che ha non possono comprare dei nuovi capelli! Esiste una
giustizia divina!
Noto, invece, che non credo esattamente che
stesse perdendo capelli, ma che forse abbia deciso volontariamente di tagliarli
molto corti, quasi rasati, magari in un impeto di giovinezza tardiva. Cosa che
decisamente ha funzionato, sembra esattamente lo stesso dei tempi della scuola.
La fronte spaziosa che è sempre corrugata, le labbra sottili arricciate in una
smorfia di fastidio, e poi quell’indiscusso talento di riempire le stanze. Non
so come definirlo, è una sensazione particolare, mi ricordo che l’aveva anche
Viktor… come se ti schiacciasse contro le pareti per fare posto alla sua
persona. Porta con eleganza un cappotto nero di panno pesante, che
probabilmente, vista la fattura, costa quanto il mio intero appartamento. Il
collo alto enfatizza i tratti appuntiti del suo viso facendomi notare che
sembra dimagrito.
Risalgo la linea degli zigomi fino agli occhi.
Con uno scoppio dentro lo stomaco che mi spinge di nuovo a chiudere le
palpebre, mi accorgo per la prima volta forse in decenni che non ha gli occhi
di uno slavato azzurro sbiadito come ho sempre pensato. Sono occhi… grigi.
Come il colore della mia sciarpa. Sembrano perennemente in tempesta.
Un paio di occhi tempesta.
Questa piccola constatazione innocente mi mette
a soqquadro le viscere come non mai. Resto ad occhi chiusi come se cercassi di
ancorare me stessa ad un qualsiasi punto che mi renda ferma, salda, immobile.
Ma tutto sembra vorticare senza sosta. Draco Malfoy ha gli occhi grigi.
Occhi grigi. Non ho mai conosciuto qualcuno con gli occhi grigi. Come se
piovesse ad aprile. Come una notte di pioggia in aprile.
Quell’associazione banale di idee è peggio di
tutto il resto, ho l’impressione che rimetterò a breve. Confusa, cerco a
tentoni la bacchetta in tasca, pronta a pronunciare un Incantesimo che ho
appreso da una mia collega a pranzo, quando di nuovo la nausea mi faceva
impazzire. Non trovo subito la bacchetta e ricordo di averla lasciata in borsa,
nell’ingresso. Imprecando mentalmente, riapro gli occhi perché con le palpebre
chiuse la nausea mi fa davvero sentire come se fossi in una barchetta in mezzo
al mare, e cerco di nuovo di acclimatarmi al clima circostante, respirando con
la bocca per fermare i conati. Non passano, ma almeno migliorano, attorno a me
per fortuna nessuno si è accorto di niente. Sono ancora tutti intenti
nell’esame di Malfoy, ed anche io fingo di non aver mai smesso di guardarlo.
Anche se adesso, per una buffa precauzione
sciocca, evito di guardarlo negli occhi per una seconda volta, come se fosse un
maledetto serpente che potrebbe ipnotizzarmi.
Malfoy esamina tutta la stanza a grandi occhiate
nervose come se stesse esaminando e comparando i mobili per un acquisto
scadente, per poi tornare inquieto ed innervosito a Teddy, sbuffando con
sussiego. Poi, come se qualcosa lo avesse punto alla schiena, si sporge
lievemente a sinistra del ragazzino, come se solamente adesso mi avesse notato
seduta sul divano. Mi guarda per qualche secondo con espressione indecifrabile,
sento il grigio di quelle lame contro il mio viso e, per qualche strano motivo,
adesso non distolgo prima il viso. Penso per sfida.
So solo che, quando si stacca con lo sguardo da
me, mi accorgo di tornare a respirare. La nausea per un attimo mi acceca,
medito persino una fuga in bagno.
Poi, restituendo uno sguardo rassicurante a Ron
che si è reso conto della mia manovra, finalmente passa.
Quando torno a guardare Malfoy come tutti gli
altri, lui ha di nuovo la sua espressione consueta, quell’aristocratica che
pare infastidita per l’esistenza stessa del mondo circostante. Lascia cadere
lungo il fianco un braccio, dopo che la mano destra aveva stretto in modo
febbrile la stoffa del cappotto all’altezza dell’addome, forse per uno spasmo
di nervosismo. Suppongo, del resto, che non deve essere facile per lui stare
qui. Figuriamoci, ci considera ancora la feccia della razza umana. Ciò mi rende
ancora più curiosa sul motivo per cui è piombato qui.
Ripercorro mentalmente ciò che ha detto appena
entrato, in cerca di una risposta, cercando di distrarre il mio corpo dal
malessere sempre in sottofondo.
E constato una cosa ovvia che mi lascia
abbastanza sconcertata: sembra che sia stato Teddy a chiamarlo. Malfoy infatti
si è rivolto solo a lui, ha parlato di un invito, ha risposto a convenevoli
sullo stato di una zia. Chi sia, naturalmente, mi sfugge… specie perché
Teddy ha appellato Malfoy in modo abbastanza affettuoso.
Lo ha chiamato zio.
Come chiama Harry, Ron, Percy, George, Bill e
Charlie. La sua famiglia.
Con una punta di rammarico, mi rendo conto che
tecnicamente è più Malfoy la sua famiglia che noi. Sono mezzi imparentati, sua
nonna Andromeda era la sorella di Narcissa Black. Con noi, non ha nessun legame
di sangue. Quel sangue stesso, però, è un sangue sporco, impuro, lercio. O
perlomeno Malfoy dovrebbe pensarla così, stiamo sempre parlando di un ragazzino
con sangue di lupo mannaro nelle vene, mutaforma, figlio di mezzosangue ed
amico di nati babbani e Weasley. Malfoy, invece, inaspettatamente si è rivolto
nella più classica delle maniere al ragazzo: è stato sarcastico, pungolante, ma
non in modo perfido. Lo ha anche confidenzialmente chiamato… Edward.
Ma certo… concludo con ovvietà, appannata
dalla stanchezza Il suo nome completo. Figuriamoci se Malfoy può chiamare
qualcuno con un nomignolo o un’abbreviazione.
Secondo me appella anche suo figlio in quel modo ridicolo, ma completo.
Scorpius.
Sicuro che chiama tutta la gente senza alcuna abbreviazione. Specie… quelli
a cui tiene, come se gli desse maggiore peso così.
A rompere il silenzio che è calato a grandi
maglie su di noi è naturalmente Ron, punto sul vivo dalla presenza del vecchio
nemico proprio nella sua casa. Vedo distintamente come segue lo sguardo grigio
dell’uomo che saetta su tutti i particolari più infidi dell’abitazione: dal
copridivano rammendato alle tende color bianco stinto, fino ai capelli privi di
messa in piega di Molly.
“Che diamine ci fai qui, Malfoy?” borbotta Ron
al suo indirizzo, le orecchie già in direzione del violetto “Ci contavo a
rivederti a giugno…”. Teddy contrae le spalle, probabilmente messo in allarme
dal tono di voce di mio marito, che preannuncia fulmini e tempesta. Fa per
aprire la bocca, ma la richiude subito come sotto uno spasmo involontario. Si
limita a guardare Victorie, come a comunicarle un solitario pensiero interiore,
comprensibile solo da loro due. Quando mi volto a guardarla, però, la ragazzina
bionda mi pare impassibile. Resta a testa bassa, persa nei suoi pensieri.
Malfoy ha fatto un solo singolo passo come se
volesse palesare maggiormente la sua presenza: ha la stessa andatura lunga ed
autoritaria che ricordavo ai tempi di scuola. Si massaggia distrattamente la
porzione di fronte sopra il sopracciglio sinistro, appare stanchissimo e
nervoso, freme lievemente la pelle del suo collo come se ansimasse in preda
all’irritazione. Poi respira a lungo cercando di calmarsi ed ingiunge in modo
meccanico, ignorando palesemente Ron: “Edward, mi faresti la cortesia di
spiegare la questione ai nostri gentili padroni di casa? Non serve
conoscere la mia biografia per sapere quanto sia alquanto improbabile
che ci intratteniamo piacevolmente chiacchierando della temperatura
eccessivamente rigida di questi giorni o dei nostri programmi natalizi…”, fa
una pausa studiata come ad aspettarsi una reazione che naturalmente non arriva.
Continua con voce più bassa, quasi vellutata: “Mi faciliteresti davvero le
cose, ragazzo…”.
Teddy d’improvviso si accende come una candela,
emana una luce tenue di speranza che non so davvero che motivazione abbia:
persino i capelli, come vittima di un’eccitazione improvvisa, trovano riflessi
di oro giallo trasformandosi. Malfoy li guarda senza battere ciglio,
confermandomi che non è la prima volta che vede Teddy cambiare il suo aspetto.
Ha ereditato questo aspetto da Dora, da sua madre, ma non la propensione alla
trasformazione ad ogni piè sospinto che aveva lei. Sin da ragazzino Teddy lo fa
di rado, quasi sempre involontariamente, tipo quando si emoziona per qualcosa.
Per il resto lascia le trasformazioni solo ai
momenti di gioco con amici e cuginetti. È una cosa che non gli è mai piaciuto
fare, sembro un pagliaccio zia!
Teddy è sempre stato un ragazzo pensoso, un po’
malinconico in alcuni frangenti. Somiglia molto di più a suo padre che a sua
madre.
Malfoy chiude gli occhi come se sapesse anche
questo, e notasse quindi la trasformazione come un evidente segnale di
nervosismo o agitazione in Teddy. Scatta quindi un nervo sottopelle vicino alle
labbra che contrae, mentre sembra prepararsi a rispondere ad una domanda che
nessuno ha sentito, ma che sembra che Teddy gli abbia fatto capire
distintamente.
Infatti Malfoy dopo pochi secondi riprende a
parlare con voce scandita e decisa, come se fosse rimasto da solo con Teddy e
noi non esistessimo più: “Mia madre ha una sua opinione. Che non ha mancato di
farmi conoscere, sviscerandone ogni particolare e riflesso…”, prende fiato
prima di proseguire, fissando Teddy direttamente negli occhi mentre il
ragazzino trattiene il fiato. Malfoy fa un sorriso sbilenco, storto, inseguendo
un pensiero tutto suo prima di aggiungere lapidario: “Non te la farò conoscere
la sua opinione. Non te ne devi sentire rincuorato o scoraggiato. Penso che
tu sappia o immagini che, visto come stanno le cose, dovrai decidere le cose da
solo d’ora in poi. E se non l’hai ancora capito, credo che siamo di fronte ad
un enorme problema ben più grave di tutto il resto…”, Malfoy studia per un
attimo il volto di Teddy come a sincerarsi della sua attenzione devota. Il
ragazzino trattiene il fiato, poi annuisce in modo grave con il capo. Malfoy
ancora si lascia andare ad una piega delle labbra che somiglia ad un sorriso
statico, continuando monocorde: “Puoi quindi ragionevolmente dedurre che non
saprai nemmeno che cosa ne penso io, ragazzo. Sarò qui solo ad accettarmi che,
qualsiasi cosa tu decida, l’onore della famiglia ne venga tutelato… è quello
che in fondo vuole mia madre. Ed è quello che in fondo ci avrebbe chiesto di
fare Andromeda…”, nel silenzio che regna sovrano nella stanza, come se le
parole di Malfoy avessero lo stesso potere della sua persona e cioè di
schiacciare tutte le altre contro le pareti non lasciandole respirare,
riconosco agevolmente il nome della nonna di Teddy. Una spia ulteriore di
curiosità si accende nel fondo del mio cervello ricordando che Cissy e sua
sorella non erano in buoni rapporti. Assolutamente.
Ora, Malfoy la nomina con nonchalance e calma,
persino con il suo nome di battesimo.
I miei occhi confusi incontrano casualmente
quelli di Harry che, a sua volta, fa spallucce e mi testimonia che anche lui,
come me, non ne sa assolutamente niente. Ha una piega strana degli occhi,
Harry, somiglia a cenere rappresa. Forse somiglia ai miei di occhi. Perché entrambi,
che pure così tanto amiamo questo ragazzino, comprendiamo che ha tutto un mondo
dietro che non conosciamo affatto. Un mondo cucito pezzo per pezzo su di lui
attraverso un’appartenenza di sangue che mai avrei giurato.
Mi sento in fondo tradita per non aver mai
conosciuto tutto questo.
Mi chiedo perché Teddy abbia sempre taciuto
questo legame, da quanto duri, come si svolga. Mi chiedo spaventata se Malfoy
non lo abbia trattato male e, un secondo dopo, mi rendo conto che è quello il
motivo per cui non ne sappiamo nulla.
Il sapore di segatura in bocca che è il pensiero
che Malfoy possa fare del male a Teddy.
Gli sguardi di questa stanza che non lo lasciano
in pace. Il silenzio alle sue parole. La ricerca malata di qualcosa che non
vada.
Non avremmo mai accettato che Teddy
riagganciasse con la sua famiglia d’origine. Lo avremmo protetto e la sola
protezione davvero efficace sarebbe stata impedire ogni contatto.
Teddy, invece, ne aveva bisogno. E ha tradito
noi tenendo fede a sé stesso. Con una punta di fierezza per la sua forza e
coraggio, per la sua contrapposizione al clan che nemmeno a me riesce così
bene, osservo superficialmente che d’altronde Malfoy lo tratta con enorme
rispetto e cura. È evidente.
Non lo guarda come guarda noi: ha gli occhi più
calmi, l’atteggiamento pacato, un’ironia spuntata di leggerezza e confidenza.
Si fa chiamare zio con la massima naturalezza possibile.
Forse, e mi sembra una contraddizione pensarlo,
Malfoy vuole persino bene a Teddy. Mi sembra così strano da darmi le vertigini.
Ed è allora che un’altra domanda fastidiosa mi tiene la mente ancora occupata,
impedendole di staccarsi dalle sue riflessioni.
Ma a me, in fondo, chi me l’ha mai detto che Malfoy non ha voluto bene a
nessuno?
Sbatto le palpebre un paio di volte a quel
pensiero come a scrollarlo e a cacciarlo fuori dalla mia testa: è un pensiero
fondo, viscoso come petrolio. Mi ingolfa la mente come se volesse bloccarne gli
ingranaggi, rendendo tutto straordinariamente bianco. È assurda come sensazione
e, di nuovo, la nausea risorge come un pericoloso vento malato nel mio basso
ventre. Mi massaggio la tempia con calma cercando di escludere quella
sensazione e, con flemma, faccio passare quel gesto per stanchezza in modo che
non se ne accorga nessuno. Ron per fortuna mi dà le spalle ed è troppo
impegnato a guardare in cagnesco Malfoy per accorgersene. Sollevo lo sguardo
quando credo che sia tornato limpido, concentrandomi di nuovo sulla scena di
fronte a me.
Sussulto con un lieve balzo dello stomaco, gli
occhi di Malfoy sono puntati nei miei con una ferocia spavalda che non
comprendo, ma che mi incenerisce la pelle. È questione di pochi secondi, ma ho
l’impressione chiara di essere in apnea. Segue la linea delle mie dita che
lasciano la tempia, chiude gli occhi e sbuffa un po’ con il naso, prima di
soffiare fuori con voce bassa: “… così saremo definitivamente pari, Edward…”.
La voce di Malfoy, di solito così strascicata e lenta da darmi i nervi, è
stavolta frettolosa e distratta come se volesse far sfuggire quelle parole
lontano, veloci, quasi senza accorgersene. Mi chiedo ancora perché, prima di
dirmi che in fondo non è che me ne interessa granché e che forse vedo in Malfoy
più di quanto pensi. Il motivo, penso con un’improvvisa illuminazione, è la
deformazione professionale delle indagini di Hogwarts quando lo credevamo
capace di qualsiasi azione malvagia, a cui si aggiunge un innato istinto di
protezione verso Teddy.
Evidentemente, però, nonostante la mia
attenzione, qualcosa ha comunque ferito Teddy nel sottotesto della loro
conversazione. Mio nipote affloscia le spalle, prima di soffiare fuori con una
vena di delusione infantile che diventa quasi un broncio: “E’ solo questo,
allora, zio? Parliamo ancora di quella vecchia storia?”.
Naturalmente non ci capisco nulla e me ne
rammarico molto: non intendo del resto restare ancora molto in questa
ignoranza. Appena Malfoy schioda, Teddy mi sente. Così impara a fidarsi di
personaggi del genere. Gli racconterò un bel paio di episodi da far accapponare
la pelle, così capisce con chi ha a che fare. I piedi mi formicolano nella loro
immobilità, mentre mi innervosisco al silenzio di Malfoy e allo sguardo
corrucciato di Teddy, cieca del resto della stanza ma solo vogliosa di mollare
un ceffone in viso a quella serpe.
Non è una sensazione nuova. L’ho provata per
anni, è solo andarmene di dejà vu. Mi mancava, oserei persino dire.
Dovevo mantenere i rapporti solo per trattarlo
come palletta antistress.
Mentre lo fisso come se lo volessi impalare
all’istante, mi accorgo che le labbra di Malfoy si sono piegate in una specie
di sorriso che forse, anche a chiamarlo così, si sbaglierebbe. È solo una piega
sfuggita della bocca mentre lui chiude gli occhi grigi. Si sistema meglio il
colletto del cappotto, rivelando un pesante anello di oro bianco con una gemma
nera all’anulare. Si avvicina a Teddy, gli poggia una mano sulla spalla
chiudendo forte le dita, vedo persino i polpastrelli affondare nel suo maglione
azzurro mentre lui lo fissa negli occhi con una punta di timore. Malfoy, non lasciando
un attimo gli occhi di Teddy, dice piano con voce autoritaria rivolgendosi a
Bill che è immediatamente alla sua destra: “Weasley-quasi-accettabile-socialmente-se
non fosse per quelle-orrende-cicatrici-da-competizione-con-Potter, passami
una sigaretta… o mi faccio di nicotina, o non resisto fino alla fine di questa deliziosa
serata…”.
Bill, troppo intontito per rispondere in modo
diverso da un semplice assenso, estrae dalla tasca una sigaretta che porge a
Malfoy che l’accetta ancora senza guardarlo, prima di lasciare la spalla di
Teddy che finalmente sorride scuotendo il capo quasi incredulo. Malfoy con la
massima flemma di questa terra come se fosse a casa sua, si riabbottona il
cappotto fino al mento ed esce sulla terrazza, chiudendola poi alle sue spalle.
Prima di sparire alla mia vista, lo sento mormorare un saluto cortese
all’indirizzo di Fleur, sempre ferma davanti alla portafinestra: “Buonasera Delacour”.
“SciaoDracò” risponde lei distrattamente ma assolutamente normale
nel tono, cosa che causa anche in Bill una torsione innaturale del busto per
guardare in viso la moglie, che indifferente fa spallucce.
Il rumore della finestra accostata che chiude
fuori Malfoy assieme ad una folata gelida di vento di dicembre, ci risveglia da
quella specie di torpore che ha portato la sua presenza. Sono successe circa
duemila cose che non abbiamo capito appieno e che sembrano uscite da un film di
fantascienza.
Credo di aver anche rimosso la questione della
gravidanza di Victorie. Malfoy me l’ha tolta completamente dalla testa.
Penso che sia successo un po’ a tutti nella
stanza considerando che appena lui esce, esplodono domande e scoppiettano
imprecazioni.
Capitano del tumulto è naturalmente mio marito
che interroga Teddy per sapere che diamine ci faccia Draco Malfoy, 36 anni,
Purosangue ed uno dei più grandi stronzi della nostra generazione, a fumare
tranquillamente sulla terrazza della Tana come se fosse un gentile ospite
invitato a prendere il tè del pomeriggio.
Anche Bill sottopone sua moglie ad una veloce interrogatorio
sul saluto riservatole da Malfoy e sulla sua risposta assolutamente non
scandalizzata ma anzi quasi calorosa. Fleur non si scompone nemmeno per un
secondo, replicando stanca ed annoiata dall’accesso di gelosia del marito: “Dracò frequentava mia cugina Denise prima di sposare
Astoria. Mi pare normale che lo conoscessi anche io… non essere ridiculeaveccettejalousie… ”. Mi scappa
un sorriso nonostante tutto alla nonchalance di Fleur e all’espressione di
Bill, punto decisamente sul vivo.
Posso persino arrivare a comprendere
l’irritazione di Bill: contrariamente a quanto può pensare Ron e continuare a
ripetere tra le sue invettive, Malfoy è ancora decisamente un bell’uomo. Non
sono cieca, anzi mi vanto di essere decisamente obiettiva. Quindi sì, Malfoy è
il diavolo incarnato… o quasi. Ma è decisamente un bell’uomo. Pochi fili grigi
sono spuntati tra i corti capelli biondi e stranamente sembrano averne trovato
dimora in modo armonioso. Ha ancora lo sguardo tagliente dei tempi della
scuola, cosa che conferisce vivacità alla sua espressione facendolo sembrare
più giovane. Non ha sicuramente l’aspetto appannato ed offuscato che ho invece
io, ecco. Ha mantenuto un fisico asciutto forse perché probabilmente è ancora
dedito a qualche specie di sport, d’altronde era un buon Cercatore per quanto
ne possa aver capito io ai tempi. La maturità, giunta in ritardo, ha sopperito
alla scarsa altezza che aveva fino ai diciassette anni, adesso torreggia molto
di più sulle persone di quanto comicamente potesse fare prima. Veste sempre in
modo impeccabile, non credo di averlo mai incrociato vestito in modo meno che
inappuntabile. È ancora ricchissimo, dato che ha sommato al suo discreto
patrimonio i proventi legati al fatto che, negli anni, è diventato uno Pozionista di chiara fama.
Per la serie: piove sempre sul bagnato. Leda ci si fionderebbe sopra come
una mosca sul miele. Dubito che non ci abbia già provato.
Difficile non accorgersene però di quanto la
guerra abbia lasciato delle impercettibili tracce anche su di lui. Penso che
sia una cosa ampiamente assodata che la mia generazione abbia ricevuto
un’eredità di tic nervosi, cicatrici nascoste, incubi ricorrenti o lievi
zoppie. Sono imperfezioni persino accolte con grazia e gratitudine, se sono
tangibili segni di sopravvivenza a merito ed onore di chi invece non ce l’ha
fatta.
Malfoy, sicuramente più di molti, deve avere un
intero armadio pieno di scheletri bellici, sebbene la postura autoritaria,
l’aria strafottente e i modi aristocratici facciano supporre il contrario.
Esteriormente, forse ora che mi sono data più pena di osservarlo vista la
stranezza della sua presenza qui, ho notato subito una caterva di piccoli segni
bianchi sulla mano destra, come delle piccole escoriazioni rimarginatesi male e
un’impercettibile indecisione dello stesso braccio quando si muove. Sembra
stranamente essersi più acclimatato all’uso del braccio sinistro.
Mi stupisco della quantità di dettagli che ho
notato in pochi istanti, ma concludo con una punta di isterico infantilismo
che, sebbene i tempi siano cambiati, sono una sorta di sua nemica naturale.
Alla fine credo che i nemici siano quelli che ti conoscono meglio. Un nemico ti
studia a fondo per scorgere ogni tua debolezza; invece un amico è intimamente
terrorizzato dall’idea di trovarne una in te, tale da farlo desistere dallo
starti vicino. Quindi, credo di conoscerlo bene Malfoy, le sue espressioni, i
suoi gesti e i suoi sguardi.
Non che lo vedi spesso, mi capita sempre di
sfuggita nel campo visivo della mia vita, però in quel modo solenne che ti si
imprime negli occhi. Vuoi per la sua persona svettante, vuoi perché mi annoto
con riflessi tardoadolescenziali se si stia comportando bene, vuoi perché dalla
fine della guerra ha assunto l’abitudine a riservarmi almeno un cenno di saluto
a cui, mio malgrado, per educazione rispondo… vuoi per tante cose, ma
sicuramente è una persona che, osservandola, conduce a molteplici riflessioni,
fosse pure sul tempo che passa o sulle persone che cambiano.
Draco Malfoy tutto sommato è cambiato appunto,
assumendo una nuova rispettabilità borghese che non ha nulla da invidiare a
nessuno: si è impegnato e sforzato, ha ingoiato rospi amari come case, ma alla
fine ha scollato la sua immagine da quella del Mangiamorte che quasi assassinò
Silente. È ancora oggetto di pregiudizi e dubbi intendiamoci, e giurerei che
sia rimasto una persona odiosa.Ma al
momento credo che sia solo uno stronzo snob, non un razzista bigotto: sono
soddisfazioni, dato che frequenta Teddy a quanto pare.
Credo che, a pensarla come me, siamo sia io che
Harry. Forse Harry ha qualche riflesso persino di una maggiore positività
quando si tratta di Malfoy, forse per il contraccolpo della bugia di sua madre
quando mentì a Voldemort sulla sua morte, cosa che a conti fatti ha davvero deciso
le sorti della guerra e della sua stessa vita. Naturalmente questo si
ripercuote anche su Ginny, grata della salvezza del marito.
Caso diverso è invece Ron che, per motivi tutto
sommato comprensibili, non ha mai smesso di detestare Malfoy. In fondo parliamo
del bulletto idiota che per tutti gli anni della scuola lo ha sempre trattato
come uno straccione, assieme alla sua famiglia. Ron era un Purosangue, ma forse
ha avuto il peggiore trattamento tra noi tre perché Malfoy premeva su aspetti
che per Ron sono sempre stati delicati, riguardando la sua famiglia nella
logica da clan su cui riflettevo poco fa. E naturalmente in poche disgustate
espressioni facciali, Malfoy ha mostrato chiaramente di non aver assolutamente
rinnegato quel lato. Può anche aver formalmente abiurato alla superiorità dei
maghi Purosangue, anche se ci scommetto che continua a fare enormi distinguo
tra i maghi stessi, ma non per questo non considera i Weasley una massa di
abominevoli teste rosse che disonorano il buon nome della comunità magica con
la loro ridicola insulsaggine, la loro chiassosa povertà e la loro scanzonata
modestia.
Comprendo quindi perché Ron, da quando Malfoy è
uscito, ha misurato la stanza a grandi passi borbottando a denti stretti e
calciando sedie e tavoli. Molly cerca in modo tattico di offrirgli una tazza di
tè al gelsomino, bevanda assunta sempre da mio marito per calmarsi, ma Ron la
ignora continuando a camminare e a gesticolare spazientito, le orecchie in
fiamme. Harry motteggia al suo indirizzo poche parole di rassicurazione che
però non hanno presa e gli altri sono bellamente presi dai loro affari e dal
ritorno pressante della conversazione su Victorie e Teddy. Dal canto mio, credo
di lasciarlo sfogare per istinto di conservazione del nostro matrimonio. Quando
si tratta di Malfoy, Ron diventa abbastanza odioso e cocciuto, ben più del
biondo che almeno solitamente non sento parlare.
Alla fine, sgonfiato come un soufflé andato a
male, Ron decide di dirigere la sua invettiva contro il colpevole
dell’intrusione di Malfoy nella sua casa. Si siede pigramente su una poltrona,
punta un dito contro Teddy con espressione stralunata e chiede con una punta di
feroce isterismo: “Perché Malfoy al momento è in casa mia a fumarsi una
sigaretta in terrazza?! Potrei avere una decente spiegazione?”.
Il fatto che tutti tacciano all’improvviso mi
ingiunge naturalmente a pensare che il punto era oggetto di curiosità di tutta
la stanza, persino più di cosa dovrebbero fare i ragazzi. Noto però con una
punta di rammarico il colorito grigiastro di Teddy, che evidentemente si
aspettava questa domanda ma quanto più tardi possibile. Se consideriamo
l’argomento delle conversazioni fino ad ora, comprendo quanto la cosa lo metta
in difficoltà se fino a poco fa è rimasto calmo e flemmatico. Persino Victorie,
che fino ad ora è stata un fantasma di assente raccoglimento interiore, chiude
la mano piccola sul polso del fidanzato, rendendo visibile alla luce del
lampadario l’anello di plastica rossa che porta come simbolo del loro
fidanzamento.
Mi fanno una tenerezza tale che, in notevole
ritardo, mi alzo in piedi e chioso severa verso mio marito: “Ron datti una
calmata. Siamo tutti stanchi e provati dagli eventi della serata… mi
pare che la presenza di Malfoy sia proprio l’ultimo dei problemi… se Teddy lo
ha voluto qui, avrà le sue buone ragioni…”. Completo la mia tiritera sollevando
il mento fiera e sorridendo con dolcezza a Teddy che mi guarda con gratitudine.
Tutto ciò, però, si ripercuote sullo stato emotivo di Ron che mi dedica
un’occhiataccia raggelante tra le migliori del suo repertorio, quella insomma
da umiliazione di fronte alla sua famiglia e da conseguente scorno per
un’intera settimana. Sospiro lungamente ancora più stremata, preparandomi al
fiume di parole sconnesse che adesso mi dedicherà in preda alla rabbia, nonché
all’inevitabile tentativo di Molly di fare da paciere e a quello di Ginny di
sdrammatizzare, entrambe cose che rintuzzeranno di più sia me che lui.
L’ultima cosa che mi impongo di fare in un
ultimo singulto di buonsenso è insonorizzare con un incantesimo pigro la
portafinestra così che almeno Malfoy non abbia pure la soddisfazione di
sentirsi questo litigio in diretta. È un incantesimo che mi tocca fare almeno
una volta al mese, quando a Ron salta in mente di urlare come uno
straccivendolo per qualcosa e io temo che Ginny ed Harry sentano tutto.
Ron ha già spalancato la bocca per prendere
fiato che miracolosamente viene interrotto da Teddy che, in modo deciso, si dà
pena di intervenire e spiegare. La sua voce è calma, pacata, monocorde, eppure
ho l’impressione che sia contemporaneamente molto coinvolto da ciò che sta
dicendo. Le poche pause mi fanno dedurre che è un discorso preparato da tempo,
forse da prima della gravidanza di Victorie. I balbettii sommessi mi informano
di quanto abbia temuto fino ad ora di parlare di questa storia, forse con la
paura di essere giudicato e non capito, come del resto sta in parte accadendo.
Eppure, il tono stentoreo che usa per iniziare
impone un silenzio di tomba attorno a lui, ben più di quello che è accaduto
quando ha confessato della gravidanza.
Specie perché con una semplicità disarmante ha
proferito solenne: “Draco Malfoy aveva tutti i diritti di essere qui. È mio
zio. Esattamente come tutti voi”.
A quelle parole persino un po’ crudeli, che
impongono una somiglianza di cuore ed affetto a cui nessuno mai aveva
lontanamente pensato, ricado seduta sul divano in modo fiacco, aspettando come
tutti che Teddy continui a parlare. La sagoma di Malfoy, nel velluto nero della
notte, è appena percettibile. Sembra un’ombra che si mangia la luce. La guardo
per tutto il tempo dello scarno discorso di Teddy, come a cercare di far
collimare le parole del ragazzo con quella schiena dritta, altezzosa.
“Mi dispiace non avervene parlato prima. Era una
cosa che mi… terrorizzava. Se aveste pensato che io non vi fossi grato o
peggio che non vi volessi bene… voi… tutti… siete la mia famiglia. Nella
sfortuna di non avere genitori, siete stati tutto per me. La mia casa, quando
pensavo di non averla. Non mi sono mai sentito mai solo una volta in tutta la
vita… grazie a voi. Però… come spiegare… c’era sempre un buco dentro, ogni
giorno. Tutti avevano delle radici ben piantate, io nessuna: ero un seme felice
nel vento, ma se quello si fosse fatto più intenso e pericoloso, sarei stato
spazzato via. Voi… avete sempre avuto delle risposte per ogni mia domanda. Ma
c’erano alcune a cui non potevate rispondere. E paradossalmente quelle sono
diventate pressanti e pesanti nel mio cervello. Mia nonna… lei… capiva.
Ha sempre capito. Mi ha detto una volta: “farò di tutto per farti capire,
per piantarti un’ancora nel cuore così che tu non ti senta perso nel mondo,
bambino mio”. Avevo tredici anni quando cominciò con quella ricerca. Lei
era già… debole, stanca. Malata. Ma recuperava coraggio, forza, sempre.
Per me. Se sarà una bambina… se mia figlia lo sarà… sarà Andromeda
Lupin. Non potrebbe avere nessun altro nome.
“I Tonks superstiti erano pochi. Omuncoli e
donnicciole sparse in poche case rade nel nord della Scozia, non sapevano
nemmeno che esistevo. Ci offrirono un tè freddo in una casa umida, parlarono
brevemente di mio nonno come di un parente lontano e distante. Erano tutti
babbani, raccontai loro della morte eroica di mio nonno Ted, piansero molto
assieme a mia nonna. Mi ringraziarono di quel pezzettino di storia che non
sapevano. Andò peggio con i Lupin. Non vollero vedermi, sembravano ancora
terrorizzati dalla fama da licantropo di mio padre. Non me ne curai. Andammo
via, me ne dimenticai. Chi ricordava ancora mio padre come un semplice
licantropo, non meritava la mia attenzione. Incontrai anche qualche parente di
mia nonna paterna Hope, dalle parti di Cardiff.
Terminammo quel mese di viaggio con un senso di vuoto che ancora non se ne
andava. Per me pensavo che fosse normale, da orfano stavo sempre così o quasi.
Ci sapevo convivere bene. Per mia nonna, era una novità. Era tutto collegato ad
un nome che, come nell’idea del suo significato, era nero di risposte. I Black.
“Sapevo da voi la storia di Sirius. Avevo saputo
da mia nonna delle sue sorelle Narcissa e Bellatrix, di ciò che le aveva
divise, del disonore che lei aveva causato con le sue nozze alla sua famiglia,
delle simpatie per Voldemort, del matrimonio di Cissy con Malfoy e di quello di
Bella con Lestrange, della morte di Bella in guerra e della bugia al Signore
Oscuro di Narcissa. Ma erano solo racconti, parole rade di vergogna e di
ribrezzo che non mi davano soddisfazione, anzi mi incuriosivano di più come in
una sorta di attrazione fatale per una specie di oscurità latente anche in me.
Mia nonna… lei mi confessò di aver spesso ripensato a sua sorella minore.Di aver sperato che le ultime fasi della
guerra e quella bugia fossero segnali di un ravvedimento anche nei suoi confronti.
Si sbagliò di grosso. Narcissa non fece mai nulla per riavvicinarsi a lei, e
mia nonna si macerava nella nostalgia e nell’assenza, incapace tuttavia di fare
una cosa qualunque per rompere il ghiaccio, certa che sua sorella non avrebbe
mai voluto vederla. Io, nel mio piccolo presi a masticare libri su libri sui
Black, ad impararne tradizioni ed usanze, a conoscerne membri ed abitudini,
aiutato per come poteva da mia nonna. Non ero mai sazio, mai soddisfatto, come
se in quella mancanza avessi riversato tutto il resto. So adesso che fu solo un
ripiego, mi mancavano in realtà mia madre e mio padre come sempre era stato.
Solo che quella mancanza così aveva assunto una forma più accettabile. Persino
rimediabile. Persi parecchio tempo così, studiai di nascosto, terrorizzato che
lo sapeste. E poi arrivò il mio quattordicesimo compleanno, il 9 aprile di
cinque anni fa. Facemmo una festa qui. Ricordo dei palloncini blu cobalto. E
poi quel gufo… andammo via prima io e la nonna con mille richieste di scuse e
profusi ringraziamenti. “Una lontana parente reclama Teddy per un regalo!”.
Era la prima volta che sentivo una bugia uscire fuori dalle labbra di mia
nonna. Negli anni, poi, ho sempre pensato che in realtà non mentì. Ebbi davvero
un regalo quel giorno.
“Nella nostra completa ed ovvia ignoranza, nonché
nella storica riservatezza di quella famiglia, non avevamo saputo naturalmente
che, nel mese di febbraio, Narcissa Black era stata colpita improvvisamente da
un ictus celebrale. Restò in coma un paio di settimane, le diedero l’estrema
unzione perché convinti che non sarebbe sopravvissuta. Ed invece lei, ostica
come sempre era stata, si riprese. Da allora, è rimasta paralizzata dalla vita
in giù: ma è viva, combattiva, fiera. Come sempre è stata. Quando si svegliò,
raccontò a suo figlio e a suo marito che non aveva fatto altro che sognare una
persona, per tutto il tempo. Mia madre. Sua nipote Ninfadora. Non ha mai
detto granché di che cosa sognava, di come lei fosse, di che cosa avesse detto…
ma da allora, continuò ad insistere in modo pressante per incontrare me e mia
nonna. Non devo morire un secondo prima di questo momento. Passò del
tempo naturalmente, doveva tornare a casa prima e quella lettera arrivò solo il
giorno del mio compleanno, come un regalo. Mi sono sempre chiesto se l’abbia
fatto apposta. Lei… non mi ha mai risposto, per questo penso sempre che sia
così.
“Mia nonna e sua sorella parlarono per cinque
ore, prima che fossi ammesso nella stanza di Lady Malfoy. Era adagiata in un
letto rosso, spiccava come un fiore dorato. Accanto a lei, come due guardie
silenziose pronte a realizzare ogni suo minimo ordine e comando, c’erano Lucius
e Draco. Mi intimorivano, sembravano solo accondiscendere a quella pazzia di
Narcissa sebbene non l’approvassero. Lei mi fece segno di avvicinarmi, studiò
il mio volto con un attenzione maniacale, chiese sgarbatamente se fossi anche
io un mannaro. Mi incespicai con le parole e per tutta risposta i miei capelli
cambiarono colore, diventando celeste acquamarina. Scorpius, il nipote di
Narcissa, che era seminascosto dietro le gambe del padre, mi venne incontro
ridendo, smaniando per toccarmi i capelli. Cissy sorrise e fu come se un
respiro fu rilasciato tutt’assieme nello stesso momento. Mia nonna non fece
altro che piangere tutto il tempo, parlava e piangeva, rideva e piangeva,
giocava con Scorpius e piangeva. Io feci quello che potevo, intontito come mi
sentivo. E poi mi portarono il mio regalo: l’arazzo dei Black. C’era il mio
nome adesso. Non c’erano più bruciature adesso. C’era mia mamma, mio papà, mia
nonna, io. Sentii finalmente quelle radici attraccarmi alla terra, come mai
nella vita.
“All’inizio, con Draco e Lucius, fu difficile.
Narcissa era algida, caparbia, fiera. Ma ebbe subito una dolcezza tenace nei
miei confronti, figlia del perdono che aveva destinato alla sorella. Suo marito
e suo figlio, invece, sembravano considerarmi solo un intralcio nella loro
casa. Ci misi un anno intero a farmi accettare da loro, mentre andavo in
segreto a casa loro per visitare Narcissa e farle compagnia assieme a mia
nonna. Accadde per caso per me in un primo momento… ma oggi penso che lo fecero
apposta per vedere la mia reazione. Mi fecero assistere alla scrittura del
testamento di Cissy, cosa che mi fece diventare triste in un modo fin troppo
evidente, anche se fingevo di no. Non potevo immaginare di perdere già adesso
mia zia. Fu quello il segnale per loro, per Draco e Lucius. Capirono che ero
davvero affezionato a lei, che non mi importava del denaro: non mi ero mostrato
minimamente incuriosito da quanto sicuramente avrei potuto ereditare, per me
era peggiore la prospettiva di veder morire Cissy. Solo allora, davvero mi
accolsero in casa loro come un pari, evitandomi e proteggendomi anche dalla
vista della moglie di Draco, Astoria, che invece aveva sottolineato spesso di
considerarmi inferiore. A Draco, però, non importava. Per nulla. Prima per
scherzo e poi seriamente si è fatto chiamare zio, insistendo però per usare il
mio nome sempre al completo. Non sei un orsacchiotto, Edward. Ha preteso
in modo imperioso che gli presentassi Victorie. Ha insistito alla sua maniera
che firmassi per diventare il tutore di Scorpius. Mi ha imposto di accettare la
somma che mi aveva lasciato Lucius quando morì due anni fa. Tecnicamente… è lui
che paga la scuola. Non mia nonna, non i suoi risparmi… non ce l’avrei mai
fatta, altrimenti. Draco è stata la prima persona che ho chiamato quando è
morta la nonna. So che magari per voi suona incomprensibile, ed orribile, ed
ingrato… specie perché ve l’ho nascosto. Specie perché mai ne ho parlato. Draco
avrebbe sempre voluto che lo facessi, Weasley ci rimane sul colpo, diceva
sarcastico, ma per me è sempre stato impossibile. Impossibile, perché… temevo
che non capiste, temevo che mi giudicaste. So chi è. So chi sono. So chi è
stata mia zia Narcissa, so tutto del passato di Draco Malfoy. Ma sono la mia
famiglia, esattamente come voi. E se non potessi credere alla capacità di
cambiare cuore e vita, vuol dire che mia madre e mio padre non mi hanno
trasmesso nulla. Non sarebbero morti se avessero pensato che, dopo di loro, io
continuassi a credere nei pregiudizi e non cercassi di cucire una nuova vita
con tutto il mio impegno e sforzo, seguendo il loro esempio.
“Poco prima che mia nonna morisse fece
promettere agli zii non tanto di prendersi cura di me, perché per quello
sapevano che c’eravate voi… anche se comunque si affidava anche a loro perché
io fossi felice e al sicuro… ma voleva soprattutto che mi facessero sentire
davvero l’ultimo dei Black assieme a Scorpius. Che mi considerassero parte
integrante della storia di una famiglia che dura da secoli, e che mia madre non
aveva invece potuto vivere appieno anche nei suoi aspetti positivi. Loro… hanno
accettato, insomma. Alludevo a questo, a questa storia, prima, quando ho
parlato con lo zio… quando lui mi ha detto che così saremmo stati pari.
Narcissa considera la sua redenzione per il comportamento che ha avuto con mia
mamma, vincolata a stretto filo a quanto invece farà per me. Come se io fossi
una specie di risarcimento danni: certe volte mi scoccia, lo dico sempre che
sono storie passate e che ormai non hanno più importanza. Ma la zia è molto
seria in questo… e per il resto… so, insomma, che non è solo una riparazione
dei torti. A loro modo, in questo modo sarcastico e velenoso, loro… zia Cissy e
zio Draco… mi vogliono bene. Ed ecco che arriviamo a perché lo zio è qui… ieri
gli ho parlato e gli ho raccontato di me e Victorie. Se l’ho fatto prima di
parlarne con voi, è perché un Black deve ottenere una specie di approvazione
dal membro più anziano della sua famiglia per contrarre matrimonio. Ed appunto,
come vi ho detto, mi considerano tale adesso. Per fortuna conoscevo tutte le
tradizioni dei Black prima ancora di conoscerli… insomma il membro più anziano
della famiglia è il solo che può concedere un permesso per sposarsi.
Altrimenti, certo uno si può comunque sposare… ma non sarebbe un matrimonio
considerato onorevole. È quello che accadde alla nonna, o a mamma. Ed il primo
segnale per me che le cose sono cambiate era avere questo permesso… la zia era
come sempre a letto, non mi ha potuto rispondere bene perché adesso ha anche
difficoltà respiratorie, e non riesce a parlare. Quindi sostanzialmente ha
abdicato al suo ruolo in favore dello zio. E lui… a modo suo mi ha detto poco
fa di fare come credo che sia giusto. A patto che l’onore della famiglia sia
rispettato… su questo vigilerà lui. Penso quindi che vorrà partecipare ai
preparativi o a tutte le altre faccende, se non altro per rassicurare zia Cissy
che ci tiene molto a queste cose. Hanno conosciuto Victorie, a loro piace…
credo davvero che sia solo una cosa formale che lo zio verrà qui. Sento che… è
giusto così, in fondo. Così come, adesso che sapete tutto questo ed adesso che
sapete che anche loro ci potranno aiutare, dovreste essere certi che io e Vic
non finiremo in mezzo ad una strada. Siamo in grado di crescere un bambino,
siamo in grado di sposarci… ho già parlato con lo zio, so che lui si sforzerà
di non trasformare questa occasione in un tiro alla fattura. Me lo ha promesso.
Voi… potete fare lo stesso? Per me? Qualsiasi sia il modo in cui la pensiate…
non voglio essere costretto a scegliere da che parte stare. Non costringetemi a
doverlo farlo. Loro… non lo hanno fatto. Voi lo farete? Io… io non sono in
grado di poter scegliere. Non posso farlo. Per favore”.
Teddy finisce di parlare in un suono di gola che
somiglia ad un singhiozzo trattenuto, mentre Victorie lo accarezza ritmicamente
sulla spalla destra guardandoci con espressione torva ed arcigna. Per un attimo
non studio colpevolmente la testa bassa del ragazzino e le spalle tremanti che
vistosamente celano un pianto che non vuole lasciar sfuggire, ma mi fisso sugli
occhi di Victorie, su quel ceruleo trasparente che diventa oltremare torbido.
Penso di nuovo istantaneamente che sarà una moglie e madre con un istinto alla
protezione così spiccato da trasfigurare la dolcezza dello sguardo e
l’immaturità dell’età in modo prodigioso. Guarda tutti, compresi i suoi
genitori e nonni, con una punta di feroce orgoglio solo perché abbiamo toccato
di striscio Teddy facendolo soffrire. Figuriamoci quando ci sarà di mezzo un
figlio.
Una madre si cava il sangue delle vene per un
figlio. Lei forse farà persino di più.
Dovrebbe davvero avere l’occasione di essere
madre di questo bambino, anche se nato sotto un tempo acerbo. Lo penso davvero
ed improvvisamente.
Ed è la prima opinione che riesco finalmente a
formarmi.
La seconda invece prende sostanza nel momento in
cui mi rendo conto del silenzio che, dopo le parole di Teddy, non ha smesso di
gravare nella stanza. Nessuno vuole aprire bocca per primo, e ciò d’improvviso
mi pare così ingiusto verso questo ragazzino che ha appena aperto il suo cuore
davanti a noi, che sono presa per converso dall’impulso di dire una cosa
qualunque pur di rassicurarlo sul fatto che gli vogliamo bene comunque, che lo
capiamo, che in fondo non è successo nulla, che non sarà certo la sua vicinanza
con Malfoy a farcelo alienare come figlio, nipote, amico, qualsiasi cosa sia
stato in questi anni. Per amore di Teddy, però, cerco prima di analizzare a
fondo tutte le parole che Malfoy ha detto appena entrato, la sua espressione ed
il sottotesto, specie ora che conosco la verità, come a volermi purificare i
pensieri, come a voler cercare di eliminare ogni onta di sospetto verso il
vecchio nemico. Non lo faccio per il biondo, sia chiaro, ma per Teddy.
È come se mi chiedessi se, in fondo, posso
fidarmi di Teddy al punto da affidarlo a Malfoy.
Una sola cosa mi è rimasta impressa e mi
sovviene subito appena richiamo alla mente tutto il breve incontro: l’occhiata
che Malfoy ha riservato a Teddy quando gli ha chiesto se faceva tutto questo
solo “per quella vecchia storia” e che ora so essere la promessa fatta ad
Andromeda. Malfoy ha scosso il capo, sembrava incredulo, sembrava sbigottito…
era sorpreso che Teddy ancora si chiedesse una cosa del genere.
Come se fosse ovvio, scontato, naturale che lui
lo facesse anche per altro… perché si è affezionato sinceramente a lui.
Gli ha poggiato la mano sulla spalla… e non ha
risposto direttamente. Teddy però ha capito subito. Come se… sapesse…
La mia mente si lambicca attorno ad un concetto
apparentemente semplice, ma che mi sfugge come se fosse fatto di polvere.
Sguscia, sfrigola e sguizza, e mi sembra di perderlo sempre. Lo stomaco che mi
punge, la nausea che resuscita nella mia gola donandole un sapore acre di
vomito, mi fa quasi perdere la presa come se facesse troppo male inseguire quel
pensiero, come se mi portasse nel labirinto del Minotauro. Non ho un filo in
tasca, però, che mi riporti indietro: la camicia sotto il maglione aderisce
alla pelle della schiena sudata, eppure continuo a cercare quel pensiero
cascatomi fuori dal cervello. Respiro piano, male, come se fossi sott’acqua e
non so perché ho paura di questo paragone… e poi in un rantolo compare
l’illuminazione che cercavo.
Una frase sciocca che non capisco perché mi
mettesse in un tale soggezione mentale. Tutto ciò che è minuscolo e stupido
con altri, con lui invece, diventa grandissimo e sterminato.
E’ questo che Teddy sapeva e capiva, ci ha visto
molto più di me in una pacca sulla schiena e in uno sguardo casuale.
Malfoy gli ha dato il motivo che cercava.
Accade allora: non ne prendo subito coscienza e
non riesco quindi nemmeno a fingere che vada tutto bene, come ho fatto
dall’inizio di questa lunghissima giornata. So solo che, in una frazione di
secondo, tutti i colori della stanza sembrano sparire assieme alle voci, come
se venissero risucchiati via in un vortice di luce intensa e malata. La nausea,
ormai, non è più solo dentro il mio corpo… ma ovunque, in ogni cosa. Fuori,
dentro, di me: all’esterno diventa solo una melassa condensata ed ondosa che mi
sbatte e ribatte avanti ed indietro.
Tutto diventa bianco, le ombre della gente
attorno si allungano e contorcono e qualcuno mi chiama preoccupato, ma io non
so più parlare.
Perdo i sensi nella voce di Ron che grida il mio
nome.
“… il motivo che cerchi…”.
Quando Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, riprese i sensi, era nel
letto di casa sua sotto il suo copriletto caldo, accanto al comodino con il
libro da finire in trenta pagine, vicino ad una camomilla con miele e limone.
Suo marito sorrideva incoraggiante, dicendo che doveva smettere di lavorare
così tanto, che era svenuta a casa di sua suocera come una pera cotta, che
erano nel pieno di un dramma famigliare in piena regola ed aveva bisogno che
lei stesse in forze. Sorrise suo marito, ironico e sarcastico, ed Hermione lo
capì sorridendo a sua volta, scusandosi del malessere che ancora non
comprendeva.
Disse che adesso stava bene e che era tutto a posto, non si doveva
preoccupare. Ma lui aveva già chiamato un Medimago, non si poteva prendere
infarti ogni volta.
Lei protestò, mise il broncio, incrociò le braccia, ma alla fine cedette.
Lasciò entrare la dottoressa, una donna di colore alta e bruna con un
sorriso sottile che non le arrivava agli occhi. La visitò meticolosamente,
disse che non era nulla di grave, le prescrisse un paio di giorni a letto. E le
diede una Pozione Guaritrice, rossa come sangue fluido e mai coagulato.
“Credo che abbia uno stato di debolezza generale, signora Weasley…”
aggiunse in tono flautato, sistemandosi i capelli “Niente di preoccupante, ma
meglio assumere cautelarmente del ferro per innalzare l’emoglobina del sangue.
Beva la fiala… e starà meglio”.Restò in
attesa, cauta, come se si aspettasse che non lo facesse.
Hermione Granger era testarda, detestava gli ordini. Era convinta di essere
solo stanca, quella dottoressa imbelle non poteva sapere che razza di vita
faceva e che quindi, nell’economia delle cose, uno svenimento ci poteva stare.
Rassicurò la dottoressa che avrebbe bevuto la Pozione, che sarebbe stata a
riposo, che non si sarebbe agitata e non sarebbe uscita per un paio di giorni.
Il medico sorrise di nuovo con quella piega senza espressione, e lasciò la stanza.
Hermione roteò gli occhi al cielo, sbuffò e poggiò la Pozione sul comodino,
prendendo invece la camomilla. Aveva bisogno solo di riposo, non dei rimedi di
una che doveva essere una ricca snob con la puzza sotto il naso e che faceva il
suo lavoro solo come rimedio alla noia. Le consigliasse una migliore segretaria
invece di Leda che triplicava il lavoro oppure una famiglia meno nevrastenica,
invece di imbottirla di Pozioni!
Non bevve l’intruglio, al mattino se ne scordò quando Leda chiamò per dirle
che non trovava la pratica sul caso Latimore. E,
dopo, Hugo pensò bene di versarla sul tappeto.
“Poco male…” si disse Hermione, scrollando le spalle “Una che indossa sul
camice gioielli vistosi come il cameo di una rosa bianca, non può essere un
buon medico!”.
Post
scriptum a suo modo necessario: questo capitolo, peraltro breve e dove forse
nemmeno succede granché, arriva ad un anno quasi di distanza dal precedente. È una
cosa che mi provoca un enorme imbarazzo e disagio, perché davvero a questa
storia ci tengo molto e credo che ormai, se ci siete ancora, lo sapete bene. Quest’
anno purtroppo è stato davvero sfiancante per molti motivi e la testa
spensierata che mi serve per scrivere l’ho avuta per poche settimane, quelle in
cui ho scritto. Non vi starò a raccontare che cosa mi è successo, non è nemmeno
giusto cercare giustificazioni e parlare quindi della mia vita personale. Posso
solo ripetere come sempre faccio che questa storia non sarà mai abbandonata,
che la porterò a termine comunque vada ed anche con questi tempi, e posso solo
ringraziare chi mi è stato vicino e chi ancora mi legge. Grazie davvero per
tutto. Cercherò di rispondere alle recensioni rimastemi e per il resto, se
volete, sono sempre su Facebook per qualsiasi domanda. Cassie.
Capitolo 47:
Disturbia, step two: about serendipity (part I)
7 dicembre
Hermione Granger, 36 anni appena
compiuti, era sempre stata una donna gelosa della sua apparente perfezione ed
invulnerabilità. Mai un’assenza dal lavoro per malattia, mai un raffreddore
complicatosi in febbre, mai un’influenza non stroncata sul nascere, mai
un’intossicazione alimentare immediatamente prevista e sanata alle prime
avvisaglie.
Odiava stare male, ma soprattutto odiava stare a letto.
Suo marito la derideva, dicendo che in realtà quello che lei non sopportava,
era non andare al lavoro. Era una canzonatura gratuita che perdurava dai tempi
della scuola quando nelle rare occasioni in cui si ammalava, si perdeva i
compiti in classe, le lezioni supplementari, le spiegazioni vitali. Harry e Ron
non erano mai in grado di supplire alla sua meticolosità ed impegno nel
prendere appunti o registrare nozioni. Lei fingeva di prendersela, sbuffava
accoccolata nelle coperte calde, incrociava le braccia e dopo rideva, scuotendo
il capo.
Da valente dipendente del Ministero, la scenetta era proseguita ed Hermione non
aveva fatto nulla per cambiare registro.
Solo lei poteva sapere che, adesso, non le pesava tanto prendersi un’assenza da
un lavoro che non amava fare. Poteva infastidirla, certo. Poteva preoccuparsi
per ciò che sarebbe accaduto in sua assenza, probabilmente. Poteva supporre che
al suo ritorno il lavoro sarebbe triplicato, certamente. Ma non era quello che
la mandava in panico.
La terrorizzava restare a letto per troppo tempo, arrendersi al fatto che
avrebbe dormito di più, piegata dalla febbre, dalla spossatezza e persino dalla
noia.
Dormire troppo la inquietava come niente al mondo.
Non ricordava mai i suoi sogni. Erano solo lampi dorati nel bianco, nulla di
cui terrorizzarsi.
Ma solo una volta, sette giorni dopo la partenza di Rose, quando si era presa
un brutto raffreddore, lei aveva fatto un sogno che non aveva mai
dimenticato.
E che adesso, ogni notte prima di dormire, temeva di rifare… e che ogni volta
che ora pensava di ammalarsi, rivedeva affacciato sulle soglie della coscienza
come una bestia in agguato.
Non c’erano assassini comparsi nella notte con delle maschere bianche. Non
c’era nemmeno un mostro risorto dall’infanzia per occhieggiare da sotto il
letto. Non c’era nemmeno Voldemort e un’immortalità mai raggiunta. E non c’era
tantomeno la sofferenza dei suoi amici o della sua famiglia.
C’era solo lei. Immobile, in una piazza di paese sferzata dal vento. Il cielo
grigio vomitava fulmini, ma non pioveva. Attorno, sedie spezzate, banchetti
distrutti, scaglie di vetro come se ci fosse stato un terremoto. E, lontano, un
palco abbandonato.
Lo guardava e basta, e non respirava. Lo guardava, e moriva soffocata. Lo
guardava, e sapeva che le stavano strappando il cuore. Lo guardava, e voleva
essere ovunque tranne che lì. Ed al contempo non era possibile andare via,
perché era lì che doveva stare. E poco importa che il cuore non c’era in petto,
poco importa che si graffiava le mani, poco importa tutto… lei lì doveva stare,
non in nessun altro posto.
Piangeva, persino da sveglia pianse. Nelle braccia di suo marito, singhiozzando
senza ritegno.
“E’ stato solo un sogno, Mione… un incubo. Calmati, adesso…”.
“I-io… dovevo stare lì… non in un altro posto…”.
Lo ripeté per ore nel delirio della febbre, prima che Ron le dette un blando
sedativo per farla calmare. E dormire senza sogni.
Le raccontò tutto al risveglio, quando era più calma. Lei ricordò il sogno e la
sensazione di squarcio al petto, ma non seppe collegarlo a niente della sua
vita.
Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, diceva di non voler stare a letto
perché perdeva solo tempo ed aveva mille cose da fare.
Ma dentro sapeva di mentire.
Lo sapeva perché, quando stava male, prendeva sempre una sola pozione.
Un sedativo che non la facesse sognare.
“Sì,
allora: ora mi ascolti molto attentamente, ok? Ti scandisco bene le parole,
così sono sicura che mi segui, va bene? D’accordo? No, Leda, certo… sì, hai
ragione, non sei tu, è lo schedario che è proprio un trip mentale da sturbo,
e quindi tu giustamente, povera cara, non ti raccapezzi. Quando torno a
lavoro, ci mettiamo mano assieme… sì, sì, certo, ci metto mano io, non
sia mai che ti si scheggiano le unghie. No, no, che sarcasmo… sono sinceramente
preoccupata delle tue falangi, che scherzi… torniamo a noi. Scaffale C. C…
insomma come Cardiff, Cleveland, Corinto… ecco, C come Chanel. Hai trovato?!
Ok, perfetto. Andiamo avanti… fila 14. Sì, quattordici. Sì, quando hai perso la
verginità, potevo anche non saperlo, andiamo avanti… c’è una cartellina
azzurra. Che significa azzurra come? Cielo, mare, puffo?! Comprendi? Non
ce ne sono otto di azzurre, ce ne solo una… descrivile, Leda! Sì, sì, ecco,
brava… quella color Tiffany. Brava. La pratica Latimore è lì. Torno dopodomani
al lavoro, fanne tre fotocopie e mettile sulla scrivania… sai, quel mobile
rettangolare con i cassetti? Perfetto, meriti una promozione, ciao cara, a
lunedì”.
Riaggancio
il telefono con un colpo di falangi perfettamente calibrato, in modo da
esprimere la mia indignazione senza però scardinare il tasto rosso del
cellulare. Mi abbandono drammaticamente contro i cuscini del mio letto,
ammonticchiati contro la testiera, lasciandomi andare ad un sospiro esausto
come se avessi percorso quattordici miglia a piedi nel deserto: l’esasperazione
e la stanchezza di una conversazione con la mia segretaria, del resto, battono
qualsiasi Parigi – Dakar pedestre, aggiunta ad una serie di maratone di New
York e a tredici scalate del K2. Considerando poi che sono ancora
convalescente, mi sento sfibrata da questi otto minuti scarsi di conversazione.
Accanto a
me, dopo una serie di versi trattenuti, scoppia finalmente una risata lunga e
liberatoria, di gola, profonda, proveniente dalle voci congiunte dei miei
cognati, venutimi a trovare per poi ritrovarsi spettatori dell’intera
conversazione. Harry si stringe le costole con le mani, come a trattenersi nel
corpo le viscere sul punto di fuggire per la grande ilarità, mentre Ginny
scoppia nei suoi soliti gorgheggi acuti e ritmici, che la rendono simile ad un
mantice in iper-lavoro.
Roteo gli
occhi al cielo, incrociando le braccia nel mio pigiama di cotone azzurro,
bofonchiando caustica: “Sono contenta che la cosa vi diverta… ma con il
suddetto personaggio, da lunedì io ci avrò a che fare di nuovo ogni santissimo
giorno, posso subaffittarvela se vi piace così tanto… non sia mai che sia una
mia sola esclusiva…”.
Harry
torna serio di schianto, mentre Ginny si asciuga le lacrime con il dorso della
mano, prima che il marito proferisca solenne: “Non se ne parla nemmeno. L’oca è
tua e te la tieni tu. Sei sempre stata più crocerossina di me...”.
“…
d’altronde hai sposato Ronald! Più di questo!” commenta gaia Ginny, facendo
scoppiare di nuovo a ridere Harry e trascinando stavolta nella risata anche me.
Esauritasi il momento di divertimento, cala un silenzio piacevole, quieto e
rilassato. Con lo sguardo socchiuso, guardo fuori dalla finestra della mia
camera da letto: sembra una giornata stranamente trasparente persino per
Londra. Il vento di tramontana ha pulito l’aria e, tra comignoli ed antenne tv,
il mio angolo di cielo è azzurro intenso. Lo fisso per qualche secondo,
lasciando che mi riempia di pace.
“Come va
allora, Herm?” mi chiede Ginny con un filo di apprensione, non ci vediamo dal
giorno del mio svenimento alla Tana e comprendo solo in quel momento che l’ha
impensierita parecchio. Mi ha chiamato spesso, si è fatta sentire ogni giorno
come mia suocera e le mie altre cognate, ma non è mai potuta passare da me, sebbene
fosse così vicina. Lily, infatti, ha avuto l’influenza ed è stata persino più
intrattabile del consueto, monopolizzando tutte le sue attenzioni. Del resto,
il mio malessere è stato liquidato come semplice stress e come necessità di un
periodo di riposo, quindi non ero propriamente una malata terminale. Anzi, il
fatto che mi abbiano lasciata in pace deve essere sembrato loro il migliore dei
contributi per la mia guarigione.
Cosa che
ho decisamente apprezzato.
Nonostante
tutto, non so come rispondere alla sua domanda. Sul come stia. Sono stata dieci
giorni in malattia, a casa, cosa che a suo modo è stata anche piacevole. La
diagnosi di forte stress ha fatto sì che fosse creata attorno a me una
sorta di campana di vetro immunizzante dal mondo esterno, e quella è stata
decisamente la parte migliore. Ron ed Hugo hanno funto da guardie armate del
mio benessere, imponendomi di restare a letto, di non stancarmi, di non
contattare l’ufficio, di non seguire le beghe famigliari per la faccenda di
Teddy e Victorie. Hanno quindi filtrato lettere e telefonate, messaggi e
visite, con il risultato che mi sono dedicata solo a televisione e libri, ad
uncinetto e minestrine di pollo, fingendo di lamentarmi ma in realtà
rinfrancandomi della pace. Ron e mio figlio sono stati due ottimi infermieri,
specie perché hanno spinto ogni litigio fuori dalla porta della mia camera da
letto, mostrandomi sempre la loro immagine più ordinata e compita e portandomi
sempre notizie rassicuranti e piacevoli, come se fossi in una sorta di bambagia
mentale. Avrebbe dovuto darmi fastidio, in certi momenti ho persino finto che
fosse così per rassicurarli sul fatto che fossi sempre la solita. Ma in verità
ero oggettivamente così esausta che accoglievo le loro premure con tutta la
provvidenzialità del caso, mostrando un viso sempre più sorridente ed un
appetito sempre maggiore.
Ma la
nausea non è mai passata. Ha solo cambiato forma, diventando più lieve ed
accompagnandosi ad una serie di vertigini di pochi attimi.
Loro,
ovviamente, non lo sanno: mi spingerebbero a maggiori controlli, mi
rimprovererebbero perché non ho preso la medicina della dottoressa chiamata da
Ron, mi pungolerebbero continuamente. Ho certamente intenzione di approfondire
la cosa, ma per conto mio, senza che nessuno me lo faccia notare costantemente.
La vedo come una cosa innocua, come viene, passa. E magari è solo un po’ di
gastrite: nulla di cui preoccuparsi.
Non ho
avuto più episodi allarmanti, del resto.
I picchi
più forti sono stati durante una replica di “Orgoglio e Pregiudizio”, dove per
fortuna ero sola e nessuno se ne era accorto. Lì, alla scena dove si scopre che
Wickham aveva sedotto in passato la sorella di Darcy, mi sono piegata in due
sul copriletto pronta a rimettere anche l’anima. Ma, alla fine, era passato tutto.
Quindi avevo sorvolato.
Solo che,
naturalmente, alla domanda di Ginny per un attimo guardo il copriletto rosso e
le mie mani conserte, chiedendomi se non dovrei dirle la verità. Lei, in fondo,
frequenta molto il San Mungo e gli ambienti medici, mentre cerca di diventare
volontaria, molto probabilmente potrebbe aiutarmi meglio di chiunque altro. Poi
ricordo che Ginny è in primo luogo la mia apprensiva ed ansiosa cognata, quindi
decido di tacere.
"Tranquilla,
Gin…” sussurro con un filo di voce, affidando la secchezza delle parole ad un
sorriso rassicurante “Sto bene adesso". Sia lei che Harry sembrano
studiare tutte le linee del mio viso alla ricerca di un qualsivoglia segnale
che possa sbugiardarmi. Apparentemente quello che vedono sembra consolarli, e
quindi lasciano perdere.
Ginny,
però, improvvisamente si batte le mani come se si fosse ricordata di schianto
di qualcosa e, sotto il mio sguardo indagatore, raccoglie la borsa che aveva
lasciato in un angolo della stanza, ci fruga dentro mentre impreca tra sé e sé,
scansando cianfrusaglie. Infine, vittoriosa e soddisfatta, ne estrae un piccolo
sacchettino consunto di velluto rosa sporco.
Me lo
lancia in grembo, aggiungendo sfottente: “In ogni caso, questo te lo manda la geniale
promessa della medicina moderna". Afferro il sacchettino con due
dita, un po’ intimorita, quasi memore dell’avvertimento adolescenziale di star
attenta a qualsiasi dono di un fratello Weasley perché potrebbe rivelarsi un
Tiro Vispo che stanno ancora mettendo a punto usando te come ignaro
esperimento. Tocco il contenuto, sembra una sorta di polvere molto granulosa,
ed allentando il cordoncino del sacchetto, mi si rivela come una manciata di
fiori secchi di colore misto tra il carminio e lo scarlatto. Mi raggiunge le
narici un odore che ricorda la fragola e il sandalo.
Guardo Ginny, inarcando un sopracciglio: "Dovrei capire qualcosa, adesso?
No, perché io vedo solo un sacchetto di fiori secchi…”, poi ricordo il suo
accenno ad una fantomatica promessa della medicina e chiedo perplessa: “Di chi
diamine stai parlando?".
Harry
trattiene una risata mentre Ginny bofonchia qualcosa a mezza bocca, assumendo
l’espressione scocciata che aveva a scuola quando le chiedevamo di Lavanda. Si
mette nervosamente una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio, prima di
borbottare stizzita: “Herm, stai perdendo colpi. E tanti. Insomma la geniale
promessa... la mia compagna di corso al San Mungo... la mocciosa, Isolde
Crane".
Al nome
Isolde Crane, decisamente poco comune, finalmente mi si accende una flebile
lampadina nel cervello e collego tutti i punti.
Ginny mi
ha parlato spesso di questa sua compagna di corso del San Mungo, inserendola in
tutta una serie di discorsi e lamentele che ho sempre ascoltato fingendo
partecipazione emotiva, ma in realtà divertendomi tantissimo per come definiva
la suddetta ragazzina.
Il corso
che sta frequentando Ginny, infatti, è propedeutico a diventare volontarie in
ospedale appunto, cosa che vorrebbe fare lei: quindi studia nozioni di pronto
soccorso, di psicologia per l’aiuto dei pazienti, di erbologia spiccia e così
via. Ginny, alla sua età, ormai può ambire solo ad essere una volontaria nei
casi in cui l’ospedale abbia delle carenze di personale, o in casi sciagurati
di particolari emergenze, o comunque quando Ginny vorrà fare volontariato. Ma
per le ragazze più giovani, che stanno frequentando la scuola per diventare
Medimaghe, questo corso è una sorta di primo vero e proprio test di vita
all’interno delle dinamiche ospedaliere, nonché un’occasione per accumulare
crediti formativi. Perciò è abbastanza normale che, a parte due o tre coetanee
di Ginny, ci sia tutta una schiera di ragazzine di massimo una ventina d’anni
che stanno frequentando la scuola e contemporaneamente seguono anche questo
corso.
La maggior
parte di loro ha preso in simpatia Ginny e le sue amiche, che considerano molto
giovanili ma che comunque danno loro la dolcezza confortante di mamme, e quindi
non insistono a sottolineare il fatto abbastanza scontato che loro stanno
studiando per diventare dottoresse ed invece nel loro caso, è solo un hobby da
casalinghe annoiate.
Questo
commento invece, variamente infarcito, è una delle costanti di Isolde Crane.
