I racconti del Dislessico

di SectumsempraByGinny
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incubo ***
Capitolo 2: *** Sogno ad occhi aperti ***
Capitolo 3: *** Margaret McClay ***
Capitolo 4: *** Una giornata da eroe ***
Capitolo 5: *** Il Ballerino ***
Capitolo 6: *** Diario di un asociale ***
Capitolo 7: *** E vissero per sempre felici e contenti? ***
Capitolo 8: *** Il fantastico mondo di Arianna ***



Capitolo 1
*** Incubo ***


Sofia camminava lentamente per le strade di Roma.
Era mezzanotte passata ma l’afa del giorno era ancora restia ad andarsene.
In lontananza si sentivano le grida e la musica dei locali notturni, ma Sofia era sola.
Nella strada con lei non c’era nessuno e tutto sembrava immerso in un sonno profondo.
Non le dispiaceva camminare da sola, starsene un po' a pensare senza che nessuno la disturbasse, ma questa volta era diverso, sentiva che c’era qualcosa che non andava.
Affrettò il passo.
Un miagolio preannunciò l’arrivo di un gatto, bianco come la neve.
Scese da uno dei tetti vicini con un tonfo leggero e si fermò , girato verso di lei.
Per un attimo alla ragazza parve di scorgere negli occhi del felino un bagliore sanguineo.
Sofia si bloccò, sentiva uno strano formicolio alla nuca.
Si girò, ma dietro di lei non c’era niente, solo la nebbia.
Nebbia: cosa insolita per una città come Roma, soprattutto in una tiepida serata estiva e se compariva all’improvviso.
Sofia si sfregò le mani, la temperatura era scesa notevolmente.
La nebbia si faceva sempre più fitta finché Sofia non fu costretta ad avanzare a tentoni.
Voleva gridare ma qualcosa glielo impediva, in un certo senso sapeva che se non avesse scoperto il perché di quella situazione irreale se ne sarebbe pentita per tutta la vita.
Si fermò di nuovo e si guardò attorno.
C’era una calma irreale, di quelle che precedono una tempesta.
Udì di nuovo il miagolio del gatto e vide i suoi occhi rossi attraverso la nebbia.
Indietreggiò istintivamente ma qualcosa la bloccò di nuovo, sentiva l’eco dei suoi passi, o forse non era un eco, piccoli tonfi leggeri che si facevano più forti ogni secondo che passava.
Chiunque stesse camminando veniva verso di lei.
Sofia cominciava ad agitarsi e ormai solo il pensiero che tutto fosse troppo assurdo per essere vero la tratteneva.
Insomma era ridicolo: nebbia che compare all’improvviso, un gatto inquietante e dei passi, combaciava perfettamente con lo stile dell’horror scadente, doveva essere uno scherzo.
Una mano le si appoggiò sulla spalla destra, conficcandole le unghie nella pelle. Sofia urlò, urlò con quanto più fiato aveva nei polmoni.

Sofia si alzò con la fronte imperlata di sudore e un brivido che le scorreva lungo la schiena.
Era nella sua camera e tutto le sembrava familiare.
Si strinse nelle coperte e guardò fuori dalla finestra: stava sorgendo il sole e Roma si estendeva in tutta la sua bellezza con i tetti rossi e il verde che faceva capolino dai giardini.
Lentamente scese dal letto, decisa a fasi una bella doccia per scrollarsi di dosso quelle immagini ancora così vivide nella sua testa.
Una volta in bagno aprì l’acqua e si lavò la faccia.
Mentre si asciugava, il suo riflesso allo specchio catturò la sua attenzione: aveva le occhiaie di chi aveva dormito poco o niente.
Le tornarono in mente i passi, per fortuna era stato solo un sogno.
Sapeva che era sciocco ma si scoprì la spalla destra, quel che vide la lasciò sconcertata: quatto piccole mezzelune insanguinate.

