Appuntamento col Destino

di Alexandra e Mac
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 2: *** Frammenti dal passato ***
Capitolo 3: *** Sorprese ***
Capitolo 4: *** Nuove destinazioni ***
Capitolo 5: *** Un caso per due ***
Capitolo 6: *** Manovre d'accerchiamento ***
Capitolo 7: *** Incrinature ***
Capitolo 8: *** Un Incontro ***
Capitolo 9: *** La resa ***
Capitolo 10: *** Inganni ***
Capitolo 11: *** Rivelazioni ***
Capitolo 12: *** Decisioni ***
Capitolo 13: *** Una Scoperta ***
Capitolo 14: *** Qualcosa di diverso nei suoi occhi ***
Capitolo 15: *** Trame misteriose ***
Capitolo 16: *** Appuntamento col Destino ***



Capitolo 1
*** Un nuovo inizio ***


Disclaimers  :

 Il marchio JAG e tutti i suoi personaggi appartengono alla BELLISARIO PRODUCTION. In questo racconto sono stati usati senza alcuno scopo di lucro.
Qualunque riferimento a fatti o persone, che non siano avvenimenti o personaggi storici, e’ del tutto casuale.
I contenuti del racconto sono tutelati ai sensi della legge 633/1941 (legge sul diritto d’autore). Tutti i diritti riservati.

Capitolo I

Un nuovo inizio


Appartamento del Capitano Harmon Rabb
Hyde Park, Londra

Marzo 2005


La sveglia suonò trillando allegra e lo squillo si diffuse per l’appartamento semibuio. Fuori, la city aveva già cominciato la sua frenetica giornata e la gente affollava le strade, i bus e i metrò.

Harm mise un braccio fuori dalle coperte e assestò un colpo deciso all’odiato aggeggio che smise di suonare. Aprì gli occhi e scrutò la penombra della camera da letto. Udiva il rumore attutito del traffico cittadino che gli ricordava dove si trovava: Londra.

In cucina rumore di piatti e padelle che sbattevano e armadietti che venivano prima aperti e poi chiusi. Si alzò e s’infilò una T-shirt sopra i boxer; scostò i pesanti tendaggi che oscuravano la camera e guardò fuori arricciando il naso in una smorfia di disgusto.

“Pioggia” disse a mezza voce sbuffando, “ma lo sanno cos’è la primavera o no?” Aprì la finestra per arieggiare la stanza.

Dalla cucina arrivava profumo di pane tostato, bacon e uova. Arricciò il naso ancora una volta.

“Ma questi inglesi lo conoscono il caffè?” si chiese dirigendosi verso la cucina.

“Ciao!” lo salutò allegra Belinda e gli andò incontro baciandolo sulla guancia ancora ispida.

“Ciao” la salutò lui con affetto.

Lei tornò ad occuparsi della teiera che cominciava a fischiare. La pancetta friggeva e le uova strapazzate erano pronte. Sulla tavola facevano bella mostra di sé toast fumanti, marmellata di arance amare e succo d’arancia appena spremuto.

Si sedette un po’ frastornato. Non era ancora abituato alla tipica british breakfast, al massimo, quando era negli States, si concedeva una tazza di caffè al volo prima di uscire di casa.

Ma ora non era più a Washington e la sua vita era completamente cambiata.

Guardò Belinda che si muoveva con sicurezza come se quella fosse stata da sempre la sua cucina e la sua casa.

L’aveva conosciuta un paio di mesi prima ad una delle solite riunioni con lo staff del Ministero degli Esteri. Era una civile, la segretaria di un qualche ministro di cui al momento gli sfuggiva il nome. Lì per lì non l’aveva colpito molto: non tanto alta, rossa di capelli e con un mare di lentiggini sul viso, assomigliava vagamente alla ex moglie del principe Andrea.

Tuttavia si erano incontrati nuovamente ad un’altra riunione e durante una pausa avevano incominciato a chiacchierare e tra una chiacchiera e l’altra lui le aveva detto di essere in cerca di un’automobile inglese d’epoca da acquistare. Belinda l’aveva notevolmente sorpreso sfoggiando una cultura in fatto di macchine, inglesi e non, davvero notevole. Discretamente e con molta prudenza, l’aveva invitata per un drink (“Si dice un the” l’aveva corretto lei) quella sera stessa per continuare la conversazione. Poi dal the era passato ad una cena, fino quando, appuntamento dopo appuntamento avevano finito col fare coppia fissa.

Belinda gli piaceva, era socievole, cortese e dotata di un sense of humour tipicamente inglese. Non solo, era anche intelligente e, cosa più importante, non aveva insistito per ritagliarsi uno spazio nella sua vita. Quando accadeva che si fermasse per la notte, e ultimamente stava accadendo molto spesso –tanto che lei aveva trasferito parte delle sue cose nell’appartamento di lui-, non gli dispiaceva ritrovarla al mattino addormentata accanto a sé oppure impegnata in cucina a preparargli la colazione.

Stava bene con lei, era un rapporto franco e sincero e senza troppe complicazioni.

Le si sedette di fronte e guardò sospettoso la tazza piena di the fumante, annusandone l’aroma.

“Guarda che è solo the, Harmon” gli disse Belinda con aria canzonatoria. “Non ho intenzione di avvelenarti. È solo un sano e buon Prince of Wales tea.”

“Voi inglesi siete strani, come facciate a bere questa brodaglia a colazione, pranzo e cena ancora lo devo capire.”

“Noi inglesi non siamo strani, siete voi americani quelli fissati col caffè a tutte le ore!” ribattè divertita.

Risero e terminarono la colazione.

Dopotutto quella nuova vita non era poi così male, si disse mentre la baciava prima di uscire.

Magari potrei anche impegnarmi in qualcosa di più serio con lei, pensò chiudendo la porta di casa.

Quel nuovo inizio non gli dispiaceva davvero.

 

 

 

 


Palazzo di Lord e Lady Belhaven
Londra

Marzo 1858

Molte teste si voltarono all’ingresso della donna in sgargiante abito rosso.

Il ricevimento che quella sera, nel palazzo di Lord Belhaven, inaugurava la stagione londinese, era diverso dai soliti cui l’aristocrazia inglese era abituata.

Si trattava, infatti, di un ballo in maschera, voluto dalla stessa Lady Belhaven per  sfoggiare l’abito che aveva acquistato in Italia poco più di un mese prima, durante il Carnevale di Venezia.

Lady Amanda Belhaven si era invaghita di quella mise mascherata fin dal primo momento in cui l’aveva vista nel negozio di Piazza S. Marco e aveva convinto il riluttante marito a comperargliela. Lord Belhaven non ne vedeva la necessità: dopotutto, per la festa di Carnevale cui erano stati invitati, era sufficiente fare come tutti gli altri ospiti ed affittare un abito adatto all’occasione in una delle varie sartorie che da tempo avevano intrapreso quell’usanza. Del resto era più che comprensibile che gli aristocratici italiani preferissero affittare ogni anno un abito diverso, pur pagandolo una discreta somma, piuttosto che spendere cifre da capogiro per costumi favolosi che avrebbero usato una sola volta. In quel modo potevano devolvere la stessa cifra per toilettes che avrebbero potuto sfoggiare per lo meno due volte nel corso della medesima stagione.

Lord Anthony aveva tentato inutilmente di convincere sua moglie ad evitare quell’inutile acquisto, ma lei, pur di soddisfare il proprio capriccio, lo aveva abilmente convinto che l’abito avrebbe potuto usarlo almeno un’altra volta. Lord Belhaven, nel domandare ingenuamente dove e quando l’abito avrebbe fatto bella mostra di sé, mai avrebbe immaginato che “dove” sarebbe stato in casa propria e “quando” avrebbe significato “a breve”, ossia ad appena due settimane dal loro rientro in Inghilterra!

Rassegnato all’inevitabile, aveva acquistato l’abito per la moglie, evitando di dirle quanto le conferisse un’aria ancora più imponente di quella che già aveva, altrimenti era certo che i soldi sarebbero stati buttati al vento. Lady Amanda, tutta felice, aveva sfoggiato l’abito alla festa del carnevale veneziano e quindi, rientrata in patria, aveva organizzato un ricevimento in maschera appositamente per farsi ammirare dalle sue amiche.

Nonostante la reale motivazione che aveva dato origine all’idea del ballo in maschera, Lord Belhaven doveva riconoscere che la pensata di sua moglie era stata davvero astuta e, soprattutto, accolta con entusiasmo dall’alta società londinese, sempre alla ricerca di occasioni più o meno valide per indire o per partecipare ad un serata mondana.

Quella sera, nella loro sala da ballo, oltre duecento invitati facevano sfoggio con allegria di abiti in maschera: erano soprattutto le signore ad avere le creazioni più stravaganti, come ovvio; ma egli aveva notato anche diversi uomini in costume, segno che l’idea era davvero piaciuta e aveva soprattutto divertito. Dal canto suo si era limitato ad indossare una maschera che gli celava ben poco il volto, lasciando i riflettori puntati sulla sua esuberante consorte.

Seguendo lo sguardo ammirato di parecchi uomini, nonché quello incuriosito e indagatore di molte signore, Lord Belhaven si voltò verso l’entrata del salone e per un attimo si fermò anch’egli ad ammirare la giovane donna che aveva appena fatto il suo ingresso.

La dama in questione era davvero molto bella: indossava un abito provocante, che scopriva ampiamente le spalle e metteva in risalto il seno generoso, molto più di quanto la moda pudica di quegli anni avrebbe permesso.

L’esile collo era evidenziato dall’acconciatura raccolta, dalla quale sfuggivano piccole ciocche di capelli neri. Lunghi guanti rosso fuoco, dello stesso colore dell’abito, coprivano le braccia, facendo risaltare maggiormente la pelle delle spalle e del decolleté. Non un gioiello adornava la donna, ma non ce n’era bisogno: era talmente seducente con quell’abito che nessun gioiello avrebbe potuto renderla più affascinante.

Una mascherina in velluto nero le copriva gli occhi, mentre un velo in pizzo, anch’esso nero, le velava il volto, conferendole un’aria misteriosa e intrigante che attirava ancora di più gli sguardi dei signori e l’invidia delle signore.

Lord Anthony avrebbe voluto poter esprimere a sua moglie il suo pensiero di quel momento, ma sapeva che, se lo avesse fatto, la sua serata sarebbe stata irrimediabilmente rovinata: Lady Amanda si sarebbe offesa per il suo commento ed egli avrebbe dovuto dire addio alla pace in famiglia come minimo per una settimana. Tuttavia, osservando l’affascinante sconosciuta, non poteva fare a meno di pensare che, nonostante gli sforzi intrapresi dalle altre signore (alcune delle quali molto graziose) per trovare un costume originale o particolarmente appariscente, nessuna di loro, neppure sua moglie che indossava il costoso abito veneziano, era stata in grado di suscitare tanta ammirazione com’era riuscita a fare la bellissima donna appena arrivata semplicemente con un abito rosso fuoco ed una mascherina nera.

Si domandò chi fosse la nuova invitata e decise che avrebbe trascorso la serata ad osservarla fare strage di cuori maschili. Si divertiva parecchio durante i ricevimenti mondani ad osservare come gli uomini, spesso annoiati dai tentativi di parecchie signorine di attirare l’attenzione di un buon partito, diventassero istantaneamente interessati al ballo e al corteggiamento quando all’orizzonte si profilava una dama particolarmente bella.

E la signora in rosso era davvero molto bella ma, soprattutto, molto intrigante.

Lord Anthony sorrise tra sé e si disse compiaciuto che la serata sarebbe stata più divertente di quanto avrebbe mai osato sperare.

Dopo aver consegnato l’invito al maggiordomo dei Belhaven, Lady Sarah Jane Montagu si fermò per un attimo ad osservare lo spettacolo che aveva davanti agli occhi prima di entrare nel vivo della festa, senza rendersi conto che, proprio fermandosi, non faceva altro che attirare maggiormente gli sguardi su di sé.

Alla fine era contenta di aver deciso di prender parte al ricevimento: l’ultimo anno era stato davvero difficile e aveva bisogno di godersi una serata in allegria. Il ballo in maschera di Lady Belhaven era l’occasione adatta per rilassarsi, senza dover essere costretta a rispondere a domande fastidiose o a sentirsi fare nuovamente le condoglianze per il lutto che l’aveva recentemente colpita. L’anonimato della maschera le garantiva la privacy che le serviva per divertirsi, evitando di sopportare le noie della vita di società che a volte detestava cordialmente.

Si guardò attorno: il salone risplendeva di luci e colori; le signore facevano sfoggio di costumi davvero appariscenti, nonché originali, ed erano adornate di gioielli e in alcuni casi anche parrucche, per rendere i travestimenti più credibili.

Vi erano principesse egizie, con tuniche e tiare dorate e nobildonne in abito settecentesco, che volevano ricordare la regina Maria Antonietta; affascinanti corsare e seducenti gitane, principesse orientali e domini colorati… era impressionante osservare come la fantasia delle nobildonne inglesi si era lasciata trascinare dall’entusiasmo, scordando persino il pudore vittoriano che caratterizzava quegli anni,  pur di agghindarsi per una serata in maschera.

Gli uomini erano più sobri, ma non mancavano anche alcuni costumi maschili davvero originali. Nonostante il travestimento riconobbe facilmente alcuni degli invitati, mentre per altri l’impresa fu più ardua, tanto le loro toilettes erano molto convincenti.

Per se stessa aveva volutamente puntato sul mistero: nessun costume particolare per attirare l’attenzione, soltanto una maschera che le avrebbe permesso di nascondere la sua identità e passare inosservata.

Quello sarebbe stato il suo intento, ma non aveva tenuto conto di un particolare: l’effetto che faceva il suo fisico strepitoso inguainato nel provocante abito rosso.

Non appena si decise ad entrare nel salone, immediatamente fu attorniata da alcuni signori, più o meno giovani, che si prenotarono per un ballo.

Dopo pochi minuti il suo carnet era pieno e stava già volteggiando tra le braccia del suo primo cavaliere, travestito da capitano della Marina britannica (o lo era davvero?).

Decise di godersi la festa e le attenzioni degli uomini sui quali, evidentemente, aveva fatto colpo. Per un breve istante la sua mente ritornò ad un altro uomo, col quale molto tempo prima e in un luogo lontano aveva danzato, ma immediatamente s’impose di scacciare quel ricordo dalla mente, prima che l’umore peggiorasse e si ritrovasse con gli occhi pieni di lacrime.


Uffici del JAG
Falls Church, Virginia

Marzo 2005

“Colonnello” la salutò Vukotic incontrandola nell’atrio del JAG al piano terra.

“Tenente” rispose un po’ freddamente Mac.

Presero l’ascensore e salirono al piano senza dirsi una parola. A Mac Vukotic non piaceva, lo considerava troppo spavaldo e superficiale nella gestione del lavoro, ed era per questo motivo che, in più di un’occasione, non l’aveva voluto come partner nella conduzione di questa o quella indagine, preferendogli sempre più spesso Bud.

Quando aveva espresso le sue perplessità all’Ammiraglio, questi le aveva risposto che il giovane Tenente gli ricordava un po’ Rabb agli inizi della carriera.

Mac aveva replicato che “Harm era spavaldo e cow boy, ma sapeva darsi un freno”, Vukotic no. Si impicciava troppo di affari che non erano suoi nel tentativo di ingraziarsela.

Dentro di sé, ma questo all’Ammiraglio non l’aveva detto, pensava che il tenente non avrebbe mai raggiunto il livello di bravura del suo predecessore.

Le porte dell’ascensore si aprirono e Mac si diresse verso la sua stanza senza nemmeno prendere un caffè. Ma ormai l’abitudine del caffè l’aveva persa da quando Harm non c’era più.

Com’era difficile abituarsi alla sua assenza! Ancora adesso, dopo quasi quattro mesi, quando aveva un dubbio su un caso e desiderava un consiglio, oppure quando aveva voglia di discutere di un qualcosa, si alzava e solo quando arrivava alla porta dell’ufficio si ricordava che la stanza attigua era occupata da Sturgis.

Tuttavia si era adattata abbastanza bene a questa nuova vita cercando di vederne il lato positivo: senza Harm le cose erano infinitamente più semplici. Sotto ogni punto di vista.

E poi c’era Clay. In tutto quel tempo le era sempre stato accanto facendole una corte abbastanza serrata, ma non insistente o noiosa: cene nei più eleganti ristoranti di Washington, prime teatrali, viaggi e week-end in posti sempre diversi e bellissimi. E tutto questo senza forzarle la mano a prendere una decisione. Sembrava che volesse solo starle accanto ed amarla.

All’inizio si era sentita in imbarazzo, ma poi, con il passare dei mesi, aveva incominciato ad apprezzare tutto quello che lui le offriva. Sapeva che era un tentativo di chiederle scusa per la loro storia passata dopo il Paraguay, e Mac era più che disposta ad accettare quelle scuse. Clay era un uomo buono e dolce, bastava grattare sotto la scorza della spia, e alla fine si era convinta che la felicità con lui era possibile. Le offriva una vita agiata senza pretendere che rinunciasse alla carriera, l’amava, la voleva e glielo dimostrava. Cosa desiderare di più?

E la sera prima, a casa di lei, dopo una cena molto romantica aveva ceduto a lui, gli si era donata e aveva fatto l’amore con Clay con tutto il trasporto di cui era capace.

“Perché no?” si disse mettendo finalmente mano al lavoro. “Perché negarsi la felicità inseguendo una chimera?”

Per troppo tempo si era cullata con l’idea di trovare l’uomo perfetto, per troppo tempo aveva sperato in Harm, poiché in lui vedeva la realizzazione di ogni suo ideale. Ma ora era tempo di voltare pagina. Harmon Rabb jr le aveva fatto perdere di vista la concretezza e il lume della ragione. Certo il rapporto che c’era stato fra di loro era stato un qualcosa di unico che non avrebbe mai avuto eguali, ma questo non significava necessariamente che non avrebbe potuto vivere qualcosa di altrettanto bello e diverso con un’altra persona. Clayton Webb, per esempio.

Un nuovo inizio, pensò sorridendo alla fotografia di quello che ormai era diventato il suo compagno.

 

 

 

 

Ufficio di Clayton Webb
Langley, Virginia

Marzo 2005

 

Clayton Webb fissò il panorama che si distendeva sotto i suoi occhi dalla vetrata del nuovo ufficio che occupava.

Direttore Generale delle operazioni in Medioriente: ecco il suo incarico. Un posto di responsabilità che avrebbe comportato una sensibile diminuzione delle missioni sotto copertura, e, come conseguenza, più tempo da dedicare a Sarah.

“Sarah” mormorò mentre un sorriso impercettibile piegava gli angoli della bocca. Ne era innamorato da sempre, sin da quando l’aveva conosciuta, ma lei non aveva fatto altro che spasimare per quell’arrogante presuntuoso di Rabb, rovinandosi la vita per attirare la sua attenzione.

Ma adesso lui era fuori gioco, lontano migliaia di miglia e Sarah era tornata da lui. Finalmente.

Non aveva voluto forzarla, la decisione era totalmente dipesa da lei, anche se questo gli era costato un notevole sforzo. Più di una volta aveva dovuto trattenersi, ma quell’attesa snervante alla fine aveva dato i suoi frutti e la sera prima aveva potuto fare l’amore con lei nuovamente.

Che soddisfazione poterla avere fra le braccia mentre la baciava e lei rispondeva con ardore e passione alle sue carezze e ai suoi baci! Quasi quasi avrebbe voluto scrivere due righe a Rabb per informarlo dell’accaduto, ma poi ci aveva ripensato.

C’erano altri modi per vincere. Invitarlo a nozze, per esempio.

Perché lui Sarah Mackenzie l’avrebbe sposata, anche se lei ancora non lo sapeva.

“Un nuovo bellissimo inizio” si disse soddisfatto voltandosi e chiamando la segretaria.

 


Palazzo di Lord e Lady Belhaven
Londra

Marzo 1858

Appoggiato ad una colonna la osservava affascinato volteggiare leggera tra le braccia di un ridicolo Lord Gladstone travestito da principe egiziano. Neppure l’attempato e notoriamente misogino Conte di Mondevale era stato in grado di resistere al fascino della seducente dama in rosso.

Da quando era arrivata era stata travolta da inviti di quasi ogni uomo presente in sala. Alcuni avevano persino sopportato gli sguardi irritati delle rispettive mogli, ben consapevoli che vi sarebbe stato più tardi anche un seguito a quelle occhiate, pur di poter ballare almeno una volta con lei. E lei danzava civettuola con ognuno dei suoi cavalieri, ma non concedeva mai a nessuno un secondo ballo.

Era davvero molto bella: quell’abito rosso fuoco le stava d’incanto e la maschera che le velava il volto la rendeva più intrigante di qualunque altra dama presente quella sera.

L’uomo sorrise pigramente al pensiero di avere tra le braccia quella bellissima donna, ma decise che non avrebbe danzato con lei in quel salone, sotto gli sguardi di tutti. Avrebbe atteso quando certamente si sarebbe appartata un momento in giardino e poi l’avrebbe invitata a danzare con lui alla luce soffusa della luna.

Quella sera di metà marzo, insolitamente tiepida per il clima inglese, sembrava fare al caso suo: Lady Belhaven, approfittando dell’insperata concessione del tempo, aveva fatto aprire il giardino e molte signore ne avevano già approfittato per prendere una boccata d’aria fresca, accompagnate dai gentiluomini che si erano concessi volentieri un sigaro.

Quasi gli avesse letto nel pensiero, la vide congedarsi da Lord Gladstone, rifiutare l’invito del visconte di Kesington ad accompagnarla, e dirigersi verso una  portafinestra.  Aveva pensato di attendere qualche minuto prima di raggiungerla, ma l’impazienza di esserle accanto ebbe la meglio su di lui: uscì sul terrazzo, giusto in tempo per scorgerla scendere i gradini che conducevano al giardino.

Rapidamente la seguì.

Mentre dalla sala da ballo le giungevano le note dell’orchestra, Lady Sarah passeggiò lentamente tra le aiuole abilmente sistemate dai giardinieri di Palazzo Belhaven, cercando di restare nella parte di giardino dove erano state sistemate gaie luminarie. Sapeva bene che non tutti i sentieri erano illuminati e non voleva incontrare coppie che stavano cercando un po’ d’intimità nel buio della notte. Non si era fermata sulla terrazza solo per evitare di essere costretta ad intrattenersi con qualcuno, soprattutto quando aveva riconosciuto Lord e Lady Lyttelton che stavano parlando con Lord Palmerston. Lady Lyttelton era nota come una delle peggiori chiacchierone di Londra e lei non aveva alcuna intenzione di essere intrattenuta dalla anziana nobildonna.

Aveva appena aggirato un’alta siepe di bosso quando, all’improvviso, si trovò di fronte un uomo in costume da pirata.

Lo sconosciuto, molto alto e di corporatura atletica, la stava osservando con insistenza. Indossava pantaloni neri aderenti e una camicia candida, ampia e parzialmente aperta sul torace muscoloso. Una benda nera all’occhio destro e un fazzoletto, anche questo nero e legato sul capo alla maniera dei pirati, gli conferivano un aspetto un po’ pericoloso.

Lady Sarah ricambiò lo sguardo e all’improvviso pensò di avere una specie di deja-vu: se non fosse stato per la folta barba scura che ricopriva totalmente il volto del “pirata”, avrebbe quasi potuto scambiarlo per…

No. Ma che andava a pensare? Non poteva essere lui.

Doveva smetterla di vederlo in ogni uomo alto e bruno che le capitava di scorgere, anche solo da lontano.

Mentre lo osservava, egli si accese un sigaro, chinando la testa da un lato e riparando con le mani la fiamma; poi tornò a guardarla, mentre lentamente aspirava la prima boccata.

Con un breve cenno del capo lei fece per andarsene, ma la voce dello sconosciuto la fermò.

“Siete bellissima…”

Turbata da quella frase, si voltò bruscamente verso di lui, con il cuore in gola: erano le stesse parole che, in un’altra vita, un altro uomo le aveva sussurrato mentre la prendeva tra le braccia per ballare.

Il “pirata” la stava osservando intensamente, quasi a volersi imprimere nella mente la sua immagine. Anche quello sguardo la turbò.

“Desidererei moltissimo danzare con voi, Milady…” aggiunse lui, porgendole il braccio.

Lady Sarah rimase immobile, ancora sconvolta dai ricordi che lo sconosciuto aveva risvegliato in lei: la voce era diversa, il timbro più basso, addirittura un po’ cavernoso… e poi mancava dell’accento francese che tanto l’aveva intrigata. L’uomo che aveva di fronte in quel momento parlava in perfetto inglese, privo d’inflessioni di sorta, come si conviene ad un nobile ben istruito.

Ma quelle parole… e quel “Milady”…

Era pazza, lo sapeva! Come si aspettava che le si rivolgesse un gentiluomo inglese se non come “Milady”, non sapendo chi lei fosse?

Eppure… eppure era bastato quell’appellativo, lo stesso con cui le si rivolgeva prima che l’intimità tra loro gli facesse mormorare il suo nome con quel tono di voce sussurrato e appassionato che le faceva venire i brividi… era bastato quell’appellativo per farle salire le lacrime agli occhi.

Soffocando a stento i singhiozzi, si voltò di scatto e prese a correre verso il palazzo, per sfuggire allo sconosciuto che le aveva sconvolto la serata con una semplice e innocua frase.

Per quanto tempo ancora il suo cuore si sarebbe spezzato al solo ricordo di André François D’Harmòn?

 

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Capitolo 2
*** Frammenti dal passato ***



Capitolo II

Frammenti dal passato





Appartamento del Tenente Colonnello Sarah MacKenzie
Georgetown

 Marzo 2005

 

Mac stava facendo la valigia, sarebbe partita l’indomani per le Hawaii con Clay per una quindicina di giorni. Non era stato difficile farsi dare quelle due settimane dall’Ammiraglio, aveva un sacco di licenze in arretrato da smaltire.

In sottofondo Michael Bublé cantava “Feeling Good”, una canzone che si addiceva perfettamente al suo stato d’animo attuale.

Aprì l’armadio e prese la scatola di stoffa dove erano conservati i costumi da bagno. Per come la stava trattando Clay le sarebbe bastato partire con il solo beauty case del bagno, anzi a ben pensarci nemmeno quello! Avrebbe potuto andare all’aeroporto l’indomani in divisa e lui le avrebbe acquistato tutto ciò che le serviva, e anche qualcosa di più. E naturalmente si sarebbe trattato di capi della miglior qualità. Per Webb o il meglio o niente per la sua donna.

Tuttavia non voleva approfittarsene, anche se le piaceva da matti come lui la stava viziando e coccolando, pertanto avrebbe fatto la valigia come se nulla fosse.

Era felice. Aspettava con ansia quella vacanza da tre settimane prima, quando lui gliel’aveva proposta. Sospettava che stesse preparando qualcosa solo per loro due, ormai lo conosceva bene, ma non riusciva a capire cosa fosse. Da bravo agente CIA aveva mantenuto il più assoluto riserbo.

Ad ogni modo era impaziente di partire e si sentiva bene come non le accadeva da tempo.

Fischiettando il motivo principale della canzone, aprì la scatola e ne estrasse i costumi disponendoli sul copriletto per scegliere quali portarsi via e come abbinarli ai pareo e ai copri costumi. A tal fine prese un altro contenitore dal fondo dell’armadio e lo aprì estraendo, appunto, i coordinati ai bikini.

Passò poi agli abiti estivi, e al resto della biancheria.

Quando fu certa che tutto fosse pronto, aprì la porta del ripostiglio, in corridoio, e prese il trolley, ma nell’estrarlo le rotelle si incastrarono in qualcosa e un mucchio di scatoloni cadde a terra sparpagliando il contenuto. L’occhio le cadde su una foto scattata tempo addietro da Benzinger’s.

C’erano tutti: lei, Bud, Harriet, Sturgis, l’Ammiraglio, Mickey, Jennifer e Mattie. E naturalmente Harm. Tutti erano in alta uniforme e Mattie indossava un abito da cocktail davvero stupefacente. Era la sera in cui avevano festeggiato la promozione di Harm a Capitano…

 

 

L’Ammiraglio li aveva convocati tutti in sala riunioni, e a tutti era parso strano. Di solito non teneva briefing lì e gli ordini li comunicava nel suo ufficio.

“Ci sarà un grosso cambiamento all’interno del JAG” esordì AJ guardandoli uno ad uno. Non aveva aggiunto altro e aveva consegnato un foglio ad Harm.

“Procura Militare, Forze Navali, Europa” lesse lui ad alta voce. “Che vuole dire Signore?” chiese perplesso.

“E’ stato assegnato a Londra, Comandante, partirà fra tre giorni.”

“Come? Cosa?” Harm era frastornato, nessuno gli aveva parlato di un trasferimento. Non fino a quel momento.

“E’ un posto da Capitano. La Commissione promozioni ha appena approvato e autorizzato l’avanzamento. Congratulazioni, Capitano Rabb.”

Mac si era accorta che sotto il tono burbero dell’Ammiraglio si celava una profonda tristezza. Perdeva il migliore dei suoi, il suo pupillo, il figlio che avrebbe voluto, il suo erede. Ma gli ordini erano ordini e andavano eseguiti senza discussioni. Se Harm era destinato a Londra, a Londra sarebbe andato.

E lei? Lei che avrebbe fatto? Meglio non pensarci per ora.

“Sarà l’avvocato con maggiore grado di anzianità di servizio in Europa Comand… Capitano. È un trampolino di lancio verso il JAG” era intervenuto entusiasta Bud.

“Non ho intenzione di dimettermi, Comandante Roberts, non ancora per il momento” l’aveva redarguito brusco AJ.

Bud era battuto in ritirata, scusandosi per la gaffe.

“E’ autorizzato a scegliere il suo staff. Solo, per favore, cerchi di non fare a pugni in pubblico con il Colonnello per decidere chi dovrà restare e chi, invece, dovrà partire con lei. Certo sarebbe qualcosa cui siamo tutti abituati, ma evitatelo. Intesi?”

Harm e Mac si guardarono, ancora increduli.

“Sì Signore” risposero poi.

“E’ tutto, potete andare” li congedò l’Ammiraglio, la voce ferma, ma non troppo.

Si ritrovarono fuori dalla sala riunioni.

“Cos’è accaduto?”

“Credo che il nostro mondo si sia rovesciato” le rispose Harm.

“Capitano…” lo squadrò lei. “Non avrei mai pensato che ti avrebbero promosso, specialmente dopo il Paraguay.”

“Non me l’aspettavo nemmeno io” rispose. “Non ti preoccupare il tuo turno arriverà presto.”

“Non essere condiscendente per favore” rispose piccata, “non lo sopporto.”

“Non volevo essere condiscendente, cercavo di essere solidale.”

Mac tornò alla propria stanza e si sedette pesantemente sulla poltrona. Tre giorni e poi lui se ne sarebbe andato a Londra per sempre e ancora fra loro tutto era come prima.

Londra… 5489 miglia, dieci ore e mezza di volo. Come sarebbe stato possibile mantenere i contatti? Come sarebbe stato possibile chiarire, parlare…

 

 

Non era accaduto nulla, anzi le cose erano peggiorate a tal punto che, alla fine, Mac aveva benedetto la partenza di Harm.

Raccolse gli oggetti e li rimise a posto, ma trattenne ancora un attimo in mano la foto.

Aveva tanto sperato che dopo quel bacio tutto sarebbe andato a posto! E invece Harm aveva, come suo solito, male interpretato la situazione che si era creata con Clay dando così un calcio alle sue speranze.

Al tempo lei non aveva nessuna intenzione di far entrare Webb nella sua vita. Voleva il suo marinaio dallo sguardo di mare, voleva le sue braccia intorno a sé, le sue labbra per sé, e quando Clay si era nuovamente affacciato alla sua esistenza, Harm non le aveva dato il tempo di spiegarsi.

 

 

Era l’ultima sera che Harm avrebbe trascorso negli States, si sarebbe aspettata che organizzasse un qualcosa con tutti gli altri, e invece lui non aveva detto o fatto alcunché, per cui, nella speranza di in colloquio chiarificatore definitivo, si era risolta ad invitarlo a cena a casa sua.

Voleva mettere un punto fermo alla loro non-storia, e forse la scadenza definitiva che quel trasferimento rappresentava l’avrebbe fatto decidere.

Radunò le sue cose e uscì dall’ufficio. Avrebbe voluto uscire prima, ma all’ultimo minuto un contrattempo l’aveva bloccata e adesso era un po’ in ritardo. Desiderava preparare una cena degna di questo nome. Se poi era l’ultima che avrebbero consumato insieme…

Meno male che Harm era un ritardatario cronico!

Sulla via di casa si sentiva triste. Un pezzo della sua vita, un pezzo importante, se ne stava andando. Un capitolo si chiudeva, ma Mac non voleva che si chiudesse, desiderava giungere ad un inizio con Harm, anche se lui sarebbe stato lontano. In qualche modo avrebbero fatto.

Sì, quella sera, a cena, gli avrebbe parlato, gli avrebbe aperto il cuore, gli avrebbe confessato tutto senza giri di parole, senza fronzoli.

Presa quella decisione si sentì meglio.

Parcheggiò sotto casa e salì. La sua previdenza l’aveva spinta a riempire la dispensa il giorno prima, anche se la decisione di invitarlo a cena l’aveva presa solo quella mattina.

Girò la chiave nella toppa e aprì la porta. Il profumo di centinaia di rose la colpì in pieno. Frastornata entrò nell’appartamento pensando per un attimo di aver sbagliato. Ma dopo aver acceso la luce si accorse che quella era proprio casa sua, completamente invasa da rose rosse.

Ce n’erano ovunque, in salotto, in corridoio, in camera, in bagno e persino in cucina! Tornò verso l’ingresso, sperando di trovare un biglietto che le dicesse chi fosse il folle che aveva speso un’autentica fortuna per mandarle tutti quei fiori, ma non c’era nulla. Alla fine rinvenne una piccola busta posata con cura sul tavolo da toeletta in camera da letto. La aprì.

Per la più bella delle rose’ c’era scritto. Non era firmato, ma aveva intuito da chi provenissero tutti quei fiori: Clay, non poteva che essere stato lui.

E adesso? Che fare?

Guardò l’orologio. Non le restava molto tempo a disposizione se voleva sgomberare il più possibile l’appartamento e preparare la cena.

Prima di tutto si ficcò sotto la doccia per togliersi la stanchezza della giornata. Dopo dieci minuti era fuori e stava mettendo l’acqua per la pasta a bollire. In attesa che bollisse avrebbe cercato di sistemare i mazzi di rose in stanze dove era certa Harm non avrebbe messo il naso. Che imbarazzo! Ma cosa era venuto in mente a Clay?!

Purtroppo l’impresa si rivelò una fatica di Sisifo, perché Harm arrivò puntuale all’orario prestabilito. E lei non era ancora a metà dell’opera!

Una parte dei numerosi mazzi li aveva sistemati sul balcone, disponendoli nel maggior numero di vasi possibile, altri erano finiti in camera da letto, altri ancora nel piatto doccia, nondimeno ne restavano ancora alcune decine in salotto, e Mac non sapeva più da che parte metterli. La cucina era impraticabile, fra padelle, piatti, posate e tutto il resto.

Stava decidendo dove mettere le dannate rose quando il campanello suonò e contestualmente la porta si aprì.

“Harm?!” esclamò incredula.

“Per una volta tanto sono in orario e tu ti lamenti?” le aveva risposto lui divertito. Poi aveva annusato l’aria della casa percependo l’aroma dei fiori e, entrato, aveva dato una lunga occhiata al salotto notando i numerosi mazzi di rose.

“Cosa è accaduto Mac? Il fioraio qui sotto non aveva più spazio nella sua serra?” le chiese.

“Già… il fioraio. Magari fosse stato questo” rispose.

“Cosa è successo allora? Sembra di stare in una giungla di rose rosse” disse spostando un mazzo e facendo posto sul divano.

Mac era imbarazzata. Non sapeva cosa dirgli, una bugia le avrebbe evitato guai, conoscendo la naturale ‘simpatia’ che Harm provava per Webb, ma quella era la sera della verità per cui decise di essere sincera.

“Sono un regalo di Clay” buttò lì.

“Ah” si limitò a rispondere lui alzandosi.

“Guarda che non è come pensi.”

“Io non penso nulla. Vedo.”

“Harm per favore non ricominciamo. Io neanche lo sapevo, sono tornata e c’erano… queste” disse indicando i fiori, “sparse per tutta la casa.”

“Però ti ha fatto piacere.”

“Sì, cioè no. Non lo so.”

E davvero non sapeva che pensare. Tutto quello che le stava accadendo era meraviglioso, ma arrivava dall’uomo sbagliato. E Harm non comprendeva il suo disagio, così anziché aiutarla le dava addosso.

“Forse è meglio che prima ti schiarisci le idee, poi ne potremo parlare” disse avviandosi verso la porta.

“No aspetta, non te ne andare!” esclamò Mac quasi sull’orlo della disperazione. “E’ l’ultima sera… poi…”

“Forse è un bene Sarah.”

Erano le ultime parole che le aveva detto. Poi aveva preso la porta e se ne era andato.

 

 

La valigia era pronta e Michael Bublé era passato ad un’altra canzone.

Si sedette sul divano e accese la TV, ma più che guardare le immagini che le correvano davanti pensava.

Era stato senza dubbio un bene, sì, Harm aveva avuto ragione.

Squillò il telefono e Mac prese la conversazione.

“Ciao amore” la salutò con voce dolce Clay.

Harm scomparve dalla mente di Sarah: “Ciao” rispose al saluto con altrettanta dolcezza.

“Pronta per domani?”

“Sì, non vedo l’ora.”

“Vedrai che sarà una vacanza speciale. Passo a prenderti al JAG alle 18 ok?”

“Va bene.”

“Ti amo Sarah.”

“Anche io.”

Mac chiuse la conversazione con la sensazione di aver trovato il suo posto nel mondo.

 

 

 

 

 


Casa di Lady Sarah Montagu
Brook Street, Londra

Marzo 1858

Aveva lasciato la festa in tutta fretta ed era rientrata nell’appartamento londinese, che di recente aveva acquistato proprio con il compenso pagatole da Francesco Giuseppe. Per come si erano messe le cose al suo rientro in Inghilterra, aveva deciso che, se doveva tornare a fare vita mondana, era ora che avesse nuovamente una casa nella capitale. Andare avanti e indietro da Londra a Beaulieu era impensabile.

Si gettò sul letto, senza neppure togliersi l’abito, e finalmente diede libero sfogo alle lacrime. Pianse a lungo, sentendosi più sola che mai.

Non era abituata a sentirsi così; di solito era combattiva e reagiva con grande forza alle avversità della vita. Ma dalla notte in cui aveva lasciato il suo cuore sulla Medea era molto cambiata: si era chiusa ancora più in se stessa ed era diventata molto taciturna.

Ballare e divertirsi al ricevimento di Lady Belhaven credeva potesse essere un nuovo inizio, un segno che il suo animo a poco a poco stava guarendo.

Ma lo sconosciuto nel giardino l’aveva sconvolta e lei si era ritrovata al punto di partenza, esattamente a poco più di un anno prima, alla notte in cui aveva deciso di lasciare l’uomo di cui si era follemente innamorata.

 

 

Aveva scritto poche frasi e poi aveva chiuso il diario.

Si era alzata e si era avvicinata al letto, per osservarlo un’ultima volta. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, ma non era riuscita a trattenersi: con la mano gli aveva sfiorato il volto e si era chinata a baciargli le labbra.

Era stato un errore… lui, nel sonno, aveva socchiuso la bocca e lei si era ritrovata ad assaporare ancora la dolcezza di un suo bacio, che l’aveva lasciata insoddisfatta e più tormentata di prima.

Si era costretta ad allontanarsi quando aveva percepito un altro movimento di André: temendo un suo risveglio improvviso si era staccata da lui, aveva preso la propria borsa e, con le lacrime che le rigavano il volto, era scesa dalla “Medea”, che nel frattempo era attraccata al porto di Southampton.

Se avesse atteso un solo secondo ancora, non lo avrebbe fatto mai più.

Il giorno stesso, in serata, era finalmente giunta a Beaulieu.

Sua madre, felicissima di rivederla dopo tanto tempo, l’aveva abbracciata, ma aveva capito immediatamente che le era successo qualcosa e aveva cominciato a farle delle domande. Lei aveva raccontato parte della vicenda, tralasciando gli aspetti più tremendi, come l’aver ucciso un uomo, e soprattutto sorvolando sul fatto che si era perdutamente innamorata del Conte francese che era fuggito assieme a lei e che l’aveva protetta per tutto il tempo.

Lady Montagu l’aveva ascoltata senza dire nulla, domandando solo alla fine del racconto dove si trovasse il Conte. Lei aveva risposto che ognuno era ritornato a casa propria, senza aggiungere altro.

Nelle settimane successive aveva cercato in tutti i modi di dimenticare André, trascorrendo tutto il tempo a cavallo oppure in biblioteca. Sua madre l’aveva vista taciturna e malinconica, ma non aveva fatto altre domande.

Poi era successo qualcosa che l’aveva scossa dall’apatia in cui il senso di vuoto per la mancanza di André D’Harmòn l’aveva fatta sprofondare: era arrivata una lettera di Marie, una sua carissima amica alla corte di Napoleone III, ad informarla che Cedric Hewitt si trovava in Francia.

Finalmente, dopo mesi, sapeva di nuovo dove trovarlo!

Quando aveva lasciato Bath, circa cinque mesi prima, per svolgere l’incarico alla Corte di Vienna, non era riuscita a parlare con John Taylor per sapere dove Hewitt si trovasse, anche se probabilmente non era troppo distante da lei, poiché era stato certamente lui ad uccidere l’ex-socio in affari. Cedric Hewitt era uomo capace di quello e altro. E la polizia stessa le aveva detto che Mr. Taylor era stato ucciso da qualcuno che conosceva, poiché non vi erano segni di effrazione sulla porta della camera dove alloggiava.

Erano anni che Lady Sarah stava dando la caccia a Cedric Hewitt; da quando suo padre, Lord David J. Montagu, si era tolto la vita, oppresso dai debiti, lasciando i suoi familiari in balia del proprio destino.

 *

Per secoli i Montagu furono una tra le famiglie più ricche dell’aristocrazia inglese, citata nell’Almanacco di Gotha, il catalogo veridico che assegna con enorme scrupolo, ad ogni casato nobile, la posizione occupata in seno ad una delle gerarchie più complesse. Pur non essendo imparentati con la famiglia reale, frequentavano la Corte dai tempi di Enrico VIII e Anna Bolena, pertanto l’infanzia e l’adolescenza di Sarah Jane Montagu  trascorsero negli agi e nel lusso.

Tutto cambiò nel 1844 quando Lord David conobbe Cedric Hewitt, allora trentacinquenne, un “parvenu” facente parte della nuova aristocrazia, ossia un borghese che aveva ottenuto il titolo di barone di Wiltshire solo grazie alle sue ricchezze. Fidandosi del consiglio di Hewitt, il padre di Lady Sarah investì moltissimo denaro nell’acquisto di svariati acri di terreno in Irlanda per la coltivazione delle patate, poiché il barone di Wiltshire gli aveva detto che si potevano fare affari d’oro con il prezioso tubero, ancora poco conosciuto sulle tavole dei ricchi inglesi, ma comunque molto ricercato.

L’anno successivo, nel 1845, una malattia devastò le colture di patate in Francia, in Belgio e in Irlanda, provocando una grande carestia che mandò lentamente in rovina Lord Montagu. Egli s’indebitò pesantemente con Hewitt  per mantenere il castello, la moglie e i figli allo stesso tenore di vita, pur di non far sapere nulla alla famiglia, convinto dallo stesso Hewitt che presto la situazione si sarebbe risolta.

La carestia durò più del previsto e verso la fine del 1847 la situazione per Lord David peggiorò al punto da costringerlo a contrarre debiti anche con altre persone; quando Milord si trovò con l’acqua alla gola poiché impossibilitato ad onorare i propri impegni, fu proprio Cedric Hewitt a dargli la possibilità di riscattarsi senza perdere l’onore.

Solo successivamente Lady Sarah avrebbe scoperto che Hewitt aveva spinto suo padre ad investimenti rischiosi molto probabilmente per averlo in pugno e costringerlo a cederla in matrimonio. Invaghito di Sarah fin da quando l’aveva conosciuta, non ancora sedicenne, aveva quasi certamente visto la possibilità di ottenere ciò che la sua condizione di “parvenu” gli avrebbe difficilmente concesso: sposare una vera nobile. Pertanto si propose come marito della ragazza, promettendo di considerare il prestito come dote per le nozze e onorando di persona gli altri debiti di Lord Montagu. Pur a malincuore, poiché non avrebbe voluto che la figlia prediletta sposasse proprio un “parvenu”, Lord David si vide costretto ad accettare, ben conscio che sarebbe stata l’unica possibilità che gli restava per salvare onore e proprietà.

Quando il padre le comunicò la decisione, Sarah si ribellò all’idea: Cedric Hewitt non le piaceva, lo trovava sgradevole e volgare, ma purtroppo non poté far altro che obbedire, pur sentendosi tradita proprio dal genitore che più adorava.

Non capiva affatto la decisione paterna: era consapevole che nel suo destino avrebbe dovuto esserci un matrimonio, come si conveniva ad ogni fanciulla della buona società, anche se lei, nel suo intimo, anelava ad altro. A lei sarebbe piaciuta una vita avventurosa, come leggeva nei suoi libri. Spesso aveva rimpianto di non essere nata maschio, di non essere al posto di suo fratello Edward, di tre anni più giovane di lei, solo perché avrebbe desiderato poter essere libera di vivere la propria esistenza senza essere costretta a dipendere da un uomo. Tuttavia sperava almeno di poter fare un matrimonio d’amore. Invece il padre, a soli diciassette anni, l’aveva promessa ad un uomo di quasi vent’anni più vecchio di lei, che non le piaceva neppure.