Per
sfortuna di Ginny, Isolde è anche una ragazza molto intelligente e dotata. È
già entrata nell’Accademia medica a soli diciassette anni ed ora, a diciannove,
è la più talentuosa e promettente del suo corso di studi, al punto che alcune
sue ricerche sono state già pubblicate sulle riviste mediche di mezzo mondo.
Lei e
Ginny, quindi, si scornano amichevolmente dal primo giorno: Isolde sminuendone
l’impegno, Ginny sminuendole l’intelligenza. E puntualmente quando Ginny torna
a casa, rimarca per due ore e mezzo con accenti piuttosto comici e grotteschi
sulla sua arroganza e presunzione, sulla sua maleducazione e mancanza di
rispetto per gli adulti, fino a giungere alla “piega stupida del suo padiglione
auricolare” ed alla “penna idiota color rosa shocking che usa per scrivere”.
Quindi mi
sembra oltremodo strano che Ginny, preoccupata della mia salute, si sia rivolta
alla sua arci-nemica e che quest’ultima, grondando miele, le abbia dato persino
un rimedio per me.
Che possa restare vittima di una
vendetta trasversale?
Lo penso
con un filo di panico fin troppo veritiero, e quindi tengo il sacchettino tra
le dita come se contenesse nitroglicerina, esplodendo torva: "E che
c'entra lei adesso con il fatto che non sto bene? Glielo hai detto tu? Non mi
sembra di essere chissà che caso medico. Stress, vertigini e nausea...
ci faranno una ricerca scientifica sopra, faranno pure una raccolta fondi con
il numero verde in sovrimpressione".
Ginny si
inalbera subito, punta sul vivo dalla velata accusa per cui lei ed Isolde
possano essere amiche del cuore, incrocia le braccia al petto con un
atteggiamento che aveva anche da ragazzina quando si innervosiva, e sbuffa
giustificandosi con voce accorata: "Senti, stavo parlando con Harry al
telefono per chiedere come stessi. Lei si è materializzata accanto a me. E mi
ha dato questo sacchetto, dicendo che, se ne avessi fatto un decotto, ti
avrebbe fatto bene. Tutti i tuoi disturbi sarebbero passati. < Non servono
medicine, o altre pozioni date dai medici, serve solo questa... Dì a tua
cognata di non prendere altro>…”. Getto un’occhiata in tralice alla macchia
sul tappeto che reca ancora le tracce della medicina che mi aveva prescritto la
dottoressa chiamata da Ron: si è stranamente rappresa, senza venir via. Un
brivido mi sale sulla schiena, come se quella di Isolde sia una sorta di
premonizione su una sensazione di fastidio che già avevo avuto. Ginny, ignara
dei miei pensieri, prosegue con voce incolore, ammettendo a fatica: “Isolde è
un'insopportabile saccente mocciosa, ma... ne capisce. Male che vada ti sei
fatta una tisana".
"Ma poi si può sapere che diamine sarebbe?" chiedo, annusando con un
po’ più di fiducia il contenuto del sacchettino. Ha un odore buono e
penetrante, sembra allargarmi le narici.
"Grani di loto rosso…” enumera Ginny come se stesse cercando di ricordare
esattamente che cosa le ha detto Isolde “E' una pianta antica, ha detto, che
ormai si trova raramente in natura. E' molto indicata per vincere nausee e
vertigini. Mi ha spiegato che veniva usata dai Maya, ma che poi se ne sono
perse le tracce: loro credevano che tali sintomi indicassero la nostalgia di
un'altra vita. Il loto rosso incardinava l'anima nel corpo, impedendo che
sfuggisse".
Inarco un
sopracciglio con scetticismo, prima di replicare sarcastica: “Poetica come
cosa... ma non sono propriamente depressa, io".
Un’anima che vuole fuggire dal
corpo.
È un
concetto particolarmente suggestivo, e mi dà esattamente di questo: della
depressione di vivere una vita che non ci appartiene. Chiunque l’ha provata
come sensazione nell’arco della vita, ma non mi descrive affatto al momento.
Magari il mio problema è esattamente il contrario, cioè che sono troppo
incardinata nella mia vita al punto di non vedere nulla di diverso dalle mille
beghe quotidiane.
La nostalgia di un’altra vita.
Questa è
la sola vita che avrei potuto vivere, non ne ho dubbi.
La bocca
dello stomaco brucia a quel pensiero, la chiudo con la mano mettendola a
tacere.
"Pensa che l'ha detto pure lei... che non sei affatto depressa…” prosegue
Ginny, ignara dei miei pensieri, per poi borbottare incrociando di nuovo le
braccia: “Quella secondo me è una maledetta telepata... comunque ha aggiunto
che adesso serve solo ad attenuare la nausea. E che ti farà bene. Ha aggiunto
poi delle ciance strane ed inquietanti, ma non l'ho ascoltata più, mi stava
facendo venire i sudori freddi".
"Che avrebbe detto?" chiedo con un filo di incertezza.
Ginny si
prende tutto il tempo per rispondere, come se le parole le costassero fatica:
"Ha detto:- Il loto rosso cancella
le tracce. Così il male smette di trovarti sempre - ".
La frase
rimbalza nel mio cervello lasciando quasi dei pomfi, dei lividi, delle
escoriazioni sulla parete dei miei pensieri. È così… inquietante, che il
sacchettino nella mia mano sembra per un attimo puzzare di marcio e pesare
tonnellate. Echeggia nel tessuto della mia mente l’immagine di una sorta di
ombra nera simile al petrolio che, costantemente, continuamente,
instancabilmente, macera chilometri per raggiungermi, scivolando piano viscida
ed appiccicosa. La sento per un attimo vorticare e respirare attorno a me, come
se fosse qualcosa di estremamente reale.
Per
liberarmi del potere della mia suggestione, con un gesto meccanico della
bacchetta accendo una candela bianca che tengo sul comodino e ho comprato
qualche settimana fa, spinta da un acquisto impulsivo. L’odore dell’erba bagnata
a settembre, come recitava l’etichetta sgargiante sulla scatola, mi soffia
nelle narici un senso inquieto di maggiore calma.
“Merlino,
la tua amica deve essere rassicurante come Bellatrix Lestrange…”
biascica Harry, fingendo di trattenere un’ondata di brividi freddi lungo le
braccia, strofinando le mani con energia contro le maniche del maglione “Mione,
fatti un esorcismo, piuttosto!”.
La sua
battuta alleggerisce molto l’atmosfera pesante che le parole di Isolde Crane
hanno portato, ed io e Ginny scoppiamo a ridere simultaneamente in un modo
anche troppo meccanico per non comprendere che, comunque, quel discorso è
penetrato in qualche parte non troppo nascosta del nostro inconscio. Nonostante
tutto, quando Ginny cerca di prendermi il sacchettino dalle mani, la fermo con
il palmo della mano aperta.
Per un
qualche eccesso di fiducia che io stessa non comprendo appieno, richiamo con la
bacchetta dalla cucina la teiera che avevo messo sul fuoco all’arrivo dei miei
cognati: mentre a loro servo un Earl Grey, preparo un infuso con le erbe di
Isolde. Ne viene fuori una bevanda piacevole, calda, al sapore di miele di
lavanda e lampone. Scivola nella gola come se fosse lava liquida, riscaldando
anche l’esofago e lo stomaco. La sorseggio con flemma, deliziata.
Se tiene
anche alla larga il malocchio, siamo a cavallo.
"Quella
è una macchia di sangue. Dimmi quello che vuoi, ma è così" Ginny
erompe all’improvviso, portandosi la tazza di tè alle labbra e chiudendo gli
occhi con espressione saputella. Sospiro per l’ennesima volta, provando
l’ulteriore Gratta e Netta sul tappeto sporco a causa della medicina di quella
dottoressa farlocca. Si è effettivamente rappresa come se fosse sangue, dando
l’alibi a Ginny di sostenere che io e Ron ci siamo picchiati selvaggiamente
durante uno dei nostri memorabili litigi, oppure ci siamo dati dentro con le
pratiche alla “Cinquanta sfumature di grigio”.
Roteo di
nuovo gli occhi innervosita, prendendo un altro sorso dell’intruglio di Isolde,
mentre medito velocemente di cambiare discorso. Il primo pensiero che mi viene
in mente, è quello del matrimonio tra Teddy e Victorie. Ron non me ne ha più
parlato granché, nonostante la mia curiosità a riguardo, ma implicitamente ho
anche apprezzato che mi evitasse nervosismo ed ansia, facilitando la mia
ripresa.
Non credo
che sarei riuscita a non esprimere in modo pacato la mia opinione se
fossi stata interpellata: e al 99% la mia opinione e quella di mio marito
convergono come le orbite di Mercurio e Plutone. Quindi in una sorta di evento
cosmico millenario che magari i Sumeri identificavano come la fine del mondo.
Meglio non rischiare, dunque.
Quando
interrogo Harry e Ginny a riguardo, sono molto laconici e svogliati: di primo
acchito penso che mi stiano tributando lo stesso eccesso di cura ed affetto di
Ron, e non vogliano farmi preoccupare. Sotto però il fuoco incrociato delle mie
domande, capisco che in realtà non c’è moltissimo da dire. Non ci sono stati
passi avanti, né tantomeno indietro; forse non ci sono stati proprio dei passi
in alcuna direzione.
Teddy e
Victorie sono sempre convinti della loro decisione, non c’è verso di smuoverli
da lì in alcun ragionevole modo: si sposeranno probabilmente ad aprile.
Ascoltano tutti, parlano con tutti, ma nel momento in cui qualcuno prova a
dissuaderli dal loro proposito, diventano dei muri di gomma e fanno quadrato
attorno a sé stessi per non ascoltare.
Attorno a
loro, continua a chiocciare il clan Weasley al gran completo: ogni sera, da
quando ci hanno comunicato quella decisione, si sono tutti ritrovati alla Tana
per discuterne e parlarne fino alla noia, al punto che Harry e Ginny hanno
cominciato a disertare le riunioni per la pace del loro sistema nervoso nonché
per la ripetitività degli argomenti.
Cosa che
invece so che non ha fatto minimamente mio marito, presente in ogni discussione
fino al tedio e allo strazio.
La sola
novità che loro mi raccontano riguarda i genitori di Victorie, Bill e Fleur,
ormai completamente concordi con la decisione della figlia di sposarsi ed avere
un figlio a diciassette anni: cosa del resto ragionevole, visto la sua assoluta
irremovibilità. Pragmaticamente avranno concluso che è meglio acquistare un
genero ed un nipote che perdere una figlia, negandole sostegno affettivo e
forse anche economico nella sua scelta di vita. Forse, in modo cinico,
prevedono anche il momento in cui la scelta apparirà eccessivamente gravosa o
anche sbagliata, e dovranno essere lì a recuperare i cocci della loro bambina
cresciuta in fretta.
Effettivamente
se penso a Rose, io avrei fatto lo stesso. I figli, d’altronde, non ci
appartengono sul serio. Appartengono al loro tempo, alle loro scelte e al loro
carattere. Per quanto cerchiamo di renderli calchi di noi stessi e per quanto
vogliamo preservarli dalla sofferenza indirizzandoli verso ciò che sappiamo
essere giusto, può darsi che il loro destino sia altrove, in tutto quello che
percepiamo persino come sbagliato.
In questa
storia, del resto, neanche io che sono così avvezza alle partiture morali, ho
ben compreso che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato. Mi sembra davvero
tutto avvolto nel grigio dell’irrisolutezza, dove ogni cosa ha un suo rovescio
che la qualifica come contemporaneamente giusta e corretta, e sbagliata e
inopportuna.
So solo
che il pensiero di un matrimonio tra diciassettenni mi provoca un senso di
stretta allo stomaco ben più concreto di quello di una gravidanza alla medesima
età. Non saprei come definirlo. Questa storia mette alla prova il mio inconscio
in un modo mai sperimentato prima.
Se mi
proietto diciassettenne, pronta ad inforcare una navata per bardarmi del ruolo
di moglie, mi sale l’angoscia. Se invece mi proietto alla stessa età o poco più
grande, sorpresa dalla vita con una gravidanza improvvisa, con un padre
probabilmente assente e non nelle migliori condizioni economiche ed
esistenziali, non provo alcun disagio.
Penso
persino di provare ad immaginare che cosa si prova. E non mi sconvolge, come se
ci fossi passata. Delineo chiaramente la preoccupazione, l’ansia e
l’incertezza. Ma non è nulla in confronto ad un matrimonio da adolescente.
Quello invece mi fa sentire al cappio, come una bestia braccata.
Do voce
ai miei pensieri in modo quasi automatico, non collegando per un momento
cervello e voce: “Certo che sposarsi a diciassette anni… per quanto mi sforzi,
non riesco a capacitarmene. Come si fa ad essere sicuri di voler passare tutta
la vita con il tuo primo amore? E se qualcun altro spuntasse per caso nella tua
vita e ti facesse mettere in discussione tutto? Hai ancora un’intera vita di incontri
davanti… e di scoperte, pure su te stessa. Questa cosa non la capirò mai…”.
Comprendo
di aver detto qualcosa di strano quando Harry e Ginny si fissano la punta delle
scarpe, con un’espressione tra l’imbarazzato e il fremente dalla voglia di
controbattere. In un lampo capisco che forse hanno frainteso le mie parole,
cogliendo un’implicita frecciata anche a loro. A parte qualche relazione
davvero infantile, loro si sono sposati felicemente con il primo amore della
loro vita. Nel caso di Ginny, addirittura, si può parlare della sua fantasia da
bambina.
Cerco di
correggere il tiro in modo maldestro, sussurrando ovvia: “Chiaramente a voi è
andata bene, ma non è detto che vada così bene per tutti! Del resto, uno a
diciassette anni che ne sa che…”.
“Veramente
io stavo pensando a te e Ron, non a me ed Harry” controbatte secca Ginny,
interrompendomi e ricevendo un cenno di assenso da parte del consorte “Anche tu
hai sposato la persona che amavi a diciassette anni. E non penso che ti sia
andata male… o sbaglio?”.
“Certo,
certo…” ribatto punta sul vivo, ma troppo velocemente perché effettivamente
possa dare l’impressione corretta di aver pensato alla mia risposta. Piccoli
crampi ghiacciati si arrampicano sulla pelle della nuca e delle spalle, mentre
simulando tranquillità svuoto in un sorso bollente il resto della tisana di
Isolde. Il liquido scende veloce lungo l’esofago e scoppia in pancia,
causandomi una fitta di dolore che reprimo a fatica.
Non mi è andata male.
Certo, certo.
Mentre
devio l’attenzione dei miei cognati con una domanda calibrata sulla loro figlia
pestifera, cosa che comporterà un monologo di quindici minuti da cui posso
assentarmi giustificata, la mia mente si incarta in un soliloquio angoscioso
che ha l’effetto di aprirmi in due come una mela.
Non ho
mai fatto davvero dei bilanci del mio matrimonio.
Non ne ho
mai sentito l’esigenza.
Ora però
immagino un ragazzo di diciassette anni o poco più che, in cerca di consiglio,
mi chieda precauzioni e controindicazioni del matrimonio con la prima ed unica
persona che tu abbia mai amato. La mia versione mentale è prolissa di pappa
psicanalitica da due soldi, figlia di certe letture distratte su riviste
femminili e certi discorsi a tardo pomeriggio con qualche amica pensosa.
Certo che puoi sposare la prima
persona che tu abbia mai amato, bisogna solo crescere assieme, allo stesso
ritmo, aspettarsi nei momenti in cui uno resta indietro, l’amore deve crescere
e mutare con te, cambiare alla stessa velocità, e sai che bello è guardare le
foto assieme di quando si era ragazzini, scoprire che ci si pensa persino due
persone diverse ed invece si è sempre gli stessi, avevi i capelli più corti e
ti eri fatto male i colpi di sole così schiarirono e sembrarono arancioni, e
lui invece era magro come un chiodo, si contavano le costole come un Gesù in
croce e d’altronde anche quei capelli erano imbarazzanti, senza contare la
barba lunga da clochard. Vorresti davvero perderti tutto questo, il miracolo di
una vita che cambia davanti ai tuoi occhi?
Acquisto
coraggio e vigore dal mio discorso, persino le guance mi si infiammano
esteriormente mentre Harry e Ginny, ignari spettatori, continuano a parlarmi
della distruzione di chissà quale artefatto antico da parte della diabolica
figlia.
Il
bilancio del mio matrimonio è decisamente positivo: in attivo, come una piccola
ma solida azienda che macina lavoro e sudore, producendo una discreta e
considerevole ricchezza.
Ed è un
attimo, prima che il Teddy mentale della mia testa mi si pari innanzi con un
sorriso ingenuo che per un attimo credo persino di vedere trasfigurato in un
ghigno.
Dice
serafico: “Quindi tutto questo è successo a te e a zio Ron? Siete cresciuti
assieme?”.
Avrei
voluto a quel punto aver sentito una sorta di fragore di acqua, qualche scossa
di terremoto, fulmini e saette, inondazioni ed urla di disastri naturali che
rovesciano la testa e mi suggeriscono le risposte che, fino a quel momento, non
avevo mai contemplato.
Avrei
voluto, in sintesi, che la mia risposta fosse una sorpresa così che mi andasse
di traverso il cuore e mi scoprissi d’improvviso in una verità che avevo solo
ignorato.
Invece,
con nitore incolpevole, rispondo fiacca a Teddy: “No. Non siamo cresciuti
affatto assieme. Lui è rimasto uguale. Ed io ho finto di essere rimasta uguale
così non se ne accorgesse”.
La vera
sorpresa viene dopo, non a quel pensiero.
Lì, viene
il fracasso infernale dei neuroni che si ribellano, della moglie che tradisce
nel pensiero e della madre che non usa i figli come merce di scambio della
felicità che non ha trovato.
Il tuono,
il fulmine, il terremoto viene dopo.
Quando mi
spoglio di metafore e di similitudini con Teddy e Victorie, e con l’adolescente
che sono stata. Quando sono di nuovo io, di fronte ad un anello con la pietra
rossa e alla richiesta di una promessa di matrimonio. Quando sapevo tutto nella
mia testa di ciò che non andava, eppure dissi il contrario di quello che
pensavo.
Quando invece di dire di no, dissi
di sì.
… e sposai Ron Weasley.
.
.
.
Non ci saremmo dovuti sposare.
Certo non allora.
Forse mai.
8 dicembre
Quando
torno in ufficio, è facile liquidare quel pensiero sotto un mare di scartoffie
e di impegni. Semplicemente lo metto a tacere sotto mille spiegazioni tornite
di logica e raziocinio, parlando di stanchezza e del tempo che passa. Abbiamo
la scomoda ma illuminante perfezione di non poter mai sapere come sarebbe
andata, se avessimo fatto qualcosa in modo differente: perciò mi cullo nella
rassicurante considerazione che, se anche io e Ron non ci fossimo sposati allora,
probabilmente il futuro ci avrebbe riportato comunque assieme allo stesso
punto.
Anzi,
sicuramente sarebbe andata così.
E poi
diamine abbiamo avuto due bambini bellissimi, abbiamo due carriere quasi
soddisfacenti, cresciamo in una bella famiglia unita ed ampia… queste
recriminazioni sono da massaie annoiate sulla soglia della mezza età, e Dio me
ne scampi e liberi se sono così.
La mia
vita è questa. Basta.
Mi torna
in mente la frase di Isolde sulla nostalgia di un’altra vita, mi si accappona
la pelle di nuovo per l’improvvisa adeguatezza di quell’espressione che,
all’inizio, sembrava un pezzo stonato.
La esco
fuori dal mio cervello, sbattendo senza alcuna esigenza un faldone di pratiche
ammuffite sul legno della scrivania, nell’apparente intento di spostarlo e
basta.
Attratta
dal tonfo secco e dalla probabile materializzazione di un gossip, Leda compare
nel vano della porta spalancando gli occhi e chiedendo stucchevole: “Tutto
bene, capo?”.
Roteo gli
occhi e per un attimo faccio stridere le mie unghie sulla superficie della
scrivania come una sorta di pantera incattivita. Stamattina mi infastidisce
come il colore cremisi negli occhi di un toro: prima di tutto, è vestita in
quella poco appariscente tonalità. Una camicetta striminzita da cui si indovina
il pizzo del reggiseno crema di La perla, ed un paio di shorts a pois bianchi
su fondo sempre rosso. Quando si palesa alla mia vista, è intenta a succhiare
un Chupa Chups color fragola matura, in un’accordanza cromatica tipica di un
porno soft liceale.
Ovviamente
Leda, dall’alto della sua esperienza, sa che il prototipo “Lolita bionda,
apparentemente ignara del suo fascino” vende parecchio e quindi spinge
molto su di esso; del resto sembra anche funzionare discretamente, Dean è
entrato nel mio ufficio circa dodici volte nelle ultime tre ore chiedendo in
prestito pezzi sempre diversi di cartoleria.
Cosa
estintasi sul nascere quando gli ho detto che, a meno di tre porte dalla sua,
vi è il deposito cancelleria dell’intero Ministero e che, se è in tale penuria
di penne e pergamena, può rifornirsi tranquillamente lì. Credo anche di avergli
suggerito di infilarsi i suddetti articoli in un punto nevralgico, ma penso di
averlo solo sussurrato a voce non troppo alta a me stessa, quindi forse tra
otto minuti sarà di nuovo qui. E tutto per colpa di questa squinzia in piena
attività.
Che mi ha
chiamato capo. Di nuovo. Quando sa che lo detesto.
Se la
becco con questo faldone in testa e la metto KO per un anno e mezzo, potrei
accordare un bellissimo Incantesimo della memoria per convincerla di aver
sbattuto contro uno stand Chanel ad una svendita da panico! Dubito che
qualcuno troverebbe mai la falla nel mio favoloso piano.
Tamburello
con le dita sulla copertina rigida del fascio di documenti rilegati, prima di
rassicurarla con un sorriso melenso sul mio stato attuale.
Gesticolando
in modo decisamente esagerato con quel leccalecca appiccicoso, Leda mi informa
che ci sono due persone in attesa di vedermi da circa una ventina di minuti. Le
spalle mi si afflosciano come se fossi un pesce spinato mentre mi chiedo
mentalmente perché non le abbia fatte entrare prima, visto che non c’era
nessuno. Ma naturalmente non paleso ad alta voce la mia domanda, visto che
comunque al 99% sono certa che la sua mancanza di solerzia sia dovuta al fatto
che le persone che aspettano sono delle donne, cosa che a lei non
interessa.
“Di chi
si tratta?” chiedo nervosamente, mordicchiandomi l’unghia del pollice e
consultando l’agenda in modo febbrile. Sono così fuori fase che temo di aver
dimenticato qualche appuntamento importante, ma come ricordavo la pagina
odierna dei miei impegni lavorativi riporta solo un incontro con un membro del
Wizengamot per le 15 e 30.
“Mah non
lo so, mi hanno detto il nome, ma l’ho scordato…” chiosa Leda ovvia, e non sia
mai che ricordi qualche dato anagrafico di tre sillabe scarse “Ma sono due tipe
straniere. Pure piuttosto… fuori, se capisce che cosa intendo, capo”.
Annuisco
come se avessi capito tutto, quando invece penso che essere fuori dai dettami
di questa oca significa probabilmente essere individui utili ed ammirevoli
della società civile.
“Ti hanno
almeno detto che cosa vogliono?”, ultimo disperato tentativo di aggrapparmi a
qualche sua sinapsi funzionante.
“Mmm, mi
faccia pensare…” arriccia le labbra in modo pensoso, come se stesse ricordando
tutte le cifre del PI greco e non una qualche sorta di informazione ascoltata
massimo trenta minuti fa, poi si illumina come un albero di Natale e chioccia
geniale: “Una causa di divorzio! Una causa di divorzio per maltrattamenti del
coniuge! Doveva occuparsene l’avvocato Nott, ma è in ferie. Sono necessari
alcuni adempimenti burocratici perché la moglie è straniera, ma ora vive qui a
Londra con la figlia”.
Sgrano
gli occhi con un moto di autentica sorpresa, mentre Leda si massaggia la tempia
in modo meccanico come se fosse affetta da una tremenda emicrania. Piacere, non
so da dove le sia uscita tanta memoria e tanto linguaggio appropriato. Forse
nel leccalecca c’è qualche pozione Arricchisci-Intelligenza. Se è così, gliene
compro uno stock industriale.
Ovviamente
lo sforzo è stato tale che mi chiede il permesso di fare una pausa caffè, e
gliela accordo volentieri così non sarà nelle vicinanze per fare domande
inopportune a questa donna. Se sente parole come divorzio o tradimento,
resta ad origliare o a dare pessimi consigli che nessuno le ha mai chiesto.
Con un
gesto sgraziato della testa ed un’ultima occhiata pettegola, Leda fa entrare le
due donne che sostavano fuori. Mi preparo già a renderle destinatarie della mia
migliore occhiata di comprensione e pietà umana per aver avuto a che fare con
la mia segretaria.
A
palesarsi per prima, mentre entra nella mia austera stanzetta con un passo
militare ed autoritario, è una ragazzina di non più di diciotto anni, forse
coetanea di Teddy. Desumo la sua età dai tratti ancora evidentemente infantili,
in particolare dalle guance paffute, da un corpo allampanato e da un seno
acerbo, senza dimenticare che porta in modo negletto una specie di zaino di
scuola, poggiato mollemente sulla spalla sinistra. Per il resto, la sua posa e
il suo contegno suggerisce qualcosa di stridente con la sua apparente giovane
età. Ha uno sguardo penetrante ed azzurro come ce ne sono pochi, apparentemente
glaciale, circondato da una cascata di capelli arricciati in punta di colore
castano chiaro. La mascella è serrata, ogni tanto si mordicchia nervosamente il
labbro inferiore: resta in piedi davanti alla mia scrivania e,soverchiandomi con la sua altezza, mi destina
uno sguardo particolare. Dapprima incerto, inquieto, forse persino spaventato.
Dopo, con un lampo cobalto che colgo distintamente, studia senza ritegno le
linee del mio viso come alla ricerca di qualcosa. Mi mette profondamente a
disagio con questo esame interiore, quindi mi affretto con la schiena sudata a
guardare in direzione della porta, aspettando sua madre.
La segue
dopo qualche istante una donna con un vestito azzurro di lana, lungo sulle
maniche come a coprirle le mani affusolate. Stavolta sono io a renderla oggetto
di una lunga occhiata incuriosita, mentre mi torna in mente il giudizio di Leda
che le ha definite “fuori”. La donna che mi si palesa davanti, un quieto
sorriso gentile sulle labbra, ha dei tratti di vaga traccia slava: appare
decisamente più piccola nella statura della figlia, che la supera di una spanna
abbondante. Ha lunghi e liscissimi capelli scuri a contornare un viso pulito
dalla pelle olivastra. Gli occhi cervoni sono limpidi, chiari, circondati da
lunghe ciglia nere, cosa che le dà l’impressione di somigliare ad un cerbiatto
perso nella foresta. È lo sguardo che Leda si sogna nelle sue interpretazioni
da ragazzina verginella; questo appare autentico, vero, incomparabilmente
ammaliante.
La guardo
per qualche secondo senza capire perché mi comunichi una sensazione di… sicurezza.
Calma. Serenità. Come una stretta gentile sulla nuca. La assaporo a pieni
polmoni, come se ne avessi un bisogno ancestrale finalmente soddisfatto. La
cosa mi sembra piuttosto strana, non sono una da sensazioni improvvise ed
impreviste davanti agli sconosciuti. O meglio, non sono una da sensazioni
positive, quando si tratta di sconosciuti. Però l’aspetto quieto e gentile della
donna di fronte a me, è abbastanza pervasivo nel trasmettermi immediatamente
quel calore.
“Prego,
accomodatevi…” sussurro calorosa alle due, indicando le due poltrone davanti
alla mia scrivania, mentre rintuzzo con la bacchetta il fuoco del camino nella
fredda giornata di dicembre. Proseguo poi atona: “Potete gentilmente ripetermi
i vostri nomi? La mia assistente… ha mancato di riferirmeli…”.
La
ragazza, subito, interviene con decisione, ha una voce pastosa, abbastanza dura
e marcata sulle gutturali: “Charlotte D. Karkaroff… e lei è mia madre, Tatia
Krasova. Lei è la signora Granger, giusto?”. Ascolto i loro nomi con un lieve
fremito delle ciglia, un dejà vu mi frastorna tagliandomi fuori dal presente e
piombandomi in una ripetizione di parole e sillabe senza senso.
Scuoto la
testa cancellando la sensazione, sono nomi particolari ma ovviamente perché
riecheggiano la loro origine straniera. Forse solo il cognome della ragazzina
mi accende una piccola spia luminosa.
Igor Karkaroff: il preside di
Durmstrang al torneo Tremaghi.
Che siano imparentati?
Proseguo
con gentilezza: “Chiamatemi pure Hermione… mando subito un gufo a recuperare la
vostra documentazione, così possiamo analizzare assieme il caso e quello di cui
avete bisogno. Ci vorrà qualche minuto”.
La donna
di nome Tatia sorride gentile ringraziandomi a bassa voce, mentre Charlotte fa
uno sbuffo nervoso con il naso mentre il mio gufo prende il volo. Cala
naturalmente un silenzio pesante come piombo che mi innervosisce come non mai.
Fingo di essere completamente assorbita da un documento che leggo con sussiego,
seguendo le righe stampate con l’indice. Naturalmente non possono sapere che si
tratta semplicemente della lista degli ingredienti del tacchino con il curry
che mi ha infilato Ginny nell’agenda in vista del Natale. Lo sguardo della
ragazzina mi buca la fronte china sul foglio, facendomi sudare freddo.
“Lei… non
è di qui, vero?” erompe alla fine con voce nervosa, un po’ acuta e stridula.
“Cosa?”
chiedo con una punta d’ansia, sollevando il capo.
Charlotte
mi studia senza ritegno e contegno, poi le rughe della fronte arricciata si
spianano con risolutezza e ripete stavolta senza inflessione di domanda,
stentorea: “Lei… non è di qui…”.
Sorrido
piuttosto nervosamente, e garantisco con voce che suona isterica persino alle
mie orecchie: “Sono nata e cresciuta a Londra. Quindi sì, sono decisamente di
qui…”, con un improvviso fulmine di consapevolezza, aggiungo ispirata: “Posso
garantirti che ho piena conoscenza della legislazione inglese sia babbana che
magica, ed anche…”.
Charlotte
finge di non sentirmi neppure come se avesse parlato il vento, e si rivolge
alla madre con tono lezioso e pedante: “Mamma, lei non è di qui vero?”.
Tatia,
apparentemente, nemmeno si sconvolge. Sorride ancora, poggiando una mano sul
braccio della figlia in un gesto affettuoso che seguo senza accorgermene:
“Ovvio che no, tesoro. Sei stata molto brava ad accorgertene”. Ha una voce
soffice ed orgogliosa, gli occhi le si illuminano guardando la figlia.
Charlotte,
inorgoglita dal complimento, sfodera un sorriso luminoso ed arrossisce, prima
di dire meticolosa con una nuova occhiata severa nella mia direzione: “Vibra
quasi in modo diverso, sembra piuttosto evidente. Chissà per quale motivo”.
Il mio
straniamento, ovviamente, finisce in quel momento. Il ritorno del gufo con il
faldone di documenti, mi riporta alla realtà contingente ed alla assurdità
della situazione, così che possa ribattere acidamente, schioccando la lingua ed
aprendo le cartelline con un gesto repentino: “E questo è il momento in cui mi
schiarisco la voce, richiamando l’attenzione su un piano del discorso più normale,
mentre mi perdo nei meandri di una conversazione nient’affatto inquietante”.
Le due mi
guardano allora tra il colpevole (Tatia) e l’infastidito (Charlotte),
sobbalzando però entrambe come se si fossero ricordate solo in quel momento
della mia presenza, sebbene stessero tranquillamente parlando della mia natura
aliena al mondo civilizzato. Mi ritrovo per la prima sciagurata volta nella
vita a dare ragione a Leda. Sono fuori.
Prima, lei mette due parole in croce
di senso competente e compiuto. Poi, io le do ragione.
Due volte in una giornata: si sarà
aperto il secondo sigillo dell’Apocalisse.
Tatia,
con maggiore tatto rispetto alla figlia, si scusa mortificata e bisbiglia
cortese: “Ci scusi Hermione, io e Charlotte non volevamo essere indelicate o
farla spaventare…”. Assume un tono solenne ma confidenziale, prima di
proseguire: “Io e mia figlia abbiamo una… percezione diversa del reale, rispetto
alla gente comune. Le nostre conversazioni perciò possono risultare pienamente
comprensibili da noi due, ma naturalmente possono risultare persino
preoccupanti se ascoltate da altri… le domando scusa…”.
Annuisco
con partecipazione, il calore di Tatia induce chiunque a darle ragione a
prescindere con un sorriso dolce. Una percezione diversa del reale: due
sensitive, quindi? Ammetto il mio scetticismo, ma lo nascondo dietro
un’espressione cautamente neutra.
Tatia
però sembra quasi indovinare la mia reticenza a crederle, quindi si sente in
dovere di spiegare sommessamente: “Ho goduto del dono della chiaroveggenza fin
dalla più tenera età. Mi troverà in tutti i testi più accreditati sulla
Divinazione del nostro secolo. Non che abbia bisogno di referenze, ci
mancherebbe. Ma comprendo che possa pensare di avere a che fare con una
ciarlatana…”.
“Non lo
avevo assolutamente pensato, Tatia…” aggiungo con una punta di senso di colpa
per i miei pensieri, mentre preciso incolore: “E d’altronde non credo nemmeno
che mi interesserebbe… non potrei negarle assistenza legale nemmeno se fosse
una visionaria…”. Sposto senza alcuna necessità il calamaio della mia penna,
mentre cerco di mantenermi sulla china neutra tra la dipendente del Ministero
che deve suonare professionale e la donna da sempre abituata alla gentilezza e
all’educazione. Con tatto chiedo a quel punto, indicando la minore delle due:
“Sua figlia condivide il suo dono?”.
La
ragazzina, in un moto di difesa, si serra le spalle come se avessi osato troppo
nella mia domanda innocente. Persino gli occhi sembrano bruscamente cambiare
colore, diventando più scuri. Tatia stringe un polso della figlia,
accarezzandole il palmo con il pollice in modo gentile, mentre sussurra
fieramente: “Charlotte non è come me. E’ del tutto… diversa. Dovrei
spiegarle troppe cose noiose per farle capire la sua natura…”, la ragazzina
sospira partecipe, assolutamente estranea alla presunzione di essere definita
così particolare. Sembra piuttosto quasi vergognosa a riguardo, come se sua
madre stesse dicendo qualcosa di cui non andare così orgogliosi e fieri come
lei vuole far credere. Con una punta di angosciosa curiosità, mi chiedo allora che
cosa sia Charlotte Karkaroff. L’aspetto è assolutamente comune, sembra solo
un po’ più grande della sua età. Non ha nessun segno esteriore che faccia
pensare a vampirismo, licantropia o sangue Veela. E suppongo che in quel caso,
sua madre non sarebbe così misteriosa.
Però
stiamo parlando di una Karkaroff: se fosse davvero imparentata con Igor,
comprenderei se dietro ci fosse più di quanto appare. Spero solo che non si
tratti di nulla di oscuro.
Non so
perché, in modo abbastanza istintivo, gli occhi di Charlotte mi suggeriscono
che non c’è nulla di malvagio in lei. Forse solo di… incomparabilmente
speciale.
Tatia,
dopo una piccola pausa, continua con voce tranquilla: “Io e Charlotte
condividiamo un livello di percezione maggiore rispetto al normale, anche se il
suo è infinitamente superiore al mio… ci ha incuriosito solo che lei fosse… diversa,
ecco… a livello di energia vitale e mistica… è una cosa rara, ha mille
motivazioni. Ma non c’è nulla di preoccupante…”.
Guardo
con la coda dell’occhio ancora per qualche secondo il viso della ragazzina,
come a cercare in quelle linee paffute e puerili velate di imbarazzo le tracce
di questo enorme potere, poi con un po’ di vergogna per la mia attenzione
maleducata, distolgo forzatamente lo sguardo da lei, tornando agli accenni che
stanno facendo alla mia presunta energia mistica diversa dal normale.
“Mi scusi
la domanda, ma sono una persona molto curiosa. Ed è la prima volta che
onestamente parlo con un’esperta di divinazione che non mi sembri un’indovina e
basta…”, il complimento inorgoglisce Tatia che si sporge sulla sedia,
ascoltandomi: “Ma che cosa significa che la mia… energia… è diversa?”.
“Mi perdonerà se il mio discorso
sarà forzatamente semplicistico…” prosegue Tatia con un profondo respiro “Ma
comprenderà che si parla di percezioni. Ogni persona ha un’aura diversa a
livello divinatorio, legata ad uno dei cinque destini di ogni uomo che sta
evidentemente perseguendo…”, la ascolto rapita come una bambina alla prima
lettura di una fiaba “Cervello, cuore,
ossa, fegato e sangue: sono questi. Ogni uomo li possiede tutti e cinque,
ma non si sa se li incontrerà tutti. Le persone tranquille ne vivono e scelgono
uno. Quelle felici ne trovano uno che ne comprende cinque. E, per una profetessa, ciò è visibile tramite una sorta di aura…
colorata, luminosa. Comprenderà quanto sia iridescente come un arcobaleno per
chi vive così felice da racchiudere cinque destini…”. Tatia a quel punto si
interrompe a disagio, gettandomi un’occhiata in trasparenza che mi fa sentire
nuda ed infreddolita. Anche Charlotte mi destina un’occhiata simile, tinta
ancora da una vena interrogativa che le fa aggrottare le sopracciglia scure.
Come se
cercasse di capire come funzionassi.
Vedo distintamente le parole
rincorrersi nella mente di Tatia Krasova, mentre cerca di spiegare a grandi
linee quello che sente su di me. Le pupille si aprono e restringono, come se
seguisse delle linee attorno alla mia figura. Poi, in un respiro più intenso,
sussurra quasi sfibrata: “La sua aura… è particolare perché… è fioca, produce
il bagliore che avrebbe una lucciola agonizzante”.
Quell’ultimo aggettivo, agonizzante, mi fa rabbrividire e gelare
come se fossi in mezzo alla neve. Nascondo le mani ghiacciate sotto la
scrivania, stringendole forte sulle mie ginocchia nel tentativo di riscaldarle.
Tatia, quasi mortificata, prosegue fiacca: “Ed ha una luce intermittente e… grigia. Come il mare di gennaio. Nessun
destino è così. Può sembrarle una cosa strana da spiegare, ma non credo di
potermi esprimere meglio”.
Un’aura
grigia.
Picchietto pensosamente un indice
sulle mie labbra, come se mi stessi concentrando sommamente nel silenzio delle
mie interlocutrici. Ma, in realtà, la mia mente è piuttosto sgombra e deserta:
strano a dirsi, conoscendomi.
Non è francamente rassicurante che
una chiaroveggente ti veda in modo incerto. Non ho grandissima esperienza in
materia, ma suppongo che non sia un segnale incoraggiante alla “vai avanti così, Hermione, sei una grande!”.
E del resto lo sguardo di Tatia, così profondamente mortificato
dall’impossibilità di spiegarsi e di argomentare meglio, nonché le occhiate in
tralice di curiosità della figlia, mi comunicano l’assoluta buona fede e verità
dei loro giudizi. Non riesco nemmeno a rigettare tutto malamente indietro,
parlando di panzane e ciarlatanerie inutili, come solevo fare alle profezie
della Cooman. So che stanno dicendo il vero, in un modo che è solo intuizione e
ben poco di logica.
Perciò ammetto il brivido di
spavento che mi coglie imprevisto e che scanso malamente, fingendo di
massaggiarmi la nuca in modo distratto.
Stranamente, però, quando Tatia aggiunge
che la mia aura tra tutti i colori dello spettro dell’arcobaleno è grigia, ho un moto di torsione dello
stomaco che somiglia ad un curioso sollievo.
Penso, in modo lucido, che magari un
nero pece mi sarebbe sembrato più luttuoso o terrorizzante. O la prospettiva di
avere un’aura viola, mi avrebbe fatto chiedere stupidamente sulle preferenze
cromatiche assurde della mia energia mistica.
Invece, il grigio mi calma. Persino più del rosso, il mio colore preferito.
Che cosa assurda.
Torno con un sobbalzo al presente,
Tatia continua a studiarmi come se avessi scritta sulla fronte una pagina
prolissa di un libro da imparare a memoria.
Sussurro con un filo di voce
arrocchita: “E… a… cosa potrebbe essere dovuto?”.
Tatia guarda in obliquo Charlotte
come a cercare da lei ispirazione, ma la ragazzina scuote le spalle in modo
negletto e distratto ad assicurarle che non ha nemmeno lei le parole giuste per
potermi spiegare la cosa.
“Non lo so, Hermione, sono onesta…”
riprende allora la madre con tono sconfitto “Mi dà l’impressione di una luce
che… filtri da un’altra stanza. E che
quindi arrivi soffusa ed in ombra. Come se non appartenesse davvero a questo
tempo. È come se il suo vero destino fosse… bloccato
altrove…”.
Le sue parole mi riportano
naturalmente alla memoria quelle di Isolde, la
nostalgia di un’altra vita. Sembrano così stranamente gemelle, da darmi
l’impressione di un complotto metafisico ordito alle mie spalle. Le accosto
mentalmente, e fanno paio ed eco le une con le altre.
Eppure, con una scarica di brividi
diffusi di riflessione, non riesco assolutamente a focalizzare che cosa dovrei
rimpiangere e che non ho fatto. Penso in modo automatico ai miei recenti
pensieri su Ron e sul matrimonio, ma non li considero così drammatici in fondo.
Se pure dovesse essere vero che la
mia strada non è questa, è anche vero che nessuna mi si è mai aperta parallela
al crocevia. È tutto indistinto ed irrisolto, come ogni “se fosse” umano.
Perciò, oggettivamente, continuo a
non capire come mai questo ritornello mi si ripropone costante da qualche
giorno.
Tatia, quasi in dovere di aggiungere
qualcosa, continua a mormorare piatta alla maniera di una indovina di quinta
categoria. Non ha più nulla della carica emotiva precedente, della indecisione tutto
sommato sincera che mostrava prima. Ora sembra solo intenzionata a chiudere con
una risposta da cioccolatino incartato: “Forse è solo in una fase emblematica
della sua vita che prelude ad una svolta decisiva. Ammetto che ho notato in
quei casi variazioni diverse dalla sua, ma non è così inconsueta come
spiegazione”.
“Non è che…” chiedo con una risata
nervosa, tanto per dire qualcosa che comunque, stranamente, non mi
impensierisce: “… sto per morire?”.
“No, cara”, Tatia riassume un tono
flautato e deciso, appoggiato da un secco cenno di diniego con il capo imitato
da Charlotte, come se effettivamente fossi un’idiota a chiedere una cosa così
stupida “Il destino non si interrompe per la morte imminente. Si magnifica
quando arriva a conclusione. Splenderebbe di più. Se sta brillando di meno, è
un altro il motivo. Probabilmente è ad un crocevia della sua vita”.
Risentendo ancora la frase banale
sul crocevia, scivolata fuori come se me ne desse spiegazione tanto per
cambiare argomento, aggiungo di nuovo fredda e lucida: “Mi scusi, le devo
sembrare una donna sull’orlo di una crisi nervosa”.
Tatia sorride, scuote il capo e dice
compita chiudendo gli occhi: “Si è sempre curiosi su ciò che non si conosce.
Invidio chi ha ancora meraviglia del futuro. Ma comprendo anche la paura di non
saperci avere a che fare. Ma hai già tutto quello che serve… hai sempre avuto
tutto, Hermione Granger. Solo che non lo sai, non l’hai mai saputo. Anche
stavolta sarà così…”.
L’ultimo monito viene pronunciato da
Tatia come se le scivolasse dalla gola inconsapevolmente. Le parole sfrigolano
fuori dalle sue labbra rapide e veloci, come se le sfuggissero. Si incespica
persino sul finale, come se davvero fosse stato più forte di lei e della sua
volontà. Gli occhi le si annebbiano lievemente, e lei accenna persino ad un
capogiro. Ma, quando Charlotte si china per soccorrerla, biascica che non è
nulla. Non evita però di destinarmi un’altra occhiata profonda, come se
cercasse di trovare l’origine del suo malessere in me.
Mi stringo nelle spalle, decisa ad
interrompere la stranezza di quest’incontro quanto prima, riportando tutto su
un piano più normale.
“Siete venute qui… per parlarmi di
una causa di divorzio, giusto?” esordisco quindi decisa, rompendo ulteriori
indugi. Tutte le varie teorie sulla mia aura bizzarra e sulla sua motivazione,
ristagnano in un punto nascosto della mia testa, mentre con una punta di
soddisfazione noto di poter esercitare adesso io il controllo della situazione,
come sarebbe stato normale sin dall’inizio.
Ora sono io quella che sa di che
cosa stiamo parlando.
Per converso, Tatia si
rimpicciolisce come se diventasse minuscola solo per effetto di un misto tra la
vergogna e la ritrosia, mentre Charlotte si erge insormontabile, petto in fuori
e spalle aperte come un generale sul campo di battaglia. È lei, infatti, a
cominciare arrogante, schioccando la lingua infastidita e guardandomi
severamente: “Mia madre non voleva venire qui. Mia madre non voleva divorziare
affatto da quello stronzo di mio padre… forse sarà meglio che faccia seguire a
me la cosa”.
“Charlotte!”. Tatia la rimprovera
sommessamente, tirandosi a sedere più dritta, ma non sortisce alcun effetto di
pentimento nella figlia che continua a guardarmi in attesa, riservando alla
genitrice solo uno sbuffo di impazienza.
“Cosa è successo?” chiedo allora con
una punta di nervosismo, comprendendo che deve trattarsi di una questione
piuttosto delicata.
Nell’ora successiva, vengo a
conoscenza di tutta la storia di Tatia Krasova e di sua figlia Charlotte
Karkaroff. Non è quella che definirei una bella fiaba, e mi provoca spesso
picchi di contemporanea empatia e disagio. E’ la storia di una ragazzina,
Tatia, cresciuta con un dono ingombrante come quello della profezia che le ha
reso lontana la madre, la quale non accettò mai che proprio sua figlia fosse
stata la Cassandra, rea di annunciarle la morte del marito nella Prima Guerra
Magica. Tatia, estraniata dal suo stesso sangue e portatrice di questa dote
funesta, stringe amicizia con i due figli di Igor Karkaroff, Raissa e Dimitri,
allontanati dal padre con la moglie Dasha proprio per la guerra.
I tre diventano inseparabili, Raissa
e Dimitri si ergono a difensori della piccola profetessa nonché suoi custodi.
E carcerieri.
Tatia, però, è una bambina, non
comprende, non capisce.
Li vede come due divinità, come i
soli artefici della sua felicità, mentre i due ammirano ed aborriscono il
potere di Tatia nella stessa letale e dipendente mistura. Studiano la sua mente
e la sua magia, la imbrigliano in un gioco perverso di tracotante superiorità,
fanno sì che Tatia creda per tutta la vita di valere solo la misura che loro
sono disposti a riconoscerle.
Tatia, con gli occhi lucidi, mi
confessa persino di aver avuto un giorno di fine estate, prima di cominciare la
scuola a Durmstrang, una profezia per cui sarebbe stata uccisa da Raissa nel
giorno del suo diciannovesimo compleanno per un accesso di rabbia e gelosia, al
suo tentativo di ribellarsi al loro controllo. Ma Tatia, pensando intimamente
che la sua stessa vita è una loro proprietà, si è persino sottomessa a quel
destino ed implicitamente al loro controllo così che, alla fine, in modo
autonomo, quel destino è cambiato, scongiurando l’omicidio.
La sua vita prosegue incolore ed
insapore per anni, presto la felicità di avere una sorta di famiglia che
sostituisca il legame infranto con la madre e la vanità di sentirsi considerata
una creatura a cui tutto è concesso e niente può essere negato, sparisce,
lasciando il posto ad un’apatia costante e ad un senso di estraneità continua a
sé stessa, come se vivesse sempre le spoglie di un’altra persona.
A diciannove anni, l’età di Teddy,
accetta di sposare il suo carceriere, Dimitri, convinta di non poter aspirare a
nulla di meglio nella vita, se non all’amore malato di possesso e di brama che
lui l’ha convinta di meritare.
Vanno a vivere in un grande castello
in Bielorussia, assieme alla sorella Raissa, per scampare alla guerra divampata
nuovamente, ma essa con il suo fiato violento li raggiunge comunque in un
attacco mortifero da parte di un gruppo di Mangiamorte, che cercano i figli del
traditore Karkaroff. Raissa viene barbaramente uccisa, mentre Dimitri viene
gravemente ferito, riportando delle gravi lesioni così che resti immobilizzato
su una sedia a rotelle, paralizzato dalla vita in giù.
Il lutto per la sorella a cui era
così strenuamente legato, un senso cieco di frustrazione per una vita che non è
andata come lui voleva, l’insofferenza per la giovane moglie persino più devota
e amabile dopo l’incidente, lo rendono una creatura incattivita,
inselvatichita, violenta, che ha come suo bersaglio di boria ed angherie solo
Tatia. Inizia a destinarle scarti sempre più feroci di violenza verbale,
dandole la colpa di ogni cosa, e non lo addolcisce nemmeno la nascita della
figlioletta Charlotte. Le chiude entrambe in una reclusione morbosa, le soffoca
di appiccicosa dipendenza, le annienta in un miasma di negatività e di male di
vivere, alternando il tutto con momenti di apparentemente sincero affetto ed
attaccamento che le lega entrambe.
Tatia, con gli ultimi sprazzi di
lucidità, riesce però fin dalla più tenera età della figlia, a tenere nascosti
i suoi enormi poteri, in modo che il padre non se ne ingolosisca come accadde
per lei. Charlotte, quindi, ha la fortuna immensa di essere sempre piuttosto
ignorata da Dimitri.
L’inganno, però, si è rotto qualche
settimana prima: in un momento di particolare violenza stavolta anche fisica
del padre a danno della madre, la ragazzina scoppia di potere represso per
difendere Tatia. Dimitri comprende subito la portata dell’enorme potenziale
magico della figlia, si convince automaticamente che, se le strappasse i
poteri, potrebbe essere in grado di fare qualsiasi cosa, sordo pure alla
possibilità che così Charlotte perda la vita.
È solo allora, di fronte alla
possibilità che la figlia muoia, che Tatia riesce a trovare la forza di
fuggire, scappando in Inghilterra e nascondendosi, decidendo finalmente per una
causa di divorzio che potrebbe togliere la patria potestà di Dimitri su
Charlotte: a quel punto, nel mondo magico, i minori vengono protetti da
speciali incanti per cui, anche se il padre la incontrasse per strada, non
sarebbe nemmeno lontanamente in grado di capire che si tratta di lei.
Al racconto, Tatia si affloscia
progressivamente come un giunco secco, come se le fosse stata succhiata fuori
ogni energia: ripete in modo maniacale di quanto fosse stata ingenua a sposare
un uomo in un’età in cui, forse, nemmeno aveva idea di che cosa fosse l’amore.
Dovrei fare un collegamento
immediato con Teddy e con tutte le reticenze che ho al fatto che si sposi così
giovane: eppure, nonostante io fossi molto più grande al momento delle mie
nozze, continuo di nuovo e furiosamente a pensare a me stessa.
Mentre annoto i riferimenti
anagrafici di Tatia e della figlia e le rassicuro sommariamente che saranno
immediatamente poste sotto la protezione del Ministero Inglese della Magia,
continuo ossessivamente a pensare alla metafora del disastro aereo: alle
persone che, per un soffio, per un insperato colpo di fortuna, prendono il
velivolo che li condurrà alla morte, e poi a quelli che, invece, non sentono la
sveglia, o perdono una coincidenza, e mancano l’appuntamento con il destino.
Con un odore fastidioso di polvere
nel naso, mi sento bloccata nella sala di attesa di un aeroporto, sballottolata
come se la gente mi urtasse correndo verso i suoi impegni, ed io invece me ne
stessi ferma, rigida, con le gambe incollate al terreno, senza capire se sono
nel primo gruppo di persone, quelli che l’aereo lo hanno preso, o nel secondo,
quelli che l’aereo lo mancheranno di un minuto.
Quale destino è stato il mio? Quello
del matrimonio che, nonostante le circostanze, è stato inaspettatamente
fortunato? O quello dell’unione che, inevitabilmente, mi schianterà al suolo
come decine di persone come me? Siamo quelli speciali… o siamo quelli come
tutti?
Paragonare, però, il mio matrimonio
ad un disastro aereo, mancato o avvenuto che sia, ha l’effetto di sconquassarmi
i nervi come un uragano di vento; penso di voler mettere solo più distanza
possibile tra me e Tatia Krasova e quelli scomodi pensieri. Trovare un vertice
di somiglianza con una donna maltrattata per anni dal coniuge, è qualcosa di
assurdamente ingiusto: sopravvaluta me, sottovaluta lei e svilisce Ron ad un
livello bestiale che non gli è mai appartenuto.
Non so da dove mi venga questa
empatia spiccia con lei.
Affretto, quindi, le pratiche così
da farle congedare quanto prima, accompagnando il tutto con vane parole di
circostanza che le tranquillizzino sulla possibilità che tutto vada a
concludersi per il meglio. Mi accorgo con profondo disagio di spintonarle quasi
sulla porta del mio ufficio, Charlotte reagisce con stizza ed allunga la
falcata per allontanarsi severa.
Tatia, invece, fa quasi resistenza
sulla porta, mi destina ancora un’occhiata in controluce, come ad imprimersi il
mio volto nel cervello; poi, in un guizzo feroce dello sguardo, punta le iridi
castane sul mio collo. Il volto olivastro le diventa immediatamente diafano,
come se il sangue fosse fluito via, e balbettando con voce smunta, indica il
mio petto e soggiunge abbandonando ogni cortesia: “Dove hai preso quella
collana?”.
La guardo senza comprendere, per un
attimo completamente avvolta dall’amnesia su che cosa abbia attirato la sua
attenzione. Mi tocco il collo a disagio, riconoscendo infine la catenina d’oro
bianco che porta il ciondolo a forma di goccia di sangue che indosso sempre.
“Questa?” chiedo, non senza una
buona dose di autentica meraviglia alla banalità della domanda. Lei annuisce
ancora, il volto di cera, allungando persino una mano per toccarmi il braccio,
arrendendosi prima di artigliarsi al mio polso: “Dove l’hai presa?”, chiede
ancora con un filo di calma in più.
Dove l’ho
presa?
Per un attimo idiota, davvero non me
lo ricordo. Mi porto persino una mano alla testa sotto l’impeto che si spacchi
esattamente a metà, chiudo gli occhi a disagio in un lampo d’oro malato che mi
acceca la vista. Poi, vittima della stanchezza di quel momento, ricordo
improvvisamente tutto, sgonfiandomi come un palloncino bucato.
“Una fiera di paese. E’ un regalo di
mio marito, sa che adoro il colore rosso…” aggiungo incolore, il tumulto dentro
sedato come una rivolta popolare soffocata “La strega che me la vendette,
assicurava che fosse una goccia di sangue di Unicorno solidificata, persa
durante il parto. Una cosa rarissima che dovrebbe contenere persino una sorta
di desiderio per una madre…”, borbotto assolutamente convinta di essere stata
così ingannata sul prezzo “… ma in realtà, non penso che sia nulla di che. Solo
un oggetto carino. Al massimo, potrebbe essere una sorta di bussola”.
“Di bussola?” chiede Tatia con un
rantolo esausto di voce, come se avesse corso chilometri.
“Già…” commento senza più un
briciolo di entusiasmo “Indica sempre il mare… almeno mi piacesse andarci…”.
Verso le 17 del pomeriggio, decido
di andare via dal lavoro, consapevole che la mia mente sia altrove e che sia
praticamente impossibile continuare a concentrarmi. Per la mia assoluta non
volontà di focalizzare l’oggetto dei miei pensieri, sento i neuroni invasi da
una melassa condensata e stopposa come zucchero filato.
Evito di riconoscere qualsiasi
ragionamento per terrore che mi faccia del male; piuttosto tento di decolorarlo
e farlo diventare inoffensivo sotto la prospettiva di una normalissima fase di
crisi e confusione. Può essere, no? Credo che a trentasei anni, con due figli,
a chiunque, persino a me, possa venire in mente di mettersi in discussione:
nulla di particolarmente originale o drammatico.
Quando arrivo nella hall del
Ministero, abbastanza deserta dato che molti hanno deciso di staccare prima a
causa di un’imminente tempesta di neve, mi accoglie un gufo color bianco latte,
che deposita sulle mie palme aperte un semplice biglietto. Esso si rivela
essere una nota di Ginny che mi invita alla Tana per quella sera stessa per
parlare dell’ormai imminente pranzo di Natale. Naturalmente, sebbene mia
cognata non vi faccia riferimento, so che è l’occasione perché io riprenda a
pieno titolo il mio ruolo nella discussione del decennio, ossia il matrimonio
tra Teddy e Victorie.
Proprio quello di cui ho bisogno.
Penso ad una scusa che mi impedisca
di recarmi alla Tana, un malessere o il riacutizzarsi della nausea che mi ha
tormentato improvvida per settimane, ma che oggi ha deciso di non farsi sentire
per nulla. Alla fine, con un gesto stizzito della bacchetta, mi smaterializzo e
decido di togliermi il dente fino a quando non è diventato un ascesso, ma è una
semplice carie da poter ancora curare.
Ma, sebbene mi imponga in modo serio
e freddo di essere quanto più calma e serena possibile, in pochi secondi mando
in frantumi il mio proposito.
La cocciutaggine di Ron che, tra un
appunto e l’altro sulla spesa da fare per Natale, continua a sostenere
l’assoluta impossibilità di una strada diversa dal matrimonio per Teddy e
Victorie, mi fa saltare la mosca al naso in quattro e quattr’otto. Il fatto
che, poi, i due ragazzi non siano oggi presenti, rintuzza la mia libertà di
parola che si incendia come un rogo boschivo, mentre comprendo di non essere in
grado di guardare negli occhi mio marito, per paura che vi legga i miei ultimi
pensieri. I miei cognati cercano di riportarci alla ragione a suon di parole
rassicuranti o di elusioni, ma senza che nemmeno me ne renda conto, Ron
pronuncia qualche parola di troppo, io rispondo a tono e finiamo per superare
il limite.
Saturata dall’aria asfittica della
stanza, non volendo tornare a casa per paura di restare ancora più in silenzio
con i miei pensieri, apro la portafinestra ed esco sulla terrazzina dei
Weasley, gettandomi distrattamente il mantello sulle spalle. Fuori, la neve è
un manto di silenzio che cade leggero a grandi fiocchi, insonorizzando ogni
cosa. Sollevo il cappuccio sulla testa, appoggiandomi alla balaustra e
asciugandomi rabbiosamente con la mano la guancia bagnata.
D’improvviso, alle mie spalle,
avverto un rumore: un fruscio di vesti ed un tramestio sommesso di passi, come
di qualcuno che stesse cercando di sgattaiolare via nel modo più rapido e
silenzioso possibile. Mi volto su me stessa con la bacchetta sguainata,
pensando immediatamente ad un ladro, poi con la coda dell’occhio, riconosco
l’ignaro avventore e urlo, stizzita, battendo un piede per terra per lo
spavento: “Dannazione, Malfoy!”.
Draco Malfoy lascia cadere la mano,
probabilmente andata alla ricerca della bacchetta nascosta nelle falde del
mantello che indossa, e mi guarda torvo, mentre cerco di far tornare il mio
respiro normale, la mano poggiata sul torace. Lo guardo in tralice con il
sopracciglio inarcato, pronta a riversagli addosso ogni genere di insulti, solo
per sfogarmi un po’. A sua volta, lui abbassa le spalle che aveva serrato in
modo automatico e mi destina uno sguardo livoroso, le labbra già quasi aperte
per rispondermi a tono.
Eppure, per un po’, non riesco ad
aprire bocca: la rabbia si smonta come un dolce venuto su male. Lo guardo e
basta, in un modo che non mi riesco a spiegare. Apparentemente, mi sembra di
farlo solo perché, dopo anni, ho l’occasione di farlo per bene, imprimendomi
tutti i particolari che l’odio mi ha impedito di mettere a fuoco sul tempo che
è passato anche per lui.
Una cicatrice sul sopracciglio
sinistro. Una fossetta quasi buffa sul mento. L’attaccatura dei capelli alta. I
capelli corti tra il biondo e il platino, rasati.
E poi quegli occhi grigi così
cangianti, come una pietra di fiume immersa nell’acqua.
Per qualche momento, fissi nei miei,
si scuriscono, assumono dei lampi azzurri nel torbido, sembrano cercare
qualcosa che non riesco nemmeno lontanamente ad immaginare.
E so starmene solo qui a lasciarlo
fare.
I secondi passano indifferenti, il
mondo resta ovattato di neve come sotto una campana di vetro, e non so quanto
tempo davvero stia passando: so solo che, curiosamente, mi sembra di cercare
qualcosa in lui e mi sembra che lui faccia altrettanto. Come se, sotto questi
cappotti e mantelli pesanti, sotto il trucco sciolto del mio viso e la piccola
ruga attorno alle labbra del suo, sotto i fili grigi che scorrono nei nostri
capelli, cercassimo altro.
Probabilmente, solo chi siamo stati
prima, a scuola, ad Hogwarts, con tutta la vita davanti.
In modo realistico, lui per me ed io
per lui siamo due collegamenti con il passato, visto quanto poco abbiamo
condiviso delle nostre vite presenti. Siamo una scatola di rimpianti,
confezionata con pessimo gusto dal caso di riunirci a tanti anni di distanza.
Quei pensieri pungono i miei occhi
di nuove lacrime, che nascondo sistemandomi il cappuccio del mantello, qualche
fiocco di neve che mi cade sul naso, spingendomi ad arricciarlo
automaticamente. Un conato di nausea in sottofondo mi avvisa della fine della
tregua anche con il mio malessere misterioso: porto la mano sulle labbra, dando
le spalle a Malfoy.
“Ecco cosa si ottiene a fare i discreti…” borbotta lui al mio
indirizzo, dopo qualche secondo quasi di spaesamento per entrambi. Lo vedo con
la coda dell’occhio rilasciare la mano che, automaticamente, aveva serrato il
cappotto all’altezza dello stomaco, come in preda ad una qualche forma di
spasmo involontario. Malfoy, intercettando il mio sguardo, si affretta ad
incrociare le braccia con sussiego, come se fosse una qualche vergogna segreta.
Solleva il collo del cappotto
pesante di panno azzurro che indossa, mormorando truce: “Sei ormai abituata a
chi annuncia pesantemente la sua presenza, Granger, che di conseguenza, ti
spaventi a chi non hai passi da taglialegna in una foresta, ma incede con innaturale grazia”.
“La tua sarebbe innaturale grazia?” chiedo, inarcando un sopracciglio e guardandolo
storto, mentre lui, apparentemente senza alcuna fretta, si appoggia con la
schiena al muro alle mie spalle, accanto alla portafinestra chiusa, e solleva
il viso verso il cielo. Un paio di fiocchi di neve cadono sulla pelle diafana
del suo viso, quasi non facendomi indovinare il contrasto tra toni e
temperature solo di poco differenti. Sembra nato per quel clima artico.
Scuote il viso come disturbato dalla
cascata gelida, prima di continuare ironico: “Innaturale per te, ovvio: le cose
naturali della tua vita fanno rima
con Weasley. Mi pare scontato che
siamo su due pianeti differenti, e le mie doti siano per te innaturali…”.
Mi rendo conto in quel momento che
questa si può largamente definire come la
conversazione più lunga che abbiamo mai avuto in tutta la nostra vita. Forse,
nonostante gli accenni ironici che mi fanno venire voglia di cavargli gli occhi
dalle orbite, è persino la più civile.
Registro tutto questo con una parte
remota della mia mente, comprendendo che, da quando è finita la scuola, io e
Malfoy non ci siamo praticamente mai parlati, se escludiamo qualche saluto
sparso nella hall del Ministero. Forse, in fondo, è la prima conversazione da
adulti che abbiamo: e quando si è adulti, ci si può nascondere dietro l’ironia
per dissimulare quanto in realtà ci si trovi bellamente antipatici, dando la
colpa alla scarsa confidenza se ci si rapporta sempre così.
Non è più tempo per le fatture che
trasformino in furetti, o allunghino a dismisura gli incisivi.
Quella constatazione innocente, che
probabilmente in un altro contesto e momento mi avrebbe causato solo un moto di
nostalgia da quasi quarantenne, ora si trasforma in un’ondata di feroce e
corrosiva tristezza che si mangia tutta la mia energia e forza.
Ogni richiamo al tempo andato, oggi,
mi sembra solo una sirena che canta errori su sbagli.
Fiaccata, rispondo quindi in tono
assente, come a darli ragione: “Come vuoi, Malfoy. Ti appartiene anche un innaturale intuito, così che tu possa
capire che voglio essere lasciata in pace?”.
Dall’altra parte, mi raggiunge
qualche secondo di silenzio a ricordarmi che, effettivamente, Malfoy stava
sgattaiolando via, dopo avermi vista arrivare. Non era sua intenzione
trattenersi.
Ma riconoscere una sorta di
provvidenziale tatto in Draco Malfoy, mi sembra la ciliegina sulla torta di questa
giornata assurda, quindi lascio correre apparentemente in modo giusto, visto
che lui non si arrende e prosegue: “Non
mi piace vantarmi…”, al mio sollevare gli occhi al cielo, corregge il tiro:
“…d’accordo, mi piace alquanto vantarmi… quindi sì, mi appartiene…”.
“Ci
mancherebbe…” commento noncurante, cercando così di assorbire la sua ammissione
di presunzione. Adesso, si rende anche conto dei suoi difetti… dove arriveremo
di questo passo?
Malfoy
finge di ignorare il mio commento, spazzolando immaginari pelacchi sulla spalla
del suo cappotto, prima di sospirare scontatamente: “Ma stavolta userò il mio innaturale
udito. Specie considerando che questo posto dimenticato da Dio, non ha nemmeno delle
finestre insonorizzate. Del resto, l’alterco tra te e il tuo rozzo marito
sarà stato sentito anche nel Borneo…”, un barlume di istintiva comprensione gli
illumina lo sguardo sarcastico, mentre soggiunge ispirato: “Suppongo che anche
il mio udito si sia rivelato inutile, avrebbe perfettamente udito tutto anche
Beethoven”.
Il mio
volto si fa così rosso ed incandescente, che temo istintivamente per il calore
si possa sciogliere la neve che, a copiosi fiocchi, cade ancora dal cielo.
Avevo completamente dimenticato l’incantesimo Insonorizzante consueto,
testimoniando quanto poco ci sia cerebralmente in questo momento. Con una punta
di ulteriore vergogna, rammento a me stessa che non avevo minimamente pensato
che Malfoy potesse essere qui fuori, pronto ad ascoltare tutto; del resto,
nessuno della mia famiglia me lo ha fatto presente quando sono entrata in casa,
come se ormai fosse una sorta di pianta ornamentale alla cui vista e presenza
si sono abituati.
Ripercorro
mentalmente le tappe della mia discussione con Ron. Ad ogni insulto e frecciata
che gli ho destinato, le mie guance si tingono sempre di più di rosso,
facendomi ringraziare il cappuccio che ancora mi copre il viso e dietro il
quale mi appiattisco ancora di più.
Alla fine
ringhio gelida, scandendo bene le sillabe con tono di minaccia: “Se ti salta in
mente di farmi anche terapia di coppia, puoi andare a fare compagnia ai coniugi
Paciock”.
Malfoy
non si scompone minimamente, sfrega le mani l’una contro l’altra, come se
provasse un freddo che, in realtà, non penso provi sul serio. Poi sibila
sardonico: “Dio me ne scampi e liberi, Granger, non mi sporco le mani con un
disastro ferroviario”.
Stamattina ho paragonato mentalmente
il mio matrimonio ad un disastro aereo.
Ora, Draco Malfoy, una specie di
conoscente, lo definisce un disastro ferroviario.
Quando finirà questa giornata
eterna?
Completo
quelle riflessioni con una scarica di brividi gelati sulla schiena, che poco
hanno a che vedere con la temperatura sicuramente sotto lo zero. Non è un buon segno
che il mio matrimonio offra come metafore solo il caso di incidenti da non
lasciare superstiti.
Non è
nemmeno un buon segno che, a somigliarmi così tanto in una riflessione, sia
proprio Draco Malfoy.
Lasciando
cadere fiacca le braccia lungo il corpo, commento stanca: “Che diamine ci fai
qui?”.