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Capitolo 2
*** Sogno ad occhi aperti ***


Marta era scesa in piazza insieme ad altre centinaia di persone.
Giovani, vecchi, uomini, donne e bambini erano lì per motivi diversi ma con un unico obbiettivo: far sentire la propria voce, far si che si conoscesse il loro dolore, la loro rabbia, la loro frustrazione.
In quel momento tutto era magico.
Migliaia di voci che gridavano assieme, le braccia alzate nel tentativo di sembrare più grandi, di non sembrare così piccoli e inutili agli occhi del mondo, tutto per un solo scopo. Unirono le mani per darsi forza.

Poi fu l’Inferno.
La gente cominciò ad urlare e indietreggiare, chi si trovava al centro non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
Intanto la folla continuava ad indietreggiare.
Il rumore di vetri infranti, le esplosioni e le grida sostituirono in un attimo i cori della manifestazione.
Le fiamme circondavano il mondo rendendolo del colore del sangue.
Marta chiuse gli occhi e la sua mente lavorò automaticamente: d’un tratto le grida diventarono le voci squillanti dei bambini, il calore delle fiamme il caldo delle giornate estive e le vetrine distrutte non erano altro che finestre colpite accidentalmente colpite da una palla. 

Riaprì gli occhi pronta a correre, non con la folla ma contro coloro che erano causa di distruzione.
“Fermi! Fermatevi! Così non otterremo niente!”.
Ma la sua voce era solo polvere nel vento.
“Fermatevi!”. Lacrime calde le rigavano le guance
“Non capite che così gli date ragione? Non vedete che così passiamo dalla parte del torto?”
Con i pugni serrati dall’ira, Marta continuava a urlare ad implorare, senza che nessuno la sentisse.
Chiuse di nuovo gli occhi.
Ora si trovava sotto la cima di una montagna, dall’alto della vetta il mondo le franava addosso.
Massi enormi rotolavano giù e la sfioravano ma non c’era niente che potesse fare.
Non avrebbe permesso che succedesse la stessa cosa nel mondo reale.
Riaprì gli occhi e si gettò con furia contro i Distruttori, cercando di strappargli di mano le spranghe.
Qualcuno la colpì nello stomaco e Marta cadde con un rivolo di sangue ch le usciva dalla bocca.
Qualcun altro aveva seguito il suo esempio, ma che possono mai fare dei semplici manifestanti pacifici contro i Distruttori con le spranghe e le bombe fatte in casa? Marta si mise le mani sul ventre cercando di sopportare il dolore.
Chiuse gli occhi ed era stata ferita da un cavaliere misterioso a bordo di un destriero color del buio. Li riaprì e qualcuno la stava portando in salvo, lontano dal campo di battaglia.

Realtà e finzione si mescolavano nella sua mente rendendole impossibile distinguerle.
Il mondo girava a suo piacere, come in un sogno i contorni stessi delle realtà si sfaldavano annullando ogni legge della natura.
Un suono pulsante, come il battito cardiaco, le risuonava nel cervello.
Si svegliò in una stanza d’ospedale, completamente scombussolata.
In un angolo in televisore acceso annunciava i titoli della sera.
Improvvisamente la realtà le sembrava così inverosimile che chiuse gli occhi per tornare a sognare. 

 

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Capitolo 3
*** Margaret McClay ***