Nelle settimane successive il fidanzamento Cedric Hewitt cominciò a tormentarla senza un attimo di tregua: voleva che trascorresse ogni momento con lui; l’accompagnava a cavallo, alle serate danzanti, prendeva il tè con lei ogni giorno, persino quando era in biblioteca si ostinava a sedervisi accanto e la fissava con insistenza, tanto che lei non riusciva a leggere più di due pagine senza poi spazientirsi.

Sarah parlò con il padre, implorandolo di rompere il fidanzamento, ma Lord Montagu fu irremovibile, poiché aveva dato la sua parola d’onore.

Ad un mese dalle nozze Hewitt insistette affinché lei lo accompagnasse a vedere la sua tenuta; costretta dalle circostanze lo aveva accontentato, pretendendo di essere riaccompagnata a casa per l’ora del tè. Non le piaceva come lui la osservava mentre erano soli e non voleva trovarsi troppo a lungo in sua compagnia. Sapeva che prima o poi ciò sarebbe dovuto accadere, ma voleva rimandare il più a lungo possibile l’inevitabile. Durante la visita egli fu sgradevole ed insopportabile; poco prima che giungesse l’ora di riaccompagnarla la sua insolenza superò il limite quando cercò di possederla contro la sua volontà.

Umiliata e furibonda Sarah si difese con forza, nonostante il suo fidanzato continuasse a ripeterle che, poiché presto avrebbe dovuto concedergli comunque i privilegi che gli spettavano come marito, tanto valeva che lo facesse subito. Ma lei non amava quell’uomo; non lo trovava neppure gradevole e non aveva alcuna intenzione di anticipare l’inevitabile. Pertanto oppose strenua resistenza e lo schiaffeggiò davanti ad un domestico che era accorso richiamato dalle sue grida.

Il giorno successivo Cedric Hewitt, insultato da quel gesto davanti alla propria servitù, ruppe il fidanzamento, con enorme sollievo di Lady Sarah. Lord Montagu, tuttavia, non gioì come la ragazza si era aspettata: solamente una settimana più tardi si uccise con un colpo di pistola alla tempia.

Fu proprio lei a trovare il cadavere del padre e la lettera in cui lui spiegava tutto quanto alla moglie; leggendo quelle parole Sarah si rese conto del vero motivo per cui suo padre l’aveva promessa in sposa ad Hewitt e odiò quell’uomo ancora di più. Ma cominciò anche ad odiare se stessa, incolpandosi della rovina del genitore.

Ad un mese dalla morte di Lord David, tutti i beni della famiglia furono confiscati, lasciando gli eredi sul lastrico e il nome dei Montagu infangato dall’onta del suicidio. A quel punto Sarah giurò a se stessa che avrebbe dedicato la vita a vendicarsi di Hewitt.

La confisca dei beni prevedeva anche il Castello e il titolo nobiliare, ma Sarah nel frattempo era riuscita a far pervenire alla Regina Vittoria la lettera del padre; Sua Maestà acconsentì ad una proroga sul sequestro del castello e del titolo, per permettere a Lady Sarah di trovare le prove che avrebbero dimostrato che Hewitt aveva imbrogliato Lord Montagu e che le avrebbero permesso di riabilitare il nome del padre e del casato.

La Regina le concesse dieci anni: se in quel periodo non fosse riuscita nel suo intento, i Montagu avrebbero perso tutto quanto e suo fratello sarebbe stato privato del titolo che gli spettava per nascita.  

Da quel momento in poi la vita di Lady Sarah Jane Montagu cambiò radicalmente: grata a Sua Maestà per la concessione, iniziò a lavorare proprio per la Regina Vittoria, svolgendo per suo conto dapprima piccoli incarichi, successivamente compiti sempre più impegnativi e delicati, che la fecero entrare in contatto con altri sovrani, i quali a loro volta chiesero i suoi servigi, pagandoli profumatamente. Cominciò così ad accumulare una piccola fortuna che le permise di proseguire nella sua vendetta.

Iniziò a svolgere anche qualche indagine personale, partendo dalle informazioni contenute nella lettera del padre e scoprì che Hewitt aveva un socio, tale John Taylor, col quale aveva fatto altri investimenti poco chiari e col quale aveva abbindolato altri aristocratici, aumentando poco alla volta le proprie ricchezze. Purtroppo si trattava sempre e solo di voci, senza alcuna prova. Cedric Hewitt era molto abile a non lasciare tracce.

La sua nuova vita al servizio di aristocratici e regnanti, oltre a fornirle il sostegno economico, le permetteva anche di ottenere più facilmente preziose informazioni di cui, altrimenti, difficilmente sarebbe entrata in possesso.

Normalmente ci riusciva con l’ingegno, la furbizia e la seduzione, ma in alcuni casi era stata costretta a scendere a compromessi con se stessa e a concedere in cambio la propria virtù.

Essere a contatto con certi ambienti l’aveva resa rapidamente più adulta e disincantata, facendole comprendere ben presto di essere in possesso di un corpo che la maggior parte degli uomini desiderava; aveva deciso quindi di servirsene, quando le fosse stato assolutamente necessario.

Del resto cosa avevano fatto gli uomini per lei?

Nulla. Anzi, a ben pensarci, non avevano fatto altro che tradirla.

L’aveva tradita l’uomo cui era stata promessa in sposa, dapprima tentando di possederla prima delle nozze e contro la sua volontà e poi rifiutandola, ben consapevole che ciò l’avrebbe ridotta sul lastrico. L’aveva tradita il suo stesso padre, vendendola nel tentativo di salvare la famiglia dal disastro e poi quando l’aveva lasciata sola, ad affrontare tutto quanto e facendola sentire anche responsabile del proprio suicidio.

La prima volta che si era concessa ad un uomo aveva pianto per ore. Ma l’informazione che aveva ottenuto l’aveva ripagata di tutto il ribrezzo sopportato: aveva saputo il nome del socio di Hewitt.

Successivamente aveva utilizzato lo stesso metodo solo poche altre volte, quando non aveva potuto farne a meno, ed ogni volta aveva provato lo stesso disgusto, benché in almeno due casi gli uomini che l’avevano posseduta, prima di farle capire cosa volevano in cambio dell’aiuto che le fornivano, l’avevano anche affascinata. Fascino che era presto scomparso non appena si era resa conto che anche loro, come tutti, da lei volevano solo una cosa: possedere il suo corpo.

Purtroppo, nonostante l’assidua caccia che aveva dato ad Hewitt in quegli anni, fino a sei mesi prima non aveva ottenuto molto: mancavano sempre le prove.

Era cambiato qualcosa solo durante la primavera precedente, quando seppe che il socio di Hewitt, John Taylor, era finito a sua volta sul lastrico, probabilmente imbrogliato dallo stesso Cedric.

Quell’informazione la spinse a scoprire dove si trovava Taylor e a fare la mossa successiva: gli fece pervenire una lettera in cui prometteva denaro in cambio d’informazioni e di una testimonianza sui suoi trascorsi con Hewitt.

All’incirca un mese dopo ricevette un messaggio in cui Taylor la invitava a raggiungerlo a Bath. Partì immediatamente, approfittando anche del fatto che aveva appena terminato un incarico per conto di Sua Maestà la Regina Vittoria e che desiderava riposarsi qualche settimana; purtroppo giunta a Bath l’unica cosa che scoprì fu che John Taylor era stato ucciso.

Mentre si trovava nella rinomata stazione termale in attesa di notizie da parte della polizia locale, fu contattata dall’Imperatore Francesco Giuseppe per un incarico che le avrebbe cambiato per sempre la vita…

 *

Quando la lettera di Marie era giunta a Beaulieu, si era riscossa ed era ripartita per la Francia, a caccia dell’uomo che un tempo sarebbe dovuto diventare suo marito.

Aveva ancora meno di due anni per dimostrare che Hewitt aveva portato al suicidio suo padre e non poteva permettere a nessuno, neppure al ricordo dell’uomo di cui si era follemente innamorata, di interferire con i suoi piani. Aveva tacitato il proprio cuore che le urlava che André le sarebbe stato accanto nonostante tutto, anzi che l’avrebbe aiutata, con la stessa giustificazione che si era data per costringersi a lasciarlo: non voleva fargli correre dei rischi. Ma sapeva che in fondo, rinunciando all’amore, si stava ancora punendo per ciò di cui si era sempre sentita in colpa in quegli anni, ossia il suicidio del padre.

Era arrivata a Parigi proprio nello stesso giorno in cui, un anno prima, aveva conosciuto André, solo per scoprire che Hewitt si era spostato di nuovo. Fortunatamente aveva saputo subito dove si era diretto, perché altrimenti sarebbe stata tentata di dirigersi verso la Borgogna, per vedere i luoghi dov’era nato e cresciuto André, con l’unico risultato di ritrovarsi con il cuore ancora più spezzato. Aveva seguito Hewitt  per tutto l’autunno del 1857 tra il Regno di Sicilia, il Granducato di Toscana e il Belgio, facendo il possibile per dimenticarsi del Conte D’Harmòn, finché non era stata raggiunta dalla notizia della malattia di Lady Montagu, che l’aveva riportata in Inghilterra appena in tempo per rivedere sua madre viva per l’ultima volta.  

Lady Montagu era deceduta soltanto da poche settimane, il primo febbraio del 1858, a meno di undici mesi dallo scadere della proroga concessa dalla Regina Vittoria e ad un anno di distanza dal giorno in cui Sarah aveva lasciato il suo cuore e l’uomo che lo possedeva su una nave diretta in America.

 

 

Asciugandosi le lacrime si domandò ancora una volta come aveva trovato la forza per portare avanti la sua decisione, dopo aver letto le pagine del diario di André.

E tutto per cosa?

Era passato oltre un anno, da quella notte, e la sua vita era allo stesso punto di prima, se non peggio: suo fratello era ancora disperso dopo la guerra in Crimea; sua madre era morta e lei non aveva fatto alcun passo in avanti nel tentativo di riabilitare il nome della  famiglia.

Si sentiva terribilmente sola…

Neppure l’idea di partecipare alla festa in maschera era servita a farla stare meglio.

Era bastato uno sconosciuto alto, dalla voce profonda, che voleva ballare con lei, per ridurla in uno stato pietoso e farle desiderare di poter tornare indietro nel tempo e risvegliarsi ancora tra le braccia dell’unico uomo che avrebbe amato per sempre.

 

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Capitolo 3
*** Sorprese ***



Capitolo III

Sorprese





Appartamento del Capitano Harmon Rabb
Hyde Park, Londra

Fine Marzo 2005

Harm non credeva ai propri occhi: Belinda aveva trovato la soluzione al suo problema.

Da quando aveva acquistato la sua Austin Healey, aveva speso gran parte del tempo libero alla ricerca di alcuni pezzi di ricambio, senza però trovare nulla che lo soddisfacesse completamente.

Come quando si era trattato di restaurare la Corvette, anche in questo caso si era dimostrato molto esigente rifiutandosi di operare una ricostruzione tout court: lui voleva che la macchina ritornasse al suo splendore originario, non voleva che un carrozziere, un sellaio e un meccanico riproducessero l’automobile, partendo dal telaio.

Guardò Belinda da sopra il depliant.

“Sei un genio. Qui potrò trovare quello che sto cercando, esattamente come lo voglio io.”

“Per questo ti sei deciso a condividere la tua casa e la tua vita con me. Perché sono un genio!” rispose lei asciugando i piatti della cena.

Ormai vivevano insieme già da qualche settimana e proprio quel giorno Belinda aveva terminato il trasloco e messo in affitto il suo appartamento di Kensington.

“Potremmo andarci insieme” propose Harm. “Dopotutto mi hai detto di non essere mai stata nell'Hampshire. Che ne dici? Un romantico week-end in quella splendida cittadina, magari in un alberghetto fuori mano…” le disse ammiccando e alzandosi. La raggiunse e la prese fra le braccia baciandola con passione e togliendole di mano lo strofinaccio.

“Harmon i piatti…” protestò Belinda, per la verità molto debolmente, già persa nelle braccia del suo uomo.

“Lascia stare i piatti Linda” rispose lui in un sussurro, baciandola con ancora più ardore e sollevandola in braccio in direzione della camera da letto.

 

 


Casa di Lady Sarah Montagu
Brook Street, Londra

Fine Marzo 1858

“Perdonatemi, Milady, c’è una visita per voi.”.

Lady Sarah alzò il capo dal libro che stava leggendo, osservando l’impacciato maggiordomo.

“Di chi si tratta, Albert?”

“Lord Nicholas Thornton, Milady” disse l’uomo, indeciso se fare un inchino alla giovane padrona, oppure se attendere la risposta ritto in piedi; per evitare di sbagliare, adottava una tecnica tutta particolare: al cospetto di Milady, procedeva sempre mezzo incurvato, con il risultato di sembrare più vecchio dei cinquantacinque anni che in realtà aveva.

“Lord Thornton? Volete dire Sua Grazia il Duca di Lyndham?” chiese Lady Sarah, richiudendo il romanzo e posandolo sul tavolino accanto alla poltrona.

Si alzò e si avvicinò lentamente alla finestra, osservando per pochi istanti la pioggia che cadeva incessantemente da ore. Chissà come mai il vecchio Duca si trovava in casa sua?

“E’ un signore giovane e molto alto…” disse Albert, quasi leggendole nella mente.

“Allora non è il Duca! Il Duca è un signore anziano, di almeno settant’anni o anche più” rispose Lady Sarah pensierosa.

Incuriosita dall’ospite, decise che valeva la pena di sapere cosa volesse, anche se ciò avrebbe significato rimandare la fine del romanzo che stava leggendo: era arrivata proprio al punto che preferiva, quando Emma si rendeva conto di amare Mr. Knightley… benché solitamente preferisse libri d’avventura o romanzi di cappa e spada, da quando aveva scoperto l’amore, il romanzo di Jane Austen che prima trovava troppo sdolcinato era diventato una delle sue letture preferite e ogni volta adorava rileggere come il protagonista, il signor Knightley, si dichiarasse innamorato della bella e viziata signorina Woodhouse.

“Bene, Albert, fallo accomodare.”

“Subito, Lady Sarah.”

Mentre attendeva l’ingresso dell’ospite, si domandò se lo sconosciuto visitatore fosse, in qualche modo, imparentato con l’anziano Duca. Forse si trattava del pronipote, unico suo erede poiché il Duca non si era mai sposato, figlio della nipote di Sua Grazia, a sua volta figlia di Lady Lucy Thornton, sorella del Duca.

Lady Lucy, di dieci anni più vecchia del fratello, si era sposata con un Conte prussiano, o austriaco… non ricordava… dal quale aveva avuto una figlia, certamente la madre del futuro Duca di Lyndham… in società si mormorava che erano anni che l’anziano Duca stava preparando il nipote straniero ad ereditare il titolo, ma il giovane non era ancora stato presentato ufficialmente, anzi, per molto tempo era stato lontano dall’Inghilterra. Da quando era rientrata in patria due mesi prima, aveva sentito dire che sembrava che l’erede del Duca si fosse deciso finalmente a mostrarsi in società…

Il rumore della porta che si apriva la distolse dalle sue elucubrazioni mentali.

Si voltò, pronta ad accogliere l’ospite che Albert aveva introdotto nel salotto, ma non appena lo vide rimase immobile, col cuore che le galoppava furioso nel petto.

 



Washington

Fine Marzo 2005

Il viaggio alle Hawaii era stato semplicemente meraviglioso. Quindici giorni da sogno in compagnia del… suo fidanzato!

Mac era al settimo cielo mentre, nella grigia e piovosa mattina di fine marzo, si dirigeva al lavoro. Ma per lei quella era una giornata splendida, come era splendida la sua vita attuale.

Clay aveva organizzato quella loro vacanza in modo impeccabile e l’ultima sera, a cena, nella più classica delle maniere, le aveva porto una scatoletta blu di velluto. All’inizio lei si era sentita confusa, ma quando l’aveva aperta e aveva visto il suo contenuto era scoppiata in lacrime come un’adolescente.

La sala dell’hotel era esplosa in un applauso quando tutti avevano compreso che si stava festeggiando un fidanzamento.

“Voglio sposarti Sarah” le aveva detto Clay aiutandola ad infilarsi l’anello, visto che lei, troppo emozionata, non ci riusciva. “Voglio stare con te per sempre, nel bene e nel male. Accetti di diventare mia moglie?”

La risposta era salita alle labbra sgorgandole direttamente dal cuore prima che avesse tempo di riflettere: “Sì” aveva detto e non se ne era pentita.


Langley, Virginia

Fine Marzo 2005

Quel mattino Clayton Webb era di molto in anticipo rispetto al suo solito orario. Arrivò a Langley quando ancora tutti gli altri non c’erano oppure erano impegnati a fare colazione.

Non gli importava granché. Era felice come mai lo era stato in vita sua e soprattutto molto soddisfatto di sé.

Aveva calcolato tutto sin nei minimi dettagli e quei giorni alle Hawaii gli avevano portato ciò che bramava più di ogni cosa: la mano di Sarah. A fine Giugno sarebbe divenuta la sua sposa, la sua compagna di vita e niente e nessuno avrebbe mai potuto portargliela via.

Naturalmente il nome di Rabb era in cima alla lista degli invitati alle nozze, anche se di questo particolare non aveva discusso con lei.

Sorrise beffardo mentre entrava nel palazzo: aveva vinto su tutti i fronti. Se due anni prima gli era andata male, adesso ogni cosa volgeva a suo favore.

Era anche stata un po’ colpa sua, doveva ammetterlo: sapeva come Sarah desiderava essere trattata, ma nondimeno aveva giocato secondo le sue regole e così l’aveva persa.

Adesso no. Il destino gli aveva fornito una seconda chance e intendeva sfruttarla fino in fondo, per questo si era adattato a Sarah, al suo mondo, alle sue esigenze e alle sue aspettative. Voleva essere il centro dell’attenzione? Ebbene lo sarebbe stata. Voleva sincerità? Ebbene, l’avrebbe avuta, alle condizioni di Clayton Webb ovviamente. Ma l’importante era che lei credesse che lui fosse realmente cambiato.

Il resto?

Quisquilie” pensò mentre chiamava gioielliere e fiorista.

 




Casa di Lady Sarah Montagu
Brook Street, Londra

Fine Marzo 1858 

Non poteva essere lui!

Lady Sarah sentì che se non si fosse appoggiata, sarebbe svenuta.

Fece pochi passi, fino ad arrivare accanto al camino, dove un fuoco scoppiettante riscaldava l’ambiente. Si appoggiò per un attimo al marmo, fingendo di controllare la legna che bruciava, per riprendersi dalla sorpresa.

Senza guardare l’ospite, gli si rivolse, cercando di mantenere la voce ferma.

“Lord Thornton… a cosa debbo l’onore della vostra visita?”

L’uomo fece alcuni passi verso di lei, e Lady Sarah a quel punto non poté fare a meno di voltarsi e guardarlo. Se lo avesse insospettito con il proprio comportamento, egli avrebbe potuto riconoscere in lei la dama mascherata che solo dieci giorni prima lo aveva abbandonato nel giardino di palazzo Belhaven.

“Davvero non lo immaginate, Milady?” disse l’uomo, con la stessa voce profonda di quella sera, avvicinandosi per prenderle la mano.

A fatica lei gliela porse, per il consueto baciamano, che le procurò un brivido intenso, di certo non dovuto alla folta barba dell’ospite.

Quando rialzò il capo, Lady Sarah si rese conto che l’occhio destro era ancora bendato, nonostante “il pirata” in quel momento indossasse un impeccabile completo grigio fumo, con tanto di giacca, panciotto e fiocco in tinta che adornava la camicia immacolata.

Alla luce del giorno l’occhio scoperto aveva un colore particolare… un grigio verde che, a tratti, illuminato dal fuoco, assumeva una strana sfumatura più azzurra.

Non era possibile… anche il colore, se non addirittura persino la forma di quell’occhio, l’unico sano a quanto sembrava, le rammentava gli occhi dell’uomo di cui si era innamorata...

Nicholas Thornton era alto quasi quanto il Conte D’Harmòn, con all’incirca la medesima corporatura, sebbene sembrasse essere più magro di André; anche i capelli erano diversi: a differenza del ciuffo ribelle che lei adorava tanto, Lord Thornton li portava più corti, tagliati all’ultima moda. Mentre baffi e barba, che gli incorniciavano il viso, non seguivano esattamente i dettami della moda del momento, che li voleva piuttosto appena accennati. La barba, in particolare, era folta, benché curata e non troppo lunga.

“Una ferita in battaglia…” disse lui, alludendo all’occhio bendato, quando si accorse che lei lo stava fissando.

“Perdonatemi… è che… oh, ma scusatemi… non vi ho neppure fatto accomodare… prego…” disse impacciata, allontanandosi dall’ospite e dirigendosi verso il divano.

Lui la seguì, sedendosi sulla poltrona di fronte a lei, la stessa su cui prima lei era seduta a leggere. Volse lo sguardo verso il libro appoggiato al tavolino e sorrise, con una lieve e appena accennata distensione delle labbra, che tuttavia non arrivò allo sguardo.

“Noto che siete romantica, Milady.”

Com’era diverso dal sorriso affascinante di André, che gli illuminava il volto e gli faceva sorridere anche gli occhi, scoprendogli i denti candidi e perfetti.

Quanto le mancava il suo sorriso!

Osservò per un attimo ancora l’ospite: come poteva ricordarle tanto l’uomo di cui si era perdutamente innamorata, pur essendo così diverso da lui? La voce non era la sua, il sorriso stiracchiato che le aveva rivolto non era il suo, non aveva neanche quel meraviglioso ciuffo ribelle in cui lei lasciava scorrere le mani languidamente… neppure l’odore che sprigionava dal suo corpo era il suo. Per non parlare dell’occhio ferito, della barba e dei baffi. Eppure molte altre cose glielo ricordavano…

Anche se non lo vedeva da più di un anno ormai, era quasi sicura che certi particolari  non li avrebbe mai scordati.

O forse sì? Li avrebbe confusi con aspetti di un altro uomo?

Si trattava solo di quella voragine nel suo cuore. Non c’erano altre spiegazioni.

Di quella voragine e del rimpianto.

“Lord Thornton” cominciò, decisa a capire al più presto perché si trovasse nel proprio salotto per congedarlo il prima possibile, “gradirei sapere il motivo della vostra visita. Io non vi conosco neppure…”

“Ne siete sicura?” la interruppe Nicholas Thornton.

“Certamente!” rispose Lady Sarah. “Conosco, e neppure personalmente, un solo Lord Thornton, per la precisione Sua Grazia il Duca di Lyndham, e voi non potete essere lui, poiché il gentiluomo in questione è molto più anziano di voi.”

“Lord Andrew Nicholas Thornton, il mio prozio, di cui io sono l’unico erede” annuì il visitatore.

“Capisco…” disse Lady Sarah, “ma questo non spiega comunque la vostra visita e neppure la vostra domanda.”

“Siete sempre così diretta e tanto bella, Lady Sarah Jane Montagu?”

Spazientita, Lady Sarah si alzò e fece per dirigersi verso la porta, decisa a chiamare Albert, affinché conducesse Lord Thornton fuori da casa sua, quando la mano dell’uomo la fermò.

“Aspettate… ho una proposta da farvi…”

Si voltò di scatto verso di lui, furibonda per essere stata trattenuta in quella maniera autorevole e così poco elegante, ma al tempo stesso nuovamente turbata dall’emozione che il contatto della sua mano le aveva provocato.

Se quell’uomo non se ne fosse andato alla svelta… temeva le sue reazioni, esattamente quanto non voleva più averlo intorno.

“Quale proposta?” chiese brusca, strattonando infastidita la mano, per liberarsi dalla sua stretta.

Nicholas Thornton la lasciò andare, ma si alzò dalla poltrona, venendosi a trovare a pochi centimetri da lei. Il suo profumo l’assalì, così diverso da quello cui era abituata, ma così intensamente maschile da farla rabbrividire.

“Eravate molto più provocante l’altra sera, con quell’abito rosso fuoco che vi stava d’incanto…” disse lui, sfiorando audacemente la casta scollatura del semplice vestito in mussola gialla che lei indossava.

Lady Sarah sobbalzò a quel contatto.

“Perché siete scappata? Desideravo così tanto danzare con voi, stringervi tra le mie braccia…”

“Andatevene!” disse dura.

“No, Milady. Non prima che voi abbiate accettato la mia proposta.”.

“Siete maleducato, arrogante e presuntuoso. Non accetterò alcuna proposta da voi… Non voglio più vedervi.”.

“Non sapete neppure di che proposta si tratta.”.

“Non voglio saperlo, non mi interessa. Andatevene!”

“Perché avete così paura a stare sola con me?” disse lui, provocandola di nuovo.

“Non ho paura di voi…”

“Dimostratemelo…” e così dicendo le strinse la vita e si chinò su di lei, sfiorandole la bocca, pronto ad avere di più.

Fu fermato da uno schiaffo in pieno volto, che lo fece ridere, una risata che gli proveniva dal petto, ma che non arrivava né agli occhi, né alle labbra.

“E’ vera la storia che si racconta su di voi… siete stata lasciata poco prima delle nozze perché siete ribelle e impulsiva!”

“Fuori di qui!” urlò lei, sconvolta.

“Ci rivedremo presto, Lady Sarah Jane” disse lui, prima di voltarsi ed uscire dalla stanza.

Lei si accasciò sulla poltrona, coprendosi il volto rigato di lacrime.

Non piangeva per le parole di Nicholas Thornton, ma per l’emozione che il lieve contatto della sua bocca le aveva provocato: per una frazione di secondo le erano sembrate le labbra di André.

 

 

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Capitolo 4
*** Nuove destinazioni ***



Capitolo IV

Nuove destinazioni





Uffici del JAG
Falls Church, Virginia

Fine Marzo 2005

La felicità non abbandonò Mac neanche quando, dopo nemmeno un’ora dal suo arrivo, si vide chiamare dall’Ammiraglio.

Senza fiatare andò dal superiore.

“Si accomodi Colonnello” la invitò quest’ultimo.

Mac fece come detto, entrò nell’ufficio di AJ rimanendo sull’attenti davanti alla sua scrivania.

“Si sieda” le disse mentre si alzava e si accomodava accanto a lei.

“La trovo in gran forma, Mac.”

“Grazie Signore, mi serviva un po’ di riposo.”

“No, non è solo questo. Sembra… radiosa.”

“Lo sono Signore. Sto attraversando il periodo più felice della mia vita.”

Chegwidden abbassò lo sguardo e solo in quel momento notò l’anello.

“Si è fidanzata!” esclamò stupito.

Mac arrossì un poco. Non l’aveva detto ad anima viva per una sorta di scaramanzia ed ora le dispiaceva che il suo superiore lo venisse a sapere in quel modo.

“Euh.. sì Signore. La settimana scorsa alle Hawaii.”

“Spero non con un giovanotto del luogo.”

“Oh, niente affatto Signore” rispose Mac sorridendo. “Mi sono fidanzata con Webb” e nel dirlo il viso le si illuminò di luce.

Ancora?!, si chiese l’Ammiraglio, ma tacque, preferendo optare per un meno impegnativo: “Congratulazioni. Avete intenzione di sposarvi?”.

“Alla fine del mese di Giugno Signore, il 29 per la precisione. Ma perché me lo chiede?”

“Oltre che per motivi personali, in quanto vorrei accompagnarla all’altare, anche per informarla che i suoi piani matrimoniali dovranno subire un piccolo ritardo, Colonnello” disse l’Ammiraglio prendendo dalla scrivania una cartella ed aprendola.

“Grazie Signore, sarò onorata se lei vorrà accompagnarmi all’altare. E le prometto che questa volta non accadrà come con Mic.”

“Oh, di questo ne sono più che certo” rispose l’Ammiraglio, anche se dentro di sé rimpiangeva che lo sposo non fosse Rabb. Dannato ragazzo, lui e la sua impulsività!

“Ad ogni modo, la Commissione ha deliberato il suo trasferimento permanente a San Diego” soggiunse dirottando la conversazione su toni più formali.

“Ma io no ho chiesto di essere trasferita!” esclamò Mac.

“L’ufficiale che dirige l’ufficio JAG è andato in pensione e il posto si è reso vacante. C’era una rosa di nomi papabili e il suo era in cima alla lista. Il trasferimento implica anche la promozione, e…”

Mac non ascoltava più l’Ammiraglio. Era senza parole e si sentiva frastornata, esattamente come Harm qualche mese addietro. Trasferita? Promossa? E Clay? Avrebbe accettato quella nuova situazione?

“Sono sinceramente stupita, Signore. Non pensavo ad un trasferimento né tantomeno ad una promozione.”

“Avrebbe dovuto aspettarselo un avanzamento” le rispose AJ, “soprattutto dopo la sua missione in Paraguay e il suo contributo determinante a smantellare la rete terroristica di Sadik negli States. Era inevitabile. Sono orgoglioso di lei, sarà la prima donna a dirigere un ufficio JAG e questo…”

“Mi apre le porte verso la direzione qui a Washington” completò la frase Mac.

“Mi permetta di darle un consiglio Mac: non lasci che il suo cuore guidi le sue decisioni. Sono certo che Mr. Webb comprenderà l’importanza di questo avanzamento. È un uomo intelligente.”

Mac sorrise: “Certo che lo è, Signore. Intelligente, premuroso, dolce…”

“Sono felice per lei, allora. E spero anche che il suo fidanzato sia una persona comprensiva” aggiunse traendo dalla scrivania un altro fascicolo, “perché prima di partire per San Diego debbo affidarle un ultimo incarico” e nel parlare le porse l’incartamento.

“Londra?!” esclamò Mac mentre scorreva con gli occhi il fascicolo. “Oggi è decisamente la giornata delle sorprese” commentò divertita poi, ancorché fosse letteralmente allibita.

“Comprendo il suo stupore, ma si tratta di una faccenda molto delicata e il SecNav pensa che lei e il Capitano Rabb siate le persone più indicate per sbrogliare la matassa”.

“Di cosa si tratta esattamente?” chiese Mac.

“Sembra che un nostro Marine abbia fatto fuoco contro un convoglio di soldati inglesi che scortavano un ostaggio liberato e che procedeva a tutta velocità verso l’aeroporto di Baghdad. Il convoglio non si è fermato all’alt del check point ed era senza insegne.”

L’espressione di Mac si fece grave. Quell’incidente avrebbe potuto creare una crepa profonda nelle relazioni diplomatiche con l’Inghilterra e minare l’alleanza militare fra i due Paesi. Tuttavia si chiedeva perché proprio lei e non Sturgis o Bud. Non le andava l’idea di rivedere Harm e men che meno di lavorare con lui, perché è questo quello che sarebbe accaduto.

Dopo che l’avevano fatto assolvere a La Hague, il Segretario Sheffield aveva maturato una specie di fissazione per loro due e ogni volta da allora che si era presentato un caso particolarmente spinoso aveva fatto in modo che lavorassero insieme. Questa volta non sarebbe pertanto stata molto diversa dalle altre, anche se Harm era a 5 mila miglia di distanza.

“Si starà chiedendo perché lei Colonnello.”

“Mi ha letto nel pensiero, Signore.”

“E’ stata formata una task force anglo-americana che indagherà sull’accaduto, a capo di essa, per quanto riguarda la parte americana, ci sarete voi: lei e il Capitano Rabb. Il SecNav ritiene che la sua esperienza e quella di Rabb siano essenziali al successo. E comunque lei è l’ufficiale con più anzianità di servizio dopo il sottoscritto.”

“Sono anche più alta in grado di Harm, ma hanno promosso lui prima di me” commentò sarcastica.

“Non le va l’idea di rivedere il suo vecchio collega e amico?”

Mac alzò lo sguardo e fissò dritto AJ negli occhi: “Posso parlare liberamente Signore?”.

Il CO annuì.

“No, Signore, non mi va proprio. Ma gli ordini vanno eseguiti. Non si preoccupi, non ci prenderemo a pugni in pubblico, se è questo che teme. Da parte mia terrò un comportamento professionalmente corretto e farò il mio dovere. E ora, se mi vuole scusare, dovrei avvertire il mio futuro sposo di questi cambiamenti di programma.”

Si alzò e attese che Chegwidden la congedasse, poi uscì dalla stanza.

Rimasto solo, l’Ammiraglio ripensò ai tempi andati quando il Colonnello e l’allora Comandante formavano una delle coppie più affiatate dell’intera Procura militare e di come lui avesse cercato, con quell’ultimo caso, di far coincidere le strade della loro vita che fino a quel momento erano scorse parallele senza incontrarsi mai.

Il suo tentativo non aveva dato il risultato sperato, ed ora si era giunti persino al punto che il Colonnello non sopportava l’idea di rivedere il Capitano… da non crederci!

Ciò mi fornisce la prova che non era destino, si disse tornando alla scrivania.

 

 

Residenza del Duca di Lyndham
Hyde Park, Londra

Fine Marzo 1858

Nicholas Thornton non finiva mai di stupirsi di quanto Londra fosse completamente diversa dal resto dell’Europa e di quanto a lui piacesse sempre meno.

La Rivoluzione Industriale, ancora poco conosciuta nel vecchio continente, in Inghilterra aveva stravolto la società. Il ritmo di vita, sempre più frenetico e caotico, era scandito da ambizioni sfrenate e da un’inesauribile avidità di guadagno. I treni sferragliavano nelle campagne turbandone la quiete, gli uomini d’affari si affrettavano nelle strade della City e gli scontri tra carrozze e omnibus, barrocci e carretti erano all’ordine del giorno, in una società in cui stava nascendo il culto della velocità. Sembrava che il mondo corresse più in fretta per evitare la catastrofe incombente, la quale nonostante tutto, sembrava sempre più vicina. L’elenco delle dichiarazioni di fallimento sulla “Gazette” si allungava di anno in anno. Nella capitale le epidemie di colera, soprattutto tra la popolazione indigente, si ripetevano ad intervalli sempre più ravvicinati. Miseria e criminalità crescevano assieme alla popolazione, presto alla fame, e negli squallidi ospizi dei quartieri poveri di Londra aumentava il numero dei ricoverati. Nell’autunno del 1857 la notizia della rivolta dei sepoy che stavano massacrando militari e civili inglesi a Delhi, aveva contribuito ad esasperare gli animi dell’opinione pubblica, che cominciò a porsi interrogativi sulla supremazia mondiale della Gran Bretagna e sulla competenza del governo. [1]

Anche in Prussia, Austria, Francia, Ungheria, e in molti altri paesi, vi erano povertà e miseria, ma la Rivoluzione Industriale a Londra stava creando un profondo divario economico tra l’aristocrazia e la popolazione più povera, divario che si poteva osservare attraversando la città. Contrapposti a zone eleganti, abitate da aristocratici e ricchi borghesi, vi erano quartieri poverissimi, dove la miseria e la sporcizia erano di casa.

Lord Thornton non si era ancora abituato a tutto ciò e si sentiva a disagio quando entrava in una casa elegante come quella di suo zio, dopo aver attraversato, pur con la carrozza, strade sporche e puzzolenti.

La residenza del Duca di Lyndham era stata costruita solamente sei anni prima ed era una raffinata palazzina di quattro piani che si affacciava su Hyde Park, nel cuore elegante della città.

Al suo ingresso Nicholas fu accolto, come sempre, da Everly, il compito maggiordomo del Duca, che prese mantello, cappello e bastone e gli chiese se desiderasse un bicchiere di cognac per scaldarsi.

“Grazie, Everly, lo prenderò in salotto, con mio zio.”.

Andrew Nicholas Thornton, Duca di Lyndham, lo attendeva comodamente seduto in poltrona, intento a godersi un sigaro, a dispetto di ciò che il medico, suo amico ormai da mezzo secolo, continuava a ripetergli.

“Zio, sai che non dovresti fumare!” lo rimproverò affettuosamente il nipote.

“Oh, non fare il guastafeste anche tu, Nick!”, replicò Sua Grazia, ovviamente senza smettere.

Nicholas sorrise: un sorriso luminoso, molto diverso da quello che aveva rivolto quel giorno a Lady Sarah Jane Montagu.  Adorava quel suo anziano prozio, che non aveva per nulla l’aria del vecchietto: il Duca di Lyndham, ad ottant’anni suonati, era ancora un discreto uomo, piuttosto alto, appena leggermente curvo e con ancora un’intelligenza lucida e molto vivace. Solo la capigliatura candida poteva far intuire l’età che aveva, anche se l’energia che sprizzava gli regalava certamente almeno dieci anni in meno.

“Allora?” lo incalzò il Duca. “E’ bella come te la ricordavi?”

Nicholas Thornton ripensò a Lady Sarah Jane Montagu e sorrise.

“Bellissima…” rispose.

Ancora più bella di come la ricordavo… e ancora più desiderabile, aggiunse tra sé.

“Ha accettato la tua proposta?” domandò di nuovo l’anziano zio.

“Non gliene ho ancora parlato.”

“Come mai? Credevo fosse quello lo scopo della tua visita.”.

Perché mi sono lasciato trasportare dalle emozioni e l’ho baciata… o meglio, l’avrei fatto, se non mi avesse schiaffeggiato!

“Ho preferito attendere… attendere un momento più opportuno.”.

“Ossia quando non ti colpirà di nuovo?” aggiunse divertito suo zio.

Nicholas sollevò d’istinto la mano al volto, toccando la zona di pelle senza barba vicina all’occhio, dove probabilmente era rimasto un segno che suo zio aveva notato.

“Credo che sia davvero la donna che fa per te, ragazzo mio!” disse Lord Thornton.

“Ne sono assolutamente certo, zio Andrew. Per questo farò di tutto per riconquistarla.".



[1] Dal libro  La Piccola Regina – Vittoria e il suo tempo”di Carolly Erickson, Il Giornale, Biblioteca Storica, pagg. 173-174. N.d.A.


Casa di Clayton Webb

Fine Marzo 2005

Quella sera a cena Mac mise Clay al corrente di tutto.

“Non ci sono problemi” le rispose lui. “Chiederò l’avvicinamento e anticiperemo le nozze.”

“Davvero saresti disposto a trasferirti da Washington a San Diego?” chiese incredula lei.

“E perché no? Sarah” le disse guardandola intensamente, “non voglio perderti, ti ho chiesto di sposarmi e lo farò. Dove andrò non m’importa, è sufficiente stare con te, il lavoro è secondario. Tu hai degli ordini da eseguire, non puoi rifiutarti di trasferirti e io ti seguirò, dovessi andare anche in capo al mondo.”

“Oh, ti amo Clayton Webb!” esclamò lei buttandogli le braccia al collo e baciandolo con foga.

“Anche io ti amo Sarah Mackenzie” rispose lui.

La temporanea permanenza della fidanzata a Londra, però, gli causava una qualche apprensione, ma le aveva taciuto questo particolare. Non è che non si fidasse di lei, era certo del suo amore, non si fidava di lui. Decise pertanto che un paio di occhi per sorvegliare con discrezione l’intera vicenda non sarebbero stati sprecati.

Comando Forze Navali Americane
Grosvenor Square, Londra

Fine Marzo 2005


“Signore?” la testa bruno-rossiccia del Tenente Cunningham fece capolino nell’ufficio di Harm.

Lui sollevò il capo dal solito mucchio di scartoffie che gli ingombrava la scrivania. A volte malediceva la promozione e tutto il carico di responsabilità che essa aveva recato con sé.

“Sì, Tenente?”

“E’ arrivato un plico da Washington e c’è il Segretario della Marina in linea Signore.”

“Mi porti il plico e mi passi il Segretario” rispose.

“Agli ordini” disse il Tenente che scomparve per ricomparire dopo pochi secondi e posare un pacco abbastanza voluminoso sulla scrivania.

Harm prese la conversazione.

“Buongiorno, Signore” salutò cordialmente il Segretario. Il tempo delle incomprensioni, dovute alle sue intemperanze, era passato ed ora il Capitano Rabb e il Segretario della Marina filavano d’amore e d’accordo… forse complice anche la distanza che li separava.

“Buongiorno a lei, Capitano” rispose Sheffield. “Ha già ricevuto il plico?” chiese poi venendo subito al sodo.

“In questo momento.”

“Lo apra e legga.”

Harm aprì il pacco ed estrasse il fascicolo dalla cartella rigida che lo conteneva. Lo aprì e ne lesse il contenuto.

“Non ne sapevo nulla, Signor Segretario” commentò alla fine.

“Abbiamo tenuto segreta la cosa. Capirà, dopo quell’incidente in cui ci ha rimesso la vita quell'agente del SISMI italiano, se la vicenda, un’altra e identica, fosse giunta alle orecchie delle Autorità Internazionali e della stampa sarebbe stata la fine. Ho ricevuto gli ordini direttamente dal Presidente, Capitano: sarà istituita una task force che indagherà nella più assoluta segretezza. Naturalmente parte di questa unità speciale sarà formata da inglesi, e proprio per questo il Presidente si è caldamente raccomandato di evitare le polemiche insorte l’altra volta. Massima collaborazione e distensione, dunque, non possiamo permetterci di perdere un alleato prezioso come l’Inghilterra. Lei riferirà direttamente a me e al Primo Ministro inglese e in qualità di Comandante delle Forze Navali in Europa sarà a capo dell’unità speciale.”

“Sì Signore. Ho già in mente fra i miei collaboratori chi destinare a questa indagine, solo le chiedo di potermi avvalere del Comandante Roberts per le ricerche e le indagini sul campo. Gode della mia massima stima e fiducia e desidererei che fosse momentaneamente distaccato qui a Londra.”

“Avrà di meglio del Lt. Cmdr. Roberts, Capitano. Ho ordinato all’Ammiraglio Chegwidden di affiancarle nel comando della task force il Colonnello Mackenzie fino quando la missione non sarà conclusa. Ho avuto modo di sperimentare di persona la vostra bravura e questo caso richiede il meglio. E voi lo siete.”

“Capisco. Quando arriverà il Colonnello?” domandò Harm mentre una ridda di emozioni gli si scatenava dentro.

“Dopodomani all’aeroporto di Heathrow con un volo Continental, alle 12.00 antimeridiane.”

“Manderò qualcuno a prenderla Signore, grazie della fiducia.”

“Buon lavoro Capitano” rispose il Segretario e chiuse la conversazione.

Mac… erano passati mesi dacché era partito per Londra e non si erano più sentiti. Ma del resto cosa avrebbero avuto da dirsi? In nove anni non erano riusciti ad arrivare a un dunque e di tempo per parlare ne avevano avuto a iosa. Cosa aggiungere di più quando ormai entrambi conducevano esistenze diverse e soprattutto lei aveva Webb?

Ricordava ancora quelle centinaia e centinaia di rose rosse e le sue scuse per farle sembrare un dono galante poco gradito. Dopotutto la sua partenza era stata una fortuna per entrambi: aveva posto fine ad un tiramolla inutile e logorante. Per lui, poi, Londra si era rivelata una vera benedizione, una benedizione che aveva il viso cordiale di Belinda.

Il secondo pensiero fu per il week-end a Beaulieu: proprio quella mattina aveva confermato la prenotazione al Master Builder’s House Hotel. Voleva fare una sorpresa alla sua compagna regalandole un romantico week-end in quella splendida località dell’Hampshire, ma ora tutto era rimesso in discussione.

Per un attimo fu tentato di annullare e rimandare ad altra data, ma poi decise di lasciar stare e di parlarne a Belinda quando, di lì a poco, si sarebbero visti per pranzo. Ormai la sorpresa era andata a farsi benedire, per cui tanto valeva metterla al corrente dei suoi piani.

 

 

 

 


Hyde Park, Londra

Fine Marzo 2005

Erano seduti in uno dei tanti pub che si affacciavano su Hyde Park e stavano pranzando all’aria aperta data l’insolita giornata calda.

“Ti ricordi dello Spring AutoMotor Jumble?” chiese Harm.

“Certo, ti ho dato il depliant l’altro giorno.”

“E ti ricordi quello che ti ho proposto?”

“Certo che me lo ricordo, e mi ricordo anche quello che è accaduto mentre me lo proponevi…” rispose maliziosamente Belinda.

“Per essere un dolce fanciulla inglese sei un po’ troppo sfacciata” la prese in giro Harm addentando il sandwich.

“Quello che non sai è che ho una nonna irlandese” rispose pronta lei.

Scoppiarono a ridere.

“Avrei prenotato in quell’albergo che ti ho mostrato…” buttò lì lui.

“Harmon è stupendo!”esclamò Belinda.

“Ma…”

“In quel fine settimana la mamma organizza il suo torneo mensile di bridge” disse delusa la ragazza. Ci teneva tantissimo ad andare con lui, soprattutto adesso che convivevano, era una sorta di “consacrazione” della loro unione che avrebbe preceduto, di lì a poco, la presentazione ufficiale di Harmon ai suoi, con una cena già fissata due sabati dopo a casa dei genitori di lei a Mayfair.

“Mi ero scordato il torneo di bridge di tua madre” le fece eco lui. “Pazienza vorrà dire che andremo un’altra volta.”

“Niente affatto Harmon! La prossima fiera è a Settembre e dei pezzi della macchina ne hai bisogno adesso, altrimenti addio vacanze in Scozia quest’estate. Non ti preoccupare, vai pure. Tanto io sarò a casa dei miei per tutto il fine settimana.”

“Ma… non saprei” Harm era indeciso. Belinda condivideva la sua passione per le auto d’epoca ed era una perfetta conoscitrice delle macchine inglesi. Sarebbe piaciuto anche a lei gironzolare per il mercato che si teneva nel parco del Castello di Beaulieu e cercare i pezzi che gli servivano.