Malfoy mi
destina un’occhiata di puro disgusto, roteando gli occhi in modo scontato:
“Granger, ti è venuto l’Alzheimer precoce in questi anni?”, poi con la voce che
destinerebbe ad una minorata mentale, scandisce netto: “Edward Lupin, mio
nipote. Pagnotta nel forno. Matrimonio riparatore.Signora Black in Malfoy che vuole difendere
onore della famiglia: rammenti?”, scrollo le spalle, se pensa di instillarmi un
qualche moto di compassione alla sua situazione, sta proprio fresco.
Si sente,
però, in dovere di aggiungere con il peggiore tono da vittima che gli sia mai
riuscito: “Sono costretto a stare qui, abbondantemente contro la mia
volontà… mia madre necessita aggiornamenti sulla situazione, e non mi sento in
vena di contraddirla. Sarebbe qualcosa di vagamente gratificante, se non
facesse passare ogni mia ritrosia come una negazione di un suo ultimo desiderio
mortale…”.
Il tono
delle sue parole si tinge di una vena amara che, pure a non volerla ascoltare,
è netta e chiara come il rumore di un tuono nel bel mezzo del silenzio. Sono
certa, in un modo alquanto bizzarro, che vuole che finga di non essermene resa
conto. Ma, nascosta nel cappuccio del mio mantello, non posso fare a meno di
chiedermi come stia fisicamente Narcissa Malfoy.
Malfoy
sorvola sul punto abilmente, incoraggiato dal mio omertoso silenzio,
proseguendo caustico: “Ma stare qui non implica che io debba
necessariamente essere presente dentro la stanza. Su questo punto, mia
madre è stata piuttosto vaga…”, sospira con sollievo concludendo lieve: “La
lingua inglese è così piena di adorabili scappatoie”.
Per un
attimo, la punta di un clamoroso e sconcertante divertimento mi tocca alle sue
parole ironiche. In mezzo alla mia apatia, la sensazione di volerlo
punzecchiare ed irridere somiglia ad un piacevole punto incandescente,
rosseggiante nel centro del ventre. Riscalda tutto il torpore che mi ha
paralizzato durante il giorno, quando mi sono impedita di pensare ad una cosa
qualunque.
Ora,
pensare con leggerezza ed al contempo con concentrazione sardonica ad una
risposta da dargli, mi rende per un attimo folle, soddisfatta ed appagata a
riguardo.
In modo
scandaloso persino per me stessa, è la prima sensazione positiva della
giornata.
E
buffamente, è legata a Draco Malfoy.
Bofonchio
quindi con tono casuale, come se stessi discutendo del tempo atmosferico, in
mancanza di alternative: “Quando cominceranno ad organizzare seriamente il
matrimonio, sarai costretto a rientrare. Potrebbero optare per delle decorazioni
color carota matura, non sia mai che l’orgoglio degli ultimi Black sia
corrotto da una tale mancanza di buon gusto”.
Completo
la mia ultima frase con una pausa ad effetto, che vuole suonare ironicamente
accorata. Dentro il cappuccio sogghigno tra me e me, fiera persino della mia
scelta cromatica lessicale: ho la vaga certezza che Malfoy detesti le carote,
chissà perché.
Nel
silenzio che avvolge la valle, con la neve che scende insonorizzando ogni cosa
compresi i discorsi della Tana, mi sento vittoriosa ed implacabile, come il
ragno che cattura la mosca. E, quando Malfoy resta zitto per una manciata lunga
di secondi, ho la certezza che questo sia vero.
Quando,
però, riprende a parlare, la sua voce ha uno strano tono basso e fintamente
carezzevole, suona come velluto. Ha in sé un germe viscido e spavaldo, come se
pronunciasse discorsi scontati e supponenti. Schiocca la lingua, mi guarda di
sbieco e soggiunge grave: “La lingua inglese ha anche il pregevole dono di
poter consentire che si legga tra le righe, Granger”.
Sebbene
non abbia minimamente capito a che cosa sia alludendo, mi sento punta sul vivo
come se mi avesse scoperto ad uccidere qualcuno. Un’ondata di calore mi
travolge da testa a piedi, mentre benedico il mio cappuccio, che perlomeno protegge
il mio viso rosso. Chiedo con voce ferma, ma che nasconde un tremito interiore:
“Che diamine significa, Malfoy?”.
Lui non
esita nemmeno per un secondo a rispondermi, ha un tono così marcato ed
insolente che sembra esserselo preparato per secoli: “Cominceranno ad
organizzare. Potrebbero optare. Un rimarchevole uso del pronome loro.”
.Ascolto le sue parole remotamente,
come se provenissero da un altro pianeta. Mi rendo conto di quello che ha fatto
il mio inconscio, prima che Malfoy aggiunga scontato: “Deduco con il mio
innaturale intuito di cui sopra che tu non sia propriamente saltata sul carro
nuziale dei due diciassettenni, uniti dal destino”.
In
verità, Malfoy vede soltanto la superficie della mia scelta lessicale
indiscutibilmente esatta. Scorge solo la mia probabile contrarietà al
matrimonio di Teddy e Victorie.
Dentro,
invece, io vedo altro, forse tutto. Ed è ancora una spina al cuore che
reprimo con un sospiro forte, sperando che il mio interlocutore lo scambi per
inedia o fastidio.
Vedo quanto
mi sono tagliata fuori dalla mia famiglia, scegliendo pronomi neutri che
accomunassero loro in una decisione, in un orientamento, in un’organizzazione,
mentre io mi ergo solitaria ed altera, nella mia fortezza di convinzioni,
apparentemente intoccabile ad ogni singulto di loro volizione. Non ho
difficoltà a proiettare quell’immagine sul reale, non ho alcuno sforzo di
fantasia a pensare che andrà davvero così. Mi sento esclusa senza motivo da
quella che dovrebbe essere l’idea della famiglia, specie della famiglia
Weasley: uno per tutti, tutti per uno, come vada e vada.
Invece,
mi trovo a pensare da monade, quando sono una moglie, una madre, una nuora, una
cognata ed una zia, senza sapere se posso permettermelo giunta a questo punto.
Senza
presagire quanto questo, ora, mi costerà.
La mia mente è fuori dalla famiglia,
ragiona da sola. E se ne uscisse anche il mio cuore?
Provo un
autentico moto di disgusto per me stessa, e per non implodere lo riverso contro
la persona con cui sto parlando, Draco Malfoy, colpevole di mille cose, tranne
che di questa.
Chiedo
perciò più acida di quanto sarebbe normale: “Ti interessa la mia opinione,
adesso?”.
Malfoy,
che nel mio blackout mentale è rimasto in silenzio, il capo reclinato
all’indietro a guardare la neve, scuote il capo con una smorfia di fastidio che
non riesco a decifrare. Passa entrambe le mani nei corti capelli biondi, come
in un residuo di memoria della chioma adolescente, poi sbuffa sarcastico:
“Sciaguratamente, la tua e quella di Potter potrebbero essere persino quelle
più sensate. Vedi un po’ come siamo messi male”.
Gli
rispondo con un finto sorriso forzato, digrignando i denti, cosa che mi fa
sentire ancora più idiota se mai fosse possibile, come se stessi recitando in
una sorta di pessima commedia degli errori. Cerco perciò di respirare con
calma, assumendo un contegno maturo e serio, prima di aggiungere all’indirizzo
del mio sgradito e sgradevole interlocutore: “Hai un innaturale intuito
e si suppone che io sia tra quelle ragionevoli”, marco i due aggettivi
con sarcasmo, guardando storto Malfoy. Lui mi ignora con una scrollata
noncurante di spalle, che interpreto come assenso a continuare compita:
“Secondo te, si può concretamente appoggiare il matrimonio tra due ragazzini in
circostanze simili? Potrebbe ragionevolmente farlo una persona sensata? Quante
ne abbiamo viste nella nostra vita per sapere che le cose non vanno mai come si
crede a diciassette anni? E che potrebbero essere destinati ad un matrimonio
infelice, solo perché adesso, in preda al primo amore, sono convinti che
potrebbe durare per sempre?”, faccio una pausa dalla mia filippica prima di
concludere persuasiva, confidando di troncare sul nascere qualsiasi
opposizione: “Quanti primi amori abbiamo visto durare per sempre, Malfoy?
Quanti?”.
Mi
ritrovo a guardarlo negli occhi, come forse non ho mai fatto nella mia vita, in
un anelito spavaldo che mi indora come una sacerdotessa pagana. Sono sempre
stata abituata a guardarlo dall’alto in basso con presunzione, o di sottecchi
con sospetto, o di sbieco con fastidio.
Non so da
dove mi venga, adesso, quest’alterigia confidenziale di guardarlo dritto negli
occhi, come se me lo potessi permettere e ci fossi persino abituata.
Malfoy
sgrana gli occhi in un moto di sorpresa, imbarazzo, stupore: tutt’assieme,
nello stesso momento, ed io al contatto con i suoi occhi distinguo ogni
pagliuzza di diamante in quel mare di perla. Ogni emozione passa in quel cielo
plumbeo, come una cascata di meteore velocissime e lucenti, e non riesco a
capire come io le sappia distinguere una per una, scorgendone le differenze. Ad
interrompere il corso dei miei pensieri, giunge un moto di nausea che metto a
tacere, la mano chiusa sulla bocca, ignorandola.
Diventa
paradossalmente più fastidiosa la percezione scomoda di qualcosa che mi
ticchetta asincrono in testa, come quando si dimentica qualcosa e si perde la
testa per cercare di ricordarsene. Nulla, però, la riporta alla coscienza.
Nel mio
susseguirsi di pensieri muti, Malfoy ha stretto una mano attorno alla stoffa
del cappotto, poi l’ha rilasciata con un respiro che si è condensato veloce in
vapore freddo. Ha scosso il capo come disturbato da un insetto, ha rifuggito i
miei occhi come se scottassero ed ha cercato febbrile nelle tasche qualcosa.
Ne estrae
una sigaretta dalla forma solo vagamente più allungata, l’accende con un
nervoso gesto della bacchetta, aspirandone una forte e cospicua boccata. Dalle
labbra chiare, sottili e strette, diventate tra il livido ed il perlaceo a
causa del freddo, soffia fuori una nube tremula di fumo biancastro: mi
raggiunge in viso con un odore che trovo stranamente piacevole.
Erba bagnata nel mese di settembre.
La
respiro senza apparente interesse per la possibilità che mi provochi una morte
poco indolore, come il cancro al polmone: al contrario, senza senso, sembra
spalancarmi i bronchi, come sembra accadere anche a Malfoy che, in modo
illogico, dichiara la sua preferenza per le sigarette al tè nero e vaniglia,
che sono in grado di calmarlo “tutte le volte che ho a che fare con le
idiozie quotidiane”.
Incrocio
le braccia punta sul vivo, dimentica del fatto che, a quanto pare, io e Malfoy
non condividiamo nemmeno le stesse percezioni olfattive; eppure, mentre lui
finisce la sua sigaretta, le mani tremanti che si fanno sempre più calme, non
mi sposto da lì.
Resto ad
aspettare che risponda.
Cosa che
puntualmente fa, non appena noto gli occhi più limpidi e meno foschi, le mani
più salde e l’espressione più indifferente.
“Ecco,
Granger, torniamo alla lingua inglese…” ribatte scontato, prima di calpestare
la cicca della sigaretta con la punta della scarpa “Usi in modo abbondantemente
poco casuale la prima persona plurale…”, al mio sguardo di domanda,
aggiunge stentoreo ripetendo le mie parole meccanicamente annoiato: “Ne avremmo
viste troppe per non pensarla in modo negativo”.
Non
comprendendo ancora che diamine voglia dire, biascico scocciata: “E…?!”.
“Io
ne ho viste troppe per non pensarla così, non tu…” rimarca scontato,
guardandomi in tralice con superiorità “Ed è un curioso controsenso, sai. Non
ti enumererò la lista delle mie precedenti compagne, prima di giungere a quella
attuale, ma penso che tu possa supporre che sia un numero potenzialmente
elevato”.
Alla sua
espressione tronfia, commento sarcastica: “Certo, le oche hanno tassi di
riproduzione elevati”.
Lui, per
nulla scalfito dalla mia osservazione, continua spavaldo: “Ammetterai, però,
che io a diciassette anni ero ben lontano dalla monogamia ideale ed eterna con
la mia fidanzatina di allora. Sarebbe normale, pertanto, che istruissi
Edward sulla bellezza della vita da scapolo incallito e lo esortassi a non
farsi mettere una ganascia al piede da una ragazzina Weasley e da un moccioso
caccoloso…”, storce il naso alla prospettiva, guardandomi con un disgusto tale
che sembra che io abbia fatto la proposta di un tale destino a lui.
Rispondo
incrociando le braccia con sussiego e lui, in uno specchio capovolto di qualche
momento prima, mi restituisce uno sguardo liquido, fiero, intenso, incatenando i
miei occhi. Un tonfo sordo mi ferisce le orecchie, le mie braccia cadono lungo
i fianchi infiacchite e ho l’impressione di galleggiare in un mare dalle onde
grandi, rotonde, piene, solo apparentemente minacciose.
Ed è
naturale chiedermi, instupidita, se davvero in tanti anni io e Draco Malfoy non
ci siamo mai davvero guardati prima. Avrei ricordato tutto questo. Avrei
ricordato che ti guarda e ti fa sentire…
Il mio
subconscio trova subito la risposta, come se fosse stata sempre là.
MI fa sentire… persa.
Persa, come la strada di casa in una
foresta… persa, come la rotta in una tempesta in mezzo al mare… persa, come la
direzione del nord, cercando la stella polare… ecco come… mi sento… persa… ed è una cosa
odiosa. Non mi sono sentita mai in questo modo. E non so nemmeno il perché,
come tantomeno non lo so perché non la smetta di guardarmi con quella strana
espressione. Mi ritrovo solamente a fluttuare nel oceano plumbeo dei suoi
occhi, l’anima delle dimensioni di una noce e il cuore che si allarga e mi frastorna
con il suo battito.
“Invece, ho osato assumere un
contegno neutro e calmo persino nella convinzione che mio nipote potrebbe
essere migliore di me…” la sua voce
spezza la malia letale dei suoi occhi, come uno specchio che va in frantumi. Ne
sento il rimbombo nella mia testa, come un tuono nel cielo silenzioso di una
notte d’estate. Il tremore che aveva preso le mie membra cessa anch’esso,
lasciandomi vuota dentro, vuota di questo strano terrore, ma vuota anche di
tutto il resto.
Faccio di tutto per cercare di
concentrarmi su che cosa stia dicendo, ma la nausea mi annebbia il cervello
come se si nutrisse del ricordo di quegli occhi, dentro il mio cervello.
Malfoy, ignaro di tutto questo,
prosegue serafico, la voce calma come se stesse parlando di ovvietà su ovvietà:
“E poi, invece, ci sei tu. La golden
girl delle scelte perfette. La strega più brillante della sua generazione.
Una che, come nei compiti in classe, ha imbroccato la risposta corretta al
primo tentativo, persino nelle relazioni. Una che ha visto pure il suo
amichetto Potter riuscire nella medesima cosa. Dovresti tipo distribuire
opuscoli su quanto si possa sposare la prima stupida cotta dell’adolescenza, ed
essere gioiosamente soddisfatti, avere due figli tutto sommato decenti e vivere
una fiaba moderna. Dovresti aprire un consultorio, e fabbricare spillette…”.
Se prima mi sentivo persa, ora
invece sono clamorosamente nuda.
Sudo
freddo, dentro il cappuccio di velluto, la neve che continua a cadere senza
tregua. Torno a guardarlo, e non so perché adesso non ho alcuna sfida in mente,
alcun puntiglio da far valere, alcuno stress da sfogare. Ho solo preghiere,
suppliche, implorazioni, da mescolare nel salato degli occhi.
Malfoy, ti prego, per favore.
“Invece,
sei clamorosamente ostile. È un punto molto interessante, Granger. Credi Edward
un bamboccio di diciassette anni che non sa prendere decisioni, mentre la
Granger diciassettenne scelse già il suo compagno di vita con una lungimiranza
da prodigio della razza umana”.
Per favore, basta.
“O è un controsenso bello e buono, oppure
realisticamente ti credi sempre superiore ad ogni cosa. Persino a tuo
nipote”.
Quando
termina di parlare, Draco Malfoy incrocia le braccia con aria saputa, infantile
quasi, come se fosse il ragazzino dai capelli ingellati ed attaccati al cranio
che mi sfidava nei corridoi di scuola.
Una parte
di me, una molto remota e nascosta, mi suggerisce timida che Malfoy non ha idea
di quanto male mi abbia fatto adesso. Probabilmente, nella sua mente,
non ha davvero detto nulla di che. Ha davvero solo segnato un punto rosso in
una lavagnetta.
Il resto,
invece, ulula, grida e si contorce, poiché, quando un segreto viene svelato,
non può più tornare indietro. Nessuna voce potrà essere richiamata indietro dal
ticchettare delle lancette.
Quando
comprendo che, ormai, quella che sono è stata letta persino da Draco Malfoy, un
nemico, un conoscente, uno stronzo, una conversazione casuale, comprendo quanto
ormai sia oltre tutto.
Quanto tutto
sia già lì, pronto a farmi a pezzi.
Ovviamente
devo difendermi, ovviamente penso a farlo, ma già il modo che scelgo è
sottilmente diverso. Non più le pallottole a salve di scherzi mordaci, ma gli
strali avvelenati che colpiscano il punto cieco, la feritoia, la via d’uscita.
Le narici
si appiattiscono come quelle di un serpente, sibilo ghiacciata dentro il
cappuccio, pensando solo a salvarmi, sapendo che lo farò a pezzi: “Dovresti
ringraziare i miei benefici del dubbio. Scagionare un adolescente dalle sue
azioni avventate, è qualcosa di misericordioso a mio parere. Consente di
conversare normalmente, e non schiantare all’istante, un ex diciassettenne
quasi omicida del proprio Preside sulla Torre di Hogwarts. Consente persino di
pensare contro ogni logica che non volesse sul serio farlo, e non fu interrotto
sul più bello”.
Quando le
parole mi lasciano come armi deposte, sbatto le palpebre e le lacrime cadono
giù, corrose dal senso di colpa. Penso che si stiano ghiacciando sulle guance,
ma forse è solo che il male che provo, mi raggiunge dappertutto.
Il tentato omicidio di Silente. E’
un segreto da non tirare fuori mai.
Cerco
Malfoy, lo cerco per guardarlo ancora: per cercare in un miracoloso modo di
spiegarmi, di fargli capire nelle lacrime quanto lui è solo un danno
collaterale.
Quando mi
dispiaccia, quanto il mio male non è che un terzo del male che so di aver dato
a lui.
Ridammelo, Malfoy, dammelo indietro.
Riscopro
la bontà e la giustizia di quella che sono sempre stata, di quella che non
ferisce mai così a fondo per salvarsi solo troppo tardi.
Senza
alcuna parola, Malfoy si è smaterializzato, portandosi dietro le mille risposte
rancorose che avrei preferito a questo silenzio superiore.
Nella
neve fresca, la cenere della sua sigaretta ha scavato una crepa dall’odore
inconfondibile.
Erba bagnata
nel mese di settembre.
Hermione
Granger tornò tardi a casa quella sera.
Non si
saprebbe potuta dire quanto tempo fosse passato, o che cosa avesse fatto.
Solo che era
rientrata a casa, quando la neve con un incanto di improvviso vento di scirocco,
si era trasformata in pioggia. Ticchettante, fremente.
Si mosse
confusa nelle stanze buie, non accendendo le luci. Sfiorava gli stipiti delle
porte come una cieca, come se persino le percezioni visive sarebbero state di
troppo nel suo cervello.
In quello,
non c’era nulla.
Nulla, se
non il silenzio profumato di erba bagnata di Draco Malfoy, quando era sparito.
Lui, così
arrogante e borioso, sembrava nato per prendere possesso completamente della
sua testa. Era una sensazione fastidiosa, ma stranamente conosciuta.
Forse,
andava così quando erano a scuola. Forse, se ne era solo scordata.
Ronald era
già a letto, coperto fino alla testa. Nel buio, lei vide comunque le orecchie
rosse.
Si spogliò
in silenzio nel bagno, come un automa. Dopo una discussione, dopo una lite, Ron
era facile da placare. Facile, come tutti gli uomini.
Si infilò
nuda a letto, si strusciò contro la schiena che lui le dava nervoso, aspettò un
paio di secondi e poi si aprì al ruggito violento di rabbia che suo marito le
avrebbe scaricato addosso.
La prendeva
sempre con cupidigia, non dandole nulla in cambio, specie quando era
arrabbiato: l’amava di vendetta solerte, spingeva fino in fondo.
Più si
insinuava dentro, più era convinto che si riappropriasse anche del suo pensiero
ribelle.
Mentre suo
marito le sussurrava nelle orecchie gemiti di amore egoista, Hermione Granger
guardava fuori dalla finestra, aspettando che il sesso riannodasse i fili della
sua vecchia vita, da cui si sentiva slegata come una marionetta lacerata.
La pioggia,
i tuoni, i lampi.
Chiuse gli
occhi, nelle palpebre chiuse fiorivano rose di luce. Fioriva il ricordo di un
tempo in cui, non sapeva quando, si era sentita amata.
Suo marito
scivolò via da lei, disse qualche parola di circostanza, le baciò la fronte con
dolcezza, riprese a dormire.
Solo allora,
Hermione Granger si alzò dal letto, corse in bagno, la nausea che non la faceva
nemmeno respirare. La porta chiusa, i gemiti diversi nascosti pudici, vomitò
come non le era mai successo, come la nausea non le aveva mai permesso.
Immobile,
poi, a letto, fingendo di dimenticare. Fingendo di minimizzare.
Sognò le
rose. Centinaia di rose. Senza colore. Grigie.
I fiori
messaggeri dei segreti.
NOTA
A SUO MODO NECESSARIA: come
tantissime altre volte, probabilmente non per l’ultima, questo capitolo giunge
con un ritardo spaventoso. Come sempre, mi sento sempre portata a giustificarmi
e a parlare di quanto, comunque, la mia vita stia cambiando in fretta e quanto
spesso sia difficile per me scrivere. O di quanto io ora scriva anche altro, e
quanto questo spesso mi trascini altrove da questa storia. Ma a suo modo ci
sono cose che non cambiano mai. Per fortuna. Tra queste, il fatto che io torni
sempre qui, a casa. Indipendentemente da chi mi legga. Con un debito verso
questa storia che è la coscienza di sapere che qui, è casa mia. È quasi
conclusa, ma prima di allora, a costo di tremendi ritardi, voi saprete come
andrà a finire. Lo ribadisco sempre, non abbandonerò mai questa storia.
Un’altra cosa che non cambia mai, è che io abbia un gruppo di meravigliose
ragazze che oramai sono mie amiche e che non hanno mai smesso di sostenermi. Ed
è per loro, sempre, che tutto resta in piedi, persino io. Ringrazio anche chi
mi ha recensito, purtroppo per me è sempre più semplice rispondere via gruppo
Facebook, ammetto una sorta di imbarazzo a rispondere con cose che non siano
“grazie” o “scusa”. Ammetto che mi vergogno profondamente del tempo che passa,
senza aggiornamenti. Quindi scusatemi davvero. Grazie ancora a tutti. Cassie.
RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo cinque anni di separazione e una
residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria
Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio
Alex di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata
da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con
Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un
incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la
sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di
nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il
suo nome in modo che si ricordasse di lei, anche se Hermione, in quel momento,
non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una profetessa,
il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i suoi amici
giungono all’ultima dimora di Tatia Krasova, in Finlandia, dove era
sposata con un uomo di nome IlaiRadcenko.
A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza
e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è
accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e
Raissa. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico,
aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli
Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che
innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si
erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere
casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a
fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva
provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai
il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità,
ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy,
ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity
chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum
la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa;
distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per
la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità
sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i
suoi amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff, compreso il presunto
morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco ed Ilai
e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al
bambino. I due spariscono con il bambino, con l’oscuro ultimatum di tre giorni
per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si
suicidi, trascinandosi dietro anche Alex. Tornata a casa di Draco, Hermione
distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che
Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi
si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra
Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose
peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei
Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è
anche suo figlio. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando
Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di
essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff
e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone
che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni
prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e
al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era
sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici
possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare
la Solutiodamnationis,
lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso
da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova
è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela
fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutiodamnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei
Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder,
trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy.
La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro
due e per IlaiRadcenko,
che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per
ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela
fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco
ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutiodamnationis. Disperando di poter tornare vivi, in un clima
di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte.
Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed IlaiRadcenko, Hermione scopre
non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi
inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale
sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois.
La prova del demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato
il futuro di Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente
diverso e, secondo Adamar, avrebbero avuto quello che
davvero desideravano. Adamar li blocca quindi in un
altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per fuggire, un
fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo reale, Hermione e
Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia un inganno del
demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di tornare indietro.
La vita di Hermione e Draco è quella più classica che si possa immaginare: lei
è sposata con Ron e ha avuto Rose ed Hugo; lui invece con Astoria da cui è nato
Scorpius. I due, a parte lo sporadico contatto al binario nove e tre quarti
alla partenza dei figli per Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive
un matrimonio fatto di crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di
qualcosa di normale. Una sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley
confessano alla famiglia di essere non solo innamorati, ma anche in attesa di
un bambino, motivo per il quale hanno deciso di sposarsi presto. Ed è a quel
punto che ricompare Draco, la cui famiglia ha riallacciato i rapporti con Teddy
e che è pertanto interessata all’organizzazione del matrimonio. Hermione e
Draco si rivedono quindi, e sebbene alle associazioni di idee con la loro
vecchia vita, lei provi nausea e lui un dolore al petto, entrambi sono assolutamente
ignari del loro passato. Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del
suo matrimonio, sfugge alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua
volontà anni prima di uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per
mancanza di tempo. Hermione, in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto,
attorno a loro, forze misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme,
l’onnipresente Eva Dubois nascosta in mille fogge
accomunate dal cameo della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane, apparentemente
solo compagna di studi di Ginny, la quale sembra conoscere qualcosa
dell’intricata faccenda in cui si trova Hermione. Emblematico, anche l’incontro
con la rediviva Tatia, in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto
una figlia di nome Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in
Hermione. Specie nel fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che
nel mondo da cui provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella lettera prima
di morire e che Hermione aveva incantato per non perdere). La collana, in
questo mondo, indica sempre il mare.
Quando scese dal treno
di Hogwarts, per le vacanze di Natale del suo dodicesimo anno di vita, Rose
Weasley non era più una bambina.
Aveva dismesso incolume
le piume infantili per una creatura imberbe ed ancora informe che non sapeva
dirsi donna, ma nemmeno più fanciulla. Conosceva già la precisione
inconsapevole di piccoli gesti involontari che la facessero sentire “grande”:
le spalle più aperte, la schiena più dritta, l’attitudine di acconciare i
capelli meno nelle trecce e più in boccoli sciolti, la voce meno stridula e più
compassata come se sapesse chissà che profonda verità.
C’era poi anche
qualcos’altro: un muscolo nel petto che aveva preso a vivere in modo autonomo,
sconveniente, fastidioso, bruciando i polmoni quando avvistava qualcuno nei
corridoi di scuola.
Quel segreto stazionava
in lei come una goccia di rugiada dentro una rosa: lo custodiva gelosa,
lasciandolo decantare dentro come se il tempo lo potesse solo rendere ancora
più profumato di gioia candida. Con pazienza, aspettava la persona degna perché
lei si confidasse.
E credeva, con uno
slancio di fiducia, di averla trovata.
Non suo padre, che pure
era sempre stato il suo confidente preferito: divertente, scanzonato, ironico,
pronto a sollevarle i pesi dalle spalle a suon di rassicurazioni scherzose e
motteggi lievi.
Ma sua madre: l’algida,
perfetta, forse pure noiosa, Hermione.
Quella era una cosa
seria. E la mamma spandeva serietà come un’istitutrice tedesca. La mamma aveva
sempre le risposte, le piovevano nelle mani come pesci e pani in una parabola.
Rose Weasley, 12 anni
appena compiuti, si presentava all’appuntamento con la sua mamma d’alabastro,
convinta che la vita lontana da casa da quasi quattro mesi l’avesse resa pari
alla donna che l’aveva generata e che aveva sempre invidiato, temuto ed
adorato, sin da quando era nata. Hermione, finalmente, avrebbe riconosciuto in
lei una controparte affidabile e matura.
Accadde: ma non nel modo
che pensava lei.
Non accadde perché
Hermione vide in lei, ora, un’adulta. Ma perché Rose spiò in lei la donna, non
più la mamma rassicurante e scontata, tinteggiata sul fondo dei suoi anni di
bambina come un colore scuro e deciso, dai tratti sicuri.
Il treno entrò in
stazione con un rombo netto, Rose si alzò dal sedile con spavalderia,
sollevando il mento come faceva sempre Hermione. Guardò fuori dal finestrino,
in un lampo di colori sua madre emerse dal fondo di persone come un grigio
indistinto.
Non pensava che la
guardasse, non aveva ancora percepito il treno arrivare.
Fu solo un secondo.
Lontana dalla sua
famiglia che chiacchierava in un capannello cremisi, suo padre in testa come un
leone orgoglioso. Lei, invece, sua madre, era seduta poco più in là, su una
panchina. Piegata su sé stessa, i gomiti sulle ginocchia e le mani a
raccogliere il viso a coppa, come a tenersi assieme.
Respirava avida nel
collo della sua sciarpa grigia, il torace le si sollevava sotto il cappotto in
modo febbrile persino a vederla da lontano. Gli occhi, screziati di agata, ora
erano spenti, fissi, asciutti.
Quando sentì il treno,
fu come se fosse stata punta da un’ape a tradimento sulla schiena.
Si alzò rapida,
raggiunse gli altri in un balzello scomposto.
Quando Rose scese dal
treno, l’abbraccio di sua madre non aveva nulla di diverso. Sempre un po’
rigido, sempre profumato di vaniglia, sempre accompagnato da raccomandazioni
sollecite.
Rose, però, l’aveva
vista: non si scampava, ormai.
Aveva visto la Hermione
Granger dietro sua madre, non se la sarebbe più tolta dagli occhi. E
paradossalmente questo, la fece indorare di imperfezione lieta agli occhi della
figlia, così che, davvero, adesso lei desiderasse parlarle.
“Mamma capirà”, si disse
Rose. “Non è così perfetta, anche mamma è confusa e triste. Come adesso, anche
se mi abbraccia forte”.
Rose restò
nell’abbraccio di sua madre, amandola più di quanto avesse mai fatto.
Sfuggendo un’altra
somiglianza tra lei ed Hermione.
Anche lei guardava i
Malfoy da lontano e ne cercava gli occhi.
Non trovandoli mai.
Il
senso di colpa è un animale che si mangia famelico la coda tornando sempre
negli stessi posti, anche quando fai di tutto per evitarlo. Penso che, per
questo stesso motivo, l’assassino torna sempre sul luogo del delitto: è un
richiamo ancestrale che non può minimamente impedirsi. O forse, come suggeriva
il mito delle Erinni, furie vendicatrici delle colpe contro gli innocenti, è il
destino stesso e la vita che ti si ritorcono contro, portandoti a sbattere
sempre contro i medesimi nodi irrisolti, come se fossi un pesce che si dimena
dentro la rete di una barca.
Il
pomeriggio è cominciato innocente, permeato della gioia di riavere mia figlia a
casa: le stanze sono state inondate dalla luce spavalda che è Rose, qualcosa
che lei sprigiona da dentro come un manto inconsapevole di grazia, di cui si
rivestono tutte le cose. Mi sembra che persino gli oggetti più banali del mio
salotto, l’orologio azzurro, la tenda a righe tortora, il vaso di vetro
soffiato, ora cantino e brillino di lei. Allo stesso modo, reagiamo io, Ron
e persino Hugo, che prima della scuola con lei litigava sempre e comunque,
qualsiasi cosa facesse.
Rose
mi è subito sembrata diversa: i miei occhi di madre non hanno fatto fatica a
notare che sembra dimagrita, ma in quella maniera consapevole che può essere
solo dovuta ad un’attenzione femminile al peso. Gli occhi, azzurri come poche
cose al mondo, sono quasi sempre allungati da una linea sottile di matita nera,
ancora messa in modo goffo e distratto, dato che sbava sempre sull’angolo
esterno dell’occhio, causandole una macchia scura attorno alle ciglia che la fa
somigliare ad un panda.
Ma
la cosa più evidente di lei ad essere mutata, è la voce. Sapevo di ragazzini
che, d’improvviso, dismettono la voce stridula da bambini, per montarne una
grave, baritonale, fonda come se traesse origine dal fondo del torace. Era
successo a Teddy anni fa, ricordo ancora il sobbalzo che feci quando lo sentii
parlare di nuovo, dopo mesi di lontananza a scuola.
Ma,
a quanto pare, quella metamorfosi fonica ha interessato anche mia figlia, dal
sesso indiscutibilmente femminile: Rose, che aveva alla partenza un tono di
voce urlato, chiassoso, sempre acuto, ha invece assunto una voce cristallina,
lieve, soffusa, quasi come se nemmeno articoli le corde vocali a parlare, ma
lasci fare tutto a piccoli emissioni di fiato sfuggite per caso, quasi per
errore.
Avevo
anche notato, non senza un’ombra di piacere, che la mia bambina era molto più
interessata alla mia compagnia rispetto al solito; aveva sì abbracciato il
padre, pianto un po’ di nostalgia sulla sua spalla e commentato gli ultimi
risultati delle partite delle HolyheadHarpies, ma poi con risolutezza aveva preso a seguirmi in
ogni singola faccenda domestica, fedele guardiaspalle.
Spiandola con la coda dell’occhio, la vedevo aprire e chiudere le labbra come
un pesce rosso, a cercare evidentemente coraggio per dirmi qualcosa di
importante, qualcosa che, per intenderci, le arrossava le guance di carminio e
le faceva luccicare gli occhi come se avesse la febbre. Poi, con frustrazione,
si arrendeva, le spalle le si afflosciavano, montava un broncio ancora
infantile e proseguiva a rispondermi a tentoni alle domande sulla scuola, sulle
materie preferite, sugli insegnanti, la testa a mille miglia da qui.
Comprendendo
l’antifona, sapendo che se le avessi chiesto direttamente qualcosa, mi avrebbe
risposto stizzita, dicendo che non aveva assolutamente nulla da dirmi e che le
mie erano solo fantasie, avevo optato per la tecnica migliore tra tutte:
l’uscita mamma – figlia per comprare gli ultimi regali di Natale, con la
promessa di tè finale con biscotti allo zenzero che lei adorava.
Si
era ovviamente rianimata, probabilmente rincuorata dal fatto che, in assenza di
suo padre e di Hugo che trotterellavano per la casa, le parole le sarebbero
venute fuori meglio e prima.
Ed
è a questo punto che mi trovo adesso, alle sue parole. Le avevo già immaginate,
intuite. Avevo già focalizzato il loro contenuto ed il modo in cui le avrebbe
pronunciate. Già me la vedevo seduta di fronte a me nella sala da tè con le
mani che si torcevano frenetiche in grembo, il volto rosso, la testa bassa.
Tutto avrebbe ruotato attorno al nome di un ragazzo appena conosciuto, per il
quale avrebbe professato un eterno ed incrollabile sentimento che era nato come
un fiore a marzo, senza preavviso, solo con un grande senso di confusione,
profumata come la corolla di una primula.
Sapevo
che voleva risposte, punti fermi, consigli, e mi ero preparata come per una
lezione universitaria, scegliendo accuratamente le parole mentre mi vestivo e
mi truccavo, esercitandomi anche davanti allo specchio con le espressioni da
assumere al suo discorso, così da riportare diligenti all’ordine sopraccigli
indagatori e labbra accondiscendenti.
Quello
a cui non ero preparata, era il nome. Quello che adesso ancora aleggia tra me e
Rose, scolpito nell’aria dorata del pomeriggio come se fosse fatto di roccia
dura. Il nome che, senza che nemmeno lo conoscessi, mi si è incuneato nello
spazio tra i polmoni, come la spada di certe Madonne della mia infanzia, in
Sicilia.
“Scorpius
Malfoy, mamma. Credo… di essermi innamorata di lui”.
Quel cognome, oggi, adesso, a
bruciapelo, sembra una punizione celeste.
Mia figlia, colpita dal mio silenzio
e preoccupata che io disapprovi, si esibisce in un appello accorato in favore
del giovane Malfoy, elencandomi tutti i motivi per cui si è innamorata di lui.
Il mio sguardo vagante nella sala da tè si sofferma sulla macchia di rossetto
che ha sul polso, cosa che mi fa curiosamente sorridere: si sente un’adulta
fatta e finita al punto di potersi truccare, ma come una bambina si dimentica
di esserlo e si macchia gli abiti, imbranata ed assente.
Rose continua a raccontarmi di
Scorpius, del loro incontro, dell’amicizia con Albus,
ed io mi limito a cenni distratti con il capo per non farle intendere che
critichi il suo innamorato; in realtà, ciò che con estrema diligenza tesse mia
figlia sul ragazzino, non fa altro che riportarmi indietro all’immagine di suo
padre. E alle parole che, qualche settimana prima, gli ho rivolto in terrazza
dai miei suoceri, ricordandogli il tentato omicidio di Silente ed asserendo
convinta che era davvero sua intenzione assassinare il vecchio preside.
Deglutisco a disagio un paio di
volte, sorseggiando il tè al gelsomino che si è fatto freddo, scivola nella mia
gola come se avesse la consistenza della confettura.
Draco Malfoy mi ha inseguito nei
pensieri dall’ultimo giorno in cui ci siamo visti, ammantato da questo senso
greve ed acre di colpa che non mi lascia in pace, nauseandomi senza riposo.
Ormai anche la nausea che provo spesso, è diventata una sorta di compagna
quotidiana che mi avvisa di quanto io sia stata meschina nei suoi confronti.
Sono abituata all’autoanalisi, sono abituata a cercare ogni falla in me stessa
che sia il punto in meno nell’autentica perfezione da me bramata, ma non sono
abituata a sentirmi così fuori posto come in questo momento.
Sento di aver toccato una sorta di
limite, ed al contempo di fondo, che non ero nella posizione di toccare. Come
se ci fosse una sorta di patto tacito tra noi, che io ho infranto con
predeterminazione, solo per difendere me e il mio traballante matrimonio.
Non mi riconosco in ciò che ho fatto
a Malfoy, non è da me, non è assolutamente da me perdere così tanto il
controllo di me stessa da dire cose che non dovrei dire, senza pensarci su.
E il karma sembra essersi messo
d’impegno ad inseguirmi senza posa, scegliendo persino come sicario mia figlia che,
accalorata, prende fiato e continua a pontificare su Scorpius Malfoy. Ogni
sillaba di quel nome sa di sigarette e neve fresca.
Nel silenzio
di quella notte sentii persino il respiro trattenuto di Draco Malfoy,
quell’autentico tonfo nel petto, come se ci sprofondasse qualcosa nel buio,
affogando.
Ho pensato, certo, di scusarmi con
lui, è stato il primo pensiero dopo che quelle parole terribili avevano
lasciato le mie labbra. Ma si era rivelato molto più difficile del previsto.
L’orgoglio mi frena come se fosse la catena di una bestia feroce che tiene
legata al laccio.
Penso sempre alla reazione tronfia
che avrebbe, alle domande che mi rivolgerebbe, alla giustificazione che dovrei
dare di una reazione eccessiva, che nemmeno io ho compreso così bene. Dovrei
forse dirgli che stava girando troppo attorno al cuore del discorso, ai dubbi
che avevo sul mio matrimonio? Impossibile, sarebbe come consegnare la testa al
boia.
Senza però quella spiegazione, la
mia richiesta di scuse perdeva consistenza, peso, valore, ed il mio gesto
assumeva davvero la dimensione di un puntiglio odioso da ragazzina saccente,
vogliosa solo di infliggere crudelmente una punizione.
Mi sono lambiccata per ore sul
punto, cercando parole, gesti, frasi, ed intanto ho disertato casa dei miei
suoceri, temendo di incontrarlo. Il soffitto, nelle notti bianche in cui non
riuscivo a prendere sonno, disegnava solo ulteriori momenti di umiliazione che
mi avrebbe inflitto per vendicarsi. Arrabbiata con me stessa per pensarci
ancora, mi voltavo febbrile nelle lenzuola, chiudendo gli occhi e dicendomi
spavalda che avevo solo detto la verità e che non c’era nulla di cui scusarsi.
Nessuno di noi sa davvero che cosa
avrebbe fatto Malfoy se non fosse stato interrotto.
E lui non ne ha mai parlato con
nessuno.
Perciò ci sta ogni supposizione,
anche delle peggiori. Era un suo dovere, al massimo, smentirmi.
Peccato che questa mia giustificazione
regga per otto secondi netti. Gli occhi si spalancano nel buio, le labbra si
mangiano freneticamente tra loro, lascio Ron nel letto a russare e cerco di
trovare allo specchio le parole giuste da rivolgergli.
Questo, in un giro eterno che dura da
giorni ormai.
Rose, intanto, di fronte al mio
perdurante silenzio, pensa bene di mettere il muso, incrociando le braccia
innervosita, interpretando la mia mancanza di reazioni come la più classica
delle rimostranze da mamma per il ragazzo di cui è così tanto innamorata.
Distinguendo il tremore del labbro inferiore che preannuncia l’inizio della più
grossa crisi isterica dai tempi della scomparsa dell’orso Kebab dalla sua
stanza, mi affretto a recuperare il tono della conversazione, deglutendo con
forza un paio di volte per far scivolare il nome di Malfoy in fondo allo
stomaco, assieme al tè gelido che ingurgito con foga.
“E’ molto bello che tu provi queste
cose, tesoro…” sussurro con partecipazione, chiudendo la mia mano sulla sua,
contratta freneticamente sul tavolo accanto al vaso di peonie bianche. Le
guardo per qualche istante, con l’impressione che mi ricordino qualcosa, ne
studio distrattamente un petalo come alla ricerca di… una sorta di… macchia
nera… ma non vedo nulla ed intanto la nausea mi riannebbia i sensi, quindi
desisto. Rose, intanto, convinta dalla mia affermazione, si rianima con calore,
accendendosi come un fuoco d’autunno, il viso come il compagno perfetto della
sua capigliatura scarlatta: “Lo pensi davvero, mamma? Non sei… delusa che sia proprio un Malfoy?”.
Sorrido incoraggiante,
accarezzandole con il pollice il dorso della mano: “Ma no, Rose, non pensarlo
nemmeno. Io, papà e zio Harry abbiamo lottato per anni perché il mondo
cambiasse, e perché tu potessi sentirti libera di provare affetto anche per
Scorpius”. Ometto volutamente con un accenno di confidenza il cognome del
ragazzo, così da non avere nuove reazioni inconsapevoli che mia figlia possa
fraintendere.
Ci pensa, però, Rose a finire il
lavoro che aveva già iniziato con la sua confidenza, andando direttamente al
punto con decisione: “Lui non è come suo padre, mamma. E’ gentile, dolce,
educato. Non è come mi avete parlato del signor Malfoy”.
Scorpius non
ha quegli occhi grigi che sembrano assieme di un angelo, e poi di un demone?
Non ha quelle parole che, dentro, scavano trincee come trivelle alla ricerca
dell’acqua? Quando non la trovano, si mettono a scartavetrare la pelle nuda,
così da mangiarti viva.
Non è così,
Rose, il tuo innamorato? È ancora innocente e puro come carta di riso, come il
sapore latteo dei neonati, come il fiore fresco di pioggia della prima alba?
Come ti
abbiamo parlato di Malfoy, tesoro, quando eri bambina?
Di un
bulletto egoista che prendeva di mira la tua mamma e il tuo papà,
tormentandoli?
Magari tu hai
pensato al giorno in cui ci saremmo potuti vendicare ed avere giustizia. Nelle
nostre storie hai fatto il tifo per noi, come se fossimo degli eroi di carta e
inchiostro dentro i tuoi fumetti o i tuoi libri, quelli che sceglievo
diligente, attenta al messaggio giusto.
La vendetta
è arrivata, Rose, glielo ho servita su un piatto di neve sporca e sigarette
alla vaniglia.
Peccato che,
nel suo fuoco amico, ha fatto a pezzi anche me.
Prima di
intraprendere la strada della vendetta, scavate due tombe: questo diceva
qualcuno.
Sembra che
lui stesso con quegli occhi mostruosi spali terra sulla mia testa,
seppellendomi.
Ricaccio indietro quei pensieri
assurdi, mettendomi i capelli dietro le orecchie con un gesto nervoso delle
dita, prima di chiedere un altro tè al cameriere. Poi, con un profondo sospiro,
biascico velocemente: “Rose, la nostra storia con il papà di Scorpius… è
qualcosa di diverso. C’era la guerra… il mondo… non è quello che conosci tu,
quello a cui tu per fortuna sei abituata. Non possiamo giudicare correttamente
una persona per quello che era in quel momento. C’erano troppe cose che
potevano pregiudicare l’onestà e la bontà di una persona, specie se si trattava
della sopravvivenza della propria famiglia. Credo… che per questo… non sia
facile parlare di chi era in quel momento… il signor Malfoy…”. Pronuncio il suo
cognome con un’emissione di fiato più forte, come a farmelo uscire velocemente
dal petto prima che prenda troppo spazio.
Rose mi guarda apparentemente
convinta seppure confusa, i suoi occhi azzurri mi guardano come se fossi una
sorta di enigma in cardigan rosso e sciarpa grigia.
Mi affretto ad aggiungere allora a
mo’ di spiegazione, consapevole che non può seguirmi in tutto il mio tentativo
di redenzione mentale: “Quello che intendo dire, Rose, è che non devi farti
condizionare da quello che eravamo noi a scuola. Te l’ho già detto alla
stazione, quando papà ti ha suggerito scherzosamente di batterlo in tutti gli
esami. Voi… siete un’altra cosa, tesoro. Non c’entrate con noi. Sii amica di
chi vuoi. Innamorati di chi vuoi. Non pensare a chi è figlio di chi”.
Finalmente Rose comprende che ha
avuto una sorta di benedizione da parte mia, con slancio si alza in piedi,
facendo cadere la sedia alle sue spalle. Mentre già mi inalbero per la sua poca
delicatezza, lei si getta tra le mie braccia, stringendomi forte ed
avvolgendomi nel suo profumo di pesca. “Grazie mamma…” sussurra dolce con un
accenno di pianto.
Commossa come solo la madre di
un’adolescente può essere di fronte alle dimostrazioni di affetto, quando esse
diventano sempre più sporadiche e rare, le accarezzo piano i capelli
stringendola a mia volta e baciandole la tempia.
“Mamma, posso invitare Scorpius a
Natale dai nonni?” mi chiede Rose infervorata, staccandosi da me. Le parole le
escono velocemente dalle labbra come saette di fiato, scampate dalla
costrizione della laringe. Si accavallano le sillabe per l’emozione e la cosa
mi intenerisce al punto che, in un rapido cenno del capo, le dico di sì senza
alcuna remora o esitazione.
Lei mi abbraccia ancora, saltella
sul posto e poi scappa via dal locale, dicendomi che deve assolutamente andare
da Dominique che le deve prestare un suo vestito da paura per incontrare Scorpius a Natale.
Resto con la mano aperta sospesa in
un saluto, anche quando la sagoma di mia figlia sparisce dietro l’angolo. Dopo,
quando me ne rendo conto, abbasso il braccio e lo lascio piegato sul tavolo, il
pugno contratto.
Ho mentito a mia figlia ed è la
prima volta nella vita.
Le ho detto di credere in un mondo
immacolato e vergine, che le donerà solo amore e gioia.
Non sa quanto sono stata bugiarda.
24 dicembre
Da sempre il piatto tipico della
Vigilia di Natale a casa Weasley è il rognone di vitello con le cipolle
caramellate: è il cavallo di battaglia di Molly, una sorta di bomba H
gastronomica di calorie e trigliceridi, il cui odore impregna persino le ossa,
anche se trascorri pochi minuti alla Tana.
Oggi, per l’occasione, nel salotto
sono stati fatti Evanescere tutti i mobili ad eccezione di un lungo tavolo
rettangolare, apparecchiato con tozze candele rosse e stoviglie spaiate. Rami
di vischio un po’ rinsecchiti pendono sbilenchi da ogni parte, l’ultimo dei
Tiri Vispi Weasley: al passaggio di una persona qualunque, esplodono stelle
rosse ed oro al suono dello schiocco rumoroso di un bacio.Sempre da tradizione, non appena si arriva
alla Tana, si opera la scissione vecchia di decenni tra appartenenti al
cromosoma XX ed appartenenti al cromosoma XY: le donne si rintanano tutte in
cucina, nei loro abiti scarlatti e nelle loro chiacchiere rumorose ed acute,
mentre si mescola, impasta, sminuzza, cuoce, soffrigge, insaporisce, più cibo
di quanto si mangerebbe mai in otto settimane. La regina incontrastata è Molly
che con rapidi colpi di bacchetta, mette in riga e in mostra il suo arsenale
alimentare.
È il suo momento, quello per cui
spasima ogni anno, arrivando quasi al collasso per la ricerca della perfezione,
simulando teatrali svenimenti per ogni persona che viene meno o non gradisca
qualcosa.
Ci sono rituali consueti, che vanno
ripetendosi di anno in anno: le caramelle alla fragola che finiscono prima del
pranzo, divorate da Ginny; il calcolo mentale dei giorni di digiuno che
attendono Fleur, dopo questa “catastrophe”;
la mia rimostranza di fronte al rognone e il candore stupito di Molly che
sostiene che io l’abbia sempre mangiato, cosa che naturalmente non ho mai
fatto.
Gli uomini, assieme ai ragazzi e ai
bambini, restano fuori nel giardino, intenti ad accendere qualsiasi cosa
contenga polvere da sparo: nel cielo notturno, lucido di neve inespressa,
brillano girandole fucsia, viola, argento, celeste. C’è sempre l’attrazione
dell’anno, la novità: un anno c’era stato un enorme drago argento ed oro che aveva solcato le montagne e le nuvole,
esplodendo dopo ore in una pioggia di coriandoli al gusto di pizza. Un altro
anno, era stato il turno di piccoli quadrifogli verde smeraldo, fioriti nel
giardino davanti a casa dei miei suoceri e che, rilucenti nel buio, esplodevano
di mille odori diversi se sfiorati o colti.
La costante sono sempre i visi
scarlatti per il freddo, le urla di mamme e mogli, l’immancabile influenza che
si prenderà qualcuno nel periodo immediatamente successivo tra Natale e
Capodanno.
Poi finalmente tutti a tavola: ogni
anno, ci sono sempre troppe poche sedie, troppe pietanze, troppi avanzi. E la
stanza straborda di mille conversazioni diverse vagamente intrecciate, confuse
in un modo quasi tattile, come una nebbia che condensa sulle cose rendendo
tutto indistinto.
Mi è sempre piaciuto il Natale, il
mio da bambina era una festività tripersonale che diventava solo vagamente più
frequentata se decidevamo di andare in Sicilia da mia nonna.
Quello dei Weasley era invece
caotico, rumoroso, colorato. Ed io lo avevo adorato fin dal primo momento.
Senza eccezione. Anche nel dubbio, anche nella tristezza, anche nella guerra,
anche nella frustrazione rabbiosa dei litigi con Ron: le discussioni finivano
sempre per risolversi nel calore famigliare, evaporando e sciogliendosi come
volute di fumo acre, mentre ci scambiavamo di malavoglia un bacio alla
mezzanotte, scoppiando a ridere poi come due adolescenti.
Quest’anno, però, senza che esista
un motivo apparente, mentre tutti i riti restano ancora in piedi, mi sembra di
essere in una specie di bolla d’aria dove tutto mi giunge attutito, offuscato,
sbilenco, ovattato, come se provenisse da un’altra dimensione. Persino i miei
movimenti mi paiono rallentati, alla moviola, e tutti devono ripetermi le cose
circa dodici volte prima che mi giungano davvero nel cervello, la sensazione
stopposa di camminare sulla gelatina.
In fondo allo stomaco, come il
presagio sventurato di Cassandra, sento il diffuso furore cieco dell’ultimo
Natale… così. Come se sapessi con
certezza che l’anno prossimo le cose saranno tutte diverse, completamente. La
ragione mi risponde che, certo, chissà cosa potrà succedere in un anno esatto e
che, in certo qual modo, tutto cambia alla velocità della luce.
È una costante, se uno ci pensa, non
è che ci vuole Natale per dirselo.
Ma, mentre vedo le labbra di Ginny
muoversi mentre mi dice qualcosa ridendo, qualcosa che non arriva alle mie
orecchie, comprendo che non è questo: non è quel avvertimento sulla fugacità
del tempo presente che, di tanto in tanto, ci coglie come una spada di Damocle
e ci spinge a rivalutare ogni singolo istante. Ed allora, con uno slancio
furente, ci si abbraccia di più, si dicono più ti amo o si perdona qualcosa che si considerava indimenticabile.
La sensazione che mi pulsa persino
nelle orecchie come un ronzio regolare, infido, sinistro, è di una sorta di
chiusura di un ciclo, di un mondo che finisce, di una vita che volta l’angolo e
che non sarà più la stessa. E che invece di portarmi ad essere più sollecita ed
attenta nei confronti dei miei cari, paradossalmente mi chiude in un isolamento
dorato, dove ogni parola è disturbo e molestia.
Credo di ravvisare ogni segno di
quel mondo che finisce nelle piccole cose che mi circondano, dandomene così una
spiegazione: dai capelli sempre più grigi di Molly e dal fatto che non riesca a
portare in tavola il grosso e pesante tegame di rognone, all’andatura sempre
più curva di Arthur che non lascia mai la sua poltrona preferita, fino a Rose
che non partecipa ai fuochi d’artificio di famiglia, restando invece a
sospirare contro il cielo in veranda.
Evito di ripensare a che cos’altro è
successo in quella veranda qualche giorno fa, stasera non si pensa a Malfoy, quello si starà rimpinzando di caviale e
champagne alla faccia mia, maledetto stronzo di un riccone, e cerco di dare
un peso a quello che mi circonda, riprendendo a gravitare diligente come un
membro della famiglia compito e coinvolto.
Mi decido evidentemente troppo
tardi, perché in quel momento Molly annuncia con voce squillante, ma in qualche
modo meno tonante del solito, di sedersi a tavola. Sospiro a lungo, imitata e
seguita da mia figlia che è appena rientrata in casa, le metto un braccio sulle
spalle, incoraggiandola. Le ho consigliato di chiedere a Ron di invitare qui
Scorpius una volta finito il cenone, contando sulla solita pinta di Acquaviola fatta in casa che si sarà scolato con i suoi
fratelli. Contavo, in realtà, anche sulla presenza salvifica di Teddy e
Victorie per impedire che perdesse le staffe, ma a quanto pare la ragazza non
si è sentita bene ed è rimasta a casa. Naturalmente, quindi, anche Bill, Fleur, Dominique e Louis hanno colto la palla al balzo per
saltare il luculliano pasto offerto da Molly, considerando che ogni anno erano
loro quelli a fare più storie per non ingurgitare quel calorico e troppo
condito cibo.
Per una volta, la nausea gravidica è
diventata contagiosa.
Mangio a piccoli bocconi, annuendo
di tanto in tanto ai discorsi dei miei cognati, sempre con quel senso di
estraniamento addosso che mi circonda come una sorta di pelle infetta. Le varie
portate mi passano davanti come sotto il tasto di avanzamento veloce, le tocco
appena, mi sembra che abbiano tutte lo stesso sapore insipido e scialbo.
Quando sto dando la colpa in modo
automatico del mio stato mentale al fatto che quest’anno mia mamma abbia deciso
di restare in Italia per Natale e di non venire qui, cosa che mi spinge a
decidere di chiamarla per sapere se stia bene, mi rendo conto che siamo
arrivati ad un altro dei tanti riti natalizi, inaugurato dopo la fine della
guerra.
All’inizio, il promotore era stato
Arthur, lo ricordo ancora seduto a capotavola, la posa severa, la schiena
dritta, il bicchiere di sherry stretto nella mano e brandito come se fosse il
Santo Graal.
Era il primo Natale dopo la
sconfitta di Voldemort, ed anche il primo che io e Ron passavamo da fidanzati,
ricordo le mani intrecciate sotto il tavolo, la fuga in dispensa per pomiciare,
la mia ricerca frenetica di un regalo e l’ansia che non gli piacesse.
E poi, tutti i miei pensieri
sparirono nel discorso toccante di Arthur che, partendo dal proprio figlio
Fred, propose un brindisi per tutti coloro che erano morti durante la guerra e
che non erano lì in quel momento a festeggiare con noi. Scorsero calde lacrime,
un accenno di applauso, un brindisi rumoroso e selvaggio come quell’impeto alla
vita che sentivamo forte, come un dovere verso chi non c’era più. Alla fine,
con la conta delle vittime sempre aggiornata, divenne un’abitudine natalizia.
I nomi dei caduti divennero alle
orecchie dei nostri figli una filastrocca di malinconia e dolore al sapore di christmas pudding.
Quando Arthur non fu più in grado di
restare a lungo in piedi e di tenere così alta la voce, il testimonio passò
inevitabilmente a Ron: c’erano i suoi fratelli maggiori ovviamente prima di lui,
ma era lui l’eroe di guerra. Ha sempre visto quel momento come qualcosa di
molto importante, al pari di un’investitura ufficiale che si era guadagnato
negli anni.
Anche quest’anno, quindi, sapendo
quanto ci tenga, cerco di focalizzare l’attenzione su di lui che richiama
l’ordine, facendo tintinnare con un cucchiaio il bicchiere di vetro
smerigliato.
Cade il silenzio, come di abitudine.
E le parole di Ron sono quelle di sempre: calde, commoventi, emotive. Sento un
singulto di orgoglio e fierezza per mio marito che, nella mia inconsistenza di
pensiero, sembra farmi ritornare a questo momento come se ci appartenessi per
diritto.
Non lascia fuori nessuno, nemmeno
chi è perito successivamente anche al di fuori della guerra, come Andromeda.
Tutti esplodiamo in un triste applauso, mentre come sempre George abbraccia
Molly in lacrime e singhiozzi al pensiero mai sopito di Fred.
Ron conclude con un sorriso mesto,
sollevando il calice: “Che il vostro Natale sia felice quanto e più del nostro.
E che continuiate a vegliare su di noi…”, poi, gettando un’occhiata sardonica
di soppiatto a tutti i presenti, come se stesse per rivelare un segreto,
sussurra afflitto: “E che possiate perdonarci… se diamo accoglienza ed
ospitalità ogni giorno ad uno dei vostri quasi
assassini. Non preoccupatevi. Non saranno mai come noi”.
Non comprendo subito a che cosa
alluda e nemmeno il resto della mia famiglia. Cade solo un silenzio fangoso,
viscido, ruvido, che sembra in contraddizione con tutto quello che c’è stato
fino a poco fa.
La consapevolezza mi giunge nello
stesso momento in cui, con un gran fracasso, sento il rovinare di una sedia che
cade per terra, risuonando sorda nell’aria circostante.
Rose si allontana, correndo
sconvolta, in lacrime. Le mani che stringeva in grembo nell’attesa di chiedere
il permesso di invitare Scorpius per Natale, sono sbiancate come bucaneve
congelati. Sibila solo, tagliente come la lama di un coltello: “Sei una
bugiarda, mamma”.
Le parole di Rose hanno l’effetto di
spaccare a metà il guscio ottuso che, amniotico, sembrava racchiudermi intatta
e lontana da qui. L’accusa fende il mio petto come una freccia alla ricerca del
bersaglio, che trova nel mio ventricolo sinistro. Mentre tutto si sgretola,
riappare l’aspetto ordinario delle cose e delle persone, con colori ed odori
persino più violenti del solito, che mi travolgono come se fossi al mio primo
giorno di vita.
Mi manca il respiro, come se
annegassi.
Cercando di recuperare ossigeno,
guardo affannata Ron, i suoi capelli rossi, le gote arrossate dalla foga del
suo discorso e dall’alcol ingerito, le orecchie paonazze. Tutto mi pare una
sorta di affronto personale, il fastidio mi incendia lo stomaco come una
petroliera in fiamme.
“Non potevi resistere, vero?”
inveisco a fatica, il respiro spezzato dall’ira, guardandolo in tralice, prima
di sbattere violentemente i pugni sul tavolo, i bicchieri tintinnano come
feriti “Te la stavi preparando da… quanto? Da quando Malfoy ha messo piede qui?
O da prima?”.
Attorno a me, solo Harry scuote il
capo con rimprovero, limitandosi solo a pronunciare il nome di Ron severamente.
Gli altri restano in silenzio, guardandosi le mani poggiate sulle ginocchia o
nello spazio sul tavolo tra un commensale e l’altro, nella solita omertà che
protegge il cucciolo, sebbene sia ormai già diventato un padre di famiglia che
dovrebbe pensare prima alla propria figlia e poi a tutto il resto.
Scossa dalla rabbia, come se fossi
un fuscello secco in un tornado, biascico senza prendere fiato, come se le
parole si accavallassero una sull’altra alla stregua di naufraghi che cercano
salvezza: “Tua figlia si è innamorata di Scorpius Malfoy. Già, dello stesso
Scorpius con cui le hai consigliato di mettersi in competizione, quando non era
nemmeno salita sul treno per Hogwarts…”, il viso di Ron sbianca come se il
sangue affluisse improvvisamente tutto altrove, da qualche parte lontana dal
suo corpo. Il silenzio attorno diventa ancora più denso, profondo, come un
liquido che non fa filtrare la luce.
“Ed io l’ho rassicurata che il suo mondo fosse diverso dal nostro. Che
lei potesse persino… provare affetto o innamorarsi per di chi credeva…” mormoro
ad un passo dalle lacrime che bussano già moleste dietro le palpebre pesanti “E
tu, oggi, mi hai reso una bugiarda con nostra figlia. Tu con i tuoi maledetti
rancori da ragazzino troppo cresciuto”.
L’insulto, ben congegnato dalla mia
testa abituata a colpirlo puntualmente dove fa più male, naturalmente ha
l’effetto di renderlo ben più prolisso ed aggressivo di quanto fosse stato fino
ad ora, mentre incassava e basta. Scaraventa il bicchiere di sherry per terra
infrangendolo in una cascata di gocce dorate ed argentate, e comincia ad urlare
in modo scomposto, infiammato dall’alcol: “I miei rancori?! I miei rancori? Qui non si parla di rancore,
Mione! Qui si parla di proteggersi a vicenda, come abbiamo sempre fatto in
guerra, come abbiamo sempre fatto tra noi, prima che tu te ne dimenticassi
completamente, con tutte le tue teorie egualitarie e liberali da fottuta
maestrina ingenua…”, Harry cerca di farlo calmare riportandolo seduto, ma
naturalmente non funziona.
Non funziona
mai.
Mi guardo attorno solo per vedere se
Hugo è ancora fuori in giardino con Fred Jr a sparare altri fuochi d’artificio,
le esplosioni ritmiche mi informano che è così, rilassando le mie spalle. Ron
continua, ormai senza controllo: “Sono fetidi assassini tutti loro, tutta la
loro marcia specie. E nessuno di noi ci dovrebbe avere nulla a che fare!
Nessuno, tantomeno Rose! Tantomeno tu, razza di stupida! Ti sei scordata cosa
ti diceva Malfoy nei corridoi? Ti sei dimenticata di quante volte ci piangevi
come una mocciosa sui suoi insulti? O quando ti hanno torturato a casa sua? Te
ne sei scordata, eh?”. Naturalmente, il gioco al massacro funziona sempre
perché è biunivoco.
L’accenno alla mia tortura durante
la guerra, è il colpo basso. Perché il corpo ricorda sempre di più di quello
che la mente vorrebbe dimenticare. Alle sue parole quindi, come una specie di
segnale di attivazione, riprendono a pulsare cicatrici e ferite, segni e
graffi, escoriazioni e lividi, come se fossero ancora tutti sparsi sulla mia
pelle.
E mi risale in gola il vomito della
bile e dell’odio, quello per cui l’impotenza di quel momento mi rimase dentro
le costole come un miasma tossico, spingendomi a pensare di diventare un Auror
per non sentirmi mai più così. Torna l’aspirazione segata in vita per l’amore
dell’uomo che ho davanti. Confondo l’odio e l’amore come sempre, come ogni
volta, come ogni maledetto momento in cui passiamo il limite e in cui passo al
setaccio ogni cosa per essere quanto più letale possibile.
Pensavo che
con Malfoy fosse stata la prima volta.
Colpire nel
modo peggiore, per non essere ferita.
Invece ho
fatto allenamento per anni ed anni. Con il mandante migliore.
Ron, ringalluzzito dal mio silenzio,
prosegue con tono appassionato, indicandomi dall’altra parte del tavolo con
l’indice tremante: “Non me ne frega un emerito cazzo di Teddy e della sua
riconciliazione famigliare. E non mi interessa nulla nemmeno di quello che ne
dirai tu, mia cara paladina delle cause perse. Andate ad adottarvi una schiera
di elfi domestici e fate una fottuta manifestazione di difesa, tu e tua figlia.
Ma non esiste che abbiamo a che fare con i Malfoy, più di quanto sia
necessario. Sono stato chiaro?!”.
L’urlo finale finisce con un pugno
forte sul tavolo che gli fa sanguinare le nocche. Solo allora, non prima, Molly
interviene con un canovaccio umido per fermare la blanda emorragia del figlio,
redarguendolo. Come un segnale nascosto, tutti si precipitano allora a
minimizzare, a consolare, a dirmi di stare tranquilla, a dire a Ron di non
esagerare, a rassicurare che siano solo cotte infantili che passano presto,
così che le parole di Ron prendano a fruttificare nei miei polmoni come spore tossiche
e la mia risposta resti invece lì, seppellita in una tomba vergine, marcendo
inutilizzata. Nei miei canoni, naturalmente, mi rendo conto di averlo lasciato
finire e vincere, nell’indolenza che, ad un certo punto dei suoi insulti, mi ha
raggiunto di nuovo dentro le ossa, sgonfiandomi come un palloncino bucato. Ora
so, per certo, che sebbene ostenti il trofeo della superiorità maschile, Ron si
è già pentito di quello che ha detto, spia la mia reazione, aspetta solo che io
dica qualcosa di troppo per farlo passare automaticamente, di nuovo, dalla
parte debole nella discussione: quella della vittima sacrificale che tanto gli
si addice e che si affibbia nelle chiacchierate confidenziali con cognati e
fratelli.
Questa volta, stanca come se avessi
percorso duemila chilometri a piedi, scelgo volutamente di deluderlo.
Pronunciando a tavola davanti a tutti, con una perfetta torsione della
bacchetta, a quarantadue minuti dalla mezzanotte, la formula della
Smaterializzazione.
Scompaio davanti ai loro occhi
sbigottiti come le girandole rosse ed oro che ancora esplodono nel cielo.
Nonostante la mia drammatica uscita
di scena, non appena arrivo a casa, mi rendo conto di aver lasciato entrambi i
ragazzi alla Tana e di non sapere come stia Rose. L’istinto mi dice di prendere
e tornare immediatamente indietro per andare a consolare mia figlia, ma poi
penso che sia maggiormente il caso che sbollisca da sola.
Se ha ereditato questo lato sia da
me che da Ron, so che è la scelta migliore. Al momento penso che vorrebbe impalare
entrambi i suoi genitori, diventando felicemente orfana.
Per maggiore mia tranquillità,
comunque, mando un gufo a Ginny dicendole di controllarli entrambi, specie
adesso che Ron sarà sbronzo e furioso, nonché intento a demolirmi completamente
davanti alla sua famiglia. Lei mi risponde subito scrivendomi di tornare.
Non puoi
passare la mezzanotte per conto tuo, cavolo!
Nel buio della mia casa, con
diligenza brucio il suo messaggio con la punta della mia bacchetta.
Non se ne
parla proprio. Nella mia testa, implacabili come
quadratini di celluloide, rivedo ogni singola scena della litigata, passandola
al setaccio come sabbia di fiume per il cercatore d’oro.
Cerco bisbigli, sussurri, parole. E
trovo solo silenzio. Impenetrabile. Ed è la cosa peggiore del mondo.
Mi fa ribrezzo quello della mia
famiglia che non ha pensato nemmeno per un istante di intervenire alle parole
di Ron, sicuramente con la scusa per cui era alticcio e non voleva dire quello
che stava dicendo. Mi risponderebbero con un’alzata di spalle, imponendomi con
l’atteggiamento verecondo della moglie ritrosa, di avere pazienza e sopportare.
Forse le mie cognate, dall’alto delle loro più moderne esperienze matrimoniali,
se ne uscirebbero con i loro aneddoti di sopportazione coniugale al limite
della santità, dicendomi che quello che Ron ha detto, è assolutamente nulla in
confronto. “Una volta, Percy…” di qui, “Quella
volta, Fred” di là o “Non ne parliamo
poi di Harry, Mione”, e tutto diventerebbe una sorta di incidente da
dimenticare facilmente.