La Vigilia di Natale a Clitheroe, una cittadina del Lancashire, in Inghilterra.
Aveva nevicato tutta la settimana precedente e tutto era ricoperto da una fitta coltre di neve che rendeva tutto di un bianco accecante, puntellato qua e la dalle lucine colorate degli addobbi.
Erano passati anni da quando Margaret McClay aveva ricevuto l’ultima visita da qualcuno che conoscesse.
Tutti i suoi amici erano morti da un pezzo così come l’uomo che aveva amato per tutta una vita e che continuava ad amare.
Ora era seduta su una vecchia poltrona di velluto rosso, consunta e scolorita.
Lei e quella poltrona erano cresciute insieme.
Era una poltrona straordinariamente comoda e suo padre l’aveva regalata a sua madre quando portava in grembo la sua primogenita: Margaret.
Sulle gambe aveva una spessa coperta con un disegno a quadri blu e rossi.
Leggeva una vecchia copia del Fantasma dell’Opera di Leroux così consunta dagli anni e dall’usura che l’originaria copertina rosso scuro era diventata rosa antico.
Reggeva il libro con una sola mano perché con l’altra sorseggiava una tazza di cioccolata calda.
Aveva sempre avuto un debole per la cioccolata.
Qualcuno bussò alla porta.
‘Chi è che va in giro per la campagna innevata la vigilia di Natale’ penso la vecchia.
Se nessuno la andava a trovare un motivo c’era: tutti sapevano che Margaret McClay non amava ricevere visite, anzi lo detestava.
Evidentemente chi aveva bussato non lo sapeva e la vecchia si alzò, ben decisa a mettere le cose in chiaro.
Quando aprì la porta, si trovò di fronte una bambinetta di circa sei anni che era completamente zuppa con le labbra viola e che tremava da capo a piedi.
Margaret corse a prendere la coperta e avvolse la ragazzina nella lana ancor prima di farla sedere.
Dopo aver scolato tre tazze di cioccolato caldo ed essersi fatta asciugare i capelli, la bimba ritrovò le parole
“Io sono Rita” disse con voce nasale
“Mamma dice che sei una vecchia bisbetica” Margaret alzò un sopracciglio
“Ma sei stata dolce con me” continuò imperterrita.
La vecchia se la squadrò di nuovo: aveva smesso di tremare ma era ancora mortalmente pallida.
“Hai una gran faccia tosta” commentò .
La bimba alzò i suoi grandi occhi nocciola, come i capelli
“Mi piaci”. Margaret andò in cucina portandosi dietro le tazze sporche.
“Vuoi sapere cosa mi è successo?” chiese Rita ad alta voce.
Margaret si limitò a grugnire ma l’altra non aspettava una risposta
“Stavo giocando a fare i pupazzi di neve quando sono scivolata e sono caduta sul laghetto ghiacciato. Si è rotto, però, e io sono caduta in acqua”.
Da lì a due ore Rita aveva raccontato tutta la sua vita a Margaret.
Diventarono presto inseparabili ed era uno spettacolo vederle l’una accanto all’altra: Rita che parlava a vanvera e Margaret che grugniva, solo falsamente scorbutica.
Le due passavano un sacco di tempo insieme, la bambina sfacciata e la vecchia bisbetica.
Erano sempre sedute sula poltrona di velluto o a fare passeggiate, sulla candida neve o sull’erba seccata dal sole. 

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Capitolo 4
*** Una giornata da eroe ***