“Harmon Rabb…” lo richiamò all’ordine la ragazza, “non fare i capricci e goditi un paio di giorni in compagnia della tua passione. È un ordine.”

“La mia passione sei tu” rispose lui prendendole le mani attraverso il tavolino. “E comunque sia” cedette alla fine, “meglio a Beaulieu che rinchiuso in casa o in ufficio.”

Terminarono il pranzo e nel mentre le raccontò della conversazione avuta quella mattina con il Segretario della Marina americana.

“Spero che inviterai da noi la tua amica” lo rimbrottò dolcemente lei.

“Vedremo” si mantenne sul vago Harm.

 

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Capitolo 5
*** Un caso per due ***



Capitolo V

Un caso per due





Areoporto di Heathrow
Londra

Aprile 2005

Il volo era stato lungo, noioso e abbastanza agitato. Mac non soffriva il mal d’aria, ma avevano incontrato del brutto tempo e, di conseguenza, l’aereo aveva “ballato” un po’.

Adesso però era a terra e, nell’attesa di recuperare il bagaglio, telefonò a Clay incurante del fuso orario. Le mancava molto e si era già pentita di non avergli chiesto di seguirla anche a Londra: lei avrebbe lavorato e insieme si sarebbero goduti un’anticipazione della luna di miele.

Lui rispose al secondo squillo.

“Ciao”, lo salutò teneramente.

“Ciao quasi moglie”, ricambiò il saluto l’uomo. “Tutto bene?”

“Più o meno. Un po’ di brutto tempo, ma alla fine sono atterrata.”

“Dove alloggi?”

“Al Grosvenor House, così sono più vicina al palazzo del Comando.”

“Caspita!” esclamò lui. “Il JAG non ha lesinato spese… il Grosvenor è uno degli alberghi più lussuosi di Londra.”

“Il Segretario e il Presidente Bush ritengono che questo sia un caso della massima importanza”, rispose Mac.

Webb aveva ottenuto l’informazione che cercava: conosceva l’albergo dove avrebbe pernottato Mac e così avrebbe potuto allertare qualcuno dei suoi a Londra e tenerla d’occhio. C’era parecchia gente che gli doveva favori nella City, e adesso era venuto il momento di riscuotere quei crediti. Prese anche l’appunto mentale di farle trovare qualcosa di speciale al suo arrivo.

“Mi manchi Clay, non vedo l’ora che tutto questo sia finito.”

“Anche tu mi manchi Sarah, ma vedrai che tutto si sistemerà e nel giro di due settimane al massimo saremo di nuovo insieme.”

“E pronti per imbarcarci nella nostra avventura”, rispose lei entusiasta.

“Un bacio mia bellissima rosa”, la salutò.

“Ti amo.”

Mac chiuse la conversazione e si apprestò a ritirare la valigia dal tapis roulant.

 

 

 

 


Residenza del Visconte di Norwich
Londra

Aprile 1858

“Se aveste tra le mani un pugnale, non esistereste ad ucciderlo, vero?”

La voce inconfondibile e ormai nota, che la tormentava da settimane, la sorprese mentre stava osservando l’entrata di Cedric Hewitt al ballo di Lord e Lady Norwich: era vicinissima, troppo vicina al suo orecchio.

Lentamente Lady Sarah si voltò, trovandosi a pochi centimetri dal volto di Nicholas Thornton. Fece due passi indietro, inspirando profondamente, per mantenere il controllo delle sue emozioni. Da dieci giorni si preparava mentalmente all’inevitabile incontro che, era certa, prima o poi sarebbe avvenuto. Lui era tornato altre tre volte a cercarla, ma lei aveva sempre fatto dire ad Albert che non era in casa. Non aveva alcuna intenzione di incontrarlo di nuovo, ma sapeva che prima o poi l’inevitabile sarebbe accaduto. Se non fosse stato per la necessità di raggiungere il suo obiettivo, avrebbe fatto volentieri a meno di restare a Londra e farsi vedere in società, ma purtroppo non poteva: il tempo stava passando troppo rapidamente e lei doveva riuscire a trovare le prove necessarie per incastrare Hewitt.

Quando si fu calmata, si rivolse al futuro Duca di Lyndham sfoggiando un’aria leggermente annoiata e porgendogli la mano affinché lui potesse salutarla come si conveniva.

“Lord Thornton, che piacere rivedervi” disse a beneficio delle due matrone che li stavano osservando.

“Lady Sarah…” rispose lui, baciandole la mano inguantata e trattenendola tra le sue.

Le due matrone si allontanarono chiacchierando e non appena se ne furono andate, Lady Sarah gli rivolse uno sguardo severo, liberando la mano dalla presa dell’uomo.

“Cosa volete?” chiese secca.

“Esporvi, finalmente, la mia proposta…”

“Vi dissi che non mi interessava.”

“Come potete sapere che non vi interessa, se non avete idea di quello che sto per dirvi?”

“Vi ripeto che, di qualunque cosa si tratti, non mi interessa. E ora, se volete scusarmi…” replicò, decisa ad andarsene. A parte il fatto che non voleva più stare accanto a Lord Thornton, non voleva neppure che Hewitt la scorgesse alla festa: non sapeva se lui l’avrebbe riconosciuta, erano anni che non la vedeva, poiché era sempre stata attenta a non farsi sorprendere a seguirlo, ma non poteva esserne sicura e aveva notato che Hewitt si stava dirigendo dove si trovavano loro due.

Nicholas Thornton intercettò lo sguardo preoccupato di Lady Sarah e capì al volo la situazione.

“Venite…” e così dicendo, la trascinò rapidamente fuori, sul terrazzo, facendola uscire da una porta finestra proprio dietro di loro.

A differenza della sera del loro primo incontro, l’aria della notte era fredda e pungente, evidente segno che la primavera in Inghilterra era mutevole quanto il clima in una sola giornata: era facile uscire di casa con il cielo sereno, ritrovarsi bagnati poco dopo e nuovamente accarezzati dal sole nell’arco di un’ora.

“Ma…”

“Qui non potrà vedervi” disse Lord Thornton, mentre si levava la giacca e gliela posava sulle spalle, per scaldarla.

“Chi?” domandò lei con un sussurro, incapace di dire altro. Il suo profumo la stordiva.

“L’uomo che doveva diventare vostro marito… Cedric Hewitt” rispose lui, stupendola.

“Come… come sapete?”

“Vi dissi che avevo una proposta che avrebbe potuto interessarvi!”

 


Areoporto di Heathrow
Londra

Aprile 2005

Alla fine Harm non se l’era sentita di mandare qualcuno dello staff a prendere Mac all’aeroporto, non solo ma quando aveva accennato questa sua intenzione a Beinda, lei si era arrabbiata.

“Ma come?!” aveva esclamato incredula. “Una vecchia amica, anzi di più, la collega con la quale hai lavorato per nove anni viene a Londra e tu mandi a prenderla un tirapiedi?! Sei incorreggibile Harmon!”

Lui le aveva spiegato le circostanze del loro rapporto, come era nato, cosa era stato per entrambi e come, alla fine di tutto, si erano lasciati.

“Qualunque cosa sia accaduta fra di voi non si merita di trovare uno sconosciuto ufficiale ad attenderla al suo arrivo, ma un viso amico”, aveva replicato un po’ seccata la donna.

E così, più che altro per farle piacere, Harm era andato di persona a Heathrow a prendere Mac. Non solo, ma Belinda gli aveva fatto promettere che, prima di accompagnarla in albergo, avrebbe pranzato a casa loro.

Ed ora si trovava nell’ampio salone degli arrivi extra UE ad attendere quella che, Belinda esclusa, era stata la donna più importante della sua vita.

Mac ritirò la valigia e si mise pazientemente in coda per il controllo dei passaporti.

Era un po’ ansiosa, lo doveva ammettere. Rivedere Harm dopo tutto quel tempo non sapeva esattamente che effetto le avrebbe fatto. Confidava nella più totale indifferenza.

Avanzò di qualche metro.

Guardò l’anello che portava all’anulare sinistro e le si scaldò il cuore. Ben presto sotto quel solitario dal centomila dollari ci sarebbe stata una sottile vera di platino con all’interno incisa una data e un nome.

Subito dopo aver saputo del trasferimento a San Diego e della missione a Londra, lei e Clay avevano anticipato tutto: si sarebbero sposati il 25 Maggio prossimo nella cappella dove il Rev. Turner teneva il suo sermone natalizio, e la cerimonia sarebbe stata celebrata dallo stesso reverendo Turner.

Sue testimoni sarebbero state Harriet e Chloe, mentre Clay aveva chiesto a due colleghi.

Non avrebbero fatto un viaggio di nozze, non subito almeno e per un po’ di tempo Clay sarebbe rimasto a Langley, ma il suo trasferimento a San Diego era ormai cosa fatta, mancava solo il visto del Direttore che sarebbe rientrato proprio alla fine del mese di Maggio, al massimo ai primi di Giugno.

Avevano scelto anche la casa, un confortevole cottage nella periferia residenziale della città, con due camere in più per i figli che certamente, dopo la sua guarigione dall’endometriosi, sarebbero arrivati di lì a poco. Durante la sua permanenza a Londra Clay avrebbe portato avanti i lavori di ristrutturazione e al rientro di Mac negli States tutto sarebbe stato pronto.

Immersa in questi lieti pensieri e nei progetti per il futuro, non si era accorta di essere arrivata al desk dove una compita impiegata inglese attendeva per il controllo del passaporto.

Un “Madam” appena accennato la riportò alla realtà.

“Mi scusi”, disse estraendo dalla borsa il documento e mostrandoglielo.

“Buona permanenza nel Regno Unito”, le rispose con un sorriso la donna del desk.

“Grazie”, e si avviò verso l’uscita trascinando seco il trolley.

Harm la scorse subito, del resto era abbastanza facile essendo l’unica donna in mezzo a quella folla che indossava la divisa dei Marines.

Rimase colpito dal suo aspetto: sebbene fosse rimasta la stessa gli parve dimagrita, i lineamenti del viso si erano fatti più dolci, rilassati e… sì, Mac era radiosa. Sembrava che le si fosse accesa una lampadina dentro. Conosceva troppo bene Sarah Mackenzie per non coglierne ogni mimino cambiamento nella persona e nell’umore: era cambiata, apparentemente era rimasta la stessa, ma qualcosa gli diceva che non era più la medesima donna che aveva lasciato quella sera in un appartamento di Georgetown invaso da rose rosse.

E non è solo cambiata”, pensò mentre si muoveva per andarle incontro. “E’ stata anche promossa”, aggiunse tra sé notando i gradi da Colonnello sulla giacca della divisa.

Fendette la folla che andava in senso contrario e le si avvicinò.

 





Residenza del Visconte di Norwich
Londra

Aprile 1858

“Come sapete?” domandò di nuovo, sconvolta.

Lo guardò in viso, confusa, rendendosi conto per la prima volta che Nicholas Thornton conosceva del suo passato molto più di quanto lei sapesse del futuro Duca di Lyndham.

Prima di risponderle, egli tirò fuori un sigaro e fece per accenderlo.

“Vi dà fastidio?” chiese, prima di portarselo alle labbra. Attese la sua risposta e, quando lei scosse il capo dandogli tacito consenso, lo accese e aspirò lentamente.

“Conosco tutta la storia…”, disse mentre assaporava l’aroma del tabacco, “ e so anche che, nonostante la mia frase infelice quando l’altro giorno mi avete schiaffeggiato, avete tutti i motivi per odiare Hewitt.”

“Ma… come…”

“Non ha importanza come lo so. Lo so e tanto basta. E desidero aiutarvi ad incastrare quel bastardo.”

Il tono deciso e duro che egli usò la sorprese non poco. Sembrava quasi che anche Lord Thornton avesse motivi validi per odiare il barone di Wiltshire…

“Ha truffato anche voi?” chiese all’improvviso.

Lui la osservò per un attimo, prima di rispondere, quasi indeciso se dirle o meno la verità.

“No, al momento non ancora. Ma ha fatto del male ad una persona cui tengo moltissimo…” aggiunse lui, quasi tra sé.

“Cosa intendete con  ‘al momento non ancora’?” domandò Lady Sarah.

“Che faremo in modo che presto accada.”

“Non capisco…”

“E’ molto semplice: voi cercate prove per incastrare Hewitt e per dimostrare che fu lui a portare alla rovina vostro padre con un imbroglio. Io sarò la prossima vittima ‘inconsapevole’ di Mr. Hewitt… in questo modo riusciremo ad incastrarlo.”

“Noi?” chiese lei, stupita.

“Sì, noi. Ascoltatemi, è perfetto! Sono il futuro Duca di Lyndham, erede di una delle più prestigiose e nobili famiglie d’Inghilterra, per di più ricco sfondato. Ma sono straniero… mio zio è anziano e io… be’, io sono un po’ ribelle… appena tornato dalle Indie, dove ho combattuto valorosamente durante la rivolta dei sepoy…”

“E’ lì che avete perso l’occhio?” lo interruppe lei.

Lui la guardò di nuovo intensamente, prima di rispondere:

“Sì...” Poi, scrutandola se possibile con ancora più attenzione, le chiese in un sussurro: “Mi trovate tanto inguardabile?”.

“Non vedo questo cosa c’entri con il nostro discorso”, rispose lei, imbarazzata per avergli posto quella domanda, facendogli credere di trovarlo ripugnante. Il problema era tutto il contrario: quell’uomo non le piaceva; lo riteneva maleducato, arrogante e presuntuoso, nonché troppo sicuro di sé e sfuggente… eppure, forse a causa dell’incredibile fatto che, in qualche modo e chissà per quale misteriosa ragione, le ricordava André, oppure perché i suoi sensi, risvegliati dall’amore per il bel Conte francese, stavano facendole ricordare dopo mesi di essere una donna, doveva riconoscere, almeno con se stessa, che Nicholas Thornton la turbava parecchio e non lo trovava per nulla inguardabile. Anzi! Più lo conosceva e osservava il suo volto, più lo trovava intrigante e seducente… c’era un’innegabile attrazione tra loro…

No! Che andava a pensare?

La consapevolezza di trovarlo affascinante, nonostante tutto, la turbò parecchio: lei era ancora innamorata di André…

Si rese conto che non aveva ancora risposto alla sua domanda, perché lui la stava fissando. Lo sguardo di Nicholas Thornton era improvvisamente diventato freddo e la sua voce sarcastica.

“Capisco…” lo sentì dire e si rese conto che aveva frainteso.

“No… non vi trovo inguardabile, e neppure ripugnante, se è questo che state pensando” si affrettò a chiarire.

Lui fece un cenno di sorriso.

“Ma non vedo cosa c’entri questo con quello che mi stavate dicendo” aggiunse lei.

“Nulla, in effetti…” rispose lui, poi continuò: “Tornando alla mia proposta… mi fingerò l’ingenuo ricco rampollo, erede di un’immensa fortuna, ma sciocco al punto giusto da essere ritenuto un’ottima preda per un truffatore come Hewitt… in questo modo potremo incastrarlo e voi potrete conservare il titolo e restituire l’onore alla vostra famiglia.”.

“E perché voi dovreste fare tutto questo per me?” domandò lei, sospettosa.

“Ve l’ho detto: Hewitt ha fatto del male ad una persona cui tengo moltissimo…”

“Sì, lo avete detto. E non mi sorprende, conoscendo Hewitt. Ma questo non spiega perché non agite da solo… avreste potuto mettere in atto il vostro piano senza che io ne sapessi nulla e senza che ne ricavi alcunché in cambio. Perché avete deciso di aiutare anche me?”

“Perché non dovrei farlo, sapendo della vostra disgrazia?”

“Perché nessuno fa nulla per nulla… soprattutto voi uomini.”

“Non avete una grande opinione del sesso forte!” scherzò lui.

“Forte?” domandò presuntuosa Lady Sarah, sollevando un sopracciglio.

Nicholas Thornton se ne uscì con la sua risata fredda e beffarda, che gli saliva dal petto, senza arrivare allo sguardo, limitandosi ad una lieve increspatura delle labbra.

Lei comprese che quello era il suo modo usuale di ridere: sarcastico e controllato. E si disse che quell’uomo nascondeva di se stesso molto più di un occhio ferito. La cosa la turbò, ma non seppe dire se per paura o per desiderio di farlo uscire allo scoperto.

“No, in effetti non ho una grande opinione del cosiddetto sesso forte” confermò, sottolineando con il tono della voce le ultime due parole e al tempo stesso stupendosi di come un gentiluomo inglese le avesse usate in sua presenza in maniera tanto disinvolta. Ma si disse che il futuro Duca di Lyndham non era né inglese, né tanto meno un gentiluomo!

“Non avete risposto alla mia domanda…” gli ricordò.

“Credete che voglia qualcosa in cambio?”

“Tutti lo vogliono. E… caro Lord Thornton vorrei farvi notare che, per la seconda volta, non avete risposto alla mia domanda.”

“Siete davvero caparbia e adorabile come vi ho immaginata non appena vi ho visto la prima volta…” sussurrò lui, perdendosi nei suoi occhi. Poi aggiunse, come a voler precisare: “… inguainata in quel provocante abito rosso…”.

Pur turbata da quello sguardo penetrante e da quelle parole, lei non desistette:

“Comincio a pensare che non serve che mi rispondiate… credo d’aver capito da sola cosa vi aspettate in cambio per il vostro aiuto.”.

“E cosa dovrei volere, secondo voi?” domandò lui.

“Quello che vogliono di solito gli uomini”, rispose Lady Sarah. Poi aggiunse tra sé, ripensando con rimpianto ad Andrè: Tutti, tranne uno…

“E cosa vogliono?” domandò Nicholas Thornton.

Lei lo squadrò dapprima in silenzio, ormai infastidita per aver capito che era esattamente come tutti gli altri; poi finalmente disse:

“Volete possedere il mio corpo…”.

“Vi sbagliate, Milady. Io non voglio quello… non solo, almeno.” Fece una pausa, scrutandola con attenzione. Quindi aggiunse: “Io voglio sposarvi.”.

“Sposarmi?” domandò lei, allibita.

“La trovate una cosa tanto assurda? Siete una bellissima donna, per quale motivo non dovrei desiderarlo?”

“Ma… ma voi non mi conoscete neppure! E io nemmeno…”

“Vi conosco più di quanto immaginiate…” sussurrò lui, prima di aggiungere: “E sono innamorato di voi fin dalla prima volta che vi ho veduta.”.

Quelle parole le procurarono uno strano brivido, che si costrinse a reprimere immediatamente.

“Io non vi amo…” disse lei.

“Oh, questo è un fatto irrilevante! Sarà un piacere conquistare il vostro cuore.”

La sua sicurezza la fece arrabbiare e decise di sbattergli in faccia la verità:

“Il mio cuore non vi apparterrà mai… è di un altro uomo e sarà suo per sempre.”.

Nicholas Thornton reagì a quell’affermazione molto diversamente da come si era immaginata.

Un sorriso pigro gli increspò le labbra più del solito, raggiungendo per un breve attimo lo sguardo dell’unico occhio sano.

“Questo lo vedremo…”

 

 

Areoporto di Heathrow
Londra

Aprile 2005


Mac non vide subito Harm, ma qualcosa, dentro di lei, percepì la sua vicinanza. Credeva che queste strane sensazioni, quel filo invisibile che li univa si fosse spezzato per sempre, ed invece, con sua grande sorpresa, ciò non era accaduto.

Quando scorse il volto di Harm tra la ressa, per un nanosecondo il suo cuore smise di battere, ma la parte cosciente e raziocinante della donna non registrò l’avvenimento. Le sembrò invecchiato, ”Anche un po’ ingrassato”, pensò con una punta di malignità, ma non aveva certamente perso il fascino e il magnetismo che lo caratterizzava, come poté notare dalle lunghe occhiate che gli venivano rivolte dalle signore di passaggio. Inutile malignare, Harm era sempre bello e affascinante.

Si incontrarono a mezza via.

“Ciao Marine” la salutò lui.

“Ciao Flyboy” rispose al saluto.

Rimasero in silenzio per alcuni istanti, un silenzio carico di imbarazzo: non sapevano cosa dirsi dopo tutto quel tempo.

“Come è andato il viaggio?” chiese Harm alla fine.

“Bene” rispose Mac. “Non mi aspettavo di trovare te, il Gran Capo in persona.”

“Non mi piaceva l’idea che fosse uno sconosciuto ufficiale o sottufficiale ad accoglierti al tuo arrivo” rispose.

“Uh uh, il solito cavalier servente” ironizzò Mac.

“Piuttosto vedo che sei stata promossa.”

“Una sorpresa anche per me” rispose mentre si incamminavano verso l’uscita. “Ma tutto ha un prezzo: sarò trasferita a San Diego al termine di questa missione.”

Fece il gesto di prenderle la valigia, ma lei rifiutò.

“Grazie, faccio da me” rispose compitamente e nello scostare il braccio di lui dalla maniglia del trolley un raggio di luce fece brillare il solitario.

Harm vide l’anello e la sensazione che provò era identica a quella che aveva provato quando, una vita prima, in un altro aeroporto agli antipodi del globo terracqueo, non seguendo il saggio consiglio dell’Ammiraglio, si era voltato indietro prima dell’imbarco e aveva visto Mac che baciava estasiata Brumby.

Lo stomaco gli si riempì di farfalle.

“Chi sarebbe il fortunato?” chiese, non tanto sicuro di voler sapere. Ma di che accidenti si preoccupava? La vita privata di Mac non era affar suo dopotutto!

“Ah, hai visto questo” disse lei alzando la mano all’altezza del viso e fissando l’anello con aria sognante.

“E’ Webb” ripose poi con semplicità, sempre mantenendo la stessa espressione.

“Vieni ti accompagno” replicò Harm preferendo glissare e non volendo conoscere altro della vita privata di lei.

Sarebbero stati, per l’ultima volta, colleghi; avrebbero dato il meglio di sé nella conduzione delle indagini, ma il piano personale sarebbe stato tassativamente escluso dai loro rapporti. Anzi si era quasi pentito di aver accondisceso alla richiesta di Linda.

Senza che Harm lo sapesse, ma com’era naturale quand’erano insieme, anche Mac pensava le stesse identiche cose.

Uscirono dal terminal e si diressero verso una macchina scura che li stava attendendo. L’autista scese e prese la valigia di Mac riponendola nel bagagliaio, dopodiché le aprì la portiera permettendole di salire. Girò intorno all’autoveicolo e fece la stessa cosa con Harm, poi si mise alla guida uscendo dall’aeroporto e immettendosi nel traffico caotico della City.

“Si vede che sei un pezzo grosso, adesso. Persino l’auto con l’autista” considerò Mac sorniona.

Harm non rispose.

Fecero il tragitto in perfetto silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Non avevano nulla da dirsi, sebbene solo qualche mese prima non potessero fare a meno l’uno dell’altra. Per nove lunghi anni avevano lavorato insieme, ora uniti ora su fronti opposti, avevano condiviso tutto l’uno della vita dell’altro, si erano dati reciproco sostegno nei momenti di bisogno e si erano salvati la vita vicendevolmente in più di un’occasione.

Si erano anche amati alla follia, pur se a modo loro e il fatto che nessuno dei due avesse saputo (o voluto?) mantenere una relazione duratura fino al distacco definitivo ne era la prova.

Ma ora Harm e Mac erano due estranei e nessuno che non li avesse conosciuti anche prima avrebbe potuto credere che un tempo erano stati così uniti.

“Ehi, ma non stiamo andando in albergo!” esclamò Mac quando si accorse che la macchina passava davanti all’hotel senza fermarsi.

“E’ vero, mi sono scordato di dirtelo: sei a pranzo da me” rispose laconico Harm.

Perché aveva parlato al singolare? Dopotutto quella era casa anche di Belinda non solo sua. Cosa voleva dimostrarle quando, inevitabilmente, l’altra le avrebbe aperto la porta? Che anche lui si era rifatto una vita? Che era indispettito per non avergli detto di essersi fidanzata con Webb?

L’autista parcheggiò davanti ad un’elegante palazzina in stile vittoriano e scese per aprire la portiera a Mac.

“Le valigie del Colonnello le porti in albergo sottufficiale”, ordinò Harm prima di scendere e aprire il portone di casa.

Il sottufficiale annuì e rimontò in macchina.

“Carino qui” disse Mac entrando nell’androne dal quale partiva una scala.

“E’ molto diverso la loft di North of Union Station, ma confortevole.”

“E’ tutta tua la palazzina?” chiese lei incamminandosi per la scala.

“Occupo gli ultimi due piani.”

“Mi sarei aspettata un super attico con uno stuolo di domestici” osservò ironica.

“Mi avevano proposto un castello in Scozia, ma ho preferito una più modesta sistemazione qui a Hyde Park. Più vicino al Comando. E’ stata fatta costruita nel 1852 dal Duca di Lyndham…” rispose.

Mac sorrise impercettibilmente.

Arrivarono al piano e subito la porta laccata di nero si aprì.

“Benvenuta!” la salutò una florida ragazza dalla folta chioma rossa e con un viso pieno di efelidi.

Gli occhi verdi sprizzavano allegria e cordialità, mentre le stringeva vigorosamente la mano: “Tu devi essere Mac, l’amica e collega di Harmon. Entra!” la invitò scostandosi per lasciarla passare

“Lei è Belinda” risuonò alle sue spalle la voce di lui.

Mac era convinta di sbagliarsi, ma le era sembrato di cogliere una nota di soddisfazione. Scosse la testa ed entrò al seguito della ragazza, la quale rivolse ad Harm un bonario rimprovero: “Solo ‘lei è Belinda’? Il solito orso! Mi hai detto che lei è la tua migliore amica. Se così è perché non le hai riferito del fatto che mi sono trasferita qui?”.

Non gli lasciò il tempo di replicare e sollecitò Mac a seguirla nel soggiorno: “Accomodati e non far caso a quell’orso polare che è il mio convivente. Siediti pure e mettiti a tuo agio. Arrivo subito.”.

Mac si sedette su uno dei comodi divani.

Convivente, pensò. Decisamente Harm si era dato più da fare in cinque-sei mesi a Londra con quella ragazza che non in nove anni negli States con lei. Ma del resto cosa aveva sperato? Di trovarlo solo e disperato? Era logico che si fosse costruito una vita, anche affettiva, in Inghilterra esattamente come lei aveva fatto a Washington.

Girò lo sguardo nella stanza e intravide Harm che baciava sulla punta del naso Belinda con un’espressione che mai gli aveva visto in faccia.

E’ innamorato, senza dubbio. Buon per lui” si disse.

Lui tornò poco dopo, in borghese, reggendo un vassoio con due bicchieri.

“Belinda non si unisce a noi?” chiese.

“Preferisce controllare che l’arrosto non bruci. Suppongo tu non abbia ripreso a bere” le disse poi sedendosi di fronte e porgendole il bicchiere con l’acqua tonica.

“Supponi bene marinaio” rispose.

“Simpatica la tua ragazza” osservò poi.

“Un vero tesoro, senza di lei sarei perso” rispose. E Mac si accorse che era sincero, anche se quelle stesse parole, tempo addietro, le aveva rivolte a lei.

Prima che avessero il tempo di aggiungere altro, Belinda irruppe nel salone annunciando che il pranzo era pronto.

 

 

 

Residenza del Duca di Lyndham
Hyde Park, Londra

Aprile 1858

 

Il mio cuore non vi apparterrà mai… è di un altro uomo e sarà suo per sempre…

Le parole di Lady Sarah continuavano a ritornargli in mente, senza tregua.

Era rientrato da più di un’ora dalla festa, eppure non riusciva ancora a prendere sonno. Quella frase lo stava tenendo sveglio.

Si era buttato sul letto senza neppure svestirsi completamente, con la camicia slacciata sul petto e con indosso ancora i pantaloni; aveva trovato solo il tempo per versarsi un abbondante bicchiere di whisky che ora stava centellinando, mentre immagini di lei lo riempivano di desiderio… l’avrebbe voluta lì, con lui, nel suo letto… allora sì che avrebbe evitato la compagnia solitaria del liquore.

Poteva sentire ancora il suo profumo; poteva immaginare la levigatezza della sua pelle, la morbidezza dei suoi capelli… era in grado persino di assaporare con la mente le sue labbra invitanti. Nei suoi sogni la stringeva tra le braccia appassionatamente, mentre lei gli rispondeva con il medesimo trasporto…

Doveva smetterla!

Doveva smetterla, o non avrebbe più chiuso occhio. Ma non l’aveva mai desiderata tanto quanto quella sera, così bella e terribilmente irraggiungibile.

Il mio cuore non vi apparterrà mai…

Quello avrebbe anche potuto accettarlo: sapeva quanto fosse ribelle ed indipendente ed era disposto a lasciarle tutta la libertà che desiderava, una volta sposati, purché lei gli appartenesse. 

Che ironia! Voleva che fosse sua eppure, pur di averla, era disposto a concederle la più ampia libertà… quasi un controsenso!

Ma sarebbe stato l’unico modo affinché almeno una piccola parte di lei fosse sua.

… E’ di un altro uomo e sarà suo per sempre…

Era questo, invece, che non riusciva a tollerare! Che il suo cuore appartenesse ad un altro.

E non importava neppure chi fosse l’altro uomo. Il solo sentirle pronunciare quella frase lo aveva reso geloso.

Era normale tutto questo?

No, non lo era affatto.

Ma era abituato a queste sensazioni, ormai. Fin da quando l’aveva incontrata per la prima volta, si era pazzamente innamorato di lei… e da allora, quando mai con quella donna si era comportato come era suo solito fare?

 



 

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Capitolo 6
*** Manovre d'accerchiamento ***



Capitolo VI

Manovre d'accerchiamento





Grosvenor Hotel
Londra

Aprile 2005

L’uomo appostato nella hall dell’hotel attese un paio d’ore, ma quando comprese che la donna non sarebbe arrivata, telefonò al suo capo.

“La ragazza non è arrivata” gli comunicò asciutto.

“Hai controllato che non abbia cambiato prenotazione all’ultimo minuto?”

“Sì e non l’ha fatto.”

Ma per chi lo prendeva? Per un novellino? Si chiese indispettito.

“Rimani in posizione chiamami quando la vedi arrivare.”

“Va bene” e chiuse la conversazione immergendosi nuovamente nella lettura del “Times”.






Ufficio di Clayton Webb
Langley, Virginia

Aprile 2005

Webb sbatté con forza il telefono sulla forcella.

Ma dov’era Sarah? Sarebbe dovuta arrivare al Grosvenor almeno due ore prima.

A meno che… sollevò la cornetta e compose il numero di cellulare della fidanzata. Spento o comunque non raggiungibile, gli comunicò cortesemente la voce registrata dell’operatore telefonico.

Imprecò di nuovo.

Pochi minuti dopo suonò nuovamente il telefono della linea privata.

“Allora?” esordì senza altri preamboli.

“E’ arrivata adesso. È alla reception.”

“E’ da sola?”

“No” rispose l’uomo a Londra.

Un brivido corse lungo la schiena di Webb: “Con chi è?”.

“Un uomo.”

Il vicedirettore per le operazioni in Mediorioente sbuffò infastidito:

“Fin lì credo di arrivarci anche io a meno che non sia diventata lesbica nel giro di cinque ore o poco più” rispose seccato. “Chi è l’uomo? Un fattorino dell’albergo?”

“No, è un tizio alto e bruno.”

Il brivido s’intensificò e campanelli d’allarme cominciarono a risuonare nella mente di Webb.

“E’ in divisa della Marina americana? Ha i gradi da Capitano?” chiese cercando di nascondere l’apprensione.

“No e no. Ma comunque sembrano essere abbastanza in confidenza” aggiunse.

Dannato Rabb! Non poteva che essere lui. Non aveva perso tempo.

“Che sta accadendo?”

“Nulla. L’uomo ha chiamato un fattorino e sta salutando la ragazza. È tutto.”

“Continua a tenere d’occhio la ragazza, Patrick. E riferiscimi di ogni suo spostamento con quel tizio.”

Chiuse la comunicazione ancora più nervoso di prima. Aveva fatto bene a mettere sotto controllo Sarah, con Rabb in circolazione e a piede libero nulla era sicuro e di certo non voleva che si ripetesse quanto accaduto due anni addietro.

 

 





Giardini di Hyde Park
Londra

Aprile 1858

La giornata era tiepida e soleggiata, una tipica giornata primaverile che invogliava ad uscire all’aperto, lo si poteva osservare da quante persone, quel giorno, stavano passeggiando per i giardini di Hyde Park.

Le dame avevano già aperto i loro parasole e sfoggiavano abiti leggeri, dalle delicate tinte pastello, mentre i gentiluomini avevano lasciato a casa mantelli e soprabiti e indossavano semplicemente la giacca sopra al panciotto. Le carrozze chiuse erano rimaste nelle rimesse ed erano state sostituite dai calessi scoperti.

Anche Lady Sarah aveva approfittato del tepore della bella giornata, preferendo però, come sempre, cavalcare Ginger, la sua splendida purosangue; benché dovesse  accontentarsi di una passeggiata all’amazzone, anziché di una sfrenata galoppata all’arcione, tuttavia uscire a cavallo in quel tiepido pomeriggio di inizio aprile serviva a distenderle i nervi.

Erano passati cinque giorni dal ricevimento in casa di Lord Norwich e dall’assurda proposta di Nicholas Thornton, e Lady Sarah non aveva fatto altro che pensare a quello che si erano detti lei e il futuro Duca di Lyndham.

Quell’uomo era davvero pazzo se credeva che avrebbe accettato di sposarlo, pur di essere aiutata ad incastrare Hewitt!

Eppure…

Da giorni stava cercando una soluzione diversa; erano notti che si arrovellava il cervello per trovare un piano migliore di quello che Lord Thornton le aveva sottoposto, eppure non era riuscita a pensare a nulla di meglio. L’idea di Nicholas Thornton, nella sua semplicità, restava la migliore: fingersi un inesperto e sciocco riccone che voleva cimentarsi nell’allevamento di cavalli di razza era il modo più probabile perché Hewitt tentasse di ingannare e frodare anche l’erede del Duca di Lyndham.

Il piano avrebbe potuto funzionare. Ma, nonostante tutto, lei non poteva sposarlo!

Neppure se lui l’avesse davvero aiutata a trovare le prove per incastrare l’uomo che aveva rovinato la sua famiglia.

“Vi trovo pensierosa, Lady Sarah. State per caso valutando la mia proposta di matrimonio?”

Era così immersa nei propri pensieri che non si era neppure accorta che qualcuno le si era avvicinato e le stava cavalcando a fianco. Quando la voce beffarda di Lord Thornton raggiunse il suo cervello, era troppo tardi per allontanarsi e fingere di non averlo visto.

Prima di rispondere, inspirò profondamente l’aria che profumava di glicine, rose e caprifoglio… quell’uomo aveva il potere di renderla nervosa, sgradevole e sempre sulla difensiva.

“Non trattenete il fiato, nel frattempo, Milord,” disse sarcastica, “non vorrei essere causa della vostra prematura dipartita!”

“Sempre così deliziosamente gentile, la nostra Lady Sarah Jane…” rispose lui, avvicinando di più il suo cavallo a Ginger, la quale accolse il morello arabo del Duca senza scomporsi.

Traditrice!, pensò irrazionalmente Lady Sarah, sfogando mentalmente la sua frustrazione sulla cavalla che manteneva il passo tranquilla.

Lei era un fascio di nervi.

Perché quell’uomo la metteva sempre così tanto in tensione? Non riusciva a spiegarselo.

Lo guardò di sottecchi e si rese conto di provare un’assurda e irrazionale, nonché inspiegabile, attrazione per Nicholas Thornton.

Continuava a non piacerle come persona: lo trovava irritante, troppo sfrontato e in certi momenti addirittura subdolo, con un carattere cupo e sgradevole.

Tuttavia, senza capirne il motivo, sentiva che non poteva fare a meno di avvertire il magnetismo che sprigionava e lo strano fascino che esercitava quando si aveva a che fare con lui.

Nonostante tutto era un uomo estremamente interessante.

“Se volete ancora mettere in atto il vostro piano con Hewitt, ritengo che non dobbiate farvi vedere cavalcare il vostro destriero, altrimenti il barone di Wiltshire non crederà mai che siate poco esperto di cavalli…” disse per rompere il silenzio che si era venuto a creare tra loro e che, inspiegabilmente, la irritava più delle loro schermaglie.

“Mi state per caso facendo un complimento, Milady?”

Lei lo guardò, gli rivolse uno stiracchiato sorriso, ma non rispose.

“Oppure state davvero prendendo in considerazione la mia proposta?”, aggiunse lui, beffardo.

“Stavo semplicemente facendo conversazione, Milord” rispose lei, con tono falsamente annoiato.

In realtà l’avrebbe schiaffeggiato volentieri.

Lui riconobbe il lampo d’ira nei suoi occhi e si divertì a prenderla in giro:

“Devo porgere l’altra guancia?” disse ironico, coprendosi con la mano la zona di volto che lei aveva già colpito una volta.

“Ne sarei felicissima…” rispose Lady Sarah, ancora più infastidita perché lui le aveva letto nel pensiero.

“Immagino quanto”, aggiunse Nicholas Thornton, col medesimo tono ironico.

Poi, cambiando improvvisamente discorso, tornò a farla parlare di cavalli.

“Vi piace davvero il mio animale?”

Lei si sentì spiazzata e per un attimo non seppe più come comportarsi; quindi decise che era stufa di sentirsi nervosa in sua presenza e optò per godersi la passeggiata e la conversazione. Se fossero rimasti su argomenti neutri, avrebbe potuto anche essere piacevole.

“E’ uno splendido animale. E’ un Arabo, vero?” domandò, genuinamente interessata.

“Sì, è un morello arabo…”

“E tra i più rari e apprezzati” aggiunse lei, accennando ai garretti bianchi dell’animale.

“Ve ne intendete di cavalli, Milady!” constatò, piacevolmente sorpreso, Lord Thornton.

“Mio padre…” disse semplicemente, come se quel riferimento fosse sufficiente a spiegare tutto.

E a quanto pare lo fu: Nicholas Thornton la trascinò per più di un’ora, mentre lentamente passeggiavano nel parco, in una piacevole conversazione come non ne faceva da tempo… Da più di un anno, si rese conto.

Da quando aveva lasciato André.

 

 

 

Grosvenor Hotel, camera 512
Londra

Aprile 2005

Mac entrò nella stanza preceduta dal fattorino dell’albergo che posò le valigie al centro della stanza.

“Desidera altro ma’am?” domandò.

“No, grazie” rispose Mac porgendogli  la mancia.

Il fattorino ringraziò ed uscì.

Si sedette sul letto e a tutta prima non notò il mazzo di rose rosse poggiato quasi distrattamente sullo scrittoio di fronte alla finestra che dava su Grosvenor Square. Mise in carica il cellulare e non appena lo accese vide la chiamata di Clay e subito lo richiamò.

“Ciao tesoro” lo salutò affettuosamente.

“Che è successo Sarah? Ho cercato di chiamarti ma avevi il cellulare spento. Hai avuto problemi?” domandò preoccupato lui.

“Nessun problema. Mi si è scaricata la batteria mentre ero a pranzo a casa di Harm. È venuto a prendermi di persona all’aeroporto. Molto gentile da parte sua” rispose con semplicità Mac.

Sì, gentile come un serpente a sonagli, pensò Webb ma tenne per sé la considerazione.

“… e così ho conosciuto la sua fidanzata” stava dicendo Sarah.

La mente di Clay registrò solo di sfuggita la notizia, ma due minuti dopo se ne ricordò: “Mi stai dicendo che Rabb si è fidanzato?” esclamò incredulo quando comprese appieno la portata della notizia.

Mac scoppiò a ridere: “Già, da non credere vero? Belinda è adorabile e sono molto innamorati.”.

“Questa sì che è una bella notizia” disse lui, ma Mac non colse il significato recondito di quella frase apparentemente innocente.

Continuarono a parlare del più e del meno e si salutarono.

Solo quando ebbe chiuso con il fidanzato, Mac si accorse del mazzo di fiori.

Si alzò dal letto e lo prese in mano assaporandone l’aroma. Poi vide una minuscola scatola posta proprio al centro del mazzo. La prese e l’aprì: dentro c’erano due meravigliosi orecchini in diamanti montati in oro bianco. Aprì anche il biglietto: “Così puoi fare pendant con l’anello” c’era scritto nella chiara calligrafia di Clay.

Estasiata da quel dono, lo richiamò immediatamente e quando sentì che la comunicazione veniva aperta dall’altra parte esclamò: “Se non avessi già accettato di sposarti ti sposerei subito!”.

Webb rise: “Hai trovato le rose.”.

“Sì e anche quello che era dentro le rose”, rispose Sarah quasi sull’orlo della commozione. “Sono stupendi Clay, ma tu mi vizi troppo.”

“Adoro viziarti e lo sai” rispose

“Ti amo.”

“Anche io e ora riposati, sarai stanca.”

“Agli ordini signore!”

Chiuse la conversazione e si distese su letto con la scatoletta fra le mani e un’espressione estasiata dipinta sul volto: la vita era meravigliosamente bella!

 

Giardini di Hyde Park
Londra

Aprile 1858

“Posso avervi come mia ospite a teatro, domani sera?”

La passeggiata stava volgendo al termine e Nicholas era riluttante a lasciarla andare. Per circa un’ora avevano chiacchierato piacevolmente di cavalli, ma non solo, ed egli aveva scoperto un altro lato di Lady Sarah che lo affascinava: anche lei, come lui, amava la propria terra ed era profondamente attaccata alla dimora di famiglia, al punto da sacrificare moltissimo per mantenerla di proprietà dei Montagu.

“Che intenzioni avete, Milord?” chiese Lady Sarah, “Non crederete che una conversazione sui cavalli, per altro piacevole, mi abbia addolcito al punto da farmi cambiare idea su di voi e sulla vostra proposta?”

Il tono con cui parlò, tuttavia, era più amichevole di quanto non fosse mai stato e strappò un accenno di sorriso alle labbra di Nicholas Thornton.

“Oh, non speravo tanto! Ma confidavo che potesse farlo un invito a teatro…” rispose lui, prendendola in giro. “Ci sarà Romeo e Giulietta. Vi piace?” chiese poi.

“Mhmm… un amore tormentato e impossibile… un po’ come l’Amore in genere…”

“Non sempre è così, Milady. Spesso l’amore è fonte di gioia e di piacere.”.

Lei non rispose, tuttavia lui vide passare nei suoi begli occhi un’ombra di tristezza e di rimpianto.

“Perché avete avuto una brutta esperienza questo non significa che l’amore non possa regalarvi, un giorno, gioia e piacere…” la stuzzicò lui. Ma subito se ne pentì, quando la vide rivolgergli uno sguardo assassino.

“Non ho avuto una brutta esperienza” disse secca.

“Un uomo deve avervi fatto soffrire molto… l’uomo che ancora amate…”

“Non fu lui a farmi soffrire… fui io a fargli del male…” mormorò lei, quasi tra sé.

Poi, accortasi di aver detto più di quanto volesse, cambiò argomento, riprendendo un tono volutamente mondano:

“E poi devo pensare alla mia reputazione: cosa direbbero in società se venissi a teatro, sola, con voi?”

“Mio zio vi farà da chaperon, se è questo ciò che temete” disse rapido lui.

“Vostro zio? Intendete Sua Grazia il Duca di Lyndham? Non credete che sia un po’ troppo avventato presentarmi a vostro zio?” chiese Lady Sarah, prendendolo in giro.

Ma Nicholas Thornton era serio:

“E’ mio zio che desidera incontrarvi. Sua Grazia ha espresso il desiderio di conoscere l’unica donna che sia riuscita a schiaffeggiarmi, quando neanche mia madre vi è mai stata capace!”

“Troppo buona, vostra madre!” rispose lei, divertita. Poi chiese: “Vostro zio davvero sa che vi ho schiaffeggiato? Glielo avete detto voi?”

“Non ce n’è stato bisogno…”

“Capisco. Non è un gran biglietto di presentazione, per conoscere personalmente un duca!” considerò Lady Sarah.

“Al contrario! Mio zio, vi assicuro, vi adora di già per questo!” rispose lui.

Una risata argentina salì spontanea alle labbra di Lady Sarah Jane Montagu:

“Credo che vostro zio mi piacerà moltissimo, Lord Thornton!”

Mai quanto voi piacete a me, Lady Sarah, aggiunse lui, nella sua mente, osservandola incantato.

 

 

 

 


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Capitolo 7
*** Incrinature ***



Capitolo VII

Incrinature



Uffici del comando delle Forze Navali Americane
Grosvenor Square, Londra

Aprile 2005

L’appuntamento per la prima riunione della task force era fissata alle 8.00 e Mac giunse, come sempre, puntualissima ed impeccabile.

Si presentò all’entrata del Comando e chiese all’ufficiale di guardia indicazioni per raggiungere il luogo del convegno. L’uomo la scortò fino al secondo piano del palazzo e la introdusse in un ambiente che, per molti versi, somigliava alla sala riunioni del JAG a Washington.

La sala riunioni del JAG… le ricordava quel bacio dato così impulsivamente al suo ex collega. Aveva provato delle sensazioni bellissime posando le sue labbra sulle sue, intrecciando la propria lingua alla sua, assaporando la mano di lui sulla nuca che l’avvicinava e la stringeva ancor di più. Scacciò dalla mente questi pensieri. Ormai era acqua passata: le loro strade si erano divise per sempre ed era giusto che fosse così.

Girellò per l’ampio salone curiosando fra le raccolte di giurisprudenza, i codici, i testi e le riviste.

“Ti stai ambientando”, risuonò alle sue spalle la voce profonda di Harm.

