Autobus numero 23

di _blueebird
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I - L'imbarazzo ***
Capitolo 3: *** II - L'incontro ***
Capitolo 4: *** III - Confessioni ***
Capitolo 5: *** IV - Incomprensione ***
Capitolo 6: *** V - L'errore ***
Capitolo 7: *** VI - Perdono ***
Capitolo 8: *** VII - La solitudine ***
Capitolo 9: *** VIII - Progetti ***
Capitolo 10: *** IX - Lacrime ***
Capitolo 11: *** X - Delusione ***
Capitolo 12: *** XI - Colori ***
Capitolo 13: *** XII - Pioggia ***
Capitolo 14: *** XIII - Catrame ***
Capitolo 15: *** XIV - Sentimenti ***
Capitolo 16: *** XV - Petali ***
Capitolo 17: *** XVI - Requiem ***
Capitolo 18: *** XVII - Decisione ***
Capitolo 19: *** XVIII - Case rosse ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Lo confesso, non sono mai stata la persona più sicura di questo mondo. No, sinceramente non lo sono proprio.
E con questi pensieri che era cominciata la mia giornata. Uno schifoso martedì mattina di primavera. L’erbetta irrigidita dal freddo mi ricordava che era ancora presto per pensare all’estate e che mi mancavano ancora molte insufficienze, prima di chiudere definitivamente i battenti e mettere via lo zaino e i libri nell’armadio.
 
Rachele arrivò alla fermata del bus con un energia e un sorriso invidiabile. I sui capelli ricci e rossicci le ricadevano morbidi lungo le spalle, uscendo a ciuffi fuori dal berretto. Le lentiggini le incorniciavano gli occhi azzurro-verdi  sempre luminosi ed amichevoli. Come faceva a essere così bella di prima mattina? “Buongiorno!” Urlò a squarciagola svegliando una signora che si era assopita sulla panchina. “Ssh, Rachele!” Le dissi guardando con la coda dell’occhio la signora anziana. “Uff…  Camille!” Sbottò con una faccia così buffa che non potei non ridere.
 
Arrivata a scuola salimmo tre rampe di scale e ci dirigemmo in aula. ‘3C’ Indicava il cartello scritto in grassetto, fuori dalla porta. Appoggiai lo zaino vicino al banco e sospirai. “Ciao Cami!” Mi sorprese Ludovica appena arrivata anche lei. “Hai studiato per l’interrogazione di latino?” Chiese. “Mmmm.. . Non troppo a dirla tutta. Ieri sono dovuta a andare a pallavolo e verso sera è arrivato a casa mio fratello da Berlino. Abbiamo festeggiato con una grande cena. Mia madre era al settimo cielo. E’ rimasta tutto il giorno in cucina distruggendo padelle e scodelle. Abbiamo seriamente rischiato la morte tutti, ieri, assaggiando i suoi piatti!” Ludovica scoppiò in una risata fragorosa nello stesso momento in cui suonò la campana.
 
Due. Fottute. Ore. Di. Latino. Dio probabilmente aveva ascoltato le mie preghiere, perché la Tedeschi  si era completamente dimenticata dell’interrogazione e si era messa a parlare di quanto Cesare fosse incredibilmente abile a scrivere un testo così semplice e coinciso come il De bello Gallico.
Così passai il tempo a scarabocchiare il banco. Faccine buffe, un cane stilizzato… e senza accorgermene scrissi un nome. Un nome che torturava i miei pensieri e le mie notti più di quanto desiderassi.  Fabio. Era da Novembre che questo nome era entrato prepotentemente nei miei pensieri e mi seguiva in ogni momento. Lento e inesorabile mi faceva arrossire. Non potevo fare finta di ignorare quello che provavo per lui. Era qualche cosa di intenso, che si diffondeva inesorabile dentro la mia testa.
 
“Prof posso uscire?” Chiesi. La Tedeschi mi fece un segno con il capo. Uscii. “Oh Dio, grazie per aver inventato i cessi!” Sussurrai. Mi spostai con una mano il ciuffo di capelli, biondo paglia, che mi ricadevano sul viso e mi diressi verso il corridoio.
E fu li che lo vidi. Alto e moro. I jeans stretti e quella maglia aderente che, beh, mostrava il fisico di un diciottenne che faceva nuoto da ormai una vita. Ve lo assicuro. Non avevo mai visto delle spalle così muscolose e grandi prima. Avvampai.
Camminai lungo il corridoio fingendomi sicura di me. Non ero mai stata una brava bugiarda. Dovevo per forza passargli accanto per arrivare al bagno. Non vi era altro modo.  In quel momento alzò gli occhi, verso di me. Deglutii. Porca vacca. Sto per morire. Non arriverò salva a casa, me lo sento. Il cuore mi balzava in petto come se volesse strapparmelo e fuggire via.
 
Continua a camminare, pensavo, continua a camminare. 5 metri. L’ansia aumentava ad ogni passo. 3 metri. Dio spero di non essere troppo rossa. Avrei dovuto vestirmi meglio. Dio perché non mi sono vestita meglio oggi, cazzo?! 1 metro.
 
Non smetteva di guardarmi. Ma io ero troppo imbarazzata per sostenere il suo sguardo. Così gli passai accanto senza guardarlo. 2 metri più in là. “Ciao” Pensai. Non glielo dissi.
 
Ero tornata dal bagno, davanti alla classe pronta per entrare. Mi voltai verso la sua aula e lo vidi. E rimanemmo lì, a fissarci per un secondo. O forse era trascorsa un’ intera un ora, non lo so. So solo che mi sorrise e da quel giorno io non fui più la stessa. 

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Capitolo 2
*** I - L'imbarazzo ***


 Lenta e malinconica, la calda voce di Sinatra si espandeva lentamente nell’abitacolo della macchina. Avrei potuto immaginare le mani del chitarrista pizzicare le corde del suo strumento, i calli sul pollice, per averla usate troppe volte senza plettro. Mi voltai verso mamma. Guidava sicura di se, i capelli neri raccolti in una coda, gli occhiali da sole sul viso e quel suo modo di mordersi il bordo delle labbra che le era solito fare quando era pensierosa. Così mi voltai di nuovo verso il finestrino.

Le vie della città erano affollate come sempre. Una signora anziana tenuta sottobraccio dalla sua probabile figlia, attendeva paziente di attraversare la strada. I semafori, la gente ferma sulle panchine a chiacchierare con i caffè take-away in mano. Tutto così familiare, anche se, c’era qualche cosa di diverso. La città non era mai davvero la stessa. Ogni giorno vedevo in lei particolari nuovi che mi erano sfuggiti la volta prima.

“Siamo arrivati” Esortò mamma. Mi allungai dietro verso il sedile posteriore per recuperare il borsone da ginnastica. Mi sporsi un po’ di più perché non ci arrivavo, sentendo così premere la cintura sul mio costato. Recuperato il tutto guardai mamma. Mi fece un sorriso dolce. Questo sorriso era quello di una donna giovane e matura, che riesce a cancellare tutti i suoi problemi con un pizzico di grinta e determinazione. Mi consolava sempre questo sorriso, qualsiasi problema avessi. “Divertiti.” Mi chiese un bacio porgendo la guancia, per evitare di doversi sporcare il rossetto. Glielo diedi e scesi dalla macchina.
Lo spogliatoio era già pieno di ragazze che si cambiavano. Feci altrettanto e poi entrai in campo. Stefano quel giorno era probabilmente di cattivo umore perché ci fece sudare più del solito e ammettiamolo, io odiavo correre. Forse se mi fossi allenata sarei stata anche brava, ma ero incredibilmente impacciata e la mia forza di volontà era praticamente nulla. Era per questo che avevo scelto la pallavolo. Amavo buttarmi a terra, amavo inarcare il corpo per schiacciare, amavo tutto di questo sport.
Due ore volano in fretta quando ti diverti. Infatti ero seduta sulla panchina dell’entrata con Elisa, la mia compagna di squadra, ad attendere mia madre. Mi ero distratta un secondo a guardare la palestra vuota quando mi vibrò il telefono nella tasca dei jeans. Lo estrassi con cautela. Un messaggio. Mamma. ‘Tesoro sono andata un secondo al supermercato. Tarderò 5 o 6 minuti ;)’ Porca puttana. Se c’era una cosa che odiavo era aspettare. Da sola, qui come un idiota in una palestra vuota. Toccai lo schermo nella sezione ‘componi’ ma poi cambiai idea.

“Che c’è, tutto bene?” Mi chiese Elisa sporgendosi un attimo per osservare la mia espressione. No. Non va tutto bene. Odio aspettare cazzo. Sospirai. “Si. Insomma mia madre è al supermercato, ci metterà più del previsto.” Dissi guardando lo schermo del telefono oscurato. “Se vuoi possiamo fare un giro nella palestra accanto. Penso che stiano facendo una partita a basket. Così, giusto per passare il tempo.” Perché no. Tanto che cambiava. Una palestra o l’altra non faceva differenza. “Ma sì. Andiamo.” Dissi. Ci alzammo e uscimmo.
La ghiaia scricchiolava sotto il nostro peso e la borsa con i vestiti, tintinnava ad ogni passo. “Andiamo sulle tribune?” Mi chiese l’Eli, voltatasi verso di me. “Si, prima però vorrei vedere chi c’è dentro.” Dissi dirigendomi verso una finestra. “Ok, ti aspetto dentro allora.” “Certo, vai pure” Le dissi rivolgendole un sorriso.
Dannazione. La finestra è troppo alta. Devo cercare qualche cosa per raggiungerla. Mi girai intorno per cercare qualche cosa sul quale avrei potuto avvicinarla. Guardai dall’altra parte della strada. C’era un cassonetto di quelli piccoli per la raccolta differenziata. Fantastico. Corsi a prenderlo guardando bene che non ci fosse nessuno nei paraggi. Lo posi sotto la finestra e vi salii su con i piedi. Oh, adesso sì che si ragionava. Era vero, c’era una partita in corso. Alcuni ragazzi stavano scherzando al centro campo, mentre uno di loro tirava a canestro. Altri erano seduti. Poi vidi un ragazzo moro, che era appena uscito dallo spogliatoio. Una canotta bianca e sudata gli percorreva il torace e stringeva con le mani l’asciugamano che portava al collo. Avevo visto troppe volte quel profilo, quei capelli, quelle spalle per non riconoscerlo.

Dio Cristo era proprio lui. Cosa ci faceva in palestra? Lui fa nuoto…  probabilmente era li con degli amici, giusto per fare una partita. Il mio cuore cominciò a battere così forte che riuscivo a sentirlo premere contro le costole. Mi sentii le guance bruciare. Non volevo trovarmi lì, su un cassonetto dell’immondizia davanti ad una finestra. Mi sentivo una stupida. Feci per scendere quando un piede perse stabilità, probabilmente per l’umidità sulla plastica. Chiusi gli occhi e in un momento mi ritrovai a terra. Avevo fatto troppo rumore perché nessuno se ne fosse accorto.
Oh.  Merda.
 

*Angolo dell'autore*
Mi scuso se il prologo non l'ho reso "esteticamente" bello, ma sono nuovissima e
davvero non avevo la più pallida idea di come sistemarlo.
Ma sto cercando di rifarmi :D
Ditemi cosa ne pensateeeeee -Sel-


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Capitolo 3
*** II - L'incontro ***


Avrei dato qualsiasi cosa per non trovarmi lì in quel momento. Sentivo il mio visto pesante, come se tutto l’imbarazzo che si potesse mai provare, gravasse su di esso come un macigno. Stavo bollendo. Il sangue irrorava violento ogni mio capillare, ogni mio centimetro di pelle facendomi girare la testa. Non qui, non ora. Passò si e no qualche secondo dal mio volo a terra che dei passi veloci e una voce preoccupata avanzavano verso la porta. Si aprì. Così alzai il viso. Un paio di occhi blu scuri carichi di preoccupazione mi guardavano. Non sapevo cosa dire. Fabio si chinò verso di me ponendomi la mano. “Tutto bene?” Mi chiese preoccupato. Non lo sapevo. Non sapevo se stavo male per la botta o per l’imbarazzo misto all’ansia che provavo in quel momento. “S-si.” Risposi titubante, cercando di convincere anche me.

Gli afferrai la mano con la sinistra mentre con la destra feci forza per alzarmi. Barcollai un attimo, ma con fare deciso Fabio mi sorresse stingendomi. “Hey, attenta!” Disse sorridendo, facendo intravedere i denti bianchissimi. Accennò a una piccola risata soffocata cercando di sdrammatizzare. “S-scusa. Sono scivolata. Hem.. . non volevo…” “Tranquilla. Capita a tutti. Beh devo dire che sei stata fortunata. C’è una bella schiera di uomini dentro la palestra pronti ad arrivare a soccorrere le belle fanciulle indifese.”

“Tutto bene?” Chiese un altro ragazzo sbirciando fuori dalla porta. “Si tutto ok. Vai pure a giocare.” Disse Fabio. Tornammo a guardarci per un secondo. Un sorriso. La sua bocca. Il suo respiro caldo. Le sue spalle. Le braccia che tenevano le mie. Si sciolse dalla presa e io mi sentii improvvisamente vuota. Le mie mani bramavano di toccare ancora la sua pelle nuda e calda, come quando fatichi ad abbandonare il letto caldo nelle fredde mattine d’inverno o come quando mangi un gelato buonissimo che però finisce in fretta.

“Quindi…” Mi disse mettendosi le mani nelle tasche dei pantaloncini guardando la porta rossa della palestra, “… non sapevo che giocassi a pallavolo, Camille.” Disse sospirando piano il mio nome. Come… faceva a sapere che giocavo a pallavolo? Ah il borsone. Già. Probabilmente si era chiesto in precedenza chi stesse facendo tutto quel baccano nella palestra accanto. E se… ci avesse spiato anche lui, come avevo fatto io dalla finestra? Avvampai. “Hem, si… “ Dissi abbassando lo sguardo imbarazzata. Aspetta un secondo… “Come fai a conoscere il mio nome?” Chiesi incuriosita. Le sue labbra si incurvarono in un sorriso lieve, anche se non ero sicura che fosse un vero sorriso, in confronto a quelli precedenti. “Beh dopotutto sei nella mia stessa scuola. E per giunta nel mio stesso corridoio. Come avrei potuto non notarti?” Quella frase si incise nel miei pensieri come le leggi date a Mosè si erano incise sulle tavole. Rimbombava in ogni mio neurone, in ogni stanza immaginaria che il mio cervello possedeva e lo colmava tutto, come se prima fosse sempre stato vuoto e pieno di polvere.

“Inoltre prendi sempre il 23.” Disse con un solo respiro. “Cosa?” “Il 23. L’autobus numero 23.” Oh.

Conosce.

Quale.

Autobus.

Prendo.

Arrossii. Si era forse accorto di me? Una vocina dentro di me fece una risata fragorosa. No, non era possibile.

Per quanto odiassi aspettare, oggi avrei potuto attendere anche vent’anni. La ruote della macchina di mia madre, appena entrata nel cortile delle palestre, scricchiolavano sotto la ghiaia. “Ciao.” Dissi. Questa volta ci riuscii. Mi sentii così orgogliosa di me per averglielo detto. La volta prima non ci ero riuscita. “Ciao, Camille.” Per la prima volta in vita mia amavo il mio nome. Sospirato così dolcemente dalla voce maschile che amavo tanto, che avevo sognato tanto, che rimbombava insistentemente dentro di me, colmandomi tutta. Rimasi un instante a guardarlo entrare in palestra, prima di salire in macchina. Non ero mai stata così felice.

Seduta al caldo, sul comodo sedile del passeggero mi ricordai del telefono. Lo estrassi dai Jeans. Un messaggio e due chiamate. Tamara. “Guai in vista. Stasera telefonami che ti devo parlare.”

Cosa sarà mai successo? Mi chiesi, mentre la cominciava una nuova canzone di Sinatra, traccia numero 13.


*Angolo dell'autore*
Ve lo assicuro, ho in mente mooolti colpi di scena per questa storia...
ce ne saranno delle belle.  :)
Ditemi cosa ne pensateeeeee -Sel-

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Capitolo 4
*** III - Confessioni ***


Ero comodamente seduta sul letto. Le spalle adagiate sui morbidi cuscini colorati – ne avevo una vera e propria ossessione – il portatile sulle ginocchia e il caldo pigiama grigio con le stelle bianche che mi avvolgeva in un caldo abbraccio. Osservavo stanca il monitor senza fare nulla. La scritta Google rimaneva lì, immobile e piatta come l’acqua del lago, quando non soffia il vento. I secondi passavano lenti e inesorabili, scanditi solo dal ticchettio dell’orologio sulla parete. Ad un tratto sentii il telefono vibrare sul comodino. Spostai il portatile sul letto e mi sporsi per prenderlo. Il viso di Tamara comparve sullo schermo.

“Pronto” Dissi.
“Ciao Cam! Ho un sacco di novità da riferirti.” Urlò Tamara dall’altra parte del telefono. Come al solito non lasciava spazio a convenevoli. Se Tamara fosse stata un oggetto, sarebbe di sicuro stata un treno ad alta velocità. Come i treni Giapponesi, che percorrono tutta l’isola in poche ore. 
“Mio fratello mi ha detto oggi che fra due giorni tornerà a casa Gian Marco da Londra. Dio sono così contenta! Non vedo l’ora. Quando mi aveva detto che sarebbe partito, due mesi fa, non volevo. Non volevo che se ne andasse anche se per poco.”

Gian Marco è il migliore amico di Luca, fratello gemello di Tamara. Ne era innamorata da sempre; probabilmente dalla prima volta che lo aveva visto si era persa tra i sui caldi occhi nocciola, incantata dal suo modo di fare, sempre dolce e pacato. Immaginai il viso di Tamara arrossarsi lievemente e la sua bocca carnosa piegata in un immenso sorriso che mostrava i denti perfetti.
“Sono felice per te Tamara!” Dissi dolcemente.
“Ma non è di questo che voglio parlarti.” Esortò. E cos’altro se non di questo?
“Voglio dirglielo. Non ce la faccio più Cam. Lo deve sapere. Deve sapere quali sono i miei sentimenti, che lo amo da quando ero piccolissima, che ho sofferto tanto quando si era trovato una ragazza e che ho gioito quando si sono lasciati, sperando che finalmente si fosse accorto di me. Sai ho letto su una rivista…”
“Oh una rivista!” Dissi ironica.
“ Si proprio così. Diceva che se un uomo non fa la prima mossa, devi essere tu a prendere le redini della relazione. Devi essere tu a farti avanti.” La parola relazione stonava un po’all’interno della frase. Probabilmente nemmeno lei era sicura della parola che aveva usato, troppo concreta per definire il loro rapporto.
“Si assolutamente! Concordo in pieno. Penso che…” Mi bloccai. Mia mamma mi urlò dal piano di sotto di piantarla di parlare al telefono perché a quest’ora avrei potuto disturbare i vicini. Come se non li avesse disturbati abbastanza lei dopo tutte le urla che aveva fatto.

Sospirai. “Tamara, ci sentiamo domani.” Bisbigliai. “Mia mamma rompe.”
“Non ti preoccupare.” Mi disse. “Ho una mamma anche io.” Scoppiò in una dolce risata. Sorrisi. “E tu invece? Non hai delle novità, magari qualche ragazzo?” Mi chiese sospettosa.
“Hem…” Balbettai. Era diventata un’ indovina per caso? Avvampai. “Hem…  adesso devo proprio andare Tam. A domani. “ Pigiai termina sul monitor del cellulare.
 
Feci un lungo sospiro. Dannazione, adesso mi tormenterà fino all’esasperazione. Tamara era molto simile a Rachele da un certo punto di vista. Esuberante e determinata, quando intuiva qualche novità voleva subito saperne i particolari. Aveva il fare da giornalista. Gettai l’occhio al computer di fianco a me. Lo schermo si era oscurato. Lo appoggiai sulle gambe incrociate e aprii Facebook.
 
Nello stesso istante successero due cose. Arrivò un messaggio di Tamara che mi chiedeva di andare in discoteca con lei sabato, perché probabilmente ci sarebbe andato anche Gian Marco.
 
Fabio mi aveva mandato un messaggio nella chat del social network. Le mani tremavano incontrollabili e sentivo un gran caldo in viso. Mi immaginavo già i titoli dei giornali, il giorno dopo. Ragazza muore per un attacco cardiaco. Fabio indagato.
Risi interiormente sciogliendo un po’ di ansia. Il messaggio risaliva a 7 minuti prima. Che sia ancora connesso? Ero così in ansia e accaldata che avrei potuto alimentare una centrale termica.
 