A volte le azioni che si compiono da bambini vengono ricordati come imprese eroiche, come nel mio caso. 
Ricordo perfettamente un giorno sul cominciare dell’estate in cui tutto sembrava immerso in un mare di luce.
Ero andata a trovare alcune mie amiche in montagna.
La loro casetta di legno confinava con un fosso circondato da cipressi che ci sembrava alto diversi metri.
Al di là del fosso c’era c’ era il più bel prato che io abbia mai visto: l’erba, di un verde intenso, cresceva alta fino ai polpacci e qua e là sbucavano erba medica, lillà, bocche di leone, fiori di trifoglio, campanule, non ti scordar di me e margherite grandi come pugni di un bambino.
Saltammo il fosso con agilità, ci sdraiammo nel prato e iniziammo a rotolarci, sporcandoci tutte di verde.
Quando cominciammo a sentire caldo le ci condusse ad un torrente.
Per arrivarci dovemmo scendere il pendio scosceso del fossato.
Ma l’acqua era fresca e trasparente che ripagò i nostri sforzi.
Ci schizzammo e ridemmo tanto da sentirci male.
Seguimmo il corso del ruscello che per noi era “IL FIUME”.
Spostavamo i rami coperti di spine dei rovi che crescevano lungo le pareti con le mani sporche di sangue.
I nostri passi provocavano un leggero SPLISH SPLASH e più di una volta scivolammo sulle rocce vellutate del fondale e ci mettemmo a ridere. Alla fine ci mettemmo a ridere.
Alla fine vedemmo un’enorme montagna rossa che somigliava all’ Ayes Rock che si stagliava contro il cielo greco.
Ci arrampicammo con una certa difficoltà. Senza osare respirare per non rompere la calma irreale che regnava in quel luogo (non si sentiva neanche il canto degli uccellini che ci aveva accompagnato fino a quel momento) ammirammo quella che poi capimmo essere una cava di tufo ferroso.
Ai piedi della ‘montagna’ c’erano massi di diverse dimensioni che potevano essere sia piccoli come una palla da tennis che grandi come un’automobile.
Appena misi un piede su un sasso ne franarono altri, producendo un rumore sordo che riecheggiò per tutta la valle.
Ben presto scoprimmo che scalare la ‘montagna’ non era così facile come avevamo previsto: ogni passo in avanti tornavamo indietro di due, accompagnate dal borbottio delle pietre.
Quando sentimmo l’abbaiare di cani ci fermammo immediatamente ma il rumore ci imitò dopo qualche secondo.
Da sopra la ‘montagna’ sbucò un uomo con due cani al guinzaglio.
Le mie amiche avevano avvertito riguardo al padrone di quelle terre dicendo che era un uomo cattivo e mangia-bambini.
Mi immaginai di vederlo slegare i cani mentre diceva "Portatemi delle belle bambine per cena".
Ci mettemmo a correre e quasi ci lanciammo nel fosso.
Ci graffiammo le braccia e le gambe, le cadute erano diventate disperate e lo SPLISH SPLASH non era altro che un rumore indistinto.
Giungemmo all’altezza della casa ma le pareti del fossato si rivelarono troppo alte per poterle scavalcare perché non riuscivamo a trovare appigli perché a terra ci franava sotto le mani.
Alla fine prendemmo un lungo tronco ramificato che usammo come scala a pioli.
Io fui l’ultima a salire e, quando ero quasi arrivata in cima, scivolai lacerandomi i jeans e provocandomi un taglio profondo nella coscia. Una volta dall’altra parte del fossato ci guardammo e scoppiammo a ridere: infondo non c’era nessuno che ci inseguiva. 

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Capitolo 5
*** Il Ballerino ***


Era la vigila di Capodanno e gente di ogni dove si preparava a salutare il nuovo secolo: il 1900.
Un centinaio tra i giovani borghesi più eminenti d’Italia avevano ricevuto un invito stampato in oro su carta da lettera verde in cui venivano invitati a festeggiare in un casale nella campagna romana.
Ovviamente anche se non c’era il mittente doveva essere un’occasione molto importante: si vedeva da chi erano gli invitati.
C’erano proprietari terrieri del Sud, industriali del Nord, banchieri ed i primi commercianti di petrolio.
Erano vestiti con eleganza ma niente in confronto alle mogli ed alle fidanzate che li accompagnavano.
Loro erano le regine della serata con i loro abiti più belli, impreziositi da gioielli.
Era un mescolarsi di colori, di oro, d’argento e diamanti che brillavano al collo delle signore.
Nelle mani sottili adornate da anelli brillava lo spumante in bicchieri di cristallo.
Entrarono nella casa verso le sette.
Molti rimasero stupiti dalla sua grandezza e dalle decorazioni.
Al centro vi era un’enorme tavola, dal soffitto in legno pendevano tre lampadari di cristallo che illuminavano la sala e un immenso camino era posto infondo ad essa.
Gli invitati presero posto attorno alla tavola.
Ancora nessuno sapeva chi fosse il proprietario di quel luogo, ma molti trovarono quel piccolo mistero fosse un ottimo argomento per una conversazione.
In un angolo suonava una piccola orchestra e dopo la cena i musicisti incominciarono a dare voce ai loro strumenti, le coppie si riunirono e, mentre alcuni si limitavano a guardare ai bordi dell’immensa sala, altri volteggiavano sulla pista.
Tra coloro che danzavano spiccava una coppia in particolare: un giovane signore dai lineamenti signorili e colei che doveva essere la fidanzata.
Ballavano divinamente e subito tutti gli occhi degli spettatori furono puntati su di loro.
All’inizio a nessuno sembrava di aver visto il giovane, ma ben presto il potere della suggestione ebbe la meglio e tra i mormorii si incominciarono a distinguere frasi come
“Ma non era quelle che...”,
“Si, è di certo lui” o ancora
“A me sembra di averlo visto a...”.
Dopo neanche due minuti tutta la sala ricordava del ballerino e della bella consorte.
Dieci minuti prima della mezzanotte si interruppero le danze e tutti gli invitati si prepararono a brindare e ad uscire per vedere i fuochi d’artificio.
Qualcuno si manifesto stupito che il padrone di casa non si fosse ancora mostrato, ma venne messo a tacere da chi era convinto che l’uomo misterioso avrebbe fatto la sua apparizione allo scoccare della mezzanotte.
E così fu.
Appena il grande orologio a pendola che sovrastava il camino batté il primo dai dodici tocchi, il ballerino si alzò in piedi e propose un brindisi alquanto bizzarro
“Agli oppressori!”.
Furono queste le sue esatte parole, dette con un ghigno leggero sul volto. Quel che seguì fu fuoco, dolore ed infine cenere.
Da quel che si sa non ci furono sopravvissuti, ma io vi posso accertare che i sorrisi del giovane ballerino e della sua consorte quella notte brillarono al disopra della fiamme.