Non so perché, ma ho l’impressione
che le sole che non contribuirebbero al quadretto, sarebbero le mie cognate
assenti: Fleur e Cora. Loro penso che paradossalmente
avrebbero persino scornato Ron come un ragazzetto discolo.
A ripensarci, però, la cosa che
maggiormente stride nelle mie orecchie come una sorta di melodia stonata, è il mio di silenzio. Quell’accettazione
pigra e sbiadita di tutto quello che mi stava dicendo Ron in modo passivo ed
incolore, anche se mi feriva: sono sempre abituata ai siparietti dialettici di
ore, ai sillogismi convincenti, alle orazioni spavalde che dovevano
inevitabilmente portare al risultato finale. Il fatto che me ne stia stata in
silenzio, come una bimbetta scornata, mi fa ribollire di rabbia come prima
reazione, spingendomi quasi a tornare alla Tana per urlare come una straccivendola.
Ma la seconda reazione è un’ulteriore fiera apatia, davvero come se non mi
importasse nulla di quello che Ron stesse dicendo. Ed è una spina dolente sotto
pelle che mi fa sanguinare più della furia, della rabbia e della tristezza che
non riesco a provare.
Davvero non
mi interessa più nulla di quello che dice o pensa di me?
Siamo
arrivati anche a questo?
Per darmi tregua, mi dico spavalda e
convincente che la mia assenza di risposte era motivata solo dal fatto che,
tecnicamente, stavo difendendo Malfoy e non è che io sia del tutto convinta
della sua innocenza. D’altronde, come faccio a non sentirmi ipocrita
rimproverando Ron, se io stessa pochi giorni fa gli ho sputato in faccia la sua
fama di quasi assassino?
Respiro profondamente, la casa buia
mi rimanda l’eco di quel sospiro trattenuto: se non ho intenzione di tornare
indietro, rimanere a casa è la peggiore delle soluzioni possibili. È ovviamente
il primo posto dove verranno a cercarmi e a riprendermi, non appena
comprenderanno che non tornerò indietro.
Peccato che, nella notte di Natale,
chi non si trova collocato nella casella miracolosa della propria amorevole
famiglia, è come un pezzo spaiato di un gioco da tavolo. Minimo, sarà
inopportuno, molesto, finanche sgradito, in qualsiasi posto sceglierà di
andare. Le strade, illuminate dalla luce rara di una luna ghiacciata, sono
deserte, i negozi chiusi, gli amici impegnati altrove.
Medito persino di andarmene in
ufficio, approfittando dei turni notturni al Ministero, imbastendo una
convincente scusa, cosa che risulta patetica anche mentre la sto pensando.
Nel salotto buio, sempre più nervosa
ogni minuto che passa, vado avanti ed indietro come una bestia braccata,
cercando di trovare la quadra del cerchio. Ed è a quel punto, mentre infilo la
sciarpa grigia con l’idea di andare davvero in ufficio, che qualcosa si
affaccia nella mia mente.
La quadra
del cerchio. Il posto dove andare.
Le associazioni si moltiplicano come
funghi, innaffiati da semi invisibili.
Quando poi arrivo all’ultima
definizione, è come se mi esplodesse lo stomaco. Sento la nausea consueta, ma è
nulla in confronto a tutto il resto che ribolle e fermenta dentro di me.
Mi fermo al centro esatto del
salotto, il torpore passa come una nube sotto il sole.
So perfettamente dove andare, dove
sarò assolutamente inopportuna, molesta, finanche sgradita.
Ma dove quel silenzio ostile, quello
della mia stessa bocca, si scioglierà, come miele nel latte caldo. Si affaccia
nella mia mente la quadra del cerchio, il posto dove andare.
Ed infine il
motivo che cerco.
Hermione
Granger sapeva perfettamente dove il suo amico e cognato, Harry Potter, eroe
del mondo magico, tenesse nascosto il Mantello dell’Invisibilità. Era stato lui
stesso a dirglielo quando si erano trasferiti nella nuova casa. Era come una
specie di anatema contro il destino avverso rivelare la sua collocazione,
perché dopo la guerra loro non ne avevano avuto più bisogno.
Il Mantello
serviva solo per le emergenze, mai per altro.
E le
emergenze erano solo Maghi oscuri desiderosi di vendetta omicida.
Quindi,
finché restava lì, nascosto dalle marachelle dei figli, sapevano di essere al
sicuro.
Hermione
Granger, nella notte di Natale del suo trentaseiesimo anno di età, ruppe quella
santa e tacita promessa fatta all’amico di infanzia: mentre cercava la chiave
di scorta dell’abitazione dei Potter e faceva irruzione dentro l’appartamento,
sentiva come se avesse sciupato con feroce ingordigia qualcosa che, fino a quel
momento, sapeva di fiducia, abbandono, sicurezza.
Poteva dire
di avvertirne il peso, come una coltre salmastra dentro la gola, non la faceva
quasi respirare. I suoi passi nelle stanze vuote, fino al nascondiglio del
cimelio donato dalla Morte, le parvero pesanti e goffi come quelli di un ladro
maldestro, poco avvezzo al crimine, molto abituato al pentimento. Eppure non si
fermò mai, neanche quando con le dita che tremavano, spostò l’asse sconnessa
del parquet sotto il letto dei Potter, estraendone il Mantello.
Lo soppesò
tra le dita, era leggero e lieve come il respiro di una nuvola, era come lo
ricordava. L’odore, stantio di naftalina, si era associato nella mente
all’infrazione delle regole, alla trasgressione, al pericolo di essere
scoperti: tutto ciò che, di fondo, anche adesso, faceva rima con quel cuore in
gola e con quel viso accaldato, mentre formiche rosse di eccitazione si
arrampicavano lungo gli arti inferiori.
Eppure,
Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, sapeva bene in una parte recondita
di sé stessa che non si trattava solo di quello. Non era solo un ricordo
giovanile, che si presentava nel bel mezzo del momento meno indicato dell’anno.
La nausea la
annebbiava al punto che quel pensiero restava sconfitto, sepolto, sotterrato,
implorando di non venire fuori, scongiurando di restarsene lì, incolore e
grigio come le cose che non si comprendono o non si vogliono conoscere.
Lei,
naturalmente, non era masochista. E non fece eccezione. Non si avventurò sotto
le coltri seppellite di sé stessa alla ricerca del motivo per cui, tra tanti
posti, nella sera dove ogni persona desidera la propria casa, lei avesse scelto
di andare lì.
Nel posto
che meno sapeva di casa al mondo: il posto dove meno avrebbe dovuto avere
desiderio di andare, specie nella notte di Natale.
Malfoy
Manor.
Nel buio, Malfoy Manor riluce come
una perla nera, solitaria ed austera come il suo proprietario. Quando il
contraccolpo della Smaterializzazione passa, assieme allo sfarfallio negli
occhi, controllo con attenzione che il Mantello mi copra completamente,
d’improvviso vergognosamente conscia dell’idea assurda che mi è venuta in
mente. Una parte di me, nemmeno tanto piccola e nemmeno tanto poco savia,
continua a guardare le mie azioni dall’esterno e a giudicarle senza ritegno.
Notte di
Natale. Famiglia mollata su due piedi. Corsa nel cuore della notte nella casa
del peggior nemico dei tempi della scuola. Rischio concreto di beccarsi una
Maledizione senza perdono da Mangiamorte pseudo-redento, ubriaco di cherry e
scotch, in pieno stile Natale alcolico.
Scrollo il capo senza ritegno come
se fosse pieno di acqua, con l’obiettivo poco serio di far uscire fuori ogni
spinta alla razionalità che la mia mente brama. Quando si tratta di Malfoy, è
come se il mio cervello mollasse gli ormeggi e partisse per una vacanza attorno
al globo.
La cosa bizzarra è che dovrei
definirla dimenticata come sensazione, probabilmente è qualcosa risalente ai
tempi della scuola, ma invece sembra qualcosa di stranamente familiare, alla
stregua di una abitudine.
Cosa naturalmente impossibile, dato
che non frequento Malfoy da anni.
Riassumo mentalmente che,
evidentemente, era qualcosa di così traumatizzante da ragazzina che il segno mi
è rimasto anche da adulta. In realtà, non mi sembra questa la spiegazione
corretta, ma nel moto consueto di nausea che mi prende alle cose senza
motivazione, la accetto in mancanza di alternativa.
E’ comunque questa sorta di
abitudine monca che mi fa restare ben piantata qui, davanti al cancello della
villa, come se avessi ogni diritto e dovere di essere qui.
Lo faccio
per mia figlia. Devo sapere con chi ha a che fare, mi dico quando quel coraggio insolente manca,
causandomi un moto nervoso dei piedi.
Manca ormai poco a mezzanotte e le
finestre del castello sono tutte illuminate di una luce calda e festosa che non
pensavo sarebbe mai appartenuta a questo luogo: nei miei ricordi, quelli che
premono per entrare come mendicanti lerci, questo castello è oscuro, immerso
nelle tenebre, soffocato dall’oscurità e mangiato dai tarli di una dittatura
malvagia.
Ora, invece, è la casa di una
famiglia con un ragazzino dodicenne, dove spesso mio nipote Teddy viene a far
visita, dove forse si mangiano dolcetti alla zucca la sera di Halloween e si
beve cioccolata alla cannella nelle serate fredde, dove ci sono calze con nomi
cuciti sopra e cassetti di pergamene dei tempi della scuola. I riverberi delle
luci del primo piano, argento, verde, blu e viola, suggeriscono la presenza di
un tronfio albero di Natale, probabilmente colmo di pacchetti.
Noto subito quanto le cose siano
cambiate e quanto questo, probabilmente, sia merito della moglie di Draco,
Astoria Greengrass: nel giardino, intravedo alberi di magnolia, cespugli di
fresie, rampicanti di edera. Tutto è costantemente in fiore, portato allo
stremo da un eterno ciclo di fioritura. I ciottoli bianchi nei vialetti sono
cosparsi di petali profumati, fluttuanti nel vento freddo della sera. Le siepi
quadrangolari che delimitano l’esterno della proprietà sono disseminate di
piccole luci tremule oro, ne tocco una con curiosità: sembrano candele ma sono
come fiamme sospese nel buio che non bruciano la pelle.
Sicuramente, l’ultimo grido delle
decorazioni natalizie di Diagon Alley.
Ripenso con un po’ di vergogna
frammista a nostalgia al vischio rinsecchito della Tana, quello che ha visto i
bambini crescere, sposarsi e metterne al mondo degli altri, restando sempre
lì.
Dall’interno della villa, giungono
nenie natalizie al pianoforte e voci concitate ed allegre, tutte in attesa
della mezzanotte. Devono esserci almeno un centinaio di persone.
Nella mia lucida follia, credo di
non aver considerato la probabile difficoltà ad entrare nell’abitazione di un
Purosangue tra i più ricchi ed aristocratici del mondo magico, sicuramente
preoccupato della sua sicurezza e della sua riservatezza. Il cancello, infatti,
è ovviamente chiuso e non vedo nessun pertugio da cui potermi intrufolare
all’interno senza correre il rischio di attirare l’attenzione di qualcuno.
Mi sgonfio come un pesce spinato,
naturalmente potrei benissimo farmi annunciare e chiedere di vedere Malfoy
immediatamente, ma penso che, come minimo, sarei presa per pazza. Dubito che
lui abbia rivelato alla sua cerchia fidata di amici le sue ultime
frequentazioni, senza contare che anche se ciò fosse accaduto, sarebbe comunque
vista come un’intromissione bella e buona che mi sia presentata qui, di notte,
la sera della vigilia di Natale, con un motivo così volatile tra le mani da farmi
sentire un’imbecille.
Mentre medito su questo, pensando
contemporaneamente a come poter entrare ugualmente e a come poter sparire senza
perdere del tutto la dignità, alla maniera di un segno del destino il cancello
si apre con un cigolio metallico, che risuona tutto attorno come una campana a
morto.
Naturalmente, ispirata, prima ancora
che si apra del tutto, mi intrufolo dentro velocemente, respirando di qualcosa
di frammisto tra il sollievo e l’eccitazione.
Solo allora, notando la presenza di
qualcuno accanto a me, mi do pena di guardarmi attorno per capire di chi si
tratti. Mi paiono due figure, sebbene siano scarsamente illuminate dalla luce
della luna: una delle due, più bassa e magra dell’altra, è ancora ferma nel
gesto di puntare la bacchetta contro il cancello nell’atto di aprirlo. Indossa
un mantello color glicine di pesante lana d’angora, un tessuto prezioso che
costa svariate centinaia di sterline.
Figuriamoci,
in questa casa ci sarà riunito stasera almeno la metà del PIL magico
dell’Inghilterra.
Il cappuccio violaceo cela il viso
di quella che, dall’abbigliamento, suppongo essere una donna. Depone anche in
quella direzione l’acutezza di singhiozzi appena trattenuti, provenienti da
essa. L’altra figura, invece, anch’essa coperta da un mantello con cappuccio di
colore scuro, sta trattenendo la prima per il polso, biascicando delle parole
che di primo acchito non comprendo, dato che sono frammiste da un respiro corto
e quasi sibilante, come se stesse per avere un attacco di asma.
Ovviamente, deve trattarsi di un
litigio tra innamorati, giunto a fagiolo della mia decisione di intrufolarmi al
Malfoy Manor non invitata.
Scrollo le spalle noncurante, non ho
l’indole della pettegola incallita alla Leda, quindi decido di lasciare i due
amanti alla loro discussione natalizia, senza curarmi di indagarne i motivi.
Sto già per incamminarmi lungo il viale d’ingresso, attenta che i miei piedi
non facciano rumore sui ciottoli, che un nome attira la mia attenzione sopita:
“Non puoi farmi questo, Blaise. Non puoi pretendere di continuare a farmi
questo… anche oggi… sempre…”.
Mio malgrado, sebbene voglia restare
indifferente, comprendo che uno dei due avventori sia Blaise Zabini, intento
dunque a litigare con sua moglie Daphne Greengrass, la cognata di Draco Malfoy.
Li conosco sommariamente, lui lavora al Ministero e spesso è capitato di
incrociarci a ricevimenti, cerimonie o premiazioni. Sono sempre seri, sono
sempre l’immagine patinata della rivista di moda, lei non sorride nemmeno per
sbaglio e lui ha sempre l’aria disgustata, come se avesse sotto il naso una
torta d’anguilla. Se non ricordo male, hanno due figli, un maschio ed una
femmina, esattamente identici a loro.
Voltandomi indietro, sebbene non lo
riconosca nel buio dato che mi dà ancora le spalle, la sagoma alta ed imponente
mi suggerisce che devo averci visto giusto, sembra Zabini.
Quello che, però, mi lascia
sconvolta, con la gola secca e la bocca impastata, è riconoscere l’altra figura
sotto il cappuccio violetto. La donna, infatti, guarda negli occhi Blaise,
porgendomi il viso che, nella luce adamantina della luna e delle luci del
giardino, mi appare evidente come una meteora nel deserto.
E’ indiscutibilmente Pansy
Parkinson, non credo di averla più vista da anni, eppure sembra non essere
cambiata di un giorno: stesso sguardo arcigno, stessi occhi scuri pieni di
ombre nere, stesso incarnato pallido su cui spiccano rosse le labbra, come un
taglio nel sangue. Provo persino un moto di invidia del tutto gratuita ed
inconsueta per la giovinezza dei suoi tratti, ancora longilinei e sottili come
quelli di una ragazzina, cosa enfatizzata dai capelli castani a caschetto,
corti sotto le orecchie.
Dopo, però, ogni ammirazione cessa
bruscamente. Pansy ha gli occhi rossi, cerchiati. A lunghi e scuri rivoli, il mascara
crolla sulle guance macchiandole di nero. La magrezza delle guance pare
qualcosa di imposto, scomodo, malato. Le labbra, poi, ad un secondo sguardo,
sono bianche come quelle di una morta, mangiate tra loro come frutti aspri. Ed
il fulgore degli occhi che aveva a scuola, come una piega d’orgoglio da
sfoggiare come un talismano, pare evaporata come neve al sole.
La guardo quasi non capacitandomene,
sembra tutto stridente su quel viso di porcellana, come se non c’entrasse
nulla. A prima vista, pare bellissima come la statua di una dea, dopo capisci
che la dea è morta ed è rimasto solo il marmo levigato di un cadavere
imputridito. Ha qualcosa nell’espressione che mi ricorda qualcuno di preciso,
ma non capisco come possa venirmi una tale associazione di persone, visto che
non hanno nulla a che vedere tra loro.
Mi ricorda
il viso di Dean Thomas, giovane come un ragazzino, ma vecchio nel cuore di
mille anni.
Cerco di fare mente locale per
rammentare il destino della Parkinson e trovo poche notizie sparute, figlie
delle chiacchiere con Ginny: ridevamo spesso del fatto che non fosse ancora
sposata, né tantomeno fidanzata. Avevamo concluso ciniche che la rovina della
sua famiglia doveva averle inimicato metà dei rampolli del mondo magico,
condannandola al nubilato, senza peraltro che lei decidesse di abbassare i suoi
standard elevati della ei-fu-ereditiera.
Ora, sentendomi crudele come solo le
parole a Malfoy mi avevano fatto sentire, comprendo che forse il motivo era un
altro. Un motivo che a che fare con la mano che Blaise Zabini continua a
tenerle artigliato sul polso, mentre lei cerca di divincolarsi.
Nella mia distrazione, Blaise deve
aver fornito qualche giustificazione, qualche spiegazione. Lei urla, grida,
piange, però mantiene la voce bassa e vellutata come per non sconfessarlo
ancora, come a proteggerlo, nonostante tutto. Stringo i pugni colta dal nervoso,
pregandola quasi nel buio di mandarlo a quel paese, di graffiarsi le corde
vocali per sbattergli contro tutto il suo disprezzo, di attirare così
l’attenzione di qualcuno che riveli così la sordida relazione clandestina.
Ma Pansy resta sempre soffusa e
soffice nel tono, alla fine si arrende ad una promessa che suona vecchia e
stanca persino mentre la sento io per la prima volta. Blaise le mormora nei
capelli che aspetterà che passino le feste di Natale, che trascorra almeno il
compleanno di Daphne, che Jacob ed Arielle, i suoi figli, siano cresciuti un
po’. Lei, vinta come un’aquila dagli artigli mozzati, annuisce senza forze,
forse neanche per assenso, solo per stanchezza e rassegnazione, accettando il
diamante tagliato a cuore che lui le regala, infilandoglielo al dito come una
fede nuziale.
Pansy lo guarda come si guarda un
pezzo di vetro, pronto a tagliarti la mano.
“Dovresti sposarti anche tu,
invece…” aggiunge Blaise spronato, finalmente più calmo “Il matrimonio… quella è un’altra cosa. Io e
te lo sai che siamo ogni cosa”.
La dichiarazione mi trasmette un
tale senso di disagio e claustrofobia che, frettolosa e rapida, mi allontano,
non preoccupandomi nemmeno di essere silenziosa: al mio passaggio, i ciottoli
battono ritmici come un cuore in corsa, ma Pansy e Blaise non se ne rendono
conto, di nuovo persi nel loro mondo grande come una scatola di scarpe.
Penso che
nemmeno ad una come lei, avrei augurato un destino del genere.
Scaccio da me la sensazione che la
coppia mi ha trasmesso, arrivando nel porticato della dimora. Anche la porta
d’ingresso è cambiata diventando di acero bianco, con una ghirlanda di arance
secche e bacche di cannella, in occasione delle festività natalizie. La spingo
con delicatezza e, come mi aspettavo, non è chiusa: la apro d’impeto alla
maniera di una corrente di vento molesta e, proprio per non correre rischi, la
lascio aperta dopo essere entrata. Un elfo domestico, sollecito, corre subito a
chiuderla, incespicando nelle sue stesse scarpe.
Ad accogliermi, è un calore fondo ed
intenso come se in ogni stanza ci fosse un camino acceso al massimo: le donne
che mi sfilano davanti, infatti, sono tutte in abito da sera, scollate e con la
schiena scoperta come se fossimo in giugno. E’ tutto un brillare di oro, seta,
diamanti, smeraldi, rubini e zaffiri, che fanno paio ed eco alle decorazioni
delle pareti, fatte di puro ghiaccio luccicante e che non si scioglie
ovviamente, nonostante la temperatura mite. Gli uomini, eleganti come se
fossimo nella prima classe del Titanic, sono tutti vistosamente alticci e ridono
e scherzano a voce altissima, coprendo persino la voce da usignolo della
soprano che, nel salone sulla mia sinistra, proprio accanto al pianoforte, sta
intonando le note di “Holy Night”.
Tutto è così opulento da fare male
alle orecchie e agli occhi: le decorazioni di ghiaccio, la mobilia di ebano e
cristallo, gli alberi di Natale in ogni stanza, il vischio annodato attorno
alle colonne e al corrimano della scala, senza contare nemmeno la lunga
tavolata ricolma di ogni genere di cibo esistente e possibile.
Non credevo di poterlo dire, ma mi
manca il Manor di prima, quello lugubre, silenzioso e non disgraziatamente
irritante per le cornee.
Del resto, la casa urla Greengrass
da ogni angolo: non ci sono più arazzi recanti la progenie dei Malfoy, né
tantomeno trofei di caccia o artefatti antichi, tipici della lunga tradizione
famigliare. Tutto appare pacchiano e moderno, senza storia, senza passato, solo
sospeso in un godereccio presente. Tutto non è meno che luccicante, lucido,
brillante. L’aria è appestata di una mistura tra profumo di abete, sudore ed
arrosto di maiale.
Come le linee immaginarie che nei
quadri portano al centro della scena, tutto fa convergere l’attenzione verso la
regina della casa, Astoria. Mi avvicino a lei, cautamente, guardandola con
attenzione, dato che la conosco solo di nome e di vista.
Istintivamente, la prima reazione
che ho al suo cospetto è un’inspiegata sensazione di gelo, come se fossi caduta
nell’acqua ghiacciata di un lago. Mi riavvolgo stretta nel mantello, quasi a
ricavarne una sorta di calore. Proseguendo nell’esame, però, concludo subito di
non essermi persa granché: la moglie di Draco è una bella donna sicuramente,
bionda, alta, magra, da un affilato sguardo azzurro. Ma non ha niente di più di
questo, aggiungendoci anche il costoso vestito in broccato viola con ametiste
coordinate in parure.
Pare semplicemente… ornamentale.
Seduta nel salotto come una regina
in trono, ride stupidamente con le sue amiche, portandosi vezzosamente una mano
curatissima sulla bocca, mentre addenta pasticcini alla fragola e panna, che
nemmeno Maria Antonietta nel film della Coppola. Trattiene spesso per un
braccio un ragazzino che, dopo essermi avvicinata, si presenta con la sua
somiglianza con il padre: deve trattarsi naturalmente di Scorpius Malfoy,
versione imbronciata. È lui ovviamente che studio meglio, considerando la cotta
di mia figlia. È un ragazzino grazioso, dal volto ancora efebico e
fanciullesco: ha i capelli biondissimi come quelli del padre, lisci e lucidi
esattamente come i suoi. Gli occhi, invece, non hanno i toni grigi di Malfoy
senior, ma quelli azzurri della madre, qualcosa che ne addolcisce molto lo
sguardo, rendendolo meno affilato di quello del padre. Sembra piuttosto alto
per la sua età, cosa non molto percettibile adesso, visto che è seduto
scompostamente, mentre sbuffa all’indirizzo della madre, sgualcendosi
continuamente il completo di velluto verde bottiglia, cosa che Astoria non
manca di fargli notare nelle pause tra le sue risate stridule.
Quel piccolo moto di fastidio, più
che giustificabile di fronte all’idiozia di quella donna, me lo rende simpatico
oltre misura, facendo onore alle scelte sentimentali di mia figlia Rose.
Come diamine
ha fatto Malfoy a sposarsela, Dio santo…
E’ quel pensiero che, prepotente, mi
riporta alla mente il motivo della mia visita, dopo che le luci e i colori
sembrano avermi annebbiata e offuscata, come una falena ipnotizzata. Esplode in
quel momento la mezzanotte, annunciata da una cascata di petali rossi ed
argento che invadono la casa di odore di rosa ed anice, cosa che riacuisce la
mia nausea. Mi guardo attorno per qualche secondo, ma, mentre scoppiettano
attorno a me abbracci ed auguri, mi rendo conto che Malfoy non è qui, nel
salone, con famiglia ed amici.
Mi allontano bruscamente dalla
stanza, timorosa che qualcuno mi urti, facendomi scivolare via il mantello o
rivelando semplicemente il mio essere corporea ma invisibile, e resto poggiata
allo stipite della porta, osservando tutte quelle manifestazioni di affetto
eccessive e sguaiate. Per un attimo, penso a quelle che mi sto perdendo io, a
casa mia, e mi chiedo ancora che cosa ci faccia qui a spiare la vita e la
presunta felicità altrui. Seguo tutte le linee paonazze di quei volti per un
po’, giocando a riconoscere qualcuno che conosco ed aspettando che Malfoy
compaia a salutare la sua famiglia augurando loro “Buon Natale”, ma i minuti
passano e lui non ricompare, apparentemente senza che nessuno se ne preoccupi.
Il posto
designato è vuoto e noi siamo altrove.
La somiglianza tra me e lui mi
colpisce infida alla bocca dello stomaco, la metto a tacere mentre intercetto
il dialogo tra Scorpius e la madre.
“Mamma, non dovrei andare a chiamare
papà?” chiede il ragazzino speranzoso, ballando sui piedi dalla voglia di
allontanarsi.
Astoria, con un tono severo ma al
contempo stridulo come quello di un’aquila in posizione di combattimento, parte
con un’invettiva contro il marito che, nel caos generale, non sento appieno.
Distinguo solo l’ammonimento a Scorpius di non muoversi da lì e l’imprecazione
contro Malfoy a starsene di sopra a fare l’asociale snob.
E’ di sopra,
quindi.
Di corsa, vogliosa anche io di
fuggire dalla confusione generale e dal timore che qualcuno mi sfiori per
sbaglio, salgo velocemente la scala di marmo, coperta da un lunghissimo tappeto
verde di velluto che attutisce i miei passi. Quando la scala termina e metto il
piede sull’ultimo gradino, i suoni provenienti dal piano inferiore cessano
all’improvviso, facendo cadere la casa nel silenzio più fondo, come se non ci fosse
nessuno a parte me.
Mi volto bruscamente su me stessa,
distinguendo sempre la folla di persone che ballano e festeggiano appena ai
piedi della lunga scalinata, le cui labbra si aprono e chiudono senza produrre
alcun suono. Anche la musica non si sente più.
Un
incantesimo Insonorizzante. Ed anche di quelli potenti.
Il primo piano del Manor sembra
somigliare maggiormente a quello dei miei ricordi. Tappezzeria rosso sangue,
legno scuro di porte, quadri nei corridoi dall’aspetto antico e prezioso con
raffigurazioni di scene di lotta o caccia, senza contare i numerosi ritratti di
progenitori ed antenati defunti. Al posto d’onore, con un mazzo di rose bianche
dall’odore pungente, torreggia il ritratto di Lucius Malfoy nel pieno della
grazia e della gloria: non è un ritratto magico, resta fermo nella stasi del
tempo, come le fiamme del camino alle sue spalle che si riflettono negli occhi
grigi.
Cerco di indovinare dove si possa
nascondere Malfoy e quale possa essere la sua stanza, facendo anche affidamento
sui miei antichi ricordi della mia prigionia qui: in realtà, non trovo nulla di
utile, considerando che nella mia spiacevole permanenza, ero stata gentilmente
parcheggiata nelle segrete per quasi tutto il tempo.
Cammino cauta nel lungo corridoio,
attenta agli scricchiolii sul parquet, accostandomi ad ogni porta per cercare
di captarne qualche rumore all’interno, fino a quando l’ultima porta fa
filtrare ai miei occhi una piccola lama di luce ondeggiante assieme a delle
voci sussurrate ed attutite.
Resto con la mano tesa, quasi con
l’intento di bussare e di annunciare la mia presenza, ma invece rimango
immobile, congelata, ascoltando anche contro la mia volontà. Distinguo infatti
nettamente due voci, la prima è indiscutibilmente quella di Malfoy, profonda, roca, strascicata, come se si
annoiasse anche ad aprire bocca. Mio malgrado, riconoscere la sua voce mi
fa sudare freddo e caldo assieme, aprendo di istinto la dimensione enorme di
quello che vuol dire la mia presenza qui, in casa sua. La seconda voce, invece,
è sottile, lieve, impercettibile, marchiata di dolcezza femminile frammista ad
un tono amaro e sarcastico: è davvero difficile sentirla compiutamente,
attraverso la porta chiusa. Pare solo un sospiro leggero, poco più forte di
quello che serva per respirare, e ne intuisco le parole solo da quello che dice
Malfoy in risposta.
“Avevo pensato che, di comune
accordo, avessimo lasciato le paternali all’infanzia…” sta dicendo adesso
Malfoy, il tono scocciato e slavato, come se non gli appartenesse davvero.
Credo che ci stia mettendo dentro tutte le tracce della noia al rimprovero
subito, ma qualcosa filtra comunque, qualificandosi indubbiamente come una nota
fonda di malinconia e tristezza, così insopprimibili da scappare fuori.
La donna sussurra di nuovo qualcosa,
ma ancora fatico ad intendere che cosa stia dicendo. Le parole stavolta vengono
smorzate da un colpo roco di tosse, così forte da sembrare che la pieghino in
due. Avverto dei rumori nella stanza, come se Malfoy si fosse alzato e fosse
andato a prendere qualcosa, probabilmente un bicchiere d’acqua.
Quando la crisi sembra passata, lo
sento riprendere incolore: “Lo vedi che succede ad eccedere nelle tue cure
materne non richieste? Lasciami campare sereno, madre”.
Madre… certo,
naturalmente… Narcissa Malfoy. Vive ancora con loro, dalle parole di Teddy lo
dovevo intuire. E da quello che ci ha detto lui… non sta bene di salute. Ecco
perché Malfoy è qui… è rimasto con sua madre.
Un groppone di inaudita tenerezza mi
si arena non richiesto in gola, alla maniera di un peso troppo grande che non
riesco a deglutire. D’istinto, mi torna in mente la malattia di mio padre e la
sua morte cinque anni fa, cosa che mi spinge a trattenere le lacrime, già
germogliate sotto le palpebre chiuse. Mentre ricaccio indietro quel ricordo, mi
colpisce lo slancio di empatia che avverto per Malfoy e, sebbene vorrei provare
disagio ad immaginarlo figlio sconvolto dalla malattia della madre ma così
devoto da trascorrere quanto più tempo possibile con lei, stranamente non sento
nulla di inconsueto ad immaginarlo così. So del legame con sua madre, l’ho
sempre saputo. In fondo, Cissy rinnegò Voldemort solo per il bene di suo
figlio. E Malfoy trascorre il tempo alla Tana, anche se aborrisce solo l’idea,
perché sua madre ha chiesto che lui seguisse il matrimonio di Teddy.
L’amore puro e sincero che si
dimostrano, non potrebbe quindi stupirmi.
Mi stupisce solo che, al pensiero
che lui trascorra qui la sua notte di Natale, lontano dal lusso e dallo sfarzo
che sua moglie ha garantito per loro, mi paia tutto inevitabile, come se fossi
certa che Malfoy di fronte all’agonia della madre, non l’avrebbe lasciata sola
un istante. E non so questa certezza da dove arrivi se ho sempre pensato il
peggio possibile di Draco Malfoy.
Sposto il peso del corpo da un piede
all’altro, quasi vergognandomi di me stessa e dei miei pensieri, sebbene siano
i migliori che abbia avuto da anni a questa parte su Malfoy. Un rossore
incomprensibile mi raggiunge le guance al pensiero.
Dentro, intanto, sento un tramestio
di passi e qualche raccomandazione solerte, prima che la porta si apra,
accompagnandosi ad un “Buonanotte” soffocato di Narcissa. Faccio appena in
tempo a scartare di lato appiattendomi contro il muro, che Malfoy esce dalla stanza
con un ultimo sorriso acido all’indirizzo della madre ed un altro motteggio
ironico. Entrambi scompaiono come fumo, non appena si richiude la porta alle
spalle.
E’ vicino, molto vicino, così tanto
che sento distintamente l’odore del costoso dopobarba che deve avere indosso.
Sotto il mantello, non visibile, mi chiudo la bocca con le mani per impedire
che qualche respiro di troppo caschi fuori, facendomi scoprire.
Perché ogni sacro fuoco che mi ha
spinto a venire qui, improvvisamente, si è spento come una candela smorzata dal
vento, solo guardando Malfoy.
Non è mai meno che inappuntabile: il
completo grigio che indossa, fa risaltare i suoi occhi in modo quasi
fastidioso, e la cravatta non allacciata che pende sulla camicia bianca, gli
danno un’aria ancora più strafottente del solito. Tutto sicuramente calcolato,
per sembrare al meglio possibile e suscitare le reazioni femminili. Non ne
dubito.
E… insomma, ci riesce. Inutile
negarlo. Può essere uno stronzo di prima categoria, ma resta uno degli uomini
più affascinanti che conosca. Vorrei davvero trovargli un difetto, ma non è
possibile, ho già chiarito mentalmente che è decisamente un bell’uomo.
Stasera, però, non è questa la prima
cosa che noto di lui.
Chiunque, con un pizzico di cuore,
noterebbe di più.
Sebbene esteriormente paia
assolutamente perfetto, ad un’ulteriore occhiata vedo molto di più di quanto
vorrei, qualcosa che mi stringe le viscere come se fossero in una centrifuga.
I suoi occhi, prima di tutto. Non so
perché, ma da quando l’ho rivisto, sono sempre la prima cosa che guardo di lui.
Non saprei dire per quale motivo. Sono occhi di solito affilati, profondi, di
quel colore così particolare che ancora non mi capacito che, a scuola, non
guardassi continuamente. Possibile che a
scuola non avessi mai notato che avesse gli occhi… così?
Oggi, però, sono occhi stanchi,
morti, di vecchio consumato. Sono incolori, circondati da un alone rosso che fa
spiccare il grigio, ma in modo fastidioso quasi, come se non gli appartenesse
davvero.
E più guardo i suoi occhi, sotto il
mantello che mi protegge, e più lo stomaco mi stringe una morsa d’acciaio. Non
riesco a smettere di guardarli con il fiato sospeso, immobile, ipnotizzata come
le vittime del serpente. Le guance paiono più scavate, più magre: l’osso dello
zigomo spicca come un’escrescenza sbagliata. Le labbra sottili sono biancastre,
come quelle di un ammalato.
La giacca ha delle pieghe evidenti,
come se ci avesse dormito dentro, e curiosamente, quando lascia la stanza tutto
sommato flemmatico e pacato, sembra avere persino il fiato corto, come se
avesse corso per ore.
La prima cosa che fa, quando si
chiude la porta alle spalle, è poggiarsi con la schiena contro di essa,
massaggiandosi con l’indice e il pollice lo spazio tra gli occhi. Sembra stanchissimo,
il torace compatto sotto la camicia bianca va su e giù più volte di quante
possa contare. Non piange però, come mi aspetterei, come ricordavo che Malfoy
era solito fare quando eravamo a scuola per ogni più piccola sciocchezza:
metteva su quel broncio ridicolo da moccioso, piagnucolando molesto.
Stavolta, Malfoy non piange per
nulla, sebbene sembri che il dolore lo stia saturando come in un’overdose.
Resta solo lì, immobile, a sfregare le dita contro la fronte, aprendo e
chiudendo ellissi, come a far scivolare l’ansia e la preoccupazione lontane in
un punto dove facciano meno rumore.
Poi, come se non ci riuscisse, si
lascia cadere per terra a peso morto, scomposto, senza minima cura ed
attenzione. Resta a capo chino, la testa tra le mani, sempre con quel respiro
corto, quasi rantolante, le gambe piegate e lievemente divaricate.
Qualcosa, dentro me stessa, non so
dove, si spezza, producendo un rumore che le mie orecchie sembrano persino
udire distintamente. Pare un fragore assordante di vetri, o alternativamente il
soffio lieve di un petalo di fiore che casca al suolo. Ed un secondo dopo, solo
un secondo dopo, sento che non sono più in grado di chiamarlo mentalmente Malfoy.
Come se
questa immagine, questo dolore, fosse incompatibile con tutto quello che di lui
ho sempre pensato e creduto. E che corrispondeva a quel nome, a quel cognome, a
quella liquida seguita da una spirante che tanto mi irritavano le orecchie,
mentre lo ripetevamo nelle aule gremite, nei corridoi vuoti, nelle sale
calorose, dandoci sempre quel tono asprigno come se fosse l’origine di ogni
male. Dentro quel “Malfoy” stava ogni germe di marcio, sordido, sporco,
malevolo.
Nemmeno di
malvagio, che per il male vero e proprio ci vuole uno scatto maggiore di
purezza sorda, cieca. Solo di ipocrita, utilitarista, privo di qualsiasi
slancio di volizione e sentimento che non fosse puro e semplice calcolo e
vantaggio.
Qualcosa che
ho sempre scelto di ignorare, perché non ne valeva la pena.
Ora… non
riesco a smettere di guardarlo, come una bestia esotica in uno zoo.
Non posso
ignorarlo. Mai. E non posso chiamarlo più Malfoy.
Lo ripeto nella mia testa il suo
nome, come se lo conoscessi solo ora, come se quel dolore dipinto sul suo viso
me lo presentasse adesso come una persona nuova.
Draco. Scivolano come biglie lucide e rapide le lettere del
suo nome. Il loro sapore nelle mie labbra pare qualcosa a cui sono assuefatta,
sebbene il suo nome non l’ho mai pronunciato compiutamente neanche a me stessa.
Vibra la sillaba iniziale, facendo sussultare anche me sottopelle, come se
qualcuno mi sussurrasse segreti e sospiri sulla pelle tenera dietro le
orecchie. Draco. Draco. Draco. Lo
ripeto ancora, senza controllo, senza intenzione, la bocca che lo mima persino,
senza emettere un solo suono. La memoria si dimena sconfitta alla ricerca di
un’intimità che non comprendo, che il mio cervello non capisce.
“Hai deciso di farti vedere o devo
iniziare a parlare con la credenza, fingendo che tu non mi ascolti?”.
La voce di Draco mi sorprende come un petardo nella notte, facendomi
sobbalzare. D’istinto faccio un passo indietro e lo guardo da sotto il
mantello, cercando di intuire se stia davvero parlando con me, o se invece
qualcuno non sia spuntato nel corridoio senza che me ne sia accorta.
Ma Draco guarda proprio nella mia
direzione: gli occhi grigi, ancora un po’ rossi sul fondo, saettano a destra e
a sinistra nel punto dove sono io, cercandomi nella magia invisibile del
mantello. Medito di fingere silenzio, di restare al sicuro dentro l’indumento
incantato. Poi con un sospiro lungo e fermo, me lo faccio scivolare di dosso.
Fruscia via come una pelle vecchia.
Mi incasso nelle spalle distogliendo
lo sguardo da lui, piena di imbarazzo: “C-come… ti sei accorto… che… e-ero
q-qui?”. Pigolo come una bambina, rossa in viso come se stessi andando a fuoco.
Mi concentro completamente sul quadro appeso al muro accanto a me,
personificandomi completamente nella donna bionda che, per sempre, sarà sospesa
nel momento di distendere la gamba verso il cielo in un complicato passo di
danza.
“Granger, respiri così rumorosamente
da poterti esibire nell’imitazione di un mantice in piena attività…” borbotta
Draco, la sua voce appare più stanca del solito e vibrata come se la tenesse
con tutte le sue forze ferma, non riuscendoci appieno. Quando mi azzardo a
tornare a guardarlo, sbuffa come disgustato e soggiunge caustico: “E quel tuo
dannato profumo… lo riconoscerei pure ad occhi chiusi, odori come uno
stramaledetto cupcake”.
In tutte quelle parole, Draco non ha
accennato minimamente a sollevarsi in piedi. Resta seduto per terra, scomposto,
i capelli spettinati e gli occhi sbiaditi. Mi sento come se lo stessi spiando
dal buco della serratura, cosa che a conti fatti non è nemmeno così lontana dal
reale. Il rossore del viso aumenta ancora di temperatura, diventando una specie
di fiammata incandescente che si propaga dal mio viso, raggiungendo collo,
spalle e schiena.
Ballando sui piedi che non so tenere
fermi, mormoro rapida presagendo il resto: “Giusto per curiosità preventiva…
hai intenzione di Schiantarmi per
aver messo piede qui, stasera, nel bel mezzo dei festeggiamenti di Natale?”.
Draco in modo imprevisto ridacchia
tra sé e sé in modo tenue e pallido, cosa che mi spinge in modo automatico a
sentire le ginocchia scricchiolare, come se stessi per perdere l’equilibrio. E’
una sorta di riflesso condizionato, quasi incontrollabile. Lo guardo in viso,
mentre distoglie gli occhi, puntandoli su una crepa del parquet ebano.
La segue con le pupille, apparentemente
catturato da essa, come se fosse la cosa più interessante del mondo. Poi,
quando oramai mi sono rassegnata a non avere risposta, biascica acido:
“Granger, se avessi voluto Schiantarti, lo avrei fatto dieci minuti fa, quando
ho riconosciuto l’odore di quella mistura alla vaniglia nel corridoio. Non ti
avrei fatto cominciare anche a parlare. Non è che brami l’emicrania che
mi procurano anche solo quattro sillabe pronunciate con la tua voce celestiale…”, sospira esausto, la voce
cascata fuori solo per abitudine “Si chiama masochismo
un comportamento simile… e necessita cure psichiatriche serie”.
“Penso che trarresti comunque
giovamento da delle cure psichiatriche serie” brontolo in risposta, il mio tono
gemello del suo. L’insulto è fiacco, sfibrato, confezionato solo per reggergli
un gioco che, senza accorgermene, ho cominciato a tenergli. Fingere di non vedere i tuoi occhi, grigi e
rossi. Fingere di non sentire la voce, che soffi fuori come se non ti
appartenesse. Fingere di non indovinare il sapore amaro che ti lega i denti,
come una medicina cattiva. Nonostante tutto, cercando conferme nei suoi
occhi, lentamente mi chino e mi siedo nel corridoio accanto a lui. Il suo
sguardo non dice né sì, né no. Sospira e basta quando prendo posto a poca
distanza da lui, osserva le mie scarpe nere di vernice, di nuovo senza vederle
davvero. La mano che tiene poggiata per terra, sulla mattonella scura, pare
bianchissima, sotto la pelle le vene sembrano strade nere nella foresta.
Di un altro,
di un amico, avrei preso quella mano tra le mie.
Di te invece
che si fa, Draco?
Di questo
dolore impossibile che noi figli sappiamo che arriverà, prima o poi?
Perché sei
qui da solo? Al punto da lasciarci me vicino a te? Non ci dovrebbe essere una
moglie, un figlio, un fratello, un amico?
Possibile…
che tu sia così solo?
Da
permettere persino a me di sederti accanto nella notte di Natale?
Quando parla di nuovo, ha la voce un
po’ meno torbida e un po’ più chiara, cosa che lo fa somigliare di più a sé
stesso. Mi guarda in tralice raddrizzando la schiena contro la porta della
camera di sua madre, prima di bofonchiare: “Ed ora che hai sparato la tua
battuta comica dell’anno, gradirei sapere che cosa ci fai qui. A casa mia. Con il Mantello dello Sfregiato
addosso. Se sei venuta a rubare qualcosa per il cenone della tua famiglia,
la mia deliziosa consorte sarà lieta di elargirti le cibarie avanzate…
conoscendo la mia carissima Astoria,
dovrebbe essere rimasto il necessario per la sopravvivenza dell’intero
continente subsahariano per otto mesi”.
Terrorizzata, sgrano gli occhi e
allontano di nuovo lo sguardo da lui, fissandolo sui miei polpacci semipiegati sotto le cosce. Meccanicamente, come mi è stato
insegnato sin da bambina, controllo l’orlo della gonna e lo tiro in basso. La
vista del vestito rosso di velluto, con l’orlo nero e lucido, mi riporta alla
memoria il cenone di Natale che ho lasciato alla Tana: i miei figli, mio
marito, i miei suoceri, i miei cognati.
Quella che, sempre, è stata casa
mia.
Invece ora sono qui, seduta per terra
in un corridoio silenzioso, in una casa dove sono stata torturata da ragazzina,
con un uomo che non è mio amico, che non è nulla per me. Mi salgono agli occhi
piccole lacrime di impotenza, che cancellano dalla mente persino il motivo che,
fino a poco fa, mi animava e che mi aveva fatto correre qui nel cuore della
notte.
Come se non
avessi davvero posto dove andare. E mi adattassi a stare in un posto che, con
me, non c’entra niente solo per convincermi di poter stare da qualche parte.
Quella consapevolezza mi graffia
dentro come le unghie di un animale selvatico. Brucia di sale e fuoco come una
ferita che sanguina, saturando di liquido i polmoni che faticano a respirare.
Mi stringo nelle spalle, la bocca asciutta, incapace di parlare, di dire
qualsiasi cosa. Il silenzio si espande come un veleno atmosferico, tossico e
letale, grattando nella mia faringe.
Fissando il pavimento, riconosco lo
stesso parquet della mia tortura.
Ed, ancora, il respiro mi si blocca,
soffocandomi, costringendomi ad un colpo di tosse più forte per riprendere a
raccattare ossigeno.
“Parla, Granger. Muoviti” Draco mi
incalza, la sua voce ad ogni sillaba recupera il nitore consueto che io invece
vado perdendo. Lo vedo con la coda dell’occhio persino muoversi un po’,
volgersi al mio viso, serrare la mascella e sputare fuori velenoso: “Non sono
nell’umore adatto perché mi affibbi un’altra gentile etichetta. Dopo assassino, vogliamo salire di livello a mostro, serial killer, traditore? Ecco
qua, ho già fatto tutto il tuo nobile lavoro. Vattene a casa prima che mi torni
lo spirito per commentare che sei qui, quando dovresti essere tra i tuoi
straccioni a farvi i santissimi auguri di Natale”.
Gli auguri
di Natale. Le tavole imbandite. Candele rosse e vischio un po’ secco.
Ron che mi
urla di tutto, perché oso difendere la famiglia Malfoy e l’amore virginale di
mia figlia Rose per uno di loro.
Il coraggio torna come una vampata
prima calda e poi fredda, accendendomi il viso e gli occhi. Mi volto verso di
lui che mi guarda sorpreso, gli occhi artigliati su una domanda che non osa
pormi. Ne leggo ogni parola nelle sue iridi, seppure non sappia che cosa
vogliano dire. Stringe d’improvviso le palpebre come vittima di una fitta di
dolore, chiude la mano sulla camicia bianca all’altezza del cuore.
“Ho bisogno di farti una domanda.
Una sola. E poi andrò via, te lo prometto” sussurro rapida, sporgendomi verso
di lui, approfittando del suo silenzio. Le mani, con cui ho fatto leva sul
parquet per issarmi in avanti, sono bollenti contro il pavimento ghiacciato, il
cuore mi assorda con il suo battito.
“Una domanda? Sei qui per una domanda…” constata Draco asciutto
guardandomi di sbieco, nelle sue parole vibra tutta l’idiozia che percepisce
nella mia motivazione. Per un attimo, mi studia persino meglio, gli occhi
socchiusi e sospettosi, come se cercasse altro oltre quella sterile
giustificazione. Probabilmente, ciò che legge nei miei occhi lo convince che si
tratta della verità.
Di nuovo, spasima stanchissimo,
portandosi annoiato una mano tra i capelli: “E cosa ti fa pensare che, ammesso
che voglia risponderti, sarò sincero?Mentirei.
E’ il minimo…”, incassa di nuovo un lungo sospiro tremulo, prima di fissare il
quadro di fronte a lui e ripetere ironico: “Ho una reputazione da difendere.
Credo che sia rilevante per me sapere se sono ancora il più grande bugiardo
della storia del mondo magico… ho appena liberato uno spazio per la targa sul
camino… Potter me la deve da tempo…”.
Un dejavù.
La sensazione assolutamente
incomprensibile di aver già vissuto questo momento.
Sebbene sia impossibile.
“Non
credi di sopravvalutarti troppo?” In fondo, c’è sempre Peter Minus in lizza… Zabini, la Parkinson e mezza casata Serpeverde… un sacco di Mangiamorte… la concorrenza è
notevole, non sono affatto certa che tu sia il migliore…” mi sento dire con una
parte remota della mia mente.
Gli studiosi lo chiamano “inganno
emotivo”: la situazione che si sta vivendo, con tutti i suoi correlati emotivi,
richiamerebbe un’altra situazione simile vissuta precedentemente. In realtà,
quindi, sarebbero le emozioni di quella determinata esperienza che sarebbero
state già vissute, non propriamente l’esperienza in sé.
“Invece
io ne sono sicurissimo… sarebbe un duro colpo per la mia immagine… e comunque
non c’è nessuno abbastanza abile come me… la targa la vincerei più e più volte…
il sangue conterà qualcosa, no? Sono sempre il figlio di Lucius Malfoy… nel
multiforme mondo della menzogna è indubbiamente una garanzia…”.
Nonostante gli studi abbiano
condotto ad una spiegazione più prettamente scientifica, qualcuno ritiene
ancora che il Dejà Vù sia una sensazione che viene
provata quando ci si trova esattamente dove si dovrebbe essere. Come se fosse
un punto di congiunzione fra il percorso tracciato dal destino, e quello che
realmente si sta percorrendo.
“Questo si chiama nepotismo, Malfoy…”.
“Questo
veramente si chiama DNA, Granger…”.
Mi riprendo da quelle stupidaggini
mentali con decisione, tornando alla ragione. Se è vero che io stasera debba
essere qui per un supposto disegno divino, è perché Draco Malfoy sembra sul
serio non avere nessuno. Ed io, in fondo, non sono così stronza da lasciarlo da
solo. La familiarità che provo è un mero riflesso della giustificazione che mi
sto dando per non essere così concreta e pratica da mollarlo al suo
destino.
Una parte del nervosismo che mi
hanno messo quei pensieri soffia dentro le mie parole. Le pronuncio inacidita,
stizzita, convinta sommamente di essere nel giusto. Schiocco la lingua
arrogante prima di dire: “Sarai sincero, Malfoy. Lo so. Non ti avrei ferito
tanto l’altra sera con le mie parole, se non fosse stato così”.
Lui mi guarda con un sorriso
sarcastico, come se avessi appena detto che la terra è quadrata ed interamente
composta da formaggio francese. Soggiunge profondamente scocciato: “Tu non mi
ferisci, Granger. Al massimo mi annoi.
Come stai facendo in questo momento. Avanti, datti una mossa. Che vuoi
sapere?”.
I suoi occhi mi osservano profondi,
non so come facessi a guardarlo a scuola senza la sensazione di una sciabola
puntata alla gola, pronta a squartarti la giugulare. Con quello sguardo, sembra
arrivare fin dentro la mia testa, dentro un punto morbido e delicato che non
conosco nemmeno io.
Una parte di me ne è terrorizzata,
un’altra… pure.
Perché non riesco a smettere di
guardarlo, anche se mi fa sentire così.
Sono
arrivata al punto che mi piace persino essere guardata da un altro uomo che non
sia mio marito? Lo penso
immediatamente con sgomento, negandolo cinque secondi dopo.
Draco Malfoy non mi guarda con alcun
tono di desiderio, attrazione o possesso fisico.
Ci mancherebbe.
Ha piuttosto degli occhi… curiosi. Persino nel rossore di un
pianto che ancora reprime, mi osserva come se inseguisse qualcosa. Sento
distintamente anche adesso lo sguardo che scorre indagatore sulle mie palpebre,
sulle ciglia, sul naso, sulle guance, sulle labbra.
Contrae lo spazio tra le sopracciglia
come se quello che vede non gli dia ancora una risposta.
Vorrei vedermi attraverso i suoi
occhi per capire che cosa sta cercando e cosa non trova.
Presagendo che il silenzio stia
durando fin troppo lasciandomi immobile a fissarlo, torno a guardarmi le mani
che torturo in grembo, l’intimità di quella situazione che mi abbaglia d’un
tratto. Vogliosa di finirla quanto prima, mormoro senza preamboli: “Lo avresti
ucciso sul serio, se avessi potuto?”. Non specifico di chi sto parlando. Lo sa.
Lo deve sapere. Se non capisce che
sto parlando di Silente, è già un’ammissione di colpa.
Vuol dire che stava per uccidere
qualcun altro, forse stavolta riuscendoci.
“Neanche se avessi avuto tutto il
tempo del mondo” la sua voce non tarda nemmeno mezzo secondo di riflessione,
convincendomi più di tutto il resto. Suona stentorea, potente, come se quelle
parole se ne fossero state nel suo petto in attesa di qualcuno che, davvero,
gliela facesse questa domanda. E, chissà perché, sono certa di essere arrivata
per prima.
Una specie di assurda felicità, come
un formicolio sotto la pianta dei piedi, mi colpisce imprevista, portandomi
automaticamente a sorridere. E’ un sorriso strano, antico, quasi dimenticato.
Non ricordavo di averlo nella mia scorta di gesti ed espressioni.
Gli credo subito, senza sforzo.
Senza nemmeno pensarci. Senza nemmeno chiedermi perché.
“Volevi… sapere solo questo, Granger?” mi chiede
autenticamente meravigliato, sorpreso. Non lo guardo ancora in faccia, timorosa
che veda ancora quel sorriso sul mio volto e lo usi a suo favore. Mi rendo
conto che, però, lui lo vede lo stesso, non ha mai smesso di guardarmi un
attimo. Quindi sollevo gli occhi, atteggiandomi ad un viso più quieto: “Sì…”.
Ancora, Draco mi guarda in attesa di
qualcosa. Ha una sorta di delicatezza negli occhi che, addosso a lui, pare
sbagliata. Dopo un po’ di estraniamento, però, mi sembra invece necessaria. Di nuovo, passa qualche
secondo prima che riprenda a parlare, mi si socchiudono gli occhi nel guardarlo
in viso, come se fossi sotto una luce troppo forte. Mi vedo dall’esterno,
seduta per terra con lui accanto, e per la prima volta spero che non arrivi
nessuno a pensare cose strane.
A me sembra tutto naturale e
normale, ma so che non è così che potrebbe sembrare. Continuo a dimenticare che
è la notte di Natale, che entrambi dovremmo essere altrove. Per la prima volta
da ore, mi chiedo se la mia famiglia non mi stia cercando. E prima della
preoccupazione per la loro ansia, giunge il sollievo di sapere che non mi
cercheranno mai qui.
Basta questo cauto sollievo a farmi
distogliere lo sguardo, mentre Draco, con un colpo di tosse, mormora con voce
aspra, come se avesse indovinato i miei pensieri: “Volevi sapere solo… questo… la notte di Natale? Dire che hai
un tempismo ottimo è un eufemismo, Granger… suppongo che le ricorrenze dalle
tue parti siano così patetiche che ad ogni piè sospinto mediti la fuga”.
L’incantesimo soffuso che ci avvolgeva
si rompe improvviso, come se uscissimo dal guscio imberbe di una pelle nuova.
Sento distintamente il moto di bile che mi sale lo stomaco e la sua voce mi
appare più stridula di quanto ricordassi.
Roteo gli occhi ovvia, incrociando
le braccia nervosamente: “Non essere idiota. L’ho fatto… per Rose. Lei… sembra
che si sia affezionata a tuo figlio, a Scorpius…”, esito un attimo prima di
continuare, ma poi per difendermi proseguo senza esitazione: “Oggi, a tavola,
Ron ha cominciato a…”.
“Ad insultare tutta mia progenie,
con gli epiteti più variabili?” completa lui canzonatorio “Mi sento meno in
colpa per aver cambiato tutte le parole di Weasley
è il nostro Re!,per renderla una nenia che
combattesse la stitichezza nel nostro gufo di casa”.
“Malfoy!” erompo scandalizzata,
anche qui sono pienamente consapevole che non ha mentito. Sicuro che esiste sul
serio questa canzone.
“Giusto… ho promesso di essere
sincero. Non mi sentivo in colpa”
pronuncia assertivo, prima di proseguire con tono dolciastro, simulando un
sorriso falso mentre finge di chiudersi un bottone del polsino: “E quindi cosa,
Granger? Volevi… difendermi?”.
Mi viene di nuovo da battere il
piede a terra per il nervosismo che mi procura, ma mi impongo di rispondere
calma e matura: “Voglio difendere i sentimenti di mia figlia. Non i tuoi. E potevo farlo solo… difendendo te e la tua
famiglia. Ma non sono riuscita a farlo perché… in fondo, io stessa ti ho
accusato delle stesse cose qualche giorno fa. E mi dispiace di averlo fatto.
Sarebbe stato giusto parlarne anni fa di questo, invece abbiamo tutti lasciato
che queste cose restassero a marcire sotto la cenere, finendo per far del male
solo ai nostri figli, di riflesso…”, respiro a fondo prima di soggiungere:
“Loro… devono essere liberi da tutto questo…”.
Lui, però, ignora volutamente tutto
il senso del mio discorso, persino le scuse che mi sono costate parecchio in
termini di orgoglio. Si allunga placido come un gatto sazio, incrociando le
braccia con aria rilassata, canzonandomi con voce gongolante: “Ed ora quindi…
ti ergerai come mia paladina verso il tuo marito straccione? Merlino e Morgana,
ho avuto il mio regalo di Natale in anticipo… vorrei avere delle Orecchie
Oblunghe per ascoltare il vostro prossimo delizioso scambio di opinioni”.
Prima dell’inevitabile fastidio di
avergli servito un tale vantaggio su un piatto d’argento, una spina bollente di
sollievo mi accende il basso ventre. Sta
scherzando. La voce è la sua solita voce, strascicata e molesta. Gli occhi
sembrano più chiari.
Per ora,
almeno, non stai ripensando a tua madre.
Forse è
questo il mio regalo di Natale.
“I Grifondoro
sono degli idioti…” bofonchio, poggiando la testa sulle braccia piegate sulle
ginocchia “Troppo altruismo senza corrispettivo”.
“Lo avrai il tuo maledetto
corrispettivo, Granger…” mormora lui, offeso come se lo avessi accusato di non
poter pagare un debito. Si spettina i capelli biondi ad arte, simulando
nonchalance: “Chiedi e ti sarà dato”.
Ci penso su qualche istante, come se
davvero stessi vagliando tra vari premi che mi sono stati offerti. Mi mordo
l’unghia del pollice, non ho granché su cui riflettere in fondo. Mi viene
scontato dire la sola cosa che ho in mente. Quella che, in fondo, è il vero
motivo per cui sono venuta qui stasera.
Torno a guardarlo a conferma della
serietà del mio proposito e delle mie parole. Draco, da qualche parte, lo
capisce perché chiude le labbra già aperte per sibilare un altro colpo di
ironia.
“Non
spezzate il loro cuore…” asserisco convinta, colorando le mie parole di un
tono tra la preghiera e l’ammonimento. Lui sembra capirlo, arriccia le labbra
con ferocia, mentre proseguo: “A Rose… e a Teddy. Ti sto affidando due delle
persone più care che ho al mondo. Fa che io possa fidarmi di te. Ed io ti
difenderò sempre”.
Di nuovo, non si lascia andare a
nessuna rassicurazione. Anzi, questa volta pare persino offeso, volta il viso
altrove e stringe un pugno sul parquet: “Solita Grifondoro
con un tatto nullo per gli affari. Questo…
lo avrei fatto comunque, checché ne pensi tu…”. Mi lancia un’occhiata traversa
che mi fa sentire un’idiota, prima di riprendere casuale: “Però confesso di
essere molto interessato a questa apertura di trattative, Granger. Potrebbe
rivelarsi utile. Quindi, fingiamo che
fossi intenzionato ad infliggere la peggiore sofferenza possibile ad Edward e
alla tua mocciosetta…”, si porta le mani alla base del collo, emettendo dei
versi strozzati di sofferenza: “Umpf, argh, che pena sarà non poter far loro del male. Impazzirò! Necessito di qualcosa di
maggiore sul piatto per essere convinto”.
Draco pare enormemente sicuro: “Aggiornamenti, Granger. Sul matrimonio
del secolo, quello che tu tanto approvi
ed appoggi…”, il tono melenso fa ovviamente riferimento alla nostra ultima
conversazione, dove ha compreso che disapprovo tutto di queste nozze.
Figuriamoci se non se lo ricordava. Lo incenerisco con lo sguardo, mentre
prosegue con un’alzata di spalle: “Suppongo che la tua discussione matrimoniale
nella notte più santa dell’anno, ti abbia mostrato abbondantemente quanto sono
poco gradito. E quanto io poco brami ripetere l’esperienza di assideramento sulla terrazza fatiscente dei
tuoi suoceri poveracci. Quindi, magari se mi aggiornassi sulle decisioni
intraprese, potrei evitare di presentarmi ad ogni squallida riunione e
chiedermi costantemente se non sto per essere avvelenato con la Burrobirra o con la semplice inalazione dell’aria fetida
che respirano in quella stamberga, così piccola da far circolare anche l’aria”.
Quando sto già per aprire bocca ed
urlargli di tutto, qualcosa mi colpisce con il lampo immediato dell’intuizione:
quel qualcosa fa rima con un colpo di tosse che proviene dalla stanza di Cissy
Malfoy.
Sta
peggiorando. Non vuoi lasciarla sola. Neanche per una promessa fatta a lei.
L’intensità perdurante del suo
sguardo mi fa capire che ci ho visto giusto.
Non lascio però filtrare nulla della
mia consapevolezza, rispondendogli rassegnata e sfibrata, come una che decide
di fare beneficienza ad un caso umano: “Sei di una simpatia contagiosa, Malfoy,
santo cielo. Comunque… d’accordo, va bene. Ne beneficerà anche il mio sistema
nervoso”.
“Quindi siamo pari”.
“Pari? E che vantaggi avrei da questa
contrattazione, scusa?”.
“Mi vedi di meno, non spezzo i
giovani cuori di Edward e Weasley-figlia, e mettiamoci và,
che ti devo anche un favore…” sciorina ovvio, contando sulle dita, prima di
ripetere: “Chiedi e ti sarà dato”.
“Me lo terrò da parte, Malfoy. La
sensazione di poterti chiedere qualcosa, in qualsiasi momento, è insolitamente
piacevole”.
Mi guarda con un sorriso che non gli
arriva agli occhi, sussurrando malevolo: “Mai fidarsi…”.
“…dei serpenti…” completo,
stupendolo non poco “Lo so, lo so. Me lo hanno detto una volta”.
“Dunque… affare fatto?” conclude,
alzandosi in piedi e porgendomi la mano destra.
Guardo incredula la sua mano, come
se scottasse: “Vuoi anche la stretta di mano? Non ti appesto così?”.
“Mi sento particolarmente
temerario…” mormora annoiato, guardandomi dall’alto in basso “Insolita
combinazione di festività stucchevole, emicrania da moglie vanesia e madre
moribonda: cogli l’occasione”.
Scuotendo il capo per l’assurdità
del quadretto che è capace di dipingere con freddezza, mi sollevo da sola da
terra, puntellandomi sulle mani. Poi, visto che resta ancora di fronte a me con
la mano tesa, la prendo con la mia, la tentazione di fargli una linguaccia da
bambina in risposta alla sua aria strafottente e fastidiosa.
Le sue dita, contro le mie, sono
calde, bollenti, come mai avrei potuto immaginare.
O come ho
sempre saputo?
Faccio in tempo a pensare solo
questo, prima che, risorta come una peste medievale, la nausea scoppi di nuovo
dal punto più profondo del mio petto, salendomi in bocca con un sapore marcio
di segatura. Artiglio la mano di Draco, come se fosse la sola cosa che mi
impedisse di cadere al suolo, distesa. Quando lo guardo, però, lo vedo come me:
piegato in due, una mano contratta sul torace, boccheggiante come se stesse
morendo sul colpo.
Vorrei aiutarlo, vorrei che aiutasse
me, ma non riesco a muovere un passo. Ricadiamo entrambi al suolo in ginocchio,
il tonfo mi raggiunge a malapena le orecchie, mentre mi pare che tutto si
rovesci come se fossimo dentro una casa di bambole.
Ed è lì che, senza preavviso, mentre
mi chiedo se non sto sul serio per morire, che accade.
Lampi. Lampi oro come occhi malati. Bianco. Bianco
tutto attorno, non esiste quel colore, non può esistere. Non è mai esistito.
“Il motivo che cerchi”. Un’altra mano nella mia, tutto tira dalla parte
opposta. La mano no, la mano tiene, trattiene, sostiene. Svanisce, piango, non
te ne andare, non mi lasciare. Sparisce. Scompare. Non è un’altra mano.
Si spezza tutto, mi spezzo io, si spezza il mondo.
Alex. Alexander.
Salta nelle pozzanghere anche quando gli dico di non
farlo.
Ancora oro, occhi con la pupilla stretta come quella
dei gatti.
“…il giunger palma a palma è il bacio dei pii
palmieri…”.
Non lo devo dimenticare.
Dimentico.
Occhi color dell’oro, lui ha superiori a cui far
riferimento.
Tutto esce fuori dalla testa come se fosse, di nuovo,
un sogno.
Resta qualcosa. Solo una cosa.
Lo chiamo ricordo.
Continua
a tenermi per il polso, finché con un strattone mi solleva violentemente dalla
posizione accovacciata in cui ero. Mi ritrovo in piedi davanti a lui, che mi
trattiene ancora con il braccio sollevato, guardandomi negli occhi. Cerco di
divincolarmi, adesso, mi sta facendo veramente male.
“Lasciami
Malfoy! Ho capito, me ne sto andando!” urlo, graffiandogli con le unghie la
mano che mi stringe ancora. Ancora, è come se non mi avesse sentito, mi guarda
cieco e sordo di qualsiasi cosa, persino della repulsione che dovrebbe avere
per il prolungato contatto fisico con me. I suoi occhi sembrano due pezzi di
granito freddo, sembrano non guardarmi davvero, sono talmente pieni di odio che
mi fanno rabbrividire. Mentirei, se dicessi che ci sono abituata. Non è vero,
Malfoy mi guarda così per la prima volta. Sento qualsiasi cosa stia pensando
sulla mia pelle, mescolarsi ghiacciata al mio respiro, opprimendo il mio petto.
Liquidi e chiari come sono sempre stati, i suoi occhi sono gli specchi di
qualsiasi cosa adesso affolli la sua mente. E non è una bella cosa,
sicuramente. Mi sta facendo male, davvero, adesso, in tutti i sensi. Il polso
pulsa, bianco, credo che me lo romperà alla fine. Sento persino una ventata di
nausea colpirmi la bocca dello stomaco. Cerco di divincolarmi, di distogliere
lo sguardo da lui, ma non ci riesco. È inutile, è come se mi tenesse incollata
ai suoi occhi. Freud diceva che ci sono due istinti nell’uomo, quello alla
vita, Eros, e quello alla morte, Thanatos. Come se fossi convinta che adesso mi
ammazzerà e non facessi nulla per impedirlo, anzi ne fossi quasi attratta. Mi
ucciderà così, come niente, senza nemmeno un urlo, e io me ne andrò, senza fare
assolutamente niente.
Torno in me, il corridoio esiste
ancora. Tutto esiste ancora. Anche io. Io esisto ancora.
Ma… anche
l’altra… esisteva.
Anche
l’altra... che ero io. Giovane, poco più di vent’anni. Occhi rossi, spalle
curve, una maglia da calcio addosso, una camera in bianco e nero che non ho mai
visto in vita mia.
Esisteva
lei. Che ero io. Con quel dolore dentro, con quel fardello dentro, con quella
paura dentro.
Di lui,
Draco Malfoy. Più giovane anche lui, bello sempre, arcigno sempre, duro,
scolpito nel ghiaccio come un dio crudele, enorme e gigante nella mia testa.
Esisteva
anche lui.
Non lo guardo, lo sento solo. Anche
lui, piegato in due come me. Lo ignoro, non mi importa.
La pelle del mio viso è bianca,
terrea, sudata di freddo.
Piango, singhiozzo, non ho
controllo.
Dico solo, tremando come una foglia:
“Che diamine mi hai fatto, Draco Malfoy?”.
Ovviamente, come
tantissime altre volte, questo capitolo giunge tardissimo. Naturalmente ci sono
sempre scuse, spiegazioni e giustificazioni, ma questa volta ve le risparmio.