-  Come stai? Ti sei ripresa dalla caduta di oggi? –
Diceva il messaggio. Non so se avvampai per l’imbarazzo della caduta o per il fatto che mi aveva mandato un messaggio.
Ricordai cosa diceva la rivista di Tamara. Devi essere tu a farti avanti. Spero che quella fottuta rivista abbia ragione.
Mi misi on-line in chat.
 

Era connesso. 





*Angolo dell'autore*
Mi scuso per aver pubblicato il capitolo solo adesso, ma ero un po' impegnata. :)
Spero vi possa piacere. 
p.s. Camille è ossessionata dai cuscini, come me :3 lol.

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Capitolo 5
*** IV - Incomprensione ***


La settimana era trascorsa in modo incredibilmente veloce. A parte il martedì, che era stata una giornata impegnativa da tutti i punti di vista, gli altri giorni erano volati, tra partite di pallavolo, qualche interrogazione e fette di torta mangiate a casa delle amiche.
Per la prima volta Fabio mi aveva scritto, per non parlare dell’incontro alle palestre dopo la brutale caduta dal cassonetto dell’immondizia. Il massimo che mi sarei aspettata dalla nostra relazione tra i banchi di scuola, era un semplice ciao. Questo superava di gran lunga le mie aspettative.
Quel martedì avrebbe dovuto essere incorniciato come il 6 e mezzo in matematica, come il biglietto per il concerto del tuo cantante preferito o come la mancia della nonna per Natale.
Ci eravamo scambiati poche parole, ma erano bastate per farmi toccare il cielo con un dito. Quella stupenda sensazione che si crea quando la persona che ami più di te stessa si accorge di te, tra 7 miliardi di persone.
 
-Come stai? Ti sei ripresa dalla caduta di oggi?
-Si grazie. : ) Mi dispiace di avervi fatto preoccupare.
-Hahah  xD Tranquilla. L’importante è che tu stia bene
-Si, diciamo che respiro ancora.
-Hahaha.  Azz.. devo andare, a mio fratello serve il computer per una ricerca. Mi dispiace. Ci sentiamo ti va?
-Certo! : D Grazie di tutto davvero Fabio. Sei stato così gentile! Notte.
-Notte :)
 
Non avevo fatto altro che ripetermi le poche parole che ci eravamo detti e rivivere centinaia di volte la scena in cui ero tra le sue braccia, per la restante settimana.
In classe. A casa. Prima di addormentarmi. La mia testa era diventata un enorme multisala in cui venivano proiettati a tutte le ore i film de ‘Utopia di un amore ‘ nei momenti di estrema malinconia, per poi passare a ‘Bacio alle palestre’  in quelli di romanticismo fino a ‘Figli perfetti’ in cui fantasticavo sui possibili nomi per i miei futuri figli che si potessero abbinare al suo cognome.
 Puntualmente però i film non finivano mai, anche perché si ripeteva sempre la scena più bella. Probabilmente gli spettatori del mio cinema personale si erano stufati di mangiare pop corn al burro e a guardare sempre la stessa vicenda ed erano scappati via urlando, magari diretti in un altro cinema che proiettava Gozzilla.
 
E così era arrivato il sabato. Con i piedi piantati a terra come se fossero due macigni, l’asciugamano arrotolato intorno ai lunghi capelli biondi appena lavati.  Fissavo schifata l’armadio, come se dentro vi fossero chissà quali mostruosi oggetti di tortura. “E così ci rincontriamo.” Dissi rivolta all’armadio aperto. Le palle di fieno rotolavano intorno a noi e il vento del deserto soffiava forte. La musica western riecheggiava di sottofondo e l’armadio aveva la pistola carica pronta a sparare.
 
“Che cazzo mi metto?”  Dissi con un’espressione interrogativa. Estrassi un paio di leggings neri, una canotta bianca e una maglia a maniche corte con fantasia “galassia” che lasciava scoperta una spalla. Molto tranquilla per una serata in discoteca. Mi preparai in fretta.
Feci appena in tempo a finire di farmi la piastra che arrivò Tamara. I sui ci avrebbero portato allo Scalo 23 discoteca poco lontana da casa, giusto a 10 minuti di macchina.

In auto c’erano anche suo fratello e Gian Marco, il primo seduto davanti e il secondo vicino a me. Dopo aver salutato le persone nell’abitacolo ed essere usciti dal vialetto di casa mia non potei non intrattenere una conversazione con il ragazzo vicino a me. “Gian che bello rivederti! Allora com’è andata a Londra? Lo sai che mi dovrai raccontare tutto vero?” Dissi allegra. Sul suo dolce viso si stampò un dolcissimo sorriso un po’ imbarazzato. “Hem, certo, assolutamente! Ah è una città bellissima Camille, mi sarebbe piaciuto che ci fossi stata anche tu.”
Non so come mai ma notai un lieve rossore sulle sue gote in quel momento.
“ Ti ho portato anche una cosa.” Una cosa? Inarcai le sopracciglia. Feci per chiedergli di che cosa si trattava ma il padre di Tamara mi chiese delle notizie su mio fratello, facendomi  dimenticare cosa dovevo chiedere a Gian Marco.
 
Entrammo verso mezzanotte. Non era molto grande, la sala da ballo era discreta e a lato di essa vi erano dei divanetti color mattone di finta pelle dove si ammassava la gente che aveva prenotato il tavolo. C’erano dei ragazzi bellissimi da ogni parte. Alcuni ridevano tra loro, altri ballavano e incitavano il DJ. Perché non c’erano ragazzi del genere nella mia scuola? No, non era del tutto vero, uno ce n’era. Arrossii nella penombra delle luci viola psichedeliche.
 
In quel momento di imbarazzo sbocciato dal nulla, mi voltai lievemente e vidi che Gian Marco mi stava guardando. Gli occhi nocciola e la bocca socchiusa. Non feci in tempo a formulare un pensiero che Tamara mi prese per mano e mi trascinò in pista. C’erano anche Ludovica, Giulia e Lucrezia in mezzo alla folla e le abbracciai dolcemente. Ludovica provò a dirmi qualche cosa ma non capii per via della musica troppo alta.
Ballammo tutti insieme, le mani in alto, i sorrisi complici. Due ragazzi mi chiesero di ballare, ma dopo una canzone mi liberai di loro perché in quel momento volevo solo restare con il mio gruppo di amici e basta.
Ed era ancora lì, lo sguardo di Gian Marco che cercava i miei occhi. Non capivo.
Mi sentivo continuamente osservata. Avevo qualche cosa sul viso?
 
Urlai ai ragazzi che mi serviva un boccata d’aria e che li avrei raggiunti più tardi. Annuirono, così  mi avviai verso la porta.
Mi feci strada tra qualche ragazzo e presso la porta sentii una mano posarsi sulla mia spalla. Mi girai ed era Gian Marco, visibilmente imbarazzato. Avvicinò il suo viso pericolosamente al mio e con voce e sguardo fermo mi disse: “Ti devo parlare.”



*Angolo dell'autore*
Bene bene, eccomi qui. Adesso comincia a farsi interessante la vicenda... Lo avrete già intuito che sta succedendo qualche cosa di inaspettato per la nostra Camille, ma si vedrà meglio nel prossimo episodio. :3
Questo capitolo è un pochino più lungo perchè ho dovuto omettere qualche giorno della settimana e descrivere le sensazioni della protagonista in merito a ciò che era successo nei giorni precedenti. 
Mi scuso anche per il ritardo. Se trovate degli errori, mi scuso anche per quelli :D
Commentateeeee!
-Sel-

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Capitolo 6
*** V - L'errore ***


Tutta la pacatezza e la tranquillità che caratterizzava Gian Marco era svanita in quell’istante. Non avevo mai visto i suoi occhi sotto quella luce, così determinato, quasi febbrile. Per un istante ebbi paura.
“V-va bene.” Sussurrai. Spinsi la porta di vetro della discoteca e uscii.
Il freddo di marzo mi accarezzava la pelle nuda e chiara delle braccia e i capelli ondeggiavano ribelli nel vento della notte. Di fronte all’entrata della discoteca c’era uno spiazzo abbastanza riparato, dove la gente si fermava a fumare o per fare due chiacchiere in santa pace, lontano dal frastuono della musica house trasmessa degli altoparlanti. Qualche divanetto poco più in là, di color mattone, come quelli che vi erano all’interno.
 
“Vieni.” Mi disse sfiorandomi il braccio all’altezza del gomito per incitarmi a seguirlo. Aveva la pelle calda.
Lo seguii con esitazione verso un angolo dello spiazzo dove avremmo potuto parlare senza essere interrotti. A colmare il nostro silenzio c’era una canzone martellante che non conoscevo, proveniente da dietro le grosse porte di vetro opaco.
Tremavo. Forse tremare era un po’ riduttivo, visto che ero in preda a delle vere e priorie convulsioni dovute al gelido freddo che si insinuava in ogni parte del mio corpo; come un gatto che ti striscia addosso, vorace di coccole.
Mi strinsi le braccia e inarcai la schiena per farmi più piccola evitando di disperdere calore utile. Per terra c’erano mozziconi di sigaretta e qua e là bicchieri di plastica vuoti.
“Camille…” Sussurrò. Alzai lo sguardo verso di lui, cosa che mi costò una fatica immensa. Come diavolo faceva a non sentire freddo? Era a maniche corte come me, ma sembrava quasi a suo agio. Pazzesco. Perché non ero un uomo?
 
“Ci ho pensato molto quando ero a Londra.” Hum? Le mie sopracciglia si incurvarono dubbiose. “ Tra tutti quei palazzi, musei e negozi sono riuscito a trovare anche spazio per pensare.” Adesso si che ero davvero curiosa. Alzò lo sguardo in alto e riprese: “Stare lontano da casa penso mi ha fatto bene. Sono riuscito a capire cosa avevo davvero bisogno. Hai presente quando hai voglia di scappare da tutto e da tutti, lasciare la città…  Andartene ovunque, basta che sia lontano da qui? Ti è mai successo?” Annuii. Più di chiunque altro, io sapevo cosa si provava a voler scappare, andarsene, mollare tutto. Ma davvero non capivo dove voleva andare a parare. “Vedi, anche se ero lontano centinai di chilometri dall’Italia, c’era qualche cosa mi obbligava a pensare a casa. Incessante e imperterrito. Volevo tornare.”
 
Davvero non capito tutto questo giro di parole. Se voleva parlarmi di Londra avrebbe potuto aspettare anche l’indomani, telefonarmi invece di discuterne adesso che eravamo in discoteca.
“La verità è…” Incontrò il mio sguardo. Lo aveva sempre evitato prima.
Adesso tremava anche lui, come una foglia. Impercettibile ma tremava. Deglutì forte.
“… che volevo tornare a casa per stare con te.” Piegai la testa di lato.
I ruoli sembravano invertirsi. Adesso era lui che tremava, pallido. La mandibola serrata e le narici dilatate. Assomigliava ad un razzo, la miccia sempre più sottile, pronto ad esplodere.
Mentre io non sentivo più così freddo. L’incredulità e l’incomprensione avevano preso il suo posto.
 
Gian Marco sapeva che non avevo capito; sospirò piano, chiuse gli occhi per un istante e quando gli aprì mi disse “Camille io… Io mi sono innamorato di te.”
 
 
Le sue parole rimbombavano violenti nel mio cervello. No, avrò capito male. Non è possibile. Insomma, il ragazzo di cui Tamara è innamorata da sempre non può avermi appena detto una cosa del genere.

 
Non sapevo cosa dire. Sbattei gli occhi più di una volta per accertarmi che fosse sveglia. “Mi sei piaciuta  dalla prima volta che ti ho visto.” Sorrise. “Stavi seduta sul divano a leggere un libro con un evidenziatore in mano. Tutta concentrata e assorta. Poi quando entrai nel salotto di Luca ti girasti e mi sorrisi. La tua risata era così bella. Avevi i capelli biondi raccolti in una treccia laterale e indossavi un golfino blu color cielo. Come avrei potuto non innamorarmi all’istante di te?” Oh. E’ tutto vero quindi?
“Oh. Io.. Io non immaginavo che…” Dissi imbarazzata. Si sentii ardere dentro e fuori. Nessuno mi aveva mai detto una cosa così dolce. Abbassai lo sguardo e sorrisi dolcemente. Che cosa terribilmente carina.
 
“Si, ma vedi, io…” Provai ad aggiungere. Sentii le sue mani grandi e calde posarsi lievi sul volto. Era troppo tardi. La sua mano destra mi afferrò dolcemente la nuca, mentre l’altra mi sistemava i capelli dietro l’orecchio. Lento ma deciso mi attirò verso di sé e posò le labbra sulle mie. Non riuscivo a divincolarmi, la presa era troppo forte. Un bacio lungo e passionale, come lava che cola calda e prepotente dalla sommità del vulcano. Le sue soffici labbra a contatto con le mie. Basta, non potevo.
 
Mi staccai da lui spingendolo via.
Anche se lo volevo dirgli qualche cosa non potei, perché non riuscii a trovare le parole adatte. Lui provò a trattenermi ma riuscii ad andarmene prima che mi afferrasse il braccio.
Quando feci per dirigermi verso la porta di vetro Tamara era lì. Impassibile, spenta. Le lacrime che le rovinavano il trucco. No. No. No!
 “Tamara!” Urlai con tutta la voce che avevo.
 
 
Mio Dio. Cosa avevo fatto.  





*Angolo dell'autore*
Eccomi qua. Beh sicuramente molti di voi avevano già intuito cosa sarebbe successo in questo capitolo. E infatti avevate ragione. Il nostro amichetto Gan Marco ha una bella cotta per la nostra Cami e Tamara li ha sorpresi a baciarsi. Eh già. Le cose si complicano.
Come farà la nostra eroina (?) a cavarsela? Lo scopriremo solo nel prossimo capitolo... 
Ah vi avverto, i capitoli successivi non saranno così scontati come questo eh! Ve lo assicuro.
Recensiteeeee
-Sel-

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Capitolo 7
*** VI - Perdono ***


Aprii gli occhi con cautela. La luce opaca del sole filtrava tenue tra le tapparelle, proiettando sagome deformi sul copriletto di piume. Stavo terribilmente bene tra quelle coperte calde, come un piccolo uovo che viene covato tra le soffici piume della madre. Poi le lancette pesanti sull’orologio appeso alla parete cominciarono a farsi sentire, martellanti dentro le mie orecchie. Grugnii. Le 11 e 05.
La camera sembrava immobile, come se il tempo si fosse fermato. La scrivania, i libri disordinatamente ammassati su di essa, le penne e i pennarelli sparsi ovunque. Sopra la sedia un paio di leggings accasciati svogliatamente sopra una maglia piegata al contrario. Gli stivali ai piedi della scrivania, uno coricato su un fianco, l’altro fiacco, era riuscito a conservare la sua postura eretta. La polvere vibrava, riflessa dalla luce che scivolava dal vetro della finestra.
Come diavolo avevo fatto ad addormentarmi? Dopo tutto quello che era successo la notte prima, con che coraggio ero riuscita a prendere sonno? La orecchie fischiavano, memori del volume troppo alto della musica della discoteca. Mi odiavo. Mi odiavo così tanto per quello che era successo. Era colpa mia.
 
Dopo qualche minuto di contemplazione, mi accorsi che dal piano di sotto proveniva della musica. Mi concentrai per cercare di ricordare il titolo. La morte e la fanciulla di Schubert. Sorrisi. Era da tanto tempo che non la sentivo, arrangiata da mio padre con il violoncello. E mio fratello lo accompagnava con il piano.
 Mio padre era un musicista. Viaggiando undici mesi all’anno in giro per il mondo a suonare nelle orchestre era davvero una rarità sentirlo suonare dal vivo, in casa con mio fratello. Io e mia madre negli ultimi due anni ci eravamo abituate a rimanere da sole; lei con il suo studio legale, io con la scuola e con le mie amiche. Da quando anche mio fratello si era trasferito in Germania per studiare, la casa era diventata sempre più vuota. Meno piatti da lavare. Meno vestiti da stirare. Meno urla. Meno sorrisi.
Il silenzio trasudava da ogni stanza e aveva preso il posto delle parole, le foto sui comò delle persone, la polvere rimpiazzava le dita sul pianoforte.
L’unica cosa che mi teneva alla larga da tutta quella depressione era la consapevolezza che se non avessi impegnato la mente per almeno 8 ore al giorno sarei impazzita. E per un tratto mi vennero in mente le parole di Gian Marco quando mi chiese se avevo mai voluto scappare. Andarmene via di qua.
Sì, lo avevo provato. Quasi ogni giorno. Ma scappare dove? Dove, se non avevo alcun posto in cui tornare?
 
Il miei piedi scalzi picchiettavano piano, come la pioggia sui tetti, sul pavimento di marmo del salotto. Era così freddo.
Mio padre toccava con incredibile sicurezza le corde dello strumento, le mani grosse e nodose. Mio fratello di spalle suonava al piano note calde e tenui. Sentii mia madre arrivare e mi abbracciò da dietro, avvolgendomi le spalle e tuffando il naso tra i miei capelli. I suoi, così neri e corvini facevano uno strano effetto sui miei, biondi e sottili.
Quando mio padre si interruppe per salutarmi gli dissi: “Ti è sempre piaciuto Schubert. Non mi stupisce questa tua scelta.”
 Sorrise. Sapeva che la conoscevo. Dopotutto ero sua figlia. Dopo anni ad ascoltarlo mentre parlava di musica, dopo averlo guardato decine di volte in tv e su internet e dopo secoli di lezioni di pianoforte e qualche canzone al violino, lo conoscevo abbastanza bene. O almeno questa era l’unica cosa che conoscevo di lui. Perché da quando ero nata, per me lui era solo papà il musicista. Papà il burlone, papà che mi aiuta a scuola, papà che viene alle recite, … Non era mai stato niente di tutto ciò.
Ma non si poteva avere tutto.
“Già. “ Aggiunse con un sorriso pacato. I suoi occhi di un verde chiarissimo fissavano il pavimento come per trovare qualcos’altro da dire. Le sue ciglia chiare e lunghe e le rughe, che tanti posti avevano visto, ma parvero così stanchi, tristi. Perché?
“Voglio sentirti suonare. E’ da tanto che non suoni insieme al tuo vecchio.” Disse infine, dopo aver trovato le parole, tra le venature del marmo.
“Magari più tardi. Adesso devo andare da Tamara, devo sistemare una faccenda.” Parevano sconvolti dalle mie parole, davvero non ne capivo il motivo ma non mi importava. Schivai mia madre e corsi su per le scale diretta in camera mia.
 
Mi infilai la sciarpa, arrotolandola intorno al collo coprendo la bocca. “Cam, è tardi! E’ ora di pranzo, non voglio che tu vada a disturbare a casa degli altri.” Mi urlo mia madre. “Il loro pranzo può aspettare.” Esortai, catapultandomi fuori dalla porta svanendo nella brezza fredda di marzo. Mi sentivo come il vento, veloce, senza odore, che scombina le foglie degli alberi.
 
“Tamara devo parlarti.” Dissi entrando in camera sua con una prepotenza tale che sorprese sia me che sua madre. Feci un respiro. Ero davvero sconvolta e in ansia e volevo risolvere questa faccenda il prima possibile. Tenere in sospeso questa storia sarebbe stato l’errore più grande che potessi fare.
“Che diavolo vuoi?” disse fulminandomi con lo sguardo. Sua madre richiuse la porta dietro di sè lasciandoci la possibilità di parlare in pace. “Non voglio vederti. Esci da camera mia! Sei solo una tro…” Urlò soffocando la voce in gola. Troia. Sapevo che aveva ragione, non potevo biasimarla. Una parte di me si chiese come mai non reagivo, non provavo sentimenti dopo aver sentito quella parola spezzata.
“Lo so.” Le dissi. Per un istante rimase sorpresa poi il suo volto si incupii di nuovo. Era seduta sul letto sfatto, i capelli mori spettinati e gli occhi rossi, di chi si è addormentato piangendo. Se ci fosse stata abbastanza luce avrei potuto intravedere le sue lacrime secche sulle guance.
“Ma non mi hai lasciato spiegare ieri sera. E se ti avessi telefonato, non avresti risposto alle mie chiamate. E’ per questo che sono qui.” Osservò triste il telefono appoggiato sul comodino.
“Non sono stata io a baciarlo, Tam. Per quanto Gian Marco sia un bravo ragazzo e un ottimo amico, per me lui non è niente di più che questo. Tamara te lo assicuro. Te lo giuro sulla mia vita, sulla pallavolo, sul mio pianoforte a coda, su PallePelose, …” Vidi Tamara sorridere dopo aver pronunciato il nome del mio gatto di 8 kg che amavo tantissimo. “Tamara io…”
“Lo so. So che tu non centri niente. Lo avevo sospettato da tempo che ciò che provavo per Gian non era ricambiato. Vedevo come ti guardava, come cercava il tuo sguardo. Che anche se non diceva niente, era triste quando vedeva solo me a casa, invece di trovarti in mia compagnia seduta in salotto o a mangiare il gelato in cucina. Ero così gelosa, non sai quanto. Quanto avrei voluto essere te. “ Siinterruppe un attimo poi riprese.“Ti ho anche odiata. Molte volte una parte di me si augurava che sparissi in modo che lui potesse guardare finalmente me, ma poi mi sentivo una persona orribile perché eri una delle mie migliori amiche. Come facevo a non volerti bene? Sempre dolce, pronta ad aiutare gli altri, un po’ scorbutica ogni tanto, simpaticissima e inarrestabile … Sembri un raggio di sole che illumina una giornata invernale.
Ti ho sempre invidiata. Riuscivi nel bene e nel male a farti volere bene da tutti, anche se sei sempre stata una persona abbastanza chiusa.”
Dopo quelle parole mi sentii davvero bene. Mi sentii sollevata. Come quando ti togli la cartella pesantissima appena tornata a casa da scuola. “Perdonami Cam per le cose che ti ho detto.”
 Sorrisi. Non un sorriso timido. Un bel sorriso. Il sorriso di una persona felice. Perché lo ero.
 