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Capitolo 6
*** Diario di un asociale ***


Di nuovo la scuola, ma quando finirà mai questa tortura?
Il sole invernale si sveglia sempre più tardi di me e non scalda ancora quando mi libero delle soffici coperte per indossare i vestiti che ho preparato la sera prima ed accuratamente riposto sulla sedia.
Non faccio quasi mai colazione ed esco fuori di casa in fretta, altrimenti perdo l’autobus.
Durante il tragitto vengo schiacciato, spintonato, faccio il giro del mezzo senza muovere un solo passo di mia spontanea volontà.  
Sembra che nessuno mi veda, piccolo e magro come sono.
In fondo forse è un vantaggio: passo inosservato anche a coloro con cui i rigidi obblighi sociali mi costringerebbero a parlare, gente che considero scarsamente intelligente e superficiale.
Le lezioni passano tutte uguali: professori su professori mi sfilano davanti tutti i giorni.
Le loro parole mi rimangono impresse nella mente ed è per questo che sono tanto bravo a scuola.  
Tutti i giorni assorbo informazioni che mi saranno utili nella vita, così dicono.  
A ricreazione non rimango in disparte, sarei un asociale.
Mi cerco un gruppetto qualsiasi di miei compagni di classe e mi aggrego.
A loro non importa se non parlo, se non li guardo o se non lo ascolto, sono lì e per questo non sono un asociale ma soltanto un tipo un po' timido.
Finita la scuola sono sempre l’ultimo ad uscire, nella speranza che Loro abbiano già preso l’autobus e che non debba stare in Loro compagnia.  
Lui, il leader del gruppo, è considerato uno dei più affascinanti della scuola.
Non capisco cosa ci trovino le ragazze in Lui: è arrogante e presuntuoso, come se la sua giacca di pelle ed il motorino gli conferissero qualche potere sconosciuto ai più.
Gli passo tutti i compiti in classe ed anche quelli per casa, ma questo non gli impedisce di prendermi in giro.
“Quattrocchi, quattrocchi!” è il ridicolo ritornello che ripete per sentirsi forte con una sigaretta tra le labbra ed un allegro gruppo di marionette, perché in fondo si tratta solamente di fantocci, alle spalle.
Oggi c’è e come al solito mi accoglie con una risatina
“Che ci racconti oggi, quattrocchi?”.
Sta di nuovo fumando.
Non rispondo: non è degno di una mia parola.
“Che c’è quattrocchi, il gatto ti ha mangiato la lingua?”.
Ridono.
Io no, mi limito a tossire perché mentre mi parla mi riempie di fumo.
Mi appoggio alla sbarra bianca e rossa che separa la fermata dalla strada.
“Non rispondi?” mi afferra per una spalla e mi scuote.
Io cerco di liberarmi ma la sua presa è ben salda.
Butta a terra la sigaretta che stava fumando e mi afferra con entrambe le mani.
Sfuggo miracolosamente alla sua presa e passo sotto la sbarra per essere lontano dalla sua portata.
Sono al centro della strada, vedo la striscia tratteggiata sotto i miei piedi.
Mi volto giusto in tempo per vedere l’automobile che sta passando che non riesce a frenare.
Non c’è nessuna possibilità di salvezza: sarò investito. 