Piuttosto, a scanso di tragedie, d’ora in poi cercherò di impormi sempre una
scadenza per il prossimo capitolo, così da rassicurare voi e da gestirmi meglio
io. Perciò, posso già dirvi che il capitolo 49 arriverà il 23 aprile. Detto questo, se ancora ci siete, io vi devo come
sempre solo che ringraziare. Non smetterò di farlo. Le prime sono sempre le mie
meravigliose, oramai, amiche del gruppo PUT A SPELL ON HER EYES. Ci sarebbe
tanto e troppo da dire, ma in fondo lo sapete. Avete tutte un posto nel mio
cuore. Dalla prima all’ultima. E non sarò mai meno che grata di avervi
conosciuto. Poi, naturalmente ringrazio chi ancora recensisce questa storia,
cosa che mi inorgoglisce parecchio e che meriterebbe delle risposte più
articolate da parte mia. Mi riprometto sempre di farlo, ma puntualmente, forse
anche per vergogna, non lo faccio mai. Ci tengo quindi qui a ringraziare velocemente
fantasy666classics (grazie mille per il bellissimo augurio che mi hai fatto,
spero sul serio di diventare una scrittrice un giorno, anche se ci vuole ancora
moltissima strada da fare), shady_xx (Ilaria, tesoro!
Grazie mille per la tua bellissima recensione, il lieto fine esisterà,
tranquilla, è una cosa che ho sempre promesso. Essere paragonata alla saga di Kysa, mamma mia! E’ una cosa che non mi merito!), _Emme
(cara, mi hai fatto una tenerezza immensa, pensando soprattutto a cosa ancora
ti aspetta dopo il capitolo 37 che allora stavi leggendo! Grazie sul serio dei
tuoi complimenti, sono felice che tu ti sia sentita così coinvolta anche se in
maniera un po’ dolorosa. Andrà tutto bene, alla fine, promesso), sono le ultime
recensioni che ho visto e a cui non avevo risposto, ma vi ringrazio sul serio.
Che altro dire? Naturalmente, come mia abitudine, rinvio il POST SCRIPTUM con
ogni domanda e spiegazione al gruppo facebook, così
da non ammorbare questa pagina. Grazie di tutto, grazie come sempre, e grazie
sempre.
Capitolo 49 *** Disturbia, step three: about touch ***
RIASSUNTO
DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo cinque anni
di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri
Karkaroff e Astoria Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco
assieme al figlio Alex di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio,
Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco
potrebbe essere ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa
risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà:
una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad
Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei, anche se Hermione, in
quel momento, non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una
profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i
suoi amici giungono all’ultima dimora di Tatia Krasova, in Finlandia,
dove era sposata con un uomo di nome IlaiRadcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera
destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice
tutto quello che le è accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di
Dimitri e Raissa. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale
magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli
Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che
innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si
erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere
casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a
fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva
provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il
nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna
in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma
giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama
Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la
bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta,
Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la
Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità
sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i
suoi amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff, compreso il presunto
morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi
cosa gli succeda, accada al bambino. I due spariscono con il bambino, con
l’oscuro ultimatum di tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi
definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche Alex.
Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio diIlai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita.
L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno
dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in
modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima
che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. Il clima
diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione
apprendono dall’Empatica Helder di essere
finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i
Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta
dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti,
cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una
serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del
demone: solo loro possono invocare la Solutiodamnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la
distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché
della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e
Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il
loro rapporto. La Solutiodamnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei
Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder,
trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy.
La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro
due e per IlaiRadcenko,
che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per
ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela
fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco
ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutiodamnationis. Disperando di poter tornare vivi, in un clima
di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte.
Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed IlaiRadcenko, Hermione
scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi
inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale
sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del demone è semplice: cancellati i
tradimenti che hanno condizionato il futuro di Draco ed Hermione, il loro
destino sarebbe stato completamente diverso e, secondo Adamar,
avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li
blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola
scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria
del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente
ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno
possibilità di tornare indietro. La vita di Hermione e Draco è quella più
classica che si possa immaginare: lei è sposata con Ron e ha avuto Rose ed
Hugo; lui invece con Astoria da cui è nato Scorpius. I due, a parte lo
sporadico contatto al binario nove e tre quarti alla partenza dei figli per
Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive un matrimonio fatto di
crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di qualcosa di normale. Una
sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley confessano alla famiglia di
essere non solo innamorati, ma anche in attesa di un bambino, motivo per il
quale hanno deciso di sposarsi presto. Ed è a quel punto che ricompare Draco,
la cui famiglia ha riallacciato i rapporti con Teddy e che è pertanto
interessata all’organizzazione del matrimonio. Hermione e Draco si rivedono
quindi, e sebbene alle associazioni di idee con la loro vecchia vita, lei provi
nausea e lui un dolore al petto, entrambi sono assolutamente ignari del loro
passato. Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del suo matrimonio,
sfugge alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua volontà anni prima
di uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per mancanza di tempo.
Hermione, in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto, attorno a loro,
forze misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme, l’onnipresente
EvaDubois nascosta in mille fogge accomunate dal
cameo della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane, apparentemente solo compagna
di studi di Ginny, la quale sembra conoscere qualcosa dell’intricata faccenda
in cui si trova Hermione. Emblematico, anche l’incontro con la rediviva Tatia,
in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto una figlia di nome
Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in Hermione. Specie nel
fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che nel mondo da cui
provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella lettera prima di morire e che
Hermione aveva incantato per non perdere). La collana, in questo mondo, indica
sempre il mare. Distrutta dal senso di colpa per la sofferenza che ha indotto a
Draco con le sue accuse, Hermione accoglie il ritorno a casa per le vacanze
natalizie della figlia Rose che le confessa di essersi innamorata proprio del
figlio di Draco, Scorpius. La ragazzina, preoccupata della disapprovazione che
il padre Ron potrebbe avere per Scorpius, chiede l’aiuto della madre che glielo
promette calorosamente: la sera di Natale, però, durante un brindisi, Ron
rimarca l’ostilità aperta verso la famiglia Malfoy, finendo per discutere
pesantemente anche con Hermione, in aperta difesa di Rose che ne rimane molto
ferita. Hermione va via dalla Tana e, in preda all’istinto più puro, finisce a
casa di Draco, protetta dal Mantello dell’Invisibilità, per conoscere infine la
verità sul tentativo di omicidio di Silente e rendersi conto se l’affetto della
figlia, nonché di Teddy, siano ben riposti. Draco è completamente estraneo al
clima di festeggiamenti della vezzosa e frivola moglie Astoria: è infatti
chiuso nella stanza della madre Narcissa, gravemente ammalata. Nonostante
Hermione indossi il mantello che la rende invisibile, Draco si accorge della
sua presenza e i due hanno una lunga conversazione quasi amichevole, dove Draco
ammette che non avrebbe mai ucciso Silente e Hermione, con sua somma sorpresa,
non ha alcuna difficoltà a credergli, sentendo una continua fiducia nei suoi
confronti che non riesce a spiegarsi. A suggello del momento, Draco ed Hermione
si stringono la mano, giungendo senza accorgersene a trovare la scappatoia di
Adamar, il fantomatico “giungere palma a palma” era un contatto delle loro
mani, voluto da entrambi. Immediatamente nelle loro menti, ritorna un ricordo
della loro vera vita: il momento in cui Draco usò la Legilimanzia su Hermione
al Petite Peste, per cercare di scoprire se fosse a conoscenza di Serenity e di
Helena. Il ricordo li sconvolge entrambi, ma soprattutto Hermione arriva
automaticamente a pensare che Draco le abbia fatto qualcosa di male in un
momento che non ricorda.
Capitolo 49: Disturbia, step three: about touch
25 dicembre ore 00,48
Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, lo
aveva chiamato subito ricordo, non sogno.
La certezza si era instaurata nelle ossa,
vibrante come la corda di una chitarra al termine di un assolo. Vibrava tutto,
ogni cosa tra pelle ed organi, come se facesse risonanza con qualcosa di
lontano, perso, apparentemente irraggiungibile.
I sogni sono concentrati tutti in un solo
attimo fosco come nebbia: esiste un occhio del ciclone immobile nel quale
esistono in modo tangibile. Tutto il resto, attorno, viene dimenticato.
Nei ricordi, invece, a guardarli bene si vede
altro: la mente registra implacabile, ripropone scongelate prospettive di
eventi che non si erano guardati bene.
E lei aveva visto tutto: tutto quello che
c’era attorno a lei.
Una serie di cose accatastate assieme che,
proprio assieme, non significavano niente ed in questo magari poteva sembrare
la lucida follia di un sogno.
I mobili della stanza erano bianchi, gli
accessori neri. La televisione era accesa, con il volume al minimo, creava
ombre azzurre sui muri come se volesse mangiarseli. Su un letto c’era il
peluche di un coniglio rosa. Dalla finestra, proveniva il suono ritmico e
regolare della pioggia. Sul comodino, un calendario segnava la data di una
festa a tema azzurro, lontana tredici anni prima.
Tredici anni prima: nessun sogno era così
preciso.
Ma nessun ricordo portava l’etichetta di quel
momento. Nessuno.
Mai lei, Hermione Granger, era stata così a
ventitré anni.
Capelli lunghi, annodati in una coda,
leggermente bagnati sulle punte. Una maglia da calcio babbana rossa.
Corporatura più esile, molto più magra di quanto ricordasse di essere stata a
quell’età. Era sicuro che avesse pianto, gli occhi splendevano di pagliuzze
verdi sconosciute, al contrasto con il rosso che macchiava il bianco.
Dentro, non era stata mai così fragile
Hermione: farinosa, sabbiosa, friabile come un biscotto secco che, solo a
guardarlo di sbieco, si sbriciola selvaggio.
E Malfoy, quello che in un lampo aveva ripreso
a chiamare così, l’aveva sicuramente sbriciolata.
Con quella mano stretta sul polso, con
quell’irruenza sorda, con quella violenza scoperchiante e spavalda: certo,
ovvio, tutto vero.
Falso, invece. Era tutto falso.
Hermione Granger, 36 anni compiuti, fu certa
d’improvviso di una sola cosa.
Era stata sbriciolata, fatta a pezzi, dagli
occhi pieni di odio di Draco Malfoy.
Le mani.Le sue mani.
Di primo acchito,
come un richiamo ancestrale e necessario, guardo solo quelle.
Sono mani sottili,
dalle unghie corte eppure curate, attraversate pallide da un tessuto di vene e
capillari: sono mani di neve, ghiaccio, furia e tempesta, capaci di seminare
dolore e morte se solo lo volessero. Mi ha detto di non averlo mai fatto, di
non aver mai ucciso.
Gli credevo. Gli credo. O non più?
Sono mani di uomo
che spezzano, percuotono, annientano.
Sono le stesse mani
che, poco fa, se ne stavano poggiate fiaccamente vicino a me.
Sono le stesse mani
che io, preda dell’istinto più semplice, avrei stretto tra le mie, in modo da
consolarlo dal dolore imminente del lutto per la madre: e sono le stesse mani
di cui alla fine avevo conosciuto il calore denso, all’interno di quell’accordo
non verbale che avevamo siglato complici.
Ora io guardo
quelle mani e cerco di indovinarne le loro impronte sulla mia pelle.
Su quella tenera e
sottile del polso, su quella più ruvida e tracciata della fronte, su quella
pulsante e bollente del collo: ogni pezzo della mia epidermide, d’improvviso, suda
inquieta e mi suggerisce nuove dimensioni del dolore che potrebbe avermi
procurato, per poi cancellarmelo dalla mente. Il quadro è così vivido, e rosso,
e nero, che mi fa male solo ad immaginarlo, mentre si sveste come un cappotto
pesante quella primitiva ed istantanea fiducia che avevo avuto poco fa per lui.
Come una molla, scatto subito alla bacchetta nascosta sotto il vestito, la
impugno forte, sebbene le mie dita tremano raggelate. Torno a guardarlo quando
sono certa che i miei occhi non siano più lucidi, ma fieri, socchiusi, minacciosi,
mentre ripeto in un sibilo: “Che diamine mi hai fatto, Draco Malfoy?”.
La sua vista, d’un
tratto, sgonfia un po’ del mio intento bellicoso, facendo tremolare la pelle
dietro le ginocchia. Mi ero aspettata un sorriso tronfio, uno sguardo
soddisfatto, un ghigno perfido, mentre mi sputava addosso l’inganno crudele a
cui mi aveva sottoposta. In fondo, una parte di me si aspettava anche che, nel
suo diabolico piano, rientrasse pure lo scarto pacifico di coesistenza che
abbiamo appena vissuto. Mi renderebbe persino più tranquilla sapere che è
stata tutta una farsa, piuttosto che credere sul serio che sia così naturale
stargli vicino.
Invece, a
restituirmi lo sguardo è un uomo confuso, disorientato, autenticamente
sconvolto. Lo guardo senza capire per qualche secondo, la bacchetta che si
abbassa piano dalla mia mano tesa prima ancora che io l’abbia premeditato. Non
aveva già la migliore delle espressioni precedentemente, ma adesso se
possibile, pare ancora più a pezzi di prima.
Continua a
stringere in modo frenetico e convulso con le dita la camicia all’altezza del
petto, come l’ho già visto fare spesso come in una sorta di tic nervoso, mentre
i suoi occhi sono catturati dal pavimento come un magnete irresistibile. Sotto
le palpebre, subitanee come fulmini sul mare, paiono passare centinaia di schegge
di un dolore diverso che lo annienta, annichilisce, sconquassa, come a volerlo
rivoltare dall’interno verso l’esterno, alla maniera di una pelle consunta da
gettare via.
Ho intuito che ciò
che è successo a me, è accaduto anche a lui.
Il ricordo.
Ma la sua reazione
mi induce a pensare che abbia visto o sentito qualcosa di diverso da me,
qualcosa di feroce, terribile, cruento. Quando torna a guardarmi, pare cercare
qualcosa nel mio viso in modo disperato, è come se soppesasse la mia figura
alla ricerca di qualcosa che non vada. Scivola sul viso, attraversa le braccia,
giunge alle gambe coperte dalle calze leggere. Non c’è lascivia, desiderio,
interesse.
Solo… terrore
smisurato. Cosa diamine sta cercando?
Sta… cercando di capire se… sto bene?!
La domanda retorica
a me stessa giunge così di sorpresa alla mia mente, da scoppiettare come un
petardo acceso. Deflagra insolente tra i tessuti, svuotandomi della rabbia e
dell’ansia. Mi attanaglia un senso crescente di vuoto freddo, implacabile,
insormontabile, che inizia a congelarmi le piante dei piedi per poi risalire
nel resto del corpo. Lo guardo allora instupidita, sciocca, nemmeno cosciente
di cosa pensare o fare.
Mi trincero dietro
la certezza che il ricordo sia di qualcosa che Malfoy mi ha fatto, solo perché
mi è rimasto solo questo.
Non so dove altro
porre i miei pensieri, dove nasconderli. D’un tratto, confesso a me stessa, per
la prima volta in questa serata assurda vorrei essere a casa mia.
Non qui, non con
lui.
Ovunque, ma non con lui.
Malfoy continua a
guardarmi con una domanda negli occhi imploranti, a cui però io non so
rispondere. Quando sembra capire che quel soccorso silente non arriverà, nel
vedere la mia bacchetta sguainata si ricompone immediatamente con una velocità
che mi sorprende, lasciandomi attonita. In pochi secondi torna sé stesso, apre
le spalle, raddrizza la schiena. Mi sovrasta con la sua altezza, pare un
principe delle fiabe intento a guardare una servetta. Le labbra si atteggiano
al solito ghigno sarcastico, mentre gli occhi, che erano prima pozze azzurrissime
di gennaio, si restringono malevoli, diventando più chiari, trasparenti.
Si spazzola distrattamente
la giacca grigia come se fosse piena di pelacchi, mentre soggiunge sarcastico,
rivolgendosi ad un inventato interlocutore: “E la Grifondoro dimenticò in quindici
secondi netti l’impeto di convivenza civile natalizia… abbandonando persino
quel raziocinio di cui è sempre andata tanto fiera…”, fa una studiata pausa ad effetto,
poi prosegue dolciastro: “Non dimentichiamo che è la moglie di Weasley, ogni
tanto pure le menti migliori vengono portate sulla cattiva strada…”. Completa
la sua tirata con una finta occhiata di comprensione al mio indirizzo, cosa che
mi fa saltare ancora di più i nervi, facendomi dimenticare completamente
l’attimo di debolezza di poco prima. Riafferro la bacchetta puntandogliela
contro decisa, cosa che non lo impensierisce affatto. Non cambia espressione
nemmeno quando sputo fuori, urlando: “La vuoi piantare con le tue contorsioni
semantiche, Malfoy?! Che cosa diamine vuoi dire? Tu… tu mi hai fatto qualcosa…
l’ho appena ricordato...”.
Mi concentro per
qualche secondo, riportando alla mente quello che ho visto. L’episodio, invece
di perdere definizione, diventa ancora più nitido e preciso come se fosse
qualcosa accaduto solo poco fa. Ha dei colori carichi, scintillanti, al punto
che ogni altra memoria nella mia testa pare smunta e impalpabile. Lo rivedo
nella mia testa continuamente, cercando di fissarmi tutti i particolari. Nulla,
però, mi riporta alla memoria quel momento che pare assolutamente slegato da
tutto il resto, come una specie di pezzo stonato nel puzzle della mia testa.
Respiro a fondo, cercando di trarre quante più conclusioni possibili, le
orecchie che mi ronzano e la nausea solita che non mi lascia in pace. Un vago
senso di ansia comincia a salire tossico lungo l’esofago, specie quando cerco
di interrogarmi oltre che sulla memoria in sé, sul motivo per cui sia tornata
in mente a me e a Malfoy nello stesso identico istante.
E peraltro non in
una maniera indolore, tipo scatto di consapevolezza improvvisa: no. Mi sono
sentita squarciata a metà, come se mi stessero tirando da otto direzioni
differenti. Vado avanti ed indietro mordendomi l’unghia del pollice, cercando
di capirci qualcosa, mentre Malfoy mi risponde spavaldo, poggiandosi con la
spalla al muro: “Se è per questo, l’ho appena ricordato anche io. Cosa
quantomeno inusuale se sei la vittima di qualche angheria terribile da
parte del sottoscritto: non sono così idiota da voler volontariamente
dimenticare la soddisfazione che ne avrei provato. Senza contare che non
me ne ricorderei mai contemporaneamente a te per darti questa bella
occasione di urlarmi nelle orecchie come una straccivendola”.
Le parole di Malfoy
non fanno una piega. Manco mezza.
Certo, potrebbe
aver finto la sua rimembranza attuale, in modo da confondermi ancora di più.
Non certa di quello
che provo per le parole di Malfoy, combattuta tra la proverbiale diffidenza e
l’istinto sempre continuo a fidarmi di lui, cerco di ripensare alle immagini
che ho visto.
Non era un sogno:
troppo preciso, troppo netto, troppo carico di dettagli. Non c’era nulla di
nebuloso, incerto, illogico. Le cose in sé sembravano perfettamente normali,
tranne che non lo erano per me e Malfoy.
Ero in un
appartamento sicuramente babbano, cosa che già mi fa ammattire, considerando
che ero con Malfoy che non si avvicina alle cose babbane nemmeno se minacciato.
Ero in una mise comoda, sembravo una che si sente a suo agio e questo è
doppiamente strano visto che, ribadisco, ero con Malfoy. Che lui si sia
intrufolato in un posto in cui mi trovavo io?
Ma che posto era?
Non era casa mia, non era casa dei miei, nemmeno quella di Ginny ed Harry,
enumerando le abitazioni più babbane che conosco.
Il mio stesso
aspetto, poi, mi rende ancora più incerta sul fatto che si trattasse davvero di
me: certo, ero più giovane e da un calendario appeso al muro ho capito che si
trattava di un momento avvenuto tredici anni fa. Quindi, avevo 23 anni e a
quell’età io stavo organizzando il matrimonio con Ron. Che nel ricordo, non è
presente. Dove diamine era? Perché ero sola con Malfoy?
Ma anche il mio
aspetto era diverso da come me lo ricordavo. Avevo i capelli più lunghi e più
chiari, ero più magra, persino più atletica.
Passi che Malfoy
possa avermi fatto qualcosa per poi indurmi a dimenticarlo, ma come potevo
avere anche un aspetto così differente da quello che mi ricordo?
E poi… quella tristezza, quel dolore, quella
voglia di abbandonarmi volutamente alla morte.
Quando mai sono stata così? Quando?
Ricaccio indietro
con una sorta di vergogna quella domanda, tornando al presente e dando voce ai
miei pensieri, dopo essermi ricordata della presenza di Malfoy che è rimasto lì
in silenzio, a farmi ragionare tutto il tempo: “Era un ricordo, Malfoy…
io… ho sentito tutto quello che provavo… avevo…ventitré anni… io non ricordo
nemmeno di averti mai incontrato a quell’età”.
I miei pensieri e
ricordi si attorcigliano come fili di un gomitolo, rendendomi sempre più
confusa, mentre cerco inutilmente di trovarne un bandolo. Mi prendo la testa
tra le mani tenendola assieme, sembra vittima di un forza centrifuga così
potente che i miei pensieri schizzeranno presto in tutte le direzioni.
Malfoy, per nulla
sconvolto, mi pare solo immensamente annoiato dalla vicenda ed anche dalla mia
richiesta di spiegazioni, come se la cosa non gli importasse minimamente. Si
limita ad un appunto scocciato: “Se è per questo nemmeno io… grazie a Merlino,
Morgana e ad un’altra cinquantina di maghi e streghe di quarantotto
generazioni”.
La frustrazione mi
attanaglia il fiato come una specie di fiera affamata, chiudendomi lo stomaco
ed annebbiandomi la vista. Vederlo così calmo, rilassato, serafico, mi
innervosisce ancora di più se mai fosse possibile. Così, senza controllo,
erompo in un urlo sgraziato, ripetendo irrazionale: “Smettila! Stai mentendo!”.
Il grido mi lascia
senza forze e senza fiato, come se avessi gettato fuori tutti l’ossigeno che mi
serviva per respirare. Resto così con la mano premuta sul torace, nel centro
esatto del corridoio che, in curioso gioco beffardo di onde sonore, pare
rimandarmi indietro infinite volte la mia voce acuta e gracchiante, odiosa
persino alle mie stesse orecchie come il verso di un pipistrello.
Mi preoccupo
seriamente che qualcuno mi abbia sentito, passi per l’Incantesimo
Insonorizzante per il piano inferiore, ma Narcissa Malfoy è ancora nella sua
stanza a dormire dell’agonia, ma forse ben più vigile nell’udito di quanto io
possa sperare.
Cerco di tingere i
miei occhi di un’accorata richiesta di perdono per la mia scortesia e che
giunga all’indirizzo di Malfoy, sebbene sappia che la mia sia la reazione più
normale se ti cascano nella mente dei ricordi che non pensi di aver mai
vissuto.
Lui, però, sembra
non essersene nemmeno reso conto, la piega febbrile dello sguardo divenuto
d’acciaio mi informa che è irritato, innervosito, sebbene esteriormente non ha
mutato nulla nella mollezza della posa e nella rilassatezza dei tratti. Solo la
mascella si indurisce mentre parla, facendo scivolare fuori le parole come se scottassero
e volesse sbrigarsi a pronunciarle: “Certo… avevo dimenticato che sei tornata
in possesso della tua adorabile moralità rosso-oro. Tregua finita…”.
Un’ondata di calore vergognoso mi sale fulmineo ed inspiegabile alle guance,
irradiando gli zigomi di porpora, mentre lui continua spavaldo, di nuovo
inaccessibile come un castello di rovi: “Poco fa hai creduto in un attimo che
non volessi assassinare Silente. Ora, siamo di nuovo diciotto passi indietro…”,
non riesco a reggere il suo sguardo, pare una spada puntata alla mia gola. Gli
occhi scivolano malamente in basso, mentre mi sento assurdamente in colpa per
aver sospettato di lui, anche se razionalmente so di averne ogni diritto.
La mia testa, però, quando si tratta di lui,
pare diventare una sorta di vocina di sottofondo.
Faccio pure fatica a capire che diamine dica.
In realtà credo che
sia sempre andata così. Lo incrociavo nei
corridoi a scuola, ci insultavamo a vicenda, trattenevo dalla rissa inevitabile
Harry e Ron, fingevo che fossi superiore e me ne andavo a testa alta, convinta
di averlo sempre battuto. Lui poteva anche essere purosangue, ricco e facoltoso,
ma dalla mia io invece avevo la media stratosferica e l’amicizia con l’eroe del
mondo magico. Nonostante questo, però, quando me ne tornavo in classe e mi
sedevo al mio posto, le sue irritanti parole mi tornavano nel cervello con
scadenza regolare, sovrapponendosi a quelle delle varie spiegazioni. E così mi
distraevo, mentre fantasticavo di scioglierlo nell’acido solforico oppure di
trasformarlo perennemente in un furetto. Chiaramente, mentre discutevo di
questi dubbi amletici, Harry mi diceva qualcosa o il professore mi chiamava,
beccandomi disattenta. Riuscivo sempre a rimediare ovviamente, ma intanto il
fastidio mi faceva torcere le mani dal nervosismo. Volevo fare la superiore e
ci riuscivo perfettamente davanti a lui, ma invece dentro macinavo e macinavo
fino allo spasmo.
E la mia testa, oggi
come allora, diceva sempre il contrario di ciò che mi ritrovavo a fare.
Si aggiunge oggi, però, un’altra novità,
qualcosa di sorto come un fungo e che guardo come se fosse velenoso.
Avevo la tendenza a sospettare di lui. Sempre,
qualsiasi cosa facesse o dicesse.
Ora, ho la tendenza esattamente contraria.
Mi fido di qualsiasi
cosa dica.
Mi fido di quegli
occhi che ho idea che non mi mentirebbero mai.
Mi fido come se
sapessi di poterlo fare, sebbene sappia che non è così.
Ed ora mi lambicco
solo per trovare il modo per continuare a fidarmi di lui.
Lo trovo in un lampo, ma lo tengo nascosto,
socchiuso nel cuore per non vederlo troppo davanti.
E’ una cosa inopportuna, ma non posso
impedirmelo, mentre ripenso che ha ricordato anche lui, non poteva mentire su
questo.
Trovo il motivo che cerco, mentre soggiunge
caustico come a leggermi nella testa: “Buono
a sapersi. Mi sento più a posto con la mia coscienza sporca senza la
responsabilità della tua… fiducia…”. Accentua la parola con arroganza,
calciando un invisibile piega del tappeto nel corridoio, mettendo nel gesto
casuale una frustrazione che vorrebbe fingere di non avere. Quella
constatazione, piccola e sciocca, mi accende lo stomaco di lucciole.
E ripeto quello che
ho detto poco fa.
Lo dico già con
voce diversa, soffusa, sussurrata, come un segreto da dimenticare. Arrossisco
ancora, mi mordo il labbro inferiore, mi pare un’intimità assurda come essersi
visti nudi.
Ed invece sono solo
poche parole che il legno del corridoio mangia e sputa fuori come un respiro
inudibile: “Fa che io possa fidarmi di te. Ed io ti difenderò sempre”.
La sua voce è
gemella della mia, la sento sulla pelle come se mi avesse parlato sulla nuca,
sulle clavicole, nella pelle interna dei gomiti, nella curva delle ginocchia.
Mi sussurra lieve,
la delicatezza che non pensavo avesse: “Dimmi cosa vuoi, allora”.
Lo dico rapida, a
voce più alta, così da rompere quella foresta di bisbigli.
“Voglio il favore
che mi avevi promesso”.
Non aveva avuto bisogno di convincerlo,
incantarlo, minacciarlo: nel silenzio del suo letto, il respiro regolare e
grave del marito accanto, Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, ripensava
solo a quello. La mano sotto il cuscino, la testa sotto il lenzuolo come a
nascondersi sotto una fortezza di stoffa, stava con gli occhi spalancati sul
nulla, attonita come davanti ad una luce troppo forte.
Le labbra, pure, stavano dischiuse in attesa
di un verbo o di un aggettivo che non fiorivano nella gola, seccandola e
lasciandola riarsa come un deserto di stracci.
Draco Malfoy, dopo averle ingiunto di non
metterci troppo e di non andarsene in giro a farsi i fatti che non erano
propri, borbottando tra sé e sé, le aveva lasciato libero ingresso nella sua
mente.
Così, dal nulla: e lei pensava solo che, se
fosse successo al contrario, anche lei avrebbe fatto lo stesso. Senza nemmeno
questionarci su.
Così, dal nulla.
Nel ricordo, nel sogno, in quello che
dannazione era, pareva che lui avesse usato la Legilimanzia su di lei: senza
bacchetta, con un Incantesimo non verbale.
Non si era concentrata sulla stranezza della
cosa, ma aveva rifatto l’incantesimo che avevano appena ricordato, come una
sorta di accordo segreto stretto senza che lo sapessero.
Perché Draco Malfoy, prima ancora che lei ne palesasse
l’intenzione, aveva fatto un passo verso di lei, aveva sollevato il braccio e
porto la mano destra con il palmo sollevato, il ghigno vaporizzato, tutto
grigio attorno come se gli occhi fossero dappertutto, persino nelle pieghe del
tappeto e nei tarli delle tende.
Ubriaca, ebbra di quello che avrebbe chiamato
potere ed onnipotenza a vedere il nemico di sempre sconfitto ed obbediente, lo
raggiunse in tre balzelli, come nei giochi da bambina che ora occhieggiavano
sgraditi ad un momento che non aveva nulla della innocenza.
Lo seppero le sue dita quando si chiusero
sulla pelle tenera del polso, lo seppe la mente che non riusciva a ricordare la
formula per leggere i pensieri, lo seppe il ricordo che tornò vivido,
grandioso, terribile, più reale di ogni cosa che avesse mai conosciuto.
Hermione Granger, 36 anni, si rigirò nel
letto, pareva una distesa di spine bollenti. Nel buio la sua mano sembrava un
buco nero pronto ad inghiottirla, bruciava come carne in suppurazione, pungeva
di mille spilli acuminati. La guardava come se fosse un arto con volontà
propria e che doveva assolutamente amputare per avere salva la vita.
La mano recava la colpa, conservava il calore
delle vene del polso di Draco Malfoy.
La mente di Draco Malfoy era un inferno di
porte chiuse.
Corridoi immacolati e deserti, pieni di voce
attutite da porte chiuse. Alcune erano enormi, imponenti portoni dall’aria
antica, di legno massiccio e scuro, chiusi da ferri e lucchetti sigillati.
Altre erano piccole, minuscole, non ci passerebbe nemmeno un suo piede. Altre
ancora, erano spalancate, ma al loro interno, c’era poco o nulla.
Scale a chiocciola, si arrampicavano in
altezza dove nemmeno la sua immaginazione riusciva ad arrivare, tutto era
un’eco di voci, rumori, odori sconosciuti che si mescolavano in vario modo.
A primeggiare, però, era un odore acre,
intenso, da pizzicare le narici. Odore di legno bruciato.
La mente di Draco Malfoy, aveva scoperto
Hermione Granger, puzzava di cenere.
Come se portasse i residui di un enorme
incendio, un rogo mortale.
Ad essere bruciati, riarsi, sembravano i
chiavistelli di un enorme portone. Si riconoscevano ancora pezzi consumati di
motivi di rose incise ed intagliate nel legno chiarissimo che splendevano di
luce propria. Ed una lettera mangiata dalle fiamme. J.
Conosceva Hermione Granger ogni incanto per
rivelare inganni e manipolazioni della mente.
Ignorò il portone incendiato, come promessa
tacita a Draco Malfoy, e li provò tutti.
La mente di Draco Malfoy rispondeva di buio,
pece, vuoto, nero.
Non conosceva quel ricordo. Non le aveva mai
fatto nulla. Non si erano mai visti negli anni passati.
Anzi, quel ricordo lo aveva turbato come nulla
al mondo: aveva ricordato cosa aveva provato in quel supposto momento che non
sapeva di aver vissuto.
Si era sentito sporcato, come se l’avesse
violentata.
Come uno che tocca qualcosa di intoccabile e
puro, di illibato e vergine, senza averne alcun diritto.
La Terra era tonda da piatta che era sempre
stata.
Malfoy non le aveva fatto del male. E se fosse
arrivato a farlo, se ne sentiva toccato e ferito in qualunque tempo, universo e
ricordo, vero o falso che fosse.
Le lenzuola si annodavano attorno al suo corpo
come serpenti armati di veleno, Hermione Granger le scrollò con il piede, il
marito Ronald reagì con uno sbuffo del naso.
La consapevolezza fu amara, dolorosa. Era
meglio che le avesse volutamente fatto del male.
Ruppe la promessa allora. Interrogò ancora la
sua mente entrando, spalancando, aprendo, cercando. Fece di tutto, fallendo,
per scoprire se il ricordo era di un mostro avaro della sua anima, e non
dell’uomo terrorizzato e colmo di perdita che lui stesso si era visto con
angoscia essere stato, chissà dove, chissà quando, chissà perché, chissà se.
Ruppe la promessa, e vide mattine di Natale,
punizioni al sapore di ruggine, luci verdi assassine, mani all’odore di
violetta, facce colte a mentire, aule di tribunale, libri di scuola
scarabocchiati, cupcakes alla menta e cioccolato, sangue sui mobili.
E, d’un tratto, comparve il segreto.
Smisurato, terrificante: trattato però con il
pudore lascivo delle cose banali, poco importanti, come una sorta di
suppellettile di scarso stile che viene nascosta nella credenza.
Draco Malfoy aveva avuto paura del ricordo
piombato nella sua testa all’improvviso.
Aveva avuto paura perché lui, nonostante
tutto, in quel dolore pareva amare qualcuno.
Profondamente, intensamente, enormemente, in
un modo così puro ed unico da arrivare a violare la mente pulita di Hermione
Granger pur di difendere quel qualcuno.
Quel qualcuno che non era una madre, un padre,
un figlio.
Quell’amore, puro ed unico, dentro quel
ricordo, era stato amore per una donna.
E Draco sapeva di non amare nessuna donna
così. Peggio: di non averne amata nessuna così.
Peggio ancora, inferno, segatura, sapore di
rancido in bocca: Draco Malfoy non si era mai innamorato in vita sua.
Venne fuori il segreto, esplose prima ancora
che lei, già esterrefatta, potesse fermarlo.
Come se avesse vita propria, come se cercasse
sollievo ancorandosi ad un’altra mente.
Il fidanzamento tra Draco Lucius Malfoy ed
Astoria Greengrass era nato come contropartita ad enormi debiti di gioco che
Greengrass senior aveva verso i Malfoy.
Draco aveva sempre odiato Astoria, la
detestava ancora, aveva cercato di tutto per sciogliersi da quel vincolo che i
suoi genitori volevano onorare, unendo due delle famiglie più pure di sangue
dell’Inghilterra. Le pensò tutte, non riusciva a sfilarsi dall’impegno.
Narcissa disse che lo avrebbe diseredato se
avesse sposato un’altra donna.
Lucius disse che poteva tradirla come voleva,
basta che l’avesse sposata.
Un mese prima del matrimonio, trovò
l’espediente che pensava ideale. La fece sottoporre a visite mediche,
paventando che non fosse più vergine.
Invece lo era. Ma era anche altro: sterile.
Poteva sciogliere il fidanzamento.
Prima che i suoi genitori intervenissero,
voglioso di chiudere quanto prima la storia, andò dai Greengrass per rompere la
promessa di matrimonio.
Compresero subito il suo intento. Lo
imprigionarono. Misero sotto Imperius.
Lo costrinsero ad andare a letto con Daphne
Greengrass, la sorella di Astoria. La resero più fertile con delle pozioni al
sapore di rosa, rimase subito incinta.
Fu facile allora: o sposava Astoria, o il
bambino spariva. Lo avrebbero ucciso seduta stante.
La sposò, non disse nulla a nessuno, l’onta
del disonore troppo grande perché lo avevano ingannato, ricattato. E con la
nascita del figlio, lo avrebbe potuto fare per sempre.
Disse ai suoi genitori che si era convinto,
disse che amava Astoria, lo disse ovunque, tranne alla sua mente che sapeva di
bruciato.
Protesse il figlio. Amò la madre. Divenne
marito e padre.
Chiuse il segreto.
Per farlo riaprire poi, dopo anni, ad Hermione
Granger.
A lei soltanto, in tutta la vita.
A lei soltanto che, tornando in sé, guardandolo,
non seppe che cosa dire: finse di non aver visto nulla, disse che credeva che
non gli avesse fatto del male, fuggì lontana nei fuochi di Natale.
A lei soltanto che, tornando a casa, perdonò
il marito, consolò la figlia, baciò il figlio.
A lei soltanto che, nel letto, amò il marito
come il primo giorno perché loro si erano amati, forse si amavano ancora,
dentro si amavano sempre.
A lei soltanto che, dopo, non dormì mai.
Perché era stata lei soltanto. E perché Malfoy
era il miglior Occlumante della sua generazione.
Aveva voluto che fosse lei soltanto.
7 gennaio
“La questione si è
complicata abbastanza quando abbiamo scoperto che, sull’abitazione principale,
era stato posto un usufrutto a beneficio della mia vecchia balia Magda… mi pare
scontato, visto quanto le accennavo prima, che abbia posto degli Incantesimi
Confondenti su mio zio Oliver per farsi firmare le carte… si maledicevano fino
al giorno prima del suo ictus e poi le lascia l’usufrutto della casa?”.
“Certo, certo”.
L’uomo di fronte a
me, capelli serici e ricci color del grano e due penetranti occhi azzurro polvere,
continua a descrivere con ardore la situazione ereditaria della sua famiglia,
sebbene io continui a vederlo come una specie di marionetta slegata: i suoi
gesti dovrebbero significare qualcosa, ma non giungono ai miei occhi come
dovrebbero, sono annebbiati e sfumati. Si perdono diluiti nello spazio
circostante, come tempera annacquata.
Descrivo annoiata
cerchi sulla pergamena davanti a me limitandomi a sporadici cenni di assenso,
cosa che impensierisce persino Leda che, in un angolo, finge accuratamente di
prendere appunti, mentre si concentra sull’autopsia dell’uomo di fronte a me
alla scrivania, che le pare naturalmente piacente e ben vestito,
caratteristiche che la porterebbero a copulare nell’arco di quindici minuti se
dovesse aggiungere anche i convenevoli ed un’analisi politica della Brexit.
Vedendomi però così sulle nuvole, si sente in dovere di prorompere in qualche
commento fuori luogo e senza senso per dare un’idea professionale del nostro
ufficio, cosa che le lascio fare in modo apatico ed inerte fregandomene
altamente, mentre l’uomo sorride imbarazzato, grattandosi la nuca in modo
nervoso. Mi getta un’occhiata implorante alla quale rispondo scrollando le spalle
simulando rassegnazione, anche se ancora non ho la minima idea di che cosa
abbia detto Leda.
Anche lei, nella
mia testa, muove le labbra e basta, come un film muto.
Da quando sono
tornata al lavoro, dopo la fine delle festività natalizie, ogni cosa ha perso
la densità ed il peso consueto come se galleggiasse per aria, piena di elio:
gli ultimi giorni di vacanza in famiglia, sono stati una specie di susseguirsi
di giorni tutti intimamente identici, ricopiati l’uno sull’altra come se
fossero stati tratteggiati dalla carta carbone. Persino il fatto che Rose fosse
a casa da scuola, mi era diventata una sorta di consuetudine addirittura un po’
noiosa, nonostante lei mi fosse mancata così tanto nei mesi precedenti; con
lei, che vedevo così poco e che si stava facendo grande di un’intuizione
adulta, dovevo concentrarmi molto di più per non farmi beccare impreparata alle
sue domande e richieste. Quando usciva di casa, non provavo con una vergogna
fonda di inferno quel senso malcelato di delusione per la figlia che non aveva
piacere a restare con sua mamma, ma il sollievo nascosto di potermi chiudere
impenetrabile nella mia corazza.
Alla sua partenza,
dopo averla stretta in un abbraccio di rassicurazioni e raccomandazioni
all’odore di fresia, ho guardato il treno allontanarsi con il comando dello
stomaco ad avvertire già bollente la spina della nostalgia, ma invece quello
che si era fatto imperante in me era di nuovo la tenue rassicurazione di poter
smettere di fingere.
Hugo, del resto, è
troppo piccolo per avvertire un cambiamento dei miei stati d’animo se ciò non
corrisponde a qualche deviazione della sua consueta routine che, invece, era
rimasta inalterata nel susseguirsi di colazione, scuola, merenda, pranzo,
compiti, tv, parco, film, cena, nanna.
Io e Ron non
abbiamo parlato di ciò che è successo la notte di Natale, abbiamo relegato
tutto nella solita dimensione fangosa del sottotesto di ciò che non capiamo
davvero, ma che in realtà abbiamo ben compreso come qualcosa che potenzialmente
ci potrebbe far schizzare in direzioni opposte e differenti come due pezzi di
roccia dopo il Big Bang. Camminiamo per le stanze con attenzione, non
sollevando nemmeno la polvere, in punta di piedi, come se sotto le assi del
parquet fosse nascosto un esercito di mine antiuomo. Conosciamo parole soffuse,
continui “grazie” e “scusa”, edulcoriamo l’amarezza in una melassa stucchevole
di cortesia e gentilezza stereotipata.
È già accaduto
naturalmente, è una fase che conosco bene e che segue naturalmente un litigio
particolarmente violento di cui Ron si sente responsabile: il senso di colpa lo
spinge ad una delicatezza fuori misura, comprensiva anche di una sorta di
cautela manieristica verso tutto quello che mi riguarda. Mi chiede spesso come
sto, si alza a prendere il sale, mi aiuta a mettere la giacca: di solito tutto
questo dura fino a quando smetto di stare al gioco, e riprendo a punzecchiarlo o
a scherzare con lui. Capisce che è tutto superato, ed allora si torna alla
normalità.
Questa volta, però,
ammetto di godere enormemente della situazione, anche perché si traduce
nell’assenza di domande e nella mia permanenza autorizzata nella bolla isolante
che mi contraddistingue al momento e che lui probabilmente scambia per mio
sdegnoso rancore nei suoi confronti, cosa poi del resto nemmeno tanto scorretta
o almeno più semplice da riconoscere e comprendere, anche per me.
Sarebbe impossibile
spiegare il resto, la selva di quesiti senza risposta mi attanaglia così tanto
la mente da tradursi in questa specie di nebbiolina lieve, impalpabile,
sottile, attorno ai pensieri. Quando cerco di afferrarne uno, quello sguscia
come le mosche volanti della visione periferica.
Ed allora mi celo
nell’ottundimento, aggravato anche dalla mancanza di sonno: oltre al resto,
difatti, ho cominciato da Natale ad avere anche difficoltà a dormire, cosa che
non si risolve né con incantesimi, né con pozioni, né con valeriana e
melatonina. In realtà, non è che io non riesca a dormire, anzi lo stato di
torpore che mi avvolge finisce per diventare una sonnolenza continua che non mi
lascia mai, costringendomi ad appisolarmi dappertutto, persino sui mezzi
pubblici o sulla brandina dell’ufficio.
Il problema è ciò
che accade quando sogno, cosa che succede ormai sempre senza tregua e senza
sosta.
Ho deciso di farmi
poche domande sul ricordo o presunto tale della sera di Natale, quello che
sembra che io abbia recuperato così all’improvviso, ma che al contempo non ha
alcuna aderenza logica con la mia vita: i quesiti restano senza risposta e
hanno anche la sgradevole abitudine di riportarmi per associazione di idee a
qualcosa che non voglio assolutamente rammentare.
Aveva le labbra bianche mentre mi chiedeva che
favore volessi e mi ero chiesta per ore se fosse spaventato, terrorizzato. O se
fosse nato così, eburneo come ghiaccio e diamante, senza sangue nelle vene,
solo qualche goccia, purissima, di fronte alla quale io ero fumo, polvere,
caligine.
Tendo perciò a
chiudere quella specie di memoria in una parte molto lontana della mia testa,
bollandolo con una serie di etichette innocue e scontate, sebbene nessuna di
esse, quando mi fermo davvero a pensarci su, può rendere ragione di quello che
mi è accaduto.
La mente, però,
così testarda di giorno ad escludere quel pensiero senza risposta dalla mia
sequela ordinata e ordinaria di pensieri, lo scarta come uno scomodo regalo
durante la notte quando, vinta ormai dalla stanchezza, mi appisolo poco prima
dell’alba e del suono gracchiante della sveglia.
Come una specie di
film in proiezione esclusiva, mi viene riproposto il ricordo in tutte le sue
fattezze assolutamente incomprensibili: ed ogni volta, puntualmente, acquista
un colore più vivido, vivace, impossibile da ignorare. Pulsano le immagini
sotto la trama delle palpebre chiuse, non dandomi riposo e costringendomi al
risveglio.
Paradossalmente, se
fosse solo questo, potrei anche sopportarlo.
La sensazione che sia la cosa più vera che
abbia mai vissuto.
La cosa peggiore
accade in quelle rarissime occasioni in cui, invece che svegliarmi di
soprassalto madida di sudore, rimango in uno stato stopposo di sonno leggero.
Le immagini vengono rapidamente sostituite da un’altra, ugualmente carica degli
stessi medesimi colori accesi.
Impossibile da ignorare.
Un parco alla
vigilia dell’estate, poche persone che camminano lente e noncuranti, non
badando a me. Vento di scirocco che stormisce ai rami di magnolia, portando un
odore fresco di promesse, struggente come qualcosa di appena nato, ma di così
fragile da temere che non sopravvivrà nemmeno per diventare adulto. Cielo color
carta da zucchero, sgombro di nuvole, fissato contro l’orizzonte come una
cartolina, così bella da sembrare finta, studiata apposta per innescare la
nostalgia dell’addio, come quando si viene cacciati dal Paradiso.
Un colore che non è mai esistito.
Dondolarsi, avanti ed indietro: dopo un po’ capisco che
sono su un’altalena di corda, cigola fastidiosa, gli anelli di metallo
probabilmente arrugginiti che grattano sul telaio.
Le sensazioni
vengono piano, lente, come se mi svegliassi da un lungo sonno, sebbene
tecnicamente io stia dormendo proprio in quel momento.
E riconosco il
tessuto dei pantaloni di fustagno, rigido, fresco. Poi quello della camicia di
lino, gonfiata sul retro dal vento, fluttua come una medusa. Ed infine il petto
gonfio di un calore innaturale, incomparabile, meraviglioso, come una specie di
falò che somiglia alle mattine di dicembre quando sei bambina ed aspetti Babbo
Natale.
Qualcosa di così
puro, ingenuo che, ancora, non so nemmeno se l’ho provato da piccola,
figuriamoci adesso.
Lo si potrebbe
chiamare un bel sogno allora: ne ha ogni nettezza e chiarezza.
Le sensazioni,
però, vanno avanti, non si fermano qui, ad un attimo di perfetta serenità,
lontano nella memoria così tanto da non essere ricordato.
D’improvviso, come
una specie di miraggio iridescente, giunge nelle mie braccia un sorta di peso
caldo, soffice, dall’odore di talco, margherita, arancia. I miei occhi sono
terribilmente offuscati, come se fossi davvero addormentata anche nel sogno, e
non riesco a distinguere bene niente.
Diventa tutto angosciante
allora, come se avessi le palpebre incollate e facessi ogni sforzo per aprirle,
ma quelle restassero serrate, appiccicate. Distinguo persino i miei movimenti
nel letto, inizio a dimenarmi come se fossi stesa nella cenere e nel fuoco, i
pensieri sbattono come mosche contro il vetro, spezzettandosi come se fossero
sale e polvere.
Ma non mi sveglio
ancora, mi artiglio al sogno con perseveranza come se ne andasse della mia
vita, come se uscirne fuori decreterebbe immediatamente una specie di arresto
cardiaco di tutto quello di cui sono fatta, come se così potessi squagliarmi,
diventando cera rappresa.
Mi si mozza il
respiro, nel sogno, nel vero: vado in apnea, non lo so. Mi pare sempre di
morire, ma non accade mai.
Sotto gli occhi,
passa oro liquido, penso agli occhi di un gatto e non capisco perché.
Vado oltre quella
cortina brillante, il cuore mi si straccia come se fosse di carta
bruciacchiata.
E lo vedo.
Tengo tra le
braccia un bambino, probabilmente di cinque anni più o meno. È di spalle,
dunque non lo vedo in viso, sento che sta dicendo qualcosa che non capisco,
intendo solo “… e lui torna sempre a casa con noi!”, mentre si anima tra
le mie braccia, gesticolando.
Vedo di lui solo la
nuca, una polo azzurra, un paio di scarpe da ginnastica rosse di tela un po’
sporche di terreno… ed i capelli, lievemente arricciati sulle punte.
Biondi, mescolati a
qualche sparso tono castano.
Lo stringo più
forte, aggrappandomi a lui, piangendo, urlando: perché nello stesso momento in
cui lo vedo meglio, accade che sento chi sia e, contemporaneamente, mi sveglio.
È mio figlio.
Ma non è Hugo.
Credo persino di
sapere che si chiama Alex.
“La prossima volta a colazione,
direttamente il saccarosio! Te ne preparerò una ciotola piena, va bene,
Alex?".
"Mamma io sono Hugo".
"Perché, che ho detto?".
"Alex".
Mi sveglio
singhiozzando, non riesco a stare ferma a letto, mi alzo febbricitante, corro
in bagno piangendo e tappandomi la bocca con la mano per non farmi sentire da
mio marito. E dover dare delle spiegazioni che non ho.
Non dormo più,
ovviamente: dopo quel sogno, per essere corretti, non dormo per giorni.
Mi porto dentro
quella sensazione, si accuccia nello stomaco mentre sono al lavoro, mentre
sorrido slavata a mio marito, mentre accarezzo i capelli rossicci di Hugo, mentre
osservo la trama traslucida della luce del sole dietro le tende tirate.
Quella sensazione
non se la liquida il pensiero dell’assurdità del mondo onirico. Non se la porta
via ammansita la razionalità, non la mitiga il senso comune, nemmeno la scienza
e la logica intervengono pietose a portare requie.
Resta la
sensazione: e diventa quasi una certezza, paradossalmente idiota, priva di
senso.
La consapevolezza
amniotica di avere un figlio che si chiama Alex.
… che, invece, non
ho.
8 gennaio
La prima cosa che
faccio, non appena metto piede in ufficio il giorno successivo, è chiamare
Leda, ingiungendole di fissare un nuovo appuntamento con l’uomo del giorno
prima, quello che, nel mio delirio psicofisico ed emozionale, ho bellamente
ignorato per ore.
Il clima mattutino
particolarmente gelido, infatti, mi sferza e punge nell’orgoglio spingendomi a
reagire e ad essere efficiente almeno nel campo lavorativo: posso permettermi
di essere svogliata ed assente a casa mia, ma non in ufficio. Ne va della mia
reputazione.
Una nottata poi
miracolosamente libera da sogni di qualsiasi natura, mi rimette al mondo al
punto tale di ritenere tutto come una suggestione della mia mente che, di
fronte alla prospettiva di comprendere che il mio matrimonio non se la passa
bene, sceglie tutta una serie di strade secondarie per farmi pensare ad altro.
La spiegazione non regge in molti punti, ma oggi per fortuna riesce a suonare
quasi convincente: resta il nodo del ricordo o pseudo tale con Malfoy, ma il
fatto che lui non se ne preoccupi, visto che è praticamente scomparso anche da
casa dei Weasley, spinge anche me ad ignorarlo.
Resta addosso un sapore bianco e grigio,
quello della sua mente e dei suoi pensieri.
Sa di neve quando apri le labbra al cielo per
assaggiarla.
Non si è mai innamorato in vita sua: ci penso
nei momenti più imprevisti, è come un ritornello dispotico. Alita sulle mie
spalle come il rantolo asincrono di un moribondo.
Assomiglia, poi, ad un martellare quando penso
che, al mondo, solo io so questo di lui.
Ed è una specie di percussione in fondo allo
stomaco che non se ne va mai.
Scrollo il capo
come fossi disturbata da un insetto fastidioso, cercando di cacciare via ogni
distrazione, mentre Leda, entrando nel mio ufficio con il solito ancheggiare,
mi annuncia che Mr. Latimore arriverà di lì a poco. Schiocca poi la lingua
infastidita, strascicando le parole seccata: “Era già al Ministero… era venuto
a prendere la moglie dal lavoro…”.
Alzo gli occhi al
cielo, ci mancherebbe che non aveva puntato anche questo povero disgraziato, ci
avevo visto giusto ovviamente.
Trascorro i minuti
successivi leggendo finalmente e con attenzione le pratiche dell’eredità
Latimore che, il giorno prima, mi erano danzate davanti agli occhi come segni
incomprensibili. Sono così persa ed assorta che, quando Leda bussa la porta lasciando
entrare con un sorriso suadente Latimore e con un’occhiata torva sua moglie, ho
la vista offuscata e il collo che mi fa male. Mi affretto però ad alzarmi e a
salutare l’uomo con il sorriso più franco che mi venga fuori, al punto di farmi
dolere la mascella mentre gli stringo la mano con calore a mo’ di risarcimento
emotivo per la mia inefficienza del giorno precedente.
“Accomodatevi,
signori Latimore…” dico gentile, indicando le due poltrone del mio ufficio.
L’uomo sorride con
gentilezza sedendosi, poi soggiunge educato: “Non c’è bisogno di tanto
formalismo, le avevo già detto ieri che potevamo benissimo darci del tu”, non
serve ricordare che ho rimosso ogni particolare della conversazione del giorno
precedente, quindi mi stringo nelle spalle a disagio, bofonchiando torva e
cercando al contempo di ricordare i nomi dei due: “Potete chiamarmi anche voi
allora per nome… siamo quasi coetanei…”.
Mentre ancora mi
lambicco il cervello alla ricerca dei nomi completamente eclissati dalla mia
mente, la moglie ispirata mi guarda intensamente e completa soffiando con voce morbida:
“Siamo Christopher… ed Helder”.
Grata, mi do pena
di guardare meglio la donna che, nella mia ansia riparatrice da torti del
giorno precedente, non ho nemmeno degnato di uno sguardo. Sebbene la mia
supposizione sul nostro essere coetanee è indubbiamente corretta, viste le
carte che ho letto e che riportavano la sua data di nascita, per un momento
temo di essermi sbagliata. La signora Latimore, infatti, ha il viso fresco ed
innocente di una ragazzina imberbe: pelle liscia e bianchissima, levigata,
assenti persino le rughe d’espressione. Porta i capelli castani corti sotto le
orecchie, cosa che, assieme ai jeans e alla felpa rossa, le danno un’aria
sbarazzina da liceale in vacanza. Giocherella con espressione spensierata con
una piccola fede d’oro giallo all’anulare sinistro e, ogni volta che incontra
il mio sguardo, qualcosa la spinge a sorridere in modo automatico come se fosse
una sorta di riflesso condizionato.
La cosa che, però,
subito desta la mia curiosità sono i suoi occhi: quando era entrata e le avevo
gettato un’occhiata distratta, ero certa che avesse gli occhi chiari, azzurri,
come quelli del marito.
Ora invece essi mi
appaiono distintamente castano chiaro, dorati sul fondo.
Li osservo a lungo,
non capacitandomi del fatto di aver visto male; lei, in risposta, sorride
ancora, costringendomi imbarazzata a voltare il capo dall’altra parte.
Trascorriamo l’ora
successiva a dirimere la loro questione legale, naturalmente ieri si erano
molto preoccupati sull’esito della cosa, avendo il marito scambiato la mia
disattenzione per consapevolezza di non poter fare molto di che: il fatto
invece che oggi sia l’emblema della perfezione e sfoderi leggi e decreti con la
perizia tuttologica che mi contraddistingue, conforta molto Chris sull’esito
positivo della vicenda. Mi dice in tono casuale che hanno già avuto delle
generiche “grane” con la legge e che, di conseguenza, preferirebbe non essere
coinvolto più di tanto in meccanismi di tale tipo. Ovviamente, sorvolo sul
punto glissando con discrezione, anche perché con un’improvvisa ondata di
ricordo, rammento che la moglie era la sola figlia di Broderick Bode, ucciso ai
tempi della Seconda Guerra da Malfoy senior per la profezia su Harry.
Suo padre.
Lo costrinse a sposare Astoria, dicendo che
poteva tradirla come voleva dopo le nozze.
Lui non ha mai amato nessuna donna in vita
sua.
Mi libero di nuovo
di quell’associazione molesta di idee sorta dal nulla. Probabilmente Chris
Latimore allude a questo e a tutte le magagne legali accadute dopo l’omicidio.
Guardo di sottecchi
Helder Bode che, però, ha assorbito l’eventuale allusione al tragico evento con
un nuovo estenuante sorriso nella mia direzione: stavolta, con una nettezza che
mi fa capire di non aver sognato, noto distintamente che, per un attimo, i suoi
occhi scoloriscono come se fossero slavati dall’acqua. Da castani, diventano… grigi.
Sul suo volto,
paiono attaccati come in un collage di ritagli di giornale.
Quel colore è così
dannatamente unico che, con sgomento, mi chiedo se oramai io non lo veda
dappertutto, persino negli occhi degli estranei.
Mi artiglio al
bordo della scrivania come se fossi sospesa sul precipizio e cercassi di
reggermi per non precipitare.
Ancora una volta,
però, le iridi di Helder Bode cambiano colore: l’argento fonde nell’oro,
diventano uno strano miscuglio lucente, uniti come un metallo dalla foggia
inespugnabile e inconsueta, inesistente, come uno strano esperimento di
alchimia. Il suo volto, per un attimo, perde l’aurea compostezza e va a fuoco,
arrossisce, sembra quasi accaldata.
Ma in un battito di
ciglia che sono costretta a concedermi, torna alla stessa serafica espressione
di prima, gli occhi stavolta scuri, marrone profondo, quasi nero.
Christopher
Latimore, in tutto questo, come se fosse stato punto da una vespa, intercetta
il mio sguardo e lo rincorre all’indirizzo della moglie che gli restituisce
un’occhiata innocente e tersa. Le spalle dell’uomo si afflosciano, fa un mezzo
sorriso sghembo e scuote la testa al limite della rassegnazione, contribuendo
ad aumentare la mia curiosità.
Poi riprende a
parlare del loro caso, cosa che consente anche a me di tornare a concentrarmi
sul lavoro, confortata anche dal fatto che le mie rare occhiate in direzione di
Helder Bode confermano che le sue iridi restano castano scuro, non più celesti,
grigie o dorate.
Una Metamorfomagus?
La risposta non mi convince del tutto. Non ha nulla del modo di mutare che
aveva Tonks e nemmeno di quello che ha Teddy quando decide di fare ricorso al
suo potere. La trasformazione in loro era (ed è) più graduale, persino quando è
involontaria, ed interessa tutto il corpo. In Helder Bode, è troppo rapida e
veloce, senza contare che interessa solo gli occhi.
Il resto del suo
aspetto è rimasto assolutamente inalterato.
Resto con quella
domanda in testa per tutto il residuo della nostra conversazione, nonostante
esteriormente sembri il ritratto della professionalità. Continuo a snocciolare strategie
difensive, facendo domande e prendendo appunti, mentre il mio sguardo scivola
involontariamente di tanto in tanto sul sorriso snervante di Helder Bode. Leggo
sommariamente nelle carte che Chris mi consegna che lui lavora in un negozio di
Grimmuald Place e che lei, invece, è un’Indicibile.
Questo in parte mi
risarcisce dell’aura particolare che circonda la donna: tutti coloro che ho
conosciuto e che svolgono quella professione, hanno sempre avuto qualcosa di
bizzarro, inconsueto, singolare. E decisamente Helder Bode non fa eccezione,
sebbene in modo semplicistico ha forse semplicemente ereditato la posizione del
padre, quindi non dovrebbe essere così automatico che mi sembri una persona singolare.
Eppure, se con gli
altri Indicibili che ho conosciuto, compreso Bode senior, la loro particolarità
si poteva coniugare in un carattere tetro ed inquietante, con lei assume
decisamente il tono opposto: sembra quasi fastidiosamente gioviale, allegra,
perennemente in pace con sé stessa.
Finalmente, con una
punta di sollievo che non riesco a negarmi mettiamo a punto gli ultimi dettagli
e i coniugi Latimore si alzano dalle loro poltrone per congedarsi. Mentre però
Chris Latimore si incammina verso la porta, Helder gli destina una sorta di
sguardo obliquo a cui fa seguire una scrollata di spalle noncurante.
Chris risponde
allora con un lungo e malcelato sospiro, annuendo brevemente con il capo, prima
di salutarmi nuovamente ed inforcare l’uscita, mentre la moglie non accenna a
seguirlo.
Mentre la guardo
interrogativa, lei si limita ad accostare la porta che il marito ha lasciato
aperta, tornando poi sui suoi passi e fermandosi davanti alla mia scrivania,
cosa che contribuisce ad aumentare il mio già precedente disagio. Resta per
qualche attimo immobile, in silenzio, spostando il peso da una gamba all’altra,
come se stesse cercando le parole per cominciare un discorso che, fino a quando
era nella sua mente, filava perfettamente, ma che ora probabilmente si è perso
nei meandri dei suoi pensieri.
La osservo mentre
si torce le mani con nervosismo poi, vogliosa di darci un taglio, mormoro
secca: “Volevi… parlarmi da sola?”.
Helder, scossa da
un suo ragionamento interiore, quasi sobbalza, fa una sorta di piccolo saltello
come se fosse stata attraversata da una scarica elettrica. Si allunga la felpa
rossa sulle mani prendendo ancora tempo, prima di sospirare con aria contrita: “Già…
e qui viene la parte difficile. Chris dice che dovrei smetterla di impicciarmi
in faccende che non mi riguardano. Ma… forse inconsciamente…”, fa una piccola
pausa, guardandomi poi con intensità: “…quelli con me si convincono che tutto
sia una nostra questione personale”.
Quelli come me.
Dunque in lei c’è
effettivamente qualcosa di diverso: qualcosa che la candida come appartenente
ad una determinata categoria, umana o magica che sia.
La osservo ancora
con sospetto, cercando di trovare mentalmente la quadra del cerchio, ma mi
arrendo immediatamente. Abbandonando le braccia lungo i fianchi, asserisco
sconfitta: “Non credo di riuscire a seguirti”.
Helder mi guarda
allora con evidente senso di comprensione, annuendo tra sé e sé: “Hai ragione…
partiamo dall’inizio…”, si siede nuovamente sulla poltrona davanti alla mia
scrivania, costringendomi controvoglia a fare altrettanto.
“Pensi che in me ci
sia qualcosa di strano…” pronuncia stentorea, potente, senza alcuna inflessione
di domanda, gli occhi che lentamente si riempiono di nuovo di scintille più
chiare, risplendendo nella luce del primo pomeriggio come pezzi di agata. Rincara,
sporgendosi lievemente: “Te ne sei accorta”.
Ancora, nessun
accenno di domanda.
Solo una lapidaria
affermazione.
La cosa mi fa
raddrizzare sulla sedia, gelandomi la nuca: una tale precisione prelude ad una
sorta di incantesimo che, so per certo, non mi ha assolutamente somministrato.
Torno a guardarla con diffidenza ed una vena di timore che, in modo automatico,
porta la mia mano a cercare la bacchetta nella mia tasca. La sua legnosa
presenza mi rassicura al punto di riprendere a parlare, sebbene senta la bocca
impastata: “Come… fai a saperlo?”, osservando poi i suoi occhi ancora chiari,
molto più di prima, mi azzardo ad aggiungere: “Cosa… sei?”.
“Un’Indicibile”
replica lei velocemente, spavalda, sistemandosi meglio sulla poltrona in modo
ozioso.
La risposta
naturalmente mi irrita ed innervosisce, irrigidisco la mascella con un singulto
autentico di fastidio: “Non è solo questo… non girarci attorno per
favore…”.
Gli occhi di Helder
hanno a quel punto una sorta di contrazione involontaria, come uno spasmo delle
palpebre. Si fa piccola sulla sedia e sussurra melodiosa, a mo’ di scusa: “Toccata.
Ammetto che mi piace parecchio pungolarti… la tua testa va in tilt se non
capisci qualcosa. E’ divertente da osservare, credimi. I tuoi pensieri
somigliano a delle girandole colorate che scoppiettano”.
Conclude il tutto
stringendosi nelle spalle e guardandomi timida come se fosse una bambinetta
scornata. Gli occhi si scuriscono di botto, come se accogliessero delle nubi
dense.
Taccio e di nuovo
mi coglie quel senso scomodo di imbarazzo, mentre sento i pensieri e le teorie
rincorrersi nella mia testa come se fossero cavalloni impazziti dal vento,
schiumano ragionamenti che, per paura che siano ascoltati dalla mia
interlocutrice, metto a riposo in una stasi narcotica di silenzio che mi
impongo con ferocia, causandomi un formicolio diffuso sulle tempie.
Ha alluso ai miei pensieri, come se li
vedesse.
“Sei una
Legilimante?” chiedo in punta di piedi, mordendomi l’unghia del pollice con
nervosismo.
In realtà comprendo
subito che la mia teoria è inesatta. Non esiste nessuno che permanentemente riesca
a leggere i pensieri altrui, se non altro perché è qualcosa che, da ogni testo
magico, viene riportata come una manovra che prosciuga le energie.
Fosse anche che
avesse letto i miei pensieri con un incantesimo silente, oltre ad avvertire la
sensazione di intrusione nella testa, avrei anche colto in lei qualche segnale
di progressiva stanchezza. Invece, è fresca come una rosellina di campo.
E poi… che utilità
doveva ricavare dai miei pensieri? Che diamine voleva sapere? Ripercorro
velocemente le tappe della nostra conversazione alla ricerca di qualcosa che
poteva destare il suo interesse, ma non trovo nulla di che, se non la
trattazione legale del loro caso.
Penso che anche i
miei pensieri fossero pieni di nozioni giuridiche, non insomma un romanzo
illustrato di sommo interesse.
Ho pensato a Draco Malfoy una sola volta.
Decisamente il mio record al ribasso.
La constatazione mi
fa sudare i palmi ed arrossisce il mio viso, Helder sembra ancora intuire
qualcosa dal mio aspetto che, instancabile, la fa sorridere nella mia
direzione.
“Sonoun’Empatica…”
sussurra lieve in un solo respiro, inclinando la testa di lato “Può darsi che
persino tu non ne abbia mai sentito parlare”.
Sobbalzo
autenticamente sorpresa e la guardo con una nuova fiammata di curiosità sorda,
puntellandomi sulla sedia come se fossi di fronte ad una specie di drago a tre
teste o una celebrità. Ogni cosa del suo aspetto comunica una normalità quasi
fastidiosa, banale. Ed invece è una creatura rarissima, qualcosa che, fino a
questo momento, non credevo nemmeno che davvero esistesse.
Non ne so
moltissimo, rammento solo delle nozioni sparse su un libro di testo del corso
per la specializzazione per le professioni ministeriali. Si inserivano gli
Empatici in un nutrito gruppo di esseri leggendari, destinandoli a particolari
regimi legali. In quell’occasione, lessi solo che sentivano i sentimenti altrui
come se fossero propri, bastava che guardassero anche una fotografia, si
concentrassero per avvertirne l’energia mistica e potevano sentirne il cuore
anche a chilometri di distanza. Erano un circolo ristretto dalle regole
tramandate in modo esclusivamente orale, fuori dalla loro cerchia si sa poco
quanto niente dei loro poteri ed anche di come siano organizzati.
Il silenzio si
prolunga per molto, come se Helder Bode volesse darmi tutto il tempo di
metabolizzare l’informazione e ricostruire ogni tassello delle mie conoscenze
per avere un quadro preciso di lei. Ma, con frustrazione, termino la mia
ricerca mentale in pochissimo tempo e commento con una punta di impotenza
mortificata: “Ne avevo letto una volta… ma credevo che fosse una specie di
leggenda”.
Helder,
contrariamente al mio senso contrito di malessere per la mia scarsità di
conoscenze, pare invece colpita, quasi entusiasta: “La tua fama è decisamente
meritata, Hermione Granger…”, sposta con una mano un fermacarte senza alcun
apparente bisogno, prima di dire piatta: “Il mondo continua ad essere più
carico di sorprese di quanto pensiamo, a quanto pare. Noi Empatici non siamo
tantissimi, il nostro ordine conta poche migliaia di persone nel globo. Però… esistiamo.
Decisamente. Ne sono la prova evidente”.
Collego velocemente
il particolare che non mi tornava di lei, rendendomi conto quindi che non avevo
immaginato nulla.
“Gli occhi che
cambiavano colore… mi stavi… percependo?” completo non del tutto sicura
di aver utilizzato il termine esatto. Non conosco ovviamente i poteri degli
Empatici, ma il fatto che, per qualche sparuto secondo, i suoi occhi sono
diventati molto simili ai miei, sembra dare ragione della mia tesi.
Lei sorride ancora
incoraggiante e timida, aggiungendo: “Sì, scusami la violazione della privacy.