 
 
Mia nonna aveva una strana concezione dei problemi. Per lei i problemi erano i fratelli degli stronzi perché la loro madre era sempre incinta. Ridevo sempre tutte le volte che me la diceva, ma non ci avevo mai dato peso fino a quel momento. Quando vidi nel vialetto di casa Gian Marco che mi aspettava.




*Angolo dell'autrice*
Questo capitolo è più lungo degli altri. 
Ho deciso di mostrarvi un lato della storia di Cam, quella della sua famiglia, che condizionerà molto il suo carattere: la sua freddezza e compostezza derivata da tanti anni di solitudine. Mi rispecchio molto in lei perchè ho avuto anche io la stessa infanzia.
Ditemi cosa ne pensate. 
-Sel-

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Capitolo 8
*** VII - La solitudine ***


Frenai la bicicletta davanti al vialetto di casa. Il rumore stridulo delle gomme sul cemento era in contrasto con le dolci noti del violoncello di mio padre che vibravano flebili nell’aria. Cello Suite N 1 diBach. In assoluto la mia preferita.
Gian Marco era piantato vicino al garage, simile ad un tronchetto della felicità, che mia madre aveva l’abitudine di sparpagliare per casa. 
Che diavolo voleva? Ne avevo già avute abbastanza la sera precedente: il bacio, l’incomprensione, la corsa a casa di Tamara… desideravo solo finirla il più in fretta possibile. Andare a casa, mangiare il mio piatto di pasta, farmi un thè e magari aprire anche storia, ma di parlare con lui e riaprire questa faccenda, era un opzione che non mi era passata nemmeno per l’anticamera del cervello.
Mi osservava, da tutta la sua altezza, cercando di capire in quel momento, il mio stato d’animo. Tentai di fare la faccia più impassibile che potevo, ma il mio nervosismo stava ribollendo feroce, in cerca di una valvola di sfogo.
“Ciao Camille.” Sussurrò piano come se volesse smorzare con la voce, ciò che era successo ieri. Una nuvola di imbarazzo e freddo si materializzava davanti alla sua bocca, ad ogni respiro.  Feci un cenno con il capo.
“Cosa ci fai qui?” dissi scendendo dalla bici. Sganciai il cavalletto di metallo dell’olandese e mi diressi verso di lui stringendomi nel giubbino. “Volevo discutere con te di quello che è successo ieri”.
“Io sinceramente non ho voglia di parlarne in questo momento.” Dissi incalzandolo. Scostai lo sguardo senza incrociare il suo, ma sapevo che era rimasto sorpreso dalla mia affermazione. “Sono appena stata da Tamara. Tu non immagini nemmeno quanto lei abbia sofferto per quello che è successo, la scorsa notte. Ma forse a te non importa.” Sussurrai. Le mie parole erano cariche di delusione. Così almeno mi era parso.
Nella più inaspettata delle reazioni, Gian mi afferrò le braccia, che avevo accuratamente raggomitolato sotto i seni e mi strinse con violenza. “E a quanto ho sofferto io ci hai mai pensato? Ti sei mai chiesta quanto tempo ho dovuto aspettare, sperare invano che tu ti accorgessi di me? Ti ho immaginata un centinaio di volte bussare alla mia camera, altrettante trovarti vicino a me nel letto tutte le mattine o solamente incontrarti per strada…”  Urlò fuori di sé.
 
Ero così turbata dalle sue parole che mi sembrava di aver sbattuto la testa fortissimo, mi sentivo come un ubriaca a cui versano in testa una bottiglia di acqua ghiacciata.
 
“Lo so cosa prova Tamara. Me lo ha detto suo fratello...  Ho tentato più di una volta di pensare a lei come lei pensa a me. Ma non ci non riuscito. Vedevo sempre e solo te. Ho cercato di farti ingelosire, di sembrare il ragazzo più bello e interessante di questo mondo, ma non c’è stato verso. Ma la verità è che non su può avere tutto Camille, non si può! E se vuoi una cosa, più di te stesso, devi cercare di fare di tutto, tutto pur di possederla, capisci? Pur di averla.”
 
Non si può avere tutto. Mio padre, mia madre, mio fratello, la polvere sul piano. Perché? Perchè non si può essere felici e basta?
 
“Pur di fare male agli altri?” Gli dissi, senza alcun sentimento sul visto. Questa volta ero sicura. E in quel momento mi parve fragile, come mio padre quando aveva abbassato gli occhi, triste, un paio di ore prima.
E in quel momento cominciavo a capire, cominciavano a figurarsi nella mia mente le risposte alle mie domande. I dubbi e i tormenti di una povera bambina di 7 anni, sola nella grande stanza di camera sua, nel grande salotto vuoto, nella cucina in acciaio grande e fredda.
                                                                                        Priorità.
Mio fratello uscii dalla porta di casa guardandoci con fare interrogativo. Si sentiva ancora il sottofondo del violoncello. “Parlerete la prossima volta” esortò freddo, richiudendosi la porta alle spalle.
                                                                                       Musica.
Salutai Gian e mi diressi verso la porta. La bicicletta davanti al garage, oscillava per via del vento.
                                                                                        Figlia.
Avevo una voglia irrefrenabile di stare sola. Di fare le valige e scappare.  Ma non lo feci, non ne avevo il coraggio.
 
 
Sentii un tocchettio lieve alla porta di camera mia. Non risposi. Tornai a guardare il cursore pulsare a vuoto sulla barra del motore di ricerca. La porta si aprii lievemente e comparve il viso di mio fratello; occhi verdi e profondi, come i miei, mi scrutavano fugaci, apparsi da dietro la porta.
“Posso entrare?” chiese quasi timido. Non gli risposi. Chiuse silenzioso lo porta alle sue spalle e si diresse cauto verso il mio letto. “Camille.” La sua voce dolce e calda mi ricordava quella di Fabio, ma aveva un tono molto più premuroso, molto più fraterno.
“Nostra madre è molto preoccupata per te. Dice che negli ultimi mesi ti sei ancora più chiusa in te stessa. Sei sempre così silenziosa, rimani in camera per interi pomeriggi. Beh, so che sei sempre stata una ragazza indipendente e in un qualche modo solitaria, ma in questo periodo mi ha detto che sei diventata  ancora più cupa.” Disse piano. Osservava la luce del lampadario proiettare sagome ellittiche sul soffitto bianco della stanza. Non ci avevo fatto molto caso a questo mio comportamento, ma forse, adesso che ci pensavo, era la verità. “So che hai sempre dovuto rimanere da sola. Per quanto ho potuto, ho cercato di diventare un buon sostituto per nostro padre, ma… la verità è che un bambino di 10 anni fa fatica ad imitare un uomo di 40.” Dopo una breve pausa riprese. “Cam, adesso la mamma ha solo te. E devi essere tu a prenderti cura di lei. Perché per quanto possa sembrare una donna forte e decisa, tanto quanto te, dentro soffre. Soffre nel vederti così, soffre per papà, soffre per me… Cam.”
 
La camera tornò ad essere vuota. Il cursore che pulsava a vuoto, il ticchettio dell’orologio, gli stivali vicino alla scrivania. Qualsiasi problema avessi, non POTEVA e non DOVEVA interferire tra me e mia madre.
 
 
Le diedi un lieve bacio sul collo, mentre era nello studio, interrompendo il suo lavoro e il suo viso serio.







*Angolo dell'autrice*
Scusate, scusate, scusate! Sono stata impegnatissima, ma che dico, ultra impegnata in questi giorni e non ho potuto dedicarmi, come volevo alla storia. Mi dispiace. :( Ma adesso mi rifacciooo! Potete starne certi!
Ditemi cosa ne pensate.
-Sel-

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Capitolo 9
*** VIII - Progetti ***


Ci guardammo cauti. Occhi frettolosi e schivi che si incontravano imbarazzati, a pochi centimetri gli uni dagli altri. A separarli, solo un tavolo quadrato di frassino e qualche libro di fisica, di arte del riciclo e filosofia, quest’ultimo lasciato da qualche altro lettore masochista. Il silenzio della biblioteca era rotto dal ticchettio dei testi pigiati a gran velocità dal nostro compagno di progetto, che noncurante della nostra presenza, messaggiava voracemente, dondolandosi sulla sedia. Tirava su con il naso e puntualmente se lo strofinava con la manica della camicia.
Sollevò lo sguardo dallo schermo e dopo averci guardati ci chiese ingenuamente: “Che c’è?”
Gli scaffali alle nostre spalle avrebbero voluto suicidarsi dopo aver visto quella scena pietosa.
 
*5 giorni prima*
 
“UN PROGETTO DI SCIENZE?!”  Urlò Ludovica, sbattendo i pugni sul banco. La classe si era di colpo ammutolita dopo aver visto incredula, la reazione della ragazza più dolce e pacata della sezione 3C. Ferdinando, che passava la maggior parte delle ore steso sul banco, inerte, si era di colpo svegliato, cosa alquanto strana. Nemmeno il prof di biologia credeva ai suoi occhi.

D’un tratto Ludovica si rese conto della gravità della sua reazione e tornò a sedersi, sussurrando le sue scuse agli interlocutori.
“S-si, un progetto. Dobbiamo presentare una idea innovativa per creare energia tramite fonti rinnovabili.”
Disse il professore, dopo essersi schiarito la voce ed essersi sistemato il colletto della camicia azzurro cielo che sbucava dal maglione di lana. “E creare possibilmente un prototipo che possa rappresentare al meglio la vostra idea. La parola d’ordine è: materiali riciclati.”
“Ma sta scherzando spero?” Disse Luca dalla lontana penultima fila. Gli occhi della classe di spostarono su di lui. “lo sa che per realizzare un prototipo di una micro centrale basata su fonti rinnovabili, richiede molto tempo, denaro e conoscenze elettroniche che non abbiamo?” Il brusio di sottofondo della classe sembrava acconsentire. Il prof, sollevò un sopracciglio nero, increspando di rughe la fronte.
Era vero. Un prototipo non era poca cosa.

“A quello ci penseremo.” Tagliò corto il prof. “Io e il consiglio docenti abbiamo deciso di farvi fare questo progetto per stimolarvi e anche per interconnettere di più le classi. Infatti lavorerete con la 4F e la 4B.” La classe sembrò insorgere. Cosa? Ma che diavolo? Ma prof!
“Silenzio!” Urlò deciso. “La decisione è già stata presa.” Nooo! Maddai! Fanculizzati stronzo!
Il malcontento trasudava dai giubbini appesi alla parete, dalle veneziane e dai libri posati sui banchi.
“E quindi immagino che dovremmo lavorare a gruppi, magari con quelli delle quarte.” Disse una voce maschile non ben precisata. “Esattamente. Abbiamo già deciso i gruppi. Gruppi da tre. Uno per ogni classe.”
“Lo faremo nelle sue ore?”. “Ovviamente no! Questo è un lavoro extra scolastico.”
 
Questa è la frase peggiore che un prof può riferirti, dopo il “hai preso 3!”, “Se continui così ti boccio!”, “Fila dal preside!” e “Adesso ti do una nota.”
LAVORO EXTRA-SCOLASTICO.
Come se tu non facessi niente di interessante durante i tuoi pomeriggi adolescenziali. Che c’è di meglio nel passarli a studiare per progetti inutili, dove il possibile premio andrebbe a finire nelle casse della scuola?
 
Per non parlare delle quarte. Molti ragazzi non li conoscevamo, altri avevano la puzza sotto il naso e faticavano a incrociare il nostro sguardo nei corridoi della scuola. In particolar modo i membri della 4B. Le zecche dei cani erano molto più carine e amichevoli di quegli sfacciati e arroganti individui.
 
Alla quarta ora la prof di matematica ci portò nell’aula delle conferenze. Due rampe di scale più in altro, dietro ad una porta che sembrava celare una stanza qualunque, vi era un immenso salone pieno di sedie blu e bianche, la lavagna magnetica sulla parete  vicino a quella multimediale più grande e il proiettore vicino al leggìo. Ci portavano lì, per fare conferenze, seguire lezioni con più classi e per le assemblee di istituto.
Le due quarte si girarono quando entrammo dalla porta. La 4B, era quella dei tossicomani, dei fumatori, dei cazzoni e casinisti. Tutti la più brutta gentaglia che si iscriveva a scuola finiva in B. Probabilmente la metà di loro aveva anche 20 o 21 anni. Fantastico proprio.
Sentivamo i loro occhi posarsi con sufficienza su di noi e sentii l’irritazione e l’imbarazzo dei miei compagni alle mie spalle.
 Uno di loro era seduto svogliatamente, i capelli neri che gli sbucavano dal berretto grigio scuro e l’aria di chi sa ammala pena dove si trova. Mi guardò per un istante.

“Ah, venite ragazzi.” Esortò il prof di biologia. Ci avvicinammo verso il leggìo e alle altre due classi con molta cautela, scrutandoci come se cercassimo di carpire informazioni l’uno dall’altro. La 4F ci salutò con un coretto cacofonico di voci mentre dall’altra classe proveniva il silenzio più cupo e tetro. Anche i grilli di sottofondo erano scappati via urlando alla loro vista.
“Come vi ho già spiegato, questo progetto servirà per saldare meglio le classi. Bene, visto che già sapete tutto possiamo fare i gruppi.”
Il prof prese il foglio dal leggìo e cominciò a leggere i nomi.

Ma vaffanculo. Io questo cavolo di progetto non lo voglio fare. Mi darò malata, magari mi inventerò una specie di dislessia temporanea o mi romperò la lingua. Dai come si fa…
“Camille! Tu sarai in gruppo con Fabio della  4F e con Francesco.” Disse il prof, interrompendo i miei pensieri. Dalla mischia uscirono due ragazzi. Uno alto, dalle spalle terribilmente muscolose e sexy e un dolce sorriso che gli increspava le labbra; l’altro magrolino, lo sguardo svogliato e un berretto grigio in testa.
 
Fabio, mi strizzò l’occhio dopo aver incontrato il mio sguardo. Avvampai terribilmente e non potei non sorridere come un ebete dopo quel semplice gesto.
 
 
Ok, magari fare questo progetto non era poi una cosa così brutta. 



*Angolo dell'autrice*
Saaaaalve. Ecco a voi un nuovo capitolo. L'ambientazione è un po' di versa rispetto alla precedente: la scuola.
Guai e progetti in vista per la povera Cam che dovrà vedersela con un nuovo tipetto davvero insopportabile, ma poi lo scoprirete più avanti... eh beh, poi con Fabio. :)
Commentateeee!
-Sel-

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Capitolo 10
*** IX - Lacrime ***


“Che diavolo di nome è Camille?” Mi chiese Francesco con aria divertita tenendo in mano il suo gigantesco telefono. Sulla sua faccia aveva spalmato un sorrisino ironico e strafottente.
Non avevo notato prima che avesse delle labbra così belle. Hei, ma che diavolo… Rimossi immediatamente quel pensiero e tornai a fissarlo negli occhi.
“E il tuo berretto spelacchiato dove lo hai trovato? Nelle confezioni delle merendine?” Esordii schiettamente. Mentre io e il tizio di fronte a me ci stavamo scrutando sospettosi, Fabio si stiracchiava le lunghe braccia guardando il grande locale arioso nel quale ci trovavamo. Non sembrava una panineria: il locale, situato in una via parallela rispetto ad una delle vie più importanti del centro, era davvero spazioso e soleggiato; grandi vetrate, tavolini tondi di legno chiaro, un bancone pieno di delizie e una dolce commessa dai capelli corti e neri che indossava una maglietta gialla canarino con il logo del locale.
I tavoli erano quasi tutti pieni, molti universitari che erano immersi in sandwich inverosimili, ridevano a battute complesse e acculturate mentre qualche ragazza sembrava divorare più il suo immenso libro di architettura piuttosto del pezzo di pizza (probabilmente ai quattro formaggi) ormai freddo.
Mi piaceva molto quel posto. Si sentiva odore di libri, l’aroma dei caffè caldi appena fatti e di detergente mangia polvere per legno. Un paradiso, per un topolino di biblioteca come me.
Lo confesso, Fabio aveva avuto proprio una buona idea. Uscire a pranzo insieme per conoscerci meglio. Insomma, cosa c’era di più bello che rimanere a mezzo metro dal tipo che ti piace, con l’inconveniente però di avere qualche pezzo di pomodoro in mezzo ai denti? Ok, forse, dopo questa considerazione non avrei mangiato.
Fatto sta che questo odiosissimo tipo si contrapponeva tra me e lui e non faceva altro che mandarmi occhiatacce inquietanti. “Smettila” gli sussurravo, anche se fingeva di non capire.
“Allora.” Disse Fabio rompendo il ghiaccio. “Che ci racconti? Che ti piace fare? Insomma, visto che dobbiamo lavorare insieme dobbiamo conoscerci un minimo, non ti pare?”
Francesco sembrava quasi sibilare come un serpente a quelle sue domande, gli occhietti gialli e maligni e la lingua sottile e biforcuta che captava le particelle dell’aria. Se Fabio non avesse spostato la mano, probabilmente lo avrebbe morso.
“Ciao, sono Francesco, ho 17 anni ed è da due giorni che non mi faccio.” Le mie mani si stavano prepotentemente scaldando, pronte per sferrargli una schiacciata da esperta pallavolista in faccia. Con una sedia.
“E… ?” Chiese Fabio. “Vivo poco fuori città con mia madre e la mia sorellina di 12 anni. Non sono il tipo di persona che ama stare al centro dell’attenzione, mi piace divertirmi con qualche amico e disegnare. Soprattutto disegnare.” La sua espressione da idiota patentato era sparita e sembrava quasi una persona seria adesso. I suoi occhi nerissimi guizzavano da una parte all’altra del tavolo.
Venimmo interrotti da una ragazza, sempre con la maglia gialla canarino, che ci aveva portato i panini e le bibite in precedenza ordinate. Avevo troppa fame per non mangiare niente e rispettare la considerazione fatta in precedenza. Avrei rischiato, ma per precauzione stetti alla larga dalla rucola e tutto ciò che era infimo e subdolamente fastidioso. Il mio bellissimo sandwich alto quattro dita era finemente tagliato e le due metà erano state infilzati da stuzzicadenti colorati con sopra un oliva e un pezzetto di würstel.  Magnifico.
“E voi invece?” chiese Francesco guardandomi mentre mi riempivo la bocca con il mio adorato pranzo. Smisi di masticare e tirai su un sopracciglio. Dopo che Fabio disse due cose su di sé descrissi me stessa: “Mi definisco una persona molto semplice che riesce a divertirsi con poco, stando semplicemente con le persone giuste. Adoro la musica, leggere libri che una persona sana di mente non aprirebbe mai, giocare a pallavolo e andare al cinema. Non mi piace il latte e le persone che si credono migliori delle altre. Sono allergica ai denti di leone e adoro il mare.”
Non sapevo che aggiungere, pensavo di aver già detto tutto. “Che genere di musica a ascolti?” Mi chiese interessato Fabio. Arrossii alla sua domanda. “Amo il rock: Linkin park, Paramore, Muse, 30 second to mars… Ma vado anche in discoteca, quindi non mi dispiace nemmeno la musica house, anche se devo ammettere che non va molto d’accordo con l’altro genere.” Risi.
Dio quanto era bello. Un filo di barba appena accennata sul viso, lo rendeva ancora più grande e sexy. Il respiro mi si fermava in gola e non riuscivo a respirare con regolarità. Dovevo ricordarmi di non trattenere il respiro troppo a lungo, se no sarei diventata ancora più rossa di quanto ero già.
Finimmo il pranzo in un silenzio imbarazzante, almeno per me. Mi muovevo come un pezzo di legno senza articolazioni. A ogni movimento rischiavo di fare figuracce di cui mi sarei pentita a vita.
Francesco non faceva altro che fissare il telefono che aveva appoggiato sul tavolino, sembrava schivo e non voleva in alcun modo entrare in contatto con noi. Mi stupii molto, non sapevo come mai.
Ad un tratto mi vibrò il telefono nella tasca. Abbandonai la lattina che tenevo in mano e lo estrassi accuratamente per leggere il messaggio: mio fratello.