Mac trasalì e si voltò: “Sei diventato puntuale o gli inglesi ti hanno fatto cambiare abitudini a forza di riempirti le stanze di orologi?”, lo prese giro per nascondere il proprio disagio.

“Un po’ dell’uno e un po’ dell’altro” rispose lui allontanandosi e sedendo ad un capo del grande tavolo in noce.

Fuori, la grigia e piovosa mattinata non metteva di buonumore, ma Mac era insolitamente piena di energia e voglia di fare, proprio lei di norma meteoropatica. Imputò questo suo stato d’animo alle parole di incoraggiamento di Clay della sera prima, e non certo al fatto che lei e Harm erano tornati a fare squadra.

Si sedette.

“Quando arriverà il resto della task force?”

“Tra un’ora.”

Mac lo guardò in tralice: “E perché mi hai fatta venire alle 8.00 se la riunione era alle 9.00?” chiese truce. Non le piacevano questo genere di giochini e voleva che Harm avesse ben chiaro il concetto. Il tempo dei giochi fra di loro era finito.

“Perché prima volevo discutere con te i dettagli del caso e sentire la tua opinione” le rispose aprendo il faldone dove erano custodite le carte. “Se dobbiamo gestire insieme il comando è opportuno che la pensiamo alla stessa maniera circa il modo di condurre le indagini. Se non c’è armonia fra di noi tutto ne risente senza elencare le conseguenze politiche.”

“Harm il saggio” replicò asciutta Mac, “ma cosa credi?” proseguì poi infervorandosi, “Che sia venuta qui per gestire questo caso con leggerezza? Che non ne conosca i risvolti politici e le implicazioni nelle relazioni fra Stati Uniti e Inghilterra?” lo guardò accigliata.

“Non ti sto dicendo questo Mac, ma la situazione è più delicata di quanto pensi. Abbiamo già un precedente con gli italiani e sai come è andata a finire, per poco non si rompevano le relazioni diplomatiche. Il Presidente non vuole che accada la medesima cosa. Tutto qui. Il fatto è che questa, più che un’indagine militare, ha il sapore di un’azione politica.”

“Oh certo Capitano e tu sei un autentico animale politico.”

“Anche tu lo sei” rispose piccato Harm punto sul vivo. “Webb è una buona scuola. Scommetto che ti ha insegnato un sacco di giochetti.”

Mac lo fulminò con un’occhiata inceneritrice: “Non ti permettere Rabb. Intesi?” lo ammonì gelida. “La mia vita privata non ti riguarda più, se mai ti abbia riguardato in passato” soggiunse.

E la temperatura nella grande sala scese di parecchi gradi.

“Passami il fascicolo e concentriamoci sul lavoro” disse piatta e incolore.

Lui fece quanto chiesto, pentendosi dell’uscita infelice, ma non scusandosene. Ma cosa gli aveva preso? Aveva deciso che la vita di Mac non lo riguardava più, e allora perché continuava a tormentarla, e a tormentare se stesso, con quelle idiozie? La notte scorsa aveva dormito male, inseguito dagli incubi di lei che si sposava con Webb, l’immagine dell’anello al suo dito, il viso di lei perso di felicità… una nottataccia. E al mattino aveva quasi litigato con Belinda.

La guardò di sottecchi mentre leggeva le carte che le aveva appena passato. Era ancor più bella di quando l’aveva lasciata.

L’amore fa miracoli, pensò, ma sarei dovuto essere io l’artefice di questo cambiamento.

Tornò a concentrarsi sul caso eliminando dalla sua mente qualunque altro pensiero estraneo. Sarebbe stato difficile, ma avrebbe superato tutto e una volta che Mac fosse ripartita per gli States non si sarebbero mai più rivisiti e la tranquillità sarebbe tornata. E allora perché al solo pensiero gli si stringeva lo stomaco?

Un attimo dopo il Tenente Cunningham entrò nella sala scortando due ufficiali inglesi.

“Il Capitano Lockeed e il Comandante Seymour” annunciò.

Harm si alzò e accolse i due uomini.

“Benvenuti” disse. “Accomodatevi. Questa è il Colonnello dei Marines Sarah Mackenzie, l’altro membro della task force.”

Mac si alzò e strinse la mano ai due.

Lockeed, un biondo sui quarant’anni allampanato e magrissimo, prese la parola per primo, mentre Seymour, che sembrava il fratello gemello di Jean Claude Van Damme, estraeva dalla valigetta alcuni documenti.

“Abbiamo visionato tutti i rapporti e le testimonianze delle persone che erano a bordo della jeep” esordì con voce nasale Lockeed, le vocali arrotondate come se avesse frequentato Oxford fino al giorno prima. “Tutti sostengono di non aver visto il check point e di non sapere che in quella zona ve ne fosse uno.”

“Sulle mappe però era segnato. E come mai le forze armate americane non sapevano dell’operazione in corso?” chiese Mac.

“Perché era così che doveva essere” rispose laconico e atono Seymour.

“Non è una risposta” replicò Mac. “Il comando delle operazioni in Iraq è affidato agli Stati Uniti che devono essere pertanto messi al corrente di ogni cosa che accade sul suolo iracheno.”

Mac e Seymour si fissavano con aria per nulla cordiale, la prima perché non sopportava le non-risposte, il secondo per semplice antipatia. Da generazioni, la sua famiglia mandava almeno un figlio in Marina e da generazioni erano sostenitori che le donne non dovessero stare nell’esercito. Ed ora era costretto a lavorare con una donna più alta in grado di lui! Insopportabile.

La fissò con astio: troppo bella per essere anche intelligente e capace, e troppo arrogante e saccente per riuscirgli gradita. Nella concezione del Comandante della Royal Navy Lancaster Seymour, le donne dovevano limitarsi a sposarsi, restare a casa e sfornare figli.

“Andiamo Signori” intervenne Harm a fare da paciere. “Siamo qui con il medesimo scopo e non è il caso di partire con il piede sbagliato. Dobbiamo giocare a carte scoperte se vogliamo arrivare in fondo a questa spiacevole vicenda” proseguì fissando Seymour.

“Ve lo chiedo ancora: perché non siamo stati informati della presenza di soldati inglesi dei reparti speciali della Marina nell’area di Nassirya? E perché il Comando delle Forze Alleate non sapeva dell’esistenza di un ostaggio inglese e dell’operazione di liberazione?”

Seymour e Lockeed si guardarono per un attimo.

“L’ostaggio era un giornalista del ‘Times’ che stava seguendo un’indagine circa una possibile presenza di Al Qaida in Iraq” rispose alla fine Lockeed.

“Ma che Al Qaida sia presente in Iraq è risaputo!” sbottò Mac. “Al Zarqawi ne è uno dei capi.”

“No, Colonnello” intervenne Seymour con supponenza. “Herriott, il giornalista, stava cercando di dimostrare che Bin Laden in persona si trova in Iraq e non in Afghanistan dove avete sempre creduto si trovasse” concluse condiscendente.

Gli occhi di Mac mandavano lampi in direzione del Comandante, non sopportava quella tracotanza e quell’aria da compatimento che assumeva quando parlava con lei. Mantenendo a stento la calma e la voglia di rompergli il naso con un colpo ben assestato, mise le cose in chiaro: “Qualcosa nella mia persona la disturba Comandante? Ha difficoltà a relazionarsi con una donna superiore a lei nella scala gerarchica? Se c’è qualcosa che la irrita, Comandante Seymour, me lo dica qui e subito”.

Harm guardava ora l’uno ora l’altro dei due ufficiali. Mac era scesa sul sentiero di guerra e lui adorava vederla così. Era una combattente, che non si lasciava sopraffare dalle difficoltà o dagli ufficiali presuntuosi. Ora capiva cosa l’aveva attirato in lei e cosa tutt’ora lo faceva stare male al pensiero di non poterla più considerare almeno come amica. Rimpiangeva i tempi in cui Mac gli riservava lo stesso trattamento, quando la loro amicizia era salda e non c’erano muri di incomprensione dividerli, né un fidanzato e una convivente a rendere le cose ancor più complicate.

Sperava ardentemente che quel passato potesse tornare, anche se lui si era sistemato con Belinda e lei con Webb. Cosa avrebbe potuto impedire loro di tornare amici?

Riportò l’attenzione sulla battaglia che si stava svolgendo in quel momento: Mac guardava Seymour, che ricambiava lo sguardo, in attesa di una risposta, mentre il Capitano Lockeed sembrava in imbarazzo.

“Non ho nulla nei suoi confronti Colonnello” rispose alla fine l’inglese.

“Ne sono lieta. Le consiglio pertanto di assumere un tono più urbano quando si rivolge a me” concluse Mac secca.

Harm ripetè la domanda: “Come mai non avete ritenuto opportuno segnalare la missione?”.

“Perché l’incarico di Herriott era in parte giornalistico e in parte militare, con un finanziamento dell’MI5” rispose Lockeed questa volta. “Non si voleva che la notizia fosse diffusa.”

“Però i rapitori l’hanno saputo che Herriott era a Nassirya in cerca di Bin Laden.”

“Sì e non sappiamo come abbiano potuto avere le informazioni” rispose desolato Lockeed.

Harm e Mac si scambiarono uno sguardo fuggevole ma carico di significati.

“Abbiamo chiarito un punto” disse poi lei. “Adesso dobbiamo capire perché il vostro convoglio ha ignorato l’alt del check point, peraltro segnalato sulle mappe.”

“Quella che avevano loro non riportava la presenza del check point” disse Lockeed.

“Ma dove l’hanno presa?”

“Gli è stata fornita dal Comando.”

Si guardarono perplessi: era notorio che le mappe in uso alle Forze Armate erano identiche per tutti.

“Dobbiamo acquisirla” disse Harm

“E’ andata distrutta nel conflitto a fuoco” rispose Seymour.

“Allora interrogheremo il furiere che si è occupato dell’equipaggiamento della spedizione. Da dove è partita?”

“Baghdad.”

“Mi hai letto nel pensiero Marine” le disse Harm.

“Non lo faccio sempre?” rispose Mac con un sorrisino ironico.

La riunione proseguì per tutta la mattinata e parte del pomeriggio, e durante quelle ore vennero suddivisi i compiti: i due americani avrebbero interrogato i compatrioti, mentre Lockeed e Seymour si sarebbero incaricati di raccogliere le testimonianze dei soldati inglesi.

Il giornalista, Jonathan Ascot Herriott, l’avrebbero sentito insieme.

Discussero molto circa l’acquisizione delle prove materiali (cartine, bossoli, la macchina, i rilievi della Polizia Militare) e alla fine convennero che sarebbe stato meglio acquisire tutto e conservarlo in un luogo sicuro, per evitare l’inquinamento delle prove.

Quando terminarono, Mac era esausta. Tutto quello che desiderava era una doccia calda e un letto dove potersi riposare.

Salutò Harm e prese un taxi in direzione dell’albergo.

Non appena giunta nella hall venne fermata dal concierge che le porse un elegante busta color avorio di pregiata fattura.

Mac l’aprì, convinta di trovarvi dentro un’ennesima sorpresa di Clay, ma quale fu la sua di sorpresa quando lesse il cartoncino, vergato a mano in elegante calligrafia vittoriana: il Premier inglese e la moglie avrebbero avuto l’onore della sua presenza quella sera al 10 di Downing Street per una cena informale?

“E adesso dove lo trovo un abito da sera?!” chiese allarmata Mac ad uno stupito concierge.

 

 

 

Brook Street
Londra

Aprile 1858 

 

La rappresentazione teatrale era stata superba e la compagnia di Sua Grazia, il Duca di Lyndham, piacevole e divertente. L’anziano gentiluomo non assomigliava affatto a Lord Thornton, sempre così sarcastico e arrogante, a volte anche ombroso, come quella sera. Andrew Nicholas Thornton aveva in comune con il nipote solo parte del nome.

Per tutta la serata, Lord Thornton era stato sulle sue, parlando poco e solo se interpellato, tanto che anche il prozio si era lamentato del suo comportamento.

Lady Sarah non riusciva a capire come mai l’avesse invitata, per poi non rivolgerle quasi la parola. Si era accorta, tuttavia, che non l’aveva lasciata un attimo con lo sguardo: più volte, mentre chiacchierava amabilmente con l’anziano Duca, prima dell’inizio dello spettacolo o durante l’intervallo, aveva colto su di sé il suo occhio sano che la scrutava, quasi volesse leggerle dentro.

Non si era mai sentita tanto a disagio con lui come quella sera.

Al punto che, all’uscita da teatro, costatando che il Duca e Lord Thornton erano arrivati con due carrozze differenti, aveva suggerito che non era necessario che Lord Thornton la riaccompagnasse, sarebbe stato sufficiente che le prestassero una delle due carrozze.

A quel tentativo d’indipendenza, Nicholas rispose secco e deciso:

“Non se ne parla nemmeno”, suscitando anche un rimprovero da parte di suo zio.

“Nick, ragazzo mio, non è così che si risponde ad una signora!”

“Scusatemi, Milady…” bofonchiò lui, solo perché evidentemente costretto dal commento dell’anziano gentiluomo, facendole così desiderare maggiormente di poter rincasare sola.

Ma entrambi i suoi accompagnatori non avevano voluto sentire ragione e ora lei si trovava in carrozza in compagnia del silenzioso e scorbutico futuro Duca di Lyndham.

Fortunatamente siamo arrivati, ringraziò mentalmente Lady Sarah quando sentì la carrozza accostare, poiché non reggeva più l’atmosfera.

Fece per salutare il suo cavaliere e scendere, senza neppure attendere che egli la precedesse per accompagnarla, quando la mano di Nicholas Thornton la bloccò, trattenendola per la vita.

“Aspettate…” ordinò con voce imperiosa, intensificando la stretta del braccio. Alla debole luce di un lampione poco distante, il viso dell’uomo era contratto in un’espressione intensa, quasi sofferente.

Sorpresa da quel gesto e da quello sguardo, non trovò neppure la forza di ribellarsi quando sentì le sue labbra posarsi su di lei.

Nicholas l’aveva desiderata talmente tanto per tutta la sera, che non era neppure riuscito a godersi lo spettacolo e la sua compagnia: non aveva fatto altro che immaginare di poterle baciare la pelle vellutata del decolleté, che l’ampia scollatura dell’abito, di un delicato rosa antico, mostrava generosamente. Portava i capelli raccolti da un lato e lasciati ricadere in morbide onde dal lato opposto, in un’acconciatura che la rendeva dolce e al tempo stesso misteriosa.

Stregato dalla sua pelle che risplendeva al chiarore della luna, si era chinato verso di lei, posando le labbra sulla curva delicata del collo per poi lasciarle lentamente scivolare verso le spalle, arrischiandosi ad andare oltre, fino a sfiorare rapidamente l’attaccatura del seno, e tornare infine ad esplorare la pelle sensibile della gola…

Sapeva perfettamente che assaporare la dolcezza del suo corpo e la fragranza del suo profumo lo avrebbe eccitato maggiormente, ottenendo solo di sentirsi più insoddisfatto di prima, ma non era riuscito a farne a meno.

“Questo colore vi sta d’incanto…” le sussurrò roco all’orecchio, prima di dirigere le labbra verso la sua bocca, una mano che le accarezzava la schiena e l’altra che si infilava sensuale tra i suoi capelli.

Voleva baciarla. Desiderava assaporare le sue labbra, che in quel momento avevano la stessa delicata sfumatura rosa dell’abito che indossava.

Voleva baciarla ma non solo… ciò che in quel preciso istante avrebbe desiderato davvero fare era spogliarla lentamente e soddisfarsi di lei, fino a non poterne più… anche se temeva che neppure dopo anni si sarebbe saziato a sufficienza di quella donna.

Lady Sarah era rimasta talmente sconvolta dalle emozioni che il tocco dell’uomo al suo fianco le stava facendo provare, che lo aveva lasciato fare, permettendogli una confidenza che andava fin troppo oltre i suoi reali desideri.

O, almeno, così credeva prima… prima di sentire un brivido di eccitazione raggiungerle il ventre, mentre il volto di Nicholas Thornton affondava nella sua scollatura e lei si trovava intrappolata nella morsa d’acciaio delle sue braccia.

La barba le solleticava la pelle e le labbra gliela incendiavano… nell’attimo in cui lo sentì risalire verso la sua bocca, decise di fermarlo, per timore di scoprire di desiderare ardentemente quel bacio.

“State pretendendo un anticipo sul vostro compenso?” domando con voce fredda.

Lui si bloccò immediatamente, il respiro leggermente affannato.

“Cosa intendete?” chiese aspro, frustrato per essere stato fermato nel momento in cui stava per impossessarsi delle sue labbra. Il desiderio intenso lo aveva già spinto oltre con l’immaginazione, facendolo fantasticare su una sua risposta appassionata… se lei avesse ricambiato il bacio come aveva sperato, nulla l’avrebbe fatto desistere dal farle desiderare quel piacere che tanto voleva farle provare, sollevandole l’abito per accarezzarla ove da tempo sognava di far scorrere le mani.

“Oh, niente… solo che mi era parso di capire che mi avreste aiutato in cambio di qualcosa…” rispose Lady Sarah, con un controllo ben lungi da ciò che realmente stava provando. Era spaventata da quanto la condotta disdicevole di quell’uomo arrogante e odioso aveva sconvolto i suoi sensi: si era scoperta a desiderare di essere baciata con passione, di essere nuovamente toccata e amata da un uomo…

“Non ho mai detto questo” replicò lui, furioso.

“No? E la proposta di matrimonio, allora, non era compresa nel prezzo che avrei dovuto pagare per il vostro aiuto?”

Lui non rispose e lei continuò, sprezzante:

“Caro Lord Thornton, potete riporre nell’armadio la vostra armatura da cavalier servente. Il vostro piano e la vostra nobile e disinteressata proposta d’aiuto non mi servono più…” Aveva volutamente forzato, con tono sarcastico, le parole nobile e disinteressata e, quando vide un lampo d’ira attraversargli l’occhio sano, sorrise soddisfatta: era come tutti gli altri, da lei voleva solo una cosa.

“Non vi servono più?” domandò lui, quasi incredulo.

“No. Proprio stamani ho ricevuto una proposta migliore della vostra” gli disse provocante.

“Che genere di proposta?” chiese, prendendola per le spalle, visibilmente arrabbiato.

“Oh, nulla che vi debba interessare…” rispose leggera lei, dandogli un’occhiataccia per come la stava nuovamente importunando. Lui si rese conto di quello che stava facendo e, riluttante, la lasciò andare, facendo tuttavia scivolare lentamente le mani lungo le sue braccia, in una carezza quasi sfacciata.

“L’aiuto disinteressato di un altro gentiluomo, magari più ricco del sottoscritto?” insinuò, volutamente cattivo.

“Il denaro o un titolo nobiliare non mi sono mai interessati.”

“Neppure se non riusciste ad incastrare Hewitt e la vostra famiglia perdesse tutto?”

“Non accadrà. Ma se anche dovesse accadere, non mi venderei mai, come invece fece mio padre, per riscattare il mio tenore di vita. Lo dimostra il fatto che l’uomo di cui sono innamorata era un conte e desiderava sposarmi…”

Lui non replicò e lei lo vide deglutire, come costretto dalle sue parole, pur contro la propria volontà, a rimangiarsi tutto quello che le aveva detto di fronte all’evidenza di quel fatto.

“Ad ogni modo, non che vi debba interessare, ma la proposta d’aiuto che ho ricevuto è migliore della vostra per un unico motivo: pretende in cambio solo del denaro, cosa che sono più che disposta a sborsare, per incastrare il truffatore che ha rovinato la mia famiglia…” gli disse, mentre scendeva dalla carrozza compiaciuta di se stessa per averlo lasciato lì, furibondo nel vedere il proprio piano fallire e frustrato di desiderio insoddisfatto.

 

 

 



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Capitolo 8
*** Un Incontro ***


Capitolo VIII

Un Incontro



 

 

Residenza del Duca di Lyndham
Hyde Park, Londra

Aprile 1858 

 

Lo aveva sentito rincasare prima di quanto avrebbe immaginato. Dal rumore della porta sbattuta e dalla rapidità con cui era rientrato, aveva intuito che le cose non erano andate come sperava.

Per tutta la sera l’aveva osservato struggersi per lei. Lo conosceva bene, ormai, e sapeva che quello sguardo celava il profondo desiderio che il suo ragazzo nutriva per quella giovane donna.

Poteva capirlo: Lady Sarah Jane Montagu si era rivelata una piacevole e deliziosa sorpresa.

Le voci che erano girate a suo tempo su di lei, che l’avevano definita dapprima una mocciosa viziata e troppo ribelle per sottomettersi al volere del padre e poi un’avventuriera senza scrupoli, non le rendevano affatto giustizia. Ora che conosceva la storia in ogni suo dettaglio, dopo che Nick gliel’aveva raccontata, e, soprattutto, ora che l’aveva conosciuta di persona, l’anziano Duca di Lyndham poteva benissimo comprendere l’infatuazione che il nipote nutriva per la bellissima nobildonna.

“Infatuazione…”

Sua Grazia sorrise, divertito: se Nick lo avesse sentito definire a tal modo quello che provava per Lady Sarah, probabilmente lo avrebbe sfidato a duello!

Il ragazzo era davvero innamorato. Mai, prima di allora, lo aveva visto così coinvolto da una donna.

Nonostante Nicholas non abitasse in Inghilterra, tuttavia aveva compiuto gli studi più importanti ad Oxford su espresso desiderio di Sua Grazia, affinché potesse assimilare al meglio il suo quarto di sangue inglese e potesse essere, un giorno, suo degno erede tanto quanto lo sarebbe stato del titolo paterno.

Pensò con affetto al giovane fanciullo che aveva conosciuto ormai quasi vent’anni prima: quando lo aveva veduto per la prima volta parlava a stento l’inglese e preferiva cavalcare libero per i boschi e i campi che circondavano la residenza di famiglia; un ragazzo magro con gambe già allora lunghissime e occhi chiari, intensi, che mutavano colore all’improvviso e che spiccavano in un volto scarno, incorniciato da capelli scuri e ribelli. A quei tempi era più ossa che altro, ma già allora si poteva intuire l’uomo forte e vigoroso che un giorno sarebbe diventato.

Gli era stato presentato come il Duca, il prozio di cui lui sarebbe stato l’unico erede.

L’intelligenza vivace e il senso dell’umorismo del ragazzo lo avevano colpito fin dal primo momento, quando, divertito, aveva replicato al padre: “Non è troppo, per un solo ragazzo?”, riferendosi al fatto che, alla morte del prozio inglese e a quella del proprio genitore, egli avrebbe ereditato ben due titoli nobiliari.

Da quel primo incontro l’aveva rivisto soltanto tre anni dopo quando, terminate le scuole di base, era giunto in Inghilterra per compiere gli studi che avrebbero fatto di lui anche un perfetto Lord inglese.

Negli anni successivi, mentre studiava ad Oxford, Nicholas tornava in patria solo per le vacanze, ma ogni domenica la trascorreva con il suo prozio, per imparare a conoscerlo.

Andrew Thornton, abituato da anni a vivere solo, aveva temuto che il nipote avrebbe portato scompiglio nella sua ordinata vita da scapolo, e così era stato. Eppure l’anziano Duca non avrebbe scambiato quei momenti per nulla al mondo.

Quel giovane era stata la gioia della sua vecchiaia: lo aveva visto a poco a poco trasformarsi da un imberbe fanciullo in un ragazzo studioso e di modi eleganti, pur non affettati o effeminati, come capitava a molti rampolli di nobile famiglia. Oltre allo studio si era appassionato al teatro e a sport di vario genere, tra i quali la scherma e l’equitazione, fino a diventare l’uomo muscoloso e aitante, di una bellezza quasi irreale, soprattutto perché accompagnata da modi ineccepibili e da un’intelligenza acuta e vivace.

Per anni aveva visto donne di ogni età e di qualunque estrazione sociale, restare affascinate da quel giovane uomo forte e gentile, che le lusingava, le corteggiava, ma che restava sempre distaccato, senza mai farsi coinvolgere.

Sua Grazia sperava, un giorno, di vedere il ragazzo innamorato e poi felicemente sposato, con una fanciulla di ottima famiglia che gli avrebbe dato degli eredi ai quali tramandare il titolo e le proprietà. Sapeva che lo stesso desiderio lo avevano i suoi genitori, ma Nick, fino a quel momento, aveva deluso le aspettative di tutti.

Terminati gli studi, cinque anni prima egli era tornato a casa, con sommo dispiacere dell’anziano zio che aveva in mente di presentarlo in società; Nicholas invece aveva preferito arruolarsi per servire la sua patria, e non aveva voluto sentire ragioni: gli aveva detto che tutto ciò che doveva sapere per succedergli come Duca ormai lo conosceva e aveva intenzione di fare altro, in attesa della sua morte! Del resto, aveva sottolineato abbracciandolo con affetto prima di partire, il suo adorato prozio sarebbe vissuto ancora a lungo e lui non aveva intenzione di invecchiare senza fare nulla nell’attesa.

Poi, all’improvviso, nell’autunno precedente, era ricomparso, notevolmente cambiato, deciso a mettere in atto un suo piano e con una storia incredibile alle spalle. Aveva chiesto il suo aiuto, spiegandogli tutto quanto ed egli non era stato capace di dirgli di no.

Dopo aver conosciuto Lady Sarah, era ancora più contento di aver acconsentito ad aiutarlo.

La sera prima doveva essere accaduto davvero qualcosa di poco piacevole, per ridurlo in quello stato…

Guardò con affetto il nipote che dormiva sul divano, dove probabilmente si era steso dopo aver bevuto del cognac e aver fumato più di un sigaro: la giacca era buttata sulla spalliera di una sedia, le scarpe giacevano a terra, lontano l’una dall’altra, e il bicchiere vuoto era ancora stretto tra le sue dita.

 

 

 


Sala Interrogatori - Comando delle Forze Navali Americane
Grosvenor Square, Londra

Aprile 2005

Il giorno dopo la cena dal Primo Ministro, cui aveva partecipato anche Harm, si ritrovarono in un locale angusto per interrogare il Marine che aveva aperto il fuoco contro il convoglio inglese.

Harm e Mac si sedettero di fronte al prigioniero, un ragazzone grande e grosso che avrà avuto sì e no vent’anni, mandato in prima linea senza sapere il motivo della sua missione e con l’ordine di sparare a chiunque non si fosse fermato all’alt.

Quasi si fossero accordati prima, fu Mac a condurre l’interrogatorio, mentre Harm si limitò a prendere appunti, intervenendo di tanto in tanto.

“Caporale” esordì Mac con tono pacato e conciliante, “lei sa perché è rinchiuso in carcere?”

“ No Signora” rispose il ragazzo con pesante accento del Mississippi. “Ho solo obbedito ad un ordine.”

Mac scosse impercettibilmente il capo, ma continuò nelle domande preliminari: “Lei conosce le accuse che le sono state mosse?”.

“No Signora.”

La donna guardò il collega che le fece cenno di proseguire egualmente.

“Mi racconti la sua versione dei fatti.”

“Erano circa le 00.30” cominciò il Caporale, “e la strada che conduce all’aeroporto di Baghdad era semideserta, non avevamo fatto molti controlli, per lo più si trattava di iracheni che andavano per una qualche ragione all’aeroporto o nei dintorni. Tutti però sapevano della nostra presenza, infatti si fermavano non appena vedevano la camionetta appostata.”

“Era giorno, Caporale. Mi sembra ovvio che si fermassero. Vi vedevano” osservò Harm facendo la parte dell’avvocato del diavolo.

“Anche quando è calata la notte rallentavano prima di fermarsi del tutto, Signore. C’erano degli avvisi lungo la strada e la presenza del check point era segnalata” replicò il Caporale.

“Prosegua” lo invitò Mac.

“Ormai la strada era deserta, non passava più nessuno da un bel pezzo e noi… sì insomma, ci siamo rilassati un po’. Tutta quella tensione dopo un po’ fa saltare i nervi. Dobbiamo controllare da cima a fondo ogni veicolo che passa, perquisire sotto le ruote e anche gli occupanti. Donne e bambini compresi. Ogni volta che si avvicina anche solo una moto dobbiamo aspettarci che trasporti un terrorista imbottito di dinamite o tritolo” stava divagando.

“Si attenga ai fatti” lo ammonì gentilmente Mac.

“Certo Signora, scusi Signora.”

“Un ‘Signora’ è più che sufficiente Caporale” sorrise benevola. “Continui.”

“Insomma, ci stavamo rilassando un po’ e ad un tratto il Sergente Thomasson ha sentito un forte rombo che preveniva dal fondo della strada.”

“Che tipo di rombo?” chiese Mac.

“Come se una macchina fosse smarmittata. Ci siamo portati sulla strada e meno di un minuto dopo la jeep è piombata su di noi a tutta velocità. Viaggiava senza fari e sembrava in tutto e per tutto uno di quegli scassoni che usano gli iracheni. Abbiamo urlato al conducente di fermarsi, ma quello continuava ad andare avanti fino a che ci ha superati. Solo allora il Sergente ha dato l’ordine di sparare un colpo di avvertimento e poi di fare fuoco contro il mezzo.”

“Avete obbedito agli ordini?”

“Sì Signora.”

“In questo esatto ordine?” volle sapere Harm.

“Sì Signore in questo esatto ordine.”

“Chi ha fatto fuoco?”

“Io e il Caporale Tennison.”

“Per il momento può bastare Caporale, se avremo bisogno di altri dettagli le faremo altre domande” concluse Mac.

Harm si alzò e richiamò il secondino che aprì la porta e scortò il prigioniero fuori dalla sala, fino alle celle di detenzione del carcere militare poco lontano.

“Che ne pensi?” chiede Mac.

“Che quel ragazzo non sa nemmeno dove sia. Ha solo obbedito ad un ordine” le rispose Harm. “Dobbiamo saperne di più dagli inglesi e interrogare il Sergente Thomasson. Dove è?”

“Ristretto in carcere.”

Chiamarono la guardia e chiesero che fosse condotto loro il Sergente dei marines degli Stati Uniti Andreas Thomasson.

Lo interrogarono e le dichiarazioni che questi rilasciò si rivelano perfettamente in linea con quelle rilasciate dal Caporale Shriver.

Uscirono dal Palazzo che era ora di pranzo e Harm la invitò a mangiare qualcosa con lui.

“Ma di solito non pranzi con Belinda?” domandò Mac.

“Oggi ha da fare, comunque lo sa che ti avrei chiesto di pranzare con me” si premurò di precisare lui.

Mac scoppiò in una sonora risata:

“Questa è davvero buona Harm! Tu che informi qualcuno, una donna, dei tuoi spostamenti!”. Rise fino alle lacrime appoggiandosi allo stipite del portale del palazzo dell’Ambasciata americana.

“Sono cambiato per molti aspetti” borbottò infastidito lui.

“E si vede!” esclamò Mac ancora in preda alle risa.

“Allora accetti o no?” domandò spazientito.

“Va bene, se a Belinda non crea problemi” replicò lei soffocando un altro attacco di ilarità.

Uscirono definitivamente dal Palazzo e attraversarono la piazza, passando davanti all’Ambasciata italiana. Puntarono verso Hyde Park.

“Non ho ancora sentito il tuo cellulare squillare” buttò lì Harm con fare provocatorio. Non gli era andata giù la presa in giro di lei di poco prima.

“Forse perché a Washington è notte?” rispose ironica Mac.

“Non credo che Webb si faccia di questi problemi” osservò lui.

E aveva ragione. Clayton Webb non si faceva alcun tipo di problema. Infatti, a poca distanza da loro Patrick, l’uomo sul campo, li stava seguendo e nel frattempo relazionava proprio a Webb, sveglio nel cuore della notte.

“Stanno andando verso uno di quei bar aperti per uno spuntino” disse al cellulare.

“Come ti sembra la ragazza?”

“A suo agio. Parla, ride, scherza.”

A molte miglia di distanza, Webb sbatté un pugno sulla sua pregiata scrivania di tek.

“Continua a seguirla” ordinò mantenendo comunque la calma.

 

 

 

Casa di Lady Sarah Montagu
Brook Street, Londra

Aprile 1858 

 

Mancavano poco più di due ore all’appuntamento e Lady Sarah Montagu era irrequieta e nervosa. L’incontro era troppo importante per il suo futuro e l’ansia non contribuiva certo a farle passare il mal di testa che la tormentava dal mattino.

Aveva trascorso una notte agitata e insonne e l’alba l’aveva sorpresa ancora sveglia. Per tutto il tempo non aveva fatto altro che ripensare alla conversazione avuta con Lord Thornton ma, soprattutto, alle sue mani e alle sue labbra su di sé.

Lo aveva respinto, era vero, ma quell’uomo, nonostante la sua maleducazione e il suo pessimo carattere, risvegliava in lei sensazioni sopite da tempo.

Non capiva proprio cosa in lui glielo faceva desiderare, poiché normalmente lo trovava antipatico e arrogante, eppure doveva ammettere, almeno con se stessa, di esserne fortemente attratta.

Come poteva? Lei era ancora innamorata di André.

André…

Chissà dov’era? Che cosa stava facendo?

Era rimasto in America? Oppure era tornato in Francia? Era vivo? Stava bene?

Magari, in quel preciso istante, era tra le braccia di una donna…

Al solo pensiero lo stomaco le si strinse in una morsa: non riusciva a pensarlo tra le braccia di una donna che non fosse lei.

Eppure era passato più di un anno e non poteva pensare che un uomo tanto passionale come André François D’Harmòn non trascorresse le sue notti con un’amante. E se si fosse sposato? Una fitta all’altezza del cuore le ricordò che, nonostante avesse creduto d’averlo lasciato sulla Medea, a quanto sembrava il suo muscolo cardiaco era ancora al proprio posto. O meglio, quel poco che ne restava…

André era sempre lì, in una parte di lei che era nascosta nel profondo. Ma André le aveva fatto conoscere, oltre all’amore, anche la passione e tutta la sensualità che non aveva mai creduto di possedere. E le carezze audaci di Lord Thornton avevano risvegliato quella sensualità.

Odiava quell’uomo ancora di più, proprio per questo.

Non voleva provare certe sensazioni. Non con lui. Non con un uomo che aveva capito essere come tutti gli altri; un uomo che, in cambio del proprio aiuto, voleva possederla, esattamente come tutti quelli che l’avevano avuta in cambio di informazioni.

Per un istante rivide su di sé le mani lascive di Von Webb e con quel ricordo tornarono prepotenti alla mente anche tutti gli istanti vissuti con André: il ballo in cui le aveva sussurrato che era bellissima, il bacio che le aveva rubato durante la loro cavalcata, il duello con le spade, quando ancora lui era all’oscuro che lei sapeva tirare di scherma e le aveva insegnato… quel pomeriggio, sola con lui a prendere il tè; l’altro bacio rubato durante la festa di Natale… i suoi occhi incupiti dal desiderio e le sue mani su di lei, mentre le medicava la ferita alla locanda… la loro prima notte d’amore e tutte quelle a seguire, fino al momento in cui si era volutamente privata dell’uomo meraviglioso che l’amava e che voleva trascorrere il resto della vita con lei…

Come poteva, ora, desiderare le carezze e i baci di un altro uomo, pur struggendosi ancora nel ricordo di André?

Non avrebbe mai acconsentito a sposarlo!

Fortunatamente il biglietto di Robert Taylor era arrivato giusto in tempo per evitarle di commettere l’errore peggiore della sua vita.

Il figlio del defunto socio di Cedric Hewitt l’aveva contattata con una proposta che, giunta a questo punto, considerava interessante: in cambio di denaro, parecchio denaro, le avrebbe consegnato prove e informazioni sulle attività del padre quando era in società con Hewitt.

Di lì ad un’ora l’avrebbe incontrato in campagna, appena fuori Londra.  Una zona isolata, troppo per i suoi gusti. Ma aveva accettato di andarci e di andarci sola come indicava il biglietto, poiché in gioco c’era il futuro della sua famiglia, quello per cui stava lottando da quasi dieci anni.

Sapeva che avrebbe potuto correre dei rischi, ma non aveva avuto scelta: si sarebbe fatta accompagnare dal cocchiere fino ad una locanda a poche miglia dal luogo dell’incontro e, mentre Wes si sarebbe fatto un bicchierino credendo che andasse a trovare un’amica nel paese vicino, lei avrebbe raggiunto a cavallo Robert Taylor.

Ma non avrebbe portato con sé il denaro: aveva in mente di lasciarlo in carrozza; se l’incontro fosse andato come sperava, avrebbe chiesto a Taylor di accompagnarla alla locanda e glielo avrebbe consegnato solo successivamente.

Tuttavia la prudenza non era mai troppa e prima di indossare il pesante mantello che l’avrebbe riparata dall’umidità della sera, s’infilò lo stiletto nella manica, facendo attenzione a nasconderlo bene con l’abito: sola sì, ma il messaggio non specificava “senza armi”!

Pochi secondi dopo Albert entrò ad avvisarla che la sua carrozza era pronta.  

 

 

Giardini di Hyde Park
Londra

Aprile 2005

Acquistarono due panini da un chiosco ambulante e si sedettero su una panchina al sole.

Il parco, un tempo parte della residenza reale, ora era aperto al pubblico e molta gente l’affollava, godendosi l'insperato tepore e la bella giornata.

“Da quando sei arrivata sembra che il sole non se ne voglia più andare via” disse Harm. “Dovresti restare.”

“Non credo che il mio futuro marito possa essere d’accordo con te” rispose Mac. “Londra non gli piace.”

“O non gli piaccio io?”

“Buona la seconda” rispose Mac addentando il sandwich.

“Sei felice?” chiese lui all’improvviso.

“Che domande! Certo che lo sono. La mia vita è completa adesso, anche se questo non ti riguarda.”

Ma perché gli stava dicendo tutte quelle cose? Non aveva forse deciso di mantenere un compassato atteggiamento professionale?

Terminò il “lauto” pranzo in preda a pensieri e sentimenti contrastanti.

“Sono contento per te, Marine” fu l’unico commento di Harm.

Tornarono a Grosvenor Square.


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Capitolo 9
*** La resa ***



Capitolo IX

La resa



Camera 512
Grosvenor Hotel, Londra

Aprile 2005

Mac era esausta. Il lavoro di investigazione si era dimostrato più difficile del previsto, complice anche la riottosità degli inglesi a fornire le informazioni di cui necessitavano lei e Harm.

Quel pomeriggio avevano insistito per seguire l’interrogatorio dell’ufficiale dei reparti speciali rimasto ferito nel conflitto a fuoco, ma Lockeed aveva posto il veto: avrebbero letto le trascrizioni.

E, naturalmente, le trascrizioni riportavano una storia completamente diversa da quella raccontata loro da Shriver e Thomasson.

Il Presidente Bush e il Premier inglese volevano, anzi pretendevano, una linea di massima distensione e collaborazione, ma come poteva realizzarsi quanto auspicato dai due capi di Stato se Lockeed e Seymour mettevano loro i bastoni fra le ruote?

Per non parlare di Harm che con la sua sola presenza le scombussolava l’anima. Come avrebbe desiderato che Clay fosse andato con lei! Lui era geloso, senza dubbio, come spiegarsi altrimenti il quasi interrogatorio di quel mezzogiorno ad Hyde Park? Era geloso che Webb avesse ottenuto il suo amore e il suo cuore.

Oppure è geloso di ogni uomo che mi sta accanto?” si chiese mentre infilava la porta dell’ascensore.

Arrivò al piano della sua camera e, giunta davanti alla porta, notò che era socchiusa. Al momento non si insospettì, data l’ora era probabile che qualcuno del personale di servizio fosse entrato per preparare la stanza per la notte.

Cominciò ad insospettirsi quando, una volta entrata, udì lo scroscio dell’acqua proveniente dal bagno.

Circospetta, entrò nel soggiorno-camera da letto e, ringraziando la presenza della folta moquette che attutiva i suoi passi, avanzò verso la piccola anticamera che divideva la camera dal bagno vero e proprio.

Entrò nel disimpegno e notò che la porta che lo divideva dal bagno era accostata e che al di là del vetro smerigliato si intravedeva una figura umana.

 

 

Appartamento del Capitano Harmon Rabb
Hyde Park, Londra

Aprile 2005

 

Harm entrò in casa e buttò distrattamente la ventiquattrore sul pavimento. Belinda non era ancora rientrata e l’appartamento era al buio. Andò in soggiorno e aprì le finestre, dopodichè dal bar sotto il televisore prese un bicchiere e si versò una dose di whisky.

Non rientrava nelle sue abitudini bere superalcolici, si potevano contare le volte che l’aveva fatto, ma in quel momento ne aveva bisogno.

Si tolse la giacca, si allentò la cravatta e sprofondò nel divano di pelle chiara e nelle sue riflessioni.

Non c’era modo di trovare un’intesa con gli inglesi che si ostinavano a voler dare credito alle loro testimonianze e, per il momento, le posizioni erano molto lontane. Lo insospettiva il fatto che non fosse stato permesso a lui e a Mac di presenziare all’interrogatorio dell’ufficiale ferito, come se avesse avuto qualcosa da nascondere.

L’indomani avrebbero raccolto la testimonianza del furiere che aveva provveduto ad approvvigionare la squadra di soccorso e avrebbero sentito anche il giornalista del “Times”, ma dubitava che ne sarebbe uscito qualcosa di buono: probabilmente il materiale era già pronto e il soldato di turno si era solo occupato di consegnarlo a chi era andato a ritirarlo.

Un momento” si disse, “la spedizione era segreta, per cui non è stato certo il commando a ritirare dalla fureria del centro di comando degli inglesi a Baghdad quello che serviva…” Un lampo di illuminazione gli attraversò la mente: Lockeed e Seymour mentivano, se non su tutta la storia, almeno su buona parte di essa. Da quando in qua una missione dei corpi speciali di salvataggio, segreta, si approvvigionava alla fureria? Arrivava sul luogo già equipaggiata di tutto punto!

Decise di mettere Mac al corrente di tutto.

 

 

 

Dintorni di Londra
due ore dopo

Aprile 1858 

 

Si era cacciata nei guai. Il figlio di Taylor la stava palpeggiando maldestramente, mentre il suo complice la teneva sotto tiro.

Era arrivata al luogo dell’appuntamento come stabilito, ma non appena scesa da cavallo si era ben presto accorta che si trattava di una trappola.

“Vi state divertendo, signore?”

“Stai zitta! Dove hai messo il denaro?”

Quei due malviventi volevano solo quello. Solo i soldi. Non avevano alcuna informazione da darle.

“Solo quando mi avrete detto ciò che mi avevate promesso”, rispose decisa.

“Guy, hai sentito la signora? Vuole essere lei a dirigere il gioco!” urlò Taylor al suo compare, mentre continuava a metterle le mani addosso, perquisendola sotto il mantello.

“Non troverete nulla, neanche se mi spogliaste…” lo provocò, sperando che l’uomo non la prendesse alla lettera. Ma doveva tentare di distrarlo in qualche modo, prima che scoprisse lo stiletto nascosto nella manica.

“Non tentatemi, signora… Potrei anche decidere di divertirmi un po’ con voi”, disse l’uomo con un ghigno, mentre, dopo averle scostato un lembo del mantello, le infilava la mano ruvida nella casta scollatura dell’abito, per verificare che non avesse nascosto lì il denaro e al tempo stesso approfittare dell’occasione.

“Allora, Bob, ce li ha i soldi?” chiese il socio leggermente nervoso. Sembrava che non desiderasse altro che fuggire da lì.

“Milady non ha nulla…” rispose con uno strano luccichio negli occhi il suo assalitore, “…non ha denaro con sé, a quanto sembra… ma ha ben altro che potrebbe offrirmi…” aggiunse poi, con voce lasciva, mentre le afferrava il volto con una mano e si protendeva verso le sue labbra.

All’improvviso un colpo d’arma da fuoco echeggiò nel silenzio.

Taylor si voltò di scatto in direzione dello sparo e Lady Sarah vide Guy accasciarsi a terra, colpito ad una gamba. Nell’istante in cui il suo aguzzino realizzava che il compagno era stato ferito, un’ombra scura si era già assicurata di recuperare da terra l’arma del complice e ora teneva sotto tiro Taylor.

Ma anche Taylor fu altrettanto rapido: afferrò Lady Sarah per la vita, stringendola brutalmente contro il proprio corpo e, puntandole la pistola alla tempia, la usò come scudo.

“Gettate le armi a terra e andatevene, o la uccido” intimò allo sconosciuto.

A Lady Sarah si gelò il sangue nelle vene: cosa sarebbe accaduto se l’uomo non avesse obbedito?

“Siete sicuro di riuscire ad ucciderla prima che io uccida voi?” La voce calma e quasi divertita dello sconosciuto le fece balzare il cuore in gola.

“Forse no, ma morirebbe anche lei…” rispose incerto Taylor.

“Meglio. Non m’importa della donna. Voglio i soldi. E sono pronto ad uccidere, per averli” disse secco l’uomo.

Taylor esitò. Lady Sarah percepì fisicamente l’indecisione e la paura nel suo aguzzino e temette per la propria vita: sapeva bene che il terrore può far perdere la razionalità e far agire d’impulso.

“Andatevene” disse deciso il nuovo arrivato. “Lasciatemi la donna con i soldi e avrete salva la vita.”.

“Volete divertirvi voi, con questo bel bocconcino, vero?” lo schermì Taylor.

L’uomo non rispose; semplicemente iniziò ad avanzare cauto verso di loro, sempre tenendo sotto tiro Robert Taylor.

Lady Sarah sentì la stretta attorno alla vita farsi più forte, mentre il figlio del socio di Hewitt le sussurrava all’orecchio:

“Quel bastardo vuole i vostri soldi…”.