Non avverto nulla di particolarmente preciso, non ho questo potere, quindi non
credo di profanare nulla di eccessivo di chi viene a contatto con me. Riesco a
sentire solo le sensazioni, i sentimenti. Li percepisco come se fossero miei. È
una cosa che fa parte di me. Potrei controllarla, intendiamoci…”, sospira
lungamente come se stesse affrontando un discorso già sostenuto, qualcosa che
la tedia profondamente “…però dopo tanti anni è come… dover controllare il
respiro, o il battito delle ciglia. Non ci pensi, no?”. Cerca assenso nel mio
sguardo e, in un afflato di comprensione, annuisco piano senza sapere cos’altro
potrei aggiungere di diverso.
Lei allora sembra
cogliere la mia indecisione, forse la fraintende con una sorta di reticenza per
il suo andarsene in giro a scandagliare gli animi umani quindi si affretta a
replicare, incespicando sulle parole: “Potresti obiettare dicendo che la mia
capacità riguarda però le altre persone… quindi, come dice Chris, sarebbe
corretto porsi un freno e non sondare continuamente gli altri senza che nemmeno
se ne rendano conto. Se però lui sentisse quello che sento io, capirebbe…”, si
massaggia il collo con stanchezza, come se fosse improvvisamente affaticata, sebbene
nessuna parte di lei rechi tracce di una qualche forma di fatica.
Torna quindi a
guardarmi colpita, piegando un po’ la testa di lato, come se stesse cercando di
imprimersi qualcosa nel cervello analizzando la mia immagine. Le restituisco
uno sguardo torbido, fosco, mentre mi stringo nelle spalle.
“Chris capirebbe…” rincara
quindi con un filo di voce “… se avesse sentito… te”.
La confidenza del
pronome personale mi colpisce traditrice tra le costole, come una sorta di
dardo fiammeggiante. Sussulto, trasalgo, ancora una volta spasmodicamente presa
dall’esame delle mie sensazioni durante il nostro colloquio. Ma non ci trovo,
di nuovo, niente di trascendentale.
Non legge i
pensieri, quindi cos’altro può aver sentito di particolare in me?
Forse ero annoiata?
Per uno sciocco momento, penso che possa aver sentito meno che abnegazione alla
mia professione e che, per questo, voglia tipo fare rapporto al Ministro. Ma mi
parrebbe una elucubrazione mentale davvero pessima. Senza contare che comunque
sono stata professionale e precisa nel mio lavoro.
Con una subitanea
illuminazione ricordo che, solo qualche settimana fa, anche la profetessa Tatia
con la figlia Charlotte mi avevano fatto sentire “strana”, come se fossi una
specie di fenomeno da baraccone, alla pari di un dinosauro che cammina per
Londra.
E pensare che, alla scoperta della sua natura,
credevo io di aver guardato così Helder.
Remissiva, mi
abbandono allo schienale della sedia e do voce ai miei pensieri con aria stufa:
“Qualche settimana fa, una Profetessa ha candidamente ammesso che ho un’aura
strana. Grigia, ha detto. Ora un’Empatica… dovrei fare una sorta di
screening preparatorio all’ingresso”.
Helder assorbe il
mio commento sarcastico con una risata genuina che ha il significativo dono di
alleggerire un po’ l’atmosfera, mentre commenta divertita: “Se per i casi umani
con cui lavori, lo sei diventata tu… un caso umano, intendo… forse dovresti
porti due domande”.
“Se sapessi quali
domande pormi, lo avrei già fatto” bercio scocciata, massaggiandomi la tempia
con il pollice, descrivendo linee circolari. Non penso di andarmene in giro con
una sorta di insegna luminosa che mi candida a “individuo potenzialmente da
studiare”.
Eppure, è la
seconda volta che mi accade.
D’un tratto, con
una colata gelida sulla nuca, metto nello schema tutte le bizzarrie che mi
hanno colpito ultimamente: e se ci fosse davvero qualcosa di strano in
me?
Mangiandomi
l’interno della guancia con frenesia, allungo il calderone di pensieri,
apparentemente dimentica di Helder. Il ricordo mai vissuto, il figlio mai
esistito.
Non mi fermo a
quello però: mulinano i pensieri e conto la strana distanza da mio marito, dai
miei figli, dalla mia famiglia. E poi, con un tonfo sordo nel petto, arrivo
alla parte peggiore.
Malfoy. Draco.
Sono corsa a casa sua nel cuore della notte di
Natale.
Mi fido di lui più che di me stessa.
Conosco il suo segreto più profondo.
Non riesco a smettere di chiamarlo Draco nella
mia testa.
Scrollo il capo, è
ovvio che ogni strano personaggio che capiti a tiro mi vede avvolta da un alone
di anormalità. Ci manca solo che mi spunti una coda da barboncino ed inizi a
parlare in babilonese stretto, e siamo a posto. Magari adesso ci capirò
qualcosa. Tatia Krasova mi ha incasinato la testa, magari Helder Bode me la
snebbia un po’.
Chiedo perciò
incerta ed esitante, ma con una sferzata di coraggio: “Cosa hai visto in me?”.
Lei mi studia
ancora con profonda attenzione, pare cercare sempre le parole giuste per
spiegarsi nella maniera migliore possibile. Probabile che, se il suo potere
deriva dalla percezione delle sensazioni, non sia così semplice articolare
tutto in parole intellegibili.
I suoi occhi, tinti
di vaghi riflessi bronzei, corrono per un attimo fuori dalla finestra, ci
incespicano sulle nuvole ritagliate dal cielo, come a cercarne un suggerimento
tacito che non so se riesce a trovare.
Poi, tornando a me
che inizio a spazientirmi, sorride brevemente ed asserisce rassicurante: “Non
parlerò del tuo cuore. E nemmeno di quel tarlo che ti attraversa la
mente”.
“Un… tarlo?”
mi ritrovo ad aggrapparmi ancora all’orlo della sedia, le unghie grattano sul
tessuto un po’ consumato sugli angoli e pendo dalle sue labbra come se fossi
una supplice in attesa di assoluzione.
Non faccio ovvia
fatica a capire di che cosa stia parlando. Anzi, di chi sta parlando.
La domanda retorica
è solo il tentativo patetico di nasconderlo alle mie stesse volizioni, ai miei
stessi pensieri. Quando invece so perfettamente che se ne sta lì, smisurato e spaventoso,
a prendersi gioco di ogni singolo gesto, movimento e sguardo, che per
somiglianza di contenuto mi riporteranno indietro.
Fino a quando non lo sa nessuno, se me ne
dimentico, non è mai esistito.
Helder mi riserva
ancora uno sguardo carico di insopportabile indulgenza, di una specie di
dolcezza frammista ad una sincera pena, che corrode acre il mio stomaco. Però,
nonostante cerco di farle capire con lo sguardo di non andare oltre, lei
prosegue intraprendente, come se d’un tratto avesse perso ogni remora ultima di
inibizione: “E’ qualcuno… che macera i tuoi pensieri. Non ho mai visto
una definizione così calzante della lingua che batte dove il dente duole.
E’ una specie di riflesso condizionato. Ci pensi in continuazione, persino
quando non te ne rendi conto. Ci sono poche persone fatte per essere
indimenticabili. Credo che lui… chiunque sia… sia una persona
indimenticabile. Un tempo, persone così venivano chiamate Zahir”.
La gola mi si secca
ancora di più, mi sento esaminata come se fossi imputata di un processo,
prossima al rogo. L’incendio lo sento persino stagliarsi contro le mie membra,
ne assaggio il calore mortale, ne suda ogni cellula del mio corpo, avvolge di
spire terribili di cenere l’aria che respiro.
Helder non legge
nel pensiero, me lo ha detto, lo so persino io da quel poco che conosco degli
Empatici: altrimenti sarebbero Telepati o Legilimanti.
Sono solo
sensazioni, eppure senza alcuna esitazione ha detto lui.
Cosa c’è nei miei
pensieri per coniugarli subito al maschile?
Terrorizzata da
qualsiasi corollario di quella constatazione, biascico immediatamente, la voce
acuta e stridula, alzandomi in piedi nervosa: “Non è una persona
indimenticabile. Non è nemmeno uno Zahir-qualcosa-o-come-diamine-si-chiama. E’
qualcosa che… non capisco”. Lo aggiungo con una repentina intuizione che
rimette tutto in prospettiva. Rifacendomi alle sue parole precedenti, mi glorio
felice di professare: “E’ una maledetta girandola colorata, come hai detto tu”.
“Dalle dimensioni
lo definirei piuttosto l’intero spettacolo pirotecnico del 4 luglio” sogghigna
Helder saputa, riservandomi l’ennesima occhiata ilare.
“Avevi detto di non
voler parlare di questo” replico piccata, tornando a sedermi e distogliendo lo
sguardo da lei.
Helder pare colpita
dal mio riferimento alle sue parole precedenti, come se si fosse posta un
limite che ovviamente non ha rispettato e ciò le dolga non poco. Quindi si
affanna a proseguire monocorde: “Certo, sorvoliamo. Non so cosa fosse l’aura
grigia che vedeva la Profetessa. Ma so cosa vedo io…”, fa una pausa studiata,
ad effetto, a verificare che io sia ancora attenta e presente ad ascoltarla.
Annuisco con il capo, sporgendomi per ascoltarla, mentre lei sussurra in un
fiato sofferente: “Vedo… magia… nera. La più potente che abbia mai visto.
So di che cosa sto parlando. Ho incrociato un Horcrux di Voldemort tanti anni
fa, prima che fosse distrutto da voi. E certo, non era una passeggiata di
salute sentirlo… ma aveva qualcosa di umano dentro. Di terribile, ma
umano. In te, invece, ci sono le tracce di una Magia così oscura che… pare
quella di un demonio. Non c’è niente dentro. Solo freddo, tenebre,
potere smisurato”.
La rivelazione mi scompagina
il respiro, mi pare che un’enorme iceberg ghiacciato mi si sia parato innanzi e
io non abbia alcuna forza o potere per poterlo schivare.
Devo solo
prepararmi all’impatto.
Penso
automaticamente a mio marito, ai miei figli, alla mia famiglia, al tenerli
tutti al sicuro. Il fatto che Helder parli di qualcosa peggiore di Voldemort,
arresta il battito del mio cuore.
In nessuna mia
fantasia necrotica di angoscia, ho mai concepito un male peggiore di quello. E’
una sorta di vertice massimo della malvagità, una vetta di depravazione per cui
ogni criminale, ogni ladro, ogni assassino è da considerare strettamente e
fortunatamente al ribasso.
Ora, invece, viene
alluso a qualcosa di peggio, qualcosa che ha scelto me come vittima, qualcosa
che mi si para nella testa in modo evidente per profeti ed empatici, ma che
invece per me non ha alcuna tangente cognizione, cosa che mi lascia
assolutamente priva di difesa.
Mi concentro sul
mio respiro, veloce, ansante, irregolare, quasi a volerne trarre
rassicurazione, ma non funziona ovviamente. E non funziona nemmeno quando, con
una punta di sollievo nel fondo del ventre, noto persino che mi rassicura
essere vittima di un incantesimo.
Perché forse
significa che c’è davvero qualcosa che non va in me.
Il cauto senso di
inoperosa gioia si stempera subito, considerando quanto resta senza risposta a
questa prima rivelazione. Helder continua a guardarmi accorata, tentando
inutilmente di tranquillizzarmi con lo sguardo, cosa che per inciso non ha
alcun risultato.
“C-cosa potrebbe
essere?” chiedo quando sono certa della fermezza della mia voce.
“Bella domanda…”
risponde lei autenticamente costernata “Posso solo dirti che sei stata
sicuramente incantata da qualcuno. Difficile è sapere come e da chi. C’è stato
qualcosa di diverso in te negli ultimi giorni?”.
Il sollievo ritorna
prudente, sbrilluccica come un lumicino nella nebbia spessa ed opaca.
Mi affanno a
spiegare agitando le mani, un prurito negli occhi che metto a tacere con
fastidio: “Non so nemmeno da dove dovrei cominciare. Ho… vissuto un ricordo.
Quello che sembrava essere un ricordo. Che io non ho mai vissuto. E…
talvolta…”. Mi fermo a disagio, incapace di proseguire, mentre metto a fuoco
quella sensazione di strappo che avverto dentro di me, come una specie di
taglio nel vivo, suppurante di strazio.
Helder mi
incoraggia a proseguire, allunga una mano calda che copre la mia, artigliata
sulla scrivania. Accetto la carezza con gratitudine, sospingo il groppone giù
per la faringe e proseguo incerta, come se facessi fatica a ricostruire il
pensiero e a presentarlo fuori di me stessa: “… sono convinta di avere un
figlio che non ho mai avuto. Penso persino di sapere come si chiama. Credo…. credo
che si chiami Alexander, come mio padre…”, i miei pensieri si ingarbugliano
come se avessero una volontà propria, intricata e terribile di sfuggire al mio
controllo. E’ la prima volta che ad alta voce esprimo quel pensiero, che do
voce a quell’immagine, che pronuncio quel nome, e mi pare di sentirmene
consumata dall’interno come cera di una candela.
Di notte, la
nettezza di quell’immagine è sconcertante, posso persino ricostruire il profumo
di quel bambino sconosciuto. Mi avventuro nel riconoscere il suono argentino
della sua voce, mi azzardo a pensare che gli piaccia il colore azzurro, che
mangerebbe solo brownies, che detesta le carote.
Di giorno, faccio
fatica ad afferrarne una qualsiasi nozione, come se fosse una sorta di miraggio
pigro: lascio ai sogni, come a briciole di Pollicino, di ridarmi il puzzle di
questo bambino.
Di cui non conosco
nemmeno il viso, ma a cui mi sento così legata da strapparmi le viscere.
Helder mi lascia
perdere nei miei pensieri, prima che le chieda esausta, un peso sullo stomaco:
“Può avere senso secondo te?”.
Lei ci riflette
autenticamente su, non prima di avermi gettato un’occhiata in tralice che è
quasi stucchevole, dolciastra, per la tenerezza che ci mette in modo istintivo,
come a riconoscermi sempre la vittima di un feroce incanto che mi sta togliendo
il senno. Il suo sguardo, paradossalmente, invece che innervosirmi mi rassicura
moltissimo: pensare che ci sia un vero ed autentico problema, mi fa sentire a
posto con la coscienza, mi permette di sentirmi meno colpevole se vado a
comparare lo strappo al ventre per il bambino sconosciuto e i sentimenti che
provo di amore infinito, immenso, per Rose ed Hugo.
“Tutto può avere
senso…” termina lei con decisione, guardandomi ancora con amarezza “La gente si
è persa anni dietro incantesimi e fatture del genere. Creati apposta per minare
la mente, per farti dubitare del reale, per portarti alla follia. Ciò che è più
potente nell’animo umano è il rimpianto. L’anatema del se fosse. Maledizioni
simili si insinuano come vermi nel pensiero e, lentamente, lo svuotano. Fino a
quando non hai più cognizione di te stessa”.
Chi diamine può avermi fatto una cosa del
genere? E perché?
Rincorro teorie e
nomi per diversi minuti, assentandomi completamente. Devo scavare nella memoria
e tornare ai tempi della guerra per trovare qualche sospettato convincente.
Soprattutto per
qualcosa che non è difficile riconoscere, dopo un primo esame della questione.
E cioè che, se davvero esiste un Incantesimo, non ha solo me come vittima, ma
anche Draco Malfoy. Non l’ho più sentito e nemmeno visto, però quella specie di
ricordo lo ha vissuto anche lui, c’era anche in esso. Probabile che, dopo gli
siano successe altre cose strane come i miei episodi onirici.
Se però il nesso
tra me e Draco Malfoy è piuttosto scontato, lo diventa meno quando cerco di
andare a ritroso nella mente per individuare un eventuale responsabile.
I miei nemici non
possono essere quelli di Malfoy, anzi realisticamente è l’esatto contrario. Se
c’è qualcuno che sta maledicendo me, mi pare improbabile che lo stia facendo
anche con lui, sostanzialmente perché, sebbene in termini più liquidi e meno
netti, siamo dalle parti opposte delle ideali barricate in cui è diviso ancora il
mondo.
Chi potrebbe voler
fare del male ad entrambi?
“Cosa dovrei fare?”
chiedo a corto di idee e risoluzione ad Helder. Per un attimo, riconosco dentro
di me una sorta di spinta istantanea a mettermi nelle sue mani, pare un’eco
dimenticata di consuetudine, sebbene non la conosca e sebbene sarebbe stato più
naturale per me dubitare delle sue parole come prima cosa, invece che accettare
la sua versione dei fatti come oro colato.
Invece, non ho il
benché minimo dubbio che non stia dicendo menzogne, anche se sono la diffidenza
fatta persona in altri contesti.
Mi basta guardarla
negli occhi, anche quando diventano di un altro colore.
“Devi farti aiutare
da chi ne capisce di più in queste cose…” dice convincente, facendo un enorme
sospiro di impotenza malcelata “E purtroppo non sono io. Mettiamo anche che io
abbia scoperto il sintomo… ma per la diagnosi ci vuole qualcuno di esperto. In
Magia oscura”.
“E a chi potrei
rivolgermi? All’Ufficio Auror? Al Ministro?”.
“Per quanto siano
lodevoli soluzioni, Hermione, io andrei alla radice del problema. Cercherei
prima di tutto di capire di cosa si tratta. E c’è solo una persona che può
aiutarti in questo…”, penso a decine di persone a cui si possa star riferendo,
ma Helder tronca sul nascere ogni mia riflessione, pronunciando sicura: “L’insegnante
di Difesa contro le Arti Oscure di Hogwarts. E’ il più grande studioso vivente di
incantesimi di questo tipo. Si chiama… Ilai Radcenko”.
Il nome accende
subito una tremula spia di riconoscimento nella mia testa, mentre riavvolgo il
nastro dei giorni natalizi che mia figlia ha passato a casa: alle copiose
domande che le ho fatto sull’inizio dell’anno scolastico, naturalmente da brava
adolescente è sempre rimasta laconica e reticente. E’ stata prolissa solo
quando ha parlato dell’insegnante di Difesa contro le Arti oscure.
“E’ un grande, mamma!”, la cui difficoltosa
perifrasi è stata solo che è un uomo abbastanza giovane e piacente, ma al
contempo molto preparato e che ha dei metodi di insegnamento moderni e
coinvolgenti.
L’entusiasmo pare,
però, bipartisan: ne hanno parlato benissimo anche Albus, a conferma dei
racconti di James dello scorso anno. Stessa cosa ha detto anche Ginny, quindi
penso che dovrebbe essere assodato che sia esperto nella sua materia.
Annuisco
all’indirizzo di Helder: “Credo che me ne abbia parlato mia figlia Rose”.
“Vedrai che saprà
aiutarti…” mi tranquillizza Helder, tornando a stringermi la mano con calore,
poi un’ombra le vela lo sguardo, rendendolo plumbeo, quasi nero “So per esperienza
che è il migliore in queste cose”.
“Faccende da
Indicibili?” concludo automaticamente, guardandola con curiosità.
“Sì, mettiamola
così” sorride lei, alzandosi in piedi e facendo cenno di congedarsi. Mi lascia
con una nuova serie di rassicurazioni, portandomi anche esempi di sue
conoscenze che hanno avuto problemi simili e le cui vicende si sono concluse
positivamente. Mi dà anche il suo recapito, dicendomi che per qualsiasi cosa,
posso chiamarla per chiederle consiglio.
Mi dà un buffetto
sulla guancia prima di uscire, ed è allora che risorge dentro una domanda
enorme che mi oscura quasi la vista.
La afferro per un
braccio, trattenendola con un singhiozzo che vorrei tenermi dentro, ma viene
fuori lo stesso. Sussurro, timorosa di sentire qualcos’altro di terrificante: “Hai
parlato del mio cuore… cosa… cosa hai visto?”.
Gli occhi di Helder
tornano dello stesso colore dei miei, paiono brillare nella semioscurità come
fulmini di ambra. La sua mascella si indurisce e sembra improvvisamente
furiosa, sconvolta, attonita.
Poi si sgonfia,
torna al suo sguardo normale, mi stringe la mano, cercando di comunicarmi qualcosa
oltre le parole che, però, rimane sospeso anche quando esce, portandosi dietro
un odore di mughetto e limone che resta impregnato nelle pareti.
Come le sue parole, nella mia testa.
“E’ una cosa che
non ho mai sentito. Come soffocare con la terra un rogo enorme. Come se ti
avessero svuotata con un cucchiaio, Hermione Granger. E’… atroce. Sei
sostanzialmente… cava. Vuota. Pochi orpelli di emozioni, lasciati
a penzolare, sospesi… attorno ad un vuoto. Hai una voragine dentro… dove prima
c’era un amore grande”.
20 gennaio
Il rumore della carta,
mentre la straccio e frantumo in mille pezzi, suona come una specie di
ulteriore beffa, come se si umanizzasse al punto di ridermi contro, addosso,
ovunque.
Per sfogare ancora di più
la rabbia e la frustrazione represse, afferro la bacchetta dal comodino ed
incendio repentinamente i frammenti rimasti: sfrigolano sul parquet come
schegge prima di annerirsi e diventare polvere.
Il gufo di casa, Dante,
ancora un po’ affannato per il lungo volo nel cuore della sera ghiacciata di
brina e per l’altrettanto istantaneo ritorno a casa, osserva i miei movimenti
facendo frullare le ali marroni spazientito, in attesa della sua ricompensa. Meccanicamente,
la testa ingolfata, mi alzo in piedi, le molle del materasso stridono come in
un orrendo film dell’orrore. Raggiungo la piccola vaschetta di bocconcini sul
davanzale, gli consegno il suo pasto e Dante vola via, descrivendo una voluta
nel cielo grigiastro a mo’ di freccia nera che resto a guardare inebetita per
un po’, il vento freddo sul viso.
Mi sveglia dal torpore il
cigolare della porta della camera da letto che si apre, mi raddrizzo eretta e, rapida,
mi chino alla specchiera simulando gli ultimi tocchi di un maquillage che non
ho nemmeno cominciato.
Ron entra in camera con i
capelli ancora lievemente umidi dopo la doccia, si chiude i bottoni della
camicia attentamente, timoroso di saltarne qualcuno, guarda la mia schiena e resta
immobile, congelato, un accenno di respiro trattenuto. Mi chiudo nelle spalle
in silenzio, come se ogni minuto di attesa gli portasse alle narici l’odore
della carta bruciata.
Poi, con evidente simulata
nonchalance, si siede sul materasso, armeggia con il maglione e le scarpe e mi
chiede tranquillo, la voce impostata: “Sei pronta?”.
Annuisco con il capo,
sollevando il pennello del blush e sventolandolo come un vessillo militare:
“Quasi… se sei già pronto e Hugo sta dando di matto, puoi anche precedermi”. Il
cuore mi batte in petto in attesa della risposta, accelera quando lo sento
alzarsi e venirmi alle spalle, non incrocio il riflesso del suo sguardo nello
specchio, fingendo profonda concentrazione, mentre le dita tremolano un po’.
Il suo sospiro, greve,
sordo, pesante, mi solletica la nuca scatenando i brividi sulle braccia, mentre
in un afflato rapido e malinconico sussurra: “Certo”.
Sospiro anche io,
concedendomi dei gesti più lenti e misurati, aspettando che inforchi l’uscita,
mentre raggiunge nostro figlio che sta già saltellando in preda all’entusiasmo,
facendo ballare le assi del pavimento della scala.
“Ho visto volare Dante
fuori dalla finestra poco fa…” la voce di mio marito mi sorprende come la canna
metallica di una pistola alla nuca, quando pensavo di essere già virtualmente
al sicuro. Deglutisco la poltiglia acida e nauseabonda che mi chiude la faringe
e mi aggrappo alla maniglia di un cassetto, aprendolo senza necessità alcuna e
tirandone fuori un foulard azzurro che non potrei mai indossare adesso, essendo
troppo leggero. Eppure fingo di guardarlo con interesse come se stessi
decidendo se è adatto o meno all’occasione. Nella trama di fili di cotone e
seta, cerco delle parole, cerco l’espressione adatta, la cadenza, il respiro disattento
sfuggito per caso.
Atteggio la fronte ad una
piccola riflessione, poi la spiano automaticamente come se la risposta alla
domanda di Ron fosse fiorita adesso, inconsapevole, nel silenzio di una cosa
poco importante. Aggiungo quindi scontata, dandogli ancora le spalle ed
agitando la mano con indifferenza: “Lavoro, sempre lavoro… basta prendersi due
ore libere e Leda va in panico”.
La bugia è talmente convincente
che Ron riesce persino a riderci su, sebbene so persino dal suono che la risata
fa alle mie orecchie che è un verso gutturale, statico, di mera cortesia. Mi
saluta con un respiro di bacio sulla nuca, sebbene ci vedremo tra pochi minuti,
pare sempre che mi dica addio, e si
Smaterializza con Hugo per mano che, nel suo entusiasmo da bambino, non
dismette per un secondo gli urletti alla “Sbrigati papà!”.
Non appena capisco di
essere sola in casa, non appena prevalgono nel silenzio di nuovo i rumori
sottili del legno che si assesta, la mia mano lascia cadere il pennello e il
piumino della cipria, che atterrano sulla specchiera con un tonfo che risuona
per mille e mille volte. Nascondo il tremore delle mani tra i capelli, mentre
mi chino piegata e nascondo il viso tra le braccia: gli occhi restano
spalancati e fissi nel buio che creo con il mio stesso corpo, mi concentro solo
sul respiro e sul battito irregolare del cuore, isolando fuori da me stessa le
lacrime che, minacciose, mi arrivano agli occhi e si mangiano già il mascara
che ho messo distrattamente, irregolarmente, senza alcuna attenzione, solo per
avere la scusa di restare qui ancora un altro po’.
Quella consapevolezza mi
riporta in piedi, come se in modo confuso persino io sapessi che lasciarmi
andare significa dare ogni volta di più l’alibi all’inedia di trascinarmi via,
in basso, senza farmi più risalire. Cerco allora un vestito nell’armadio, faccio
mente locale su dove sia finita la mia camicia glicine, sistemo il trenino
rosso che Hugo ha lasciato in giro per la stanza, apro il portagioie sul
comodino e ne tiro fuori due orecchini lucidi, d’oro giallo, a cerchio, che mi
ha regalato Ron per il nostro anniversario. La tenerezza mi chiude la gola, mi
spinge a fermarmi ancora immobile e a sedermi di nuovo sul letto, sfinita, spossata,
come se nemmeno un altro singolo passo mi fosse minimamente possibile.
Ed è allora che il mio
piede nudo, libero delle pantofole che ho lasciato sotto la specchiera, tocca
con l’alluce un altro piccolo frammento di carta: si spezzetta nelle mie dita
che lo raccolgono, ma non prima che io abbia letto di nuovo l’indirizzo del
destinatario, il sangue che mi va alla testa lasciandomi esanime nel resto.
Draco
Lucius Malfoy, Malfoy Manor.
Stringo le labbra, sapere di essere stata probabilmente
maledetta è stata una consolazione.
Dopo l’incontro con
Helder, è stato come se ogni cosa si deformasse in preda ad un insperato
respiro di sollievo: pareva tutto più tenue, più sussurrato, più combaciante
tra sé e sé come se avesse trovato posto.
Per i primi giorni, non ho
fatto altro che enumerare nella mia testa, come se fossero punti di una
lunghissima lista, tutti i particolari di me che sembravano stonare da mesi,
settimane, giorni, con la consolazione che Helder non aveva potuto fare alcuna
stima sulla durata della mia maledizione. I bulbi vitrei nel buio delle stanze,
contavo e ricontavo, smontando la mia vita pezzo per pezzo ed unendo come con i
puntini della Settimana Enigmistica ogni traccia anormale, strana, difforme: la
nausea, il fittizio ricordo, il sogno falso sul bambino.
Arrivavo poi, con febbrile
rapidità e immediata consolazione, alla sensazione di estraneità con la mia
famiglia, al rancore per Ron, alle trascuratezze per i miei figli, fino a
giungere come in un piano inclinato a 90°, a quel subitaneo senso di fiducia per
Draco Malfoy e a quella corsa forsennata a casa sua la sera della Vigilia di
Natale.
Anche l’accenno orribile
al mio cuore è diventato una specie di disco rotto che, con voce metallica,
ripeteva la cantilena di una maledizione che era giunta persino a togliermi Ron
dal cuore.
Una voragine dentro… dove prima c’era un amore
grande: poteva essere solo questo.
Posso persino dire che, di
primo acchito, la scoperta di essere stata fatturata mi ha reso allegra e
vitale come non ero da mesi. Ho iniziato a prendere una pozione per evitare i
sogni notturni, così da non rivedere più il bambino e non provare più quello
straziante senso di distacco. Dopo qualche giorno, ho anche iniziato a fare delle
ricerche, una volta messo a fuoco che essere stata maledetta non era qualcosa
su cui rallegrarsi e che poteva comportare che mettessi a rischio le persone
che amo.
Helder mi ha garantito il
massimo aiuto possibile, da parte sua si è offerta di cercare qualsiasi
informazione utile, ma io da sola nelle pause del lavoro o nell’attesa che la
cena finisse di cuocere, ho iniziato in modo affannoso a spulciare libri,
interrogare testi, fabbricare congetture, realizzare schemi. Non ho scoperto
moltissimo, ci sono decine di maledizioni che potrebbero avere in comune parte
dei miei sintomi. Nemmeno scandagliare il mio privato, ha portato ad un qualche
sospettato: le piccole antipatie ed avversioni sembrano sempre troppo
insignificanti per portare ad un incanto simile, definito peraltro più oscuro
dei malefici di Voldemort.
Lì, d’altronde, la mia
mente si incaglia: immaginare Voldemort è già sentire la mente invasa da acre
fumo nero di tomba, morte. Immaginare qualcosa di peggio, è qualcosa che non
oso nemmeno arrivare a concepire lontanamente.
Mi sono allora focalizzata
su colui che Helder mi aveva indicato come probabile risolutore del mio
problema: l’insegnante di Difesa contro le Arti oscure. Ilariy Nikolaj Radcenko.
Ogni parte del suo
curriculum è parsa assolutamente impeccabile: sulla quarantina, di origine
russa, diplomato a pieni voti a Durmstrang, estraneo a qualsiasi vicenda
oscura, perfeziona i suoi studi con la conoscenza delle antiche scienze
alchemiche durante un lungo soggiorno a Kathmandu, senza contare ricerche sulle
maledizioni sciamaniche in Patagonia, sui demoni mistici in Giappone e persino
sui principi più avanzati della fisica, quando per diversi anni vive a Boston e
frequenta il Dipartimento di Fisica di Harvard. Vive in Inghilterra solo da
qualche anno, continua le sue ricerche ed intanto si dedica all’attività accademica
presso Hogwarts, che si è sempre ritenuta enormemente fortunata ad averlo come
insegnante.
Radcenko, peraltro, in
ulteriore ossequio ad una sua perfezione quasi palese, è un insegnante capace,
coinvolgente, particolarmente a suo agio con bambini e ragazzi: pare che abbia
rivoluzionato il modo di affrontare lo studio della Difesa contro le arti
oscure, implementando lo stesso modo di fare molto operativo che aveva Lupin.
Questo, inevitabilmente, ha portato ad un boom di iscrizioni ad Hogwarts anche
di francesi e mitteleuropei.
Ho letto tutto con un
feroce senso di invidia per mia figlia: avrei voluto averlo io un insegnante
simile ai miei tempi. Tralasciando Remus, le mie esperienze non sono state
certo così edificanti.
Con un senso perciò di deferenza,
ho scritto, cancellato e riscritto una lettera per Ilariy Radcenko,
chiedendogli un colloquio privato: delusa, ho ricevuto risposta da un tale Ivan
Gargovich, che si è firmato come una specie di segretario particolare
dell’insegnante e che ha asserito con il tono scocciato che permeava persino
dalla carta, che il dott. Radcenko aveva l’agenda piena fino a luglio del
prossimo anno e che quindi non era possibile fissare alcun incontro.
Mi ero già decisa a
contattare il Ministero e smuovere un po’ le acque di miei vecchi agganci per
poter aggirare l’ostacolo quando, una sera, mi è arrivata una nuova lettera da
Hogwarts: avevo subito pensato a Rose, avevo stracciato la busta della missiva
piena di preoccupazione ansiosa.
Ma invece a restituirmi lo
sguardo è giunta una grafia lieve, precisa, allungata sulle lettere alte.
Essere un’ex Eroina del
Mondo Magico ha sempre i suoi vantaggi: dopo aver letto il mio nome nella
missiva ricevuta, Ilariy Radcenko si scusava per l’eccessiva abnegazione del
suo assistente, chiedendomi in cosa potesse essere d’aiuto a me e al Ministero.
Naturalmente, ho
constatato subito, l’accademico pensava di essere stato contattato perché
potesse aiutarmi a risolvere qualche bega di lavoro: a patto di farmi
promettere di essere particolarmente riservato, ho confessato che non si tratta
di alcuna questione pubblica, ma invece di qualcosa assolutamente personale.
Temevo che a quel punto
Radcenko mi rispondesse picche, ma dopo pochi giorni mi aveva scritto
esortandomi a spiegargli cosa fosse successo e promettendomi che, se ne fosse
stato in grado, mi avrebbe aiutato.
È cominciata così una
lunga corrispondenza dove ho spiegato sommariamente il mio problema e la teoria
di Helder sul fatto che fossi stata maledetta: sebbene non sia scesa molto nei
particolari, Radcenko ha subito riconosciuto qualcosa che gli suonava come
familiare, accennandomi a qualcosa che ha chiamato “tentazione del multiverso”, una teoria ancora embrionale su cui
pare stia lavorando da qualche anno con un’altra studiosa, tale Eva Lancaster.
La definizione “tentazione del multiverso” mi ha ovviamente incuriosito molto,
ma il professore è rimasto molto vago a riguardo, rinviando il tutto ad un
incontro ad Hogwarts dove avremmo potuto parlarne personalmente: essendo la teoria
completamente inedita, anche le mie incuriosite ricerche successive non mi
hanno fatto cavare un ragno dal buco.
Dopo un paio di ulteriori
missive, Radcenko mi ha dato appuntamento ad Hogwarts il pomeriggio del 30
gennaio, approfittando di un momento di pausa delle lezioni e delle sue
ricerche a causa di un convegno a Sofia che era provvidenzialmente saltato.
Ho letto la lettera con un
saltello di contentezza, fino ad arrivare all’ultima riga prima dei saluti.
“Dimenticavo,
Mrs. Weasley: mi ha accennato stringatamente che ad essere colpita dal
maleficio pare vi sia anche un’altra persona. Non vi ha più fatto riferimento,
non vorrei aver letto male. Però se mi conferma che è così, sarebbe bene che
incontrassi anche costui o costei assieme a lei. Molti incanti di tale natura
possono essere variamente legati tra di loro, e per me comprenderne la natura
potrebbe essere impossibile se non ci sia anche l’altro elemento. Confido in
questo.
Ilariy
Radcenko”.
La frustrazione rabbiosa
mi ha avvolto come una specie di miasma: in poche parole, volente o nolente,
dovevo chiedere a Malfoy di venire ad Hogwarts con me quando, dalla famigerata
sera di Natale, non abbiamo avuto più alcun genere di contatto, nemmeno mediato
dai Weasley.
Il fatto di non averlo più
rivisto, lo ammetto, mi ha all’inizio confortato parecchio, non avevo e non ho
alcuna volontà di incontrarlo dopo aver scoperto il segreto del suo matrimonio.
Mi è così rimbalzato in testa per giorni da avermi contuso il cervello. E non
arrivo nemmeno a menzionare quella specie di abbandono che, senza
premeditazione, avevo provato nei suoi confronti: convinta come sono che si
tratti di una specie di ulteriore maleficio a mio danno, mi sono data pena di
analizzare bene di che cosa si trattava, non presa più dal timore di scartare
quella sensazione nella mia testa, la
fiducia sterminata, istantanea, subitanea come quella ingenua dei bambini, ed
io bambina, bambina così non sono mai stata, sono sempre stata diffidente,
sospettosa, circospetta, e lui più di tutti mi ha sempre istillato nient’altro
che dubbi, teorie, preconcetti, pregiudizi, perché lui era il cattivo, il male,
il quasi assassino, il Mangiamorte, e non è cambiato niente, non è cambiato
lui, non sono cambiata io, non è cambiato il mondo: ed invece no, se precipito
nel vuoto, se vedo il buio avvicinarsi, se sento il vento nella mente sferzarmi
le membra, so che a tuffarsi dietro di me, a salvarmi, a lottare perché io
resti in vita, non c’è mio marito, Ron, Ronald Weasley, capelli rossi,
lentiggini, orecchie che si arrossano quando è emozionato, occhi azzurri di mia
figlia, odore di dentifricio alla menta piperita.
Non
c’è mio marito.
Se
penso alla fiducia, se penso al salto nel vuoto, a seguirmi per morire con me,
c’è Draco Malfoy, Draco Lucius Malfoy, capelli biondi, labbra sottili
arricciate, voce strascicata, occhi grigi che mi scavano sotto la pelle, cuore
vergine e mai innamorato, odore di erba bagnata a settembre.
C’è
solo lui.
Se non è un maleficio
questo, e dei più perfidi ed infidi, non so quale potrebbe esserlo.
Con riluttanza quindi,
sapendo che comunque la mia consulenza da Ilariy Radcenko poteva rivelarsi
infruttuosa senza la presenza di Draco Malfoy, avevo deciso di scrivergli una
lettera, impostandomi prima su un approccio soft per poi giungere al nocciolo
della questione. Non conosco infatti Malfoy al punto di immaginare come
reagirebbe se sapesse che, con lui bellamente inconsapevole, ho preso contatti
per risolvere il nostro comune problema: anche se non lo avevo minimamente
menzionato con Radcenko, poteva darsi che avrebbe considerato un’ingerenza che
facessi indagini senza di lui, sebbene fosse coinvolto nella cosa.
Quindi, dopo aver
cancellato e riscritto lo stesso scarno messaggio per diciotto volte,
suscitando la reazione pettegola e scomposta di Leda che mi spiava da dietro lo
stipite della porta, ho optato per una lettera neutra in cui, Grifondoro fino
al midollo, lo informavo delle ultime decisioni riguardo al matrimonio di Teddy
e Victorie e di cui voleva essere sempre tenuto al corrente, come pattuito in
quella sera strana di Natale.
Il
premio che ne avevo avuto, in compenso, era stato conoscere la sua mente fino
al suo segreto più profondo. Qualcosa che era stata più una maledizione che un
premio.
In calce, a fine lettera,
aggiungevo casuale che avevo bisogno di parlargli in riferimento all’episodio
della sera di Natale; non entravo troppo nei dettagli, così da tenere al sicuro
la vicenda nel caso sua moglie aprisse la sua corrispondenza e, allo stesso
tempo, speravo di indurlo a scrivermi in risposta per la curiosità.
Naturalmente, le cose non
sono andate così.
Non solo Malfoy non mi ha
mai scritto in risposta, ma tutte le mie lettere sono tornate esattamente
identiche al mittente. Potevo pensare a qualche goffo disguido dei gufi, ma
ogni busta è diligentemente aperta, sebbene dalla posizione della carta da
lettera, deduco sempre che non è andato oltre le prime righe a leggere. Probabilmente,
si limita alla data e a quei “Malfoy!”, sempre meno cauti, sempre più furiosi,
sempre più carichi di rabbia in risposta al suo menefreghismo totale.
I miei istinti di omicidio
e minaccia per via scritta, al ridursi dei giorni prima dell’appuntamento con
Radcenko, si sono fatti via via sempre più violenti e selvaggi, fino a
trattenermi bruscamente dal riempire la missiva di Artiglio del Diavolo o dal farmi
nuovamente piombare in casa sua, stavolta munita di lanciafiamme.
Ovviamente, potrei anche
andare da sola da Radcenko, ma, oltre a temere che così non riesca a capire
quale è il problema, mi sconcerta che Malfoy sia così indifferente a quello che
ci sta succedendo. Come diamine ha fatto a liquidare quella specie di ricordo
con una scrollata di spalle?
Possibile che… ossessioni solamente me?
La domanda, diventata
ampiamente retorica al prolungarsi del silenzio di Malfoy, ha cominciato ad
inseguirmi come una fiera affamata: più constato che a lui non interessa niente
della cosa, tanto da non avere nemmeno il tempo, la voglia o l’educazione di
rispondermi, più temo che la sua reazione sia quella normale e che sia invece la
mia quella sproporzionata.
Probabilmente, al
contrario di quanto avessi pensato, lui non ha alcun altro sintomo. Perciò ha
cancellato dalla sua testa il pensiero di quel momento, dandosi una qualche
giustificazione mentale che lo ha calmato e rasserenato.
Lui
non sogna nessun bambino biondo da chiamare figlio, non prova lo sgomento di
provare maggiore intimità verso un miraggio, che verso il proprio vero bambino
quando chiede una cosa e pare solo muovere le labbra a vuoto.
Lui
non prova nessuna nausea sferzante, continua, che risale dalla bocca dello
stomaco nei momenti più disparati della giornata, minacciando di rivoltarti
dall’interno come se fossi un vestito consunto e rovinato.
…
ma, soprattutto, evidentemente, per lui la sera di Natale è stata una sorta di
strano episodio che va raccontando ridendo, alla moglie, agli amici, al figlio,
parlando della solitudine di una povera idiota che non trova niente di meglio
da fare che venire a casa sua, di notte.
Ed
avrebbe ragione, diamine.
A quelle riflessioni, mi
coglie allora un senso patetico di chiusura ermetica dentro me stessa,
raggomitolata nella vergogna assurda di essermi messa in ridicolo davanti a
lui. In ufficio, per strada, a casa, mi sembra di portare scritto sulla fronte
l’onta terribile della mia fuga notturna. Credo che chiunque me lo possa
leggere scavato nel viso, e rinfacciarmelo con crudeltà, smontandomi pezzo per
pezzo. Evito lo sguardo del passante, della commessa, del dipendente ministeriale.
Di Leda, di Dean. E poi di Ginny, di Harry, di Hugo.
Ed, infine, di Ron.
Lui che, ovviamente, dopo
un po’ ha compreso che ci fosse qualcos’altro oltre alla mia semplice stizza
per il litigio della sera della Vigilia. Ha iniziato a percepire che gli stessi
lontana, che uscissi prima la mattina e rientrassi quando era già a letto, che
mi chiudessi in bagno a restare immobile, ad occhi chiusi, la nuca sul legno
della porta.
Però, come sempre è stato
e come sempre sarà, attende in silenzio, una ruga continua ai lati delle labbra,
mentre mi guarda sopra i bicchieri della tavola apparecchiata, nello spiraglio
della porta rimasta accostata, nel riflesso all’indietro dello specchio.
Attende che io parli, mi
spieghi, esploda.
Ed io lo faccio: ma non
con lui.
Prendo di nuovo pergamena
e piuma, scavo le lettere nella carta, incido e scolpisco, inveisco e minaccio.
Scrivo ancora a Draco
Malfoy, aspettando di nuovo la busta aperta e la lettera non toccata, forte
della ragione che mi danno le supposizioni di Tatia Krasova, Helder Bode ed
Ilariy Radcenko.
Io
ho un problema, Ron, non sei tu, sono io.
E
già mi sento quelle frasi idiote da film stucchevole, già ti metto in una
parentesi senza esponente dove condannarti, chiuso, a non capire, a non sapere,
a non immaginare.
Perché
non voglio che mi aiuti tu, mio marito.
Voglio
che mi aiuti lui, e non so il perché.
In tutto questo, la cosa
peggiore che potesse accadermi è, ovviamente, l’ennesima riunione famigliare,
cosa che mi sarei evitata con un raffinato giro di scuse, se non fosse che si
tratta del compleanno di Fred jr, da sempre la ricorrenza preferita di Hugo di
tutto l’anno, persino più del Natale.
Al compleanno di Fred,
infatti, suo padre George ha la precipua tendenza a provare tutti i Tiri Vispi
Weasley ancora in fase di sperimentazione, coinvolgendo i nipoti in una specie
di gara al massacro che si conclude quando qualcuno, tendenzialmente io, inizia
ad urlare alla vista di una testa che rotola sulle scale di casa o di un enorme
luccio che spara vernice argentata sulle pareti.
Se quindi già di umore
normale, la festa di Fred mi ridurrebbe allo stremo mentale e alla voglia di
gettarmi sotto un treno in corsa per risparmiarmi l’agonia, figuriamoci quanto
possa essere entusiasta se sono in questo stato pseudo catatonico e se, come se
non bastasse, imperterrita ho scritto nuovamente a Malfoy pochi minuti fa,
ricevendo stavolta una busta nemmeno aperta, intatta come quando l’ho spedita.
Il mio senso di colpa di
madre, però, che ha trascurato Hugo e continua a farlo in virtù di una foresta
di fantasie sconvolte e polverizzate dalla mia ragione, mi impone alla fine di
alzarmi in piedi e, meccanicamente, un passo dopo l’altro, comandarmi una serie
di piccoli ordini semplici da portare a termine. Adesso, alzati dal letto Hermione. Finisci di vestirti, scegli qualcosa
che ti fa sentire a tuo agio, ecco, camicia glicine e pantaloni grigi. Allunga
la linea nera dentro l’occhio come se ci avessi messo cura a fingere uno
sguardo più profondo. Indossa il braccialetto con le iniziali dei tuoi figli,
accarezzale piano come se fossero la pelle dietro le loro orecchie, la sera,
mentre dormono e li baci ignari nel loro letto. Annoda i capelli adesso,
Hermione, tira indietro le ciocche ribelli.
Respira,
a lungo, nella sciarpa grigia, fino a quando non sarai pronta.
Rimetti
il sorriso sul viso, quello tirato che conoscono tutti, ma che nessuno oserà
contraddire.
Ma
soprattutto, Hermione, seppellisci il segreto: e cioè che, ormai, non sei più
tu.
La
moglie, la madre, la nuora, la professionista, l’amica.
Mettiti
addosso quelle sembianze e gioca a convincere che siano le tue, anche se non è
così.
Perché,
in pochi attimi, sei cambiata così tanto da essere un’estranea per tutti.
Compresa
te stessa.
Quando arrivo alla Tana, stranamente
mi rendo conto che potrebbe persino essere una bella serata: per ovviare
infatti ai nostri frequenti scatti nervosi e crisi isteriche per gli scherzi
dei ragazzi, quest’anno George ha pensato bene di costruire una sorta di serra
gonfiabile, insonorizzata ed a prova di infortunio, dove i nostri figli si
possano divertire senza per questo condurci alla follia.
Appena arrivo vengo subito
dirottata in casa, dove i miei suoceri e cognati sono seduti in salotto accanto
al camino, che proietta ombre lunghe color rubino contro le pareti mentre
l’aria si satura di odore di resina e ambra. Gli unici assenti sono Percy e
Audrey e naturalmente Cora, sempre poco coinvolta nelle ricorrenze famigliari.
Stranamente manca anche Harry, ma Ginny mi rassicura brevemente parlando di non
meglio identificate magagne all’ufficio Auror. Intercetto lo sguardo di Ron non
appena metto piede nella stanza salutando tutti, e con una nuova sferzata ostile
di vergogna per il mio comportamento assurdo di questi giorni, decido di
andarmi a sedere accanto a lui, azzardandomi anche ad allungare una mano per toccargli
il braccio ed attirare la sua attenzione con un gesto di affetto. Ron mi
restituisce uno sguardo acquoso, annegato in un sorriso luminoso: le sue dita
si chiudono repentine sulla mia mano, serrando forte. Gli sorrido cauta in
risposta, lasciando che mi attiri verso di lui e mi baci la tempia con dolcezza
ritrovata.
Sempre più decisa a
godermi la pace del focolare, accetto la tazza rossa sbeccata dove Molly mi
serve un eggnog che, da esperienza decennale, so essere così alcolico da
rendere infiammabile persino l’alito, senza contare che ha l’indice glicemico di
un’intera pasticceria nel periodo dell’Avvento. Mi tengo persino in gola le
rimostranze sul fatto che sia una bevanda natalizia e che, se Molly ci mettesse
più attenzione, si potrebbe evitare di produrne in quantità tali da
propinarcelo fino ad agosto. Rivolgo un sorriso riconoscente alla sua mano
nodosa e lo sorseggio piano, in silenzio, godendomi le chiacchiere tra i miei
parenti, trovando persino divertenti le battute, interessandomi agli aneddoti
nuovi e ai pettegolezzi recenti.
Stasera è Fleur in vena di
chiacchiere, agita le lunghe braccia magre come un mulino a vento, al ritmo
della foga del suo discorso. Ha il viso rosso, chiazzato sulle guance lisce di
seta, mentre ripete con la voce strozzata: “Quella commessa era… obscène!”.
“Ancora con questa storia,
Flo?” la riprende incolore Bill, osservandola di sbieco e restituendo un’alzata
di spalle all’indirizzo di George che, cautamente, deve aver chiesto
spiegazioni.
Fleur, per nulla
intimorita, agita i pugni in alto, aprendo la bocca e guardando Bill
profondamente offesa, come se non credesse che lui non sia furibondo come lei.
La osservo dal basso della mia tazza sbeccata, chiedendomi come faccia ad
essere sempre così perfetta, persino in un momento di ira pura, persino con gli
stivaletti ornati di pelo nero, persino con un maglioncino con la stampa di
fiocchi di neve: io sembrerei una specie di pesce palla in posizione di
combattimento.
Fleur, invece, agita la
chioma bionda e travolge gli astanti di un profumo gentile di rosa, in tutto e
per tutto ancora identico a quello della ragazzina mezza Veela che entrò in
Sala Comune per il Torneo Tremaghi. Persino Ron la guarda ancora come quel
giorno, imbambolato e infatuato, gli occhi che strabuzzano spesso; poi sbatte
le palpebre, scuote il capo ed annienta la magia remota del sangue della moglie
di suo fratello. Osservo la scena indifferente, preoccupandomi però di
aggrottare le sopracciglia a fingere il fastidio che mio marito si aspetta,
mentre Fleur con sussiego riprende: “Bien
sur, ci mancherebbe che non lascio perdere, stiamo parlando di Diagon
Alley, non di un negozietto di periferia qualunque, inconcevable!”.
Comprendendo di essere più
o meno la sola a non conoscere l’episodio, viste le facce rassegnate dei miei
parenti, mi affretto a chiedere compita, lo zabaione che mi incendia la gola e
mi costringe ad un colpo di tosse: “Cosa è successo?”.
Bill precede la moglie che
resta a bocca spalancata come un luccio all’amo, prima di scoccargli
un’occhiata infastidita: “Victorie ha fatto un giro per Diagon Alley qualche
giorno fa assieme a Flo, per farsi un’idea dei vestiti da sposa. Insomma, ne
aveva addocchiato uno… ma…”. Bill sospira a lungo cercando l’ispirazione per
continuare, probabilmente indeciso tra un tono neutro che farebbe innervosire
Fleur ed uno estremamente drammatico che però sarebbe una forzatura.
A togliergli le castagne
dal fuoco interviene Ginny che, con il consueto schiocco schietto di lingua,
sciorina velocemente: “… ma quando ha chiesto se poteva essere allargato per il
matrimonio a maggio, la commessa ha avuto una specie di crisi puritana e
mistica, appena ha capito che Victorie è incinta”.
Naturalmente il viso di
Ginny ed il fatto che rotei gli occhi come se fossero pale eoliche, mi porta
automaticamente a soffocare una risata dentro l’eggnog, cosa che mi porta
comunque ad un principio di asfissia, visto il contenuto alcolico dello stesso.
“Connaissez-vous?” mi chiede accorata Fleur, convinta di poter
ricevere da me una qualche forma di empatia comprensiva che, evidentemente,
manca al resto della famiglia. Ron, quasi esortandomi a fingere una risposta
qualsiasi, mi stringe la mano con le dita due volte come un segnale telepatico.
Gliela stringo a mia volta, comprendendo il messaggio subliminale.
“Flo, il francese…” la
riprende bonariamente Bill grattandosi la nuca “Dubito che alla vecchiaia mia
madre diventerà bilingue”.
Molly fa un enorme cenno
di assenso, borbottando qualcosa sottovoce che però non impensierisce
minimamente Fleur che, agitando la mano in un nobile gesto da aristocratica
decaduta, aggiunge ovvia, accentuando caricaturalmente le parole: “Capisci, Hermione? Era chiaro cosa
volessi dire, Bill”.
Prima ancora che io però
possa rispondere, Molly, probabilmente ancora irritata dall’uso reiterato del
francese, saetta con voce acida: “Devi ammettere però che non è una cosa… ordinaria… che una ragazzina come
Victorie sia incinta e che si sposi”.
Ginny, George e Ron,
presagendo la stoccata sempre precisa per una faccenda che non è mai andata giù
alla loro madre, si sbattono le mani sulla fronte con una così contemporanea e
sincronizzata rassegnazione, da spingermi ancora ad una sincera risata che, di
nuovo, annego nello zabaione, fingendo di prenderne un ulteriore sorso.
“Dèchets, sciocchezze, pardon…”
asserisce Fleur, incrociando le braccia con fastidio “La professionalità dove è
finita in questo sciagurato paese? Era così… horrible… era semplicemente gelosa di Vicky… quella racchia…”.
“Per questo però non ti è
servita la traduzione” commenta Ron, gettando un’occhiata traversa a Bill e
George che, naturalmente, rispondono con uno sguardo di intesa.
“La vostra lingua ha il
pregio di avere insulti più… pregnanti”
risponde Fleur scontata ed altezzosa, sistemandosi una piega del maglione.
“Oh credimi…” riprende
George compito e serio “Si è sentita la pregnanza”.
L’assoluta
imperturbabilità di George si traduce in uno scoppio generale di risate, che
contagia persino Molly e Fleur.
E’ un attimo così
rilassato e spontaneo che, come una specie di filo rosso stracciato, mi sento
congiunta di nuovo a tutta la mia famiglia. Mi sento di nuovo al mio posto,
come se mi fosse appartenuto da sempre: tutti gli altri pensieri ruggiscono
come folate di vento fuori dalla finestra, come la pioggia che cade a grandi
gocce sui vetri, senza poter tangere l’interno. La mano che Ron stringe nella
mia, è calda, morbida. Sa delle prime uscite dopo la guerra, quando tutto il
mondo sembrava di nuovo nostro. Mi sembra un tempo adesso più vicino, profumato
di una vita che resta ancora dentro di me, senza andarsene davvero. Senza
andarsene via, come ho pensato nelle ultime settimane.
Con un pizzico di dolcezza
strabordante nel petto, porto la sua mano alle labbra, ne bacio le nocche
chiuse. Ron, sorpreso, mi sorride piano e mi accarezza il palmo con il pollice.
A quel punto, notando che
il fuoco necessita di essere rintuzzato ed alimentato con nuova legna, George
si alza per andare a prenderne dell’altra, sollecitando anche Ron e Bill ad
aiutarlo. Mio marito lo raggiunge borbottando, non prima di avermi baciato
ancora. Ginny a sua volta decide di mandare un gufo ad Harry per chiedergli
quando ha intenzione di raggiungerci, mentre Molly sale al piano superiore per
controllare Arthur che è a letto influenzato. Angelina va invece a controllare
i ragazzi.
Resto pertanto da sola con
Fleur che, come me, si avvicina al fuoco, cercando di ricavarne calore.
“Victorie, però, l’ha
presa bene?” le chiedo con un sorriso, i riflessi delle fiamme rendono i suoi
capelli pieni di riflessi di oro rosso “Come sta?”.
“Très bien, Hermione…” mi sorride lei, sembra d’improvviso ancora
più giovane “Merci, è molto felice.
Non… non lo avrei mai detto. E’ forte, fortissima, la mia bambina”.
La sua voce ha un tono
così dolce, da spingermi automaticamente a metterle una mano su una spalla con
un sorriso: “Ne devi essere molto fiera”.
“Lo sono…” assicura lei
sincera “E, per quanto sia davvero il figlio di tutti noi, sono molto fiera
anche di Teddy. E’ un uomo, fatto e finito. E’ un tale… soulagement… sollievo… poterla affidare a lui”.
“Non te ne pentirai mai,
credimi…” la rassicuro con forza, convinta della maturità di entrambi i
ragazzi. Stanno affrontando una prova così grande come una tale resilienza da
poterne rimanere solo ammirati. Ed anche io, a mio modo, come semplice zia,
sono davvero fiera di loro.
Mi guardo attorno con
curiosità, constatando di non averli visti per nulla: “Sono di là con gli altri?
Non li ho nemmeno salutati”. Mi pare strano che, nelle sue condizioni, Victorie
si sia unita ai giochi spericolati dei suoi cugini.
Fleur nega velocemente con
il capo, aggiungendo: “Vicky si è stancata molto in questi giorni, si sono
alzati all’alba per la tumulazione… e
Teddy era molto triste, davvero… volevano stare per conto loro”.
La parola tumulazione, così stonata nell’atmosfera
distesa del momento, mi rimbalza sul costato come una palla di cannone, in
completo disaccordo con il tono assolutamente normale di Fleur, quasi scontato,
banale, ordinario.
Balbettando, la testa
ghiacciata, chiedo stupita: “La t-tumulazione?”. Il fuoco, contro le mie mani
ghiacciate, pare d’improvviso rovente, come se me le squagliasse.
Fleur, non mutando di una
virgola il tono di voce sbiadito, aggiunge con calma spiegando: “Sì, hanno
preferito farla di mattina presto… non tutti lo sanno ancora, così hanno
evitato… journalistes… Rita Skeeter
vagava attorno come un avvoltoio… Mon
Dieu! E’ davvero vero che gli insulti mi vengono meglio in inglese”. Accompagna
le ultime parole con una nuova risata vezzosa che, alle mie orecchie, giunge
troppo stridula, ferendomi i timpani. Sento una vampata di ghiaccio artigliarsi
ulteriormente sulla mia testa, prima che un atroce sospetto raggiunga la parte
cosciente dei miei pensieri.
Allucinata, senza
ulteriori esitazioni, l’afferro per un braccio richiamando la sua attenzione,
prima di domandarle con voce debole: “Fleur… chi è morto?”.
Mia cognata sgrana gli
enormi occhi azzurri, destinandomi una lunga occhiata profonda, tersa come il
mare d’estate. Soggiunge con indifferenza: “Lady
Narcissa Malfoy… pensavo lo sapessi… ho scritto a Dracò questa mattina… era
distrutto, ma è stato molto gentil…
le sue sofferenze sono terminate, povera donna…”.
Lascio il suo braccio come
se fosse appestato, capace di trasmettermi una malattia mortale. Eppure, il
contagio già risale dalle mie dita, rincorrendosi nel sangue, marcendo i
tessuti, mangiandosi il mio cervello. Un secondo, un respiro, ed ogni parola
irosa delle mie lettere torna alle mie mani che le hanno scritte, alle sue che
le hanno aperte, spiandole ed intravedendole in una stanza che sapeva di fiori
e morte.
Ghiaccio, rivoli di sudore
freddo scivolano sulla schiena, senza fiato chiedo assente, quasi incosciente
di me stessa: “Lui… Draco… t-ti ha risposto?”.
Fleur mi destina uno
sguardo fiacco, eppure spalancato di una meraviglia che le sbarra gli occhi
come se fosse sotto una luce intensa: “Poche righe, rien de ça… tu… lo hai chiamato Dracò”.
Il suo appunto mi serra le
spalle, mentre contorco le mani in grembo guardando il fuoco quasi
completamente consumato: “Un r-riflesso i-incondizionato… m-mi dispiace davvero…
i-in fondo…”, non so nemmeno io che cosa dire, cosa non dire, cosa rivelare,
cosa nascondere. Le parole di consuetudine, i luoghi comuni, i convenevoli si
frantumano nella mia bocca cessando di esistere, lasciandoci un sapore farinoso
e nauseante.
Non trovando altro da
aggiungere, mentre ancora gli arti paiono immersi dentro un lago a 0 gradi dove
non posso nemmeno sperare di nuotare, mi alzo in piedi, sorrido a Fleur ed
aggiungo casuale sotto il suo sguardo ancora incerto: “Vado a b-bere qualcosa…
questo maledetto zabaione mi ha prosciugato la gola”.
Non riesco nemmeno ad
impormi un passo disteso, cauto, trasudante normalità, così da non destare
sospetti e domande: corro fuori, incespicando nelle pieghe dei tappeti e negli
stipiti delle porte, il cuore in gola, mentre come la volpe che fugge i
cacciatori, evito le voci, le risate, i passi della gente amata.
Esco in giardino senza
cappotto, senza cappello o sciarpa. Piove, diluvia scrociando dal cielo, grandi
pozzanghere simili a tombe si aprono nel terreno come enormi buchi neri.
Mi piego sulla ringhiera,
aggrappata come una penitente di Quaresima, le pupille dilatate, il respiro
corto come se non avessi fatto solo pochi passi di quiete domestica, ma deserti
di tentazioni e rovi.
La mia testa è una savana
di parole, una dopo l’altra, una dietro l’altra, una più mostruosa dell’altra:
ad ognuna penso che sia la peggiore e che abbia finito di divorarmi, ma con
solerzia ricordo la successiva, ricordo che quel giorno ero ancora più
arrabbiata, ricordo che pensai che era solamente uno stronzo menefreghista,
ricordo che sospettai di nuovo di lui, ricordo che supposi che gli faceva
comodo non risolvere la nostra maledizione perché l’aveva lanciata lui.
Ricordo ogni singola
lettera, sono spine sotto le unghie, chiodi alle costole, frecce nello stomaco.
…
e tua madre moriva in quelle parole, sotto quella mia raffica di insulti.
Cosa
avrai pensato? Mi avrai dato la fiducia di credermi ignara?
O,
vittima del nostro rancore, avrai pensato che non mi importasse? Che
considerassi più importante la nostra stupida maledizione e non il tuo dolore?
Mi
avrai odiato, certo… perché quella sera, ti vidi scivolare contro quella porta,
e non piangere affatto, ma anzi tenerti gli occhi rossi asciutti, tersi,
scintillanti che magari così faceva meno male, straziava meno, diventava una
cosa razionale a cui ovviamente dovevi rassegnarti con una specie di lasciva
consolazione selvaggia ed insapore.
Mi
hai odiato Draco?
Sono
stata lo sfogo di tutto il resto, ad ogni lettera hai spaccato qualcosa? Un
vaso, una cornice con una fotografia, una statuetta di cristallo?
Eri
solo nelle stanze vuote, nelle stanze che arieggiavano e perdevano l’odore di
tua madre?
Ti
sei arrabbiato furibondo con un elfo domestico, imponendogli di lasciare tutto
com’era? O ti sei chiuso a chiave in camera, guardando per ore le crepe del
pavimento?
Ed
in tutto questo, arrivava una mia lettera.
…
all’inizio… le hai aperte tutte, Draco.
Forse…
perché speravi che io…
Quel pensiero mi riporta
in piedi, ansimante, trafelata. Non pare una supposizione, pare legge, dogma,
verità. Non ho dubbi, reticenze, cautele, titubanze. Niente.
La pioggia mi bagna senza
sconti, la ignoro e, con foga, corro sul retro della Tana. Afferro Leotordo,
gli lego un messaggio alla zampa scarabocchiato in fretta per il mio ufficio:
una semplice richiesta che mi ricordino gli orari degli appuntamenti di domani.
Qualcosa
a cui rispondono subito, usando degli Incantesimi automatici.
Il respiro soffocato, il
volto rosso, rientro in casa, gocciolando sul pavimento.
Non mi interessa, non mi
interessa più niente ormai: formicolo come una tarantolata nell’attesa, torno
nel salotto dove la mia famiglia è di nuovo riunita.
Ron mi guarda
interrogativo, con gli occhi mi indica la sedia accanto a lui.
Ma la sedia rimane vuota,
lo sguardo mi resta pietra fusa, sciolta nel fuoco che continuo a fissare,
lontana miglia da qui. Aspettando solo un frullo di ali.
Che arriva, pochi minuti
dopo.
Lascio che tutti vedano il
gufo, lascio che tutti vedano che è diretto a me, lascio che tutti leggano la
mia noia mentre ne leggo il contenuto, rimarcando scocciata: “Leda ha combinato
un altro pasticcio. Devo andare in ufficio… immediatamente”.
Fingo la rabbia repressa
dell’ennesima botta di incompetenza della mia segretaria e, dandovi enfasi,
brucio la missiva nel fuoco del camino, incenerendo il semplice ricapitolo
della mia agenda.
Devo
andarmene subito da qui: subito.
Ho la mente
incredibilmente sgombra, nessun pensiero: saluti frettolosi, qualche moto di
protesta, un bacio di Ron, una serie di raccomandazioni materne, una battuta
scherzosa.
Tutto scivola indifferentemente
fuori dal mio campo visivo, annuisco a tutto senza nemmeno rendermi conto di cosa
sto facendo o dicendo.
Non conta più nient’altro.
Nessun’altro:
torno un attimo in me
pensandolo, sull’uscio di casa, mentre Ron mi ha seguito e, con un afflato di
cupa disperazione masticata sotto le palpebre, mi tiene per un braccio,
guardandomi con un’ombra di lacrime negli occhi azzurri: “Non andare”.
“Non posso” mormoro,
distogliendo il viso da lui, tornando alla pioggia, al cielo nero, alle nuvole
bagnate di luna morta.
Scivolo dal suo braccio,
corro sotto la pioggia, i passi amplificati dal silenzio.
Non
conta nessun’altro: ora, adesso. E d’improvviso so che, non so quando, era così.
Ed
è impossibile, come tutto.
Ma
non mi importa. Nulla importa.
Né
la pioggia, né il cielo, né le case illuminate dal fuoco, né le risate dei
bambini, né i baci dei mariti: non conta più niente.
Sono
tutte paccottiglie di poco valore.
Conta
solo… che devo trovarlo. Devo trovare Draco. Ora, adesso.
Devo
dirti ogni parola che ha cercato nelle mie lettere.
E
che non ha trovato.
Devo
essere con te. Ora, adesso.
…
perché mi fido più di te che di me stessa.
E
perché ogni goccia del mio sangue vuole che sia lo stesso per te.
Perché
so che, non so quando, anche per te era così.
Non
avrebbe saputo descrivere quella sensazione.
Per
quanto interrogasse la memoria, per quanto vagasse alla ricerca di una similare
emozione, Hermione Granger, 36 anni compiuti, non ne trovava nessuna simile nel
suo bagaglio sentimentale: certo, rassomigliava a tantissime cose, ma nessuna
era adeguatamente precisa, ognuna di esse lasciava fuori qualcosa,
delimitandosi come manchevole, ingannevole, difettata.
A
volerle proprio dare un nome l’avrebbe chiamata angoscia: non era nemmeno ansia
che è qualcosa di meno palpabile e ha a che vedere con il cuore, con battiti
furiosi, con respiri mozzicati che davano maggiormente di romanzo e poesia.
No:
era piuttosto angoscia e si coniugava alla perfezione con il sudore che
impregnava i vestiti, gemendo bollente sulle braccia, sulla pianta dei piedi.
Risaliva dalla parte più bassa della schiena e, ad un quarto di pelle alla
volta, guadagnava terreno erodendo la calma, la ragione, persino la coscienza,
perché le pareva di camminare attraverso un sogno, liquido, sottile, nebuloso,
dove ogni cosa era lentissima e le scorreva davanti senza che la potesse
afferrare, mentre perdeva consapevolezza di sé ad ogni passo, come sotto
l’azione di un narcotico che lentamente faceva effetto.
Ed
in tutto questo lei sapeva fare solo una cosa.
Correre.
Credeva
di non saper correre: non era mai stata propriamente un’atleta e, quando erano
nati i suoi figli e si era trattato di recuperarli, i banalissimi incantesimi
di Appello erano stati una manna dal cielo. Di natura aveva un’andatura veloce,
un po’ saltellante, baldanzosa come la bambina che era stata: ma non sapeva
correre, persino in guerra nella maggior parte dei casi c’erano state scope,
draghi o Ippogrifi.
Invece,
in quel momento, correva come se fosse inseguita dal diavolo in persona: non
sentendo niente, nulla di diverso dall’angoscia gracchiante dentro le ossa di
non sapere dove fosse.
Negli
sprazzi rari che miracolosamente preservava di ragione, immaginava scenari raccapriccianti,
era ferito, era morto, era triste, era altrove: e lei non era con lui. E
allora, senza alcun retaggio di affetto che lo spiegasse, le pareva di
impazzire, era lenta, lentissima, doveva sbrigarsi, doveva fare presto.
Doveva
smaterializzarsi, rivolgersi alla Magia, sparire e riapparire come un coniglio
in un cilindro.