Vieni a casa. Papà riparte.
 

Cosa? No, ti prego, non adesso.
 
“Cosa c’è?” Mi chiese Fabio. La mano che teneva il telefono tremava e sentii i miei occhi riempirsi di lacrime. Non potevo piangere. Non davanti a loro. Strinsi così forte il cellulare che avrei potuto romperlo.
Mi alzai di scatto dalla sedia, feci un respiro profondo e senza incontrare i loro occhi dissi che dovevo tornare a casa. I miei occhi si stavano inzuppando troppo e non riuscivano più a tenere tutto quel disagio fatto di acqua e sale. Tirai su con il naso e mi sfregai velocemente gli occhi con la manica.
Afferrai il giubbino, mi scusai e mi diressi fuori dalla porta come una folata di vento e gelo.
Camminavo velocissima, così veloce che sembrava più una marcia che a una vera e propria camminata; le gambe mi facevano male e le lacrime cominciavano a rigarmi il viso, copiose.
Non riuscivo a fermarle.
Così cominciai a correre. Non mi importava della gente che mi scorreva vicino, non mi importava delle macchine, dei bambini carini nelle carrozzine, volevo solo tornare a casa e dire a mio padre quanto, quanto…
 
La verità era che non sapevo neanche io cosa dirgli.
Deluso? Ferita? Tradita?
I miei capelli lunghi e color del sole ondeggiavano nel vento tiepido di inizio aprile.
Dopo un po’ rallentai il passo, per riprendere fiato. Non riuscivo a smettere di piangere, le lacrime scivolavano così veloci che avevo inzuppato tutto il collo del maglioncino. Dannazione, se solo…
Mi sentii tirare per un braccio da una mano fredda e forte. Provai a staccarmi ma non ci riuscii; mi strattonò a se con dolcezza e mi  appoggio l’altra mano sulla spalla. Non riuscivo a guardarlo in faccia, la gravità che attraeva le lacrime non mi permetteva di tirare su la testa.
“Non è molto educato lasciare degli amici così, non ti pare?”
 
 



*Angolo dell'autrice*
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiaceeeeee! Non so come scusarmi per la mia assenza. Sarà due settimane che non aggiorno ed è una cosa imperdonabile.
Scusate davvero. La scuola, i progetti, gli stage all'università mi stanno uccidendo e ho trovato solo adesso il tempo per aggiungere un altro capitolo. Spero che possiate trovarlo carino, almeno mi darebbe un po' di conforto.
-Sel-

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Capitolo 11
*** X - Delusione ***


Avevo gli occhi così velati di lacrime che vedevo tutto intorno a me solo un ammasso di cose sfumate e confuse.
Tirai violentemente su con il naso e sbattei più volte gli occhi per far scendere le lacrime che mi impedivano di vedere con chiarezza. Un paio di occhi neri e malinconici mi guardavano.
“Che-che diavolo ci fai qui?” Chiesi singhiozzando a Francesco che mi aveva seguita, mentre ero scappata via in modo così teatrale, dalla panineria.
“Hai dimenticato la borsa” Disse piano, mentre me la porgeva. La mia cara borsona blu. Era così grande che avrei potuto infilarci dentro un cadavere senza che nessuno se ne accorgesse.
“Grazie.” Dissi piano afferrandola. Mi passai una mano sul viso cercando di asciugare le guance. “Si può sapere cose mai sei scappata via così in fretta? Cos’è successo?” Chiese.
“Niente. Io, io devo solo tornare a casa… il più in fetta possibile.” Dissi in preda ai singhiozzi, mentre cercavo di mettere ordine nella mia mente.
“Tieni” disse poi, porgendomi un fazzolettino di carta, dopo aver frugato nelle tasche del giubbino. “Asciugati gli occhi.” Lo ringraziai e continuai a camminare, ringraziando il cielo di essere stata in ritardo quella mattina e di non essermi truccata. Chissà che faccia avevo.
 
“Vieni con me.” Disse poi Francesco afferrandomi il polso. “Hei, ma cosa…” “Dai, non ti preoccupare, mica ti stupro! Fidati di me.” Disse sorridendo mentre mi trascinava in una viuzza che si apriva fra due negozi. Che cosa aveva intenzione di fare? Insomma, forse mi avrebbe davvero stuprata, magari picchiata, rapita o usata come spacciatrice per i suoi loschi traffici clandestini. La via era completamente immersa nel buio. Il cemento era sudicio e scivoloso; c’era della spazzatura qua e là, un vecchio giornate, e qualche bottiglia di birra vuota coricata su un fianco. L’acqua uscita da una grondaia, che sembrava nera come petrolio per via dell’oscurità, picchiettava violentemente il metallo della grata di un tombino facendo piccoli schizzi luminosi. Il bidone dell’umido semi vuoto posto vicino a una porta rossa di un retro bottega, aveva uno smile disegnato sopra con la bomboletta spray. C’era davvero poco da stare allegri.
Poco prima di uscire dalla viuzza alzai gli occhi: i palazzi vicini erano davvero alti ma si scorgeva il cielo, limpido e blu senza nuvole, solo un piccolo uccellino spezzava la sua perfezione.
Sciolta dalla sua presa, lo vidi dirigersi in un'altra viuzza, poco distante da quella che avevamo appena lasciato. Mi avvicinai a lui e vidi che estrasse sempre dalla tasca del giubbino una forcina. “A che ti serve?” Gli chiesi stupita. Dannazione Francesco, devo andare a casa, non ho tempo per giocare ai piccoli delinquenti. “Hei ma che fai?” Gli urlai, mentre inseriva la forcina dentro alla catena di una bicicletta. “Vuoi stare zitta?” mi urlò. Muoveva abilmente la forcina all’interno del meccanismo, mentre io terrorizzata, mi guardavo attorno sperando che non arrivasse nessuno. “Non pensavo che fossi così abile a rubare le biciclette.” Esordii. “E chi ha mai detto che la sto rubando.” Disse infine dopo aver sbloccato la catena e aver liberato la bici dalla sua morsa. “La prendiamo solo in prestito!” Disse infine sorridendomi.
 
“Allora, non dovevi arrivare a casa il prima possibile?” Mi chiese infine salendo in sella.“Si, ma…” Ero titubante, insomma, non ero proprio il tipo di persona che ama rubare una bicicletta… Mi sentivo come… colpevole. Anche se, proprio perché non era una cosa da me, avevo un voglia matta di farci un giro.
“Sali.” Disse. I suoi capelli che uscivano dal berretto ondeggiavano flebili nell’aria primaverile e il suo sguardo profondo, si era illuminato di una strana luce.
Montai sul portapacchi. “Tieniti forte.” Gli misi le mani intorno alla vita e dopo qualche metro di tentennamento, uscimmo veloci dalla via buia verso casa.
 
L’aria era così bella. I miei capelli lunghi facevano delle onde regolari nell’aria, come ali sottili che sbattevano violentemente per cercare di farmi volare. Francesco guidava davvero bene. Sicuro di se, cambiava strada e imboccava quelle più veloci e meno trafficate. Avevo notato da dietro le sue spalle un lieve sorriso.
“Allora me lo vuoi dire dove hai imparato a scassinare in quel modo le catene delle bici?” Chiesi maliziosa. “Per far fronte ad evenienze come queste.” Mi disse guardandomi altrettanto maliziosamente con la coda nell’occhio.
Dopo un breve silenzio aggiunse “Mio padre. Lui faceva serrature. Me lo ha insegnato lui.”
“E’ la verità o lo dici per convincermi a non crederti un delinquente?”
Rise forte. “Quanto sei idiota.”
Risi anche io. Eravamo come due amici, che ci punzecchiavamo a vicenda. Mi irrigidii di colpo. Insomma, non lo conoscevo nemmeno, magari mi aveva preso davvero in giro. Forse suo padre non faceva serrature.
 
Entrammo nel vialetto di casa mia e vidi il SUV grigio metallizzato di mio fratello parcheggiato davanti a casa, il baule era aperto e dentro c’erano delle valige. Scesi dalla bici senza che Francesco si fosse fermato e corsi verso la macchina. In quell’istante uscì mio padre con un bauletto in mano e mio fratello. Dopo qualche secondo uscì dalla porta anche mia madre, le braccia raccolte sotto al petto e gli occhi rossi. Aveva pianto. Maledetto.
“Quando avevi intenzione di dirmelo? QUANDO?” Urlai con tutta la voce che avevo. Gli occhi cominciavano a caricarsi di disperazione. “Camille, io…” Provò ad aggiungere ma non lo feci finire.“Chi cazzo ti credi di essere? Non te né è mai importato niente della tua famiglia, niente! Passi tutto il cavolo di tempo in giro per il mondo – dissi con tono sprezzante –e quella rare volte in cui torni a casa, non fai altro che scrivere musica, suonare e pensare alla tua prossima partenza. E allora dimmelo, perché diavolo torni? Per fare un piacere a me? Alla mamma? No, non è piacere, è solo sofferenza. Tutte le volte che parti si versano solo lacrime. Allora sai cosa ti dico? Che sono stanca di piangere. Non tornare. Ti prego, non tornare.” Le lacrime che avevano cominciato a scendere si erano fermate. Sol mio viso avevo solo rabbia e odio. Volevo solo che se ne andasse e che smettesse di ferire mia madre. Ne avevo abbastanza.
“Camille, ascolta, io non volevo ferirvi…”
“Se è vero ciò che dici guarda il viso di mia madre!” Gli urlai con tutta la voce che riuscii a trovare. Lei si stupì della mia affermazione. Mio padre si voltò e la guardò in viso: le guance rosse e rigate dalle lacrime e gli occhi madidi e purpurei. Si mise le mani sul viso e tornò in casa.
 
“E’ ora papà.” Aggiunse mio fratello. “Sì.” Esordì lui a testa bassa. Così lo guardai per l’ultima volta uscire dal vialetto, seduto sul posto del passeggero mentre mi fissava. Guardai intensamente i suoi occhi, carica di odio; quegli occhi chiarissimi, di un verde erba, l’iride bordata da un verde ancor più intenso che li mettevano incredibilmente in risalto. Mi ricordai le sue lunghe ciglia bionde e il suo sguardo fissare il pavimento.
Lo sapeva. Sapeva già che sarebbe partito prima del previsto, ma non aveva il coraggio di dircelo.
Vigliacco.
Le ruote scricchiolavano sotto la ghiaia. La macchina si mise in carreggiata e se ne andò, come era venuta.
Mi sentivo così vuota, perché ero rimasta delusa un'altra volta. Avevo sperato che corresse da me per abbracciarmi, che mi stringesse tra le sue lunghe braccia e mi dicesse che sarebbe tornato. E che non mi avrebbe fatta più soffrire.
 E invece, dopo aver ascoltato le mie parole, si era messo in macchina e non aveva fatto altro che guardarmi. Niente urla, nè tentativi di scusa da parte sua. Si era semplicemente messo in macchina e se ne era andato. Come aveva potuto fare questo alla sua famiglia?
 
L’aria mi pizzicava le guance bagnate e gli occhi umidi mi bruciavano.
 
Francesco aveva visto quella scena pietosa immobile, come un pacato spettatore, aveva sul viso un’ espressione triste e malinconica e mi guardava, aspettava una mia reazione.
“Mi dispiace” gli dissi a testa bassa “Di averti fatto vedere questa scena. Non volevo.” Mi si avvicinò piano, con la bici a braccio e si mise di fianco a me. Lo guardai di profilo mentre osservava il cielo.
Incontrando il mio sguardo sorrise dolcemente e mi disse:
“Vuoi scappare con me?”






*Angolo dell'autore*
Ciao! Come promesso eccomi qui questa sera a pubblicare il nuovo capitolo. Mi sono divertita e appassionata molto nello scriverlo.  Spero che possa essere di vostro gradimento!
Commentateeeee
-Sel-

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Capitolo 12
*** XI - Colori ***


“Dove stiamo andando?” gli chiesi mentre strinsi ancora più forte il suo giubbino per paura di cadere. “E’ una sorpresa.” Si limitò ad aggiungere lui.

 Il sedere mi faceva terribilmente male. Il portapacchi era davvero scomodo ma non avevo altra scelta che rimanere seduta in quella posizione e sperare che mancasse davvero poco alla nostra meta. Il tempo era meraviglioso, l’aria primaverile che odorava di fiori di pesco e tepore, mi entrava dentro scaldandomi tutta e stropicciava i miei capelli gettandoli disordinatamente qua e là.
Rivoltai il collo all’indietro e chiusi gli occhi per sentire tutto quella benefica sensazione su di me. Avevo voglia di dimenticare quello che era successo. E sentirmi libera.
Per una volta mi ero sentita leggera, ero riuscita a dire a mio padre tutto ciò che provavo ed ero riuscita a buttare fuori  tutta la sofferenza che avevo portato dentro per ben 10 anni.
Ma nello stesso momento che pensavo a lui e ai suoi occhioni verdi fissare il pavimento di marmo del salotto, mi salivano nuovamente le lacrime agli occhi. Scivolavano veloci e fredde verso le tempie, fino alle orecchie e si confondevano nell’aria e tra i capelli.
Mi tornò in mente mia madre con le chiavi in mano e la borsa in spalla, la matita sbavata sotto gli occhi scarlatti e la punta del naso rossa. Mi aveva fatto un gran sorriso e mi aveva detto che non sapeva se sarebbe tornata per cena. Sarebbe andata da Matilde, come sempre. Come tutte le volte che si metteva a piangere per nostro padre perché ripartiva, quando aveva bisogno di un buon caffè degno di quel nome.
Mi aveva solo detto di non tornare a casa tardi.
Sorrisi ad occhi chiusi. Non le avevo ancora detto che volevo andare a fare un giro che mi aveva letto nel pensiero. Questa era la mia mamma, quella che sapeva cosa pensavo e se c’era qualche cosa che non andava, solo guardandomi negli occhi.
 
“Siamo quasi arrivati.” Aggiunse Francesco, interrompendo i miei pensieri. Misi dritta la testa e aprii gli occhi che fecero fatica ad adattarsi alla luce del sole. Eravamo su un marciapiede di un cavalcavia e sfrecciavamo abilmente tra i pedoni. Sotto di noi un canale verdastro e increspato dal riflesso del sole che sembrava seguire la nostra corsa.
Dopo qualche stradina poco trafficata e un groppo da strada che suonava Jazz, Francesco frenò davanti ad un negozio di fumetti.
Non conoscevo quella via. C’erano delle bellissime betulle tra i marciapiedi, i palazzi erano colorati di un acceso color mattone e c’erano un sacco di striscioni e bandiere ovunque. Non so come mai ma mi ricordava Londra, San Francisco o una piccola cittadina del Minnesota. Era davvero bello avere uno piccolo spazio colorato e carino anche qui.
“Vieni.” Mi disse Francesco tenendo a braccio la bicicletta. Ci introducemmo dentro la viuzza che costeggiava la fumetteria, molto più ariosa e pulita di quell’altra vista lo stesso giorno e arrivato quasi alla fine di questa appoggiò la bicicletta al muro.
Mi afferrò la mano e con un affettuoso “Andiamo.” Mi giudò dentro ad un locale.
 
La stanza era piccola e buia; la poca luce giallo-verdastra che filtrava dalle finestre sporche non era sufficiente per vedere accuratamente l’interno, ma a Francesco non importava perché sapeva esattamente dove stava andando.
Salimmo due rampe di scale a chiocciola, di quelle scure e in ferro, che traballavano tutte e che odiavo terribilmente, ma forse ne valse la pena perché quello che vidi era davvero meraviglioso.
 
Una stanza enorme, dal soffitto altissimo e le pareti di un bianco puro e naturale. Sulla mia destra delle vetrate che coprivano completamente il muro, si affacciavano sul retro del palazzo; mentre sull’enorme parete sinistra c’era un gigantesco mosaico fatto di vetri e specchi che raffiguravano il viso astratto di una donna. I capelli tutti colorati e mossi da un vento immaginario, brillavano creando giochi di luce meravigliosi. Mi ero completamente INNAMORATA di quel luogo.
Da una parte all’altra delle pareti c’erano dei fili dai quali pendevano decine e decine di foto in bianco e nero, mentre su un tavolo di noce posto sulla parete di fronte c’erano tantissimi pennelli e colori, ma anche tele e cavalletti. Tutta la stanza era disseminata di cavalletti e quadri. Alcuni finiti, alcuni incompleti.
 
Mi sentivo come una bambina in una stanza piena di caramelle. Non facevo altro che rimanere a bocca aperta e a naso in su roteando introno a me stessa, cercando di guardare ogni foto, ogni quadro, ogni… ogni cosa. Tutto ciò che era in quella stanza era a dir poco meraviglioso.
“Ti piace?” Mi chiese Francesco mentre mi si avvicinò con cautela, la mano sinistra in tasca. Indicò la foto che stavo guardando, inclinando lievemente la testa verso me. Raffigurava un riccio che camminava cautamente su un tappeto di foglie autunnale. Era una foto degna di un bravissimo fotografo. La zampetta dell’animale sollevata, pronta ad appoggiarsi su una foglia di acacia madida di rugiada e il musino tenero. Era spettacolare. “L’ho fatta due anni fa’ a Londra.”
 
“Non ho mai visto una cosa così bella. Insomma, sono senza parole. E’ un posto così incantevole… Insomma… non ho parole.” Aggiunsi seriamente sconvolta e stupita. Francesco mi sorrise mostrando i denti bianchi e inclinò timidamente la testa verso il basso. “Sei la prima persona che la vede oltre a Jack, il ragazzo che mi ha dato questo locale.” “E’ il tipo della fumetteria?” chiesi. Annuì.
“Mi aveva notato tempo fa, mentre fotografavo delle betulle qui fuori. Era rimasto davvero stupito dalle foto che avevo fatto e mi aveva detto che avevo del talento. Dopo averlo conosciuto meglio e averlo aiutato in negozio durante l’estate, qualche mese fa’ ha deciso di darmi questo posto dove avrei potuto esprimermi al meglio.” Rise.
“Se lo avessi visto solo due mesi fa’. Era completamente pieno di ragnatele.”
“Quindi… mi stai dicendo che quel mosaico lo hai fatto tu?” Gli chiesi senza parole. Annuì ancora.
“Era una parete troppo spoglia e non sapevo cosa farci.” Aprii la bocca come un’ebete, la gravità la attirava così in basso che mi servivano due braccia per tirarla su.
 
“Ha un nome?” Chiesi dopo 5 minuti che osservavo quella donna mosaicata in tutta la sua bellezza e intensità. “Madre Natura. Rappresenta, con tutti i suoi colori la bellezza di questo mondo.”
“E questa?” Chiesi incuriosita indicando una foto che penzolava sopra le nostre teste. Una distesa di tetti e camini. Davvero molto suggestiva. “E’ la foto del terrazzo.” Disse stupito. “EH?!”
Tornammo dalla scala traballante a chiocciola di prima e mi guidò verso la rampa di scale successiva.
 
Dietro alla porta si apriva un gigantesco terrazzo che si affacciava sulla città. “Oh che meraviglia.” Riuscii a dire. Mi avvicinai al cornicione e sporgendomi un po’ ispirai profondamente l’aria pura; gli occhi chiusi, la sensazione di volare.
“Perché hai scelto proprio me?” Mi guardò con aria interrogativa. “Mi hai detto che non hai mai mostrato a nessuno questo posto all’infuori di Jack. Perché proprio io?”
“Perché quando sono triste e voglio evadere, vengo qui.” Disse guardando i tetti della città. Aveva davvero un bel profilo. I capelli neri gli uscivano dal berretto e aveva una dolce bocca rossa e carnosa. Arrossii lievemente. “Hai mostrato a tua madre o a tuo padre i tuoi capolavori? Sono sicura che se sapessero del tuo talento cercherebbero il modo per farti fare qualche mostra…”
“Mia madre lo sa ma è davvero troppo impegnata con il lavoro e con mia sorella. Non è facile per lei mantenere due figli tutta da sola. Mio padre sfortunatamente è venuto a mancare quando avevo 14 anni.”
 
“Oh mio Dio. Mi dispiace tantissimo.” Dissi sconvolta portandomi una mano alla bocca. “Non fa niente.” Disse infine facendo spallucce. “Ormai non ci faccio più caso. E’ per questo che faccio lo scientifico. Devo laurearmi per trovare un lavoro decente e aiutare mia madre. A fare l’artista non si campa.” Si mordeva il labbro inferiore con uno spiccato nervosismo. Gli occhi bassi. La tristezza nel cuore.
 