L’alito caldo e pesante dell’uomo le provocò un’ondata di nausea, ma rimase in silenzio, mentre lui aggiungeva, quasi divertito:

“… non sa che non li avete con voi…”.

Non appena finito di pronunciare quelle parole, la scaraventò con violenza verso l’uomo in mantello nero che ormai era a poca distanza da loro due, e fuggì rapidamente alla sua mira.

 

 

 

 

 

Camera 512
Grosvenor Hotel, Londra

Aprile 2005

 

Mac avanzò verso la porta del bagno, traendo la pistola dalla borsa che non aveva ancora posato. Dopo la sua “avventura” con Sadik era divenuta molto guardinga e le situazioni come quella che stava vivendo ora la indicevano a non andare troppo per il sottile.

Lo scroscio dell’acqua cessò e la figura al di là del vetro si mosse.

Rompendo gli indugi, Mac spalancò la porta e puntò la pistola davanti a sé.

“Fermo” intimò allo sconosciuto togliendo la sicura all’arma e mettendo il colpo in canna.

Dalla tenda che riparava la vasca da bagno si sporse una mano maschile che afferrò l’accappatoio di spugna appeso lì accanto.

“Esci immediatamente” minacciò lo sconosciuto armando la pistola, pronta a fare fuoco.

“Agli ordini, mia bellissima rosa” rispose la voce di Clayton Webb mentre la tenda della doccia si scostava.

“Clay!” esclamò Mac lasciando cadere l’arma a terra e buttandosi tra le braccia dell’uomo.

“Per poco non ti sparavo” mormorò.

“Volevo farti una sorpresa” le rispose lui.

“E ci sei riuscito!”

“Mi mancavi da morire” le disse cominciando a baciarla avidamente mentre le mani correvano ai bottoni della giacca della divisa slacciandoli uno per uno con premura.

“Anche tu” rispose Mac, la voce già arrocchita dal desiderio mentre rispondeva con altrettanta foga ai baci del suo uomo.

Con le labbra incollate piombarono sul grande letto matrimoniale, baciandosi con impazienza e giocando come due bambini con il desiderio che li pervadeva di essere l'uno nelle braccia dell’altro, pelle contro pelle.

Fu in quel momento che il telefono squillò.

 

 

 

Appartamento del Capitano Harmon Rabb
Hyde Park, Londra

Aprile 2005

 

Uno squillo, due squilli, tre squilli. Mac non rispondeva. Stava per chiudere la telefonata quando, al quarto squillo, la voce della collega, insolitamente allegra e gioiosa gli rispose con un “chi è” alquanto ridanciano.

“Mac sono io” disse lui.

“Ah ciao Harm…” risatina in sottofondo e lei che rispondeva alla risata. “Scusa, dimmi, cosa c’è?”

“Disturbo?” chiese lui.

“Affatto…” altra risatina di lei ed un “smettila” mormorato a mezza voce. “Novità dell’ultimo minuto?” domandò, ma la voce sembrò giungere da un’altra galassia.

“Volevo metterti al corrente di quello che ho scoperto dopo che ci siamo lasciati.”

“CLAY! MI STAI FACENDO IL SOLLETICO!” rise a pieni polmoni Mac dall’altro capo del telefono.

Harm comprese il motivo del ritardo nel rispondere a delle risatine in sottofondo, e questo gli diede fastidio. Mac era una sua  amica, era la sua collega era la sua.... non completò il pensiero rendendosi conto che, dopotutto, Mac non era mai stata sua per davvero, né come amica, né come collega, né come donna.

“Harm? Ci sei ancora? Scusa ma il mio fidanzato mi ha fatto una sorpresa e…”

“Non ti devi scusare, è più che giusto, fuori dal lavoro hai il diritto di goderti la tua vita privata. Scusa per l’intrusione. Ne parliamo domani al Comando. Alle 9.00 va bene?”

“Alle 9.00 andrà benissimo” rispose Mac un po’ troppo ansiosa di concludere la conversazione.

E, infatti, non appena la donna ebbe posato la cornetta del telefono sulla forcella Webb s’impossessò della sue labbra e del suo corpo.

 

 

Dintorni di Londra
nello stesso momento

Aprile 1858 

 

Lady Sarah si sentì precipitare addosso allo sconosciuto il quale, disorientato per un attimo dal repentino movimento di Taylor, non fu rapido a sparare. Robert Taylor ne approfittò per raggiungere il compagno ferito e dileguarsi con lui nel buio della notte.

Mentre Lady Sarah stava per cadere a terra a seguito della violenta spinta, l’uomo si disinteressò subito dei due malviventi e la trattenne a sé, stringendola con dolcezza tra le braccia.

“Dio, Sarah…”

Furono le uniche parole che l’uomo pronunciò. Poi con una mano le sollevò il viso e posò le labbra sulle sue.

Fu un bacio violento e disperato. Un bacio che risvegliò nel profondo un milione di ricordi e sensazioni mai dimenticate e di desideri da troppo tempo insoddisfatti.

A poco a poco, mentre nell’uomo l’ansia d’averla quasi perduta lo abbandonava lentamente, il bacio s’intenerì e presto si trasformò in seduzione, quando le mani di lui cominciarono a muoversi sul suo corpo, sfiorandole il seno sotto il tessuto del mantello, accarezzandole il volto ed infilandosi tra i suoi capelli.

Lei non riuscì a resistere a quelle labbra dolci che premevano insistenti sulle proprie, impedendole persino di respirare. Si lasciò andare contro di lui cercando conforto nella sua bocca e nel suo abbraccio, improvvisamente catapultata indietro nel tempo, in un’altra vita, quando si era completamente abbandonata tra le braccia di un uomo.

Il bacio proseguì ancora per alcuni istanti, intenso e travolgente; poi, non appena ritornò a respirare e sentì le labbra dell’uomo raggiungere lentamente la gola, sussurrò il suo nome, cercando di fermarlo.

“Nicholas…”

Lo sentì sospirare bruscamente, per riprendere il controllo; poi lui la guardò negli occhi, illuminati dalla luce della luna.

“Ho creduto che vi avrei perduta per sempre…” e così dicendo la strinse ancora a sé, sfiorandole lievemente i capelli con le labbra.

Percepì la sua ansia e si stupì nello scoprire che lui teneva davvero a lei; fino a quel momento aveva creduto che desiderasse semplicemente il suo corpo. Quella consapevolezza la spiazzò e le fece provare un’improvvisa e inspiegabile, nonché familiare, sensazione di protezione.

“Come sapevate?”

“Vi ho seguita. Ero preoccupato per voi”, le disse, trattenendola nel suo abbraccio.

“E perché mai? Non sapevate che mi sarei dovuta incontrare con qualcuno…”

“Chi era quell’uomo?”

“Il figlio di John Taylor, il socio di Hewitt, ucciso dallo stesso Cedric quando seppe che avrei dovuto incontrarlo a Bath… Un anno e mezzo fa John Taylor stava per farmi importanti rivelazioni ed è stato ucciso prima che potesse parlarmi. Fui io a trovare il suo cadavere…”

“Mi spiace” disse lui. Poi aggiunse, sussurrandole all’orecchio con la sua voce roca e profonda:

“Sposatemi, Sarah. Sposatemi, e lasciate che sia io a prendermi cura di voi, d’ora in poi. Permettetemi di aiutarvi e chiuderete con il passato.”.

Chiudere con il passato… Questo avrebbe significato anche dire addio per sempre ad André, al suo ricordo e all’amore che ancora provava per lui.

Era impossibile.

Non sarebbe mai stata capace di dimenticare André. Ma si sentiva anche tanto stanca e sola… e molto frustrata, per aver scoperto che l’ennesima pista che avrebbe potuto condurla finalmente alla rovina di Hewitt era stata ancora una volta solo un buco nell’acqua.

Inoltre André era perduto per sempre. Se anche non si fosse ancora rifatto una vita e per miracolo l’avesse ritrovato, di certo lui non l’avrebbe più voluta, per come lo aveva abbandonato.

Aveva gettato via l’unico uomo che l’aveva davvero amata e che lei avrebbe potuto amare. Non le restava nient’altro.

Con un sospiro decretò la sua resa all’uomo che la teneva ancora tra le braccia, dicendo addio per sempre all’amore.

“D’accordo, Lord Thornton. Accetto di sposarvi.”

 

Appartamento del Capitano Harmon Rabb
Hyde Park, Londra

Aprile 2005

  

Chiuse la conversazione e rimase lì, nella penombra dell’appartamento, a fissare il cellulare. Dentro, un profondo senso di fastidio stava pericolosamente trasformandosi in qualcos’altro. Scosse la testa. Ma cosa gli prendeva? Dopotutto era più che naturale che Webb le fosse capitato in albergo, erano fidanzati, in procinto di sposarsi. Anzi, molto probabilmente erano già d’accordo prima che lei partisse per Londra.

Un anticipo sulla luna di miele, suggerì una vocetta maligna.

Harm la tacitò con un bicchiere di whisky.

Stava bevendo troppo in quell’ultimo periodo, avrebbe dovuto darsi una regolata.

Le preoccupazioni” si disse, anche se con poca convinzione.

Posò il bicchiere sul minibar e andò a cambiarsi.


Camera 512
Grosvenor Hotel, Londra

Aprile 2005

  

Accoccolata fra le braccia di Clayton nel grande letto a baldacchino, Mac si stava godendo le tenerezze del suo fidanzato.

Avevano fatto l’amore più volte, ma sembrava che a lei non bastasse mai. Adesso, esausti, giacevano l’uno nelle braccia dell’altro godendosi il calore reciproco.

“Amore” la chiamò dolcemente.

“Mmmh” rispose Mac facendo le fusa.

“Che ne dici se ci sposiamo qui?”

Di colpo fu sveglissima. Si voltò verso di lui sciogliendosi dal suo abbraccio: “Come mai questa idea?” chiese sorpresa.

“Non posso più aspettare” rispose Webb baciandola.

“Ma abbiamo già organizzato tutto a Washington, gli amici, la festa…” obiettò Sarah.

“La festa la possiamo fare ugualmente, solo dopo che ci saremo sposati. Sposiamoci qui, una cerimonia solo per noi due, poi quando tornerai negli States festeggeremo alla grande.”

“Mah... non so...”

Mac era indecisa, non per via del matrimonio già programmato da mesi, bensì per motivi noti solo al suo subconscio e che nemmeno lei sapeva spiegarsi.

Da parte sua Webb sperava ardentemente che lei accettasse di fare quella “pazzia”. Non importava se Rabb fosse felicemente fidanzato e convivesse con una bella inglesina. Quando aveva rivisto la fidanzata, poche ore addietro, aveva compreso che quel legame tutto particolare che la univa a quell’altro aveva ripreso forza e vigore.

Per questo aveva deciso di giocare d’anticipo: prima l’avesse fatta sua per sempre, prima avrebbe spezzato definitivamente quel legame. Era notorio che Rabb si sarebbe tirato indietro.

“Pensaci tesoro, non sarebbe bellissimo? Faremmo una sorpresa a tutti quanti!”

“Sì anche all’Ammiraglio che avrebbe voluto accompagnarmi all’altare” rispose un po’ sarcastica Mac. “Ad ogni modo, facciamolo. Dopotutto sposarsi ora o fra qualche settimana non ha importanza” cedette alla fine.

Un senso di pace dilagò in entrambi. Adesso le cose erano definitive per tutti e due.

Webb si alzò dal letto: “Mi dò da fare immediatamente”.

“Non ti sei dato abbastanza da fare nelle ultime ore?” scherzò maliziosa lei rotolandosi nelle coperte felice come una bambina.

Lui la baciò e andò a farsi una doccia.

Quando uscì dal bagno si era addormentata e il cellulare stava squillando.

“Pronto” rispose con piglio sicuro, per chiudere poco dopo la conversazione in maniera rabbiosa.

Svegliò la fidanzata con un bacio e una carezza.

Quando lei aprì gli occhi cercò di darle la notizia con tutto il tatto possibile.

“Tesoro evidentemente non è destino che ci si sposi a Londra” le disse.

Immediatamente Mac si levò a sedere: “Perché?” chiese con aria affranta. “Già stavo sognando di andare in centro ad acquistare l’abito da sposa.”

“Un grosso incidente a Baghdad, hanno catturato uno dei miei uomini sotto copertura. Devo rientrare stasera a Langley e domani devo partire per l’Iraq.”

“E’ terribile!”

“Infatti, ma è più terribile dover aspettare ancora prima di poterti chiamare Mrs. Webb” aggiunse.

Le si alzò: “Non ti preoccupare” gli disse abbracciandolo. “L’importante è che ci amiamo e il tempo passerà in fretta.”

Webb si rivestì e dieci minuti dopo usciva dalla porta della suite, in un certo senso più fiducioso verso il futuro. Questa volta ce l’avrebbe fatta. Sarah lo amava sul serio e neanche una volta aveva nominato Rabb.

Mac si ficcò sotto la doccia.

Perché si sentiva sollevata?

 

 

 


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Capitolo 10
*** Inganni ***



Capitolo X

Inganni



Uffici del comando delle Forze Navali Americane
Grosvenor Square, Londra

Aprile 2005

Non aveva ben compreso di cosa volesse parlarle, e del resto quando le aveva telefonato non gli aveva prestato molto ascolto, impegnata come era in altre cose… si presentò al Tenente Cunningham e chiese di poter essere ricevuta dal Capitano Rabb.

“Un attimo solo Signora” le rispose l’attendente sollevando l’interfono.

Mac si sedette in una delle comode poltrone dirimpetto l’ufficio di Harm e attese fissando la porta di noce scuro.

“Il Capitano la può ricevere, Colonnello” le comunicò il Tenente.

Mac si alzò ed entrò nella stanza.

“Scusa per ieri” esordì. In realtà non aveva nulla di cui scusarsi, nondimeno ritenne fosse meglio evitare qualsiasi discussione a priori.

“Non ti devi scusare” replicò invece Harm facendole cenno di accomodarsi di fronte a lui. “Nelle ore libere puoi fare ciò che vuoi.”

“Mi sembrava che avessi qualcosa d’importante da dirmi” rispose sorvolando su tutto il resto. Non le andava di aggiungere altro, desiderava solo terminare quell’incarico, tornare negli Stati Uniti, e dimenticarsi di lui. Ci sarebbe mai riuscita?

La risposta, quella definitiva, non venne. Ma al suo posto la sua mente citò le parole di una canzone sentita chissà quanto tempo prima: “se l’amore non è ricambiato diventa follia”.

Ecco, appunto, lei non voleva diventare folle. Aveva un uomo, presto un marito e dei figli, quindi era ovvio che avrebbe dimenticato Harm. Anzi l’aveva già fatto!

Rassicurata da quel pensiero si accinse ad ascoltare ciò che lui aveva da dirle.

“Quando sono tornato a casa, ieri sera, ho radunato le idee sulla riunione della mattina. Gli inglesi ci hanno detto che i loro uomini, quelli che volevano liberare il giornalista, si erano equipaggiati a Baghdad.”

Mac annuì.

“Ma hanno anche detto che facevano parte delle squadre speciali e che la missione era segreta.”

Mac annuì nuovamente.

All’improvviso sembrò che una lampadina le avesse illuminato la mente.

“Ehi, aspetta un attimo” lo interruppe. “Come potevano essersi equipaggiati in Iraq se la missione era segreta?”

“Vedo che i preparativi per il matrimonio non ti hanno obnubilato del tutto la mente” rispose Harmon un po’ caustico.

“Invece Belinda a te l’ha ottenebrata del tutto se ci hai messo due giorni a comprendere che gli inglesi ci stavano prendendo in giro” ribattè Mac altrettanto caustica.

“Invece tu ci sei arrivata mentre ti rotolavi nel letto con lui vero?”

“Avresti preferito che l’avessi scoperto mentre mi rotolavo nel letto con TE?” esplose Mac.

Perché continuava a farle del male in quel modo? Che gusto ci provava? E poi per quale motivo? Gelosia? Ma se era stato proprio lui a troncare qualunque possibilità quella famosa sera a casa sua!

Harm rimase spiazzato da quell’esplosione d’ira e fece marcia indietro: “No certo che no, scusa Mac non volevo”.

“Ma l’hai fatto” replicò lei rattristata. “Sia chiaro Rabb: la mia vita non è più affar tuo, come non lo è la tua per me. Collaboriamo come professionisti ma lasciamo fuori le questioni personali. Una volta per tutte.”

“Ti ho chiesto scusa.”

“Scuse accettate, ma per l’ultima volta. Se ricapiterà ancora giuro che non risponderò delle mie azioni. Ora passiamo oltre” disse Mac freddamente.

Quel tono di voce piagò il cuore di Harm. Mac, la sua Mac che lo minacciava in quel modo. Non era mai accaduto in nove anni. Era davvero cambiata e decisa a seguire la sua strada, anche se ciò avrebbe significato allontanarsi da lui. Ma se l’era meritato, dopotutto. Si concentrò su quello che lei stava dicendo.

“Gli inglesi ci hanno mentito su tutta la linea. Perché?”

“Forse il giornalista ne sa di più” rispose Harm.

“Chiediamoglielo.”

Harm prese il telefono e compose il numero del “Times” dove Herriott lavorava.

Una garbata signorina gli rispose che Mr. Herriott era assente per un lungo periodo. Alla domanda dell’ufficiale se fosse possibile rintracciarlo per una questione della massima importanza ed urgenza, la chiamata venne messa in attesa.

Dopo pochi minuti rispose il Direttore del quotidiano il quale, cortesemente ma fermamente, spiegò ad Harm che il giornalista, a seguito della brutta avventura in Iraq aveva deciso di lasciare momentaneamente il proprio lavoro e di concedersi una lunga vacanza. Purtroppo non aveva lasciato un recapito o un numero telefonico al quale contattarlo.

Rimise il telefono sulla forcella e riferì il tutto a Mac.

“Che caso” esclamò quest’ultima. “Noi abbiamo bisogno di parlargli e lui va in vacanza. Lo sapeva che l’avremmo interrogato.”

“E adesso?” chiese Mac.

“Adesso chiamo Washington e il Segretario e lo informo dei nuovi sviluppi.”

“Bene e poi?” incalzò lei.

“Attendiamo istruzioni” rispose Harm mentre sollevava nuovamente il ricevitore.

“Attendiamo cosa?!” esclamò. “Ma che ti è preso Harm?! Dobbiamo agire, dobbiamo…”

Ma lui la tacitò con un cenno della mano: “Non si può” rispose serafico posando la cornetta sulla forcella.

“Non si può?! E perché scusa? Hanno deliberatamente intralciato le nostre indagini, ci hanno raccontato un sacco di frottole su come, dove e perché hanno salvato Herriott combinando poi quel gran pasticcio al check point, hanno…”

“Lo so benissimo quello che è accaduto, Mac” la fermò nuovamente lui. Sprofondò nella poltrona e la fissò.

Impercettibilmente, ma il cuore di Sarah aumentò i battiti. Lei lo imputò alla rabbia e alla frustrazione che provava.

“Non sei più quello di una volta” lo rimproverò mentre passeggiava per la stanza. “L’Harm che conoscevo non avrebbe tergiversato. L’Harm che conoscevo avrebbe ribaltato tutto e tutti pur di arrivare alla verità.”

Si fermò al centro dell’ampio ufficio e lo guardò, gli occhi tristi: “Dove è andato a finire l’Harm di una volta, il paladino della giustizia?”.

“E’ diventato adulto, Mac e si è assunto le sue responsabilità” rispose lui pacatamente.

Quelle stesse che non ti sei mai preso con me?, fu tentata di chiedergli ma tacque.

“Perché vuoi proprio aspettare istruzioni da parte di Sheffield quando sai benissimo da te cosa c’è da fare?” chiese invece.

“Queste sono le regole della politica. Ti dissi quando giungesti qui che questa azione era solo politica pura e nient’altro, la verità e la giustizia, quando si è nelle alte sfere, abitano da tutt’altra parte, Sarah.”

Questa volta Mac avvertì il proprio cuore accelerare il ritmo e minuscoli brividi percorrerle la schiena come uno sciame d’api impazzite. E non era per la rabbia o la frustrazione.
Clay dove sei?, urlò angosciata dentro di sé.
“Ho bisogno di un caffè” disse, “ti lascio alla tua telefonata” e uscì dalla stanza.

 

 

 

Residenza del Duca di Lyndham
Hyde Park, Londra

Aprile 1858 

 

Finalmente sarebbe stata sua per sempre. Aveva atteso così a lungo quel momento che quasi gli sembrava ancora un sogno impossibile.

Sapeva che il suo cuore apparteneva ancora all’uomo di cui aveva detto di essere innamorata e sapeva anche che aveva ceduto più che altro per rassegnazione, per disperazione e per solitudine forse, ma non gli importava.

Presto avrebbe scoperto di poterlo amare.

Non era stato onesto con lei, ma non aveva avuto scelta, perché altrimenti lei non lo avrebbe mai sposato. E lui, invece, non voleva altro che legarla a sé.

Ad essere del tutto sincero, voleva anche ben altro da lei.

Da lei voleva tutto: il suo amore, la sua compagnia, il suo corpo. E dei figli. Ma al momento si sarebbe accontentato di fare in modo che fosse legata a lui per sempre.  Era l’unica possibilità che aveva per poterla amare. Ed era quello ciò che più gli premeva avere in quel momento. Tutto il resto sarebbe arrivato col tempo.

Aveva infatti capito che continuare a fuggire l’amore era il modo inconscio che aveva di punire se stessa per il suicidio del padre, del quale continuava a ritenersi colpevole.

Non poteva sapere, come invece lui aveva scoperto, che quel bastardo di Hewitt non aveva mai avuto intenzione di sposarla né di aiutare Lord Montagu, ma soltanto di approfittare di lei, senza poi neppure condurla all’altare. Se lei allora non lo avesse rifiutato, l’onta del disonore sarebbe stata ancora peggiore e Lord David probabilmente si sarebbe ucciso comunque per il semplice rimorso d’averla promessa ad un uomo capace di abusare di lei.

Aveva scoperto quella disgustosa verità indagando su Hewitt, dopo aver conosciuto la storia dei Montagu. Fingersi un domestico pettegolo, a caccia di piccanti retroscena, gli era stato di grande aiuto per conoscere particolari scabrosi sulla vita di numerosi suoi pari. Come già aveva avuto modo di sperimentare, mescolarsi al popolino portava sempre i suoi frutti.

Tuttavia sapeva anche bene quanto lei fosse testarda, quasi quanto lui; pertanto era certo che non le sarebbe bastato conoscere la verità senza alcuna prova, neppure se gliel’avesse detta lui stesso.

Niente l’avrebbe convinta di non aver avuto colpa alcuna nella tragedia della sua famiglia, se non per il fatto d’essere già così bella e desiderabile a soli sedici anni, tanto da indurre un uomo molto più vecchio a volerla possedere a tutti i costi. Ma se quella era una colpa, allora avrebbe dovuto pagare per ogni uomo che posava gli occhi su di lei…

Nulla di ciò che aveva fatto suo padre, dal fidarsi di un truffatore come Hewitt e dilapidare il patrimonio di famiglia, al venderla per salvare le sorti dei Montagu fino ad arrivare al suicidio per non affrontare il disonore, era responsabilità sua, allora poco più che una ragazzina.

E lui non avrebbe più permesso che continuasse ad incolparsi per la morte di Lord David.

 

 

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Capitolo 11
*** Rivelazioni ***



Capitolo XI

Rivelazioni



 

 

 

Castello della famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

Metà aprile 1858 

 

La cerimonia, celebrata poche ore prima nella piccola abbazia di Beaulieu, era stata breve e con pochissimi invitati. Data la rapidità con cui Lord Thornton aveva voluto fissare la data, non c’era neppure stato il tempo di radunare più persone, ma a lei non importava.

L’unica cosa che la lasciava perplessa era la fretta che le aveva imposto Nicholas, il quale non aveva neppure voluto attendere l’arrivo dei suoi familiari; a dirla tutta non era neppure certa che li avesse avvertiti dell’imminente matrimonio.

Gli unici presenti da parte dello sposo erano lo zio, Sua Grazia il Duca di Lyndham, ed Everly, il di lui maggiordomo. Ma del resto, anche da parte della sposa la lista si esauriva rapidamente: pochi domestici affezionati, una vecchia amica della sua povera madre con la famiglia e Lord e Lady Chapman, in rappresentanza di sua Maestà la Regina Vittoria.

Dopo la celebrazione, era seguito un piccolo rinfresco al castello.

Non era stato il matrimonio che sognava da bambina, con una cerimonia semplice, attorniata da familiari e pochi amici intimi, ma accompagnata da una grande festa cui avrebbe partecipato tutto il paese. Ad ogni modo in quelle circostanze non lo avrebbe neanche voluto.

Nicholas le aveva assicurato che, non appena la faccenda con Hewitt si fosse conclusa, l’avrebbe accompagnata a conoscere i suoi genitori e lì avrebbero festeggiato in maniera ufficiale il loro matrimonio.

Ad essere sincera, non ci teneva affatto. Ora che era diventata Lady Thornton, futura duchessa di Lyndham, riusciva a provare solo tanta tristezza e un’incredibile voglia di fuggire lontano.

Si sentiva in trappola.

Non era colpa di Nicholas. Lui si era sempre comportato in maniera ineccepibile, con gentilezza e pazienza, tanto da esserne addirittura sorpresa.

Era lei che si sentiva come svuotata dentro.

Non riusciva a smettere di pensare ad André e il suo ricordo la tormentava giorno e notte; si malediceva in continuazione per la propria stupidità e per aver deciso di fuggire da lui. Così facendo si era condannata ad una vita infelice accanto ad un uomo che non avrebbe mai potuto amare.

Anche se Nicholas risvegliava in lei una passionalità e un desiderio sopiti da tempo, tuttavia non sarebbe mai riuscito a smuovere il macigno che gravava sul suo cuore, soprattutto perché si era resa conto d’averlo sposato solo per solitudine e per riuscire ad ottenere giustizia per suo padre, quella giustizia che tanto a lungo aveva inseguito.

Ironia della sorte, alla fine di tutta quella storia, era stata lei stessa a vendersi per ottenere qualcosa ed ora poteva solo disprezzarsi per questo.

Suo marito, e in questo doveva rendergli merito, sembrava aver capito perfettamente il suo stato d’animo e le aveva promesso che avrebbe atteso con pazienza finché non fosse stata pronta ad amarlo.

Mentre Lynnette, la sua cameriera personale, la stava aiutando a togliersi l’abito nuziale e prepararsi per la notte, Lady Sarah pensava con apprensione che, molto probabilmente, quel momento non sarebbe mai giunto.

Cos’avrebbe dovuto fare, in quel caso?

Continuare a privare Lord Thornton di sua moglie, oppure concedersi a lui senza amore? Del resto lo aveva già fatto, in poche altre occasioni. Ma la situazione era diversa: allora non era sposata, non aveva pronunciato dei voti… Concedersi a suo marito continuando ad amare un altro le sembrava un tradimento e, per quanto non amasse Nicholas, tuttavia stava imparando a rispettarlo e non le sembrava giusto privarlo della felicità che una vera moglie innamorata avrebbe saputo dargli.

Inoltre, se si fosse concessa a lui senza amore, avrebbe provato almeno la metà delle meravigliose sensazioni che solo con André aveva vissuto? O sarebbe, come sempre, subentrato il disgusto per un atto compiuto senza sentimento?

Sentì gli occhi riempirsi di lacrime e congedò rapidamente Lynnette, affinché non la vedesse piangere.

Suo marito, in quel preciso istante, stava sistemando le proprie cose in una delle camere degli ospiti; si erano accordati che avrebbero trascorso la settimana a Beaulieu, prima di tornare a Londra, ospiti del duca di Lyndham finché non fossero riusciti a portare a termine il piano per incastrare Hewitt. Il matrimonio a Beaulieu era stato una necessità, per evitare che Hewitt ne venisse a conoscenza e sospettasse l’inganno. Ma era anche stato l’unico regalo di nozze che lei aveva richiesto: temeva ancora di non riuscire a riscattare il nome della sua famiglia e voleva rivedere di nuovo, forse per l’ultima volta, i luoghi della sua infanzia, prima che il castello le fosse sottratto per sempre.

Pensò a Nicholas e a come le aveva fatto capire di tenere a lei, a quanto la desiderasse… Forse se si fosse abbandonata tra le sue braccia, assecondando il desiderio e la passione che lui sapeva risvegliarle, non sarebbe stata un’esperienza tanto brutta. E forse, così facendo, sarebbe riuscita ad affezionarsi all’uomo col quale aveva deciso di dividere la propria vita.

In fondo suo marito non meritava che lei lo umiliasse a tal punto.

Si asciugò le lacrime e decise di raggiungerlo in salotto, dove aveva detto che l’avrebbe attesa per augurarle la buona notte. Indossò una vestaglia da camera, raffinata ma tutt’altro che seducente, sopra una camicia da notte di pizzo italiano. E mentre scendeva le scale si disse che forse valeva la pena di scoprire meglio l’uomo che aveva sposato.

 

 

 

 




Appartamento del Capitano Harmon Rabb
Hyde Park, Londra

Metà aprile 2005

La telefonata con il Segretario era stata burrascosa. Harm aveva tentato di fare comprendere al superiore che le indagini non potevano essere sospese o inventate solo per far piacere alla stampa.

Gli inglesi avevano mentito, si doveva giungere a scoprire il perché di tutto quel castello di menzogne.

Tuttavia non c’era stato verso di convincerlo e aveva dovuto eseguire l’ordine comunicandolo anche a Mac, la quale, com’era prevedibile, s’era infuriata accusandolo delle peggiori cose, dalla codardia al servilismo nei confronti dei suoi superiori.

Entrò in casa sbattendo la porta e gettò nervosamente la borsa a terra.

Sentiva Belinda che si affaccendava in cucina ma volutamente la ignorò, preferendo andare in camera, cambiarsi e buttarsi sotto una doccia per cercare di scordarsi quella giornata nera. In tutti i sensi.

Non sopportava di litigare con Mac a quella maniera. Gli faceva venire i bruciori di stomaco.

Uscì dalla doccia più arrabbiato che mai, ma non ce l’aveva con l’amica, quanto piuttosto con se stesso per non essere stato in grado di tenere testa al SecNav. Che stesse davvero perdendo lo smalto di una volta?

Andò in cucina e salutò Belinda con un bacio frettoloso, dirigendosi immediatamente dopo nel salotto e stravaccatosi sul divano accese la televisione, sintonizzandosi su un programma sportivo.

Belinda rimase stupita da quell’insolito atteggiamento da parte di Harmon. Non gli era consono arrivare a casa, sbattere la porta e quasi non degnarla di uno sguardo. Di solito quando rientrava dopo una giornata lavorativa, anche se era stanco o in pensiero per qualche motivo, la prima cosa che faceva era andare a salutarla con affetto e qualche volta… arrossì al pensiero.

Invece, da un po’ di giorni a quella parte, lui la stava ignorando e quando lei gli domandava cosa c’era che non andasse rispondeva evasivo di non preoccuparsi, che tutto era ok, e che si trattava solo di preoccupazioni di passaggio.

Non capiva più con chi aveva a che fare. Quell’Harmon non era l’uomo di cui si era innamorata. Quell’Harmon era chiuso, parlava solo per enigmi, non si confidava più con lei.

Abbandonò la frittata sul fuoco e lo raggiunse in salotto.

Si sedette sul divano accanto a lui e gli prese il telecomando dalle mani spegnendo il televisore.

“Mi vuoi dire cosa ti tormenta Harmon?” domandò.

Lui non replicò. Odiava sentirsi chiamare con il nome per esteso, neanche Trish lo faceva più.

“Non c’è nulla che non va, Linda” cercò di rassicurarla. “Ho solo delle grosse grane sul lavoro.”

“Perché non me ne parli? Lo fai sempre. Dici che la mia opinione ti aiuta a vedere le cose in maniera obiettiva.”

Già perché non gliene parlo?, si chiese Harm.

Belinda lo guardava, in attesa di una risposta, ma a lui non andava di dirle alcunché. Lei non avrebbe compreso la complessità di quello che aveva dovuto affrontare quella mattina al telefono con Sheffield. Anche Mac, a dire il vero, non l’aveva compreso, ma lei almeno lo conosceva davvero e dentro di sé sapeva che avrebbe fatto in modo di conoscere la verità.

Se avesse raccontato a Belinda della telefonata di quella mattina, molto probabilmente, anzi certamente, lei gli avrebbe risposto con un “Hai fatto il tuo dovere Harmon. Cos’hai da rimproverarti?”.

Come farle capire che lui non era quello che lei vedeva? Come farle comprendere che non era affatto giusto nei confronti di quei soldati americani rinchiusi in prigione con l’accusa di omicidio lasciare che tutto s’insabbiasse?

Si rinchiuse in un silenzio, tipico dei suoi che Sarah così ben conosceva e interpretava, ma che Belinda non comprese.

Recuperò il telecomando dalle pieghe del divano e riaccese la TV senza dire una parola.

Non sapendo cosa fare e come comportarsi, Belinda si alzò e tornò in cucina prima che la frittata bruciasse del tutto.

Si sentiva confusa, messa da parte. Non riconosceva più l’uomo solare, aperto e brioso che aveva conosciuto qualche mese prima e che l’aveva affascinata con i racconti delle sue imprese passate da pilota in quell’essere taciturno che non le diceva più nulla e che la sera si girava dall’altra parte del letto dopo averle borbottato un distratto “buona notte”.

 

 

 

Castello della famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

Metà aprile 1858

 

Era arrivata in fondo alla scala quando sentì delle voci provenire dal salotto. Credeva di trovare suo marito solo, e invece…
Vide il maggiordomo giungere proprio da quella direzione e lo fermò.

“Albert, chi c’è con Lord Thornton?”

“Un signore da Londra, Milady. Doveva portare un’importante notizia a Milord.”

Sorpresa da quel fatto, congedò Albert e fece per tornarsene in camera, evitando di disturbare Nicholas, ma udì proprio la voce di suo marito:

“Quindi il mio piano ha funzionato!”.

“Certamente, Nick. E quel bastardo di Cedric Hewitt da oggi è in carcere, come speravi.”

“Fantastico, Tommy!”

“E così, Nick, sei finalmente riuscito nella tua vendetta!”

Che cosa stavano dicendo? Hewitt in carcere? Vendetta?
All’improvviso ricordò la prima conversazione avuta con Nicholas a proposito di Hewitt: lui aveva detto che Cedric aveva fatto del male ad una persona cui teneva moltissimo.

Ma... Come poteva essere già in carcere se non avevano ancora attuato il piano?
A meno che…

Si soffermò per un attimo a riflettere e quando comprese che per portare a termine il piano di Nicholas di fingersi uno sprovveduto allevatore di cavalli non occorreva affatto che lei lo aiutasse, come lei stessa aveva osservato la prima volta che lui le aveva sottoposto l’idea, diede anche un senso a tutto quanto, a ciò che aveva appena sentito e alle nozze celebrate in tutta fretta, e sentì la rabbia crescerle dentro.

In tutto quel tempo in cui le aveva fatto credere di avere un piano per aiutarla, lui aveva già messo in atto tutto quanto.

Non poteva essere altrimenti. Probabilmente erano mesi che ci stava lavorando… Eppure le aveva lasciato credere che avrebbe agito solo se lei lo avesse sposato.

Ed ecco spiegato anche il perché della cerimonia tanto affrettata: non voleva correre il rischio che Hewitt fosse arrestato prima che lei lo sposasse, altrimenti sapeva bene che non avrebbe mai acconsentito al matrimonio.

Maledetto! L’aveva costretta a sposarlo con l’inganno.

Furiosa con lui e con se stessa per essersi lasciata abbindolare tanto ingenuamente, attese finché suo marito non uscì dal salotto per accompagnare personalmente l’ospite alla porta; quindi entrò nella stanza, ad aspettare il suo ritorno.

Pochi istanti dopo Nicholas comparve e, nel vederla, l’occhio sano gli si illuminò.

“Mia cara”, disse avvicinandosi per baciarle una guancia. Ma, scorgendo l’ira nei suoi occhi, si fermò a metà strada.

“Che cosa vi succede, Sarah?”

“Avete avuto ospiti…” disse lei, con noncuranza.

“Sì, un amico da Londra, che è venuto a congratularsi per le nozze. Lo avevo invitato, ma si trovava a Southampton per affari… è passato a salutarmi prima di rientrare a Londra.  Vi manda i suoi migliori auguri…”

“Bugiardo!” lo interruppe lei.

“Scusate… come dite?” chiese sorpreso lui.

“Ho detto che siete un bugiardo”, replicò serafica.

“Che cosa state insinuando, Milady?” domandò lui, la voce improvvisamente più fredda.

“Non sto insinuando nulla. Vi sto dicendo che state mentendo.”

“Milady, voi sapete quanto io vi ami... Ma vi consiglio di non approfittarvi troppo dei miei sentimenti e della mia dedizione per voi… potreste pentirvene” la mise in guardia, con voce dura.

Per un attimo la sua affermazione la stupì e le smosse qualcosa dentro: lui l’amava?
E quando mai gliel’aveva detto? O anche soltanto fatto capire?

L’unica cosa che le aveva lasciato ad intendere era quanto la desiderasse… Per un attimo ripensò al momento in cui l’aveva stretta tra le braccia dopo averla salvata da Taylor, ma scacciò rapidamente il pensiero, assunse un’aria dura e beffarda e domandò:

“E ditemi, Milord: è perché mi amate tanto che avete deciso di costringermi a sposarvi con l’inganno?”

“A cosa vi riferite?”

Lo sguardo dell’occhio privo di benda non vacillò neppure per un secondo. Quell’uomo era davvero un essere privo di qualunque morale.

“Al vostro piano. E alla cattura di Hewitt. Ditemi: da quanto tempo ci stavate lavorando?”

“Quasi sette mesi” rispose lui, con una calma e una semplicità che la fecero andare su tutte le furie.

“E perché, allora, mi avete detto che se non avessi acconsentito a sposarvi non mi avreste aiutato?” chiese lei, alzando di un tono la voce.

“Non ho mai detto questo” disse lui.

“Ma avevate perfettamente capito che io credevo che il nostro accordo fosse in questi termini. Perché avete lasciato che continuassi a pensarla così, anche quando sapevate benissimo che le cose stavano diversamente?”

“Perché se aveste saputo come stavano davvero le cose, non mi avreste mai sposato” rispose lui, imperturbabile.

“Ci potete giurare!” gli urlò lei in faccia. “Siete un bastardo, anche voi come tutti gli uomini che ho conosciuto!” continuò piena di rabbia, chiedendo mentalmente perdono ad André, l’unico che non avrebbe mai incluso nella lista. Ma non era il momento di sottilizzare.

Poi, non paga, aggiunse, senza dargli neppure il tempo di replicare, ma del resto egli la stava ascoltando serafico, non dicendo assolutamente nulla per difendersi o per obiettare:

 “E’ sicuro che se avessi saputo che Hewitt era sul punto di essere arrestato, non vi avrei mai e poi mai sposato! Io non ho mai avuto intenzione di sposarmi…”.

A quest’ultima  affermazione, suo marito la sorprese:

“Oh… Ma io non intendevo affatto questo, quando vi ho detto che non mi avreste sposato se solo aveste saputo”.

 “E che cosa intendevate, allora?” domandò lei, per un attimo spiazzata dalle sue parole.

“Dovevate trovare un motivo per convincere voi stessa. L’unica ragione che non vi avrebbe fatto fuggire da me.”

“State insinuando che io desideravo sposarvi, ma che non lo avrei mai ammesso, e soprattutto non lo avrei mai fatto se non mi fossi sentita costretta?”

“Precisamente.”

“Voi siete pazzo. Pazzo e presuntuoso. Per desiderare di sposarvi, come minimo avrei dovuto provare qualcosa per voi…”

“Voi già mi desiderate, Milady”, la interruppe lui.

“Non  è affatto vero!”

“Chi è che sta mentendo, ora?” domandò lui, sollevando impercettibilmente il labbro, nell’accenno di un sorriso. “Ho capito che mi desiderate da come avete risposto al mio bacio quando vi ho salvato da quel farabutto. Avrei potuto conquistare il vostro cuore come e quando avessi voluto…”

“Ma non avete neppure tentato. Avete preferito mentirmi, e sposarmi con l’inganno.”

“Io non vi ho mai mentito, Milady. Siete stata voi ad aver tratto certe conclusioni.”

“Sottigliezze, Milord. Voi sapevate come la pensavo. Lo avevate capito benissimo.”

“Certo. Ma ditemi, Lady Sarah: davvero avreste permesso al vostro cuore di innamorarsi di me? Davvero avreste permesso che vi corteggiassi, al punto da farvi innamorare, se vi avessi detto come stavano davvero le cose?”

“No. Certo che no. Ma solo perché non mi piacete, Milord. Non mi piacete e non mi siete mai piaciuto” disse sprezzante. Poi aggiunse: “E non è affatto vero che vi desidero”.

“Voi dite?” la stuzzicò, avvicinandosi lentamente a lei con una luce provocante nello sguardo.

Dannazione a lui! Ma perché, in certi momenti, quando si divertiva a giocare con lei, le ricordava così tanto André?

Arretrò di un passo, ma lui fu più svelto e l’afferrò per un braccio.

“State scappando…” sottolineò divertito.

“Non sto scappando” ribatté lei, indomita.

“Non fuggire da me, Sarah…” mormorò lui, con la voce improvvisamente più roca.

La sua mano le arrivò dolcemente alla nuca, avvicinandole il volto per baciarla.

Lei riuscì solo a pensare per un breve attimo che avrebbe voluto respingerlo. Ma, non appena si posarono sulle sue, le labbra di suo marito la stregarono. Il suo sapore risvegliò in lei ricordi lontani, mentre la barba le solleticava piacevolmente la pelle.

Fu incapace di resistere. Rispose al bacio come se si trovasse tra le braccia di André, abbandonandosi  completamente al suo ardore e passandogli le mani tra i capelli.

Lui mormorò di piacere e la strinse a sé con più impeto; poi, rapido, sciolse il nodo alla cintura e le abbassò la vestaglia sulle spalle, lasciandola coperta soltanto dalla camicia da notte. Quindi, con mani affamate di lei, fece scivolare anche il leggero tessuto in pizzo color avorio e le accarezzò sensualmente la pelle, mentre la sua bocca non le dava tregua.

Lei rabbrividì a quelle carezze, a quelle mani che le smuovevano l’inconscio, facendole riaffiorare ricordi dolci, ma al tempo stesso troppo dolorosi.

Furono quei ricordi a trafiggerle il cuore e a farle provare ribrezzo per quanto stava per permettergli. Aveva avuto la risposta che soltanto poco prima cercava: se si fosse abbandonata al desiderio che provava per Nicholas Thornton, certamente lui le avrebbe fatto provare sensazioni molto simili a quelle che aveva vissuto con André. E, probabilmente, alla lunga, avrebbe finito per innamorarsi di lui.

Ma Lord Thornton, come uomo, non valeva neanche la metà di André D’Harmòn!

Non appena lui abbandonò le sue labbra per baciarle la curva delle spalle, disse fredda:

“Lasciatemi.”.

“No… No, Sarah…”

Per un attimo il suo sussurro le sembrò dolce e disperato, e per poco non fu tentata di lasciarlo continuare. Oramai era certa che far l’amore con lui sarebbe stata un’esperienza appassionante e coinvolgente.

Ma ogni volta che quell’uomo la toccava, risvegliava in lei il ricordo di André.

E ogni volta quel ricordo la devastava.

Soprattutto ora che, con Hewitt finalmente nelle mani della giustizia, avrebbe potuto lasciarsi i problemi della sua famiglia alle spalle e tentare di ritrovarlo, per supplicare il suo perdono. Invece proprio in quel momento si trovava intrappolata in un matrimonio che non avrebbe mai voluto se non si fosse sentita tanto sola, disperata e profondamente determinata a riscattare l’onore dei Montagu, non fosse altro che per dare un senso all’aver rinunciato per sempre all’amore.

Sentì la rabbia montarle dentro più forte di prima: la rabbia contro se stessa e la sua stupidità e contro quell’uomo che voleva farla sua e privarla anche dei meravigliosi e unici ricordi che ancora la legavano ad Andrè D’Harmòn.

Si divincolò con forza e, quando lui tentò di afferrarla di nuovo, gli rifilò un ceffone e gli urlò in faccia tutto il suo disprezzo:

“Non mi avrete mai! L’unico modo per avermi, sarà prendermi con la forza”.

Lo vide impallidire e irrigidirsi per contenere la rabbia.

“Non ho mai dovuto usare violenza ad una donna per averla.”

“Allora dovrete accontentarvi di una moglie solo di nome, perché io non sarò mai vostra. Voi mi disgustate, Lord Thornton. Esattamente come mi hanno sempre disgustata tutti gli uomini cui ho concesso il mio corpo…”

“Vi disgustava concedere le vostre grazie anche all’uomo di cui vi dite ancora innamorata?” chiese lui.

“Non vi permetto di parlare di lui, né dei sentimenti che nutro per lui…”

“Parliamo allora degli altri uomini a cui vi siete concessa…”

“E’ accaduto solo poche volte e solo per ottenere qualcosa in cambio.”

“Grazie a me otterrete comunque la restituzione dei vostri beni e del titolo per vostro fratello” le ricordò lui, sarcastico, “perché non dovreste concedere anche a me le vostre grazie?”

“Ma voi, per avermi, mi avete ingannato. Mi avete privata della mia libertà. Eppure questo avrei anche potuto accettarlo, se non mi aveste mentito. L’avrei accettato e sarei stata per voi una vera moglie, anche se il mio cuore non vi sarebbe mai appartenuto…”

“Siete una cortigiana, e della peggior specie” disse lui, sprezzante.