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Capitolo 7
*** E vissero per sempre felici e contenti? ***


“C’era una volta in una...” incominciò Tara Bonies, ma la piccola Rosalie la interruppe
“Perché tutte le fiabe iniziano con ‘c’era una volta’, zia Tara?”.
Tara fece una smorfia a metà tra un sorriso ed uno sbuffo: la nipotina era nella fase in cui i bambini chiedono il perché dio ogni cosa
“Perché la prima persona che raccontò una fiaba era così brava che tutti i futuri narratori e scrittori vollero copiare la frase iniziale della sua storia” rispose improvvisando.
“E perché era brava?” chiese Rosalie
“Perché sapeva raccontare le storie così bene che chi ascoltava pensava di star vivendo una di esse”.
La bambina annuì, ma non sembrava del tutto convinta
“E come si chiamava?”
“Eh, tesoro mio, ma questo non si sa!”
“E perché no?”
“Perché il suo nome era troppo potente e magico per essere ripetuto e così nessuno ha mai avuto il privilegio di conoscerlo. Ora continuiamo con la storia?” Rosalie acconsentì di buon grado perché tutta quella faccenda non le tornava.

“C’era una volta in una terra lontana, di maghi e di streghe, perennemente sotto assedio, una giovane regina che diede un giorno alla luce due gemelli, un maschio ed una femmina, Phoebus e Luna.
Uniti dalla nascita, ma differenti nel crescere, raggiunta l’età adulta si assomigliavano ben poco.
A differenza di quel che si potrebbe pensare dai nomi, Luna era la più radiosa, sempre solare e raggiante, disposta a far risorgere la Nazione che tanti anni di guerra avevano prostrato.
Phoebus era invece votato alle armi ed all’arte bellica, irascibile e scontroso.
Nessuno però si sarebbe mai aspettato un suo tradimento: il giovane principe si unì all’esercito nemico e lo guidò direttamente contro le proprie terre.
Solo giunto al palazzo la bella Luna capì le sue reali intenzioni.
Phoebus tese le mani verso di lei e, nel momento stesso in cui quelle di lei le toccarono, i loro corpi furono avvolti dalla luce più pura, del giorno e della notte.
I due fratelli si abbracciarono e sparirono nel nulla, trascinando con loro chiunque fosse stato infedele al Regno”


concluse Tara.
“Hanno fatto una magia?” chiese Rosalie
“Proprio così”. Tara chiuse il libro e lo ripose nello scaffale
“Zia ma che fai!” la rimproverò la bambina
“La storia non è mica finita!”
“Ah no?” chiese la donna perplessa
“No di certo! Dov’è il ‘vissero per sempre felici e contenti’?”
“Ma non tutti vivono per sempre felici e contenti” ribatté Tara
“Allora questa storia non mi piace! Che ne è stato dei due principi?”
“Beh sono quasi certa che Luna abbia sposato un bellissimo re ed abbia governato il regno con giustizia” rispose
“E Phoebus?”
“Lui è andato in giro per il mondo in cerca di fortuna finché non ha trovato il vero amore”.
Ora Rosalie sembrava più soddisfatta e si raggomitolò tra le coperte per abbandonarsi tra le braccia di Morfeo.
Da qualche parte, in quella terra lontana, i due fratelli Luna e Phoebus erano in ascolto
“Mi piace quella bambina” commentò la ragazza
“Anche a me” concordò il principe
“Per una volta a qualcuno è venuto in mente di chiedere che fine abbiamo fatto!”.
Poi Luna tornò dall’amato marito e Phoebus montò sul suo cavallo per viaggiare attorno al mondo.