“G-grazie.” Dissi con la voce rotta e impastata. Le lacrime cominciavano a scendermi veloci lungo al viso. Il suo volto si era incupito vedendomi piangere. “Perché sei triste?”
“Perché ho appena cacciato praticamente a pedate mio padre, mentre tu… tu…” Francesco rise dolcemente.
 
“Che idiota.” Il vento pizzicava le mie guance mentre osservavamo i tetti della città.
 






*Angolo dell'autore*
Personalmente questo capitolo mi è piaciuto molto. Voglio che però ascoltiate una canzone mentre state leggendo questo capitolo,
o se lo aveve già letto, BEH RILEGGETELO CON LA CANZONE DI SOTTOFONDO! 
La canzone è "Zedd ff. Foxes - Clarity" 
Esprime molto bene come si sente la protagonista in questo momento, perchè da un senso di libertà.
Commentateeeeeee.
-Sel-
 

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Capitolo 13
*** XII - Pioggia ***


Le ultime tre settimane erano passate abbastanza tranquillamente. Dopo che mio padre se ne era andato definitivamente dalle nostre vite e mia madre era tornata più forte che prima, gettandosi a capofitto nel lavoro, mi sembrava di aver pigiato il tasto del rewind sul registratore della mia vita e di essere tornata al punto di partenza.
Anche mio fratello ci aveva salutate. Solo una settimana prima gli avevo gettato le braccia al collo e gli avevo fatto promettere che ci saremmo rivisti presto. E mentre di sottofondo la voce stridula e meccanica che chiamava il suo volo si faceva più insistente, mi aveva quasi sollevato di peso e mi aveva baciato i capelli, sussurrandomi di raggiungerlo in estate, per le vacanze.
Gli avevo persino rubato il dopobarba, prima che se lo mettesse in valigia, per poter ricordare l’odore della sua pelle ancora per un po’.
Intanto il nostro progetto scolastico procedeva a rilento. Ci vedevamo si e no due volte a settimana per dividerci i compiti e lavorarci insieme, ma sapevamo che non avrebbe avuto nessun riconoscimento così avevamo lasciato agli altri il compito di vincerlo.
Grazie a ciò ero riuscita a passare più tempo insieme a Fabio. Adoravo il suo sorriso, vederlo scrivere, osservare i muscoli della schiena muoversi sotto la pelle ad ogni respiro. Mi piaceva tantissimo. Era dolce, gentile, sempre disponibile. Era troppo bello per essere vero. Dall’altra parte invece c’era Francesco.
Era il tipico ragazzo per cui il detto “l’apparenza inganna” calzava a pennello. A scuola non si vedeva; lo sorprendevo a volte seduto sul muretto dietro al cortile o sulla scala anti incendio, mentre guardavo fuori dalla finestra durante le ore di storia. Le sguardo perennemente vuoto sul volto, vagava come un’anima in pena le poche volte che era in mezzo alla folla.
Riusciva perfino a ingannarmi, che fosse un poco di buono, uno che marina sempre la scuola.
Invece, quando andavamo insieme alla biblioteca sorrideva dolcemente, i suoi occhi intensi e neri brillavano di luce propria e sembrava una persona completamente differente da come si faceva etichettare.
Nell’ultimo periodo andavamo spesso, dopo il progetto, nel suo studio personale. Lui dipingeva, o scarabocchiava su dei fogli di carta degli schizzi e io, seduta per terra appoggiata a una parete bianca, studiavo, gli tenevo compagnia. Mi piaceva davvero perché uscire da casa e liberare la mente in un posto così bello faceva bene sia al corpo che allo spirito.
 
“Quando mi insegnerai a disegnare?” Gli chiesi sollevando lo sguardo dal libro di latino. I suoi occhi erano tutti rivolti alla tela, teneva tra i denti un pennello imbevuto di color ciano che colava denso, mentre nella mano destra un pennello più grosso, pregno di giallo. “Quando vuoi.” Mugugnò prima di togliersi il pennello il pennello dai denti. Si era sporcato una guancia di blu. Sorrisi timidamente e tornai a guardare il libro di latino.
“Vieni giù un secondo con me? Mi servono dei colori che ho lasciato di sotto.” Disse appoggiando i pennelli sulla tavola. “Certo.” Appoggiai il libro di latino aperto di fianco a me, mi diedi spinta appoggiando le mani sul pavimento e mi alzai goffamente dalla mia comoda posizione.
 
Francesco tirò una cordicella che scendeva dal soffitto. La lampadina gialla, custodita da un piccolissimo lampadario pieno di ragnatele, faticò ad accendersi lampeggiando ad intermittenza, come se stesse cercando di stropicciarsi gli occhi dopo un lungo sonno. Le piccole finestre sporche proiettavano ancora ai piedi del muro una scia di luce giallo-verdastra e un odore di umidità e muffa impregnava la stanza insieme alla polvere che l’aveva occupata abusivamente. Francesco cercava su un vecchio tavolo scuro e rovinato ciò che gli serviva, mentre io cominciai a curiosare attenta a non toccare niente. Appoggiata a una parete c’era una vecchia credenza. C’erano dei vecchi bicchieri di vetro decorati tutti opachi dietro le vetrate e dei gomitoli di spago e filo dentro un cassetto semi aperto. Mi girai verso il tavolo e notai uno strano oggetto posizionato sopra a una panca coperto con della carta marrone.
 
“Cos’è quello?” Chiesi a Francesco. Lui interruppe la sua ricerca e seguendo la mia indicazione, osservò incuriosito l’oggetto che stavo indicando. “Non saprei.” Si limitò a dire lui. Ci dirigemmo a dare una sbirciata sotto l’imballaggio. Francesco scostò lo strato di carta e notai una tastiera. “Oh. E’ una Roland.” Dissi radiosa. “E' un po’ vecchia ma probabilmente funziona ancora. Posso provarla?” Chiesi.
“Hem, si, penso di si. Vieni la portiamo di sopra.”
 
Soffiai via tutta la polvere e attaccai la presa alla corrente, pigiai il tasto dell’accensione e per mia grande fortuna funzionava ancora. Cominciai ad accarezzare i tasti della tastiera e senza accorgermene cominciai a suonare qualche pezzo della Sonata n° 8 di Beethoven. Gli occhi di Francesco si erano sgranati incredibilmente. Scorrevo così veloce le dita sul piano e davo una tale enfasi a quel brano così allegro che Francesco ne era rimasto davvero stupito. La sua bocca si era spalancata e non credeva ai suoi occhi.
“Wow.” Riuscì a dire dopo che mi fermai. Lo sentii deglutire forte. “Da quanto è che suoni il piano?” Mi chiese fissando le mie mani sui tasti. “Hmm… E’ difficile ricordare esattamente da quando. Probabilmente sono nata già sapendolo suonare. – dissi ridendo –Mio padre è un famoso musicista. E’ stato lui a insegnarmi.”
“Capisco.” Aggiunse cupo. I suoi occhi tornarono a guardare le mie mani, che ritrassi dolcemente.
“Devo andare a casa adesso. Mia madre tornerà a casa tardi e devo preparare da cena.” Dissi mentre mi stavo infilando il giubbino. “Ti accompagno se vuoi.” Si sbrigò ad aggiungere lui. Mi arrotolai la sciarpina intorno al collo e ci avviammo verso le scale.
 
Pioveva tantissimo. C’era un aria fredda e pungente che si insinuava tra gli abiti e raggelava le ossa. Il rumore delle gocce che sbatteva sull’ombrello di tartan rosso di Francesco faceva da sottofondo ai nostri passi sull’asfalto bagnato. Le foglie di betulla sembravano tristi piegate dalla forza di quel grigio temporale. Era metà Aprile ma sembrava Febbraio. Dove diavolo era la bella aria calda e l’odore di fiori che avevo sentito pochi giorni prima? Portata via dal vento.
“Allora?” Dissi, sbirciando Francesco. Mi guardò con aria interrogativa nascosto dal suo impermeabile nero come i suoi occhi. “Quand’è che mi insegni a disegnare?” Dissi sorridendo.
Ricambiò il mio sorriso e tornò imbarazzato a guardare il marciapiede.“Quando vuoi. Ma vedi, il disegno non è una cosa che si possa insegnare con tanta facilità. Ci vuole tanta pratica e impegno.”
Risi forte. “Allora mi stai dicendo che non potrò mai diventare brava come te, eh?” Rise forte anche lui. “Ah quello è poco ma sicuro!”
Ridemmo insieme. La Sua voce profonda e gutturale, contro la mia più altra e allegra.
Mi morsi il labbro e voltai il capo verso delle vetrine.  C’era una caffetteria con delle grosse vetrate e con un insegna a forma di Muffin. Mi ricordai stranamente la cameriera con i capelli corti e la maglia giallo canarino della panineria. Sorrisi al ricordo della universitaria che leggeva il libro di architettura e mi chiesi cosa stesse facendo in questo momento. E poi immaginai che fosse in casa con il suo ragazzo, con una giornata brutta come questa. Hem, no forse era meglio non sapere cosa stesse facendo. Risi.
“Che c’è?” Chiese Francesco, dall’altra parte del manico dell’ombrello. “Hem, no niente, è solo che mi è venuta in mente una cosa divertente e…”
Mi fermai un secondo davanti alla vetrina. Era stata una sensazione che aveva indotto ai miei piedi a bloccarsi, come se dentro di me ci fosse stato qualche cosa che mi avesse trattenuto, come se qualcuno mi avesse detto: FERMATI.
 E fu lì che lo vidi.
In un tavolo all’interno c’era Fabio, aveva intorno una maglietta blu scuro sbracciata, i suoi muscoli si muovevano ad ogni respiro. Rideva forte insieme a una ragazza mora che gli era seduta di fronte, i capelli lunghi e mossi e una maglia verde smeraldo stretta sui fianchi. Le loro mani si erano congiunte nel mezzo del tavolo. Francesco mi si era affiancato, tenendo sospeso l’ombrello fra di noi. Sulla vetrina scura correvano le goccioline di pioggia che si appiccicavano al vetro, facendo a gara l’una con l’altra per arrivare prima al terreno.
“Non sapevo che avesse una ragazza.” Disse Francesco. “Nemmeno io.” Dissi dopo essere riuscita a trovare le parole. La bocca mi si era impastata e gli occhi mi si stavano riempiendo di lacrime.
Lui le accarezzava le nocche con il polpastrello creando sagome circolari. Lei sorrideva dolcemente.
Non ce la feci. Cominciai a camminare veloce lungo il marciapiede lasciando indietro Francesco, non volevo che mi guardasse mentre le lacrime cominciavano a rigarmi il viso. Mi sentivo una bambina.
Cominciai a correre. La pioggia mi aveva ormai bagnata quasi tutti i capelli.
“Camille!” Mi urlò Francesco poco dietro di me. Mi si parò davanti con l’ombrello. Aveva il fiatone e dalla bocca rossa gli usciva uno spettro bianco ad ogni respiro. “Perché sei corsa vi… Camille… Tu-tu stai piangendo!”
 
Non riuscivo a guardarlo in faccia.
Perché dovevo mostrargli la mia debolezza? Perché dovevo mostrargli il mio dolore?
Mi alzò il viso con una mano fredda e vidi le sue sopracciglia incresparsi e il mento farsi più quadrato. “Lui ti piace non è così?” disse dopo poco.
 
Non ci riuscii. Non riuscii a fermarmi. Le mie lacrime scoppiarono sotto quelle parole. Mi gettai tra le sue braccia piangendo intensamente, singhiozzando così forte che non riuscivo quasi a respirare.
Era troppo bello per essere vero. Era troppo bello per essere vero.
Francesco mi strinse forte cingendomi la schiena con le braccia e accarezzandomi i capelli bagnati.
Stringevo così forte il suo impermeabile inzuppato d’acqua che le nocche erano diventate bianche. Avrei voluto sotterrarmi, e lui mi aveva dato la possibilità di farlo, senza battere ciglio.
 
 
 
“Tu, stronzo. Toglile subito le mani di dosso se non vuoi andare all’ospedale.” Una voce sfortunatamente a me familiare risuonò nelle nostre orecchie, provenendo alle mie spalle. 





*Angolo dell'autore*

Ecco a voi un nuovo capitolo. :3 Dite la verità, non ve lo aspettavate eh? Già già già... :3
Commentateeeeee 
-Sel-

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Capitolo 14
*** XIII - Catrame ***


Mi sembrava di essere in un film in bianco e nero. La lugubre pioggia color catrame, cadeva pesante e collosa dal cielo trasformando tutti i colori in grigia pazzia. Anche le tele di Francesco non avrebbero assunto che le tonalità del grigio. Solo il suo ombrello, sospeso tra noi a dividerci dai lamenti del tempo, era rimasto di un rosso acceso. Anche le mie lacrime erano diventate nere come l’asfalto, come la notte, come il buio della sofferenza.
“Toglile quelle fottute mani di dosso.” Aveva urlato, con voce ancor più forte Gian Marco. I suoi capelli a spazzola castano chiari gli si erano appiccicati alla fronte ed erano diventati scuri ed umidi. Le gocce colavano sul suo viso duro e quadrato dalla rabbia.
Non sapevo cosa fare. Ero rimasta lì, avvinghiata a Francesco, aspettando che il mio corpo mi desse qualche segnale, che si muovesse. Ma niente. Anche la voce aveva deciso di abbandonarmi in quel momento; ero così sorpresa che non facevo altro che fissarlo per capire cosa ci facesse lì, come mai in un giorno tanto normale come quello, il fato aveva deciso di farmi soffrire così tanto.
Sollevai il viso e guardai l’espressione di Francesco. Il suo viso, dai lineamenti morbidi e belli, si era un poco squadrato e la bocca rossa si era piegata in una lieve smorfia.
“Chi diavolo sei?” Gli chiese Francesco con fare restio. “Non sono affari che ti riguardano. Toglile solo le mani di dosso.” Rispose lui, sottolineando le ultime parole, creando una certa enfasi.
Francesco allora mi strinse con più forza, afferrandomi la schiena poco sopra il sedere, imprimendo una pressione e una così forte vicinanza tra di noi che mi fece arrossire violentemente. Nessuno mi aveva mai stretta così. Mai. Mentre lo guardavo con gli occhi sgranati ed  incredibilmente sorpresa, sentivo le mie guance avvampare e sentivo la testa pesante.
“E se non lo facessi?” Gli chiese poi, con un sorrisetto strafottente, lo stesso sorriso, con il quale quel giorno mi aveva sfidato. Era incredibilmente… sexy.
 
Vidi gli occhi di Gian Marco incendiarsi come una miccia e si mise a correre verso di noi, con l’irruenza di un bufalo. Io, io non riuscivo a muovermi. Sentii il mio cuore battere così forte, ma ero completamente paralizzata dalla paura. La mia mandibola si muoveva impercettibilmente e le mie mani cominciarono a tremare.
 A quel punto Francesco mi afferrò le braccia e mi allontanò da lui, poco prima di ricevere un pugno in pieno volto da Gian Marco.
 
L’ombrello rosso rotolava solitario sull’asfalto color pece, percorso da microscopici ruscellini d’acqua.
 
Francesco cadde per terra per via dell’irruenza del colpo: toccava l’asfalto ruvido con le mani sporche, poi si issò a sedere, pulendosi dal rigolo di sangue che gli usciva dal labbro con il dorso della mano. I suoi pantaloni color verde intenso si erano tutti bagnati e sporcati e le poche parti ancora asciutte, si stavano inzuppando con la pioggia catramosa che cadeva dal cielo.
Ero completamente sconvolta. Ero rimasta lì a guardare la scena passivamente immobile. Le mani sulla bocca a soffocare il grido e i capelli madidi dai quali colava acqua.
 
“Ma che cazzo fai?” Urlai furente, con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Corsi davanti a Francesco cercando di dividere i due ragazzi, ma senza risultato poiché Gian Marco riuscì senza problema a scansarmi e sollevò dal colletto del giubbino Francesco che si stava alzando da terra. Gli sferrò un altro pugno a tutto braccio sul viso. Il suo sangue, rosso come l’ombrello poco più avanti, macchiava la terra.
Mi misi a urlare. Le mie lacrime scendevano copiose come la pioggia. “Basta!” Urlavo impotente.
Gian Marco diede una ginocchiata in pieno stomaco a Francesco facendolo trasalire.
Continuavo ad urlare, ma era come se nessuno mi sentisse. Mi sentivo dentro un film muto, come in una bolla.
Mi sfilai la borsa da sotto il braccio a la colpii con tutta la violenza che avevo sulla testa di Gian Marco, una volta, due volte, tre volte fino a che lasciò cadere Francesco a terra e si girò verso di me.
Indietreggiai. Il suo sguardo era diventato triste , quando posò lo sguardo su di me, ma non mi feci intimidire e gli diedi un pugno nello stomaco.
In tutte le altre occasione avrebbe avuto più effetto, se non fosse stato che il giubbino aveva attutito il colpo.
Mi afferrò i polsi di entrambe le mani e le strinse così forte che faticavo a muovere l’intera mano. Mi alzò le braccia e cercò di incontrare il mio sguardo che sgusciava da una parte all’altra dell’asfalto. Mi scosse invogliandomi a guardarlo e quando incontrai i suoi occhi nocciola mi sussurrò “Camille… come mai non mi ami? Cosa ho sbagliato?”
 
Cosa hai sbagliato? COSA HAI SBAGLIATO?
 
D’un tratto Gian Marco si girò lasciando quasi la presa dai miei polsi, e ricevette anch’esso un pugno in pieno volto da Francesco, che si era alzato. Ansimava. Teneva un occhio chiuso e aveva tutto il mento sporco di sangue.
Corsi verso di lui abbracciandolo, cercando di proteggerlo con il mio corpo e di sostenerlo, poiché era molto instabile su quelle gambe stanche e inzuppate di acqua.
Gian Marco si alzò subito in piedi ed era pronto a tornare alla carica, ancora più furente di prima.
Avevo paura che questa lotta non potesse avere termine.
 
“Basta!” Un uomo sulla quarantina, dai capelli brizzolati e un po’ lunghi afferrò il ragazzo pronto a tornare alla carica. Gian Marco cercava di divincolarsi dalla presa: “Vieni qui pezzo di merda che ti spezzo le gambe!” “Vieni se hai coraggio, stronzo!” Rispose Francesco, ma riuscii a tenerlo buono e a opporre resistenza alla sua furia, almeno a quella.
 
“Ma che diavolo vi è saltato in mente!” Urlò un ragazzo che era uscito anche lui da un negozio per cercare di placare la rissa. “Guai a voi se fate ancora una cosa del genere o saremo costretti a chiamare la polizia. Ora è meglio che tu te ne vada. Non farti più vedere in giro, chiaro?” Aggiunse poi rivolgendosi a Gian Marco che si era liberato dalla morsa dell’uomo più maturo.
“Chiaro.” Esortò lui a denti stretti. Si voltò l’ultima volta a guardarci. A guardare me e poi se ne andò, le mani in tasca e lo sguardo basso.
“Venite dentro.” Disse poi l’uomo sulla quarantina indicando il bar dal quale era uscito. “Vediamo di darvi una ripulita.” Aggiunse poi sorridendo.
 
“E’ tutta colpa mia” Aggiunsi poco prima di entrare nel locale. Appoggiai la testa nell’incavo tra la clavicola e il suo collo e respirai il suo odore impregnato di pioggia. Appoggiò a sua volta la guancia sana sui miei capelli e mi disse ridendo: “Ma cosa dici?”
 
 
L’ombrello rosso era rimasto là, sotto le betulle umide. Ma la pioggia non era più nera. Era uscito il sole.
 






*angolo dell'autore*
Alllllllora. E' da 2 settimane e mezzo che non aggiorno. A dir il vero questo capitolo era sempre vagato su e giù per la mia testa nelle ultime settimane, ma non so come mai, non riuscivo a trovare la spinta per scriverlo. 
Poi alla fine, ho trovato il momento giusto e questo è ciò che è saltato fuori.
Il prossimo capitolo lo pubblicherò molto prima! 
Commentateeeeee
-sel-

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Capitolo 15
*** XIV - Sentimenti ***


Le strisce bianche disegnate sull’asfalto scorrevano veloci sotto le ruote della bicicletta, che spingevo con forza lungo la strada.
Forzavo sui pedali, alzandomi talvolta dalla sella per viaggiare più veloce tra il traffico.
Il manico della borsona blu accovacciata senza ritegno dentro il cestino anteriore, tintinnava, sbattendo contro il metallo intrecciato del canestro.
Il vento freddo mi graffiava la faccia e scivolava lungo il torace e le braccia facendovi talvolta rabbrividire, ma non avevo tempo per fermarmi ed allacciarmi la leggera giacchettina in pelle che mi cingeva le spalle.
Fissavo gli alti appartamenti impilati l’uno sull’altro e cercavo i cartelli per capire che via dovessi prendere.
Alla fine trovai quella che stavo cercando e mi ci infilai a tutta velocità, riuscendo anche a schivare un automobilista distratto che stava uscendo dal vialetto della propria casa.
Mi girai indietro per scorgere la berlina grigia metallizzata che si era bloccata nel mezzo della carreggiata, per poi riprendere a cercare un'altra via.
La seconda a destra. Piegai la bicicletta ed entrai con la stessa velocità di prima nel vicolo. La bici tramava sotto l’asfalto sconnesso della strada.
Dopo qualche metro mi fermai.
Appoggiai la gamba destra sul marciapiede e mi misi a frugare nella tasca del giubbino fino a che trovai un foglietto di carta piegato.
 