“Pensate pure di me quello che volete, Milord. Non m’interessa. C’è un’unica persona di cui m’importava l’opinione e quella persona non siete voi.”

“E così ritenete che il matrimonio sia una prigione…”

“Il matrimonio con voi di certo.”

“E che mi dite dell’uomo misterioso di cui siete innamorata? Mi diceste che anche lui vi aveva chiesto in sposa. Come mai, se lo amate tanto, siete fuggita da lui e dalla sua proposta?” chiese lui, crudele.

Prima che potesse rispondere, aggiunse, facendola impallidire:

“Lasciate che vi dica io il perché: Lady Sarah Jane Montagu, voi avete paura dell’amore. E avete il terrore di fidarvi di qualunque uomo, compresi quelli realmente innamorati di voi. Inoltre vi ritenete responsabile del suicidio di vostro padre. Ecco perché siete fuggita dall’uomo che dite di amare e che, a quanto raccontate, vi amava alla follia. Privandovi dell’amore continuate a punirvi per quella che ritenete essere la vostra colpa. E per lo stesso motivo vi siete sempre impedita di abbandonarvi a quello che provate per me. Ora avete deciso di disprezzarmi, di odiarmi e di resistermi, e in questo modo potete considerarmi come tutti gli uomini della vostra vita, a partire da vostro padre: uomini immeritevoli del vostro amore e della vostra fiducia. Il vostro innamorato misterioso resta l’icona di perfezione, perché siete stata voi ad abbandonarlo… non gli avete neppure concesso il tempo di essere un semplice essere umano, con errori e difetti, e pertanto deludervi…”

Lei rimase immobile e in silenzio, mentre le lacrime cominciavano a rigarle il volto.

Non lo aveva mai sentito parlare tanto a lungo.
Come aveva fatto quell’uomo a capire così tanto di lei?
Com’era possibile che fosse riuscito a mettere a nudo così completamente il suo animo, pur conoscendola da poco tempo?

Sembrava essere parte dei suoi pensieri...

Quante volte si era detta che se non fosse stato per lei suo padre non si sarebbe suicidato? Quante volte aveva disprezzato gli uomini perché li riteneva tutti volere un’unica cosa?

Dopo averlo abbandonato sulla Medea, quanto spesso si era domandata cos’avesse di speciale André François D’Harmòn per averla fatta innamorare? E quante volte si era detta, pur di convincersi che stava facendo la cosa giusta a lasciarlo, che se lo avesse sposato, prima o poi anch’egli l’avrebbe delusa?

Dentro se stessa sapeva bene che ciò non sarebbe mai successo. E se anche fosse accaduto, l’amore che provava per lui avrebbe mitigato il tutto, come accadeva sempre tra ogni uomo e ogni donna innamorati.

Del resto André l’aveva amata, pur sapendo che si era concessa ad alcuni uomini solo per convenienza. Lui aveva saputo accettarla e amarla per quello che era realmente, passando sopra persino a comportamenti di cui lei stessa non andava fiera. Eppure lei era fuggita comunque.

E ora l’uomo che aveva sposato, l’uomo che le aveva mentito, le stava dicendo in faccia tutto quanto…

E aveva maledettamente ragione.

Nicholas la vide piangere e quell’immagine gli straziò il cuore: perché mai il destino l’aveva fatto innamorare proprio di quella donna?

Avrebbe potuto avere chiunque, eppure non voleva altri che lei.

Tentò di avvicinarsi e prenderla tra le braccia. Non sopportava di vederla tanto vulnerabile, lei sempre così fiera e forte. Si odiava per averle detto tutte quelle cose, anche se erano la verità.

“Perdonatemi… Perdonatemi, Sarah…” le disse dolcemente, cercando di abbracciarla. Voleva stringerla a sé, farla piangere tra le sue braccia, confortarla e poi amarla con tutto se stesso, fino a farle dimenticare tutte le cose orribili che si erano detti.

Ma lei fuggì prima ancora che riuscisse a toccarla. Corse alla porta e, prima di uscire sbattendola dietro di sé, gli urlò tra le lacrime:

“Vi odio!”.

 

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Capitolo 12
*** Decisioni ***


Capitolo XII

Decisioni



 

 

 

Castello della famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

12 maggio 1858 

 

Sentì un nitrito provenire dall’esterno e si alzò lentamente dalla poltrona, abbandonando il libro che stava leggendo.

Si avvicinò alla vetrata della biblioteca e osservò fuori; le scuderie erano dall’altro lato del castello e l’ala in cui si trovava in quel momento era sempre molto silenziosa.

Scorse l’animale, che sembrava passeggiare libero, sul viale che conduceva verso il parco di Beaulieu, quella zona alle spalle della costruzione che si apriva su un’immensa distesa di prati verdeggianti, tipici della campagna inglese.

Vide lei soltanto dopo, quando superò la cavalla che teneva per le redini.

Era pronta per una cavalcata, poiché indossava un paio di calzoni marroni, stivali e una camicia bianca. Sorrise dolcemente, notando che non aveva con sé neanche una giacca: sua moglie era solita uscire a cavallo con indosso meno di quanto il tempo inglese, sempre molto volubile, normalmente richiedeva.

Quella mattina il sole splendeva luminoso e l’aria era tiepida, pertanto la giacca probabilmente non le sarebbe servita; ma ricordava ancora come, solo una settimana prima, fosse rientrata dalla sua cavalcata bagnata fradicia perché, nonostante avesse un logoro giaccone a scaldarla, aveva rifiutato l’impermeabile che il solerte Albert pretendeva che indossasse in quanto si preannunciava un temporale.

Era tornata tutta grondante di pioggia, ma con gli occhi luminosi e le guance arrossate, segno evidente che aveva goduto appieno della cavalcata, nonostante l’acquazzone. O, forse, proprio grazie a quello.

Con i lunghi capelli incollati al corpo aveva l’aria di un pulcino bagnato, eppure lui l’aveva trovata bellissima.

Forse era per via di quella luce che aveva scorto nei suoi occhi, che sembrava averla fatta tornare quella di un tempo. La donna vivace e brillante che aveva conosciuto, e non l’essere taciturno e triste che era diventato da circa un mese, dalla sera del loro matrimonio quando, tra le lacrime, gli aveva gridato che l’odiava.

L’aveva vista così piena di vita che, per un attimo, aveva sperato che fosse tornata la Sarah Jane Montagu che aveva conosciuto, indomita e ribelle. Ma si era accorto ben presto d’essersi sbagliato: non appena si era asciugata e rifocillata e subito dopo che l’ebbrezza della cavalcata l’aveva abbandonata, era tornata spenta e silenziosa, totalmente immersa nel suo mondo e del tutto indifferente alla sua presenza.

Non riusciva ad avercela con lei, anzi soffriva molto a vederla così.

Era assolutamente certo che lei non si stesse comportando a quel modo di proposito, per fargliela pagare. Semplicemente stava cambiando. Ne era sicuro perché, anche quando era sola e non immaginava che lui la stesse osservando, quell’aria triste e malinconica non l’abbandonava mai.

Sembrava quasi che si stesse spegnendo lentamente. Che non avesse più nessuna ragione per gioire, ma neppure per arrabbiarsi.

Sembrava quasi che si fosse rassegnata ad una vita da prigioniera in casa propria.

Avrebbe preferito vederla infuriata; avrebbe preferito che litigasse con lui, che gli rinfacciasse ogni giorno d’averla sposata con l’inganno, piuttosto che vederla sempre più apatica, quasi priva della gioia di vivere.

Non sopportava di vederla così. L’amava troppo.

Gli unici momenti in cui sembrava rinascere erano quelli durante i quali usciva a cavallo. Al rientro la sua espressione era più vivace, come se a cavallo ritrovasse quella parte di se stessa che stava a poco a poco scomparendo. O come se cavalcare le riportasse alla mente ricordi felici, l’unica cosa che ancora le regalasse un motivo per sopravvivere.

Per questa ragione, pur desiderando disperatamente andare con lei, si era sempre trattenuto dal farlo. Continuava a sperare che quella malinconia l’abbandonasse; ma più passavano i giorni e più la vedeva triste, più temeva che il suo umore peggiorasse.

Sapeva bene chi era il colpevole di tutto quanto.

Lui.

Era soltanto colpa sua. Avrebbe dovuto dirle tutto quanto fin dall’inizio, ma aveva temuto di perderla. E ora, forse, era troppo tardi.

Aveva sbagliato: aveva davvero creduto che se fosse riuscito a legarla a sé, avrebbe avuto finalmente la possibilità di farla innamorare di nuovo.

Aveva sperato che lei capisse… che il suo cuore le parlasse… ma Sarah non voleva più ascoltare il suo cuore. E allora non ci sarebbero state speranze che s’innamorasse di Nicholas Thornton.

Aveva fatto il possibile: era stato gentile, paziente, dolce, premuroso… Aveva tentato di corteggiarla, di interessarla a conversazioni brillanti, persino di spingerla ad una discussione… aveva tentato di tutto, pur di ricordarle quanto potesse essere bello condividere le proprie emozioni e il proprio tempo assieme ad un uomo.

Non era servito a nulla.

Osservandola accarezzare Ginger, si disse che avrebbe dato dieci anni di vita in cambio della possibilità di stringerla ancora tra le braccia…

Ma non potevano andare avanti così, si sarebbero distrutti a vicenda.

Per un attimo ebbe l’impulso di uscire, raggiungerla e dirle ciò che aveva pensato di fare proprio la notte prima, mentre attendeva che il sonno arrivasse e facesse cessare, almeno per poche ore, il tormento che provava ogni volta che pensava a lei.

Aveva deciso che sarebbe tornato a casa sua e le avrebbe concesso di vivere la propria vita lontana da lui. Non era certo di riuscire a sciogliere il loro matrimonio, ma in ogni caso le avrebbe regalato la libertà per la quale tanto aveva lottato e che tanto sembrava desiderare.

Dei colpi alla porta posero fine ai suoi pensieri: il maggiordomo entrò e lo avvertì che era appena arrivato suo zio.

 

 

 

 

Parco di Beaulieu
Inghilterra

12 maggio 1858

Le guance arrossate, il respiro affannato e i capelli al vento, Lady Sarah Jane Montagu cavalcava la sua purosangue lanciata al galoppo.
Quella mattina, approfittando della splendida giornata, aveva allungato di parecchio il solito giro e tuttavia non aveva alcuna voglia di rientrare.
Gli unici momenti in cui si sentiva di nuovo viva e felice erano quando cavalcava Ginger, come se solo la cavalla potesse trasmetterle la sua energia per continuare a sopravvivere.
La sua mente tornava ad essere libera; libera di abbandonarsi ai ricordi, gli unici momenti che considerava ancora suoi e che le regalavano un po’ di gioia.

Quanto si era sbagliata!

Era convinta che la sua ragione di vita fosse riottenere Beaulieu, le proprietà e il titolo dei Montagu; aveva lottato per anni per perseguire quello scopo e non si era fatta fermare da nulla, neppure dall’amore. Ma quando aveva ottenuto finalmente quello che aveva rincorso a lungo, si era sentita soltanto tanto vuota e sola.

Dopo la discussione con suo marito aveva riflettuto molto, analizzando eventi e sentimenti con estrema sincerità, ed era dolorosamente giunta alla conclusione che Nicholas aveva ragione.

Egli non l’aveva mai costretta a sposarlo. Era stata lei a trarre certe conclusioni. Non le aveva mentito, semplicemente aveva omesso di chiarirle che non pretendeva lo sposasse solo per ottenere il suo aiuto, ma che l’avrebbe aiutata comunque, come in realtà aveva fatto.

Lei sola si era voluta convincere che lui l’avrebbe aiutata solo in cambio di qualcosa; e si era convinta di questo per nascondere a se stessa di potersi innamorare di Nicholas Thornton, se solo gliene avesse dato la possibilità.

Perché, se si fosse innamorata di Nicholas, avrebbe potuto dimenticarsi di André. Ma non solo: aveva anche avuto timore di arrivare a fidarsi completamente di un uomo. Se il piano avesse avuto successo (come in realtà era accaduto), non avrebbe più avuto scuse per fuggire. Con Hewitt in galera e il nome dei Montagu riabilitato, non avrebbe avuto più scuse per fuggire l’amore, come aveva fatto con André D’Harmòn.

Ripensando con spietata sincerità ai momenti passati con André, doveva ammettere che se si era abbandonata all’amore e ai sentimenti che provava per lui era stato solo perché sapeva che, prima o poi, l’avrebbe lasciato.

Suo marito aveva ragione: temeva i legami, ma ancora di più temeva e fuggiva l’amore.

L’aver accettato finalmente dentro di sé tutto quanto era stato un notevole passo avanti e solo per quello avrebbe dovuto ringraziarlo.

Ciò che tuttavia suo marito ancora non sapeva era la decisione cui era giunta dopo il procedimento mentale da lui stesso innescato: aveva ormai capito che non sarebbe più riuscita ad essere felice a metà.

Non poteva amarlo. Lei amava ancora André François D’Harmòn e lo avrebbe amato per sempre.

Ora era intenzionata a fare il possibile per ritrovarlo, per implorare il suo perdono e dirgli quanto lo amava. E se egli fosse stato ancora libero e l’avesse rivoluta con sé, lei sarebbe stata soltanto sua.

Nulla l’avrebbe fatta desistere da questa decisione, neppure il suo legame con Nicholas Thornton; solamente un rifiuto di André l’avrebbe fermata. Pur di vivergli accanto era disposta anche a mettere a repentaglio la propria reputazione.

Ripensando a suo marito e a come si era comportato con lei in quel mese dalle nozze, ora era dispiaciuta anche per lui: aveva capito quanto stesse soffrendo per non poterla avere, eppure era stato sempre gentile e dolce. Molti altri uomini non sarebbero stati altrettanto pazienti e avrebbero fatto valere i propri diritti, anche con la forza.

Nicholas, invece, si era limitato ad amarla in silenzio.

Purtroppo per lui, lei voleva André.

Era consapevole che questa sua decisione, qualora non fosse riuscita a ritrovarlo o se egli l’avesse respinta, le avrebbe fatto correre il rischio di perdere anche l’unico altro uomo di cui si sarebbe potuta innamorare se solo non lo fosse già stata così tanto del Conte D’Harmòn, ma era disposta a correre il rischio.

Quella sera stessa avrebbe parlato con Nicholas e poi sarebbe partita per la Francia.

Serena per la decisione presa, fece rallentare Ginger e, lentamente, ritornò al castello.

 

 


 

Bond Street
Londra

12 maggio 2005

Quel pomeriggio, per accontentare sua madre che glielo chiedeva da tempo, Belinda era uscita in anticipo dall’ufficio e si era incontrata con lei alla fermata della tube di Bond Street.

In quel momento la strada più famosa di Londra per i suoi negozi di alta moda era affollatissima di ricchi londinesi, turisti e studenti sfaccendati. Non capiva il perché sua madre volesse farle acquistare a tutti i costi due abiti da cocktail e uno da sera. Aveva l’armadio strapieno di abiti e non le mancava certo il modello giusto da indossare per il the di quel pomeriggio e la cena della sera che avrebbe inaugurato il torneo di bridge di Lady Victoria Kent. Vide sua madre scendere da un taxi proprio a pochi passi da lei. Elegantissima e impeccabile come sempre nel sobrio tailleur di Chanel color panna, le si fece incontro salutandola calorosamente.

“Belinda” le disse baciandola su entrambe le guance, “mi fa piacere che tu abbia accettato il mio invito.”

“Mamma sai benissimo che non ho bisogno di andare da Armani o Valentino per un nuovo abito.”

“Non è vero mia cara” replicò Lady Kent. “I tuoi abiti sono fuori moda e per questa serata ti serve qualcosa di nuovo.”

“Come vuoi” si arrese alla fine Belinda, lasciandosi prendere sottobraccio e trascinare in direzione della boutique di Armani.

Entrarono e subito le commesse riconobbero Lady Kent e le proposero gli ultimi arrivi direttamente dalla maison dello stilista italiano.

“Che ne dici di questo?” chiese alla figlia mostrandole un sobrio abito  longuette. “Credo che per il the di oggi andrà benissimo.”

“Non ti sembra un po’ troppo lugubre per un semplice the?” chiese un po’ dubbiosa Belinda.

“Ma il nero ti sta d’incanto mia cara! E s’intona alla perfezione con i tuoi capelli rossi” replicò Lady Kent.

Seppure poco convinta di quella scelta, Belinda s’infilò nel camerino di prova e indossò l’abito. Con suo sommo dispiacere dovette convenire che quell’abito le stava d’incanto. Dopo la cura dimagrante aveva perso cinque chili e il vestito faceva risaltare le sue forme ben tornite ma non troppo. Si rimirò soddisfatta nello specchio.

Cosa avrà lei più di me…, si ritrovò a pensare. Ma che le veniva in mente?! Harmon aveva dimenticato la sua amica, e le aveva detto che fra loro non c’era mai stato nulla. Si stava preoccupando eccessivamente.

Uscì dalla cabina di prova. Sua madre la guardò con aria soddisfatta.

“Visto che avevo ragione? Quest’abito ti sta d’incanto Belinda. Lo prendiamo” aggiunse rivolta alla commessa che le stava seguendo solerte e zelante come un cameriere cinese.

“Adesso vorrei che provassi questo” disse a Belinda mostrandole un altro abito da cocktail, questa volta composto da una giacca color panna e da un pantalone nero in leggero tessuto di fresco di lana. L’insieme era completato da una camicetta di seta bianco avorio.

“Ma mamma!” protestò Belinda. “Si tratta di the, non di colazioni a Buckingham Palace.”

“Hai bisogno di rinnovare il guardaroba Belinda” sentenziò perentoria Lady Kent porgendo il completo alla figlia.

Ormai rassegnata, Belinda tornò nuovamente nella cabina di prova.

Uscirono dalla boutique dopo circa un’ora: i pacchi sarebbero stati recapitati direttamente all’abitazione della famiglia di Belinda, a Mayfair.

“Mamma adesso mi vuoi spiegare cosa hai in mente? Sai benissimo che non ho affatto bisogno di avere nuovi abiti nel mio armadio. E sai benissimo che non ho vestiti fuori moda.”

La donna non rispose, fermandosi a contemplare una vetrina di Chanel.

“Non trovi che quel tailleur sia un amore?” domandò serafica alla figlia.

“Mamma…” la incalzò Belinda  battendo un piede a terra. “Sto aspettando.”

“Vorrei che lo provassi” continuò imperterrita Lady Kent fissando la vetrina e avviandosi all’ingresso del negozio.

A Belinda non restò altro da fare che seguirla, tuttavia aveva la ferma intenzione di scoprire cosa stava tramando sua madre.

Quando uscirono dalla boutique di Chanel Belinda possedeva un tailleur, due gonne e un paio di maglioncini in più.

Dopo quell’ennesima performance di sua madre era più che decisa a scoprire cosa covasse sotto la cenere.

Camminarono lungo la via affollata, e più lei cercava di andare a fondo della questione, più sua madre sviava il discorso parlando del più e del meno.

Quando giunsero davanti all’atelier di Valentino e Lady Kent insistette affinché lei comprasse un abito da sera del valore di 3.000 sterline, non ci vide più.

“Allora mamma vuoi dirmi cosa cavolo stai tramando dietro le quinte? Cosa c’è che non va?” sbottò.

“Belinda! Siamo in mezzo ad una strada! Non ti comportare come una straccivendola qualsiasi!” esclamò scandalizzata.

“Se non mi dici cosa hai in mente giuro che mi metto a strillare qui” la minacciò.

Allarmata da quella disdicevolissima prospettiva Lady Kent si arrese: “Andiamo in quel cafè”.

Si sedettero all’interno del locale e ordinarono una tazza di the.

“Ebbene?” insistette Belinda.

Lady Kent fissò il soffitto: “Il tuo fidanzato non viene?” chiese apparentemente più interessata alla complicata decorazione del soffitto che non alla figlia.

“Cosa vuoi dire? Lo sai benissimo che Harmon questo fine settimana è a Beaulieu per lo Spring Automotor Jumble” replicò Belinda.

“Quindi non sarà presente alle cena di domenica sera” continuò Lady Kent.

“No, mamma, non sarà presente” rispose lei infastidita. “Te l’avevo detto mi pare.”

“Sì è vero” disse la madre tornando a posare gli occhi sulla figlia.

Il cameriere portò i the.

“Ad ogni modo, forse è una fortuna che non ci sia.”

Gli occhi verdi di Belinda si aprirono in un’espressione interrogativa: “Mamma che vuoi dire? Se non sarà per questo fine settimana potremmo sempre organizzare per la prossima. Vorrei presentarvelo senza tutti i vostri amici intorno”.

“Sei sicura di voler stare con lui?” chiese girando distrattamente il cucchiaio nella tazza.

“Mamma! Ma come ti permetti?!” esclamò Blinda. “Io lo amo e lui ama me. Cosa c’è che non va? E per favore parla chiaro questa volta.”

Lady Kent smise di girare il the. “Vedi? Anni di educazione inglese non sono serviti a nulla! Due mesi che convivi con quell’americano e parli come loro. Ma ti sei sentita almeno?”

“Allora è questo! Non ti va che mi sia fidanzata con una persona che non sia inglese purosangue e appartenga ad un altro mondo!”

“Bambina mia” esordì Lady Kent, “quell’uomo non è alla tua altezza. Tu puoi meritare di più. Non è inglese” cominciò ad enumerare, “e quel che è peggio è un americano. È un militare, uno della Marina e tu sai come sono fatti quelli della Marina…”

“Mamma sei piena di pregiudizi. Harmon non è così. Lui è diverso” rispose Belinda esasperata da tutte quelle basse insinuazioni. “Magari preferiresti che cercassi la compagnia di … aspetta come si chiama?” disse sarcastica.

“Charles Hewitt” rispose Lady Kent. “E, a proposito di Charles, sarà presente al the di domani pomeriggio” continuò soddisfatta la donna.

Belinda quasi si strozzò con il the: “Ecco il perché di tutte queste compere!” esclamò. “Tu vuoi….” ma la madre la interruppe.

“Io non voglio nulla, solo che tu rifletta bene sul tuo futuro prima di fare certe scelte.”

“Ma io le ho già fatte le mie scelte mamma! E quando conoscerai Harmon anche tu cambierai idea.”

Lady Kent non rispose.

Terminarono di bere i loro the ed uscirono dal cafè.

“Meglio che torni a casa mamma, ci vediamo domani mattina” la salutò freddamente Belinda.

“Come vuoi cara.”

Guardandola allontanarsi fra la folla delle cinque del pomeriggio in direzione della tube, Lady Kent non poté trattenere un moto di sollievo.

Belinda cerca di nascondere quella che è la sua vera natura, ma se davvero avesse voluto evitare di incontrare Charles mi avrebbe risposto con un ‘no’ secco.

 

 

 

Castello della famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

12 maggio 1858

 

Aveva lasciato la cavalla nelle mani capaci di Ben, che l’avrebbe ricondotta alle scuderie e si sarebbe preso cura dell’animale, e stava per rientrare passando dalle cucine, quando sentì la voce di suo marito e quella del Duca suo zio provenire quasi certamente dal salotto azzurro che si trovava proprio da quel lato della costruzione.

Prima di rientrare si fermò un attimo a cogliere dei fiori da far disporre per la tavola: la presenza di Sua Grazia avrebbe richiesto come minimo le porcellane Wedgwood, se non addirittura l’argenteria… Strano che Nicholas non l’avesse avvisata che avrebbero avuto suo zio a pranzo, a meno che lui stesso non ne fosse a conoscenza se l’anziano gentiluomo aveva deciso di fare una sorpresa ai novelli sposi.

Dalla vetrata aperta poco più in là le voci arrivavano nitide, senza che zio e nipote potessero vederla.

Lady Sarah stava decidendo se cogliere delle rose, nel qual caso sarebbe stato meglio rientrare ed attrezzarsi con guanti e forbici adatte, oppure delle semplici margherite a gambo lungo da abbinare agli ultimi tulipani gialli e rossi; concentrata sulla scelta, fu sorpresa di sentire la voce di suo marito come non l’aveva mai sentita prima.

“Non so più cosa fare con lei, zio. Sarah mi odia.”

Il tono di Nicholas Thornton aveva un che di sofferente e disperato. Lady Sarah rimase immobile ad ascoltare, con una margherita tra le mani.

“Non credo che ti odi, figliolo.”

“Tu non l’hai sentita e neppure vista, quella sera. Era furiosa. E io ho peggiorato la situazione, con quello che le ho detto. L’ho distrutta.”

“Hai cercato di parlare con lei? Di spiegarle tutto quanto?”

“No. Lei sta soffrendo troppo e non vuole avermi intorno.”

“Ma se soltanto sapesse tutta la verità, Nick… Sai che quello risolverebbe ogni cosa, vero?”

La verità?

Ma di cosa stavano parlando?

“Certo che lo so, zio. Ma io avrei voluto che si innamorasse di me senza rivelarle ogni cosa. Avrei desiderato che fosse il suo cuore a capire…”

“Forse hai preteso un po’ troppo. Da te stesso e da lei. Ma puoi ancora rimediare, Nick. Parlale. Raccontale tutto quanto.”

“E’ troppo tardi, zio. Non mi perdonerebbe mai. E poi, nonostante tutto, desidero ancora che si innamori di me, senza che sappia…”

“E tu sei davvero sicuro che se ti rivelasse d’essersi innamorata di te, senza sapere tutta la verità, poi saresti felice?”

“Che cosa vuoi dire, zio?”

“Tu sai che lei ama un altro uomo. Sei certo di riuscire ad accettare, e soprattutto a  credere, che si sia innamorata di te? Di Lord Nicholas Thornton? Pensaci, ragazzo.”

Ma che cosa stava dicendo Sua Grazia?

Tutto quello che aveva sentito non aveva alcun senso.

“Forse hai ragione. Forse soffrirei anche in quel caso…” sentì dire a Nicholas.

Che cosa nascondeva ancora suo marito?

E perché il Duca sosteneva che se avesse conosciuto la verità, ogni cosa sarebbe andata a posto, mentre se lei gli avesse confessato d’amarlo senza conoscere tutto quanto, egli avrebbe comunque sofferto?

Ci doveva essere qualcosa che le era sfuggito…

Ripensò a quello che aveva appena udito, cercando di analizzarlo sotto un’altra prospettiva, quella delle sue sensazioni: tutte le sensazioni che aveva provato da quando aveva conosciuto Lord Nicholas Thornton.

Rifletté sulle parole di suo marito e su quelle del Duca di Lyndham e su tutto ciò che era accaduto in quei mesi, dal suo ritorno in Inghilterra.

All’improvviso lasciò cadere la margherita che aveva tra le mani e corse in camera.

Chiamò la cameriera e si fece preparare una piccola borsa da viaggio, il necessario per una notte; scrisse poi un biglietto a suo marito in cui gli comunicava che aveva saputo di dover andare a trovare un’amica, che l’aveva convocata all’improvviso, e che sarebbe rientrata il giorno successivo.

Dette istruzioni ad Albert affinché consegnasse il messaggio non appena possibile; dopodiché si fece preparare la carrozza e in meno di mezz’ora era già sulla strada per Londra.

 

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Capitolo 13
*** Una Scoperta ***


Capitolo XIII

Una scoperta



Uffici del comando delle Forze Navali Americane
Grosvenor Square, Londra

13 maggio 2005

Mac stava terminando di sistemare le ultime carte relative al caso appena concluso. Nel frattempo pensava a come, all’improvviso, sembrava che il caso avesse trovato una soluzione.

Dopo che Harm aveva terminato la sua telefonata con il Segretario e lei si era bevuta il suo caffè, era rientrata in ufficio da lui e lo aveva visto pensieroso. Gli aveva domandato cosa gli aveva detto il Segretario quando lo aveva informato di ciò che avevano scoperto ed egli aveva risposto evasivo, dicendo che aveva avuto ordine di procedere con estrema cautela.

“Questo mi puzza d’insabbiamento” era sbottata lei arrabbiata.

“Non possiamo esserne certi. Per ora hanno solo deciso di continuare con le indagini, ma senza smuovere troppo le acque.”

Comunque gliela vendesse, aveva capito che anche a lui ciò che gli era stato detto non convinceva affatto. Ma non avevano potuto far altro che obbedire.

Quindici giorni dopo, la risposta definitiva: Sheffield aveva ordinato d’interrompere le indagini in corso perché il Presidente si sarebbe incontrato personalmente con il Premier inglese.

“Come volevasi dimostrare: insabbiamento” aveva detto lei, sarcastica.

“Non è vero. Hanno solo deciso di risolvere le cose in maniera diversa” le aveva obiettato Harm.

“Insabbiando” aveva insistito, caparbia. “Bene, almeno posso tornarmene a casa e pensare al mio matrimonio” aveva aggiunto, quasi a volergli fare del male perché aveva avuto la sensazione che lui fosse d’accordo con la linea decisa dall’alto.

“Il Segretario ha tenuto a precisare che, finché l’incontro tra il Presidente e il Premier non è avvenuto, è meglio che noi si faccia in modo di far capire che stiamo proseguendo con le indagini… Per la stampa, ha detto” era stato costretto a rivelarle.

“CHE COSA?!! E questo non lo chiami insabbiamento?!” era sbottata lei, furibonda. “Dovrei restarmene qui, a fingere di indagare, per evitare che la stampa capisca cosa sta succedendo? Quando invece, a casa, ho di meglio da fare” aveva soggiunto sempre con l’intenzione di fargli pesare la perdita che stava subendo a causa sua.

 “Questi sono gli ordini…”

Brutta conclusione davvero per quello che sarebbe stato il loro ultimo caso in senso assoluto.

E così era stato: per quasi un mese avevano interrogato testimoni inutili, stilato documenti inutili e rivisto deposizioni inutili, cercando di spremersi le meningi su cosa scrivere nei rapporti ufficiali che avrebbero dovuto consegnare successivamente. La tensione tra loro era divenuta insopportabile.

Fortunatamente, una settimana prima era avvenuto il fatidico incontro e subito dopo avevano avuto l’ordine di chiudere il caso.

E così ora sarebbe potuta tornare a casa e dimenticarsi di Harm e dell’Inghilterra.

Un moto di sollievo la pervase. Dopotutto a casa l’aspettava un futuro radioso con l’uomo che amava e che sarebbe diventato suo marito di lì ad una settimana.

Sperò ardentemente che Clay venisse a prenderla all’aeroporto. Aveva voglia di rivederlo, di riabbracciarlo e di passare una notte (la prima di quelle che sarebbero venute) fra le sue braccia.

Harm era partito per l’Hampshire quella mattina stessa. La sera prima si erano salutati molto frettolosamente sulla porta del suo ufficio: non si sarebbe aspettata nulla di diverso, del resto i rapporti si erano mantenuti su un piano strettamente formale.

Tuttavia un po’ le dispiaceva: per tutto il tempo in cui avevano lavorato assieme, quando lui era ancora al JAG, avevano formato una coppia imbattibile e la loro amicizia aveva rappresentato un punto fermo per entrambi. Durante gli anni avevano litigato, si erano detti addio, avevano frequentato altre persone, ma alla fine erano sempre tornati l’uno dall’altra.

Sempre, tranne questa volta.

Ormai la frattura era irreversibile ed era meglio che ognuno andasse per la sua strada.

Magari, un domani quando riusciremo a dimenticare quello che ci ha uniti potremo tornare amici, si disse, ma non ci credeva molto. Lei e Harm non avrebbero mai potuto essere semplici amici: o si buttavano l’uno nelle braccia dell’altro, o era meglio dividersi.

Prese il fascicolo contenente la relazione che avevano steso per il Segretario e il Presidente e la mise nella borsa porta documenti. L’originale sarebbe tornato con lei negli States, mentre Harm ne avrebbe trattenuto una copia autentica.

Sfogliò un’ultima volta il rapporto per assicurarsi che fosse tutto in ordine e quando arrivò all’ultima pagina si accorse che lui non l’aveva firmata.

“Complimenti Harmon Rabb jr” borbottò inviperita.

Quella sua svista le sarebbe costato il rientro, e non sapeva neanche dove rintracciarlo. L’unica cosa di cui era sicura era che si trovasse da qualche parte nell’Hampshire nel sud ovest dell’Inghilterra.

Prese a passeggiare nervosamente su e giù per la stanza, com’era solita fare da un po’ di tempo a quella parte quando doveva cercare la soluzione ad un problema particolarmente fastidioso. Ad un certo punto si fermò e si precipitò al telefono. Compose un numero e rimase in attesa.

 

 

Hampshire
Inghilterra

13 maggio 2005

 

Harm si stava godendo il tepore del sole di Maggio nonché la vista della campagna inglese che correva accanto a lui.

Era partito molto presto da Londra per evitare le lunghe code che si formavano sulla M25, la London Orbital, all’inizio del weekend a causa dei londinesi in fuga dalla city.

Non aveva gradito come erano finite le cose con il caso Herriott.

A Mac non aveva potuto dirlo, la sua posizione glielo imponeva, ma anche lui sospettava che le cose fossero state insabbiate volontariamente dalle alte sfere quando si era scoperto che gli inglesi, per chissà quale motivo, avevano mentito su tutta la linea, o quasi.

Era concorde con Mac, ma quando lei aveva detto che sentiva puzza d’insabbiamento non si era potuto esprimere.

Tuttavia, aveva deciso che, non appena di ritorno da quella breve vacanza, avrebbe condotto una sua personale indagine per scoprire la verità.

Lo doveva a se stesso, per non tradire ciò che era sempre stato e sì, lo doveva anche a lei. Per dimostrarle che l’Harm che aveva conosciuto non era affatto cambiato a dispetto delle parole che era stato costretto a dirle.

Come al solito, la fortuna l’assistette e in meno di due ore aveva potuto abbandonare l’autostrada e prendere la provinciale che l’avrebbe condotto alla sua meta.

Beaulieu si apriva davanti a lui in tutto il suo splendore, rendendo giustizia al proprio nome: bel luogo.

Si trattava di un tipico villaggio della campagna inglese, dove la main street incrociava altre vie secondarie affiancate da cottage che assomigliavano a case di bambola. Soprattutto lo colpì una strada costellata di piccoli negozi (per lo più ad uso e consumo dei turisti sospettò): un minimarket con relativo post office, una gelateria con produzione propria di gelati e cioccolato (prodotto di cui Beaulieu andava famosa nel Regno Unito), un negozio di souvenir di varia natura. Dal fondo della strada gli giungeva il vociare degli alunni in ricreazione. Proseguì seguendo la main street fino ad un bivio, dove svoltò a destra in direzione di Brokenhurst.

Proseguì ancora per un tratto di strada costeggiando alcuni cottages che sembravano la versione moderna della Dolls’ House della Regina Vittoria e all’improvviso, dopo una curva sbucarono una giumenta con puledro al seguito che pascolavano placidamente sul ciglio della strada.

Prima di partire aveva letto qualcosa sulla New Forest, pertanto sapeva trattarsi di una riserva di ripopolamento faunistico, per lo più cavalli di una certa razza particolare, ma non si sarebbe certo aspettato di trovarli a brucare l’erba sul ciglio di una strada, benché secondaria.

Superò i cavalli, che non lo degnarono d’uno sguardo, proseguì a velocità moderata fino ad un secondo bivio al quale prese a sinistra seguendo le indicazioni per il Masters Builders’ House Hotel.

L’aveva scelto perché era fuori mano e discreto e, in quel periodo dell’anno molto poco frequentato essendo la stagione velica non ancora cominciata. Sperava di passarci un romantico week-end con Belinda e ci era rimasto molto male quando lei gli aveva ricordato il mensile torneo di bridge organizzato dalla madre, ove la sua presenza era considerata indispensabile.

Mi godrò egualmente il fine settimana, disse fra sé e sé parcheggiando l’Austin Healey nell’ampio spiazzo ghiaioso. E fra qualche settimana potrò sempre tornarci con lei.

Scese dall’auto e prese il bagaglio.

Di fronte al parcheggio un’alta staccionata di legno impediva la visuale, ma Harm sapeva che oltre, ben protetta agli occhi dei curiosi, si trovava una larga baia naturale formata dal fiume che attraversava la cittadina, baia all’interno della quale v’erano ancorate numerose barche di lusso, tutte rigorosamente a vela.

Entrò nel cortile dell’albergo, anticamente la casa dei maestri d’ascia di Buckler’s Yard, villaggio poco distante da lì.

Il sole cominciava a tramontare e l’aria rinfrescava. Entrò nella reception dopo aver attraversato un cortile pieno di foglie secche e con le aiuole incolte.

“Molto british” commentò divertito l’aura di studiato disordine e trasandatezza dell’intero complesso di mattoni rossi e del giardino stesso.

Spinse la porta a vetri all’inglesina ed entrò.

Al banco, una rubiconda signorina inglese si aprì in un radioso sorriso e l’accolse, lo registrò, dopodiché lo accompagnò alla sua stanza.

 

 

 

Castello della famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

13 maggio 1858 

 

Sentì arrivare la carrozza. Si alzò, richiudendo il quaderno e posando la penna; quindi uscì dallo studio, portandolo con sé.

Le andò incontro, raggiungendola proprio mentre lei stava entrando.

“Grazie, Albert”, stava dicendo al maggiordomo che le aveva preso il mantello. Quando si voltò verso di lui e lo vide, Nicholas scorse nei suoi occhi un’espressione diversa: un po’ di luce sembrava essere tornata in quegli occhi ultimamente inespressivi.

“Buon pomeriggio, Nicholas.”

Anche nella voce sembrava esserci maggiore partecipazione e non più l’indifferenza delle settimane precedenti.

“Sarah…” la salutò, avvicinandosi a posarle un bacio sulla guancia. “Siete tornata prima di quanto pensassi. Non vi aspettavo fin verso l’ora di cena.”.

Lei lo lasciò fare, senza scostarsi, ed egli fu piacevolmente sorpreso.

“Come sta la vostra amica?” chiese poi, premuroso.

Vide che rivolgeva una fugace occhiata a ciò che aveva tra le mani, ma subito tornò a guardarlo, rispondendogli con particolare dolcezza nel tono di voce:

“Meglio. Sta molto meglio, ora…”.

“Ne sono lieto”, rispose lui. Poi aggiunse:

“Sarete stanca. Perché non salite a riposarvi? Darò io disposizioni in cucina perché vi servano la cena in camera vostra”.

Ultimamente erano più le sere che lo lasciava mangiare solo che quelle in cui decideva di fargli compagnia.

“Scenderò in sala da pranzo. Vorrei cenare con voi, se non vi dispiace”.

“No, certo che no”, rispose lui, sorridendo spontaneo. Contrariamente al suo solito, quel sorriso gli illuminò l’occhio sano e gli addolcì la piega delle labbra.

Lei lo guardò attentamente e, per un momento, sembrò sul punto di dire qualcosa. Ma subito ci ripensò e si limitò a ricambiare il sorriso. Poi lo lasciò, per salire in camera propria.

Quando Lynnette ebbe terminato di sistemare le sue cose e di sceglierle l’abito per la sera, la congedò rapidamente, dicendole che si sarebbe preparata da sola, più tardi, non appena si fosse riposata un po’.

Ma, uscita la cameriera, non le riuscì affatto di riposarsi. Era troppo agitata.

Un turbinio di pensieri le affollava la mente, rendendola irrequieta e nervosa.

Per tutto il viaggio da Londra non aveva fatto altro che ripensare a ciò che aveva scoperto con una semplice ricerca sull’Almanacco del Gotha.

Era partita da lì, convinta di aver bisogno di ulteriori indagini per trovare conferma ai propri sospetti. Ma lì si era fermata: la verità era racchiusa in quel catalogo delle famiglie nobili di tutta Europa.

E, alla luce di quanto aveva scoperto, ora sapeva che la decisione che il suo cuore aveva preso soltanto il giorno prima, di ritorno dalla sua passeggiata a cavallo, era la decisione giusta.

Ora più che mai avrebbe fatto il possibile per ritrovare il Conte André François D’Harmòn.

 

 

 

Hampshire
Inghilterra

13 maggio 2005

 

Per l’ennesima volta Mac sbagliò corsia e anziché su quella riservata al traffico più lento si trovò in quella di sorpasso.

“Maledizione!” esclamò arrabbiata riportando la Smart Forfour nera nella carreggiata centrale.

Aveva saputo dove si trovava Harm ed era anche riuscita ad apprendere che l’unico modo per raggiungerlo consisteva nel farsi più di cento miglia in contromano.

La tentazione di lasciar perdere non le era minimamente transitata nel cervello, non poteva rimandare il suo rientro: Clay sarebbe stato di rientro da Baghdad quella sera stessa ed avevano deciso di incontrasi all’aeroporto. Era perciò di vitale importanza per lei prendere quell’aereo.

Pertanto si era recata all’autonoleggio più vicino all’albergo e aveva affittato una macchina, decisa a raggiungerlo, fargli firmare la relazione e tornarsene a Southampton quella sera stessa per prendere l’ultimo aereo in partenza per Washington. Non senza prima avergliene dette quattro, ovviamente.

Quel percorso di guerra stava per finire, sospirò Mac imboccando l’uscita dell’autostrada. Se i calcoli del navigatore erano esatti, e traffico permettendo, di lì a trenta minuti esatti sarebbe arrivata a destinazione e dopo tre ore, al massimo quattro, sarebbe stata seduta su un aereo in partenza da Southampton con destinazione casa.

Non si curò del fantastico paesaggio che scorreva accanto a lei: prati verdissimi accarezzati da una leggera brezza e scaldati dal sole di Maggio, altri pieni di fiori gialli che sembravano fare a gara con l’astro solare in quanto a luminosità; gli animali, per lo più pecore e mucche, al pascolo e i filari regolari di alberi che, al posto delle staccionate e del filo di ferro, delimitavano i confini fra una proprietà e l’altra. Era troppo concentrata sulla guida, in costante tensione per timore di imboccare le rotonde nel verso sbagliato, con conseguenze assai dannose per la sua incolumità personale.

Il suo unico pensiero, oltre alle rotonde, era raggiungere Beaulieu ovunque fosse, e poi tornarsene a casa. Ne aveva avuto abbastanza dell’Inghilterra.

Guardò velocemente l’orologio e si accorse che si stava facendo sera. Sperò ardentemente che la colonna d’auto davanti a lei si muovesse in fretta.

Cominciava a smaniare di arrivare: tutto il viaggio, difficoltà di guida a parte, era stato costellato di imprevisti. Prima il traffico assurdo sulla M25, poi i cantieri in autostrada che l’avevano costretta a restare ferma in coda in lunghe attese, e adesso quella dannatissima provinciale che, dopo un buon inizio, sembrava essersi intasata a meno di due miglia dalla sua meta.

Picchiò nervosamente il pugno sul cruscotto, l’aereo le stava sfuggendo.

Lentamente, la colonna si mosse e Mac avanzò di qualche metro.

 

 

 

 

Masters Builders' House Hotel
Beaulieu, Hampshire

13 maggio 2005

  

Harm era appena rientrato da una passeggiata nei dintorni. Si era recato a Buckler’s Yard, un villaggio di pescatori e costruttori di barche, ricostruito nei minimi dettagli.

Mentre girava fra i viali semideserti e spazzati da una discreta brezza gli era parso di udire la voce di Mac che lo canzonava: “Non ti smentisci mai, marinaio. Anche quando sei in vacanza non riesci a fare a meno dell’acqua…”.

Era vero, aveva scelto quell’albergo e quel luogo perché era in stile marinaro e per le passate glorie dei suoi abitanti, famosi maestri d’ascia.

Sorrise fra sé.

Mac l’aveva sempre capito ed era stata l’unica che lo completasse davvero. Non solo Sarah però. Anche Belinda era una buona compagna e aveva immediatamente compreso di che pasta fosse fatto.

Alzò lo sguardo verso la darsena e fissò gli stralli delle barche a vela che suonavano come arpe nel vento della sera incipiente.

Gli mancava da quando se ne era andato e non aveva fatto che pensare a lei, al modo in cui s’erano lasciati. Dopotutto che male avrebbe fatto restare qualche minuto in più ad ascoltare le sue spiegazioni? Forse tra loro non sarebbe mai accaduto nulla, forse sarebbero rimasti solo amici, ma perché non tentare? Si diede dello stupido, ma ormai era troppo tardi: le loro strade erano divise e lei, a quell’ora, era già su un aereo diretta verso un matrimonio. E questa volta non ci sarebbe stato nessun tuffo fuori stagione nell’Atlantico a fermarla.

Tornò verso l’albergo, rassegnato.

 

 

 

Masters Builders' House Hotel
Beaulieu, Hampshire

13 maggio 2005

Mac parcheggiò la Smart poco distante dall’Austin Healey di Harm, scese dalla macchina, afferrò la ventiquattr’ore dal sedile posteriore e, incurante del venticello teso e fresco che s’era levato, foriero di un prossimo peggioramento delle condizioni atmosferiche, si diresse a passo di marcia verso la reception. Era fuori di sé per aver perso l’aereo. Avrebbe dovuto trascorrere la notte in aeroporto e mettersi in lista d’attesa per il volo successivo, chissà quando avrebbe potuto riguadagnare il suolo patrio e le braccia del fidanzato.

Harm l’avrebbe pagata salata questa volta.

Sperò ardentemente che lui fosse in albergo.

Arrivò alla reception e attese che qualcuno si facesse vivo, ma sembrava che la stanza fosse deserta.

Mac si spazientì ancora di più.

“Cosa ci fai qui?” udì alle sue spalle l’esclamazione stupita di Harm.

Si voltò inviperita: “Cosa ci faccio?! Sono venuta fin qui nel bel mezzo del nulla perché tu, imbecille che non sei altro, hai scordato di firmare QUESTO” gli rovesciò addosso, porgendoglielo, il documento.