Ma
persino quei tre secondi di concentrazione erano troppo, non poteva fermarsi a
pensare per il tempo sufficiente che non era altro che un tempo sottratto,
rubato, scippato al momento in cui poteva dirlo al sicuro. Proseguiva quindi a
piedi, trafelata, accaldata, galoppando sulle pozzanghere come un animale che,
dopo una vita di lazo, conosceva la via libera.
Eppure
diluviava, eppure aveva un aspetto orribile, eppure era zuppa fino al midollo,
eppure il viso le si impastava di lacrime, mascara e pioggia: eppure non
importava.
Avrebbe
voluto pensare che quella era una bella novità, che il suo cervello facesse
cortocircuito e, dissennata, conoscesse una dimensione puramente irrazionale di
sé stessa, dilatata probabilmente dal senso di colpa per aver infierito su di
lui quando era inerme e devastato. Se avesse creduto che fosse questo, non ci
sarebbe stato niente di male.
Ma
assieme all’angoscia, conosceva anche la scomoda certezza che questa, ad un
certo punto della sua vita, fosse stata un’abitudine. Una consuetudine. Una
ricorrenza. Un loop continuo nutrito di centinaia di episodi.
Perdere
ogni controllo della ragione quando si trattava di lui, di Draco Malfoy.
E
se ci pensava, era peggio: lei, più di Harry e Ron, era sempre stata
profondamente obiettiva con Malfoy. Quando mai era stato così? Non era mai
accaduto.
Ed
allora era di nuovo tutto inedito: correre, cercarlo con il cuore in gola,
terrorizzata di non trovarlo. Spiare le luci accese, le finestre spente, le
porte chiuse, gli scuri accostati, e non trovarlo.
In
un punto molle, incerto, dentro, sentire che, se non lo cerca lei, non lo cerca
nessuno, evapora dal mondo, si liquefà e nessuno se ne rende conto se non lo
salva lei.
E
di nuovo i pensieri sono dorati: oro come di occhi di gatto.
In
realtà, Hermione Granger, 36 anni, in quel momento pensava molto poco: e meno
lo trovava, e meno pensava. Tutto questo lo avrebbe pensato dopo, ere dopo.
In
quel momento, pensava solo che lui non c’era, non era lì ed annegava in quel
pensiero.
Cercò
in ogni posto dove pensava potesse essere, ogni posto che lui potesse chiamare
casa.
Non
lo trovò.
Quando mi Smaterializzo
nella strada di casa, sono le due del mattino e non ha smesso un secondo di
piovere. Le strade sono deserte, mezze allagate, abbandonate persino da
tassisti e barboni. Risuonano solo tuoni ed echi di pioggia. Sollevo pigramente
il viso verso il cielo chiudendo gli occhi e lasciando che, ancora, la pioggia
mi cada addosso senza che provi minimamente a metterci un freno.
Del resto sarebbe
abbastanza inutile: il cappotto nero è completamente fradicio d’acqua, senza
parlare del cappello, della sciarpa e persino della mia camicia.
Sono talmente stravolta
però che non sento nemmeno freddo, mi trascino senza alcuna fretta per i pochi
passi che mi separano da casa mia. Non ho alcuna voglia di entrare, non ho
nemmeno voglia di cambiarmi i vestiti zuppi, farmi un bagno, prepararmi una
tisana.
Non ho voglia di fare
assolutamente nulla, se non restare fuori sotto la pioggia persino per tutta la
notte: il pensiero mi spaventa non poco, esaurito il sacro fuoco che mi animava
fino a pochi minuti fa. Accelero quindi il passo, scuotendomi mentalmente e
preparandomi ad una nuova serie di scuse, qualora Ron sia ancora sveglio. Non faccio altro che inventare scuse oramai.
Non crederà mai alla storia dell’ufficio se mi vede in questo stato. Certo,
posso asciugare i vestiti, posso rassettare i capelli, posso raccontare di Leda
e del tormento che mi dà.
Incrocio il mio sguardo
nel lunotto posteriore di una macchina parcheggiata, sono gli occhi che non posso nascondere più. Nel riflesso, con una
fitta cupa di terrore, non riconosco il mio viso: è terreo, consumato, quasi
scavato, magrissimo e trasparente tutt’un tratto. Le palpebre pesanti, gli
occhi sono cerchiati, fatico a tenerli aperti. E sono vuoti, distanti, persi.
Solo
perché non ho trovato Malfoy.
E
perché non sapevo che era morta sua madre e l’ho assillato per giorni.
La cosa sembra minuscola a
pensarla, ma è un tonfo continuo a percepirla. Ancora, non so che volessi da
lui, se chiedergli scusa, se confortarlo, se controllare come stesse. Non lo
so.
E, ancora, non mi
interessa, fosse pure un effetto di questa maledizione. Non l’ho trovato da
nessuna parte e tanto importa: Malfoy Manor, Ministero, laboratorio
pozionistico, cimitero, casa di Zabini, casa della Parkinson, casa di Nott,
casa di Goyle, casa dei Greengrass senior, persino casa di Bill e Fleur,
qualora fosse andato da Teddy. Ho cercato in ogni posto che mi venisse in
mente, ma non è da nessuna parte, sebbene al Manor c’erano sia sua moglie che
suo figlio.
Protetta dal Mantello di
Harry, trafugato ancora di nascosto, ho visto Astoria entrare nella camera
della compianta Narcissa e ciarlare ad alta voce su come utilizzare quella
stanza, ingiungendo ad un elfo domestico di “far sparire tutta la robaccia di quel cadavere ammuffito”.
L’ho Schiantata da sotto
il Mantello, fuggendo due secondi dopo. Non penso che mi abbiano scoperto, ma
anche se fosse, sarei persino capace di vantarmene a voce alta: è una donna
orribile. Si merita ogni bernoccolo che le è venuto fuori.
Il panico nel non
trovarlo, alla fine, si è accucciato in una specie di inerzia: ho passeggiato
pigramente nel parco deserto, osservando la pioggia che tratteggiava i coni di
luce tra gli alberi, finché con un enorme sforzo ho deciso di tornare a casa.
Quando arrivo di fronte
alla mia palazzina, la osservo a lungo come se celasse una sorta di segreto,
una macchina passa a tutta velocità, urtando una pozzanghera e finendo per
infangarmi ancora di più i piedi. Ancora, non ci do minimamente peso, nemmeno
per insultare lo sconosciuto pirata della strada. Ogni forza vitale pare
succhiata via e drenata dal velluto nero della notte.
Le finestre sono tutte
spente, nessuna testimonia che qualcuno sia sveglio: spero quindi che Ron sia a
letto o, ancora meglio, che sia rimasto dai suoi, pronto a lamentarsi con i
suoi parenti della sua sempre assente moglie. Non c’è alcuna acredine nel mio
pensiero, spero davvero che sia così e non solo per non incrociarlo, ma anche
perché merita uno sfogo qualunque alla malinconia indefessa che sembra essersi
così acclimatata al suo sguardo ogni volta che incrocia il mio.
Allo stesso modo, spero
con quella sorta di licenziosa condiscendenza che noi genitori riconosciamo
all’infanzia, che nemmeno Hugo sia qui o che comunque non sia granché accorto ed
impensierito della mia assenza. Imposto già il mio passo come fluido, silenzioso,
quatto, sebbene sono certa che, se sono in casa, comunque finirò per svegliare
almeno mio marito con tutte le mie manovre, dovendo quindi spiegare qualcosa
per cui, come sempre da un po’, ho solamente scuse, bugie e frottole, nessuno
straccio di verità.
La
verità non la voglio sapere nemmeno io del resto: non c’è niente di sano e di
normale in questa “cosa” in cui mi sono trasformata.
Attraverso la strada a
passi lenti, aprendo con cautela il cancelletto di casa, cercando di non farlo
cigolare nel silenzio completo: ovviamente, indisciplinato, esso stride come le
unghie su una lavagna. Lo richiudo con rabbia, attendendo il clic metallico.
Percorro il breve
vialetto, constatando che anche a casa di Harry è tutto tranquillo. Mi chiedo
se lui è tornato in tempo per la festa di Fred, se Ginny gli ha detto che sono
andata via per lavoro, se lui allora ha aggrottato la fronte con una vena di
sospetto, o se invece è stato come sempre accomodante, giustificandomi e
difendendomi all’indirizzo della platea famigliare.
Sospiro a quel pensiero, ed io gli ho rubato di nuovo il Mantello
dell’Invisibilità.
E
per cosa, poi?
Faccio appena in tempo a
cominciare a pensare a come restituire domani il Mantello senza che i miei
cognati se ne accorgano, che improvvisamente nel silenzio scrosciante della
notte, noto qualcosa di diverso. Di strano, di stonato. Come una specie di presenza impossibile da ignorare che schiaccia tutto
il resto contro le pareti, annichilendolo. I miei sensi si mettono subito a
caccia dell’intruso, individuando un’ombra sotto il portico di casa mia che, al
mio approssimarsi all’ingresso, si deve essere risollevata in piedi.
Con una punta di nervosismo,
afferro la bacchetta dalla tasca del mio cappotto, non penso nemmeno per un
secondo che si tratti di Ron, l’ombra è troppo alta perché si tratti di lui. E
non è nemmeno nel suo stile attendermi sull’uscio; piuttosto sarà a letto,
orecchie scarlatte, a fingere sbuffando di dormire. Potrebbe essere uno dei
soliti ubriaconi che, da un pub vicino, poco lucidi e privi di freno si
intrufolano nelle proprietà altrui. Non è certo la prima volta che ne Schianto
uno.
L’ombra si muove ancora, scende
un paio di gradini, rimanendo poi immobile, quasi in attesa, dandomi
l’implicita conferma che aspetti proprio me e che quindi la sua permanenza
nella mia proprietà non sia casuale.
Un calore condensato al
basso ventre come la puntura arroventata di un’ape e fulmineo, istantaneo, come
una specie di intuizione che non so da dove venga fuori, il braccio lascia
cadere la bacchetta che atterra con un tonfo sordo in una pozzanghera, accanto
alla corda che Hugo usa per saltare.
Il cuore mi batte in gola
come se effettivamente mi fosse salito quasi alle labbra.
La pelle del mio collo si
tende cercando di trattenerlo, pulsano gelide le vene bluastre, mentre gli
occhi corrono lungo il viale d’ingresso che porta a casa mia. Non è molto
lungo, poco distinguibile nel buio setoso di questa notte strana, resa ancora
più avvolgente dalla mancanza di stelle e luna. Le nuvole continuano a
borbottare.
Solo la luce di un
lampione mi permette di distinguere qualcosa.
Un’ombra, solo un’ombra immobile,
sotto il portico di casa mia.
Un’ombra che può essere
tutto e può essere niente.
Un’ombra inghiottita dal
buio.
Un lampo brusco la rende
del tutto evidente ai miei occhi che pure ne avevano già intuito i contorni e i
confini. Ma il lampo non ha nulla della delicatezza sobria del lampione, è uno
squarcio aperto nella memoria e nel cuore che mi violenta i sensi, le membra e
l’anima.
In un secondo mi dà
un’immagine netta e precisa, poi l’inghiotte di nuovo nel buio misericordioso del
lampione e della notte torbida.
D’improvviso, sento tutto, torna ogni stralcio di sensazione
seppellita nella narcosi della corsa: è una notte fredda, ghiacciata, solo un
paio di gradi sopra lo zero. Gli abiti sono completamente bagnati, ho una
ciocca di capelli zuppi che si è infilata nella nuca, sotto il cappello, gronda
gocce d’acqua lungo la schiena, facendomi rabbrividire ad ogni respiro. Le
calze nelle scarpe sono anch’esse bagnate, fanno un rumore strano quando
cammino. Mi viene da starnutire. Ho il fiatone, si condensa in volute di vapore
davanti al mio viso arrossato. Ho il naso gelido, le labbra ruvide si spaccano
per il freddo. Sono esausta, nelle gambe i muscoli sono tesi fino allo spasmo, sembrano
corde di un violino ben accordato, ad ogni movimento minuscolo mi trafiggono
come lame di metallo. Tuona, lampeggia, il cielo vomita pioggia ininterrotto,
crudele, rapace.
Sento daccapo tutto, come
se fossi stata addormentata da quando Fleur ha parlato, sonnambula nella sua
ricerca spasmodica in ogni angolo della città. L’assurdità della cosa mi si
ripropone innanzi, vedo dall’esterno il mio aspetto e so che è terribile,
indecente, vergognoso.
Il viso mi avvampa di
calore, penso che sicuramente ho il naso arrossato dal freddo, i capelli a nido
di vespa, l’aspetto di una derelitta: sento di nuovo la cura propriamente
femminile di non sentirmi a posto, al meglio.
Alla fine sento anche la
sua voce, rompe nel silenzio come un tuono, sebbene sia acuta, acidula,
sgraziata. Non pare la sua. Ci conto ogni lacrima repressa dentro, le sento una
ad una. Le distinguo in ogni oscillazione delle lettere delle parole, per come
tremano, galleggiano, ondeggiano, si smorzano quasi. Ha la nettezza di un urlo,
ma è solo un sussurro al cianuro, velenoso, amarognolo, tenuto a malapena fermo:
“Eccomi, Granger, dannazione. Hai finito con le tue lettere?! Hai finito?! Eccomi, maledetta strega
idiota. Eccomi, parla, parla
maledizione. Che cosa diamine vuoi?”.
Draco finisce di parlare e
chiude i pugni lungo i fianchi, mastica le labbra, non mi guarda più. Piange
solo della pioggia che cade, la insegue con gli occhi, la sfugge
socchiudendoli, la rincorre di nuovo tornando a me e la benedice per mettermi a
distanza, muro d’acqua e vento.
Le sue parole arrivano
alle mie orecchie soffuse, incerte, vittime addormentate di qualcosa che non
capisco: ed anche se ci sento la rabbia, il dolore, la furia a cui vorrebbe
destinarmi, di nuovo non importa. Forse sento d’improvviso che non è vero,
sento che sta mentendo, sento che voleva solo una scusa: o forse sento che la
privazione finisce, sento che è qui, Draco è qui, ce l’ho davanti, è qui, sotto il portico di casa mia, ed
è bagnato dalla testa ai piedi, trema nel cappotto grigio, digrigna i denti, è qui, e ha ancora gli occhi asciutti e
rossi, ha i pugni chiusi, le labbra bianche che si mangiano tra loro. È qui, ed è piccolo piccolo, come un
ricordo lontano di un bambino biondo su un’altalena dentro un sogno, ha le
spalle piegate, curve, si spezza, si accascia ad ogni respiro, si piega sul mio
portico, è qui, la mia porta di casa
è lì dietro, e dietro ci dorme mio marito, mio figlio, dormono tutti e due, e
lui è qui, l’ho trovato, mi ha trovato, mi posso mangiare le parole che gli ho
detto, me lo posso ingoiare una per volta, veleno e fiele, e prendermi un po’
del dolore suo, farlo mio, addormentarglielo nel petto, cucirmelo nelle ossa
così se ne dimentichi un po’, sparisca, svanisca: penso tutto questo, in ordine
sparso.
Ma penso solo una cosa, in
fondo, solo ad una.
E’
qui, l’ho trovato: Draco è qui. E
mi sveglio tutta a me stessa in quel pensiero, nel sollievo che è miele,
balsamo, medicina. E svegliarmi significa solo che corro, di nuovo, daccapo,
anche se sono pochissimi passi e, quindi, per il contraccolpo, gli faccio forse
anche male.
Gli corro contro, addosso,
gli corro incontro, distinguo solo per un attimo i suoi occhi grigi che si
spalancano sgranati, perle e diamanti che si inseguono nella pioggia che
scende: ma è un attimo, un attimo solo, un attimo minuscolo.
Lo abbraccio, lo stringo a
me come se temessi che mi sfuggisse, come se temessi che me lo strappassero
via, come se temessi che scappasse di nuovo, quindi la mia stretta è forte,
soffocante, da mancare il respiro e farlo bloccare nel petto. Incrocio le
braccia attorno alle sue spalle che tremano ancora un po’, è più alto di me, lo è sempre stato, e quindi affondo il
viso nello spazio tra le clavicole, sotto il suo collo. Ha un odore buono, di
pioggia e di erba bagnata, anche se piove dappertutto, niente ha questo
profumo, penso che lo riconoscerei dappertutto, dovunque. Ed anche se come me è
completamente bagnato, il suo corpo è caldo, incomparabilmente caldo.
Non assomiglia a niente di
ciò che ho conosciuto fino a questo momento, eppure ha qualcosa di
incredibilmente familiare, ridondante: le mie braccia sanno istintivamente la
lunghezza della linea delle sue spalle, sanno stringerle e cingerle senza
spigoli. Le mie dita sanno intrecciarsi tra loro sulla sua nuca, lasciando i
gomiti tesi a mettere distanza che vorrebbe solo essere riempita, ma che lascia
che lo faccia lui. La parte finale della mia schiena sa la forma delle sue mani
su di essa, se mi spingesse contro di lui, anche se adesso non lo fa.
Sussulto, tremo, resto a
respirare nel suo collo, in quel punto tenero dove sento echi del cuore, fischi
del respiro, rimbombi della gola. Mi coglie una fiacchezza indolente che mi
chiude gli occhi, come se la stanchezza della notte fosse tutta lì, adesso.
Draco resta rigido,
immobile, come una statua di sale. Non accenna a nessun movimento, non fa
niente, per un momento pare persino che non respiri. Vedo ancora con una parte
della mia mente i suoi occhi aperti, spalancati, come due fari accesi nel buio.
Come una sorpresa. Come una certezza.
Quale delle due cose sia, non lo so nemmeno io. È lo stesso anche per te?
Temo che mi cacci da un
momento all’altro, temo di disgustarlo, temo che mi scuota bruscamente e mi
mandi via, e allora piango, singhiozzo nel suo petto quelle lacrime che non gli
ho visto piangere. Mi affanno a spiegare, a spiegarmi, a farmi capire. La mia voce contro il suo petto è
nuova, è vecchia, è antica, è un mistero sussurrato diluito dalla pioggia:
sebbene pianga a grandi lacrime, è ferma, scolpita, altisonante. Bisbiglia
direttamente alle costole, allo sterno, al muscolo palpitante che pompa il
sangue.
“M-mi dispiace, mi
dispiace Draco, mi dispiace. I-io, io non sapevo di tua madre, mi dispiace. Ti
tormento da giorni, da settimane… e tu… e tu i-invece… nessuno… nessuno m-mi ha
detto nulla. Nessuno. M-mi dispiace… m-mi dispiace. Solo stasera… solo
s-stasera Fleur me lo ha detto… per c-caso… è stato un c-caso. E sono venuta… a
c-cercarti… è tutta la notte che…”. Inghiottisco le ultime parole, l’improvvisa
immagine di me folle, pazza, che corro a cercarlo sotto la pioggia in ogni
posto che conosco, mi annebbia la vista cieca, occhi chiusi, palpebre serrate
nel suo profumo.
Draco, che è rimasto
inerte da quando l’ho stretto a me, ad un tratto si irrigidisce, raddrizza la
schiena, diventa più alto, immenso, superiore. Promana qualcosa che, come
un’onda rovente, mi fa vedere di nuovo dall’esterno, abbracciata, stretta a
lui, in quel modo così saldo da non avere precedenti con nessuno nella mia vita
che non conoscessi meno che a menadito.
Arrossisco furiosamente
come una stupida adolescente, vittima del mio stesso annebbiamento, e ringrazio
per poco di essere invisibile ai suoi occhi perché lui, con una delicatezza
dolcissima che mi spinge di nuovo a sentire gli occhi pungere, mi stacca il
viso da sé per potermi guardare negli occhi.
Le palpebre mi ballano
sotto il peso della pioggia battente, ma lo vedo finalmente bene in viso: colgo
ogni segno del dolore che gli taglia a fette l’espressione, deformandola e
scavandola. Vedo quelle rughe più profonde, vedo i segni dei giorni in cui non
ha mangiato, vedo il peso di quelle lacrime che non piange. Ma gli occhi no,
gli occhi sono brillanti, vivaci, sembrano schegge d’argento. Hanno persino un
fondo di malizia, mentre la sua mano resta ferma sul mio viso a trattenermi, un
pollice sotto il mento a tenerlo alzato.
D’un tratto, mi studia, mi
guarda come non ha fatto prima, come non so se abbia mai davvero fatto. Non
così, non con quegli occhi che cercano, scavano, cercano ancora. Aggrotta le
sopracciglia, si raggrinzisce lo spazio in mezzo agli occhi. Vede il trucco
colato sulle guance, i capelli bagnati, le labbra raggrinzite che sanguinano, i
vestiti completamente zuppi. La fronte si spiana, ripiana, liscia, e di nuovo
gli occhi si spalancano, sgranano, gli sfugge un sospiro che casca sulla mia
bocca, sa di menta e limone, inconsciamente socchiudo le labbra, me lo faccio
scivolare in gola. Mi guarda ancora, pare non crederci ancora a quello che sta
per dire, le dita roventi sul mio viso freddo hanno un fremito, solleticano
quasi la pelle, mentre sussurra meravigliato, attonito, perso: “Sei venuta… a
cercare me, Granger?”.
Accentua quel me come se lo staccasse dal resto della
frase, lo tratta da pronome ininfluente, indegno, miserrimo. Mentre lo
pronuncia, la pressione gentile delle dita sulla mia guancia diventa più salda,
gli occhi perdono quasi la presa dei miei, paiono lontanissimi.
Per un attimo, non riesco
a rispondere, non riesco a dire nulla.
Resto immobile, occhi nei
suoi, solo con la pioggia nelle orecchie.
Dentro, come un cercatore
di tesori, mi riprendo il me che lui
ha buttato fuori così, come se fosse una cosa poco importante: me lo incastono
fisso in un margine nascosto di me stessa.
Poi allungo la mano a
coprire la sua, ancora poggiata sul mio viso, ed annuisco piano con il capo.
Non riesco a vedere la sua
reazione, sparisce davanti ai miei occhi.
Altre immagini sostituiscono
la sua vista: ma non scompare.
E’
di nuovo lui, altrove.
Mi si
stringe il cuore in una morsa ghiacciata e faccio quasi di corsa quei pochi
passi che mi dividono da lui, afferrandolo per la manica del pigiama. Un volo
folle e disperato, dove ogni cosa mi sembra possibile.
Posso curare le tue ferite, medicarle, fare in modo che tu senta meno
male e che possa riprendere a sorridere. Sorridere di quel sorriso obliquo
e imperscrutabile, eppure più sincero di quello facile di Ron o di quello
prevedibile di Dean.
Posso starti vicino anche in silenzio, senza dire nulla, anche
se sai quanto vorrei farti tante domande e avere tante risposte.
Ma mi imporrò il silenzio se a te piacerà e ammanterò tutto il mondo
di silenzio, se me lo dovessi chiedere.
Posso continuare tutta la vita a non pretendere niente di più che avere
te accanto, nemmeno averti vicino se per te sia troppo, posso
vivere così per sempre, anche avendo solamente te e Serenity e
considerarmi comunque la donna più felice del mondo.
Posso prometterti tutto questo, oggi, adesso, domani, per sempre.
Ma ti prego, Draco, non piangere più… ti prego… stavolta ti capirò.
Oppure lo stesso non ti capirò, ma ci sarò lo stesso.
Ti prego non piangere più…
“Draco...” lo chiamo piano, lui che resta a testa
bassa, i suoi singhiozzi amplificati dal silenzio del ristorante.
Lo scrollo piano, cercando di richiamare la sua
attenzione, ed è allora che, in un secondo velocissimo, che mi afferra a sua
volta per il pigiama, aggrappandosi saldamente a me, ma con troppa forza.
Infatti, scivola in ginocchio e io assieme a lui.
Mi ritrovo seduta per terra, lui che piange su di
me, la testa china sulla mia spalla. Lo abbraccio di slancio, allacciandogli le
braccia attorno alle spalle, sentendo che sto piangendo anche io,
senza un perché, per il solo fatto che stia piangendo anche lui. Le sue lacrime
scivolano sul raso del mio pigiama e vorrei che invece le assorbisse, le
trattenesse fino a farle sparire, fino a cancellarle, fino a quando lui stesso
non le senta più sue e torni ad insultarmi, a prendermi in giro, a
fare qualsiasi cosa purché sia più felice, allegro di come è adesso. Non posso sopportarlo. Non riesco nemmeno a
respirare se stai così. Ti prego, Draco.
Quando
le immagini scompaiono, il contraccolpo stavolta è così intenso che mi pare di
essere risucchiata via da una sorta di vortice, come se mi tirassero le braccia
e le gambe in due direzioni differenti: mi aggrappo alla manica del cappotto di
Draco, chiudendo gli occhi e cercando di frenare le vertigini e la nausea che,
come da veneranda tradizione, mi sta sconquassando lo stomaco. Con la visione
periferica che preserva un lieve spiraglio dalle mie palpebre socchiuse, vedo
Draco che, a sua volta, si regge alla mia spalla, stringendola piano, affondando
le dita nella trama umida dei miei vestiti, cosa che mi dà conferma che per
l’ennesima volta ha vissuto anche lui la stessa cosa.
“E’
successo di nuovo…” bisbiglia la sua voce sofferta e incerta, travalicando di
poco il suono della pioggia, le sue dita hanno un sussulto sulla mia spalla che
si trasmette ai miei nervi, facendo formicolare tutto il mio braccio fino alla
punta delle dita.
Quando
giudico la mia testa abbastanza incardinata in sé stessa da non farmi perdere
l’equilibrio, mi azzardo ad aprire gli occhi con cautela, respirando
profondamente. Tutt’attorno non è cambiato niente, è ancora la stessa strada di
casa, la stessa porta con la corona di bacche rosse ed il fiocco arancio, il
vento culla la pioggia e la soffia sul mio viso di fredde frecce ghiacciate:
eppure, stranamente, tutto pare slavato, sbiadito, come quando cala una patina
appiccicosa sugli occhi e si deve sbatterli a lungo, più e più volte, per far
tornare la visione limpida.
Pare
tutto il retaggio rigido e offuscato di un’allucinazione, mi sembra di
galleggiare sulla melassa.
Come
già precedentemente era avvenuto, i colori e i suoni della visione o del
ricordo o del maleficio o di quello che dannazione è, sono invece nitidi,
intensi, vividi e, per effetto plastico, anche quello precedente che ho
rivissuto la notte di Natale sembra acquisirne calore, splende più netto nella
mia testa come una specie di puntino luminoso.
Non
mi concentro sul suo contenuto adesso, sbatto di nuovo le palpebre per far sì
che la lanugine visiva passi e tutto torni reale, concreto, tangibile come
sempre è stato. Pare un’immagine sintonizzata male, come una specie di film
dato su una rete televisiva dal pessimo segnale.
La
sola cosa che, come prima, come adesso, come in ogni luogo, è chiara e
distinguibile, è il viso di Draco Malfoy, lievemente abbassato sul mio, attento
a scrutare ogni espressione del mio viso, compresi i tentativi di strabuzzare
gli occhi e vedere in modo pulito.
Lo
guardo a mia volta e la limpidezza nitida del suo sguardo mi riaggancia in me
stessa, facendomi respirare daccapo.
“E’
successo un’altra volta…” ripete con voce sottile, la mano sulla mia spalla
stringe un po’, rabbrividisco incerta e mi passo una mano nei capelli bagnati,
lasciando la manica del suo cappotto. Nello sguardo che mi mette in disordine
la testa, leggo un sottofondo subliminale che non faccio fatica a riconoscere
in quelle iridi che quasi profumano, è la sola persona al mondo che ha uno
sguardo che profuma di qualcosa.
Non
sta pensando solo che è la seconda volta che ci succede questo strano fenomeno.
No.
Sta pensando che, anche
in quel ricordo, ero con lui e mi prendevo il suo dolore, facendo di tutto
perché non restasse solo a lui, ma venisse un po’ via con me.
Cerco
di ignorare tutto il resto, mi sento troppo ingolfata per analizzare il
contenuto delle immagini e farne delle supposizioni a riguardo: i miei occhi si
incanalano diligenti al presente, al suo viso smagrito, agli occhi gravati
dalle palpebre viola, ai vestiti che pendono bagnati e disordinati, come se li
portasse da giorni.
Torno
con la testa alle mie lettere, dove gli ingiungevo che non c’era nulla di più
importante di questa maledizione che ci aveva colpito: adesso voglio che sappia
in ogni modo che non è così.
Perciò,
estrometto dalla mia testa ogni traccia della visione e dico convinta,
sollevando il mento e guardandolo dritto in viso: “Adesso non dobbiamo pensare
a questa… cosa… qualsiasi cosa sia… da quanto non mangi? E dormi
decentemente?”.
Draco
sbatte le palpebre, si stacca da me rapido e fulmineo, per poi fissarmi come se
fossi una specie di bestia strana, il capo piegato di lato. La cosa mi
intenerisce e mi riporta alla mente quella strega di sua moglie che ho
Schiantato solo poche ore fa.
Provo
di nuovo un’acuta soddisfazione al pensiero della Greengrass carponi sul
pavimento, lui non sa nemmeno che cosa significa che qualcuno si prenda cura
di lui. Astoria Greengrass può vincere il titolo di Moglie dell’Anno per sedici
anni consecutivi.
Questo stupore ne è la
prova evidente.
Il
suo sguardo mi mette in imbarazzo, facendomi sentire a disagio e ricordandomi
che sono ancora davanti alla porta di casa, con lui di fronte, mentre mio
marito probabilmente è dentro con nostro figlio. E pochi minuti fa l’ho
abbracciato e stretto forte, piena di sollievo per averlo trovato.
Distolgo
lo sguardo da lui, allontanando i capelli bagnati dalla faccia e borbottando: “Se
vuoi, se non è troppo per la tua regale Maestà… in ufficio… ho qualcosa da
mangiare e… persino una brandina”.
“Dio,
Granger…” mormora lui con la voce incolore che però si tinge di un lieve velo
divertito “E’ un’offerta davvero allettante… sono così patetico
al momento da accettarla… pensa un po’ te quanto questa sia davvero una
circostanza eccezionale… di vita o di morte…”.
Mio
malgrado, sorrido al buio, non riuscendo ancora a guardarlo in viso.
Prima
di Smaterializzarmi seguita da lui, faccio in tempo a distinguere poche parole.
Gli
sfuggono rapide, nervose, veloci, così che possa darmi modo di fingere di non
averlo sentito.
Sorrido
di nuovo, nello strappo che mi lacera all’altezza dell’ombelico.
Le
consonanti e le vocali del mio nome, nella sua voce, sono un suono inedito.
Ma,
di nuovo, sapevo perfettamente come le avrebbe pronunciate, prima ancora che lo
facesse davvero.
E quel modo di
pronunciare il mio nome, non penso lo dimenticherò mai.
Hermione
Granger, 36 anni, lo aveva guardato tutta la sera come se fosse un alieno, come
se fosse una specie di extraterrestre biondo che si muoveva tra le sue cose,
apparendo estraneo alle cose più comuni come se non gli fossero mai appartenute,
come se vivesse in una dimensione diversa e distante dove quelle cose fossero
pratiche indistinte di vetusti costumi dimenticati.
Il
tratto distintivo del viso, sotto quel dolore e pena che erano come uno spesso
cerone che ricopriva i lineamenti soffocandoli, era un continuo ed ingenuo stupore
meravigliato: stranamente silenzioso, prosciugato dal lutto l’eloquio
sarcastico e velenoso, la seguiva con gli occhi grigi frastornati per i passi
che lei disseminava nell’ufficio, fingendo indifferenza e normalità, quando
invece sentiva la nuca, la schiena, il cuoio capelluto, perforati e punteggiati
da quello sguardo di acciaio.
Seduto
nella piccola brandina che lei utilizzava per riposarsi qualche ora a pranzo,
affondava quasi nel materasso che non era null’altro che una sfoglia di lana rancida;
impettito, con la schiena diritta a testimoniare un perdurante senso di distacco
dalla situazione, Draco Malfoy non mollava mai però quegli occhi di tempesta
rappresa, puntati sui gesti di lei.
Spontanei,
immediati, naturali, come se le appartenessero da sempre, come se ci fosse nata
dentro senza alcuna premeditazione o scatto di volontà.
Se
ne accorgeva anche lei, di istinto, mentre gli riscaldava della zuppa che aveva
preparato per il giorno dopo e pensava in modo automatico che, grazie al cielo,
non ci aveva messo le carote, dato che chissà per che motivo era certa che le
odiasse.
Forse
lo aveva captato ad Hogwarts, ma era un mistero perché lo ricordasse ancora.
Quando
si voltava a guardarlo, Draco Malfoy tratteneva una sorta di spasmo al centro
esatto del torace, chiudeva freneticamente le falangi sottili sul colletto
della camicia che portava sotto il maglione, come a liberare la gola da un
improvviso calo di ossigeno.
Gli
indicò il piccolo bagno se avesse voluto farsi una doccia, e di nuovo la sorprese
l’intimità di quella domanda come se non fosse che per anni si erano bellamente
ignorati: lui, grato, accettò e lei, con eguale gratitudine, ringraziò
mentalmente che non commentasse a riguardo.
Gli
asciugò gli abiti umidi con la bacchetta mentre era sotto l’acqua, comprendendo
che avrebbe rifiutato qualsiasi indumento avesse tirato fuori e che avesse
sospettato essere di Ron. Tirò fuori una coperta di lana che Molly le aveva
portato quando aveva scoperto che si addormentava spesso in ufficio. Finì di
riscaldare la zuppa e prima di appoggiarla sul tavolo accanto alla brandina, si
sincerò che non fosse troppo bollente o troppo fredda o troppo salata, come
avrebbe fatto con suo figlio. Si sedette lontana, distante, a gambe incrociate
sul pavimento, fingendo di leggere dei documenti, così che lui non traesse
eccessivo intralcio dalla sua presenza, qualora ogni tanto si ricordasse di
come si era ridotto per essere lì, con lei.
E
qualora volesse piangere: sicuramente non voleva essere visto in quello stato.
Difatti,
doveva aver pianto sotto la doccia, lontano dalla sua vista: diede la colpa con
un moto sbiadito di sarcasmo a quel “bagnoschiuma da mezza sterlina che sembra
acido muriatico”, ma Hermione sapeva che non era per quello che aveva gli occhi
rossi, gonfi. Accettò l’insulto alzando solo gli occhi al cielo, non doveva
aver pianto fino a quel momento, era felice che comunque si fosse riuscito a
lasciar andare.
“Era
la sola donna che io abbia mai amato… e che mai amerò…”.
Lo
disse così, come una specie di fulmine a ciel sereno: quando Hermione Granger,
attonita, distolse lo sguardo dal documento che comunque non stava leggendo,
Draco Malfoy stava mangiando la sua zuppa, serafico, apparentemente come se non
avesse mai parlato.
Avrebbe
detto solo questo su sua madre: e lei avrebbe trattenuto ogni parola che voleva
rispondergli per rassicurarlo, per dirgli che aveva ogni destino per poter
amare ancora.
Sapeva
che non era così e, giunti a quella inconsueta confidenza, era eutanasia non
mentire. La moglie era una stupida sciocca vanesia, da cui non avrebbe potuto
divorziare per non perdere suo figlio. Era anche sterile, quindi non poteva
avere da lei alcuna figlia da ergere a donna della sua vita. Non aveva sorelle,
cugine, probabilmente nemmeno amiche, se quella sera era lì.
E
comunque, travalicando le madri, le mogli, le sorelle e le figlie,
difficilmente poteva dare etichette di amore assoluto ad un’altra donna, visto
che pareva non essersi mai innamorato prima, sebbene sicuramente non gli
fossero mancate amanti di qualsivoglia tipo.
Provò
ancora quel sentimento inesauribile di tenerezza, compassione, pena, come una
specie di guizzo caldo che si contorceva nello stomaco. Non fece nulla, però,
sapeva che non avrebbe accettato nient’altro di tale senso nei suoi confronti.
Non
voleva ispirare pietà, non aveva voluto mai farlo.
“Credo
che accada quando… ci tocchiamo…”, stavolta fu lei a sorprenderlo, le parole
vennero fuori da sole per combattere quel silenzio fondo, intenso, rotto solo
dalla pioggia contro i vetri. La supposizione si era annidata nel tessuto del
cervello come un tarlo benefico, nato apposta per distrarla da tutto il resto,
compreso il nuovo ricordo fasullo.
Draco
Malfoy strinse le palpebre in un moto di riflessione, poggiò il piatto vuoto di
nuovo sul tavolino e annuì piano, pensosamente, con il capo. Aggiunse poi,
casuale, soffice, l’impronta innegabile di quella nuova intimità che smussava
le parole delle frasi: “… succede quando ci tocchiamo le mani… ci siamo
sfiorati anche in altri momenti… ma non è successo”. Le restituì uno sguardo curvo,
storto, obliquo, piegato dalle palpebre che ancora la scrutavano, la
sezionavano, la analizzavano come un mistero buffo.
Lei
si strinse nelle spalle, annuì, voltò il viso dall’altra parte: certo, ovvio.
Quando
lo aveva abbracciato, non era successo nulla.
Lui
suggerì di sperimentare subito la nuova teoria, lei ebbe una sorta di moto
istintivo di ribellione che la fece arrancare alla ricerca di una scusa,
dicendo che era tardi, che erano stanchi, che lui doveva riposare, che ne
avrebbero avuto tutto il tempo.
Per
tutta la risposta Draco Malfoy, da qualche ora un po’ più simile a sé stesso di
quanto non fosse stato da qualche giorno a quella parte, si alzò in piedi, le
si sedette di fronte sul pavimento, il volto enigmatico e privo di espressione.
Le porse deciso il palmo della mano, ingiungendo severo: “Muoviti Granger… sono
in cordoglio… non ho tempo per sopportare la tua ritrosia”.
Hermione
Granger, 36 anni, guardò quella mano bianca, dalle dita affusolate, immacolata
come se fosse fatta di neve, le pareva di guardare il serpente che, nel
giardino dell’Eden, offriva la mela ad Eva: pareva una tentazione marcia,
proibita, eppure la vedeva dolcissima, inerme, una specie di sfizio goloso da
togliersi velocemente e non pensarci più.
Si
ricordava adesso, senza nemmeno volerlo, la grana di quella pelle, il suo
calore, lo spazio preciso tra le dita, l’odore pulito che sarebbe rimasto sulla
sua: e con un afflato selvaggio che avrebbe definito la risposta alla sua
provocazione, tese il braccio, il viso aggrottato in un’espressione di sfida, e
poggiò la propria mano sulla sua, non lasciando un secondo i suoi occhi grigi,
terribili, inesausti.
Lui
fece in tempo solo a sospirare, a socchiudere lievemente gli occhi, a
racchiudere nella sua mano, più grande, le dita affusolate di lei. Ed accadde,
ancora.
“La smetti?!” urlo, rossa in volto per la rabbia e
la vergogna “Basta, mi sono stancata… dirò a Seth quello che mi pare e piace!”.
Mi giro bruscamente su me stessa per scendere le scale, ma, come era
prevedibile, vengo fermata da Malfoy. Mi afferra per il polso, costringendomi a
girarmi di nuovo. Sta ancora ridendo, riduco gli occhi a due fessure, volendo
fulminarlo sul colpo. Non lo guardo in volto, mi farebbe innervosire troppo, i
miei occhi trovano la mano che stringe ancora il mio polso. Non mi sta facendo
male, non mi dà fastidio, è solamente… appoggiata… lui sembra accorgersi del
mio sguardo e si stacca da me, sbattendo per un paio di volte le palpebre.
Si
staccarono ancora, come se fossero fuoco e ghiaccio, respirando a fatica. Ed
ancora Hermione Granger ebbe la scomoda sensazione che più le visioni fasulle
le entravano nella testa, più il mondo circostante perdeva definizione,
consistenza, pareva un cartonato di ombre.
“Bene…
dunque basta che non ci tocchiamo più le mani…” concluse Draco Malfoy con
ferocia, alzandosi in piedi e tornando alla brandina, non guardandola più.
Lei
rimase immobile, seduta ancora per terra, la mano ancora tesa verso un vuoto
che era la schiena che lui le dava, disteso, il volto contro il muro.
Come
poco prima, alla Tana, anche adesso non riusciva più a restare un secondo di
più in quella stanza, i cui colori, odori e rumori si diluivano come tempera
nell’acqua. Vide il suo riflesso nel marmo del suo ufficio e, finalmente, dopo
ore in cui si era concentrata solamente su di lui, tornò a sé stessa, agli
occhi stanchi ed infossati, alla mancanza di sonno, allo stomaco vuoto, ai
vestiti che le si erano alla fine asciugati addosso facendola tremare di
freddo, ai capelli spettinati e crespi, a Ron che non sapeva dove fosse, ad
Hugo che tra qualche ora avrebbe fatto colazione senza di lei.
Rimise
addosso il cappotto, il cappello, la sciarpa grigia, non lo guardò nemmeno,
uscì dal Ministero nella notte che iniziava a cedere il passo all’alba.
Una
caffetteria era già aperta, lasciò un messaggio in segreteria a Ron scusandosi,
bevve un lungo caffè nero bollente, mangiò una girella alla cannella, ignorò
ogni affacciarsi dei ricordi falsi nella sua testa e non fece più alcuna
supposizione a riguardo.
D’altronde
aveva ragione, bastava non toccarsi più le mani: nel chiarore grigiastro,
osservò le sue dita contrarsi e riaprirsi come un fiore carnivoro.
Rientrò
in ufficio quando era certa che Leda fosse già arrivata e che, di conseguenza,
Draco Malfoy aveva lasciato il suo nascondiglio di comodo per tornarsene a casa
sua.
Chiese
alla segretaria di non passarle alcuna telefonata per qualche ora, si chiuse a
chiave, si distese esausta sulla brandina, un braccio a pesarle sugli occhi,
mentre respirava con la bocca, come in apnea, per non sentire il profumo
lasciato di lui che era un continuo schiaffo, molesto, alla sua stupida
ingenuità di averlo voluto aiutare.
Quando
si voltò su un fianco, la mano urtò la superficie liscia e candida di un foglio
di carta.
Non
voleva farlo, non voleva: eppure, cieco il mondo, quando nessuno poteva
vederla, sorrise, si tirò diritta in piedi, sperò. E si fidò, di nuovo, di lui.
Non
sapeva fare altro.
Non mi importa
nulla di queste visioni, Granger, e non mi importa nulla di cosa dicono la
profetessa, l’empatica e pure il professore di Hogwarts. Sono un fottuto
scherzo idiota di qualche imbecille: e di conseguenza, visto anche il mio stato
mentale precario al momento, mi piacerebbe davvero sorvolarci su.
Posso vivere senza
sapere che cosa diamine siano: non è importante.
Ma, stranamente,
quello che penso io è sempre il contrario di quello che pensi tu, Granger:
guarda, non lo avrei mai detto, conoscendoci.
Ed anche quello
che fai tu, Granger, è il contrario di quello che farei io.
E tu stanotte hai
fatto quello che nessuno hai mai fatto per me proprio perché, grazie a Merlino,
non sei come me.
Ti devo almeno
questo e poi saremo pari, dannata strega.
Se per te è così
importante, verrò con te ad Hogwarts.
E verremo fuori da
questa storia.
Prendilo come il
favore che ti dovevo: e se obietti dicendo che ti sei già fatta una scarozzata
non gradita nella mia testa, ti Schianto all’istante.
DM
Anche
lui si fidò, di nuovo, di lei.
A
quanto pare, anche lui non sapeva fare altro.
NOTA FINALE: Come sempre, grazie a chi è ancora qui
e a chi c’è sempre rimasto.
Il capitolo 50, salvo imprevisti, sarà pubblicato
il 3 marzo 2019.
RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo
cinque anni di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da
Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass,
Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex di cui
Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere
ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare
Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà:
una donna di nome TatiaKrasova gli
aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di
lei, anche se Hermione, in quel momento, non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una profetessa, il cui nome era
stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i suoi amici giungono all’ultima
dimora di TatiaKrasova,
in Finlandia, dove era sposata con un uomo di nome IlaiRadcenko. A casa di Tatia,
Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci
anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e
Raissa. Tatia da sempre dotata di un
fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole
scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff,
specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato.
Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per
uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva
fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo
stesso interesse che gli aveva provocato Tatia,
altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome
dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in
Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa
straziante: Serenity chiama Raissa mamma.
Interrogando con il Veritaserum la bambina,
scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione
decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia
con Ilai, a cui la lega una complicità sempre
più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi
amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff,
compreso il presunto morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco
ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo
che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino. I due spariscono con il
bambino, con l’oscuro ultimatum di tre giorni per impedire che l’assimilazione
diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche
Alex. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio diIlai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita.
L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno
dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in
modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff,
Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo
figlio. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed
Hermione apprendono dall’Empatica Helder di
essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il
demone Adamar e gli Empatici. Non potranno
sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio,
se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che
li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e
distruzione dello Zahir e al ritiro dalla
prova di Adamar a cui si era sottoposto
Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili
vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutiodamnationis, lo
scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso
da Adamar nonché della sua stessa
esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione
disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto.
La Solutiodamnationis è
però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e
liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff,
in modo da eliminarli. Nel piano di Helder,
trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy.
La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro
due e per IlaiRadcenko,
che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per
ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene
siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli
qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi
alla Solutiodamnationis.
Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle
circostanze, restano assieme per la loro ultima notte. Al mattino, a causa
degli effetti del legame empatico tra lei ed IlaiRadcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo
verso di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso
unico, cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione
incontrano il demone Adamar e la sua
compagna di vita, Eva Dubois. La prova del
demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di
Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e,
secondo Adamar, avrebbero avuto quello che
davvero desideravano. Adamar li blocca
quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per
fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo
reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia
un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di
tornare indietro. La vita di Hermione e Draco è quella più classica che si
possa immaginare: lei è sposata con Ron e ha avuto Rose ed Hugo; lui invece con
Astoria da cui è nato Scorpius. I due, a parte lo
sporadico contatto al binario nove e tre quarti alla partenza dei figli per Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive un
matrimonio fatto di crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di
qualcosa di normale. Una sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley confessano alla famiglia di essere non solo
innamorati, ma anche in attesa di un bambino, motivo per il quale hanno deciso
di sposarsi presto. Ed è a quel punto che ricompare Draco, la cui famiglia ha
riallacciato i rapporti con Teddy e che è pertanto interessata
all’organizzazione del matrimonio. Hermione e Draco si rivedono quindi, e
sebbene alle associazioni di idee con la loro vecchia vita, lei provi nausea e lui
un dolore al petto, entrambi sono assolutamente ignari del loro passato.
Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del suo matrimonio, sfugge
alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua volontà anni prima di
uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per mancanza di tempo. Hermione,
in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto, attorno a loro, forze
misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme, l’onnipresente EvaDubois nascosta in mille fogge accomunate dal cameo
della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane,
apparentemente solo compagna di studi di Ginny, la
quale sembra conoscere qualcosa dell’intricata faccenda in cui si trova
Hermione. Emblematico, anche l’incontro con la rediviva Tatia,
in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto una figlia di nome
Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in Hermione. Specie nel
fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che nel mondo da cui
provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella
lettera prima di morire e che Hermione aveva incantato per non perdere). La
collana, in questo mondo, indica sempre il mare. Distrutta dal senso di colpa
per la sofferenza che ha indotto a Draco con le sue accuse, Hermione accoglie
il ritorno a casa per le vacanze natalizie della figlia Rose che le confessa di
essersi innamorata proprio del figlio di Draco, Scorpius.
La ragazzina, preoccupata della disapprovazione che il padre Ron potrebbe avere
per Scorpius, chiede l’aiuto della madre che glielo
promette calorosamente: la sera di Natale, però, durante un brindisi, Ron
rimarca l’ostilità aperta verso la famiglia Malfoy, finendo per discutere
pesantemente anche con Hermione, in aperta difesa di Rose che ne rimane molto
ferita. Hermione va via dalla Tana e, in preda all’istinto più puro, finisce a
casa di Draco, protetta dal Mantello dell’Invisibilità, per conoscere infine la
verità sul tentativo di omicidio di Silente e rendersi conto se l’affetto della
figlia, nonché di Teddy, siano ben riposti. Draco è completamente estraneo al
clima di festeggiamenti della vezzosa e frivola moglie Astoria: è infatti
chiuso nella stanza della madre Narcissa, gravemente ammalata. Nonostante
Hermione indossi il mantello che la rende invisibile, Draco si accorge della
sua presenza e i due hanno una lunga conversazione quasi amichevole, dove Draco
ammette che non avrebbe mai ucciso Silente e Hermione, con sua somma sorpresa,
non ha alcuna difficoltà a credergli, sentendo una continua fiducia nei suoi
confronti che non riesce a spiegarsi. A suggello del momento, Draco ed Hermione
si stringono la mano, giungendo senza accorgersene a trovare la scappatoia di Adamar, il fantomatico “giungere palma a palma” era un
contatto delle loro mani, voluto da entrambi. Immediatamente nelle loro menti,
ritorna un ricordo della loro vera vita: il momento in cui Draco usò la Legilimanzia su Hermione al Petite
Peste, per cercare di scoprire se fosse a conoscenza di Serenity
e di Helena. Il ricordo li sconvolge entrambi, ma soprattutto Hermione arriva
automaticamente a pensare che Draco le abbia fatto qualcosa di male in un
momento che non ricorda. Per convincerla del fatto che sia effettivamente
completamente estraneo alla vicenda, Draco le consente di usare la Legilimanzia su sé stesso allo scopo di indagare se ciò sia
la verità. Hermione scopre così che Draco, oltre ad essere innocente, non si è
mai innamorato una volta nella sua vita. La rivelazione sconvolge Hermione per
l’intimità della scoperta, spingendola ad allontanarsi da Draco, liquidando il
ricordo come un fervido momento di immaginazione, cosa non facile da continuare
a credere quando i suoi sogni iniziano ad essere popolati da un bambino che non
conosce, biondo, e che si chiama Alex. E che è certa essere suo figlio. Ad aumentare
ulteriormente i suoi sospetti che ci sia qualcosa che non va dentro di lei, l’incontro
con l’Empatica Helder, giunta nel suo ufficio per
pratiche relative a suo marito Chris: la donna, oltre a percepire il germe del
legame con Draco, sente anche che Hermione è vittima di una magia nera molto
potente che lei non è in grado di capire da dove provenga. Le consiglia quindi
di contattare il più grande esperto di Arti Oscure, l’insegnante di HogwartsIlariyRadcenko. Lo scambio di missive con l’insegnante porta al
fissare un incontro nell’accademia di magia a cui però, per la natura dell’incantesimo,
dovrà essere presente anche Draco. Hermione però non riesce a contattarlo, ogni
sua lettera viene scientemente rifiutata dall’uomo, finché Hermione viene a
sapere dalla cognata Fleur della morte di Narcissa
Malfoy. La ricerca disperata di Hermione per ritrovare Draco e chiedergli scusa
della sua insensibilità ed egoismo, si conclude a casa sua dove trova Draco. Il
nuovo contatto tra i due, innesca l’ennesimo ricordo della loro vita precedente,
cosa che alla fine fa loro capire che è l’incontro delle loro mani che fa
scaturire la valanga di incomprensibili memorie. Hermione ospita Draco in
ufficio per la notte e, per ricambiare, l’uomo decide alla fine di
accompagnarla all’incontro con il professor Radcenko.
29 gennaio
I
giorni avevano preso ad accelerare come sotto il tasto dell’avanzamento veloce:
sfrecciavano, schizzavano, sfrigolavano scoppiettanti sull’orlo confuso della
sua visione periferica, ammassandosi gli uni sugli altri, traballanti come
carte da gioco.
Camminava
con il messaggio di Draco Malfoy in tasca, in borsa, in cartella: nelle ore più
disparate della giornata, chinata sui piatti da lavare, annegata nelle pratiche
sulla scrivania, chiusa nei vagoni della metropolitana, Hermione lo tirava
fuori e lo distendeva davanti a sé, lisciando le pieghe, seguendo con i
polpastrelli le linee delle lettere tratteggiate e scorticate sulla carta.
“… tu
stanotte hai fatto quello che nessuno hai mai fatto per me proprio perché,
grazie a Merlino, non sei come me”: rileggeva quella frase spesso, la pergamena
e l’inchiostro profumavano, cantavano quasi, le pareva che la incensassero come
una regina.
A sé
stessa raccontava compassionevole che teneva con sé il messaggio per impedire
che qualcun altro lo trovasse, e la cosa misericordiosamente divenne vera
quando i messaggi si moltiplicarono: il 30 gennaio, la data dell’incontro con IlariyRadcenko, si avvicinava ed
urgeva prendere accordi. E sebbene sarebbe stato meno compromettente bruciare
ogni singolo messaggio, Hermione preferiva ammonticchiarli in una scatola di
latta azzurra, nell’ultimo cassetto della sua scrivania, al lavoro.
Draco
Malfoy era dannatamente puntiglioso e preciso, Hermione lo scoprì in quei
giorni in modo abbastanza sorprendente. Del resto era scontato a rifletterci
su: viveva sotto il ricatto costante dei Greengrass
che, come lo avevano obbligato a sposare Astoria, così potevano decidere ad un
tratto che fosse più vantaggioso un divorzio, tenendo sempre in pugno come
costante merce di scambio il figlio Scorpius, la sola
cosa a cui Draco Malfoy era affezionato.
Perciò
negli anni l’uomo era diventato certosino nei suoi programmi ed azioni: fece
intuire tra le righe ad Hermione che aveva dovuto firmare un rigido accordo
prematrimoniale, le cui clausole erano piuttosto stringenti, specie in caso di
infedeltà coniugale. In tralice, spaccone, aveva aggiunto che questo non era
mai stato un deterrente, ma sicuramente aveva affinato la sua prudenza ed
ingegno. Ed effettivamente, Hermione congetturava tra sé e sé, nel Mondo Magico
non era mai venuto fuori un solo pettegolezzo a carico dei Malfoy, ma la
strenua attenzione ai dettagli del suo compagno di avventura faceva ovviamente
indovinare che fosse dedito alla pratica delle relazioni clandestine da diverso
tempo.
Perciò,
naturalmente, quando Hermione aveva iniziato a programmare in modo neutro ed
innocuo la loro trasferta ad Hogwarts, meditando di
raccontare a tutti che erano semplicemente andati a trovare i loro figli, la reazione
di Malfoy fu di una freddezza estrema: se doveva partecipare a quella missione
di ricerca, doveva essere lui a stabilire le condizioni e tra queste non
figurava quella confessione idiota. Ci mancava solo che lo vedessero andare in
giro per Hogwarts con Hermione Granger
in Weasley.
Tutti,
persino i più idioti, avrebbero pensato che ci fosse qualcosa sotto, se non una
relazione sentimentale, qualcosa di quantomeno sospetto.
E,
ovviamente, Draco non voleva far conoscere alla famiglia della moglie nulla che
potesse porli in un ulteriore posizione di vantaggio, compresa la conoscenza
della possibilità di essere oggetto di un incantesimo.
Perciò
bisognava prendere ogni premura del caso.
Nessuna
perciò visita ingenua ai loro ragazzi: nessuno doveva vederli assieme, nemmeno
i loro figli. Per quello, il problema fu facilmente risolto da Hermione con
l’ennesimo furto del Mantello dell’Invisibilità, cosa che oramai era diventata
una tale abitudine che non le procurava nemmeno una capriola di senso di colpa.
Ulteriore
questione fu l’orario dell’appuntamento con Radcenko.
L’insegnante
era molto impegnato, aveva già concesso a fatica un incontro e lo aveva fissato
alle sei e mezzo di mattina. Si era scusato profusamente nelle lettere, ma
poteva riceverli solo prima dell’inizio delle lezioni così da poter dedicare
loro l’attenzione del caso.
Naturalmente,
un paio di anni prima, il problema non si sarebbe posto: si sarebbero
Smaterializzati ad Hogsmeade una mezz’ora prima,
giungendo in perfetto orario al castello. Ma da circa un lustro Hogwarts era protetta da Incantesimi molto più stringenti
di quelli degli anni in cui loro erano stati studenti. Un paio di casi di
vendette trasversali di ex Mangiamorte a danno dei ragazzini alloggiati
nell’accademia, aveva fatto sì che la Preside decidesse di allargare la zona
dove la Smaterializzazione non era possibile, inglobando la stessa cittadina di
Hogsmeade e costringendo gli avventori del castello
ad un passaggio obbligato in una piccola striscia di terra da percorrersi con
mezzi ordinari come carrozze o auto babbane, in modo che qualsiasi visitatore
fosse debitamente controllato ed avvistato molto prima dell’arrivo ad Hogwarts.
Il
passaggio, naturalmente, era chiuso al tramonto e riaperto solo alle prime luci
dell’alba. Calcolando il tempo di percorrenza fino ad Hogwarts,
passava almeno un’ora. Hermione, perciò, dovette concludere con una fitta di
ansia che doveva essere attraversato la sera prima per non mancare l’appuntamento
con il professore, costringendo lei e il suo riottoso compagno di viaggio a
pernottare per la notte.
Di
nuovo, aveva scritto a Malfoy, proponendogli quindi di alloggiare ad Hogsmaede, ma naturalmente lui ancora aveva posto il veto,
troppa gente conosciuta in giro, non se ne potevano certo andare in giro per
ore con il Mantello sulle spalle.
Ed è lì
che, leggendo la lettera, Hermione aveva rischiato uno svenimento misto ad un
infarto.
Perché
Malfoy, con una naturalezza banale persino, aveva imposto che alloggiassero in
una comunità babbana che, per forza di cose, era racchiusa nella zona protetta:
si trattava di una piccola cittadina sulle rive del Lago Nero, chiamata Fort
Lachlan. Era, secondo lui, il posto più sicuro dove poter sostare, nonché il
più comodo visto che era collegato con una corriera all’altra parte del Lago,
praticamente in prossimità con il passaggio per Hogwarts.
La
spiegazione, naturalmente, non faceva una piega: Hermione, però, faticava
ancora a credere che tale sintesi mentale fosse giunta da Draco Malfoy. Passi
essere diventato più tollerante verso Mezzosangue e Nati Babbani, ma da qui a
restare un giorno in un paesino babbano, ne correva di acqua sotto i ponti.
L’eccesso di prudenza evidentemente poteva anche del disgusto più sfrenato,
constatò mentalmente Hermione, e d’altro canto, se così stavano le cose, non si
voleva perdere lo spettacolo delle sue espressioni facciali al cospetto del
mondo babbano.
Si
organizzarono quindi per partire al termine delle rispettive giornate
lavorative, avrebbero attraversato la barriera per la zona protetta
separatamente così da non essere visti assieme, per poi incontrarsi alla
fermata della corriera per Fort Lachlan, zona sufficientemente babbana per non
avere noie.
Draco,
a questo punto, si sentiva al sicuro: aveva imbastito la solita storia della
trasferta lavorativa per ritirare dei carichi preziosi di pozioni rare e la
moglie, impegnata a rinnovare il maniero alla morte di Narcissa, aveva annuito
assente, non degnandolo della benché minima attenzione.
Per
Hermione, invece la questione si complicava notevolmente.
Tutto
faceva rima con l’ennesima storiella, l’ennesima bugia, l’ennesima scusa,
l’ennesima menzogna da propinare al marito, con cui condivideva ormai
un’abitazione gelida, fredda, resettata sulla cortesia di plastica che era
l’amore per il figlio Hugo che non avrebbe dovuto preoccuparsi della distanza
tra i suoi genitori: poteva dirgli la verità, Hermione lo sapeva.
Che era
stata maledetta da qualcuno, che condivideva i sintomi con Draco Malfoy, che
era necessario parlare con il professore di Difesa contro le arti oscure per
avere una diagnosi corretta del caso, prima che potesse diventare pericoloso.
Ron
l’avrebbe aiutata, ascoltata, consolata. Certo, era perfettamente da lui non
lasciarla sola.
… e
poi… avrebbe dovuto spiegare dei ricordi che le rovinavano nella testa,
potenti, spavaldi, arroganti, e che facevano sbiadire ogni sua antica memoria
della loro vita assieme. Doveva raccontare delle notti passate ad inseguirne le
tracce dentro le palpebre chiuse, mentre lui le russava accanto. Doveva dirgli che,
in quei ricordi, Draco Malfoy era sempre una certezza, e lui invece era sempre
un’assenza mai nemmeno ricordata o rimpianta.
Doveva
dirgli necessariamente che i ricordi, avevano scoperto, venivano richiamati dal
tocco delle loro mani: e allora Ron non avrebbe sentito più nulla, perché non
conosceva dimensione dove lei avrebbe toccato la mano di Draco Malfoy, così,
dal nulla, senza costrizione e violenza.
E
allora, ancora, aperto il fondo del barile, cosa le impediva di parlare ancora?
Di dirgli che lei si fidava di Draco Malfoy, che era corsa da lui non una ma
ben due volte, che conosceva a memoria di che cosa sapessero le sue mani, che
poteva riconoscere il suo odore persino da cieca, sorda, muta, forse persino da
morta?
Cosa le
impediva di dirgli che pensare di partire con Draco Malfoy le accendeva il
petto di tremule fiammelle, che erano ansia, paura, angoscia, ma che erano la
sensazione preconizzatrice di tutte le avventure che aveva vissuto da ragazza e
che oramai erano sparite dalla sua vita, come nebbia al mattino? E che avrebbe
dato manciate degli anni con lui, con suo marito, solo per avere giorni così,
quando l’attesa che era quella valigia sotto il letto, diventava un battito
asincrono nello stomaco ad ogni ora del giorno e della notte, che contava i
secondi rianimandola?
Non
poteva dirgli tutto questo.
Mentii
ancora. Parlò anche lei di una trasferta di lavoro.
Corse
nella luce del tramonto fioco, il borsone che urtava ritmico contro il suo
ginocchio.
Gli
occhi dorati, splendenti.
Non
sapeva di aver avuto quegli stessi occhi in un altro tempo, un altro luogo, un
altro mondo.
Era una
cameriera allora, ma anche un ex Auror e la futura madre di un bambino di nome
Alex.
Era
tutto diverso.
Tranne
una cosa.
Draco
Malfoy che era, restava, la sua certezza.
Quando lo vedo arrivare, nel buio fumoso di questa
sera fredda, d’improvviso tutto diventa ligneo di consapevolezza: sono davvero
qui, alla fermata di una corriera che ancora non arriva, viandante di un
viaggio che è un’altra bugia ai miei cari, con una valigia leggera ma
pesantissima assieme che ci ho messo giorni a fare, preoccupata di ogni
gradazione e foggia di abiti.
Ed il mio compagno di viaggio, il solo, è Draco
Malfoy.
Prima di vederlo, davvero, in questa sera
deserta, tutto sembrava ovviamente una specie di fantasia rincitrullita come
quando immagini come sarebbe vivere con le branchie, o avere i capelli blu
oltremare: adesso sta succedendo sul serio e non posso tornare indietro,
la menzogna detta a mio marito prende la forma della sua andatura lenta,
strascicata, annoiata che si srotola lungo i passi che lo uniranno a me, alla
mia strada, al percorso di vita che sto scegliendo stasera.
La mia mano, sudata, scivola sulla presa della
valigia, la regge appena, mi pare che mi sfugga dalle dita: ho accumulato
vestiti per una settimana, non sapendo cosa portarmi dietro, anche se non era
necessario nulla di che visto che devo restare fuori solo una notte.
Bastava un pigiama, uno spazzolino: invece, con una
specie di volontà propria, ci era entrata una gonna a pieghe azzurra, una stola
leggera ed impalpabile, e poi un rossetto rosso vermiglio che non ho mai
portato prima, orecchini lucenti ad imitare lo smeraldo, comprati di istinto,
persino un profumo all’odore di rosa inglese che mi dava le lacrime agli occhi.
Non si
sa mai, dicevo e la valigia
cresceva, pesava, si chiudeva a fatica, perché non dovevo sfigurare, perché lui
mi mette sempre in difficoltà e non dovevo dargliene motivo, perché ci mancava
solo fare la figura della piccola fiammiferaia al suo cospetto, è bastata
quella sera completamente bagnata dalla testa ai piedi… per cercare lui,
poi.
Parole su parole, pensieri su pensieri, accatastati
assieme mentre Hugo ripeteva la lezione di storia, mentre la televisione
trillava di una canzone rap, mentre Leda elencava gli impegni della giornata,
mentre Ron sfuggiva i miei occhi appena entrava nelle stanze dove ero io: ed io
annegavo nella confettura di quelle occorrenze cerebrali, e fuori sorridevo,
annuivo, correggevo, rispondevo.
Senza sentire nulla davvero, senza che niente
lasciasse traccia, come se fossi fatta della stessa sostanza delle orme sulla
spiaggia, cancellate dal mare.
Ora, adesso, la valigia pesa tonnellate, mi scava
un fosso sotto i piedi con l’intenzione di seppellirmi come se dovessero
lapidarmi: io, la spergiura, la traditrice.
Non so giocare a questo gioco, chiaro. Ho il cuore
in gola, la lacrima in tasca, le guance arrossate dal vento della sera
ghiacciata che il lago mi soffia in faccia, alla maniera di un respiro
affannoso da moribondo. Sono sotto ad un lampione, esposta al cono di luce, ho
i capelli sciolti e liberi sulla schiena, acconciati in onde morbide di
vaniglia perché, ancora, dovevo sentirmi a posto con me stessa, apparentemente
perfetta, a mio agio, padrona della situazione. Vesto di bianco e rosso, come
quando voglio sentirmi forte, spicco come un faro nel buio.
Lui no, ovviamente lui scivola nella semioscurità
come se fosse fatto di aria rarefatta, semiliquida, brumoso come un miraggio di
tenebra. Ha una borsa piccola, una specie di ventiquattrore di pelle nera che
regge con forza, facendola dondolare lascivamente, come se fosse piena di
piume.
Ha un cappotto scuro con il collo alto, lo fa
confondere con le ombre della sera, spuntano a fatica gli zigomi e la forma
aguzza del naso. A coprire gli occhi ci pensa poi un cappello a falda larga di
lana nera, sembra spuntato da un romanzo noir a tinte fosche: penso con una
punta di insania se sia qui per recitare la parte della vittima o dell’assassino.
Arriva nello stesso momento in cui, con un grande
rombo di motore, inforcata una curva a velocità sostenuta, la corriera compare
nella strada fermandosi a pochi metri da me, accecandomi con i fari come se
fossi un cervo pronto ad essere investito. Meccanicamente, faccio un passo
indietro per evitarla, sebbene sia sul marciapiede e non corra alcun rischio di
essere calpestata.
Senza rivolgermi alcuna parola, limitandosi ad un
cenno veloce della testa che vuole fungere da saluto, Malfoy attende l’apertura
della porta scorrevole dopo avermi superato ed essersi fermato davanti a me,
dandomi le spalle.
Lo vedo con una parte remota della mia mente salire
i gradini con eleganza, obliterare il biglietto per poi percorrere il corridoio
alla ricerca del suo posto, il cappello nero che spicca sopra il mare di sedili
consumati di pelle rossa.
Da parte mia, non riesco a muovere nemmeno un
muscolo, neanche gli occhi, neanche le mani. Mi aggrappo alla mia valigia come
se fosse la sola cosa in grado di darmi un peso, una dimensione, una specie di
ancoraggio fisico a qualcosa che, passo dopo passo, si sgretola
progressivamente dentro di me, attorno a me.
“Ehi bella, che fai? Sali? Guarda che questa è
l’ultima della giornata” mi apostrofa duramente l’autista, sporgendosi di lato
con una mano già poggiata sulla leva che regola la chiusura della porta.
Non gli rispondo, non so nemmeno io che cosa
dirgli, continuo assurdamente a pensare ad Hugo che tra poco si metterà a
tavola, con le gambe che non gli arrivano al pavimento e che continuano a
scalciare sotto il tavolo. Continuo a chiedermi se mangerà tutta la fettina di
carne, se non lascerà come al solito metà, tentando di nasconderla dentro la
montagnola del purè di patate. E, mentre me lo chiedo, le gambe si incollano al
marciapiede, mentre rabbrividisco fin dentro le ossa.
“Deve scusarmi, mia moglie è una svampita di prima
classe… pensi che qualcuno la chiamava la più svampita della sua
generazione…” la sua mano si chiude sul mio fianco destro, mentre l’anca
sinistra urta bruscamente contro di lui per il contraccolpo della sua presa
salda, decisa, fulminea. Registro come una sorta di riflesso condizionato il
suo odore, il solito fresco di settembre umido, ma giunge remoto alla mia testa
come il residuo flebile di un’illusione, è come se fosse distantissimo miglia e
chilometri e non fosse davvero qui. Non lo sento nemmeno quando, con decisione
spavalda, mi trascina per la vita nella corriera, facendomi sedere poi al mio
posto vicino al finestrino, poco prima che mi segua sedendosi accanto a me con
un lungo sospiro. Noto anche che, con maniacale attenzione, fa di tutto per non
sfiorarmi la mano nemmeno per sbaglio, ma me ne accorgo con una lascivia
mentale che è solo una consuetudine di ragionamento, di osservazione che è una
mia caratteristica precipua. L’informazione, come un ciottolo di fiume, scivola
dentro la mia mente, sparendo alla vista e alla coscienza, assieme alla
consapevolezza del turbinare nervoso del suo sistemarsi meglio sul sedile, come
se non trovasse la posizione più comoda.