E vissero per sempre tutti felici e contenti.

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Capitolo 8
*** Il fantastico mondo di Arianna ***


Arianna aveva una grande immaginazione, ma non si fermava a questo: lei creava.
Aveva avuto il buon senso di non dirlo mai a nessuno, ma ora che era diventata adulta era impossibile nascondere la sua diversità.
Alle persone spesso preferiva un gessetto, un pennarello o una matita che le aprivano le porte di un altro mondo, letteralmente.
Se disegnava una porta su una qualsiasi superficie, quella diveniva reale, almeno per lei.
Da lì poteva accedere a quello che affettuosamente chiamava ‘Il fantastico mondo di Arianna’, uno spazio infinito che assumeva la forma di tutto ciò che lei desiderava, in cui le persone eseguivano ogni suo ordine.
Ogni giorno visitava foreste pluviali, solcava mari in tempesta e scalava monti innevati.
Doveva, però, sempre fermarsi quando giungeva a una linea rossa tracciata sul terreno, a qualche chilometro dall’entrata. Lì c’era ad aspettarla l’unico essere che non rispondeva a lei.
Era un uomo senza età, con capelli e occhi turchesi.
La prima volta che lo aveva visto si era spaventata.
“Non puoi passare” le aveva detto.
Arianna si era fermata sull’orlo della linea.
“A meno che tu non voglia davvero” aveva aggiunto sorridendo.
“Altrimenti” continuò
“Non potrai mai più tornare indietro, nell’altro mondo”.
Arianna, pur avendo talvolta desiderato oltrepassare la linea, non l’aveva mai oltrepassata, probabilmente perché temeva che quel bel sogno che stava vivendo si sarebbe trasformato in un terribile incubo.
La vera prova le si presentò un pomeriggio in cui aveva creato un meraviglioso paesaggio sottomarino per sfuggire alla calura estiva.
Improvvisamente si rese conto che non c’era niente per cui valesse davvero rimanere nel ‘mondo reale’: non aveva più parenti in vita, non si era mai legata in particolare a qualcuno, per guadagnasi da vivere scriveva delle avventure avvenute nel suo mondo ed aveva perso totalmente interesse verso qualsiasi cosa.
Nuotò fino alla linea rossa segnata sul fondale marino, senza bisogno di respirare perché aveva reso possibile respirare sott’acqua.
L’uomo o, come si chiamava da solo, il Custode la stava aspettando.
“E’ arrivato il momento” le disse.
Arianna chiese:
“Il momento per cosa?".
Il Custode scoppiò a ridere, creando una miriade si bollicine nell’acqua cristallina.
“Hai deciso di rimanere qui” le disse
“Veramente”.
Appena sentì questa parola, Arianna si accorse che il Custode si sbagliava, che anzi era risoluta a fare l’esatto contrario.
“Che senso avrebbe rimanere?” chiese, quasi arrabbiata.
“Che senso avrebbe vivere in un mondo dove tutto risponde ai propri comandi? Come si può passare un’intera esistenza senza mettersi alla prova? Senza ostacoli da superare? Senza niente che ti possa stupire?”.
Arianna raggiunse più in fretta possibile l’uscita, ma il Custode la bloccò, sapendo che se avesse oltrepassato la soglia di qual mondo non vi avrebbe mai più fatto ritorno.
“Che stai facendo? Vuoi davvero rinunciare a tutto questo?” le chiese.
“Tutto questo cosa?” ribatté lei
“Illusione, un mondo di fantocci: questo è il fantastico mondo di Arianna”.


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