 VIA DELLE QUERCE 4/B – TERZO PIANO
 
Lo tenni tra le dita e rimisi il piede sul pedale, per spingere la bici poco più avanti. Due edifici più il là trovai ciò che stavo cercando.
 
Avevo il fiatone. Dopo essermi fatta tre rampe di scale infinite che parevano quelle di un ospedale, tutte impolverate e incorniciate da pareti tinteggiate di verde-acqua, mi trovai davanti a una porta possente in legno scuro.Suonai il campanello prima di aver ripreso fiato del tutto.
Sentii dei passi provenire dall’interno e poi la serratura scattò. Dietro a quella enorme porta Francesco sembrava ancora più minuto.
“Camille…” Sussurrò incredulo, stringendo ancora la miniglia dorata della porta.
Portava un paio di pantaloni della tuta grigio topo che gli stavano un po’ larghi ma stretti sulle caviglie, una maglietta nera sbracciata e si era tagliato i capelli: erano corti, ad eccezione della cresta nera che stava dritta, indurita al punto giusto dal gel. Gli donava davvero tanto.
La guancia era ancora violacea e il labbro inferiore, che adesso era spalancato, era un po’ tumefatto, ma aveva conservato ancora la sua bella forma e il suo rossore.
“Cosa ci fai qui?” Mi chiese sconvolto.
Finii di riprendere fiato e dopo aver deglutito rumorosamente risposi “Non eri venuto a scuola oggi. E non eri nemmeno allo studio. Mi hai fatto preoccupare! Come mai non hai risposto ai miei messaggi?” Urlai sporgendomi verso di lui.
Rimanemmo entrambi sconvolti dalla mia reazione. “Sc-scusa… Ma non ho proprio guardato il telefono oggi.” Si scusò lui grattandosi imbarazzato il capo. “Inoltre – aggiunse – mia madre mi ha consigliato di prendermi un giorno di pausa per digerire ciò che è successo ieri e così sono rimasto a casa… beh non tutto il tempo come vedi.” Disse indicando i capelli.
“Ti piacciono?” Disse infine.
Annuii sorridendo. “Ti stanno benissimo. Posso entrare?”
“Hem… s-si! Ovvio che si! Vuoi un bicchiere d’acqua?” Disse chiudendosi poi alla porta alle spalle dopo avermi fatta passare.
 
L’appartamento era piccolo ma accogliente. Le pareti color crema entravano in contrasto con il pavimento in linoleum bianco che ti davano la sensazione di essere arrivato a casa; sulla parete di fronte un divano in microfibra a sottili righe bianche, beige e marroni posava impacciato vicino a un tavolino da caffè in legno scuro che lo divideva dalla tv.
Sulla parete a sinistra c’era una grandissima vetrata luminosa nascosta dalle veneziane marroni che mi ricordò lo studio di Francesco e la sua necessità di avere quanta più possibile luce naturale e bianca. Evidentemente era una cosa di famiglia.
Poi vicino alla tv e al piccolo corridoio dal quale ero sbucata c’era un altro corridoio che probabilmente portava alle camere da letto, mentre sulla parete destra del salotto c’era una porta che portava alla cucina.
“Vuoi dell’acqua?” Mi chiese lui mentre indicava la stanza e mi osservava mentre mi guardavo intorno. “Si grazie.”
 
“Che appartamento delizioso.” Aggiunsi dopo essere entrata nella cucina. Era color noce, in stile rustico e si intonava benissimo con il tavolo di legno nel centro. Si vedeva che era una casa vissuta e viva.
I barattoli di spezie sul piano di lavoro, lo strofinaccio umido per lavare i piatti appena utilizzato, i fiori freschi nel vaso e il libro e gli appunti di filosofia sul tavolo.
Era la tipica casa piccola e confortevole dove avresti voluto cucinare una torta, dove avresti voluto giocare a carte con la nonna o guardare i cartoni animati alla tv.
Niente a che vedere con la mia casa, così grande e moderna che sapeva di solitudine e freddo. Era eccessivamente grande già per quattro persone, con due poi, sembrava ancora più immensa. Rabbrividii per un istante.
“Grazie. Beh, diciamo che non possiamo permetterci di meglio.” Disse lui frugando tra le ante in cerca di un bicchiere.
“No è davvero bella.” Ribadii io. “Ho sempre amato le case piccole e accoglienti, perché ti fanno sentire a casa.”
Mi porse un bicchiere di acqua fresca e si sedette su una sedia di fronte a me. Bevvi tutto d’un fiato e poi tornai a guardarlo. “Cosa ti ha detto tua madre riguardo… beh lo sai…”
“Era davvero sorpresa e preoccupata. Non avevo mai fatto a botte con qualcuno. A differenza di quanto pensa la gente io non sono il tipo che fuma, beve, spaccia o combina casini in giro per la città. Dopo averle spiegato la situazione si è tranquillizzata e mi ha consigliato di prendermi un giorno di pausa.”
“Capisco.” Aggiunsi io. “Mi dispiace… Io davvero, non volevo che andasse a finire in questo modo.” Lui scoppiò in una lieve risata profonda e disse “Non ti preoccupare. Piuttosto, mi vuoi dire che diavolo era quel tipo che ha tentato di uccidermi e che sembrava un toro imbufalito dopo aver visto il mantello rosso di un matador?” Oddio non glielo avevo detto.
“Si chiama Gian Marco. E’ il migliore amico del gemello della mia amica Tamara. L’ho conosciuto poiché anche lui era un assiduo frequentatore della loro casa.” Risi.
“Tamara ne era perdutamente innamorata, ma lui non la ricambiava, piuttosto… gli interessavo io.”
Il viso di Francesco si era un poco indurito, ma non ne ero del tutto sicura.
“Ho scoperto in lui un temperamento geloso… ma non mi aspettavo che arrivasse a tanto. Io-Io lo avevo rifiutato dopo che aveva tentato di-di baciarmi…” Mi sentii le guance avvampare, ma continuai. “Ma non aveva mai accettato l’idea di…”
“Anche perché a te piace Fabio, non è così?”
 
Mi sentivo mancare il respiro. La testa cominciava a farsi pesante.
Da quando Francesco e Gian Marco si erano picchiati, non avevo più pensato a Fabio e alla sua mano intrecciata con quella di un'altra ragazza nel mezzo del tavolo. E, per mia grande sorpresa, non me ne importava nemmeno.
Non avevo fatto altro che pensare a Francesco in quelle ore, se stesse bene e a cosa stesse pensando che Fabio era passato completamente in secondo piano.
 
“Non ne sono più tanto sicura.” Dissi. E lo dissi più che altro a me stessa più che a Francesco che mi stava ascoltando dall’altra parte del tavolo. Gli occhi neri fissi nei miei. Li strinse impercettibilmente.
“Non lo so.” Aggiunsi.“Sono un po’ confusa.”
“E’ normale che tu lo sia.” Mi scalzò lui.“Dopo tutto quello che è successo ieri, penso che sia normale. Ma vedrai, nel giro di poco tornerà tutto come prima…”
“No!” Urlai.
 Era sorpreso tanto quanto me e per la seconda volta in quella giornata non riuscii a trattenere le parole che mi uscivano dalla bocca. “No. Non tornerà tutto come prima.”
Avvampai. Avvampai tanto e non ne sapevo il motivo. O forse si, ma era diventato tutto troppo confuso per avere tutte le risposte in quel momento. Mi seppellii tra le braccia intrecciate sul tavolo.
Sentivo i suoi occhi neri e dolci su di me e mi sentii arrossire ancora di più. Perché, perché mi sentivo così…  imbarazzata?
Sentii lo stridio di una sedia sfregare contro il pavimento, così tirai su il capo e vidi Francesco uscire dalla stanza. Lo seguii.
 
“Oh.” Riuscii a dire. Ero in una stanza dalle pareti colorate di blu. Il letto da una piazza che era davanti a me era sfatto e su tutte le pareti erano attaccati con il nastro adesivo centinaia  di fogli di carta. Disegni per la precisione. Schizzi a matita, pastelli, cera. Era una moltitudine di colore e forme, ancora più impressionanti di quelle che avrei mai potuto vedere nello studio.
A destra, sotto la finestra c’era una scrivania piena zeppa di colori, di penne e matite che strabordavano dai portapenne, fogli ammassati e delle statuine umane stilizzate in legno con le giunture mobili per poter far assumere loro la posa che desideravi. I libri di scuola erano invece messi su una mensola poco più in là.
Viveva nella propria arte, nella propria passione e nei propri sogni.
Mi ricordai il pianoforte impolverato in salotto, nero e lucido, che per protesta nei confronti di mio padre non avevo più toccato e che poi avevo rispolverato dopo la sua partenza. Perché avevo sempre visto la musica come qualche cosa che mi legava a lui più che a una cosa che piacesse a me fintanto che avevo cominciato ad odiarla, ad odiare i tasti bianchi e neri, le corde dei violini e le note musicali.
Avrei voluto spaccare il suo violoncello costosissimo e assaporare ogni pezzetto di legno pregiato spaccarsi e volare in aria, le corde rompersi e arricciarsi.
Sentii un forte groppo al cuore per aver odiato così tanto e inutilmente.
“E’ la mia camera.” Disse lui. Mi stava venendo da piangere dopo aver sentito quelle parole vibrare di emozione.
“Camille…” Disse dandomi le spalle. Poi si voltò di tre quarti e si sfregò un occhio con il palmo della mano, teneva gli occhi bassi.
Ispirò profondamente e a scatti e poi mi disse. “Camille. Io-io non lo so cosa sia successo. Non mi piacevi la prima volta che ti ho vista. Mi sembravi una ragazzina irritante e frivola, lì in piedi insieme con i tuoi compagni, mi guardavi con un aria di sfida e allo stesso momento spaventata, come chi teme di essere derubato da un momento all’altro. Sapevo che stavi pensando a me come a un poco di buono e ti odiavo. Odiavo il modo in cui mi fissavi con sospetto e i tuoi modi da borghesuccia d’altro rango. Ma quando ho visto il modo in cui ti si illuminavano gli occhi alla vista di una caffetteria, di come avvampavi per niente e di come ridevi serena e felice cambiai idea. E piano piano, senza volerlo sei entrata nella mia vita come un’ondata di aria fresca. Più passavano i giorni e più adoravo sentire i tuoi passi arrampicarsi su per le scale a chiocciola dello studio, il tuo naso all’insù per osservare le foto, il modo il cui studiavi latino e come ti sedevi di fronte alla vetrata ad osservare la pioggia picchiettare sul vetro. Io-io penso di essermi innamorato di te perché non faccio altro che pensarti e disegnarti. Non faccio altro che pensare ai tuoi capelli biondi, ai tuoi occhi di un verde chiarissimo, indescrivibili. Alle tue mani, alla tua risata. E faccio fatica a respirare al sol pensiero che tu sia qui di fronte a me che te le stia dicendo davvero tutte queste cose.”
Teneva il viso basso e un lieve sorriso sulle labbra.
 
E per un momento avevo voglia di toccarlo. Di toccargli la pelle, le braccia. Avevo voglia di abbracciarlo. Volevo seppellirmi tra il suo petto e respirare l’odore della sua pelle, della maglietta che odorava di pulito.
E così lo feci.
Gli presi un braccio. Nel momento in cui scostò gli occhi dal pavimento per incontrare i miei, spalancati e sorpresi, mi fiondai tra il suo petto. Non sapevo come mai ma volevo rimanere lì, non avrei voluto altro che rimanere con lui. Niente Fabio, ne Gian Marco.
Lo strinsi forte affondando la mia testa nella sua clavicola e respirai forte. Lui mi strinse a sua volta. Un abbraccio accogliente e protettivo che mi avvolgeva tutta.
“So quali sono i tuoi sentimenti per Fabio, ma saprò aspettare. Aspetterò che tu prenda la tua decisone.” Mi sussurrò all’orecchio. E così piansi. Mi sciolsi in quelle parole fatte di amore e comprensione e piansi.
 
Rimanemmo lì, io a piangere e lui ad accarezzarmi i capelli in una danza immobile. Eterna e infinita.
 
 
 
Ci baciammo in mezzo alle scale del secondo piano, dopo che mi aveva rincorso giù per le rampe dopo essere uscita da casa sua.
Un bacio semplice e morbido. Io tenuta tra le sue mani come un uccellino fragile mentre mi avvolgeva con le sue labbra, avevo dimenticato chi ero.
 
Ero diventata un'altra persona su quelle scale da ospedale.
 
 
 




*Angolo dell'autore*
Oh finalmente. Devo dire che personalmente questo capitolo dal punto di vista "stilistico" diciamo mi è piaciuto meno del precedente,
ma finalmente Francesco si è dichiarato e a mio modesto parere, è stato molto dolce. 
Direi che questa cosa batte di gran lunga il capitolo 13. 
Francesco, a differenza di Gian marco sa cosa significa saper aspettare e rispettare gli altri e da questo punto di vista, potrebbe insegnare molto al signor "io sono figo, perchè non mi ami?" 
Beh, adesso staremo a vedere cosa succederà.... Hahahah mmm... io ho già in mente tutto!
Commentate e datemi se vi piace :)
-Sel-

 

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Capitolo 16
*** XV - Petali ***


Non ci misi molto a prendere coscienza dei sentimenti che provavo per Francesco.
Nei giorni successivi alla rissa e al nostro bacio sulle scale del condominio, avevamo passato insieme tutti i pomeriggi, tra lo studio, la biblioteca e le polverose poltrone del cinema, che dopo mezzanotte costava solo qualche euro.
Ormai era la fine di un maggio lunghissimo e denso di giornate uggiose, di verifiche pesanti e di serate consumate a mangiare pop corn al burro e bere thè alla pesca. E più rimanevamo lì, a pochi centimetri l’uno dall’altra, più passavo le notti insonni a pensare al suo volto, alle risate e alla violet carson che mi aveva regalato, che si appassiva piano piano nel vaso ricolmo d’acqua sul comodino.
La verità era che mi stavo innamorando di lui.
Inesorabilmente, impercettibilmente, diventavo sempre più consapevole e presa da quel ragazzo dagli occhi e dai capelli nerissimi, dalla bocca carnosa color fragola e dai denti avorio.
E lui amava me. Come in uno dei libri più romantici o come nei film strappalacrime dove i protagonisti finalmente possono stare insieme e provano un amore così forte da spaccare le pietre e formare buchi neri, anche io potevo dire di sapere cosa si provava. Cosa significava essere davvero felici.
Così decidemmo di non dirlo a nessuno, come se dicendolo avessimo condiviso il nostro amore, l’uno dell’altra anche con gli altri. Eravamo terribilmente egoisti, ma forse era l’idea migliore.
Ci incontravamo di nascosto nel cortile dietro alla palestra della scuola per baciarci, nell’aula di fisica e nella sala conferenze dietro all’armadietto. Mi imbarazzava da morire, ma mi eccitava altrettanto violentemente.
Quegli sguardi furtivi che ci lanciavamo in corridoio, divisi dalla folla di studenti, sembravano privi di significato per tutti. Ma non per noi due.
Lo avevo detto solo a Tamara.
Quando mi ero recata a casa sua – assicurandomi che non ci fosse Gian Marco -  per dirglielo, aveva fatto un gridolino acuto e aveva fatto cigolare tutto il letto su cui era seduta. Mi aveva tartassata di domande e non la smetteva di arrossire e di verseggiare nel momento che le descrivevo dei nostri piccoli sotterfugi.
A parte le scenate nevrotiche da appassionata di libri rosa, mi sembrava maturata molto dopo la disastrosa relazione, se così si poteva chiamare, con il bufalo dai capelli castani.
Aveva assunto un’ aria di chi sa ciò che vuole e sembrava perfino che fosse diventata più sicura di quanto non lo fosse stata prima; inoltre il nuovo taglio di capelli le aveva dato una ventata di freschezza e di sensualità che le avrebbe sicuramente giovato.
Un semplice taglio per cambiare noi stesse, per eliminare il nostro passato e guardare il faccia al futuro. Noi donne siamo così, nel bene e nel male.
Anche mia mamma era allo scuro di tutto, anche perché non sapevo bene come o cosa dirgli. Mi sentivo come quando compri una costosa macchina con la carta di credito dei tuoi a loro insaputa, contando i giorni in cui lo vengano palesemente a scoprire. Mi si leggeva in faccia che ero felice quindi o mia mamma era diventata miope tutto d’un colpo o era troppo stanca per accorgersene. Probabilmente era la seconda.
Andava tutto, fin troppo bene.
 
“Oh Jack, dipingimi come una delle tue ragazze francesi.” Gli dissi mentre mi ero coricata a sul pavimento dello studio mentre lo guardavo stendere il colore sulla tela. Rise forte e poi picchiettò il sottile pennello su della tempera grigia e tornò a concentrarsi sul quadro.
“Quand’è che mi insegni a disegnare?” Gli chiesi dopo qualche minuto di silenzio.
“Tu sei solo la mia musa, non devi fare altro che ispirarmi. Al resto ci penso io.” Disse tornando a stendere il colore sul dipinto.
“Cosa dovrei fare per ispirarti?” Gli domandai.
Mi misi a pancia in su e le mani in grembo ad osservare le foto che penzolavano leggere dal soffitto. Sentivo il freddo delle piastrelle invadermi tutta la zona a contatto con esse ma non mi importava. “Mi basta che respiri. A me basta che tu sia solo qui con me per ispirare il mio mondo.”
Mi alzai in piedi e mi avvicinai a lui. Sulla tela ancora incompleta si potevano notare due ragazzi abbracciati sotto la pioggia scura, protetti da un ombrello rosso. L’unica nota di colore del dipinto.
Mi sentii male perché mi resi conto solo in quel momento cosa era significato per lui quell’abbraccio, quell’istante. “Ti piace?” Mi chiese sorridendomi. “Come si chiama?”. “Non lo so, non ci ho ancora pensato.”
Gli avvolsi le braccia intorno al collo, intrecciando le mie dita in mezzo ai suoi capelli e lo strinsi forte a me, facendo congiungere le mie labbra con le sue. Un bacio paradisiaco, morbido e intenso.
Bramavo le sue labbra come lui bramava le mie. Una sua mano nell’incavo poco sopra il sedere e l’avambraccio dell’altra che mi avvolgeva la schiena, cercando di evitare di sporcarmi la maglia e i capelli con la pittura sul pennello.
Ci staccammo di malavoglia dopo un po’, per riprendere fiato.
“Pioggia?” Chiesi. “Mmh… banale.” Mi diede un altro lieve bacio.
“Ombrello scarlatto.” Provai di nuovo. Rise forte. “Troppo scontato” Un altro ancora.
“Pianto nero.” Si scostò un poco dal mio viso. “Non male. Davvero. Anche se volevo esprimere un sentimento diverso… ma non male.” Un terzo bacio.
 