“Quale parte, esattamente, del mio discorso
sull’essere invisibili non hai compreso, Granger?
Devo farti un disegnino?” la sua voce schiocca come un colpo di frusta
raggiungendomi dietro il collo, incassandosi nello spazio tra le scapole. Parla
nascondendosi nel collo del cappotto, muovendo a malapena le labbra come un
ventriloquo. Le dita nervose tamburellano su un ginocchio.
Naturalmente io ho la voce molto più alta di quello
che dovrebbe essere per non attirare l’attenzione. Lo afferro per la manica del
cappotto, cerco di portare a me i suoi occhi, ci riesco. Assottiglia le
palpebre, mi studia con attenzione mentre il mio labbro inferiore trema senza
controllo, gli occhi che si inabissano nelle lacrime: “Mio figlio… mio figlio
si sta mettendo a tavola adesso”. Visualizzare l’immagine nella testa, darle un
contorno ed un confine, una nettezza ben precisa nell’orizzonte fisico degli
eventi, finisce per soffocarmi in gola con un nodo di tristezza. Lo mando giù,
nell’esofago, sospingendolo al suono di un acuto selvaggio ma soffocato che
riecheggia sinistro dentro i sobbalzi della corriera.
Draco sgrana gli occhi, i tendini del braccio
scattano sotto la manica del cappotto che ancora stringo, sembra che qualcosa
di freddo gli passi lungo la schiena, mentre dice asciutto: “E tu sei qui… con me”.
L’accentuazione sul finale mi fa staccare la mano
dal cappotto, mentre mi chiudo nelle spalle e pigolo a testa bassa: “Non è
questo”.
“E’ anche questo, non dire stronzate” lo
vedo con la coda dell’occhio accavallare nervosamente una gamba, al ritmo di un
sospiro lungo, fremente, irato, cosa che mi fa sentire una mocciosetta
scornata. Incasso le spalle e le dita torturano senza sosta il panno leggero
del cappotto bianco.
Eppure, come mi capita spesso quando sono con lui,
sebbene la decenza e il buonsenso mi impongano di tacere, mi pare sempre di non
riuscire a starmene zitta, immobile. Nelle viscere di me stessa, arde un fiume
di lava di parole incandescenti che, se me lo tengo dentro, mi scottano come
fuoco liquido. Le devo dire, le devo tirare fuori.
Perciò, annebbiata, guardandomi le mani in grembo,
soggiungo con la voce spezzata: “Non sono con lui. Non sono con mio figlio. E
ho mentito a mio marito. Di nuovo. Non ricordo l’ultima volta che sono stata
sincera con lui”.
Draco lascia andare un nuovo lungo sospiro
trattenuto, non saprei dire se di rassegnazione o altro. La mascella serrata,
lo sguardo gelido, guarda fisso davanti a sé, immobile come se avesse appena
scorto un Basilisco. Le labbra si muovono appena mentre geme caustico: “Io non
ricordo se sono stato mai sincero con la mia di consorte…”, la frase mi fa
raggelare sul posto irrigidendomi.
Sembra accorgersene perché, poggiando la nuca sullo
schienale del sedile, volta lievemente la testa verso di me e soggiunge con un
sorriso amarognolo: “C’è di peggio, Granger”.
“Non credo che sia la stessa cosa” sussurro,
guardandomi le ginocchia, una fitta improvvisa di compassione e pena che mi
ruzzola dentro il torace, annebbiandomi la vista. Rivedo dentro la mia testa la
confessione potente ed enorme che scorsi nella sua, non mi sono mai
innamorato in vita mia e, come spesso accade, mi sento fortunatissima.
Spesso non riesco a capire che cosa sia rimasto del mio matrimonio e del
sentimento per mio marito… ma esso almeno è esistito in un certo momento. Ci ha
fatto generare due figli. Ci ha unito in una sola carne ed anima per anni.
Lui, invece, non solo non lo prova per sua moglie,
ma non sa nemmeno che significa.
L’intimità della situazione, di questa gita
segreta, mi frastorna nuovamente, riportandomi all’immaginazione le centinaia
di volte in cui, sicuramente, ha compiuto passi simili con altre donne che,
dopo, si è portato a letto. Lo ha ammesso lui stesso tra le righe e sembra
troppo abituato a celare, a nascondere, a cercare sotterfugi ed elusioni.
Lo spio con la coda nell’occhio, una sensazione
diffusa di calore che si espande sul viso, ne hai portate tante sulle
corriere, per poi finire negli alberghi, come sta succedendo stasera con me? Mi
scopro a chiedermi se, con queste fantomatiche donne, guardasse dritto davanti
a sé, con la mascella serrata, come adesso, o se invece… forse resti
perfettamente immobile, ma allunghi le dita per toccare l’interno delle loro
mani, per far sentire che ci sei, per dare il brivido che si porteranno dentro
fino a quando ti chiuderai le porte alle spalle, spogliandole prima di arrivare
ad un letto, senza neanche stendersi supini, in piedi, come una cosa mangiata
senza fame, solo per necessità, solo per sopravvivere, solo per la colpa atroce
di non amarne nessuna.
Il pensiero, giunto all’improvviso soffuso come una
camera in penombra, mi chiude la gola, la schiarisco con un colpo di tosse.
Lui, d’un tratto, sussurra sottile, lo sguardo adesso basso, catturato come una
falena dalle mie dita che torturo, tormentata, in grembo: “Hai ragione, Granger. Non è la stessa cosa. Non siamo… la stessa cosa.
Tu e Weasley. E io ed Astoria. E nel mio contorto
modo posso persino essere felice che non lo sia…”, sollevo lo sguardo, una
punta di meraviglia sul mio viso, la vedo riflessa nel piccolo sorriso che mi
restituisce, lo sguardo ancora basso: “Posso essere davvero felice… che ci
siano ancora donne che si distruggono per il senso di colpa di aver mentito al
proprio marito e al proprio figlio”.
La sua constatazione mi fa sentire come una specie
di bestia strana, come una sorta di animale in via di estinzione: scelgo però
volutamente di vederne il meglio come se mi avesse fatto un complimento, sebbene
in modo contorto. Ignoro la fitta allo stomaco all’amarezza della sua voce.
“Dovrebbe essere una cosa normale” ribatto
ingenuamente, continuando a torturare l’orlo del cappotto bianco, il minuscolo
sorriso che mi ha rivolto che mi addolcisce la voce.
“Non lo è per me, non lo è mai stato…” prosegue lui
secco, sistemandosi meglio sul sedile come se non avesse pace “Per questo non
posso capire cosa provi, non posso nemmeno tentare, Granger.
Posso dirti però una cosa…”, la sua voce si curva in un accenno più smorto e
sottile, come un bisbiglio impalpabile che sembra raggiungermi fin dentro il
costato “Non hai mentito per te stessa, per il tuo piacere. Come ho imparato a
fare io o come fa mia moglie. Sei cristallina come una mocciosa, tu. Non
lo sai fare. Spicchi come se avessi un segnale luminoso in fronte…”, si spezza
il fiato in un suono inarticolato a metà tra lo sbuffo e la risata, stemperati
entrambi nel tono sarcastico. Mi stringo nelle spalle, incassandomi
vergognosamente, pensando alle mie riflessioni precedenti, al mio cappotto
bianco, al fatto che pure io avevo pensato che non avevo nulla del suo essere
furtivo. Ancora una volta, però, non so se nel suo caso, lui lo veda come una
lode o come un rimprovero.
“Hai mentito per proteggerli, lo hai detto tu. Per
non preoccuparli…” asserisce serio, convincente, rassicurante, al punto che
davvero inizio a crederci anche io “E hai mentito anche per me… perché ti ho
chiesto di farlo. Quindi la prossima volta che ti senti così… dai la colpa a
me, Hermione. Ci sei abituata, sarà facile, credimi”. Il suo tono, la
rassegnazione spavalda della sua affermazione, mi fa sollevare gli occhi che,
testardi, avevo tenuto fissi tutto il tempo sulle mie ginocchia serrate. A metà
strada, incontro anche i suoi di occhi, arrivati finalmente ai miei.
“Quello era Harry, non io…” sorrido con quella che
vorrei interpretasse come gratitudine per il goffo tentativo di tirarmi su di
morale. Mi poggio con la testa al sedile, inclinando il viso di lato ed
aggiungendo lieve: “Mio malgrado, ti ho sempre dato il beneficio del dubbio”.
“Sono preso da un’ondata di commozione a scoppio
ritardato, Granger” soggiunge, roteando gli occhi e
tornando a guardare davanti a sé con l’ombra, ancora, di un’increspatura
sottile sulle labbra.
Mi sento in dovere di aggiungere, incespicando
sulle parole: “E non ti darò la colpa di niente, Malfoy. Penso che abbiamo
superato quella parte”.
Ci
siamo abbondantemente oltre. Se anche un tempo fossi stata così, quale specie
di idiota sarei a darti ogni colpa del mondo come una bambinetta se, dopo,
attraverso le città e le strade soltanto per poterti trovare e sapere che stai
bene? Scivolandoti tra le braccia come se, inconcepibilmente, ci fossi nata
dentro? Come se sapessi sempre che tu, dall’altra parte, starai sempre lì ad
aspettare, le gambe piantate per terra, il respiro immobile, la mascella dura,
il corpo pronto ad incastrarsi con il mio.
Sarei
l’ipocrita del secolo.
Scrollo la testa a quel pensiero, i pensieri sono
diventati dei palloncini instabili ed isterici che se ne vanno continuamente
per conto loro. E, ancora, temo di esserci abituata, non so nemmeno io come.
“Credo che mio padre si stia rivoltando nella tomba,
io e la Granger legati da una specie di amicizia…”
commenta lui con un ghigno, guardandomi di sbieco, quasi aspettandosi una mia
reazione di disgusto alla prospettiva. In verità, la prima cosa che provo è un
enorme ed incommensurabile sollievo. Essere rientrati nella confort zone delle
battute mordaci e dei punzecchiamenti, mi rassicura come non mai. Ogni volta
invece in cui viriamo verso argomenti più intimi e personali, mi pare sempre di
essere su una scialuppa di salvataggio in mezzo al mare, vicina ad annaspare se
dovessi dire qualcosa di troppo, o fare qualcosa di troppo. Cosa che,
puntualmente, succede con me che gli do sempre ogni possibilità di cambiarmi
l’umore, di rendermi allegra, di farmi chiudere il cuore dentro il petto per
paura di sentirlo ancora.
Ed anche adesso, devo ammetterlo, ci è riuscito per
l’ennesima volta, facendo accucciare il mio senso di colpa dentro il fondo
dello stomaco come un cucciolo scornato.
Rimesto nella testa ogni retroscena subdolo della
parola amicizia che, così astratta ed impersonale, mi risulta comunque
confortante nel suo essere asettica, clinica, generalizzante, come se
sterilizzasse ogni cosa strana di questo rapporto. Pare una sorta di scrollata
di spalle dialettica, chiamiamola amicizia dai ed andiamo oltre. Così ci
dimentichiamo del resto.
Nel concetto, rientra naturalmente una mia risposta
a tono, mentre schiocco la lingua infastidita ed alzo gli occhi al cielo: “A
quanto pare, siamo sposati, tesoro. Mi hai definita tua moglie,
poco fa. Cosa che mi sta ancora procurando dodici coliche renali e quindici
spasmi intestinali, ma soprassediamo”. Completo il tutto con un finto conato di
vomito, mentre lui mi guarda con un sopracciglio inarcato e gli occhi ridotti a
due fessure malevole.
“Allena il tuo apparato digerente allora, Granger…” commenta in tralice, riassettandosi il cappotto
con fare elegante e distaccato “… perché resterai mia moglie fino a domani
mattina”.
Rischio seriamente di strozzarmi con la saliva,
cosa che mi fa produrre una specie di suono inarticolato vagamente somigliante
ad un colpo di tosse misto al principio di angina pectoris.
“Che cosa?!” erompo scandalizzata, cercando di
limare la voce al suo sguardo di fuoco, vista la presenza degli altri
viaggiatori “Capisco la prudenza, ma non sarai solo lievemente
paranoico?! Siamo tra i babbani, chi diamine deve scoprirci qui?”.
Mi guardo attorno per la prima volta da quando
siamo saliti a bordo, persino sulla corriera c’è pochissima gente. Un paio di
vecchietti di ritorno da qualche torneo di bocce. Una signora carica di buste
della spesa. Una mamma circondati da cinque mocciosi urlanti. Gente decisamente
pericolosa insomma, non sia mai che qualcuno ci tramortisca con un
deambulatore, un modellino dei Transformers o con un mazzo di porri. Fuori, la
sera fredda appanna i vetri impedendo di vedere all’esterno, i sobbalzi ritmici
della corriera mi fanno dedurre che stiamo ancora nelle strade sterrate attorno
al Lago nero.
“Siamo in un villaggio babbano a poche miglia da Hogwarts, Granger…” sciorina
ovvio Malfoy, dopo avermi destinato una lunga occhiataccia pietosa alla mia
constatazione “Un posto nemmeno lontanamente turistico, o romantico, o
di una qualche attrattiva economica. Siamo letteralmente in mezzo al nulla. Non
ci viene mai un emerito cane, qui…”, allarga le braccia in silenzio, quasi a
comprendere la folla di sonnolenti avventori sul pullman che, effettivamente,
ad uno sguardo più attento, sembrano comunque saettare spesso gli occhi nella
nostra direzione.
Nonostante l’abbigliamento da spia russa di Malfoy
e il mio appiattirmi sul sedile, abbiamo comunque un’aria sicuramente diversa
da loro, più “cittadina” e meno familiare. Dubito, del resto, che molta gente
che non sia del posto, prenda abitualmente questa corriera. E da qualche cenno
di saluto intercettato prima, deduco che gli altri viaggiatori siano più o meno
degli habitué.Naturalmente, mi tengo
per me i miei pensieri, ci manca pure dargli ragione a questo punto. Incrocio
perciò con sussiego le braccia, alzando gli occhi al cielo, mentre continua la
sua filippica: “C’è però una categoria ben specifica di persone che qui,
nonostante tutto, ci viene spesso…”, saettando uno sguardo dardeggiante nella
mia direzione, motteggia insolente: “Prova ad indovinare”.
“Le coppie sposate, forse?” sbatto le ciglia con
stupore, fingendo la concentrazione da oca giuliva che non ci capisce nulla
delle sue virili e complicate trame mentali, quando ovviamente ci sono arrivata
da un pezzo.
“Esattamente…” sputa fuori con accondiscendenza,
anche se naturalmente dal sospiro rassegnato che lascia uscire fuori, intuisco
subito che ovviamente non si è bevuto la mia manfrina “Ossia i genitori di
mezzosangue e che vengono a trovare i loro figli…”, abbassa la voce,
guardandosi attorno circospetto per timore di essere sentito “A questo i
babbani si sono abituati e non fa notizia… in generale non fa notizia da nessuna
parte che due coniugi alloggino da qualche parte. Caso diverso per un uomo ed
una donna apparentemente liberi che viaggiano assieme. Scommetto che daremmo a
questa topaia di buco infernale l’occasione per ciarlare per mesi. Arrivando
anche a qualche magico paio di orecchie”.
Sbuffo ancora ravvivandomi i capelli con un gesto
volutamente arrogante, evitando però di sottolineare che, in ogni caso, ci
vorrebbe comunque poco per due fedifraghi o per due che hanno una qualche trama
losca, dire che sono sposati. Non è che sia così geniale come piano, ma minimo
se glielo faccio notare, diventerà ancora più dannatamente paranoico, costringendomi
ad ingurgitare otto pinte di Pozione Polisucco,
corretta al bulbo pilifero di qualche vecchietta baffuta.
“Per me sei fin troppo ansiogeno, santo cielo…”
dico comunque, tanto per punzecchiarlo, attività che trovo sempre dannatamente
divertente, specie quando respira come un mantice, profondamente, solo per
resistere all’impulso di rispondermi male “Se è così, mi meraviglio che non ti
sia portato dietro un paio di occhiali con annessi baffoni… devo farmi bionda,
tanto per stare tranquilli?”.
Naturalmente, Draco non mi lascia troppo tirare la
corda e, guardandomi di sbieco, soggiunge truce: “Bè, le regole erano le mie o
te ne sei scordata? Possiamo sempre tornare indietro, eliminare il tuo senso di
colpa da novella Pinocchio ed abbandonare la manfrina coniugale”.
Non ho motivo di dubitare che, se lo innervosissi
troppo, sarebbe davvero capace di mollarmi nel bel mezzo di questo posto
dimenticato dal mondo, con buona pace di tutto l’incontro con il prof. Radcenko. Perciò, ingoiando un groppone di orgogliosa
stizza, replico con un lungo respiro: “Va bene, dannazione. Mi chiamo ancora
Hermione o mi hai pure cambiato l’identità in qualcosa di osceno tipo, che so, Henrietta
Umbridge?”.
Il nome lo fa ridacchiare tra sé mentre si passa
una mano nei corti capelli biondi, non posso impedirmi il tonfo dentro lo
stomaco al suono della risata, colloso del pensiero dolce di avergliela
procurata io.
“Ora che me lo dici mi tenta parecchio come
opzione… peccato non averci pensato prima… Comunque no, ti chiami Margery Carrington. Il tizio che mi fa i Confundus per i documenti aveva solo questo disponibile
adesso. Accontentati, tesoro”. Faccio una smorfia disgustata,
arricciando il naso, sembra il nome di una delle amiche sgualdrine di Leda,
minimo ha preso ispirazione da qualche tizia dalla morale simile. “E tu invece?
Chi diamine saresti?” chiedo, guardandolo storto.
“Julian Carrington” risponde orgoglioso e tronfio
di sé stesso, del resto penso che qualsiasi cosa sia un miglioramento rispetto
a “Draco”, seppure limitato a poche ore.
“Sembra il nome di un gigolò francese di basso
profilo” replico a tono, cercando di smontarlo.
Ovviamente non si scompone minimamente, anzi
azzarda pure uno sguardo di approvazione al mio indirizzo: “Brava, inizia a
fabbricare un bel background, ci potrebbe servire. A te sta sicuramente bene la
novizia fuggita dal convento per amore del qui presente capolavoro di
virilità”.
“Certo, inventiamoci il romanzo di fantascienza
adesso, ci manca solo che abbiamo avuto un figlio e tu nemmeno lo sai…”
commento, incrociando le braccia. Il pensiero è così assurdamente scomodo che
mi riempie di pelle d’oca le gambe, fino al fondo della schiena.
Dopo il suo ennesimo borbottio, restiamo immersi in
un silenzio non scomodo, forse persino piacevole, intervallato solo dai
sobbalzi regolari della corriera e dalle voci degli altri viaggiatori. Mi
azzardo persino a chiudere gli occhi e ad appoggiare la testa contro il
finestrino, assorbendo per un secondo la sensazione di friabile calma, prima che
naturalmente la realtà contingente mi colpisca di nuovo come un treno impazzito
lanciato a tutta velocità. A quel punto, però, riaprendo gli occhi con
lentezza, respiro piano in modo continuo e ritmico, di modo che l’ansia e
l’angoscia escano fuori dal mio corpo come un veleno cattivo. Sento ogni tanto
lo sguardo di Draco tornare verso di me come se stesse studiando e valutando le
mie mosse, ma quando cerco di incrociare i suoi occhi, lui pare catturato dal
riflesso nel finestrino mentre si approssima qualche sparuta casa di legno,
dandomi quindi l’impressione di essermelo immaginato.
Dopo l’ennesimo tornante che l’autista prende con
sfregio assoluto della sicurezza stradale, portando la corriera quasi a
ribaltarsi, dal finestrino appannato vedo finalmente dei grappoli intermittenti
di luci, sparsi come una coperta di diamanti sul dorso scosceso delle montagne.
Gli occhi mi pizzicano quasi per la commozione, Hogwarts,
non la vedevo in versione notturna probabilmente da anni, forse persino dal
diploma. Un solletico sulla nuca mi informa che anche Draco, come me, è
catturato dalla vista, ovviamente impossibile per i babbani sul pullman che continuano
a vedere i brulli rilievi oscuri o pieni di rovine.
Sento Draco sento sporgersi leggermente verso di
me, mentre aguzza la vista dentro il finestrino annacquato dal vapore. Il suo
respiro mi sfiora la pelle dietro le orecchie, riconosco l’odore del suo fiato,
di quel afflato singolare di menta e limone di cui ho impressa nella memoria
ogni singola nota olfattiva, ancora, non so nemmeno io come. Resto immobile,
congelata, le spalle tese e le dita chiuse sul cappotto calato sulle mie
ginocchia. “Sei venuta a cercare… me, Granger?”. La
nuova vicinanza richiama in modo inatteso quella di qualche sera fa, costringendomi
a serrare gli occhi come se fossi sotto una luce intensa, abbacinante, mentre
tutto invece è buio sotteso e soffuso e sono solo io che, così, tento di
mettere in un angolo della testa quelle immagini. La sua mano sotto il mio
mento, a tiro dei suoi occhi, non sia mai che scappassi altrove. La mia guancia
piccola, umida contro le sue dita aperte a coppa. La mano veloce, fulminea, che
si chiude sulla sua, la copre, la stringe. Le immagini di quel mondo che non
conosco che mi piombano nella testa.
E adesso
sono qui, con lui, ancora, di nuovo, sempre, le cornici cambiano, le bugie
dilaniano, i colori sbiadiscono, eppure sulle corriere affollate, o nelle
strade bagnate, o nei corridoi deserti, o sui pavimenti accanto ad un
pianoforte: lui è lì ed io sono con lui.
Ancora,
di nuovo, sempre.
Il ricordo di quella notte piena di pioggia e del
mio comportamento assolutamente irrazionale, mi frana nel petto come una
slavina, traducendosi in un suono inarticolato di gola che anche Draco ode
evidentemente perché, di scatto, si allontana fulmineo da me come se fosse
stato trapassato da una scarica elettrica. L’imbarazzo tangibile, per fortuna,
dura poco perché, con un ultimo sbuffo asincrono che ha l’effetto di farmi
sbattere contro il sedile del passeggero di fronte a me, la corriera finalmente
si ferma, mentre la voce gracchiante dell’autista bercia che siamo al
capolinea.
Fort
Lachlan.
Con quello che pare un moto di sollievo, Draco
afferra brutalmente la sua piccola valigia con una mano dopo essersi calato di
nuovo il cappello sulla testa, attento a farlo aderire perfettamente. Senza
nemmeno aspettarmi, inforca il corridoio scansando persone con malagrazia,
scendendo dal mezzo prima ancora che io abbia fatto in tempo a recuperare le
mie cose.
Andiamo
bene.
NOTA
AUTRICE:
Non aggiorno
da, non so nemmeno io quanto tempo. Ed è una cosa che per tutta una serie di
motivi mi fa stare davvero male ogni volta che ci penso, non voglio nemmeno andare
a cercare appunto da quanto non lo faccio.
A chi ho avuto modo di sentire più direttamente ho spiegato un pochino di cose,
di quanto sia un periodo difficile per la mia famiglia, di quanto ciò abbia
influito sul mio carattere e sul mio approccio a tante cose della mia vita, non
da ultimo la scrittura. Dovrei scrivere un trattato a riguardo, ma non penso
che sarebbe molto interessante... Senza contare che, davvero, sembra da un paio
di anni che non abbia granché pace. Per chi legge, magari, questo può sembrare
anche una scusa o un'esagerazione... Ma davvero ci sono stati momenti in cui
era difficile anche fare le cose più semplici, figuriamoci scrivere.
Figuriamoci se ci pensassi persino.
Questa storia però è casa mia. E io ho un dovere verso di essa e verso di voi.
Mi ha fatto conoscere persone che, ora, chiamo amiche. Mi ha fatto conoscere
una parte di me che non conoscevo. Mi ha fatto capire chi sono e dove voglio
andare. Ed un debito così, bisogna saldarlo prima o poi.
Perciò, al netto di ciò che sarà di me e con tutte le cautele del caso, ho
deciso di cambiare l'approccio che ho a questa storia, cercando così in tempi
più serrati di completarla.
Non faccio promesse scritte su pietra perché come vi ho spiegato, ho imparato
una mia assoluta impotenza nelle vicende della mia vita. Ma cercherò invece di
non fare più capitoli enormi e far passare anni tra uno e l'altro, ma invece di
farne altri molto più piccoli e pubblicarli magari uno ogni mese o ogni due.
Manca poco alla fine e non posso, non voglio arrendermi così. Comincerò già da
quel poco che ho, e così continuerò sperando di farcela. Perciò questo capitolo
è così piccolino e per questo, accanto al titolo, c’è un numero (I) in
parentesi. È solo una piccolissima e prima parte di come lo avevo concepito all’inizio.
Ma ci sono di nuovo, spero di esserci presto di nuovo, e questo già adesso è un
sollievo. Siamo al capitolo 50 e, dopo più di dieci anni, questo dice già
moltissimo su quanto questa storia sia stata e sia ancora una parte enorme
della mia vita.
Se ci
siete ancora, grazie come sempre.
Se non ci siete più, grazie comunque per quello che mi avete dato.
Cassie ❤️
Capitolo 51 *** Disturbia, step four: about what we’ve never had (II) ' ***
Capitolo 51: Disturbia, step four: aboutwhatwe’veneverhad (II)
Scesa dalla
corriera, rabbrividisco immediatamente per l’impatto con l’esterno, la
temperatura pare essersi abbassata di diversi gradi nel seppur breve viaggio,
cosa che mi fa stringere attorno al mio cappotto bianco chiudendolo alle folate
di vento gelido che soffia dalle montagne.
Mi guardo attorno
con un afflato di curiosità, la mano sulla valigia, mentre la gente scende
dalla corriera e si disperde nella piccola piazzetta, raggiungendo le proprie
destinazioni: come ha preannunciato Malfoy, effettivamente la cittadina non è
null’altro che un ammasso di casette di legno senza alcuna attrattiva
turistica. Poche luci accese alle finestre, qualche insegna marcita
dall’umidità del lago; un droghiere, un vecchio pub o un ristorante cinese con
un drago rosso sulla porta così grottesco da somigliare piuttosto ad un lungo
verme solitario. Cosa che sicuramente non stimola l’appetito. Anche la gente in
giro è pochissima, è l’ora di cena, i pochi passanti camminano ingolfati in
grossi maglioni con le trecce, allungando la falcata nervosa dopo avermi
gettato un’occhiata in tralice di sospetto. Lontano, in una fessura tra le
casupole basse, un pontile di legno si allunga sulla superficie del Lago Nero,
richiamando indietro qualche sparuto pescatore che, le canne pendenti sulla
schiena, torna a casa.
Decisamente, nulla
di interessante o indimenticabile.
Mi volto su me
stessa cercando Draco con lo sguardo che, in tutta la mia manovra di
sopralluogo del circondario, ha alacremente consultato la cartina ed alcuni
fogli di carta spiegazzati.
“La nostra locanda
dovrebbe essere…. da quella parte…” sciorina incerto, indicando con il braccio
in una confusa direzione alle mie spalle.
“Sono colma di
fiducia al momento per il tuo senso dell’orientamento, caro…” schiocco la lingua guardandolo obliquamente, non è che siamo
in mezzo all’Upper East Side e ad un dedalo di
strade, se non è capace di trovare il solo alberghetto del posto siamo davvero
alla frutta.
Draco non si dà
pena di rispondere, nemmeno al mio appellativo sdolcinato da finta moglie,
limitandosi a borbottare qualcosa tra i denti prima di indicarmi con uno rapido
gesto del capo la direzione a suo dire corretta. Quindi probabilmente mi
ritroverò tra una ventina di minuti nella selva oscura con i lupi che
banchettano sulla mia carcassa dilaniata. Che prematura e ingrata fine.
Nonostante tutto,
in mancanze di alternative, lo seguo. Lui, come poco prima sulla corriera, non
si dà naturalmente pena di attendere che io lo affianchi, ma invece cammina a
passo sostenuto davanti a me, continuando a guardare alternativamente la sua
stupida mappa e le strade attorno, guardingo come una lepre inseguita dai
cacciatori. Incespico nello sterrato per cercare di non perderlo di vista,
impacciata dalla valigia e dagli stivaletti con il tacco quadrato che, ancora,
non so perché diamine mi sia venuto in testa di indossare proprio stasera,
proprio qui… e proprio con lui, aggiungo
malevola con il pensiero, stringendo le palpebre nel tentativo di bucargli la
schiena con la potenza del mio sguardo inceneritore.
“Smettila, Granger…
i tuoi anatemi silenziosi sono molto più rumorosi
di quanto pensi… credo di averti già detto che hai il respiro di un maledetto
mantice iperattivo, come sei sopravvissuta in guerra, Merlino solo lo
sa…”.Sbuffo, ovviamente rinforzando la
mia immagine di utensile soffiante, ma non mi do pena di rispondergli per le
rime, cercando di disincastrare di nuovo la valigia da una buca nel terreno.
Lo seguo mentre,
superata la piazzetta ed un paio di casette diroccate, inforca il declivio che
conduce nelle vicinanze del lago. La già scarsissima illuminazione del paesino
si affievolisce ancora di più, smorzata dalla vegetazione incolta ed
attraversata da respiri notturni non molto rassicuranti. Rabbrividisco,
guardandomi ossessivamente attorno ad ogni tramestio sospetto che fa risorgere
la fantasia che Malfoy in verità ha solo finto di assecondarmi, ma che in
realtà mediti di assassinarmi e di gettare il mio cadavere nel fondo fangoso del
lago, tanto per ravviare il traffico escursionistico della zona con un po’ di
turismo macabro.
D’improvviso, però,
si ferma immobile sul sentiero, senza nemmeno una parola, come colto da un
pensiero fulmineo che lo paralizza anche nell’azione semplice del camminare. Lo
affianco, raggiungendolo infine e già pronta alla tiritera sul fatto che non si
può perdere in uno sputo di posto come quello, non prima di aver disincagliato
da un’altra buca la mia nefasta valigia, la stessa che continuo a maledire per
essermi portata per il pernottamento di una sola notte, ma che probabilmente
tornerà utile per l’occultamento del mio corpo in decomposizione.
Mi accosto quindi a
Draco guardandolo storto, ma lui semplicemente riprende a camminare senza
aggiungere un’altra mezza parola, solo ad un passo più lento, così che io possa
finalmente stare accanto a lui.
Ha
visto la zona poco illuminata e mi ha aspettato, l’attenzione inaspettata mi fa
sciogliere di un sorriso imprevisto, mentre evito di guardarlo in faccia per
paura che possa capire quanto la cosa mi abbia fatto piacere. Ridimensiono
subito mentalmente tutto perché, naturalmente, deve fingere di essere mio
marito quindi probabilmente se capicollo giù per una scarpata, la cosa non
offre molti profili di verosimiglianza: non voglio dare a nessuna parte della
mia mente ulteriori sponde per annotare ogni singola gentilezza che quest’uomo
mi fa. Ho già abbondantemente notato che cose che sembrano minuscole con altri,
con lui diventano sterminate, finendo per tributarmi una felicità che non
riesco a spiegare. A quest’ora, se fossi con Ron, starei già urlando e
sbuffando perché non mi sta aiutando con la valigia. Con Draco Malfoy, mi
accontento della briciolina che mi aspetti lungo una strada poco illuminata.
Che razza di idiota.
Il pensiero mi
mette ulteriormente di cattivo umore nei pochi passi che percorriamo in
silenzio, fino ad arrivare alla nostra destinazione. La locanda risulta essere
né più e né meno che un cottage come tutti gli altri, di legno scuro,
appollaiato a pochi passi dalla riva del lago e da un pontile. Non c’è né
un’insegna, né una decorazione particolare, solo un patio un po’ più ampio
all’ingresso che si affaccia sullo specchio d’acqua, restituendo la visione
mozzafiato delle montagne e di Hogwarts poco distante, immersa nella nebbia
umida come uno stormo di lucciole intermittenti.
Mi fermo a
guardarla per qualche secondo con la mano sospesa sulla valigia, il legno che
scricchiola sotto i piedi miei e di Draco che apre la porta smaltata di rosso
della casupola. Il tintinnare giocoso di alcuni campanelli non riesce a coprire
del tutto il cigolio esasperato dei cardini vecchi.
Di fronte a noi,
non c’è niente più che una piccola stanza circolare che funge da salotto, con
una piccola libreria, qualche divano stinto, un caminetto acceso che rimanda un
buon odore di resina di pino. Tutto è di legno scuro, consumato. Poco più a
sinistra rispetto all’ingresso, intravedo una scala che porta al piano
superiore, il cui corrimano ha dei pezzi mancanti. Non sarà niente di più che
una casa un po’ più grande che mette in affitto una o due camere a notte.
L’impressione mi
viene confermata dall’arrivo della nostra albergatrice, una donna sulla
cinquantina piuttosto in carne, dall’aspetto pacioso e rubicondo, i capelli
biondo cenere legati in una crocchia, con un vestito a fiori terribilmente
leggero per la stagione. Sopra, indossa un cardigan di lana infeltrita grigia.
Unica nota di colore e pregio del suo aspetto è una spilla con il cameo di una
rosa bianca che le chiude il maglioncino sotto il collo. Lo osservo per qualche
secondo, affascinata dai riflessi cangianti che il fuoco disegna sulla pietra
lucida.
“Buonasera
signori!” esordisce gentile e frizzante, con un forte accento del nord del
paese “Immagino che voi siate i signori Carrington…”. Ovviamente ci ha preso
subito, non penso che abbiano la fila di clienti che si allunga fino ad
Aberdeen.
“Sì, buonasera sig.
Hudson, ci siamo sentiti telefonicamente…” risponde Draco con solerzia,
porgendole la mano a mo’ di saluto e presentazione “Sono Julian Carrington”.
Guardo Draco di
sbieco, non sia mai che presenti anche me e mi tratti in modo diverso da una
semplice appendice ornamentale: “E io sono…”, come diamine ha detto che mi
chiamo? Era un nome da cartone animato dei Simpson… Lisa? Maggie? Inizio a
sudare freddo, non voglio ricalcare sul fatto che, apparentemente, dobbiamo
fingere di essere marito e moglie. Vorrei evitare di sputare fuori
quell’appellativo a meno che non ci sia costretta con una pistola alla tempia;
per fortuna, occhieggiando i documenti che Draco ha poggiato sul bancone della
reception, riesco a leggere in tralice il nome del mio personaggio di fantasia.
“E io sono Margery Carrington” completo trafelata dall’ansia di non
sembrare una completa imbecille. Draco, alla mia destra, sospira con un’aria
rassegnata che ha l’effetto di infastidirmi ancora di più. Sembra che, senza
nessuna fatica, abbia indovinato i miei pensieri.
L’albergatrice,
inforcando un paio di occhiali dalla montatura di osso, procede alla
registrazione dei nostri documenti su un faldone dall’aspetto consumato ma
dalle pagine immacolate, confermandomi ulteriormente che il posto è ben poco
abituato ai turisti. Osservo la manovra di registrazione puntellandomi
nervosamente sui piedi, come se temessi che da un momento all’altro la verità
sulla mia identità venga fuori per un misterioso ed inspiegato incidente.
Inutile aggiungere
che, invece, Draco è perfettamente a suo agio, calmo e serafico come starei io
dentro una biblioteca. La menzogna e l’omissione sono tipo il suo pane
quotidiano, mi chiedo ancora ossessivamente quante volte sia già passato da una
manfrina simile.
Il pensiero mi
mette di nuovo a disagio riducendomi lo stomaco ad una poltiglia stopposa che
mi pesa nel torace come un’ammissione di colpa.
Finalmente la
signora termina le sue incombenze e, sfilandosi gli occhiali, ci restituisce i
documenti fasulli, accompagnandoli con la chiave della stanza: “Allora signori,
benvenuti a Fort Lachlan. Vi tratterrete a lungo?”.
Nel mio silenzio
pensoso è Draco che risponde sicuro: “Solo fino a domani mattina… partiremo
molto presto”. La signora, dopo un cenno di assenso, armeggia con un cassetto
della scrivania che apre cigolando, tirando fuori una chiave pesante di metallo
con un cordino consumato come portachiavi. Ci indica la scala, prima di dire
sempre all’indirizzo di Draco: “La vostra stanza è quella al piano superiore. È
già pronta. Lei e sua sorella potete
accomodarvi se siete stanchi per il viaggio”.
Per un attimo, la
parola fluisce dentro le mie orecchie come acqua di un ruscello, assolutamente
priva di peso e consistenza, scivolando inascoltata. Poi, come lo stridio delle
unghie su una lavagna, mi ritorna in mente qualcosa di completamente disarmonico
con il resto del discorso, qualcosa che stona terribilmente, cosa che
tendenzialmente mi accade con i congiuntivi sbagliati o con la consecutio
temporum sballata. Ripercorro quindi la conversazione, trovando quindi il pezzo
che non mi tornava. Sua sorella.
Gli occhi rischiano
di schizzarmi fuori dalle orbite per qualcosa a metà tra la sorpresa e
l’orrore, entrambi proporzionalmente maggiori persino a quelli conseguenti a
dover passare per moglie di Draco Malfoy. Perché poi mi faccia più ribrezzo
essere creduta sua sorella che sua moglie, lo so solamente io. Fatto sta che,
la bocca impastata, mi ritrovo a rantolare: “Sorella?! Ma chi, io?!”.
Draco mi guarda per
qualche istante, un’espressione indecifrabile sul volto che non mi dà ragione
dei suoi pensieri, solo di una serie di meteore indistinte che si affannano
negli occhi chiari.
Poi torna a
rivolgersi alla nostra albergatrice con tono di voce piatto: “No, sig.ra
Hudson, credo di averglielo detto telefonicamente. La signora è mia moglie…”,
con un gesto naturale e fluido come se ci fossimo abituati da tutta la vita, mi
poggia la mano alla base della schiena, cingendomi ed avvicinandomi al suo
fianco. Assecondo lo spostamento d’aria come se fossi una bambolina di pezza
privata di una qualsiasi gravità.
Resto a testa
bassa, turbata di nuovo dalla vicinanza di quel contatto, nella perfetta
esibizione di una moglie sottomessa e timorata di Dio, cosa che naturalmente
sono ben lungi dall’essere anche con il mio vero marito. L’odore del legno di
pino bruciato si fonde con quello del profumo di Draco, come se fossero
complementari, vicini di essenza, e li sento entrambi amplificati, penetranti,
dannatamente impossibili da ignorare. Come sempre, come ogni maledetta volta,
il profumo dell’uomo accanto a me ha l’effetto di muovere una parte nascosta
dentro il mio basso ventre, come un guizzo di tempesta ed un singulto di
ricordo. Mi struggo perfettamente muta ed immobile di nostalgia per una cosa
che non ricordo e non so nemmeno se è mai esistita e, per quanto mi sforzi di
afferrarla, sfugge come olio scivolato sull’acqua.
Il calore di
quell’abbraccio di lato mi avvampa le guance peggio del calore del camino. Per
concentrarmi su qualcosa di diverso, sollevo gli occhi tornando con un sorriso
fintamente timido a guardare la nostra albergatrice, torcendomi le mani e
tenendole ben lontane da quelle di Draco.
Ci manca solamente
innescare un’altra serie di immagini strane.
“Ah scusatemi
davvero… davvero moltissimo, che errore sciocco… “commenta la signora Hudson
con aria mortificata, asciugandosi la fronte imperlata di sudore con un
fazzoletto a scacchi e rivolgendosi poi sussiegosa nei miei confronti “Vogliate
davvero perdonarmi signora, non so perché ero convinta che foste fratello e
sorella… forse sarà stato lo stesso cognome a trarmi in inganno”.
La mano ancora
ferma di Draco sulla mia schiena mi innervosisce al punto che, in barba a
qualsiasi educazione, mormoro acida: “Sciaguratamente in Inghilterra abbiamo
ancora questa malsana usanza di prendere il cognome del marito, signora. Credo
che sia in voga da qualche millennio…”, con un piccolo balzello mi stacco da
Draco ed incrocio le braccia al petto, in un moto automatico di difesa. Lui
segue le mie manovre in silenzio, mentre concludo con una smorfia velenosa: “Credetemi,
avrei preferito di gran lunga mantenere il mio di cognome”.
Accanto a me, il
sospiro rassegnato di Draco raggiunge lo stesso grado di decibel del mantice
respiratorio di cui spesso mi accusa. Naturalmente, ha colto subito la non
velata stoccata alla noia che provo per tutta questa faccenda della falsa
identità, del cognome mutato e, non da ultimo, del fatto che debba pure fingere
di essere la sua amorevole consorte.
Quando
invece io un marito ce l’ho: e sta mettendo a letto mio figlio, adesso, dopo
che ho mentito ad entrambi per l’ennesima volta. Per chissà cosa, poi… non
potevo per una volta abbozzare e lasciar correre questa faccenda della
maledizione e non mettere ulteriormente sulla graticola il mio matrimonio
traballante?
Mi pungono gli
occhi sentendomi di nuovo estranea alla situazione che sto vivendo, spero di
poter fingere che sia per il fumo del camino nella stanza non sufficientemente
areata.
“Ha ragione,
signora, mi perdoni…” prosegue l’albergatrice profondendosi in piccoli e
ripetuti genuflessioni del capo, cosa che mi fa ovviamente intenerire e pentire
del mio accesso di astio precedente che, ovviamente, non ha lei come
destinatario.
Sto già per
scusarmi della mia antipatia dicendo di lasciar correre, quando la signora
Hudson, in un moto di esemplificazione, biascica una sorta di spiegazione del
suo errore: “… non so perché mi è venuta automatica come associazione, invece
che pensarvi sposati… sarà stato che…”.
“Sarà stato che… cosa, esattamente?” chiedo con un
sorriso statico, comprendendo esattamente dove stiamo arrivando e sfidandola
quasi a continuare. Accanto a me, Draco continua a non parlare, profondamente
intrattenuto dalla pantomima che sto mettendo in scena per suo esclusivo
divertimento.
“Niente, lasci
stare… si figuri, sono solo pensieri ad alta voce… se volete che vi sia servita
la colazione…” la signora, oramai quantomeno disperata, cerca di deviare il
corso della conversazione, evidentemente non ancora consapevole della persona
con cui sta parlando: Hermione Granger in Weasley, la
persona NON elastica per eccellenza.
“No, no, signora
Hudson, si figuri lei, non sia mai che non chiariamo questo affascinante equivoco. Perché le è
venuto più naturale pensarmi come sorella di mio marito piuttosto che come sua
moglie?”, indico Draco con un cenno del capo “Come può notare, ci somigliamo
come si somigliano le manguste e i serpenti”, nessuna analogia zoologica potrebbe essere più azzeccata “Quindi
mi pare un accostamento quantomeno azzardato. Non si preoccupi, non rischia di
offenderci, sia sincera… sono solo curiosa…”.
“Beh signora… è
qualcosa… a p-pelle, credo. Un’impressione superficiale. Non s-sembrate due che
si p-potrebbero s-sposare…” balbetta l’albergatrice, guardando a destra e a
sinistra come a cercare una fuga dalla situazione, come se qualcuno potesse
spuntare all’improvviso per salvarla. Per un curioso controsenso, però, quando
torna a guardare me e Draco, i suoi occhi restano gelidi, cristallizzati,
profondamente ancorati nel nostro esame visivo alla luce di una verità
universalmente accettata. Sebbene tutto di lei spinga alla gentilezza e alla
cordialità, compreso l’imbarazzo della situazione, lo sguardo mi fa raggelare
come se fossi stata abbandonata in mezzo alla neve.
Mi scordo però
della sensazione, fumando di rabbia per il suo commento successivo: “Lei è
così… semplice. E il signore,
invece…”. Completa il tutto con una nuova occhiata al nostro indirizzo,
stavolta un po’ più ferma sulla figura di Draco, come ad imprimersi meglio la
sua figura nella memoria.
Ogni accezione
dell’aggettivo semplice mi si scarta
ostile nella memoria, abituata da quando ero adolescente a nessun carattere di
eccezionalità estetica. È chiaro che si sta parlando di un profilo prettamente
fisico, a cui sciaguratamente sono abituata da anni. Non sono una di quelle
donne che, non appena le incontri, spingono un uomo a voltarsi e a sbavare
copiosamente per terra in preda agli scompensi ormonali. Sono una di quelle
donne che invece, troppo ingolfate e infagottate, riesce a passare indenne
davanti ai capannelli di uomini che si bevono una birra, oppure davanti ai
cantieri con i muratori che lavorano ad una ristrutturazione. La cosa,
tendenzialmente, non mi ha mai ferito eccessivamente, se non quando ero
ragazzina ed andavo in giro con Ginny che, al contrario, otteneva ed ottiene
l’effetto esattamente opposto. Ma, con la maturità e con il passare degli anni,
si arriva ad una certa consapevolezza di sé per cui tali cose non fanno più
soffrire. Non le si nota nemmeno più.
Perciò, non so
perché, il commento pure educato giunge nella carne viva di un fantomatico
fianco scoperto. Il peso della valigia che porto ancora in mano, piena di
vestiti che so già che sono inutili e che probabilmente non indosserò, mi
informano con una subitanea intuizione del motivo per cui adesso, dopo tanti
anni, un’osservazione del genere mi ferisce come se fossi una stupida
adolescente.
Draco.
Lo guardo di
sottecchi per un secondo, lo sguardo annoiato dalla diatriba, i lineamenti rischiarati
dalle ombre rossastre dal fuoco, il contegno aristocratico, il mento sollevato,
gli zigomi scavati. E in un’ellissi ideale delle pupille, guardo lui e dopo
guardo me stessa. Il cappotto bianco troppo leggero, le scarpe con il tacco
adesso infangato, i capelli freschi di messa in piega e che adesso l’umidità
del posto ha gonfiato come un pallone aerostatico.
Ho
temuto di farmi vedere accanto a lui, perché so che non è il mio posto. Perché
immagino le donne che ci sarebbero dovute essere con lui a prendere una camera
d’albergo. Perché conosco sua moglie e, sebbene Draco non la ami, ricordo
l’effetto che fanno quando entrano in una stanza. E non è l’effetto che faccio
io. Non lo è mai stato. Non sono mai stata bella, bionda, alta, magra, un
complemento perfetto a quello che è lui, non mi è mai interessato esserlo: io
sono calzini spaiati, matite a tenere assieme i capelli, occhiali calati sul
naso, postura un po’ curva. E tutto quello con cui da anni avevo fatto pace,
mentre facevo quella valigia, mi era esploso come una mina antiuomo pensandolo
accanto a lui.
E
non capisco perché sia stato così, non capisco perché ho fatto di tutto per
sembrare una che poteva stargli accanto senza sfigurare, quando non mi
interessa, quando non mi è mai interessato, quando sono la moglie di un altro e
lui è il marito di un’altra.
Perché
diamine mi interessa?
Voglio fuggire,
scappare, dare riposo a questo prurito agli occhi che non mi lascia in pace.
Invece, inselvatichita come un’Erinne, erompo ancora, conficcandomi le unghie
nei palmi delle mani: “E il signore, cosa?! Cosa vuole dire?! Che sono troppo ordinaria per stare con uno come lui?!”.
Ordinaria,
sembra un
insulto, riecheggia di tutta quella inadeguatezza che provavo nel periodo della
pubertà, magari rintuzzata da una qualche oca come Lavanda Brown. Mi si chiude
la gola, mentre penso a chissà quante volte mi sono sentita così proprio a
causa dell’uomo che mi sta ora accanto, grazie ai suoi atteggiamenti da bullo.
Un’ondata ulteriore di calore furente mi travolge, facendomi bruciare le piante
dei piedi per l’immobilismo della situazione assurda in cui mi trovo.
Ignara della mia
tempesta emotiva, la signora Hudson, sudando ancora freddo e balbettando, cerca
ancora di scusarsi mettendo toppe che sono peggio del buco da lei stessa
provocato: “No no signora, non mi permetterei mai… s-solo che sono a-abituata
che uomini così, preferiscono altre c-compagnie… più a-appariscenti…”.
Ancora la
carrellata di donne bionde, longilinee e procaci con cui il mio compagno di
viaggio solitamente si intrattiene, mi scorre davanti agli occhi in una
fantasmagoria di curve e risolini. Ciò ha lo stesso effetto del rosso negli
occhi di un toro, specie quando constato di trovarmici anche solo vagamente
accostata in un azzardo mentale. Che peraltro mi penalizza e condanna anche
come perdente.
Le guance rosse, la
testa leggera, sto già per scoppiare in un nuovo coro di obiezioni, quando
finalmente Draco, rimasto in silenzio per tutto il tempo, emette un solo lungo
sospiro che ha l’effetto di congelarmi sul posto come una statua di sale.
Irrigidendomi, improvvisamente consapevole del mio accesso irrazionale di ira
per un commento fuori luogo ma decisamente superabile, mi affloscio come un
ramoscello secco piegandomi contro il peso della schiena. Lo guardo con la coda
dell’occhio mentre, con un movimento ad arte, si passa una mano tra i corti
capelli biondi, esibendosi nella sua migliore interpretazione di nobile
annoiato dalle beghe della servitù.
Poi, senza alcun
preavviso, mi mette un braccio attorno alle spalle attirandomi ancora vicina a
lui prima di sussurrare suadente: “Mi creda, signora Hudson, le doti nascoste di mia moglie possono
compensare un nugolo di donne cosiddette appariscenti…
non vorrei che esse diventassero troppo manifeste stanotte… quindi le chiedo già scusa in anticipo se ha il sonno leggero”.
“Caro!” gli assesto una gomitata,
neanche troppo delicata nel fianco incollato al mio, cercando al contempo di
guadagnare preziosi centimetri di distanza.
“Non essere così timida, amore…” bisbiglia lui, stringendomi la
spalla che ancora cinge e destinandomi un lungo sguardo di finto desiderio
mentre si umetta il labbro inferiore “Ne andava del tuo orgoglio ferito”. Calca la parola con decisione, rimarcando
probabilmente quanto tutta la faccenda mi abbia notevolmente colpito per la
solita alterigia di tutti gli ex Grifondoro. Glielo faccio credere, abbassando
il capo come una bambina messa in punizione, rossa in viso nella stessa
identica maniera, grata che il resto della girandola dei miei pensieri
autodistruttivi sia andato perso di fronte alla sua capacità di leggere il
sottinteso.
Adesso, tutta la
sceneggiata che ho portato avanti mi fa sentire decisamente ridicola.
Draco Malfoy funge
sempre da una sorta di amplificatore costante di quello che provo, qualsiasi
cosa essa sia, fosse pure un fastidio innocuo per una frase fuori contesto o
vagamente offensiva. In certi momenti mi pare che tutto il resto che provo
durante la giornata, senza di lui, sia a volume basso, sussurrato, quasi sul
muto. Poi arriva lui, ed improvvisamente mi vibra la cassa toracica da quanto
le cose rimbombino ad una potenza infinitamente superiore.
Come
questo braccio sulle spalle: è una cosa che fa sempre Harry, o George, o Bill,
o anche Charlie. Sono sempre più bassa di loro e, quando vogliono mostrare
accondiscendenza per quello che dico, mi parlano così. Cingendomi le spalle con
un gesto innocente di affetto.
Un
tempo, quando pioveva ed avevamo solo un ombrello, anche Ron faceva così per
evitare che mi bagnassi.
Poi
invece lo fa Draco Malfoy per una finzione stupida, ed avverto ogni singolo
centimetro della pelle delle sue dita sul mio avambraccio, ogni falange così
stretta dentro la manica del mio cappotto.
I
nervi del braccio trascinano corrente elettrica fino alla punta delle mie
unghie, come a richiamare la magia che il contatto delle nostre mani
porterebbe. Un mondo in cui siamo stati altri, non questo.
Certamente,
non il marito di Astoria Greengrass e la moglie di
Ron Weasley.
Mi divincolo di
nuovo dalla stretta di Draco, facendo qualche passo di lato e fingendo di
recuperare i documenti che la signora Hudson ha finito di registrare. Sento che
lui studia la mia manovra diversiva, ma non aggiunge niente.
“Vogliate ancora
scusarmi per l’errore…” ripete per l’ennesima volta l’albergatrice,
allungandoci la chiave della stanza “Sono stata davvero inopportuna, mio marito
me lo rimproverava sempre”.
La consapevolezza
dell’esagerazione della mia reazione si stempera in un sentimento di gentilezza
ritardata per questa povera donna, cosa che mi fa chiedere comprensiva: “Mi
dispiace, è vedova?”.
“Divorziata. Mio
marito ha pensato bene di scappare con una sua amica di liceo. Mi ha
letteralmente spezzato il cuore” aggiunge con una scrollata di spalle che
vorrebbe essere noncurante, ma che invece suona solo stridente con lo sguardo
tormentato.
“Mi scusi davvero,
non volevo essere io inopportuna adesso” sussurro colpevole, guardandomi la
punta delle scarpe a disagio.
Alla mia sinistra,
Draco sbuffa rumorosamente mormorando caustico: “Invece io gradirei essere inopportuno e salire in camera nostra,
tesoro”.
La signora Hudson
lo ignora bellamente e torna a guardare me, occhi negli occhi, come se mi
trapassasse da parte a parte: “Tranquilla, signora, sono passati tanti anni. Si
incontrarono per caso, i nostri figli andavano a scuola assieme, guardi un po’
il caso. E pensare che non si erano mai sopportati quando erano ragazzi,
esistevano ancora leggende sui loro scontri nei corridoi…”, mi stringo nelle
spalle, inconsciamente faccio un passo indietro, lo sguardo di Draco addosso “Ma
quando ci si avvicina ai quaranta, si inizia quella complicata età in cui si
guarda indietro e si cercano errori ed errori…”, annuisco debolmente,
asciugandomi il palmo delle mani sudato contro la stoffa del cappotto. Lei
soppesa la mia reazione, quasi sincerandomi che la stia ascoltando
attentamente, poi prosegue con la voce cantilenante, quasi ipnotica: “Sebastian…
mio marito… ad un certo punto si è convinto che tutta l’insoddisfazione che
sentiva, si sarebbe risolta cambiando la sua compagna di vita. E quella donna…
apparentemente sembrava capirlo meglio, sembrava che semplicemente per anni non
si fossero resi conto di cosa erano l’uno per l’altra…”, il mio tentativo
maldestro di raggiungere gli occhi di Draco, sincerarmi che siano ancora su di
me, cercarli dentro il mio sguardo come una complicità inconscia di cui
pentirsi subito dopo, si infrange non appena la signora Hudson continua
stentorea, a voce più alta e secca: “Assurdo,
un mare di scuse patetiche che ci sono costati anni di sotterfugi, lettere
nascoste nei barattoli vuoti dello zucchero, trasferte di lavoro che erano solo
weekend con la sua amante…”, non ci posso
credere, deglutisco il mattone di bile che mi si è formato in gola, nella
tasca del mio cappotto vergognosamente trovo ancora la carta del messaggio di
Draco di settimane fa e che porto ancora dietro alla stregua di un amuleto. Lo
accartoccio malamente per dare sfogo alle mie dita inquiete e nervose, mentre
la signora conclude con un lungo e sofferto sospiro: “Ma la cosa peggiore è il
male che ha fatto ai nostri figli, a quelli di quella donna. Si dovrebbe
pensare due, tre, cinque volte prima di incamminarsi in qualcosa che,
potenzialmente, può fare del male ai propri figli. Sebastian non ci ha pensato…
mai”.
Hugo
che cerca di nascondere la carne dentro la montagnola del purè di patate. Che
ancora non si allacciare bene le scarpe. Che mi abbraccia le ginocchia quando
ha paura.
Rose
che ha l’odore della carta di riso. Che mangia il dolce prima del secondo. Che
adesso forse dorme in una stanza rossoro dall’altra
parte di questo lago.
E
sogna da innamorata il figlio dell’uomo che stanotte dorme sotto lo stesso
tetto di sua madre.
“Come… come è
andata a finire?” chiedo, la bocca impastata, le parole un pigolio sfuocato.
La signora mi
guarda ancora con un sardonico sorriso che pare la rappresentazione grafica di
un “te l’avevo detto”, pronunciato chissà quando e chissà a chi. Al marito,
sicuramente. Ma non so perché sembra che
abbia solo me come destinatario da bruciare sul rogo.
“Sono stati assieme
qualche anno, il tempo di togliersi lo sfizio. Si erano trasferiti anche a
Glasgow per sfuggire alle chiacchiere di paese. Poi si sono lasciati. Sebastian
ha perso tutto, il suo lavoro, la sua famiglia… e pure quella donna…”, la sua
voce viene smorzata da un singhiozzo più forte delle sue parole, si cerca un
fazzoletto nelle tasche “Non… non lo sento da tre mesi. È completamente
sparito”.
“… come potete
vedere, però, non si può dire che la cosa interessi me e mia moglie…”, la voce
di Draco, tinta di una vena amara di una specie di rabbia repressa, spezza la
malia del racconto come uno specchio che va in pezzi. Torno a guardarlo, ha la
mascella serrata, i pugni chiusi contro i fianchi: “Mi dispiace per lei, ma
come le dicevo prima del suo racconto strappalacrime,
gradirei vedere la nostra stanza”. La donna lo guarda sbattendo le palpebre per
qualche secondo, con un fondo di irritazione sporca dentro lo sguardo di
acquamarina gelida. Serrando la mascella, gli porge di malavoglia la chiave
della nostra stanza con la punta delle dita, come se venisse direttamente dalle
fauci incandescenti della terra.
Draco la afferra
con decisione, prima di prendermi per il gomito con una punta di esitazione,
forse spaventato che il contatto inneschi qualche altra visione sgradita.
Evidentemente, però, l’incantesimo risparmia qualsiasi contatto diverso da
quello delle mani, quindi resto a farmi trascinare su per le scale
passivamente, priva di una forma qualunque di controllo sul mio corpo e sulla
mia volontà come se fossi un sacco inerme di sabbia. Le spalle mi si piegano
sotto il peso enorme di una colpa che sembra una pantera acquattata nel buio
dei miei pensieri e di cui, ora, sento il respiro nell’ansa del collo, pronta a
squartarmi la pelle tenera della carotide. Il calore delle dita di Draco sulla
stoffa del cappotto, il suo respiro ansante mentre mi trascina su per le scale,
le bestemmie che mastica a mezza bocca dentro emissioni brevi di fiato irato,
giungono filtrati alle mie orecchie come se fossi in apnea e tutto si
confondesse, galleggiasse umido attorno a me.
Ogni minuto di
questa vicinanza aggiunge gironi infernali alla mia condanna, destinandomi
sempre più vicina al fondo dell’inferno, alla fornace incandescente dei
traditori; ogni puntello che prima mi preservava almeno tra i penitenti, si
sgretola come sale bagnato all’odore di erba bagnata nel mese di settembre.
Guardo di sottecchi Draco sollevando di poco gli occhi bassi, fissi sugli
scalini consumati di legno tarato. Seguo i suoi tratti rigidi, i denti che
digrigna selvaggio come un animale catturato, impastando il movimento con parole
che non riesco a decifrare.
La sensazione si
acuisce quando, finalmente, arriviamo al pianerottolo della nostra stanza e,
con una fulminea fiammata di ragionamento tardivo, mi rendo conto che la chiave
che Draco inserisce nella toppa è una soltanto e che il fatto che abbiamo finto
di essere marito e moglie non può portare a trovare dall’altra parte due letti
singoli da compagni innocui di viaggio.
Se
mai lo siamo stati mai. Se mai lo siamo adesso.
Il tenore afoso e
rinnovato della colpa mi grava addosso ad ogni centimetro esposto di pelle,
pronto a marchiarmi, nelle orecchie e nelle iridi ogni fotogramma di innocente
fiducia sprecata di mio marito e dei miei figli. Faccio per liberarmi della
stretta di Draco che, però, prima che possa riuscirci, tira fuori dalla tasca
del suo cappotto la bacchetta e la punta con un rapido movimento flessuoso al
pomello arrugginito della porta.
“Locus
praelatus” sussurra
soffuso e leggero, come se parlasse dietro le orecchie di un’amante. Una lama
di luce rosata compare per un istante sotto la porta, illuminando languida la
punta delle mie scarpe, prima di sparire con un suono metallico che ci informa
dell’apertura della porta.
Con prudenza fulminea,
Draco la apre tirandomi all’interno, per poi chiuderla rapidamente verificando
che nessuno abbia scorto nulla.
Resto immobile nel
vano della porta poggiandomi allo stipite, il cuore che non mi lascia in pace
la testa, battendo ritmico come un martello pneumatico dentro i vasi sanguigni,
mentre Draco con scafata nonchalance entra nella stanza e prende possesso dello
spazio conosciuto attorno a sé. Il mio cervello anestetizzato riesce comunque a
riconoscere l’incanto provandone una sincera ammirazione: è un Incantesimo non
semplicissimo, anzi. Consente di richiamare in qualsiasi spazio chiuso un
altro, sempre chiuso, che può essere anche lontanissimo nello spazio da dove ci
si trova. La difficoltà dell’Incantesimo è che il luogo da richiamare deve
essere periodicamente irrorato di una particolare pozione, il cui ingrediente
principale è la polvere ricavata da un corallo particolarmente costoso. Quindi,
figuriamoci se una come me possa pure permettersi di pensarci.
Cosa che, naturalmente,
non è il caso di Draco Lucius Malfoy, milionario, pozionista ed esteta. E del resto, doveva sembrarmi
immediatamente strano che non muovesse alcuna obiezione a prendere una stanza
in una locanda diroccata e muffita dentro il cuore del nulla inglese.
Può evocare una
stanza del Manor anche se fosse perso sulle montagne tibetane, basta trovare un
luogo sufficientemente chiuso.
Mentre lui si
accovaccia vicino al caminetto per accenderne il fuoco, muovo qualche passo
incerto e traballante dentro la stanza, annegata dentro un profumo intenso e
struggente di acqua di rose che mi corrode fin nel midollo delle ossa. Un
salottino dalla forma vagamente circolare, con la tappezzeria rosso rubino che
si screzia delle ombre lunghe e nere delle fiamme del camino. Due divanetti con
l’intelaiatura di legno lucido e decorato, cuscini rosso scuri di velluto con
disegni a rilievo. Un tavolino basso con un vaso di rose gialle, da cui
proviene il profumo innaturalmente intenso e sicuramente amplificato con la
magia. Tappeti orientali su cui i passi sono morbidi, soffocati, eterei. Ad
entrambi i lati della stanza, si aprono due porte gemelle, adesso vagamente
socchiuse su due camere da letto separate dall’arredamento ugualmente sontuoso.
Draco ancora armeggia con le mani chiuse a coppa, soffiando sotto i rami la
cenere e la scintilla di fiamma, e io continuo in silenzio a guardarmi attorno,
una mano sulla valigia che, per tutto il tempo, ho stretto come se ne andasse
della mia vita.
La claustrofobia
aumenta esponenzialmente quando, come una sonnambula, guardo fuori dalla
finestra afferrando l’intelaiatura della tenda pesante di broccato con le dita
tremanti. All’esterno, non si vede né il Lago nero e il villaggio di Fort
Lachlan, ma nemmeno le montagne e i boschi attorno al Manor. C’è solamente
un’oscurità densa, stopposa, lanosa.
Nero, nero a
perdita di sguardo.
Chiudo gli occhi,
paradossalmente abbagliata facendo qualche passo indietro per metterci
distanza, come se il nero potesse spalancare le fauci in un bagliore e mangiarmi
tutta intera.
Mi rimpicciolisco
nelle spalle, Draco ancora ignaro dei miei gesti, preso com’è dal camino che
non si accende. Tengo gli occhi serrati annullandomi dal momento presente, da
questo luogo che non esiste da nessuna parte, da cui non so nemmeno se si può
uscire e tornare a casa sani e salvi, senza l’odore di rose che si appiccica da
ogni parte svelando ogni frammento di desiderio ingerito dentro le
giustificazioni e i dinieghi, le preghiere e i ricatti, i compromessi e i
sotterfugi.
Questo
è un luogo per dare l’illusione che ci si possa restare per sempre. Nutrendosi
di aria e vento, come le lenzuola raccontano da ammalianti sirene, frusciando
sui corpi nudi e sfrigolando di promesse di carta velina. Lasciando tutto
fuori, nell’illusione che il buio si sia mangiato tutto, che la fine del mondo
sia arrivata ed abbia lasciato solo te e lui come unici sopravvissuti ad amarsi
fino al termine del tempo tutto. O fino al termine di un orgasmo sudato contro
una spalla morsa a sangue. Perché dopo ci sono solo due camere da letto
separate, così da mettere subito in chiaro che non ci saranno carezze,
risatine, appuntamenti, occhi chiusi, dita tra i capelli e guance poggiate
sull’incavo di una spalla. Niente. Solo letti vuoti, coperte fredde, movimenti
rapidi nel rivestirsi, zigomi sporchi di mascara e colletti macchiati di
rossetto. Magari uno sguardo perso attraverso il nero della finestra, la
sensazione angosciante che improvvisamente sia entrato anche dentro, si sia
rimpicciolito a misura del torace, inghiottendo ogni speranza futura di luce.
Deglutisco il
groppone che minaccia di soffocarmi, forte, con ferocia, mentre gli occhi si
saturano di tutti i particolari dell’ambiente, tutti troppo studiati perché sia
la prima volta che Draco ci porti qualcuno. Ogni cuscino, ogni increspatura
delle tende, ogni crepa del pavimento raccontano la storia delle donne che sono
passate da qui, impregnando della loro presenza questo posto per il tempo di
una scopata veloce, per poi scivolare furtive come farfalle di seta,
dimenticate, inesistenti.
Del
resto, ho visto la sua mente,
penso con un singhiozzo trattenuto guardando i muscoli della schiena di Draco
contratti, il fiammifero che si spegne antipatico tra le sue dita, nessuna donna è mai rimasta indimenticabile,
erano tutte un calderone di colori brillanti fusi assieme, un punto di piacere
minuscolo dove nessuna si distingueva davvero.
Nessuna.
Ed un giorno, in mezzo a loro, ci sarò anche io. Una mera ombra sfilacciata,
con cui non ricorderà nemmeno se ci è stato a letto. Solo che è stata qui, e
quindi probabilmente se l’è fatta ma non è stato granché.
Studio le linee
delle sue scapole, il collo rigido ancora di spalle a me.
Non
un altro uomo. Non uno qualsiasi, uno che non è appariscente, uno che si
dimentica, uno che si confonde con gli altri, uno che adesso è uguale a tutti
gli altri. No: uno che ha le mani calde che odorano di pioggia, uno che bisogna
guardare dal basso verso l’alto, uno che stringo a me in questa e in una vita
prima, uno che spegne tutte le voci nella mia testa, quella del marito, persino
quelle dei figli.
Consapevole del mio
sguardo, Draco alla fine si volta su sé stesso, ancora accovacciato per terra, sbuffando
e sfregando le mani contro uno straccio polveroso. Ha le labbra rosse, la
camicia che, per il sudore dello sforzo, aderisce meglio al torace. I capelli
rasati fanno risaltare gli occhi grigi come se fossero retroilluminati da un
bagliore nascosto, mentre inarca un sopracciglio e fa una smorfia infastidita
aggiungendo melenso: “Se mi dessi una mano, sarebbe una cosa gradita, tesoro…”.
Arrossisco
furiosamente da capo a piedi, colta in fallo, tutto che mi scoppia in faccia,
addosso, ovunque, in una vampata di calore così intensa che credo che si legga
in ogni parte del mio volto.
“Granger?” chiede
Draco con tono tra il sorpreso e il preoccupato, inclinando la testa di lato e
puntellandosi sulle palme per rimettersi in piedi.
Il cuore mi
sobbalza contro le costole, non è uno
qualunque. Non è uno dei tanti.
Non
lo è per me.
“S-scusami, sono
un’incapace con gli i-incantesimi i-i-incendianti…” balbetto, il labbro
inferiore che mi trema senza sosta. Distolgo lo sguardo da lui, lo punto contro
la porta della camera dove non gli ho visto lasciare la valigia: “S-sono
m-molto s-stanca. Domani d-d-dobbiamo alzarci presto per incontrare Radcenko. S-sarà meglio che v-vada a l-letto. Buonanotte”.
Senza attendere la
sua risposta, senza guardare la sua reazione, apro la porta della camera e mi
ci chiudo dentro, restando nella penombra dondolante di una candela accesa sul
comodino.
Scivolo contro la
porta, mille ronzii nelle orecchie, nascondendo il viso nelle palme delle mani.