“Davvero me ne sono scordato?”

“Sì, capitano dei miei stivali, e io ho dovuto affittare una macchina, guidare per oltre cento miglia contromano in mezzo ad un traffico pazzesco per raggiungerti qui e così ritardare il mio rientro di almeno un giorno” rispose più invelenita che mai dal tono falsamente ingenuo di lui.

“Il minimo che posso fare è offrirti una cena.”

“Ne faccio volentieri a meno” ribatté acida.

Posò il documento sul bancone: “Firma” gli ordinò perentoria. “Così me ne posso andare”.

“Davvero Mac, mi dispiace. Fermati a cena e per la notte. Domattina potrai tornare a Londra con calma e prendere il primo volo per gli Stati Uniti. Sempre meglio che passare la notte sulle sedie di plastica di una sala d’attesa.”

“C’è un volo che parte da Southampton a mezzanotte” mentì lei. “Se mi sbrigo ce la faccio.”

Ma Harm era irremovibile. Era sinceramente dispiaciuto per averla costretta a subire la sua presenza più del necessario e voleva a tutti i costi rimediare.

“Vorresti andare a Southampton ADESSO? Con la pioggia e il buio? Andiamo Mac, sii ragionevole e non fare il Marine cocciuto. Non sei abituata a guidare in Inghilterra, rischieresti inutilmente e Webb potrebbe trovarsi vedovo prima ancora di sposarti.”

“Non piove e se sono arrivata fin qui posso anche coprire una ventina di miglia in più per giungere a Southampton” ribatté cocciuta. “Firma”, insistette poi.

“Adesso non piove, ma il tempo cambia velocemente qui e prima del tramonto il vento s’era fatto più freddo e nubi nere si ammassavano da ovest. Dammi retta Mac, resta.”

E senza darle il tempo di reagire o rispondere fece un cenno. Come per magia comparve la stessa ragazza che l’aveva ricevuto al suo arrivo: “La signora si ferma per cena e per la notte. Potete mettere tutto sul mio conto”.

Detto questo, scortò un’esterrefatta Mac al parcheggio dove la stessa poté recuperare i bagagli.

“Sei impossibile” commentò al rientro acidamente. “Almeno posso avere il permesso di chiamare il mio fidanzato?” aggiunse calcando l’accento sulla parola “fidanzato”.

“Concesso, ti aspetto al bar.”

“Vai a quel paese Harmon Rabb jr” sibilò tra i denti allontanandosi con l’assistente che l’accompagnava alla sua camera.

La stanza che le avevano dato confinava con quella di Harm e Mac provò un ulteriore moto di rabbia interiore. Tuttavia non poteva negare che lui aveva avuto ragione nel volerla trattenere. Sbirciò fuori dalla finestra e notò che aveva cominciato a piovere, e la ghiaia del parcheggio brillava lucida sotto la luce dei lampioni.

Diede uno sguardo alla camera e ciò che vide le piacque: la moquette, alta e folta, color azzurro carta da zucchero dappertutto e le pareti erano rivestite di tappezzeria di un caldo color crema. Alle finestre pesanti tendaggi in tinta con la carta da parati, facevano la funzione delle persiane, mentre al centro della stanza un grande letto invitava ad avvolgersi fra le spire del piumone avorio e rosso.

Sarebbe una bella idea fare una cosa simile anche a casa nostra, pensò rivolgendosi mentalmente a Clay.

Per prima cosa, dopo aver aperto il trolley, telefonò alla Continental e chiese di prenotare un posto sul primo volo disponibile in partenza per Washington da Southampton. L’impiegata del call center le riferì che per l’indomani non c’erano posti disponibili, ma che era possibile partire la domenica mattina. A malincuore Mac diede la conferma. Dopodiché chiamò il fidanzato e gli spiegò per sommi capi l’accaduto.

Come sempre, lui la rassicurò, le disse che l’amava e che l’avrebbe attesa a Washington per la domenica sera.

“Ti preparerò qualcosa di speciale e irripetibile. Sarà una serata magica” le promise.

Con un sospiro di nostalgia Mac chiuse la chiamata e si ficcò sotto la doccia.

Nel provvisorio ufficio che in quel momento occupava a Baghdad, Clayton Webb cominciò a dubitare che tutte quelle coincidenze e quei ritardi fossero solo coincidenze. Riaffiorò il vecchio sospetto che Rabb avesse orchestrato tutto per attirare Sarah fra le sue braccia.

Rimase in dubbio se rimettere in pista Patrick e assicurarsi che tutto procedesse come doveva procedere, ma si rese conto che ormai era troppo tardi. Quando fosse giunto a destinazione sarebbe stato già giorno e Sarah di ritorno da lui.

Decise, anche se con molta riluttanza, di fidarsi.

 

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Capitolo 14
*** Qualcosa di diverso nei suoi occhi ***


Capitolo XIV

Qualcosa di diverso nei suoi occhi



Masters Builders' House Hotel
Beaulieu, Hampshire

13 maggio 2005

Dopo essere uscita dalla doccia, Mac sistemò la divisa nell’armadio di quercia scuro cercando di lisciarne le pieghe e si vestì. Nulla d’eclatante, ormai le mise più belle e sexy le riservava all’uomo della sua vita. Per Harm un paio di jeans e una camicia potevano bastare. E avanzare, decise.

Scese al bar dove lui la stava aspettando sorseggiando tranquillamente una birra scura.

Si fermò a qualche metro da lui per osservarlo meglio: era sempre bellissimo.

Sospirò rassegnandosi al fatto che, nonostante tutto, Harm avrebbe sempre avuto l’effetto di sconvolgerle i sensi. Per un attimo invidiò atrocemente Belinda.

Si avvicinò: “Harm”, lo salutò piatta e incolore.

Lui si voltò e le riservò uno dei suoi smaglianti sorrisi ricambiando il saluto.

Lei gli tese il documento: “Prima che te ne dimentichi un’altra volta”, disse sempre mantenendo un’inflessione neutra.

Lui prese quanto gli veniva sporto, afferrò una penna dal bancone del bar e firmò.

“Ecco fatto”, le disse restituendo il plico. “Adesso possiamo goderci la serata senza altri formalismi?”

“Fammi strada.”

Lui si alzò e la guidò verso l’anticamera del ristorante dove furono accolti da un impettito maitre in giacca nera e panciotto di seta giallo pallido.

“Mr. e Mrs. Rabb?” domandò compitamente.

“Mr. Rabb e Miss Mackenzie” lo corresse Mac.

“Chiedo scusa. Se volete seguirmi.”

Li condusse attraverso una grande sala con il pavimento ricoperto da moquette azzurra che attutiva i loro passi. Appliques d’ottone diffondevano una calda luce ambrata e i pochi ospiti a cena parlavano a bassa voce. L’atmosfera era quella di un luogo intimo e raccolto, nonostante la sala fosse abbastanza grande da accogliere comodamente un banchetto per duecento persone. Fuori, ad ovest, gli ultimi residui del giorno combattevano con le nubi e una leggera pioggerella velava di umidità l’oscurità della notte che avanzava.

Il maitre li guidò ad un tavolo appartato, accanto ad una delle grandi finestre a ghigliottina che davano sul fiume, ora nero come la pece.

Scostò la sedia e fece accomodare Mac, dopodiché fece lo stesso con Harm.

“Porto subito i menù”, disse prima di eclissarsi.

“Bel posto”, osservò Mac guardandosi intorno.

“Avevo pensato di venire con Linda, ma all’ultimo…”

“…ti sei ritrovato a cena con me” completò la frase.

Harm rise: “E’ andata bene comunque no?”.

“Belinda lo sa?”

“Non ho avuto il tempo di avvisarla, ma anche se lo sapesse ne sarebbe contenta.”

“Al suo posto io non reagirei altrettanto bene. Ma forse è tutta questione di fiducia reciproca.”

“Appunto.”

“E comunque fra noi è tutto morto e sepolto vero?”

“Vero. Abbiamo compiuto scelte differenti, ma questo non c’impedisce di restare amici.”

Mac alzò un sopracciglio e lo guardò con aria interrogativa. Nel frattempo era tornato il maitre e la conversazione s’interruppe per scegliere i piatti della cena.

Dopo l’ordinazione restarono in silenzio a fissare il panorama buio.

“Parli come se fra di noi fosse accaduto qualcosa”, osservò Mac bevendo un sorso d’acqua. “Mentre lo sai benissimo che non è accaduto alcunché.”

“Qualcosa è successo, su questo non puoi non essere d’accordo” rispose Harm.

“No, Rabb, non sono d’accordo. Fra noi è sempre restato tutto sospeso, non abbiamo mai parlato, non abbiamo mai agito. Solo amici, grandi amici, ma nulla più.”

“Stai dimenticando un particolare, Sarah.”

Oh no!, pensò lei, ma ormai era troppo tardi e le conseguenze del sentirsi chiamare per nome da lui erano già in atto, devastanti come al solito.

Finse noncuranza e sperò di riuscirci: “Cosa dimenticherei?” domandò imburrando un tramezzino caldo e mettendoci sopra una fetta di salmone affumicato.

“Quel bacio, in sala riunioni, qualche tempo fa…”

“Ah quello. Era solo una provocazione Harm, quando ancora ero convinta di provare qualcosa per te.”

Il silenzio calò pesante fra di loro.

“Parto domani pomeriggio” comunicò asciutta dopo un po’, più che altro per sviare il discorso da argomenti pericolosi. “Ho trovato un posto, l’ultimo”, tenne a sottolineare, “su un aereo che parte da Southampton domenica mattina.”

“Ti accompagno.”

“Preferisco di no. Goditi la tua vacanza, in qualunque cosa consista” replicò, “e comunque devo restituire la macchina alla Hertz.”

Terminarono di cenare senza aggiungere altro e si ritirarono nelle proprie stanze.

Non appena giunta in camera, Mac si buttò a corpo morto sul letto, sentiva la tensione che le stringeva l’anima in una morsa d’acciaio, quasi impedendole di respirare.

Quel bacio… il suo ricordo l’aveva tormentata per mesi, per non parlare di quello che le aveva dato lui… sensazione che a stento era riuscita a relegare nell’angolo più remoto di se stessa e che adesso, complice un innocuo riferimento fatto durante una conversazione senza senso, tornavano a tormentarla. Cercò di ricordare quello che provava quando era tra le braccia di Clay, ma niente poteva competere con quello che aveva sentito fra quelle dell’altro.


Castello della famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

13 maggio 1858

“Perdonate, Milord…”, la cameriera personale di sua moglie lo distolse dalla lettura.

“Milady desidera vedervi.”

“Grazie, Lynnette. Lady Sarah è in salotto?” domandò alla donna.

“No, Lord Thornton. Milady vi attende in camera sua.”

“Grazie. Andate pure” disse, congedandola.

Attese che la donna uscisse dalla biblioteca, poi chiuse il libro e si alzò.

Mentre saliva le scale per raggiungerla, si domandò il motivo di quella richiesta: Sarah non aveva mai voluto parlargli in privato in tutte quelle settimane e, soprattutto, mai in camera propria. Da quando si era stabilito con lei a Beaulieu, non aveva mai visto la stanza di sua moglie, né di notte, né di giorno.

Dal suo rientro da Londra, tuttavia, Sarah sembrava un po’ cambiata. A cena era stata di ottima compagnia e aveva conversato piacevolmente. La luce sembrava essere tornata a brillare nei suoi occhi ed egli ne aveva gioito e sofferto al tempo stesso.

Era felice di vederla ritornare quella di un tempo, ma molto meno lo era sapere che quel cambiamento non era avvenuto grazie a lui, ma al viaggio a Londra. Rivedere quell’amica doveva essere stato molto importante per lei… sempre che di amica si fosse trattato. Non poteva infatti escludere che si fosse concessa una notte tra le braccia di un uomo.

Cercò di reprimere il moto di gelosia che sentì attanagliargli lo stomaco e si disse che sua moglie non era quel genere di donna, nonostante soltanto alcune settimane prima l’avesse offesa proprio con quell’insulto.

Giunse davanti alla camera e bussò discretamente. La voce di lei gli arrivò attutita dalla pesante porta in legno, che egli aprì per entrare.

Si aspettava di trovarla ad attenderlo in piedi, o seduta in poltrona, oppure allo scrittoio; invece la vide distesa sul letto, languidamente appoggiata alle lenzuola candide, in una posa molto sensuale.

Aveva i capelli lunghi e lucidi come la seta che le ricadevano morbidi da un lato, un po’ come li portava la sera in cui erano stati a teatro.

L'altra spalla era scoperta: la spallina della camicia da notte in seta e pizzo scivolava negligente a circondarle il braccio e formava una piega morbida all'altezza del petto, lasciando scorgere l'incavo dei seni. Anche il rosa delicato della camicia da notte era molto simile al colore dell’abito che indossava a teatro.

Un profondo spacco le scopriva una gamba, elegantemente accavallata all'altra, in una posa d’invitante abbandono.

Nicholas registrò ogni particolare, uno dopo l'altro, partendo dai piedi fino ad arrivare alle sue labbra. Era certo che non portasse null’altro sotto quell’unico indumento, e la immaginò completamente nuda, pronta per lui.

Deglutì ed inspirò profondamente, per trattenere l'eccitazione, ma non riuscì a  muoversi di un passo.

Perché lo stava torturando a quel modo?

“Venite avanti, Nicholas” lo invitò lei.

“Desideravate vedermi, Sarah?” domandò, e immediatamente di rese conto d’aver la bocca asciutta.

“Venite a sedervi qui, accanto a me” gli disse, muovendo appena la mano sul lenzuolo, ad indicare il letto.

“Non credo che sia il caso” rispose lui, fermandosi all’istante a quelle parole, dopo aver fatto solo pochi passi all’interno della camera.

“Siamo sposati…” gli ricordò lei, seducente.

C’era qualcosa che non gli tornava: cos’era cambiato da due giorni a quella parte?

“Credevo che pensaste al matrimonio con me come ad una prigione.”

“Possono esservi anche dei lati piacevoli…” disse allusiva, con una luce diversa negli occhi.

“Mi state dicendo che vorreste fare l’amore?” precisò lui, senza giri di parole.

Lei sorrise, distendendo le labbra morbide, in un’espressione dolce ed invitante che lo fece quasi impazzire… Dio, che voglia che aveva di catturarle le labbra in un bacio disperato, fino a farla bruciare dello stesso desiderio che stava divorando lui…

“Fino all’altro giorno, questo sembrava l’ultimo dei vostri desideri” le ricordò con fatica.

Dannazione! Perché non era riuscito a controllare il tono della voce, che si era pericolosamente arrochito?

La vide socchiudere gli occhi per una frazione di secondo. Ma poi sembrò non aver registrato il particolare, perché gli rispose maliziosa:

“Dovreste sapere, Lord Thornton, che noi donne siamo avvezze a cambiare idea”.

“E cosa, se è lecito saperlo, ve l’avrebbe fatta cambiare?”

“Voi, Milord. Le vostre parole. Ho riflettuto su quanto mi diceste la sera del nostro matrimonio e poco alla volta sono giunta alla conclusione che avevate ragione: io vi ho sempre desiderato.”

Quelle parole lo sorpresero, ma fu ancora più sorpreso nel vederla alzarsi e scendere dal letto.

Era così bella e seducente, mentre si muoveva lentamente verso di lui, che gli parve di tremare quando fu a pochi passi dal suo corpo e lo fissò negli occhi, aggiungendo:

“E ora ho capito di essermi innamorata di voi, Nicholas”.

Pronunciò il suo nome come in un soffio; poi si avvicinò ancora di più, fino a sfiorargli il torace con il seno, pericolosamente invitante.

Lui rimase immobile, quasi pietrificato da quelle parole, mentre lei si sollevava sulle punte dei piedi e gli prendeva il volto tra le mani per baciarlo. Il tocco delle sue labbra sulle proprie spezzò del tutto il suo autocontrollo ed egli la strinse a sé con forza.

Invase la sua bocca socchiusa con la lingua e la baciò con foga, desiderio e passione, come non aveva mai baciato nessuna donna prima d’allora. S’inebriò di lei, del suo sapore, del suo profumo e del suo corpo morbido stretto tra le braccia, accecato dal desiderio di averla, finché non sentì la rabbia prendere il posto della voglia che aveva di farla sua e, con un gemito soffocato, la allontanò bruscamente da sé.

Con le labbra arrossate da quel bacio disperato, lei rimase a guardarlo, immobile.

Si osservarono intensamente per qualche secondo; poi lui si voltò ed uscì dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle.

Masters Builders' House Hotel
Beaulieu, Hampshire

13 maggio 2005

Harm, mani incrociate dietro la schiena, fissava l’oscurità davanti a lui. Dalla finestra leggermente aperta entrava il profumo del bosco e il rumore della pioggia che ticchettava ritmica sulla ghiaia del parcheggio.

Rifletteva.

Se Mac era lì un motivo c’era e la firma mancante sul rapporto era un segnale. Il segnale di un’occasione che andava presa al volo prima che fosse troppo tardi.

Con Belinda stava bene, tuttavia sapeva che la donna non gli faceva provare le stesse sensazioni che provava con Sarah, non avvertiva quella medesima alchimia e, pur amandolo senza riserve e rispettando i suoi spazi (le sue “paturnie”, come le chiamava lei) nondimeno non l’aveva capito fino in fondo. Né tanto meno l’aveva completato.

La verità era un’altra: Sarah era rimasta lì, in un angolo del suo cuore, in attesa di essere risvegliata come la Bella Addormentata nel bosco, fino a quando il nuovo incontro non aveva portato a galla ricordi di una vita, che un po’ rimpiangeva, e sentimenti così forti che si stupiva di aver creduto poter dimenticare.

Cosa aveva Mac di così tanto speciale da primeggiare fra tutte le donne che aveva conosciuto? E cosa aveva di tanto speciale da rendere impossibile dimenticarla? La spiegazione era disarmante nella sua semplicità: perché con lei poteva essere se stesso senza tema di venire giudicato e perché con lei la maggior parte delle volte, non c’era bisogno di parole. S’intendevano quasi telepaticamente.

Per quanto tempo ancora avrebbe ingannato se stesso fingendo di volerla considerare solo una carissima amica? Per quanto tempo ancora avrebbe portato avanti la commedia del “oh come sono felice se tu sei felice”?

In realtà, quella sera a casa sua, avrebbe voluto fermarsi e darle il tempo di spiegare l’accaduto, ma la rabbia nel venire a sapere che Webb aveva svaligiato un fioraio e che lei aveva apprezzato il gesto gli aveva impedito di mantenere la calma. Aveva agito d’impulso, mosso solo dalla gelosia e i risultati s’erano visti.

Anche se un Marine, Mac amava ciò che tutte le donne amano: attenzioni, romantiche cene, un mazzo di fiori e un anello al dito a suggellare un’unione. Webb le aveva dato tutto questo, mentre lui, in nove anni, era stato solo capace di parlarle per oracoli.

Ovvio che avesse cercato la felicità altrove.

Con Belinda era stato diverso, aveva compreso gli errori e vi aveva posto rimedio, ma sentiva di non essere stato né spontaneo né se stesso, e comunque lei non aveva troppe pretese.

Il problema, ad ogni modo, era un altro: voleva avere al suo fianco una donna che sapeva accontentarsi delle briciole senza pretendere, giustamente, l’intera torta?

Per la prima volta in vita sua, Harm agì d’istinto. Non diede retta alla ragione che gli suggeriva di ponderare bene ciò che stava per fare e nemmeno diede ascolto alle paure e ai dubbi.

Masters Builders' House Hotel
Beaulieu, Hampshire

13 maggio 2005

Il cellulare di Mac squillò.

“Pronto?” rispose assonnata.

“Amore ti ho svegliata?”

“Più o meno. Sono così stanca che devo essermi addormentata davanti al televisore” disse spegnendo l’apparecchio.

“Volevo solo dirti che ti amo e che ho voglia di riaverti qui!”

“Anche io, tanto. Ormai gli imprevisti sono diventati la routine da quando sono partita.”

Udì un leggero bussare alla porta e si domandò chi potesse essere alle dieci di sera passate.

Salutò il fidanzato e aprì.

“Che c’è?” chiese stupita trovandosi di fronte Harm.

“Resta” disse semplicemente.

“Come scusa?”

“Resta qui. Con me.”

“Harm, hai bevuto per caso? Entra e fammi capire cosa vuoi che io faccia esattamente e perché dovrei restare.”

Detto questo si fece da parte e lui entrò.

Si sedettero lontani: l’una sulla sponda del letto e l’altro sulla sedia della toeletta.

“Cosa sarebbe questa novità?” domandò Mac incuriosita.

“Vorrei che rimanessi qui e che mi accompagnassi domani.”

“A che pro?”

“In nome dei vecchi tempi. Puoi sempre restituire la macchina a Southampton domenica mattina e tornare con me a Londra in tempo per l’aereo delle 18.00. Ti accompagno personalmente in aeroporto e da quel momento in poi sarai una donna libera” concluse scherzando.

“A dire la verità sono già una donna libera” puntualizzò lei.

“Su questo non sarei molto d’accordo. Sei fidanzata, per cui tanto libera non sei” precisò questa volta Harm.

“Clay mi fa sentire libera, con lui sono libera” lo rintuzzò indispettita.

“Cosa hai deciso di fare? Resti?” chiese divertito da come riusciva sempre a stuzzicarla. Ecco perchè non poteva, e non voleva, lasciarsi scappare quell’occasione: con quale altra donna avrebbe mai provato quel senso di benessere spirituale? La osservò mentre rifletteva sulla sua proposta, visibilmente turbata.

Mac si animava quando stava con lui, la si poteva sentire pulsare di vita, brillare di luce propria. La radiosità che l’aveva così colpito quel giorno all’aeroporto, era solo un pallido riflesso di quella che sprigionava da lei quando erano insieme.

Era innamorata di Webb? Probabilmente sì.

Ma non abbastanza da dirmi che non intende restare un minuto di più, pensò.

Mac percepiva la sua presenza, non parlava, ma il suo viso lo faceva per lui. Aspettava una risposta e lei non riusciva a decidere.

La cosa più sensata sarebbe stata quella di dirgli “No grazie”, anche perché restare avrebbe significato passare un’altra giornata con lui, e al di fuori dell’ambito lavorativo per di più. Avrebbe retto?

“Dove mi porteresti esattamente?” chiese per prendere tempo.

Harm fu tentato di mantenersi sul vago e incalzarla a prendere una decisione, ma si rese conto che quello era un momento molto delicato e preferì accontentarla.

“Si tratta di una mostra scambio d’auto inglesi e nel biglietto è compresa anche la visita al British Motor Museum e al Castello” rispose pazientemente.

Mac s’incuriosì e ne volle sapere di più.

Harm, quindi, le spiegò di come Lord Montagu, grande appassionato e collezionista di auto d’epoca, anni addietro avesse deciso di aprire due volte l’anno, a primavera e in autunno, la propria residenza per consentire lo svolgersi di una fiera dove gli appassionati come lui avrebbero potuto non solo vendere ed acquistare auto e moto, ma altresì trovare, comperare e scambiare parti di ricambio delle proprie autovetture.

“A Maggio la manifestazione è aperta soltanto alle auto inglesi, mentre in autunno, a Settembre a tutte le case costruttrici”.

“E come mai t’interessa così tanto?”

“Ho comprato un’Austin Healey e voglio restaurarla esattamente come ho fatto per la Corvette.”

”Che è rimasta nel garage di Stu.”

“Appunto” replicò Harm con una punta di rimpianto.

Lei era molto interessata, Harm lo poteva notare dal brillio che era comparso nei suoi occhi, fattisi di una sfumatura più scura. Cercava di nascondere la curiosità che provava, ma quella piega agli angoli della bocca la tradiva…

Sorrise facendole capire che l’aveva smascherata.

“Va bene” cedette alla fine. “Resto, ma a patto che mi porti a vedere il castello.”

“Affare fatto” disse lui alzandosi e stringendole la mano con soddisfazione.

Quando Harm fu uscito dalla stanza, Mac provò a chiamare il fidanzato, ma trovò il telefono staccato. Gli mandò allora un sms dove, in maniera sintetica e assai vaga, gli comunicò che aveva trovato posto solo per la domenica pomeriggio.

Poi si mise sotto le coperte, ma faticò a trovare il sonno, al contrario di Harm che, dall’altra parte del muro, non appena toccò il letto si addormentò di colpo.

Continuava a cercare di convincersi che aveva deciso di restare solo per un interesse meramente culturale, perché il nome Beaulieu le ricordava qualcosa, perché il nome Montagu le riportava alla mente un ricordo che adesso le sfuggiva, perché…

Perché vuoi stare con lui, intervenne secca e decisa la parte più razionale di sé.

Amava il suo fidanzato, su questo avrebbe messo la mano sul fuoco, ma Clay non era Harm.

Questo se l’era detto molte volte nel corso degli anni: nessuno era come Harm. Non era solo una questione d’aspetto fisico, anche se godeva un mondo quando, quelle rare volte che erano usciti insieme o si erano trovati da Benzinger’s, si accorgeva che le altre donne se lo divoravano con gli occhi riservando a lei commenti acidi e maligni. C’era qualcosa d’altro.

Cosa aveva di tanto speciale, a parte una notevolissima prestanza? Nulla. A ben guardare, anzi, era un tipo che non sapeva assolutamente come trattare le donne. Aveva fallito con tutte, persino con Jordan, una psicanalista! E dire che lei per prima aveva scommesso che quella sarebbe stata la volta buona…

Questo prima che m’innamorassi di lui, pensò senza rendersi conto.

NO! Lei non poteva, non doveva, amarlo. Non era lui che aveva deciso di sposare, non era con lui che voleva avere dei figli.

O sì? Ma perché aveva accettato di restare?

Si addormentò maledicendo il destino, mentre le note di una canzone dei Coors provenienti da una camera vicina si spandevano nell’aria.


… It's gonna be a long night
And I know I'm gonna lose this fight
I'm lost in your arms baby

Lost in your arms …

 

Castello della famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

13 maggio 1858

Lo sentì chiudere pesantemente un’altra porta in lontananza e lo immaginò tormentato dai sentimenti che non era riuscito a controllare e intrappolato dal suo stesso gioco.

Aveva colto il cambiamento di tono della sua voce, che per un attimo aveva fatto vacillare anche in lei il proposito di andare sino in fondo. Fortunatamente si era ripresa in tempo e lui sembrava non essersene accorto.

Doveva ammettere che era davvero bravo. Ma mai si sarebbe aspettata che fosse tanto astuto e attento a certi particolari.

Il suo piano aveva funzionato: come aveva sentito dire da suo zio, sapere che lei si era innamorata di lui senza che fosse a conoscenza di tutta la verità, lo aveva profondamente turbato.

Ora bisognava solo aspettare che assorbisse il colpo e tornasse da lei.

Era più che certa che ciò sarebbe avvenuto.

Innanzi tutto lo sapeva troppo intelligente per privarsi della felicità che tanto aveva desiderato e che ora poteva avere a portata di mano. Inoltre, nel suo bacio, nel suo sguardo e nella sua passione, aveva colto quel desiderio tanto intenso che aveva visto già altre volte scorrere in lui.

Se lo conosceva solo la metà di quanto si era convinta di conoscerlo, non si sarebbe tirato indietro.

Come evocato dai suoi pensieri, sentì la porta aprirsi e lo vide fermarsi sulla soglia, con un’espressione tormentata, ma al tempo stesso decisa.

Era tornato!

Forse c’erano ancora speranze per loro due, dopotutto.

Lo vide avanzare di qualche passo e richiudersi la porta alle spalle, mentre continuava ad osservarla. In quel momento lei non riusciva neppure a notare la benda nera che gli oscurava un occhio, da tanto lo sguardo che scorgeva nell’altro era intenso e la catturava.

Si era sciolto il nodo del fiocco in seta, che ora gli penzolava ai lati del collo, e aveva slacciato i primi bottoni della camicia: anche a quella distanza poteva scorgergli la vena alla base della gola che pulsava rapida.

Sentì il suo stesso sangue scorrere più velocemente e non riuscì più a trattenersi. Si gettò tra le sue braccia, impaziente di sentirsi stringere di nuovo da lui.

Nicholas la baciò con un’intensità tale da farle pensare che volesse possederla solamente con quel bacio. Era stata baciata diverse volte e in vari modi, sia con disprezzo e con brutalità, sia con amore e dolcezza. Ma mai a quel modo.
Lui le stava ridando la vita, ma al tempo stesso se ne riappropriava, e tutto solo con un bacio.  

“Siete tornato…” gli disse, non appena lui le permise di respirare.

“Vi desidero troppo per riuscire a starvi lontano”, rispose mentre con le mani le dimostrava quanto.

“Perché ve ne siete andato?” domandò lei, tra un suo bacio e l’altro.

“Non ha più importanza. Ora sono qui.”

La strinse più forte, come a conferma delle sue parole. Poi la sollevò tra le braccia e la posò sul letto. Incantato dalla sua bellezza rimase ad osservarla per qualche istante, assaporando il momento e pregustando ciò che a breve sarebbe avvenuto, prima di levarsi la camicia e stendersi accanto a lei.

L’intensità del desiderio che provava lo stava quasi uccidendo…

Com’era possibile provare sentimenti tanto forti per qualcuno?

Ma con lei era sempre stato così, fin dalla prima volta che l’aveva vista.

Dapprima si era invaghito di lei per la sua avvenenza e il suo fascino; poi si era innamorato del suo spirito coraggioso e indomito. Infine era stata la sua vulnerabilità a farlo capitolare definitivamente e a fargli desiderare di possedere il suo cuore e non soltanto il suo corpo.

“Vi amo…” gli sussurrò lei, accarezzandogli dolcemente una guancia, come a voler sciogliere la tensione che leggeva sul suo volto.

Lo sentì irrigidirsi tra le sue braccia a quelle parole.

“Che cosa vi succede?” domandò dolcemente.

“Nulla…” tentò di sorvolare lui, ma poi aggiunse: “Dite di amarmi… e l’altro uomo di cui mi avete parlato? L’uomo di cui avete detto di essere innamorata?”.

Decise di rispondergli con sincerità:

“Lo amerò per sempre…”.

Lui si sollevò su un gomito, scrutandola attentamente.

“Ma amo anche voi…” aggiunse lei, dopo un attimo. Quindi, osservando che sembrava non essere ancora convinto delle sue parole, ribadì:

“Mi sono innamorata di voi, Nicholas”.

Per una frazione di secondo quella frase, nonostante tutto, gli fece ancora male. Ma poi si disse che Lord Nicholas Thornton si era ampiamente guadagnato il diritto che quelle parole fossero rivolte esclusivamente a lui.

Allora le sorrise come il cuore gli suggerì, una volta tanto senza trattenersi. Alla luce soffusa della lampada osservò la sua espressione, per tentare di comprendere quanto fosse consapevole di ciò che realmente stava per accadere.

Ma l’espressione di sua moglie rimase immutata nella sua dolcezza: lasciava trasparire soltanto amore.

Si chinò su di lei e riprese a baciarla, a toccarla, a farla sua…

Lei rispose con intensità, abbandonandosi al suo desiderio ed entrambi si lasciarono travolgere dalla forza misteriosa di quell’amore.

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Capitolo 15
*** Trame misteriose ***



Capitolo XV

Trame misteriose





Castello della Famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

14 Maggio 2005

Harm e Mac varcarono la soglia del parco del Castello di Beaulieu dopo una breve attesa per consentirle di acquistare il biglietto. Lui aveva insistito per pagare, ma Sarah era stata irremovibile.

Molte persone affollavano l’ingresso, ma data l’estensione del parco la gente sciamava subito via e la ressa si disperdeva immediatamente. Sullo sfondo la mole chiara del castello risaltava contro il grigio plumbeo del cielo.

Mac alzò lo sguardo e notò un trenino sopraelevato che percorreva l’intero perimetro del parco.

“Curioso” osservò divertita, ma Harm già la stava trascinando via verso un largo spiazzo di cemento dove erano esposte numerose vetture d’epoca. Alcune in pessimo stato di conservazione, altre meglio tenute.

Sembrava un bambino alle prese con una torta al cioccolato e glielo disse.

“Mi sono sempre piaciute le auto d’epoca” le rispose ammirando una Jaguar MK2, “ma negli Stati Uniti non c’è nulla di paragonabile a questo” terminò indicando la vasta distesa degli stand.

Nell’aria, oltre al profumo dell’acqua e dell’umidità che si sprigionava dall’erba, anche il sentore di hamburger, patate fritte, caffé. Numerosissimi chioschi per rifocillarsi erano disposti in punti strategici della fiera. Quando vide un bar che vendeva gelati, Mac scoppiò a ridere di cuore: “Questi inglesi sono davvero unici!” esclamò. “Il tempo fa assomigliare la giornata ad un giorno di Ottobre e loro aprono un chiosco per vendere gelati!!!”

“Perché non hai visto il tizio laggiù” le fece eco Harm.

Seguì l’indicazione dell’amico e vide un uomo in calzoncini corti, Birkenstock e maglietta a mezze maniche mangiare tranquillamente un gelato sotto la pioggia che nel frattempo era ripresa a scendere. Qualche metro più in là un signore, non più giovanissimo, vestiva galosce di gomma alte fino al ginocchio, cerata e cappellino impermeabili e camminava serafico bevendo da una tazza una bevanda bollente.

I due si guardarono e in coro esclamarono: “Sono pazzi questi inglesi!” ridendo a crepapelle.

Proseguirono quindi nel loro itinerario e per un po’ curiosarono fra le bancarelle di autoricambi e automobilia, Mac più attratta dalle stranezze (un cartello poneva in vendita un’autentica cabina del telefono inglese), Harm, invece, più impegnato nella ricerca dei pezzi di ricambio che gli occorrevamo per ultimare il restauro della Austin Healey.

Stavano bene insieme, si stavano divertendo e Harm raccontava cose molto interessanti circa la sua auto. A Mac non sembrava vero di poter avere una normale conversazione con lui. Si ritrovò a desiderare spasmodicamente che quella giornata, nonostante il tempo inclemente, non terminasse mai.

Ad un certo punto, deviarono dal percorso che stavano seguendo e decisero di tornare all’ingresso, verso il National Motor Museum, una costruzione semisferica di spiccato gusto moderno, in netto contrasto con il castello che, a poca distanza, si ergeva a silenzioso guardiano del parco.

Entrarono e ciò che videro li lasciò a bocca aperta. Persino Mac, che non si era mai interessata di auto d’epoca, rimase senza fiato.

Ogni spazio disponibile della superficie era occupato da vetture: si andava dalla replica esatta del primo triciclo a motore ideato da Gottlieb Benz alle macchine da F1 degli anni ’70 e ’80, passando per i tipici autobus londinesi a due piani e a prototipi talmente bizzarri che nessuno mai li avrebbe acquistati, fino alle più moderne, ma non meno prestigiose e classiche, Rolls Royce e Jaguar, alcune appartenute anche a star del cinema.

“Bella la collezione di Milord” osservò Mac mentre giravano fermandosi di tanto in tanto ad ammirare ora questa ora quella autovettura.

In una parte del Museo erano stati ricostruiti degli scorci di una città inglese e in questi scenari erano inserite delle vetture: si andava dal furgone del lattaio a quello del panettiere per terminare con le auto incidentate e ricoverate da un carrozziere.

Ciò che li divertì maggiormente fu la ricostruzione, peraltro assai fedele, di un’officina meccanica degli anni ’20, con tanto di macchinari funzionanti e un finto gatto accoccolato sulla sedia dell’ufficio del proprietario. Quando uscirono Mac era a dir poco stupefatta, mai avrebbe pensato di divertirsi così. Infatti, mentre erano all’interno, Harm le aveva fatto da cicerone commentando le caratteristiche più significative delle macchine che vedevano o raccontandole aneddoti sulle case costruttrici. Era un ottimo narratore e sapeva come catturare l’attenzione.

Ma, soprattutto, Sarah aveva scoperto un lato nuovo di lui che non sospettava esistesse. In nove anni Harm non le aveva mai fatto cenno di questa sua passione per le auto d’epoca e lei mai avrebbe pensato che avesse una simile cultura in materia.

Quest’uomo non finirà mai di sorprendermi, pensò guardandolo di sottecchi.

All’uscita del Museo notarono una targa in marmo: vi si diceva che la prima pietra di quella costruzione era stata posata nel “lontano” Dicembre del 1970 in onore dei trustees del Beaulieu Museum Trust, di cui facevano parte anche Milord e Milady.

Si incamminarono nuovamente verso la fiera per fare un giro prima di fermarsi per il pranzo. Tuttavia la pioggia che prima scendeva leggera, ora s’era fatta più insistente e pertanto decisero di “rifugiarsi” al castello.

Percorsero così un grande viale costeggiato da ippocastani in fiore, purtroppo sfioriti a causa della pioggia.

Harm la prese per mano e lei non sollevò obiezioni.

Si sentiva felice e leggera come non le capitava da tempo, il cuore era sgombro da pensieri grevi e Clayton Webb, il matrimonio, Belinda e tutto il resto erano lontani mille miglia.

Guardò Harm e lo vide sorridere. Ma non era un sorriso freddo e di circostanza: affatto, gli brillavano gli occhi. Anche lui, come lei, era felice.


Castello della Famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

14 Maggio 1858

La luce dell’alba filtrava attraverso le pesanti tende blu, stemperando l’oscurità della notte e delineando, poco alla volta, forme e colori nella stanza.

Lentamente Lady Sarah si svegliò da un sonno breve, ma profondo. Mentre le immagini confuse dei sogni lasciavano pian piano il posto alla consapevolezza della realtà, si mosse leggermente e nel farlo si rese conto che un braccio la tratteneva alla vita.

Sorrise, ricordando con dolcezza la notte appena trascorsa a far l’amore con suo marito.

Era così felice…

Proprio lei, Lady Sarah Jane Montagu, si era follemente innamorata. Era innamorata e felice di esserlo. Ma soprattutto felice di appartenere completamente ad un uomo.

Proprio la donna che aveva creduto di non esserne mai capace… proprio la stessa donna che era stata convinta per anni di non potersi mai fidare degli uomini ora giaceva tra le braccia dello stesso uomo che aveva accusato d’averla voluta sposare con l’inganno.

Con delicatezza spostò il braccio posato di traverso sul suo corpo nudo, ottenendo solo un debole mormorio dalle labbra di suo marito, che continuò a dormire profondamente.

Si voltò su un fianco e rimase ad osservarlo a lungo.

Lasciò vagare lo sguardo sul suo corpo muscoloso, che il lenzuolo aggrovigliato attorno ai fianchi lasciava parzialmente scoperto; osservò le sue mani, così grandi e tenere al tempo stesso… avrebbe dovuto prestare più attenzione a quelle mani.

Mentre lo guardava, lasciò che i sentimenti che provava per lui la invadessero completamente, colmando finalmente la voragine che aveva avuto nel cuore sino a pochi giorni prima.

Credeva di essere preparata a ciò che avrebbe provato tra le sue braccia, quando lo aveva desiderato finalmente nel proprio letto. Invece ciò che aveva provato andava ben oltre ogni immaginazione.

Dolcemente gli sfiorò il volto, osservando che la benda all’occhio si era spostata, probabilmente a causa dei movimenti del sonno e nella foga della loro passione, ed ora gli lasciava quasi scoperto il viso: fortunatamente nessuna cicatrice ne deturpava la bellezza.

Decise di levargli la benda nera, facendo attenzione a non svegliarlo. Ma egli scelse proprio quel momento per aprire gli occhi.


Castello della Famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

14 Maggio 2005

Camminarono lentamente tenendosi per mano e giunsero in breve al castello.

La strada che avevano scelto li aveva condotti non all’ingresso principale, ma verso uno dei lati della costruzione, a fianco della quale si ergeva una bassa casa. A tutta prima la scambiarono per l’abitazione del custode, ma ben presto, avvicinandosi, si accorsero che si trattava di un museo: lì, proprio a Beaulieu, durante la Seconda Guerra Mondiale, era nata una scuola di addestramento per uomini e donne che, volontari, avevano scelto di arruolarsi nell’esercito di Sua Maestà e operare come spie nell’Europa occupata. I pannelli raccontavano la storia di questi eroi, alcuni sopravvissuti, altri caduti nell’adempimento del dovere.

Harm e Mac, ufficiali, provarono commozione leggendo le gesta di quelle persone e si appassionarono alle spiegazioni delle tecniche di addestramento presentate negli  altri pannelli, appresero la complessità dei codici criptati in uso, ammirarono i cimeli esposti e si stupirono non poco nell’apprendere che, in tempi non sospetti, quando ancora l’attacco a Pearl Harbour era lontano, molti loro compatrioti si erano addestrati proprio lì.

“Spero che adesso avrai un’opinione migliore delle spie” gli disse Mac quando uscirono.

“Non ho mai pensato male delle spie” le rispose serio, “solo di una” precisò poi.

“Non conosci Clay” replicò. “È un uomo buono e dolce. Basta saper guardare al di là delle apparenze. Ma tu non lo hai mai fatto, esattamente come con Mic, ti sei limitato a giudicare quello che vedevi senza approfondire.”

Harm si fermò e si voltò verso di lei: “Mac, lo sai che con te sono sempre stato onesto e non ti ho mai nascosto nulla”.

Lei annuì.

“Quando ti dicevo che quell’uomo non mi piaceva avevo le mie buone ragioni. Non ero geloso…”

Sarah alzò un sopracciglio, quasi a dire “”Ah no?” e lui si corresse: “Non del tutto almeno. Webb ti aveva presa di mira da subito. Ti voleva e avrebbe fatto carte false pur di averti”.

“Non ti è passato per la testa che potesse essersi innamorato di me?” domandò con fare provocatorio Mac.

“Webb?! Innamorarsi?!” esclamò. “Andiamo Mackenzie, sai essere molto sveglia quando vuoi. “Webb non si può innamorare perché gli manca un cuore.”

E tu ce l’hai un cuore per innamorati Harmon Rabb?, fu tentata di chiedergli, ma si trattenne.

“Sediamoci su quella panchina” propose e la condusse verso un sedile di pietra di fronte all’ingresso dal quale erano appena usciti. La pioggia, per fortuna, era cessata e sembrava che un timido sole volesse squarciare il velo delle nubi e affacciarsi a scaldare la terra inumidita.

Si sedettero e Harm le prese entrambe le mani, giocherellando con l’anello di fidanzamento: “Quando ti dico che non parlo solo per gelosia, devi credermi. Se solo fossi certo che tu saresti felice con lui o con qualsiasi altro uomo non esiterei un attimo a lasciarti andare, anche a costo della mia stessa felicità. Questo devi averlo ben presente Sarah. Se in tutti questi anni mi sono intromesso nelle tue scelte sentimentali è stato perché io vedevo più in là di te. Eri talmente ansiosa di ricevere attenzioni e amore da un uomo che ti sei sempre limitata alle superficie delle cose, senza andare oltre, e ti sei accontentata”.

Mac sgranò gli occhi. Quelle parole la ferivano perché erano la verità nuda e cruda, si rendeva conto che Harm aveva ragione. Tuttavia si stupiva anche di tanta franchezza: non le aveva mai parlato così. Quelle, si rese conto, erano le parole di un amico vero, sincero ed interessato solo alla sua felicità. Ma erano anche le parole di un uomo innamorato.

Nondimeno non poté esimersi dal giustificarsi: “Volevo essere amata, volevo che un uomo accettasse di correre tutti i rischi che una relazione comporta, non uno che si trincerasse dietro la scusa dell’amicizia per non impegnarsi”.

Touchè” le rispose. “Hai ragione. Ma io ti ho sempre detto la verità e non ti ho mai rifiutata del tutto. Ti chiedevo del tempo…”

Mac si alzò: non voleva iniziare un’altra non-conversazione. Avrebbero finito con il rovinarsi la giornata.

“Facciamola finita prima ancora di cominciare Harm” lo interruppe. “Conosco le tue posizioni e tu conosci le mie. Perché stare qui a ripetere cose già dette un milione di volte?”

Lui l’afferrò per un polso, costringendola a sedersi nuovamente. Notò la sua espressione affranta, ma continuò imperterrito: “Se avessimo iniziato una storia e poi avessimo rotto, come avremmo potuto lavorare insieme e fare finta che nulla fosse accaduto? Io non avrei sopportato di vederti accanto ad un altro e tu? Avresti sopportato di vedermi con un’altra?”.

“No” ammise Mac anche se con riluttanza. “Ma almeno avremmo potuto provarci. Avresti potuto dirmele allora queste cose” lo rimproverò.

“Lo sto facendo adesso. Meglio tardi che mai” rispose disarmante.

Sospirò. Quell’uomo era davvero impossibile ma per quanto facesse per farselo venire in odio non ci riusciva. L’avrebbe amato fino alla consunzione, le piacesse o no.

Si alzarono e percorsero gli ultimi metri che li separavano dall’ingresso principale del castello.

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Capitolo 16
*** Appuntamento col Destino ***



Capitolo XVI

Appuntamento col Destino





Castello della Famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

14 maggio 2005

Quando videro il giardino antistante rimasero a bocca aperta: un prato verdissimo perfettamente curato si apriva davanti a loro, punteggiato da siepi e alberi sapientemente potati. Sulla sinistra il Beaulieu River formava una larga ansa e nello specchio d’acqua nuotavano coppie di anatre.

Il giardino, ma definire così quell’immenso spiazzo erboso era solo riduttivo, correva tutto intorno al palazzo e sconfinava nelle rovine della Beaulieu Abbey.

L’ingresso era aperto e una scolaresca in attesa giocava con i cannoni posti ai lati del ponte levatoio.