Sbadigliai violentemente. L’aria ancora fredda di maggio mi faceva pizzicare gli occhi che lacrimavano incessantemente e non vedevo l’ora di tornare a casa. Ero un po’ stanca, anche se non avevo fatto un gran che; il mio unico pensiero era quello entrare in salotto, stendermi sul lungo divano in pelle nera e guardare stronzate in tv, mangiando schifezze.
Astrassi il telefono dalla tasca del giubbino e guardai l’ora. Era presto, di sicuro mamma non era ancora arrivata a casa.
Entrai in velocità nella mia via.
Le villette immobili piantate a terra venivano illuminate dalla luce rossastra del crepuscolo, increspate dalla mia ombra nera che scorreva sui muri, insieme a quella delle fronde degli alberi che squassavano in balia del vento.
Entrai nel vialetto e frenai la bici. Strinsi gli occhi e digrignai i denti: “Ma che diavolo…”. Una macchina tedesca, lucida e nera era parcheggiata davanti a casa. Non l’avevo mai vista prima.
Parcheggiai la bicicletta davanti al garage e poco prima di riuscire ad avviarmi alla porta di casa, essa si aprì facendo uscire due uomini in giacca e cravatta che stavano discutendo. Dopo poco uno di loro mi notò.
“Oh, signorina Van Housen, buonasera. Stavamo cercando proprio lei.” Disse lui con un accento tipicamente nord europeo.
Era molto alto, probabilmente quasi due metri, il viso quadrato e duro, il naso aquilino e gli occhi molto chiari. Di sicuro non era italiano. “Buonasera, posso sapere chi siete voi e che ci fate in casa mia?” Chiesi alquanto irritata, avvicinandomi ai due uomini.
“Siamo qui per lei, signorina.” Aggiunse poi l’uomo. Solo allora mi accorsi di un borsone che stringeva in pugno penzolargli dalle mani. Non capivo.
Indietreggiai. “Ma che diavolo sta succedendo?” Sentivo ogni mia singola vena irrorarsi di sangue e cominciai ad avere paura. Chi erano quegli uomini? E cosa ci facevano in casa mia?
“Non si preoccupi, signorina Van Housen, non le succederà niente.” Disse l’altro uomo in giacca e cravatta afferrandomi un polso dopo essersi avvicinati a me. Era più basso dell’altro e moro con gli occhi verdi. Questo era italiano.
“Dannazione! C-chi siete? Cosa volete da me? E lei mi tolga le mani di dosso!” Urlai fuori di me. Volevo delle spiegazioni. E subito.
“Non dovresti urlare così Camille. Nessuno ti ha insegnato le buone educazioni?” Disse una voce aimè molto familiare. Uscì dalla porta guardandomi fissa negli occhi.
Papà.
 
“Papà… tu… cosa ci fai qui?” Chiesi. Non sapevo se fossi più arrabbiata o schioccata dopo averlo visto. Di sicuro volevo prenderlo a pugni, questa era la mia unica certezza.
“Sono venuto a prenderti, Camille.”
“COSA? Mi stai prendendo in giro?” Mi sembrava di vivere un sogno, anzi un vero e proprio incubo. Non sapevo se credere seriamente alla scena che stavo vedendo oppure fingere che tutto questo fosse semplicemente irreale, frutto di una mia fantasia. Ma sapevo già che quello che stavo vivendo era la pura realtà.
“No. Ho pensavo sul serio alle parole che mi hai detto quel giorno, quando ho dovuto ripartire nuovamente. La tua solitudine Camille. Non sono stato un bravo padre in tutti questi anni… ma è ora di rimediare. E’ ora di prendermi le mie responsabilità e di rimediare agli errori passati.”
 
“E’ tardi!” Gridai. Lo osservai trasalire, ma il suo visto tornò velocemente come prima, tanto che mi chiesi se aveva avuto veramente quell’espressione smarrita sul volto, un attimo prima.
Non fa niente. Carl, metti la borsa in macchina.” Disse all’uomo altro facendogli un canno. Questo annuì, affrettandosi ad aprire il bagagliaio dell’auto.
Avevo davvero un terribile presentimento. La sensazione che quella borsa non contenesse i vestiti di mio padre.
Indietreggiai e poi mi voltai di scatto, pronta per raggiungere la bicicletta, ma l’uomo moro, che aveva previsto una possibile fuga mi afferrò saldamente per le braccia e poi mi sorrise. Un sorriso falso e meccanico.
“Signorina, adesso deve venire con noi.”
“No!” urlai cercando di divincolarmi, ma la presa dell’uomo era troppo forte e mi indirizzò con facilità verso la macchina. “Lasciatemi stare! Che cazzo state facendo! Se mia madre lo verrà a sapere…”
“Quando lo verrà a sapere sarà troppo tardi.” Si affrettò ad aggiungere mio padre, completando la frase ma non nel modo in cui volevo io. Un lieve sorriso gli increspava le labbra. “Dopotutto sei mai figlia. Non potrà fare nulla per impedirlo.”
“Sei un fottuto pezzo di merda! Lasciami andare!” Urlai, cercando di divincolarmi con più forza. L’uomo dai capelli scuri mi spinse nella macchina nera parcheggiata nel vialetto e poi lasciò che l’altro uomo altro si sedesse vicino a me, nei sedili posteriori.
 
Si sedettero tutti in macchina, l’uomo moro al posto di guida; dopo aver introdotto la chiave nel cruscotto si affrettò ad uscire in retromarcia. La mia bici era ancora là, davanti al garage di casa.
 
“Allora, si può sapere dove mi state portando?” Chiesi con un filo di voce.
“Pensavo che sarebbe stata una bella idea tornare dai nonni. Insomma, dopotutto da quando è che non li vedi, 10 anni? Hanno una casa davvero graziosa in cui stare.” Rispose mio padre senza voltarsi.
Sul parabrezza, l’ombra degli alberi scorreva veloce, simili a mani, tentavano di frenare la folle corsa dell’auto, impedire che si muovesse. Ma ancora una volta l’egoismo degli uomini era stato più forte.
“I nonni? Quei nonni? Stai-stai scherzando?” Ero completamente distrutta. Sbiancai tra la pelle nera dei sedili nell’auto.
Rise piano e poi si voltò a guardarmi, tornando poi a sprofondare nel suo sedile.
“Questo è il suo biglietto signorina.” Aggiunse l’uomo vicino a me porgendomi un biglietto d’aereo.
Utrecht.
 
Utrecht.
Utrecht.
Utrecht.
 

Rimasi per tutto il tragitto a fissare fuori dal finestrino. Pensai a mia madre, agli ombrelli rossi e ai ragazzi che si abbracciano sotto alla pioggia.
A una rosa su un comodino, che in una stanza tetra sfioriva e perdeva i petali, silenziosa. Senza fare rumore.
 






*Angolo dell'autore*
Questo capiloto avrei dovuto chiamarlo "Pezzo di merda" ma ho cambiato idea. Diciamo che era il nome più azzeccato per descriverlo.
La prima parte è un po' il sommario degli ultimi avvenimenti (ho ritenuto che fosse superfluo fare un capitolo su i loro comportamenti a scuola, anche se adesso che ci penso, probabilmente, se lo avessi scritto, sarebbe saltato fuori qualche cosa di intrigante... ma non fa ninete :3).
Il pezzo fondamentale è, come avete sicuramente immaginato, il secondo. 
La partenza. Beh. Diciamo che
 ho architettato questa cosa vari capitoli fa, ma non ho mai pensato a come farla tornare a casa.
SE TORNERA' A CASA.

Hahahahaha aspettatevi un sacco di colpi di scena, perchè ce ne saranno. Yo.
-Sel-

 

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Capitolo 17
*** XVI - Requiem ***


Scendemmo dall’aereo verso le 5 del mattino.
La pallida notte di Amsterdam si stava a mano a mano consumando, masticata dai nostri passi sul pavimento dell’aeroporto.
Non avevo chiuso occhio. Mi fermai davanti ad una vetrata ad osservare la mia immagine riflessa, i capelli biondi e scomposti, le palpebre irrigidite dalle lacrime secche e le labbra violacee. Il silenzio si accumulava come la polvere, soffiava come gli spifferi tra le porte.
Mi strofinai il viso, cercando di rimuovere la rigida espressione che attanagliava ogni muscolo facciale, ma non ci riuscii. Sospirai forte.
Un signore assopito su una panchina si svegliò di colpo, per poi tornare a riversare la testa sulla sua spalla.
Recuperate le valigie e compiute tutte le formalità, uscimmo dall’aeroporto.
La notte buia e calma era parcamente illuminata dai lampioni giallo-bianchi. L’uomo altro, che a quanto avevo capito si chiamava Carl, ci precedette e fece un cenno ad una macchina scura di avvicinarci.
“Prego” Mi disse l’uomo moro indicandomi la portiera aperta.
 
Dopo quasi due ore, la macchina parcheggiò davanti a una casetta contornata dal giardino. Un fine recinzione distanziava l’erbetta fresca dal cemento della strada e i fiori che erano ancora un poco chiusi per via dell’oscurità, tintinnavano nelle aiuole accarezzate dal vento.
Scesi dalla macchina un po’ impacciata aiutata dall’uomo moro che mi aveva aperto la portiera e recuperate le valigie, ci addentrammo nella proprietà.
Un piccolo sentiero fatto di mattonelle da esterno ci guidava verso una porta rossa scura.
La casa era molto semplice, come tutte le altre case nordiche, aveva il tetto spiovente e i mattoni grigiastri che ne ricoprivano la facciata. Ad ogni finestra, contornata da assi in legno bianco, pendevano dei vasi con moltissimi crochi violacei e una pianta di wisteria si stava arrampicando su una grondaia a lato della finestra del piano terra, creava i suoi caratteristici fiori a grappolo blu-viola che emanavano un gradevolissimo profumo.
Mio padre suonò il campanello e dopo poco ne uscì una vecchietta. Un poco ingobbita, la nonnina aveva un vestitino sbracciato fiorito che gli arrivava fin sotto le ginocchia e ai piedi un paio di ciabatte. I capelli bianchi, che mostravano ancora qualche sfumatura bionda, erano raccolti in una crocchia appuntata con un fermacapelli e gli occhioni blu contornati da profonde rughe, erano buoni e sereni.
Si gettò nelle braccia di mio padre che le baciò la fronte e le disse che era tornato, in olandese.
Quando vide me, mi si avvicinò con le braccia spalancate.
“Oh, Kristine!” Mi prese il viso tra le mani nodose e mi baciò le guance più e più volte. Bacetti umidi e teneri. Era tanto che uno non mi chiamava con il mio secondo nome. Non immaginavo che qualcuno se lo ricordasse.
Tornava a guardarmi e a baciarmi, sussurrandomi quanto fossi cresciuta e altre cose in olandese che non avevo colto del tutto.
Dopo poco entrammo in casa. Quella signora anziana, che doveva essere mia nonna, l’avevo vista solo poche volte in tutta la mia vita. Ero davvero piccola, avrò avuto 6 anni l’ultima volta che la vidi e per me era una completa estranea. Era una cosa così triste, ma dopotutto, col fatto che mio padre passava poco tempo a casa, era già una rarità vedere lui, figuriamoci vedere i suoi genitori e i suoi fratelli e sorelle.
Se sradicarmi dalla mia casa e rapirmi da mia madre, dai miei amici e da Francesco era l’unico modo per vedere mia nonna paterna, beh, avrei preferito non vederla affatto. Avrei preferito dimenticare il poco olandese che ricordavo, dimenticare la casetta con le aiuole, l’aeroporto di Amsterdam, Utrecht e tutta l’Olanda intera. Avrei anche potuto dimenticare mio padre, ritagliarlo via dalle foto di famiglia e gli oggetti che mi ricordavano lui. Avrei potuto dimenticare tutto di quell’uomo, solo per poter tornare a casa.
 
“Questa è la tua camera.” Accennò mio padre dopo aver aperto la porta di una camera vicino al bagno, al secondo piano.
Un letto matrimoniale sovrastato da una coperta bianca, simile al pizzo, risiedeva nudo e sfrontato nel mezzo della camera. Sulla destra un piccolo armadio anonimo in noce, mentre sulla sinistra una piccola scrivania spoglia al di sotto di una finestra aperta. La stanza odorava di chiuso e fiori, per via del profumo portato dal vento che entrava con timidezza nella stanza.
Appoggiò il borsone sul letto e mi guardò quasi riluttante “Non so se ti convenga disfare le valigie. Fra pochi giorni dovremo ripartire. Per lavare i tuoi vestiti o per averne degli altri puoi chiedere alla nonna.”
“Ripartire? Significa che… mi riporterai a casa?” Per un breve istante fui felice.
“No. Mi hanno dato la possibilità di lavorare in Australia come violoncellista in una famosa compagnia. Fra cinque giorni andremo a Sidney, ci troveremo una bella villa di fronte al mare, ti iscriverò in una bella scuola piena di ragazzi e vivrai una vita meravigliosa, come hai sempre sognato. Degna di mia figlia.”
Gli uccellini appollaiati sui rami, spiccarono il volo lontano.
“Australia? Mi stai dicendo che hai intenzione di portarmi in Australia?” Sentivo le lacrime fare capolino e la bocca cominciava ad impastarsi, un groppo in gola mi attanagliava e da lì a poco sarei scoppiata in un fiume di lacrime.
“Io… Io non ci posso credere. E la scuola? Gli amici? La mamma? La mia Italia?”
“Mi dispiace.”
“Come puoi aver deciso di prendere questa decisone senza dirmi niente! Come puoi essere così egoista da obbligare tua figlia a stare con te! Io non voglio papà! Smettila di intrometterti nella mia vita!”
Le tende bianche tentennavano scostate dal vento di fine maggio.
“Un giorno, mi ringrazierai.” Uscì dalla stanza chiudendo la porta. “Aspetta!” Gridai, ma era già uscito. Avevo parlato con un muro di cemento. Qualsiasi cosa dicessi, non avrebbe cambiato opinione.
Australia.
Dovevo fare qualche cosa. Se le parole non servivano a niente, serviva una presa di posizione diversa.
 
Seduta sul pavimento della stanza, avevo telefonato a mia madre. In lacrime, faticava a respirare. Aveva chiamato i carabinieri perché pensava che mi avessero rapito o che fossi scappata di casa. Era senza parole, non riusciva a capacitarsi del fatto che mio padre, suo marito, mi avesse buttata su un aereo conto la mia volontà e portata dai nonni paterni. E che mi avrebbe portato in Australia.
La sentivo singhiozzare disperatamente. Il suo respiro, sconnesso e stridulo, alterato dall’apparecchio telefonico, sembrava poter tagliare l’aria. Fissavo ormai senza forze, una piccolo insetto, che volava sopra la mia testa, in cerca di un luogo dove posarsi.
Mia madre mi disse che avrebbe fatto di tutto per impedire a mio padre di portarmi dall’altra parte del globo e aveva già iniziato le pratiche di divorzio.
Nel giro di qualche giorno, sarebbe arrivata insieme a mio fratello e mi avrebbe portata a casa.
 
Chiusi la chiamata e vidi, pochi secondo dopo, comparire l’immagine di Francesco sul display.
“Pronto.”
“Pronto Camille! Oh mio Dio. Sei viva. Oh grazie al cielo. Dio, a scuola ci hanno detto che ti stavano cercando e che eri scomparsa. Io-io Camille… Io…” Stava per mettersi a piangere. Sorrisi lievemente.
“Francesco. Sono viva. Non è successo niente, o quasi…”
“Dove sei?”
“In Olanda.”
“In Olanda?! Cosa…”
“Mio padre è tornato a casa. Ha approfittato dell’assenza di mia madre per portarmi qui, dai nonni paterni. Ha intenzione di trasferirsi in Australia e di portarmi con sé.”
“In Australia? Ma… quando?” Era sconvolto. Lo ero pure io.
“Partiamo fra cinque giorni. Ma non preoccuparti! Mia madre ha intenzione di venirmi a prendere il prima possibile. Presto sarà tutto finito.”
“Quel fottuto pezzo di merda!” urlò fuori di sé. “Se solo riproverà a farsi vedere io…”
“Fra pochi giorni tornerò a casa e potremo stare insieme.” Almeno così speravo. Pensavo che dicendolo ad alta voce sarei riuscita ad auto convincermi, ma non era così. Non sarebbe stato facile. Nulla nella mia vita lo era davvero.
“Ti verrò a prendere io. Anche a costo di venire in Australia. Verrò a prenderti.”
“Ti amo.” Gli dissi.
“Anche io.” Cadde la linea in quell’istante.
 
 
Chiesi alla nonna una rosa rossa. Ne aveva solo di rosa, bianche e gialle, ma niente rosse.
Chiusa in camera, strappai quelle che mi aveva dato.
Sul pavimento scuro, c’erano solo gambi verdi e petali strappati. Un omicidio muto.

 
Mi addormentai sul pavimento, tra le rose moribonde e un requiem trasportato dal vento di maggio.
 
 




*Angolo dell'autore*
Mi scuso per il ritardo, ma ho avuto parecchio da fare. A dir il vero sono incasinatissima, sia con la scuola che con le situazioni interpersonali, quindi se per caso non mi sentirete per le prossime settimane, chiamate i carabinieri, perchè potrei essermi impiccata.
In questo momento mi sento come una rosa strappata e quindi, diciamo che i miei sentimenti si riperquotono sul capitolo. 
Adesso come adesso potrei fare morire Camille sotto ad un tram, quindi auguratevi che mi possa sentire un po' meglio nelle pressime settimane... Hahahahah nono, sono seria.
Addio (vi prego sopprimetemi)
-Sel-

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Capitolo 18
*** XVII - Decisione ***


Mi svegliai disturbata da un tenue raggio di luce che aveva attraversato la finestra. Mi girai nel letto cercando di evitarlo e mi strinsi tra le coperte bianche.
Era piovuto tutta la sera prima e probabilmente anche tutta la notte e l’arietta frizzante che filtrava da non so bene dove, mi fece rabbrividire per un secondo. Sotto le coperte si stava benissimo, il cuscino in piume era soffice e il calore del corpo aveva scaldato le lenzuola, creando un dolce rifugio dove riposare.
Appena sveglia però, non riuscendo nemmeno a capacitarmi del fatto che avevo appena aperto gli occhi, mille pensieri mi attraversarono la mente, come una lepre che fugge veloce e silenziosa dal cacciatore, in mezzo al gelido e immacolato manto nevoso, così  una moltitudine di pensieri, correvano veloci senza davvero posarsi.
Come ombre senza volto, mi sfioravano velocissime con le loro lunghe gambe, senza lasciare traccia del loro passaggio; sapevo che erano state lì, ma non riuscivo a percepirle e sebbene mi sforzassi di analizzare la situazione, la mia mentre rimbalzava da una parte all’altra come un pallone sgonfio in una camera buia.
Mamma dove sei.
Espirai forte nel mezzo della stanza parcamente illuminata. Mi ricordai le mani di Francesco, zuppe di colore che mi sfioravano la schiena, quando si avvicinava pericolosamente a me, le nostra labbra a pochi centimetri le une dalle altre, mentre mi guardava dolce negli occhi, i nostri respiri spezzati che si mischiavano e le mie dita tra i suoi capelli neri.
Immaginai il giardino dietro la palestra vuoto, l’erba alta e il mio banco pieno di polvere.
Ero in Olanda da solo due giorni, ma mi sembravano un’ eternità.
Se mia madre non fosse riuscita a raggiungermi, sarei davvero andata a vivere in Australia?
Quell’ idea non l’avevo davvero presa in considerazione, forse perché mi sembrava così assurda, forse perché credevo così fermamente che mia madre mi sarebbe venuta a prendere che non ci avevo davvero pensato. Non mi ero nemmeno immaginata salire su un aereo e andare in Australia, dove a Natale si fanno i falò sulla spiaggia, si improvvisano barbecue e si fa surf in un mare cristallino. Per quanto sarebbe stato meraviglioso in altre circostanze, in quel momento mi sembrava uno tra gli incubi più spaventosi.
Ero però troppo grande per correre nel letto della mamma, come facevo da piccola, l’orsacchiotto in un braccio e i piedini scalzi picchiettare sul pavimento liscio del lungo corridoio di casa.
Quando per un secondo smisi di pensare, mi accorsi che c’era qualcuno che parlava animatamente con qualcun’altro dal piano terra.
 
Mi alzai con fatica dal letto e mi mossi con cautela lungo la stanza. Mi strinsi nella maglietta sbracciata, mentre cercavo di contrastare lo sbalzo termico tra aria fresca e il materasso caldo. Aprii la porta socchiusa della stanza e mi misi in ascolto. La voce di mio padre era dura e spigolosa.
“Si … si … Ok. Quando arriveranno, lo sai? ... Questa sera. A che ora? ... Dannazione, è troppo presto. Troppo presto. Non immaginavo che arrivassero così presto, ma c’era da aspettarselo … Procura i biglietti … Cosa significa che non sai se riuscirai? E’ per questo che ti pago dannazione! … Non mi interessa, dobbiamo partire il più presto possibile! Se Camille dovesse scoprire che sua madre sta arrivando qui, non … Si dobbiamo fare il possibile. … No, la lascio dormire ancora un po’, dopotutto sono solo le 7 e mezza. Procura i biglietti, non mi importa quanto costeranno. … Vedi di fare un buon lavoro. Ciao.”
Riattaccò il telefono e sentii i suoi passi dirigersi in un'altra stanza.
 
O. Mio. Dio.
Sentivo le lacrime scendere mute sul viso. Cominciai a singhiozzare silenziosamente dietro la mano che tappava la bocca e un mi sembrava quasi di non poter più respirare.
Tornai in camera, chiudendomici dentro piano evitando di fare rumori e, cercando di riprendere a respirare con regolarità, appoggiata alla porta chiusa della stanza, cercai di capire cosa avrei potuto fare. Che mossa avrebbe dovuto fare a quel punto Camille Kristine Van Housen. Quale forza di posizione, quale sconsiderata azione avrei dovuto fare per me stessa, per la mia felicità.
Le lacrime cadevano come gocce di pioggia, sul parquet della stanza. Altra nera e catramosa pioggia.
Alzai lo sguardo e guardai i jeans e la maglia piegata a cavallo della sedia sulla scrivania. So cosa dovevo fare.
 
Con estrema velocità mi infilai i jeans grigi e le calze bianche appoggiati sulla sedia, la canotta bianca e la magia blu dal collo largo.
Mi allacciai le scarpe, stringendo il nodo con cura, come se fosse di estrema necessità e inserii i lacci all’interno della scarpa; mi infilai la sciarpina grigio scuro al collo e il giubbino in pelle che avevo lasciato fortunatamente in camera.
Controllai ciò che avevo nella borsa: il telefono, una bottiglietta d’acqua, i trucchi di scorta, occhiali da sole, fazzoletti, cerotti, una cartina di Venezia che gettai sulla scrivania insieme a qualche carta di caramelle. Nel portafoglio c’erano 40 euro senza contare la moneta. Ottimo. Per fortuna ovunque andassi ero sempre ben equipaggiata.
Ci inserii dentro un'altra maglia per sicurezza.
Misi la borsa a tracolla con l’apposita maniglia e spalancai la finestra della camera.
 
Salii con le ginocchia sulla scrivania e guardai sotto. Al di sotto della finestra c’era un piccolo balconcino pieno di fiori e di fronte due enormi sempreverdi. Fortunatamente la stanza dava sul lato destro della casa, così la mia fuga non sarebbe stata notata da nessuno e al di sotto della finestra non ve ne erano altre.
Il più era capire dove aggrapparsi, anche perché la stanza era al secondo piano e avrei dovuto fare un bel volo prima di toccare terra. Anche se la parete era ricoperta da mattoni grigiastri, tra l’uno e l’altro non vi era più di un centimetro e utilizzarli per scendere fino a terra era pressoché impossibile.
La mia attenzione cadde sulla grondaia alla mia sinistra, non ero sicura che sarebbe riuscita a sostenere il mio peso, ma era la mia unica ancora di salvezza.
Tornai in camera e mi guardai attorno. Dovevo creare una fune, qualche cosa. Usare le lenzuola con un normale carcerato mi sembrava troppo teatrale e poi ci avrei messo troppo tempo. Mi diressi verso l’armadio e lo apri in cerca di qualche cosa.
Abiti eleganti. Pantaloni e giacche nere, camice e un paio di scarpe lucide e costose. Una giacca elegante non può dirsi tale senza una cravatta, pensai così, cercando con cura sotto gli abiti, trovai un cassetto che ne conteneva moltissime, pregiate e belle, alcune di seta e altre di raso.
Due minuti dopo una lunga corda di cravatte era pronta per l’uso.
 
Sbirciai fuori dalla porta per evitare che arrivasse mio padre. Parlava con mia nonna in olandese al piano di sotto. Ottimo.
Mi chiusi la porta alle spalle e respirai profondamente. Avevo così tanta paura. Non avevo mai fatto nulla di così sconsiderato e pericoloso in vita mia, dopo la rissa con Gian Marco. Con il cuore a mille e l’adrenalina nelle vene, afferrai la corda di cravatte pregiate e salita sulla scrivania, mi affacciai nuovamente alla finestra. Annodai la fune intorno al tubo agganciato alla parete e quando mi sentii pronta, mi misi a cavallo della finestra. Tremavo di freddo e ansia.
Prima un piede, poi l’altro li feci scivolare fuori dalla finestra e mi tenni stretta al bordo della stessa con la forza delle braccia cercando intanto di trovare aderenza con i piedi sulla parete. Le spalle e i muscoli tremavano per via del peso del corpo concentrato tutto su di loro.
I fiori, posti tra le braccia e la parete mi erano d’intralcio e distrattamente, mentre mi mossi, un vaso cadde di sotto. Lo vidi farsi sempre più piccolo, sempre più impercettibilmente veloce. Contrassi il mento e strinsi i denti come se così facendo avrei attutito la caduta del vaso e il suo rumore.
Attimi interminabili prima che il vaso toccasse terra. Mi accorsi solo dopo che toccò il suolo, che non era di terra cotta, ma bensì di plastica. Esso si schiacciò sotto il suo peso accentuato dalla forza di gravità e dopo aver prodotto un goffo tonfo, rotolò di lato.
Sospirai forte.
Velocemente, mi aggrappai alla corda di cravatte con una mano mentre l’altra rimaneva ancora agganciata alla finestra. Riuscii ad accompagnare la discesa per qualche decina di centimetri, poi staccai la mano che non aveva più aderenza dalla finestra e bilanciando un po’ il peso e muovendomi il più velocemente possibile scesi in verticale la parete. Non so quanto avrebbe resistito la grondaia, quindi per sicurezza quando mancavano quasi due metri da terra mi gettai sull’erba.
 
Da quell’angolazione, non mi sembrava possibile di aver fatto una cosa del genere.
Ero scesa da una stanza del secondo piano. Fico.
Fissai per un attimo il fiorellini nel vaso caduto, riverso su un lato, la terra nera sparpagliata sul piccolo marciapiede che divideva la casa dall’erba. Sembravano stupiti anche loro, avevano sul volto, se ne avevano uno, un’espressione di incredulità e ammirazione.
Diedi un’ ultima occhiata alla finestra aperta e poi percorsi il giardino di lato per evitare di essere scorta dalle finestre.
 
Bene. A questo punto dovevo ragionare, poiché ogni azione insensata avrebbe riportato grosse conseguenze. Punto primo, non conoscevo la zona in cui mi trovavo. Avrei potuto trovarmi a 2 o a 30km dal centro di Utrecht che non me ne sarei nemmeno resa conto. Con il poco olandese che ricordavo e con il mio discreto inglese, avrei potuto chiedere informazioni e recuperare il biglietto dell’autobus.
Punto secondo, avevo poco tempo prima che mio padre si accorgesse della mia scomparsa quindi dovevo evitare di percorrere strade principali e molto frequentate. Arrivare a Utrecht e comprare un biglietto del treno per Amsterdam e arrivare per sera in città e incontrare mia madre. Non doveva essere così difficile.
Ma che diavolo stavo dicendo, certo che era difficile!?
Per un secondo mi chiesi cosa diavolo avevo combinato. Solo 40 euro, una ragazzina da sola in una città così grande e che sapeva pochissimo della lingua del posto. Ma che mi era saltato in mente?
Beh, pensai, dopotutto sarà un’ esperienza che racconterò ai miei nipoti.
Se ci fossero qui Tamara e Rachele mi avrebbero insultata e sgridata, ma non Ludovica. No lei no, mi avrebbe detto di tirare fuori le palle e di far vedere al mondo chi sono.
Osservai la lunga via costeggiate dalle casette con giardino nella tenue luce mattutina. L’asfalto rugoso correva sotto i miei piedi. Per un secondo ricordai il bellissimo sorriso di Francesco incastonato nella mia mente. Lo immaginai a pochi centimetri da me.
Non potevo tornare indietro. Se lo avessi fatto non lo avrei più rivisto.
 
 
Sorrisi e imboccai di corsa una viuzza laterale. Se era ora di giocare, non mi sarei di certo tirata indietro.
E’ questa la vera Camille, nel bene o nel male.





*Angolo dell'autore*
Eccomi qua con un nuovo capitolo. Lo confesso, quando l'ho scritto avevo l'ANSIA. Quando scendeva e scappava dalla casa mi sono sentita mooolto protagonista e avevo davvero paura che la scoprissero, anche se ovviamente, avrei deciso io se questa cosa sarebbe successa o meno. 
Comunque Camille ha fatto un po' come avrei fatto io: fuga.
per quanto io sia una persona che non fa queste cose (un po' come lei) questa per me sarebbe stata l'unica soluzione.
Adesso vedremo cosa le succederà, perchè una ragazza in una città grande e sconosciuta come quella, può incappare in molti pericoli.
A presto. Ovviamente commentateeeeeee :)
-Sel-

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Capitolo 19
*** XVIII - Case rosse ***


Coloro che amano, non potranno dire di averlo fatto davvero se non hanno prima sofferto. Così come chi prende il veleno a piccole dosi, piano piano ne diventa immune, così il dolore se assunto periodicamente, ti abitua ad odiare la vita, la tua intera e futile esistenza. Ma non puoi scappare, non puoi rifugiarti nei sogni sperando che tutto possa scorrerti davanti senza scalfirti. Noi siamo come le rocce nei torrenti. Corrosi dalla potenza dell’acqua ci levighiamo. Ogni lacrima, ogni sospiro, ogni stretta al cuore è un piccolo tassello della nostra preparazione al dolore. E poi tutto cambia. Basta un istante, una persona, un momento e tutto il dolore che hai provato viene ripagato.
Come la neve sulla lava bollente, come la pioggia nelle giornate afose, come la guarigione dopo la malattia, ricominci a vivere.
 
 
 
 
 
Picchiettavo rumorosamente le unghie scrostate di smalto sul plexiglass della pensilina alla fermata dell’autobus. Ero riuscita a sfoderare un discreto discorsetto, un misto fra olandese e inglese, con il quale mi procurai, in un piccola edicola malmessa, un biglietto dell’autobus diretto in centro.
Non facevo altro che mordermi  le labbra come se me le volessi strappare, come se fossero superflue; due oggetti inutili, come l’appendice. Il biglietto dell’autobus si era un poco deformato, inumidito dal sudore sulle mani.
Ma dove diavolo era quel fottuto autobus?
I sospiri si fecero sempre più frequenti e profondi.
D’un tratto, da dietro una curva sbucò un lungo tram color arancione slavato, le ruote grosse che sollevavano piccole goccioline d’acqua piovana ad ogni pozzanghera e un grosso cartellone pubblicitario su tutta la fiancata: una mamma che sorrideva alla propria bambina dalle treccine biondo scuro e dai denti divaricati di chi ha appena perso i denti da latte.
Mamma.
Mi venne in mente lei e quando ci accoccolavamo sul divano di casa mentre fuori pioveva, io avvolta dalla coperta a pois a leggere libri polverosi, lei a macchinare sul portatile sorseggiando caffè bollente. Poi lei mi faceva il solletico ai piedi senza che me ne accorgessi e io le stampavo baci rumorosi sulle guance.
Mi venne così una gran nostalgia di casa e mi convinsi sempre di più che la decisione che avevo preso non era poi così sbagliata.
L’unica persona che aveva sbagliato era lui. Quell’uomo.
Non riuscivo nemmeno più a considerarlo un padre, un parente. Il suo nome avrebbe solo dovuto essere posto in un dimenticatoio buio e sudicio, in una parte recondita e inesplorata del mio cervello e lasciato li ad ammuffire.  
Salii sull’autobus che sbuffò, facendo un fischio lungo e ovattato nel momento in cui si fermò davanti a me.
Era abbastanza pieno. Tutti i posti a sedere erano occupati e qualche persona era in piedi attaccata alle maniglie che penzolavano dall’alto. Mi feci spazio tra le persone e mi allungai ad obliterare il biglietto nell’apposito macchinario, che lo risputò fuori dopo averlo marchiato. Afferrai una maniglia e sospirai. Mi sembrava di aver trattenuto il fiato fino a quel momento.
Quando l’autobus si mosse e mi parve di essere un poco più vicina al mio obiettivo.
 
Il soffocato sottofondo del motore che andava su di giri poco prima che l’autista cambiasse marcia, faceva da cornice a quello che sembrava un viaggio eterno. Le persone sembravano stanche, quasi collose, rimanevano in piedi a fatica, dondolando e schiacciate dal loro stesso sonno. Le borse sotto gli occhi di una signora che mi guardava poco interessata, sembravano tirarla verso il basso, aggrappandosi con forza alla pelle per trascinarla giù. I loro volti anonimi, silenziosi e quasi soffocanti parevano non avere anima, gli occhi vuoti e roteanti, le braccia a penzoloni.
Così il silenzio divenne l’unica cosa che riconobbi in quell’olanda ostile e malinconica; probabilmente quelle erano solo persone normali in un normale autobus di linea, in una normale cittadina del nord Europa. Ma non per me. Non per me.
Appoggiai la fronte all’avambraccio sospeso e sbuffai ancora. Pesante, opprimente, stancante.
Le case dall’altra parte della strada scappavano da me nella loro immobilità, gli alberi ai lati dei marciapiedi si sradicavano, trascinati via da un vento immaginario, sgambettavano via come scarafaggi impauriti.
“Scusi, quanto ci vuole per arrivare in centro?” Chiesti ad un ragazzo sulla trentina, che mi parve il più sveglio di tutti. “Ci vorrà un’ altra mezz’ora buona.” Abbozzò lui, facendomi un sorriso di cortesia.
Accennai un grazie con il capo e tornai a fissare un punto nel vuoto, sicuramente più interessante della donna con le borse sotto gli occhi.
 
Un paio di tortore tubarono in mezzo alla strada quasi sbigottite dopo aver visto l’autobus allontanarsi. Lo studiarono immobili fino a che non scomparve tra il traffico. Poi si alzarono in volo.
 
 
Le porte automatiche dell’autobus si aprirono a fisarmonica e la gente cominciò a scendere frettolosa giù dal bus. Ricevetti qualche spallata e una poco gradita disapprovazione in olandese. Così capii che dovevo scendere anche io.
La giornata, fuori dal veicolo era calda e ventosa, una leggera brezza di fiori e sale inondava l’aria di un profumo selvatico e sprezzante e le vaporose nuvole di panna montata si intersecavano nel  cielo di un blu intenso e corposo. Scavalcai la recinzione di acciaio che divideva la fermata da un’area pedonale e ciclabile e dopo qualche metro, mi appoggiai di spalle al muro di una casetta bianca che faceva angolo ad una viuzza stretta, ciottolata di pietre rosso fuoco. Un palo a strisce bianche e nere mi nascondeva bene dagli occhi indiscreti dei ciclisti.
Estrassi il telefono e cercai velocemente le mie coordinate. La via nella quale mi trovavo si chiamava Biltstraat e si trovava a circa 2 chilometri dalla stazione. Probabilmente se l’avessi percorsa interamente e mi fossi diretta ad Amsterdam, sarei arrivata là per l’ora di pranzo e avrei dovuto aspettare molto tempo prima di incontrare mia madre che sarebbe arrivata verso sera inoltrata. E questo aumentava le probabilità di essere scoperta da mio padre. D’altro canto, anche rimanere a Utrecht non avrebbe aiutato poiché di sicuro, i suoi collaboratori, avrebbero messo a soqquadro la città pur di trovare la figlia del loro capo.
Così presi una decisione, avrei cercato un bel negozio di cappelli, una sciarpa, un paio di occhiali spessi ed economici e una viuzza da percorrere a piedi con calma.
Salvai la cartina e dell’itinerario principale tra i preferiti e infilai il telefono in tasca. Proprio sulla sinistra rispetto alla strada principale c’era una via piccola e stretta, un meraviglioso palazzo in mattoni rossi con delle piccole guglie dello stesso colore e dall’altra parte un giardino verdeggiante, ben curato, dove agganciate alla staccionata che lo dividevano dal marciapiede, c’erano un gruppo di biciclette variopinte.  Osservai che non ci fosse nessuno, né a destra né a sinistra e mi immisi nella stradina.
 
Se non fosse stato per le circostanze, mi sarei di sicuro fermata molto di più in quel posto.
Sembrava un paesaggio da cartolina: bellissimi giardini floridi e ben curati, file di alberi magnifici, dalle foglie dalle più disparate tonalità di verde, muovevano le loro fronde squassate delicatamente dal vento e piccoli mattoncini grigi posti a lisca di pesce scorrevano senza fine davanti a me.
La via stretta aveva parcheggiate da ambo i lati delle file di auto con la targa arancione e le case, accostate l’una all’altra, erano fatte tutte di mattoni rossi, rifiniture bianche e le porte e le finestre erano uno sgargiante color verde scuro. E le biciclette. Le miriadi di biciclette olandesi ammassate quasi l’una sopra l’altra, si schiacciavano contro i muri come se dovessero far passare giganti invisibili.
Dopo qualche minuto però quella stradina che mi sembrava così dolce e accogliente, cominciò a diventare stranamente opprimente e claustrofobica. Era monotonamente tutta uguale, fino a quando qualche casa passò dal rosso al bianco e gli alberi mutarono in cespugli di fiori.
Uscii boccheggiante dalla via come se l’ossigeno fosse andato via via scarseggiando e mi ritrovai di colpo una via più grande, tempestata di negozi dalle insegne colorate e da decine di macchine e biciclette che si inseguivano a vicenda.
Estrassi il telefono e dopo aver osservato la cartina, girai a destra.
 
Gli immancabili palazzi rossi e bianchi ospitavano deliziosi negozi dalle vetrine invitanti e il mio stomaco non poté non fiutare uno splendido bar dal quale usciva un intenso aroma di caffè e paste, ogni volta che un cliente entrava o usciva. Mi piantai davanti alla caffetteria, come un cane a digiuno e mi convinsi che una buona mente non poteva lavorare a stomaco vuoto.
Una voce stridula e crudele mi urlò nelle orecchie “Ma che diavolo fai! Questo non è un viaggio di piacere!”.
L’altra me si acquattò abbassando la codina scodinzolante e osò farfugliare “Ma-ma-ma io ho fame!” I suoi occhi parvero smuovere di compassione la me più rigida “E poi compriamo qualche cosa anche per pranzo, magari un panino, così lo mangiano dopo e non perdiamo tempo in un altro negozio. Eh? Eh?”
La me più severa incrociò le mani al petto e chiudendo gli occhi e piegando un poco le sopracciglia annuì un paio di volte.
Tornai a scodinzolare ed entrai nel bar.  
L’interno era di un meraviglioso color crema e avorio (per fortuna non più rosso). I divanetti e le poltrone molto eleganti e principeschi alla mia destra, erano foderati di un tessuto a righe gialle e bianche, i quali a gruppetti di due o tre, circondavano un tavolino in radica lucidissimo con i piedi intagliati a mano. Il pensile del bancone di marmo color panna era appoggiato su una struttura composta di tasselli di vetro che mi ricordarono la Madre Natura di Francesco. Rabbrividii.
“Dimmi.” Disse il ragazzo moro con la barba dietro al bancone. “Due panini. Uno da portare via.” Dissi in inglese. Annuì e mi condusse vicino alla vetrina per sceglierli.
Dopo aver pagato, mi sedetti su un divanetto e cominciai a mangiare con gran voracità. Con l’altro panino ne avrei avuto a sufficienza per il pranzo? Ne dubitavo.
Mi resi conto in quel momento che non avevo ancora sentito mia madre. Lei non sapeva che sarei andata da lei ad Amsterdam e che papà sapeva tutto.
Estrassi il telefono e digitai:
 
Papà sa che stai arrivando, l’ho sentito mentre lo diceva al telefono. Voleva  anticipare la partenza così sono scappata. Non preoccuparti, questa sera sarò in aeroporto ad Amsterdam. Ti voglio bene.
 
Quando lo inviai mi si strinse il cuore. Le lacrime facevano capolino e un groppo alla gola mi bloccò il respiro. La strada era ancora lunga, non potevo fermarmi.
 
Comprai nel primo negozio di vestiti che vidi un paio di occhiali da sole economici, un foulard a fiori, un berrettino lilla e degli elastici per capelli. Mi feci una treccia, mi infilai il berrettino e gli occhiali e mi arrotolai il foulard intorno al collo. Il mio riflesso sulla vetrina mostrava davvero un'altra persona.
Mi confusi così tra le persone, tra il profumo del panino nella borsa e tra i palazzi rossi. Ero un’olandese qualunque.
 
Sorrisi con un pizzico di malizia, tra il collo alto del giubbino. 




*Angolo dell'autore*
Buonasera. O buongiorno. Insomma Salve.
Dopo aver passato tutta l'estate e una parte dell'autunno a meditare, sono tornata a scrivere la mia storia. O la conclusione almeno. Perchè non posso scrivere un altra storia se prima non concludo questa, sarebbe da cafoni. E Camille merita un finale. 
Mi dispiace davvero se vi ho fatto aspettare e se molti di voi ormai si saranno dimenticati della mia storia, ma non fa nulla. E' giusto che qualche persona, se un giorno vorrà leggerla, possa farlo nella sua interezza. E poi lo devo a me stessa, perchè non si più cominciare una nuova parte della propria vita se prima non ne si chiude un altra. Almeno io la penso così ;)

Prima di salutarvi e di dirvi che ho intenzione di scrivere più spesso, voglio sottolineare che le zone che ho descritto sono assolutamente REALI. Per quanto Google maps possa aiutare. 
Bacini.
_Sel_

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