Entrarono in un ampio vestibolo dove le pareti erano interamente ricoperte da quadri degli antenati di Lord Montagu. A terra, una moquette rossa a disegni dorati sembrava ispirata alle mattonelle che una volta avevano formato il pavimento della Beaulieu Abbey, le cui rovine, comprese entro il perimetro della proprietà della Palace House, si trovavano a poca distanza.

Oltre ai quadri ad olio, di cui uno ritraeva il padre di Milord in divisa militare, spiccavano anche vecchie fotografie risalenti, con tutta probabilità, ai primi del ‘900 e che riproducevano i membri della famiglia. Nella stessa stanza c’era anche un armadio a muro dalle cui vetrine si potevano ammirare cimeli appartenuti ai Montagu.

Un ingresso ad arco divideva il vestibolo da un’altra camera dalla quale si dipartiva uno scalone che portava ai piani superiori.

Non appena entrò in quella stanza, a Mac sembrò di esservi già stata, non solo ma il nome Montagu le faceva riaffiorare alla mente il ricordo, peraltro indefinito, di qualcosa. Le pareva di averlo già sentito altrove, ma non ricordava dove… esternò queste sue sensazione ad Harm: “Mi prenderai per visionaria” scherzò.

“Per nulla” rispose, “anche a me questo nome dice qualcosa. Andiamo avanti e vediamo se riusciamo a risolvere il mistero.”

Oltrepassarono la porta ad arco e sulla destra videro che si apriva un’austera quando grande sala da pranzo. Vedendoli così incuriositi, un impeccabile butler si avvicinò:

“Stupefacente vero?”

“Già” rispose Mac, “ma anche molto strano. L’arredamento di questa stanza mi pare essere in netto contrasto con tutto il resto, per quanto poco possiamo avere visto sino ad ora” osservò.

La Dining Hall risale al 1414, ma’am, e sia le volte sia l’arredamento sono ispirati alla Beaulieu Abbey. In questo momento vi trovare nella parte più antica della Palace House. Nel 1982” proseguì l’uomo, “in questa sala fu festeggiato il ventunesimo compleanno dell’Hon. Ralph, figlio maggiore di Milord nonché suo erede, mentre nel 1995 la famiglia ha festeggiato, proprio qui, il centenario di Lady Pearl, la madre di Milord.”

“E’ ancora in uso?” volle sapere Harm.

“No, questa parte della Palace House è aperta al pubblico e non viene più utilizzata dalla famiglia che vive nell’altra ala del Castello.”

“Spazio non ne manca davvero…” osservò Harm guardandosi attorno e pensando alla grandezza del Castello.

“Al piano superiore cosa c’è?” chiese Mac.

La Upper Drawing Room, la Ante Room, e la Private Dining Room, ma’am” rispose compitamente il butler. “Ma prego, salite e vedete con i vostri occhi” li invitò.

Harm e Mac salutarono calorosamente l’anziano signore e ne seguirono il consiglio, avviandosi verso la scalinata.

Ma prima di poter salire si accorsero che, proprio alla base dello scalone, si apriva un’altra stanza. Entrarono e con sommo stupore notarono che era completamente tappezzata di seta azzurra e che tutto l’arredamento era di marcata ispirazione cinese, o comunque orientale.

Anche qui parecchi ritratti alle pareti e un camino in pietra che era uno splendore. Dall’aria che si respirava in quella stanza doveva essere stata una delle più usate in passato, anche per la splendida vista che aveva sul giardino e per le grandi finestre a bovindo che la rendevano molto luminosa.

Uscirono e salirono al piano superiore. Sulla parete a fianco della scala v’erano appesi ancora molti ritratti a olio degli antenati dei Montagu, alcuni indossavano le gorgiere tipiche del regno di Elisabetta I, famosa per l’eccessiva austerità della moda da lei stessa introdotta, altri vestivano abiti di foggia settecentesca ed ottocentesca.

“Di tutti questi quadri, quello che mi è piaciuto di più si trova al piano terra, all’ingresso” disse Mac.

“Alludi al ritratto di Lady Pearl?”

“Sì. Mi è sembrato molto naturale e poco austero. Oltretutto Milady era davvero una gran bella donna in gioventù. Ma c’è di più, mi sembra d’averla già vista da qualche altra parte…” aggiunse perplessa.

Giunsero in cima allo scalone, per fortuna la gente che affollava il Castello scendeva, mentre loro salivano. Quando arrivarono al secondo piano le sale erano vuote e silenziose e i loro passi risuonavano sulla moquette che ricopriva un antico parquet di legno pregiato, stando a quanto dicevano alcune targhe. Nella stanza che si apriva immediatamente alla loro destra, chiamata Upper Drawing Room, la tappezzeria a foglie dorate riproduceva la croce e la corona della Beaulieu Abbey nonché lo stemma della famiglia nobiliare, e grosse mensole di pietra reggevano le armi di alcuni degli antenati di Lord Montagu i cui fasci erano dorati con le stelle e le lune delle armi della famiglia Scott.

Il piano nel centro della stanza era un esempio fine di un Broadwood dell’inizio del 1818.

Una targa, posta al centro del piano così recitava: “I visitatori di questa stanza e di quella adiacente, a volte percepiscono odore di fiori e odono canti gregoriani, ma non c'è nulla da temere. A Beaulieu questi sono fenomeni psichici ben noti!”.

All’improvviso Mac, che stava ammirando tutti questi preziosi arredi, si sentì strattonare per la manica del Barbour.

Si voltò e vide Harm che sorrideva sotto i baffi, la classica espressione del gatto che ha appena mangiato il topo e l’ha fatta franca.

“Cosa sai che io non so?” chiese pur conoscendo già la risposta.

“Seguimi e lo scoprirai” rispose enigmatico.

Rassegnata lo seguì. Tormentarlo di domande non sarebbe servito a nulla se non a fargli fare ancor di più il misterioso per farla morire di curiosità. Uscirono dalla sala che godeva di una fantastica vista sul parco sottostante e si ritrovarono ancora in cima allo scalone.

“Ebbene?” domandò un po’ seccata, ma anche impaziente.

“Alza gli occhi Colonnello e dimmi cosa vedi” rispose Harm mentre il sorriso da sornione diventava a trentasei denti, illuminandogli lo sguardo.

Mac fece quanto consigliato.

“Oh mio Dio!” esclamò più stupita che mai portando una mano alla bocca. “Non ci posso credere!”

Si avvicinò al ritratto per leggere meglio il nome sulla targhetta di ottone, non ancora del tutto convinta di ciò che aveva davanti.

“Ma è davvero…” disse voltandosi verso di lui lo sguardo illuminato da una luce incredula come di chi abbia ritrovato un vecchio amico dopo anni, e stenti a credere che egli sia lì in carne ed ossa.

“Direi di sì” le rispose con somma soddisfazione: ancora una volta era riuscito a sorprenderla.

Sopra di loro, impressa sulla tela, ritratta nel pieno fiore degli anni e della bellezza, stava Lady Sarah Jane Montagu.

“E’ proprio lei. Deve esserlo, non ci sono molte altre Lady Sarah Jane Montagu descritte nel diario di un Conte francese di metà Ottocento” osservò Mac ricordando all’improvviso il perché quel nome le fosse così tanto familiare.

“Sai che un po’ ti somiglia?” disse Harm. “Avete lo stesso sguardo indomito, la stessa luce di determinatezza e lo stesso portamento fiero. Sei sicura di non essere una sua discendente?”

Mac si voltò verso di lui, fissandolo con aria stranita. Era sbigottita dalle sue parole, non le aveva mai rivolto dei complimenti così smaccati. E con quell’aria seria per di più! Apprezzò le sue parole, ma non fece commenti ulteriori limitandosi ad un: “Niente affatto Capitano: bisnonna indiana Cherokee, bisnonno paterno Cherokee capo indiano, e nonna iraniana, ormai dovresti saperlo. Per cui, come vedi, le mie ascendenze non hanno nulla a che vedere con la nobiltà inglese di metà Ottocento”.

Tornò poi a fissare il ritratto: “Chissà come è finita la sua storia” si chiese, parlando più a se stessa che a lui, “se dopo aver lasciato André sulla Medea l’abbia ritrovato, se si siano sposati…”. Sospirò guardando la tela quasi che, da un momento all’altro, Lady Sarah potesse animarsi e scendere dalla cornice nelle sue eleganti crinoline azzurro pallido e, sedendo nella Drawing Room o nella Private Dining Room, raccontare loro la sua vita straordinaria davanti ad una tazza di vero the inglese.

Harm vide l’aria sognante che si era dipinta sul volto di Mac ed ebbe l’impulso di abbracciarla, stringerla a sé e sussurrarle che l’amava perdutamente.

Non poteva sapere che in quello stesso punto, due secoli prima, un altro uomo, vedendo una donna piangere, aveva pensato le medesime cose…

Ma Sarah si riebbe dalla momentanea trance romantica e, tornando il pragmatico Marine di sempre, gli propose: “Cerchiamo una biblioteca, in un posto così ce ne deve essere una per forza, e vediamo se ci sono libri che parlano di lei”.

“Mac non possiamo metterci a curiosare in giro” la redarguì. “Scordi che questa è solo in parte una proprietà aperta al pubblico.”

“Uh uh” lo prese in giro lei, “allora è vero che la promozione ti ha reso meno cow boy… ”

“Non è così” si difese. “Non mi piace essere colto in flagrante da un Milord. Che figura ci faremmo?”

“O, piuttosto, dì, che figura ci faresti TU. Il Capo della Procura Militare delle Forze Navali in Europa, scoperto mentre fruga nella biblioteca di un attempato Lord inglese. Già davvero molto disdicevole…” proseguì Mac il tono sussiegoso degno di una gran dama dell’Ottocento prendendolo in giro atrocemente ma divertendosi un mondo nel farlo.

Harm non disse nulla, la prese per mano e la condusse via, prima che ponesse in atto lo “scellerato” proposito.

Si diressero verso un altro salone, che aveva tutta l’aria di essere una sala da pranzo per bambini. Al centro un tavolo rotondo sul quale erano posati alcuni giocattoli d’epoca.

Mac era elettrizzata, adesso capiva il perché di quella continua sensazione di dejà-vu che la tormentava da quando era arrivata a Beaulieu e aveva messo piede nel Castello. Quelli erano i luoghi in cui era nata e cresciuta Lady Sarah, la protagonista di quell’incredibile avventura a Vienna e che era fuggita sulla nave comandata dall’Ammiraglio Blackbird. Girando per le stanze della Palace House le pareva quasi di vederla camminare fra quelle mura che un tempo erano appartenute alla sua famiglia. Quasi quasi sperò che di notte il suo fantasma, nella migliore tradizione dei castelli inglesi, si aggirasse nelle sale.

In quel momento si trovavano nella Private Dining Room.

Questa stanza, recitava la placca descrittiva, un tempo faceva parte delle cappelle gemelle della parte a Nord del vecchio Castello, successivamente divise dopo la Dissoluzione. Negli anni a venire era stata dapprima usata come una camera da letto e salotto e, dal 1952, come sala da pranzo privata di Lord Montagu.

La pannellatura di lino viene dalla Camera dei Comuni dopo che molta parte di essa venne distrutta dal fuoco in 1834. Il dipinto posto sopra il camino raffigurava John, Marchese di Morthermer, unico figlio di George, Duca di Montagu, ritratto durante il suo Gran Tour in Italia, dal quale riportò le deliziose vedute di Napoli dipinte da Antonio Joli, che si trovavano appese alle pareti.

In fondo alla stanza, vicino al caminetto, si apriva una porta e ne varcarono la soglia, ritrovandosi così in una biblioteca. Dietro di loro l’uscio si richiuse rivelandosi essere un falso scaffale colmo di libri. Nella nuova stanza, il parquet era coperto da preziosi tappeti, alle pareti alti scaffali che giungevano sino al soffitto a cassettoni, carichi di volumi. A destra, rispetto all’ingresso, faceva bella mostra un’antica scrivania accanto alla quale stava una lampada a stelo lungo che proiettava una calda luce ambrata.

Al centro della stanza comode poltrone di panno piuttosto consunte riscaldavano l’atmosfera dandole quel tocco di intimità che la faceva assomigliare ad un ambiente molto “vissuto”. Fu proprio quell’aria di vita vissuta a fare scattare il sospetto nella mente di Mac: “Non è che per caso siamo capitati nella parte non aperta al pubblico?”.

“La porta era aperta. Se questa stanza facesse parte dell’ala privata del Castello l’avremmo trovata chiusa” le rispose Harm.

“Ottima deduzione avvocato, dopotutto lo smalto non l’hai ancora perso fra le scartoffie…” lo prese bonariamente in giro lei.

“E poi non eri tu quella che cercava una biblioteca?” le ricordò ignorando la battuta.

“Eh già.”

Mac si fregò mentalmente le mani e si mise all’opera curiosando fra gli scaffali cercando un qualsiasi indizio che la riconducesse a Lady Sarah, mentre Harm, scuotendo la testa in segno di resa, l’aiutava “lavorando” sulla parete opposta.

D’un tratto un leggero colpo di tosse li avvertì che, oltre a loro, nella stanza c’era anche una terza persona.

Si voltarono di scatto.

“Credo che abbiate… come dire… sconfinato?” disse il nuovo venuto.

Riconosciuto Lord Montagu nell’alto signore che stava loro davanti per averne visto il ritratto nella sala che precedeva la Upper Drawing Room, Harm e Mac si profusero in scuse.

“Non sapevamo che fosse la parte privata del Castello Milord” disse Mac. “Ci trovavamo nella Private Dining Room e la porta che conduceva qui era aperta, per cui abbiamo supposto che la biblioteca fosse aperta al pubblico” proseguì gettando un’occhiataccia ad Harm, il quale le rispose con un’alzata di spalle come a dire “E come lo potevo sapere?!”.

“Probabilmente mia figlia deve aver pensato che l’orario delle visite fosse terminato e l’ha lasciata aperta.”

“Togliamo immediatamente il disturbo Milord” intervenne Harm. Ma Mac lo fermò prima che uscisse: se c’era qualcuno che poteva fornire maggiori spiegazioni su Lady Sarah quello era proprio quel simpatico signore di mezza età dai lineamenti gentili. Pertanto s’azzardò: “Milord sono molto incuriosita da un ritratto appeso nella galleria sulle scale…”.

Harm le strinse il braccio. Negli occhi una muta preghiera: “Per favore Mac….”, ma lei, da bravo Marine qual era, non si diede per vinta e attese una risposta dal nobiluomo.

“Quale sarebbe?” chiese alfine quest’ultimo.

“Quello di Lady Sarah Jane Montagu” rispose. “Vede, io e il mio collega tempo addietro ci siamo “imbattuti” in una dama che portava lo stesso nome e…” in breve raccontò dello strano caso che aveva coinvolto l’Ammiraglio Blackbird e anche loro due.

“Mai e poi mai avrei immaginato che l’avventura vissuta a Vienna della mia antenata avrebbe potuto finire tra le carte di un caso affidato alla Procura della Marina Militare Americana!” esclamò Lord Montagu sinceramente divertito dalla scoperta.

“Ebbene” proseguì sedendosi in una delle poltrone e invitando Harm e Mac a fare lo stesso, “credo che abbiate diritto di conoscere le vicissitudini della mia famiglia, salvata proprio grazie ai buoni uffici di Lady Sarah Jane, figlia di Lord David J. Montagu, Lady Thornton, Duchessa di Lyndham.”

“Oh no!” lo interruppe Mac. “E io che pensavo avesse sposato il Conte D’Harmòn!”


Castello della Famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

14 maggio 1858

Una carezza sul viso lo svegliò da sogni dolci e arditi, gli stessi che faceva ogni notte, da mesi e mesi ormai.

E come ogni mattino, temeva il risveglio. Con il risveglio quei sogni sarebbero sfumati e con essi la gioia che gli avevano procurato.

Riluttante decise di aprire gli occhi e scorse un’immagine china su di sé.  

Non appena mise a fuoco quell’immagine, sorrise dolcemente, ricordando che ciò che credeva d’aver sognato, quella notte si era trasformato in realtà: lei, finalmente, era stata sua.

Stava per accarezzarla e avvicinare a sé il suo volto per baciarla, quando si accorse di non avere più la benda a coprirgli l’occhio. Istintivamente sollevò una mano per cercarla, finché non vide che era nelle sue mani.

Non disse nulla. Si limitò a fissarla.

Anche lei lo guardò e Nicholas non riuscì a capire che cosa stesse passando nella sua mente. La vide esitare un attimo, quasi a decidere il da farsi. Stava per dirle qualcosa, quando lei sorrise e subito dopo parlò, ormai convinta che fosse  giunto il momento di giocare a carte scoperte.

“Nessuna cicatrice. E il tuo occhio sembra vederci benissimo. Perché la porti?”, chiese con tono allegro, sventolandogli la benda nera davanti agli occhi; quindi, senza neppure lasciargli il tempo di rispondere, gli diede il buongiorno e lo fece seguire da un lungo bacio.

Si staccò dalle sue labbra, ma continuò ad accarezzargli la guancia:

“Per questa facciamo qualcosa”, disse riferendosi alla folta barba che gli ricopriva buona parte del viso.

Lui continuava ad osservarla, sempre in silenzio.

“Mi piaci con la barba, ti regala un aspetto se possibile ancora più distinto, da vero Lord inglese. Ma se la facessi accorciare e sfoltire un po’, come detta la moda, sono sicura che torneresti ad avere anche quell’aria un po’ sfrontata e impertinente che mi è sempre piaciuta tanto. E poi… via questa benda! Posso fare a meno del tuo ciuffo ribelle, ma voglio poterti guardare in entrambi gli occhi. Sai bene quanto adoro i tuoi occhi…”

Detto questo si alzò dal letto.

“Dove vai?” chiese lui.

Lei si voltò a guardarlo, splendida nella sua nudità.

“Conte D’Harmòn, se non ricordo male, avevamo ancora un patto da mantenere: un duello con la spada e una cavalcata nei boschi di primo mattino. Vado a prepararmi. Non vorrei farvi attendere oltre”, gli disse provocante.

Sorridendo, lui si allungò verso di lei, catturandole un polso.

“Vieni qui…” mormorò, facendola cadere tra le sue braccia.

S’impossessò della sua bocca, baciandola intensamente e scoprendosi immediatamente pronto a fare di nuovo l’amore con lei.

Non ne aveva mai abbastanza di sua moglie. Durante la notte si erano amati più volte eppure non riusciva a saziarsi a sufficienza.

“Ti voglio, Sarah…” sussurrò, spostandosi di lato e imprigionandola sotto di sé.

“Ma… la cavalcata? E il duello?” cercò di protestare lei, mentre un sorriso le increspava gli angoli della bocca.

“Domani. Abbiamo atteso per oltre un anno… possiamo attendere un giorno ancora…” rispose, intercalando alle parole baci e carezze sulla sua pelle morbida e invitante.

“Questo, invece, non può attendere…”


Castello della Famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

14 maggio 2005

All’esclamazione colma di delusione di Mac, Lord Montagu non seppe trattenere una risata di gusto. Lei se la prese un po’, ma si accorse che Milord non si stava prendendo gioco di lei.

“Gradite qualcosa da bere prima che cominci il mio racconto?” chiese.

Prima che Harm e Mac potessero obiettare alcunché disse: “Mettetevi pure comodi, sarà una storia lunga”.

“Quand’è così” replicò Harm, “quello che prende Milord per me va benissimo.”

“E lei Colonnello? Gradisce qualcosa?”

“Della semplice acqua tonica andrà benissimo.”

Lord Montagu suonò un campanello d’argento che emise un sommesso scampanellio, ma tanto bastò perché, come comparso dal nulla, si materializzasse un maggiordomo.

“Due sherry e un’acqua tonica Everly” disse con garbo Milord.

“Subito M’lord” rispose il maggiordomo e, silenzioso com’era venuto, se ne andò per essere di ritorno pochissimi minuti dopo reggendo un vassoio d’argento con tre bicchieri di cristallo che posò sul tavolino posto al centro delle poltrone.

“Occorre altro M’lord?” chiese.

“Per il momento nulla. Grazie Everly.”

“Dove eravamo rimasti?” si rivolse ai due.

Mac ebbe la risposta pronta, era troppo impaziente di conoscere la storia di Lady Sarah per strasene zitta e buona, anche di fronte ad un Lord inglese: “Doveva raccontarci di Lady Sarah e del Conte D’Harmòn” disse.

Harm era rimasto in silenzio, godendosi la scena. Mac sprizzava curiosità da tutti i pori, era una vera gioia vederla.

“Dunque…” cominciò il suo racconto Lord Montagu, mentre fuori le ombre del pomeriggio cominciavano ad allungarsi.

L’antico orologio da tavolo scandì le otto, ma Lord Montagu non aveva ancora terminato di raccontare la storia di Lady Sarah. L’anziano gentiluomo, udendo i rintocchi, si rese conto dell’ora tarda e, interrompendosi per un attimo, scosse nuovamente il campanello d’argento.

Come era accaduto qualche ora prima, Everly si materializzò dal nulla.

“Per favore” disse Milord rivolgendosi al maggiordomo, “avvisa in cucina che stasera avremo ospiti.”

“Certo M’lord” rispose l’uomo e se ne andò.

Harm e Mac fecero per protestare, ma Lord Montagu prevenne ogni loro contestazione: “Come vi accennavo quest’oggi, è una storia lunga, per cui avrei molto piacere che vi fermaste in modo da conoscere la mia famiglia e saperne qualcosa di più sulla vita di Lady Sarah. Del resto ho l’onore di avere come ospiti il Capo della Procura Militare delle Forze Navali in Europa e il Comandante di un ufficio della Procura Militare negli Stati Uniti. Altresì dopo cena avrei piacere di mostravi i diari di mio nonno. Sono certo che lì la vostra curiosità troverà soddisfazione”.

I due ufficiali  si guardarono: quando mai sarebbe ricapitata l’occasione di cenare con un Lord?

“Il nostro abbigliamento non è molto consono Milord” osservò Harm indicando se stesso, che indossava jeans e un maglione sportivo, e Mac anch’essa vestita casual.

“Infatti” intervenne quest’ultima. “Se per voi non è troppo incomodo preferiremmo tornare in albergo a cambiarci. Stamani non avremmo certo previsto di cenare con un Pari d’Inghilterra.”

“Oh, quante storie…”  E con questo Lord Montagu chiuse la questione dell’etichetta.

La cena era squisita e altrettanto lo fu la compagnia di Lord Montagu e della sua famiglia deliziosa. Erano persone molto alla mano, pur essendo nobili.

Al termine della cena Milord, come promesso, mostrò  loro  i diari del nonno e fu la lettura di quei diari a fare comprendere a Harm e Mac il mistero di Lady Sarah e del suo matrimonio con Lord Thornton, futuro Duca di Lyndham.

Ripresero la via del Masters Builders’ House Hotel che era mezzanotte passata, ognuno immerso nei propri pensieri. La storia raccontata da Lord Montagu aveva colpito profondamente entrambi, più di quanto essi stessi avrebbero ammesso.

Mac si era scoperta a voler essere come Lady Sarah capace, nonostante tutto, le sue paure, i suoi dubbi, i suoi timori, di affidarsi completamente ad un uomo, l’uomo che l’amava e che lei stessa aveva scoperto di poter amare, pur avendo paura dell’ignoto. Invece lei stava scegliendo la strada più facile: Clayton.  

Arrivarono in albergo e si diedero la buonanotte; dopo averla salutata, tuttavia, Harm non si ritirò subito nella propria camera, ma scese a bere qualcosa, a sua volta turbato dagli eventi della giornata. Aveva trascorso ore bellissime con lei e si era reso conto d’amarla ancora. Amava anche Belinda, ma era diverso: non l’amava a sufficienza da smettere di amare Mac. Neppure un oceano di distanza e un'altra donna erano riusciti a fargliela dimenticare. E non sarebbe mai successo.

Pensò al racconto di Lord Montagu, a come un uomo era stato capace di riconquistare la donna che amava e si disse che non sarebbe stato da meno di un nobile europeo di metà Ottocento. Tornò sui suoi passi e bussò alla sua porta.

“Abbiamo un discorso in sospeso” , esordì Harm, quando lei gli aprì.

“Abbiamo cosa? Harm hai bevuto per caso?”

Non diede segno d’averla ascoltata ed entrò.

“Sono stanca, Harm. Per favore mi vuoi dire cosa c’è di tanto importante da parlarne proprio ora?”

“Te l’ho appena detto: abbiamo un discorso in sospeso.”

Mac sospirò, appoggiandosi alla porta chiusa: “L’Inghilterra deve averti dato alla tesa, oppure la promozione… o è stato il racconto di Lord Montagu?”.

“Dobbiamo parlare.”

“E di cosa? Non abbiamo più nulla da dirci. Ci sono state le occasioni giuste per farlo ma non sono mai state sfruttate… ora non puoi pretendere di ‘parlare’ solo perchè non ti va giù l’idea che mi sposi con Clay…”

Harm le si avvicinò. Era talmente bella con addosso solo quella vestaglia di seta color panna!

Le sfiorò la guancia con una carezza: “Sei talmente bella…” mormorò.

“Harm, per favore, cerca di essere ragionevole. Sto per sposarmi, mi sono impegnata ad amare e rispettare un solo uomo, e quell’uomo non sei tu” disse Mac quasi in una supplica portando la mano sinistra davanti al viso affinché lui potesse vedere l’anello.

Egli intuì il significato di quel gesto e, per un attimo, si riebbe. Ma fu solo un attimo, appunto. Posò lo sguardo sulle labbra di lei e ne immaginò il gusto e la morbidezza. Vide il suo petto alzarsi ed abbassarsi al ritmo del respiro ed immaginò di far scorrere le sue mani su quella pelle di seta.

Nella penombra creata dalla sola abat-jour posata sul comodino, Mac stava combattendo la battaglia più dura della sua avita.

L’uomo che aveva sempre voluto, l’unico che avesse mai amato con tutto l’ardore di cui era capace, il solo di cui si fidasse e che non le aveva mai mentito era lì davanti a lei con un’espressione tale sul viso quale non gli aveva mai visto.

Lesse in quegli occhi il desiderio di lei e ne ebbe paura, lesse l’amore e ne fu terrorizzata.

Era troppo tardi ormai. Aveva preso un impegno ed intendeva onorarlo fino in fondo, aveva deciso che con Harm proprio non era possibile costruire un futuro ed ora… ora lui stava rovinando tutto come al solito arrivando all’ultimo minuto, provò rabbia e gli occhi le si riempirono di lacrime. Non poteva arrogarsi il diritto di trattarla in quel modo solo perché era geloso, solo perché non poteva averla.

“Cosa vuoi da me?” domandò cercando di appiattirsi contro la porta di robusta quercia inglese, come se volesse divenire tutt’uno con essa. “Perché non mi lasci andare? Perché non accetti la realtà e..”

Fu interrotta: “Perché non posso fare a meno di te” prendendola per le spalle e avvicinandola a sé.

Percepì il calore del suo corpo, sentì i suoi muscoli sotto di sé, le parve quasi di vedere la sua anima che disperatamente cercava di trovare le parole giuste, quelle che aveva sempre sognato di sentirsi dire sin dal loro primo incontro. E si abbarbicò a lui, mentre sentimenti che sperava di aver dimenticato tornarono ad invaderla, privandola d’ogni forza di volontà.

Si lasciò andare alla corrente, senza scampo.

Harm avvertì il suo cambiamento e la strinse a sé ancora più forte, staccandola dalla porta alla quale Sarah sì era incollata, impaurita e spiazzata.

La sentì contro di sé mentre si lasciava andare e il suo corpo rilasciava tutta la tensione accumulata.

Erano due anime erranti che si erano ritrovate dopo un lungo viaggio, due pellegrini che avevano raggiunto un traguardo, ancorché la strada da percorrere fosse ancora lunga.

Harm respirò il suo profumo, respirò la sua paura e il suo desiderio.

Mac alzò il viso verso di lui, lo fissò intensamente vedendolo per quello che era e cogliendo una sfumatura di disperazione in quello che stava facendo: non era gelosia, la sua, non era indispettito perché stava per sposare una persona che lui non poteva soffrire. Harm l’amava. Sul serio. E se avesse compreso che lei davvero voleva unirsi per la vita con Webb, l’avrebbe lasciata andare. Perché l’amava e l’amore fa fare sacrifici per la felicità di chi si ama. Piuttosto che renderla lui stesso infelice l’avrebbe lasciata ad un altro.

Egli la teneva stretta, le sue mani si erano spostate sulla vita e Sarah avvertiva il contatto attraverso la sottile stoffa della vestaglia. Le sembrava che in quel preciso punto del suo corpo la pelle si fosse improvvisamente ustionata.

Quella sensazione l’aveva mai provata fra le braccia del suo futuro marito? Quel misto di caldo e freddo, paura, desiderio e aspettativa, le aveva mai conosciute quando Clay l’abbracciava o la baciava?

“No” rispose a se stessa.

E la corazza si sbriciolò definitivamente lasciando che i sentimenti repressi fluissero liberamente.

Si baciarono e Mac provò un brivido così intenso da farla tremare, ma non si staccò. Anzi insistette in quel bacio, quasi volesse dirgli tutto ciò che non riusciva a comunicare a parole.

Inconsapevolmente si diressero verso il letto, ma a poca distanza Harm si fermò, sciogliendosi dall’abbraccio e dal bacio.

“Sarebbe un errore” disse carezzandole il volto nel suo solito gesto.

Con una punta di cinismo lei si chiese se facesse la stessa cosa anche con Belinda. Ma sapeva che non era così, quel gesto, quell’espressione erano riservati a lei sola.

“Perché?” chiese persa ancora nel suo bacio, con il sapore delle sue labbra in bocca.

“Perché è l’emozione del momento. Potremmo pentircene.”

“Mister razionalità” ironizzò sedendosi sul letto. Per un attimo le era sembrato che i suoi sogni più sfrenati stessero per avverarsi, e ora si dava dell’imbecille per avergli permesso di giungere a tanto. Ma un moto di ribellione la indusse ad esigere ciò che agognava da tempo. Si sentiva come se avesse superato una linea immaginaria di non ritorno. Non poteva, e non voleva, tornare indietro.

“Non puoi decidere razionalmente certe cose Harm” lo rimproverò.

Lui le si sedette accanto: “Mi costa farlo Sarah. Vorrei averti ora, vorrei averti per sempre, ma…”.

Lei non gli diede il tempo di portare a termine la frase.

Assetata di lui come un vampiro gli saltò addosso baciandolo con forza e costringendolo a togliersi gli indumenti.

Con pochi gesti veloci si liberò di tutto ciò che aveva indosso, per la verità molto poco, mentre il fuoco del desiderio troppo a lungo represso esplodeva in lei come un’atomica.

Lo possedette come una furia, come a volersi vendicare di quell’attesa così lunga, come per affermare il suo diritto di appropriarsi di quell’essere umano che stava sotto di lei e si muoveva a sincrono dapprima lentamente, poi sempre più veloce fino a quando la terra intera non scomparve e rimasero solo loro due, i cuori uniti in un solo battito, i respiri ansanti e i corpi spossati.

Nell’attimo del sublime aprì gli occhi e lo guardò, e ciò che vide la fece sentire un tutt’uno con lui le fece capire che le affinità elettive non si possono spezzare.

Si accasciò sopra di lui, esausta, senza fiato e completamente svuotata.

“Credo che il mio matrimonio debba essere annullato” mormorò prima di crollare addormentata.


Castello della Famiglia Montagu
Beaulieu, Inghilterra

14 maggio 1858 

“Da quanto lo sai?”

Erano ancora a letto, dopo aver fatto nuovamente l’amore. André la teneva tra le braccia, senza smettere di accarezzarle la schiena. Lei aveva la testa posata sul suo petto e con una mano gli sfiorava i muscoli delle braccia e del torace.

Entrambi amavano concedersi quei momenti di dolcezza e di intimità, che seguivano alla passione più sfrenata e all’intensità del loro desiderarsi.

“Dal mio rientro da Londra. L’altro giorno ti ho sentito parlare con tuo zio e ho deciso che dovevo sapere cos’altro mi nascondevi. Quello che avevo sentito, unito alle sensazioni che avevo sempre provato con Lord Nicholas Thornton, mi aveva aperto finalmente gli occhi e il cuore, ma volevo essere completamente certa del mio sospetto. Ho consultato l’Almanacco del Gotha e non ho avuto bisogno d’indagare oltre. Era tutto lì, nel nome per intero dell’erede di Sua Grazia: André François Nicholas, Conte D’Harmòn e futuro duca di Lyndham. Nulla da dire, un ottimo partito! Ben due titoli per un solo uomo.”

Lui sorrise: “E’ quello che ho sempre pensato anch’io. Un po’ troppo, per una sola persona”.

“Porti entrambi i nomi di tuo zio… e io che credevo che fosse solo Nicholas ad unirvi…”

“André era anche il nome del mio bisnonno paterno. Nicholas, invece, è stato aggiunto proprio per mio zio. François per S. Francesco, un santo cui mia nonna paterna era particolarmente devota. Da mio zio ho preso in prestito provvisoriamente e in anticipo il cognome, mentre il titolo di Lord mi spetta di diritto già da ora, come suo successore… è una faccenda abbastanza complicata essere erede di due titoli nobiliari e per di più in due paesi diversi.” [1]

“Oh, lo immagino! Quello che non immaginavo, però, era che fossi un così bravo attore. E sei molto abile anche a camuffare la tua voce e il tuo adorabile accento francese!”

“Mi è sempre venuto facile. Da ragazzino facevo ridere tutti. Ma per l’accento… è stato mio zio a pretendere che frequentassi le migliori scuole in Inghilterra, per diventare un vero lord inglese e degno successore al titolo di Duca. Pur rispettando moltissimo mio padre, Sua Grazia ritiene che il sangue francese sia un po’ troppo… passionale per i suoi gusti. O meglio, per ciò che richiederebbe l’aplomb tipicamente british della nobiltà inglese.”

“Ottima idea anche la barba folta e la benda da pirata all’occhio…”

“Non volevo che mi riconoscessi subito e che fuggissi prima d’aver avuto il tempo di aiutarti.”

“Eri davvero convinto che sarei fuggita?”

“Lo avevi già fatto una volta.”

Percepì la tensione del suo corpo mentre ricordava quei momenti.

“Lo so, hai ragione. E mi dispiace tanto. Non saprai mai quanto ho sofferto da quando presi quella decisione…” disse lei, stringendosi maggiormente a lui.

“Ti ho odiato, sai? Quando ho capito che te n’eri andata, per un attimo ti ho odiato.”

“Ti avrei odiato anch’io… e non sai quanto ho odiato me stessa.”

“Poi ho letto il tuo messaggio e ho sentito il cuore andarmi in mille pezzi…”

“André…” poteva sentire ancora la sofferenza che lo aveva devastato allora. “André, perdonami.”

“L’ho già fatto, tanto tempo fa. Mi sono accorto d’averti perdonato nell’istante in cui mi dissi che ti sarei venuto a cercare non appena fossi riuscito a tornare in Inghilterra.”

“Ed è quello che hai fatto.”

“Sì, ma non presto quanto avrei voluto. E non in tempo per trovarti, purtroppo. Quando giunsi a Beaulieu tua madre mi disse che eri ripartita da poco.”

“Hai conosciuto mia madre?” chiese sollevandosi su un gomito ad osservarlo.

“Sì. Fu lei a raccontarmi tutta la storia. Non appena le dissi chi ero, capì tutto quanto. Allora mi chiese come mai avessi aspettato tanto a tornare, se ero innamorato di te. Risposi che ero appena sbarcato, di ritorno dall’America, e che ero venuto subito nell’Hampshire, prima ancora di tornare in Francia dai miei genitori; se non ero rientrato in Europa immediatamente, appena arrivato in America, fu perché per oltre un mese ero stato tra la vita e la morte…”

“Che cosa ti è successo?” domandò lei, preoccupata.

“Durante una tempesta in mare mi ammalai di polmonite. Fui sbarcato incosciente, con la febbre altissima. L’Ammiraglio Blackbird diede ordine che mi portassero presso una piccola comunità religiosa, dove rimasi per oltre tre mesi. Non appena fui in grado di viaggiare, tornai in Europa. Purtroppo nel frattempo la Medea era già ripartita e non riuscii a recuperare nulla, neppure il mio diario, che fu lasciato assieme ad alcuni altri miei effetti personali sulla nave dai marinai che mi portarono a terra. Chissà dove sarà finito, ormai… ”

“L’avrà trovato l’Ammiraglio?”

“Forse. O forse sarà andato perduto…”

“Tenevi molto a quel diario, non è vero?”

“Li ho tutti conservati, da quando iniziai a scriverli all’età di sette anni. Quello perduto era il più importante… c’era la nostra storia. E c’erano le tue parole…”

“Tu sei ancora vivo. E’ solo questo che importa. Ora stai bene, non è vero?”

“Sì, sto bene.”

“Mi sono domandata come mai fossi diventato più magro…”

“Il medico di mio zio ha detto che è già una fortuna se sono ancora vivo, con quello che ho avuto, e che devo ringraziare la mia tempra robusta e la mia buona stella. Con dell’altro po’ di tempo, cibo, riposo e dell’esercizio fisico, nonché una vita tranquilla – e io aggiungerei le attenzioni di una moglie innamorata – riacquisterò poco alla volta il peso di prima.”

“Avrei potuto perderti per sempre…”, mormorò con le lacrime agli occhi.

Lui gliele asciugò con un tenero gesto della mano.

“La mia malattia non fu colpa tua.”

“Ma se non ti avessi mandato in America pur di allontanarti da me…”

“Nessuno può sapere se non sarebbe successo comunque. E poi sono stato curato bene. Il dottore dice che non è rimasto alcuno strascico… Devo solo avere pazienza e seguire i suoi consigli. Ancora pochi mesi e tornerò come prima.”

“Ti vizierò e ti nutrirò personalmente!” disse lei, finalmente un po’ più serena nel costatare che lui non le portava rancore e tranquillizzata dalle sue parole riguardo la sua salute.

“Stai tranquilla. Ho già ripreso parte del peso perduto. E non vorrai, per caso, che diventi grasso come Lord Stevenson, vero?” disse con un sorriso per metà divertito e per l’altra terrificato all’idea di diventare tale e quale ad uno dei nobili più in carne di tutta l’Inghilterra.

“Dirò a Martha, la cuoca, che ti prepari il cibo più saporito e sostanzioso! Proprio l’altro giorno mi ha detto che Lord Thornton tocca poco o nulla ai pasti ed era preoccupata…” poi, abbassando la voce, quasi gli raccontasse un segreto importante che lui solo doveva sapere, aggiunse maliziosa:

”Credo che si sia un po’ innamorata di te… Ah, come non capirla!”

“Ma avrà quasi sessant’anni!” disse lui, divertito.

“E che c’entra? E’ una donna anche lei!” rispose pronta.

“Mi stai dicendo che qualunque donna si innamorerebbe di Lord Nicholas Thornton? Qualunque donna tranne Lady Sarah Jane Montagu, a quanto sembrava!” la stuzzicò lui.

“Io non faccio testo: ero pazzamente innamorata di un bellissimo Conte francese…”

“Ah, lo ERI?”

“Lo ero, lo sono, lo sarò per sempre” rispose lei, baciandolo sulle labbra, prima di aggiungere: “E poi Lord Thornton era davvero impossibile con me…”.

“Lo sono stato davvero?”

“Un po’ sì. Soprattutto quando mi hai detto in faccia la verità.”

“Mi dispiace…” cercò di scusarsi lui, ma lei gli posò un dito sulle labbra, facendolo tacere.

“Avevi ragione. Non devi scusarti.”

“Tornando a Martha”, riprese lui, “rassicurala che non si tratta della sua cucina, che è eccellente. E’ che non mi piace mangiare solo.”

“Non sarai più solo, amore. Non ti lascerò mai più”, lo tranquillizzò lei, baciandolo dolcemente, e non si riferiva soltanto ai pasti.

Il corpo di lui reagì all’istante, ma lei, in quel momento, voleva conoscere tutta la storia.

André protestò con un mormorio di disapprovazione, quando sentì che tentava di fermare le sue mani che la stavano nuovamente cercando.

“Sei insaziabile, ma non di cibo!” lo rimproverò, allegra.

“Mhmm… ma non ho bisogno solo di cibo! Ho bisogno anche di riposo – e quindi stare a letto mi fa bene…” disse mentre si metteva supino e la trascinava sopra di sé, “… e di esercizio fisico. Tanto esercizio fisico…” aggiunse, prima di baciarla e ricominciare ad eccitarla, come solo lui sapeva fare. Poi, guardandola negli occhi, mentre si rendeva conto che stava per capitolare, le sussurrò all’orecchio, aumentandole i brividi che già provava: “In questo modo uniamo l’utile al dilettevole…”.

“Sei terribile…” ma aveva già capito d’aver perso la battaglia.

“E non è proprio questo ciò che più ti piace in me?” le disse, poco prima di farla nuovamente sua.

“Mi piace tutto, di te…” sospirò, mentre lo sentiva entrare in lei dolce e possessivo, “anche quando la mia mente e il mio cuore non ti avevano ancora riconosciuto, il mio corpo lo aveva già fatto, fin dall’inizio…”

“Per questo scappasti da Lord Thornton, la prima sera, quando ci incontrammo al ballo in maschera?” chiese lui, lasciando scorrere le mani nei suoi lunghi capelli, che ricadevano morbidi sul suo torace.

Era strano fare l’amore rispondendo alle sue domande. Ma André sapeva eccitarla anche in quel modo.

“Sì. E tu sapevi che ero io, vero?” chiese a sua volta, mentre si lasciava andare al desiderio che provava per lui.

“Ero lì per incontrarti. Sapevo che ci saresti stata…” rispose lui, le mani che le stringevano i fianchi a trattenerla sopra di sé.

“Eri meravigliosa con quell’abito rosso fuoco…”, mormorò al suo orecchio, facendola impazzire, “così seducente e intrigante… e io morivo dalla voglia di levartelo…”

Come ci riusciva? Come riusciva far l’amore con lei anche con le parole?

“Mi devi ancora un ballo, con indosso quell’abito…” aggiunse, prima di perdere definitivamente il controllo, rovesciarla sul letto e portarla con sé in paradiso. 

 



[1] E’ ovvio che la faccenda dei due titoli nobiliari, e di tutto quello che a riguardo André D’Harmòn racconta a Lady Sarah, è frutto della nostra fantasia. Nonostante alcune ricerche, non siamo riuscite ad appurare se ciò che abbiamo scritto potrebbe essere vero. Abbiamo fatto l’impossibile per renderlo “plausibile”, pertanto, qualora non lo fosse realmente, concedetecelo come “licenza poetica”. - N.d.A.





Fine







Dedica

Questa fanfic è dedicata a Mr.Smith.
E’ un grazie personalissimo per averci regalato dieci anni di sogni, per averci fatto scoprire una vena creativa che non sapevamo di possedere, per averci fatto venir voglia di innamorarci di nuovo e per aver reso possibile conoscere tante persone che non avremmo mai incontrato se non avessimo visto JAG e non ci fossimo “innamorate” di lui e dei suoi fantastici occhi.
Dedicata a David: il classico tipo d’uomo che, quando lo incontri per la strada, ti fa voltare e rimanere ferma ad osservarlo fino a quando non scompare dalla tua vista.

 

 

Questa fanfic è dedicata anche al personaggio di Harmon Rabb jr., eroe gentile ed  affascinante, dal cuore nobile e dal sorriso splendido.
Di te, Harm, non ne abbiamo mai abbastanza e, pur di far brillare la tua stella all’infinito, siamo riuscite a farti rivivere persino attraverso i secoli.
Grazie per avercelo permesso, ispirandoci con ciò che mostri, i tuoi silenzi, i tuoi dubbi e le tue esitazioni, ma anche con tutto quello che ci hai sempre lasciato immaginare, sebbene abilmente rinchiuso nel tuo cuore.

 

 

Infine questa fanfic è dedicata anche ai personaggi che abbiamo inventato, dai quali abbiamo fatto enorme fatica separarci.
Lady Sarah Jane Montagu e il Conte André François D’Harmòn sono frutto della nostra fantasia, ma non  per questo meno “vissuti” o da noi meno amati di Harm e Mac.

Inventare un personaggio, lo abbiamo scoperto e sperimentato sulla nostra pelle, è una faccenda seria: diventa parte di te, al punto da immaginartelo quasi reale. Non si tratta più solo di far rivivere certi personaggi, restando fedeli a precise caratteristiche delineate da altri. Si tratta di inventarsi la personalità e il back-ground del personaggio ex-novo, “creandolo” in tutto e per tutto nella propria mente. E farlo, rendendolo sempre coerente a se stesso, pur lavorando in coppia, credeteci non è cosa facile. Ognuna di noi due ha, nella propria mente, una sua immagine ben precisa di André e Sarah Jane…

Tuttavia Lady Sarah e André D’Harmòn sono due personaggi talmente speciali, al punto che sono riusciti a prendere il sopravvento sulle loro creatrici e hanno iniziato a vivere di vita propria, regalandoci (e speriamo regalandole anche a voi) emozioni meravigliose.

Ma, soprattutto, il dono più grande che ci hanno fatto, è stato permetterci di vivere questa fantastica esperienza assieme.


Mac & Alex




Disclaimers :

Il marchio JAG e tutti i suoi personaggi appartengono alla BELLISARIO PRODUCTION. In questo racconto sono stati usati senza alcuno scopo di lucro.

Qualunque riferimento a fatti o persone, che non siano avvenimenti o personaggi storici, e’ del tutto casuale.

I contenuti del racconto sono tutelati ai sensi della legge 633/1941 (legge sul diritto d’autore). Tutti i diritti riservati.



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